The Project Gutenberg eBook of La Principessa Belgiojoso

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Title: La Principessa Belgiojoso

Author: Raffaello Barbiera

Release date: June 2, 2019 [eBook #59655]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PRINCIPESSA BELGIOJOSO ***

LA PRINCIPESSA BELGIOJOSO.


Principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio
(dal ritratto dipinto da Enrico Lehmann a Parigi, ora conservato presso il Marchese Franco Dal Pozzo a Belgirate sul Lago Maggiore).


Raffaello Barbiera

La Principessa
Belgiojoso

DA MEMORIE MONDANE INEDITE O RARE
E DA ARCHIVII SEGRETI DI STATO


Nuova edizione riveduta,
con appendice di documenti inediti, e ritratti.

MILANO
Fratelli Treves, Editori

Ottavo migliaio.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Milano — Tip. Treves — 1922.



INDICE


[v]

PREFAZIONE.

La principessa Cristina Belgiojoso, nata dalla stirpe dei Trivulzio, morì nella sua Milano il 1871. Morì dopo le sciagure della Francia, dove un giorno, profuga e cospiratrice, aveva ella, discendente dal famoso maresciallo di Francia, potuto emergere in un tempo nel quale si adoravano, più di adesso, le ricchezze, le alte posizioni sociali, l'influenza, «le succès». Morì quasi inosservata, senza curarsi della gloria, questo sole degli estinti; morì in silenzio, ella che aveva riempito mezzo mondo de' suoi coraggiosi conati patriotici, delle sue multiformi vicende romanzesche, delle sue idee e opere filantropiche, delle sue stranezze e pompe fantastiche, de' suoi incanti. Appena qualche giornale fe' allora cenno, magro cenno, della sua vita e della sua morte. E dopo, per anni e anni, silenzio; silenzio che mi pareva ingiusto, perchè, sopra tutto, la gentildonna milanese «dai grandi occhi fatali», come avrebbe detto Ugo Foscolo, aveva amata la patria, e operato per la liberazione della patria, quando molti non vi pensavano ancora.

E mi provai a descriverne la vita. Le difficoltà erano moltissime e dure; alcune neppur sospettabili dalla critica che si pasce di soli libri. Era un labirinto quella vita, che non era mai stata narrata. Eppure mi condussi a pubblicare nel 1902 un volume, ch'ebbe [vi] in breve più ristampe e che adesso, ridomandato dai lettori, ritorna alla luce in una nuova edizione riveduta e corretta in più punti, specialmente per la scoperta di qualche nuovo documento. Fin dai primi miei tentativi biografici, oltre l'esame in Archivii di Stato, ottenni molte preziose informazioni e tesori di comunicazioni epistolari da elette persone congiunte o amiche della principessa Belgiojoso e mie: questo libro ne reca le doverose testimonianze.

La imperiosa patrizia, che indifferente violava ogni regola comune, si attirò per questo inimicizie, ch'ella disprezzava; e anche all'apparir del mio libro (cosa strana, dopo tanti anni!), le ostilità, certe ostilità, non tutte femminili, ripullularono al punto da mettere persino in dubbio il patriotismo della magnanima cospiratrice. Ma nuovi documenti, e precisamente quelli degli Archivii imperiali di Vienna, citati in questa nuova edizione, dimostrano che in quell'anima pur mutevole in alcune cose, il sentimento della patria mai mutò, mai disparve. Le mie affermazioni, smentite da qualche critico, ricevono qui conferma irrefragabile nientemeno che dalla penna del Metternich; il quale, anco come impenitente signore galante, conosceva le donne, e perciò seppe scoprire le astute arti della cospiratrice lombarda. Non ostante incredibili stranezze dovute alla tempra morbosa, Cristina Belgiojoso merita rispetto e, in più atti della tempestosa sua vita, ammirazione. Dico atti, opere praticate, specie di alta carità e di previdenza; opere di spirito tutto moderno, non opere scritte. Un esame più minuzioso della tumultuaria produzione letteraria della principessa ci trascinerebbe a un nuovo volume, e molto fastidioso; e a qual pro? Si pensi che una principessa Belgiojoso, nella febbrile vita a Parigi, non avrebbe avuto nemmeno il tempo per comporre (almeno lei sola) opere così voluminose come [vii] quelle che ella pubblicò nientemeno che sul Vico e sulla formazione del dogma cattolico, e di cui discorro. Scrisse sì, e molto: la dissero anche affetta da grafomania, (e tanti altri forse no?); ma ella voleva diffondere i proprii convincimenti. Intorno al 1842, il Balzac, che si vantava d'avere «ses grandes et petites entrées» presso la principessa a Parigi, si divertiva a canzonarla e a denigrarla, scrivendo alla sua M.me Hanska ch'ella era «une belle Impéria, mais horriblement bas-bleu. Avant-hier, elle a quitté son cabinet pour me recevoir: elle est venue avec des taches d'encre à sa robe de chambre».[1] Altri talora scrivevano sotto l'ispirazione e per commissione di lei e per lei; altri della svariata folla, della quale ella si attorniò a Parigi e che tento di descrivere in questo libro sulle memorie del tempo. Ma ella pensò molto: fu una pensatrice. Victor Cousin ebbe ragione di chiamarla: Foemina sexu, ingenio vir. Definizione più esatta dell'altra, coniata a Parigi dal cognome maritale Belgiojoso: «Belle et joyeuse». Gaspare Finali, in una lettera a un amico, la delineò nitidamente in tre parole: «stranamente magnanima signora».

Sembrerebbe vanità se dicessi che, dopo la mia pubblicazione sulla Belgiojoso, il nome della patriotica signora ritornò alquanto popolare. Nel 1906, un compilatore americano pubblicò tutto un volume, che fece poi tradurre in francese, sulla principessa «rivoluzionaria» servendosi a larghe mani dell'opera mia; facil costume questo, proprio di certe penne americane e inglesi, che un critico biasimò di recente in un grande giornale di Milano. Inutile accennare a biografie minori citate a titolo di lode da qualche illustre, ma compilate passo passo sul mio libro allegramente saccheggiato; superfluo accennare a numerosi articoli di riviste [viii] e di giornali italiani, francesi, inglesi, tedeschi, americani. Qualche altra cosa si potrà dire (quando si potrà?) sulla donna singolarissima, che deve essere giudicata soltanto in rapporto a' tempi suoi. Ella era una multanime, una natura svariata, ricca: e tali nature hanno misteri e continue sorprese.

Il «lirismo» di qualche parte del mio libro documentato non è altro che un'eco dell'epoca che tentai d'evocare, epoca tutta vibrante di poesia vissuta. Le note e i gesti melodrammatici abbondavano in quell'epoca: l'esaltazione era sorella dei grandi fatti. Oggi, siamo più positivi; ma dobbiamo per questo essiccare fiori smaglianti, spegnere fiamme votive, confinare anime appassionate e ferventi nel gelo d'una formula notarile? La principessa Belgiojoso non scrisse mai un verso, ma non poca poesia, talvolta bizzarra, persino comica, talvolta grandiosa, travolgeva o esaltava il suo spirito. Nel 1848, meravigliosi atti eroici prepararono l'anima della nova Italia; ma l'elemento melodrammatico vi divampava sovente; parve, e fu, in quell'anno, eroina melodrammatica la principessa Belgiojoso, che si pose al comando d'un battaglione da lei allestito: ricordava forse il canto d'Odabella nell'Attila del Verdi, rappresentato due anni prima:

Ma noi, noi donne italiche — Cinte di ferro il seno

Sul fulgido terreno — Sempre vedrai pugnar.

La biografia e la storia devono ritrarre, se è possibile, almeno qualche cosa, delle persone, del tempo, delle vicende che narrano.

Milano, ottobre 1913.

Raffaello Barbiera.

[1]

LA PRINCIPESSA BELGIOJOSO

I. In casa Trivulzio e in casa Visconti d'Aragona.

I primi anni di Cristina Trivulzio. — Aristocrazia e democrazia all'alba del secolo XIX. — Alla Corte napoleonica di Milano. — Il visconte di Chateaubriand a Milano. — Il processo del marchese Visconti d'Aragona come carbonaro. — Enrico Heine nel teatro alla Scala.

A Milano, nel palazzo dei Trivulzio, nacque nel mattino del 28 giugno 1808 una bambina, destinata a riempire un giorno l'Italia e Parigi del suo nome. Il palazzo è austero. Nell'atrio, a destra, giace una tomba. Colla facciata a linee semplici e rigide, l'edificio guarda sopra la piccola piazza di Sant'Alessandro, dove sorge la chiesa barocca: e nello stesso giorno della nascita, là, in un'angusta, oscura cappelletta di quella chiesa, la neonata ricevette il battesimo. Le furono imposti dodici nomi: Maria, Cristina, Beatrice, Teresa, Barbara, Leopolda, Clotilde, Melchiora, Camilla, Giulia, Margherita, Laura: [2] ma solo il secondo nome prevalse: fu chiamata sempre col secondo.

Tanto lusso di nomi rispondeva alle tradizioni spagnuole, che, non ostante mezzo secolo di dominio austriaco e le violente sovversioni della Repubblica Cisalpina, perduravano in parecchie famiglie dell'aristocrazia lombarda.

Nelle vene di quella bambina scorreva inclito sangue. Discendeva ella dalla principesca famiglia dei Trivulzi, fondata nel secolo duodecimo, e che avea dato alla storia il fulmineo Gian Giacomo Trivulzio, maresciallo di Francia, conquistatore e crudel governatore di Milano per re Luigi XII.

Mens unica sta scritto sullo stemma dai tre volti dei Trivulzio; motto superbo che quel superbo guerriero non meritava.

La piccola Cristina nacque tre anni dopo l'incoronazione di Napoleone I nel Duomo; nacque in mezzo ai fugaci bagliori del primo Regno italico, ella che dovea sorgere così accesa sostenitrice del secondo Regno.

Suo padre era il giovane erudito marchese Gerolamo Trivulzio, nominato da Napoleone cavaliere della Corona Ferrea e ciambellano di Eugenio Beauharnais, vicerè d'Italia. Sua madre era donna Vittoria Gherardini, dama d'onore della virtuosa, soave viceregina Amalia Augusta di Baviera, lodata da Ugo Foscolo nelle Grazie.

Padrino della neonata fu un altro cavaliere di quella Corona Ferrea, a cui tanto teneva Napoleone: e fu un altro Trivulzio: don Giacomo.

Il curato di Sant'Alessandro, Antonio Orombelli, [3] subito dopo d'aver battezzata la figlia d'una delle più eccelse famiglie, immergeva, secondo il rito ambrosiano, nell'acqua lustrale il capo d'una bambina del popolo. Così, fin dai primi momenti della vita, colei che doveva pensare con tanto fuoco alla rigenerazione del popolo italiano, si trovava in contatto col popolo.

In casa Trivulzio, il sentimento dell'antica nobiltà durava profondo. Rimase lungo tempo famosa pe' suoi sensi accanitamente aristocratici una Trivulzio, donna Margherita, vissuta fino ai primi del secolo XIX, zia di questa bambina. Al curato di Sant'Alessandro, che per temperare l'orgoglio di lei con uno spruzzo d'umiltà cristiana le andava dicendo: — Signora marchesa, infine siamo tutti vermi! — ella con uno scatto rispondeva:

— Sì, sono un verme, ma Trivulzio!

Questa patrizia volle rimaner nubile per non contaminare lo splendore del sangue. Nessun nobile, secondo lei, poteva competere coi discendenti del maresciallo, il quale dormiva il sonno eterno nei sepolcri di San Nazaro sotto la bell'epigrafe: Qui numquam quievit quiescit. Di mezzana statura, d'aspetto accigliato, donna Margherita si facea trascinare per le vie di Milano nella “bastardella„, il veicolo di quel tempo, in uso presso i ricchi. I domestici doveano stare in piedi, quasi arrampicati, dietro il veicolo; ma della interminabile passeggiata della nobile fiera padrona si consolavano, filosoficamente mangiucchiando castagne. Le accentuate sopracciglia, color del tabacco, di donna Margherita eran [4] note a tutta Milano. Un gran poeta meneghino, Carlo Porta, prese da lei il tipo di donna Fabia Fabron de Fabrian, la vecchia dama della Preghiera, comica pittura di quel tempo in cui le albagie nobilesche tentavano di lottare contro le beffe giacobine?... No; ma il tipo era identico. Donna Fabia così ringrazia il buon Gesù:

Mio caro e buon Gesù, che per decreto

Dell'infallibil vostra volontà

M'avete fatta nascere nel ceto

Distinto della prima nobiltà,

Mentre poteva, a un minim cenno vostro,

Nascer plebea, un verme vile, un mostro,

Io vi ringrazio che d'un sì gran bene

Abbiev ricolma l'umil mia persona....

Tale linguaggio parlava donna Fabia del Porta: lo stesso linguaggio spropositato di donna Quinzia, in una commedia milanese di Carlo Maria Maggi, vissuto un secolo prima.

V'erano bensì alcuni nobili, i quali per ingraziarsi i democratici spadroneggianti sprezzavano, o fingevano di sprezzare, le corone avite; ma quanti altri le tenevan più care, più strette nel loro pugno! Un conte Gaetano Porro (ch'ebbe fine infelice) guidò nei torbidi giorni della Repubblica Cisalpina una turba di furibondi a far saltare sotto i colpi dei martelli i fregi gentilizii delle tombe nella chiesa di San Marco. Altri nobili, invece, la pensavano al pari del conte Vittorio Alfieri, che nelle Satire tuonava:

[5]

Vano è il vanto degli avi. In zero il nulla

Torni; e sia grande chi alte cose ha fatte,

Non chi succhiò gli ozj arroganti in culla.

Ma, se prod'uom, di prodi figlio, intatte

Le avite glorie, anzi accresciute manda

Ai figli suoi; questo è splendor che abbatte

L'oscuro vulgo, e tacito comanda

Ch'altri dia loco al doppio merto, e ceda....

Giuseppe Parini, troppo ammirato forse come uomo, mai abbastanza ammirato qual poeta, deride “nel lungo amaro carme„ il “giovin signore„ — ma nella Milano del Parini, quali patrizii d'ingegno alto e d'idee moderne fiorivano! Bastino i Verri e Cesare Beccaria.

Parte della nobiltà lombarda si gettò ben presto alle cospirazioni per il trionfo di idee liberali che doveano scemare, almeno, se non distruggere, il suo secolare prestigio. E così avvenne di parte dei patrizii piemontesi, e d'altre regioni d'Italia; onde il principe di Metternich, l'austriaco diplomatico, rassomigliante al poeta lord Byron nella testa bellissima quasi femminea, e al Richelieu nel volere, scriveva nel 1850, quando era caduto dal soglio, queste acerbe parole:

Parmi les symptômes de la maladie de l'époque, il faut compter la position tout à fait fausse que la noblesse ne prend que trop fréquemment. Presque partout c'est elle qui a favorisé les troubles dans leur période préparatoire, et elle s'est effacée lorsqu'ils ont éclaté.[2]

[6]

Tipi come donna Margherita, anzi ancor più strani, nelle classi alte non eran rari. Coi tempi nuovi, che cercano di livellare, d'uniformare, di scolorire, scomparvero certi caratteri bizzarri, i quali rendevano almen più varia la vita. In gran parte, quei caratteri rappresentavano le anomalie fisiologiche, che si palesano in alcuni individui d'antiche famiglie esauste. Il marchese Magenta riceveva gli amici dentro il veicolo da passeggio, la “bastardella„ suddetta, posta in una sala a pian terreno della sua casa. Egli se ne stava rinchiuso dentro, infagottato nel tabarro, colle mani su un caldano di terracotta. I visitatori aprivano la porticciuola, entravano, sedevano di fronte a lui pigiati, e conversavano. Il medico Pietro Moscati, uno dei membri del Direttorio della Cisalpina, poi conte e senatore del Regno Italico, membro dell'Istituto Italiano di scienze e lettere, sosteneva che l'uomo è creato per camminare come i cani.... Neanche il padre di Cristina Trivulzio andava privo di qualche stranezza. E ciò va notato per ispiegare fenomeni d'atavismo, che durante la vita di Cristina si manifestaron col carattere di certe eccentricità che levarono clamore infinito.

Quando la madre di lei, Vittoria Gherardini, nel fiore de' sedici anni, andò sposa al marchese Gerolamo, compì il primo viaggio di nozze da Milano a Locate (terra dei Trivulzi) attraverso le ampie monotone praterie, lungo i fossati interminabili.... Il viaggio, come quasi tutti i viaggi di nozze, fu muto. La sposa, timida, sbigottita, a un certo momento si fa coraggio e osa avanzare [7] un'umile domanda allo sposo. Ma questi risponde brusco e stranamente. Era il principio d'una vita conjugale non seminata di fiori, e che dovea chiudersi colla morte, quattro anni dopo la nascita della primogenita e unica figlia, Cristina.

Nemmeno a Corte, la madre di Cristina gioì ore serene. Pranzò un giorno accanto a Napoleone che la spaventò co' suoi modi villani:

— Che fa vostro marito? — le chiese fissandola. — Alleva i cagnolini?... E voi? perchè non vi mettete sul viso il belletto?

L'opposto di ciò che a Ofelia dice Amleto nella tragedia dello Shakespeare.

Vedo il ritratto di lei nelle stanze dove scrivo queste pagine, qui ad Oleggio Castello, in terra viscontea; qui dov'ella veniva nei giorni migliori. L'espressione del suo viso ovale è dolce. Quegli occhi piccoli sotto le sopracciglia leggermente arcuate non doveano balenar lampi imperiosi; quella bocca piccolissima, da bimba, non poteva mormorare che graziose parole. Il naso è lungo, affilato; fino è il collo; il seno, nel libero costume d'allora, balza fiorente; ondulati i capelli; la pettinatura liscia, semplice.

Ben presto, ella deve vestire il lutto. Il marito s'ammala a Varese. Le aure di quei colli ameni non valgono ad arrestare la malattia, che precipita e lo spegne, il 17 settembre del 1812, a soli trentadue anni. Due giorni dopo, la salma viene trasportata a Milano nei sepolcri di famiglia; due settimane dopo, sono celebrate nella chiesa di Sant'Alessandro pompose, clamorose [8] esequie con ricco catafalco, con musica, e gran folla di sacerdoti. Suo padre, Giorgio Teodoro, l'avea preceduto da più tempo nella tomba; la genitrice, contessa Cristina Cicogna, era morta anch'essa lasciando il proprio nome nella piccola nipote. La sposa rimanea dunque vedova e sola, nel fiore dei vent'anni.

E qui cambia la scena, e assistiamo a un altro svolgimento della società di Milano.


In fondo alla via Brera, dove era nato Cesare Beccaria, dov'era vissuto Alessandro Volta, dov'era morto Giuseppe Parini, sorgeva fino a trent'anni fa un vetusto palazzo, che poi venne distrutto per fabbricarvi un casamento moderno. Gian Giacomo de' Medici, il famoso pirata del lago di Como, fratello di papa Pio IV e zio di san Carlo, l'aveva fatto erigere. Si vuole fosse stata in quel posto la dimora di Cicco Simonetta, il ministro onnipotente di Francesco Sforza, colui che la duchessa Bona di Savoja sacrificò agl'intrighi del proprio cameriere Tassini, e che finì decapitato nel castello di Pavia dopo atroci torture sopportate con animo d'eroe.

Quel palazzo rimase opera incompiuta dell'architetto Seregno. Era maestoso, a un solo piano, con colonne all'esterno, parte erette, parte appena cominciate. Il portone d'ingresso, grandioso, non compiuto nemmen quello. Il tempo aveva steso su tutte le pietre massiccie il suo color fosco, accrescendo austerità all'edificio, il cui interno s'apriva del pari solenne e severo. Un ampio scalone conduceva a una lunga, vastissima [9] galleria di quadri antichi, di bronzi, di stoffe, di porcellane, di lacche, tutte antiche, e tutte in gran quantità, ammonticchiate, confuse.

In questo museo d'arte, si viveva una vita d'arte. Proprietario e abitatore del palazzo era il conte Cesare Castelbarco, marito della contessa Maria Freganeschi, ultima d'antica e ricchissima famiglia cremonese. Il conte, insieme co' suoi due figli, faceva le accoglienze più festose a letterati e ad artisti di grido. Aveva imparato da sua madre a onorarli: sua madre era la contessa Maria Castelbarco nata Litta per le cui bellezze tremò il vecchio cuore del Parini che scrisse per lei Il messaggio. Il conte Castelbarco eseguiva musica di sua composizione, e recitava sue poesie; poetavano anche i figli. Un burlone non risparmiò per questo il padre e i figli, cantando:

Fa sonetti a migliaja il conte padre,

Fa sonetti a migliaja il conte figlio....

La contessa Maria Castelbarco Freganeschi era grande maîtresse della Corte vicereale; perciò, ogni giorno, allo scoccar delle due, il carrozzone co' servi in livrea di lusso stava ad aspettare a piè dello scalone per condurre la contessa a palazzo; e da una finestra, una vaghissima fanciulla dai grandi occhi, Cristina Trivulzio, colla madre, sogguardava intanto sulla via l'uscita fragorosa della carrozza con la signora.

La marchesa Vittoria s'era sposata ben presto in seconde nozze al giovane marchese Alessandro [10] Visconti d'Aragona, ed era andata ad abitare col secondo marito e coll'unica figlia del primo, in un'ala di quel palazzo. E fu là che Cristina, la futura principessa Belgiojoso, sviluppò la viva intelligenza; specialmente l'intelligenza musicale. La madre, innamorata dell'arte de' suoni, ne trasfuse nella figlia il sentimento; e in lei lo accrebbero poscia la Malibran, la Pasta e il maestro Nicola Vaccaj, che visitavano la madre, eseguendo in quelle sale musiche appassionate e gentili, onde tutta l'aria d'Italia allora vibrava.

Alessandro Visconti d'Aragona, uscito da una grande, storica famiglia, accresceva lustro al proprio nome. La madre di lui, contessa Virginia Ottolini, occupava un'alta carica nella Corte vicereale. Il padre, marchese Serafino Alberto, era uno di quei tipi strani di cui parlavamo. Stava in campagna tutto l'anno a Castelletto sul Ticino e ad Ornavasso, con una folla di gatti: passava l'intera notte fino all'alba a recitare col cameriere i salmi e il rosario: all'alba, si coricava tranquillo per rifare nella notte l'ascetica vita di prima. Il dormire di giorno e il vegliare la notte fu, d'altra parte, la vita di molti nobili sulla fine del Settecento e sul principio del secolo XIX; e Ippolito Pindemonte, innamorato della vita campestre, nelle fluide, lucide ottave del suo Mattino, punge quel controsenso e l'usanza malsana.

Simpatico l'aspetto del Visconti d'Aragona: faccia rotonda che emerge dai solini e da un cravattone enorme: begli occhi, bella la fronte [11] spaziosa, resa più spaziosa dai radi capelli. Entusiasta del Rousseau, inclina al sentimentalismo sospiroso; nello stesso tempo si occupa d'agricoltura con dottrina non comune. Facile agli slanci d'ammirazione e, nello stesso tempo, ombroso, sospettoso. Quanti possono competere con lui nelle cognizioni botaniche? Egli non si arresta solo a studiare le piante; le coltiva con sapienza per abbellire giardini; e disegna giardini. Le bellezze dell'arte lo esaltano; ma ama ancor più la patria, a cui vuol donare liberali istituzioni; e quest'amore lo spinge al pericolo, alla soglia dello Spielberg.

Egli è amico di casa Manzoni, e il sommo scrittore lombardo gli mostra benevolenza. Frequenta il liberal conte Luigi Porro Lambertenghi, e, nella casa del conte, trova Silvio Pellico; trova Giovanni Berchet, Pietro Borsieri, il Romagnosi, Melchiorre Gioja, il medico Rasori, tutti scrittori di un nuovo giornale, Il Conciliatore, che vuole infrangere i vecchi stampi di convenzione su cui il classicismo si modella e bandisce una poesia popolare, una poesia sentita, una letteratura che viva in accordo col movimento dei tempi. Il marchese Visconti d'Aragona s'incontra, in casa Porro, con un altiero uomo: Federico Confalonieri. E col Confalonieri, e con altri, il marchese Alessandro Visconti d'Aragona fa costruire il primo battello a vapore sul Po, caldeggia il mutuo insegnamento, vuol diffondere la scienza: tutti nobili sforzi, germi di sano progresso che i migliori opponevano al letargo servile imposto allora alle contrade italiane [12] dall'Austria: dall'Austria che, abbattuto il napoleonico colosso dai piedi di creta, era ritornata padrona ed arbitra.

“I grandi uomini sono come le meteore del cielo che si consumano per illuminare la terra„; sembra abbia detto un giorno Napoleone; anche la sua meteora — meteora di sangue — s'era consumata; e l'Austria amava le tenebre. Nelle Memorie d'Oltretomba del visconte di Chateaubriand, si legge una pagina verissima sul sonno che l'Austria avea diffuso su una terra appena risvegliata, appena in ascolto della propria coscienza. Lo Chateaubriand era venuto a Milano al tempo della fragorosa occupazione francese, con una lettera di Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, per il maestoso Murat; e parla d'allora, parla del poi: è una pagina ammirabile:

A mon passage à Milan, un grand peuple réveillé ouvrait un moment les yeux. L'Italie sortait de son sommeil, et se souvenait de son génie comme d'un rêve divin: utile à notre pays renaissant, elle apportait dans la mesquinerie de notre pauvreté la grandeur de la nature transalpine, nourrie qu'elle était, cette Ausonie, aux chefs-d'œuvre des arts et dans les hautes réminiscences d'une patrie fameuse. L'Autriche est venue; elle a remis son manteau de plomb sur les Italiens; elle les a forcés à regagner leur cercueil. Rome est rentrée dans ses ruines, Venise dans sa mer. Venise s'est affaissée en embellissant le ciel de son dernier sourire; elle s'est couchée charmante dans ses flots, comme un astre qui ne doit plus se lever.[3]

[13]

E contro questa morte imposta dall'Austria, lottarono i magnanimi del 1821, lottò il padrigno di Cristina, lottò pertinace, invitta, la stessa Cristina allorchè, più tardi, divenne principessa di Belgiojoso.

— Voglio sudditi devoti, non sapienti, — disse Francesco I allorchè visitò l'Università di Pavia dove Ugo Foscolo avea fatto risuonare la liberale sua voce. E il monarca austriaco non poteva dir frase più adatta per ridestare tutto un movimento, una diffusione di mutuo sapere.

Alla polizia austriaca di Milano, che vegliava sopratutto sugli alti papaveri, non isfuggivano le inclinazioni del giovane Visconti d'Aragona: e, quando scoperse la trama del Carbonari, lo ricercò per arrestarlo. La moglie di lui è sul punto di salire in carrozza per la solita passeggiata sul Corso, quando vengono ad avvertirla che la polizia sta eseguendo perquisizioni nelle case degli amici del marito, e che il conte Porro Lambertenghi è in carcere, e altri arresti sono imminenti. Coraggiosa e tranquilla, ella ordina al cocchiere di volare a galoppo ad Àffori, dove arriva immediatamente: penetra in una casa che il marito ivi possiede: entra nella stanza che serve agli studii di lui: brucia in fretta e in furia, nel camino, tutte le carte che le càpitano sotto mano. Quando giungono i poliziotti col bieco Bolza alla testa, il camino fuma ancora; ma le carie incriminabili sono distrutte.

Il Visconti d'Aragona non arrivò in tempo di fuggire come Giovanni Berchet, come il marchese Giuseppe Arconati-Visconti, come Giuseppe [14] Pecchio, Giovanni Arrivabene, Benigno Bossi e il conte Luigi Porro. Fu arrestato, ad Àffori. La moglie svenne.

Il Visconti d'Aragona fu sottoposto a interrogatorii dalla Commissione speciale di Milano per “delitto d'alto tradimento„.

Per ottenere la liberazione del marito, la moglie corse a Verona, nella qual città erano radunati per il famoso congresso i sovrani della Santa Alleanza. La bella marchesa si gettò ai piedi dell'imperatore Francesco I, che le disse buone parole. Per fortuna, le “prove legali„ mancavano, e il prigioniero fu dichiarato libero con la stessa sentenza che condannava alla morte il conte Confalonieri e altri patrioti del 1821.

Il marchese Visconti d'Aragona si comportò assai nobilmente nel processo. Lo rilevo da' suoi stessi interrogatorii, negli atti originali de' processi del '21, custoditi negli archivii segreti di Stato lombardi a Milano. Secondo l'iniqua procedura penale d'allora, agli imputati non erano concessi avvocati. Dovevano difendersi da sè. Gli inquisitori adoperavano ogni mezzo per istrappare la verità dalle labbra degli accusati. Quasi tutti ignari delle leggi, affraliti dal carcere, spesso dai digiuni, e sgomenti nell'incertezza, e fra oscure o aperte minaccie, eran facile preda.

Il giovane Gaetano De Castiglia, ingenuo, dolcissimo spirito, che, per suggerimento del conte Federico Confalonieri, s'era presentato al piemontese generai San Marzano e al principe di Carignano, Carlo Alberto, affine di determinarli a invadere colle armi la Lombardia, scacciarne [15] gli Austriaci, e fondarvi la Costituzione, raccontò (chi sa con quali arti costretto) nel suo interrogatorio davanti alla Commissione speciale presieduta dall'astuto criminalista Salvotti, trentino, che gli pareva il marchese Visconti d'Aragona fosse uno dei loro, uno dei federati!... Questo bastò perchè il Visconti d'Aragona venisse arrestato e chiuso nella “Casa di Correzione„ a Porta Nuova, dove non gli mancarono, per altro, riguardi, da parte di Alessandro Pajna direttore di quel carcere, del cappellano Felice Maria Meloni e dello stesso Salvotti; il quale, perfetto nelle forme, non si presentava mai nel carcere degl'imputati politici senza levarsi il cappello e tenerlo rispettosamente in mano durante la conversazione; ma poi li condannava alla forca o allo Spielberg. Esecrabile, esecratissimo.

I verbali politici dell'Austria contro i cospiratori italiani si presentano con una regolarità di forme giuridiche impeccabili. Da una parte del foglio, è scritta l'interrogazione all'imputato, precisa, senza apparente suggestione: dall'altra parte, è scritta la risposta di lui; sovente è dettata da lui stesso; sempre è da lui firmata.

Il marchese Visconti d'Aragona difese dignitosamente se stesso, e non tradì alcuno. Disse solo che Silvio Pellico, alla mensa del conte Luigi Porro (de' cui figliuoli era istitutore) pronunciava talvolta frasi irreligiose. L'autore delle Mie prigioni inclinava, allora, alle beffe volteriane. Ma la sventura innalzò quell'animo alla fede: il lungo martirio nello Spielberg tramutò il suo fremito in rassegnazione. Poteva [16] ben odiare ei che trascinava le catene per avere amata la patria; poteva odiare, e compatì; poteva minacciare vendetta; e volle perdonare ai proprii carnefici.

Rilasciato libero per “difetto di prove legali„ dopo tre anni di carcere, il marchese Visconti d'Aragona tornò all'utile vita di prima: soccorrere gl'infelici, ajutare nuovi tentativi d'industrie, conversare coi migliori su alte cose. Il Conciliatore era stato soppresso dall'Austria; ma lo spirito del generoso giornale aleggiava invitto nel cuore degli uomini come il Visconti d'Aragona.


Tale l'uomo, che la sorte diede padrigno a Cristina. Rimasta orfana del padre a soli quattr'anni, ella crebbe in casa Visconti d'Aragona; e pei Visconti alimentò gli affetti domestici.

Le cospirazioni, le prigionie, le fughe, le condanne atroci de' liberali, ecco i tristi spettacoli che sfilarono dinanzi alla sua mente fanciulla. Le ansie, le lacrime della madre per il marito incarcerato, la prigionia del padrigno non le suscitarono certamente affetto per l'Austria.

Intorno a Cristina, crescevano quattro fratelli, nati dal Visconti d'Aragona: Alberto, Teresa, Virginia e Giulia. Alberto, gentiluomo aristocratico inflessibile, appassionato pei costumi dell'alta società inglese, appassionato pei cavalli, amico di Massimo d'Azeglio, nemico della Corte austriaca, era amato dalla sorella Cristina con quell'affetto fraterno, confidente, che riempie tanti vuoti del cuore.

[17]

E la madre, sempre tutta grazie e sorriso, continuava intanto le belle serate musicali.

Vincenzo Bellini, biondo, roseo, timido giovanetto, divenuto d'un tratto celebre col Pirata alla Scala, frequentava quella casa, tentando d'eseguire sul cembalo le melodie soavi da lui create: dico tentando, perchè la soggezione gli legava le mani. Vedendo l'impaccio del giovane, la marchesa si metteva ella al cembalo, e interpretava a prima vista la musica di quel genio gentile, che gioiva nell'udirla.

L'entusiasmo pei maestri e pei cantanti prorompeva allora con impeti clamorosi; e gli uni e gli altri ben lo meritavano per la loro eccellenza. Le difficili comunicazioni, i radi rapporti fra stato e stato, fra provincia e provincia, persino fra città e città, circoscrivevano la vita; ma la musica, lo spettacolo teatrale allietavano quella cerchia ristretta, l'allargavano, quasi, colla luce del genio. La musica parlava ai cuori un idioma comune, e li univa, li affratellava in una calda affinità di nobili sentimenti; e ben presto li accese di patriotiche speranze. Quanti cospiratori sfogarono nell'entusiasmo musicale la febbre occulta di patria che li agitava! E un infaticabile osservatore, un originalissimo poeta tedesco, Enrico Heine, al teatro alla Scala di Milano li notò. L'autore dei Reisebilder, venendo a Milano non ammira solo al chiaror di luna il Duomo, che gli sembra capolavoro grandioso e gentile ad un tempo, un incantevole “giocattolo pei bambini d'un gigante„, non solo ammira, per le vie, in più d'una donna leggiadra [18] “quel mento aguzzo che alla signora della scuola lombarda dà un'aria sentimentale„, com'egli narra appunto nei Reisebilder, così lampeggianti d'impressioni e d'immagini; egli, anche, trova “pallidi visi italiani con la mestizia nel bianco degli occhi e una dolorosa tenerezza sulle labbra„. E racconta una scena del teatro alla Scala, passata fra un inglese e un italiano:

Noi avevamo assistito alla rappresentazione d'un'opera nuova alla Scala e al baccano infernale che si fa in simili occasioni. — Voi altri Italiani, disse l'Inglese all'uomo pallido, sembrate morti a ogni cosa, tranne per la musica, che sola ha ancor la potenza di scuotervi. — Voi ci fate torto, rispose l'uomo pallido, scrollando le spalle. Ahimè! (egli soggiunse con un sospiro) l'Italia siede elegiacamente sognando sulle sue ruine, e se talvolta si desta e balza con impeto alla melodia di qualche canto, il suo entusiasmo non è per il canto in sè stesso, ma per i ricordi e i sentimenti del passato, che quel canto ha evocati, che l'Italia custodisce sempre nel suo cuore, e che allora traboccano tumultuosamente. Ecco il significato del gran baccano che avete sentito alla Scala.[4]

Un popolo che possedeva quelle melodie; un popolo che ardeva così d'entusiasmo, non era morto: si preparava a risorgere. E Cristina Trivulzio voleva essere l'angelo della rivoluzione, accanto al bellissimo principe Emilio Belgiojoso, le prince charmant.

[19]

II. I Belgiojoso. Nozze, separazione e fuga della Principessa.

Emilio Belgiojoso, il poeta Berchet e Gioachino Rossini. — Il supposto “giovin signore„ del Giorno. — Nozze fastose nella chiesa di San Fedele. — Mode. — La principessa sposa a Merate. — Gentildonne cospiratrici. — I principi Belgiojoso profughi in Svizzera. — Le spie. — Gherminelle contro il Governo austriaco. — Ricordi d'un ballo in costume in casa Batthyány a Milano. — Un “Pietro Aretino„; chi era?..

Passiamo un momento ad un borgo nella provincia di Pavia, fra l'Olona e il Po: a Belgiojoso. Fu là che, dopo la sconfitta di Pavia nel 24 febbrajo del 1525, lo spensierato, cavalleresco Francesco I re di Francia si ritrasse, prigioniero di Carlo V, per passare poi alla Cervara, nell'incantevole golfo ligure.

La famiglia Belgiojoso, che porta il nome di quel borgo, non ne è originaria. Essa era forte fin dal nono secolo nelle Romagne, dove possedeva, con titolo comitale, fra altri feudi imperiali quello di Barbiano; ed è Barbiano il nome originario dell'illustre famiglia.

[20]

Un Carlo Barbiano fu il primo che s'intitolò dal feudo di Belgiojoso; e i due nomi passarono da allora congiunti di secolo in secolo.

Quel Carlo Barbiano non risveglia certo gradito ricordo col nome suo. Fu egli che, inviato da Lodovico il Moro presso il mostruoso Carlo VIII di Francia, indusse costui a calare nel 1494 colle armi in Italia. La famiglia Belgiojoso divenne patrizia milanese sessantadue anni dopo quella ruinosa calata di barbari infetti. Più tardi, ottenne il grandato di Spagna: nel 1769, ottenne il principato: e i suoi principi si denominarono d'allora “principi del Sacro Romano Impero e di Belgiojoso„.

Nel 14 marzo del 1800, nacque da questa famiglia il principe Emilio Belgiojoso, figlio di Lodovico e d'Amalia Canziani, la quale non potea vantare stemmi patrizii.

Bellissimo come un Apollo era il principe Emilio. Affabile, squisito il suo tratto, caustico il suo brio, vaste le sue ricchezze, che profondeva con larghezza spensierata. Era schermitore insuperabile, cavalcatore elegantissimo; ballava con grazia. E la sua voce?... Un incanto. La prima volta che Gioachino Rossini lo ode a Milano, ne rimane rapito; la prima volta che s'avvicina a quel gentiluomo seducente, lo ama. “Ti dirò ciò che mille volte ti ho verbalmente detto e ripetuto: t'amo e t'amerò sempre!„ scriveva più tardi il Rossini al principe da Parigi.[5]

Tutta la famiglia Belgiojoso emergea pel raro [21] talento della musica e per la generosa protezione che accordava a maestri, a cantanti; e costoro l'adulavano, formandole intorno una corte. Pompeo Belgiojoso, chiamato per celia da Gioachino Rossini il patriarca Pompadour, spiega così robusta voce di basso che quel grande maestro lo vuole a Bologna per cantare nel suo Stabat Mater. Antonio Belgiojoso compone notturni, oratorii, messe, e un'operetta, La figlia di Domenico. Suona il violoncello e scrive un breve trattato Sull'arte del canto, dove parla della “fioritura e del trillo„ — della “timidezza o peritanza„ del “canto di sorpresa ch'è proprio delle opere buffe (egli dice) e s'appoggia interamente sulla agilità.„

Un balsamo soave è l'armonia

Sul dolor della vita, e l'infelice

Mentre l'aura ne bee consolatrice

Tutti gli affanni oblia;

esclamava, nella Virtù del canto, il melodioso Andrea Maffei, che facea parte di quella società canora, ed era amico del principe.

Emilio Belgiojoso non voleva che si ripetesse quanto Ugo Foscolo avea detto e che mille pappagalli ripetevano: che il giovin signore, l'effeminato eroe del Giorno di Giuseppe Parini, fosse il principe Alberico di Belgiojoso, suo nonno. Non era vero, e neppur verosimile. Nelle vene del principe Alberico scorrea il sangue bellicoso degli avi. Non avea egli preso parte alla “guerra dei sette anni„? Non si trovò alla battaglia di Rosbach? E per il suo valore non venne promosso [22] generale?... Era soldato, e amava i soldati; tanto che un decreto imperiale gli affidò il comando del presidio militare di Milano; comando che teneva ancora quando uscì la prima parte del Giorno: il Mattino.

Giuseppe Parini fece come gli artefici squisiti della bellezza, che scelgono le leggiadrie di più donne per una Venere sola: egli riunì più giovani signori in un giovine solo.... ed esagerò con arte poetica sovrana. La satira esagera sempre.

Poichè a Emilio Belgiojoso dava noja la sempiterna ripetizione della fola di Ugo Foscolo,[6] volle, quale errata-corrige (nel 1826), che la piccola casa attigua al palazzo Belgiojoso nella piazza dello stesso nome a Milano fosse con disegni dell'architetto Gioachino Crivelli consacrata al Parini: e v'appose, sulla facciata, tanto di busto del grande poeta da lui ammirato.

Il principe Emilio inclinava, veramente, in quel tempo, ai busti, alle lapidi. La bella e infelice marchesa Bellisomi di Pavia, sposata ad un imbecille, fu disperatamente amata da un Jacopo Ortis lombardo che, in un triste giorno, si fece saltar le cervella nel bosco della villa Belgiojoso presso Pavia. “Al principe Emilio Belgiojoso (racconta non senza malizia Tullio Dandolo nei Ricordi) il fatto romantico parve così buona ventura pel suo parco, che lo ha eternato con una lapide commemorativa in riva ad uno stagno pittoricamente circondato di salici piangenti. Questa tragedia, omai antica, stata clamorosissima, [23] tinse in nero la vita della marchesa, n'esaltò la immaginazione, e la trasse ad un vivere segregato e a quel sentire originale che trapela dalle sue lettere.„


Ma nella vicina Pavia, in quella fremebonda università dalla quale erano usciti nel 1821 animosi giovani pronti ad ajutare le armi piemontesi per la vagheggiata liberazione della terra lombarda dalla signoria austriaca, si ripetevano intanto le strofe di Giovanni Berchet, sfuggito per miracolo con precipitosa fuga al processo dei Carbonari e forse allo Spielberg. Nessun poeta italiano, nessuno più del Berchet, versò fuoco nelle vene dei giovani; le sue strofe sono saette contro lo straniero. L'austriaco credeva che Milano, Pavia, Brescia, Mantova, Venezia, da esso occupate, fossero città; ed erano popoli: credeva che la tomba dello Spielberg soffocasse ogni aspirazione italiana; e non s'accorgeva dell'opposto; ma s'accorgeva del Berchet.

Giovanni Berchet era amico di Emilio Belgiojoso; e fu lui, quel fiero poeta delle Fantasie, che spronò il giovane principe a cospirare per la libertà della patria. Quando vede il principe immerso ne' piaceri, il Berchet gli manda lettere acerbe di rimprovero; ed è di rimprovero la lettera che gli lancia da Londra, dove il poeta s'è rifugiato. Questa lettera, intercettata dalla polizia austriaca, ora giace negli archivii segreti del Governo Lombardo a Milano.[7] Il Nicolini cantava:

[24]

Perchè tanto sorriso di cielo

Sulla terra del vile dolor?

Perchè obliarsi nelle voluttà sensuali, quando un'altra voluttà, quella delle cospirazioni e de' pericoli, mette brividi nuovi nelle fibre, nell'anima?... Poichè doveva essere ben acre voluttà il cospirare per un ideale sacro, contro una forza che si spiegava tutta contro, co' suoi rigori, co' suoi terrori!... I ritrovi segreti, i colloquii sommessi, i segni di riconoscimento, il linguaggio di convenzione, il carteggio occulto, le fughe, i travestimenti, le veglie, i nascondigli, tutte le audacie, larvate più o meno dall'astuzia, da accorgimenti raffinati, da dissimulazioni, e, nello stesso tempo, il desiderio inquieto, febbrile di propaganda, la smania d'operare, di rompere gl'indugi, di sfolgorare in un tentativo deciso e decisivo, pronti ad ogni pericolo, pronti al castigo, al patibolo.... qual vita, qual vita, che tanti italiani vissero e che furon lieti, superbi d'aver vissuta; soggiogati da quell'ideale, circonfusi, abbagliati da quella luce divina! Oggi quella luce sembra appena un barlume d'incendio remoto; ma allora?... In un popolo, occorre la vita morale. L'assenza della vita morale, l'indifferenza per ciò ch'eleva, è segno di morte.

Il principe Emilio Belgiojoso si gettò alle cospirazioni, e trovò una sorella di fede patriottica in una radiosa bellezza: Cristina Trivulzio. I due giovani, ammirati e invidiati, sembravan venuti al mondo (si diceva) l'uno per l'altro, tanto brillava fra loro l'accordo di pregi singolari. [25] Perchè non dovevano fondere le loro giovinezze, le loro vite?...

Il 15 settembre 1824, nella chiesa di San Fedele a Milano, si celebra una solenne, festosa cerimonia. Il ventiquattrenne principe Emilio si sposa a Cristina Trivulzio, otto anni più giovane di lui. Tutta l'alta società lombarda, venuta dalle ville, vi assiste. Come dice enfatica una delle tante dedicatorie nuziali piovute allora per l'occasione, il sacerdote può ripetere dall'altare: “Ai nomi storici delle vostre illustri famiglie, o Sposi, si scorgono in Voi riunite le ricchezze, la gioventù, l'avvenenza, e due belle anime, con vivace ingegno, nelle più nobili discipline educato. Se la felicità non viene a posarsi in mezzo a Voi, in qual luogo della terra si potrà mai sperare ch'essa discenda?...„[8]

Eppure non discese. Quale errore il matrimonio contratto all'alba della giovinezza, quando la realtà dinanzi agli occhi, velati dall'inesperienza o dal sogno, appare sotto sembianze alterate!... Eppure, una volta, quante spose, sedicenni appena come Cristina Trivulzio, venivan condotte all'altare e avvinte a un destino!

Cristina Belgiojoso-Trivulzio affascinava per la sua bellezza originale. Di statura piuttosto alta, magra, d'un pallore marmoreo: nerissimi i capelli, e grandi gli occhi scuri, pieni di pensiero; quegli occhi che volean dominare; quegli occhi fatali, dove parea nereggiare un dramma misterioso, e che parlavano anche quando tacevan [26] le labbra. Il collo lungo, e affilate le mani, che, stando seduta, ella giungeva in grembo, fra le pieghe della veste. Tale era allora Cristina Belgiojoso; tale fu dipinta dal pittore Vidal a Parigi, e da Francesco Hayez a Milano alcuni anni dopo. Ma ella non era ancora la grande dame; era la jolie femme, con un'espressione però diversa da tutte le altre: non era ancora la romantica visione del celebre quadro del Lehmann.

La madre, per sedare gl'impeti vivaci della meravigliosa figliuola, le avea scelti a maestri due uomini d'idee retrive: Francesco Ambrosoli, cuore umile e perciò umiliato, infaticabile lavoratore; e quel Robustiano Gironi, bibliotecario di Brera, che non può aspirare a un monumento patriottico. Entrambi nemici giurati del romanticismo e dei romantici, sostenevano la necessità delle imitazioni classiche. Con la passione che nutrivano delle frasi proprie, precise, tornarono non inutili certo all'ingegno di Cristina Trivulzio. L'ingegno di lei s'allontanava dal sogno poetico, che arride spesso alla giovinezza: era, invece, preciso: ingegno scientifico. Ma amava la musica.

Sospinta da propria vigoria a larghi orizzonti, ai quali i due precettori non sarebbero arrivati, Cristina Trivulzio alternava le brillanti cavalcate pei viali suburbani con gravi studii; studii superiori alla sua età e al suo sesso gentile. Achille Mauri le fu pure maestro; il Mauri ch'era il rovescio di que' due; spirito aperto alle idee nuove; sognatore d'un'Italia libera e grande. Voleva Cristina invidiar forse gli allori della concittadina sua Maria Gaetana Agnesi, l'illustre matematica? [27] o, almeno, l'altra dotta dama. Clelia del Grillo, moglie a un Borromeo, entrambe ornamento di Milano nel secolo XVIII?... Fatto sta, ch'ella si consacrò agli studii storici, alla filosofia, alle lingue: studiò l'algebra, e un bel giorno volle tentare persino il calcolo sublime.

Nel giorno delle nozze, qualcuno fece correre un infame epigramma contro la sposa. Era l'epigramma d'un adoratore respinto?... di qualcuno fra i compagni di libere cavalcate? Era l'epigramma di qualche bell'imbusto deriso? — deriso dalla pungente ironia onde le belle labbra di Cristina punivano la fatuità e l'insolenza?... Certo era lo sfogo d'un vile. Così, fin nella sua corbeille de noce, quella donna singolare trovava le vipere, che dovevano assalirla per tutta la vita, e sulle quali ella passeggiò, sempre altera, sempre impassibile dea.


La folla elegante, che assisteva alle nozze, recava nelle vesti il carattere del tempo. Abbigliamenti sdolcinati per l'uomo: scarpette lievissime che lascian vedere le calze bianche, pantaloni bianchi, panciotto bianco, cravatta bianca, solini a vela bianchi, guanti bianchi: il trionfo del candore. Sulla testa, un cappello a cono rovesciato, detto alla Bolìvar, in omaggio all'emancipatore delle colonie ispano-americane. E le dame doveano sembrar ben deliziose colle loro calze fine, trasparenti, che rivelavano il color roseo del piede nella breve scarpetta! Bianca è la gonna, a campana, tutta pieghe sottili nell'orlo, e stretta alla vita con un cordone. Il cappello è sormontato [28] da piume bianche e legato da un nastro sotto il mento; e l'ala è così larga che un poeta romantico la direbbe l'ala d'un angelo.... L'ala d'alcuni cappellini di raso è tagliata a foggia di cuore. Siamo, infatti, nel tempo in cui il vocabolo “cuore„ è il comun denominatore. Tutte le romanze, sospirate alla spinetta, rimano cuore con amore. E si ama!... — Ma si amavano i due principi sposi?

Dopo la cerimonia nuziale, gli sposi andarono a Merate, nella villa dei Belgiojoso. Meglio i rifugii solitarii, in un angolo tranquillo del mondo, che i “viaggi di nozze„ profanatori vulgarissimi dei misteri più delicati e più sacri della vita. Ma quel recesso di Merate sembrava troppo melanconico alla giovane sposa; le pareva un recesso più adatto a recitare il carme dei Sepolcri che l'epitalamio di Catullo. Quella lunga, interminabile, doppia fila di cipressi, che nella villa Belgiojoso, a Merate, sembra il viale d'un sepolcreto di re, non è, infatti, la più amena per accogliere due sposi, appena reduci dall'altare. Mite s'inarca il cielo della Brianza; i colli circostanti si profilano con amabili curve; mandan limpidi riflessi d'oro le frondi all'autunno; ma quella dimora fra i cipressi non è il più ridente paradiso nuziale. Cristina legge lunghe ore sotto gli alberi; non legge, spero, l'epigramma.

La madre del principe accolse con amorevolezza la bellissima nuora, e, per farle sentire ch'ella è entrata ornai nel tempio dei liberi pensieri, le offre subito da leggere il Candide del Voltaire; ma la principessa dolcemente lo respinge.

— Perchè non lo vuoi?... le chiede la suocera.

[29]

— Perchè l'ho letto.

Il buon accordo conjugale visse la vita d'una rosa. Se non mentono le cronache mondane del tempo, nella stessa prima sera nuziale si palesò l'incompatibilità dei due caratteri.

I due giovani sposi, tornando a Milano, andarono ad abitare nel palazzo di proprietà della famiglia Belgiojoso, nella piazza tranquilla dello stesso nome. Ma la divisione, una divisione pacifica, senza tribunali, senza avvocati, senza carta bollata, doveva succedere dopo qualche tempo fra i due conjugi, le cui personalità eran troppo spiccate e troppo imperiose per fondersi in armonia durevole per tutta la vita.

Una Cristina Belgiojoso non avrebbe mai abdicato al proprio titolo, ai proprii diritti di principessa; d'altra parte, quelle due anime, così diverse in tutto, avevano un punto di contatto: si accordavano in un alto sentimento, il sentimento patriottico: per cui, anche lontani, Cristina ed Emilio conservarono, per la forza di quel sentimento nobilissimo, relazione continua e cordiale. Non erano più due sposi: erano due congiurati. Caso ben raro nella storia delle separazioni conjugali.

Durante le cospirazioni del 1821, a Milano, alcune animose signore si erano votate alla causa liberale accanto ai cospiratori, con quella prontezza, con quell'ardore ch'è proprio della donna nel sostenere nuove idee, nell'amare nuovi ideali anche pericolosi. Fra quelle signore, si notavano l'angelica Teresa Casati, moglie al Confalonieri; un'amica soavissima d'Ugo Foscolo, Matilde [30] Viscontini, maritata al general napoleonico barone Dembowski; e vi primeggiava la sdegnosa Bianca Milesi. Nel gergo dei Carbonari, esse assunsero il nome di giardiniere.

Bianca Milesi, filosofessa, con le scarpe da soldato, camminava risoluta per le vie di Milano portando a tracolla una giberna dove teneva, a portata di mano, l'Essay del Locke. Era anche pittrice ritrattista. Coraggiosissima contro i tranelli della polizia e contro i terrori del codice austriaco, ne rideva: fœmina vir.[9] Essa strinse presto amicizia colla principessa Belgiojoso, che alla filosofia, al patriottismo, univa impavida l'odio delle convenzioni sociali e sprezzava l'altrui prepotenza. Le due concittadine, l'una plebea, l'altra patrizia, s'intesero. La Milesi (sposatasi al medico Mojon di Genova) era d'età matura, e bene esperta nel congiurare; ella fece, perciò, da maestra (e qual maestra!) alla giovane principessa.

Fra gli atti segreti del Governo Lombardo-Veneto, custoditi negli Archivii di Stato a Milano, trovo una lunga lettera da Ginevra, diretta alla polizia di Milano. È la lettera d'una spia. Essa parla d'un primo viaggio furtivo della principessa Belgiojoso; la quale, contro le prescrizioni del Governo austriaco, s'era allontanata liberamente da Milano, senza chiedere il permesso voluto; così pure avea fatto in quel torno di [31] tempo l'ex suo marito, il principe Emilio. La lettera della spia parla apertamente d'un compagno che la marchesa Gherardini avea dato alla propria figlia Cristina nel viaggio elvetico.

Quel compagno era l'amico della Gherardini; ed era stato precettore del fratellastro della Belgiojoso, il marchese Alberto Visconti d'Aragona, che abbiamo nominato nel precedente capitolo. Quel signore, un bergamasco, si chiamava Giovanni Beltrame, già capitano napoleonico del Genio, comandante una compagnia d'artiglieria, decorato della Legion d'onore. Rovinato per il fallimento d'un fratello, negoziante di seta, avea dovuto darsi attorno per vivere; e fu allora che gli amici gli procurarono l'impiego d'istitutore di quel giovane patrizio.

Il Beltrame non riuscì peraltro a dominar l'altiero alunno; onde ei lo fece affidare al collegio di Desenzano, dove s'educavano i nobili. E qui l'anonimo “confidente„ (così chiamavano anche allora le spie.) continua, non senza ironia maligna, nei particolari sulla principessa Cristina e su quell'avvenente cavalier Beltrame, il quale “non poteva simpatizzare cogli Austriaci„.

Correva allora l'anno 1830; l'anno appunto della pacifica divisione conjugale de' principi l'anno della fuga della principessa Cristina da Milano. — Sentiamo la spia:


“.... Non andò guari che seguì la divisione dei principi conjugi Belgiojoso; e siccome la giovane principessa avea fatto divisamento d'espatriare per qualche anno, la tenera di lei madre, [32] per darle una specie di compagno, di mentore e di economo, gettò gli occhi sopra l'ex-capitano Beltrame; lo richiamò premurosamente da Bergamo, lo propose, fu accettato; e da quel momento ha seguìto la principessa nelle di lei peregrinazioni. Costretta dal cattivo stato di sua salute, questa giovane Dama ha preso a pigione un casino di campagna poco discosto da Ginevra, ove, abitando alcuni mesi, si è alquanto ricuperata. Ultimamente, ha voluto che il capitano facesse un giro nei diversi Cantoni della Svizzera; indi lo ha mandato ultimamente in Italia colla sua grande berlina da viaggio, carica della maggior parte del suo bagaglio, con ordine d'andarla poi a raggiungere a Lugano, ove ella contava di rendersi prendendo la via di Berna.„[10]


È in questo tempo che comincia il regno delle spie. L'Austria governò per tanti anni le terre soggette colla polizia; ma questa s'appoggiava sull'opera continua, implacabile delle spie, che essa sceglieva fra persone colte, bene accette nella società; e lautamente le pagava, inviandole sotto falsi nomi nella Svizzera, in Francia, dovunque gli esuli italiani si raccoglievano a cospirare. Gli Archivii segreti di Stato a Milano conservano numerose lettere di quegl'italiani rinnegati; lettere che pervenivano al Governatore o alla direzione della polizia con indirizzi (previamente combinati) d'immaginarii commercianti e coll'indicazione: Milano, ferma in posta. [33] Il Governatore e il direttore della polizia segnavano con un lapis rosso tutt'i punti di quelle lettere, che potevano dar motivo a processi, a persecuzioni, a vigilanze speciali; e, se i rei appartenevano ad altri Stati congiunti all'Austria nella repressione delle idee liberali, tosto quegli Stati ne erano avvertiti; così, una fitta rete d'informazioni segrete, di reciproci soccorsi s'intesseva fra le burocrazie. Nello spionaggio, nessuna donna: le donne erano escluse.

Lo spione della Belgiojoso si mostrava ben informato. Diceva giusto sulla cattiva salute della principessa. La Belgiojoso, al pari d'altri ingegni singolari, andava soggetta, pur troppo, ad attacchi d'una malattia terribile che desta in ogni cuore bennato profonda compassione: l'epilessia.

Quanto filo da torcere ella dava però alla polizia e allo stesso governatore del Regno Lombardo-Veneto, conte Hartig, il quale, gentiluomo nell'anima, non avrebbe mai voluto importunare, meno perseguitare una dama! E il principe di Metternich abbassava, intanto, acerbi rimproveri al conte Hartig, perchè lasciava passar facilmente il confine a sudditi tutt'altro che devoti all'aquila imperiale.

Ma c'era di mezzo la Repubblica Elvetica, la quale facilmente accoglieva i profughi, e facilmente li proclamava proprii cittadini; bastava che comperassero un palmo di terra entro i suoi confini. E così fecero alcuni esuli. Un bel giorno, quattro o cinque profughi lombardi si riunirono formando una ditta, e comperarono un'isoletta di qualche metro di ghiaja in un fiume, collo [34] scopo di diventarne possidenti, quindi intangibili nella libera Repubblica Elvetica....

La principessa Cristina Belgiojoso non avea bisogno di ricorrere all'acquisto di banchi di ghiaja per essere proclamata concittadina di Guglielmo Tell. Ella si ricordò che, per un decreto dell'11 luglio 1808, i Trivulzio tutti avevano diritto alla cittadinanza svizzera; ed ella dimostrò ben facilmente ch'era figlia d'un Trivulzio....

Detto, fatto: si fece rilasciare dal Gran Consiglio del Canton Ticino una dichiarazione solenne ch'ell'era cittadina elvetica, e precisamente del Canton Ticino, e che, come tale, ognuno doveva riconoscerla. Il decreto, rilasciato il 5 ottobre del 1830, munito del “gran suggello dello Stato„, passò a Milano; e ora dorme il sonno dei giusti negli Archivii lombardi. Ma allora?... Fu un bel gesto, direbbero i moderni, della principessa; fu una bella sorpresa per le autorità dell'Olona!...[11]


Intanto, la Giovine Italia sorgeva per l'opera ispirata di un grande poeta della politica: Giuseppe Mazzini. La principessa Cristina e il principe Emilio Belgiojoso furon tra i primi a seguire gl'ideali dell'agitatore ligure ch'esclamava: “Io adoro Dio e un'idea che mi viene da Dio: un'unica Italia.„ Ed essi furon tra i primi ad ajutarne gli sforzi con ricchi doni di denaro.

[35]

Il principe e la principessa gareggiavano anche nel render gradito l'esilio ai profughi in Svizzera, invitandoli a veglie, e nel soccorrere largamente i poverelli delle città che li ospitavano. Ma non eran le veglie, le feste di Milano; non v'era neppur l'ombra di quel memorando ballo in costume dato nella notte del 30 gennajo del 1829 nel suo palazzo di Porta Orientale (ora Corso Venezia) a Milano, dal conte Antonio Giuseppe Batthyány, gran magnate ungherese, ciambellano di Sua Maestà l'imperatore d'Austria. Quel ballo rimase memorando per la folla smagliante dei cavalieri patrizii e delle dame, pei costumi storici ricchissimi che i pittori Francesco Hayez e Migliara disegnarono, e che le sartorie di Milano, di Parigi, di Vienna approntarono con lusso regale. Erano ancora uniti, allora, i principi Belgiojoso; ed entrambi in quella festa facevan parte della spettacolosa quadriglia di Francesco I re di Francia; il principe in candide maglie; la principessa, dama d'onore, nel suo abito di velluto color della viola. Il padron di casa, conte Batthyány, vestiva l'azzurro costume d'un principe montenegrino, ravvolto in un largo, rosso mantello, come un diavolo: le contesse Filippina e Eleonora Batthyány s'aggiravano vestite da persiane fra le quadriglie dell'Otello, dei cosacchi, degli scozzesi. Era un parente della principessa Belgiojoso il gentiluomo vestito da Lusignano re di Gerusalemme: era, infatti, il marchese Giorgio Trivulzio, che dovea morire per le ferite gloriose ricevute combattendo col popolo alle barricate delle Cinque [36] Giornate. E v'era la madre di lei nel costume di Diana di Poitiers, la stella d'Enrico II di Francia; e il cognato conte Antonio Belgiojoso, paggio, e il conte Rinaldo Belgiojoso montanaro scozzese, e la bella, voluttuosa moscovita contessa Giulia Samoyloff sotto i panni di contadina russa. La duchessa Visconti di Modrone e la contessa Cristina Archinto splendevano nel costume, l'una di regina Berengaria, l'altra, d'antica italiana. V'era anche l'Hayez. Il celebre capo del romanticismo pittorico, pompeggiava nei velluti di Giulio Romano.... Un centinajo di tipi, di costumi scintillanti, di tutte le epoche, di tutte le Corti! Quali ricordi di buon gusto, di riproduzioni storiche esatte, quali visioni di luce e di dolcezze!

Ah, ma non tutte vere dolcezze!... Vicino alla principessa Belgiojoso, strisciava un Pietro Aretino.... L'uomo, che indossava le vesti del più infame libellista, recitava allora sorridente, alla folla aristocratica, alcune sue terzine galanti, che dicevano come la satira nulla trovasse da pungere fra tanti splendori. Egli si chiamava Gaetano Barbieri, un mantovano, letterato men che mediocre, e creduto dai più una perla di galantuomo. Oh, sì, un bel galantuomo! Egli era, invece, una spia, protetto e pagato (coi denari del Governo) dal direttore della polizia austriaca, nobile Torresani. Era la stessa spia che seguiva nella Svizzera i passi di Cristina Belgiojoso; la stessa spia che scriveva le lettere da Ginevra?... Non possiamo affermarlo con sicurezza, neppure dal confronto delle scritture dei rapporti segreti, ora sbiadite dal tempo.

[37]

III. La Principessa e la “Giovine Italia„.

Il Metternich minaccia il Governo del Canton Ticino. — I profughi della Svizzera: un suicida. — Torna in scena la spia. — L'Austria confisca i beni alla Principessa e la condanna alla morte civile. — Tentato arresto della Principessa. — Giuseppe Mazzini e la sua Giovine Italia. — La Principessa ajuta la Iª spedizione di Savoja.

Il gran cancelliere d'Austria, principe di Metternich, s'irrita, ora, ancor più contro la Repubblica Elvetica per la facilità ond'essa continua ad accogliere i liberali, sfuggiti alla vigilanza dell'impero. Dopo d'aver rimproverato il mite Hartig di non aver vigilato abbastanza sui sudditi emigranti, il principe sfucina minaccie contro la Svizzera; e all'uopo, si serve della mano dello stesso Hartig!

Proprio nel mese d'ottobre del 1830, nel quale il Governo del Canton Ticino rilascia decreto di cittadinanza svizzera alla principessa Belgiojoso, l'Hartig manda al presidente di quel Governo un inviato speciale, certo dottor Fermo Terzi, con una lettera minacciosa. È una lettera storica, che dimostra una volta di più come il re sardo e l'Austria procedessero di comune accordo contro [38] i liberali. La lettera del conte Hartig al signor landamanno (presidente) “del lodevole Governo del Canton Ticino„, intima “l'estradizione di tutti quei rifugiati sudditi Lombardo-Veneti, che si sono resi complici del delitto d'alto tradimento, e l'immediato allontanamento degli altri individui pericolosi alla tranquillità delle limitrofe Provincie austriache e sarde.„

La lettera continua altiera, e minaccia così:

“La pronta esecuzione di questa misura per parte delle autorità soggette al lodevole Governo del Canton Ticino è riputata tanto urgente e tanto indispensabile dal Governo di Sua Maestà imperiale e reale, che mi troverei, — nel non sperabile caso di non vedere data retta a questo reclamo — obbligato a dichiararle, signor landamanno, siccome faccio colla presente, che il Governo di S. M. I. R. adoprerebbe tutt'i mezzi sanzionati dal diritto delle genti per costringere codesto lodevole Governo ad adempiere i trattati veglianti: verrebbero quindi immantinente a cessare le comunicazioni col Governo e cogli abitanti del Canton Ticino, ed inoltre adoperate tutte quelle altre misure giudicate necessarie, onde preservare i sudditi di S. M. l'augusto mio Sovrano, da qualunque siasi contatto con quelli di un Cantone, le autorità del quale dimostrerebbero col loro contegno, affatto ostile, di non voler più conservare relazioni amichevoli cogli Stati di Sua Maestà imperiale, reale, apostolica.„[12]

[39]

Quasi una dichiarazione di guerra!

A questi fulmini, il lodevole Governo del Canton Ticino dovrebbe atterrirsi.... Non si atterrisce. Risponde che quanto l'Austria e il Piemonte domandano è ben giusto; si nominerà una Commissione.... Ma la Commissione ticinese fa come il Turco: tira placidamente a lungo le decisioni sue; e mentre, in accordo col Governo centrale, elude, pel momento, le aspettative dei governi che minacciano di cancellare la Svizzera dalla carta d'Europa, protegge i profughi lombardi, i profughi piemontesi, i profughi degli altri Stati italiani, una prima nota dei quali, in una mattina, comparisce sullo scrittojo del conte Hartig. Fra quei nomi, spicca primo il principe Emilio Belgiojoso. Vi si leggono pure i nomi di due banchieri milanesi: Giacomo e Filippo Ciani, dalla polizia austriaca indicati quali eccitatori del nefando eccidio del ministro delle finanze Prina sulle vie di Milano nel 1814.... E v'è il nome di Filippo Guenzati di Gallarate, legatosi in amicizia patriottica e fida con Emilio Belgiojoso. Vi è quello di Carlo Bellerio, milanese, coltissimo e imperterrito uomo, dagli sguardi trafiggenti, pronto a ogni disperata purchè patriottica impresa, fratello della ammaliante Giuditta Sìdoli, che ama riamata Giuseppe Mazzini e lo ajuta, nei primordii, a diffondere la Giovine Italia. Il Bellerio è amico della principessa Belgiojoso; ed è amico del Mazzini, al quale rimane tenacemente fedele fino alla tarda vecchiaja, fino alla morte.

Tra i fuorusciti italiani, che risiedono parte a [40] Bellinzona, parte a Lugano, si nota un polacco, suddito prussiano, odiatore del regime assoluto della Sprea: il conte Onofrio Redoinski. Una notte, l'infelice si precipita da una finestra della povera casa dove dimora, e rimane morto sul colpo. Nei libri neri della polizia lombarda, è indicato come “esagerato e attivo liberale, che faceva frequenti viaggi in Francia per la corrispondenza fra i membri del suo partito.„ Chi oggi più lo ricorda?... Quante vittime oscure travolte nelle rivoluzioni! quanti dimenticati!

Nel frattempo, la principessa Belgiojoso, non ostante la miseranda salute, si diverte a Lugano. Ella comprende che, in momenti sacri alla patria, tutto alla patria deve concedere; comprende che la donna superiore deve far di meglio nel mondo che lasciarsi corteggiare e adorare.... ma non ostante ella sia, e senta di essere, l'apparizione romantica più grandiosa che l'alta società femminile abbia dato all'Italia nella prima metà del secolo XIX, non per questo ella si abbandona alle lacrimose malinconie d'altre sorelle romantiche: i salici piangenti non sono piantati per la principessa Belgiojoso.

È saporita la lettera segreta, che una spia austriaca (non Pietro Aretino del famoso ballo in casa Batthyány) scrive in data dell'ottobre di quello stesso anno, col grazioso nome di Pietro Dolce, al governatore Hartig sulla vita gioconda della principessa. È tutta da godere. Ma, prima di citarla, dobbiamo segnalar la riparazione che la Svizzera a quel tempo nobilmente volea compiere. Dalla Svizzera, piombarono un giorno sull'Italia [41] valanghe ruinose di soldati venduti al miglior pagatore e pronti al saccheggio, alla strage vandalica; e allora, all'alba dell'indipendenza italiana, la Svizzera cercava di cancellare quell'onta, accogliendo i perseguitati, i sognatori d'un'Italia libera.

Ecco ora la lettera sulla principessa. Reca la data del 21 ottobre 1830:

“Le tante sciocchezze, che sempre ha fatto e seguita a fare la moglie del Principe Belgiojoso all'estero ne' suoi viaggi, meriterebbero ora un qualche riflesso. Oltre al sano principio d'ogni Governo per non lasciare che i ricchi gettino i lor denari in paesi stranieri, giova pur osservare che essa, da pochi giorni venuta a Lugano, diede una splendida festa di ballo molto allegra, invitando ogni ceto di persone e fra queste pur di quelle che sono colpite d'esilio dalle contrade svizzere in forza delle rappresentanze dei potentati d'Europa, che hanno reclamato una misura generale, perchè l'Elvezia cessi d'ora innanzi d'essere impunemente l'asilo di tanti fuorusciti.

“La principessa Belgiojoso è una pazzarella, che starebbe meglio a casa sua in Milano, che in giro sempre all'estero per farsi deridere, per compromettersi forse, e compromettere gli altri.„

Se la principessa avesse potuto leggere questa lettera che solo oggi, dopo tanti anni d'ombra, esce alla luce, come avrebbe riso! Ma ella rideva lo stesso, allora, immaginando ogni sorta di scappatoje e di burle per infrangere tutte le trame che il governatore austriaco di Lombardia [42] tentava contro di lei allo scopo di farla ritornare a Milano, temendo in lei una cospiratrice, pericolosa per lo splendido nome, pel ricchissimo censo, per l'energia della volontà, per la facile fascinazione di lei sul sesso forte.... ch'è debole.

Un bel giorno, il conte Hartig le procura una visita: le manda il bravo suddetto Fermo Terzi in persona, per convincerla ch'ella si trova all'estero senza il passaporto voluto dalle leggi —, che perciò il suo soggiorno nella Svizzera è illegale e deve tornarsene sull'istante a Milano. Ma la principessa spiega sotto gli occhi del Terzi un passaporto “senza limite di tempo„ che ha potuto ottenere dall'Ambasciata austriaca a Firenze: gli fa notare, anche, che il rappresentante d'Austria a Berna lo ha fregiato della sua rispettabile firma, aggiungendovi “buono per la Francia„. E poi non è ella “cittadina elvetica„?...

Il bravo dottor Fermo Terzi è mortificato, a quanto pare, del fiasco; un fiasco leggermente impagliato dai modi graziosi della bella milanese.... E avverte il governatore del Regno Lombardo-Veneto che sarebbe imprudente tentare l'espulsione della Belgiojoso dalla Svizzera, anche per la grande popolarità che la principessa ormai gode sotto il cielo ticinese:

“.... D'altra parte, la principessa non solo gode la protezione dei liberali dominanti, il cui partito comprime la volontà e l'autorità dei provvisorii governanti; ma è anche veduta di molto buon occhio dagli abitanti, in generale, di Lugano, per [43] qualche sua beneficenza verso i poveri, per la bonomia e la popolarità del suo tratto, e per una festa di ballo, data non senza splendidezza....„[13]

Il governatore conte Hartig non sa darsene pace. Scrive al barone Binder, rappresentante dell'Austria a Berna, per pregarlo di fargli conoscere i motivi che lo hanno spinto a rilasciare alla pericolosa principessa quel visto sul passaporto della legazione d'Austria a Firenze, aggiungendovi la magica aggiunta: buono per la Francia. Il povero barone dev'essersi trovato nell'imbroglio anche lui.... E, intanto, la principessa lascia Lugano per Genova.... Nuove inquietudini, allora, dell'Hartig. Il Governatore scrive subito al conte Seufft, rappresentante l'imperatore d'Austria a Torino, perchè la principessa, lasciando Genova dove s'è rifugiata, non possa rendersi che in Lombardia, e le si sequestri il famoso passaporto per la Francia, del quale è munita. I poliziotti di Genova vanno per arrestarla in casa. Ma ella, per una porta segreta, fugge, e miracolosamente si salva a Marsiglia, con un solo sacco di robe, seguita da una sola cameriera, certa Maria Longoni, giovane milanese, che ben presto infastidita d'una vita di fughe, d'affanni, di paure, torna a Milano, e, chiamata in fretta dalla polizia ad audiendum verbum, le racconta del misero stato di salute dell'abbandonata padrona e della consunzione alla quale sembra condannata.[14]

[44]

Ma una spia della polizia austriaca di Milano, ha seguìta assidua la principessa, e la segue.... È sempre il Pietro Aretino del sontuoso ballo in costume del conte Batthyány a Milano? è ancora quel Pietro Dolce; ch'era, a quanto sappiamo, un nobile spiantato?... Nelle lettere occulte che manda all'Hartig, si firma un Pietro Svegliati. Dalla Svizzera, egli è passato con un tempo orribile a Genova, quindi rapido a Marsiglia, dove, bella di audacie e di speranze, è nata intanto la Giovine Italia. Il tristo vi è andato coll'idea di mescolarsi ai profughi italiani, ai liberali, fingendosi anch'egli profugo, anch'egli liberale!... La sua prima lettera al conte Hartig suona così:

“La mia corrispondenza da qui in avanti sarà di un tono amichevole e scritta con frasi liberali, delle quali però Ella non durerà fatica a penetrare il vero senso; e quando vedrà che le linee sono alquanto distanti l'una dall'altra non manchi di passare le mie lettere sopra il fuoco.„

Sopra il fuoco.... perchè ne risaltino, evidentemente, le notizie segretissime scritte con inchiostro simpatico.... E informa l'Hartig anche sulla fuga della principessa Belgiojoso da Genova:

“Ella fu assistita in questa sua fuga dalla famigerata Milesi, moglie del medico Mojon, con la quale era inseparabile. Questa Milesi, già da Lei ben conosciuta, passa qui per una esaltatissima liberale, e molti anche credono che possa servir di canale intermediario per la corrispondenza fra alcuni emigrati che sono in Francia, [45] e i loro parenti e amici d'Italia: si pensa persino che la Traversi in Milano non sia estranea a questa manovra; ed è perciò che non sarà mal fatto di invigilare sulla corrispondenza, che è frequente fra queste due liberalissime femmine, e sulle persone di tutti i colori che frequentano la Casa Traversi....„

E da Antibo il 19 gennaio 1831, lo spione, dopo d'aver dipinto all'Hartig lo spirito della popolazione di Nizza, torna a sparlar della fuggiasca:

“Ho saputo a Nizza che la principessa Belgiojoso fu fatta passare il Varo da un negoziante di Nizza per contrabbando; e jeri ho letto con gli occhi miei alla Mairie il passaporto svizzero con cui si è introdotta in Francia. In esso, ella è qualificata per Trivulzi Belgiojoso, dama, nata svizzera; ed il passaporto è datato da Lugano sotto il giorno 5 ottobre 1830. Essa è passata sola con la sua cameriera: le si è dato un passaporto provvisorio per Hyères presso Tolone, ed ha detto che riprenderà il suo al ritorno. Il cuoco, il cameriere ed un giovanetto che passa per corriere, sono rimasti in Genova con tutti i di lei effetti. Questi individui hanno fatto l'impossibile presso il Governatore per ottenere un passaporto onde raggiungerla, ma sempre invano.„[15]

Andò un giorno famoso il cavaliere d'Eon de Beaumont, spia francese, travestito da donna, [46] che penetrava dovunque.... Pietro Aretino, Pietro Dolce, Pietro Svegliati, e un altro spione, che si firma Attilio Regolo, non hanno bisogno di travestimenti femminili per introdursi nelle famiglie milanesi, più che altrove facilmente ospitali. Attilio Regolo assume l'aria d'uno smemorato, d'un'oca, come mi scrisse un amico, figlio di chi allora cadde vittima di quel tristo.

La principessa, intanto, è arrivata penosamente in una diligenza da Marsiglia a Tolone, dove scende colla sua cameriera e col suo unico sacco da notte all'albergo della Croce d'Oro. Vi si ferma poche ore, chè si fa condurre in carrozza a un ridente casino di campagna a Kockerane, sulla riva del mare. In quel casino, abitato da famiglie inglesi, la fuggitiva conta di riposarsi dalle malattie, dalle fatiche, dalle emozioni.

Per avere notizie della Belgiojoso, la spia corre alla Croce d'Oro, ne interroga l'albergatrice, poi penetra nella casa d'un italiano, certo Monteggia, figlio del celebre chirurgo lombardo; e così comunica all'Hartig:

“Sono stato a trovare (Place du Lycée N. 3) il Monteggia milanese, professore al liceo di lingua italiana; ma l'ho trovato a letto oppresso da una gagliarda febbre reumatica; ciò che mi ha impedito d'avere una lunga conversazione con esso: ho però parlato a lungo con la di lui moglie, ch'è un'amabile milanese, liberalissima, lattante un piccolo bambino. Ella mi ha raccontato che la principessa Belgiojoso le ha scritto pochi giorni sono da Kockerane che il Governo [47] austriaco ha sequestrato tutt'i suoi averi per forzarla a ritornare in patria, ciò ch'ella non intende di fare, e che prevede che, così durando le cose, sarà presto forzata di venire a Marsiglia a far uso de' suoi talenti per procurarsi il modo di vivere. Ciò che mi ha fatto veramente ridere; e la Monteggia ha convenuto meco che ha una testa tutta romanzesca.„[16]

Era vero anche questo: il Governo austriaco le avea sequestrate le sostanze, che salivano a più milioni. Morendo, il padre suo l'avea lasciata, infatti, unica erede sotto la tutela d'un Trivulzio. L'editto contro la principessa, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e sulle cantonate di Milano, suonava così:

Viene d'ordine superiore ingiunto alla principessa Cristina di Belgiojoso nata Trivulzio di ritornare negli Stati di Sua Maestà Imperiale Reale Apostolica, e di far constare del ritorno, presentandosi a questa Delegazione provinciale nel termine di tre mesi sotto la comminatoria d'essere dichiarata morta civilmente e della confisca di tutt'i beni, i quali si dichiarano intanto posti sotto rigoroso sequestro.

Anche la morte civile!... Il bando recava la firma d'un Torriceni, delegato provinciale, e d'un conte Rovida, segretario, che infiorava a quel tempo le strenne di melliflue strofette.

Ma la principessa avrebbe chiesta la grazia all'imperatore? Ne riparleremo più tardi. Intanto, ella volgea l'animo a Giuseppe Mazzini, al capo cospiratore romantico, che si sentiva inviato da [48] Dio sulla terra per frangerne le catene, per librare le anime nel cielo dell'Ideale. Come splendeva il lampo degli occhi neri del pallido ligure! Come risuonava negli animi la sua parola! Le pagine sue avean l'accento e l'immagine dei biblici profeti: ed egli parea un profeta, un salvatore ai profughi, che nella sua promessa sentivano quasi gli echi di Gesù, quando il Divin Maestro dalla montagna esclamava alle turbe: “Beati quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia, perchè è di loro il regno dei Cieli.„

Giuseppe Mazzini sapeva che senza Dio, senza la fede nell'immortalità dell'anima, senza il convincimento che tutto nell'universo è un continuo, augusto divenire, un popolo non può grandeggiare, non può vivere.

La società segreta della Giovine Italia fu fondata dal Mazzini a Marsiglia appunto nell'anno in cui siamo col nostro racconto, nel 1831, dieci anni dopo i processi dei Carbonari, saliti in catene al martirio e alla gloria d'un nuovo Calvario: lo Spielberg. La Giovine Italia prendeva appunto il posto della Carboneria soffocata dalla violenza; anzi, per qualche tempo, dal Governo austriaco la Giovine Italia vien chiamata Carboneria negli atti d'ufficio, nei discorsi.... Ma la Giovine Italia differiva dalla Carboneria in due punti essenziali, e fa d'uopo notarli: aspirava all'esclusiva unità d'Italia con Roma capitale; laddove la Carboneria non poneva il concetto d'un'unità italiana ben definito; anzi, a Milano, non si voleva dal Confalonieri e da altri carbonari che uno Stato unito al Piemonte; per quanto il Manzoni, [49] fedele, con altri, al concetto unitario dell'infelice re Murat, cantasse allora:

non sorgan barriere

Fra l'Italia e l'Italia, mai più!

La Carboneria aspirava al regime costituzionale: la Giovine Italia aspirava alla repubblica.

Seguendo gli antichi sistemi massonici, la Giovine Italia adottò il metodo (allora necessario in mezzo al dispotismo vegliante) dei segni misteriosi per riconoscersi, e delle misteriose adunanze. Mentre il motto fiammeggiante della Giovine Italia era “Dio e popolo„, varii altri motti venivano adottati dai confratelli della “federazione„ per riconoscersi dovunque. Almeno fino all'ottobre del 1833, le parole di riconoscimento furono popolo, azione, fiducia, alternativamente pronunciate. I gesti erano semplici; e anche la principessa Belgiojoso dovette impararli tutti.

Domanda: Le mani incrocicchiate colle palme rivolte al cuore.

Risposta: Le mani incrocicchiate colle palme verso l'interrogato.

Parlando insieme: Incatenare i diti indici.

Segni pei viaggiatori: Domanda: Presentare il pugno chiuso a chi deve rispondere.

Risposta: Respingere il pugno di chi domanda.

V'erano poi quest'altri segni:

Domanda: Colla mano far atto di tergersi il sudore dalla fronte.

Risposta: Battersi colla mano dritta due volte il cuore.

[50]

E v'erano alte parole:

Domanda: Virtù. — Risposta: Sacrificio.

Oppure:

Domanda: Segreto. — Risposta: Morte.[17]

Il simbolo decorativo della Giovine Italia consisteva in un ramoscello di cipresso; simbolo anche della morte a cui tutti i federati doveano votarsi, per conseguire “la repubblica una e indivisibile, in tutto il territorio italiano, indipendente, uno e libero„, chè tale era il principio fondamentale della federazione. — Il giuramento, dettato dal Mazzini, era solenne; in alcuni punti terribile:

“Io cittadino Italiano

“davanti a Dio, Padre della libertà, davanti agli uomini nati a gioirne, davanti a me e alla mia coscienza specchio delle leggi della natura;

“pei diritti individuali e sociali, che costituiscono l'uomo, per l'amore che mi lega alla mia patria infelice; pei secoli di servaggio che la contristano; pei tormenti sofferti da' miei fratelli Italiani; per le lagrime sparse dalle madri sui figli spenti o captivi; pel fremito dell'anima mia in vedermi solo inerte ed impotente all'azione; pel sangue de' martiri della patria; per la memoria de' padri; per le catene che mi circondano,

“Giuro

“di consacrarmi tutto e sempre con tutte le mie potenze morali e fisiche alla Patria ed alla sua rigenerazione; di [51] consacrare il pensiero, le parole, l'azione, a conquistare indipendenza, unione e libertà all'Italia; di spegnere col braccio ed infamar colla voce i tiranni e la tirannide politica, civile, morale, cittadina o straniera; di combattere in ogni modo le inuguaglianze fra gli uomini d'una stessa terra; di promuovere con ogni mezzo l'educazione degl'italiani alla libertà ed alle virtù che la rendono eterna;

“di cercare per ogni via che gli uomini della Giovine Italia ottengano la direzione delle cose pubbliche;

“di propagare con prudenza operosa la federazione, di cui fo' parte da questo momento;

“di ubbidire agli ordini ed alle istruzioni che mi verranno trasmesse da chi rappresenta con me l'unione de' fratelli;

“di non rivelare per seduzioni o tormenti l'esistenza, le leggi, lo scopo della federazione, e di distruggere potendo il rivelatore.

“Così giuro, rinnegando ogni mio particolare interesse pel vantaggio della mia patria, ed invocando sulla mia testa l'ira di Dio e l'abbominio degli uomini, la infamia e la morte dello spergiuro, se io mancassi al mio giuramento.„[18]

La principessa Belgiojoso pronunciò questo giuramento?... Certo nè ella nè il principe ex consorte Emilio si attennero al secondo paragrafo dello statuto della Giovine Italia, che affermava la repubblica avere per iscopo anche “l'abolizione di ogni aristocrazia e d'ogni privilegio, che non dipendesse dalla legge eterna della capacità e delle azioni„. Cristina Belgiojoso-Trivulzio non si fe' chiamar mai “cittadina„, bensì sempre “principessa„. E, aristocratico nell'anima [52] era il principe Emilio; e il Mazzini lo chiamava spesso con quel titolo, quando con fidi amici si lamentava delle inclinazioni di lui ai piaceri mondani; quando si doleva delle riluttanze, dell'abbandono.[19] Poichè ben presto il Mazzini provò l'amarezza degli abbandoni.

L'agitatore ideò d'irrompere con una spedizione armata nella Savoja, per rovesciarne il principato assoluto e diffondere da quelle balze nel sopito Piemonte la rivoluzione e la repubblica: ciò doveva essere il principio della liberazione di tutt'Italia!... Ma, prima, nel febbrajo del 1831, una spedizione in Savoja fu decisa dal Comitato italiano di Parigi. Ne era l'anima un fierissimo vecchio, quasi cieco (lo rivedremo nel VI capitolo), il profugo Filippo Buonarroti, che dava lezioni di spinetta. Il venerando Lafayette, amico della Belgiojoso, colui ch'aveva contribuito a fondare la repubblica degli Stati Uniti, (allora egli era generalissimo della Guardia Nazionale di tutta la Francia) ajutava l'impresa presso il Governo di Luigi Filippo. Egli ottenne dal Guizot, ministro degl'interni, “fogli di via„ e denaro ai profughi politici, che avessero voluto partecipare alla spedizione. E il Dupont de l'Eure, ministro della Giustizia e dei Culti, diceva al Lafayette: Dites aux Italiens d'agir: La France se levera tout'entière pour les secourir en cas de bésoin. Il presidente del Consiglio, Giacomo Lafitte, banchiere, la cui Casa aveva fornito denaro senza rimborso per l'insurrezione, dichiarò al Lafayette [53] di essere nell'interesse della Francia il circondarsi di Stati liberi: la Francia non avrebbe permesso ad altre potenze di schiacciare i rivoluzionari.[20] La principessa Belgiojoso inviò, col mezzo del modenese Vincenzo Pisani (uno spaccone), sessanta mila franchi[21], parte in denaro, parte in cambiali; e trapunse ella stessa la coccarda per la spedizione[22]; alcuni francesi e signore inglesi elargirono altri soccorsi a Lione, donde la spedizione, guidata dal generale piemontese Regis, fra le acclamazioni del popolo stava per muovere verso la Savoja; quand'ecco il ministero Lafitte d'un tratto è rovesciato e Casimiro Perrier, nuovo presidente, ordina al prefetto di Lione d'impedire, anche con la forza, la partenza degli insorti per la Savoja: e tutto andò in fumo, come piacque al re Luigi Filippo che aveva segrete intese con l'imperatore d'Austria. Quello fu un periodo di aspre contrarietà per Cristina. Era disgustata del marito, e più di parecchi profughi. Aveva affidato dieci mila franchi a certo Pironti, perchè soccorresse gli esuli italiani di Marsiglia; ma il brav'uomo pensò ch'era meglio soccorrere soltanto sè stesso, e li intascò. Per le cambiali rilasciate, la principessa si trovò impigliata negli imbrogli. Il pagamento di quelle cambiali famose suscitò arrabbiate contestazioni con un piemontese, certo Fasanini, che le aveva girate, [54] e che troveremo più tardi. Ma il peggio per la principessa fu il tradimento d'un Doria, che non apparteneva no, alla gloriosa famiglia di Genova, ma ne portava, o forse se n'era appropriato, il nome. Parliamo di costui; ma prima dobbiamo accennare che a Parigi dove Cristina si ritrasse nel 1831, domandò (fingendo umile pentimento) all'Apponyi, ambasciatore d'Austria a Parigi, la restituzione dei beni confiscati. Infatti, era stata costretta a vendere i suoi gioielli per 150,000 franchi. — E ora veniamo al traditore.

[55]

IV. Un traditore.

Un Argenti propone di uccidere il Metternich. — Il marchese Raimondo Doria e il Metternich. — Avventure del Doria. — Sue delazioni. — Il Doria e la Principessa. — Misteriose riunioni a Genova. — Una tragedia a Milano.

Era il marchese Raimondo Doria di San Colombano (così almeno egli si firmava); e per lui, nessuna pietà! Nessuna per lui che, trascinando nel fango un gran nome ligure, volle farsi delatore de' proprii fratelli di fede per isfogare contro gli uni vendette, rancori; e contro gli altri.... Non potea lanciare per loro neanche la scusa d'un'offesa o d'una provocazione; eppure fe' loro, con perfido gusto, tanto male....

Simile a una vipera, il nome del Doria s'intreccia con quello della Belgiojoso, e con quanti altri nomi di cospiratori e di martiri!

Era il 28 giugno del 1831. Un piccolo uomo, che avea l'aria sorridente d'un frequentatore di quinte e galante corteggiatore di ballerine, il nobile cavaliere Carlo Giusto de Torresani Lanzfeld, imperial regio consigliere aulico, direttore generale di polizia a Milano, inviava al presidente del tribunale di Milano una nota di gran rilievo [56] contro due cospiratori lombardi: Giovanni Albinola e Felice Argenti.

L'Argenti (la cui vita avventurosa conosceremo nel seguente capitolo) avea tentato uno sbarco rivoluzionario sulle coste della Toscana; e dal Governo di Firenze era stato arrestato a Pietrasanta e consegnato alle autorità di Milano, felicissime d'aver alfine nelle mani un lombardo ribelle di prima linea, dopo tanti che eran loro sfuggiti. L'Argenti venne rinchiuso nelle carceri di Porta Nuova, dove venne pur custodito Giovanni Albinola: entrambi erano giovani, entrambi eran nativi di Viggiù presso Varese.

Il Torresani diceva, in quella nota, d'aver fatto rapporto sui due arrestati al conte Sedlnitzky, presidente del Supremo dicastero aulico di polizia e di censura a Vienna; il quale s'affrettò a comunicare il rapporto al cancelliere di Stato e di Corte, principe di Metternich.

E il Metternich affidò allora al conte Sedlnitzky una lettera segreta pervenutagli da Livorno nel dicembre dell'anno innanzi, firmata: Marchese di San Colombano. Questa lettera, stesa in scorretto italiano, con rozza scrittura, da quel marchese, racconta che, in una “Vendita di carbonari„ tenuta segretamente (come il consueto) nella metà d'agosto di quell'anno stesso a Genova, l'Argenti si era proposto di trucidare il principe di Metternich. La lettera soggiunge che la proposta non era stata accettata dall'assemblea dei cospiratori perchè egli, marchese di San Colombano, vi si era opposto.

La lettera comincia così:

[57]

“Felice Argenti, console generale del Brasile in Livorno, si offrì di troncare i giorni dell'Altezza Vostra, se ciò gli veniva permesso. I carbonari sono armati d'un fucile, d'uno stilo e di due mazzi di cartuccie, e devono avere con sè 16 franchi. I carbonari devono essere pronti ad agire al primo segnale dei loro superiori, agli ordini dei quali sono responsabili colla propria vita.„[23]

Questo marchese di San Colombano o Raimondo Doria, nella Carboneria aveva voluto assumere il nome simbolico di Morte; ed era stato promosso fino al sesto grado di dignitario nella Carboneria e di “gran maestro„ per tutta la Spagna.

Egli, infatti, conosceva la Spagna per avervi dimorato. Sua madre era una spagnuola. Anna Saavedre: suo padre (egli faceva credere) era uno Stefano Doria di Genova; sua moglie, dalla quale era separato, viveva colla nobile famiglia paterna a Caselle, presso Torino. Contava trentott'anni. Disgustato dei Carbonari, ne fu il Giuda.

Benchè nato a Malaga, il Doria abitava a Genova, o dove piaceva meglio al Governo Piemontese, al cui servizio militava come capitano di cavalleria. Una volta, subì un processo a Madrid “per calunniosi sospetti d'alto tradimento fondati sulle mie relazioni col ministro della guerra [58] Cruz (diceva egli) e l'esito della mia procedura si fu ch'egli perdette il portafogli di quel ministero, ed io venni esiliato dalla Spagna.„

Ma anche a Genova i tribunali gli erano saltati addosso. Il marchese avea rapita una donna; era perciò stato condannato a due anni di carcere, pena che per grazia reale gli fu mutata in due mesi d'esilio dagli Stati Sardi.


Al Torresani fu trasmessa la lettera dal Doria scritta al Metternich; ed egli, allora, deve avere esclamato: “Ecco, questo è il nostro uomo!„ Fatto sta che, col mezzo d'un atto dell'imperatore d'Austria, lo fece venire a Milano.

“La mia venuta qui in Milano (raccontava il Doria in un interrogatorio davanti al tribunale di Milano) fu motivata dalla comunicazione d'una risoluzione sovrana di Sua Maestà l'imperatore d'Austria. Sono stato scortato da due carabinieri sino al confine austro-sardo; e di là giunsi liberamente a Milano coll'intenzione di far conoscere ch'io sono un uomo d'onore e di cooperare per quanto sta in me a svelare le perfide trame che minacciano tutt'i Governi legittimi.„ Con decreto dell'imperatore, il Doria “veniva assicurato dell'impunità„. Nello stesso tempo, era esentato dal confronto colle persone che avrebbe denunciato al tribunale.

Da allora, in tutti gli atti numerosissimi della polizia e dei tribunali, il Doria apparisce coll'inseparabile predicato d'impune: l'impune Doria: il suo stigma.

Arrivando a Milano, quel tristo si cambia [59] nome. Non è Doria che pei tribunali e per la polizia: per tutti gli altri, è Stefano De Gregorio. Va ad abitare in una casa, senza portinajo, sulla Corsia del Giardino, oggi via Alessandro Manzoni, in un piccolo appartamento dove penetra solo una servente trentenne, certa Maria De Bernardi, che verrà poi pugnalata. Il Doria le affida un bambino avuto da un'amante. Il povero figliuolo è malaticcio; eppure quel padre crudele lo fa dormire sulle sedie.

Quasi ogni mattina, alle nove, il Doria esce solo, sempre solo, e si reca nella vicina Casa di correzione a Porta Nuova; e là, dinanzi al consigliere d'appello, Paride Zajotti, letterato e inquisitore astutissimo di tanti nobili patrioti, e alla presenza degli assessori Pecchio, Càrcano e dell'attuaro Grabmayer, depone atroci denunce, che vengono diligentemente raccolte dall'attuaro in diffusi processi verbali; e durano dalle dieci della mattina alle quattro pomeridiane quelle sedute, quelle infami denuncie! Con lo scopo di evitare pericolose pubblicità, la polizia ha scelto appunto quel luogo: là, infatti, il consesso giudiziario è solito di trasferirsi per interrogare i detenuti di quelle carceri; così non può dare nell'occhio il convegno segreto col Doria.

Il Doria si esprime a stento, in un italiano misto di frasi e di parole spagnuole; e continua, continua imperterrito per giorni interi, per settimane, per mesi, a svelare i movimenti dei liberali di Spagna e dei liberali d'Italia, che chiama sempre carbonari anche quando sono federati [60] mazziniani della Giovine Italia. Racconta che un Riva, massone, avea rivelato al Governo di Madrid la tramata congiura d'un'insurrezione, e che, essendo stato dannato a morte col pugnale da' confratelli traditi, aveva anticipata la propria fine, impiccandosi a' piedi d'una croce, dopo d'avere scritta la storia dei proprii infortunii. Il Doria denuncia la spagnuola Dolores Palafox, contessa di Villamonte, dama d'onore della Corte di Madrid, congiurata, anzi la prima delle giardiniere (Carbonare) della “vendita di Madrid„. Il Doria non risparmia i supposti proprii consanguinei, e tradisce e denuncia il marchese Montaldo Doria di Genova: lo qualifica “maestro in Carboneria, generoso verso di essa, come gli ebbero a confidare lo stesso marchese e gli altri carbonari„. Denuncia anche un Filippo Doria, al quale Giuseppe Mazzini scriveva (col finto nome di Strozzi) queste precise parole in un biglietto: “Abbiate fede di fratello in chi vi presenta questa linea.„ E chi gliela presentava era il suo infame delatore, egli, Raimondo Doria! E costui denuncia anche un Antonio Doria di Genova, librajo, designandolo “come il più pericoloso, perchè il più abile.„ E denuncia con cento altri un ammirabile patrizio milanese, il marchese Camillo d'Adda Salvaterra; il quale viene preso e arrestato a Napoli dal poliziotto Bolza, degno accolito del Torresani. Condotto a Milano e rinchiuso nelle carceri di Porta Nuova, Camillo d'Adda vien tormentato da interminabili astuti interrogatorii; ma egli, con abilità meravigliosa, con eroica costanza, sa eludere le mire [61] degl'inquisitori, mai scoprendo gli altri, mai lasciandosi sfuggire la menoma rivelazione, mai debole fra le reti capziose, fra le tempeste d'innumerevoli domande, che, colle risposte sue, empiono grossi fascicoli e buste degli archivii segreti. Giusta la procedura austriaca, i tribunali non condannavano mai, se i rei politici non avessero confessato; ma gl'indizii di reità eran tanti per quel patriota, cuor di bronzo, eroe del silenzio! Onde se lo tolsero una buona volta dagli occhi e lo bandirono a Linz.

Il marchese Doria denuncia il marchese Francesco Maria Passano di Genova, gran mastro di Carboneria; ed ecco come narra il suo primo incontro con lui presso il parroco di San Francesco d'Alvaro vicino a Genova: “Furono portati dei vini e del caffè, e, mentre questi rinfreschi giravano, io vidi che il Passano (ch'io non conosceva se non di riputazione) prese un bicchiere e, tirandosi due passi indietro, mi fece i soliti segnali carbonici.„

Denuncia il marchese Damaso Pareto, il giudice istruttore Daccorsi, l'avvocato Elia Benza, l'ufficiale d'artiglieria piemontese Luigi Boccardi, e il commediografo, intendente di finanza, Alberto Nota. Denuncia un marchese Caracciolo di Napoli, che, a quel tempo, dimorava a Genova, un segretario governativo, Pelloux, il barone Carlo Poerio. E quanti altri!

Anche per le federazioni segrete, occorrono denari; e il Doria racconta di certi fondi impiegati a Parigi, per cura del fremebondo, popolare poeta delle Fantasie: Giovanni Berchet.

[62]

Non ostante il suo indomito amore per la poesia, il Berchet era versato assai bene nelle cose commerciali e per l'educazione avuta a Milano dal padre e perchè, appena esule a Londra, s'era impratichito nella casa di commercio del milanese Ambrogio Ubicini. Ricorrevano quindi a lui fiduciosi. Il Berchet possedeva inoltre l'altro senso (così raro) dell'uomo di Stato. Lo notò giustamente Giuseppe Massari, che, anch'esso profugo, conobbe il Berchet a Parigi. Ne' Ricordi biografici del generale Alfonso La Marmora, il Massari scrive: “Il poeta nazionale Giovanni Berchet alla vivacità dell'immaginazione congiungeva uno squisito senso politico, che le amarezze dell'esilio e la lunga esperienza delle cose umane rinforzarono ed acuirono. Il suo parere era tenuto in gran pregio dal D'Azeglio e dai principali uomini politici in Piemonte.„[24] Nato a Milano nel 1783, vigoreggiava a quel tempo nel meglio della virilità. Quei fondi vennero impiegati a Parigi sotto il nome del Berchet, ma appartenevano tutti a un altro milanese, a un altro esule, a un altro cospiratore: al Marliani. Questo Marco Aurelio Marliani era un giovane signore, entusiasta ammiratore della Belgiojoso, artista e ricco; ricco quanto prodigo; onde il Doria osservava come gli esuli a Parigi erano costretti a ricorrere al serio nome del Berchet, per evitare che il Marliani profondesse i denari secondo il suo costume. Il Marliani nutriva viva passione per la musica. Compose [63] un'opera, Ildegonda, ispirata dalla patetica novella del Grossi, su libretto del patriota modenese Pietro Giannone, poeta dell'Esule, poeta dei Carbonari, amico anch'esso della Belgiojoso. Colle più facili speranze, ei fece rappresentare nel 1837 la sua Ildegonda, prima nel Teatro Italiano di Parigi, poi alla Scala di Milano colla De Giuli-Borsi e coll'Albani, interpreti eccellenti; ma l'opera non piacque, e cadde per sempre. Non avea sortito fortuna più lieta un'altra opera sua, Il Bravo, che il tenore Duprez, il Ronconi e la Persiani aveano cantato a Napoli nel '36. Il Marliani rimase a Parigi fino al '49, quando il suo sentimento patriottico lo trascinò a Bologna, e, nell'8 maggio di quell'anno, proprio a Bologna, si fe' uccidere.... Magnifico tipo di romantico, fra i mille somiglianti che popolavano le terre d'Italia, le terre d'esilio!... Era l'amante della celebre cantatrice Giulia Grisi.

Oltre il parroco, presso il quale Raimondo Doria s'incontrò col marchese Passano, altri sacerdoti facevan parte di sètte liberali. Il sacerdote poeta Tommaso Bianchi, giovane nativo di Torno sul lago di Como, stretto fra le spire degl'interrogatorii del Bolza, nel castello di Milano, fu côlto da delirio e morì d'improvviso in carcere; forse suicida.... Il Doria denunciò che pure il vescovo d'Oporto apparteneva alle sètte liberali; così il nipote di lui, Meschita, allora ministro della polizia presso il maresciallo Soult, duca di Dalmazia. Un poliziotto cospiratore per la libertà universale! Qual prodigio!

Le denuncie dell'impune Doria (il quale poteva [64] raccontare ciò che voleva dal momento che gli erano risparmiati i confronti cogli accusati) mettevano in moto molte penne d'impiegati, molte gambe di gendarmi; e non solo nel Regno Lombardo-Veneto; bensì anche negli altri Stati concordi coll'Austria nella caccia accanita dei liberali; stati e statarelli che alla grande vigile alleata portavano riconoscenza per gli utili avvertimenti e per le denuncie riguardo ai proprii sudditi ribelli; e la fonte principale delle denuncie e degli avvertimenti era sempre quella: il Doria.

Il Doria denunciò anche la principessa Belgiojoso.


Per due intere giornate, il miserabile parlò della principessa Belgiojoso dinanzi al consesso giudiziario di Paride Zajotti e compagni. Qui, riassumo il suo lungo racconto, ricordando ancora ch'egli, nella sua rozzezza, spesso confonde la Giovine Italia colla vecchia Carboneria.

Il Doria conobbe la principessa nel focolare dei ribelli: a Genova. Il marchese Passano di Genova, gran mastro della Carboneria, gli disse che la giovane dama lombarda era una distinta giardiniera, e che, se egli avesse bramato di conoscerla, andasse una sera al passeggio all'Acquasola.

Le giardiniere erano divise in due gradi speciali: apprendenti e maestre. La setta si serviva delle giardiniere “per sedurre (parole del delatore) impiegati e personaggi„. Usavano gli stessi toccamenti dei cospiratori; le stesse parole e segnali per riconoscersi. Costanza e Perseveranza [65] eran le parole delle giardiniere di primo grado: Onore, Virtù, Probità eran le parole del secondo, che la principessa Belgiojoso doveva pronunciare sovente: ell'era giardiniera maestra.

Le giardiniere eseguivano fra loro e coi federati un segnale per riconoscersi: passavano la mano destra dalla spalla sinistra alla destra, descrivendo un semicerchio: poi portavano la mano stessa al cuore, e vi battevano tre volte.

Una sera d'estate, al passeggio dell'Acquasola, la bellissima principessa camminava a braccio del marchese Passano, che le presentò subito il Doria; e da allora il Doria e la principessa divennero amici. Ella credeva d'aver trovato un fratello di fede per la redenzione d'Italia....

Era appunto all'Acquasola il luogo di riunione dei cospiratori. Finito il passeggio della sera, essi si recavano là, in fondo, divisi in piccoli gruppi per non destare sospetti. Colui che dovea fare una comunicazione stringeva in pugno un bastone collo stocco, e, passando dinanzi a tutt'i confratelli, faceva loro, col bastone stesso, un segno d'intesa. Quindi saliva su un'altura dell'Acquasola; e, a poco a poco, i piccoli gruppi vi salivano anch'essi. Egli, allora, andava incontro all'uno e all'altro, comunicando con poche parole quanto dovea dire. Oggi era l'arrivo di qualche persona sospetta; domani, era l'avvertimento di qualche pericolo; e via via.

Nei colloquii che la principessa Belgiojoso teneva col marchese Doria, gli disse di conoscere Giuseppe Mazzini e di conoscere Bianca Milesi sua concittadina. L'ardente Milesi, che abbiamo [66] veduta in uno dei precedenti capitoli, ispiratrice, amica della Belgiojoso, s'era trasferita, difatti, a Genova, dove avea sposato il medico Carlo Mojon, anch'esso acceso di patriotici ideali, anch'esso cospiratore. La principessa abitava con loro; e sappiamo come, e quando, ella sia fuggita da quella casa per riparare a Marsiglia e ad Hyères.

Il marchese Passano e Giuseppe Mazzini additarono al Doria la Milesi come maestra giardiniera. Fidandosi del Doria, la principessa non gli nascose che per la causa italiana ella avea sostenuto pecuniarii sacrificii, aggiungendo che “anche sotto questo rapporto, lo spirito dei buoni e cari cugini milanesi era eccellente„ concorrendo volentieri con forti somme alla causa comune. La principessa aggiunse (sempre secondo quanto narrava il Doria) che nella Lombardia la rete della cospirazione si estendeva sempre più e che molte in Lombardia eran le giardiniere e molti i giardini formali. Nove giardiniere costituivano un giardino formale, e tutt'i giardini formali costituivano l'avanguardia dell'occulto esercito femminile.

I lettori sanno come il Doria rivelasse, con lettera, al principe di Metternich che Felice Argenti volea trucidare Sua Altezza. Ebbene, il Doria nelle sue delazioni al consesso giudiziario di Milano, presieduto da Paride Zajotti, tendeva a far sospettare che la principessa fosse complice dell'Argenti, narrando che gli pareva avessero fatto un viaggio insieme da Genova a Livorno! E narrò anche questo:

[67]

“La principessa fu varie volte a pranzo e a colazione con me, in compagnia del Passano; e ciò nella mia stessa casa. Così, ella, partendo da Genova, affine di conservare una reciproca grata memoria, diede a me un cordone di margheritine guernite in oro e una posata d'argento dorata; ed io le diedi, in un medaglione d'oro, il mio ritratto.„

E ancora, alludendo a un ufficiale superiore austriaco, il marchese Doria ebbe il coraggio di aggiungere quest'altro racconto:

“Nei lunghi famigliari rapporti colla principessa Belgiojoso, ho potuto riconoscere che la medesima era giardiniera maestra e aveva in Milano molte amiche giardiniere anch'esse, e tutte esaltate come lei per la causa della libertà italiana. La Belgiojoso parlava bene anche di molti suoi amici egualmente settarii, fra i quali lasciava scorgere che alcuno avvicinasse la persona di Sua Altezza imperiale l'Arciduca-Vicerè. Sebbene la salute di lei fosse molto gracile (giacchè essa mi diceva d'esser soggetta a parecchi incomodi) devo giudicarla capace d'intraprendere qualunque ardita azione, perchè i suoi sentimenti sono risolutissimi.„

Quell'uomo dicea d'avere scambiati doni d'amicizia con una signora, e ne tradiva così la buona fede!... E quali menzogne racconta il basso delatore! Dice che la principessa andava a pranzo da lui col marchese Passano, e, in un altro punto, narra ch'ella andava da lui “tutta sola„! Ma nè la principessa, nè altra donna, poteva metter piede in quella casa, perchè il Doria, allora, aveva [68] seco un'amante, la quale non tollerava rivali nè illustri nè oscure. Quell'amante terribile arrivò al punto di versargli per più giorni un veleno nelle bevande, sperando ch'egli morisse.

Un'altra menzogna (smascherata poi dallo stesso Torresani) era quella dell'ufficiale austriaco, amico della principessa, e settario.

L'idea che nell'esercito vi fosse un settario e che questo avvicinasse il vicerè Ranieri, fece prender fuoco alla polizia. Le indagini non mancarono (immaginarsi!); ma condussero a smentire il Doria. Nessun ufficiale austriaco poteva essere amico della Belgiojoso; nessun ufficiale cospirava; meno poi quello che, di tratto in tratto, avvicinava il vicerè, e ch'era un povero invalido pensionato, il colonnello degli ulani Woyma.


Il tradimento e la scelleraggine del sedicente Raimondo Doria di San Colombano furono noti ben presto ai cospiratori di Genova; i quali decisero di punirlo colla morte. Nella primavera del 1833, pochi mesi dopo le denuncie contro la Belgiojoso, uno sconosciuto, di bell'aspetto, cominciò ad avvicinare Maria De Bernardi, servente del Doria, o del signor Stefano De Gregorio, come il ribaldo si faceva chiamare a Milano. Una mattina, passando essa per lo stradone di Sant'Angelo col povero bambino del Doria al collo, incontrò quel signore e rispose ai discorsi ch'egli cominciò a tenerle con modi gentili. E, per più mattine, l'incognito (che si limitò a dichiarare chiamarsi Luigi) aspettò sulla via la domestica, offrendole la propria amicizia.... Una [69] volta, nella tranquilla via Borgonuovo, pochi passi discosto dalla casa della bella e capricciosa contessa Giulia Samoyloff, il signor Luigi e la domestica, che andavano amichevolmente insieme, incontrarono un uomo di signorile apparenza; e il signor Luigi lo fermò subito dicendogli: “Questa è quella donna, che tiene in custodia il ragazzo del signor Stefano De Gregorio!„ Il sopraggiunto nulla disse; accarezzò il bambino, e se n'andò.

Alle cinque della mattina del 1º maggio di quell'anno 1833, il signor Luigi e la Maria si trovano soli, solissimi, nel più intimo colloquio.... fuori di Milano, alla Cascina dei Pomi; quand'ecco l'uomo afferra furente per il collo la disgraziata, e le intìma, se vuole aver salva la vita, d'avvelenare il De Gregorio, con una boccetta che leva di tasca e le porge. La donna rimane allibita; ma recisamente rifiuta di macchiarsi d'un delitto. L'altro l'atterra, colpendola forte coi pugni sullo stomaco e al capo; ma ella rifiuta ancora, rifiuta sempre, risolutissima. E il sicario le mena due coltellate al collo, e fugge.

La De Bernardi con sforzi sovrumani si leva dal suolo, e, fermando con un fazzoletto il sangue che le sgorga dalla gola, si trascina penosamente in città e batte alla porta d'una propria sorella maritata al fabbro ferrajo in via San Spirito, poco lungi, adunque, dalla casa nella quale il Doria alloggiava sulla Corsia del Giardino. Il primo pensiero della sventurata, prima ancora di porsi a letto, è di scrivere al suo padrone. Ecco la sua lettera con tutti i suoi errori:

[70]

All sig. Stefano,

“Scrivo a lei in questo momento che mi è permesso già che sonno stata mortalmente asasinata per salvare a lei la vita il resto solo comunicherò a viva voce però credo bene a prevenirlo si guarda bene già che lo vogliono a se sinare, non si sgomenti e venga da me il più presto possibile.

“di lei sua fedele serva
Maria De-Bernardi.

In quella stessa sera, uno dei capi più volpini della polizia, il noto Bolza, va a interrogare la servente ferita, la quale geme sul letto della sorella, ed è in preda a delirio, a vomiti, sputa sangue. Al chiarore d'un piccolo lume, il Bolza scrive un processo verbale, strappando a mala pena qualche parola dall'inferma. Quelle pagine, vergate, sulla ruvida carta dei protocolli, dalla scrittura pesante, nera dell'accanito poliziotto, rivelano tutta la scena tetra, miseranda del momento: par di sentire le risposte trarotte della donna ferita, quasi le sue parole gorgoglianti nel sangue, là in quella squallida camera di poveri operaj semibuia. La preoccupazione della servente, che per salvare il proprio padrone giacea vittima per lui, — la preoccupazione che la tormentava più delle ferite era quella d'aver mancato di fede.... come dirlo?... di fede amorosa verso il padrone. Era l'idea del tradimento d'amore commesso verso di lui che la facea smaniare; non la coscienza del tradimento del marito, povero operajo della Zecca, il quale, forse, in quel momento, chi sa? coniava le monete destinate al Doria. Tale si manifesta, qualche volta, il cuore della donna nelle [71] modeste classi sociali, come nelle alte. Più tardi, la donna ferita viene interrogata da Paride Zajotti, per istrapparle altri dati affine di costruire un edificio d'accusa; ma quella disgraziata, sempre più affranta, non può che ripetere le dichiarazioni già fatte prima al Bolza. Il medico giudiziario dottor Caimi, visitandola cinque giorni dopo, trova che le due ferite purulente ai lati della laringe non sono pericolose di morte; pericoloso gli sembra, invece, un colpo preso sullo stomaco; e per salvare l'infelice, le cava sangue!...

Tale il fatto. Mai si seppe chi fosse il feritore e il suo misterioso compagno di via Borgonuovo; e ignoriamo se la povera servente sia vissuta dopo la tragedia; ma abbiamo motivo di credere che ne sia morta. Infatti, quando la polizia cadde nel sospetto che il feritore della De Bernardi fosse un giovane straniero, il quale viveva meschinamente a Milano dando lezioni d'inglese, certo Gregorio Codeville, denunciato qual carbonaro dal Doria, non fu possibile che il Codeville venisse fatto vedere alla domestica ferita: della disgraziata non si fa più parola!... E il Tribunal criminale, con sua nota del 22 maggio 1833, scrive alla polizia che lasci stare il Codeville, nulla risultando di criminoso contro di lui. Neppure i due arrestati Felice Argenti e Giovanni Albinola, nelle loro aperte confessioni davanti al tribunale, accusarono il maestro d'inglese. Bensì l'Argenti narrò che Raimondo Doria voleva uccidere il proprio fratello servendosi del pugnale dell'Albinola, per punire, diceva il Doria, in quel fratello uno spergiuro della Carboneria; [72] in realtà, diceva l'Argenti, per impadronirsi degli averi di lui.

Ma come finì quello scellerato?... — Chi può saperne la fine?...

Cesare Correnti, che, liberata la Lombardia, prese qual proprio intimo segretario un Sandrini, già applicato alla cancelleria segreta del Governo austriaco prima delle Cinque Giornate, e poscia convertito al liberalismo, tentò pur egli ricerche sulla fine di quel tristo; ma invano. Non la conosceva neppure il Sandrini, il quale avea copiato, un tempo, con la sua bella scrittura, più di qualche nota sul caro marchese Doria, e che essendo “dentro alle segrete cose„, molto, troppo sapeva di cospiratori e di spie, tornando utile anche in questo al Correnti per la valutazione di certi uomini vecchi inverniciatisi a nuovo....

In alcuni Ricordi di Giuseppe Mazzini, affidati alla Biblioteca Nazionale di Firenze, e che non recano la scrittura dell'agitatore (scrittura simile un po' all'ebraica) nè lo stile suo corrusco, si legge che il Mazzini fu ascritto all'ordine della Carboneria da Raimondo Doria; ma sappiamo che il Mazzini non seguì a lungo la Carboneria, bensì, spirito originale e indipendente, le eresse un contro-altare: appunto la Giovine Italia. Non conosciamo quali relazioni dirette passarono poi fra il Mazzini e il Doria: conosciamo bensì il processo che, in seguito alle propalazioni del Doria, i tribunali di Milano ordirono contro la principessa Belgiojoso. — Vediamolo tosto.

[73]

V. Processi contro i Belgiojoso. — Cospiratrici belle.

Avventure di Felice Argenti. — Processo contro Emilio e Antonio Belgiojoso. — L'imperatore d'Austria interviene. — Processo contro la Principessa. — Ordini dell'imperatore a favore di lei. — Processo contro Teresa Kramer-Berra. — Fulvia Verri. — Anna Tinelli e Paride Zajotti. — Tornano in ballo le giardiniere! — Condanne di morte. — Lettera della Principessa al marito. — Affetti. — Nuovo esilio.

Appena il malvagio Raimondo Doria — l'impune Doria — denunciò al consesso di Paride Zajotti e compagni, che gli sembrava d'aver veduto la principessa Belgiojoso insieme coll'Argenti sul piroscafo che da Genova andava a Livorno, venne chiamato dalle carceri l'Argenti perchè dinanzi ai giudici deponesse sul conto della cospiratrice. Il Doria venne, per il momento, allontanato: e mai il nome del tristo fu pronunciato dinanzi all'Argenti; mai dinanzi agli altri accusati e traditi: e mai, forse, in tutta la sua vita, la principessa seppe del tradimento infame di colui al quale fidente avea steso la mano d'amica nelle vespertine riunioni misteriose dell'Acquasola a Genova.

[74]

Felice Argenti, baldo de' suoi ventinove anni, parea sfidare il mondo; e l'avea mezzo girato.... Nativo di Viggiù, borgo del ridente Varesotto, primeggiò ben presto fra i giovani ribelli all'Austria. Si fe' carbonaro nella Vendita di Milano, e, nel 1821, fuggì in Piemonte. Combattè in Spagna, per la Costituzione, col grado d'ufficiale; ma un esercito francese sotto gli ordini del duca d'Angoulême sbaragliò lui e i suoi fratelli d'armi e d'ideali. L'Argenti passò nel Messico, entrò in quella Carboneria, e contribuì a buttar giù dal trono l'imperatore Iturbide, un avventuriero basco, che s'era incoronato da sè, come Napoleone, facendosi chiamare Agostino I: rifugiatosi poi in Italia e a Londra, S. M. Agostino I, volendo riconquistar la corona, tornò nel Messico: ma, al suo arrivo, fu arrestato e fucilato, come, più tardi, l'infelice Massimiliano d'Austria. Stabilita nel Messico la repubblica, l'Argenti tornò ai colli nativi e si gettò nella cospirazione della Giovine Italia. A Varese, s'infiammò d'una terribil passione amorosa per una donna comune, che a lui pareva una dea. Il marito della dea, per isviare dalla propria testa il serto di Menelao, ricorse.... alle bajonette dei gendarmi. L'autorità intimò allora all'Argenti di lasciare per sempre Varese; ma l'Argenti non volle saperne; eluse la guardia dei gendarmi, che vegliavano intorno al minacciato ostello, saltò da una finestra, e, di notte, fuggì pei campi, pei clivi, ch'egli, grande cacciatore al cospetto di Nembrod, conosceva benissimo. I gendarmi lo inseguirono; egli spiccò un altro salto (quella volta da un muro) e si spezzò una [75] gamba; ma potè ancora sfuggire alle ricerche, trascinandosi in un campo di grano, fra le cui alte spiche, nelle tenebre notturne, si nascose.

Come da caccia inutile e molesta

Tornano mesti ed anelanti i cani,

tornarono le guardie.... Spuntò l'alba. L'Argenti stette nascosto tutto il giorno, spasimando, fra il grano. Alla sera, un erculeo contadino scoperse il fuggiasco accoccolato; se lo caricò sulle spalle, e lo trasportò oltre il confine, ad Artò, dove gli aggiustarono la gamba. Grazie a Dio, l'Argenti potea correre ancora. E corse di nuovo il mondo. “Per tre volte (egli diceva) ho dissipato le mie fortune; e tre volte mi sono rialzato nell'agiatezza.„ Cercò, e trovò lavoro a Trieste, a Genova, a Livorno.... preferendo sempre le città marittime, per rifugiarsi, se inseguito, nelle navi inglesi o americane, che godevano diritto d'asilo. Fu anche a Rio Janeiro, dove fece di tutto: persino il tosacani. Scoppiata, nel luglio del 1830, la rivoluzione di Parigi, vi volò come la farfalla alla fiamma, e con undici compagni, ideò uno sbarco audace da Marsiglia in Italia per sollevarla tutta.... A capo della banda si pose un comasco, che poi si fece frate: Rocco Lironi. I dodici apostoli di libertà sbarcarono a Pietrasanta in Toscana; ma furono arrestati. L'Argenti, dal Governo toscano venne consegnato all'austriaco; ed eccolo qui ora, nelle carceri di Milano, e davanti a Paride Zajotti.

Bisogna sapere che l'Argenti si facea passare per console del Brasile a Livorno; anzi, alcuni [76] (come il Doria) lo ritenevan veramente per tale; ma il Governo toscano mai volle riconoscerlo. L'Argenti supponeva che il diniego provenisse per volere del Metternich; da qui, più acerbo l'odio suo contro il Metternich; da qui la sua proposta di ucciderlo. Ma non il Doria, come questi si vantava col Metternich e coi giudici di Milano, non il Doria, bensì il marchese Passano s'era opposto alla truce proposta dell'Argenti. Quell'assemblea di congiurati era stata tenuta di notte, a bordo d'una nave americana, nel porto di Genova. Come dovea sembrar strana quella riunione sulle acque, con quei cospiratori, che parlavano a voce sommessa nella stiva!... E non sospettavano un Giuda fra loro!...[25]


Interrogato da Paride Zajotti (il trentino inquisitore successo al Salvotti, concittadino suo, innalzato nel frattempo a più alta dignità), l'Argenti ammette d'aver veduto bensì la principessa Belgiojoso sul piroscafo da Genova a Livorno; ma afferma di non averla mai avvicinata a terra. La principessa, infatti, avea compiuto qualche rapido viaggio con iscopo di propaganda patriotica, e per stringere le file d'una decisiva azione comune fra i patrioti; ma questi si mostravano troppo divisi da vedute politiche differenti e da passioni....

[77]

Udito l'Argenti, Paride Zajotti lo fa ricondurre nel suo carcere e chiama un altro giovane imprigionato a Porta Nuova: Giovanni Albinola, pure nativo di Viggiù e possidente. L'Albinola dice l'Argenti suo “seduttore„. Racconta, atterrito, che solo pei consigli dell'Argenti si lasciò affigliare alla Giovine Italia da Giuseppe Mazzini a Genova. Racconta del proprio giuramento prestato alla setta, in casa di Giuseppe Elia Benza; ma neppur egli depone una sillaba contro la principessa Belgiojoso. Povero giovane, trascinato in un labirinto di pericoli, pei quali non era nato, pei quali non avea la forza d'animo di Cristina Belgiojoso.


Il processo contro Cristina Belgiojoso andò di pari passo con quello contro suo marito e contro il cognato Antonio.

Fin dal maggio del 1831, la polizia di Milano dipingeva al tribunale Emilio ed Antonio Belgiojoso “di principii liberali e in famigliarità con persone note per la loro esaltazione; fra altre, con Luigi Meroni e Timoleone Brambilla.„[26]

Su questo Luigi Meroni, di nobile famiglia, cadeva il sospetto d'alto tradimento. Nell'università di Pavia, il Meroni s'era segnalato pe' suoi impeti rivoluzionarii. L'impune Doria, nel suo ventunesimo esame dell'ottobre 1832, depone d'averlo udito nominare a Genova qual cospiratore. La polizia lo dipinge con nerissimi colori: “di cuore depravato, fuori dell'ordinario ardito [78] e facinoroso; incorreggibile nei principii di vera avversione all'ordine legittimo.„ La polizia lo accusava persino d'omicidio![27] Timoleone Brambilla era giovane anch'esso, ricco, di bell'aspetto. A Milano, si radunavano insieme con altri liberali nel Caffè del Fumo sulla Corsia de' Servi (ora corso Vittorio Emanuele); e il Torresani denunciava quel caffè al tribunale perchè fosse chiuso per sempre.

Il Doria nulla depose contro Emilio Belgiojoso. Non l'avea mai veduto. Infatti il principe, allontanatosi da Giuseppe Mazzini, era passato a Parigi a cospirare con altri esuli colà e.... a divertirsi. Qualche spia diceva d'averlo incontrato ai funerali del generale Lamarque con una bandiera tricolore in pugno; ma i funerali del popolarissimo generale napoleonico Massimiliano Lamarque, morto di colera a Parigi, riuscirono così terribilmente affollati, così vorticosi e con disordini sì gravi da durar ben fatica a ravvisare in quel pandemonio il giovane vessillifero! Sta il fatto che altre spie deposero che Emilio Belgiojoso non era più un cospiratore temibile! “E intanto il principe Belgiojoso si diverte a Parigi!„ scriveva il Mazzini.[28]

D'un tratto, nel 24 luglio del 1833, il processo contro il principe Belgiojoso viene sospeso.... Perchè mai?... Il Tribunale criminale di Milano decide di sospenderlo aspettando da Roma alcuni atti ufficiali, relativi a un ragioniere cremonese, [79] certo Carlo Alberto Lancetti. Dall'Argenti costui è sospettato come spia.... Sta, invece, il fatto che il Lancetti, arrestato in Romagna quale “pericoloso emissario della Giovine Italia„, ha dovuto ammettere davanti ai giudici pontificii le proprie strette relazioni con Emilio Belgiojoso, soggiungendo che il principe gli avea elargito denaro e altri soccorsi.[29] L'imperatore d'Austria prende nota della sospensione del processo contro Emilio Belgiojoso; e la procedura rimane in tronco per sempre. Così vuole l'imperatore.

Sovrane, segrete influenze poterono sull'animo di Francesco I a beneficio del principe?... Oppure il monarca volea favorire Emilio Belgiojoso, perchè memore dei segnalati servigi resi dai maggiori del giovane principe alla Casa d'Austria, specialmente dal valoroso conte Lodovico Antonio Barbiano di Belgiojoso-Este, guerriero, ambasciatore, vice-governatore dei Paesi Bassi austriaci?... O volea disarmare l'inclito ribelle con un atto di clemenza?...


Si direbbe che agli occhi della polizia il conte Antonio Belgiojoso apparisse più temibile del fratello Emilio. La polizia vedeva in lui l'uomo che avea accompagnato di nascosto un amico, Alfonso Battaglia, oltre il Po, perchè seguisse il generale Zucchi, divenuto capo dei sovvertitori. L'11 dicembre del 1833, il Torresani scrive al Tribunale criminale che Antonio Belgiojoso è sceso dalla Francia a Torino “malato pei disagi del [80] viaggio„. E a Torino il conte, per ordine di quel tribunale, viene arrestato, non ostante le infelici condizioni di salute. La madre, Amalia Canziani, appena apprende la trista notizia, implora la polizia di lasciarla accorrere a Torino per abbracciare il figliuolo ammalato; ma il Torresani le nega il passaporto. Nelle carceri di Torino, il conte Antonio Belgiojoso può, per altro, vedere un fratello, Luigi, dal quale riceve conforti; cosa che al Torresani dà ombra....

Il Torresani rivelava intanto al Tribunal criminale che alte protezioni favorivan tutti i ribelli Belgiojoso:

“Non ignoro che il conte Antonio si loda del liberale trattamento che riceve dal regio Governo sardo, che gli accorda anche colloquii col fratello Luigi ed il permesso di scrivere. Io scrissi già perchè queste pericolose facilitazioni siano troncate; ma non so se si potrà ottenere l'intento, troppo estese, e di riguardo, essendo le relazioni di questa cospicua famiglia. Pendono ora i riscontri diplomatici sulla consegna dell'arrestato; ed a questo riguardo la proposizione che a maggior garanzia sia permesso al nostro Governo d'inviare apposito impiegato sino a Torino per ricevere il prigioniero.„[30]

Ma il conte Antonio ottenne, invece, un passaporto; e l'imperatore d'Austria intervenne anche questa volta. “Con veneratissima sovrana risoluzione„ (come scrive don Antonio Masetti, presidente del tribunale, al Torresani) l'imperatore [81] Francesco manifestò speciale benevolenza verso il conte accusato d'alto tradimento.

Che dovea fare il Tribunal criminale, con tutto il suo don Antonio Masetti, davanti a un'imperiale clemenza così spiegata?... Chinar la testa e registrare, come registrò, ne' suoi protocolli: “Il processo non ebbe maggior sviluppo, non essendosi trovata materia d'ulteriore investigazione.„


Contro la principessa Belgiojoso il processo assumeva maggior consistenza, in seguito alle denuncie del Doria e d'altri spioni. I capi d'accusa erano più gravi. Oltre il resto, le spie riferivano che la principessa aveva incaricato un segretario ed amico, certo Bolognini, di elargire a nome di lei soccorsi ai rifugiati italiani man mano che arrivavano in terra d'esilio. Una somma di diecimila lire con questo scopo ella aveva consegnato anche ad un Pironti (non l'eroico, illibato Michele); e quindi se l'era allegramente appropriate, come abbiamo visto.

Si accusava la principessa di avere a' proprii ordini un emissario ferventissimo, uno studente piemontese, certo Fasanini, esule del 1821, che, per vivere, faceva il commesso viaggiatore di sete a Lione e il commesso viaggiatore.... d'opuscoli incendiarii. Il banchiere Giuseppe Marietti di Milano, chiamato davanti al tribunale, giurò di essere stato in corrispondenza colla Belgiojoso, dopo la sua fuga da Milano, per due cambiali, l'una di 15000 franchi, l'altra di 20000, tutt'e due all'ordine del Fasanini; particolare questo che, nella mente dei giudici, confermava quanto [82] su quel giovane emissario della principessa era stato loro segretamente riferito. Antonio Vismara, già procuratore della Belgiojoso, dichiarò davanti al Tribunale che le spedizioni di denaro fattele all'estero ammontavano a sessantamila lire, oltre le cambiali pagate in Milano ed oltre centoventimila lire pagate per una casa che la principessa aveva comperata in Ginevra.

Nel processo sfilano (cinti d'orrore) i nomi delle dame colle quali la Belgiojoso s'era legata, più o meno, in amicizia perchè a lei sorelle negli ideali di patria o, come la polizia le chiamava, “sospette in linea politica — infette di liberalismo — furenti settarie„.... a scelta! Erano la principessa Pietrasanta-Verri, la contessa Martini-Giovio, Teresa Kramer nata Berra, la Berra madre della Kramer, la contessa Ghirlanda, la contessa Cigalini-Dal Verme, Maddalena Bignami-Marliani, la pittrice Ernesta Bisi e altre stelle e pianeti del firmamento femminile. Nel loro boudoir (il pensatojo delle signore), nei loro tranquilli ritrovi, nelle loro feste, esse alimentavano con piacere la passione delle idee sull'indipendenza d'Italia; e un nuovo elemento, un nuovo raggio di vita entrava nella loro vita. La storia di tanti secoli c'insegna che la donna primeggia nei tempi di decadimenti sociali: la storia dell'indipendenza italiana ci mostra (eccezione fulgente.) che la donna primeggia nell'epoca della risurrezione.

La questione dell'indipendenza affascinava le donne migliori d'Italia, ch'eran poche, in principio, ma valevano per molte coi loro entusiasmi [83] collettivi, colla loro comunione intellettuale, colla loro bellezza. Poichè anche la bellezza fu arma contro i despoti; fu sprone ai cimenti per la libertà. Nella liberazione d'Italia, la bellezza della donna e i baci d'amore entrarono per qualche cosa!... Alta inspiratrice è la bellezza: onde il Leopardi, per le nozze della sorella Paolina (ch'era brutta, poveretta!) cantava:

Ad atti egregi è sprone

Amor, chi ben l'estima; e d'alto affetto

Maestra è la beltà.

Fra le belle patriote lombarde, quattro principalmente emergevano: la Kramer-Berra, la principessa Pietrasanta, Margherita Ruga e Anna Tinelli.


Teresa Kramer-Berra era figlia di quella Carolina Berra nata Frapolli che, nel '21, accoglieva nella propria casa i Carbonari. La figlia accoglieva, invece, i cospiratori della Giovine Italia. Nel '32, ella riceveva l'avvocato Imperatori, Paolo Origo, Francesco Venini e tanti altri che la polizia definiva per “liberali — esaltati — fuorviati„ (anche questa volta, a scelta), occupandosene in un lungo, interminabile carteggio. Ah, quanto scriveva la polizia! Quanto inutile inchiostro![31]

Vi andava anche il nobile Emanuele d'Adda, rapito di quel volto e di quelle grazie. La Kramer-Berra [84] proferiva accenti che incantavano; ma non potè dirne uno che guarisse il cuore di quell'innamorato ch'ebbe triste la fine, poichè si dice tuttora che morisse per la donna adorata.

Insieme col processo della Belgiojoso, il Tribunale ordì processo alla Kramer-Berra. Il 6 dicembre del 1832, ella dovette comparire davanti al Tribunale per iscolparsi. Durante una perquisizione in casa, le era stato sequestrato un biglietto, che, all'udienza, ella riconobbe per suo. Il biglietto, secondo il parere della polizia e del tribunale, si riferiva all'incarico che un ricco, animoso patriota, il marchese Rosales, le avea affidato: di far passare un soccorso a un prigioniero politico incarcerato nella Casa di correzione a Porta Nuova. La Kramer non ebbe condanna; ma da quel momento più stretto si fece intorno a lei il cerchio odioso della vigilanza poliziesca.

Nel 1836, il colera desolava Milano; e Carlo Kramer (ch'era svizzero) domandò alla polizia un passaporto per recarsi colla moglie Teresa nella terra nativa; ma la polizia gli rispose che a lui sì, ma non alla moglie, concedeva il passaporto. Il Torresani giustificava il diniego al governatore conte Hartig con una nota che diceva tutta la verità sulla Kramer:

“È già noto all'Eccellenza Vostra quali principii liberali e quale decisa avversione al Governo austriaco professi la Kramer; com'essa abbia sempre cercato di sedurre la gioventù ad odiare il proprio Governo, ed a fuggire di qui quando infruttuosi rimasero i tentativi d'innovazioni politiche, e come si trovi in istrette relazioni coi [85] liberali, specialmente del Canton Ticino, e con alcuni rifugiati in Svizzera.„[32]

Teresa Kramer-Berra per la causa dell'indipendenza nazionale profuse ricchezze. Dopo il '48, andò a Parigi e vi tenne salotto, al quale accorrevano gli emigrati di tutt'i colori. E tutti fumavano disperatamente, intorno a lei, sigari e pipe; onde la dea del loco rimaneva mezzo asfissiata fra le dense nuvole di quell'incenso democratico. La Kramer-Berra si serbò, sino all'ultimo suo giorno, democratica nei sentimenti; mazziniana. Il Mazzini la chiamava “sorella„. Era benefica coi poveri; d'una beneficenza delicata e silenziosa, profumo del suo cuore gentile.


La ridente musa meneghina di Carlo Porta plaudì alle nozze di donna Fulvia Verri o donna Fulvietta (come la chiamavano) col principe Carlo Pietrasanta. Come mai il principe non doveva amare quella signorina? domanda il Porta:

E come nol doveva vorregh ben

A ona donnin che balla e sonna e canta,

E parla on lenguagg dolz che tocca e incanta,

E che l'è bella com'el ciel seren?

Figlia dell'economista e storico Pietro Verri e della contessa Melzi d'Eril, Fulvia splendeva per la bellezza, per la grazia, per lo spirito. Rimasta vedova di quel principe meridionale Carlo Pietrasanta Reitano, sposò in seconde nozze Giuseppe Jacopetti, valoroso capo-battaglione di Napoleone [86] I, che in battaglia avea avuto infranto un cubito e una coscia trafitta da un colpo di lancia. La Verri, che godeva la stima di un Alessandro Manzoni, di un Giandomenico Romagnosi e di altri sommi, era intima amica di Bianca Milesi, e amica, ma non intima, della Belgiojoso, la quale cooperò con lei, con Antonio Re, con Ferrante Aporti e coll'indefesso poligrafo Defendente Sacchi, nella fondazione degli asili d'infanzia a Milano. I Faraoni osteggiavano quella pietosa istituzione degli asili de' bimbi poveri; la osteggiavano per le opinioni politiche delle persone che vi profondevano tempo, sentimento, denari. Defendente Sacchi non tardò, infatti, a destare sospetti; anch'egli emergeva fra i giovani lombardi nel seguire gl'ideali della Giovine Italia. Ferrante Aporti non contava, invece, fra i cospiratori pericolosi; pio e dotto sacerdote di San Martino dell'Argine nel territorio di Mantova, fu il primo, veramente, che pensasse a quegli asili; e nella Verri e nella Belgiojoso trovò due pronte, possenti cooperatrici, due fate del bene. Fulvia Jacopetti-Verri non teneva salotto come la Kramer-Berra; non scriveva come la Milesi; ma più della Milesi riscuoteva ammirazioni pel suo conversare ammaliante. Nella sua casa, tenuta d'occhio dalla polizia austriaca, riuscì a penetrare una spia: un belga, impiegato governativo. Ma un altro frequentatore, un mantovano, che i conjugi Jacopetti trattavano lealmente da amico e ritenevano incapace d'ogni bassezza, si dava, più del belga, allo spionaggio prezzolato in quell'aurea famiglia frequentata da uomini d'idee [87] moderne. Ah! con qual premura quel disgraziato riferiva al Torresani i dialoghi d'intonazione sovversiva, che udiva in quella casa ospitale di via Monforte! Uno dei dialoghi meriterebbe d'essere riprodotto, perchè presenta al vivo l'interno di quella patriottica famiglia.[33]


Margherita Ruga vinceva tutte le dame lombarde per la sfolgorante beltà. Brillava in un gruppo patriottico e brioso, che deliziava le sere in casa Tealdo. Un amenissimo liberale, il conte Toffetti, dall'incorreggibile dialetto veneziano e dalle inesauribili celie saporite, ammirava estatico il raggio di quella stella, contemplata da molti astronomi rapiti. Anche Emilio Belgiojoso entrò fra gli adoratori del fuoco: e appunto quelle adorazioni per la pallida, bruna Ruga segnarono la prima origine del disaccordo conjugale fra il principe Emilio e la principessa Cristina.


Un inno meriterebbe Anna Tinelli, fortissima nell'anima, soavissima nei modi. La sua parola versava dolcezze nelle anime addolorate d'amiche e d'amici; incuorava il marito Luigi che, profugo nel 1821 e poscia rimpatriato, s'era unito ai cospiratori del Caffè del Fumo e li accoglieva in casa, auspice quella donna intemerata e sorridente. Il marito fu arrestato e condannato alla morte, quindi graziato coll'esilio in America, donde tornò, parecchi anni dopo, con un'altra moglie al fianco, presentandola all'angelica [88] Anna, che l'accolse con bontà infinita; e annunciandole.... che alla bambina avuta dalle seconde nozze aveva imposto, in omaggio a lei, il nome di Anna!

Mentre quel Luigi subiva il processo, Paride Zajotti chiamò dinanzi a sè Anna Tinelli per istrapparle qualche nuovo capo d'accusa contro il marito, contro i cugini (così si chiamavano gli affigliati della Giovine Italia); ma a nulla valsero le raffinate arti sue d'inquisitore. Una delle arti dello Zajotti era interrompere d'improvviso l'interrogatorio, occupare la mente degl'interrogati in cose del tutto diverse da quelle per le quali eran chiamati dinanzi a lui, e ripigliar poi bruscamente l'interrogatorio interrotto, per vedere se la vittima cadeva in contraddizioni, confusioni: se si tradiva, in una parola. Mentre interroga Anna Tinelli, Paride Zajotti fa entrare con un segreto richiamo un usciere, che ha tanto di lettera in mano. L'inquisitore tronca di botto l'interrogatorio, piglia la lettera, e si mette a leggerla:

— Scusi, sa, signora; una lettera urgente.... To' to' to'! è una lettera di donna, che mi scrive: Caro Adone!... Ma pare a lei ch'io sia Adone?...

E Anna Tinelli col suo garbo:

— Non mi pare che sia Adone,... e nemmeno Paride!

Infatti, Paride Zajotti era brutto. Egli scoppiò in una risata; depose la lettera, e riattaccò l'interrogatorio dove l'aveva lasciato poco prima.

Anna Tinelli (figlia d'un Zannini, benestante, e della baronessa Battaglia) visse fino il 16 agosto [89] del 1888, nella sua Milano dov'era nata ottantatrè anni prima. Sapeva miniare, sullo stile degli alluminatori del Medio Evo, pergamene preziose. La chiesa di San Francesco di Paola a Milano conserva un messale miniato da lei: è tutto un sorriso di tinte delicate: pare il sorriso di quell'anima.


Nel 24 luglio 1833, il Tribunale criminale di Milano dichiarava “indiziata d'alto tradimento„ la principessa Belgiojoso, decretando contro di lei l'inquisizione e l'arresto. Ma sappiamo come la principessa pigliasse il volo.... Tuttavia, anche questa volta, scese dalla reggia l'ordine di sospensione.... Prima di tutto, il vecchio imperatore Francesco (l'uomo dalle quattro mogli) non voleva che s'infierisse contro le donne, specie se appartenenti al ceto aristocratico; memore che negli esecrandi processi del '21, gl'inquisitori di Milano avevano infierito contro Camilla Fè, mettendole ai fianchi, giorno e notte, due gendarmi, e contro Matilde Dembowsky che pur aspramente venne molestata dalla polizia e dalla commissione inquirente presieduta dal Salvotti. D'altra parte, Sua Maestà continuava a comprovare coll'opera quanto il Torresani scrivea al Masetti sulle alte relazioni, che coprivano con ali protettrici la principesca famiglia Belgiojoso. L'imperatore volle (secondo il suo costume) esaminare attentamente gli atti giudiziarii contro Cristina Belgiojoso, e, con decreto del 31 gennajo 1834, ordinò che prima venissero “meglio rilevati gl'indizii, investigando in specialità se [90] esistevano realmente società segrete fra donne sotto il nome di giardiniere.„[34] Il vecchio imperatore d'Austria avea l'aria di dare una lezione di correttezza ai signori giudici di Milano, accusandoli di leggerezza e di precipitazione; e mostrava di non credere a quella canaglia del Doria. In realtà, l'ordine dell'imperatore Francesco I era un'abile scappatoja per favorire la principessa.... Sua Maestà aveva aspettato sei mesi prima di pronunciarsi; e prendeva dell'altro tempo! Sua Maestà ordinava nuove investigazioni sulle giardiniere, e fingeva d'ignorare che la società delle giardiniere era apparsa fin dai processi dei Carbonari del '21; perchè la contessa Teresa Confalonieri-Casati, la baronessa Matilde Dembowsky, Bianca Milesi, Carolina Berra, Camilla Fè nata Besana (madre di quella Carmelita che fu poi moglie di Luciano Manara), la contessa Maria Frecavalli, Teresa Agazzini, la contessa Giuliana Caffarelli, moglie dell'ex ministro della guerra sotto il “bell'italo regno„, donna Giovanna, moglie a Carlo Venini, la torbida Traversi.... eran tutte giardiniere, formanti giardini bellissimi, nei quali coltivavano con appassionato amore qualche pianticella venefica da propinare a Sua Maestà.

Immaginarsi con quali faccie, alla comparsa dell'editto imperiale, si saranno guardati fra loro i soavi Torresani, Mazetti, Zajotti, Rosmini, Salvotti e Menghin, tutti quei trentini indegni della loro nobile terra, scesi in Lombardia per sostenere [91] la trista parte di strangolatori dell'idea italiana! “Ossequiente„, per altro, alle “venerate risoluzioni„ dell'imperatore, il Tribunale criminale mosse nuove indagini sulle giardiniere; e trovò un detenuto, certo Spagnoli, che depose formalmente sulle giardiniere e sui giardini; onde nuovi atti d'ufficio si vergarono sulle belle cospiratrici e sulle brutte; ma il processo contro la Belgiojoso rimase interrotto e sepolto per sempre. Si pensi che i delitti d'“alto tradimento„ dei quali ella era accusata avrebbero (secondo le leggi) fatto pronunciare contro di lei la pena di morte col capestro....

I processi dell'Argenti e dell'Albinola furono, invece, condotti severamente sino alla fine. L'Albinola venne condannato alla forca; ma l'imperatore, apprezzando le informazioni date dal misero sulla Giovine Italia (fra quali terrori mai e promesse?), gli commutò per grazia la pena di morte con otto anni di catene sullo Spielberg.[35] Anche all'Argenti fu inflitta simile condanna. Entrambi vennero inviati poscia in esilio a Nova York sull'Ussero, nave guardata da gendarmi coi fucili, e cinta di cannoni carichi a palla. Attraversarono l'oceano, insieme col Foresti, col Castillia, col Borsieri, avanzi dei processi del 1821 e dello Spielberg: esulavan pure con loro l'avvocato Bargnani di Brescia e il cremonese Benzoni, che s'era battuto nella funebre spedizione di Savoja, al seguito del Mazzini.

[92]

Ahimè, ogni giorno più, scemavano i denari nella borsa di Cristina Belgiojoso! Ella non possedeva neppure più i giojelli, chè li aveva venduti per la spedizione del 1831 Emilio Belgiojoso, suo ex marito, ma sempre buon amico suo, lo seppe e le propose di procurarle nuovi giojelli per quarantamila lire. Ella nobilmente rifiutò, e scrisse al principe parole che onorano entrambi:

“Ho riflettuto alla proposta che tu mi fai delle gioje, e sebbene essa potrebbe convenirmi, sono per ora troppo alle strette per potermi accordare degli oggetti di lusso, come sarebbero le gioje. Forse è vero che, un giorno, mi potrò procurare dei diamanti; ma nol farò certamente sino a che non avrò messo ordine a' tuoi affari. Le 40 000 lire che spenderei nella compera delle gioje le avrai ugualmente da Finzi, ed io amo meglio impiegarle nel pagamento di qualche altro debito. Ricuso liberamente la tua proposizione, perchè l'accettarla non ti sarebbe d'utilità alcuna. Te ne ringrazio perchè il vantaggio sarebbe mio....„[36]

Questa lettera prova che un buon accordo tornava, almeno un momento, fra i due conjugi separati; ma, a comprovarlo ancor più, valga l'ultima parte della stessa lettera: è un tratto di sentimento sereno e affettuoso verso il principe, che si preoccupava [93] anche della salute di Cristina. La principessa gli scrive:

“Ti ringrazio dell'interesse che prendi alla mia salute. Essa è discreta. È forse vero che il benessere fisico possa sovente tener luogo del benessere morale: io li ho provati ambidue nello stesso tempo; però nello stesso tempo sono ambidue scomparsi; onde non posso giudicare quale dei due possa meglio consolare della mancanza dell'altro. — Addio, Emilio: vivi felice, e ricòrdati che il mio maggior conforto consiste nel rendermi a te utile. — La tua

“aff.ma Cristina.„

Gli uomini forse, non la donna può esistere per sè sola. La stessa gloria non le basta; l'orgoglio non la sorregge; e ciò per la natura sua e per le condizioni che l'uomo, spesso ingiustamente, le ha fatte. Così Cristina Belgiojoso non s'appagava del turbine delle cospirazioni; e, sotto il gelo apparente, e nel suo stesso orgoglio di dominatrice, sentiva bisogno d'affetti gentili. Ella nutriva, è vero, infaticabile un'idea grande, l'idea d'un'Italia grande; e ciò la sosteneva nei trambusti e nelle amarezze ch'ella, con arte infinita, nascondeva avviluppandosi in una specie di silenzioso mistero; e quel silenzio, quel mistero accrescevano il suo incanto; ma dal fondo inviolato dell'anima inflessibile, erompeva quasi una preghiera per un vero affetto, signoreggiante sugli effimeri capricci; e alcuni passi di sue lettere famigliari ne fanno sicura [94] testimonianza. Fu accusata, persino, di aderire nel 1832 al regime austriaco; si scambiarono e le furberie da lei spiegate per ottenere la restituzione dei beni confiscati, e il libero ritorno in Lombardia, per atti di voltafaccia. Il governo austriaco credette, per un momento, al sincero “pentimento di lei„, di lei che, per farlo credere, aveva sollecitato gli alti papaveri dell'impero, non escluso lo stesso Metternich; ma a Vienna seppero leggere ben presto fra le righe delle “suppliche„ dell'“astutissima„, come fu chiamata in un rapporto. Il Metternich scriveva allo Seldnitzky, presidente dell'Alta Polizia a Vienna:

Il perseverante fanatismo, di cui la principessa Belgiojoso si mostrò sino ad ora pervasa in pro della causa rivoluzionaria, dovette renderle ben duro il passo da lei fatto. Non pentimento delle sue colpe, nè migliori convinzioni possono averla indotta a questo atto.

E il Metternich conchiude:

Poichè evidentemente il suo scopo è diretto a far levare il sequestro de' suoi beni, non tanto per ciò che riguarda l'amministrazione, quanto almeno per la rendita annua degli stessi, sarebbe saggia cosa di permettere alla principessa Belgiojoso di disporre liberamente de' suoi averi solo dopo il suo ritorno (in Lombardia); di limitare intanto il suo soggiorno all'estero a quanto richiede la sua salute e di concederle per la durata della sua ulteriore assenza solo gli alimenti necessari.[37]

Intanto la Belgiojoso restava a Parigi, dove fondava il suo regno.

[95]

VI. Gli esuli italiani e il salotto della Principessa a Parigi.

Come vivevano i profughi italiani a Parigi. — Generosità del principe Belgiojoso. — Un dimenticato precursore dell'emigrazione: Luigi Angeloni. — Il vecchio Filippo Buonarroti. — Il Comitato rivoluzionario italiano a Parigi. — Terenzio Mamiani: sue avventure d'amore. — La principessa Belgiojoso a Parigi. — Ardori di Adolfo Thiers per lei. — La Principessa parla alla Camera dei deputati francesi. — Il salon del generale La Fayette. — Il primo salon della principessa Belgiojoso a Parigi. — Strane abitudini di lei. — La bella italiana conquista Parigi. — Il salon di Bianca Milesi. Madamigella Eleuteria. — Suo misterioso destino.

Uno de' pensieri che Parigi ci ridesta nell'animo è il pensier della vita che gli esuli italiani conducevano nella turbinosa metropoli durante i tristi giorni del servaggio della patria. Napoleone III trasformò in gran parte Parigi; e la vecchia città continua a cadere sotto il martello in un nembo di polvere, simbolo della fine di tante cose.

Ho voluto vederle, alcune delle antiche vie dello studentesco Quartier Latino, e anco le orribili vie e le orribili stamberghe di Parigi, dove [96] tanto fiore d'esuli italiani visse un dì nella miseria aspettando la luce della libertà alla patria lontana. Il martello demolitore non l'ha ancor distrutta la rue Quincampoix, presso il boulevard Sébastopol, nè la lunga, angusta, tenebrosa, sozza rue de Venise, oltraggiosa profanazione della città più artistica del mondo!... È quella la Parigi del medio evo: un dedalo fetente di vie tortuose soffocate dalle alte case ventrute, livide, stillanti bava verdastra. Sopra strette porte, pende qualche vecchio cartello affumicato di locande, nelle quali l'ospite deve pagare notte per notte; e magri cani spelati in cerca di qualche osso nelle immondizie delle vie, si confondono, la sera, colle squallide larve di vecchie Veneri non meno affamate.

E la rue Beaubourg? La rue Brise-Miche?... Altre misere vie. E penso ai profughi che dimoravano nei tristi silenzii della rue Pierre-au-Lard; strani, sepolcrali silenzii in mezzo ai fragori della metropoli.

Fu in uno di questi abbaini che morì d'inedia l'editore Nicolò Bettoni di Brescia; egli che avea sognate principesche grandezze, e avea donato alla patria libri di squisita letteratura. Passò forse qui Piero Maroncelli. Ci par di vederlo passar lento, affaticato, colla sua gamba di legno, in luogo di quella che il chirurgo dello Spielberg gli tagliò, perchè incancrenita nell'umidità della carcere e fra le catene; ed egli, il delicatissimo carbonaro, subito dopo l'amputazione (e stillante ancor sangue), tolse da un bicchiere una rosa, e l'offerse quale compenso al suo operatore.... [97] Passarono forse per queste vie Nicolò Tommaseo, Terenzio Mamiani, Guglielmo Pepe, Michele Amari, Carlo Pepoli, Vincenzo Gioberti, Giuseppe Sirtori, e quanti altri mai, in lotta silente e dignitosa colla fortuna, in pace colla coscienza.... Perchè più non li vedevano nelle carceri e fra le catene, i Faraoni del diritto divino credevano che i liberali fossero omai povere pietre cadute per sempre nel fondo di aridi pozzi; e non s'accorgevano che quei perseguitati, quegli esuli preparavano in paese straniero la libertà del loro paese natìo, creavano un'Italia fuori dell'Italia.

L'unità d'Italia fu preparata all'estero dagli esuli, che ad essa conciliavano le simpatie riluttanti degli stranieri. A Parigi, gli esuli italiani (al rovescio dei polacchi) vivevano concordi ed anche allegri. Eran giovani, pieni di speranze, di brio: ridevano persino della propria miseria. Alcuni non sentivano neppure il freddo; perchè esso entrava pei buchi delle scarpe e usciva subito pei buchi del cappello.... I più poveri ricevevano una piccola sovvenzione dal Governo francese (un franco); ma i più sdegnosi, come il Mamiani, la rifiutavano, accontentandosi degli ajuti delle loro famiglie lontane o del frutto del proprio lavoro. Gli esuli lavoravano tutto il giorno, studiavano, scrivevano, e davan lezioni, correndo l'immensa metropoli per chilometri, sotto il sole cocente, sotto la pioggia scrosciante, nella neve, in quella città dalle enormi distanze. E alla sera (tranne il Mamiani e qualche altro di abitudini solitarie, che si recavano a mangiare [98] un po' di minestra fuori di Parigi), desinavano tutt'insieme presso un trattore italiano, certo Paolo, nella rue Le Peletier presso l'Opéra: avevano là, una sala riservata a loro soli, bassa da soffocarvi, in un mezzanino, a prezzi minimi.... e con minime pietanze, e acqua di pozzo quando non era acqua della Senna. Ma l'allegria non valeva il più spumante champagne?... Le evocazioni, gli augurii, gli evviva patriotici, nutrivano più dei pasticci. Talvolta compariva il principe Emilio Belgiojoso, che aveva piantate anch'esso le sue tende a Parigi, e allora la gajezza balzava alle note più acute. Il bellissimo compatriota, biondo, dagli occhi azzurri, quando riceveva denari dalla famiglia di Milano, ne facea subito parte coi compagni d'esilio, rallegrando un po' la loro mensa di qualche bottiglia dal collo argenteo. Egli usava astuzie delicate per far portare dal cuoco qualche pietanza gustosa, alla quale (come a illustre straniera!) gli esuli prodigavano allora le più entusiastiche accoglienze, saltando e ballando per la sala simili a bambini in maschera. Una sera, il principe si rivolge ad uno degli emigrati, a un certo Gregorio:

— Gregorio, voi volete parlare sempre francese, e dite parole che non esistono. Per esempio: roussi! Non esiste.

— Come non esiste?

— Non esiste. Scommettiamo!

— Che cosa?

— Quel bel pasticcio, che ho visto giù in cucina.

[99]

E poichè l'altro era sicuro dell'esistenza di quel vocabolo:

— Accettato!

E il principe, ch'era ben sicuro alla sua volta di perdere:

— Accettato!

Qualcuno dei commensali tira cauto fuori dalla tasca un logoro dizionarietto; la parola roussi comparisce in tutto il suo magico splendore; e subito comparisce anch'esso, sulla tovaglia, nel suo splendore raggiante, il pasticcio suddetto, attorno al quale è subito un incrociare febbrile di coltelli, di forchette, di dita intraprendenti. Il chiasso saliva, talvolta, a un diapason così infernale, che i passanti andavano da Paolo domandando atterriti:

— Ma qui si scanna qualcuno?

— Sono i miei compatrioti che discorrono![38]

I francesi ammiravano negl'italiani la vivacità; la vivacité énergique de ce peuple grandiose, dicevano allora; ammiravano la sobrietà, l'operosità, la dignità impeccabile della vita d'illustri ingegni, costretti a sopportare in casa altrui aspre privazioni per non poter esprimere libero il pensiero in casa propria.

Col tempo, col delinearsi di opposti partiti, una divisione avvenne bensì nei profughi: ma nel principio, si sentivan tenacemente stretti, affratellati nel nome d'Italia, e, nel nome d'Italia, quetavan le discordie, le ire; tanto amavano la sepolta viva!

[100]

Nella società aristocratica parigina d'allora, le conversazioni dei grands seigneurs si componevano di frasi scelte, di sfumature delicate, e d'un accento particolare; — e come dovevano formare ad essi contrasto alcuni esuli italiani, che andavano a dar lezioni nelle case di quei signori!... Ma quei grands seigneurs (appunto perchè tali) onoravano la povertà immacolata e l'ingegno.

La stessa polizia francese, che, come tutte le polizie di questo mondo, era più facile a diffamare che a lodare, si sentiva costretta ad ammirar il contegno dei profughi italiani. L'emigrazione italiana (essa diceva) è la più moderata, la più onesta, la più dignitosa.[39]


L'emigrazione italiana a Parigi cominciò fin dai processi del '21, e anche prima; e s'allargò, calda di speranze, al domani della eroica rivoluzione di luglio del 1830, al domani delle tragiche delusioni in cui andaron travolti parecchi italiani; i quali non trovando in sè stessi e nella patria forze bastanti per scuotere il giogo, speravano soccorsi dalla sorella latina, la Francia! Luigi Filippo, duca d'Orléans, ch'era successo all'asceta Carlo X (atterrato dalla rivoluzione di luglio con tutt'i suoi decreti medievali), apriva infatti gli animi alle speranze; ma i disinganni non tardarono: e chi dovea fidarsi ancora d'un re Luigi Filippo, anima volgare e astuta, parodia di liberale, parodia di re?...

[101]

L'agitazione per liberare l'Italia era alimentata a Parigi per opera d'un discendente di Michelangelo, Filippo Buonarroti, veementissimo vegliardo, dai neri occhi che parean fulmini, specie quando egli usciva fremebondo in parole di sanguinose minaccie contro i despoti. Lo conosciamo.

Abitava vicino al Luxembourg; passeggiava sovente solitario in quel giardino. “Fu là (scrive Carlo Rusconi) che una mattina lo trovai; e mi accolse colla massima cordialità; procedeva incurvato, ma i suoi occhi brillavano d'una luce terribile.... Avea tutti gli ardori dei Montagnardi del '93, inacerbendoli anche, se di maggior acerbezza fossero stati capaci. Abborriva i re, e diceva come il vescovo Grégoire (già suo amico), esser eglino nell'ordine morale quello che i mostri sono nell'ordine fisico; nè altro essere la storia dei re se non il martirologio delle nazioni. I suoi occhi divenivano due carboni ardenti, quando si parlava di tirannide; e per tirannide intendeva ogni governo che non avesse la schietta forma repubblicana. La sua vita era trascorsa tutta fuori del campo della vita reale; egli non vedeva intorno a sè le cose che realmente vi erano; vedeva quelle della sua fantasia. Egli si creava così spettri e fantasmi; e, come a Platone o a Fourier, gli stava fissa in mente una società che avrebbe richiesto, per esistere, leggi e costumi dagli uomini interamente ignorati. Tutta la vita aveva passata nell'ordir congiure, istituir sêtte, spinger emissarii per abbattere i governi esistenti. Dalla Svizzera aveva carteggiato col Confalonieri pei moti del '21, e lo [102] seppe Andryane, mandato da lui a Milano!... Da Parigi spediva messi in Irlanda, in Italia, in Svizzera, in Ungheria, dappertutto dove ci fosse speranza di far nascere un sollevamento. Un obbiettivo solo in lui: distruggere i governi esistenti quali che si fossero. Nessuna diversione a ciò; nessun componimento. Posto a capo di tre società segrete, spediva con un'operosità febbrile i suoi ordini in tutte le parti, e, incrollabile ai disinganni, aspettava ogni dì le notizie delle meraviglie operate. Io non ho conosciuto che Blanqui che potesse stargli a paro per l'audacia dei concepimenti e la tenacità dei propositi nel volerli eseguiti. Mazzini che gli era, a così dire, discepolo, andò poi sulle sue orme; ed ebbe gran parte delle sue virtù e dei suoi difetti.„[40]

Il Buonarroti, dal centro di Parigi, voleva risaldare la Carboneria (suo amore antico), che andava sfasciandosi per la diffusione ormai veloce della Giovine Italia; all'uopo, con un toscano, Giuseppe Gherardi d'Arezzo, e con Luigi Mussi di Parma gettò le basi della setta dei Veri Italiani per fondervi entro, come in una fornace, la Carboneria e la Giovine Italia. Il Mazzini scriveva da Marsiglia nell'ottobre del 1832 a Giovanni La Cecilia: “Comunicherò ai nostri centri il trattato fra le due società. Cerca d'avere dal Ciccarelli una copia degli statuti dei Veri Italiani. Per un incidente d'incendio, ch'io ebbi a patire, e che mi costò venti franchi, perchè arse la valigia che apparteneva al Menotti, fu guasta in [103] parte la copia ch'ei me ne diede.„[41] Il Ciccarelli era un messo del Buonarroti. Il Menotti era Celeste, fratello di Ciro Menotti, tradito e giustiziato dal nefando Francesco IV duca di Modena nel quale quell'anima ardente e pura avea confidato per un sollevamento che dovea mettere quel duca stesso a capo d'un nuovo Stato costituzionale nel settentrione d'Italia!... Celeste Menotti, nato a Carpi, fu ben conosciuto dalla principessa Belgiojoso; magro, pallido, dagli occhi cerulei infossati, dalle sopracciglia nere, dalla barba nera e morbida come il velluto: bellissima figura: era fratello di Virginia contessa Pio di Savoja, quindi stretto parente d'un'ammaliante damigella, Eleuteria, che incontreremo ben presto a fianco, se non ai piedi, della principessa, a Parigi. Celeste Menotti esercitava la professione di negoziante: e, dovendo appunto pei proprii interessi portarsi qua e là, diffondeva entusiasta i principii del Mazzini, la Giovine Italia.

Filippo Buonarroti pensava alla nuova setta dei Veri Italiani (che presto sfumò), e il conte Carlo Bianco di San Jorioz fondava intanto un'altra setta: degli Apofasimèni. A Napoli, v'erano I Pellegrini bianchi; nella Romagna, I cavalieri tebani.[42]

Fra gli agitatori che a Parigi lavoravan alacri per la Giovine Italia, per la causa italiana, stringendosi intorno ai profughi, brillava il romano Michele Accursi, profugo anch'esso. Per le sue [104] relazioni coi bonapartisti, l'Accursi fu sospettato dai fratelli di fede come traditore e spia.... Certo, il dottor Conneau, medico di Luigi Bonaparte, lo avea fra' suoi più famigliari; il côrso Pietri, tanto addentro nei misteri della polizia e così affiatato con Napoleone, si confidava di ogni cosa con lui.[43] Però il Mazzini non lo credeva traditore; e non andava a Parigi, se non riparasse in casa dell'Accursi.

Ma più dell'Accursi, e più dello stesso Buonarroti (del quale era intimo amico), merita cenno un altro italiano, un precursore, apostolo di libertà, Luigi Angeloni, nativo di Frosinone, che, esule a Parigi, ne fu scacciato perchè repubblicano; ma ivi, intanto, egli avea preparato men aspro il terreno agli altri esuli.... Avea la mente aperta ad ogni sapere, e l'animo intrepido. Fin dal 1815 esortava gl'Italiani a esser concordi, a confidare nelle proprie forze congiunte. Nel '21, fu in corrispondenza col principe di Carignano. Bandito da Parigi, nel 1823, riparò a Londra, dove fu amico degli esuli e dove morì in una casa di lavoro.... Com'è dimenticato!

Allo scopo d'affrettare la liberazione d'Italia, si era formato, a Parigi, un vero e proprio “comitato italiano„, nel quale emergevano Luigi Porro Lambertenghi di Milano, sfuggito colla fuga alle catene dello Spielberg, e Carlo Poerio di Napoli: vi entrò, nel 1831, un biondo filosofo e poeta, che strinse poi amicizia colla principessa Belgiojoso: il conte Terenzio Mamiani [105] della Rovere, pronto agli elogi, al sorriso; più pronto a far rispettare tra i francesi il nome d'Italia.

.... Pesaro gentile,

Picciola sì, ma glorïosa e cara

Alla gran madre Italia,

fu culla al Mamiani, che così la lodava nell'inno al santo del proprio nome. Il Mamiani era allora giovanissimo; eppure, era stato ministro; un ministro ribelle nella terra nativa.... Ma raccontiamolo, ricorrendo alle sue lettere, che rivelano gran parte d'una bella vita di cospirazioni e di pensiero:[44]


Carbonaro a vent'anni, il Mamiani esclamava con profetico grido: “L'Italia sarà libera; sarà libera l'Italia nostra!„ E “certo gioja più pura, più alta, e più espansiva di quella non credo mi sia destinato a sentire in terra„, egli soggiungeva.

La donna cara gli era morta gettandolo nel lutto di Dante per la morte di Beatrice; e la patria ormai teneva il posto dell'adorata estinta. Il moto di Modena, nel 1831, fa insorgere Bologna e le città romagnole; e il Mamiani è nominato ministro dell'interno.... Ma papa Gregorio XVI, amico dei lieti calici e delle bajonette austriache, chiama le bajonette fra le delizie dei calici. Il Mamiani vuole la resistenza; il generale Zucchi la dichiara impossibile, e viene ad accordi col [106] legato pontificio, cardinale Benvenuti (già fatto prigioniero dagl'insorti) per trattare la resa. Il solo Mamiani non firma la capitolazione proposta, poichè, con quella, verrebbe a riconoscere il regno temporale dei papi, ch'egli giammai riconoscerà. E con quel libero atto, ei comincia la sua vita politica. Suona l'ora dell'esilio, a cui Gregorio XVI, tornato signore ne' proprii Stati, lo condanna. Il brigantino Isotta trae verso Corfù il Mamiani ed altri esuli: ma una nave austriaca (che si chiama l'Italiano!) cattura presso Loreto la povera Isotta; e gli inermi profughi sono messi in catene e tratti a Venezia nelle carceri di San Sevèro.

“Passammo di poi (racconta il Mamiani all'amico Zirardini) nel forte di Sant'Andrea al Lido, e più tardi nelle carceri nuove politiche di San Sevèro. Tre mesi vi stemmo; e gli accidenti furon sì numerosi e varii da comporre un romanzetto assai grazioso ed originale. Quanto a me, dirovvi solo ch'io venni preso d'un amore fervente per una bellissima greca dimorante dirimpetto alla mia prigione e ch'io vedeva ad ogni dì per più ore e parlavamci con molti segni e per mezzo di letterine e sopratutto con gli occhi. Insomma, quando giunse ordine di proscioglierci e di via menarci a Marsiglia, tutti i trentotto consorti miei di sventura sbardellatamente gioivano; io solo avea gli occhi divenuti due fontane, e quanto piangessi e sospirassi nol so ben dire.„

Non venne ancora pubblicato il processo che il Mamiani subì a Venezia nelle carceri di San Severo. [107] Fu esso abbruciato con mille altri dagli Austriaci nel 1866, prima d'abbandonare per sempre Venezia?... Gli Archivii segreti di Stato a Milano, ne serbano però una copia. Il processo, datato dal 5 giugno 1831, manifesta tutto l'animo libero, persino audace, del Mamiani. Non sembra egli no un accusato, ma un accusatore. Egli parla della rivoluzione del '31 in Italia, e cita fatti, nomi, svela supposizioni.

Alla metà di settembre di quell'anno stesso 1831, il Mamiani giunse a Parigi; e là visse oltre quindici anni in onorata povertà, scrivendo sui giornali e impartendo lezioni private di filosofia, che dovevano fargli ripetere, con più ragione di messer Francesco, il sospiro:

Povera e nuda vai, filosofia!

Nella stanzuccia d'un mezzanino nella via Clichy, accanto a quel magnifico museo e a quel giardino pieno di cari bimbi cinguettanti come gli uccellini degli alberi, abitava il giovane patrizio ex ministro: in una bettola fuori della metropoli, egli pranzava con due lire, accanto a operaj e a studenti. A quella mensa (narra un suo biografo, il Mestica) una volta gli fu recapitata una lettera d'una signorina di rara bellezza e d'alto lignaggio, la quale chiedeva in grazia a una dama amica del Mamiani di poter conoscere quel giovane italiano, chiamato da lei “principe, poeta e carbonaro„.

Quella dama era la principessa Belgiojoso?... Quella damigella è un mistero. Anche il principe Emilio Belgiojoso andava a trovarlo, talvolta, a [108] quel desco; ed è al Belgiojoso, a lui, e al suo bel canto, che il Mamiani allude nel doloroso inno Ausonio:

........ O da quel suol venuto

Bello e giojoso che gli aranci infronda,

Nido gentil di veneri e d'amori,

Fa' a' nostri orecchi udir qualche melode

Recente e cara, e i facili gorgheggi

(Chè il puoi tu sol) dell'usignuolo imita.

Spesso, il giovane poeta-filosofo s'aggirava fra i sepolcri. Usava recarsi a meditare e a leggere nel cimitero di Montmartre; ma la principessa rideva di quelle malinconie alla Young e alla Foscolo, deliziandosi, invece, al racconto ch'ei le faceva dell'innamoramento in prigione colla bellissima greca, ch'era certa Caterina Conòmo.


La principessa Cristina, arrivata nell'anno 1831 oscuramente a Parigi, era andata ad alloggiare in uno de' quartierini più remoti dal centro, all'ultimo piano d'una casa modesta di povera gente; casa oggi abbattuta. Dipingeva bicchieri e ventagli, per ritrarne guadagno, dicendo a' suoi compratori che non avea di che campare, avendole il Governo austriaco sequestrata ogni ricchezza. Non so quanto sia vero ch'ella, sulla sua porta, avesse scritto La princesse malheureuse. Forse la princesse malheureuse esagerava a bella posta la propria povertà, per rendere odioso il Governo austriaco; certo in quei giorni ella non nuotava nell'oro.

Un giovane, piccolo di statura, grande d'ingegno, [109] appena vide la bellissima italiana, ne fu preso d'amorosa passione: era colui che dovea prendere in pugno le sorti della Francia, Thiers. Adolfo Thiers frequentava ben volentieri quella casa!... Ei trotterellava in cucina a cuocere le uova per la colazione alla quale la principessa Cristina Belgiojoso lo invitava sovente. La colazione consisteva, è vero, in un pajo di uova col burro, e d'un po' d'acqua limpida maestosamente versata dalla principessa nei bicchieri dipinti dal suo pennello d'esule spogliata dall'Austria, ma le tovaglie eran finissime di Fiandra, e la bruna testa della dea spiccava avvolta da un ricchissimo manto a mo' di turbante orientale, che cadeva in pieghe maestose lungo le spalle.

Nessun dubbio sull'ammirazione e sull'affetto che il Thiers provava per l'affascinante italiana. Corrispose ella, fosse pure per un momento, a quell'amore?... O vi corrispose solo coll'amicizia?... Certo seppe valersi della passione devota dell'illustre francese per farne (allora!) un sostenitore delle aspirazioni e dei diritti d'Italia.

Adolfo Thiers teneva infatti (allora!) nelle pubbliche adunanze, discorsi a pro dell'Italia; e il principe di Metternich li sapeva; e al governatore del Regno Lombardo-Veneto conte Hartig que' discorsi “sovversivi„ venivano segnalati.[45] Spesso Adolfo Thiers si trovava, in casa della Belgiojoso, col veneziano, spiritosissimo conte Vincenzo Toffetti: fra l'uno e l'altro correva [110] simpatia, sincera amicizia, tanto più che il conte nutriva pur egli in cuore speranze nell'ajuto francese. E anche di tale amicizia fra il Thiers e il Toffetti, il governatore di Milano venne prontamente informato dalle spie.[46]

L'autore dell'Histoire de la Révolution Française e dell'Histoire du Consulat et de l'Empire fu accusato di ammirare solo il “successo„ nella storia; fu accusato di rimanere indifferente dinanzi alla virtù e al delitto. Quando lo prese l'ambizione d'essere primo ministro di re Luigi Filippo, salì al posto supremo, piegandosi alle condizioni impostegli dall'utilitario sovrano, accostandosi all'Austria e alle altre potenze assolute d'Europa; eppure tutte le volte che potè giovare agli esuli italiani, lo fece di buon grado.... per ricevere, in compenso, il sorriso di Cristina Belgiojoso!

Un giorno, la principessa va alla Camera dei deputati francesi, in una delle loro aule, e improvvisa lì, dinanzi a loro, un discorso ardentissimo sulla necessità di ajutare il risorgimento d'Italia. Una scena inopinata, nuova.... Quella fantastica figura di giovane dama che, ritta in piedi, coi grandi occhi luminosi vaticinava, simile a profetessa, l'avvenire della patria; quella voce calda e sicura, la bella parola francese su belle labbra italiane, tutto l'insieme di quell'artistico tipo, improvvisamente comparso dinanzi ai rappresentanti d'una grande nazione, non potè non fermare gli astanti, che, prima ne stupirono, [111] poi ammirarono, infine proruppero in applausi all'oratrice e all'Italia. E fra quei deputati, vi era Adolfo Thiers.

“La pâleur divinise la beauté des femmes et ennoblit la jeunesse des hommes„, diceva George Sand, che a Parigi strinse amicizia colla Belgiojoso. E “la pâleur„ della bella patriota italiana divenne celebre a Parigi, ma più il suo ardore patriottico per la terra natia, il suo ingegno pronto ad afferrare qualunque ardua questione e a precisarne i termini. La principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio attrasse presto l'attenzione di Parigi; ella ne conquistò presto gli animi: ella che pareva la visione dell'Italia martire. Molto giovò, per altro, a Cristina il gran nome paterno: Trivulzio. In un paese, come la Francia, dove la patria storia è conosciuta, tutti sapevano del Trivulzio, gran capitano di Francesco I, gran maresciallo di Francia; e molti ricordavano ancora le esequie solenni che, per ordine di Napoleone I, Parigi avea celebrato in onore di Alessandro Teodoro Trivulzio, discendente anch'esso dal magno guerriero, e generale, ministro della guerra, morto a Parigi il 2 marzo 1805. Tutta la guarnigione di Parigi avea prese le armi per quei solenni funerali: quattro generali di divisione sorreggevano i lembi del panno mortuario: Miollis, Duplessis, Michaud e Morlot. Il cardinale Caprara, legato pontificio e arcivescovo di Milano, recitò ivi le esequie. Benemerito dello Stato pei servigi da lui resi, e caro a tutti per la dolcezza del carattere, il generale Alessandro Teodoro Trivulzio fu compianto nell'immatura fine [112] crudele. La divisione, ch'egli comandava (nell'esercito delle coste della Manica), celebrò i funerali sul campo; e il più grande de' poeti del tempo, Ugo Foscolo, addetto qual capitano allo Stato maggiore del generale Trivulzio, rendendosi interprete de' sentimenti de' commilitoni, dettò in onore di lui un forte epitaffio latino.[47]


Il vecchio, generoso generale La Fayette, che non trascurava occasione per caldeggiare l'indipendenza italiana, e madama Recamier, vollero Cristina Belgiojoso nei loro famosi salotti. Quando la pallida, bellissima discendente del maresciallo Trivulzio entrava in quelle sale con fronte altera, sulla quale parea scritto il motto oraziano malignum spernere vulgus, tutti gli sguardi la contemplavano,

Folto bisbiglio sollevando intorno,

(avrebbe ripetuto Giuseppe Parini).


Il salon del generale La Fayette, chiamato dai legittimisti “le caravansérail de l'Europe révovolutionnaire„, accoglieva tutti gli esuli liberali, tutt'i perseguitati di tutt'i tiranni; al rovescio del salon del Palais-Royal, dove pure si raccoglievano le forze vive di Parigi dopo la rivoluzione del 1830, ma il cui accesso non era facilissimo ad ogni straniero. Il generale La Fayette, il celebre amico di Washington, sedeva nel proprio [113] salon (arredato con semplicità patriarcale) come un venerando padre di popoli; sedeva circondato da una triplice corona d'amici e di clienti prontissimi ad accogliere la menoma sillaba e il più lieve sospiro del labbro di chi s'era messo in prima schiera nelle più grandi rivoluzioni: in quella dell'America del Nord, in quella dell'Ottantanove, in quella del 1830. Il generale La Fayette, alto, magro, scialbo, incurvato dall'età, portava sulla testa una bruna parrucca. Un eminente italiano gli sedeva spesso al fianco: Guglielmo Pepe, che, avendo militato per Murat e avendo, nel 1821, combattuti gli Austriaci a Rieti, era stato ricevuto a braccia aperte dal La Fayette, e introdotto subito nel “circolo maschile„ del salotto. Poichè, nel salon La Fayette, v'era anche un circolo femminile — una specie di gineceo — dove le donne, quasi tutte bionde, della famiglia La Fayette, facevano spiccare ancor più la bruna bellezza della Belgiojoso; accanto alla quale sedeva, presentando un contrasto d'altro genere — contrasto comico per la eteroclita acconciatura — una quaquera: miss Opie.[48]

Ma la principessa non era carattere da subire la tutela e la protezione del generale La Fayette.... non la subiva da alcuno. Il clamoroso salon del popolarissimo agitatore, fra le cui pareti alla profuga lombarda veniva solo concesso di sostenere le seconde parti, le tornava uggioso; ed ella lo abbandonò per fondare, in piena Parigi, [114] un proprio regno, un proprio salon, ricordato a lungo, perchè uno de' più curiosi e de' più ragguardevoli.


Partita dall'ultimo piano della casa men che borghese dove dipingea fiori sui bicchieri, e dove il Thiers le cucinava le uova; lasciato l'atteggiamento di povera donna ridotta all'estrema miseria per colpa del crudele Governo austriaco; lasciato libero sfogo a' proprii istinti principeschi, e anche alle somme che le tornavano ad affluire da Milano, la principessa Belgiojoso prese un aristocratico alloggio: andò ad abitare in una palazzina, con giardino, della rue d'Anjou, non lungi dalla casa del La Fayette, al quale (si sarebbe detto da un maligno moderno) ella volea fare concorrenza. Al numero 29 di quella via, nel maggio del 1834, il celebre generale moriva; e, al numero 6, quattro anni prima, spariva dalla vita, non dal regno della gloria, il capo della scuola liberale, l'oratore seducente, il pubblicista dallo stile squisito, Benjamin Constant. Ivi, è tutta un'onda di memorie.... Ivi, appresso, sorge la cappella espiatoria innalzata in pio ricordo di Luigi XVI, di Maria Antonietta e d'altre vittime della rivoluzione. Ivi, si stendeva un giorno il cimitero della Maddalena dove i ghigliottinati rimasero sepolti fino al 1815; anno nel quale i miserandi resti furono trasferiti a San Dionigi.... E la principessa, discendente dai Trivulzio, pensava talvolta con orrore alle infamie di quei patiboli sui quali eran perite tante aristocratiche dame sue pari....

[115]

Il visconte de Beaumont-Vassy descrive, ne' Salons de Paris sotto Luigi Filippo, quella strana dimora sulla quale Teofilo Gautier ricamò capricciose variazioni macabre, dicendola une vraie série de catafalques.... E la descrive ne' suoi Souvenirs anche Madame d'Agoult, notissima sotto il nome di Daniel Stern, intima del Liszt.

Si entrava per un piccolo vestibolo, che comunicava a sinistra colla sala da pranzo e a destra col salotto. La sala da pranzo, in stucchi, era ornata di pitture nel gusto degli affreschi e de' mosaici di Pompei. Più lungo che largo, questo locale, nelle sere di ricevimento, si trasformava (mercè un pianoforte che vi veniva portato) in sala da ballo. Il salotto, assai vasto e quadrato, aveva i muri tappezzati di un velluto bruno quasi nero, seminato di stelle d'argento. I mobili eran coperti della stessa stoffa, e, alla sera, quando si entrava, si poteva credersi in una cappella ardente, tanto l'aspetto generale si presentava lugubre. Ad accrescerlo, concorreva la figura fantasmagorica della Belgiojoso. Il pallore del suo viso assumeva, alla sera, sfumature nelle quali il verde e l'azzurro si confondevano. Dicevano ch'era l'effetto d'un veleno medicinale, del datura stramonium, ch'ella prendeva.... Dalla sala funerale, si passava in una stanza da letto, interamente coperta di stoffa di seta bianca: il letto era ornato d'argento opaco: la pendola sul caminetto, i candelabri e ogni altro ornamento erano d'argento: una camera bianca, che parea il tempio d'una vergine.

“Un negro in gran turbante che dormiva nell'anticamera [116] (scrive Madame d'Agoult nei Souvenirs) introducendosi in tutto quel candore faceva un effetto assai melodrammatico.„

“Mai una donna (soggiunge la maligna rivale) seppe esercitare l'arte dell'effetto, quanto la principessa Belgiojoso. Lo cercava, lo trovava in tutto: oggi in un negro, e nella teologia; domani in un arabo, ch'essa coricava nella sua vettura per fare strabiliare i passeggiatori del Bosco di Boulogne; jeri nelle cospirazioni, nell'esilio, nei gusci d'uovo delle frittate, ch'ella stessa cucinava quando le piaceva di farsi credere rovinata. Pallida, magra, ossuta, cogli occhi fiammeggianti, ella giuocava agli effetti di spettro o di fantasma. Volentieri accreditava certe voci che correvano, le quali per accrescere l'effetto, le mettevano in mano la coppa o il pugnale dei tradimenti italiani alla corte dei Borgia....„ Così la rivale, che volea gittare una nota stonata nel coro degl'inni.

Dalla stanza da letto della principessa, si entrava a un gabinetto di lavoro dal finestrone gotico, attraverso ai cui vetri giallo-aranciati, passava gaja la luce. Dalle pareti di cuojo di Cordova, pendevano antichi quadri bizantini dai fondi dorati. I mobili eran neri, e su uno scrittojo stavano aperti grossi volumi dei Padri della Chiesa, che la principessa studiava assidua per scrivere un'opera sul dogma cattolico. “Quando si andava a farle visita nella sua palazzina in via d'Anjou (scrive ancora Madame d'Agoult) la si sorprendeva solitamente al suo inginocchiatojo, in mezzo ad un in-folio polveroso, con un teschio a' suoi piedi. Un sant'uomo la lasciava in quel momento, [117] il predicatore in voga, l'abate Colombat o l'abate Cœur.„

Quale insieme romantico, quell'alloggio! E, ripetiamolo pure, qual romantica figura la padrona di casa! Il romanticismo imperava con Victor Hugo per duce, con Alfredo de Musset, col Delacroix, con l'adorato Chopin, con tutto quel mondo d'artisti pieni di slancio, bramosi di regnare sulle anime umane mercè la fantasia dalle ali di fiamma, e colla passione, e col dolore che rivela l'uomo a sè stesso. Il classicismo nelle sue fredde, olimpiche linee, apparteneva a un cielo d'impossibili Dei: sulla terra, l'uomo agitavasi, sospirava, spasimava desolato, e avea bisogno d'un'arte umana, che rispondesse al suo soffrire, al suo gemito; un'arte e una letteratura che esacerbassero pur anco le sue piaghe collo spettacolo dello strazio, ma fossero vicine all'uomo, alla vita — non vicine agli Dei dell'Olimpo ed al mito.

Sì, la principessa Belgiojoso era una figura altamente romantica nell'aspetto, nelle vesti, nella casa, nei costumi, nel tenore della vita avventurosa, nell'amore del fantastico, nell'amore dei liberi sensi di patria, nella carità cristiana verso i bambini poveri, verso i vecchi abbandonati, verso i lavoratori umili e sofferenti; ma, quantunque ammalata di fibra, non s'immergeva nelle malinconie proprie dei romantici: non avrebbe mai lagrimato, come altre signore sentimentali, al lamento d'un usignuolo solitario in una notte di plenilunio, ai sospiri d'un flauto lontano o d'un'arpa — gl'istrumenti cari ai romantici — al [118] bisbiglio d'un salice sopra un avello. Solo le concrete creazioni della grand'arte la scuotevano: le sfumature della sensibilità morbosa non erano avvertite da quella mente.


Nella palazzina di via d'Anjou, la principessa riceveva gli uomini più illustri di Parigi, e molti esuli italiani e polacchi. Gli esuli italiani!... Quante volte la principessa li soccorreva segretamente colla borsa, li eccitava a sperare colla parola!

Anche a Parigi, il bel Pietro Aretino del ballo Batthiány a Milano, qui descritto Pietro Svegliati, Attilio Regolo, la spia, insomma, tanto cara al cuore del Torresani, era penetrata, immaginiamo perfettamente con quali scopi magnanimi!... Viaggiava di continuo da Marsiglia a Parigi, e viceversa. Nel 21 marzo del 1837, da Marsiglia dove il colera mieteva ottanta vittime al giorno, Pietro Svegliati inviava al signor Eustachio Parma (leggi: Torresani), fermo in posta, Milano, queste nuove maligne informazioni sulla principessa e sul principe:

“Un certo Didier, da me molto conosciuto l'anno scorso in Parigi, intrigante e sparso (sic) anche nelle società frequentate da emigranti agiati in Parigi, qui giunto da pochi giorni, mi ha detto che la Principessa Belgiojoso si dava il tuono d'imitare le prime dame di Francia, che fanno delle lotterie in sollievo dei poveri delle loro parrocchie: ella si proponeva di fare una vendita di oggetti diversi nel di lei Hôtel rue d'Anjou St.-Honoré a profitto dei poveri rifugiati Italiani: [119] mi ha anche detto che il Principe di lei marito era chiamato il corifeo dei repubblicani più esaltati.„[49]

Emilio Belgiojoso un repubblicano?... Un principe repubblicano?... Otto giorni più tardi, lo spione ripete la stessa canzonetta gioconda....

Quel certo Didier era il ginevrino Carlo Didier, lo scrittore, che fin dal 1833 avea pubblicato in due volumi Rome souterraine; liberale e amico degl'italiani liberali. L'infelice finì suicida.


Bisogna ricordare che, nel frattempo (precisamente nel 1835), l'imperatore Francesco I d'Austria moriva carico di anni, di mogli, ma non di rimorsi, perchè s'illudeva d'essere stato sempre un padre, un ottimo padre per la vasta famiglia italo-austriaca....

Dies iræ! è morto Cecco,

Gli è venuto il tiro secco:

Ci levò l'incomodo.

Un ribelle mal di petto

Te lo messe al cataletto:

Sia laudato il medico!

salmodiava Giuseppe Giusti. E Francesco I, il firmatario dell'infame trattato di Campoformio; il battuto di Marengo, di Austerlitz, di Wagram; colui che per ottener pace col vincitore suo Napoleone aveagli sacrificato la figlia Maria Luisa; colui che, non ostante il vincolo di parentela, era entrato poi nella coalizione contro il prepotente [120] suo genero e contribuì a ricacciarlo nella polvere; colui che per gli avvenimenti del 1814 potè riconquistare la più gran parte degli Stati perduti; colui, infine, che si divertiva a seguir ogni giorno, nella sua reggia di Vienna, su un orario, le penose, avvilenti prescrizioni inflitte agli italiani sepolti nel lontano Spielberg; Francesco I insomma, avea liberato alfine il mondo della sua ombra; e gli era successo il figlio Ferdinando, povero, gracile, dall'enorme testa vuota, ma che, per altro, conobbe il dovere della clemenza. Incoronatosi nel Duomo di Milano colla Corona Ferrea di Napoleone I, che avea proferite le superbe parole: Dio me l'ha data, guai a chi la tocca!, Ferdinando concesse ampia amnistia ai rei politici. La principessa Belgiojoso riebbe i proprii beni sequestrati: ed ecco perchè ella, dopo la povertà, dopo le pitture sui bicchieri di vetro, sfoggiava lussi raffinati e abbondava di nuovo in opere generose di carità; il serto più puro della sua fronte.

La belle patriote italiennefœmina sexu, ingenio vir: così la chiamavano nella metropoli ch'ella avea saputo conquistare. La principessa lasciò in uno de' suoi libri pieni di pensieri, questo pensiero: “Il n'y a en toutes choses, dit-on, que le premier pas qui coûte; et lorsque le premier pas n'a rien coûté, les suivants se succèdent à plus forte raison avec une incalculable rapidité.„ E nessun passo costava alla principessa, che si sentiva padrona di sè, degli altri, del mondo. Rapidamente ella camminò tra la folla parigina; e la folla s'aprì per ammirarla.

[121]

Per la principessa Cristina Belgiojoso non era scritta la sentenza del duca di La Rochefoucauld: “Le ridicule déshonore plus que le deshonneur„. Che importava a lei del ridicolo?... Lo sfidava, lo calpestava, gli passava sul corpo, impassibile, trionfale. Un monello le gridò dietro per via: Ah! celle là qui a oublié de se faire interrer!


Anche Bianca Milesi-Mojon, l'ispiratrice, l'amica della principessa, avea nel frattempo fermata a Parigi la propria dimora. Le due amiche aveano cospirato insieme nella Carboneria a Milano, nella Giovine Italia a Genova; ed eccole ora di nuovo insieme a Parigi. Ma Bianca Milesi poco esultò in quel centro d'agitazione: il colera la spense.... Era nata nel 1792, a Milano, da quell'Elena Milesi-Viscontini assai nota nel bel mondo, della quale ell'avea dipinto a olio un buon ritratto. Seguendo la moda del tempo, Bianca Milesi avea aperto anch'ella a Parigi un salon, dove Emilio Souvestre, romanziere e moralista, giovane allora, torreggiava colla sua figura alta e grossa. L'autore di Riche et pauvre portava i capelli lunghi, che gl'incorniciavano il volto dolcissimo e gli scendevano quasi fino alle spalle. Pareva un titano scandinavo col sembiante di un collegiale serafico. Chi lo incontrò nel salotto Milesi, diceva che il buon Emilio aveva un solo difetto: di ascoltare sè stesso quando parlava. Nel salon della Milesi, riunivansi, specialmente, signori e signore che si occupavano dell'educazione popolare, una delle passioni di Bianca: era un salon educativo. Fra tante pubblicazioni della Milesi sull'educazione dei bambini, [122] la principessa Belgiojoso ammirava sopratutto un metodo nuovo e ingegnoso per insegnar loro facilmente l'alfabeto. Chi lo conosce?...


Parole di conforto per la perdita dell'amica, non mancavano certo alla principessa. Le sussurrava a lei, con grazia, una avvenente signorina, una specie di figlia d'adozione, alta e diritta come un arcangelo, bruna, superbo tipo di Trasteverina. Quella damigella, nominata anche dal visconte de Beaumont-Vassy, si chiamava Eleuteria; apparteneva a patrizia famiglia impoverita di Carpi; ed era parente del patriota Celeste Menotti, che abbiamo incontrato. La Belgiojoso la teneva seco e le portava affetto di madre. Perchè poi costringesse la sua protetta a sposare un farmacista di Milano, certo Archinti, buon uomo, ma di modi del tutto opposti a quelli della signorina squisitamente educata, nessuno mai disse, nessuno sa. Forse madamigella Eleuteria poteva ripetere con un grande lirico, col Prati:

....... Fatali

Passâr segreti fra 'l suo cuore e il mio.

Di scrutarli credean gli occhi mortali,

Ma furon noti solamente a Dio.

La sacrificata trabalzò dalla vita fastosa che conduceva presso la principessa Belgiojoso a una vita grigia, meschina, irritante. Si divise presto dall'uomo che non poteva amare; spezzò le catene; e sparve in un abisso morale, che non le ridonò il sorriso, non le ridonò la pace. È sempre così.

[123]

VII. I filosofi intorno alla Dea.

Nicolò Tommaseo a Parigi. — Le sue elevazioni celesti e i suoi affetti terreni. — In Fede e Bellezza allude egli alla principessa Belgiojoso? — Vincenzo Gioberti a Parigi e il suo ardente divulgatore Massari. — La confidente del Massari. — Pubblicazioni filosofiche e teologiche della Principessa. — Un arguto giudizio di Terenzio Mamiani. — Il bel padre Cœur e il filosofo Giuseppe Ferrari. — L'abate Lamennais. — L'asceta Ozanam e l'asceta Sìrtori. — Filosofesse in Francia. Religiosi abbigliamenti della Principessa.

Fra gli scrittori italiani esuli a Parigi che arsero (almeno segretamente) per la principessa Belgiojoso, va notato il più grande dei dalmati: Nicolò Tommaseo.

Nicolò Tommaseo è una figura monumentale. E nel suo stesso stile, v'è tanto di scultorio; molte pagine sue son altorilievi. La sua prosa non corre via svelta, disinvolta, come l'Yriarte descrive le ragazze di Sebenìco, la graziosa città dalmata dove il Tommaseo nasceva nel 1802; bensì procede grave, lenta, e fa pensare alle figure che Dante incontra nell'Inferno colle cappe di piombo; ma in quella forma stringata, quante idee, quanta forza! Che cosa il Tommaseo non tratta?... Letteratura, politica, filosofia, [124] filologia, educazione, morale, romanzo, poesia.... Pare che ripeta con Cristoforo Colombo, El mundo es poco, perchè, con tutto l'ardore cristiano di cui è capace, si slancia ai cieli, a Dio, e domanda: “Che può egli crear l'uomo senza Dio? Nemmeno la morte.„

Il Leopardi “naufraga dolcemente„ nel pelago dell'Infinito; il Tommaseo lo veleggia pregando:

Aspira, o misero, al ciel natio;

Ascendi i facili monti di Dio.

Del Dio degli angeli tu sei fattura;

Ed è 'l miracolo a te natura.

— Son cieco, e dubito. — Ama, e saprai.

— Son lasso, e debole. — Prega, e potrai.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Qui mare instabile, là certo lito:

Porta dell'essere è l'Infinito....

Così egli canta; così egli prega.

In lui si fondono due nature, due razze; la slava per parte della madre (Caterina Cheesevich) slava; l'italiana per parte del padre (Girolamo) italiano. Scorgi lo slavo in certe sue idealità vaporose; e l'italiano in quella sua concretezza di forma che incornicia e stringe come in una morsa anche il sogno. Suo padre era uomo positivo, mercante. Sua madre, povera donna, addolorata da afflizioni, pregava.

E all'Italia sospirava il giovane Tommaseo. Si imbarcò; e venne nella Penisola; venne a Padova, dove il bell'abate Giuseppe Barbieri, conversatore ameno, predicatore famoso, che chiudeva in una forma classica le idee del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, lo protesse. Ma [125] più lo protesse Antonio Rosmini, di cui Nicolò Tommaseo era ammiratore quasi fanatico. Tutte le volte che il giovane Tommaseo, stretto dalla necessità, avea bisogno di denaro, ricorrea al Rosmini; il quale lo soccorreva volentieri, senza fargli pesare il beneficio, come sogliono i più; e lo voleva sempre vicino.

Nicolò Tommaseo venne poscia a Milano, per esercitarvi il suo alto ministero di scrittore, che sentiva con fiera sicurezza; ma la fortuna poco gli arrise. Il bassanese bibliografo Bartolommeo Gamba avea raccomandato l'esordiente letterato a Giorgio Teodoro Trivulzio (congiunto, adunque, alla principessa Belgiojoso), e il marchese lo raccomandò, alla sua volta, al librajo Stella. Ma Antonio Stella (l'editore del Leopardi) non gli venne in ajuto. Guai se a Milano Alessandro Manzoni non avesse aperta la propria casa al povero dalmata! E guai se, nei colloquii con quel Sommo, ei non avesse trovato conforto ai giorni neri!

Spinto dalle tristi condizioni e anche un po' da spirito inquieto, Nicolò Tommaseo dice addio a Milano, e si mette in cammino, coi denari che gli ha offerti delicatamente donna Giulia Beccaria, madre del Manzoni.

In uno scritto autobiografico, Educazione dell'ingegno, il Tommaseo racconta la sua partenza da Milano, in una notte di febbrajo. Egli cammina solo, a piedi, perchè vuol serbare il denaro della benefattrice. La pioggia lo coglie; e, mal difeso dall'ombrello, sfanga lungamente nel bujo, finchè un campagnuolo, commosso alle [126] sue iterate preghiere, gli fa un posticino nella propria carretta. Fattosi giorno, il campagnuolo lo guarda, e, vedendolo d'aspetto civile, e indovinando le sue miserie, dà in un accento d'esclamazione più potente d'ogni parola, “perchè gli era un misto di compassione, di meraviglia, di affetto.„

Presso Desenzano, il Tommaseo s'imbatte in una nota giovane e ricca signora, accompagnata da una suora di carità. Quella giovane andava a votarsi a Dio. Il Tommaseo la ferma e le parla a lungo, con meraviglia della suora. Ei la ritrae “anima affettuosa e umilmente altera, che tropp'alta immagine aveva della virtù e troppo pura dell'amore; destinata a soffrire nel mondo, a soffrire nel chiostro; e in premio delle durate battaglie a uscire presto di questa o infiammata o fradicia arena„. “Io la veggo tuttavia (egli soggiunge) lungo il lago sonante.... E ora ella mi riguarda dall'alto, e mi prega non molli le gioje, non freddi gli studii, non vani i dolori.„

Le donne devono amar la memoria del Tommaseo, poich'egli studiò la donna con culto infinito: la pose quasi sugli altari. Nessuno in Italia la studiò moralmente più di lui. A Parigi, oggi lo chiamerebbero un féministe. Quanti conoscono un suo sublime poemetto, in ottave, intitolato Una serva?... Non si tratta d'una di quelle serve a cui il Molière leggeva le proprie commedie: bensì d'una giovane schiava bianca del Medio Evo, percossa a sangue dal padrone, che, come merce inutile, la vende al castaldo d'un vescovo. Noi la vediamo venir innanzi, a piedi nudi, pallida, [127] estenuata, e col solco del flagello sulla fronte, tra rosso e nero.... La infelice racconta al vescovo i proprii guaj; il prelato l'ascolta commosso, la consola, vuol che il castaldo la tratti bene; ma la poveretta s'ammala. Alla pietà si unisce nel cuore del vescovo l'affetto; un affetto che arde e non ardisce; un affetto che lo inquieta, lo tormenta, lo fa soffrire; ed ella vede, comprende tutto, ed esce turbata e altera, come se ella fosse signora ed egli schiavo. La fine è sommamente patetica. Questo poemetto è tutto un profumo di finezze, di sentimento e di grazia. La bronzea prosa del Sacco di Lucca, alcune poesie profonde e affettuose (D'un quasi cieco e presso a esser vedovo, Piaghe nascoste) formano la corona artistica più bella del Tommaseo, ch'è onorato sopratutto quale pensatore, critico e filologo. Sono monumenti imperituri di lingua il suo Dizionario della lingua italiana e il suo Dizionario dei sinonimi. Alcuni poeti, oggi celebrati, attinsero alle sue acque lustrali.


Non è una novità, no, oggi, la poesia a favore dei diseredati.

Ricchi, a voi che dice il cuore

Della fame e dell'orrore

Di chi langue e di chi muore?

domandava il Tommaseo, derivando dal puro Vangelo, non dalle torbide teorie del suo secolo, il grido della riparazione. La povertà e i dolori altrui lo inspirarono fin da' primi anni. Ricordando sè giovinetto (“taciturno e selvaggio„ [128] a dodici anni), dice nello scritto Educazione dell'ingegno: “Un viaggio per mare, e la vista d'un'isola povera, e la conoscenza di parenti poveri e buoni; la morte d'altri parenti amati, i dolori di mia madre, mi vennero esercitando il già desto affetto....„

E amava gli umili:

Foglia, che lieve a la brezza cadesti,

Sotto i miei piedi, con mite richiamo

Forse ti lagni perch'io ti calpesti.

Mentr'eri viva sul verde tuo ramo,

Passai sovente, e di te non pensai;

Morta ti penso, e mi sento che t'amo!

Così Ad una foglia. Qui, il sentimento più raffinato della natura; qui, il sentimento di pietà e l'affetto pei semplici; e questo affetto dilaga in tutto il gigantesco lavoro del Tommaseo, in cui non trovi neppure un gesto, neppure un accenno di accondiscendenza verso chi venne dalla sorte ingiustamente innalzato. E son credenti, anime devote a Dio, questi poeti che accarezzano gli addolorati e gli umili. Peccato che il demone dell'astio letterario (vecchio demone d'Italia) abbia suggerito al Tommaseo un crudele epigramma contro l'infelicissimo Leopardi. È la macchia del suo alloro.


Nicolò Tommaseo si rifugiò povero a Parigi nel 1838, essendo stato espulso da Firenze, a motivo di due articoli suoi nell'Antologia del Vieusseux; due articoli di critica letteraria, che parvero offesa ai governi e minaccia di ribellione: [129] l'uno intorno a un poema, Pietro di Russia, l'altro.... su Pausania! A Parigi andò ad alloggiare in una buja stanzuccia al numero 3 della Rue du Marais St.-Germain; l'anno dopo, cambiò casa, al numero 2 della Rue de la Bienfaisance.

Egli, esule ignoto, andò a riverire l'esule illustre nativa di quella Milano che lo aveva confortato nei giorni desolati. In casa della Belgiojoso, il Tommaseo conobbe lo storico Francesco Mignet, che tanto nobile posto occupò nel cuore della principessa e al quale consacreremo più innanzi alcune pagine. E al Mignet, Nicolò Tommaseo dedicò, alcuni anni dopo, le Scintille.

La Belgiojoso inspirò al profugo dalmata accese poesie? Finora non è stato possibile trovarne: forse è a lei, che il poeta allude in una pagina del romanzo Fede e bellezza; romanzo originale in varii punti, e che riflette parte della vita del Tommaseo e della vita d'altri esuli italiani a Parigi. La pagina è una confessione umiliante; è una pagina amara:

“Amav'io in essa l'affetto che a quando a quando traspariva dalle parole delicatamente lusinghevoli e dagli occhi vaganti? Amavo io l'ingegno agile, aperto? Amav'io 'l nome? e l'esile persona schiettamente adorna, e la casa riccamente addobbata, e la frequenza elegante poteva anco in me? Non credo. I suoi titoli a lei negai con reticenza affettata; e la trattai ora con famigliarità, or con durezza; e al suo sorriso feci più volte cipiglio. Ma pur mi sedetti alla sua [130] mensa: e un giorno, perch'io disavvedutamente pigliavo il posto d'un conte, ella sollecita m'additò il mio minore. E soffersi....

“Lei, la donna ch'io penso, signoreggiare avrei voluto, tutta: ma come maneggiare agilmente vaso incrinato? Gli era pur bello e lavorato con arte! Mente serena: ma faceva sovente il cuore severo, e freddo cercatore de' difetti altrui. Chi sa qual vecchiaja l'attende! I piaceri, incautamente agitati, lasciano feccia di dolore: e io lo so.„[50]

La confessione d'uno sconfitto. E fra gli sconfitti e gli umiliati, notavasi un giovane profugo di Bari, che divenne nemico poco cavalleresco della Belgiojoso, se è vera l'atroce espressione ch'egli osava esprimere fra amici emigrati a Torino sul conto di lei; di lei, che lo ricambiava d'eguale disprezzo. Ella tracciava con poche beffarde parole la caricatura di Giuseppe Massari: la lèvre enflée d'emphase, la bouche macaronique....

Egli conobbe la principessa a Parigi, dove, per isfuggire alle persecuzioni borboniche, il padre (che lo sapeva legato alla società segreta della Giovine Italia) lo mandò appena seppe d'alcuni cospiratori caduti sotto il rigor del Governo. Ma il Massari non era nato ai silenziosi misteri delle società segrete. L'indole sua, aperta e loquace, non lo portava a resistere nei rigidi sistemi delle occulte cospirazioni. A Parigi, ebbe [131] la ventura di metter subito piede in casa d'un suo conterraneo, il generale Guglielmo Pepe; ed ivi potè espandersi: ivi conobbe il Berchet, suo idolo poetico di giovinezza, Terenzio Mamiani, Giacinto Collegno, Giovanni Arrivabene, l'Arconati, tutti gli esuli italiani più onorevoli e più onorati. E fu presentato alla principessa Belgiojoso, che non si capisce come non avesse ribrezzo delle abitudini allora poco pulite del giovane barese; ma egli era così dilettevole e pronto parlatore, era così caldo patriota, così infatuato dell'abate Vincenzo Gioberti, cui la principessa grandemente ammirava! Il più arguto dei critici, Eugenio Camerini, lo chiamò “la tromba del Gioberti„. Non solo ei si fece banditore del verbo giobertiano, giurando in ogni concetto, in ogni parola del maestro piemontese, ma con incrollabile tenacia volle lodarlo coll'ardente parola anche allorquando nella coscienza forse dissentiva da lui. Coll'Introduzione allo studio della filosofia di Vincenzo Gioberti, il Massari fu il più efficace divulgatore di colui che tentava di conciliare la fede colla scienza, la Chiesa colla patria.

Il Massari discorreva spesso del Gioberti colla principessa: le mostrava le lettere che il filosofo gli mandava da Bruxelles, annunciandole che il Grande avrebbe rinnovati a fondo gli studii filosofici in Italia; il che non avvenne, passando egli pel nostro cielo, solo come meteora abbagliante. Il Gioberti pregò il Massari di rivedere le bozze del Primato; quel libro che avea squilli di risurrezione e che parve, e fu, una profezia; profezia avveratasi nella comparsa di Pio IX.

[132]

Nelle sue smanie amorose per la principessa, il Massari si confidava colla marchesa Costanza Arconati Visconti, moglie d'un sant'uomo, amica e protettrice di Giovanni Berchet. La dea della bellezza non avea sorriso alla culla della marchesa, il cui volto era schiacciato, dai lineamenti volgari; ma il carattere della colta gentildonna era franco; era quello d'una buon'amica.

La marchesa Arconati Visconti andava persuadendo il Massari di abbandonare il folle sogno d'amore; e il poveruomo, alla fine, dopo lunghi sospiri, ne guarì. In una lettera che il Massari mandò da Parigi alla marchesa Costanza Arconati Visconti, così a lei si confida riguardo a quella febbre e a quella guarigione: “Io avrò sempre simpatia e amicizia per quella signora; ma adesso null'altro. Due mesi fa, non avrei potuto dirlo: ora glielo dico con coscienza, e ringrazio lei di tutto cuore d'aver cooperato molto a guarirmi.„[51]

E nel salotto della Belgiojoso apparve un giorno la bella figura del Gioberti in persona, che esaltava il nome d'Italia con un'eloquenza focosa, a cui nessuno poteva resistere. Celebrando oltre misura i fasti, il genio d'Italia, e profetandone magnifici i destini, egli entrava nel regno abbagliante dell'iperbole; ma quelle iperboli eran sante. Quelle esagerazioni sue quali benefici effetti produssero alla causa precipua e finale dell'indipendenza d'Italia! Il Gioberti fu un grande [133] seminatore. E quale impetuosa prontezza nell'apprendere, nel riferire, nell'avvincere gli animi! — Ma è questi veramente un figlio della compassata gente torinese? — chiedeva la principessa nell'ascoltare le infuocate parole del sacerdote ispirato; — sacerdote della Chiesa ch'ei voleva purificare ed innalzare come Dante, come il Savonarola, come il Rosmini; — sacerdote della filosofia, ch'ei voleva animare delle fiamme dell'artista; sacerdote della patria che ei voleva riporre maestra a tutte le genti. L'Italia crea l'Europa cristiana e moderna; l'Europa torna all'Italia; quante volte ei lo ripeteva!

Ma più volte il Gioberti si contraddisse riguardo alle forme di governo che volea dare all'Italia; e fra' suoi avversarii, qualcuno raccolse, in un libro, le contraddizioni del grande.[52]

Nell'isola di Oahù, nell'arcipelago delle Havaii nell'Oceania, i viaggiatori incontrano boschetti di haos dai fiori candidi al mattino, gialli a mezzodì, rossi la sera.... Qualche cosa di simile accadeva in certe opinioni politiche del Gioberti; ma bisogna considerare l'ampio, eccelso ideale di un'Italia grande ch'egli mai smarriva e ch'era l'anima dell'anima sua; bisogna ricordarsi il ritratto che, di sè stesso, il Gioberti ci lasciò nei Prolegomeni: “Io non ho due cuori, nè due pensieri, e dedicai da buon tempo tutte le facoltà del mio animo alla religione e all'Italia, indivise nel mio affetto e nella mia mente: questi [134] sono gli amori che ardono nel mio petto, che addolciscono le mie sventure, che inspirano le mie parole, che guidano la mia penna, che sostengono, posso dire, e governano la stanca mia vita. Chiunque ama per lo meno l'una di queste due cose, chiunque adora la religione e l'Italia, è mio amico, qualunque siano i suoi portamenti verso la mia persona, i danni che io n'abbia ricevuti per lo passato, il disfavore o il pregiudizio che possa ridondarmene per l'avvenire.„

Il Gioberti ammirava nella principessa Cristina la patrizia che si consacrava al trionfo dei diritti del popolo. Il filosofo torinese nel Primato morale e civile degli Italiani, credeva infatti, al pari del Montesquieu, che missione del “ceto dei nobili„ era di farsi mediatore tra il sovrano e la moltitudine ed essere il “vincolo naturale e quasi l'armonia conciliatrice d'entrambi.„

Ma è vero che il Gioberti si pentì della lode e proferì aspre parole sulla principessa? Si pensi ciò che lo stesso Gioberti scrisse sul proprio fratello di religione Antonio Rosmini, e in qual modo ne giudicò le dottrine, dopo d'averle esaltate!... Le miserie dei grandi.


Il Gioberti giunse a Parigi sulla fine del 1833, perchè scacciato, qual liberale, dal Piemonte, egli, il cappellano di re Carlo Alberto. Il governo piemontese lo avea tenuto sette mesi in carcere per l'appassionata simpatia da lui espressa a favore dei calpestati Polacchi. Liberato e condotto al confine, lo lasciarono andar libero dove voleva; ed egli prese il volo per Parigi, a quel [135] centro procelloso d'intelletti novatori, dove vivea, povero e grande, un altro abate novatore, ardente anch'esso di una fiamma comunicativa, il Lamennais, — colui che sollevò alto scalpore coll'Essai sur l'indifférence en matière de réligion, mirando anch'egli a innalzare il prestigio della Chiesa; e la Chiesa lo sconfessò. E allora il Lamennais aveva pubblicate le famose Paroles d'un croyant; parole di fuoco che un cavaliere dell'arte tragica sublime e della libertà tradusse e diffuse, a pro delle libere idee: Gustavo Modena.

A Parigi, il Gioberti potè respirare a larghe ondate quell'aria liberale che, in Piemonte, gli veniva tolta sino all'asfissia. Poi si recò a Bruxelles; ma nel novembre del 1845 tornò a Parigi.

Smessi gli abiti sacerdotali, il Gioberti non amava essere riconosciuto a Parigi qual prete: perciò all'amico Giovanni Baracco, prete, giornalista e archeologo di Torino, mandava queste parole: “Nel sovrascritto (della lettera) non mi dia dell'abate, nè del teologo, nè d'altro, ma scriva soltanto M. Vincent Gioberti, senza più. Quest'ultimo articolo è di molta importanza; d'ora innanzi, abitando nei Campi Elisi, i titoli preteschi sarebbero ancor più inopportuni.„[53] Egli alloggiava precisamente al numero 19 dell'Avenue d'Antin, in una meschina cameruccia, solo. Seguendo le sue consuetudini, questo povero figlio d'un sensale, che avea sofferto nell'infanzia [136] ogni privazione, non teneva neppure una persona di servizio. Gli editori guadagnarono sacchetti d'oro co' suoi libri avidamente ricercati, diffusissimi; egli non guadagnò un soldo, tranne una misera somma per Il rinnovamento civile degl'Italiani, la sua più seria opera politica, dove invoca milizie italiane e forti.... come tre secoli prima il Machiavelli. Illibato nei costumi, sprezzatore del lusso, dei denari, dei soccorsi, come un filosofo antico, questo filosofo moderno doveva, pochi anni più tardi, diventare a Torino ministro e capo di ministri; e morì a Parigi d'improvviso, una notte, senz'ajuti: fu trovato mezzo avviluppato fra le coltri e le lenzuola, giù del letto, freddo cadavere.


Un nuovo fatto curiosissimo della principessa Cristina Belgiojoso attirò l'attenzione di tutta la Parigi intellettuale. Fu una sorpresa, uno stupore unanime.

Chi mai poteva immaginare che una signora come la Belgiojoso potesse scrivere un'opera sulla formazione del dogma cattolico?... Eppure, nel 1842, uscì a Parigi l'Essai sur la formation du dogme catholique senza nome d'autore, ma che passa per suo.[54] E sono quattro grossi, fitti volumi!... Le meraviglie non furono piccole a Parigi, e non piccole a Milano, perchè un'opera simile, non ostante i suoi vuoti, non poteva essere frutto che di tutta una vita di lunghi studii ecclesiastici. A Milano, Achille Mauri non risparmiò [137] l'illustre amica, e, alludendo alla clemente filosofia (la filosofia del giovane clero parigino) che raddolcisce qua e là le rigidità jeratiche, — improvvisò un epigramma, poco felice epigramma che non merita l'onore d'essere riprodotto.

Il filosofo Mamiani, al quale la principessa fe' dono dell'Essai, si mostrò ben più cavalleresco, da quell'autentico gentiluomo ch'egli era. Le inviò una lettera dove esamina l'opera, la loda, e, con garbo, tocca lieve sul dubbio.... della vera paternità dell'opera stessa: è una bella lettera quasi ignorata, benchè edita nelle accurate “Lettere dall'esilio„ del Mamiani, citate poc'anzi.

“Avendo piaciuto alla vostra modestia di mandar fuori l'opera senza nome, egli avverrà per certissimo che molti, nol sapendo e nol sospettando, attribuirannola a qualche scrittore provetto e usato per tutta la vita a meditare di teologia e di metafisica. Or che diranno eglino imparando più tardi che l'abbia pensata e dettata una graziosa signora, la quale adopera il più del tempo a conversare cogli amici, a fare lor festa con la più fina cortesia e piacevolezza che il mondo conosca? Vero è, per altro, che in questa vostra opera le materie più astruse sono trattate con una tal limpidezza; le controversie sono raccontate con tanta larghezza e padronanza di idee; splende per tutto una vita, una grazia, una scorrevolezza, una disinvoltura siffatta che vedesi com'è uscita da un intelletto elegante di sua natura e esercitato nella più scelta compagnia degli uomini, ov'ha imparato a fuggire la rigidità delle cattedre e coglier fiori anche tra le spine delle sottigliezze scolastiche. Per fermo avete scelto un bel modo per tentare di ricondurre gli uomini (come sembra vostro desiderio) a occuparsi in tali studii e forse, con quest'intenzione di bene, avete determinato di scrivere nella lingua oggi più nota e più sparsa; e questa scusa vi [138] toglie dal numero di coloro che senza ragione legittima, salvo la propria vanità, pongonsi a dettare in lingua straniera aggiungendo quest'amarissima umiliazione alle tante cui soggiace la nostra infelice patria.„

E qui, smessa la graziosa ombra di adulazione, l'autore delle Confessioni d'un metafisico accentua le lodi, ma non accenna ai più mirabili capitoli: Les Longobards et la Papauté.

“Non posso poi non lodarvi in particolar modo dello spirito illuminato di tolleranza che governa sempre la vostra penna e della carità veramente cristiana onde v'ingegnate di riconoscere la innocenza almeno delle intenzioni ove non potete quella delle opere e degli scritti.

“La maniera, per esempio, come tratteggiate il carattere di Giuliano e indicate il valor morale delle sue azioni tiene una tal giusta misura tra le lodi soverchie del Gibbon e le detrazioni passionate di molti scrittori cattolici, che fate mostra a un tempo di fino criterio, di coraggioso amore del vero e d'animo imbevuto dalla più pura e più larga filosofia cristiana.„

E la conchiusione?

“Concludo che quel che ho già letto dei volumi mi è sufficiente per prendere ammirazione grande della vostra dottrina e del vostro ingegno; e per salutarvi degnissima concittadina di Gaetana Agnesi.

“Possa il vostro esempio valere sprone presso alle donne italiane, presso a quelle singolarmente che oscurano coll'ignavia e colla fiacchezza dell'animo lo splendore dei natali e delle ricchezze!„

Questa puntura alle ignave patrizie deve aver fatto alla principessa più piacere che le lodi a lei: lodi ch'ella forse non meritava tutte. Il libro, [139] nel quale (mi afferma un dotto teologo lombardo) “c'è del buono, del molto buono pel tempo in cui è scritto„, non è forse tutta opera della principessa; la quale non poteva aver fatti tutti quegli studii d'opere latine. Conosceva bene la grazia de congruo?... Conosceva bene i Nestoriani e i semi-pelagiani, che speravano di servire da mediatori fra i Pelagiani e i cattolici?...

Il primo altare della preghiera sono le ginocchia della madre; e la Belgiojoso imparò a pregare dalla madre; dalla madre imparò a credere. Il soffio dell'incredulità passò invano attraverso quel cuore, colle letture dei filosofi francesi, liberamente fatte nella prima giovinezza; ma la fede in Dio, la fede in Cristo rimasero intatte in quell'anima altera. E la fede fiammeggia in tutto l'Essai sur la formation du dogme catholique. I capitoli su Sant'Ireneo, Sant'Ambrogio, San Girolamo, Sant'Agostino sono caldi di spirito religioso, e sono piacevoli a leggersi, pei costumi cristiani dei primi secoli, per lo stile.

Il francese dell'Essai sur la formation du dogme catholique è un delizioso francese, morbido, scorrevole come una carezza: lo stile francese, che la principessa adopera per i soggetti politici, non ha, invece, quella fluidità; bensì è secco, scolpito come una lapide. Bisogna notarlo.

Quel libro che, secondo il mio teologo, presenta molti appunti di letture “fusi in una buona e fluente pasta e rivelatori di spirito aperto e attento„ fu steso dalla principessa, che avea la penna rapidissima e pronta per ogni soggetto; ma ho l'assoluta convinzione che vi ha messo la [140] mano un giovane, geniale predicatore francese: l'abate Cœur; lo stesso al quale madame d'Agoult ne' suoi Souvenirs accenna nei tratti poco benigni, che, per l'imparzialità dell'assunto storico, riportammo nel precedente capitolo.

Il padre Pierre-Louis Cœur emergeva fra i predicatori alla moda. Era nato a Tarare, la città delle mussoline, da una famiglia di commercianti che pretendeva discendere dal famoso, ricchissimo argentiere di Carlo VII; colui che, accusato poi di delitti immaginarii, scappò a Roma e comandò.... una mezza flotta contro i Turchi. I begli argenti del padre Cœur erano le sue lezioni di teologia alla Facoltà di Parigi; erano le sue prediche, che, per purezza e grandiosità, venivano paragonate a quelle del Massillon. Larghe le sue idee; aperto il suo intelletto agli aliti moderni. L'anno del suo trionfo fu il 1840, quando predicò a San Rocco, la chiesa dove dorme Corneille. I più entusiasti lo soprannominarono il San Cipriano del secolo XIX; ma avevano forse sentito predicare quel santo africano sulle rovine di Cartagine?... Anche il padre Cœur diventò vescovo.... non di Cartagine; e morì nel 1860, a cinquantacinque anni, non in odore di santità, ma compianto da chi ammira i liberi voli d'un nobile ingegno.


Alessandro Manzoni, scrisse una seria lettera alla Belgiojoso sul libro del dogma.[55] Giulio [141] Simon, il quale diceva “une femme savante n'est pas une femme qui sait; c'est une femme qui fait parade de sa science„ e che a una filosofessa preferiva una povera sempliciotta, una pianella perduta nella neve, lodò il libro; ma spremeva la lode col conta-goccie. Il filosofo Victor Cousin, che pontificava alla Sorbona suscitando inenarrabili entusiasmi colla sua smagliante esposizione delle teorie dell'Hegel, intavolava volentieri discussioni colla principessa sull'Essai; ma, ecco, entrava d'improvviso nella sala un incorreggibile sarcastico poeta tedesco, Enrico Heine; il quale con un motteggio sconcertava il sorridente Cousin; e l'autore del libro sul vero, sul bello e sul buono, come se inondato da un secchio d'acqua fredda, ammutoliva, s'alzava, andava via.

Altri del circolo brillante di Cristina Belgiojoso parlavano dell'Essai sur la formation du dogme catholique, con quella sfumatura di sottile ironia della quale il parigino, uomo di mondo, vela tanto il vuoto quanto la sincerità de' proprii sentimenti; ma la principessa continuava negli studii filosofici, non temendo i mordaci oppositori, non temendo difficoltà. Come nel tempio d'Odino della leggenda scandinava, era proibito pronunciare davanti a Cristina Belgiojoso la parola “timore„.... Così, ella lanciò al pubblico l'Essai sur Vico; e Science nouvelle, Vico et ses œuvres. La traduzione della Scienza nuova di Giambattista Vico, nientemeno!; vale a dire del libro che mette, più d'ogni altro, a dura pazienza un traduttore per la scabrosità della [142] forma, per la terminologia speciale del sommo filosofo![56]

L'Essai sur Vico è un pensato, ordinatissimo, lucido lavoro. In novantasei pagine fitte, l'autrice narra la vita travagliata di Giambattista Vico; espone e discute la Scienza nuova; e rivendica la priorità di certe idee del filosofo italiano contro coloro che volevano attribuire quella priorità ad altre menti sovrane. È quindi, anche, un'opera di giustizia e di patriottismo. La vita del Vico è narrata sull'autobiografia dello stesso filosofo: anzi, qualche passo è tradotto parola per parola. Bella è la pagina che descrive il giovinetto Vico immerso negli studii durante tutte le notti, con quella buona madre che va a pregarlo di desistere; commovente è la scena che narra gli angosciosi patimenti del Vico, quando, di notte, ode i passi dei gendarmi, che vengono ad arrestargli il figlio dissoluto e incorreggibile; quei gendarmi, ch'egli stesso aveva chiamati per emendare il giovane, ch'egli pur tanto amava.


I parigini si meravigliavano che un'italiana pubblicasse libri così serii in bel francese. Nessun altro muliebre esempio, prima di lei, la storia letteraria poteva offrire. La buona Maria Riccoboni, [143] l'autrice dell'Histoire du Marquis de Cressy, dell'Histoire de deux jeunes amies, dell'Histoire d'Ernestine e d'altre storie, morta in povertà nel 1792, aveva sposato, è vero, l'italiano Antonio Riccoboni attore e autore mediocre, ma era nata a Parigi. La Francia salutava, peraltro, altre filosofesse, fiorite, specialmente nel secolo decimottavo: la marchesa de Lambert, detta la “première femme honnéte homme du dix-huitième siécle„ e che volle restar sempre “honnéte femme„ tutta irradiazione del Fontenelle; — madame de Tencin, tutta irradiazione del Montesquieu; — madame d'Epinay, tutta irradiazione del Rousseau; — madame Geoffrin, figlia d'un fabbricante di specchi, tutta irradiazione del Diderot e degli altri enciclopedisti; — la marchesa di Deffand, scettica come il Voltaire; — madamigella De Lespinasse, che preferì “l'uomo a Dio„ credendo nell'amore; — la baronessa de Staal, che preferì sè stessa all'uomo, credendo nella ragione; — e la marchesa du Châtelet, che avea gli occhi come due piselli e scrisse gli Éléments de physique, tradusse i Principes mathématiques de la philosophie naturelle del Newton; e morì di parto a quasi cinquant'anni (fatto che sollevò risa e pietà in tutta Parigi), dopo d'esser passata dal bacio del Voltaire al bacio del Saint-Lambert, dinanzi alla sorridente ingenuità del marito.

E ancora: la contessa d'Houdetot, brutta, ma seducente per lo spirito e per il sentimento: ella fu il primo e vero amore del Rousseau, come l'autore delle Confessions ci confessa. E la duchessa di Choiseul?... Pareva una statuina di cera, timida [144] in conversazione come una mimosa; eppure, con mano sicura, con ferro anatomico, fe' l'autopsia dei contrasti, delle variazioni, in una parola del carattere del Voltaire.... Cittadini all'armi!... Passa ora la marescialla de Beauvau, nata Rohan-Chabot, energica volontà; madama du Deffand e madama de Choiseul la chiamano “la dominante„. Figge gli occhi al cielo, la pia marchesa de Créqui, vedova a ventisei anni; sostenitrice della religione, e, per questo, incarcerata dai rivoluzionarii. — E, sulla carretta dei condannati a morte, flagellata dalla pioggia furiosa dell'uragano, colle mani legate sul dorso, la credente, vecchia viscontessa de Noailles, s'avvia serena al patibolo; e con lei la figlia, dolcissima, vestita di bianco, e la piccola nipote, che prega.[57]

Nel secolo decimottavo, il Rousseau stese il proprio impero sulle donne più che il Voltaire; e si comprende. La donna è portata al caldo sentimento (e persino al sentimentalismo che ne è la degenerazione) non al gelido scherno. Cristina Belgiojoso aveva ammirato, ne' primi anni, l'autore della Nuova Eloisa; ma, poscia, s'innamorò del grande autore ispirato di Scienza nuova, tenendo, nello stesso tempo, in gran pregio un filosofo, esule anch'esso dalla terra materna, Giuseppe Ferrari, che, profondo interprete di Giambattista Vico, non lesinava alla principessa consigli nell'opera ardua e patriottica da lei coraggiosamente assunta: di diffondere tra i francesi il pensiero del filosofo precursore.

[145]

Non tutti sono concordi nel tributar lode a Giuseppe Ferrari, come storico e come filosofo. È vero: egli corre dietro alla verità, e torna in compagnia col paradosso; ma la sua mente è creata ai larghi voli. Vede nella storia due eterni principii in eterno conflitto, senza possibile aurora di pace, senza speranza di felicità umana: il principio della libertà e il principio della tirannide; e sì nell'uno che nell'altro, discerne germi di bene e germi di male. Questa visione del Ferrari (che lampeggia in tutta l'Histoire de la Raison d'État da lui pubblicata a Parigi) sembrava agli spiriti miti un'espressione di ateismo; ma non turbava la principessa Belgiojoso, che nel Ferrari vedeva un maestro. Tuttavia, le conversazioni del bel teologo abate Cœur, indefesso visitatore della principessa, temperavano le conversazioni del Ferrari: l'acqua santa del primo smorzava i tizzoni d'inferno del secondo. È proprio della Scienza e dell'Ideale insieme, l'avvenire umano. Le due forze, che finora corsero disgiunte e disperse cozzando fra loro, muoveranno concordi. La Scienza ritrarrà lume dall'Ideale, che non ammette confini alle vittorie del bene: si sentirà sorella d'una stessa forza, che emana da un'origine misteriosa, onnipossente. E l'Ideale coronerà di rose la fronte austera della Scienza; fronte impallidita nel lungo travaglio, nel superbo sforzo dell'assoluto dominio.

Giuseppe Ferrari, come quell'altra mente poderosa di Carlo Cattaneo, era stato discepolo e intimo amico di Giandomenico Romagnosi, magnifico apostolo d'alte dottrine, al quale manca [146] soltanto la bellezza della forma letteraria per diffondere più ampio regno sulle menti. Il Ferrari esulò dall'Italia a Parigi nel 1837, l'anno stesso che il venerato suo maestro, spogliato d'ogni ufficiale soccorso dall'Austria, moriva a Milano in povertà. L'Austria non potea perdonare il grande filosofo dell'“incivilimento„ che ammetteva nei cittadini mal governati il diritto d'insorgere.

Quando s'avviava alla terra d'esilio, Giuseppe Ferrari avea già pubblicato La mente di Giandomenico Romagnosi e le opere di Giambattista Vico. E in Parigi diede alla luce Vico et l'Italie, opera che eclissa, naturalmente, le pagine della Belgiojoso sullo stesso alto soggetto.

Nel 1840, Giuseppe Ferrari saliva la cattedra di letteratura nella marinaresca città di Rochefort; ma non di rado lasciava quel porto e gli scolari per visitare a Parigi l'affascinante sua concittadina e indettarsi cogli “spiriti magni„ che intorno a lei parlavano di liberali instituti e di patria.


Un altro filosofo, anch'esso nato sotto il cielo di Milano, ma di scuola del tutto opposta alla scuola del Ferrari, visitava talora la principessa: era l'autore di Dante et la philosophie catholique au XIII siècle, l'emunto Ozanam, dai capelli lisci, neri, spioventi, che gl'incorniciavano il volto pensoso, accrescendogli quella solenne aria da asceta tanto ammirata dai giovani e dalle donne sognanti, nell'aula della Sorbona, dove l'Ozanam diffondeva la convinta parola. E, nel salotto della [147] Belgiojoso, andava di tratto in tratto un altro lombardo, che avea pur egli aspetto e anima d'asceta: Giuseppe Sìrtori. Nato fra i sorrisi della Brianza, avido di studii, il Sìrtori passò a Parigi; e a Parigi abbandonò la veste talare, indossata fra gl'incensi del seminario di Milano. In mezzo alle facili follie parigine, il solingo giovane conduceva vita austera, quasi religiosa. Alla Sorbona e al Collegio di Francia, seguiva i corsi di geologia, di chimica, di fisiologia; materie tutte sulle quali la principessa Belgiojoso amava intrattenersi con lui. Chi poteva immaginare in quel giovane il futuro generale dell'indipendenza?... Il suo nome rimane scritto a caratteri di bronzo nelle tavole degli eroi.... Ed ei visse rigidamente tutta la vita, e portò nel sepolcro, come una fanciulla sacratasi a Dio, la virginità, la purezza.


In quel periodo di esaltazioni religiose e di misticismo, che signoreggiava la principessa Belgiojoso, sempre più ammalata nei delicatissimi nervi, un'altra stranezza i parigini videro in lei. Ella avvolse l'agile suo corpo nell'antica squallida tunica cinerea delle Suore grigie, istituite fin dal 1617 a Parigi da Luigia de Mérillac coll'ajuto di San Vincenzo de' Paoli. La principessa non lasciava quella veste da catacombe, neppur quando andava all'Opéra-Italien ad assaporare, nel suo palco, con sacro raccoglimento, le divine melodie dei grandi operisti italiani, specialmente di Gioachino Rossini e di Vincenzo Bellini, che frequentavano le sue sale; nume protettore l'uno; [148] angelo protetto l'altro; entrambi glorie d'Italia. Sui nerissimi capelli, pettinati con estrema semplicità, la principessa faceva spiccare una ghirlanda di fiori bianchi freschi; e tutti contemplavano quella tacita, immobile visione, che parea discesa da una sfera soprannaturale.... E poichè dopo la rappresentazione dell'opera, dopo quell'onda di melodie, eseguite da cantatrici elette, come Giulia Grisi, Giuditta Pasta, la Persiani-Tacchinardi, l'Ungher, e da un Rubini e da un Lablache.... la principessa si sentiva stanca, spossata, incapace di scendere le scale del teatro, — un forte amico suo, lombardo, il conte Fausto Sanseverino, se la poneva sulle braccia come una languida fanciulla malata, come una naufraga, come Ofelia; e con quel carico fantastico discendeva le scale fra lo stupore della folla, che gli apriva il passo.

Chi poteva riconoscere in lei una vera sansimoniana? Cristina fu creduta, sì, una signora del Saint-Simon, che domandava l'abolizione di tutti i privilegi di nascita e di eredità, e voleva accomunare in massa tutti i materiali dell'attività umana, le macchine, i fondi, i capitali. Bazzicavano nel salotto di Cristina i sansimoniani Bazzard e Enfantin.[58] Ella li ascoltava, per amor delle dispute e delle novità; ma poteva seguirli? Sì; li seguì, ma per poco; e con lo scopo evidente di apparire ancor più singolare coi vermigli riflessi di quelle audacie.

[149]

VIII. Alfredo de Musset ed Enrico Heine.

Primo incontro di Alfredo de Musset colla Principessa. — Una sera nel parco di Versailles. — Il biondo poeta ospite della Principessa. — Ciò che raccontano due biografi di Alfredo de Musset: madame Joubert e Arsène Houssaye. — Una festa di ballo amorosa. — Lettera della principessa Belgiojoso. — Una caricatura di Alfredo de Musset. — Addio, incanto! — Enrico Heine a Parigi. — La Belgiojoso benefattrice di Enrico Heine. — Una serata con Vincenzo Bellini. — Morte dell'autore della Norma. — Enrico Heine e l'Italia.

Alfredo de Musset era da qualche tempo in amichevoli relazioni colla principessa, ch'egli avea incontrata la prima volta nella folla variopinta del salotto del buon generale La Fayette. La Belgiojoso aveva lasciato momentaneamente Parigi per Versailles, dove, non lungi dal parco, avea preso in affitto un alloggio elegante. Un giorno, il poeta le fece visita; e venne trattenuto a pranzo. S'era in principio dell'estate; e quella sera, Alfredo de Musset era il solo ospite della principessa.

Dopo pranzo, andarono entrambi a passeggiare nel gran parco solitario di Versailles. Il recesso era propizio all'intimità. La principessa domandò [150] al biondo poeta di declamarle dei versi. Il poeta le recitò alcune rime d'amore e, appena recitate, le voleva porre in azione. Ma, leggera e rapida, la principessa fuggì attraverso i viali e i labirinti di Maria Antonietta; il poeta la inseguì; e il suo piede urtò contro un tronco d'albero. Il poeta si produsse una storta e cadde emettendo un'esclamazione di sofferenza. La Belgiojoso tornò sollecita verso il poeta, e l'ajutò a trascinarsi verso un sedile di pietra, e lo fece sedere. Vedendolo soffrir molto, divenne affettuosa con lui, carezzevole, quasi appassionata. Ma l'acuto dolore del piede rende il poeta poco sensibile alle tenerezze della principesca sua amica, che corre a casa e chiama gente; due domestici arrivano portando un'ampia poltrona sulla quale adagiano con ogni cura Alfredo de Musset e lo portano in una camera della principessa.

— Vous êtes mon prisonnier, — gli dice ridendo la Belgiojoso, — je ne vous laisse pas retourner à Paris, avant que vous ne soyez complètement remis.

Il poeta si sottomise tanto più docilmente a questo arresto, in quanto che il menomo movimento gli causava un vero spasimo. E divenne innamorato della principessa.

Così narra Gabriel Ferry nel libro Balzac et ses amies.[59] Egli ripete quanto la più irrequieta delle scrittrici francesi, Luisa Colet, avea già narrato nello scompigliato romanzo Lui, e tutto fa credere che questo racconto del bosco sia [151] vero; non è vero, invece, il resto della narrazione galante, che segue nel libro; narrazione che, nelle pagine di Arsène Houssaye e in quelle di madame Joubert, è smentita.

Nessun dubbio che anche Alfredo de Musset sia stato affascinato dagli occhi della principessa.

“Elle avait les yeux terribles du sphinx, si grands, si grands, si grands, que je m'y suis perdu et que je ne m'y retrouve pas.„

Così esclamava il povero poeta; così egli stesso dava la misura della sua infelice passione.

Arsène Houssaye nelle Confessions, souvenirs d'un demi-siècle, dice che il poveretto sperava di trovare nella Belgiojoso una vera passione; sperava di riaprire il proprio cuore e d'essere salvato; ma la misteriosa dama lombarda lo deluse nelle più calde speranze.

“Cette grande dame, qui avait tout pour elle, n'était pas bien sûre d'avoir un cœur, car elle n'avait que la passion de l'esprit; elle voulait bien qu'on se donnât à elle; mais elle ne se donnait pas. Elle servait avec une grâce adorable le festin de l'amour; puis elle s'envolait au moment de se mettre à table.„

Molto in queste parole v'era di esatto. E che dovea succedere intanto di quel cuore di poeta, il quale, eterno sitibondo d'amore, esclamava (e con quanta verità!): “être admiré n'est rien; l'affaire est d'être aimé!„ Ah, doveva fremere e piangere, egli che trovava conforto nelle lagrime:

Le seul bien qui me reste au monde

C'est d'avoir quelque fois pleuré.

[152]

Ma al fulgor delle varie bellezze femminili, anche le lagrime del disinganno si arrestarono in quegli occhi, avidi d'immagini radiose. Il tradimento che la sensualissima Giorgio Sand avea inflitto pochi anni innanzi fra le seduttrici magie di Venezia nell'Hôtel Danieli al giovane Alfredo de Musset, sfibrato dai piaceri, esaltato dai liquori, malato di febbri amorose insaziabili, fe' sanguinare (non v'ha dubbio) il cuor del poeta infelice: lo aveva ben ella, la Sand, rapito e trascinato a Venezia per gioire d'amore; eppure, nello stesso albergo, nelle stesse stanze, lo avea lietamente tradito, una notte, col bellissimo chirurgo e poeta veneziano, dottor Pietro Pagello, chiamato da lei stessa a guarire Alfredo de Musset; e anch'esso, il Pagello, venne trascinato d'improvviso da quella donna irruente, da quell'astro fatale, in un'orbita di passione dolorosa. Ne' suoi ultimi, tardissimi anni, il Pagello mi narrava, non senza tristezza, le gelosie impetuose, tormentose, le disperazioni del povero poeta francese; ma, allora, io non potevo scordare che le gelosie, i tormenti, le disperazioni di Alfredo de Musset vennero consolate da altri baci, da altri amori.... E così avvenne dell'infelice amore per la principessa Cristina Belgiojoso.... Madame Joubert (madrina di Alfredo de Musset) ne' Souvenirs ne racconta qualche cosa.

Le due caricature della Principessa Belgiojoso disegnate da Alfredo De Musset.

[Dall'Étude et recits sur Alfred de Musset della viscontessa Alice de Janzé]

(Paris, Plon, 1891, cap. VIII, p. 155).

Il verso latino scritto dal Poeta sotto uno dei due ritratti, con la traduzione francese, suona così: Pallida, sed quamvis pallida, pulchra tamen. È un verso d'ignoto autore, parafrasi del motto del “Cantico de' Cantici„: Nigra sum sed formosa.

La principessa diede un ballo nelle sue magiche sale, e Alfredo de Musset v'incontrò, per la prima volta, l'ammirabile madamigella di C.... che sapeva a memoria tutte le sue poesie; quelle poesie così vibranti di giovinezza e di passione. [153] Egli si fece presentare dalla principessa all'elegantissima, bionda signorina dagli occhi azzurri e fresca come un fiore; e i due giovani ben presto volteggiarono in un valzer, nel ballo elegante e amoroso, del quale Alfredo era il poeta. Quand'essi ritornarono al loro posto, eran pallidi entrambi: egli sorrideva al turbamento che avea cagionato; ella, pensosa, mormorava in cuor suo: “Ho io trovato un dominatore?„

Lo stesso Alfredo de Musset raccontò questi particolari a madame Joubert. La signorina viveva in provincia dove suo padre occupava una ragguardevole posizione militare. Orfana di madre, leggeva tutto ciò che le piaceva, e s'era commossa alle appassionate Nuits di Alfredo de Musset. In quella stessa veglia, un secondo valzer fu danzato dai due giovani; e la musica doveva essere di quel Joseph Lanner, viennese, che fece muovere co' suoi lenti, voluttuosi valzer per un quarto di secolo i più bei piedini d'Europa.

Questa volta i grandi occhi della Belgiojoso si fissarono ostinatamente sulla coppia danzante. Quando Alfredo de Musset, avvicinandosi alla principessa, volle riprendere la conversazione sul tono consueto, ella gli rispose con una distrazione della quale egli sentì l'impertinenza voluta. Egli prese, sullo stesso momento, la decisione d'un viaggio in Normandia. Madame Joubert lo disapprovò, e ricevette questo biglietto della Belgiojoso, ch'ella stessa pubblica e ch'è un piccolo poema di finezza del femminino eterno, in un bel francese:

[154]

Chère Caroline!

“Qui ne s'éveillerait en voyant ce beau soleil? Je crains de devenir idyllique; car je me surprends à regarder cette belle lumière avec passion. Je comprends toutes les belles dames qui se sont laissées attraper par Apollon, et je ne les plains pas trop.

“Samedi sera donc pour moi un jour de fête; mais si mon soleil demain était aussi beau, et moi aussi animée, je pourrais devancer samedi et faire une reconnaissance à pied jusque chez vous.

“Mille tendres amitiés.

Christine.

E Carolina ebbe la visita di Cristina. La principessa, sempre di grande spirito, parlò all'amica del suo ballo, della bellezza di madamigella de C.... e senza affettazione. Ne pareva entusiasta.

— Qual grazia! Quale eleganza in quel corpo! I suoi occhi sono d'un azzurro profondo come il firmamento. — E disse ancora.... Ma è meglio ripetere le sue parole in francese, quali la signora Carolina Joubert le riferisce:

“C'est que rarement j'ai rencontré chez une blonde l'accent entraînant de nos beautés méridionales. A Paris, jusqu'ici, seule, la duchesse d'Elchingen m'avait inspiré pareil sentiment d'admiration; j'espère que M. de Musset appréciera, comme je le fais, la beauté de M.lle de C.... et cela amènera une heureuse diversion au sentiment qu'il croit ressentir pour moi, et qui gâte absolument nos relations.„

— Je me pris à rire en hochant la tête (soggiunge la signora Carolina).

[155]

— Que voulez-vous dire?... domandò la principessa.

— Que cette façon de guérir un coeur blessé par une blessure nouvelle n'a pas toujours réussi.

Alfredo partì per la Normandia; ma prima andò a prender commiato da madama Joubert. Pareva irritato contro la principessa, ripetendo: “Saprò io farle vedere ch'ella non ha il diritto di trattarmi così leggermente!„ Tanto è vero che quando si ha torto si vuol avere ragione.

Una rottura era inevitabile.

Una sera (è l'Houssaye che questa volta racconta) nel salotto affollato della principessa (Madame Joubert dice nel suo!...) Alfredo de Musset si divertiva a disegnare, da dilettante, in un circolo di curiosi e di curiose; e arrischiò un paradosso: che si poteva fare benissimo la caricatura più buffa del più bel volto.

— Non della principessa, — gli dice una vicina.

— Precisamente, come un'altra, — risponde il poeta-caricaturista.

Sfidato, egli si mette all'opera, e, con pochi tocchi di penna, ecco quel profilo di fata spoetizzato, accompagnato coll'agrodolce del noto verso latino:

Pallida, sed quamvis pallida, pulchra tamen.

— Il y a quelque chose! — mormora la principessa, mascherando il suo furore e voltando la caricatura.

I presenti, a tarda ora, se ne vanno. Alfredo de Musset, che ha sentito il colpo, resta l'ultimo.

— Ah! princesse! comme je vous aime! — esclama [156] il commediante, illudendosi di poter rabbonire l'offesa signora.

— C'est impossible, — risponde ella, — puisque vous m'avez vue ainsi.

E gli riconsegna la caricatura:

— Emportez-moi sur votre coeur: c'est tout ce que vous aurez de moi.

Appena fu sulla via (soggiunge Arsène Houssaye) l'enfant du siècle si disse:

— Suis-je fou de m'obstiner de trouver une femme là où il n'y a qu'un fantôme!...

Ed ecco perchè, nella Revue des deux Mondes del 1842, apparvero le strofe Sur une morte.[60]

Le otto quartine, gli eleganti strali della vendetta, i rintocchi funebri sulle spente illusioni, son questi: è questa tutta l'ode di Alfredo de Musset Sur une morte:

Elle était belle, si la Nuit

Qui dort dans la sombre chapelle

Où Michel-Ange a fait son lit,

Immobile, peut être belle.

Elle était bonne, s'il suffit

Qu'en passant la main s'ouvre et donne,

Sans que Dieu n'ait rien vu, rien dit;

Si l'or sans pitié fait l'aumône.

Elle pensait, si le vain bruit

D'une voix douce et cadencée,

Comme le ruisseau qui gémit,

Peut faire croire à la pensée.

[157]

Elle priait, si deux beaux yeux,

Tantôt s'attachant à la terre,

Tantôt se levant vers les cieux,

Peuvent s'appeler la prière.

Elle aurait souri, si la fleur,

Qui ne s'est point épanouie,

Pouvait s'ouvrir à la fraîcheur

Du vent qui passe et qui l'oublie.

Elle aurait pleuré, si sa main,

Sur son cœur froidement posée,

Eût jamais dans l'argile humain

Senti la céleste rosée.

Elle aurait aimé, si l'orgueil,

Pareil à la lampe inutile

Qu'on allume près d'un cercueil,

N'eût veillé sur son cœur stérile.

Elle est morte, et n'a point vécu;

Elle faisait semblant de vivre.

De ses mains est tombé le livre

Dans lequel elle n'a rien lu.[61]

Questa poesia (ripubblicata poi soltanto nelle opere postume del poeta) sollevò a Parigi alto scalpore. La principessa Belgiojoso la lesse nella Revue des Deux Mondes, la grande rivista diretta allora dal Buloz; e con aria sdegnosa disse un giorno, ad alta voce, a quelli che l'attorniavano nel suo salotto:

— Avez-vous lu les vers d'Alfred de Musset Sur une morte? Il paraît que cette morte-là, c'est mademoiselle Rachel.

[158]

— Ce doit être mademoiselle Rachel, — risponde una signora maliziosa, — puisqu'elle a dit à Buloz en plein foyer: — Vous avez publié dans la Revue des Deux Mondes des vers d'Alfred de Musset, dédiés à la princesse de Belgiojoso.

La principessa assunse il sorriso d'una donna che non è mai ferita.

“Cette Rachel! elle voudrait nous faire croire qu'elle est vivante en jouant les morts. Ce n'est qu'une ombre qui passe.„[62]

Povera e grande tragica Rachel!... Povera evocatrice di tristi figure di donne antiche, di leggendarii fantasmi sulle scene!... Ella era stata partorita su una strada di Mumpf in Turgovia; ed era salita dal fango agli onori della vita, mercè il suo classico genio. Cristina Belgiojoso, principessa del Sacro Romano Impero, avea grandeggiato, invece, rimanendo al suo posto pur nella Parigi ch'ella dicea servire allora “d'hospice aux blessés politiques de toute l'Europe„, — e nessun confronto era possibile fra le due grandi figure femminili, che in quel tempo si dividevano l'impero di Parigi; ma il motto della principessa non ci rivela di qual fine lama fosse il suo spirito?

Molti anni dopo, un parente della Belgiojoso le domandava a Milano:

— E Alfredo de Musset?...

Ed ella, con disprezzo:

— Oh! aveva dei gran brutti gilets!

[159]

Ma un altro immortale poeta bramava di dominare sull'animo di Cristina Belgiojoso. Quel poeta era tedesco e si chiamava Enrico Heine.

L'arrivo a Parigi del biondo originale umorista dai finissimi lineamenti, dalla bocca purpurea, fu uno dei più fortunati. Nel “cervello del mondo„, come il Balzac prima e Victor Hugo poi definiron Parigi, Enrico Heine vinse presto le diffidenze. Nella patria dell'esprit, lo spirito, spesso diabolico, dell'Heine, piacque assai; pareva lo spirito del Voltaire redivivo. E infatti si è indotti a esclamare: com'è francese questo tedesco! nello stesso modo che di Ettore Berlioz si esclama: com'è tedesco questo francese!

Nel suo Parigi or fa cinquant'anni, Terenzio Mamiani ci porse un nitido ritratto di Enrico Heine, dicendo ch'ei “già moveva rumore per qualche saggio di poesia, nè i Parigini si davan pace che egli possedesse nel conversare tanto spirito epigrammatico quanto essi, e sopra più un maneggio mirabile dell'ironia e non poca vena dell'humor inglese. Era giovane allora, con una capigliera biondissima e folta, con bel colore di carne, con occhi piccoli ma scintillanti, e con bocca vermiglia e ben contornata, salvo ch'ei la torcea un poco dal lato destro ghignando più presto che sorridendo.„ Così il Mamiani, che avvicinò Enrico Heine e lavorò con lui per fondare a Parigi l'Europe littéraire.

Madame Joubert racconta ne' Souvenirs che Enrico Heine ammirava assai lo strano genere di bellezza di Cristina Belgiojoso, la sua intelligenza [160] vivida e seria, il suo spirito. Il satirico poeta avea, peraltro, tentato di lanciare qualche celia mordente alla dama; ma ella gli aveva risposto pronta in modo da fargli passare per sempre la voglia della replica.

E un altro mutamento avvenne in Enrico Heine. Appena s'accorse che le proprie velleità di dominazione sul cuore della principessa apparivano alquanto risibili, giocò una carta bellissima: ebbe lo spirito e la finezza che Alfredo de Musset ed altri adoratori della Minerva lombarda non ebbero: di mutare quelle velleità in reverente amicizia. Alfredo de Musset, da buon latino, pensò alla vendetta; Enrico Heine, non ostante lo spirito suo schernitore, agì, almeno questa volta, da buon tedesco.

Un critico moderno, Giulio Legras, nel libro Henri Heine poète, pone in rilievo l'amicizia devota dell'autore dei Reisebilder per Cristina Belgiojoso, pubblicando varie lettere del grande tedesco alla grande italiana; lettere delle quali rispetta la forma francese non sempre eccellente.

Fra le lettere più rilevanti alla principessa, ve n'ha una del 30 ottobre 1836. Essa è il documento più sincero sullo stato morale di Enrico Heine quand'egli, in punizione degli strali lanciati sulla propria patria colle poesie e più cogli articoli de' giornali, si vide sbarrar la via del ritorno in Germania. L'esilio da lui prima gaiamente voluto, gli tornava allora ben insopportabile sacrificio!

La Dieta germanica aveva proibita entro le frontiere la vendita delle opere d'Enrico Heine; [161] e il poeta, vedendosi trattato come un traditore della patria, apriva il cuore all'amica in una flebile lettera:

“Non, très belle et très compatissante Princesse: je ne suis que malade dans ce moment: malade d'âme encore plus que de corps....„

E finisce con uno slancio passionato:

“J'embrasse votre belle main. Vous êtes la personne la plus complète que j'ai trouvé sur la terre. Oui, avant de vous connaître, je me suis imaginé que des personnes comme vous, douées de toutes les perfections corporelles et spirituelles, n'existaient que dans les contes de fées, dans les rêves du poète. A présent, je sais que l'idéal n'est pas une vaine chimère, qu'une réalité correspond à nos idées les plus sublimes, et, en pensant à vous, Princesse, je cesse quelquefois de douter d'une autre divinité que j'avais aussi l'habitude de reléguer dans l'empire de mes rêves.„

Ed Enrico Heine le scrisse ancora:

“Votre billet, Princesse, est très clair, et je l'ai très bien compris, très nettement, quoiqu'il exhale un parfum d'amabilité qui me monte au cerveau!„

Ma che cosa diceva quel biglietto?...

La principessa avea mandato Enrico Heine allo storico Francesco Mignet, il quale doveva presentare il poeta al Thiers per uno di quei favori che non si scordano.

“Je suis charmé que Monsieur Mignet se donne tant de peine pour moi....„

Enrico Heine avea bisogno di denaro: ecco [162] tutto, e fu lei, la potente protettrice, che gli fece accordare dal Thiers, ministro di Luigi Filippo, il sussidio annuo di 4800 franchi sui fondi secreti: il Mignet lo presentò al Thiers appunto per questo.[63]

Il signor Giulio Legras dimostrò nella Deutsche Rundschau[64] che tal pensione fu poi, per preghiera del Thiers stesso, elargita al poeta tedesco anche dal Guizot, che gli successe a capo del ministero. E anche in codesto generoso mantenimento del sussidio, potè assai la Belgiojoso.

Ma quanti sarcasmi saettarono il poeta per quei quattromila e ottocento franchi, ch'ei continuò a riscuotere fino al 1848!... Lo accusarono d'aver venduta la penna a Luigi Filippo.... Il quale, veramente, da quel perfetto sfruttatore che era, non avrebbe mai concessa quella somma per i soli begli occhi cilestri del cantore del Buch der Lieder!... Nel giugno del 1848, il poeta tentò di difendersi sui giornali di Parigi, offendendo gli altri; e non rifletteva ch'è pericoloso gettar sassi sulla capanna del vicino, quando il proprio palazzo è coperto di vetro.

Non passarono mai nere ombre fra la Belgiojoso ed Enrico Heine. È a lei, certo, che l'Heine allude nella prima delle sue Notti Fiorentine, dove parla di Vincenzo Bellini. Ei dipinge il quadro d'una serata (dopo cena) col giovane maestro siciliano a' piedi della dominatrice; la quale trattava l'autore della Sonnambula come un caro fanciullo.

[163]

“Mi ricordo d'un istante, in cui Bellini m'apparve in una luce così bella, che non potei restare dal contemplarlo con diletto, e mi proposi di conoscerlo meglio. Ma questa era pur troppo l'ultima volta che dovevo vederlo in vita. Ciò avvenne una sera, dopo cena, nella casa d'una gran dama, che ha il piede più piccolo di tutta Parigi; eravamo molto allegri, e le più soavi melodie salivano dal pianoforte. Lo rivedo ancora il buon Bellini come allora che, esausto finalmente dai numerosi e pazzi bellinismi che aveva spifferato, si lasciò cadere sopra una sedia. Questa era molto bassa, quasi come uno sgabello; dimodochè si trovò a sedere ai piedi d'una bella signora che, distesa in faccia a lui sopra un sofà, lo guardava colla più dolce cattiveria del mondo, mentr'egli si affaticava ad intrattenerla con quattro modi di dire francesi, che commentava poscia nel suo dialetto siciliano, per dimostrare d'aver detto, non una sciocchezza, ma il più delicato dei complimenti. Credo che la bella signora non facesse molta attenzione alle frasi di Bellini; essa gli aveva preso di mano il bastoncino, con cui egli cercava d'aiutare talvolta la sua debole rettorica, e scomponeva tranquillamente il delicato lavoro dei ricci sulle tempia del giovane maestro. Ben si addiceva a questa birichinesca occupazione quel sorriso, che dava alla di lei fisionomia un'espressione, quale più non mi fu dato di osservare sulla faccia d'un uomo. Non dimenticherò mai quel volto. Era uno di quelli che sembrano appartenere più al regno fantastico della poesia, che alla [164] rozza realtà della vita; contorni che rammentavano Leonardo da Vinci, dal nobile ovale, colle ingenue pozzette nelle guance ed il sentimentale mento acuminato della scuola lombarda. Il colore aveva la delicatezza romana, l'opaco splendore di madreperla, l'altiero pallore, la morbidezza. Era uno di quei volti infine, che non si riscontrano che in qualche tela italiana, ov'è dipinta una di quelle grandi dame, di cui erano innamorati gli artisti d'Italia del Cinquecento, quando creavano i loro capolavori; a cui pensavano i poeti di quel tempo, quando s'immortalavano coi canti, ed a cui agognavano i guerrieri francesi e tedeschi, allora che cingevano la spada e, desiderosi d'azione, valicavano le Alpi. Sì, sì, era uno di quei volti su cui brillava un sorriso della più dolce malizia e della più altera bizzarria, mentr'essa, la bella signora, scompigliava, colla punta del bastoncino, i biondi ricci del Siciliano. In quell'istante, Bellini mi apparve come toccato da una magica bacchetta, come totalmente trasformato in una apparizione amica, e diventò ad un tratto congiunto del mio cuore. Il suo viso splendeva del riflesso di quel sorriso; quello era forse l'istante più fulgido della sua esistenza.... Non lo dimenticherò mai!...„[65]


Enrico Heine non avea mai potuto domare la propria malignità verso il Bellini. Vedendo quell'esile, ingenuo fanciullo, ch'entrava nel salotto della Belgiojoso, leggiero leggiero colle scarpette [165] di vernice, lo salutava chiamandolo un soupir en escarpins! L'Heine rideva agli spropositi di lingua francese che al Bellini sfuggivano conversando. Il povero ragazzo, tutto rosso di collera, gli rispose una volta: C'est une bugie! Immaginarsi le celie di Enrico Heine! Il quale, peraltro, non avrebbe dovuto ridere, se avesse un po' pensato al proprio francese, che Gérard de Nerval gli correggeva paziente negli scritti destinati alla Revue des Deux Mondes. Tutte le volte che Enrico Heine entrava nel salotto, gittava in aria il suo intedescato Pon-ciùr, che faceva sorridere la principessa e faceva ridere madame de Girardin.... Nella sala dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi, v'è una lettera del Bellini, il quale si lamenta di certe piraterie dell'editore Artaria di Milano; e quella lettera è stesa in un francese non certo peggiore del francese di Enrico Heine.[66]

Vincenzo Bellini era vittima d'un invincibile terrore: della jettatura! Il maligno Heine se n'accorse; e una sera, per ispaventarlo, gli profetò prossima la fine, perchè tutti i genii, Raffaello, Mozart, Pergolese, erano morti (diceva) giovanissimi!... L'autore della Norma, atterrito, fuggì subito dal salotto della Belgiojoso, lanciando verso il tristo profeta i noti segni di scongiuro contro la jettatura.... Poche settimane dopo (il 24 settembre del 1835) il povero Bellini moriva a Puteaux, d'una fulminea malattia intestinale, [166] pianto dalla principessa Belgiojoso, che più volte avea tentato invano di difenderlo contro i motteggi di Enrico Heine; pianto da Gioachino Rossini, che lo amava come un figliuolo, specialmente dopo I Puritani, rappresentati a Parigi; ultimo canto innalzato da quel limpido genio, la cui musica effonde talvolta gemiti, sospiri, e talvolta impeti e scoppii d'una vita fremebonda che ha fretta d'espandersi prima di finire sì presto lungi dal cielo natìo.


I tedeschi non amano troppo la memoria di Enrico Heine, che schernì la patria; eppure fu ben egli che col suo pungolo valse a ridestarla dal sonno!... Noi, italiani, non dobbiamo scordare che l'Heine amò la nostra terra e compianse le nostre sventure, eccitato a questo, forse, e senza forse, dalla grande esule lombarda.

Come altri tedeschi, — dal Gœthe al Rückert, dal Platen a Paolo Heyse, — Enrico Heine levò grida d'ammirazione e talvolta di dolore alla vista delle nostre rovine fiorite. Teofilo Gautier, con finezza di critico e con brio d'artista, diceva di lui; “si le clair de lune allemand argentait un des côtés de sa physionomie, le gai soleil de France dorait l'autre.„ Ma si potrebbe pur dire che anche il sole nostro, anche l'Italia da lui commiserata nei Reisebilder, e tutto il dorato Mezzodì gli offersero onde di raggi e letti di rose, cari alla sua musa sibaritica.


Enrico Heine soffriva di spinite; e un estate, la principessa Belgiojoso, vedendolo alquanto malato, [167] lo pregò di andar a dimorare alcun po' con lei alla Jonchère, delizioso castello, ch'ella avea comperato in campagna, sopra un'altura fra Rueil e Bougival, tra fronde e fiori. Appena sbrigato un affaruccio letterario col signor Buloz, direttore della Revue des Deux Mondes, Enrico Heine vi andò, e si presentò alla sorridente principessa con un'aria compassionevole di scimunito.

— Che cosa avete, Heine, — gli domanda la principessa, — che avete quell'aria d'imbecille?

E il poeta:

— Vengo adesso da una conversazione con Buloz. Ci siamo scambiate le idee.

Come gli uccelli canzonatori delle foreste d'America, di cui parla Carlo Darwin in un suo libro, Enrico Heine canzonava anche in campagna il prossimo suo. Un giorno, il malore l'avea ridotto al punto che non potea nemmeno aprire la bocca. Il medico gli disse:

— Potete almeno fischiare?

E il poeta con un fil di voce:

— Neanche una commedia di Scribe!

Non risparmiava neppure la sua protettrice. Un amico, sapendolo assai sofferente e deperito, andò a trovarlo e gli domandò come stesse. Ed egli:

— Sono un osso funebre come la principessa Belgiojoso!

“E i cuori obliano e gli occhi s'addormentano!„ dice Enrico Heine in una delle sue squisite canzoncine:

Und die Herzen, die vergessen —

Und die Augen schlafen ein;

[168]

il che fa ricordare il verso di Alfredo de Musset:

Puis l'oubli vient au cœur comme aux yeux le sommeil.

Ma Enrico Heine non dimenticò la principessa. Quando, dopo la rivoluzione del '48, l'Austria sequestrò di bel nuovo le fortune della Belgiojoso, il beneficato Heine s'adoperò presso potenti personaggi, perchè fosse tolto l'odioso sequestro. Ciò è narrato da una nipote del poeta, la principessa Della Rocca nata Embden nei Ricordi della vita intima di Enrico Heine.[67] Ella soggiunge che tutti gli sforzi del poeta fallirono allora, ma che riuscirono dopo.... Ciò non è esatto; e lo vedremo.

“Talvolta egli spinse la malignità fino a recidere arditamente un teschio, per indi sollevarlo alla vista del pubblico e mostrare com'esso fosse vuoto nell'interno;„ diceva Enrico Heine del Lessing. E così si può ripetere per lui stesso. Ma il poeta che cantò con religioso affetto la madre venerata; il poeta che ammirò gli eroici Ungheresi, novelli Nibelungi; il poeta che s'inteneriva al passare delle file di orfani per via, era pur capace di moti gentili; ed egli ne ebbe per la Belgiojoso, della quale non iscordò i beneficii.

Tali furono le relazioni che, colla celebre italiana, ebbero i due fratelli d'armi, i due squisiti poeti dell'amore: Alfredo de Musset ed Enrico Heine. Sopra di loro, signoreggiava, per altro, un nobile, felice rivale, che imponeva loro rispetto....

Chi era?

[169]

IX. Il dolce signore.... — Il cieco Thierry.

Come amavano le lyonnes de Paris. — I romanzi alla moda. — Lo storico Francesco Mignet. — Mignet e Thiers: loro studii comuni, loro diversi destini. — Tre scuole storiche francesi. — Agostino Thierry. — Il suo genio, le sue sventure. — Grandi e delicate beneficenze della principessa Belgiojoso verso Agostino Thierry. — Malignità del mondo.

Molte signore romantiche dichiaravano d'avere il “cuore malato„ e se lo facevano curare.... da tutti gli uomini.

I costumi muliebri d'allora erano assai più liberi dei costumi di adesso; e ai loro facili voli contribuivano di molto i romanzi, così diffusi, del Balzac e quelli caldi, insinuanti, della Sand, che non fortificavano certo i vincoli della famiglia. La derisione della fedeltà conjugale era diffusa nella società, sui teatri, nei libri; e i più eleganti, che sapevano l'inglese, ripetevano volentieri un motto anti-conjugale di lord Byron (altro idolo del tempo); motto del Don Juan che volea dire: La passione in un amante è ammirabile, in un marito è ridicola. — Gli abbandoni, le dedizioni del cuore erano tutt'uno colla passione; ma, anche allora, le dame alla moda, les lionnes de [170] Paris, si permettevano delle passades, solo per curiosità o per capriccio.

La Gloria, simboleggiata dal Manzoni,

vede i mille e ad un sorride;

così la principessa Belgiojoso, in mezzo ai fuggevoli capricci e fra' suoi adoratori, che prendeano per lei, non colpi di sole, ma colpi di luna (così sempre lunare appariva l'ammaliante suo pallore), — seppe scegliere un amico, un vero amico, serio, devoto, degno di culto. Era lo storico Francesco Mignet; e di quel nobile spirito ella serbò fin negli ultimi anni la rimembranza: — e ne serbava anco il ritratto accanto al suo panierino di lavoro, quando, vecchia cadente, lavorava cuffiette a maglia o cuciva vesticciuole per i bambini poveri.... Le immagini delle persone care, da noi sinceramente amate, restano impresse nell'animo nostro senza il sussidio delle fotografie; pur la mostra di quel ritratto volea essere testimonianza d'una rara eccezione, che gli anni e le vicende non poteano cancellare.

Chi giudicava alle apparenze la principessa Belgiojoso, non la credeva capace d'un culto segreto così tenace, così delicato; ma l'anima sua, appunto perchè non facile ad amare, sapeva amare nel caso, rarissimo, che l'oggetto ne fosse ben degno agli occhi suoi.

Ella, discendente d'una delle più illustri famiglie d'Europa; ella, incoronata del diadema di principessa, pose la sua mano nella mano del figlio d'un rozzo fabbro ferrajo di Aix. Francesco Mignet era figlio, infatti, d'un fabbro ferrajo [171] che tutto il giorno batteva il martello nella sua bottega; operajo repubblicano fanatico, che avrebbe, con tripudio, temprata la mannaja per decapitare tutt'i re del mondo vecchio e tutte le principesse del mondo moderno.

Come mai da quell'uomo impulsivo, infiammabile, rozzo, era nato l'uomo più grave, più riflessivo e più nobile?... Francesco Mignet era il più misurato degli scrittori meridionali. Il suo pensiero, che pur si dilettava d'ampie generalità, pericolose per chi vuol conquistare il vero esatto, splendeva d'una luce limpida, ma fredda. La riflessione andava congiunta in lui alla rettitudine. Egli era l'uomo equilibrato per eccellenza, era un savio; e appunto perchè tale, conquistò la Belgiojoso, la quale, nel turbinìo delle cospirazioni, s'era incontrata in tanti spiriti esaltati. Le donne più fredde in apparenza suscitano le nostre più calde passioni: e così avviene degli uomini. L'acqua tranquilla è la più profonda. Le calme c'est Dieu, diceva un'amica della Belgiojoso, Giorgio Sand, che se ne intendeva.

Francesco Mignet, non ostante l'origine popolana, sembrava nell'aspetto un gentiluomo sceso da un castello. Alto, di forme elette, dal nobile volto sbarbato e coronato di capelli biondi arricciati; piccola e delicata la mano, che accompagnava le parole con gesto elegante. Egli sapeva parlare, ma sapeva (virtù più difficile) anche ascoltare; sapeva esprimere ponderate induzioni su questioni storiche e politiche coi sapienti della Sorbona, ma sapeva pur sorridere con grazia alle dame; e allora i suoi vivi occhi [172] brillavano ancor più, i suoi denti splendevano del loro candore.

La principessa vide la prima volta il Mignet (come Alfredo de Musset) nel salotto del generale La Fayette. Anche il Mignet alimentava le idee liberali, e, un giorno, non parve molto diverso dal Thiers, il suo intimo, fido amico; amico sin da' primi anni, e compagno di studii e d'ispirazioni, quando entrambi, lasciato il nativo mezzogiorno della Francia, andarono a dimorare a Parigi in due misere stanzuccie contigue, nell'oscuro, lurido “passaggio Montesquieu„, uno de' quartieri più popolari e più strepitanti della metropoli; e là, in alto, nella povertà più angusta, imbevuti d'idee liberali (essi si dicevano carbonari) scrivevano articoli pei giornali politici, studiavano insieme, sognavano insieme, inseparabili. E l'uno, il piccolo Thiers, vide i proprii sogni baliosi luminosamente sorpassati; conquistò la gloria di storico, la possanza di ministro, sbaragliò l'inferno della Comune, signoreggiò la Francia, divenne il capo della seconda Repubblica e il pacificatore della terra più agitata del mondo dopo le spaventose rovine del '70. L'altro, uomo più di penna che d'azione, raggiunse la fama, un seggio fra gl'immortali dell'Accademia (nientemeno che contro il re della lirica, Victor Hugo), e, conquista più superba e più difficile, s'ebbe il cuore della dama più ossequiata, più ammirata, più singolare del suo tempo, la Belgiojoso, che l'amico suo Thiers invano aveva adorata.

Le donne affrontano le più ardue questioni [173] politiche e sociali; le affrontano con coraggio inaudito, spesso senza studii, senza preparazione; simili un po', in questo, a certi giornalisti pe' quali è scusa la fretta febbrile con cui devono sostenere l'ufficio di buttafuori per il pubblico. Le donne hanno, naturalmente, la passione delle idee; e la principessa Belgiojoso l'aveva in sommo grado, affrontando difficoltà intellettuali che spaventavano altri. Col Thiers, col Thierry, col Cousin, col Tommaseo, col Mamiani, col Gioberti, col Massari.... ell'amava discutere di politica, di filosofia; ma, sopratutto, amava conversare e discutere col Mignet. Così, una comunione intellettuale andò tessendo, fin dalle prime, le dolci fila fra que' due spiriti forti; e il Mignet, che possedeva la scienza di penetrare bene addentro nell'anima femminile, di attrarla colla frase persuasiva, non tardò a spiegare un fascino particolare sulla Belgiojoso; e ne divenne il fido e dolce signore, la cui memoria (è bene ripeterlo) ella serbò attraverso a peripezie d'ogni specie, sino all'ultimo sospiro, in un angolo inviolato del cuore. Le vicende politiche, la forza delle circostanze divisero la Belgiojoso dallo storico di Carlo V, di Maria Stuarda, della Rivoluzione francese: ma i due amici si ricordarono sempre.... anche senza scriversi. Sono tanto inutili spesso le lettere, e tanto bugiarde!...

Nel 1883, un diplomatico, il signor d'Ideville, (che avea soggiornato qualche tempo in Italia), fece visita al Mignet vecchio. I due uomini parlarono dell'Italia riguardo al Journal d'un diplomate en Italie; libro del signor d'Ideville, che [174] avea sollevato clamori e scandali per certi racconti di Corte.... “Un nome sopra tutti (riferisce l'Ideville) ferì Mignet nell'intimo; il nome della principessa Belgiojoso. Evocato da me, quel nome risvegliò nel vegliardo i più cari ricordi. Io gli parlai della principessa con calore; eppure il mio entusiasmo fu presto sorpassato dal vecchio amico della “grande Italiana„ che s'intrattenne intorno a lei con fuoco e con soddisfazione non dissimulata.„[68] Dal Mignet, la Belgiojoso ebbe un bambino, che morì presto.


Ad un altro francese storiografo illustre, la principessa consacrò culto delicatissimo, ma culto di indole diversa: al povero cieco Agostino Thierry. Eppure nessuno dei biografi francesi di questo grande ricorda quanto Cristina di Belgiojoso operò spontanea per alleviargli la crudele sventura.

Guizot, Michelet e Thierry, ecco una triade che al tempo di cui parliamo, rappresenta tre fasi degli studii storici. Guizot svolge le questioni delle idee astratte e delle istituzioni politiche; Michelet quelle degli uomini concreti; Thierry quelle delle masse. Guizot sviluppa i progressi delle idee donde sorgono tutte le civiltà umane; Michelet si consacra a dipingere le aspirazioni, i dubbii, le lotte, le vittorie degli uomini; Thierry scopre l'importanza delle conquiste, della fusione delle razze, della nascita e dei progressi dei Comuni, questa culla della libertà moderna. A Guizot il problema dell'incivilimento; a Michelet [175] quello degli uomini inciviliti; a Thierry il problema delle razze civilizzatrici.

Il Thierry, capo della scuola descrittiva, è l'artista vero della storia, che per lui è un grandioso spettacolo e (come per Cicerone) è una lezione eterna. Certo, l'immaginazione, bellissima, folle fata, s'infiltra qualche volta nel tempio austero della verità; certo, questo ammaliante drammaturgo della storia viene, e non da oggi solo, dardeggiato dalla critica.[69] Certo chi segue il metodo rigorosamente sperimentale d'oggi trova da ridire; ma chi fra i critici dei granelli di sabbia pesati sulla bilancia della pedanteria, può imitare quel drammaturgo della storia, quel coloritore?

Terenzio Mamiani nel suo Parigi or fa cinquant'anni, pubblicato nella Nuova Antologia del 1881, lasciò queste assennate parole:

“Fu detto, io credo, con giusta appropriazione che se Walter Scott introduceva nel romanzo la Storia, Agostino Thierry à in questa introdotto qualche po' di romanzo. Nella letteratura la meschianza dei generi torna pericolosa; e guardata nelle sue viscere è falsa e dannevole. Lusinga il volgo per la novità come qualunque ibridismo di piante allegra l'occhio del giardiniere; ma i fiori o non ispuntano, o poco olezzano, o perdono la veste nuova ripigliando ostinatamente l'antica. Pure, comunque si pensi di ciò, giustizia [176] vuole che il Thierry venga salutato padre incolpevole di plebe corrotta.„

Il Thierry prese le mosse da Saint-Simon, suo maestro, ma, ben presto, si librò a libero volo in un cielo suo. L'Histoire de la conquête de l'Angleterre par les Normands, apparsa nel 1825, è storia ed epopea insieme. E che dire dei Récits des temps mérovingiens, di quei due fitti volumi che cominciano dalla primitiva costituzione della monarchia francese e finiscono col dolore materno di Fredegonda?... E che dire delle Lettres sur l'histoire de France, commiste di critica e di narrazione; narrazione animata come una scena, limpida come un cristallo?... Tutte le pagine di Agostino Thierry attestano lunghe ricerche e un'anima di poeta che intuisce, che scopre dove gli altri non iscoprono.... Ei non vendette la penna a nessun sovrano, a nessun ministro, a nessuna fazione politica, a nessun capriccio della moda: la consacrò alla letteratura.

Anche allora che la sventura lo colpì (nel 1826 divenne cieco e paralitico) non piegò l'animo alto e sereno. Sembran quelle d'un venerando sacerdote d'antica dea le parole ch'egli scrive nella prefazione dei Dix ans d'études historiques; parole che i giovani devono scolpir bene nel cuore:

“Aveugle et souffrant sans espoir et presque sans relâche, je puis rendre ce témoignage qui, de ma part, ne sera pas suspect: il y a au monde quelque chose qui vaut mieux que les puissances [177] matérielles, mieux que la fortune, mieux que la santé même: c'est le dévouement à la science.„

La principessa Belgiojoso, che comprendeva le grandi cose e i grandi caratteri, comprese il Thierry; e, nel 1844, quando il glorioso storico restò vedovo della diletta consorte, signora Querangal, che lo avea consolato nell'infortunio col lungo affetto e colla dolce devozione, volle togliere l'infelice uomo alle tristezze d'una gelida, amara solitudine, lui, infermo, lui cieco e paralitico: volle che Agostino Thierry andasse ad abitare in un bel chalet del suo giardino nella rue du Montparnasse presso di lei; là, nella nuova dimora che la principessa avea comperato nel lasciare la palazzina di rue d'Anjou; e là il Thierry, questo Milton delle visioni storiche, il fulminato della sventura, visse gli ultimi anni in pace, circondato dalle cure affettuose d'una figlia di suo fratello Amedeo, pur egli a lui devoto, e storico anch'esso; confortato, sopratutti, dall'esule italiana.

Amici eletti visitavano Agostino Thierry,

Stuolo d'amici numerato e casto,

direbbe il Parini. Fra essi, il pittore di Paolo e di Francesca, Ary Scheffer, amico d'Italia nostra; Ary Scheffer che filosofeggiò più che non abbia dipinto, poichè debole è alquanto la tecnica sua, — ma come riesce nobile sempre, elevato!

La principessa Belgiojoso si trasformò in assidua infermiera, in suora di carità del venerando infermo; e non solo apprestava farmachi al corpo cadente, ma consolazioni all'anima.

[178]

“A me (scrive Terenzio Mamiani nel lavoro citato parlando d'Agostino Thierry) a me non fu dato d'avvicinarlo e ammirarlo nel suo corpo sano ed integro; bensì lo vidi assai volte in casa della Belgiojoso già cieco e paralitico di tutte le membra eccetto il capo e il torace; e mentre conveniva reggergli il braccio e la mano, perchè accostasse in un bicchiere un poco d'acqua alla bocca, la sua mente permaneva lucidissima e acuta come per lo passato; ed anzi di tutte le umane ricreazioni eragli rimasta sol quella di controvertere cose di scienza e di erudizione; salvo che quando la Belgiojoso, ospite sua generosa e infermiera amorevolissima, addrizzavagli alcuna parola affettuosa e impressa di maggiore pietà e dolcezza, scorrevano dalle chiuse palpebre di lui lacrime così abbondanti che ognuno rimanevane intenerito e angosciato, nè era facile di cogliere il modo di farle cessare.„


Nei giorni di sole, Agostino Thierry si faceva portare nel giardino della casa, fra gli alberi e i fiori; e là ristava, seduto, immobile su una poltrona, cogli occhi che parevano velati da un triste sogno, ed erano velati dalla cecità e dalle lagrime.

Nella sventura, Agostino Thierry trovò altri conforti, un supremo conforto: la Fede. La sua non fu una conversione, ma un ritorno. E ritornò ad essere cristiano, ad essere cattolico. Nella crudele sua tenebra, quella, quella era la sua luce! Morì nel 1856, quando il turbine degli [179] avvenimenti politici avea divelto dal fianco del grande sventurato la benefattrice, che serbò mesta, religiosa memoria dell'amico. La malignità umana non mancò di gittar bava anche sull'opera spontanea d'alta carità della principessa: dicevano ch'ella volle seco il Thierry per attirare maggiormente gli sguardi di Parigi; ch'ella volle far pompa teatrale del beneficio. Ma la malignità umana non poteva soggiungere (almeno quella volta.) che Cristina Belgiojoso volea vedersi genuflesso dinanzi un nuovo adoratore della propria bellezza.... Un cieco?... — Ed un alto, nobile carattere qual era il Thierry, avrebbe sopportata un'ostentazione melodrammatica, per dodici lunghi anni?... Poichè tanti ne visse là, presso la principessa Belgiojoso, colui che lo Chateaubriand chiamò l'Omero della storia.

La benefica gentildonna dovette avvezzarsi all'ingratitudine, e non la curò. Nel marzo del 1837, quand'ella volle tenere nella propria casa, a Parigi, una pubblica vendita d'autografi d'illustri, a tutto beneficio degli emigrati italiani poveri, un italiano disse: “Chi diede alla signora Belgiojoso il diritto di pensare ai nostri dolori?„ Lo riferisce in una lettera a Gino Capponi Nicolò Tommaseo, il quale, nelle Memorie inedite, dipinge la Belgiojoso, “ingegnosa donna e gentile e buona, e più calunniata che rea„.[70]

[180]

X. Una folla d'immortali.

Canta il principe Belgiojoso. — Rossini al piano. — Giulia Grisi e il tenore Mario. — Meyerbeer e i gatti. — Thalberg. — Un altro pianista: Döhler. — Chopin e gli esuli polacchi a Parigi. — Un pittore irritato: Delacroix. — Bella scenetta! — Il ritratto della Belgiojoso dipinto dal Lehmann. — Victor Hugo. — Alessandro Dumas padre e la sua bionda Ida. — Balzac. — Sue supposizioni sulla Principessa. — Stendhal lo corregge. — Il poeta de Laprade. — Lamartine. — Chateaubriand. — Augusto Barbier. — Un traduttore di Dante. — La grandezza di Pellegrino Rossi. — Camillo Cavour in una seduta spiritica presso la Principessa. — Un improvvisatore. — Carattere del salotto della Belgiojoso.

Dalla rue d'Anjou Saint-Honoré, la principessa Belgiojoso aveva portato il suo celebre salon al numero 28 nella rue du Montparnasse, in mezzo agli alberi. Splendida era anche quella sua palazzina. Carlo Monselet, nelle Statues et statuettes, la descrive con pochi tocchi, così:

“Un cancello di ferro, di lavoro squisito e bizzarro, s'apre sopra un giardino disordinato, pieno d'ombre e d'erbe, sulle quali rotolano quattro o cinque caprette dalle zampe bianche e nervose. Una ragazzina, che ha portato dall'Italia sul volto un bacio del sole morente, passa, inseguendole, con una verghetta in mano. La casa [181] è in fondo, a diritta, con delle torricelle di ferro agli angoli e sculture in alto.„[71]

L'interno delle sale presentava press'a poco lo spettacolo della palazzina di rue d'Anjou Saint-Honoré. Al piano terreno, abitava il principe Emilio Belgiojoso, che, nel frattempo, s'era riavvicinato alla moglie. Quasi tutte le sere, egli saliva, cantarellando, per una scaletta a chiocciola e compariva nelle sale della principessa, in mezzo a un concerto musicale, di cui diventava il re colla divina sua voce, colla sua grazia.

I concerti, infatti, si susseguivano continui. Nelle sere di carnevale, erano concerti allegri, e la musica di Gioachino Rossini ne faceva riccamente le spese: il principe cantava e il maestro lo accompagnava al pianoforte. Nelle sere di quaresima, si eseguiva, invece, tutta musica religiosa; ma anche allora, il Rossini imperava col suo Stabat Mater. I cantanti più celebri dell'Opéra-Italien prodigavano in quelle sale le loro note sublimi. Ecco il soavissimo canto a mezza voce di Giulia Grisi; una carezza!... Il povero Vincenzo Bellini ha scritto per lei I Puritani.... E Gioachino Rossini la guarda felice quand'ella gli canta un'aria dell'Otello o del Barbiere di Siviglia. Nata a Milano, Giulia Grisi s'avvicina alla principessa sua concittadina e parla con lei in meneghino purissimo: e la principessa sorride mostrando le sue belle file di denti che Alfredo de Musset ha ancora l'ingenuità di descrivere.... [182] al principe Emilio Belgiojoso, suo amico, intimo compagno di cene: “Ce sont de petits boutons d'oranger blanc, enchassés dans du satin groseille, qui servent de dents à cette belle personne.„

Voce ammaliante era quella del tenore Mario, bellissimo uomo. Giovanni dei marchesi De Candia, nato a Cagliari, ufficiale di Carlo Alberto, era fuggito in Francia per respirare libere aure. A Parigi, Emilio Belgiojoso, che amava il canto e cantava, lo incoraggiò all'arte; e il De Candia si diede alle scene col nome di Mario.

Eccellente patriota anche quel Mario!... Amico del Mazzini, apriva anch'egli la propria casa di Parigi agli emigrati italiani, e gareggiava coi principi Emilio e Cristina nel soccorrerli.

Piccolo di statura, l'autore di Roberto il Diavolo compariva nel salotto con un serafico sorriso, e facendo un profondo inchino alla principessa. Durante la conversazione, il maestro Meyerbeer stava zitto, solo esprimendo con esclamazioni ah! oh! calda ammirazione ad ogni frase, anche insignificante, che cadeva dalle labbra della dea. Egli aveva una terribil paura dei gatti. Di tratto in tratto, gettava qua e là spaventato gli sguardi, credendo di vederne spuntar qualcuno sulla soglia dell'uscio o sotto il pianoforte. Non andava a dormire, senza esaminare ansante sotto il letto, se mai vi fosse annidata qualcuna di quelle bestie, delle quali Teofilo Gautier andava pazzo a tal segno da tenerne una dozzina in casa, sulle poltrone e fra le rare porcellane; e l'autore di Mademoiselle Maupin descrisse il gatto, nello [183] studio sul Baudelaire; le sue poche pagine squisite, scintillanti, vincono tutto il volume fisiologico che sulla domestica belva, pure cara al Petrarca, pubblicò il Rajberti di Monza. Enrico Heine e Gioachino Rossini andavano a gara (un duetto!) nel burlare, davanti alla principessa, il maestro Meyerbeer. Il Rossini diceva: “Oh, la mia piccola musica si eseguisce facilmente. È la grande ch'è difficile!„ E alludeva alla musica del Roberto.

Gioachino Rossini viveva giocondo, ma allora senza lussi. I suoi capolavori gli aveano fruttati pochissimi quattrini; e quando poteva riceverne dagli editori, n'era tutto beato: li riponeva in un ripostiglio, li teneva nascosti come un tesoro geloso. Fu sotto il secondo Impero che l'autore del Barbiere di Siviglia guadagnò fior di ricchezze. Egli era intimo amico, allora, del re delle finanze, il banchiere Rothschild, il quale gli diceva: “Caro maestro! Domani alla Borsa giuocate così e così, questo e questo....„ Il maestro s'affrettava a giuocare, naturalmente; e vinceva.


Ed ecco due pianisti di gran fama entrano nel salotto: Sigismondo Thalberg, ginevrino, e Teodoro Döhler, che, non ostante il cognome tedesco, vide la luce nella culla della melodia italiana: a Napoli. Il primo, ruvido, avido di denaro; il secondo, gentile, avido di sorrisi principeschi.

Il Thalberg componeva variazioni e fantasie su una folla di opere; fantasie e variazioni complicate, di pessimo gusto, che stanno all'arte come i giuochi d'un acrobata alle carole d'una [184] Elssler. Le sue mani correan rapidissime sui tasti come lucertole sulle pietre. Il Döhler era più geniale: suonava perlato: un incanto di grazia. Sul ritmo delle sue scarpe inverniciate, ei passava di salotto in salotto, dove ripetea un proprio notturno preferito (quello in re bemolle) che godè gran voga.

Teodoro Döhler era stato un fanciullo prodigio. A tredici anni, le sue esecuzioni al pianoforte strappavano al teatro del Fondo di Napoli battimani fragorosi, urli d'ammirazione. Suo padre venne chiamato a Lucca per l'educazione di quei principi, e portò seco il piccolo Teodoro nell'artistica, silente città toscana, che pare un asilo di sognatori. Pochi mesi dopo, Teodoro seguì il duca a Vienna; e là, alla scuola di Carlo Czerny, allievo di Beethoven, maestro di Liszt, insuperabile nell'insegnamento della meccanica pianistica, stupì tutti: — a soli diecisette anni, venne nominato pianista del duca di Lucca; e accompagnò il principe nelle peregrinazioni per l'Europa, componendo fantasie sulla Norma, su Zampa, sul Roberto il Diavolo, opera, quest'ultima, ricca di colore, ma troppo lunga (non è vero?) trattandosi del diavolo, che ama far le cose presto!... In un giro artistico in Germania, le bionde Margherite restarono rapite al delicatissimo tocco di quel Faust del piano; ma fu a Parigi, e precisamente nel salotto della Belgiojoso, ch'egli venne consacrato maestro.

I buongustai, non ostante la presenza del Thalberg (detto da madame de Girardin “il re„) preferivano il Döhler quale esecutore al pianoforte. [185] Le maniere del giovane pianista, imparate a Corte, così diverse da quelle di tanti altri artisti alla moda, incliti villani, piacquero anche alla gran dama milanese, certo più del talento delizioso. Le loro conversazioni alla sera si protraevano, destando inutili gelosie in Enrico Heine, che attanagliava il preferito con acerbi motti e risate. Tanto preferito, che la dama ne accolse il bacio fecondo....

Un giorno, Teodoro Döhler si congeda dalla principessa e da Parigi: e vola oltre la Manica ad altre conquiste, ad altre incoronazioni. Poi passa fra i mulini dell'Olanda e fra le slitte della Russia. Le sue mani s'aprono orizzontali sul cembalo, e solo colle dita ricurve toccano i tasti. Ma una principessa russa, Tschermeteff, vuole quelle mani per lei sola; vuole stringerle davanti all'altare. Ella porta una ricca fortuna al maestro, che ritorna colla sposa sotto il nativo cielo d'Italia; ma una malattia di languore lo assale, lo consuma, e lo spegne il 21 febbrajo 1856.

Sui leggii dei pianoforti, si trovano ancora alcuni pezzi del Döhler, ne' quali risplende la grazia ch'egli sfoggiava nell'eseguirli. I suoi Lieder essendo imitazioni delle melodie dello Schubert, subirono, invece, la sorte di tutte le imitazioni di questo mondo. Enrico Heine lasciò in Lutezia questo ricordo del Döhler: “Comme le plus grand d'entre les petits, nous nommerons ici Théodore Döhler.„


Tempeste, turbini, come gli uragani delle sue lande ungariche, sollevava Francesco Liszt sul [186] cembalo; e le sue mani ossute e adunche come quelle d'un vecchio avaro volavano fulminee sui tasti, e la sua lunga chioma apollinea svolazzava, e tutta la sua magra persona vibrava, agitavasi, e l'aria tremava.

Un altro glorioso straniero, un altro amico della Belgiojoso, un polacco, Chopin, sedeva al piano.... Altra musica la sua! Musica dolente. Nella melanconia di quelle note profonde, sembra che gema l'anima della Polonia. La principessa ammirava grandemente Chopin, anche perchè le rappresentava una terra sorella all'Italia nelle sventure e nelle speranze. Parecchi esuli polacchi si univano cogli esuli italiani nel salotto della Belgiojoso a Parigi; e anche per essi era pronta la borsa della generosa gentildonna.

Ai primi del 1834, la principessa polacca Czartoriska, nata principessa Sapieha, commossa alle lagrimevoli miserie di tante famiglie polacche rifugiatesi in Francia, avea fondata a Parigi una società di beneficenza, tutta di signore; e, nella schiera, brillava primo il nome della principessa Belgiojoso, accanto a quello della signora di Lamartine, moglie del poeta, e al nome della contessa di Montijo, madre di colei che divenne imperatrice di Francia. E balli, e concerti, e fiere.... tutto veniva allora escogitato per accrescere i sussidii; e a quei balli, a quei concerti pubblici, a quelle fiere di beneficenza, la principessa lombarda emergeva per la singolarità della bellezza e degli abbigliamenti, scelti e adatti all'occasione.

Gli esuli polacchi, come gli esuli italiani, portavano in cuore l'immagine sacra della patria; [187] se non chè, fra gl'italiani non iscoppiavan mai le discordie feroci, che spesso obbligavano i fratelli della Polonia a metter mano alla spada e lanciarsi a duelli fra loro.[72] Superfluo è il rammentare che, nel glorioso 29 novembre del 1830, i Polacchi si sollevarono contro la tirannia moscovita: superfluo il ricordare le lotte dei Polacchi contro le decuple forze dei Russi, lotte che durarono fino al settembre dell'anno dopo: i nomi del Chlopiçki, del Czartoryiski, dello Skrzyneçki, del Dembinski, splendono a caratteri d'oro nella storia degli eroi. La terra polonese fu seminata di cadaveri dal vincitore feroce; e fu allora che la terza colonna polacca potè attraversare la Germania e arrivare in Francia, a Parigi: altri Polacchi esularono nel Belgio, nell'Inghilterra, nella Germania, nella Svizzera; fu un lungo esodo di superstiti esacerbati, mestissimi, che si sparsero per l'Europa a mostrare di quali ingiustizie nefande era capace il despotismo della Santa Alleanza. Ma a Parigi, dove nel 1830 era stato lanciato il grido della rivolta e l'appello all'emancipazione dei popoli oppressi; a Parigi, dove si preparavano le nuove rivendicazioni, i Polacchi, più che altrove, trovarono larga eco alle loro aspirazioni di libertà; il popolo stesso li acclamava. Tutta una ricca letteratura cosmopolita sorse allora a favore della Polonia; letteratura segnatamente poetica, che [188] durò lunghi anni, e tenne deste le sacrosante ragioni di quel popolo degno d'augusti destini.


Nessuna donna allora a Parigi, — neppur la classica tragica Rachel — vide curvarsi dinanzi tante fronti di pensatori, di poeti, d'artisti, come la Belgiojoso; ed era omaggio reso a lei e all'Italia, ch'ella rappresentava nel centro della civiltà europea colla magnificenza delle gentildonne del Rinascimento, coll'attraenza della donna liberale moderna.

Anche tre pittori francesi di grido andavano nel salotto della Belgiojoso, dove tutte le arti belle aveano altare: il pittore Gérard, Enrico Lehmann, e il Delacroix, che finì col detestar la Belgiojoso. Il Delacroix non era entusiasta, come altri, della pallida bellezza della principessa; eppure era romantico e amava i chiari di luna. Il solo sorriso della principessa gli rendeva il sentimento d'un essere vivente: almeno ei diceva così.

Madame Jaubert racconta ne' Souvenirs che la principessa lo avea invitato una volta a pranzo a Port-Marly, dove ella avea preso in affitto una villetta graziosa. Il Delacroix entra pian piano nella sala mentre la principessa, animatissima, questiona con Giacomo Alessandro Bixio, di Chiavari, uomo politico e semi-letterato, fratello di Nino Bixio, l'eroe garibaldino dei Mille.

All'apparire del Delacroix, i duellanti troncano la lotta per accogliere con onore il celebre pittore di Dante e Virgilio; ma la ripiglian ben presto, e più accesa. La tenacissima italiana sostiene [189] (al pari del Gioberti) la superiorità dell'Italia sulla Francia; non ammette neppure un dubbio!... Il Bixio, benchè d'origine italiana, sostiene che gl'italiani serbano in petto le loro convinzioni, laddove i Francesi, più franchi, non potrebbero sopportare in silenzio l'oppressione e si batterebbero subito.

— Non capisco, signor Bixio, — esclama la principessa, — non capisco come, essendo voi d'origine italiana, osiate esprimere tale giudizio!

Il Bixio ridendo (il che irrita la superba milanese) risponde: Io non dubito che, una volta appassionatisi, gl'Italiani si batterebbero bene per sostenere una causa; ma essi non lo farebbero di sangue freddo, per principio.

— Par principe! — grida la principessa in francese, bollente di collera improvvisa; — qu'entendez-vous par là?... Quel est le principe, pour un Français, qui ne fléchisse pas devant....

E qui, secondo Madame Jaubert, la principessa si sarebbe lasciata andare a una frase punto gentile verso i Francesi; ma non può essere, assolutamente; poichè nessuna volgarità poteva uscire da quelle labbra di gran dama. La Belgiojoso avrà risposto bruscamente, non ne dubito; ma in modo conforme alla sua eletta educazione. Tuttavia, un glaciale silenzio seguì alla risposta della principessa. Il Delacroix si levò tranquillamente e si diresse verso la porta del giardino. Quando s'annuncia il pranzo, la Belgiojoso manda il domestico Pietro ad avvertirne l'assente convitato: ma, dopo qualche istante, il servo ritorna dichiarando che il signore è [190] partito. Tutt'i presenti si sforzarono, quella sera e dopo, a far comprendere che avevano dimenticato una parola sfuggita alla collera; ma Eugenio Delacroix non pose più piede in casa dell'illustre italiana.


Buon amico della principessa era il pittore Gérard. Il vecchio autore di Psiche che riceve il primo bacio d'amore sorviveva al genere di pittura che lo avea reso celebre in Francia. Colui che un giorno era chiamato il pittore dei re e il re dei pittori, seguiva fedelmente il caposcuola dei classici, David. Imitava con gelido pennello la bella antichità, il cui ideale pareva risorto, ma per morire soffocato fra le efflorescenze del romanticismo trionfante. Il buon Gérard voleva nelle proprie adunanze la principessa Belgiojoso, e andava spesso da lei, lieto di riceverne un sorriso di ringraziamento.

Quando la Belgiojoso cominciò a frequentare le piccole stanze del Gérard in cui si protraevano fino a tarda ora i crocchi animati, erano scomparsi i personaggi che, prima della rivoluzione del luglio 1830, si facevano ammirare per quella delicatezza elegante e per quella dignità semplice e naturale che formavano il precipuo carattere del ramo primogenito dei Borboni. Vi andavano tre amici italiani: Terenzio Mamiani, il conte Carlo Pepoli e Gioachino Rossini, che cantava egli stesso le arie del suo Barbiere di Siviglia con un brio indiavolato; v'andava un poeta estemporaneo allora assai noto, Luigi Ciconi, e oggi ignotissimo. Fido al Gérard, il Ciconi [191] ne raccolse l'ultimo sospiro dopo d'averlo, coll'ardore d'un missionario, infervorato alla Fede e invaghito del cielo. Madame Ancelot, che ci fornisce questi ragguagli nel libriccino spirante bontà Les salons de Paris: foyers éteints, delinea la principessa Belgiojoso come eccitata dall'ambiente:

Sa vive imagination, excitée par les scènes tumultueuses de notre époque, ne pouvait se restreindre aux paisibles émotions et aux succès fémenins que l'on trouve dans les salons. Il lui fallait les émotions de la révolte et les succès du forum.

Nelle salette del Gérard, non s'incontrava più il tozzo Stendhal, l'impenitente innamorato di Milano; non più il cortese e furbo italiano Pozzo di Borgo, che a Parigi faceva della diplomazia moscovita col titolo d'ambasciatore; vi s'incontrava il dolce, raccolto poeta patrizio, conte Alfredo de Vigny, il poeta delle anime tranquille. Strano! Nella casa del Gérard andava frequente un pittore ch'era tutto l'opposto del Gérard: appunto quell'Eugenio Delacroix, pieno di slancio, di foga, d'ispirazione romantica, che lo avea fatto dimenticare. Ciò prova quanto il Gérard fosse di carattere buono ed elevato. Quanti così?...


Il Gérard entrava nel salotto della principessa Belgiojoso accompagnato da un pittore, tedesco di nome e di nascita, ma francese per elezione: Enrico Lehmann.

Il Delacroix d'Italia, Francesco Hayez, principe della scuola romantica fra noi, ritrasse un giorno [192] Cristina Belgiojoso in un ritratto, mirabile per raro valore artistico, ma poco rassomigliante. Il vero, il sovrano ritratto della principessa è quello dipinto da Enrico Lehmann, a olio, grande al vero, e la cui fotografia fregia la prima pagina di questo libro.

Il Lehmann depose su quella tela due tinte dominanti: il bruno e il bianco; ma quale impressione profonda desta quel ritratto nell'animo di chi lo contempla!

Qui contempla ce front bien fait pour un musée

Dans ces grands yeux pensifs reviendra lire encor,

Tant cette belle femme est gravement posée

Sur son escabelle à clous d'or.

D'aussi beaux cheveux noirs, couronnés d'une tresse,

Eurent-elles jamais bandeau plus opulent,

Ces muses qu'on voyait, au doux pays de Grèce,

Fouler les vallons, d'un pied blanc?

Così un poeta francese, Augusto Desplaces, descriveva quel ritratto in rima, mentre il Balzac della caricatura, Gavarni, lo rifaceva grottescamente in prosa su un periodico: la caustica prosa del suo lapis: e lo intitolava: un cas de cholera!

Quando il ritratto della principessa apparve esposto al Louvre, gran folla lo ammirò. Non è uno dei tanti ritratti; è una biografia, è la visione della principessa.

Cristina Belgiojoso è seduta sul ricco sgabello, di cui parla il poeta. Ha una larga veste bianca, dalle rigide pieghe, che le ricadon dalle spalle avvolgendola quasi in un peplo di sacerdotessa druidica. Il volto ovale, incorniciato dai capelli [193] neri, lisci, pallido d'un pallor di morte, è rivolto a noi: e quei due grandi neri occhi sembra che vogliano scrutarci, per istrappare il nostro segreto. Quel ritratto passò a Milano. Nel rosso salotto della marchesa Luigia Visconti d'Aragona (colei che la principessa chiamava teneramente sorella) quel ritratto illuminava tutta una parete col suo chiaror di fantasma dominatore.

Enrico Lehmann è famoso per altri ritratti: del Liszt, di madama d'Agoult, della moglie d'Arsène Houssaye, di Alfonso Karr. Nel 1852, fu incaricato di decorare la sala delle feste all'Hôtel de Ville a Parigi; ed egli ebbe l'eroico coraggio d'eseguirvi in soli dieci mesi cinquantasei composizioni. Negl'incendii della Comune, quelle pitture furon divorate dal fuoco coll'intero palazzo.


Quali altre magnifiche figure d'immortali vediamo ora nel salotto di Cristina Belgiojoso a Parigi? Ecco due sovrani dell'immaginazione: Victor Hugo e Alessandro Dumas padre.

Quando sulla soglia del salotto della Belgiojoso, appare la nobile figura di Victor Hugo, sembra che comparisca un nume, tanto gli sguardi curiosi e reverenti si rivolgono a lui. Ed egli è, veramente, il dio del romanticismo; è il grande poeta delle immagini come il Balzac definisce, nello studio sullo Stendhal, il poeta delle Orientales, che dell'Oriente ha i fulgori. Mentre il Balzac è il descrittore freddo, spietato, formidabile, delle misere realtà umane, Victor Hugo è l'infiammato cantore degl'ideali; è il vindice dei calpestati diritti del popolo, il poeta [194] dell'umana giustizia con visioni sideree. Quando ei siede accanto alla principessa, ella sembra una delle visioni incarnate del sommo poeta. Le signorine avvicinandosi a lui, s'inchinano; si dan l'aria d'angeli in adorazione; e passando davanti allo specchio, guardano forse (chi sa?) se son loro spuntate le ali.... L'eccelso poeta diffonde luce dintorno, luce nei cuori dei giovani; eppure neanche allora il centro del salotto della Belgiojoso diventava Victor Hugo; rimaneva Cristina Belgiojoso. Forse per questo, Victor Hugo, che voleva essere idolatrato, metteva di rado il piede nel salotto?...

Alessandro Dumas padre interviene di tratto in tratto ai sabati della principessa, che aveva scelto quel giorno per le riunioni numerose; e una volta l'autore del Conte di Montecristo ha il coraggio d'entrare, tutto raggiante di gioja, colla propria amante, l'attrice Ida Ferrier, una bellissima creatura bionda, le cui perfezioni di statua greca son decantate da un magico descrittore della bellezza, Teofilo Gautier, nel libro Les belles femmes de Paris. Ida Ferrier, nata a Nancy da una levatrice e da un padre che si fece conoscere con qualche ritardo, rappresentò nel dicembre del 1837 a Parigi, nella tragedia di Alessandro Dumas padre, Caligola, la parte di Stella. Le intime relazioni di lei col romanziere più immaginoso della terra, non erano più un mistero per alcuno. La principessa accolse con sorridente cortesia il Dumas, ma non degnò nemmeno d'uno sguardo l'attrice, la quale, invece, era entusiasta della principessa, dell'Italia e degl'Italiani.

[195]

E il Balzac? Il possente romanziere incontrò e conobbe la principessa presso il pittore Gérard; ma ella non gli piacque, se dobbiamo credere a quanto egli scrisse alla sua madama Hanska, divenuta poi sua moglie:

“Elle a le bonheur de me déplaire.... Sa maison est bien tenue; on y fait de l'esprit. J'y suis allé deux samedis; j'y ai diné une fois; ce sera tout„

Henry Beyle (o Stendhal) che amò tanto Milano dove, venutovi al domani della battaglia di Marengo, trovò un ideale adorato (ma invano adorato) in Matilde Dembowski, — ci mostra nella sua troppo lunga Chartreuse de Parme una Gina Pietranera, radiosa stella follemente amata da un potente diplomatico, Mosca. Costui (ch'è sposato) brama d'averla vicina senza pericoli; perciò la fa maritare a un vecchietto settuagenario “immensément riche„ il duca Sanseverina-Taxis. La duchessa Sanseverina è Diana colla voluttà di Venere, colla soavità delle Vergini di Raffaello, colla passione italiana, — osserva il Balzac nel suo Étude sur Henry Beyle; e aggiunge che, nello stesso tempo, è Madama de Montespan, Caterina de' Medici e Caterina II.... E il Balzac crede di trovare l'originale di tanto ritratto nella principessa Belgiojoso!...

“M. Beyle a-t-il eu quelque femme en vue en peignant la Sanseverina? Je le crois. Pour cette statue, comme pour le prince et pour le premier ministre, il y a eu nécessairement un modèle. Est-il à Milan? est-il à Rome, à Naples, à Florence? Je ne sais. Quoique je sois intimement persuadé qu'il existe des femmes comme la Sanseverina, mais en très-petit [196] nombre, et que j'en connaisse; je crois aussi que l'auteur a peut-être grandi le modèle, et l'a complétement idéalisé. Malgré ce travail qui éloigne toute ressemblance, on peut trouver dans la princesse Belgiojoso quelques traits de la Sanseverina. N'est-elle pas Milanaise? N'a-t-elle pas subi la bonne et la mauvaise fortune? N'est-elle pas fine et spirituelle?

Quest'era una delle tante fantasie del gigantesco romanziere. Enrico Beyle non s'era neppur sognato di prendere la Belgiojoso per modello della duchessa Sanseverina idolatrata da un Mosca; — nel quale Mosca il Balzac ravvisa.... chi mai?... il principe di Metternich; proprio quel Faraone dell'assolutismo, che Cristina detestava.

Lo studio del Balzac apparve nella Revue parisienne del 25 settembre del 1840; e al Balzac rispose nel 30 ottobre lo stesso Stendhal, allora console di Francia a Civitavecchia, e rivoluzionario. Riguardo alla principessa Belgiojoso, lo Stendhal gli risponde che s'inganna: “Je n'ai jamais vu madame Belgiojoso„; ed aggiunge che non ha neanche voluto copiare il principe di Metternich da lui veduto solo nel 1810, quando il bellissimo e dispotico principe portava un braccialetto formato con una ciocca di capelli d'una signora C.... M....[73]

[197]

Un poeta (successo poi ad Alfredo de Musset nel soglio dell'Accademia) sperava di spetrare anch'esso l'animo della diva lombarda; era Vittore de Laprade, artefice di lamartiniani versi melodiosi, e autore d'un delicato poema Psiché pel quale passa un soffio panteistico antico.

Il buon Laprade credeva di trovare nella principessa la sua “anima gemella„. Pretendeva di suonarlo egli un sempiterno a solo di flauto, in mezzo a un'orchestra piena d'ardori....


Il sospiroso Alfonso Lamartine non andava dalla principessa, che, conoscendo il poeta delle Meditations e delle Harmonies ben poco amico dell'Italia, non volea vederselo dinanzi. Vi andava bensì Guglielmo Pepe, il cui cugino Gabriele Pepe avea sfidato il Lamartine a duello per la famigerata frase sull'Italia “terra dei morti„. Guglielmo parla con onore della principessa nelle proprie Memorie, là dove con gratitudine ricorda averlo la generosa compatriota protetto un giorno, in un pericoloso frangente, presso un signor Denis, maire d'Hyères.[74]

Anche lo Chateaubriand rendeva omaggio alla Belgiojoso. Nei Mémoires d'outre-tombe, egli la ricorda.[75] Così le rendeva omaggio Carlo Agostino Sainte-Beuve; così il Quinet; così il Cousin.

Tocca ora un posto d'onore a un poeta grandemente [198] stimato dalla principessa e da tutti i più chiari esuli italiani: il poeta Augusto Brizeux, traduttore della Divina Commedia. Il Mamiani scriveva di lui da Parigi al direttore dell'Antologia di Firenze, il prezioso Vieusseux: “È raro modello alla patria sua, di gusto purissimo ed elegante, e d'una soavità e naturalezza veramente antica; autore del bellissimo poema Marie e di una versione di Dante, quella che insino a qui è meglio riuscita in Francia a far sentire l'originalità e la profondità dell'Omero italiano.„[76]

E Augusto Barbier, al quale Terenzio Mamiani dedica gl'Inni sacri?... Il Mamiani ama anche il poeta dei Jambes: lo ama per “l'affetto grande che porta alla nostra Italia e per la compassione sincera che mostra delle sventure di lei„.[77]

Ma altri poeti venivan presentati alla principessa, del cui carattere italianissimo e del cui salotto di Parigi ben giustamente rileva l'alto valore l'Hanotaux nel libro su Henri Martin, — altro francese, questo, amico d'Italia nei lieti e, più, nei tristi giorni. “Elle fut avec plus de flamme ce que M.me du Deffand avait étè, au XVIIIe siècle, avec plus d'esprit; et vingt ans plus tôt, M.me Récamier, avec plus de majesté: elle fut un centre.... Personne ne fit plus qu'elle, en France, pour la propagation de l'idée italienne. Elle lui consacra sa vie, sa fortune, son cœur.„

[199]

Ah, la patria lontana, della quale la principessa avea illustri campioni sì vicini, come un Mamiani, un Rossini, un Bellini, un Gioberti, un Michele Amari! È lo storico, quest'ultimo, dei Vespri Siciliani, che preludiavano ad altri vespri; profugo dal regno borbonico delle Due Sicilie; modesto nella sua dottrina. Di tratto in tratto, l'Amari visitava la principessa; onde a un amico ei scriveva da Parigi: “Per lo più passo qualche ora dal marchese Arconati milanese, la cui moglie è molto istruita, da M. Thierry, che mi vuol bene, e dalla principessa Belgiojoso ch'è simpatica sempre!„[78]

Agli occhi della Belgiojoso, l'Italia era rappresentata da un'altra figura, che non si mescolava colla folla del salotto; che di rado andava a visitare Cristina Belgiojoso, ma l'apprezzava; un singolare ingegno, che dovea tragicamente finire sotto il pugnale della canaglia: Pellegrino Rossi.

Nella storia italiana del Quarantotto, questo nome purissimo è cinto dall'orrenda macchia d'un delitto; nella storia degli ordini liberi, risplende di luce perpetua. Il suo volto parea quello d'un'erma greca, tanto fini si disegnavano i lineamenti, e così placido, fortemente placido, era l'aspetto. Il Rossi, che lasciò ai posteri il Trattato di diritto penale; che fondò col Guizot la scuola politica dottrinaria, titolo poi falsato e significante la malattia, la degenerazione d'un sano concetto; il Rossi, che fondò col Sismondi, col Bellot, con Stefano Dumont, gli Annales de législation [200] et de jurisprudence, ne' quali scolpisce, come nel porfido, la teoria dei “principii dirigenti„ per l'interpretazione delle leggi.... quel Rossi nato a dirigere popoli e stati, poichè avea sortito da natura tempra di statista, era poeta, e amava i romantici. Presso Ginevra, dove, esule volontario, s'era rifugiato in una piccola campagna, Pellegrino Rossi si alimentò della poesia funerea e grandiosa del Byron, poesia che sembra l'addio supremo a un mondo di rovine. Due erano i poeti degli esuli: Dante, il “ghibellin fuggiasco„, e Giorgio Byron, l'errante bardo, che a Milano, fra gli uomini del Conciliatore, si svelò carbonaro, e che oro, vita e canto immortale offerse all'indipendenza della Grecia. Quanti lampi del Byron balenano sulla prosa dello stesso Mazzini!... Non parliamo poi delle pagine di Carlo Bini e del Guerrazzi.

A Ginevra, Pellegrino Rossi venne da liberi suoi ammiratori innalzato alla cattedra di diritto romano: era la prima volta che, dopo trecento anni, fosse aperta a un cattolico l'Accademia di Calvino. Ma le continue malevolenze dei piccoli che addentano i piedi dei grandi, finirono coll'infastidire quel grande; e poichè al Collegio di Francia per la morte di Giambattista Say era rimasta vacante la cattedra di economia politica, il Rossi vi concorse, e, nel 1833, ecco egli parla autorevole da quella cattedra. E poco dopo, egli, benchè italiano, insegna diritto costituzionale alla gioventù francese; il che solleva scandalo, tempeste nella scuola; ma egli, impassibile, gira lo sguardo penetrante sulle teste agitate; e il suo [201] tumultuoso uditorio lo applaude appena può intenderlo. Così il Mignet stesso rammenta nelle Notices et portraits; il Mignet che, al pari del Guizot, incontrava talvolta il Rossi presso la Belgiojoso nelle ore riserbate ai più eletti.[79]

Pellegrino Rossi parlava il francese dei classici francesi; precisamente come lo parlava la principessa Belgiojoso; la quale mai sarebbe discesa alle vivaci monellerie di Gyp!... Pellegrino Rossi “était un improvisateur concis et un démonstrateur élégant„, notava il Mignet. Ma erano tutti così quei grandi maestri italiani, che continuavano la tradizione latina, per la quale il vero non esclude il bello, la scienza non esclude l'arte!

Eppure, non ostante il genio, la dottrina e il coraggio contro la sventura, gl'italiani erano malmenati a Parigi; i poveri italiani, che solo anelavano alla liberazione della patria. Sulla fine del 1833, lo Scribe nella commedia Bertrand et Raton, e Hugo nella Marie Tudor, offesero gl'Italiani. Nel II atto di Marie Tudor, la regina infuriata contro l'italiano Fabiani, grida:

Oh! je devais le savoir d'avance: on ne peut tirer autre chose de la poche d'un Italien qu'un stylet, et de l'ame d'un Italien que la trahison.

E trascinando il Fabiani, urla:

Le poison! Le poignard! que dis-tu là, Italien? La vengeance traître, la vengeance honteuse, la vengeance comme dans ton pays!

[202]

Gli esuli nostri s'indignarono. I romagnoli Federico Pescantini e Angelo Frignani, direttori della rivista L'Esule, fondata nel 1832 dagli esuli nostri, a Parigi, e che usciva anche in francese (L'Exilé), inviarono allo Scribe e a Vittor Hugo una protesta. Il Pescantini mandò il milanese Marco Aurelio Marliani a Vittor Hugo, per chiedergli riparazione dell'oltraggio. Vittor Hugo rilasciò al Marliani una dichiarazione di simpatia per la Nazione italiana, la quale “presque toujours a eu en Europe l'initiative de la civilisation.„ E aggiungeva che i detti di Maria Tudor eran quelli d'“une femme aveugle et passionée„ — d'“une reine furieuse„ non già di lui, Vittor Hugo. Il Marliani e il Pescantini pubblicarono la lettera nell'Esule, e ne mandarono a tutt'i giornali di Parigi un “comunicato„; ma soltanto due o tre giornali la pubblicarono. Quel Frignani avea avuta avventurosa la vita. “Stette sedici mesi imprigionato, si finse pazzo, andò all'ospedale, ebbe permissione d'uscire per la città: fuggì domestico d'un maestro di scuola, che si spacciava conte e reggente dell'Università di Bastia„.[80]

Un altro dramma di Vittor Hugo, Lucrèce Borgia, pure scritto nel 1833, rappresentava l'Italia dei delitti. Un profugo milanese, amico dei Belgiojoso, il fulmineo barone Carlo Bellerio (un barone repubblicano incrollabile) fratello della dolce Giuditta Sidoli, la più intima amica del [203] Mazzini, mandò due altri esuli, il Marliani e certo Valentini, a chiedere una riparazione a Vittor Hugo. Il poeta rilasciò subito, anche allora, uno scritto ch'esprimeva le sue candide intenzioni; i due amici lo portarono ai giornali; ma nessuno lo volle pubblicare, come lo ricordava il grande patriota-cospiratore modenese Nicola Fabrizi, esule anch'egli a Parigi.[81]


Una sera, in casa della Belgiojoso andò anche il futuro grande ministro di Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour; e s'imbattè in una serata curiosa, nella quale la Belgiojoso, avida di esplorare ogni misterioso fenomeno, stava fra le tenebre intenta con alcuni amici ai picchi spiritici d'un tavolino.... Strano quell'ingresso del conte Cavour nella sala tenebrosa della principessa cospiratrice! Levata dal tavolino la catena medianica delle mani, e ricomparsa alfine la luce delle lampade, si vide sul canapè un giovane signore milanese profondamente addormentato. Era don Carlo D'Adda, il fiero gentiluomo tutto intenti pratici, il quale, annoiandosi nelle lunghe attese delle rivelazioni dell'altro mondo, avea pensato bene di schiacciarvi su un sonno filosofico. Il conte di Cavour, invece, mostrava d'interessarsi agli arcani esperimenti. Egli stesso, nel suo Diario, riferisce d'una seduta magnetica, presso la Belgiojoso a Parigi, nel febbrajo [204] del 1843; nella qual seduta, una sonnambula giocò una partita di carte avendo gli occhi bendati....[82] “Ma non mi ci coglieranno più,„ soggiunse.


E quale altro italiano dall'anima accesa comparisce nel salotto della Belgiojoso?... Un improvvisatore dalle folte chiome alla Nazzarena, dall'ampia fronte e dalla voce sonora: Giuseppe Regaldi. Egli s'avanza e improvvisa sull'Italia; e gli astanti, fra i quali Victor Hugo, rimangono ammirati a quell'onda impetuosa di versi. Victor Hugo gli dice: “Vous avez l'âme et vous avez la voix: courage, poète!„ E il vagabondo errò da Milano a Costantinopoli, da Atene a Parigi, dall'Egitto alla Nubia. Anch'egli faceva amare il nome d'Italia: ne pareva la voce ispirata.

Il salotto della Belgiojoso a Parigi era cosmopolita, come la metropoli dove raggiava. Ma su un'ara ideale, una gran fiamma vi ardeva continua, alimentata da quella superba Vestale vigilantissima: la fiamma dell'idea dell'indipendenza italiana. Maria Amelia, consorte di Luigi Filippo, non volle ricevere la Belgiojoso, che ne rise. Così ella rise di Paride Zajotti e del processo che costui le aveva imbastito a Milano; processo troncato da un comando dell'imperatore d'Austria. Così rise della burla tentata presso i Faraoni austriaci per farsi credere una buona suddita “ravveduta„.

[205]

XI. Le amiche e le nemiche di Parigi.

Ultimi anni di Madame Récamier e la Principessa. — Il brio di lady Blessington, lord Byron e la contessa Guiccioli a Parigi. — Giorgio Sand. — Daniel Stern e il Mazzini. — Il salotto della contessa Anna Dubourg, Sofia O' Ferrall e il conte Federico Confalonieri. — Il salotto di Madame Ancelot. — L'addio desolato del tenore Nourrit e l'apparizione della Principessa nel salotto di Madame Ancelot. — Un'accademia di quaranta donne immortali. — Intrighi femminili. — Madame de Castellane. — Madame de Girardin. — Teofilo Gautier viene in scena. — Le allegre serate in casa della contessa Merlin. — La disgrazia toccata a questa signora.

“Prima di tutto, è buona; poi, è intelligente; infine, è bellissima.„ Così la duchessa di Devonshire definiva Madame Récamier con quella limpida verità che di rado la donna tributa a un'altra donna, se colei è assai ammirata. Abbiamo detto in un antecedente capitolo che la Récamier accolse benevola la Belgiojoso appena l'esule principessa fissò dimora a Parigi; ora aggiungiamo che l'amò con trasporto d'affetto, senza ombra di gelosia: ella non ne aveva mai patite.

Certo non era allora più la seducente Récamier che il pittore David dipinse nel suo celebre quadro del Louvre, mezzo coricata su un sofà con [206] la testina alta, in una semplicissima sottil veste bianca che disegna il corpo fidiaco e lascia scoperto l'esile collo, le braccia languide e i piedi; quegli adorabili piedini incrociati....

Nata nel 1777, s'avviava ormai al sepolcro. La figura s'era incurvata; la cecità appannava gli sguardi; era scomparsa quella celestiale bellezza che avea accese violente passioni ad uomini e a donne; ad uomini come Luciano Bonaparte, come il principe Augusto di Prussia, nipote del grande Federico; come il duca di Laval; come il Laharpe; come il visconte di Chateaubriand, che a settantanove anni voleva sposarla per darle il glorioso suo nome; come il poeta Ballanche, brutto, goffo, e ch'ella, appunto per questo, consolò di soavi parole e assistette nell'ultima malattia piangendo all'estinguersi di quel cuore a lei religiosamente devoto.... Purissima in mezzo a una società impura, la Récamier ebbe l'infelicità di suscitare passioni anche alla violenta Madame de Staël, a lady Webb, alla regina Ortensia.

La Récamier non avea avuti che rapporti filiali verso il vecchio suo marito, il banchiere che Napoleone I fece d'improvviso fallire per un milione, gettando nella povertà l'impeccabile signora per punirla d'avergli resistito.... Giovanna Giulietta Bernard aveva sposato il Récamier in pieno Terrore, nell'anno stesso del supplizio di Maria Antonietta e del re Luigi XVI. La vita si trascinava allora in una specie di stupore ferale: sparivano amici, sparivano conoscenti; il popolaccio, accovacciato come una belva sitibonda di sangue ai piedi della ghigliottina, si divertiva [207] a veder rotolare teste di giovani dame, di fanciulle, di vecchi sacerdoti, di gentiluomini impavidi: e anche il signor Récamier andava quasi tutt'i giorni a veder ghigliottinare personaggi coi quali era stato in rapporti di banca, perchè, essendo sicuro di far anch'esso la tragica fine, volea avvezzarsi a quei selvaggi rulli di tamburo che coprivano gli urli di disperazione, a quegli orrendi patiboli. Fu salvo; e potè adorare sua moglie alcun tempo ancora.

La Récamier, negli ultimi suoi anni, teneva salotto all'Abbaye-aux-Bois, rue de Sèvres; orgogliosa de' trionfi de' suoi amici, devota alla loro memoria; poich'ella visse intera la vita per l'amicizia, questa luce dell'anima più rara che la luce dell'amore. Madame Récamier aveva abbandonato l'arpa, che sapea suonare con dolcezza; aveva abbandonato il pianoforte, e nulla, assolutamente nulla, tentava per mascherar la vecchiaja, ch'è sì bello lasciar venire serenamente co' suoi capelli bianchi, colle sue rughe, linee del mesto libro della vita.

Nel ricevere la Belgiojoso (questa lo raccontava spesso agli amici) la Récamier provava gran gioja, perchè le ricordava l'Italia ch'ella amava; l'Italia dove avea soggiornato; l'Italia dove (a Roma) avea conosciuto Antonio Canova, che modellò due squisiti busti di lei. Colpita, come Bianca Milesi, dal colèra, madama Récamier ne morì in dodici ore, l'11 maggio del 1849 a Parigi.

La baronessa di Staël era sparita fin dal 1817; ma l'influsso di quella formidabil donna, detta il Voltaire in gonnella, perdurava in donne come [208] la Belgiojoso, come la Sand, come un'altra amica della principessa: lady Blessington.

Vi sono gl'improvvisatori della poesia, della musica, dell'eloquenza: nella vita, abbiamo gli improvvisatori della simpatia. Vi sono esseri privilegiati che, appena si mostrano, accendono nei cuori simpatia irresistibile. Del bel numer'una, era lady Blessington.

Margherita Power, divenuta per il secondo suo matrimonio lady Blessington (il primo marito si chiamava il capitano Saint-Léger Farmer), era nata da un piccolo proprietario di quella irlandese contea di Waterford, dove più tardi vide la luce un'altra regina della moda, un'altra autrice di romanzi mordenti: l'avventurosa Maria Letizia Wyse, sposatasi prima al vecchio de Solms; poi al ministro d'Italia, Urbano Rattazzi; quindi al giornalista spagnuolo De Rute; morta nel febbrajo del 1902. Lady Blessington era un portento per la finissima bellezza, per l'eleganza suprema ch'ella imponeva alle dame inglesi; le quali la detestavano, non potendole perdonare l'audacia colla quale ella smascherava nei proprii romanzi l'ipocrisia dei puritani d'Albione. Fra i tanti romanzi sociali di lady Blessington, uno ne emerge: Le vittime della società; ma noi italiani dovremmo conoscere ancor più L'ozioso in Italia, che fa il pajo con l'altro suo libro d'impressioni di viaggi, L'ozioso in Francia. Nell'Ozioso in Italia, lady Blessington descrive gli azzurri del cielo di Genova, di Firenze, di Venezia, di Roma, i monumenti, i capi d'opera dell'arte moderna, la società italiana; [209] riferisce le conversazioni avute con lord Byron, al quale ell'aveva portata una lettera del poeta Tommaso Moore; ma non dice ch'ella viaggiava col marito e coll'amante suo, insieme, il conte Alfredo d'Orsay.... Erano i comodi costumi d'allora.... Lord Byron s'affrettò a informare di quella trinità viaggiante Tommaso Moore con un piccante biglietto da Genova, prima d'imbarcarsi per la Grecia insorta; biglietto che non venne tradotto da Carlo Rusconi fra le lettere del poeta d'Aroldo. Lady Blessington difese lord Byron contro le accuse lanciategli dall'Inghilterra: il suo Diario di Conversazioni con lord Byron contrasta simpaticamente colle infamie che sul grande poeta pubblicò nel 1869 Enrichetta Beecher-Stowe; questa arrivò al punto d'accusarlo d'amore incestuoso con la sorellastra Aurora Leight; e non si accorgeva che con sì orrenda accusa, avventata nella Vera storia di lady Byron, macchiava il fulgente alloro guadagnatosi colla Capanna dello zio Tom, che tanto contribuì a spezzare le catene degli schiavi americani. Ma l'accusa era vera!

La principessa Belgiojoso apprezzava il coraggio di lady Blessington, di questa bella Amazzone della letteratura inglese, e si divertiva a udirla parlare con tanto spirito delle gelosie della povera Teresa Gamba contessa Guiccioli, l'amante di lord Byron, la quale, perduto il glorioso e bellissimo amico suo nel 1824, morto in Grecia, non seppe consolarsene neppure fra gli spassi di Parigi e della corte di re Luigi Filippo, dove, come un fiore del giardino italico, venne [210] portata dal secondo marito, il marchese de Boissy. Questo gentiluomo francese non era meno balordo del vecchio conte Guiccioli di Ravenna, il primo marito della charming contessa Teresa, come lord Byron definiva quella damina molto piccola, molto bionda, molto bianca di carni, molto opulenta nel busto stretto alla vita, molto seducente nel sorriso. Si racconta che il marchese de Boissy presentasse al re Luigi Filippo la sposa con queste parole: “La marquise de Boissy, ma femme, ci-devant maîtresse de lord Byron!„ Quando lady Blessington andò a trovare a Genova lord Byron, questi si divertì a corteggiarla sotto gli occhi di milord Blessington, del conte d'Orsay e della charming Guiccioli, che ne sentiva (dicea la brillante scrittrice) tutti gli aghi della gelosia. Lady Blessington morì a Parigi nel suo palazzo di rue du Cercle; la contessa Guiccioli (che andava pure a visitare la Belgiojoso, subendone sorridente la superiorità intellettuale) morì settuagenaria a Firenze co' suoi antichi riccioli a spirale sulle tempie e colla sua grazia innata, che gli anni non aveano illanguidito d'una sfumatura; morì dopo d'aver difeso anch'essa il suo adorato indimenticabile poeta.... colla penna! L'amore che fa tanti miracoli, fece anche quello di trasformare la colta dilettante di poesia in vera autrice. Chi oggi può leggere il libro che la Guiccioli pubblicò a Londra: Ricordanze di lord Byron?... È quasi introvabile.


Entusiasta per la principessa Cristina Belgiojoso si mostrava (dice Camillo Cavour nel Diario [211] inedito) Madame de Boigne. Questa dama, autrice dello squisito romanzo Une passion dans le grand monde, era moglie di quel Boigne che durante il regno di Luigi Filippo primeggiò fra gli eroi del Jockey's Club e del Café de Paris: un semidio della moda.

Ma più delle ammirazioni di madame de Boigne, importava a Cristina l'amicizia calda e sincera d'una grande scrittrice: Giorgio Sand.

Nei crocchi mondani di Parigi, si ripeteva che la Sand avesse fatto lega colla Belgiojoso perchè questa canzonasse lietamente Alfredo de Musset, concedendosi, mercè lo spirito della patrizia italiana, il lusso d'un divertimento, in compenso del bel filo da torcere che il poeta le aveva dato dopo la procellosa avventura erotica di Venezia. Ma sarà vero?... La Sand fece più male co' suoi romanzi che colle sue passioni. L'aurea lingua de' suoi libri non li ha salvati dall'oblio; eppure quali pagine risplendenti di bellezza ci offrono Valentine e Lelia e Spiridion e Les sept cordes de la lyre! Sì, di bellezza; ma come certi fiori tropicali, quelle pagine emanano aliti che turbano il cervello di chi non è forte. I romanzi della Sand sono i romanzi delle signore mal maritate, che a tutti i costi vogliono uscire dalle loro catene, e non s'avveggono delle ingiustizie ch'esse medesime, cieche, commettono a danno degli altri. La ciarpa tricolore del sindaco è ben di rado l'arcobaleno della felicità; le signore mal maritate lo sentono, ne soffrono, e s'afferrano disperate al collo dei giovani liberi, spesso inesperti, e ne struggono come edere per sempre [212] la vita, non immaginando nemmeno il delitto che, per soddisfare un febbrile egoismo, compiono dinanzi a quel Dio da esse tante volte implorato in ajuto dei proprii dolori.

La Belgiojoso amava grandemente la Sand, perchè questa tendeva a migliorare, come lei, le condizioni del popolo. La Sand fondò, infatti, un giornale settimanale col titolo: La cause du peuple, e divenne mazziniana fervente al pari di Madame d'Agoult.


Madame d'Agoult si mostrò mai amica della principessa Belgiojoso?... La natura le aveva create rivali. Tutt'e due volevano dominare nello stesso regno: Parigi. Tutt'e due s'eran gittate nei flutti della politica; ma Madame d'Agoult non possedeva il talento dell'italiana, per navigarvi sicura; non avea la meta dell'esule; meta fieramente contesa e bella: la libertà della patria. Madame d'Agoult, nota nella letteratura col nome di battaglia Daniel Stern, si limitava alla parte di seconda attrice.... con Giuseppe Mazzini. Le Lettres de Joseph Mazzini à Daniel Stern[83] mostrano quanta considerazione in materia politica, l'agitatore ligure nutrisse per quella donna; ma nella sua generosità di poetico sognatore egli scambiava talvolta per autentiche Minerve certe povere donnette....

Madame d'Agoult rappresentava anch'essa i liberissimi costumi femminei di quel tempo. Non mostrava alcun riguardo di viaggiare l'Europa [213] col ben chiomato pianista Liszt, e di portare trionfalmente in società (come per esempio nel salotto della dolce contessa Maffei a Milano) i segni di non legali ma feconde tenerezze.

Ben più attraente di Madame d'Agoult era la contessa Anna Dubourg, una specie di contessa Maffei di Parigi.

Gli emigrati italiani e polacchi, fra il '33 e il '44, ricevevano a Parigi cordiali, calde accoglienze dalla contessa Anna, come la chiamavano. La genialità più squisita splendeva ne' suoi sguardi e nella sua parola. Tutt'i frequentatori del suo salotto le porgevano omaggi di devozione; tutti, anche lontani, la ricordavano. Nessun ingegno forte e ardito in lei; ma una grazia dolce e sorridente che avvinceva gli animi. Gli emigrati lombardi andavano tutti in casa della contessa Anna; vi andava anche l'illustre capo de' congiurati del '21, il conte Federico Confalonieri quando, liberato dai lunghi, cupi martirii dello Spielberg, rivide Parigi; e fu là, nel salotto della Dubourg ch'egli incontrò Sofia O' Ferrall, la donna eletta che, commossa alle sofferenze del patrizio somigliante a misero spettro, ed entusiasta di quel carattere indomito, se ne innamorò; ed egli la fece sua seconda moglie, per avere una compagna, un'infermiera. La prima moglie del Confalonieri, l'incomparabile contessa Teresa Casati, morì consumata da un dolor solo, — per l'adorato marito prigioniero: — morì nel settembre del 1830 in Milano, senza aver potuto almeno una volta riabbracciare colui che, con un grido (ben raro) del suo cuore la [214] chiama nelle Memorie “martire santa dell'amor conjugale„.

Sofia O' Ferrall, danese d'origine, povera, era dama di compagnia della contessa Anna Dubourg; ma il superbo Confalonieri non fe' conoscere mai ad alcuno questo particolare. Noi ritroveremo più tardi, a Blevio, fra gli azzurri del lago di Como, in compagnia allegra, Sofia. La principessa visitava a Parigi la Dubourg: le voleva bene perchè schietta, perchè amica degl'italiani e dell'Italia.


Anche Madame Ancelot amava la patria nostra, ch'ella chiamava “ce fortuné pays de l'intelligence„ specialmente pei portentosi ingegni versatili, che la privilegiata terra nostra produce; “Il ne s'est trouvé un Michel-Ange qu'en Italie„ ella diceva. Terenzio Mamiani destava speciali ammirazioni in Madame Ancelot.... La buona signora ammirava in lui la conversazione finamente canzonatrice, spesso allegrissima. “La poésie et la philosophie donnaient un grand charme à ses paroles„ ella aggiungeva.

Il Mamiani, dai capelli ricciuti e baffetti sottili, con l'abito stretto alla vita e coi calzoni attillati (secondo la moda del tempo) era diventato il deus loci del salotto della Ancelot; la quale ne teneva religiosamente il ritratto appeso a una parete; e lo additava a tutti, dicendo: “Voilà mon doux Mamianì!„[84]

[215]

Era romanziera e fecondissima commediografa Virginia Ancelot, moglie di monsieur Ancelot, poeta, tragedo. Abitava nell'Hôtel de la Rochefoucauld, dove riceveva a braccia aperte i più illustri personaggi. Ed era anche pittrice. Un suo quadro mostra il suo salotto dagli ampii usci spalancati, con un gruppo caratteristico: lei, regina, scollata, — Victor Hugo giovane, vicino alla moglie, — e il poeta Parseval de Grandmaison, che declama de' versi. Questo vate da salotto era autore del poema epico Philippe Auguste, un immortale dell'Accademia, come monsieur Ancelot.... Poveri immortali.... morti!... In quella casa, aveva abitato un giorno lo scettico duca de la Rochefoucauld, autore delle Maximes et réflexions morales; Madame de Sévigné, ciarliera e arguta, vi era passata; i grandi scrittori del regno di Luigi XIV vi erano stati ricevuti con tutti gli onori delle armi.

Non contenta d'averlo ritratto col pennello, il suo celebre salotto (che gareggiava con quello della Récamier), Madame Ancelot lo ritrasse anche colla penna: Un salon de Paris 1824-1864; e vi appose un motto poco lusinghiero, veramente, pe' suoi bravi ospiti: “Et in Arcadia ego!„ Il dolce e gelido Alfredo de Vigny, la “casta diva„ della lirica; — Emilio Deschamps, che si sforzava a tradurre in francese la Divina Commedia; — Sofia Gay, romanziera, vociferante come una trecca, sprizzante veleno da tutt'i pori, maledica verso tutti; — sua figlia Delfina, che diventò Madame Emilio Girardin, dai begli occhi azzurri, dal naso aquilino, dalle labbra sottili, dal mento [216] duro; — e tutte, o quasi tutte, le stelle di prima, seconda, terza grandezza passarono nel salotto Ancelot; quante stelle in quarant'anni!... Un firmamento! — Vi andò, qualche volta, anche la principessa Belgiojoso. Vi andò per la segreta antipatia che la padrona di casa nutriva per le due muse Gay, madre e figlia?... Un profugo veneto, Antonio Caccianiga, lo descrisse così:

“Madama Ancelot riceveva una sera per settimana una società composta di accademici colleghi del marito, di letterati amici di lei, e di contesse del sobborgo di San Germano che amavano le belle lettere e gl'inni dei poeti. Ce n'erano di belle e di brutte, e chiedevano sovente un'ode, una canzone, una ballata pel pianoforte o per l'album. I Francesi, così compiacenti in simili cose, le contentavano tutte. Ignoro i loro componimenti, ma me li immagino; per le belle, avranno cantato qualche variazione della solita romanza: — Je pense à toi — e per le brutte? — Je pense à moi![85]

Oh i due deliziosi acquerelli-caricature del Gavarni: Elle va chanter! e Elle a chantè!...[86]

Sul tardi, quelle pareti in mezzo a profondo, sacro silenzio, risuonavano alle cadenze (poco piacevoli per noi italiani) di declamazioni di poesie francesi. Talvolta, le poesie eran così vivaci, che tutti si addormentavano....

Madame Ancelot aveva conosciuta la Belgiojoso intorno al 1832, in casa del pittore Gérard: [217] e l'incontrò poi in parecchi salotti parigini. “Elle ne m'attirait pas; elle m'étonnait.„ L'effetto che la strana apparizione faceva in quasi tutti.... E racconta questo aneddoto pittoresco:

“Mi ricordo d'una sera in casa del nostro illustre Berryer; — quell'Arturo Berryer oratore principe, del quale abbiamo le postume Œuvres parlementaires. Vi si eseguiva della musica; e Adolfo Nourrit (il famoso tenore di Montpellier che, avvilito pei cessati trionfi, si uccise poi sotto il cielo ridente di Napoli, e per il quale Rossini avea scritta la parte d'Arnoldo nel Guglielmo Tell), cantava là, per l'ultima volta. Quella sera, egli aveva ceduto ad una preghiera, alla quale non si può resistere; ma ciò che v'era di triste nel fondo del suo cuore traspariva, contro ogni suo sforzo, nelle inflessioni della voce e imprimeva una specie d'emozione alla società che sapeva de' suoi crucci e della sua partenza. Verso mezzanotte, mentre egli cantava e teneva l'uditorio sotto l'impero della sua simpatica malinconia, apparve, sulla soglia del salotto, la principessa Belgiojoso, ancora in lutto di sua madre. Ella portava una veste di seta bianca, ornata di jais neri. Il suo pallore sepolcrale, il suo abbigliamento funereo, i suoi grandi occhi neri brillanti, la sua persona alta e magra, tutto concorreva per darle l'aspetto d'un'apparizione d'oltre tomba. Ella rimaneva là, sulla soglia, ferma, immobile, come una statua di marmo. Arturo Berryer stava per andarle incontro; ma ella, d'un gesto imperioso, gli fe' cenno di non turbare il canto. Ella restò così, là, pallidissima, [218] senza movimenti, e così esile che pareva impalpabile.„[87]

La marchesa Vittoria Gherardini (che avea sposato in prime nozze un Trivulzio padre di Cristina e in seconde il marchese Visconti d'Aragona coinvolto quale carbonaro nei processi del '21 a Milano) era morta, infatti, a Parigi; e la principessa ne fece trasportare la salma nei sepolcri gentilizii ad Àffori presso Milano, come la madre cara le avea raccomandato sul letto di morte. La bella e animosa marchesa Vittoria fu l'ultima dei feudatarii di Àffori.


Ed ora un'altra scena: una scena di donne, degna di Carlo Goldoni e del Molière.

Elisa, la viril sorella di Napoleone I, che voleva tutto e diventar tutto, volle essere anche presidentessa d'un'effimera accademia di donne, sotto il primo Impero: e Madame Jules de Castellane non accontentandosi della notorietà acquistata a Parigi col suo teatrino in casa e co' suoi cavalli alle corse, vagheggiava anch'essa, al pari d'Elisa, un'Accademia femminile di quaranta donne immortali, con sedute solenni, con ricevimenti ufficiali, coi discorsi; una copia, insomma, dell'Accademia francese. Ma poichè possedeva almeno il buon senso di comprendere di non essere abbastanza capace per fondarla lei, l'accademia, ne affidò l'incarico alla ispiratrice sua segreta, Virginia Ancelot. Madame de Castellane non pretendeva neppure al campanello [219] di presidentessa: voleva affidarlo alla celebre mano che avea donato alla Francia i più appassionati romanzi: Giorgio Sand. Ma una furiosa avversaria scattò subito contro tale illustre candidatura; una giornalista, romanziera, commediografa, che non si reputava inferiore per nulla all'autrice di Lelia. Era Madame de Girardin. Chi avrebbe potuto resisterle?... Ell'era inebbriata dell'incenso che scrittori e artisti le prodigavano per ingraziarsi il marito di lei, il temuto Emilio de Girardin, padrone della pubblica opinione, coi prepotenti sommesso, coi deboli prepotente.

Non ostante il potere d'Emilio (era figlio naturale del generale Alessandro conte di Girardin) quella signora non veniva ammessa negli aristocratici salotti del faubourg Saint-Germain; ma ella sperava di debellarne le sdegnose ritrosie una volta che, divenuta presidentessa e regina d'un'Accademia di donne immortali, avrebbe potuto invogliare del nuovo, alto consesso le marchese e le duchesse più o meno intinte di letteratura; queste non avrebbero respinte allora le sue visite; e le avrebbero (così sperava.) aperto l'Olimpo del blasone, in compenso dell'Olimpo della penna.

Scoppiò il conflitto. Gli animi più o meno letterarii s'appassionarono. Gli uni, con Madame Ancelot, sostenevano la candidatura della Sand; gli altri, con Madame de Girardin, sostenevano la candidatura.... di Madame de Girardin. Ma la Sand, non ostante il suo coraggio in tante, anzi in troppe cose, non si sentiva d'accettare. Non [220] voleva accettare neppure Madame Charles Reybaud, romanziera assai stimata, timida signora, E allora gli sguardi si rivolsero sulla grande patriota italiana, che in quell'anno (era il 1843) attirava più che mai l'attenzione di tutta Parigi: la principessa Cristina Belgiojoso.

“On dut donc (dice Une vieille Saint-Simonienne nella Revue des Revues di Parigi)[88] on dut donc se rejeter sur la princesse de Belgiojoso, quoique non française. C'était une femme d'une grande allure patricienne, amie passionnée de G. Sand. Furibonde zélatrice de la cause républicaine, elle aidait généreusement de sa bourse tous les conspirateurs politiques, italiens ou polonais, réfugiés en France. M.me de Belgiojoso eut été, certes, pour l'académie des femmes, une présidente hors ligne: elle était belle, d'une beauté tragique, impressionnante: grande était son intelligence.„

Dinanzi alla candidatura della principessa, Madame de Girardin si sentì vinta, ma non doma; abbandonò furiosa la candidatura, e afferrò furiosa la penna, per deridere le idee delle due gemelle, Castellane e Ancelot. Guizzano le sue ironie in una delle appendici, che dal '36 al '48, ella, Madame de Girardin, scriveva nella Presse, sotto il titolo di Courrier de Paris. Le firmava con un pseudonimo nobiliare (s'intende!): Le Vicomte Charles de Launay; e vi profondeva agilità di stile, brio.... ed acido corrosivo. Anche oggi son piacevoli a leggersi quei “corrieri„, [221] modelli d'un genere che si crede facile ed è difficilissimo. Tutta la vita parigina di quel periodo passa, trasvola nei rapidi feuilletons della celebre giornalista. Ecco: quello era il campo dove ella raccoglieva allori veridici; gli altri suoi erano allori di carta. Madame de Girardin compose, infatti, parecchie commedie; ma esse provano una volta di più che le donne sul teatro possono regnare come attrici, come cantanti, come ballerine, non come autrici.

Nel feuilleton del 23 marzo 1844, madame de Girardin s'occupa dell'Accademia femminile. Ella sostiene che un italiano ha più spirito d'un'italiana; uno spagnuolo ha più spirito d'una spagnuola; un russo ha più spirito d'una russa; un greco ha più spirito d'una greca; ma una francese ha più spirito d'un francese....; “car en France (soggiunge maligna), excepté les bas bleus, toutes les femmes ont de l'esprit.„[89]

E finisce con questa variante della favoletta d'Esopo sulla volpe e l'uva:

“Quant aux femmes célèbres, elles vous diront qu'elles ne rêvent nullement les dignités académiques; l'art pour elles n'est pas une profession, mais une religion: leur talent n'est pas un trésor qu'elles exploitent, comme les hommes, par intérêt et par orgueil: c'est un don du ciel, qu'elles cultivent avec amour et respect.„

Ma, non contenta d'assalire l'Accademia, assalì anche la principessa Belgiojoso.... colla penna [222] de' proprii amici. Ed ecco tutto uno stillicidio di veleni da penne più e men note contro la Belgiojoso! Ecco lo stesso Teofilo Gautier, il poeta della bellezza, macchiarsi d'un cattivo ritratto della grande Italiana. Madame de Girardin, nella terza lettera della Croix de Berny, introdusse quel ritratto, che assicurò al volume un grossolano successo di scandalo. La Croix de Berny è composta di lettere firmate da Irène de Chateaudun (ch'è Madame de Girardin); da Raymond de Villiers (ch'è Jules Sandeau), da Roger de Monbert (ch'è Mery) e da Edgard de Meilhan (ch'è precisamente Théophile Gautier), amico e biografo della Girardin, a' cui piedi aveva deposto penna e discrezione.

Il Gautier, che avea beffato un giorno l'addobbo del salotto della principessa, con egual grazia e malignità leggiera cincischia la dama. Senza nominarla (la chiama soltanto la marquise) ne esalta la bellezza, le belle mani aristocratiche, il piede minuscolo; ma dice:

“Je fus reçu avec toutes sortes de tendresses, bourré de petits gâteaux, inondé de the, et assassiné de dissertations romantiques et transcendantes.„[90]

Doveva essere soddisfatta l'acre Girardin.... Ma nossignori! Ella attirò alla sua ignobile causa una dea della moda, la contessa Merlin, nel cui salotto la principessa Belgiojoso andava di tratto in tratto, non certo in omaggio a lei, arricchita col più infame commercio (quello degli schiavi), [223] ma pei celebri artisti, che la circondavano divertendo se stessi e divertendo tutti. Madame Merlin, che dilettavasi a scrivere, nelle Lionnes de Paris pubblicate sotto falso nome, trasformò la principessa Belgiojoso in una spaventevole avventuriera criminale e demoniaca. Ma questo romanzo, come tutti gli sfoghi ignobili, ebbe voga fugace, e solo nel “petit monde boulevardier„ dei cattivi soggetti.[91]

Come ne rimasero Madame de Castellane e la principessa Belgiojoso?... Une vieille St.-Simonienne racconta così:

“Néanmoins, malgré tous ces mécomptes, M.me de Castellane continuait bravement à aller de l'avant. En vain M.me de Belgiojoso elle-même terrorisée par tant d'injures, refusait-elle son concours. M.me Ancelot, qui avait toujours été l'àme de l'entreprise, ne lui consacrait pas moins toutes ses énergies.„

Ah, no! Non bisognava conoscere la principessa per supporre ch'ella potesse atterrirsi. Anche allora, ella avrà fatto il suo solito gesto di sprezzante indifferenza, sollevando il mento, senza pronunciare neppure una sillaba. Su quella statua di marmo le raffiche non lasciavano solco. La Belgiojoso ricusò il proprio concorso all'Accademia Castellane, perchè le vere regine della letteratura si erano, nel frattempo, ritirate, lasciando il posto a quaranta poetesse e giornaliste di scarsa fama; e una principessa Belgiojoso [224] non poteva, non voleva, in una Parigi, offrire lo spettacolo di regnare sopra un asilo di scrivanelle mediocri. L'Accademia s'aperse, ma senza Giorgio Sand, senza Cristina Belgiojoso, e non ebbe importanza. Una sola seduta fu memorabile: il ricevimento d'una celebre viaggiatrice inglese, mistress Trollope, reduce da una traversata del deserto.


Virginia Ancelot contava allora mezzo secolo; ma, più di lei, la contessa Merlin (per dirla con Shakespeare) era scesa nella valle degli anni. Al pari della Girardin, la Merlin era gelosissima del fascino che la gran dama italiana irradiava, e del gran posto che teneva nella metropoli del mondo.

La Merlin era nata Maria de las Mercedes de Jaruco. Avea visto la luce sotto l'azzurro cielo di quell'Avana da lei descritta nel libro Havana, lettres et voyages. Suo padre era il conte de Jaruco, ispettore generale delle truppe spagnuole a Cuba, e illustre negriero. Ell'avea ammaliato della sua grazia il valoroso generale Cristoforo Merlin, che la sposò, e la portò a brillare a Parigi, dove ben presto ella seppe circondarsi di sapienti, di letterati, di poeti, d'artisti, d'uomini di spirito e anche di donne di spirito e belle. Nel salotto della Merlin, gli artisti italiani, le melodie italiane primeggiavano. Gioachino Rossini si metteva al pianoforte; il grosso e mordace napoletano Luigi Lablache, dalla bella testa nera, mirabile nel genere buffo e nel serio, maestro di canto della regina Vittoria d'Inghilterra, apriva [225] la bocca alle barzellette e alle delizie canore. Il cagliaritano marchese de Candia, che, lasciata la sciabola di brillante ufficiale sardo, era salito (come dicemmo) sulle scene col classico nome di Mario, avvolgendo nel dolce fiume della voce sua le anime rapite, non si facea pregar tanto a cantare, come un altro celebre artista italiano che frequentava pure il salotto: il bergamasco Rubini. Questi sapeva bene d'essere il tenore più famoso e più ricco del secolo XIX. Ma presentiva egli d'essere nominato.... colonnello dello czar, come avvenne?... Nel salotto Merlin, il Rubini risparmiava i celestiali vocalizzi; non così la buona Fanny Persiani, non così la Grisi, che, intanto, era divenuta moglie di Mario.

Tutta una costellazione musicale, nel salotto della contessa Merlin, s'aggruppava intorno al dio Rossini, a monsieur Rossiní, e vi diffondeva, con lui, i raggi del genio italiano. Ma nel salotto della Merlin non solo si eseguivano le belle arie delle opere italiane, dominatrici allora nel mondo; vi si recitava, si rappresentavano sciarade in azione, con bizzarri, pittoreschi costumi; e s'improvvisavano burle, con quella gajezza che prorompeva dai cuori e che adesso, nel tormento del sottilizzar tutto e nell'ansia del domani, non sappiamo trovar più.

Fu per quella società che Alfredo de Musset compose i suoi “proverbii„, narra la contessa de Bassanville ne' Salons d'autrefois.[92] E là apparve la gloriosa rivale della nostra Adelaide [226] Ristori, la Rachel, che recitava favole del La Fontaine. E là, madame de Gernandes, sì celebre per il suo spirito, sfavillava. Là, infine (che bella cosa!), nessuno poteva discorrere di politica, pena il bando dal salotto.

Fra le altre piacevolezze, gli ospiti si battezzavano a perfetta vicenda con soprannomi più e meno arguti. Alfredo de Musset veniva chiamato le prince tout à toutes; la Belgiojoso (sognante, allora, la repubblica) Citoyenne Couperet; e la duchessa de Plaisance, sì bionda, sì elegante, sì profumata, e che per le sue ardite avventure col principe Emilio Belgiojoso, doveva riempire ben presto tutta Parigi di clamor scandaloso, veniva detta Princesse Pompon de Falbalas. Più avanti, racconteremo le sue avventure.... Intanto, dobbiamo fermarci su un piccante particolare.

La duchessa de Plaisance cercava di lottare colla principessa Belgiojoso: anch'essa ne era gelosa. Un giorno, queste due illustri rivali discorrevano insieme del salon della Merlin. Tutto vi è rappresentato, diceva l'una: le lettere, la musica, la poesia....

— La beautè, par Mademoiselle de Saint-Aldegonde; l'esprit par Madame de Balby.... — soggiunse vivamente la duchessa de Plaisance.

— Et vous, madame, que representez-vous?... — le domandò ironica la Belgiojoso.

La duchessa diventò rossa, ma con sforzata ingenuità, e sorridendo:

— Mon Dieu, je ne sais pas!... la vertu, peut-être!

E la principessa, con uno sguardo intraducibile:

[227]

— Nous prenez-vous donc pour des masques?...[93]

Madame Merlin (quand'era giovane) venne invitata una sera da gaudenti suoi adoratori, fra i calici spumanti, fra i doppieri, tra i fiori.... Quante volte alle labbra ridenti della Merlin fu accostata da mani traditrici la coppa inebbriante!... Troppo inebbriante; chè a poco a poco e doppieri, e fiori, e calici, e amici si confusero come in una ridda velata ai begli occhi della povera signora; ed ella non s'accorse nemmeno che esperte dita le scioglievano intanto i nastri di seta, i merletti, le vesti.... e tutta la svelavano nel suo splendore di Najade cubana....

Così terminavano allora a Parigi alcuni banchetti di spensierati, ignobili mortali.

E dire che la Merlin ebbe il coraggio di scrivere nelle Lionnes de Paris tanti orrori sopra un'ospite preclara del suo salotto, sulla Belgiojoso, per compiacere a un'altra donna, Madame de Girardin!... E dire che avea ideato persino un romanzo intitolato La Vestale!...

La terribile Girardin non doveva esultar molto della gioja d'aver colpita e d'aver fatta colpire la principessa Belgiojoso, ella autrice del dramma lacrimoso La joie fait peur! Finì tristamente a cinquantun anno nel 20 giugno del 1855, dopo d'aver molto sofferto; dopo d'aver tanto parlato agli spiriti d'oltretomba, evocati da lei, notte e [228] giorno, coi picchi dei tavolini.... Orribili terrori la faceano urlare disperata. Aveva paura d'attraversare una via in carrozza; sveniva se vedea volare un pipistrello. Era sparita del tutto la risoluta bellezza che le irradiava il volto, e che Teofilo Gautier ammirava incantato alla prima tempestosa rappresentazione dell'Hernani di Victor Hugo, idolo da lei adorato, incensato sempre. Mentre scriveva, Madame de Girardin lasciava che i folti suoi biondi capelli disciolti piovessero per le spalle sull'accappatojo bianco nel quale ella s'avvolgea maestosamente come una pitonessa. Nubi funeree scesero sul suo volto; e ben luttuosi furono gli ultimi anni della potente signora!... Quando l'angelo della morte (dice Gautier) venne a prenderla, ella lo aspettava da lungo tempo.

La principessa Belgiojoso non nutrì invidie, gelosie, nè rancori contro la sua nemica; si sentiva così superiore a lei! E si divertiva a leggerne gli articoli.

Madame Émile de Girardin lasciò più vuoto nella società mondana che nella letteratura. Ma, nella società mondana, poteva ella superare lo spirito sfavillante e signorile della marchesa de Bedmar, che portava il nome del bieco cospiratore spagnuolo contro la Repubblica di Venezia?... La marchesa de Bedmar era la più intima amica della principessa Belgiojoso. Matura, ella conservò il suo fine brio. Anche di lei, si poteva dire: Ecco una signora che si conserva nello spirito!

[229]

XII. La fuga e le passioni della Duchessa de Plaisance.

La società gaudente di Parigi sotto re Luigi Filippo. — Camillo Cavour ai banchetti del principe Belgiojoso a Parigi. — Uno scandaloso romanzo a chiave. — Pier Angelo Fiorentino. — La duchessa de Plaisance. — Sua passione per il principe Belgiojoso. — Sua fuga con lui. — Rifugio nel Lago di Como. — Il barone Carlo Bellerio alla Villa Pliniana. — L'ora dell'abbandono. — La duchessa de Plaisance a Moltrasio e a Milano. — Ultimi anni della duchessa. — Ultimi anni del principe. — Un dramma di Mario Uchard sulla duchessa de Plaisance. — Lettera inedita di Mario Uchard.

Parigi, sotto il regno di Luigi Filippo, presentava un memorando spettacolo. Una coorte di grandi ingegni sfolgorava in mezzo a una gaudiosa corruzione. Mentre oggi passiamo nella vita colla fronte corrugata, con arido odio, forse, nel cuore; sospinti fra i clamori delle lotte di classe, — jeri, i nostri padri avventurosi, dai begli occhi di cospiratori e di trovatori amanti, cercavano di temperare le tristezze del romanticismo fra le gajezze delle liete compagnie d'amici. Così Venezia si preparava all'insurrezione del Quarantotto e alla leonina difesa colle serenate del Canal Grande, colle sagre di Santa Marta, coi baccanali del Lido; così Milano si preparava alle Cinque Giornate colle facezie del Moncalvo [230] e cogli spettacoli della Scala; così Parigi pensava, abbagliava il mondo co' suoi eccelsi poeti, co' suoi filosofi; e gioiva.

Il principe Emilio Belgiojoso era un genuino rappresentante dell'epoca sua. Egli avea sortito indole di cospiratore, d'artista e di gaudente. Egli era diventato popolare a Parigi per il suo buon cuore e per le gioconde sue cene. I chiomati, romantici studenti del Quartier latino cantavano una canzonetta in suo onore, il cui ritornello finiva in un amenissimo Belsgiozosò, come i Francesi pronunciavano tutti questo cognome. Quando Camillo Cavour andò per la prima volta a Parigi (era ben giovane allora! contava ventisette anni) fu introdotto nell'allegra società, la quale dettava la moda alla Francia, all'Europa; e vi trovò anche il principe Emilio Belgiojoso. Nel Diario inedito di Camillo Cavour, pubblicato dal senatore Domenico Berti, si leggono le seguenti noterelle che aprono uno spiraglio nella vita parigina d'allora. Correva l'anno 1837, domenica, 30 luglio; e il conte scrive:

“J'ai rencontré Cigala chez le chevalier Portula: il s'est emparé de moi et ne m'a plus quitté. Nous avons dîné ensemble au Café de Paris. Il m'a fait faire connaissance avec Boigne, Belgiojoso, etc. Ces messieurs veulent à toute force me présenter au jockey-club. Me voilà donc enrôlé parmi les plus mauvais sujets de Paris.

E ancora:

Vendredi, 11 août.

“Soupé avec M.r de la Grange, Belgiojoso, Dalton, N. Roqueplan, Cigala, Lautour. Orgie complète. Ces messieurs [231] n'ont pas plus fait attention à moi que s'ils avaient été dans une auberge.„

Madama Joubert incolpa, nei Souvenirs, il principe Belgiojoso d'aver invogliato Alfredo de Musset alle crapule. È una calunnia; perchè, anche prima d'incontrarsi col seducente principe italiano, il poeta di Rolla tentava con entusiasmo l'articolo champagne.... e ahimè! anche qualche altro liquore di marca meno aristocratica.

Fatto sta che la Parigi di Luigi Filippo si slanciava a quella corrente di piaceri, che doveva ingrossarsi e diventare oceano negli ultimi anni del secondo Impero, quando su una folla irrequieta di teste dai berretti a sonagli, e illuminata dai più bei rosei colori dei fuochi di bengala, sorgeva lenta ma implacabile, nera, minacciosa, la gigantesca e brutale figura di Ottone di Bismarck.

Nel 1852, comparve a Parigi un romanzo che dipingeva la società parigina corrotta. Sollevò scandalo; tutti lo lessero. La principessa Belgiojoso si divertiva a svelare i nomi veri che si nascondevano sotto i nomi inventati. Il romanzo si chiamava Un caprice de grande dame; l'azione si svolgeva fra il 1842 e il 1845 a Parigi: n'era autore “le marquis De Foudras„. In esso, una splendida civetta, madame de Montgazon (una dama spagnuola) faceva bel contrasto con una cortigiana titolata, la marchesa di Lydonne, la quale era poi una marchesa vera: de Contard. E un vecchio egoista spiccava accanto a un briccone di spirito, sotto il cui nome di Fortunio tutti leggevano il nome d'un napoletano di spirito [232] sfavillante e diabolico, il quale, a Parigi, teneva col veneziano Scudo il regno della critica musicale: Pier Angelo Fiorentino, morto poi nella stessa Parigi nel 1864.


Ma un altro scandalo più grave, e per una passione sincera, ineluttabile, non per un altro caprice de grande dame, si sollevò a Parigi in quel tempo.

Una mattina, si sparse nell'alta società e nella Corte, la novella che la duchessa de Plaisance era fuggita da Parigi col principe Emilio Belgiojoso. La famiglia della duchessa, immersa nel dolore, vestì il lutto.

La nuova Bianca Cappello parigina era Anna Maria Berthier, principessa di Wagram, moglie del duca de Plaisance; titolo che Napoleone I (prendendolo da un piccolo villaggio dei Pirenei) avea dato all'arcitesoriere suo, Lebrun. Ell'era figlia d'un terribil, feroce soldato: del maresciallo Alessandro Berthier, nativo di Versailles, che nelle sanguinose battaglie napoleoniche, a Marengo, ad Austerlitz, a Jena, a Wagram, primeggiò come capo dello Stato maggiore. La madre di lei era pure un alto personaggio: era quella figlia del duca di Birkenfeld, che il Bonaparte avea data in moglie al suo diletto Berthier, qual novello segno d'onore: al maresciallo Berthier, che avea per intima amica una contessa Visconti-Almi, vissuta a lungo a Parigi. Per le parentele, la duchessa de Plaisance era congiunta colla casa di Wittersbach e con altre teste coronate. Il maresciallo Berthier si uccise nel [233] 1º luglio del 1815 precipitandosi da un balcone, e lasciò una bambina, Anna Maria.... la fuggitiva!


I due fuggiaschi non si preoccuparono dello scandalo enorme sollevato; la duchessa de Plaisance, non pensò che abbandonava una tenera figlia, la quale avrebbe pianto lacrime amare; non si preoccupò alla notizia che il marito l'aveva dichiarata al mondo come morta e che il lutto, ordinato per un anno, era persino portato dagli staffieri nella livrea e dai cavalli nelle gualdrappe.

Il duca de Plaisance era un perfetto gentiluomo; era buono; non meritava quel dolore. Il solo fratello della Plaisance cercava di scusarla, egli che l'aveva amata sin dall'infanzia. La duchessa era alta, bionda, formosa, imperiosa, dal volto affocato, come se il sangue le fluttuasse indomito sulle guancie. Chiari gli occhi, piccoli il naso e la bocca, e niveo il collo. Il profilo era quello d'un cammeo; ma non d'un cammeo d'artefice squisitissimo. Quando andava in carrozza, levava il capo con un gesto risoluto: pareva che sfidasse il destino. Quando cavalcava, parea l'arcangelo delle battaglie.


I due fuggitivi ripararono in Italia, nei silenzii della fosca, antica Villa Pliniana, sul lago di Como; villa che il Belgiojoso possedeva. Il principe Emilio condusse là l'idolo suo; là, in quel recesso solenne e solitario, all'ombra dell'alta montagna che sovrasta la villa e che l'accoglie a' suoi piedi, su un aspro scoglio, in un seno austero, e, di notte, pauroso. Entro quelle sale [234] folte di ombra, che sembran mute camere funerarie d'un castello di sovrani spariti; fra quegli alberi secolari, sibilanti ai gelidi soffii e su le cui fronde il sole cala a stento un raggio sottile, impallidito; fra quei sepolcrali, alti cipressi, al fragore monotono di acque cadenti dall'alto, ermo dirupo, — fra memorie immani d'agguati e di sangue; — là, in quella villa grandiosa dall'atrio dorico, e funerea come una casa di fantasmi, il principe Emilio condusse la lieta, bionda duchessa de Plaisance; e là i due amanti vissero, volontarii prigionieri, chiusi, soli, soli, con qualche servo, per otto anni; e in quell'asilo, anco tra le nevi dell'inverno e all'infuriar delle procelle in mezzo a una desolazione d'ombre e di spume iraconde e di flutti lividi, i baci d'amore bastavano; e in profondo, immenso oblio era sepolta per quelle anime beate la vita degli altri, la vita del mondo. Pochissimi, intimi amici li visitavano.

Larga e monumentale è la mole della Villa Pliniana, che prese il nome da Plinio perchè Plinio il Giovane descrisse in una lettera a Licinio una sorgente che vi cresce e decresce a guisa del mare; eterna sorgente della cui mistica vita molti esplorarono il segreto; simbolo delle vicende umane. Il conte Anguissòla (che col Gonfalonieri, col Pallavicino e col Landi avea assassinato nel 1547 il ribaldo Pier Luigi Farnese, duca di Piacenza e di Parma) temendo vendette ivi riparò, e fe' costruire addosso alla montagna protettrice, la villa; — e questa, che aveva accolto il fuggiasco del delitto co' suoi turbamenti, doveva, quasi tre secoli più tardi, accogliere i [235] fuggiaschi dell'amore. Nella Villa Pliniana, due sicarii incappucciati da frati, penetrarono un giorno per insidiare cogli stili, celati sotto le tonache, la vita dell'Anguissòla e per vendicare il Farnese; — là, una notte, Napoleone Bonaparte riposò, sognando forse nuove vittorie; ma nella stessa dimora ben altri sogni allietavano il principe Belgiojoso e Anna Maria, alta, bionda, dal bel corpo adorato!...

Come mai passavano i lunghi giorni nella reclusione?... Doveva essere un'estasi, un mutuo incantamento, che solo la passione, un'invincibile passione, in tutti e due, poteva spiegare. Aveano abbandonati i viaggi, i teatri, i conviti, le danze, le mille leggiadrie, le mille feste della grande metropoli, della città più mondanamente seduttrice della terra per un eremo come quello.


Al rimbombo del torrente precipitantesi a picco dal monte, confondeasi il canto soave del principe, i suoni del cembalo d'Anna Maria. Ed erano talora risate di gioja, che si perdeano nei chioschi segreti dei boschetti, fra le edere, tenaci come passioni. E quali veglie nelle notti piovose d'autunno!... Nessun astro in cielo; e monti neri, acqua nera; e i cipressi, nella languida pace dell'alba, disegnantisi appena con tremolii lenti nelle cime.... Par che, all'alba, la mano d'una fata, ardente d'amore, passi tra le chiome di foglie, destandone brividi di voluttà. Sulla ringhiera marmorea, le ultime rose grondanti rugiada si rialzano superbe alla luce; bellezze lagrimose ed altiere che domandano a Dio un conforto. E, [236] sbattendo sugli scogli, l'onde dalle lunghe striscio violacee, assaltano avide gli scogli e ricadono con un singhiozzo.... Ma che importa tutto questo a due cuori amanti?

La duchessa de Plaisance, la principessa di Wagram, s'abbandonava talora a scherzi infantili col principe: e un giorno, remando con lui sul lago, ella gli disse: “una capanna, il tuo cuore.... e un buon cuoco.„

Nei pomeriggi d'estate, sulla balaustrata della loggia alta e severa, comparivano ritte due figure ravvolte in un lenzuolo, che molti, sul lago di Como, ricordano ancora. Erano il principe e la duchessa. E stavano lì, ritti, qualche tempo, sembrando due statue. D'un tratto, i due amanti spiccavano insieme un salto da quell'altezza e piombavano nel lago, che ivi è profondissimo; e beatamente nuotavano.

Ma un giorno, comparve alla Pliniana un fiero gentiluomo. Era un cospiratore milanese, un mazziniano, amico di Cristina Belgiojoso, ma non certo inviato da questa principessa, chè mai ell'avrebbe voluto abbassarsi per venire a patti o catechizzare una rivale!... Egli era pure amico e concittadino del principe Emilio; era stato attivo cospiratore con lui nella Giovine Italia; con lui aveva fondata a Parigi la “Cassa di soccorso per gli emigranti italiani„; con lui s'era trovato nelle belle audacie mazziniane, nei pericoli. Era il barone Carlo Bellerio.[94]

[237]

Il Bellerio voleva strapparlo da quella donna, fra le cui blandizie l'amico perdeva l'antico amor patriottico, del quale l'Italia aveva ancora bisogno. Il Bellerio soffriva nel veder sepolto negli ozii snervanti d'una villa un amatissimo amico, che, per il suo passato operoso, per il prestigio del gran nome e della personale seduzione, avrebbe dovuto agire ancor più, ora che altri passi sulla via della indipendenza restavano da compiere, gli ultimi forse, i decisivi!... Carlo Bellerio si presentava alla duchessa anche per preghiera della famiglia Belgiojoso, allo scopo di ricondurre l'ordine morale dove la passione l'avea bandito.

L'incontro del barone Bellerio colla duchessa de Plaisance alla Pliniana fu uno de' più caratteristici: una scena. Qua, un cospiratore dagli occhi fulgentissimi, leale, impavido, che vuol distruggere a ogni costo la rete avvolgente la vita d'un patriota, d'un gentiluomo, d'un amico; là, una gran dama ch'era precipitata nello scandalo, disprezzando il disprezzo di mille.

Il Bellerio le parlava vibrato, commosso; ella ascoltava con blanda rassegnazione.

— Pensate, o duchessa, pensate che non può tardare il giorno nel quale uno di voi due, stanco, abbandonerà l'altro. È meglio che affrettiate voi stessa il momento della separazione; ma senza chiasso, da buoni amici, con cordialità. L'addio d'oggi non sarebbe senza la soddisfazione di compiere un alto sacrificio; l'addio di domani non sarà senza fastidio, forse non senza [238] disprezzo. E pensate al dolore della vostra famiglia di Parigi, al dolore di vostro fratello che vi ama, di vostra figlia che avete abbandonato.... Pensate allo scandalo....

E la duchessa, con voce bassa, lenta, per troncare ogni discussione, rispose:

— Ma a me piacciono gli scandali!


Quando scoppiò la rivoluzione del '48 a Milano, non si vide, pur troppo, il principe Emilio Belgiojoso primeggiare nella sua città fra i maggiorenti che guidavano il popolo alla lotta eroica e bellissima. Egli era ancora celato nella Villa Pliniana colla duchessa de Plaisance!

In quello stesso anno, il giovane Carlo Rezia di Como corre a una polveriera austriaca e ne invola le polveri; altri animosi s'impadroniscono della polveriera di Geno; a Como, i cittadini fanno prigionieri nelle caserme millecinquecento soldati; s'impadroniscono dell'antica, gloriosa bandiera del reggimento Prohaska; — e il principe Belgiojoso rimane inerte accanto alla duchessa!... Soltanto, all'improvviso, dona alla guardia civica comense una bandiera: povera bandiera, che, dopo varie vicende, passò a una società operaja, che la conserva tuttora.


Ma il giorno preveduto dal Bellerio arriva. La duchessa non può più rimaner sepolta viva in quella solitudine, donde per otto lunghi anni mai, nemmeno una volta, volle allontanarsi. Ella è stanca dell'antica villa, di quella fragorosa cascata; è stanca di quei cipressi, di quelle fitte [239] edere eterne, di quelle serpi striscianti nell'umidità dei muschi, di quella lapide che, nel loggiato, reca scolpita la lettera famosa di Plinio; è stanca di quegli amori; è stanca del principe; ma non è stanca del lago di Como; e, dicendo addio al principe, va ad abitare nella riva opposta del lago, a Moltrasio, pur memore d'altri amori: di Vincenzo Bellini con Giuditta Turina.

Un giorno, il principe avea fama d'uomo facile alle decisioni. Ebbene, si noti che non lui spezza per primo il legame; lo rompe ella, e, per di più, va a dimorare quasi in faccia all'abbandonato!

Chi può penetrare nel cuor di quella donna che, pur frangendo ogni vincolo coll'uomo per il quale ha offeso la società, non può lasciare il lago, quelle rive, quei ricordi?... Per fare un dispetto al principe?... Oppure, per assaporar le memorie d'una dolcezza amorosa, che ha inondata la sua giovinezza?

Il principe Emilio ne sofferse come della più acerba ferita. Che avrebbero detto a Parigi e a Milano di quell'umiliazione a cui una donna lo avea piegato?... Quanti ne avrebbero riso!... E che strazio essere abbandonato da una creatura divinamente bella, lungamente amata, e adorata ancora!...

Il principe Emilio non fuggi; rimase qualche tempo nella Pliniana, solo, triste, cercando di sviare i tormentosi pensieri coll'abbellire i giardini, col renderli, col suo buon gusto d'artista, più ameni di piante e di fiori. Della duchessa mai parlava; soltanto ad un amico, che andò un giorno a trovarlo, egli manifestò per lei quel disprezzo con cui Alfredo de Musset nella Confession [240] d'un enfant du siècle parla di certi abbandoni d'amanti....

E la duchessa brillava intanto più che mai. Uccello.... non del paradiso, fuggito dalla gabbia, saltava spensierato di gioja in gioja. Aveva coperto i balconi e i muri della sua villa di Moltrasio di piante verdi rampicanti; una graziosa novità, allora, per il lago. E, a Milano, abitava nel palazzo Poldi-Pezzoli, dove riceveva soltanto giovani signori coi quali teneva discorsi d'una libertà da etèra. Nel palco numero 4 della seconda fila a sinistra del teatro alla Scala, la duchessa sfoggiava le sue rosee bellezze in modo che pareva immersa in una vasca da bagno....

La duchessa de Plaisance s'infiammò poi, a Milano, per Cesare Stampa marchese di Soncino, nervoso, bruno, fierissimo, di carattere violento, tipo del gran signore. Perchè patriota risoluto, il conte Spaur, governatore di Milano, lo avea, nel 12 gennajo del 1848, sfrattato d'improvviso dalla città e fatto condurre a Lubiana in esilio; ma egli ritornò in patria, a muover le mani sui padroni stranieri!...

Sprecando egli in cavalli superbi e in altri lussi, ingenti somme colla duchessa de Plaisance, uno zio gl'intimò di lasciare quella dama, altrimenti lo avrebbe diseredato. E fu la duchessa, lei, che pregò il marchese Cesare di abbandonarla!... Egli non voleva: non voleva, immaginando un rivale, una sostituzione; e la minacciò.... Ma ella oppose alle furie il suo tranquillo sorriso: lo disarmò, e si fece ascoltare. Così, colei stessa che jeri abbandonava l'amico [241] venutole a fastidio, oggi si faceva abbandonare dall'amico che amava. Poichè ella lo amava, il Soncino! E appunto per questo volle salvarlo.

Principe Emilio Belgiojoso
(dal ritratto a olio eseguito da Francesco Bouchat intorno il 1840 a Parigi, ora posseduto dal Principe Emilio Barbiano di Belgiojoso d'Este a Milano).

Dal conflitto penoso, ella uscì abbattuta. Il suo volto era più affocato: girava gli occhi come una pazza.... Implorò un alto conforto; si ricordò della obliata fede materna; e pregò.


A Moltrasio, sul lago di Como, cominciò a spargere beneficenze copiose. Si svegliava di buon mattino; indossava un accappatojo bianco, si scioglieva per le spalle i capelli e, a letto, apriva la corrispondenza ch'era formata quasi tutta di suppliche di sventurati per sussidii: rispondeva agli amici, a tutti; poi si riaddormentava. Specialmente nell'estate, molti amici di Parigi andavano a visitarla a Moltrasio; amici dai grandi nomi, ch'empievano gli orecchi di quegli abitanti come una fanfara imperiale. Nel luglio del 1878, la duchessa stava per recarsi a Parigi, che dopo la sua fuga ella non aveva più riveduta. Molti de' suoi accusatori erano morti; gli anni aveano versato la cenere sul fuoco delle ire; perchè non sarebbe stata accolta con pietosa indulgenza?... Suo fratello poi la amava sempre; ed ella s'era purificata nella carità; una carità silenziosa, inesausta, talvolta sublime.

La duchessa fu presa da malessere. Subito dopo, una malattia ai bronchi ostinata, divoratrice, la prese, la distrusse, — e, alle 13 e mezzo del 23 di quello stesso mese di luglio, nella sua villa di Moltrasio, la sventurata chiuse gli occhi per sempre, invocando fidente il perdono di Dio.

[242]

Oscuri servi furono testimonii all'atto di morte di colei ch'era stata la principessa di Wagram, la figlia di chi aveva unito il proprio nome al nome di Napoleone I. La salma venne chiusa in due casse: una delle quali di zinco con un vetro per lasciar scorgere le sembianze del cadavere. E, l'anno dopo, fu trasportata a Parigi dove venne seppellita nella cappella di famiglia.

Così, silenziosamente, quegli avanzi lasciavano il lago di Como che avea consumato una giovinezza, una riputazione, una vita. Così finì colei ch'era chiamata la duchessa di Moltrasio.


Il principe Emilio Belgiojoso era morto da vent'anni. La Villa Pliniana era stata intanto abitata, a intervalli, dalla principessa Cristina; e la villa della duchessa, che serbava le traccie della sua sorridente eleganza, venne smembrata in varie parti e venduta: un pezzo ne acquistò un farmacista, un altro un erbivendolo di Milano.... È l'agonia delle cose: gli Dei se ne vanno!

Una parola qui, ancora pel principe, è doverosa. Il principe Emilio Belgiojoso non si era dato pace, mai pace, dell'abbandono improvviso della duchessa. Dopo qualche dimora nella desolata Pliniana, fuggì, per distrarsi, dalla Lombardia, fuggì dall'Italia, e percorse l'Oriente. Ma l'Oriente non valse a rifare quella vita rovinata. La salute del principe volgeva di male in peggio. Alla spinite, si unì una forma di demenza che strappava le lagrime. Il povero gentiluomo languiva a Milano, in quell'avito palazzo Belgiojoso, dove avea date tante squisite feste musicali e [243] di scherma, nelle quali egli emergeva, corteggiatissimo, per la bella voce e per l'arte sua di tiratore eccezionale, quando la scherma era sapiente privilegio di pochi.

Il 17 febbrajo del 1858 fu l'ultimo per l'infelice principe, il quale contava soli cinquantasette anni. Egli sparve, compianto, nella febbril vigilia della liberazione della sua Milano, quasi all'aurora dell'indipendenza d'Italia, per la quale avea, nella giovinezza, cospirato col sentimento, col denaro, col prestigio del nome; e noi abbiamo il dovere di onorarne con riconoscenza la memoria fra quella dei patrioti più coraggiosi e più geniali della prima ora.

Nella Gazzetta privilegiata di Milano del 20 febbrajo 1858, si leggevano le seguenti parole:

Questa mattina nella chiesa di San Fedele, furono celebrate le solenni esequie del Principe Emilio Belgiojoso Balbiano.

Un'eletta e lunga schiera di parenti ed amici erano accorsi per prestare un ultimo omaggio all'illustre defunto, alle sue virtù ed alle splendide qualità che lo resero in vita sì caro e desiderato da tutti. Una lunga e penosa malattia lo rapì all'affetto di due distinti fratelli, della consorte e parenti, all'amore ed all'amicizia di tanti, alla società di cui era nobile ed invidiato ornamento; ma il suo nome suonerà ancora per lungo tempo sulle labbra de' più gentili ogni qual volta si parlerà delle doti e dei pregi che costituiscono un perfetto cittadino ed un brillante uomo di mondo.

L'anno stesso della morte del principe, fu pubblicata a Parigi La Fiammina, commedia in quattro atti e in prosa, di Mario Uchard; commedia che, rappresentata l'anno innanzi al Théâtre-Français a Parigi, dagli attori dell'imperatore [244] Napoleone III, aveva ottenuto un successo di strepitosi battimani e di lagrime, il titolo di capolavoro, le lodi altisonanti di Paul de Saint-Victor. Mario Uchard, nell'inviarne copia al duca Antonio Litta Visconti Arese, gli diceva (in una lettera tuttora inedita, che mi è favorita dal gentile signor David Henry Prior) che quel dramma altro non era che la storia della duchessa de Plaisance e del principe Emilio Belgiojoso:

La Fiammina a été composée sur la situation de Madame de Plaisance. Elle est la regrettable héroïne de ce drame, et lord Dudley n'est autre que le prince Emilio Belgiojoso. J'ai tout simplement déduit les conséquences de leur liaison au cas ou M.me de Plaisance se trouverait en présence de son mari et de son fils, qu'elle avait quittés depuis quinze ans, à l'heure ou j'écrivais cette comédie. Vous comprendrez, sans que je le dise, mon cher duc, par quelle raison de convenances ils ont été si bien déguisés par moi.„

Infatti, se non si avesse questa confessione, si stenterebbe a ravvisare nella protagonista Fiammina, cantante italiana (che madama Judith rappresentava con tanta passione) la duchessa de Plaisance; e non si potrebbe neppur intravvedere in quel Giorgio Dudley, pari d'Inghilterra, il principe milanese. Mario Uchard fa che Fiammina abbandoni il marito e il figlio in culla per seguire l'amante, ed è punita della sua colpa. Il dramma, che si svolge a Parigi sotto Luigi Filippo, è una pittura dell'amor materno; è sano, morale.... ma non è il dramma della Pliniana.

E non è vero che la duchessa de Plaisance avesse abbandonato un figlio; bensì, travolta [245] dalla vertigine, lasciò alle cure del padre una cara figliuola; la quale, sposandosi, entrò in una grande famiglia, ben degna di quella in cui era nata: sposò il duca de Maillè, dell'antica e illustre casa della Turenna.

Nel 1886, la principessa Maria Troubetzkoi pubblicò a Parigi un libro dal titolo Amours, con una prefazione di Madame Adam. È tutta una serie elegante di storie d'amori. Un capitolo s'intitola Amour épuisé; e allude, velatamente, al dramma di passione svoltosi sul lago di Como fra il principe Belgiojoso e la duchessa de Plaisance. Il marito della duchessa è rappresentato come dissoluto e brutale; il che non era vero. Per giustificare i voli dal nido, somiglianti a quello della bionda, maestosa signora, si ricorre facilmente alle pitture poco caritatevoli dei mariti!... Secondo la narratrice d'Amours, anche la duchessa era dotata di una bella voce, come il principe Belgiojoso; aggiunge che s'innamorarono cantando insieme un duetto nel castello del duca de Plaisance; castello dall'aspetto monumentale, sorgente presso Parigi in mezzo d'un parco superbo. Nessuno è nominato: neppure la principessa Cristina Belgiojoso. La quale (si noti!) andò a dimorare sullo stesso lago di Como, non lungi dalla Villa Pliniana, e quasi di fronte della villa di Moltrasio, dove abitava la duchessa.... Ma ne riparleremo.... Intanto, più elevati drammi si svolgono; più nobili passioni dilatano il loro impero.

[246]

XIII. La Principessa pubblicista e benefattrice dei contadini.
Suo incontro con Luigi Napoleone.

La Gazzetta Italiana fondata dalla Belgiojoso a Parigi. — Peripezie di questo giornale. — La Principessa ritorna in Italia. — Locate e il suo paesaggio. — Villa dei Trivulzio. — Suo medagliere e biblioteca. — Benefiche iniziative della Principessa pei contadini e i loro figliuoli. — Il suo illuminato socialismo. — La donna Paola del Parini. — Il dottor Màspero. — L'Ausonio. — La lettera del Manzoni sul “Romanticismo„. — Malcontento del Manzoni. — Speranze in Carlo Alberto. — Drammatica fuga di Luigi Napoleone dalla fortezza di Ham. — Incontro di Luigi Napoleone colla Principessa. — Loro dialogo sul risorgimento d'Italia. — Poeta profeta.

Mentre il principe Emilio Belgiojoso, travolto da irresistibil passione, abbandonava le lotte della libertà della patria, ch'era stata il suo alto e febbril sogno nella giovinezza, la principessa Cristina continuava con più forte tenacia nell'azione seria, efficace, per dare alfine all'Italia ordini liberi e dignità di nome. Anzi, più il principe si obliava in un amore, del quale subiva la tirannia (egli un giorno di spiriti sì indipendenti!) — e più la principessa prodigava le mirabili energie intellettuali per raggiungere lo scopo nobilissimo. E non solo ella operava più alacre che mai per la liberazione della patria, fino al [247] punto di presentarsi a Luigi Napoleone e dirgli: “Principe! ajutate l'Italia!„ (come vedremo) — anche ad altra liberazione ella pensava: alla liberazione delle umili classi lavoratrici dall'oppressione degli sfruttatori e dalla miseria; — vi pensava, quando questo sacro dovere non veniva imposto colla violenza, quando non era neppur di moda.

La principessa Cristina Belgiojoso era convinta che la stampa, questa forza formidabile, poteva, ben più delle fosche congiure mazziniane, preparare il giorno della risurrezione d'Italia: pensava che era urgente formare una pubblica opinione (come allora si diceva) a favore d'Italia nostra; ed ella, con giornali da lei fondati nel primo centro intellettuale d'Europa, qual era sempre Parigi, contribuì a fortificarla, ben presto, chiamando intorno a sè scrittori valenti, ma più lavorando ella stessa, infaticabile, e profondendo anche nuove somme di denaro, munifica sempre.

La principessa Cristina Belgiojoso occupa un soglio eminente anche nella storia del giornalismo. Ella possedeva un talento di prim'ordine per cogliere gli argomenti del giorno. I maestri dell'arte del giornale, — arte sì facile in apparenza, sì ardua in sostanza — possono riconoscere le attitudini preziose di lei, esaminando i periodici ch'ella lanciò a Parigi con patriottica audacia. Ella inspirava articoli, li coordinava, li correggeva.

Nel 1845, ella fonda a Parigi un giornale italiano, con intenti italiani, la Gazzetta Italiana; la fonda (chi lo crederebbe?) in mezzo a una [248] tempesta che alcuni amici italiani le suscitano intorno. La principessa, Pier Silvestro Leopardi e Giuseppe Massari, formano il “Consiglio di redazione„ della Gazzetta, ch'esce dalla Rue du Marché St.-Honoré, 5, dove pure si tiene deposito di libri italiani. Certo Marino Falconi, entusiasta ammiratore della Belgiojoso, attende all'amministrazione e corrisponde coi libraj d'Italia per raccogliere “nuovi fondi„ al periodico e per diffonderlo; ma egli dà ombra al Massari e al Leopardi, che vorrebbero allontanarlo. Ed ecco, entra in scena Terenzio Mamiani:

“.... Il Mamiani (scrive il Falconi al Vieusseux a Firenze) interpellato da Leopardi di far parte del Consiglio, si ricusò dicendo: Non convenire a lui solo stare a fronte della Principessa, mentr'egli, Leopardi, e Massari, non erano che due accoliti di questa donna, e troppo ripugnava che un giornale politico unico e primo di tal fatta fosse diretto da una donna; — ch'egli volentieri entrerebbe a tal direzione, quando insieme con lui vi fossero uno o due nomi indipendenti da poterlo sostenere in caso di divergenza di opinioni fra lui e la Principessa. Tale franco parlare scosse Leopardi, che si vide compromesso e tacciato di accolito di una donna, e, tutto sgomento, egli dichiarò che nulla farebbe più di quello che sarebbe per fare Mamiani.„[95]

Così la culla della Gazzetta Italiana, come la culla di Ercole, era seminata di serpi!

[249]

La principessa rimase addolorata del contegno del Mamiani e di Pier Silvestro Leopardi. Essi le aveano portati, è vero, buoni articoli, ma in fondo ella sola sosteneva le spese della rivista; e, sola, avrebbe continuato. E così fece. Salutò i suoi oppositori, e si tenne seco il Falconi. Era allora l'ottobre del 1845.

“Messi alla porta dalla Principessa gli oppositori, nacquero per Parigi, nelle trattorie e nei caffè, mille pettegolezzi, vantando che non vi erano più collaboratori per la Gazzetta; che quest'era diventata un ornamento da donna; che non v'erano mezzi da continuare neppure una settimana, e mille piccolezze stomacanti. A tanti raggiri, rispondemmo con un silenzio ed un contegno stoico.„[96]

Così ancora il Falconi scrive al buon Vieusseux: il Falconi, che, come si vede, prendeva arie di filosofo!

Il giornale veniva intanto proibito a Torino, a Roma, a Milano, a Firenze.... E Gino Capponi se ne lamenta così col Vieusseux:

“Mi dispiace di quella Gazzetta alla quale pigliavo gusto, e ce lo pigliavano parecchi; ma tutti si aspettavano con ragione, che ce ne fosse per poco....„[97]

Con ragione, naturalmente; perchè la Gazzetta Italiana della Belgiojoso era la prima, che con Cesare Balbo, proclamasse che l'opera della liberazione d'Italia non dovea essere riservata [250] esclusivamente alle popolazioni, ma che e popoli e principi italiani dovevano operare d'accordo. Le Speranze d'Italia, il libro dal bel titolo e dal bell'ideale, del conte Cesare Balbo (che, uscito a Parigi nel 1844, l'anno della eroica spedizione dei veneziani Bandiera e Moro in Calabria, fu squillo avvivatore) aveva nella Gazzetta Italiana un'alleata. Le sêtte segrete, le cospirazioni, care al Mazzini, parevano ormai alla principessa, come a Massimo d'Azeglio, ferri vecchi. La Belgiojoso s'era, nel frattempo, allontanata dai principii dell'agitatore genovese; ma ne aveva conservata l'amicizia, fino ad accogliere articoli di quella penna poetica; articoli che, per altro, non contrastavano coll'indirizzo del periodico; uno, ad esempio, sull'educazione degli italiani, base del risorgimento!...

In pochi mesi, la principessa avea versati ottomila franchi, e nuove spese occorrevano. Ella si trovò costretta a rivolgersi a' suoi amici d'Italia, e, all'uopo scese a Milano, partendo da Parigi il 19 dicembre di quell'anno 1845. Perchè non dovea approfittare, pe' suoi scopi patriottici, dell'amnistia che Ferdinando I aveva concesso ai “pregiudicati politici„ salendo, nel 1838, sul trono d'Austria?...

E qui, a Milano, avvenne allora un fatto incredibile. La polizia, che conosceva benissimo lo spirito d'infaticabile propaganda e il giornale ardito della principessa, non le diede ombra di molestia; la lasciò liberamente raccogliere sottoscrizioni per la Gazzetta Italiana!... Il Governatore voleva che l'inclita principessa lombarda, [251] cara alle umili classi per le sue beneficenze, fosse rispettata e ripartisse per Parigi senza odiose impressioni sul dominio austriaco in Italia. Era una galanteria, e, nello stesso tempo, un atto diplomatico. Tanto, la Gazzetta Italiana a Milano non penetrava! Quel governatore era il conte Spaur, successo al conte Hartig.

“Sia lode eterna all'ottima principessa Belgiojoso (esclama il Falconi). Ecco come dovrebbero essere i ricchi! Essa ha preso a cuore la cosa, e, a Milano ha già venduto trentotto azioni (da 100 franchi l'una); e non si ferma lì. Se dieci soli in Italia così facessero, non vi sarebbe da sperare assai più?„[98]

Ma fuori di Milano, poco o nulla si raccolse; e il Falconi se ne disperò tanto da buttarsi.... al commercio dei formaggi! E qui vediamo la principessa nel suo Locate, dove semina benefiche istituzioni a pro delle classi sofferenti. Ed ecco un nuovo lato di quello spirito.


Un grosso, grave carrozzone, bianco di polvere, conduceva per una lunga strada maestra, fra estese praterie da Milano a Locate, Cristina Belgiojoso. Quando non v'era la ferrovia, bisognava rassegnarsi per forza a quel viaggio interminabile, salutati appena da qualche passero fuggitivo. Una malinconia di piani, d'aere, di tutto! Lo stesso verde assume un tono di noja infinita. I “ruscelletti dei piani lombardi„ non sono che [252] una figura rettorica del Nabucco. Le risaje si distendono squallide e avvelenano l'aria. È ben raro che si trovi qualche casolare isolato. Bisognava proprio avere per meta un pajo d'occhi fatati come quelli della principessa per affrontare la via polverosa e interminabile. Solo, in alcune sere, sulle silenziose praterie, s'inarcano immensi padiglioni di fuoco: sono tramonti grandiosi e tragici; sono le passioni del cielo, come li definiva l'infelice Elisabetta, imperatrice d'Austria. E, sparita la gran luce, nell'azzurrina penombra le praterie fumano: sono nebbie, e si direbbero incensi che la terra eleva al cielo che si va stellando.

Locate, terra dei Trivulzio, nella Bassa Lombardia, è un grosso borgo industre, patria di latticinii insuperabili. La villa dei Trivulzio, questa reliquia feudale in mezzo a una fattoria agricola di carattere spiccatamente lombardo, partecipa anch'essa del carattere dell'ambiente: non ha alcun aspetto di maniero, nulla di monumentale. Sembra, all'esterno, una grandiosa cascina, che si estende per un centinajo di metri; ma conserva alcune terrecotte del Quattrocento, sospiro dei buongustai, il che le imprime un certo carattere, più degli stemmi dei Trivulzio dipinti a fresco sulle muraglie, con esagerati sfoggi di terre rosse, da qualche Raffaello di cattivo umore. Il letterato Achille Mauri, additava alla principessa quegli stemmi majuscoli, e le diceva:

— Principessa! Democrazia, non è vero?... e questi stemmi?

E il brioso conte Toffetti, alludendo alla desolante [253] monotonìa della rasa campagna, domandava alla principessa nel suo inalterabile dialetto veneziano:

Principessa, come se divèrtela fra ste coline?...

La villa ha vaste sale i cui usci, ai giorni della principessa, non si chiudevano mai. Il nudo pavimento era, un dì, coperto di modeste stuoje di paglia; ma alcuni gabinetti avean le pareti coperte di seta; qualche altro presentava panoplie d'armi antiche: e, altrove, libri preziosi, miniati da mani diventate polvere da molti secoli. La sala terrena serviva per ricevere i lavoratori dei campi, per le rappresentazioni teatrali, per esecuzioni di concerti, per feste di ballo.

Nella sala terrena, la principessa, ne' primi anni del suo matrimonio, siedeva su una antica poltrona a mo' d'un trono; e i contadini, fedeli alle tradizioni patriarcali e feudali, le passavano davanti, baciandole reverenti la mano. Era allora la razza Trivulzio che trapelava da quella dama; ma, in quel tempo, l'orgoglio era peccato di pochi.

Un'altra sala superiore (la biblioteca) è ancora ricca di libri. Vi abbonda la collezione Tauchnitz dei romanzi inglesi, della quale la Belgiojoso era ghiotta.

La stanza da letto della principessa è vasta; vasto il talamo, coperto da cortine. Un inginocchiatojo accanto al letto accoglieva ogni sera la principessa che pregava. E, attigua, un'altra stanza ravvolta in misteriosa penombra: la luce vi penetra appena da un finestrone dai vetri [254] colorati e istoriati, come nelle cattedrali gotiche. Là, la Belgiojoso meditava, scriveva, e distribuiva innumerevoli beneficenze,

Con quel tacer pudico

Che accetto il don ti fa.

Vi era un medagliere che, ai tempi della principessa Belgiojoso, contava fra i primi d'Europa.

Nella Gazzetta privilegiata di Milano del 1845 (e precisamente del 28 febbrajo e 9 marzo) si legge una descrizione di quel medagliere, com'era allora conservato.

Il marchese Carlo Trivulzio con lungo studio e dispendio (dice la Gazzetta) raccolse una collezione di medaglie e monete dei tempi greci, romani e del medio evo, degna di gareggiare colle più pregevoli. La principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio, nel diventarne proprietaria, volle (nel 1845) che la collezione fosse riordinata. Fra le medaglie, quattrocento spettavano a uomini illustri italiani e stranieri. La serie dei papi era delle più cospicue; cominciava da Sisto I e giungeva, con qualche interruzione, sino a Leone XII. Salvo qualche lacuna, i re di Francia da Clodoveo I arrivavano a Luigi XVI, alla rivoluzione. Molte medaglie, coniate ai tempi dei duchi di Savoja, dei re di Sardegna, dei Gonzaga di Mantova, dei signori di Padova, dei dogi di Venezia.

Le monete comprendevano un periodo di quindici secoli e si riferivano a trecento città. V'era una serie, quasi intera, di monete d'Aquileja. Fra le rarissime: uno scudo d'oro di Paolo II coniato [255] nel 1464. Due monete di forma poligona appartenevano a Gian Giacomo de' Medici, marchese di Musso, poi signore di Lecco. Fra le curiosità più preziose si notava la Bolla di Maria, moglie all'imperatore Onorio; un cammeo eseguito a Milano per quelle nozze, celebrate nel 398, e che venne scoperto in Roma nel 1544 entro la tomba di Maria nell'antica chiesuola di Santa Petronilla. Il marchese Giorgio Trivulzio potè venirne in possesso, e ne fece dono alla cugina principessa Cristina Belgiojoso, la quale non si stancava d'ammirare quel giojello rotondo, che constava di due onici legati da un aureo cerchio fregiato di quattro smeraldi e di dieci rubini. Fra gli anelli d'oro, uno era a suggello, di zaffiro, colla testa di Federico III imperatore di Germania. I sigilli?... Erano più di novecento. V'era anche un catino triangolare di majolica, con un dipinto rappresentante l'esercito di Carlo V che passa l'Elba a Milburgo.[99]

Finchè visse la principessa, la ricca raccolta numismatica rimase incolume, formando uno dei taciti orgogli di lei. Morta, la raccolta fu venduta alla Casa reale d'Italia. Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III, il dotto numismatico, ben conosce quella collezione preziosa, che narra tanta storia di passioni dinastiche, tanta agitazione di corone e di popoli; tanto dramma umano lampeggiato dall'iraconda, spesso fratricida smania d'impero.

[256]

Ma non era la numismatica, non era la raccolta di cammei, di libri antichi, d'oggetti d'arte rarissimi; non era tutto quel ricco insieme di fiori nelle serre e di monete e di medaglie (degna cornice alla figura di Cristina) ciò che faceva amare sopratutte alla principessa la terra de' suoi avi Trivulzio. Ella amava quella popolazione onesta e laboriosa; ella ne era l'alta benefattrice, la madre. Di Locate-Trivulzio, ella fece in breve tempo un comune modello, avvivato da sapienti, filantropiche istituzioni, delle quali gli storici del socialismo dovranno tener conto.

Fin dal giugno del 1842, in una visita fatta alla sua indimenticabile Locate, la Belgiojoso avea diramato ai possidenti della Bassa Lombardia una lettera-circolare, tentando di commuovere i loro cuori a pro dei figliuoli minorenni e orfani dei contadini. Ella diceva: “La frequenza dei matrimonj, l'insalubrità dell'aria e le qualità de' lavori fanno sì che gli orfani trovansi in una proporzione assai maggiore qui che altrove. Affidàti alla malsicura custodia di lontani parenti, e qualche volta di estranei, adoperati negl'impieghi più fastidiosi, maltrattati, mal nutriti, male allevati, dessi formano una popolazione inferma e viziosa che consuma oltre il guadagno, e ricade a carico de' padroni o dei fittabili o dei benestanti, diminuendo così la proprietà di cui potrebbero quei paesi godere.„[100]

[257]

La Belgiojoso toccava la corda sensibile dell'interesse di tanti proprietarii, per raggiungere lo scopo supremamente benefico, che le arrideva: l'istituzione d'un orfanotrofio rurale.

Risposero i possidenti?... Risposero, allora, i felici della terra?... Nessuno.

La principessa, intenerita alle sofferenze di tanti poveri lavoratori della gleba, cominciò coll'istituire nell'inverno del 1845 a Locate uno scaldatojo per quei contadini. La Gazzetta privilegiata di Milano ne rendeva allora conto in un'appendice,[101] ch'è tutta un inno alla benefica signora.

In una sala terrena della villa, trecento contadini s'agglomeravano a scaldarsi, giorno e sera. Così avea disposto la principessa, per toglierli dalle stalle infette. Lo scaldatojo era aperto all'alba e si chiudeva verso la mezzanotte. Persona scelta dalla principessa, faceva ad alta voce letture adatte ai contadini. La benefattrice voleva che, alla sera, tutti pregassero insieme. Così, dalla villa, usciva un mormorìo di preci come da un tempio.

Allo scaldatojo, la Belgiojoso aggiunse la cucina economica; anche questa tutta a sue spese. I contadini vi trovavano ottima e copiosa minestra a mezzodì e alla sera, per dodici centesimi, ridotti poi a dieci soli: il pagamento potevano farlo quando e come volevano; ma i più se ne scordavano volentieri.

[258]

“Il pagamento (dice la Gazzetta privilegiata di Milano) delle minestre che si somministrano, può farsi giornalmente, in fine d'ogni settimana, od anche in maggior periodo di tempo, o a denaro che si raccolga da persona a ciò delegata o con lavori di determinato prezzo, pei quali si somministrano dalla nobile istitutrice le materie prime, come sarebbe lino da filare, filo da tessere o far calze, tela da cucire, ecc. E notisi che anche i prodotti di questi lavori sono già dall'animo benefico della signora principessa destinati in prevenzione o a far parte delle abbondanti elemosine che per lei si distribuiscono durante il corso dell'anno, o ad essere venduti al puro costo, in occasione di sagre e di altre circostanze, che attirano affluenza di persone da' luoghi circonvicini in paese, nella vista di fornir mezzi anche ai meno bisognosi di provvedersi con minor dispendio degli oggetti di biancheria o di vestiario occorrenti alle loro famiglie.„

Che ne dicono i socialisti d'oggi?... Per una Trivulzio della metà del secolo scorso, non c'è male!... Ell'era acerrima nemica delle beneficenze.... a parole. La principessa Cristina Belgiojoso fondò a Locate una scuola infantile a tutte sue spese: i bambini dai due anni ai sei vi erano accolti, nutriti e vestiti. Sentiva ella un palpito di maternità fra quelle testine bionde, raccolte dalla sua inesauribile beneficenza, dal suo affetto?...

E aprì pure una scuola di lavori femminili per le ragazze, alle quali facea insegnare a leggere, [259] a scrivere, a conteggiare. Si pensi che la principessa facea istruire i giovani di Locate persino nell'algebra, nella geometria e (con più senso pratico) nell'agraria.

Nè qui finivano le filantropiche istituzioni a Locate, ch'era allora, in tutta Italia, il comune più progredito in fatto d'istituzioni per il popolo.

“E qui non si limitano ancora i beneficii (nota il foglio ufficiale di Milano); chè la signora principessa intenta sempre a procurare il benessere di quegli abitanti, ha già dato ordini positivi perchè, cominciando dall'anno corrente, siano di mano in mano ricostrutte e convenientemente adatte le case di sua proprietà, che servono ad uso di abitazione della maggior parte della popolazione, in modo da renderle sane, ben ventilate e capaci a soddisfare a tutt'i bisogni delle famiglie, sceverandole di tutti gl'inconvenienti d'insalubrità e d'immondezze, che derivano dalla male ideata loro costruzione attuale.„

Era vero. A quest'opera, aveva già posto mano l'architetto Maurizio Garavaglia, procuratore generale della principessa.

Nel venerdì santo di quell'anno stesso 1845, le sale della villa Trivulzio di Locate risonavano alle note dello Stabat Mater di Gioachino Rossini, eseguito da fresche voci femminili. Erano le giovanette di Locate che, ivi raccolte, lo cantavano con passione, con ardore religioso, sotto la direzione della principessa, la quale aveva loro insegnato quella musica tutt'altro che facile, impiegando due sole settimane; perciò un poeta [260] del villaggio ne fu rapito, e improvvisò un sonetto che comincia:

Io non credea che d'inesperta voce

Trar si potesse mai sublime un canto!

Ed esclama ancora:

Oh, come il core a ognun restò conquiso!

V'ha chi si rammenta ancora di quelle cantatrici: ve n'erano di bellissime: tipi gentili, soavi, delle Madonne di Bernardino Luini. Breve la fronte, e greco il naso finissimo, e gli occhi scuri, ma vivi, un po' a fior di testa, e i capelli cuprei graziosamente ondulati, e scendenti come due bende sulla fronte e fino alle orecchie piccole e rosee. Quei tipi (che a Bernardino Luini servivano a dipingere Madonne, che son dolci Muse incoronate di alloro) vivon tuttora nelle campagne lombarde; ma nelle fatiche dei campi, nella struggente vita dei tugurii, nelle ibride mescolanze della vita moderna, presto appajono adulterati, offesi.... E presto spariranno.

Più tardi, la principessa istituì a Locate una fabbrica di guanti, nella quale molte giovinette erano impiegate. E sempre il pensiero del vantaggio de' poveri! sempre l'idea delle industrie utili, geniali, mulinava in quella mente aperta ad ogni progresso moderno!

La Belgiojoso seguiva, ne' suoi provvedimenti benefici verso i poveri, sopratutto il proprio impulso; pur avea dinanzi l'esempio di altri patrizii milanesi, ed esempii anche in famiglia, che le additavano la via della carità illuminata. Un Trivulzio fondò a Milano l'asilo pei vecchi. La contessa [261] Laura Visconti Ciceri fe' innalzare dalle fondamenta, e dotò, uno spedale femminile aperto nel settembre del 1840. Fin dal 1444, Vitaliano Borromeo aprì una pia casa per distribuire pane e vino ai bisognosi. Gian Ambrogio Melzi fondò, nel 1637, un ospizio per distribuire ai poverelli viveri e vesti.

Se la principessa oggi vivesse, inclinerebbe alle teorie del socialismo?... In una sua lettera che trovo nella Biblioteca Nazionale di Parigi, disgraziatamente senza indirizzo e senza data, ella afferma che “la société organisée telle qu'elle est aujourd'hui, est une protestation éclatante contre la justice de Dieu; protestation qu'il est urgent de faire cesser.„ E la principessa inviava mille franchi per due “azioni„ d'un giornale che a Parigi avrebbe dovuto combattere contro le ingiustizie sociali.[102]

Riguardo a Locate, non va taciuto un opuscolo della Principessa: Osservazioni sullo stato attuale d'Italia e sul suo avvenire,[103] al quale rispose un avvocato Felice Borsani coll'altro opuscolo: Gli affittajuoli della Bassa Lombardia.[104] Ella, con competenza di proprietaria, con senso pratico, trattava una questione ben viva in quei tempi, nei quali Milano continuava ad arricchirsi coi prodotti agricoli; viva anche oggi, coi presenti [262] scioperi agrarii. Ma chi ricorda quell'opuscolo?... In quelle pagine, che si direbbero scritte da un Melchiorre Gioja, l'autrice accusa severamente gli affittajuoli: li accusa di sfruttare i contadini; di lasciarli in perpetua miseria, arricchendo sè stessi. E gli affittajuoli, feriti, a strillare allora come aquile; a protestare contro la principessa!


Le molte, gravi cure limavano intanto la fibra ammalata della Belgiojoso; la quale potea dire sorridendo: “Che importa?... La fortezza è traballante, ma la guarnigione sta bene; resistiamo!„ Per isvagarsi, interveniva, a Milano, alle veglie festose d'amici patrizii. Una sera, comparve con uno de' suoi fantastici abbigliamenti, a una festa di ballo, che il duca Lodovico Melzi dava nel suo palazzo. Entrò nella gran sala, vestita tutta di bianco, ornata il capo da candide ninfee, che le scendeano intorno al collo, al busto e a tutta la sottile persona, in una spirale: ninfee finte, perfettamente imitate dal vero, colle loro foglie verdi cascanti. Qualcosa di simile dell'abbigliamento di suora grigia che la principessa avea adottato per qualche spettacolo dell'Opéra-Italien a Parigi!

Talvolta, si recava a visitare una carissima parente, cantata da Vittorio Alfieri, ed esaltata da Giuseppe Parini, che l'aveva eletta a Ninfa Egeria, e le leggeva le primizie dei proprii lavori. Era la vecchia e briosissima marchesa Paola Castiglioni-Litta, che nella signoril casa a Porta Orientale (ora Corso Venezia) riceveva [263] ogni giorno un'infinita schiera di nipoti, fra i quali la principessa Belgiojoso. Li riceveva a letto, col suo cuffione bianco, col suo consueto, limpido sorriso. Nata nell'8 settembre del 1751, la marchesa, secondo la sentenza di tanti bravi medici, doveva sparir dalla terra fin da' primi anni della giovinezza; visse invece sino al 1846, alla vigilia dell'insurrezione di Milano: ed ella avea visti i duttili cavalieri serventi del Settecento, ed era intervenuta alle feste della Corte di Luigi XV!... I suoi motti di spirito giravano, come farfalle, per tutt'i palazzi: Giuseppe Parini, l'amico suo, n'era rapito. Nell'ode Il dono, il grande poeta parla di quella “fervida mente„ della “copia„ di quell'“ingegno„ di quello spirito arguto, e minia così:

.... spontaneo

Lepor tu mesci a i detti,

E di gentile aculeo

Altrui pungi e diletti,

Mal cauto da le insidie

Che de' tuoi vezzi la natura ordì....

Napoleone continuava a flagellar Milano di balzelli, di ruberie e, nello stesso tempo, ordinava all'obbediente Eugenio Beauharnais, vicerè d'Italia, d'imbandire sontuose feste di ballo a Corte per abbagliare colle cortesie e col fasto i poveri sudditi spogliati. La marchesa Paola Castiglioni non tardò a rispondere alla gentil viceregina che le porgeva invito ad un ballo:

— Grazie! ma nessuna di noi, signore milanesi, possiamo venire.

[264]

— Perchè, o marchesa?

— Perchè non abbiamo più giojelli!

Altri motti di spirito di lei divertivano anche Alessandro Manzoni. Ella pregava così il buon Dio: “O Signore, non fatemi morire in carnevale!„ Negli ultimi anni, era presa da allucinazioni gioconde: le pareva di vedere la Corte di Luigi XV coi cavalieri, colle dame, coi doppieri ardenti, e udiva musiche nuove e liete. In un suo taccuino, annotava: “Fenomeno. Musica da me solo udita, e di notte e di giorno. Ebbe principio nel mese di aprile di questo 1824.„

Quando morì, il suo corpo era quasi centenne; la sua anima avea vent'anni![105]

Ma altre allucinazioni pativa, pur troppo, Cristina Belgiojoso.

Fu a questo tempo che certi turbamenti nervosi della principessa s'accentuarono, colmandola d'angoscie. Le venne presentato un medico dalle brusche maniere, ma dal nitido ingegno, il dottor Paolo Màspero, il quale si occupava di epilessia con speciale competenza. I due volumi di lui sul terribil morbo, oggi sono invecchiati e dimenticati, ma possono attrarre ancora i profani perchè formicolanti di casi curiosi e pietosi, narrati con garbo letterario. Il Màspero era, infatti, della razza geniale del Redi: era medico e poeta. Nel modo stesso che il Monti si servì della versione latina dell'Iliade, apprestatagli dal Mustoxidi per compiere la magniloquente traduzione [265] del poema d'Omero (ch'è tanto semplice e ingenuo nel testo!) — il Màspero si servì d'una traduzione letterale dell'Odissea, per compierne la versione poetica, la quale, a detta d'Andrea Maffei, gareggiava per nerbo e per eleganza con quella del Monti.

Il Màspero disse alla Belgiojoso:

— Principessa! Se si affida a me, le prometto di migliorare assai le condizioni della sua salute!

— Venite con me allora! Seguitemi dove vo. Così vedrete voi stesso, ad ogni momento, se obbedirò alle vostre prescrizioni. Accettate?...

L'obbedire era un bell'impegno per la Belgiojoso, la quale, anche in fatto di medicina, aveva le sue idee. A ogni modo, ebbe fiducia nel Màspero; e questi lasciò il nativo cielo lombardo per il cielo di Parigi, seguendo la principessa come la sua ombra. Non furono quelli gli anni più lieti per il buon dottore; ma i più istruttivi. Quante volte si trovava imbarazzato, co' suoi modi mezzo rusticani, tra raffinati stranieri! Ma la principessa, delicata, lo toglieva d'impaccio, apprezzando sempre più le gelose prestazioni del medico fedele. Poichè ella si serviva di lui anche per incarichi segreti, come il soccorrere di nascosto poveri esuli italiani. Il dottor Màspero si vedeva trasformato così in elemosiniere. La principessa, a poco a poco, sotto le cure pazienti del Màspero, andò migliorando nella salute. La malattia non le sparve veramente del tutto; anzi certe sue incredibili stranezze delle quali si pascolarono per molto tempo le riunioni degli sfaccendati, altro non erano che nuove [266] morbose manifestazioni di quella malattia tremenda e lagrimevole d'origini oscure.


La principessa ritornò a Parigi con numerose sottoscrizioni raccolte a Milano, e trasformò la Gazzetta Italiana nell'Ausonio, dopo d'aver dato (ma per poco) ad essa un altro battesimo: quello di Rivista Italiana.

L'Ausonio usciva mensile in un fascicolo compatto, come la Revue des Deux Mondes. Lo scopo del periodico era di rivelare meglio l'Italia, mostrandola degna di libertà, di risorgimento. Fresca delle impressioni della Lombardia, la principessa dipinse nella rivista un quadro sui contadini della Bassa Lombardia, e un altro sui contadini dell'Alta: suo dolente ritornello! Fra gli affittajuoli e i contadini della Bassa Lombardia, la scrittrice stabilisce un confronto che tocca il cuore:

“Sebbene l'affittajuolo sia come il popolo d'Italia tutto ardente nella fede cristiana, ed attaccatissimo al culto della Chiesa, pure non si può dire che v'abbia in esso carità nessuna. L'animo di lui non è propriamente cattivo, imperocchè, quando potesse far del bene al misero, senza nuocere a sè, e senza darsi noja, il farebbe. Ma non alligna in quel cuore neppure una favilla di quell'amore per l'umanità che si rivela, quando esiste, da ogni atto ed ogni motto. Non ode il contadino fuorchè rimproveri, insulti, improperii, maledizioni, e sommesso in faccia all'affittajuolo, scarica sulla moglie e sui figli il malumore represso....

[267]

“Le famiglie sono numerose; e in quei paesi così fertili, su quel suolo così ricco, può tenersi per certo che, in una famiglia composta di cinque individui, uno ve ne sia sempre travagliato da febbre.... Le donne filano assidue dall'alba fino a mezzanotte, chiuse nelle umide, tenebrose e luride stalle, disseccandosi i bronchi col continuo bagnare il filo per torcerlo più agevolmente e guadagnare così non più di due soldi al giorno.„

E, fin d'allora, la Belgiojoso raccomandava che i proprietarii esaminassero i contratti conchiusi cogli affittajuoli, “imponendo a questi dovuti riguardi verso il povero, interrogando i suoi contadini, dandosi di essi qualche pensiero, convincendosi, insomma, che i possedimenti territoriali esigono maggiori brighe, che non il possesso di obbligazioni dello Stato.„

Parole scritte nel 1846; e pajono di jeri!

Queste pagine fanno parte di tutta una serie di Studii sulla storia d'Italia, largo lavoro che mostra l'ampiezza e la cultura di quella mente di donna singolare. Nella dispensa ottava dell'Ausonio, è notevole lo studio su Firenze, dalla cui storia l'autrice trae insegnamenti per l'Italia.

Un giorno del 1846, l'Ausonio uscì con una novità prelibata: una lunga lettera, inedita, di Alessandro Manzoni (divenuta poi tanto famosa) Sul Romanticismo. La principessa sperava che il sommo scrittore, suo concittadino, ne tollerasse la pubblicazione in omaggio ad antiche relazioni d'amicizia che correvano fra loro; ma [268] il Manzoni non le approvò, nè allora nè poi, l'arbitrio della pubblicazione. La principessa gli scrisse una lunga epistola cortese, sostenendo che la lettera Sul Romanticismo le era pervenuta da colui al quale era stata indirizzata (il marchese Cesare Taparelli d'Azeglio); e conchiudeva affermando il principio “è cosa incontestabile che le lettere appartengano a colui cui vennero dirette, e non a chi le scrisse.„ Altri afferma ch'è vero, invece, l'opposto.[106]

Anche l'Ausonio venne proibito dalle polizie d'Italia; ma gli esuli di Parigi avidamente se ne impossessavano appena usciva dalla libreria Dusacq della rue Jacob. Col maggio del 1847, si chiuse la prima serie dell'Ausonio; e nuovi scrittori accendevano di idee, di vita, nuove pagine. Massimo d'Azeglio vi scrisse un ampio articolo, oggi sconosciuto, La sentinella del Campidoglio. La sentinella è Pio IX. Il Pontefice liberale era già salito sul soglio di San Pietro, destando liete speranze.

I tempi incalzano e l'Ausonio da rivista mensile diventa rivista settimanale. Ed esce non più in lingua italiana, bensì tutta in lingua francese, perchè i fratelli latini, i francesi, si accalorino anch'essi per la causa d'Italia! Gl'interessi italiani sono trattati con maggior nerbo; i varii Stati italiani sono considerati nei loro caratteri, nelle loro tendenze; lo stile è più esplicito; la frase è più scottante. Non più moderazione! Un [269] veemente articolo L'Ausonio aux modérés de Toscane comincia: “La modération n'est pas toujours une vertu; elle n'est souvent que le masque de la couardise.„

Già Carlo Alberto brandisce la spada per l'indipendenza italiana, e uno scrittore anonimo ha il coraggio di esclamare: “l'Autriche est perdue!„

Carlo Alberto è l'astro dell'Ausonio, è l'astro ormai della principessa. A cominciare dal 1848, l'Ausonio ha cessato d'essere settimanale per uscire il 5, il 15 e il 25 d'ogni mese.... Ma dobbiamo fare un passo indietro e seguir la principessa in Inghilterra, dove s'abbocca con Luigi Napoleone, che sta per diventare il padrone della Francia, e un giorno darà una mano all'Italia.


Nel Brunswick hôtel, Jermyn street, a Londra, sotto il falso nome di Conte d'Arenenberg, è sceso Luigi Bonaparte. Egli è fuggito il 25 maggio del 1846 dalla fortezza di Ham, dove re Luigi Filippo l'avea fatto rinchiudere, per punirlo della sollevazione tentata a Boulogne a favore dei Bonaparte. Dalla celebre fortezza di Stato il principe è scappato negli abiti d'un muratore.... Fuga romanzesca.... e avvenne così:

Entro la fortezza di Ham, alcuni muratori erano intenti a imbiancare (nella mattina del 25 maggio 1846) le scale. Luigi Napoleone, coll'ajuto del dottor Conneau, medico della fortezza, indossò in fretta un vestito da muratore, sporco di calce, che avea pagato venticinque franchi; si tagliò i mustacchi; si coprì la testa d'una parrucca [270] nera, scarmigliata; si pose sulle spalle un'assa della libreria che Luigi Filippo gli aveva concesso in prigione; e stringendo fra i denti una vecchia pipa, si avviò franco all'uscita della fortezza. I muratori, vedendo un compagno sconosciuto, avrebbero potuto meravigliarsene; perciò vi fu l'accorto compare che si affrettò ad accompagnarli all'osteria a beverne di quel buono.

Ecco, ora, il principe faccia a faccia con uno de' guardiani. Egli gli mette l'assa davanti al viso, e procede. Eccolo ora nel cortile ch'ei deve attraversare in tutta la sua lunghezza. Si nasconde ancora colla tavola (vera tavola di salvezza!) e passa. Così passa davanti alla prima sentinella.... L'emozione lo prende: ei lascia cadere la pipa, che va in frantumi. Si china per raccoglierne i cocci, poi si rimette in cammino, e s'imbatte nell'ufficiale di guardia. Ma questi, tutto intento a leggere una lettera (forse una lettera d'amore?) non lo vede nemmeno. Il principe fila sotto le finestre del comandante.... I soldati di sentinella, presso l'unica uscita della fortezza, sembrano stupiti dello strano insieme, che presenta quel falso muratore.... Il tamburino si gira più volte a guardarlo. Intanto, i piantoni di guardia aprono la porta, ed il fuggitivo è ormai fuori della carcere. Ma, appena uscito, incontra due operaj della fortezza.... Essi lo fissano con attenzione.... E, pronto, egli allora a nascondersi coll'assa.... Questa volta teme di non poterla scappare.... Un operajo esclama: È Bertrando!... — È salvo.

Intanto, il dottor Conneau (quello che avea aperta cautamente la carcere a Luigi Napoleone) [271] ingannando le sentinelle, s'era fatto premura di sparger la voce che il principe, ammalato, dopo una notte insonne, riposava; e che bisognava lasciarlo tranquillo. Il dottor Conneau pose sul letto una specie di fantoccio rannicchiato contro il muro; un fantoccio formato da un mantello e da un foulard....

Il principe Luigi Napoleone è libero; non teme più nulla. A una mezza lega da Ham, si getta commosso in ginocchio davanti alla croce d'un cimitero. Otto ore dopo, tocca il suolo belga e, dodici ore più tardi, l'Inghilterra, dove s'incontra colla principessa Belgiojoso.

L'incontro del giovane principe ex carbonaro coll'ex giardiniera della Carboneria milanese è uno dei più caratteristici. V'è presente anche il dottor Paolo Màspero, il fedel medico-poeta, che la principessa si è condotto con sè.

Da una parte, v'è un giovane che sente d'essere il nipote di Napoleone il Grande; un giovane che tutto osa, perchè tutto ambisce; dall'altra, un'intrepida gentildonna, che sente i doveri d'italiana e che, a tutti i costi, lotta per rendere il nome d'Italia sua rispettato nel mondo.

La principessa italiana ricorda al principe francese il suo antico affetto all'Italia, il suo amore per l'indipendenza dei popoli. Gli ricorda i moti di Romagna, a' quali egli prese parte col fratello nel 1831. Gli raccomanda caldamente l'Italia lo prega di non dimenticare una terra, dalla quale è uscita la sua famiglia.... — Principe (gli dice) aiutate l'Italia! —

[272]

Luigi Napoleone la guarda fisso, l'ascolta.... Le prende quindi la mano, e le risponde:

— Principessa! Lasciatemi mettere a posto le cose di Francia; poi penserò all'Italia.

Le stesse parole che, più tardi, il principe ripetè a un fortissimo spirito lombardo; all'intimo amico suo, conte Francesco Arese.

Luigi Napoleone raccontò alla principessa Belgiojoso tutt'i particolari della fuga dalla fortezza di Ham; li raccontò alla presenza del dottor Paolo Màspero, che li riferì poscia al suo ritorno a Milano, e che sono gli stessi particolari narrati da Imbert de Saint-Arnaud nel libro Louis Napoléon et Mademoiselle de Montijo.[107]

Luigi Bonaparte avea, infatti, militato per la libertà d'Italia nell'insurrezione romagnola del 1831, agli ordini dell'irrequieto faentino Giuseppe Sercognani, già soldato di Napoleone I; in un'imboscata, corse allora pericolo della vita contro il trombone d'un fanatico ciociaro che voleva ucciderlo; e fu salvato per miracolo da un Martelli che, sguainata la sciabola, deviò il colpo e ammazzò il ciociaro.[108] La principessa Belgiojoso avea ajutato con denaro anche quell'insurrezione? Pare di sì.

La Principessa Cristina Belgiojoso nel 1848
(da un ritratto di quell'anno conservato nel Museo del Risorgimento di Milano).

Cristina Belgiojoso si fermò poco a Londra. Ne partì, anche per i terrori subiti nell'albergo dove alloggiava.... Durante la notte, sopra la sua camera, aveva udito il rotolìo d'un corpo pesante, [273] come d'una palla da cannone che corresse. Ella attribuì quel rotolìo, quel cupo rimbombo, a fenomeni spiritici.... La padrona dell'albergo fu costretta a confessarle che altri viaggiatori avevano udito più volte quei rumori; rumori dei quali nessuno sapeva spiegare la cagione.

Intanto i Francesi, che amano sempre le audacie, i bei colpi di scena, applaudivano all'evasione di Luigi Napoleone. Quegli stessi che, dopo il tentativo infelice di Boulogne l'avevano deriso, lo esaltavano per la felice riuscita della fuga da Ham. Un principe di sangue imperiale, travestito da muratore, non si trova, infatti, tutt'i giorni! I biasimi e le risa di jeri si mutarono in ammirazioni. Luigi Napoleone divenne “l'uomo del momento„. In lui, nell'antico carbonaro, confidavano gli amici della libertà; confidava la Belgiojoso, anticipando i sentimenti espressi da un poeta italiano, allorchè questi si rivolse appunto a Luigi Bonaparte:

Fiero contendi ai despoti

Le mal rapite glebe.

Stoppa possente ai cupidi

Suoi traditor la plebe.

Tu, Gedeon, sul Tempio

Alza di Dio l'insegna.

Vendica il Mondo; e regna

Come nessun regnò.

Vasta è la via. Puoi vincere

Il sangue onde sei nato.

Guai se tu manchi all'opera

Per cui t'ha Dio mandato.

[274]

O Infame o Grande. Il tacito

Mondo ti guarda e spera,

Altro a chi vince e impera

Vaticinar non so.

Sol, pei materni visceri,

Ti prego a giunte mani

Non oblïar, nel turbine

Del tuo fatal dimani,

Questa oblïata Italia

Del sangue tuo; quest'Eva

Che a te le braccia leva

Consunte di dolor.

Mille de' suoi, che dormono

Là tra le scizie nevi,

Per chi tu 'l sai, fantasimi

Tetri, placar tu devi.

Pensa alla madre, al cenere

Dell'Alighier: nefando

Di Bonaparte è il brando

S'egli altri numi ha in cor.

Così cantava un poeta, che fu vate nel più alto senso della parola, perchè fu il profeta dei destini di Casa Savoja. Così, nell'ode storica Il 2 dicembre, cantava Giovanni Prati: così speravano alcuni: così forse sentiva, allora, Luigi Bonaparte.

Nel 1847, la Belgiojoso andò a Roma, e appena ivi giunta, versò 20,000 lire pei moti rivoluzionari.[109] Ella sapeva maneggiare il fucile e la spada, e montare a cavallo senza sella. Poteva essere un'Amazzone della riscossa italica, e lo fu.

[275]

XIV. La rivoluzione del 1848.
Il battaglione della Principessa.

Partenza della principessa da Napoli con 200 volontarii e festoso arrivo a Milano. — Il podestà conte Gabrio Casati e gli articoli politici della principessa sulla Revue des Deux Mondes. — Carattere della rivoluzione del 1848. — Incontro della Belgiojoso col poeta Mickievicz. — Lettera di lei a re Carlo Alberto. — Le risposte del conte di Castagneto. — Stizze di Cesare Balbo. — Il Crociato e altre pubblicazioni politiche della Belgiojoso. — Il Circolo albertista della principessa in via Borgonuovo a Milano. — Assistenze ai feriti.

Scoppia la rivoluzione del '48, — ed eccoci nel momento più clamoroso, al gesto più epico della principessa. Ella forma, d'improvviso, una colonna di volontarii napoletani per combattere la guerra dell'indipendenza. Lasciamo a lei descrivere la scena:

“Ero a Napoli, quando scoppiò la rivoluzione a Milano. Non potei resistere al prepotente desiderio di raggiungere i miei concittadini: presi a nolo un piroscafo che mi conducesse a Genova. Sparsasi appena la voce della mia partenza, mi accorsi quanta e viva simpatia avesse destata in Napoli la causa lombarda. Volontarii d'ogni ceto vennero a supplicarmi che li volessi condurre [276] con me in Lombardia. Nelle quarantotto ore che precedettero la mia partenza, la mia casa non fu mai vuota: diecimila napoletani volevano seguirmi; ma il mio piroscafo non portava che dugento persone. Acconsentii quindi a condurre dugento volontarii: la piccola colonna fu subito completa. S'era visto raramente tutta una popolazione uscir sì d'improvviso da un lungo riposo, spinta da un solo pensiero di guerra e di devozione. Fra i volontarii che domandavano di seguirmi in Lombardia, gli uni appartenevano alle primarie famiglie di Napoli: abbandonato furtivamente il tetto paterno, vollero seguirmi, non portando con sè che pochi carlini; gli altri, modesti impiegati, cambiavano senza rammarico il posto che li faceva vivere, per la vita del campo. Alcuni ufficiali si esponevano al castigo del disertore, per portare le armi contro l'austriaco; alcuni padri di famiglia lasciavano mogli e figli; e un giovane il cui matrimonio, lungo tempo atteso, doveva essere celebrato il giorno dopo a quello della mia partenza, pospose i più cari doveri al desiderio di difendere la patria.

“Non dimenticherò mai il momento della mia partenza. Il cielo era mirabile. Dovevamo imbarcarci alle cinque della sera. Quando io arrivai al piroscafo, il mare era coperto da leggere barchette accorse da ogni parte per augurarci il buon viaggio. Fra i tanti navigli ancorati nel porto, avresti distinto facilmente il nostro al balenìo delle armi che coprivano tutta quanta la coperta. I miei volontarii m'attendevano. Nei [277] brevi istanti, occupati per gli ultimi preparativi, fummo ancora assaliti da innumerabili domande: da tutte le barche che circondavano il nostro piroscafo, s'innalzavano voci supplicanti per scongiurarci di scrivere un nome di più sulla nostra lista già completa. Non potevamo, disgraziatamente, che opporre iterati rifiuti a quelle istanze sì incalzanti; e quando il nostro piroscafo si staccò dalla riva, un solo grido uscì da centomila bocche; tutti ci lasciavano per addio queste parole: Noi vi seguiremo!

Era affatto nuovo il vedere una bella signora patrizia, sola, che, a sue spese, armava e assoldava, per generoso patriottico impulso, una colonna di militi e partiva con loro in alto mare, come un Giasone femmineo seguìto dagli Argonauti, come una Giovanna d'Arco marittima! Ella, donna, sola, ancor giovane, ancor bella, in mezzo a tanti giovanotti, in una nave!... Non vi era là neppur l'ombra d'un regolamento di disciplina. Non vi erano gradi, allora; tutti erano eguali davanti alla dea fascinatrice, dinanzi al cielo, al mare. Essi passavano i giorni, e talvolta le sere e le notti stellate, cantando le canzoni natie. Il piroscafo portava un nome poetico: Virgilio.

“La traversata fu rapida (continua a raccontare la principessa nel suo rilevante lavoro L'Italie et la révolution italienne en 1848, pubblicato nella “Revue des Deux Mondes„ di quell'anno fortunoso e sfortunato). “A Genova, trovammo accoglienza veramente cordiale.„ E da Genova, la Belgiojoso passò co' suoi militi nella sospirata [278] Milano.... Ma qui è meglio riportare le stesse parole francesi della principessa, che sentiva allora più che mai scorrere nelle sue vene il sangue del maresciallo Trivulzio:

“La population milanaise s'était préparée également à saluer notre arrivée par des témoignages de sympathie auxquels le gouvernement provisoire jugea prudent de s'associer. Mes deux cents volontaires étaient, après les soldats piémontais, les premiers Italiens venus en Lombardie pour prendre part à ce que l'on appelait alors la croisade et la guerre sainte. La présence à Milan du premier corps de volontaires napolitains semblait garantir que la guerre contre l'Autriche allait devenir une guerre italienne, au lieu d'être une guerre lombardo-piémontaise. Les départs consécutifs de quatre autres légions napolitaines vinrent bientôt ajouter au sentiment de confiance que l'arrivée de ces premiers volontaires avait déjà inspiré. Quelques-uns de nos gouvernants se refusèrent pourtant à le partager. Appelée en quelque sorte à répondre du sort des jeunes gens qui m'avaient suivie de Naples à Milan, je cherchai plus d'une fois à appeler sur eux l'intérêt du gouvernement provisoire, et je me heurtai trop souvent contre une mauvaise volonté qui ne se déguisait guère. Il m'arriva, par exemple, de présenter mes volontaires napolitains comme l'avant-garde d'une armée de cent mille hommes, composée de toute la jeunesse italienne, qui n'hésiterait pas à accourir au moindre appel. — Dieu nous garde, s'écriait-on, [279] d'un pareil secours! — Je jugeai inutile de prolonger la discussion. Pourtant ce sont des volontaires napolitains qui ont concouru à la défense de Trévise et de Vicence, et aujourd'hui encore Venise renferme dans ses murs attaqués des défenseurs qui ont quitté pour la secourir les beaux rivages de Sorrente et les gorges sauvages de la Calabre.

“Quand j'arrivai à Milan, les Autrichiens n'avaient quitté la ville que depuis huit jours, et les barricades encombraient encore les rues. C'était la première fois que je voyais les couleurs italiennes flotter sur les murs de la capitale lombarde. J'éprouvais une joie profonde et sans mélange. Tout m'annonçait que l'enthousiasme politique n'était pas refroidi, mais tout aussi ne tarda pas à me prouver que la situation du pays n'était pas comprise par ceux à qui était échue la difficile mission de la dominer et de la diriger.„

Il battaglione della principessa Belgiojoso entrò in Milano per Porta Romana verso le tre ore pomeridiane del 6 aprile 1848; entrò nello stesso giorno che nel Duomo, parato a lutto e fregiato d'iscrizioni d'Achille Mauri, era stato celebrato fra le lagrime del popolo un ufficio funebre pei caduti delle Cinque giornate; solenne ufficio, coll'intervento di tutte le autorità; funzione patriottica e popolare, nella quale primeggiava un drappello della Compagnia della Morte, comandata da Filippo Anfossi, fratello d'Augusto, eroicamente caduto nella lotta memoranda. Giulio Carcano scrisse per quella cerimonia il Canto del [280] popolo in omaggio ai morti della patria, musicato da Stefano Ronchetti:

Per la Patria il sangue han dato,

Esclamando: Italia e Pio!

L'alme pure han rese a Dio,

Benedetti nel morir:

Hanno vinto e consumato

Il santissimo martir.

Di que' forti — per noi morti

Sacro è il grido, e non morrà.

Noi per essi alfin redenti

Salutiamo i dì novelli:

Sovra il sangue de' fratelli

Noi giuriamo libertà!

E sul capo de' potenti

L'alto giuro tuonerà.

Di que' forti — per noi morti

Sacro è il grido, e non morrà.

Il giornale Il 22 marzo nello stesso giorno descrisse quell'ingresso colle seguenti linee, nelle quali scorgo la penna dell'austero Carlo Tenca, poi direttore del patriottico Crepuscolo:

“Le commozioni si succedono senza tregua. Dopo la funebre cerimonia, ecco giungere in Milano, in sulle tre ore, la schiera de' volontari calabresi (così!) condotta dalla principessa Belgiojoso. Entrò per Porta Romana in ordinanza marziale, e sfilò accompagnata dalle nostre guardie civiche sotto le finestre del palazzo del Marino. La schiera è di circa 200: bella gioventù, ardente, già addestrata alle armi e vestita di divisa militare italiana. Il popolo l'accompagnava festoso [281] per le vie, plaudiva all'ajuto fraterno, all'amor patrio, all'eroismo che spirava dai volti di quella generosa legione. Sotto le finestre del palazzo, salutò con clamorosi evviva il Governo Provvisorio: esso rispose, per bocca del presidente Casati, parole di simpatia, di fiducia e d'amore. Quel concorso d'Italiani, che dall'estremo confine della Penisola portano il loro tributo alla causa comune, è augurio di vicino scioglimento alla gran lotta; e il Casati l'annunziò sperando che presto possa il paese, libero affatto e ricomposto, provvedere ai proprii destini. Preluse all'italica unità, meta di tutt'i desiderj, dicendo che il Sebeto e l'Olona ormai non irrigavano più che una medesima terra. Il popolo accolse con giubilo questa solenne espressione de' suoi voti, e, plaudendo, chiese di salutare l'intrepida condottrice di quella schiera, che col coraggio del soldato e colla carità della donna, si consacra alla santa impresa dell'emancipazione della patria. Il saluto fu lungo e clamoroso, e la principessa si ritrasse commossa senza poter proferire una parola. Il fremito durò a lungo nella moltitudine tripudiante, prima che questa si sciogliesse; e tutti partirono benedicendo a quella parola potente che armonizza tra noi tutti i cuori e tutte le braccia.„

Un testimonio oculare mi descrive con eguale accento quell'accoglienza. La principessa entrò in carrozza scoperta, a capo del suo battaglione: in pugno stringeva una bandiera tricolore, e portava un cappello piumato alla calabrese, come [282] i suoi militi, i quali rispondevano alle acclamazioni del popolo strappandosi dal cappello le penne e distribuendole alle avide mani che s'alzavano per afferrarle in mezzo a un delirio di gioja e fra le grida: Viva l'Italia! Viva Pio IX!

Ma il podestà, conte Gabrio Casati, non vedeva di buon occhio il battaglione della principessa. Nel poscritto d'una lettera sua al conte Cesare Trabucco di Castagneto, il Casati scriveva:

“È arrivata la Principessa Belgiojoso con una truppa di 150 avventurieri. Temo che m'abbia fatto un cattivo regalo. Tuttavia ho dovuto rappresentare la scena di arringare questa truppa....„[110]

S'accorse la principessa del malcontento del conte Casati?... Fatto sta ch'ella travolse il suo concittadino nell'onda de' giudizii severi, da lei espressi nella Revue des Deux Mondes.

Oggi, desta stupore il leggere d'una donna comandante d'un proprio battaglione di militi, ai quali distribuiva i brevetti di nomina colle parole: Noi Principessa Cristina di Belgiojoso.... nominiamo.... Si pensa a Giovanna d'Arco; si pensa alle sultane dell'Indostan, dette Begum, che guidavano eserciti in guerra.... Ma bisogna riportarsi al Quarantotto, a tutta quell'epoca di esaltazioni, di fantasmagorie, congiunte ad immortali atti di valore. Era l'epoca, nella quale gli uomini portavano i piumati cappelli all'Ernani, alla Puritana (imitati dalle opere popolari del Verdi e del Bellini), e andavano baldanzosi per [283] via coi pugnali dei tenori e dei baritoni nella cintura, collo schioppo in spalla; uno schioppo ch'era stato forse in pugno a Benvenuto Cellini nel sacco di Roma. Infatti, la galleria d'armi antiche Poldi-Pezzoli a Milano era stata spogliata dagl'insorti; che aveano eretto le barricate (quest'architettura de la libertaa, come le definiva il poeta Rajberti) coi confessionali, coi pianoforti, coi pollaj, colle carrozze stemmate, coi letti matrimoniali, colle scranne dei teatri.... In quei giorni, la marchesa Arconati-Visconti, fervida amica del Berchet, gentildonna assennata, non arringò forse la folla da un balcone in piazza San Fedele?... Il tragico si mescolava al comico, come nei drammi dello Shakespeare, come nei drammi della vita; e qual dramma una rivoluzione, nella quale un popolo vilipeso per tanti secoli come imbelle, sorge d'un tratto vindice, eroe, e inerme scaccia dalla città, a suono allegro di campane come nei Vespri Siciliani, un mezzo esercito armato, con un generale Radetzky alla testa!... Qual dramma il veder giovanetti patrizii inginocchiarsi davanti alle madri perchè li benedicano prima di lasciarli accorrere al combattimento, forse alla morte; donne che bendano pietose le teste degli austriaci feriti, poc'anzi maledetti dalle loro labbra frementi; sacerdoti che impartiscono l'assoluzione a popolani agonizzanti a piè delle barricate e, subito dopo, sparano contro il nemico i fucili tolti da quelle mani irrigidite nella morte. Dio lo vuole! gridavan gli uni come i crociati alla liberazione di Gerusalemme; Viva Pio IX! [284] rispondevano gli altri. Ed era magnifica quella figura di pontefice che sorrideva ai martiri della patria, fra i canti di guerra e le preghiere; era consolante quell'improvviso affratellamento di patrizii con plebei, quell'accordo nell'olocausto giocondo di sè stessi a una idea; idea che si sentiva ardere nei cuori e che parea di vedere là, dinanzi, incarnata in una figura di giovane donna turrita, raggiante: l'Italia!


Cristina Belgiojoso si trovò, a Milano, dinanzi a un grande poeta: all'autore del fatidico Libro della nazione e degli esiliati polacchi, al lituano Adamo Mickievicz, gloria e simbolo della Polonia. Egli era venuto con altri dieci compagni a offrire anch'esso il braccio e l'anima per la redenzione del nostro paese. La principessa aveva conosciuto il Mickievicz a Parigi, dove, in quel Collegio di Francia, era stata instituita una cattedra di storia e di letteratura slava per lui, apostolo possente e gentile, che univa nel suo canto, nella sua parola, nell'anima sua, due ideali: la fede in Dio e la libertà della patria; l'una gl'inspirava le due sublimi preghiere che chiudono il Libro degli esiliati; l'altra gl'inspirava Conrad Wallenrod, il fremebondo poema.

Nella “preghiera dei pellegrini„ il gran poeta della Polonia supplicava “Iddio Signore onnipotente„ così:

“I nostri vecchi, le nostre donne, i nostri fanciulli non possono se non pregarti nel silenzio delle loro anime

“E spargendo lagrime.... Abbi pietà della nostra patria e di noi!

[285]

“Concedi che di nuovo possiamo volgere preghiera a te, come ti pregavano gli avi nostri, sul campo di battaglia, con le armi in mano, dinanzi ad un altare costruito di tamburi e di cannoni, sotto il baldacchino fatto delle nostre aquile e de' nostri vessilli.

“Concedi alle nostre famiglie di pregarti nelle chiese delle nostre città e delle nostre campagne. Concedi ai nostri figliuoli di pregare sui nostri sepolcri. Sia fatta peraltro non la nostra, ma la tua volontà, o Signore!„

Ma la principessa voleva incontrarsi in un'altra augusta figura, in Carlo Alberto, l'unico principe italiano che avesse snudata la spada per la libertà: Carlo Alberto, nel quale Cristina Belgiojoso fidava sempre più. Ed ella gli scrisse. È una lettera franca, datata dal paesello di Belgiojoso dove ella s'era ritirata, in attesa degli avvenimenti:

13 Aprile, Belgiojoso.

Sire,

Perdoni la Maestà Vostra il parlar schietto di persona non usa alle formalità della Corte, ed avvezza ad esprimere senza velo nè reticenza le proprie opinioni.

La M. V. sa con quanto ardore io desiderassi il di Lei intervento in Lombardia. Sfortunatamente le mie istanti preghiere non furono esaudite se non molto tardi, quando i Milanesi credevano di aver compìto da essi soli il più difficile dell'impresa. Questo ritardo rende ora dubbio ciò che sarebbe stato certo, qualora la M. V. avesse passato il Ticino qualche giorno prima dell'insurrezione di Milano.

[286]

L'opinione mia è sempre la medesima, cioè desidero di tatto cuore la unione della Lombardia al Piemonte e sono incombenzata da persone influenti di Napoli di unire al partito Piemontese di Napoli il partito Piemontese di Lombardia. Dalla risoluzione che prenderanno i Lombardi dipende la sorte di tutta Italia. O noi ci congiungiamo al Piemonte, e non passeranno forse due anni che l'Italia intieramente sarà raccolta sotto la Casa di Savoja; o noi ci erigiamo in repubblica, e Genova ci imita, la forza militare d'Italia, il Piemonte, è ridotta a poco: l'Italia si divide in infiniti Stati e ricadiamo nel Medio Evo. La M. V. può facilmente comprendere quanto io desideri la prima di queste soluzioni.

Ebbi questa mattina un pressante invito dal rappresentante di una potenza forte ed amica, di mettermi alla testa del partito della unione col Piemonte. A questa persona io feci le seguenti obbiezioni che la M. V. potrà, volendo, solvere. Due partiti sono ora in presenza, in Milano, il Piemontese ed il Repubblicano; il Piemontese è composto della aristocrazia Milanese, cioè di coloro che erano un anno fa amici dell'Austria, del Governo Provvisorio e di quelle persone che sono mosse dal timore di perdere i titoli o i denari. Questi sono e divengono di giorno in giorno invisi al popolo; commettono errori madornali; introdussero disordine in tutte le amministrazioni; saranno fra non molto rovesciati dal popolo, ed in qualunque caso la opinione loro indisporrà la parte sana della popolazione.

[287]

Il partito della Repubblica si compone del ceto medio, della gioventù e del popolo.

Io non posso accordarmi coi primi e, d'altronde, quand'anche lo facessi, non produrrei nessun vantaggio al partito medesimo; imperocchè non passeranno quindici giorni che l'avere quei signori proposta una cosa, basterà perchè sia respinta dal popolo.

Le mie simpatie sono invece non colla repubblica, ma cogli individui che compongono il partito repubblicano.

Una cosa io posso fare e farò volentieri, se la M. V. me ne facilita la esecuzione. Io mi studierò di formare, nel ceto medio stesso, un partito della unione della Lombardia col Piemonte, nè dispero di riescirvi. Ma questo partito non sarà mosso da mire aristocratiche, ed io non perverrò a formarlo se non posso rispondere che la M. V. accoglierà le domande che da esso venissero formate. Non consentirà per certo ad unirsi al Piemonte, quale il Piemonte è oggi, accettando le istituzioni, le leggi, ecc., di esso. Ma potrà accordarsi di sottoporsi al medesimo principe, quando questo conceda alla Lombardia le istituzioni che ad essa si confanno.

Se mi vien fatto di formare questo partito, la M. V. potrà fare conto di avere dei veri partigiani in Lombardia fra le persone chiare, distinte ed influenti. Ma, per amore della salute d'Italia, V. M. non si illuda di avere un vero partito sino a tanto che con lei staranno soltanto i nobili e gli impiegati di Milano. Dessi cadranno presto, e, rimanessero ancora, come [288] stanno oggi, non sarebbero punto nè poco ascoltati dalla popolazione.

Al rappresentante della estera potenza io non diedi risposta definitiva, imperocchè prima di assumere un impegno come quello di dirigere un partito, voglio accertarmi che codesto partito può esistere ed avere qualche forza; il che non sarà mai se la M. V. non si prende cura di formarsi un partito nella classe media.

Scusi la M. V. il franco parlare e consideri soltanto il sentimento da cui sono le mie parole dettate.

Aspetto la risposta che la M. V. piacerà farmi trasmettere, e depongo ai piedi di lei l'omaggio della mia rispettosa devozione.

Della Maestà Vostra,

la umil.ma ed obb.ma serva

Cristina Trivulzio di Belgiojoso.„

E re Carlo Alberto fece rispondere dal conte di Castagneto non alla principessa Belgiojoso direttamente, ma al cavaliere Maurizio Farina così:

“Volta, 21 aprile 1848.

Mio caro Farina,

“.... Le mando in tutta confidenza una lettera della P.ssa Belgiojoso. Non ne parli con anima al mondo, tale essendo il desiderio di S. M., ma se ne valga per informarsi, poi mi scriva. Procuri però di vedere la stessa Principessa, e senza far mostra di nulla sapere, le dica solamente che tiene incarico da me di ossequiarla e di [289] farle sapere che per l'affare di cui scrisse converrebbe conoscere le condizioni; ma che si calcola molto più su lei che su qualunque altra persona.

Di Castagneto.„[111]

Le condizioni, infatti, le condizioni!... Quali erano?

I Milanesi desideravano che la capitale dell'alta Italia da Torino si trasferisse a Milano. E così bramava pure la principessa. “Quindi un grido (scrive Angelo Brofferio) un grido di turbamento si levò dalle Alpi alla Sesia e gli animi ne furono scossi profondamente.„[112]

Il conte di Castagneto scriveva di nuovo, il 15 giugno, da Valeggio a Maurizio Farina:

“.... Se vede la Belgiojoso mi faccia servo, e ritenga che una dichiarazione di fusione semplice, con un Ministero misto, che subito si metta alla direzione degli affari, è la sola àncora di salute possibile.„[113]

Ciò che importava prima di tutto era la fusione (come dicevano) della Lombardia col Piemonte. Era già un bel passo verso l'unità!... E la principessa centuplicò le sue forze con attività più che mai febbrile, perchè la fusione avvenisse al più presto. Fin dal 1847, nel proemio del suo Ausonio, ella aveva scritto queste parole: “Lo spirito anti-austriaco mostrato da Carlo Alberto nelle differenze doganali del Piemonte [290] coll'Austria, e la sua fermezza provarono all'Italia che v'ha un principe italiano, che questo principe non è mancipio dell'Austria e che all'uopo saprebbe rinverdire le antiche glorie della casa di Savoja.„ E dire che parecchi primarii patrioti piemontesi le si mostravano avversi: fra essi, l'irritabilissimo Cesare Balbo; il quale, a proposito d'un giudizio poco benevolo espresso sulle sue Speranze d'Italia nel Journal des Débats, si sfogava con Gino Capponi così: “.... Mi pena perchè questa cattiva, o almeno piccola opinione di me è sparsa dalle ignoranti parole dei Débats o della principessa Belgiojoso, e dalle inqualificabili del Gioberti....„[114]

La principessa, è vero, inspirava, o, meglio, componeva ella stessa, articoli sui giornali di Parigi intorno alle speranze d'Italia, ma non sulle speranze stampate di Cesare Balbo, ch'ella anzi lodava assai: ella scriveva nel Constitutionnel, nella Liberté de penser, nella Démocratie pacifique, nel National; ma questi giornali di Parigi non bastavano alla sua prodigiosa attività di propaganda patriottica. Per raggiungere la fusione della Lombardia col Piemonte, ecco, ella fonda a Milano, a sue spese, un nuovo giornale battagliero, Il Crociato; era scritto quasi tutto da lei, nella casa di via Borgonuovo numero 20, dov'era andata ad abitare e precisamente nelle stesse sale abbandonate dalla bizzarra, voluttuosissima contessa moscovita Giulia Samoyloff; [291] la quale era scomparsa da Milano fin dai primi sintomi della rivoluzione.

E non credendo bastante Il Crociato per la sua crociata, la principessa pubblicò anche alcuni numeri d'un altro giornale, La Croce di Savoja, oggi introvabile; e due opuscoli: Ai suoi concittadini: parole. Nel primo dimostra l'unità italiana preferibile alla federazione propugnata da Carlo Cattaneo; nel secondo, dimostra la forma monarchica preferibile alla repubblicana.

Nelle sale della Belgiojoso in via Borgonuovo, dove poche settimane prima gli ufficiali austriaci devoti alla contessa Samoyloff trascinavano le sciabole, s'adunavano parecchi liberali, caldeggianti l'unione della Lombardia col Piemonte. Vi andavano il conte Vitaliano Borromeo, che aveva rimandato all'imperatore d'Austria le insegne del Toson d'oro, dicendo che non potea portare più ordini d'un governo che s'era imbrattato del sangue innocente de' suoi concittadini. Vi andava il roseo conte Enrico Martini, il quale (ahimè!) troppo conosceva le sale della contessa Samoyloff, onde, per il passato, alcuni amici ne lo avevano punito togliendogli il saluto. Il Martini, bello e seducente, dagl'impeti baldi, mentre tutte le porte di Milano eran tenute dagli Austriaci, vi era arditamente penetrato, in modo abbastanza comico. Fuori di Porta Comasina s'incontrò in un certo Angelo Cattaneo, che avea ottenuto il permesso specialissimo di uscire e di rientrare in città per provvederla di sale. Il Cattaneo gli fece indossare un suo abito ben noto alle guardie; lo caricò d'un sacchetto del [292] sale della sapienza, e il Martini entrò franco in città per unirsi, in casa Taverna, agli uomini del Governo Provvisorio. Nello stesso tempo che pensava alla politica, la principessa pensava ai malati della rivoluzione, ai feriti, e spesso scendeva dal suo palazzo per andare in via San Paolo nelle sale da ballo della Società del Giardino, dove molte signore d'ogni ceto si raccoglievano giorno e notte a preparare lini e filaccie, col pensiero ai fratelli combattenti, ai destini d'Italia.

E la colonna Belgiojoso?... Che ne avvenne veramente?...

[293]

XV. Ancora nel 1848: a Milano, a Venezia, a Parigi.

Come si diramò il battaglione della Principessa. — Le bugie del conte de Hübner. — Il battaglione dell'abate Meneghelli. — Giudizii del Metternich sui liberali italiani. — Giudizii severi della Belgiojoso sugli uomini della rivoluzione lombarda. — Carlo Alberto a Milano e il dramma del palazzo Greppi. — La rivoluzione di Parigi: la Principessa torna a Parigi. — Le vésuviennes. — Comico incidente in un ballo ufficiale. — Armando Marrast. — La Belgiojoso va all'assedio di Roma.

Un diplomatico austriaco, il conte de Hübner, che durante l'insurrezione delle Cinque Giornate se ne stette nascosto a Milano in casa d'un'amante, racconta nel suo ironico Une année de ma vie che i militi della colonna di Cristina Belgiojoso, appena usciti dai festosi battimani e sventolii dei fazzoletti milanesi, furono spediti sul campo della guerra; ma che essi non videro mai il nemico e si sbandarono per la campagna, commettendovi ogni sorta di depredazioni, finchè i contadini, esasperati, li sterminarono!... E il gentile Hübner ha il coraggio di soggiungere di aver visti una ventina di quei prodi cenciosi domandare l'elemosina per le vie di Milano. E conclude: “C'est ainsi qu'a fini cette [294] grande démonstration essentiellement républicaine.„[115]

Ebbene: è un'infame bugia. Alcuno di quei volontarii meridionali si vedeva, è vero, seduto sui gradini del Duomo, colla barba in disordine, ad aspettare gli eventi; ma nessuno chiese mai la carità, provvedendo ad essi la principessa. — Altri entrarono nella colonna dell'ardito Luciano Manara, nella colonna dell'Anfossi o nella colonna Tangeberg, che con quella del Manara salirono verso il Trentino, detto allora da molti Tirolo italiano. Ma i più accorsero a difendere Venezia sotto il comando del valorosissimo Guglielmo Pepe; a difenderla accanto all'altro napoletano Alessandro Poerio, il poeta-soldato, colpito in quella lotta titanica da una scheggia di mitraglia e da una sciabolata alla testa. Non erano, adunque, tutti avventurieri, come, scrivendo all'ajutante di Carlo Alberto, sentenziava il capo del Governo provvisorio di Milano, Gabrio Casati! Il conte de Hübner, lo stesso che, ambasciatore d'Austria presso Napoleone III, dovette sorbirsi, nel ricevimento di capo d'anno del 1859, parole amare come d'assenzio, non merita fede: egli poteva dar la mano al gesuita Antonio Bresciani, il quale, nell'Ebreo di Verona, schernisce i volontarii della Belgiojoso. Quest'era, in fine, una bella, coltissima, spiritosa signora; e anche oggi, ben lontani come siamo dai delirii del Quarantotto, molti adoratori della bellezza, del sapere [295] e del brio, non vorrebbero forse cavallerescamente seguirla?... Ma sento dire di no.

La principessa Cristina Belgiojoso, nel lungo scritto Guerre dans le Tyrol italien, pubblicato nella Revue des Deux Mondes del 15 gennajo 1849, parla di quelle colonne, di quei movimenti.

Fu detto ch'ella aveva partecipato a quei movimenti. Ma nel Trentino, ella non pose mai piede. Fu scambiata con la veneziana Elisa Barozzi, sposa di Eugenio Beltrami di Cremona, portabandiera del battaglione cremonese. La principessa, dopo d'avere esposte in poche parole le vicende del Trentino fin dal principio del secolo XIX; dopo d'aver parlato di Andrea Hofer, magnifica figura d'alpigiano, che Napoleone I potè uccidere con le palle de' suoi fucili, non strappare alla gloria; la Belgiojoso parla d'una delle tante curiose figure di quell'epoca: d'un sacerdote rivoluzionario e guerriero, l'abate Meneghelli, duce anch'esso d'una colonna. Povero abate! Il generale Allemandi, col quale volea mettersi d'accordo per operare efficacemente contro gli Austriaci, lo trattò da imbelle, lo osteggiò, gli fermò la mano. L'abate gli aveva proposta una marcia notturna su Riva di Trento; marcia divisa in due corpi; uno de' quali doveva essere comandato da lui, attraversando i villaggi di Prando, Demo, San Giovanni e penetrare a Trento d'accordo cogli abitanti. Ma i capitani Arcioni e Longhena gli fecero capire che l'Allemandi aveva tracciato tutt'altra via.... Il buon Meneghelli aveva pur ricevuto dal Governo provvisorio di Milano l'ambita facoltà [296] d'eseguire il suo piano e dirigere la colonna dei volontarj attraverso le valli delle quali egli conosceva tutti i passaggi. Ma tante erano le teste e tante le opinioni e i comandi, allora!


Anche su Venezia la Belgiojoso scrisse parecchie pagine nella Revue des Deux Mondes col suo stile serrato e incisivo; di Venezia, dove volle recarsi per istudiare da vicino quella rivoluzione.

E là, nella fantastica città dei dogi, un altro grandioso spettacolo!... Il leone di San Marco, che Napoleone avea venduto col trattato di Campoformio all'Austria, come un vecchio leone da serraglio, s'era risvegliato terribile come ai bei giorni di Lepanto. Un uomo di Stato, il solo vero uomo di Stato, che l'Italia vedesse allora vigoreggiare, guidava il popolo; un popolo d'eroi e di poeti, che accoglieva le palle infuocate degli Austriaci con motti di spirito arguto. Daniele Manin era un uomo di limpida intelligenza, di carattere immacolato, di volontà ferrea, risoluta. Lodovico Manin avea chiusa, tremando, la gloriosa serie dei dogi; Daniele Manin apriva una nuova êra di vita per l'antica dominatrice dei mari. E, accanto al Manin, sedeva, grave, Nicolò Tommaseo, l'antico innamorato di Cristina Belgiojoso; e, fra i combattenti, emergeva Guglielmo Pepe; e splendeva colla mistica dolcezza d'un santo nella parola, e colla gagliardia d'un cavaliere antico nella spada, un altro ben noto esule di Parigi, e pure amico della principessa: il brianzuolo Giuseppe Sirtori.

[297]

Come la carezzevole aura di Venezia fremeva allora tutta d'odio contro gli Austriaci!...

Via da noi, tedesco infido!

Non più patti, non accordi!

Guerra! Guerra! Ogn'altro grido

È d'infamia e servitù!

cantava allora il veneziano Carrèr; povero poeta, ch'emetteva fremiti e canti di guerra coll'anima angosciata da sventure domestiche, e colla fibra distrutta dalla tisi! Giuseppe Winter (che non va confuso col suo omonimo autore d'un'opera Maometto II) musicò quel veemente inno di guerra per incarico della principessa, alla quale il maestro lo consacrò col titolo: La Crociata italiana,[116] mentre cinque celebri compositori, Liszt, Thalberg, Herz, Czerny e Chopin le offrivano più splendido omaggio, pubblicando a Milano il Morceau de concert; grandes variations de bravoure pour piano sur la marche des Puritains de Bellini: “Sui campi della gloria — Noi pugneremo allato!...„[117] — Quali complicate variazioni! Quelle del Liszt sono infernali: la coda del diavolo. Ma non si tratta dei Puritani, bensì del Belisario.... Come mai tanto equivoco?...

E infernali erano (o press'a poco) le idee del principe di Metternich, l'inflessibile sostenitore del diritto divino atterrato in quell'anno dal diritto del popolo.

Il Metternich scriveva al Granduca di Toscana che fra un Cesare Balbo, un Gioberti, un [298] Azeglio, campioni del liberalismo italiano, e un Mazzini e seguaci, passava la stessa differenza che fra degli avvelenatori e degli assassini.[118]

Il Metternich non poteva poi capacitarsi del liberalismo del nuovo papa. Un papa liberale è impossibile! — scriveva al conte di Ficquelmont, mandato a Milano per istudiarne lo spirito pubblico. “Le Pape libéral n'est pas un être possible. Un Grégoire VII a pu devenir le maitre du monde: un Pie IX ne peut pas le devenir. Il peut détruire, mais il ne peut édifier. Ce que déjà le Pape libéralisant a détruit, c'est son propre pouvoir temporel.„[119] E non aveva torto il vecchio diplomatico! Ma altri, fra gl'inni ardenti a Pio IX, pensavano al pari di Metternich: ricordo il Cormenin, il quale nel libretto Sull'indipendenza italiana (riporto la versione del Bianchi-Giovini) diceva nel '48 agl'italiani: “Parliamo schietto: su che si fonda la vostra bella ma fragile rigenerazione? Sopra una mobile arena, sopra una nube che attraversa il cielo e passa; sopra la sola volontà di un uomo; sopra un soffio di esistenza; sopra la testa di Pio IX; sopra nulla.„[120] E Carlo Cattaneo, andava ripetendo: “Pio IX è una bella favola, per insegnarci la verità.„ — Luigi Napoleone venne definito dal Metternich collo stesso giudizio del Thiers: “Louis-Napoleon [299] est un feu flegmatique, avec toutes les apparences du bon sens.„ E il giudizio su Carlo Alberto non era certo più amorevole!...


Ma la principessa risparmiava forse ella severi giudizii sugli uomini che guidavano la pubblica cosa in Lombardia?... Fin dal 1846, ell'avea pubblicato a Parigi un opuscolo acerbissimo che Francesco Cusani, nella Storia di Milano, chiama ingiustamente libello; — non è libello, no, la parola di chi punge i dormenti per risvegliarli alla luce; non è libello l'opuscolo Études sur l'histoire de la Lombardie dans les trente dernières années ou des causes du défaut d'énergie chez les Lombards; opuscolo che l'anno appresso apparve a Parigi tradotto in italiano. La principessa avea veduto colla insurrezione di Milano come “la mancanza d'energia dei Lombardi„ da lei deplorata, si fosse mutata d'improvviso in eroismo; ma i patrizii, ma i governanti non la persuadevano. Nello scritto pubblicato nella Revue des Deux Mondes col titolo L'Italie et la révolution italienne de 1848, comincia coll'accusare l'aristocrazia piemontese e più l'aristocrazia lombarda. Perchè (dice) voi conservate al Radetzky le piazze forti di Mantova, di Verona, di Peschiera e di Legnago?... Per il Governo provvisorio di Milano, pei conti Casati, Borromeo, Durini, Alessandro Porro, Giulini, per il Beretta, per Cesare Correnti, ha parole agre; è acerba addirittura contro il medico veneto Fava, eletto a direttore della nuova polizia. E d'Achille Mauri loda l'onestà, l'ingegno letterario; ma lo dice ignaro degli [300] affari, privo della conoscenza degli uomini e della politica, di carattere non fermo. Fa eccezione per la serietà di Carlo Cattaneo, per il poeta Berchet, chiamato a Milano qual ministro della pubblica istruzione, e per il conte Pompeo Litta, vecchio soldato napoleonico, ministro della guerra. La narratrice è giusta quando tributa elogi al popolo; è giusta quando dipinge il caos di quell'epoca: e s'addentra in particolari che tutti non conoscono: particolari d'un dramma complicato e affannoso, una delle cui principali figure, Carlo Alberto, comincia, dopo belle vittorie, a oscurarsi.


Tornata a Milano, la principessa bramava di parlare a Carlo Alberto il cui esercito, venuto in soccorso dei Lombardi, s'era fermato a Lodi. La principessa abitava, in quel momento, nel castello di Belgiojoso; ma ogni giorno, sole o pioggia, veniva a Milano per abboccarsi coi capi. Il 2 agosto 1848, si spinse fino a Lodi, e vide gli abitanti di quelle campagne in preda al terrore. Al più lieve rumor di carro lontano, gridavano: “Ecco gli Austriaci! pietà!„ Tutti fuggivano, vecchi, ragazzi.... I giovani robusti portavano in ispalla gli ammalati, le donne portavano in braccio i bambini. I più affaticati si lasciavano cadere lungo il cammino, pregando.

Carlo Alberto si trovava a Codogno. Non potendo ricevere la principessa, incaricò il conte di Castagneto di accogliere le parole dell'illustre dama, la quale raccomandò risolutezza al più irresoluto dei monarchi. Nello stesso tempo, veniva [301] introdotto presso il re un albertista incrollabile: don Carlo d'Adda.

Quella sera, la principessa ritornò a Milano, e al domani, ecco il re viene ad accamparsi co' suoi cinquantamila soldati alle porte della città, fuori di Porta Romana.

È noto, pur troppo, il cupo dramma che ne successe; e Cristina Belgiojoso, nelle pagine sulla rivoluzione del '48, lo racconta.

Il nemica, inferocito, principia a bombardare Milano; la guardia nazionale lo attacca e lo respinge; gli prende cinque cannoni; fa dugento prigionieri; le campane suonano a stormo; chiamansi i cittadini all'armi; si levan le pietre delle strade; risorgon le barricate come nei Cinque giorni; carrozze, carri, mobili, tutto si adopera; in qualche luogo, si scavan le mine. Milano sembra un ammasso di pietre e di projettili, una foresta di fortini, di fucili balenanti al sole. E venga pure il nemico!

Viene, invece, re Carlo Alberto, e viene ad abitare nel centro della città, nel palazzo Greppi sulla Corsia del Giardino, ora via Manzoni. E allora succede un fatto singolare. Il nemico non attacca più.... Perchè i suoi cannoni non tuonano più?... Taluno susurra che Carlo Alberto ha capitolato: un altro che le truppe piemontesi stanno per ripartire. Possibile?... È vero?... I cittadini sembran pazzi pel dolore; alcuni nascondono il pianto fra le palme.

Ma alla desolazione succede la rabbia. La folla irrompe dinanzi al palazzo Greppi, decisa d'impedire la fuga del re. Questi, interrogato da una [302] deputazione della guardia nazionale, nega la diceria della capitolazione; si presenta al balcone e arringa il popolo, promette di battersi alla sua testa sino all'ultimo sangue.... Un urlo di giubilo copre le sue ultime parole; nello stesso momento, un ignoto spara un fucile contro di lui. Il re fa atto di esserne rimasto incolume; gli applausi raddoppiano: è un alto clamore di festa. Ma, nella notte, Carlo Alberto abbandona Milano.... Le pagine dell'Italie et la révolution italienne en 1848 della Belgiojoso sono a questo punto concitate. Nelle sue frasi, solitamente fredde, arde l'esasperazione nel veder infrante le speranze concepite in Carlo Alberto. Ma ella non s'atteggia, come altri, a giustiziera del misero re, che sul funebre campo di Novara doveva espiare ben presto gli errori proprii e gli errori degli altri.

Tanta delusione spense nella principessa gli ardori monarchici, e vi riaccese, invece, gl'ideali repubblicani. Ella va quindi a trovare gli uomini della Repubblica Francese a Parigi e gli uomini della Repubblica mazziniana a Roma.


Che cos'era successo, intanto, a Parigi?... La rivoluzione di febbrajo avea rovesciato Luigi Filippo; e il trono del re borghese dalle torme urlanti era stato portato in piazza della Bastiglia, e frantumato: frantumato là, ai piedi di quella Colonna di Luglio, eretta dal popolo per eternare la rivoluzione del 1830 — eroica rivoluzione, e così propizia a Luigi Filippo!... Un curioso preludio aveano avuto le sanguinose giornate di [303] febbrajo, durante le quali i cadaveri de' popolani, uccisi dalle palle di Luigi Filippo, erano portati per le vie di Parigi a mostrare il delitto d'un monarca, che volea regnare sui morti. Quelle giornate erano state precedute da innumerevoli banchetti!... I famosi banchetti riformisti; i banchetti di mille, duemila persone imbanditi a Parigi, nel giardino pubblico del Castello Rosso; imbanditi in tutta la Francia, per chiedere liberali riforme, per protestare contro Luigi Filippo e il suo governo, divenuto il governo dell'egoismo, il governo dei sistemi dissolventi!... Era, adunque, una rivoluzione cominciata coi cucchiaj; continuata colle barricate; finita colla repubblica!

La caduta di Luigi Filippo dettò amari versi a Nicolò Tommaseo, mentr'era a Venezia in carcere prima della rivoluzione memoranda di San Marco:

.... Te, conte di Parigi in sull'aurora,

A mezzogiorno re, bandito a sera,

Te la madre anelante e tremebonda

In notte inospital per la campagna,

Molle d'acqua i capelli, i piè nel fango,

Come la prole d'un ladron, traea.

.... Passò la gloria tua, come l'odore

De' tuoi banchetti, e delle danze il giro:

Ed or che la perdesti, il peso or senti

Della corona....

La principessa Belgiojoso trovava Luigi Bonaparte a capo della repubblica; una repubblica che non poteva durare: il fuggiasco del castello di Ham avrebbe ben presto mutata con un colpo [304] di Stato la poltrona presidenziale in un trono! E la conduttrice del “battaglione di napoletani„ vide a Parigi lo spettacolo di altre donne battagliere; ma che donne!... Donde erano sbucate le vésuviennes, come a Parigi le chiamavano? quelle vésuviennes, riunite in una specie d'associazione politica, esaltate, libere? Ah, come libere!...

Je suis vésuvienne! — À moi le pompon!

Que chacun me vienne — Friper le jupon!

cantavano, o, almeno, così le faceva cantare il poeta A. Montémont.

Ma ben altre curiosità attendevano la principessa a Parigi!

Ella intervenne a una festa di ballo in costume nella quale, fra gli uomini, primeggiava Armando Marrast e, fra le signore, con lei, la principessa Czartorisky, polacca, moglie di quel principe Adamo Czartorisky che spiegò tanto valore nell'insurrezione polacca del 1830.

Armando Marrast, giornalista, fondatore della Tribune, redattore-capo del possente National, aveva sposato miss Fitz Clarence, figlia naturale di Guglielmo IV; l'aveva sposata in Inghilterra, dove s'era rifugiato dalla Francia, dovuta abbandonare per gli attacchi violentissimi scagliati da lui sui giornali contro il governo, onde avea subìti processi e condanne di carcere. Il Marrast aveva contribuito grandemente a suscitar la rivoluzione del 1848 a Parigi e a fondare la repubblica: lo vediamo, quindi, presidente dell'Assemblea Nazionale e maire di Parigi; egli è quello che ha proclamata in piazza della Concordia, [305] la costituzione, che il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte annienterà domani; ed egli, il festeggiato, l'adorato d'oggi, morirà domani povero e abbandonato.... Una delle tante meteore della politica! — La principessa Czartorisky teneva a Parigi un salon singolarissimo, perchè (se dobbiamo credere a Madame Ancelot) vi si respiravano “des émanations du siècle de Louis XIV„ e vi s'imbandiva, a Pasqua (secondo l'uso polacco), un banchetto al quale interveniva colla sua solenne benedizione l'arcivescovo di Parigi in persona.[121]

Nella festa di ballo in costume, brillavano il Consiglio di Stato, il corpo diplomatico, dieci generali. “La principessa di Belgiojoso e la principessa Czartorisky — l'una rappresentante l'Italia, l'altra rappresentante la Polonia — s'aggiravano insieme con dame e cavalieri dell'aristocrazia inglese dimorante a Parigi„ — scrive l'Evénement. I costumi alla Pompadour si mescolavano coi costumi dell'Ottantanove....

Ed ecco un accidente curioso, che dà un'idea di quel tempo. Mentre il signor Marrast, il repubblicano del Quarantotto, balla gravemente una sarabanda, viene interrotto da una folla di guardie nazionali, fabbri ferraj, calzolaj, muratori, inverniciatori d'imposte, tosacani, i quali, sicuri dell'ospitalità del cittadino Marrast, han creduto bene di presentarsi senza invito ufficiale. Il signor Marrast, in mezzo a tanti principi e principesse, si scorda, d'un tratto, i proprii dogmi [306] d'eguaglianza solennemente proclamati davanti al popolo sulla piazza della Concordia, e a' quali i suddetti fabbri ferraj, calzolaj, muratori, inverniciatori d'imposte e tosacani hanno in buona fede, naturalmente, creduto; e il cittadino Marrast fa esprimere alle guardie nazionali il dispiacere di non poter fare un'eccezione in loro favore. Ma come?... protesta qualcuno della massa respinta. “Ma come?... Se alla corte di re Luigi Filippo, che voi ci avete fatto licenziare, noi, guardie nazionali e Palladio della nazione, intervenivamo in tal numero da riempire le sale e da spadroneggiarle?... E voi, repubblicano, ci respingete!...„

La Gazzetta privilegiata di Milano (tornata a uscire con tanto d'aquila austriaca in fronte sotto gli auspicii del vecchio e soddisfatto maresciallo Radetzky) raccontava, il 2 ottobre di quell'anno 1848, il leggiadro accidente di Parigi, che deve aver fatto ridere gli ufficiali dalle giubbe candide; candide come la neve, non come le intenzioni dei loro superiori.

Ma la Repubblica Francese commetteva intanto un esecrabile fratricidio. Essa aveva lanciato il generale Oudinot per soffocare nel sangue la Repubblica Romana.... Poteva soffrirlo il cuore italianissimo della Belgiojoso?... Indignata, la principessa, abbandona il suo hôtel della via di Montparnasse, abbandona la Francia; e noi la troviamo a Roma fra le palle roventi dell'assedio, come suora di carità dei feriti, come direttrice degli ospedali, dove tanto fiore di giovani eroi italiani spasima e muore.

[307]

XVI. Nel 1849. La Principessa all'assedio di Roma.

Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi a Roma. — Giovani eroi. — La Belgiojoso al letto dei feriti. — Giulia Modena. — Fortezza e sventure di Margherita Ossoli nata Fuller. — La strage di Villa Corsini. — La Belgiojoso accoglie Goffredo Mameli ferito a morte. — Suo carteggio coi Triumviri. — Suo talento d'amministrazione e sua generosità negli ospedali. — Sua terribil lettera a un francese. — Parte per l'Oriente.

Il sogno di Giuseppe Mazzini — la repubblica — si compiva nella Città eterna; in quella stessa Roma che, nei secoli antichi, avea retta la repubblica più gloriosa del mondo; e là, l'agitator ligure bramava di acclamar Roma capitale della nuova Italia!...

Pio IX era fuggito di notte a Gaeta; nell'8 febbrajo 1849 la Repubblica Romana veniva proclamata dall'Assemblea costituente: e Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi eran salutati triumviri. Garibaldi, ecco, offre la sua spada, che nell'America brillò al sole delle vittorie, e tutta una schiera di giovani freme d'intorno all'Eroe e ne sente nel cuore lo spirito: l'impetuoso [308] Nino Bixio, Luciano Manara, cuor di leone, mente di saggio, il Daverio, i fratelli Emilio ed Enrico Dandolo, il diletto loro amico Morosini; ed Enrico Cernuschi, un lombardo che alle barricate delle Cinque giornate di Milano ha combattuto in scarpine da ballo, colla cravatta bianca e coi capelli profumati; e Carlo Pisacane di Napoli, che, morendo a Sapri sotto il piombo borbonico, salirà immortale nella storia.

Vi è il medico Agostino Bertani, un repubblicano dai modi elegantissimi; e Giacomo Medici, l'indomito Medici, destinato alla gloria del Vascello; e Ugo Bassi, il pio, ardente sacerdote di Cristo; il poeta Goffredo Mameli; il pittore Gerolamo Induno; Carlo Gorini.... tutti pronti a difender Roma col proprio sangue; poichè i Francesi voglion strapparla alla loro bandiera. La Repubblica Francese, presieduta da Luigi Bonaparte, lancia infatti il generale Oudinot a distruggere la Repubblica Romana; lotta fratricida, macchia sanguinosa, orrenda, nella storia della razza latina. Les Italiens ne se battent pas, disse l'Oudinot; e ben vede se questa sacra primavera d'eroi si batte!... La compagnia Medici vien subito inviata alla villa Corsini fuori di Roma, agli avamposti: poi il Medici si chiude in quella villa memoranda, che per la sua forma è detta il Vascello. Trapassato da una palla di carabina, cade Luciano Manara, mentre sta osservando alcuni soldati francesi che appostano un cannone; Luciano Manara, che Garibaldi ha voluto suo capo di stato maggiore; il Manara [309] che metteva nelle controversie fra l'Eroe dei due mondi e il Mazzini la buona parola. A villa Spada, quartier generale di Garibaldi, cade il Morosini con una palla al ventre e un colpo di bajonetta al petto. E cadono i colonnelli Daverio, Masina e Pallini, i maggiori Ramorino e Peralta, i capitani Scarini, David, Sarete, Cazzaniga, i tenenti Cavalieri, Grassi, Enrico Dandolo e quant'altri mai!...

Ne Lo Assedio di Roma, il Guerrazzi ha calde pagine sugli eroi lombardi; e come ben raffigura Enrico Dandolo!

“A lui nocque la troppa fidanza; imperciocchè avendo visto una compagnia di Francesi sbucare da un lato del palazzo Corsini, si mise in procinto di combatterla, ma si trattenne; e la cagione ne fu il capitano francese, il quale sollevata la sciabola gridava con parole italiane: Siamo amici! Il Dandolo e i suoi, allora, accostansi come chi sa e desidera avere amplesso fraterno; e l'amplesso fraterno fu che il capitano di Francia, di un tratto saltato da parte, ordinava a' suoi scaricassero l'arma, a trecento passi di distanza: un terzo e più della compagnia Dandolo giacque spenta: degli ufficiali, Lodovico Mancini ebbe forata una coscia; alcuni soldati accorsi a sollevarlo riportarono gravi ferite, e lo stesso soccorso fu da capo trapassato nel braccio. Silva lamentò una mano lacera; a Colombo toccava una palla in bocca, che, stracciata tutta la carne, gli uscì dalla guancia. Al Dandolo una palla traditora trapassò il corpo dal [310] petto ai reni; i suoi, rincalzati dai Francesi, lasciarono solo; ma solo non si poteva dire, perchè rimase al morente il Morosini, gentile sangue latino. Dopo breve intervallo, i soldati nostri ripresero animo e irruppero a corpo perduto contro i Francesi.„[122]

E le palle dei cacciatori di Vincennes percotevano gli affreschi di Raffaello; le palle grandinavano nella basilica di San Pietro e all'ambulanza di San Pietro in Montorio, dove i feriti e i moribondi venivan portati alla peggio sulle barelle; e feriti e moribondi, sotto il sole cocente, o fra le ombre notturne, dopo un disperato conflitto venivano portati su su, nelle corsie dell'ospedale dei Pellegrini; e là una dama milanese, vestita di nero, li accoglieva infaticabile: era la principessa Cristina Belgiojoso.

Al letto dei feriti e dei malati negli ospedali di Roma, altre signore s'appressavano premurose. Il colonnello Enrico Guastalla, che si trovò alla difesa del Vascello col Medici, ai bastioni di San Pancrazio, alla cascina de' Barberini, e che disputò coll'arme in pugno ai Francesi il pittore Gerolamo Induno, crivellato da ventisette ferite di bajonetta, strappandolo alle loro ire e portandolo sulle spalle alle ambulanze, — mi narra d'aver veduto all'Ospedale dei Fatebenefratelli, al letto dei feriti, Giulia Modena e Margherita Fuller. Giulia Modena, nata Calame, della famiglia [311] del celebre paesista svizzero, era moglie di Gustavo Modena di Venezia, il mazziniano tenacissimo, lo spirito indipendente e caustico, il sommo attore. Rosea, paffutella, Giulia sembrava ai feriti una buona mamma sorridente. Insuperabile nel porgere conforti, invitta nelle fatiche. — Margherita Fuller, scrittrice americana, innamoratasi a Roma del marchese Ossoli, lo sposò di nascosto stillandogli nelle vene il proprio ardor repubblicano: di nascosto lo sposò, perchè la famiglia del marchese, tutta devota al Vaticano, avrebbe maledetta quell'unione. Margherita Fuller avea stretta amicizia con Giuseppe Mazzini, da lei conosciuto la prima volta a Londra, e ne divenne seguace e ammiratrice fanatica. A dieci anni, quando dimorava ancora a Cambridge-Post nel Massachusetts, leggeva i poeti italiani nell'originale. Nulla per lei di più sacro che l'Italia; nessuno più geniale degl'italiani! Diceva che era venuta al mondo un'altra volta... ma in Italia! Perciò quando giunse a Roma disse (e lasciò scritto nelle sue pagine autobiografiche): “Questi monumenti mi sembrano una luminosa ghirlanda alla mia vita anteriore.„ Parlava dell'Italia e di Roma con tal torrente di calde parole da rimanerne stupefatti. “L'Italia (ella scrisse ancora) mi riceve come una figlia lungamente smarrita, e qui mi sento a casa mia.„ Ora si pensi con quale affetto ella curasse i feriti della difesa di Roma!

Durante l'assedio, Margherita Fuller Ossoli spiegò attitudini, attività prodigiose; fu posta a capo dell'ospedale de' Fatebenefratelli. In una [312] lettera essa dice: “Domenica, dalla loggia, fui testimone d'una terribile, d'una vera battaglia. Cominciò alle quattro del mattino e durò fino a che vi fu un raggio di luce. Il fuoco dei fucili non fu mai interrotto: il tuono del cannone, specialmente da Sant'Angelo, era tremendo. Siccome il fatto aveva luogo a Porta San Pancrazio ed a Villa Panfili, io vedevo il fumo d'ogni scarica, il luccicare delle bajonette, e col cannocchiale distinguevo gli uomini.„

Caduta la Repubblica Romana, Margherita Fuller s'imbarcò a Livorno col suo povero bambino e col marito, buon uomo, entusiasta di quella donna singolare, per far ritorno in America; ma, poco lungi dalla spiaggia americana, l'infelice naufragò miseramente col marito e col figlio. I particolari di quel naufragio (i poveretti viaggiavano per economia su un bastimento a vela, Elisabetta) destano raccapriccio. Lunga, straziante fu la lotta colla burrasca e colla morte. Il naviglio s'incagliò colla prua, alle quattro del mattino del 16 luglio 1850, sui banchi sabbiosi dell'Isola del Fuoco; e rimase lunghe ore al flagello orrendo dei venti, delle onde. Gli abitanti dell'Isola del Fuoco potevano salvarli; ma essi erano pirati e attendevano lo sterminio per impossessarsi delle spoglie dei naufraghi, de' quali solo qualcuno si salvò e potè narrare con qual disperato affetto Margherita Fuller si stringesse al cuore il suo bambino.... Gloria a lei, vera amica d'Italia nostra!... Gloria, o fortissima!... Nel 1852 furon pubblicate postume a Boston le sue Memorie. Pasquale Villari, negli Scritti [313] varii, ne parla e ne traduce alcune pagine pittoresche.[123]

Negli ospedali di Roma, durante l'assedio, prestavano la santa opera loro anche Enrichetta Pisacane e la contessa Costabili moglie a Giovanni Costabili di Ferrara, membro della commissione per le finanze.


Alla Belgiojoso (ormai quarantenne) venne affidata la direzione suprema di tutti gli ospedali di Roma durante l'assedio, assegnandole qual dimora l'Ospedale dei Pellegrini. In quell'ospizio, fondato nel 1551 dal santo più gioviale della terra, san Filippo Neri, giacevano molti malati, feriti e moribondi; e la Belgiojoso accorreva ad ogni momento ai loro giacigli. Non v'era ferita spaventevole, non piaga ributtante che la trattenesse: anzi, più eran orridi e più compassionevoli i casi, e più ella prodigava sè medesima a lenirli. E a sue spese faceva venir farmachi; i cibi che mancavano, e bevande (latte, sopratutto) e bende, lenzuola, letti.... La principessa aveva istituito un Comitato di soccorso pei feriti; ma i soccorsi scarseggiavano in quei frangenti, in quella lugubre confusione, mentre la Repubblica romana, affranta, stava per cadere; ed ella, la “cittadina„, com'ella stessa si chiamava, come la chiamavano, — pensava a tutto. [314] Nata all'imperio, anche là dominava, e, co' suoi occhi fatali, turbava talvolta, senza saperlo, la pace di qualche giovane infermo.... Il dottor Bertani, che nell'ambulanza di San Pietro in Montorio e all'ospedale dei Pellegrini prodigava cure di medico e di chirurgo, accorgevasi che l'ammaliante vicinanza della Belgiojoso faceva aumentare a qualche giovane ferito la febbre.... Giulia Modena ne era addolorata.... Fra le due pietose infermiere spuntò qualche dissapore; ma in quella sala, popolata di pallide teste bendate, che a mala pena si ergevano sugli origlieri improvvisati con gli abiti stessi dei feriti o dei morti, le due signore frenavano i risentimenti, gareggiando nella carità.

Il 3 giugno si combattè a Villa Corsini. Tutta un'onda di giovani lanciata da Garibaldi a disperatissima battaglia, a corpo a corpo, contro il nemico accampato fra gli alberi, i cespugli, le statue, i terrazzi, i parapetti.... Per primi si scatenano gli ammirabili Masina, Leggero ed altri, irrompendo entro il cancello della villa: il Masina, ferito al petto, sprona il cavallo su su per una ripida gradinata, ed ivi, colla carabina in pugno, coi piedi ben fermi nelle staffe, eroe magnifico, cade morto trafitto al cuore. Di tanti giovani nostri, uno solo uscì incolume![124]


La principessa Belgiojoso vide giungere all'ospedale della Trinità dei Pellegrini, su due [315] barelle, due giovani feriti: Goffredo Mameli e Nino Bixio. Tutti e due liguri; entrambi fratelli d'ideali; entrambi compagni nella voluttà della lotta. Nino Bixio, non gravemente ferito, guarì: Goffredo Mameli, ferito alla gamba sinistra da palla che gli perforò l'osso nella parte superiore della tibia, non ostante la fasciatura, perdette a torrenti il sangue, tanto che, dopo tre ore, rimase privo di sensi. Così passò il novello Teodoro Körner, il poeta-soldato, il cui inno

Fratelli d'Italia,

L'Italia s'è desta,

musicato dal maestro Novaro con note più meste che guerriere (quasi elegia sulle sciagure della patria), veniva cantato lontano, sulle fulminate lagune di Venezia, dai difensori della sventurata, divina città. L'ultimo canto del Mameli fu Milano e Venezia. — Il poeta accarezzava nel cuore un sogno sublime: Roma centro delle genti umane, unite in fratellanza d'amore, in armonia di pace:

Ove del mondo i Cesari

Ebbero un dì l'impero,

E i sacerdoti tennero

Schiavo l'uman pensiero;

Ove è sepolto Spartaco

E maledetto Dante,

Ondeggierà fiammante

L'insegna dell'amore....

Più di qualche intiera notte, la Belgiojoso sedeva, al chiaror d'una lucernetta a olio, accanto al letto di povero infermo per essere pronta ai soccorsi; e quando il giacente dormiva tranquillo, leggeva i romanzi inglesi di Carlo Dickens; romanzi che si faceva mandare dal buon Vieusseux [316] di Firenze, e al quale scriveva: “Quando comincio a leggere qualcosa di Dickens, non posso più staccarmene, se non l'ho letto dieci volte.„[125] Ma quante volte, invece, doveva staccarsene per soccorrere e consolare con dolci parole, con sicure premesse di gloria, il malato! Non rimaneva certo ella lontana dai pericoli, ed esultava nell'apprendere gli atti di valore dei nostri. Allo stesso Pietro Vieusseux scriveva allora:

“Sebbene affaticatissima ed anche esposta a qualche pericolo, pure mi sento bene e contenta, perchè non ho assistito a viltà italiane. Potremo soccombere, ma disonorarci, spero, no. Salute e fratellanza.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso.„

E, in un poscritto dello stesso biglietto:

“M'accorgo d'aver finito romanamente. È l'effetto d'abitudine.„[126]

In un'altra lettera allo stesso Vieusseux, esprime la propria poca fiducia nei triumviri:

“I triumviri fanno minchionerie molte e varie. Il popolo tace, perchè un movimento contro i triumviri potrebbe essere interpretato come contrario alla Repubblica. Certo è però che si raffredda, e non si adopera attivamente per sostenere questi uomini di cui non è contento. Innanzi all'intervento, il popolo romano starà, temo, immobile, [317] non già per indifferenza come si dice d'alcuni, ma per poca fiducia in chi gli è capo.„[127]

Come fu profetessa!...

La Belgiojoso carteggiava coi triumviri della Repubblica sulle condizioni degli ospedali e qualche volta, ahimè! sulle discrepanze dei signori medici. Valga questo documento:[128]

Cittadini Triumviri,

“A discarico mio e del Comitato, vi mando l'avviso scritto del chirurgo curante la terza corsìa dell'Ospedale dei Pellegrini. — Da questo certificato, rileverete che vi possono essere delle diversità di parere nel Consiglio medico ed altrove, ma che il Comitato non si è vôlto a voi con una domanda, se non perchè vi fu spinto dall'uno dei principali curanti; senza parlare dei membri dello stesso Consiglio Medico, i quali non dividono l'opinione personale del prof.re Baroni.

“Vi preghiamo a ritornarci il qui accluso certificato. Salute e fratellanza.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso.„

Trinità dei Pellegrini — 1º Giugno di sera.

Alcuni poveri feriti non ricevevano nemmen più la paga; e la Belgiojoso si rendeva interprete delle loro nuove miserie. Al maggiore del 1º battaglione di Luciano Manara, scrive premurosa questa lettera:

[318]

Cittadino Maggiore,

“I militi Camoletti, De Vecchi, Saeti, Aretusi, Galbiati, Scarpari, Marelli, Olivieri, Antonioli, Donati, Canetta, Lombardini, Brogini, Barnabè e Trabattoni, feriti e trattenuti in questo spedale dal giorno tre di giugno, non hanno ricevuto pei più la paga. Alcuni poi hanno bensì ricevuto la paga, ma non la gratificazione, che loro si disse essere stata pagata agli altri militi del loro corpo non feriti. Io dunque li dirigo a voi certificandovi il sopra accennato, non dubitando che vorrete prendere in considerazione i diritti di questi infelici, e non aggiungere i patimenti della miseria alle pene morali che immeritatamente li affannano. Salute e fratellanza.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso.„

5 luglio 1849 — Quirinale.[129]

Pei fioriti, ampii giardini del Quirinale si aggiravano i mutilati, sorreggendosi sulle gruccie. Per rasserenarli, la principessa faceva mettere in movimento dal giardiniere tutt'i giuochi d'acqua delle fontane; e quelle larghe onde d'argento, quegli eleganti zampilli di perle, quei ruscelli dall'impeto infantile riempivano l'aria di frescura, e infondevano, forse, nell'animo di quei valorosi, appena usciti dalla strage, dal sangue, dalle operazioni chirurgiche sostenute senza cloroformio (allora non si usava!), un senso di pace gentile e di gajezza.

[319]

In un libro, apparso a Londra nel 1863 collo strano titolo italiano Roba di Roma e scritto in inglese da William Story, si trova un racconto che pone in gran luce quanto la Belgiojoso operò negli ospedali di Roma, mettendovi ordine, disciplina e pulizia igienica ammirabile:

“La sistemazione degli ospitali in Roma, mentre correvano i giorni difficili dell'assedio, si dovette principalmente al triumvirato femminile che ne assunse la direzione (la Belgiojoso, la Modena, la Fuller); e di cui fu auspice la Principessa Belgiojoso. L'operosità di questa eroica gentildonna e la sua instancabile carità meriterebbero l'omaggio d'una penna assai più valente della mia; poichè non soltanto introdusse dovunque l'ordine, la disciplina e le regole d'un'esemplare pulizia; ma si consacrò personalmente alla cura degli ammalati e dei feriti. Fissato che ebbe il suo quartier generale all'ospedale dei Pellegrini, non un istante rifuggì da fatiche o conobbe stanchezza. Ferma al posto il giorno e la notte, non lasciava la sua cameretta che per invigilare il servizio degli infermi o per prestar loro un sollievo. Vedevansi infatti, al suo avvicinarsi, i volti alterati dalle sofferenze comporsi a più mite espressione, e le membra affrante adagiate a riposo sul letto del dolore. E ne seguivano talvolta scene commoventissime, nelle quali la forza d'animo dell'infermo e la pietà della consolatrice si contendevano l'ammirazione. Per quanto poi riguardava la direzione interna dell'ospitale, la principessa diè prova di [320] quelle facoltà che nella donna sono specialissime e la fanno superiore all'uomo; così l'ospitale dei Pellegrini, che prima della sua venuta trovavasi in balia al disordine ed allo sgoverno, fu tosto ridotto ad una disciplina mirabile, imposta con saggia fermezza. Il colossale lavoro, al quale la principessa dovette sottoporsi per ottenere l'intento e che avrebbe sgomentato una volontà meno tenace della sua, non la fece deviare un momento dall'alto proposito e le diè campo di spiegare una intelligenza dominatrice unita alla più sorprendente attività. Una specie di cella era la sua dimora: un materasso steso sul pavimento, il giaciglio su cui riposava poche ore; il resto del tempo lo passava scrivendo o nel dare ordini per dirigere e far muovere il vasto congegno che a lei doveva di poter soccorrere grandi sventure....„[130]

Inutile tornò l'eroismo di tanti prodi. La Repubblica Romana morì soffocata nel sangue; e il pontefice che fin dall'enciclica del 29 aprile 1848, si era apertamente ritirato dalla causa italiana, riprese libero il triregno.

I Francesi trionfatori presero subito possesso anche degli ospedali de' feriti. Il signor Pages, francese, nuovo intendente degli ospedali, scacciò villanamente dai Pellegrini la principessa Belgiojoso, [321] che tante cure vi avea profuse; scacciò le altre signore e i medici Raimondi e Bertani, che, anch'essi, prestavano per solo sentimento d'umanità, senza compensi, la preziosa e sacra opera loro. Il Pages arrivò al punto da ordinare il trasporto dei feriti nella infermeria dell'ergastolo di Termini!... Il che riempì di sdegno la principessa. Lasciata Roma, e imbarcatasi a bordo del Mentone, il 3 agosto del '49, ella inviò a un giornale di Torino, La Concordia, una fierissima lettera, che flagella a sangue il Pages. La Concordia (diretta allora da Pietro Mazza, che aveva fatte le prime armi giornalistiche a Parigi nella Démocratie pacifique, alla quale cooperò anche la Belgiojoso) pubblicò la vindice lettera nel 21 settembre:

“Fin dai primi giorni del vostro ingresso in Roma, lorquando voi vi protestavate pieno di rispetto per la situazione dei nostri feriti, e risoluto a non renderla ancor più penosa, voi mancaste di comprendere che la vostra presenza e d'ogni altro uniforme francese era, se non un insulto, almeno una sofferenza che il buon senso voleva lor fosse risparmiata. V'ebbe tra loro chi si incaricava di avvertirvene; ed allorquando voi attraversavate le sale degli ospitali, una sola voce avrebbero alzato a maledirvi, se colle mie preghiere non avessi ottenuto che mi risparmiassero l'imbarazzo d'una cotal scena.

“Io non vi parlo dello strano progetto di trasportare i feriti all'ergastolo, in mezzo a quell'aria avvelenata di Termini: io non vi rimprovero [322] pure il decreto pronunciato e comunicato ai direttori delle ambulanze di trasportarvi immediatamente tutti i feriti, eccettuati solamente quelli che già avessero ricevuta l'estrema unzione; voi avete rigettata la responsabilità di siffatte determinazioni sui vostri agenti, e sta a loro a difendersene. Ma ciò che avete fatto con cognizione di causa voi stesso, si fu di farli rientrare nell'ospedale, da cui noi li avevamo fatti uscire due mesi prima, perchè vi marcivano. Voi vorrete rigettare anche questa responsabilità sul Consiglio di medicina: ma ciò è impossibile; perchè voi siete stato avvertito da me dell'insalubrità del locale; e se aveste degnato prendere in considerazione la mia avvertenza, io vi avrei mostrato dei certificati sottoscritti due mesi prima dai professori dell'ospizio, precisamente dal professore Baroni stesso, nei quali raccomandava il trasporto dei feriti in un luogo più sano.

“Il trasporto non vi bastò; e voi avete temuto che i feriti non sentissero vivamente abbastanza l'amarezza della loro situazione. Sotto pretesto di economia, voi li avete privati delle cure alle quali erano accostumati, e che avevan loro conservata la vita. Si sa, anche in Roma, che le donne soltanto sanno raddolcire i patimenti degli infermi e dei morenti; voi avete proibito, discacciate le donne, e confidato i nostri feriti a dei facchini. Sotto pretesto di economia, voi avete soppresso due dei migliori professori dell'ospitale (Raimondi e Bertani) che servivano gratuitamente, e li avete soppressi brutalmente; vale [323] a dire senza ringraziarli tampoco dei servizii resi, e senza annunciar loro che, d'ora innanzi, non bisognavan più. Al posto di questi due abili chirurghi, che servivano gratis, voi avete poi nominato un altro chirurgo capo di sala, che non fu mai fino allora che assistente in bassa chirurgia, ed a cui voi assegnaste gli averi eguali a quelli dei suoi colleghi; parlo del signor Eugenio; voi avete ridotto le razioni dei feriti, ordinato che non si desse più loro a bere che acqua pura, e che il loro vitto si componesse unicamente di carne a lesso, quando i medici aveano le cento volte dichiarato che un tal vitto non conveniva in tutt'i casi; finalmente, voi li avete privati delle pietose donne che da due mesi si erano consacrate alla loro consolazione e al loro benessere. Nè ciò è tutto ancora. Voi avete permesso che fossero allontanati da essi i cappellani, e messi, in luogo di questi, dei cappuccini fanatici, che minacciavano i feriti di lasciarli perire di sete e di fame, se non si fossero confessati immediatamente, e non avessero fatto una confessione piuttosto politica che religiosa.„

Nè la rovente requisitoria qui finisce. La principessa italiana accusa il Pages d'essersi appropriati oggetti che pietosi cittadini aveano offerto in dono ai malati, ai feriti; lo accusa di spogliazioni!...

Rispose il Pages?... Lo ignoro.

La nave su cui la principessa, fremente di sdegno, scrivea la lettera punitrice, viaggiava, intanto, verso altre terre, recando un'anima che non era vinta, nè avvilita dalle delusioni amare, [324] dalle sciagure; un'anima che, non ostante i lutti, gli errori e le colpe, sperava ancora con fede incrollabile nel vicino risorgimento della patria. La Belgiojoso viaggiava verso l'Oriente, a un nuovo esilio, incontro a nuove durezze della sorte. Durante l'assedio di Roma ella fu grande. L'apice della sua grandezza è là!

Ma troppa amarezza le aveva lasciato nell'animo il contegno dei francesi. Uno di questi, il generale Espivent de la Villeboisnet, arrivò persino a vedere politici intrighi e insidie nelle cure che la Belgiojoso e le altre dame prodigavano con eguale carità ai feriti francesi come ai feriti italiani. Aveva ragione la principessa di sembrare una tragique furie.[131]

[325]

XVII. La Belgiojoso in Oriente e gli arem.

Perquisizioni austriache. — La scoperta d'un cadavere. — Funebri leggende. — La Principessa in Grecia. — Malumori fra i Greci per alcuni articoli della viaggiatrice. — A Costantinopoli e presso Angora. — Negli arem. — Donne d'Oriente. — Nuovi viaggi della Principessa e peripezie notturne. — Gerusalemme. — Un servo tenta d'assassinare la Principessa. — Le ferite. — Lavori d'ago. — Scritti della Principessa nella Revue des Deux Mondes. — Suoi nuovi libri.

Cristina Belgiojoso, lasciata l'Italia, viaggiava verso l'Oriente per fuggire le persecuzioni del Governo austriaco, inferocito contro i patrizii milanesi che s'erano messi a capo della rivoluzione.

L'11 dicembre del 1848, il maresciallo Radetzky sottopose a “contribuzione straordinaria„ tutti coloro che avean guidata la rivoluzione di Milano o che vi aveano cooperato “con mezzi materiali od intellettuali„. Gravi contribuzioni di denaro: l'Austria, dissanguata dalla guerra, ne aveva, infatti, bisogno!... E, poichè Cristina Belgiojoso non si trovava a Milano per contar sulle palme degli esattori le somme volute, il Governo austriaco se ne rifece, appropriandosi in larga misura le fortune di lei; vale a dire in corrispondenza delle 800,000 lire inflittele quale tassa.

[326]

E cominciarono da parte della polizia accanite perquisizioni nei palazzi, nelle case, nelle ville, nelle botteghe, persino nelle chiese: si sospettava che vi fossero celate polveri ed armi. E la polizia irruppe anche nella villa della principessa Belgiojoso a Locate; villa ch'era custodita da un ottimo famiglio. I poliziotti frugarono dappertutto, non trovando ciò che speravano: ma, nell'aprire un armadio, ecco vedono là, dentro, il cadavere d'un uomo vestito di nero....

Essi immaginano subito un delitto. Afferrano pei polsi il famiglio, e lo tempestano di domande, supponendolo colpevole d'un assassinio. Il poveretto è in preda a spavento indescrivibile: egli è mortalmente atterrito vedendo quel cadavere, dinanzi al quale le guardie lo tengon fermo perch'egli non insista nei dinieghi al cospetto della vittima sua. Ma egli non ne sa nulla, proprio nulla: mai avrebbe sospettato che là, dentro quell'armadio della villa, vi fosse un morto.... Come mai egli sarebbe passato senza sgomento tante volte dinanzi quell'armadio chiuso?...

Il poveretto giurava per tutti i santi del cielo, per tutti i troni e le dominazioni, che nulla sapeva.... Ma i poliziotti non gli credevano.

Arrivò gente del borgo, e allora qualcuno esclamò meravigliato:

— Ma questo è il cadavere del signor Gaetano Stelzi, che veniva qui qualche volta!...

— Sì! sì!... del signor Gaetano Stelzi! — borbottò l'arrestato, grandemente sorpreso: — Ora lo riconosco! È lui!...

E altri:

[327]

— Come mai? Lo Stelzi?... Ma se lo abbiamo visto seppellire qui, nel cimitero di Locate?...

Il povero servo fu tenuto, intanto, in arresto, e si ricorse al parroco, don Giosuè Brambilla, sacerdote liberale, che godeva di tutta la fiducia della Belgiojoso. Nei registri parrocchiali si leggeva (e si legge ancora) che Gaetano Stelzi, figlio di Gioachino e di Teresa Regondi, morto a Milano, era stato seppellito nel cimitero di Locate il 19 giugno dell'anno 1848.

— Eppure, quello è il cadavere del signor Stelzi! — ripetevano, sempre più convinti, i terrazzani. — Non possiamo sbagliare!... È lui!

E altri ancora ansiosi e sempre più stupefatti:

— Ma, allora, chi è sepolto nel cimitero?...

Quel cadavere, d'un uomo altissimo, consunto dalla tisi, con piccoli mustacchi biondi cascanti, era imbalsamato.

Le autorità si recarono al piccolo camposanto di Locate, insieme col dottor Zuffi, e fecero disseppellire la bara, dove, secondo le indicazioni del fossajuolo, doveva esser sepolto Gaetano Stelzi....

La bara vien tolta dalla fossa e portata all'aperto.... La curiosità si dipinge vivissima sui volti degli astanti.... Il feretro viene schiodato con ogni cura, e spalancato.... Ma, invece d'un cadavere, che cosa mai si vede entro la cassa?... Un tronco d'albero!...

Ma come era avvenuto il seppellimento del tronco d'albero? E com'era avvenuto il trasporto del cadavere imbalsamato di Gaetano Stelzi [328] fino a Locate?... Come era stato posto nell'armadio?... E da chi?... Il tronco d'albero andò a finire su un camino, e la povera salma imbalsamata venne seppellita, finalmente, nel posto del tronco!


Nel generale scompiglio del 1848, tutto era possibile. Le verificazioni ufficiali, le vigilanze.... tutto era in balìa degli eventi, del caso.

Quel Gaetano Stelzi era un povero giovane milanese, che lavorava colla Belgiojoso al Crociato: era dottore in leggi, colto, gentile di modi e d'ingegno. Consunto da tisi, l'infelice, a soli ventisette anni, spirò a Milano il 16 giugno del '48: spirò d'improvviso, per uno sbocco di sangue, nella casa in via Borgonuovo n. 1531 (ora n. 20), davanti all'esterrefatta principessa, la quale, non volendo che la morte distruggesse rapidamente quel volto, ordinò a un operatore che ne arrestasse per il momento la decomposizione, finchè il cadavere potesse essere sepolto; e quell'operatore, illudendosi di eseguir cosa ancor più gradita alla principessa, lo imbalsamò addirittura!... L'operatore non fu Paolo Gorini di Lodi, come si disse. Povero Paolo Gorini, che mi raccontava un giorno commosso quanta gratitudine egli serbasse alla Belgiojoso, perchè ella lo avea fatto andare a Parigi e ajutato con denaro per le ricerche ch'egli tentava sulle imbalsamazioni, per il suo forno crematorio, per la sua teoria dei vulcani!... Povero e buon Gorini! Emunto, pallido alchimista del medio evo, slanciato dalla capricciosa Natura in pieno secolo decimonono!... [329] Egli era proprio innocente dell'imbalsamazione del dottor Gaetano Stelzi!...

Sul fatto, non è possibile fissare alcuna affermazione, perchè mancano precisi documenti. La storia ci racconta di Giovanna la pazza, che viaggiava col feretro dell'adorato marito, Filippo il Bello; ma la sventurata era demente!... La principessa, benchè scossa da terribile affezione nervosa, acuita in quella sua febbril vita d'agitazioni politiche, non era certo una demente. Si aggiunga ch'ella aveva orrore della morte; aveva terrore degli spettri; i racconti di fantasmi le mettevano i brividi; per paura che le comparissero le ombre dei morti, dormiva sempre con molti lumi accesi nella camera, o meglio, di notte, non dormiva, potendo far proprio il verso del Leopardi:

Per assidui terrori io vigilava.

È quindi inverosimile ch'ella si tenesse per più settimane il cadavere imbalsamato del misero Stelzi in casa (come si disse); e che, partendo ella da Milano, lo facesse clandestinamente trasportare a Locate, nella propria villa, coll'ordine che fosse chiuso a chiave in un armadio, per poterlo ritrovare a tutto agio al suo ritorno dall'Oriente; è inverosimile ch'ella stessa abbia ordinato di seppellire un tronco d'albero in luogo della salma dell'infelice degno di tanta pietà; perchè ricorrere a sì lugubre e turpe commedia, a tal profanazione d'un luogo sacro, ella che abborriva dagl'ignobili sotterfugi? ella che nutriva nell'animo sentimenti religiosi?... Certo, il [330] funebre fatto pareva un macabro racconto del- l'Hoffmann, del Poe, della Radcliffe; e le fantasie si sbizzarrirono a ricamarvi su le più truci variazioni, ad aggiungervi frangie.... non di seta.


La principessa parti per l'Oriente colla gentile figliuola Maria, che le era nata il 23 dicembre del 1838 a Parigi. L'accompagnavano pure alcuni clienti, i quali le formavano intorno una specie di guardia del corpo; ma, a poco a poco, si sbandarono per via, e soltanto pochi ebbero la lena di seguirla fino nell'Asia.

La Belgiojoso visitò prima Malta, poi la Grecia. Visitò i luoghi resi sacri dal mito e dalla storia ellenica; ma il suo spirito, sbattuto dalle subite agitazioni politiche, non provò le emozioni che si aspettava. Ella stessa lo dice nel grosso libro Asie Mineure et Syrie.[132] Confessa che ad Atene e a Maratona provò, con suo rammarico, l'identica delusione provata a Roma. Ella non s'accendeva d'entusiasmi per le memorie grandiose; le vestigia del passato glorioso la lasciavano fredda; eppure, anche agli spiriti angusti quelle memorie, quelle vestigia parlano un'alta parola!... Quando la principessa si trovò sul piano di Maratona, pensò forse che, in greco, questo nome significa “campo di finocchi„ e oscurò così, col nome ridicolo, la cosa sublime?... Certo non pensò alla gloria degli Ateniesi e dei Plateesi trionfatori dei Persiani in una battaglia immortale. Ella scrive:

[331]

“Je me souviens encore d'avoir envié dans la plaine de Marathon l'émotion que le souvenir de Thémistocle éveilla chez un de mes compagnons de voyage. Cet homme, lettré et intelligent, avait pourtant l'esprit plus positif que poétique. Je vis une larme rouler sur ses joues; et pour moi, je l'avoue à ma honte, tout ce que je pus noter en visitant Marathon, c'est qu'il faisait bien chaud ce jour-là.„[133]

Dei Greci moderni, la principessa non riportò liete impressioni, e, sincerissima qual'era fino al punto di manifestare la verità, tutta la verità, anche se sapeva che altri eran pronti a punirla del suo coraggio, mandò al National di Parigi articoli che ai discendenti di Temistocle e di Botzaris non parvero certo corone d'alloro. A lei dispiaceva che quella Grecia, la quale avea dato, nel 1821, per la prima l'esempio di una sollevazione generale contro la tirannide, sostenendo per nove anni la più eroica resistenza, non avesse, nel concorde sollevamento europeo del '48, offerto la propria spada o espresso almeno efficaci simpatie per popoli che aspiravano a dignità, a indipendenza. L'esule italiana ricordava quali umiliazioni, quali amarezze i Greci aveano inflitto al nobile Santorre di Santarosa e ad altri italiani, accorsi con lord Byron a difenderli: perciò, scrivendo, non misurava i colpi e le parole. Ell'accusava anche gl'italiani di non aver fatto di più, ben più, per la patria: biasimava [332] i romani, perchè erano rimasti a guardare tranquilli, indifferenti, i fratelli d'altre provincie italiane che morivano per Roma.

Ne successe un pandemonio. I giornali d'Atene (specialmente il Courrier d'Athènes) scagliarono sulla viaggiatrice italiana ogni sorta di vituperii. Un Francesco Gherardi scriveva, il 18 ottobre del 1850, al buon Pietro Vieusseux a Firenze una lettera in cui parla appunto di quell'esasperazione:

“Non ho parole per esprimere l'esasperazione che hanno prodotto fra i Greci quelle lettere della Belgiojoso al National di Parigi; e di tale esasperazione si risentono tutt'i greci, che hanno parlato della Belgiojoso con molta vivacità; e non è stata risparmiata neppure dai giornali più moderati. Vi spedisco uno di tali giornali, nel quale troverete la protesta di questa emigrazione, tradotta in greco. Il direttore di quel giornale era amico della principessa; nondimeno, vi ha scritta una nota per essa poco lusinghiera; figuratevi cosa hanno scritto quelli che non le erano amici! Col futuro corriere ordinario, vi manderò altri giornali greci che trattano di questo doloroso argomento. Gli amici della Belgiojoso devono consigliarla a ritrattarsi; altrimenti, anche per le cose dette sui romani, è una donna perduta nell'opinione di tutti.„[134]

Immaginarsi se una principessa Belgiojoso poteva turbarsi dinanzi a una bufera! Immaginarsi [333] se Pallade Minerva si sarebbe ritrattata! Ci par di vederla freddamente sorridere, e continuare il suo viaggio verso Costantinopoli....


E la principessa lascia colla figliuoletta Maria, anche la Grecia, per l'Oriente asiatico, al quale si sente attratta da costumi diversi, ma più da un bisogno di raccoglimento, dopo tante prove tumultuose. Ella sbarca a Costantinopoli. Da Costantinopoli passa nell'Asia Minore, e sceglie a propria fissa dimora la valle di Ciaq-Maq-Oglou, che vuol dire “figlio della pietra da fucile„ lontana alcune giornate dalla città d'Angora, sì famosa per le capre, pei conigli, pei gatti. Ed ivi la principessa acquista subito un latifondo, un ciflik (come dicono là) collo scopo di trarne dovizie.

Ella spiega le sue proprie speculazioni in una lettera bella ed espansiva alla marchesa Luigia Visconti d'Aragona, nata Monticelli; la parente da lei sempre amata, sposa del fratellastro suo, marchese Alberto. In quella lettera, Cristina sospira al lontano Oleggio Castello, presso il suo maestoso, dolce Lago Maggiore; vi sospira, con rimpianto d'esule....

Ciaq-Mag-Oglou. (Asia Minore)
13 agosto 1851.

Cara Gigia,

Mi tengo fortunata che Alberto possieda una compagna più di lui attiva e dotata di più salda memoria; chè, altrimenti, dovrei rinunziare ad avere sue e tue nuove. Ti ringrazio, dunque, e ben di cuore, per la tua letterina.

[334]

“I particolari che mi dài delle tue gite ad Oleggio Castello mi hanno fatto battere il cuore; e s'io potessi prendere ad imprestito le ali di una delle rondinelle che annidano nella mia casa, non tarderei a farti una visitina in quel delizioso e, per me, prediletto soggiorno.

“Chi sa? Forse Dio mi tiene in serbo una vecchiaja più quieta e più serena che nol fu la mia gioventù, e se le forze mi si mantengono, se posso ridurre questo mio sito in modo che la mia presenza più non sia necessaria onde fargli produrre i frutti promessi, non tarderò a rivedere l'Europa, e il primo luogo ove pianterò per un poco la mia tenda (se lo statu quo d'Europa persiste) sarà Oleggio Castello. Di' ad Alberto che reclamo dalla sua ospitalità un pajo di camerette in cui io possa contemplare il Lago Maggiore. Ma non debbo fermarmi su tali pensieri che mettono in pericolo la mia pazienza e la mia rassegnazione. Di me e dei miei progetti non ti ho ancora parlato, sebbene tu mi esprima il desiderio di conoscerli. Ti dirò, dunque, che ridotta come sono a mal partito pecuniario, pei tanti sacrifizii, per le multe, le imposizioni, tasse, ecc., ho creduto di dovere approfittare di una circostanza, che mi offriva per l'avvenire, o piuttosto offriva a Maria qualche probabilità di fortuna. Ho dunque comperato per cinquemila franchi una tenuta che in Europa sarebbe un ducato. Buona terra fertilissima, parte in pianura, parte in colli, in monti, irrigate da un fiume e da varii canali. Le compere dei bestiami, degli strumenti di lavoro, la costruzione [335] d'una casa, di stalle, granaj, pagliaj, ecc., mi costarono un poco più che la terra stessa; ma è quasi un anno ch'io sto qui, e fra gli acquisti, la mano d'opera e il mantenimento d'una numerosa famiglia, non ho speso ancora 20 000 franchi. Vedi, adunque, che la spesa è minima. Quanto all'entrata che spero trarre da questa possessione, non so perchè sarebbe molto inferiore a quanto ne trarrei se situata in Europa; poichè da qui a Costantinopoli le mercanzie sono trasportate con poca spesa in quattro o cinque giorni, ed a Costantinopoli tutt'i generi si vendono come in Europa. Ho, per esempio, delle vostre risaje; e il riso costa qui circa come a Milano. Io non penso ora che a coltivare la valle; ma se, col tempo, riesco a coprire di viti i miei colli, il profitto può essere immenso.

“Per realizzare, però, queste belle speranze, conviene ch'io qui rimanga almeno sino a che ho trovato una persona sicura da mettere alla direzione di questi lavori. Ma come meglio impiegare gli anni dell'esilio, che a preparare a mia figlia una fonte di futuro benessere?... Io mi felicito, dunque, della risoluzione da me abbracciata; e spero che i miei sacrifizii non rimarranno senza frutto.

“Maria, intanto, se la gode. Il vederla così robusta e così felice, è per me di somma consolazione. Essa si ricorda di te con affetto, mi chiede spesso tue nuove e di suo zio, e vuole esserti rammentata.

“Siccome il pensare alla felicità di chi amo forma uno dei principali miei conforti, così vorrei [336] sapere se le conseguenze delle passate agitazioni sono svanite.... Ricorditi di me, dammi tue nuove il più sovente che puoi, e credimi sempre tua

“aff.ma sorella Cristina.„[135]

Abbiamo detto che quel podere, laggiù, si chiamava ciflik. In Turchia, come in Albania, ciflik significa villaggio con un latifondo. Chi lo possiede deve oggi pagare fior di tasse al governo ottomano. E alcune, allora, ne furono inflitte alla principessa. Ella veniva, però, a patti coi capi turchi, contrattava sulle imposizioni, e arrivava a riduzioni notevoli, pagando peraltro, a quei signori dal fez, laute mancie, prezzo della loro accondiscendenza.

I parenti tentarono più volte di mandar soccorsi di denaro alla principessa; ma inutilmente! Il denaro si smarriva per via o finiva nelle saccoccie turche!


Mentre la principessa attende a' proprii interessi agricoli nel nuovo possedimento, pensa al paese che si estende al di là delle sue terre; e imprende colla figlia Maria un viaggio pittoresco, ma non scevro di pericoli.

È il gennajo del 1852. La principessa parte dall'Anatolia, e, con marcie faticose, a cavallo, interrotte da fermate più penose ancora, arriva a Gerusalemme nella primavera.

[337]

In Siria (che non le pare rassomigliante alla Siria dei libri) penetra negli arem e li descrive.... Ma, prima, traccia la storia guerresca della vallata, dove dimora, detta Ciaq-Maq-Oglou; e da quella vallata, preceduta da una scorta a cavallo, esce per entrare nella vita nomade. Il borgo più vicino alla sua casa si chiama Verandcheir, che vuol dire “città distrutta„; e ricorda eventi luttuosi. La principessa è accompagnata, nel viaggio, da un cavaliere indigeno d'aspetto fiero e selvaggio, il cui ricco costume (turbante verde, mantello bianco di lana tessuta in argento) contrasta colla sua miseria.

L'ospitalità nell'Oriente, com'è noto, è sacra. Un mussulmano non si consolerà mai d'aver mancato alle leggi dell'ospitalità, perchè il muzafir (ospite) è un “inviato da Dio„. Ma.... c'è un ma, assai poco consolante. Il padrone della casa vi colma di cortesie; ma se voi non gliele pagate venti volte almeno, egli aspetta che voi siate fuori dalla sua casa e che, per conseguenza, deponiate il sacro titolo di muzafir, e vi butta addosso delle pietre.

Così racconta la principessa, che riconosce, peraltro, come vi sieno turchi dal cuore semplice, buono, e alieni dalle pietre. Un vecchio mufti di Tcherkess è del bel numer'uno. Ella ne è ospite. Così ella può osservare ben davvicino l'arem di lui, pieno di donne, di tenebre, di confusione, di miasmi, di fumo. Donne e ragazzi, inquieti come scimmie, si mescolano sui divani distribuiti attorno; e le stesse serve nere (una folla!), quando sono stanche dal lavoro, si [338] lasciano cadere vicino, se non addosso, alle padrone, sui sofà stracciati e bisunti. Il vecchio mufti di Tcherkess, non ostante i suoi novant'anni venerabili (e ne dimostra sessanta appena), possiede parecchie donne, la più vecchia delle quali ha trent'anni; e ha figliuoli di tutte le età, dal bamboccio di sei mesi al vecchio di sessant'anni suonati. Di chi sarà quel bamboccio?

Gli specchi nell'arem sono oggetti rari; perciò le donne si acconciano consigliandosi l'una coll'altra; ma poichè le gelosie e le rivalità non possono mancare nello stesso gineceo, i reciproci consigli riescono malignamente falsi; e le acconciature, le pitture dei volti ne risentono, presentando gli spettacoli più grotteschi e più orribili. Sì, pitture; perchè le recluse dell'arem si dipingono disperatamente il viso; si stendono il rosso sulle labbra, sulle guancie, sul naso, sulla fronte, sul mento; e il bianco dove tocca tocca, quale riempitivo; e l'azzurro attorno agli occhi, e sotto il naso. E siccome credono che la bellezza della donna consista nel grand'arco delle sopracciglia enormi, se le dipingono di nero, cominciando dalla radice del naso e terminando alle tempie.

Non vi sono specchi, e non vi sono vetri. Le finestre, in luogo di vetri, hanno carta oliata; ma dove persino la carta è oggetto di lusso, le finestre sono addirittura soppresse; la luce penetra nell'arem dal camino, che non oltrepassa l'altezza del tetto, ed è molto largo, come quelli delle nostre vecchie case di campagna.

Con questi lieti colori la principessa descrive [339] gli arem, nel principio del suo libro; così suscita l'interesse con arte d'abile autrice.

Ma non sempre ella riesce a interessare vivamente il lettore. Il suo stile procede troppo misurato. Nelle sue frasi risplende di rado un raggio della gran luce d'Oriente che avvolge la sua fantastica figura a cavallo. Poich'ella è una cavalcatrice imperterrita, una domatrice di cavalli.

Un'altra viaggiatrice della Siria, l'inglese lady Ester Stanhope (colei che, per qualche tempo, lavorò quale segretaria di suo zio Guglielmo Pitt e figurò ospite amabile e dignitosa nei ricevimenti politici di lui, a Londra), era intrepida domatrice di cavalli, come l'Ettore di Omero; ma superava ella la principessa lombarda, allevata fra cavalcatori passionati ed eleganti?

La principessa ama il cavallo e lo studia. Nel capitolo Les montagnes du Giaour, descrive il mare di Siria con un nitore di frase che ci ricorda l'autore della Vie de Jésus; descrive i cavalli che trottano giocondi lungo la spiaggia. È un quadro fresco e delizioso.


La Belgiojoso s'inoltra nell'Oriente, e lo ama; ma, portata dal suo spirito pratico d'osservazione, considera nell'Oriente le cose tangibili, non certo i sogni aerei. Così, ad Angora, ferma l'attenzione sulle capre dal pelo di seta, sui bufali, che altrove irrompon selvaggi, ed ivi dimoran miti al pari dei buoi; sugli sciacalli che vengono a bere, come arcadi innamorati, il latte sotto la vostra tenda.... La principessa cavalca [340] e cavalca giornate intiere: viaggia nel fango, qualche volta nella neve, fra montagne tagliate a picco. Passa la notte in poveri villaggi, sempre colla figliuola Maria.

Ed eccola in un villaggio fellah, e in un altro arem; ma, prima, una torma di donne e di bambini viene a incontrarla sulla via per presentarle omaggi come a una regina.

Un altro arem, adunque?... Diciamo pure: molti altri. Poichè v'è l'arem del povero, quello della classe media, quello del riccone; l'arem della provincia e l'arem della capitale; quello della campagna, e quello della città; l'arem del giovane e del vecchio; del mussulmano pio che rimpiange l'antico regime, e del mussulmano scettico, amante di riforme e portante redingote. Ciascuno di questi arem ha il suo carattere, e la principessa lo studia. È raro che il contadino sposi più donne. In generale, sono poligami soltanto i contadini, i quali, nella loro prima giovinezza, hanno sposato qualche vecchia che possedeva alcuni beni....

La principessa studia la famiglia turca, il cui scopo è d'avere il più gran numero di figli, e stabilisce un confronto fra la donna georgiana e la circassa: la prima è capace di tradire il suo signore, l'altra è capace di farlo morire di noja; ma sono belle tutt'e due.

Non è agevole seguire l'ardita viaggiatrice in tutti i passi del lungo suo viaggio; impossibile seguirla in tutte le considerazioni intorno alle donne d'Oriente: convien leggere tutto il libro, che, riguardo agli arem, è veramente prezioso, [341] avendo potuto la principessa vederli ben davvicino quei ginecei gelosamente custoditi; laddove tanti viaggiatori ne parlano solo per averne udito discorrere come di misteri, e inventano!

La Belgiojoso percorre lieta la valle d'Antiochia e s'inoltra nell'Oriente arabo. Ed ecco Terra Santa: ecco le mura merlate di Gerusalemme. E la credente si commove, piange.

“Au delà de ces murs, une ligne bleuâtre se confondant avec l'horizon, indiquait la mer Galilée. Je donnai un moment à la contemplation de ce grand spectacle, tumulte étrange se faisait en moi: je sentais ma gorge se contracter et mes yeux se remplir de larmes, comme si j'avais retrouvé une patrie plus ancienne que celle d'où j'étais exilée. Chose étrange, cette sensation de bien-être et de joie profonde ne me quitta pas pendant mon séjour à Jerusalem. Cette arrivée dans une ville inconnue avait pour moi tout le charme d'un retour„. (pag. 194.)

Verso Nazareth, la Belgiojoso viaggia ad alta notte, dopo accidenti perigliosi. Giunta alle aride montagne della Galilea, i cavalli della sua scorta sono infatti presi da una strana malattia. Non posson più reggersi in piedi; l'occhio è smorto, la pelle fredda; le povere bestie pajon vicine all'agonia. I cavallanti che li montano sono costretti a condurli lentamente colle briglie; un malvagio tedesco del ducato di Baden caccia avanti il suo, flagellandolo di bastonate. I cavalli gemono; i cavallanti bestemmiano; così la principessa e la figlia Maria procedono a stento, e, quando la notte cala tenebrosa, si trovano sole [342] col dragomanno e due servi: la scorta è rimasta indietro. E neanche il dragomanno sa la strada. La principessa cade da cavallo, ma non si fa alcun male. Fra i cavalli morti, vi è uno dei suoi favoriti; ed ella dura fatica per istrappare il cadavere agli uccelli di rapina. La pioggia scroscia furiosa nelle tenebre.

Giunta a Nazareth, la principessa, colla figlia, s'interna a cavallo in una strada, e i suoi servi la fan fermare davanti a una casa d'aspetto europeo. Un frate francescano sta sulla soglia con una fiaccola in mano e porge alle viaggiatrici il ben venuto, in italiano, coll'accento lombardo. Allora ella prova un moto di gioja nell'udir risuonare sotto la vôlta d'un chiostro d'Oriente il saluto e le pie formule che sì spesso aveva udite nelle campagne lombarde. Ella medesima confessa ahimè! che Nazareth è per lei una “delusione„; che per quanto ella evochi nell'intimo suo i grandi ricordi del Vangelo, rimane gelida: “Rien ne réussissait à exciter en moi cet enthousiasme que tant d'âmes d'élite avaient éprouvé en présence des mêmes lieux.„

Sono le atonie di spirito, che irrigidiscono talvolta chi è affetto da sconvolgimenti nervosi; chi è sazio d'impressioni, d'emozioni febbrili, di vicende esagitate. Ma le rive del Giordano, quelle acque che passarono sul divin capo del Salvatore degli uomini, quella religiosa solitudine toccano il cuore della viaggiatrice.

“Que de souvenirs se réveillent d'ailleurs sur les bords du Jourdain! que de scènes! que d'images sont évoquées par ce seul nom!„

[343]

Nel lasciare Gerusalemme, si fa triste; sembra che un palpito accompagni l'addio ch'ella manda alla santa città; ma non sembra profondo. Mai la morte di Gesù, mai lo strazio di Maria, le umiltà degli apostoli, il grido dei profeti, mai sono evocati da questa donna, ch'è pur credente!... E dire ch'ella è vissuta un mese intero a Gerusalemme; ha visitato i santuarii della città e dei dintorni, Betlemme, il Monte degli Ulivi.... tutto. Uno dei fenomeni di quello spirito singolare! Fenomeno; poichè un giorno confessava che, all'uscire dall'Opéra Italien a Parigi dove Mario, il gran Mario cantava nel Poliuto del Donizetti, ella si sentiva così accesa d'ardor religioso che si sarebbe lanciata contro le fiere in un circo, al pari degli antichi cristiani.

Molti viaggiatori (fra i quali il Lamartine) descrivono il Mar Morto come un lago nero, lugubre e pestifero, dove i pesci non vivono, e sopra il quale uccello non passa; una solitudine paurosa d'acque morte e d'asfalto. La principessa, invece, descrive il lago maledetto come uno specchio limpido che riflette i sorrisi del cielo; un bel lago dai pesci vivaci e coronato d'arbusti in fiore sui quali cantano gli uccelli; un lago, che le fa pensare a' suoi bei laghi di Lombardia.


Nel ritorno, la principessa si ferma a Tarso, presso un signor Rossi, console sardo, marito d'una schiava nera del vicerè d'Egitto; e, a due giornate da Tarso, la nostra viaggiatrice intrepida si sprofonda fra le gole del monte Tauro [344] dirigendosi verso Konia, dove è ospite d'un pascià, nel cui arem deve a tutt'i costi dormire colla figliuola.

“.... J'eusse pu concevoir quelques inquiétudes, sinon pour moi, pour l'enfant qui m'accompagnait, à la pensée d'être logée par ordre dans le harem d'un pacha; mais je connaissais trop bien à cette heure la réserve exquise et le respect inné des Turcs envers les femmes, pour me laisser gagner par de semblables paniques.„[136]

Questo aureo pascià si chiamava Haffyz-Mehemmed, detto il sapiente. Era un uomo amabile e di spirito, quanto un europeo della buona società. Il pascià di Koniah si mostrò gentile colla principessa; e più ancora si mostrò gentile con lei la bella, espansiva Malekha, una turca vedova e libera, che la principessa trovò in visita presso due sue amiche, principali spose del pascià. Ella parlò di letteratura, di fedeltà conjugale, di dignità della donna; e le amiche sue, povere schiave, piangevano dirottamente nell'udire i consigli di lei che insegnava loro di minacciare addirittura il pascià se non si mostrava fedelissimo.

— Oh, sì! — le rispondevan le amiche in un concorde duetto, col volto inondato di lagrime. — Avete un bel dire voi, che siete libera!

La principessa, dopo altre peregrinazioni fra i Kurdi (che descrive), ritorna colla figlia nella sua pacifica valle dell'Asia Minore, dond'è partita; vi ritorna senza aver subito brutti affronti, [345] e sana, non ostante le pioggie e i torridi soli sofferti, non ostante le fatiche e le privazioni, attraverso paesi sconosciuti, fra genti diverse. Ella risaluta con gioja il verde della vallata, il modesto suo tetto. Arrivata a casa, si chiude nella propria camera per rendere a Dio ferventi azioni di grazie; ma, nell'emozione, ella non può pronunciare che queste sole parole: “Grazie, mio Dio!„


Nelle sue memorie, la principessa Cristina tace che andava, a cavallo, alla caccia della tigre; tace d'un attentato del quale fu vittima nel ciflik; tace delle atroci memorie che Napoleone Bonaparte e il suo degno esecutore, generale Berthier, lasciarono nella Siria. Non era una bell'occasione per lei di isfogare un risentimento?... Perchè il Berthier (ricordiamolo pure) era il padre della duchessa de Plaisance; di colei ch'era fuggita col principe Belgiojoso da Parigi. Ma la principessa non arrivava mai all'odio: si fermava al disprezzo.

Una sera dell'estate del 1853, ella s'era appena ritirata nella propria camera, quando un suo agente le fu addosso, e dicendole: Muori perfida, muori scellerata! la colpì con uno stilo, al basso ventre, a una coscia, a una mano, che ella aveva teso per difendersi, e al seno, e alla schiena. Il malfattore, certo Albergoni di Bergamo, fu arrestato dagli altri servi accorsi alle grida della principessa e fu tradotto in catene a Costantinopoli, donde ella, per le vive raccomandazioni del marchese Antinori, lo aveva fatto venire. La Belgiojoso [346] lo aveva minacciato di licenziamento per la pessima condotta: perchè sospetto ladro, beone, violento; e lo scellerato volle vendicarsi.

Sette ferite: per fortuna, non erano mortali. La principessa non si smarrì di coraggio, e si curò da sè. Non ostante il sangue sparso, ella (chi lo crederebbe?) si fece cavar sangue e coprir di mignatte.... Una delle ferite alla schiena, verso la nuca, la obbligò a tenere, per tutto il resto de' suoi giorni, chinato il capo. Le altre ferite all'addome rimarginarono presto; non così una al petto, che, da allora, la fece respirare con fatica affannosa. Ma a poco a poco ella si riebbe, e tornò ai lavori da' quali traeva la vita; poichè il suo podere asiatico nulla le produceva, e la povertà molte privazioni le faceva soffrire.... Si vide, allora, la ricchissima gentildonna dei bei giorni ricorrere anche ai sussidii dell'ago per vivere colla figliuola in pace. Colla figlia Maria eseguiva fini ricami, che poi vendeva ai mercanti di Costantinopoli. Per trarre altri guadagni, scrisse molti articoli sui giornali, sulle riviste inglesi e francesi: francesi di Parigi; inglesi di Londra e di Nova-York. Narrava impressioni di viaggi; componeva novelle; ricordava la rivoluzione, le sventure, le speranze d'Italia. Oltre i Souvenirs dans l'exil, inviati nel settembre e ottobre del 1850 al National di Parigi (e che vennero poi raccolti a Parigi dal librajo Prost in un opuscolo di cinque fogli, oggi introvabile), Cristina scrisse sulla Revue des Deux Mondes tutti questi lavori:

[347]

La vie intime et la vie nomade en Orient, che comprende:

Angora et Césarée, les Harems, les Patriarches et les Derviches (fascicolo del 1º febbrajo 1855).

Les Montagnes du Giaour, le Harem de Mustuk-Bey et les femmes turques (fascicolo del 1º marzo 1855).

Le Touriste européen dans l'Orient arabe (1º aprile 1855).

Les Européens à Jerusalem, la Turquie et le Koran (15 settembre 1855).

Questi scritti, raccolti e fusi, formarono poi il volume Asie Mineure et Syrie: souvenirs de voyage, pubblicato a Parigi nel 1858, e che fu tradotto in tedesco, in russo, e in olandese; e poi in italiano. È l'opera più vitale della forte scrittrice.

La principessa scrisse anche nella Revue des Deux Mondes tutta una serie di scene, di commedie, di racconti:

Emina (quaderno del 1º e 15 febbrajo 1856).

Un prince kurde (15 marzo e 1º aprile 1856).

Les deux femmes d'Ismail-Bey (1º e 15 luglio 1856).

Le Pacha de l'ancien régime, commedia (fascicolo del 15 settembre 1856).

Un paysan turc (fascicoli del 1º e 15 novembre e 1º dicembre 1857).

Zobeïdeh (1º e 15 aprile 1858).

Rachel, racconto lombardo del 1848 (15 maggio e 1º giugno 1859).

Fu tradotto in italiano Un prince kurde; pregevole per la pittura del costume. Anche gli altri racconti orientali sono fotografie dal vero; fotografie inalterabili: vi manca il colore. Per trarne lucro, la principessa pubblicò nel 1850, in francese, a Parigi, un compendio di storia [348] ad uso dei fanciulli: Notions d'histoire à l'usage des enfants.

Un'attività portentosa. La sua penna scorreva facilissima sulla carta dove tracciava lettere grandi, chiare. Mai una cancellatura: mai un pentimento! Invece, Ernesto Renan correggeva nove volte le bozze di stampa de' proprii articoli per la Revue des Deux Mondes. Ma con quel lavoro prezioso di lima, l'autore della Vita di Gesù raggiunse l'ammirabile perfezione di stile che lo colloca forse primo fra gli stilisti aurei della Francia.

Victor Cousin e il prodigioso storiografo Ampère (che componeva i suoi libri viaggiando) dicevano che pochi scrivevano bene il francese come la principessa Belgiojoso; ma essi erano due amici della dea, due adoratori del fuoco.... Lo stile francese della Belgiojoso è classico; ma è opaco, senza l'agilità ch'è sì propria dei francesi.

Intanto ella lavorava; lavorava infaticabile.... Anche dal suo esilio d'Oriente, insegnava alle donne italiane la nobiltà del lavoro.

Ma da suoi parenti, lasciati in Europa, arrivavano non infrequenti consigli e preghiere di ritorno. S'aggiunga la nostalgia della vita europea. Alla fine, la principessa decise di lasciare l'Asia per sempre.

[349]

XVIII. Ritorno in Francia e in Italia.

Sbarco d'una carovana asiatica a Marsiglia. — La Principessa nel castello di Saliès. — La marchesa Teresa Visconti d'Aragona e le sue memorie. — Il marchese Alessandro Carlo d'Aragon e le sue veglie colla Principessa. — Napoleone III e il conte Francesco Arese. — Ultimi giorni di Enrico Heine a Parigi. — Camilla Selden, il suo triste romanzo conjugale, i suoi libri. — Ritorno della Principessa al Lago Maggiore. — Nella pace di Oleggio Castello.

Nel 1853, la principessa Belgiojoso ritornò dall'Asia, sbarcò a Marsiglia, e andò direttamente nel castello di Saliès presso la piccola città d'Alby, sul Tarn, famosa nella storia per il concilio tenutosi allo scopo di estirpare gli Albigesi dalla Francia.

La bellezza di Cristina appariva offuscata dagli anni e dalle fatiche della rivoluzione, dei viaggi: il suo corpo s'inchinava omai come un salice.

Ella era accompagnata dalla figlia Maria, dalla governante di questa, miss Parker, e da un servo turco. Miss Parker era una inglese, alta, grossa, dalla faccia color del rame, sparsa di bitorzoli, e illuminata a stento da due piccoli occhi: brutta creatura, ma devota alla sua signora e alla giovinetta affidata alle sue cure. Il servo turco, [350] Bodòz (Giovanni) battezzato per volere della padrona, si pavoneggiava col suo fez, il cui rosso sanguigno facea risaltare la tinta olivastra del volto baffuto. Vi era un altro servo, Issep, anch'esso turco, anch'esso battezzato. La principessa recava seco un bel cavallo arabo, quattro grossi cani asiatici, che mordevano ferocemente i cani europei in omaggio alla fratellanza dei popoli; e due gatti d'Angora, dalle code fenomenali, come gli strascichi di due comete. E questa carovana di signore, di servi, di bestie asiatiche, comparve d'improvviso nel castello di Saliès. Il castello sorge su una silenziosa eminenza del terreno ondulato, fra colline basse, nude, rossastre, fra viti esili, nane. Niente acque, nessun fiore. E in quel castello, addormentato nella sua antica pace feudale, viveva la sorellastra di Cristina, la dolce Teresa Visconti d'Aragona, che la principessa avea fatta sposare a un gentiluomo francese: al marchese Carlo d'Aragon.

Il castello di Saliès era un angolo perduto nel mondo; un lungo edificio grigio. Nell'interno, una vastissima biblioteca, tappeti, tavole, specchi.... tutto dovizioso ed elegante. Su una parete del salotto, al posto d'onore, un ritratto di Luigi XVIII, del quale il vecchio marchese d'Aragon, pari di Francia (morto nel 1848) era stato uno dei favoriti. Il fiero vegliardo, un gentiluomo de la vieille roche, aveva sposato la figlia del principe Carlo di Nassau-Siegen. Intorno al castello, un parco, e, al di là, un orizzonte melanconico e deserto. In una rustica [351] chiesetta vicina, il parroco predicava, la domenica e tutte le altre feste comandate, ai contadini nel linguaggio a loro famigliare; e ripeteva da anni e anni sempre le stesse cose colle stesse parole: perciò è sperabile che, alla fine, quella povera gente lo abbia capito.


La marchesa Teresa era lo spirito rassegnato e silenzioso del sacrificio; era la bontà angelica fatta persona. Sommessa alla imperiosa sorella Cristina, ne aveva accettati con mesto sorriso, forse con lacrime, tutt'i voleri. Nata in Italia, sospirava dal cinereo Saliès alla luce d'Italia sua. A un libro di memorie segrete, che hanno un profumo di viole morte, ella affidò queste parole: “Io amo la mia Italia: subisco il suo incanto. Io amo gl'italiani, la mitezza dei loro costumi, il loro istinto squisito, la loro semplicità nei rapporti. Io assaporo con delizia l'elemento artistico infuso dappertutto in Italia. Ascolto della musica, vedo dei quadri, dei monumenti, che m'interessano, che mi parlano all'anima. In Francia, questa specie di gaudii non è, come in Italia, alla portata di tutti.„

La bellezza sua non risplendeva nel volto dai finissimi, dolci lineamenti, espressione dell'alta squisitezza del suo animo e della bontà; risplendeva nell'anima. Era un'anima. Ed ella si effondeva negli ardori della preghiera e nella musica, che aveva imparata dal Listz a Parigi. E, a proposito di Parigi e della sorella Cristina, ella lasciò nelle sue memorie queste linee biografiche tutte candore e umiltà:

[352]

“Io ho amato mia sorella Cristina. Quand'io ero fanciulla, ella mi abbagliava colla sua intelligenza; e io mi credeva trasportata in un mondo incantato, quand'ella, più anziana di quattordici anni di me (io ne avevo sette), mi permetteva di passare una giornata nel suo appartamento a guardare le incisioni e ad imparare il francese. Mia sorella lasciò l'Italia poco tempo dopo il suo matrimonio, e io, per lo spazio di più anni, non la vidi più. Nel 1836, la ritrovai a Parigi nella sua attraente palazzina di via d'Anjou, circondata d'uomini illustri e ricevendo molte persone. Ella volle tenermi presso di sè, e decise mia madre e me a contrarre un matrimonio in Francia. Io mi sposai, infatti, il 15 ottobre 1837 (festa della Santa del mio nome); ma mia madre, ahimè! non era con me. Io aveva avuto il dolore di perderla due mesi avanti.„

Della nobiltà, ella (al rovescio d'altre signore del gran mondo) concepiva un'idea elevata:

“Indietro, o vanità! Lontano da noi questa sciocca e odiosa alterigia che ci fa guardare con disprezzo persone che noi non consideriamo come nostri eguali, laddove ci sono forse superiori per molti meriti; ma alimentiamo pure legittima fierezza di ciò che potè avere e di buono e di glorioso il passato della nostra famiglia e insegniamo con quello ai nostri figli, dicendo loro: Noblesse oblige! Io non amo che uno stemma sia preso soltanto per una decorazione artistica d'effetto grazioso, come un ciondolo d'una collana.„

Il marchese Alessandro Carlo d'Aragon, figlio [353] di Teresa, era un amabilissimo gentiluomo di lettere: era un patriota e un credente; un diplomatico squisito. Militò nel battaglione d'artiglieria della scuola politecnica di Parigi fra gli orrori dell'assedio e delle lotte civili. Seguì all'ambasciata di Londra il duca di Decazes, poi ministro degli affari esteri. Ed egli sarebbe divenuto ministro se la monarchia fosse stata instaurata come molti tentavano in Francia: ma il Bismarck sopratutti, il vendicativo Bismarck, volle assolutamente che non la monarchia, bensì la repubblica risorgesse nella Francia prostrata, poichè il cancelliere di ferro, di fuoco e di veleno, sperava che la repubblica avrebbe finito col lacerare ancor più il seno della sorella latina: i vecchi diplomatici di quel momento storico conoscono meglio di tutti la verità di queste parole.

Il marchese A. Carlo d'Aragon si consacrò agli studii storici, cibo dei forti, e scrisse un largo, accurato studio, dalle linee signorili, su un suo antenato, paladino del secolo XVIII: Le prince Charles de Nassau-Siegen; d'après sa correspondance originale inédite de 1784 à 1789; corrispondenza che l'autore trovò negli archivii domestici.[137] Fra i capitoli, che ci conducono in un mondo scomparso, va segnalato quello su una elezione in Polonia, nel 1786; vi figura in luce il principe Czartorisky, del cui discendente rivoluzionario fu toccato nel capitolo XV di questo libro. Il marchese d'Aragon era uno dei quaranta [354] mainteneurs dei Jeux floraux di Tolosa; la città aristocratica, che conserva le tradizioni genialissime della “gaja scienza„ del Medio-evo con una gara di poeti; raggio di lucente, graziosa idealità, che sì conserva in questa Europa di cupe e sorde battaglie. Il marchese d'Aragon (che mori nel castello di Saliès, e di lui, nell'Accademia dei Jeux floraux, pronunciò un bell'elogio il conte Gardés)[138] era, più che nipote, affettuoso amico della principessa Cristina. Quante notti egli, paziente, su uno sgabello, leggeva libri francesi a Cristina, mentr'ella, colla camera illuminata come una sala da ballo, stava a letto, cinta il capo d'un candido turbante.... Talvolta, in quelle lunghe notti, era la principessa colei che sosteneva la parte di lettrice. Ella leggeva le poesie meneghine di Carlo Porta, del cui spirito comico era convinta ammiratrice; e le spiegava in francese ad Alessandro Carlo d'Aragon.

Un particolare curioso: Negli Archivii segreti della Presidenza del Regno Lombardo-Veneto a Milano, si conserva tutta una serie di lettere (intercettate arbitrariamente dalla polizia) sul matrimonio del marchese d'Aragon colla sorellastra della patriota Cristina Belgiojoso.[139] Quali segreti di Stato immaginava mai l'Austria in quell'unione?... Sono precisamente le lettere intime sulla dote e su altri particolari, che la madre della sposa scriveva alla vigilia delle nozze.

[355]

Nel solitario castello di Saliès, la principessa si sentiva tranquilla. Lo spettacolo d'un grande sacrificio risuscita i nostri migliori sentimenti e li affina in una quieta contemplazione. E tale era il caso della principessa verso Teresa.... Ma gravi dolori assalirono ben presto l'animo della Belgiojoso; la quale dovette tornare a Parigi per mettere ordine in certi scompigliati documenti ivi lasciati.

A Parigi, trovò Luigi Napoleone sul trono imperiale, stretto in amicizia tenacissima col conte Francesco Arese, il patrizio lombardo, ferreo carattere, invitto nell'amore della patria che assai gli deve. L'Arese avea conosciuto Luigi Napoleone nelle adunanze dei carbonari in Romagna e nella sollevazione di quelle provincie nel 1831. I due amici si ritrovarono poi sul lago di Costanza nel castello di Arenenberg, che la regina Ortensia aveva acquistato e che, più tardi, fu comperato dall'imperatrice Eugenia. Ortensia pregò l'Arese di raggiungere il figlio Luigi Napoleone in America; e colà entrambi vissero in un'intimità, che non ebbe ombra nè si smentì mai, e della quale l'Arese si valse, a suo tempo, perchè Napoleone III ajutasse l'Italia a risorgere.

Napoleone III, non ostante il sanguinoso colpo di Stato del 2 dicembre (al quale venne deciso dalla risolutezza del conte de Morny); non ostante le saette dei Châtiments di Vittor Hugo, godeva d'una bella popolarità fra le donne francesi, attratte da quell'aureola romantica che circondava il capo dell'avventuroso Napoleonide; furono le [356] donne coloro che persuasero i mariti a votare per lui! Molti sapevano, peraltro, che i diritti al trono accampati da Napoleone III erano dubbii. Infatti, egli era bensì figlio d'Ortensia, ma non del buon re Luigi d'Olanda. Era nato dall'ammiraglio olandese Carlo Enrico Verhuel. Così, il conte de Morny era figlio di Ortensia e del conte de Flahaut, soldato e diplomatico. La posizione del Morny fu poi legalmente regolata, perch'egli venne adottato da un Demorny; cognome che il conte de Morny scisse in due per accentuare la propria aria aristocratica. La madre Ortensia gli lasciò un patrimonio di quaranta mila franchi di rendita; fortuna che il de Morny s'affrettò ad aumentare mercè la sua politica, condotta sopratutto per bramosia di lucro, e mercè una fabbrica di zucchero di barbabietole. È notissimo, d'altra parte, che il conte Walesky, ministro degli affari esteri sotto Napoleone III, doveva la vita a Napoleone I e a una bella signora polacca di quel nome. Tante irregolarità d'origini contribuiva a permettere quella rilassatezza di costumi, la quale riempì la reggia francese delle famose e licenziose cocodettes: le cocodettes danzatrici di cancan al cospetto dell'imperatore, che con flemma olandese vedeva levarsi le loro scarpette di raso bianco ad altezze inverosimili ma, pur troppo, vere![140]

Il fuggiasco falso muratore del castello d'Ham l'aveva adunque spuntata, salendo al soglio dello [357] zio! Colui, che l'arcivescovo di Spoleto, Giovanni Maria Mastai Ferretti (poi Pio IX) avea fatto fuggire di nascosto, nel 1831, perchè non cadesse nelle mani dell'Austria e che poscia, travestito da servitore, riparò a Genova.... era dunque a capo della Francia! E la principessa Belgiojoso ne esultava, nella fiducia che il sovrano avrebbe mantenuta la promessa datale a Londra: la promessa solenne di pensare all'Italia dopo d'aver pensato alla Francia.

Ella rivide a Parigi alcuni vecchi amici; ma non pochi erano scomparsi nel turbine della rivoluzione. Vittor Hugo in esilio; Francesco Chopin morto; Enrico Heine senza protettori ufficiali e più che mai infermo di spinite, tormentato dalle grida d'una selvatica moglie (Matilde) e dalle strida del pappagallo di costei; ma consolato da una gentile lettrice, Camilla Selden; la quale ammirava anche assai la principessa Belgiojoso e andava a trovarla, esibendole i proprii ufficii.

La moglie di Enrico Heine era gelosissima delle signore, che compivano una vera opera di misericordia nel visitare il poeta; ma specialmente di Camilla Selden, graziosa e snella, dagli occhi cilestri, maliziosi, dai riccioli castani che le scherzavano intorno alla fronte, e dal nasino corto colla punta in su. Francese per soggiorno e per le disgraziate nozze contratte, ma tedesca di nascita, Camilla Selden avea la disinvoltura d'una parigina e il sentimento d'una tedesca. Enrico Heine le die' subito un soprannome, Mouche, in causa d'una mosca, che avea vista incisa nel sigillo di lei. Un dolce affetto inteneriva [358] il cuore del morente nel vedere ogni giorno quella fata buona appressarsi al suo letto dove era inchiodato. Camilla leggeva al poeta libri e giornali; e Matilde n'era furiosa. Mouche sopportava gli sgarbi e i dispetti, e, dopo un freddo buon giorno, non le rivolgeva più la parola, fingendo di non curarsi di lei.[141]


La storia di Camilla Selden faceva orrore anche a Cristina Belgiojoso. Maritata a un francese, questi le divorò tutta la fortuna, e, peggio, pensò di disfarsi di lei nel modo più scellerato. Col pretesto che la conduceva a visitare alcuni amici, la portò un giorno in un villino incantevole in Inghilterra: la lasciò in quel giardino, e disparve. L'infelice signora, rimasta sola, guardò in giro, e s'accorse che si trovava in un manicomio!... Lo spavento della poveretta fu tale che le restò la lingua paralizzata: per lungo tempo non potè pronunciare una sola parola. I medici del manicomio, accorgendosi che non si trattava d'una demente, e che il marito avea loro presentato certificati medici falsi sui supposti delirii della poveretta, la lasciarono andar via libera. Camilla Seiden ritornò allora a Parigi, in miseria. Riacquistò a poco a poco la favella, e, per guadagnarsi un pane, dovette dar lezioni di tedesco. E, così, leggeva in tedesco a Enrico Heine; il quale riudiva alla fine sulle care labbra gli accenti della patria flagellata, schernita, vituperata [359] da lui, ma non del tutto cancellata dal suo cuore.

Camilla compose un volume di deliziosi Portraits de femmes. Fra essi, brilla il capitolo “Une patriote italienne„, caldo di simpatia per gl'italiani, de' quali la leggiadra profilista narra tratti sublimi del tutto ignorati. Quella “patriota italiana„ non è, peraltro, la Belgiojoso, come fu scritto: è la graziosissima marchesa Tanari, madre della contessa Malvezzi, che a Bologna tenne un salotto d'uomini illustri. Camilla Selden è autrice d'un altro bel volume, L'esprit des femmes de notre temps, apparso alla luce nel 1865 a Parigi. Sono altri ritratti di donne celebri, che la Belgiojoso, così lenta ad ammirare, ammirava.


Nel 6 febbrajo del 1853, era scoppiato a Milano, e finito in brev'ora nel sangue, un miserando tentativo d'insurrezione contro il dominio austriaco; ultimo tentativo, ultimo errore di Giuseppe Mazzini; il quale, nel suo eterno sogno di poeta assorto, avea sperato nella rinnovazione dei miracoli delle Cinque Giornate, non pensando che i miracoli non si possono ottenere quando si vuole. L'Austria, inferocita, eresse i patiboli, gettò Milano nel terrore, in uno squallore di morte; e sequestrò allora tutt'i beni dei profughi; sequestrò quindi di nuovo la fortuna della Belgiojoso. La principessa della Rocca, nata Embden, nei Ricordi della vita intima di Enrico Heine, rammentati altrove in questo libro, afferma che il celebre poeta, suo zio, tanto s'adoperò presso i potenti [360] a favore di Cristina Belgiojoso che l'Austria le tolse alla fine il sequestro, e scrive di lui: “Ses démarches n'eurent, d'abord, aucun résultat; mais il y mit tant d'insistance, que son amitié finit par l'emporter: la princesse put enfin, après deux ans, revoir sa chère Italie et rentrer dans la possession de ses biens.„ — Ciò non è vero. Il sequestro fu tolto, ma non per l'intercessione di Enrico Heine; fu tolto, insieme con tutti gli altri sequestri di beni, quando al gabinetto di Vienna parve prudente abbandonare alla fine la politica dei rancori, delle vendette, per una politica di conciliazione. Le fortune dei profughi lombardi vennero sequestrate col proclama del 18 febbrajo 1853: i sequestri furono levati il 2 dicembre del 1856, quando Enrico Heine era sepolto da ben dieci mesi: il poeta morì infatti a Parigi nel 17 febbrajo di quell'anno.


Stanca della vita turbinosa, la principessa aspirava alla pace della famiglia. Il suo affetto di madre primeggiava ormai sugli entusiasmi patriottici; e ad esso sacrificava le compiacenze tutte della vita mondana. Al fratellastro, marchese Alberto Visconti d'Aragona, ella scriveva con un accento che le usciva dal cuore:

“Quando si hanno dispiaceri grossi come i miei, si sente un gran bisogno di stare attaccati alle affezioni della infanzia, che sono le più fidate di tutte, e i legami del sangue, che non si possono rompere in nessun modo, sembrano il più sicuro appoggio. Felice poi chi trova riuniti nei parenti e gli amici e le anime diritte, e [361] i cuori sinceri e affettuosi. Vi sono dei momenti, nei quali penso ad Oleggio Castello come ad un porto ben riparato dalle tempeste.„

E ad Oleggio Castello, terra viscontea, dove il marchese Alberto teneva una villa dal bel giardino, ella fece (e come volentieri!) ritorno. Da quanti anni ella non vedeva il Lago Maggiore, il grandioso lago lombardo che, nei giorni d'azzurro e di sole, spiega così festoso sorriso! Da quanto tempo ella non saliva dal Lago Maggiore su su nella piccola, ridente Oleggio Castello, per quella via alpestre, oggi diventata via regale, in mezzo ai clivi pampinosi, in un continuo svolgersi di panorami radianti!... Ed ecco, alla fine, la villa, dove fanciulla sfogliava avida i libri della biblioteca, dove guardava le antiche incisioni appese alla parete e i ritratti anneriti degli antenati, guerrieri, magistrati, vescovi, monaci, usurpatori, oppressori, nati al comando e alla potenza, e le arcavole dai volti pensosi, circondati da cuffie di trine che pajono diademi!... Su su, presso la chiesetta parrocchiale dal pronao snello elegante, si stende nella gran pace, nel silenzio solenne, un altipiano verde al sole come smeraldo e, giù, la vallata frondosa percorsa dalle argentee acque della Vèvera che sembra raccontare garrule, interminabili leggende, come una vecchietta insonne che vuol divertire i nipotini; e, in fondo, le prealpi ondulate, dalle tinte azzurrastre, tappezzate da lembi di verde-scuro sfumato; e, su quella altura, dominante la catena delle Alpi, e, sovrano, gigantesco col suo mantello eterno di nevi, il Monte Rosa, che all'aurora [362] s'invermiglia come un'enorme rosa fiammante e al tramonto si profila austero come un monumento misterioso sull'incendio del cielo — del cielo glorioso di nuvole d'oro e di viola, mentre la campana della pieve saluta timidamente, come umile creatura, tanta maestà di fulgori e di penombre e d'ombre, che rapide invadono l'ampia vallea, e le montagne, e la prateria, l'immenso.

La principessa, ritornando a Oleggio Castello, ristava sulla spianata davanti al Monte Rosa; e cercava i noti sentieri, e riviveva l'infanzia, ormai lontana; la riviveva dopo tante vicende con un senso profondo, quasi religioso, di pace, osservando quegli alberi annosi, quei sedili di pietra, quella chiesetta, tutte le minime cose, che assumono, in quei momenti dell'anima, un linguaggio sì mestamente poetico, e caro anche se è doloroso.

E la principessa saliva co' suoi congiunti, su su, per una via mulattiera, fra montagne, al castello di Massìno, culla dei Visconti: un castello a torri quadrate, dal cortile coi muri coperti d'edera errante: le sale ampie, col ritratto di Giovanni Maria Visconti, dal mento rotondo e forte, — tipo neroniano, — col ritratto di Francesco Maria Visconti.... Nella scura chiesetta vicina, tre tombe viscontee.... Tutto insieme, un vero nido di falchi; e i falchi viscontei un dì piombarono audaci sul Lago Maggiore e tutt'intorno, e regnarono temuti su Milano. Da quelle aspre torri minacciose, lo sguardo spazia in un dolce spettacolo infinito di acque, di luce, di alture, di [363] coltivazioni ridenti. Si vede stendersi, a' piedi, il Lago Maggiore come uno specchio, e poi altri laghi, e paeselli, e ville, che punteggiano le praterie verdeggianti e i colli d'opale lontani.

Quale conforto a Cristina questa bella scena della sua bellissima Italia, accanto ai congiunti che finalmente rivedeva, e che amava!

Che cosa importava alla principessa se, a Parigi, si mormorava ancora di lei?... Che cosa le importava, ad esempio, l'inimicizia, la maldicenza d'un sommo: Balzac?

Il celebre romanziere scriveva così da Parigi, sin dal 1838, alla sua Hanska, ch'era in Russia:

“La princesse Belgioioso est une femme fort en dehors des autres femmes; peu attrayante selon moi; pâle, blanc d'Italie; maigre et jouant le vampire. Elle a le bonheur de me déplaire, bien qu'elle ait de l'esprit, mais elle le montre trop; elle veut trop faire d'effet, et manque son but en le visant avec trop de soin et d'application. Je l'avais vue, il a cinq ans, chez Gérard; mais, depuis, elle a retrouvé, par l'influence des Affaires étrangères, sa grande fortune, qui lui permet de recevoir conformément à sa position. Sa maison est bien tenue, on y fait de l'esprit. J'y suis allé deux samedis, j'y ai diné une fois: ce sera tout„.[142]

Addio, addio, ombre piccole, impure! Colei, che non aveva mai arrossito alle impurità, si purifica ora fra gli affetti famigliari, al profumo delle zolle native.

[364]

XIX. I salotti di Torino. — Alla vigilia della guerra del 1859.

Il salotto Rorà a Torino. — Il salotto Alfieri. — Il salotto della baronessa Olimpia Savio. — Carattere della società torinese. — Incontro della principessa Belgiojoso con Camillo Cavour nel salotto di Giulia Rorà. — Cavour e l'arciduca Massimiliano d'Austria. — I salotti di Clara Maffei e di don Carlo D'Adda a Milano. — Giuseppe Mazzini viene incognito a Milano. — Sue mire. — L'Histoire de la Maison de Savoie scritta dalla Belgiojoso. — La Principessa recita con Ippolito Nievo. — Una memoranda sera al teatro alla Scala. Gli ufficiali austriaci.

Virginia Visconti d'Aragona, risplendente d'una bellezza serbatasi sino agli ultimi suoi giorni, avea sposato il marchese Bonifazio Dal Pozzo, un gentiluomo dell'antica razza piemontese; era sorellastra di Cristina Belgiojoso e madre della gentil contessa Vittoria Tornaforte e del marchese Claudio Dal Pozzo. Grande artista nell'anima, raffinatissimo nei gusti, il marchese Claudio trasformò la propria antica villa d'Oleggio Castello in una dimora regale, in mezzo a un parco sterminato, che declina verso il Lago Maggiore; e aprì a favore del pubblico una lunga via maestosa che conduce ad Oleggio Castello.

L'altra sorellastra di Cristina Belgiojoso, la più [365] giovane, la più bella, Giulia, sposò il marchese Emanuele de Rorà, capo d'un'antica famiglia piemontese, il quale, alleatosi alle idee del conte di Cavour, accettò il posto di governatore di Ravenna e, più tardi, quello di sindaco di Torino. Il marchese de Rorà s'innamorò di Giulia, vedendola una sera nel teatro alla Scala di Milano.

A Torino, il salotto della marchesa Alfieri e quello della marchesa Rorà erano i centri più frequentati da uomini politici e diplomatici, con Camillo Cavour a capo. La marchesa Alfieri, nipote del grande ministro, ne portava con signorile onore l'inclito nome. Ragguardevole era anche il salotto della baronessa Olimpia Savio (madre dei due valorosi Emilio ed Alfredo Savio entrambi morti nelle guerre dell'indipendenza e cantati sì mestamente da Elisabetta Browning nel canto Mother and Poet, madre e poetessa): il salotto della Savio era alquanto riservato, e non solo patriottico, ma anche letterario, illuminato dalla gloria di Giovanni Prati, che lo frequentava. Olimpia Savio, bella gentildonna dai ricchi riccioli pioventi, e che, vecchia, vidi inondare di lagrime disperate un sasso, ch'ella serbava come santa reliquia (sasso colorato del sangue prezioso d'uno de' suoi figli caduto in battaglia) era gentil poetessa, degna madre dell'ardente, soave e indimenticabile baronessa Adele, che inspirò sì gentile passione al duca di Castromediano; il bel duca bianco, martire delle galere borboniche, morto indegnamente negletto dalla patria, e del quale parla anche Paolo Bourget nelle Sensations d'Italie.

[366]

La società aristocratica torinese serbava forme più rigide che quella di Milano. Massimo D'Azeglio ritrae ne' Miei Ricordi (con un'evidenza degna del Molière e del Goldoni) un dialogo della società patrizia torinese più severa: dialogo ch'è la biografia di quel vecchio mondo, orribilmente scandalezzato all'annuncio che lui, un marchese d'Azeglio, s'era messo a fare il pittore!...

La società torinese vivea divisa nel vecchio partito legittimista, ostilissimo alle idee liberali di Camillo Cavour. La marchesa d'Arvillars, la marchesa di Cortens, e la contessa di Robilant (madre del mutilato di Novara, ministro del regno d'Italia) primeggiavano in quella rocca feudale, che non mancava di certa grandezza. A Torino, si notava anche un'aristocrazia nemica dei Lombardi; ma non era, forse, la più intelligente. Il partito dominatore era quello degli uomini politici e militari, direttori della pubblica cosa.

Alcune dame francesi avean fissata dimora a Torino per le nozze contratte. La baronessa di Villanova nata de Coriolis, la contessa Berton de Sambuy nata de Chabrol, brillavano nella prima schiera. La marchesa Ternengo era “la plus charmante et la plus blonde des veuves„ ricorda un diplomatico francese; il quale racconta che la marchesa d'Aglié, nata Boyl, e le contesse Mestiatis e de Cardenas allestivano rappresentazioni da salon, delle quali i proverbii di Alfredo de Musset facevan le spese.[143]

[367]

Nel salotto della marchesa de Rorà, potevano penetrare soltanto le signore d'una nobiltà autentica: ma vi andavano anche signori non nati nobili, purchè celebri per valore militare o per ingegno.

La principessa Cristina Belgiojoso alloggiava più volte presso la brillante sorella Giulia e si trovava con Camillo Cavour, col generale Lamarmora, con tutta una corona di grandi, ai quali dobbiamo, in buona parte, la nostra indipendenza. E fu là, al raggio di Camillo Cavour (ch'ella avea conosciuto e ricevuto nel proprio celebre salotto di Parigi), fu là, nelle sale della sorella Giulia, che Cristina Belgiojoso s'accese di nuove simpatie per Casa Savoja. L'infelice Carlo Alberto era tristemente sparito dalla scena d'Europa, in esilio, lasciando il trono a Vittorio Emanuele II; leale figura di soldato, di re, e accortissimo diplomatico, circondato da uomini di singolar valore, saldissime tempre, maschie figure devote al dovere, al sacrificio.

La principessa Cristina non bramava altro che la libertà, l'indipendenza d'Italia, poco o nulla importandole che si conseguisse (finalmente!) con questo o con quel partito, con questi uomini o con quelli. Era stata mazziniana, quando tutt'i liberali della prim'ora confidavano nel Mazzini: divenne monarchica e sabauda, quando molti con lei fidavano in Carlo Alberto; ridivenne mazziniana quando vide Carlo Alberto debole e irresoluto, e il Mazzini a capo d'una repubblica romana bene o male costituita; e tornò ad abbandonare il Mazzini quando scorse il [368] nuovo funesto errore della tentata insurrezione del 6 febbrajo 1853 a Milano, per tornare di nuovo monarchica e sabauda, al cospetto di un gran re, Vittorio Emanuele II, e d'un grande ministro, Camillo Cavour. Monarchica, sabauda; ma italiana sempre!

La principessa Cristina teneva frequenti colloquii con Camillo Cavour sulle condizioni politiche della Lombardia, che, specialmente dopo il 1853 impegnavano quasi tutto il pensiero e l'attività dell'insigne ministro. Li teneva, nelle prime ore del mattino in casa Rorà, o nella villa di Campiglione presso Pinerolo, villa sontuosa dei Rorà. Camillo Cavour voleva essere informato di tutto; e nulla gli sfuggiva.

La Lombardia passava, allora, un momento assai pericoloso. Dopo il tragico tafferuglio mazziniano del 6 febbrajo, eran successe le vendette austriache. Il più stretto e più insensato stato d'assedio venne inflitto alla città, con obblighi odiosi e stolti imposti a intere classi della cittadinanza, come quello fatto ai proprietarii di tenere accesi tutta la notte i lumi alle finestre delle loro case, temendo che, in una nuova insurrezione, venissero dagl'insorti spenti i fanali per lavorare di coltello con più agio nelle tenebre.... E impiccagioni, senza processi, nel castello; e, poichè vennero a mancare le corde, fucilazioni, e anche d'innocenti! Sequestrati tutt'i beni dei profughi; e i nefandi processi di Mantova; e là altre forche! Rigurgitavano d'intemerati patrioti le carceri e le fortezze dell'impero. Spie dappertutto: agguati, sospetti, spade, fucili, [369] polveri, cannoni, odii, vendette dappertutto: il regno del terrore.

E, dopo, d'improvviso, gran mutamento di scena. Amnistia, perdoni; tolti i sequestri; promesse di miglioramenti nelle amministrazioni; e mani austriache tese per stringere quelle degli italiani. Ma le destre degl'italiani stringevano invece il fucile per combattere un'altra guerra, la decisiva guerra dell'indipendenza.

Il governo di Vienna ebbe un'idea abilissima. Mandò nel regno Lombardo-Veneto il giovane arciduca Massimiliano per conciliare gli animi. E il seducente principe d'Absburgo, entrato in Milano colla giovane, bella sposa, Carlotta del Belgio, si gettò subito a una vasta opera di pacificazione, di concordia, di affetto tardivo.... ahimè quanto tardivo!... Si desidera sapere fino a qual punto arrivò l'intelligente e geniale generosità dell'arciduca Massimiliano, che doveva finire poi così lugubremente sotto il piombo messicano?... Nella loggia del Palazzo ducale a Venezia, si stavano collocando i busti dei veneziani più illustri; e Massimiliano d'Austria fece erigervi il busto del doge Andrea Gritti, che avea tanto combattuto un altro Massimiliano d'Austria, l'imperatore Massimiliano I, promotore della famosa Lega di Cambrai contro la Repubblica di Venezia! Il busto del doge Andrea Gritti (opera dello scultore Luigi Borro), reca quest'epigrafe dettata dallo stesso arciduca Massimiliano: “ANDREA GRITTI — PROVVEDITORE POI DOGE — SCIOLSE LE SPIRE DELLA LEGA MACCHINATA IN [370] CAMBRAI. — MASSIMILIANO I RESPINSE — E DA UN DISCENDENTE DELL'OSTEGGIATO MONARCA — EBBE QUI ONORE D'IMMAGINE — NATO NEL 1454, MORTO NEL 1538 — DALL'ARCIDUCA FERDINANDO MASSIMILIANO D'AUSTRIA.„ — Si poteva immaginare tratto più cavalleresco e più simpatico?... Come resistere a omaggi tanto amabili resi ai nostri grandi?... Eppure, tranne rare eccezioni di alcuni, che troppo amaramente scontarono le proprie illusioni, i Lombardi e i Veneti (gloria a loro!) seppero resistere.

Camillo Cavour aveva ben ragione di temere di quest'uomo, che, come Alessandro Manzoni diceva di Massimo d'Azeglio, era “nato seducente.„ Tanto più ne temeva, poichè allora, proprio allora, il grande ministro apriva trattative con Napoleone III per un ajuto delle armi francesi alle armi del Piemonte, affine di espellere una buona volta, e per sempre, gli stranieri dalla terra lombarda e dalla Venezia.

Da Torino, Camillo Cavour mandava consigli, ch'eran ordini, a Milano, perchè i Lombardo-Veneti non solo resistessero a tutte le belle lusinghe arciducali, ma rispondessero con atti ostili ai sorrisi di benevolenza e d'amicizia. Egli voleva a tutt'i costi infrangere il sogno, che l'arciduca Massimiliano idoleggiava: quello di fondare un regno lombardo-veneto, protetto dalle ali dell'aquila d'Absburgo, ma autonomo, con ministri proprii, con amministrazione propria, circoscritta nei confini della Lombardia e del Veneto. Il conte di Cavour cominciò col mandare da Torino a Milano, Emilio Dandolo, il fratello [371] d'Enrico, morto ventenne all'assedio di Roma, e anch'esso combattente in quella lotta sanguinosa. Camillo Cavour parlò a Emilio Dandolo così: “Dite ai vostri amici che facciano mettere di nuovo Milano in stato d'assedio! Tirate delle sassate alle sentinelle, scrivete su tutt'i muri: Viva l'Italia!„ E, subito dopo, il conte di Cavour inviò a Milano un altro patriota, il conte Cesare Giulini Della Porta, uomo di forte senno politico, e ascoltatissimo, collo stesso mandato: “Fate mettere Milano in stato d'assedio!„ Lo scopo del Cavour era semplicissimo: far vedere all'Europa che l'Austria era un elemento di disordine in Italia, e che doveva perciò esserne espulsa.

Quello fu un momento storico, vitalissimo per l'Italia; e il salotto della contessa Clara Maffei, guidato dall'imperturbabile Carlo Tenca, direttore del Crepuscolo, illustrato da Emilio Visconti-Venosta, da Cesare Giulini, da Tullo Massarani, da Antonio Lazzati, da Giuseppe Finzi.... quel salotto, focolare d'agitazione, oppose all'arciduca d'Austria la resistenza più tenace, più inesorabile: diffondeva la “parola d'ordine„ nella città, nella provincia, e, mercè Giovanni Visconti-Venosta (fratello d'Emilio) e d'altri animosi, organizzava con audacie incredibili l'emigrazione dei giovani delle città e delle campagne; — incessante, grandiosa emigrazione nel Piemonte; avvenimento, voluto anche questo da Camillo Cavour; il quale sperava di porgere nuovo incentivo all'Austria perchè essa, per la prima, dichiarasse guerra al Piemonte, sembrando [372] così, agli occhi dell'Europa, la vera provocatrice.[144]

E intanto avveniva un fatto glorioso, che la storia della civiltà scrive a caratteri d'oro: Camillo Cavour e Napoleone III fondavano, d'accordo, un nuovo diritto pubblico d'Europa: il diritto della nazionalità. Fin dal 16 novembre del 1848, lo statista piemontese lanciava sul Risorgimento, l'animoso giornale di Torino, sacrosante parole che fanno pensare ai bei versi dell'Aleardi:

Iddio con immortali

Caratteri di monti e di marine

Ha segnate le patrie.

“La natura (scriveva il Cavour) ha voluto che le nazioni conservino le loro autorità speciali, che rispettino a vicenda i confini, le abitudini, le lingue, che si amino e non si fondano, che vivano ciascuna da sè e non sieno violentemente accozzate e asservite. Napoleone, il gran maestro di mezzi energici, credette che con eguale facilità si potesse vincere una battaglia sul ponte di Lodi e cancellare una legge della natura. Tutto gli arride un momento, e tutto si piega davanti a lui. Distrugge i troni nemici e dispensa novelle corone, calpesta le masse, ride de' sapienti, forza a suo modo fino il commercio e l'industria; ma nel momento in cui pare vicino a stringere nel suo pugno la monarchia [373] universale, una manovra sbagliata sul campo di Waterloo sopravviene a scoprire che tante fortune non erano se non lo splendore di una meteora, trascorsa la quale doveva apparire la verità semplice e nuda quanto l'isola di Sant'Elena.„


Ma non solo il salotto Maffei: un altro salotto milanese, quello di don Carlo d'Adda, l'incrollabile sabaudo, spiegava la politica della resistenza.

Il padre di Carlo d'Adda era uno dei tanti figli di Febo d'Adda, al quale Giuseppe Parini consacrò l'ode Alla Musa. Devotissimo all'Austria, avea sposata la figlia d'un eccelso personaggio austriaco. Ma, non ostante l'educazione imperiale, Carlo d'Adda seguì le tradizioni del patriziato liberale lombardo, onorato da un Federico Confalonieri e dagli altri patrizii del Conciliatore. Alto, magro, come Massimo d'Azeglio, risoluto come l'autore d'Ettore Fieramosca, Carlo d'Adda diceva ciò che avea nel cuore: pensava ad alta voce. In Carlo Alberto, egli tenne fede, anche allora che questo “Amleto dell'indipendenza„ come per primo lo definì il Mazzini, ondeggiava in un nuovo cupo monologo d'“essere o non essere„. Immaginarsi con quanto ardore Carlo d'Adda si pose all'opera allorchè dal figlio di Carlo Alberto e da Camillo Cavour trasse sicuri affidamenti per la liberazione d'Italia! Come nel salotto Maffei, si raccoglieva l'alta borghesia e parte dell'aristocrazia lombarda intorno al Tenca e alla contessa Clara; così, nel [374] salotto d'Adda, in via del Giardino (ora via Alessandro Manzoni) si raccoglieva quasi la stessa società, intorno a don Carlo d'Adda e a donna Mariquita d'Adda, figlia del principe Pio Falcò, spagnuola di nascita, rara bellezza, dai bruni capelli opulenti. Il salotto d'Adda non contava i martiri del salotto Maffei; ma era quello che respingeva inesorabile gl'inviti alle feste di Corte che, con grazia, inviava a quei cavalieri e a quelle dame l'arciduca Massimiliano. Nel salotto Maffei, si cospirava più pensosi che ridenti: nel salotto d'Adda, si cospirava fra le celie di buon genere. Nei bellissimi occhi della piccola, esile contessa Clara Maffei, lampeggiava il fuoco del patriottismo a tutta prova; ma quegli sguardi si velavano anche spesso di lacrime al pensiero dei cari amici incarcerati nelle fortezze dell'Impero austriaco: ella sentiva tutt'i dolori degli altri, e soffriva ancor più se non poteva consolarli. Donna Mariquita d'Adda, al pari del marito Carlo, respingeva le tristezze, e brillava per lo spirito caustico che passava la pelle: una vera Clorinda delle facezie originali e pungenti, ch'ella lanciava, come dardi, contro i nobili irresoluti, contro coloro che ondeggiavano fra la volontà del Cavour e le lusinghe di Massimiliano. Nella sala di casa d'Adda (sala rossa, il cui color fiammante si confondeva col colore della perla) si riunivano anche parecchi eminenti patriotti del salotto Maffei, Emilio e Giovanni Visconti-Venosta, Cesare Giulini, Ruggero Bonghi, Emilio Dandolo; i quali si scambiavano la parola d'ordine con Carlo d'Adda, col marchese Carlo [375] Ermes Visconti. — Alberto Visconti d'Aragona e i Trivulzio, i Trotti, i Litta, i Somaglia, i Resta.... tessevano concordi con essi una vasta, fitta rete di cospirazione, della quale ogni filo era pensato, coordinato, diretto a uno scopo ben preciso. E quali somme si versavano per ajutare l'emigrazione, che crebbe come le onde d'un torrente e divenne un fiume! I giovani della miglior società diedero il buon esempio, e partirono, pronti alla guerra.

Ma, anche in quest'opera abilmente politica e necessaria, Giuseppe Mazzini intervenne per iscompigliare le fila di Camillo Cavour. L'agitatore disapprovava l'emigrazione e voleva fermarla per non privare (egli andava dicendo a Benedetto Cairoli e ad altri fidi) la Lombardia di giovani braccia, atte a una nuova rivolta!... Non era dunque ammaestrato abbastanza da tanti disgraziati, lagrimevoli suoi tentativi?... Pur troppo, non s'accorgeva delle verità che gli andava ricantando Gustavo Modena, così devoto a lui, ma così sincero!... Volendo alludere a tutt'i tentativi infelici, a tutt'i funesti errori mazziniani, il sommo attore definiva l'agitatore ligure con una delle sue solite beffarde parole: lo chiamava pesta-l'-acqua.

Intanto il Mazzini volle penetrare, sotto mentite spoglie, a Milano per impedire qui, sul posto, l'emigrazione in Piemonte di Casa Savoja. La polizia austriaca seppe subito della venuta dell'agitatore; ma non fu capace di scoprire dove ei si fosse annidato. E come potea, essa, infatti, sognarsi che il temuto rivoluzionario se ne stava [376] a Milano, protetto da un impiegato della stessa polizia?... Il Mazzini alloggiava, infatti, in via Lanzone, in casa del commissario di polizia Zanetti, occulto amico dei nostri.

Quel grande, sventurato idealista, s'accorse alla fine che, contro l'opera pratica di un Cavour, contro l'emigrazione crescente nulla poteva; e disparve.


La principessa Cristina Belgiojoso, riacquistati gli averi, partecipò largamente, come l'usato, al nuovo contributo patriotico. Tornata a Milano, preferì d'abitare in mezzo a' suoi contadini di Locate, operando anch'ella per raggiungere al più presto gli scopi di Camillo Cavour. D'intesa col grande ministro (che il vecchio principe di Metternich dal suo triste, silenzioso ritiro definiva il “solo diplomatico d'Europa„) la principessa Belgiojoso cominciò a scrivere, allora, in francese, una storia di Casa di Savoja, coll'intento di rendere simpatica questa dinastia alla corte di Napoleone III e alla Francia stessa, dove la causa italiana, tranne l'imperatore e pochi altri, non risvegliava certo, allora, ardori eccessivi....

Il libro non potè uscire che nel 1860.[145] L'autrice dichiara subito, nella prefazione, d'avere scritto questa storia collo scopo di sostenere il proprio partito monarchico, e che non ebbe tempo di cercare nuove fonti storiche, nuovi [377] fatti, nuove circostanze: si accontenta di riferire soltanto ciò che ha trovato in altri autori. Nella Casa di Savoja, ella scorge una protetta del Cielo; una dinastia prescelta dalla Provvidenza per compiere un supremo disegno di giustizia.

Un critico italiano, che all'erudizione accoppiava la clemenza dei giudizii e la genialità dello stile, Eugenio Camerini, profuse fiori di lodi sull'Histoire de la Maison de Savoie della Belgiojoso:

“La principessa si lascia andare alla corrente dei fatti, e così i politici come i militari le vengono descritti con evidenza e rara efficacia. Ai momenti solenni in cui l'italianità dei fini di Casa Savoia emerge più chiara, ella li nota, tornando tosto all'incanto delle sue narrazioni, che ci rinnovano una storia cento volte detta. Un arguto scrittore, che tiene del Carlyle (Carlyle un poco annacquato), ha preso lo stesso assunto che la principessa, e si fece lodare poco in Inghilterra e nulla in Italia. Egli non ha saputo vedere e rendere il drammatico dei fatti, nè ha penetrato molto a fondo le loro ragioni. Clorinda ha vinto Tancredi. Ma in questa donna si accoppiano con mirabil tempre l'affetto, l'immaginazione e la perspicacia. La Principessa ha il dono del raccontare. Ella, come la Gloricia ariostesca, disegna in terra una nave, e la fa levare, nella più splendida pompa e gloria a' suoi incanti.„[146]

E mentre di nuovo cospirava, mentre scrivea l'Histoire de la Maison de Savoie, Cristina Belgiojoso, per rallegrare i mesti tempi, allestiva nel teatrino della propria villa di Locate spettacoli di commedia, ai quali invitava giovani dame e cavalieri della società milanese. Recitava [378] ella stessa, col poeta Ippolito Nievo!... L'autore di racconti campestri ritratti dal vero, il più genuino dei manzoniani col romanzo ciclico Le Confessioni d'un ottuagenario portava riverente ammirazione alla grande patriota; le era amico. Il Nievo s'arruolò poi con Garibaldi e combattè coll'eroe sui colli lombardi; fu uno dei Mille, e, a soli ventinove anni, sparì, naufrago, nelle profondità del Tirreno. Burbero il suo aspetto, burbere le sue parole, burberi i suoi modi; ma l'animo suo, sotto la rude scorza, chiudeva tesori di affetti e di delicatezza. È curioso conoscere (non è vero?) un Ippolito Nievo attore-dilettante alla vigilia della mitraglia, dell'olocausto!... La principessa gli affidò la parte del protagonista nel Sior Todaro brontolon, del Goldoni; parte che si adattava bene al Nievo; se non che, questi, altissimo, toccava col capo il soffitto del teatrino di Locate: un brontolon lunghissimo; ma il solo che, come padovano, pronunciasse a dovere il dialogo di papà Goldoni.


Oh, ma non commedie bensì tragedie, sanguinose tragedie erano ormai imminenti sui campi lombardi!... Tutta l'aria fremeva di guerra. L'arciduca Massimiliano partì colla sposa, richiamato a Vienna dalla Corte, che, stretta ai vecchi diritti della corona, e gelosa, temeva che Massimiliano raggiungesse il suo scopo, non più segreto, di costituire un Regno Lombardo-Veneto, ponendosi egli a capo, egli re!... E quello fu un bel momento d'esultanza per Camillo Cavour! Il grande ministro del Piemonte diede una gran [379] rifiatata; e rise ben di cuore al nuovo errore grossolano, commesso dalla diplomazia di Vienna. Ritirare un principe di generosi ideali, che avea già pensato a un ministero d'italiani, a una Gazzetta italiana e che, col tempo, avrebbe forse vinto molte ostilità!... Quale sbaglio politico per l'Austria! e quale fortuna per l'Italia! E il Cavour trascinava intanto Napoleone III alla guerra dell'indipendenza italiana!...


Una memoranda sera avemmo nel teatro alla Scala. Si rappresentava Norma del Bellini. E Guerra! Guerra! si canta nel magnifico coro fremebondo. E Guerra! Guerra! urlano tutt'i nostri nella platea, nei palchi, alzando e agitando minacciose le braccia verso la loggia di proscenio, a destra, dove sta seduto il generale austriaco Gyulai; il qual Gyulai di scatto balza in piedi, e, pestando la sciabola contro il pavimento, urla anch'esso, inferocito, Guerra! guerra! — e tutti insieme scattano in piedi gli ufficiali austriaci dalle bianche tuniche, che, per vecchio uso, occupano serrati le due prime file di poltrone nella platea; e battono anch'essi furiosi le punte delle sciabole contro il suolo, gridando unanimi Guerra!... Ed è un fragore, un uragano di urli, di trombe, di colpi di tamburi, un inferno; e Guerra! Guerra! si ripete ancora da tutti. Sì: guerra!... Ecco Magenta!

[380]

XX. Dopo la battaglia di Magenta.

Particolari della battaglia di Magenta. — La liberazione di Milano. — Memorabile serata nel teatro alla Scala. — Battaglie di Melegnano, di San Martino e Solferino. — I feriti accolti nelle famiglie. — Carme d'un soldato francese. — Carmi di una poetessa inglese. — Camillo Cavour in casa della Belgiojoso. — Massimo d'Azeglio governatore di Milano. — L'Italie, giornale politico, fondato dalla Principessa. — Altre pubblicazioni politiche di lei. — La visione dell'Italia futura.

Una battaglia orrenda; una strage, il cui pensiero fa fremere.... Uno sterminio; e ai feriti mancavano i soccorsi. Non vi erano ambulanze; la Croce Rossa non era spuntata ancora; e nulla la suppliva in quella Magenta, oscuro villaggio lombardo, divenuto d'improvviso famoso sulla terra per la vittoria di Napoleone III, di Mac-Mahon, de' suoi soldati, per l'ajuto possente del nostro Manfredo Fanti, liberatori di Milano!...

Il 4 giugno 1859! Giorno di lacrime in mille e mille famiglie dell'Impero austriaco e della Francia; giorno di ebbrezza pei Lombardi.

Napoleone III avea fissato quel giorno per impadronirsi della riva sinistra del Ticino.... Dov'è [381] il secondo corpo d'esercito di Mac-Mahon?... Seguito dall'esercito di Vittorio Emanuele II, deve portarsi a Turbigo sopra Boffalora e Magenta; mentre la divisione dei granatieri della guardia deve occupare la testa del Ponte San Martino e il terzo corpo d'esercito, quello del maresciallo Canrobert (magnifico tipo di soldato), deve avanzarsi sulla riva destra per passare il Ticino nello stesso punto. Questi forti, votati al cimento, son pronti; son pronti i soldati francesi allo squillar delle trombe, al rullar dei tamburi: e lampeggiano le sciabole brandite e i fucili, all'aurora che sorge placida e maestosa, quasi benedizione solenne a tanti sposi della gloria e della morte.

L'imperatore dei Francesi è là, al ponte San Martino, circondato dai granatieri della guardia: egli comanda tutto l'esercito suo, e frena a stento un impeto: è pallido. Pensa ei forse a Napoleone I che, in altre battaglie, si scagliò contro lo stesso nemico?... L'ungherese generale d'artiglieria Gyulai, dal viso di gatto, sembra tranquillo: a lui è affidato dall'imperatore Francesco Giuseppe II il comando di tutte le armi austriache: ed egli spera ben di tagliare l'esercito francese del Ponte San Martino, isolando così tutti i nemici che passeranno il fiume. Ma il generale Regnaud di Saint-Jean d'Agély, comandante in capo della guardia, slancia la brigata Wimpffen contro Boffalora; e tutti i generali che agiscono a' suoi ordini e i soldati si lanciano al conflitto, che non volge loro propizio. Ecco il generale Clerc!... Mentre guida gli zuavi della guardia alla carica sopra Ponte Vecchio, cade ferito a morte; [382] il generale Wimpffen è ferito al volto; il generale di divisione Mellinet ha due cavalli uccisi sotto di sè, ma persiste e sostiene per quattro ore gli attacchi dell'austriaco, finchè arriva il maresciallo Canrobert colla brigata Picard; e giungon, rapide come folgori, le divisioni Vinoy, Renault, Trochu. Il villaggio di Ponte Vecchio è preso e ripreso sette volte. Mac-Mahon, il predestinato della vittoria, s'avanza con le due colonne, ch'ei comanda, da Magenta a Boffalora; ma da questo villaggio del Ticino gli Austriaci, vedendosi incalzati, sono ormai usciti gettandosi quasi tutti su Magenta.

Magenta si tramuta in una fornace di fumo, di schianti, di urli, di fuoco. In varie case, gli Austriaci son penetrati, e dalle finestre, dai tetti si difendono come eroi scaricando i fucili. Ah, i corazzieri moravi, i fanti Paumgartner dalle tuniche bianche ornate di verde! i cacciatori boemi dal cappello piumato e dalla tunica grigia! e i terribili cacciatori tirolesi Kaiser Jäger dall'infallibile Stutzen! Una palla dei tirolesi, trincerati come in un forte nella casa Giacobbe, atterra il generale francese Espinasse, che sta attaccando il villaggio; e una fila di mitraglia ecco fulmina la casa; i tirolesi resistono ancora, ma ne devono uscire; e là, sulla porta, gli zuavi, a uno a uno, li scannano colle bajonette, per vendicare il loro comandante. Ferocie inenarrabili divampan fra i soldati irruenti, selvaggi dell'Africa. È un correre di zuavi dai larghi pantaloni rossi; è un rosseggiar d'Algerini e di sangue. Un torrente di sangue scende dai gradini d'una angusta, [383] rustica scala dove gli Algerini son volati all'assalto; e il generale Auger, comandante l'artiglieria del 2º corpo, fa collocare in batteria sulla strada ferrata quaranta cannoni, che vomitan di fianco e di traverso lo sterminio sugli Austriaci fuggenti: è un tuonare d'inferno, è una strage orrenda e inutile; perchè Mac-Mahon già in pugno stringeva la vittoria e i fuggiaschi si potean rendere facilmente prigionieri!... Ma all'Auger, geloso degli allori di Mac-Mahon, premeva d'acquistare anch'egli la sua corona; ed è corona di barbaro. Già, all'attacco della fattoria di Cascina Nuova, che precede il villaggio, millecinquecento Austriaci, dopo un leonino combattimento d'ambe le parti, avean cedute le armi; e la loro lacera bandiera era stata presa sul cadavere del colonnello.... Squillano ancora le trombe, ancor rullano i tamburi annunciando la vittoria latina. Le tricolori bandiere francesi corrono insieme colle tricolori bandiere italiane; perchè il nono battaglione dei bersaglieri, che forma la testa della divisione Fanti, e quattro pezzi di cannoni nostri, arrivati a Magenta sul tramonto, son tornati d'ajuto possente; onde Mac-Mahon invia dal suo cavallo al nostro Manfredo Fanti (che passa silenzioso) un nobile saluto.

L'imperatore Napoleone III rimane rattristato a tanto olocausto di vite; e sale pensoso su un campanile per esplorare la campagna che deve essere irrigata ben presto da nuovi torrenti di sangue.

A Magenta, e nei dintorni, ben novemilacinquecento [384] caduti seminano dei loro cadaveri il suolo; e Milano riceve dal generoso soccorso delle spade francesi e dal Fanti la luce della libertà sospirata.[147]


Durante la battaglia, i Milanesi avevano udito un rombo lontano.... Alcuni eran saliti sulle guglie del Duomo.... La trepidazione, l'angoscia, agitava tutti.... Sulla sera, un uomo a cavallo comparve a Porta Vercellina, e lanciò a un gruppo di gente che gli corse incontro queste parole: “Gli Austriaci son vinti!...„

Verso le otto della sera, cominciano ad apparire nel sobborgo milanese di San Pietro in Sala i primi carri di feriti; mucchi di Austriaci e di Francesi, convogli che tracciano il loro cammino con strisce di sangue sulla polvere della via. E la processione lugubre dei carri continua e dura tutta la notte nelle tenebre, rotte appena da pochi lumi semispenti, difesi da carte oliate e pendenti [385] dai carri lenti, lenti. E la processione dura tutta la mattina dopo; ed è accompagnata dai gemiti dei feriti, degli amputati. Arrivano pesanti omnibus carichi di feriti; e i soldati meno colpiti vengono a gruppi, o soli, a piedi, colle pallide teste, colle mani, col petto a mala pena fasciati dai contadini: alcuni procedono sorretti dal braccio d'erculei popolani, che sotto la scorza del loro schietto carattere lombardo, celano commozione profonda.

Nei sobborghi e nella città, è una grande compassione, pur in mezzo al giubilo delirante per la vittoria. Molte famiglie accolgono i feriti francesi, e più di qualche sala è tramutata in corsia d'ospedale: i feriti austriaci vengono portati all'Ospedale Maggiore. Duemilaquattrocento feriti!... E, in pochi giorni, arrivano a diecimila: perchè molti sono inviati dalle cascine suburbane dove, sulle prime, son stati accolti alla peggio. Nell'ospedale di Sant'Angelo, i feriti austriaci devono essere portati via dalle stanze dove giacciono i feriti zuavi, perchè questi, di notte, si alzan dal letto e vanno a percoterli. Lungo è l'elenco dei morti, assai lungo!... I soldati morti nell'ospedale di Sant'Angelo, vengon registrati nei volumi della parrocchia di San Marco. Quanti nomi di caduti, francesi ed austriaci! Quanti nomi di lontani, ignoti villaggi dei due vasti imperi in quei funebri registri!... D'un cadavere, nulla si sa: non il nome, non il reggimento, non la nazione. È stato trovato tutto ignudo (il solo così) sul campo di battaglia.

[386]

I soldati austriaci, rimasti a Milano, si schierano in Piazza Castello: in fretta, agglomerano insieme i loro bagagli e fuggono.... È il 5 giugno: data memoranda, che segna la fine di tanti dolori, di lunga schiavitù; e il municipio di Milano, alle ore due pomeridiane di quel giorno stesso, proclama con un manifesto l'annessione della Lombardia al Piemonte. Per l'aria risuonan canti, risa, discorsi concitati di giubilo tra uomini che prima d'allora non si eran mai visti, e diventati amici, fratelli in un lampo. I Milanesi sono tutti sulle strade, come nelle Cinque Giornate; e, nella mattina dell'8 giugno, per il maestoso Arco del Sempione (degno di Roma) e per l'ampio Foro Bonaparte, che ricorda il primo Napoleone, ecco entrano solennemente a Milano, al suon delle campane, fra grida d'entusiasmo indicibile, l'imperatore dei Francesi e re Vittorio Emanuele II a cavallo, seguiti dal secondo corpo d'esercito e preceduti dal distaccamento delle cento guardie e dagli zuavi, la cui musica suona, in cadenza dei passi trionfali, un inno. Vittorio Emanuele II cavalca alla sinistra del formidabile alleato, ed è lieto: Napoleone III è triste in mezzo al trionfo e alle rose che piovono sul suo cavallo. Il vincitore della battaglia, Mac-Mahon, nominato sul campo duca di Magenta (e se avesse perduto sarebbe stato fucilato perchè fece tutto il rovescio degli ordini ricevuti!) è anch'esso coperto di fiori che volan dalle finestre, dai balconi fra grida di Viva l'Italia! Viva la Francia! Appresso a Mac-Mahon, cavalca il generale Mellinet, [387] colui ch'ebbe due cavalli uccisi sotto di lui. Egli reca alle gote la cava traccia d'una palla che a Sebastopoli gliele trapassò da parte a parte....

Ma in quello stesso giorno, gli Austriaci, vinti, si fortificano a Melegnano. E il duca di Magenta vi manda subito, per ordine dell'imperatore, il primo corpo d'esercito, comandato dal maresciallo Baraguey d'Hilliers, quello che non avea avuto l'onore di prender parte alla battaglia di Magenta. E, a Melegnano, ecco un'altra vittoria!


Quale spettacolo al teatro alla Scala nella sera del 10 giugno!... Un ricordo quasi fantastico. Nel palco reale, si presentano Napoleone III e Vittorio Emanuele II, col podestà dalla fascia tricolore, nominato il giorno innanzi, conte Luigi Barbiano di Belgiojoso. Al loro apparire, tutti, tutti nella vasta sala prorompono in un applauso frenetico, interminabile. Le signore, nei palchi, in abbigliamenti di suprema eleganza, risplendenti di giojelli e di sorrisi, tutte in piedi. Le acclamazioni, le grida: Viva la Francia! Viva l'Italia! continuano a lungo, mentre l'orchestra suona la fanfara reale e l'inno imperiale francese. Vittorio gira intorno lo sguardo imperioso e audace, infondendo in chi lo ammira l'impressione del vero re-soldato: Napoleone III, impassibile a tanta festa dei cuori riconoscenti, guarda con occhio velato e obliquo, rivolgendo solo qualche buona parola al nuovo podestà, Luigi Barbiano di Belgiojoso, che, in piedi, sta attendendo gli [388] ordini. Nei palchi, colle nostre dame, si vedono parecchi ufficiali francesi, nuovi alle bellezze italiane.... Chi bada allo spettacolo, ai cantanti dell'opera?... Di tratto in tratto, nel silenzio dell'assemblea, scoppia irrefrenabile, unanime, un grido di gioja.

Una simile festa, nello stesso teatro, dopo una battaglia simile a quella di Magenta, era stata celebrata in mezzo a clamori di gaudio, il 16 giugno 1800, con un altro Napoleone Bonaparte: coll'“inclito eroe e liberatore dell'Italia„ come lo chiamava il Marliani, in un manifesto ai Milanesi. Il nemico sconfitto dalle armi francesi nel 1800 era lo stesso: l'austriaco. La battaglia: Marengo. E Napoleone III, col nobile ajuto prestato agl'Italiani, riparava in parte alle colpe, ai delitti commessi dallo zio verso di noi: dello zio che avea venduto il Veneto all'Austria, che avea sacrificato alle proprie ambizioni sanguinarie, migliaja di giovani vite italiche nella Spagna, fra i ghiacci della Russia, dovunque il despota avea bisogno di “carne da cannone„ onde il lamento e lo sdegno del Leopardi:

Pugnan per altra terra itali acciari!

Napoleone III, presidente della repubblica francese avea fatto spegnere tante nobili giovinezze italiche nella repubblica romana, per ridonare il poter temporale al conte Mastai Ferretti, che nella disgraziata insurrezione di Romagna del 1830 gli avea salvata la vita facendolo fuggire; ma sui campi lombardi, il sovrano francese riparava a quella strage.

[389]

La principessa Cristina Belgiojoso non si trovava nella storica serata della Scala: era ancora a Parigi. Ma ben presto venne a salutare la bandiera italiana nella gioconda, libera Milano sua.

Ell'avea raccomandato, ai congiunti qui rimasti, un ufficiale francese suo amico: il visconte Raimondo de Rivière, capo squadrone nel genio.

“Il solo pensiero che mi amareggia questa guerra (scriveva ella al marchese Alberto suo fratellastro) è il timore che gli accada una disgrazia; e il pensiero di ciò che sarebbe di sua moglie e de' suoi tre bambini, se fosse ad essi tolto. Basta: spero in Dio che ci sarà serbato; e mi conforta il saperlo in parte dove ho parenti, e dove non sarà trattato come straniero!„

Alla principessa premeva di rivedere Napoleone III e di ringraziarlo della promessa di Londra, ora splendidamente mantenuta. Sì, splendidamente, chè, ben presto, un'altra battaglia sanguinosa si combatte dai Francesi e dai nostri a Solferino e a San Martino. Dopo la battaglia, altri settemila dugento feriti arrivano a Milano! La cittadinanza ne è avvertita; e più di trecento carrozze, riccamente allestite, rischiarate da fanali, e alcune condotte da gentiluomini della più antica aristocrazia, stanno alla stazione per raccogliere i feriti e portarli agli ospedali o alle loro proprie case. Una doppia ala, formata da guardie civiche impedisce la ressa, la confusione, protegge il libero cammino degli equipaggi: di questi, molti vanno lenti lenti, per [390] non offendere con brusche scosse i moribondi. Ecco sfilano.... passano.... e la folla prima rumoreggiante, ora tace impietosita.... Le torcie, tenute dalle guardie civiche, rischiarano la tragica scena.


Dopo Solferino, Napoleone III troncò, purtroppo, la guerra dell'indipendenza italiana ch'egli avea solennemente promesso di condurre fino all'Adriatico per liberare Venezia; pur troppo, firmò la pace di Villafranca, che gettò nella desolazione i Veneti e i Lombardi stretti in un solo, forte nodo d'affetto fraterno. Perchè quella pace frettolosa, dopo tanta vittoria?... Ora sappiamo ciò che allora i più ignoravano del tutto: Napoleone III fu costretto a troncare, d'un tratto, la guerra contro l'Austria e rimandar sollecito le truppe in patria perchè i Prussiani, approfittando del momento, minacciavano le frontiere francesi.

Parton da Milano le truppe alleate, e sono affettuosissimi addii!... Interprete del sentimento cittadino, Tullo Massarani scrive in idioma francese un caldo saluto ai partenti su foglietti che vengono distribuiti a migliaja, e accolti con festa. E un povero soldato francese dell'89º reggimento di linea, Emanuele Augusto Roche, manda alla luce un opuscolo poetico: Le passé, le présent et l'avenir, dédié aux Milanais. Non sono precisamente versi sfolgoranti come quelli di Vittor Hugo; ma che importa?... Come vibran d'onor militare! come ardono d'affetto verso l'Italia! Alla povera Venezia, lasciata in catene colla pace di Villafranca, il poeta-soldato esclama commosso:

[391]

La paix de Villefrance a laissé dans les fers

Le Lion de Saint-Marc, cet époux de la mer.

O Venise! Tu pleures et ton indépendance

Et ta splendeur passée! Tes rêves d'espérance

Semblent évanouis! Relève ton courage,

Regarde l'avenir!...

Compte aussi sur les fils de cette noble France!

Tu possèdes déjà tous les vœux de leur cœur![148]

Nobile e caro fratello! O soldato dell'89º reggimento di linea, Emanuele Augusto Roche, non solo combattente per noi, ma anche poeta per noi!... Che ne è avvenuto di te, o gentil valoroso, dopo qual sacro anno di vittorie latine? dopo il 1859?...

Altri canti di muse straniere si elevarono allora per noi, ch'eravamo elemento di generosa commozione nei cuori sublimi. Elisabetta Barrett Browning, la poetessa inglese che chiama Italia “our Italy„ la nostra Italia; colei che pianse in Mother and Poet (Madre e poetessa) i due ricordati figli di Olimpia Savio, ufficiali d'artiglieria, morti l'uno a Gaeta, l'altro ad Ancona, e cantò di loro: “Morti! uno d'essi ucciso presso il mare a oriente — l'altro ucciso all'occidente presso il mare„; quella appassionata, libera Browning, “il cui aureo verso (come disse il Tommaseo) fu anello fra Italia e Inghilterra„; inneggiò a Napoleone III in Italia; fremette in versi di fuoco alle “prime notizie di Villafranca„; e delineò una fulva lombarda, “dama di Corte„ del 1859, al letto dei feriti in un ospedale; innocuo [392] errore, perchè in quell'anno, in quei momenti, non v'eran dame di corte lombarde (nominate dopo); ma è vero (e quanto!) il fondo della lirica, eco del tempo. L'anima di quella dama immaginata dalla Browning rispondeva all'anima delle nostre dame. Eccola in un ospedale (forse nell'Ospedale Maggiore, sì orribile?...); eccola tra i feriti nei giorni della pace di Villafranca:

E andando andando, venne a un letticciolo

Dove pena un garzon, veneto sangue:

Ahi, non dice soltanto il proprio duolo,

Ma il fallir d'una speme il volto esangue!

Stette ella un pezzo, e in lui fiso lo sguardo,

Un nome iva cercando, che non venne:

Se non che il ciglio, men del labbro tardo.

Due gran lagrime amare non rattenne.

Lagrime sole per Venezia? Un detto

Non le uscì, no, ma fremebonda, in fronte

Stampò un bacio piangendo al giovanetto,

Come baciasse del Signor le impronte.[149]

La principessa Cristina accorre da Parigi a Milano, e trova nell'ospedale di Sant'Angelo colui che avea raccomandato con tanto calore ai parenti, il suo amico di vent'anni, il visconte Raimondo de Rivière. Egli è ferito gravemente, per una palla toccata a un ginocchio nella battaglia di Melegnano. I chirurghi temono di doverlo amputare; ma l'operazione, per fortuna, è scongiurata; [393] e l'infermo a poco a poco guarisce, felice di vedersi vicina al proprio letto la principessa, ch'egli avea per tanti anni visitata, e chi sa? forse adorata anch'egli, a Parigi, nel celebre salotto di lei! La principessa gli sorride; lo conforta con parole amorevoli; lo rallegra con celie. La consolatrice non è più seducente come un giorno. Eppure l'incesso della gran dama si serba squisitamente signorile e dignitoso. I grandi occhi lanciano ancor lampi alteri; e le linee del volto, ancor più accentuate che nel passato, dinotano pur sempre la tenacità del volere.

Le feste succedevano intanto alle feste. Frequenti i sontuosi balli in patrizie famiglie. Spettacoli magnifici alla Scala. Enrico Heine non avrebbe trovato nel fulgido teatro neppure uno dei pallidi cospiratori d'un giorno, da lui descritti nei Reisebilder.[150] Tutti sembianti giulivi.... e cuori espansivi! Non più ufficiali austriaci, guardati come irreconciliabili nemici, ma ufficiali italiani, corteggiatori.... e corteggiati.

A tante feste, la Belgiojoso di rado partecipava. Una sera, comparve colla figlia Maria nel salotto affollatissimo della contessa Maffei, in una di quelle elette riunioni, dove la maldicenza era vietata, dove l'ingegno otteneva un culto elevato.... Ivi tornavano molti esuli....

Quando Vittorio Emanuele II, il vincitor di San Martino e di Palestro tornò a Milano e aprì le sale del Palazzo reale a ufficiali feste di ballo, [394] la principessa Belgiojoso, l'illustre patriota, non venne neppur invitata. Fu un errore del cerimoniere di Corte?... Ella ne sorrise; e fu subito compensata della visita che le fece Camillo Cavour nella casa Antona-Traversi (in via del Giardino), dove allora ella avea preso in affitto un appartamento. Invitò ivi a pranzo il Cavour che si mostrò graziosissimo e spiritoso colle signore; fra esse la marchesa Luigia Visconti d'Aragona. Pareva, che l'anima di Cavour brillasse tutta ne' suoi occhiali, tanto impassibile era quel volto; pure, di tratto in tratto, un geniale sorriso si disegnava su quelle sottili labbra come nel ritratto che l'Hayez dipinse e che oggi si ammira nella Galleria municipale d'arte a Milano.

Camillo Cavour disse alla marchesa Luigia Visconti d'Aragona:

— Sa, marchesa? Io ho letto parecchie sue lettere.

— Come, Eccellenza?... Io non ho mai avuto l'onore di scriverne a Vostra Eccellenza.

— Non a me, ma a sua cognata la marchesa Giulia Rorà, di Torino. Quelle sue lettere parlavano della società milanese.

— Mio Dio?... Se avessi saputo che un Camillo Cavour le avrebbe lette, avrei cercato di scriverle un po' meglio....

— M'interessavano molto.

Parlavano, infatti, della società milanese, circuita dalle cortesie dell'arciduca Massimiliano. Nulla sfuggiva al sommo ministro. Anche, a Milano si metteva, prima dell'alba, allo scrittojo e segretamente riceveva egregi gentiluomini milanesi, che interrogava sul passato e sul presente,

[395]

Massimo d'Azeglio ammirava anch'egli Camillo Cavour; ma ne approvava in tutto la politica?... L'autore dell'Ettore Fieramosca, dopo il disastro di Novara, aveva spianata la via al Cavour, ma non s'accordava sempre colle vedute di lui, specialmente per la questione romana.

Nel 13 febbrajo del 1860, Massimo d'Azeglio venne mandato governatore a Milano, nella cara città che, negli anni più baldi e più felici, gli aveva elargito due allori in una volta: di romanziere e di pittore. Oggi, i romanzi e le pitture del d'Azeglio hanno perduto di pregio; ma valgono quali documenti d'un'epoca, nella quale la penna e il pennello lavoravano concordi a servigio de' patrii ideali.

Massimo d'Azeglio, in conversazione, non rideva mai. Lasciava cader qua, là, le sue ironie, le sue facezie più o meno pungenti, rimanendo impassibile. Era amico della Belgiojoso, che lo stimava grandemente per il suo fermo carattere, e non si sarebbe mai permessa con lui gli sprezzanti atteggiamenti che adoperava con altri, i quali pretendevan di sfoggiare con lei lo spirito.... che non possedevano.


Dinanzi ai rapidi, grandiosi fatti, che si svolgevano nel nostro paese, la Belgiojoso palpitò ancora dell'antica passione: della politica. Troppe questioni capitali (come quella del papato) sorgevano nel tumultuoso formarsi dell'unità italiana; e la principessa sentiva il bisogno di esprimere le proprie idee; sopratutto, sentiva il [396] dovere, come italiana della vigilia, di continuare l'opera sua fra le classi dirigenti. Fondò allora un grande giornale politico quotidiano, L'Italie, che cominciò ad uscire nel martedì 2 ottobre del 1860 a Milano (presso la tipografia Boniotti), avendo per redattore-capo Léonce Dupont, fino giornalista, che scriveva gli articoli di fondo, i così detti primi Milano, saturi di senno e di quell'erudizione storica, indispensabile pei raffronti dei fatti e per le origini di tante questioni. Svolgendo la raccolta di quella prima annata dell'Italie, troviamo lunghi e frequenti articoli firmati: “Cristina Trivulzio Belgiojoso„. Qualche volta, fra la principessa e il suo redattore-capo sorge cortese polemica sulle questioni capitali, come si può vedere nei primi numeri dell'ottobre riguardo alla necessità dei congressi europei in luogo di guerre devastatrici. Léonce Dupont risponde all'illustre collega che non sempre i congressi sono efficaci: se si fosse riunito un congresso avanti la guerra del 1859, si avrebbe avuta, forse, la liberazione della Lombardia?... E se si fosse riunito un congresso dopo la pace di Villafranca, si sarebbero ottenute le annessioni?

L'Italie (nelle cui colonne la Belgiojoso emulava, con minor brio, ma con più compostezza e saggezza, la prosa dell'antica sua rivale madama de Girardin) aveva l'aspetto e il contenuto dei grandi giornali di Parigi. Ricco il notiziario di tutti gli Stati d'Europa; ma neppure una parola di cronaca milanese, tranne i manifesti del municipio e l'annuncio degli spettacoli teatrali: le bazzecole municipali non erano, infatti, [397] assorbite dagli avvenimenti prodigiosi e febbrili di quei giorni? Nella sera del 2 ottobre 1860, uscì a Milano (e anch'essa per cura principale della Belgiojoso) un'Italia, ridotta di formato, e in italiano. L'edizione francese parlava all'Europa; l'edizione italiana parlava ai Milanesi.

Chi può pensare che l'intrepida pubblicista trattò sull'Italie persino l'arduo tema della legge dei Comuni, e quello sulla convenzione franco-italiana, che nel 1864 agitava gli animi e le penne?...

Ma l'Italia, sopraffatta à Milano da altri giornali cittadini in italiano, languì presto: e il 15 ottobre dello stesso anno, scomparve. Invece, la maestosa Italie vigoreggiò a Milano sino a tutto il 13 febbrajo del 1861; nel qual giorno si trasferì a Torino, sede, allora, del Parlamento. Infatti, non più nella liberata Milano, bensì a Torino ferveva ormai, di nuovo, il centro della vita politica italiana; ed ivi l'Italie continuò ad uscire ogni giorno, trasportando poi i penati nelle capitali di Firenze e Roma. E, a Roma, l'Italie vive tuttora.

Nessuna difficoltà spaventava la principessa. Nessuna meraviglia, adunque, se pubblicò anco un lavoro sulla politica europea. L'opuscolo Sulla moderna politica internazionale, osservazioni di Cristina Belgiojoso, dimostra la necessità che, in Italia, si formino abili diplomatici.[151]

Prima di quell'opuscolo, l'enciclopedica donna ne avea pubblicato un altro, scritto in un'estate [398] nella pace di Venezia: Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire.[152] La Belgiojoso non si preoccupa degli errori e delle sventure della patria; ella confida nell'avvenire con una fede che nessuno de' suoi amici poteva neppure tentar d'offuscare con un solo dubbio; altrimenti, com'ella lo feriva d'acerbe canzonature! La stessa disfatta di Lissa (sulle prime non creduta da lei, come impossibile, poi ammessa nel silenzio del più cocente dolore e fra lagrime amarissime ben rare nelle sue pupille) quella stessa atroce disfatta navale finisce.... col rassicurarla perchè (ella dice) “già l'Italia è corredata d'una forte marina!„ La pittura che la Belgiojoso (con istile bonario) fa delle varie provincie italiane, prima dell'unità, è triste, ma vera.

[399]

XXI. A Blevio sul Lago di Como.

Storia del villino della Principessa a Blevio: un frate. — Le grandi beneficenze della duchessa de Plaisance. — Vincenzo Bellini e Giuditta Pasta. — Abominevoli memorie della moglie di Giorgio IV d'Inghilterra. — Maria Letizia Solms-Wyse e Urbano Rattazzi nella Villa Maria. — Il prete mazziniano Tommaso Bianchi. — Nuovo stato psicologico della Principessa e strani fenomeni da lei sofferti. — Le sue lettere al dottor Màspero. — Dame di spirito. — La vedova del conte Federico Confalonieri. — Matilde Juva-Branca e il suo canto. — Un'inondazione notturna.

Un principe moscovita, Schuwaloff, possedeva sulla riva destra del primo bacino dell'incantevole lago di Como — a Blevio — un grazioso villino di stile nordico. Un giorno, desolato per la morte d'una cara, bellissima amica, abbandonò la religione degli avi, si convertì al cattolicismo e si fe' monaco, lasciando in eredità all'ordine dei Barnabiti quel villino, testimone della sua felicità per sempre distrutta. E la Belgiojoso acquistò dai Barnabiti il villino, sorgente a' piedi del lago e mezzo nascosto tra la folta verzura, per passarvi parte de' suoi ultimi anni in pace.

Senza rancori verso la duchessa de Plaisance, la principessa andò ad abitare quasi di fronte [400] all'antica rivale; e non lungi dalla villa Pliniana, eremitaggio della fuggitiva e del principe Emilio Belgiojoso.

Era passata molta acqua sulle rive, ridenti di ville e di giardini; eran passati molti falchi sulla severa Pliniana da quella notte famosa in cui la duchessa de Plaisance, in mezzo al fulgor d'una festa di ballo a Parigi, scomparve vestita di bianco col principe. Emilio Belgiojoso era morto; ma alcuni ricordavano quella voce che cantava nei silenzii delle notti stellate sul lago; e rammentavano qualche aneddoto grazioso di quel gentiluomo raffinato e di spirito. Eccone uno: Una sera, l'antico mazziniano cantava in un'adunanza signorile, dinanzi alla principessa di Metternich, moglie del gran cancelliere austriaco, la quale profondea lodi, deliziata di quella voce. E il principe Belgiojoso:

— Che peccato, è vero, principessa, se Sua Altezza vostro marito mi avesse fatto impiccare?...


Impossibile che Cristina Belgiojoso, così equa, non ammirasse le continue, soavi opere di carità che santamente coronavano la vita di passioni della duchessa de Plaisance: impossibile ch'ella non la vedesse rendersi ancor degna dei congiunti lontani; congiunti d'intemerato nome e virtuosi.

Vicino alla villa della duchessa de Plaisance, a Moltrasio, viveva ancora Giuditta Turina; colei che ne' bei giorni avea condotto in barca sul lago il suo Vincenzo Bellini. E, non lungi dal villino della principessa, in una villa adorna d'un parco [401] sontuoso, viveva un'altra Giuditta — la famosa cantante Giuditta Pasta, l'appassionata interprete del Genio catanese, il quale là, sul lago, fra i baci e le procelle d'amore, avea create celesti melodie. Giuditta Pasta cantava ancora, ma solo fra amici. Nella rivoluzione del Quarantotto, salì sulla cima del monte di Brunate (terra di santi, dice un'iscrizione) e, su quell'altura signoreggiante i piani lombardi, spiegò un canto colla sua voce d'usignuolo per esprimere al cielo la propria esultanza. Colei, che sulle scene era apparsa tante volte vestita da sovrana, scintillante di diademi gemmati, indossava, in casa, vesti così dimesse da sembrare non già una regina, ma una Cenerentola. Un adoratore della “divina Pasta„ (come la chiamava il Bellini) partì da lidi lontani, per deporre a' piedi di lei il proprio cuore; si recò nella villa della diva sul lago di Como, ma quando se la vide venire incontro al cancello, spettinata, e colle vesti luride, mandò un grido, fuggì, nè fece più ritorno.


Il lago di Como è il lago dei romanzi d'amore; specialmente in quel bacino di Blevio, che sembra chiudersi in una scena raccolta di montagne verdeggianti. Se i robusti castani di Villa d'Este, dalle larghe ombrie, potessero parlare, come gli alberi delle leggende!... Fu chiamata Villa d'Este da Carolina Amelia Elisabetta di Brunswick, principessa di Galles, venuta in Italia nel 1816; la principessa, dagli occhi stellanti, che detestava le vasche da bagno.... appunto come l'interprete sublime della Norma.

[402]

Fu in quella Villa d'Este che la disgraziata s'infangò nella tresca più deplorevole col proprio servo Bartolommeo Bergami, complice una sorella di costui, diventata (o meglio improvvisata) contessa Oldi!... La principessa di Galles poteva citare peraltro a propria attenuante.... il marito; colui che divenne Giorgio IV d'Inghilterra!... Quel topazio di sposo nella prima notte di matrimonio dormì ubbriaco su un tappeto.... Inutile riandare qui lo scandaloso processo della Messalina del Lario, svoltosi a Londra collo scopo di escluderla dai diritti della Corona; processo che si risolse in favore di lei per la debole maggioranza dei giudici.... Inutile ricordare i turpi giuochi detti “del turco Maometto„ che tanto divertivano a Villa d'Este Carolina, e i balli adamitici ai quali ella assisteva con folle tripudio alla “Barona„ presso Milano!

È meglio ricordare ch'ella, sull'esempio della regina Teodolinda, aprì la bella via che da Como conduce a Villa d'Este; è meglio ricordare le beneficenze che versò a larga mano; eppure ella ne raccolse l'ingratitudine più nera, più vile; i suoi maggiori beneficati divennero, infatti, i suoi più accaniti accusatori nel processo di Londra!

La disgraziata Carolina lasciò ogni aver suo a un trovatello, Guglielmo Austin, che i nemici facevano passare per suo figlio adulterino, con facile calunnia che venne sbugiardata dai tribunali. Morì d'improvviso in Inghilterra, dove avea fatto ritorno, prima acclamata, poi oltraggiata dal popolo: morì (si disse) per avvelenamento, lasciando l'ordine che sulla sua tomba [403] s'incidessero queste parole: “Qui giace Carolina Amelia Elisabetta di Brunswick, vilipesa regina d'Inghilterra.„


“Una bella donna non par quasi che tocchi il terreno: piega la testa de' flori e ne sparge il profumo, senza calpestarne pur uno„, scriveva un giorno il buon Silvio Pellico al fratello Luigi. Queste parole si poteva ripeterle per Maria Letizia Wyse, figlia di Letizia Bonaparte, quando, lasciata la nativa Waterford, sposò, per volere della madre, il vecchio belga Solms. Allorchè il buon Solms morì nel 1863 a Torino, si dubitava che fosse esistito; pareva un personaggio favoloso....

Non erano passati quindici giorni dalla morte del vecchio, che la bellissima Maria Letizia sposò, in seconde nozze, nella capitale del Piemonte, Urbano Rattazzi, gran capo della Sinistra, e innamoratissimo della dea, dinanzi alla quale anche Vittor Hugo s'inchinava rapito, chiamandola la sua “Rodope„. E gli sposi Rattazzi andarono a nascondere la loro felicità in un villino solingo sul Lario, fra Como e Blevio; non lungi, quindi, dalla principessa Belgiojoso.

La loro camera nuziale era circondata da ampii, limpidi specchi: il cielo del padiglione, che copriva il talamo beato, era anch'esso uno specchio.... Tanti specchi opposti ripetevano all'infinito i sorrisi dei felici mortali, lo spettrale Urbano e la volante Maria; la quale, nello smagliantissimo veglione del carnevale del 1860 alla Scala, era comparsa così poco vestita da mettere [404] in grave imbarazzo i portieri del teatro. Maria Letizia Rattazzi-Solms-Wyse (divenuta poi anche de Rute) scrisse, nei dolci silenzii del Lario, parecchie calde pagine de' suoi romanzi vissuti e stampati. Ma una notte, a Parigi, ella perdette al giuoco il grazioso nido del Lario; e il villino fu acquistato dalla sposa del marchese Luigi Capranica, il romanziere di Giovanni dalle bande nere; il quale strappò subito tutti quegli specchi, perchè il letto, riproducendosi all'infinito in quei cristalli, facea provare la poco allegra sensazione di trovarsi in un ospedale.


Questo era il quadro che circondava la principessa Cristina Belgiojoso nel suo villino del lago. Ma non mancavano, per fortuna, altre immagini: immagini serie; immagini patriottiche.

La regale Villa dell'Olmo, di fronte alla sua riva, era stata tramutata in caserma al ritorno degli Austriaci per punire, anche con quello sfregio, l'aristocrazia lombarda che si era messa alla testa della rivoluzione. E sulla riva di Blevio era nato, da poveri pescatori, il prete Tommaso Bianchi, mazziniano della Giovine Italia, morto d'improvviso fra i tormenti, che gl'implacabili interrogatorii del tristo Bolza infliggevano alla sua povera testa avvampante di febbre....[153]


Quante memorie della Giovine Italia, del Quarantotto e de' lunghi suoi esilii dovevano assalire [405] la principessa!... Ma ella mai parlava del suo passato; mai ricordava le vicende subìte; mai una parola dei tanti uomini gloriosi, che un giorno le avevan fatta corona!... Quella dama, che, scossa da tante vicissitudini, avea viaggiato in Europa e nell'Asia, pareva a Blevio una semplice madre di famiglia che mai fosse uscita dalla cerchia del villaggio nativo.

Un giorno, ecco nel suo villino di Blevio, sbarca un “avanzo„ della colonna Belgiojoso del Quarantotto! Il bravo veterano, riconoscente, voleva porgere il proprio omaggio all'antica condottiera. La principessa lo fa entrare e gli domanda brusca:

— Chi siete?

— Sono Varesi!

— Non conosco questo nome.

— Non si ricorda di me, principessa? Nel Quarantotto?... Nel Quarantotto, sì, principessa, quando....

E la principessa, con un gesto freddo e tagliente:

— Non so niente; non mi ricordo niente.

Il servo turco Bodòz conduce alla porta l'ex milite, e gli fa un bell'inchino.

Era disprezzo del proprio passato questo della celebre patriota?... Voleva ella sconfessarlo?... Disdegnava di ricordare il molto (non vorrei dire il troppo) ch'ella avea profuso sulla scena della vita, in una grand'epoca della storia?...

Con la figlia Maria (che nel 1861 era andata sposa al marchese Trotti-Bentivoglio) la principessa Belgiojoso volle soggiornare una volta [406] nella Villa Pliniana. Un'altra donna non avrebbe posto più piede in una dimora come quella.... La principessa sfidò anche quei ricordi; e non permise che affliggessero il suo spirito.

E soggiornò anche nella villa Trotti a San Giovanni di Bellagio, in quel fulgido bacino della sorridente Tremezzina, dove il lago azzurro sembra che attenda le danze delle fate.

La Belgiojoso s'era, nel frattempo, tanto incurvata che chi la guardava dalle spalle non poteva scorgere il capo di lei.

Le ritornarono penose ansie e strani fenomeni come nella giovinezza. Al dottor Paolo Màspero, sempre medico suo fido, ella narrava, da San Giovanni di Bellagio, sofferenze, che fanno pensare alle teorie di Cesare Lombroso sul genio:

Caro Màspero,

“Già molti giorni sono che volevo scrivervi, per darvi le mie notizie ch'erano soddisfacenti; poichè da quella notte, ch'io venni a svegliarvi nella vostra camera, l'angoscia mi aveva lasciato in pace; ma ora l'una ed ora un'altra cosa mi hanno impedito l'esecuzione del mio proposito. Debbo attribuire quella tregua all'uso del nuovo sciroppo, o al caso? Il fatto è però che, jeri, dopo il pranzo, sentendomi côlta da prepotente sonno, mi sdraiai su di un canapè, e, mentre stavo ancora tra il sonno e la veglia, fui repentinamente assalita da quella sensazione angosciosa che tanto mi spaventa, e passai tutta la sera più o meno sotto quell'incubo. Il solo pensiero di andare a letto mi inspirava un vero terrore; ma [407] quando fu giunta l'ora di coricarsi, mi rassegnai a tentare la prova, convinta di dovermi alzare dal letto pochi minuti dopo di esservi entrata. Con tutto ciò, appena coricata, cessò la sensazione angosciosa, e non è tornata più. Ve ne scrivo per farvi una osservazione. Io ebbi sempre la convinzione che questa angoscia sia una nuova forma di quelle convulsioni epilettiche di cui mi liberai molti anni sono. Una delle varietà della così detta “aura epilettica„ che provavo era la sensazione d'aver sotto al naso un alberello pieno di liquore ammoniacale. Ora, questa strana sensazione mi si risvegliò ieri a sera insieme coll'angoscia, e mi tornò varie volte anche stamattina, sebbene l'angoscia non sia ricomparsa. Vi dico ciò, perchè ne caviate quelle conclusioni che vi sembreranno più a proposito.„

Quelle sensazioni la turbavano al sommo. “Il solo pensiero basta ad agitarmi, ed a richiamare le orribili sensazioni che mi fecero raccapriccio,„ scrive in altra lettera. E da Locate parla al dottor Màspero d'altre sensazioni ancora, ma di quella stessa natura: “Sentivo (ella dice) come se una mano mi passasse sulla fronte e sugli occhi e comprimesse quest'ultimi per modo da rendere, per qualche minuto secondo, la vista incerta.„

Le sofferenze riapparivano fra le quattro e le sei dopo mezzanotte; e, anche per questo, l'inferma vegliava eretta sul letto fra montagne di cuscini, al chiaror vivissimo delle solite lampade. Ella stessa suggeriva al medico i rimedii che potevano calmarla: chinino, assa fetida, il [408] muschio (che, secondo lei, è un toccasana) e cavate di sangue. Facea lunghe passeggiate sui colli sopra Blevio, sopra Torno (dove si conservano antichissimi misteriosi avelli) e non mancava di andare alla messa in quelle poetiche chiesette, poich'ella sentiva il bisogno di pregare.

In un meschino alberguccio della via Santa Radegonda, a Milano, stava intanto un sedicente generale Colli, che, colpito da apoplessia, chiedeva soccorsi alla principessa. E questo Colli le dedicò un Carme in dodici canti. Povero carme, poveri canti!... Il poeta erra di soggetto in soggetto, esaltando la principessa, Napoleone III, vituperando Mazzini. Racconta che, nel 1830, a Parigi, egli aveva formato un esercito di guerrieri scelti per fondare la costituzione in Spagna.... E, per fare un eccelso elogio alla Belgiojoso, la paragona ad Aspasia!

La principessa, non ostante questo confronto, elargì un sussidio al misero infermo, col mezzo del Màspero; e intanto diceva al dottore di “star benino„.

Era un “benino„ illusorio. Le articolazioni le dolevano; la mano sinistra aveva bisogno d'un apparecchio chirurgico. Eppure, ella scriveva; scriveva sempre, nel suo angolo nella villa, tenendo la carta sulle ginocchia. E fumava sempre il narghilé, il cui abuso, a quell'età, con quei crescenti disturbi di nervi e di altri organi, doveva precipitare la sua fine.[154]

[409]

Ma che cos'è il narghilé?... domanderà qualche lettrice. Nel suo viaggio Da Milano a Damasco, l'abate Antonio Stoppani le risponde:

Narghilé è pipa turca d'uso universale in Oriente, composta d'un lunghissimo cannello flessibile, che termina a una estremità con un bocchino d'ambra, entrando coll'altra in una boccia di cristallo con entro acqua, e munito d'un bocciuolo per ardervi il tabacco, adattato al collo della boccia medesima. Quel bocciuolo si prolunga nell'interno della boccia con un tubetto, il quale pesca nell'acqua in guisa che, inspirandosi dal bocchino, il fumo prodotto per consenso dall'aria che passa attraverso il piccolo braciere dov'arde il tabacco, è obbligato ad attraversare l'acqua, rinfrescandosi ed appurandosi prima di entrare nel cannello, che lo trasmette alla bocca del fumatore. Il fumo così ha, per lo meno, il vantaggio di perdere quel calore e quell'acrimonia, che rendono il fumare con pipe ordinarie o sigari tanto incomodo e nocivo alla lingua ed alle fauci e appestano il fiato.

La principessa aveva imparato quella lenta voluttà in Oriente; e non poteva abbandonarla.

Qualche amica di Blevio ricamava sull'odore di farmacia che il narghilé tramandava, le più graziose variazioni.... Poichè la società femminile che a Blevio circondava la principessa come una corte, scintillava di spirito; uno spirito mondano, sprizzante da un quartetto femminile allegrissimo, nel quale primeggiava, chi mai lo crederebbe?... la vedova del martire dello Spielberg, Federico Confalonieri.

Il fiero conte Confalonieri era spirato miseramente sulle nevi d'Hospenthal, fra le braccia della seconda moglie, Sofia O' Ferrall: era spirato [410] lassù, quando, esasperatissimo per l'amaro opuscolo della Belgiojoso, Studii intorno alla storia della Lombardia negli ultimi anni, avea d'improvviso abbandonato Parigi e, nel cuor d'un orrido inverno, era salito colla moglie Sofia sul Gottardo. Marco Minghetti disse che “il secondo matrimonio del Confalonieri fu la profanazione del primo„. Ingiusto giudizio, perchè Sofia O' Ferrall (che il Confalonieri conobbe a Parigi dama di compagnia della dolce contessa Anna Dubourg) fu pazientissima, santa infermiera del martire, sì sofferente e sì insoffribile per i modi sprezzanti e per gli scoppii delle sue collere tremende. Egli faceva dormire la moglie a' piedi del proprio letto sopra un semplice materasso per terra: e la poveretta doveva accorrere ogni momento presso l'infermo, che, tormentato dall'idrope e da altre atroci malattie e da acerbissimi ricordi, avea continuo bisogno di soccorsi, di blanditrici parole. Quando il conte spirò fra le nevose bufere del Gottardo nel 10 dicembre del 1846, Sofia ne sofferse acerbo dolore; e si consolò solo apprendendo che il Club dell'Unione a Milano, con il patriota Gaspare Rosales d'Ordogno alla testa, preparava sulle alture di Hospenthal in onore dell'illustre marito un monumento.[155] Ma, più tardi, Sofia O' Ferrall provò il beneficio del tempo.... e dell'indipendenza. Si ritrasse sola in una povera casetta, sull'altura verde di Blevio, accanto a quella principessa [411] Belgiojoso, ch'era stata col suo severo opuscolo la causa involontaria della morte del Confalonieri, martire sacro alla patria.

Sofia O' Ferrall era brutta, dal viso schiacciato, ma i suoi modi signorili dimostravan la razza. Ella discendeva, infatti, da nobilissima famiglia, già signora d'Annaly in Irlanda, e caduta in misere condizioni. Non ostante le torbide cose che la principessa Belgiojoso avea pubblicato contro il Confalonieri in quell'opuscolo, Sofia O' Ferrall divenne la più intima amica di lei.

Lo spirito di Sofia volava pronto, rapido, ma pungente: champagne diventato aceto. Morì a Blevio, povera, e in età ancor fresca.


Altra visitatrice della Belgiojoso era Matilde Juva, nata Branca. Questa signora, che nel suo salotto di Milano ricevette per lungo tempo i sovrani della musica, avea blanda voce quando parlava; incantevole quando cantava. Alta, dalle spalle marmoree che nelle serate invernali spiccavano ancor più sull'abito di velluto nero o rosso, allora di moda, graziosa nel gesto delle mani, elegantissima nell'insieme, Matilde Juva avea destato ammirazioni devote nel principe Giuseppe Poniatowski, autore di dodici opere, quasi tutte nate morte, ma degno di ricordo per il suo appassionato amore dell'arte. Il principe scrisse per la Juva alcune romanze che servivano da lettere d'amore. Quando Matilde spiegava sul lago la voce estesissima e melodiosa, le anime rapite salivan nell'estasi. Quando in barca, al chiaror della luna, la Juva cantava la [412] Sonnambula (creata dal Bellini in quello stesso lago) oppure la famosa anacreontica del Vittorelli:

Guarda che bianca luna!

Guarda che notte azzurra!

Un'aura non susurra,

Non tremola uno stel....

gli ascoltatori credevano d'udire un angelo....

Due altre signore, miss Sofia Sparks ed Emma R...., erano sempre insieme: le chiamavano “le dame„. Perchè, discorrendo di loro, la gente prendeva un'aria misteriosa?... Che deliziosa creatura quella miss Sophie coi riccioli una volta d'oro, poi d'argento, che le circondavano la testolina dagli occhi semichiusi! Avea il sorriso un po' canzonatore, e l'andatura un po' ondulante. Qual grazia e quale spirito, tanto da sedurre la principessa, che non era di facile conquista! Chi se ne ricorda mi scrive: “Oh, le sere al villino, in cui la principessa se ne stava nella prima sala lavorando all'uncinetto, avendo “le dame„ e Sofia Confalonieri sedute dirimpetto a lei! Chi non le ha udite conversare insieme, non sa le cose audaci che si possono dire con frasi brevi, correttissime, briose. Come vi si maltrattava la metà del genere umano, che non passa per la più bella!...„

Nell'autunno, il villino della Belgiojoso rigurgitava di ospiti. Ne arrivavano da Milano, dalla vicina villa Taverna, da altre sponde. Una notte d'autunno, il lago per le lunghe pioggie crebbe e inondò le stanze a piano-terra del villino. Che confusione!... Signore in semplici, intimi indumenti [413] come la sonnambula del Bellini, che fuggivano pei corridoi, per la scaletta: lumi che apparivano e scomparivano nelle tenebre, come i fuochi fatui in un ballo; appelli precipitosi; grida di soccorso; barcajuoli, mezzo assonnati, accorsi al salvataggio colle barche: una vecchia governante inglese (preclara nel culto dei liquori) pronta a respingere il diluvio. Un placido poeta napoletano (al quale la Belgiojoso avea regalato allora quindici mila lire in un bel plico perchè desse marito alla figliuola) veniva invocato nella lingua di Maometto dal servo turco Bodòz qual salvatore delle genti; ma era irreperibile!... E le acque nella notte oscura, piovosissima, lente, lente, crescevano....

Intanto, la principessa Belgiojoso nella sua camera illuminata a giorno, come il solito, rileggeva impassibile le poesie del Porta.


Il villino contava fra i più piccoli e fra i più modesti; ma tutti lo conoscevano; tutti lo additavano passando sul piroscafo o su quelle barche proprie dei laghi lombardi, che Ugo Foscolo nel raffaellesco carme Le Grazie chiama “gondole erranti„ — Ugo Foscolo, che, in quello stesso azzurro Lario, visse sognando e amando, sognatore eterno, innamorato eterno. Tutti additavano il villino della Belgiojoso come un piccolo tempio della vita mondana elegante, rallegrato da un'eccentricità ricca di spirito. Di notte, l'ombra nera della riva e della montagna imperante appariva rotta come dai raggi d'un faro. Dalle finestre, molti lumi gittavan fasci fulgidi [414] nella tenebra: un poeta avrebbe esclamato: “par che vi nasca il sole!„ — Appena giunse al villino, la principessa vi si adagiò come se da molti anni lo avesse abitato: poich'ella possedeva per istinto il segreto delle vere dame, che consiste nel rendersi subito famigliari i luoghi dove pongono piede: la sala d'un palazzo o d'un grand-hôtel, un piroscafo.... Colla principessa, il villino ricevette tosto l'impronta dell'eccentricità, sprezzatrice delle convenzioni, ch'ella portava dappertutto; l'impronta d'una superiorità senza invidie, perchè invidiare è discendere. E tutto o quasi tutto era bizzarro nel celebre villino, dal narghilé a Bodòz; a questo servo turco incristianito, che quando il partenopeo letterato suddetto conversava colla principessa, gli si piantava dinanzi, ammonendolo:

— Professore! Non dire bugie!

Una nostra conoscenza, il diplomatico francese Enrico d'Ideville, andò a trovare a Blevio la Belgiojoso, e nel suo Journal d'un diplomate en Italie, la descrive con queste vive parole:

La taille courbée avant l'âge, l'œil ardent, d'une expression un peu sombre, le geste impérieux, la parole incisive, originale, tout en elle dénotait une volonté de fer et une nature passionnée. La princesse m'accueillit avec une cordialité qui me surprit beaucoup.

Ma quel fuoco gittava le ultime vampe.... Eppur, lottando contro le inesorabili leggi della natura, quel fuoco non volea spegnersi: la principessa non volea morire!

[415]

XXII. Gli ultimi anni a Milano.

I ricevimenti della Principessa a Milano. — I suoi visitatori, i suoi pranzi, le sue serate musicali. — Una canzonetta veneziana. — Ultimo scritto della Belgiojoso sull'avvenire della donna. — Suoi concetti d'un socialismo alto e puro. — Le ultime ore, la morte, la tomba, l'oblio. — Carteggi distrutti. — Chi era la principessa Belgiojoso.

Blevio era il sorridente nido mondano; Locate era la signoril tradizione sotto le grandi ali dello storico nome dei Trivulzio; e Milano (nella casa numero 1 di via de' Bossi, presso quella che già appartenne a Francesco Sforza), era il riposo in famiglia, fra ammiratori e amici devoti.

Quando la principessa soggiornava a Locate, mandava un maestoso carrozzone a Milano per prendere gli ospiti e condurli su quella eterna via di polvere a' suoi pranzi. Qualche volta, montava nel carrozzone il poeta Andrea Maffei, dall'elegante chioma inanellata; il quale a molte dame e madonne sacrò sue rime, e mai una sillaba alla Belgiojoso, all'amica che avea cura speciale di farlo trovare insieme con persone a lui gradite, risparmiandogli, con squisito tatto, incontri poco geniali.

[416]

A Milano, come a Locate, la principessa riceveva uno strano insieme di persone, illustri e oscure; stranieri senza nome e italiani decorati dei nomi più chiari. E invitava tutti a pranzo! E a quei pranzi intervenivano bellissime dame italiane e forestiere in abbigliamenti da Corte, invitate con tutto il rigore dell'etichetta una settimana innanzi; e intervenivano pure con esse maestri di musica, pubblicisti, o emigrati incontrati a Parigi, ad Atene o a Costantinopoli, giovani e vecchi, invitati lì, sul momento; talvolta, in quelle sale di via Bossi, si scorgevano spalle eburnee di duchesse e logori abiti abbottonati sino al mento di poveri aspiranti a un posto di custode in qualche ginnasio del regno.

Le dame e i gentiluomini venivano collocati dal premuroso servo turco Bodòz accanto alla principessa: e, in fondo alla tavola, egli agglomerava secondo la sua orientale fantasia gli ospiti oscuri. La principessa Cristina mangiava un po', e s'addormentava. Allora gli ospiti, nuovi a tal genere d'accoglienza, si formavano un sacro dovere d'immergersi in un religioso silenzio; ma, allora, la principessa curva, spalancava i grandi occhi, e diceva: “Parlate, parlate pure!„ e si addormentava di nuovo. Allorchè il banchetto era finito, si destava, e, seguita da tutti gl'invitati, passava nella sala del pianoforte, dove si sedea su una poltrona a cucire vesticciuole per i bimbi poveri o a fumare il narghilé.


I visitatori assidui della principessa contavano, anche a Milano, come a Parigi, tra gli [417] uomini più insigni. Si notavano due statisti, Stefano Jacini ed Emilio Visconti Venosta; il primo conversatore espansivo; l'altro, riserbato, chiuso ne' proprii pensieri, ma, di tratto in tratto, usciva con qualche motto di spirito così gajo da pareggiare il fratello Giovanni, poeta umoristico, novelliere e giovane elegante, dotato d'un brio così pronto, così fine, che tutte le signorili adunanze se lo disputavano.

Nelle adunanze serali della principessa, andava anche il celebre incisore e ardente garibaldino Luigi Calamatta, bel vecchio vigoroso, dagli occhi lampeggianti di vita, dal sorriso amabilissimo; l'astronomo Paolo Frisiani, il quale, pensando troppo alle stelle del cielo, non si curava delle frittelle del suo abito di società; e il filosofo hegeliano Augusto Vera, il quale fingeva d'esser celibe, e possedeva invece una tacita moglie nascosta fra la nebbia di Londra. Quel filosofo si avvicinava al pianoforte e cantava Pietà, Signor!... la soave preghiera, che passa, non so come, per lavoro di Alessandro Stradella; laddove dev'essere uno scherzo di quel burlone di Gioacchino Rossini, capacissimo di lanciare siccome antico qualche pezzo di musica composto da lui per celia.

Il ben chiomato critico musicale e apostolo del Wagner in Italia, Filippo Filippi, si metteva al piano, e suonava, e cantarellava, dopo il pranzo. Piaceva assai alla principessa il Che pecà! deliziosa canzonetta veneziana di Francesco Dall'Ongaro, musicata dal Filippi con note languide:

[418]

Te recordistu, Nina, quei ani,

Che ti geri el mio solo pensier?...

Che tormenti, che rabie, che afani!...

Mai un'ora de vero piaçer!...

Per fortuna, quel tempo xe andà!...

(Che pecà!)

No vedeva che per i to' oci:

No g'aveva altro ben ch'el to' ben....

Che sciempiezzi! Che gusti batoci,[156]

Oh! ma adesso so tôr quel che vien;

No me scaldo po' tanto el figà![157]

(Che pecà!)

Ti xe bela, so che ti xe dona;

Qualche nèo lo conosso anca in ti;

Co ti ridi co un'altra persona,

Me diverto co un'altra anca mi.

Benedeta la so' libertà!...

(Che pecà!)

E continuava la cantilena graziosamente scettica fino a conchiudere con un nuovo represso sospiro:

Care gondole de la Laguna,

Voghé pur, che ve lasso vogar!

Quando in çielo vien fora la luna,

Vago in leto e me meto a russar,

Senza gnanca pensarghe al passà!

(Che pecà!)

Tutte le dame della società aristocratica frequentavano il circolo della principessa; tutt'i bei nomi le facean corona. Tra le gentildonne dell'Olimpo milanese, la principessa amava sopratutte [419] la marchesa Visconti Luigia d'Aragona, deliziandosi allo spirito di questa dama che pareva uscita dalla Corte di Luigi XV.

Mentre la discendente del maresciallo Trivulzio, colla fronte meditabonda e curva verso la fossa, tramontava fra omaggi reverenti, una squisita, ammaliante bellezza, la duchessa Eugenia Litta, regnava nel suo più sfavillante splendore. Figlia della contessa Attendolo-Bolognini, nata Vimercati, di colei che il torbido Balzac a Milano visitava fra una pagina e l'altra dei Mémoires de deux jeunes mariées, cominciate nella bella casa del principe Porcia, — la duchessa Eugenia Litta superava la stessa madre negl'incanti della beltà, nella grazia muliebre, nella finezza intellettuale. Il valoroso ufficiale francese Roberto de Vogüé (fratello del balordo letterato Melchiorre) toccò il cuore della dea, poi avvolta in fulgori regali.

Come una lampada che arda in un sepolcro, continuo ardeva nell'inferma Belgiojoso il pensiero per il miglioramento d'Italia. Un giorno, comparve d'improvviso, a braccio del poeta Andrea Maffei nell'orfanotrofio milanese delle Stelline, diretto dalla signora Felicita Morandi. Volle veder tutto, essere informata di tutto e, al domani, rimase pensosa; poi scrisse un articolo Delle presenti condizioni delle donne e del loro avvenire. È questo uno de' più assennati lavori della principessa; è la sintesi della sua vita. Chi, meglio di lei, donna, tanto vissuta nel passato, avea diritto di profetare l'avvenire della donna in Italia?...

[420]

Lo scritto suo decorò il primo numero della Nuova Antologia di Firenze, il primo gennajo del 1866. L'autrice, che si firma “Cristina Belgiojoso„, riconosce e deplora le inferiori condizioni fatte dall'uomo alla donna, nella società moderna. Bisogna riportarsi al tempo in cui apparve lo scritto, per valutarne tutto il pregio e il coraggioso significato. Ella scrive:

“La leggerezza, la incostanza, la volubilità e la pieghevolezza delle donne è diventata proverbiale, e nessuno si sognerebbe di contrastare e di discutere un così vecchio assioma. Tutti lo accettano, e nessuno lo esamina. Eppure, tengo per certo essere la donna la creatura più tenace, la più costante, la più irremovibile ne' suoi propositi. La donna ha consacrato tutte le sue forze, al gran fine di piacere, e di essere amata. Il suo stato presente nella società è il più idoneo ad ottenere quel risultato, e perciò la grandissima maggioranza di esse non vuole assolutamente cangiarlo.„

E ancora ribatte:

“La società si è formata sulla base della supposta inferiorità della donna.„

Non sarebbe, dunque, necessaria una riforma?... La nostra scrittrice ben la vorrebbe; ma come chiederla?...

“Da qualunque parte io mi volga per trovare una via di riformare radicalmente la odierna condizione della donna, scorgo difficoltà così molteplici, così varie e così gravi, che, quantunque codesta condizione mi sembri un avanzo della passata barbarie e un indizio che di questa [421] barbarie non siamo ancora intieramente liberi, non saprei mai alzare la voce per chiederne la riforma. Eppure la sorte toccata alla donna non è punto felice.„

Esatto è il quadro che della donna sposa e madre, giovane e vecchia, fa la principessa. Ella conchiude convinta:

“Non è forse tempo che le compagne, le madri dei signori del creato sian tenute seriamente come creature ragionevoli, dotate di potenze intellettuali forse speciali, ma non necessariamente inferiori a quelle dell'uomo?...„

Una luminosa visione dell'avvenire della donna si spiega dinanzi agli occhi della pensatrice lombarda, che vorrebbe vedere le nostre dolci compagne della vita avviate ad alcuni studii, ad alcune professioni eguali a quelle dell'uomo: vorrebbe vederle medichesse, per esempio.... E perchè no?... Non avrebbero forse più cuore di certi medici?... E un'altra raggiante visione arride alla principessa: la visione dell'Italia futura.

“Forse io m'inganno, forse mi acceca la parzialità pel mio paese, ma parmi di scorgere in un avvenire non so quanto lontano, l'Italia che scioglie tutti i problemi sociali, e li scioglie con prudente ma instancabile coraggio, vittoriosa nemica di tutti i pregiudizii, disprezzatrice costante di quelle ragioni individuali, che si oppongono alle legittime delle moltitudini.„

Così la profetessa. Quanti, a quel tempo, profetavano come lei?...

E alle parole di carità e di giustizia, proferite [422] in una società che, ad immagine della Natura, è fondata, in parte, sulla crudeltà del più forte, la Belgiojoso continuava a unire i fatti: ella proseguiva a beneficare silenziosa, specialmente vecchi maestri di musica senza lavoro, senza pane, senza speranze; miserie velate di decoro. Ella sapeva leggere (al dire di Filippo Filippi) qualunque pezzo di musica a prima vista; sapeva eseguirlo sul pianoforte; non avea certo bisogno d'altre lezioni di musica; e a quell'età!... Eppure, sulle soglie della morte, ella volle che un povero vecchio maestro le insegnasse ancora la musica, che le impartisse lezioni di contrappunto, per cogliere un nobil pretesto di beneficare quell'infelice, il quale, forse, non avrà capito la delicata intenzione della dama generosa.


Negli ultimi anni, Cristina Belgiojoso Trivulzio vide compiersi il gran sogno di tutta la sua vita di patriottici sacrifizii e di pericoli. Ella vide l'Italia libera con Roma capitale, con un re conclamato dal popolo. Tante patite peripezie aveano, alla fine, un fulgido compenso!... Quel giorno che salutammo Roma capitale, più di qualche amico della Belgiojoso dee averne scritto a lei, che continuava assidua corrispondenza coi personaggi più eminenti. Ma la marchesa Maria Trotti, eletta dama di Sua Maestà la regina Margherita, cortesemente mi affermò che la venerata madre sua non conservava le lettere che riceveva. Si può aggiungere che non conservava neppure i proprii volumi e opuscoli: immaginarsi la folla d'articoli patriottici da lei disseminati per sì [423] “lungo ordine d'anni„ su tanti giornali francesi, italiani, inglesi!... Nulla di più arduo che il rintracciare certi scritti dell'infaticabile autrice, ignorati persino dai più solleciti congiunti di lei; nulla di più penoso che il ricercare precisi, coscienziosi particolari d'una vita così varia, così tumultuosa in mezzo a mortali e ad immortali, a piccoli e a grandi, in Italia, nella Svizzera, in Francia, in Inghilterra, in Grecia, nell'Asia.... Cinque anni di ricerche, di studii, di carteggi, di gite, di viaggi.... saranno stati sufficienti per comporre degnamente questo libro?... Quali difficoltà, estranee allo stesso lavoro, per sè stesso difficile!... E come viene saccheggiato, anche questo, da impudenti scribacchini, persino americani!


Il 5 luglio del 1871, spuntò l'ultima alba della donna singolare. E venne la morte ch'ella non voleva; la morte che temeva tanto; la morte, il cui pensiero la facea tremar tutta. Del giorno ultimo scriveva una volta: “Non so come volano i giorni; e si avvicina quel terribile al quale non si guarda senza tremare!„

Sentì ella avvicinarsi il passo dell'inesorabile dea, che tante volte arriva come un assassino, e che, altre volte, invece, giunge invocata come un'amica sorridente, come una liberatrice pietosa e gentile?...

Appena sentì aggravarsi, la principessa non volle giacere sul letto: si levò risoluta, e si pose su una poltrona, circondata da paraventi.... Soffriva assai.

Venne a chiedere notizie nella lugubre stanza un giovane amico: Giovanni Visconti-Venosta. [424] Ella ne udì la voce sommessa, e gli chiese subito, levando il volto diventato dei color della creta:

— Gino, abbiamo buone notizie sull'Italia?...

E il giovane, che sapeva come a Cristina Belgiojoso bisognava dir sempre sull'Italia le cose più consolanti e più belle, le rispose pronto:

— Buonissime notizie, principessa! Buonissime!

Così Cristina Belgiojoso Trivulzio moriva colla lieta immagine d'un'Italia avviata a quella grandezza per la quale tanto ella s'era agitata in patria e nell'esilio.

Ricevette tutti gli estremi sacramenti della Chiesa cattolica. Ella, che un giorno a Parigi temeva d'essere messa all'indice dal Vaticano per la sua pubblicazione sul dogma (come Camillo Cavour narra nel Diario inedito più volte citato) fu contenta quando apprese che quel libro era uscito incensurato dall'esame di Roma.

La principessa spirò per “ipertrofia di fegato„ alle ore dieci e mezza della sera del 5 luglio del 1871, nell'amatissima sua Milano, dov'era nata il 1808. Contava, adunque, sessantatre anni.[158]


La salma venne benedetta nella chiesa di San Tommaso, piccola chiesa dall'atrio greco, e fu sepolta nel centro del romito cimitero di Locate sotto una tomba di marmo bianco, simile alle tombe antiche, e fregiata di questa epigrafe dettata da Giovanni Visconti-Venosta:

[425]

Da un lato:

ALLA PRINCIPESSA CRISTINA BELGIOJOSO-TRIVULZIO — CHE IL VASTO INGEGNO LA VIGORIA DELL'ANIMO LA DEVOZIONE ALLA PATRIA — FECERO BENEMERITA, ILLUSTRE — NEGLI STUDII, NELLA POLITICA, NELL'ESILIO, NEI VIAGGI — TRAVERSO I TEMPI FORTUNOSI E D'ALTI DESTINI IN CUI VISSE — MDCCCVIII — MDCCCLXXI.

Dall'altro lato:

QUI DEPOSE LA SALMA DELLA MADRE AMATISSIMA — LA MARCHESA MARIA TROTTI BELGIOJOSO — INVOCANDO A LEI — CHE FU COSTANTE E GENEROSA SOCCORRITRICE DEI POVERI — QUELLA BENEDIZIONE DI CUI DIO CORONA LA CARITÀ.

I funerali religiosi furono solenni nella chiesa dl San Tommaso; più semplici e più affettuosi, forse, a Locate; in quel borgo, che ora dal nome dei Trivulzio, antichi feudatarii di quel territorio, si chiama Locate-Triulzi. Si era nell'estate; e molti amici della defunta non si trovavano allora in Lombardia, per tributarle l'ultimo omaggio. Qual differenza fra il 1848 e il 1871, fra quel giorno in cui tutta Milano andò incontro alla Belgiojoso, ch'entrava fra gli applausi e i frenetici evviva in città, a capo d'una colonna di giovani volontarii, e il breve corteo d'amici, che dall'angusta via de' Bossi, accompagnava alla chiesa di San Tommaso il feretro della principessa!

Tranne alcune reverenti parole di Filippo Filippi sul giornale La Perseveranza di Milano, [426] ben rari furono i cenni necrologici pubblicati nel resto d'Italia sulla morte d'una donna che avea riempito un giorno l'Italia e Parigi del suo nome. E l'oblio, profondo oblio, coprì quel nome fino al punto che un dotto francese domandò un giorno allo scrittore di questo libro se la principessa Belgiojoso era vissuta nel secolo di Maria Antonietta! Si scordarono persino le cattive pagine, che una sedicente amica d'Italia, Luigia Colet, stampò contro la principessa in un certo libro sugli avvenimenti e sui personaggi nostri, seminato delle più sfacciate, amene bugie: dico persino, poichè il mondo dimentica più presto le lodi meritate che il biasimo maligno, lanciato dall'invidia. Eppure dovrebbe tornar dolce al pensiero il ricordo degli atti generosi compiuti dagli altri; atti che col loro fulgor vittorioso fanno sparire le ombre di possibili errori; sì, tanto possibili nella fragile creta umana!... È così consolante scoprire il merito! È così bello l'ammirare!


Con la morte di Cristina Belgiojoso-Trivulzio, sparve dalla scena del mondo una delle più forti e singolari donne d'Europa. E dopo molti anni dalla morte, era tempo e dovere che una penna veridica ma rispettosa facesse noto ai più il sentimento, l'invitto sentimento italiano di colei che non è un'onta da nascondere, bensì una gloria da far risplendere.

La principessa Cristina Belgiojoso-Trivulzio, questa donna d'istinto e di ferrea volontà dominatrice, che fa pensare a Caterina Sforza; [427] questa fantastica figura dai nivei pepli come una regina delle tragedie di Eschilo; dai severi turbanti come una sibilla del Domenichino.... irrita talvolta come un enigma; ma le linee della sua figura sono le linee d'un monumento, ch'ella stessa, nella sua vita liberamente vissuta dinanzi agli sguardi di tutti, si elevò con le proprie opere di carità e di sociale giustizia precorrendo i tempi; — con le proprie opere d'un patriottismo coraggioso, d'una inesauribile sorgente di magnanimi pensieri. In lei, stranezze, audacie, errori; mai la piccolezza!

Ella fu una dea, che sedusse mille: ella regnò. Una grandiosa figura di donna italiana, sorta in un'epoca di grandi.

FINE.

[429]

APPENDICE DI DOCUMENTI.

[431]

I. LETTERA DEL GENERALE LA FAYETTE ALLA PRINCIPESSA BELGIOJOSO.

A documentazione di notizie inserite nel luogo opportuno in questo libro, (sulla confisca dei beni della principessa Cristina Belgiojoso, perpetrata dal Governo di Vienna, e sui conseguenti imbarazzi finanziari della profuga, ecc., ecc.) valga una lettera inedita del generale La Fayette alla principessa.

Nel luglio del 1832, — circa due anni prima della morte, — il generale La Fayette, da quella La Grange, dove gli erano giunti i primi rumori della rivoluzione del luglio 1830, mandò alla nobile profuga una lettera indirizzandola a Ginevra. Questa lettera particolareggiata, piena di saggi consigli premurosi, consigli di padre, e qual padre! rivela sopratutto l'affetto del La Fayette per la bella patriota italiana, il cui slancio per la redenzione della patria si accordava con quello magnifico ch'egli ebbe alle prime notizie dell'insurrezione delle colonie americane contro gli inglesi. Parlando alla principessa degli avvenimenti politici del giorno, il La Fayette mostra quale considerazione egli le tributi. Il grande e candido liberale tocca del conte Carlo di Rémusat, il biografo di Bacone, di Channing, ecc.; lo stesso che dopo la rivoluzione del 1830 s'accostò al Guizot, e che fu poi, nel 1871, chiamato dal Thiers, presidente della Repubblica francese, al ministero degli affari esteri, e morì nel 1875. Parla del Sismondi, l'illustre ginevrino, lo storico delle Repubbliche italiane, e amico anch'esso di Cristina Belgiojoso. — Anastasia e Virginia, nominate dal La Fayette, [432] ne erano le due figlie; la prima sposata a Carlo di Latour-Maubourg, la seconda al colonnello di Lasteyrie. Il signor Bianchi era un agente della Belgiojoso. Superfluo ripetere che la madre di Cristina, marchesa Vittoria Gherardini, in prime nozze aveva sposato il marchese Girolamo Trivulzio, e in seconde il marchese Alessandro Visconti d'Aragona; e che le sorelle di Cristina, alle quali pure allude il La Fayette, erano: Teresa, che sposò in Francia il marchese d'Aragon, Virginia, che sposò il marchese Bonifazio Dal Pozzo di Milano, e Giulia che sposò il marchese Rorà di Torino. Qualche altra allusione torna dubbia e oscura. Non così quella sul Portogallo, dove allora ferveva la guerra tra il principe Don Pedro e il fratello Don Miguel per ristabilire sul trono donna Maria da Gloria, figlia del primo e nipote del secondo che l'aveva privata del regno di Portogallo. Vedi anche i Mémoires del La Fayette, pubblicate dalla famiglia in 6 volumi (1837-1840).

Ecco ora la lettera dell'immortale guerriero della libertà americana.

La Grange, 28 Juillet 1832.

Il est bien vrai, chère amie, que nous nous faisions une féte de Vous voir ici; mais la lettre, qui confirme notre désappointement, est fort loin de m'avoir causé de la peine; elle a même soulagé mon inquiétude. Déjà, lorsque Octavie m'a dit qu'au lieu de Vous reposer à La Grange, Vous partiriez le soir même, je me reprochais d'être cause d'une fatigue de plus. La tendresse filiale, le besoin d'embrasser M.me Votre mère e Vos sœurs ont triomphé des exhortations et des menaces de Vos médecins. Mais vos amis, tout en rendant hommage à Votre impatience et à Votre révolte contre les conseils de docteurs plus habiles que nous, ne peuvent se défendre, [433] dans l'état précaire de Votre santé, d'une vive anxiété pendant le voyage. Vous avez les sermons de la prudence, et j'espère bien que les fâcheuses prédictions ne s'effectueront pas. J'ai pourtant grand besoin d'avoir des nouvelles de Votre arrivée à Génève. Il serait bien fâcheux que Vos souffrances revinssent en route, dans une auberge, et loin des médecins. Au reste, le danger sera passé lorsque Vous recevrez cette lettre. Puisse-t-elle Vous trouver en bonne santé, et en pleine jouissance de Votre réunion aux objets de Votre tendresse! Vous jugez, ma chére amie, que dans cette disposition d'anxiété pour Votre voyage, j'ai plutôt à Vous remercier qu'à Vous reprocher de n'avoir pas fait le petit détour de La Grange. Vous nous en dédommagerez, après Votre retour; je me flatte encore que Vous pourrez obtenir de M.me Votre mère ce que Vous avez tant souhaité, et qu'elle voudra bien venir à Paris. Il n'y aura plus alors de choléra; j'ai un grand desir de lui être présenté, ainsi qu'à Vos sœurs. Elle apprendra par Vous la très grande liberté que je pris de lui écrire dans les premiers temps de Votre arrivée. Donnez-moi des nouvelles de Votre colonie de Genève, et des progrès de Votre grande affaire. Je Vous dirai que, tout en admirant le noble caractère de ma chère et filiale amie, et persuadé comme je l'étais de la sagesse du parti qu'elle avait pris, j'ai plus souffert que je ne Vous le disais, des embarras de Votre situation; personne n'appreciant mieux que moi tous les mérites de Votre pauvreté, et d'après ce que je savais par le ministre [434] français, l'ambassade autrichienne, Vos compatriotes et Vous, j'eusse été bien fâché de Vous voir partir pour Milan, ou pour Vienne. Néanmoins, j'ai senti, pendant ce long espace de temps, et malgré Votre aimable et généreux caractère, que d'après Vos habitudes de richesse, il êtait bien pénible de Vous trouver réduite à d'étroites privations. Il me semble, ma chére amie, que lorsque Vous vous retrouverez en possession de Votre fortune, il serait raisonnable d'en mettre une partie à l'abri des caprices d'un gouvernement arbitraire. Cet avis n'est pas seulement le résultat des préventions mutuelles, qui depuis longtemps existent entre la Cour de Vienne et le fermier de La Grange. J'aime à penser qu'il sera partagé par tout le monde, et surtout par madame Votre Mère, et quoique il soit beaucoup plus agrèable de jouir ensemble de Votre réunion que de parler d'arrangements pécuniaires, je crois que Vous auriez grand tort, l'une et l'autre, s'il m'est permis de le dire, de ne pas Vous en occuper sérieusement, et d'une maniére positive. Il ne faut pas Vous exposer à voir, dans les futures contingences, recommencer l'état de gêne et d'embarras, que Vous avez admirablement supporté, mais dont je m'affligeais beaucoup plus que Vous.

La société, que Vous retrouverez, absorbera votre temps et vos pensées. Il est probable néanmoins que Vous verrez M. le comte de Sismondi. Je Vous pris de lui parler de moi. M. de Sismondi serait fort touché d'apprendre que son Histoire des Français est le seul emprunt que Vous ayez [435] fait à la Bibliothèque de La Grange. Je voudrais répondre à l'aimable lettre que j'ai reçue des trois prisonniers de Venise. Il me semble que le meilleur moyen est d'envoyer ma réponse à Lyon, où le père de notre ami doit se trouver à présent. Chargez-Vous de mes tendres amitiés pour notre excellent Bianchi; j'espère qu'il reviendra avec Vous; j'ai une si douce habitude de mes rapports avec lui, que j'éprouverais une grande peine de les voir interrompus par son absence.

Nous n'avons point de nouvelles de Portugal: je continue à bien augurer de l'expédition. Vous compatissez, j'en suis bien sûr, à l'anxiété de Virginie. Elle est ici avec ses filles, Rémusat et Octavie. Le ménage Corcelles pourra revenir dans dix ou douze jours. Anastasie et Jenny iront bientôt passer quelques semaines avec Célestine Brigode en Fiandre. George est venu célébrer le 29 Juillet avec son bataillon: il se partage entre Passy et La Grange. Les nouvelles de Clémentine sont meilleures: elle éprouve encore des crampes, mais ses forces reviennent; ses promenades réussissent mieux. On s'occupe du retour à La Grange où Vous nous trouverez, en grande partie, réunis. Et Vous aussi, chère Amie, Vous êtes bien partie de cette famille qui compte sur Vous pour obtenir de M.me Votre Mère et de Vos sœurs le bonheur que nous nous promettons, si elles reviennent avec Vous, de les recevoir à La Grange. Je pense que Votre mari est avec Vous, ou du moins en Suisse: chargez-Vous de mes amitiès pour lui, et tout [436] en le remerciant de sa bonne intention de passer à La Grange en quittant Paris, dites lui que j'en attends l'éxécution à son retour.

Les anniversaires seront moins animés que l'année dernière. Vous savez par les journaux tout ce que j'aurais à Vous dire. La pluie des protocoles de Londres ne cesse pas encore. Il en est de même des ajournements hollandais et belges. L'Allemagne se refuse à la discipline de la Diète de Francfort et du Triumvirat contrerévolutionnaire. On dit que l'Autriche veut voisiner par Constance avec le pays que Vous habitez. Quant à la France, carliste, juste milieu, et patriotique, Vous savez où nous en sommes.

La famille me charge de ses tendresses pour Vous. Rèmusat nous arrivera demain. Nous avons eu ces jours ci plusieurs visites polonaises. Adieu, ma chère Amie. Votre chère et filiale lettre m'a vivement touché. Tous mes vœux, toutes mes bénédictions Vous accompagnent, en attendant l'inexprimable bonheur de Vous revoir.

La Fayette.

À madame la Princesse de Belgiojoso
poste restante à Genève
(Republique Helvetique).

[437]

II. LA PRINCIPESSA BELGIOJOSO ALL'ASSEDIO DI ROMA.

Cristina Belgiojoso, nell'assedio di Roma nel 1849, diresse l'ospedale dei feriti, avendo seco l'unica figlia sua, Maria, che divenne poi marchesa Trotti. Ciò è ricordato anche in una lettera che il marito della marchesa, Lodovico Trotti, diresse al senatore Tulio Massarani in seguito a una patriotica richiesta di S. E. il senatore Gaspare Finali. Nel 1886, l'insigne patriota, statista e letterato Finali desiderava avere l'elenco preciso dei valorosi feriti all'assedio di Roma nel 1849, i quali furono ricoverati in quell'ospedale dei Pellegrini diretto dalla principessa: voleva far scolpire quei nomi gloriosi in una lapide. Era diffusa opinione che il registro di quei feriti e dei morti fosse stato portato con sè dalla principessa Belgiojoso dopo la caduta di Roma; Gaspare Finali si rivolse all'uopo a un amico illustre, al senatore Tullo Massarani di Milano, per saperlo con esattezza. Il Massarani ne scrisse al consorte della marchesa Maria Trotti, e n'ebbe da Olgiate Molgora, risposta negativa in una lettera. Di questa, si reca qui la parte che riguarda la Belgiojoso:

“Mia moglie si rammenta perfettamente del tempo passato a Roma nel 1849 quando sua madre dirigeva l'ospedale destinato ai feriti. Essa ricorda la catastrofe in seguito alla quale esse furono costrette a lasciar Roma precipitosamente, e non senza pericolo, per andare ad imbarcarsi a Civitavecchia; ma essa è convinta che i registri dell'ospedale non facevano parte del loro pericolosissimo bagaglio. Da Civitavecchia si diressero verso l'Oriente, per rimanervi alcuni anni, durante i quali, come durante tutti i successivi, essa non vide nè udì mai accennare a simili registri.„

Quei preziosi registri andarono perduti.

[438]

III. IL TENTATO ASSASSINIO DI CRISTINA BELGIOJOSO.

Sul tentato assassinio, sulle sette stilettate, di cui fu vittima Cristina Belgiojoso nel 1853 in Asia, e di cui parla questo libro alla pag. 345, la stessa Principessa inviò una lettera alla sorella marchesa Giulia Rorà, allora a Torino, narrando tutt'i particolari del delitto. L'autografo di questa lettera, che l'autore del presente volume ebbe dalla cortesia della marchesa Luigia Visconti d'Aragona, ora è conservato nella Biblioteca Ambrosiana. Qui testualmente si riproduce il drammatico racconto della intrepida dama: più avanti, riproduciamo in fac-simile, un'altra lettera da lei scritta al fratellastro marchese Alberto Visconti d'Aragona da San Giovanni di Bellagio sul Lago di Como, dove la Principessa dimorava accanto alla figlia marchesa Maria Trotti; lettera molto notevole perchè, mentre parla delle sofferenze nervose della Principessa, ne spiega, tacitamente, in certo modo, le anomalie. Questa lettera, il cui autografo è ora presso l'autore di questo libro, gli fu favorita anch'essa dalla gentil marchesa Visconti d'Aragona. Ed ecco prima la narrazione del delitto. Maria era la figlia giovinetta che la Principessa aveva condotto con sè in Asia. M.r Méon e il signor Pastori, a cui la lettera accenna erano (specialmente il secondo) agenti della Principessa, la quale, non ostante le stremate fortune, viveva anche in Asia fra varii agenti, servi turchi, servi cristiani e un farmacista.

Da una montagna del mio Tchifflik.

30 agosto 1853.

Cara Giulia,

Da tanto tempo senza tue notizie, e non sapendo ove trovarti in questa stagione, mi era impossibile di annunziarti direttamente la disgrazia accadutami, nè di riconfortarti sulle conseguenze [439] di esse. Mi limitai dunque a pregare M.r Méon come Pastori, a fare in modo che la notizia non vi giungesse esagerata, nè per la voce pubblica. Ma nessuno, che non fu testimonio del fatto, può conoscere come io sia stata miracolosamente salvata. L'assassino è di Bergamo; era al servizio austriaco nel 48; disertò (così diceva almeno); combattè cogli italiani, indi emigrò a Costantinopoli, ove visse più di un anno; poi fu a me caldamente raccomandato dal marchese Antinori di Roma, come onestissimo e buonissimo giovane. Il marchese Antinori, di cui ebbi più tardi a lagnarmi, gode di molta stima presso i suoi compatrioti, e Pastori stesso m'invitava più volte a coltivare la sua amicizia, che era per lui, Pastori, un motivo di tranquillizzarsi sulla mia situazione isolata. Nei primi mesi che l'Albergoni (è il nome dell'assassino) fu da me impiegato in qualità di magazziniere, concepii dei forti sospetti sulla sua moralità, ed ebbi qualche motivo di credere ch'egli avesse voluto attentare alla vita del mio farmacista. La cosa era molto grave: io non avevo che sospetti vaghi, ed egli si difendeva con molto calore e con delle buone ragioni. Scrissi dunque al marchese Antinori raccontandogli l'accaduto, e pregandolo a prendere nuove informazioni sul suo raccomandato. Il marchese mi rispose di averlo fatto con tutto l'impegno e di non avere trovata la benchè menoma macchia al nome, nè al carattere di quest'uomo. Che potevo io fare? Ero allora sulle mosse per Gerusalemme e l'Albergoni era ammalato a segno ch'io non credevo [440] ch'egli si riavesse mai. Gli tolsi però ogni incombenza durante la mia assenza, ma lo lasciai al Tchifflik perch'egli si curasse, vivesse nella quiete e nel riposo, e guarisse, se poteva. Lo ritrovai al mio ritorno perfettamente ristabilito, ed informatami dagli altri della sua condotta ne ricevetti buonissimo conto. Gli restituii allora il suo impiego di magazziniere, e sebbene provassi per lui una invincibile avversione, pure non lasciai che questa mia disposizione irragionevole influisse sulla di lui sorte. Durante qualche mese si condusse bene, ma poi diede varie prove di una somma violenza di carattere, giunta a malizia e ad animosità. Allora lo avrei mandato via, ma il sequestro era stato posto sui miei beni; ero da quattro mesi senza un soldo; nè potevo licenziare quest'uomo senza pagarlo. In quel mentre, gli fu detto che io avevo scritto a Costantinopoli per far venire un altro magazziniere, il che era falso. Malcontenta di lui per questi atti di violenza, anzi di cattiveria, io stavo verso di lui piucchè mai sostenuta. Egli si decise a partire senza aspettare di essere licenziato: ma prima volle vendicarsi. L'intenzione sua, come disse di poi, era, non solo di ammazzare me, ma tutti quelli che sapeva mi avessero parlato male di lui, e principalmente Maria. Nella mattina del giorno fatale, chiese più volte di parlarmi in particolare; ma io che lo vedevo agitato, e che lo sapevo per abitudine gran bevitore di acquavite, ricusai di ascoltarlo dicendogli che avrebbe parlato meco quando fosse più tranquillo e più padrone di sè. Tentò pure [441] quell'istesso giorno di avvelenare un mio domestico, da cui temeva ch'io potessi ricevere soccorso. A pranzo, sembrava affatto fuori di sè e senza nissuna provocazione, mi diresse alcune parole insolenti alle quali risposi che s'ei voleva parlare in tal modo, escisse di casa mia.

Rimase un momento sopra pensiero; poi rimettendosi, mangiò con molto appetito, e si mostrò allegrissimo. Dopo il pranzo, io salii come è mio costume, nella mia camera. Saliti alcuni gradini, mi volgo, e me lo vedo dietro che mi faceva lume. Temendo di qualche altra scena, e volendo impedire che mi seguisse, gli tolsi il lume di mano augurandogli la buona notte, e proseguii per la mia strada, credendolo ritornato abbasso. Non appena però fui nella mia stanza che udii il suo passo nel corridoio, e tosto me lo vidi comparire dinanzi. Io stavo presso ad una finestra, dirimpetto alla porta. Egli traversa la stanza dicendo: signora, Ella mi ha insultato, ordinandomi di escire dalla sua casa; e dicendo queste parole era giunto a due passi da me. Allora gridando: muori perfida! muori scellerata! mi portò varii colpi di uno stile che teneva nascosto nella mano. I primi colpi furono tutti diretti al basso ventre. Io, che non vedevo lo stile, nè sentivo sulle prime il dolore, mi resi subito conto di quel che faceva, ma per un istinto di salvezza stesi le mani dove vedevo ch'egli dirizzava le sue: fui dunque ferita alla mano; allora vedendo egli che il ventre era coperto, mi portò un colpo al cuore, che mi passò il seno sinistro: vidi allora il ferro, mi [442] scansai alla diritta, girai intorno ad un tavolino, mi accostai alla porta e fuggii. Egli mi correva dietro, ma solo mi raggiunse sulla scala, ove tutti i servi che accorrevano di sopra mi fecero rallentare il passo. Ivi dunque raggiuntomi, mi vibrò un altro colpo nella schiena, e fu l'ultimo perchè fu preso. Io ebbi la forza di scendere tutte le scale da me, dicendo: mi ha assassinata, mi ha ucciso. La disperazione della mia povera Maria, quella pure di tutta la mia gente sì Turchi che Cristiani, mi straziava, ma mi sentivo una forza e una tranquillità di mente di cui non sapevo rendermi ragione. Risalita, rientrata nella mia camera, postami sul letto, esaminai le mie ferite, e ne diressi la medicazione. Una era al basso ventre, una alla coscia sinistra, una sul dorso della mano pure sinistra, una al petto dal lato sinistro, ed una attraverso la schiena. Temendo di una congestione o di uno stravaso interno sia al cuore, sia al petto, e malgrado la gran quantità di sangue escito dalle ferite, mi feci aprir la vena, coprire di mignatte, ed amministrarmi forti dosi di aconito. Buon per me, chè, durante la notte, il respiro divenne doloroso, difficile, quasi impossibile; ma raddoppiate le mignatte, i sintomi allarmanti scomparvero in poche ore. Tutte le mie piaghe si cicatrizzarono nello spazio di alcuni giorni, ed ora altro non mi rimane che una somma debolezza, e dei dolori al basso ventre, che non mi vogliono ancora lasciare.

Eccoti la dolorosa istoria. Lo stesso non avrebbe potuto accadermi in Europa? Quanti delitti non [443] vi si commettono ogni giorno! L'assassino fu condotto in catene a Costantinopoli senza dare il menomo segno di pentimento. Anzi disse: quando verrò fuori, toccherà a me. Io però, s'egli riacquistasse la sua libertà, non mi fermerei un'ora in paese ove potesse portarsi.

Addio, cara Giulia, ti lascio perchè stanca; aspetto con impazienza la lunga lettera che mi prometti, ed intanto ti abbraccio teneramente

tua aff.ma sorella
Cristina.

[444]

IV. LETTERA AUTOGRAFA DELLA PRINCIPESSA BELGIOJOSO AD ALBERTO VISCONTI D'ARAGONA.

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V. LA MARCHESA MARIA TROTTI-BELGIOJOSO.

Nel momento di terminare la settima edizione sulla Principessa Belgiojoso, si diffuse per Milano la notizia della morte della marchesa Maria Trotti-Bentivoglio, unica figlia della celebre patriota, e che in benevola e grata considerazione tenne sempre questo libro. Così si spense anche l'ultima e più intima testimone di molta parte di quella gran vita. Sul giornale milanese La Perseveranza (del 28 novembre 1913), scrissi allora alcune parole che è opportuno qui riferire.

La marchesa Maria Trotti dei principi Barbiano di Belgiojoso fu una delle più specchiate e venerate anime, che onorassero l'Italia femminile. Appunto perchè schiva di pompe, perchè volle svolgere in silenzio l'onda continua della beneficenza verso i poveri, e gli affetti più puri di sposa, di madre, d'amica, di dama di Sua Maestà la Regina Margherita; appunto perchè sentì che le migliori elevazioni si compiono nelle raccolte e quasi romite energie dello spirito, Maria Trotti apparve una singolare, quasi ideale figura.

Non si sarebbe detto che una così tacita e serena forza era nata e cresciuta in un turbinio strano e clamoroso di vita. È uno di quei fenomeni mirabili che fanno vie più apprezzare le singolari virtù del silenzio.

Nata a Parigi il 23 dicembre 1838, quando la madre, l'ammaliante principessa Cristina Belgiojoso, della magnifica stirpe dei Trivulzio, splendeva nel fiore dei trent'anni e regnava sopra una folla d'uomini illustri di Francia e [453] d'insigni esuli d'Italia e di Polonia, — Maria Trotti si sentì presto trascinata nell'abbagliante vortice patriottico della madre, che nel nostro Risorgimento fu la più fantastica, la più romantica dea, cospiratrice attivissima per la liberazione della patria. Fra le tempeste della sua vita, la principessa Cristina Belgiojoso circondò di protezione tenerissima l'unica propria figlia Maria. Ella passava fra i trionfi, dovuti al suo fascino di gran dama, al suo svariatissimo ingegno virile, al suo patriotismo avventuroso, alle sue beneficenze inesauribili; ma copriva la sua amata fanciulla con le amorose mani materne, come una fiammella che con la palma si ripari dal vento. Ella riguardava la figlia Maria una pura luce, sulla quale poteva posare tranquilla lo sguardo: ella la amò con una tenerezza, della quale i nemici suoi non la credevano capace.

*

Nel 1849, durante l'assedio di Roma, noi vediamo la principessa Belgiojoso dirigere l'ospedale dei feriti ai “Pellegrini„. È lei che chiude gli occhi di Goffredo Mameli; è lei che, a sue spese, cura tanti valorosi; — e le viene talvolta accanto una taciturna fanciulla, Maria, che impara al letto del dolore, del sacrificio, della morte, il dovere della compassione, della carità, dell'ammirazione per gli olocausti della vita a un'idea.

Roma cade in mano dei francesi assedianti. L'inferno della mitraglia è cessato; ma comincia [454] un altro inferno. Gli ufficiali francesi irrompono nelle corsie dell'ospedale, dove pure tanti loro fratelli d'armi sono curati con eguale premura dei nostri: insolentiscono contro la principessa Belgiojoso, e contro le altre magnanime dame infermiere: le accusano di sobillare i francesi infermi: e la Belgiojoso allora si rizza nella sua figura di principessa alterissima, e con tragica veemenza, respinge l'accusa, inveisce contro l'ingratitudine e l'insulto. Quali lampi terribili avranno lanciato quei grandi, neri occhi fatali? Con quali gesti d'impero si saranno levate quelle pallide mani nervose?... La principessa, fra non lievi pericoli, potè fuggire da Roma, e condusse seco la figlia Maria in Oriente; la figlia che, molti anni dopo, ricordava a qualche famigliare quella fuga e quei pericoli.

*

In Oriente, la vita è una nuova fantasmagoria. Viaggi lunghi penosi, turbe di popoli semi-barbari, notti passate sotto una tenda, o sotto le stelle, a cavallo. La madre veglia sulla figliuola, ne trema per la salute, di tutto si priverebbe per lei; le emozioni sono forti e le impressioni incancellabili. V'è del fantastico e del grandioso in quei viaggi lungo l'Egeo, sulle spiagge risonanti dell'Asia Minore, e in Terrasanta. Sul cielo azzurro immenso, ecco si disegna Gerusalemme....

La marchesa Maria Trotti era un'alta credente. Nella religione, trovava sublimi conforti, ma chi può dire che quella fede non le fosse sorta, [455] come forza sovrumana, della contemplazione della terra del più grande evento?

Nell'Asia Minore, la principessa Belgiojoso, acquistò un possedimento agricolo: un ciflik. Si era condotto seco uomini di fiducia, amministratori; si era circondata di servi turchi e cristiani. E uno di costoro, italiano, che si diceva reduce delle patrie battaglie, e vivamente raccomandato alla principessa dal marchese Antinori allora a Costantinopoli, pugnalò per vendetta una sera la principessa ferendola in più parti del corpo, e voleva uccidere anche la Maria. Furono salvate dagli altri servi, accorsi alle loro grida di soccorso. Il servo, che voleva vendicarsi del licenziamento minacciatogli dalla principessa perchè ubbriacone, fu disarmato, fu arrestato, cacciato in una prigione e condannato dalle autorità turche. E la principessa, che volle curarsi da sè stessa le ferite, una delle quali grave la ridusse curva per tutto il resto della vita, potè da allora con più calma lavorare per mantenere sè e la figlia e sostenere le spese del suo possedimento, che certo non fruttava quanto la illustre profuga s'era immaginato. Il sequestro dei beni, perpetrato dal Governo austriaco ritornato a dominare in Lombardia, dove la principessa Belgiojoso nel 1848, era apparsa, quasi nuova Giovanna d'Arco, alla testa del suo battaglione di militi crociati; le enormi spese sostenute per il mantenimento dell'ospedale dei “Pellegrini„ a Roma; quelle del viaggio, dell'impianto agricolo e via via.... avevano ridotto a mal partito la fortuna dell'ardimentosa signora; [456] perciò scriveva articoli per le riviste, e pei giornali d'America, dove propugnava la causa d'Italia; e con la figliuola Maria ricamava stoffe che si vendevano nei mercati di Costantinopoli. La famiglia, benchè colpita anch'essa dalle gravissime multe dell'Austria, non mancava di spedir denaro alle due esuli; ma quel denaro, per via, passando di mano in mano, si assottigliava, spariva.

*

Nel 24 giugno del 1861, Maria dei principi Barbiano di Belgiojoso andò sposa al marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, patrizio milanese, ch'era vedovo della contessa Elisa Lucini Passalacqua, con tre figlie. Così, ella di soli ventitre aprili, quando le giovani della sua età sognano l'amore senza sùbiti sacrificii, senza gravi pensosi doveri, assumeva nello stesso giorno delle nozze il duplice sacro ufficio di sposa e di madre tutrice. Ebbe poi il conforto di esser madre di due figlie proprie.

Nella primavera del 1893, moriva la contessa Adriana Marcello Zon di Venezia, signora di bella cultura, dama di Corte della Regina Margherita e la marchesa, già dama di palazzo, veniva eletta da Sua Maestà a quella carica di particolare, delicata fiducia. La prima Regina d'Italia, col suo spirito penetrante avea scoperte le rare qualità della gentildonna milanese, qualità velate dal consueto riserbo; e potè farsene ben presto un'amica; un'amica profondamente devota, che, in una notte spaventevole, in una [457] notte atroce, in quella dell'assassinio di Re Umberto I, doveva unire le proprie lagrime a quelle della Sovrana.

La vita di Margherita, vita di idealità e di atti eccelsi, si svolse per vent'anni accanto alla devozione di Maria Trotti; e nessuna meraviglia se Sua Maestà venne più volte a Milano per trovarla nel suo letto di pene, con quella trepidazione che la grave malattia non lasciava pur troppo dileguare.

Maria Trotti si spense a Milano, nella notte del 25 novembre 1913, nella stessa casa dove morì la madre sua; e i funerali — a cui parteciparono l'aristocrazia e il popolo — dicevano quanto la voce d'una povera cieca espresse poi, al Cimitero Monumentale di Milano, davanti alla bara, con accenti che strappavano il pianto.

Anche nella morte, la figlia si mostrò diversa dalla madre. La principessa Cristina Belgiojoso aveva terrore della morte; benchè vecchia, quasi mummificata, non voleva morire e lo diceva ad alta voce; tanto, dopo una vita sì avventurosa, ell'era avvinta ancora alla vita! La figlia Maria accolse la morte con un sorriso celeste.

Raffaello Barbiera.

[459]

INDICE.

I.

In casa Trivulzio e in casa Visconti d'Aragona
(pag. 1 a 18).

I primi anni di Cristina Trivulzio. — Aristocrazia e democrazia all'alba del secolo XIX. — Alla Corte napoleonica di Milano. — Il visconte di Chateaubriand a Milano. — Il processo del marchese Visconti d'Aragona come carbonaro. — Enrico Heine nel teatro alla Scala.

II.

I Belgiojoso.
Nozze, separazione e fuga della Principessa

(pag. 19 a 36).

Emilio Belgiojoso, il poeta Berchet e Gioachino Rossini. — Il supposto “giovin signore„ del Giorno. — Nozze fastose nella chiesa di San Fedele. — Mode. — La principessa sposa a Merate. — Gentildonne cospiratrici. — I principi Belgiojoso profughi in Svizzera. — Le spie. — Gherminelle contro il Governo austriaco. — Ricordi d'un ballo in costume in casa Batthyány a Milano. — Un “Pietro Aretino„; chi era?...

III.

La Principessa e la “Giovine Italia„
(pag. 37 a 54).

Il Metternich minaccia il Governo del Canton Ticino. — I profughi della Svizzera: un suicida. — Torna in scena la spia. — L'Austria confisca i beni alla Principessa e la condanna [460] alla morte civile. — Tentato arresto della Principessa — Giuseppe Mazzini e la sua Giovine Italia. — La Principessa ajuta la 1.ª Spedizione di Savoja. — Fingendo pentimento, domanda all'Austria la restituzione dei beni confiscati.

IV.

Un traditore
(pag. 55 a 72).

Un Argenti propone di uccidere il Metternich. — Il marchese Raimondo Doria e il Metternich. — Avventure del Doria. — Sue delazioni. — Il Doria e la Principessa. — Misteriose riunioni a Genova. — Una tragedia a Milano.

V.

Processi contro i Belgiojoso. — Cospiratrici belle
(pag. 73 a 94).

Avventure di Felice Argenti. — Processo contro Emilio e Antonio Belgiojoso. — L'imperatore d'Austria interviene. — Processo contro la Principessa. — Ordini dell'imperatore a favore di lei. — Processo contro Teresa Kramer-Berra. — Fulvia Verri. — Anna Tinelli e Paride Zajotti. — Tornano in hallo le giardiniere! — Condanne di morte. — Lettera della Principessa al marito. — Affetti. — Nuovo esilio. — Lettera del principe di Metternich sulle astuzie della Belgiojoso.

VI.

Gli esuli Italiani e il salotto della Principessa a Parigi
(pag. 95 a 122).

Come vivevano i profughi italiani a Parigi. — Generosità del principe Belgiojoso. — Un dimenticato precursore dell'emigrazione: Luigi Angeloni. — Il vecchio Filippo Buonarroti. — Il Comitato rivoluzionario italiano a Parigi. — Terenzio Mamiani: sue avventure d'amore. — La principessa Belgiojoso a Parigi. — Ardori di Adolfo Thiers per lei. — La Principessa parla alla Camera dei deputati francesi. — Il salon del generale La Fayette. — Il primo salon della principessa Belgiojoso a Parigi. — Strane abitudini di lei. — La bella italiana conquista Parigi. — Il salon di Bianca Milesi. Madamigella Eleuteria. — Suo misterioso destino.

[461]

VII.

I filosofi intorno alla Dea
(pag. 123 a 148).

Nicolò Tommaseo a Parigi. — Le sue elevazioni celesti e i suoi affetti terreni. — In Fede e Bellezza allude egli alla principessa Belgiojoso? — Vincenzo Gioberti a Parigi e il suo ardente divulgatore Massari. — La confidente del Massari. — Pubblicazioni filosofiche e teologiche della Principessa. — Un arguto giudizio di Terenzio Mamiani. — Il bel padre Cœur e il filosofo Giuseppe Ferrari. — L'abate Lamennais. — L'asceta Ozanam e l'asceta Sìrtori. — Filosofesse in Francia. — Religiosi abbigliamenti della Principessa.

VIII.

Alfredo de Musset ed Enrico Heine
(pag. 149 a 168).

Primo incontro di Alfredo de Musset colla Principessa. — Una sera nel parco di Versailles. — Il biondo poeta ospite della Principessa. — Ciò che raccontano due biografi di Alfredo de Musset: madame Joubert e Arsène Houssaye. — Una festa di ballo amorosa. — Lettera della principessa Belgiojoso. — Una caricatura di Alfredo de Musset. — Addio, incanto! — Enrico Heine a Parigi. — La Belgiojoso benefattrice di Enrico Heine. — Una serata con Vincenzo Bellini. — Morte dell'autore della Norma. — Enrico Heine e l'Italia.

IX.

Il dolce signore.... — Il cieco Thierry
(pag. 169 a 179).

Come amavano le lionnes de Paris. — I romanzi alla moda. — Lo storico Francesco Mignet. — Mignet e Thiers: loro studii comuni, loro diversi destini. — Tre scuole storiche francesi. — Agostino Thierry. — Il suo genio, le sue sventure. — Grandi e delicate beneficenze della principessa Belgiojoso verso Agostino Thierry. — Malignità del mondo.

[462]

X.

Una folla d'immortali
(pag. 180 a 204).

Canta il principe Belgiojoso. — Rossini al piano. — Giulia Grisi e il tenore Mario. — Meyerbeer e i gatti. — Thalberg. — Un altro pianista: Döhler. — Chopin e gli esuli polacchi a Parigi. — Un pittore irritato: Delacroix. — Bella scenetta! — Il ritratto della Belgiojoso dipinto dal Lehmann. — Victor Hugo. — Alessandro Dumas padre e la sua bionda Ida. — Balzac. — Sue supposizioni sulla Principessa. — Stendhal lo corregge. — Il poeta de Laprade. — Lamartine. — Chateaubriand. — Augusto Barbier. — Un traduttore di Dante. — La grandezza di Pellegrino Rossi. — Camillo Cavour in una seduta spiritica presso la Principessa. — Un improvvisatore. — Carattere del salotto della Belgiojoso. — Sfide di esuli italiani a Vittor Hugo.

XI.

Le amiche e le nemiche di Parigi
(pag. 205 a 228).

Ultimi anni di Madame Recamier e la Principessa. — Il brio di lady Blessington, lord Byron e la contessa Guiccioli a Parigi. — Giorgio Sand. — Daniel Stern e il Mazzini. — Il salotto della contessa Anna Dubourg, Sofia O' Ferrall e il conte Federico Confalonieri. — Il salotto di Madame Ancelot. — L'addio desolato del tenore Nourrit e l'apparizione della Principessa nel salotto di Madame Ancelot. — Un'accademia di quaranta donne immortali. — Intrighi femminili. — Madame de Castellane. — Madame de Girardin. — Teofilo Gautier viene in scena. — Le allegre serate in casa della contessa Merlin. — La disgrazia toccata a questa signora.

XII.

La fuga e le passioni della duchessa de Plaisance
(pag. 229 a 245).

La società gaudente di Parigi sotto re Luigi Filippo. — Camillo Cavour ai banchetti del principe Belgiojoso a Parigi. — Uno [463] scandaloso romanzo a chiave. — Pier Angelo Fiorentino. — La duchessa de Plaisance. — Sua passione per il principe Belgiojoso. — Sua fuga con lui. — Rifugio nel Lago di Como. — Il barone Carlo Bellerio alla Villa Pliniana. — L'ora dell'abbandono. — La duchessa de Plaisance a Moltrasio e a Milano. — Ultimi anni della duchessa. — Ultimi anni del principe. — Un dramma di Mario Uchard sulla duchessa de Plaisance. — Lettera inedita di Mario Uchard.

XIII.

La Principessa pubblicista e benefattrice dei contadini.
Suo incontro con Luigi Napoleone

(pag. 246 a 274).

La Gazzetta Italiana fondata dalla Belgiojoso a Parigi. — Peripezie di questo giornale. — La Principessa ritorna in Italia. — Locate e il suo paesaggio. — Villa dei Trivulzio. — Suo medagliere e biblioteca. — Benefiche iniziative della Principessa pei contadini e i loro figliuoli. — Il suo illuminato socialismo. — La donna Paola del Parini. — Il dottor Màspero. — L'Ausonio. — La lettera del Manzoni sul “Romanticismo„. — Malcontento del Manzoni. — Speranze in Carlo Alberto. — Drammatica fuga di Luigi Napoleone dalla fortezza di Ham. — Incontro di Luigi Napoleone colla Principessa. — Loro dialogo sul risorgimento d'Italia. — Poeta profeta.

XIV.

La rivoluzione del 1848. — Il battaglione della Principessa
(pag. 275 a 292).

Partenza della Principessa da Napoli con 200 volontarii e festoso arrivo a Milano. — Il podestà conte Gabrio Casati e gli articoli politici della Principessa sulla Revue des Deux Mondes. — Carattere della rivoluzione del 1848. — Incontro della Belgiojoso col poeta Mickievicz. — Lettera di lei a re Carlo Alberto. — Le risposte del conte di Castagneto. — Stizze di Cesare Balbo. — Il Crociato e altre pubblicazioni politiche della Belgiojoso. — Il Circolo albertista della Principessa in via Borgonuovo a Milano. — Assistenze ai feriti.

[464]

XV.

Ancora nel 1848: a Milano, a Venezia, a Parigi
(pag. 293 a 306).

Come si diramò il battaglione della Principessa. — Le bugie del conte de Hübner. — Il battaglione dell'abate Meneghelli. — Giudizii del Metternich sui liberali italiani. — Giudizii severi della Belgiojoso sugli uomini della rivoluzione lombarda. — Carlo Alberto a Milano e il dramma del palazzo Greppi. — La rivoluzione di Parigi: la Principessa torna a Parigi. — Le vésuviennes. — Comico incidente in un ballo ufficiale. — Armando Marrast. — La Belgiojoso va all'assedio di Roma.

XVI.

Nel 1849. La Principessa all'assedio di Roma
(pag. 307 a 324).

Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi a Roma. — Giovani eroi. — La Belgiojoso al letto dei feriti. — Giulia Modena. — Fortezza e sventure di Margherita Ossoli nata Fuller. — La strage di Villa Corsini. — La Belgiojoso accoglie Goffredo Mameli ferito a morte. — Suo carteggio coi Triumviri. — Suo talento d'amministrazione e sua generosità negli ospedali. — Sua terribil lettera a un francese. — Parte per l'Oriente.

XVII.

La Belgiojoso in Oriente e gli arem
(pag. 325 a 348).

Perquisizioni austriache. — La scoperta d'un cadavere. — Funebri leggende. — La Principessa in Grecia. — Malumori fra i Greci per alcuni articoli della viaggiatrice. — A Costantinopoli e presso Angora. — Negli arem. — Donne d'Oriente. — Nuovi viaggi della Principessa e peripezie notturne. — Gerusalemme. — Un servo tenta d'assassinare la Principessa. — Le ferite. — Lavori d'ago. — Scritti della Principessa nella Revue des Deux Mondes. — Suoi nuovi libri.

[465]

XVIII.

Ritorno in Francia e in Italia
(pag. 349 a 363).

Sbarco d'una carovana asiatica a Marsiglia. — La Principessa nel castello di Saliès. — La marchesa Teresa Visconti d'Aragona e le sue memorie. — Il marchese Alessandro Carlo d'Aragon e le sue veglie colla Principessa. — Napoleone III e il conte Francesco Arese. — Ultimi giorni di Enrico Heine a Parigi. — Camilla Seiden, il suo triste romanzo conjugale, i suoi libri. — Ritorno della Principessa al Lago Maggiore. — Nella pace di Oleggio Castello.

XIX.

I salotti di Torino. Alla vigilia della guerra del 1859.
(pag. 364 a 379).

Il salotto Rorà a Torino. — Il salotto Alfieri. — Il salotto della baronessa Olimpia Savio. — Carattere della società torinese. — Incontro della principessa Belgiojoso con Camillo Cavour nel salotto di Giulia Rorà. — Cavour e l'arciduca Massimiliano d'Austria. — I salotti di Clara Maffei e di don Carlo D'Adda a Milano. — Giuseppe Mazzini viene incognito a Milano. — Sue mire. — L'Histoire de la Maison de Savoie scritta dalla Belgiojoso. — La Principessa recita con Ippolito Nievo. — Una memoranda sera al teatro alla Scala. — Gli ufficiali austriaci.

XX.

Dopo la battaglia di Magenta
(pag. 380 a 398).

Particolari della battaglia di Magenta. — La liberazione di Milano. — Memorabile serata nel teatro alla Scala. — Battaglie di Melegnano, di San Martino e Solferino. — I feriti accolti nelle famiglie. — Carme d'un soldato francese. — Carmi di una poetessa inglese. — Camillo Cavour in casa [466] della Belgiojoso. — Massimo d'Azeglio governatore di Milano. — L'Italie, giornale politico, fondato dalla Principessa. — Altre pubblicazioni politiche di lei. — La visione dell'Italia futura.

XXI.

A Blevio sul Lago di Como
(pag. 390 a 414).

Storia del villino della Principessa a Blevio: un frate. — Le grandi beneficenze della duchessa de Plaisance. — Vincenzo Bellini e Giuditta Pasta. — Abominevoli memorie della moglie di Giorgio IV d'Inghilterra. — Maria Letizia Solms-Wyse e Urbano Rattazzi nella Villa Maria. — Il prete mazziniano Tommaso Bianchi. — Nuovo stato psicologico della Principessa e strani fenomeni da lei sofferti. — Le sue lettere al dottor Màspero. — Dame di spirito. — La vedova del conte Federico Confalonieri. — Matilde Juva-Branca e il suo canto. — Un'inondazione notturna.

XXII.

Gli ultimi anni a Milano
(pag. 415 a 427).

I ricevimenti della Principessa a Milano. — I suoi visitatori, i suoi pranzi, le sue serate musicali. — Una canzonetta veneziana. — Ultimo scritto della Belgiojoso sull'avvenire della donna. — Suoi concetti d'un socialismo alto e puro. — Le ultime ore, la morte, la tomba, l'oblio. — Carteggi distrutti. — Chi era la principessa Belgiojoso.

Appendice.

Lettera inviata della principessa Belgiojoso alla sorella Giulia sul tentato assassinio subìto. — Lettera (inedita autografa) della principessa Belgiojoso al fratello Alberto sulle proprie sofferenze e fenomeni nervosi. — Lettera del generale La Fayette alla Belgiojoso. — Lettera sulla partenza della principessa da Roma nel 1849, dopo l'assedio.


Opere di RAFFAELLO BARBIERA

(Edizioni Treves).

La Principessa Belgiojoso, i suoi amici, i suoi nemici, il suo tempo. (Da memorie mondane e da archivii segreti di Stato, — con documenti inediti, ritratti e fac-simili.) Nuova edizione riveduta (la 7.ª) L. 10 —

Il Salotto della Contessa Maffei. (8.º migliaio dell'edizione Treves) 3 50

Passioni del Risorgimento. Bozzetti storici da archivii segreti di Stato, con scritti inediti della Principessa Belgiojoso, Berchet, Lamartine, Prati, ecc., con caricature di Alfredo De Musset, ecc., e documenti inediti anche in fac-simile. 4.ª edizione 7 —

Figure e figurine del secolo XIX. (Bozzetti storici.) Da archivii segreti di Stato. 6.º migliaio 9 —

Ricordi delle Terre dolorose. 32 illustr. (3.ª ed.) 7 50

Voci e volti del passato (1800-1900), da archivi segreti di Stato e da altre fonti. (3.ª ediz.) 10 —

I Poeti italiani del secolo XIX. Nuova edizione. In-16, di 1400 pagine, diviso in quattro parti, con 23 ritratti 12 —

Legato in tela e oro, in due volumi, con astuccio 20 —

Venezia nell'arte e nella vita. (Numero di Natale e Capo d'Anno dell'Illustrazione Italiana, anno 1910.) Con numerose illustrazioni. (Esaurito.)

I fratelli Bandiera, dramma storico in 4 atti (in collaborazione di Carlo Bertolazzi), con Proemio storico da documenti inediti 5 —

Vittorio Emanuele, ricordi. (Per incarico della Giunta Municipale di Milano che ne distribuì 20,000 copie alle scuole.) (Esaurito.)

Verso l'Ideale. Profili biografici con scritti inediti di illustri. (Esaurito.)

NOTE:

1.  Lettres à l'Etrangère, t. II, p. 417, année 1844.

2.  Metternich, Mémoires, vol. VIII, p. 567 (Paris, Plon).

3.  Chateaubriand, Mémoires d'outretombe, tom. IV, p. 140 (Paris, 1849).

4.  Ultime linee del XXV cap. dei Reisebilder d'Enrico Heine.

5.  Archivio Trivulzio-Belgiojoso.

6.  Opere di U. Foscolo, vol. II, p. 220 (Firenze, 1862).

7.  Busta CVII, anno 1829.

8.  Per le illustri nozze Belgiojoso-Trivulzio. Fiori poetici.

9.  Vedi il capitolo Cospiratori e cospiratrici del '21, nel libro Figure e figurine del secolo che muore, di Raffaello Barbiera (Milano, Treves, 7.ª edizione, 1899).

10.  Atti Segreti del Governo Lombardo-Veneto: busta CXXVIII.

11.  Archivii di Stato lombardi: Sezione storica: famiglia Trivulzio. Il decreto fu pubblicato nel Bollettino storico della Svizzera italiana, nel 1887, pag. 28. Ne parlano anche gli Atti Segreti del Governo: busta CXXXII.

12.  Atti Segreti: busta CXXXII.

13.  Atti Segreti: busta CXXXII.

14.  Atti della Polizia, N. 5669 Protocollo Segreto.

15.  Tutti Atti Segreti citati: busta CXLII.

16.  Ivi.

17.  Atti Processuali della “Giovine Italia„, negli Archivii Lombardi: pezza n. 401, vol. XIV, anno 1832.

18.  Processi della “Giovine Italia„. Archivii Lombardi, busta CXXXV.

19.  Epistolario di G. Mazzini, vol. I, p. 329.

20.  La Cecilia. Memorie, vol. I, p. 163.

21.  Archivii di Vienna. A. Sandonà, Rivista d'Italia, Giugno, 1909.

22.  Archivio di Milano. Atti Segreti, busta CXLII.

23.  Questo, e tutto quanto segue, è desunto dagli Atti Segreti della Presidenza del Governo Lombardo-Veneto e dai Processi della “Giovine Italia„, custoditi nel R. Archivio di Milano (busta CIX e seguenti).

24.  Firenze, Barbèra ed., p. 95.

25.  Carte processuali nell'Archivio di Stato Lombardo: esami giudiziarii dell'Argenti e del Doria (busta II, XII, XIII) e lettere inedite del tempo. Vedi Cantù, Cronistoria, vol. II, parte I, pag. 287. Il Cantù chiama l'Argenti Filippo, per un ricordo dantesco; ma si chiamava Felice.

26.  Carte processuali dell'anno 1831.

27.  Atti Segreti della Presidenza del Governo: busta XXXIX.

28.  Lettere (Nuova Antologia del 1.º ottobre 1901).

29.  Carte processuali: pezze 1134 e seguenti.

30.  Atti processuali: pezze 15 381 e seguenti.

31.  Atti Segreti, vol. CLXI, 1832. Vedi anche Figure e figurine di Raffaello Barbiera pag. 226-227 (Milano, Treves).

32.  Atti Segreti, vol. CCIV, 1836.

33.  Atti Segreti, vol. CXLV, anno 1831.

34.  Pezze 11-34 11-61.

35.  Processi: busta CXXXI. Decreto imperiale del 13 Maggio 1834.

36.  Raccolta d'autografi di Carlo Vanbianchi di Milano.

37.  Dal tedesco. Archivio del Ministero degli Interni a Vienna, n. 7752, anno 1832, fasc. 1215. Vedi: A. Sandonà, Rivista d'Italia, Giugno 1909.

38.  M.me Ancelot, Un salon de Paris, pag. 257 (Paris, 1866).

39.  T. Mamiani, Parigi or fa cinquant'anni (Nuova Antologia, Firenze, ottobre-dicembre 1881, aprile 1882).

40.  Rusconi, Memorie aneddotiche (Roma, 1883).

41.  Mazzini, Epistolario, vol. I, p. 27 (Firenze, Sansoni, 1902).

42.  Idem, p. 21.

43.  Rusconi, Memorie aneddotiche, p. 137 (Roma, 1883).

44.  T. Mamiani, Lettere dall'esilio, pubbl. da Ettore Viterbo.

45.  R. Archivio di Stato Lombardo: Atti Segreti, busta CCXLI (22 maggio 1840).

46.  R. Archivio di Stato Lombardo: Atti Segreti, busta CCXLI.

47.  Barone Alessandro Zanolini, Sulla Milizia Cisalpino-italiana (Milano, Borroni e Scotti, 1845).

48.  V. Les salons de Paris, del visconte De Beaumont-Vassy (Paris, 1866).

49.  Atti Segreti della Presid. del Governo Lombardo: anno 1837.

50.  N. Tommaseo, Fede e bellezza, p. 81 (Milano, Borroni, 1852).

51.  Nella mia raccolta d'autografi.

52.  Mauro Macchi, Le contraddizioni di Gioberti (opuscolo ristampato nel 1901 a Palermo dall'ed. R. Sandron).

53.  Lettere di V. Gioberti, pubblicate da Domenico Berti (Firenze, Barbèra, 1881).

54.  Jules Renouard et C., Libr.

55.  Cantù, Alessandro Manzoni, vol. II, pag. 41 (Milano, Treves, 1882).

56.  Essai sur Vico, par M.me la princesse B*** (Milan, Turati), senza data. — La Science Nouvelle, Vico et ses œuvres, trad. par M.me C. Belgiojoso (Milano, 1844). — La Science Nouvelle par Vico, traduite par l'auteur de l'Essai sur la formation du dogme catholique (Paris, Renouard, 1844).

57.  V. De Lescure, Les femmes philosophes (Paris, 1881).

58.  Minghetti, Miei ricordi. (Torino, Roux, vol. I, pag. 32.)

59.  Cap. XI (Paris, Lévy, 1888).

60.  Le caricature (son due!) di A. de Musset furono pubblicate nel libro della De Janzé, Étude sur A. De Musset (Paris, 1891),e riportate nell'Art di Parigi (anno 1892, p. 193).

61.  Œuvres de Alfred de Musset (Paris, Lemerre, 1876).

62.  Arsène Houssaye, Les confessions, souvenirs d'un demi-siècle (1830-1880), vol. I, pag. 283 (Paris, Dentu).

63.  Jules Legras, Henry Heine poète (Paris, Lévy, 1897).

64.  Fascicoli di giugno e luglio 1894.

65.  Heine, Notti Fiorentine. Traduzione di P. Valabrega (Milano, 1888).

66.  Collezione d'autografi moderni. N. 12756. Lettera del Bellini a M. Troupenas.

67.  Paris, Lévy, 1881, pag. 82.

68.  E. Petit, François Mignet. Paris, 1889.

69.  Monsieur Augustin Thierry, son système historique et ses erreurs, par L. Aubineau, 1879.

70.  N. Tommaseo e G. Capponi, Carteggio inedito dal 1833 al 1874. Vol. I, p. 543 e p. 615 (Bologna, Zanichelli, 1911).

71.  C. Monselet, Statues et statuettes contemporaines (Paris, 1852), p. 5.

72.  Souvenirs de l'émigration Polonaise, par A. Kosciakiewicz, ancien officier de l'armée nationale polonaise (Paris et Lyon, 1858).

73.  Vedi le notizie dell'Archivio di Stato Lombardo su Enrico Beyle, nel volume di Raffaello Barbiera: Figure e Figurine (Milano, Treves, 7.ª edizione), pag. 54.

74.  Memorie del generale Guglielmo Pepe, intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia, scritte da lui medesimo (Lugano, 1847), vol. II, cap. LX, p. 504.

75.  Nelle ultime linee del Libro VII su Lugano.

76.  Carteggio ms. nella Biblioteca Nazionale di Firenze.

77.  Lettera a G. P. Vieusseux (Parigi, settembre 1838).

78.  Carteggio di M. Amari (Torino, Roux, 1896), v. I, p. 81.

79.  Mignet, Notices et Portraits historiques et littéraires (Paris, Charpentier. 1854), Tome II, pag. 181.

80.  N. Tommaseo al Capponi: Carteggio inedito, (Bologna, 1911) pag. 98.

81.  Lettera di Nicola Fabrizi a Carlo Bellerio, 3 novembre 1881. (Vedi: Raffaello Barbiera: Passioni del Risorgimento, Milano, Treves, 4.ª edizione, pag. 318).

82.  Diario inedito del conte di Cavour, pubblicato per cura di Domenico Berti (Roma, Voghera, 1888), p. 309.

83.  Un volume. Paris, G. Baillière, 1873.

84.  A. Caccianiga, Sotto i ligustri (Milano, Treves), e Domenico Gaspari, Vita di Terenzio Mamiani (Ancona, 1888).

85.  A. Caccianiga, Sotto i ligustri (Milano, Treves).

86.  Gavarni, par E. Forgues, pag. 22-23.

87.  M.me Ancelot, Un salon de Paris (Paris, Dentu, 1866).

88.  Fasc. del 15 dic. 1899.

89.  Le Vicomte de Launay. Lettres parisiennes par Madame Emile de Girardin (Paris, 1857, vol. III, p. 307).

90.  Pag. 32 della nuova edizione. Paris, 1880.

91.  Les Lionnes de Paris, par feu le Prince de *** (Paris, Amyot, 1843, II vol.).

92.  Paris, Aniéré ed.

93.  Les salons d'autrefois, souvenirs intimes, par M.me la Comtesse De Bassanville (Paris, Aniéré), deuxième série, p. 144.

94.  Di Carlo Bellerio parlo distesamente nell'VIII capitolo del libro Figure e figurine del secolo XIX con notizie inedite d'Archivii segreti di Stato (Milano, Treves), 7ª edizione.

95.  Carteggio del Vieusseux conservato nella R. Biblioteca Nazionale di Firenze.

96.  Carteggio del Vieusseux conservato nella R. Biblioteca Nazionale di Firenze.

97.  Ivi.

98.  Carteggio del Vieusseux conservato nella R. Biblioteca Nazionale di Firenze.

99.  V. L. Ferrario, Gazzetta di Milano, N. 59 e 68, anno 1845; e Carlo Morbio, Francia e Italia, Milano, 1873, p. 134-135.

100.  La lettera-circolare è conservata nel Museo del Risorgimento di Milano (N. 1353).

101.  Numero del 2 aprile 1845.

102.  Biblioteca Nazionale di Parigi. Manoscritti N. 1301 (Collection d'autographes Lefevre).

103.  Milano, 1868. (Questo rarissimo opuscolo si trova nella Biblioteca Nazionale di Roma.)

104.  Milano, tip. Manini, 1869.

105.  Immortali e dimenticati, di Raffaello Barbiera (Milano Cogliàti), 3ª edizione. Capitolo: “Un'amica del Parini„.

106.  V. alla pag. 12 del I volume degli Scritti postumi di A. Manzoni (Milano, 1900).

107.  Paris, Dentu, cap. XXIV.

108.  Carlo Pepoli, saggio storico di Cesare Albicini (Bologna, 1888), p. 86.

109.  Archivii di Stato di Vienna. V. A. Sandonà. (Rivista d'Italia, Giugno 1909).

110.  Archivio Casati.

111.  Brofferio, Storia del Parlamento Subalpino (Milano, Belzini, 1865), pag. 447-449.

112.  Nella stessa opera, p. 104.

113.  p. 455.

114.  Lettere di Gino Capponi e di altri a lui (Firenze, 1883), vol. II, p. 358.

115.  Le Comte de Hübner, Une année de ma vie (Paris, 1891), pag. 160.

116.  Milano, Fr. Lucca, 1848.

117.  Milano, Ricordi, 1848.

118.  Mémoires, documents et écrits divers laissés par le prince de Metternich, publiés par son fils le Prince Richard de Metternich (Paris, Plon, 1883), vol. VII, pag. 408.

119.  Opera citata, vol. VII, pag. 442.

120.  Sull'indipendenza dell'Italia, di Cormenin, versione italiana con note di A. Bianchi-Giovini (Torino, Schiepatti, 1848).

121.  M.me Ancelot, Un salon de Paris, p. 91.

122.  Guerrazzi, Lo Assedio di Roma (Milano, Politti, 1870), parte III, p. 779.

123.  Vedi: Autobiography of Margaret Fuller-Ossoli with additional Memoirs by I. F. Clarke, R. W. Emerson and W. E. Channing (Boston, 1852). — V. Margaret Fuller (Marchesa Ossoli), by Julia Ward Howe (1883).

124.  V. Garibaldi, Memorie autobiografiche (Firenze, Barbèra). — Vita di G. Garibaldi, di J. W. Mario (Milano, Treves), cap XI, ecc.

125.  Carteggio della principessa Belgiojoso col Vieusseux (nella R. Biblioteca Nazionale di Firenze).

126.  Carteggio della principessa Belgiojoso col Vieusseux (nella R. Biblioteca Nazionale di Firenze).

127.  Carteggio citato.

128.  Favoritomi dall'amico Giannino Antona Traversi.

129.  Manoscritto del Museo del Risorgimento di Milano.

130.  Roba di Roma„ di William W. Story (London, 1863): favoritami dalla gentil contessa Evelina Martinengo, nata Carrington, scrittrice anglo-italiana, che ritrasse ne' suoi libri inglesi e italiani tante belle figure di patrioti nostri.

131.  V. René Bittard Des Portre: L'Expédition française de Rome sous la deuxieme République, d'après des documents inédits (Paris, 1904). (Apologia dei francesi papalini).

132.  Asie Mineure et Syrie, souvenirs de voyages par M.me la Princesse de Belgiojoso (Paris, Lévy, 1858).

133.  Pag. 188.

134.  Carteggio inedito a P. Vieusseux nella Biblioteca Nazionale di Firenze.

135.  Lettera favoritami dalla squisita cortesia della stessa marchesa Luigia Visconti d'Aragona, che ringrazio.

136.  Pag. 409.

137.  Paris, Plon, 1893.

138.  Toulose, 1901.

139.  Atti segreti, busta CCIV.

140.  W. Graham, Fortnightly Review di Londra (agosto e ottobre 1894). — Lettere inedite d'un diplomatico, presso l'A.

141.  Vedi Heinrich Heine's: Familienleben; pubbl. dal barone Luigi von Embden, nipote del poeta (Amburgo, 1893).

142.  Balzac: Correspondance (Paris, 1877) I vol.

143.  Henry d'Ideville, Journal d'un diplomate en Italie (Paris, Hachette, 1872), p. 29.

144.  Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e Camillo Cavour.

145.  Histoire de la Maison de Savoie, par M.me la Princesse Christine Trivulce de Belgiojoso (Paris, 1860, Lévy).

146.  E. Camerini, Donne illustri (Milano, Garbini), p. 220.

147.  Campagne de l'Empereur Napoléon III en Italie; rédigée au Dépôt de la guerre (Paris, 1862). — Duc d'Almazan, La guerre d'Italie, campagne de 1859 (Paris, 1882). — Emile Ollivier, Napoléon III, général en chef (“Revue des Deux Mondes„ 1899) — I. de Saint-Armand, La France et l'Italie (senza data). — Magenta. Der Feldzug von 1859 bis zur ersten Entscheidung, von v. Caemmerer Generalleutnant z. D. (Berlin, Mittler, 1902). — Giovanni Giacobbe, La battaglia di Magenta (da un manoscritto dell'Archivio municipale di Magenta). Milano, 1891. — Cantù, Cronistoria. — Archivii parrocchiali di San Marco a Milano. — Qualche particolare mi venne favorito dal marchese Carlo Ermes Visconti, che compiè il pio ufficio di seppellire gran parte dei cadaveri sul campo.

148.  Milano, 10 settembre 1859, tip. Bernardoni, p. 23.

149.  Poesie scelte di Elisabetta Barrett-Browning, versione libera di Tullo Massarani (Milano, Treves, 1898), p. 305: Una dama di corte.

150.  Heine, Reisebilder, traduzione italiana di Antonino Cimino Foti (Milano, 1894), parte II, cap. XXV, p. 98.

151.  Milano, Fr. Vallardi (1869).

152.  Milano, Fr. Vallardi (1868).

153.  Processi della Giovine Italia, negli Archivii segreti di Stato a Milano (anno 1831, buste CVI, CVII, CXI, CXII, CXIII, CXX).

154.  Tutto ciò è desunto dalle lettere, ricche d'intimi particolari, che la principessa inviava al dottor Màspero, e che il nipote di questo, l'egregio dottor Maggione, mi affida.

155.  Atti segreti della Presidenza del Regno Lombardo-Veneto, busta CCXLIX.

156.  Capricciosi.

157.  Fegato.

158.  L'atto di morte, nei registri del municipio di Milano, contiene qualche inesattezza. Esatta è, invece, la registrazione della parrocchia di San Tommaso.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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