The Project Gutenberg eBook of Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed Alpi

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Title: Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed Alpi

Author: Valentino Carrera

Release date: July 30, 2020 [eBook #62789]

Language: Italian

Credits: Produced by Giovanni Fini, Barbara Magni and the Distributed
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PEREGRINAZIONI D'UNO ZINGARO PER LAGHI ED ALPI ***

PEREGRINAZIONI D'UNO ZINGARO
PER LAGHI ED ALPI


PEREGRINAZIONI D'UNO ZINGARO
PER LAGHI ED ALPI

DI

VALENTINO CARRERA

IL LAGO MAGGIORE, L'OSSOLA,
LA FRUA ED IL GRIES

Io non viaggio mica

Per il minimo scopo:

Non vo' pensare al dopo,

Non vo' durar fatica.

Quel che vuol nascer nasca,

Andrò dove mi porta

Il vapore o la tasca,

Sempre per la più corta.

Giusti.


Seconda edizione corretta ed accresciuta

TORINO
A SPESE DELL'EDITORE.


Proprietà letteraria

Tip. Letteraria, 1861.


Miei cari genitori

A voi che stimo ed amo sopra tutti, offro questo libro. Voi accettatelo con quel sorriso con cui accoglievate le prime parole che m'insegnaste a balbettare.

Intanto vivete molti anni per la mia felicità.


[5]

SOMMARIO

PARTE PRIMA
Il Lago Maggiore.
 
1. Che intitolo prefazione onde il lettore lo salti a piè pari Pag. 9
2. Chi fece l'Italia? 16
3. Le illusioni ed i doganieri — Una cipolla fra le rose 23
4. Viaggio al naso di S. Carlone — Angera — Dalle corti d'Amore al Mormonismo 31
5. Il Monterone — Studii fisiologici sopra i cinque sensi — Il lago a volo d'uccello — La prima idea 36
6. I piroscafi — Una donna che mangia — Gli stranieri ed i laghisti — Primato mascolino — Il concertista di Cannobio — I contrabbandieri — Rivista di sponde 45
7. Lesa e Manzoni — Ciarle letterarie — La calma 55
8. Origine storica di Belgirate, senza documenti — Le isole Borromee 62
[6]
9. D. Bussolini da Mergozzo, capitolo in cui si dimostra chiaramente che i più beati sono i poveri di spirito 67
10. L'acqua, canto in prosa — Se l'acqua del Verbano fosse vino — L'arca di Noè e la nautica — Le guide — La capitale del lago Pallanza — Laveno — Ghifa — Portovaltravaglia — Luino 77
11. Cannero ed Ettore Fieramosca 86
12. Scoperta del Ticino in Italia — Locarno e Magadino — Diversità di sistema metrico — Il Re Gambrino in Italia 89
13. La malinconia a Cannobio — Non tutti i cattivi principii hanno cattiva fine — Al lettore indiscreto 93
14. La tempesta sul lago — Quando non si fanno ceremonie 101
15. Trafiume o Treffiume — Dammi amore e ti do un mondo 106
16. Storia d'una pentola 110
17. S'io avessi, Dio me ne guardi, un milione — La villa Poniatowski — Prina 134
18. Intra non si trova che a Intra — Perchè delle ommissioni — Virgilio a Feriolo — Salute a chi resta 136
 
[7]
PARTE SECONDA
Per le valli d'Ossola.
 
1. La sentinella dell'Ossola — Un bagno da trent'anni — I romantici a Vogogna — Domodossola — Il mercato 139
3. L'Italia non è che un albergo — 17385 iscrizioni e mezza — Lezioni archeologiche — Varietà di gusti — Apologia del farniente — Terzo primato dell'Italia — Quattro duelli — Che hanno la coda 145
4. Una giovenca ed il più bel cuore del mondo — Avete buone gambe? — Re in Valvigezzo — Anche sull'Alpi si trovano traditori — Requiescant in pace 162
5. Trionfo delle castagne sopra la fama di una illustrazione Dantesca 169
6. Il Sempione — Invenzione di un ponte per passarvi sotto 175
7. Si parla di paesi non visti 178
8. L'Anzasca — Un nuovo messia 180
9. Quanti disprezzano l'oro 182
10. Stonazioni della fama — Le ossolane non sono più quelle d'una volta — Caio Mario ed i Cimbri — Innocenzo IX di Cravegna — Banchetti funebri — La valle Diveria 186
[8]
11. Premia — Storia nuova di cose vecchie — La Cravairola 194
12. L'orrida forra di Unterwald 207
 
PARTE TERZA
La Frua ed il Gries.
 
1. I casali della valle di Pommat o Formazza 210
2. La Frua o cascata della Toce — Quanto costi un sorriso di donna 216
3. Altipiani superiori 227
4. Ascensione del Gries — Diacciaie — Le Alpi parlano 230
5. Confini della valle — Le case, il desco, l'abito, il commercio, l'agricoltura 241
6. Costumanze curiose — La scolaresca 249
7. Lezione di meteorologia — Il frugnare e le volute — O mi date ragione, o non mi fate stare sulle spese 253
8. Dove il paese senza un eroe? — Vita e miracoli del capitano Guenza 262
9. Ascensione del Retihorn — Il segreto della costanza in amore — Temporale sulle Alpi — Conversazione colle nuvole — Quanto si apprende viaggiando — Un'aurora sulle Alpi — Quando ci rivedremo? 269

[9]

PARTE PRIMA Il Lago Maggiore

I. Che intitolo prefazione, onde il lettore lo salti a piè pari.

Tutto il mondo è paese.

Prov. ital.

Uno zingaro? Ma ce n'ha ancora degli zingari, fuorchè nella Russia e nel Trovatore? — Perchè, non ce ne dovrebbe più essere? Lo zingaro non è forse un pensiero errante di paese in paese, facendo suo con ardita frode quanto non gli verrebbe concesso dall'umana avarizia? Ammesso — il che veramente non so — il paragone, lo zingaro può avere subìto trasformazioni, non mai essersi perduto. Permettete, signor mio, che io cerchi di vincere, s'è possibile, la vostra ritrosìa nell'accettarmi a compagno, evocando i benigni influssi dell'eloquenza tradizionale de' miei avi novellatori e poeti: tolleratemi [10] dieci minuti... Non sono discreto? Ne spendete tanti a sopportare il trionfo della ciarla su pelle gazzette e nei parlamenti!

La storia dell'umanità nella nostra tribù dividiamo in tre ere: la scoperta della foglia di fico, quella dell'America e questa della fotografia. Dopo la fatale scoperta dei primi nostri nonni, ecco l'uomo-zingaro che migrando dall'Asia percorre poco alla volta le plaghe mondiali, lasciando qua e là un lambello del suo saio. Quell'età non avendo lasciato giornali, nè ritratti d'illustri contemporanei, per mancanza di sicuri documenti veniamo alla seconda. Scoperta l'America, gli zingari si precipitano su di essa: a sentirli sono venuti a seminare la libertà e le patate; tutto d'allora in poi deve spirare amore, felicità. Mentre gli umanitarii cianciano di quest'inezia di riformare quel mondo, pillottando colle solite spezie della cristiana uguaglianza e dei civili diritti la tiritera; mentre gl'indigeni buoni e semplici come un popolo che non sa un'acca di mutuo soccorso e di monte di pietà, aprono un tanto di bocca dalla meraviglia, i missionarii iniziano la riforma facendo scomparire nell'abisso delle loro tasche i tesori di quelle fortunate contrade: siccome però il mestiere di moralista è meno facile di quanto si crede, il tiro si scopre, proteste, recriminazioni, rivolta; il torto è necessariamente degli Americani poichè l'astuzia, la forza è agli zingari. I quali, smessi i lenocini della ciaccola, pagano a misura di carbone la cordiale ospitalità americana.

Un bel dì però, per solenne grazia del proverbio, il gruppo venne al pettine, e gli zingari, [11] scardassati addovere, sono costretti ad alzare i tacchi da quella terra non ancora matura.....

— Ma — lasciando la storia in disparte — questi non mi paiono gli zingari della tradizione....

— Eh! pensate se li conosco! Lo zingaro è volgarmente un vagabondo che va dicendo la buona ventura nelle capanne del contadino, pei trivii, nelle osterie e nelle canove in tempo di mercati, di fiere e di feste; sa rattoppare qualche volta i caldani e le pentole; compone farmachi e filtri preziosissimi; vende ai più generosi il prezioso segreto — oh! datene un po' anc'a me per amore di Dio! — di farsi amare; commuta minuterie dorate senza valore con antichi smanigli d'oro, non perdendo il destro d'accalappiarvi con quella sua cera da nesci e di farvi sparire di mano l'anello che ricusaste di vendergli.

Ma ora tutta questa scienza a che può ancora servire? Vendono tuttora augurii di nozze e predizioni di fortuna? O, visto che nella capanna affumicata del contadino, comincia a penetrare la luce che guizza dai centri di civiltà e di corruzione, lo zingaro, nascosti nella foresta il tamburo, le nacchere, le carte divinatrici e la non più magica bacchetta, non è entrato di contrabbando nella città, e con mille vicende di fogge e di fortuna, non s'è fatto ora sollecitatore d'impieghi o tagliaborse, letterato di plagi e d'occasione, giornalista o mezzano? E la scienza per cui gli riusciva di imbarcare il lunario nei boschi deserti, fra i monti incresciosi, sarà poi sì feconda in espedienti da [12] far fronte alla desta oculatezza dei cittadini, da sapere con rapida mano ordire trame impercettibili che pure ad un baleno si stringano sì fortemente con mille nodi attorno al meglio esperto da torgli ogni scampo — e se fallisce, quando tutto sta per naufragare sotto i colpi d'un galantuomo che non vuole perire invendicato, da risospingerlo al largo dalle secche, risoffiargli in poppa vento e fortuna in barba agli onesti?

No, questa non è la nostra tribù — a cui non vorrete con dura parzialità negare l'istinto del progresso alla perfettibilità umana, che asserite innato in ogni creatura.

No, questa non è la nostra tribù. Il lezzo della società non fu mai la parte del mondo che ne sia piaciuto di notomizzare, anzitutto per un certo istinto d'avversione alle dissecazioni, d'orrore per la tabe; e poi perchè sappiamo per durata esperienza che gli è impossibile il compiacersi, come oggi si fa con tanto studio, nel diguazzare in quanto ha di più sucido il maremagno del vizio, sia brutalmente spudorato o sia inorpellato da larva di passione, senza inzaccherarsi un tantino i sandali, quand'anche vi aggiriate nelle eleganti sale ove non si balbetta motto a vanvera — ove, non come nel trivio, manca la scusa della malsuadente fame e dell'ineducazione: perciò se mai solleticava le papille della vostra curiosità brama di una storia terribile d'uno zingaro dalla bruna tinta e dallo sguardo felino, che d'avventura in avventura, sulle rotaje dell'adulterio e dell'omicidio, vi facesse correre per le vene il diaccio dello spavento od il fuoco della voluttà, [13] serbandovi a morale della favola la bella soddisfazione di vederlo alfine fra le braccia dell'amata, riverginata — scusate la parola impossibile — dall'amore puro, mentre l'esoso marito sta in fondo del quadro lungo, disteso, inchiodato da due righe di pugnale..... per verità vi siete ingannato!

La non sarà così perchè ne pare che tanta filza di delitti non possa essere figlia della serenamente gioconda fantasia italiana, e perchè lo zingaro che vi fa invito a peregrinare con lui non appartiene alla tribù antica, tradizionale, se non per la comunanza..... del peccato originale.

L'antica s'è riabilitata, direbbe un drammaturgo, e la nuova non è meno curiosa. Anche essa corre, senza meta, balenando qua e là senz'altra guida che la bellezza della natura; — anch'essa ama le sagre, le fiere, i mercati per cogliere sul fatto la scena animata dei mille popolani dalle diverse foggie, dai diversi tipi; — anch'essa se può giuocare un bel tiro, lo fa con tutta coscienza, e ruba a man salva ad un crocchio di ciarloni il racconto che dice più d'un in-foglio su quella gente, un idilio d'amore ad una bella ragazza, il secreto d'una lagrima come d'un sorriso. Alcuna volta, quando il demone ruggente dell'arte non l'agita, e così gli è obbligato a starsene a bocca asciutta innanzi alla festosa mostra di cento zane di saporite frutta.... allora stende la mano ad una vezzosa fanciulla per averne un grappolo d'uva ancora imperlato dalla rugiada, una pesca erubescente... e non dubitate della sua riconoscenza, veh!

Allo zingaro non mancano modi di trarsi di [14] impiccio: quante volte pagò lo scotto della cena frugale, narrando alla bella ostessa una fantastica leggenda, con sì strana eloquenza rappresentandole i casi amorosi di fate, ondine e silfidi, di genii e di spiriti, che davvero parve alla curiosa di vedere laggiù nell'ombre l'amante tradito fra paurosi fantasmi, e di sentire sotto la scranna il rantolo del lupo che venne ad ingollarsi la perfida!... Chi osa rimprocciare la bella albergatrice se per schermirsi dagli amanti morti e dai lupi vivi si allaccia strettamente allo zingaro?

Dirvi come la tribù nuova fiammante veneri come pura sorgente d'inspirazione la bellezza variata della natura, culto da cui sorge necessariamente il disprezzo per ogni affettazione; riassumere, anche per sommi capi, l'indole bizzarra del suo umore; dirvene, fuggendo, vita e miracoli, sarebbe ad un tempo noiosa cosa per voi e pericolosa per noi.

Ma se poi non isdegnate la compagnia di questi zingari di buona pasta che intessendo alle descrizioni leggende e fantasie vi guida — senza bagnarvi — negli antri muschiosi ove fra i canneti lacustri amoreggia l'avvenente Verbania; nei casolari montani fra le usanze patriarcali; sulle diacciaie alpine a conversare colle nubi; sui nembosi picchi supremi a cantare un inno al sole, alla libertà, ed a farvi considerare di lassù che bruco microscopico è il cosiddetto re del mondo — accettate la mano e proverete che lo zingaro fra le divagazioni della mente e le aspirazioni del cuore non dimentica il positivo della vita, quella catena che ne rammenta ad ogni slancio che dessa è troppo corta e che [15] il senso governa più della ragione il mondo, guidandovi in alberghi d'ogni fatta, quando il paese sia poco ospitale — e per giunta, se non pagherà lo scotto, condirà colle sue novelle la refezione.

E poi chi sta a cà niente sa.

Via, smetti l'abito incomodo che t'insacca; indossa la veste casalinga del viatore; allaccia calzari che sfidino le mordenti scheggie e le acute punte delle roccie; armati di lungo bastone ferrato ed uncinato che ti servirà d'appoggio e di spinta, di leva e di scala per l'erte e per le diacciaie — e quand'anche la tua borsa non sia sonante di molte monete d'oro, vieni, lo zingaro insegnerà a te ancora a raccontare la storia del lupo alle belle ostesse.

Se mai l'aspetto di diverse genti, la disuguale misura del bene e del bello col brutto, la lotta continua del debole col forte, l'armonia sublime della natura non caccieranno la noia che ti prostra intelletto e corpo nell'afa neghittosa del fannullare, lo zingaro con fratellevole cura ti guiderà a quelle regioni — ove si slancia sì sovente e con tanto desiderio il pensiero — che miseria di mente e di cuore fanno chiamare dell'impossibile...

Non rigenereremo l'umanità, ma non ci annoieremo, forse.

Intanto l'aurora festosa già piove le sue tinte onnicolori, la frescura del mattino ne invita; partiamo... all'Alpi!

Un istante: anzitutto lo zingaro, secondo l'antica usanza de' suoi, tolta nelle mani la vostra destra, dovrebbe spiattellarvi l'avvenire come il passato, farvi i più lusinghieri augurii che [16] egli si sappia.... ma che volete? Egli, visti fallire i più cordiali vaticinii, da buona pezza tiene seco loro broncio, ed amico qual è degli antichi adagi, a chi lo richiede di predizioni, risponde:

Chi il tutto può sprezzare, possiede il mondo.

Così sia.

II. Chi fece l'Italia?

Uomo lento non ha mai tempo.

Prov. ital.

.... e la vaporiera fugge rapidamente pei piani del Novarese, mentre l'occhio posandosi appena sulle borgate, sulle castella che si succedono una all'altra come le apparizioni d'un sogno febbrile, assiste ad una serie di scene più o meno curiose, varie sempre.

Così sparve Novara, Bellinzago ed Oleggio che dalla sua altura contempla il bel pian lombardo, e la vaporiera arrestata un minuto, rifugge verso il Lago Maggiore.

Presso lo scalo d'Oleggio vidi la storia della civiltà compendiata nell'area in cui i vetturali attendono l'arrivo delle merci destinate a quella cittadina. V'era il carro co' buoi, pesante, senza sponde, colle quattro ruote eguali e massiccie, il timone convergente all'insù e le cornute bestie che guardavano con occhio stupito la locomotiva [17] sbuffante, e parevano appuntarsi sui pie' dinnanzi per timore di appressarlesi. V'era il carrettone dalle due altissime ruote, disadorno, coi cavalli attelati uno a coda dell'altro; la carrettella corrente; il cocchio de' nostri padri incomodo, sicuro, e l'elegante carrozza a doppie molle, verniciata lucente come uno specchio, leggiera e per ogni modo d'ornati e di agi vaghissima.

Fra l'una e l'altra di queste vetture stavano secoli e stanno: dal carro de' buoi alla carrozza, il divario tra l'età dell'oro e l'età del ferro; ma fra essi e la vaporiera un mondo, una distanza quale fra l'antico copista e Bodoni, fra le torri a segnale ed i telegrafi elettrici, fra il volgare ed il genio....

Occupiamo i pochi minuti di fermata osservando quegli antichi veicoli. Se la vaporiera ha immensi meriti, non siamo tanto ingiusti da negare ad essi i pregi per cui furono tenuti in conto dai nostri babbi. Oh! quando mi ricordo il bel tempo in cui piccino sedeva a capo del carro, poggiando i piedi sul timone e con impazienza infantile andava punzecchiando gli inirritabili buoi ad accelerare il passo verso i campi, ove poi di corone di millefiori loro cingeva le corna ed accarezzava con mano fidente il muso velluto e divideva con essi la merenda con mille feste dei compagni, io non ho più il coraggio di ridere dei viaggi eterni per cui i nostri vecchi si facevano saltellare le budella in corpo con una velocità in ragione di due ore per miglio. Due ore! La vaporiera quando le talenti, unisce Torino a Milano nello stesso spazio di tempo..... ma ch'è questo vociare?

[18]

Una decina di ragazze, cogli spilloni d'argento che irradiano il capo, sta sopra uno di quei carri, ridendo e scherzando fra di loro: alcuna accenna al viaggiatore che dai carrozzoni della via ferrata ammicca con sguardo procace: questa riconosce fra i discesi allo scalo il suo bulo e lo vorrebbe, senza ch'altri se n'avvedesse, fare avvertito della sua presenza, mentre con una certa solfa tra il mesto d'una monotona cantilena e la languidezza d'una canzone che non è in voga, una voce sfibrata canterellava:

Novara, Novara

L'è bella città;

Si mangia, si beve.

Allegri si sta!

Se tutta l'allegria dei Novaresi consiste nel mangiare e nel bere, come dice senz'altro la strofa, l'ha da essere una gaiezza molto dubbia, pensai; ma già ai poeti debbonsi accordare molte licenze, ed io non trovando miglior modo di sciogliere la questione, dimenticai il vate del campanile di S. Gaudenzio per riguardare quel veramente allegro gruppo di belle e non belle e tutte allegre contadine, le quali — ora che ci penso — mi ricordano a meraviglia un viaggetto fatto con una bella ritrosa sopra una stradaccia di campagna, tutta sassi e gore, per cui ad ogni improvvisa scossa io mi inchinava verso la giovinetta, e non è a dire s'io secondassi o non l'impulso, e viceversa, come dicono appunto delle vetture; finchè il carro essendo ad un tratto entrato nei profondi solchi di un campo, la vicenda dell'inchinarsi si fece [19] sì violenta e rapida, che io coll'unico scopo di preservare quella cara personcina da ogni urto, non trovai che il mezzo di avvinghiarla strettamente nelle mie braccia....

Un fischio — diretto forse alle mie reminiscenze — eccheggia fra le mura dello scalo, — un secondo acutissimo che passa gli orecchi, come dice un vicino, e tutto il convoglio si move, cammina, corre, rivola.... così il tempo da quei dì! Così pure io lascio nello scalo di Oleggio le riflessioni storiche sugli altri veicoli: il lettore non l'avrà a male; del resto sa dove andarle a prendere.

Campi, risaie, prati, boschi, giardini, case, uomini ed animali, tutto resta indietro: la vaporiera è la nemica per eccellenza del verbo stare; essa corre da un popolo all'altro; cancella un pregiudicio a cui centomila volumi non bastarono; annulla i dialetti mettendoli a contatto, e insegna colla necessità la lingua nazionale, spegne l'ardente face delle antipatie, facendo conoscere con quanto equilibrio le eccedenze della forza di una regione compensino il manco di saggezza in un'altra, la virtù militare l'indifferenza artistica, la gentilezza dei costumi la sapienza civile, eccita e diffonde industrie — fa l'Italia.

Ben a ragione certi governi avversarono quest'invenzione che rivaleggia per la forza morale colla stampa!

Dell'inferno è dessa senza dubbio, dice con terrore il buon contadino nella notte quando dalla mal connessa impannata della finestra della capanna vede laggiù nella tenebria correre un fantasma dagli occhi sanguinosi, la bocca ardente [20] e la fronte fumosa, mentre l'aria echeggia d'acuti sibili e la terra seminata di carboni ardenti trema sotto i piedi.... Ma direbbe egli che l'inferno inspirò ad un mortale questa terribile scoperta, s'egli sapesse che, mercè sua, si vince il tempo e la distanza, e suona con cristiano affetto la voce: Dammi la destra, anch'io sono tuo fratello?

La vaporiera è dunque la più bella figlia della civiltà, poichè dessa non serve soltanto a beneficio del commercio, sibbene ai più vitali interessi dell'esistenza morale. Qual è l'uomo che dalle marine guardi una nave ad elice sortire, malgrado i venti contrarii e l'agitazione delle onde, la prora dal porto, ammainate le vele, senz'apparente impulso, salpando per le più rimote spiaggie dell'Oceano, ove recherà il nome della sua nazione, — senza sentirsi sollevare dall'entusiasmo, senza sclamare: questa è la più mirabile opera dell'uomo!?

Vedete se col vapore si corre presto: in due minuti da Oleggio volai ai porti liguri e ne ritorno!

Il convoglio attraversava le alture di Borgoticino, quando poco lungi da quel villaggio mi apparve — eureka! — la prima conca del desideratissimo Verbano — fra il Vergante e la rupe della festosa Angera — il quale disserrandosi poi dai colli, cola pel Ticino, al Po, nell'Adriatico.

Una vaporosa nube si dislagava al cielo, ed i raggi vivissimi del sole di giugno penetrando qua e là fra gli squarci illuminavano con tale potenza di tocco la rôcca d'Arona, e laggiù in fondo la punta di Belgirate ove il lago si svolge [21] a sinistra, che davvero il contrasto di quelle accese tinte colle ombre delle convalli armonizzava assai bene colla natura variatissima del quadro.

Un ultimo fischio e il correre si rallenta gradatamente, il convoglio penetra nei campi, ritorna a riva, entra sotto una tettoia, ove cento voci — Arona, Arona! — ti fanno accorto che sei finalmente giunto alla sospirata sponda di quel Lago Maggiore che nella fantasia t'apparve certamente come una regione incantata a cui sorrida eternamente cielo e primavera, abitata dalle più avvenenti ondine, dai più amorosi silfi.

Io vi confesso candidamente di non avere mai fatto questi sogni, e per la zinganesca mia esperienza che mi ha dimostrato i giudizi assoluti essere sempre in alcuna parte erronei, e il male dai mille aspetti mescersi con disuguale misura al bene, e perchè rifuggo dalle imaginose aspettazioni, le quali per lo più al contatto della realtà risolvonsi in dure delusioni. Mi pare quindi profittevole....

— Cosa fa il signore? Scenda, il convoglio non procede mica oltre....

— Benissimo; grazie. Parmi profittevole, diceva, di usare nel giudizio delle regioni che si percorrono, anche coll'intendimento di studiarle oltre l'epidermide, quella mite benevolenza che ogni onesto desidera praticata verso il campanile della sua parrocchia. Quanto al bello, al buono, quantunque spesso il miracolo non faccia il santo, il fidarvisi è la meglio; quanto al brutto ed all'incivile giova il credere che la virtù sta di casa dove meno si crede, e che tanti paesi, tante usanze... E poi gli uomini [22] la pensano così diversamente! Aprite un libro di proverbii — li dicono la più bella eredità che le generazioni si tramandino, la sapienza delle nazioni — sentite che armonìa di opinioni:

Chi sta bene non si move,

e

Non diventan porri che i trapiantati.

Pietra mossa non fa musco,

e

Chi vuol far roba, esca di casa.

Chi disse donna, disse danno,

e

Senza donna a lato l'uom non è beato;

e cent'altri grossolani e dilicati, che vanno d'accordo che gli è un gusto ad appaiarli!

— Signore — disse in quella una guardiastazione, la stessa che m'interruppe già una volta — questa è l'uscita; e m'indicò la porta. Se questo dabbenuomo non mi cacciasse con tutta quella buona grazia di cui è suscettibile un guardiano di via ferrata, io vorrei, o compagno, dimostrarvi come la bellezza oggettiva abbia meno cultori di quanto è voce.... ma non c'è verso, egli m'insegue sino all'uscita.... Quest'insistenza mi desta un dubbio: ch'egli abbia inteso un motto delle nostre chiacchere più o meno estetiche, e voglia risparmiarne lo spettacolo poco architettonico della stazione? Chi lo sa? Dopo la democratizzazione del sapere, chi può giurare che sotto il saio dell'artiere non s'asconda la giornea del professore?

[23]

III. Arona — Le illusioni ed i doganieri. — Una cipolla fra le rose.

Chi tosto giudica, tosto si pente.

Prov. ital.

Orta! — Angera! — Gozzano! — Varallo! — Domodossola! — Albergo della Posta! — Reale! — d'Italia! — A me il sacco! — Zolfanelli! — Sigari! — Ecco le strida che invariabilmente accolgono il viaggiatore all'uscire dallo scalo della ferrovia d'Arona: vociare che mette in non lieve imbarazzo il viaggiatore che non ha meta prefissa al suo vagare.

Per mia fortuna, fra tanti vetturali, facchini, camerieri e ciceroni pro domo sua, una voce che partiva dal mezzo di una folta ispidissima barba, tuonò al mio orecchio, mentre mi sforzava di attraversare quella ressa di rompiscatole, il nome dell'ottava meraviglia del mondo e l'unica di Arona, il S. Carlone, e mi fece così risovvenire di un monumento intorno al quale aveva sentito nella prima adolescenza tante mirabilia. Si vada adunque al S. Carlone! Senza dare risposta ad alcuna delle insistenti domande — unico modo di liberarsene, a meno però vogliate farvi in dieci per non far torto a nessuno — mi avvio verso la cittadina, dando occhiate [24] a destra ed a sinistra, come quegli che senza soffermarsi troppo vuole spendere poco e vedere molto.

Appena uscito dalla casona dello scalo, un bel giovinotto, dall'assisa di doganiere — ad Arona vi sono più doganieri che mercanti — con un garbo da farmi strabiliare, (poichè a me un doganiere era sempre parso il rappresentante della prepotenza legale, dei pregiudicii economici, la barriera che impedisce il bacio cosmopolitico dei popoli) mi fece ricredere pienamente, avvisandomi che se io desiderava imbarcarmi sopra un piroscafo, il S. Gottardo stava per salpare, aggiunto poi per soprassello che io avrei potuto girare e rigirare in lungo ed in largo il lago senza la noia del passaporto. Malgrado il desiderio di accettare l'invito della tintinnante campanella del S. Gottardo, io non volli partire senza visitare l'interno della città pittoresca — al di fuori — ed il famoso monumento al suo cittadino, benchè sapessi che vi sarei ritornato più d'una volta nelle corse ch'io aveva in animo di fare lungo le spiaggie verbanesi.

Il S. Gottardo diede l'ultimo tocco di squilla, si staccò con tutta facilità dallo scalo, e descritta una vaga curva, partì avvolgendosi, come d'un velo per difendersi dal sole cocentissimo, nei vapori della caldaia fumante.

Serbatomi per la vetta del colle di S. Carlo il giocondo spettacolo del lago, come un ghiottone serba ultimo il manicaretto più sapido, entrai in città.

[25]

***

Eccomi in Arona! Salve, città dei Borromei!

Seduta a riva del lago, pare tuttavia che tu ne sdegni la paternità, poichè ti volgi innamorata con occhi desiosi verso i clivi fiorenti di Oleggio Castello, lasciando al ceruleo nappo l'ammirazione della poco graziosa tua parte diretana. Almeno ne' calori della state le pendici superiori inviassero alle tue viuzzole il conforto delle aure profumate dei loro laureti!

Attraversando la città, contai trentacinque osterie, trenta preti e ventisette accattoni. Era il meriggio caldissimo, ed io passava correndo per involarmi all'afa soffocante che, uscita dai canali sotterranei delle vie inferiori, mi inseguiva minacciosa, quando una frotta di creature che facevano ressa attorno ad una casa di modesta apparenza m'impedì di proseguire oltre.

Erano ventisette accattoni.

Voi che avete da accarezzare — in tasca — un sovrano, se vi avviene d'incontrarvi in quella turba, è d'uopo lo consigliate d'addivenire ad una transazione costituzionale dividendo il potere, salvo a voi suo ministro di farvi forse rompere le invetriate dai malcontenti — o senza transigere coll'esigenze della situazione, corriate attraverso ai chiedenti senza ascoltare quelle voci supplichevoli che sono pure una rampogna....

Io mi arrestai. Qui più d'un ciarlone vi direbbe ch'egli, arrossendo quasi dell'eccellente salute, intenerito alle lagrime, divise la borsa coi mendici.... Io che non voglio farvi il torto [26] di credere che mi stimereste un cicino di più, quando vi dicessi che ho dato a quegli infelici un obolo — che il più delle volte è un soldo asciutto come il sistema decimale — non vi dirò nemmeno d'aver fatto alcune considerazioni economiche sulle trentacinque osterie ed i trenta preti, e tiro innanzi, cioè mi fermo, poichè la porticina di quella casa s'aperse e v'apparve....

Chi non l'avrebbe desiderata amante? Che bell'occasione di miniarvi un ritrattino sì sorridente da mandarvi in visibilio! Ma quest'oggi, dopo quella certa meditazione sulla fallacia dell'apparenza, temo che i colori della mia tavolozza diano troppo nel duro, nell'angolare; per non ripetere adunque su tutte le varianti le forme serene di tanta bellezza, lascio alla vostra fantasia di pennelleggiare co' rapidi suoi tocchi una di quelle soavi figure che le donne invidiano e gli uomini rispettano.

Intanto i re della miseria, coi loro nodosi scettri nella destra, avvolti nei pidocchiosi palli onnicolori, mi avevano circondato, levandosi dalle nuche capellute un frusto di berretto spelato, e succhiavano con avido sguardo la borsa che teneva la fanciulla nelle mani.

Io pure salutai riverente quell'apparizione che avrebbe potuto inspirare a Vela una vivissima idea della carità cristiana, ed ella.... ma che? Al vedermi estatico contemplarla, sorrise di guisa che tutto ne fui scosso. Era derisione? Chi lo sa? Malgrado mio, nella limpida innocenza di quel volto primaverile, quel sorriso — non ridete — m'apparve come una cipolla nel bel mezzo d'un mazzolino di rose, quale io vidi [27] farne dono per celia ad un appassionato cultore di antitesi.

Ella porse agli accattoni le sue monete; una moneta ad ognuno che venisse ad invocarla un mattino di venerdì a quella porta: indi rinchiuse la porta senza strepito, senz'impazienza, quasi a tacita promessa di non negarne giammai l'accesso al mendico. Io, mentre si recitava attorno un pater ed un'ave per conto della fanciulla — a cui auguro ottengano un buon marito — dimenticato quel certo sorriso e la cipolla relativa, intonava fra dolcissimo pianto un inno alla pietà che ove fosse stato inteso da lei, forse io avrei fatto più lunga dimora in Arona....

Ma ecco attraverso l'iride d'una lagrima la rosea fisionomia imberbe del doganiere. Gli racconto la commovente istoria; un'irresistibile curiosità mi sprona a ricercare chi sia quell'angelo che profonde le ricchezze di questo mondo per la beatitudine dell'altro, vero prestito ad usura — se ancor vi fosse usura. — Mi appaga ed aggiunge che i mendici convengono nella città dai dintorni una volta almeno per settimana.

— Dunque, diss'io, ella dà loro tanto da alleviare i dolori di chi non ha sulla terra che la speranza del cielo e la compassione dei generosi — per una settimana? Oh tremila volte benedetta! Oh santa! Oh terra fortunata!

— Signor sì, se per essere da tanto basta regalare un quattrino, antica moneta milanese!

E imperturbabile, colla logica orribile dell'aritmetica, mi dimostrò che Iddio avrebbe dovuto fare per quegli sgraziati il giorno di [28] cento ore senz'accrescere i bisogni del ventricolo, onde procurarsi lo stretto necessario per campare in ragione d'un quattrino ogni due ore; o, supposto che nelle ventiquattro ragranellassero altrettanto, ch'essi potessero stare, come i ragni, sei giorni senz'alimento.

— (Mefistofele gabelliere!) Dunque muoiono di fame sei dì per settimana?

— Morrebbero se altri non li soccorresse senza l'ironica ostentazione di chi dà quello spettacolo poco costoso. Tutto è apparenza! La saluto.

— Tutto è apparenza, anch'esso lo sa! Ora comprendo quel certo sorriso, la cipolla fra le rose! E come sì giovane e sì presto senza le confidenti illusioni della verde età?

Ma se n'era andato pe' fatti suoi — o per quelli degli altri, più facilmente — il che ne torna perfettamente uguale; sicchè la mia domanda dovette cercare una risposta nelle considerazioni dell'influenza che il mestiere aveva potuto esercitare sopra di lui. Ed io non ebbi a meditare gran fatto per accorgermi come in esso s'avvezzino a guardare ogni cosa attraverso la lente prosaica, spassionata che conta i fili della stoffa e stabilisce un prezzo alle creazioni delle arti — tanto che sarei quasi tentato di supporre che il famoso dilemma di Amleto essere o non essere sia stato suggerito a Shakespeare da qualche doganiere pensatore.

Povere le illusioni coi doganieri! La donna, quest'angelo che ecc., ecc., non è per essi che un portamantello addobbato più o meno di raso; un ritratto, pegno di un soave affetto ricambiato ed infelice, su cui scoppiarono pianti sconsolati e baci frenetici, perde tutto il valore [29] sotto gli occhiali del perito; una treccia di capegli, oh sacrilegio! può essere considerata concime; che più? il libro a cui pose mano cielo e terra, vale per essi secondo il peso, la legatura, i fermagli..... Se nelle lotte letterarie i realisti potevano contare sull'aiuto dei doganieri, le nebulose fantasticherie alzavano i tacchi come altrettanti contrabbandieri.

Scrivete la storia della dogana; narrerete quella dell'incivilimento. Narrate quante castronerie stampate ed illustrate giungono d'oltre Alpi, quante di queste, con veste nè forestiera nè italiana, cambiato il titolo con quello di originale italiano, si spargono a sollucherare la frega del forestierume, e non del buono certamente, ed a fare più sonnolenta ancora l'indifferenza italiana per il pane casalingo — narrerete le nostre, e anche un tantino le altrui miserie letterarie. Enumerate i gingilli, le festuche, i ciondoli, le minuterie e quella multispecie farragine di coserelle utili e disutili, strane e curiose che la moda ne manda da lontano, e che accettiamo senza desiderio di procurarcele da noi stessi — e narrerete che gli Italiani non solo non le sanno fornire, ma neppure battezzare colla loro lingua. Contate le armi che valicano le Alpi o varcano i nostri mari ad offesa o per aiuto — i quadri e le statue ed i manoscritti e gli oggetti che per arte o memoria i nostri antichi meno vanitosi di noi e più generosi raccolsero con religioso studio e con principesca magnificenza, e che ogni anno, senza ritorno o cambio, lasciano la terra che li aveva creati e venerati; — avrete irrepugnabili argomenti della floridezza e della decadenza [30] delle genti. Possa l'indipendenza e la libertà far salire nel futuro a bosco i tanti bruchi che formano la speranza della nazione artistica!

A proposito delle nazioni, la questione sanguinosa della loro indipendenza è sciolta dai doganieri — quando si ritrarranno ai confini naturali. Tuttavia, penso, se in quest'età meravigliosa in cui ogni dì annienta un secolo di tradizioni senza che si possano prevedere i prodigi della domane, la famiglia umana si confondesse in un fratellevole amplesso — concedetemi un istante l'ipotesi stranissima — dove, domando io, dove n'andrebbero le miriadi dei doganieri che incorniciano i mille regni?

Proporrò il quesito alle disquisizioni degli economisti, degli umanitari, e di quanti s'avvisano di riformare la commedia comico-seria del mondo — a meno che in questo frattempo si scopra mezzo di rilegarli (parlo dei doganieri, è chiaro) nel mondo dei miti in compagnia di tante altre anticaglie.

È tempo di fare ritorno alla nostra cittadina, da cui mi fece digredire il mal vezzo di camminare balenando corpo e mente, peccato di cui farò penitenza d'or innanzi col correre per qualche giorno la carreggiata della strada maestra, senza neppure guardare colla coda dell'occhio quanto m'invitasse a varcare la siepe ed a visitare ciò che non è nel programma tracciato sul nostro portafoglio. Ritornando adunque alla cittadina, dirò che nelle successive visite appresi che non solamente poche città hanno relativamente tante caritatevoli instituzioni quant'Arona, ma che io avrei preso un [31] solenne granciporro se l'avessi giudicata dalla scena di cui io stesso era stato testimone.... tanto è vero che tutto è apparenza!

IV. Viaggio al naso del S. Carlone. — Angera. Dalle corti d'amore al mormonismo.

La più bella passeggiata nei dintorni d'Arona è la salita del poggio su cui s'erge il monumento a S. Carlo, che per la mole il popolo suole chiamare il S. Carlone. Esso appare da quasi tutto il bacino da Taino a Belgirate, ed è bello vedere dal lago quel titano disegnare sull'azzurro del cielo la sua figura tranquilla.

Ammezzo la salita incontrai un cortesissimo Bavarese che si recava pure lassù, per giudicare co' proprii occhi se la colossale statua della Bavaria nel Valhalla presso Monaco la cedeva in fatto d'arte alla rivale italiana: ammirai la suscettibilità del Tedesco, il quale, poichè d'improvviso ne apparve sulla vetta il S. Carlone, dopo attento esame, colpito dalle mirabili proporzioni di tanta effigie, e dalla dignitosa e ad una soave espressione dell'immortale che benedice alla sua patria, confessava candidamente che se il monumento italiano era condotto meno splendidamente del bavarese, di contro per valore artistico e per situazione gli era di gran lunga superiore. Gloria adunque al Crespi che lo disegnò!

[32]

Anch'io volli sedermi nell'interno di quel naso famoso; e quel dovermi arrampicare per un camino oscuro e pieno di schifosi ragnateli e di pipistrelli svolazzanti, spingendomi in su colle mani e coi piedi per certi piuoli di ferro — pericolosa ginnastica che meriterebbe all'ascensore almeno un'indulgenza — mi suscitò il dubbio che il Santo abbia suggerito all'artefice questa paurosa scala, onde ognuno pensando alla probabilità di rompersi se non altro il collo, sia richiamato ai giovevoli pensieri della morte dal tripudio fascinatore della natura che festeggia attorno lo sguardo. Chi lo sa!

È vero che il dabbenuomo che dal vicino collegio vi reca una lunga scala per salire sul piedistallo e di là ad un buco — non posso assolutamente dirla una porta, nè una finestra — ripete a tutti che per privilegio concesso dal Santo nessuno mai si ruppe il surriferito osso del collo. Chi sarà il primo? Non io senz'alcun dubbio, avendo dopo la fortunata mia discesa giurato di non cimentare mai più la buona fede del dabbenuomo sulla validità del suo privilegio. Del resto — senza danno del privilegiato — direi che di lassù la vista non corre più lungi gran cosa che dalla vetta del poggio.

Sotto e sopra il quadro che ti si para distoglie assai presto dall'osservare il monumento, se non dal pensare a chi raffigura, quantunque meritamente S. Carlo sia il personaggio storico-religioso più popolare nella Valle del Po, per non dire in tutta l'Italia.

La collina del Vergante che alla mia sinistra abbraccia il lago declinando a Belgirate, tutta verzura e fiori, è sì vaga nelle sue curve; alla [33] destra i facili poggi di Dormeletto e di Borgoticino corsi dalle vaporiere fumanti mi traggono col pensiero ai giardini liguri; il cielo e le onde quete sorridono con tanta armonia, che — se uno zingaro potesse gonfiare vesciche — direi che la natura canta sì bene le glorie dell'immortale che la melodia v'assorbe interamente a scapito del soggetto!

Volete voi una scena pittoresca, una scena degna delle sponde del Reno? Guardate là — in prospetto d'Arona. Il castello d'Angera tutto fiero de' suoi sette od otto secoli, irto di merli che sfidano i denti adamantini del tempo, la fronte rugata dal fulmine, sta accoccolato senza barcollare, pensoso come un veterano, sopra una rupe sfiancata sotto cui si acquatta il villaggio, quale un pulcino sotto l'ali della chioccia. Lo direste un quadro dal vero — vi sfido io a contraddirmi! — del medio evo, in cui appare con vivissimo contrasto la schizzinosa protezione del feudatario e la mormorante docilità dei vassalli. Il palazzo conta cinquecento anni.... Quant'acqua corse giù pel Ticino!

— La torre però non novera che tre secoli circa, m'hanno detto.

— E' bastano per formare un abisso fra noi e quei dì. Quante antitesi! Asili infantili e giochi di borsa; manicomii e crinolini; vetture, congegni, libri e legislazione a vapore; corrispondenza elettrica d'idee e di passioni, e.... tutto quel resto che voi sapete e che taccio per non romperla in viso alla modestia: mentre allora! Il po' di buono che quella tempra d'omacci aveva noi l'abbiamo cresciuto, raffinato, sublimato coi lambicchi del progresso....

[34]

— Meno le lettere, le arti, e l'amore della famiglia....

— Eh! Eh! La non mi conta nulla per le lettere questo turbinio di riviste, di giornali e di romanzi? E per le arti l'è forse cosa da smorfie la fotografia? Quanto al culto della donna, la verginità sospettosa delle idee dei nostri babbi semplicioni ha fatto luogo con altre credenze all'analisi razionale, la quale — a dirvela in un orecchio — tende in ciò dritto al mormonismo...

— Messere, m'accorgo che non siete ammogliato...

— Quest'aria frizzante mi persuade di parlare liberamente — ad essa la colpa. Il tempo delle corti d'amore, dei tornei, dei trovatori non è più; e lo sanno le donne. L'uomo ha capito che cantare e farsi sbudellare per l'incerta virtù d'una bella — sovente brutta — sarebbe un vero sciupìo di tempo.... E chi giura adesso sulla virtù di una donna, se non quegli che giura ancora sull'amor patrio dei tanti sollecitatori d'impieghi? — Io però sacramenterei tuttavia per l'onestà d'una donna con quella buona fede che invoco invano in me per i mercanti di parole d'ogni colore: che ciò stia fra parentesi.

Quanto ai trovatori con qualche piccola variante, se non la chitarra, hanno cambiato metro; ma neppure quegli antichi cavalieri della bellezza giungerebbero al delirio platonico di accontentarsi, dopo la lizza, di portare i colori della signora. — Se io vi dicessi che uno dei meglio famosi poeti del giorno, che cantò tutti i santi del cielo e della terra, fu trovato poco [35] tempo fa ginnocchioni innanzi all'arrendevole fantesca della sua bella rigorosa? — Oh?! — Sentite gli echi: Oh! oh! oh! —

Per fortuna questi due ciarloni, nostri compagni di viaggio nella testa di S. Carlo, di piuolo in piuolo scomparvero giù del camino.

Nel mirare dietro le torri del vecchio castello i monti di Varese, e più in là sfumanti nell'azzurro dell'aria quelli del lago di Como; attorno in semicerchio le vaghe colline di Lesa e di Arona dalle curve chiomate fra cui spicca nel verdoscuro della vegetazione qua e là una casa, un campanile, una chiesuola; dappertutto scoprendo varietà, sotto e sopra, nelle sponde e nei diversi toni dell'orizzonte e delle acque, compresi il perchè anche agli abitatori delle rive marine il lago inspira amore di sè.

L'oceano se placido t'infonde quella malinconiosa riflessione che compenetra l'uomo all'aspetto d'ogni cosa infinitamente grande — riflessione da cui sorgono meditazioni profonde di cui a tutti non è dato l'assaporare l'intima voluttà — se burrascoso t'atterisce; il mare imponente nel golfo di Napoli come sulle sparute scogliere di Gibilterra o contro le dighe d'Olanda parla sempre — come Giove fra gli Olimpici — troppo grandiosi verbi perchè tutti li comprendano.... ma il lago riverbera sempre colla varietà de' suoi aspetti la vivacità, la piacevolezza; se una tempesta si scatena la notte sulle sue onde, essa ti fa prevedere come l'indomani le piante ritemprate dall'acquazzone saranno sfavillanti ai primi raggi del sole colle foglie ancora gemmate, e le frutta ed i fiori — se la grandine li risparmiò — più coloriti. Dopo [36] la burrasca marina — tremo al solo rammentarne le orrende scene — scendi alla ghiaiosa spiaggia, e trovi fra gli scogli tuttora echeggianti dei sinistri ululi dell'aquilone il fusto d'una pianta divelta, sfrondata da un colpo di mare, una tavola — che servì forse ad una lavandaia — che t'evoca dagli abissi il naufrago disperato che un maroso divelse da essa, mentre la folaga pare s'aggiri turbinando per scoprire sui fiotti il cadavere che il mare ributta. Sulle sponde dell'oceano mediti, su quelle del lago sorridi: là l'eternità, qui la vita.

V. Il Monterone. — Studi fisiologici sopra i cinque sensi. — Il lago a volo d'uccello. — La prima idea.

Mentre c'incamminiamo verso la vetta del Monterone per facili ed ombrosi sentieri, compagno mio, facciamo quattro chiacchere.

Tu hai da sapere — prima ancora di descriverti le veramente inudite meraviglie di Intra e Pallanza — che ieri nelle ore pomeridiane mi sono rannicchiato fra alcuni scogli dell'isoletta di S. Giovanni, e godendo ad una la frescura vespertina dell'inverno ed il rezzo di alcune piante protendentesi ad ombrello sopra il mio capo, me ne stava pensando come fra tutti i libri il meno intelligibile sia l'uomo, questa edizione princeps, direbbe un bibliofilo, che fa [37] sì splendida mostra nella biblioteca della natura. Dopo di avere scartabellato nella mia mente tante pagine non sempre terse, confortevoli, del misterioso volume, finii per domandare a me stesso quale dei sensi maggiore relazione avesse coll'anima.

La fantasia volò coll'ali della memoria ai momenti fuggitivi, in cui una voce armoniosa colla parola che nega e promette m'avea scosso tutte le fibre del cuore; alle notti tumultuose in cui le briose note de' balli vertiginosi m'avevano tratto nella ridda quasi allucinato; alle sere in cui il Barbiere, il Tell, la Lucia ed il Rigoletto versavano un fiume di melodìa nel mio animo, ed il rincrescimento che il tempo m'involasse sì presto quei divini concenti in mezzo a cui dimenticava le miserie e le prose della vita per slanciarmi ebbro di poesia nei mondo delle illusioni.... Oh! l'udito è pure il prezioso senso! Mercè sua comprendo l'espressione più viva del mondo: tutto parla; beato chi sente!

Sennonchè tosto mi ricorse al pensiero come la voce dell'amata s'era fatta dopo poco tempo aspra, sarcastica; poichè ella troppo presto dimenticando quanto m'era costata la felicità effimera di pochi dì, mi piantava colla solita sua buona grazia un pugnale nel bel mezzo del cuore. È vero che non corse gran tempo che la civetta pietosa — s'era forse già annoiata del mio successore — volle svellerlo; ma il modo fu così gentile, delicato, che la tarda carità invece di guarire la ferita non fece che inasprirla. Strida da una e dall'altra parte, smanie e stridori di denti...... ancora mi suonano [38] nell'aria orrende parole....... Lo credereste? A questo punto mi giunsero da ogni parte cigolì di ruote, e una miriade di stonazioni venne a grandinarmi intorno dal non lontano teatro di Intra dove si torturava non so quale delle opere più faticose di Verdi, con tanto strazio che dalla pietà e dal terrore mi si rattrappivano i nervi.... Benedetto l'udito, senso preziosissimo; ma tu non sei certo l'eccellente.

Non aveva finito ancora questa frase che le rose, i gelsomini, le acacie, i limoni, i millefiori del giardino botanico di Rovelli m'inviarono una nebbia di sì acute fragranze ch'io allargando le nari per meglio aspirarne gli effluvii, imparadisato chiusi gli occhi e credetti d'essere volato all'olimpo di Maometto, in mezzo alle urì, sulla sponda d'un lago d'acqua di rosa.... O incostanza della fortuna! Un alito di vento involò ratto l'olezzo; sparì l'acqua di rosa, ed il lago senza moto, senz'aura, apparve come una conca immensa stagnante da cui emanava un fetore orribile di pesci imputriditi. Dubitai che la bella Verbania l'avesse abbandonato colle sue ninfe, m'alzai e pervenni presso la foce del fiume che bagna la Sassonia.... La Sassonia, qui? Gnorsì: gl'Intresi costruirono presso l'antica città un sobborgo a vie spaziose, allineate che corrono fra case più allietate dal sole e dallo spiro lacustre che non le catapecchie della vecchia parte: nel centro una piazza e nel mezzo di essa il teatro, il più bello di tutto il lago. Ora questo sito una volta non tanto lontana era una vera ciottolaia, un campo di sassi... capite? Gl'Intresi, pratici quanto gli altri popoli appiedi delle Alpi della lingua nazionale, d'una [39] ciottolaia fecero una Sassonia, con grave sfregio della patria degli oficleidi e dei tromboni!

Ma che volete? Io non poteva a nessun conto adagiarmi all'ombra di quelle mura senza che ne dovessi tosto sloggiare per sfuggire alle ammorbanti evaporazioni delle molli erbette,... A che serve il naso, sclamai scappando indispettito, se per l'olezzo d'un fiore ne tocca assorbire cento esalazioni ingrate o perniciose? Sì, senza dubbio, l'odorato è l'infimo dei sensi — me ne rincresce assai pei mercanti d'essenze!

Ignoro se il correre per quelle spiagge sassose — stavo per dire sassoni — od il desiderio di trovare una soluzione lungi dalle praterie della parte suburbana d'Intra, mi condussero in un albergo vicino allo scalo dei piroscafi in Intra. — Compagno mio, tu sospetterai forse ch'io sia di quelli che giudicano di una terra dal modo con cui vi soddisfecero l'appetito: ti giuro in nome delle costolette che mangiai in quell'osteria, che per quanto male io possa dire del paese, io sarò sempre in credito.

Accetto senz'esitazione l'invito dell'appetito, m'assido ad un desco, e mentre il cameriere lo apparecchia, fiuto a larghe nari il prosaico odor d'arrosto che dalla cucina di sotto saliva in quella sala. Dalla finestra io poteva vedere lo scalo affollato dai soliti fannulloni, il lago, e di là le capricciose curve dei monti di Laveno. Sennonchè fra lo zingaro ed il resto v'era una povera melensa creatura, magra, ossuta, spelata, che attelata ad una sbilenca carrettella stava menando i denti in un sacco di fieno più paglia che fieno. È innegabile che l'appetito riceve un notevole stimolo dalla vista di chi trinca allegramente [40] — in grazia dell'asino il vostro compagno in attesa di meglio cominciò a mordere in una pagnotta del suo colore.

Mezz'ora dopo quell'io che mi rammentava poc'anzi con sdegno di quel gastronomo, il quale sclamò al finire della mensa lussuriosa: felice chi ha fame! quell'io stesso usciva dall'albergo satollo ed indignatissimo sulla volgare ed animalesca indole del gusto; e sì che se non aveva assaporato i manicaretti più delicati, l'appetito m'aveva fatto golosi anche i cibi più anacoretici: l'asino malsazio coglieva colle labbra penzoloni gli ultimi frusti del pasto insufficiente.... Quel certo gastronomo l'avrebbe — a pancia tesa — invidiato con ragione, poichè il senso del gusto poco su poco giù desta gli stessi stimoli e dà la stessa soddisfazione all'uomo ed agli altri animali — non razionalisti. Nella stessa sera di quel giorno incontrai due tomi; mi vollero secoloro a cena, cena largamente inaffiata dai vini meglio spiritosi del Piemonte.

Alla domane mi svegliai tardi, e col capo indolenzito; la prima parola pronunciata da me fu per chiedere dell'acqua.

················

«Non so veramente quanto le dissi — forse quanto le diceva da un anno — ma troppo mi rammento com'ella all'inesperto amante, accomiatandolo, dicesse all'orecchio una parola per cui il povero giovinetto nell'uscire da quelle stanze, tentennante come un ebbro, fu lì lì per ruzzolare lungo le scale.

«Domani! Rinuncio a descrivervi le vertiginose aberrazioni della mente in quelle eterne [41] ventiquattr'ore; vi basti il sapere che quello era il primo amore e che d'amore non aveva pur anco conosciuto altro che i tormenti..... Quelle furono ad una le più dolci e le più affannose ore della mia vita: temeva di vedere giunto l'istante e lo sospirava... povere illusioni d'un cuore ardente! . . . . . . . . . Alla fantasia che guidava pei campi eterei i sogni immacolati dell'amore virginale, in quell'ora fatale si spennarono le ali possenti, e cadde giù turbinando nelle melmose plaghe della materia....»

Salve, o del cielo primigenia figlia,

O dell'Eterno coeterno raggio,

Se tal nomarti senza biasmo io posso,

O sacra luce!

Hosanna in excelsis! Eccoci sul Monterone!

S'io fossi il re del mondo, avrei tanta fede da trasportare questo quadro incantevole nei giardini della mia reggia. Il bacino splendidissimo del Verbano, e le in esso ripetute sponde; i monti torreggianti dell'Ossola e dell'Intrasca co' loro cappucci di neve; là in prospetto la punta di Pallanza tutta fiori e verzura, e dietro le scheggiate vette della Cannobina; qui sotto colli fioriti tempestati di villeggiature, e le isole incantate; a sinistra le coste ondeggianti d'Ispra su cui spicca l'eremo di Santa Catterina nell'oscura tinta del macigno; dietro il lago d'Orta in cui il Monterone bagna le nordiche pendici; ed attorno le minori conche di Mergozzo, di Varese, di Bardello, di Monate, di Comabbio; un cielo sereno, freschissime aure — tutto in [42] tanto mirabile contrasto armonizza a formare una scena, la quale — se vi molce l'animo la onniloquente bellezza della natura — adorerete genuflessi.

Se tu credi d'esser poeta e qui non inneggi, non tentare più oltre le muse — la tua cetra non ha corde.

Che tu sia adunque benedetta, o fonte vitale di tante aspirazioni, o vista! Per te la creazione è quasi opera nostra: per te nessuno è compiutamente infelice. Tu ne ravvivi nell'aspetto sereno de' nostri cari l'amore della famiglia e della patria: per te innanzi ai monumenti il cuore palpita di entusiasmo e di emulazione. Divina figlia del sole, come il sole dài gioia agli umani — orrendamente infelice quegli a cui tu non distrai il pensiero dall'idea fissa, eterna, del suo dolore!... No, no, Milton come Tamiri ed Omero, Tiresia e Fineo, furono cantori immortali — ma chi vorrebbe la loro gloria a patto di dover dire coll'angoscia del britanno:

... il giorno a me non riede: io non veggo

Nè i dolci raggi del mattin che spunta,

Nè quei del sol che cade; io più non veggo

Di primavera i fior, nè rosa estiva,

Non più scherzosi armenti, non più mandre,

E non più volto d'uom, divina imago,

Ma folta nube invece e buio eterno

Mi cinge intorno, e dai piacer che dolce

Fanno la vita, mi divide; invano

Del bel saper, delle grand'opre sue

Apre natura il libro; è per me tutto

Oscuro, vôto, cancellato, e chiusa

M'è a sapïenza una gran via per sempre!

[43]

Nessun senso, come la vista, ti mette in comunicazione con Dio.

Dopo d'averti dato il mondo visibile nell'immensa serie delle sue cose, l'occhio armato di lente scopre all'anima esterrefatta i misteri della creazione microscopica, dai quali nei muschi, nelle mucilagini, nelle ninfe, negli insetti effimeri nati ora per morire adesso, nei milliformi atomi ti si rivela una storia impensata, un nuovo mondo infinito, nè più nè meno di quello che scopri nelle miriadi dei globi celesti... cose ed anime che fanno presentire con delirosa vertigine l'incommensurabilità dell'invisibile, del non sensibile!

Dunque, mentre ti dà il sensibile, lo sguardo ti fa intuire l'ignoto.

Perciò nessun senso più divino della vista.

Chi visitò i luoghi più famosi per la magnificenza, o la serena bellezza, od il terrore da cui natura li ha improntati, avrà trovato senza dubbio una folla di visitatori che profonde in punti d'esclamazione quanto sente, o crede, o finge di sentire. Di questi, quelli che sentono con palpito le parole del creato, raro è non tacciano; i secondi si svaporano in iperboliche frasi di romanzo. I terzi sono però i più curiosi: senza la buona fede dei secondi, non volendo ammettere in se stessi la negazione delle facoltà più sensitive, s'abbandonano a rompicollo alle declamazioni d'un lirismo che in nessun modo può sollevarsi da fior di terra.

A cavaliere di un bel poggio fra le deliziose colline — bellissime fra quante vedere si possano — che adagiate lungo il Po, formano una catena lussureggiante di verzura in prospetto di Torino, [44] sta un antico convento di cappuccini. Di lassù ampia, variata, stupenda la vista: il Po, Torino incastonata fra i suoi viali, un campo che è un immenso giardino, e in fondo, in giro, le Alpi, dalle marittime alle pennine in tutta la loro maestà. Un cotale con cui era salito lassù, dopo una fiumana di asmatiche declamazioni lardellate di citazioni storiche a fascio, da Annibale a Napoleone per Carlomagno, tacque ad un tratto — la vena era esaurita. Terminava l'inneggiare asserendo che chi non avesse ammirato addovere quel quadro e la stessa cornice, meritava di subire almeno almeno la sorte di Fetonte.

Dopo qualche istante, a mezze labbra e facendo lo gnorri, gli susurrai:

— Che Creso sarebbe il possessore di questo campo fertilissimo cinto dall'Alpi ed irrigato da dieci fiumi!

— Veh! la prima idea che mi venne in capo quando m'affacciai a questo spettacolo...

— E poi dicono, pensai tra me, che la prima idea non è la più giusta!

Non so se questa sarà pure la prima idea che frullerà in capo a voi infaticabili amatori della natura, sul culmine del Monterone, ove la prospettiva compensa generosamente la fatica — prospettiva che non la cede per nulla in estensione ed in varietà a quelle più rinomate dei monti della Svizzera: — io però a conforto della maggior parte di voi, vi ho serbato fino a quest'istante una sorpresa la quale non influirà poco sui giudizi che darete della grandiosa scena... Vi dirò adunque che certo Cobianchi Intrese ha eretto nel mezzo di amenissima alpe un eccellente albergo... non vi dico altro...

[45]

Buon viaggio; buon appetito non v'auguro... ve n'accorgete quando sarete giunti lassù. Ammirato il quadro, refocillato lo stomaco addovere, discenderete giurando che chi visita il Verbano e non il Monterone gli è come s'andasse a Roma senza vedere il papa — e che il Cobianchi, considerato il benefico influsso della sua ospitalità, merita almeno di essere insignito cavaliere... della tavola rotonda.

VI. I piroscafi. — Una donna che mangia. — Gli stranieri. — I laghisti. — Primato mascolino. — Il concertista di Cannobio. — I contrabbandieri. — Rivista di sponde.

Tanti paesi, tante usanze.

Prov. ital.

Sul Lago Maggiore come sul Lemano e sul Reno nella stagione propizia al girovagare chi viaggia sui piroscafi ha il destro di conoscere a certi tratti singolari la nazione della maggior parte dei compagni.

Il S. Gottardo da pochi minuti aveva lasciato l'approdo d'Arona, quando io mi feci sulla tolda fra un ducento viaggiatori d'ogni età, pelo e colore, che parte in piedi, parte seduti, stavano guardando la città dei Borromei che spariva dalla vista. Un terzo della tolda era occupato [46] da una catasta di cassette, bauli, valigie di cuoio e di stoffa ricamata, di gabbie di uccelli, di scattole e di fagotti d'ogni colore.

Una mezza dozzina d'Inglesi s'era installata sulla coperta, attorno ad un tavolo, al miglior posto; coprirono il tavolo e gli scanni vicini di libri-guida, di album, di cannocchiali, di buste da sigari e di abiti in gomma — e si cinsero cogli ombrelli, le sacca ed i bastoni da alpi, d'una insuperabile bastita.

Una signorina — ancora ne fremo! — doppiamente graziosa perchè bella e bionda, mi stava seduta dinnanzi; la personcina, in cui l'armonia delle forme pareggiava la gioventù freschissima, semplicemente vestita, suffusa dal tocco potente del nostro sole, s'inquadrava sì bene nell'orizzonte sereno che io finii nella mia ammirazione per crederla una fattura di Frate Angelico, il soave dipintore delle vergini e dei cherubini. E da quegli occhiacci quanta poesia, quanto candore — un poema sull'innocenza! Nel crescendo della mia meraviglia, dopo di aver passato in rassegna l'Eva di Milton, Ofelia e Zuleika e quante deità femminili aveva plasmato la fantasia de' meglio famosi poeti britannici, non m'avvidi punto che Intra — a cui mirava qual meta — mi passò dinnanzi come l'ombra di veloce rondinella, o per dirla più giusta, appunto come se il battello non l'avesse avvicinata. Non adirarti, Intra mia più buona che bella, in questo istante leggo in quegli occhi troppo vaghi pensieri perchè io possa pensare a te....!

Il piroscafo s'era allontanato dallo scalo clamoroso della città industre; il cameriere apparecchiò [47] un desco e la divina vi sedette. Ritornò poco dopo portando un gigantesco piatto di costolette mezz'arroste e di patate fritte, un piatto per tre — anche letterati; — la bella mangiò tutto. Il cameriere ritornò più volte con thè, latte, butirro, pane arrostito, salame — tanto da sfamare tre librai; — quella donna divorò, tracannò tutto, fino all'ultimo bricciolo, all'ultimo centellino....

Perchè non aveva pensato di mettersi al travaglioso — non posso dire dilettoso — asciolvere (e pranzerà tuttavia?!) prima di giungere ad Intra?

Se tutte le donne inglesi mangiano di quella fatta, comprendo con quanta ragione Byron diceva che una donna bella non deve mangiare.

I Tedeschi — se non sono studenti — circospetti, immoti, con una serietà bovina guardano fantasiando le spiagge. Benchè non trovino nella cucina lombarda dei piroscafi la zuppa alla birra di Manhein e le salsicce di Gottinga, pranzano a bordo, ma per tratto caratteristico scendono a maggiore agio nella sala, accontentandosi quanto al paesaggio di goderne quel po' che difila dietro le ovali finestruole.

I Russi, quei Russi che, se non m'inganno, cent'anni fa Alfieri diceva barbari vestiti all'europea, oltre alle qualità negative degli Alemanni hanno nel loro contegno un certo che d'austero che s'attaglia mirabilmente alla robusta loro struttura. Ma come ogni singolarità nazionale va elidendosi al frequente contatto delle nazioni, alla crescente preponderanza delle mode di Francia e d'Inghilterra, anche quelle barbone che parvero ad Alfieri una fra le cose [48] meno spiacevoli di quelle regioni della pelle d'oca vanno sparendo. E se la buon'anima sua rivedesse quelle capitali, non riconoscerebbe l'antico accampamento di allineate trabacche, tanto quella nazione seppe progredire nella conquista della civiltà, malgrado i secolari pregiudizi, la massima corruzione delle classi elevate e la retriva ignoranza del popolo.

Ma che è mai questo chiasso?

Quel tale, malgrado le rimostranze del pilota, vorrebbe stare in piedi sulla barriera a poppa; il suo compagno canterella una canzone di Béranger pipando, sdraiato sui sedili, senza curarsi un'ette di chi gli sta d'intorno; la signora, sfidando gli sguardi indiscreti, s'è arrampicata lesta come un gatto per la scaletta di ferro sul ponticello fra i tamburi delle ruote, non pensando alla difficoltà di scendere senza compromettere.... il crinolino! Chi non sa ora — anche senz'intendere l'epigrammatica canzone, ed il nasale cinguettìo dei compagni — che quella famiglia è francese? Amabili e spensierati figli della Francia, chi non vi perdona volentieri l'avventata vostra leggierezza, in grazia del coraggio con cui la vostra nazione guida le sorelle nella via del progresso civile? Volere o non volere, essa dà al mondo grandi lezioni — senza pedanteria, senz'annoiare i discepoli.

Le strade ferrate, i telegrafi elettrici e forse più rapidi mezzi di comunicazione cancelleranno un giorno le poche qualità salienti che ancora distinguono le varie nazionalità; sarà un bene od un male?

[49]

***

A prua stava un centinaio di popolani seduti sopra zane e cestoni di frutta, d'ova e di polli; uomini abbronzati, secchi, temprati al gelo ed al sollione, alle fatiche ed alle privazioni; donne membrute, faccie poco leggiadre, di bel petto, risolute, e tanto nullatementi quanto procaci per verun verso; qualche ragazza avvenente, tra 'l montano e 'l marino, di nera capigliatura, di cera maliziosa; ragazzi vispi, di contorni gentili che presto la rude educazione e l'aria mordente rompe a forti linee. In un crocchio regnava una donna — dove non regna la donna l'uomo imbestia — la quale rintuzzava con tanto brio le più o meno (e meno anzi che più), spiritose frecciate che i compagni le saettavano a bruciapelo sulla preminenza dell'uomo sopra il bel sesso, che da quel punto in poi io non lo chiamerò più il sesso debole. Un tale — ignoro se sinceramente o per mascherare la tendenza del cuore — non le scoccava dardi, ma pistolettate, avresti detto, del genere più mascolino, come: La donna è una scopa, un serpe avvelenato, l'origine eterna d'ogni male, ecc.; — senonchè quella furbacciona gli rispose interrompendolo con un'occhiata sì dolce, sì promettente, che la pistola fece cecca, l'uomo s'ingarbugliò, i compagni risero, ed io compresi una volta ancora essere molto più facile dire cose d'inferno della donna che sottrarsi all'impero, alla seduzione delle sue grazie.

Arrivati a Meina, la brunotta disse: addio, [50] compari, non vado più a Intra; ho cambiato pensiero, discendo qui. Discese nella barchetta di traghetto; — già vi stava rincantucciato a poppa il sere — a cui i compagni, ridendo a smascellarsi, gridavano: Eh! Pero, anche tu hai cambiato strada.... Non hai più paura del serpe? — La bella, puntati i suoi piedini sullo scanno di contro, guardò ghignando i coristi, e voleva dire: Avete un bel gridare cose da chiodi di noi; con un capello vi tiriamo sempre a' nostri piedi.

Siccome non conosco il resto della storia, resto a bordo, augurando mille gioie a quelli che hanno cambiato pensiero — benchè il primo sia sempre il migliore!

Appoggiati alle cabine del ponte, silenziosi, indifferenti al chiasso che si faceva sul piroscafo ed allo scorrere delle vedute lungo il lago, alcuni frati mendicanti....

— Zingaro mio, accoccane loro una delle tue, delle più saporite... Non risparmiare questi fannulloni che in nome di Dio s'ingrassano a spese del povero....

— Zitto là: anzitutto i frati in quistione non erano punto grassi; poi — se pure non l'ho detto ancora o non m'hai compreso — io non pretendo incastonare a mezzo di una passeggiata per godere e darsi bel tempo, quelle rancide quistioni di frati, carabinieri, trovatelli e compagnia, che oltre all'aria pedantesca di volere ad ogni passo riformare la società, spirano una tale afa di noia da farti dormire lì su due piedi.

Zin, zin, ziroziro! Zitti tutti quanti! Largo ai concertisti di Cannobio!

Fra le due ruote del battello, presso gli spiragli [51] della macchina motrice, un vecchiotto segava un violino: attorno a lui col becco rivolto in su, una nidiata di ragazzini da sette ai dieci anni accompagnavano il padre con violini e viole, — serii, malinconici, per non poter saltellare liberamente cogli altri putti; — ma nessuno avrebbe potuto guardar quella povera bimba accollata ad un grosso violoncello, stare tutt'occhi ed orecchi per dare il colpo di arco a seconda dei movimenti dei piedi paterni — e pestava sì forte il dabbenuomo che evocò dal loro antro vulcanico gli affumicati attizzatori dei fornelli del piroscafo — colpo d'arco che era dato tuttavia or troppo presto or troppo tardi — e le manine di lei impotenti a comprimere sulla tavoletta le corde, per cui ad ogni vibrazione il cattivo strumento si doleva con un zirlo acuto d'essere caduto in mani sì innocenti; nessuno dico avrebbe potuto guardare quella graziosa figurina ed i fratellini ed il babbo fornire quella musica faticosa, senza porgere loro una moneta ed un mesto sorriso... Zin, zin, ziroziro!

E quando il ziro ziro finì, la ragazzina diede un lungo sguardo sugli astanti quasi per leggere sui visi altrui l'approvazione, mentre il povero padre si dimenava in mezzo alle sue creature per armonizzare — Dio sa come — i loro strumenti. Ma tutti i cuori erano perfettamente d'accordo per compiangervi, perchè tutti gettarono nel cappellaccio del maestro un soldo: anzi credo che Verdi stesso di cui avevano scorticato il brindisi della Traviata, presente avrebbe dimenticato le giuste suscettibilità dell'autore. Raccolti i soldi, risonarono — una sinfonia, del papà, il caos. Zin, zin, ziro zin!

[52]

Il concertista di Cannobio è un artista?

L'artista è creatore — e qual creazione più originale della sua sinfonia? Chi potrebbe meglio rappresentare il disordine? L'effetto poi corrisponde al merito — lagrime, risa e soldi. Mi direte che il vecchietto non ha genio — ma se il genio, come disse quel valentuomo di Bouffon, è una lunga pazienza, chi può contrastarglielo?

***

Il laghista ha un carattere suo proprio, come quello che dipende in gran parte dalla posizione della sua terra. Vicino alla Lombardia, egli ha l'abbondante loquela, lo scherzo facile, l'arrendevolezza dei Lombardi; appiedi delle Alpi ama il lavoro, ed è schiettamente ruvido ed armigero come i Pedemontani; sull'acqua, ed è industre, bramoso d'arricchire come i Liguri. Quanto ai difetti, egli ama appassionatamente il suo bel paese — compresi i campanili — e lasciata in disparte la smania di considerare la città vicina, il villaggio della stessa costa inferiore al natale, esso ha ragione. La via ferrata, i piroscafi, la nuova strada al Ticinese faranno con eloquenza assai maggiore della mia comprendere che le sponde del Verbano su per giù non sono che una grande famiglia sotto un medesimo tetto.

Chi non ha inteso parlare dei contrabbandieri del Lago Maggiore? Una volta — le date sono inutili — c'erano, e tomi indiavolati da tenere in sussulto le tre finanze; quistioni economiche [53] che si risolvevano sovente con schioppettate, legnate a josa ed altre galanterie da ambe le parti. Molti contrabbandieri — non quelli che arrischiavano al gioco la pelle — arricchirono; la leggenda susurra che molti finanzieri si rimpolparono: ora chi ne seppe ammassare li gode; i tipi drammatici scomparvero ed il Verbanese non è ora più tenero del contrabbando di quanto lo sia ogni abitante di confine.

Del resto — quà in un orecchio che nessuno ci senta — messa lontano la quistione del peccato — chi non si sente solleticare dalla tentazione del frutto proibito? Chi non è sotto qualche aspetto contrabbandiere? L'amante vorrebbe farla alla barba del Bartolo o del marito; il poeta introdurre di soppiatto un'idea birbona che minerà l'edificio della tirannia, e molti scrittori e librai arricchire l'opera e lo scrigno, malgrado la proprietà letteraria — avvenire..... Oh! s'io potessi, senza che voi ve n'avvedeste, contrabbandare qualche imaginosa fantasia da cacciare lo sbadiglio dalle vostre labbra!

***

Non v'è mai capitato no di condurre un bimbo a compra di balocchi pelle strenne di capodanno?

In mezzo a tanti cavalli, soldati e generali e cannoni di legno, eroi dal capo di cartapesta, asini col pelo, e pupazze cogli occhi vivi di cristallo, pallottole, racchette, cerchi, palloni volanti, archi e freccie come al tempo in cui Amore saettava, tamburi per rompere la testa [54] ai vicini, trombe da chiamare in casa l'emicrania, fischietti e scuriade ed altri amenissimi trovati per assordare il mondo e rompere le scatole a chi li ha in casa, in mezzo a questo caos babelico il piccino non sa che scegliere; l'uccello dalle penne dorate par vivo; ma il cane abbaia...... la carrozzina corre in giro da sè stessa..... Così avviene a me in cerca d'un romitaggio ove riposarmi qualche giorno. Sesto-Calende, malgrado il nome romano, le memorie d'Annibale, l'antica abbadìa, i barconi che scendono il Ticino che vi sgorga dal lago, non mi rattiene. Di contro, a Castelletto su Ticino, ho perduto mezza giornata fantasticando, attorno al castellaccio, sui casi della Bice del Grossi. Angera, la città del sole — da non confondersi con quella di Campanella — mi rammenta un proverbio laghista, alla cui sola memoria mi sento bagnare la camicia. Ispra, quasi sul piano, in fondo ad un seno deserto, colla prospettiva di ampio tratto di lago e del Vergante..., ma il mausoleo alla contessa Castelbarco inspira troppo mesti pensieri.... Lesa tranquilla in placido golfo.... Belgirate ariosissimo.... Veh! Dimenticavo di notare come sia impossibile vedere la sponda destra del lago senza guardare ed ammirare l'ampia e solidissima strada al Sempione che si stende, a seconda dei seni e dei promontori, come un orlo bianchissimo tra la verzura della pendice e l'azzurro dell'onda. Non ultimo vanto di Napoleone è quest'opera degna dei grandi secoli di Roma. Al pari di Roma egli lasciò dovunque traccie di quel genio che volava sì alto sull'ali dell'aquile vittoriose da obbliare come gli uomini di quaggiù [55] fra le altre miserie hanno un cuore. Tuttavia non v'ha, credo, Italiano che, malgrado il ricordo dell'ingratitudine sua verso la madre, la quale pure sola lo amò senza tradirlo mai e gli perdonò senz'amarezza di rimproveri, non abbia dimenticato Campoformio al racconto della passione di Sant'Elena.

VII. Lesa e Manzoni. — Ciarle letterarie. — La calma.

Oh! quante volte ai posteri

Narrar se stesso imprese,

E sull'eterne pagine

Cadde la stanca man!

— Anche voi discendete qui? Mi chiese un biondo Alemanno che m'aveva udito susurrare a mezze labbra la bella lamentazione del Manzoni alla morte di quel fatalissimo.

— E perchè no? Risposi a quella simpatica fisonomia. Voi scendete per...?

— Vedere quel poeta i cui allori furono invidiati dal nostro grande Goethe.

— Manzoni? qui? Allora ad un tratto mi parve che l'aure ripetessero in flebile armonia gl'inni, i cori e le scene dell'Adelchi e del Carmagnola, gli episodii dei Promessi Sposi.... A terra!

Mentre da Belgirate ricorrevamo verso la vicina Lesa, l'Alemanno si meravigliò meco che gl'Italiani ignorassero dove dimorava l'immortale [56] cantore. Il poverino ignorava che Manzoni aveva da non pochi anni pubblicate le opere sue migliori senza che gl'Italiani le avvertissero, quando Goethe, scopertone per caso il genio, gli schiudeva colle sue lettere l'immortalità. Ignorava che pochissimi illustri Italiani debbono la loro fama all'entusiasmo od alla riconoscenza de' paesani, e moltissimi la devono agli stranieri. Beccaria crebbe tosto in rinomanza per Voltaire, Morellet, Catterina II. Il Tedesco credeva che in Italia si leggessero avidamente gli scritti della nazione come in Germania. Non sapeva che qui, all'infuori de' compilatori e degli altri racapezzatori di libri, tristo chi aspetta un pane dall'arte!

Quantunque io avessi detto più che non era forse necessario sull'ingrato tema, il dabben giovane insisteva con mille interrogazioni sulle abitudini del cantore; sicchè per troncarla, gli sfoderai ad un tratto che anche in Germania Mozart, il divino Mozart era morto miserabile. Quelli, a dir vero, erano altri tempi, meno gonfi di civiltà....... Intanto eravamo pervenuti alla prima palazzina di Lesa: ivi soggiorna sovente, nell'estiva stagione, il cantore di don Abbondio. La cera di quell'abitazione è pacata come la figura di fra Cristoforo. Venne ad aprire un vecchio senza livrea. — Il conte è in casa? — Egli ne introdusse senza fare motto. Annunciatici come desiderosi di sue novelle, e, se era possibile senza suo disturbo, di avvicinarlo, il servo che ne aveva uditi coll'indifferenza di chi sente spesso la medesima canzone, entrò lemme lemme nelle stanze interne. L'emozione era tanta che m'impedì di pensare ad ogni altra [57] cosa, anche a dare uno sguardo alle semplici supellettili che arredavano l'abitazione. Ma ecco sentiamo nel salotto vicino una pedata: è il servo che ritorna forse a dirne....... Ne apparve fra la mite luce della stanza la veneranda dolcissima fisionomia del poeta. Ci movemmo balbettando verso di lui. Palpitavamo di religiosa riverenza. Il nostro cuore batteva con sussulto: anche noi vedremo, parleremo con lui!

Non so il come, ma cinque minuti dopo ogni nostra esitazione era dissipata: nella fuggevolissima ora scorsa al suo fianco, ne parlò del lago, delle sue passeggiate, delle cose presenti, senza entrare in quelle disquisizioni critiche, dove sogliono annegarsi i letterati. Con un semplice motto chiuse la bocca agli elogi dell'Alemanno, senza quell'affettata modestia, sotto l'usbergo della quale certi professori di lettere sogliono cicalare due ore difilate delle loro scoperte Americhe nell'arte.

Alessandro Manzoni ne accordò — quanto non speravamo — una stretta a quella destra che vergò le pagine ove armonizzano concetto e forma, ragione e fantasia, la vera essenza del genio! Dio solo sa poi quanto ne rincrebbe di non poterlo degnamente contraccambiare!

Noto qui come, imperversante l'austriaco in Lombardia, fra gli assenti la Gazzetta ufficiale di Milano richiamasse certo Manzoni Alessandro. Napoleone, conquistata l'Italia, mirava anzitutto ad amicarsi gli uomini di merito che il fulgore della sua stella non aveva abbagliato. Ma gli Austriaci sprezzavano apertamente ogni cosa italiana — eccetto l'oro.

Manzoni donò all'Italia un libro, il quale, [58] come tutti i veri capolavori, è ad una miracolo di mente profonda, di cuore appassionato, e un'azione buona. Da lungo tempo sdolcinate affettazioni d'idilii in cui attori e natura portavano la parrucca, epilettiche convulsioni di novellaccie di cui non era italiana nè l'origine, nè l'inspirazione, nè la veste, aspirazioni evirate alla luna, all'indefinito, avevano fatto dimenticare come lungi dai salotti profumati, e dalle barocche capanne dei Titiri incipriati, vivea attorno alle città, nei campi, attiva, oscura, un'immensa famiglia intenta al lavoro. Il poeta comprese il valore del popolo, d'una gente che dà il pane ed il soldato, le antitesi crudeli della forza, della necessità col diritto. Colla dignità vereconda d'un'arte cristiana, senza le basse adulazioni di chi fa un Marcello d'ogni villano, bussa alle porte del povero, ne illumina le poche gioie, ne conforta gli stoici dolori, ne mostra le virtù tutte sue ed i vizi non del tutto suoi. Colora colle tinte della verità il quadro, dipinge con sicura potenza di tocco scene gigantesche, e ti presenta i Promessi Sposi, in cui l'arte che tutto fa non si scopre — un libro fra i pochi che gl'Italiani possono leggere due, tre e quattro volte senz'annoiarsi.

Poichè il merito dello scrittore italiano venne cresimato oltralpi, i Promessi Sposi (che altrove avrebbero fruttato strepitose ovazioni e più strepitose somme) divennero malgrado la sonnolenza apatica degl'Italiani il libro più popolare della loro letteratura narrativa.

Da Manzoni, Grossi, Azeglio, Cantù, Carcano. Grossi ed Azeglio però per vivacità di colore e scioltezza di disegno precedono tutti gli altri. [59] Carcano è il poeta delle più soavi effusioni di cuore, il poeta della vita intima. Dopo questi buoni un temporale di mediocrità — non auree — che a passo di lumaca sulla falsariga maestra regalò all'Italia una moltitudine di buoni curati, di perseguitate, di Don Rodrighi e d'Innominati in diciottesimo, la quale ebbe per effetto di disviare sempre più dalla letteratura nazionale gl'Italiani.

***

Manzoni, Rosmini, D'Azeglio sono tre nomi che spargono una bella luce sul Lago Maggiore. Niuno dei tre nacque sulle sue sponde; ma chi passando innanzi a Lesa, a Stresa, a Cannero non ricorderà la loro dimora, le opere per cui il loro nome corre illustre?

Mi ricordo che la prima volta in cui m'apparì Arona, tosto mi corsero alla mente le lettere di quell'anima sì altamente innamorata della natura ch'era il Foscolo, nelle quali, scrivendo all'amico Bottelli, si lagna spesso che i tempi incerti e l'indole irrequieta gli tolgano di riposare ancor lui in mezzo a tanto sorriso di cielo e di terra e d'onde.

***

Chi dona al volgo, inimicizia compra.

Prov. ital.

Le chiacchere col buon Tedesco mi fecero nascere molte riflessioni sopra alcune qualità [60] negative — almeno in questi tempi — degli italiani.

Credo — vorrei ingannarmi — che la gente italiana considerata nelle masse, fatta astrazione delle individualità, sia appetto delle nazioni più colte dell'Europa, Francia, Inghilterra e Germania, quella che si dimostra più apatica per tutto quanto sorge dalle arti.

Non illudiamoci col passato. Tanto le individualità sotto ogni aspetto non patiscono confronto, quanto le moltitudini sono incuranti, senza alcun entusiasmo o slancio per tutto che non solletica la fregola animale dei sensi.

Spogliamoci una volta di quel falso amore di patria che pretende un primato in ogni cosa.

Un dì — giova sperarlo ed augurarlo come grande ventura per la nazione — conquistata da senno l'indipendenza e la libertà, sotto le rugiade feconde della pace, rigermoglierà fra gl'Italiani raccolti finalmente ad un solo focolare la religione delle arti; allora forse le sapranno onorare con quella riconoscenza a cui hanno diritto. Esse sole mitigarono colle divine illusioni della speranza l'acerbità di grandi dolori; per esse eterne le glorie, sacre le sventure della nazione.

Mercede al genio fu quasi sempre sola la coscienza. Onoriamo la memoria dei nostri grandi: sbattuti dai tempi fortunosi e dall'ingratitudine non s'avvilirono. Siamone alteri — Se uno dimenticò che il dolore e la miseria avvivano lo splendore del vero merito, cento elessero il soffrire.

Siamone superbi — nessuna nazione può forse menarne sì giusto vanto.

[61]

Ma non dimentichiamo mai come finora fummo ingrati verso di loro.

***

Arco sempre teso si rompe.

Prov. Ital.

M'inganno, o tu non hai sentito il cuore battere così tranquillamente come oggi. Ho spinto la mia barchetta nel bel mezzo lago fra il golfo di Feriolo e quello di Laveno: i remi giacciono stillanti in fondo ad essa — quasi immobile fra la calma delle onde. Il corpo abbandonato a poppa sul tappeto, sorreggendo il capo con ambe le mani, puntati i gomiti sull'orlo della navicella, guardo l'acqua che s'increspa leggermente attorno alla carena, l'ampia pianura che riflette gli albori del tramonto — e sto pensando — a niente — o meglio al tutto.

Una brezza sottile sfiora con ali delicate l'onda e mormora un mondo di cose. L'ascolto confusa colla voce delle campane stormenti a riva — poi il tintinnare cessa: il cielo è sereno, l'aria tranquilla, tutto è pace, armoniosa tranquillità — e allora sento più distinto il sommesso ciarlìo della brezza.

— Tranquillità! Voi vi anelate nell'intimo dell'anima, mentre il vostro orgoglio fa della vita una continua battaglia! Un dì trovate la quiete che bramaste — il dì che per voi si schiude una tomba. — Nel giovin cuore avvampa la fiamma d'amore con slanci al settimo cielo — o trova ripulsa, ed erompe un grido [62] disperato — o corresponsione, e dopo qualche tempo l'amore non è più che un'affinità simpatica di traspirazione. Dall'amore aspira alla gloria. Avversa fortuna, impotenza d'ali, impazienza la negano — o l'ottiene — morto. Deluso, la patria gli stende le braccia come la donna che sola si ama senza sazietà e senza rimorsi.... Ne ha — forse — ricchezze ed onori che galvanizzano il cuore sfibrato.... Ma dove la quiete che pure la natura v'insegnò ad amare? — Non nei trasporti dell'amore — non nella lotta contro l'invidia dei consorti Farisei — non nelle allucinazioni delle notti studiose — non nel tripudio dei baccanali. Bada, veh! a quanto ti dicono le onde sfiorate: fuggi la tempesta; — gli ombrosi declivi dei colli: quiete; — il cielo sereno: purità di desiderii....

Ma che sarebbe degli uomini se tutti li compenetrasse questo soave linguaggio della natura?

La tempesta è adunque necessaria nell'armonia del tutto?

VIII. Origine storica di Belgirate, senza documenti. Le isole Borromee.

A Belgirate, cinque minuti oltre Lesa, passeggiai due ore ammirando quelle graziose palazzine a vari colori che difilano lungo il lago, sulla punta che si protende dalle colline nell'onde. In capo della fila sta la villa Conelli; in fondo in serrafila la Fontana Pino, e fra una [63] casa ed un'altra stanno giardini, dove gli alberi hanno più frutti che foglie, e le aiuole più fiori che erbe.

Sentite quanto trovai in antiche pergamene sull'origine di Belgirate.

Pare che il grazioso villaggio se n'andasse una calda notte d'estate in cerca d'un sito per adagiarvisi. Capitano in testa e retroguardia in coda difilava lungo la strada del Sempione. Quando si trovò sull'estremo lembo del Vergante, sentì ad un tratto il venticello del Mergozzolo ed i zeffiri dell'Inverna sibilare armoniosamente nei boschi superiori emulando l'usignuolo; l'onde tremole baciare la sponda, diffuse sui sassolini mormoranti; tale una voluttà profumata da mille fiori penetrare dalle finestre nell'animo, che gli archi, le torri, i comignoli al soffio di quella frescura fremevano, i rosai stendevano le loro braccia in atto di desio ai cantori dei boschi, e le case stanche dal viaggio sentivano proprio crescersi le radici sotto ai piedi..... Allora un prolungato ah! di soddisfazione fece echeggiare la sponda d'Ispra, la fila si fermò, le ondine ed i silfi del lago danzarono sulla spiaggia; essa si trovò così bella, così lieta, così arieggiata dall'aure tutte del lago, che spossata dal piacere si adagiò sul girare della punta, e così fu Belgirate. Ogni giorno dell'estate e dell'autunno, al tramonto, allora che il sole indora le cime dei monti di Varese, la fila delle graziose palazzine è passata in rivista da uno stato maggiore di signorine villeggianti, di cui più d'una può sconfiggere un esercito senza colpo ferire.

La leggenda dice, che un buon albergo il [64] quale in quella tal notte ramingava colle case vagabonde, essendosi fermato per istrada ad aggiustare un conto un po' elastico con un Inglese, giunto tardi e trovato ogni posto occupato, fu costretto ad andarsene altrove con non poco dispetto degli ammiratori dei fiori, degli usignuoli, del venticello, delle palazzine e delle signore.

***

Bellissima fra le isole! Ti porto

impressa nel cuore....

U. D. Horn.

Da Stresa, elegante villaggio appiedi al Monterone, grandiosa vista di tutto il golfo di Feriolo, la baia di Napoli del lago, e del lago sino a Luino; in prospetto le Isole Borromee, la Bella e la Madre dalle terrazze fiorite; Pallanza, Suna, e dieci villaggi a mezzo i monti dell'Intrasca.

Stresa manca d'un viale per la ragione forse che ognuno ne ha nei propri giardini, i quali sono straordinariamente folti di verzura e di fiori come a Belgirate, Baveno e Pallanza.

L'Isola Bella è una ricca collezione di piante disposte sopra varie gradinate adorne di marmi; il palazzo contiene oggetti d'arte preziosi; il tutto forma la più graziosa villeggiatura in cui i patrizii Lombardi abbiano profuso tesori.

Se non garba a molti il manierismo dell'architettura e quel vedere ad ogni tratto la natura sopraffatta dalla mano dell'uomo, per tutti l'Isola Bella vista dalla parte prospiciente Pallanza, [65] dove un folto bosco di piante variatissime rompe la monotonia delle linee, ed una serie di grotte ove mormora e gorgoglia l'onda del lago rileva affatto la massa, è spettacolo ammirevole.

Io vorrei condurvi, o bella lettrice, a questa peregrina villeggiatura, approdare con voi alla scalona, visitare le ampie sale del palazzo, raccontarvi la storiella del pittore Tempesta che le adornò di tanti quadri dipinti nella sua dimora nell'isola, ammirare con voi pitture e scolture, e rigirati i viali ombrosi del giardino, cogliere un bel fiore; e — con vostra buona venia — adornarvene la capigliatura.

Ma il profumo quasi eccessivo, la vista amenissima, il sorridere del cielo e dell'onda, la magnificenza della magione e la musica degli uccelli, potrebbero di leggieri all'ombra di un ananasso o d'un palmizio farmi credere d'essere un Nabab delle Indie, e voi, o lettrice, un amabile Urì..... e allora..... chi può prevedere tutti gli effetti di un sito incantato sulla mente e sui sensi del vostro compagno?..... Via, non temete, i miei polsi non battono frequenti, i miei sguardi sono tranquilli, il sangue mi serpeggia pacifico nelle vene, e voi non vi accorgerete punto che io sogni di essere un Bassà.

L'isola Madre colla modesta sua casa, co' suoi giardini a terrazzi senza ornamenti, più vasta della Bella, quasi in mezzo al golfo, piace ad alcuni forse più della Bella, ove la natura sta più come ornamento che non base. Gian-Giacomo Rousseau poteva farne il soggiorno della sua Eloisa. Nell'una e nell'altra roseti e palmizi, magnolie e liane, camelie e pini e mille pianticelle [66] di diverse patrie, che questo sole con mite temperie cresce ed affratella.

***

Il pittore che vuol dipingere un paesaggio a vividi colori ritragga l'isolotto dei Pescatori. Chi vuol conoscere come l'uomo possa amare uno scoglio a costo di starvi accatastato l'uno sopra dell'altro, entri in quella stretta viuzza dell'isolotto dei Pescatori. Barche rattoppate, reti al sole, sulla ghiaia, lungo i muri; pannolini e vesti a scacchi sciorinate alle finestre; portici oscuri, viottoli angusti, barconi di legno; una marmaglia di ragazzi che chiassano, scorre, sguizza, s'arrampica sulla spiaggia, sulle scale, sulle gondole; donne dalle fisonomie robuste ed abbronzate, intente alle chiacchere ed alle bisogna della vita; una chiesuola, un campanile che si drizza nell'orizzonte disopra a quelle case che gli fan ressa d'attorno per ispecchiarsi ancor lui nell'onde; un po' di spiaggia verso il nord, pochi alberi, poca verzura.

Il lago qualche volta, la primavera o l'autunno, sdegna la solita sponda, gonfia, copre la spiaggia, lambe i piedi delle case, batte alle porte, entra nei pianterreni. Ecco l'isolotto scomparso, e tutte quelle casupole diguazzando nell'onda tranquilla hanno un aspetto nuovo, originale, come un quartiere di Cannareggio in Venezia.

Il contrasto tra lo scoglio dei Pescatori e la grandiosità dell'isola Bella è sorprendente. L'aspetto dell'isolotto colle umili casette, colle sue barche fracide a riva, co' cenci all'aria, in quel [67] cielo serenamente allegro, collo specchio dell'acqua che l'ingrandisce, con quella scena di verzura su cui si stacca vivamente non è quello della miseria certamente. Se l'isola Bella col suo grande palazzo ti fa conoscere l'opulenza del ricco, l'isolotto è un quadro animato dell'attività instancabile del povero che lotta spensierato colla fortuna — la quale, a quanto pare, non incappò mai nelle reti di un pescatore.

IX. Don Bussolini da Mergozzo; capitolo in cui si dimostra chiaramente come i più beati sieno i poveri di spirito.

O mente vaga, alfin sempre digiuna!

A che tanti pensier? Un'ora sgombra

Quel che 'n molti anni appena si raguna.

Petrarca.

Quest'oggi fui al lago di Mergozzo, limpido nappo che si stende per un miglio alle falde del monte Rosso, sulla strada che da Pallanza corre all'Ossola. Mergozzo poi è una terricciuola sulla sponda del lago, che da lei prende nome, la quale non ha nulla che possa attrarre il viaggiatore curioso di monumenti o di spettacoli grandiosi della natura: dopo le scene del Verbano si rimpicciniscono ben altre bellezze che non quelle della piccola conca.

Mentre io passeggiava, rincrescevole che il povero zingaro nulla trovasse da far suo, passando [68] presso la canonica del paese, casa di mesta apparenza anzi che no, vidi accosciato in atto di dolorosa meditazione un uomo dai quarant'anni sulla gradinata della porta. Egli teneva la lunga e scarna cera tra le mani affilate e smorte, e lo sguardo fiso nella terra, e quando gli passai accanto mormorò in tuon di lamento:

— Eh! tanto gli è morto!

Ritornai sui miei passi per meglio osservare l'incognito; il quale vestiva come un prete dei monti, di panni grossi e non troppo lindi; il cappello dalle tese rilevate e dagli orli spelati giaceva accanto a lui, come ad uomo che per soverchio calore del capo non lo possa tollerare sulla fronte. Quando io gli fui dinnanzi, ei levò gli occhi come smarrito, tolse di terra il cappello, si drizzò e voltosi a me salutando, mentre due grosse lagrime calavano sulle gote ispide, disse:

— Sento che il poverino non è nemmeno morto qui, in paese! Lontano dalla sua parrocchia!

Egli mi teneva forse per qualche terrazzano: nondimeno quand'egli seppe che io non era del paese e che anzi ignorava appuntino di chi parlasse, aggiunse:

— Non è del paese..... tanto peggio o tanto meglio per lui. Ma, la senta, io ho un grande bisogno di sfogare con alcuno il mio dolore, e se il mio presentimento non m'inganna, non la vorrà deridere la fiducia d'un pover uomo.... Esciamo dai borgo.... la veda; io arrossisco, col mio abito, di piangere così in mezzo alla strada... E sono anch'io un uomo, alla carlona, ma un uomo, e il pensiero che quel caro Don Bussolini [69] sia morto così male mi strozza la parola in bocca.... Ed io non sapeva niente, io che sarei calato dalle mie montagne a salvarlo, io che conosceva quell'anima così bisognosa d'un cuore in cui versare la piena di tanti dolori! Ma io non ho saputo niente!

Queste parole sgorgavano con tale accento di dolore, che io — ignaro dell'esser suo e dei fieri casi di Don Bussolini, me ne stava ad una commosso e confuso per non sapere, come avrei desiderato, porgere conforto a tanta ambascia.

— Io vo' raccontargli come uno splendido ingegno ed un bel cuore possano perdere miserabilmente un uomo, quando agli studi non abbia conforto e direzione, e gli slanci del cuore ardente, appassionato, non vengano temprati dai consigli dell'amicizia.

Don Bussolini era il più bell'ingegno che io m'abbia conosciuto in vita mia; aggiunga a ciò una perduranza nello studio piuttosto unica che rara, una memoria straordinaria e la più semplice indole del mondo.

Noi stringemmo dolcissimi nodi di fratellevole affetto nel seminario; egli sempre il primo a sciogliere un problema, a trovare il motto, a comprendere coll'acutissima intuizione i passi più difficili, più oscuri dei Greci e dei Latini; e se noi studiavamo per guadagnarci un tozzo di pane o per aprire una carriera all'ambizione, se noi studiavamo quel tanto appunto che era strettamente necessario per essere promossi la fin d'anno, Bussolini studiava invece per dissetare l'ardendissima brama d'istruirsi, di sapere quanto più poteva. Tutta la polverosa biblioteca [70] del seminario di Novara era volume a volume passata fra le mani del giovine curioso, e ancora quando alcuno di noi magnificava quella raccolta di opere, egli sorrideva....

Alfine egli fu crismato sacerdote; pensate che festa! Non v'era tra quegli studiosi un solo che al Bussolini non profetizzasse la più luminosa carriera, poichè quanti dignitari della Chiesa erano venuti nel collegio, tutti aveva fatti stupire con quella strapotente facoltà intellettiva. La parrocchia di Mergozzo era vacante, Bussolini vi fu nominato, e con grande sua gioia, poichè la tranquillità di quella sede, la picciolezza della popolazione e la facilità del ministerio fra gente onesta ed arrendevole, gli promettevano largo campo a' suoi studii. Egli fu accolto da quella popolazione come un fratello ed in breve amato come un padre. Chi non lo avrebbe amato? A trent'anni, nell'età delle passioni, egli non aveva che una cura, un amore, una passione, lo studio. D'altronde la semplicità elegante de' suoi modi, la generosità del suo cuore sapevano cattivarsi la comune stima. Un bel dì, invitato già da lunga pezza a visitarlo nel suo novello eremo, giungo a Mergozzo; m'accoglie colle maggiori dimostrazioni d'affetto.

— Senti, Giuseppe: non ti pare che io sia più giocondo dell'usato? In verità i suoi occhi sfavillavano di tanta luce, che io stetti un istante sopra il pensiero che egli avesse ricevuta la mitra vescovile.

— Ho trovato finalmente, Giuseppe, quella luce, che io andava da tanto tempo cercando... A furia di brancolare fra le tenebre, giunsi alle [71] sfere irraggiate del sole della verità, della poesia.... ed io da tanti anni sentiva mormorare attorno questo nome.... Dante.... questo nome, che è la lingua, la coscienza, il ciclo intellettuale dell'Italia; sentiva, dico, questo nome, che mi suonava all'orecchio come un verbo misterioso senza presentire quanto tesoro io vi avrei scoperto di civile sapienza, d'arte squisitissima? di sublime poesia! Vedi, Giuseppe, io non mi accorsi della vita del mio pensiero, se non quando Dante m'iniziò nei mondi dell'infinito.... Ma la mia ragione fu quasi per vacillare, allora che da ignaro che io era della vera bellezza, mi vidi ad un tratto trasportato sì presso al Verbo, che i miei occhi abbarbagliati da tanto fiume di raggi male reggevano allo spettacolo nuovissimo che mi si schiudeva innanzi. Dante m'insegna a parlare la favella della mia nazione; Dante mi scopre i nemici di Dio e della patria; Dante mi narra con parole di fuoco le ire umane e le giustizie divine, e mi fa piangere con ineffabile dolcezza sui casi di Francesca, della Pia e della Piccarda; Dante è ad una Omero e Colombo, Raffaello e Rossini!

E mi condusse, fra altri parlari consimili, alla sua abitazione. Io pure aveva letto il poema del cantore immortale, ma l'ignoranza della storia dei tempi di mezzo annebbiandomi buona parte di quella stupenda narrazione, faceva sì che io non ne potessi assaporare i pregi più reconditi. Il poeta mi divinizzava: il filosofo m'atterriva.

Quando noi fummo nel suo studialo, egli diè mano ad un grosso zibaldone di carte, su parte delle quali era scritto storia, ed erano commenti [72] storici ai poema; su altre teologia, e chiarivano le astruserie di questa scienza in que' tempi; su altre arte, che parlavano dell'antiche e delle nascenti; lingua, e mostravano le origini latine e provenzali ed il successivo fondersi di buona parte dei vernacoli di tutta Italia, mirabili studi filologici che diceva base ad ogni sapere di filosofia; e su altri manoscritti altre denominazioni che non mi ricorda.

Quindi mostrommi sopra uno scaffale una ventina di edizioni della Divina Commedia commentata dai più rinomati bibliofili, e sopra lo scaffale un'erma del poeta, cinte le tempia da corona di lauro, e sotto l'erma, in lettere d'oro: Onorate l'altissimo poeta!

Così scorse quel giorno. La domane, accomiatandomi, con indefinibile slancio d'affetto, proruppe fra le mie braccia: Beppe, io sono felice!

Comprendete voi, o signore, quanto quella parola dovesse poi suonarmi amara? Felice! Se per essere felice non v'ha che un mezzo solo, dimenticare la terra, pascersi di larve, Bussolini lo era! In quell'istante, o per vago presentimento di sventura, o perchè conoscendo io l'ardenza del carattere dell'amico mio, temessi si lasciasse trasportare dall'entusiasmo oltre i limiti dello studio ragionato, risposi:

— Bussolini, guardati dalle passioni: se tu eccedi nella misura, il disinganno ti sarà atroce, forse mortale!

— Disingannarmi? E come se la mia passione è tutta pel vero, pel bello, per Dio! Ma a che più rimembro questa storia, o signore, a voi cui forse nulla cale dell'amico mio, di [73] me e di queste melanconie? Non v'è uggiosa questa rimembranza? No? Ebbene, quando farete ritorno a' vostri, raccontate ai giovani studiosi di gloria il doloroso racconto.

Parecchi anni lavorò Don Bussolini attorno ad un nuovo commento della Divina Commedia, di cui conosceva omai a menadito ogni fase, ogni allusione, e quando io ritornai a Mergozzo credetti debito d'amico l'eccitarlo a scendere nella lizza della repubblica letteraria, pubblicando l'opera sua. Io fidava che l'ansietà febbrile del successo, gli sdegni per la critica superficiale, la dolcezza della lode, gli eccitamenti a migliori forme, avrebbero di leggieri tratto a più vasta sfera l'ingegno inteso in troppo ristretta cerchia d'azione. La battaglia sarebbe stata la vita per Don Bussolini. S'egli si fosse animosamente gettato da giovinotto fra la turba che di letterarie ciancie assorda il mondo, in quel caos di sistemi e di idee e di parole senza idee, in quel tramestìo di genii e di volgo, le potenze sue intellettive sarebbero sfuggite a quel soverchio concentramento, che invece d'affinare il pensiero colla meditazione, lo svia spesso nell'esagerazione. Avrebbe incontrato l'indifferente sogghigno dell'ignoranza plebea che crolla le spalle alla favella che solleva il pensiero dalla materia a più confortevoli aure; avrebbe forse incontrato l'invidia; sarebbe caduto, e allora, morto il poeta, rinasceva all'altare il sacerdote. O avrebbe vinto o sarebbe stato una gloria di più all'Italia. Invece!!

A' miei eccitamenti rispose che da qualche tempo sentiva crescere nell'anima il bisogno d'espandersi.

[74]

Scrisse a diversi librai: risposero i tempi volgere sì nefasti alle lettere, il mondo curarsi sì poco dei libri, che se Dante istesso fosse rinato con un nuovo poema, assai difficilmente avrebbe trovato un editore... Per quanto dura, era verità. Il giornale ammazzò il libro. A chi legge libri poi gli oltremontani ammaniscono un quotidiano pasto di oscenità al massimo buon prezzo. Seppi che Don Bussolini, ignaro di ogni cosa di questo mondo e anzitutto delle miserie di chi vuole lottare contro all'indifferenza e l'avarizia speculativa di certi editori, restò talmente sopraffatto da questa inaspettata rivelazione di cose che non aveva trovato nei libri, che stette molti giorni come uomo trasognato.

So questi suoi affanni, e vengo a consolarlo. La veda, per ingegno io in paragone del mio amico era la formica presso l'elefante; ma io dalla prima gioventù aveva imparato assai sul gran libro della società umana io sono sempre stato uomo, e lui invece quando di poeta... Ma, Gesummaria, di questo anche troppo le dirò!

Trovai Don Bussolini chiuso in casa, mentre per l'innanzi egli soleva studiare passeggiando, perocchè lo spettacolo della natura, egli diceva, invece di distralo, armonizzava felicemente in lui collo studio. Allo stropiccìo dei miei piedi si volse, s'alzò in furia dal tavolo a cui stava tutto intento sopra un librone, e gettatemi le braccia al collo, avvinghiandosi affettuosamente alla mia persona, sclamò:

— Benedetto il mio Beppe! Tanto ti aspettava!

— Delusioni, non è vero, o Bussolini?

[75]

— No, non delusioni, ma una scoperta, che per me si è una vera America della mente. Siedi e ascoltami attentamente. Io non so se gli editori abbiano o no ragione: so però che io non ho acquistato un nome, per cui mi si debba aprire un varco nella ressa che assiepa il tempio della gloria! Ma ora il mio buon genio mi additò un mezzo portentoso, irrepugnabile, per cui il mio nome volerà ben oltre i confini della povera Mergozzo!

E mi spiegò come il poema dantesco contenesse in se stesso quasi un altro poema, quando si trovasse il modo di scoprire il senso recondito in ogni terzina capovolta, rifusa, senza però nulla togliere, od aggiungere delle parole, conservando così e numero e dizione: aggiungeva poi che ogni terzina era strettamente legata alla susseguente pel senso, cosa che ad evidenza dimostrava, che l'Alighieri aveva impresso ne' suoi canti questa doppia espressione, manifesta fattura del vate divino, e non frutto di un casuale gioco di parole. La Divina Commedia, contemplata da questa faccia, non era, al dire del Bussolini, creazione meno gigantesca per concezione e profondità di pensieri.....

Poco tempo dopo ricevo novelle dell'amico mio; sì grande per lui la necessità di trovare un essere che comprendesse il suo trovato, i suoi studi, che egli partiva per Milano. Ivi bussò alla porta di quanti avevano fama in capitolo.... mi scriveva:

— Beppe, è venuta l'ora da te profetizzata! A Milano non trovai che un'anima sola, la quale si sia commossa al mio racconto. Quest'anima benedicila con me; mi ha ascoltato senza ridere [76] della mia favella selvaggia; — sì, ho capito di non conoscere il gergo dei sapienti! — Quest'anima mi ha dette poche e confortevoli parole. È Manzoni.

Torino, Parigi, o signore, risero come Milano di Don Bussolini. I sapienti non hanno che il loro orgoglio invece d'un cuore; adunque?

A Londra, Rossetti, blandendo l'infelice strapazzato, lo fece di leggieri travedere Dante sotto la sua gotica lente.... Ahi! come il rividi! Dove l'occhio sfavillante e scrutatore? Dove la serena fronte? Dove l'amabile sorriso? La mente tentennava. Disperato delle voluttà dei mondi intellettuali, da cui lo aveva precipitato con sì amaro disinganno l'altrui glaciale indifferenza, l'infelice con reazione che gli costò senza dubbio orrende torture, si gettò nelle braccia della voluttà della materia.....

Alcune volte, imbandito il desco per sè e due incogniti, rinchiuso nel salotto, favellava con Dante e Beatrice, amaramente dolendosi di essere stato ingannato dagli uomini.....

Che più?

Rilegato per un anno nel convento d'Arona, quella mente, che forse avrebbe splendidamente sfolgorato in altra condizione, derisa, in odio a se stessa, vacilla, non è più!.....

Don Bussolini moriva poco dopo in Isvizzera, miserabile, senza conforto nè di patria nè di amici.

Signore, l'ingegno è adunque alcuna volta una maledizione?!

················

[77]

X. L'acqua, canto in prosa. — Se l'acqua del Verbano fosse vino. — L'arca di Noè e la nautica. — Le guide. — La capitale del lago. — Pallanza. — Laveno. — Ghifa. — Portovaltravaglia. — Luino.

Le onde non hanno forse un'anima?

Byron.

— Dove indirizziamo la prua?

— Dove ti pare; al largo. Quest'oggi desidero l'acqua, lo specchio del cielo. V'ha sulla terra cosa alcuna più bella dell'acqua? I fiori? Ecco, il vento solleva in minutissima polvere il maroso e distende al raggio del sole un vaghissimo iride contesto di rose, di garofani e di viole. Al fondo del mare i recessi delle ninfe stanno ornati di perle e conchiglie a tutt'i colori, dal languido della rosa al vivido del garofano, dall'azzurro dell'ortensia (ne ho visto delle azzurre), al candido del gelsomino.

V'ha forse cosa più necessaria dell'acqua? Sei ammalato? Acqua. Vuoi forza, elasticità muscolare? Acqua. E tu, come il globo, che sei? Per quattro quinti acqua. Chi fece la terra? L'acqua. Chi la nutre, la feconda, la sana? Che cosa è il vino? Acqua.

Altri cantò a lungo le piante, gli angioli, i fiori e l'asino: perchè non canterò io l'acqua, [78] questa madre della natura? La voluttà del correre su dorata quadriga e sollevare colle ruote corruscanti la polvere del corso più lieto di dame, può forse paragonarsi a quella del sorvolare con agile schifo sull'ali del vento le onde cristalline di un lago, d'un bel lago? Voga, voga, gondoliere: vedi come la brezza, scherzando, arriccia la mia capigliatura, come un'innamorata al suo caro? Che mi guardi dal cadere?... Lasciami specchiare in questo cristallo sì terso: forse scoprirò nel fondo qualche bella ondina amoreggiare fra i canneti con un silfo. Può mai la bella affidare le membra purissime a più soffice letto? Oh! come tranquilla la sorregge! Come l'onda increspata lambe amorosa e ricerca i tesori del seno ed avviticchia pudica il corpo candido colle treccie copiose!

Oh l'acqua! E i fisici poterono affermare, sacrileghi, che dessa non è un elemento, come credettero i nostri padri? Dove vi fermerete, o insolenti, colle vostre scoperte? L'acqua è il primo elemento: trovatemi un poema che di lei non parli.

Omero canta l'onda ch'egli sentì morire in un flebile lagno sui ciottoli delle sponde greche. Virgilio le bricconate d'Enea in faccia all'oceano, senza il quale come sarebbe egli fuggito alla passionata Didone? Come sarebbe venuto a fondare quella Roma che... ecc., ecc.? Senza l'acqua avrebbe potuto Dante fare il più tremendo augurio a Pisa? Ma lasciamo da parte Dante: questo poeta s'intende che è stato letto, chiosato, commentato da quanti sanno leggere... Dante. Per la stessa ragione omettiamo il Tasso, l'Ariosto e gli altri poeti italiani. Shakespeare, [79] obbedendo a questo irresistibile impulso dei poeti, trasportò la Boemia sulle sponde dell'oceano, forse per consolarla colle libere aure marine del paterno reggimento degli Absburgo. Byron ad ogni pagina canta la tempesta del mare e della mente: senza il mare egli non avrebbe attraversato a nuoto l'Ellesponto, e non avrebbe scritto le più belle pagine del Childe-Harold, e non avrebbe anzitutto avuta la soddisfazione di far annegare il suo maestro di scuola nel D. Giovanni.

L'acqua fa le vendette dei discepoli e dei popoli. Barbarossa annegava nel Cidno. La Beresina puniva il novello Cesare. Senza l'acqua, Mosè non avrebbe scampato dalle ugne di Faraone gli Ebrei, questa razza così degna d'ammirazione sotto l'aspetto politico, religioso, universitario ed artistico. Se questo è il più tremendo prodigio delle antiche scritture, delle nuove, dice un Intrese, il più notevole è senza dubbio quello delle nozze di Cana......

Senza l'acqua, senza il mare, Venezia non sarebbe giunta la prima al Cattaio, e Costantinopoli non si troverebbe in bocca al mare dei Russi. Senza il mare Colombo non avrebbe scoperta l'America — che non si chiamerebbe America; — senza il mare, che sarebbe la flotta inglese e la fama di Nelson? Che sarebbe stato di Gama, di Cadamosto, di Marco Polo, di Diaz, di Magellano, di Cabotto? — Certamente lord Franklin non sarebbe perito di fame e di freddo nei deserti polari.

Il mare è la sorgente delle immagini più sublimi dei poeti e Gian Paolo Richter, quel gran pensatore, come avrebbe potuto asserire, che [80] l'idea della vita avvenire è per l'uomo quale un punto nell'immensità dell'oceano allo stanco navigatore, se....

L'acqua (e con questa faccio punto) fornì al divino Petrarca l'immaginoso paragone:

«O felice colui, che trova il guado

«Da questo alpestro e rapido torrente

«Ch'ha nome vita, ch'a molti è sì a grado!

Ma tutto ciò è un nulla.

Laghisti del Verbano, che sarebbe del vostro bel paese, se i campi cilestrini del vostro lago non fossero cristalline onde acquose, ma spumanti fiotti..... di Barbèra?

Oh! da quanto tempo, o Verbano, tu saresti una conca asciutta come il palato dei tuoi intrepidi bevitori!

***

È fama, che gli antichi imitassero il cigno nella costruzione delle navi. Da due ore m'arrovello per iscoprire il prototipo delle barche verbanesi, e mio malgrado non trovo che il rospo. O gondole veneziane dalla chiglia tagliente, dal felze bruno, dalla prua addentellata, rimontate il Po ed il Ticino!

Sento ora esservi tradizione che l'arca di Noè siasi fermata sopra un alto monte del lago, sopra Intra — l'arca venne copiata; il lenzuolo che coperse le vergogne dell'inventore della vigna venne issato a cima di un coso che non è [81] più bastone e non è ancora albero; un palo lungo lungo a timone; ecco la nautica tradizionale del Verbano. La ripida discesa del Ticino spiega la mancanza di chiglia nei barconi che commerciano con Milano e Pavia; ma le veliere e le barchette che fanno il cabotaggio, malgrado i bei modelli introdotti dai villeggianti, sono sempre conformi all'arca di Noè.

***

Compagno, la sbagliate grossa, se credete che io vi vada tessendo una guida. A che una guida, quando il vostro sguardo è tratto soavemente senza ombra di sforzo al bello? Quando la natura si apre liberamente a voi dinanzi? Quale necessità di registrarne le varietà, quando l'armonia v'allaga di arcane dolcezze il cuore? A che una guida?

Nessuno si fida delle indicazioni date per gli alberghi o altro simile, perchè ciò che oggi è buono può essere pessimo domani. Quindi non tutti ignorano che gli scrittori di questa sorta di libri, qualche volta, per poche lire lodano, col dovuto rispetto alle discipline letterarie, il più furfante bettoliere, e d'una trabacca pidocchiosa fanno un castello.

Dopo queste premesse il lettore può pensare se la mia indole girovaga e selvaggia poteva acconciarsi, armonizzare con quelle ispide cifre statistiche! Di più, io sapeva troppo bene che per quanto mi fossi arrovellato per soddisfare i lettori, io non avrei secondato i loro capricci variabili secondo le ore della giornata. I lettori [82] laghisti variano di brama secondo il paese, la villeggiatura ed il giardino..... ed ogni tulipano vorrebbe un inno!

Ma se tu hai desiderio di conoscere più ordinatamente il paese, leggi la Guida di L. Boniforti. È l'unica che lessi senz'annoiarmi, anzi con piacere.

***

Non fu mai gloria senz'invidia!

Prov. Ital.

— Pallanza! Pallanza! Chi ha bagagli per Pallanza!

Io che da varii giorni vagava pel lago e non era ancora sceso alla sua capitale politica, vistomi sorridere amabilmente da tante pianticelle fiorite che mi stendevano amorose le braccia, tosto mi lasciai vincere, e dissi fra me: vada per Pallanza, e scesi dal piroscafo S. Gottardo.

— Oh! scusate.... già mi dimenticavo di salutare, prima d'andarmene, il capitano, persona squisitamente cortese.

Disceso a terra m'avviai a sinistra, ammirando case, palazzine e giardini, e così senz'avvedermene fui a Suna, la quale facendo lo gnorri va avvicinandosi a Pallanza, di modo che fra pochi anni Pallanza divorerà Suna o Suna mangierà Pallanza.... seppure — sempre nel futuro — mentre le due sorelle si confondono in un amplesso, non arriva dalle spalle Intra e ne fa un boccone. S'io fossi Intra o Suna — [83] perdonatemi la superba supposizione — io risparmierei Pallanza. L'essere proprio adagiata sull'estremo lembo della collina che dal Monte Rosso declina nel lago abbracciando a sinistra il golfo, proprio in faccia alle isole (quella di S. Giovanni non può risolversi a lasciare la sponda pallanzese), attorniata da vaghissimi giardini; l'essere risparmiata nell'inverno dalle staffilate che la tramontana sferra senza pietà sopra Arona, Intra, Luino e Cannobio; di più la torre antica de' Barbavara, e anzitutto la sua posizione centrale, dovrebbero farle perdonare di essere il capoluogo della provincia.

Così pensava io dondolandomi attorno ai giardini graziosi e coltissimi, che cerchiano la cittadina verso il promontorio di San Remigio, quando eccomi dinnanzi uno di quei tali, che i Toscani dicono sì incisivamente uomini-colla. Era di Feriolo, ed aveva stretto conoscenza con lui visitando le cave del granito. Vedermi, riconoscermi ed impadronirsi della mia persona fu un istante.

— Che ne dice di Pallanza?

— Molto bene, benchè finora i giardini e le palazzine alla nostrana ed alla svizzera m'abbiano distolto dall'entrare in paese.

— Eh! cosa vuol vedere in paese?

— Le case, le botteghe e chi vende e chi compra, le donne, e se ve ne sono i monumenti.

— L'ha visto quel povero vescovo di pietra nell'acqua, sul porto? Ecco i monumenti.

— Ho capito: Pallanza non è la sua passione. Eppure ho sentito che vi si trova spirito socievole più che altrove, e da quel po' di storia che ho scartabellato parmi che i Pallanzesi, [84] quantunque ora siano annegati nel nugolo dei forensi e degli amministratori politici, abbiano indole fieramente tenace d'amor patrio. Signor mio, dopo d'aver visto i giardini qui attorno, io non mi curo gran fatto di vedere le manifatture, se vi sono, le carceri che vi sono, ed i monumenti che non vi sono. Mi pare però cittadina appropriata a contenere la sede politica del governo del lago; tanto più che, seppure gli operai non lunediggiano, parmi che il commercio non ingombri soverchiamente le vie.

— Mi scusi, signore, ma la è in grande errore.

— Ciò è possibile. Nulla di più facile anche colla migliore volontà del mondo, che il dare giudizi poco retti, quando si viaggia. E dove vorrebbe stabilire questa capitale del lago?

— Senta. Arona ha già troppi intoppi. Ferrovie, telegrafi, poste, dogana, piroscafi e dieci altre confraternite governative. Di Belgirate non parliamo. Con tutti quei fiori, con tutte quelle fate ammaliatrici del bel mondo, Temi non avrebbe la testa a segno; Pallanza è troppo ilare; Intra è troppo chiassona; Cannobio troppo triste; Luino e Laveno....

— Ma dunque?

— Quale è il paese più serio del lago?

— Ho capito, dissi fra me ridendo, e poi a lui: la è dunque di Feriolo?

— O cosa c'è da ridere? Feriolo non è mica da meno.....

Per fortuna mia una gentile persona di Pallanza m'incontrava in quel punto, del resto chi sa dove si finiva.

Del resto se gl'Italiani credono una sola città potere essere la metropoli della nazione, Roma, [85] perchè, disse — a morale della favola — il Feriolese, i laghisti non possono optare per quella città che crederanno meglio atta a farne la sede del governo?!

***

Il piroscafo scorre, guizza sulle onde, e la scena varia ad ogni istante. Intra, la città del cotone e dell'allegria, salve! Verrò a te quando mi talenterà passare la serata fra la cricca solazzevole dei tuoi begli umori ed una dozzina di fiaschi. Verrò a te, e s'io corro adesso oltre le tue mura, pensa che la più lunga strada è la più prossima a casa. Tu mi dirai forse: chi ama non aspetta — ed io a te: chi aspettare puole, ha ciò che vuole. Intanto che tu mediti queste scappatoie, si maturano le mie nespole.

Laveno, un nido tranquillo a fior d'acqua, in fondo ad un golfo verdeggiante, appiedi delle montagne più singolari della costa sinistra del lago — lo zingaro non può dimenticare la bella abitatrice dalle stupende chiome.... senza che io te ne profferisca il nome, m'intendi; parlo di quella gentile il cui sorriso basta a diradare le nubi dalla tua fronte,..... non vo' dir altro — già alla sua presenza il mio labbro non balbettò che le solite nullaggini, ed ella deve avermi in conto d'un ciuco senza basto.

Portovaltravaglia..... non ho scarpe tali da potermi arrampicare e dinoccolare per le ciottolaie dei tuoi monti senza pericolo che dopo un'ora di prova facciano le boccacce.

Ghifa — voghiamo oltre; i signori della villa Morigia non pensano a farmene dono.

[86]

Oggebbio — troppo arrampicare troppo scendere.

Luino, graziosissima Luino dai declivi ombrosi! Da Maccagno che se ne sta rincantucciato in seno solitario e queto — Maccagno deve essere stata costrutta da qualche filosofo stoico — alla torre fantastica dell'Agnelli sulla punta di Germignaga, le curve dei tuoi colli sono fra le più vaghe e le più arborate; sicchè dopo la pittoresca Angera, Laveno, e Luino, chi dice tutta la sponda sinistra uggiosa e deserta, mente per la gola con certe guide scritte da chi passò — forse — una volta sul lago...... colla nebbia.

XI. Cannero ed Ettore Fieramosca.

Il seno di Cannero v'invita colla pacatezza dell'onde e colla benigna temperanza dell'aure e col riso della sua primavera precoce; l'albergo dei Tre Re spalanca le porte per accogliervi, se non colla splendidezza dei monarchi orientali, colla spontanea cordialità d'un ospite un po' alla carlona, ma che vi regala — a buon mercato — a mense frugali di quel certo rubino che mette in vena, e che vi farà travedere nell'orizzonte la stella dell'insegna. Ma facciamo punto, chè altrimenti qualche maligno potrebbe sospettare che messer l'oste abbia comprato con uno scotto la lode dello zingaro il quale finora non è in debito con quel galantuomo, [87] e lascia gli annunzi alla quarta pagina delle gazzette. Anche i terrazzi co' limoneti m'invitano a passeggiare fra le loro ombre profumate, ma la villa del

«. . . Cavalier che Italia tutta onora»

mi rapisce al caro villaggio.

La villa di Massimo d'Azeglio non ha nulla di monumentale, nulla di peregrino all'infuori della posizione: costrutta sopra uno scoglio che si protende nelle linfe lacustri, n'è bagnata da tre parti; dalla quarta guarda le ripide chine del monte boscato che sta a ridosso della riva cannerese. Da questa ha dinanzi il basso del lago fin oltre Laveno; da quella vede in primo aspetto i colli di Luino e di Germignaga, e, dietro, suffusi dal cilestrino dell'aria, i monti del Luganese; verso Cannero ne ha in vista le case, i vigneti, e nell'acqua i romantici castelli percossi dall'onda — più in là, oltre lago, la fronzute spalle delle erte dell'Alto-Maccagno, su cui fra cielo e terra biancheggiano boscherecci villaggi.

All'intorno sulla spiaggia non case, nè orti; alberi, castagneti — il sito non poteva scegliersi più rimoto. La palazzina disegnava la stessa mano che coloriva a sì vivi tocchi l'Ettore Fieramosca, e se dessa non va distinta come opera d'arte, nulla manca in essa per rendere meglio agiata e confortevole la dimora. Il capace terrazzo a picco sul lago, innanzi alla Casina, orlato di fiorite pianticelle, con quelle vedute, è la cosa meglio acconcia per l'abile paesista e descrittore che, nella meditazione della natura, [88] studia per l'arte i mutabili toni dell'orizzonte e delle spiagge, i contrasti e le armonie. La temperie del clima, la bellezza e la tranquillità del sito, i piaceri del lago e la solitudine che richiama al pensiero le tante memorie di chi è ad una poeta, pittore, uomo di stato e soldato, lo chiamano sovente a far dimora nel suo eremo.

Il rimproccio che tutti fanno a Massimo d'Azeglio ed al suo maestro Manzoni è di essersi arrestato troppo presto in quell'arringo ove colsero sì gloriosi allori — ed hanno ragione. (Qui, a vero dire, non si sa bene se lo zingaro abbia inteso dire che i due scrittori avessero ragione, od i primi; io, nella mia qualità d'editore, senza cantartene i perchè, do ragione agli ammiratori).

La brina dell'età non ha smorzato il brio vivacissimo di chi seppe fondere le pagine dell'Ettore ed il racconto del sacco di Roma nel Nicolò de' Lapi; chi non ha letto con vero solluchero i troppo pochi frammenti delle Memorie degli anni giovanili, scorsi girovagando in Italia fra lo studio degli uomini e delle cose?

Giusti, il suo caro amico, lo sollecitava con amorevole insistenza alla pubblicazione di tre altri lavori a cui aveva posto mano, Corso Donati, L'Assedio di Siena e La Lega Lombarda. Che il desiderio del grande Toscano non debba essere più soddisfatto?

[89]

XII. Scoperta del Ticino in Italia — Locarno e Magadino — Diversità di sistema metrico — Il Re Gambrino in Italia.

I Ticinesi, malgrado gli Svizzeri oltremontani, sono Italiani. Della Svizzera non hanno che le leggi. Cielo, clima, favella, istoria più ancora che la stessa giacitura del paese li fanno Italiani. Essi sono liberi, ma il giorno in cui tutta l'Italia sarà libera, essi non si chiameranno più Svizzeri. Allora si accorgeranno che i loro altissimi monti li invitano a scendere nella valle del Po, non a valicarli per discendere fra mezzo ad altre razze, ad altre idee.

I Ticinesi non mangiano che pane italiano e respirano aure italiane. Dippiù, chi direbbe Vela uno Svizzero piuttosto che un compaesano di Canova? I Ticinesi non dicono d'essere Italiani più che Svizzeri, non lo dicono mai: ma ad ogni ora lo provano. Il Ticino non diede i congiurati del Grütli, nè gli eroi di Grandson e di Morat, alla Svizzera, ma diede all'Italia soldati ed artisti famosi. I Ticinesi sono Svizzeri nelle sale del loro governo; ritornati al sole, sono Italiani. Se i Ticinesi non fossero liberi, sarebbero ora con noi. Essi sentono tutto il pregio inestimabile della loro libertà, ed ogni volta che l'Italiano combattè per la sua propria si vide al fianco un Ticinese.

Finchè l'Italia non è libera, il Ticino è svizzero [90] per accogliere nelle sue braccia i nostri profughi.

Il golfo elvetico ha sembianze severe. I monti altissimi sfiancati, a gran tratto nudi, scheggiati, proiettano ombre rotte sul paesaggio. Ma Locarno è in uno dei più deliziosi siti del lago, come ne è una delle più belle cittadine.

La passeggiata al Santuario della Madonna, lassù è piena di belle viste. Peccato che da Locarno si vede poco lago.

Magadino, il villaggio del lago forse più conosciuto in Europa dopo Arona, è forse il meno degno di esserlo per tutto che non è commercio. Dieci case, in cui nove depositi di merci, otto venditori di tabacco, sette caffè, sei spedizionieri, cinque alberghi, quattro pubblici funzionarii, tre uffici, due bigliardi, e dappertutto un odor di formaggio che assassina.

A Magadino capitò un giorno, in una sdruscita barcaccia, di cui pagò il nolo cantando una deliziosa barcaruola, la Poesia. Un soldato, che stava all'approdo, veggendo quella figura divinamente strapazzata, tenendola per qualche affare di contrabbando, la condusse nanti il giudice del distretto. Siccome la poverina parlava un linguaggio inintelligibile per le orecchie burocratiche, questi mandò per un mercante che conosceva varie lingue. Il nuovo arrivato le chiese qual mestiere esercitasse.

— Tesso con fiori la trama della vita umana.

— Che diavolo di stoffa è questa! sclamò il mercante passando colla mente in rassegna le tele dell'Olanda, i pizzi del Belgio, e le mussole della Svizzera. Diede di mano ad un metro, che stava presso al banco del giudice, e mostrandolo [91] alla poverina, le chiese se avesse inteso favellare di quella misura.

Smarrita da tanta sconoscenza, ella, che pure aveva cantato tante glorie e consolato tanti dolori, fuggì ratta, e da quel dì più non si vide attorno.....

Malgrado il continuo va e vieni di piroscafi, di barche, di vetture, di carri, di bestemmie e di pugni fra vetturali e facchini, noi passammo una deliziosa serata all'albergo del Belvedere, ammirando dal balcone esteriore della casa il bel golfo ticinese riflettere gli ultimi chiarori del sole che tramontava incendiando le nubi che coronavano le vette della Valticino, mentre il maître d'hôtel ne raccontava le avventure dei suoi viaggi.

***

Sulla bella via che tende da Locarno a Bellinzona v'ha una graziosa casetta, che si pavoneggia in mezzo ad un giardino senza fiori. La domenica v'è un chiasso da non dirsi di strilli musicali, di danzatori che s'avvolgono in un turbine polveroso, di battimani degli assistenti, in mezzo ad un va e vieni di ciotole di birra; che quella è una birreria, la più bella, la più frequentata di Locarno. Una brigatella di suonatori, ignoro se di mestiere — non posso dire dell'arte — o dilettanti, — nel caso sono pur discreti a dilettarsi con sì poco! — soffiava a tutto polmone negli strumenti più o meno assordanti, inaffiando di quando in quando la gola riarsa con un sorso di spumante birra. I danzatori — i maschi stavano alle femmine in [92] ragione del cento per uno — mescevano di quando in quando birra alle danzatrici, mentre i curiosi in giro e gli altri avventori ai tavoli in giardino, sullo steccato dinnanzi alla casina, gridavano battendo colle ciotole vuote: birra, birra! Io chiusi gli occhi — e, meno l'assenza dell'armonia nei chiasso strumentale — mi pensai di essere in Germania con un schop in mano e l'inevitabile pipa in bocca.

E mi parve di sentire attorno la lingua di Klopstok raccontare la curiosa leggenda di Gambrino, il quale, come Noè il vino, scopriva la birra, e meritavasi così di essere raffigurato tra Schiller e Goethe su tutte le ciotole delle birrerie tenere della gloria alemanna. Vispe e procaci ragazze correvano attorno servendo lo amarognolo liquore, e ritraendone il prezzo e per giunta lo scoccare d'una interrogazione galante o d'un bacio sulle umide mani; una sottile nebbia piena di visioni cominciava ad avvolgere coi veli incerti la sala..... Quell'avventore pensieroso era senza dubbio Fausto. — Quell'altro dalle unghie lunghe e la barba da caprone, se non spirasse la fatua gloria di un damerino provinciale, sarebbe senza fallo Mefistofele — quel tale che parla sì forte di patria e di forche pei tiranni è forse l'ombra di qualche Niebelungo in sessantaquattresimo — là una zingara che studia su fatidiche carte la vostra sorte — qui una canzone di Körner, più in là dal crocchio di studenti una lezione eretica di Strauss.....

Io era ingolfato in piena Germania, e stava per essere anch'io della partita, quando un vicino importuno sclamò:

[93]

— Io vi ripeto, che per un bicchiere di vino delle Fracce do tutta la birra e la birreria, colla musica per soprappiù. Che volete? sono Italiano!

XIII. La malinconia a Cannobio — Non tutti i cattivi principii hanno cattiva fine — All'indiscreto lettore.

L'aria è soffocante: non un alito di venticello sfiora il lago; ma Cannobio che all'aspetto esteriore presi per la patria della melanconia, è dimora d'una costante brezza, che tutto mi fa fremere deliziosamente. È il più fresco villaggio di tutto il lago, come ne è forse il più freddo nell'inverno.

Cannobio ha un aspetto originale. Adagiato in riva al lago fra una gola di erti monti boscati, presenta una serie di case variatissima. A destra verso la Cannobina, torrentaccio insolente, dieci o dodici antichissime case di pietra, la maggior parte delle quali in semirovina con finestre sfondate, usci disarpionati, tetti cadenti, mentre la spiaggia è popolata di lavandaie e di pescatori. Queste rozze topaie sono divise dal resto da una bella chiesuola, in cui — senza parlare di Bramante che la disegnava, nè del ricco pavimento a scacchiere di marmo — s'ammira una bella tela del Rafaello delle montagne, Ferrari Gaudenzio, rappresentante la discesa dalla Croce. Questo tempio sormontato [94] da una cupola attorniata da colonnette a portico in giro è rivolto verso l'interno del paese.

Dal tempio, che così visto dal lago non è meno bizzarro del resto, corre una fila di case, l'una dall'altra diversa, innanzi a cui s'innalzano antichi platani, che ombreggiano un tratto di terreno irregolare senza spiaggia, ma orlato al lago d'un muricciuolo su cui siedono e si appoggiano al rezzo delle piante foltissime ragazzi e fanciulle ed i faniente del paese. Di queste case una presso la chiesa ha la figura di una casa lombarda del XVI secolo: varie iscrizioni in marmo dormono sul muro grigiastro fatto più scuro dal contrasto dei muri vicini a colori vivi, qua e là un po' scoloriti dalla pioggia, come quelli delle villeggiature della Liguria. Quell'altra ha le inferriate gibbose alle finestre ed i balconi e le persiane e le tende delle case spagnuole. Poi nella ressa che fanno, stringendosi una addosso all'altra, per stare a vista del lago, un altro gruppo di case a portici, a piani sporgenti, slavate, scornicciate dal vento e dal tempo. Ecco Cannobio dal lago. Entrate, se è possibile, girando lungo la Cannobina dalla parte opposta, non lo riconoscerete. Un'ampia, lunga e pulita via adorna di belle abitazioni, una piazza con un bel tempio vi fanno affatto ricredere che il borgo sia un ammasso di trabacche annerite e spiombate come da buon tratto della sponda.

Si direbbe che l'egoistico amore d'una tranquillità assoluta abbia vestito così tristamente la fisionomia esteriore della borgata per tener lungi ogni contatto straniero. Il laghista è generoso, ma poco socievole.

[95]

***

Passai varii giorni al rezzo dei platani di Cannobio. Tramontato il sole, in gondola. La sera vogava attorno alla rupe profonda di Pino, grazioso paesello sopra un erto promontorio vestito di castagni e che si pavoneggia mirandosi addoppiato dall'onda.

Ritorniamo ad Intra; cerchiamo un barcaiuolo. Una ventina stanno alla spiaggia, parte racconciando attrezzi di pesca, parte dormendo distesi lungo il muricciuolo all'ombra dei castagni. Questo giovane tarchiato dallo sguardo insolente e col frusto di sigaro fra i denti, mi garba assai. Questo vecchio con quella nidiata di ragazzacci attorno è un vero tipo di quegli apostoli che il vigoroso pennello di Tintoretto scolpiva sulla tela a Venezia.

Mentre io me ne stava guardando l'animato quadro, che mi si spiegava dinnanzi, apparì non so di dove una bella creatura, diciottenne, bionda come un'Inglese e tutta spilloni d'argento alla nuca, come la Lucia dei Promessi Sposi. Ella venne presso uno schifo legato a terra e vi depose un paniere. Quella testa era stupenda; non era un profilo greco e qualunque pittore l'avrebbe plasmato qual era. Sulla sua fronte non si leggeva un pensiero che non fosse di gioia; il sole le aveva indarno abbronzato il viso, mentre il collo appariva, sotto il fazzoletto rosso, di rara bianchezza..... Non parliamo di grazia del suo collo piegato a leggera curva più grassoccio che magro. Il petto ricolmo [96] palpitava sotto una vestina, che aperta mostrava una bianca camicia raccolta a sottili pieghe. Due scarpe quadrate malfoggiate tradivano un piede snello, irrequieto.

Saltò nella barca con agilità e mi sorrise. Che faccia la barcaruola? Perchè no? Ne ho viste tante ad Intra! E colla maggior grazia del mondo:

— Vorreste, bella ragazza, noleggiarmi la vostra barca?

Smorbion! Mi rispose seccamente, mentre quel certo vecchio del Tintoretto senza nemmeno toccarsi il cappellaccio di paglia con un piglio tra l'arrogante e l'offeso mi si era piantato dinnanzi, tra me e la forosetta.

— Cosa vuole da quella ragazza?

— Ve lo dirò, quando mi avrete spiegata quella parola smorbion.....

— Quella parola vuol dir insolente, petulante, cattivo soggetto.

Davvero che quel vecchio animandosi, imporporandosi, mi diventava sempre più interessante; il petto velloso scoperto, gli occhi ancora raggianti di forza, i lineamenti improntati dalle tramontane, m'impedivano affatto di irritarmi.

È inutile dire, che dopo poche parole il vecchio era tranquillo sulle proposizioni da me fatte a quella tosa, e che il cerchio ragunatosi d'allocchi desiderosi di essere spettatori d'una scena di pugilato, rimase con tanto di bocca quando mi vide saltare col vecchio nella barca, ove già stava la bella Peppina.

La Peppina se ne andava a Maccagno: perchè non v'andrò io pure? Una mezz'ora con lei [97] merita una visita a Maccagno. Nella gondola entrambi seduti a poppa, ella non era più così sospettosamente selvaggia. Non vi parlerò nè delle sue belle treccie, nè delle sue scarpe troppo grandi, non del corallo delle labbra, nè degli occhi azzurri come il lago, nè delle sue calzette bianche di bucato. Ma perchè non dirò che un eroe avrebbe desiderato di riposare il capo su quel petto palpitante di vita e d'amore? Nel paniere erano frutta: ne mangiammo assieme; scendemmo a Maccagno, salimmo una lunga erta boscata ed ombrosa in cima alla quale un piccolo villaggio.

Passai qualche giorno a Maccagno fra la pipa, i disegni, i racconti, che la cara forosetta mi narrava sulle sponde dell'ameno Delio, percorrendo i boschi, e..... Che cosa è questo ammiccare degli occhi, garbato lettore?

— Finisci adunque la frase.

— Nossignore. Merita forse che io le faccia vedere i bei granchi a secco che la piglia, quando vuol dar retta alle mormorazioni della più volgare malizia? Se non capisce lo scopo dei miei racconti, peggio.....

— Ho capito. Vorresti darmi ad intendere, che la laghista, popolana, è tanto amabile e generosa, stretta conoscenza, quanto è ritrosa e selvaggia, a primo incontro.

— In verità, che se non fosse mio lettore le direi, in confidenza, che l'è un pesca granciporri... La laghista sotto ogni aspetto è più cara del laghista. Il sorriso del cielo e del paese le persuadono l'amore. Ma teme l'amore e lo sfugge volentieri... Innamorata è la donna — a quanto mi si disse — più generosa del [98] mondo. Quante volte le grazie femminili temperano la volgarità maschile, qui come dapertutto! Le aggiungerò, signor lettore, che se i laghisti non fossero gelosi come tutti gli altri italiani, io vorrei intonare un inno, a grande orchestra, alle gentili abitatrici delle sponde verbanesi.... Torniamo dunque in buona pace alla Peppina. Se m'avesse risposto a Cannobio:

— Signore, questa barca non m'appartiene; io non avrei passato una settimana lassù. Dopo questa, la bella Peppina partiva per Milano lasciandomi a ricordo una folla di pazze leggende, con cui aveva popolato i castelli di Cannero e i boschi di Maccagno.

Che andava a fare a Milano? A cangiare di scarpe, mi rispose sorridendo. Ad ogni modo la fortuna ti sia propizia!

***

— Compagno mio, voi mi tenete il broncio, e mi pare di non avervene data cagione. Vi compatisco: il pensiero corre qualche volta laggiù fra le mura della vostra città... Voi non mi rispondete? Mi guardate sospettoso... Sotto il saio sgualcito, fantastico dello zingaro, Dio sa chi potrebbe nascondersi, n'è vero? L'abito abbottonato, una mano sulla tasca, un'educata smorfia di noia sulle labbra... La cera ed il silenzio parlano qualche volta con rara eloquenza. Chi sa quanti sotto queste spoglie non avrebbero sospettato un giornalista ricco di speranze e d'appetito in cerca d'associati; un aspirante al Parlamento in giro pel circondario [99] promettendo il ritorno dell'età dell'oro; un commesso di libraio che pretende colla minaccia, o la borsa o la vita, una firma per un'opera mai più vista, a cui posero mano cielo e terra!

— Zingaro, mi pare che voi m'abbiate promesso di guidarmi dal Verbano alla Svizzera per l'Ossola e la cosa va alle calende greche. Sono oramai stanco di asolare. Alla fin fine che m'avete voi fatto vedere? Invero io m'aspettava.....

— Una lanterna magica o un cicerone di piazza?

Se desiderate vedute compratevi delle fotografie. Vorreste forse sapere il nome di tutto ciò che sfila dinanzi agli occhi? Vorrei potervi dire il nome dei signori di questa e di quella villeggiatura; ma per mia disgrazia non oso ficcare il naso oltre il cancello del giardino per aspirare ad aperte narici l'olezzo dei miei carissimi fiori..... Se in quell'istante capita il portinaio, arrossisco come un ladro, tanto più che è difficile che m'inviti ad entrare. Cogli zingari, si è già troppo cortesi quando si lasciano traguardare da un'inferriata. Pensate, se mi capita un grazioso signore, se io con questa maledetta indole oserei dirgli:

— Servitor suo, io sono uno zingaro, ma di quelli che rubano solamente cogli occhi e col naso... mi permetta... scombicchero un libro... farò cenno e lode di lei... Scusi... per mia regola... a che ora pranza? Non voglio disturbarla... — Metterei la mia rispettabile schiena a rischio di farsi gramolare.

Con questo sistema, scrivendo difilato di tutto [100] e di tutti, io, sapendolo fare, avrei scritto un librone in-folio, ed il lettore non l'avrebbe comperato per non saperlo ficcare in tasca. È vero, salto di palo in frasca; ma v'assicuro che ciò è unicamente per darvi agio a respirare. Insomma ditemi il vostro piato.

— Voglio dirvi che voi non mi avete ancor dipinto qualche singolarità in mezzo ad una natura pur singolare per varia bellezza.

— Giuggiole! E dove la prendo io?

— Lo scultore del fango forma una Venere, e voi mi fate viaggiare in lungo e in largo il lago........

— Annoiandovi?

— L'avete detto. Voi non mi parlate che degli alberi, delle montagne e delle onde. Pare che il lago non sia abitato.

— Ma e Manzoni e Massimo d'Azeglio?

— Eh! Si conosceva come gente di casa, quando voi senza fallo eravate ancora cullato dalla balia colla cantilena del ninna nanna.

— Che volete? Conversare dei morti non mi talenta, e dei vivi, quand'anche potessi loro conferire l'immortalità, non ne ho punto voglia. Se alcuno non trova il suo tornaconto, se la pigli col lettore indiscreto. I nomi maiuscoli di quelli che fanno parlare di sè in Italia, è inutile che io li ricanti. Parlare di sconosciuti è cosa poco allettevole per voi e pericolosa per me, chè nella lode non avrei sempre la sanzione dei conterranei del genio incompreso.

Tutto il lago possiede uomini d'ingegno vivace, senza farne però gran caso: tutti i libri di laghisti pubblicatisi vi ebbero pressochè nessun esito. Non avete mai veduto in un frutteto [101] un albero chiomato di fronde rigogliose di fiori e di frutta lasciarsi involare dal vento i più odorosi e le più saporite? Il laghista non legge.

La popolazione industre, laboriosa ama il litro più del libro... Chi oserebbe rimprocciarnela? Lo stesso lord Byron direbbe che hanno ragione.

XIV. La tempesta sul lago. — Quando non si fanno cerimonie.

È cosa curiosa l'amore della vita!

Un beccaio.

Un'immensa nube nericcia s'addensava sui monti che rinserrano il lago al nord; il lampo di quando in quando guizzando in quell'oscuro vôlto rischiarava un istante i profili rotti delle montagne. L'aria soffocante, un'afa di prigione senza uno spiraglio, nessun tuono ancora.

Verso le supreme cime dell'Ossola le nevi rischiarate dal tramonto, contrastavano coll'orizzonte come luccicanti armature mal celate sotto la bruna cappa d'un antico cavaliere.

Il Mergozzolo, che d'ordinario soffia un alito di frescura sul golfo delle isole, pareva addormentato sui morbidi cuscini della sua verzura. Ma in fondo del lago, dalla pianura lombarda, sorgeva una straordinaria cortina di nubi rossiccie, sanguinose, che toccavano il cielo. Ad [102] un istante, mentre i laghisti mirano le barchette, che s'involano con rapido alternar di remi dal mezzo della tremula pianura, un rombo lontano, crescente, incessante annunziò la tempesta colle sue artiglierie.

Il vento inferiore o inverna, si scatenò subitamente sul lago, che si coprì tosto di spuma leggera, di piccole onde e in meno che il dico di grandi cavalloni, i quali emulando i marini venivano ad abbattersi sulla ciottolaia della spiaggia con un lungo stridìo.

Sulla strada che orla il lago il turbine avvolgeva la polvere in altissimi spirali, in cui tratto tratto sparivano le vetture, le persone, gli animali fuggenti qua e là. A riva, le lavandaie malgrado il loro affaccendarsi a raccogliere i panni sciorinati, a gettar sassi su quelli che erano stesi a terra, videro una miriade di lini variopinti preda del vento svolazzare sulla strada, sulle case, sul lago. L'aria era tutta polvere, fiori divelti, foglie, profumi, cappelli di paglia, non senza qualche ombrello vagante a grado del turbine, divelto Dio sa da quali manine!

Alla calma era successa di repente la più disordinata agitazione; era un correre generale, aria, gambe, remi. Lo sbattere delle persiane e delle invetriate che andavano in frantumi precorse d'un istante un lampo vivissimo ed un rumoroso tuono, che fu per la tempesta come nella battaglia il primo fuoco dei bersaglieri avamposti.

L'uragano è precipitato; la schiuma dei fiotti vola a larghe falde nell'aria per ricadere sopra la nostra gondola in finissima pioggia. Col vento [103] in poppa, con mezza vela in asta l'invernone ne cacciò in poco d'ora dalle coste amenissime d'Intra fin presso Cannero. Allo svolto del monte, che si protende sul lago tra Cannero e Cannobio sotto al sasso Carmeno, il lago cambiò fisionomia. Un violento aquilone si abbatteva dalle gole del S. Gottardo sul lago. Una terribile lotta s'impegnò tra la tramontana e l'invernone. Le onde risospinte, mozzate, sbattute non avevano più direzione. Il lago era tutto bollente d'ira e di schiuma, mentre il cielo era tutto fuoco, ed i monti echeggiavano sordamente alle incessanti scariche dell'elettricità. Di quel lago sì variamente bello di monti e colline verdissime, d'onde azzurre del sereno del cielo nulla più appariva.

Il vento sibilava sinistramente nelle pinete; le strade deserte dalla popolazione chiassona; le onde emulanti il furore del mare, mentre la grandine ed una pioggia a rovesci formavano una fitta cortina, fra cui apparivano in lontananza i paeselli a riva, a mezza costa, le isole in mezzo ad una tinta grigiastra. Dappertutto la forza, la maestà del temporale: la grazia era scomparsa.

Il gondoliere abbassò ad un tratto la vela e fu in tempo. Le onde mentre alzavano alta la prua si gettavano da poppa sulla gondola. In quel tramestio il vento ne cacciò — i volti impallidirono — fra le torri dei castelli di Cannero, mura liscie, nere, senza porte, a picco nel lago da cui sorgono.

Il loro aspetto tra il castello feudale, la prigione ed il covo di pirati è sinistro. Quando questi solitarii avanzi del delitto guardano dalle [104] oscure occhiaie la ripa vicina, le piante rabbrividiscono. Più d'una divenne paralitica.

Il vento entrando nella fessura dei muri, dalle finestruole, dalle fuciliere strideva orribilmente. Al barcaiuolo omai sfinito parve di sentire in quelle abbandonate stanze risa di scherno, che gli diacciarono le ossa.

Mi assicurò che erano le ombre dei cinque fratelli pirati già re di quello scoglio. Per nostra fortuna l'aquilone in quel momento abbatteva il suo rivale: dietro al castello verso Cannero potemmo gettarci sopra una piccola spiaggia in faccia all'isolata torre della Malpaga. La barca tratta da quella furia di vento girò sopra se stessa rapidamente, passò innanzi alla torre, quando un'onda la sollevò in alto per stritolarla un momento dopo sulla scogliera. La notte era discesa cupa, oscurissima: in quella tenebrìa non si sarebbe potuto scorgere anima viva!

Il barcaiuolo, tremante, accennava al chiarore dei lampi una frotta di spazzacamini già naufragati poco lungi presso Cannobio, che diguazzando cercavano colla rabbia della disperazione di salvarsi sopra i frantumi della barca. Quei volti gonfi, dai capelli verdastri, erano orribili. La caliginosa tinta lottava invano colla pallidezza cadaverica: gli occhi roteavano con sguardi di desiderio, di terrore nell'agonia. Un piccolo ragazzo fra i naufraghi era giunto ad impadronirsi d'un remo. Suo padre gli chiedeva aiuto, una mano per salvarsi. Il ragazzo attese che il padre fosse vicino, e con un colpo della rastia gli fracassò le cervella. L'annegato calò a fondo e ritornò a galla presso il figlio: [105] afferratolo pei piedi lo sbalzò dal remo. Ogni frusto della barca era l'oggetto d'una lotta. Avviluppato nella vela, legato, soffocava il vecchio arruolatore di quei neri operai, invano chiedendo aiuto: una dozzina di ragazzi stringeva colle braccia convulse il corpo galleggiante di chi li nutriva.........

Intanto presso Pino appiedi a quel crocifisso, che stende invano le braccia ai naviganti, succedeva una scena poco dissimile. Uno schifo, su cui due fidanzati, urtava in quella roccia e tutto spariva.... In quella notte l'annegata veggendo il suo caro dormire fra l'alghe in fondo al lago, leggiera si spiccò alla superficie e dopo mille tentativi inutili, colle mani sanguinose potè appigliarsi ad uno sterpo, che sorgeva in una fessura della roccia.

Lo sterpo è sufficientemente robusto: ancora un istante e la bella è salva, quando ad un tratto il suo corpo è strettamente avviticchiato. Prega la misera, prega, supplica, assicura, giura che lo farà salvo fra un istante: ma tutto è vano.

Ella sente smarrirsi le forze, sdrucciolare sull'ammuffata roccia, lo sterpo sbarbicarsi per il soverchio peso..... la brutta morte s'appressa nuovamente inevitabile.

Allora un pensiero d'inferno balena alla sua mente..... quella mano, che ha fra le dita l'anello nuziale, abbranca ratta un'affilata pietra... Il fidanzato non è più, ma il suo corpo non si è staccato dal funereo amplesso: le braccia, il petto non sono più animati, il volto pallente, la lotta è cessata, ma il nemico resta e implacabile, spaventoso. Ogni sforzo della bella è inutile, [106] lo sterpo si sradica sempre più, ed ella si sente tirare al fondo dell'abisso fra le sue bestemmie all'amante, fra le convulsioni degli sforzi per guadagnare la vita.

Mi svegliai madido di freddo sudore ad una bella aurora, che su tutto il lago spargeva fiori e perle, dopo queste orrende visioni dell'amore della vita, che mi richiamavano ancora confuse le parole a doppio senso del barcaiuolo a me che lo interrogava nella tempesta, se m'avrebbe condotto a riva a nuoto:

— Eh! in queste occasioni non si fanno cerimonie!

XV. Treffiume o Trafiume — Dammi amore e ti do un mondo.

Un bel mattino, di Cannobio m'avviai verso Trafiume di buon passo. L'aria frizzante della valle Cannobina, in cui io m'innoltrava, raffrescandomi tutta la persona, faceva sì ch'io corressi per quella stradicciuola come se avessi le ali ai piedi. Io non correva punto a deliberata meta; correva perchè.... correva!

Chi potrebbe tentare l'enumerazione di tutti i moti dei quali non è ben nota la causa efficiente? Un giorno berresti un fiasco di lacrimacristi, al domani ti spinge una vera necessità di seppellirti lungo e disteso nelle lamentazioni di Young. Quel dì io avrei piuttosto bevuto alla vostra salute un sorso di lacrimacristi [107] e lasciato ad altri il piagnone inglese. Come pensare a tante melanconie quando il cielo è sorridente, fresca l'aura, più verdi le piante, più garrule le rondini, e lo stesso torrente ha voce più armonica? La valle Cannobina triste per avarizia di natura era meno uggiosa. Con queste divagazioni mentre sto per passare sopra un antico ponte, eccomi là in fondo tra i castagneti Trafiume.

Perchè Trafiume s'egli non è a mezzo le acque? Dove sono gli archivii del comune? Le antiche pergamene? Il biricchino a cui io moveva queste domande per appagare il mio onestissimo desiderio di condire al lettore la passeggiata con un cicino di storia secondo i buoni costumi della buona letteratura... Dove mi trovo? Ecco cosa mi tocca con questo benedetto divagare e saltare di palo in frasca! Ah! Eccomi sulle rotaie. Il monello andava a scuola a Cannobio, ove studiava nientemeno che la storia, l'aritmetica, la geografia e la lingua italiana, ed a prova palpabile degli studii portava accollato al dosso un certo zibaldone di libri, o cartellone che vogliate, di tale mole, che il puer sudavit et alsit non fu mai appiccicato sì a dovere. Quel professore in erba mi disse adunque che il villaggio in discorso era Treffiume.

— Caspita! Tre fiumi? Dove sono questi fiumi? Il monello mi guardò estatico, poi di trotto che il fastello dei libri gli saltellava sul dosso, partì in mezzo ad un nugolo di polvere, piantandomi sul ponte a fare conversazione con una antica statua di pietra.

Disperato di non trovare la sospirata etimologia, mi avanzo oltre il paesello nella vallea [108] pensando se non mi sarebbe dato di essere il Colombo dei tre fiumi di Treffiume.

Oh! eccomi chiusa la via: il torrente s'allaga nell'uscire da un oscuro e cavernoso canale fra due roccie ertissime congiunte lassù da un ponte, che da un tempietto valica l'orrida forra.

Una provvidenza di barchetta mi attendeva, ed io meno confidente di Colombo, quando salpava coi legni Ispani per la patria delle contraddizioni e dei rewolvers, m'avventurai in quel quasi sotterraneo canale a mille doppi più periglioso della Manica.

A dritta cento sassi screpolati, scagliosi, tentennanti sul tuo capo: a sinistra una roccia spossata di stare lassù abbracciata al monte e che aspetta forse una sola parola dell'eco per abbandonarsi nelle braccia della legge di gravità, e sotto al fragilissimo schifo un gorgo profondo.... Scilla e Cariddi! Eppure la voluttà vertiginosa del pericolo m'invita oltre la soglia della forra, ed io, compreso da religiosa temenza, susurro al gondoliere: voga! voga! Ed egli voga, ed i vivi raggi del sole non osano entrare con noi in quella misteriosa stanza, in cui certo fra l'ombre ed il mormorio delle acque amoreggiano.....

Ma che? Il navicellaio è scomparso, e dall'onde una dolcissima figura nuotando silenziosa, conduce con una mano lo schifo, ed io ammiro quelle forme divine su cui le chiome diffuse e l'onde fanno dubbioso velo..... or eccola a prua, assisa, che con mano sicura, spingendo ora a destra ora a sinistra, m'addentra nell'umido laberinto. Io la guardo..... con occhi sì desiosi di una sua novella che valga a snebbiarmi il cervello, [109] che essa mi sorride e mi dice che s'io bramo conoscere la sua storia, devo seguirla nelle sue stanze........ Il rauco fragore della cateratta, a' piedi della quale siamo giunti, si mesce al dolce suono delle parole dell'ondina....... Ella m'indica il profondo dell'abisso invitandomi a seguirlo. Io, palpitando con mille moti di terrore, di ansietà e d'ammirazione, l'ascolto e la fiso estatico........ La corrente lene lene ne conduce con essa, mentre la ninfa dello speco, appoggiato il gomito sulle ginocchia, ne fa sostegno al capo, e.....

— Ricusi? Vieni laggiù con me ed io quante gioie ha amore tutte ti darò. Ancora ricusi? Sei tu ambizioso? Io ti farò re di queste onde, e non avrò altra cura che di foggiarti corone d'alghe intrecciate ai fiori delle spiaggie. Sei tu avido di novelle e di leggende? Tu poserai il capo sulle mie ginocchia, e ti racconterò un mondo di cose che ignori e ch'io ti farò amare. Sei vago di nuove acque? Ti condurrò nel lago, e di là pel Ticino e pel Po nell'Adriatico, nelle lagune popolate di tante memorie di gloria e d'amore! Vieni... vieni... io t'amo! Io ti farò colle mie mani un trono di conchiglie a mille colori più vaghi dell'iride, e quando ti sarà caro rompere il corso tranquillo dei dì, noi, lasciata la nostra reggia e spintici a galla, proveremo la nuova ineffabile voluttà d'abbandonarci ai fiotti, scendendo veloci nei gorghi e rimontando sui cavalloni in un letto di molle schiuma, mentre i canneti e i boschi lungo le rive ne susurreranno i segreti delle loro ombre. Oh! vieni, affidati a chi ti legherà sì strettamente a sè coll'amore, che tu non avrai più [110] cuore di respingerla! Tu tremi?.... Io non sono bella per te!

E la bellissima in atto di cordoglio copriva il volto colle palme e la persona colle treccie copiose. Vergognoso ed in una arse le vene di inusato foco, io mi gettai a' suoi piedi onde non mi sfuggisse... era troppo tardi!... Collo sguardo e co' dolci nomi e colla persona spirante bellezza singolare continuava a farmi invito... e lungo la strada a Cannobio io rivedeva di quando in quando quella strana apparizione fra le onde riottose del fiume; e mentre il piroscafo m'involava a quelle acque, io la vidi ancora nei fiotti schiumanti seguire il solco scintillante della nave, con mille invocazioni.....

Se voi andrete a Treffiume a visitare l'orrido di S. Anna, e vi toccherà in sorte di vedere fra quelle misteriose ombre l'ondina assetata d'amore, Verbania, la regina del lago, ditele che senz'amarla non è dato allo zingaro di dimenticare il primo essere che volesse farlo felice di tanti doni in cambio di solo amore!

················

XVI. Storia d'una pentola.

Il mondo è di chi se lo piglia.

Prov. Ital.

La tenebrìa notturna avvolgeva siffattamente Cannobio in una sera dell'inverno del 1627, che, [111] eccettuati i gatti e i debitori morosi, nessuno vedeva oltre la punta del proprio naso. Una tramontana che s'era impregnata d'un nembo di atomi nevosi sulle diacciaie delle Alpi, arrotava con tanta furia il suo staffile sibilante nei chiassuoli, sulle poche insegne delle botteghe, e sulle impannate sconnesse delle finestre, che chiunque avesse fatto capolino dalla porta socchiusa, al sentire l'acuta trafittura sulla cera e sulla persona, avrebbe senz'altro rinchiuso in fretta, e sclamato sotto la cappa del focolare:

— Brrr! la non è sera d'andare attorno.

Eppure in quella tenebrìa, con quella tramontana, con quel gelo, due creature, che non erano gatti, e si tenevano amendue in credito l'una verso l'altra, stavano intese a stretto ed animatissimo colloquio sotto il portico di una casa verso il lago.

Chi erano quei due? Due ladri? Due pazzi?

Erano due amanti: basta la parola.

Volete provare l'amore, l'amicizia, le passioni umane? Mettetele alla prova delle privazioni corporali. Quanti che ti si dicono amici per la pelle, quando minaccia aquilone o la temperatura è discesa alquanti gradi, ti passeranno dallato fuggendo senza fare cenno per tema di essere colti dalla bufera, o di levare la mano di tasca per stringere la tua, o per scoprire il capo! Vuoi conoscere, bella lettrice, se il tuo vagheggino t'ama? Fallo aspettare le ore e le ore sotto un portico, un albero, o meglio in piazza, al vento ed al sollione. Dopo due, tre ore, secondo il tuo buon cuore, arriva od apri la finestra... Eccolo là! Non si lagna? Chiede anzi perdono a te stessa? Via concedigli un [112] sorriso: l'uomo è in gran parte tuo. — Che più? Chi accetterebbe la gloria a patto d'un serio mal di denti?

Ma Giovanni Branca avrebbe resistito ai freddi della Groenlandia anche per udire solo la voce della vezzosa Bettina. La quale alla sua volta e per essere caldissima di gioventù e discretamente innamorata, non rifuggiva qualche volta dall'uscire sotto il portico a fare quattro ciancie col Giovanni.

La sarebbe poi la magna indiscrezione la nostra, se cogliessimo al volo le parole sommesse degli amanti, facendo capolino dai massicci pilastri degli archi di quella casa? Con questa frescura la curiosità non si soddisfa a troppo buon mercato; ma chi sa? Due parole possono rivelare qualche gran mistero: una tresca od un idilio; seduzione, gelosia, rapimento e chi sa quant'altre saporitissime cose. Zitti adunque: è l'amante femminino che parla.

— Giovanni! disse con timido accento la fanciulla tuttora incerta; tu non m'ingannerai?

— Come lo posso io? perchè ingannarti? Vieni, e tu vedrai se i miei sogni, come tu li chiami, non hanno ombra di verità.

— Ma se lo zio s'accorgesse della mia assenza? Sai quanto è burbero con me!?

— Ho avvertito l'Angiolina. La fantesca dirà che tu sei andata a casa di tua cugina..... Ma, te ne prego, non perdiamo un istante... Tu esiti ancora?

— Elisabetta! se alcuno ti vedesse, povero il tuo onore!

Giovanni, malgrado la notte oscurissima, vide il volto della bella impallidire, e sentì la mano palpitante di lei sciogliersi dalle sue.

[113]

— Bettina, io credeva che tu m'amassi! La voce di Giovanni era sì scorata, rivelava sì intenso dolore, che la fanciulla sentì venir meno il proposito di non accondiscendere al desiderio del giovane, e dato uno sguardo alla via buia sclamò:

— Ebbene, sia; ma io non t'accordo che dieci minuti. Rientrò guardinga nell'abitazione, e dopo pochi istanti in cui al povero Giovanni pareva gli si dovesse dal gran battere scoppiare il cuore, ne uscì avvolta in un mantello, mentre la vecchia fantesca rischiarava il passo con una lucerna, facendole schermo dal ventare colla mano. Il giovane all'apparire subitaneo di una lunga striscia di luce, che dalla porta socchiusa dritta saettò nella strada, e sentendo la Bettina, che gridava più forte che non era necessario:

— No, Marta, non ho bisogno di lume; siamo a due passi; sta in casa... avrebbe voluto gettarsi in un androne per non essere scoperto, se pure ei fosse stato in tempo: la vecchia lo avrebbe quindi scoperto senza fallo, se, appena essa fu sotto il portico, amore — gran contrabbandiere è amore! — non avesse con un buffo spento la lucerna... La sferza della tramontana, che con mille diverse orribili voci fischia attraverso alle piante brulle ed ai comignoli, assai più delle parole della padroncina, persuase eloquentemente la vecchia, che il meglio era ritornare ad accocolarsi al focolare. La fante sospirando: granchè questa gioventù! rientrò, richiuse, mentre la giovinetta si slanciava nelle dense ombre della via, ove, a pochi passi, il tutto suo Giovanni la raggiungeva.

Entrambi, senza dir motto, sulla punta dei [114] piedi, brancolando fra le mura ineguali e sporgenti, evitando le fossatelle e più gelosamente i passanti, dal portico sulla sponda del lago, giunsero all'ultima casa di Cannobio verso la valle. Giovanni, schiusa la porta, con mano trepidante introdusse l'amica nella stanza a pian terreno, poi serrate prudentemente le imposte delle finestre, per una scaletta angusta la trasse in un'ampia cameraccia al primo piano di quell'antica abitazione, dove in pochi minuti le vampe di un bel fuoco illuminarono le pareti stinte, quasi nude, ed intiepidirono l'ambiente.

Ma l'una per la corsa affannosa e per quella certa trepidazione che non iscompagna mai la fanciulla che si trova per la prima volta sola in balìa dell'amante, l'altro pei mille sentimenti, che gli tumultuavano nell'animo, non che le punture del freddo, sentivano il sangue più bollente rifluire dal cuore al capo con insolita ardenza.

Il giovane, messo innanzi alla Bettina un piatto di ciambelle, a cui ella fece il più bel viso del mondo, tolse da un cofano antico una grossa pentola, la quale invece di coperchio aveva sovrapposta una sì curiosa scattola pure di rame con certi congegni non mai visti, che la ragazza guardava l'ordigno con occhio stupito, e cessava un momento di masticare. Dai congegni della piccola caldaja una funicella correva all'asse di un arcolaio.

Bettina, quando Giovanni pose dinnanzi a lei l'arcolaio, scoppiò in una solenne risata..... Il giovane, gettato con ira il cappello in un canto, proruppe:

— Da te io non m'aspettava questa maniera [115] di conforto..... Ma tu hai ragione, tu ignori che questa ruota rappresenta a' miei occhi un mondo d'innovazioni.

Le fiamme avvampano crepitando sotto la caldaia, e già il vapore si sprigiona con veemenza, quando ad un tratto il giovane ottura il foro, da cui si sviluppa fumante... La giovinetta meravigliata si ritrae un passo dal focolare e vede la ruota dell'arcolaio girare rapidissima sopra il suo asse

— Dunque non saremo più costretti a filare, n'è vero, Giannino?

— Qua, francamente: che pensi della mia scoperta? Tu sola la conosci.

La Bettina per dire la verità pensò in quel momento, che se l'invenzione di Giovanni la liberava dalla noia del filare, suo zio, il più intollerante ed intollerabile zio del mondo, non le avrebbe permesso tuttavia di starsene ad udire le novelle colle mani in mano — ed avrebbe voluto dirgli:

— Caro Giovanni, a dirtela tonda, se tu non trovi che questi ordigni, il nostro matrimonio non si farà mai più.... Ed io dovrò essere la moglie d'un mercante d'arcolai? — E l'avrebbe forse detto, se la fronte di Giovanni non fosse stata sì pallida, se gli occhi non avessero interrogato con tanto desiderio... uno sguardo al soffrente fece svanire il pensiero che le balenava in mente. E poi il giovane, se non era un Apollo, poteva tuttavia dirsi una bella e maschia figura d'uomo, e s'egli invece di ritrarsi soletto a pensare le ore e le ore, si fosse mostrato meno restìo ad intervenire ai chiassosi convegni dei coetanei, per l'ingegno non [116] comune e la piacente arrendevolezza dell'indole, egli sarebbe stato in breve tempo l'amico di tutti. Ma il Branca era sì timido! Bettina, se non di ferventissimo amore, lo amava come le donne amano quelle nature tenere, affettuose e pazienti, che s'accontentano di poco o nulla e non sanno mai chiedere.

— Cosa penso io, o Giovanni? Penso che ti amo!

Il Branca fu ad un pelo di cogliere un bacio su quelle labbra tanto eloquenti; ma egli s'era promesso di spiegare alla Bettina quante speranze avess'egli fondate sopra la sua invenzione. Ella si sedette presso al focolare, e Giovanni così prese a dire:

— Che sia sempre benedetto il momento, in cui io ti conobbi... Sì, perchè questa mia invenzione, da cui attendo onore e compenso, non sarebbe, se il pensiero costante di trovar modo di possederti non avesse tutte occupate le facoltà della mia mente. Io non ti spiegherò come il vapore che emana dall'acqua bollente, compresso, abbia una forza movente, nè con quali congegni io sia riuscito a servirmene.

Fatta questa premessa, di cui la Bettina gli seppe grado perchè le risparmiava una noiosa litania di nomi e di cose, delle quali non avrebbe capito un acca, il Branca cercò di farle comprendere come la sua invenzione applicata ad un mulino, risparmiasse tempo e fatica.

— Questo tuttavia parmi non sia ancora tutto il frutto che io posso sperare dal trovato..... Mille progetti, mille idee tuttora incerte vagano nella mia mente. Mi recherò intanto a Milano: io presenterò al vicerè la mia macchinetta: [117] i dottori verranno consultati, e se Dio vuole, otterrò un privilegio. Allora la mia sorte non sarà più dubbia; avrò un nome, ricchezze, e tuo zio si lascierà facilmente persuadere, che io ti piaccio più che Menico, il mercante di vino, a cui non sarà dato di possedere te così bella di gioventù e di grazie, come non giungerebbe mai a comprendere egli sì trivialmente positivo, la tua anima sì delicatamente sensitiva. Allora, proseguì il giovane avvicinandosi alla fanciulla, a cui buona parte delle parole del giovine suonavano come una musica dilettosa, di cui sentiva con piacere l'armonia senza comprendere il concetto — e prendendone nelle sue ambe le mani, allora io non chiederò più nulla a Dio per la mia felicità, poichè Bettina, quella Bettina che io amo...

— Più della tua pentola, n'è vero? interruppe la ragazza.

— E di me stesso, sarà mia, tutta mia.

— Sì, Giovanni, per sempre! Ma lascia che io ritorni....... Senti l'orologio della torre? È un'ora che io son qui.....

— Un istante! Ma no — tu hai ragione, ed io non mancherò alla mia promessa. Verrà presto il giorno in cui potremo amarci e dirlo e provarlo, senza tema di offendere Dio e l'onore. Mio malgrado..... Addio.

Giovanni prese la lucerna, accompagnò l'amica per le scale alla porta di strada, depose il lume sull'ultimo gradino, e fatto più ardito dalle soavi parole di lei, con ineffabile affetto le disse sommessamente:

— Bettina, ti ricorda che un giorno io ti chiesi un bacio, e tu mi rispondesti che io non [118] l'aveva pure meritato.......... corsero quasi due anni, ed io, se è possibile, imparai ad amarti con maggior desiderio e rispetto..... E sì che fra le purissime gioie d'un affetto corrisposto, io soffro sovente crudeli torture.....

— A cagione mia?

— No... Sono io stesso che mi tormento. Quando io confuso nella folla dei balli, ti vedo, circondata da danzatori, sceglierne uno che potrà stringerti al suo petto, respirare il tuo alito, sentire la fragranza de' tuoi capelli, io sento una mano premermi il petto da soffocarmi, una voce che mi dice: quegli è felice! Lo invidio! E questa voce — sentimi e perdonami, o Bettina — quando questa voce mi dice, che il danzatore, giovinastro scapestrato, osa nella vertigine della danza confondere le sue labbra fra le ciocche...

— Giovanni!

— Sì, Bettina, io allora mi sento soffocare dalla gelosia, sento bisogno d'aria libera... e corro all'impazzata pei campi.

— Povero Giovanni! Ma tu sai pure che io non posso danzare sempre con te... Del resto hai tu forse motivo di essere geloso? A me piacciono, lo confesso, lo scherzo, la danza, la musica, le feste, come a tutte le ragazze; ma anche allora io non ti dimentico, e quando sei là timido, quasi rincrescevole di trovarti fra la brigata festosa, il mio pensiero corre a te che solo stimo come il migliore, e che amo come quel solo che mi farà felice. Sei contento adesso?

E la bella fanciulla gettò le braccia al collo del timido giovane che, tremante, ebbro d'amore, le colse sulle timide labbra un bacio, il primo, il più voluttuoso.

[119]

Perchè come in tutte le cose vi sono nella medesima specie gradazioni infinite, vi hanno baci che non sono se non l'effetto di due labbra scoppiettanti sopra una gota, e baci che vi ricercano tutte le fibre dell'anima e del corpo: così avvenne al Branca, il quale sentendosi cingere il corpo dalle braccia della carissima amica, avrebbe desiderato morire allora allora e forse, se avesse conosciuto l'avvenire, non avrebbe avuto tutti i torti.

Giovanni stava per dire addio all'amica, quando — gli si drizzarono i capelli in fronte, e Bettina, atterrita, si sciolse da lui — una voce schernevole dalla strada, attraverso alla porta, disse queste parole:

— È questa la fine o il principio della fine? Giovanni Branca, hai dimenticato l'audaces fortuna juvat? Per voi, gentile fanciulla, io tradurrò il latino così: Una ragazza quando va in casa dell'amante, si marita senza prete.....

Il giovane, passato il primo sgomento, volle slanciarsi, aperto l'uscio, sullo sconosciuto e farsi ragione dell'insulto, ma l'Elisabetta, smarrita, si frappose piangendo.

Il lume, urtato, s'era spento cadendo dalla scala.

— Non t'affannare, Giovanni, per le mie parole indiscrete. La tua fortuna è nelle tue mani colla tua felicità....... Osa! osa! chè il mondo è degli insolenti.

La voce s'allontanò, Giovanni aperta rapidamente la porta, si gettò nella strada brandendo un ferro... Nessuno! Corse velocemente malgrado la notte verso il lago, verso la valle... Nessuno! Ritornato all'abitazione, il povero giovane trovò Bettina distesa sul pavimento priva di sensi. [120] Esterrefatto rinchiude la porta, riaccende il lume e prodiga all'amica ogni cura.

— Mio Dio! punitemi in altro modo, ma risparmiate la mia Elisabetta! La quale col pallore sulle gote, gli occhi socchiusi, le treccie cadenti sul petto, mostrava all'amante una nuova bellezza, forse più affascinante di quella che ne irradiava il volto nelle ore delle gioie: e quando al fine, riavendosi, balbettò:

— Sei tu, mio Giovanni? e si strinse più fortemente a lui, come fa il timido bimbo alla mamma, le parole dell'incognito balenarono sinistramente nella sua mente, ed un istante fu per cedere alla tentazione; un istante solo, che soccorrendogli il pensiero delle promesse fatte alla fanciulla ed a se stesso, disse:

— No... no... sarei un infame... sarò sventurato, ma senza rimorsi! Bettina, rincorati; l'ora è tarda, partiamo.

— Ma quella voce!

— Non pensarvi. A me solo spetta far rispettare il tuo onore.

Dieci minuti dopo Elisabetta picchiava sommessamente alla porta della cugina la quale la riconduceva all'abitazione.

Quella notte nè Giovanni nè la sua amante potevano dormire; l'uno rammaricandosi d'aver compromesso l'onore della sua amata, mentre con tanta vittoria aveva saputo rispettarlo, e l'altra pensando:

— Come mai il Domenico, il vecchio mercante di vino, — perchè quella voce era senza dubbio la sua — potè sapere che io stava in casa di Giovanni?

E l'uno e l'altra finirono per conchiudere [121] che nessun pro s'era ritratto dal colloquio, perchè il Giovanni capì che la sua scoperta non aveva punto meravigliato la fanciulla ignara ed incurante di quanto non era ciarle d'amore, vesti e balli; ed ella si pentì di avere accordato all'amante un favore sì pericoloso... per vedere a girare un arcolaio! Ma come suole accadere, l'amore fecondo in consolazioni come in tormenti sovvenne a temperare la conclusione dei due amanti, soggiungendo all'uno:

— Non sa apprezzare la mia scoperta, ma ella mi ama... posso ragionevolmente bramare maggiore felicità? Mi ama e me lo disse!

E all'altra:

— Egli non inventò che una pentola per far girare gli arcolai ed i molini... pazienza... Ma chi mi ama più di lui? Domenico dirà nulla e Giovanni mi sposerà. Domenico è danaroso; ma il suo sguardo non desta un palpito, la sua voce non scende all'anima... Peccato, che Giovanni sia così timido!

E pensando curiosissime cose della dilicata timidezza dell'amante, finì per addormentarsi, e buona notte.


Siamo oramai alla fine del febbraio ed un vivo raggio del sole penetra nelle stanze quasi a dire: orsù, levati dal focolare, esci all'aperto, che io richiamando a vita la natura, scioglierò le tue membra intirizzite. E voi lasciate la casa, che vi ha riparato per cinque mesi dalle trafitture della tramontana, scendete a riva, contemplate il lago snebbiato, limpido, le costiere spazzate dalla neve che non imbianca più se non le più alte falde dei monti, sulle plaghe [122] più meridiane spuntare i primi fili d'erba, nelle vie squagliarsi la neve accumulata dal primo dì in cui coprì la terra, fondersi i diacciuoli delle grondaie, i passeri inneggiare festosi all'opera redentrice del sole. Senz'accorgervene, lasciaste a casa il pesante mantello, e levate di tasca le mani e battete palma a palma; sentite la molle aura del sirocco involgere tepidamente le membra, e ve ne state passeggiando a riva come in attesa di una grata novella. Ecco intanto che nelle case le finestre chiuse da tanto tempo e con tanta cura s'aprono, onde il sole e l'aria entrino liberamente, e una bella fanciulla si mostra sul balcone vivamente irradiata dal tocco della nuova luce per salutare l'annuncio della primavera. Le care sue pianticelle, i garofani, i geranii non staranno più nella uggiosa ombra delle stanze; essa pure la domenica potrà d'ora innanzi dopo la messa passeggiare colle amiche sulla spiaggia o verso la Cannobina, e quando Giovanni passa nella via — e Dio sa se passi soventi — uscire sul balcone e dargli uno sguardo, un saluto, lasciargli cadere un fiore... Venga dunque la primavera, la più bella stagione dell'anno, la stagione in cui i cuori si aprono alla festa della natura, come i calici dei fiori alla rugiada!

Giovanni era proprio sulla spiaggia, collo sguardo alla casa di Elisabetta. Dopo quella certa sera egli aveva deciso di non lasciare intentato alcun mezzo — onesto — per ottenere la mano della giovinetta, ed aveva studiato parola per parola quanto avrebbe detto a Milano dinanzi ai fisici, al vicerè stesso — una curiosa apologia della propria scoperta, in cui pareva [123] che la modestia dell'autore si sforzasse ad ogni conto di sminuire il valore del trovato. Elisabetta conoscendo quanta fosse la timidità del buon giovane e volendo tuttavia consolarlo, lo salutò con un cenno, e spiccando un bel garofano variegato, lo lasciò cadere sul lastrico della via. Giovanni accosta la destra alle labbra per ringraziarla, e s'appressa, lentamente — il correre avrebbe dato sospetti ai passeggieri — alla casa per raccogliere il fiore — già raccolto dal mercante di vino che da un chiassuolo era sbucato sulla piazza del lago in quell'istante.

Il povero Giovanni trattenne a mala pena un grido — quel fiore era per me; — Menico che di leggieri aveva compreso, vista la Bettina sul balcone, la causa dell'improvviso pallore del giovane rimasto lì come di stucco, si mosse verso di lui e gli disse ridendo, ma senz'ombra di derisione:

— Oh Giovanni!.... Ma guardate di grazia se mai più bel garofano cadde in istrada... fra due contendenti... (e guardando all'insù Bettina che rideva) il terzo gode!

Giovanni balbettò:

— Menico... il fiore è bello,... ma...

— Ma? Chi disprezza vuol comprare... volete comprarlo?

Giovanni diede uno sguardo a Bettina che voleva dire: Ah! io non lo venderei certamente! e rispose:

— Come fiore trovato nella strada, esso non val nulla; ma se la signora Bettina lo ho gettato a voi, un mondo non basterebbe a pagarvelo....

— Qui sta il nodo.... Signora Bettina, il garofano [124] cadde in istrada non dalla pianticella sicuramente.... Il gambo venne tagliato dalle vostre forbici, è chiaro... È chiarissimo, che non essendo avvizzito, voi non ne avete voluto mondare la pianticella... dunque l'avete gettato per essere raccolto... (davvero che la è da ridere) da me o dal Giovanni?

La Bettina guardò in istrada Domenico e Giovanni che attendevano lo scioglimento della questione; e... che batticuore!... stette un istante sopra pensieri, quindi rispose:

— A voi... Domenico — e rientrò in casa, chiudendo le invetriate.

Domenico diede nel più fragoroso scoppio di risa; Giovanni impallidì, e sentendosi venir meno la vita, s'appoggiò ad un pilastro della casa della traditrice.

***

Giovanni passava ogni ora meridiana sulla spiaggia passeggiando innanzi all'abitazione, ma la gioviale figura della Bettina non compariva più dietro le invetriate del balcone. Sulla sera andava al tempio: la Bettina, sempre colla vecchia fantesca, correva senza degnare d'uno sguardo chi la seguiva. E Giovanni vedeva spesso il mercante di vino entrare ed uscire dalla casa dell'amata con quel suo eterno sorriso sulle labbra!

Un bel dì, sulla via di Trefiume, eccoti dinanzi la Bettina: non so se Giovanni si fosse destreggiato per sapere che quel dì l'andava dalla sua nutrice.

[125]

La prima cosa che avrebbe voluto fare il buon giovane sarebbe stato gettarsele ai piedi invocando perdono — di che cosa veramente non sapeva — perchè non so se il naturale ingegno o le meditazioni avessero insegnato ad avere sempre torto colle donne. La seconda sarebbe stato il domandarle se le cure della salute non le permettevano più di stare sul balcone, di passeggiare colla cugina, di guardare dalle invetriate il lago, la sponda e chi passava dieci volte al giorno dinnanzi alla sua casa... La terza — dico terza, perchè le nostre azioni, come insegnavami un sapientissimo professore d'abbicì, non hanno giammai meno di tre motivi — la terza sarebbe stata... ma se io non me la ricordo, a Giovanni non sarebbe mancato modo di trovarne cento... cosa che tuttavia non gli impedì di balbettare maledettamente innanzi all'amata pel motivo — vi faccio grazia degli altri due — che quando l'avvenente fanciulla gli fu vicina, il pensiero che quella cara creatura dovesse appartenere al prosaicissimo mercante di vino gli serrava siffattamente la gola da non lasciargli proferire verbo. Gran demonio è l'amore!

La Bettina non fu meno amabile del solito, sicchè Giovanni rinvenuto dalla commozione fu tanto coraggioso di chiederle il perchè avesse dato a Domenico il garofano che aveva spiccato per lui... La giovinetta arrossì; quindi con quel tatto sì fino proprio delle donne, invece di rispondere, domandò a Giovanni:

— E voi l'avete avuto a male?

— Io ho creduto che voi mi tradiste! Domenico sogghignò così satanicamente (e questa [126] era una grossa bugìa!) Da quel giorno, Bettina perdonatemi, io cominciai a dubitare del vostro affetto... Quanto ho sofferto!

— Io sono sempre la stessa! Gli disse la giovinetta stendendogli la destra.

— Ma perchè destare delle speranze in Domenico, al quale mi diceste di aver negata la vostra mano?

— Che ve ne importa, quando siete sicuro della mia fede? Via, lasciatemi, Giovanni... potrebbe passare alcuno, e allora...

— Che male potete temere? Vi amo, e vi sposerò appena ritornato da Milano.

— A proposito, quando aspettate a partire?

— Domani.

— Dunque addio; a rivederci — presto...

— Bettina, la vostra mano...

Bettina si guardò tutt'attorno, e veggendo la strada deserta diede la mano al povero innamorato, che coprendola di baci, tutto commosso, sclamò:

— Oh, no, Bettina, tu non dimenticherai il tuo Giovanni, n'è vero?

— Perchè dovrò dimenticarti?... E colto un fiore sulle zolle che orlavano quella stradicciuola, glielo porse, e fuggì ratto verso Cannobio.

Giovanni stette buona pezza a riguardare come estatico la fanciulla che s'allontanava, ed ogni qualvolta essa si rivolgeva indietro sorridendo, parevagli di sentire agli orecchi quella voce:

— Va, Giovanni, va a Milano ed osa!

[127]

***

..... E il Grande di Spagna s'alzò dal seggiolone, discese in mezzo a quell'eletta adunanza d'ingegni, e porgendo la mano al Branca, così gli favellava:

— Questo giorno è senza dubbio fra i più felici della mia vita. Riconoscere il genio nell'infinita turba delle mediocrità e del volgo è per certo nobilissima cosa; ma il porgergli una mano soccorrevole, il poterlo premiare è ventura a pochi concessa. Giovanni Branca il vostro trovato è stato giudicato da questa sapientissima università, portentoso: ve ne sia lode quanto per noi si possa maggiore. Perciò in nome del nostro sovrano signore vi conferiamo il privilegio addimandato. Se nei dominii di S. M. Cattolica non tramonta il sole, il vostro nome non tramonterà nei secoli dell'umanità.

Tanta gioia era troppa: Giovanni quasi fuori di sè venne portato al suo albergo: per le vie una gran moltitudine con mille voci gli acclamava. Una aggraziata giovinetta fattasi ad un verone gli rammentò Elisabetta; essa gli gettò un bel mazzo di garofani odoratissimi. Ma Giovanni Branca non ravvisò più l'umile osteria che l'aveva albergato fino a quel dì, nel palazzo in cui era stato trasportato — un palazzo tutto oro, tappeti storiati, marmi e dipinti vaghissimi. Egli salì ad una loggia, da cui si mirava gran parte della città e del piano lombardo, e di lassù gli parve di scorgere un moto continuo ed instancabile nelle officine, in cui le arti fabbrili si giovavano del suo trovato.... [128] E questa mostruosa rivoluzione nelle arti l'aveva fatta lui con tanta gloria; di questo insigne beneficio all'umana famiglia era lui l'autore con tanto plauso di coscienza..... Ma a quante cose non potrà applicarsi la scoperta? A che non la faranno utile, necessaria il bisogno e lo studio? Nessuno potè sapere quali strane visioni apparissero nella loggia al Branca, il quale, tratto quasi fuori di sè da tanto successo, si gettava prostrato a Dio, chiedendo mercè... Ma una voce interrompeva la preghiera, una voce più cara che non gli applausi della moltitudine, la voce di Bettina che veniva a gettarsi nelle braccia dell'amante: il quale sentendo fra le acclamazioni del popolo, fra i trionfi della gloria più ineffabili le gioie dell'amore, cominciò a dubitare fortemente che il proprio intelletto non vacillasse, e serrando al petto la fanciulla, gridò:

— Mio Dio! non ammazzatemi, tanta felicità è troppa... Mi basta il suo amore!

Chi sa quando Giovanni si svegliò nella sua cameretta in Cannobio, quanti auspicii trasse dal sogno? Chi lo sa? Io no, e voi?

***

Evviva! La danza ferve: è la mezzanotte... Il ballo è diventato un turbine, in cui si avvolgono venti coppie di danzatori; la musica accelera le sue note, gli evviva scoppiano più clamorosi... è una vertiginosa ebbrezza!

Diresti che ad ogni amante riescì accoccare un bacio sulle spalle dell'amica sorridente; che ogni bella ha rapito un cuore, che ognuno [129] ha dimenticato i dolori della vita!... I vecchi ritornano col pensiero agli anni della gioventù avventurata; i mercanti cessano di pensare al dare e all'avere, e se mai balena un pensiero che non sia follìa, tosto una spumante tazza di liquore lo seppellisce nel fondo al cuore. Venti coppie attendono in giro che i danzatori s'arrestino un istante per succedere loro, e la musica non cessa nè il tripudio sosta per riposare; ognuno si sente animato da una forza arcana.

Bettina non fu mai sì raggiante di gioventù e di bellezza, gli occhi di lei non scintillarono mai così vivamente; ella è tutto sorriso e grazia ed i giovani le si affollano attorno bramosi di ballare con lei sì svelta, sì leggiera. Molti — allucinati forse dalla festa tumultuosa — non ravvisano più in lei la modesta Bettina, e nessuno è senza ammirazione per quelle spalle, che rammentano i busti di Fidia, tanto tempo nascoste sotto la succinta veste della vergine gelosa. In tanta ebbrezza chi oserebbe chiederle un pensiero pel lontano!... Oibò! ella non ha un istante per pensare... tutte le voci, tutti gli sguardi le dicono con tanta melodìa:

— Bella! Bella! E la musica non è pure un inno alla bellezza di lei? No, in fede mia ella non può pensare se non che la è la regina della festa.

Non v'ha donna, sposa o fanciulla, che in ballo non preferisca, spesso senza saperne la vera cagione, un danzatore agli altri; un danzatore a cui sarà lecito quanto ad altri verrebbe tacciato di petulanza. Se un compaesano, assente, supponiamo, due mesi, fosse giunto quella sera, avrebbe fatto le boccacce ravvisando nel favorito di Bettina [130] — chi l'avrebbe creduto? — Domenico, il mercante di vino, che malgrado i suoi nove o dieci lustri pareva avesse quella sera riacquistato la baldanzosa gaiezza della gioventù: la bellezza fascinatrice di Bettina lo aveva galvanizzato.

E Bettina era ora la sua sposa!

Mentre fervevano con maggior calore le danze, entrò nell'amplissimo sterrato un giovane pallidissimo, Giovanni Branca.

La navicella che lo trasportava da Sesto Calende stava per approdare a Cannobio, quando il giovane, levando dalle mani la faccia lacrimosa, intese quel mormorìo di lontani suoni che si diffonde armoniosamente nella solenne quiete della notte. La casa dell'amica era immersa come le altre nell'oscurità — ella dormirà certamente, meglio per lei! Ma dal lato opposto del borgo verso il Sasso Carmeno, le finestre e le porte d'una casa erano vivamente illuminate, e le invetriate lasciavano scorgere che vi era festa. I suoni, le grida, accostandosi alla spiaggia, giunsero al suo orecchio più distinte... il contrasto di quella gioia col dolore che lo straziava, piombò sul suo cuore come l'adunco artiglio del lammergeier sulle tenere carni dell'agnello. Si rizzò sulla prua, ascoltò più attentamente un brindisi che echeggiava più sonoro, e fatto ormai certo della sua sventura, gridò ai barcaiuoli:

— Per chi quella festa?

— Domenico sposa la Bettina... Voi giungete a tempo ancora per danzare!

Giovanni barcollò, corse in un canto della nave, gettò nel lago un pesante involto..... Le lacustri ondine intrecciarono una ridda attorno [131] alla macchina del Branca, mentre la Verbania, la regina del lago, disponeva sull'arcolaio le più flessibili alghe, invitando l'infelice amante a scendere nei regni di lei ove avrebbe trovate amorose ninfe per costanza senza pari...

Bettina intravide nella folla l'antico amante, capì l'espressione disperata di quella cera sconvolta, imparò da un'occhiata che pure non era odio la storia della pentola e dell'impressione che doveva fare sul cuore di lui sì appassionato la novella delle sue nozze con Domenico — e nascose sul petto dello sposo la faccia.

Il mercante di vino affidò ad un amico la fidanzata, e andò incontro a Giovanni.

I crocchi zittirono, la musica cessò: pareva che ognuno presentisse qualche cosa di terribile, una lotta.

Menico, sorridente — egli sorrideva sempre — condusse il giovane in una camera vicina, lo fece sedere e gli disse:

— Giovanni, io vi ho sempre stimato come il più dabbene, come il più onorato giovane di Cannobio. Mi piace l'Elisabetta: l'ho chiesta in isposa; mi venne accordata. So che essa era maltrattata da quel cane di suo zio; mi accettò più per isfuggire alla tirannia che per amor mio. Si dice che voi l'avete amata, e che forse vi contraccambiava. Io non voglio dir altro, e voi mi capite. Se voi potete dire una parola, io mi ritiro, senza scandalo. Parlate.

Giovanni fissò in volto il mercante, stette pochi istanti soprapensieri, come esterrefatto, indi balbettò:

— Voi potete sposarla...

Menico lo abbracciò dicendogli: Voi siete l'uomo più onesto che io abbia mai conosciuto.

[132]

E lo trasse nella sala della danza... Giovanni bevve, danzò con Bettina, fece dieci brindisi alla felicità degli sposi; dopo un'ora era il danzatore instancabile, il ciarlone più ameno, più spiritoso, e nessuno riconosceva in lui il modestissimo giovane, il taciturno vagatore dei monti solitarii. Alle due dopo la mezzanotte gl'invitati erano congedati.

Giovanni quando tutta la folla s'accalcava attorno agli sposi, fattosi largo, improvvisò una canzone, in cui l'armonia dei versi non la cedeva che alla delicatezza della concezione...

Davvero che fra tanti giovani egli si mostrava ad un tratto il più spiritoso, il più gentile.... anzi più di una danzatrice lo trovò il più bello.....

Mentre Domenico accomiatava gli amici, i parenti, o per meglio dire tutta Cannobio, la cugina della sposa disse a Giovanni sottovoce:

— Venite con me sul balcone verso il lago.

Egli la seguì macchinalmente, senz'addarsene, e vi trovò — sola — Bettina.

— No, non partite, Giovanni, una sola parola. Voi potevate disonorarmi con un detto, strappare questa corona di gigli... Voi siete grande, ed io comprendo troppo tardi di non avervi conosciuto. Non maleditemi perchè ho concessa la mia mano ad un altro... Ma il cuore, o Giovanni, il cuore è sempre tuo...

— Signora, rispose fieramente il giovane sciogliendo le mani da quelle della sciagurata, nessuno v'ha costretta a queste nozze. Quando a Milano mi si trattò da pazzo, io piansi di dolore..... eppure allora io era ancora felice; aveva fede nel vostro amore. Ma ora, Bettina [133] è morta; è morta, vi ripeto; non v'ha più che la moglie di Domenico.....

E scomparve.

Il giovane trovò nella strada la compagnia dei chiassoni del borgo, che egli aveva fatto meravigliare colla nuova scioltezza dei modi e col brioso folleggiare dello spirito: tutti gli si fecero d'attorno, e cantando e schiamazzando, lo trassero pel resto della notte ora in una, ora in un'altra casa, ove nuove libazioni finirono per assopire — buon per lui — ogni ricordo delle sue sventure. Di quando in quando però una nube offuscava la serenità gioviale della sua fronte, ed egli rimaneva un istante pensoso, un istante solo, chè passate le mani sulla fronte, quasi per cacciare una brutta tentazione, ritornava a cioncare, a cantare più strepitosamente. Quando la brigata, scemata a poco a poco dal numero di quelli che restavano a serenare sui canti dove erano sdrucciolati a terra, si trovò dispersa, Giovanni se n'andò a letto, ove i narcotici fumi del vino tracannato non gli risparmiarono di raffigurarsi la Bettina nelle braccia del mercante di vino. Parendogli di soffocare fra quelle anguste pareti, decise d'uscire di casa.

Quando fu sulla scala, ei stette atterrito..... chi non avrebbe detto a prima giunta che nella stanza terrena Bettina, vestita di bianco, lo attendeva, al fondo della scala, là ove gli aveva concesso il primo, il solo bacio?

Giovanni, sentendo mancarsi la persona, si sedette sopra i gradini della scala; non era Bettina, ma un raggio di luna — che richiamandogli tuttavia i primi sguardi e le prime parole d'amore della fanciulla e il convegno in [134] quella stessa casa e il bacio, e i desiderii di gloria e di ricchezza, e la speranza dalle mille lusinghe, faceva più profondo col contrasto del passato l'abisso che lo separava da quei dì avventurosi, perchè la gonfia stupidità del governo spagnuolo non aveva saputo scorgere sulla fronte del giovane modesto la luce del genio, e una donna si era fatto giuoco di lui... Ma egli era senza rimorsi, e questo pensiero sciolse alfine il pianto dai suoi occhi — ne aveva tanto bisogno!

L'alba sorgeva; una luce mal certa cominciava a penetrare dalla finestra, dalle fessure della porta, quando una voce — la voce di quella notte — gridò dalla toppa:

— Piangi, piangi la tua sventura! Non t'aveva io detto che il mondo è degl'insolenti? Osasti a Milano? No. Osasti colla Lisa?

— No, gridò Giovanni sorgendo, ma non ho rimorsi.

XVII. S'io avessi, Dio me ne guardi, un milione! — Prina e la villa Poniatowski.

Se io avessi un milione da profondere in una villeggiatura, sclamai io lungo e disteso sul promontorio di San Remigio, abbracciando collo sguardo l'ampia e multiforme scena, che di là scorgesi correre attorno, qui io l'eleverei, certo che se per l'arte potrebbe avere molte rivali, poche senza dubbio ne avrebbe per situazione.

[135]

Tuttavia, siccome mi pare che per ora almeno non sorgerà nulla per mio conto su quel declivo, dopo d'aver passeggiato un'ora nella compagnia variata dei miei pensieri, me ne andai a visitare la villa del principe Poniatowski, a cinque minuti da Intra, sopra un gibboso declivo dei monti, in una posizione che dopo l'accennata è senza dubbio fra le più belle del lago.

La casa povera per architettura come in generale le ville verbanesi, per quanto ricca di suppellettili e d'agi, è un nulla in confronto della bellezza di un bosco di alte piante, al rezzo delle quali s'asconde, è un nulla appetto della vista che vi si gode da tutti i lati; meno il golfo delle Isole, s'ha davanti la più estesa parte del lago. Dalla palazzina scendendo a riva verso la parte superiore del lago si scoprono gli avanzi della villeggiatura Prina, sui quali è basata in parte la villeggiatura Poniatowski; portici, terrazzi, scale in istile del secolo passato. In un istante mi concorsero alla mente le scene sanguinose del 1814 a Milano; Prina, Foscolo, il parroco di S. Fedele, la plebaglia della piazza e gli assassini che dalle sale dorate, dietro una persiana, miravano compiersi la loro opera. Mi pareva di vedere Prina seduto in riva al lago guardare con terrore la sponda lombarda, tentennando il capo quasi per dire: s'io non avessi mai abbandonato questi pacifici recessi in seno alla natura ed agli studii!....

Prina era uomo onesto e di mediocre ingegno; l'assassinio solo scrisse con lettere di sangue il nome di lui nella storia.

La villeggiatura Poniatowski è una bella scena di Walter Scott.

[136]

XVIII. Intra non si trova che a Intra. — Perchè delle ommissioni. — Virgilio a Feriolo. — Salute a chi resta.

Eccomi finalmente a Intra.

Gl'Intresi attendono quasi tutti al lavorìo del cotone.

Gli operai d'Intra non esistono che ad Intra. Nelle grandi città spesso la sordida speculazione ammassa in oscure umide stanze centinaia di operai, che con rachitica pazienza tessono la ricchezza del padrone, muti, tristi, come in ragni da cantina. La sera appena il tardo orologio segna la breve libertà, uno ad uno, silenziosi lungo i muri sfilano alle loro topaie. Ad Intra in generale il fabbricante o per studii o per buon senno, per cuore quasi sempre, considera l'operaio qualche cosa più d'un istrumento da lavoro; lo considera come uomo e come cittadino. Industria attiva, intelligenza, non speculazione. Da ciò grandi opificii, ariosi, puliti, a cent'occhi; dappertutto acqua viva ed aria viva; la natura del lago e del laghista fa il resto. Entrate in una di queste fabbriche, ove migliaia di fusi dipannano, attorcono il cotone. Il carbone avvampa sotto le caldaie; il vapore sprigionandosi mette in moto mille ruote addentellate, attorno alle quali cento operai lavorano dodici ore della giornata. Il silenzio del capace opifizio non è rotto che dal [137] cigolìo delle macchine e dalla voce del capo operaio.

Tutto è ordine, moto, lavoro, instancabile lavoro. Ma in quelle lunghe stanze se tu t'appressi agli uomini sentirai un sottile cinguettìo rompere la noia delle ore, e dalle donne una cantilena a mezze labbra, cinguettìo e cantilene, che appena tradotte alla libera aria la sera scoppiano in allegri canti clamorosi. Nell'estiva stagione lungo le case della Sassonia, sulla via a Pallanza, a Trobaso, quanti gruppi di belle ragazze inneggianti! Alla domenica quante partite al Pizzo Marone, ai paeselli del lago!

Non è raro trovare a varii deschi di albergo gli operai in baldoria, e nella stessa camera il padrone fare una partita a tarocchi cogli amici.

Ma se gli operai d'Intra non si trovano che ad Intra, gli è che fabbricanti come ad Intra non si trovano che raramente altrove.

Che cosa posso aggiungere sopra Intra? Del nuovo o del vecchio campanile? Gl'Intresi non se ne curano. O del faro senza lucerna? Un marinaio, per le nebbie, isserebbe lassù una campana.

***

Il caldo m'è insopportabile. La bella Baveno, al rezzo della quale io vagai richiamando l'ombra di Cavour invano — Cavour villeggiò alcuni anni in questo paesello, — non seppe trattenermi. E neppure la bucolica di G. Prati in onore dell'oste. — Barcaiuolo, a Feriolo!

[138]

Ricorrendo sull'ali della memoria la bella valle del Verbano, e sfogliazzando il libricciuolo su cui vo notando le sensazioni della vista, del naso, del cuore e della fantasia, ad un tratto mi si fè palese che io aveva saltato a piè pari nientemeno che il Santuario di S. Caterina del Sasso, la salita al Pizzo Marone e qualche altra rarità, su cui avrei potuto ammanire al lettore un succoso manicaretto, Dio sa con quanta sua e mia soddisfazione. Per fortuna nostra che in quel punto mi soccorse il pensare, che se mai qualche lettore innamoratosi de' miei ritratti volesse un giorno fare conoscenza cogli originali, s'io di tutto gli avessi favellato, nulla più gli sarebbe tornato nuovo..... Se non tenete per buona questa ragione, con poco dispendio e poca fatica potete accertarvi della verità.

Addio, o Verbanesi!

Credo che ci lasciamo amici per la pelle: io vi amerò sempre come un popolo forte, allegro, alla buona e senza maschera, come spero che voi ricordandovi — tutto può darsi — di me, non sdegnerete centellinarne una ciotola di quel rubino alla vostra ed alla mia salute...

Mentre io scoccava sulle dita un sonoro bacio, e raccomandatolo ai zeffiri, lo inviava alle belle Verbanesi, un tintinnìo di sonagli, uno schioppiettìo di frusta e lo scalpitare di cinque cavalli, che mi rammentò il quadrupedante putrem di Virgilio, m'avvisarono che s'avanzava entro un nugolo di polvere la corriera postale tra Arona e Domodossola.

E salute a chi resta.

[139]

PARTE SECONDA Per le valli d'Ossola.

I. La sentinella dell'Ossola — Un bagno da trent'anni — I romantici a Vogogna — Domodossola — Il mercato.

Fra i monti da cui l'Italia è vallata verso settentrione, non v'ha certamente paese più pittoresco e che porga sì largo tema d'ammirazione e di studi quanto il grandioso bacino a cui convengono tra i contrafforti declinanti dalle Alpi Leponzie sette valli variatissime. Pel poeta, pel pittore e per quelli che corrono le cento miglia per vedere un paese straniero, una natura assai volte meno curiosa, quanti spettacoli!

L'antica mitezza dei costumi pastorali, la vivezza dell'aere che frizza sui nervi, la serena pace che qui si respira, invitano a ritemprare il corpo e l'anima.

L'abitare fra le Alpi rivergina le menti. Come l'antico gladiatore di quando in quando soffregava [140] con oleosi sughi le membra, l'uomo — possibilmente — dovrebbe alcuna volta rinfrancarsi all'eloquente parola della natura, poichè il pensiero umano sulle Alpi, come sul mare, ingagliardisce, inspirandosi a quanto di grande emana dalla loro contemplazione. Lassù fra cielo e terra, il cielo ne attira; le basse passioni si spengono poco a poco e le generose si accrescono di coraggio e di forza.

La sapiente antichità bene avvisò che il cielo si scala solo coi monti.

Io quando incontro su queste nostre Alpi tanti stranieri e nessun Italiano, quasi sto per dire:

— Che peccato che sì belle valli sieno in Italia!!

***

Prendendo le mosse da Feriolo, la natura poco prima sì rigogliosa e lussureggiante di fiori, di profumi e di verzura ad un tratto raggrinza la fronte e si mostra severa, trista.

Il monte Orfano nudo, solitario, minaccioso sul varco, è la tomba senza dubbio d'uno fra gli arditi che ruppero guerra agli Olimpici. Sentinella avanzata dell'Ossola, come il Pirchiriano è alla valle di Susa, la sua fronte crucciata vide le orde Cimbriche scendere dal Gries e dal Sempione ed atterrite coll'aspetto barbaro le legioni romane, correre vittoriose ai campi novaresi a disputarvi l'Italia, questo eterno sogno dello straniero. Anche sul Pirchiriano stanno scritti i fati dei Longobardi. Mezz'ora prima [141] dappertutto ghirlande di rose e tralci d'ubertose viti festeggiano l'umana famiglia: qui dall'una e dall'altra parte massi granitici ti pendono sul capo!

I giardini incantati del Vergante e delle Isole Borromee furono una visione ariostesca?

***

Ornavasso e Vogogna coi loro neri castelli sono i villaggi principali su cui si passa.

Poco prima di Vogogna, a Migiandone, l'antico ponte della strada del Sempione in una calda giornata d'estate fu preso da vaghezza di bagnare le sue membra polverose sulle fresche bionde acque della Toce; ma, ahi! sventura! colpito da inazione nervosa, sentendosi affogare, invano invocò aita, nessuno il soccorse. Da trent'anni l'infelice attende una mano provvidentemente pietosa che lo sollevi dalla Toce: pensate, che angoscia sarà pel poveretto vedersi passare ogni istante due brutte barcaccie sul muso, alla musica del sacramentare dei vetturali e dei viaggiatori!

Vogogna, mi disse un cotale, fu fabbricata da un pittore paesagista della scuola romantica. I poggi rilevati su cui dondolano le vecchie mura di merlate torri, sopra il fondo verdastro della cortina alpestre, non potevano essere meglio disposti.

Mentre si cambiavano i cavalli, io dava un'occhiata al paesaggio e un'altra ad una graziosa figurina, che da una finestra dell'albergo della Posta minacciava di saettare i passanti collo [142] sguardo acuto, affilato di due begli occhi neri. Veh vobis!

Il raggio di fuoco che dall'anima saetta col tuo sguardo accende in ogni cuore desiderii d'amore — a chi non arride il pensiero di cogliere un bacio su labbra non ancor schiuse all'amorose parole?

Ma bada, veh! Bada che da un dì fatale nessuno più legga la bella epigrafe che ora rifulge sul tuo frontispizio:

Onorate la vergine!

Tutte queste belle idee, or che ci penso, mi vennero in capo quando la vettura allontanandosi rapidamente, la visione s'era dileguata... S'io restava a Vogogna, sarei stato così moralista?

Mi ricordo che nelle storie corrono famosi, Giuseppe d'Israele e S. Antonio, per avere resistito al fascino della bellezza muliebre.

Ma se Giuseppe non portava un mantello slacciato? Quanto a S. Antonio, se la bellezza della tentatrice corrispondeva al ritratto lasciatoci dal De-Colonia, è presto spiegata l'astinenza dell'anacoreta.

La virtù è nella lotta.

Dopo Vogogna la valle si stende ampia, piana, verdeggiante sotto un vôlto ceruleo.

Il sole tramontava. Passando sopra un ponte di legno che cavalca la Toce, mi s'indicò il monte Rosa che faceva capolino sopra le altissime vette dell'Anzasca. Il suo capo ancora suffuso dai raggi solari, si confondeva quasi nelle aeree tinte del cielo, come quelle teste alate d'angeli degli antichi cartoni, i contorni delle quali sfumarono.

[143]

Nell'Ossola, il popolo al passare delle corriere postali, si ferma e si leva rispettosamente il cappello.

In breve le ferrate zampe dei cavalli risonarono strepitando sul lastrico d'una bella, pulita ed ampia via, che dritta corre come fra due linee di case modeste, allegre, colle persiane dal classico colore verde.

Domodossola è una curiosa cittadina. Da vedute fotografiche — invenzione che fra gli altri meriti risparmia la fatica del viaggiare — molti conoscono, senz'essersi mossi di casa, la piazza del mercato circondata da case di varia fisionomia, tutte a portici irregolari, con pilastri in pietra, colle gallerie dai piani superiori a traforo, coi balconi sporgenti e le grondaie protettrici e i camini a banderuola e le botteghe tutte diverse d'insegna, di porta, d'addobbo, di profumo.

Da questa piazza s'apre verso settentrione una via non meno bella di quella che vi scorge arrivando dal Lago Maggiore. Mi si disse che entrambe si devono alla strada del Sempione.

Appena disceso dalla vettura, entrai nell'albergo. Un garzone, tutto miele e sentimentalismo, avendo senza dubbio scorto sulla mia cera intenzioni ostili al pollame, m'indicò una porticina che dal cortile scorgeva nel salotto. Una tavola stava imbandita verso il fondo, attorno alla quale erano seduti quattro signori, a quella distanza legale uno dall'altro, che è solita fra persone che il solo caso riunisce. Se io fossi un Centofanti potrei dirvi a quante lingue appartenesse il gergo che vi si biasciava. Uno d'essi a capo del tavolo, alto secco e nodato [144] a foggia d'una canna, con un naso adunco come il becco d'un avoltoio, sulla cui gibbosa groppa s'inforcava un occhialetto verdognolo, senza barba, colle labbra sottili, strizzate, dalle vesti che pizzicavano l'originalità, colla fronte e le guancie raggrinzate dall'eccesso del piacere o del dolore, era inglese.

La fisionomia giovialmente serena tra il meditabondo ed il michelaccio, la capigliatura biondocinerina, la ciera rotonda, un certo fare alla carlona e una bottiglia di birra spumante, tradivano nell'altro un figlio dell'Alemagna.

L'accento dimostrava chiaramente francese il terzo.

Ma chi avrebbe saputo dire all'ombra di quale campanile fosse nato il quarto? Egli in dieci minuti vestiva la sua ciera della melanconia degl'Italiani, dell'aggrottato spleen degli Inglesi, della seria bonomia tedesca, dell'alterigia spagnuola, della follia francese. Lo sguardo era dolce, insinuante, ammaliatore; ora fosco, imponente, terribile; la bocca rosea come quella di una bella figlia della Georgia, spesso dal sorriso contraevasi al sogghigno.

Se uno di quegli scultori che sanno dalla pietra ritrarre una forma evocatrice d'infiniti pensieri, avesse visto, guardato, studiato, analizzato tutti quei moti irrequieti, che male rappresentano passioni indecise e lo sconforto del dubbio, ne avrebbe tratto il tipo di questo secolo. Non un pelo di barba sulle labbra, sulle gote, ma le sopracciglia e la capigliatura stranamente folte; quest'ultima ad arricciate ciocche cadevagli nerissima sulle spalle. Era vestito come un signore di buon gusto. Il suo parlare era [145] poliglotta, una vera olla podrida di motti italiani, greci, spagnuoli, tedeschi, francesi, russi, britanni e fors'anche chinesi. Chi avrebbe potuto snebbiare questo mistero vivente?

Quand'io entrai, il loro colloquio era animatissimo tanto che l'Inglese gesticolava come un telegrafo non elettrico.

Anzi mi parve che tutti e quattro parlassero ad una volta secondo la buona usanza parlamentare di quelli che vogliono far prevalere la propria opinione senza ascoltare quella degli altri.

Salutai: il Francese solo accennò.

Mi sedetti senz'altro, tracannai un bicchiere di vino ad onore e gloria della cortesia francese, e mentre il garzone recavami la vittima, che io doveva immolare al mio appetito, ascoltai.

III. L'Italia non è che un albergo — 17835 iscrizioni e mezza — Lezioni archeologiche — Varietà di gusti — Apologia del farniente — Terzo primato dell'Italia — Quattro duelli — Che hanno la coda.

Francese. Il bello è sempre lontano da casa: del resto anche la Francia non teme confronti. Io viaggio, cioè ho fatto un viaggio in Italia, perchè questo è l'uso d'ogni persona colta: ve lo dico senza velo. Credete voi che tutti vengano qui a sospirare le ore e le ore sotto un arco frantumato, un palazzo polveroso, un'iscrizione [146] che non riescono a compitare, per amore delle antiche memorie? Tutta ipocrisia, miei signori. L'Italia è un grande albergo, a cui conviene il bel mondo europeo, e nulla più. Partii da Marsiglia per Napoli. Ho visto il cratere del Vesuvio, ho mangiato i maccheroni, ho danzato la tarantella e mi son fatto scorrazzare in corricolo. I lazzaroni mettono schifo ed il resto annoia... È un popolo lontano mille miglia da Parigi! A Roma ho veduto S. Pietro, il Colosseo, il Campidoglio ed il Papa. Grandi cose in mezzo a meschinissime. A Firenze, ho cercato nelle sale del bel mondo la tanto decantata favella toscana, ed ho udito biascicare la nostra gran lingua, la lingua del mondo intelligente. A Milano, a Genova, tolti i monumenti, trovai città da provincia; a Torino cera di capitale senza l'imponenza babelica d'una metropoli monumentale. La seria e disciplinata apparenza dei cittadini e della città spiega la loro storia e la loro gloria nella diplomazia e nelle armi. Tutto è ordine. Del resto per chi non è assai ricco ed ama la tranquillità, Torino sarebbe forse la città più confortevole di tutta l'Italia: pare un convento di agenti del governo. Tutte queste città, compresa la scenica Venezia e le cento altre minori, è forse meglio vederle nei diorami del Palais Royal.

In poche parole, appena lasciato il suolo francese, m'annoiai mortalmente!

Alemanno. Signore, voi avete un adagio, che se non mi sbaglio suona che ognuno ha i suoi gusti. Giacchè parliamo senza circonlocuzioni, vi dirò schiettamente che ho dimorato molti mesi in questo paese, e lo lascio con grande rincrescimento, quantunque la birra sia pessima.

[147]

L'Italia per noi Tedeschi è una immensa università, le cui mura son tutte tappezzate di lapidi e di monumenti, per chi sa leggerli.

Franc. (a mezza bocca) Grazie mille.

Alem. (facendo lo gnorri). Nessuna nazione porta sulla sua fronte così palesi le impronte della sua grandezza....

Franc. (da semplicione). Per chi sa leggerci.

Alem. (orecchio da mercante). Non tutti sono, grazie a Dio, letterati. Voi vedete là in quel canto quell'inviluppo mostruoso di carte? Sono 17835 1⁄2 iscrizioni trovate da me in Italia e commentate (mormorio di meraviglia).

Incognito. E, se non sono indiscreto, a che queste tante iscrizioni?

Franc. Io vi ammiro! Vi ammiro profondamente! — disse con ironico enfasi il Francese, ficcando il naso nel bicchiere e gli occhi in quelli dell'impassibile incognito per ispiare un zinzino di malignità nella sua domanda.

Alem. (fermo come torre che non crolla). Queste 17835 iscrizioni e mezza serviranno per note ad una mia opera futura, a cui preparo le basi.

Franc. E, se anch'io non sono troppo curioso, quale sarà il titolo di questo lavoro senza dubbio gigantesco? Anch'io sono baccelliere e non si sa mai... potrei anch'io associarmi alla sua pubblicazione (se pure vivrò tanto da vederne il fine!).

Alem. Scrivo la storia del pensiero umano comparato nelle razze latine e nordiche.

Incogn. L'idea di quest'opera deve avervi atterrito sulle prime. Essa non può essere concepita che da un figlio della Germania. Voi avete mente disquisitrice e rara, strana pazienza...

[148]

Alem. E lunghi inverni e buona birra.

Franc. (per tagliar corto). In Italia cattiva birra e buon vino.

Inglese. Sì, buon vino, eccellente. Vino che rallegrerebbe un Inglese corroso dall'umore nero. Lasciando a parte le altre qualità che fanno bella l'Italia, io credo che essa merita una visita per questa volta.

Franc. Se io vi ritorno, scriverò la storia comparata dei vini.

Alem. Anche quest'opera gioverebbe assai all'umanità, se si considerassero le parole ed i fatti, che sono la conseguenza diretta del vino tracannato da Noè a noi, o per meglio dire, a voi.

Inglese (al garzone). Portatemi del vino piemontese... (mescendo agli altri) Signori... questo vino è buono; e sarebbe incomparabilmente migliore ove non si fabbricasse tuttora come ai tempi di Noè. Ah! l'Italia! Marsala, Lacrima, Chieti, Vin Santo, Canonao, Malvasìa, Caluso, Barolo, e voi classici vini dell'Astigiano! Il vino è la più bella gloria dell'Italia. Le altre non conosco. Dappertutto vidi macchine inglesi.

Franc. E stoffe francesi...

Alem. Gl'Italiani dormono sugli antichi allori.

Inglese. Se pure quegli antichi eroi non furono tanti miti.

Franc. Gl'Italiani sono il popolo di cui si piantarono e si piantano maggiori carote. I poeti, più bugiardi dei cavadenti, ne hanno assuefatti di là dell'Alpi a pensare all'Italia come ad un paradiso terrestre. Essi magnificarono il clima, i monumenti e le donne. Sì — voglio concederlo — qualche cosa di bello e di grande v'ha qui... come poco più poco meno dappertutto.... [149] Il clima, se ne eccettuate due o tre spiaggie marine della parte meridionale, è incostante e freddo nella stagione invernale come da noi. A Torino si soffre il freddo assai più che a San Pietroburgo. De' monumenti ho già detto quanto penso: non sono in grado di apprezzare se non quelli che hanno un'insegna... Restano le donne... Qui piego il capo, e confesso di aver scoperto nel loro sguardo una dolcezza che manca al clima, e la grandezza, che non trovai nel resto. Facciamo, o signori, un brindisi a questi avanzi dell'antica imperatrice del mondo, su cui pure (al Tedesco) il signore non avrà mancato di studiare, nelle ore di ozio, senza cercare iscrizioni...

Alem. Miscere utile dulci!...

Franc. (al cameriere). Porta del Bordeaux. Spero che dopo il vino piemontese apprezzeranno anche il mio Bordeaux.

Mentre il Francese mesce ai commensali, chiede all'incognito:

— Non sarebbe ella mai Italiano?

Incogn. No, non sono Europeo.....

Alem. Nelle linee caratteristiche del suo volto leggo.....

Franc. (scherzando) Un'iscrizione?

Alem. Una leggenda della Grecia..... del Levante.....

Incogn. Non sono nato sulla terra, o signori.

Tutti. Oh! oh! questa è graziosa! marchiana!

Franc. (a fior di labbra) Oh! mi casca adesso dalla luna.

Incogn. Sono nato sopra una nave americana.

Ingl. Siamo della stessa razza.

Alem. La vostra nazione verrà un giorno a mettere in sesto l'Europa.

[150]

Americ. Quanto a me dell'Europa non amo che l'Italia. Come nazione, noi non abbiamo avuto pietà delle sue lagrime, perchè non volle mai intensamente con tutte le forze l'indipendenza per conseguire la libertà! Quanto poi a ciò che l'Italia dà al mondo intero.....

Ingl. Eh! poverina; se mi eccettuate i cappelli di paglia.....

Franc. Non ha di suo che il far niente.

Amer. Ecco la sorgente del suo merito a' miei occhi.

Tutti. Oh! oh!

Amer. Signori, voi tutti veniste in Italia per divertirvi. (al garzone) Mesci Malaga.

Franc. Io vi venni, perchè la moda vuole così, ve l'ho già detto, e mi annoiai mortalmente.

Amer. Perchè non vi siete divertito?

Franc. Perchè? Strade ferrate poche: alberghi molti e cattivi. Mi dicono i ladri in quantità. Da pertutto si vede che Voltaire e Vatel non nacquero in Italia. Ecco l'Italia.

Alem. Io mi divertii molto studiando. Se ci avesse della buona birra di Baviera, io l'amerei anzitutto, benchè gl'Italiani non amino i Tedeschi col pretesto degli Austriaci.

Amer. Eh! mi sembra che abbiano imparato a far poca distinzione fra gli uni e gli altri.

Ingl. Io, a dirla francamente, viaggio per fare economia. In Italia un uomo solo con una ventina di lire al giorno, se la sciala allegramente. Amo gl'Italiani perchè amo Byron. Ammiro la loro potenza artistica antica, e se con poche sterline posso portare via qualche tela [151] affumicata dai loro palagi deserti, e non sto a lesinare. Quanto alle loro arti odierne, poco su poco giù, se ne potessero fare mostra in un centro, credo uguali alle straniere. Non crediate che io ami le arti come quelle che disterrano al ciel la mente, a dirla cogli Italiani, amo le arti che mi danno piacere. Il piacere, ecco quanto cerco, ecco la mia divisa.

Franc. Chi non ama il piacere — anche sotto la forma di un'iscrizione?

(Smorfia eloquente del Tedesco — a cui l'Americano mesce un bicchierone di Malaga, il quale trovato nel ventricolo il Bordeaux ed il Barolo, accende con essi e la birra un incendio, per cui il fumo comincia a sortire dal naso del pacato Alemanno).

Amer. (all'Inglese) Bravo. Il piacere; ecco la molla d'ogni azione. Chi cerca il dolore? La vita non è che un circolo più o meno vasto, in cui l'uomo corre dietro al piacere, e fugge al dolore, che del resto ha le gambe molto lunghe e le braccia di ferro. Ora, viaggiando, qual è il paese in cui il circolo pare meno angusto? Se non l'.....Italia?

Ingl., Alem., Franc. ad un fiato: L'Inghilterra! La Germania! La Francia!

Amer. Nossignori..... L'Italia.

Tutti. Oh!

Amer. (mesce) A voi partito dalle sponde fumose del Tamigi non sarebbe stato dato il trovare un paese, che avesse cielo sorridente e dolci aure, ottimi vini, vita a buon mercato, e di che scialarla allegramente come in Italia, in tutto il mondo. Qui Shakespeare sognò i suoi [152] drammi: senza vedere l'Italia egli comprese quanto colore dà questo sole alle minime cose. Ad ogni passo incontrate l'ombra di Byron. Come Inglese voi dovete essere appassionato delle scene naturali. Dove trovate maggior varietà? Qui presso eterne nevi e sulle rive mediterranee eterna primavera. Fate ora paragone coll'Inghilterra. Quanto v'appare triste e caliginoso quel suo aere pregno di Goddam e di catrame!

Ingl. (con una mezza tinta drammatica) Signore!

Amer. E voi, amante pure del piacere, rimproverate agli Italiani il lor far niente? Voi non lo comprendete il loro far niente.

Un giorno il sole amoreggiò colla fantasia: da essa nacquero gl'Italiani. La splendida natura del loro bel paese desta in loro non meraviglia, come in voi, ma una dolce melanconia che li invita a meditare, a fantasiare. Chi di essi riesce a plasmare la propria idea crea un capolavoro concepito fra l'aspetto di spettacoli grandiosi, fra le memorie d'una gloria immensa, ed in una meditazione continua, intensa.

Questo far niente è adunque un gran lavoro. È il far niente che produsse i loro artisti, Raffaello e Rossini.

Se tutti gl'Italiani dessero o potessero dare atto ai pensieri che concepisce il loro far niente, a quest'ora il mondo sarebbe una seconda volta di loro. Tutte le nazioni nutrono più o meno un certo rancore contro l'Italia. Perchè non contro la Curlandia, la Danimarca, la Turchia?

Tutti cercano di soffocare i suoi gemiti gridando che essa a nulla è atta. Le altre nazioni [153] quando si trovarono nella sventura annoiarono il mondo stridendo: quando l'Italia piange, un'arcana melodìa ne soggioga.

O in una o in un'altra cosa l'Italia comanda sempre al mondo. Una volta coll'armi, ma i popoli battuti borbottavano male parole; ora colla musica, ed i soggiogati accettano l'impero battendo palma a palma. A mezzo l'Otello, il Guglielmo Tell, la Norma, la Lucia od il Rigoletto rimproverate agl'Italiani di non farvi le stringhe a buon mercato come in Francia. Io quando sento le note della

«Casta Diva, che inargenti»

chiudo gli occhi, ed assorto in una voluttà che non istanca comprendo tutti i misteri del cuore che nella solenne quiete della notte confida alle ombre i suoi palpiti. E mi terrei beato se io potessi rientrare nel nulla accompagnato dalla sinfonia della Semiramide. Tutte queste armonie emanano in parte dall'influsso delle donne italiane, le sole che mi toccano più che i sensi, la mente. Voi mi direte che l'Alemagna e la Francia hanno grandi maestri non inferiori in merito agli Italiani... Senza discutere rispondo che la melodìa di questi mi tocca di repente il cuore: le armonie di quelli mi meravigliano, ma m'impongono uno studio.

Intanto l'Italia riscuote da tutte le nazioni un tributo alle sue arti: noi lo paghiamo senza battere palpebra. Ora chiedete ai vostri telai, alle vostre macchine, il piacere!

Tutti i vostri più grandi artisti non divennero tali se non dopo una certa dimora in Italia, [154] ove direi che l'armonie di cui è pregna l'aria, destarono in essi le potenze dinamiche. Rubens? Vandych? Poussin? Thorwaldsen? Meyerbeer? Reynolds?

La gretta gelosia delle nazioni verso l'Italia è giusta; se esse le avessero permesso di divenire politicamente una nazione, tutto il mondo sbadiglierebbe da lungo tempo alle malplagiate note dei nostri maestri, e allora addio, o piacere unico, divino! Perciò il risorgimento politico italiano, sotto quest'aspetto, non trova in me un fautore. Che volete? L'Italia oppressa piangeva così soavemente! Libera? la vedrete perdere lo scettro delle arti. Le nove vergini non amano il tamburo militare. Le vostre nazioni quando il gladio romano le affettò, che divennero? Scomparvero. L'Italia scompare nella politica e tosto rinasce nelle arti. Cos'è la Spagna divisa, sbattuta da mal certe passioni? Paragonatele l'Italia. E voi, Alemanno, troverete più facilmente qui la birra di Baviera, che 17835 iscrizioni in Germania.

Franc. 17835 e 1⁄2. Ah! ah!

Alem. Sì, 17835 e 1⁄2. Volete vederle?

Franc., Ingl., Amer. Misericordia!

Tutti s'alzarono per isfuggire alla terribile minaccia del buon Tedesco; questi offeso dalla dimostrazione eloquente credette lesa la patria nelle sue più profonde affezioni archeologiche, e per difendere la Germania non trovò mezzo più spiccio di quello di arrovellarsi contro l'Italia, dimenticando — o ingratitudine! — l'origine delle iscrizioni in appendice alla sua opera — postuma.

[155]

Io in quella gazzarra pensate se me ne stetti a bocca chiusa! Desiderare che l'Italia sia schiava per sentirne il pianto... Oh! dunque la è una istriona? Un usignuolo da tenersi in gabbia? Voi siete altrettanti egoisti, e per me vorrei che non una nota di Rossini avesse varcate le Alpi.

In pochi minuti i forestieri, obbliati i meriti musicali e viniferi ed il dolce far niente si unirono a' miei danni. Animato da un insolito calore, io sentiva ingagliardirsi in me tutte le potenze dell'amore, che fa della patria agl'Italiani una madre afflitta da consolare. Perciò rigettate le lodi ed il lascivo panegirico dell'Americano, intuonai, virgolato da più libazioni, un'eloquente difesa della povera nazione che getta finalmente la cetra, con cui ha saputo molcere i dì del dolore per impugnare il ferro della battaglia.

Le vicine pareti della sala erano scomparse, ed io vedeva attorno attorno sulle pendici dell'anfiteatro ossolano un'immensa moltitudine, che cogli occhi m'incoraggiava col gesto. Erano ombre di remoti e di vicini secoli. Io riconoscendo in molti d'essi carissime conoscenze di biblioteca, eruttava faville. Le cruciate figure di Dante, di Michelangelo e di Giusti, parevano protestare contro il detto dell'Americano esser necessaria la schiavità all'Italia per serbare il primato nelle arti.

Gli stranieri irritati a quella vista, crollando le spalle e facendo le boccacce, senza una riverenza al mondo per quei nostri illustrissimi, sacramentarono d'impiparsi di quelle anticaglie da ferravecchio, di miti, d'ombre chinesi.

[156]

Se non m'isbaglio, mi diedero per corollario dell'asino — ma per non essere la prima volta in vita mia — non ne sentii troppa ira. Virgilio m'era pur costato delle sonore sferzate; Dante mi fa presentire la bolgia degli scioperati fannulloni; eppure al sacrilego dileggio perdonai i cavalli al pedagogo, e, gettato lo scudo, colla baionetta in canna assalii di botto tutte le nazioni in una volta.

La faccenda diventava seria. Le ombre stesse malcontente parevano volermi suggerire, ma anch'esse tutte ad una volta. In due minuti il vino e l'amor di patria annebbiarono le idee; il colloquio diventò un turbine, una tempesta. L'ira alle fiamme accecanti del liquore s'accese. Gli era come cento suonatori disaccordi, un pandemonio di esclamazioni, di nomi proprii, un'enciclopedia a fascio, un vocabolario scucito, i cui fogli svolazzano confusi dall'uragano.

Povera Italia! Dopo mezz'ora i quattro campioni giacevano in una gora sanguigna, attorno al tavolo, non morti e non del tutto vivi.

***

Il garzone sentimentale mi condusse nella mia camera da letto: il quale sormontato da un alto baldacchino a cortine — il letto, non il cameriere — stava in mezzo alla stanza col capo al muro. Ampie cortine d'un rosso dubbioso lo coprivano intieramente. Mi posi tosto a letto e spensi il lume. Un raggio di luna, sottile, lungo, mi tremolava presso alla finestra: [157] la discussione, il vino e le cortine mi soffocavano: le apersi.

In fondo alla camera stavano — non v'era dubbio — varie figure, dritte, minacciose, una presso all'altra stretta per le mani, come i congiurati del Grütli. Se non che quelli erano tre, questi quattro.

Lo spavento fece abbrividire il midollo delle mie ossa.

Erano proprio i commensali, forse ubbriachi, che venivano a farmi qualche brutto tiro. Volli scivolare dal letto, cercare nel sacco da viaggio una pistola; ma le gambe aggranchite mi negarono il loro ufficio. Volli chiudere gli occhi: non potei. S'avanzarono fin presso ai piedi del letto.

Il primo a parlare fu il Tedesco.

— Signore, egli borbottò, voi avete riso delle mie 17835 iscrizioni e mezza, e voi me ne renderete conto e tosto. Così vi sarà al mondo un nemico di Germania di meno.

— Caro fratello in Schiller, gli risposi ritirando gli artigli, voi parlate come suole il mondo, una verità ed una menzogna. Anzitutto gli Italiani non odiano gli Alemanni; odiano gli stranieri che vengono giù dalle Alpi a rapina di ogni cosa — eccettuate le iscrizioni. Anzi rimarginate le piaghe fatte dagli Austriaci, la tanto percossa Italia vi stenderà una mano, amichevole. Se corsero rivi di sangue fra voi e noi, la colpa a voi: v'abbiamo detto:

Ripassate le Alpi e tornerem fratelli...

voleste restare! — Quanto alle iscrizioni, è vero, risi. Battiamoci dunque da buoni amici. [158] Ma prima che cessi per me questa dolce abitudine di pensare ed agire, come dice il vostro Goethe, chiaritemi perchè l'ultima vostra iscrizione sia soltanto mezza.

— Per la semplice ragione che io non la ritrovai intera.

Io assentii con un profondo inchino alla magniloquenza di quella risposta, e quando alzai il capo, l'Inglese corrucciato, cogli occhiali sul fronte, masticò fra i denti:

— Signore! voi avete sorriso all'Americano quando irrise la nostra povertà musicale. V'attendo.

L'Americano coi capelli pioventi lungo il muso, come un salice piangente ombreggia il tronco de' suoi pieghevoli rami, s'avanzò, squassò la criniera, armò le labbra del più infernale sogghigno, e proruppe nell'attitudine del Mefistofele d'Ary Scheffer:

— Uomo nato sulla terra, io compiango te come questi altri. Ognuno di voi crede che i cavoli maturino meglio all'ombra del patrio campanile. Vi disprezzo perchè egoisti; vi compiango perchè amate un pugno di terra invece d'amare il tutto. Perciò, a conto mio, ti dico: dormi! dormi! poichè non sei atto a spogliare quella veste nessea che tu chiami amor di patria, e che ti darà dolori, non mai gioie. Che Italia mi vai cantando? Vieni con me: t'insegnerà a dimenticarla il piacere.

Un brivido glaciale mi corse per le vene tutte: i denti battevano come le nacchere d'una ballerina nelle ridde della tarantella, e la fronte mi gocciava ad un tempo di freddo sudore; tuonai:

[159]

— Larva d'uomo, apprestati a lavare col tuo sangue l'insulto!

Egli crollò le spalle impassibile e s'assise sopra il cassettone aspettando la sua volta.

Il Francese con un fare tra lo sbadato e l'altero mi disse:

— Voi sapete abbastanza che uno di noi due deve morire... e sarete voi...

— Perchè non voi!

— Forse ambidue, susurrò l'Americano.

— Meglio ancora: ci batteremo al di là...

Allora gli stranieri, prima discordi, vedendomi facile vittima, si strinsero a' miei danni. Anche quell'Americano che aveva cantato l'Italia, o miserabile! derideva la mia nudità!

. . . . . . . Un velo sanguinoso passò dinanzi i miei occhi, saltai giù dal letto ed abbrancai furente la spada che m'offeriva il Tedesco. Pochi colpi ma di misura. Dopo cinque minuti egli cadeva nel proprio sangue. L'Americano, impassibile, mentre il Tedesco agonizzante gli raccomandava le sue 17835 iscrizioni e mezza, di un calcio lo rotolò sotto il letto.

Pareva che il mio braccio fosse guidato da una magica forza misteriosa: il Francese nella sua furia lasciò un istante il cuore allo scoperto; fu l'istante della sua morte. Ed eccolo in compagnia del Tedesco sotto al letto.

L'Americano, ad un tratto, mentre io, ebbro e sitibondo di sangue (e a dirla schietta, anche d'una chicchera di thè, a cacciar giù quell'imbroglio dallo stomaco), gli porgeva un ferro, trae di tasca una fiola, d'un sorso ne beve il contenuto, e borbottando un addio alla vita ed al piacere, s'abbandona mollemente a terra; [160] quindi, oh meraviglia! per risparmiare a se stesso quel certo calcio surriferito, agonizzante, striscia, s'avvoltola, sdrucciola come un serpe ferito, sul pavimento, fin presso ai compagni sotto al letto.

L'Inglese, masticando il soliloquio d'Amleto, si disponeva, con eroico disprezzo della morte, ad infilzarmi nello spiedo. Solamente per amore di verità assicurò che una partita a pugni gli sarebbe stata più cara; ma, considerato il pregiudizio degli Italiani, che lasciano questo duellare ai facchini, si dispose a rendermi quel buon ufficio che desiderava. Oh come lunga, accanita, disperata fu la sua difesa! Assolutamente non voleva cedere alla sorte dei compagni. Eppure..... già mi capite. Il suo cadavere, cadendo a terra, urtò il cadavere del Francese; una viva scintilla di fuoco illuminò la scena.

Sfinito, mi coricai. Un lago di sangue innondava la stanza: le iscrizioni del Tedesco galleggiavano, come già i monumenti che le portavano in fronte soprastarono al deserto di ruine, che fecero le orde dei suoi connazionali. Il raggio di luna pareva si tuffasse con voluttà in quella gora, come una silfide nelle cilestri onde marine; dalla finestra socchiusa un venticello veniva a tergere colla sua fresca mano i sudori della battaglia, ed io me ne stava là sul letto come sopra un trono, o meglio sopra un carro di trionfo, allorchè la porta s'aperse, entrò una frotta d'uomini armati di rewolvers.

Erano Americani; ed il loro capo, sbottonatosi, cavò dal giustacuore una carta, la lesse: o Dio! era la mia sentenza!

Quella buona gente era partita di laggiù per [161] accomodare per sempre la lite e disfare col ferro il nodo gordiano, cominciando la missione civilizzatrice col mandarmi le gambe in aria. Ed io, sentendomi ad un tratto più amante che mai della vita, e la morte già tirarmi pei piedi nelle sue gelide braccia, dato un rapido intensissimo addio a tante belle e care creature e cose, colla parola strozzata, balbettando, colle mani in aria ora in atto pietoso, ora irato, invano protestava aver io difeso l'onore della mia patria, invano invocava il nome del Licurgo americano, invano faceva appello agli scritti umanitarii della signora Beecher Stowe; già comprendeva che gl'italiani non debbono attendere soccorso che dalle proprie braccia, e un anello diacciato sulla fronte, la bocca d'una pistola, già stava per sbalzarmi addirittura al di là dello Stige, quando il garzone mi svegliò, come eravamo convenuti e mi presentò il conto dello scotto.

***

Se la sentenza dell'Americano mi faceva capire chiaramente come tutti i popoli non sono generosi se non finchè nella partita s'avvantaggia il loro interesse, — salvo a piantarvi dopo il primo acchito — quella dell'oste a prima vista m'apparve come l'arcobaleno dopo un diluvio; a seconda mi fece osservare che io era tenuto quale inglese — s'intende naturalmente di quelli del tempo in cui gli animali parlavano, ed i ricchi non venivano in Italia a rattoppare la fortuna compromessa dagli Sport...

[162]

Dopo le prove della notte, uno scambio di nazionalità mi era troppo sensibile; quella birba, che aveva difeso l'Italia, m'aveva a prezzo della sua eloquenza, accollato il proprio scotto. Discesi e raccontai la cosa a ser l'oste: mi rispose che, quanto al prezzo, egli era convinto che gli stranieri potevano senza ragione di broncio pagare un po' più la sua ospitalità, quando godevano gratis tanti spettacoli; e quanto all'incognito, avergli detto che io era suo intrinseco amico, ed essere convenuto fra di noi che io avrei soddisfatto ogni cosa..... Così per giunta era tenuto pel suo amico, o Dio sa che cosa! Tuttavia dopo poche mie osservazioni, d'un tratto di penna tagliò la coda al totale, coda che io in onore della nazionalità italiana donai al garzone.

Non vidi più alcuni de' miei commensali. Il Tedesco era partito a mezzanotte colla corriera del Sempione in compagnia del Francese e delle sue 17835 iscrizioni — e mezza — l'uno pel Grimsel, l'altro per Ginevra. L'incognito era certamente passato ad intuonare un inno all'ospitalità svizzera (a 8, 10 e 12 lire al giorno, compreso il letto).

IV. Una giovenca ed il più bel cuore del mondo — Avete buone gambe? — Re in Valvigezzo — Anche sull'Alpi si trovano traditori — Requiescant in pace.

Che bel mercato è il mercato del sabbato a Domodossola! Le svariate e strane foggie degli [163] alpigiani di tutti i monti circondanti formano uno spettacolo veramente curioso. Le vie e la piazza del centro erano tutte assiepate di carri a cui stavano attelati buoi di piccola statura; di panche su cui cesti di pomi, pesche, uve e pere di non grande dimensione ma colorite e gustose; di ortaglia, di forme rotonde di cacio; stiacciate, bislunghe, ovali, di butirro fresco; di scansìe su cui bottoni, spilloni, pettini, collane e le altre minuterie di cui è sì golosa la nostra contadina nè più nè meno che la canadese; di tavolati a cui appesi il velo, il fazzoletto trinato, la veste di seta, di cotone e di lana, tutte a vivi colori e il rosso campeggia; ed intorno a tutte queste botteghe ad aria aperta uno sciame di montanine fresche rubizze, di ragazzacci, di contadini, di vecchierelle secche, olivastre e tuttora vegete; un vociare poi di venditori, che fanno a chi strilla più forte, ed un gridìo continuo di ooh! ooh! dei conducenti le carrettelle cariche di foresti e di merci che vengono o vanno alle valli ossolane o all'Intrasca.

Sulla piazzetta che sta dinnanzi all'albergo, al primo mettere piè fuori, mi ferì la vista una bionda ragazza sui sedici anni, accoccolata presso il muro, coi dolcissimi occhi pregni di lacrime. Il volto aveva leggermente coperto d'una finissima lanugine tal e quale la peluria di una bella pesca di Lesa. E come una pesca incarnata le gote erano erubescenti. Fattomi a domandarle della causa del suo dolore, dopo qualche peritanza mi rispose mostrandomi un canestro pieno di frutta fresca sconciamente battuta e pesta. Una giovenca infuriata datasi a scorazzare pel mercato, aveva urtato nel suo [164] canestro quando appunto stava per venderlo, e ne aveva fatto quel scempio, e due grosse lagrime venivano terse col rozzo grembiale di tela azzurra. Forse la fanciulla aveva corso pericolo ella stessa; ma l'essere scampata non la consolava della perdita, a guisa di quella bimba che, sorpresa sopra le rotaie di una strada ferrata dall'imminente convoglio, mentre le attraversava portando un pentolino di latte, caduta a terra dallo spavento, si rialzava incolume ma piangente perchè aveva rotto il pentolino e versato il latte. Le profersi di comprare quella frutta. Ella mi guardò estatica, dubbiosa quasi non avesse compreso. Una vecchierella che dall'abito pareva sua convalligiana la persuase ad accettare quelle poche monete di rame di cui le era sì poco generoso. Ella non rispose che con una lunga occhiata, in cui io lessi cinque o sei ore di cammino, ed una buona tirata d'orecchi dal padre a lei risparmiata: poteva dimostrarsi più grata?

Girellando per le vie, giunsi in faccia al duomo, che, fra parentesi, non ha ancora faccia. Entratovi, ammirai begli affreschi e quadri, che mi si dissero opera di valenti pittori ossolani.

Poco lungi dalla cattedrale vidi pure un'antica magione in viottolo dimenticato, a porte e finestre ornate di pietra tagliata. Sopra ogni architrave un'iscrizione latina. Tutte le finestre chiuse: le invetriate polverose, le soglie e le porte intatte. Pare dorma da lungo tempo. Quella casa così abbandonata mi parve uno dei tanti palazzi di Venezia che, disabitati, lungo i canali dei quartieri meno popolosi, vanno morendo d'inedia e di noia.

[165]

Nessuno indovinerebbe ciò che io trovai di ritorno all'albergo: sovra un piatto tersissimo di maiolica rossa, coperti da foglie di vite due grappoli d'uva perlati di rugiada... Quella fanciulla invero aveva un bel cuore.

Giammai sì poca moneta fruttò allo zingaro tanto piacere. Il donare è veramente la più squisita di tutte le soddisfazioni... Non è vero, lettrici mie?

***

Lettore, hai tu buone gambe? Orsù, in moto; apparecchiati a salire e a scendere, ad arrampicarti e dirupinarti giù dei monti. Se poi non hai buone gambe, fermati a Domodossola, che io ti racconterò storie e ciarle millanta di apostoli e di soldati, di alpigiani e di monti, di foreste e di cascate.

Il sole spunta sulle creste dei monti che si adagiano tra la valle Vigezzo e l'Intrasca: e la più ridente delle valli ossolane svelata agli occhi del cielo e degli uomini intuona il suo inno alla natura.

Appaiatomi con uno di quegli onesti contadini dal saio meno ruvido, dalle grosse scarpe e dagli enormi solini della camicia, che, assiepando la testa — onde non perderla facendo cammino — gli segavano le orecchie, da Santa Maria Maggiore in due ore di cicalate giunsi al Santuario.

— Ha da sapere il mio signore che nell'anno Domini 1494 un certo Zuccone scagliava una pietra nell'immagine della Vergine e la colpiva [166] nella fronte. Pensi quale fu il suo terrore quando vide quell'immagine grondare sangue, e le campane, agitate da mano ignota, suonare a festa! Sicuro, mio signore, che ciò dopo tanti anni potrebbe essere messo in dubbio: ma grazie al cielo i miscredenti qui non possono sogghignare, perchè teniamo negli archivi un atto giudiziale, firmato, bollato ed autenticato dal podestà della valle e da tutti i notai della giurisdizione; e lei, che dalla ciera parmi debba sapere di lettera, capirà che tutti questi scriba non sarebbero andati così d'accordo se il miracolo non fosse stato evidente.

— Tutti quei messeri erano convenuti in Re nell'istante di quel miracolo?

— No, vi convennero chè il miracolo durò diciotto giorni continui, e se la vuol convincersi, venga con me che le farò leggere lo strumento.

— Grazie, amico mio; io sono di quelli che amano meglio di credere che di accertarmi scrupolosamente del fatto.

— Ah! sclamò con voce dolente il buon vecchierello stringendomi la destra fra le incallite mani, perchè non la pensano tutti come lei?

***

All'indomani, procedendo poco oltre Olgia, godetti lo spettacolo delle sottoposte Cento valli, per cui in poche ore, a quanto mi si disse, si scende, passando ad Intragna, all'amena Locarno. La quasi deserta valle Cannobina, a cui si potrebbe discendere varcando da Malesco (prima di giungere a Re) il brutto passo di Finero [167] non mi tentò affatto. A Craveggia, nota pel bello stabilimento di eccellenti acque minerali, ebbe i natali Pietro Ferino che, acquistata sui campi napoleonici fama di esperto condottiero, veniva tenuto caro da Napoleone e dallo stesso Luigi XVIII, che lo creava pari di Francia.

A S. Maria Maggiore, sul finire dello scorso secolo, accadeva una terribile scena. Una buona parte dei novatori che avevano occupato il forte di Domodossola, sentita la rotta dei compagni a Gravellona, si ritirava nella valle Vigezzo, donde nel giorno seguente, scendendo le Cento valli o la Cannobina, si sarebbe rifuggita nella repubblica cisalpina. A S. Maria i novatori stanchi dalla lunga marcia, abbattuti dalla fatica e dallo sconforto, sono ricevuti da certo Rassiga, il quale blatterando di politica in piazza era in voce di fautore dei Francesi. Egli corre incontro al drappello, e dopo di essersi rallegrato che il sole di S. Maria potesse vedere i redentori della patria, rincrescevole della troppo esigua capienza della sua casa, li guida in un albergo, li conforta di ciancie e di cibi, ed acconciatili alla meglio nelle stalle capaci, li lascia in preda ai sonno. Il loro capitano aveva colorito al Rassiga ed ai curiosi la precipitosa ritirata come una mossa strategica, tacendo dei disastri toccati. A mezzo la notte, buia come la gola del lupo, Rassiga è svegliato: che è che non è, un amico che giungeva allora allora dal piano, saputo dell'arrivo in S. Maria dei novatori e dell'accoglimento avuto, lo fa consapevole della loro rotta, e peggio, i soldati regi già stare alle porte del borgo, il pericolo imminente: fuggisse od in alcun modo provvedesse alla propria sicurezza. [168] Rassiga era uno di quei tali che ignorano nulla essere più difficile che conservare un'opinione nel pericolo della vita. Che Dio non metta mai a questa prova la falange dei tanti!

Nella lotta, seppure vi fu lotta, prevalse l'egoismo: alle strette di dover perdere avere e vita, scelse il tradimento. Corse incontro ai regii; sè disse corpo ed anima pel trionfo dell'ordine: sapere che una mano di turbolenti si era rifuggita fra quei monti pacifici per commettere Dio sa quali abbominii su popolazioni devote al re: suo dovere di svelare il covo che ricettava le fiere, onde immolarle alla giustizia.

La paura dalle pallide sembianze condusse con mano tremante il tradimento attraverso le ombre della notte alla porta segnata; con passi di volpe varcano furtivi la soglia ospitale.

Fra la sicuranza del ricetto fratellevole e la stanchezza per la faticosa marcia, i fuggiaschi s'erano abbandonati al sonno, e già la fantasia pingeva loro d'attorno le scene famigliari delle madri, delle spose e delle amiche lontane, quando — un lampo — un tuono orrendo scoppiò, e s'udì per l'aere commosso un urlo... dal sonno fidente erano trabalzati nel nulla — tutti!

Requiescant in pace, balbettò esterrefatto Rassiga.

— Viva il re! gridarono i soldati.

[169]

V. Trionfo delle castagne sulla fama di un'illustrazione dantesca.

M'aggirava nelle boscate colline di Trontano all'ombra dei castagneti. Stanco d'asolare entrai in una modesta capanna sull'orlo del villaggio, e vi trovai cortese ospitalità. Rifocillatomi in compagnia di quei buoni contadini, mi assisi al rezzo delle piante. L'esterno di quella casa campestre senza aver nulla di mirabile, mi colpiva; forse erano due finestre nel muro di pietra, basse, a sesto acuto, profonde, che mi guardavano fisso come se aspettassero una interrogazione per rivelarmi un segreto.

L'antichità di quel muro contrastava singolarmente colla verzura d'una giovine vite, che abbracciandolo co' tralci, correva attorno in ghirlande: pareva la giovinezza che conforta col suo sorriso la vecchiaia. Un zampillo d'acqua scorrente poco lungi tra le foglie ed i sassolini, empieva l'aria d'un misterioso cicaleccio. Le mie palpebre s'andavano abbassando; il mio capo s'appoggiò al tronco d'un castagno, sbadigliai e m'assopii.

Dopo poco d'ora, mentre io me ne stava tranquillamente dormendo, la porta della capanna si aprì, e ne uscì un frate che a passi furtivi venne presso di me.

La sua alta statura, maestosa ed imponente, pareva averlo destinato al comando, mentre dallo sguardo ammaliatore refluiva una dolcezza [170] persuasiva. Il suo capo era interamente nudo: anche le sopraciglia erano prive di peli. A chi lo guardasse attento, la sua pelle appariva arsiccia, screpolata; sì che moveva ad un tempo pietà e terrore. Anzi, se ben mi ricorda, parmi emanasse dalla sua persona un odore di bruciaticcio insolito. Si avanzò, ed a me meravigliato non stendesse la mano, disse pacatamente dopo di essersi guardato attorno con occhio sospettoso:

— Perchè guardavate voi con tanto amore quell'avanzo d'una antica casa?

— Non lo so io stesso: forse qui abitò qualche immortale che anche dopo secoli riempie di sè i luoghi ove s'aggirò vivente.

— Voi sapete adunque di lui, dello sventurato fra Dolcino?

«Or di' a frà Dolcin dunque che s'armi,

«Tu che forse vedrai il sole in breve,

«Se egli non vuol qui tosto seguitarmi,

«Sì di vivanda, che stretta di neve

«Non rechi la vittoria al Noarese

«Ch'altrimenti acquistar non saria lieve.»

Io cominciava a credere di sognare sentendo queste due terzine di Dante, da un frate, all'ombra di un castagno a Trontano.

— Dunque qui nacque?...

— Fra Dolcino. A voi che veniste a visitare questa mia contrada pel dolce amore della natura...

— E dell'aria fresca, pensai tra me.

— ... Voglio dire di sua vita, per appagare la vostra brama.

[171]

Io veramente non pensava più che tanto a frà Dolcino; ma poichè una sì bella occasione di favellare dei famosi immortalati da Dante non si presenta ad ogni passo con un frate, tutt'orecchi ascoltai lo sconosciuto.

— Verso il finire del secolo XIII, egli nacque in questa casa, figlio d'un prete. Suo padre decise di vestirlo della tonaca di frate. Ignorante d'ogni cosa di questo mondo, passava i suoi giorni fra le feste dell'età e della natura. Quando udì la volontà del padre gli parve tutto predicesse quanto sognava, virtù ed amore. Gli spiriti famigliari rallegravano la casa: i passeri sul tetto pareva gli dicessero colle loro note: va, tutto è amore! Condotto nel Trentino, indossò la tonaca degli Umiliati; ma in breve sendogli venuta a noia la solitaria quiete del claustro, in cui interrogava sè stesso, se chi serve Dio non deve tutto intraprendere per la salute degli uomini, pregava i priori con istanza di concedergli almeno la licenza della predicazione. L'indole irrequieta ed animosa lo tradiva ad imprese più clamorose. Fu cacciato da quel convento; in quella suo padre moriva. Soffrì come chi crede e spera, e non invano, chè la fortuna, rasserenato l'orizzonte, dopo tante traversìe gli serbava le ineffabili consolazioni dell'amore. Allogatosi quale procuratore di un convento di monache in Trento, conobbe allora una nobile e bella giovinetta che orfana come Dolcino s'era ritirata fra quelle mura, e l'anima sua caldissima se n'accese d'inestinguibile affetto corrisposto con quel tenero amore che riverbera sulla mente dell'uomo le aspirazioni d'una innocenza immacolata.

[172]

Oh! come rapidi quei giorni!

Intanto Segarello da Parma empieva l'Italia superiore delle sue ardite dottrine. Puri in mezzo a corrotti, generosi fino al sagrificio, fidenti nell'avvenire, entrambi s'interrogarono se essi pure non sarebbero discesi in Lombardia a propugnare la verità contro i profanatori del tempio. Abbandonato il Trentino coll'amica inspiratrice calò nella grande valle del Po, e predicando con tutto il calore e la forza della convinzione amore a Dio ed agli uomini, digiuni e mortificazioni, in breve tempo venne seguito da migliaia di proseliti, e sì alta ne echeggiava la fama, che lo stesso Dante colpitone scriveva di lui nelle immortali sue pagine. La favella piena di grazia e di carità, la soave bellezza di Margherita s'insinuava ad ammollire i cuori più duri, mentre fra Dolcino con ardire di apostolo assaliva i pregiudici più antichi senza temere d'incontrare la sorte di Segarello, arso vivo.

Ahi! che i trionfi davanti gli uomini sono brevi! Cominciarono le prove di Dio. Il vescovo di Vercelli leva con indulgenze una crociata contro il ribelle a Roma. Fra Dolcino, rifugiatosi nei monti del Biellese con poca parte di tanti seguaci, ad una duce e soldato, sostiene un lungo assedio. Fratello, che Dio non faccia mai soffrire a te quanto soffrirono Dolcino e Margherita! Le legna e le vettovaglie vennero a termine: la fame ed il freddo! — la fame che desta la ribellione, che stanca ogni più saldo proposito; il freddo che intirizzisce il braccio ed affievolisce il valore! I difensori sfiniti cadevano attorno alle bastite... alcuni disertavano... [173] e la breccia dal nemico veniva compiuta quasi senza difesa..... Che più?

Il 23 marzo del 1307, dopo la più disperata difesa, stremati d'ogni forza, caddero nelle mani dei crociati, i quali, dopo ogni vituperio, a misura di tanaglie roventi e di carboni accesi fecero espiare ai due novatori il delitto d'aver sollevato migliaia di credenti contro i vizi del clero. Frà Dolcino sopra una catasta di legna nelle radure ghiaiose fra la Sesia ed il Cervio venne bruciato vivo. Per libidine di ferocia, Margherita dovette assistere all'estremo supplizio di chi dopo Dio l'aveva amata sopra ogni terrena cosa! Alla plebe Biellese era serbato lo spettacolo dell'animosa donna arsa sopra di un rogo. Di frà Dolcino non restarono neppure le ceneri: non resta che la memoria... non è vero?

— Sì, frate, a chi conosce quei tempi. Frà Dolcino, lasciata da parte ogni questione religiosa, è una bella figura del medio evo: guerriero ed apostolo in diverse condizioni di tempo, avrebbe operato grandi cose.

— Ma ora qual è la memoria di lui?

— A chi non ha sviscerato le idee di quel secolo, essa non è che la memoria d'uno che animava i fedeli ad armarsi contro l'Anticristo. Questi tempi aritmetici non possono di leggieri comprendere lo slancio dei nostri nonni per un'idea filosofica. Ora gli eretici seggono nelle Università e nei Parlamenti nel più buon accordo coi devoti; e se corre qualche saetta, svanisce in un fuoco fatuo di diario. Colle indulgenze non armereste quattro scaccini di sagrestia. Non v'ha che la patria che possa suscitare legioni con un grido.

[174]

— E Trontano... soggiunse dopo breve pausa il frate con voce scorata... e Trontano non s'onora di quel suo antico figlio?

— A dire la verità io ho sentito sempre a celebrare Trontano per...

— La patria di frà Dolcino?...

— No, per le più eccellenti castagne del mondo. Dalla qual cosa voi ed io potremmo dedurre copia di pensieri sulla vanità della gloria e sulla inutilità di farsi arrostire pel trionfo d'un'idea... Ma che? voi impallidite?

— Per le castagne! per le castagne!

E il povero frate accasciato sotto il peso della mia rivelazione stralunò gli occhi, barcollò e sarebbe caduto ruzzoloni se io non mi fossi affrettato a raccoglierlo nelle mie braccia.

Se non che in quel punto mi svegliai colle braccia conserte al castagno, contro il quale io aveva pure picchiato del naso nella furia di soccorrere il povero frà Dolcino.

I passeri sul tetto, sui rami, cinguettavano la loro antica canzone: tutto è amore, la sorgente sussurrava un idilio a note sommesse, ed il muro secolare continuava a guardarmi colle sue oscure occhiaie. Il castagno sotto il quale m'era apparso frà Dolcino, stendeva, agitandole con frenetica gioia, le sue braccia all'aria, ed i ricci dei suoi frutti mi parevano straordinariamente ingrossati a dispetto della gloria antica del conterraneo. Celebrava quel birbo il trionfo delle castagne sulla fama di una figura dantesca! La vite sola s'attaccava più salda, più stretta alle vecchie mura, festeggiandole colla frescura della sua ombra e colle ghirlande de' suoi tralci pampinosi; ed io, alzatomi e stirando [175] le membra indolenzite, m'incamminai non so più dove, zufolando coi passeri:

— Tutto è amore!

VI. Il Sempione — Invenzione di un ponte per passarvi dissotto.

La valle più nota ai viaggiatori ed agli studiosi fra quante convengono nel bacino ossolano, è la valle percorsa da quella meravigliosa strada che sale al Sempione congiungendo Milano a Ginevra.

Valle Divedro diramasi da Crevola al valico del Sempione: il confine però tra gli Svizzeri e gl'Italiani sta a S. Marco, poco prima di giungere a Gondo. Nell'anno 1801 quella vastissima mente di Napoleone Bonaparte, ormai al colmo del potere, ideava una strada monumentale che valicando i gioghi alpini scorgesse dalla Svizzera all'Italia superiore: nel 1805 la grand'opera era già finita, a gloria principalmente degl'ingegneri italiani, i quali, quanto più ardua era la loro impresa in una valle selvaggia, ovunque dirupata ed asprissima, tanto più degna del nome romano seppero renderla, sì che gli stessi stranieri, troppo spesso ingiusti, dovettero rendere giustizia alla perizia loro.

Il tratto da Iselle a Crevola, anzi quasi tutta la valle, presenta una delle più orrende scene [176] di distruzione: dappertutto frane di monti e sassi minacciosi pendono sul capo al viaggiatore; qua e là le volute della neve precipitano nella stagione invernale nell'oscuro fondo della valle, avvallando spesso quanto incontrano nell'irrompente rovinìo. Chiunque vide questo cammino tracciato con tanto ardire e tanta sapienza, consiglia al governo italiano a non risparmiare cure e danari per conservare una strada che, larga otto metri, con sei gallerie, attraversa tre provincie del regno, formando l'ammirazione pur anco dei volgari.

Ecco la tradizione storica che lo zingaro raccolse nel pulito e discreto albergo d'Iselle dalla bocca di un colto Ossolano.

Sul Sempione nel 1799 vi furono varie fazioni guerresche tra Francesi ed Austriaci. Nel 1800 il generale Béthencourt con mille soldati francesi e svizzeri, mentre Bonaparte, attraversava arditamente il gran S. Bernardo venne inviato ad occupare i posti di Iselle e di Domodossola. Ma in una procellosa notte un ponte di quell'antica stradicciuola era sprofondato in un abisso: nessun modo di passar oltre. Un coscritto, senza dubbio nativo delle Alpi, offre al generale il mezzo di scavalcare la forra, e senz'altro, leggiero come uno scoiattolo, striscia sulle rocciose pareti di quel burrone, aggrappandosi ad ogni masso, ad ogni cespuglio, e giunto in fondo, guada il torrente e s'arrampica sull'ertissima parete opposta, mentre i più tremano che un piede in fallo, un sasso malfermo o la vertigine lo precipitino frantumato nella sottoposta fiumana.

In questo la recluta è giunta, dopo infiniti [177] sforzi, ad afferrare il ciglione dell'opposta parete — egli è giunto alla meta e tutti battono palma a palma. Il giovanetto s'era tratto con sè il cappio d'una grossa corda che egli aveva assicurato ad un pino dell'altra sponda, e tesala, l'annodò strettamente ad un macigno, sicchè venne così improvvisato un ponte sul quale, anzi sotto il quale sospesi alle proprie braccia, primo s'intende il Béthencourt, passarono i soldati armi e bagaglio ad armacollo. Di cinque cani che seguivano quella mano d'armati, due soli poterono giungere ai loro padroni: gli altri tre vennero trascinati dalla furia del torrente che non riuscirono a guadare.

È opinione dei più che il Sempione abbia avuto questo nome da Servilio Cepione nella guerra contro i Cimbri, della quale l'Ossola fu teatro per molte pugna, quantunque Cepione abbia combattuto non qui, ma nella Gallia. Dell'antico passaggio restano molte vestigia, particolarmente dal lato svizzero.

Presso Gondo, nella galleria più lunga della strada, havvi scolpita nel marmo quest'iscrizione, che meritava d'essere raccolta fra le 17385 e 1⁄2 dell'archeologo tedesco, a cui l'attica semplicità che la informa avrebbe risparmiato le fatiche del commento:

ÆRE ITALO 1805.

Delle cose naturali di questa valle sono fra le più notevoli le cascate di Frassinone presso la galleria di Gondo, e di Zwischbergen poco lungi. Se lord Byron avesse veduto — il che [178] ignoro — la fantastica scena che in questi dintorni la natura dispiega, ho per fermo che il poeta ne avrebbe fatto teatro alle evocazioni del suo Manfredi. L'oscura profondità dell'abisso, il terribile disordine dei massi, le nembose vette alpine che si disterrano al cielo, le cupe tinte della luce empiono l'anima di una misteriosa temenza: l'abisso vi spaventa, salire su quelle piramidi è impossibile... Non vi movete: non un ah! di meraviglia o di terrore, non un respiro, che potreste svegliare quei massi penzoloni.... Vedete cosa vi sta scritto?

«È proibito di parlare sotto pena di morte!»

VII. Si parla di paesi non visti.

La valle Isorno stendesi dalla valle d'Ossola alle falde del pizzo del lago gelato tra la valle Antigorio e la valle Vigezzo, confinando nel fondo col Ticinese, a cui guida un sentiero passando sulle creste del pizzo suddetto. Questa valle lieta di pascoli è popolata nella bella stagione di armenti e di greggie. È quasi sconosciuta ai viaggiatori.

La val Bugnanco, a destra della Toce, sbocca presso Domo e si stende fino alla cima di monte Crescia, da cui precipita la Bogna, torrente minaccioso che portò molte volte gravi danni alla capitale dell'Ossola. Seguendo il letto della Bogna [179] verso la sorgente, un sentiero scorge alla confine valle di Strumback nel Vallese: non è frequentato che rare volte da quei valligiani. Cisore, i due Bugnanco e Monte Ossolano sono i villaggi più notevoli.

La valle di Antrona da Villa, poco prima di giungere a Domodossola, corre sino al pizzo di Botarello, detto dagli Svizzeri, se non m'inganno, il Fletschorn; valicato il quale, un sentiero guida nel Vallese, nella valle già nominata di Strumback. La valle Antrona è ricca di miniere d'oro, di ferro e di amianto. L'Ovesca, tributario della Toce, vi sbocca presso Villa. La strada di questo villaggio, passando a Seppiana, Monteschieno e Viganella, guida ad Antrona in un altipiano che credesi fosse ne' remoti tempi il bacino del lago. Antrona-piana venne nel secolo XVII distrutta da un'immensa frana staccatasi dai monti imminenti. — Lo zingaro sentì da un confratello di ritorno da una peregrinazione nelle tre valli d'Isorno, Bugnanco ed Antrona quanto sta qui sopra, e per quanto lo solleticasse il desiderio di scoprire terreni vergini ed incontaminati dalle guide, non avendo inteso neppure a parlare di una fata con cui amoreggiando potesse compensarsi della prosaica uniformità delle cose, trascrisse sul taccuino la poco immaginosa descrizione, rinunciò alle trote del laghetto d'Antrona, e s'avviò difilato alla volta della vall'Anzasca.

[180]

VIII. L'Anzasca — Un nuovo Messia.

Più splendida giornata di questa non può darsi; tutto parla ai sensi, al cuore, la serena allegria della giovinezza. Dimentica il viatore ogni suo guaio per cantarellare coi passeri, che anche un pessimista non avrebbe potuto immaginare cosa più bella di questo mattino raffrescato da un venticello che vi fa più giovine di dieci anni, e suscita, con una voglia matta di correre, un appetito che non sarà l'ultimo premio ai tentatori delle Alpi.

Un'antica sbilenca e sonante carrettella tirata da un cavallo più spigliato che snello di forme ne porta rapidamente all'Anzasca per la bella strada che quei valligiani intesero di condurre sino alle falde del Rosa da Piedimulera.

Il cocchiere, che non aveva ancora aperto bocca da Domo, accennò in alto un villaggio, Cimamulera, e raccontò come un dodici o quindici anni fa un prete, che vi era curato, seppe con tali squisitissime arti abbindolare la gente semplice e credenzona, che in poco tempo venne idolatrato come novello Messia, e quando poi fu per altri misfatti carcerato in Novara, i montanari, in processione, a piedi nudi, scendevano al piano per andare a liberarlo dai Farisei o morirvi assieme! — Ma un drappello di carabinieri venne inopinatamente ad opporsi alla [181] crociata per liberare dal sepolcro il sedicente Cristo. Fu ad un tempo risìbile e compassionevole il vedere quegli apostoli di una fede che offeriva martiri, dispersi caritatevolmente dai soldati, mentre la Vergine — madre di più figli — S. Giuseppe e S. Pietro erano condotti a Domodossola innanzi al capo della provincia, il quale credette fare cosa assennata, dopo d'avere loro dato una buona scardassata, senza lavarsene le mani come Pilato, rimandarli al loro nido.

Da questo racconto si può dedurre a quali eccessi potesse spingere il fanatismo religioso nei tempi remoti!

Da Cimamulera scorgesi la patria di Dolcino; forse arrisero alla mente del nuovo settario, se non il fine, i trionfi di quell'antico. In nessun modo però puossi far paragone fra i due.

A Ponte Grande salutai riverente un cucuzzolo del monte Rosa, l'Alpe più stupenda dell'Europa per la vastità degli aspetti, e che non la cede al Bianco in altezza se non di pochi metri.

Oh! come è bella la cascata di Valbianca! Poche gareggiano con essa nella catena alpina.

Da Bannio, uno de' più ameni paeselli della valle, costeggiando l'Anzino, l'auriga mi disse che si può, salito il Campello, scendere di là in Vallesesia.

In tre ore, da Vanzone attraversai, pedestre, l'oscura gola del Morghen, e giunsi a val Macugnaga. La quale è a vall'Anzasca quello che è la Formazza all'Antigorio, un altipiano senza alberi fruttiferi, abitato da un'antica colonia [182] germanica, che parla tuttavia un corrotto tedesco. Da questi pascoli, in una giornata di penoso cammino, si varca il monte Moro, dalle cui vette godesi il mirabile aspetto di tutto il Rosa.

Da Pecceto alle pendici del Rosa, attraversando il monte Turlo, si scende in Alagna, donde, mi piace qui notare, partiva per ben quattro volte D. Giovanni Gnifetti per giungere l'ultima solamente sopra uno dei cinque pizzi più elevati di quel gigante. Non disanimato dalle bufere e dai pericoli d'un viaggio, ove ad ogni passo si apre una tomba all'ardito, pervenne, addì 9 agosto 1842, sul pizzo che giustizia vuole si chiami d'ora innanzi Gnifetti, come s'appellano Zumstein e Vincent i picchi su cui salirono gl'intrepidi di tal nome.

IX. Quanti disprezzino l'oro.

Auri sacra fames!

Ecco le miniere dell'oro. Indossata la sopraveste dei minieratori, salutai con animo trepidante la luce del sole, e discesi nella più profonda e più vasta e più antica delle miniere della valle, anzi dell'Italia. Duemila anni fa migliaia di schiavi dei Romani vi cercavano le vene del prezioso metallo, e non ancora esaurito [183] è il tesoro. Il Rosa, siccome serba agli audaci che gli salgono sopra il più stupendo spettacolo del mondo, serba nel seno tant'oro da fare di voi, o mortali, altrettanti re Mida.

— Dove scendiamo? Nel cuore della terra? Da un'ora ormai il piede incerto discende per iscale senza numero, di antro in pozzo, di pozzo in caverne immense, dove la tremolante luce delle lampade non rischiarando le stillanti e nere pareti, ne lascia supporre d'essere penetrati nelle bolgie dantesche. — E sotto a' piedi un'altra oscura bocca ne ingoia, e discendiamo... Ahi! Dov'è l'aura vitale della valle? La luce onnicolore, il canto della natura?

— Discendi ancora, disse l'ospite, e vedrai quanto è grande la brama dell'oro. Ma il petto è ansante, le nari s'allargano invano per bere un sorso d'aria pura, e le ginocchia minacciano di lasciarmi ruzzolare nell'abisso..... Ah! ecco l'ultima caverna.

Dove sono gli immortali cattivi di Minosse? Ma laggiù la turba che si smaniava non v'era precipitata per l'ira del Ghibellino — laggiù non le pietose visioni delle Francesche, delle Pie, delle Piccarde — ma sì l'urlo dell'Ugolino: ho fame, fame — d'oro! Le cere pallide, gli occhi intenti che sovente si chiudevano per attendere quasi un prodigio dalla sorte, il prodigio d'un filone, le labbra, balbettanti misteriose parole, tremavano convulsivamente; i ferri, gli scalpelli sonavano dolorosamente con affrettata vicenda sul sasso, e le girelle cigolando con lungo e monotono gemito sotto il peso della terra da razzolare lassù si lagnavano della faticosa bisogna. Presto, trovate l'oro, e risalirete [184] all'aria libera, dove v'attende il piacere. Presto — la mano ingranchita nega l'ufficio suo — non importa, avrai tempo a riposarti stazzonando la coppa dell'ebbrezza. Presto — l'occhio stanco di fissare s'inietta di sangue — che vale? ti guarirà la vista di quella donna che prediligerai. Non morderti le labbra per dispettosa impazienza — quelle della bella si macchierebbero di sangue.

Tutti hanno ragione. La sete degli agi, dell'ozio, del piacere cresce smisurata col ribrezzo per la povertà operosa ed onorata.

Date loro dell'oro, o roccie avare! Perchè non posseggo io la verga di Mosè? Vi sdoccerei da questa rupe insensibile un torrente di scintillanti verghe.

Resisterete voi al fascino di quanto vi si offre per la vostra ricchezza? Ecco a voi la coscienza dei sacerdoti e dei giudici; a voi pel pane e l'ozio del circo, le ovazioni della plebe; a voi l'arbitrio della fama; a voi chi per trenta nummi tradirà la patria; a voi, per i monili e le perle, la già pudica vergine non riluttante a vostra balìa — la madre, a cui procuraste mense lussuriose, tace ghignando — il marito già vendette la moglie; a voi geloso veleni e coltella; a voi ambizioso chi vi venderà l'ingegno e la fama — al massimo buon prezzo; — a voi vivo ancora monumenti; a voi artisti, che scambiato il vezzo dell'ozioso nell'amore splendido delle nove sorelle, inneggieranno e di mille fantasie abbelliranno la casa; a voi coll'oro la farsa orpellata delle frini o la tragedia a scelta, e, orribile a dirsi, il poeta che canta ed impreca a suono della moneta, della poca moneta, per [185] cui tra secoli, oscurato Mecenate, rivivrete ancora nel sospiro del vate e della ballerina senza procolo!...

Resistete? La vertigine vi attira, la virtù e l'onore impallidiscono al bagliore del vizio seduttore che vi tende le molli braccia..... Un grido forsennato s'eleva dalla folla ubbriaca: la vita è pel piacere — Dio è una noiosa chimera; tutti sacrificano al vitello d'oro, senza che un Mosè spezzi dallo sdegno le tavole sacre sulle loro teste.

Ahi! dolorosa visione! Quanti vid'io nella turba affannata stendere la mano per sacrificare al Dio, che io aveva tenuti con religiosa riverenza come illibati! Attorno al tripudio, apparivano nelle fumose scene della bolgia monumenta e forche, feste e berline.....

O infamia, sclamai cadendo sulle ginocchia, tutto adunque s'immolerà sul tuo altare?

Quando, dalla parte opposta, come in ampia radura sconfinata, vidi raggiante la Carità in atto verecondo sovvenire con mano fratellevole al misero, e così trattenuto il braccio vendicatore dell'ira divina..... Attorno alla benedetta, in cerchio, chi cantò la verità e pugnò per la libertà per solo amore delle gemine sorelle.....

Erano pochi.

[186]

X. Stonazioni della fama. — Le Ossolane non sono più quelle d'una volta. — Cajo Mario ed i Cimbri. — Innocenzo IX di Cravegna. — Banchetti funebri. — La valle Diveria.

Di ritorno a Domodossola, senz'altra dimora, corriamo alla valle Antigorio, da cui, per l'altipiano di Formazza e la salita del Gries, discenderemo nella Svizzera.

Crevola trovasi appunto là dove sboccano le valli Divedro ed Antigorio. La maraviglia, l'illustrazione di Crevola — all'ombra di qual campanile non havvi un'illustrazione? — è il ponte della strada al Sempione, che varca per la prima volta l'arrabbiata Diveria; i periti vi dicono che esso è largo otto metri — come la strada — lungo cento e alto trenta. A mezzo un'enorme torre di granito si erge dal letto della fiumana a sostenerlo; scendete la scala che sta presso le casipole vicine e guardate insù — neh, che il ponte ha del pittoresco? Ma gli è pur vero che questo ponte è più celebrato di quanto l'architettura o le difficoltà superate meritino. L'Amoretti lo dice imponente; l'Ebel un capolavoro d'architettura; Boniforti lo chiama famoso se non altro per constatare l'opinione universale. Io mi stringo umilmente nelle spalle e senza detrarre al merito del ponte, faccio a [187] me stesso la semplice domanda: se questo è un famoso capolavoro, quali parole potranno adoperarsi per favellare del ponte sulla Dora del Mosca, di quello sul Niagara in America e del viadotto da Marghera a Venezia?

Questa smania di celebrare, come sublimi, cose per nulla singolari, non è generalmente invalsa negli scrittori italiani, i quali debbono piuttosto accagionarsi (forse pel continuo spettacolo di cose grandi in arte ed in natura) di una certa indifferenza nel notare al viaggiatore ciò che per universale consentimento è veramente degno d'ammirazione.

Non parlo delle guide renane e svizzere: ogni rigagnolo d'acqua che fila da una rupe di dieci metri è una meraviglia. Intanto gl'Italiani, sì poco curanti della patria loro, sanno generalmente raccontare d'aver visto questo e quello al di là dei monti, e ignorano quanto sta a dieci passi dalla loro casa.... Credo di non ingannarmi asseverando che gli Italiani sentono la bellezza della loro patria senza curarsene punto, come un nato ricco non dà pregio a quegli agi, ad ottenere i quali i poveri si travagliano spesso invano tutta la loro vita. Ma senz'altre digressioni entriamo nella valle Antigorio ritornando a Crevola.

La lapide latina, che leggesi sopra un muro della Chiesa di S. Vitale, accenna ad una feroce pugna combattutasi presso Crevola nell'anno 1487 tra gl'Italiani e gli Svizzeri: Bernardino Corio parla di questa battaglia nelle sue storie, ed in questa narrazione è notevole che gl'Italiani non avessero che due morti, mentre gli Svizzeri ne contassero duemila, o secondo gli [188] storici Alemanni soli ottocento, numero tuttavia troppo disparato per non eccitare al lettore alcun dubbio sulla veracità della storia. Ad ogni modo gli Svizzeri uccisi furono tanti che i loro cadaveri caduti nella Diveria avevano formato una chiusa di tale altezza da servire di ponte agli Italiani.

Narrasi pure che le donne ossolane, inferocite dalla barbarie del nemico, che prima di questa pugna aveva manomesso ogni cosa in quei dintorni, quanti Svizzeri fuggenti s'erano ricoverati nei boschi o nelle capanne scannassero, e strappato il cuore sanguinoso dai loro petti ne ammanissero pasto ai cani.

Ancora adesso le belle Ossolane vi rapiscono il cuore, ma non è provato che lo diano ai cani.

Fra i morti vi furono Renato Trivulzio, capitano degli Italiani, ed Albino Desilinon, capitano degli Svizzeri.

Sulle rupi di Crevola sorgeva nel medio evo un castello, che fu dei Silva, famiglia che diede prodi capitani. Di questo castello non rimangono se non macerie coperte di muschio e di obblìo.

***

Poco sopra Crevola, a destra, sopra un poggio lieto di vigne e di campi, scorgesi Montecrestese, al di là della Toce; il sole vi matura un vino schietto e rubino. Qui presso la Toce precipita fragorosa in un profondo gorgo, su cui, non sono molti anni, era gittato un ponte altissimo [189] e senza parapetto, sul quale non si varcava quell'abisso senza pericolo.

Proseguendo la strada, poco oltre a sinistra troviamo Vira attorniato da vigneti, e poi a destra Ponte Manlio, così detto dal Console Manlio, che vi si era accampato colle proprie legioni nella spedizione contro i Cimbri, ed aveva quivi gettato un ponte sulla Toce. Si sa — da chi non l'ignora — che i consoli Manlio e Cepione vennero sconfitti da quei feroci abitatori delle foreste nordiche, già vincitori di Cassio Longino; sconfitte che dovevano far risplendere di più la sanguinosa vittoria di Caio Mario, colla quale questo capitano di gran mente e di forme atletiche atterrava, al dire di Tito Livio, duecento mila barbari, e menava in trionfo novanta mila prigioni. La fortuna, dando lo scacco al suo collega Catulo vinto dai Cimbri sulle rive di questa stessa Toce, gli apparecchiava nuovi allori.

Nei piani del Ticino, tra Novara e Vercelli, nei campi Raudj, si combattè l'estrema pugna tra Roma ed i Cimbri; Caio Mario, morti cento e quarantamila nemici, s'incamminava a Roma, traendo seco settantamila prigioni, a Roma che per la quinta volta lo eleggeva console.

Meravigliosa cosa! Non v'ha paese anche nascosto fra inospitali monti in cui i Romani non abbiano impresso il marchio dell'arrogante loro grandezza.

Ma lasciamo le glorie dei Romani ai pochi che le studiano, e marciamo su Crodo, capoluogo di mandamento di tutta la vallea, lasciato Campomanlio a destra e passando sotto una galleria tagliata a ferro e fuoco nella viva roccia. [190] Presso Crodo credesi s'allagasse la Toce formando un bacino considerevole d'acqua; e monsignor Bescapè, vescovo di Novara, il quale nelle sue visite pastorali studiava e notava la natura e gli uomini, parla di un tempietto a S. Martino che allora chiamavasi Capolago, tempietto che tuttora esiste, a quanto mi si disse.

Crodo è forse nella più infelice posizione della valle: ad ogni infuriare del torrente Alfenza, ogni abitante paventa non si rinnovellino per lui l'estreme scene del diluvio universale, senza la speranza di una novella arca di Noè; chè l'Alfenza, diroccando piante, ciottoli e massi immani, forma a sè dinnanzi barriere che un istante dopo distrugge, sfogando con tremende urla il rabbioso impeto sulle mura di Crodo. Perchè dunque i nostri nonni presero stanza in un sito tanto minacciato? Ciò diranno pure i Domodossolani: ma quei babbi — senza ministeri d'agricoltura — rispettavano con religiosa temenza le foreste, sapendo — senza studi forestali — come le piante mentre abbelliscono le falde montane e purificano l'aere, colle radici sì tenacemente s'abbarbicano alle zolle, alle roccie, che nessuna forza di torrente o di voluta che rovini sopra di loro, varrà a sterparle ed a strascinare con sè il terreno su cui sorgono. Se la improvvida cupidità dell'oro non viene frenata, fra poco tempo una pianta sulle Alpi sarà una curiosità, come una cascata.

Pochi minuti sopra Crodo sta lo stabilimento idropatico con sorgente d'acqua minerale ed albergo: ve lo indico con piacere nel caso vi possa giovare; ed in ogni caso se non vi sarà utile la linfa colla doccia ed il bagno, vi gioverà [191] senza dubbio l'albergo confortevole e più di tutto l'aria vivissima. La bella strada calessabile, la vicinanza a Domo, la freschezza del sito, invitano nella stagione estiva copia di visitatori.

Quantunque l'appetito m'eccitasse a giungere presto a Baceno, non volli tralasciare di fare una visita a Cravegna, terricciuola microscopica sulle ultime falde del Corno Cistella, per soddisfare la mia curiosità di conoscere almeno di vista il villaggio che gli Ossolani citano volentieri come patria del compaesano che ebbe più splendida sorte fra quanti emigrano dai loro monti.

Giovanni della Noce nasceva di padre cravegnese in Bologna sul principio del secolo XVI. I risparmi del padre, facchino, o la protezione di qualche mecenate strapparono il giovanotto all'oscura sorte della famiglia. Addottorato, egli seppe in breve schiudersi attraverso alla folla dei preti che assediano il Quirinale una via col proprio ingegno. Acciuffata così la fortuna colla stima dei pontefici, di grado in grado, canonico, vicario, referendario, vescovo, ambasciatore a quella Venezia che allora era ancora in grado di liberare l'Europa dai Turchi, fu poscia patriarca a Gerusalemme ed infine cardinale. Quando nel 1591 egli venne eletto pontefice assunse il triregno col nome d'Innocenzo IX. Scrisse varie opere che io non lessi e che voi non leggerete. Beneficò i compaesani. Uno dei tratti singolari della sua vita fu che egli cambiò il nome paterno con quello di Facchinetti per rammentarsi certamente nell'insperata prosperità la propria origine; come già gl'imperatori [192] romani traevano dietro di loro nei trionfi campali uno schiavo, che di quando in quando rompeva le acclamazioni universali colla fatal voce: rammentati di essere mortale!

Due discendenti d'Innocenzo furono cardinali nel secolo XVII.

***

Da Cravegna, seppure il curioso lasciata la strada vi si è portato, in mezz'ora di cammino si è a Baceno, la borgata più popolosa di tutta la valle, situata alle falde di Pizzo di Robbio contrafforte del monte della Gran Loccia, non lungi dalla foce della Diveria nella Toce.

Compagno mio, non t'incresca di digredere dal cammino per visitare la solitaria vallata di Croveo, che qui appunto schiude le sue porte e della quale nessuno fece mai parola.

Essa sta rinchiusa fra le Alpi culminanti che muniscono l'Italia verso il Vallese, la cortina dei contrafforti che digradano a destra dell'Antigorio dal Reti, e quella della sinistra della valle Divedro. Le tante pieghe delle Alpi Massime che si svolgono in questa conca formano una serie di valloncelli, che nella state verdeggiano per riaddormentarsi poi sotto la neve per sette mesi. Fra queste vallate la più nota è quella di Agaro, piccolo villaggio abitato tutto l'anno, alle sponde del torrente che sbocca poi sopra Croveo; torrente che nel secolo XVI distruggeva interamente il villaggio. Il cardinale Morozzo, considerate le pessime stradicciuole per [193] buona pezza dell'anno coperte di ghiaccio, voleva accordare alla chiesa di Agaro il dritto di seppellire i morti in cimitero proprio senza recarli a Baceno; ma quei montanari ricusarono per non perdere i diritti antichi. Notevole è l'usanza degli Agaresi di convitarsi a funebre banchetto il giorno della tumulazione di un loro consanguineo, uso che dura tuttavia; ignoro poi se non avvenga qualche volta che il più addolorato, mercè a Bacco, non diventi il più brillo.

Giacchè toccai qui di questi usi, aggiungerò che in tutta la valle Antigorio e la Formazza ognuno morendo lascia una o più libbre di sale per ogni focolare del suo villaggio.

***

Baceno è un grazioso, pulito, pittoresco villaggio. Nei tempi andati era il capoluogo di tutta la valle Antigorio, come ne è tuttora il borgo più popoloso. Esso siede sopra uno scaglione di monte sulle alte sponde della Diveria, poco lungi da Verampio, sito ove questa mesce le sue limpide onde colla Toce biancheggiante. In Baceno ebbero potenza i feudatari della valle Antigorio.

I più conosciuti per le loro tiranniche giunterie furono i Valvassori De Rodes, i quali tanto malmenarono questi onesti valligiani da eccitarli a sorgere per scuoterne l'iniquissimo giogo. I Valvassori tenevano castello e corte in Premia, ed avevano una certa giurisdizione feudale [194] anche sulla valle Formazza e sulla maggior parte della vall'Antigorio, secondo il diploma di Ottone IV imperatore dato a Pavia il 25 aprile 1210.

Le terre di Baceno producono ancora vino, frumento, frutta ed erbaggi di ottima qualità. La strada costrutta recentemente dal ponte di Crevola e che fra breve — coll'aiuto di Dio e dello Stato — sarà condotta fino al confine svizzero, venne fornita a spese dei comuni della valle con considerevoli sacrifizi, avendo essi dovuto quasi dappertutto tracciarla nella viva roccia granitica, non senza costrurre una serie di ponti sopra i torrenti che ad ogni svolgere di pendice s'adimano nella Toce. Quello che cavalca la Diveria a Baceno, la quale mugge in un gorgo profondo, è dei più notevoli.

XI. Premia — Storia nuova di cose vecchie — La Cravairola.

Premia, mezz'ora sopra Baceno, è un villaggio con discreto albergo. La parrocchiale di Premia venne costrutta dai Valvassori e conserva ancora qualche antica pittura. Amoretti nella sua escursione su queste alture accenna ai granati che si rinvengono in questi dintorni aggiungendo esservene di quelli del diametro di [195] un pollice. Premia è sopra il livello del mare 800 metri.

Entrai nell'albergo con eccellente appetito — che il cielo conservi sempre a me ed a voi, amabilissimi compagni. Nella sala due deschi erano occupati: presso una finestra stavano assisi ad una tavola imbandita di pochi piatti e di molte bottiglie tre uomini, di varia età e d'aspetto signorile, che facevano echeggiare il vôlto del frequente tintinnio dei bicchieri e dei motti che si cacciavano addosso a bruciapelo, il tutto frammezzato da qualche sonora apostrofe al cameriere ed al cuoco. Avevano intenzione di recarsi alla cascata della Frua in val Formazza.... ma dopo tre giorni d'esitazione, s'accorsero che le gambe non corrispondevano all'intenzione e ritornarono al piano. Ma di loro fra poco.

Il vostro zingaro sedette dirimpetto all'altro tavolo, attorno al quale stavano assise due persone venerande, una per l'età, l'altra per pudica ed ingenua bellezza.

Un vecchio prete egli era dei monti ossolani, che dalla Formazza faceva ritorno al presbiterio, conducendo con sè quella cara giovinetta, di sedici o diciott'anni, sua nipote. La ragazza, vestita alla montanina, aveva ad una un fare spigliato ed una confidenza rispettosa col vecchio prete, sì che ognuno, senza maliziare, la avrebbe detta sua parente.

Il vecchio, malgrado i settantacinque che gli pesavano sulle spalle, era tuttora, come tutti i montanari, vegeto, rubizzo. Due occhi vivissimi ne illuminavano la serena fisionomia, su cui pure gli anni e molte fatiche e molti pensieri [196] avevano tracciato profondi solchi. Egli, naturalmente, mangiava adagio; e la nipote, che aveva quelle due saldissime fila di denti, dei quali avrei dovuto favellarvi, per non correre la posta, occupava gli intermezzi, trangugiando, per passatempo, del pane. Il vecchio, fra un boccone e l'altro, chiacchierava tranquillamente della stupenda cascata della Frua e di certi loro parenti di lassù.

Se non che — un guaio c'è dappertutto — la giovinetta si trovava proprio in faccia a quei signorini, che andavano a gara a darle certe occhiate, sul significato delle quali non v'era il menomo dubbio; per cui la poveretta arrossendo, una volta che fu anche l'ultima, stava col capo chino sul petto, sì che lo zio le serviva di schermo.

Oh! ecco una scoperta! Guardando attentamente i tre commensali, ravvisai in essi tre zingari da me visti in una città dell'alta Italia, ove erano noti lippis et tonsoribus.

Tre zingari; ma intendiamoci, non confratelli che s'accontentassero di guardare e di pensare come il vostro compagno di viaggio, che anzi la cronaca scandalosissima della repubblica artistica voleva che allungassero un tantino le mani sull'altrui, quando per far suo, quando per il bel vezzo di manomettere.

Una volta fecero un tiro solenne alla Fama... la poverina, stanca dal continuo strombettare, godeva il fresco della sera sulla porta del tempio... i birboni, mascherati da grand'uomini, tentano di penetrare nel sacrario senza le debite carte di sicurezza... Ma sì! da quell'altura ritornarono ruzzolando fino al melmoso piano della mediocrità!

[197]

Uno di questi, a vent'anni, scombiccherò un dramma. S'era tolto a maestro — s'intende alla prima — Shakespeare, e malgrado una quantità di falserighe, dopo aver violato la storia ed il senso comune, berteggiava la decenza sotto pretesto di romanticismo. Gli applausi di centocinquanta amici — l'infelice non aveva nemmeno un nemico! — gl'inocularono il tenia della vanità. Da quella notte memoranda, il cappello rovesciato sulla nuca o sul naso, la chioma svolazzante attorno al viso senza parola, gli occhi spiritati, l'incesso barcollante, — finse d'essere invaso dal demone ruggente dell'ispirazione. Dopo quella notte Alfieri era anche lui uno scrittore tragico.

Il poverino diluì il poco midollo che gli restava in produzioni d'occasione, in cui riduceva in versi gli articoli dei diarii.

Consumato quel foco che non riscaldava nessuno, un bel dì, fruga e rifruga, fa la terribile scoperta, che la fantasia non ha mai voluto covargli un pulcino nella zucca. Sacco vuoto, senza fede, roso dall'invidia e disperato di sè, un bel dì, o piuttosto, un brutto dì, volle finirla..... e si precipitò dalla soffitta della sua lirica senz'ali nel pozzo d'un giornale politico-letterario — sono tutti letterari i giornali! — e si fece critico.... Non c'è da meravigliarsi se di laggiù — guercio com'è — chiama sole una meteora passeggera. Gli scrittori che credono di potere prevenire le staffilate di quella severa ed acuta critica che ha illustrato i mondi delle arti, corrono ad ammansarlo.... È vecchia ed in gran parte giusta l'accusa, che gl'Italiani non s'occupano di studi critici. Ma, per Iddio, se [198] vediamo uomini di solenne ingegno dopo d'avere declamato contro la vanità dei diarii, che benedicono e maledicono senza dare ragione, si fanno codazzo di scolaretti scribacchianti, e nonchè tollerare questi stupidi portachitarre, li incensano, li blandiscono! O vanitas!

Del resto, menandogli buono il vezzo di scorrere a rompicollo i campi delle arti, su cui non ha mai saputo seminare, è un buon diavolaccio, niente scrupoloso, e se lo invitate a pranzo, vi divertirà assai.

L'altro, dalla barba prolissa....

Diamine, dirà il lettore, che capigliature, che barbaccie! Ve n'ha da imborrarne un pagliericcio! Eppure, lettore, mio, conviene sappiate che la capigliatura lunga e maledettamente ingarbugliata, la barba da Mosè sono per un artista che conosce il rispettabile pubblico una vera necessità. Che diavolo di talento volete voi sia racchiuso in una zucca pelata?

La barba ed i capelli incolti danno chiaramente a conoscere:

1. Che l'artista è tanto sublimato alla sfera della poesia, che ei riguarda le cesoie ed il pettine del parrucchiere come cose perfettamente inutili....

2. Che è un originale, un capo scarico, un essere anfibologico che sa d'ora in ora farsi angelo o demonio, secondo il garbo che dà ai diversi peli coll'aiuto delle sole mani....

Un maestro di musica, con cui ho stretta conoscenza, un giorno, dopo d'avermi dato un saggio d'un suo melodramma, mi confidava, che preparavasi a comparire degnamente innanzi al pubblico lasciandosi crescere i pochi capelli.

[199]

3. La copia dei capelli è viva immagine della forza: la lunghezza esprime il disprezzo degli usi del bel mondo, e l'arruffatura la continua lotta delle idee: tre cose che hanno gli incontestabili effetti d'ingannare il pubblico e di economizzare alla barba dei parrucchieri.....

— Signor scrittore, vorreste dirne quale affinità hanno i parrucchieri colle arti?

— Più di quanto pensate. Vi faccio grazia di quanto potrei dirvi sull'influenza dei sarti e dei cappellai, ma vi domando:

Amabili lettrici, come vi figurate — nel caso ci pensiate — il vostro umilissimo compagno di viaggio? Io giurerei sui peli della barba avvenire, che se io mi presentassi a voi colla faccia e la nuca pelata, con una di quelle ciere che non differiscono in nulla da quelle d'ogni galantuomo, senza eccentricità d'abiti e di modi, a chi dicesse presentandomivi:

Ecco il tal dei tali, autore del tal libro e di molte opere future e postume — voi, con quel candore con cui solete ammazzare un uomo che vi è indifferente, rispondereste sbadigliando:

— Ah! Sì..... è proprio lui l'autore di quel libro?

Lettrici mie, se mai sarò tanto fortunato di potermivi inchinare, io verrò a voi dopo d'aver fatto uso di tutti gli specifici infallibili (compreso quello d'una parrucca), onde ravvisiate sotto la posticcia figura iperbolica quell'io, che, ecc., ecc.

O voi tutti genii perduti nella nebbia dell'indifferenza, consultate la quarta pagina dei giornali, se la natura non vi classificò fra gli animali pelosi! Colla composition créatrice des [200] cheveux et moustaches du professeur Derk de Sandwich (anche laggiù vi sono professori), qui garantit la beauté, la multiplication et la création (sic) de la barbe et des cheveux... (tra parentesi, costa L. 10 al vasetto)... in poco volgere di tempo vi sarà dato entrare nel tempio della gloria per non uscirne per tutti i secoli dei secoli, in grazia del capilligeno. O progresso... della chimica!

Quel tale dalla barbaccia, per tornar a bomba, o alla barba se volete, si sognò d'essere Michelangelo, nientemeno. Dopo d'avere sonnecchiato per dieci anni nelle sale delle accademie, credette di svegliarsi caricaturista. Ignorava che non basta saper disegnare per mettere in ridicolo, che anzi il concetto è tutto.

..... L'arte affacciatasi un istante al cervellino, vi trovò la parodìa: pensate se la pudica avrebbe voluto dividere la stanza con quella mezzana. Che volete? Nessuno capì le sue caricature, come nessuno aveva capito le sue dipinture storiche; sicchè adesso, lasciati i lapis, fa progressi rapidissimi nel facile mestiere di genio incompreso. Tanto peggio per l'Italia!

Il terzo dall'occhialino, che inforca senza posa la groppa del naso bernoccoluto, mangia, beve, veste panni, fuma come un turco, e affetta articoli di politica nei diarii, frammezzando le serie disquisizioni sul riordinamento della carta mondiale con romanzi originali italiani tradotti dal francese... Intanto aspetta che un ministro scoprendo questo diamante nell'immondezzaio degli scribacchianti, lo incastoni in qualche ufficio. Da dodici anni egli è in attesa della propria scoperta: intanto qualche ciocca s'imbrina. [201] Egli, ormai stanco d'aspettare, è deciso di gettarsi a capofitto nelle file dell'opposizione..... Guai alla vittima!

Il bello poi sta nel sentire come questa confraternita s'incensa nei giornali... l'egregio mio amico... il celebre autore... Sic itur ad astra!

Ma zitto, sentiamoli.

— Sì, vi ripeto, che anch'io voglio ritirarmi alla campagna...

— Per farti anacoreta? Hai ragione. Deciditi una volta a far penitenza de' tuoi peccati... il pelo si fa grigio, e Cristo ti guardi dal farla tardi!

— E solo?

— Oibò; aspetto solamente l'incontro d'una bella ragazza...

— A che?

— Per farne il bastone della mia vecchiaia.

— È forse necessaria una ragazza? Prenditi una vecchia.

— Puah! Io intendo sempre d'imitare chi fa professione di dare buon esempio.

— Non ti sarà tanto facile trovare un modellino sì aggraziato... (cara, cara!)

— Lo credo io. Tanto più che non porto in capo... mi capite... il salvacondotto.

— Beati quelli! Paradiso di qua e di là; mentre noi aspettiamo l'inferno nel purgatorio... Se rinasco, m'immaschero anch'io.

— E vedere come si conservano freschi, aitanti oltre il mezzo secolo... mentre io a quaranta...

— Essi non consultano mai la quarta pagina dei giornali!

— A proposito. Ieri all'ufficio postale ho letto [202] l'Armonia: vi faccio sacramento che non vi ha diario che lo sopravanzi per spiritose concezioni, per purità di lingua e per strettissima logica...

In breve tutti gli strali si spuntavano sulla tranquillità apatica del prete, il quale tuttavia lasciava spuntare a fior di labbra un certo risolino indefinibile, forse allora che una favilla spiccava da tanto fumo. Bevi e ribevi, trinca e cionca, i tre finirono per ingolfarsi nel razionalismo, e manomettendo quel po' che ne avevano letto stampato su per le gazzette, diedero un furioso assalto a tutte le religioni positive.

Io che me ne stava fra tanta battaglia spettatore indifferente, pensai quanti pensieri dovevano frullare in capo al prete della montagna, certamente ignaro di ogni contesa filosofica, e che aveva forse creduto che non vi fossero al mondo religioni diverse dalla cristiana, turca ed ebrea. Ma egli sorbiva tranquillamente una fumante tazza di caffè.

Intanto nella via stessa dell'albergo una donna vecchia, scarna, giallognola e quasi cieca, appoggiandosi ad un bastoncino, si recava innanzi ad un'immagine della madonna di Revalvegezzo da qualche Raffaello del paese tratteggiata sul muro, e ginocchioni vi orava tutta raccolta.

Nella sala dell'albergo la discussione non cessava: discussione veramente non era poichè l'affare principale consisteva nel rincarire la dose a chi aveva parlato prima. Mentre s'arrovellavano sull'adorazione delle immagini, ad un tratto, vista la vecchierella che pregava, eccotela in ballo.

— La vedete quella donna? Credete voi che [203] nell'atto suo entri un cicino l'adorazione dell'Ente?

— Impostura!

— Ostentazione, dico io.

— Nè l'uno, nè l'altro; ma idolatria, sempre idolatria, paganesimo, superstizione.

— Farebbe molto meglio a filare alla conocchia!

— Sarei curioso di sapere cosa n'avrà dopo di avere sonnecchiato un paio d'ore davanti quella crosta.

E alzandosi anche lui, s'avanzò verso la tavola del prete, e fatto un leggero cenno col capo, col sorriso sulle labbra, chiese al vecchio:

— Scusi, sor abbate, se le interrompo il chilo.....

— Parli, signore, sono qua a sentirlo.

— Dica un po' lei, che è della professione e che può parlarne in cattedra, se quella donna non farebbe molto meglio..... ma lei ha sentito certamente i nostri discorsi..... l'amico mio giornalista grida come un ossesso!... favorisca adunque dirne chi di noi gli pare abbia ragione.

Il prete gli ficcò, intus et in cute, uno sguardo acutissimo, che tradotto in volgare voleva forse dire:

— Voi vorreste divertirvi alle mie spalle, neh? Guardate che io vi faccio pagare lo scotto!

— Signori, tutto quanto hanno detto, mi torna meno nuovo di quel che si credono. Dimorai lunghi anni in Allemagna ed a Parigi..... Io, me lo permettano, risponderò loro con una domanda.

— Oh! pensi.

[204]

— Quella donna è miserabile, si vede; è quasi cieca... è forse priva di famiglia, o, Dio non voglia, maltrattata da' suoi come un fastidioso mobile. Dunque senza gioventù, senza salute, senza vista, senza il cinismo d'un cuore isterilito nei disordini, senza conforti materiali e domestici, e quel che è più orribile, senza speranza! Agirà per ostentazione? Per carpire alle paesane sue il titolo di devota od un tozzo di pane? Poca ambizione e dura condizione. Ad ogni modo soffre e senza speranza di meglio, non è vero? Andate ora, sulla supposizione più onesta, a scalzare la predilezione idolatra che può per avere un'immagine anzichè per un'altra! Che vogliono darle, o signori, per consolazione, in cambio d'una fede, che vendica colla vita avvenire i dolori della presente?

················

E corse dietro alla vecchia per recarle il frutto d'una parola, atto che la fanciulla abbelliva colle grazie della giovinezza e della carità... Non dico che fosse tutta carità spontanea, pura... ma a buon conto, senza sofisticare, la carità venne posta in atto.

***

Da Premia, a destra, oltre la Toce, si sale per un cattivo sentiero alla Cravairola, regione al di là della catena dal Pizzo del Forno alla Corona del Groppo, la quale trovasi oltre al confine naturale e versasi nella valle Ticinese.

[205]

Le dissensioni sorte anticamente fra gli Ossolani ed i Valmaggesi finirono per accendere quelle scaramuccie, le quali per essere guerreggiate fra contadini non sono meno micidiali; di qui rapinarsi il bestiame, spesso diruparlo, incendiare le capanne; finchè, stanchi di queste reciproche rappresaglie a cui avrebbe tenuto dietro la comune miseria, ricorsero ai proprii governi verso la metà del secolo XVII. Senatori della Camera di Milano ed inviati della Repubblica Elvetica convennero sul Lago Maggiore e là stabilirono i confini. È inutile il dire che avevano tutti ragione. Dopo la sentenza, infierirono più atroci le rappresaglie. Finalmente in una sanguinosa rissa essendo stato ammazzato l'istigatore principale, un bandito della Valmaggia, di cui si portò in giro la testa sopra una picca, placata col sangue l'ira comune, la luttuosa lite ebbe fine.

Da Premia per Piedilago, detto dai valligiani Piedilatte, i due Cadarese e S. Rocco, si perviene in due ore sotto quel Salecchio già accennato da noi. Questo villaggio, il più alto della valle Antigorio, è situato sopra un breve gradino del monte della Punta di Campo. Da lassù godesi bella vista sopra una parte della sottostante valle, mentre tutt'attorno al villaggio rallegrano estesi pascoli smaltati di odorosissimi fiorellini. Chi da Salecchio volesse recarsi in valle Formazza, di cui di lassù scorgesi la bocca, senza discendere la via al basso malagevole assai, vi può pervenire con un sentiero che guida al santuario di Puneigen, in due ore.

Questo sentiero corre sull'orlo del pendìo [206] montano qua e là rapidissimo, e dopo la neve diventa pericoloso, non però come l'asprissimo che vi conduce da S. Rocco stagliato nell'immenso muro granitico, che s'aderge al N. O. Sicchè Salecchio è quasi segregato — nell'inverno — dal resto del mondo. Pochi inverni or sono il sindaco ed il vice-sindaco di Salecchio vollero discendere per quest'ultimo calle a S. Rocco; gli sciagurati sdrucciolarono sul vivo diaccio che lo copriva, e rimbalzarono — orribile a dirsi! — di roccia in roccia sino a valle.....

Il santuario di Puneigen od Autilone non ha nulla di rimarchevole per architettura, ma il sito è assai pittoresco. Sorge sopra una balza del Martello tutta lieta di piante e di erbe, attorniata da rupi scoscese che si specchiano in un laghetto. Dall'estremo labbro verso levante, la vista sulle nudi rupi del Rizoberg, sull'abisso che si sprofonda nella sottostante Antigorio, e verso mezzodì sui pascoli che allegrano le falde dei due Salecchio, compensa la poca fatica di farvi una digressione dalle porte della Formazza.

Da S. Rocco che ha una bella chiesuola ed una fisonomia ancora aperta, sorridente, italiana, in poco d'ora giunsi per Balmalarice, Passo, ad Arivasco.

Bella cascata è quella del Vuova, qui presso.

Io solo so quante volte incespicai sulla malagevole stradicciola per guardare le gigantesche rupi di granito venato a strati orizzontali che assiepano la valle. Gli obelischi egiziani appetto a quelli che se ne potrebbero trarre parrebbero birilli.

Perchè non ho io la potenza della fede che [207] rimove i monti ed il genio di Michelangelo? Vorrei innalzare sulla vetta suprema delle Alpi tale un monumento alla verità, che toccasse le stelle. Il granito non è ciò che manca per ora.

Il gruppo di casupole, che è Arivasco, non ha nulla che possa trattenerci, se non fosse questa nidiata di vispi fanciullini, la folleggiante gaiezza dei quali contrasta non poco colla severità del paese. La valle sì spaziosa va chiudendosi: ecco Unterwald. Siamo finalmente in Formazza?

Fra mezz'ora, rispose una donna.

Perchè, dissi poi tra me, le mezz'ore di piacere non sono tutte lunghe quanto codesta per salire alla Formazza?

XII. L'orrida forra di Unterwald.

Appena oltrepassato il malinconioso casolare di Unterwald (Foppiano), ci addentriamo in una stretta gola, oscura, sinistra. La scena che ti colpisce dal ponte d'Untergeschen è stranamente terribile. A destra, crollante sopra una rupe, una torre inghirlandata d'ellera e di muschio, sta per sfasciarsi. Forse è l'ultimo monumento della guerra contro i Cimbri — forse l'innalzarono i Cimbri nella loro discesa.

Guardati dal favellare contro i Romani ed i Cimbri — essa potrebbe vendicare su te gli uni e gli altri.

Lo Sternehorn, gigantesco monolite insofferente [208] di neve; che inabissa quaggiù i fianchi repenti, soffoca la forra. Le pinete dalle funebri ombre incutono sacro terrore. Immani macigni rimbalzati qua e là sotto e sopra, s'arrestarono colpiti da spavento. Fra le poche zolle, nei loro crepacci, sugli scaglioni inferiori, lacrimano minutissimi zampilli. In mezzo si rivolta, s'arrabbia di masso in gorgo con orrendo muggito la Toce tutta spumeggiante d'ira. È l'acqua che si ribella contro la terra. Intanto il sentiero, incerto, s'innoltra serpeggiando fra i sassi e sale faticosamente verso il lembo dell'orizzonte che s'affaccia lassù.

Dove sbocca questa fossa?

Le membra si diacciano sotto la vampa settentrionale che dal cigliare del pozzo si sferra quaggiù in un turbine di nevischio e di spruzzi del fiume; il petto ansante chiede riposo e mite temperie — ma su! su! qui non consentono sosta nè le spinose selci della strada, nè le ombre assideranti. Su! anche i pini, i larici si slanciano con forza da quest'umida caligine all'insù per giungere ad ottenere un raggio di sole. I loro rami tremolando ne invocano la caldura onde gli uccelli migranti vi si posino in ciarle d'amore. Ma invano! Non un raggio scende di là ed i merli d'acqua stessi (Wasseramsel) non osano soffermarsi alle loro radici. I corvi soli, gl'incresciosi corvi spiccano il volo dalle bozze soprastanti e scendono nel burrone sopra gli alberi infelici a funestarli col loro rauco gracidare.

Se qui la natura sembra spirare soffocata dalle moli gigantesche e sfinire di languore, oh! come trista dev'essere la valle di Formazza!

[209]

Un grazioso fanciullino incontrato ad una risvolta ne assicura che fra pochi istanti toccheremo l'altipiano desiderato.

Rincorato, dando uno sguardo ancora allo spettacolo sottostante, invidiai — e non per la prima volta — il pennello del Gonin per ritrarre questa terribile scena, in cui per rafforzare il colore locale non sarebbe punto necessario d'innestare episodii drammatici — sì alto qui parla la natura!

Ma ecco la bocca dell'androne, ecco la luce, il sole e col sole il sorriso della vita!

Guardo in giù, attraverso ai pini, e auguro ai Formazzesi non venga giammai loro il ticchio di sterpare la boscaglia protettrice del mal passo — o nessuno s'addentrerà nella spaccatura senza che, eterna spada Damoclea, non minacci o voluta di neve o frana o macigno!

Guai a voi!

[210]

PARTE TERZA La Frua ed il Gries.

I. Valle di Pommat o di Formazza — Stafelwald, Andermatten, Touffwald, Wald, Zumsteg, Brenno, Gurfelen, Fruttwald.

Quanto non s'eleva nella solitudine

delle Alpi l'immaginazione!

Zimmermann.

Eccoci al piano. Quattro o cinque scheggioni diroccati fin qui, Dio sa quando, dai vertici del Martello, e la valle Formazza si stende in là fra sublimi montagne.

Due piccoli villaggi ne si presentano innanzi, amendue poco lieti: il primo, poco rallegrato dal sole, Stafelwald, allo sbocco di una ripidissima valletta che dichina dal Vandflühorn (2862 metri), solcata dal torrente Riebbo, per la quale un brutto sentiero guida nell'estate pel Criner o Forca del bosco, alla Maggia nel Ticinese: l'altro, Andermatten (1241 m.), colla parrocchia, [211] sotto una scoscesa roccia che gli si aderge altissima alle spalle, pare temi di un finimondo.

Non ha tutti i torti.

Nulla di notabile nella parrocchia, fuorchè lo svelto campanile che sorge isolato. Nello sterrato allato alla chiesa il cimitero, come nei paesi protestanti della Svizzera. Ma prima di giungere al cimitero, fermiamoci, che n'abbiamo di mestieri, all'albergo del Cavallo bianco, pulito e discreto.

La Catterina, l'ostessa, dà cento punti al marito a darvi lezioni di corografia. V'ha anche una bella giovinetta, semplice ed innocente quanto vezzosa. Sento da esse che convengono alla parrocchia quanti abitano nelle superiori frazioni di Touffwald, Wald, Zumsteg, Brenno, Gurfelen, Fruttwald, e nell'estate dai casali di Kerback e Morasck distanti tre o quattr'ore di cammino.

Occupai la domane nel visitare i paeselli.

Poco oltre Andermatten la valle si rivolge alquanto a sinistra ed assume quell'aspetto che faceva esclamare al celebre Saussure esser questa la valle d'aspetto più pastorale ed allettevole. Da Stafelwald a Touffwald corrono a destra rupi tragrandi di vivo macigno, coronate d'una sempre verde boscaglia di pini e larici, mentre alzando lo sguardo scorgonsi le vette supreme dell'Hirelihorn (2434 m.), del Gazoli, del Bedriol (2921 m.), le quali, correndo fino al Kastel (3276 m.), dall'aprirsi al chiudersi della valle, a destra rimontando la Toce, segnano col taglio delle loro creste frastagliate il confine fra il regno italiano ed il cantone Ticino.

Dalle balze dell'Hireli si lascia cadere quasi [212] spossato di languore e di fatica lo Steibo, torrente che forma lunghesso quelle repenti chine una cascata di ben duecento metri, la quale appare da lungi quale tela d'argento sfavillante ai raggi del sole. Sempre a destra, prima di giungere a Touffwald, scendono dall'Alpe Gazoli il Fuldstuder e l'Ecco, amendue formanti variate cascatelle, le quali sono assai belle a riguardarsi, principalmente dopo qualche temporale nei valloncelli superiori.

Touffwald, detto pure S. Michele, ha case pulite ed è bene esposto al mezzodì. La strada sotto le boscose falde del Montegiove o Retiberg (3007 m.), come qui lo dicono, procedendo lungo la Toce scorge a Wald, nel centro della valle. Siccome però le molteplici sorgenti che zampillano dal Witenbil, collinetta in mezzo alle praterie, nell'inverno formano scaglioni di diaccio durissimo, i quali coprono per lungo tratto la strada, gli alpigiani l'abbandonano passando da Touffwald alla sinistra della Toce.

***

In Wald in una casetta al ponte ha stanza il ricevitore della dogana italiana, gentilissimo giovine che ne fu largo d'ogni cortese indicazione.

Ho fatto una visita alla tenebrosa nicchia in fondo alla quale il Lebenduner, prorompendo da un covacciòlo si precipita in sottilissima polvere; ma il denso velo degli spruzzi e l'altisonante ruggito m'impedirono d'interrogare i genii dello speco.

[213]

Il sentiero che serpeggia su per la foresta, dal ponticello che valica il torrente, guida ai pascoli di Vannin, e di là, su per le murene ed i diacci del Minoio-Krüpfi al varco del monte — da cui sceso nella valletta suprema dell'Arbola, pel passo del Figascian, in una giornata di cammino, ad Aernen del Vallese.

Zumsteg è la capitale della valle: è il più grosso villaggio, non il più bello. Le pendici a destra ed a sinistra sono tutte affoltate di pinete.

A pochi minuti da Zumsteg, alla destra della Toce, un bel gruppo di case sulle ultime falde del Nacker, Brenn — (1322 m.); poco più in su, pittorescamente allogato sotto una rovina di giganti roccie che i secoli hanno vestito di muschio e di zolle, sta Gurfelen. Le ruine a cui s'addossa, lo riparano dalle bufere del settentrione — tutto il male non viene per nuocere.

Al di là di Gurfelen, mentre la valle si ristringe, la strada sale, a sinistra del fiume, sopra una rupe che stagliata trabocca giù nei profondo in cui gorgoglia la Toce: di là, alla risvolta del cammino, ove s'innalza un'antica croce di legno, appare pressochè tutta la valle coi casali di Touffwald, Wald, Zumsteg, Brenn e Gurfelen.

Da quest'ultimo in un quarto d'ora si giunge a Fruttwald, diviso dalla Toce, nel verde piano in cui riposa la valle fra le rupi del Nuefelgiuh e le balze del Tamier. Il Nuefelgiuh è un'orrida catasta di macigni aspri, scagliosi, nudi, penzoloni sul villaggio.

Uno di essi, or faranno trent'anni, traboccava [214] con intenso fragore sul villaggio — la terra traballò, i pendoli s'arrestarono, mura si screpolarono — ma il masso per miracolo sprofondava a dieci passi dagli abituri.

Quelle creste ricise, addentellate non paiono accessibili che agli uccelli di rapina. Chi oserebbe del resto arrampicarsi lassù? Sentite una fiera istoria.

Luigi Dellavedova aveva un figlio non ancora ventenne, di ottima indole e di belle forme. Luigi è l'espertissimo fra i cacciatori di camosci. Egli non aveva mai permesso al figlio di accompagnarlo a caccia, promettendogli però che non appena avesse compito vent'anni, avrebbe diviso con lui le fortune di quel passatempo che in fatti è una serie continua d'indicibili disagi, e di pericoli d'ogni maniera. Il giovane attendeva con vivo desiderio, con impazienza quel giorno avventuroso. Spesse volte il padre lo sorprendeva fiso estatico verso i culmini alpestri. Intanto s'addestrava ad imberciare con sicurezza per colpire il suo cappello a trecento passi.

Una mattina, mentre il padre era assente, il giovanotto, malgrado le rimostranze della madre, mette ad armacollo la carabina paterna, parte per una scorsa sul Reti. Alla sera, prima dell'arrivo del padre, sarebbe di ritorno.

Quella sera giunse il padre; ma s'attese invano il figlio. Anche la notte invano.

La domane, la dopodimane, la povera madre correva di quando in quando alla porta della capanna con ansia infinita..... ma forse egli insegue con altri cacciatori un branco di camosci. Il padre interrogò i cacciatori della Formazza; [215] seppe che nessuno s'era mosso di casa! Il padre smanioso, col figlio maggiore, sale sulle alture e le percorre senza posa per varii giorni; frotte di cacciatori e di pastori s'addentrano nelle solitudini di quella cerchia montana, tutto attorno alla valle — invano!

L'ansietà cangiasi in angoscia. — Ogni valligiano palpita sulla sorte del giovane; le madri piangono colla madre.

Ecco l'ottobre — nevica. La neve seppellisce ogni cosa, ogni speranza. La madre sola spera ancora — in Dio! Più d'una volta, la notte, balza dal letto e corre affannata alla porta ove le pare abbia picchiato una mano sospirata. Allo squagliare delle nevi in giugno, sotto le precipitose rupi del Nuefelgiuh un pastore scopre un cadavere orrendamente sfracellato..... Il padre solo potè riconoscere la sua creatura. La carabina, spezzata, trovossi lungi un cento passi dal cacciatore che per la prima ed ultima volta l'aveva impugnata.

***

Quantunque Fruttwald sia il più alto dei villaggi abitati tutto l'anno nella Formazza, la vista resta ivi circoscritta verso la valle da un gibboso declive che l'attraversa fra il Tamier ed il Nuefelgiuh, e verso settentrione da un contrafforte di quest'ultimo monte che rinchiude quasi il superiore valloncello di Unterderfrutt ove casca la Toce.

La strada, lasciato Fruttwald alla sinistra, con [216] breve giro appiedi del Tamier s'affretta alla Frua, spettacolo che si presenta ad un tratto, quasi per meglio colpire.

S'io disegnassi come Schrimer non avrei a descrivertela a parole.

II. La Frua o cascata della Toce — Quanto costi un sorriso di donna.

Il Valloncello di Unterderfrutt è circondato dalle falde del Picco di Gigeln, a destra — dalla rupe della Frua a settentrione, — e dalle ultime digradanti balze del Nuefelgiuh a sinistra ed al fondo. Al di là della Toce poche stalle in mezzo ad una breve prateria attorniata dai macigni dinoccolati dalle rupi imminenti, danno ricovero nell'estiva stagione agli armenti che si vengono a pascolare.

Lo sguardo non può soffermarsi più d'un istante sulla cornice che inquadra il meraviglioso spettacolo della Toce, la quale ad un tratto, lasciato il queto alveo superiore, trabocca dal ciglione della rupe stagliata in tre orizzontali gradini, uno sull'altro cadente, ed irritandosi ad ogni labbro, rimbalza spumeggiante nell'aria, ricade in sottilissima polvere d'argento per spandersi nuovamente in mille spruzzi, cascatelle e zampilli, formando così una piramide gigantesca, la quale, allorchè il sole vi diffonde i suoi raggi luminosi, tutta sfavilla di mille diamanti.

[217]

Bello è contemplarla all'aurora colorirsi a porporine tinte, smagliante come l'acciaio brillare al mite chiarore della luna, e nelle incerte ombre della notte innalzarsi come un immenso fantasma in mezzo a quelle moli rigorose. La severità del sito, i cento sibili confusi in un sol urlo dell'aria percossa, le scagliose rocce del Gigeln, le superiori macchie di larici, fra cui fischia il vento, destano nello spettatore il senso, non so se più di meraviglia o di terrore, che nega la favella innanzi agli spettacoli più sublimi.

Nel fitto dell'inverno, benchè il volume delle acque montane scemi d'assai, la cascata presenta una vista non meno sorprendente: le notturne bufere ed il gelo asprissimo sogliono in poco d'ora indurare i fili, gli spruzzi, i zampilli, i veli cadenti; ed allora si vedono pendere e sorgere su quei lucidi macigni una serie infinita di stalattiti cristalline, che riflettono la luce con mille colori, mentre l'acqua scompare sotto questa scintillante armatura.

Dal ciglio al piano la cascata misura duecento metri; è quindi delle più considerevoli per l'altezza, mentre per la mole dell'acqua essa non la cede forse ad alcuna delle più vantate di tutta l'Europa. La cateratta del Reno presso Sciaffusa non va annoverata propriamente fra le cascate. Lo Stauback presso Lauterbrunn supera in altezza la cascata della Toce di un quarto circa; ma siccome quel torrente è molto povero di linfe, ne avviene che buona parte va dispersa nell'aria in sottilissima nebbia; mentre la Toce, anche nell'inverno, per le molte sorgenti perenni, ha tuttavia una notevole quantità [218] di acqua. Poco più, poco meno può dirsi lo stesso della Tamina, di quella di Martigny e della stessa del Reichenback, e d'altre che ometto per brevità o inferiori per l'altezza o pel volume dell'onde. Celeberrime in Italia sono le cascatelle di Tivoli: le quali a petto della Frua sarebbero meschina cosa, ove non concorressero a renderle più famose le memorie delle vicinanze, in cui ad ogni passo ti si rammenta la Sibilla Tiburtina, e Mario, Scipione, Virgilio, Sallustio, Flacco, Catullo, Orazio e Mecenate, i quali venivano dalla tumultuosa Roma a cercare silenzi e riposi al rezzo dei laureti sulle sponde dell'Aniene.

Il Casalis, nelle poche linee consecrate alla valle di Formazza, dice la cascata della Toce essere la più bella dell'Europa; il Boniforti l'accenna come la bellissima delle Alpi italiane e non inferiore a nessuna della Svizzera; l'Amoretti, che unico percorreva queste valli fra gli scrittori italiani, quantunque non si lasciasse trasportare d'entusiasmo che per ciò che era mineralogia, tuttavia la dice mirabile. L'Ebel stesso la magnifica, benchè per errore la diminuisca d'un terzo d'altezza. Ecco le sue parole: «Siccome, eccettuata la cateratta del Reno, non vi ha nella vicina Svizzera una cascata con massa sì considerevole d'acque, quella della Frua, è, senza dubbio, delle più notevoli che vi abbia.»

Salite in venti minuti le risvolte della strada tagliata nella rupe, dopo d'avere contemplato da vicino la caduta, eccoci sul ciglione da cui precipita il fiume; di quassù, come da lato, come dalle capanne d'Unterderfrutt, la scena si [219] para sempre grandiosa. Da questo estremo limite al sud della valletta di Uberaufderfrutt o di Sant'Antonio, si spiega dinanzi una parte della valle, senza la vista però dei casolari nascosti nelle anfrattuosità delle falde montane; alla sinistra della Toce sorge una cappelletta con portico, dedicata a sant'Antonio, a lato del Gigeln, altissimo picco direi d'un sol pezzo di viva roccia, che si disterra da questi altipiani.

***

Catterina era la più bella ragazza della valle Formazza: gli occhi gareggiavano colle labbra nel sorriso, ed il suo cuore non era meno generoso dell'aspetto. Non era una sola fanciulla in tutta la vallata che nel segreto del cuore non le invidiasse la bionda e foltissima capigliatura, e l'arcana potenza di ammaliare quanti l'avvicinavano.

Nell'estate, in mezzo al suo armento, quando cantava, gli animali alzavano il capo attenti, e cessavano di pascolare...

Nelle lunghe giornate d'inverno, accanto a sua madre, filava il lino, e tutti credevano che passando fra le sue dita bianche e sottili il filo, s'indorasse.

Nell'ampia e pulita stufa della sua casa convenivano nelle serate invernali i più formosi garzoni dei casolari, tutti innamorati di lei, che sorrideva a tutti senza conoscere l'amore.

Quando in coro colle amiche intuonava una bella canzone, Pippo differiva alla domane la [220] confessione di quanto sentiva per lei. Ma avrebbe potuto spiegarlo?

Tuttavia un bel mattino, non si sa se a caso, Pippo incontrò Catterina nella foresta dell'Hireli che riconduceva una capra smarrita. Di tutte le cose toccantissime ch'egli s'era da tanto tempo studiato di favellarle, non potè dir motto. Ma quando alla sera la Catterina con voce più soave del consueto cantò:

«Nel profondo del mio cuore v'ha una cellula ch'io sentii vuota fino a quest'oggi.

Io viveva senza assaporare la vita; io vedeva senza guardare; io ignorava tutto.

Ora la cellula è piena di un mondo — una tua parola ha fatto il miracolo.

Attorno ad essa mille immagini — e son tutte la tua. Perchè sfugge tuttavia dall'anima un sospiro?»

allora Pippo uscì dalla capanna troppo angusta. La brezza notturna gli ricompose gli spiriti, e il povero innamorato potè sclamare: dov'è l'uomo più felice di me?

S'egli era intieramente felice, perchè la sera susseguente andò coi compagni in casa della fanciulla e ne tornò senza aver profferito parola in tutta la sera? Era desso geloso?

Il vecchio Giovanni, il padre di Catterina, possedeva una foresta di pini secolari, ubertosi pascoli nella valle e meglio di cento capi di bestiame. Mentre stava un giorno soletto guardando il suo armento che pascolava sull'alpe di Balmarossa, vide venir a sè Pippo.

— Benvenuto Pippo! cercate di me?

Deo gratias, potè rispondere il giovane, affannato dalla salita sotto la sferza del sole di [221] agosto, e più ancora dalla tema di non ottener quanto bramava.

— Sedete e parlate.

— Se voi siete contento, io mi torrei in isposa la vostra figliuola.

— Voi siete onesto... ma troppo povero. Sapete che la Catterina è fra le più ricche della valle?

— Io non desidero che la fanciulla.... E volle soggiungere le mille cose che aveva pensato per istrada — ma la dura parola del vecchio gli annodò in gola ogni risposta.

Giovanni, vedendo il meschino grondante di sudore impallidire, lo trasse con sè alla capanna dell'alpe, gli presentò una coppa di latte munto allora, e con voce meno acerba:

— N'avete parlato alla Catterina?

— Disse di amare me solo.

— Poichè la è così, io non voglio fare due infelici. Voi siete giovane, e la fortuna ama i giovani. Quando avrete da pascolare dieci bovine, Catterina sarà vostra.

Pippo, rasserenata la fronte, abbracciò il vecchio, e scese correndo quelle alture senz'accorgersi della malagevolezza del sentiero e della china precipitosa. Prese commiato dalla vecchia madre piangente invano, e dall'amata che sorrise alle promesse del giovine animoso — e partì per Roma, per Roma tanto lontana.

Dopo un anno, Catterina seppe che l'amante spossato per incessanti fatiche era caduto ammalato. Da quel dì una mano ignota portava sull'altare della Vergine un mazzo di fiori perlati di rugiada, quali mai non si videro trapuntare le praterie della valle. Ve n'era di quelli a mille colori, come la spuma della Frua.

[222]

Pippo, colto dalla febbre, consumò ogni sparagno: quando riebbe in parte l'antico vigore, i medici lo consigliarono di fare ritorno all'aria natia. Nullameno cercò lavoro coll'insistenza di un proposito che non vacilla: debole ancora, il frutto del lavoro bastava appena alle necessità della vita. Intanto la madre lo richiamava — si sentiva a morire e voleva rivedere ancora una volta il figliuol suo. Partì povero e sconfortato da quel paese ove era giunto con tante speranze. Di ritorno trovò nella sua capanna un cadavere. Dopo la sepoltura della madre, quella porta non s'apriva ed i vicini dicevano di sentire la notte dolorosi lamenti.

Egli sarebbe morto di dolore, se un mattino una voce dilicata e tremante non avesse cantato sotto le finestre di quell'abituro la nota canzone dell'amore... Pippo venne fuora: quasi non era riconoscibile..... era anche povero — tuttavia Catterina gli sorrise.

Pippo comprò una carabina ed in poco tempo divenne il più destro cacciatore di quelle alpi. Di quando in quando inviava alla fanciulla del selvaggiume. Scoprì un giorno appiedi delle orrende diacciaie di Cavergno una camozza col suo nato: decise di ammazzare la madre per avere vivente la piccola — fermò di averla ad ogni costo.

Chi sa contare quante volte il cacciatore corse pericolo di morte? I camosci, in grazia del sottovento, sentirono l'appressarsi dell'uomo, valicarono le creste difficili del Kastel con piede snello e sicuro. E Pippo su per le roccie, dietro ai veloci animali. I quali s'erano indirizzati verso le giogaie del Thallihorn, sfiorando appena [223] la cornice a picco, al di là del lago di Kastel, sull'abisso che si sprofonda giù giù fino al vallone di Kerback. Pippo, sicuro che per stanchezza la capretta non potrà correre lontano, s'avventura su quel passo, largo due palmi, fra il cielo e l'inferno — sente smottarsi sotto ai piedi il sentiero — non s'arresta; si mette carponi e così valica l'abisso, in fondo al quale, laggiù, acute roccie stendono in su le loro scarne ed affilate mani bramose di sangue.

Il capretto alfine è quasi sfinito dal correre, e giace oltre il burrone della Toce a pie' della madre che lecca pietosa ed accarezza il nato, e guarda attorno con sospetto. Se Pippo giunge a varcare inosservato il burrone, le selvaggie creature sono sue. Bisogna dinoccolarsi al fondo e risalire la parete opposta. Ma se scivola sopra malsicuro sasso il piede? Sei morto. Se staccasi sopra il capo un macigno da lungo tempo desideroso di riposare in fondo all'oscura fossa? Sei seppellito. È facilissimo nella discesa repente avvallare a fascio; e non sarà impossibile arrampicarsi pell'ertissimo muro di fronte? E se mentre tu corri manifesto pericolo di orrenda morte, un sasso maledetto cade sonando sulle pietraie ed avverte la camozza? Mille terribili pensieri attraversarono come sinistro lampo la mente del cacciatore... ma Catterina, quando le avesse condotto la svelta capretta, come gli sorriderebbe!

Scivolò al fondo, s'inerpicò — dopo dieci prove — sino all'orlo opposto del burrato, e di là, fra le scabre roccie imberciando con mano ed occhio sicuri la preda, scoccò il colpo. La palla sibilò acutamente — tutti gli echi si destarono — quando il fumo si diradò, vide la [224] camozza fare ancora due passi, inginocchiarsi e cadere spirante presso il lattante... Povera ed innocente bestiuola! Ma che non vale un sorriso di Catterina?

Il lattante smarrito trillava di dolore senza fuggire, sicchè Pippo potè di leggieri impadronirsene. Catterina lo accettò con festa, gli cinse il collo d'una rossa collana a cui penzolava uno squillante campanello, e lo diede ad allattare ad una capra. Ella stessa lo conduceva ai pascoli della Frua, tutta lieta di vederlo sì gaiamente saltellare.

Da qualche tempo Pippo non s'avventurava più alla perigliosa caccia dei camosci: ritornava dai monti carico di pietruzze, delle quali alcune bianche come il latte, altre porporine come le labbra di Catterina, altre screziate d'oro. La cera raggiava di speranza e d'amore. Gli era apparso il genio delle Alpi e gli aveva indicato una caverna in cui stava nascosto un ricco tesoro di preziosi metalli e di rarissime perle. Il pavimento era tutt'oro — le pareti a colonne di malachite, smeraldo e lapislazzuli — il vôlto stellato di rubini e di granati.

Da quel dì la ruggine cominciò a serpeggiare in arabeschi sulla canna della carabina dimenticata in un canto della casa, ed i ragni a tessere le loro tele polverose sull'acciarino.

In quella un congiunto gli scrisse da Roma non indugiasse a partire a quella volta, gli affari procedere con meravigliosa fortuna; avrebbero diviso come le fatiche i frutti. Pippo sorrise alle esortazioni degli amici e partì in sua vece un altro.

Egli vendette la fidata carabina e s'avviò all'Anzasca. [225] Poco tempo appresso ritornava con alcuni di quei valligiani che saggiano e conoscono la virtù d'ogni pietra.

La domane — appena s'inalbava l'orizzonte — con cinque altri giovani robusti, muniti di vanghe e di acute marre, tutta la frotta, Pippo in testa, s'incamminò spedita verso il Griesberg; a Bettelmatt penetrò nel deserto androne del Gemmsland, e, accesi branchi di pino, entrò nel tenebroso speco. Appena la luce delle torcie resinose arrossò la bocca dell'antro, un urlo spaventevole gelò il sangue e la parola ai compagni — ed un lupo si slanciò rabbioso fuori di quelle tane — ma Pippo non aveva più la carabina, ed il lupo fuggì ratto. Triste presagio! Pippo ed i suoi amici scavavano con ardore e trasportavano al sole un mucchio di pietre, ed i minieratori le esaminavano attentamente una dopo l'altra. A mezzo il giorno questi ultimi dissero ad alta voce: non v'ha qui indizio d'oro nè di granati. Pippo impallidì! I compagni pietosi lavorarono fino a sera, secondando la febbrile ansietà dell'amico. Venne la sera senza che nulla si fosse scoperto; le pietre scavate con tanta fatica e tanta speranza non avevano valore di sorta. Pippo stava tuttavia lavorando quando i tizzoni si spensero. Nessuno osava far motto. Oscurata la spelonca, Pippo si coricò estenuato sulla soglia di quell'antro malaugurato, gemendo; bagnava la polvere col sudore che gli gocciava dalla fronte; ma non una lagrima sola. Chiamatolo invano, i compagni coi minieratori discesero prima della notte nella valle.

Chi non avrebbe detto Pippo morto? — Dormiva?

[226]

Questo è certo che quand'egli fu solo gli apparve Catterina assisa a banchetto di nozze, su cui stava fumante la sua bella camozza. Sollevò il capo dal duro origliere, e smarrito discese fra le tenebre d'altipiano in altipiano. Di quando in quando una voce soffocata, disperata — o Catterina! Catterina! — ululava per quelle callaie dirupinate.

Intanto un uragano precipitava dalle diacciale del Griesberg, ove le streghe menavano ridda al bagliore dei lampi ed assordava coll'orrendo frastuono il misero che s'aggirava in quei valloni. I lupi, turbati nei covili, scorrevano pei greppi cogli occhi di carbone, urlando attorno a Pippo, mentre le aquile ed i corvi turbinandogli sul capo, lo stordivano colle strida minacciose. Ma Pippo scendea sempre. Sdrucciolava sull'erba, sui macigni; cadeva nelle rabbiose fumane; ma discendeva sempre.

Certamente l'anima della madre lo guidava.

Quando l'aurora si raffresca nei vapori della Toce, egli grondante acqua da tutta la persona, coi capelli pioventi lungo le guancie livide, gli occhi stralunati, le mani peste e lacere, i piedi sanguinosi, giunse all'altipiano di Uberaufderfrutt da cui s'inabissa il fiume.

Il cielo si rasserenava, ed i monti si spogliavano delle loro clamidi fumanti.

Pippo, giunto sul ciglione della cascata, stava per discendere, quando — oh! come lampeggiarono di gioia i suoi occhi! — vide nel sottoposto piano la Catterina, che guidava al pascolo la diletta camozza. Pippo fuori di sè gridò: Catterina! — Stese le braccia e si slanciò verso l'amata. Ahi!... la rupe si sprofonda — Pippo, [227] stretto nelle gelide braccia della cascata, sobbissa — rimbalza sui tre scaglioni — colora un istante del suo sangue la roccia omicida — e sdrucciola ai piedi di Catterina.

La piccola camozza leccò il sangue che sgorgava a rivi dal corpo frantumato di chi le aveva ammazzato la madre, quindi fuggì alle libere aure del Gigeln.

Ecco perchè ogni mattino, allo spuntare dell'aurora, la cascata si arrossa, e si sente dalle roccie superiori il trillo d'un camoscio.

E Catterina?

Credete voi che ella d'allora in poi sorridesse tuttavia?

Così ha fine la leggenda della Frua.

III. Altipiani di Kerback, Valtoccia, Morasck e Bettelmatt.

Dall'altipiano di Uberaufderfrutt, ove all'ombra del portico della cappelletta sull'orlo della cascata udiva la pietosa leggenda della Frua, in meno di mezz'ora giunsi al vallone di Kerbach attorniato da alte vette, delle quali la parte meridiana che si protende fino al vicino anfiteatro di Morasch, è tutta lieta di zolle e di fiori. L'aere risonava di monotone cantilene d'amore; erano falciatori che sulle sdrucciolevoli chine del Thalli fornivano il loro lavoro colla sicurezza de' contadini pianigiani. Le eccellenti disposizioni ad imitare gli eroi d'Omero, che ad ogni fermata facevano un pasto proporzionato [228] alla grandezza delle loro imprese, mi fecero accettare di buon animo la refezione, che m'offriva l'ospitalità d'un vecchio ed onesto alpigiano. Quindi, poichè il sole già intiepidiva le freschissime aure, per un sentiero che già fu strada mulattiera selciata, ci arrampicammo per una buon'ora per la faticosa erta, e fummo alle bocche della Valtoccia, vasto altipiano tutto ricinto di picchi petrosi, mentre il suolo appiedi delle immense ciottolaie verdeggia qua e là di sapidissimi pascoli. Ma come melanconica è questa suprema convalle! I canti pastorali, il tintinnio delle collane degli armenti, il loro muggire, tutto pare un doloroso lamento. L'orida retta del Kastelhorn e le mute falde del picco del Nufenen-Stok spandono sul resto del quadro la tristezza del loro aspetto. Il laghetto di Castello rabbrividisce all'aspetto del Kastel che vi si specchia; il ruscello, che ne sgorga guizza tacito fra i massi, quasi pauroso non dinoccoli di lassù un macigno a riempire la limpida conca della sua sorgente. Il ruscello forma più in là il bacino del Pesce, ove le trote non osano amoreggiare che nel profondo.

La Toce ne nasce con poca festa. Le sponde dei due nappi e del torrente sono sabbiose, nude: l'ombra del Kastel fece inaridire l'erba. Anche le mandrie rifuggono in là.

In mezzo all'altipiano serpeggia il sentiero che pel passo confine (Auf der Mark) conduce alle radici della Val Bedretto, alla vetta del S. Gottardo, agevolmente in una giornata di cammino dai casolari di Formazza.

Un mandriano, tutt'occhi e boccacce dalla meraviglia di vedere lassù un cotale che nè [229] comprava, nè vendeva bovine e formaggi, mi disse che i Bedrettesi quando vogliono recarsi nel Vallese, invece di scendere dalla Valtoccia a Kerbach, e di laggiù per Morask e Bettelmatt varcare il Griesberg, usano per un sentiero difficile passare al di là del Nufenen-Stok e scendere così nell'Egina evitando il lungo giro.

Intanto il cielo s'era coperto di nuvoloni fitti, lampeggianti, e mentre m'aggirava per quelle solitudini malinconiose, mi colse senz'alcuna difesa un acquazzone, che mi cacciò giù fino al casale di Kerback più in fretta che io non avrei voluto, molle, inzuppato fino alle ossa, fra le saette ed i tuoni, come già Mosè dal Sinai, colla differenza che io invece di trovare gli alpigiani in ridda attorno al vitello d'oro, li vidi raccolti attorno ad un bel fuoco tutti intenti chi a mondare castagne, chi a sbattere la crema, e tutti ad ascoltare le frottole d'un cacciatore, che all'appressarsi del nembo avea frettolosamente deserto l'agguato per ripararsi sotto quel tetto.

Riazzurratosi l'orizzonte, lasciai Kerback e salii in mezz'ora a Morask, l'alpe più popoloso di tutta la val Formazza.

Morask è meno ricco di pascoli di Kerback, ma è più lieto per più vasta zona di cielo. La giogaia asprissima che rinserra l'anfiteatro verso il meriggio, colle cuspidi eccelse del Zumstok e dell'Himmelberg, può dirsi una parete di un solo macigno. Qua e là il diacciaio del Gries che si stende dietro a quelle vette, lascia cadere un lembo del suo lenzuolo sfavillante nella valle.

Prima della notte m'inerpicai ancora sulle [230] erbose pendici del Thalli, e vidi smaglianti all'ultimo raggio del sole le nevi eterne che smaltano le nere orribili creste del Kastel, a levante, che voi dite inaccessibili e che vi fanno rabbrividire al pensiero di trovarvi sull'orlo del precipizio che si profonda giù fino alla radice del monte, mentre in quest'istante forse un ardimentoso cacciatore di camosci sta sul cigliare dell'abisso, fra la vita e la morte, spinto lassù dalla sua passione.

Ma la notte già scolora ogni cosa: scendiamo.

IV. Ascensione del Gries — Diacciai — Le Alpi parlano.

Entrai per lo cammino alto e silvestro.

Dante.

Partii da Morask pel Griesberg. Il sentiero addentratosi in una gola ove per poco le falde dei monti non si combaciano, orma sopra la neve ad una florida prateria, e di là, costeggiando per la ripida salita il torrente che gorgoglia nelle crepature della rupe erbosa, guida al valloncello di Bettelmatt, famoso pei cacii che fornisce l'Alpe Anderlin. Prima di giungervi, voi valicate un breve contrafforte che chiude anche da questa parte l'altipiano, mentre il torrente sbattuto di sasso in sasso in [231] bianca spuma s'interra nella forra che a furia di pazienza e di secoli ha scavato attraverso al muro: badate veh! di non sdrucciolarvi dal sentiero; chi vi trarrebbe di là ai casali della valle? Il torrente solo.

Eccoci alle cascine. Esse stanno addossate ai frantumi che ingombrano il passo nell'angusta bocca della scabrosa valletta del Gemmsland, in cui l'ombra eterna e i massi paurosi e il deserto d'ogni vita incutono orrore. La chiude in fondo il Siedel (3218 m.), dalla vetta del quale fra spaventose diacciaie or piane, or gonfie come onda marina, or rotte a bizzarre colonne d'ogni architettura, vedesi sorgere solitario il picco del Blinnenhorn (3552 m.) l'altissimo dei monti che s'estollono attorno alla nostra valle.

Mi riposai presso il letto del Griesbach, dall'onde biancheggianti, dai ciotoli tersissimi, screziati a mille colori, e trovai fra le ghiaie l'asbesto bianco che i montanari dicono sughero alpestre. Al di là del torrente, nella prateria un numeroso armento di bovine agitava pascolando i sonagli delle collane. Alcuno di quegli animali s'avvicinava a noi pauroso, e dopo averci a lungo guardato con occhio stupito per le foggie disusate, ricorreva in mezzo agli altri di gran galoppo. È incredibile il piacere che produce il tintinnìo dei campanelli, il muggire, lo scorazzare festoso delle giovenche e dei vitelli che con piede sicuro dichinano rapidissimamente per le pendici; in questi animali pascolati liberamente all'aria, giorno e notte, senza impacci di catene e di guinzagli, scorgi una sveltezza di moti che non trovi in quelli del piano, lenti e taciturni.

[232]

Ma già il sole dardeggia; su ancora, un'ora, la più faticosa, e ti riposerai sulle sponde dei due laghetti da giardino, da cui zampilla il Griesbach.

Pervenni sulla cima dell'erta trafelato ed ansante per la soverchia fretta con cui la brama di toccare la desiderata fronte dell'Alpe m'aveva spinto per l'erta. Con animo palpitante, varcata l'ampia murena, che con mirabile vicenda le diacciale ingoiano e rigettano, mi trovai sul lembo dell'eterno diacciaio che dorme su quelle vette supreme, dal Gries allo Stafelclogberg, abbracciando così dalla destra pressochè tutta la valle di Formazza.

Eccomi sopra di esso. — Sento sotto di me — novissimo senso — un cupo rumoreggiare, — fiumi forse che cascano echeggiando dalle caverne nelle viscere del monte — forse, come la tradizione paesana, sono le anime dei defunti che cantano preci di remissione. Lunghi, diritti, immensi crepacci stagliano tutta la gigantesca massa — dove appena visibili, dove a bocca aperta come mostri.

In questi crepacci, da cui il piede rifugge istintivamente, dormono laggiù negli antri sonori, da dodici anni, due giovani francesi. Io guardo in giù, nell'azzurra abisso senza fondo, e pavento di sentire che gli infelici vi sdrucciolarono, o vi furono spinti dalla bufera — non morti e che laggiù, feriti, col martoro di un'agonia che li sorprende esuberanti di vita, senza speranza di sfuggire alla loro sorte inevitabile, dolorosa, senza conforto alcuno d'affetti umani o divini, imprecano al fato, o rassegnati aspettano di agghiadare fra le braccia della morte, richiamando alla memoria le immagini dei cari...

[233]

Forse i Francesi s'erano avvicinati al Faul, nero fantasima che sorge nel mezzo della diacciaia, ove dessa pare ondeggi come i fiotti marini. Forse venendo in Italia, non s'erano attenuti alla loro sinistra, verso la murena, ove i fessi sono meno frequenti e meno spaziosi — forse da animosi perlustratori s'erano addentrati, verso il Ritzenhörner, in quella vasta e terribile solitudine, su cui torreggia il Blinnen — forse avviluppati dalla bufera avevano dimenticato un momento di tastare coll'inseparabile alpenstok se mai sotto il mobile strato della neve non si sprofondava un crepaccio.....

L'Alpe tenta come il mare l'audace — ma spesso l'uno e l'altro, dopo avergli rivelato i misteri più stupendi, ingoia gelosamente il sedotto. L'uno e l'altro ti sfidano col loro fascino: se tu vinci una volta impune, pensa che essi possono vendicarsi atrocemente.

Ambidue toccano il cielo. Ambidue cantano sì altamente la grandezza della natura che la tua piccolezza ne rimane subitamente atterrita.

Dopo questo senso istintivo, tu osservi e le une e l'altro con desiderio. In breve mille attrazioni sorgono ad innamorarti di loro: da quell'istante non sono più due mostri, li ami e ti amano. Se loro sei fedele amico, ti riveleranno la meravigliosa armonia che li unisce al resto del mondo, la bellezza del loro essere e la grande generosità con cui spargono dovunque la vita.

I diacciai dall'orrenda solitudine ti diranno che sotto la larva della morte alimentano la vita, i fiumi che fecondano le riarse pianure. La bufera stessa che schianta l'annoso pino come il tenero lichene, ti dirà colle mille voci come [234] da queste supreme convalli ventando, fuga l'aria corrotta e sparge la salute. Così la tempesta marina. Mille naufraghi disperati ti fanno imprecare ad essa. Ma la morte è la vita: sono indivisibili, necessarie sorelle.

Nè meno mirabili ti saranno per amore le foreste e gli intangibili pizzi nembosi.

Affidati ad un legno sull'incerta superficie del mare, sali sui vertici alpini, e sentirai come necessità l'amore, come bella la libertà — sentirai come se ti battesse in petto cuore di poeta.

Come l'anima, l'alpe ed il mare ti saneranno il corpo. Se la tua mente paralitica non si scote, se il tuo corpo non riacquista elasticità e vigore — tu sei già due volte morto.

Dal cucuzzolo del Gries, a cui salii di qui in mezz'ora, scorgesi assai meglio il sottostante diacciaio, e meglio soprattutto lo stupendo panorama delle Alpi Vallesane e Bernesi, che compensa largamente della fatica della giornata. Il Grimsel, la Jungfrau, il Fisteraarhorn, lo Stokhorn ed altre celebrissime Alpi s'estollono al dissopra della verde cortina che separa dall'Oberland il Vallese; mentre a destra il Rothental, il Nufenenstock, il Kuliboden, ed a sinistra il Faul ed il Gemmsland pare sorgano a conversare con quelle fiere torri elvetiche.

Disceso il cono del Gries, ecco a mezzo il diacciaio, venire verso di me a lunghi passi una strana apparizione. La doveva essere un cacciatore fanatico che s'avventurava soletto fra le solitudini alpine, col capo difeso da uno sdruscito cappellaccio a tre acque, le ossute gambe infilate e diguazzanti in un paio di brache spelate, [235] le uose fino al ginocchio, due scarpaccie a mo' di barca da fare il giro del mondo, mare e terra, un grosso zaino alle spalle, la lunga carabina ad armacollo e il bastone ferrato nelle mani.

L'abito di prete cozzava a vista sì duramente colle venatorie munizioni sotto cui sudava il poveretto, che al vederlo colla lunga e sparuta persona arrampicarsi brancicando per l'erta, gli era la più risibile cosa del mondo.

Eppure il reverendo Blummenkranz era stimabile persona. I compaesani non lo dicevano liberale, nel senso popolare, — benchè fosse largo di cuore e di mano — perchè non frequentava le bettole; ma assicuravano, che, venuta la stagione delle foglie, il suo cervello ne andasse tanto in visibilio da farneticare. Dopo la prima neve rientrava in se stesso. Le stramberie della sua religione per la natura gli erano perdonate in grazia del fervore con cui pregava Iddio a non dimenticare le messi dei campi, i fiorellini delle praterie e le pinete. Don Blummenkranz nato in Germania era stato altra volta un abate del bel mondo. A Berna e a Ginevra non sono affatto spariti i ricordi delle sue dissertazioni sulla necessità dell'amore.

La sua figura — innegabilmente ridicola — pareva una vivente confutazione delle sue parole. Disingannato dagli uomini, senz'odiarli, intese tutte le forze dell'anima nell'amore della natura dalla quale otteneva rivelazioni sconosciute e voluttà arcane.

— Tutto parla, diceva Blummenkranz, ed io finirò per comprendere la meravigliosa espressione delle cose.

[236]

Forse aveva amato una donna — ma qual donna avrebbe avuto compassione di un essere così strano?

Malgrado i profondi studi naturali, egli dovette provare che la cosmologia non era che un intoppo per la carriera ecclesiastica. Da chierico fatto cappellano, e punto a capo.

Contentus parvo, egli non si crucciava di nulla. La natura lo compensava largamente dell'irrisione degli uomini. Secondo Blummenkranz, un uccello parlava più chiaramente d'un avvocato; gli amori delle piante non erano una finzione imaginosa, ma una storia. Credeva — senza oltraggio alla religione — agli spiriti che popolano l'aria, l'acqua e le case, ed era in stretta famigliarità coi genii delle Alpi. Conosceva le cause per cui i pizzi erano stati battezzati con una parola anzichè con un'altra, quindi infinite leggende. Siccome non aveva mai posto piede oltre la Svizzera, si meravigliava alla descrizione delle vaste pianure, ed inorridiva al pensare, che vi potesse essere una radura così sconfinata da non scorgere un monte e che un uomo potesse vivere senza amare le Alpi.

Di lassù, appaiatosi meco, in tre ore discendemmo nella valle Egina nel cantone Vallese, alle sponde del Rodano spumante, donde io contava di recarmi al vicino Obergestelen sulla via al Grimsel. Il varco del Gries, dal centro dell'alta Italia, è la via più breve al Bernese.

Lasciato D. Blummenkranz, m'avvio alla volta della mia meta. Se non che io faceva i conti senza il temporale, che in pochi minuti, abbuiato l'orizzonte angusto, si rovesciava nella valle. Alle prime goccie ritornai frettolosamente sui [237] passi miei, e ormai stanco dal lungo cammino, bussai ad una capanna presso una chiesuola, invocando ospitalità per amore di Dio e delle poche mie monete.

La porta della capanna venne aperta, ed una pertica, voglio dire il reverendo Blummenkranz inchinandosi, m'offrì cordialmente il tetto ed il desco. Lo credereste? Fu quella una delle più belle sere delle mie peregrinazioni. La cena parchissima, forse insufficiente, ma l'anfitrione era sì curioso nel novellare! Compresi che il romito era miglior cultore dei piaceri dell'immaginazione che non della caccia. Perchè adunque la carabina? Perchè, mentre tutti tenevano per ragionevolissima cosa l'arrischiare la vita nella caccia, nessuno certamente avrebbe compresa e rispettata la passione entusiastica del povero cappellano.

Accomiatandomi, il reverendo Blummenkranz mi pose nelle mani un foglio, dicendo: Serbatelo per memoria mia. — Risalendo, due giorni dopo la mia gita a Meyringen, allo Stauback, l'Eginenthal, lessi in fronte alla carta donatami:

LE MONTAGNE PARLANO.

Giunto oltre la diacciaia del Gries, sedutomi sul cigliare della balza imminente a Bettelmatt, mi riposai, leggendo quanto segue:

«LE MONTAGNE PARLANO.

«— Su, Blummenkranz, quest'oggi salirai sulle Alpi, le vere Alpi, le Alpi che mi dividono dall'Italia — il paese di cui non ho pronunciato [238] una volta il nome senza sussulto. Quest'oggi sono felice — me ne rallegro cordialmente.

Di lassù spingerò lo sguardo nelle sue valli, ove sole e terra vanno d'accordo nel fecondare e nel crescere — ove, senza dubbio, i fiori sono più coloriti e le frutta più gustose.

Chi sa se non sentirò quell'aria piena di vita e d'armonie che suona sì melodiosa scossa dalle vibranti cetre dei suoi poeti?

Forse i miei occhi vedranno poco — ma la mia anima? Dirò: conosco anch'io la terra ove fioriscono gli aranci!

Pervenuto al vertice, m'inginocchiai riverente per salutare quel paese che amo senza conoscere, e con tutte le facoltà dell'animo mio, dissi:

«T'amo, perchè io so da lunga pezza che noi abbiamo saldato ogni partita per l'antica ruggine coi Romani; perchè comprendo che se tu non vieni a noi col perdono sulle labbra, gli è che le ferite non sono ancora rimarginate — t'amo e mi auguro di vedere la mia patria stretta con fratellevoli nodi a te, che tutti i nostri bardi cantarono con esultanza, e che la sola tirannìa ed i suoi odii feroci ne hanno fatto sprezzare e combattere come maledetta.»

Profondo silenzio regnava attorno. Sospeso fra terra e cielo, quella m'incantava, questo mi rapiva....... Le fronti delle Alpi corruscavano; i loro manti erano agitati; il cervello del Griesberg su cui posava era palpitante: dal rododendro esalavano inebbrianti profumi; in ampi circoli le aquile si libravano nell'aria; i tordi montani cominciavano a cinguettare misteriose note di amore, mentre il vento susurrava i pastorali accenti del ranz des-vaches... Era allucinato?

[239]

Le nebbie, in cui i monti si avvolgevano, sfumarono; la luce innondò da capo a piedi quei giganti che s'avanzavano, oh meraviglia! da ogni parte attorno al Griesberg, come a parlamento — forse per ingannare la noia secolare.

— Dunque noi che ardimmo scalare il cielo saremo turbati nella pace del nostro sepolcro da questi embrioni superbi?

— O Grimsel, le parole che tu soffi, eruttando fumo e faville per lo sdegno della tua maestà conculcata, trovano nella mia anima una clamorosa eco. Sì, non vogliamo essere manomessi dall'uomo, o per la morte come i Diablerets mi sfascierò sopra di esso!

— Meglio così, caro Firsteraarhorn, disse arrossando la Jungfrau pudica, che io non vedrei più questi nani insolenti arrampicarsi sul mio petto per baciare quella fronte che la sola bufera aveva per tanti secoli tôcca. O meglio un fulmine mi scaraventasse giù nelle valli, che gl'inverecondi baci di questi uccelli spennati!... Ahi! dove il mio verginal candore?

Un'orrenda voce di scherno tuonò:

— Gran cosa in verità! Quanto volonteroso io non mi torrei i baci, di cui fai sì grande scalpore, quando tu volessi scambiarli coll'atroce ferita, che mi aprono nel bel mezzo del corpo... A me che pure tanto li amai da nascondere la face che alta portava sul capo; ma guai a loro se io riapro il varco al torrente di fuoco, che m'arde e rugge in petto!

— Infelice Cenisio, che sarebbe degli sciagurati senza di noi? Chi loro feconderebbe la terra coi fiumi e temprerebbe l'aria coi venti?

La Rocciamelone chiese la parola per la Rosa immacolata.

[240]

— Immacolata! mormorò ironicamente la Jungfrau..... e Saussure, e Vincent, e Zumstein, e il prete Gnifetti li conta per nulla?

— Facciamo osservare alla maligna Jungfrau che non tutte le cinque foglie vennero tocche.

— Cessate, rituonò il Bianco, la ridicola questione. I Romani ci rispettarono con religiosa temenza, e questi vanerelli d'un secolo impertinente osano contaminarci le candide stole! Ma a che ragunammo questo onorando consesso? Per lagnarci delle clamidi insudiciate? Vi cruccia lieve offesa quando vedete in noi bollire una fiera passione? Se non vi talenta sentirvi prudere le membra da quest'insetti, inghiottiteli nelle pieghe de' vostri manti. Mi lagno forse io? La sventura del Cenisio è sventura che a noi tutti sovrasta. L'umana famiglia minaccia di ridersi di noi, di attraversarci in ogni guisa sotto mille pretesti. Confortiamo il Cenisio, e troviamo modo d'impedire tanta ingiuria.

Il Bianco stese una mano al Cenisio — a cui mancavano per conforto anche le salmodie della Novalesa; — commosso dalla regale degnazione, svenne in braccio all'Iserano. Lo Stock corse lesto in suo soccorso. Alle lamentevoli grida del vegliardo, alle parole del Bianco erano accorse attorno attorno quant'Alpi regnano dal Simmering al Tenda.

Aperto il parlamento dal monte Bianco, considerato il caso esposto — per un fatto personale — dallo stesso Cenisio, parlarono uno dopo l'altro e sovente anche due o tre alla volta — tacevano da tanto tempo!

Il Cenisio propose di sloggiare dall'Italia, terra [241] ingrata per eccellenza alle Alpi; il Cervino, ponderato l'irresistibile amore al paese, propose di congiungersi tutte in sì orrenda maniera che nessun passo si aprisse. Un viva — a gran maggioranza — accolse il singolare progetto. Senonchè al punto di passare allo scrutinio, il Viso chiese la parola con voce, che fu sentita quasi nota fuori di chiave.

Il Viso — siede a sinistra — educato a metà in Francia, tutto pieno d'idee cosmopolitiche e fors'anco perchè nessuno gli aveva sfiorato la pelle, cominciò a sfoderarne delle nuovissime sulla bella tendenza degli uomini ad unificarsi — parlò dell'abolizione dei neri, dei doganieri, dell'emancipazione della donna e di altre cose, che colorando le Alpi come i più cocciuti nemici della fratellanza universale loro minacciano più che mai la sorte d'essere traforate e affettate — e finì con tanta eloquenza per proporre ognuno si togliesse in pace il suo destino in grazia del progresso dei tempi, con tanta eloquenza che i venerandi oratori, ritornati al loro posto, ricominciarono a russare saporitamente.

················

V. Confini della valle — Le case, il desco, l'abito, il commercio, l'agricoltura.

Ho fatto una visita a Zumsteg, al palazzo municipale, antica casipola murata or fanno circa tre secoli lungo la Toce. Il fiume batte con impeto sulle fondamenta e le mura tremano [242] screpolandosi. Al pian terreno s'apre verso la strada un'ampia finestra sbarrata da solida inferriata — è la finestra del carcere. Da essa lo sguardo corre ogni angolo della prigione, sicchè era ad una carcere e berlina. Al piano superiore la stanza del consiglio; in un armadio le vecchie pergamene del comune, delle quali sono oltremodo gelosi.

Notai nel mio taccuino quanto appresi dalla cortesia dell'onesto ospite circa le costumanze de' suoi conterranei. Tu, compagno mio, forse non avrai queste novelle in pregio come io le scrissi con amore; ma pazienta lo stile dimesso e riposa, se vorrai aver lena da potere con sicurezza toccare l'ardua sommità del Reti, che di lassù ne sfida.

I confini della giurisdizione di questo municipio comprendono la terricciuola di Unterstald sino al ponte di Untergeschen: da esso corrono, al mezzodì, al Minoio-Krüpfti passando sulla vetta del Martel, e da quello all'Ofenhorn, da cui col limite dell'Italia per le diacciaie fino al corno del Gries. Alla sinistra della valle poi dal Gries pel Nufenenstok ed il Markhorn (2963 metri) al culmine del Rizoberg segue l'orlo estremo del Canton Ticino; dal Rizoberg ritorna al ponte di Untergeschen.

Il municipio senza reddito di sorta preleva le spese opportune da imposte; ciascun casale ha boschi e pascoli che si dividono equamente a beneficio d'ogni famiglia.

[243]

***

Entriamo nelle abitazioni. Le case sono quasi tutte di legno colla forma dei châlets svizzeri, ed a tre piani: quello terreno è murato e serve di cantina. I piani superiori sono costrutti con travicelle per lo più di larice foderate internamente con tavolati bene mastiettati e disposti con qualche simmetria. Il pavimento ed il soffitto, piuttosto basso, sono pure di legno senza alcuna vernice.

Tutte le case hanno una camera più vasta delle altre, riscaldata — forse soverchiamente — da una stufa di pietra, nella quale accendono grande quantità di legna, e ciò da una parete interna di pietra che contiene pure il camino della cucina. Tutte le stanze sono tappezzate d'immagini sacre o di statuette in cera trasportate da Roma e dal santuario di Einsiedelen in Isvizzera, dove si recano qualche volta in pellegrinaggio. Una cosa curiosa si è che hanno sì indicibile amore degli orologi a pendolo da averne anche tre nella stessa stufa: notate che quasi tutti hanno poi ancora nelle tasche un orologio d'argento.

Un Formazzese, nel tepore della sua stufa con un po' di patate e di carne salata se ne ride della neve e del lungo inverno, e dice di stare meglio di un re — costituzionale.

Ignoro perchè gli usci abbiano l'architrave tanto basso, che ad ogni uomo di mediocre statura conviene inchinarsi per entrare nelle case e per passare dall'una all'altra camera; forse questa stranezza ha lo scopo di mantenere [244] costante l'uso del saluto di chi entra. I Romani scolpivano sulla loro soglia il motto che diceva benvenuto al visitatore, squisita cortesia, che i tempi s'involarono con tant'altre; i Formazzesi paiono invece più gelosi del rispetto dovuto al padrone della casa che non di quello all'ospite.

Le finestre meritano una breve descrizione. Esse sono composte di tre telai rettangolari separati l'uno dall'altro da un travicello verticale a sostegno della parete superiore; ogni telaio è diviso in due sorta di vetri da una linea di legno orizzontale; i superiori sono fissi con piombo filato e per lo più esagoni, gli inferiori, più grandi, rettangolari ed incorniciati, scorrono o da una parte o dall'altra nella mastiettatura del telaio; ne viene perciò può sporgere al di fuori altro che il capo; per lo più i vetri inferiori sono diacciati, o, volgarmente, fatti a mandorle per nascondere ai vicini le proprie faccende senza diminuire la luce.

Le stalle, le cantine sono senza finestre; nel trebbiale superiore si coreggia la segale.

Se da una parte queste abitazioni sono asciutte, sane e comode, la quantità di legnami onde sono costrutte presenta mille pericoli d'incendio, tanto più da temersi per i venti e per la mancanza assoluta d'ogni istrumento atto a spegnerli. Morasck, pochi anni sono, ardeva interamente.

Il Formazzese, come gli Alpigiani in genere, si nutre di patate, di carne salata, e beve vino ed acquavite. Sono golosi di caffè. Anticamente non si faceva il pane che al fine di novembre per tutto l'anno; ora suole farsi almeno due o tre volte all'anno.

[245]

Ho visto più d'una volta la famiglia d'un agiato Formazzese assidersi senza distinzione fra il capo ed il servo ad una pulita tavola di acero, in mezzo della quale stava un gran piatto, in cui tutti pescavano colla forchetta o col cucchiaio; antichi costumi che i Formazzesi conservarono gelosamente sino al giorno d'oggi.

***

Ora i calzoni lunghi, la casacca di frustagno o di panno e il cappello di feltro hanno dato il cambio alle lunghe calze bianche trapunte, alle brache, al panciotto rosso, all'abito a grandi tasche, nonchè al cappello a larghe tese. Nell'inverno le gambe per diguazzare nella neve coprono con uose di lana sino al dissopra del ginocchio; alcune cordicelle legano alla scarpa la falda che copre il collo del piede. Alcuni fra quelli che furono in Roma recano ai patrii monti l'uso incomodo di quel cappello cilindrico — che rappresenta sì bene le tendenze artistiche del secolo — con non poca antitesi col resto dell'abito.

Le donne, che vent'anni sono coprivano il capo d'un pittoresco cappellino adorno di nastri, lo coprono ora con un fazzoletto rosso annodato alla nuca. Il seno è coperto da un panciottino a varii colori, dal quale spunta attorno al collo un pizzo. Le vesti raccorciano la taglia e giungono a mezza gamba: nell'inverno sono di panno sottilmente piegato; le braccia ed il dorso coprono con una giubboncella a lunghe maniche. Nessuno va scalzo; gli stessi zoccoli in legno sono poco in uso. Nei giorni [246] festivi principalmente il loro uniforme vestire è notevole per pulizia.

***

La fonte del benessere dei Formazzesi consiste negli ampii pascoli, dei quali si vantaggiano gli altipiani e le convalli superiori, per cui ben mille bovine vi traggono dalle proprie stalle e dall'Antigorio. Una parte di queste scende poi a svernare al piano. Falciano una volta all'anno il fieno nelle praterie meglio soleggiate, ed alquanta segale che non cresce sempre a maturità. In tutta la valle ho veduto un solo albero fruttifero nell'orto di una casa in Fracco, un povero ciliegio bramoso di sole e di nutrimento che intisichiva.

Sul finire dell'estate, i Formazzesi più danarosi attraversano il Gries per recarsi alle fiere di Meyringen nell'Oberland, ove fanno incetta di giovenche e di vitelli che con loro infinito disagio conducono poi di qua dai faticosi gioghi del Grimsel e del Gries ai mercati di Domodossola, soddisfatti di un guadagno poco proporzionato a sette giorni di viaggio disastroso.

***

I Formazzesi sono di statura piuttosto alta, nerboruti, agili e svelti.

Le donne sono più notevoli per robustezza che per avvenenza di forme, e meglio ritraggono la seria impronta dell'antica patria, che non la gentile finezza del profilo italiano.

[247]

Quanto all'indole dei Formazzesi, sì largamente dotati dalla natura di saldissime membra, mi parve ottima. Del resto nella valle nè polizia, nè milizie comunali. Pochi doganieri perlustrano i confini nei quattro mesi della bella stagione.

Le furie sanguinose della vendetta e della gelosia non agitano i loro cuori, in cui le passioni per l'indole pacata e riflessiva, pei nodi fratellevoli del sangue, per influsso della fede, e fors'anche per effetto benigno dell'aria che tutto volatizza, hanno meno impero che non avrebbero altrove.

Ho già notato altrove che la maggior parte — e doveva dire la migliore — della gioventù maschile emigra a Roma. Avvenutomi un giorno in un crocchio di garzoni di recente ritornati da quella città, avendoli richiesti dell'arte che praticavano, uno d'essi risposemi: — vi eravamo ministri.

Non crediate che i dabben uomini governassero colà il periglioso timone della pubblica cosa, come si crederebbe a prima vista da noi. Presso il popolo a Roma ministro è semplicemente il garzone di bottega. O ambiziosi!

***

Tutta la valle era anticamente una foresta, come lo indica lo stesso nome dei villaggi. I primi immigrati sterparono le foreste del piano, conservando a sicurezza della valle le folte boscaglie che vestono i monti, senza la quali in pochi anni l'intiera vallea sarebbe un deserto, [248] un caos di frane, di ciottoli — forse il letto d'un ghiacciaio.

Da Unterstalden alla Frua (1885 m.), oltre la quale non trovai che tre o quattro pini nei valloni di Kerback e di Morasch, s'elevano veri Dei Penati della valle, migliaia e migliaia di pini, di larici e d'aceri in foltissime foreste.

In esse il balsamico profumo della pianta stessa, il muschio che copre da secoli la rupe, la misteriosa oscurità e quell'indefinibile musica, che fa il più lieve susurrare di vento fra i rami e le foglie, ti fa sostare le ore seduto appiè di quegli alberi secolari, assorto, rapito. La più bella di queste foreste è quella che copre il Reti fra Touffwald e Wald. La salita è rapidissima. Sopra la pineta poca verzura, e poi le nude roccie, fra cui ultimo l'odoroso rododendro, il quale fiorisce spesso sul freddo terriccio delle diacciaie. Di quando in quando — troppo sovente forse — si recidono i pini più annosi, anche sulle difficili cornici; ed io me ne andai più d'una volta presso Andermatten a vedere le travi scuoiate tratte dai legnaiuoli sulle fittizie rotaie scivolare rapidissime dalle balze del Krayhorn al fondo della valle. Ammassati questi fusti in cataste lungo la strada, le traggono poi nell'inverno sulle slitte sino alla rupe di Puneigen, sulle casse e li precipitano da quel ciglione. La Toce conduce poi queste travi al Verbano. I legnaiuoli che esercitano questa pericolosa tratta sogliono essere per lo più della valle Cannobina o del Lago Maggiore.

[249]

***

Entrai in un antico abituro a Gurfelen.

Da lungo tempo vi abitava la miseria e la malattia. L'infelice sdraiato nel suo lettuccio di paglia, mi guardò con occhio stupito, e con fioca voce disse:

— Non guarirò più, sa? Ho tentato ogni rimedio.

— Che vi disse il medico?

Mi guardò altra volta meravigliato.

— Medico? Noi non abbiamo medici. La visita d'un medico da Domodossola rovinerebbe la mia famiglia. Ci curiamo con decozioni di erbe aromatiche, con acquavite, burro e grasso di marmotta. Ma io ho tentato tutto invano..... forse mi manca qualche pianticella... l'ho già sognata tre volte..... ma non ne so il nome. Gli è come il mio male, mi sento morire e non ne so il nome.

Perchè non conosco io la pianticella che tu sogni!

VI. Costumanze curiose — La scolaresca.

Stamane per tempissimo che appena la cuspide dello Sternehorn s'indorava ai primi raggi del sole, ed ancora soffiava nella valle la notturna brezza, uscito dalla capanna per godere [250] il sempre nuovo spettacolo dell'aurora e bagnarmi in quella frescura, ecco a capo del ponte di Wald un drappello di questi buoni montanari che recano a battesimo un neonato. Il padrino coperta la testa d'un cappello di feltro tutto ornato di lunghi nastri svolazzanti e la persona d'un lungo mantello — qualunque sia la stagione — porta al tempio il pargoletto per esservi battezzato, tenendolo nascosto sotto le falde del pallio: sicchè il Formazzese al primo uscire alla libera luce dei campi non ha le molli donnesche carezze, ma comincia sotto quei ruvidi panni ad educarsi ad una vita tutta laboriosa e parca.

E di tanto mi fu cortese la sorte che mentre io me ne sto quassù badaluccando s'ammogliasse il gallo della checca del villaggio di Zumsteg.

Tutti gli amici ed i vicini sono concordi a festeggiarne le nozze con incondite canzoni, con moltissimi spari d'arcobugio e di pistola, onde tutti gli spechi montani e valloncelli attorno ne echeggiano lungamente. Al partire della sposa dal natio casale nessuno compare a far evviva: un canto, un colpo di carabina sarebbe un insulto. Così gli sposi s'avviano coi pochi più stretti di sangue al tempio. Appena usciti, ecco loro incontro una frotta di giovani stranamente mascherati che li saluta con fragoroso tuonare delle armi. Uno di questi, coperte d'una sottile maglia le vive carni, malgrado la brezza quasi invernale del mattino, precede gli altri e dalle penne ond'ha ornato il capo appare quale Caraibo. Egli tiene spiegata nella destra una piccola bandiera bianca [251] orlata di fettuccie rosse, quasi simbolo di pace e d'amore. A parte le antitesi dell'abito colla temperatura, il nostro giovinotto fa bella mostra di tarchiate membra e di sporgente petto, quale scolpiva Spartaco il Vela. Quest'altro che inchina sul bastone la gibbosa persona, ti rappresenta al vivo un vecchierello di cent'anni fa, coll'abito rosso, le scarpe fibbiate, il cappello a tre punte e lo sparato della camicia trinato, tutto splendente di cento bottoni che non hanno pari se non lo scudo d'Achille.

Questi dalla persona sottile, dritta ed alta come un pino, si è travestito da donna con non poca ingiuria al bel sesso.

Alto là! Ecco una cricca di furfantelli ha sbarrato la strada: gli sposi non oltrepasseranno la barriera se non distribuiscono ad ognuno un fazzoletto. Durante il cammino gli amici continuano allegramente ad assordare collo sparo delle armi i poveri sposi gongolanti per tanta festa. Al giungere al casolare dello sposo la strada è nuovamente barricata con una tavola imbandita di ciotole e di boccali: nuovi evviva: nuove libazioni, nuovo fragore.

Pagato anche qui il dazio e sgombrato il passo, essi si recano all'abituro dello sposo, ove nella stufa li attende un desco tutto carico di caci, di carni salate. La sposa s'assiede a capo del tavolo, mentre lo sposo fa da coppiere: mesce ad ogni istante ai convitati, pago dei loro evviva; in quel giorno la sua casa è di tutti, chiunque ha dritto di cioncare a sua posta quando ha fatti voti per la felicità della sposa.

Accade qualche volta, mi si disse da un burlone, che sopravvenuta la notte, lo sposo è ancora [252] a digiuno, poichè nessuno ha pensato a lui ed egli solo ebbe a pensare a tutti.

***

Chi non si ricorda sorridendo dei primi tempi della scuola infantile? Allora forse il giorno era sovente affannoso pei rimbrotti ed i castighi nell'ingiusto maestro, per le paterne tirate d'orecchi, per la perdita di qualche biglia al classico arringo dei birilli! Ma è destino dell'uomo rimpiangere il passato, sprezzare il presente e sperare nell'avvenire. Queste ed altre più cose per consolarmi della perduta fanciullezza io pensava quando entrai fra la scolaresca formazzese, una quarantina di biricchini che mi parvero italianamente svegliati, i quali convengono in Zumsteg da tutti i casolari della valle per imparare la lingua tedesca ed italiana, il conteggio elementare e lo scrivere. Entrato, zittirono: interrogati a prova, risposero a cappello — ed io a rallegrarmi coll'ottimo D. Pietro Anderlin per la veramente alemanna perduranza con cui pazienta a prò del suo paese. In Zumsteg ed Andermatten vi sono ancora scuole per le bimbe, e tutte fioriscono — anche perchè nella valle il saper leggere e scrivere è cosa da lungo tempo tenuta indispensabile.

[253]

VII. Una lezione di meteorologia — Il frugnare e le volute — O mi date ragione, o non mi fate stare sulle spese.

Nella valle Formazza l'anno non si divide come altrove in quattro distinte stagioni: un vecchio adagio dice esservi nove mesi d'inverno e tre di freddo. L'inverno comincia generalmente coi primi giorni di novembre, benchè nella seconda metà di ottobre si faccia già sentire il gelo. Nel maggio si liquefanno le nevi, ed il giugno desta dappertutto la verzura. Ma luglio, agosto e settembre sono i tre mesi di questa state, nella quale non è raro alzarsi al mattino e vedere i declivi superiori ammantati d'un bianchissimo strato di neve, che poi i raggi solari fanno sparire in brev'ora.

La valle essendo circondata attorno da estesi ghiacciai, la temperatura estiva è freschissima: in tutta la state il termometro Réaumur non segna all'ombra oltre i 16 gradi sopra lo zero: scendendo qualche volta sotto i 10 gradi, il che darebbe una media di 12 a 13 gradi di calore; d'onde chi vi villeggiasse può a suo bell'agio correre a caccia per le balze montane, al sole, senza che gli avvenga di ritornare all'albergo soffocato e tutto molle di sudore. Il sole intiepidisce le aure che scendono dal Gries e dalla Valtoccia e non sferza, illumina e non accieca. Perciò i valligiani vestono tutto l'anno [254] pannilana, e i cappelli di paglia e gli ombrelli sono qui inutili.

Quanto poi alla stagione invernale essa vi è veramente poco piacevole, e per la sua durata di otto mesi e per la quantità della neve che talvolta copre la terra di uno strato di ben tre metri di altezza.

***

Le volute, come le chiamano gli abitanti dell'Apennino toscano sulla strada dell'Abetone, e noi diciamo valanghe, sono, come non tutti sanno, frane di neve, che traboccando dai supremi pendii alpestri, ingrossatesi nel subitaneo cammino, rovinano al basso senza che capanne od alberi valgano a trattenerne l'impeto funesto. Il rombo della voluta è simile a quello del tuono, e la furia con cui avvalla è tanta che l'aria percossa da così ingenti masse sprigionandosi d'attorno abbatte uomini e bestiame non punto tocchi dalla neve.

Vid'io staccarsi dalle somme rupi, in prospetto alla capanna ov'io dimorava, un'immensa massa di neve e precipitare sul pascolo detto del Bedriöli. Una capanna ed una stalla non poterono resistere allo scoppio dell'aria, e senza essere tocche dalla frana vennero schiantate di pianta e trasportate alla distanza di cento passi.

A dare poi un'idea dell'irrepugnabile furia di queste masse nevose, non increscerà al lettore che io qui trascriva quanto trovo in un antico libro di memorie d'una famiglia di Fruttwald. Tralascio alcune risibili raccomandazioni [255] di quell'autore di non stare sicurtà e soprattutto la peregrina ortografia del testo.

«L'anno di grazia 1701 cominciò a venire giù neve alli 6 marzo seguitando senza interruzione sino alli 16: per la qual cosa dalla Cima Rossa e dal Krayhorn rovinò sopra Andermatten una frana di neve tanto smisurata, che abbattè una casa e tre stalle, ruppe la porta e le invetriate della chiesa parrocchiale empiendo tutte le stanze di neve. Della cappella della confraternita sfondò le invetriate, fracassò l'angelo del trono di S. Pietro ed altri arredi. Pertanto Formazza è paese della neve, ed ognuno deve procurare di avere fieno sino al giugno, in cui, se prospera la stagione, comincia a crescere l'erba. Soprattutto ognuno si guardi dalla miseria: chi scrive per esperienza vi dice che le cose andranno ognora di male in peggio o come le stagioni.»

Anche lo spiritosissimo Rabelais si lagnava, tre secoli or sono, che non vi fosse più nè state, nè verno.

***

La neve da lunga pezza copre vero lenzuolo funereo la natura: solo qualche fronte insofferente di velo s'aderge nuda. Nel silenzio rotto dal brontolio della Toce che serpeggia nella vallata, mi giunse all'orecchio un rombo lontano verso il Thalli, dove una cortina grigiastra pesa sulle alture.

Che è? Presto in casa: fuggi, è la bufera che avvolgendo furiosa ne' suoi turbini quanto trova [256] di leggiero sulla terra, la neve e le foglie, oscura l'aria ed acceca di modo che sarebbe impossibile di toccare la soglia prediletta dell'amica. Sbarra la porta — senz'indugio — e la finestra. Senti come picchia, come sbatte le imposte? Vieni a questa finestruola e sogguarda dal fesso... tu rabbrividisci? Le foreste sbattute s'inchinano timorose — l'aria percossa stride, urla orrendamente — le campane suonano a stormo da sè stesse — l'agnello smarrito trabocca nel precipizio — la capanna barcolla — il rododendro è schiantato e il frugnare passa avvolgendosi in un turbine di neve e di foglie.

Qui colma il sentiero; là attraversa il piano scavando nella neve un fosso profondo, dritto, come farebbe un aratro gigantesco; quell'abituro, quella chiesa scompaiono sotto la mole nevosa che loro addossa il furibondo ventare, mentre queste siepi, poc'anzi sepolte, restano ad un soffio nudate, ripetendosi questa vicenda ad un batter d'occhio.

Intanto dall'impercettibile fessura tra i vetri s'introduce in casa una nebbia di sottilissime falde nevose.

Alle volte queste tempeste montane durano anche vari giorni. Passata la furia si trovano le bianche praterie solcate come da ondosi cavalloni, e qualche volta rami di piante portati da remote regioni, come pochi anni or sono sopra l'altipiano del Gries trovaronsi foglie di noci, castagni e di tigli.

La bufera delle alpi è sorella del Simoun del Sahara.

Mentre al di fuori mugge la bufera, per passare [257] mattana in barba alla noia che appunto in questi tempacci vi s'incolla addosso, noi agiati nel tepore di questa capanna, in mezzo ad un crocchio di vezzose forosette — non farti troppo vicino, compagno mio, il soverchio rompe il coperchio — ascoltiamo dai novellieri le antiche tradizioni del paese. Fra queste è notevole, come avente origine alla primitiva immigrazione, quella che accenna all'esistenza di una famiglia che viveva a mo' delle fiere nell'ancora deserto Morasck negli spechi e nelle crepature dei macigni dell'Himmelberg. Ma cercheresti invano una leggenda, una tradizione che possa snebbiare il tempo e la contrada da cui presero le mosse, incalzati forse dalla fame o da qualche persecuzione alle felici terre di queste convalli italiane.

Osservando attentamente dal modo di appellare nomi oltrealpini le acque diverse che irrigano la valle, — costumanza che senza fallo accenna alla cura amorosa, con cui i loro predecessori cercarono di rammentare l'abbandonata patria — onde chiamano tuttora la Toce Reuss ed il torrente del Gries Rhone — mi pare che si possa dedurre che i Formazzesi o emigrassero dalle non rimote valli della Reuss e Rodano, o tanto vi sostassero da rammentarsene con tenerezza. Wendel vuole queste genti Sassoni.

Varii antichi storici chiamano Germani questi abitatori delle Alpi Pennine o Leponzie: di ciò ne accerta e la diversa struttura fisica e più di tutto la favella, la quale può dirsi un tedesco poco corrotto, se riflettasi che essi sono sempre stati in maggior contatto cogli Italiani [258] che non cogli Svizzeri. L'italiano introdotto nelle scuole, la quantità dei giovani che vanno e vengono da Roma, e che lo parlano discretamente rendono ora lassù più comune la lingua nazionale.

Essendo affatto incerta l'epoca in cui la colonia tedesca immigrò, occupiamo questa giornata piovigginosa scartabellando quel po' di storia trascritta qua e là a spiluzzico dalle pergamene e dalle cronache municipali. In essa non trovasi pagina, o motto, che dimostri la valle di Pommat indipendente per governo dalle vicissitudini dell'Ossola; ma dagli Sforza agli imperatori d'Austria conservò tuttavia sempre amplissimi dritti di giudicare nelle cause riflettenti il proprio comune, eccettuati i delitti e le controversie più gravi; per cui la valle Formazza formò senza dubbio per molti secoli una vera repubblica con vassallaggio verso i signori della Lombardia.

È notevole che questi alpigiani ogniqualvolta discesero dalle loro rupi per recarsi alla Corte in Milano per protestare contro i feudatari dell'Antigorio, tennero sempre il linguaggio di chi ha l'intima convinzione che nessuna forza al mondo possa sopraffare la voce della verità.

Recatisi una volta in Milano per ottenere giustizia contro i Valvassori De Rodes, da un giorno all'altro, siccome è tuttora uso, veniva procrastinata l'udienza. Annoiati d'aspettare e di spendere, cominciando a conoscere quanto sa di sale l'attendere nelle anticamere, scrissero al governatore in quella città si compiacesse ottemperare a quanto domandavano senza farli stare maggior tempo sulle spese.

[259]

Della loro franchezza, della loro fede nella giustizia, ecco un altro documento, che ne piace qui trascrivere.

Il lettore, se non lo salta a piè pari, converrà con noi — paragonandolo a certe strisciature del giorno — che i Formazzesi, se erano poco versati negli affari di Stato, non temevano protestare altamente, a nome della loro povera e microscopica patria, in faccia a chi poteva sterminarli, come Giove olimpico, con un corruscare di sguardo.

«(Anno 1700).

«Illustrissimo magistrato,

«Non mancava altro per dare il finale esterminio ai poveri habitanti della valle di Formazza che il notificato l'anno del Signore scorso sporto alle SS. VV. Ill.me di che godessero certi molini senza il pagamento di certe annate ad essi imposte. Pare bene stiano ai medemi il dovere contro il tenor preciso de' suoi privileggi, che qui l'esibiscono, restare ad un nuovo et impensato aggravio costretti, e quel che è più, che vengano chiamati molini certi edifitii che non valgono in tutta la corporatura quaranta lire, et che non macinaranno uno staro di grano, ò due, ò puoco più in un anno, quandochè i montanari puonno haverlo, come patente dalla Relatione stessa del dottore Scacciga che fu colà delegato dalle SS. VV. Ill.me con spesa di più di cento lire ai patroni di quei molini. Motivi al certo che obbligherebbero quelli habitanti ad abbandonare [260] il paese, quando et l'innalterabile giustitia et l'innata equità di questo Ill.mo Tribunale non li lasciasse ancora sperare che, ben conosciutisi i privileggi fatti a quel popolo tedesco dedititio, sempre vissuti sotto la corona di S. M. più per via d'aderenza che soggettione et haventi leggi proprie et consiglio di giudicio proprio, et che finalmente viene esentato da ogni genere di cotesti aggravii, et havutosi riflesso alla tenuvità d'edifitii, al lavorerio che fanno, non siino le SS. VV. Ill.me per molestarli, lasciandoli vivere colla sua pace, per la quale ricorre Gio. Tioli in nome di tutti gli altri, e proprio servitore (!) a' piedi dell'Ill.mo magistrato, etc., etc.»

Segue poi un altro documento in cui questi montanari espongono alla detta Camera di Milano come sia:

«Dovere di osservare i loro privileggi, ai quali derogare non puonno nè grida degli Is. Governatori, nè qualunque altra superiorità

Davvero che gli Spagnuoli in ispecie dovevano alla lettura di queste domande inarcare un tanto di ciglia.

Venendo ora a quei privileggi diremo qualche cosa della loro origine.

Giovanni Galeazzo Maria Visconti in Vigevano addì 20 aprile 1486 concedeva ai valligiani il dritto di giudicare tutte le cause civili e commerciali nel loro tribunale, obbligati solamente a deferire al capitano commissario ducale in Domodossola quelle di gravi crimini o miste, e riconosce ordines et statuta vallis ipsius hactenus observata. Non trovando simili autorizzazioni governative, anteriormente si può credere [261] con ragione che le leggi che reggevano la valle fossero state stabilite dai loro stessi maggiori poco tempo dopo la loro immigrazione.

Ludovico Maria Sforza in Milano addì 7 maggio 1502 confermava i privileggi dei Formazzesi, aggiungendone qualche altro riflettente i feudatari De-Rodes. Nel 1531 questi tirannelli, abusando della loro forza, vollero aggiungere al loro feudo la valle: i nostri montanari presentarono tosto al Duca Francesco II una supplica per conservare la propria indipendenza, e riescirono anche questa volta nel loro intento.

Filippo III di Spagna nell'anno 1611 da Madrid riconfermava queste antiche prerogative.

È senza dubbio cosa curiosa l'osservare che i Formazzesi obliando che i loro signori con poche centinaia d'arcieri potevano sottomettere ad ogni loro capriccio la valle, in ogni protesta, anzi in ogni supplica rammentino con sicurezza di essersi dati ai signori Lombardi e di non essere stati conquistati. Da ciò si può congetturare una primitiva sottomissione agli Svizzeri, o meglio una quasi assoluta indipendenza. La stessa posizione della valle conferma quest'ultima induzione, poichè per molti mesi dell'anno il Griesberg e la Valtoccia sono insuperabili per le altissime nevi; e verso l'Antigorio, dopo tanti secoli oggidì tuttora il passaggio è poco migliore di quello alla Svizzera.

Il trattato di Vorms cedendo l'Ossola ai principi di Savoia, la maggior parte di quelle concessioni cessava: lo statuto del Re Carlo Alberto dichiarando tutti i sudditi eguali d'innanzi alla legge, abrogava finalmente ogni vestigio delle franchigie antiche.

[262]

Nel manoscritto delle leggi che già governavano la valle, non trovai di notevole che una punizione severa a chiunque tentasse alienare gl'immobili a favore di persone non nate nella valle. Del resto esse, poco più poco meno, non differiscono da quelle che erano in vigore in quel tempo.

VIII. Dove il paese senza un eroe? — Vita e miracoli del capitano Guenza.

Io non v'ho ancora tessuta la vita ed i miracoli di qualche Formazzese: nè voi avete dato segno d'accorgervene, quasi certi che sotto quelle ruvide sargie non possano ripararsi che omaccioni di forza erculea e di cervello tondo come l'O di Giotto. Niente affatto, signori miei. Non avete mai sentito la fama buccinare il nome del formidabile capitano Guenza? No? Tanto peggio per voi, obbligati a trangugiarne ora la biografia, e tanto meglio per me che potrò acquistarmi fama, dopo d'essere stato l'Amerigo Vespucci della valle Formazza e della cascata della Frua, di essere il Colombo del capitano Guenza, il quale era, come tanti altri eroi sconosciuti, nato fatto per conquistare mezzo mondo, se auspice alla sua culla era la buona occasione arbitra suprema dei fati umani.

O se questa dea volesse favorire quanti la invocano, che nebbia d'eroi! Andate in un caffè di provincia all'ora della chiacchera politica — [263] sentite quei Machiavelli in erba, e ditemi se con una buona occasione non farebbero impallidire tutti gli astri diplomatici.

Antonio Guenza era il più scapato ragazzo della valle, da Crevola al Gries; indole e persona senza paura, indomita, a tutta prova. Io, colla vostra buona venia, avrei una smania da non dirsi d'imitare i grandi maestri di biografie, i quali convengono tutti che i loro uomini illustri, piccini (anche a loro tocca nascere, poppare e fare tutte quelle altre cose che voi sapete), dimostravano una gran voglia di studio, una precocità d'idee straordinarie nella loro testolina da far prevedere qualcosa di grosso, sicchè tutto il resto della vita non è che una rettorica amplificazione della prefazione. Antonio Guenza invece era sempre al banco dell'asino della scuola: — se c'era la scuola — e il primo a scaraventare pugni a iosa a chi non la pensava come lui, malgrado la sferza dell'amoroso babbo a cui non veniva fatto di tenere il figlio fra le domestiche pareti, nemmeno sprangando la porta col catenaccio.

Antonio era come l'aria natia; passava da tutti i buchi, correva sulle più perigliose cornici montane, e nell'inverno scivolava a precipizio per le chine più repenti coll'impassibilità con cui altri scenderebbe una comoda scala. Nutriva poi un disprezzo senza confini per le siepi, principalmente dei frutteti. Alla sera l'appetito più che la stanchezza lo menava a casa, ove lo attendeva la solita tirata d'orecchi e un po' di cena, dopo la rammanzina del povero babbo ed il serio proponimento che al domani senza fallo — avrebbe ricominciato da capo.

[264]

Pensate se con quell'indole poteva starsene a lungo fra i quattro monti dell'Antigorio! Questa storia succedeva or sono più di due secoli — vi fo grazia della data — quando la Lombardia era tutta vesciche gonfie di Spagna.

Un bel dì — forse grandinava!... granchè quest'usanza di parole! — un bel dì adunque quel Toniaccio scompare. Il babbo amoroso alla terribile notizia si sentì proprio sollevare dal capo un gran peso; forse se n'era ito a Roma a fare il fornaio, il famigliare di qualche prelato... chi sa? forse il frate?

Zitto: ecco una missiva dell'Antonio al caro babbo.

— «Voi mi cercate... (che granchio a secco!)... invano. Sono già abbastanza grande per sapere che senza denari non si fa un icchese. Se non diventerò papa Facchinetti, non importa; ma ritornerò a casa ricco ancor io e potente. Non bevete tanta acquavite se volete conservarvi alla mia fortuna.» —

Passa un mese, un anno, due, cinque, dieci, quindici e nessuno sente favellare di Tonio.

Una triste giornata d'autunno, presso uno dei più remoti villaggi dell'Antigorio, cinque o sei birri giungevano alla casa del vecchio Guenza, debitore di non so quali gabelle alla Corte di Domodossola. Essi stavano per compire la loro bisogna, ch'era di portare via il meglio dell'abituro e di confiscare in nome dello Stato il peggio, quando di buon trotto un cavaliere sui quarant'anni, dal viso di bronzo, armato di spada e di pistole, giunse alla porta della casipola mentre il vecchio litigava coi gabellieri.

[265]

Il nuovo arrivato chiese al vecchio di permettergli di mettere a sosta la cavalcatura trafelata, e di potersi riposare all'ombra dei castagni che stavano là intorno, e senz'altro, come a promessa di più larga rimunerazione, fatto portare un capace fiasco di vino da una osteriaccia vicina, offerse agli altri di dividere con lui il rezzo dei castagni e la bevanda. Al generoso signore nessuno disse di no.

Tracannato il fiasco, lo sconosciuto disse essergli saltato il ticchio di mangiare due castagne arroste, se era possibile; al che gli astanti risposero che se ciò talentava alla sua signoria illustrissima essi ne avrebbero sbatacchiate, e in poco d'ora fatte cuocere; e già uno d'essi s'era levato per andare in cerca d'una pertica, quando lo sconosciuto s'alzò d'un tratto, e disse:

— Fermate! Ora ci penso, la pertica è inutile: bastano le mie pistole. Vedete lassù sulla punta di quel ramo cinque o sei grossi ricci?...

Imberciò un istante il ramo a cui pendevano i frutti, scaricò la pistola, e in mezzo a cento foglie spezzate le castagne caddero a terra.

Mentre gli astanti guardavano stralunati l'autore d'un colpo sì meraviglioso, egli ricarica la pistola sparata, quindi indietreggiando sino al castagno, con voce terribile, appuntandole tutte e due contro i berrovieri di Domo, gridò:

— Partite: questa è la casa del padre del capitano Guenza che vi fa sacramento di bruciare le cervella al primo che si volta indietro.

Questa fu la prefazione che Antonio Guenza, di ritorno dall'armata di Spagna pieno l'animo d'intollerante audacia e le tasche di doppioni d'oro, pose alle sue opere future.

[266]

Ad Arivasco, se non erro, havvi ancora una sua casa colle mura perforate da fuciliere.

Salì poi in valle Formazza, ove regnò assoluto signore.

La tradizione popolare, che conserva memoria vivissima di quell'uomo strano, lo raffigura piuttosto come superbiaccio che voleva imporre ossequio e timore che non uomo d'animo perverso. Nessuna contrattazione facevasi senza che il capitano avesse dato il suo beneplacito. Con lui non si scherzava punto: armato di stocco e di pistole, quando gli talentava uscire per le viuzzole dei casolari, i ragazzi correvano a nascondersi sotto il grembiale della mamma, e gli uomini s'affrettavano a cedergli il passo e ad inchinarlo.

Tuttavia non mancò l'animo ad un certo Anderlin di tenergli bordone nella contesa di alcuni confini avvenuta fra lui e il capitano, il quale non amava punto si discutesse sulle proprie pretese. L'Anderlin, dopo d'avere recisamente negato al capitano la trasposizione del Dio Termine a proprio danno, sapendo per fama che manesco e prepotente uomo gli fosse, si teneva in guardia d'insidie, quantunque non apertamente minacciato. Una volta, stanco ed assetato, egli entra in una bettola a Foppiano... all'unico desco sedeva il Guenza! Tornare addietro sarebbe stato vigliaccheria, restare peggio: egli osò! Il Guenza, appena vide l'Anderlin avanzarsi verso di lui, levò di sotto certa pistola, e la pose sul tavolo, come una minaccia. L'Anderlin, salutato l'ospite e il capitano alla maniera paesana, sedè in faccia al Guenza pacatamente, e gli disse:

[267]

— Sor capitano, quell'arnese lì mi pare inutile sul tavolo, tanto più — aggiunse in tuono di celia — che non supplisce nè ad un fiasco, nè ad un bicchiere.

— E se potesse servire a castigo di un impertinente?

— Allora, capitano, converrete che vi starà bene anche il castigo del prepotente, non è vero?

L'alpigiano trasse di sotto una pistola a due bocche, luccicante, e coi congegni della piastra sì forbiti da non lasciare dubbio sugli effetti dell'acciarino, e la pose allato alla ciotola che aveva recato ser l'oste, come una posata. Sulla cera del capitano lampeggiò un istante ira mal repressa: ficcò negli occhi all'alpigiano uno sguardo acutissimo, che questi sostenne senza batter palpebra.

Dopo cinque minuti in cui corse alla mente del capitano un mondo di pensieri, fra cui il più insistente era quello di sparare con destrezza l'arma sua a bruciapelo sull'Anderlin mentre quest'ultimo badava, facendo tuttavia il Gianni, a non lasciarsi sorprendere dall'avversario; dopo cinque minuti che parvero un secolo, il capitano prende la pistola — Anderlin fa lo stesso — la disarma, la ripone nella cinghia della durlindana, ed offre a trincare alla propria salute.

L'Anderlin respirò liberamente ed accettò.

Dopo qualche tempo l'Anderlin inerme incontrò nella salita delle casse il capitano che scendeva. Il passo stretto, il precipizio lì sotto: se l'Anderlin non cede la destra e non arresta i suoi muli, il capitano è obbligato a ritornare indietro o ad aggavignarsi alla parete montana, [268] cosa poco dicevole all'orgoglio di un capitano di S. M. cattolica. Il capitano anche senza fare uso delle armi poteva spingere a rifascio le some nel burrone e ridurre l'Anderlin a mal partito. L'Anderlin fermò le cavalcature, e salutò il Guenza senza timidezza, e questi, passandogli allato, gli disse:

— Buon dì, Anderlin: sapete cosa penso io adesso di voi?

Rabbrividì l'onesto mulattiere a queste parole che potevano celare un disegno mortale contro di lui senza difesa; tuttavia rispose:

— Che, se non bene?

— Penso che voi siete la più stimabile persona della valle. Buon viaggio.

Dunque il Guenza, a cui sarebbe stato facile trarre a mal fine l'avversario, non era d'animo feroce; bensì in mezzo a quelle timide genti adoperava il prestigio della fama delle prime prove, e il timore che incuteva l'erculea persona a tenere soggetta al proprio arbitrio quella popolazione.

Dopo la sua morte nacque dal pensiero poco valoroso della libertà acquistata dal caso, l'adagio: è passato il tempo del capitano Guenza.

Ultimi discendenti dal capitano vivono tuttora, io spero, due ottimi vecchi, celibi pacifici, che mi ricordo d'aver talvolta veduto intenti a faticosi lavori, uno e l'altro poco distanti d'età dal sedicesimo lustro. Per ampiezza di pascoli e per le case capaci, essi sono i meglio agiati abitanti del casolare di Wald.

[269]

IX. Ascensione del Retihorn — Il segreto della costanza in amore — Quando ci rivedremo?

Lo monte che salendo altrui dismala.

Dante.

Questi montanari vogliono che dopo il Gries, dal cui vertice apparisce la meravigliosa scena delle più celebrate vette Elvetiche, nessuna delle piramidi che accerchiano la loro pittoresca valle presenti dal culmine aspetto più grandioso del Retihorn, o Monte Giove come lo dicono gl'Italiani. Il quale, come parmi d'avervi già detto, s'aderge alla destra della Toce, al dissopra del casolare di Wald.

Partito con alcuni compagni poco dopo il meriggio, m'avviai su per l'erta, sul sentiero che vi conduce all'altipiano di Vannino. Questa ascensione può fornirsi senza straordinaria fatica in una giornata: preferii tuttavia di spendervi mezzo il dì precedente, onde poter a mio bell'agio godere del giocondo spettacolo dell'aurora da quel supremo cigliare.

In due ore giungemmo alla parte superiore dell'altipiano di Vannino, il quale si adagia verso l'occidente ed il mezzodì fra le petrose muraglie dello Stafelclogberg e le rapide chine del Reti. Il sentiero da Wald ai pascoli si rigira, salendo, nella folta oscura boscaglia che [270] copre le falde inferiori di quest'ultimo monte, ed è fra i meno scoscesi della vallata. Rifocillatici poco lungi dal laghetto da cui ha sorgente il Lebenduner, ripigliammo l'erta che di qui in su è faticosa assai. I compagni, arditi cacciatori di camosci, verso il calare della notte, trovata una tana cavernosa fra i nudi macigni, decisero d'allogarvisi alla meglio onde passarvi la notte.

La luce mancava di grado in grado: io mi assisi e mi guardai attorno.

La cortina dello Stafelclogberg, verso la valle, è formata di roccie repentissime quasi inaccessibili, le quali colle loro creste addentellate e fantastiche formano un cinto grandioso a quell'altipiano, il cui rivo smeraldo contrasta singolarmente con quelle triste mura.

Sulle cornici, fra le fessure nè i funerei pini, nè l'olezzante rododendro che spesso rallegra l'orlo delle diacciaie: lo Stafel non ha una zolla. Il vento che sprigionandosi dal Gries si precipita nella convalle superiore fra Vannino e Morasck, viene a rompersi contro queste pareti.

Una densa nube vaporosa s'era innalzata dal profondo della valle di Formazza, avea coperte tutte le anfrattuosità, i valloni superiori; era il levare della notte. Le creste superbe dello Stafel si disegnavano tuttavia nell'orizzonte su cui svaniva via via il morente chiarore degli ultimi crepuscoli riflessi dalle nevi eterne, e quelle due statue giganti, uomo e donna, che da tanti secoli stanno ritte su quei vertiginosi cocuzzoli, parevami si movessero. Un irresistibile desiderio mi punse di sapere se quelle strane figure non fossero animate; l'immobilità [271] non è sempre la morte. Chi mi provò mai con irrefragabili prove che animali, piante e pietre non avessero coll'anima una propria passione? Perchè le loro variate nature non possono costituire anche nelle qualità dell'anima, una concatenazione non meno armonizzante della materia e più meravigliosa?...

Ditemelo voi, fantasmi del giorno e della notte! Non è forse vero che voi siete due prototipi dell'amore coniugale? Voi felici! Se vi sorprende il capogiro, se deve cessare questa comunanza di posizione e di pericoli, se vi sfascerete, cadrete entrambi di lassù nelle ciotolaie di Vannino... O costanza veramente... di pietra!

E come vi venne fatto di serbare per sempre il fuoco dell'amore? Deh! vi prenda pietà dei mortali a cui spesso amore suona smanie e dolori, lagrime e tradimenti. Eccomi ai vostri piedi: a me per la prima volta genuflesso dinnanzi alla creatura di Dio, tu, donna beata, palesa il divino segreto, ond'io possa tutta la mia vita rendere coll'amore invidiata anche agli angeli. Tu mi guardi incerta: non temere ch'io lo divulghi... io sono uomo e l'egoismo ti deve essere arra sufficiente della mia discrezione. Via, dimmelo... io ti prometto di rinunziare a tutte le brame del mio avvenire... anche a quella di far correre i miei lettori per mari e monti sull'ali della fantasia. Come potrò io eternamente amare eternamente amato? Dimmelo, ed in quell'inno di gioia che sarà la mia vita io ti renderò grazie riconoscenti. Bella regina d'amore, chi t'avvinse sì strettamente all'amante?

Le mie ginocchia su quelle scarne rupi s'erano [272] indolenzite a modo che io stava per rinunciare alla scoperta, quando la gentile impietosita susurrò questa fatale parola: — il dolore!

················

La leggenda del paese susurra invece che quelle anime petrarchesche conservarono intatto l'amore perchè non fecero sciupìo del tesoro d'affetti nell'ebbrezza dei sensi.

················

Intanto essi nella sdegnosa loro solitudine, paiono ridersi del furore degli uragani, delle volute che precipitano dai loro piedi, e dei fulmini che solcano i loro granitici troni. La beatitudine della loro unione non vale il pericolo?

Stanco della faticosa salita, dopo d'aver visto le tenebre sorgere dagli abissi e coprire tutte le valli, sentendo che i miei compagni russavano saporitamente, salutai i due fantasmi dello Stafel, m'acconciai anch'io alla meglio e il sonno, come avviene a tutti, mi sorprese senza che me ne avvedessi sul nudo macigno fatto meno ingrato dalla spossatezza. Sennonchè a mezza la notte un vivo bagliore attraversando le palpebre mi scote, uno scoppio tremendo che pare faccia traballare i monti e sfasciare i picchi mi sveglia affatto.

Cupa, densissima oscurità rotta di minuto in minuto da sfolgorantissimi lampi: funebre silenzio interrotto solo dal fragore del tuono. Il temporale si abbassava e noi eravamo a mezzo le nubi. I lampi spesseggiavano vivissimi; il tonare assordante minacciava il finimondo, ed io m'aspettava ogni istante un fulmine spezzasse la roccia che ne pendeva sul capo. M'era seduto sopra una pietra tutto intento al guizzare [273] delle saette, come quel pittore che nella tempesta s'era fatto legare all'albero d'una nave per meglio avvisarne le fasi. L'uragano nel massimo furore era disceso sotto ai miei piedi, mentre sopra il capo scintillavano le stelle: scena unica!

Dopo la tempesta sul mare, la tempesta sulle alpi non ha spettacolo che la pareggi. La grandezza del luogo, il rapido alternare dei lampi che s'incrociano; gli echi che con mille diverse voci dalle caverne sonore addoppiano lo strepito; la furia del vento che urta, ammonta, sperde le nubi infiammate; il contrasto della scena infernale colla serena luce del cielo stellato; la solennità della solitudine; gli abissi a tratto a tratto rischiarati dal profondo all'imo; il pericolo d'essere incenerito; tutto t'empie l'anima di novissimo terrore, poichè il tutto ferma una satanica apologia della forza strapotente! Le sinistre voci del tuono e dell'aquilone non mi dimostrano forse che nella natura stessa la forza trionfa sopra il debole senza difesa? Chi difende il pino dall'ira del fulmine che lo schianta in mille schegge? Mentre imperversa la procella, chi difende dal lupo insidiatore le atterrite pecore? E se l'avoltoio, l'aquila od il lammergeier mostruoso si precipitano sul piccolo agnello, potrà egli senza difesa respingere l'assalto? Tutte le più utili e graziose creature sono deboli, indifese, quasi affidate al soccorso dell'uomo. Lo schifoso ragno vive molti giorni senza cibo: un rovescio di pioggia abbatte la farfalla dall'ali curiose: la spina resiste al rovaio, alla grandine, al sollione; il vento sfoglia, sfronda, sterpa ogni gentil fiore. Invece con quale studio [274] geloso la natura armò i prepotenti d'artigli di ferro, di denti adamantini, di acutissima vista, di agilissimo passo, di potentissime ali! Se fosse dato un giorno ai percossi vestire una volta sola la corazza degli assalitori, non farebbero essi scempio dei loro nemici in nome della giustizia?

Non sarei tuttavia sicuro che la pecora imbaldanzita dalle novelle difese, non passasse armi e bagaglio nelle fila dei lupi.... è sì innebbriante la voluttà del potere!

L'uragano spariva, e le nubi, come immense fantasime correnti per l'aere caliginoso sui bianchi destrieri sferzati dal vento, spaziavano per ogni parte del cielo senz'interrompere l'alto silenzio che col sibilo dell'aria rotta dalla veloce corsa.

Passavano presso di me, guardavano meravigliate il loro osservatore e s'involavano. Una di esse, isolata dalle legioni, quasi perduta in mezzo a quella confusione, errava a minor passo attorno alla vetta. Oh quanto bella malgrado il pallore della morte! Quanto amore da quegli sguardi, da quella cera mestamente soave! E quelle folte, lunghissime chiome conteste di fiori che scherzavano sulle spalle? A breve tratto dalla vetta, il corsiero dagli occhi corruscanti rallentò il passo, sì che io, fatto ardito dalla brama di sentire quella errante, alte levate le braccia, pregai dalla bella una parola...

Oh! se mi fosse dato inforcare con te il velocissimo corsiero e scorrere pei campi del cielo immensi come il desiderio sopra tutte le plaghe terrene, dal deserto del polo ai giardini [275] dell'oriente! Ma la voragine che s'inabissa ai miei piedi m'avverte della vertigine che con sguardo affascinante m'avrebbe attirato nelle sue braccia... Almeno, diss'io, mi racconta quanto vedesti nella tua lunga pellegrinazione. Dimmi, l'uomo, quest'essere che doma il fulmine e non sè stesso, è ovunque il medesimo? Dove ha egli conquistato quella libertà che è sì cara? Non hai tu visto in qualche ignorata tribù delle Indie o delle Americhe avverati i sogni d'un anima generosa? Dove s'imparò ad ubbidire e comandare col Vangelo? Una sola parola dimmi, di grazia; qual è il motto che riassume quanto imparasti in tanto giro di zone sull'uomo? —

La fantasima che aveva ascoltato benigna le curiose interrogazioni dello zingaro, crollò il capo in atto di diniego, e spronato il cavallo ratta s'innalzò da quel vertice... Se non che voltasi addietro e vistomi tuttora colle mani supplichevoli, tracciò nell'oscurità incerta della notte una parola colle dita scintillanti... Atterrito guardai quelle parole di fuoco che fiammeggiarono un istante nella tenebrìa, e lessi:

CONTRADDIZIONI.

················

Il cielo s'era rasserenato, e le stelle luccicavano più di prima.

Una buon ora prima dell'alba la frescura destava i compagni e tutti ci mettevamo in cammino, onde poter giungere prima del giorno sul culmine del picco alpino: sul quale arrivammo quando le ombre della notte, lottando [276] invano colla luce, fuggivano nelle valli più anguste, nelle selve più folte, nei torrenti più profondi, mentre poco a poco il bacino dell'Ossola spogliavasi dei vaporosi veli dell'umida notte, ed i primi crepuscoli disegnavano con mano malsicura i profili dei monti sull'orizzonte biancheggiante.

La notte a veloci passi fuggiva, avvolgendosi ne' suoi veli trapunti, ai poli opposti; dopo l'alba, l'aurora, il sole, e tutto è colori e vita.

Da quel culmine, da cui un contrafforte si stende verso occidente collo Stafel alla Punta d'Arbola, si ha d'attorno una mirabile vista. A sinistra, laggiù, la valle di Formazza, le cortine dell'Hireli; e più in là verso il nord, qualche picco delle alpi Ticinesi; al nord, verso il Gries, tutte le piramidi più eccelse, dal Gigeln al gigante di queste valli, il Blinnenhorn, colle grandi ghiacciaie che qua e là interrotte da valloncelli o da rupi, formano corona alla Formazza; e verso il meriggio i monti dell'Ossola sino al Lago Maggiore. L'anima esaltata credeva sentire con divine armonìe cantare: esulta, tutto ciò che vedi è tuo! . . . . . . . . . . . . .

Anche gli altipiani deserti, le nevose o sterili roccie, che di quassù appaiono alla nostra destra, di qua e di là del confine, malgrado tutta la loro incresciosa aridezza e la mancanza di ogni vegetazione, sono imponenti. Nulla sull'alpi senza parola, nè le murene, nè le fonti, nè le ciottolaie, nè le nevate. Ciò che altrove sarebbe insignificante, qui ti colpisce pei vivi contrasti.

[277]

***

La nostra peregrinazione è finita.

Se voi ne accompagnaste pei laghi, per le valli, e vi siete arrampicati su per le vette alpestri con quel piacere con cui io ho cercato di svagarvi la mente intrecciando alle descrizioni le leggende ch'io raccolsi con amore, e le fantasie spesso incomposte che destò nella mia mente la variatissima natura, non volgerà, io credo, molto tempo che io ritornerò con maggiore sicurezza d'animo ad offrirvi la mia compagnia per zonzare in altre contrade della nostra bella Italia.

Tuttavia seguendo le pedate di certi stranieri e nostri scrittori, io potrei benissimo, ad ingrossare il volume già soverchio, intitolare un nuovo capitolo col nome, ad esempio, del Cantone Ticino, e poi, senza movermi d'un passo, infilarti una insipida tiritera sulla libertà, sulla democrazia, sulle legnate che tempestano qualche volta nelle elezioni politiche, sulla legge agraria — e altre somiglianti reminiscenze di diari mal digeriti — la quale non mancherebbe di convincerti... che io non so cosa dire.

Perchè non potrei io ancora condurre il lettore gentile nel bel paese della fantasia? Chi può negare che non siano quelle le più felici contrade?

L'amore, la brama di gloria, il pensiero dalle mille forme, tutte le illusioni che trovarono sulla terra l'agghiadata parola dell'indifferenza, lo sprezzo, il disinganno, volano sulle ali [278] dell'aspirazione a popolare coi sogni d'una vita migliore quei mondi fantastici...

Quante volte seduto fra l'ombre d'una pianta viaggiai nel mio passato!

I fiorellini delle zolle muschiose mi narrarono spesso l'istoria dell'infanzia paurosa, malaticcia, in cui fra i timori del pensum e dell'aggrottato cipiglio del magister e le paure febbrili delle fantasime notturne, io levando ai tuoi mondi con invocazione le manine, chiedeva per volare a te delle ali!

Le giovani frondi dell'albero mi ricordarono i primi battiti del cuore spensierato, e le gioviali risa della bella adolescenza, in cui la larga vena d'affetti esuberante dal cuore si spandeva in mille ciarle e perchè agli uomini e a Dio... Quando non trovava che cere indifferenti e scherno ai miei sogni, io chiedeva delle ali per volare a te!

Quel pino desideroso di luce che si slancia nell'aere mi racconta la stagione della prima giovinezza, stagione di focose aspirazioni, tutta fede ed amore per la patria e per la donna.

Passa qualche anno; uno, due, tre; pochissimi e brevissimi, e la patria ti si mostra quale palestra in cui un'infinita turba s'arrabatta lottando d'astuzia e di frode per strapparsi di mano un cencio di porpora!

La donna... no, no, io non dirò ombra di male di quest'essere misterioso che s'aggira fra di noi, benchè una miriade d'idee crucciose, sarcastiche al nome di donna abbiano intrecciato nelle cellule della memoria una ridda sfrenata da cacciarmi addosso l'emicrania. Che vale il lagno, l'imprecazione contro una divinità [279] che con un girare d'occhio, un sorriso, una lacrima, ti fa baciare commosso la tua catena?

Via, lettore, non temere che io con desiderio indiscreto cerchi da te d'essere alla mia volta guidato nel viaggio attraverso al passato, al presente ed alla speranza della tua vita; io non ne voglio conoscere le pagine, nè ti voglio sciorinare della mia se non le tersissime.

Ad ogni modo ti auguro salute — anco un tantino per mio amor proprio — affinchè io ti possa rivedere presto col bastone in mano, il cappello a larghe tese sul capo e il sacco sulle spalle battere alla porta dello zingaro e:

Oeh! l'alba è sorta: affrettati ad allacciare i borzacchini ferrati, o maestro, che io t'aspetto impaziente.

Ed io fattomi alla finestra della casupola, e ravvisato con gioia il compagno di piaceri e di pericoli, in tutta fretta discenderò — o dalla scala o dalla finestra non torna — ad offrirti una mano amica.

Adagio, un istante; sai che sono donne, aspettiamole un tantino... come viaggeremo senza di loro? tu non ignori che esse, quando loro talenti, sono tali da divertirci, anche colla pioggia sulle spalle, raccontando le mille e mille storielle, che l'una ha imparato e l'altra inventa.....

Eccole tutt'e due — non sono belline?

Compagno mio, ecco la Leggenda e la Fantasia...

Partiamo.

FINE.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.