The Project Gutenberg eBook of Annali d'Italia, vol. 5

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Title: Annali d'Italia, vol. 5

Author: Lodovico Antonio Muratori

Release date: June 19, 2016 [eBook #52377]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANNALI D'ITALIA, VOL. 5 ***

ANNALI

D'ITALIA

5


Copertina

ANNALI
D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750


COMPILATI

DA L. ANTONIO MURATORI

E

CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

Quinta Edizione Veneta


VOLUME QUINTO


VENEZIA

DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.

1846


INDICE


ANNALI D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500

[9]

   
Anno di Cristo mcclix. Indizione II.
Alessandro IV papa 5.
Imperio vacante.

Se nel precedente anno s'affollarono le calamità sopra l'Italia, il presente abbondò di consolazioni. Non era uomo Eccelino da sofferir compagni nel dominio di Brescia [Roland., lib. 11, cap. 12.]. Per isbrigarsi dunque da Buoso da Doara, che col marchese Oberto Pelavicino comandava alla metà di quella città, siccome ancora a Cremona, propose d'inviarlo per podestà a Verona. Buoso, persona accorta, che prevedeva i pericoli imminenti a chi si metteva in mano d'un tiranno sì sanguinario, ricusò con bella maniera, e poi stette ben in guardia per non essere colto. Non finì poi la faccenda, che il marchese Oberto e Buoso dovettero cedere ad Eccelino la signoria intera di Brescia, e ritirarsi a Cremona. Ma rimasero ben inaspriti per questo tradimento; e perciò Oberto segretamente si collegò con Azzo VII marchese d'Este, co' Ferraresi, Padovani e Mantovani; e Buoso anche esso trasse nella stessa lega Martino della [10] Torre col popolo signoreggiante in Milano, mercè di una concordia stabilita fra loro per conto di Crema. Ma neppure stette in ozio Eccelino. Fece anch'egli una segreta lega coi nobili di Milano. Non abbiamo storico alcuno milanese che ci abbia ben dicifrato lo stato allora di quella città. Il solo fra Galvano dalla Fiamma, dell'ordine de' Predicatori [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 293.], scrive che sul fine di marzo nacque dissensione fra lo stesso popolo dominante in Milano. Volle l'una delle parti per suo capo Martino dalla Torre, l'altra Azzolino Marcellino. Prevalse il Torriano colla morte dell'altro. Allora i nobili, paventando la forza di questo capo e del popolo, elessero per loro capo Guglielmo da Soresina, e si fecero forti. Affin di quetare sì fiere turbolenze, si trasferì a Milano Filippo arcivescovo di Ravenna legato pel papa, che mandò ai confini i due suddetti capi. Il che vien anche asserito dall'autore degli Annali Milanesi [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], senza por mente che tuttavia Filippo legato era detenuto prigione in Brescia da Eccelino, e che per conseguente all'anno precedente, prima della prigionia di lui, dovrebbe appartener questo fatto. Avendo Martino rotti i confini, [11] se ne tornò a Milano, e fece stare colla testa bassa la nobiltà. Il perchè Guglielmo da Soresina ed altri nobili, andati a Verona, promisero ad Eccelino di dargli in mano la città di Milano. L'autore degli Annali suddetti di Milano ci vorrebbe far credere che Leone arcivescovo colla fazion de' nobili fosse cacciato fuori di Milano, e ch'egli stesso ricorresse ad Eccelino, con offerirgli il dominio di Milano: il che non sembra verisimile. A mio credere, parte dei nobili restata in Milano, e non già tutti, se l'intese con Eccelino. Lo stesso pare che si possa ricavare da Rolandino e dal Monaco Padovano [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.], e chiaramente lo dice Guglielmo Ventura [Ventura, Chron. Astens., cap. 2, tom. 11 Rer. Ital.]. Comunque sia, sappiamo di certo che Eccelino, siccome vedremo, si mosse alla volta di Milano, lusingandosi già d'avere in pugno quella nobilissima città. Ma si vuol prima avvertire che nell'aprile del presente anno [Roland., lib. 11, cap. 16.] i Padovani s'impadronirono di Lonigo e di Custoza, togliendole ai Vicentini. Arrivati anche alla grossa ed abbondante terra di Tiene, le diedero il sacco ed il fuoco. Poscia nel mese di maggio presero la terra di Freola, e, ben fortificatala, vi lasciarono un sufficiente presidio. Ad Eccelino, tuttavia dimorante in Brescia, fu portata questa nuova, ed essa fu la fortuna di molti poveri Veronesi accusati di tradimento; imperciocchè avendo egli spedita una brigata di Tedeschi a Verona per condurre que' miseri a Brescia, udito il fatto di Freola, montò in sì gran collera, che fatti fermar per istrada i Tedeschi, in persona, correndo il mese di giugno, mosse l'armata, e, portatosi colà, ripigliò quella terra; e tutto quel popolo che umilmente e tosto se gli arrendè, fece legare, grandi e piccoli. Molti d'essi levò dal mondo, nè lasciò andarne alcuno senza segno della sua barbarie, [12] con aver [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] fatto cavar gli occhi, o tagliare il naso o un piede ad alcuni, e castrare i restanti. Fu questo l'ultimo spettacolo della crudeltà di quel mostro.

Tornato a Brescia il tiranno, attese ad accrescere l'armata sua, con assoldar nuova gente, e raunar tutti gli amici, per passare alla sospirata conquista di Milano. Ad assicurarsi bene della felicità di così bella impresa altro non ci mancava che sapere il giorno favorevole in cui si dovea muovere l'armata sua; e questo dipendeva dal saper leggere nel libro delle stelle. Teneva egli a tal fine molti strologhi in sua corte, che gli rivelarono il punto preciso; se con certezza, si vedrà fra poco. Racconta il Monaco Padovano [Monach. Patavinus, in Chron.] che nella di lui corte onorati si vedeano Salione canonico di Padova, Riprandino Veronese, Guido Bonato da Forlì, e Paolo Saraceno colla barba lunga, che pareva un altro Balamo: tutti strologhi a lui cari. Sul fine dunque di agosto [Roland., lib. 12, cap. 2.], fingendo di voler far l'assedio degli Orci, s'inviò colà con tutto l'esercito e con un magnifico treno, seco conducendo tutta ancora la milizia di Brescia. Diede il guasto ai contorni: nel qual tempo anche il marchese Oberto Pelavicino con Buoso da Doara e coll'armata de' Cremonesi andò ad accamparsi a Soncino in faccia agli Orci col fiume Oglio interposto, per vegliare agli andamenti di quel serpente. Mossesi ancora a tali avvisi Azzo marchese d'Este colla milizia ferrarese, ed unitosi co' Mantovani, andò a postarsi a Marcheria sullo Oglio, per essere a tiro di darsi mano coi Cremonesi, secondo i bisogni. Nello stesso tempo Martino dalla Torre con un potente esercito di Milanesi uscì in campagna, e venne fino a Pioltello, ossia a Cassano presso all'Adda, mostrandosi pronto in aiuto de' Cremonesi, qualora fosse occorso. Eccelino intanto, rimandata [13] a casa la fanteria bresciana, e ritenuti solo i cavalieri, una notte all'improvviso valicò il fiume Oglio a Palazzuolo; e continuato il viaggio fino all'Adda, per un guado, fatto prima riconoscere, passò anche l'altro fiume nel dì 17 di settembre, e s'avviò speditamente verso Milano. Da quattro o cinque mila cavalli menava egli con seco. V'ha ancora chi dice più. Era spedita quella illustre città, se a tempo non giugneva al campo milanese l'avviso de' fiumi valicati da Eccelino. Allora Martino dalla Torre, che ben intese dove mirava l'astuto tiranno, precipitosamente fece marciar l'esercito, ed ebbe la fortuna di entrare in Milano prima che vi si avvicinasse il nemico, e di rompere con ciò tutti i di lui disegni. A questo avviso Eccelino diede nelle smanie, nè ad altro pensò che ad impossessarsi della nobil terra di Monza, oppure a tornarsene a Brescia. Virilmente si accinsero alla difesa i cittadini di Monza, in guisa che, svanito ancor questo colpo, Eccelino passò a Trezzo, al cui castello fece dare un furioso assalto, ma con trovarvi dentro chi non avea men cuore de' suoi. Dati dunque alle fiamme i borghi di quella terra, si ridusse a Vimercato, dove lasciò prendere posa alla sua gente. Mostrava egli al di fuori sprezzo de' suoi avversarii, ma internamente era combattuto da molesti pensieri per vedersi in mezzo a paese nemico, e coi possenti Milanesi alle spalle, e con fiumi grossi da valicare. E più poi si conturbò, allorchè gli venne nuova che il marchese d'Este co' Ferraresi, Cremonesi e Mantovani s'era inoltrato fino all'Adda, per contrastargli il passo, ed avea anche preso il ponte di Cassano, alla cui guardia egli avea dianzi lasciate alcune delle sue squadre. Allora furibondo con tutti i suoi prese il cammino alla volta di Cassano, perchè, se vogliam credere a ciò che taluno racconta [Annal. Mediolan.], un diavolo gli avea predetto, che morrebbe ad Assano. Interpretò Eccelino [14] questa parola per Bassano, terra sua e de' suoi maggiori; ma si raccapricciò poi all'udire Cassano. Sarà stata questa un'immaginazione del volgo. Ora con tal vigore spinse egli la sua gente contro i difensori del ponte, che quasi quasi pareano inclinati a cedere; ma eccoti una saetta che va a ferire Eccelino nel piè sinistro, e se gli conficca nell'osso.

Per tal accidente corse lo spavento in tutte le di lui brigate; ma egli, mostrando intrepidezza, si fece portar di nuovo a Vimercato, dove, aperta la piaga, e cavatane la freccia, i chirurghi il curarono. Salì egli animosamente a cavallo nel dì seguente, ed informato di un guado nell'Adda, con ardire si mise a passarlo, e gli venne fatto di condurre di là tutti i suoi squadroni. Ma intanto ecco comparire Azzo marchese d'Este coi Ferraresi e Mantovani, ed Oberto Pelavicino marchese e Buoso da Doara coi Cremonesi, e circondare il nemico esercito. I primi a dare di sproni a' cavalli per salvarsi furono i Bresciani. Il che veduto da Eccelino, col resto della gente sua, ma di passo e senza mostrare paura, s'inviò per cercare ricovero sul territorio di Bergamo. Non glielo permisero i collegati, i quali, avventatisi addosso alle di lui brigate, immantinente le sbandarono, con farne assaissimi prigioni. Il più illustre ed importante fra questi fu lo stesso Eccelino, al quale, dappoichè restò preso, un indiscreto soldato diede due o tre ferite in capo, per vendetta di un suo fratello, a cui il tiranno avea fatto tagliare una gamba. Il Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.] scrive che tali ferite gli furono date da Mazzoldo de' Lavelonghi nobile bresciano, prima ch'ei fosse preso. Il felicissimo giorno, in cui questa insigne vittoria avvenne, fu il 27 di settembre [Monachus Patavinus. Gualvaneus Flamma.], festa de' santi Cosma e Damiano. A folla correva la gente per mirar preso un uomo sì diffamato per la sua indicibil crudeltà, [15] come si farebbe ad un orribilissimo mostro ucciso, caricandolo ognuno d'improperii, e i più vogliosi di finirlo. Ma il marchese e Buoso da Doara non permisero che alcuno gli facesse oltraggio; anzi, condottolo a Soncino, quivi il fecero curare con carità dai migliori medici. Tali nondimeno erano le sue ferite, che da lì ad undici giorni in età di circa settant'anni se ne morì tal quale era vissuto, senza segno di penitenza, e senza mai chiedere i sacramenti della Chiesa. Come scomunicato fu seppellito fuor di luogo sacro in un'arca sotto il portico del palazzo di Soncino. Oltre a quello che diffusamente della crudeltà inudita e degli altri esecrandi costumi di Eccelino, scrissero Rolandino e il Monaco Padovano, è da vedere Guglielmo Ventura, che nella Cronica d'Asti [Ventura, Chron. Astens., cap. 2, tom. 2 Rer. Ital.] fa un'esatta dipintura di quel poco di bene e di quell'infinito male che si trovava in questo sì spietato tiranno. Avvertì egli che quanti ciechi, storpi ed altri segnati dalla mano di Dio, o degli uomini, andavano limosinando per l'Italia, tutti diceano d'essere stati conci così da Eccelino: del che egli si vendicò. L'autore eziandio della Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] parla delle buone e ree qualità di Eccelino. Pur troppo è vero che a niuno dei tiranni è mancato qualche lodatore.

Non si può già esprimere il giubilo e la festa che per tutta la Lombardia si fece all'udire tolto dal mondo l'assassino di tanti popoli, il cui nome era troppo in orrore, e facea tremare anche i lontani. D'altro non si parlava allora che di questo felice avvenimento. Certificati della sua morte i Padovani corsero a Vicenza per liberar quella città dal presidio postovi dal tiranno [Roland., lib. 12, cap. 10.]. Non potendola avere, ne bruciarono i borghi, e se ne tornarono a casa. Da lì a tre dì fuggiti i soldati di Eccelino, i Vicentini si misero [16] sotto la protezione de' Padovani, i quali poscia a poco a poco se ne fecero assoluti padroni. Parimente si sottomise la terra di Bassano a Padova, con che crebbe di molto la potenza di questa città. A cagion di tali vicende in Trivigi non si credette più sicuro Alberico da Romano fratello dello stesso Eccelino, perchè ben consapevole dell'odio immenso de' Trivisani e dei circonvicini popoli, ch'egli s'era comperato colla sua crudel tirannia, non inferiore a quella del fratello. Però quel popolo, assistito dalla forza della repubblica veneta, fatta sollevazione, si rimise in libertà, e prese per suo podestà Marco Badoero nobile veneziano [Monach. Patavinus.]. Altrettanto fece la città di Feltre. Finalmente la città di Verona ricuperò anch'essa la libertà; richiamò Lodovico conte di San Bonifazio e gli altri fuorusciti, ed elesse per suo podestà Mastino dalla Scala, la cui casa, dopo qualche tempo, giunse alla signoria di quella città. La sola città di Brescia si trovò ostinata in non voler quella pace che l'altre città aveano abbracciata. Vi signoreggiava allora la fazion ghibellina, e per quanto di forza e di preghiere adoperassero i fuorusciti guelfi, sostenuti dalle città aderenti alla Chiesa, non poterono mai ottenere di ripatriare. S'interpose fra le parti discordi l'astuto marchese Pelavicino [Malvecius, Chron. Brixian.], e girò l'affare in maniera che, introdottosi in Brescia, si fece eleggere signore di quella città dal popolo, lasciando così delusi i fuorusciti, de' quali poi si dichiarò nemico. Avendo egli trovato quivi tuttavia carcerato Filippo arcivescovo di Ravenna, legato del papa, benchè pregato con efficaci lettere da esso pontefice, non si seppe indurre a rilasciarlo. Volle Dio che, ciò non ostante, il buon prelato riacquistasse la libertà. Aiutato da chi gli volea bene, una notte si calò egli felicemente con una fune dal palazzo, in cui era custodito; ed uscito con segretezza fuori della città, dove trovò preparato un cavallo, senza [17] punto fermarsi, arrivò all'amica città di Mantova. Teneva in questi tempi il marchese Oberto suddetto corrispondenza col re Manfredi, e ne ricavava dei buoni aiuti di borsa per sostenere il partito dei Ghibellini in Lombardia. Degli amici ne avea in abbondanza per le città di questa provincia, perchè considerato come capo d'essa fazione dopo la morte di Eccelino.

Nella lega ch'esso marchese Oberto avea fatta nel dì 11 di giugno dell'anno presente in Brescello con Azzo marchese d'Este e d'Ancona, con Lodovico da San Bonifazio, appellato conte di Verona, e coi comuni di Mantova, Ferrara e Padova, la quale distesamente vien rapportato da Antonio Campi storico cremonese [Antonio Campi, Istoria di Cremona.], si legge: Quod domini marchio estensis, et comes Veronae, et, communia Mantuae, Ferrariae et Paduae, habeant semper, teneant et foveant excellentissimum dominum Manfredun regem Siciliae in amicum, et dent operam, quod dictus dominus rex ad concordiam reducatur cum Ecclesia. Per questo accordo fu il marchese Oberto assoluto da non so qual religioso dalla scomunica; ma, siccome osserva il Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccl.], papa Alessandro IV dichiarò nulla tale assoluzione, nè volle ammettere Oberto e la lega suddetta, s'egli non rinunziava all'amicizia e lega del re Manfredi. Prima che terminasse il presente anno, Martino dalla Torre, capo de' popolari dominanti in Milano [Chronic. Placentin. Annales Mediol. Gualvan. Flamma.], all'avviso che dopo la morte di Eccelino i nobili milanesi fuorusciti s'erano rifuggiti in Lodi, accolti quivi dalla possente famiglia da Sommariva, coll'esercito andò sotto quella città, nè solamente costrinse a partirne i nobili, ma ancora divenne egli padrone di quella città. Ciò non ostante, in considerando l'odio, l'invidia e la forza de' nobili milanesi nemici suoi, e temendo d'essere un dì o l'altro abbattuto, prese la risoluzione [18] di gittarsi anche egli nelle braccia del marchese Oberto Pelavicino, figurandosi di poter continuare la sua autorità sotto l'ombra di lui. Operò dunque che il popolo milanese prendesse per signore esso marchese solamente per cinque anni col salario annuo di quattromila lire. Si trasferì pertanto Oberto a Milano con secento cavalli ed altra soldatesca, parte cremonese e parte tedesca, e, ricevuto con grande onore dai Milanesi, diede principio al suo governo, e dipoi vi lasciò per governatore Arrigo marchese di Scipione suo nipote. Ed ecco che quando si credea a terra la fazion ghibellina per la morte di Eccelino, risorger essa vigorosa più che mai. Aggiungono gli storici milanesi, che Oberto coll'andare del tempo non corrispose alle speranze de' Torriani, studiandosi di abbassarli, ma non gli venne già fatto; e noi vedremo tuttavia signoreggiare in Milano la famiglia dalla Torre. Sollevaronsi in quest'anno [Matth. Paris, Hist. Angl.] gl'instabili Romani contra del loro senatore, cioè contra di Castellano d'Andalò, zio del defunto Brancaleone, verisimilmente per maneggio del papa, che nol potea sofferire; e, creati due senatori, andarono ad assediarlo in una delle fortezze di Roma, dove egli s'era ritirato. Bravamente si difese Castellano, confidato sempre di non averne male, dacchè in Bologna erano ben guardati gli ostaggi a lui pure dati dai Romani. Nella giunta alle storie di Matteo Paris si legge, che nel presente anno papa Alessandro IV scomunicò il re Manfredi. Lo stesso abbiamo dalla Cronica di Fra Pipino [Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Ital.], e vien anche confermato dagli storici napoletani. Abbiamo dal Guichenon [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. I.], che Tommaso conte di Savoia, e già di Fiandra, principe rinomato per molte sue azioni, mancò di vita nel dì primo di febbraio di questo anno: il che viene eziandio asserito [19] dagli Annali di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.]. Da questo principe discende la real casa di Savoia, oggidì regnante in Sardegna, Savoia, Piemonte, Monferrato e in altre città. Perchè gli Astigiani non s'inducevano a rilasciare i di lui figliuoli, dati loro in ostaggio, venne in quest'anno a Genova il cardinale Ottobuono del Fiesco, zio materno d'essi principi, per passare ad Asti, e trattare della lor libertà. Pro liberatione nepotum ejus, filiorum quondam domini Thomae comitis Sabaudiae. Sono parole del Continuatore di Caffaro. Che esito avesse il suo negoziato non apparisce. Fu bensì del tumulto in Genova al ritorno di questo cardinale, perchè si temeva che egli facesse maneggio per far deporre Guglielmo Boccanegra, il quale nell'anno 1257 era stato creato capitano del popolo di Genova contro la fazion de' nobili. Ma si quetò il rumore. Cominciò nell'anno presente Carlo conte d'Angiò e di Provenza a mettere il piede nel Piemonte, dove si sottoposero alla di lui signoria la città d'Alba e le terre di Cunio, Monte Vico, Piano e Cherasco. E gli Aretini [Ricordano Malaspina, cap. 160.] una notte sorpresero la città di Cortona, che era fortissima; ne disfecero le mura e le fortezze, e la suggettarono al loro dominio, non senza grave sdegno e doglianza de' Fiorentini.


   
Anno di Cristo mcclx. Indizione III.
Alessandro IV papa 6.
Imperio vacante.

Andavano alla peggio gli affari dell'imperio de' Latini in Levante [Matteo Spinelli, Diario, tom. 8 Rer. Ital.]. Però Baldovino imperadore, e il despota della Morea vennero in persona in Italia a chiedere soccorsi ad esso Manfredi e al papa. Avrebbe desiderato il pontefice di prestar loro aiuto; ma le forze mancavano. Il solo Manfredi sarebbe stato valevole colle sue forze a quell'impresa, se [20] non si fosse scusato col non essere in grazia della Sede apostolica, e colla necessità di dovere star in buona guardia contro gli attentati della corte di Roma, la quale facea continui maneggi per torgli il regno e darlo ad altro principe. Voglioso il despota di levare di mezzo gli intoppi, andossene nel gennaio di questo anno a trovare il pontefice, e trattò seco di pace. Condiscendeva il non superbo papa Alessandro IV a riconoscere Manfredi per re e a concedergli l'investitura, a condizione ch'egli restituisse gli Stati e i beni tolti ai fuorusciti, e scacciasse dal regno tutti i Saraceni, siccome nemici della religione, e gente che niun rispetto portava alle chiese, e faceva mille mali in tempo di guerra. Al primo punto consentiva Manfredi; al secondo non seppe accomodarsi. Non si fidava egli dei nazionali suoi sudditi cristiani, ben sapendo che non mancavano maniere alla corte di Roma di guadagnarli, e conoscendo assai l'istabilità de' suoi baroni. La speranza di mantenersi era da lui posta nelle numerose brigate de' Saraceni di Nocera, che Roma non avrebbe mai potuto guadagnare. Il perchè sospettando che la corte pontificia, qualora egli si fosse spogliato del braccio di quegl'infedeli, più facilmente l'avrebbe potuto opprimere, rigettò la proposizione, e piuttosto pensò a tirarne degli altri, non so se dalla Sicilia, o pure dall'Africa, giacchè non ignorava i trattati che si andavano facendo per muovere contro di lui l'armi di qualche potente principe cristiano. Infatti ne fece venir moltissime bande, che approdarono a Taranto e ad Otranto nel mese di maggio. Poscia nel seguente luglio li mandò addosso alla Campania romana, ed egli stesso (seguita a dire lo Spinelli) andò in Romagnia, e tutta la voltò sossopra. Col nome di Romagnia altro non si dee intendere, se non la Romania greca, dove per difesa del despota suo suocero, Niceforo Gregora [Niceph. Gregora, Histor.] confessa che il re Manfredi [21] spedì le sue truppe. Nulla poi parlando Saba Malaspina, storico pontificio di questi tempi, d'invasione fatta da Manfredi negli Stati della Campania, suddita della Chiesa, questa si può sospettare insussistente, oppur cosa di poco momento. In questi tempi il partito ghibellino della Lombardia, Toscana e marca d'Ancona, fatto ricorso al patrocinio di Manfredi, trovò buona accoglienza nella sua corte. Poche erano le città, i cui popoli non fossero guasti dalle pazze parzialità, e però divisi fra loro. Insigne ed ostinata era questa divisione nella marca suddetta [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 2.]; ed avendo i Ghibellini implorata l'assistenza di Manfredi, egli spedì colà Percivalle da Oria suo parente con della cavalleria, il quale trovò resistente a' suoi comandamenti la città di Camerino. L'ebbe finalmente a patti; ma quel popolo da lì a poco per paura di lui se ne fuggì, lasciandola abbandonata. Ancor qui la storia è molto digiuna. Ma non così quella di Toscana. Perchè i ghibellini fuorusciti di Firenze s'erano ritirati a Siena, città della stessa fazione, i Fiorentini le mossero guerra [Ricordano Malaspina.]. Non aveano i Sanesi forze da potere resistere alla potenza di Firenze; per questo i fuorusciti, seguendo il consiglio di Farinata degli Uberti, lor capo ed uomo accortissimo, spedirono ambasciatori al re Manfredi per impetrar soccorso. Con gran fatica ne ottennero cento uomini d'armi tedeschi. Trovandosi poi essi fuorusciti a Siena, in tempo che i Fiorentini erano venuti a oste contra quella città, un dì avendo ben imboracchiata questa squadra d'ausiliari, consigliatamente la spinsero addosso al campo nemico, ad oggetto di maggiormente impegnare Manfredi alla lor difesa. Un fiero squarcio nelle masnade fiorentine fecero i Tedeschi caldi del vino; ma infine restarono tutti morti; e l'insegna di Manfredi, strascinata pel campo, fu poi trionfalmente recata in Firenze. Rimandarono i Sanesi e i fuorusciti [22] i loro ambasciatori a Manfredi con venti mila fiorini d'oro; e raccontate le immense prodezze di quei pochi Tedeschi, e lo strapazzo fatto dai Fiorentini alla di lui bandiera, l'indussero a spedire in Toscana Giordano da Anglone, conte di San Severino, con ottocento cavalli. Con questo rinforzo, e coll'aiuto dei Pisani e degli altri ghibellini di Firenze, ebbero i Sanesi un corpo di mille ottocento cavalieri, la maggior parte tedeschi, e sparsero voce di voler assediare Montalcino.

Per mezzo di due frati minori ingannati fece nello stesso tempo lo scaltro Farinata segretamente intendere ai rettori di Firenze, che quei di Siena darebbono loro una porta della città, purchè loro facessero un regalo di diecimila fiorini, e venissero con grande esercito a prenderne il possesso, sotto la finta di andare a fornir Montalcino. Caddero nella ragna i Fiorentini. Richiesero la loro amistà, ed avuta gente da Bologna, Lucca, Pistoia, Samminiato, San Geminiano, Volterra, Perugia ed Orvieto, misero insieme un'armata di più di trenta mila persone, e v'ha chi la fa ascendere sino a quaranta mila [Chron. Sanense, tom. 15 Rer. Ital.]. Col carroccio e con fasto grande, come se andasse ad un trionfo infallibile, si mosse l'oste fiorentina; ed arrivata che fu a Montaperti nel dì 4 di settembre, in vece di veder comparir le chiavi di Siena, eccoli uscirle addosso colla cavalleria tedesca tutto il popolo di Siena in armi ed attaccar battaglia. Non s'aspettavano i Fiorentini un incontro sì fatto; pure, ordinate le schiere, si accinsero al combattimento; ma perchè molti traditori, ch'erano nel campo loro, passarono in quel de' Sanesi, atterrita la cavalleria fiorentina, si levò tosto di mezzo colla fuga, lasciando la misera fanteria alla discrezion de' nemici. La mortalità di questi si fa ascendere da Ricordano a due mila e cinquecento; da altri a quattro mila. De' rimasti prigioni Ricordano parla solamente di mille e cinquecento [23] di quelli del popolo, e de' migliori di Firenze e di Lucca; il che non può stare. Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 4.] ne fa presi fin quindici mila; e questo par troppo. Eccede poi ogni credenza il dirsi negli Annali di Pisa [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] che dieci mila furono gli estinti e ventimila i prigionieri. Quel che è certo, la sconfitta fu grandissima e delle più memorande di questi tempi; e tale si compruova dagli effetti: il che suol essere il più veridico segno delle grandi o picciole sconfitte. Sì sbigottita, sì infievolita restò per questo colpo la città di Firenze, che le nobili famiglie guelfe, per non soggiacere agl'insulti de' vincitori Ghibellini, senza pensar punto alla difesa, come avrebbono potuto fare, sloggiarono e andarono a piantar casa in Lucca. Fecero il simile i Guelfi di Prato, di Pistoia, di Volterra, di San Gemignano e d'altre terre e castella di Toscana coll'abbandonar le loro patrie, le quali si cominciarono da lì innanzi a reggere a parte ghibellina. Nel dì 17 di settembre entrò il conte Giordano colle sue brigate, e cogli usciti Fiorentini nella città di Firenze; ed appresso, avendo dovuto tornare in Puglia, lasciò per vicario in Toscana Guido Novello de' conti Guidi. Tennesi in Empoli un parlamento dai Sanesi, Pisani, Aretini, e dagli altri caporali ghibellini, dove uscì fuori la matta proposizione di distruggere affatto Firenze, come principal nido della parte guelfa. Guai se non v'era Farinata degli Uberti, che caldamente si opponesse a sì cruda voglia; quella bella città era sull'orlo della totale sua rovina. Insomma gran cambiamento di cose avvenne in quest'anno in Toscana, perchè, a riserva di Lucca, tutta quella provincia trasse a parte ghibellina. Erasi, come dicemmo, ritirato Alberico da Romano con tutta la sua famiglia nel castello di San Zenone sui confini del Trivisano, fabbricato con tal cura, che per fortezza inespugnabile era tenuto da [24] tutti [Roland., lib. 2, cap. 13.]. Ma i Trivisani, ricordevoli delle tante ingiurie ricevute da questo tiranno, e ansiosi di sradicar dal mondo la terribile e micidial razza de' signori da Romano, uscirono in campagna sul principio di giugno, e, ricevuti soccorsi da Venezia, Padova, Vicenza e da altri luoghi, strinsero d'assedio il suddetto castello, e cominciarono a tempestarlo colle petriere e con tutte le macchine e ordigni di guerra, che si usavano in questi tempi [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Tuttociò a nulla avrebbe servito, se non si fosse adoperata un'altra più possente macchina, cioè l'oro, con cui Mesa da Porcilia, ingegnere, oppur comandante della cinta inferiore d'esso castello si lasciò guadagnare. Sovvertì costui alquanti Tedeschi del presidio, i quali nel dì 25 d'agosto in un assalto fingendo di difendere, aiutarono gli assedianti ad impadronirsi di quelle fortificazioni. Disperato Alberico si rifugiò colla moglie e co' suoi figliuoli nella torre superiore; ed affinchè si salvassero i suoi uomini, giacchè sapea che la festa era fatta per lui, diede loro licenza di rendersi a buoni patti. Nel dì 26 del mese suddetto fu consegnato Alberico con sua moglie Margherita, e quattro suoi figliuoli maschi e due figliuole, in mano de' vincitori che ne fecero gran tripudio. Marco Badoero podestà di Trivigi tanto tempo lor concedette, quanto occorreva per confessarsi. Poscia sugli occhi del padre furono senza misericordia alcuna tagliati a pezzi gli innocenti fanciulli colla lor giovane madre; e finalmente colla morte di Alberico si diede fine a quella orrida tragedia. Obbliarono in tal congiuntura quei popoli le leggi dell'umanità; ma sì fiero era l'odio contro il tiranno, sì grande la paura, che, lasciando in vita alcun rampollo di così potente e crudel famiglia, a cui non mancavano parenti ed amici, potesse un dì risorgere in danno loro, che ad occhi chiusi la vollero sterminata dal mondo.

[25]

Celebre ancora fu l'anno presente per una pia novità, che ebbe principio in Perugia, chi disse da un fanciullo, chi da un romito, il quale asserì d'averne avuta la rivelazione da Dio [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital. Henric. Stero, Annal. Augustan.]. Predicò questi al popolo la penitenza, con rappresentar imminente un gravissimo flagello del cielo, se non si pentivano e non faceano pace fra loro. Quindi uomini e donne di ogni età istituirono processioni con disciplinarsi, ed invocare il patrocinio della Vergine madre di Dio. Da Perugia passò a Spoleti questa popolar divozione, accompagnata da una compunzione mirabile, e di là venne in Romagna. L'un popolo processionalmente, talora fino al numero di dieci e venti mila persone, si portava alla vicina città, e quivi nella cattedrale si disciplinava a sangue, gridando misericordia a Dio e pace fra la gente. Commosso il popolo di quest'altra città; andava poscia all'altra, di maniera che non passò il verno che si dilatò una tal novità anche oltramonti, e giunse in Provenza e Germania, e fino in Polonia. Nel dì 10 d'ottobre gl'Imolesi la portarono a Bologna [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], e venti mila Bolognesi vennero successivamente a Modena [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], altrettanti Modenesi andarono a Reggio e Parma, e così di mano in mano gli altri portarono il rito sino a Genova e per tutto il Piemonte. Ma Oberto Pelavicino marchese e i Torriani non permisero che questa gente entrasse nei territorii di Cremona, Milano, Brescia e Novara; e il re Manfredi anch'egli ne vietò l'ingresso nella marca d'Ancona e nella Puglia, paventando essi qualche frode politica sotto l'ombra della divozione: del che fa gran doglianza il Monaco Padovano [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.]. Gli effetti prodotti da questa pia commozion de' popoli furono innumerabili paci fatte fra i cittadini [26] discordi, colla restituzion della patria ai fuorusciti; e le confessioni e comunioni, che erano assai trascurate in così barbari tempi; e le conversioni, non so se durevoli, delle meretrici, degli usurai, e di altri malviventi e ribaldi; e l'istituzione delle confraternite sacre in Italia, che, a mio credere [Antiq. Ital., Dissert. LXXV.], ebbero allora principio sotto nome di compagnia dei Divoti o dei Battuti, con altri beni concernenti il miglioramento delle pietà e dei costumi, troppo allora disordinati nelle città italiane. Ma perciocchè tal divozione nacque e si diffuse senza l'approvazione del sommo pontefice, nè mancavano in essa disordini per la confusion degli uomini colle donne [Longin., Hist. Polon., lib. 7.], per gli alimenti di tanti pellegrini, o per la mischianza ancora di alcuni errori, venne essa meno in poco tempo, e fu anche riprovata da molti. Perchè i Bolognesi non voleano rendere gli ostaggi de' Romani, se prima non era messo in libertà Castellano d'Andalò lor cittadino, senatore di Roma [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] papa Alessandro IV sottopose in quest'anno all'interdetto la lor città, per cui si partirono molti cherici, e li privò eziandio dello Studio. S'accrebbero per questo le dissensioni civili in quella città fra non poche famiglie nobili, e ne seguirono combattimenti ed ammazzamenti. Tali discordie non dimeno non impedirono che, essendo venuti all'armi i Guelfi e Ghibellini di Forlì, non accorresse colà l'esercito dei Bolognesi, con far prigioni e condurre a Bologna assaissimi della fazion ghibellina. La Cronica Bolognese ha che, in occasione della divozion de' Battuti, ossia de' Flagellanti, giunta a Roma, quel popolo rilasciò tutti i prigioni, e fra gli altri la famiglia del suddetto Castellano; e ch'egli medesimo ebbe la sorte di potersene fuggire. Ma, o forse tal fuga accadde nell'anno seguente, oppure non per questo i Bolognesi s'indussero a licenziar gli ostaggi, volendo prima che fosse [27] rifatto il danno e rimediato all'affronto. Circa questi tempi, per opera di un giovane tedesco, Monte di Trapani in Sicilia si ribellò al re Manfredi [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 5.]; e, portatosi a quella volta Federigo, ossia Festo Maletta vicario del re, vi fu proditoriamente ucciso dal medesimo Tedesco. Ma accorsovi il marchese Federigo Lancia, capitan generale della Sicilia, obbligò quel popolo alla resa. Durava tuttavia lo sdegno del marchese Oberto Pelavicino contra de' Piacentini, dappoichè era stato scacciato dalla signoria di quella città. Fu rimessa la decisione di tal controversia [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] in Buoso da Doara e in Martino dalla Torre, i quali proferirono un assai ragionevole laudo. Ma i cittadini di Piacenza nol vollero accettare. Irritato per questo il marchese Oberto, formato un esercito di Cremonesi, Milanesi, Bresciani, Astigiani, Cremaschi e Comaschi, ostilmente entrò nel distretto di Piacenza, ed, impadronitisi del castello di Ponte Nura, con farvi prigioni ducento settanta uomini, dopo averlo ben guernito e fortificato, se ne tornò a Cremona. Tolto fu loro anche Noceto dai fuorusciti; ed avendo spedito colà alcune squadre d'armati per ricuperarlo, furono queste sconfitte, e bruciati poi e presi altri luoghi nel distretto di Piacenza. Per le quali disavventure si trattò di nuovo di pace, e tornarono i Landi e Pelavicini fuorusciti in quella città.


   
Anno di Cristo mcclxi. Indizione IV.
Urbano IV papa 1.
Imperio vacante.

Dimorava tuttavia in Viterbo papa Alessandro IV, quando Iddio il chiamò a miglior vita nel dì 25 di maggio dell'anno presente [Henric. Stero. Theodoric. Vallicolor., in Vita Urbani IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Nangius, et alii.], per premiare la sua placida pietà e rara umiltà, per le quali virtù [28] egli si astenne sempre dall'imbrogliare il mondo con guerre: sebbene riportò per questo il titolo di semplice e di troppo buono da chi o non assai conosce lo spirito della Chiesa, od è pieno solamente dello spirito del mondo. Raunaronsi i cardinali per l'elezione del successore. Erano solamente otto, e neppur queste otto teste seppero per più di tre mesi accordarsi ad elegger alcun di loro: tanto avea saputo penetrare in quel piccolo drappello la discordia e l'invidia. Per accidente capitò alla sacra corte Jacopo patriarca di Gerusalemme, nato bensì in Troia di Francia, di padre plebeo [S. Antonin., P. III, tit. 19.], ma di elevato ingegno, di molta prudenza, di gran sapere e d'altre belle doti ornato, per le quali era già salito in alto, e meritò ancora di giugnere al non più oltre. Giacchè apparenza non si vedeva che i cardinali dal lor grembo cavassero un nuovo papa, s'avvisarono essi di sollevare alla cattedra di san Pietro il suddetto patriarca. Nel dì dunque 29 d'agosto l'elessero, ed egli assunse il nome di Urbano IV. Siccome uomo di petto e di massime diverse dal suo predecessore, non tardò a far conoscere il suo sdegno contra di Manfredi, occupatore del regno di Sicilia, e a preparare i mezzi per abbatterlo. Il Rinaldi, seguitando il Summonte autore moderno, e gli slogati racconti di Matteo Spinelli, crede [Raynald., in Annal. Eccles.] che in quest'anno Roberto conte di Fiandra venisse in Italia con buon esercito, e spedito dal pontefice minacciasse d'entrare in Puglia, a cui si opponesse colle sue forze Manfredi. Se questo accadesse veramente nell'anno presente, io non ardirei di asserirlo. Abbiamo bensì di certo che, trovando esso papa Urbano sì sminuito il collegio dei cardinali, nel dicembre di quest'anno fece una promozione al cardinalato di nove personaggi, insigni non meno per la bontà della vita che per la letteratura. Quanto a Manfredi, circa questi tempi egli cominciò un [29] trattato d'alleanza con Jacopo re d'Aragona, esibendo al di lui figliuolo Pietro per moglie Costanza, a lui nata da Beatrice figliuola di Amedeo conte di Savoia, e sua prima moglie. Gli offeriva anche dote grossa. Il non aver Manfredi figliuoli maschi fece in fine credere assai vantaggioso questo partito agli Aragonesi. E quantunque il papa facesse di grandi maneggi per disturbar tali nozze, pure si conclusero, e Costanza nobilmente accompagnata passò a Barcellona nell'anno seguente. Uno strano accidente occorse pure circa questi tempi in Sicilia. All'osservare alcuni che un certo pitocco, per nome Giovanni da Cocchiera, ossia da Calcara, uomo assai attampato [Sabas Malaspina. Continuator Nicolai de Jamsilla. Barthol. de Neocastro.], rassomigliava forte nelle fattezze al defunto imperador Federigo II, cominciò una voce, che s'andò sempre più ingrossando, che Federigo era vivo. Negava il pezzente d'essere tale; ma non mancarono persone che per loro fini particolari l'indussero in fine a spacciarsi per desso: cosa che cagionò dei gravi tumulti per tutta l'isola. Si ritirò costui nella città di Agosta, e quivi cominciò a trattarsi da principe, e a sostener bene il suo personaggio nella commedia con folla di gente bassa che gli prestava fede. Ma Riccardo conte di Marsico prese così ben le sue misure, che trucidati alcuni dei suoi partigiani, e sbandati gli altri, diede all'impostore quel guiderdone che conveniva al suo merito. Si trasferì poscia in Sicilia il re Manfredi, per quetare i moti di quei popoli, e specialmente di chi mirava di mal occhio la casa di Suevia. Tenne un general parlamento in Palermo, ricevette de' considerabili donativi, ne fece egli degli altri secondo il suo costume, e con ciò risorse dappertutto la pace.

Passò quest'anno per Milano il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, che veniva di Francia [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 297.]. Ne partì mal soddisfatto [30] de' Torriani, e seco condusse alla corte pontificia Ottone della nobil casa de' Visconti di Milano, che era allora solamente canonico nella terra di Desio; Ottone, dissi, che vedremo in breve arcivescovo di Milano. Giunto in Bologna esso cardinale [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], per commissione avutane dal papa, trattò della liberazion degli ostaggi romani; ed ottenutala, levò l'interdetto alla città, e restituì tutti i privilegii a quei cittadini. Fecero in quest'anno lega i nobili usciti di Milano col comune di Bergamo; nè solamente furono ammessi in quella città, ma insieme con essi, passato il fiume Adda, presero ed incendiarono Licurti castello de' Milanesi. Allora il popolo di Milano tutto in armi uscì in campagna, pieno di mal talento contra de' Bergamaschi, i quali, senza voler aspettare la lor visita, spedirono tosto per aver pace. L'ottennero, ma a condizione di rifar tutti i danni al popolo di Licurti, e di licenziare i nobili milanesi: il che ebbe effetto. Si ridussero molti di que' nobili a Brianza, ed occuparono il castello di Tabiago; ma corso colà Martino dalla Torre con buono sforzo di gente, obbligò i difensori alla resa, e tutti li condusse incatenati nelle carceri di Milano. In quest'anno Giacomazzo dei Trotti e parecchi altri, già stati della fazione di Salinguerra, fecero in Ferrara [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.] una congiura contra di Azzo VII marchese d'Este loro signore. Scoperta la trama, e presi, lasciarono il capo sopra il patibolo. Nella Cronica di Bologna ciò viene riferito all'anno seguente. Nella città d'Asti ebbe principio una fiera nimicizia tra i Solari e i Gruttuarii [Guillelmus Ventur., tom. 16 Rer. Ital.], due principali famiglie d'essa città, per cui seguirono molti omicidii, ed altri gravi sconcerti, che durarono anni parecchi. Essendosi il popolo di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] di già accordato col marchese Oberto Pelavicino, in quest'anno gli diede la signoria [31] della città per quattro anni avvenire, ed egli ne venne a prendere il possesso con grandioso accompagnamento, e poi se ne tornò a Cremona. Visconte Pelavicino suo nipote, lasciato da lui suo vicario in Piacenza, da lì a non molto ito con ischiere armate a Tortona, indusse quel popolo a mettersi nella stessa maniera sotto la signoria del marchese Oberto suo zio. Tolta fu in quest'anno ai Latini la città di Costantinopoli dai Greci [Raynald., Annal. Eccles.]. Vi entrò Michele Paleologo, il quale s'era fatto proclamare imperador d'Oriente. Baldovino imperadore latino sulle navi de' Veneziani fuggito, si ritirò a Negroponte. Nè si dee tacere una vergognosa azione dei Genovesi d'allora [Caffari, Annal. Genuens, lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.]. L'implacabile odio che essi aveano conceputo contra dei Veneziani per la rotta lor data ad Accon, congiunto coll'avidità del guadagno, li spinse a far lega con esso Paleologo, il qual diede loro in premio la città di Smirna con varie esenzioni e privilegii [Monach. Patavinus, in Chron.]. Un forte aiuto per questo di galee, navi e gente contribuirono essi Genovesi al Greco per debellare i Latini. Furono perciò scomunicati da papa Urbano; ma essi più che mai continuarono a far quanto di male poterono ai Veneziani. In Toscana [Ricord. Malaspina, cap. 171.] il conte Guido Novello, vicario del re Manfredi, nel mese di settembre coi ghibellini toscani fece oste contra di Lucca, rifugio de' Guelfi sbanditi. Tolse a quel comune Castelfranco, Santa Maria a Monte e Calvoli; ma non potè aver per assedio Fucecchio. Non veggendo i suddetti fuorusciti fiorentini rimedio alcuno alle loro calamità, si avvisarono di spedire in Germania a chiamar Corradino, figliuolo del già re Corrado, acciocchè venisse in Italia, per opporlo al re Manfredi; ma non vi acconsentì la regina sua madre, tra per l'età troppo giovanile del figliuolo, e per la conoscenza della [32] difficoltà dell'impresa. Benchè Dio avesse liberata la marca di Trivigi ossia di Verona, dalle barbariche mani della casa da Romano, pure i Veronesi [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] seguitavano la lor persecuzione contra di Lodovico conte di San Bonifazio. Ora questi nell'anno presente con altri fuorusciti di Verona, e il marchese Azzo Estense coi Ferraresi ostilmente si mossero, ed arrivarono fin cinque miglia presso a Verona, con credenza di poter entrare in quella città, dove probabilmente aveano delle intelligenze. Andò loro fallito il colpo. Nel tornarsene indietro s'impadronirono di Cologna, Sabbione, Legnago e Porto. Queste ultime due terre da lì a nove mesi tornarono sotto la signoria di Verona. Fu istituito in quest'anno in Bologna [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Ghirardacci, Istor. di Bologna nell'indice.] l'ordine militare della B. Vergine Maria da Loteringo di Andalò e Gruamonte de' Caccianemici nobili bolognesi, da Schianca de' Liazari e Bernardino da Sesso, nobili reggiani, e da Rinieri degli Adelardi, nobile modenese, co' quali s'unirono molti altri nobili di esse città. Furono appellati dal popolo frati gaudenti, ossia godenti, perchè teneano le lor mogli e possedevano i lor beni senza fatica o pericolo alcuno, dandosi bel tempo, con godere intanto varii privilegii, diversamente da quel che praticavano i tre insigni ordini militari, istituiti in Terra santa. Col tempo venne meno quest'ordine, ma servì d'esempio ad istituirne degli altri, che tuttavia fioriscono ai nostri giorni.


   
Anno di Cristo mcclxii. Indizione V.
Urbano IV papa 2.
Imperio vacante.

Durava tuttavia la contesa dell'imperio fra Riccardo conte di Cornovaglia ed Alfonso re di Castiglia, eletti amendue re in discordia, senza che il papa sopra [33] ciò prendesse risoluzione alcuna, per timore di disgustar l'uno, se favoriva l'altro [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Impazientatisi per così lunga e perniziosa vacanza alcuni principi di Germania, inclinavano già ad eleggere Corradino di Suevia, figliuolo del re Corrado. Giuntane la notizia al pontefice Urbano IV, scrisse agli elettori delle forti lettere, affinchè non facessero questo passo, tanto abborrito dalla corte romana, con intimar la scomunica a chiunque contravvenisse. Altre misure prese nello stesso tempo per abbattere in Italia il re Manfredi. Leggesi una sua lettera a Jacopo re d'Aragona, il quale avea scritto al papa per rimettere in grazia di lui esso Manfredi, giacchè questi, sì bramoso di pace, non trovava se non durezze nella corte pontificia. Urbano rigetta sopra di Manfredi tutta la colpa del non essersi fatta la pace, e si diffonde in iscreditarlo per quanto può, cominciandolo dagl'indecenti suoi natali, ad esagerando varie sue colpevoli azioni, vere o credute vere, con esortare infine il re ad astenersi dalle nozze della figliuola di Manfredi con suo figliuolo don Pietro, e a non proteggere un palese nemico della Chiesa romana. La lettera è scritta in Viterbo nel dì 26 di aprile; e da essa apparendo che non era per anche effettuato il matrimonio di Costanza coll'infante don Pietro, è fallace chi lo riferisce all'anno 1260. Fece di più il pontefice. Cercò ancora di mandare a terra co' suoi maneggi la lega fatta da Lodovico IX, poi santo re di Francia, col suddetto re d'Aragona, e il progettato matrimonio d'Isabella figliuola dell'Aragonese con Filippo primogenito d'esso re Lodovico, quantunque con gran pompa ne fossero stati solennizzati gli sponsali. Il matrimonio nondimeno si fece, dappoichè furono date sicurezze al papa di non dar assistenza alcuna nè agli Aragonesi, nè a Manfredi in pregiudizio della santa Sede. Ma il maggior colpo di politica adoperato dalla corte romana fu di esibire a quella di Francia il regno [34] della Sicilia. Pose il papa di nazion franzese gli occhi sopra Carlo conte d'Angiò e Provenza, parendogli il più atto a questa impresa; e perocchè egli era fratello del re Lodovico, ne trattò a dirittura col re medesimo, con fargli gustare la bellezza e la facilità dell'acquisto. Da una lettera del papa si scorge che il re, siccome principe di delicata coscienza, non sapeva accomodarsi alla proposizione, per timor di pregiudicare ai diritti dell'innocente Corradino, discendente da chi avea con tanti sudori ricuperato quel regno dalle mani degl'infedeli, e agli altri diritti che avea acquistato Edmondo figliuolo del re d'Inghilterra per l'investitura della Sicilia a lui data dal defunto papa Alessandro IV. Ma il pontefice gli levò questi scrupoli di testa, e andò disponendo anche l'animo di Carlo conte d'Angiò a così bella impresa.

Teneva Martino dalla Torre [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 298. Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] nelle carceri una gran copia di nobili milanesi, fatti prigioni nell'anno precedente. Fu messo in consiglio che si avesse a far di loro. Erano di parere alcuni de' popolari che, con levarli di vita, si togliesse lor l'occasione di far più guerra alla lor dominante fazione. Martino rispose: Quanto a me, non ho mai saputo far un uomo, nè generar un figliuolo. Però neppur voglio ammazzare un uomo. Seguendo questa onorata massima, li mandò tutti ai confini, chi a Parma, chi a Mantova e Reggio. Il popolo di Alessandria in questo anno si riconciliò coi suoi fuorusciti, e li rimise in città, con prendere per podestà il conte Ubertino Landi Piacentino [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma nel novembre la famiglia del Pozzo fu forzata ad uscire di quella città. I Sanesi [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.], che nell'anno addietro si erano impadroniti di Montepulciano, e vi aveano fabbricato un cassero, cioè una fortezza, nel presente scacciarono dalla lor città la parte guelfa. Intanto il conte [35] Guido Novello, vicario del re Manfredi in Toscana [Ricordano Malaspina, cap. 173.], a petizione de' Pisani, e colle lor forze ancora, tornò a far oste sopra le terre de' Lucchesi. Prese Castigliano, sconfisse l'esercito lucchese e gli usciti di Firenze, e fece molti prigioni. Ebbe dipoi il castello di Nozzano, il ponte a Serchio, Rotaia e Sarzana. Negli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] si veggono diffusamente narrati i fatti de' Pisani contra de' Lucchesi, e non già sotto l'anno presente, ma bensì sotto il susseguente, per cagione probabilmente della differente era: il che vien anche attestato da Tolomeo da Lucca [Ptolomeus Lucens. Annal. Brev., tom. 11 Rer. Ital.]. Perciò nell'anno, a mio credere, seguente, il comune di Lucca, al vedersi così spelato, e col timore anche di peggio, e inoltre per desiderio di riavere i suoi prigioni, molti de' quali, presi nella rotta di Monte Aperto, penavano tuttavia nelle carceri di Siena, segretamente cominciò a trattare col conte Guido di fare i suoi comandamenti. Si convenne dunque che Lucca riavesse i suo prigioni e le sue castella; che entrasse nella lega dei Ghibellini di Toscana; e che prendesse vicario, coll'obbligo di cacciar dalla città gli usciti di Firenze, ma non già alcuno de' suoi cittadini. Ciò accordato ed eseguito, non rimase, in Toscana città nè luogo che non si reggesse a parte ghibellina; e nulla giovò che il papa vi mandasse per suo legato il cardinal Guglielmo, con ordine di predicar la croce contra degli uffiziali del re Manfredi. Per questa cagione gli usciti Fiorentini colle lor famiglie dopo molti stenti si ridussero a Bologna, città che gli accolse con molto amore. Tolomeo da Lucca mette questi fatti all'anno seguente. L'esempio del marchese Oberto Pelavicino, divenuto signore di Cremona, Brescia, Piacenza ed altre città, e quello di Martino dalla Torre, dominante in Milano, servì ai Veronesi [36] per creare in quest'anno [Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] capitano della loro città Mastino della Scala: dignità che portava seco la signoria. Così la famiglia della Scala diede principio al suo dominio in quell'illustre città. Deposero i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] nell'anno presente il loro capitano Guglielmo Boccanegra, venuto già in odio del popolo, perchè a guisa di tiranno s'era dato a governar la città; e presero per podestà Martino da Fano dottore di leggi. Essendo mancata in Guglielmo figliuolo di Paolo la potente e nobil casa da Traversara in Ravenna, e rimastavi una sola figliuola, per nome Traversana [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.], Stefano, figliuolo di Andrea re d'Ungheria e di Beatrice Estense, la prese per moglie, e n'ebbe in dote quell'ampia eredità. Stava questo povero principe [Richobaldus, in Pomar., tom. 9 Rer. Ital. Matth. de Griffonibus, Memor. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.] nella corte del marchese Azzo VII d'Este, suo zio materno, che il trattava da par suo, giacchè il re Bela suo fratello barbaramente gli negava fino il vitto e il vestito. Si truova egli negli strumenti d'allora [Antiquit. Italic., Dissert. XIV.] intitolato dux Sclavoniae, e presso Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] dominus domus Traversariorum. Toltagli poi questa moglie dalla morte, passò alle nozze con Tommasina della nobil casa Morosina di Venezia, che gli partorì Andrea; e questi poi fu re d'Ungheria.


   
Anno di Cristo mcclxiii. Indizione VI.
Urbano IV papa 3.
Imperio vacante.

Erano ben gravi in questi tempi gli sconcerti della cristianità [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. In Soria andavano a precipizio gli affari di quei cristiani; i Tartari e i Saraceni desolavano [37] quel poco che loro restava, e colle scorrerie giugnevano fino ad Accon. Era in pericolo anche Antiochia. Aggiungasi la rabbiosa guerra che durava fra i Veneziani e i Genovesi, per cui giù erano accaduti fra loro varii conflitti. I Greci, già tornati in possesso di Costantinopoli, minacciavano gli Stati, de' quali erano rimasti padroni i Latini, e specialmente l'Acaia. Per procurar dunque rimedio a tanti malanni, il pontefice Urbano scriveva caldissime lettere al santo re di Francia Lodovico, richiedeva, ed anche minacciando, danari dalle chiese di Francia e d'Inghilterra, ma con ritrovar que' prelati poco compiacenti a contribuire, per varie ragioni ch'essi adducevano. E si può ben credere disapprovato da molti, che il papa, col non volere dar pace al re Manfredi in Italia, nè permettere l'esaltazione di Corradino in Germania (mentre Alfonso re di Castiglia e Riccardo d'Inghilterra contendevano tuttavia fra di loro), lasciasse in un totale sconvolgimento, per l'avversione alla casa di Suevia, questi due regni, che avrebbono potuto aiutar la causa comune della cristianità. Ed appunto in quest'anno esso papa citò di nuovo Manfredi a comparire [Continuat. Nicolai de Jamsilla. Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 7.], per giustificarsi, se potea, di varii reati a lui apposti. Manfredi volea in persona venire alla corte pontificia, e giunse con tal disegno fino ai confini del regno; ma perchè gli parve di non aver sufficiente sicurezza da mettersi in mano di chi era sì fortemente alterato contra di lui, non andò più innanzi. In vece sua spedì ambasciatori, acciocchè umilmente allegassero le scuse e giustificazioni sue; ma queste non ebbero la fortuna di essere ascoltate [Theodoricus de Vallicol., in Vita Urbani IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Anzi furono interpretati per frodi ed inganni tutti i passi di Manfredi, perchè concordia non si voleva con lui; e intanto, secondo la Cronica [38] di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], con cui va d'accordo Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 6, cap. 90.], o era conchiuso, o certamente era vicino a conchiudersi il trattato di dare il regno della Sicilia e Puglia a Carlo conte d'Angiò e di Provenza. Gli sconvolgimenti che in questi tempi accaddero in Inghilterra, disobbligarono il papa da ogni impegno dianzi contratto con quel re per conto della Sicilia. Accomodossi anche a tal contratto il buon re di Francia Lodovico IX, perchè non poca suggezione gli recava esso conte Carlo suo fratello, dacchè sì spesso facea de' tornei, con tirare a sè i baroni di Francia. Molto più volentieri vi acconsentì lo stesso Carlo, pel desiderio di conquistare un sì bel regno: al che tuttodì l'istigava ancora Beatrice sua moglie, siccome quella che ardeva di voglia d'avere il titolo di regina, per non essere da meno delle sue sorelle regine di Francia e d'Inghilterra. Per altro non si può negare che non fosse il conte Carlo degno di qualsivoglia maggior fortuna, perchè principe di maestoso aspetto, e il più prode che fosse allora nelle armi, di raro intendimento e saviezza; nè si poteva eleggere dopo i re principe alcuno che fosse al pari di lui capace di condurre a fine sì rilevante impresa. Secondo gli Annali di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.], la flotta genovese, composta di trentotto galee, siccome collegata con Michele Paleologo, nuovo imperador de' Greci, andò per impedire che i Veneziani non portassero soccorso a Negroponte, e venne con esso loro alle mani; ma si partì malcontenta da quel conflitto. Navigò poscia verso Costantinopoli; e non essendosi potuta accordare col Paleologo, se ne tornò dipoi a Genova, ricevuta dal popolo con assai richiami ed accuse. Abbiamo dal Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], che nella suddetta battaglia presero i Veneziani quattro galee de' Genovesi. [39] Mancò di vita nell'anno presente, per attestato di Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 299.], Leone da Perego arcivescovo di Milano nella terra di Legnano, e quivi fu vilmente seppellito. Nell'elezione del successore s'intruse la discordia, di maniera che l'una parte elesse Raimondo dalla Torre, fratello di Martino signore di Milano, che era allora arciprete di Monza, e l'altra Uberto da Settala canonico ordinario del duomo. Si prevalse di tale scisma il papa per crearne uno a modo suo coll'esclusione di amendue gli eletti, giacchè in questi tempi cominciarono i papi a metter mano nell'elezion de' vescovi, con giugnere infine a tirarla tutta a sè, quando nel secolo undecimo tanto s'era fatto per levarla agli imperadori e re cristiani, e restituirla ai capitoli e popoli, secondo il prescritto degli antichi canoni. Contrario in questi tempi agli interessi temporali della corte pontificia era il governo e dominio dei Torriani e del marchese Oberto Pelavicino di Milano, perchè di fazion ghibellina, e però trovandosi col cardinale Ottaviano degli Ubaldini Ottone visconte, ad istanza di esso cardinale, fu questi creato arcivescovo di Milano: cosa notabile per la storia di Lombardia, perchè di qui ebbe i suoi principii la fortuna e potenza dei Visconti di Milano. Informato di ciò Martino dalla Torre, se l'ebbe forte a male, tra per veder tolta alla sua casa l'insigne mitra di Milano, e perchè Ottone, siccome di casata nobile, avrebbe tenuto il partito degli altri nobili fuorusciti suoi nemici, ed opposti al governo popolare dominante in Milano: nel che non s'ingannò. Gli Annali Milanesi [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.] ed altri autori mettono prima di quest'anno la morte di Leone e l'elezion di Ottone. E veramente par difficile l'accordar ciò che segue colla cronologia di Galvano.

Per ordine dunque del pontefice venne il nuovo arcivescovo Ottone in [40] Lombardia [Stephanardus de Vimercato, tom. 9 Rer. Italic.], e andò nel dì primo d'aprile a posarsi in Arona, terra della sua mensa sul lago Maggiore. A questo avviso i Torriani col marchese Oberto fecero oste sopra quella terra, e non men coll'armi che coll'oro saggiamente adoperato la ridussero ai lor voleri. Ottone secondo i patti uscito libero di là, se ne tornò a Roma; e i Torriani spianarono nel dì cinque di maggio la rocca d'Arona, ed appresso quelle eziandio d'Anghiera e di Brebia, spettanti all'arcivescovato [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Nè di ciò soddisfatti, occuparono l'altre terre e rendite degli arcivescovi: per le quali violenze fu messa la città di Milano sotto l'interdetto. Ma non andò molto che gravemente s'infermò Martino dalla Torre; ed allorchè vide in pericoloso stato la sua vita, il popolo milanese elesse in suo signore il di lui fratello Filippo. Morì poscia Martino, e gli fu data sepoltura nel monistero di Chiaravalle nel dì 18 di dicembre, presso Pagano dalla Torre suo padre. In questo medesimo anno la città di Como più che mai fu sconvolta da due fazioni, l'una dei Rusconi, e l'altra de' Vitani. La prima elesse per suo signore Corrado da Venosa; e l'altra il suddetto Filippo dalla Torre. Prevalse la possanza di Filippo, e perciò a lui restò l'intero dominio anche di quella città. Parimente in Verona [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] Mastino dalla Scala maggiormente assodò il suo dominio, con iscacciarne Lodovico conte di San Bonifazio e tutti i suoi aderenti, cioè la parte guelfa; nè da lì innanzi la casa de' nobili di San Bonifazio, che tante prerogative in addietro avea godute in quella città, vi potè rientrare, per ricuperar almeno in parte l'antico suo decoro. Non mancarono in quest'anno delle dissensioni civili nella città di Bologna [Matth. de Griffonibus, Memor. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.], per le quali seguirono ammazzamenti, e furono banditi [41] più di ducento tra nobili, dottori e popolari. Anche la città d'Imola venne lacerata dall'animosità delle fazioni; e perciocchè ne fu cacciata la parte de' Geremei, i Bolognesi andarono colà a campo, e riebbero quella città, con ispianarvi dipoi i serragli e le fosse. Nè perciò quivi la pace allignò. Per la seconda volta, se pure non fu una sola, Pietro Pagano, il più potente di quella città, non solamente ne scacciò la parte de' Britti, ma anche il podestà messovi da' Bolognesi, con distruggere le lor case e torri. Sdegnato per questo insulto il comune di Bologna, vi spedì l'esercito, che rimise in dovere quel popolo. Ciò forse appartiene all'anno seguente. Aggiugne il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 19.] che anche in Faenza si provò il medesimo pernicioso influsso delle fazioni, con averne quel popolo fatta uscire la famiglia degli Acarisi, ed essersi sottratta dal dominio de' Bolognesi. Ma non aspettò essa l'armi per tornare all'ubbidienza del comune di Bologna. Da una lettera di papa Urbano IV all'arcivescovo di Ravenna data in Orvieto nel dì quinto di gennaio dell'anno presente, e riferita da Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], vegniamo a conoscere che esso pontefice avea fatto de' processi contra Ubertum Pelavicinum, necnon et adversus quasdam communitates, et quosdam nobiles ac magnates provincia e Lombardiae, cioè contra le città e i principi che teneano la parte ghibellina, quasi che il ghibellinismo fosse diventato un gran delitto, e solamente fosse buon cristiano chi era della parte guelfa.

Ed era ben infelice in questi tempi la maggior parte dell'Italia. Niuna quasi delle città e terre da' confini del regno di Puglia sino a quei della Francia e Germania andava esente da queste maledette fazioni, cioè de' nobili contrarii al popolo, oppure de' Guelfi nemici dei Ghibellini. Riposo non v'era. Ora agli uni, ora agli altri toccava di sloggiare, o di andarsene in esilio. E ne avvenivano [42] di tanto in tanto sedizioni, civili risse e combattimenti, colla rovina delle case e torri di chi andava di sotto. Da Roma stessa per tali divisioni era bandita la quiete, di modo che il pontefice Urbano, poco fidandosi di quella instabile cittadinanza, meglio amò di fissar la sua stanza in Orvieto. Le città ancora più forti, ansiose di stendere la lor signoria, per poco faceano guerra alle vicine di minor possanza. Con tutto poi lo studio de' sacri inquisitori, e non ostante il rigor delle pene, invece di sradicarsi l'eresia de' Paterini, ossia delle varie sette de' Manichei, questa andava piuttosto crescendo. Altro poi tuttodì non si udiva che scomuniche ed interdetti dalla parte di Roma. Bastava d'ordinario seguitare il partito ghibellino, e toccar alquanto le chiese, perchè si fulminassero le censure, e si levassero i sacri uffizii alle città. Per tacere degli altri luoghi, tutto il regno di Puglia e Sicilia si trovò sottoposto all'interdetto; ed uno dei gravi delitti dell'imperador Federigo II e del re Manfredi fu l'averne voluto impedir l'esecuzione. Se per tali interdetti, che portavano un grande sconcerto nelle cose sacre, ne patissero e se ne dolessero i popoli, e se crescesse perciò oppure calasse la religione e la divozion de' cristiani, e provassero piacere o dispiacere gli eretici d'allora, ognun per sè può figurarselo. Si aggiunsero le guerre, e talvolta le crociate, fatte dalla Chiesa, non più contro ai soli infedeli, ma contro agli stessi principi cristiani, e per cagion di beni temporali: il che produceva de' gravi incomodi al pubblico. Per sostenere i lor proprii impegni, se i principi dall'un canto aggravavano lo chiese e commettevano mille disordini, anche i papi dall'altro introdussero per tutta la Cristianità delle gravezze insolite alle chiese, delle quali diffusamente parla Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], con esprimere le cattive conseguenze che ne derivavano. In somma abbondavano in questi tempi i [43] mali in Italia, e della maggior parte di essi si può attribuir l'origine alla discordia fra il sacerdozio e l'imperio, risvegliata sotto Federigo I Augusto, e continuata, anzi cresciuta dipoi sotto i suoi discendenti. Noi, che ora viviamo, dovremmo alzar le mani al cielo che ci tratta sì bene. Certamente neppur mancano guai ai nostri tempi; e quando mai mancheranno alla terra, paese de' vizii? Tuttavia brevi mali sono i nostri, anzi cose da nulla, in paragon di quelli che nel presente secolo terzodecimo, e nei due antecedenti e susseguenti patì la misera Italia. Finirò il racconto di questo anno, con dire che in Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] fu gran discordia fra le parti della Chiesa e dello imperio, se si aveva da accettar per signore il marchese Oberto Pelavicino. Si venne finalmente ad un accordo, con cui promisero i Parmigiani di aiutare in qualsivoglia occasione esso marchese, e di pagargli ogni anno mille lire di salario, obbligandosi all'incontro anch'egli di non venir mai a Parma senza il consentimento di quel popolo. Questo accordo, benchè si discreto, fu motivo bastante al papa per mettere l'interdetto in Parma. E chi non si maraviglierà de' tempi di allora? Secondo la Cronica di Siena [Chron. Senense., tom. 9 Rer. Ital.], nell'anno presente i Guelfi fuorusciti di essa città furono sconfitti alla Badia di Spineta dai Ghibellini sanesi e tedeschi, e ne restarono molti prigioni, che poi con danaro si riscattarono.


   
Anno di Cristo mcclxiv. Indizione VII.
Urbano IV papa 4.
Imperio vacante.

L'anno fu questo in cui il romano pontefice Urbano IV istituì la festa del Corpo di Cristo [Raynald., in Annal. Eccl.]. E perciocchè egli finalmente si avvide che il fulmine degli interdetti, sì allora frequenti, si volgeva in danno della santa religione, e raffreddava [44] anche i buoni nel culto di Dio e negli esercizii della pietà, temperò il rigor di quel rito, incognito per tanti secoli alla Chiesa di Dio, e introdotto solamente per castigar popoli cattivi, e non già popoli innocenti, con permettere a porte chiuse ed esclusi gli scomunicati, l'uso delle messe e de' sacramenti. Se non nel precedente anno, certamente nel presente, fu stabilito l'accordo fra il pontefice e Carlo conte d'Angiò e di Provenza. Siccome fu accennato di sopra, avea prima esso papa esibito il regno di Sicilia e Puglia al santo re di Francia Lodovico IX per uno de' suoi figliuoli; ma questi non volle accudire a sì fatto acquisto, in cui conveniva adoprar l'armi per levarlo a Corradino, che vi avea sopra delle buone ragioni, e per dispossessarne Manfredi, amendue principi cristiani. Contentossi bensì che il suddetto Carlo suo fratello accettasse l'offerta fattagli dal pontefice con quelle condizioni che si leggono negli Annali Ecclesiastici del Rinaldi. Accadde che in questi tempi saltò in testa al popolo romano di volere per senatore e capo un principe potente. Una parte proponeva il re Manfredi; un'altra il conte d'Angiò e di Provenza; e fu ancora proposto Pietro primogenito di Jacopo re di Aragona. Al papa non piacque tal novità per giusta paura che un principe di molta possanza pregiudicasse di troppo all'autorità temporale pontificia in Roma, e massimamente se la dignità fosse conferita in vita al nuovo senatore. Il perchè egli stesso, per escludere gli altri due mal veduti concorrenti, aiutò l'esaltazione del conte Carlo sua creatura al grado senatorio, ma con certi patti ch'egli non ebbe difficoltà di accettare, perchè altrimenti protestava il papa di non volergli attener la promessa del regno di Sicilia [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 10.]. Acconciati che furono questi affari, spedì Carlo a Roma un suo vicario a prendere il possesso della dignità senatoria. Non erano ignoti a Manfredi questi trattati del papa tendenti alla sua [45] rovina; e però anch'egli cominciò a far de' preparamenti. Nè solamente si tenne sulla difesa, ma diede principio alle offese, con inviare un grosso corpo di Saraceni e Tedeschi sul territorio romano, e con tirare nel suo partito Pietro da Vico, signor potente nelle parti del Patrimonio di San Pietro [Continuator Nicolai de Jamsilla. Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 10. Theodoric. Vallicolor., in Vita Urbani IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Fu occupata dall'armi di Manfredi la città di Sutri, e ricuperata da Pandolfo conte dell'Anguillara colla rotta da' Saraceni. Per esso Manfredi in Roma stessa il partito de' Ghibellini andava macchinando delle sedizioni, e Riccardo degli Annibaldi s'impadronì d'Ostia. Mandarono a voto le trame e i tentativi del suddetto Pietro da Vico, che, avendo intelligenza in Roma, si pensava di potervi entrare. Restò costui sconfitto dai Romani. E quantunque l'esercito di Manfredi sotto il comando di Percivalle d'Oria avesse preso molte castella, pure in vicinanza di Rieti ebbe una grave percossa dall'esercito pontificio crocesignato: giacchè Urbano avea fatta predicar la croce contra di Manfredi, assolvendo chiunque l'avea presa per andar contro gl'infedeli, purchè militasse contra di questo più vicino nemico.

Succederono altri combattimenti, ora prosperi ed ora contrarii, secondo l'uso della guerra, ch'io tralascio, per dire che intanto, dopo essersi trattenuto papa Urbano circa due anni in Orvieto, ben trattato e ricevuto da quel popolo, gli convenne infine ritirarsene mal soddisfatto. Perchè gli Orvietani presero il castello di Bizunto e lo ritennero per sè contro la volontà del papa, egli se ne partì e andò a Perugia. Infermatosi per istrada, appena fu giunto in quella città, che diede fine a' suoi giorni, nel dì due d'ottobre; e fu creduto [Ricordano Malaspina, cap. 175.] che una gran cometa, la quale cominciò a vedersi d'agosto, e sparve allorchè egli mancò di vita, [46] avesse predetta la sua morte. Le azioni illustri di questo pontefice si veggono descritte in versi da Teodorico di Valcolore [Theodericus Vallicolor., P. I, tom. 3 Rer. Ital.], dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.] e da altri. Vacò dipoi la santa Sede quattro mesi e cinque giorni, non potendosi accordare i cardinali nell'elezione del successore, benchè tempi sì pericolosi e sconcertati esigessero un pronto rimedio. In quest'anno ancora Azzo VII marchese d'Este [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.], mentre governava in istato pacifico la città di Ferrara, pagò il tributo della natura, correndo il dì 17 di febbraio, nell'anno cinquantesimo di sua età, e ventesimoquarto del suo principato in Ferrara: principe di gloriosa memoria per l'insigne sua pietà, per la sua clemenza e per altre virtù, costantissimo sempre nel partito della Chiesa, contro tutti gli sforzi di Federigo II Augusto, di Eccelino e d'altri suoi nemici. Leggonsi le sue lodi presso il Monaco Padovano. L'autore della Cronica picciola di Ferrara [Chron. Parvum Ferrariens., tom. 8 Rer. Ital.], tuttochè gran Ghibellino, confessa che chiunque ancora de' Ferraresi era della fazion ghibellina, con vere lagrime onorò la di lui sepoltura. Di due Beatrici Estensi monache, le quali per le loro virtù meritarono il titolo di beate, l'una fu sua sorella, l'altra figliuola. Lasciò egli erede dei suoi Stati Obizzo suo nipote, nato dal figliuolo Rinaldo, a lui premorto. Appena fu ritornato il popolo dal di lui funerale, che nella piazza si tenne un general parlamento, dove di comun consenso fu proclamato signor di Ferrara il suddetto marchese Obizzo [Antichità Estensi., P. II, cap. 2.], a cui fu conferito un'ampia balìa. Secondo gli Annali Vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], e per attestato d'altri scrittori [Chronic. Parmens., tom. 9 Rer. Ital. Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], circa la [47] metà di dicembre, la fazione degli Aigoni, cioè de' Guelfi di Modena, capi de' quali erano Jacopino Rangone e Manfredi dalla Rosa, cacciò fuori della città la parte ghibellina, appellata de' Grasolfi. Accorsero nel dì seguente in aiuto d'essi Guelfi il marchese d'Este, cioè Obizzo suddetto, con assai brigate di Ferraresi, e Lodovico conte di San Bonifazio co' Mantovani. Abbiamo da Ricordano Malaspina [Ricordano Malaspina, cap. 174.] che anche i fuorusciti guelfi di Toscana, abitanti allora in Bologna, intervennero a questa cacciata de' Ghibellini da Modena, e vi restarono morti alcuni d'essi. Ed affinchè gli usciti non si ritirassero a Gorzano, quel castello fu preso e smantellato. La mutazion di Modena si tirò dietro quella di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rerum Ital.]. Ivi ancora vennero alle mani i Guelfi coi Ghibellini. De' primi erano capi i Rossi. Finalmente, dopo varii combattimenti e bruciamenti di case, i Ghibellini si diedero per vinti nel dì 29 di dicembre, e furono eletti due podestà, cioè Giberto da Correggio e Jacopo Tavernieri, con licenziare Manfredi de' Pii da Modena, allora podestà, e Matteo da Gorzano parimente Modenese, eletto per l'anno venturo, che erano di fazion ghibellina. Ebbero origine i movimenti di queste due città dalla nuova già sparsa che Carlo d'Angiò conte di Provenza preparava un poderoso esercito per passare in Italia contra del re Manfredi, e in soccorso della parte guelfa. Di qui prese animo anche Filippo dalla Torre, signoreggiante in Milano [Gualvaneus Flamma, Manip. Flor., cap. 300. Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], di abbracciare il partito de' Guelfi, con liberarsi del marchese Oberto Pelavicino, la cui condotta era già finita. Partissi da Milano con amarezza grande il Pelavicino, e giunto a Cremona, in odio dei Torriani fece prendere quanti mercanti milanesi passavano per Po. Unironsi ancora con lui i nobili fuorusciti di Milano, dacchè videro sempre [48] più allontanarsi la speranza di rientrar nella patria. Seguì perciò guerra fra essi Torriani e il marchese Oberto, ma senza avvenimenti degni di memoria. Intanto si sottomisero volontariamente al dominio d'esso Filippo dalla Torre le città di Bergamo, Novara, Vercelli e Lodi, la qual ultima forse solamente ora, e non prima, come già Galvano dalla Fiamma ci avea fatto sapere, elesse per suo signore il suddetto Filippo.


   
Anno di Cristo mcclxv. Indizione VIII.
Clemente IV papa 1.
Imperio vacante.

Finalmente nel dì nove (come vuole il Rinaldi [Raynaldus. Annal. Ecclesiast.]), oppur nel dì cinque (come ha Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., lib. 22, cap. 50.]) di febbraio del presente anno fu eletto da' cardinali per successore di san Pietro Guido vescovo sabinense, nato nella terra di Santo Egidio della Provenza, ossia della Linguadoca, personaggio di rara bontà di vita e di singolare umiltà. Avea avuta moglie e figliuoli. Rimasto vedovo, si arrolò nella milizia clericale; fu creato vescovo d'Anicy, oppure di Aux, poscia arcivescovo di Narbona e cardinale, e finalmente assunto al pontificato romano. Perchè egli si trovava allora in Francia, impedito dal passare in Inghilterra, tennero i cardinali segreto lo scrutinio, e a lui spedirono con egual segretezza l'avviso dell'elezione caduta nella di lui persona. Sen venne egli perciò incognito a Perugia, dove, dopo molta resistenza, prestò il suo consenso, e dopo essere stato consecrato ed aver preso il nome di Clemente IV, andò a mettere la sua residenza in Viterbo. Furono da lui approvate tutte le determinazioni del suo predecessore intorno alla concessione del regno di Sicilia e Puglia a Carlo conte di Provenza, e alla sua venuta in Italia. Mossesi infatti questo principe nella primavera dell'anno presente da Marsilia [49] con venti galee, accompagnato da Luigi di Savoia, e venne alla volta di Roma. Non avea tralasciato Manfredi di prendere le possibili precauzioni per frastornare l'arrivo del competitore. Una considerabil flotta di galee e di navi [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 17.], tanto sue che de' Pisani, fu inviata alla sboccatura del Tevere. Quivi con travi, pali, sassi si cercò d'impedire il passaggio di qualunque grosso legno che volesse salire su per quel fiume. Tale era anche la copia e forza del suo armamento navale, che si figurava l'ammiraglio di Manfredi di potere a man salva far prigione lo stesso conte Carlo, se osava di portarsi colà. Ma eccoti una fiera tempesta che obbligò quella flotta a staccarsi da que' lidi, e a tenersi alto in mare, con prendere la via di Ponente, per incontrare, se le veniva fatto, la flotta nemica. Questo fu la fortuna del conte, il quale, tuttochè anche egli fosse forte sbattuto da quell'orrido temporale, e si trovasse in manifesto pericolo della vita, pure sen venne spinto dai rabbiosi venti sino alla spiaggia romana, dove, salito in un picciolo legno, quasi miracolosamente approdò a terra, e giunse al monistero di San Paolo fuori di Roma. Quetata poi la furia del mare, pervennero anche le sue galee alla foce del Tevere, e, levati gli ostacoli, liberamente entrò nel fiume, e sbarcò a Roma mille uomini d'armi, tutta gente valorosa e avvezza al mestier della guerra. Nel mercordì prima della Pentecoste, cioè nei dì 24 di maggio [Bernard. Guidon., in Vita Clementis IV.], fece il conte Carlo la sua entrata in Roma con così magnifico incontro, plauso e giubilo di tutto il popolo romano, che non v'era memoria di solennità sì festosa per onorar l'arrivo d'altri principi venuti a quella gran città. Sbalordito rimase il re Manfredi all'udire come con tanta felicità fosse giunto l'emulo suo, ed avesse schivata l'opposizion della sua armata navale, tanto superiore di forze. Senza nondimeno perdersi d'animo, attese a fortificarsi [50] e premunirsi a' confini: al qual fine richiamò dalla Toscana, dalla marca d'Ancona e dagli altri luoghi tutte le schiere de' suoi Tedeschi e d'altri soldati sparsi per quelle contrade. Tenuto poscia un parlamento di tutti i baroni e vassalli del regno, espose loro i motivi e la necessità della difesa e dell'aiuto di cadauno, mostrando una viva speranza nella lor fedeltà e bravura. Delle belle parole e promesse n'ebbe quante ne volle; ma negli animi loro già bollivano altri desiderii, e ognuno pensava a' propri interessi e vantaggi, senza mettersi cura de' pubblici. Niuna impresa tentò in quest'anno il conte Carlo, perchè aspettava per terra il grosso della sua cavalleria e fanteria [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Raynald., in Annal. Eccles.]. S'inoltrò bensì nel distretto di Roma l'esercito di Manfredi, sulla speranza che egli uscisse di Roma e venisse a battaglia; ma il conte, mosso ancora dalle saggie esortazioni del papa, nulla volle azzardare, trovandosi scarso di gente sua, e poco fidandosi de' Romani, fra' quali non pochi erano guadagnati dai danari di Manfredi. Venuto il mese di settembre arrivò per mare a Roma la sua consorte Beatrice, che fu accolta con sommo onore ed allegrezza dal popolo romano.

Vegniamo ora alla Lombardia, che nell'anno presente fu quasi tutta in armi per la calata dell'esercito franzese, raccolto per ordine del conte suddetto. Prima nondimeno ch'esso valicasse l'Alpi, la città di Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic. Ricordano Malaspina, cap. 174.], fin qui di parte ghibellina, cangiò mantello. Nel dì 6 di febbraio arrivarono colà i Modenesi cogli usciti di Reggio, e coi guelfi fiorentini e di Toscana. Fu dismurata e loro aperta la porta del castello dai nobili Fogliani e Roberti, e sulla piazza si venne ad un aspro combattimento coi Sessi e colla parte ghibellina, fra i quali si distinse e passò poi in proverbio il Caca ossia Cacca [51] da Reggio, uomo di statura gigantesca e di mirabil forza, che con una mazza alla mano si facea far piazza dovunque giugnea. Se gli serrarono addosso uniti dodici gentiluomini fiorentini colle coltella, e lo stesero a terra. Dopo di che i Sessi e i lor seguaci presero la fuga, e si ritirarono a Reggiuolo. Così i Reggiani cominciarono a governarsi a parte guelfa, e da lì a qualche tempo fecero tregua cogli usciti, e cessò ogni ostilità. Secondo la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], seguì nell'anno presente una battaglia tra Guglielmo marchese di Monferrato e Oberto da Scipione, nipote del marchese Oberto Pelavicino, nell'Alessandrino presso Nizza della Paglia. Rimasero prigionieri cinquecento cavalieri d'esso Oberto da Scipione. Intorno a che è da avvertire che, per attestato di Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato, tom. 28 Rer. Ital.], nel precedente anno 1264, nel dì 14 di maggio, Carlo conte di Provenza avea fatta lega col suddetto marchese di Monferrato contra di Manfredi e di Oberto marchese Pelavicino. In virtù d'essa alleanza fece esso marchese di Monferrato guerra nell'anno presente al nipote d'esso Pelavicino. Calò per la Savoia sul fine della state di quest'anno l'armata oltramontana de' crocesignati (giacchè si guadagnava indulgenza plenaria a prendere le armi contra di Manfredi), inviandosi verso Roma per trovar Carlo conte d'Angiò e di Provenza, e passar dipoi contra d'esso Manfredi. La Cronica di Parma la fa ascendere a sessanta mila combattenti; quella di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] a quaranta mila. Meglio è stare agli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], che la dicono composta di cinque mila cavalli, quindici mila fanti e dieci mila balestrieri. Ne era capitan generale Roberto figliuolo del conte di Fiandra, accompagnato da copiosa nobiltà oltramontana. Trovò il marchese [52] di Monferrato collegato, e i Torriani col popolo di Milano favorevoli, dai quali ricevè abbondante provvisione di vettovaglia. Ma nemici ed opposti a questa gente erano il marchese Oberto Pelavicino e Buoso da Doara coi Cremonesi, Pavesi, Piacentini ed altri Ghibellini di Lombardia, i quali, condotti dall'interesse della lor fazione, e insieme dai danari del re Manfredi, coi lor carrocci e con grande sforzo d'armati andarono a postarsi a Soncino, per contrastarle il passo. V'andò anche il conte Giordano [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], spedito colà da Manfredi con quattrocento lancie, e una bella compagnia di Napoletani a cavallo. Pertanto fu d'uopo che l'esercito franzese prendesse la volta del territorio di Brescia, nella qual città il marchese Pelavicino avea posto un buon presidio. Passarono essi l'Oglio a Palazzuolo, e giunti fin sotto le mura di Brescia, vi gettarono dentro molte saette nel dì 9 di dicembre. Se non veniva loro meno la vettovaglia, forse prendevano quella città molto sbigottita. Arrivati a Monte Chiaro, quivi trovarono giunti in aiuto loro Obizzo marchese d'Este signor di Ferrara coi Ferraresi, e Lodovico conte di San Bonifazio coi Mantovani. Uniti poi con essi, diedero varii assalti a Monte Chiaro, e se ne impadronirono, siccome ancora di altre terre, che quasi tutte distrussero, con farvi prigioni quattrocento cavalli e mille fanti del marchese Pelavicino [Ricordano Malaspina, cap. 178.]. Commisero dappertutto l'enormità che si possono immaginare, senza ricordarsi d'essere cristiani e crociati. Non si allentò mai esso marchese con tutti i suoi di far fronte a questa armata nemica, deludendo con ciò le speranze di Manfredi, Ricordano Malaspina [Matteo Spinelli, Diario, tom. 8 Rer. Ital.], Dante ed altri incolpano di tradimento Buoso da Doara, che, corrotto dal danaro del Francesi, talmente dispose le cose, che i nemici senza contrasto passarono. [53] Più verisimile è ch'eglino tali forze non avessero da poter avventurare una battaglia con sì poderoso esercito nemico.

Comunque sia, pervenuti i Franzesi sul Ferrarese, vi trovarono preparato dal suddetto marchese Obizzo un ponte sul Po, per cui valicarono il fiume. Scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 20.] che dieci mila Bolognesi marciarono a Mantova in soccorso dell'armata franzese. Io non ne truovo parola negli scrittori d'allora, e neppur nelle Croniche di Bologna. Certo non sussiste il dirsi da Ricordano che l'esercito franzese passò per Parma. Con esso bensì andarono ad unirsi i Guelfi fuorusciti di Toscana in numero di più di quattrocento cavalieri, tutti riccamente guerniti d'armi e di cavalli, de' quali era condottiere il conte Guido Guerra. Passando poi per la Romagna, marca d'Ancona e Spoleti, se crediamo a Ricordano e ad altri autori, arrivarono finalmente a Roma circa le feste del Natale. Ma sapendosi che quell'esercito era tuttavia sul Bresciano verso la metà di dicembre, non può stare un sì frettoloso arrivo d'esso a Roma. Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 1.], dopo aver narrata la coronazione del conte Carlo fatta nel dì dell'Epifania dell'anno seguente, scrive: Jam Gallicorum post haec superveniens multitudo circumfluit; jam totus regis Karoli exspectatus exercitus Romam venit. Però verso la metà del gennaio susseguente dovette l'armata suddetta comparire alla presenza del suo signore in Roma. Avea fatto in questo anno, prima del fin qui mentovato successo, la città di Brescia [Malvecius, Chron. Brixian.] dei movimenti per sottrarsi alla signoria del marchese Oberto Pelavicino. Per questo presi alcuni di que' nobili, furono condotti nelle carceri di Cremona. Un segreto concerto fu fatto dipoi che Filippo dalla Torre, signor di Milano, di Bergamo e d'altre città, venisse con assai brigate a Brescia in un determinato giorno del [54] mese d'agosto, per sostenere la sollevazione del popolo. Accadde che il Torriano, allorchè si disponeva per cavalcare a quella volta, sorpreso da subitaneo malore, cessò di vivere. Non per anche s'era data sepoltura al di lui cadavero nel monistero di Chiaravalle, che Napo ossia Napoleone dalla Torre suo parente si fece proclamare signor di Milano. Rimasero per questo accidente in grave sconcerto i Bresciani. Fecero bensì due tentativi per liberarsi dall'oppressione del Pelavicino, ma questi ridondarono solamente in loro danno. Moltissimi de' nobili furono presi e mandati a penar nelle prigioni di Cremona; ad altri non pochi fu, dopo i tormenti, levata la vita: il che sempre più accrebbe l'odio di quel popolo verso chi allora li signoreggiava.


   
Anno di Cristo mcclxvi. Indizione IX.
Clemente IV papa 2.
Imperio vacante.

Prima di procedere coll'armi contro al nemico Manfredi, volle Carlo conte di Angiò e di Provenza essere solennemente coronato re di Sicilia e di Puglia. La funzione fu fatta per ordine di papa Clemente IV nella Basilica Vaticana [Raynald., Annal. Eccles. Ricord. Malaspina, Monach. Patavinus et alii.], correndo le festa dell'Epifania, ossia nel dì 6 di gennaio. Essendo stati spediti colà dal papa cinque cardinali apposta, ricevè il conte con Beatrice sua moglie la corona; e vi intervenne un'immensa folla di Romani, che compierono la festa con varie allegrezze e giuochi. Prestò il re Carlo allora il giuramento, e il ligio omaggio alla Chiesa romana pel regno di Sicilia di là e di qua dal Faro, di cui fu investito dal papa. Avrebbe avuto bisogno l'armata sua, che giunse nei giorni seguenti, di un lungo riposo, perchè arrivò a Roma sfiatata e malconcia pel lungo viaggio e per molti affanni patiti. Ma troppo era smunta la borsa del re Carlo, nè maniera [55] aveva egli di sostentar tanta gente, avendo già consunte le grosse somme prese dai prestatori. Fece ben egli al pontefice istanza di soccorso d'oro, ma con ritrovare anche il di lui erario netto e spazzato al pari del suo. Però, ancorchè il verno non sia stagion propria per guerreggiare, massimamente per chi guida migliaia di cavalli; pure per necessità, e sulla speranza di provvedere al proprio bisogno colle spoglie de' nemici, durante ancora il mese di gennaio, intrepidamente col suo fiorito esercito marciò alla volta di Ceperano per entrare nel regno. Era con lui Riccardo cardinale di Sant'Angelo, legato del papa, per muovere i popoli a prendere la croce per la Chiesa. Non avea intanto Manfredi lasciato di far quanti preparamenti potea per ben riceverlo. Un grossissimo presidio ancora avea messo in San Germano, sperando che quel luogo facesse lunga resistenza al nimico, per aver tempo di ricever varii corpi di gente che si aspettavano dalla Sicilia, Calabria, Toscana ed altri luoghi. Fra le altre provvisioni avea situato al fiume Garigliano il conte di Caserta con grosse squadre per difendere quel passo. Ma agli animosi ed arditi Franzesi nulla era che potesse resistere; innanzi a loro camminava il terrore, perchè creduti non diversi dai paladini favolosi di Francia; e il verno stesso si vestì d'un'insolita placidezza per favorirli. Passarono i Franzesi il Garigliano per la proditoria ritirata del conte di Caserta. Fu preso a forza d'armi San Germano, e andò a fil di spada quasi tutta quella numerosa guarnigione, con incoraggirsi maggiormente i vincitori pel saccheggio, frutto sempre gustoso della vittoria. Aquino e la rocca d'Arci non fecero resistenza. Da così sinistri avvenimenti allora più che mai Manfredi venne a conoscere non poter egli far capitale alcuno sulla volubilità e poca fede de' regnicoli. V'erano fra questi non pochi che, ricordevoli delle crudeltà ed avanie di Federigo II e di suo figliuolo Corrado, odiavano la casa di [56] Suevia; altri guadagnati dall'oro, e dalle promesse della corte di Roma e del re Carlo; altri infine amanti delle novità per la facile speranza di star meglio, oppur di crescere in fortuna. Contuttociò Manfredi senza avvilirsi attese a far le disposizioni opportune, e colle sue forze passato a Benevento, quivi si accampò. Non aveva egli tralasciato di mandar persona a parlare di accordo al re Carlo. La risposta di Carlo fu questa in franzese: Dite [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 5.] al sultano di Nocera (così appellava Manfredi, perchè si serviva de' Saraceni) ch'io con lui non voglio nè pace nè tregua; e che in breve io manderò lui all'inferno, o egli me in paradiso.

Non perdè tempo il re Carlo a muoversi verso Benevento, per trovare l'armata nemica, ardendo di voglia di decidere con un fatto d'armi la contesa del regno. Fu messo in disputa nel consiglio di Manfredi, se meglio fosse il tenersi solamente in difesa, tanto che arrivassero gli aspettati rinforzi, oppure il dar tosto battaglia, per cogliere i Franzesi stanchi e spossati per le marcie sforzate. Ossia che prevalesse l'ultimo partito, o che l'impaziente Carlo uscisse ad attaccare il nemico, ovvero che i Saraceni in numero di dieci mila, senza aspettarne il comandamento, movessero contra dei Franzesi [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Veronense, tom. 9 Rer. Ital.], a poco a poco nel dì 26 di febbraio dell'anno presente (chiamato 1265 da alcuni scrittori che cominciano alla fiorentina l'anno nuovo solamente nel dì 25 di marzo) s'impegnarono le schiere in un'orrida battaglia, descritta minutamente da Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 10.], da Ricordano [Ricordano Malaspina, cap. 179.] e da altri scrittori. A me basterà di accennarla. Combatterono con gran vigore i Saraceni e Tedeschi dello esercito di Manfredi. Si trovarono essi infine malmenati e sopraffatti dai Franzesi; [57] laonde volle allora Manfredi muovere la terza schiera composta di Pugliesi, ma senza trovare ubbidienza nei baroni di cuore già guasto. Allora lo sfortunato, ma coraggioso, principe determinò di voler piuttosto morire re, che di ridursi privato colla fuga a mendicare il pane. E spronato il cavallo, andò a cacciarsi nella mischia, dove, senza essere conosciuto, da più colpi fu privato di vita. Racconta Ricobaldo [Richobaldus, in Pomario, tom. 9 Rer. Ital.], e dopo lui Francesco Pipino [Franciscus Pipin., Chron., lib. 3, cap. 43, tom. 9 Rer. Ital.], che in questi tempi andarono in disuso per l'Italia le spade da taglio, ossia le sciable, e si cominciò ad usar quelle da punta, ossia gli stocchi, de' quali si servivano i Franzesi. Per essere gli uomini d'armi tutti vestiti di ferro, poco profitto faceano addosso a loro i colpi delle sciable. Ma allorchè essi alzavano il braccio per ferire, i Franzesi colle punte degli stocchi li foravano sotto le ascelle, e in questa maniera lì rendevano inutili a più combattere. Strage fu fatta, massimamente de' Saraceni; grande fu la copia dei prigioni, fra' quali si contarono i conti Giordano, Galvano, Federigo e Bartolommeo, parenti di Manfredi, ad alcuni de' quali, cioè Galvano e Federigo, fu data dipoi la libertà ad istanza di Bartolommeo Pignatelli arcivescovo di Messina; ed altri furono fatti morire dall'inesorabil re Carlo. Il bottino fu inestimabile, e ne arricchirono tutti i vincitori, e alle mani del re Carlo pervennero i tesori di Manfredi e di molti de' baroni di lui. Nè contenti i vincitori di tante spoglie, rivolsero l'insaziabil loro avidità addosso ai miseri Beneventani, senza che loro giovasse punto l'essere sudditi del papa. Dato fu un terribil sacco alla città, fatto macello d'uomini e fanciulli, sfogata la libidine, e senza che le chiese stesse godessero esenzione alcuna dall'infame sfrenatezza di quella gente. Se costoro si fossero mossi per divozione a prendere la croce, [58] e se fossero ben impiegate le indulgenze plenarie, ognuno può ben figurarselo. Ma quello che maggiormente rallegrò il re Carlo, e diede compimento alla sua vittoria, fu la morte di Manfredi. Se ne sparse tosto la voce, ma si stette tre dì a scoprirne il cadavero [Ricordano Malaspina, cap. 180. Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Trovollo un ribaldo, e, postolo a traverso sopra un asino, l'andava mostrando pel campo. Fece il re Carlo I riconoscerlo per desso dal conte Giordano, e dagli altri nobili prigionieri; e perciocchè era morto scomunicato, ordinò che fosse seppellito presso il ponte di Benevento in una vil fossa, sopra cui ogni soldato per compassione e memoria gittò una pietra. E tal fine ebbe Manfredi già re di Sicilia, principe degno di miglior fortuna, perchè, a riserva dell'aver egli violate le leggi per voglia esorbitante di regnare, e di qualche altro reato dell'umana condizione, tali doti si unirono in lui, che alcuni giunsero a dirlo non inferiore a Tito imperadore, figliuolo di Vespasiano [Franciscus Pipin., Chron., lib. 3, cap. 6.]. Restò memoria di lui nella città di Manfredonia, fatta da lui fabbricare di pianta col trasportarvi il popolo di Siponto, mal situato dianzi, perchè in luogo d'aria cattiva.

La rotta e morte di Manfredi divolgatasi per tutta Puglia e Sicilia, cagion fu che non vi restò città e luogo che non inalberasse le bandiere del re Carlo, e con feste e giubili incredibili. La sola città di Nocera, nido de' Saraceni, dove, secondo gli scrittori napoletani, s'era ricoverata la regina Sibilia moglie di Manfredi con Manfredino suo picciolo figliuolo e una figliuola, si tenne forte. Colà si portò con buona parte dell'esercito Filippo conte di Monforte, e l'assediò; ma ritrovato troppo duro quell'osso, se ne partì, con lasciare nondimeno strettamente bloccata essa città. Certo è, secondo le lettere di papa Clemente, e per attestato della Cronica di Reggio, che in [59] quest'anno essa regina co' figliuoli e col tesoro del marito fu presa nella città di Manfredonia; il che vien confermato dal Monaco Padovano. Altre storie ancora affermano che i Saraceni di Nocera si sottomisero in quest'anno al re Carlo, nè aspettarono a farlo dopo la rotta di Corradino, di cui parleremo a suo luogo. Entrò poscia il vittorioso re Carlo in Napoli, che prima gli avea spedite le chiavi; e andò quel popolo quasi in estasi al veder comparire le regina Beatrice con carrozze magnifiche e dorate, e copia di damigelle, tutte riccamente addobbate, siccome gente non avvezza a somiglianti spettacoli. Osserva Riccobaldo [Richobaldus in Pomario, tom. 9 Rer. Ital.] che i costumi degli Italiani erano stati in addietro assai rozzi, dati alla parsimonia, voti di ogni fasto e vanità; e ne dice anche, a mio credere, più di quel che era, come ho dimostrato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. XXIII et XXV.]. Per altro la venuta de' Franzesi quella fu che cominciò ad introdurre il lusso e qualche cosa di peggio, e fece mutar i costumi degl'italiani. Trovò il re Carlo nel castello di Capoa il tesoro di Manfredi quasi tutto in oro [Ricordano Malaspina, cap. 181.]. Fatti votare quei sacchetti in una sala alla presenza sua e della regina Beatrice, e comandato che venissero le bilance, disse ad Ugo del Balzo cavalier provenzale di partirlo. Che bisogno c'è di bilance? rispose allora il prode cavaliere. E co' piedi fattene tre parti, questa, disse, sia di monsignore il re; questa della regina; e quest'altra dei vostri cavalieri. Piacque cotanto al re un atto di tale magnanimità, che incontanente gli donò la contea d'Avellino, e il creò conte. Diedesi poi il re Carlo ad ordinare il regno. S'erano figurati i popoli di quelle contrade che colla venuta de' Franzesi, e sotto il nuovo governo tornerebbe il secolo d'oro, si leverebbono le gabelle, le angherie e le contribuzioni passate, ed ognun godrebbe una invidiabil tranquillità e pace. Si trovarono [60] ben tosto delusi e ingannati a partito. Le soldatesche franzesi ne' lor passaggi e quartieri a guisa del fuoco portavano la desolazion dappertutto [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 16.]. Ebbe il re Carlo in mano da un Gezolino da Marra tutti i libri e registri delle rendite e degli uffizii del regno, e di tutte le giurisdizioni, dazii, collette, taglie ed altri aggravii dei popoli. Non solamente volle il re intatti tutti questi usi od abusi; ma siccome in addietro si camminava assai alla buona in riscuotere cotali carichi, istituì egli dei nuovi giustizieri, doganieri, notai, ed altri uffiziali del fisco, che rigorosamente spremevano il sangue dai popoli, e cominciarono ad accrescere in profitto del re, o proprio, i pubblici pesi e le avanie, di modo che altro non s'udiva che segreti gemiti e lamenti della misera gente, con augurarsi ognuno, quando non era più tempo, l'abbandonato e perduto re Manfredi. È un autor guelfo, uno storico pontificio che l'attesta, cioè Saba Malaspina. Secondo lui, ravveduti que' popoli andavano dicendo: O re Manfredi, noi non ti abbiam conosciuto vivo; ora ti piangiamo estinto. Tu ci sembravi un lupo rapace fra le pecorelle di questo regno; ma da che per la nostra volubilità ed incostanza siam caduti sotto il presente dominio, tanto da noi desiderato, ci accorgiamo in fine, che tu eri un agnello mansueto. Ora sì che conosciamo quanto fosse dolce il governo tuo posto in confronto dell'amarezza presente. Riusciva a noi grave in addietro che una parte delle nostre sostanze pervenisse alle tue mani; troviamo adesso che tutti i nostri beni, e, quel che è peggio, anche le persone vanno in preda a gente straniera. Tali erano di que' popoli le querele: querele osservate prima e dipoi anche in altri popoli sempre malcontenti dello stato presente, e che ripongono la speranza di star meglio, o men male, colla mutazion de' governi, ma con disingannarsi poi delle lor mal fondate idee.

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A molte altre avventure e mutazioni in Italia diedero moto i passi prosperosi di Carlo re di Sicilia, con atterrire i Ghibellini, ed influire coraggio alla parte guelfa pel rimanente d'Italia. Abbiamo dalla Cronica di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], che avendo Manfredi ritirate le sue armi dalla marca d'Ancona per valersene in propria difesa, fu spedito colà Simone cardinale di San Martino e legato apostolico, il quale nel dì ultimo di gennaio s'impadronì della città di Jesi, e poscia d'altre città e castella d'essa marca. Non dissimili cambiamenti di cose avvennero in Lombardia. Nel dì 20 di gennaio dell'anno presente si levò a rumore il popolo di Brescia [Malvecius, Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.], e messa a fil di spada, oppure in fuga, la guarnigione che ivi teneva il marchese Oberto Pelavicino, si rimise in libertà. Giunta questa dispiacevole nuova al suddetto marchese, furibondo passò co' Cremonesi di là dall'Ogiio, mettendo a sacco il territorio bresciano, uccidendo e facendo prigioni quanti incontrava. Distrusse da' fondamenti le terre di Quinzano. Orci, Pontevico, Volengo, Ustiano e Canedolo. Ricorsero i cittadini bresciani per soccorso ai Milanesi, e richiamarono in città i lor fuorusciti guelfi. Vennero perciò a Brescia Raimondo dalla Torre vescovo di Como, Napoleone ossia Napo e Francesco fratelli parimente dalla Torre con molte squadre e coi suddetti usciti, i quali furono incontrati fuor dal clero e popolo con rami d'ulivo: dopo di che fu fatta una solenne concordia e pace fra loro, e data la signoria di quella città ai Torriani suddetti. Restò quivi per governatore Francesco dalla Torre, il quale, ito poscia con bella comitiva a trovare il re Carlo, fu da lui fatto cavaliere e conte di non so qual luogo. In Vercelli era governatore di quella città Paganino fratello parimente del suddetto Napo [Stephanardus, tom. 9 Rer. Ital.]. Entrati in essa città occultamente i nobili milanesi ghibellini fuorusciti, il presero, [62] e, nel condurlo a Pavia, barbaramente lo uccisero. Trovavasi allora in Milano podestà, messovi dal re Carlo, Emberra del Balzo Provenzale [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 302.]. Costui con alcuni de' Torriani fatto consiglio per vendicar la morte di Paganino, avendo in prigione i figliuoli, fratelli o parenti degli uccisori suddetti, ne fece condurre cinquantadue sopra le carra, e scannarli con crudeltà esecrabile, riprovata dai baroni e dallo stesso Napo Torriano, il quale poi disse: Ah che il sangue di questi innocenti tornerà sopra de' miei figliuoli! Per tale iniquità fu poi scacciato da Milano il suddetto Emberra. Fu anche la città di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] a rumore per liberarsi dalle mani del marchese Oberto Pelavicino, ma non riuscì in bene lo sforzo de' Guelfi. Furono poi spediti due legati pontificii in Lombardia per ridurre a concordia le divisioni dei popoli. Iti a Cremona, trovarono nata o fecero nascere discordia fra il marchese Oberto e Buoso da Doara, per tanti anni addietro sì uniti ed amici. Con questo mezzo ottennero che il marchese Oberto dimettesse la signoria di Cremona e si ritirasse. Ma che questa mutazion di Cremona accadesse nell'anno seguente, s'ha da altro storico [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], siccome vedremo. Anche i Piacentini l'indussero, con usar le buone e le brusche, a rinunziare al dominio della loro città. Il perchè egli si ricoverò a Borgo San Donnino, dove attese a fortificarsi. Fece parimente sollevazione sul fine di febbraio la fazione guelfa in Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e a forza d'armi obbligò la contraria ghibellina a sloggiare. E perciochè questa occupò Colorno nel dì primo d'agosto, i Parmigiani fecero oste, presero quella terra e menarono assai prigioni nelle carceri della loro città. Neppur la Toscana esente fu da mutazioni. Si mossero a rumore i Guelfi popolari di Firenze nel dì 11 di novembre [Ricordano Malaspina, cap. 184.], [63] con fare gran ragunata e serragli; e perciocchè il conte Guido, novello vicario del fu re Manfredi, prese la piazza, e fece vista di voler combattere, cominciarono a fioccar sassi dalle torri e case, e a volar frecce da tutte le bande contra di lui e di sua gente. Secondo Ricordano, aveva egli ben mille cinquecento cavalieri all'ordine suo. Tolomeo da Lucca [Ptolomeus Lucens., Annal. Brev., tom. 11 Rer. Ital.] ne mette solamente secento. Contuttociò, figurandosi egli che maggior fosse la congiura e possanza del popolo, sbigottito si fece recar le chiavi della città e sconsigliatamente ne uscì con tutti i suoi armati, e andossene a Prato. Conosciuto poscia lo sproposito suo, volle tornar la mattina vegnente per tentare di rientrarvi, o amichevolmente o colla forza; ma vi trovò de' buoni catenacci, e la gente sulle mura ben disposta alla difesa. Mandarono poscia i Fiorentini ad Orvieto per soccorso, e n'ebbero cento cavalieri, che bastarono a sostenersi in quel frangente. Tornati poscia in città i fuorusciti guelfi, conchiusero pace co' cittadini di fazion ghibellina; e, per maggiormente assodarla, contrassero varii matrimonii fra loro.

Cercarono anche i Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] di ricuperar la grazia del sommo pontefice, e di liberar la città dall'interdetto e dalle censure incorse per la loro aderenza al re Manfredi. Con rimettersi a quanto avesse ordinato il papa, e con depositare in Roma trenta mila lire, furono riconciliati nel dì 15 d'aprile dell'anno presente. Durando tuttavia la guerra fra i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 7, tom. 6 Rer. Ital.] e i Veneziani, misero i primi in corso ventisette galee, delle quali fu ammiraglio Lanfranco Borborino. Arrivato costui a Trapani in Sicilia, ebbe nuova che lo stuolo delle galee veneziane si trovava in Messina; e benchè si dicesse che quello era inferiore di forze, e i consiglieri più saggi volessero battaglia, aderì al parere de' vili, e ritirossi a terra, con [64] far legare ed incatenare le sue galee. Giunsero i Veneziani, ed, accortisi dello sbigottimento de' nemici, a dirittura dirizzarono le prore addosso alle galee, e tutte nel dì 23 di giugno a man salva le presero, essendosi gittati in mare e fuggiti a terra i Genovesi. Tre d'esse diedero i vincitori al fuoco, le altre ventiquattro ritennero, con far prigione chiunque non s'era sottratto colla fuga. Portata la dolorosa nuova a Genova, armò tosto quel comune altre venticinque galee sotto il comando d'Obertino Doria, il quale passò fino nell'Adriatico in traccia de' nemici, ma senza incontrarsi in loro. Prese egli la Canea, e tutta la consegnò alle fiamme; nè avendo potuto far di più, ritornò alla patria. Di altri danni vicendevolmente dati e ricevuti da questi due emuli popoli parla il Continuatore di Caffaro, siccome ancora il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], il quale non ebbe notizia del fatto di Trapani testè accennato. Eransi ridotti i nobili ghibellini fuorusciti di Modena [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], appellati i Grasolfi, nel castello di Monte Vallaro, fra' quali furono i principali Egidio figliuolo di Manfredi de' Pii, quei di Gorzano e i conti di Gomola, in numero di circa mille persone. La fazion guelfa di Modena, soprannominata degli Aigoni, avendo presi al soldo molti Tedeschi, e ottenuti dei rinforzi da Parma, Reggio, Bologna, e dai Guelfi di Toscana, si portò all'assedio di quel castello. Vi seguirono di molte prodezze dall'una parte e dall'altra; ed ancorchè Manfredi dei Pii, accorso da Montecuccolo con altri Grasolfi e molti soldati tedeschi e cavalieri di Toscana, e ducento cavalieri di Bologna della fazion lambertaccia, si fossero raunati per dar soccorso all'assediato castello, non si attentarono poscia a passar più oltre. Il perchè, pressati dalla mancanza de' viveri e dalla forza, gli assediati, dopo essersi difesi per più di cinque settimane, capitolarono la resa, salve le loro persone.

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Anno di Cristo mcclxvii. Indizione X.
Clemente IV papa 3.
Imperio vacante.

Dappoichè fu il re Carlo in pacifico possesso della Sicilia e Puglia, siccome principe infaticabile e di grandiosi pensieri, rivolse il suo studio ad abbassare e sradicare, se gli veniva fatto, il partito dei Ghibellini in Italia. Spedì a questo fine in Toscana, ad istanza specialmente de' Fiorentini e Lucchesi, il conte Guido di Monforte con ottocento cavalieri franceschi [Raynaldus, in Annal. Ecclesiast.]. Arrivò questi a Firenze nella Pasqua di Risurrezione; ma non aspettarono già l'arrivo di questa troppo sospetta gente i Ghibellini fiorentini, e ritiraronsi volontariamente chi a Siena e chi a Pisa. Allora fu che il popolo di Firenze diede la signoria della lor città per dieci anni avvenire al re Carlo, il qual fece alquanto lo schivo, ma infine accettò la proferta, e cominciò a mandar colà i suoi vicarii. Occuparono ancora i guelfi fiorentini tutti i beni dei fuorusciti Ghibellini, con dividerseli fra loro. In questi tempi fu esso re Carlo dichiarato dal papa vicario della Toscana, vacante l'imperio. Dai documenti recati dal Rinaldi [Ricordan. Malaspina, cap. 185.] apparisce che il pontefice non gli diede, nè egli prese questo grado, se non per pacificare ed unire i popoli della Toscana, con obbligo di deporlo, subito che fosse creato un re de' Romani, o un imperadore con approvazione della Sede apostolica. Ma i Ghibellini chiedevano chi avesse dato diritto al papa per far da padrone del regno d'Italia. Inoltre spacciavano tutte quelle belle parole e tutti quei movimenti per furberie, tenendo per fermo che sotto le apparenze di paciere si nascondesse il vero disegno di atterrare affatto la parte ghibellina ed imperiale, e di occupare il dominio di tutta l'Italia; il che se riusciva, ben si sa di che capace sia l'umana ambizione. Ad abbandonar [66] gli acquisti essa ha troppo abborrimento; e al riccio bastò il poter solamente entrar nella tana. Infatti nel luglio del presente anno le genti d'esso re Carlo coi fiorentini guelfi cominciarono la guerra contro ai Sanesi, che tenevano a parte ghibellina. In questo mentre le masnade tedesche di Siena e di Pisa, con intelligenza de' Ghibellini di Poggibonzi, entrarono in quella terra: perlochè il maliscalco del re Carlo, lasciati stare i Sanesi, imprese l'assedio di Poggibonzi. Arrivò a Firenze lo stesso re Carlo nel mese d'agosto, ricevuto con sommo onore da quel popolo, e quivi fece di molti cavalieri. Passò dipoi in persona colla sua cavalleria sotto a Poggibonzi, per dar calore a quell'assedio, ed impedire il soccorso che minacciavano di dargli i Sanesi e i Pisani. Nel dicembre, per difetto di vettovaglia, si arrendè quella terra con buoni patti. Di là passò il re Carlo sul Pisano, prese molte castella, ed ebbe Porto Pisano, dove fece diroccare quelle torri. L'unica speranza del partito ghibellino d'Italia era riposta in Corradino figliuolo del fu re Corrado. A lui perciò quei di Toscana e di Lombardia, e i malcontenti ancora del regno di Puglia inviarono messi e lettere segrete, sollecitandolo con ingorde promesse a calare oramai in Italia, per ricuperar la Sicilia e Puglia, come signoria a lui legittimamente spettante [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 17.]. Fra gli altri andarono in Germania per muoverlo ed incoraggirlo Galvano e Federigo marchesi Lancia, e Corrado e Marino fratelli Capece da Napoli, ingrati al re Carlo, che avea loro donata la vita e libertà. Non durarono gran fatica questi mantici ad accendere il fuoco. Corradino era giovane di quindici in sedici anni, ben provveduto di spiriti guerrieri, e voglioso di gloria e d'imperio; e però, non ostante l'opposizione della madre, determinò di venire al conquisto della Sicilia. A questo fine con quattro mila cavalli ed alcune [67] migliaia di fanti discese in Italia [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.], e si fermò in Verona, per dar tempo ai maneggi che in suo favore si andavano facendo dai suoi aderenti. Ma venutogli meno il danaro, a poco a poco vendute l'armi e i cavalli, la maggior parte di quelle sue truppe se ne tornò in Germania. Aveva egli assunto il titolo di re di Sicilia, e creato suo capitan generale vicario di quel regno Corrado Capece, che, venuto a Pisa, si diede a muovere cielo e terra contra del re Carlo. Per questo fu esso Corradino citato dal papa, e poi scomunicato con tutti i suoi fautori, siccome usurpatore di un titolo che solamente si dovea conferire dai sommi pontefici, sovrani della Sicilia e Puglia. Ora avvenne, che trovandosi in Tunisi ai servigi di quel re, Arrigo e Federigo fratelli di Alfonso re di Castiglia, perchè scacciati dal regno paterno, Corrado Capece con una galea de' Pisani, per guadagnarli in aiuto del re Corradino, si portò colà. E gli riuscì il colpo, perchè già nata diffidenza di loro nel re di Tunisi, non si vedeano più sicuri fra i Saraceni. Pertanto Federigo con una mano di soldati spagnuoli e saraceni fece vela alla volta della Sicilia, e, dopo aver preso quivi alquante terre, alzò le bandiere di Corradino, spargendo e magnificando per tutta l'isola la venuta di questo principe: il che suscitò negli affezionati alla casa di Suevia il desiderio di scuotere il troppo pesante giogo franzese. Corrado d'Antiochia, figliuolo di Federigo, cioè di un bastardo di Federigo II Augusto, prese allora il titolo di vicerè della Sicilia, e non andò molto che la maggior parte dell'isola acclamò il nome di Corradino; e benchè i Francesi facessero varii sforzi per dissipar questo nuvolo, tuttavia ne restò sconvolta la Sicilia, e più di una volta rimasero essi sconfitti. Di questi movimenti parla Bartolomeo da Neocastro [Barthol. de Neocastro, tom. 13 Rer. Ital.], e il testo da me dato alla luce [68] li mette sotto l'indizione Xi, cioè sotto L'anno seguente; ma in buona parte appartengono al presente. Venne Arrigo di Castiglia fratello del suddetto Federigo, anch'egli da Tunisi, e sbarcò verso Roma con trecento cavalieri spagnuoli. Andò alla corte pontificia, e cominciò a far broglio per essere investito del regno della Sardegna, e per altri onori: al che non gli mancava astuzia ed eloquenza. Intanto, nata sedizione nel popolo di Roma, fu data balìa ad Angelo Capoccia di nominare un nuovo senatore [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 19.]; ed egli proclamò il suddetto Arrigo, credendolo, per sua nobiltà e perizia nell'armi, atto al buon governo e freno di quella sempre inquieta città; e quantunque vi si opponessero molti cardinali e baroni, che già aveano subodorato di che piè egli zoppicasse, pure fu alzato al grado di senatore di Roma. Ch'egli ad istanza del re Carlo suo cugino, come vogliono alcuni, fosse promosso a questa dignità, nol veggio assistito da autentiche pruove. Delle sue iniquità parleremo all'anno seguente.

Rincresceva forte a Napo Torriano, signor di Milano, e a quel popolo l'interdetto posto a quella città (già erano quattro anni) per non voler essi ammettere Ottone Visconte arcivescovo, e per avere inoltre usurpati i beni tutti di quell'arcivescovato [Stephanardus, Poem., tom. 9 Rer. Italic. Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 303.]. Spedirono essi al papa i loro ambasciatori per liberarsi da quel gastigo. Perchè non furono ammessi dalla corte pontificia, ricorsero al re Carlo, il quale, desideroso di tirar nel suo partito i Milanesi, spedì con loro a Viterbo, dove soggiornava papa Clemente, i suoi ambasciatori con lettere di buon inchiostro in loro favore. Fu data loro udienza; esposero tutte le ragioni del popolo di Milano, rigettando in Ottone e nei nobili fuorusciti la colpa di tutti i passati disordini. Ma alzatosi l'arcivescovo Ottone, con tale energia perorò [69] la sua causa, e seppe così vivamente dipignere la tirannia de' Torriani e della plebe, e degli atroci aggravii da lor fatti alla nobiltà milanese, che mosse tutti a compassione. Laonde non altro poterono ricavarne gli ambasciatori milanesi, se non che, se loro premeva la restituzion de' divini uffizii, accettassero e lasciassero entrare in città il loro pastore. Dissero essi di ubbidire, e si prese la risoluzion di spedire apposta un legato apostolico a Milano, per veder L'esecuzione di queste promesse. Se crediamo al Corio [Corio, Istor. di Milano.], nel maggio di quest'anno il podestà di Milano coll'esercito milanese e bergamasco, e i lor carrocci, passato il Ticino, ostilmente procederono contra de' Pavesi; e messo l'assedio alla terra di Vigevano, talmente la flagellarono colle pietre dei mangani, che l'obbligarono alla resa. Nè i Pavesi, benchè lontani solamente quattro miglia colla loro armata, ardirono di tentarne il soccorso. Galvano Fiamma riferisce questo fatto all'anno seguente. Secondo le Croniche di Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] e di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], solamente in quest'anno il marchese Oberto Pelavicino perdè il dominio di Cremona, e ritirossi alle sue castella, meravigliandosi d'essere stato sì poco accorto che un prete (cioè il legato) fosse giunto colle sue belle parole a beffarlo e a torgli quella città. Il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 8, tom. 6 Rer. Italic.] racconta un tal fatto all'anno presente. Di lì a qualche tempo avvenne una pari disgrazia a Buoso da Doara. Di lui s'era servito il legato per dar la fuga al Pelavicino; e quando costui si lusingava di rimaner signore di Cremona, la destrezza del legato gliela suonò, e fecero balzar anch'esso fuori della città [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Pieno di rabbia Buoso, unita quanta gente potè, venne verso Cremona per rientrarvi [70] colla forza, non mancandogli fra' cittadini una gran copia di aderenti. Trovavansi allora i Parmigiani insieme coi Modenesi e con alquanti Reggiani all'assedio di borgo San Donnino. Avvertiti del pericolo in cui era Cremona e il legato pontificio, frettolosamente marciarono in loro aiuto. Con questo rinforzo i Cremonesi scacciarono tutti i partigiani di Buoso, demolirono le lor case, e quindi coll'esercito suo e de' Milanesi, Bresciani ed altri Guelfi, si portarono ad assediar la Rocchetta, luogo fortissimo sull'Oglio, dove s'era rifugiato il suddetto Buoso. Ma per paura di Corradino giunto a Verona, se ne ritirarono fra qualche tempo. Continuarono i Parmigiani in quest'anno la guerra contro al marchese Pelavino, e gli tolsero alcune castella, che furono appresso distrutte. Giunto a Piacenza [Chron Placent., tom. 16 Rer. Ital.], il legato pontificio non solamente disturbò la lega intavolata da quel popolo co' Pavesi, ma eziandio fece uscire da quella città il conte Ubertino Landi, seguace della parte ghibellina, e diroccar le case di molti suoi aderenti. Oltre a ciò, indusse i Piacentini a ricevere un podestà a nome di Carlo re di Sicilia. Comperarono in quest'anno i Modenesi [Annales Veteres Mutinens.] per tre mila lire il castello della Mirandola colla Motta de' Papazzoni, e smantellarono tutte le fortificazioni di quei luoghi. Mancò di vita in quest'anno la regina Beatrice, moglie del re Carlo [Matteo Spinelli, Diario, tom. 9 Rer. Ital. Monach. Patavinus, in Chron.], poco avendo goduto della nuova sua grandezza. Saba Malaspina differisce la di lei morte all'anno seguente. Fu levato nell'anno presente l'interdetto della città di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 8.], e colà si portarono gli ambasciatori dei re di Francia e di Sicilia col legato del papa, per maneggiar o pace o tregua fra quel popolo e i Veneziani, affinchè amendue potessero accudire alla ricupera di Terra santa, dove [71] il santo re Lodovico IX disegnava di ritornare. Niuna conchiusione si dovette prendere al vedere che essi Genovesi armarono venticinque galee, e le spedirono contra de' nemici. Queste nel corso presero due galee veneziane, ed, arrivate ad Accon, s'impadronirono della torre delle Mosche, ed assediarono quel porto. Essendo poi l'ammiraglio Luchetto Grimaldi passato con dieci galee a Tiro per trattar lega con Filippo da Monforte signore di quella città, arrivarono ventisei galee dei Veneziani ad Accon, e ne presero cinque de' Genovesi, essendosi salvate le altre colla fuga. I Tortonesi in quest'anno scacciarono anch'essi la parte ghibellina, e seguitarono quella della Chiesa, con prendere per loro signore Guglielmo marchese di Monferrato, al quale si era anche data nell'anno precedente la città d'Ivrea.


   
Anno di Cristo mcclxviii. Indizione XI.
Clemente IV papa 4.
Imperio vacante.

Sul principio di quest'anno si mosse Corradino da Verona con più di tre mila cavalli [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.], e, passato l'Adda, pel distretto di Cremona e di Lodi se ne andò a Pavia, città che sola con Verona teneva il suo partito in Lombardia. Dopo essersi fermato in essa città più di due mesi, per le terre di Manfredi marchese del Carretto passò al porto di Vada [Caffari, Annal. Genuens., lib. 8, tom. 6 Rer. Ital.], e, trovate quivi dieci galee pisane, imbarcatosi, felicemente arrivò a Pisa nel dì 7 d'aprile, accolto come imperadore da quel popolo [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.]. Federigo giovane duca d'Austria, ma solamente di nome, perchè in possesso dell'Austria e della Stiria era allora Ottocaro re di Boemia, condusse, per la Lunigiana, la di lui cavalleria fino a Pisa. Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 4, cap. 7.] con [72] errore dà il nome d'Arrigo a questo duca. Fu cosa considerabile che di tante città guelfe di Lombardia niuna si opponesse al passaggio di questa nemica armata. Tutti serrarono gli occhi; e i Torriani specialmente, benchè guelfi, in occulto erano per Corradino, siccome poco contenti del papa. Vollero i popoli stare a vedere che successo fosse per avere questo movimento d'armi, da cui dipendea la decisione del regno di Sicilia e Puglia, per prendere poi le loro misure, secondo l'esito dell'impresa. Ad istanza de' Pisani, Corradino fece oste sopra il territorio di Lucca, città fedele al re Carlo, e vi diede un gran guasto [Ricordano Malaspina, cap. 191.]. Ribellossi in tal congiuntura Poggibonzi al re Carlo e a' Fiorentini. Passò dipoi Corradino a Siena. Mentre egli quivi dimorava, Guglielmo di Berselve maliscalco del re Carlo volle colla sua gente d'armi mettersi in cammino alla volta d'Arezzo, per vegliare agli andamenti di Corradino. Ma, giunto senza ordine al ponte a Valle sull'Arno, fu colto in un'imboscata dalle squadre d'esso Corradino, disfatta la sua gente, e la maggior parte con esso lui presa e condotta nelle prigioni di Siena. Gran rumore fece per tutta Toscana ed altrove questo fatto, e ne montarono in superbia i Ghibellini, pronosticando da ciò maggiori fortune nell'andare innanzi. Molto prima che Corradino arrivasse in Toscana, era ritornato in Puglia il re Carlo, non tanto per accignersi alla difesa del regno, quanto ancora per contenere o rimettere in dovere i popoli che, per la fama della venuta di Corradino, o già si erano sottratti alla di lui ubbidienza, o vacillavano nella fedeltà. L'incostanza e la volubil fede di quella gente è una febbre vecchia che si risveglia sempre ad ogni occasione di novità. Soprattutto davano da pensare al re Carlo i Saraceni di Nocera, corpo potente di gente, chiaramente scorgendo che questi sarebbero i giannizzeri di Corradino. Ossia che essi, siccome popolo di credenza [73] contraria alla religion cristiana, temendo troppo del re Carlo, creatura del romano pontefice, avessero di buon'ora alzate le insegne di Corradino, cominciando la ribellione con delle ostilità ne' circonvicini luoghi; oppure che sembrassero disposti a ribellarsi: certo è che fu pubblicata contra di essi Saraceni la crociata, e si portò il re Carlo all'assedio di essa Nocera, ma con trovarvi della resistenza da non venirne a capo se non dopo lunghissimo tempo; e di questo egli scarseggiava. Continuò poscia Corradino il suo viaggio alla volta di Roma, senza far caso alcuno nè dei messi a lui inviati dal papa per fermare i suoi passi, nè delle scomuniche terribili fulminate contra di lui in Viterbo nel giovedì santo dal pontefice Clemente IV [Raynald., in Annal. Eccles.]. In Roma fu accolto con incredibile onore da Arrigo di Castiglia senatore e dal popolo romano, che in tempi sì torbidi nella volubilità ad alcun altro non la cedeva. I motivi o pretesti che adduceva Arrigo d'essersi ritirato dall'amicizia del re Carlo suo cugino, e di avere abbracciato il partito di Corradino, erano per aver egli prestata gran somma di danaro a Carlo, allorchè questi imprese la spedizion della Sicilia, senza averne giammai potuto ricavare il rimborso con tutte le istanze sue. Aggiugneva che il re Carlo l'aveva contrariato nella corte pontificia, ed impedita l'investitura per lui del regno della Sardegna. Noi possiam anche credere che per parte di Corradino gli fossero state fatte di larghe promesse di ricompense e di Stati.

Ora questa malvagio principe Arrigo col tanto avere abitato e conversato in Tunisi co' Saraceni [Sabas Malaspina, lib. 3, cap. 18.], s'era imbevuto di molte loro scellerate massime, nè avea portato con seco a Roma altro che il nome di cristiano. Creato senatore, quanti Guelfi quivi si trovavano trasse dalla sua. Prese con frode e mandò in varie fortezze Napoleone e Matteo Orsini, Giovanni Savello, Pietro ed Angelo [74] Malabranca, nobili che più degli altri poteano far fronte a' suoi disegni. Quindi cominciò a raunar soldati, e per avere di che sostenerli, si diede a saccheggiar le sagrestie delle chiese di Roma, con asportarne i vasi e gli arredi sacri, e i depositi di danaro, che i Romani di allora, secondo anche l'uso degli antichi, soleano fare ne' luoghi sacri. Dopo questo infame preparamento, arrivato Corradino a Roma, attese con Arrigo ad ingrossar l'esercito suo. Vi concorrevano Ghibellini da tutte le parti, e vi si aggregarono moltissimi Romani sì nobili che popolari, tutti lusingandosi di tornare colle bisaccie piene d'oro da quella impresa. Spedirono anche i Pisani in aiuto di Corradino ventiquattro galee ben armate [Sabas Malaspina, lib. 4, cap. 40.] sotto il comando di Federigo marchese Lancia. Ed essendo questa flotta arrivata a Melazzo in Sicilia per secondare la quasi universal ribellione di quell'isola, ventidue galee provenzali inviate dal re Carlo, unitesi con altre nove messinesi, andarono ad assalirla [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 8, tom. 13 Rer. Ital.]. Tal vigore fu quello de' Pisani in incontrarle, che i Provenzali si diedero alla fuga, lasciando i legni messinesi alla discrezion de' nemici, i quali dipoi tentarono anche di prendere la stessa città di Messina, ma con andare a voto i loro sforzi. Ascese a sì gran copia e potenza l'esercito adunato da Corradino, che non v'era chi non gli predicesse il trionfo, a riserva del buon papa Clemente, il quale dicono che predisse la rovina di Corradino, e mirò compassionando l'incauto giovane, incamminato qual vittima alla scure. Con esso Corradino adunque marciavano, già turgidi per la creduta infallibil vittoria, Federigo duca d'Austria, Arrigo di Castiglia senatore di Roma co' suoi Spagnuoli, i conti Galvano e Gherardo da Pisa, e i capi de' ghibellini romani, cioè gli Annibaldeschi, i Sordi, ed altri nobili e fuoriusciti di Puglia. Circa dieci mila [75] cavalli si contavano in quest'armata, oltre alla folla della fanteria. Per opporsi a un sì minaccioso torrente, il re Carlo, dopo avere abbandonato l'assedio di Nocera, venne con tutte le sue forze alla Aquila [Ricordano Malaspina, cap. 192. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 26.]; e, confortato dai suoi, si inoltrò sino al piano di San Valentino, ossia di Tagliacozzo, poche miglia lungi dal lago Fucino, ossia di Celano. Era di lunga mano inferiore di gente al nimico; ma sua fortuna volle che poco dianzi fosse capitato alla sua corte Alardo di Valberì, ossia di Valleri, cavaliere franzese, che per venti anni avea militato in Terra santa contra degl'infedeli, personaggio di rara prudenza e sperienza nei fatti di guerra. Questi il consigliò di far due schiere della sua armata [Richobaldus, in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.], e di tenersi egli in riserva con cinquecento dei più scelti cavalieri dietro un monticello, aspettando l'esito della battaglia. Si azzuffarono gli eserciti nel dì 23 d'agosto. Aspro e sanguinoso fu il combattimento; ma infine, perchè i più sogliono prevalere al meno, cominciarono i Franzesi e Provenzali a rinculare e a rompersi. Stava il re Carlo sopra un poggio mirando la strage de' suoi, e moriva di impazienza d'uscire addosso ai nemici; ma fu dal vecchio Alardo ritenuto sempre, finchè si vide rotto affatto il suo campo, e le genti di Corradino tutte disperse, parte in inseguire i fuggitivi e far dei prigioni, e parte perduti dietro allo spoglio degli uccisi. Allora Alardo, rivolto al re Carlo gli disse: Ora è il tempo, o sire. La vittoria è nostra. E, dato di sprone ai freschi cavalli, piombò addosso al troppo disordinato esercito nemico, che, senza aver tempo e maniera di raccogliersi, parte lasciò quivi la vita, parte restò prigioniere, e gli altri cercarono di salvarsi colla fuga. Corradino e molti de' baroni suoi, che, stanchi dalla fatica e oppressi dal gran caldo, s'erano tratti gli elmi, siccome persuasi dell'ottenuta vittoria, [76] veggendo la strana mutazion di scena, si diedero a fuggire.

Erano con Corradino il giovinetto duca d'Austria, e i conti Galvano e Gherardo da Pisa. Presero essi travestiti la via della Maremma, con pensiero di tornarsene a Roma, ovvero a Pisa. Arrivati ad Astura, noleggiarono una barchetta; ma perchè furono riconosciuti per persone d'alto affare, Giovanni (da altri è chiamato Jacopo) de' Frangipani, signore di quel castello, colla speranza di ricavarne un gran guiderdone dal re Carlo, li prese e mandogli al re, che a questa nuova vide con immenso gaudio coronata la memorabil sua vittoria, giacchè Arrigo di Castiglia con altri nobili era anch'egli rimasto prigioniere. Custodito fu nelle carceri di Napoli Corradino sino al principio d'ottobre, nel qual tempo, tenuto un gran parlamento, dove intervennero i giurisconsulti, i baroni e sindaci della città, fu proposta la causa di questo infelice principe. Ricobaldo, storico ferrarese, dice d'aver inteso da Gioachino di Reggio, il quale si trovò presente a quel giudizio, che i principali baroni franzesi e i giurisconsulti, e fra gli altri Guido da Sazara lettor celebre di leggi in Modena e in Reggio, dimorante allora in Napoli, sostennero, che giustamente non si potea condannare a morte Corradino, perchè a lui non mancavano ragioni ben fondate per cercare di ricuperar il regno di Sicilia e Puglia, conquistato con tanti sudori da' suoi maggiori sopra i Saraceni e Greci, senza aver egli commesso delitto alcuno, per cui ne dovesse essere privato. Si allegava che l'esercito di Corradino avea saccheggiate chiese e monisteri; ma si rispondeva, non costare che ciò fosse seguito per ordine d'esso Corradino; e forse non averne fatto altrettanto e peggio anche le milizie del medesimo re Carlo? Un solo dottore di leggi fu di parere contrario, ed è credibile che altri ancora dei baroni beneficati dal re Carlo, per timore della casa di Suevia, consigliassero la morte di Corradino. In [77] somma al barbarico sentimento di questi tali si attenne esso re Carlo, figurandosi egli, finchè vivesse Corradino, di non potersi tenere per sicuro possessore del regno. Però nel dì 29 di ottobre del presente anno (e non già nell'anno seguente, come taluno ha scritto), eretto un palco sulla piazza, oppure sul lido di Napoli, fu condotto colà il giovinetto Corradino, che dianzi avvertito dell'ultimo suo destino, avea fatto testamento e la sua confessione. L'innumerabil popolo accorso a sì funesto spettacolo non potea contenere i gemiti e le lagrime [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 9.]. Fu letta la feral sentenza da Roberto da Bari giudice, al quale, se crediamo a Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 29.], finita che fu la lettura, Roberto figliuolo del conte di Fiandra, genero del re Carlo, diede d'uno stocco nel petto, dicendo che a lui non era lecito di sentenziare a morte sì grande e gentil signore: del qual colpo colui cadde morto, presente il re, e non ne fu fatta parola. Lasciò Corradino la testa sul palco, e dopo lui furono decollati Federigo duca d'Austria, il conte Gherardo da Donoratico di Pisa sugli occhi del conte Galvano suo padre, al quale medesimamente fu dipoi spiccato il capo dal busto. Altri scrivono che Galvano Lancia fu allora decapitato. Vennero i loro cadaveri vilmente seppelliti, ma fuori di sacrato, come scomunicati. D'altri nobili ancora, decollati in quell'infausto giorno, fanno menzione varii scrittori. Così nell'infelice Corradino ebbe fine la nobilissima casa di Suevia, e in Federigo la linea dei vecchi duchi d'Austria, con passar dipoi dopo qualche tempo quel ducato nella famiglia degli arciduchi d'Austria, che gloriosamente ha regnato e regna fino a' dì nostri. Un'infamia universale si acquistò il re Carlo presso tutti gli allora viventi, ed anche presso i posteri, e fin presso i suoi stessi Franzesi, per questa crudeltà; e fu osservato che da lì innanzi gli affari suoi, benchè paressero allora giunti al [78] più bell'ascendente, cominciarono a declinare, con piovere sopra di lui gravissime disgrazie. Enea Silvio [Æneas Silvius, in Hist. Austr. apud Boecl.], che fu poi papa Pio II, e varii storici napoletani e siciliani scrivono che Corradino sul palco quasi in segno d'investitura gittò un guanto al popolo, con cui egli intese di chiamare all'eredità di quel regno don Pietro d'Aragona, marito di Costanza, figliuola del fu re Manfredi, con altre particolarità ch'io tralascio. Ma probabilmente queste furono invenzioni de' tempi susseguenti, per dar più colore a quanto operarono gli Aragonesi. Portata in Sicilia la nuova della disfatta e prigionia di Corradino, cominciarono que' popoli a ritornare dalla ribellione all'ubbidienza del re Carlo. Ed avendo egli poscia spedita colà la sua armata navale sotto il comando del conte Guido di Monforte, ossia di Guglielmo Stendardo, ridusse tutto il resto dell'isola alla sua divozione col macello di gran gente, senza distinguere gl'innocenti dai rei [Sabas Malaspina, lib. 4, cap. 18.], con far prigione Corrado di Antiochia capo dei sollevati. Costui restò privo degli occhi; e infine impiccato insieme con Nicolò Maleta. Federigo di Castiglia e Corrado Capece sulle navi pisane si salvarono a Tunisi dallo sdegno del re Carlo, il quale non la finì di sfogar l'animo suo vendicativo sopra i popoli della Sicilia e Puglia, con devastar città e terre, fare strage dei prigioni, ed imporre esorbitanti aggravii a' sudditi di quelle contrade, con lasciare a' suoi Franzesi una sì sfrenata licenza, che pareva a que' popoli d'essere caduti in una deplorabile schiavitù, peggiore che quella de' Barbari.

Abbiamo dagli Annali Ecclesiastici [Raynaldus, in Annal. Eccl.], che papa Clemente IV, siccome pontefice di santi e placidi costumi, scrisse al re Carlo, pregandolo per suo bene ancora di mitigare il furor suo, e de' suoi contra de' miseri Siciliani e Pugliesi, e di abbracciar la clemenza: tanto è lontano ch'egli consigliasse [79] la morte di Corradino, come sparsero voce i malevoli. Oltre a ciò, scrisse al santo re Lodovico, acciocchè anch'egli adoperasse gli uffizii col fratello. Ma Carlo fece le orecchie di mercatante, e seguitò il corso della vendetta. Se n'ebbe col tempo a pentire. Iddio intanto levò l'ottimo pontefice dagli affanni del nostro mondo, con chiamarlo alla quiete e felicità dell'altro. Accadde la di lui morte in Viterbo [Bernardus Guid., in Vita Clementis IV.] nella vigilia di sant'Andrea, ossia nel dì 29 di novembre, vegnendo il dì 30, e in essa città gli fu data sepoltura. Gran tempo restò dipoi vacante la cattedra di san Pietro. Dopo la prigionia di Arrigo di Castiglia, a cui, per cagion della parentela col re Carlo, fu salvata la vita, e dopo alcuni anni renduta anche la libertà, aveva il papa suddetto reintegrato esso re Carlo nel grado di senatore di Roma; e perciò venuto a Roma, ne ripigliò il possesso, e tornò ad esercitar quella carica per mezzo d'un suo vicario [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.], con aggiugnere a' suoi titoli ancor questo. In mezzo a tante sue politiche e militari occupazioni non dimenticò il re suddetto di pensare ad un'altra moglie, e questa fu Margherita di Borgogna. Negli Annali di Milano [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.] è scritto ch'essa arrivò in quella città nel dì 10 d'ottobre, e vi fu ricevuta con baldacchino posto sopra dodici aste, portate dai nobili, e con altri onori, giuochi e concorso d'innumerabil popolo. Nel dì 16 d'esso mese giunse a Parma [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]; nel dì 19 a Reggio, e di là a Bologna. In tutte queste città trattata fu colla magnificenza convenevole ad una gran regina. Portossi in quest'anno nel mese di novembre a Milano [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 304.] un legato apostolico per riconciliar quel popolo colla Chiesa romana e col loro arcivescovo Ottone Visconte. Se voleano essere [80] liberati dall'interdetto, dimandò egli, che tutti giurassero fedeltà alla santa Sede, cioè di eseguire i di lei comandamenti; che riconoscessero Ottone per legittimo loro pastore; gli restituissero i beni, e gli permettessero l'ingresso e la permanenza nella città; e che non mettessero contribuzioni al clero. Tutto promisero i Torriani dominanti e il popolo. Diedero anche idonea sicurtà: con che tolto fu l'interdetto, assoluti gli scomunicati, e posti gli uffiziali dell'arcivescovo in possesso de' beni usurpati. Se ne tornò il legato a Roma per far venir Ottone alla sua residenza, nel qual tempo mancò di vita il papa. Per tal nuova giubilarono forte i Torriani, nè più si curarono di adempiere le promesse fatte. Teneva tuttavia il marchese Oberto Pelavicino gran ghibellino le terre di Scipione, Pellegrino, Gislagio, Landasio, Busseto, Pissina ed altri luoghi [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]; ma era la sua principal dimora in Borgo San Donnino, da dove, assistito dai fuorusciti parmigiani, facea guerra alla città di Parma. Del pari il conte Ubertino Lando, altro ghibellino, possedendo la Rocca di Bardi, Compiano, Monte Arsiccio ed altre terre, unito cogli usciti di Piacenza infestava non poco quella città. Raunarono i Parmigiani coll'aiuto di tutte le loro amistà un esercito di circa trentamila persone, e formarono l'assedio di Borgo San Donnino. Nel dì 21 di ottobre seguì accordo e pace fra gli uomini di quella terra e i Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rerum Ital.]. Se n'andò con Dio il marchese Pelavicino, e i fuorusciti di Parma con giubilo universale rientrarono di concordia nella loro città. Ma i Parmigiani nel dì 13 di novembre contro i patti poco prima stabiliti, essendo iti al suddetto Borgo di San Donnino, smantellarono affatto quella terra, con distribuirne gli abitanti in varie circonvicine castella. Formarono anche un decreto di non poterla mai più rifare, affinchè non fosse più in istato di molestar con guerre la [81] città di Parma, siccome tante volte in addietro era avvenuto. Similmente i Piacentini ebbero gran guerra col conte Ubertino Landò; e avendo prese le castella di Seno e di Scipione, distrussero l'ultimo contro i patti. Compiè il corso di sua vita in quest'anno Rinieri Zeno doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], e in luogo suo fu eletto Lorenzo Tiepolo nel dì 25 di luglio. Restò in tal occasione stabilita la forma con cui oggidì si fa l'elezione del nuovo doge. Furono delle commozioni in Brescia [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] fra i cittadini delle due fazioni. Perchè i Ghibellini gran festa aveano fatto per la venuta di Corradino, i Guelfi nel dì 14 di novembre, dato di piglio all'armi, vollero cacciar di città gli avversarii. Frappostosi Francesco Torriano governatore, quetò il tumulto, col mandare a' confini in Milano alcuni Guelfi nobili e popolari. Ma nel dì 14 di dicembre di nuovo furono in armi i Guelfi, e fecero uscir di città non solamente parecchi de' Ghibellini, ma anche lo stesso Francesco dalla Torre e Raimondo vescovo di Como suo fratello. Rifugiaronsi gli usciti in varie castella; e i Veronesi, prevalendosi di questa divisione, s'impadronirono di Desenzano, Rivoltella e Patengolo.


   
Anno di Cristo mcclxix. Indizione XII.
Santa Sede vacante.
Imperio vacante.

Altro non rimaneva in Puglia che la città di Lucera ossia Nocera, nido degli infedeli, cioè de' Saraceni, la quale al re Carlo ricusasse ubbidienza. Ne imprese egli l'assedio [Sabas Malaspina, lib. 4, cap. 20,], e tanto vi stette sotto, che quel popolo, dopo essersi ridotto a pascersi d'erba, e dopo aver perduta gran gente, si diede a discrezione nelle mani d'esso re. Divise egli i sopravvissuti per varie provincie, affinchè non potessero più alzare la testa e raunarsi; [82] e molti d'essi abbracciarono, almeno in apparenza, la fede di Gesù Cristo [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.]. Furono diroccate le muraglie di quella città, e quanti cristiani disertori ivi si trovarono furono senza misericordia tutti messi a filo di spada. Giunta a Napoli la nuova regina Margherita di Borgogna, moglie del re Carlo, si solennizzò il suo arrivo con incredibil magnificenza ed allegrezza. Ne lasciò una descrizione Saba Malaspina. Festa si fece ancora in Toscana per li prosperi avvenimenti de' Guelfi [Ricordan. Malaspina, cap. 194.]. Erano venuti nel mese di giugno al castello di Colle in Valdelsa i Sanesi colle masnade de' Tedeschi, Spagnuoli, Pisani, e coi rinforzi degli usciti di Firenze e d'altri Ghibellini, sotto il comando di Provenzano Selvani governatore di Siena, e del conte Guido Novello. A questo avviso si mosse Giambertoldo, vicario del re Carlo in Firenze, co' suoi Franzesi, co' Fiorentini e con altri aiuti delle terre guelfe di Toscana; e, dato loro battaglia, li ruppe e sconfisse, con grandissima perdita dei Sanesi. A messer Provenzano, che restò preso, fu mozzo il capo e portato sopra una lancia per tutto il campo. Andarono poscia i Fiorentini in soccorso de' Lucchesi contro ai Pisani; fu preso da loro per forza il castello d'Asciano; giunsero sino alle porte di Pisa, e quivi i Lucchesi per vergogna de' Pisani fecero battere moneta. Ma nello stesso anno l'acque del fiume d'Arno per disordinato diluvio, e perchè i legnami condotti da esse fecero rosta al ponte di Santa Trinita, crebbero tanto, che allagarono la maggior parte di Firenze, e si levarono finalmente in collo quel ponte e l'altro alla Carraia. Cessò di vivere nel mese di maggio il marchese Oberto Pelavicino in uno dei suoi castelli, se crediamo al Sigonio, senza cercar l'assoluzione dalle scomuniche. Ma ci assicura l'autore della Cronica di [83] Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], dopo varii elogi della sua prudenza, affabilità e potenza, ch'egli ricevette tutti i sacramenti della Chiesa, e con grande esemplarità morì fra le braccia dei religiosi, ridotto, dopo la signoria di tante città, in assai basso stato. Continuarono nulladimeno Manfredi suo figliuolo, e i di lui nipoti a posseder molte castella, e lungamente sostennero di poi il decoro di quell'antica e nobil famiglia. Peggior condizione fu quella di Buoso da Doara [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], che tanta figura aveva anch'egli fatta nel mondo negli anni addietro. Iti nel mese di luglio i Cremonesi coll'oste loro alla Rocchetta, dove egli soggiornava, il costrinsero in fine a capitolarne la resa. Fu diroccata quella fortezza, ed egli ritiratosi nelle montagne, fece ben varii sforzi per ringambarsi, ma infine dopo qualche anno poveramente terminò i suoi giorni. È considerabile una notizia a noi conservata dalla suddetta Cronica di Piacenza. Le mire del re Carlo tendevano alla signoria di tutta la Italia, secondato in ciò per amore o per forza dai papi. A questo fine mandò suoi ambasciatori alle città di Lombardia, e questi ottennero che si tenesse in Cremona un gran parlamento, in cui fu esposto il desiderio d'esso re di ottenere il dominio di tutte le città che seguitavano la parte della Chiesa, ossia la guelfa, con promettere a tutti protezione e molti vantaggi. Concorrevano a darsegli i Piacentini, Cremonesi, Parmigiani, Modenesi, Ferraresi e Reggiani. Ma di contrario parere furono i Milanesi, Comaschi, Vercellini, Novaresi, Alessandrini, Tortonesi. Torinesi, Pavesi, Bergamaschi, Bolognesi e il marchese di Monferrato, consentendo bensì di averlo per amico, ma non già per signore. Per questa discordia finì il parlamento, senza che il re Carlo riportasse alcun frutto delle sue alte idee. Il popolo di Piacenza nell'anno presente, [84] ricevuti dei rinforzi da Milano e da Parma, si portò all'assedio della rocca di Bardi, posseduta dal conte Ubertino Lando, e vi consumò intorno di molta gente. Dopo cinque mesi l'ebbero a patti, e vi posero un buon presidio. Ma il conte Ubertino virilmente seguitò più che prima a far guerra a Piacenza, e le tolse alcune castella, uccidendo e menando prede in gran copia.

Accadde in quest'anno [Gualvan. Flamma, cap. 305.], che Napo, ossia Napoleone, signor di Milano e di Lodi, essendosi portato a quest'ultima città, fu insultato dalla potente famiglia de' Vestarini, gittato da cavallo e vilmente trattato. Tornossene a Milano, pieno di confusione e vergogna, ma più dello spirito della vendetta. Nè differì il farla. Con potente esercito andò colà, ed, espugnata la città nel dì di santa Margherita, mandò nelle prigioni di Milano Sozzino de' Vestarini; due suoi figliuoli fece crudelmente morire; ordinò la fabbrica di due fortezze in quella città, ed esaltò la famiglia guelfa di Fissiraga, la quale col tempo usurpò quel dominio. Fecero oste nell'anno presente i Modenesi colla lor fanteria e cavalleria nel Frignano contro Guidino da Montecuccolo, per cagione d'un castello da lui tolto ai Serafinelli [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Ma sopraggiunto il conte Maghinardo con gran quantità di cavalleria bolognese, si venne ad una fiera zuffa, in cui rimase sconfitto l'esercito modenese, e quasi tutti i Reggiani, accorsi in aiuto d'essi Modenesi, vi lasciarono la vita. Covando i Torriani signori di Milano un fiero sdegno contra de' Bresciani [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.], ostilmente nell'anno precedente erano entrati nel loro territorio, ed aveano prese le terre di Capriolo e Palazzuolo, mentre i Bresciani si trovavano all'assedio di Minervio. Per comporre questa discordia, si erano interposti Filippo arcivescovo di [85] Ravenna e legato pontificio, Obizzo marchese d'Este e signor di Ferrara e Lodovico conte di San Bonifazio, con riuscir loro di far ritirare le armi de' Torriani, e di liberar Minervio dall'assedio. Ma perciocchè insistevano i Torriani che fossero rimessi in Brescia i fuorusciti, al che consentivano i nobili della città, si sollevò il popolo di contrario parere nel dì 28 d'agosto d'esso anno contra dei nobili, e parte di loro spinse fuori della città, e parte presi ritenne nelle carceri. Il perchè in questo anno il re Carlo, che facea l'amore a questa sì potente città, v'inviò suoi ambasciatori per mettervi pace, e v'andarono quegli ancora de' Bolognesi. Fu in fine conchiuso che i prigioni fossero inviati a' confini nella città d'Alba, di cui, siccome ancora d'altre terre nel Piemonte, era allora signore il re Carlo [Caffari, Annal. Genuens., lib. 8, tom. 6 Rer. Ital.]. Ma nel viaggio da frate Taione e da Buoso da Doara, che era ancor vivo, furono liberati, con restar prigioni cento cavalieri che li scortavano. Nè mancarono novità in Verona. Vi fu ucciso Turisendo dei Turisendi [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.], uno de' maggiorenti; ed essendo fuggiti dalla città molti ivi detenuti prigioni, s'impadronirono essi delle terre di Legnago, Villa Franca, Soave e d'altre castella. Fatta anche lega con Lodovico conte di San Bonifazio, e cogli altri usciti di Verona, cominciarono contra di Mastino dalla Scala signor di Verona un'aspra guerra, che durò per più di due anni. Furono cagione cotali novità che la maggior parte de' nobili veronesi, de' quali ci conservò Parisio da Cereta il catalogo, furono cacciati da Verona e banditi: con che Mastino maggiormente assodò la sua signoria sopra il popolo di quella città, e ricuperò poscia l'una dietro l'altra le terre predette. Circa questi tempi anche in Mantova avvennero funeste dissensioni [86] per la rivalità delle potenti famiglie [Platina. Hist. Mantuan., tom. 20 Rer. Ital.]. I conti di Casalalto aiutati da Pinamonte de' Bonacolsi, ossia de' Bonacossi, fecero colla forza sloggiare i nobili Zanicali con tutti i loro aderenti; e poscia Pinamonte, avendo proditoriamente prese l'armi col popolo, ne scacciò gli stessi conti, ed arrivò a farsi proclamar signore di Mantova: in quali anni precisamente seguissero tali mutazioni, nol so io dire. Il Platina nella Storia di Mantova, che le descrive, e mostra mischiato in quelle turbolenze Obizzo marchese d'Este, siccome quegli che aspirava al dominio di Mantova, non ne assegna gli anni: difetto non lieve della storia sua. Ma veggasi all'anno 1272. Cessar dovette in questi tempi anche la potenza di Lodovico conte di S. Bonifazio, sostenuta per molti anni nella città di Mantova. Che l'anno presente i Piacentini, i Milanesi e parecchi altri popoli di Lombardia giurassero fedeltà a Carlo re di Sicilia e Puglia, e il prendessero per loro signore, lo scrive l'autore della Cronica di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma quest'ultima partita non par molto sussistente. Verisimilmente altro non fecero che dichiararsi aderenti al re Carlo, e mettersi sotto la di lui protezione, ma non già sotto la di lui signoria.


   
Anno di Cristo mcclxx. Indizione XIII.
Santa Sede vacante.
Imperio vacante.

L'anno fu questo in cui Lodovico IX santo re di Francia volle compiere il secondo voto della spedizione sua contro gl'infedeli [Nangius., Monach. Patavinus, in Chron. Guilielmus de Podio, Gesta S. Lodovici, et alii.]. Sul principio di marzo si mise in viaggio col cardinale d'Albano legato apostolico; e con un fiorito esercito passò in Provenza, dove solamente ne' primi giorni di luglio imbarcata la gente, sciolse le vele. Battuta quell'armata da una furiosa tempesta, approdò [87] a Cagliari in Sardegna, e di là poi dirizzò le prore verso L'Africa. Perchè il bey ossia il re di Tunisi gli avea fatto sperare di volersi convertire alla fede di Cristo, e per altri motivi, prevalse il motivo di sbarcare colà. Si trovò che quel Barbaro avea tutt'altro in cuore che d'abbracciar la religion cristiana; anzi coll'arrivo dei Franzesi fece metter ne' ferri tutti quanti i mercatanti e gli schiavi cristiani di Tunisi, che erano alquante migliaia. Fu dunque determinato di usar la forza, e non si tardò a prendere il castello di Cartagine, dove il santo re si trincierò, aspettando intanto l'arrivo di Carlo re dì Sicilia colla sua flotta, che dovea portar un poderoso rinforzo di gente, di munizioni e di viveri. Ma il re Carlo oltre l'espettazione tardò un mese ad arrivar colà: nel qual tempo, per gli eccessivi caldi, per la diversità del clima e per la penuria dell'acqua dolce, s'introdusse nella regale armata il flusso di sangue con febbri maligne, che cominciarono a fare ampia strage dell'alta e bassa gente. Vi perì Giovanni Tristano conte di Nivers, figliuolo del re, e poco appresso il cardinale legato Radolfo, con altri nobili. Ed infermatosi lo stesso re santo Lodovico, nel dì 25 d'agosto con ammirabil costanza d'animo, rassegnazione al volere di Dio e atti di soda pietà, volò a ricevere in cielo quella corona ch'egli amò e desiderò più che l'altra della terra, lasciando in una total costernazione l'armata sua. Arrivato in questo tempo il re Carlo con una potentissima flotta, rincorò gli animi abbattuti, e fatto dichiarare re di Francia Filippo figliuolo primogenito del defunto re, ottenne che si strignesse d'assedio la città di Tunisi. Durò circa tre mesi questa impresa con varie scaramuccie; e veggendo il re saraceno l'ostinazion de' cristiani, si ridusse in fine a pregar di pace o tregua [Caffari, Annal. Genuens., lib. 96, tom. 6 Rer. Ital.], e questa fu conceduta, per potersi tirar con onore da quel paese. L'accordo fu [88] stabilito, con obbligarsi colui di sborsare cento cinque mila fiorini d'oro, oppure oncie d'oro, da pagarsi la metà di presente, e l'altra fra due anni; di liberar tutti gli schiavi cristiani; di permettere l'esercizio libero e la predicazion della religione di Cristo; e finalmente di pagar da lì innanzi annualmente al re di Sicilia quaranta mila scudi di tributo. Il che fatto, nel dì 28 di novembre tutto l'esercito franzese e siciliano s'imbarcò, e voltò le prore alla volta della Sicilia. Il non avere il re Carlo mostrato alcun pensiero di soccorrere Terra santa, al quale oggetto s'erano imposte tante contribuzioni ai popoli e alle chiese, e tanti aveano presa la croce, diede motivo ad una universal mormorazione, gridando tutti ch'egli unicamente per suo vantaggio, e per rendersi tributario il regno di Tunisi, avea promossa la crociata, ed eccitato il santo re fratello a fermarsi colà. Soprattutto se ne stomacò, e ne fece dell'aspre doglianze Edoardo principe d'Inghilterra, il quale nel tempo dello stesso trattato arrivò a Tunisi, e veleggiò poscia verso di Accon, per dare un vero compimento al suo voto. Ma nell'ultimo giorno di novembre arrivata la flotta franzese e siciliana alla vista di Trapani in Sicilia, fu sorpresa da sì orrida tempesta, che la maggior parte o restò preda del mare, o andò a rompersi in terra colla morte, chi dice di quattro, chi di molte più migliaia di persone, e colla perdita del danaro pagato dai Saraceni, e d'altri innumerabili arnesi. Il Continuatore di Caffaro, allora vivente, scrive che vi perirono infiniti uomini. Trovavansi in quell'armata ben dieci mila Genovesi, parte per combattere colle lor navi contra degl'infedeli, e parte per armare le galee franzesi. Commise il re Carlo in sì funesta congiuntura un'azione delle più nere che si possano immaginare; imperciocchè di tutto quello che si potè salvare e ricuperar dal naufragio, egli si fece padrone, allegando un'empia legge del re Guglielmo, e una lunga, ma infame consuetudine, [89] che tutte le robe dei naufraganti erano del fisco. Nè giovò ai Genovesi il dire che per servigio della crociata e di lui stesso erano venuti, nè il produrre le convenzioni seguite con lui, per cui era promessa sicurezza alle lor persone e robe, in casi ancora di naufragio. Nel tribunale di quell'avido principe riuscì inutile ogni ragione e doglianza.

Fu in quest'anno una strepitosa sollevazione in Genova, città sempre piena di mali umori in que' tempi, cioè di fazioni, parzialità e discordie. Per cagione della podesteria di Ventimiglia si venne all'armi nel dì 28 di ottobre. I Doria e gli Spinola, famiglie potentissime, insorsero contra i Grimaldi e Fieschi, e s'impadronirono del palazzo del podestà. Questi si rifugiò nelle case de' Fieschi; ma quivi ancora perseguitato, fu preso, e poi licenziato colla paga a lui dovuta di tutto l'anno. In quello stesso giorno furono proclamati capitani di Genova [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] con mero e misto imperio Oberto Spinola e Oberto Doria, che presero il partito dei Ghibellini, ossia dell'imperio; nè luogo alcuno si contò che non si sottomettesse alla loro autorità: il che produsse pace e quiete per tutto il Genovesato. Non cessava intanto la guerra fra il popolo di Brescia signoreggiante nella città e i nobili fuorusciti [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. Quivi si trovava un messo del re Carlo per nome Ugo Staca. Costui con una gran turba di cittadini, dopo essere stato a Gambara, se ne tornava alla città. Nella villa di Leno fu assalito improvvisamente dagli usciti, che moltissimi uccisero del seguito suo. Questo colpo fece risolvere i cittadini di alzar le bandiere del re Carlo, e di acclamarlo per loro signore nel dì 30 di gennaio. Carlo vi mise per governatore l'arcivescovo di San Severino, e spedì ad essa città una compagnia d'uomini per lor sicurezza. Ciò non ostante, continuarono gli usciti a far guerra, ma con loro svantaggio, [90] alla città. Nell'anno presente i Pisani [Ptolomeus Lucens., Annal. Brev., tom. 2 Rer. Ital.], oramai conoscendo di non poter contrastare colla possanza del re Carlo e de' Guelfi di Toscana, fecero pace co' Lucchesi, e cercarono ed ottennero la grazia del medesimo re. Un pari accordo seguì fra i Sanesi [Annales Senenses, tom. 15 Rer. Ital.] e i Fiorentini, per cagion del quale ritornarono in Siena i Guelfi usciti; ma non passò gran tempo ch'essi Guelfi, nulla curando i patti fatti, scacciarono dalla città i Ghibellini: sicchè non restò in Toscana città che non si reggesse a parte guelfa. E i Fiorentini sotto alcuni pretesti disfecero il castello di Poggibonzi, che era de' più belli e forti della Toscana, e ridussero quel popolo ad un borgo nel piano. Cominciò in questo anno la guerra fra i Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] e Bolognesi. Aveano i Ferraresi, Padovani e Trivisani negato al doge di Venezia soccorso di grani in tempo di grave carestia, avendone bisogno per loro stessi. Sdegnato egli, impose delle nuove gabelle alle mercatanzie, e fece guardare i forti dell'Adriatico, acciocchè niuno conducesse vettovaglie, se non a Venezia, nè passava sale in terra ferma. Se ne disgustarono forte i Bolognesi, perchè loro ne veniva gran danno; e quantunque inviassero ambasciatori a dolersene, non ne riportarono se non delle amare risposte. Era allora al sommo la potenza dei Bolognesi, giacchè comandavano alla maggior parte della Romagna. Però, adunato un esercito di circa quaranta mila persone, andarono al Po di Primaro, e quivi piantarono un castello ossia fortezza, secondo l'uso di que' tempi. Venne pertanto spedita da Venezia una flotta di molte navi per impedir quel lavoro, con trabucchi e mangani dall'altra riva del Po; ma i Bolognesi non restarono per questo di compierlo, nè si attentarono i Veneziani di sturbarli. Dopo la morte di Aldigieri Fontana, avendo tentato in vano [91] i suoi parenti, potente famiglia di Ferrara [Richobaldus, in Pomario, tom. 9 Rer. Ital. Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], di torre il dominio di quella città ad Obizzo marchese d'Este, se ne fuggirono, ritirandosi sul Bolognese, a Galiera, da dove cominciarono a danneggiare il territorio di Ferrara. Ottennero poscia perdono dal marchese, purchè andassero a' confini nelle città ch'egli loro assegnò.


   
Anno di Cristo mcclxxi. Indizione XIV.
Gregorio X papa 1.
Imperio vacante.

Filippo nuovo re di Francia e Carlo re di Sicilia suo zio sen vennero a Viterbo, affine di sollecitare i discordi cardinali all'elezione di un papa. Avvenne che colà ancora si portò il conte Guido di Monforte, vicario allora per esso re Carlo in Toscana [Raynaldus, Annal. Eccles. Ricordano Malaspina, cap. 196.]. Nudriva costui un immenso odio contro la real casa d'Inghilterra, perchè il conte Simone suo padre era stato ucciso, e ben giustamente, per gli suoi demeriti, dal re d'Inghilterra. Per questo mal talento commise esso conte Guido una delle più abbominevoli azioni che possano cadere in mente di uomo e cristiano. Imperocchè, avendo trovato in chiesa attento alla sacra messa Arrigo, figliuolo di Riccardo d'Inghilterra re de' Romani, ch'era venuto coi suddetti due re dalla crociata di Tunisi, crudelmente quivi uccise quell'innocente principe. Nè di ciò contento, perchè gli fu ricordato che suo padre era stato strascinato, tornò indietro, e, preso pe' capelli quel cadavero, lo strascinò fuori di chiesa. Sotto gli occhi, per così dire, di quei due re fu commesso questo esecrabil fatto, e non se ne vide risentimento alcuno, non senza gravissimo lor biasimo; se non che il re Carlo gli levò il vicariato della Toscana. Se ne fuggì questo empio assassino; ma il colse a suo tempo [92] la mano di Dio, perchè finì malamente i suoi dì nelle prigioni di Sicilia. Benchè nulla avessero operato le premure dei suddetti re per indurre il collegio de' cardinali ad accordo, di maniera che attediati si partirono da Viterbo; pure da lì ad alcuni mesi si applicarono essi cardinali daddovero a dare un nuovo papa alla Chiesa di Dio [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Ital.]. Di grave scandalo era stato ai popoli cristiani il vedere che da tanto tempo non aveano saputo i quindici cardinali accordarsi nell'elezione di alcun di essi; colpa della loro ambizione, che anteponeva il privato interesse a quel della repubblica cristiana. Fecero essi adunque un compromesso nel dì primo di settembre in sei cardinali, i quali senza perdere tempo nominarono papa Tedaldo, appellato ancora Tebaldo, della nobil casa de' Visconti di Piacenza, non cardinale, non vescovo, ma solamente arcidiacono di Liegi [Ptolomeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital. Richobaldus, in Pomario, tom. 9 Rer. Ital. Sabas Malaspina, lib. 5, cap. 8.], personaggio nondimeno di santi costumi, che si trovava allora in Accon, ossia in Acri di Soria, dove faticava in servigio della cristianità. Parve maravigliosa questa elezione, perchè egli neppure era conosciuto da alcuno dei cardinali; eppur tutti consentirono in lui, e se ne applaudirono bene a suo tempo: così bella riuscita fece questo degnissimo successore di san Pietro. Spedì il sacro collegio ambasciatori ad Accon a notificargli la sua promozione. Accettò egli l'elezione, e prese dipoi il nome di Gregorio X con incredibil giubilo de' cristiani orientali, che concepirono di grandi speranze d'aiuti per la ricuperazione di Terra santa, stante il piissimo zelo già sperimentato di questo insigne personaggio per li progressi della crociata. Si dispose egli intanto pel suo ritorno in Italia: del che parleremo all'anno seguente. Cominciò in quest'anno a declinar la potenza [93] de' Torriani [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 307. Annales Mediolanense, tom. 16 Rer. Ital.]. Dopo essere stati i Comaschi sotto il loro governo per dieci anni, si ribellarono, e preso Accursio Cotica, vicario di Napo dalla Torre, tanto il ritennero, che fu rilasciato Simone da Locarno, il quale per nove anni era stato detenuto prigione in una gabbia di ferro in Milano. Rivoltatesi ancora contra de' Torriani le due nobili famiglie milanesi Castiglioni e Birago, si unirono co' nobili fuorusciti: del che sdegnato forte Napo Torriano, ostilmente entrò nel Seprio, e vi prese e diroccò il castello di Castiglione. In molte angustie si trovava il popolo di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] per l'aspra guerra che gli faceva il conte Ubertino Lando coi nobili fuorusciti di quella città. Il perchè trattarono nel loro consiglio di darsi a Carlo re di Sicilia. Gran dibattimento, gran discordia fu ne' partiti; ma finalmente la vinse l'affermativa, e si giurò fedeltà ad esso re, con lasciare libertà a tutti i banditi di ritornare in città nel termine d'un mese, purchè si sottomettessero al re. La maggior parte d'essi vi ritornò.

Passò in quest'anno per Reggio di Lombardia [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.] Filippo re di Francia, conducendo seco l'ossa del santo genitore Lodovico IX e di Giovanni Tristano suo fratello. Correvano tutti i popoli a venerar la cassa del re defunto, riguardandolo tutti come un principe santo; e questa si deponeva nelle chiese con molti doppieri accesi all'intorno. E però restò in queste parti una distinta divozione verso di lui, tenendosi tuttavia care le di lui monete, per appenderle al collo dei figliuolini. Nel dì primo d'aprile arrivò esso Filippo a Parma; ed avendo le sue soldatesche bruciate quindici case a Colorno [Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.], rifece quel danno con adeguato pagamento. Grave carestia patirono in quest'anno i Reggiani e Parmigiani: ciò [94] non ostante fecero oste al castello di Corvara, dove dimorava con assai banditi Jacopo da Palù, e presolo dopo tre mesi di assedio, poco dappoi lo smantellarono. Continuando la guerra fra i Veneziani e Bolognesi [Annal. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.] al Po di Primaro, nel primo dì di settembre vennero alle mani i due nemici eserciti, e toccò la peggio ai Veneziani. Confessa il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che i suoi lasciarono in preda ai Bolognesi le lor tende e bagagli; ma che sopraggiunti altri capitani con gente assai, uccisero molti de' Bolognesi, e fortificarono il castello di Sant'Alberto, posto sul Po d'Argenta. Fecero guerra i potenti Bolognesi anche al comune di Modena, contro il tenor della pace, nel mese d'agosto, per l'ingiusta lor pretensione che i Modenesi nulla avessero da possedere di là dal fiume Panaro. Presero all'improvviso il castello di San Cesario [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]: il che udito in Modena, si diede tosto campana a martello, e il popolo tutto in armi corse a quel castello, e impetuosamente superate le fosse, quanti Bolognesi vi trovarono, o fecero prigioni, oppure uccisero. Presero anche i Bolognesi le castella di Savignano, di Montecorone e Monteombraro, e le atterrarono. Nè di ciò contenti, vennero coll'esercito fino al ponte di Santo Ambrosio e al ponte di Navicello; ma dai Modenesi, accorsi alla difesa, virilmente furono rispinti. In tal congiuntura accorsero i Parmigiani, amici sempre fedeli, in aiuto di Modena [Memorial. Potest. Regiens.]. Ma neppur Bologna era esente da guai. Mali trattamenti faceano i nobili al popolo, specialmente togliendo loro le donne. Si afforzarono per questo i popolari, e formata un'unione fra loro, che fu appellata la lega o compagnia della giustizia, mandarono a' confini ottanta d'essi nobili: il che diede principio all'abbassamento di Bologna, città che allora si trovava in [95] una grande auge di potenza, fortuna e ricchezze. Presero in quest'anno i Cremonesi il castello di Malgrate per sagacità di Jacopino Rangone da Modena [Annales Veteres Mutinens.] lor podestà, il quale per questo fatto fu confermato nella podesteria dell'anno seguente. In Ferrara [Annal. Estens., tom. 15 Rer. Ital.] Giacomaccio dei Trotti, con altri aderenti alla fazion ghibellina del fu Salinguerra, fecero una congiura contra di Obizzo marchese di Este, signore della città; ma essendo questa venuta alla luce, lasciarono costoro il capo sopra d'un palco. Portossi nell'anno presente in Ispagna Guglielmo marchese di Monferrato, quivi prese per moglie Beatrice figliuola di Alfonso re di Castiglia, soprannominato l'Astrologo, con varii patti, de' quali fa menzione Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Se s'ha da prestar fede a Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 306.], Alfonso, siccome eletto re de' Romani, dichiarò suo vicario in Italia esso marchese, e mandò ottocento cavalieri con esso lui, i quali fecero guerra a Milano; ma rimasero in breve sterminati da Napo Torriano. Per questo si accese un odio grande fra esso Napo e il marchese.


   
Anno di Cristo mcclxxii. Indizione XV.
Gregorio X papa 2.
Imperio vacante.

Nel primo giorno di gennaio dell'anno presente approdò a Brindisi il nuovo pontefice eletto Gregorio X, venendo di Soria [Vita Gregorii X, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Arrivato che fu a Benevento, quivi fu ad inchinarlo il re Carlo, che poscia con magnificenza ed onore l'accompagnò nel resto del viaggio. Fu incontrato a Ceperano da molti cardinali, e dagli ambasciatori di Roma, che il pregarono di trasferirsi a quella città. Ma egli continuò il cammino sino a Viterbo. Portatosi poi a Roma, nel dì 27 di marzo [96] fu consecrato; con gran solennità ricevè la tiara pontificia, il giuramento di fedeltà e d'omaggio dal re Carlo. Venuto poscia ad Orvieto, principalmente si applicò ai soccorsi di Terra santa. Intimò a questo fine un concilio generale da tenersi in Lione, e fece maneggi coi popoli di Venezia, Pisa, Genova e Marsilia, per ottenere da essi la lor quota di galee per quella sacra impresa [Raynald., in Annal. Ecclesiast.]. Ma perciocchè i Veneziani aveano guerra co' Bolognesi in terra, e per mare co' Genovesi, spedì l'arcivescovo d'Aix con titolo di legato apostolico, acciocchè trattasse di pace fra loro; e non potendola egli conchiudere, ordinasse a quei comuni d'inviare i lor plenipotenziarii alla corte pontificia. Dalle memorie rapportate dal Rinaldi vegniamo in cognizione, che tuttavia i Sanesi e Pisani ricusavano di riconoscere il re Carlo per vicario della Toscana, e gli ultimi aveano occupati alcuni luoghi in Sardegna. Intimò loro il pontefice le censure, e la privazione del vescovato [Ptolom. Lucens., in Annalib. Brev., tom. 11 Rer. Ital.], se nel termine prefisso non ubbidivano. Fece poscia una promozione di cinque cardinali, uno de' quali fu san Bonaventura, ministro generale dell'ordine de' Minori, insigne dottore della Chiesa. Trovandosi tuttavia alla corte pontificia Ottone Visconte arcivescovo di Milano [Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital.], si presentò al papa implorando il suo aiuto contro la prepotenza de' Torriani signori di Milano, che lui e tanti nobili teneano banditi dalla patria. Intanto essi Torriani faceano gran guerra, e i nobili fuorusciti, i quali nondimeno cresciuti in forze per l'assistenza de' Comaschi faceano testa, elessero per loro capitano Simone da Locarno, uomo di grande sperienza nei fatti di guerra. Abbiamo dalla Cronica di Parma [Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.], che Guido e Matteo da Correggio parmigiani, dopo essere stati per lungo tempo come signori di Mantova, [97] furono in quest'anno scacciati da quella podesteria per opera di Pinamonte dei Bonacossi Mantovano loro nipote. Costui non solamente occupò quel dominio, ma si unì co' Veronesi a parte ghibellina, esiliò la maggior parte de' Guelfi di quella città, e cagion fu di non pochi altri mali. Fecero i Pavesi oste contro la terra di Valenza, e fu in loro aiuto il conte Ubertino Landò [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] con cinquanta uomini di armi. Portatosi a Brescia il suddetto arcivescovo d'Aix [Malvecius, Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.] per trattar di concordia fra quel comune e i Torriani di Milano, così saggiamente condusse l'affare, che nel mese d'ottobre nella villa di Gocaglio, dove si trovarono i deputati delle parti, stabilì pace fra loro, con pagare la città di Brescia sei mila e trecento lire imperiali ai Torriani. Rimasero sacrificati, in tal congiuntura, i nobili ghibellini usciti di quella città, perchè lasciati alla discrezion del re Carlo, e mandati furono a' confini. Loro ancora furono tolte varie castella, e distrutte dal popolo di Brescia, fra' quali si contarono Seniga, gli Orci, Palazzuolo e Chiari. Dopo tanti anni di prigionia in Bologna [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] arrivò al fine di sua vita nel di 14 di marzo Enzo re di Sardegna, e con grande onore data gli fu sepoltura nella chiesa de' frati predicatori. Ma insorsero in quella città gravi discordie fra le due fazioni de' Geremii guelfi e de' Lambertazzi ghibellini. Gli Annali di Bologna [Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] e il Ghirardacci [Ghirardacci, Istor. di Bologna.] ne parlano all'anno seguente, ma fuor di sito, a mio credere. L'antica Cronica di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], e, quel ch'è più, Ricobaldo [Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.], storico di questi tempi e fra Francesco Pippino [Pippin, Chron. Bononiens., tom. eod.] ne danno relazione sotto il presente anno. Aveano ed han tuttavia i Bolognesi scolpito [98] in marmo un privilegio, che dicono conceduto da Teodosio minore Augusto nell'anno 455 dopo Cristo alla lor città, e fu da me dato alla luce [Antiq. Ital., Dissert. XXXIV.], che è la più sconcia impostura che si trovi fra le tante dei secoli ignoranti. Perchè in esso i territorii del territorio bolognese si fan giugnere fino al fiume Scultenna ossia Panaro verso il distretto di Modena, quel potente comune volle finalmente far valere le sue ragioni fondate sopra quel documento, ridicoloso bensì, ma da essi, per malizia o per goffaggine, tenuto qual incontrastabil decisione contra dei Modenesi, antichi possessori di varie castella di là dal suddetto fiume, e di molti più ne' secoli precedenti. Ah ignoranza dei barbarici secoli, di quant'altre novità e disordini sei tu stata la madre!

Fecero dunque i Bolognesi un decreto, in cui obbligarono qualsisia lor podestà di ricuperare il territorio sino al Panaro, e lo fecero intagliare in marmo e giurare ad ogni nuovo podestà. E nell'anno presente, prevalendo il partito dei Lambertazzi, fu presa la risoluzione di procedere ai danni de' Modenesi, coll'adunare un grosso esercito, e menar in piazza il carroccio, per dar principio alla guerra. A questo avviso, i Modenesi ricorsero alle loro amistà per aiuto. Cento uomini d'arme da tre cavalli per uno mandarono i Cremonesi. Due mila fanti e molti cavalieri vennero da Parma.

I Reggiani, siccome amici de' Bolognesi, permisero che molti de' suoi privatamente venissero in soccorso de' Modenesi, Obizzo marchese d'Este anch'egli con tutte le forze de' Ferraresi fu in armi, per sostenere i loro interessi. O sia che questo gagliardo armamento do' Modenesi facesse mutar pensiero ai più savii de' Bolognesi, oppure che la fazion guelfa de' Geremii se l'intendesse co' Modenesi, certo è che essi Geremii non si vollero muovere contra di Modena, e fu gran lite fra essi e i Lambertazzi. Temendo dunque gli ultimi che, se uscivano di Bologna, la fazion [99] contraria introducesse in quella città Obizzo Estense signor di Ferrara, restarono, ed altro non seguì per conto di Modena. Anzi si ottenne dipoi che quel decreto e marmo pregiudiziale ai Modenesi fosse abolito. Carlo re di Sicilia, che nullameno sotto l'ombra di paciere andava macchinando il dominio di tutta l'Italia, scoprì in quest'anno l'animo suo verso la città di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Ital.]. Col mezzo del cardinale Ottobuono del Fiesco fece venire alla corte pontificia tutti i banditi e confinati di quella città, col pretesto di promuovere la concordia d'essi cogli ambasciatori di Genova, i quali si trovavano anch'essi in Roma. La conchiusione fu, che tutti que' nobili banditi, i Grimaldi specialmente e i Fieschi col cardinale suddetto, per quanto era in loro potere, suggettarono la lor patria ad esso re Carlo. Fu segreta la capitolazione, e non ne traspirò notizia agli ambasciatori suddetti; ma gli effetti poco appresso la scoprirono. Cominciarono que' nobili fuorusciti delle ostilità contro la patria; e il re Carlo in un determinato giorno, senza far precedere sfida alcuna, fece prendere quanti Genovesi si trovarono in Sicilia e Puglia colle loro mercatanzie e navi. Per buona ventura si salvarono due ricche navi che erano approdate a Malta, non essendo riuscito alla furberia dell'uffiziale del re Carlo di mettervi l'unghie addosso. Fu afflitta da grave carestia in quest'anno ancora la Lombardia.


   
Anno di Cristo mcclxxiii. Indizione I.
Gregorio X papa 3.
Ridolfo re de' Romani 1.

L'opere del santo pontefice Gregorio X fecero ben conoscere in quest'anno ch'egli non cercava se non il pubblico bene e la pace dappertutto. Per mancanza di un re ed imperadore, era da gran tempo [100] in rotta buona parte dell'Italia [Ptolemaeus Lucens. Ricordano Malaspina, Raynald., in Annal. Eccles.], e sempre più le fazioni e civili discordie si rinvigorivano nelle città. Il perchè questo buon pontefice promosse in Germania presso que' principi l'elezione di un nuovo re de' Romani, senza attendere quella del tuttavia vivente Alfonso re di Castiglia. Al regno dunque della Germania e dei Romani fu promosso, non dai soli sette elettori, ma dalla maggior parte de' principi tedeschi, Ridolfo conte di Habspurch, signore di buona parte dell'Alsazia, principe di tutte le virtù ornato, e progenitore della gloriosa augusta casa d'Austria. Ricevette egli la corona germanica in Aquisgrana un mese appresso. Passò in quest'anno per Orvieto, dove dimorava la corte pontificia, Odoardo nuovo re di Inghilterra, che, venendo di Terra santa, se n'andava a ricevere la corona lasciatagli dal defunto re Arrigo suo padre [Chron. Parmense, tom. 8 Rer. Ital.]. Fece egli istanza al papa che fosse fatto rigoroso processo contra del conte Guido da Monforte per l'empio assassinamento del principe Arrigo d'Inghilterra. Infatti il papa sottopose costui a tutte le pene spirituali e temporali. Nel passare da Forlì, trovò esso re che i Bolognesi [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], cioè la fazion guelfa de' Geremii, per fare dispetto a quella dei Lambertazzi, la quale favoriva i Forlivesi, era ita all'assedio di quella città. Frappose il valoroso principe i suoi uffizii per quetar quella guerra; ma non vi trovò disposizione ne' Bolognesi, troppo allora goffi per la lor buona fortuna. La vigorosa resistenza fatta dai Forlivesi cagione fu che il campo bolognese, dopo aver dato il guasto a quel territorio, se ne ritornò a casa. Nel dì 20 di maggio del presente anno, e non già nel precedente, passò il re suddetto per Reggio, e poscia per Milano, alla volta della Francia. Aveva già il pontefice liberata dall'interdetto la città di Siena; e perchè gli premea forte l'intimato concilio [101] generale in Lione per l'anno vegnente, volendo disporre il tutto, si mosse da Orvieto, affine di passar in Francia. Arrivò a Firenze [Ricordano Malaspina, cap. 198.] nel dì diciottesimo di giugno; e perchè sentì le doglianze dei Ghibellini usciti di quella città, siccome pontefice amator della pace, nè attaccato ad alcun de' partiti, mise ogni suo studio per rimetterli in Firenze. Sant'Antonino rapporta [S. Antonin., P. III, tit. 20, cap. 2.] una bella parlata che esso papa fece, o si finge che facesse, in detestando le fazioni de' Guelfi e Ghibellini, con dimostrare la pazzia di questi nomi ed impegni, e i gravissimi danni cagionati da essi. Insomma tanto si maneggiò, che nel dì 2 di luglio con gran solennità fu fatta la pace, dati mallevadori ed ostaggi per mantenerla, e fulminata la scomunica contro chiunque la rompesse. Ma non si può abbastanza dire qual fosse la malignità o bestialità di questi tempi. Appena fatta la pace, e venuti i sindachi de' Ghibellini in città per darle compimento, fu loro detto all'orecchio, che, se non partivano, aveva ordine il maliscalco del re Carlo d'ucciderli. Si trovava allora il re Carlo in Firenze, nè gli dovea piacere il risorgimento de' Ghibellini contrarii a' suoi disegni. Vero o non vero che fosse, quei sindachi se ne andarono con Dio, e fecero saperne al papa il perchè. Veggendo il buon pontefice in tal guisa deluse le sue paterne intenzioni, tosto si ritirò da Firenze, con lasciar la città interdetta, e passò alla villeggiatura in Mugello presso il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, portando seco non lieve sdegno contra del re Carlo. Nel dì 27 di settembre fu in Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], e di là passò a Milano. Tali finezze furono a lui e alla sua corte usate da Napo ossia Napoleon dalla Torre, che il papa si compiacque di promuovere al patriarcato d'Aquileia Raimondo dalla Torre di lui fratello. Dopo il pontificato romano era quello in quei tempi il più ricco benefizio d'Italia, perchè i patriarchi [102] godevano il riguardevol principato del Friuli. Ottone Visconte, che veniva accompagnando il papa, si teneva in pugno in tal congiuntura il pacifico suo stabilimento nell'arcivescovato di Milano [Stephanardus, tom. 9 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 309.]. Tale e tanta dovette essere l'industria ed eloquenza dei Torriani, che il papa gli ordinò di ritirarsi per allora a Piacenza, e di venir poscia al concilio di Lione; dopo di che l'assicurava di rimetterlo in Milano nella sua sedia. Fu detto che i Milanesi, se Ottone voleva pure spuntarla, con rientrare al loro dispetto in Milano, gli volevano torre la vita. Stimò dunque meglio il papa di farlo fermare in Piacenza, ma con riportare da questo ripiego non poco biasimo presso gli aderenti di Ottone. Pretende il Corio [Corio, Istor. di Milano.] che il papa si lasciasse poco vedere dai Milanesi, e si partisse sdegnato contra de' Torriani. Ma il patriarcato conceduto a Raimondo pare che non s'accordi con sì fatta relazione. Abbiamo da Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucensis, tom. 11 Rer. Ital.] che in quest'anno il primogenito di Ridolfo re de' Romani, per ricuperare o sostenere i diritti imperiali, fu inviato a dare il guasto alle terre del conte di Savoia, e che, tornando pel Reno a casa, essendosi sommersa la barca, si annegò.

Erano forte in collera con Carlo re di Sicilia i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Italic.], dacchè intesero l'aggravio indebito lor fatto nel precedente anno colla prigionia delle persone e robe de' lor nazionali. Tuttavia, senza volergli rendere la pariglia, concederono tempo di quaranta giorni a tutti i di lui sudditi di Sicilia e Puglia e Provenza, per ritirarsi coi loro averi, premessa l'intimazione che dopo tal tempo sarebbono trattati da nemici. Mosse dunque il re Carlo da tutte le parti guerra ai Genovesi. Il vicario della Toscana coi Lucchesi, Fiorentini, Pistoiesi ed altri popoli le [103] diede principio nella Riviera orientale, e il maliscalco di Provenza nell'occidentale. Gli Alessandrini e i marchesi di quelle contrade, d'ordine del re Carlo, presero anch'essi l'armi contra degli Stati di Genova di qua dall'Apennino. I soli Piacentini si scusarono di non volere far loro la guerra; e i Pavesi, perchè di fazion ghibellina, accorsero in aiuto dei Genovesi. Molte castella furono prese, molte ricuperate; e in mezzo a tanti avversarii seppe ben sostenersi la potenza de' Genovesi. Probabilmente fu circa questi tempi che il medesimo re Carlo inquietò non poco la città d'Asti [Chron. Astens. tom, 11 Rer. Ital.]. Guglielmo Ventura scrive ch'egli signoreggiava per tutto il Piemonte. Sotto il suo giogo stavano Alba, Alessandria, Ivrea, Torino, Piacenza e Savigliano: Bologna, Milano e la maggior parte delle città di Lombardia gli pagavano tributo, il popolo di Asti, siccome geloso della propria libertà, l'ebbe sempre in odio. Ma per liberarsi dalle vessazioni, nell'anno 1270 comperarono da lui, collo sborso di tre mila fiorini d'oro, un tregua di tre anni. Finita questa, ne pagarono altri undici mila per la tregua di tre altri anni. Ma accadde nel marzo di quest'anno che mandando gli Astigiani a Genova parecchi torselli di panno franzese di varie tele, furono que' panni presi da Jacopo e Manfredi marchese del Bosco a Cossano. Perciò gli Astigiani con un esercito di circa dieci mila pedoni e pochi cavalieri si portarono a dare il guasto a Cossano. Quivi stando nel dì 24 di marzo, eccoli giugnere i marescialli provenzali del re Carlo con grosso esercito di Franzesi e Lombardi, che, sconfitto il campo degli Astigiani, ne condusse prigioni circa due mila ad Alba. Ogerio Alfieri ne conta solamente ottocento. Se non erano i Pavesi che inviassero ad Asti ducento uomini di armi, quella città cadeva nelle mani del Provenzali. Fecero gli Astigiani istanza al siniscalco del re Carlo per la [104] liberazion de' loro prigioni, allegando la tregua che tuttavia durava. Costui, entrato in furore, non altra risposta diede ai messi, se non che se gli levassero davanti, e dicessero ai suoi, che qualora non si risolvessero di servire al re Carlo suo signore, morrebbono in carcere tutti gli Astigiani. E poi si voleva far credere alla buona gente che il re Carlo era il pacificator dell'Italia, nè altro cercava che il pubblico bene delle città. Ai fatti s'ha da guardare, e non ai nomi vani delle cose. Ora questo modo di procedere del re Carlo mise il cervello a partito al comune d'Asti, città allora assai ricca. Assoldarono que' cittadini mille e cinquecento uomini a cavallo di diversi paesi. Chiamarono in loro aiuto il marchese di Monferrato, nemico anch'esso del re Carlo, perchè chiaro si conosceva ch'egli tendeva alla monarchia d'Italia, ed avea già occupate varie terre del Monferrato. Per mare eziandio vennero di Spagna ducento uomini d'armi, che Alfonso re di Castiglia mandava al suddetto marchese genero suo. Con tali forze cominciarono gli Astigiani a far guerra alla città d'Alba e alle terre del re Carlo; nè solamente tennero in dovere chiunque il voleva offendere, ma tolsero molti luoghi ai nemici. Per maggiormente assodarsi e salvarsi dagli attentati del re Carlo, fu anche stabilita lega fra i Genovesi, Pavesi, Astigiani e il suddetto marchese di Monferrato Guglielmo. Ma è ben da stupire come il santo pontefice Gregorio X [Raynaldus, in Annal. Eccles.] per cagione di questa lega fulminasse la scomunica contra di quei popoli e contra del marchese, quasichè fosse un delitto il difendersi dalla prepotenza del re Carlo, nè fosse lecito a' principi e alle città libere d'Italia il far delle leghe. Gran polso che dovea avere nella corte pontificia il re Carlo, per cui impulso possiam credere emanate queste censure. Ubaldino da Fontana in Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] nella pubblica piazza d'essa città tentò di uccidere [105] il marchese Obizzo d'Este signor di Ferrara; ma vi lasciò egli la vita, trucidato dalla famiglia del signore.


   
Anno di Cristo mcclxxiv. Indizione II.
Gregorio X papa 4.
Ridolfo re de' Romani 2.

Memorabile si rendè l'anno presente per l'insigne concilio generale tenuto da papa Gregorio X in Lione [Raynaldus, in Annal. Eccl. Labbe, Concil. Ptolomaeus Lucens. et alii.], al quale intervennero circa cinquecento vescovi, settanta abbati e mille altri fra priori, teologi ed altri ecclesiastici dotati di qualche dignità. Gli fu dato principio nel dì 7 di maggio, e quivi si fece la riunion de' Greci colla Chiesa latina; il che recò estrema consolazione ad ognuno. Michele Paleologo, imperador de' Greci, uomo accorto, paventando forte la crociata de' popoli d'Occidente, promossa con zelo inesplicabile dal buon papa Gregorio, e vivendo ancora in non poca gelosia delle forze e dell'ambizione di Carlo re di Sicilia, si studiò con questo colpo di rendere favorevole a sè stesso il pontefice e i principi latini. Furono eziandio fatti molti dei regolamenti intorno alla disciplina ecclesiastica, e si trattò con vigore della ricupera di Terra santa. E perciocchè le maggiori speranze del papa erano riposte nel nuovo eletto re de' Romani Ridolfo conte di Habspurch, che avea presa la croce, si studiò egli di pacificare Alfonso re di Castiglia, il quale continuava le sue pretensioni sopra il regno d'Italia, e solennemente ancora confermò l'elezione d'esso Ridolfo. Questi, all'incontro, confermò alla Chiesa romana tutti gli Stati espressi ne' diplomi di Lodovico Pio, Ottone I, Arrigo I e Federigo II, e si obbligò di non molestar il re Carlo nel possesso e dominio del regno di Sicilia, con altri patti che si possono leggere negli Annali Ecclesiastici del Rinaldi. Due gran lumi perdette in quest'anno l'Italia e la Chiesa di Dio. [106] Il primo fu Tommaso da Aquino dell'ordine de' Predicatori, della nobilissima casa de' conti d'Aquino, ingegno mirabile ed angelico, teologo di sì profondo sapere, che dopo sant'Agostino un altro simile non aveva avuto la cristiana repubblica [Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl. lib. 22, tom. 11 Rer. Ital.]. Da Parigi, nella cui università era egli stato con infinito plauso pubblico lettore, venuto a Napoli nell'anno 1272, s'era ivi fermato per ordine del re Carlo, affinchè vi leggesse teologia. Ma dovendosi tenere il concilio, in cui sarebbe occorso di disputar coi Greci, papa Gregorio comandò ch'egli venisse a Lione per così importante affare. Misesi fra Tommaso in viaggio; ma infermatosi per via, giacchè non v'era vicino convento alcuno del suo ordine, si fermò nel monistero dei Cisterciensi di Fossanova nella Campania. Quivi dopo qualche mese passò a miglior vita nel dì 7 di marzo dell'anno presente in età di soli quarantanove anni, o al più cinquanta, con ammirarsi tuttavia, come egli tante opere, ed opere insigni, potesse compiere in un sì limitato corso di vita. Io non so qual fede si possa prestare a Dante [Dante, Purgator., can. 20.], che cel rappresenta tolto dal mondo con lento veleno, fattogli dare dal re Carlo, per timore che non facesse dei mali uffizii alfa corte pontificia a cagion della persecuzione da lui fatta ai conti d'Aquino suoi fratelli. Fu egli poi canonizzato e posto nel catalogo de' santi, e dopo molti anni trasportato a Tolosa il sacro suo corpo. Gran perdita parimente si fece nella persona di fra Bonaventura da Bagnarea dell'ordine de' Minori [Bolland., Act. Sanct., ad diem 14 jul.], insigne teologo anche esso, già creato cardinale della santa romana Chiesa, e vescovo d'Albano. Trovavasi egli al concilio di Lione; quivi nel dì 15 di luglio terminò il corso della vita terrena, e ducento anni dipoi fu canonizzato, senza intendersi perchè la [107] festa sua si celebri nel dì precedente, se forse egli non morì nella notte fra l'un giorno e l'altro: il che suol produrre diversità di contare presso gli storici. Secondo le storie milanesi [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 310. Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], Napo dalla Torre signor di Milano spedì una solenne ambasceria a riconoscere per re dei Romani e d'Italia Ridolfo, con offerirgli il dominio della città. Fu gradito non poco quest'atto dal re Ridolfo, e però dichiarò suo vicario in Milano esso Napo, e mandogli il conte di Lignì con un corpo di truppe tedesche per difesa sua contra de' Pavesi e de' nobili fuorusciti. Cassone ossia Gastone, figliuolo di Napo, fu poi dichiarato capitano di tali truppe.

In quest'anno ancora vennero trecento uomini d'armi a Pavia [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.], inviati dal re Alfonso di Castiglia. Con questi e con tutto il loro sforzo i Pavesi, gli Astigiani e Guglielmo marchese di Monferrato andarono a dare il guasto al territorio d'Alessandria, e stettero otto giorni addosso a quel popolo. Non sapendo gli Alessandrini come levarsi d'attorno questo fiero temporale, chiesero capitolazione, e fu convenuto ch'essi rinunziassero al dominio del re Carlo, con che cesserebbono le offese. Nel mese poscia di giugno passarono ai danni della città di Alba e di Savigliano. Presero Saluzzo e Ravello: il che diede motivo a Tommaso marchese di Saluzzo di abbandonar la lega del re Carlo, e di unirsi cogli Astigiani. Tornati nel distretto d'Alba, diedero il guasto al paese sino alle porte di quella città, e gli Astigiani fecero quivi correre al pallio nel dì di San Lorenzo in vitupero de' nemici. Vollero gli uffiziali del re Carlo far pruova della lor bravura, e diedero battaglia, ma con riportarne la peggio, essendo rimasto ferito in volto Filippo siniscalco d'esso re, e Ferraccio da Sant'Amato maresciallo con circa cento quaranta Provenzali. Per queste traversie il suddetto siniscalco [108] si ritirò in Provenza, e lasciò ad Alba, Cherasco, Savigliano, Mondovico, ossia Mondovì, e Cuneo, di levarsi di sotto alla signoria del re Carlo, il cui dominio in Piemonte si venne in questa maniera ad accorciare non poco. Vi conservò egli nulladimeno alcune città [Ptolom. Lucens., Hist. Ecclesias., lib. 23, cap. 29.]. S'impadronirono gli Astigiani anche del castello e della villa di Cossano, i cui signori andarono in Puglia a cercar da vivere alle spese del re. Miglior mercato non ebbe esso re Carlo nella guerra contra de' Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Ital.]. Presero bensì le sue galee in Corsica il castello d'Aiaccio, fabbricato e fortificato quivi dal comune di Genova; ma i Genovesi, messo insieme uno stuolo di ventidue galee, andarono in traccia delle provenzali, nè trovandole in Corsica, passarono a Trapani in Sicilia, e bruciarono quanti legni erano in quel porto. Iti i medesimi a Malta, diedero il sacco all'isola del Gozzo, e poi, venuti a Napoli, dove soggiornava lo stesso re, per ischerno suo alzarono le grida, e sommersero in mare le regali bandiere; e, nel tornare a Genova, presero molti legni d'esso re Carlo. Quindi nella riviera di Ponente gli ritolsero Ventimiglia. Seguì poscia una zuffa fra essi e il siniscalco del re al castello di Mentono, dove rimasero sconfitti essi Genovesi; ma nulla potè fare contra di essi la potente flotta di lui, che era venuta sino in faccia del porto di Genova.

In Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] divampò nell'anno presente un grave incendio, che durò poscia gran tempo. Prevalendo la fazione de' Rangoni e Boschetti, furono obbligati i Grassoni, quei da Sassuolo e da Savignano coi loro aderenti di uscire della città. Ingrossati poscia i fuorusciti, vennero sino al Montale, ed accorsi i Rangoni col popolo, attaccarono battaglia. Vi fu grande strage dall'una parte e dall'altra; [109] ma la peggio toccò ai Rangoni. Più strepitosi sconcerti succederono in Bologna nel mese di maggio [Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Vennero alle mani i Geremii, cioè la fazione guelfa, coi Lambertazzi, seguaci della parte dell'imperio, e si fecero ammazzamenti e bruciamenti di case non poche per parecchi giorni. In soccorso de' Guelfi si mosse la milizia di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], Cremona, Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] e Modena. Era appena giunta al Reno questa gente, che i Lambertazzi giudicarono meglio di far certi patti colla fazion contraria; e però, cessato il rumore e bisogno, se ne tornarono indietro i collegati. Ma che? Da lì a pochi giorni si ricominciò la danza di prima, e la concordia andò per terra. Il perchè la parte della Chiesa richiese le sue amistà, e in aiuto suo marciarono i Parmigiani, Reggiani, Modenesi, Ferraresi e Fiorentini. All'avviso di tanti soccorsi che venivano, i Lambertazzi sloggiarono senza contrasto nel dì 2 di giugno. Secondo altri, vi fu gran battaglie, e ferro e fuoco si adoperò; ma in fine, non potendo reggere i Lambertazzi alla forza superiore de' Guelfi, uscirono della città vinti, e si ritirarono a Faenza, con lasciar prigionieri molti del loro partito. Furono atterrati varii palagi e case de' fuorusciti; e il Ghirardacci scrive [Ghirardacci, Istor. di Bologna.] che quindici mila cittadini ebbero, in tal congiuntura, il bando. Nel mese d'ottobre il popolo di Bologna, rinforzato dai Guelfi circonvicini, fece oste contra le città della Romagna che si erano ribellate. Scacciò d'Imola i Ghibellini, e vi mise un buon presidio. Passò dipoi sotto Faenza, e diede il guasto a quelle contrade; ma ritrovando ben guernita e rigogliosa la città per gli tanti usciti di Bologna, se ne ritornò a casa senza far maggiori tentativi. Secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], fu guerra in quest'anno fra i Pavesi e Novaresi collegati, e il comune di Milano.

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Anno di Cristo mcclxxv. Indizione III.
Gregorio X papa 5.
Ridolfo re de' Romani 3.

Gran voglia nudriva Alfonso re di Castiglia di abboccarsi col pontefice Gregorio X, e ne fece varie istanze, affine di far valere le sue pretensioni sopra il regno d'Italia [Vita Gregorii X, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Il papa, che già era tutto per l'eletto e coronato re Ridolfo, premendogli di quetare il re castigliano, e di metter fine a queste differenze, si portò apposta a Beaucaire in Linguadoca, dove venne a trovarlo Alfonso. Sfoderò egli tutte quante le sue ragioni sopra il romano imperio, e si lamentò del papa che avesse approvato, in competenza di lui, il re Ridolfo. Ma il pontefice anch'egli allegò le sue; e queste unite alla di lui costanza, dopo un dibattimento di parecchi dì, indussero il re a fare un'ampia rinunzia delle sue pretensioni, e se ne tornò in Ispagna. Scrivono altri ch'egli ne partì disgustato. Comunque sia, o si pentisse egli della rinunzia fatta, o non la facesse, certo è che, ritornato a casa, assunse il titolo d'imperadore, e manteneva corrispondenze in Italia in specialmente col marchese di Monferrato suo genero. Ma altro ci voleva a conquistar l'Italia, che Io starsene colle mani alla cintola in Ispagna, per veder quando facea la luna. Il papa, informato de' suoi andamenti, gli fece sapere all'orecchio, che se non desisteva, avrebbe adoperate le censure contra di lui; al qual suono egli abbassò la testa, e s'accomodò ai voleri del pontefice. Egualmente desiderava Ridolfo re de' Romani un abboccamento con papa Gregorio [Annal. Colmar. Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital. Bernardus Guid.]. Fu scelta a questo oggetto la città di Losanna, dove arrivò nel dì 6 d'ottobre esso papa, e comparve nel dì di san Luca anche Ridolfo. Restò ivi concertato che il re nell'anno seguente con [111] due mila cavalli venisse a prendere la corona imperiale per la festa d'Ognisanti. Si trattò della crociata, e, secondo alcuni storici, allora solamente fu che Ridolfo colla regina sua moglie prese la croce. Furono di nuovo confermati alla santa Sede tutti gli Stati, con particolar menzione della Romagna e dell'esarcato di Ravenna. Sen venne poscia il buon pontefice a Milano verso la metà di novembre, e quivi si lasciò vedere in pubblico. Grandi carezze ed onori gli fecero i Torriani, e riuscì loro di staccarlo dalla protezion dell'arcivescovo Ottone; di maniera che, partito da Milano il papa, con lasciare in isola esso arcivescovo, questi come disperato si ritirò a Biella. Nel dì 22 di novembre arrivò il pontefice a Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] sua patria, e vi si fermò alquanti giorni per rimettere la quiete e pace in quella città. Nel dì 5 di dicembre alloggiò una sola notte in Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rerum Ital.], e, continuato il viaggio, arrivò a Firenze [Ricordano Malaspina, cap. 202.]. Non volea passare per quella città, perchè allora sottoposta all'interdetto; ma fattogli credere che, essendo l'Arno troppo grosso, non si potea valicare, se non valendosi de' ponti di Firenze, passò per colà, e benedisse quanti furono a vederlo passare; ma, appena uscito, replicò l'interdetto e le scomuniche contra de' Fiorentini. Tolomeo da Lucca [Ptolomaeus Lucens. Annal. Brev., tom. 11 Rer. Ital.] scrive che egli si fermò per un mese a Firenze, per trattar di pace fra que' cittadini. Ma non può stare, avuto riguardo alla sua entrata in Firenze e al tempo di sua morte. Andò finalmente a far la sua posata in Arezzo.

Trovandosi assai disordinata la cronologia dei fatti di Milano in questi tempi, tanto presso Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 301.] che negli Annali di Milano [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], non si può ben accertare quel che succede nell'anno [112] presente in quelle parti. Abbiamo dalla Cronica di Piacenza, che i Pavesi colle loro amistà cavalcarono ai danni di Milano per le gagliarde istanze de' capitani e valvassori, ossia de' fuorusciti di quella città. Il conte Ubertino Lando con cento cavalieri fuorusciti di Piacenza andò ad unirsi con loro. E questa verisimilmente è la guerra descritta dal Corio. Per attestato di lui, i Pavesi, Novaresi e i nobili usciti di Milano cogli Spagnuoli sul principio del presente anno s'impadronirono del nuovo ponte fabbricato dai Milanesi sul Ticino. Per cagione di tali movimenti, e per timore di peggio, i Torriani nel dì diciannovesimo di gennaio strinsero lega cogli ambasciatori di Lodi, Como, Piacenza, Cremona, Parma, Modena, Reggio, Crema e fuorusciti di Novara. Ma questo non impedì i progressi de' Pavesi e de' lor collegati, imperciocchè presero alcune castella de' Milanesi, e diedero loro altre spelazzate che si possono leggere presso il suddetto Corio. Fu scoperto in Piacenza un trattato del conte Ubertino Lando, capo degli usciti, per rientrare in quella città: il che costò la vita oppur varii tormenti a molti, e non pochi si fuggirono di Piacenza.

Appena venne il tempo da poter uscire in campagna, che l'infellonito popolo guelfo di Bologna fece oste contra de' propri nazionali, cioè contra de' Lambertazzi ghibellini rifugiati in Faenza [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annales Bonon., tom. 18 Rer. Ital.]. Giunsero fino alle porte di quella città, in tempo che i Faentini cogli usciti Bolognesi erano andati per liberare alcune castella occupate dai nemici. Nel tornarsene costoro a Faenza, scontrarono al ponte di San Procolo, due miglia lungi da quella città, l'armata bolognese, e, trovandosi tagliati fuori, per necessità vennero a battaglia. Menarono così ben le mani, che andò in rotta il campo de' Bolognesi, e vi furono non pochi morti, feriti e presi. La vergogna e rabbia di tal percossa fu cagione che i Bolognesi, vogliosi [113] di rifarsi, chiamate in aiuto tutte le loro amistà di Parma, Modena, Reggio e Ferrara, formarono un potentissimo esercito, di cui fu generale Malatesta da Verucchio, cittadino potente di Rimini. Preparandosi anche i Faentini per ben riceverli, essendo accorso in loro aiuto il popolo di Forlì; e scelsero per lor capitano Guido conte di Montefeltro, il più accorto e valoroso condottier d'armi che in que' dì avesse l'Italia. Fino al ponte di San Procolo arrivò il poderoso esercito de' Bolognesi, e cominciò a dare il guasto al paese. Allora il prode conte Guido mandò a sfidare il Malatesta capitano de' Bolognesi; e però, scelto il luogo e ordinate le schiere, nel dì 13 di giugno si diede principio ad una fiera battaglia. Ricobaldo [Richobaldus, in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.] non fa menzione di sfida, ma bensì, che osservata dal conte Guido la troppa confidenza e mala capitaneria de' nemici, andò ad assalirli. Tale fu l'empito e la bravura de' Faentini e de' fuorusciti Bolognesi, che fu messa in fuga la cavalleria nemica, colla morte e prigionia di molti. Allora l'abbandonata fanteria diede anche essa alle gambe. Circa quattro mila d'essi fanti si ristrinsero alla difesa del carroccio; ma attorniati e balestrati dal vittorioso esercito de' Faentini e Forlivesi, furono obbligati a rendersi prigionieri senza colpo di spada. De' soli Bolognesi restarono sul campo più di tre mila e trecento persone, e vi morirono assaissimi nobili e plebei degli altri collegati. Ascese a molte migliaia il numero dei prigioni, ed immenso fu il bottino di padiglioni, tende carriaggi ed altri arnesi, per li quali ricchi ed allegri i vittoriosi se ne tornarono a Faenza. A queste disavventure ne tennero dietro dell'altre. Cervia, per tradimento tolta all'ubbidienza de' Bolognesi, si diede al comune di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.]. Cesena fece anch'essa dei patti coi vincitori. E i Lambertazzi s'impadronirono di varie castella del Bolognese; [114] con che s'infievolì di molto la potenza di Bologna, che faceva in addietro paura a tutti i vicini. Di questa congiuntura profittò anche Guido Novello da Polenta, ricco cittadin di Ravenna [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6. Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.], perchè, entrato in quella città, se ne fece signore con iscacciarne i Traversari e gli altri suoi avversarii. I Guelfi di Toscana [Ricordano Malaspina, cap. 201. Ptolomaeus Lucens., Annales brev., tom. 11 Rer. Ital.], cioè i Fiorentini, Lucchesi, Sanesi, Pistoiesi ed altri, col vicario del re Carlo, fecero oste in quest'anno nel mese di settembre contro i Pisani, e, dopo averli sconfitti ad Asciano, presero quel castello. Abbiamo ancora dalla Cronica di Sagazio Gazata [Gazata, in Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] e dal Corio [Corio, Istoria di Milano.], e da altri documenti di questi tempi, che il re Ridolfo spedì in quest'anno Ridolfo suo cancelliere in Italia alle città di Milano, Cremona, Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Crema, Lodi ed altre, nelle quali fece giurare a que' popoli l'osservanza de' precetti della Chiesa e la fedeltà all'imperadore. Seco era Guglielmo vescovo di Ferrara legato apostolico. E questo giuramento prestarono ad esso Ridolfo anche le città della Romagna [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], giacchè il re Ridolfo, nel confermare i privilegii alla Chiesa romana, protestò di farlo sine demembratione imperii; e la Romagna da più secoli dipendeva dai soli imperadori o re d'Italia, siccome fu altrove provato [Piena Esposizione dei Diritti Cesarei ed Estensi sopra Comacchio.]. Mancò di vita in questo anno nel dì 16 d'agosto Lorenzo Tiepolo doge di Venezia, e in luogo suo restò eletto Jacopo Contareno [Dandul., in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.]. Sotto il suo governo ebbero i Veneziani lunga guerra cogli Anconitani, e più d'una volta la lor armata navale fu all'assedio di quella città, ma con poco onore e profitto.

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Anno di Cristo mcclxxvi. Indizione IV.
Innocenzo V papa 1.
Adriano V papa 1.
Giovanni XXI papa 1.
Ridolfo re de' Romani 4.

Un ottimo pontefice, pontefice di sante intenzioni, mancò in quest'anno alla Chiesa di Dio. Cioè infermatosi in Arezzo papa Gregorio X nel dì 10 di gennaio, allorchè più v'era bisogno di lui per compiere la crociata in Oriente, diede fine ai suoi giorni [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital. Bernard. Guid. Raynald., in Annal. Ecclesiast.]. Siccome la vita sua era stata illustre per la santità de' costumi, così la morte sua fu onorata da Dio con molte miracolose guarigioni d'infermi per intercessione sua: laonde si meritò il titolo di beato. Chiusi in conclave i cardinali, secondo la costituzione fatta dal medesimo defunto pontefice nel concilio di Lione, vennero nel dì 21 d'esso gennaio all'elezione di un nuovo pontefice. Cadde questa nel cardinal Pietro da Tarantasia dell'ordine de' Predicatori, vescovo d'Ostia e teologo insigne, il qual prese il nome d'Innocenzo V. Passò egli da Arezzo a Roma, dove fu coronato, e portossi poi ad abitare nel palazzo lateranense. Avendogli spedita i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Ital.] una nobile ambasceria, tanto si adoperò il buon pontefice, benchè malato, che conchiuse pace fra il cardinale Ottobuono del Fiesco e i fuorusciti di Genova dall'una parte, e il comune di Genova dall'altra. Ma mentre egli andava disponendo di far molte imprese in servigio della Chiesa di Dio, la morte il rapì nel dì 22 di giugno. Pertanto, in un nuovo conclave raunati i cardinali, elessero papa nel dì 12 di luglio il suddetto Ottobuono del Fiesco Genovese, cardinal diacono di Santo Adriano, nipote d'Innocenzo IV, il quale assunse il nome d'Adriano V, e levò tosto l'interdetto da [116] Genova patria sua. Era egli vecchio ed infermiccio; però, venuto a Viterbo per cercare miglior aria della romana nella state, quivi nel dì 18 d'agosto trovò la morte, senza essere passato al sacerdozio e senza aver ricevuta la consecrazione e corona. Furono dunque duramente rinserrati dal popolo di Viterbo in un conclave i cardinali [Bernardus Guid. Ptolomaeus Lucens. et alii.], e questi, se non vollero morir di fame, si accordarono nel dì 13 di settembre ad eleggere papa Pietro figliuol di Giuliano, di nazion Portoghese, nato in Lisbona, comunemente chiamato Pietro Ispano, cardinal vescovo tuscolano, uomo di molta letteratura, sì nella filosofia aristotelica alla moda secca de' suoi tempi, che nella medicina. Questi prese il nome di Giovanni XXI, benchè dovesse dirsi Giovanni XX; e, portatosi a Roma, fu coronato colla tiara pontificia [Raynald., in Annal. Ecclesiast. Martinus Polonus.]. Annullò egli la costituzion di papa Gregorio X intorno al conclave, che il suo antecessore avea sospesa, e rinnovò le scomuniche e gli interdetti contra de' Veronesi e Pavesi, i più costanti nel ghibellinismo. La Cronica di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], seguitando, a mio credere, le dicerie del volgo, ha le seguenti parole: Papae quatuor mortui, duo divino judicio, et duo veneno exhausto.

Tengo io per fermo che le avventure di Ottone Visconte, narrate da Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 311.] e dall'autore degli Annali Milanesi [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.] sotto l'anno precedente, appartengano al presente: del che parimente si avvide il Sigonio [Sigon., de Regn. Ital.]. Dappoichè si fu esso Ottone arcivescovo di Milano ritirato a Biella, i nobili fuorusciti di Milano, trovandosi come disperati, si ridussero a Pavia, dove indussero Gotifredo conte di Langusco ad essere loro capitano, con fargli sperare la signoria [117] di Milano. Alla vista di così ingordo guadagno assunse egli ben volentieri il baston del comando; e, con quante forze potè, passato sul lago Maggiore, s'impadronì delle due terre e rocche di Arona ed Anghiera. Unironsi anche i popoli delle circonvicine valli con lui. Venne perciò Casson dalla Torre co' Tedeschi, inviati a Milano dal re Ridolfo, e con altre soldatesche all'assedio d'Anghiera e d'Arona, con riacquistar quelle terre e rocche. Durante l'assedio d'essa Anghiera, volendo il conte di Langusco dar soccorso agii assediati, vi restò prigioniere con assai nobili fuorusciti di Milano. Condotti questi a Gallerate [Stephanard., Poem., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.], quivi con orrida barbarie a trentaquattro di essi fu mozzo il capo: e fra questi infelici si contò Teobaldo Visconte, nipote dell'arcivescovo Ottone, e padre di Matteo Magno Visconte, di cui avremo molto a parlare. Si accorò a questa nuova l'arcivescovo Ottone, e gridò: Perchè non ho perduto io piuttosto l'arcivescovato, che un sì caro nipote? Poscia, venuto a Vercelli, trovò quivi la nobiltà fuoruscita, che il pregò d'essere lor capo e generale d'armata. Se ne scusò con dire che non conveniva ad un vescovo il vendicarsi, ma bensì il perdonare; nulladimeno s'eglino avessero deposti gli odii e l'ire, avrebbe assunto il comando. Ito con essi a Novara, ed ammassata gran gente, venne ad impadronirsi del castello di Seprio. Finì in male questa impresa, perchè da' Torriani fu disperso l'esercito suo, ed, essendo egli fuggito a Como, gli furono serrate le porte in faccia. Ridottosi a Canobio sul lago Maggiore, tanto perorò, tanto promise, che tirò quel popolo ed altri a formare una picciola flotta di barche, colle quali prese Anghiera, ed imprese l'assedio d'Arona, al quale per terra accorsero anche i Pavesi e Novaresi col marchese di Monferrato. Ma sopraggiunto Casson dalla Torre coi Tedeschi e con tutto il popolo di Milano, il fece ben tosto sloggiare, e spogliò il campo [118] loro. Se ne fuggì Simon da Locarno colle barche; e questi, andato poi, per ordine dell'intrepido Ottone, a Como, per veder di muovere quel popolo in aiuto suo, destramente accese la discordia fra i Comaschi, volendo l'una parte col vescovo della città aiutar l'arcivescovo, e r altra stare unita coi Torriani. Si venne alle mani; lungo fu il combattimento; ma in fine prevalsero i fautori del Visconte, e furono scacciati gli aderenti alla casa della Torre [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Ricevuta questa lieta nuova, l'arcivescovo Ottone volò a Como, e quivi attese a prepararsi per cose più grandi.

I maneggi del conte Ubertino Landò, gran ghibellino e capo de' nobili fuorusciti di Piacenza, ebbero in quest'anno esito felice [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Imperciocchè amichevolmente con onore fu ricevuto in quella città, e solennemente giurata concordia e pace fra il popolo e la nobiltà. Anche in Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] fu conchiuso accordo tra la fazion dominante de' Rangoni e Boschetti, e l'altra de' Grassoni, da Sassuolo e da Savignano usciti, la quale rientrò nella città. Riuscì in quest'anno al popolo guelfo di Bologna di ricuperar Loiano e varie altre castella occupate dagli avversarii Lambertazzi: il che fece crescere il coraggio ai cittadini dopo le tante passate disgrazie. Tornarono i Fiorentini [Ricord. Malaspina, cap. 205.], Lucchesi, ed altri Guelfi di Toscana a far oste contra de' Pisani ghibellini. Aveano questi tirato un gran fosso, lungo otto miglia, poco di là dal ponte d'Era, per difesa dei loro territorio, e fortificatolo con isteccati e bertesche. Chiamavasi il Fosso Arnonico. Ma trovarono modo i Guelfi di valicarlo e di dare addosso ai Pisani, i quali si raccomandarono alle gambe; e tal fu la loro paura, che dimandarono di capitolare. Seguì dunque pace fra que' popoli, con [119] aver dovuto i Pisani rimettere in città il conte Ugolino con tutte le altre famiglie guelfe già sbandite, e restituire Castiglione e Cotrone ai Lucchesi, con altri patti [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital. Chronic. Parmense, tom. 9 Rer. Italic.]. Mediatori di questa pace furono due legati del papa e gli ambasciatori di Carlo re di Sicilia. In questa maniera si pacificarono ancora i Pisani coi Genovesi. Ad una voce tutte le croniche asseriscono che memorabile fu l'anno presente per le pubbliche calamità della Lombardia. Si fece sentire un grave tremuoto; le pioggie per quattro mesi furono dirotte, di maniera che tutti i fiumi traboccarono fuori del loro letto, e inondarono le campagne con mortalità di molte persone e di bestie assaissime [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital. Chronicon Placentin. Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.]. Si tirò dietro questo disordine. L'altro del non poter seminare, e del guastarsi le biade di chi pur volle metterle in terra. Per mancanza dell'erbe un'infinità di bestie perì; e le povere genti, estenuate dalla fame, si dispersero per la terra, cercando come poter fuggire la morte. Cadde per giunta a tanti guai nella vigilia di santo Andrea una smisurata neve, che durò in terra sino al dì primo d'aprile dell'anno seguente. In somma se i popoli divisi combattevano l'un contra l'altro, anche il cielo facea guerra a tutti. Nè si dee tralasciare che Guido conte di Montefeltro [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] coi Forlivesi e Faentini costrinse coll'assedio la terra di Bagnacavallo a rendersi al comune di Forlì. Ma in essa città di Forlì Paganino degli Argogliosi e Guglielmo degli Ordelaffi, de' principali d'essa città, passando di buona intelligenza co' Bolognesi [Chronic. Caesen., tom. 14 Rer. Italic.], tentarono di farvi mutazione di stato; e una notte a questo fine attaccarono il fuoco al palazzo del pubblico. Ma, accorso il popolo, nè potendo essi resistere alla piena, se ne fuggirono cogli altri [120] Guelfi a Firenze, dove si studiarono di sommuovere quel comune contra di Forlì. Secondo la Cronica di Parma, l'uscita dei Guelfi da Forlì accadde nell'anno seguente.


   
Anno di Cristo mcclxxvii. Indizione V.
Niccolò III papa 1.
Ridolfo re de' Romani 5.

Soggiornava papa Giovanni XXI in Viterbo, e non solo sperava, ma si prometteva con franchezza una lunga vita, e se ne lasciava intendere con chiunque trattava con lui; ma questi conti gli andarono falliti [Ptolomaeus Lucensis, Nangius. Raynaldus, Annal. Eccles.]. S'era egli fatta fabbricare una bella camera presso al palazzo della città. Questa gli cadde un giorno, oppure una notte, addosso, e da quella rovina restò sì mal concio, che da lì a sei giorni, cioè nel dì 16 di maggio, oppure nel seguente, finì di vivere. Se si eccettua la sua affabilità con tutti, e la sua liberalità verso i letterati, massimamente poveri, nel resto egli ci vien dipinto dagli scrittori come uomo pieno di vanità, che nelle parole e ne' costumi non mostrava prudenza e discrezione, e spezialmente ebbe un difetto che non se gli può perdonare [Ptolomaeus Lucensis, Hist. Eccles.]: cioè amava egli poco i monaci e i frati; e dicono, che se Dio nol levava presto dal mondo (e fu creduto anche che il levasse per questo), egli era per pubblicare qualche decreto contra di loro. Potrebbe ciò far sospettare che le penne de' religiosi, dai quali unicamente abbiamo le poche memorie della sua vita, avessero oltre il dovere aggravata la fama di questo pontefice [Siffridus, in Chron.], con giugnere fino a dire, aver egli scritto un libro pieno d'eresie: cosa manifestamente falsa, e non saputa da alcuno degli Italiani. Durò la vacanza della santa Sede sei mesi, e in questo mentre insorsero delle differenze fra Ridolfo re dei [121] Romani e Carlo re di Sicilia. Con tutte le belle promesse fatte dall'ultimo di rilasciar tutto ciò che spettava all'imperio, dappoichè fosse eletto ed approvato dalla santa Sede un re de' Romani od un imperadore, non dovette egli permettere che i popoli della Toscana, della quale s'intitolava vicario, prestassero il giuramento di fedeltà ad esso re Ridolfo; ed essendo tuttavia senator di Roma, non gli piacea che alcun venisse a prender ivi la corona [Raynald., in Annal. Eccl.]. Nacque perciò nebbia di rancore fra questi due principi; e perciocchè Ridolfo si preparava per calare in Italia, il sacro collegio de' cardinali il pregò di sospendere la sua venuta, finchè fosse stabilita una buona concordia fra lui e il re Carlo. Finalmente nel dì 25 di novembre, festa di santa Caterina, i primi discordi cardinali, stretti dal popolo di Viterbo, concorsero coi lor voti nell'elezione di Giovanni Gaetano della nobil casa degli Orsini Romani, cardinal diacono di San Niccolò in Carcere Tulliano [Ptolomaeus Lucens, Hist. Eccles., tom. 11 Rer. Ital. Jordanus, in Chron. Memor. Potest. Regiens. Bernardus Guid.], personaggio d'animo grande e di non minore attività e prudenza, ed amatore dei religiosi, e soprattutto de' frati minori. Prese egli il nome di Niccolò III. Non tardò a passar colla sua corte a Roma, dove nella festa di santo Stefano fu ordinato prete, poi consecrato e coronato. Fece anch'egli sapere al re Ridolfo, se non erano prima acconce le sue differenze col re Carlo, che sospendesse la sua venuta in Italia, come si può credere, così imboccato dai ministri del re Carlo, il quale troppo gran mano allora avea nella corte pontificia, per non dire ch'egli vi facea da padrone.

Dacchè fu in Como Ottone Visconte arcivescovo di Milano, dichiarò capitano de' nobili milanesi fuorusciti Riccardo conte di Lomello, il quale venne a trovarlo con grossa cavalleria e fanteria di [122] Pavesi e Novaresi [Gualvaneus Flamma, Manip. Flor., cap. 313. Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Stephanard., Poem., tom. 9 Rer. Ital.]. Unito questo gagliardo rinforzo coi Comaschi, dopo la presa di Lecco e d'altre castella, passò l'arcivescovo colla sua armata alla terra di Desio. Allora i Torriani con potente esercito di cavalli e pedoni mossero da Milano, e vennero per fermare il corso dell'armata nemica. Si attaccò nel dì 21 di gennaio, festa di sant'Agnese, una atroce e sanguinosa battaglia; ma perciocchè chiunque militava dalla parte dell'arcivescovo, dicea daddovero, laddove da quella de' Torriani molti non per genio, ma per non poter di meno, aveano prese l'armi, in fine la vittoria si dichiarò favorevole all'arcivescovo. Non solamente rimase sconfitto l'esercito dei Torriani, ma molti di loro stessi vennero alle mani de' Comaschi, che poi li rinserrarono nelle carceri di Monte Baradello. Fra questi si contò lo stesso Napo ossia Napoleone signor di Milano, Mosca suo figliuolo. Guido, Herech ossia Rocco, Lombardo e Carnevale. Francesco dalla Torre, ch'era il secondo padrone di Milano, restò ucciso da' villani. Non fu a tempo per intervenire a questo fatto di armi Cassone ossia Gastone dalla Torre figliuolo del suddetto Napo, che con cinquecento cavalli si trovava a Cantù. Ma, udita ch'egli ebbe l'infausta nuova della rotta de' suoi, senza perdere tempo, spronò alla volta di Milano, dove trovò le porte chiuse. Entrato per forza, vide un altro doloroso spettacolo, cioè il popolo che dava il sacco alla casa sua e de' suoi parenti, e stava in gran copia armato al Broletto. Volle scacciare il popolaccio intento al saccheggio, e ne ammazzò anche molti; ma scorgendo che la gente della città non gli prestava più nè ubbidienza nè aiuto, anzi, temendo d'esser sopraffatto dalla moltitudine, uscì della città, e cavalcò verso Lodi. Ivi ancora trovò mutata la fortuna, perchè i Lodigiani [123] gli serrarono le porte in faccia: laonde si ritirò a Cremona, e dagli stessi Cremonesi fu pregato di andarsene, e però si trasferì a Parma.

Ottone arcivescovo, dopo aver salvata la vita a Napo dalla Torre, s'inviò col vittorioso esercito alla volta di Milano. Gli venne incontro processionalmente il clero e popolo, gridando: Pace, pace. Ed ebbero pace infatti, perchè Ottone diede rigorosi ordini che niuna vendetta facessero i nobili, nè fosse recato male o danno alcuno alle persone e robe dei cittadini. Visitò prima d'ogni altra cosa la Basilica Ambrosiana, e poi, di comune consenso del popolo e de' nobili, fu acclamato signor di Milano nel temporale. Fecero oste i Pavesi nell'aprile e maggio al castello della Pietra [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], dove si erano afforzati i nobili fuorusciti della loro città che tenevano la parte della Chiesa, cioè la guelfa. Colà ancora in aiuto dei Pavesi si portarono i Milanesi col loro carroccio, e col rinforzo d'altre città ghibelline. Ma per essere venuta in soccorso degli assediati tutta la milizia di Parma con assai cavalleria spedita da Reggio, Modena e Brescia, fu d'uopo che gli assedianti si ritirassero con poco lor gusto. Mirabil cosa è il vedere come in questi tempi fossero sempre in moto le milizie delle città libere, e or qua or là per propria difesa, o per sostenere i collegati o la loro fazione. Interpostisi poi varii pacieri, nel dì 15 di novembre si conchiuse concordia e pace fra gli usciti di Pavia e le comunità di Cremona ed Alessandria dall'una parte, e il comune di Pavia e il marchese di Monferrato dall'altra: con che furono rilasciati tutti i prigioni. Alcuni masnadieri banditi da Parma e Cremona occuparono Guastalla, che era in questi tempi sotto il dominio di Cremona; ma, essendovi prestamente accorsi gli uomini di Castel Gualtieri, fu ricuperata quella terra, e condotti quei malfattori incatenati a Cremona. Erano [124] marciati alla volta di Ravenna secento cavalieri, ch'erano al soldo di Bologna [Annal. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], con sessanta altri di quei cittadini, per portare una buona somma di danaro a quella città. Assaliti per istrada dai Lambertazzi, ne restarono cento sul campo, e circa ducento presi col danaro furono condotti nelle carceri di Faenza. Essendosi ritirati a Firenze i Guelfi usciti di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], cominciarono una tela coi Fiorentini e coi Geremii guelfi dominanti in Bologna, facendo loro infallibilmente sperare l'acquisto della città di Forlì. Entrarono a braccia aperte in questo trattato essi Geremii, ed inviarono a Firenze per ostaggi venticinque figliuoli de' nobili. Impegnarono anche per due anni le gabelle per pagar la gente che si assoldava. Il podestà di Parma con tutta la milizia di quella città, e ducento cavalieri reggiani ed altrettanti modenesi vennero in servigio d'essi Bolognesi. Quattrocento pure Ravegnani andarono ad unirsi con loro. Marciò quest'armata nel dì 4 di ottobre ad Imola; e nello stesso tempo il conte Guido Selvatico da Dovadola, capitano de' soldati ammassati in Firenze e de' fuorusciti di Forlì, passò di qua dall'Apennino, e prese molte castella dei Forlivesi. Ribellaronsi allora a Forlì molti castellani, e si fortificarono spezialmente in Civitella e Valbona. Per opporsi ai loro avanzamenti uscì in campagna il conte Guido da Montefeltro coi Forlivesi, e nel dì 14 di novembre a forza di armi ricuperò Civitella: il che bastò a mettere tal paura nel conte Selvatico e ne' Fiorentini, che, lasciando indietro molti cavalli, arnesi ed equipaggio, più che in fretta ripassarono l'Apennino. Intanto i Bolognesi da Imola s'erano inoltrati sino al ponte di San Procolo; ma, intesa la ritirata de' Fiorentini, giudicarono saviezza il ritornarsene anch'eglino a casa. Era signor di Verona in questi tempi Mastino dalla Scala. Contra di lui fu fatta una congiura da molti cittadini, [125] tutti annoverati da Parisio da Cereta [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Memoriale Potestat. Regiens., tom. eod.]; e costoro nel dì 17 di ottobre il fecero levar di vita da quattro assassini. A questo avviso Alberto dalla Scala suo fratello, che era allora podestà di Mantova [Chron. Placent, tom. 16 Rer. Ital.], colla cavalleria di quella città corse a Verona, nè dimenticò di far aspra vendetta de' congiurati, con restarvi tormentato ed ucciso chiunque gli cadde nelle mani. Gli altri che fuggirono ebbero il bando, e furono confiscati tutti i lor beni. Per volere di quel popolo succedette esso Alberto nel dominio di Verona. Pretende Albertino Mussato, storico padovano [Mussatus, Histor., lib. 10, Rubr. 2.], che gli Scaligeri, o vogliam dire i signori dalla Scala, venissero da bassi e sordidi progenitori, venditori di olio, essendo stato portato Mastino I dal favore della dominante plebe a così alto grado. Gli eruditi veronesi meglio di me sapran dire se ciò sussista. Posso ben io asserire che ancora in quest'anno provò la Lombardia [Chronic. Parmense.] un terribil caro di viveri ed inondazioni d'acque; fu inoltre una gran mortalità d'uomini e di bestiame per tutta l'Italia.


   
Anno di Cristo mcclxxviii. Indiz. VI.
Niccolò III papa 2.
Ridolfo re de' Romani 6.

A cose grandi tendevano i pensieri del romano pontefice Niccolò III. Il più strepitoso affare fu quello d'indurre Ridolfo re de' Romani a rilasciare il dominio e possesso della Romagna, allegando la donazione fattane alla Chiesa romana da Pippino re di Francia, e confermata poi da diversi susseguenti imperadori [Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital. Ricordano Malaspina. Giovanni Villani ed altri.]. Era da più secoli in uso, che, non ostante i diplomi e le donazioni o concessioni di quel paese, continuarono i re d'Italia e [126] gl'imperadori a ritenere il dominio dell'esarcato di Ravenna, senza che se ne lagnassero i romani pontefici: del che a me sono ascosi i motivi e le ragioni. Ora il magnanimo papa Niccolò fece di vigorose istanze al re Ridolfo per l'effettiva cessione della Romagna, non gli parendo conveniente che Ridolfo ritenesse come Stato dell'imperio quello che col suo stesso diploma dicea d'aver conceduto alla Chiesa di Roma. Gran dibattimento su questo vi fu; ma perchè Ridolfo non voleva inimicarsi un pontefice di sì grande animo, in tempo massimamente che era nata guerra fra lui ed Ottocaro formidabil re di Boemia e signore dell'Austria e Stiria; per timore ancora ch'esso papa non passasse a fomentare i disegni ambiziosi del re Carlo contra dell'imperio; e finalmente per liberarsi dalle censure, nelle quali era incorso, o si minacciava che voleansi fulminare contra di lui, sull'esempio di Federigo II, per non aver finora adempiuto il voto della crociata: certo è ch'egli forzato venne alla cession della Romagna in favore della Chiesa romana. E siccome Ridolfo spedì un suo uffiziale a metterne il papa in possesso, così il papa inviò i suoi legati a quelle città per farsi riconoscere signore e sovrano d'esse terre. Intorno a questo affare son da vedere gli Annali Ecclesiastici del Rinaldi [Raynald., in Annal. Ecclesiast.]. L'autore della Cronica di Parma [Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.] scrive che semper romani pontifices de republica aliquid volunt emungere, quum imperatores ad imperium assumuntur. Non si sa che Ferrara e Comacchio riconoscessero la sovranità pontificia. Bologna [Sigon., de Regno Ital., lib. 20.] la riconobbe, ma con certe condizioni e riserve. Alcune città si diedero liberamente al papa, altre negarono di farlo. Ma certo non cadde punto allora in pensiero alla corte di Roma di pretendere città dell'esarcato, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, come gli adulatori degli ultimi secoli incominciarono a [127] sognare o a fingere con ingiuria della verità patente.

L'altro grande affare, a cui s'applicò il pontefice, fu quello di abbassar la potenza di Carlo re di Sicilia. Covava egli in suo cuore non poco d'odio contra di lui. Ricordano Malaspina [Ricordano Malaspina, cap. 204. Giovanni Villani. S. Antonio.] ne attribuisce l'origine all'aver egli richiesta per moglie d'un suo nipote una nipote d'esso re Carlo, con riportarne la negativa, avendo risposto il re che non era degno il lignaggio d'un papa di mischiarsi col suo regale, perchè la di lui signoria non era ereditaria. Così almeno si disse; e che questo pontefice fosse appassionato forte per la esaltazione della sua famiglia, di maniera che alcuni l'hanno spacciato per autore del nepotismo, lo accennerò fra poco. Noi non falleremo credendo che ad esso papa dispiacesse forte la maniera tirannica, con cui il re Carlo governava la Puglia e Sicilia, e il mirarlo far da padrone in Roma, come senatore, con volere esso re raggirare a suo modo la corte pontificia, massimamente nell'occasion della sede vacante, essendosi detto che i suoi maneggi nell'ultimo conclave erano stati forti per impedir l'elezione del medesimo pontefice Niccolò, e per farla cadere in qualche cardinal franzese. Crebbe ancora la di lui avversione, perchè, trattandosi di riunir la Chiesa greca colla latina, il re Carlo, per sostener le pretensioni di Filippo suo genero all'imperio di Oriente, guastava tutte le orditure del papa, col dar fomento agli scismatici ribelli dell'imperador greco Michele Paleologo, principe inclinato all'unione e pace delle Chiese. La conclusione di tutto questo si è, che il papa indusse il re Carlo a rinunziare al vicariato della Toscana, per soddisfare alle premure del re Ridolfo, ed insieme al grado di senatore di Roma. Dopo di che fece una costituzione, [C. Fundamentum, de Election. in Sexto.], in cui, rammemorando la donazione, benchè falsa, di Costantino, proibisce da lì innanzi [128] l'esaltare al posto di senatore alcuno imperadore, re, principe, duca, marchese, conte e qualsivoglia persona potente. Calò la testa il re Carlo, perchè anch'egli temeva che, se ricalcitrasse, un papa di tanto nerbo gli rivolgesse contra l'armi del re Ridolfo e degl'Italiani.

Secondo la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], nel precedente anno i Torriani cacciati da Milano cominciarono la guerra contra di Otton Visconte, arcivescovo e signore di quella città. Nel mese di giugno entrò Casson dalla Torre co' suoi parenti in Lodi; alla qual nuova i Milanesi col carroccio, e i Pavesi anch'essi col carroccio loro si portarono ad assediar quella città. Ma venuto Raimondo dalla Torre patriarca d'Aquileia con un grosso corpo di cavalleria e di balestrieri furlani, con cui si uni la milizia di Cremona, Parma, Reggio e Modena, questo esercito fece levar quell'assedio. Nulla di ciò si legge presso gli storici milanesi sotto il suddetto precedente anno, perchè tali fatti son da riferire al presente, nel quale si sa che i Torriani fecero gran guerra a Milano [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 315. Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital.]. Casson dalla Torre, uomo d'intrepidezza mirabile, secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], entrò di maggio, siccome poco fa è detto, in Lodi con truppe tedesche e furlane e coi fuorusciti di Milano, e diede principio alle ostilità con iscorrere fino alle porte di Milano e far prigioni circa mille tra nobili e popolari. Atterrito da questo avvenimento Ottone arcivescovo, per rimediarvi e per rinforzare il partito suo, giudicò bene di condurre per capitano de' Milanesi Guglielmo marchese di Monferrato, principe di gran potenza. Imperciocchè, se è vero ciò che ha l'autore della Cronica di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], egli era capitano e signore anche di Pavia, Novara, Asti, Torino, Alba, Ivrea, Alessandria e Tortona, ed in questo [129] medesimo anno nel dì 3 di luglio ebbe la signoria di Casale di Monferrato per dedizion di quel popolo. Ma il capitanato di Pavia l'ebbe egli molto più tardi, e così d'altre città, siccome diremo. Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] cita lo strumento, con cui nel dì 16 d'agosto i Milanesi condussero per lor capitano esso marchese colla provvisione annuale di dieci mila lire, e di cento lire ogni giorno, per anni cinque avvenire. Venne il marchese a Milano con cinquecento uomini d'armi, e poi di settembre condusse tutte le forze sue e de' Milanesi e Pavesi contra di Lodi. Diede il guasto al paese, prese qualche castello di poca resistenza; ma, all'udire che i Cremonesi e Parmigiani, aiutati anche dai Reggiani e Modenesi, s'appressavano con grande sforzo in aiuto de' Torriani, se ne tornò bravamente a Milano. Abbiamo nondimeno da Galvano Fiamma che passarono male in questo anno gli affari de' Milanesi, perchè Casson dalla Torre prese Marignano, Triviglio, Caravaggio ed altri luoghi; ridusse quasi in cenere Crema, diede il guasto al territorio di Pavia; altrettanto fece all'isola dì Fulcherio; ed ebbe tal coraggio, che con una scorreria arrivò fin sotto Milano, e scagliò l'asta sua contra di porta Ticinese. Nel dì 10 d'agosto s'impadronì ancora di Cassano e di Vavrio, e menò da ogni parte gran quantità di prigioni: cose tutte che obbligarono Ottone arcivescovo e i Milanesi, siccome abbiam detto, a chiamare Guglielmo marchese di Monferrato, e a dargli la bacchetta del comando militare. In queste liti fra i Milanesi e Torriani non si vollero mischiare i Piacentini.

Spedì in quest'anno il pontefice Niccolò III a Bologna fra Latino dell'ordine de' Predicatori, suo nipote, cioè figliuolo di una sua sorella, cardinale vescovo di Ostia e legato della Romagna, Marca, Lombardia e Toscana, acciocchè trattasse di pace fra le città di quelle contrade e fra i Geremii e i Lambertazzi [130] usciti di Bologna. Così calde furono intorno a ciò le premure del papa, così efficaci i maneggi del cardinale legato e di Bertoldo Orsino conte della Romagna, fratello d'esso papa [Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic. Ghirardacci, Istor. di Bologna. Sigon., de Regno Ital., lib. 20.], che, quantunque s'incontrassero di molte opposizioni, pure si disposero gli animi a ricevere la concordia, a cui si venne poi nell'anno seguente, siccome appresso diremo. Passò dipoi in Toscana [Ricordano Malaspina, cap. 205.] il medesimo cardinale Latino, ed entrò in Firenze nel dì 8 di ottobre, con porre anche ivi le fondamenta della pace, che seguì nell'anno vegnente fra i Guelfi e i Ghibellini. Ebbero nel presente guerra i Padovani coi Veronesi [Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Italic.], e coll'esercito si portarono all'assedio della terra di Cologna. Uniti con esso loro furono a questa impresa i Vicentini sudditi, ed Obizzo [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] marchese d'Este e signor di Ferrara, il quale, siccome collegato, oppur come principale, andò colle sue genti in aiuto loro. Durò quell'assedio quarantadue giorni; in fine l'ebbero a patti, e sembra che la restituissero al suddetto marchese, i cui antenati ne erano stati padroni. Dagli Annali Ecclesiastici abbiamo [Raynaldus, in Annal. Eccl., num. 77.] che il pontefice Niccolò stese il suo desiderio della pace non solo alle città della Romagna, ma anche a quelle della Lombardia, con aver data facoltà a' suoi ministri di assolvere dalle censure e liberar dall'interdetto il conte Guido di Montefeltro, il marchese di Monferrato, le città d'Asti, Novara, Vercelli, Pavia e Verona, purchè giurassero di sottomettersi ai comandamenti del papa. Non piacevano già al re Carlo questi passi, perchè egli tendeva ad esser l'arbitro dell'Italia, e il papa molto più di lui pretendeva a questa gloria. Nè si dee tacere che in quest'anno [Æneas Silvius, in Hist. Austr. Stero, in Annalib. Chron. Colmar.], essendo [131] receduto Ottocaro superbo e potente re di Boemia dalla convenzione stipulata con Ridolfo re de' Romani per gli affari del ducato d'Austria, ed avendo già ricominciata la guerra contra di lui, nel dì 26 d'agosto si venne ad un fierissimo fatto d'armi fra i due nemici eserciti in vicinanza di Vienna. Restò sconfitta l'armata boema, e lo stesso re Ottocaro vi lasciò la vita: per così gloriosa vittoria altamente crebbe in credito a potenza il re Ridolfo.


   
Anno di Cristo mcclxxix. Indiz. VII.
Niccolò III papa 3.
Ridolfo re de' Romani 7.

Per opera del cardinale Latino legato apostolico, e di Bertoldo Orsino conte di Romagna, seguì nell'anno presente pace e concordia fra i Geremii guelfi signoreggianti in Bologna [Matth. de Griffonib., tom. 18 Rer. Italic. Sigonius, de Regno Ital. Ghirardacci, Istor. di Bologna.] e i Lambertazzi ghibellini fuorusciti. Rientrarono questi ultimi nella patria nel dì 2 agosto, e nel dì 4 si fece una solenne riconciliazione delle medesime fazioni, con feste grandi ed universale allegrezza. Anche in Faenza il suddetto cardinale legato accordò insieme gli Accarisi coi Manfredi fuorusciti e i lor seguaci. Parimente in Ravenna il conte Bertoldo colla pace conchiusa fra i Polentani e i Traversari [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] rimise la quiete. Ma non andò molto che in Bologna si sconcertarono di nuovo gli affari per quel maledetto veleno che infettava allora universalmente il cuore degl'Italiani. Truovo io qui dell'imbroglio, forse nato dall'anno pisano, adoperato da qualche storico. Il Sigonio (se pure fin qui egli giunse colla sua storia) differisce [Sigonius, de Regno Ital., lib. 20.] l'entrata de' Lambertazzi in quella città, e la lor replicata uscita sino all'anno seguente: nel che vien egli seguitato dal Ghirardacci. Per lo contrario, [132] Ricobaldo [Richob., in Pom., tom. 9 Rer. Ital.], storico di questi tempi, l'autore della Cronica di Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], anch'esso contemporaneo, Matteo Griffone [Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], frate Francesco Pipino [Pipinus, Chron. Bononiens., tom. 9 Rer. Italic.], gli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] e la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] concordemente scrivono che nell'anno presente tornarono i Lambertazzi in Bologna, e poscia nel mese di dicembre di nuovo si riaccese la guerra civile fra essi e la contraria fazione de' Geremii. Per lo che pare da anteporre questa sentenza all'altre. Tuttavia la Cronica di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], che sembra molto esatta, la Miscella di Bologna e gli Annali di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] vanno d'accordo col Sigonio. Sia come esser si voglia, o fosse la troppa alterigia dei Lambertazzi, oppur la durezza degli altri nel non volerli ammettere ai pubblici uffizii, tengo io per fermo che, correndo il dì 20 ovvero 21 di dicembre (altri dicono nella vigilia del Natale) dell'anno presente, si levò rumore in Bologna; e i Lambertazzi furono i primi a prendere l'armi con impadronirsi della piazza, ed uccidere chiunque de' Geremii veniva loro alle mani, e con attaccar fuoco a una casa de' Lambertini. Allora i Geremii, fanti e cavalli raunati, vennero al conflitto, e sì virilmente assalirono gli avversarii, che li misero finalmente in rotta, e gli obbligarono a fuggirsene di città. Molti dall'una parte e dall'altra rimasero morti; e dappoichè furono usciti i Lambertazzi, le lor case (e queste furono in gran copia) pagarono la pena de' lor padroni, con restare spogliate, e poscia distrutte: costume pazzo di tempi sì barbari; che non merita già altro nome il voler gastigare le insensate mura, e il deformare la propria città, per far dispetto [133] e danno agli usciti suoi fratelli. Si rifugiarono di nuovo gli usciti Lambertazzi in Faenza, e tornò come prima a rinvigorirsi la guerra fra essi e Bologna. Si erano mossi i Modenesi, Reggiani e Parmigiani, per soccorrere in questa occasione la fazion de' Geremii; ma non vi fu bisogno del loro aiuto. Mirava Guglielmo marchese di Monferrato, capitano del popolo di Milano, la difficoltà di abbattere colla forza i Torriani, i quali si erano ben fortificati in Lodi, aveano già prese parecchie terre e castella del Milanese, e teneano nelle lor carceri molte centinaia di Milanesi, e spezialmente nobili [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 316. Annales Mediolanenses, tom. 61 Rer. Ital. Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.]. Però, siccome volpe vecchia, ed uomo usato alle cabale, cercò per altra via di tagliar loro le penne. Ottenuta pertanto licenza da' Milanesi, mosse proposizioni segrete di aggiustamento con Cassone dalla Torre, e con Raimondo pure dalla Torre patriarca d'Aquileia. Restò conchiusa la pace nel mese di marzo, colla remissione dell'ingiurie e dei danni dati, colla vicendevol liberazione de' prigioni, e con patto che i luoghi presi sul Milanese si depositassero in mano di persone amiche, e si restituissero ai Torriani tutti i lor beni allodiali.

Ottenuto che ebbe il marchese quanto voleva, e massimamente i prigioni, si fece poi beffe dei Torriani, nè loro mantenne alcun patto [Ventura, Chron. Astense, cap. 13, tom. 11 Rer. Ital.], e poi ripigliò Trezzo e l'isola di Fulcherio. Con pubblico manifesto, mandato al papa, a tutti i re e principi, si dolsero i Torriani di questo tradimento; e perchè ne fecero gran doglianza col marchese stesso, ebbero per risposta, aver ben egli fatte quelle promesse, ma che andassero eglino a cercare chi loro le mantenesse, perchè egli a ciò non s'era obbligato. Tentò poscia il marchese con frodi di ricuperar altre castella: il che non gli venne fatto. Anzi [134] Gotifredo dalla Torre, con cinquecento cavalieri entrato nel castello d'Ozino, cominciò aspra guerra contro a' Milanesi, fece assaissimi prigioni, e diede presso Albairate una rotta al podestà ed esercito de' Pavesi. Ottone Visconte, veggendo così crescere le forze de' Torriani, ordinò al marchese di far venir dal Monferrato cinquecento fanti. Mise poi l'assedio al castello d'Ozino, che infine fu preso e diroccato. Abbiamo anche dalla Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], che esso marchese con tutta la possanza de' Milanesi cavalcò all'Adda con disegno di fare un letto nuovo a quel fiume, acciocchè non venisse a Lodi. Allora i Parmigiani con tutta la milizia andarono in aiuto dei Torriani a Lodi, dove erano anche i Cremonesi; nè di più vi volle, perchè il marchese, abbandonato il cavamento, si ritirasse con poco garbo a Milano. Essendo stata bruciata in Parma nel dì 19 di ottobre per sentenza dell'inquisitore una donna nomata Todesca, come eretica, una mano di cattivi uomini corse al convento dei frati predicatori, diede il sacco a quel luogo, percosse e ferì molti di quei religiosi, ed uno ne uccise vecchio e cieco: per la quale violenza i frati la mattina seguente colla croce inalberata se ne andarono da Parma a Firenze, per lamentarsene col cardinale Latino legato apostolico. Tennero lor dietro a Reggio, Modena e Bologna il podestà, il capitano, gli anziani e i canonici di Parma, sempre scongiurandoli di tornare indietro, promettendo di rifar loro qualunque danno che asserissero loro fatto; ma a nulla giovò. Processarono i Parmigiani tutti quei malfattori, e li gastigarono con varie pene; rifecero ancora tutti i danni. Ciò non ostante, e quantunque il comune di Parma niuna ingerenza avesse avuta nel misfatto, pure il cardinal Latino citò il podestà, il capitano, gli anziani e il consiglio con dodici de' principali di Parma, a comparire davanti a lui in Firenze in un determinato tempo. Spedirono i Parmigiani [135] il capitano del popolo con sei ambasciatori colà; ma per quanto sapessero dire in iscusa del comune, niun conto fu fatto delle loro ragioni, e si fulminò la scomunica contra gli uffiziali del pubblico, e la città fu aggravata coll'interdetto. Così si operava in questi tempi. Essendo stata tolta ai Reggiani [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] da Tommasino da Gorzano, e dai signori da Banzola la Pietra di Bismantoa, celebre per la menzione che ne fanno Donizone e Dante, nel mese di maggio il popolo di Reggio coll'aiuto dei Parmigiani, Modenesi e Bolognesi la strinse d'assedio, e dopo quindici dì a buoni patti la ricuperò. La città d'Asti anch'essa riebbe alcune centinaia dei suoi cittadini che erano prigioni in Provenza, con promettere a Carlo re di Sicilia il pagamento di trentacinque mila lire d'imperiali, pel quale si fecero mallevadori alcuni ricchi genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 9, tom. 6 Rer. Ital.]. Del resto nel primo dì di maggio dell'anno presente una terribile scossa di tremuoto si sentì per quasi tutta l'Italia. Il maggior danno ch'essa recò, fu nella marca di Ancona, dove due parti di Camerino andarono a terra, e vi perirono molte persone. Fabriano, Matelica, Cagli, San Severino, Cingoli, Nocera, Foligno, Spello ed altre terre ne risentirono un grave nocumento.


   
Anno di Cristo mcclxxx. Indiz. VIII.
Niccolò III papa 4.
Ridolfo re de' Romani 8.

Le lettere scritte nel gennaio di questo anno dal pontefice Niccolò III a Bertoldo Orsino suo fratello e conte della Romagna, e rapportate dal Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl.], ci assicurano che nel dicembre antecedente era seguita l'espulsion de' Lambertazzi da Bologna. In esse a lui e al cardinale Latino legato apostolico ordina il papa [136] di cercare rimedio al disordine accaduto, di punire i delinquenti, e di ristabilire la pace fra le discordi fazioni. Ma di fieri intoppi si trovarono: cotanto erano inaspriti ed infelloniti fra di loro gli animi de' Geremii dominanti in Bologna e dei Lambertazzi esclusi [Ghirardacci, Istor. di Bologna.]. Fece il conte Bertoldo venire a Ravenna i sindachi dell'una e dell'altra parte, e rigorosi comandamenti impose a tutti. È da stupire come il Ghirardacci, che ne rapporta gli atti fatti sotto l'anno presente, non si accorgesse che la cacciata dei Lambertazzi dovea essere seguita nel precedente dicembre. Ma mentre il pontefice era tutto pieno di gran pensieri per regolare il mondo cristiano a modo suo, eccoti l'inesorabil falce della morte che troncò tutti i suoi vasti disegni [Bernard. Guid., in Vita Nicolai III, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Jordan., in Chron.]. Trovavasi egli nella terra di Soriano presso Viterbo, e colpito da un accidente apopletico, senza poter ricevere i sacramenti della Chiesa, chiuse gli occhi alla vita presente nel dì 22 d'agosto. Era preceduta in Roma una terribil inondazione del Tevere, che, secondo gli stolti, fu poi creduta indizio della morte futura del papa. La fresca di lui età e il temperato modo del suo vivere aveano fatto credere che la sua vita si stenderebbe a moltissimi anni avvenire; ma fallaci troppo sono i prognostici de' mortali; e fu assai che non corresse sospetto di veleno in così inaspettata e subitanea morte, sapendosi che l'aver egli con tanta altura esercitato il governo suo, gli avea tirato addosso l'odio di parecchi, e massimamente di Carlo re di Sicilia. Molte furono le di lui virtù, e massimamente la magnificenza [Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 9 Rer. Ital.], da cui spinto fabbricò un suntuoso palagio per li pontefici presso San Pietro, con un ampio e vago giardino, cinto di mura e torri a guisa d'una città, e un altro in Montefiascone. Rinnovò egli quasi tutta [137] la basilica vaticana. L'epitafio suo si legge nella Cronica di frate Francesco Pipino [Franciscus Pipin., Chron. Bononiens., tom. 9 Rer. Ital.]. Ma restò aggravata la di lui memoria dalla soverchia ansietà d'ingrandire ed arricchire i proprii parenti. Spogliò di varie terre i nobili [Ricordano Malaspina, cap. 204.], e massimamente di Soriano i suoi signori, imputati d'eresia, per investirne i proprii nipoti. Tolse alla Chiesa Castello Sant'Angelo, e diello ad Orso suo nipote. Creò più cardinali suoi parenti, e Bertoldo Orsino, suo fratello, conte di Romagna. Faceva eleggere tutti i suoi congiunti per podestà in varie città. Fu anche detto [Franciscus Pipin., Chron.] che le grandiose sue fabbriche furono fatte col danaro raccolto dalle decime ordinate in soccorso di Terra santa, e ch'egli segretamente avesse mano nel trattato contra del re Carlo per la ribellion di Sicilia, siccome appresso diremo. Ma il suo più gran progetto di novità (se pure è vero) fu quello di cui dicono [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 3 Rer. Ital. Jordanus, Platina, Blondus, et alii.] ch'egli trattò col re Ridolfo: cioè di formar quattro regni del romano imperio. Il primo era quello della Germania, che dovea passare in retaggio a tutti i discendenti d'esso Ridolfo re de' Romani. Il secondo il regno viennese, ossia arelatense, che abbracciava il delfinato e parte della antica Borgogna. Questo dovea essere dotate di Clemenza figliuola d'esso re Ridolfo, maritata dipoi con Carlo Martello nipote di Carlo re di Sicilia, e de' suoi discendenti. Il terzo della Toscana, e il quarto della Lombardia: i quai due ultimi regni egli meditava di conferire ai suoi nipoti Orsini. Questo pontefice, che facea tremar tutti, s'era anche fatto dichiarar senatore perpetuo del popolo romano, ed avea posto dipoi per suo vicario in quell'uffizio Orso suo nipote. Ma appena s'intese la certezza di sua morte [Vita Nicolai III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], che gli Annibaldeschi, famiglia potente [138] in Roma, si sollevarono coi loro aderenti, e vollero per forza aver parte nel senatorato, di modo che uopo fu di crear due senatori, l'uno Orsino, e l'altro Annibaldesco, sotto il governo dei quali succederono poscia molti omicidii, dissensioni e malanni; e tutti questi impuniti. Parimente allora il popolo di Viterbo discacciò vergognosamente dalla sua podesteria Orso degli Orsini, nipote del defunto papa, e passò all'assedio di un castello. Ma venuto il conte Bertoldo con assai soldatesche, e con quelle ancora di Todi, li fece dare alle gambe, e prese molti uomini e tutte le lor tende. Durò poi la vacanza del pontificato quasi sei mesi.

In quest'anno, a mio credere, accaddero le disgrazie della città di Faenza, e non già nel seguente, come ha il Sigonio [Sigon., de Regno Ital.] (se pure son di lui, e non giunte fatte a lui, le memorie di questi tempi), e come ha la Cronica Miscella di Bologna [Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], e dopo essa il Ghirardacci [Ghirardacci, Istor. di Bologna.], il quale imbrogliò la Storia sua con differire sino ad esso anno 1281 la ripatriazione de' Lambertazzi, e la loro seconda cacciata. Seguito io qui l'autore della Cronica di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], che fioriva in questi tempi, e la Cronica antica di Modena [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] e l'Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e la Bolognese di Matteo Griffoni [Matth. de Griffon., tom. 18 Rer. Ital.]. Per attestato di tali scrittori, Tibaldello da Faenza della casa nobile de' Zambrasi, ma spurio, essendo malcontento de' Lambertazzi rifugiati in Faenza (dicono a cagione di una porchetta a lui rubata), si mise in pensiero di sterminarli. Con questo mal animo ito a Bologna, concertò coi Geremii di tradire la patria, e di darne loro la tenuta. Infatti una notte ebbe maniera il traditore di aprir una porta, [139] per cui entrato l'esercito bolognese e ravegnano, s'impadronì della piazza, e poi si diede alla caccia di que' Lambertazzi che si trovavano nella città, giacchè un'altra parte d'essi era colla metà del popolo di Faenza all'assedio d'un castello. Molti ne furono uccisi, altri presi, ed altri ebbero la fortuna di salvarsi colla fuga. Mossero le lor milizie in tal congiuntura i Parmigiani, Reggiani e Modenesi, per dar braccio ai Geremii guelfi, loro collegati; ed, arrivati ad Imola, vi si fermarono parecchi giorni, finchè i Bolognesi avessero ben assicurata la lor conquista di Faenza. L'iniquo Tibaldello, cacciato per questo da Dante nell'inferno, ebbe per ricompensa la nobiltà di Bologna e varii privilegii; ma Dio fra due anni il chiamò al suo tribunale nella battaglia di Forlì. Se crediamo al Ghirardacci, il proditorio acquisto di Faenza seguì nella notte antecedente al dì 24 d'agosto; e per questo sì egli come gli altri storici bolognesi asseriscono istituito il pubblico spettacolo, che tuttavia dura, della porchetta nella festa di san Bartolommeo. Ma sarebbe prima da accertar bene se nel dì suddetto accadesse la presa di Faenza. Nella Cronica di Parma, di Reggio e nell'Estense vien questa riferita al dì dieci di novembre. Matteo Griffoni la mette nel dì 15 di dicembre. In quest'anno ancora Guido conte di Montefeltro s'impadronì di Sinigaglia per tradimento, e vi uccise barbaricamente circa mille e cinquecento persone [Gazata, in Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fu cacciata da Vercelli la parte ghibellina nel mese di settembre. In questo anno Guglielmo marchese di Monferrato, coi Milanesi ed altri collegati, andò a dare il guasto al territorio di Lodi, il perchè i Parmigiani e Reggiani colla lor cavalleria e fanteria si portarono in soccorso de' Torriani e di quella città. Fu guerra eziandio nell'anno presente fra i Padovani e Veronesi. In aiuto de' primi marciò Obizzo marchese d'Este, signor [140] di Ferrara. Scrive uno storico di Padova, essere stato sì magnifico il carriaggio d'essi Padovani, che occupava lo spazio di quindici miglia. La credo una spampanata. Ma con un trattato di pace si mise fine a tutte le ostilità. Avendo Jacopo Contareno doge di Venezia per la sua troppo avanzata età rinunziato al governo [Dandol., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], venne sustituito in suo luogo Giovanni Dandolo.


   
Anno di Cristo mcclxxxi. Indizione IX.
Martino IV papa 1.
Ridolfo re de' Romani 9.

Giacchè non era riuscito a Carlo re di Sicilia di far eleggere a modo suo un romano pontefice nella precedente vacanza della santa Sede (del che egli s'era trovato molto male); tanto studio mise questa volta, che ottenne l'intento suo. Adoperò infin le violenze; imperciocchè, non essendo allora chiuso il conclave, perchè era stata abolita la costituzione di Gregorio X, ed opponendosi a tutto potere due cardinali della casa Orsina, cioè Matteo Rosso e Giordano, acciocchè non si eleggesse un papa franzese [Ricord. Malasp. Giovanni Villani. Raynald., Annal. Eccl. S. Antonin. Jordanus, in Chron., et alii.]; il re Carlo mosse il popolo di Viterbo, dove erano i cardinali, e Riccardo degli Annibaldeschi signore della città medesima, a rinserrare in una camera que' due cardinali, col pretesto che impedissero l'elezione. V'aggiunsero poscia il terzo, cioè Latino cardinale, vescovo d'Ostia, nipote anch'esso del defunto Niccolò III, e li ridussero a pane ed acqua, di modo che, volere o non volere, convenne che i cardinali italiani concorressero ad eleggere quel papa che piacque al re Carlo, cioè un papa franzese. Fu non senza ragione creduto che le disgrazie sopravvenute poco appresso al medesimo re fossero un gastigo della mano di Dio contra chi sì sconciamente si abusava della potenza sua in danno e scandalo della Chiesa. [141] Videsi dunque alzato sulla Sede di san Pietro nel dì 22 di febbraio Simone cardinale di Santa Cecilia, Franzese di nazione, perchè nato a Mompincè in Brie, ma chiamato da gl'Italiani Turonense, perchè era stato canonico e tesoriere della chiesa di San Martino di Tours. Egli prese il nome di Martino IV, tuttochè, secondo il retto parlare, si dovesse nominar solamente Martino II. Non mancò egli di far subito conoscere l'eccessiva gratitudine sua al re Carlo, con isposar come suoi proprii tutti i di lui interessi. Una nondimeno delle prime sue imprese fu di ritirarsi ad Orvieto, e di scomunicar quei Viterbesi che aveano usata violenza ai cardinali, e di sottoporre all'interdetto la città medesima. Poscia ottenne esso papa dai Romani il grado di senator perpetuo con facoltà di sustituire, e posevi in suo luogo il re Carlo, creandolo di nuovo senatore di Roma, senza far caso della costituzione contraria di Niccolò III [Vita Martini IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Jordan., in Chron. Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.]. Non soleva mettere uffiziale o governatore nelle città dello Stato ecclesiastico che non fosse preso dalla casa e famiglia del medesimo re Carlo. Parimente ad istanza d'esso re, che meditava di portar le sue armi contro all'imperador di Costantinopoli scomunicò l'imperador greco Michele Paleologo: il che tornò in danno gravissimo non meno del re che della Chiesa stessa. E veramente di grandi preparamenti di genti e di navi faceva allora il re di Sicilia per invadere l'imperio greco; fors'anche avrebbe egli eseguita con buon successo così vasta impresa, se non si fosse da qui a non molto attaccato il fuoco alla casa propria: del che parleremo all'anno seguente.

Nel verno di quest'anno s'inviò Guglielmo marchese del Monferrato con Beatrice sua moglie alla volta della Spagna, per visitare Alfonso re di Castiglia suocero suo [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Per istrada fu ritenuto [142] prigione da Tommaso conte di Savoia suo cognato, perchè fratello della prima sua moglie. Se volle liberarsi, fu costretto a far cessione delle ragioni sue sopra Torino, Colegno, Pianezza ed altre terre; ed anche di pagar sei mila lire di bisanti, con dare ostaggi per questo. Andossene dipoi in Ispagna, dove finì di viver la sua moglie Beatrice, e servito da due galee genovesi se ne tornò in Italia, seco menando cinquecento cavalieri spagnuoli, cento balestrieri e buone somme di danaro, con aver dato ad intendere al suocero che ridurrebbe tutta l'Italia all'ubbidienza di lui. Essendo venuto a Lodi [Corio, Istor. di Milano.] Raimondo dalla Torre patriarca d'Aquileia con cinquecento uomini di arme furlani, si unirono coi Torriani i Cremonesi ed altri popoli della lor fazione, ed, usciti in campagna, andarono nel contado di Milano per prendere il borgo di Vavrio. Allora anche i Milanesi con grande sforzo di loro genti e cogli aiuti de' loro collegati cavalcarono per impedire i disegni dei Torriani. Che in questo esercito fosse anche il marchese di Monferrato, lo asseriscono gli storici milanesi [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] e il Ventura nella Storia di Asti [Ventura, Chron. Estens., tom. 11 Rer. Ital.]. Dalla Cronica di Parma pare che si ricavi che no. Comunque sia, nel dì 25 di maggio, festa di san Dionisio arcivescovo di Milano, si affrontarono queste due armate [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], e si fece un ostinato e sanguinoso fatto d'armi. Rimasero sconfitti i Torriani; vi perdè la vita il valoroso Casson dalla Torre col podestà di Lodi, Scurta dalla Porta Parmigiano; ed, oltre ad ottocento prigioni condotti a Milano, moltissimi furono i morti nel campo e gli annegati nel fiume Adda. Raimondo dalla Torre, intesa questa disavventura, col capo basso se ne tornò ad Aquileia. Abbiamo dalla Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rerum Ital.] che il suddetto marchese Guglielmo, siccome capitano de' Milanesi, [143] colla gente e col carroccio di quel comune, e i Vercellesi, Novaresi, Tortonesi ed Alessandrini si accamparono di poi a Santa Cristina senza uscire del lor territorio. Erasi tenuto in Parma nel precedente agosto un parlamento delle città guelfe, in cui s'era risoluto di dar soccorso a Lodi, occorrendone il bisogno. Questo venne; ma perchè durava ancora qualche antica ruggine fra i Parmigiani e Cremonesi, per avere l'un popolo all'altro tanti anni prima tolto il carroccio, si determinò di farne la vicendevol restituzione. Quello di Parma era chiamato Regoglio (credo che sia in vece di Orgoglio), e quello de' Cremonesi si appellava Gaiardo. Nella Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] quello de' Cremonesi è chiamalo Berta, e questo nome, oppur di Bertazzuola, gli vien anche dato da Antonio Campi [Campi, Istor. di Cremona.]. Fu dunque fatto il cambio di questi carrocci con indicibil gaudio di amendue le città nel dì 6 di settembre. L'autore della suddetta Cronica Estense, che più minutamente racconta le particolarità di questo fatto, fra l'altre cose scrive che il podestà di Modena in persona si portò con assai altri nobili a Parma, per maggiormente condecorar quella funzione: il che ci dà a conoscere quai fossero i costumi e i genii di questi tempi. Ciò fatto, i Parmigiani con tutta la lor cavalleria e fanteria marciarono in aiuto di Lodi, e si andarono a postare sulla riva dello Adda in una terra chiamata Grotta. Lungi di là un miglio si accamparono i Cremonesi a Pizzighittone con tutte le lor forze. Cento uomini d'armi v'andarono da Reggio, altrettanti con secento pedoni da Modena, e cinquanta dal marchese d'Este vi furono spediti. Diede bensì l'esercito milanese assaissimo danno al distretto di Lodi, ma senza fare di più; e gli convenne tornare indietro con perdita di molti uomini e cavalli. Nel seguente dicembre Buoso da Doara (non so se figliuolo o nipote dell'altro [144] che fiorì circa il 1260, oppure lo stesso) entrò con quattrocento cavalli ed altrettanti fanti in Crema, e cominciò la guerra contra di Cremona. Per questa novità i Piacentini, Parmigiani e Bresciani con possente milizia corsero di nuovo a sostener Cremona. La Cronica di Parma parla di questo solamente nell'anno seguente.

Le premure del defunto papa Niccolò III erano state da padre nel procurar dappertutto la pace fra i Guelfi e Ghibellini. Diverse ben furono le massime di Martino IV, cioè di un pontefice che si lasciava menare pel naso, come sua creatura, da Carlo re di Sicilia, il quale non potea patire i Ghibellini fautori dell'imperio. Eransi ridotti in Forlì tutti, per così dire, i Ghibellini della Romagna, sbanditi dalle loro città. Contra di questi il papa e il re Carlo fecero preparamento grande d'armi nell'anno presente [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.]; e tanto più perchè Guido conte di Montefeltro, capitano di Forlì, nel marzo ed aprile avea fatto delle scorrerie fino a Durbeco e alle porte di Faenza, dove, secondo gli Annali di Modena [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], diede una spelazzata ai Guelfi, e poscia era passato nel maggio sul Ravegnano, spogliando e bruciando senza opposizione alcuna que' paesi. All'avviso del formidabil temporale che si disponeva contra di loro, il comune di Forlì e la parte de' Lambertazzi spedirono ambasciatori supplichevoli alla corte pontificia, dimorante allora in Orvieto col re Carlo e cogli ambasciatori della parte contraria, cioè de' Geremii guelfi di Bologna. Ma furono mal veduti e mal ricevuti, in guisa che, senza poter ottenere nè giustizia nè misericordia dal papa, e vituperosamente rigettati, forza fu che se ne ritornassero come disperati a casa, con aver gittati i passi al vento. In questi tempi esso pontefice creò conte della Romagna Giovanni d'Eppa, ossia d'Appia o de Pà, Franzese, [145] consigliere del re Carlo. Costui colle milizie datogli del papa e dal re venne a Bologna con ordine di far aspra guerra a Forlì e a tutti i Ghibellini, e nel mese di giugno coi popoli di Bologna, Imola e Faenza passò ostilmente sul distretto di Forlì, facendo precedere comandamenti ed intimazioni al conte Guido e ai Lambertazzi d'andarsene con Dio. Dopo di che, avendo seco un'immensa quantità di guastatori, fece in più volte quanto danno potè al territorio forlivese, con giugnere fino alle porte, ma nulla di più osò per ora. Il conte Guido si contenne sempre con riguardo. Fulminò il papa contra de' Forlivesi le scomuniche più fiere, e pose l'interdetto alla città, con farne uscire tutti gli ecclesiastici sì secolari che regolari; e forse per la prima volta si cominciò ad udire quella detestabil invenzione di gastigo e pena, cioè che anche fuori dello stato ecclesiastico fossero confiscati in favore del papa tutti i beni e le robe de' Forlivesi: gastigo che cadeva ancora sopra gl'innocenti mercatanti, e sopra coloro eziandio che, per non participar di quelle brighe, si erano ritirati altrove, nè aveano parte alcuna negli affari del governo di Forlì. L'autore della Cronica di Parma scrive, che fu inoltre pubblicata in quella città la scomunica contra chiunque avesse roba di alcun forlivese, e non la rivelasse ai nunzii del papa, sotto pena di pagare del proprio, e di non essere assolto nè in vita nè in morte. In Parma più di tre mila lire si ritrovarono, che furono perciò consegnate ai deputati pontifizii. Veggasi un poco che strani frutti produsse la barbarie ed ignoranza di questi secoli. Fece in quest'anno lega coi Veneziani [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Italic.] Carlo re di Sicilia, risoluto di far la guerra a Michele Paleologo imperador dei Greci: per la quale impresa seguitava ad ammannire una sterminata copia di galee, uscieri ed altre cose necessarie. Non poche istanze ebbero ancora [146] da lui i Genovesi per entrare in lega, venendo loro esibito una parte del conquisto; ma se ne scusarono, siccome assai conoscenti di che pelo fosse quel regnante; anzi spedirono una galea apposta al Paleologo per avvertirlo di ciò che si macchinava contra di lui.

I Lucchesi in quest'anno [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.] fecero oste contra di Pescia, la presero, e il pazzo furore de' soldati la ridusse in cenere. Tuttociò avvenne, per quanto fu creduto, perchè il popolo di quella terra si era suggettato ai cancelliere del re Ridolfo, a cui si pretendea che non avesse da sottomettersi se prima non compariva la conferma di lui fatta dal papa: tutti pretesti inventati dai Guelfi; imperciocchè, per attestato del Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], papa Martino con sue lettere, date in Orvieto nel dì 21 maggio dell'anno corrente, e rapportate dal medesimo Annalista, avea scritto a tutte le città e baroni della Toscana che riconoscessero per ministri del re Ridolfo il vescovo gurcense e Ridolfo cancelliere, da lui spediti per suoi vicarii in Toscana. Ma sappiamo da Giachetto Malaspina [Giachetto Malaspina, cap. 213. Giovanni Villani.] che verisimilmente per segrete insinuazioni del Carlo niuna delle città di quella provincia, da Pisa e Santo Miniato in fuora, volle prestar fedeltà ed ubbidienza agli uffiziali del re Ridolfo: laonde il vicario del re Ridolfo si ritirò colle sue masnade in essa terra di Santo Miniato, condannò i popoli disubbidienti, e cominciò guerra contra dei Fiorentini e Lucchesi; ma con sì poco frutto, che da lì a non molto se n'andò con Dio, e tornossene come beffato in Germania. Veggasi ora se erano tutte frodi, siccome dicemmo, quelle del re Carlo, allorchè si fece dichiarar vicario della Toscana da papa Clemente IV con promessa di ritirarsi, creato che fosse un re de' Romani.

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Anno di Cristo mcclxxxii. Indizione X.
Martino IV papa 2.
Ridolfo re de' Romani 10.

Celebre fu in quest'anno il vespro siciliano, celebre l'orditura di quella sì strepitosa rivoluzione. Con verga di ferro governava il re Carlo il regno di Sicilia e di Puglia. Da nuovi dazii, gabelle, taglie e confischi erano al sommo aggravati que' popoli. La superbia de' Franzesi ogni di più cresceva; insopportabile era la loro incontinenza e la violenza fatta alle donne. Di questi disordini parlano tutti gli scrittori d'allora [Bartholomaeus de Neocastro, Hist. Sicul., tom. 13 Rer. Ital, Sabas Malaspina. Ricord. Malaspina.], ed anche i più parziali della nazion franzese. Più volte i miseri Siciliani ricorsero ai papi per rimedio, rappresentando loro che la santa Sede avea creduto di dare un re e un pastore a que' popoli, e loro avea dato un tiranno e un lupo. E ben si leggono negli Annali Ecclesiastici [Raynaldus, in Annal. Eccl.] i buoni uffizii che più volle fecero i romani pontefici in favore e sollievo d'essi popoli, con esortare il re Carlo a sgravarli, e a guadagnarsi il loro affetto, e non già l'odio. Ma Carlo niun conto faceva di si fatte esortazioni, e colla febbre addosso de' conquistatori ad altro non attendeva che a raunar moneta e gente per far colle miserie del suo popolo, se gli riusciva, miseri anche gli altri popoli. Ora accadde che Giovanni da Procida, nobile salernitano, uomo di mirabile accortezza letterato, e spezialmente peritissimo della medicina, entrò in pensiero di guarire anche i mali politici della Sicilia. Era egli stato carissimo a Federigo II Augusto e al re Manfredi, ed appunto per questo suo attaccamento alla casa di Suevia gli erano stati confiscali tutti i suoi beni dal re Carlo. Ritiratosi egli in Aragona, cominciò ad incitare il re Pietro e la regina Costanzo sua moglie, figliuola [148] del fu re Manfredi, alla conquista del regno siciliano, e a far valere le ragioni della casa di Suevia, unico rampollo di cui era restata essa regina Costanza. Ma perchè a sì grande impresa, e contra del re Carlo principe bellicosissimo e di alta potenza, non bastavano punto le forze del re Pietro, per mancanza massimamente del fac totum delle guerre, cioè della pecunia: Giovanni da Procida assunse egli di provvedere a tutto. Passò pertanto travestito in Sicilia, e vi trovò disposti gli animi a cangiar mantello ad ogni buon vento che spirasse. Andò a Costantinopoli, e fece toccar con mano all'Augusto Paleologo che non v'era altro mezzo da salvarlo dalla potenza del re Carlo, che il fargli nascere la guerra in casa; e che, contribuendo egli un possente soccorso di danaro, a Pietro d'Aragona dava l'animo di far calare gli ambiziosi pensieri al re di Sicilia. Si trasferì dipoi Giovanni da Procida alla corte pontificia, e in una segreta udienza trovò papa Niccolò III nemico del re Carlo, e pronto anch'esso a contribuire pel di lui abbassamento. Portate queste disposizioni in Aragona, e insieme un buon rinforzo di moneta, il re Pietro si diede a far gran leva di gente, e a preparar navi per una spedizione importante, con far vista di voler passare in Africa contra de' Saraceni [Giachetto Malaspina. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 56 et seq.]. Informato di questo armamento il re Carlo da Filippo re di Francia suo nipote, fece che papa Martino IV spedisse persona apposta per indagare quali mire avesse il re Pietro, e per comandargli di non condurre le sue armi contra di alcun principe cattolico. Pietro, il più accorto di quanti allora regnassero nella cristianità, non volle scoprire il luogo dove egli mirava; anzi rispose, che se l'una delle sue mani, sapendolo, lo rivelasse all'altra, subito la mozzerebbe. E con belle parole rimandò il messo al papa. Ma il re Carlo, che molto sè stesso, poco o nulla stimava il re di [149] Aragona, dopo aver detto per dispetto al papa: Non vi diss'io che Pietro d'Aragona è uno fellone briccone? si addormentò, nè cercò più oltre di lui, senza ricordarsi di quel proverbio: Se ti vien detto che hai perduto il naso, mettivi la mano.

Benchè fosse mancato di vita il pontefice Niccolò III, sul quale, più che sopra altri, fondava il re Pietro le sue speranze, pure cotanto fu animato e confortato da Giovanni da Procida e dai segreti impulsi de' Siciliani, che diede le vele al vento, e passò in Africa verso la città di Bona, cominciando quivi la guerra contra dei Mori colla presa di Ancolla, per aspettare se i Siciliani, dicendo da dovero, si rivoltassero; e, ciò non succedendo, per tornarsene quetamente a casa. Ora avvenne che nel dì 30 di marzo dell'anno presente, cioè nel lunedì di Pasqua di risurrezione, nell'ora del vespro (scrivono altri nel martedì, 31 del suddetto mese) i Palermitani, prese l'armi, insorsero contra de' Franzesi [Bartholomaeus de Neocastro, tom. 13 Rer. Ital. Nicolaus Specialis, Chron. Sicul., cap. 38, tom. 10 Rer. Ital. Jordan., in Chron. Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.], e quanti ne trovarono, tutti misero a filo di spada; e andò sì innanzi questo furore, che neppure perdonarono a donne e fanciulli, e neppure alle Siciliane gravide di Franzesi. Per questo fatto divenne poi celebre il nome di vespro siciliano. Falso è che in tutte le terre di Sicilia, e ad un'ora stessa, succedesse il macello de' Franzesi. Falso che i Palermitani acclamassero tosto per re loro Pietro d'Aragona. Alzarono essi bensì le bandiere della Chiesa romana, proclamando per loro sovrano il papa. Uscì poscia in armi il popolo di Palermo, e trasse nella sua lega alcun altro luogo della Sicilia. Intanto Messina col più dell'altre città dell'isola si tenne quieta per osservare dove andava a terminare questo gran movimento. Ma non passò il mese d'aprile, che le tante ragioni e i segreti maneggi de' Palermitani [150] indussero anche i Messinesi a ribellarsi colla morte ed espulsione di quanti Franzesi si trovarono in quelle parti, e colla presa di tutte le fortezze. Portata la dolorosa nuova della ribellion di Palermo al re Carlo, che, secondo il suo solito, dimorava allora in Orvieto alla corte pontificia, per insegnare al papa, sua creatura, e ai cardinali, come si avea da governare il mondo, non è da chiedere s'egli se ne turbasse e crucciasse. Tuttavia, rivolti gli occhi al cielo, fu udito dire [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 61.]: Iddio Signore, dappoichè v'è piaciuto di farmi contraria la mia fortuna, piacciavi almeno che il mio calare sia a piccioli passi. Trattò col papa di quel che si avea da fare, e volò tosto a Napoli, consolato perchè non s'udiva per anche tumulto alcuno in Messina. Ma dacchè giunse l'altro avviso che anche i Messinesi aveano prese l'armi contra di lui, allora andò nelle smanie, ed ordinò che facessero vela verso di Messina le tante galee e navi da lui preparate per assalire il greco imperio, ed egli col resto dell'armata di terra si inviò alla volta della Calabria. Non si può prestar fede a Bartolommeo da Neocastro, che racconta avere condotto il re Carlo in questa spedizione ventiquattro mila cavalli e novanta mila fanti, senza contare i marinari, e cento sessanta galee, oltre all'altre navi da trasporto e barche minori. O è guasto il suo testo, o egli amplificò di troppo le forze di Carlo, acciocchè maggiormente risaltasse la gloria dei suoi Messinesi. Giovanni Villani scrive che menò seco più di cinque mila cavalieri fra Franceschi, Provenzali ed Italiani; e tra questi erano cinquecento ben in arnese, inviatigli dal comune di Firenze. Ed ebbe cento trenta tra galee, uscieri e legni grossi. Comunque sia, abbiam di certo ch'egli, passato il Faro, imprese sul fine di luglio l'assedio di Messina, accompagnato da Gherardo Bianco da Parma, cardinale, vescovo sabinense e legato apostolico. Entrò in Messina questo saggio porporato, e con [151] tale energia parlò a quel popolo, che lo indusse ad abbracciare il partito della misericordia, senza aspettare il furor delle armi. Ma portate da lui al re Carlo le condizioni colle quali desideravano i Messinesi di rendersi, non piacquero al re, e si diede principio alle offese della città, agli assalti ed alle battaglie. I Messinesi anch'essi, contandosi giù tutti per morti, si diedero ad una gagliarda difesa tale, che si rendè memorabile per tutti i secoli.

Intanto i Palermitani, considerando le straordinarie forze del re Carlo, e il pericolo che lor soprastava, aveano spedito ambasciatori a papa Martino, chiedendogli misericordia. Furono questi obbrobriosamente rimandati con villane parole. Anche i Messinesi, secondochè abbiamo da Giachetto Malaspina [Giacchetto Malaspina, cap. 212.]. da Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 63.] e da altri, dacchè intesero la presa di Milazzo, tornarono a implorar la mediazione del cardinal legato per arrendersi. Entrò egli nella città, e quel popolo esibiva la resa, se il re perdonava loro il misfatto, e voleano pagargli i tributi usati al tempo del re Guglielmo il Buono. Portata questa risposta al re Carlo, e avvalorata dalle preghiere del legato, che accettasse quel misero e pentito popolo, fellonescamente rispose che si maravigliava di sì ardita proposizione, e che in altro modo non perdonerebbe loro, se non gli davano ottocento ostaggi a sua elezione, per farne quello che a lui piacesse; e voleva che pagassero colte e dogane, come allora si praticava, altrimenti si difondessero. Ciò inteso da' Messinesi, determinarono di voler piuttosto morir tutti colla spada alla mano, che di andar morendo in prigioni e tormenti per istrani paesi. Ebbe ben poi a mangiarsi le dita il re Carlo per la smoderata sua alterigia e crudeltà. S'egli usava della clemenza, Messina tornava sua, e per le stesse vie avrebbe avuto il resto della Sicilia, perchè que' popoli erano allora [152] senza capitani e senza guarnimenti e forze da guerra. Ma a chi Dio vuol male gli toglie il senno. E Dio appunto per tante inumanità ed orgoglio il pagò di buona moneta. Bartolommeo da Neocastro tace questi trattati di resa dei Messinesi, anzi scrive che il re Carlo fece loro i ponti d'oro perchè si arrendessero, ma ch'eglino rigettarono ogni offerta. Credendosi poscia il re di poter con un generale assalto vincere la terra, si trovò forte ingannato, perchè sì virilmente si difesero i cittadini e ripararono le breccie, che rimase inutile il suo sforzo. Fin le donne e i fanciulli tutti con sollecitudine mirabile, portando chi acqua, chi calce e pietre, prestarono ogni possibile aiuto contro ai nemici, e in loro lode furono poi fatte e cantate dappertutto varie canzoni.

In tale stato erano le cose di Messina, quando Pietro re d'Aragona, ricevuta un'ambasceria de' Palermitani, venne dirittamente a sbarcare a Trapani con cinquanta galee ed altri legni, con ottocento uomini d'armi e dieci mila fanti, tutta gente agguerrita e di gran coraggio. Vi arrivò nel dì 30 d'agosto [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.], e fra due giorni entrò in Palermo, ricevuto con altissime acclamazioni da quel popolo, e quivi fu coronato re di Sicilia. Tutti tremavano dianzi; tanta era la paura della potenza e del rigore del re Carlo. Ad ognuno allora tornò il cuore in petto; e sparsa questa nuova per le altre terre ribellate ai Franzesi, se ne fece gran festa, credendosi allora ognuno in salvo. I soli Messinesi furono gli ultimi a saperlo. Spedì poscia il re Pietro due suoi ambasciatori al re Carlo, i quali, ottenuta licenza d'andare, si presentarono davanti a lui nel dì 16 di settembre, con intimargli da parte di Pietro re di Aragona e di Sicilia di levarsi dall'assedio di Messina, altrimenti che fra poco verrebbe egli in persona a far pruova delle forze sue. All'avviso dell'inaspettato [153] sbarco dell'Aragonese era rimasto pieno di maraviglia e di doglia il re Carlo. Ricevuta poi quell'ambasciata, fremeva per la collera; e la risposta sua, data nel dì seguente, fu che intimassero al re Pietro di levarsi dal regno di Sicilia, e di non fomentar dei ribelli, perchè se ne avrebbe a pentire, e si tirerebbe addosso anche la nemicizia del papa, del re di Francia e degli altri principi della cristianità. Leggonsi presso il Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 70.] e presso fra Francesco Pipino [Franciscus Pipinus, lib, 3, cap. 15, tom. 9 Rer. Ital.] delle lettere che si dicono in tal congiuntura scritte dall'un re all'altro. Dubito io che sieno fatture dei novellisti d'allora. Tenuto consiglio dal re Pietro, fu determinato, secondo il parere dell'accorto Giovanni da Procida, che si mandasse la flotta catalana a sorprendere nel Faro di Messina le galee del re Carlo, che quivi stavano ancorate senza difensori. Traspirò questa risoluzione, e saputasi da esso re Carlo, fu creduto necessario che il re levasse l'assedio: altrimenti, se veniva rotta la comunicazion colla Calabria, potea perir tutta l'armata di terra per mancanza di viveri. Però, lasciati solamente due mila cavalli in agguato, per tentare di sorprendere i Messinesi, se uscivano a spogliare il campo, giacchè per la fretta restò ivi un'immensa copia di tende, bagaglie ed arnesi da guerra, il re Carlo col resto di sua gente precipitosamente, e come sconfitto, scampò in Calabria. Ma non potè provvedere così per tempo al bisogno, che non sopraggiugnesse nello stretto di Messina l'ammiraglio del re Pietro, cioè Ruggieri di Loria, il più valoroso ed avventurato condottiere d'armate navali che fosse allora, il quale con sessanta galee cariche di Catalani e Siciliani prese ventinove tra galee grosse e sottili del re Carlo, fra le quali cinque del comune di Pisa, che erano al di lui servigio. Passò anche alla Catona ed a Reggio di Calabria, e vi bruciò ottanta uscieri, [154] cioè barche grosse da trasporto, che trovò disarmate alla spiaggia; e questo sugli occhi dello stesso re Carlo, il quale per la rabbia cominciò a rodere la sua bacchetta, e poi confuso, dopo aver dato commiato ai baroni ed agli amici, si ritirò a Napoli. I Messinesi, se il re non levava l'assedio, erano già ridotti alle estremità, per essere venuta meno ogni sorta di vettovaglia. Scoperto anche l'agguato, si tennero rinchiusi, finchè videro ritirati in Calabria i due mila cavalli nemici. Intanto marciò il re Pietro da Palermo, rinforzato dall'esercito siciliano, e dopo avere ricuperato a patti di buona guerra Milazzo, arrivò nel dì 2 di ottobre a Messina, ricevuto con giubilo inesplicabile da quel popolo glorioso, che era come risuscitato da morte a vita. Interdetti e scomuniche furono fulminate dal papa contra del re Pietro e de' Siciliani per tali novità. Ma per ora abbastanza di questo.

Trovavasi in gravi angustie ed affanni sul principio dell'anno presente la città di Forlì; e i Lambertazzi ed altri fuorusciti ghibellini colà rifugiati non trovavano più scampo, perchè si vedevano battuti dall'un canto dall'armi spirituali del papa, e dall'altro attorniati dall'armi temporali d'esso pontefice, del re Carlo, de' Bolognesi e degli altri Guelfi di Romagna, Lombardia e Toscana. Come resistere a tanti nemici un pugno di gente? Però il conte Guido da Montefeltro [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], i Forlivesi e gli altri fuorusciti spedirono un'altra ambasceria ad Orvieto a papa Martino IV per supplicarlo di aver misericordia di loro. Furono bruscamente ricevuti anche questa fiata gli ambasciatori, ed ebbero per risposta che Forlì non avrebbe mai perdono e pace, se prima non iscacciava tutti i forestieri maschi e femmine. A questo disse il deputato de' Lambertazzi e degli altri fuorusciti, che erano pronti ad ubbidire e ad andarsene, ma che supplicavano sua Santità di assegnar loro un [155] sito da potervi abitare, giacchè iniquamente erano stati cacciati dalle lor patrie, nè aveano luogo per loro abitazione. Nè pur questo poterono impetrare, ma ignominiosamente furono licenziati e caricati di scomuniche. Se qui alcuno cercasse il comun padre dei fedeli, forse nol troverebbe: colpa, a mio credere, del re Carlo, che inesorabile contra dei Ghibellini, aveva anche la fortuna di poter prescrivere quanto voleva alla corte di Roma. Così non avea fatto il precedente pontefice Niccolò III. Ebbe dunque ordine Giovanni d'Eppa o sia d'Appia, conte della Romagna, di rinforzar la guerra contra di Forlì, nella quale impresa il papa andava impiegando il danaro sborsato dalla pietà dei fedeli, perchè servisse in soccorso di Terra Santa. Ora il conte della Romagna, dopo aver maneggiato un trattato segreto con alcuni dei cittadini di quella città, perchè gli dessero una porta [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], su questa speranza comparve sotto Forlì sull'imbrunir della notte precedente al dì primo di maggio con un potente esercito [Giachetto Malaspina, cap. 215. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 70.]. A Guido conte di Montefeltro, e capitano dei Forlivesi, non era ignoto questo trattato; anzi dicono che ne fu egli stesso il promotore, siccome astutissimo e gran maestro di guerra. Aveva egli ordinato che tutti i cittadini preparassero buona cena, e lasciassero aperta una porta. Ed allorchè i nemici arrivarono, egli con tutta la gente atta all'armi uscì fuori della città per un'altra. Entrò Giovanni d'Eppa con parte dell'esercito nell'aperta città, nè trovandovisi resistenza alcuna, le soldatesche si sparsero per la terra e per le case a darsi bel tempo coi cibi e vini lor preparati; e tolte le briglie ai lor cavalli, li misero alle greppie e al riposo. Allorchè fu creduto che fossero ben satolli ed ubbriachi, e andati a dormire, il conte Guido colla sua gente rientrò per una [156] porta che tuttavia si custodiva per lui, e diede addosso ai nemici che senza poter raccoglier, sè stessi, nè ordinare le loro armi e cavalli, restarono per la maggior parte vittima delle spade de' Forlivesi [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.]. Dicono altri che il conte Guido andò prima ad assalire e sconfiggere la parte dell'armata che Giovanni di Eppa avea lasciato di fuori in un determinato luogo, e poscia, rientrato in città, fece del resto, con altre particolarità che io tralascio per dubbio della lor sussistenza. Certamente cadono molti inverisimili nella maniera con cui dicono condotto questo fatto. E si può dubitare che il tempo e le ciarle del volgo accrescessero delle favole alla verità dell'avvenimento. Favole sembrano ancora tanti altri fatti attribuiti in queste guerre a Guido Bonato, filosofo e strologo famoso di que' tempi, e cittadino di Forlì, narrati nella Cronica di quella città. Per attestato della Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], con cui vanno d'accordo fra Francesco Pipino [Pipin., Chron. Bononiens., tom. 9 Rer. Ital.] e Ricobaldo [Richobald., in Pomar., tom. Rer. Ital.], il conte della Romagna entrò in un borgo di Forlì, ebbe una porta della città, e vi prese molte case per forza. Ma per sagacità e valore del conte Guido da Montefeltro e de' Forlivesi egli restò sconfitto. Due mila e più, la maggior parte Franzesi, vi lasciarono la vita, e quasi tutto il resto vi rimase prigione. Fra gli altri che perirono nella fossa di quella città, si contò Tibaldello degli Zambrasi, che avea tradita Faenza. E vi morì il conte Taddeo da Montefeltro, nemico del conte Guido, con altri nobili bolognesi e della Romagna. La Cronica di Bologna [Chronic. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], che per errore, mette questo fatto sotto il dì 7 di giugno va annoverando la cavalleria venuta da diverse parti all'esercito del conte della Romagna, e la fa ascendere a tre mila e quattrocento cavalieri. Nulla dice dello [157] stratagemma suddetto del conte Guido; e solamente parla d'un fiero combattimento seguito ne' borghi di Forlì, colla disfatta de' Guelfi. Altrettanto abbiamo dalla Vita di papa Martino [Vita Martini IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Giovanni d'Eppa falso è che morisse in quel conflitto. Egli, per attestato di Ricobaldo, arrivò a Faenza sano e salvo con circa venti cavalli, e fu poi adoperato dal papa in altre militari imprese.

Veggendo i Lodigiani [Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 319.] ridotti in pessimo stato gli affari de' Torriani, e temendo di restar eglino la vittima dello sdegno de' Milanesi, trattarono di pace con Ottone Visconte arcivescovo di Milano, il quale volentieri vi acconsentì, purchè rinunziassero alla protezione de' Torriani. Seguitarono essi nondimeno, per attestato della Cronica di Parma, a tener la parte guelfa. Di qui prese maggior orgoglio Guglielmo marchese di Monferrato, e cominciò, di capitano che egli era, a far da signore di Milano, in pregiudizio dell'autorità dell'arcivescovo. Ottenne di poter mettere un vicario e un podestà in Milano a piacimento suo, e vi mise Giovanni dal Poggio Torinese. L'arcivescovo, come uomo accorto, mostrava di non curarsene, ma, conoscendo dove il marchese mirasse, cominciò segretamente a tirare nel suo partito alcune delle case più forti di Milano, cioè quelle di Castiglione, Carcano, Mandello, Posterla e Monza, e a disporre i mezzi per liberarsi dalla prepotenza del marchese. Minacciava intanto esso marchese i Cremonesi, e però, ad istanza di quel popolo, tenuto fu un parlamento in Cremona, dove intervennero i Piacentini, Parmigiani, Reggiani, Modenesi, Bolognesi, Ferraresi e Bresciani, tutti di parte guelfa. Risoluto fu di spedire ambasciatori al papa per ricavarne dei soccorsi e di tenere in essa Cremona una taglia di soldati di cadauna città per difesa di quella. E perciocchè Buoso da Doara era entrato in Soncino, e s'era anche ribellato al comune di Cremona [158] il castello di Riminengo, i Parmigiani, Piacentini e Bresciani colle loro forze marciarono a Cremona, e passarono dipoi a dare il guasto a Soncino. Nel dì 2 di luglio il marchese di Monferrato coi Milanesi, Astigiani, Novaresi, Alessandrini, Vercellesi, Comaschi e Pavesi venne sino a Vavrio, e quivi si accampò, con ispargere voce di voler pacificare tutta la Lombardia. Ma le apparenze erano che egli meditasse d'entrare nel Cremonese [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Allora tutte le città guelfe suddette inviarono le lor milizie a Paderno in aiuto di Cremona. Furono anche richiesti di soccorso il marchese d'Este, il conte della Romagna e i comuni della Toscana; ed ognuno promise de' buoni rinforzi, se si fosse dovuto venire ad un fatto d'armi. Giunse il marchese a postarsi due miglia lungi da Crema, e i collegati piantarono in faccia di lui il lor campo. Si trombettava ogni dì, ma niuno uscì mai per volere battaglia, nè i Milanesi voleano entrar nel Cremonese, perchè durava la tregua fra loro, sicchè il marchese nel dì 12 di luglio, senza far altro, si ritirò, e lo stesso fecero gli avversarii guelfi. Diedero i Cremonesi il guasto sino alle porte di Soncino, la qual terra riebbero poi per tradimento nel dì 11 di novembre. Mandarono i Parmigiani una taglia de' lor soldati in servigio del papa contra Forlì, ed ottennero che si levasse l'interdetto dalla loro città, con esservi tornati solennemente i frati predicatori, che già n'erano usciti.

Fece in quest'anno Giovanni d'Eppa conte di Romagna l'assedio della terra di Meldola, e, dopo avervi inutilmente consumati alquanti mesi, fu forzato dalla penuria de' viveri e dalla perversa stagione a ritirarsene. Il conte d'Artois ed altri principi franzesi, spediti dal re di Francia, passarono per Parma e Reggio nell'ottobre dell'anno presente, menando seco una gran quantità di cavalli e fanti in aiuto del re Carlo dopo la perdita della Sicilia. Tennesi una nobilissima [159] corte bandita in Ferrara per la festa di san Michele di settembre dell'anno presente e ne' susseguenti giorni [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.], perchè Azzo VIII, figliuolo d'Obizzo marchese d'Este e signor di Ferrara, fu creato cavaliere, e prese per moglie Giovanna figliuola di Gentile Orsino nipote del fu papa Niccolò III, e figliuolo di Bertoldo già conte della Romagna. A tanti sconvolgimenti d'Italia si aggiunse in questo anno anche il principio d'un'aspra e funestissima guerra [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.] fra i Genovesi e Pisani, popoli amendue potenti per terra e per mare. Nacque la lor discordia dallo avere i Genovesi inviate quattro galee in Corsica per gastigare il giudice di Cinarca, che avea fatto non pochi aggravii alla lor nazione. L'aveano essi ridotto in camicia. Fu presa dai Pisani la protezion di costui con pretenderlo loro vassallo; e gli ambasciatori adoperati per questo affare, in vece di rimettere la pace, fecero saltar fuori la guerra, che andò a finire nella rovina di Pisa. Si diedero tutti e due questi comuni a fare un mirabil preparamento di galee e d'altri legni. Vennero anche i Pisani a Porto Venere, e diedero il guasto a quel paese; ma nel ritornare a casa, levatasi una crudel tempesta, spinse diecisette delle loro galee alla spiaggia, e le ruppe colla morte di molta gente. Anche i Perugini inferocirono nell'anno presente contro la città di Foligno [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], non so per quali disgusti. Studiossi ben papa Martino di fermare il loro armamento colla minaccia delle scomuniche; ma, senza farne caso, essi procederono innanzi con guastar tutto il paese sino alle porte di quella città. Non mancò già il papa di scomunicare quel popolo; ma esso, maggiormente irritato per questo, ed imbestialito, fece un papa e varii cardinali di paglia, e, dopo avere strascinati per la città que' fantocci, sopra una montagna li bruciò, dicendo: Questo [160] è il tal cardinale, questo è quell'altro. Sorse ancora nei medesimi tempi guerra in Roma fra gli Orsini e gli Annibaldeschi [Vita Martini IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Erano i primi odiati dal re Carlo per la memoria del loro zio; e però, unito il vicario di esso re, che esercitava l'uffizio di senatore, andò cogli Annibaldeschi a dare il guasto sino a Palestrina, dove s'erano ritirati gli Orsini.


   
Anno di Cristo mcclxxxiii. Indiz. XI.
Martino IV papa 3.
Ridolfo re de' Romani 11.

Non istette già colle mani alla cintola Pietro re d'Aragona, dacchè ebbe dato sesto alle cose della conquistata Sicilia, ma rivolse il pensiero anche alla vicina Calabria [Barthol. de Neocastro, tom. 13 Rer. Ital.]. Già aveva egli nel dì 6 di novembre spedite quindici galee con alcune migliaia de' suoi bellicosi fanti catalani verso la Catona, dove era un presidio di due mila cavalli ed altrettanti fanti, postovi da Carlo principe di Salerno, primogenito del re Carlo, lasciato ivi dal padre per opporsi ai tentativi dei nemici. Nella notte del dì 6 di novembre i Catalani assalirono sì vigorosamente quella guarnigione, che parte ne uccisero, e il restante misero in fuga. Nel dì 11 seguente s'impadronirono ancora della Scalea, e vi fu posto un presidio di cinquecento Catalani, che cominciarono ad infestare i contorni di Reggio. Essendosi ritirato il principe Carlo nel piano di San Martino, per non restar troppo esposto agli attentati de' nemici, il popolo di Reggio si diede incontanente al re Pietro, il quale, nel dì 14 di febbraio, fece la sua solenne entrata in quella città. L'esempio di Reggio seco trasse anche la città di Gieraci. Avea il re Pietro già spedito ordine che la regina Costanza sua moglie co' figliuoli venissero in Sicilia. Vi arrivò essa nel dì 22 d'aprile; fu riconosciuta per legittima padrona della Sicilia; e l'infante don Giacomo suo [161] secondogenito fu accettato per successore di quella corona, giacchè il re Pietro suo padre veniva obbligato da' suoi affari a tornarsene in Catalogna. Il motivo della sua partenza fu questo. Nell'anno precedente avea il re Carlo mandato a dire al re Pietro delle villane parole, trattandolo da traditore e fellone; e per mantenerglielo in buona forma, lo sfidò a combattere con lui a corpo a corpo. Più saporita nuova di questa non potea giugnere al re Pietro, che in coraggio e valore non cedeva punto al re Carlo, ma il superava di molto nell'accortezza. Si trovava egli con poca moneta; e se il re Carlo colle sue forze avesse continuata la guerra in Calabria e Sicilia, gran pericolo v'era di soccombere col tempo. Il meglio era di addormentarlo, di guadagnar tempo con accettare il proposto duello, e di farlo intanto uscire d'Italia [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 85.]. Diede dunque per risposta che manterrebbe in campo e in paese neutrale al re Carlo il suo legittimo diritto e possesso della Sicilia; e però fu concertato con solenne promessa e giuramento che da essi re e da novanta nove cavalieri eletti per cadauna delle parti si farebbe il combattimento in Bordeos di Guascogna, ottenutane prima licenza dal re d'Inghilterra, padrone allora di quella città. Chi restasse vincitore chetamente ancora sarebbe padrone della Sicilia, e chi mancasse alla promessa verrebbe dichiarato infame, e privato del titolo di re, con altre gravissime pene. Il dì primo di giugno fu destinato per questa insigne battaglia. Portato a papa Martino l'avviso di così strepitosa risoluzione, tanto è lungi che v'intervenisse l'approvazione sua, come scrive il Villani dopo il Malaspina [Giachetto Malaspina, cap. 217.], che anzi la detestò [Raynald., in Annal. Eccl.], e fece quanto potè per dissuadere il re Carlo, mostrandola contraria non meno alla politica che alla coscienza, ed intimando la scomunica contra chiunque passasse ad [162] eseguirla. Non si fermò per questo il coraggioso re Carlo; scelti i suoi cavalieri tra Franzesi, Provenzali ed Italiani, che tutti fecero a gara per essere di quel numero, fu nel dì prefisso e Bordeos, passeggiò co' suoi armati il campo, ma finì la giornata, senza che si lasciasse vedere il re d'Aragona. Deluso in questa maniera il re Carlo, se ne tornò a Parigi, malcontento di non aver potuto combattere, e d'avere inutilmente perduto il tempo; ma contento per essere, secondo l'opinione sua, divenuto l'Aragonese spergiuro in faccia del mondo, e caduto nella infamia e nell'altre pene prescritte nella convenzione. Pubblicò pertanto un manifesto, dove esponeva le dislealtà e finzioni di Pietro, e le pene da lui incorse. Ma Pietro anche egli ne divolgò un altro in sua difesa. E qui non s'accordano gli scrittori. Vi ha chi tiene, non essere egli punto andato a Bordeos; ed altri ch'egli vi andò travestito, e segretamente si lasciò vedere al siniscalco del re d'Inghilterra, con protestare d'essere pronto a combattere, ma che non potea farlo, non trovandosi sicuro in quel luogo, dacchè Filippo re di Francia s'era postato con più di tre mila cavalieri una sola giornata lungi da Bordeos [Bartholom. de Neocastro, cap. 68, tom. 13 Rer. Ital.], e nella stessa città era concorsa troppa copia di Franzesi. Preso pertanto un attestato di sua comparsa dall'uffiziale del re inglese, rimontato a cavallo, frettolosamente se ne tornò in Aragona. Se ciò sia finzione o verità, nol so dire. Quand'anche sussistesse la segreta sua andata a Bordeos, giacchè scrive l'autore della Cronica di Reggio [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] ch'egli fu veduto nel dì 30 di giugno in vicinanza di quella città; tuttavia non si sa ch'egli menasse seco i cavalieri che dovea condurre, e però sembra potersi conchiudere che questa scena fu fatta per deludere il re Carlo, e non già per decidere con un duello, [163] cioè con poco cervello, la controversia della Sicilia da lui posseduta, quantunque anch'egli avesse già scelti i suoi cavalieri, per dare un bel colore all'inganno. Ho io rapportato altrove [Antiquit. Italic., Dissert. XXXIX.] alcuni atti pubblici spettanti a questa tragedia, oppure illusione fatta al re Carlo dallo scaltro re d'Aragona, apparendo da essi che fra le condizioni v'era che il re d'Inghilterra dovesse essere presente al combattimento, ed è certo ch'egli non venne a Bordeos, nè mai consentì a dare il campo, nè ad assicurarlo: il che solo bastava ad iscusare e discolpare il re Pietro.

Qui nondimeno non terminò la faccenda. Il pontefice Martino prese di qui motivo per aggravar le censure contra del re Pietro, e passò a dichiararlo non solamente ingiusto usurpatore del regno della Sicilia, ma anche decaduto da quelli d'Aragona, Valenza e Catalogna [Raynald., in Annal. Ecclesiast.], con appresso conferirli a Carlo di Valois, secondo figliuolo del re Filippo di Francia, il quale doveva in avvenire riconoscerli in feudo, e prenderne l'investitura dal romano pontefice. Come fosse creduto giusto e lodevole questo papal decreto, lo lascierò io decidere ad altri. Ben so che i signori franzesi, i quali specialmente in questi ultimi tempi hanno impugnata l'autorità che si attribuiscono i sommi pontefici di deporre i re e di trasferire i regni, allora a man baciata riceverono questo regalo degli altrui Stati, loro fatto da papa Martino, e tentarono in vigor d'esso di occuparli, siccome vedremo. Abbiamo da Bartolommeo di Neocastro che furono in quest'anno spedite dal re Carlo verso Puglia venti galee di Provenzali. Dirizzò questa flotta le vele verso Malta, dove quel castello tuttavia si tenea fedele ad esso re, benchè assediato dai Siciliani, per dargli soccorso [Nicol. Specialis, Hist. Sicul., lib. 1, cap. 26, tom. 10 Rer. Ital.]. N'ebbe contezza il valente ammiraglio di Sicilia Ruggieri di Loria, [164] e tutto allegro con dieciotto galee ben armate sciolse da Messina per andare a trovarlo. Arrivato al porto di Malta, attaccò la zuffa, e fu questa terribile di più ore; ma infine dieci d'esse galee provenzali furono prese dai Siciliani e condotte a Messina; l'altre dieci maltrattate se ne tornarono con indicibil fretta al loro paese. Miglior fortuna ebbero in Romagna l'armi del pontefice, che avea fatto venir grossa gente di Francia, ed unita colle milizie delle città guelfe di Romagna e di Lombardia. Capitano di questa possente armata fu creato [Annal. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital. Matthaeus de Griffonibus, tom. 18 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] Guido conte di Montefeltro, già rimesso in grazia della Sede apostolica, con ordine di domare i Forlivesi, ricettatori ostinati degli usciti ghibellini. Ma, scorgendo quel popolo di non potere alla lunga sostenere il peso della guerra contra di tanti nemici, massimamente dappoichè il paese era sprovveduto di viveri, mandò ambasciatori al papa, ed altrettanto fece il conte Guido di Montefeltro, ad esibir la loro sommessione a quanto la santità sua avesse ordinato. Accettata L'offerta, furono cacciati da quella città tutti i Lambertazzi con gli altri Ghibellini, che andarono dispersi colle lor misere famiglie per l'Italia; e Guido da Montefeltro fu mandato a' confini, cioè in luogo disegnato dal papa. Venuto poscia a Forlì un legato pontificio, in gastigo della strage dianzi fatta de' Franzesi, fece demolir le mura, le torri ed ogni fortezza di quella città, e spianarne le fosse [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Anche Cesena, Forlimpopoli, Bertinoro, Meldola e le castella di Montefeltro vennero all'ubbidienza del papa, e quivi ancora fu fatto lo stesso scempio di mura e fortezze. Oltre a ciò, in tutti que' luoghi furono cavati dai sepolcri i morti nel tempo della guerra, e seppelliti come scomunicati fuori della città. Secondo Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 320.] e gli Annali [165] Milanesi [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.], in quest'anno Ottone Visconte si liberò da Guglielmo marchese di Monferrato, e per questo ho io differito a parlarne qui, benchè la Cronica di Parma metta il fatto nell'anno precedente. Anzi, dicendo il Fiamma, essere ciò succeduto nella festa di san Giovanni Evangelista, se l'anno milanese avea allora principio nel Natale del Signore, ancora, secondo lui, si dee riferir questo fatto all'antecedente anno, come appunto accuratamente notò anche il Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Era il marchese Guglielmo principe di fina politica e destrezza, e di non minor ambizione provveduto. Mirava egli a farsi signore di tutta la Lombardia. E già gli era riuscito di farsi proclamare a poco a poco signor di Como, Alba, Crema, Novara, Alessandria, Vercelli [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Non so ben dire se anche Pavia. Gli restava Milano; egli ne era già capitano, vi avea un gran partito, e andava disponendo le cose per abbattere la signoria dell'arcivescovo Ottone, e prender egli le redini, del governo. Ottone, che a lui non cedeva in avvedutezza, aspettato il tempo propizio che il marchese fosse ito per suoi affari a Vercelli, nel dì 27 di dicembre dell'anno precedente, montato a cavallo con tutti i suoi aderenti, prese il Broletto e il palazzo pubblico, e ne scacciò Giovanni dal Poggio podestà e vicario del marchese, mettendovi in suo luogo Jacopo da Sommariva Lodigiano. Fece appresso intendere al marchese che non osasse più di ritornare a Milano: dal che si accese una mortale nemicizia fra loro. Cercò immantenente Ottone di fortificarsi nel ricuperato pieno dominio di Milano coll'amicizia de' vicini, e però stabilì pace e lega coi Cremonesi, Piacentini e Bresciani. Fiera guerra continuò in quest'anno fra i Genovesi e Pisani per mare, avendo l'uno e l'altro popolo fatto un formidabil armamento di galee [166] e d'altri legni. Presero i Genovesi e saccheggiarono l'isola della Pianosa, e sottomisero alcune navi de' Pisani, e gli altri parimente fecero quegl'insulti che poterono ai Genovesi. Minutamente si veggono descritti i lor fatti negli Annali di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.]; tali nondimeno non sono che meritino d'esserne qui fatta particolar menzione. Succederono delle novità anche in Trivigi [Richobaldus, in Pomar., tom. 9 Rer. Ital. Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], città al pari dell'altre divisa in due fazioni. Gherardo della nobil famiglia da Camino seppe far tanto, che ne scacciò fuori Gherardo de' Castelli capo della parte contraria, e prese la signoria di quella città. Tollerabile riuscì dipoi il suo governo, perchè era amatore della giustizia. Ebbe principio nel marzo di quest'anno la guerra dei Veneziani col patriarca d'Aquileia per le giurisdizioni dell'Istria, come s'ha dalle Vite di que' patriarchi, da me date alla luce [Vitae Pontific. Aquilejens., tom. 4 Anecdot. Latin.]. Durò questa quasi undici anni, e in fine fu costretto il patriarca ad accomodarsi, come potè, con chi era superiore di forze.


   
Anno di Cristo mcclxxxiv. Indiz. XII.
Martino IV papa 4.
Ridolfo re de' Romani 12.

Gran preparamento di gente e di legni avea fatto Carlo, primogenito del re Carlo e principe di Salerno, per portare la guerra in Sicilia, quando venne la mala fortuna a visitarlo, e a dargli una ben disgustosa lezione delle umane vicende. Era già corsa sicura voce che il re Carlo suo padre veniva di Provenza con forte armata per unirla coll'altra di Puglia, e procedere poi contra de' Siciliani [Giachetto Malaspina, cap. 222. Ptolom. Lucens. et alii.]. Prima ch'egli venisse, il valente Ruggieri di Loria, ammiraglio del [167] re d'Aragona, volle tentare, se gli veniva fatto, di tirare a battaglia il figliuolo. A questo fine con quarantacinque tra galee ed altri legni armati di Catalani e Siciliani uscì in corso sul principio di giugno, e cominciò ad infestare le coste del regno di Napoli. Nel lunedì, giorno quinto di esso mese (e non già nel dì 23, come ha il testo di Bartolommeo da Neocastro [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 76, tom. 13 Rer. Ital.]), fu a Castello di San Salvatore a Mare e a vista di Napoli, e le sue ciurme cominciarono con alte grida a villaneggiare il re Carlo, suo figliuolo, e tutti i Franzesi chiamandoli poltroni e conigli, che non'ardivano di venire a battaglia, e dileggiandoli in altre sconcie maniere. A queste ingiurie non potendo reggere il principe Carlo, badando più alla collera sua che ai consigli del cardinal legato, co' furiosi suoi Franzesi e coll'altre ubbidienti sue truppe disordinatamente si imbarcò nei preparati suoi legni, e tutti, come se andassero a nozze, fecero vela contra de' Siciliani. Scrive Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 92.] che il principe Carlo avea ordine preciso dal re Carlo suo padre di non venire a battaglia alcuna, e che aspettasse l'arrivo suo; ma egli, senza farne caso, si lasciò trasportare dall'empito suo giovanile, credendosi di far qualche prodezza. Diversamente Niccolò Speciale [Nicolaus Specialis, Hist. Sicul., tom. 10 Rer. Italic.] lasciò scritto: cioè che una barca spedita con questo ordine dal re Carlo cadde in mano di Ruggieri di Loria, nè arrivò a Napoli: il che forse avrebbe fermata la bizzarria del principe Carlo. Baldanzosamente procedeva l'armata franzese contro ai nemici; e Ruggieri gran maestro di guerra, fingendo paura, si andava ritirando in alto mare. Ma quando se la vide bella, animati prima i suoi, venne impetuosamente a ferire addosso alla contraria armata. Stettero poco a fuggire le galee di Soriento e di altri Pugliesi. Fecero quella resistenza [168] che poterono i Franzesi; ma siccome gente allora non avvezza a battaglie di mare, poco potè operare contra dei Catalani e Siciliani, i quali, arditamente saltando nelle galee nemiche, dieci ne sottomisero. La mira principale dell'accorto Ruggieri di Loria era alla galea capitana, distinta dallo stendardo regale, dove stava il principe Carlo colla principal sua baronia, nè potendola prendere per la gagliarda opposizion di que' nobili, gridò ai suoi che la forassero in più luoghi. Entrava l'acqua a furia; e però il principe dimandò di rendersi a qualche cavaliere. S'affacciò tosto l'ammiraglio Ruggieri con darsi a conoscere chi egli era, e il raccolse nelle sue galee con Rinaldo Gagliardo ammiraglio di Provenza, e coi conti di Cerra, Brenna, Monopello, ed assaissimi altri nobili e copia grande d'altri prigionieri. Dopo la sconfitta accadde una piacevol avventura. In passando la vittoriosa flotta in vicinanza di Soriento [Giachetto Malaspina, Giovanni Villani.], quel popolo mandò a regalar di fichi e fiori e di ducento agostari (monete d'oro), l'ammiraglio siciliano. Entrati gli ambasciatori nella galea capitana, dove era preso il principe Carlo, veggendo lui riccamente armato e attorniato da baroni, e credendolo l'ammiraglio, inginocchiati a' suoi piedi, gli presentarono quel regalo, dicendo: Messer l'ammiraglio, goditi questo picciolo presente del comune di Soriento; e piacesse a Dio che come hai preso il figlio, avessi anche preso il padre. E sappi che noi fummo i primi a voltare. Il principe Carlo, contuttochè poca voglia n'avesse, pure non potè contenersi dal ridere, e disse all'ammiraglio: Per Dio, che costoro sono ben fedeli a monsignore il re. Si prevalse Ruggieri di Loria di questa congiuntura per cavar dalle carceri di Castello a Mare Beatrice figliuola del re Manfredi, e sorella della regina Costanza, con altri prigioni [Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.], avendola richiesta [169] al principe, che la fece venire, e con essa e co' prigioni franzesi se ne tornò a Messina, dove con indicibil plauso fu accolto. Il principe Carlo fu rinserrato nel castello di Mattagriffone con buone guardie.

Veniva il re Carlo alla volta di Napoli con cinquantacinque galee e tre navi grosse, tutte cariche di nobiltà franzese, di gente, cavalli ed armi. S'era egli dianzi rattristato forte in Marsilia per la percossa data ai suoi sotto Malta. Quando fu nel mare di Pisa, oppure a Gaeta, due dì dopo il suddetto conflitto, intese l'altra disavventura del figliuolo, che gli passò il cuore, e dicono che gridò: Ah fosse egli morto, dacchè ha trasgredito il mio comandamento! Altri scrivono [Jordanus, in Chron.] che fece il disinvolto, e, chiamati i suoi baroni, disse loro che si rallegrassero seco, perchè s'era perduto un prete, atto solamente ad impedire il suo governo, mostrando così di nulla stimare il figlio. Raccontano altri [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], aver egli detto: Nulla perde chi perde un pazzo. A questa doglia s'aggiunse l'altra di avere scoperta la poca fede dei regnicoli e di Napoli stessa, dove in quest'ultima congiuntura alcuni, correndo per la terra, aveano gridato: Muoia il re Carlo, e viva Ruggieri di Loria. Aggiugne la Cronica di Reggio che si fecero di molte ruberie, e furono anche uccisi alcuni Franzesi, con durar due giorni quella commozion di plebei. Arrivato esso re Carlo a Napoli, non volle smontare al porto, ma furibondo sbarcò in altro sito con intendimento di mettere fuoco a tutta la città; ed avrebbe forse eseguilo il barbarico pensiero, se non era il cardinal Gherardo da Parma legato apostolico, il quale s'interpose, mostrandogli che il reato di pochi vili e pazzi non era da gastigare colla pena dell'innocente pubblico. Tuttavia ne fece ben impiccare da centocinquanta, e poi mosse alla volta di Brindisi, dove, fatta la massa di tutte le sue forze, si trovò avere [170] dieci mila cavalli e quaranta mila fanti, con cento dieci galee, oltre a gran quantità di legni da trasporto. Con questa potente armata nel dì 7 di luglio passò in Calabria, e misesi per terra e per mare all'assedio di Reggio. Intanto due cardinali legati trattavano di liberare il principe Carlo. La lontananza del re Pietro, le cui risposte conveniva aspettare, e il saper egli tener in parole chiunque negoziava con lui, fecero perdere il tempo al re Carlo, senza tentar impresa più grande; e intanto la flotta fu sbattuta da una tempesta [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 79, tom. 13 Rer. Ital.]; la stagione pericolosa per chi è in mare si accostò, e vennero meno i foraggi e le vettovaglie, di maniera che il re Carlo fu costretto a ritirarsi a Brindisi e a disarmare. Passò dipoi, ma pieno di rammarico e di tristi pensieri, a Napoli. Mentre era esso re in Calabria, avea il re Pietro spedito in soccorso della Sicilia quattordici galee, che arditamente in faccia dell'armata franzese entrarono nel porto di Messina. E partito appena fu il re Carlo, che Ruggieri di Loria s'impadronì di Nicotera, Cassano, Cotrone, Loria, Martorano, Squillace, Tropea, Neocastro ed altre terre in Calabria e Basilicata. In questo medesimo anno nel dì 12 di settembre arrivò il suddetto ammiraglio colla sua flotta all'isola delle Gerbe nel mare di Tunisi, abitata dai Maomettani, e la prese e spogliò, con asportarne gran copia di ricchezze e più di sei mila schiavi. Come potesse egli in tal tempo, cioè allorchè era minacciata sì da vicino la Sicilia, non si sa ben intendere. Fece egli quivi poscia fabbricare una fortezza, e vi mise un presidio di cristiani. Probabilmente è da riferire ad alcun altro anno sì fatta impresa. In questi tempi Ottone Visconte arcivescovo di Milano, essendosi inimicato Guglielmo marchese di Monferrato [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 321.], e ben prevedendo che i Torriani coll'aiuto di lui tenterebbono [171] di risorgere, siccome infatti avvenne, spedì ambasciatori a Ridolfo re de' Romani, sì per distorlo di favorire essi Torriani, il che avea egli praticato in addietro, come ancora per ottenere il suo patrocinio. Ed appunto l'ottenne, con avergli Ridolfo mandate cento lancie tedesche e cinquanta balestrieri con balestre di corno. Maritò in quest'anno il suddetto marchese di Monferrato Jolanta o sia Violante, sua figliuola [Memorial. Potest. Regiens.], con Andronico Paleologo imperadore di Costantinopoli, e diedele in dote il regno di Tessalonica, ossia di Salonichi, da cui poco utile ricavava in questi tempi il marchese. Dal che apparisce che fin qui i marchesi di Monferrato doveano tuttavia ritenere qualche dominio in quelle contrade. Oltre di avere il greco Augusto pagate molte migliaia di bisanti al suocero suo, si obbligò ancora di mantener al di lui servigio in Lombardia cinquecento cavalieri alle sue spese, durante la vita del medesimo marchese. Fu poi cagione questo maritaggio, siccome vedremo, che il Monferrato pervenne ad un figliuolo d'essa imperatrice [Du-Cange, in Famil. Byzantin.], alla quale, secondo il loro costume, i Greci mutarono il proprio nome in quello di Irene. Ora il marchese Guglielmo col suddetto rinforzo di moneta cominciò nuove tele per l'ingrandimento suo. Ebbe maniera di entrare un dì per tradimento nella città di Tortona verso l'aurora; nella qual congiuntura molti cittadini furono uccisi, altri spogliati, altri carcerati. Uno de' rimasti prigionieri fu il vescovo Melchiore, il quale sempre si era opposto ai tentativi del marchese sopra quella città, sua patria. Fu egli inviato con guardie, acciocchè inducesse i castellani delle sue terre a rendersi al marchese: il che essi ricusarono di fare. Però, nel tornare a Tortona, i capitani del marchese con sacrilega barbarie ammazzarono l'infelice prelato. In quest'orrido misfatto protestò poi il marchese di non [172] avere avuta parte alcuna; ma forse da pochi gli fu creduto.

Raimondo dalla Torre patriarca di Aquileia cogli altri Torriani liberi strinse lega nell'anno presente con esso marchese [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], dopo aver fatto un deposito di grossa somma d'oro da pagarsi al medesimo marchese, dacchè fossero eseguiti i patti. In vigore di questo accordo furono rilasciati dalle carceri di Monte Baradello dai Comaschi, ubbidienti tuttavia al marchese, Antonio, Arenchio e Mosca dalla Torre. Ne era dianzi fuggito Guido dalla Torre, che poi divenne signor di Milano. Ma quivi aveano miseramente terminati i lor giorni Napo ossia Napoleone, Carnevale e Lombardo, tutti dalla Torre. Cominciarono, oltre a ciò, i Comaschi dal canto loro guerra a Milano, e presero alcune castella nella riviera di Lecco. Ma avendo l'arcivescovo eletto per suo vicario generale nel temporale Matteo Visconte suo nipote, questi valorosamente ricuperò quelle terre, cominciando con questa impresa a farsi strada alla somma esaltazione, a cui egli e la sua famiglia dipoi arrivò. Benchè nella Cronica di Parma si legga che nell'anno 1282 si sconciò la buona armonia fra i cittadini di Modena, pure abbiamo dalla stessa che nell'anno presente ebbe principio questa diavoleria, che ridusse poi in cattivo stato essa città, e tornò in grave pregiudizio della parte guelfa di Lombardia. Ne parlano appunto a quest'anno anche gli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinenes, tom. 11 Rer. Ital.] e la Cronica di Reggio [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. In occasione che da uno della nobil casa dei Guidotti fu ucciso un altro nobile della famiglia da Savignano, si formarono due fazioni. Il podestà fece mozzare il capo all'uccisore, e distruggere da' fondamenti due torri, con altre non poche condannagioni. Il popolo fremente atterrò molte altre [173] case; e finalmente la parte de' Boschetti, co' quali andavano uniti i Rangoni e Guidoni, scacciò fuori della città la fazione de' Savignani e Grassoni, la quale, ritiratasi a Sassuolo, a Savignano e ad altre terre, si diede a far guerra ai Boschetti e alla città, distruggendo e bruciando. Fecero i Boschetti col popolo di Modena un buon esercito contra de' fuorusciti, e s'inviarono alla volta di Sassuolo. Manfredino dalla Rosa signor di quella terra cogli usciti venne ad incontrarli, e li sconfisse con istrage e prigionia di molte persone. Mandarono i Parmigiani dodici ambasciatori per trattar di pace; i Boschetti non vollero dar loro ascolto. Erano allora in lega Piacenza, Parma, Cremona, Reggio, Bologna, Ferrara e Brescia, tutte città di parte guelfa, e, loro dispiacendo la pazza discordia de' Modenesi, tutte spedirono a Reggio i loro ambasciatori, per tener quivi un parlamento, e trattare di levar questo scandalo. Chiamati v'intervennero i deputati delle due fazioni della città di Modena; tuttavia, per quanto si affaticassero i mediatori, le teste dure dei Boschetti e de' lor partigiani ricusarono ogni proposizion d'accordo, di maniera che fu risoluto di lasciarli in preda al loro capriccio, e che si rompessero pazzamente fra loro il capo, giacchè così loro piaceva. Il perchè i Modenesi dominanti mandarono in Toscana ad assoldare gran gente, e tornati in campagna, essendo al Montale nel dì 19 di settembre, vennero di nuovo alle mani coi fuorusciti, e di nuovo ancora furono rotti colla mortalità e prigionia di molti. Per compassione mandarono gli amici Parmigiani nuova ambasceria a Modena con varie esortazioni alla pace; ma neppur questa ebbe miglior esito della prima: tanto erano esacerbati e infelloniti gli animi de' nobili e popolari contra de' lor concittadini. Adoperossi ancora un cardinale legato, per introdurre trattato di aggiustamento, e fu rigettata del pari l'interposizione sua. Fecero di peggio inoltre i Modenesi. Per [174] servigio de' Parmigiani veniva un convoglio di sale da Bologna, per essere impedita la via del Po. Quando fu nel territorio di Bazzano, che era allora del distretto di Modena, i Modenesi lo presero colle carra e trentadue paia di buoi, e condussero tutto alla città, e nulla vollero mai restituire, tuttochè si trattasse d'un popolo sì amico e fedele, qual era quello di Parma. Allora fu che i Bolognesi caritativamente proposero ai Parmigiani una lega, per espugnare concordemente Modena; ma il popolo di Parma, ricordevole dell'antica amicizia con quel di Modena, elesse piuttosto di sofferir con pazienza il danno, e di compatir le spropositate risoluzioni dei Modenesi, che di abbracciar le maligne insinuazioni degli antichi nemici di Modena. Nell'anno seguente poi si ravvidero i Modenesi, e soddisfecero al loro dovere.

Furono nondimeno bagattelle questa rispetto all'aspra guerra che nell'anno presente seguì tra i Genovesi e Pisani [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.]. Accaniti l'un contra l'altro erano questi due popoli. L'interesse e l'ambizione non lasciavano lor posa, ardendo tutti di voglia di procurare l'uno la rovina dell'altro. L'anno appunto fu questo che decise la lor contesa. Vennero a dura battaglia le lor flotte nel dì 22 d'aprile, e andarono in rotta i Pisani con perdere otto galee, che furono condotte a Genova, e con restarne una sommersa. Per questa sciagura, in vece di avvilirsi, maggiormente s'impegnò il popolo pisano a sostener la gara, ed armate settantadue galee con altri legni, pieni di tutto il fiore della nobiltà e de' popolari e forensi, fastosamente uscì in mare con tal galloria, che sembrava il loro stuolo incamminato ad un sicuro trionfo [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 91.]. Colto il tempo che l'armata de' Genovesi era ita in Sardegna, diedero i Pisani il guasto alla riviera di Genova: si presentarono anche al porto di quella città con balestrare, [175] ingiuriare e richiedere di battaglia i Genovesi; e, dopo queste bravure, se ne ritornarono gloriosi a casa. Ma giunte dalla Sardegna a Genova le galee, fece il popolo genovese un armamento di ottantotto galee e otto panfili, e con questa flotta andò in traccia della pisana, e, trovatala in vicinanza della Melora, attaccò un'orribil battaglia nel dì 6 d'agosto. Da gran tempo non s'era veduto in mare un conflitto sì ostinato e sanguinoso come fu questo. La vittoria in fine si dichiarò per li Genovesi, siccome superiori di forze, che ventinove galee dei nemici menarono a Genova, e sette ne affondarono. Grande fu la mortalità dalla una parte e dall'altra; maggiore nondimeno, anzi sommo il danno de' Pisani, perchè circa undici mila d'essi (chi dice meno, e forse dirà più vero, e chi dice anche più, per ingrandimento di fama) rimasti prigionieri, furono condotti nelle carceri di Genova, dove la maggior parte per gli stenti a poco a poco andò terminando i suoi giorni. E di qui nacque il proverbio: Chi vuol veder Pisa vada a Genova. Gli speculativi de' segreti del cielo osservarono che in quelle stesse vicinanze della Melora nell'anno 1241 aveano i Pisani sacrilegamente presi i prelati che andavano al concilio, e credettero che Dio avesse aspettato per quarantatrè anni a gastigare il loro misfatto. Quel che è certo, Pisa da lì innanzi, per sì grave perdita di gente, non men popolare che nobile, non potè più alzare il capo, e andò tanto declinando che arrivò a perdere la propria libertà, siccome s'andrà vedendo. Io non so come l'autore della Cronica Reggiana [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], che scriveva di mano in mano le avventure di questi tempi, metta il suddetto memorando fatto d'armi sotto il dì 15 d'agosto. Una spaventosa innondazione del mare, smisuratamente gonfiato nel dì 22 di dicembre in quest'anno, recò un incredibll danno a Venezia e Chioggia, essendovi [176] perite molte navi e persone ed una esorbitante copia di merci. Bernardo cardinale legato in Bologna attribuiva questa loro disgrazia all'essere stati scomunicati da lui i Veneziani, perchè non voleano dar soccorso al re Carlo contra di Pietro re d'Aragona. Sicchè, secondo i suoi conti, Dio dovea essersi visibilmente dichiarato in favore del re Carlo. Se ciò si possa credere, lo vedremo all'anno seguente.


   
Anno di Cristo mcclxxxv. Indiz. VIII.
Onorio IV papa 1.
Ridolfo re de' Romani 13.

Sopraffatto probabilmente da troppi affanni Carlo re di Sicilia, cadde infermo nella città di Foggia, mentre era tutto affaccendato per un formidabil armamento, con disegno d'assalir la Sicilia, in tempo che anche i Franzesi doveano dal canto loro invadere il regno di Aragona a Catalogna. Quivi terminò egli con tutta rassegnazione e con piissimi sentimenti la sua vita nel settimo dì di gennaio dell'anno presente, con infinito dispiacere de' Guelfi, che l'amavano forte, e il consideravano pel più forte loro sostegno [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 94. Memorial. Potest. Regiens.]. Principe di smoderata ambizione, per soddisfar la quale sagrificava tutto, e che sarebbe stato assai lodevole e glorioso, se, siccome seppe guadagnar dei regni, avesse anche atteso a guadagnarsi l'amore de' sudditi, e non gli avesse piuttosto tiranneggiati: il che fu cagione di molte sue disavventure. Lasciò il suo regno di Puglia ossia di Napoli in poco buono stato, perchè in guerra co' Siciliani e col principe Carlo, suo primogenito ed erede, prigione in Sicilia stessa. Nè si dee tacere che questo sventurato suo figlio, dopo la sua prigionia, corse un gran pericolo. Non avendo potuto i cardinali legati, spediti dal papa in Sicilia, venire a [177] capo del loro negoziato per liberarlo, fulminarono le più terribili scomuniche contra de' Siciliani e contro del re d'Aragona. Erano per questo al maggior segno irritati i Messinesi, e giunta colà anche la nuova della morte del re Carlo, furiosamente andarono alle prigioni, dove erano detenuti i Franzesi, per ucciderli; e perchè questi fecero quella difesa che poterono, attaccarono il fuoco alle carceri, e miseramente vi fecero perire più di sessanta nobili di quella nazione. Ricobaldo [Richobaldus, in Pom., tom. 9 Rer. Ital.], che fioriva in questi tempi, scrive che più di ducento nobili vi furono barbaramente uccisi, e non già bruciati nelle prigioni. Inoltre si accordarono tutte le terre dell'isola a voler la morte del suddetto principe Carlo in vendetta di quella di Manfredi e di Corradino. Ma Dio volle che la regina Costanza e l'infante don Giacomo con savio consiglio frenarono così furiosa sentenza con prender tempo, allegando che conveniva intendere sopra ciò la volontà del re Pietro. Volontà appunto del re Pietro era che se gli mandasse in Catalogna il principe prigioniere per maggior sicurezza, e infatti vi fu mandato. Intanto fu questo principe riconosciuto per re e successore del padre in Puglia [Bartholom. de Neocastro, cap. 90, tom. 13 Rer. Ital.], e, durante la sua prigionia, sostituito balio del regno Roberto conte di Artois, fratello del re di Francia, colla assistenza del cardinale legato Gherardo Bianco da Parma; e per allora cessò ogni pensiero di portar la guerra in Sicilia. In questi tempi la città di Gallipoli si diede agli Aragonesi. Tenne dietro alla morte del re Carlo quella di Martino IV pontefice, schiavo fin qui di tutti i voleri d'esso re, e che votò l'erario delle scomuniche per fulminar tutti i Ghibellini, e chiunque era nemico o poco amico del medesimo re Carlo. Pontefice per altro degno di lode, sì pel suo zelo ecclesiastico, come per lo staccamento dall'amore de' suoi parenti, che, nati poveri, non [178] volle mai esaltare. Erasi egli portato a Perugia, giacchè quella città umiliatasi era rientrata in sua grazia, e quivi cantò messa nel giorno santo di Pasqua, caduto in quest'anno nel dì 25 di marzo. Nel dì seguente si ammalò, e nella notte del mercordì, venendo il dì 29, passò all'altra vita [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Dicesi che nel giovedì susseguente gli fu data sepoltura nella cattedrale di quella città; ma, secondo il Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl.], fu portato il di lui cadavere ad Assisi nella chiesa de' Minori, da lui amati sopra gli altri religiosi finchè visse. Fu da alcuni [Franciscus Pipin., Chron., tom. 9 Rer. Ital. Annales Colmar.] attribuita la sua infermità e morte ad eccesso in mangiar delle anguille, del qual cibo egli era ghiotto. Nel dì 2 d'aprile concordemente si vide esaltato dai cardinali al pontificato Jacopo della nobil casa de' Savelli, Romano, cardinal diacono di Santa Maria in Cosmedin [Bernardus Guid. Ptolom. Lucens., Hist. Eccl. et alii.], il quale prese il nome di Onorio IV. Era egli così attratto per cagion della gotta, ne' piedi e nelle mani, che non potea camminare, nè stare in piedi, nè unire un dito coll'altro. Ma vegeta era la sua testa, e vigorosa la sua lingua. Portossi egli dipoi a Roma, dove, consecrato prete e vescovo, fu ornato della tiara pontificia. Contribuì questo pontefice al sollievo del regno di Napoli, con pubblicare una saggia costituzione di varii capitoli, già ordita da papa Martino IV, che vien rapportata dal Rinaldi e dagli scrittori napoletani, e fu data nel dì 17 di settembre dell'anno presente in Tivoli. Dovea servir questa a levar di molte gravezze ed abusi introdotti già da Federigo II, da Manfredi, e massimamente dal re Carlo I. Ma i re susseguenti, con pretesto che fosse pregiudiziale ai loro diritti, non permisero che avesse vigore.

Del resto seguitò anche Onorio IV, come il suo predecessore, ad aggravare di decime i beni ecclesiastici per le guerre [179] (non so come appellate sante) dei Franzesi contra degli Aragonesi. Mi sia lecito l'accennar qui brevemente quella di Catalogna, perchè essa ha connessione cogli affari della Sicilia. Già papa Martino IV avea privato il re Pietro del regno di Aragona, Valenza e Catalogna, e datane la investitura a Carlo di Valois, secondogenito di Filippo l'Ardito re di Francia. Già s'era predicata la crociata per andare alla conquista di quel regno, perchè pur troppo in questi miserabili tempi si facea continuamente servire la religione all'umana politica con disonore del nome cristiano. Lo stesso re Filippo in persona con Filippo e Carlo suoi figliuoli, con una formidabile armata per terra e una potentissima flotta per mare [Bartholom. de Neocastro, cap. 91 et seq., tom. 13 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 101 et seq.], passò in Catalogna, dove que' santi crociati commisero violenze e sacrilegii senza numero. Prese la città di Roses, ed assediò, nel dì 28 di giugno, la città di Girona, che fece una mirabil difesa. Il re Pietro, signore di gran valore, con quelle poche compagnie di cavalleria che avea, fece di grandi prodezze, infestando continuamente dì e notte l'esercito nemico. Ma in una di queste scorrerie sopraffatto da' Franzesi, e ferito con una lancia, sconosciuto venne condotto prigione. Male per lui, se, presa la spada ad un di que' nobili nemici, non si fosse fatto largo: con che, dato di sproni al cavallo, ebbe la fortuna di ridursi in salvo. Fu presa in fine Girona a patti di buona guerra dai Franzesi. Avea intanto Ruggieri di Loria sottomessa la città di Taranto nel dì 15 di luglio, quando gli arrivò ordine di passare a Barcellona. Vi giunse egli nel dì 26 di settembre con trentasei galee, colle quali si unirono dodici altre di Catalani. Sarpò dipoi l'ancore, e con questa flotta l'animoso ammiraglio andò nel dì primo di ottobre ad assalir la franzese, scemata molto di ciurme e di gente, benchè superiore [180] di numero. Parte di quelle galee fu presa, parte incendiata, non senza strage di molti, e col guadagno di gran bottino. Ritolse egli ancora Roses ai Franzesi; ed appresso, venendo un grosso vascello del duca di Brabante, carico di viveri e di ricchezze, in soccorso de' Franzesi, sotto la scorta di dodici galee, Ruggieri con bandiera di Francia aggraffò tutti que' legni, il tesoro e la vettovaglie. Tutte queste funeste nuove portate al campo franzese, lo riempierono di terrore, perchè perduta era la speranza di ricevere in avvenire le necessarie provvisioni per mare. Il re Filippo, o per la doglia, o per l'aria s'infermò. Se vogliam credere a Bartolommeo da Neocastro [Bartholom. de Neocastro, cap. 91 et seq., tom. 13 Rer. Ital.] e a Niccolò Speciale [Nicolaus Specialis, Hist. Sicul., tom. 10 Rer. Ital.], la lunghezza dell'assedio di Girona, ed una prodigiosa specie di tafani che feriva uomini e cavalli, aveano fatto perire assaissime migliaia di soldati e d'animali: laonde per necessità convenne sloggiare in somma fretta per ripassare i Pirenei e tornarsene in Linguadoca. Ai passi delle montagne eccoti i Micheletti, che recarono gran danno alle persone e robe de' fuggitivi e sconfitti Franzesi. Il re Filippo, portato con gran disagio in una bara sino a Perpignano, quivi nel dì 6 d'ottobre fece fine ai suoi giorni. All'incontro ricuperata ch'ebbe il re Pietro Girona, anch'egli, o per malattia, o per la ferita di cui parlammo, passò all'altra vita nel dì 11 di novembre con atti di vera penitenza, e riconciliato colla Chiesa. E tale fu il fine di quella strepitosa impresa, per cui ebbe molto da piagnere la Catalogna, ma molto più senza paragone la Francia. Vien essa descritta da Bartolommeo da Neocastro, da Giovanni Villani e da altri, con diversità di circostanze, e colla giunta di qualche favola, siccome tuttodì avviene in casi tali per la varietà delle passioni e della parzialità, amplificando cadauno le [181] prodezze e diminuendo le disgrazie proprie. Ed ecco dove andarono a terminar le scomuniche, le crociate e tanto sangue per detronizzar gli Aragonesi. Alfonso primogenito del re Pietro succedette al padre nell'Aragona; l'infante don Giacomo, secondo il testamento del padre, nel regno di Sicilia; ed essi tennero forte i loro Stati. Ma cotante disgrazie, e le morti del papa e dei due re Filippo e Carlo dovrebbono ben servire di documento alle corte nostre teste, per non entrare con tanta franchezza ne' gabinetti di Dio, quasichè egli operi o abbia da operare a misura dei nostri vani desiderii e del nostro mondano interesse. Sono ben diversi i giudizii di lui da quei de' mortali; nè mai manca in quelli sapienza e giustizia: mancano bensì queste, e sovente, nei nostri.

Erano entrati in Como i Torriani, ed in quest'anno fecero guerra con varia fortuna a Milano, impadronendosi di Castel Seprio e d'altri luoghi, che da Matteo Visconte e dal popolo milanese furono ricuperati. Io non mi fermerò in questi minuti fatti. Le notizie d'essi a noi sono state conservate dal Corio [Corio, Istor. di Milano.] e dal Calchi [Calchus, Hist. Mediolanens.]. Benchè in quest'anno ancora [Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.] si adoperassero più d'una volta gli ambasciatori di Parma, Reggio, Bologna e Ferrara per quetare i torbidi di Modena; pure nulla di bene se ne ricavò. Aveano Gherardino Rangone pel popolo della città, e Manfredino da Sassuolo per gli usciti ridotto a buon termine un trattato d'accomodamento; ma, per le esorbitanti pretensioni de' Boschetti, tutto andò a terra. E quantunque essendo venuti a Modena Guido e Matteo fratelli da Correggio, si facesse compromesso in essi, e fossero dati gli ostaggi, e si venisse al laudo [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]; pure i Boschetti non vollero accettarlo. Seguì poi una [182] nuova battaglia a Gorzano fra il popolo di questa città e i fuorusciti, in cui gli ultimi rimasero sconfitti. Aveano, trovandosi in gravi angustie i Pisani per la funestissima lor perdita dell'anno precedente, e veggendo giù collegati e in armi tutti i Guelfi di Toscana, cioè Fiorentini, Sanesi, Lucchesi ed altri popoli, giacchè tutti erano istigati dai Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Italic. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 97.], gente ansiosa, più che d'altro, della rovina di Pisa, e che già avea in mente di schiantarla, e di ridurre quel popolo in varii borghi: aveano, dissi, i Pisani spedito a Genova per ottener pace. Ma quivi si trovarono orecchi sordi e cuori inflessibili. Si rivolsero dunque ai Fiorentini, e segretamente trattarono concordia con essi a condizione di governarsi in avvenire a parte guelfa, e di cedere a' Fiorentini Ponte ad Era, con altri vantaggi. Acconsentirono al partito i Fiorentini, perchè non amavano di veder troppo crescere i Genovesi, e premeva loro di aver libero commercio a Porto Pisano. Il conte Ugolino de' Gherardeschi, guelfo di professione, che avea menato il trattato, seppe profittarne per sè; imperciocchè nel gennaio del presente anno, dopo aver cacciati di Pisa i Ghibellini, ottenne d'essere fatto signore della città per dieci anni. I Genovesi e Lucchesi, che niuna contezza aveano avuto di questo trattato, e molto meno vi aveano prestato il loro assenso, sdegnati più che mai seguitarono a far guerra a Pisa. Presero i Lucchesi parecchie lor castella, e i Genovesi molte lor navi, con distruggere ancora le torri di Porto Pisano e rovinare Livorno. Fu levato in quest'anno dal papa l'interdetto posto alla città di Venezia [Raynald., in Annal. Eccl., num. 63.], non per altro delitto che per non aver voluto i Veneziani, secondo le lor leggi, lasciar far gente ed armar legni ne' loro Stati in soccorso del re Carlo contra del re Pietro. Motivo c'è di stupire oggidì, come per [183] cagion sì fatta venisse privata de' divini uffizii e gastigata quell'illustre e libera città. Ma erano tali i costumi di questi tempi sconvolti, tali i frutti della barbarie e della malizia, o piuttosto dell'ignoranza d'allora.


   
Anno di Cristo mcclxxxvi. Indiz. XIV.
Onorio IV papa 2.
Ridolfo re de' Romani 14.

Dopo aver patita una fiera burrasca Ruggieri di Loria nel suo ritorno dalla Catalogna, per cui s'affondarono alcune delle sue galee [Barthol. de Neocastro, cap. 101, tom. 13 Rer. Ital. Nicolaus Specialis, lib. 2, cap. 8, tom. 10 Rer. Ital.], arrivò coll'altre tutte maltrattate a Palermo nel dì 12 di dicembre, e portò l'infausta nuova della morte del re don Pietro ai Siciliani. Però si fecero i dovuti preparamenti per coronare re di Sicilia l'infante don Giacomo suo secondogenito. Intanto per li mali portamenti de' Catalani, nel dì 19 di gennaio del presente anno Taranto, Castrovillaro e Murano tornarono all'ubbidienza di Carlo II nuovo re, ma prigioniere, di Napoli. All'incontro i Catalani presero il castello dell'Abbate, situato trenta miglia da Salerno, e vi misero presidio. Nella festa della purificazion della Vergine, cioè nel dì 2 di febbraio, seguì in Palermo la solenne coronazione in re di Sicilia del suddetto infante don Giacomo; la qual nuova, portata a Roma, diede ansa a papa Onorio, che già avea fulminata, prima di saperlo, la scomunica contra d'esso infante e della regina Costanza sua madre, di rinnovar nell'Ascensione del Signore le suddette censure contra di loro, e di citare a Roma i vescovi di Cefalù e di Neocastro, che aveano coronato il principe, suddetto; ed anch'essi poi furono scomunicati per la loro disubbidienza. Abbiamo dagli Annali Ecclesiastici [Raynald., in Annal, Eccles.] che in quest'anno, avendo fatta istanza Ridolfo re de' Romani al [184] pontefice Onorio di venir a Roma a prendere la corona dell'imperio, il papa gradì questa sua intenzione, e con sue lettere scritte in Roma nel dì ultimo di maggio gli prescrisse il giorno della Purificazion della Vergine dell'anno seguente per così gran funzione. Perchè egli mai non venisse non è ben noto. Scrivono alcuni che non si fidò d'allontanarsi dalla Germania per sospetto che v'insorgessero dei torbidi. Altri che il ritenne la poca fede ch'egli aveva negli Italiani, con dire la favoletta della volpe d'Esopo, che, invitata dal lione, ricusò d'andarvi, perchè vedea le pedate d'altri molti animali che erano entrati nel dì lui covile, ma niuna di chi ne fosse uscito. Potrebbono essere tutte immaginazioni degli scrittori susseguenti, giacchè non abbiamo storia d'alcun suo contemporaneo ben informato degli affari della sua corte. Quel che è certo, egli inviò nell'anno presente [Giovanni Villani, lib. 7, cap. III.] per suo vicario in Italia Prinzivalle del Fiesco de' conti di Lavagna, e ciò con consentimento di papa Onorio, giacchè erano ridotte le cose a tal segno, che nel governo del regno di Italia conveniva dipender dal beneplacito de' romani pontefici. Andò Prinzivalle in Toscana, e richiese i Fiorentini, Sanesi ed altri popoli di quelle contrade di fare i comandamenti del re Ridolfo. Ma queglino, da gran tempo avvezzi a non udir di queste chiamate, niuna ubbidienza gli vollero prestare, perchè ito colà senza forza d'armati. Li condannò ben egli, siccome disubbidienti, a gravissime pene pecuniarie; il che mosse ognuno a riso, di modo che, veggendosi sprezzato, prese il partito migliore di ritornarsene in Germania per non perdere affatto il credito suo e del padrone. Scrisse il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 20.], allegando l'autorità del Biondo, del Platina, del Crantzio e del Cuspiniano, che Ridolfo per pochi danari andò vendendo la libertà alle città della Toscana. Ma non sono bastanti i citati [185] scrittori ad assicurarci di tal fatto; nè vien prodotto diploma alcuno, da cui possa apparire e la qualità e la verità di sì fatto supposto. Tolomeo da Lucca scrive che Prinzivalle per la sua povertà fu quegli che fu costretto a vendere la giurisdizione dell'imperio; nè ciò dice del re Ridolfo. Quanto a me, dubito forte se il Sigonio scrivesse egli quelle cose, sapendo che alla sua Storia dopo sua morte furono fatte delle giunte; e tali appunto sembrano gli ultimi pezzi della opera sua.

Ruggieri di Loria nel marzo di questo anno con otto galee andò a dare il guasto alla riviera di Provenza [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 102 et seq., tom. 13 Rer. Ital.]; e nel mese di giugno Bernardo da Sarriano cavalier siciliano con dodici altre galee espugnò e prese la città ed isola di Capri, e poscia quella di Procida, dove lasciò guarnigione. Questi parimente arrivato ad Astura, cioè a quel castello dove fu preso il re Corradino, per forza se ne impadronì. Quivi, trafitto da una lancia, morì il figliuolo di quel Jacopo, ossia Giovanni de' Frangipani, signore della terra, che consegnò esso Corradino al re Carlo I. Altri vi furono morti, e il luogo per la maggior parte consunto dalle fiamme. L'industria e i danari ben adoperati da Ottone Visconte arcivescovo e signor di Milano [Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 323. Corio, Istor. di Milano.] guadagnarono di maniera il comune di Como, che si venne ad una pace nel mese d'aprile, in cui furono bensì restituiti ai Torriani i loro allodiali, ma con obbligo di ritirarsi dal Milanese e Comasco, e di andare a' confini in Ravenna. Non osservarono essi dipoi questa dura legge, e passarono a dimorare col patriarca Raimondo in Aquileia. Intanto non cessavano mai i Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], siccome veri amici de' Modenesi, di procurar la pace fra le due guerreggianti fazioni de' Savignani usciti, e de' Boschetti [186] e Rangoni dominanti; e ciò anche per bene della parte guelfa. Più e più ambasciatori inviarono per questo a Modena; vi spedì anche i suoi ogni altra città guelfa di Lombardia; ma sempre s'incontravano durezze ne' Boschetti. Per ultimo fece lor sapere il comune di Parma, che esso si dichiarerebbe in favore degli usciti, se persistevano a rigettar la forma della pace, già stabilita da Guido e Matteo da Correggio; e infatti, avendo mandato in loro aiuto un corpo di gente, fece ritirare il popolo di Modena dall'assedio di Livizzano. Finalmente si arrenderono gli ostinati alle minaccie e al buon volere de' Parmigiani, e nel mese di giugno fu segnata la pace fra loro. Secondo la Cronica di Reggio [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], quei da Savignano e i Grassoni coi loro aderenti rientrarono in Modena, e furono dirupate alcune castella in vigor d'essa pace. All'incontro nella città di Reggio si accese discordia per l'uccisione di Guido e Bonifazio della nobil casa da Canossa; e perchè Bonifazio Baiardo con altri di Bismantova e varii banditi prese e spogliò il nobil monistero di San Prospero de' Benedettini presso a Reggio, colà ancora, per metter pace, i buoni Parmigiani spedirono più ambascerie, ma senza ricavar frutto dai loro caritativi uffizii. Per attestato di Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., lib. 24, cap. 13, tom. 11 Rer. Ital.], di Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 8.] e di santo Antonino [S. Antonin., P. III, tit. 20, cap. 5. Raynald., Annal. Eccles.], in quest'anno papa Onorio IV assodò l'ordine de' Carmelitani, qui prius in concilio lugdunensi remanserat in suspenso. Di più ordinò che quei frati andassero vestiti solamente di bianco, perchè portavano prima le lor cappe fatte a liste larghe o doghe di due colori, bianco e bigio; il qual abito pareva ridicolo ed indecente. Dicevano ben essi che quello era l'abito di Elia profeta; ma santo Antonino risponde che di ciò non si [187] truova vestigio nella sacra Scrittura, nè in iscrittura alcuna autentica, e che essi religiosi ebbero il loro principio in Soria, dappoichè i Franchi riacquistarono Gerusalemme, e che i Saraceni li scacciarono di poi dal monte Carmelo, dal quale Carmelitae dicuntur, non quod ab Helia habuerint initium: il che è confermato da scrittori ancora più antichi. Avendo Guglielmo degli Ubertini vescovo d'Arezzo fatto ribellare a' Sanesi [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 109.] nell'anno addietro il Poggio a Santa Cecilia, luogo d'importanza, si commosse tutta la parte guelfa per questo, e cadauna città mandò la taglia di sua gente in aiuto de' Sanesi, i quali per lo spazio di cinque mesi tennero l'assedio a quel castello, e finalmente nel dì quinto di quest'anno lo ricuperarono, con poi rasarlo da' fondamenti. Bonifazio arcivescovo di Ravenna [Rubeus, Hist. Ravenn. Ughell., Ital. Sacr., tom. 2.] nel dì 8 di luglio tenne in Forlì un concilio provinciale, al quale intervennero i vescovi o i deputati di tutta la provincia, e vi furono pubblicati alcuni canoni. Fu poi spedito questo prelato in Francia dal pontefice Onorio per maneggiare una tregua tra Filippo il Bello re di Francia e gli Aragonesi, e insieme per trattare della libertà di Carlo II re di Sicilia ossia di Napoli.


   
Anno di Cristo mcclxxxvii. Indiz. XV.
Onorio IV papa 3
Ridolfo re de' Romani 15.

Erasi mosso Odoardo re d'Inghilterra, e venuto in Guascogna, ed anche in Catalogna, per trattar della liberazione del suddetto re di Napoli, ossia di Sicilia, ed avea già ridotto a buon termine il negoziato [Raynaldus, in Annal. Eccl.]: con che la Sicilia e Reggio di Calabria restassero a Giacomo re di Sicilia, e che i Franzesi rinunziassero [188] alle pretensioni sopra l'Aragona. Informato di questo papa Onorio, con suo Breve dato in Roma nel dì 4 di marzo, riprovò ed annullò esso accordo. Questa fu delle ultime azioni, non so se lodevoli, d'esso pontefice; imperocchè, infermatosi in Roma nel giovedì santo, giorno 3 di aprile, passò a miglior vita [Franciscus Pipin., Chron., tom. 9 Rer. Ital.], con avere anch'egli fatto il possibile per arricchire ed ingrandire i suoi. Vacò dipoi lungo tempo la santa Sede a cagion della discordia de' cardinali, alcuni de' quali la pagarono caro, perchè dall'aria romana furono balzati all'altro mondo. Tramarono in quest'anno due frati in Sicilia la ribellione della piccola città di Augusta, ossia Agosta, credendosi di guadagnare gran ricompensa dal papa e dal governo di Napoli, e fors'anche il paradiso con sì bella impresa. Furono a Roma [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 110, tom. 13 Rer. Ital.], e non fu fatto caso del loro progetto. Andarono a Napoli, e Roberto conte di Artois, balio del regno, non si lasciò scappare la congiuntura. Fece egli muovere da Brindisi quaranta galee piene di combattenti, e queste, nel dì primo di maggio, presentatesi ad Augusta, senza fatica presero il possesso della terra e del castello. Le galee, scaricati ch'ebbero gli armati, voltarono le prore alla volta di Sorrento. A questa nuova il re Giacomo ordinò tosto all'ammiraglio Ruggieri di Loria, che fortunatamente era tornato dalla Catalogna a Messina, d'allestire quanti legni potea. Con questi esso re navigò a Catania, in tempo appunto che anche quella città correva pericolo di cadere in mano dei nemici. Poscia si portò all'assedio di Augusta, e tanto la tenne stretta e flagellò colle macchine, che per mancanza di viveri e d'acqua, nel dì 23 di giugno la costrinse alla resa, salva la vita de' cittadini, che furono dispersi per le castella della Sicilia. Intanto il valente Ruggieri di Loria, sapendo che si faceva un gran preparamento contro le terre di Sicilia, [189] uscì colla sua flotta in traccia de' nemici. Li trovò a Castellamare, oppure a Napoli. La loro armata marittima consisteva in ottantaquattro fra galee e galeazze, senza contar altre navi e barche da trasporto e per la vettovaglia, e però superiore di gran lunga alla siciliana. Tuttavia mandò Ruggieri la sfida pel dì 25 di giugno all'ammiraglio nemico [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 116.]; laonde per questo, o per gli scherni lor fatti dalle ciurme siciliane, si disposero tutti i baroni alla naval battaglia, animati spezialmente dalle grandi indulgenze che il cardinal Gherardo legato apostolico profuse in questa congiuntura. Con incredibil valore fu combattuto dall'una e dall'altra parte; ma in fine restarono superiori i Siciliani con prendere quarantaquattro tra galee e galeazze, e gran copia di baroni, fra i quali Filippo figlio del conte di Fiandra, Raimondo del Balzo conte d'Avellino, e i conti di Brenna, Monopello, Aquila, Joinvilla, e Guido conte di Monforte, i quali con altri nobili e circa cinque mila prigioni furono mandati a Messina, ed accolti con immenso giubilo e plauso da quel popolo. Il vittorioso Ruggieri si lasciò vedere dipoi davanti a Napoli; e se non era prevenuto dal conte d'Artois e dal legato pontificio, che tennero in dovere il popolo napoletano, questo già inclinava alla rivolta. Si riscattarono poi con danaro tutti que' baroni, a riserva del conte Guido di Monforte, che morì allora nelle prigioni, e meritava di morir peggio tanto prima. Attribuisce Giovanni Villani con altri la colpa di sì gran rotta ad Arrighino de' Mari ammiraglio, che colle sue galee genovesi abbandonò la mischia. Per questo fortunato colpo crebbe di molto la riputazion del re Giacomo, de' Siciliani e degli Aragonesi, e calò non poco quella del conte d'Artois e del re Carlo II.

Attese in questi tempi Ottone Visconte arcivescovo di Milano ad esaltare la propria casa [Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 324.], coll'avere ottenuto che Matteo Visconte, appellato poscia il Magno, [190] ossia il Grande, suo nipote, fosse dichiarato capitano del popolo di Milano. Ebbe questi da una figliuola di Scazzino Borri, sua moglie, cinque figli maschi, cioè Galeazzo, Marco, Giovanni, che fu poi arcivescovo di Milano, Luchino e Stefano. Forte era di corpo, ma maggiormente d'animo; in accortezza e prudenza niuno gli andava innanzi; e lo studio suo principale consisteva in guadagnarsi il cuore sì della nobiltà che del basso popolo. Tendeva egli per questa via a quell'altezza a cui il vedremo giunto a suo tempo. Tenne ancora l'arcivescovo Ottone nel settembre un concilio provinciale, i cui atti furono da me già dati alla luce [Tom. 8 Rer. Ital.]. Peggiorarono in questo anno gli affari di Reggio e di Modena per la matta discordia dei cittadini. Nel dì 10 d'aprile la parte detta di Sopra di Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] scacciò dalla città la parte di Sotto, cioè i nobili di Fogliano e da Canossa coi loro aderenti. Accorsero i Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] per medicar queste piaghe; ma gl'infermi rigettarono il medico. Per sospetto che anche i Modenesi si levassero a rumore, vennero gli ambasciatori di Parma e di Bologna coi loro podestà a Modena, e nel dì 19 del suddetto mese, nel palazzo pubblico, dove intervenne tutto il clero secolare e regolare, col braccio di san Gemignano, con doppieri accesi e colle croci e turiboli, si confermò la pace fra i cittadini. Ma che? Si coprivano, non si estinguevano gli odii in quegl'infelici tempi. Però i Savignani colla parte ghibellina de' Grasolfi, e con Tommasino signore di Sassuolo andarono formando una mina, che scoppiò nel dì cinque di settembre. La Cronica di Reggio mette il dì sei. Fatta una gran raunata di banditi da Modena e Bologna, e di molta gente assoldata in Mantova e Verona, e di molti Tedeschi inviati dal conte del Tirolo [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], si presentarono alla [191] porta bazovara di Modena, per entrarvi. Corse gente; e perchè non si potè aprire quella porta in tutto, fu difesa. Intanto, data campana a martello, ognuno colle armi volò contra dei mal venuti, con ucciderne e prenderne non pochi. Il resto si ritirò a Sassuolo. Corsero i Reggiani guelfi in aiuto di Modena, i Reggiani ghibellini in soccorso de' fuorusciti. Anche cento uomini d'armi a tre cavalli per uno furono spediti da Parma a Modena. Giunta dipoi una falsa voce a Sassuolo, che venivano colà tutte le milizie di Bologna, Parma, Cremona, e di tutta la parte della Chiesa, Tommasino da Sassuolo, che principalmente avea maneggiato il suddetto trattato, con tutti quei banditi se ne fuggì: il che riferito al popolo di Modena, gli servì di stimolo per andare a Sassuolo, e ridurre col fuoco un monte di pietre quella terra. Bernardino da Polenta, che era allora podestà di Modena, fece prendere molti nobili e potenti della città, ed uno de' Lamberti da Ferrara, incolpati di avere tenuta mano in quella trama, e ne fece impiccare trentadue: cosa riputata da tutte per un'orrida crudeltà e pazzia. Tante premure de' Parmigiani, ed anche de' Bolognesi, i quali parimente aveano spedita gente in tal congiuntura a Modena, nascevano dal timore che questa città si gittasse nel partito dei Ghibellini: essendo fuor di dubbio che Pinamonte Bonacossi signore di Mantova, e Alberto dalla Scala signor di Verona fomentavano ed aiutavano gli usciti ghibellini di Modena. Anzi palesemente nel mese di luglio di questo anno furono in aiuto de' fuorusciti di Reggio, i quali s'erano già messi in possesso di molte castella del Reggiano, e faceano gran guerra alla città. Andò il popolo di Reggio con cento cavalieri venuti da Modena ad assediare la rocca di Tumberga, dove stavano alcuni de' Fogliani e Canossi. Mossesi allora Alberto dalla Scala con tutta la cavalleria di Verona e con due figliuoli di Pinamonte, e gran quantità di cavalieri mantovani, e [192] venne per liberar quella rocca dall'assedio; prese anche il castello di Santo Stefano, situato due miglia lungi da Sassuolo. Trattarono gli ambasciatori di Bologna un accordo per essa rocca, ed ebbe fine quel rumore, ma non già la nemicizia e guerra fra quelle fazioni, contuttochè fosse fatto compromesso nel comune di Bologna, e proferito il laudo, che non ebbe effetto alcuno. Fu anche nell'anno presente novità in Toscana. Imperocchè nel mese di giugno [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 114.] i Bostoli e Tarlato di Pietramala, e tutti i grandi di Arezzo ghibellini, fatto concerto col vescovo e con altri vicini di lor fazione, oppressero all'improvviso la parte guelfa, e la spinsero fuori della città, con dichiarare poscia signore il vescovo suddetto degli Ubertini, gran ghibellino. Per questo insorse guerra fra i Fiorentini ed Aretini. Venne anche ad Arezzo Prinzivalle dal Fiesco, vicario del re Ridolfo, con alcune poche squadre di Tedeschi, e colà trassero tutti i Ghibellini di Toscana. Durando tuttavia la guerra fra Genova e Pisa [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.], mandarono i Genovesi alquante loro galee ad infestar Porto Pisano. A queste riuscì di rompere la catena e di entrarvi, con bruciar ivi alcuni legni e varie macchine da guerra: il che fatto, se ne tornarono come trionfanti a Genova. Ebbero anche i Pisani una spelazzata dai Lucchesi a Buisi [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], essendo restati prigioni molti nobili di quella città, e fra gli altri Baldino degli Ubaldini, nipote dell'arcivescovo di Pisa. Se pure in questi tempi è da fidarsi della cronologia degli Annali di Forlì [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], era seguita una lega fra i comuni di Forlì e di Faenza a propria difesa contra del conte della Romagna. Malatesta potente cittadino di Rimini quegli fu che maneggiò questa unione, pacificando fra loro le famiglie potenti di quella città. Ma [193] mentre egli nel dì 14 di giugno con settanta uomini a cavallo da Forlì passava a Rimini, cadde in un'imboscata, tesagli dal conte suddetto della Romagna, e furono morti o presi alcuni de' suoi, fra i quali Giovanni Malatesta suo parente. S'interposero poi varii pacieri, e ne seguì una concordia, per cui le città di Rimini, Forlì e Faenza fecero un deposito di quattro mila fiorini d'oro per cadauna, affine di liberar l'imprigionato Giovanni; e il conte della Romagna sospese tutti i processi e bandi fatti contra di quelle città, finchè il romano pontefice vi consentisse.


   
Anno di Cristo mcclxxxviii. Indiz. I.
Niccolò IV papa 1.
Ridolfo re de' Romani 16.

Il trovarsi chiusi i cardinali per sì lungo tempo nel palazzo del papa Onorio IV a Santa Sabina, senza potersi accordare nell'elezione di un nuovo pontefice, cagion fu che vi morirono sei di essi, e gli altri spaventati si ritirarono alle case loro [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital. Bern. Guid. Giovanni Villani.]. Il cardinal Girolamo nativo d'Ascoli, già ministro generale de' frati minori, ed allora vescovo di Palestrina, stando solo fermo nel conclave, si seppe difendere dai cattivi influssi dell'aria con far fuoco tutta la state nella sua camera. Ora avvenne che raunati i cardinali restanti nella festa della cattedra di san Pietro, cioè nel dì 22 di febbraio [Papebrochius Propyl. ad Act. Sanct. Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] (e non già nel dì 15 d'esso mese, come taluno ha scritto), concorsero tutti ad una voce ad eleggere il suddetto cardinal Girolamo, il quale fu il primo de' frati minori che giugnesse al pontificato, e prese il nome di Niccolò IV per gratitudine al suo promotore Niccolò III. Da Roma passò egli a Rieti, e quivi sino all'anno venturo tenne la sua residenza. Una delle sue prime occupazioni [194] fu di citare con discrete esortazioni e minaccie Giacomo re di Sicilia [Raynald., Annal. Eccl.], e di procurar in tutte le forme la liberazione di Carlo II re di Napoli, che era prigione in Catalogna. Fece dipoi nella Pentecoste una promozion di varii cardinali. Sì efficacemente si adoperò in quest'anno Odoardo re d'Inghilterra, che in Oleron di Bearn fu conchiusa la liberazione di esso Carlo II re di Sicilia, ch'io mi farò lecito di chiamare re di Napoli per minor confusione della storia. Era questo principe stanco di vedersi ristretto in una fortezza, e però acconsentì alle condizioni che furono stabilite da Alfonso re d'Aragona, e dal re d'Inghilterra mediatore. E lasciovvisi indurre anche Alfonso, perchè i Franzesi faceano di grandi minaccie contra de' suoi Stati. Le condizioni furono [Rymer, Acta publ. Angl.]: Che Carlo desse per ostaggi al re d'Aragona tre suoi figliuoli, cioè Luigi suo secondogenito, che fu poi santo vescovo, Roberto terzogenito, che fu poi re di Napoli, e Giovanni ottavogenito, che portò poi il titolo di principe della Morea, e sessanta nobili provenzali; che pagasse trenta mila marche d'argento; che procurasse da Carlo di Valois la rinunzia di sue pretensioni alla corona aragonese; che lasciasse la Sicilia al re Giacomo fratello d'esso Alfonso, con altre ch'io tralascio. E, non potendo eseguir le condizioni suddette nel termine d'un anno, dovesse Carlo ritornare in prigione. Spedita a Rieti questa capitolazione, fu disapprovata; e però convenne modificarla, lasciando andar il punto riguardante la Sicilia. Fu dunque Carlo nel mese di novembre messo in libertà, ed allora egli assunse il titolo di re di Sicilia, e venne alla corte di Parigi per trattar dell'esecuzione di sue promesse.

S'erano rinforzati di molto gli Aretini col concorso di sì gran copia di Ghibellini non solo della Toscana, ma anche della Romagna, del ducato di Spoleti e [195] della marca d'Ancona: il che dava molto da pensare ai Guelfi di Toscana. Perciò i Fiorentini, siccome caporioni della parte guelfa, determinarono di uscire in campagna contra di Arezzo [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 119.]; e messe insieme le lor forze, chiamate ancora le amistà di Lucca, Pistoia, Prato, Volterra e d'altre terre, con un'armata di due mila e secento cavalieri e di dodici mila pedoni fecero oste nel distretto d'Arezzo, con prendere le castella di Leona, Castiglione degli Ubertini, e quarant'altri luoghi. Posersi dipoi all'assedio di Laterina; e colà giunsero ancora i Sanesi con quattrocento cavalli e tre mila fanti. Si rendè Laterina; un gran guasto fu dato al paese, e nella festa di san Giovanni Batista, arrivato l'esercito fiorentino alle porte di Arezzo, quivi fece correre il pallio, come s'usa in Firenze quel dì, per far onta agli Aretini; e poi se ne tornarono a riposare a Firenze. Non vollero i Sanesi accompagnarsi con loro, ma baldanzosamente s'avviarono a casa per la loro via; ma i caporali aretini, sentendo ciò, misero in agguato trecento uomini d'armi e due mila pedoni al valico della Pieve al Toppo. Colà giunti i Sanesi sprovveduti e senza ordine, furono facilmente sconfitti, e vi restarono tra morti e prigioni più di trecento de' migliori cittadini di Siena e gentiluomini di Maremma [Chron. Senens., tom. 15 Rer. Ital.], fra' quali è da notare Ranuccio di Pepo Farnese, che era capitano di taglia della parte di Toscana. Questo avvenimento non poco aumentò la baldanza degli Aretini, e sbigottì non poco i Guelfi di Toscana.

Fecesi anche in Pisa gran novità. Avea il conte Ugolino de' Gherardeschi col mezzo di varie doppiezze ed iniquità occupato il dominio di quella città; s'era guadagnata l'amicizia de' Fiorentini e Lucchesi con rendere loro alcune castella del comune, e andava poi attraversando la pace co' Genovesi, desiderata da molti per riavere i lor prigioni. Trovavasi allora [196] Pisa divisa in molte fazioni; quella dell'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini era la più forte, ed egli appunto nudriva un odio intenso contra del conte, fra le altre cagioni, perchè gli avea bestialmente ucciso un nipote. Ordinò dunque il prelato una congiura, che ebbe il suo effetto nel dì 11 del mese di luglio [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10.]; perchè, alzatosi a rumore il popolo con assai dei nobili, espugnò il palazzo, dove fece difesa, finchè potè, il conte Ugolino, ma in fine venne in mano degl'infuriati nemici. Fu egli cacciato nel fondo di una torre con due suoi piccioli figli e tre nipoti, figliuoli del figliuolo, e quivi chiuso, con essersi poi gittate le chiavi in Arno, per lasciarli morire ivi tutti di fame. Questa orrida scena si vede mirabilmente descritta da Dante nel suo Inferno; e quantunque alla malvagità del conte Ugolino stesse bene ogni gastigo, pure gran biasimo di crudeltà incorsero dappertutto i Pisani per la morte di quegl'innocenti fanciulli. Con ciò Pisa tornò a parte ghibellina, e ne furono cacciati tutti i parenti ed aderenti del conte, e con loro i Guelfi, capo de' quali essendo il giudice di Gallura Nino de' Visconti, questi, unito coi Lucchesi, occupò il castello d'Asciano, tre miglia vicino a Pisa. Abbiamo dagli Annali di Genova che in questo anno i comuni di Genova, Milano, Pavia, Cremona, Piacenza e Brescia fecero una lega contra di Guglielmo marchese di Monferrato. La Cronica d'Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] ci assicura che gli Astigiani entrarono anche essi in questa alleanza. Crescendo ogni dì più le animosità e gli odii fra i cittadini di Modena e di Reggio [Memoriale Potest. Regiens.] e i loro fuorusciti, i Reggiani, assistiti da cento cavalieri di Modena, si portarono all'assedio di Monte Calvoli; ma dopo due giorni nel dì 15 di giugno furono assaliti con tal bravura dagli usciti di Reggio, ragunati prima a Mozzadella, che della lor brigata moltissimi vi perirono, e [197] molti più de' migliori cittadini di Reggio vi rimasero prigioni: il resto si salvò col favor delle gambe. Questa ed altre perdite fatte dal popolo di Reggio, e il veder massimamente assistiti i loro usciti dai signori di Mantova e di Verona, gli indusse a cercar la pace. Fatto dunque compromesso nel comune di Parma, seguì nell'ottobre l'accordo, ma ne restarono esclusi quei da Sesso e gli altri Ghibellini. Matteo da Correggio fu allora creato podestà di Reggio [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Italic.]. Nel dì 28 dello stesso ottobre, i signori di Savignano cogli altri sbanditi di Modena, e con cinquecento cavalli, entrarono in Savignano, e si diedero a rifabbricarlo e fortificarlo in fretta. Accorse ben presto colà il popolo di Modena; ma, conosciuta l'impossibilità di scacciarli, dopo aver alzata una specie di fortezza in vicinanza di quel luogo, se ne tornarono a casa.

E allora fu che i Modenesi, oramai scorgendo la pazzia, e gli immensi danni e le continue inquietudini prodotte dalla discordia e fazioni, presero il sano consiglio di ottener la quiete, con darsi ad Obizzo marchese d'Este e signor di Ferrara. Però nel dì 15 di dicembre [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] spedirono il loro vescovo, cioè Filippo dei Boschetti, Lanfranco de' Rangoni, Guido de' Guidoni con altri ambasciatori a Ferrara, dove presentarono al marchese le chiavi della città, e la elezione di lui fatta in signore perpetuo di Modena. Mandò egli il conte Anello suo cognato con cento cinquanta cavalieri a prenderne il possesso, con promessa di venir egli in persona fra pochi giorni. In questi tempi Armanno de' Monaldeschi da Orvieto fu mandato da papa Niccolò IV per conte della Romagna [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], e nel dì 7 di maggio entrò nel governo di quella provincia, e tenne un parlamento generale nella città di Forlì. Fu cacciato nello stesso mese fuor di Rimini Malatesta da Verucchio, che andò tosto a trovar esso [198] conte. Ma da li a qualche tempo, avendo Giovanni soprannominato Zotto, cioè Zoppo, figliuolo del medesimo Malatesta, occupato il Poggio di Monte Sant'Arcangelo del distretto di Rimini, corsero ad assediarlo i Riminesi: laonde il conte Armanno fece proclamare un general esercito di tutta la Romagna, e andò a quel castello, per quanto pare, in aiuto del Malatesta. Anche Malatestino, altro figliuolo del suddetto Malatesta, s'impadronì del castello di Monte Scutolo, che fu poi assediato e ricuperato dai Riminesi [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], non ostante che il conte Armanno minacciasse di soccorrerlo, con restarvi prigione esso Malatestino e tutti i suoi.


   
Anno di Cristo mcclxxxix. Indiz. II.
Niccolò IV papa 2.
Ridolfo re de' Romani 17.

Fu accolto con dimostrazioni grandi d'onore e d'amore Carlo II re di Napoli, appellato Zoppo, oppure Sciancato (perchè difettoso in un'anca o gamba), già liberato dalle carceri di Catalogna, da Filippo il Bello, re di Francia, e dagli altri principi della casa reale. Ma quando si venne a far premura perchè Carlo di Valois, fratello d'esso Filippo, rinunziasse al privilegio dell'Aragona, a lui conceduto dal papa, non si trovò mai conclusione alcuna. Carlo di Valois, che non possedeva Stati, mirava quel boccone, benchè difficile a prendersi, con troppa avidità. Però il re Carlo, perduta la speranza di ottener lo intento, sen venne in Italia. Nel dì 2 di maggio arrivò a Firenze [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 29.]. Onor grande e grandi regali gli furono fatti dai Fiorentini. Passò dipoi a Rieti, dove era la corte pontificia, e dal pontefice Niccolò IV e da' suoi cardinali onorevolmente ricevuto; poi nella festa della Pentecoste, cioè nel dì 29 di maggio, e non già in Roma, come scrive Giovanni Villani, ma nella stessa città di Rieti, come ha l'autore [199] della Cronica di Reggio [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.], che vi era presente, fu solennemente coronato colla regina Maria sua moglie dal papa in re della Sicilia, Puglia e Gerusalemme, ed investito di quanto avea posseduto il re Carlo I suo padre, per cui anch'egli fece l'omaggio e il dovuto giuramento alla Chiesa romana [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. In suo favore ancora cassò il pontefice tutti i patti e le convenzioni da lui fatte con Alfonso re di Aragona, per uscire di carcere: con cattivo esempio ai posteri di non fidarsi più di simili atti; al che poi non badò Carlo V imperadore nella liberazione di Francesco I re di Francia. Dopo di che, ben regalato dal papa esso Carlo II si trasferì a Napoli, dove fu con indicibil festa accolto, perchè principe di buon cuore, clemente e liberale, e non erede del genio rigido e superbo del padre. Da lì innanzi egli attese a riformar gli abusi, e a ben regolare il nuovo suo governo, e insieme a difendersi da Giacomo re di Sicilia, il quale, veggendosi escluso dalla capitolazione fatta dal re Alfonso suo fratello, cominciò a far guerra al re Carlo. Venuto dunque a Reggio in Calabria, nel dì 15 di maggio, colla sua armata navale, comandata da Ruggieri di Loria, prese varie terre di quella provincia; ma, accorso il conte d'Artois colle sue genti, mise freno alle conquiste de' Siciliani ed Aragonesi, minutamente descritte da Bartolommeo da Neocastro [Bartholom. de Neocastro, cap. 112, tom. 13 Rer. Ital.]. Scrive Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 133.] che esso conte assediò Catanzaro, e sconfisse il soccorso inviato da Ruggieri di Loria, con far prigioni ducento cavalieri Catalani. Imbarcatosi di nuovo il re Giacomo, visitò la Scalea, il castello dell'Abbate, e le isole di Capri, Procida ed Ischia, che ubbidivano alla sua corona; e perciocchè da alcuni della città di Gaeta gli era stata data speranza che, s'egli fosse venuto, gli avrebbono aperte le porte, fece vela [200] colà, e andò ad accamparsi sotto la città [Nicol. Specialis, lib. 2, cap. 13, tom. 10 Rer. Ital.]. Ma, o s'erano cangiati gli animi de' Gaetani, oppure mancò lor la maniera di compiere quanto aveano promesso. Ostinossi allora il re Giacomo a voler colla forza ciò che non potea conseguir per amore; e vigorosamente assediò e cominciò a tormentar la città, dove trovò una gagliarda difesa fatta dal conte d'Avellino e da que' cittadini. Peggio gli avvenne fra pochi giorni; perciocchè il re Carlo e il conte d'Artois con immenso esercito raccolto dalla Puglia e dagli Stati della Chiesa, e coi Saraceni di Nocera, venne ad assediare lo stesso assediator di Gaeta. Erano crocesignati tutti i combattenti cristiani di quell'esercito, e guadagnavano di grandi indulgenze; giacchè, siccome abbiam più volte accennato, secondo la condizion delle cose umane, molte delle quali nate con lodevoli principii, vanno col tempo degenerando, un pezzo era che le crociate, istituite contro i nemici del nome cristiano, facilmente si bandivano contra degli stessi cristiani e cattolici, e per interessi temporali; e a questo bel mestiere concorrevano fin le donne, per acquistarsi del merito in paradiso. Stettero un pezzo le due armate a vista, senza che potessero i Siciliani espugnar quella città, ed il re Carlo forzare a battaglia i Siciliani per cagion della situazione e de' buoni trincieramenti, e tanto più perchè non avea flotta in mare. A lungo andar nondimeno pareva che sarebbe restato al di sotto il re Giacomo, se il re d'Inghilterra e il re di Aragona, intesa questa pericolosa briga, non avessero spedito in tutta fretta i lor messi al papa, pregandolo d'interporsi unitamente con loro per un accordo. Inviò il pontefice con essi un cardinale legato, e tutti poi così felicemente maneggiarono l'affare, che si conchiuse fra i due re litiganti una tregua di due anni, esclusa nondimeno la Calabria. Fu il primo a ritirarsi il re Carlo; da lì a due [201] giorni s'imbarcò parimente il re Giacomo, e nel dì 30 d'agosto arrivò a Messina. Tanto dispiacque al conte d'Artois e agli altri baroni franzesi la tregua suddetta, che, dopo aver biasimato forte il re Carlo, se ne tornarono sdegnati in Francia. Il Rinaldi negli Annali Ecclesiastici mette questo fatto sotto l'anno seguente ma, a mio credere, non battono bene i suoi conti.

Fecero i Fiorentini nel presente anno risonar la fama della lor bravura e fortuna per un gran fatto d'armi fra loro e gli Aretini ed altri Ghibellini. Erano essi Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 130. Ptolom. Lucens., Annales brev., tom. 11 Rer. Ital.] usciti in campagna con un potente esercito, accresciuto dalle taglie dell'altre città guelfe di Toscana, per dare il guasto al territorio d'Arezzo [Dino Compagni, Chron., tom. 9 Rer. Ital.]. Vennero a Bibiena, per fermar questo torrente, gli Aretini con ottocento cavalli e otto mila pedoni; e tuttochè la armata nemica fosse più del doppio superiore alla loro, pure dispregiandola, perchè dal loro canto aveano migliori capitani di guerra, vollero venire ad una giornata campale nel dì 11 di giugno, festa di san Barnaba. Se n'ebbero a pentire, perchè andarono sconfitti, lasciando estinte sul campo circa mille settecento persone, e prigioni più di mille de' lor combattenti. Fra i morti si contò il vescovo d'Arezzo Guglielmo degli Ubertini, fatto venire alla battaglia dagli Aretini stessi, per sospetto di un trattato ch'egli segretamente menava co' Fiorentini in danno del comune d'Arezzo. Morivvi ancora Buonconte figliuolo del conte Guido da Montefeltro con altri riguardevoli personaggi. Presero poscia i Fiorentini Bibiena ed altre terre; e, posto l'assedio ad Arezzo, vi manganarono dentro asini colla mitra in capo, per rimproverar loro la morte del loro vescovo. Ma infine, avendo gli Aretini messo il fuoco alle torri di legname ed altre macchine da guerra dei Fiorentini, presero [202] questi la risoluzione di tornarsene a casa nel dì 23 di luglio, dopo aver disfatto quasi tutto il distretto d'Arezzo. Ancorchè i Pavesi fossero in lega coi Milanesi ed altre città contra di Bonifazio marchese di Monferrato [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Italic. Gualvaneus Flamma, Manipol. Flor., cap. 328. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], pure seppe far tanto l'accorto marchese, che tirò segretamente nel suo partito molti di que' nobili. Fatto dipoi un esercito generale contra di Pavia, prese una terra grossa chiamata Rosaiano. Allora uscì contra di lui tutta la milizia di Pavia; ma o fosse perchè trovassero assai pericoloso il venire a battaglia, oppure che prendessero i congiurati il tempo propizio; un certo Capellino Zembaldo, alzata sopra una lancia una bandiera, ch'egli avea preparata, cominciò a gridare: Qua venga chi vuol pace. L'unione fu grande; il marchese entrò con essi in Pavia, e nel dì seguente fu creato capitano della città per dieci anni avvenire. Tutto ciò s'ha da Guglielmo Ventura nella Cronica d'Asti, il quale aggiugne che, essendosi fatto tutto questo maneggio senza saputa, anzi ad onta di Manfredino da Beccheria, uno de' più potenti di quella città, indispettito egli, per confondere gli emuli suoi, volle in un altro consiglio che il marchese fosse capitano e signore assoluto, sua vita natural durante. Ma finì presto l'allegrezza di queste nozze. Poco stettero i Pavesi a pentirsi dello strafalcione da loro commesso, non sapendo accomodare la lor testa sotto un padrone sì fatto; e però chiamarono segretamente i Milanesi, i quali entrarono nella stessa Pavia per lo spazio di due balestrate; ma, accorse le milizie del marchese co' suoi aderenti, li fecero retrocedere, e tornarsene con le pive nel sacco a casa. Manfredi da Beccheria, perchè a cagion di questo fatto insorsero dei sospetti contra di lui, uscì della città con alquanti suoi fidati, e si ridusse e Castello Acuto, che era suo, e quivi si fortificò. [203] Fu egli per questo sbandito, ed atterrato il suo palagio. Venne anche il marchese ad assediarlo in quel castello, e vi fabbricò in vicinanza un bastia. Ma i Milanesi, Cremonesi, Piacentini e Bresciani, in un parlamento tenuto in Cremona, impresero la difesa del Beccheria, siccome popoli, ai quali dava troppo da pensare e da temere il soverchio ingrandimento del marchese, signore allora anche di Vercelli, Alessandria e Tortona. Infatti i Piacentini con tutte le lor forze iti a Monte Acuto, misero in rotta i Pavesi, e liberarono quel luogo. Racconta il Corio [Corio, Istor. di Milano.] molte altre particolarità spettanti a questa mutazion di Pavia, ed ai movimenti de' Milanesi contra del suddetto marchese.

Nuove scene di discordia nell'anno presente si videro in Reggio [Chron. Parmense, tom. 9 Rerum Ital.]. Nel dì 7 di agosto il popolo si levò a rumore contra de' nobili e potenti, e, presine assaissimi, li mise nelle carceri. Corsero colà i Parmigiani colla lor cavalleria, e, fattasi dare la signoria della città, condussero a Parma tutti que' prigioni. Poscia, chiamati alla lor città i podestà e gli ambasciatori di Bologna e Cremona, nel dì primo di ottobre conchiusero pace fra i nobili ed il popolo di Reggio, e in confermazione d'essa rilasciarono il dì seguente i carcerati. Ma questa fu una pace canina [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Nel dì 17 di novembre vennero di nuovo all'armi i Reggiani, e le due fazioni di Sopra e di Sotto fecero lungo combattimento fra loro, finchè verso la mezza notte, prevalendo la Soprana, spinse fuori della città la Sottana, la quale si ridusse a Castellarano e Rubiera. Seguirono nella prima, e più nella seconda molti ammazzamenti e incendii, e dirupamenti di case, e furono involti in questa disavventura anche i palazzi del pubblico e del vescovo. Qual riparo si trovasse a così bestiali e perniciose divisioni lo vedremo all'anno seguente. Mentre Obizzo [204] marchese d'Este e signor di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] si andava disponendo per venire alla nuovamente acquistata città di Modena, un giorno, nel levarsi da tavola, se gli avventò Lamberto figliuolo di Niccolò dei Bacilieri, nobile bolognese, per ucciderlo, e il ferì nel volto. Corsero i cortigiani presenti, e gl'impedirono il far di peggio; corse Azzo figliuolo del marchese, che teneva corte a parte, pranzando in una sala vicina, ed erano per uccidere l'assassino, se il marchese non avesse gridato di no, per intendere prima i motori e complici del misfatto. Posto costui nei tormenti, si trovò che era un forsennato, e strascinato dipoi per la città, lasciò la vita sulle forche. Ciò non ostante, nel mese di gennaio venne il marchese Obizzo a Modena, accolto con festa immensa dal popolo, che solennemente il dichiarò e confermò suo signore perpetuo insieme co' suoi discendenti. Ed egli poi con amore paterno ridusse in città tutti i fuorusciti: con che, cessate tutte le gare e gli odii civili, cominciò una volta questo popolo a godere la sospirata tranquillità e pace. Essendo già rimasto vedovo il suddetto marchese Obizzo per la morte di Jacopina dal Fiesco nell'anno 1287, prese egli per moglie nel presente Costanza, figliuola di Alberto dalla Scala signore di Verona, che nel mese di luglio fu condotta a Ferrara, e si celebrarono le nozze con gran festa e solennità. Seguitando la guerra fra la repubblica veneta [Continuator Dandoli, tom. 12 Rer. Italic. Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital.] e Raimondo dalla Torre patriarca di Aquileia, andarono i Veneziani all'assedio di Trieste. Ma, all'avviso ch'esso patriarca e il conte di Gorizia venivano con sei mila cavalli e trenta mila fanti per soccorrere la città, i Veneziani, senza voler aspettar questa visita, a gara si misero in fuga, lasciando indietro padiglioni, macchine ed equipaggio; e molti ancora vi restarono per la pressa morti. Usciti poscia i Triestini colle lor navi, vennero [205] fino a Caproli e a Malamocco, e v'incendiarono que' luoghi. Per la morte di Giovanni Dandolo doge di Venezia, accaduta nell'anno presente, fu nei dì 25 di novembre eletto per suo successore in quella dignità Pietro Gradenigo, che era in questi tempi podestà di Capo di Istria, e fu mandato a prendere con cinque galee e un vascello ben armato.


   
Anno di Cristo mccxc. Indizione III.
Niccolò IV papa 3.
Ridolfo re de' Romani 18.

Stendeva ogni dì più l'ali Guglielmo potentissimo marchese del Monferrato. Già oltre agli antichi suoi Stati, a' quali aveva aggiunto Casale di Sant'Evasio [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.], oggidì città, egli signoreggiava nelle città di Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba ed Ivrea. Era dietro a cose più grandi, ma non gli mancavano dei potenti nemici [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 329.]. Con un copioso esercito uscito di Pavia, ostilmente passò nel mese d'agosto nel Milanese, per vendicarsi di quel popolo che dianzi avea fatta un'incursione nel Novarese, e presi alcuni luoghi [Corio, Istoria di Milano.]. Seco erano Mosca ed Arrigo dalla Torre cogli usciti di Milano, appellati Malisardi. Arrivò sino a Morimondo; ma mossisi i Milanesi coi Comaschi, Cremonesi, Bresciani e Cremaschi, egli se ne tornò indietro [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Fece inoltre un'irruzione nel Piacentino; ma il popolo di Piacenza gli rendè ben la pariglia. Ebbe lo stesso marchese guerra ancora cogli Astigiani, i quali ben si provvidero per non essere ingoiati, facendo lega coi suddetti Milanesi, Piacentini, Genovesi, Cremonesi e Bresciani, i quali comuni inviarono ad Asti quattrocento uomini d'armi a due cavalli l'uno. Condussero anche al loro soldo Amedeo conte di Savoia, che con cinquecento lancie venne in loro servigio. La Cronica di Parma [206] asserisce ch'esso conte vi condusse mille ducento cavalieri, e gran copia di balestrieri e fanti. Rinforzato da questi aiuti quel popolo fece delle ostilità nel Monferrato, e collo sborso di dieci mila fiorini d'oro ebbe a tradimento Vignale, da dove fra l'altre robe fu asportato il vasto padiglione del marchese, a condurre il quale appena bastarono dieci paia di buoi. Ordirono inoltre gli Astigiani una segreta trama cogli Alessandrini, promettendo loro trentacinque mila fiorini d'oro, se faceano un bel colpo. Il marchese, che non dormiva, avuto qualche sentore di questi maneggi, volò ad Alessandria con assai gente, per opprimere i congiurati; ma questo servi ad affrettar la risoluzione de' cittadini [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]; e però, levati a rumore nel dì 8 di settembre, presero il marchese con tutti i suoi provvisionati. Lui chiusero in gabbia di ferro sotto buone guardie, e lasciarono andar con Dio il resto di sua gente, ma spogliata. In quella barbarica carcere stette languendo dipoi il marchese sino al dì 6 di febbraio dell'anno 1292, in cui colla morte diede fine ai presenti guai. E in questa tragica maniera andò a terminar sua vita Guglielmo marchese di Monferrato, il cui nome e le cui imprese risonarono un pezzo entro e fuori d'Italia. Grandi furono le di lui virtù, maggiori nondimeno i suoi vizii, per li quali era odiatissimo: felice se seppe profittar del tempo che Dio gli lasciò per far di cuore penitenza de' falli suoi! Successore ed erede restò Giovanni marchese suo figliuolo in età assai giovanile, che andò a trovare Carlo II re di Napoli, che era ito in Provenza. Dopo la caduta di questo principe fecero a gara i popoli per mettersi in libertà e per iscaldarsi tutti, giacchè al bosco era attaccato il fuoco. Gli Astigiani s'impadronirono di varie terre; altrettanto fece il popolo d'Alba e quello d'Alessandria. Pavia scosse il giogo anch'ella, ed essendovi rientrato Manfredi, ossia Manfredino da Beccheria, [207] gli fu data la signoria della città per dieci anni: il che fu cagione che i Torriani con altri assai del partito a lui contrario uscirono di Pavia. Profittò di così bella congiuntura anche Matteo Visconte capitano de' Milanesi, che in varie storie viene chiamato Maffeo, perchè ottenne di essere dichiarato suo capitano dalla città di Vercelli per cinque anni. Quasi lo stesso era allora l'essere capitano che signore.

Nè queste sole mutazioni accaddero in Lombardia. Trovavasi afflitta per le tante guerre civili anche la città di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], e mirando la quiete, di cui già godea Modena sotto il pacifico e dolce governo di Obizzo marchese d'Este e signor di Ferrara, tanto i cittadini dominanti, quanto i fuorusciti, si accordarono ad eleggere esso marchese per tre anni loro signore nel dì 15 di gennaio del presente anno. Il perchè egli tosto, accompagnato da molta cavalleria e fanteria, si portò colà, e vi fu con grande amore accolto. Licenziò egli tutti i soldati forestieri, ridusse in città i Roberti, soprannominati da Tripoli, e quei da Sesso e da Fogliano con tutti gli altri usciti; e diede insieme buon ordine, perchè rifiorisse fra loro la pace. Per questi benefizii fu poco appresso proclamato signore perpetuo di quella città. Nè mancarono novità in Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Più d'una volta fece oste quel popolo addosso ai Pavesi, saccheggiando e bruciando; e specialmente nel mese di maggio con tutta la lor milizia e con tutta quella di Cremona, e con rinforzo di Milanesi e Breciani, uscirono essi Piacentini in campagna contra de' medesimi Pavesi. Ma, dopo aver prese e bruciate le terre di Casegio e Broni, nacque nel loro campo discordia, nè volendo passar oltre i Cremonesi, se ne tornò indietro quell'armata con poco onore. Per questo fu molto rumore in [208] Piacenza, ed, incolpati alcuni, ebbero il bando dalla città. Seppe in tale occasione Alberto Scotto farsi dichiarar capitano e signore perpetuo di quella città. Ed ecco come in poco tempo tante repubbliche di Lombardia cominciarono a passare ad una specie di monarchia: colpa delle matte fazioni de' Guelfi e Ghibellini; colpa delle frequenti animosità fra la nobiltà ed il popolo, oppure della divisione e discordia de' cittadini per altri motivi di ambizione, di vendetta o di liti civili. Il vero è nondimeno che, dato il governo ad un solo, d'ordinario cessavano le gare dei privati. Ho quasi tralasciato di dire che anche i Pisani, veggendosi a mal partito, perchè circondati all'intorno da potenti nemici, Genovesi, Fiorentini, Lucchesi, ed altri di parte guelfa, fin dall'anno 1288 cercarono di avere un valente capitano di guerra che li sostenesse ne' lor bisogni. Fecero dunque venire a Pisa Guido conte di Montefeltro, che era stato mandato dal papa ai confini, e soggiornava in Asti [Ptolomaeus Lucens. Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital. Hist. Pisana, tom. 24 Rer. Ital.]. Il ricevettero con grande onore, e a lui diedero la signoria della loro città per tre anni. Abbiamo da Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 127.] e dal Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl.] che il pontefice, stando in Orvieto, nel dì 18 di novembre dell'anno presente, sottopose all'interdetto la città di Pisa per questo, e scomunicò esso conte Guido, se entro lo spazio di un mese non abbandonava il governo di quella città: pena che parrà strana ai tempi nostri, giacchè si trattava di città libera e non suggetta nel temporale ai romani pontefici. Cominciò il conte Guido a ricuperar le terre tolte ai Pisani; ma non potè impedire [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.] che i Genovesi non prendessero l'isola dell'Elba in quest'anno, e che poscia nel mese di settembre uniti coi Fiorentini e Lucchesi non facessero oste a Porto Pisano, e lo prendessero. Furono allora [209] disfatte le torri (che o non furono dianzi guaste, o erano state rifatte), il fanale, e tutte le case di quel luogo; e colla stessa rabbia fu guasto il poco distante Livorno. Dopo di che trionfanti se ne tornarono que' popoli alle lor case; ma dappoi il conte Guido ripigliò ai Fiorentini le castella di Monto Foscolo e di Montecchio.

Sì smisuratamente era portato papa Niccolò IV all'amore e all'ingrandimento della nobil casa romana dalla Colonna, che, per attestato di fra Francesco Pipino [Franciscus Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Italic.], dipendeva tutto dal consiglio dei Colonnesi, e non si saziava di votar sopra loro le grazie sue: di modo che in un libro di questi tempi, intitolalo Initium malorum, egli fu dipinto chiuso in una colonna, fuori di cui appariva solamente il suo capo mitrato, con due colonne davanti a lui. Probabilmente son qui disegnati i due cardinali allora viventi di casa Colonna, cioè Jacopo creato da Niccolò III, e Pietro promosso al cardinalato dallo stesso Niccolò IV. Abbiamo dalla Cronica di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] che anche Giovanni dalla Colonna fu creato marchese d'Ancona; e questi nell'anno precedente venne a Rimini per metter pace fra quella città e Malatesta da Verucchio. Fece ben liberar dalle carceri molti prigioni, ma non potè conchiudere quell'accordo. Oltre a ciò, il papa, non mai sazio di beneficar quell'illustre famiglia, creò ancora conte della Romagna Stefano dalla Colonna, signore di Ginazzano, con levar quel governo al Monaldeschi. Venne questo nuovo conte in Romagna, e perchè Corrado figliuolo di Dadeo, ossia Taddeo, conte di Montefeltro, aveva occupata la città d'Urbino, nè la volea rendere, coll'esercito colà condotto le diede un generale assalto, e l'obbligò alla resa. Fu poi onorevolmente ricevuto nelle città di Cesena, Rimini, Imola e Forlì, dove tenne un gran parlamento, e stabilì [210] pace fra i Riminesi e Malatesta, mandando quest'ultimo a' confini nel suo castello di Roncofreddo. Ma nella stessa città di Rimini essendo insorta rissa fra quei di sua famiglia e i popolari, si fece un fiero conflitto colla morte di molti, e fu in pericolo lo stesso conte: perlochè egli dipoi privò di ogni onore quella città. Portossi ancora nel novembre a Ravenna, con pretendere tutte le fortezze di quella riguardevol città. Ostasio e Ramberto figliuoli di Guido da Polenta, che erano come signori di Ravenna, se gli opposero; e, temendo poi che Stefano se ne risentisse contra di loro, passarono ad un'ardita risoluzione. Cioè, fatta venire molta cavalleria e fanteria de' loro amici romagnuoli in Ravenna [Matth. de Griffonibus, tom. 18 Rer. Italic. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], una notte mossero a rumore il popolo, e fecero prigione il suddetto conte Stefano con un suo figliuolo ed un suo nipote, che era maresciallo, e con tutti i suoi stipendiati, dopo aver tolto loro arme e cavalli. Gran rumore fece questa novità per quelle contrade, e diede moto a molte sollevazioni. In Imola le due fazioni degli Alidosi e Nordili vennero alle mani, e non pochi vi restarono morti; ma sopravvenuti i Bolognesi in soccorso dei Nordili, misero in fuga gli Alidosi, e poi spianarono tutti gli steccati, le fosse, ed ogni altra fortezza di quella città. Anche i Manfredi s'impadroniron di Faenza; ma non andò molto che ne furono scacciati da Maghinardo da Susinana, e da Ramberto da Polenta, i quali presero il dominio della città medesima. Nè già stette in ozio Malatesta da Verucchio, perchè anch'egli, scacciato da Rimini il podestà messovi dal conte, si fece proclamar signore da quel popolo. E nel dì 20 di dicembre i suddetti Maghinardo e Lamberto, signori di Faenza, Guido da Polenta coi Ravegnani, e Malatesta con quei di Rimini, di Cervia, Forlimpopoli e Bertinoro, andarono a Forlì, e ne occuparono il dominio. Ecco se fieramente si [211] sconvolse la Romagna in questi tempi. Da Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] e dalla Cronica Forlivese [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] minutamente si veggono descritte colali rivoluzioni, le quali io per amor della brevità ho solamente accennate.

Andavano intanto alla peggio gli affari della cristianità in Soria [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. Nel precedente anno presa fu dagl'infedeli l'importante città di Tripoli con altre terre. La stessa disavventura veniva minacciata alla ricca e mercantile città di Accon, ossia d'Acri. Perciò non ommise il pontefice Niccolò premura e diligenza veruna per soccorrere que' cristiani, con far predicare la crociata non solamente per tutta l'Italia, ma anche per tutti i regni cristiani, e intimar decime, e somministrar egli quanto oro potè per quella sacra spedizione. Per attestato della Cronica Parmigiana, circa secento persone nella città di Parma presero la croce, e si mossero per passare in Levante. Così a proporzione fecero altre città. Armaronsi in Venezia venti galee pel trasporto di questa gente. Non si sa che i Genovesi si movessero punto per questa crociata, essendo essi unicamente intenti a pelare i Pisani. Di molto avrebbe potuto far Giacomo re di Sicilia, siccome principe provveduto di molti legni e di un valente ammiraglio [Bartholomaeus da Neocastro, tom. 13 Rer. Ital.]; ed egli ancora, con ispedire alla corte pontificia Giovanni da Procida, fece l'esibizion di tutte le sue forze al papa, purchè potesse aver pace, ed essere rimesso in grazia della Chiesa romana. Ma restò senza frutto cotesta ambasceria, e gl'interessi particolari de' Franzesi e di Carlo II re di Napoli guastarono ogni buon concerto per sostenere il pubblico della cristianità. Passando per Messina Giovanni di Grilliè Franzese, che era stato inviato dai cristiani di Soria al sommo pontefice per ottener soccorso, il re Giacomo gli diede [212] sette galee ben armate di Siciliani, acciocchè per quattro mesi militassero in favor de' cristiani in Levante. Mancò di vita nel luglio di quest'anno [Bonfin., Rer. Hung., Dec. 2, lib. 9.] senza successione maschile Ladislao re d'Ungheria. Oltre al re Ridolfo, che pretendea quel regno con titolo di feudo dell'impero, e giunse anche ad investirne Alberto duca d'Austria suo figliuolo, vi aspirava ancora Carlo Martello primogenito di Carlo II re di Napoli, siccome figliuolo di Maria sorella dello stesso re Ladislao [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 134.]. Ed infatti il re Carlo suo padre nel dì della Natività della Vergine il fece solennemente coronare da un legato del papa re d'Ungheria in Napoli. Ma Andrea III figliuolo di Stefano, nato da Andrea II re d'Ungheria e da Beatrice Estense, che, dopo avere sposata Tommasina dei Morosini, soggiornava in Venezia, udita la morte di Ladislao, chiamato anche dai nazionali, volò in Ungheria, entrò in possesso di quel regno, e poscia acconciò i fatti suoi con Alberto duca d'Austria, col prendere in moglie una di lui figliuola. Fu in quest'anno guerra fra i Bresciani e Bergamaschi [Chronic. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], e riuscì ai primi di prendere ai secondi la torre di Mura, e di dar loro qualche percossa; ma, frappostisi dei pacieri, ritornò la quiete fra loro. Se noi avessimo la storia romana di questi tempi, meglio s'intenderebbe una rilevante particolarità a noi conservata dall'autore della Cronica di Parma, degno di fede, perchè contemporaneo. Scrive egli che i Romani crearono loro signore Jacopo dalla Colonna, e il condussero per Roma sopra un cocchio a guisa degli antichi imperadori, con dargli anche il titolo di Cesare. Fecero oste di poi sopra Viterbo e contro altre terre, ma senza vedere effettuati i loro disegni. Come ciò fosse, e come il papa, sì forte portato a favorire i Colonnesi, sofferisse un tale attentato, lo tace la storia.

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Anno di Cristo mccxci. Indizione IV.
Niccolò IV papa 4.
Ridolfo re de' Romani 19.

Lagrimevole fu quest'anno per la perdita della riguardevol città d'Accon, ossia d'Acri, fatta dai cristiani in Soria. Era questa città, dopo le disgrazie di Gerusalemme, divenuta un celebre emporio de' fedeli in quelle parti; ma nel suo governo non si mirava che confusione e discordia, perchè ogni nazione ed ognuno degli ordini de' cavalieri vi mantenevano una specie di comando, potendo condannare a morte i loro sudditi. Il lusso e la lussuria vi aveano posto un gran piede, e l'ultimo pensiero era quello della religione. Una man di pellegrini, arrivati di fresco colà, senza voler osservare la tregua stabilita col sultano d'Egitto [S. Antonin., Hist., tom. 3. Sanutus, Histor., lib. 3. Ptolom., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.], cominciò per divozione a spogliare i mercatanti saraceni, e fece anche delle scorrerie nel paese nemico. Allora il sultano inviò suoi ambasciatori, chiedendo la riparazion dei danni, e che se gli mandassero i malfattori. Con delle magre scuse fu risposto. Laonde egli nel dì 5 d'aprile con un'armata, per quanto si disse, di sessanta mila cavalli e di cento sessanta mila pedoni pose l'assedio a quella città, e nel dì 18 di maggio, dato un terribil generale assalto, i suoi v'entrarono vittoriosi [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 120, tom. 13 Rer. Ital.]. Senza perdonar a sesso od età, si fece un orrido macello di que' cristiani che non poterono salvarsi colla fuga; e fra questi vi perì in una scialuppa, fuggendo, Niccolò patriarca di Gerusalemme. Si fa ascendere a sessanta mila persone il numero de' morti e prigioni; ed immense furono le ricchezze trovate dai Saraceni in una città di tanto commercio. A così infausta nuova non credettero più d'essere sicuri i cristiani abitanti in Tiro, ed, [214] abbandonata quella città, si ritirarono in Cipri. Baruto fu preso a tradimento. Così non restò più un palmo di terreno ai Latini in quelle parti, dopo tanto sangue sparso, e dopo tanti tesori consumati nello spazio di quasi cento anni per fare e mantener le conquiste di Terra santa. Trafitti dal dolore rimasero per tal disavventura gli animi dei cristiani europei, e specialmente se ne dolse il romano pontefice [Raynald., in Annal. Ecclesiast.], il quale tornò con più vigorose lettere e patetiche esortazioni e promesse d'indulgenze a scuotere tutti i principi sì ecclesiastici che secolari, per muovergli a nuove crociate. Ma l'Europa cristiana aveva ormai dai passati successi e da molti inconvenienti, che non occorre riferire, assai conosciuto quello che si potea sperare per l'avvenire, e massimamente qual fosse la difficoltà di cominciar da capo, dopo aver perduto tutto. Perciò di belle parole vennero in risposta, ma niuno più si accinse daddovero a nuove spedizioni; e andò poscia in fascio ogni progetto e disegno per la morte del medesimo pontefice, e per la lunga susseguente vacanza della santa Sede: del che parlaremo all'anno seguente. Fu in quest'anno [Albertus Argentin. Siero, in Histor. Ptolomaeus Lucensis, Giovanni Villani ed altri.] nel dì 15 di luglio chiamato da Dio a miglior vita Ridolfo re de' Romani, principe glorioso per le sue molte virtù, e più ancora glorioso per tanti illustri imperadori che da lui discesero, con venir finalmente meno la sua maschile discendenza con grave danno di tutta la cristianità nell'anno 1740, conservandosi la femminile in Maria Teresa d'Austria regina di Ungheria e di Boemia, e gran duchessa di Toscana. Successore di Ridolfo nel ducato d'Austria e in altri Stati fu Alberto I suo primogenito, e sino al seguente anno non si conchiuse l'elezione d'un nuovo re.

Trattossi alla gagliarda in quest'anno [215] nella città d'Aix in Provenza la pace fra Alfonso re d'Aragona e Carlo II re di Napoli, coll'assistenza di due cardinali legati e degli ambasciatori aragonesi. Fu conchiuso, siccome apparisce dalla capitolazione riferita da Bartolommeo di Neocastro: che cesserebbe ogni guerra dei re di Francia e di Napoli contra dell'Aragona, e si restituirebbono gli ostaggi; che Carlo di Valois rinunzierebbe a tutte le sue pretensioni sopra il regno aragonese: che Alfonso non darebbe alcun soccorso direttamente o indirettamente alla Sicilia, e andrebbe a militare in Terra santa, e poi procederebbe ostilmente contro la Sicilia, per farla restituire al re Carlo II. E per ottenere che Carlo di Valois, fratello di Filippo re di Francia, facesse quella rinunzia, il re Carlo II gli diede in moglie Margherita sua figliuola, e in dote le contee d'Angiò e del Maine. Tralascio il resto, per dire che l'esecuzione d'esso trattato rimase frastornata dalla morte del medesimo re Alfonso, succeduta circa il dì 18 di giugno dell'anno presente [Nicol. Specialis, Hist. Sicul., lib. 2, cap. 17, tom. 10 Rer. Ital.], mentre egli era in procinto di ricevere in moglie una figliuola del re d'Inghilterra. Gran doglia avea provato Giacomo re di Sicilia all'avviso che il re Alfonso suo fratello avesse abbandonato tutti i di lui interessi per migliorar i proprii; e giacchè per lui non v'era pace, con quaranta galee passò in Calabria, dove s'impadronì della città di Gieraci e d'altre terre. Sopraggiuntagli poi la nuova della morte inaspettata del fratello re, in fretta se ne tornò a Messina; e, dichiarato suo vicario in Sicilia l'infante don Federigo suo minor fratello colla regina Costanza sua madre, s'imbarcò e fece vela verso la Catalogna. Approdò nelle spiagge di Valenza nel dì 6 d'agosto; passò dipoi a Barcellona, e prese il possesso de' regni paterni. Era intanto venuto il re Carlo II coi due cardinali nel mese di marzo a [216] Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.], dove fermatosi qualche giorno, trattò con que' cittadini di ottener da essi un grosso rinforzo di galee per l'impresa di Sicilia, e trovò molti particolari che s'impegnarono al suo servigio [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 119, tom. 13 Rer. Ital.], ma non già il comune. Però, divolgatosi in Sicilia un tale armamento più ancora di quel che era, l'infante don Federigo inviò un suo ambasciatore a Genova, pel cui maneggio esso comune ordinò che niuno ardisse di prendere parte negli affari della Sicilia. Abbiamo dagli Annali di Genova che in quest'anno i Pisani da Piombino passarono all'isola dell'Elba, e, preso il paese, s'applicarono all'assedio di quel castello, detenuto dai Genovesi. Vi accorse bensì Giorgio Doria con tre galee, un galeone ed altri legni per farli sloggiare; ma furono sì destri i Pisani, che riuscì loro di rimettersi in possesso di quella terra. Per valore eziandio del conte Guido da Montefeltro, tolsero essi Pisani il castello di Pontedera ai Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 147.]. Cessò nell'anno presente in Genova la capitaneria di Oberto Spinola e di Corrado Doria, e fu dato quell'ufficio ad Antonio Lanfranco de' Soardi da Bergamo, anteponendo quel popolo il governo de' forestieri a quello dei suoi proprii cittadini. Era tuttavia nelle carceri di Ravenna Stefano dalla Colonna conte della Romagna [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.]. Il pontefice Niccolò, per rimediare al bisogno di quella provincia, dove già s'erano ribellate alla Chiesa romana varie città, dichiarò conte della Romagna Ildobrandino da Romena vescovo di Arezzo, il quale nel mese di agosto venne a Castrocaro, e poscia a Faenza, dove fu onorevolmente ricevuto. Chiamati colà ad un parlamento gli ambasciatori di Rimini, Cesena, Forlì, Bologna e Firenze, si trattò della liberazione del suddetto Stefano, il quale fu rilasciato dai Polentani, condannati anche [217] a pagare tre mila fiorini d'oro [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6.] in risarcimento de' danni a lui inferiti. Ma dipoi ebbe esso Ildobrandino delle liti col popolo di Cesena, che non voleva ricevere dalle di lui mani un podestà, e con quello di Faenza, che gli serrò le porte in faccia per timore che vi volesse introdurre i Manfredi. Tutto nondimeno si acconciò per la molta sua destrezza e pazienza. Per attestato della Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.], in quest'anno Bardelone, figliuolo di Pinamonte de' Bonacossi signore di Mantova, mal sofferendo che il padre lasciasse comandar le feste a Carpio, non so se suo fratello maggiore o minore, e l'avesse anche nel testamento dichiarato suo successore nel dominio, prese egli le redini del governo, cacciò in prigione esso suo padre col fratello e con altri molti, fece pace cogli Scaligeri signori di Verona, e lega coi Veneziani, Padovani e Bolognesi. La Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] mette questo fatto sotto l'anno seguente, e chiama Taino con più ragione l'imprigionato di lui fratello. Vien così nominato anche nelle Croniche di Roma, e da Bartolommeo Platina [Platina, Hist. Mantuan., tom. 20 Rer. Ital.]. Finalmente in quest'anno nel dì 11 di novembre si diede fine alla lunga guerra, durata fin qui tra i Veneziani dall'una parte, e il patriarca d'Aquileia, il conte di Gorizia e i Triestini dall'altra [Contin. Dandol., tom. 12 Rer. Ital.].


   
Anno di Cristo mccxcii. Indizione V.
Santa Sede vacante.
Adolfo re de' Romani 1.

Nel mentre che il sommo pontefice Niccolò IV era tutto immerso ne' pensieri di nuove crociate contra gl'infedeli, venne la morte a rapirlo, secondo il Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccl.], nel dì 4 d'aprile dell'anno presente in [218] Roma. Il Cronista di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Continuator Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] il fa mancato di vita nel dì 2 del mese suddetto ma anche il Continuatore di Caffaro mette la morte sua nel dì 4 di aprile [Jacobus Cardin., in Vita Coelestin., P. I, tom. 3 Rer. Ital. Bernard. Guid. Ptolomaeus Lucensis, et alii.]. La sua umiltà, la sua rettitudine, il suo zelo ecclesiastico, fecero restare la sua memoria in benedizione. Io non so perchè Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 150.] cel rappresenti come ghibellino. Così dovette parere ai Guelfi, perchè egli non fulminò tutto di scomuniche ed interdetti contra ai Ghibellini, come avea fatto qualche suo predecessore. Certamente non apparisce dalle azioni sue questa parzialità verso d'essi Ghibellini, contraria alla professione della corte pontificia d'allora. Dopo la sua morte ne' dodici cardinali che si raunarono per l'elezione di un nuovo pontefice, più del solito entrò la discordia. Erano sei romani, quattro italiani e due francesi. Diviso in due fazioni il sacro collegio, dell'una era capo il cardinal Matteo Rosso degli Orsini, che voleva un papa affezionalo al re Carlo di Napoli. Capo dell'altra era il cardinal Jacopo dalla Colonna, di sentimenti affatto contrarii [S. Antonin., Hist., tom. 3, tit. 24.]. Per questi fini politici e private passioni, abborrite da Dio, dove si tratta del pubblico ben della Chiesa, restò più di due anni vacante la cattedra di san Pietro, non senza grave scandalo di tutti i fedeli. Gran dissensione ancora fu in Germania per l'elezione di un nuovo re de' Romani. Alberto duca d'Austria, imparentato co' primi principi della Germania, e Venceslao re di Boemia erano i principali concorrenti a quella corona [Albert. Argentin. Henricus Stero., Hist. Austriaca, et alii.]. L'arcivescovo di Mangonza, in cui fu rimessa la facoltà di eleggere, tutti li burlò col nominare al regno Adolfo conte di Nassau, principe giovane d'età, vecchio [219] per la prudenza, magnanimo e valoroso, ma di troppo angusta potenza, e povero di parentele e di pecunia. Secondo gli autori tedeschi, l'elezione sua accadde nel dì primo di maggio. Tolomeo da Lucca scrive [Ptolomaeus Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.] che fu eletto vivente ancora papa Niccolò IV, e v'ha chi ciò riferisce al principio di quest'anno. Certo è bensì ch'egli nella festa di san Giovanni Batista di giugno fu coronato in Acquisgrana. Defraudato di sua speranza Alberto duca d'Austria, non ebbe mai buon cuore verso di questo re, e gliel fece anche conoscere col negargli in moglie una sua figliuola. Matteo Visconte, capitano dei Milanesi, Vercellesi e Novaresi, andava ogni dì più crescendo in potere [Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 351. Corio, Istor. di Milano.]. Avvenne gran dissensione tra il popolo di Como e il loro vescovo Giovanni. Cavalcò Matteo a quella volta con assaissime squadre d'armati nel gennaio dell'anno presente, e parte per amore, parte per forza, fu eletto da amendue le fazioni per capitano di quella città per cinque anni avvenire. E contuttochè nel giugno seguente tornassero all'armi i Rusconi e Vitani, e seguissero quivi di molte rivoluzioni, pure Matteo confermato nel dominio vi tornò a signoreggiare.

All'infelice sua vita diede fine in questo anno nel dì 6 di febbraio Guglielmo Spadalunga, marchese di Monferrato, dopo quasi due anni di prigionia in Alessandria [Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Quel popolo, cui per quante offerte e maneggi fossero stati fatti, mai non avea voluto rilasciarlo, neppur fidandosi di lui dopo morte, volle ben accertarsi che veramente l'anima di lui fosse separata dal corpo, e ne fece la pruova con gocciargli addosso del lardo bollente e del piombo disfatto. Gli fu data onorevol sepoltura nella badia di Lucedio. Colla sua morte liberi restarono molti dal timore, e fra gli altri Matteo Visconte cercò [220] allora di vendicarsi di questo nemico contra i di lui Stati, giacchè Giovanni marchese di Monferrato suo figliuolo, oltre alla sua verde età di quindici anni, si trovava anche passato alla corte di Carlo II re di Napoli, nè potea fargli contrasto. Adunque, secondo gli storici milanesi [Gualv. Flamma, Manip. Flor. Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.], Matteo, raunato un possente esercito, passò nel Monferrato. S'impadronì colla forza della terra e castello di Trino, del ponte della Stura e di Monte Calvo. Entrò in Casale di Santo Evasio, e tal terrore portò in quelle contrade, che i popoli convennero di dichiararlo capitano del Monferrato coll'annuo salario di tre mila lire, moneta d'Asti. Poco durò la quiete nella Romagna. Troppo erano i grandi di quella contrada avvezzi a signoreggiare, nè sapeano sottomettersi, se non con parole, agli uffiziali che vi spedivano i papi. Secondo la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e per attestato di Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], nel dì 5 di giugno dell'anno presente Ildobrandino vescovo d'Arezzo e conte di essa Romagna fu scacciato da Forlì, e furono ritenuti prigioni Aginolfo suo fratello e due nipoti. Manipolatori di questa insolenza furono Maghinardo da Susinana e i Calboli potente famiglia di Forlì. Con esso loro tenevano le città d'Imola, Faenza, Cesena, Rimini e molte castella. Abbiamo dalla Cronica di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] che i Bolognesi spedirono varie ambasciate ai Forlivesi, per trattar di concordia fra essi e il conte suddetto, richiedendo che fosse fatto compromesso in loro; ma nè il popolo di Forlì, nè quelli di Faenza e Cervia, per segrete insinuazioni del sopraddetto Maghinardo, vollero mai consentirvi. E perciocchè si sentiva che i Bolognesi faceano armamento, con apparenza di voler cavalcare addosso a Faenza, Maghinardo, che comandava in quella città, fatto un dì dare campana a martello, [221] raunò il popolo, e tutti disperatamente si misero a cavar le fosse della lor città, già spianate dai Bolognesi, e a rimettere lo steccato e le altre fortificazioni. Per sostenere questa risoluzion dei Faentini, che fu con rabbia intesa dai Bolognesi e dal conte della Romagna, corsero a Faenza tutte le milizie di Forlì, e quelle di Cesena comandate da Malatestino lor podestà, e quelle di Cervia con Bernardino da Polenta lor podestà, e quelle di Ravenna con Ostasio da Polenta lor podestà, e quelle di Rimini condotte da Giovanni de' Malatesti. Vi concorsero anche quei di Bertinoro, Castrocaro e Bagnacavallo, e Bandino conte di Modigliana: di maniera che si trovarono in Faenza circa trenta mila pedoni, oltre alla cavalleria di varii paesi. Fu ben assicurata quella città, ed avendo i Bolognesi fatto venire il podestà e gli ambasciatori di Firenze, acciocchè maneggiassero pace fra Bologna e le città della Romagna, con esigere che si rasassero le fortificazioni e si spianassero le fosse di Faenza, come fatte in loro ingiuria, i Romagnuoli se ne risero, e con sole belle parole li rimandarono a casa.

Qualor sussista la cronologia del Cronista di Forlì, il conte Guido da Montefeltro in quest'anno con trecento uomini d'armi e due mila pedoni entrò nella città d'Urbino, e si diede a fortificarla con buone fosse e steccati, giacchè tutte le sue fortificazioni erano state smantellate negli anni addietro. Penso io che succedesse più tardi questa impresa del conte Guido, perch'egli nell'anno presente era capitano e signor di Pisa, e la difese contro gli sforzi de' Fiorentini. Nel mese di giugno usciti essi Fiorentini coi Lucchesi [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 153. Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], ed aiutati dall'altre loro amistà, fatta un'armata di due mila e cinquecento cavalli e di otto mila pedoni, marciarono fino alle porte di Pisa, guastando e bruciando il paese. Fecero correre [222] il pallio sotto le mura di quella città nella festa di san Giovanni Batista; nè potendo di più, se ne tornarono a riposare in Firenze. Il conte Guido si tenne alla difesa, e non ardì d'uscire, perchè trovò alquanto invilito il popolo di Pisa. Nel medesimo mese di giugno [Barthol. Neocastro, tom. 13 Rer. Ital. Nicolaus Specialis, lib. 2, cap. 16, tom. 10 Rer. Ital.] Ruggieri di Loria tornato di Catalogna a Messina colla squadra delle galee siciliane, siccome persona nemica dell'ozio, fece uno sbarco in Calabria, dove Guglielmo Stendardo, uffiziale del re Carlo, era venuto per ricuperar le terre già conquistate dai Siciliani. Si venne alle mani; furono rotti i Franzesi, e lo stesso Stendardo, portando seco più ferite, spronò forte per mettersi in salvo. Ruggieri per rallegrar la sua gente, ed anche per pagarle il soldo alle spese altrui, passò in Grecia alla città di Malvasia, e, col pretesto che que' cittadini dessero ricetto ai Franzesi nemici del re di Sicilia, sorprese di notte e saccheggiò quella città. Lo arcivescovo menato via prigione, fu obbligato a riscattarsi col pagamento di buona somma d'oro. Passò anche Ruggieri all'isola di Scio, e vi fece un buon bottino di mastice, e nel mese d'ottobre si restituì a Messina. Abbiam poi dalla Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], che dopo la morte di papa Niccolò IV fu in guerra la Marca d'Ancona. Il popolo della città di Fermo con quei di Ancona e Jesi diede il guasto a Cittanuova e al distretto d'Osimo. Due senatori eziandio furono creati in Roma a petizion delle due fazioni, cioè de' Colonnesi ed Orsini. L'un d'essi fu Stefano dalla Colonna e l'altro un nipote del cardinal Matteo della famiglia Orsina. La loro elezione dovette quetare il popolo romano, il quale nel febbraio di quest'anno per le divisioni bollenti fra loro sbrigliatamente era venuto a battaglia, ed avea spogliate molte chiese con bruciamenti e saccheggi di varie case. In [223] Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.] comparvero gli ambasciatori del re di Francia e di Carlo II re di Napoli, ed uno ancora spedito dal collegio de' cardinali, per impegnare i Genovesi contra della Sicilia, minacciando di scacciar dalla Francia, Aragona e Puglia tutta la lor nazione, se non acconsentivano. Destramente schivarono questa rete quei che aveano più senno in quella repubblica, e congedarono con buona maniera quegli ambasciatori.


   
Anno di Cristo mccxciii. Indizione VI.
Santa Sede vacante.
Adolfo re de' Romani 2.

Continuò in quest'anno la vacanza del pontificato romano. Non solamente stavano divisi d'animo, ma anche di luogo i cardinali, chi in Roma, chi in Rieti, chi in Viterbo. Volle Dio che finalmente tutti s'accordassero di trasferirsi a Perugia nell'ottobre, per quanto pare, del presente anno, affine di trattare ivi concordemente dell'elezione d'un nuovo pontefice. Jacopo cardinale scrive [Jacopus Cardinalis, in Vita Coelestini, P. I, tom. 3, Rer. Ital.] che v'andarono secundo vacationis anno; ma passò anche il verno senza che si conchiudesse cosa alcuna. Verisimilmente contribuì non poco a questa dissipazione del sacro collegio l'incostanza ed animosità del popolo romano, il quale, in occasion di eleggere i nuovi senatori, sul principio dell'anno presente tornarono all'armi, e rinnovarono gl'incendii, i saccheggi e gli ammazzamenti, di modo che per sei mesi Roma non ebbe senatore. Finalmente furono eletti Pietro figliuolo di Stefano Gaetano, padre del suddetto Jacopo cardinale, che ci lasciò la Vita di san Celestino papa, scritta in versi, e Ottone da Santo Eustachio. Dallo stesso cardinale abbiamo che il popolo di Narni andò all'assedio del castello di Stroncone; ma, accorso colà con forti squadre [224] d'armati il cardinale vescovo di Porto, li fece desistere dall'impresa. Galvano Fiamma [Gualvanus Flamma, Manip. Flor., cap. 332.] riferisce a questi tempi l'essere stato creato Matteo Visconte capitano ossia signore di Novara. Altrettanto ha l'autore degli Annali di Milano [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]. Forse prima di quest'anno ciò avvenne. Comunque sia, vi mise egli per podestà Galeazzo suo primogenito, allora assai giovinetto. Nel dì 13 di febbraio dell'anno presente [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] venne a morte Obizzo marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena e Reggio, con lasciar dopo di sè tre figliuoli maschi, cioè Azzo VIII, Aldrovandino e Francesco. Succedette in tutti i suoi Stati Azzo il primogenito, o per volontario, o per forzato consentimento degli altri due fratelli. Ma ossia che il padre nel suo testamento avesse ordinato, come corse voce, che si dividessero gli Stati, e toccasse Modena ad Aldrovandino, e Reggio a Francesco; oppure che Aldrovandino pretendesse Modena, perchè avea in moglie Alda dei Rangoni, il qual matrimonio avea o facilitato, o prodotto al marchese Obizzo l'acquisto di Modena: certo è che insorse da lì a non molto discordia tra i fratelli, e questa si tirò dietro, secondo il solito, delle gravi disgrazie della casa d'Este. In questo medesimo anno fuggito da Ferrara Lanfranco Rangone, e venuto a Modena [Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] coi Boschetti ed altri della sua fazione, mosse a rumore la città. Ma quei di Sassuolo, i Savignani e Grassoni, capi dell'altra parte, fecero testa e sostennero la signoria del marchese Azzo, obbligando i Rangoni coi lor seguaci a prendere la fuga: perlochè furono condannati e banditi. Il marchese Aldrovandino anch'egli si ritirò a Bologna, dove ben ricevuto cominciò a far delle pratiche contro al fratello Azzo tanto ivi [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital. Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.] [225] che in Padova e Parma. Aveva esso marchese Azzo, se pur non fu suo padre, mandato in quest'anno a donar un lione vivo ai Bolognesi. Allora il marchese Azzo corse a Modena, e rinforzò di gente e di fortificazioni questa città. Gli usciti di Pontremoli fecero nel presente anno gran guerra alla loro patria, finchè, stabilita pace col popolo dominante, tutti d'accordo si sottomisero al comune di Lucca, e cominciarono a ricevere un podestà da quella città, laddove in addietro il prendevano da Parma.

Stanco per le tante guerre e perdite il popolo di Pisa [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 2.], segretamente trattò con quello di Firenze per aver pace. Vi acconsentirono i popolari fiorentini per desiderio di abbassare i lor grandi, che profittavano delle guerre, purchè i Pisani licenziassero Guido conte di Montefeltro, la cui sagacità e valore teneva in apprensione tutti i vicini. Concorsero in questa pace anche i Sanesi, Lucchesi e l'altre terre guelfe della Toscana, con alcune condizioni ch'io tralascio. Penetrata questa mena, il conte Guido, parendogli d'essere trattato con somma ingratitudine dai Pisani, s'alterò forte, e ne fece di gravi risentimenti contra di chi gridava pace; ma infine fu costretto a cedere, dopo avere renduto buon conto a quel comune di tutto il suo operato, e de' vantaggi a lui procurati. In Romagna [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] non si sa che avvenisse in questo anno novità alcuna degna d'osservazione; se non che Maghinardo da Susinana, che era come signor di Faenza, con Bernardino conte di Cunio, prese il castello e la fortezza di Monte Maggiore, dove erano in guardia le genti del conte Alessandro da Romena, non so se fratello o nipote del vescovo Ildebrandino conte della Romagna, ma poco stimato, il conte Bandino da Modigliana, dichiarato capitan generale della lega de' Romagnuoli, pose la sua stanza in Forlì. Durava tuttavia la tregua fra i Veneziani e [226] Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 10, tom. 6 Rer. Ital.]. Accadde che nel mese di luglio sette galee di mercatanti genovesi, navigando ne' mari di Cipri, si scontrarono in quattro veneziane, e siccome i Genovesi non si faceano scrupolo ne' barbarici tempi, se veniva loro il destro, di esercitare il mestier de' corsari, le presero colla morte di più di trecento Veneziani. Ravvedutisi dipoi del fallo commesso, le lasciarono andare al loro viaggio, e restituirono, per quanto pretesero, tutta la roba. Saputosi in Genova, all'arrivo d'esse galee, il fatto, n'ebbero i savii gran dispiacere, e spedirono tosto dei frati predicatori a Venezia a scusare il fallo, e a farsi conoscere pronti alla soddisfazione: al quale effetto richiesero che si tenesse un congresso de' comuni ambasciatori in Cremona. Fu questo tenuto, e per tre mesi si andò disputando, ma senza poter conchiudere accordo alcuno. Il perchè si cominciò a pensare alla guerra; e come essa fosse rabbiosa, l'andremo vedendo negli anni seguenti. Per cagion di essa, e per la pace fatta coi Guelfi di Toscana, cominciò a respirare la città di Pisa, governandosi a parte ghibellina, e soccombendo ivi affatto la parte guelfa.


   
Anno di Cristo mccxciv. Indizione VII.
Celestino V papa 1.
Bonifazio VIII papa 1.
Adolfo re de' Romani 3.

Pel verno ancora del presente anno continuò la discordia fra i cardinali in Perugia, non venendo essi mai ad una concordia per eleggere un nuovo capo della Chiesa cattolica. Da Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Italic.] e dalla Cronica Sanese [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.] abbiamo che nell'anno 1293 Carlo II re di Napoli co' suoi figliuoli, e col giovinetto marchese del Monferrato Giovanni, sul fine del verno arrivò a Lucca, venendo [227] dalla Provenza. Ma secondo i conti fatti di sopra, in quest'anno dovette succedere il suo passaggio. La differenza delle città italiane nel contare il principio dell'anno non è un picciolo imbroglio a chi brama di fissare i tempi nella storia. Ora, secondo i Fiorentini ed altri popoli, il 1293 durava sino al dì 25 di marzo dell'anno presente. Per attestato d'esso Tolomeo, il suddetto re Carlo in Lucca trattato fu con tanta solennità d'incontro, di bagordi, danze e conviti, che non v'era memoria in Toscana di somigliante festa. Aggiugne poscia Jacopo cardinale di San Giorgio [Jacopus Cardinalis, in Vita Coelestini V, Par. I, tom. 3 Rer. Ital.], che gli era andato incontro Carlo Martello, suo primogenito, re allora d'Ungheria solamente di nome o di titolo, venuto da Capoa per vedere il padre. Giunto che fu il re Carlo vicino a Perugia, gli fecero anche i cardinali tutto il possibile onore con un magnifico incontro. E perciocchè a lui premeva forte di veder creato presto un papa tutto suo, non risparmiò in tal congiuntura le sue doglianze per la scandalosa dilazione, e le sue esortazioni, perchè la sbrigassero una volta. Tolomeo da Lucca, che in questi tempi vivea, attesta [Ptolom. Lucens., Hist. Eccles., tom. 11 Rer. Italic.] ch'egli dura verba habuit cum domino Benedicto Gaytani, che fu poi Bonifazio VIII, il quale, da superbo come era, probabilmente gli rispose che non toccava a lui il prefiggere ai cardinali il quando s'avea da creare il papa. Forse anche fu creduto ch'egli quel fosse che imbrogliava questo grande affare. Andossene il re Carlo; e, continuando la disunione suddetta nel sacro collegio, cosa avvenne che stordì tutto il mondo cristiano. Era già il mese di giugno, e per la morte di un giovane, fratello del cardinal Napoleone degli Orsini, cominciò il cardinal tuscolano Giovanni Boccamazza a parlar delle burle che fa la morte ai giovani, e più s'hanno da temer dai vecchi, [228] predendo motivo da ciò di non differir più lungamente il dare un capo alla Chiesa. Aggiunse il cardinale Latino Malabranca vescovo d'Ostia, essere stato rivelato da Dio ad un santo uomo, che se non si affrettavano ad eleggere un papa, la collera di Dio era per iscoppiar sopra di loro prima dell'Ognissanti. Sorridendo allora il soprammentovato cardinale Benedetto Gaetano, disse: E' forse questa una delle visioni di Pietro da Morrone? Signor sì, rispose il vescovo d'Ostia, e disse d'avere sopra ciò lettera da lui. Qui si venne a discorrere di questo santo romito, e chi raccontò l'austerità della sua vita, chi le molte sue virtù, chi i suoi miracoli; e vi fu chi disse ch'esso era degno d'essere papa. Non cadde in terra la proposizione. Fu il primo a dargli la sua voce il cardinale ostiense nel dì quinto di luglio, e tanti altri vi concorsero, che Pietro da Morrone, povero, ma santo romito, nato in Molise in Terra di Lavoro, soggiornante allora in una colletta del territorio di Sulmona in mezzo alle montagne di Morrone, fu eletto e proclamato papa. Furono a lui spediti tre vescovi col decreto dell'elezione; ed egli, dopo aver fatta orazione, vi consentì, e prese il nome di Celestino V. Sparsa questa nuova, empiè di stupor tutte quelle contrade; cominciarono vescovi, ecclesiastici e popoli a concorrere a folla per vedere questo inusitato spettacolo, cioè un povero romitello alzato alla più sublime dignità della repubblica cristiana. Vi accorse ancora il re Carlo II col re Carlo Martello suo figliuolo, e gli fecero amendue una gran corte, con addestrarlo dipoi, tenendo le redini d'un asino, su cui egli volle entrar nella città dell'Aquila, giacchè quivi fissò il pensiero d'essere consecrato, senza far caso delle premurose lettere de' cardinali che il chiamavano a Perugia. Alla sua consecrazione si trovarono più di ducento mila persone, fra queste Tolomeo da Lucca, autore di questo racconto. Diedesi poi il novello papa a far delle elezioni non [229] abbastanza caute di ministri, di vescovi ed abbati, lasciandosi governare da' laici, e poco consultando i cardinali. Ma più degli altri attese a profittare della di lui semplicità il re Carlo, tutto lieto d'avere un papa nato suddito suo, e da poter aggirare a suo talento. L'indusse a fare nel dì 18 di settembre la promozione di dodici cardinali, secondochè a lui piacque, cioè sette franzesi, tre del regno di Napoli, il suo cancelliere, ed appena un romano, cioè un nipote del soprannominato cardinal Benedetto Gaetano. Si credeva ch'esso cardinal Gaetano non sarebbe andato all'Aquila, dove era il re Carlo, dianzi da lui offeso con poco rispettose parole. Ma vi andò, e seppe così ben condurre le sue faccende, che divenne intrinseco del suddetto re Carlo, e come padrone della corte pontificia, mercè dell'innata sua astuzia, come osservò Tolomeo da Lucca.

Intanto il buon pontefice, sì per la sua decrepita età, come per la sua inesperienza, era tutto dì ingannato da' suoi uffiziali nel dispensar le grazie e conferir le chiese; talmente che Jacopo da Varagine arcivescovo di Genova, vivente in questi tempi, ebbe a dire [Jacopus a Varagine, Chron. Genuens., tom. 9 Rer. Ital.] che Celestino fece molte cose de plenitudine potestatis, ma molt'altre più de plenitudine simplicitatis. Il peggio fu che, lasciatosi adescare dal re Carlo, andò a mettere la sua residenza in Napoli, cioè a farsi maggiormente schiavo del medesimo: risoluzione che, non potutasi impedire dai cardinali, troppo trafisse il loro cuore. Oh allora sì che più che mai s'avvidero quei porporati padri del maiuscolo sproposito e dei mali effetti della sregolata lor dissensione, e cominciarono a desiderar di disfare ciò che era già fatto. Puzza di favola ciò che alcuni lasciarono scritto, di avergli il suddetto cardinal Benedetto Gaetano, che fu poi papa Bonifazio VIII, di notte con una tromba, come se fosse venuta dal cielo, insinuato di abbandonare [230] il pontificato. La verità si è, che alcuni de' cardinali cominciarono a parlargli di rinunziare, stante la sua incapacità di governar la nave di Pietro, e il grave danno che ne veniva alla Chiesa, e il pericolo dell'anima sua. Celestino, in cuore di cui non era punto scemata per così grande altezza l'antica sua umiltà, lo sprezzo del mondo e la delicatezza della coscienza, vi prestò molto bene l'orecchio [Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital. Jacob. Cardinalis, in Vit. Coelestini, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Jordanus, in Hist.]. Ma il re Carlo, penetrato il broglio, commosse tutta Napoli, che processionalmente si portò sotto le finestre del papa, pregandolo di non consentire a rinuncia alcuna. V'era presente Tolomeo da Lucca. In termini ambigui fece dar loro risposta Celestino, e poi nel dì 13 di dicembre spiegò nel concistoro la fissata risoluzione sua di dimettere il pontificato. Gli fu suggerito di far prima una costituzione dichiarativa, che in alcuni casi il romano pontefice può lecitamente abdicare il pontificato: il che fatto, ed accettata dal sacro collegio la di lui rinunzia, si spogliò Celestino degli abiti pontificali, e ripigliato l'eremitico, si ritirò dalla corte tutto lieto d'aver deposto un sì pesante fardello, e sol bramoso di ritornare al suo niente e alla cara sua solitudine, con esempio d'umiltà da ammirarsi da tutti, da imitarsi da pochi o da niuno. Da lì a non molto, rinchiusi nel conclave i cardinali, vennero all'elezione di un nuovo papa; e giacchè il cardinal Benedetto Gaetano da Agnani, personaggio di somma sagacità e perizia nelle leggi canoniche e civili, avea saputo guadagnarsi l'amicizia e patrocinio del re Carlo II, giusta i cui voleri si moveano allora le sfere, in lui concorsero i voti de' cardinali. Fu egli eletto nella vigilia del santo Natale, e, preso il nome di Bonifazio VIII, si mise poi in viaggio verso Roma nel dì 2 di gennaio dell'anno seguente, siccome diremo, per esser ivi consecrato. Studiavasi sempre più Matteo Visconte, capitano di [231] Milano, Como, Vercelli e Novara, di assodare ed ampliare la potenza sua [Corio, Istor. di Milano.]; e sapendo che possente efficacia avesse il danaro presso Adolfo, re povero de' Romani, ottenne dal medesimo per questa via di essere creato vicario generale della Lombardia. Pertanto, venuti a Milano quattro ambasciatori d'esso Adolfo, nella domenica prima di maggio, in un solenne parlamento tenuto in Milano, gli fu solennemente data l'investitura del vicariato. Allora i Milanesi giurarono fedeltà al re Adolfo; e, passati dipoi essi ambasciatori cogli uffiziali del visconte alle altre città lombarde, da esse ricavarono un simil giuramento di fedeltà [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 333.]. Ma i Cremonesi e Lodigiani, non piacendo loro che Matteo Visconte cominciasse a far da superiore nelle loro città, si collegarono contra di lui, e fecero venire i Torriani in Lombardia. Cominciossi pertanto la guerra da questi due comuni contra del Visconte, ed unironsi con essi anche molti nobili milanesi, mal soddisfatti del presente governo dello stesso Matteo.

Tendendo in questi tempi i maneggi del marchese Aldrovandino d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] alla rovina del marchese Azzo VIII signor di Ferrara, Modena e Reggio, suo fratello, senza por mente s'egli rovinava anche la propria casa, mosse il comune di Padova alla guerra. Presero essi Padovani, dominanti allora in Vicenza, le terre di Este, Cerro e Calaone, e si accingevano a far di peggio, quantunque il marchese Azzo fosse uscito in campagna con un buon esercito. Ma, interpostosi il patriarca d'Aquileia Raimondo dalla Torre con alcuni frati minori, si venne ad una pace, in cui restò deluso il marchese Aldrovandino, e fu convenuto che si spianassero le fortezze e rocche delle tre suddette terre, e che restassero in potere de' Padovani la terra della Badia, la terza parte di Lendenara, Lusia, il castello di Veneze, [232] ed altri diritti, sconsigliatamente loro ceduti dal marchese Aldrovandino. A ciò s'indusse il marchese Azzo, perchè, unitisi i Padovani in lega con Alberto dalla Scala, era divenuto pericoloso il continuar questa guerra. Tenne dipoi esso marchese in Ferrara per la festa dell'Ognissanti una suntuosissima corte bandita, dove concorse una straordinaria copia di nobili di tutta la Lombardia; e ciò in occasione di prender egli l'ordine della cavalleria cogli speroni d'oro da Gherardo da Camino signor di Trivigi. Fece il suddetto marchese dipoi cavalieri il marchese Francesco suo fratello, e cinquantadue altri nobili di varie città di Lombardia; tutto alle spese sue: il che diede molto da pensare e da dire ai politici di que' tempi. Scorgendo il comune di Genova più disposti alla guerra che alla pace i Veneziani, cominciò a fare un potente armamento dal canto suo. Non fece di meno il comune di Venezia [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Continuator Danduli, tom. 12 Rer. Ital.]. Ora accadde che Marco Basilio con ventotto galee venete ed altri legni andando in traccia dei Genovesi che navigavano in Romania, scontratosi con tre grosse navi mercantili riccamente cariche d'essi Genovesi, le prese. Informati di questa perdita i Genovesi abitanti in Pera, spedirono bensì Niccolò Spinola a chiederne la restituzione, ma senza frutto alcuno di tale spedizione. Allora si misero alla vela venti galee e undici fuste genovesi sotto il comando di esso Spinola, per ottener coll'armi ciò che non poteano colle parole; e trovata la flotta veneziana verso Laiaccio, attaccarono una feroce battaglia. Si dichiarò la fortuna in favore de' Genovesi, in poter de' quali oltre alle proprie navi ricuperate, restarono venticinque galee venete col capitano, e i mercatanti e loro mercatanzie. Appena tre galee ebbero la sorte di salvarsi colla fuga. Giunta questa infausta nuova a Venezia, riempiè di cordoglio e di sdegno quel popolo, massimamente perchè il fiore dei [233] marinari era caduto in man de' nemici; ma siccome gente magnanima, si diede tosto a far maggiori preparamenti, e mise in mare sessanta galee ben armate, delle quali creò ammiraglio Niccolò Querino, con ordine di cercar ne' mari di Grecia la flotta nemica. Seppero i Genovesi schivarne l'incontro; e, giunti alla Canea nell'isola di Candia, per forza v'entrarono, e dopo il sacco lasciarono quasi tutta quella città in preda alle fiamme. Allorchè Carlo II re di Napoli comandava le feste sotto il nome di papa Celestino V, ottenne che si levasse dalla Romagna [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] Ildebrandino vescovo d'Arezzo; e in suo luogo fosse creato conte di essa un certo Roberto di Cornay, probabilmente Provenzale. Costui venne nel mese d'ottobre, ed entrò in Rimini, Cesena, Forlì, Faenza ed Imola, ricevuto con onore dappertutto; ma non fece le radici in quelle contrade, perchè nell'anno seguente ad altri fu dato il medesimo governo. Formossi in quest'anno una sollevazione in Forlì, per cui i Calboli colla lor fazione furono scacciati, ed alcuni vi restarono prigioni con Guido da Polenta capitano di quella città, e Ramberto suo figliuolo. Ma corso colà Maghinardo Pagano da Susinana, fece rilasciare i prigioni, e fu egli creato podestà di quella città. Nell'autunno ancora del presente anno nota la Cronica di Forlì, essersi per le smisurate pioggie sì eccessivamente gonfiato il Po, che allagò tutto il paese contiguo alle rive, cioè del Piacentino, Cremonese, Bresciano, Parmigiano, Reggiano, Modenese e Padovano, di maniera che fu chiamato un diluvio particolare, per le tante ville sommerse.


   
Anno di Cristo mccxcv. Indizione VIII.
Bonifazio VIII papa 2.
Adolfo re de' Romani 4.

Una delle prime imprese di papa Bonifazio VIII, non per anche [234] consecrato [Jacobus Cardinalis, in Vita Coelestini V, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Ptolom. Lucens., Hist. Eccl., tom. 11 Rer. Ital.], fu quella di annullar tutte le grazie fatte da papa Niccolò IV e da Celestino V. Poscia nel primo, oppure nel secondo giorno di gennaio del presente anno, senza far caso dell'aspra stagione, s'inviò alla volta di Roma. Aveva egli mandato innanzi accompagnato da più persone il già papa Celestino, tornato ad essere Pietro da Morrone. Ma questi una notte con un solo compagno se ne fuggì, per ritirarsi all'antica sua cella, e chi disse con pensiero di scappare in Grecia, acciocchè niuno il tenesse più per papa. Bonifazio, a questa nuova, s'inalberò non poco, e spedì gente sì egli, come il re Carlo, dappertutto a cercarlo. Ritrovato che fu, il papa apprendendo che se quel santo vecchio fosse lasciato in libertà, avrebbe per sua semplicità potuto lasciarsi indurre a riassumere il pontificato, e far nascere scisma, giacchè non mancavano persone che pretendevano nulla la di lui rinunzia, e seguitavano a venerarlo qual papa: il confinò nella rocca inespugnabile di Fumone, dove ben trattato, oppure, secondo altri, maltrattato in una stretta prigione, attese a vivere e a far delle orazioni, finchè nel dì 19 di maggio dell'anno 1296 diede fine alla sua santa vita, e glorificato da Dio con molti miracoli, fu poi solennemente messo nel catalogo de' santi da papa Clemente V. Si mostra il suo cranio, come trafitto da un chiodo; ma non è probabile che Bonifazio VIII, se l'avesse voluto levar dal mondo, avesse usata sì barbara maniera, e non piuttosto il veleno. Se si ha da credere a Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 6. Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.], per giugnere al papato col mezzo del re Carlo, avea Bonifazio detto ad esso re che il suo papa Celestino l'avea ben voluto servire per fargli ricuperare la perduta Sicilia, ma che non avea saputo farlo; laddove, s'egli fosse eletto papa, vorrebbe, [235] saprebbe e potrebbe fargli ottenere l'intento. E gli mantenne la parola [Nicolaus Specialis, lib. 2, cap. 20, tom. 10 Rer. Ital.]. Confermò la concordia fatta per cura di papa Niccolò IV fra il re Carlo ed Alfonso re di Aragona; e diede ordine a Bonifazio da Calamandrano, gran maestro de' cavalieri oggidì appellati di Malta, d'indurre allo stesso accordo e con più strette condizioni Giacomo re d'Aragona, succeduto al fratello Alfonso. Per liberarsi dalla nemicizia dei re di Francia e di Napoli, Giacomo consentì, con cedere al re Carlo i suoi diritti sopra la Sicilia, prendere per moglie Bianca figliuola di esso Carlo, benchè avesse già contratti gli sponsali con una figliuola del re di Castiglia; e con altri patti di pagamento di danari, di promesse della Sardegna e Corsica, e d'altri vantaggi spettanti a Carlo di Valois, il quale rinunziò anch'egli le sue pretensioni sopra il regno d'Aragona. Niccolò Speciale e il Villani scrivono che ora solamente furono posti in libertà i principi figliuoli del re Carlo, e questo ancora si deduce da un Breve di papa Bonifazio [Jacobus Cardinalis, in Vita Coelestini V, P. 1, tom. 3 Rer. Ital.]; laonde non so come Tolomeo da Lucca scrivesse che furono liberati nell'anno precedente, e che passarono per Lucca.

Seguì poscia in Roma la solenne coronazione di papa Bonifazio nel dì 16 di gennaio. Leggesi diffusamente descritta in versi da Jacopo Gaetano cardinale di San Giorgio [Nicolaus Specialis, lib. 2, cap. 22, tom. 10 Rer. Ital.] quella magnifica funzione, a cui forse una simile non s'era veduta in addietro. Vi assisterono i due re Carli, padre e figliuolo, con tener le redini del cavallo pontificio nella cavalcata, e con servirlo alla mensa. Scrive il Rinaldi, che in quest'anno mancò di vita il suddetto giovane re, cioè Carlo Martello, che portava il titolo di re d'Ungheria. Di ciò parleremo all'anno 1301. Attese in questi tempi con tutto vigore papa Bonifazio [236] a far eseguire il trattato della pace fra il re Carlo II e Giacomo re d'Aragona per la restituzion della Sicilia; ma si cominciarono a trovare degl'intoppi dalla parte dei Siciliani stessi. Appena passò in quell'isola la voce di quell'accordo, e che il re Giacomo s'era impegnato di consegnarla al re Carlo, che, tenutosi un parlamento dalla regina Costanza, governatrice di quel regno, e da don Federigo suo figliuolo, fu risoluto di inviar ambasciatori al re Giacomo in Catalogna per chiarirsi della verità del fatto. Andarono questi, e, udito che così stava la cosa, proruppero in lamenti, in preghiere e in proteste; e trovando il re fisso nel suo proposito, perchè più non potea tornare indietro, dopo essersi fatto dare in iscritto un atto autentico di tale rinunzia, se ne tornarono vestiti da corruccio in Sicilia, portando la dolorosa nuova, che fu una spada nel cuore a que' popoli, giacchè si vedeano sagrificati ai Franzesi, gente da essi odiata a morte e temuta. In questo tempo l'accorto papa Bonifazio desiderò che don Federigo, fratello del re Giacomo, venisse dalla Sicilia a trovarlo, per guadagnarsi il lui animo, ed impedire ch'egli non frastornasse la restituzion di quel regno. Venne lo spiritoso infante con una bella flotta, accompagnato da' suoi due ministri, Giovanni da Procida e Ruggieri di Loria, e sbarcato si abboccò in Velletri col papa, che gli fece un affettuoso accoglimento, e con auree parole l'esortò a dar tutta la mano alla pace, offerendogli in moglie Caterina, unica figliuola di Filippo imperadore, ma solamente di titolo, di Costantinopoli, figlio del re Carlo II, con ricchissima dote, e coi diritti sopra l'imperio greco, di cui papa Bonifazio, come se l'avesse in pugno, gli dipigneva non solo facile, ma infallibile la conquista. Rispose saviamente il giovanetto principe che farebbe quanto fosse in suo potere; ma che conveniva intendersela ancora coi popoli; e, licenziatosi, se ne tornò colla sua flotta in Sicilia. Fu sentimento d'alcuni che in [237] questa occasione Bonifazio traesse alle sue voglie il valoroso, ma ambizioso Ruggieri di Loria, con farlo principe dell'isole delle Gerbe e di Carchim in Africa, e con altre lusinghe. Ma forse per altri più tardi si staccò Ruggieri dal suo amore verso la Sicilia; ed egli in questi tempi, e molto più Giovanni da Procida inclinarono a dichiarare re di Sicilia don Federigo, e di voler piuttosto tentar la fortuna della guerra, che tornare sotto l'abborrito giogo dei Franzesi. Fu spedito in Sicilia dal pontefice il suddetto Giovanni di Calamandrano, per proferire a quei popoli quante mai grazie ed esenzioni sapessero immaginare. Ma gli fu detto che i Siciliani colla spada, e non già con delle carte pecore cercavano la pace; e che, se non isloggiava presto dalla Sicilia, vi avrebbe lasciata la vita. Di più non occorse per farlo tornar di galoppo indietro.

Nella notte del dì 8 di agosto del presente anno, venendo il dì 9, terminò i suoi giorni [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] Ottone Visconte arcivescovo e signore di Milano, a cui dee la sua esaltazione la nobil casa de' Visconti Milanese. Lasciò egli Matteo, suo nipote in alto stato. Secondo Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 334.], alcuni nobili milanesi passarono a Lodi, e si acconciarono coi Torriani, i quali con quel popolo e coi Cremonesi andarono all'assedio di Castiglione; ma portatosi colà Matteo Visconte coi Piacentini e Bresciani, li fece ben tosto decampare. Nel mese di giugno, secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], l'armata milanese andò fin sotto le porte di Lodi, danneggiando il paese; ma nel settembre fu fatta e gridata la pace, oppur la tregua fra Milano e Lodi. Di questi fatti ci assicura anche la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Contrassero in quest'anno lega i Parmigiani coi Bolognesi, e seguirono poi delle funeste novità nella loro città. Era stato eletto arcivescovo [238] di Ravenna Obizzo da San Vitale, vescovo allora di Parma: del che fu fatta grande allegrezza da quei della sua fazione. Ma nel dì 23 d'agosto la fazione contraria de' Correggeschi, facendo correre voce che il medesimo prelato macchinasse contro alla patria, ed avesse fatta massa d'armi nel suo palagio, mosse a rumore il popolo, e furiosamente con esso andò a quella volta. Il vescovo ebbe la sorte di salvarsi, e, fuggito a Reggio, si trasferì poscia a Ravenna. Furono mandati ai confini moltissimi seguaci della parte ghibellina; e i Bolognesi inviarono a Parma ducento uomini d'armi da tre cavalli l'uno con cinquecento pedoni. Più strepitosa ancora fu la sollevazione che si fece nella stessa città di Parma nella festa di santa Lucia, in cui amendue le fazioni vennero alle mani, e dopo lungo combattimento rimasero rotti i Sanvitali e posti in fuga, e il monistero di san Giovanni de' Benedettini fu messo a sacco, con altri non pochi disordini. Ritiraronsi gli usciti a Cuvriago, e vi si fecero forti coll'aiuto del marchese Azzo VIII d'Este, il quale fu creduto che avesse mano in cotali turbolenze con disegno d'acquistare la signoria di Parma. Comunque sia, avendo presa il marchese la protezione di quei fuorusciti, guerra nacque fra lui e il popolo di Parma. Alberto Scotto, signor di Piacenza, spedì un suo nipote con soldatesche in aiuto de' Parmigiani. Colà parimente Milano inviò un buon rinforzo; e i Bolognesi, dopo avervi trasmessa di nuovo una compagnia di cento uomini d'armi, determinarono di far guerra per essi al marchese d'Este. Diede esso marchese [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] il passo per Modena e Reggio ai lor soldati ed ambasciatori, perchè protestarono di passare a Parma per rimettere la concordia fra que' cittadini e la parte del vescovo; ma si trovò poi burlato, ed anch'egli si diede a far gente in sua casa, e broglio in Romagna contra de' Bolognesi. Nel mese d'ottobre [239] esso marchese Azzo nella sua terra di Rovigo fece cavaliere Ricciardo, figliuolo di Gherardo da Camino signore di Trivigi, sic magnifice, per attestato della Cronaca di Parma, quod numquam auditum fuerat de aliquo, quod sic fieret.

Nell'anno presente ancora si fecero delle novità in Brescia [Malvec., Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.]; imperciocchè per maneggio di Matteo Visconte tutti i partigiani della casa della Torre, cioè i Guelfi, furono scacciati dalla città e banditi col guasto di tutti i loro beni: perlochè si rifugiarono al marchese d'Este capo della parte guelfa. Per lo contrario, Bardelone de' Bonacossi signore di Mantova [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] cavò dalle carceri Taino suo fratello con un suo nipote, e li mandò a' confini; ed, oltre a ciò, rimise in Mantova due mila persone già bandite, cassando ogni statuto fatto contra di loro: del che dovette riportare gran lode. Ma non si può abbastanza spiegare, come lo spirito della bestial discordia si diffondesse in questi tempi per l'Italia. In Firenze il popolo superiorizzava, ed avea fatto degli statuti molto gravosi contra de' nobili e grandi [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 12.], mosso specialmente da Giano della Bella, arditissimo popolano. Non potendo più sofferire i nobili questo aggravio, nel dì 6 di luglio, dopo aver fatta congiura, e ragunata di gran gente, fecero istanza che fossero cassate quelle ingiuste leggi. Per questo fu in armi tutta la città. Si schierarono i grandi colle lor masnade nella piazza di San Giovanni, e voleano correre la terra. Ma il popolo asserragliò e sbarrò le strade, acciocchè la cavalleria non potesse correre, e stette così ben unito e forte al palazzo del podestà, che i grandi non osarono di più. Prese da ciò maggior piede la gara e il mal animo dell'una contra dell'altra parte; e di qui cominciò la città di Firenze a declinare in malo stato con gravi sciagure, che andremo a [240] poco a poco accennando. Anche in Pistoja, secondochè s'ha da Tolomeo da Lucca [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], in quest'anno ebbe principio una fiera discordia fra i nobili della casa de' Cancellieri, i quali si divisero in due fazioni. Bianchi e Neri, cadauna delle quali ebbe gran seguito. Ne succederono ammazzamenti, e si sparse dipoi questo veleno per le città di Firenze, di Lucca e d'altri luoghi, ne' quali cadauna d'esse fazioni trovò protettori e partigiani. Il Villani e la Storia Pistoiese pare che mettano il cominciamento di questa maledetta divisione all'anno 1300.

Da moltissimi anni era anche divisa la città di Genova in due fazioni, cioè ne' Mascherati ghibellini, e ne' Rampini guelfi. Più che mai ciò non ostante, si accendeva la guerra fra quel popolo e i Veneziani. Questo bisogno del pubblico e la cura massimamente di Jacopo da Varagine arcivescovo di Genova [Jacobus de Varagine, Chron. Genuens., tom. 9 Rer. Ital.] portarono nel mese di gennaio alla pace e concordia gli animi loro divisi. E quivi vedendosi che in Venezia si faceva un terribile armamento di legni, col vantarsi alcuni di voler venire fino a Genova, stimolati dal punto d'onore e dall'antica gara i Genovesi, si misero anch'essi a farne uno più grande e strepitoso. S'interpose papa Bonifazio nei mese di marzo, e chiamati a Roma i deputati di amendue le città, intimò una tregua fra loro sino alla festa di san Giovanni Batista, sperando intanto di ridurre queste due feroci nazioni a concordia; ma nulla si potè conchiudere. Mirabile e quasi incredibil cosa è l'udire, per attestato del suddetto Jacopo da Varagine, che i Genovesi giunsero ad armare ducento galee, che furono poi ridotte a sole cento cinquantacinque, cadauna delle quali aveva almeno ducento venti armati, altre ducento cinquanta, ed altre sino a trecento. Mandarono poscia [241] a Venezia dicendo, che se i Veneziani aveano il prurito di venire a Genova per combattere, non s'incomodassero a far sì lungo viaggio; perchè i Genovesi con Uberto Doria loro ammiraglio andavano in Sicilia ad aspettarli, e che quivi li sodavano a battaglia [Continuator Danduli, tom. 12 Rer. Ital.]. Udita questa sinfonia, i saggi veneziani stimarono meglio di disarmare, e di lasciar che gli altri passassero, siccome fecero soli, a fare una bella comparsa ne' mari di Sicilia. Ma che? tornati che furono a casa i Genovesi pieni di boria, come se avessero annientata la potenza veneta, si risvegliò fra loro il non estinto fuoco delle fazioni per gare di preminenza e risse cominciate nell'armata suddetta [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 14. Jacobus de Varagine, Chron. Genuens., tom. 9 Rer. Ital. Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Però sul finire dell'anno la parte guelfa, capi di cui erano i Grimaldi, venne alle mani colla ghibellina, onde erano capi i Doria e gli Spinoli, e cominciarono un'aspra guerra cittadinesca che impegnò tutto il popolo della città: del che parleremo all'anno seguente. In Romagna [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] nell'aprile di quest'anno fu inviato per conte e governatore Pietro arcivescovo di Monreale, il qual fece alcune paci in quella provincia, tolse a Maghinardo da Susinana l'ufficio di capitano di Faenza, e in Ravenna fece abbattere i palagi di Guido da Polenta e di Lamberto suo figliuolo. Dopo aver ridotto in Faenza i fuorusciti, si stette poco a sentire una sollevazione in quella città fra i conti di Cunio e i Manfredi dall'una parte, e Maghinardo, i Rauli ed Acarisi dall'altra. Si venne a battaglia, e andarono sconfitti i primi, obbligati perciò ad uscire di quella città, e restarono burlati i Bolognesi, i quali passavano d'intelligenza con essi per isperanza di tornar padroni di Faenza. Poco durò il governo del suddetto arcivescovo di Monreale, perchè nell'ottobre arrivò a Rimini Guglielmo [242] Durante vescovo mimatense, ossia di Mande in Linguadoca, eletto da papa Bonifazio VIII marchese della marca di Ancona e conte della Romagna, celebre giurisconsulto, autore dello Speculum juris, onde fu appellato Speculator, e di altre opere, il quale per molto tempo era stato pubblico lettore di leggi e canoni nella città di Modena. Fu ricevuto con onore da tutte le città della Romagna. Ma nel dì 19 di dicembre venne all'armi Malatesta da Verucchio nella città di Rimini colla sua fazione guelfa contro la ghibellina di Parcità, e la spinse fuori colla morte di molti. Guido conte di Montefeltro, rimesso in grazia del papa, venne in quest'anno a Forlì, e gli furono restituiti tutti i suoi beni. D'uomo tale par che facesse capitale papa Bonifazio per le sue occorrenze. Ma egli di lì a poco, cioè nell'anno seguente, o perchè si mutò il vento, oppure per vero desiderio di darsi alla penitenza de' suoi peccati, si fece frate dell'ordine francescano, e in quello terminò poi i suoi giorni, ma non sì presto.


   
Anno di Cristo mccxcvi. Indiz. IX.
Bonifazio VIII papa 3.
Adolfo re de' Romani 5.

Quando si credeva papa Bonifazio VIII d'essere come in porto nell'affare della restituzion della Sicilia, egli se ne trovò più che mai lontano. Irritati al maggior segno i Siciliani, perchè il re Giacomo senza alcuna contezza, nonchè assenso d'essi, avesse ceduto, e, per dir così, venduto quel regno ai troppo odiati Franzesi, nel dì 25 di marzo, in cui cadde la Pasqua dell'anno presente, proclamarono re di Sicilia l'infante don Federigo fratello dello stesso re Giacomo. Fu egli con gran solennità coronato nella cattedrale di Palermo, e in quello stesso giorno fece molti cavalieri, alzò altri al grado di conti, e dispensò molte altre grazie [Nicol. Specialis, lib. 3, cap. 1, tom. 10 Rer. Ital.]. [243] Dappertutto si videro giuochi e bagordi; e, mossosi il re novello da Palermo, passò a Messina, dove trovò tutto quel popolo in festa e pronto a servirlo. Andossene dipoi a Reggio in Calabria, e, dato ordine a Ruggieri di Loria che uscisse in mare colla sua flotta, egli stesso coll'esercito di terra andò a mettere l'assedio alla città di Squillaci, e con levare ai cittadini i canali dell'acqua, gli obbligò a rendersi. Di là portossi sotto Catanzaro, dove si trovava Pietro Ruffo, conte di quella forte città, ed uno de' primi baroni della Calabria, a cui non mancava gente in bravura e copia, molto atta ad una gagliarda difesa. Era Ruggieri di Loria parente del conte, e come tale dissuase la impresa. Stette saldo il re Federigo a volerla; ed allorchè coi furiosi assalti si vide essa città vicina a cadere, ottenne il medesimo Ruggieri che si venisse a patti, e che, se in termine di quaranta giorni non veniva soccorso, la città si rendesse. Passato il tempo, fu osservata la capitolazione, e Catanzaro venne alle sue mani. Fu anche dato soccorso a Rocca Imperiale, ed acquistato Policoro. Sotto Cotrone, preso anch'esso e saccheggiato, cominciò a sconciarsi la buona armonia fra il re e Ruggieri di Loria, ma per allora non ne fu altro. Impadronissi dipoi il re Federigo di Santa Severina e di Rossano. Intanto, portata a papa Bonifazio la nuova che don Federigo avea presa la corona di Sicilia, non solamente contra di lui, ma contra ancora del re Giacomo suo fratello si accese di collera, figurandosi che fra amendue passasse intelligenza segreta, per burlare in questa guisa non meno il re Carlo che il papa stesso. Annullò dunque tosto, per quanto a lui apparteneva, tutti gli atti di don Federigo e de' Siciliani, e spiegò contra d'essi tutto l'apparato delle pene spirituali e temporali; per le quali nondimeno nulla si cambiò il cuor di quei popoli. Risentitamente ne scrisse ancora al re Giacomo; ma questi ampiamente rispose e giurò di non aver parte nella risoluzion presa dal [244] fratello (e dicea il vero), esibendosi pronto ad eseguir dal suo canto quanto era da lui stato promesso. Anzi egli, non so se chiamato dal papa, oppure di sua spontanea volontà, si preparò per venire a Roma, affine di meglio sincerare esso pontefice e il re Carlo del suo retto procedere.

La guerra insorta fra Azzo VIII marchese d'Este, signor di Ferrara, e i Parmigiani e Bolognesi collegati, andava ogni dì più prendendo vigore [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Dal canto loro maggiormente si afforzarono i Parmigiani, con accrescere la loro lega, nella quale entrarono il comune di Brescia e i fuorusciti di Reggio e di Modena, tutti contro il marchese Azzo. Seguirono poi varie ostilità in quest'anno fra essi Parmigiani e le milizie dell'Estense sul Reggiano, che non meritano d'essere registrate. Studiossi anche il marchese dal canto suo d'avere de' partigiani dalla parte della Romagna. Tirò in Argenta a parlamento Maghinardo da Susinana coi Faentini, Scarpetta degli Ordelaffi coi deputati di Forlì e di Cesena, Uguccione dalla Faggiuola, che comincia in questi tempi a far udire il suo nome, coi Lambertazzi usciti di Bologna, ed altri Ghibellini di Ravenna, Rimini e Bertinoro. Fu risoluto di togliere Imola ai Bolognesi. Di questo trattato Guglielmo Durante conte della Romagna spedì l'avviso a Bologna, acciocchè prendessero le necessarie misure e precauzioni. E infatti i Bolognesi inviarono quattro mila pedoni e molta cavalleria in rinforzo d'Imola. Ma nel dì primo d'aprile, venuto l'esercito del marchese Azzo con Maghinardo e cogli altri collegati, arrivò al fiume Santerno, alla cui opposta riva trovò schierati i Bolognesi, Imolesi ed usciti di Faenza, per impedire il passo del fiume che era allora assai grosso [Matth. de Griffonibus, Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Ma, valicato il Santerno dai Ferraresi e Romagnuoli, si [245] venne ad un caldo combattimento. Non ressero lungo tempo i Bolognesi; molti ne furono morti, molti presi; e fuggendo il resto verso Imola, i vincitori in inseguirli entrarono anch'essi nella città, e ne divennero padroni. L'autore della Cronica Forlivese [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] scrive che furono fatti prigioni più di duemila persone.

Nello stesso dì primo d'aprile il marchese Azzo con altro esercito dalla parte di Modena andò a fortificare le castella di Vignola, Spilamberto e Savignano; e soprattutto attese [Chron. Parmense.] a rimettere in piedi le fortificazioni di Bazzano, dove lasciò un buon presidio. Concertarono poscia insieme i Bolognesi e Parmigiani di unitamente far oste ad uno stesso tempo nell'autunno, gli uni contro Modena, e gli altri contra di Reggio. Ma i soli Bolognesi effettuarono il concordato; imperciocchè, unito un possente esercito di lor gente co' signori da Polenta, coi Malatesti ed altri Romagnuoli, e con un rinforzo di Fiorentini, ripigliarono per forza il castello di Savignano. Coll'aiuto de' Rangoni e d'altri fuorusciti di Modena presero Montese ed altre castella del Frignano; e si misero poi con grave vigore all'assedio di Bazzano. Si sostenne quella guarnigione, composta di quattrocento cavalieri e di mille fanti, per lo spazio d'un mese; ma vinta in fine dalla fame, e veggendo che non veniva soccorso (giacchè il marchese accompagnato da Maghinardo uscì bene in campagna con molte forze, ma non giudicò utile l'azzardare una battaglia), a patti di buona guerra nel dì 25 di novembre cadde in poter de' Bolognesi. Altre ostilità succederono in quest'anno [Chron. Forolivien.], perchè il marchese Azzo co' Modenesi e Reggiani cavalcò sul Bolognese nel dì 6 di giugno sino a Crespellano e al borgo di Panigale; e nello stesso tempo il marchese Francesco suo fratello co' Ferraresi venne dalla sua parte sino alla terra di [246] Peole e al Tedo, saccheggiando, bruciando e, facendo prigioni. E intanto il conte Galasso da Montefeltro, e Maghinardo Pagano da Susinana, capitano della lega colle milizie di Faenza, Forlì, Imola e Cesena, assalì il distretto di Bologna, venendo a Castel San Pietro e alle terre di Legnano, Vedriano, Frassineto, Galigata e Medecina, con orridi saccheggi e bruciamento di più di due mila case. La Cronica di Forlì, più delle altre esatta e copiosa in questi tempi, descrive minutamente questi fatti della Romagna con assaissimi altri, che troppo lungo sarebbe il voler qui rammentare. Ma non si dee tacere che nel dì 15 di luglio i Calboli coi Riminesi, Ravennati ed altre loro amistà, presero la città di Forlì colla morte di molti: il che udito da Scarpetta degli Ordelaffi e da Maghinardo che erano all'assedio di Castelnuovo [Chron. Caesen., tom. 15 Rer. Ital.], a spron battuto volarono colà, e ricuperarono la città, uccidendo e prendendo non pochi degli entrati. E poscia renderono la pariglia ai Ravegnani con iscorrere ed incendiare il lor paese sino alle mura della città. Nel dì 26 d'aprile Guglielmo Durante conte della Romagna, stando in Rimini, privò di tutti i lor privilegii, onori e dignità le città di Cesena, Forlì, Faenza ed Imola: rimedii da nulla per guarire i mali umori di tempi sì sconcertati.

Nel dì 30 del precedente dicembre [Georgius Stella, Annal. Genuens., lib. 1, cap. 8, tom. 17 Rer. Ital.] si diede principio entro la città di Genova alla guerra e alle battaglie fra i Grimaldi e Fieschi, e loro aderenti guelfi dall'una parte, e i Doria e Spinoli coi loro parziali ghibellini dall'altra. Nelle lor torri e case si difendeano, e da esse offendevano, cercando or l'una or l'altra di occupare il palazzo del pubblico e gli altri siti forti. Vi restarono preda del fuoco moltissime case, e fu bruciato fino il tetto della cattedrale di San Lorenzo [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 14.], [247] perchè i Grimaldi s'erano afforzati nella torre maggiore d'essa chiesa. Dalla Lombardia e da altri luoghi concorse gran gente in aiuto di cadauna delle parti; ma più furono i combattenti di quella dei Doria e Spinoli: laonde dopo più di un mese della tragica scena di quei combattimenti, soccombendo i Grimaldi e Fieschi, si videro nel dì 7 di febbraio obbligati a cercar lo scampo colla fuga fuori della città. Furono appresso eletti capitani governatori di Genova Corrado Spinola e Corrado Doria, e cessò tutto il rumore. Ma per mare seguitò la guerra fra essi Genovesi e i Veneziani [Contin. Danduli, tom. 12 Rer. Ital.]. Azione nondimeno che meriti osservazione non accadde fra loro, se non che da Venezia furono spedite venticinque galee ben armate sotto il comando di Giovanni Soranzo, le quali ite a Caffa, città posseduta dai Genovesi nella Crimea, la presero e saccheggiarono, con bruciare alquante navi e galee d'essi nemici. Era divisa anche la città di Bergamo nelle fazioni de' Soardi e Coleoni [Corio, Istor. di Milano. Gualvaneus Flamma, Manip. Flor.]. Nel mese di marzo vennero queste alle mani, e i Coleoni ne furono scacciati. Rientrati poi questi nella città nel dì 6 di giugno, e rinforzati dai Rivoli e Bongi, costrinsero alla fuga i Soardi, di modo che Matteo Visconte rimase escluso affatto dal dominio di quella città. Di torri e di case ivi si fece allora un gran guasto. Nell'anno presente Giovanni marchese di Monferrato prese per moglie Margherita figliuola di Amedeo conte di Savoia [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital. Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Poi, fatta lega con Manfredi marchese di Saluzzo, ed unito un buon esercito, prese e mise a sacco la città d'Asti, con iscacciarne i Solari e gli altri del partito guelfo. In Toscana non si udì novità alcuna degna di conto, se non che, per attestato [248] di Tolomeo da Lucca [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], Adolfo re dei Romani inviò colà per suo vicario Giovanni da Caviglione. I Toscani, a' quali rincrescevano forte le visite di questi uffiziali cesarei, ricorsero a papa Bonifazio VIII, perchè li liberasse da costui, esibendo ottanta mila fiorini di oro, quattordici mila de' quali toccarono per la sua rata al comune di Lucca. Il papa rimandò a casa sua questo vicario, contentandolo con dare il vescovato di Liegi ad un suo fratello, e mise nella borsa sua il danaro pagato dai buoni Toscani. Trovarono i Pisani in quest'anno un bel ripiego per farsi rispettare dai vicini nemici [Raynald., in Annal. Ecclesiast.], e fu quello di eleggere per podestà e governatore della loro città lo stesso Bonifazio papa, con assegnargli quattro mila lire annualmente per suo salario. Accettò benignamente il pontefice questo impiego, e, sciolti i Pisani dall'interdetto e dalle scomuniche, mandò colà per suo vicario Elia conte di Colle di Val d'Elsa. Richiamò esso papa dal governo della Romagna [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] Guglielmo Durante vescovo, e colà inviò con titolo di conte Masino da Piperno, fratello di Pietro cardinale di Piperno. Entrò egli in quella provincia sul fine di settembre, e fece ritirare l'esercito di Maghinardo dall'assedio di Massa de' Lombardi.


   
Anno di Cristo mccxcvii. Indizione X.
Bonifazio VIII papa 4.
Adolfo re de' Romani 6.

Venne in quest'anno a Roma Giacomo re d'Aragona, non tanto per far costare a papa Bonifazio l'onoratezza sua, e d'essere ben lontano dall'approvare, non che dal proteggere, le risoluzioni prese da' Siciliani e da don Federigo suo fratello, quanto per vantaggiare i proprii interessi con ismugnere nuove grazie dalla corte pontificia. E fattosi [249] conoscere dispostissimo ad impiegar tutte le sue forze dove gli ordinasse il papa [Raynald., in Annal. Eccles.], e precisamente contra dello stesso suo fratello: Bonifazio aprì gli scrigni della confidenza e liberalità pontificia verso di lui, con investirlo della Sardegna e Corsica, dove egli non possedeva un palmo di terreno, e con dichiararlo capitan generale dell'armata che si dovea spedire contro gl'infedeli, per ricuperar Terrasanta, o altri Stati dalle mani de' Saraceni. Questo era il colore che spesse volte si dava in questi tempi alle imprese che doveano farsi contra de' medesimi cristiani, e serviva di pretesto per aggravar di decime le chiese della Cristianità. La intenzion vera, siccome i fatti lo dimostrarono, era di assalir la Sicilia, e di levarla a don Federigo per consegnarla al re Carlo II. Ed appunto esso re Carlo venne anch'egli a Roma, e per istrignere maggiormente nel suo partito il suddetto re Giacomo, conchiuse seco di dar per moglie a Roberto suo terzogenito Jolanta, ossia Violanta, sorella del medesimo re Giacomo. Avea già esso Giacomo richiamati dalla Sicilia tutti gli Aragonesi e Catalani, parte de' quali ubbidì, e parte no [Nicolaus Special., lib. 2, cap. 12, tom. 10 Rer. Ital.]; e, stando in Roma, spedì un'ambasciata al fratello don Federigo, pregandolo di voler venire sino all'isola di Ischia, per abboccarsi con lui, e trattar seco de correnti affari. Don Federigo, ricevuta questa ambasciata, dalla Calabria se ne tornò a Messina, e colà ancora richiamò Ruggieri di Loria, il quale, dopo aver preso Otranto, era passato sotto Brindisi, per consultare con lui e co' Siciliani quello che convenisse di fare in sì scabrose contingenze. Il parere di Ruggieri fu, ch'egli andasse; diedero il lor voto in contrario i sindachi della Sicilia. Vennero poi lettere dal re Giacomo, che chiamava a Roma Ruggieri di Loria, e don Federigo con isdegno gli permise di [250] andare, ma con promessa di ritornare. Tuttavia perchè egli prima di mettersi in viaggio avea provveduto d'armi e di vettovaglia alcune castella in Calabria, e dai maligni fu supposto a don Federigo ciò fatto a tradimento da Ruggieri, come se egli già meditasse di ribellarsi; andò tanto innanzi lo sconcerto degli animi, che Ruggieri fu vicino ad essere ritenuto prigione; e poscia se ne fuggì, e, andato a Roma, si acconciò col re Giacomo a' danni del fratello. Fatal colpo di somma imprudenza di don Federigo, o de' suoi consiglieri, fu il perdere, in occasione di tanto bisogno, un sì prode ed accreditato ammiraglio, e non solo perderlo, ma farselo nemico. Altra ambasceria venne dal re Giacomo alla regina Costanza sua madre, con ordine di passare a Roma con Violanta sorella d'esso re, destinata in moglie a Roberto duca di Calabria. Venne la regina colla figliuola; fu assoluta e ben veduta dal papa; seguirono le nozze di Violanta; e Costanza si fermò dipoi fino alla morte in Roma. Altri dicono ch'ella passò in Catalogna, ma afflitta ed inconsolabile, per vedere la guerra imminente fra i due suoi figliuoli. Tornossene il re Giacomo in Catalogna a fare i preparamenti necessarii por soddisfare all'impegno contratto col pontefice e col re Carlo suo suocero. Don Federigo informato della fuga di Ruggieri di Loria, dopo averlo fatto proclamare nemico pubblico, e posto l'assedio a quante castella egli possedeva in Sicilia, di tutto lo spogliò.

Ebbe principio in quest'anno la detestabil briga de' Colonnesi contro papa Bonifazio VIII. Non si sa bene il motivo di tale rottura. Per attestato di Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 21.], perchè i due cardinali Jacopo e Pietro erano stati contrarii alla sua elezione, Bonifazio conservò sempre un mal animo contra di loro, pensando continuamente ad abbassarli ed annientarli. Aggiugne il Villani, concorde in ciò con [251] Tolomeo da Lucca [Ptolom, Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], che Sciarra, oppure Stefano dalla Colonna, nipote d'essi cardinali, avea prese le some degli arnesi e del tesoro del papa che veniva da Anagni, ovvero, secondo altri [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], che andava da Roma ad Anagni, ed erano ottanta some tra oro, argento e rame. Ma niuna menzione di questo facendo il papa nella bolla fulminatrice contra de' Colonnesi, si può dubitare della verità del fatto. Non altra ragion forte in essa bolla [Raynald., in Annal. Eccles.] adduce Bonifazio, se non che questi due cardinali tenevano corrispondenza con don Federigo usurpator della Sicilia, e che, avvertiti, non aveano lasciato questo commercio, nè aveano permesso che Stefano dalla Colonna, fratello del cardinal Pietro, ammettesse presidio pontificio nelle loro terre di Palestrina, Colonna e Zagaruolo: per li quali enormi delitti con bolla pubblicata nel dì 10 di maggio, non solamente scomunicò i suddetti due cardinali, ma li depose ancora, privandoli del cardinalato e d'ogni altro benefizio, con altre pene e censure contra de' lor parenti e fautori. S'erano ritirati alle lor terre questi cardinali, con Agapito, Stefano e Sciarra, tutti dalla Colonna; e ossia che essi avessero molto prima il cuor guasto, e sparlassero del papa, incitati sotto mano da qualche principe; oppure che, irritati per questo fiero, creduto da loro non meritato, gastigo, si lasciarono trasportare a dar fuori uno scandaloso manifesto, in cui dichiaravano di non credere vero papa Benedetto Gaetano, cioè il pontefice Bonifazio VIII, benchè fin qui da essi riconosciuto e venerato per tale, allegando nulla la rinunzia di papa Celestino V, per sè stessa, ed anche perchè procurata con frodi ed inganni, e perciò appellando al futuro concilio. V'ha chi pretende che tal manifesto, tendente ad uno scisma, uscisse fuori prima della bolla e deposizione [252] suddetta; ma il contrario si raccoglie da un'altra bolla d'esso papa Bonifazio, fulminata nel dì dell'Ascensione del Signore contra di essi cardinali deposti e di tutti i Colonnesi, in cui per cagion di questo libello aggrava le lor pene, li priva di tutti i loro stati e beni, e vuol che si proceda contra d'essi come scismatici ed eretici. Fece egli dipoi diroccare in Roma i palagi, e spedì le milizie all'assedio delle lor terre. Circa questi tempi ancora insorsero dissapori fra il papa e Filippo il Bello re di Francia, a cagione di avere il re pubblicata una legge (e questa dura tuttavia) che non si potesse estraere danaro fuori del regno, pretendendo il papa ch'egli perciò fosse incorso nella scomunica, mentre con ciò s'impediva il venir le rugiade solite, e quelle massimamente delle decime, alla corte di Roma. Diede anche ordine il pontefice ai due cardinali legati che erano in Francia, di apertamente pubblicare scomunicato il re e i suoi uffiziali, se veniva impedito il trasporto d'esso danaro dovuto alla santa Sede: cose tutte che col tempo si tirarono dietro delle pessime conseguenze, figlie dell'interesse, che da tanti secoli va e sempre forse pur troppo andrà sconcertando il mondo.

Durando la guerra fra il marchese Azzo d'Este e i Parmigiani, ognuna delle parti facea quel maggior danno che poteva all'altra [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Si frapposero amici, persuadendo la pace; e sopra tutto ne fece premura Guido da Correggio, potente presso i Parmigiani, perchè tutto il suo era sotto il guasto. Si conchiuse adunque l'accordo fra essi nel mese di luglio, e nel dì quinto di agosto furono rilasciati i prigioni. Ma di questa pace particolare si dolsero forte i Bolognesi, perchè lasciati soli in ballo dai Parmigiani, e ne furono anche malcontenti gli usciti di Parma, perchè abbandonati dal marchese; e però continuarono essi la guerra contra della [253] loro città. Altrettanto fece il marchese Azzo coi collegati romagnuoli [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] contra de' Bolognesi, seguitando i guasti e gli incendii dall'una parte e dall'altra. Fu eletto in quest'anno per lor capitano di guerra dalle città di Cesena, Forlì, Faenza ed Imola, Uguccione dalla Faggiuola, il quale nel dì 21 di febbraio in Forlì prese il baston da comando, poscia nel mese di maggio uscì con potente esercito a' danni de' Bolognesi. Giunto nelle vicinanze di Castello San Pietro, sfidò a battaglia l'armata vicina dei medesimi Bolognesi, i quali si guardarono di entrare in così pericoloso cimento. Intanto papa Bonifazio non rallentava il suo studio, premendogli forte di far cessare questa guerra; ma per ora non gli venne fatto, siccome neppure ai Fiorentini, che spedirono anch'essi degli ambasciatori a questo fine. Nell'anno presente [Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Italic. Chron. Astense, cap. 18, tom. 11 Rer. Ital.] i Grimaldi e Fieschi usciti di Genova fecero più che mai guerra contro la lor patria; ed accadde che Francesco dei Grimaldi, per soprannome Malizia, vestito da frate minore, s'introdusse nella terra di Monaco, e s'impadronì di esso e de' suoi due castelli, e quivi fortificatosi inferì dei gravissimi danni a Genova, corseggiando per mare. Signoreggia tuttavia in quella terra con titolo principesco la famiglia Grimalda.


   
Anno di Cristo mccxcviii. Indiz. XI.
Bonifazio VIII papa 5.
Alberto Austriaco re de' Romani 1.

Fecesi in quest'anno una brutta tragedia in Germania [Histor. Austr.]. Si guardavano di mal occhio da gran tempo Adolfo re de' Romani, e Alberto duca d'Austria e Stiria, e conte d'Alsazia, figliuolo del fu re Ridolfo. Dicono che Adolfo fosse dietro a privare Alberto de' suoi Stati, e che perciò Alberto si affrettasse di levare a [254] lui il regno. Tirò questi nel suo partito Vincislao re di Boemia, Gherardo arcivescovo di Magonza, il duca di Sassonia e il marchese di Brandeburgo [Chron. Colmar. Henric. Stero, et alii.], principi che cominciarono a trattar di deporre Adolfo, imputandolo d'inabilità al governo del regno per la sua povertà, e ch'egli fosse solamente di danno alla repubblica. Spedirono anche per questo a papa Bonifazio; ma non lasciò Adolfo di inviarvi anch'egli i suoi ambasciatori. Furono favorevoli le risposte del papa ad Adolfo; ma i suoi avversarii fecero credere d'averne anch'essi delle altre, che approvavano i lor disegni. Che più? nella vigilia della festa di san Giovanni Battista di giugno gli elettori di Magonza, Sassonia e Brandeburgo diedero la sentenza della deposizione di Adolfo, ed elessero re il duca d'Austria Alberto. Per questo fu in armi la Germania tutta, e fu decisa la lite nel dì 2 di luglio dell'anno presente con una giornata campale fra gli eserciti di questi due principi presso Vormazia, nella quale restò morto il re Adolfo. Poscia nell'universal dieta, tenuta a Francoforte nella vigilia di san Lorenzo, a pieni voti fu eletto re de' Romani il suddetto Alberto duca d'Austria, e coronato solennemente in Aquisgrana nella festa di san Bartolommeo. Fu sommamente disapprovato questo fatto da papa Bonifazio; e però avendogli il re Alberto nell'anno seguente fatta una spedizione di ambasciatori [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], per essere confermato dalla santa Sede, sempre il papa rispose ch'egli era indegno dell'imperio, anzi reo di lesa maestà, per aver ucciso il suo sovrano. Benvenuto da Imola [Benvenut., Hist. August.] tanto nella sua Cronichetta, quanto ne' suoi Comenti sopra Dante, aggiugne che Bonifazio assiso sul trono, e tenendo la corona in capo con una spada a lato, bruscamente dicesse a quegli ambasciatori: Io, io son Cesare, io l'imperadore. [255] Può questa essere una fandonia del secolo susseguente; ma è ben fuor di dubbio che nulla potè mai ottenere questo re novello, finattantochè nato al papa bisogno di lui, con subitanea metamorfosi si trovò bella e nuova la di lui promozione, e se gli fecero delle carezze. Si provò nel presente anno il flagello del tremuoto in Italia nella festa di santo Andrea [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 25. Bernard. Guid., in Vita Bonifacii VIII, P. 1, tom. 3 Rer. Ital. Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.], che continuò dipoi a farsi sentire per molti giorni e notti. Diroccò specialmente in Rieti, Spoleti e Pistoia molte chiese e palagi e case; e la gente si ricoverava alla campagna. N'ebbe gran paura anche papa Bonifazio, che soggiornava allora in Rieti, perchè tremò forte il suo palagio, e rifugiossi fuor di quella città nel convento de' frati predicatori; e fabbricata una capanna di legno in mezzo ad un prato, quivi cominciò a prendere riposo. Ma non per questo il feroce animo suo cessava dal procurar la distruzione de' Colonnesi. Fece predicar contra d'essi la crociata, dispensando le medesime indulgenze che si concedevano a chi passava in Terra santa contro i nemici della fede di Cristo.

Fu bensì continuata in quest'anno ancora la guerra fra il marchese Azzo di Este e il comune di Bologna; ma perchè dall'una parte papa Bonifazio, e dall'altra i Fiorentini amici de' Bolognesi andavano trattando di pace, nulla di rilevante seguì in armi fra essi, se non un ridicolo caso che si racconta negli Annali di Modena [Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. E fu, che i Bolognesi armati fecero una notte sopra i Modenesi una scorreria, venendo fino al borgo di Santa Agnese, che era vicino alla città, senza che le sentinelle se n'accorgessero e gridassero all'armi. E questo perchè i cani de' borghi cominciarono tutti ad abbaiar forte, e commossero alla stessa sinfonia quelli della città, di modo che le sentinelle per lo tanto strepito non [256] poterono mai intendere ciò che si dicessero i contadini e le genti di fuora. Per questo accidente gli anziani di Modena bandirono tutti i cani, ordinando che fossero uccisi. Io non mi fo mallevadore di questo avvenimento. Nè in Romagna nè in Toscana accaddero novità degne di memoria. Strepitosa bensì riuscì in quest'anno la guerra fra i Genovesi e Veneziani [Contin. Danduli, tom. 12 Rer. Ital. Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Era uscito in corso Lamba Doria ammiraglio de' Genovesi con settantotto ovvero ottantacinque galee, per danneggiare il paese nemico, venendo sino all'Adriatico. A questa nuova i Veneziani fecero il loro sforzo, e misero in mare novantacinque oppure novantasette galee ben armate sotto il comando di Andrea Dandolo. Si scontrarono queste armate navali a Curzola, e nel dì 8 di settembre, festa della natività della Vergine, attaccarono la zuffa. Sì poderoso fu sulle prime l'urto dei legni veneti, che sterminò dieci galee genovesi; ma procedendo poi innanzi con disordine, i Genovesi, gente più ardita e valorosa che allora solcasse il mare, stretti e ben ordinati si spinsero contra di loro, e, dopo molto sangue sparso dall'una e dall'altra parte, misero in rotta l'armata veneta, con riportare una sempre memoranda vittoria. Imperciocchè presero ottantacinque galee, se dicon vero le Storie genovesi, delle quali poi ne bruciarono sessantasette, e l'altre diciotto condussero trionfanti a Genova. Nelle Croniche venete è scritto che sessantacinque galee (numero nondimeno sempre mirabile) vennero in potere de' Genovesi. Per quanto s'ha dalla Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] e da quella di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], in quel fiero conflitto perderono la vita circa nove mila Veneziani, e ne rimasero prigioni sei mila e cinquecento, oppure sette mila e quattrocento, insieme coll'ammiraglio Dandolo, il quale da lì a pochi giorni per la [257] troppa doglia terminò i guai della vita presente. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.] diffusamente descrive questo memorabil combattimento. Portata a Venezia la dolorosa nuova, ordinò tosto quel senato che si fabbricassero cento galee di nuovo; ma o questo armamento non andò innanzi, o certo a nulla servì. In Parma [Chron. Parmense, tom. eod.] seguì nell'anno presente pace e concordia fra quei cittadini e i lor fuorusciti, per compromesso fatto in Matteo Visconte signor di Milano, dichiarato suo vicario anche da Alberto re de' Romani, ed in Alberto Scotto signor di Piacenza. Ma furono moltissimi i confinati in vigore di quel laudo, colla restituzion nondimeno dei beni loro.


   
Anno di Cristo mccxcix. Indizione XII.
Bonifazio VIII papa 6.
Alberto Austriaco re de' Romani 2.

La crociata contra de' Colonnesi, pubblicata da papa Bonifazio, e la guerra lor fatta, avea prodotto finora che all'armi pontificie s'erano arrendute le città di Nepi, Zagaruola, Colonna ed altre terre, dopo lungo assedio e con molto spargimento di sangue, e donate agli Orsini e ad altri nobili romani. Fu anche assediata Palestrina, dove si trovava un gagliardo presidio che rendeva inutili tutti gli sforzi dell'armata papale. Si rodeva di rabbia papa Bonifazio, veggendo di non poter vincere questa pugna; e però, se è vero ciò che racconta Dante poeta [Dante, nell'Infern. Benvenuto de Imola, in Comment. in Dant. tom.... Antiq. Ital.], il quale fiorì in questi tempi, fatto chiamare a sè Guido, già conte di Montefeltro, allora frate minore, a lui, come ad uomo mastro di guerra, volle raccomandar la direzione di quell'assedio. Se ne scusò Guido, allegando l'incompetenza del suo abito con quel secolaresco impiego. [258] Continuò Bonifazio a fargli istanza, perchè almeno gl'insegnasse la maniera di forzar quella terra alla resa. Allora Guido stette sopra sè un pezzo, e finalmente rispose, che conoscendo inespugnabile coll'armi la città di Palestrina, non gli andava per mente se non un ripiego; ma che non si attentava di proporlo per timore d'incorrere in peccato. Oh, se è per questo, replicò allora Bonifazio, io te ne assolvo. Allora Guido gli disse che bisognava promettere molto ed attener poco. Non c'è obbligazione di credere questo fatto a Dante, persona troppo ghibellina, e che taglia dappertutto i panni addosso a papa Bonifazio, tuttochè ancora Giovani Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 6.] ci descriva questo pontefice per uomo di larga coscienza, ove si trattava di guadagnare, e che dicea essergli lecito tutto, purchè fosse utile alla Chiesa. Forse i malevoli inventarono questa novella, con ricavarla dal seguente avvenimento. Imperocchè Bonifazio fece destramente proporre il perdono ai Colonnesi, e, liberalissimo di promesse, rimase d'accordo ch'essi in veste nera andassero a gittarsi ai piedi suoi, confessando i falli ed implorando misericordia. Così fecero. Avuta che ebbe il papa in sua mano Palestrina, lungi dal rimettere in pristino i Colonnesi, come n'avea, per quanto dicono, data parola, fece spianare dai fondamenti quella città, privandola d'ogni onore, e fino del nome, con fabbricarne un'altra in altro sito, e darle il nome di Città Papale. Cacciò ancora prigione Giovanni da Ceccano degli Annibaldeschi lor parente, e confiscò tutti i suoi beni. Atterriti da questo procedere i Colonnesi, tutti fuggirono, chi in Sicilia, chi in Francia ed in altri luoghi, e tenendosi con somma cura celati, finchè arrivò l'ultima scena dello stesso pontefice, che intanto di nuovo li bandì e perseguitò a tutto potere.

Benchè alcuni degli antichi scrittori col non accennare gli anni e i tempi precisi degli avvenimenti, sieno di non poco [259] imbroglio ai posteri che prendono a compilare una storia; e di questo difetto non vada esente Niccolò Speciale, e dopo di lui il Fazello, storici siciliani; pure vo' io credendo che gli affari della Sicilia si possano registrare nella forma seguente [Nicolaus Specialis, lib. 4 cap. 4, tom. 10 Rer. Ital.]. Giacomo re d'Aragona nell'anno precedente tornato a Roma, e partitosene carico di benedizioni e insieme di oro pontificio, passò a Napoli per concertare col re Carlo II suocero suo le operazioni da farsi contra della Sicilia. Fece segretamente esortare don Federigo suo fratello, che almeno rinunziasse le conquiste fatte in Calabria: che così si sarebbe maneggiato qualche accordo; ma non gli fu dato orecchio. Pertanto, unite le forze sue con quelle d'esso re Carlo, e composta una potente armata di vele, coll'insigne ammiraglio Ruggieri di Loria, sul fine d'agosto di esso anno andò a sbarcare in Sicilia. Impadronitosi a tutta prima di Patti, Milazzo e d'altre terre, si pose dipoi all'assedio di Siracusa, città che fu valorosamente difesa da Giovanni di Chiaramonte. Avendo egli poi spedito Giovanni di Loria, nipote dell'ammiraglio Ruggieri con venti galee per recar vettovaglie al castello di Patti, assediato dai Siciliani, i Messinesi, usciti con sedici galee contra di lui, gli diedero battaglia e lo sconfissero. Quattro soli dei suoi legni si sottrassero colla fuga, gli altri col capitano furono condotti presi a Messina. Questa disavventura e la perdita di molta gente o per malattie o per assalti inutilmente dati a Siracusa, fece prendere al re Giacomo la risoluzione di levare il campo di sotto a quella città, e di ritirarsi a Napoli. Giunto alle coste di Milazzo, fece istanza a don Federigo suo fratello per riaver le galee prese con Giovanni di Loria e con altri prigioni, promettendo con ciò di non mai più mettere il piede in Sicilia. Ma nel consiglio di don Federigo prevalse il cattivo parere di nulla volergli concedere. Anzi infelloniti [260] più che mai i Siciliani contro Ruggieri di Loria, per fargli dispetto e vendicarsi di lui, fecero mozzare il capo allo stesso Giovanni suo nipote e a Jacopo della Rocca, come a ribelli del re Federigo.

Passò il re Giacomo il verno in Napoli, nel qual tempo anche Federigo ricuperò molte castella che o spontaneamente o per forza aveano alzate le bandiere del re suo fratello. Come è il costume, non mancarono mormorazioni contra del re Giacomo per la poca prospera campagna dell'anno precedente, non potendosi levar di testa alla gente ch'egli la volesse più per li Franzesi suoi antichi nemici, che pel fratello. Pertanto, affine di smentir queste voci, e di far sempre più palese la sua lealtà al papa e al re Carlo, fatto un maggiore sforzo di gente e di navi, s'imbarcò sul fine di giugno insieme con Roberto duca di Calabria e con Filippo principe di Taranto, e dirizzò le vele verso la Sicilia. Don Federigo e gli orgogliosi, anzi temerarii Siciliani che si teneano sempre in pugno la vittoria, non vollero aspettarlo, e con quaranta galee (altri dicono di più) vennero alla volta di Napoli. Il Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 29.] fa loro ammiraglio Federigo Doria; Niccolò Speciale gli dà il nome di Corrado, ma nol dice intervenuto a questa battaglia. Scontraronsi le due armate a Capo Orlando, e si venne nel dì 4 di luglio ad un duro e sanguinoso combattimento, in cui, quantunque i Siciliani combattessero da disperati, pure dall'industria e valor di Ruggieri di Loria, ammiraglio nemico, rimasero interamente sconfitti [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 1, tom. 9 Rer. Ital.]. Il numero de' morti e presi della lor parte si fa ascendere a più di sei mila persone, e ventidue galee restarono in mano dei vincitori. Si salvò, ma con gran fatica, nella sua galea a forza di remi don Federigo, e fu detto che il re Giacomo l'ebbe, o potè averlo prigione, ma lasciollo andare. Periron nel conflitto anche molti [261] Catalani e Pugliesi. Passò dipoi il re Giacomo in Calabria, e, prendendo seco molte truppe preparate ivi per ordine del re Carlo II, colla giunta di dieci galee, sbarcò l'esercito in Sicilia. E allora fu ch'egli fece sapere a Roberto duca di Calabria e a Filippo principe di Taranto suoi cognati, che i suoi affari il richiamavano in Catalogna; essere la Sicilia ridotta in istato che non potea più fare resistenza; non reggergli il cuore a vedere, e meno a procurare ulteriormente la rovina del già rovinato fratello; e voler egli lasciar loro tutta la gloria di terminar quel conquisto. Di colà dunque si portò a Napoli al re Carlo colle medesime scuse, e poi si trasferì in Catalogna, dopo aver ottenute le promesse da lui fatte al papa ed al suocero. Vi ha chi dice [Summonte, Ist. di Napoli.] che fu ben visto dal buon Carlo II, il quale si obbligò a rifargli le spese occorse in quell'armamento, ascendenti alla somma di più di ducento mila oncie d'oro. Altri narrano che fu mal veduto, e creduto d'accordo col fratello, in guisa che discaro a' Franzesi, e maledetto dai Siciliani, abbandonò in fine l'Italia. La Cronica di Forlì [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.] aggiugne ch'egli si partì, perchè non gli era pagato il soldo promessogli da papa Bonifazio VIII. La partenza del re Giacomo e il buon cuore de' Messinesi rinforzò in tante avversità l'animo di don Federigo. Ma il duca di Calabria Roberto occupò intanto varie terre di Sicilia, e massimamente quella di Chiaramonte. Presentatosi ancora coll'esercito sotto Catania, guadagnò ivi de' traditori, che gli diedero in mano senza spendere sangue quella città. Ribellaronsi pure altre non poche terre in Valle di Noto, con apparenza che già inclinasse la fortuna a troncare affatto le ali a don Federigo, quando essa all'improvviso si dichiarò in suo favore. Aveva il duca di Calabria spedito Filippo principe di Taranto suo fratello con un corpo d'armata per terra, assistito da alquante [262] galee per mare, nella valle di Mazara, per far altre conquiste in quelle parti. Don Federigo, che s'era postato nel forte castello di San Giovanni per vegliare agli andamenti dei nemici, con quelle forze che potè raunare andò a trovare il principe nel piano di Formicara, e gli diede battaglia. Rimase sconfitto il principe, ed egli stesso, ferito e scavalcato, fu in pericolo d'essere ucciso dai Catalani in vendetta di Corradino, se non accorreva a tempo don Federigo, che gli salvò la vita. Quasi tutto il resto de' vinti fu condotto nelle prigioni. A questa disavventura de' Franzesi tenne dietro un'altra. Fu data speranza da un prigione ai baroni del duca di Calabria di metterli in possesso del forte castello di Gallerano. Andarono moltissimi d'essi col conte di Brenna loro comandante a prendere questo boccone. Ma il trattato era doppio. Sorpresi all'improvviso da Blasco di Alagona capitano di don Federigo, tutti furono fatti prigioni. Così procedevano gli affari della Sicilia.

Nel febbraio dell'anno presente fu posto fine alla guerra che bolliva tra Azzo VIII marchese d'Este, signor di Ferrara, e i Bolognesi. Il pontefice e i Fiorentini ne furono i mediatori [Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital. Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fatto un compromesso nel medesimo papa per le castella disputate fra i Bolognesi e Modenesi, egli proferì un laudo, che fu creduto iniquo dai Modenesi. Benchè Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, Manip. Flor.] e gli Annali Milanesi [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.] mettano sotto l'anno precedente ciò che ora io son per dire degli avvenimenti della Lombardia, pure sembra più sicuro il seguitar qui il Corio [Corio, Istor. di Milano.], assistito dalla Cronica d'Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] e da Benvenuto da San Giorgio nella Storia del Monferrato [Benvenuto da San Giorgio, tom. 28 Rer. Italic.]. Era già arrivato Giovanni [263] marchese d'esso Monferrato all'età capace di consigli politici e militari; e dispiacendogli la potenza di Matteo Visconte che signoreggiava non solamente in Milano, Vercelli e Novara, ma anche in Casale di Sant'Evasio, e teneva una specie di dominio nel Monferrato stesso: collegatosi col marchese di Saluzzo, col conte Filippo da Langusco e coi Pavesi, nel mese di marzo fece rivoltare la città di Novara, da cui appena si salvò Galeazzo, primogenito d'esso Matteo, che v'era per podestà. Altrettanto fece la città di Vercelli, e poi Casale suddetto. Susseguentemente tutti questi signori e popoli si collegarono nel mese di maggio coi Bergamaschi, Ferraresi e Cremonesi, e con Azzo marchese d'Este signor di Ferrara, contro al Visconte. Uscirono poscia in campagna, cadauno dalla lor parte, ed uscì anche Matteo Visconte aiutato con gagliarde forze da Alberto Scotto signor di Piacenza, dai Parmigiani e da Alberto dalla Scala signor di Verona, al cui figliuolo Alboino avea Matteo data in moglie una sua sorella. Nulladimeno con tanti movimenti d'armi ciascuno si guardò dall'avventurarsi a battaglia. Ed avvenne che Azzo marchese d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Italic.] con settecento uomini d'armi e quattro mila fanti, mossosi in soccorso de' Cremonesi, arrivò sino a Crema. Ma perciocchè corsero sospetti ch'egli macchinasse l'acquisto di Cremona, o perchè i maligni seminarono delle zizzanie; certo è ch'egli giudicò meglio di ritornarsene a casa. Matteo Visconte, che si vedea attorniato da tante armi, siccome accorto e saggio personaggio, addormentò tutti con un trattato di pace, che fu conchiuso e pubblicato sul principio d'agosto. In tal credito era salita in questi tempi la potenza de' Genovesi per le riportate vittorie [Continuator Danduli, tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani lib. 8, cap. 27. Stella, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 17 Rer. Ital.], che i Veneziani presero lo spediente di venire alla pace con loro. Questa [264] fu maneggiata di comune concordia da Matteo Visconte, e n'ebbero molto onore i Genovesi, perchè s'obbligarono i Veneziani di non navigare nel mare Maggiore, nè in Soria con galee armate per tredici anni avvenire. Furono perciò rimessi in libertà tutti i prigioni. Similmente i Pisani comperarono la pace da essi Genovesi con due condizioni, cioè con cedere loro una parte della Sardegna e Bonifazio in Corsica, e promettere di non uscire in mare con galee armate per lo spazio di quindici anni venturi. Nel mese ancora d'aprile seguì in Faenza [Chron. Foroliviense, tom. 22 Rer. Ital.] un congresso degli ambasciatori di Matteo Visconte, di Alberto dalla Scala, di Azzo e Francesco marchesi d'Este, e de' Bolognesi, per mettere concordia fra essi Bolognesi e le città della Romagna e i Lambertazzi fuorusciti di Bologna. Fu questa pur anche dipoi conchiusa: laonde riuscì degno di memoria quest'anno per cagione di tante paci. Ma in Mantova succederono delle novità [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, Histor., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.]. Era quivi signore Bardelone de' Bonacossi. Taino suo fratello, voglioso di quel dominio, ricorse ad Azzo marchese d'Este per aiuto; ma poi, senza voler la gente che gli veniva esibita, se ne tornò a Mantova. Rimasero poi burlati tanto egli, quanto Bardelone, perchè Botticella de' Bonacossi loro nipote, figliuolo di Giovannino, ottenuto un buon corpo di soldatesche da Alberto dalla Scala signor di Verona, scacciò l'uno e l'altro, e prese egli la signoria di quella città. Se ne fuggirono i fratelli scacciati a Ferrara, dove furono con onore accolti dal marchese. Bardelone poscia passò a Padova, dove poco ben veduto da que' nobili, perchè caduto in povertà, nel terzo anno del suo esilio miseramente terminò la vita. Allora si trovò più sicuro nella sua signoria Boticella co' suoi due fratelli Rinaldo Passerino e Butirone: nomi o sopprannomi strani di questi secoli.

[265]


   
Anno di Cristo mccc. Indizione XIII.
Bonifazio VIII papa 7.
Alberto Austriaco re de' Romani 3.

Celebre fu l'anno presente per quello che noi chiamiamo ora giubileo universale, inventato e celebrato per la prima volta da papa Bonifazio VIII. S'era sparsa una voce in Roma, dilatata poi per gli altri paesi, che di grandi indulgenze si guadagnavano visitando le chiese romane nell'ultimo anno di ogni secolo [Raynald., in Annal. Ecclesiast.]. Se ne cercarono i fondamenti, ma senza trovarne vestigio; nè si andò allora a pescarli nel Testamento vecchio, nè saltò fuori in que' tempi il nome di giubileo. Nel gennaio e febbraio si vide un prodigioso concorso di pellegrini in Roma; e ciò diede allora motivo a papa Bonifazio di formare una bolla, con cui concedeva indulgenza plenaria a chiunque visitasse in quell'anno le chiese di Roma ogni dì una volta nello spazio di quindici giorni per li forestieri, e di trenta per li Romani. E questo per soddisfare alla divozion dei popoli, divozione che tornava anche in sommo profitto del papa a cagion delle grandi limosine che spontaneamente si faceano dai pellegrini alle chiese, e andavano in borsa del papa [Giovanni Villani, lib. 38, cap. 6.]; siccome ancora del guadagno che ne ridondava ai Romani, i quali esitavano molto vantaggiosamente le lor grazie. Fin qui le indulgenze plenarie erano cose rare, nè si soleano guadagnare, se non nell'occasion delle crociate. Aperta questa maggior facilità di conseguirle, senza mettere a rischio la vita propria, senza viaggi lontanissimi e pericolosi, non si può dire che folla di gente da tutte le parti della cristianità concorresse nell'anno presente. Pareva una continua processione, anzi un esercito in marcia per tutte le vie maestre d'Italia; e Giovanni Villani, che andò per tale occasione a Roma, ci assicura [266] che quasi non v'era giorno, in cui non si contassero in quell'alma città ducento mila forestieri, d'ogni sesso ed età, venuti a quella divozione. Ed in questo anno appunto diede esso Villani principio alla sua stimatissima Cronica. La pace fu quasi universale per l'Italia, grande l'abbondanza de' viveri in questo anno; e però dappertutto si viaggiava con sicurezza, e nulla mancava ai viandanti che aveano da potere spendere. Guglielmo Ventura, autore della Cronica di Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.], il quale si portò anch'egli a guadagnar questa indulgenza, lasciò scritto essersi fatto il conto che ben due milioni di persone concorsero in quest'anno a Roma; e tanta essere stata la folla, che vide più volte uomini e donne conculcate sotto i piedi degli altri, ed essersi egli trovato in quel pericolo. Attesta anch'egli che abbondanza di pane, vino, carni, pesci e vena si trovò in Roma; carissimo era il fieno, carissimi gli alberghi. Poscia aggiugne: Papa innumerabilem pecuniam ab eisdem recepit, quia die ac nocte duo clerici stabant ad altare sancti Pauli, tenentes in eorum manibus rastellos, rastellantes pecuniam infinitam. Fu istituita questa indulgenza per ogni centesimo anno da papa Bonifazio; ma i successori, per soddisfare alla divozion dei popoli, e al guadagno ancora de' Romani, fecero in ciò delle mutazioni, con istabilirla in fine ad ogni venticinque anni, come è oggidì.

In quanto alla guerra di Sicilia, quattrocento e più uomini d'armi furono spediti da' Fiorentini in rinforzo di Roberto duca di Calabria, e n'era capitano Rinieri de' Buondelmonti. Racconta Niccolò Speciale [Nicolaus Specialis, lib. 5, cap. 13, tom. 10 Rer. Ital.] che questi Toscani, arrivati a Catania, dove esso duca soggiornava, facevano dappertutto i tagliacantoni, vantandosi spezialmente di voler condurre in quella città prigione il generale dei Siciliani Blasco da Alagona. Ma [267] che queste smargiassate andarono a finire in nulla; laonde derisi non men dai Franzesi che da' Siciliani, non passò il mese d'agosto che si dispersero, disertando la maggior parte. Toccò in questo anno una maledetta percossa ai Siciliani. Uscirono essi in corso colla lor flotta di ventisette galee comandata da Corrado Doria, per bottinare nelle riviere del regno di Napoli [Ptolomaeus Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.]. Giunsero baldanzosi sino all'isola di Ponza. Ruggieri di Loria, che era ito a Napoli per menare dei nuovi sussidii di gente e di legni al duca di Calabria in Sicilia, mise anch'egli in punto la sua flotta, con cui per buona ventura capitate sette galee genovesi de' Grimaldi nemici dei Doria, si vennero ad unire. Andò poscia in traccia dell'armata siciliana, la quale, contuttochè sapesse venire un sì prode ammiraglio con quarantotto galee, invece di ritirarsi, volle piuttosto azzardare una battaglia. Fu questa sanguinosa nel dì 14 di giugno, e, secondo il costume, i più vinsero i meno. Sette sole galee de' Siciliani scamparono; le altre tutte coll'ammiraglio Doria, Giovanni di Chiaramonte ed altri nobili, oltre ad una gran ciurma, vennero in potere di Ruggieri. Passato esso Ruggieri in Sicilia, seguirono varii altri fatti ora prosperi, ora contrarii. Roberto duca di Calabria assediò strettamente per mare Messina, di modo che quella città s'era omai ridotta per la mancanza de' viveri agli estremi. S'aggiunse a questo malore de' Messinesi l'altro dell'epidemia, che facea molta strage; eppure quel popolo piuttosto elesse, se occorreva, di perdere quante vite aveano, che darsi ai Franzesi: tanto era in orrore il loro nome in quelle contrade. Don Federigo, principe d'incredibil coraggio e senno, non mancò di portar più volte in persona all'afflitta città soccorso di vettovaglie, e di asportarne i poveri, ridotti in pelle ed ossa: finchè, entrata l'epidemia anche nell'armata [268] del duca Roberto, si sciolse l'assedio. Allora fu che la duchessa Violanta, moglie d'esso duca e sorella di don Federigo, cominciò a trattare di tregua; e questa fu conchiusa per sei mesi, e nel lido di Siracusa si abboccarono il duca e don Federigo. Poscia Roberto, lasciata la moglie in Catania, passò a Napoli per ragguagliare il padre dello stato delle cose, e delle maniere di vincere la Sicilia.

Tutta fu nell'anno presente in festa la Lombardia per le soprammodo magnifiche nozze di Beatrice Estense, sorella di Azzo VIII marchese d'Este e signor di Ferrara, Modena e Reggio, e vedova del conte Nino de' Visconti di Pisa, signore di Gallura, cioè della quarta parte della Sardegna, con Galeazzo primogenito di Matteo Visconte signor di Milano [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. Certo è che nella festa di san Giovanni Batista di giugno dell'anno presente furono esse solennizzate in Modena, con avere il marchese fatto cavaliere esso Galeazzo Visconte; e però si riconosce sconvolta di un anno la cronologia di Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 338.] e degli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], che ciò riferiscono all'anno precedente. Concordano tutti gli scrittori che straordinaria fu la magnificenza di tali nozze: sì grandi furono gli apparati, i conviti, le giostre, gli spettacoli, il concorso degli ambasciatori e della nobiltà di tutte le città di Lombardia e marca d'Ancona. Nè solo in Modena, ma anche in Parma, e massimamente in Milano, si replicarono gli addobbi, le feste e i bagordi con tale suntuosità, che memoria non v'era d'una somigliante in Italia, e neppur ne' regni vicini. Vennero in questo anno alle mani in Pavia la fazione di Filippo conte di Langusco, appellato anche Filippone, e quella di Manfredi da Beccheria, e ne seguirono ammazzamenti, [269] ruberie e prigioni [Corio, Istor. di Milano.]. Restò al di sotto Manfredi, e gli convenne andarsene ramingo, e il conte rimase signore della città. Matteo Visconte, volpe vecchia, si mischiò in questa discordia sotto colore di maneggiar l'accordo, e favorì il conte, al cui figliuolo ancora promise in moglie una sua figliuola; ma, scopertosi poi che Matteo sotto mano amoreggiava Pavia, si sciolse fra loro la amicizia, divenendo nemici giurati da lì innanzi. In quest'anno nel dì 25 di maggio [Chron. Caesenat., tom. 14 Rer. Ital.], Federigo conte di Montelfetro, figliuolo del fu conte Guido, Uberto dei Malatesti e Uguccione dalla Faggiuola, allora podestà di Gubbio, di concordia scacciarono da quella città la parte guelfa. Avendo questa fatto ricorso a papa Bonifazio VIII, venne tosto ordine al cardinal Napoleone degli Orsini, governatore del ducato di Spoleti, di assediar Gubbio. Fu eseguito il comandamento, e nel dì 25 di giugno, coll'aiuto de' Perugini, vi rientrarono i Guelfi, scacciandone i Ghibellini, e commettendo assaissimi saccheggi ed uccisioni [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 43.].

Mandò nel mese di ottobre il papa per governatore della Romagna il cardinal Matteo d'Acquasparta: nel qual tempo Forlì, Faenza, Cesena ed Imola erano disubbidienti alla Chiesa. Cominciò egli con buona maniera a pacificar queste città. Ma in questi tempi fece gran progressi nella Toscana il veleno della discordia. Riferisce Giovanni Villani all'anno presente il principio delle rivoluzioni di Pistoia: Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Italic.] le fa cominciate molto prima. In quella città si divise in due fazioni la potente famiglia de' Cancellieri, a cagion di brighe sopravvenute fra loro, e ne seguì un funesto sconvolgimento de' cittadini per le parzialità, con battaglie ed ammazzamenti. I Fiorentini, a' quali premeva che [270] quella città stesse ferma nel partito guelfo, s'interposero allora con forza, e operarono che i principali tanto della parte Bianca come della Nera fossero mandati ai confini. I più si ridussero a Firenze, cioè i Neri in casa de' Frescobaldi, i Bianchi in quella de' Cerchi, tutte e due ricche e possenti famiglie. Era Firenze in questi tempi in alto stato, morbida per la gran popolazione, e più per le ricchezze. Descrive il Villani le delizie e sollazzi [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 38.] che si praticavano allora in quella città; ma giacchè non aveano ora que' cittadini da spendere i lor pensieri intorno alla guerra, perchè si trovavano in pace co' vicini, cominciarono a gareggiare e riottar fra loro a cagione de' Pistoiesi, con prendere gli uni a favorire i Neri, e gli altri a proteggere i Bianchi. Perciò quasi tutte le famiglie fiorentine de' grandi s'impegnarono in queste scomunicate brighe. Capo della setta de' Neri fu Corso de' Donati, e Vieri de' Cerchi, capo dell'opposto, venendo perciò a dividersi tutta la città di Firenze. Nè si stette molto a prorompere in contese, zuffe ed amarezze mortali. Papa Bonifazio, avvertito di questo detestabil disordine, e pregato di rimedio, spedì colà il suddetto cardinal Matteo d'Acquasparta, uomo savio, con ordine di riformare la terra. Venne ben egli, e fece quanto potè; ma ritrovò tali durezze nelle teste ambiziose della parte Bianca, padrona allora del governo, che gli convenne tornarsene a Roma, con lasciar la città peggio che prima sconvolta: incendio che divampò dipoi in aperte sedizioni e scandali più gravi.


   
Anno di Cristo mccci. Indizione XIV.
Bonifazio VIII papa 8,
Alberto Austriaco re de' Romani 4.

Grandi erano in questi tempi le applicazioni di papa Bonifazio per dar legge [271] a tutti i principi della cristianità [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Voleva regolare a talento suo la succession del regno d'Ungheria; era dietro a detronizzare Alberto Austriaco re de' Romani, trattandolo come reo di lesa maestà; ma egli si seppe ben difendere, ed atterrò chi era mosso dal papa contra di lui. Avea anche liti esso pontefice con Filippo il Bello re di Francia, il quale, senza riguardo alcuno, opprimea le chiese e gli ecclesiastici del suo regno. Meditava inoltre esso pontefice la conquista dell'imperio greco. Ma, per tralasciar altre sue idee, il principal suo pensiero era quello di levar la Sicilia a don Federigo. A questo fine tornò a sollecitare Giacomo re d'Aragona ed altri principi e le città d'Italia, concedendo liberamente le decime degli ecclesiastici da impiegarsi in questa santa impresa. Soprattutto immaginò egli di poter fare un bel colpo con far venire in Italia Carlo di Valois, fratello del re di Francia, il quale non so perchè venga chiamato da varii scrittori Carlo senza terra, quando egli era conte d'Angiò, ed è anche chiamato Guercio nella Cronica di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Gli diede Bonifazio speranza di crearlo re de' Romani dopo la deposizione dell'odiato re Alberto, e di mandarlo a prendere il possesso dello impero greco, giacchè egli, con avere sposata Caterina di Courtenai, nipote di Baldovino imperadore, ma solamente di titolo, di Costantinopoli, nudriva delle magre pretensioni su quelle contrade. Il disegno primario nondimeno del papa era di spignere questo principe contra della Sicilia, giacchè il re Carlo II gli parea un dappoco, e non atto a ricuperar quel regno. Calò dunque in Italia Carlo di Valois, accompagnato da un corpo di soldatesche franzesi, per effettuare i grandiosi disegni del papa, e per essere il suo braccio destro, massimamente in Italia. Grande onore e bei regali gli fece il marchese Azzo d'Este nel [272] suo passaggio per Modena [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e gli prestò assai danaro. Ito ad Anagni a baciar i piedi al papa, fu da lui creato conte di Romagna, capitano del Patrimonio e signore della marca d'Ancona [Ptolom. Lucens., Annal. brev. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. La prima incumbenza che gli diede il papa, fu quella di passare a Firenze col titolo di paciere, per dar sesto a quella disunita e fluttuante città. Il servì di proposito questo principe [Dino Compagni, lib. 2, tom. eod.]. Entrò egli in Firenze nella festa d'Ognissanti, ricevuto con grande onore, ma non senza grave sospetto della parte Bianca. Dimandò e volle la signoria e guardia della città, giurando di mantenerla in pacifico e buono stato. Ma nulla attenne di quanto avea promesso. Lasciò entrare in città Corso Donati con tutti gli sbanditi, con gran copia di ribaldi, che fecero per cinque dì ruberie immense ed incendii nella città e nel contado. Poscia atterrò la parte Bianca dominante, e diede il governo alla Nera. Venne appresso nel novembre stesso a Firenze il cardinal Matteo d'Acquasparta legato del papa, per rimediare a tanta confusione, e fece far molte paci; ma volendo ancora accomunar gli uffizii colla parte Bianca, i Neri, che erano saliti in alto, e sostenuti da esso principe Carlo, non vollero udirne parola; di modo che il legato con isdegno si partì, lasciando la città interdetta e in istato assai compassionevole. Questo fu il primo bel servigio prestato da Carlo di Valois alle intenzioni, che parvero buone, di papa Bonifazio, ma non parvero così a Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 48.], il quale attribuisce tutti questi mali allo sdegno di lui contra de' Cerchi e della parte Bianca. E Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.] ci vorrebbe far credere che il papa fosse dietro ad insignorirsi della Toscana. [273] Nel maggio di quest'anno la parte bianca di Pistoia coll'aiuto de' Bianchi, allora dominanti in Firenze, cacciò fuori della città i Neri, e disfece barbaramente tutte le lor case, palagi e possessioni. Tutta questa tragedia è diffusamente descritta da Dino Compagni, autor contemporaneo, nella sua Cronica. Passarono i Neri la maggior parte a Lucca, e servirono di un gran rinforzo alla parte nera, cioè guelfa di quella città; la quale, venuta all'armi, ne cacciò la parte ghibellina, cioè gl'Interminelli e i loro seguaci, e vi arsero più di cento case [Ptolom. Lucens., Annal. brev.]. Così le maledette sette si andavano dilatando per tutta la Toscana. Risvegliossi di nuovo in Bergamo la gara delle fazioni di quella città, cioè tra i Coleoni, Soardi, Bongi e Rivoli, e si venne fra loro alle mani. Spedirono i Coleoni e Soardi a Milano con istanza, perchè Matteo Visconte corresse colà, promettendogli il dominio di quella città. Non si fece egli pregare. L'arrivo suo con gente armata mise in fuga i Bongi e i loro aderenti, ed allora fu data ad esso Visconte la signoria di Bergamo. Ci fa sapere la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] che quella città fu presa da Galeazzo, figliuolo di Matteo colla forza, e che le case dei Bongi e Rivoli e de' lor partigiani, dopo il sacco, furono date alle fiamme. Nel mese di marzo di quest'anno Giovanni marchese di Monferrato cogli Avvocati, famiglia potente di Vercelli [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.], cacciò fuori di quella città la parte de' Tizzoni, i quali si rifugiarono in Milano, giacchè durava la guerra fra Matteo Visconte e il suddetto marchese, collegato con Filippo conte di Langusco signor di Pavia, e coi Novaresi e Vercellini. In quest'anno i Bolognesi, per tema del marchese Azzo d'Este, che facea grande armamento [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], stabilirono lega coi comuni d'Imola, Faenza, Forlì e Pistoia, e coi Bianchi fuorusciti di Firenze. Costituirono loro [274] capitan generale Salinguerra, siccome gran nemico della casa d'Este. Scrivono gli storici napoletani [Costan. Summonte, et alii.] che in questo anno venne a morte Carlo Martello, primogenito di Carlo II re di Napoli, già dichiarato re d'Ungheria, con dire eziandio ch'egli era andato in quel regno, vivente ancora il re Andrea. Egli lasciò dopo di sè un figliuolo, dicono appellato Cariberto, quasi Carlo Roberto, ma chiamato Carlo Uberto da Ferreto Vicentino, il qual poi fu solamente appellato Carlo, ed entrò finalmente in possesso del regno d'Ungheria, con propagar la linea di quei re della casa reale di Francia. Il Rinaldi, all'incontro, insegna [Raynaldus, Annal. Eccles., ad annum 1295.] che questo principe mancò di vita nell'anno 1295. Il Bonfini [Bonfin., de Reb. Hungaric.] lascia imbrogliato questo punto. Per me credo che deggia prevalere la sentenza di Rinaldi, e che gli scrittori moderni abbiano preso equivoco nel nome di Carlo, comune al Martello padre e al figliuolo. L'autore anonimo, ma contemporaneo, della Cronica di Parma chiaramente scrive al suddetto anno 1295 [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]: Eodem anno dominus Carolus rex Hungariae, et uxor ejus in civitate Neapoli obierunt, et dictum fuit, quod erant tossicati. Il sospetto di questo veleno andò addosso a Roberto duca di Calabria, secondogenito del re Carlo II e suo fratello, per isregolata voglia di succeder egli al padre nel regno di Napoli. Essendo morto Andrea re d'Ungheria senza figliuoli, nacque nell'anno presente controversia per la succession di quel regno. Vincislao re di Boemia fece coronare re d'Ungheria Vincislao suo figliuolo; ma un'altra parte de' principi tenne per Carlo, figliuolo del re Carlo Martello. Regem Carolum filium Caroli Martelli nati de Ungara, similiter coronari procuravit: sono parole di Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Annal. Brev.], scrittor di questi tempi. Ed appunto questo Carlo, e non [275] già suo padre Carlo Martello, quegli fu che, assistito dal papa e dai Cumani e Tartari, arrivò ad essere re d'Ungheria. Mandò nell'anno presente Carlo di Valois per suo vicario nella Romagna Jacopo Pagano vescovo di Rieti [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], il qual poscia per li suoi cattivi portamenti fu privato del vescovato da papa Bonifazio, e da lì a non molto vergognosamente terminò i suoi giorni nella corte di Roma. Anche Alberto dalla Scala signor di Verona mancò di vita in quest'anno, e succedette a lui nel dominio di quella città Bartolommeo suo primogenito [Continuator Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Patavin., tom. eod.] che per due anni e mezzo in molta grazia di quel popolo tenne il governo.


   
Anno di Cristo mcccii. Indizione XV.
Bonifazio VIII papa 9.
Alberto Austriaco re de' Romani 5.

L'anno fu questo in cui papa Bonifazio e Carlo II re di Napoli si credettero di dar l'ultimo crollo alla Sicilia, sì per la potentissima flotta preparata contro quell'isola, come ancora perchè dovea avere il comando di sì bell'armata Carlo di Valois, principe già rinomato pel suo valore e per le vittorie di Fiandra. A questo effetto nel mese d'aprile esso Carlo, partitosi da Firenze, accompagnato da mille maledizioni, passò alla corte di Roma, e di là a Napoli, dove trovò preparato quell'armamento, ascendente, secondo il Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 49.], a più di cento tra galee, uscieri e legni grossi, senza contare i sottili [Nicol. Special., lib. 6, cap. 7, tom. 10 Rer. Ital.]. Imbarcatosi con Roberto duca di Calabria e Raimondo Berengario di lui fratello, andò a sbarcare in Sicilia, dove ebbe tosto a tradimento Termoli e pochi altri luoghi da nulla. Mise poi l'assedio alla terra di Sacca; e intanto don Federigo, non avendo [276] forze da poter contrastare in campagna aperta, or qua or là scorrendo, andava pizzicando l'armata nimica, e impedendo ad essa il trasporto delle vettovaglie. E ben gli giovò l'usar questa spezie di guerra, perchè la mancanza dei viveri, a cui si aggiunse l'epidemia entrata nei cavalli, e molto più nei soldati, crebbe a segno, che Carlo di Valois, per cavarsi con onore da sì sfortunata impresa, cominciò a trattar di pace con assenso del duca di Calabria. Si abboccarono questi tre principi, e fu concordato che don Federigo prendesse in moglie Leonora terzogenita del re Carlo II, con ritenere sua vita natural durante il regno di Sicilia, a condizione che dopo la sua morte esso regno decadesse al re Carlo e ai suoi discendenti; e che si restituissero i prigioni e tutti i luoghi di Sicilia tolti a don Federigo; il quale, in ricompensa, cedesse al re Carlo tutte le conquiste già fatte nella Calabria. Altre condizioni di tal accordo si possono vedere presso il Villani e nella Cronica di Niccolò Speciale. Con questa pace ebbe per ora fine la gran contesa della Sicilia, e si prestò un delizioso pascolo ai cacciatori delle novelle e ai varii giudizii degli oziosi politici. Chi volea male a Carlo di Valois, non mancò di chiamarlo traditore, quasichè, per essere nato da una Aragonese, potesse, ma non volesse, prendere la Sicilia, per compassione allo stretto suo parente don Federigo. E corse per Italia questo satirico motto [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 49.]: Che Carlo era venuto a Firenze per mettervi pace, e lasciolla in guerra; e andato in Sicilia per farvi guerra, ne era ritornato con una vergognosa pace. Furono messi in libertà i prigioni, fra' quali Filippo principe di Taranto, fratello del re Roberto. Si mandò anche la capitolazione al pontefice, affinchè la confermasse; ma egli vi trovò delle difficoltà. Infine perchè cominciava a divampare la di lui rottura con Filippo il Bello re di Francia, per aver dalla sua don Federigo, vi acconsentì nell'anno [277] seguente, obbligandolo a pagare ogni anno di censo alla Chiesa romana tremila oncie d'oro, ossia quindici mila fiorini d'oro, con altri patti. Ed esso Federigo, di consentimento poi del re Carlo, cominciò ad usare il titolo di re della Trinacria, e non già di Sicilia. Celebrò ancora don Federigo, sì gloriosamente uscito di questa guerra, le sue nozze colla suddetta Leonora figliuola del re Carlo II.

In quanto alle liti già insorte fra papa Bonifazio e Filippo il Bello re di Francia, brevemente dirò esser elle nate dal volere il re fare il padron delle chiese, e prendere le rendite de' beni ecclesiastici dopo la morte de' prelati (del che si è disputato anche ai dì nostri), e dall'avere imprigionato il vescovo di Pamiers, e impedito ad altri vescovi di venire a Roma. Papa Bonifazio VIII, che era alto alla mano, e disgustato ancora, perchè il re facea carezze a Stefano dalla Colonna rifugiato in Francia, gli scrisse lettere minacciose, per le quali si attribuiva autorità anche sul temporale dei re, e facoltà di deporli. Filippo il Bello, che in alterigia non la cedeva a chi che sia, nè guardava misura ne' suoi trasporti, si irritò forte contra di papa Bonifazio, e giunse tanto innanzi lo sfrenato impegno, che il papa, benchè non con espresse parole, lo scomunicò; e all'incontro esso re dichiarò pubblicamente di non più riconoscere Bonifazio per papa, ma bensì di tenerlo per un simoniaco ed eretico manifesto ed incorreggibile, appellando perciò al concilio generale. Carlo di Valois, che parea dianzi il Beniamino del papa, o perchè divenuto a lui sospetto tanto per questa diabolica lite, quanto per l'operato in Sicilia, oppure perchè facesse sperare di far cessare il temporal mosso dal re suo fratello: corse in Francia, ma fu dipoi in suo favore contra del pontefice. Se crediamo a Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.], questo, principe nel suo passaggio per Roma fu sì aspramente rampognato [278] dal papa, che poco mancò che non mettesse mano alla spada per ucciderlo. Venne in questa maniera il tempo che papa Bonifazio, per procacciar chi l'aiutasse contro la prepotenza del re di Francia, cominciò a mirar di buon occhio Alberto Austriaco re de' Romani, e a trovar buona l'elezion sua, con intavolar seco amicizia e lega, siccome vedremo all'anno seguente.

In questo succedette la stravagante caduta di Matteo Visconte da un alto in un miserabile stato [Gualv. Flamma, cap. 341. Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.]. Signoreggiava egli in Milano, Bergamo ed altri luoghi; non gli mancavano collegati ed amici, e massimamente erano per lui i Parmigiani ed Azzo marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena, Reggio, Rovigo, ec., la cui sorella era divenuta sua nuora. Ma appunto questa alleanza gli tirò addosso l'invidia e malevolenza de' vicini, perchè s'andava dicendo che, unita insieme la potenza del Visconte con quella dello Estense, facile loro era il conquistar tutta la Lombardia. Sopra gli altri avea conceputo odio contra di lui Alberto Scotto [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.], perchè, avendo esso marchese Azzo destinata a lui in moglie Beatrice sua sorella, Matteo se la procacciò per Galeazzo suo figliuolo. Perciò segretamente congiurarono alla di lui rovina Filippo conte di Langusco signor di Pavia, Antonio da Fisiraga signor di Lodi, gli Avvocati di Vercelli, i Brusati di Novara, il marchese di Monferrato, gli Alessandrini, i fuorusciti di Bergamo, i Cremaschi, i Cremonesi, ed altri popoli della Lombardia. Manipolatore di questa lega era il suddetto Alberto Scotto, signore di Piacenza, cabalista di prima riga, che nello stesso tempo facea l'amico intrinseco di Matteo Visconte. Ebbero la loro zampa in questi trattati anche Mosca, Guido ed altri Torriani, che dal Friuli volarono a Lodi per fare la lor parte nella tragedia. [279] Il peggio fu che la nobiltà di Milano, e lo stesso Pietro zio ed altri parenti del Visconte, occultamente rivoltatisi contra di lui entrarono in questa forte lega [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Ora nel mese di giugno si diede fuoco alla macchina. Alberto Scotto co' Piacentini, Torriani e gli altri collegati, uscito in campagna alla testa di un formidabile esercito, andò a postarsi nella terra di San Martino del contado di Lodi. Venne loro incontro Matteo Visconte con quelle forze che potè raunare; ma, mentre egli era al campo, scoppiò in Milano una sedizion popolare, per cui Galeazzo suo figliuolo, che coi Parmigiani v'era in guardia, ne fu scacciato fuori. Inoltre Corrado Rusca signor di Como, e genero d'esso Matteo, nell'aiuto del quale egli confidava non poco, si unì cogli altri a' suoi danni. Però, scorgendo egli la volubilità della fortuna, e l'impotenza di resistere a tanti nemici, andò nel dì 13 di giugno, oppure nel dì seguente a mettersi in mano del fraudolento Alberto Scotto, capo della lega, che mostrò di voler essere mediatore di pace, e cedettegli il bastone della signoria di Milano, con che gli fosse conservato il godimento de' suoi beni: il che fu promesso. Ma si trovò egli ben tosto deluso; e condotto come prigione a Piacenza, non fu rilasciato, finchè non ebbe consegnato il forte castello di San Colombano, che fu immediatamente distrutto. Venne Matteo a Borgo San Donnino; poscia dopo varii tentativi inutili, per sostener la sfasciata sua fortuna, de' quali parleremo, andò a cercarsi un ritiro, dove ebbe quanto agio volle per ben ravvisare quanto grande sia l'incostanza e caducità delle cose umane. Galeazzo suo figliuolo fuggito a Bergamo, dove non potè sussistere, sen venne a Ferrara con Beatrice Estense sua moglie, che quivi gli partorì un figliuolo, a cui fu posto il nome del marchese Azzo suo zio, e che vedremo ai suoi tempi uno de' più gloriosi principi della casa Visconte, [280] Entrarono in questo mentre i Torriani in Milano, e, ricuperati gli antichi lor beni, si diedero anche a far maneggi per ritornare in signoria coll'appoggio del popolo, e scacciarono dalla città Pietro Visconte con altri nobili, che dianzi furono contrarii anche a Matteo Visconte, perchè voleano repubblica e non signori. Alberto Scotto, gran faccendiere, nel mese di luglio tenne un parlamento in Piacenza, dove si trovarono i Milanesi coi Torriani, Pavesi, Bergamaschi, Lodigiani, Astigiani, Novaresi, Vercellesi, Cremaschi, Comaschi, Cremonesi, Alessandrini e Bolognesi. E fatta una lega, fu data autorità ad esso Alberto di ridurre per amore o per forza nelle lor città tutti i fuorusciti guelfi. Restò ancora conchiuso di obbligar Azzo marchese d'Este a mettere in libertà Modena e Reggio, e di tirar nella lega i Parmigiani, acciocchè questi dessero principio alla guerra contra d'esso marchese; e cominciarono a riedificare e fortificare il castello di Borgo San Donnino, e a far gran levata di gente. Cagion furono le disgrazie de' Visconti che anche in Bergamo si levò il popolo a rumore, ed aprì le porte ai fuorusciti, con iscacciarne poi chi favoriva i medesimi Visconti. Così venne quella città alla ubbidienza d'Alberto Scotto, ed altrettanto fece ancor quella di Tortona. Perchè si erano ridotti in Pistoia molti degli usciti di Firenze e di Lucca, e in quella città signoreggiava la parte Bianca, cioè la ghibellina [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 51. Ptolom. Lucens., Annal. brev.], i Fiorentini e Lucchesi con possente esercito si portarono allo assedio di quella città, guastando tutto il paese all'intorno. Tale nondimeno fu la difesa, che, conosciuto vano il lor disegno, stimarono meglio di ritirarsi, e di strignere il forte castello di Serravalle. Vi stettero sotto i Lucchesi gran tempo, tanto che nel dì 6 di settembre, per mancanza di vettovaglia, si arrenderono i Pistoiesi che vi erano dentro in numero di circa mille, e tutti furono condotti prigioni [281] a Lucca. Presero inoltre essi Lucchesi il castello di Larciano, e misero in rotta i Pistoiesi che venivano per dargli soccorso. In quest'anno a dì 22 di ottobre Federigo conte di Montefeltro, Uguccion della Faggiuola cogli Aretini, e Bernardino da Polenta coi Ravegnani [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] fecero oste sopra Cesena, assediarono quella città, saccheggiarono tutto il suo distretto; non vi fu castello che loro non si rendesse, a riserva di Riversano e Firmignano. Immenso fu il danno di quella città, e fu incolpato di tutto Mazzolino de' Mazzolini da Brescia lor podestà. Era in questi tempi governatore della Romagna Rinaldo vescovo di Vicenza. Mentre egli dimorava in Forlì, gli Ordelaffi, cioè i più potenti di quella città, un dì levarono rumore contra di lui, e il ferirono a morte. Ed ecco quante scene di furori e di pazzia si mirassero in questi tempi per buona parte d'Italia.


   
Anno di Cristo mccciii. Indizione I.
Benedetto XI papa 1.
Alberto Austriaco re de' Romani 6.

Sempre più s'andava inasprendo la nemicizia fra papa Bonifazio VIII e Filippo il Bello re di Francia, principe che quantunque Dio l'avesse flagellato in questi tempi con delle vergognose rotte date alle armate sue dai Fiamminghi, pure più fiero diveniva ed altero. Si fortificò il pontefice in Germania contra gli attentati di questo re, con tirar dalla sua Alberto re de' Romani, e riconoscer ora per bella e buona la di lui elezione. Gli atti di questa riconciliazione, e della confermazione a lui data dal papa, son riferiti dal Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccles. Annal. Colm.]. E tutto fatto per muovere l'armi di esso Alberto contra del re di Francia. Servì questo per maggiormente accendere lo sdegno del re Filippo, il quale, per far dispetto al papa, e non già perchè sia credibile [282] ch'egli ciò credesse daddovero, pubblicò ventinove capi d'accusa contra di lui, la maggior parte calunnie patenti, e prive d'ogni colore di verisimiglianza, non che di verità. Cioè ch'egli non credea l'immortalità dell'anima, la real presenza del Signore nell'ostia consecrata, la fornicazione peccato; ch'egli era stregone, simoniaco, eretico, con altre simili nefande imputazioni, rimettendosi a provar tutto nel concilio generale, a cui egli appellava. Commosso da sì orrendo procedere papa Bonifazio, fulminò contra di Filippo le censure, dichiarò nulli tutti i suoi atti fatti e da farsi, assolvè i sudditi dal giuramento di fedeltà, con pretendere ancora dipendente nel temporale il regno di Francia dall'autorità e superiorità dei romani pontefici. Intanto il re Filippo, spirando solamente vendetta, spedì segretamente in Italia nel mese di marzo di questo anno Guglielmo da Nogareto suo emissario, uomo di sottilissimo ingegno e di forte stomaco, con un Fiorentino appellato messer Musciatto de' Franzesi, e con buone lettere di cambio. Fermatosi costui ad un castello d'esso Musciatto, si diede a far gente, e a spendere largamente danari e promesse, con inviar messi e lettere per corrompere i nobili della Campania romana e i cittadini d'Anagni. Allorchè fu all'ordine tutto il trattato, di cui non traspirò mai agli orecchi del papa alcun menomo avviso, trovandosi il medesimo pontefice senza sospetto in essa città d'Anagni co' suoi cardinali e con tutta la sua corte, una mattina per tempo nel dì 7 di settembre all'improvviso entrarono in quella città Guglielmo di Nogareto, Sciarra dalla Colonna, i nobili da Ceccano e da Supino, ed altri baroni, con trecento cavalieri e molta fanteria, e colle insegne del re di Francia, cominciando a gridare: Viva il re di Francia. Muoia papa Bonifazio. Anche il popolo d'Anagni, ingrato a tanti benefizii ricevuti dal papa, si unì con loro, e fu anche detto che alcuni dei cardinali fossero mischiati nel medesimo trattato, e [283] fra gli altri il cardinal Napoleone degli Orsini [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.]. Certo è ch'essi cardinali se ne fuggirono, o si nascosero tutti, lasciando il papa assediato nel suo palazzo. Fece la famiglia sua quella resistenza che potè; ma infine il palazzo fu preso. Allora il papa, tenendosi per morto, volle almen prepararvisi con magnanimità, e, fattosi abbigliare cogli abiti pontificii, colla sacra tiara in capo e colla croce in mano, assiso in una sedia stette aspettando i nemici. Dicono che Guglielmo da Nogareto gli dicesse d'essere venuto non per torgli la vita, ma per condurlo a Lione, dove si terrebbe un concilio generale, e che egli risponderebbe alle accuse pubblicate contra di lui. Certo è che Sciarra dalla Colonna il caricò di villanie e d'obbrobrii, ed anche volle obbligarlo a rinunziare il papato; ma il trovò fermo in voler piuttosto morire che cedere. In così misero stato fu ritenuto per tre dì sotto buona guardia il pontefice, senza che volesse indursi a prendere cibo: tale e tanto era il suo sdegno mischiato col timore e colla sua confusione. Fors'anche dovea temer di veleno. Intanto fu dato il sacco al palazzo e agl'immensi tesori ed arredi del papa. Dopo i tre giorni il cardinal Luca del Fiesco, commiserando le disavventure e la prigionia del pontefice, tanto s'ingegnò, che mosse a rumore il popolo di Anagni, il quale cominciò con alte voci a gridare: Viva il papa, e muoiano i traditori. Allora fu che Sciarra, andato al papa gli parlò con riverenti e dolci parole, esibendogli la libertà, se pur voleva concedergli l'assoluzion dei misfatti, con altre richieste che non si sanno. Tutto gli accordò Bonifazio; e però, usciti della città quei masnadieri, restò libero. Non si è mai potuto intendere perchè costoro tenessero per tanto tempo in quell'agonia il misero pontefice. Se pensavano di condurlo vivo e sano a Lione, non dovevano tardar tanto a metterlo in viaggio, e poteano a man salva farlo sulle prime. [284] Nè si capisce perchè papa Bonifazio, personaggio sì accorto, se voleano promesse, ed anche rinunzie, a tutto non condiscendesse; giacchè non sarebbe egli stato tenuto ad obbligazioni contratte con tanta e così empia violenza.

Comunque sia, Dio non permise che costoro facessero di peggio; e Bonifazio, rimesso in libertà, si affrettò per ritornarsene a Roma, dove giunse, incontrato con indicibil concorso e plauso del popolo romano [Jacobus Cardinalis, in Vita Coelestini V, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Ma che? Sopravvisse ben egli parecchi giorni ancora, ma colla mente sconvolta, parendogli sempre di aver presenti uomini armati che gli volessero levar la vita, e agitato dai fantasmi degli obbrobrii ed oltraggi patiti, tanto più sensibili a lui, quanto che, per confessione di tutti, fu il più superbo uomo del mondo, e maggiormente per l'esecrabile affronto in lui fatto al tanto venerabil carattere di vicario di Cristo, e di capo visibile della Chiesa militante. Meditava egli bensì delle strepitose vendette e un concilio generale, per quivi esporre l'ingiuria ridondante sulla Chiesa tutta; ma, non reggendo allo sdegno ed al dolore, per cui s'infermò, fuori di sè spirò l'anima nel dì 11 d'ottobre dell'anno presente. Racconta qui Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, Hist., lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.], autore vivuto in questi tempi, delle particolarità taciute dagli altri, le quali non mantengo per vere, ma che tuttavia non han ciera di favole, e forse furono soppresse da altri per non dispiacere a chi tradì lo stesso pontefice. Narra egli adunque che uscirono ad incontrare il papa con una frotta d'armati due dei cardinali Orsini, Matteo Rosso e Jacopo, e il condussero a dirittura al palazzo del Vaticano. A me è noto che allora nella casa degli Orsini fiorivano due cardinali. Napoleone e Matteo Rosso. Nulla so di un Jacopo. Il Ciacconio v'aggiugne il terzo, cioè Francesco cardinale Orsino, [285] creato da papa Bonifazio. E Dino Compagni [Dino Compagni, lib. 2, tom. 9 Rer. Ital.] anch'egli il chiama degli Orsini. Probabilmente parla Ferreto del cardinal Jacopo Gaetano de' Stefaneschi, nipote degli Orsini, che ci diede la Vita di san Celestino V. Ora il papa, che s'era mezzo accorto dell'avere il suddetto cardinal Napoleone, e, per attestato del suddetto Dino Compagni, anche il cardinal Francesco avuta mano nella trama suddetta, con volto torvo cominciò a guatar gli Orsini. Perciò questi, guadagnate le guardie pontificie, cominciarono a tenerlo stretto: laonde Bonifazio determinò di levarsi dal Vaticano, per passare al palazzo del Laterano, credendosi in questa maniera sottrarsi alla potenza e alle frodi degli Orsini. Ciò risaputo, Matteo cardinale con altri suoi partigiani fu a pregarlo di non muoversi, col pretesto di nuovi pericoli dalla parte del re di Francia; e trovatolo fermo nel suo proposito, gl'intonò a visiera calata che non ne partirebbe, e che essi non voleano vedere de' nuovi scandali. Allora il papa diede in escandescenze; e tentando pure di voler eseguire il suo disegno, fu con buona copia di guardie rinserrato nella sua camera, facendosi intanto correre voce, come è credibile, che ciò si facea perchè il papa era fuor di cervello per la passata orrenda burrasca. Infine, chiedendo egli, se era prigione, gli fu risposto di sì; e che, se avea fatto finora a modo suo, da lì innanzi vivrebbe a modo altrui. A queste intimazioni si accorò l'infelice pontefice, diede nelle smanie, non volle più cibarsi, non potè più prendere sonno, ma furioso diede poi termine alla sua vita una notte, senza che se ne accorgessero i cortigiani suoi. Anche la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] attesta questa nuova prigionia del pontefice. Ma forse procedette ciò dalla prudenza di quei cardinali in vedere il misero pontefice fuor di senno e nelle furie; laonde fu creduto necessario il tenerlo stretto, perchè non [286] ne seguissero altre scandalose novità. E tal fu il fine di papa Bonifazio VIII, personaggio che nella grandezza dell'animo, nella magnificenza, nella facondia ed accortezza, e nel promuovere gli uomini degni alle cariche, e nella perizia delle leggi e dei canoni ebbe pochi pari; ma perchè mancante di quell'umiltà che sta bene a tutti, e massimamente a chi esercita le veci di Cristo, maestro d'ogni virtù, e soprattutto di questa; e perchè pieno d'albagia e di fasto, fu amato da pochi, odiato da moltissimi, e temuto da tutti. Non lasciò indietro diligenza alcuna per ingrandire ed arricchire i suoi parenti, per accumular tesori, ed anche per vie poco lodevoli. Fu uomo pieno d'idee mondane, nemico implacabile de' Ghibellini, e li perseguitò per quanto potè; ed essi, in ricompensa, ne dissero quanto male mai seppero, e il cacciarono ne' più profondi buroni dell'inferno, come si vede nel poema di Dante [Nell'Inferno.]. Benvenuto da Imola parte il lodò [Benevenutus de Imola, Comment. in Dant.], parte il biasimò, conchiudendo in fine ch'egli era un magnanimo peccatore; e divolgarono, aver papa Celestino V detto che egli entrerebbe nel pontificato qual volpe, regnerebbe come lione, morrebbe come cane. Verisimilmente quel santo uomo non proferì mai queste parole. Piuttosto le inventarono i suoi malevoli, autorizzandole poi col metterle in bocca di un santo. Il frutto di chi non sa farsi amare è quello di farsi almeno lacerare, se non succede di peggio. Radunatisi alcuni giorni dopo la morte e sepoltura di papa Bonifazio i cardinali nel conclave, diedero da lì a poco, cioè nel dì 22 d'ottobre, per successore ad un papa mondano, turbolento e iracondo, un papa santo e pacifico [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 66. Ptolomaeus Lucensis, Histor. Bernardus Guido, et alii.]; cioè Niccolò dell'ordine de' Predicatori, cardinale e vescovo di Ostia, bassamente nato nel territorio di Trivigi, ma per le insigni sue virtù alzato [287] ai primi onori, e dignissimo di sedere nella cattedra di san Pietro. Prese egli il nome di Benedetto XI, e fu coronato nella festa d'Ognissanti. Si trovò a quella funzione Carlo II re di Napoli con Roberto duca di Calabria e Filippo principe di Taranto suoi figliuoli, essendovi egli accorso con molte milizie per assicurare la quiete di Roma. Fu detto che papa Bonifazio, perchè questo re gli avea negato l'aiuto dell'armi contra del re di Francia, se fosse vivuto, gli avrebbe fatto gran male; e che già se la intendeva per questo con don Federigo re di Sicilia: dal che nondimeno esso don Federigo si mostrò alieno, e venne solamente con delle navi ad Ostia per dar soccorso al pontefice nelle ultime sue sciagure.

Tentò in quest'anno Matteo Visconte di ritornar in Milano, e fece de' negoziati con Alberto Scotto signore di Piacenza [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], quel medesimo che l'avea poco anzi tradito. Era lo Scotto uomo volubile, e forse mal soddisfatto de' Torriani, laonde infatti s'accordò col Visconte. Ritiratosi dunque dalla lega suddetta, uscì in campagna nel mese d'ottobre, menando un grosso esercito unito cogli Alessandrini e Tortonesi, affine di ricondurre Matteo col figliuolo Galeazzo in Milano. Fu secondato ancora dai Parmigiani, i quali inviarono gente a far le guardie a Piacenza. Dal canto loro si mossero ancora i Veronesi e Mantovani in favore del Visconte. Ma i Torriani coi Milanesi, Bergamaschi, Cremonesi, Lodigiani, Comaschi, Cremaschi, Pavesi, Vercellini e Novaresi, potentemente anche essi fecero oste per impedire i tentativi de' nemici [Corio, Istor. di Milano.]; e venne in persona Giovanni marchese di Monferrato a Milano, siccome antico nemico de' Visconti, per contrastar loro ogni avanzamento. Per così gagliarda opposizione nulla potè fare Alberto Scotto; e Matteo Visconte, che si era impadronito di Bellinzona, Lugano, Varese e del Borgo di Vico, e teneva come [288] assediata la città di Como, al vedere che si facea un gran preparamento di armi per isnidarlo da que' paesi, si ritirò anch'egli, e venne ad assicurarsi in Piacenza. Negli anni addietro la città di Brescia [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] si trovava in somma disunione per varie fazioni interne e per li Ghibellini fuorusciti. Nel marzo dell'anno 1298 presero que' cittadini il salutevol consiglio di riunirsi, e di richiamare in città i nobili sbanditi. Il che fatto, per ischivar le preminenze e gare nel governo, costituirono per loro governatore Bernardo de' Maggi vescovo della città per cinque anni avvenire. Terminava in questo anno la giurisdizione sua; ma avendo egli assaggiato il dolce del comando, e volendo continuar nella signoria, perchè se gli opponeva Tebaldo de' Brusati, uno de' più potenti nobili, guelfo di professione, coll'adoperar la forza, il cacciò in esilio con altre nobili famiglie, e massimamente i Griffi, Gonfalonieri ed Ugoni. Questo Tebaldo fu poi nell'anno seguente mandato [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] per conte ossia governator della Romagna da papa Benedetto XI. Anche in Parma [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] fu proposto di rimettere in città tutti gli usciti, cioè la parte del vescovo. Ghiberto da Correggio quegli era che più degli altri si sbracciava per questa pace. Non mancavano contradditori, e si fu alla vigilia d'una battaglia fra loro; ma, per cura di Cavalcabò marchese di Viadana e d'altri Cremonesi, cessò l'animosità e il rumore, e finalmente, accettata la concordia, nella festa di san Jacopo di luglio rientrarono in Parma tutti gli usciti con ghirlande in capo, e non ne seguì contrasto alcuno. Si venne allora a conoscere il perchè Giberto da Correggio si fosse cotanto scaldalo per questa concordia. Dopo la nona del giorno stesso i medesimi usciti già guadagnati, unitisi cogli amici e fautori d'esso Giberto, cominciarono con alte [289] voci a gridare: Viva, viva il signor Giberto. Tumultuariamente per questo si tenne consiglio, e in esso fu data al medesimo Giberto la signoria della città. Fecesi in quest'anno sentire un fiero tremuoto nella marca d'Ancona, nella Romagna, in Venezia e Schiavonia, per cui spezialmente in Fano e Sinigaglia caddero a terra molte torri e case. In Firenze [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 68. Dino Compagni, lib. 3.], per la prepotenza di Corso Donati, capo della parte nera, cioè guelfa, si venne a tal rottura fra i cittadini, che era per succederne lo sterminio della città, se non accorrevano i Lucchesi con grosso nerbo di cavalleria e fanteria per mettere pace. Loro fu conceduta per questo molta balia, ed essi pubblicarono varii bandi, tanto che si quetò la terra per allora.


   
Anno di Cristo mccciv. Indizione II.
Benedetto XI papa 2.
Alberto Austriaco re de' Romani 7.

I pensieri del buon papa Benedetto XI miravano tutti alla pace. Non era egli nè guelfo nè ghibellino, ma padre comune; non seminava, ma toglieva le discordie; non pensava ad esaltar parenti, non a procacciar moneta; e più all'indulgenza che al rigore era portato il benigno animo suo. Diede l'assoluzione ai due deposti cardinali Jacopo e Pietro Colonnesi, e restituì loro molti privilegii, ma non gli Stati, nè il cappello cardinalizio. Fulminò le censure contra di Guglielmo da Nogareto, Sciarra dalla Colonna ed altri che aveano insultato il defunto pontefice, e rubato il tesoro della Chiesa in Anagni. Cassò o mitigò molte costituzioni d'esso papa Bonifazio, perchè fatte di suo capriccio, senza voler dipendere dal consiglio dei fratelli, cioè del sacro collegio de' cardinali. Specialmente annullò quelle che riguardavano Filippo re di Francia, [290] con rimettere quel re e regno in possesso di tutti i suoi privilegii. Ma il santo padre, stando in Roma, si trovava come in prigione, perchè in città piena allora di fazioni e di prepotenti; e i primi fra essi erano i cardinali delle famiglie grandi di Roma, che a modo loro voleano raggirar la corte; laonde restavano impuniti i misfatti, e una sfrenata licenza regnava dappertutto [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic.]. Al buon papa pareva mille anni un'ora, per potersi levare da sì scompigliata città; e però, venuta la primavera, pubblicò di voler per sua divozione passare ad Assisi. Se gli opposero forte i cardinali, per paura che scappasse loro dalle unghie; ma per buona fortuna il cardinal Matteo Rosso degli Orsini, capo di gran fazione, per suoi segreti fini approvò l'andata; e così venne il buon papa a Perugia, dove piantò la sua residenza. Bramoso intanto di ridurre alla pace i troppo disuniti Fiorentini, spedì colà Niccolò da Prato cardinale e vescovo d'Ostia, personaggio di gran senno ed attività, e ghibellino di nascita, incaricandolo specialmente di ridurre in Firenze la parte de' Bianchi fuorusciti [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 69. Dino Compagni, lib. 3.]. Andò il cardinale, trovò il popolo tutto per lui, che gli diede ampia balia di far la pace. Ma i grandi della parte nera, cioè guelfa, non potendo sofferire che i Bianchi ghibellini tornassero e volessero parte nel governo, nè sapendo come parar questo colpo, ricorsero ad un sottile inganno; e fu quello di fingere una lettera a nome del cardinale legato, col suo sigillo, ai Bolognesi, acciocchè venissero con tutte le loro forze a Firenze. Arrivarono i Bolognesi con gran gente sino al piano di Mugello; e, udita la lor venuta, come ordinata dal legato, i grandi fiorentini ne fecero alti schiamazzi, e se ne risentì forte anche il popolo. E tuttochè il cardinale protestasse di non avere mai scritto perchè i Bolognesi [291] venissero, e li rimandasse indietro; pure s'incagliarono in maniera gli affari, che fu consigliato il cardinale di andare a divertirsi per qualche giorno a Prato. Vi andò egli, ma gli astuti Fiorentini avendo sovvertiti segretamente i Guazzalotti, potente famiglia di quella terra, ed altri Guelfi, si levò a rumore il popolo di Prato contra del cardinale, il quale non si aspettava nella patria sua un trattamento di tanta ingratitudine; e però se ne partì tosto, con lasciare scomunicati i Pratesi, e sotto l'interdetto la terra. Tornossene a Firenze; ma, per quanto dicesse e facesse, trovò ostinati nemici della concordia que' cittadini; sicchè, veggendoli già in procinto di tumultuare contra di lui, gli convenne andarsene, con dare la maledizione e sottoporre all'interdetto quella città. Nè si dee tacere che, mentre egli era in Firenze, accadde che quei popolani fecero in Arno sopra barche una rappresentazione orrida dell'inferno: spettacolo veramente convenevole a quei barbarici tempi. V'accorse il popolo, e tanta fu la folla sul ponte della Carraia, fabbricato allora di legno, che esso sprofondò, e molta gente ne rimase annegata o morta, o guasta in altra maniera. Partito poscia il cardinal da Firenze, nel dì 10 di giugno, vennero all'armi que' cittadini che tenevano per la pace, e gli altri che la ricusavano. In tal congiuntura fu attaccato ad alcune case il fuoco [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e questo, non trovando chi corresse a smorzarlo, cotanto si dilatò, che distrusse palagi, torri, case e fondachi senza numero. Il Villani parla di più di mille e settecento case rimaste in preda alle fiamme, con perdita immensa di robe e mercatanzie. Nè mai arrivavano i pazzi popoli a conoscere i dolci frutti della concordia, gli amari della discordia. Tentarono poscia i fuorusciti di Firenze di sorprendere la città; e venuti nel dì 20 di luglio sino alle porte con isforzo di molte migliaia di persone, si studiarono d'entrarvi; ma dal popolo, che tutto fu in armi, furono [292] non solo respinti, ma anche sconfitti colla perdita di molte persone.

Poco tempo godè la Chiesa di Dio dell'ottimo papa Benedetto XI, imperciocchè, soggiornando egli in Perugia, nel mese di luglio del presente anno passò a miglior vita [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 80. Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.]. Intorno al giorno della sua morte veggo assai discordi gli scrittori. Fu così inaspettata morte attribuita a veleno, dicendosi, che mentre egli era a tavola, venne un giovinetto vestito da donna, che a nome della badessa di santa Petronilla gli presentò un bacino d'argento con dei fichi-fiori, che soleano molto piacergli. Ivi era nascosa la sua morte: però, dopo averne mangiati assai, cadde tosto infermo di febbre, e in pochi dì sbrigò da questa vita. Ferreto Vicentino, che fa due scalchi del pontefice manipolatori di questo, non so se vero o immaginato, assassinio, scrive che ne fu data la colpa a Filippo il Bello re di Francia, perchè corse voce che questo papa volesse confermare la scomunica contra di lui: cosa che non si accorda coi brevi favorevoli ad esso re, rapportati dal Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccles.]. Se pur ha fondamento la di lui morte violenta, più verisimile è quanto scrive Giovanni Villani: cioè che essa venisse da qualche cardinale di depravata coscienza, giacchè non ne mancava in que' tempi, o perchè egli avea riprovati molti atti di papa Bonifazio VIII, o perchè, secondo l'asserzion di Ferreto, si scoprì ch'egli volea fissar la sua residenza in Lombardia, per sottrarsi alla tirannia d'alcuni di que' porporati che poteano a lui fare ciò che aveano fatto al suddetto papa Bonifazio. Quel che intanto è certo, morì questo buon pontefice in concetto di santità; Dio ancora il glorificò dopo morte con varii miracoli, di modo che pochi anni sono che Benedetto XIII sommo pontefice il registrò nel catalogo de' beati, e la sua vita si legge scritta e publicata dal canonico Antonio [293] Scotto di Trivigi. Come poi passasse il conclave per l'elezion di un successore, lo dirò all'anno seguente. Nel mese di marzo del presente anno Alberto Scotto signor di Piacenza [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron Placent., tom. 16 Rer. Ital.], dappoichè colle frodi s'era tirata addosso la nemicizia de' popoli circonvicini, fatta oste contro ai Pavesi, prese alcune loro castella, e diede il guasto al paese: nella qual occasione i Parmigiani mandarono in aiuto di lui cento uomini d'armi da due cavalli l'uno. Ma nel maggio appresso i Pavesi, Milanesi, Lodigiani, Vercellini, Novaresi, Cremaschi e Comaschi, Giovanni marchese di Monferrato, un figliuolo del medesimo Alberto ribello del padre, entrarono dalla parte del Pavese con un grosso esercito sul Piacentino, e, fermato il campo a Fontana, cominciarono a saccheggiar il paese sin quasi alle porte di quella città. In aiuto dello Scotto si mosse Matteo da Correggio, fratello di Giberto signore di Parma, con tutta la cavalleria e fanteria parmigiana. Vi corsero ancora gli Alessandrini, Tortonesi ed Astigiani, e Galeazzo figliuolo di Matteo Visconte. Erano usciti anche i Cremonesi contra di Piacenza, ma si fermarono perchè i Mantovani e Veronesi minacciarono di assalire il loro distretto. Non ostante questa gran mossa d'armi, niun combattimento seguì, e il tutto si ridusse a guasti e saccheggi. Ma sì gravi nemicizie di Alberto Scotto faceano star malcontenti i più dei Piacentini, perché ne pagavano essi il fio; e però nel mese d'agosto tentarono di deporlo. Prevalse egli, e rimasero morti e banditi molti dei congiurati, e nominatamente due della nobil casa de' Confalonieri, le case dei quali, siccome ancor quelle de' Visconti Piacentini, furono atterrate. Tornarono poscia nel settembre i collegati sopraddetti dalla parte di Cremona a guastar il contado di Piacenza sino alle porte della città, con fare immenso bottino. E nel novembre tolsero il castello di Rivalgerio [294] e la città di Bobbio che dianzi ubbidiva a Piacenza. Disperati per tanti danni i Piacentini, si rivoltarono quasi tutti contra di Alberto Scotto. Sotto colore di sostenerlo accorse colà Giberto da Correggio signore di Parma con tutta la sua gente e milizia; andò a finir la faccenda in un giuoco di mano, perchè il Correggiesco consigliò lo Scotto a ritirarsi per ora in Parma; e dacchè fu partito, Giberto si fece proclamar signore di Piacenza da alcuni di que' cittadini, e da tutta la gente sua. Così una volpe cacciò l'altra. Ma ebbero corti i piedi le contentezze e frodi del Correggiesco. I Piacentini, che non voleano avere cacciato un padrone per averne un altro, tutti un dì diedero di mano all'armi, gridando popolo, popolo, e bisognò che Giberto si affrettasse a scapparsene a Parma. Fu poi bandito Alberto Scotto con assai de' suoi amici, spianati i suoi palagi, e rimessi in città tutti i fuorusciti. Ancora in Asti succederono delle novità. Comandava quasi a bacchetta in quella città Giovanni marchese di Monferrato [Chron. Astense, cap. 53, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]; e temendo quel popolo di perdere un dì la libertà, segretamente si raccomandò a Carlo II re di Napoli, e a Filippo di Savoia principe della Morea, che mandarono molta gente in aiuto di essi e dei Soleri, nobil famiglia fuoruscita. Con queste forze nel mese di maggio, correndo la festa dell'Ascensione, rientrarono in quella città i Soleri per forza, e ne scacciarono i Gottuari ed altri loro avversarii, col saccheggio e bruciamento delle lor case. Parimente in Bergamo fu mutazione, perchè, entrativi i Bonghi e Rivoli, ne fecero uscire i Soardi e Coleoni e i lor seguaci. Tali erano in questi tempi le gran faccende, cioè le pazzie di tante città italiane. Certamente quantunque niun tempo possa vantar esenzione da' guai, pure cieco ed ingrato a Dio sarebbe chi non riconoscesse la felicità de' nostri, paragonando col presente lo stato sempre inquieto e sedizioso della [295] Italia ne' secoli, de' quali ora parliamo. Fu eziandio guerra in quest'anno fra i Padovani e Veneziani, perchè i primi voleano far delle saline al lido del mare: il che veniva loro contrastato dagli altri, che pretendeano di lor giurisdizione quei siti. Fabbricarono anche i Padovani alcune fortezze in que' siti, e in vicinanza di Chiozza una terra, a cui, per far onta a' Veneziani, posero il nome di Genova picciola. Perciò ne seguirono zuffe ed ammazzamenti [Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital.]; ma, per interposizione di amici, si venne in questo medesimo anno a buona concordia. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, tom. 9 Rer. Ital.] scrive che n'ebbero i Padovani delle percosse; e però i saggi s'appigliarono ai consigli di pace. In Verona [Contin. Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] nel dì 7 di marzo diede fine a' suoi giorni Bartolommeo dalla Scala signor di quella città, e succedette a lui nel dominio Alboino suo fratello.


   
Anno di Cristo mcccv. Indizione III.
Clemente V papa 1.
Alberto Austriaco re de' Romani 8.

Per undici mesi stettero disputando in Perugia i cardinali, senza mai potersi accordare nell'elezione del novello pontefice. Erano essi divisi in due fazioni [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 80.]. Capo dell'una il cardinal Matteo Rosso degli Orsini con Francesco Gaetano nipote di papa Bonifazio VIII, guelfi amendue, che desideravano un papa italiano, amico della memoria d'esso Bonifazio. Capo dell'altra il cardinale Napoleone degli Orsini dal Monte col cardinale Niccolò da Prato, tutti e due parziali del re di Francia e de' Colonnesi, e però bramosi di un papa franzese, opposto alle massime di papa Bonifazio. Soffiavano dall'una parte i Colonnesi, segretamente venuti a Perugia; dall'altra faceano negoziati Carlo II re di Napoli e Filippo il [296] Bello re di Francia [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.], e fu creduto ancora che il danaro franzese entrasse a perorare in questa congiuntura. Finalmente i Perugini, veggendo andar troppo in lungo questa mena, ristrinsero quei porporati, e cominciarono anche a tenerli corti di vivanda, acciocchè s'inducessero ad accordarsi. Ora L'astuto cardinal da Prato propose un dì al cardinal Francesco Gaetano un ripiego per terminar questa pendenza. E fu, che la fazion di Matteo Orsino nominasse tre oltramontani abili al papato, e che quella di Napoleone eleggesse uno dei tre, qual più le piaceva. Accettato il partito, i primi nominarono tre arcivescovi franzesi [S. Antonin., P. III, tit. 21.], creature di papa Bonifazio VIII, ponendo in capo di lista Bertrando del Gotto, appellato Raimondo per errore dal Villani, arcivescovo di Bordeaux, tanto più perchè esso era poco amico del re Filippo, per gravi dissapori occorsi fra loro, immaginandosi che qualunque d'essi che fosse eletto, sarebbe nemico del re di Francia, e amico della memoria di papa Bonifazio. Allora lo scaltro cardinal da Prato per secreti messi con tutta diligenza spediti fece intendere al re Filippo di cattivarsi l'amicizia dell'arcivescovo di Bordeaux, perchè quello sarebbe il papa. A questo avviso, il re segretamente fu ad abboccarsi con esso arcivescovo, dicendogli essere in mano sua il farlo papa, e che il farebbe, purchè s'obbligasse ad accordargli sei grazie: cioè di riconciliar lui e tutti i suoi seguaci colla Chiesa, dando il perdono del misfatto commesso nella presura di papa Bonifazio; di abolire la memoria d'esso Bonifazio; di rendere il cappello a Jacopo e Pietro dalla Colonna; di far cardinali alcuni che egli proporrebbe; e di accordargli le decime del clero di Francia per cinque anni. Riserbossi in petto la sesta, la quale, secondo le apparenze, fu di trasportare in Francia la Sede apostolica. L'arcivescovo, tutto ansante di vedersi [297] in capo la tiara pontificia, stabilì tosto il mercato, giurò le promesse sopra il corpo del Signore, diede anche per ostaggi al re un suo fratello e due suoi nipoti, e però il re immediatamente rispedì il segreto messo al cardinale di Prato e agli altri di sua fazione, con ordine di prendere per papa Bertrando del Gotto; e infatti ne seguì l'elezione secondo il concerto. Ah mali arnesi della Chiesa di Dio! In mano d'essi avea la Provvidenza messo l'eleggere un sommo pontefice, non già per servire alle mondane cupidigie di loro e de' principi della terra, ma bensì per procurare il maggior bene del popolo cristiano: ecco il frutto dello scisma, della cabala e dell'ambizione, che li portò ad eleggere sì lontano un pastore da loro mal conosciuto; ed ecco come tradirono l'intenzion di Dio e le coscienze proprie con una elezione per sè stessa illecita e scandalosa, recando, insieme colla rovina dell'Italia, una piaga sempre memorabile alla Sede di san Pietro. Stettero ben poco ad accorgersi del deplorabile lor fallo i cardinali [Bernard. Guid., in Vit. Clement. V. Ptolomaeus Lucensis, Hist. Eccles.]; perchè accettata che fu nel dì 23 di luglio l'elezione dall'arcivescovo (il qual prese il nome di Clemente V), furono chiamati in Francia, e per quante ragioni sapessero addurre in contrario, bisognò ubbidire. Così passò in Francia la Sede apostolica, e vi restò poi per settanta anni, in cattività somigliante alla babilonica, perchè schiava delle voglie dei re franzesi, con provenirne infiniti disordini e mali alla Chiesa e all'Italia, dei quali si andrà in parte favellando negli anni seguenti. Venuto a Lione il novello papa, ivi nella domenica fra l'ottava di san Martino fu solennemente coronato, e servito da Filippo re di Francia, da Carlo di Valois e da altri principi, col concorso d'innumerabil popolo. Ma occorse una sciagura che fu presa per mal augurio. Nella processione, o cavalcata, per la gran calca della gente, si rovesciò un muro in [298] vicinanza del papa, per cui egli stesso cadde da cavallo, e andò per terra la corona pontificia, un cui carbonchio o rubino di valore di sei mila fiorini d'oro si perdè, ma fu poi ritrovato. Vi morirono alcuni baroni, e fra gli altri Giovanni duca di Bretagna. Gravemente ancora ne fu leso Carlo fratello del re, ma ne guarì. Per questo caso immense furono le dicerie della gente. Anche nel dì 25 del mese di novembre, nata rissa tra la famiglia del papa e de' cardinali, vi restò ucciso un di lui fratello [Westmon. flosc., Histor.]. Fece poi nel seguente dicembre papa Clemente una promozione di dieci cardinali, nove franzesi a petizione del re di Francia, ed uno inglese. Se questo piacesse ai cardinali italiani, Dio vel dica. Restituì inoltre il cappello cardinalizio a Jacopo e Pietro dalla Colonna.

Nel mese d'aprile di quest'anno Azzo VIII marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena e Reggio [Annal. Estenses, tom. 15 Rer. Ital.], condusse in moglie Beatrice figliuola di Carlo II re di Napoli. Gran solennità fu fatta in tale occasione. Ma queste nozze misero in gelosia i suoi vicini, temendo tutti che la sua alleanza con un principe sì potente mirasse a mettere il giogo ai popoli d'intorno. Furbescamente ancora si disseminò una voce, che il marchese volea dare in dote alla regal sua moglie le città di Modena e di Reggio: il che diede molta apprensione a chi le prestò fede [Ptolom. Lucensis, in Vita Clement. V.]. Ora accadde che nel dì 6 d'agosto le fazioni di Parma vennero all'armi, e gran tumulto ne succedette [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. La peggio toccò alle nobili famiglie de' Rossi e dei Lupi, che si salvarono colla fuga, e perciò furono bandite con tutti i loro seguaci. Per questo la parte guelfa di Parma s'infievolì non poco; e rientrati in quella città molti Ghibellini banditi in addietro, vi rinforzarono maggiormente la loro fazione. Da lì a non molto si scoprì il disegno [299] d'alcuni nobili, di deporre dalla signoria di Parma Giberto da Correggio, e fu detto che il marchese Azzo Estense tenesse mano al trattato. Vero o falso che ciò fosse, perchè Giberto sapeva ben fabbricar delle tele, certo è ch'egli segretamente si collegò coi Bolognesi, Veronesi e Mantovani, a' danni del marchese; e non solo ebbe dalla sua i fuorusciti di Reggio e di Modena, ma nelle stesse due città maneggiò delle congiure. Poscia nel mese d'ottobre, quando a tutt'altro pensava il marchese, Giberto co' Parmigiani venne alle porte di Reggio, e i Bolognesi con tutto il loro sforzo, dopo aver preso a tradimento il ponte di Sant'Ambrosio, giunsero alle porte di Modena, credendosi di mettere il piede in tutte e due queste città. I provvisionati del marchese valorosamente difesero Reggio. In Modena i nobili da Savignano levarono il rumore contra la guarnigione marchesana; ma questa prevalse, e si sostenne tanto, che, arrivato da Ferrara il marchese, i Bolognesi si ritirarono, e si quetò la burrasca colla prigionia di diciassette de' nobili suddetti. Fecero poi le genti del marchese delle scorrerie sul Parmigiano, tentando di far rimuovere i Correggeschi dall'assedio di Soragna, dove s'erano afforzati i Rossi e i Lupi fuorusciti di Parma; ma non poterono impedire che quella terra non si arrendesse sul fine dell'anno a patti di buona guerra. Nel gennaio di quest'anno Giovanni marchese di Monferrato diede fine alla sua vita, e alla diritta nobilissima linea di que' principi, perchè morì senza figliuoli [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Lasciò erede de' suoi Stati Jolanta, ossia Violanta sua sorella, imperadrice di Costantinopoli, e i suoi figliuoli. Ora Manfredi marchese di Saluzzo, il quale, per testimonianza di Guglielmo Ventura [Chron. Astense, cap. 15, tom. 11 Rer. Ital.], per linea traversale mascolina discendeva dal medesimo sangue de' marchesi di Monferrato, senza voler attendere [300] il testamento di Giovanni, entrò coll'armi in possesso della maggior parte del Monferrato. Ma, secondo i documenti recati da Benvenuto da San Giorgio, sulle prime il marchese di Saluzzo prese solamente il titolo di governatore e difensore del marchesato del Monferrato, insieme col comune di Pavia e con Filippone conte di Langusco, signore di Pavia. E si vede che col loro consentimento i Monferrini spedirono ambasciatori a Costantinopoli, pregando l'imperadrice di venir ella in persona a prendere il possesso e governo degli Stati, oppure di mandar loro uno de' suoi figliuoli. Fu fatta poi correre voce, la qual giunse anche a Costantinopoli, che Margherita di Savoia, rimasta vedova del marchese Giovanni, era gravida, il che ritardò le risoluzioni della corte greca: tutte invenzioni del suddetto marchese di Saluzzo, il quale aspirava alla padronanza del Monferrato. Ma, chiarita la falsità di questa gravidanza, il greco imperadore Andronico Comneno Paleologo e Jolanta sua moglie, chiamata Irene dai Greci, presero la risoluzione d'inviare in Italia il principe Teodoro lor secondogenito a prendere il possesso del Monferrato. A questo fine prepararono gli occorrenti navigli, e un nobile accompagnamento di sua persona. Era in questi tempi [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 82. Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.] la città di Pistoia un buon nido de' Bianchi, ossia de' Ghibellini di Toscana; e temendo i Fiorentini che crescesse la di lei potenza coll'aiuto de' Pisani, Aretini e Bolognesi, tutti allora di parte ghibellina, pregarono il re Carlo II di mandar loro per capitano uno de' principi suoi figliuoli. Spedì egli Roberto duca di Calabria nel mese di aprile con trecento lancie e molta fanteria d'Aragonesi e Catalani, gente a lui somministrata da Giacomo re d'Aragona suo genero. Ricevuto questo rinforzo, i Fiorentini nel dì 26 di maggio con tutte le lor forze andarono ad assediar Pistoia dall'un lato, e i Lucchesi dall'altro. Vi [301] stettero sotto più mesi; e benchè il cardinal Napoleone e quello da Prato, siccome ghibellini, inducessero papa Clemente ad inviar colà ordini pressanti [Ferretus Vicentinus, Histor., lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.], perchè lasciassero in pace Pistoia; pure i Fiorentini seguitarono a far i fatti loro; perlochè furono scomunicati i rettori della città e i capitani dell'oste, e fu messo l'interdetto a Firenze.


   
Anno di Cristo mcccvi. Indizione IV.
Clemente V papa 2.
Alberto Austriaco re de' Romani 9.

Rivocò in quest'anno papa Clemente le esorbitanti costituzioni di papa Bonifazio VIII, colle quali aveva asserito il re e regno di Francia dipendenti e soggetti anche nel temporale ai romani pontefici [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. E intanto, sì entro che fuori d'Italia, emanavano ordini di pagar decime ai re, specialmente di Francia, Napoli e Sicilia, collo spezioso pretesto di conquistar l'imperio greco e la Terra santa; al quale effetto si dicea farsi dei preparamenti da Carlo di Valois. A tali imprese esortò il papa anche i Genovesi e Veneziani con belle lettere. Certo è che furono pagate le decime, e in borsa dei principi colò quel danaro, ma senza che ne sentissero dolor di capo Greci, Turchi e Saraceni: se non che i cavalieri dello Spedale, oggidì di Malta, colle lor forze impresero l'assedio di Rodi, occupato dai Turchi, e continuando la guerra per lo spazio di quattro anni, finalmente se ne impadronirono. Ma pelando con tal pretesto il papa e i cardinali le chiese di Francia, sì gagliardi furono i lamenti di quel clero, che lo stesso re, benchè tanto amico del pontefice, s'interpose per metter freno agli abusi. Riuscì in quest'anno [Annal. Estenses, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Italic. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital. Annal. Veteres Mutinens, tom. 11 Rer. Ital] ai segreti [302] maneggi de' Bolognesi e di Giberto da Correggio signor di Parma, di dare una fiera percossa ad Azzo Estense signor di Ferrara, con ordire tradimenti in Modena e Reggio, i quali ebbero il desiato effetto. Nella notte precedente al dì 26 di gennaio si levò a rumore il popolo di Modena, incitato specialmente da Manfredino da Sassuolo (cioè da chi era costituito capitano della milizia dal marchese, il quale più di lui che d'altri si fidava) e da Sassuolo suo figliuolo, e da Rinaldo da Marcheria altro capitano del marchese. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, Hist., tom. 9 Rer. Ital.] si stende molto nella narrativa del fatto. A me basterà di dire, che quantunque Fresco, bastardo del marchese, cogli stipendiati, venuto il giorno, facesse ogni possibil resistenza, pure fu costretto a ritirarsi nel castello, e il castello fece poca difesa, perchè non era provveduto di viveri, e convenne cederlo a patti di buona guerra. In quello stesso giorno i Rangoni, Savignani, Boschetti ed altri fuorusciti rientrarono nella città, e si fece gran festa e galloria per avere ricuperata la libertà, ma libertà che costò ben cara ai Modenesi, perchè tornò la discordia, e mali infiniti si scaricarono da lì innanzi sopra questa città, che, credendo di star meglio, stette peggio dipoi, finchè tornò sotto il dominio degli Estensi. La mutazion di governo in Modena fu cagione che nel dì seguente anche i Reggiani, animati da questo esempio, si ribellassero al marchese Azzo, e ne cacciassero a forza il suo presidio colla morte di molti. Corse tosto colà Giberto da Correggio con un grosso corpo d'armati; e forse perchè andò poi tessendo delle reti, per ottener la signoria di quella città, da lì a pochi giorni vi fu gran rumore, e Giberto prese la piazza e il palazzo del comune. Ma infine, contentandosi che i Reggiani prendessero per loro podestà Matteo suo fratello, [303] se ne tornò a Parma, e strinse in questo tempo parentela con Alboino dalla Scala signor di Verona, dandogli in moglie una sua figliuola. Diedene un'altra ancora a Francesco figliuolo di Passerino de' Bonacossi, cioè di colui che fu dipoi signore di Mantova. Presero i Mantovani in queste rivoluzioni il castello di Reggiuolo ai Reggiani, nè più lo renderono, con grave danno e doglia del popolo di Reggio. Nel mese di febbraio [Chron. Parmense, tom. 19 Rer. Ital.] si strinsero in lega le città di Parma, Modena, Reggio, Mantova, Verona e Brescia, tutte a' danni del marchese Azzo, con disegno di cacciarlo anche fuori di Ferrara, ma con tutti i loro sforzi non venne lor fatto il colpo.

Accaddero in quest'anno anche in Bologna delle fiere rivoluzioni [Matth. de Griffonibus, Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fu creduto o provato che la fazion de' Lambertazzi e Bianchi, cioè quella de' Ghibellini, volesse far delle novità: però fu in armi il popolo gridando: Muoiano i Ghibellini, vivano i Guelfi. Per testimonianza di Dino Compagni, fu questa una mena de' Fiorentini, nemicissimi de' Ghibellini. Molti d'essi Lambertazzi furono morti, il resto prese la fuga, e ne seguirono saccheggi e abbattimenti di parecchie case. In queste turbolenze Romeo de Pepoli con altri nobili preso, fu posto in quelle carceri, ma poi rilasciato. Tornò quella città a parte guelfa. Molte altre guerre seguirono per questo sconcerto nel contado di Bologna, ch'io tralascio. Ora, l'essere divenuta la parte guelfa trionfante in Bologna, servì a rimettere la buona armonia fra quel comune ed il marchese Azzo d'Este, capo dei Guelfi; e perciò non solamente pace, ma anche lega fu stabilita fra loro; e tanto essi Bolognesi che i Fiorentini, caporali anche essi della fazione guelfa, mandarono soccorsi di gente al marchese, contra del quale Bottesella dei Bonacossi signor di Mantova, Alboino dalla Scala signor di Verona coi Mantovani, [304] Veronesi, Bresciani, Parmigiani, Piacentini ed altri della lor lega fecero grande oste nel mese di luglio [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. Presero essi nel distretto di Ferrara Massa, Melara, Figheruolo e la Stellata, con arrivar anche sino alle porte di Ferrara, ma con ritrovarvi quel popolo ben disposto alla difesa; e però se ne tornarono a casa. Vennero poi di nuovo essi collegati nel mese di ottobre nel distretto di Ferrara, ed ebbero a tradimento il forte castello di Bregantino, nè poterono far di più. Continuava tuttavia l'assedio di Pistoia, sostenuto con gran vigore e disagi per tutto il verno dai Fiorentini [Dino Compagni, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic. Giovanni Villani, lib. 8, cap. 82.] e Lucchesi, quando s'udì che veniva in Italia il cardinal Napoleone degli Orsini, ghibellino di genio, spedito da papa Clemente V per legato in Italia, affin di pacificare le città troppo divise nell'interno loro, o in rotta coi vicini. I Fiorentini, gente che sapeva far la punta agli aghi, s'avvisarono tosto che egli verrebbe per intorbidare il conquisto di Pistoia, giacchè sapeano disgustato il pontefice per la già mostrata disubbidienza: provvidero al bisogno con un tradimento. Cioè fecero entrare un frate in Pistoia, il quale per parte loro promise le più belle cose del mondo a quel popolo, di maniera che parte per la fame, giunta quasi all'estremo, e parte pel dolce suono delle esibite vantaggiose condizioni, renderono infine la terra nel dì 10 d'aprile [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Niuna promessa fu loro attenuta; anzi un terribile strazio si fece di quell'infelice città. Divisero i Fiorentini e Lucchesi fra loro il contado, atterrarono tutte le mura e fortezze della città, e ne spianarono le fosse. Infierirono ancora contro i palagi e le case dei Ghibellini e Bianchi, diroccandole: in una parola, restò Pistoia uno scheletro, e sotto l'aspro governo de' vincitori. Venne in Italia il cardinal [305] Napoleone, e, udita la resa di Pistoia, ne fu molto dolente. Andossene a Bologna per rimetter quivi la pace e gli usciti. Anche ivi lavorarono sottomano i Fiorentini [Dino Compagni, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], con far giocare danaro, e indussero que' maggiorenti ad opporgli un trattato pregiudiziale allo stato loro. Perciò nel dì 22 di maggio commosso il popolo a rumore, colle armi in mano corse al palazzo del legato con tal furore e minaccie, che gli convenne sloggiare, e furono morti alcuni di sua famiglia, e rubata, nell'andarsene, buona parte de' suoi ricchi arnesi. Pien di vergogna e rabbia si ritirò il cardinale ad Imola, e, quivi stando, nel dì 24 di giugno [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] scomunicò i rettori ed anziani di Bologna, mise l'interdetto alla città, la privò dello Studio, con dichiarare scomunicato chi v'andasse a studiare: il che fu la fortuna di Padova, perchè tutti gli scolari passarono allo Studio di quella città. Aveva egli fatto sapere anche a' Fiorentini di voler visitare la lor città, per liberarla dall'interdetto e dalle censure. Gli fu fatto intendere che non s'incomodasse, perchè per allora non aveano bisogno di sue benedizioni: con che restò egli nemico ancora di Firenze, e riconfermò l'interdetto e l'altre pene spirituali, delle quali erano già aggravati. Signori di Bertinoro in questi tempi erano i Calboli, e faceano mal governo. Alberguccio dei Mainardi, aiutato da' Forlivesi e Faentini, nel dì 6 di giugno prese la terra; ed essendosi ritirati i Calboli nel Girone, por mancanza di vettovaglia, furono astretti a renderlo, salve le robe e le persone. Secondo la Cronica Forlivese [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], passò quella nobil terra in potere del comune di Forlì. Una somigliante disgrazia accadde a Pandolfo Malatesta, che era podestà e quasi signore di Fano. Ne fu egli scacciato nel luglio di quest'anno, ancorchè avesse per sua guardia cinquecento [306] cavalieri e trecento pedoni. Poscia nel seguente agosto anche il popolo di Pesaro, di cui era podestà, il fece con mala grazia uscire della lor città. Perdè egli finalmente anche Sinigaglia, di cui era quasi signore. Per attestato del Corio [Corio, Istor. di Milano.], Matteo Visconte venne con un buon corpo di soldatesche in quest'anno per prendere Vavro sul fiume Adda; ma, accorsi i Milanesi coi lor collegati, fecero restar vani i di lui attentati. Però, conoscendo egli troppo contraria a sè la presente fortuna, si ritirò finalmente in solitario luogo a far vita privata e nascosa, aspettando tempi più propizii a' suoi desiderii. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic.] scrive che egli si ricoverò prima al lago d'Iseo, e poscia andò ad abitare nella villa di Nogarola, che era di Bailardino da Nogarola, nei confini di Mantova, dove da povero signore dimorò circa cinque anni. Galeazzo suo figliuolo fu in questi tempi podestà di Trivigi.

In Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] per la festa dell'Epifania i Doria (a riserva di Bernabò Doria) con altri grandi della fazion mascherata, cioè ghibellina, presero l'armi per abbassargli Spinoli e la parte popolare. Furono vinti dalla forza del popolo, e se n'andarono in esilio. Allora il popolo costituì capitani e governatori della città il suddetto Bernabò ed Obizzone Spinola da Lucolo. Anche il popolo piacentino [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] diviso in due fazioni fu in armi nel dì 16 di maggio. Restarono superiori nel conflitto i Laudi, i Fulgosi e Visconte Pelavicino, e fu cacciata dalla città la famiglia de' Fontana con tutti i suoi seguaci. Approdò in quest'anno a Genova Teodoro figliuolo di Andronico Comneno imperador de' Greci, venuto per entrare in dominio del Monferrato [Guillelmus Ventura, Chron. Astens., cap. 42 tom. 11 Rer. Ital.], lasciatogli in eredità dal fu [307] marchese Giovanni suo zio. Ma trovò quegli Stati per la maggior parte occupati da Manfredi marchese di Saluzzo e dai fuorusciti d'Asti. Si prevalse di quella occasione Obizzino Spinola, uno de' capitani e come signori di Genova, per fargli prendere in moglie Argentina sua figliuola, al che condiscese Teodoro per isperanza d'essere assistito ne' correnti suoi bisogni dal potente suocero, e in considerazione ancora di un'altra figliuola d'esso Obizzino Spinola, maritata con Filippone conte di Langusco e signor di Pavia, la cui parentela potea molto giovargli. Ciò fatto, venne a Casale di Sant'Evasio, accolto con gran festa da quel popolo e da altre terre del Monferrato, che s'erano conservate fedeli, e si gloriavano di aver per loro padrone il figliuolo d'un imperadore. Qual fosse lo stato allora del Monferrato e del Piemonte, l'abbiamo da Guglielmo Ventura, chiamato Ruffino da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Avea il suddetto marchese di Saluzzo occupate molte terre che erano in Piemonte, già possedute da Carlo I re di Sicilia. Nell'anno precedente mandò il re Carlo II, nel mese di marzo, Rinaldo da Leto Pugliese suo siniscalco con cento uomini d'armi ed altrettanti balestrieri in Piemonte. La città d'Alba e le terre di Cherasco, Savigliano e Montevico giurarono nelle di lui mani di nuovo fedeltà al re. Dopo di che egli, coll'aiuto degli Astigiani, tolse Cuneo ed altri luoghi al marchese di Saluzzo, il quale tra per levarsi di dosso questo possente nemico, e per poter tenere le molte terre già occupate nel Monferrato, venne ad un accordo col re Carlo II nel dì 7 di febbraio dell'anno presente, con riconoscere da lui in feudo il marchesato del Monferrato, e cedergli Nizza della Paglia e Castagnole, terre del medesimo marchesato. Niuna ragione avea il re Carlo sopra del Monferrato; ma il marchese venne a questo atto per sostener la preda colla protezione [308] ed aiuto del re contra del greco Teodoro. Quanto agli Astigiani, essendo capitato ad Asti Filippo di Savoia principe della Morea, che tornava di Levante con due soli compagni, e trovandosi quel popolo assai stretto per le molte terre del loro contado occupate dalla fazion dei Gottuari fuorusciti, venne in parere di prendere questo principe per suo capitano per tre anni avvenire, dandogli ventisette mila lire ogni anno: con che egli dovesse tenere cento uomini d'armi al loro servigio. A man baciata accettò il principe questo impiego, sperando fra qualche tempo di piantar quivi le radici con divenir signore di quella allora assai ricca città. Nè passarono mesi, ch'egli imperiosamente ne richiese il dominio a que' cittadini, la metà per lui, e l'altra per Amedeo conte di Savoia suo parente. Fu in pericolo della vita per questo, tanto se ne sdegnarono gli Astigiani; ma si disdisse, e cessò il rumore. Avendo poi desiderato il marchese Teodoro d'abboccarsi con esso principe e coi deputati d'Asti al ponte della Rotta, si videro insieme, e, per attestato del Ventura, Filippo corse ad abbracciare e baciare, con bacio poco corrispondente al cuore, il marchese; e, poi trattatosi di lega, promise quanto l'altro desiderò. Ma appena fu ritornato ad Asti, che scoprì il suo mal animo contra di Teodoro, ed aspramente comandò agli Astigiani di astenersi dal far lega con lui, non senza maraviglia di chi era intervenuto al suddetto abboccamento. Anche un uffiziale del re Carlo avea voluto indurlo con vantaggiose condizioni a far lega col suo signore contra del marchese di Saluzzo; e il principe ricusò tutto. Ne fu informato il re con esagerazion dell'uffiziale, e andò così in collera, che giurò di vendicarsene; e gli attenne la parola, perchè spedì Filippo principe di Taranto suo figliuolo con una armata che gli occupò il principato della Morea. Allora Filippo di Savoia quasi per forza contrasse lega in Piemonte col re Carlo, e perchè gli Astigiani presero [309] la villa di Cavalerio senza sua saputa, si ritirò da Asti; e favorendo poscia i fuorusciti di quella città, seguitò a guerreggiare unito co' Provenzali contra di Teodoro marchese di Monferrato. Tale era allora lo stato di quelle contrade.


   
Anno di Cristo mcccvii. Indizione V.
Clemente V papa 3.
Alberto Austriaco re de' Romani 10.

Desiderando Filippo re di Francia di fare un abboccamento col papa, fu scelta a questo effetto la città di Poitiers [Raynald., in Annal. Eccl.]. Quivi il re, non contento dell'avere dianzi il pontefice abolite le costituzioni di papa Bonifazio VIII pregiudiziali ai diritti dei re franzesi, tuttavia, pieno di livore, fece di forti istanze al papa perchè condannasse la memoria di papa Bonifazio, con ispacciarlo per simoniaco ed eretico. In prova di che, dicea d'aver testimonii degni di fede. Volle Dio che Niccolò cardinale da Prato eludesse il mal talento del re [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 91.] con suggerire al papa un ripiego atto a dilungare ed imbrogliar la faccenda. E fu quello di rispondere, che cosa di tanto momento, riguardante tutta la Chiesa, non si potea trattare e risolvere se non in un concilio generale. Al che non potendo di meno, acconsentì il re; e fu determinato di tenerlo in Vienna del Delfinato. Propose ancora il re in quel congresso di processare i cavalieri del Tempio, che, possedendo di grandi ricchezze e beni per tutta la cristianità, si erano dati forte al lusso e al libertinaggio, pretendendo giunta la depravazione dei lor costumi ai più abbominevoli ed enormi vizii, e sino a rinnegar la fede di Gesù Cristo. Altro io non dirò intorno a questa materia, se non che con mano forte si procedè contra d'essi Templari, imprigionati per tutta la Francia, e poscia per gli altri regni, il numero de' quali si fa [310] ascendere da Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.] a quindici mila. Costoro, se crediamo ai processi fatti in questo e nei susseguenti anni, furono trovati rei e convinti d'enormità inudite, d'apostasia e d'idolatria. Si sa che nel concilio di Vienna fu poscia abolito l'ordine, e confiscati gl'immensi lor beni a profitto del papa e dei re; la maggior parte de' quali fu venduta ai cavalieri dello Spedale, oggidì di Malta, con grande loro svantaggio nondimeno, perchè si caricarono di tanti debiti per denari presi ad usura affin di far sì grossi acquisti, che gran tempo ne languì l'ordine loro. Da molti fu quella sentenza tenuta per giustissima. Ma non si potè levar di capo ai più di que' tempi (e lo confessa il Villani [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 92.] con altri Italiani, e sopra ciò s'è veduto anche ai dì nostri un libro di autore franzese) che quella non fosse un'iniqua invenzione di Filippo il Bello re di Francia per arricchirsi colle spoglie loro, siccome dianzi avea fatto delle tante ricchezze degli Ebrei che egli scacciò dal regno suo. Dicevano essi che non ci voleva molto ai re il far comparire con dei processi e tormenti colpevole chi era in loro disgrazia, o per vendicarsi di loro o per assorbire i loro beni; e che se fosse toccato al re Filippo di formar anche il processo a papa Bonifazio, egli sarebbe apparuto simile ai Templari, quando pure ognun sapeva essere false le imputazioni a lui date dal medesimo re. Noto è altresì che il gran maestro e tanti altri cavalieri del Tempio bruciati vivi, o in altra guisa giustiziati, protestaronsi sempre innocenti de' falli loro apposti, e però da molti furono creduti martiri della cupidigia di quel re, principe diffamato per altri suoi gravi eccessi. Il perchè le disavventure occorse a lui, e la mancanza della sua linea furono attribuite dagli speculativi de' giudizii di Dio a questi ed altri atti della prepotenza sua. Guglielmo [311] Ventura [Guillel. Ventura, Chron. Astense, cap. 27, tom. 11 Rer. Ital.] scrittore contemporaneo, santo Antonino [S. Anton., P. III, tit. 21, Istor. Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital., pag. 518.] ed altri son da vedere intorno a questo argomento. Intanto a noi conviene il sospendere qui i giudizii nostri, lasciando a Dio solo, che non può ingannarsi, la cognizione della verità, bastando a noi d'avere inteso il fatto e le varie opinioni d'allora.

Vidersi ancora nell'anno presente di grandi rivoluzioni in Italia. Cominciarono i Modenesi a provare il frutto della lor ribellione alla casa d'Este [Annales Veteres Mutinenses, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital. Annal. Estenses, tom. 15 Rer. Italic.]. A tradimento tolsero loro i Bolognesi la terra di Nonantola; e l'arciprete de' Guidoni (dal Morani è detto de' Guidotti, siccome ancora dal Gazata [Gazata, Chronic. Regiense, tom. 18 Rer. Italic.]) occupò l'altra del Finale. Inoltre menavano essi Bolognesi un trattato coi Guelfi modenesi d'impadronirsi della città di Modena, e vennero coll'esercito fino a Spilamberto. Ma scoperto il macchinato tradimento verso la festa di Pasqua, furono in armi le due interne fazioni, e riuscì a quei di Sassuolo, da Livizzano, da Ganaceto e ai Grassoni, tutti Ghibellini, di superare e cacciar fuori di città i Savignani, Rangoni, Boschetti, Guidoni, Pedrezzani ed altri Guelfi. L'autore della Cronica di Parma, vivente in questi tempi, fa qui un brutto elogio di Modena, con dire che essa [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] semper fuit in his partibus Lombardiae exordium motionum, et novitatum origo, ex antiguis odiis partium, scilicet guelfae et ghibellinae: quasi che anche tant'altre città di Lombardia, Toscana, Romagna, ec. non fossero infette del medesimo morbo. Furono parimente non pochi rumori nel mese di marzo in Parma, dove s'era tramata una congiura per torre la signoria a [312] Giberto da Correggio. Molti perciò furono presi e tormentati, ed altri, sì nobili che plebei, mandati ai confini. Scoprissi ancora nel mese di giugno un nuovo trattato contra d'esso Giberto; ed altri ne fuggirono, o furono confinati. Più strepito ancora fecero in questi tempi le rivoluzioni di Piacenza. Alberto Scotto cogli altri usciti di quella città, e con gli usciti di Parma ed altri amici [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], dopo aver data una rotta ai Piacentini a Roncaruolo, entrò in castello Arquato, e in Fiorenzuola nella vigilia di san Jacopo. Nel dì seguente cavalcò alla volta di Piacenza, e gli fu data una porta, e però con tutti i suoi liberamente v'entrò. Ne fuggirono tutti i suoi avversarii, cioè Ubertino Lando, i Pelavicini, Anguissoli ed altre nobili famiglie ghibelline, e si ridussero in Bobbio. In tali occasioni compassionevole spettacolo era il veder anche le nobili donne coi loro figliuolini andarsene raminghe in esilio, e il mirar saccheggiate ed atterrate le case loro. Diedero poi essi fuorusciti una rotta ai Piacentini dominanti al luogo di Pigazzano. Questo avvenimento, secondo la Cronica di Piacenza, fece risolvere, sul fine dell'anno, quel popolo a prendere per due anni in suo capitano, difensore e signore Guido dalla Torre, poco prima divenuto signor di Milano, il quale mandò colà per podestà Passerino dalla Torre. Guerra grande fatta fu in quest'anno dai Mantovani, Veronesi, Bresciani e Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] al comune di Cremona. Perchè tanti si unissero contra de' Cremonesi, non l'accennano le storie. Probabilmente fu perchè essi si governavano a parte ghibellina, e Guelfi erano i cremonesi. In aiuto di Cremona mandò il comune di Milano [Corio, Istor. di Milano.] due mila fanti con molta cavalleria nel dì 24 d'agosto: nel qual tempo i Mantovani con grosso naviglio per Po, secondati da tutte le forze de' Parmigiani, entrati nel distretto cremonese, presero e [313] diedero alle fiamme il ponte di Dosolo, Montesoro, Viadana, Portiolo, Casalmaggiore, Rivaruolo, Luzzara, Pomponesco ed altri luoghi. A Giberto da Correggio signor di Parma si arrendè Guastalla, ed egli ne fece spianar le fosse ed atterrar tutte le fortificazioni. Da gran tempo era Guastalla de' Cremonesi, e di qua apparisce fin dove si stendeva allora la giurisdizion di Cremona. I Veronesi dal canto loro presero e distrussero la terra di Piadena. Ed i Bresciani andarono a Rebecco, ed arrivarono sino alle porte di Cremona saccheggiando e bruciando dappertutto. Chi non dirà forsennati gli Italiani d'allora sempre inquieti, sempre torbidi, sempre rivolti a distruggersi l'un l'altro, disuniti in casa, e talvolta uniti co' vicini solamente per portare ad altri la rovina e la morte? Si rinnovò poi questo flagello anche nel settembre, con essere ritornati questi popoli ai danni del Cremonese. Vennero anche i Milanesi, Piacentini, Lodigiani e Pavesi con tutte le lor forze sino a Borgo San Donnino, e diedero il guasto a quei contorni, a e Soragna e ad altri luoghi. In favor di Cremona uscì ancora Azzo marchese d'Este co' Ferraresi [Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e con un buon corpo di Catalani a lui inviati dal re Carlo II suocero suo, menando un copioso e possente naviglio per Po, col disegno di mettere l'assedio ad Ostiglia, terra allora de' Veronesi; ma quel presidio, senza volerlo aspettare, attaccò il fuoco alla terra, e se n'andò. Di là passò il marchese estense ad assalir Serravalle dei Mantovani; lo prese per forza, e ne tagliò il ponte, con poscia dirupare il castello, le torri e fortezze di quella terra. Ed allora fu ch'egli soggiogò tutte le navi armate de' Mantovani e Veronesi; fra le quali erano sei grosse galee, ed altre barche incastellate con battifredi da due ponti; e tutte con gran bottino le condusse a Ferrara.

Teodoro marchese di Monferrato coll'aiuto [314] di Filippone conte di Langusco e signor di Pavia, suo cognato [Chron. Astense, cap. 44, tom. 11 Rer. Ital.], ricuperò in quest'anno la terra di Luy. Ma Rinaldo da Leto, siniscalco del re Carlo II, con Filippo di Savoia e Giorgio marchese di Ceva, ammassato un buon esercito, uscì in campo nel mese d'agosto contra di lui. Il conte di Langusco, dopo aver fatto ritirare Teodoro in luogo sicuro, andò, benchè inferiore di forze, arditamente ad azzuffarsi coi nemici, ed aspra fu la battaglia. Ma sbaragliati rimasero i Monferrini e Pavesi; e Filippone, fatto prigione, fu inviato al re Carlo, dimorante in Marsilia, che gli diede per carcere un castello della Provenza. Obizzino Spinola, capitano allora di Genova, e suocero d'esso Filippone e del marchese Teodoro, con promettere ad esso re il soccorso di un grande stuolo di galee genovesi per ricuperar la Sicilia, ottenne, dopo sei mesi, la libertà di esso suo genero. Fece anche cedere a sè stesso ogni pretensione che potesse avere il re sopra il Monferrato. Inoltre impetrò la restituzion delle terre di Moncalvo e Vignale, occupate al Monferrato, le quali egli ritenne per sè senza renderle al genero marchese Teodoro. Mancarono di vita in quest'anno nella città di Milano [Corio, Istoria di Milano.] Mosca e Martino dalla Torre. Capo di quella casa restò Guido figliuolo di Francesco. Questi nel dì 17 di settembre nel pieno consiglio fu eletto capitano del popolo per un anno: il che vuol dire signore. E in questa cronologia sembra più fedele ed esatto il Corio storico milanese, che Galvano Fiamma e l'autor degli Annali di Milano. Consultò il primo migliori memorie che gli altri. Da lì a non molto, siccome ho detto, anche i Piacentini presero esso Guido per lor capitano. Passò in quest'anno dalla Romagna ad Arezzo il cardinal Napoleone degli Orsini, legato pontificio [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 89.], e siccome disgustato dei Fiorentini che non voleano prestargli [315] ubbidienza alcuna, cominciò a fare una gran raunata di gente, tanto di terra di Roma, del ducato di Spoleti, della marca d'Ancona, quanto della Romagna e dei Ghibellini di Toscana. I Fiorentini, che vedeano prepararsi questo nuvolo contra di loro, nol vollero aspettare; e richiesti gli amici, misero insieme un'armata dì quindici mila fanti e tre mila cavalli, e con essa entrarono nel contado d'Arezzo, facendo ivi que' buoni trattamenti che solea far la guerra di que' tempi. Per consiglio dei saggi, uscì d'Arezzo il cardinale, facendo vista di andar pel Casentino alla volta di Firenze. Allora i Fiorentini, per timore che egli avesse delle intelligenze nella loro città, disordinatamente alzarono il campo, e chi più potea si affrettò per correre a Firenze. Se il cardinale era ben avvertito, li potea con facilità mettere in isconfitta. Andò egli poscia a Chiusi, e mandò innanzi e indietro ambasciate a' Fiorentini per ridurre gli usciti in Firenze [Dino Compagni, Chron., tom. 9 Rer. Ital.]; ma nulla potè ottenere; di modo che, vedendo scemato il suo credito e potere, e sè stesso anche dileggiato, se ne tornò assai malcontento di là da' monti ad informar la corte pontificia della sua fallita legazione, che gli fu anche levata: tante furono le segrete cabale de' Fiorentini nella corte papale. Volle in quest'anno Malatestino dei Malatesti tentare di ricuperar Bertinoro [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], e ne avea già ordito il tradimento con Alberguccio de' Mainardi. V'andò nel dì 6 d'agosto con parte della milizia di Rimini e con tutta quella di Cesena, ed ebbe una parte della terra, ma non il girone e la torre. Portatone l'avviso a Forlì, Scarpetta degli Ordelaffi, capitano di quella città, marciò in fretta con tutta la soldatesca, diede loro battaglia e li sconfisse. Si rifugiò parte de' Riminesi e Cesenati nel castello; ma da lì a due giorni, per difetto di vettovaglia, furono costretti a rendersi. Quasi due mila persone restarono prigioniere, e andarono [316] a far penitenza nelle carceri di Forlì. Anche i Bolognesi fecero guerra a Faenza ed Imola [Chronic. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], e s'impadronirono del castello di Lugo. In Roma si attaccò il fuoco alla sacra basilica lateranense, e tutta la bruciò, insieme colle case dei canonici: disgrazia che recò sommo dolore al popolo romano, e fu presa per presagio delle calamità che avvennero. Ma non passarono molti anni, che unitisi i buoni di Roma, uomini e donne, ed aiutati anche dal papa, la rifecero come prima [Bernard. Guid., in Vit. Clementis V.]. Erano già più anni che Dulcino, nato in Val d'Ossela, diocesi di Novara, eretico della setta de' Catari ossieno Gazzeri, specie di Manichei [Historia Dulcini, tom. 9 Rer. Ital. Bernardus Guid., Giovanni Villani, et alii.], andava infettando la Lombardia co' suoi perversi errori. Si ridusse costui in una montagna del Vercellese co' suoi seguaci in numero di circa mille e trecento, dove, per mantenersi quella canaglia, altro ripiego non avea che di saccheggiare le ville vicine. Predicata contra di essi la crociata, furono essi assediati in quel monte, e finalmente nel dì 23 di marzo dell'anno presente obbligati per la fame a rendersi. Dulcino colla moglie Margherita ed altri pochi, senza volersi mai ravvedere, furono bruciati vivi: con che estirpata rimase la pestilente sua setta.


   
Anno di Cristo mcccviii. Indizione VI.
Clemente V papa 4.
Arrigo VI, detto VII, re dei Romani 1.

Succedette nel primo dì di maggio di quest'anno la morte funesta di Alberto Austriaco re de' Romani [Bernard. Guid. Ptolomaeus Lucens. Ferretus Vicent. et alii.]. Grande odio gli portava Giovanni figliuolo di un suo fratello primogenito, pretendendosi gravato da lui, perchè gli negava una parte, nonchè il tutto, degli Stati dovuti a lui per le ragioni del padre. Partitosi da [317] Baden il re Alberto, nel passare il fiume Orsa, fu assalito dal nipote con una mano di sicarii, e trafitto da più spade, quivi lasciò la vita. Restarono di lui più figliuoli, il primogenito de' quali Federigo fu duca d'Austria e signore d'altri Stati spettanti a quella nobilissima casa. Trattossi dipoi di eleggere il successore; ed uno di quei che più vi aspiravano, fu lo stesso duca Federigo. Ma insorta gran discordia fra gli elettori, si mise allora in pensiero Filippo il Bello re di Francia di far cadere quella corona in capo a Carlo di Valois suo fratello, che ne avea già avuto promessa da papa Bonifazio VIII [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 95.]. Fu perciò risoluto nel suo consiglio di preparar un'armata per entrare in Germania, e dar calore alla dimanda coll'efficace raccomandazione dell'armi, e intanto di procurar anche i premurosi ufficii pel papa. Penetrò la corte pontificia questi disegni non senza affanno del pontefice, il quale, se s'ha a credere a Giovanni Villani, richiese del suo parere l'accortissimo cardinale Niccolò da Prato. Questi il consigliò di scrivere immediatamente agli elettori dell'imperio, ordinando che senza dilazione procedessero all'elezione, con suggerir loro ancora che Arrigo conte di Lucemburgo, principe pio, savio e ornato d'altre belle doti, pareva a lui il più a proposito pel romano imperio. Camminò la faccenda come avea divisato il papa col cardinale. Arrigo fu eletto quasi a voti pieni re dei Romani nel dì di santa Caterina [Henric. Stero, in Chron. Albert. Argentinens., in Chron. Bernard. Guid. Albertinus Mussatus. Ferretus Vicentinus, et alii.], e poi pubblicata l'elezion sua nel dì 27 di novembre, e non già nell'Ognissanti, o in altro giorno, come alcuni lasciarono scritto. Meraviglia recò ad ognuno l'udire preferito a tanti altri potenti principi Arrigo, principe di nobile schiatta bensì, ma di pochi Stati provveduto. Secondo il Villani, corse subito la nuova di questa inaspettata elezione alla corte del [318] re di Francia, mentre egli si apparecchiava per andare al papa, affine di averlo favorevole in questo affare; ed accortosi che Clemente V vi aveva avuta mano per escludere Carlo suo fratello, da lì innanzi non fu più suo amico. Ma non si sa intendere come il re Filippo dal dì primo di maggio, in cui tolto fu dal mondo il re Alberto, sino al dì 25 o 27 di novembre, giorno nel quale si pubblicò L'elezione di Arrigo, tardasse tanto, giacchè ardea di voglia di quella corona, ad impegnare gli uffizii del pontefice in favor del fratello. Sembra ben più probabile che se li procacciasse per tempo, ma che restasse burlato con altre segrete insinuazioni fatte fare dal medesimo Clemente. Furono poi spediti da esso Arrigo solenni ambasciatori al papa, cioè i vescovi di Basilea e di Coira, Amedeo conte di Savoia Guido conte di Fiandra, Giovanni Delfino di Vienna, ed altri baroni [Joannes de Cermenat., tom. 9 Rer. Italic. Franciscius Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Ital.], per ottenere il consenso pontificio: il che fu facilmente conceduto. Tale ambasceria vien dai più riferita all'anno seguente, ma dovette precederne un'altra almeno, certo essendo che Arrigo fu coronato in Aquisgrana nell'Epifania dell'anno seguente, e ciò non par fatto senza la precedente approvazione del papa. Fu questo Arrigo il sesto fra gl'imperadori, ma comunemente vien chiamato Arrigo settimo, perchè tale nell'ordine dei re di Germania di tal nome.

Cadde infermo in quest'anno ancora Azzo VIII marchese d'Este, signor di Ferrara, Rovigo e d'altri Stati, ed anche conte d'Andria nel regno di Napoli [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital. Peregrinus Priscianus. Annal. MSS. et alii.]. Fecesi portare ad Este, sperando miglioramento da quell'aria salubre; e furono a visitarlo, e a far pace con lui i suoi due fratelli Francesco e Aldrovandino marchesi. Ma quivi nell'ultimo dì di gennaio finì di vivere. Questo principe d'alte [319] idee, ma d'idee mal condotte, dopo aver vivente recati notabili danni alla sua casa coll'aver perdute le città di Modena e di Reggio, ben peggio fece morendo, perchè lasciò suo successore nel dominio di Ferrara e degli altri suoi Stati Folco, figliuolo legittimo di Fresco suo figliuolo bastardo, con escludere i Suoi legittimi fratelli Francesco ed Aldrovandino, e i figliuoli di quest'ultimo. La Cronica Estense [Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital.] ha, ch'egli ritrattò un sì fatto testamento; ma certamente gli effetti si videro in contrario, e di qua venne un gran crollo alla famiglia estense. Fresco, aiutato dai Bolognesi, giacchè il figliuolo non era giunto ad età capace di governo, prese le redini della signoria di Ferrara, che gli fu confermata, benchè mal volentieri, dal popolo. Ma nel medesimo tempo il marchese Francesco d'Este co' suoi nipoti si mise in possesso d'Este, di Rovigo e d'altre terre, e in quella della Fratta diede una rotta alle genti di Fresco. Così cominciò la guerra fra loro. Stabilì Fresco pace coi Mantovani, Veronesi, Bresciani, Parmigiani, Reggiani e Modenesi. Il popolo di Ferrara, essendo molto portato a voler i principi estensi legittimi, cominciò a fare delle congiure contra di lui, le quali svanirono colla morte di molti. Ricorsero gli Estensi legittimi al papa in Francia per implorar il suo patrocinio ed aiuto; ed oh con che benignità furono ascoltati! Promise quella corte mari e monti, purchè riconoscessero Ferrara per città della Chiesa romana; dal che s'erano nel secolo addietro guardati gli altri Estensi. Dacchè questo fu ottenuto, allora furono spediti uffiziali e milizie in Italia per prendere il possesso di Ferrara coll'assistenza del marchese Francesco; e per questo i Ferraresi cominciarono a tumultuar più che mai contra di Fresco [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Veggendo la mal parata, fece anch'egli ricorso ai Veneziani, e propose di ceder loro con varii patti quella città. Niuna fatica si durò [320] perchè essi accettassero la proposizione, e non tardarono ad inviar colà gran copia di soldatesche, le quali entrarono e si fortificarono in castel Tealdo; cosa che maggiormente accese l'ira de' Ferraresi, popolo già avvezzo ad avere il suo principe, e alieno dall'ubbidire agli stranieri. Per altro, anche i Bolognesi, Mantovani e Veronesi amoreggiavano in queste occasioni Ferrara, e mossero l'armi per tentarne l'acquisto. Anzi Bernardino da Polenta co' Ravegnani e Cerviesi proditoriamente v'entrò una notte, e si fece eleggere signore d'essa città per cinque anni avvenire. Ma non vi si fermò che otto giorni, saccheggiando tutto quel che potè. I Veneziani quei furono che riportarono il pallio. Li fece ben ammonire il papa [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] di desistere e ritirarsi da quella impresa, perchè Ferrara era terra della Chiesa romana; ma si parlò ai sordi. Un dì poscia le milizie pontificie con Francesco marchese d'Este ed altri fuorusciti, e con Lamberto da Polenta condottiere de' Ravegnani entrarono in quella città, gridando invano il popolo: Viva il marchese Francesco; e ne presero il possesso a nome del papa, senza più poi pensare a rimetterla in mano degli Estensi. Succederono poi varie battaglie tra i Ferraresi e Veneziani, e talmente prevalsero gli ultimi, che nel dì 27 di novembre convenne ai Ferraresi d'implorare pace o tregua, e di prendere quel podestà che piacque ai Veneziani. Allora furono ammesse in città le famiglie de' Torelli, Ramberti, Fontanesi, Turchi, Pagani ed altri sbanditi dalla città, perchè Ghibellini e nemici degli Estensi.

In Parma non furono minori le rivoluzioni [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nel dì 24 di marzo cominciarono una rissa fra loro i Ghibellini ed i Guelfi; e nel dì seguente passò questa in una fiera guerra civile, in cui rimasero morte molte persone, rubate ed incendiate moltissime case. Maggiormente si [321] rinforzò nel dì 26 la tempesta dell'armi, stando sempre Giberto da Correggio signore della città colle sue genti in possesso della piazza. Ma udito che i Rossi e i Lupi di Soragna con altri banditi erano venuti alla porta di Santa Croce, colà si portò, ed uscì ancora per mettergli in fuga; ma toccò a lui di fuggire in città, perchè contra di lui si rivoltarono non pochi de' suoi. V'entrarono anche i suddetti sbanditi, in favor dei quali essendosi dichiarati molti del popolo, andò si fattamente crescendo la forza de' Guelfi, che Giberto e Matteo fratelli da Correggio coi loro aderenti dovettero cercar colla fuga di salvarsi a Castelnuovo. Però tutti gli altri usciti guelfi tornarono alla patria. Infinite furono le ruberie fatte in questa occasione per la città; molte le case bruciate; e i contadini entrati corsero al palazzo pubblico, e vi stracciarono tutti i libri dei bandi e maleficii, e diedero il sacco ad ogni mobile e scrittura di Giberto. Seguitarono poi anche per molti giorni i saccheggi e gl'incendii, e i bandi di chi era creduto Ghibellino; e intanto i fuorusciti faceano guerra alla città. Contra d'essi nel mese di giugno uscì in campagna tutto l'esercito de' Parmigiani dominanti. Giberto da Correggio anch'egli, fatto forte dai Modenesi, che v'andarono tutti col loro capitano, e dai banditi di Bologna, e dal marchese Francesco Malaspina co' suoi di Lunigiana, e da copiose schiere d'altri Ghibellini, nel dì 19 di giugno andò a ritrovare i Parmigiani, ed attaccò la mischia. Vigorosamente si combattè sul principio da amendue le parti; ma poco stettero ad essere sbaragliati i Parmigiani, de' quali assaissimi restarono morti con più di dugento Lucchesi, ch'erano al loro soldo, e quasi dissi innumerabili restarono prigioni colla perdita di tutto il bagaglio [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Dopo la vittoria corse Giberto alla città, ma non potè entrarvi allora. V'entrò nel dì 28, perchè, colla mediazione di Anselmo abbate [322] di San Giovanni, fu fatta una pace generale, e permesso a tutti gli usciti di ripatriare. Secondo il diabolico costume di que' tempi, andò presto per terra questa pace. Giberto da Correggio, che prometteva e giurava a misura del bisogno, senza credersi poi tenuto a giuramenti e promesse, ben disposti i suoi pezzi, nel dì 3 d'agosto levò rumore, e colla forza de' suoi scacciò dalla città i Rossi e Lupi, con tutti i loro amici guelfi, i quali si ridussero a Borgo San Donnino e ad altri luoghi, e continuò poi la guerra fra loro. Essendo passato al paese dei più in quest'anno, e non già nel precedente, come ha il testo di Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 346.], Francesco da Parma arcivescovo di Milano, fu in suo luogo eletto Castone ossia Gastone, comunemente appellato Cassone dalla Torre, figliuolo di Mosca [Corio, Istor. di Milano. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e la sua elezione fu approvata dal cardinal Napoleone legato apostolico. Poscia nel dì 24 di settembre, tenutosi un general parlamento in Milano, quivi concordemente fu eletto perpetuo signor di Milano Guido dalla Torre. Ebbero in quest'anno guerra i Milanesi co' Bresciani, ma ne seguì anche pace. Mancò di vita in essa città di Brescia nell'ottobre del presente anno Berardo de' Maggi, vescovo d'essa città, dopo esserne stato anche per anni parecchi signore nel temporale, con governarla a parte dell'imperio, ossia ghibellina. Molti benefizii da lui fatti a quella città indussero quel popolo ad eleggere per suo successor nella chiesa Federigo de' Maggi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.]. Inoltre Maffeo, ossia Matteo de' Maggi, fratello d'esso Berardo, fu proclamato signore della città. Guido dalla Torre, siccome signor di Piacenza, nell'anno presente stabilì pace fra quei cittadini e i lor fuorusciti [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], che lieti rientrarono nella lor patria. Nella Romagna [Chron. Caesen., tom. 15 Rer. Ital.] il conte di Cunio con altri [323] suoi partigiani occupò, contro il voler de' Faentini ed Imolesi, la terra di Bagnacavallo nel dì 24 di luglio. Poscia nel dì 28 di agosto fu fatta pace fra i Bolognesi, Riminesi e Cesenati dall'una parte, e i Forlivesi, Faentini, Imolesi e Bertinoresi dall'altra, colla liberazion di tutti i prigioni. Ma in Firenze fu una gran commozione di popolo [Dino Compagni, Chron., tom. 9 Rer. Ital Giovanni Villani, lib. 8, cap. 96.]. Perchè Corso de' Donati, a cui la parte nera, ossia guelfa, era obbligata dal presente suo stato dominante, voleva soprastare di troppo agli altri nobili, l'ambizione e l'invidia fecero dividere in due fazioni i grandi stessi. Rosso dalla Tosa, capo dell'una, seppe tanto screditar esso Corso, che gli tagliò infine le gambe; facendo soprattutto valere contra di lui la parentela da esso contratta con Uguccion dalla Faggiuola gran ghibellino. Levossi dunque a rumore contra di lui il popolo tutto; ed essendosi esso Corso ben asserragliato, assistito anche da molti suoi amici, fece gran difesa; infine gli convenne prendere la fuga, ma, raggiunto da certi Catalani a cavallo, fu ucciso: con che tornò la quiete in Firenze.


   
Anno di Cristo mcccix. Indizione VII.
Clemente V papa 5.
Arrigo VII re de' Romani 2.

Alla prepotenza di Filippo il Bello re di Francia riuscì in quest'anno e nel seguente d'indurre papa Clemente a ricevere le accuse contro la memoria di papa Bonifazio [Raynaldus, Annal. Eccles.]; il che cagionò orrore a tutta la cristianità, ben consapevole dell'iniquità e falsità di quanto a lui veniva opposto in materia di fede. Frutti erano questi dell'essere divenuta schiava di un re possente e malvagio la Sede Apostolica; del che fu in colpa il pontefice stesso, il quale intanto andava lusingando i Romani con far loro credere di voler [324] venire in Italia, mentre, inceppato dalle delizie della Francia, a tutt'altro pensava che ad abbandonarla. Ma non permise Iddio che andasse molto innanzi questa maligna persecuzione, e la vedremo finita in breve. Nel dì 27 di marzo dell'anno presente, trovandosi esso papa in Avignone, pubblicò contra de' Veneziani, come occupatori della città di Ferrara, la più terribile ed ingiusta bolla che si sia mai udita. Oltre alle scomuniche ed agl'interdetti, dichiarò infami tutti i Veneziani, e incapaci i lor figliuoli sino alla quarta generazione d'alcuna dignità ecclesiastica e secolare; confiscati in ogni parte del mondo tutti i lor beni; data facoltà a ciaschedun di fare schiavo qualunque Veneziano che lor capitasse alle mani nell'universa terra, senza distinzione alcuna tra innocenti e rei: il che fa orrore, eppure fu eseguito in vari paesi. Poscia aggiunse alle armi spirituali le temporali contra di loro, inviando in Italia il cardinale Arnaldo di Pelagrua suo parente, con titolo di legato, il qual fece dappertutto predicar la crociata contra d'essi Veneziani, come se si trattasse contra de' Turchi. Copioso fu il concorso delle genti della Lombardia, marca di Verona, Romagna e Toscana. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] scrive che v'andarono de' soli Bolognesi circa otto mila combattenti. Premeva a quel popolo di riacquistar la grazia perduta del pontefice per lo scorno fatto al cardinal Napoleone. Pel medesimo fine anche i Fiorentini colà inviarono molte schiere d'armati. Nel dì 10 d'aprile di quest'anno si disciolse la pace e l'accordo già fatto dal popolo di Ferrara coi Veneziani, e si ricominciò la guerra. Di grossi rinforzi di gente e di navi furono spediti da Venezia ai suoi; e nel mese di giugno, usciti di Castel Tealdo i Veneziani, mentre i Ferraresi erano a cena, fecero contra di essi un [325] feroce insulto. Tutta fu in armi la città. Francesco marchese d'Este con Galeazzo visconte marito di Beatrice Estense, alla testa di tutti andò ad assalirli, e ne fece aspro macello. Per consiglio ancora di lui, fu fabbricato un ponte sopra Po, non ostante la gagliarda opposizion de' Veneziani, i quali un giorno diedero una fiera rotta ai Bolognesi. Ma nel dì 28 d'agosto, cioè nella festa di santo Agostino, per ordine del cardinal Pelagrua, si venne ad una general battaglia contro la flotta veneziana esistente in Po, la quale restò interamente disfatta e in potere dei Ferraresi con tutte le macchine e l'armamento. Tra uccisi ed annegati nel fiume si contarono circa sei mila Veneziani. Questa insigne vittoria, accompagnata da un immenso bottino, decise la controversia; perciocchè non istette molto a rendersi Castello Tealdo al legato, il quale, dimenticandosi d'essere uomo di Chiesa, fece impiccare quanti Ferraresi trovò complici de' Veneziani. Fu anche spedito Lamberto da Polenta con Bernardino suo fratello, e coi Ravegnani e parte dei Ferraresi ad espugnare il castello di Marcamò, fabbricato da essi Veneti nel distretto di Ravenna; e l'ebbe a patti di buona guerra nel dì 23 di settembre, nè vi lasciò pietra sopra pietra. Così venne liberamente Ferrara in potere del pontificio legato, il quale, d'ordine della corte, ne diede da lì a non molto il vicariato a Roberto re di Napoli, niuna considerazione avendo degli Estensi, che aveano suggettata quella città alla Chiesa, e massimamente del marchese Francesco, che tanto s'era affaticato per riacquistarla. Quivi esso re Roberto mise per governatore Dalmasio con un corpo di Catalani, la maggior parte capestri da forca, che fecero ben provare al popolo di Ferrara la differenza che passa fra l'avere il proprio principe e l'essere governati da gente straniera.

Giacchè abbiam fatta menzione del re Roberto, convien ora dire che in questo anno nel dì cinque di maggio arrivò [326] al fine di sua vita Carlo II re di Napoli e conte di Provenza [Bernardus Guido, in Vit. Clementis V. Giovanni Villani, lib. 8, cap. 108.], principe che per la sua liberalità, dabbenaggine e clemenza non ebbe pari; e perciò amaramente pianto da' suoi sudditi, ma più dai Napoletani, a lui molto tenuti pei tanti benefizii ed ornamenti accresciuti alla loro città. Per la successione in quel regno nacque disputa fra Roberto duca di Calabria suo secondogenito e Carlo Uberto divenuto re d'Ungheria, che si pretendeva anteriore nel diritto a Roberto, perchè figliuolo di Carlo Martello, primogenito di esso re Carlo II. Fu acremente dibattuta fra i legisti la quistione; ma buon fu per Roberto l'esser egli passato in persona alla corte pontificia di Avignone, dove seppe ben far da avvocato a sè stesso, e muovere colle macchine più gagliarde gli animi de' giudici in suo favore. Fu creduto che più la ragion politica che la legale facesse sentenziare in favor di Roberto, principe riputato allora di gran saviezza e valore, ed atto e tener l'Italia in freno nella lontananza dei papi. Tuttavia, se è vero che Carlo II suo padre nell'ultimo suo testamento (il qual si dice fatto nel dì 16 di marzo dell'anno precedente, e fu dato alla luce dal Leibnizio [Leibnit., Cod. Jur. Gent., tom. 1, num. 31.]) lasciasse Roberto erede di tutti i suoi Stati, giacchè dovea considerare assai provveduta la linea del re d'Ungheria, par bene che fosse ben appoggiata la pretension del medesimo Roberto. Per attestato di Bernardo Guidone, fu egli coronato in Avignone re di Sicilia (benchè solamente comandasse al regno di Napoli) nella prima domenica d'agosto dell'anno presente, e non già nella festa della Natività della Vergine, come scrive Giovanni Villani. Ed il papa liberalmente gli condonò le somme immense d'oro, delle quali il re Carlo suo padre andava debitore alla santa Sede. Quel che è strano, secondo i documenti [327] accennati dal Rinaldi [Raynald., Annal. Eccl., ad hunc ann., §. 24.], seguì una segreta convenzione fra papa Clemente e Giacomo re di Aragona, ch'esso re, oltre alla Sardegna e Corsica, delle quali era stato investito da papa Bonifazio VIII, conquistasse ancora Pisa coll'isola dell'Elba, e la riconoscesse poi in feudo dai romani pontefici: vergognosa concessione, trattandosi di spogliare senza ragione alcuna il romano imperio d'una sì cospicua città, e quel popolo della sua libertà. Se fossero ancora assai ragionevolmente concedute al medesimo re le decime del clero, per impiegarle in levar la Sardegna e Corsica ai Pisani e ad altri principi cristiani, io non mi metterò a ricercarlo. Fin qui l'innata saviezza dei nobili Veneziani avea saputo così ben regolare e tenere unita la lor città, che quando tante altre libere città d'Italia bollivano per le discordie cittadinesche, ed erano divise in Guelfi e Ghibellini, sola essa era felice e gloriosa per la sua mirabil unione, ancorchè non fosse esente da diversità di genii e fazioni: del che fu anche lodata dallo storico Rolandino nel precedente secolo. Ma in quest'anno patì anch'essa un'eclissi. Baiamonte Tiepolo, capo della fazione guelfa, fece una congiura con altri di casa Querina e Badoera contra di Pietro Gradenigo doge [Marino Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Italic.], e nel dì 15 di giugno scoppiò questo incendio. Vi fu gran combattimento, ma infine dopo la morte di molti restò sconfitto Baiamonte, il quale scampò colla fuga. Simili sedizioni le abbiamo vedute familiari in altre città; fu questa considerata come stravagante cosa in Venezia, e ne dura quivi anche oggidì con orrore la memoria. A cagion d'essa furono mandati ai confini assaissimi nobili e popolari di quella insigne città. Era in questi tempi Guido dalla Torre in auge di fortuna, siccome signore perpetuo di Milano e di Piacenza, con assai amici e collegati d'intorno. [328] Scrivono [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 61. Corio, Istoria di Milano.], che, volendo saper nuove di Matteo Visconte, il quale privatamente vivea nella villa di Nogaruola, diede incumbenza ad un accorto uomo di andarlo a trovare per ispiare i fatti suoi, promettendogli un palafreno e una veste di vaio, se gli portava la risposta a due quesiti da fargli. Andò costui, e trovò il Visconte in abito dimesso, che passeggiava; e, dopo varii discorsi, quando fu per andarsene, il pregò di fargli guadagnare un palafreno e una veste col rispondere a due sue interrogazioni. La prima: Come gli parea di stare, e qual vita era la sua; la seconda: Quando egli si credea di poter tornare a Milano. Molto ben s'avvide l'accorto Matteo onde procedevano queste dimande, e che erano fatte per ischernire il suo povero stato. Adunque rispose alla prima: Egli mi par di star bene, perchè so vivere secondo il tempo. Alla seconda: Dirai al tuo signor Guidotto, che quando i suoi peccati soperchieranno i miei, allora io tornerò a Milano. Portate queste risposte a Guido, le lodò come d'uomo savio, e regalò quel messo.

In quest'anno appunto cominciò a declinar la fortuna del Torriano. Nel principio di maggio si alzò a poco a poco una nebbia di vicina sollevazione in Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.], veggendosi il vescovo Leone da Fontana colla fazion guelfa macchinar delle novità contra dei Landi, Fulgosi ed altri di parte ghibellina. Mandò ben Guido dalla Torre un corpo di gente da Milano per vegliare alla quiete di quella città; ma nel dì cinque d'esso mese Alberto Scotto, avendo con belle parole addormentato lo sciocco podestà, nella notte raunata tutta la sua fazione, e impadronitosi della piazza, diede addosso agli avversarii sprovveduti, e li fece fuggir fuori di città. Racconta il Corio, che, tolta in questa forma la signoria di Piacenza al Torriano, Alberto Scotto ne fu egli proclamato [329] di nuovo signore. La Cronica di Piacenza ha, che la signoria fu data allora al vescovo Fontana suddetto; ma si contraddice poi all'anno seguente, dove confessa che lo Scotto era stato signor di Piacenza un anno e quattro mesi. Anche dalla Cronica Estense apparisce [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] che esso Scotto tornò in signoria, e fece lega coi Parmigiani, Mantovani, Veronesi, Reggiani, Modenesi e Bresciani, tutti di parte ghibellina. Inimicatosi per questo contra de' Piacentini Guido dalla Torre, con tutto lo sforzo de' suoi Milanesi, de' Pavesi, Novaresi, Vercellesi e fuorusciti piacentini, venne, sul principio di giugno, e di nuovo nel settembre, ai danni del distretto di Piacenza, con prendere alcune castella, e dare il guasto fino alle porte di quella città. Presero anche il ponte de' Piacentini sul Po; ma, uscito Alberto co' suoi, così virilmente assalì i nemici, che li ruppe, colla morte di circa secento d'essi. Peggio nondimeno avvenne allo stesso Guido Torriano per altro fatto che servì di principio alla total sua rovina. Nel primo dì di ottobre egli fece prendere Gaston dalla Torre ossia Cassone, arcivescovo di Milano, parente suo, ed il mandò nella rocca d'Anghiera con altri suoi tre fratelli, figliuoli del fu Mosca, pretendendo che avessero formata una congiura contra di lui, per torgli non solamente lo Stato, ma anche la vita. Fu egli scomunicato per questa violenza dal cardinale Pelagrua legato, dimorante allora in Bologna, e sottoposta la città all'interdetto. Venne apposta a Milano Pagano dalla Torre vescovo di Padova, per rimediare a così scandalosa scissura fra i suoi consorti. Vi concorsero ancora Filippone da Langusco signor di Pavia, Antonio da Fissiraga signor di Lodi, Guglielmo Brusato signor di Novara, Simone da Colobiano signor di Crema, cogli ambasciatori di Bergamo e di Como. Costoro, in un gran parlamento tenuto nel dì 28 d'ottobre nella metropolitana di Milano, conchiusero un accordo, per cui [330] Gastone arcivescovo ed altri Torriani riebbero la libertà, ma con obbligo di andare ai confini; e questi poi si ridussero a Padova. L'arcivescovo non ebbe più buon cuore per Guido, e sollecitò la venuta di Arrigo VII in Italia: il che, se fosse utile a Guido, lo scorgeremo fra poco. Nel dì 16 di settembre i Parmigiani, rinforzati da gran quantità di cavalleria e fanteria di Verona, Mantova, Brescia, Modena e Reggio, fecero oste a Borgo San Donnino [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], dove s'erano fortificati i Rossi, Lupi ed altri usciti della loro città, e vi stettero sotto ben tre mesi con dei trabucchi che incessantemente gittavano pietre, e con una forte circonvallazione intorno alla terra. Mandò Guido dalla Torre secento uomini d'armi e trecento fanti a Cremona con ordine di soccorrere gli assediati; ma questa gente non osò mai d'inoltrarsi, perchè i Parmigiani gli aspettavano a piè fermo per dar loro battaglia. S'interpose dipoi il vescovo di Parma per l'accordo, e fu fatto compromesso con ostaggi in Guglielmino da Canossa e Matteo da Fogliano, nobili reggiani, che fecero cessar quell'assedio; ed eletti amendue podestà di Parma, proferirono sul principio dell'anno seguente il loro laudo, al quale niuna delle parti volle ubbidire. Nel dì 28 di maggio dell'anno presente il popolo d'Asti [Chron. Astense, tom. 9 Rer. Ital.] coll'aiuto di quei di Chieri, uscito in campagna contra de' suoi fuorusciti, ebbe una rotta nella villa di Quatordo. Restarono gli Astigiani sì intimiditi per questa disgrazia, che diedero balia ad Amedeo conte di Savoia e a Filippo di Savoia, principe della Morea suo nipote, per trattar di pace fra i cittadini e fuorusciti. Fu poi proferita da questi principi la sentenza della pace, per cui i Gottuari cogli altri usciti nella festa di santa Caterina di novembre rientrarono in Asti. Fra gli altri capitoli vi fu, che il suddetto principe dovesse restar governatore della pace in Asti col salario di diciassette mila lire [331] l'anno: del che si dolsero non poco gli Astigiani.

Abbiamo in quest'anno da Guglielmo Ventura, dal Villani e dalle Croniche Estense e Parmigiana [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 114. Chronic. Estense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] che seguirono delle novità in Genova. Scopertasi molta amicizia fra Bernabò Doria, uno de' due capitani di Genova, e i Grimaldi fuorusciti, Obizzino Spinola, cioè l'altro capitano, fece imprigionare il Doria. Questi ebbe la fortuna di fuggirsene dalla carcere, e con tutti quei di sua casa si ritirò al castello della Stella, che fu preso da Obizzino. Venuti poscia i fuorusciti, cioè i suddetti Grimaldi, Doria, Fieschi ed altri in Genova con assai forze, andò ad assalirli lo Spinola; e benchè fosse superiore di gente armata, pure ne rimase sconfitto, e vi morì il podestà di Genova. Allora i fuorusciti entrarono pacificamente in Genova, e tolsero ad Obizzino Ventimiglia, Porto Venere e Lerice, con passar anche al guasto di Gavi, dove s'era ritirato il suddetto Obizzino, le cui case in Genova furono date alle fiamme. Giorgio Stella riferisce [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] questo fatto all'anno seguente; ma dee prevalere l'autorità degli storici sovraccitati, e spezialmente dell'autore contemporaneo della Cronica di Parma, che finì di scrivere in quest'anno. Confessa il medesimo Stella d'aver vedute storie che ne parlano all'anno presente. Mette egli la battaglia nel dì 10 di giugno. La Cronica di Parma ha, ch'essa accadde nella festa di san Gervasio, cioè nel dì 19 d'esso mese. Il Villani la riferisce al dì 11. Io sto colla Cronica Parmigiana. In Toscana a' dì 10 di febbraio i Fiorentini si mossero con sei mila pedoni e quattrocento cinquanta cavalieri, per dare il guasto ad Arezzo. Quei cavalieri la maggior parte erano Catalani, mandati in loro aiuto dal re Roberto [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 105.], giacchè più fede avea questo re [332] in quella gente, e ne teneva anche in Ferrara, siccome abbiam detto. Arditamente vennero loro incontro gli Aretini con Uguccion dalla Faggiuola lor capitano, ma andarono in isconfitta, e più che di galoppo se ne fuggirono ad Arezzo. Con più possente esercito nel dì 8 di giugno tornarono i Fiorentini fin sotto quella città, devastando tutti i contorni; ed ancorchè venissero ordini di Arrigo VII re dei Romani di non molestare Arezzo, se ne rise il popolo allora superbo di Firenze. Anzi, essendo giunto Luigi di Savoia con altri ambasciatori per parte di esso Arrigo a Firenze a notificar la di lui venuta per la corona, ne riportarono risposte villane, che assai diedero a conoscere ciò che poscia avvenne. Aspro governo intanto faceano essi Fiorentini e Lucchesi di Pistoia [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], ma gli ultimi specialmente, attendendo i loro uffiziali più a rubare che a governare, e non era sicuro l'onor delle donne [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 111. Ptolom. Lucens., in Vita Clementis V.]. Condotto dalla disperazione quel popolo, levò rumore nel dì primo di giugno, e tutti a furia uomini e donne, fanciulli, preti e frati, con tavole, legnami e pietre si diedero a fare uno steccato posticcio alla lor città, e a cavar le fosse, giacchè ogni sua fortificazione era negli anni addietro stata spianata. A questo avviso, s'inviò a quella volta tutto sdegno il popolo di Lucca. Risoluti i poveri Pistoiesi di lasciar la vita l'un presso all'altro, piuttostochè di sofferir più lungamente sì duro giogo, si animarono alla difesa; ma non avrebbono potuto reggere alla superiorità dei Lucchesi. Per buona ventura certi Fiorentini fecero fermar l'esercito di Lucca a Pontelungo: con che lasciarono tempo a' Pistoiesi di maggiormente afforzarsi, e di spedire a Siena, pregando quel comune che s'interponesse per la pace. Vennero infatti gli ambasciatori di Siena, ed ottennero buoni patti. Pistoia si fortificò, e si governò da lì innanzi a comune, con solamente [333] prendere i podestà e capitani da Firenze e da Lucca. Nello stesso giorno primo di giugno fu anche in Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] una sollevazione della fazion guelfa, alla quale venne fatto di abbattere e mettere in fuga i Ghibellini; ma questo movimento costò a quella città delle grandi ruberie ed altri malanni. In questi tempi, secondo la Cronica di Cesena, era capitano per la Chiesa romana in Jesi ed in altre terre della marca d'Ancona Federigo conte di Montefeltro, figliuolo del fu conte Guido. Fecero oste gli Anconitani sopra il contado di Jesi [Giovanni Villani, lib. 7, cap. 113.]; ma esso conte Federigo per attestato del Villani, colla gente di Jesi, Osimo e d'altri marchigiani ghibellini andò ad assalirli, e diede loro una gran rotta, di modo che più di cinque mila Anconitani vi restarono tra morti e presi.


   
Anno di Cristo mcccx. Indizione VIII.
Clemente V papa 6.
Arrigo VII re de' Romani 3.

Nel dì 26 di luglio dell'anno presente que' fuorusciti che erano entrati in Ferrara dopo la caduta dei principi estensi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital. Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Italic.], cioè Salingerra de' Torrelli, Ramberto de' Ramberti e Francesco Menabò colla fazion ghibellina, nemica degli Estensi guelfi, diede all'armi con disegno di levar quella città dalle mani della Chiesa. Vi furono ammazzamenti, massimamente di Catalani, e ruberie senza fine; e i palagi dei marchesi furono da que' ribaldi dati alle fiamme. Già tutta la città era in lor potere; ma, avvertito di ciò il cardinal Pelagrua, soggiornante allora in Bologna, cavalcò a quella volta con copiosa milizia di Bolognesi, ed entrò in Castello Tealdo, dove s'erano ritirati que' pochi de' suoi che poterono sottrarsi alle spade de' sollevati. In aiuto suo accorsero [334] ancora da Rovigo con buon numero d'armati il marchese Francesco, Rinaldo ed Obizzo Estensi. Allora i Ferraresi, veggendosi come perduti, altro ripiego non ebbero che di ricorrere alla misericordia del legato; ma questi, dopo aver voluto prima in mano circa ottanta (altri dicono meno) de' migliori della città, non altra misericordia usò loro che di lasciar la briglia alle sue truppe, le quali, unite coi Guelfi, si spinsero contra de' Ghibellini, e li forzarono alla fuga. In tal occasione seguirono molte uccisioni e saccheggi di monisteri e chiese, certo non con lode di esso legato, il qual poscia affaticò per molti dì il boia in far impiccare i colpevoli di quella sedizione. Anche la città di Piacenza fu in gran moto [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Alberto Scotto ivi signore, tra perchè si trovava incalzato dalla forza de' fuorusciti, cioè di Leone degli Arcelli, Ubertino Lando ed altri Ghibellini, che erano spalleggiati da Guido dalla Torre signor di Milano; e perchè inoltre sentiva essere in procinto Arrigo VII di calare in Italia, prese il partito di far pace cogli usciti, e di cedere il dominio della città, con che i pubblici uffizii da lì innanzi fossero comuni fra le parti. Entrarono in Piacenza quasi in trionfo i fuorusciti; ma siccome non si davano mai posa gli animi troppo allora turbolenti degl'Italiani, appena entrati i fuorusciti, svegliarono delle contese, e nel dì seguente a forza d'armi ne scacciarono Alberto Scotto, il quale co' suoi aderenti si ridusse a Castello Arquato, ed, impadronitosi di Fiorenzuola e Bobbio, cominciò di nuovo a recar frequenti molestie al popolo dominante di Piacenza. Obizzino Spinola cogli altri suoi consorti, anche essi fuorusciti di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] e padroni di Monaco, s'impadronì in quest'anno delle terre di Montaldo e Votaggio, e le distrusse da' fondamenti. La decantata [335] venuta del re de' Romani è credibile che movesse tanto essi Spinoli e i lor partigiani, quanto il governo di Genova a far poco appresso pace. Quaranta mila lire furono pagate agli Spinoli, che restituirono al comune di Genova tutti i luoghi presi, ed ebbero accesso libero alla città, eccettochè Obizzino, obbligato per due anni a starsene nelle sue castella. Nell'Umbria i Perugini, rinforzati dal maliscalco del re Roberto abitante in Firenze, fecero guerra nel mese di luglio alla città di Todi [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 5.]. Volle provarsi quel popolo ad una battaglia; ma non l'avesse fatto, perchè ne andò malamente sconfitto. Nello stesso mese furono cacciali i Guelfi da Spoleti, restando la signoria ai Ghibellini. Ma per più tempo i Perugini talmente guerreggiarono contra di quella città, che nell'anno seguente la forzarono a rimettere in casa i Guelfi; ed altrettanto fece la città di Todi.

Dava molto da pensare a Roberto re di Napoli la disposizione di Arrigo VII re de' Romani, di calar in Italia, ben prevedendo ch'egli sosterrebbe il partito dei Ghibellini amici dell'imperio con depressione de' Guelfi, de' quali egli era il capo. Gli parve dunque di non dovere maggiormente differire il suo ritorno dalla Provenza in Italia per dar sesto a' suoi affari. Coll'avere indotto il papa a fermare la sua residenza in Avignone, città della Provenza, e perciò di suo dominio, egli era divenuto come arbitro della corte pontificia. E fu in quest'anno [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] ch'egli ottenne il vicariato della Romagna e di Ferrara, ed inviò colà i suoi ministri a comandar le feste. Il pontefice Clemente intanto barcheggiava. Mostravasi egli tutto favorevole ad Arrigo VII, con approvar la sua venuta a prendere la corona imperiale; avea anche destinati i cardinali, che gliela dessero in Roma, e scrisse per lui lettere ai vescovi, principi e città d'Italia. Tuttavia gran cura avea di non disgustare il re Roberto, e non gli [336] doveano dispiacere gli avanzamenti della fazione guelfa. Ora esso re Roberto nel dì 10 di giugno arrivò a Cuneo in Piemonte [Chron. Astens., cap. 53, tom. 11 Rer. Ital.]. Visitò Montevico, Fossano, Savigliano, Cherasco ed Alba, terre di sua giurisdizione, Filippo di Savoia, che si trovava allora in Asti, fece un'imperiosa intimazione agli Astigiani di guardarsi dall'amicizia di quel re. Altrettanto fecero il vescovo di Basilea, Luigi di Savoia, ed altri ambasciatori del re Arrigo, ch'erano pervenuti in quella città, e passarono dipoi a Savona, Genova e Pisa, annunziando dappertutto, la venuta d'esso Arrigo alla corona. Di belle parole dissero gli Astigiani, ma poi, spediti ambasciatori ad Alba, fecero una specie di lega col suddetto re Roberto; e questi dipoi nel dì 9 di agosto venne ad Asti, ed ebbe ad un gran convito i grandi di quella città. Si fece allora le maraviglie Guglielmo Ventura, il quale vi si trovò presente, al vedere che tutti mangiarono e bebbero solamente in vasi d'argento, perchè un lusso tale era tuttavia incognito agl'Italiani. Passò Roberto nel dì 10 d'agosto ad Alessandria, e ne scacciò gl'Inviziati e i Lanzavecchi ghibellini, e si fece dar la signoria di quella città dai Guelfi. Ecco come il buon re andava stendendo l'ali alle spese del romano imperio. Ito poscia a Lucca e a Firenze, dove indarno si studiò di pacificare insieme i Guelfi disuniti, inviò al governo della Romagna Niccolò Caracciolo [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], il quale, arrivato colà nel mese d'ottobre, ebbe ubbidienza da quasi tutte quelle città, e procurò di mettere pace dappertutto con ridurre nelle lor patrie i fuorusciti. Su due piedi egli ascoltava le liti, e senza strepito di giudizio le decideva. Di uno di questi abbisognerebbe ogni città. Dovette trovare ne' Forlivesi qualche durezza [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], perchè ne fece spianar le fosse, e mise in prigione Scarpetta, Pino e Bartolommeo degli Ordelaffi, e alcuni dei [337] Calboli e degli Argogliosi. Lasciò poi in libertà i Guelfi, e ritenne i Ghibellini. Ora, avendo Arrigo re de Romani stabilita la sua venuta in Italia, mandò varii ambasciatori a notificarlo alle città. Venne a Milano il vescovo di Costanza [Johannes de Cermenat., cap. 10, tom. 9 Rer. Ital.], e con bella orazione espose come il re era per prendere la corona del ferro dall'arcivescovo di Milano. Mostraronsi pronti i Milanesi a ricevere con tutto onore il sovrano; il solo Guido dalla Torre signor della città buffava, nè volea che si parlasse di questo grande affare. Chiamò poi ad un parlamento il conte Filippone da Langusco signor di Pavia, Antonio da Fissiraga signor di Lodi, Guglielmo Cavalcabò principal cittadino o signore di Cremona, e Simone degli Avvocati da Colobiano cittadin primario o signore di Vercelli, per udir il loro parere. Tutti erano di fazion guelfa. Schiettamente disse Filippone fra i primi ch'egli non voleva essere ribello al re suo signore. Gli altri dissero che bisognava prendere consiglio sul fatto, ma che allora non si potea. Guido dalla Torre era di parere che tutti si unissero contra di questo Tedesco; e smanioso girava per le camere, borbottando e parlando da sè solo. Finì il parlamento senza conchiusione alcuna.

Sul fine d'ottobre arrivò a Susa, e poscia a Torino, il re Arrigo colla regina Margherita sua moglie, mille arcieri e mille uomini d'arme, dopo avere, mercè di un matrimonio, fatto divenir Giovanni suo figliuolo re di Boemia. Amedeo conte di Savoia, Filippo e Luigi parimente di Savoia erano tutti per lui, e seppero ben fare il lor negozio con questo attaccamento. Nella corte d'esso re si contavano l'arcivescovo di Treviri Baldovino suo fratello, Teobaldo vescovo di Liegi, Ugo delfino di Vienna, il duca di Brabante ed altri principi e baroni. Andarono colà a fargli riverenza Filippone conte di Langusco, Teodoro marchese di Monferrato, i vescovi, i signori e gli ambasciatori [338] di varie città, e nominatamente i romani, che comparvero con gran fasto. Tutti condussero gente armata per accompagnarlo. Per attestato di Albertino Mussato [Albertinus Mussatus, lib. 1, cap. 6.], mise un suo vicario in Torino: segno che quella era allora città libera. Nel dì 10 di novembre venne ad Asti [Chron. Astense, cap. 58, tom. 11 Rer. Ital.], e v'introdusse i fuorusciti ghibellini. Gli fu data (malvolentieri nondimeno) la signoria di quella città, ed egli pose quivi un vicario, che cominciò molto bene ad aggravar quel popolo. Usava in corte d'esso re, ed era ben veduto da lui Francesco da Garbagnate [Corio, Istor. di Milano. Bonincon. Morigia, Chron. tom. 12 Rer. Ital.], giovane milanese assai disinvolto, che gli avea più volte detto gran bene di Matteo Visconte esiliato da Milano, con dipignerglielo pel più savio, attivo ed onorato uomo di Lombardia, e perciò capace di ben servirlo ne' correnti affari. Mostrò Arrigo voglia di vederlo. Il Garbagnate, che tenea buon filo col Visconte, gliel fece tosto sapere; e Matteo travestito per solitarii cammini si portò ad Asti, dove, datosi a conoscere, non vi fu cortesia che non ricevesse da quella corte, ed anche dal re. I soli magnati guelfi il guardarono con occhio bieco, e villanamente ancora parlarono di lui, ma senza ch'egli mostrasse di alterarsene punto. Il favorevole accoglimento a lui fatto da Arrigo cagionò bensì che molti Milanesi e Lombardi abbracciarono il suo partito. Ed essendo giunto colà anche l'arcivescovo di Milano Gaston dalla Torre, già esiliato, stabilì pace e lega con esso Matteo, a nome ancora de' suoi fratelli, alcuni dei quali erano tuttavia detenuti prigioni da Guido dalla Torre. Non si fidava molto Arrigo d'andare a Milano, siccome abbastanza informato delle cattive disposizioni di Guido dalla Torre; anzi diffidava non poco di tutti gl'Italiani, perchè sessant'anni correano che non aveano veduto imperadori o re de' Romani; ed [339] avvezzati a vivere a lor modo, non amavano al certo di riconoscere superiore alcuno. Matteo Visconte, per conto di Milano, gli levò le apprensioni del cuore, ben conoscendo egli quanto se ne potea promettere. Il distornò ancora dal differir la sua entrata in Milano, al che l'andavano sotto varii pretesti esortando i capi de' Guelfi [Dino Compagni, tom. 9 Rer. Ital.]. Passò dunque Arrigo a Casale, a Vercelli e a Novara, accolto con allegria da que' popoli. In Vercelli mise fine alla guerra civile fra i Tizzoni ed Avvocati, in Novara fra i Brusati e Tornielli. Ogni fuoruscito potè ritornare alla sua patria. Cavalcò poscia il re, ed, invece di andare a Pavia, dove il conte Filippone l'aspettava, per consiglio di Matteo Visconte, passato il Ticino, s'inviò alla volta di Milano, incontrato di mano in mano da varie schiere di nobili milanesi, tutti in festa e gala, che gli baciavano il piede: dal che s'avvide avergli il Visconte dato buon consiglio. L'ultimo a venirgli incontro fuori de' borghi di Milano fu Guido dalla Torre [Johan. de Cermenat., cap. 13, tom. 9 Rer. Ital.]. Lo sdegno e la superbia erano con lui. Laddove gli altri, all'appressarsi del re, abbassavano le loro insegne, Guido portava diritto la sua. Gl'insegnarono i Tedeschi le creanze ed il dovere, con buttargliela per terra. All'arrivo del re, smontò Guido da cavallo, e gli andò come incantato a baciare il piede. Arrigo, con volto umano riguardandolo, gli disse: Guido, riconosci il tuo re, perchè duro è il ricalcitrar contro lo stimolo. Entrò il re nel dì 23 di dicembre, e non già nel dì seguente, come scrivono alcuni [Gualvan. Flamma, cap. 349. Chron. Astense, cap. 39, tom. 11 Rer. Ital.], in Milano, e seco Gastone arcivescovo, Matteo Visconte ed ogni altro fuoruscito. Volle il dominio della città, che gli fu dato, e Guido dalla Torre andò a sedere: disgrazia per altro da lui preveduta, ma senza avere cercata, o, per meglio dire, trovata maniera di provvedervi. Fece poi far [340] pace fra i Torriani e Visconti, e quetò le altre nemicizie, desiderando che tutti vivessero in pace e concordia. Attese dipoi a far le sue disposizioni per ricevere la corona del ferro, alla qual funzione fu destinato il dì dell'Epifania dell'anno seguente. Fece in quest'anno papa Clemente nelle quattro tempora del Natale una promozione di cinque cardinali, tutti Guasconi [Ptolom. Lucensis, in Vita Clementis V.]: se con piacere degl'Italiani, Dio vel dica. Nè voglio tacere che i Ghibellini di Modena nel mese di luglio cacciarono fuori di città quei da Sassuolo, da Ganaceto e i Grassoni, tutti di fazione guelfa [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.].


   
Anno di Cristo mcccxi. Indizione IX.
Clemente V papa 7.
Arrigo VII re de' Romani 4.

Per la corona del regno d'Italia, che dovea darsi al re Arrigo, tutte le città di Lombardia e della marca di Verona inviarono i loro ambasciatori a Milano [Albertinus Mussatus, lib. 1, tom. 8 Rer. Ital.], a riserva di Alessandria, d'Alba e d'altri luoghi in Piemonte, che riguardavano per loro signore Roberto re di Napoli. Intanto s'erano già cominciati a veder preparamenti di guerra contra dello stesso Arrigo. I Fiorentini, Lucchesi ed altri di Toscana [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 7.] aveano nell'anno precedente eletti gli ambasciatori, per mandar a protestare l'ossequio loro al novello sovrano; ma all'improvviso restò la spedizione, e, per lo contrario, si diede quel popolo a far gente, e contrasse lega col medesimo re e colle città guelfe, per opporsi a lui. Altrettanto fecero i Bolognesi, attendendo specialmente in questo anno a fortificare e ben provvedere la loro città. Non si potrà fallare, attribuendo queste risoluzioni ai maneggi del re Roberto e de' suoi ministri, che non voleano lasciar crescere la potenza di [341] Arrigo, credendola di troppo pregiudizio ai loro interessi. Si aggiunse, essere ben venuto in Italia il novello re con belle proteste di voler mettere la pace dappertutto, ridurre nelle loro patrie gli usciti, non avere parzialità nè per Guelfi, nè per Ghibellini, e di voler conservare tutti i diritti e privilegii di qualsisia città. E, di vero, opinione fu che sul principio fosse pura tal sua intenzione. Non parve poi così nell'andare innanzi. In un general parlamento volle che ogni città avesse un vicario imperiale [Gazata, Chronic. Regiense, tom. 18 Rer. Italic.]. Già gli avea messi in Torino, Asti e Milano; ed essi in luogo dei podestà eletti dai cittadini: il che fu uno sminuire di molto la libertà di quei popoli. Ora nel dì 6 di gennaio esso re fu colla regina Margherita coronato in santo Ambrosio di Milano per le mani dell'arcivescovo milanese Gastone dalla Torre. Pretesero il popolo e i canonici della nobil terra di Monza che nella lor basilica di san Giovanni Batista dovesse egli prendere la corona del ferro, che essi per antico privilegio conservano nel loro sacrario, e nella quale hanno da un secolo e mezzo in qua immaginato che si conservi uno dei sacri chiodi della croce del Signore [Murat., Anecdot. Latin., tom. 2.]: cosa ignorata ne' secoli precedenti. Ma dovettero tanto industriarsi i Milanesi, che nella suddetta basilica di santo Ambrosio seguì quella grandiosa funzione, siccome altre volte s'era fatto [Bonincontrus Morigia, Chron., tom. 12 Rer. Ital.], coll'aver nondimeno Arrigo, mercè d'un suo diploma, preservato il diritto che potesse competere a Monza. In tal congiuntura egli creò cavalieri circa dugento nobili di varie città. Attese di poi a pacificare le città di Lombardia, e in molte di esse mise i suoi vicarii, volendo che in ciascuna d'esse rientrassero gli sbanditi, fossero guelfi o ghibellini. Mise in [342] Modena [Bonif. Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] per vicario Guidaloste dei Vercellesi da Pistoia, che v'introdusse tutti i fuorusciti guelfi. L'ultimo a comparire alla corte fu Matteo Maggi signore di Brescia, di fazion ghibellina [Johann. de Cermenate, cap. 18, tom. 9 Rer. Italic.], non già per poco affetto al re, ma per timore di Tebaldo Brusato di fazion guelfa, bandito da Brescia negli anni addietro, che, venuto a Milano, avea già guadagnato nella corte di molti protettori. Il buon Arrigo, che mirava al sollievo e bene di tutti, propose al Maggi di ricevere in Brescia Tebaldo. Il Maggi allora disse quanto potè per far conoscere al re come Tebaldo era il maggior perfido e mancator di parola che fosse al mondo, e sfibbiò tutti i tradimenti da lui fatti, e le crudeltà da lui usate in varii tempi. A nulla servì; il re stette saldo in dire che bisognava perdonare, e convenne accomodarsi al di lui volere, con ricevere Tebaldo e i suoi seguaci in Brescia [Malvec., Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. Seguì pertanto uno strumento di pace fra i Guelfi e Ghibellini di quella città; ed, avendo Matteo Maggi rinunziata quella signoria, Arrigo mandò colà per suo vicario Alberto da Castelbarco. Non andrà molto che ne vedremo gli effetti.

Diede esso re Arrigo per suo vicario a Milano Giovanni dalla Calcia Franzese, uomo inetto, che neppure un mese durò in quel posto. Gli sustituì Niccolò Bonsignore, un pezzo di mala carne, già bandito per le sue ribalderie da Siena sua patria, che cominciò a maltrattare quel popolo. Richiese il re un dono gratuito dai Milanesi, perchè era corto di moneta. Fu proposto nel consiglio della città il quanto, e rimesso in Guglielmo Posterla il tassarlo. Disse cinquanta mila fiorini d'oro. Tutti consentivano, se non che Matteo Visconte soggiunse che gli parea conveniente donarne anche [343] dieci mila alla regina. Allora Guido dalla Torre s'alzò in collera, riprovando il far così da liberale colla roba altrui; e, nell'uscire del consiglio, disse: E perchè non se ne danno cento mila? questo numero è più perfetto. Perciò i ministri del re scrissero cento mila, e bisognò poi darli. E fin qui era durato il bel sereno; ed Arrigo si figurava di aver data da padre la pace a tutte le città di Lombardia, senza far distinzione tra Guelfo e Ghibellino; ma non tardò ad intorbidarsi il cielo. Perchè Arrigo, sotto spezie di onore, ma veramente per aver degli ostaggi, dimandò che cento figliuoli de' nobili milanesi lo accompagnassero a Roma, si trovarono molte difficoltà, ed insorsero sospetti di sedizione. Furono anche veduti fuor d'una porta Franceschino figliuolo di Guido dalla Torre, e Galeazzo figliuolo di Matteo Visconte, parlar lungamente insieme, e toccarsi la mano nel congedarsi [Bonicontrus Morigia, tom. 12 Rer. Ital. Johannes de Cermen., tom. 9 Rer. Ital. Albertinus Mussatus, tom. 8 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, tom. 9 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fu riferito ad Arrigo, e fatto credere che il Visconte ed il Torriano macchinassero contra la sua real persona, ed avessero già fatta massa di gente. Però nel dì 12 di febbraio egli mandò una squadra di cavalleria a visitar le case dei nobili. Matteo Visconte, avutone l'avviso, col mantello indosso avanti il suo palazzo li stette aspettando, ragionando intanto con alcuni amici. Arrivati i Tedeschi, come se nulla sapesse, invitolli a bere, e gl'introdusse in casa. Se n'andarono tutti contenti, e persuasi della sua fedeltà. Non così fu al palazzo di Guido dalla Torre. Quivi erano molti armati, quivi si cominciò un tumulto, e si venne alle mani coi tedeschi. Trassero colà i parziali de' Torriani, e dall'altro canto s'andarono ingrossando le truppe del re, il quale fu in gran pena per questo, massimamente dappoichè gli fu riferito che anche Matteo Visconte e Galeazzo [344] suo figliuolo erano uniti coi Torriani. Ma eccoti comparir Matteo col mantello alla corte; ecco da lì un pezzo un messo, che assicurò Arrigo, come Galeazzo Visconte combatteva insieme coi Tedeschi contra de' Torriani: il che tranquillò l'animo di sua maestà. La conclusione fu, che i serragli e palagi dei Torriani furono superati, dato il sacco alle lor ricche suppellettili, spogliate anche tutte le case innocenti del vicinato. Guido dalla Torre e gli altri suoi parenti, chi qua chi là fuggendo, si sottrassero al furor dei Tedeschi, e se ne andarono in esilio, nè mai più ritornarono in Milano. Non si seppe mai bene la verità di questo fatto. Fu detto che i Torriani veramente aveano congiurato, e che nel dì seguente dovea scoppiar la mina [Johann. de Cermenate, cap. 22, tom. 9 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 11. Ferretus Vicentinus, lib. 4, tom. 9 Rer. Ital.]. Ma i più credettero, e con fondamento, che questa fosse una sottile orditura dello scaltro Matteo Visconte per atterrare i Torriani, siccome gli venne fatto, con fingersi prima unito ad essi, e con poscia abbandonarli nel bisogno. Nulladimeno, con tutto che egli si facesse conoscer fedele in tal congiuntura ad Arrigo, da lì ad alquanti dì l'invidia di molti grandi milanesi, ed il timore che Matteo tornasse al principato, e si vendicasse di chi l'avea tradito nell'anno 1302, cotanto poterono presso Arrigo, che Matteo fu mandato a' confini ad Asti, e Galeazzo suo figliuolo a Trivigi. Poco nondimeno stette Matteo in esilio. Il suo fedele amico Francesco da Garbagnate, fatto conoscere al re che per fini torti aveano gl'invidiosi allontanato da lui un sì savio consigliere [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], cagion fu che Arrigo nel dì 7 d'aprile il richiamò e rimise in sua grazia.

Gran terrore diede alle città guelfe di Lombardia la caduta de' Torriani guelfi. Lodi, Cremona e Brescia per questo alzarono le bandiere contra d'Arrigo. Per confessione di Giovanni Villani, i Fiorentini e [345] Bolognesi con loro maneggi e danari soffiarono in questo fuoco. Antonio da Fissiraga signore di Lodi corse colà; ma, ritrovata quivi dell'impotenza a sostenersi per la poca provvision di vettovaglia, tornò a Milano ad implorar la misericordia del re, e, per mezzo della regina e di Amedeo conte di Savoia, l'ottenne. Mandò Arrigo a prendere il possesso di quella città, e v'introdusse tutti i fuorusciti; poscia nel dì 17 d'aprile coll'armata s'inviò alla volta della ribellata Cremona. S'era imbarcato quel popolo senza biscotto; e ciò per la prepotenza di Guglielmo Cavalcabò capo della fazione guelfa, il quale avea fatto sconsigliatamente un trattato col fallito Guido dalla Torre. Sicchè, all'udire che il re veniva in persona con tutte le sue forze e con quelle de' Milanesi contra di Cremona, se ne fuggì. Sopramonte degli Amati, altro capo de' Ghibellini, uomo savio e amante della patria, allora consigliò di gittarsi alla misericordia del re. Venne egli coi principali della nobiltà e del popolo sino a Paderno, dieci miglia lungi da Cremona; e tutti colle corde al collo, inginocchiati sulla strada, allorchè arrivò Arrigo, con pietose voci e lagrime implorarono il perdono. Era la clemenza una delle virtù di questo re; ma se ne dimenticò egli questa volta, ed ebbe bene a pentirsene col tempo. Comandò che ognun di loro fosse imprigionato e mandato in varii luoghi, dove quasi tutti nelle carceri miseramente terminarono dipoi i lor giorni. Fu questo un nulla. Arrivato a Cremona, non volle entrarvi sotto il baldacchino preparato da' cittadini, fece smantellar le mura, spianar le fosse, abbassar le torri della città. Da lì ancora a qualche giorno impose una gravissima contribuzione di cento mila fiorini d'oro, e fu dato il sacco all'infelice città [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], che restò anche priva di tutti i suoi privilegii e diritti. Da qualsivoglia saggio fu creduto che questi atti di crudeltà, sconvenevoli ad un re fornito di tante virtù, [346] pel terrore che diedero a tutti, rompessero affatto il corso alla pace d'Italia ed alla fortuna d'Arrigo, addosso a cui vennero poi le dure traversie che andremo accennando. Dacchè per benignità e favore d'esso re rientrò in Brescia Tebaldo Brusato cogli altri fuorusciti guelfi, andò costui pensando come esaltar la sua fazione [Ferretus Vicentinus, lib. 4, tom. 9 Rer. Italic.]. Nel dì 24 di febbraio, levato rumore, prese Matteo Maggi, capo de' Ghibellini, con altri grandi di quella città, e si fece proclamar signore, o almen capo della fazion guelfa, che restò sola al dominio. Albertino Mussato [Albertinus Mussat., Hist. Aug., tom. 8 Rer. Ital.] scrive che i Maggi furono i primi a rompere la concordia, e che poi rimasero al disotto. Jacopo Malvezzo [Malvecius, Chronic. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.] ed altri scrittori bresciani non la finiscono di esaltar con lodi la persona di Tebaldo Brusato. Ma gli autori contemporanei ed il fatto stesso ci vengono dicendo che egli fu un ingrato ai benefizii ricevuti dal re Arrigo, e un traditore, avendo egli scacciato il di lui vicario, e fatta ribellare contra di lui quella città, in cui la real clemenza, di bandito e ramingo ch'egli era, l'avea rimesso. Dopo avere il re tentato, col mandare innanzi Valerano suo fratello, se i Bresciani si voleano umiliare, e trovato che no [Dino Compagni. Chron., tom. 9 Rer. Ital.], tutto sdegno nel mese di maggio mosse l'armata contra di quella città, e n'intraprese l'assedio. Fu parere del Villani, che s'egli, dopo la presa di Cremona, continuava il viaggio, Bologna, Firenze e la Toscana tutta veniva facilmente all'ubbidienza sua. A quell'assedio furono chiamate le milizie delle città lombarde. Spezialmente vi comparve la cavalleria e fanteria milanese. Giberto da Correggio, oltre all'aver condotto colà la milizia di Parma, donò ad Arrigo la corona di Federigo II Augusto, presa allorchè quell'imperadore fu [347] rotto sotto Parma. Per questo egli, se crediamo al Corio [Corio, Istor. di Milano.], ottenne il vicariato di quella città. Albertino Mussato scrive che quivi fu messo per vicario un Malaspina. Nulla mi fermerò io a descrivere gli avvenimenti del famoso assedio di Brescia. Basterammi di dire che la città era forte per mura e per torri, ma più per la bravura de' cittadini, i quali per più di quattro mesi renderono inutili tutti gli assalti e le macchine dell'esercito nemico. Circa la metà di giugno, in una sortita restò prigion de' Tedeschi l'indefesso Tebaldo Brusato, e coll'essere strascinato e squartato pagò la pena dei suoi misfatti. Infierirono perciò i Bresciani contra dei prigioni tedeschi, e si accesero maggiormente ad un'ostinata difesa. In un incontro anche Valerano fratello del re, mortalmente ferito, cessò di vivere.

Per tali successi era forte scontento il re Arrigo. L'onor suo non gli permettea di ritirarsi; ed intanto maniera non si vedea di vincere la nemica città. Mancava il danaro per la sussistenza dell'armata; e il peggio fu, che in essa entrò una fiera epidemia, ossia la peste vera, che facea grande strage [Johannes de Cermenat., tom. 9 Rer. Italic.]. Dio portò al campo tre cardinali legati spediti dal papa per coronare in Roma, e sollecitar per questo il re Arrigo, cioè i vescovi d'Ostia e d'Albano, e Luca dal Fiesco. Questi mossero parola di perdono e di pace. Entrò il Fiesco col patriarca d'Aquileia in Brescia, e trovò delle durezze. Vi ritornò, e finalmente conchiuse l'accordo. Fu in salvo la vita e la roba dei cittadini, e si scaricò sopra le mura della città il gastigo della ribellione, le quali furono smantellate, e per esse entrò Arrigo nella città nel dì 24 di settembre, seco menando i fuorusciti. Oltre a ciò, settanta mila fiorini d'oro volle da quel popolo, con altri aggravii, per quanto scrive il Malvezzi, e lo conferma Ferreto Vicentino, contro le promesse fatte al cardinale [348] dal Fiesco. Da Brescia passò a Cremona, indi a Piacenza, dove lasciò un vicario [Albertinus Mussat., lib. 4, tom. 8 Rer. Ital.], rimanendo deluso Alberto Scotto, il quale poco dopo ricominciò le ostilità contro la patria. Trasferitosi a Pavia, quivi si trovarono per la peste calata a tal segno le sue soldatesche, che Filippone da Langusco, non più signore di quella città, avrebbe potuto assassinarlo, se il mal talento gliene fosse venuto. E ne corse anche il sospetto; perlochè portossi colà Matteo Visconte con possente corpo di Milanesi; ma Filippone gli chiuse le porte in faccia. Matteo, dico, il quale, stando Arrigo sotto Brescia, non tralasciò ossequio e diligenza veruna per assisterlo con gente, danari e vettovaglie; laonde meritò d'essere creato vicario di Milano, e di poter accudire da lì innanzi all'esaltazione della propria casa. In Pavia mancò di vita, per le malattie contratte all'assedio di Brescia, il valoroso Guido conte di Fiandra. E quivi, a persuasione di Amedeo conte di Savoia, Arrigo dichiarò vicario di Pavia, Vercelli, Novara e Piemonte Filippo di Savoia, principe allora solamente di titolo della Morea. Scrive Giovanni da Cermenate [Johannes de Cermen., tom. 9 Rer. Ital.], e con lui va d'accordo Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, Manipul. Flor.] col Malvezzi [Malvec., Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.], che questo principe, unitosi dipoi con Filippone di Langusco e cogli altri Guelfi, fece ribellar quelle città, ed altre ancora al re suo benefattore. Nel dì 21 d'ottobre arrivò Arrigo a Genova, accolto da quel popolo con sommo onore; ed avuta che ebbe la signoria della città, si studiò di metter pace fra que' di lor natura alteri, ed allora troppo discordanti, cittadini, e rimise in città Obizzino Spinola con tutti i fuorusciti [Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giovanni Villani. Albertinus Mussatus, et alii.]. Ma quivi nel dì 13 di dicembre da immatura morte fu rapita la regal sua moglie Margherita di Brabante, principessa per le sue rare virtù degna di più [349] lunga vita. Intanto si scoprirono suoi palesi nemici i Fiorentini, Lucchesi, Perugini, Sanesi ed altri popoli di Toscana, i quali, sommossi ed assistiti dal re Roberto, fatto grande armamento, presero i passi della Lunigiana, per impedirgli il viaggio per terra. Erano all'incontro per lui gli Aretini e Pisani; i quali ultimi mandarono a Genova una solenne ambasceria ad invitarlo, con fargli il dono di una sì magnifica tenda militare, che sotto vi poteano stare dieci mila persone. Lo scrive Albertino Mussato; e chi non vuol credere sì smisurata cosa dazio non pagherà. Per più di due mesi si fermò in Genova il re Arrigo, nè si può negare che tendeva il suo buon volere a ricuperare bensì i diritti molto scaduti del romano imperio; ma insieme, se avesse potuto, a rimettere la quiete in ogni città, e ad abolir le matte e sanguinarie fazioni de' Guelfi e Ghibellini. Tutto il contrario avvenne. La venuta sua mise in maggior moto gli animi alterati e divisi de' popoli.

Giberto da Correggio, guadagnato e soccorso da' Fiorentini e Bolognesi, mosse a ribellione Parma e Reggio. In Cremona fu una sedizione non picciola, e ne fu cacciato il ministro del re. Filippone da Langusco insorse in Pavia contra dei Beccheria ed altri Ghibellini, e, col favore di Filippo di Savoia, li scacciò. Lo stesso accadde ai Ghibellini d'Asti, Novara e Vercelli. Anche in Brescia ed in altre città furono tumulti e sedizioni. In Romagna altresì il vicario del re Roberto mise le mani addosso ai capi dei Ghibellini di Imola, Faenza, Forlì e d'altri luoghi, e sbandì la loro fazione [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 18.]. Pesaro e Fano, città ribellate al papa, furono ricuperate dal marchese d'Ancona [Ferretus Vicentinus, tom. 9 Rer. Ital.]. In Mantova volle il re Arrigo che tornassero gli sbanditi guelfi, e quivi pose per vicario Lappo Farinata degli liberti. Ma Passerino e Butirone de' Bonacossi, dianzi padroni della città, presero un giorno l'armi col popolo, e costrinsero que' miseri a tornarsene [350] in esilio, senza rispetto alcuno al vicario regio. Era l'Augusto Arrigo in gran bisogno di moneta. Una buona offerta gli fu fatta da essi Bonacossi, ed ottennero con ciò il privilegio di vicarii imperiali di Mantova. Di questo potente strumento seppe ben valersi anche Ricciardo da Camino per impetrare il vicariato di Trivigi. E per la stessa via parimente giunsero Alboino e Cane dalla Scala fratelli ad ottener quello di Verona. Nè qui si fermò l'industria loro. In questi tempi la città di Padova per la goduta lunga pace [Albertinus Mussatus, lib. 2 et 3, rub. 3, tom. 8 Rer. Ital.], e perchè dominava anche in Vicenza, si trovava in un invidiabile stato per le ricchezze e per la cresciuta popolazione. Questa grassezza, secondo il solito, serviva di eccitamento e fomento all'alterigia de' cittadini, in guisa che, avendo il re Arrigo fatto lor sapere di voler inviare colà un vicario, e richiesti sessanta mila fiorini d'oro per la sua coronazione, quel popolo se ne irritò forte; e, a suggestione ancora de' Bolognesi e Fiorentini, negò di ubbidire, e proruppe inoltre in parole di ribellione. Cane dalla Scala, siccome quegli che già aspirava a gran cose, conosciuta anche la disposizion de' Vicentini, che pretendeano d'essere maltrattati dagli uffiziali padovani, e s'erano invogliati di mettersi in libertà, prese il tempo, e consigliò ad Arrigo di gastigar l'arroganza di Padova con levarle Vicenza. Ebbe effetto la mina. Cane accompagnato da Aimone vescovo di Genevra, e colle milizie di Verona e Mantova [Cortus, Histor., lib. 1, tom. 12 Rer. Ital.], nel dì 15 d'aprile (e non già di marzo, come ha lo scorretto testo di Ferreto Vicentino) entrò in quella città, e ne cacciò il presidio padovano. I Vicentini, che si credeano di ricoverar la libertà, non solamente caddero sotto un più pesante giogo, ma piansero il saccheggio della loro città per iniquità di Cane, che non attenne i patti. Calò allora l'albagia del popolo padovano; cercò poi [351] accordo, e l'ottenne, ma con suo notabile svantaggio; perchè, oltre all'avere ricevuto per vicario imperiale Gherardo da Enzola da Parma, in vece di sessanta, dovette pagare cento mila fiorini d'oro alla cassa del re.

Morì in quest'anno Alboino dalla Scala, e restò solo Can Grande suo fratello nella signoria di Verona, con tener anche il piede in Vicenza. Tale era allora lo stato, ma fluttuante, della Lombardia e dell'Italia. I soli Veneziani si stavano in pace, osservando senza muoversi le commozioni altrui. Aveano spediti ad Arrigo, subito ch'egli fu giunto in Italia, i loro ambasciatori con regali, a titolo non già di suggezione, ma d'amicizia, e con ordine di non baciargli il piede [Albertinus Mussat., lib. 3, rub. 8, tom. 8 Rer. Ital.]. Venne poscia in quest'anno a Venezia il vescovo di Genevra ambasciatore d'Arrigo; ma non dimandò a quel popolo nè fedeltà nè ubbidienza. Terminò i suoi giorni in quest'anno appunto [Continuator Danduli, tom. 12 Rer. Ital.] Pietro Gradenigo doge di Venezia, e nel dì 22 d'agosto (il Sanuto [Marino Sanuto, tom. 21 Rer. Ital.] scrive nel dì 13) fu surrogato in suo luogo Marino Giorgi, assai vecchio, che poco più di dieci mesi tenne quel governo. Sotto Brescia, siccome accennammo, cominciò ad infierir la peste nell'armata regale, e si diffuse poi per varie città. Ne restò spopolala Piacenza, Brescia, Pavia, ed altri popoli empierono i lor cimiterii. Portò il re Arrigo colle sue genti a Genova questo malore, e però quivi fu gran mortalità. Diede principio papa Clemente V [Raynaldus, Annal. Eccles. Baluzius, in Vita Pontific.] nell'ottobre di quest'anno al concilio generale in Vienna del Delfinato, al quale intervennero circa trecento vescovi. Era riuscito alla saggia destrezza d'esso pontefice e de' cardinali il far desistere Filippo il Bello re di Francia dal proseguir le calunniose accuse contro la memoria di papa Bonifazio VIII. Nel concilio si avea [352] da trattare, ma poco si trattò de' tanti abusi che allora si osservavano nel clero e nella stessa corte pontificia, massimamente in riguardo alla collazion de' benefizii e alla simonia: intorno a che restano varie memorie e scritture di quei tempi, che io tralascio, rimettendo i lettori alla storia ecclesiastica, dove se ne parla ex professo.


   
Anno di Cristo mcccxii. Indizione X.
Clemente V papa 8.
Arrigo VII re 5, imperad. 1.

I lamenti de' Genovesi, e il non poter più l'Augusto Arrigo ricavar da essi alcun sussidio di moneta, di cui troppo egli scarseggiava, gli fecero prendere la risoluzion di passare durante il verno a Pisa. Per terra non si potea, essendo serrati i passi dalla lega di Toscana. Trenta galee adunque de' Genovesi e Pisani furono allestite affine di condurre per mare lui, e la corte e gente sua [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 36.]. Nel dì 16 di febbraio imbarcatosi fu forzato dal mare grosso a fermarsi parecchi dì in Porto Venere. Finalmente nel dì 6 di marzo sbarcò a Porto Pisano, accolto con indicibil festa ed onore dal popolo di Pisa. Colà concorsero a furia i Ghibellini fuorusciti di Toscana e di Romagna, ed egli nella stessa città aspettò il rinforzo di gente che gli dovea venir di Germania. Intanto recò qualche molestia ai Lucchesi ribelli, con tor loro alcune castella. Ma quel che dava a lui più da pensare, era che il re Roberto, fingendo prima di volere amicizia con lui, gli avea anche spediti ambasciatori a Genova per intavolar seco un trattato di concordia e di matrimonio; ma furono sì alte ed ingorde le pretensioni di Roberto, che Arrigo non potè consentirvi. Dipoi mandò esso re Roberto a Roma Giovanni suo fratello con più di mille cavalli, il quale prese possesso della Basilica Vaticana e di altre fortezze di quella insigne non sua città. Volle intendere Arrigo le di lui intenzioni. Gli fu [353] risposto (credo io per beffarsi di lui) esser egli venuto per onorar la coronazione d'Arrigo, e non per fine cattivo. Ma intanto s'andò esso Giovanni sempre più ingrossando di gente, e, fatto venire a Roma un rinforzo di soldati fiorentini, si unì cogli Orsini ed altri Guelfi di Roma, e cominciò la guerra contra de' Colonnesi ghibellini e fautori del futuro novello imperadore. Allora si accertò Arrigo che l'invidia ed ambizione del re Roberto, non offeso finora, nè minacciato da Arrigo, aveano mosse quelle armi contra di lui per impedirgli il conseguimento della imperial corona. Tuttavia, preso consiglio dal suo valore, ed, animato dai Colonnesi e da altri Romani suoi fedeli che teneano il Laterano, il Coliseo ed altre fortezze di Roma, nel dì 23 d'aprile s'inviò con due mila cavalieri e grosse brigate di fanteria a quella volta. Arrivò a Viterbo, e per più giorni quivi si fermò, perchè le genti del re Roberto aveano preso e fortificato Ponte Molle. Nel qual tempo avendo tentato i Ghibellini d'Orvieto di cacciare i Monaldeschi e gli altri Guelfi di quella città, senza voler aspettare il soccorso di Arrigo, ebbero essi la peggio, e furono spinti fuori di quella città. Finalmente rimessosi in viaggio e superati gli oppositori a Ponte Molle, nel dì 7 di maggio entrò in Roma con sue genti [Ferretus Vicentinus, lib. 5, tom. 9 Rer. Ital.], e cominciò la guerra contro le milizie del re Roberto con varii incontri ora prosperosi ed ora funesti de' suoi. In uno d'essi lasciarono la vita Teobaldo vescovo di Liegi e Pietro di Savoia fratello di Lodovico senatore di Roma. Conoscendo poi l'impossibilità di snidare dalla città leonina e dal Vaticano gli armati spediti colà dal re Roberto, quasi per violenza a lui fatta dal popolo romano, determinò di farsi coronare imperadore nella basilica lateranense: funzione che fu solennemente eseguita nella festa de' santi Apostoli Pietro e Paolo [Albertus Mussatus. Ptolom. Lucens., in Vita Clementis V.], cioè nel dì [354] 29 di giugno, e non già nella festa di san Pietro in Vincola al primo giorno d'agosto, come ha Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 42.]. Nel qual giorno ancora si contrassero gli sponsali fra una figliuola del novello imperadore e Pietro figliuolo di Federigo re di Sicilia, con cui Arrigo, dacchè vide il mal animo del re Roberto, avea stabilita lega. Seguitò poi la guerra in Roma. E qui può chiedere taluno: come mai si attribuì il re Roberto tanta autorità di spedir le sue armi a Roma, con fare il padrone dove niun diritto egli avea, e con chiara offesa ed obbrobrio del papa, signore d'essa città? Non v'erano eglino più scomuniche per reprimere una si fatta violenza? In altri tempi che strepito non si sarebbe udito? Eppure niun risentimento non ne fu fatto, in maniera che avrebbe potuto talun credere delle segrete intelligenze fra il pontefice e il re Roberto. Ma il papa troppo s'era legate le mani, dappoichè antepose il soggiorno della Provenza e di stare fra i ceppi, per così dire, del re Roberto e del re di Francia, piuttosto che di portarsi alla sedia di Roma, destinata dalla provvidenza di Dio alla libertà dei papi. Non potea egli ciò che volea, nè ciò che esigeva il debito suo. Ce ne avvedremo all'anno seguente.

Intanto cominciava a rincrescere di troppo questa musica al popolo romano. Era sminuita non poco l'armata cesarea; quella di Giovanni fratello di Roberto ogni di più s'andava rinforzando [Albertinus Mussatus, lib. 8, cap. 8.]. Però l'Augusto Arrigo nel dì 20 di luglio si ritirò a Tivoli; poscia perchè i fuorusciti toscani continue istanze gli faceano di volgere le sue armi contro la Toscana, si inviò a quella volta nel seguente agosto. Diede dei gravi danni ai Perugini, in passando pel loro distretto, ed arrivò ad Arezzo, dove si vide ben accolto. Straordinarii preparamenti fecero di armati e di viveri i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 44.], [355] nè poco fu il loro terrore, dacchè, entrato l'imperadore nel territorio loro, prese Monte Varchi, San Giovanni, e Feghine, e fece fuggire dall'Ancisa l'esercito di essi Fiorentini, con dar loro una spelazzata, e poi si accampò intorno alla medesima città di Firenze nel dì 19 di settembre. Mandarono le città collegate gagliardi soccorsi di gente armata ai Fiorentini, i quali certo ne aveano almeno il doppio più che l'esercito imperiale; pure non osarono mai di uscire a battaglia. A sacco e fuoco era messo intanto il loro contado. Immenso fu il bottino che fecero i Tedeschi e i fuorusciti di Toscana. Veggendo poscia l'imperadore che perdeva il tempo intorno a Firenze, si ritirò a San Casciano, ed ivi celebrò la festa del santo Natale. Ma se la Toscana si trovava in gran moto, minor non era quello della Lombardia. I Padovani, siccome quelli che non poteano digerire la perdita di Vicenza, loro tolta da Cane dalla Scala, ribellatisi espressamente all'imperadore, diedero principio alla guerra contra di quella città, che divenne, e per lungo tempo fu, il teatro delle miserie. Saccheggiarono le ville del Veronese sino a Legnago e Tiene, Marostica ed altri luoghi del Vicentino. Ma non istette colle mani alla cintola lo Scaligero. Anch'egli entrò nel Padovano, distrusse colle fiamme varie terre, e fra l'altre quella di Montagnana, senza potere impadronirsi del castello. Avea l'imperadore Arrigo, all'udire gli sconcerti della Lombardia, inviato per suo vicario generale il conte Guarnieri di Oemburg [Bonincontrus Morigia, Chronic., tom. 12 Rer. Ital.], da altri appellato di Ottomburg, cavaliere tedesco. In una sua lettera al comune di Monza è scritto de Humbergh. Questi fu chiamato in suo aiuto da Cane dalla Scala; ma per poco tempo stette ai danni de' Padovani. Essi, rinforzati da Francesco marchese d'Este e dai Trivisani, fecero dipoi nuove scorrerie sul Vicentino e Veronese. In quest'anno [356] Ricciardo da Camino, signore di Trivigi, Feltre e Belluno, fu ucciso con una ronca da un contadino [Cortus, Hist., lib. 1, tom. 12 Rer. Ital.], il quale fu subito messo in pezzi dalle guardie, senza sapersi chi fosse, nè da chi mandato. In quella signoria succedette Guecelo suo fratello. Anche il suddetto Francesco marchese d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] venuto a Ferrara, mentre tornava dalla caccia del falcone in città, alla porta del Lione fu assalito dai soldati catalani, e per ordine di Dalmasio, governatore di quella città pel re Roberto, fu barbaramente ucciso: cosa che fece orrore a tutta la Lombardia. Guglielmo Cavalcabò, gran fazionario della parte guelfa (e che avea poc'anzi nel mese di marzo fatto ribellare Cremona [Albertinus Mussatus, lib. 6, rubr. 2. Johannes de Cermenat., cap. 46, tom. 9 Rer. Ital.], con farne fuggire Galeazzo Visconte, che era ivi vicario imperiale), mentre, unito con Passerino dalla Torre, dopo essersi impadronito della ricca terra di Soncino, era intento ad espugnar quel castello, trovò anch'egli ciò che non s'aspettava. Veniva il conte Guarnieri vicario generale da Brescia per dar soccorso al castello suddetto; ed accoppiatesi con lui le soldatesche milanesi, inviategli da Matteo Visconte, prima sconfisse lo sforzo de' Cremonesi che andava in aiuto del Cavalcabò, poscia, entrato in Soncino, mise in fuga quegli assedianti. Condotto a lui preso Guglielmo Cavalcabò, gli disse: Io non vo' che da qui innanzi tu abbi a cavalcare nè bue nè cavallo; e con un colpo di mazza lo stese morto a terra. Per questa perdita saltò un gran terrore addosso ai Cremonesi, presso i quali in questi giorni diede fine alla sua vita Guido dalla Torre, già signor di Milano.

In Lodi la fazion guelfa de' Vistarini, coll'aiuto di Giberto da Correggio e degli altri Guelfi, cacciò fuori della città il vicario imperiale; ed, oppressa e dispersa la fazione de' Sommariva, si fece padrona [357] di quella città. In Pavia Filippone conte di Langusco, e gran caporale de' Guelfi, pose in prigione Manfredi da Beccaria, e cacciò dalla città i grandi della fazion ghibellina: al che parve che consentisse Filippo di Savoia principe della Morea, vicario allora di quella città, e di Vercelli e Novara. La pendenza di questo principe verso i Guelfi rendè dubbiosa la sua fede all'imperadore. Ma l'astuto Matteo Visconte seppe indurlo ad inimicarsi con esso Filippone e con Simone da Colobiano, capo de' Guelfi in Vercelli. E in effetto quel principe con frode ritenne prigioniere Ricciardino primogenito di Filippone e il suddetto Simone con molti altri de' maggiori di Pavia: per la quale azione si screditò non poco in Lombardia. Allora il Visconte, chiamati a sè i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, spinse Galeazzo suo figliuolo nella Lomellina a' danni de' Pavesi, con rovinare i raccolti, saccheggiar le castella, e prendere Mortara e Garlasco. Prima di questo fatto si suscitò anche in Vercelli una fiera ed impetuosa guerra tra le fazioni degli Avvocati e de' Tizzoni [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]: guerra che dicono durata entro quella città circa quarantanove giorni. Fu essa cagione di aperta rottura fra il suddetto Filippo di Savoia e il conte Guarnieri vicario generale dell'imperadore. Accorsero amendue a Vercelli colle lor milizie, e si venne ad una zuffa fra loro, in cui restarono tutti e due feriti. Il principe dipoi, sentendo che veniva lo sforzo de' Milanesi, se ne tornò a Torino. Abbiamo da Giovanni da Cermenate [Johannes de Cermenat., cap. 50, tom. 9 Rer. Italic.], che essendo restato questo Filippo, appellato principe della Morea, in età pupillare sotto la tutela di Amedeo di Savoia suo zio, gli fu da lui usurpata la contea di Savoia, e che il conte Amedeo, per compensazione, gli cedette infine, oltre ad alcune castella del Piemonte, la città di Torino, ch'egli probabilmente avea conseguito dall'Augusto [358] Arrigo in ricompensa del suo fedele attaccamento. Il bello fu che, essendo restata indecisa la question di Vercelli, perchè n'era stato fatto compromesso nella contessa di Savoia e nel marchese di Monferrato: Filippone da Langusco coi Pavesi ed altri amici guelfi corse colà nel mese di luglio [Albertinus Mussatus, lib. 7, rubr. 9, tom. 8 Rer. Ital.], ben ricevuto da Oberto da Colobiano vescovo della città, chiamato con errore Simone dal Mussato; ed abbattuta affatto la parte dei Tizzoni ghibellini, ridusse in poter suo e degli Avvocati guelfi quella città. Nella Cronica di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] è distintamente narrato questo fatto; e come Filippone, dopo avere sconfitto un corpo di Milanesi inviato da Matteo Visconte a Vercelli, si portò colà col pennone d'esso Matteo, fingendosi Marco di lui figliuolo; e con questo avendo ingannato Teodoro marchese di Monferrato, ch'era rimasto alla guardia della città, con facilità se ne impadronì. Di molte novità furono ancora in Piacenza. Nel dì 18 di febbraio fu in armi quel popolo, e i Guelfi ne scacciarono il vicario imperiale e i Ghibellini. Unitisi questi fuorusciti con Alberto Scotto, ebbero maniera nel dì 18 di marzo di rientrare in Piacenza, e di dar la fuga ai Guelfi: con che tornò ivi a signoreggiar l'imperadore, che vi pose per vicario Lodrisio Visconte. Poscia nel dì 20 di settembre lo stesso Alberto Scotto, levato rumore, spinse fuori della città Ubertino Lando co' suoi seguaci ghibellini, e per la terza volta si fece proclamar signor di Piacenza.

Peggiori e più strepitosi furono in quest'anno gli avvenimenti di Modena [Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Mussatus, lib. 7, rubr. 7.]. Qui era per vicario dell'imperadore Francesco Pico della Mirandola. I Rangoni, Boschetti, Guidoni e da Rodeglia, cogli altri di fazione guelfa, segretamente tessevano un trattato coi Bolognesi. [359] Non fu esso sì occulto che non traspirasse; e però queste famiglie, conosciuto il periglio, fuggendo dalla città, e ridottesi alle loro castella, cominciarono la guerra contro la patria, assistite da un buon nerbo di cavalleria e fanteria bolognese, e da quei di Sassuolo. Essendo essi Guelfi venuti a dare il sacco e il fuoco alla villa di Bazovara, Francesco dalla Mirandola coi Modenesi arditamente diede loro battaglia nel dì 9 di luglio, ma ne andò sconfitto. Restarono sul campo uccisi de' principali Prendiparte suo figliuolo, Tommasino da Gorzano, Uberto da Fredo, Niccolò degli Adelardi, con circa cento cinquanta altri de' migliori cittadini, e presi circa cento. Per questa rotta fu in somma costernazione Modena, e il popolo ricorse tosto per aiuto a Can Grande dalla Scala signor di Verona, a Rinaldo, appellato Passerino de' Bonacossi, signor di Mantova, e a Matteo Visconte signor di Milano; ben prevedendo che i Bolognesi nel caldo di questa vittoria sarebbono corsi con grande sforzo per impossessarsi della loro città, siccome infatti fu da essi tentato. Ma accorsi in persona Cane e Passerino con gente assai, frastornarono tutti i disegni dell'armata di Bologna, la quale, frettolosamente venuta, era fin giunta alle fosse della città, ed avea già dato principio all'assedio e agli assalti. Allora fu che Passerino seppe profittare del tempo propizio; perchè, trovandosi i Modenesi in tanto bisogno, si fece nel quarto, oppur quinto giorno d'ottobre, eleggere signor di Mantova, e governolla dipoi per anni parecchi da tiranno. Fiera eziandio continuò in questo anno la guerra fra i Padovani e Can Grande dalla Scala. Distrussero i primi una gran quantità di ville del Vicentino ne' mesi d'agosto e di settembre, e pervennero saccheggiando fin quasi alle porte di Vicenza, mancando allo Scaligero forze da poter loro resistere. Non finì quest'anno, che Guecelo da Camino, partendosi dalla lega de' Padovani, trattò di unirsi con Cane dalla Scala, col conte [360] di Gorizia e coi Ghibellini. Essendosi ciò scoperto, e venendo riprovato dal popolo di Trivigi [Cortus, Hist., lib. 1, tom. 12 Rer. Ital.], congiurarono contra di lui Castellano vescovo della città, Rambaldo conte di Collalto, Biachino da Camino ed altri Guelfi; e poscia nel dì 15 di dicembre, gridato all'armi, per forza il privarono del dominio. Cacciato egli dalla città, si ritirò al suo castello di Serravalle; e Trivigi tornò all'essere di repubblica. Nella città d'Asti [Chron. Astense, cap. 69, tom. 11 Rer. Ital.] regnava il partito de' Gottuari, ossia di quei da Castello ghibellini, e v'era per vicario dell'imperadore Tommasino da Enzola. I Solari cogli altri Guelfi fuorusciti si raccomandarono ad Ugo del Balzo Provenzale siniscalco del re Roberto, che diede loro assistenza colle sue genti. Nel dì 4 di aprile fu aspra battaglia fra loro e gli Astigiani, ed, essendo rimasti perditori gli ultimi, e fatti ben mille prigioni d'essi, i fuorusciti entrarono in Asti, e giurarono poi fedeltà al re Roberto nella maniera che aveano praticato gli Alessandrini. Il medesimo Ugo del Balzo, nel mentre che Teodoro marchese di Monferrato era nel mese di giugno al guasto delle ville del Pavese, entrò per forza in Casale di Monferrato, bandì molti di quei cittadini, ed obbligò gli altri a riconoscere per lor signore il suddetto re Roberto. Aggiugne il Ventura, da cui abbiam tali notizie, autore contemporaneo, che anche la città di Pavia prestò al medesimo re un simile giuramento, con iscusarsi Filippone conte di Langusco di essere stato tradito da Filippo di Savoia, principe della Morea, che avea sotto la buona fede fatto prigione, e tuttavia ritenea nelle carceri, Riccardino, ossia Ricciardino suo figliuolo, e dieci de' primarii cittadini di Pavia; con allegar eziandio d'essere stato troppo maltrattato dal conte Guarnieri, da Matteo Visconte e dai Milanesi, che aveano distrutte e prese tante ville e castella del Pavese. Dopo aver Marino Giorgi per poco più di dieci [361] mesi tenuto il governo di Venezia, sbrigossi da questa vita, e in suo luogo fu eletto doge di quella repubblica Giovanni Soranzo nel dì 13 di giugno, secondo il Continuator del Dandolo [Contin. Danduli, tom. 12 Rer. Ital.]; ma, secondo il Sanuto [Marino Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] (e forse più fondatamente), nel dì 15 di luglio. Diede fine in quest'anno papa Clemente V al concilio generale di Vienna, in cui fu abolito l'ordine de' Templari, e posto fine alle ingiuriose procedure contro la memoria di papa Bonifazio VIII, la cui credenza fu dichiarata cattolica ed incorrotta [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 22.]. Due cavalieri catalani si esibirono pronti a provarla in duello: il che confuse chiunque gli volea male. Fece anche il papa una promozione di nove cardinali tutti franzesi in grave danno della Sedia di san Pietro, che sempre più veniva a restare in mano degli oltramontani [Raynald., in Annal. Ecclesiast.]. Allorchè l'Augusto Arrigo si partì dalla vinta città di Brescia, seco menò per ostaggi settanta de' migliori cittadini d'essa città sino a Genova [Malvec., Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.]. Siccome erano tenuti senza guardia, di là se ne fuggirono tutti, e, tornati alla patria, fecero commozione nel popolo, e fu battaglia civile fra i Guelfi e Ghibellini. Gli ultimi ne furono cacciati, e contra l'imperadore si ribellò la città. Aiutarono parimente essi Bresciani guelfi i Guelfi di Cremona a rientrar nella loro città. Ma perciocchè i fuorusciti ghibellini bresciani occupavano di molte castella, e faceano gran guerra alla patria, fu mossa parola di concordia fra loro; e andò sì innanzi il trattato, che, per mezzo di Federigo vescovo di quella città, nel dì 13 di ottobre si conchiuse pace fra loro, ed ognuno potè ritornare alle proprie case: pace maggiormente poi fortificata da molti maritaggi che seguirono fra quelle fazioni. E tale fu l'anno presente, fecondo di tanti avvenimenti, funesto per tante rivoluzioni, [362] e per uno quasi universale sconcerto di tutta quanta l'Italia, di modo che a voler minutamente riferire i fatti d'allora, moltissimi fogli non basterebbono. L'assunto mio, inclinato alla brevità, non mi permette di più. Il che dico ancora per quello che resta della presente storia, in cui piuttosto accennerò le avventure dell'Italia, lasciando, a chi più ne desidera, il ricorrere ai fonti, cioè agli scrittori che cominciano ad abbondare in questo secolo, e diffusamente trattano di questi affari.


   
Anno di Cristo mcccxiii. Indizione XI.
Clemente V papa 9.
Arrigo VII re 6, imperad. 2.

Da San Casciano nel dì 6 di gennaio si ritirò l'Augusto Arrigo a Poggibonzi, dove fece fare un castello sul Poggio, dandogli il nome di castello imperiale [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 47.]. Stette ivi sino al dì 6 di marzo; e perciocchè cominciò a patir difetto di vettovaglia, e per le infermità si assottigliò forte la sua armata, se ne tornò a Pisa. A Poggibonzi furono a trovarlo gli ambasciatori di Federigo re di Sicilia, che, oltre all'avergli portato un sussidio di venti mila doble d'oro (regalo opportuno al suo estremo bisogno), concertarono seco di portar la guerra contra del re Roberto nel regno di Napoli. Quantunque l'imperadore si vedesse in mal arnese per l'esercito tanto sminuito, e che maggiormente calò per la partenza di Roberto conte di Fiandra colle sue genti; pure, siccome principe di rara virtù, che per niuna avversità si turbava, per niuna prosperità si gonfiava, attese a rimettersi in buono stato, già risoluto di far pentire Roberto re di Napoli delle offese indebitamente a lui fatte finora. E, dimorando egli in Pisa, Arrigo di Fiandra suo maliscalco, ossia maresciallo, con ottocento cavalieri ed otto mila pedoni passò in Versiglia e Lunigiana a' danni de' Lucchesi. Fra le altre terre, prese per forza [363] la ricca di Pietrasanta. Degna è di memoria la fondazione d'essa, fatta dopo la metà del secolo precedente da Guiscardo nobile milanese della famiglia Pietrasanta, allora podestà di Lucca, il quale dal suo cognome la nominò. Odasi Giovanni da Cermenate, autore di questi tempi, che così ne parla [Johann. de Cermenate, cap. 62, tom. 6 Rer. Ital.]: Henricum de Flandria expugnare Petram-Sanctam mittit oppidum, licet dives, novum. Ipsum namque construxerat quondam. Guiscardus de Petra-Sancta, nobilis civis Mediolani, urbe sua exulans, prima Turrianorum regnante tyrannide, in districtu aut prope confinia lucanae urbis, cujus rector erat, oppido sui cognominis imponens nomen. Aggiungasi Tolomeo da Lucca, istorico anche esso di questi tempi, che mette all'anno 1255 [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.] Guiscardo da Pietra Santa per podestà di Lucca, qui de Versilia duos burgos, unum ex suo nomine nominavit, alterum vero Campum majorem. Non ho voluto tacer questa notizia, affinchè si tocchi con mano la falsità del decantato editto di Desiderio re de' Longobardi, inciso in marmo in Viterbo, creduto vero dal Sigonio e da tanti eruditi, anche ultimamente spacciato per tale da un avvocato de' Viterbiesi. Quivi il re Desiderio dice d'aver fabbricato la terra di Pietra-santa. Ci vuol egli di più a conoscere l'impostura? Anche i marchesi Malaspina tolsero in tal occasione Sarzana, ch'era allora de' Lucchesi. In Pisa Arrigo Augusto, valendosi de' consigli e della penna de' suoi legati, fece i più strani ed orridi processi contra del re Roberto, dichiarandolo nemico pubblico, traditore ed usurpator delle terre del romano imperio, privandolo di tutti gli Stati, e d'ogni onore e privilegio, e proferendo la sentenza di morte contra di lui [Albertinus Mussatus, lib. 13. rubr. 5, tom. 8 Rer. Ital.]. Altri processi e terribili condanne fece contra di Giberto da Correggio signor di Parma, [364] e di Filippone da Langusco signor di Pavia, e contro le città di Firenze, Brescia, Cremona, Padova ed altre, che s'erano ribellate all'imperio [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 48.]. Ma, siccome osserva il Cermenate, questi fulmini, benchè solo di carte, produssero piuttosto contrario effetto, perchè più s'indurò nella nemicizia chi già era nemico.

Fece inoltre delle vive istanze a papa Clemente, acciocchè, secondo l'uso d'altri suoi predecessori, scomunicasse i ribelli dell'imperio in Italia, e procedesse ancora contra del re Roberto per gli attentati da lui fatti in Roma in disprezzo della giurisdizione e degli ordini del papa, e insieme dell'imperador de' Romani. E il pontefice dovea aver preparato delle bolle in favor d'Arrigo, quando avvenne un fatto, la cui memoria ci è stata conservata dal suddetto Giovanni da Cermenate [Johann. de Cermen., cap. 62, tom. 9 Rer. Ital.], ed è importante per la storia. Albertino Mussato differentemente ne parla. Filippo il Bello re di Francia, informato di questi affari dal re Roberto suo parente, e pregato d'aiuto, mandò alla corte pontificia que' medesimi sgherri che aveano fatta in Anagni la detestabile insolenza a papa Bonifazio VIII. Al vederseli comparire davanti con volto burbero, Clemente si tenne perduto. Interrogati che cercassero, risposero di voler vedere la cancelleria; e, senz'altre cerimonie andati colà, vi trovarono un converso dell'ordine cisterciense, che non sapea leggere, tenuto apposta per mettere il sigillo di piombo alle bolle papali, ed incapace per la sua ignoranza di lasciarsi corrompere coll'anteporre l'ultime alle prime. Presero costoro tutti que' brevi e bolle, e le portarono sotto gli occhi del papa, e senza rispetto alcuno il capo loro gli disse con orrida voce: Se conveniva ad un papa il provveder d'armi i nemici della casa di Francia, che tanto avea fatto e speso in servigio della Chiesa romana; e perchè non avesse egli per [365] anche profittato di ciò che era accaduto a papa Bonifazio VIII. Che se egli non avea imparato dall'esempio altrui, insegnerebbe agli altri col propio. Poi se ne andarono. Oh da lì innanzi non si parlò più di prestar favore all'Augusto Arrigo; anzi contra di lui si fece quanto volle dipoi la corte di Francia. Ed ecco i deplorabili effetti della schiavitù, in cui si era messo il pontefice, col preferire il soggiorno della Provenza a quello d'Italia. Intanto i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 35.], parendo loro d'essere in cattivo stano, diedero la signoria della lor città al re Roberto per cinque anni. Ma l'imperadore Arrigo non la voleva più contra di loro. Tutti i suoi pensieri erano volti contra d'esso re Roberto per iscacciarlo, se gli veniva fatto, dal regno di Napoli. A questo fine chiamò dalla Germania quanta gente potè; molta ne raccolse dall'Italia; e collegatosi con Federigo re di Sicilia, ed assistito dai Genovesi, preparò anche una possente armata marittima per passare colà. Settanta galee si armarono in Genova e Pisa; il Mussato dice molto meno. Il re di Sicilia ne mise cinquanta in mare, e, trasportata in Calabria la sua cavalleria, diede principio alla guerra colla presa di Reggio. Comune credenza fu, che se andava innanzi questa impresa, era spedito il re Roberto; anzi fu detto ch'egli avea preparato delle navi per fuggirsene in Provenza. Ma l'uomo propone, e Dio dispone. Tutto in un momento andò per terra questo sì strepitoso apparato di guerra.

Nel dì quinto d'agosto si mosse l'imperadore da Pisa con più di quattro mila cavalieri, i più tedeschi, e con un fiorito esercito di fanteria; il concorso era stato grande, perchè grande era la speranza di far buon bottino. Passò nel territorio di Siena fino alle porte di quella città, la quale ben fornita dagli aiuti della lega, non tremò punto alla di lui comparsa. Vi era nondimeno trattato con alcuni di que' cittadini di rendersi; ma questo, per l'avvedutezza di quel governo, andò in [366] fumo. Accampatosi a Monte Aperto, quivi fu sorpreso da alcune terzane, delle quali non fece conto sulle prime. S'inoltrò dodici miglia di là da Siena, ed, aggravatosi il male, si fece portare a Buonconvento, dove nel dì festivo di san Bartolommeo 24 d'agosto [Albertinus Mussat. Johannes de Cermenat. Giovanni Villani. Ptolom. Lucens. et alii.] con esemplare rassegnazione ai voleri di Dio spirò l'anima sua: principe, in cui anche i nemici guelfi riconobbero un complesso di tante virtù e di sì belle doti, che potè paragonarsi ai più gloriosi che abbiano retto il romano imperio. Io non mi fermerò punto ne' suoi elogi, e solamente dirò, che se i mali straordinarii dell'Italia erano allora capaci di rimedio, non si potea scegliere medico più a proposito di questo. Ma l'improvvisa sua morte guastò tutte le misure, e peggiorò sempre più da lì innanzi la malattia degl'Italiani. Sparsesi voce ch'egli fosse morto di veleno, e che un frate dell'ordine dei Predicatori, suo confessore, l'avesse attossicato nel dargli alcuni dì prima la sacra comunione; e tal voce, secondo il solito, si dilatò per tutta Europa, credendola chiunque è più disposto a persuadersi del male che del bene. Molti sono gli autori che ne parlano. Ma non ha essa punto del verisimile. Albertino Mussato, Guglielmo Ventura [Ventur., Chron. Astense, cap. 64, tom. 11 Rer. Ital.], Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 5, tom. 9 Rer. Italic.], Giovanni da Cermenate e Tolomeo da Lucca, autori tutti contemporanei, scrissero che egli era mancato di morte naturale e di febbre, oppure di peste: segno che non si trovò allora vestigio alcuno di veleno, e che tal ciarla non avea fondamento, oltre all'essere narrata con gran diversità ancora nelle circostanze. Ferreto scrive, essere stato un Tedesco che la disseminò; e che infuriati molti suoi nazionali corsero al convento de' Predicatori di Pisa, ed alcuni ne uccisero. Nulladimeno perchè questa calunniosa [367] accusa tornava in grave pregiudizio dell'ordine de' Predicatori, la fecero essi dopo alcuni anni, per quanto poterono, distruggere con una bolla del successore di papa Clemente [Raynaldus, Annal. Eccl. Baluzius, Miscellan., tom. 1. Leibnitius, Cod. Jur. Gent., tom. 1, num. 87.], e con un autentico attestato di Giovanni re di Boemia, figliuolo del medesimo imperadore Arrigo. Alcuni scrittori protestanti, che di questo han parlato, danno bensì a conoscere il loro livore, ma non recano già buone pruove del preteso veleno. Ora è incomprensibile lo stordimento, la confusione, il dolore che così inaspettato funestissimo caso recò all'armata cesarea e a tutto il partito dei Ghibellini in Italia. In Pisa specialmente, città che avea speso immensi tesori per sostener gl'impegni di questo imperadore, e si figurava col braccio di lui di alzare in breve la testa sopra le altre città della Toscana, all'avviso di sua morte, più e allorchè fu portato colà il suo corpo per dargli sepoltura, i gemiti, gli urli, le lagrime furono un compassionevole spettacolo della miseria umana. Federigo re di Sicilia, che s'era già unito colla sua flotta ai Genovesi, udita nel viaggio la morte d'Arrigo, veleggiò fino a Pisa per intendere meglio in che stato rimanevano le cose. Trovò disperati i Pisani, e tutta sbandata l'armata cesarea. Dicono [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 53.] che il popolo di Pisa esibisse a lui, e poscia ad Amedeo conte di Savoia e ad Arrigo di Fiandra, la signoria della città; ma niun d'essi si sentì voglia di entrare in una sì sdruscita nave. Tornossene perciò Federigo [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 2, tom. 10 Rer. Ital.], dopo avere sofferta una lunga tempesta di mare, in Sicilia, per accudire alla propria difesa, ben prevedendo che non avrebbe mancato il re Roberto di cercar vendetta di quanto esso Federigo avea tramato alla rovina di lui. Nè trovando i Pisani altro compenso alla lor vacillante [368] fortuna, elessero per loro signore Uguccion dalla Faggiuola, allora podestà di Genova, uomo di credito negli affari della guerra, e di rara attività ed accortezza. Assoldarono ancora da mille cavalieri tra tedeschi, brabanzoni e fiamminghi, ed altra gente per mettersi alla difesa.

Vegniamo ora ai fatti della Lombardia. Nel dì 18 di maggio, Galeazzo, figliuolo di Matteo Visconte vicario imperiale di Milano, fu dal vivente allora Arrigo creato vicario di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Questi nel dì 29 di luglio, per consiglio del padre, mostrando di farlo ad oggetto della pubblica quiete, fece prendere sette de' principali Guelfi, ed altrettanti de' Ghibellini, e li mandò a Milano. Matteo rilasciò i Ghibellini, e ritenne i Guelfi, uno de' quali era Alberto Scotto già signor di Piacenza. Narra Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 4, tom. 9 Rer. Ital.] che Galeazzo fece guerra ad Arquato, castello ricco e fiorente d'esso Alberto. Ne scrisse questi a Matteo, il quale con sue lettere mandò ordine al figliuolo di non molestarlo, e segretamente con altre gli ordinò di seguitare innanzi. Mostrò Galeazzo d'essere in collera col padre, ed, abboccatosi con Alberto, gli fece le maggiori esibizioni del mondo, se gli rendeva la terra. Gliela rendè, e poi si portò a Milano, dove Matteo gli fece quante carezze desiderò, nutrendolo sempre di speranze di ristabilirlo in Piacenza nel possesso de' suoi beni. Ma non venne mai quel dì. Accortosi finalmente Alberto che non era uscita di mente a Matteo la frode fattagli allorchè gli fu levata la signoria di Milano, se ne fuggì a Cremona, dove, mal veduto da que' cittadini, poco si fermò. Albertino Mussato [Albertinus Mussatus., lib. 15, tom. 6 Rer. Ital.] scrive che Fiorenzuola e Castello Arquato si diedero ai Cremonesi. Comunque sia, mentre Alberto soggiornava in Milano, commosse i vecchi [369] suoi amici, cioè Filippone conte di Langusco signor di Pavia, e Giberto da Correggio, contra di Piacenza. Vennero questi una notte con tutte le loro forze, e coi Torriani e coi banditi piacentini, l'uno dal ponente, e l'altro dal levante verso quella città, dove con intelligenza d'alcuni di que' cittadini speravano di furtivamente entrare [Johann. de Cermen., cap. 64, tom. 9 Rer. Ital.]. Uscì valorosamente di Piacenza Galeazzo Visconte, e diede all'improvviso addosso alle milizie di Filippone, le sconfisse colla morte e prigionia di molti. Lo stesso Filippone, in fuggendo, fu preso e mandato a Milano. Quivi, serrato nelle carceri, trovò compagno delle sue sciagure Antonio da Fissiraga, già signor di Lodi, e durò la sua vita, finchè, giuntogli l'avviso che Ricciardino suo figliuolo era stato ucciso, per la doglia si accorò, e finì infelicemente i suoi giorni. Questo colpo sconcertò non poco i disegni de' Guelfi, e liberò Matteo Visconte da' gravi insulti che gli minacciavano le nemiche circonvicine città. Dopo la prigionia di Filippone, i Pavesi diedero la signoria al suddetto Ricciardino suo figliuolo, che scorrettamente nel testo di Albertino Mussato vien chiamato Gherardino. Non si sottrassero per questo i Pavesi dalla sovranità del re Roberto. Galeazzo Visconte, dappoichè si divulgò la morte dell'imperadore, nel dì 10 di settembre fu eletto signore perpetuo di Piacenza dalla fazion ghibellina quivi dominante [Corio, Istor. di Milano. Albertinus Mussatus. Ferretus Vicentinus.].

Fecero in quest'anno nel dì quinto di novembre i Torriani e fuorusciti guelfi di Milano un accordo col re Roberto, dandogli, per quanto poterono, il dominio di Milano. Prima di ciò Tommaso Marzano conte di Squillaci, e marescalco d'esso re, coi suddetti e co' Pavesi ed altre amistà formato un potente esercito nel contado di Milano, diedero una rotta alle genti di Matteo Visconte, e giunsero [370] sino ai borghi di Milano, credendosi di sentir quivi una sollevazione promessa [Bonincontrus Morigia, Chron., cap. 17.]. Ma andò fallita la loro speranza, e confusi e pelati se ne tornarono a Pavia con gran perdita di gente, dove il popolo insorse contra il suddetto marescalco, e vergognosamente il discacciò, con voce sparsa nel volgo che l'oro del Visconte l'avesse accecato e corrotto. Corse certamente un gran pericolo Matteo; ma la sua industria, oppur la buona fortuna il salvò. Fu nel mese di marzo nella villa di Quatorda dell'Astigiano [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] un incontro e conflitto fra il conte Guarnieri vicario generale dell'imperio e Teodoro marchese di Monferrato dall'un canto, ed Ugo dal Balzo marescalco del re Roberto, assistito dagli Astigiani ed Alessandrini, dall'altro. Restò superiore il regio comandante. In quest'anno ancora continuò la guerra fra i Padovani e Cane dalla Scala [Albertinus Mussat., lib. 14, rubr. 9, tom. 8 Rer. Ital.]. Andarono i primi sul fine di giugno con tutte le lor forze saccheggiando e bruciando sino alle porte di Verona, e diedero anche un assalto, ma inutile, al borgo San Michele. Indicibile fu il danno che patì, in tal congiuntura, il territorio di Verona. I Cremonesi s'impadronirono di Soncino, e Galeazzo Visconte colle sue genti venne fino alle porte di Parma, facendo gran guasto, e diede da temere a Giberto da Correggio, signore di quella città. Più e più volte aveano i Veneziani spediti ambasciatori o preghiere a papa Clemente V, per ottener l'assoluzione dalle terribili censure fulminate contra di loro per l'occupazion di Ferrara [Ptolomaeus Lucensis, in Vita Clementis V.]. L'ottennero solamente nel dì 14 di gennaio dell'anno presente [Raynald,, in Annal. Eccles.], ma a caro prezzo, perchè dovettero pagare al papa cento mila fiorini d'oro. Nel medesimo mese il re Roberto, che era dietro ad assorbir tutta l'Italia, se non era impedito, ottenne da esso pontefice il dominio [371] di Ferrara coll'annuo pagamento di un censo. Leggesi presso Albertino Mussato [Albertinus Mussatus, lib. 11, rubr. 6.] la lettera con cui egli diede avviso di questo suo acquisto al comune di Padova. Inoltre operò egli tanto, coll'assistenza ancora degli uffizii del re di Francia Filippo, che esso Clemente procedesse contro la memoria del defunto Arrigo imperadore: del che favelleremo all'anno seguente. Succedette nel presente a' dì 12, oppure 13 di febbraio, un fatto empio e scandaloso nel territorio di Modena [Bonif. Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], Raimondo d'Aspello, marchese della marca d'Ancona, guascone di patria, e nipote del pontefice, venne con Francesco dalla Torre a Bologna, per condurre dall'Italia in Provenza il tesoro del papa, con grandi fatiche raunato da lui. Gran gola fece ai nobili malviventi di allora la vista di sì ricca salmeria. Paganino conte da Panico Bolognese se l'intese con alcuni Modenesi ghibellini, cioè con Guidinello da Montecuccolo e con Arriverio da Magreta, nobili amendue; e contuttochè il marchese suddetto avesse ottenuto un passaporto, allorchè egli giunse a Sant'Eusebio sul Modenese, l'assalirono costoro con una forte mano di sgherri. Nel conflitto restò ucciso esso marchese con quaranta dei cavalieri di sua scorta, e fu rubato l'intero tesoro, presi i cavalli, e tutti i ricchi arnesi di lui e de' suoi. Matteo Griffone [Matthaeus de Griffonibus, Memor. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.] fa ascendere il valore di quel tesoro a più di settanta mila fiorini d'oro; Albertino Mussato a novanta mila [Albertinus Mussat., lib. 11, rub. 6, tom. 8 Rer Ital.]. Ma Bonifazio Morano, storico modenese di questi tempi, parla fino di dugento mila ducati, cioè fiorini d'oro. Per questo sacrilego eccesso, benchè commesso da' particolari, il papa sottomise Modena all'interdetto [Ptolom. Lucens., in Vita Clementis V.], con altre gravi pene e censure [372] contro gli autori del misfatto, ed anche contra chi non vi avea avuta parte alcuna.


   
Anno di Cristo mcccxiv. Indizione XII.
Clemente V papa 10.
Imperio vacante.

Filippo il Bello re di Francia e Roberto re di Napoli e signor di Provenza, che in questi tempi raggiravano a lor piacere la corte pontificia, fecero pubblicar due costituzioni a papa Clemente V [Raynald., Annal. Eccl.], colle quali annullò, ossia dichiarò nulla la sentenza dell'imperadore Arrigo VII contra del re Roberto. Nè veramente sussisteva essa in quella parte, dove il dichiarava decaduto e privato di tutte le Provincie e città da lui possedute, con assolvere tutti i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà: perciocchè tali parole generali sembravano ferire anche il regno di Napoli, del quale da sì lungo tempo la sola Chiesa romana concedeva l'investitura, senza che gl'imperadori vi ritenessero o usassero sovranità alcuna. Ma qui non finì la faccenda [Nicolaus Botront., Relat. Itiner. Henrici VII tom. 9 Rer. Ital.]. Era stata nel 1512 in Roma qualche controversia fra i ministri pontificii e l'imperadore Arrigo, intorno ai giuramenti che fanno gl'imperadori ai papi nella coronazione, e all'autorità pretesa dal pontefice di comandare all'imperadore anche nel temporale. Ora Clemente dichiarò che tali giuramenti prestati dai papi sono giuramenti di fedeltà, volendo insinuare che gl'imperadori son vassalli del papa. E nella clementina Pastoralem, con cui abolisce la suddetta sentenza d'Arrigo, aggiugne queste parole: Nos tam ex superioritate, quam ad imperium non est dubium nos habere, quam ex potestate, in qua vacante imperio imperatori succedimus, ec. Parvero dure ed insoffribili novità queste espressioni, e cagionarono poi delle gravi discordie, pretendendole [373] i Tedeschi affatto ripugnanti alla sentenza e pratica di tutti i secoli addietro; e che gl'imperadori, lungi dall'essere vassalli de' papi, fossero stati in passato sovrani di Roma stessa; e che sui regni d'Italia e di Germania niuna autorità temporale avessero mai avuta i papi, nè potessero pretenderla per varie ragioni; e che novità ancora fosse l'attribuirsi il governo d'esso regno d'Italia, vacante l'imperio. Ma a buon conto papa Clemente, piantate queste massime, delle quali per necessità convien qui fare menzione, ne procedette all'esecuzione nel dì 14 di marzo del presente anno [Raynaldus, Annal. Eccles.], col sostituire vicario dell'imperio in tutte le parti dell'Italia sottoposte al medesimo imperio il re Roberto, a cui nulla si negava in questi tempi, e che inoltre fu creato senatore di Roma: tutti gradini per alzarsi al dominio di tutta l'Italia, se i popoli avessero facilmente ceduto ai di lui voleri e disegni. Ma si fermò il breve volo della sua fortuna per la morte sopravvenuta al medesimo papa Clemente V [Bernardus Guid. Ptolom. Lucens. Amalricus Auger. Giovanni Villani, et alii.]. Trovavasi egli in Roccamora vicino al Rodano, malmesso di sanità da qualche tempo. Quivi terminò sua vita nel dì 20 d'aprile di quest'anno. Son brutti i colori lasciati alla memoria di questo pontefice da Giovanni Villani, da Albertino Mussato, da fra Francesco Pipino e da altri. Certo alcuni ne avrà inventati la malignità. Ma indubitato è ancora che un gran processo dovette questo pontefice trovar nel tribunale di Dio, per la maniera da lui tenuta in ottenere il pontificato, e per aver privata della sua residenza quella città, di cui Dio ha fatti pastori particolari i sommi pontefici, e con empiere il sacro collegio di oltramontani, per eternare in tale forma la permanenza della santa Sede di là dai monti. Fu anche accusato di non aver conosciuta misura nell'arricchire ed ingrandire i suoi parenti, nel ridur in commenda [374] tanti monisteri, e nell'ammassar tesori anche per illecite vie: tesori che dopo la sua morte andarono tutti a sacco, colla giunta di quel deforme spettacolo che vien asserito dal suddetto frate Francesco Pipino dell'ordine de' Predicatori [Franciscus Pipin., in Chron., tom. 9 Rer. Italic.] per relazione di chi v'era presente: cioè, che di tante sue ricchezze appena potè trovarsi uno straccio di veste da coprirlo; e morto, restò talmente abbandonato da tutti i suoi, intenti allo spoglio, che il fuoco caduto da un doppiere gli bruciò una parte del corpo. Raccontano ancora gli storici [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic.] che uno de' Templarii condotto fin da Napoli alla corte pontificia, e condannato al fuoco, benchè si protestasse innocente, citò al tribunale di Dio il papa e Filippo re di Francia entro lo spazio di un anno a rendere conto di quella ingiustizia: e che, finito l'anno, amendue mancarono di vita. Quand'anche fosse vera una tal citazione, noi non dobbiam per questo attribuire ad essa la morte del papa, perchè troppo scuri sono al guardo nostro i giudizii di Dio. Ma essendovi chi niega questo fatto, quasichè non si combinino i tempi, si vuole osservare che nel precedente anno due Templarii, ed altri nel presente, tutti costantissimi in asserir sè stessi innocenti di quei misfatti, de' quali erano incolpati [Bernardus Guid. Raynaldus, in Annal. Eccl. Johann. Canon., in Vita Clementis V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], furono bruciati vivi in Parigi; e però poter forse sussistere un sì fatto racconto.

Non so io dire se a qualche troppo delicata persona potesse parere non ben fatto il parlar dei difetti dei capi visibili della Chiesa di Dio, senza por mente all'esempio delle divine Scritture e dei santi, e dei migliori storici, che ugualmente per istruzione de' posteri han lodato i buoni e biasimati i cattivi; e senza riflettere che i difetti delle persone non son difetti della cattedra, la qual sempre fu santa [375] e sempre sarà finchè il mondo avrà vita. L'adulare i principi, non è scrivere istoria, ma un dar loro animo, che facciano ogni male, confidati che di loro sarà scritto ogni bene: perciò l'istoria non è da ingegno servile. Così diceva Alessandro Tassoni, chiaro scrittore fra i Modenesi. Ma sappiano i lettori, aver io detto nulla di questo papa in paragon di quello che ne scrissero ai lor giorni gli afflitti cardinali italiani, delusi troppo da questo volpino pontefice. Abbiamo una lettera scritta dal cardinal Napoleone degli Orsini al re di Francia dopo la morte di Clemente V [Baluz., Collec. Act. vet., pag. 289.], in cui accenna gl'immensi mali avvenuti a Roma e a tutta l'Italia per cagion dell'inganno fatto ai cardinali dal papa, col mettere la Sedia in Francia; e le simonie continue da lui fatte, e le rovine delle chiese per colpa sua succedute affine di accumular danari. Peggiorarono questi affari dipoi. Ventitrè erano i cardinali, fra' quali solamente sei italiani, il resto franzesi, che nella città di Carpentrasso entrarono nel conclave per eleggere il successore [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Nel dì 24 di luglio Bertrando del Gotto e Raimondo Guglielmo, parenti del defunto Clemente, con una gran frotta di armati entrati in Carpentrasso [Baluz., Collect. Act. vet., pag. 288.], volendo un papa guascone, attaccarono il fuoco a più parti della città e alle case de' cardinali italiani, giacchè contra di questi soli era indirizzato il loro furore; uccisero e ferirono molti delle lor famiglie, oppure italiani; e correndo anche al conclave, tentarono di sforzarlo, gridando intanto: Muoiano i cardinali italiani. Sarebbe forse avvenuto di peggio, se essi cardinali tutti spaventati, col far rompere un muro di dietro d'esso conclave, non fossero chi qua chi là segretamente scampati fuori di quella città. Questi scandali fecero poi differire di molto l'elezion del nuovo pontefice. Intanto nel dì 9 di novembre anche Filippo [376] il Bello, principe pieno di peccati, fu chiamato da Dio al rendimento dei conti. Si accordano Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 65.], Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Italic.] e Guglielmo Ventura [Ventura, Chron. Astens., cap. 28, tom. 11 Rer. Ital.] in dire, essere succeduta la morte sua da un cignale, che nella caccia il fece cader da cavallo con tal ferita, che incurabile il condusse infine al sepolcro. Questa particolarità viene taciuta da alcuni storici franzesi, e negata dal Mezeray e dal Sammartani. Ma noi l'abbiamo da tre autori contemporanei, che ce ne assicurano con parole assai chiare. L'essersi trovate in adulterio, mentre egli vivea, le tre sue nuore, mogli de' tre suoi figliuoli; l'essere questi figliuoli re l'un dietro all'altro, morti in meno di undici anni senza successione, con passare la corona di Francia nella linea di Carlo di Valois nell'anno 1328, diedero molto da parlare a coloro che vogliono entrare nei gabinetti del cielo, e crederono tutto ciò gastigo di Dio. Anche in Germania accadde un altro scabroso accidente, cagione poi di gravi sconcerti in Germania ed Italia [Albert. Argentin., Chron. Giovanni Villani. Ferretus Vicentinus, lib. 7.]. Nel dì 20 d'ottobre di questo anno cinque elettori, cioè Pietro arcivescovo di Magonza, Baldovino arcivescovo di Treveri, Giovanni re di Boemia, suo nipote, e figliuolo del fu imperadore Arrigo, Valdemaro marchese di Brandeburgo e Giovanni duca di Sassonia, dopo avere indarno chiamati ed aspettati gli altri due elettori, elessero in Francoforte re dei Romani Lodovico conte palatino del Reno, e duca di Baviera, famoso poi nella storia ecclesiastica col nome di Lodovico il Bavaro. Egli fu poi solennemente coronato in Aquisgrana, ma non dall'arcivescovo di Colonia, come portava il rituale. Gli altri due elettori, cioè Arrigo arcivescovo di Colonia e Ridolfo conte palatino del Reno [377] e duca di Baviera, elessero re dei Romani Federigo duca d'Austria, figliuolo del fu imperadore Alberto, che fu coronato in Bonna dal suddetto arcivescovo di Colonia, e non già in Aquisgrana, dove, secondo il rito, dovea farsi la funzione. Parea chiaro il diritto del Bavaro, e Giovan-Giorgio Ervarto [Hervartus, in Lud. IX imp.], che nel secolo prossimo passato acremente scrisse contra del Bzovio in difesa d'esso Bavaro, pretende che, secondo le leggi e gli usi dell'impero, legittima ed incontrastabile fosse la sua elezione. Ma ciò non si potè persuadere all'emulo Federigo, e a chi era per lui: però si venne all'armi, e ne ebbe per molto tempo a piangere la Germania.

Dappoichè mancò di vita l'imperadore Arrigo, parea che avesse da fiorire il mondo per la fazion ghibellina d'Italia, stante il gran potere del re Roberto, che signoreggiava non solamente nel regno di Napoli e in Provenza, ma anche in Roma, in Firenze, in Lucca, in Ferrara, nella Romagna, in Pavia, Alessandria, Bergamo e in varii luoghi del Piemonte. Giberto da Correggio gli avea anche suggettata Parma. Tuttavia diversi dall'opinion del volgo furono gli avvenimenti. Aveano, siccome abbiamo detto, i Pisani ghibellini preso per loro signore Uguccion dalla Faggiuola [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 57. Annal. Estenses, tom. 15 Rer. Ital.]. Questo accorto e vigilante capitano non perdè tempo a muover guerra ai Lucchesi con ispesse cavalcate e fieri saccheggi sino alle porte della loro città, dove nel dì 14 di novembre del precedente anno fu vicino ad entrarvi con loro gran paura e danno. Rinnovò nel presente le scorrerie, retrocedendo quando venivano in lor soccorso i Fiorentini; e subito, dappoichè s'erano ritirati, tornando al medesimo giuoco. Seguitò tanto questo doloroso flagello, che i Lucchesi discordi fra loro s'indussero a stabilir pace coi Pisani, a rimettere in città gl'Interminelli e gli altri fuorusciti [378] ghibellini, e restituir Ripafratta con altri luoghi ai Pisani [Albertinus Mussatus, de Gest. Ital., lib. 2, rubr. 9. Istor Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Ma che? non andò molto che n'ebbero un mal pagamento. Nel dì 14 di giugno essi Ghibellini mossero a rumore Lucca, e cominciarono battaglia coi Guelfi. Arrivò Uguccione coi Pisani, che erano di intelligenza, e fu ammesso per la Posterla del Prato in città. Andò a ruba l'infelice Lucca, e durò per otto dì il barbaro saccheggio. Ne fuggì Gherardo da San Lupidio, vicario del re Roberto, coi Guelfi; laonde i Pisani, sì dianzi abbattuti, crebbero di credito e potenza per l'acquisto di quella città. In così funesta congiuntura perì ancora il tesoro d'immenso prezzo, riposto in San Frediano, che papa Clemente V vi aveva fatto portar da Roma e da altri Stati, avanti che Arrigo Augusto facesse guerra in Roma stessa colle genti del re Roberto. Non v'era memoria d'un così grosso bottino fatto in una sola città, come fu quello di Lucca. Per questo atroce colpo grande spasimo prese il cuor de' Fiorentini, massimamente perchè Uguccione cominciò a far guerra al loro distretto e a quel di Pistoia. Scrissero perciò efficaci lettere al re Roberto, ed egli mandò tosto in aiuto loro Pietro suo fratello minore con trecento uomini d'armi, ricevuto a grande onore in Firenze nel dì 18 di agosto. Nello stesso mese, volendo il medesimo re oramai vendicarsi di Federigo re di Sicilia, co' principi suoi fratelli Filippo e Giovanni (Raimondo Berengario è chiamato da Niccolò Speciale [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 4, tom. 10 Rer. Ital.]) e con un'armata di centoventi galee, e quasi altrettanti legni grossi da trasportar cavalli e munizioni, conducendo seco due mila cavalieri e fanteria senza fine, veleggiò verso la Sicilia [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 61. Ferretus Vicentinus, lib. 6, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Astense, cap. 76, tom. 11 Rer. Ital.]. Impadronissi a tutta prima di Castellamare; e, credendosi di mettere [379] il piede in Trapani per un precedente trattato, si trovò deluso. Lo stesso Federigo quegli era stato che avea ordita la trama, per fermar quivi le forze del re Roberto, siccome avvenne; perchè Roberto imprese l'assedio di quella città con sommo vigore. Ma questa era ben provveduta di viveri e di gente, che nulla tralasciò per una gagliarda difesa. Lo stesso Federigo, col corseggiar ne' contorni, andava pizzicando i nemici. Ora per le infermità e per la mortalità venne a scemarsi di molto l'armata del re Roberto. Sopraggiunse ancora un'orrida burrasca che mise in conquasso tutti i suoi legni, e impedì parimente che non seguisse un fatto d'armi con quei del re Federigo, giù usciti in mare, e battuti anch'essi dalla medesima tempesta. Veggendosi dunque Roberto a mal partito per la perdita di trenta galee, e per la mancanza delle vettovaglie, s'appigliò alla risoluzione di trattar qualche accordo; sicchè fu conchiusa tra loro una tregua di tre anni e due mesi e mezzo, e col favor d'essa nel finire dell'anno Roberto, malcontento di tante spese inutilmente fatte e della perdita di molta gente e di molte navi, se ne tornò a Napoli a macchinar degli altri disegni.

In Ferrara, che gli Annali Estensi [Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital.] dicono donata da Clemente V a Sancia moglie del re Roberto, fu un trattato fra alcuni cittadini e fuorusciti ghibellini per levarla di mano ad esso re. Vennero costoro nel mese di giugno pel Po col naviglio de' Mantovani alla volta di quella città; ma, alzatasi una fortuna in esso fiume, andò a male il lor disegno. Molti ne furono presi e fatti giustiziare da Pino dalla Tosa, vicario ivi del re Roberto. Aspra guerra intanto seguitava fra i Padovani e Cane dalla Scala [Albertinus Mussatus, de Gest. Ital., lib. 4, rubr. 1, tom. 8 Rer. Ital.]; ma Padova, la quale più che mai abbisognava di concordia in sì pericoloso impegno, non la nudriva nel suo seno a cagion [380] delle fazioni e prepotenze, frutti consueti delle repubbliche italiane d'allora. Quivi nel dì 24 d'aprile nata rissa fra la nobil famiglia da Carrara, terra sul Padovano, capi della quale erano allora Jacopo ed Ubertino, e quelle di Pietro Alticlino e Ronco Agolante, due potenti plebee di quella città: tutto il popolo vi si interessò. Vi fu della mortalità, e non pochi saccheggi, ma prevalsero i Carraresi. La casa di Albertino Mussato istorico andò anch'essa allora a sacco [Cortus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Continuò dipoi la guerra contro Cane dalla Scala, e nel settembre i Padovani con tutte le lor forze improvvisamente arrivarono sino alle porte di Vicenza [Annal. Estenses. Ferretus Vicentinus. Chron. Bononiens., et alii.] con tale baldanza, come se andassero a diporto ed avessero in pugno quella città. Presero il borgo di San Pietro, e gli diedero il sacco, con tutte le scelleraggini che accompagnano simili congiunture. Incredibile fu il terrore nella città, quando ecco inaspettatamente arrivar Cane da Verona. Al primo avviso dell'insulto de' Padovani, saltato a cavallo il furibondo Scaligero con un sol famiglio, si avviò alla volta di Vicenza [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Entrato nella confusa città, rimise il cuore in petto a quei cittadini; e, senza perdere tempo, nel dì 17 di settembre, fatto lor prendere l'armi [Johannes de Bazano, Chronicon Mutinense, tom. 15 Rer. Ital.], unitamente coi Tedeschi della guarnigione uscì per una porta addosso ai Padovani, con alle grida intonando tutti: Viva Cane [Cortus, Hist., lib. 1, tom. 12 Rer. Ital.]. Se ne stavano i buoni Padovani sparsi e senza guardie. Il nome temuto di Cane e l'ardire de' Vicentini furono fulmini che bastarono a mettergli in fuga. La strage d'essi fu grande, maggiore la copia de' prigionieri, che si fanno montare a mille e cinquecento, il bottino inestimabile. Jacopo e Marsilio da Carrara (che da Ferreto viene appellato dei Rossi, per errore del testo) ed Albertino [381] Mussato restarono, oltre a tant'altri, in poter de' nemici. Questi, mentre Padova si trovava in una fiera costernazione, e Cane raunava da tutte le parti gente per passar sotto quella città, mossero parola di pace con esso Scaligero, che vi diede ascolto. Tanto finalmente si trattò coll'andare e venir corrieri da Padova, che questa fu conchiusa nel dì 20 d'ottobre, per cui fu ceduta da' Padovani a Cane ogni lor pretensione sopra Vicenza.

Ebbero i Piacentini [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] nel maggio di quest'anno una rotta da Leone degli Arcelli, e dagli altri loro fuorusciti in Vico Giustino. Poscia nel mese di settembre Ugo Delfino di Vienna, che si facea parente dei Torriani, venuto a Pavia in loro aiuto con alcune schiere d'armati, formata una grande unione di Pavesi, Cremonesi, Parmigiani, Alessandrini, Vercellesi e d'altri Guelfi, insieme coi suddetti fuorusciti ostilmente venne sul Piacentino per terra e per acqua. Bruciò questa armata il ponte de' Piacentini sul Po, ed entrò nel borgo di San Leonardo, dove si fermò nove giorni, disponendo le macchine per espugnar la città. Al governo d'essa era Galeazzo Visconte, già eletto signore della medesima, il quale si preparò per una valida difesa. Ma, insorta discordia nel campo di essi collegati, senza far altro maggior tentativo, e con perdita di gente, tutti se ne andarono alle lor case [Bonincontrus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Se crediamo a Galvano Fiamma [Gualvanus Flamma, cap. 353.], Galeazzo Visconte gl'inseguì fino a Tortona. In Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 56.], per la gara continua di quelle possenti case, cadauna delle quali voleva la maggioranza negli uffizii, ed anche la signoria della terra, nacquero varie contese fra i Boria e gli Spinoli. Pace fu fatta, ma di corta durata. Si venne all'armi, e per ventiquattro giorni si combattè fra essi e i lor fazionarii, con interessarsi la maggior parte del popolo [382] in sì fatta querela, che costò la vita a molti e l'incendio a non poche case. Finalmente, per l'interposizione di alcuni saggi neutrali, si quetò la guerra; ma stettero poco gli Spinoli a rinnovarla con loro svantaggio nondimeno, perchè sconfitti, furono necessitati ad abbandonar la città e a ritirarsi nelle lor terre. I Doria e i Grimaldi rimasero uniti, e seguitò Genova a reggersi a popolo. Nella Romagna [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Albertinus Mussat., de Gest. Ital., lib. 5, rubr. 5.] Francesco de' Manfredi, correndo il dì 9 del mese di novembre, mosse a ribellione le città di Faenza e d'Imola contra il conte Giliberto de' Sintilli, vicario della Romagna pel re Roberto. Tentò ancora dipoi con Lamberto e Banino da Polenta, e con un esercito di cinquecento cavalli e diecimila fanti, la conquista di Forlì; anzi v'entrò col favore dei Calboli; ma prevalendo gli Argogliosi coi lor Catalani, ch'erano ivi di presidio pel re Roberto, furono costretti gli entrati e i Caiboli coi loro fautori alla fuga. Cesena restò dipoi quasi presa da essi Catalani; se non che Malatestino da Rimini, accorso, li cacciò, e prese il governo di quella città.


   
Anno di Cristo mcccxv. Indizione XIII.
Sede romana vacante.
Imperio vacante.

Seguitò ancora in quest'anno la discordia fra i cardinali, di modo che neppur fu dato un successore alla cattedra di san Pietro. In Germania continuò la guerra fra Lodovico il Bavaro e Federigo Austriaco, re eletti. Leopoldo, fratello di Federigo, fece di molte prodezze, ma restò più che mai imbrogliato e diviso il regno. In Italia prosperamente camminarono gli affari dei Ghibellini. Avea Uguccione dalla Faggiuola [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 70. Storie Pistolesi. Cortus, Hist. Albertinus Mussat., et alii.], signor di Pisa e Lucca, assediato con gran vigore la forte terra di Montecatino, e tentata ancora, ma indarno, [383] la presa di Pistoia. Risoluto di voler la terra suddetta, ne continuò ostinatamente l'assedio. Stavano per questo in gran pena i Fiorentini. Già era venuto nell'anno precedente in loro aiuto Pietro, fratello del re Roberto; ma il re, intendendo come cresceva sempre più l'ardire e la forza d'Uguccione e de' Pisani, e degli altri Ghibellini di Toscana, ad istanza di essi Fiorentini, benchè contro il suo volere, vi mandò Filippo principe di Taranto altro suo fratello. Questi, conducendo seco cinquecento uomini d'armi e il principe Carlo suo figliuolo, arrivò a Firenze nel dì 11 di luglio dell'anno presente. Aveano intanto i Fiorentini preparata una bella armata coll'aiuto dei Bolognesi, Sanesi, Perugini e d'altri Guelfi di Toscana e Romagna, il cui numero fu detto ascendere (se pur si può credere) a circa sessanta mila persone; ed, unito che fu con loro il rinforzo del suddetto principe di Taranto, uscirono in campagna per isnidar Uguccione da Montecatino nel dì 6 d'agosto, e vennero in Val di Nievole. Benchè di gran lunga inferior di forze, pure assai forte era Uguccione, trovandosi con lui i Pisani, Lucchesi, e gran copia di Ghibellini toscani, ed alcune schiere inviategli da Matteo Visconte. Suppliva il suo senno a quel che gli mancava d'armati. Più dì stettero a vista i due eserciti, e finalmente Uguccione, perchè gli veniva tolta la vettovaglia mandata da Lucca, fu forzato a levare il campo; ma con tal maestria lo levò, che, prevedendo battaglia coi nemici, si trovò in statodi ben riceverla [Johan. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.]. Vennero infatti le due armate alle mani nel dì 29 di agosto, festa della Decollazione di san Giovanni Batista; il combattimento fu duro e sanguinoso, e la vittoria infine si dichiarò in favor d'Uguccione [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.]: vittoria delle più memorabili di questi tempi, per la quantità degli uccisi e per l'incredibil bottino. Vi restò [384] morto Carlo figliuolo del principe Filippo e Pietro fratello del re Roberto restò sommerso in una palude fuggendo, senza che il suo corpo mai si trovasse. Molti altri baroni e contestabili vi lasciarono la vita, oltre a più di due mila soldati uccisi ed altri assai annegati, e più di due mille e cinquecento prigioni, fra' quali cento quattordici delle migliori case di Firenze, e moltissimi delle altre città, annoverati dall'autore della Cronica di Siena. Perdè anche Uguccione in questa giornata Francesco suo figliuolo, ma senza punto scomporsi all'avviso di sua morte. Se gli arrendè poi Montecatino, ed egli mise per signore in Lucca Neri, altro suo figliuolo. Per sì grave disgrazia non si avvilirono punto i Fiorentini; e tanto più fecero coraggio, perchè il re Roberto, sempre più impegnandosi a sostenerli, inviò tosto in loro aiuto il conte d'Andria e di Monte Scaglioso, appellato il conte Novello, con dugento cavalieri. Maggiormente ancora risorse la loro fortuna nell'anno seguente, per quel che diremo.

Non ebbero minor felicità in Lombardia l'armi di Matteo Visconte, capo del ghibellinismo. Volle egli fondare, oppur rifabbricare, dove la Scrivia mette capo nel Po, un castello, a cui diede il nome di Ghibellino, per frenar le scorrerie dei Pavesi contra de' Tortonesi suoi sudditi [Gualvan. Flamma., cap. 354. Bonincontr Morigia, cap. 19, tom. 12 Rer. Italic. Albertinus Mussatus, lib. 7, rubr. 10, tom. 8 Rer. Ital.]. Ugo del Balzo, vicario del re Roberto in Piemonte, coi Pavesi, Vercellesi, Alessandrini ed Astigiani, e coi Torriani, per terra e per acqua nel dì 4 di luglio andò a frastornar quel lavoro; ma dalle milizie del Visconte fu rotto. Vi fu ucciso Zonfredo dalla Torre, fratello di Pagano vescovo di Padova. Edoardo dalla Torre con ottanta altri nobili di parte guelfa rimase prigione. Guglielmo Ventura [Ventura, Chron. Astense, cap. 79, tom. 11 Rer. Ital. Bonincontr. Morigia. Albertinus Mussatus, et alii.] scrive che fra i prigionieri si contarono il genero e il nipote di Ugo del Balzo, e [385] più di mille Alessandrini e Valentini. Inoltre nel dì 6 venendo il dì 7 di ottobre, Stefano figliuolo di Matteo Visconte furtivamente circa l'aurora entrò in Pavia, e s'impadronì di quella città. Accorse Ricciardino ossia Riccardino, figliuolo dell'imprigionato Filippone conte di Langusco, per opporsi; ma nella mischia restò ucciso. Con che Matteo restò padrone di sì importante città, con liberar tutti i prigioni, fra' quali Manfredi da Beccaria, e rimettere in città tutti i fuorusciti. Furono in tal congiuntura presi Amorato e Guidotto figliuoli del fu Guido dalla Torre, e commesse di gravi ruberie ed iniquità, ma colla morte di pochi. Così Pavia, con esserne scacciati i Guelfi, tornò ad essere ghibellina; e Matteo Visconte vi fece fabbricare una fortezza per maggiormente assicurarsi di quel popolo. Era in que' tempi il Visconte signor di Milano, Pavia, Piacenza, Como e Bergamo. Provveduto di molti bellicosi figliuoli, al governo di cadauna teneva egli un di essi: il che gliene assodava l'acquisto. Non passò l'anno che anche il popolo di Alessandria [Chron. Astense, cap. 81, tom. 11 Rer. Ital.], per opera di Tommaso del Pozzo, si ribellò al re Roberto, e si diede al medesimo Visconte. Ciò fu nel mese di dicembre. Anche Tortona era stata molto prima presa con armata mano da Marco Visconte figliuolo d'esso Matteo. Bonincontro Morigia racconta [Bonincontrus Morigia, Chron., cap. 19, tom. 12 Rer. Ital.], essere avvenuto quell'acquisto nel dì primo di dicembre, giorno di domenica: il che indica l'anno precedente. Fecero in quest'anno guerra viva a Cremona Cane dalla Scala signor di Verona e Vicenza, e Passerino de' Bonacossi signore di Mantova e Modena [Albertinus Mussatus, lib. 7, rub. 19, tom. 8 Rer. Ital.]. Dopo la presa di alcune castella guidarono lo esercito sino alle porte di quella città, aspettando che si facesse qualche commozione nell'atterrito popolo. Giberto da [386] Correggio, accorso colà da Parma, tanto animo diede ai Cremonesi, che i nemici, vedendo di perdere quivi il tempo, si ritirarono. Ma Cane in tal occasione (se pur non fu nell'anno seguente) occupò la ricca e popolata terra di Casal Maggiore, e vi lasciò una buona guarnigione. Da queste avversità commossi i Cremonesi si appigliarono al partito di proclamar loro signore Jacopo marchese Cavalcabò, ma con dispiacere della contraria fazione, di cui era capo Ponzino de' Ponzoni. Però tutti questi adirati uscirono della città, e si afforzarono in Soncino, Pizzighettone, e in altre castella di quel territorio. Tolta fu in quest'anno a Matteo Visconte da Maranzio Guinzone, e poi da Soncino Benzone, Crema. Lodrisio Visconte podestà di Bergamo diede una gran rotta al ponte di San Pietro ai Guelfi fuorusciti, colla morte di più di mille d'essi. Furono anche delle novità in Forlì [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]; perciocchè i Calboli con Cecco e Sinibaldo degli Ordelaffi vi rientrarono per forza, e ne scacciarono gli Argogliosi, e le genti del re Roberto, nel dì 2, oppure 12 di settembre. Questo medesimo fatto vien descritto da Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Italic.], con dire che il suddetto Cecco, cioè Francesco degli Ordelaffi, chiuso in una botte, si fece introdurre in Forlì, e quivi, segretamente incitati gli amici alla sollevazione contra del re Roberto, s'impadronì della città, dalla qual poscia cacciati i Calboli, restò egli signore. Ne parla ancora Albertino Mussato [Albertinus Mussatus, lib. 7, rubr. 12.]. Così quella città abbracciò la fazion ghibellina, e seppe sostenersi dipoi contro gli sforzi di Diego vicario del re Roberto. Stando nella terra di Buzzala gli Spinoli ed altri fuorusciti di Genova, faceano guerra alla lor patria [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. In Genova si preparò un possente esercito di mille e cinquecento cavalli e di circa [387] dieci mila pedoni sotto il comando di Manfredino marchese del Carretto, e si marciò contra degli usciti. Furono ben tre volte respinti i Genovesi, colla morte di più di cinquecento d'essi; infine soperchiando col numero gli avversarii, li misero in fuga; presero, saccheggiarono e distrussero dai fondamenti Buzzala. Ma nel dì seguente eccoli i fuorusciti di nuovo comparire con ducento cavalieri tedeschi, venuti al loro soldo, con tal empito, che n'andò sconfitta l'armata genovese, restandovi uccisi più di mille d'essi, e prigioni fra gli altri il lor capitano e Lamba Doria con due suoi figliuoli [Chron. Astense, cap. 90, tom. 11 Rer. Ital.], i quali collo sborso di diecisette mila fiorini d'oro ricuperarono dipoi la libertà.


   
Anno di Cristo mcccxvi. Indiz. XIV.
Giovanni XXII papa 1.
Imperio vacante.

Essendosi finalmente accordati i cardinali di trattar dell'elezione di un nuovo pontefice nella città di Lione, quivi nel dì 28 di giugno entrarono nel conclave [Raynaldus, in Annal. Eccles. Bernardus Guid., Append. Ptolom. Lucensis.], e poscia nel dì 7 d'agosto promossero al pontificato Jacopo d'Ossa da Cahors, già vescovo di Freius, poi d'Avignone, e infine cardinale vescovo di Porto, personaggio di bassissimi natali, di piccola statura, ma scaltro e di gran sapere, massimamente ne' canoni e nelle leggi. Molte notizie di sua vita prima del pontificato si hanno da Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Ital.] e da Giovanni Villani [Giovanni Villani.]. Prese il nome di Giovanni XXII. Da lì a un mese, cioè nel dì quinto di settembre fu coronato in essa città di Lione, e nel seguente mese andò a mettere la sua residenza in Avignone, città del suddetto re Roberto, dove, nelle quattro tempora dell'Avvento, fece la promozion di otto cardinali tutti franzesi, eccettochè Giovan-Gaetano degli Orsini [388] di Roma, unico italiano, con grave mormorazione, per quanto si può credere, di chi amava l'Italia, e piagneva i mali originati dalla lontananza della santa Sede. Insuperbito Uguccion dalla Faggiuola per li prosperosi successi delle sue armi [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 76. Istor. Pistol. Ferretus Vicentinus, et alii.], governava Pisa e Lucca più da tiranno che da signore. Per aver fatto tagliar la testa a Banduccio Buonconti e a suo figliuolo, uomini di gran credito e senno in Pisa, perchè trattavano di sottomettere la città al re Roberto, crebbe l'odio de' Pisani contra di lui. Parimente in Lucca fece imprigionar Castruccio ed altri degl'Interminelli, per certe ruberie ed omicidii fatti in Lunigiana, che processati doveano perdere la testa. Ma perciocchè Neri suo figliuolo dominante in Lucca non si attentava di eseguir la condanna pel seguito grande della famiglia d'essi Interminelli, Uguccione si mosse da Pisa nel dì 5 d'aprile per dar sesto agli affari de' Lucchesi. Appena fu al monte di San Giuliano, che Coscetto da Colle, popolano arditissimo, mosse a rumore la città di Pisa, gridando tutti: Muoia il tiranno Uguccione. Uccisero la di lui famiglia, diedero il sacco al di lui palagio, e poi crearono lor signore il conte Gaddo dei Gherardeschi, uomo savio, e di gran valore e podere. Con questa mala nuova in corpo arrivò Uguccione a Lucca, oppure gli fu portata in quella città; e quivi ancora avendo trovato tutto in tumulto, accresciuto poi dalla voce di quanto era avvenuto in Pisa, determinò di mettere in salvo la vita, ritirandosi di colà col figliuolo e colle sue genti: rovescio esemplare dell'instabil fortuna delle umane grandezze. Castruccio liberato dalla carcere e dal pericolo della testa (alcuni dicono per ordine dello stesso Uguccione prima di sua partenza), da lì a qualche tempo fu proclamato per un anno signore di Lucca: tempo bastante a chi era provveduto di mirabil ardire ed accortezza, per non dimettere più le redini di quel [389] governo. Uguccione se n'andò al marchese Spinetta Malaspina, poscia venne a Modena [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Italic.] nel dì 25 d'aprile, e finalmente si ricoverò presso Cane dalla Scala, che, a riguardo del ghibellinismo e del credito suo nell'arte della guerra, il fece suo capitan generale. Furono biasimati i Pisani da molti, come ingrati ad un uomo che dal basso stato, in cui si trovavano, gli avea alzati tanto alto, e dietro era a farli più grandi.

L'ordinario mestier delle città italiane di questi tempi, divise nelle maladette sette de' Ghibellini e Guelfi, era di andar macchinando, come l'una fazione potesse abbattere l'altra. In Brescia [Malvec., Chron. Brixian., lib. 9, cap. 29, tom. 14 Rer. Ital. Annales Estens., tom. 15 Rer. Ital.] la signoria stava in mano de' Ghibellini, capo d'essi la famiglia de' Maggi. I Guelfi rimessi in quella città rodevano il freno, veggendosi da meno, e fors'anche poco ben trattati dagli altri. Fecero essi un segreto trattato con Jacopo Cavalcabò marchese, signor di Cremona, città guelfa; e questi con alcune migliaia d'armati nell'ultimo dì di gennaio comparve colà, e fu ammesso per la porta di San Giovanni: nel qual tempo anche altre schiere di Guelfi arrivarono dalla riviera del lago di Garda e da altri luoghi. Il podestà di Brescia marchigiano, postovi dai Maggi, quei fu che li tradì per quattro mila fiorini, ed aprì la porta ai nemici. Gran combattimento seguì fra essi e i Ghibellini; e questi ultimi infine sconfitti sloggiarono, riducendosi alle castella di Iseo, Palazzuolo, Chiari, Pompiano, gli Orci, Quinzano ed altri luoghi, ne' quali si fecero forti, cominciando appresso una dura guerra contro alla lor città, sostenuti ancora da Cane dalla Scala. Ma poco durarono le contentezze del suddetto marchese Cavalcabò. I Ponzoni, gli Amati ed altri fuorusciti di Cremona colle lor forze il tenevano corto. Giberto da Correggio signor di Parma, gran caporale [390] de' Guelfi, andò a Cremona per trattar l'accordo fra loro. Ponzino dei Ponzoni non volea pace, se il Cavalcabò non rinunziava la signoria. Andò a finir la faccenda che quella volpe di Giberto l'indusse a rinunziare, e poi fece proclamar sè stesso signor di Cremona. A questo avviso gliela giurarono Matteo Visconte, Can dalla Scala e Passerino signor di Mantova capi de' Ghibellini. Segretamente pertanto ordirono un trattato in Parma con Gianquillico di San Vitale genero di Giberto stesso, con Rolando Rosso suo cognato, e con altri nobili, ne' quali egli maggiormente confidava. Questi nella festa di san Jacopo Apostolo, nel dì 25 di luglio, mossero a rumore la città, gridando tutti: Popolo, popolo. Accortosi Giberto che troppo grossa era la tempesta, si ritirò a Castelnuovo, Campigine e Guardasone, dove si fortificò ed implorò l'aiuto de' Bolognesi, Padovani e Fiorentini. Andò poscia fino a Napoli a trovare il re Roberto, ed ottenne ottocento cavalieri da lui e dalla lega guelfa, co' quali, venuto a Castelnuovo, fece aspra guerra a Parma. Anche i Parmigiani entrarono in lega col Visconte, collo Scaligero e con Passerino di Mantova. Nel mese d'agosto dell'anno presente [Chron. Astense, cap. 83, tom. 11 Rer. Ital.], Ugo del Balzo e Ricciardo Gambatesa, vicarii in Piemonte del re Roberto, entrati nel territorio di Alessandria, vi presero le castella d'Iviglie, Solerio, Quargnento, Bosco e Castellaccio. Allora Matteo Visconte inviò ad Alessandria più di mille uomini d'armi, coi quali e colle sue genti Marco suo figliuolo non solamente ripigliò quei luoghi e diedegli alle fiamme, ma fece anche molti prigioni de' nemici. Guerra ancora in quest'anno fu nel territorio di Cremona, portatavi da Cane e da Passerino. Giberto da Correggio, non trovandosi quivi sicuro, con Jacopo Cavalcabò si ritirò a Parma, da dove poi fu cacciato, siccome abbiam detto. Fecero allora i Cremonesi lor capitano Egidio Piperata. In soccorso d'essa città di Cremona volle [391] passare pel Modenese un corpo di fanti e cavalli, raunato in Bologna [Bonifacius de Morano, Chron., tom. 11 Rer. Italic.]; ma Francesco Menabò podestà per Passerino nel dì 17 di febbraio coi Modenesi ito ad assalirli nella villa di San Michele, molti ne uccise, e più ne fece prigioni. La città di Cervia [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] nel dì 6 d'aprile dell'anno presente si diede sotto il dominio di Ostasio da Polenta signor di Ravenna. E Guecelo da Camino nel mese di giugno occupò la città di Feltre nella marca di Trivigi, con iscacciarne il vescovo, che n'era padrone [Cortus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Poscia s'imparentò con Cane dalla Scala, ottenendo in moglie d'un suo figliuolo Verde figliuola di Alboino Scaligero.


   
Anno di Cristo mcccxvii. Indizione XV.
Giovanni XXII papa 2.
Imperio vacante.

Attese in quest'anno papa Giovanni XXII a fondar nuovi vescovati in Francia [Raynaldus, Annal. Eccles.], trinciando specialmente la vasta diocesi di Tolosa, la cui chiesa eresse in arcivescovato. Essendo oramai terminata la tregua già fatta fra Roberto re di Napoli e Federigo re di Sicilia [Nicol. Special., Histor., lib. 7, cap. 8, tom. 10 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 65.], Roberto, più che d'altra cosa voglioso di ricuperar la Sicilia, spedì colà Tommaso da Marzano conte di Squillaci con una gran flotta e con un potente esercito. Sbarcò egli in Sicilia nel mese d'agosto; niun conquisto vi fece, ma diede un tal guasto al paese fin sotto alle porte di Messina, senza che Federigo ardisse mai d'affrontarsi con lui, che comune opinione fu che, s'egli ritornava l'anno seguente al medesimo funesto giuoco, la Sicilia non potea reggere a questo flagello. Susseguentemente mandò papa Giovanni i suoi nunzii a Federigo, con esibirsi mediatore di pace, ordinando che intanto egli depositasse [392] in mano degli uffiziali pontificii la città di Reggio cogli altri luoghi occupati in Calabria. Federigo condiscese ai voleri del papa col deposito delle terre di Calabria; ma si trovò poi ingannato, perchè il papa le consegnò al re Roberto, che le ritenne per sè. Stabilì intanto fra loro esso pontefice una tregua di tre anni, non già per far servigio a Federigo, ma perchè gl'imbrogli di Genova, de' quali parleremo, occuparono di troppo il re Roberto. Inviò Federigo ad Avignone i suoi ambasciatori per la progettata pace; ma Roberto se ne rise, nè alcuno v'inviò, contento d'avere con tanta facilità ricuperati que' luoghi, e di mantener tuttavia le sue speranze di riavere anche un dì la Sicilia tutta. Nella torbida sempre città di Genova crebbe in quest'anno sì fieramente la diffidenza e discordia fra i cittadini [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], che si diede principio ad una memorabil guerra, in cui prese impegno buona parte dell'Italia, e che fu seminario d'infiniti mali. Nel dì 15 di settembre v'entrarono senz'armi gli Spinoli fuorusciti col consenso de' Fieschi e Grimaldi, cercando pace. Non si fidando gli uni degli altri, uscirono di città i Doria. Tennero poi loro dietro gli Spinoli, e queste due forti famiglie, dianzi nemiche, divenute amiche, s'impadronirono (non so se nel presente o nel susseguente anno) di Savona e d'Albenga, con ribellarsi al comune di Genova, e far lega con Matteo Visconte e cogli altri Ghibellini di Lombardia. Rimasero i Guelfi padroni di Genova, e per questa divisione nell'anno seguente cominciò una fiera e sanguinosa tragedia, che fu delle più strepitose di questi tempi. Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 85.] racconta essere tutto ciò proceduto da segreto monopolio del re Roberto, che voleva esclusi i Ghibellini da quella città; perché, ridotta essa a parte guelfa, sperava egli d'acquistarne il dominio, siccome infatti gli riuscì. A questo fine volle [393] ancora che fra i Pisani ed altri Ghibellini di Toscana dall'una parte, i Fiorentini, Lucchesi, Sanesi ed altri Guelfi di Toscana dall'altra, seguisse pace: il che a' Fiorentini, pieni tuttavia d'odio e di rabbia per la sconfitta di Montecatino, rincrebbe forte. Ma perciocchè si mostravano renitenti i Pisani ad accordare a' Fiorentini l'esenzion delle loro gabelle, la sottile accortezza d'essi Fiorentini trovò un'invenzione per guadagnare il punto. Finsero di raddoppiare i pubblici aggravii per avere ogni anno d'entrata cinquecento mila fiorini d'oro, e ne sparsero la voce. Poscia spedirono corriere in Francia con lettere finte a quel re e al papa, acciocchè mandasse loro uno dei principi della casa con mille uomini d'armi e con lettere di cambio per sessanta mila fiorini. Per via di Pisa fu inviato il corriere; seco era una spia fidata, che, quando egli fu in Pisa, andò a rivelarlo al conte Gaddo ed agli anziani, i quali gli fecero mettere le mani addosso. Trovate e lette quelle lettere, ne restarono ammirati, e conoscendo che per loro non facea di mantener la guerra, si arrenderono alle proposizioni di pace, ritenendo quanto aveano preso.

Tentò in quest'anno nel mese d'agosto Uguccion dalla Faggiuola, coll'aiuto di Cane dalla Scala, di rientrare in Lucca, dove avea dei trattati. Venne in Lunigiana al marchese Spinetta Malaspina per questo. Ma, scoperti i suoi andamenti, fu rumor popolare in Pisa; la famiglia dei Lanfranchi n'ebbe gran danno, ed Uguccione, fallito il colpo, se ne tornò a Verona. Allora Castruccio signor di Lucca, nemico anch'egli d'Uguccione, fece lega coi Pisani, e poi guerra al marchese Spinetta, togliendogli Fosdinuovo ed altre castella: perlochè Spinetta si ritirò anch'esso colla sua famiglia a Verona. In Parma [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] nel mese di settembre Manno dalla Branca di Gubbio, podestà di quella città, uomo dabbene, trattò di pace fra que' cittadini e Giberto da Correggio fuoruscito, [394] che infestava molto la patria. Ne seguì la concordia. Giberto riebbe i suoi beni, e fu rimesso in città, con promessa di menar vita privata. Parimente nel mese d'aprile i fuorusciti guelfi di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] consegnarono le lor castella a Galeazzo Visconte signore di quella città, e riebbero i lor beni col ritorno alla patria, il solo Alberto Scotto fu mandalo ai confini a Crema, dove nel dì 23 di gennaio dell'anno seguente diede fine ai suoi giorni, lasciando dopo di sè la brutta memoria di molte frodi e di gravi danni recati alla patria sua. Questo medesimo spirito di concordia si stese a Modena [Moran., Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital.], dove nel dì 5 d'agosto, per cura di Federigo dalla Scala podestà, furono reintegrati nel possesso dei lor beni Francesco dalla Mirandola, i Pii, i Gorzani e gli altri usciti, e tutti vennero alla patria, ricevuti con amore dagli altri cittadini nel dì 2 d'agosto. Fece oste in quest'anno nel mese di maggio Cane dalla Scala contra de' Bresciani in favore de' fuorusciti ghibellini; prese Castiglione e Montechiaro, e recò loro degli altri danni [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Estense, ubi sopra.]. Mentre egli si tratteneva in quelle parti, assediando Lunato, i Padovani [Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital. Cortus, Chron., et alii.], giacchè se la videro bella, fingendo che questa fosse risoluzion di particolari, e non del comune, corsero a valersi del tempo propizio per ricuperare la perduta città di Vicenza. Aveano essi menato un trattato con certi Vicentini, e ricevutine anche gli ostaggi per questo. Ma il trattato era doppio, e di tutto veniva di mano in mano informato lo Scaligero. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Ital.] pretende che Cane ne avesse l'avviso dai Carraresi stessi Padovani. Ora nella notte del dì 22 vegnente del mese suddetto i Padovani colle genti comandate da Vinciguerra conte di San [395] Bonifazio giunsero sotto Vicenza, e, trovate le porte chiuse, si applicarono a dare la scalata a quella città, e molti ancora v'entrarono. Avvisato dai traditori, oppur dai Carraresi, Cane, eccolo comparire con Uguccione, e con que' pochi che per la sua gran fretta poterono seguitarlo. Fece egli tosto aprire una porta, e i Padovani, credendola aperta per introdurli, si videro all'improvviso piombare addosso l'adirato Cane. Parvero pecore all'arrivo del lupo. Tutti allora a gambe; molti d'essi furono uccisi, molti presi, fra i quali lo stesso conte di San Bonifazio capitano, che morì fra pochi giorni per le ferite ricevute; e restò in preda de' Vicentini tutto il loro equipaggio. Qui però non finì la disavventura de' Padovani. Trovò Cane un tavernaio della fortissima terra di Monselice, per nome o soprannome Maometto [Albertinus Mussatus, tom. 8 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Ital.], che promise di dargli adito in quella importante fortezza. Disposte le cose nella vigilia della festa di San Tommaso Apostolo, Cane, senza badare alla stagione orrida pel freddo, ito colà con Uguccione e con grosse brigate, s'impadronì della terra, e da lì a cinque giorni della rocca di Monselice. Incredibil fu il terrore de' Padovani per questa perdita; già s'aspettavano Cane alle porte, ed egli intanto colla forza prese la nobil terra d'Este, che poi barbaramente diede alle fiamme, e quindi obbligò alla resa la ricca e riguardevol terra di Montagnana. Animato da così felici successi lo Scaligero [Cortus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.], dopo aver preso al suo soldo da Arrigo conte del Tirolo cento lance, passò dipoi nel Pievato di Sacco, territorio allora il più abbondante e pingue nel Padovano, dove indicibil fu la preda di tutti i beni. Andò anche ai borghi di Padova, e distrusse quello di Santo Stefano. Non vi volle di più perchè i Padovani nell'anno seguente chiedessero pace; e, adoperati per mediatori i Veneziani, la ottennero da Cane, col cedergli i lor diritti [396] sopra le occupate terre, e dargli ancora quella di Castelbaldo in pegno. I Carraresi, secondo Ferreto, segretamente se l'intendeano con esso Cane.

Fin qui i Ferraresi aveano provato il duro giogo de' Guasconi, ossia de' Catalani, cioè della guarnigione posta in quella città dal re Roberto [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Le avanie ed insolenze di costoro erano il pane d'ogni giorno di quell'angustiato popolo, di modo che ho io sempre sospettato che la giustizia catalana, passata in proverbio per questi paesi, avesse origine dai lor perversi portamenti [Chron. Estense, tom. 14 Rer. Ital. Johannes de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Ital. Cortus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Giunti oramai all'orlo della disperazione que' cittadini, chiariti della differenza che passa fra l'essere governati dal principe proprio, e il vivere all'ubbidienza di gente straniera, ordinariamente venuta solo per succiare il sangue de' popoli; e vogliosi di ritornare sotto l'amorevol dominio de' principi estensi, nel dì 4 d'agosto del presente anno mossero a rumore la terra, e colle armi incominciarono aspra battaglia con essi Guasconi. Ritiraronsi costoro in Castel Tealdo, e tutte l'altre fortezze della città vennero alle mani dei Ferraresi, i quali spedirono tosto a Rinaldo ed Obizzo marchesi d'Este, figliuoli del marchese Aldrovandino, acciocchè venissero. Vennero questi senza perdere tempo; e quel popolo, confortato dalla loro presenza e valore, tosto si diede ad espugnare Castel Tealdo per terra e pel Po con delle barbotte e con un lupo, cioè con un castello posto sopra due navi. Studiaronsi nello stesso tempo i marchesi estensi coi Pepoli ed altri amici di Bologna di far differire la venuta dell'esercito bolognese in aiuto dei Guasconi; e camminò così felicemente il concerto e l'indefessa espugnazion del castello, che prima dell'arrivo de' Bolognesi l'ebbero in mano colla morte di tutto quel presidio, [397] con poscia darlo alle fiamme e diruparlo. Liberati in questa guisa i Ferraresi dal giogo straniero, con immenso giubilo diedero, ossia restituirono, la signoria della città ai marchesi d'Este suddetti nel dì 15 d'agosto. In quest'anno ancora nel mese di settembre Cane dalla Scala, Passerino signor di Mantova e di Modena, e Luchino figliuolo di Marco Visconte [Corio, Istor. di Milano.] fecero oste di nuovo contra di Cremona. S'era quella città poco dianzi più che mai scompigliata, perchè, rientratovi il marchese Jacopo Cavalcabò, avea sotto la buona fede ucciso Egidio Piperata capitano del popolo con cinquanta de' migliori cittadini. Ne fuggì Ponzino de' Ponzoni co' suoi seguaci, e fatto ricorso ai capi della lega ghibellina, li condusse all'assedio di Cremona. Ma, per quanto operassero, nulla poterono guadagnare: tale e tanta fu la difesa di quel popolo aiutato dai Bresciani. In questo mentre i Bolognesi [Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital. Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], per distorre Passerino da quell'impresa, nel dì 19 d'ottobre ostilmente vennero sul territorio di Modena sino alla villa d'Albareto, commettendo in tutte quelle vicinanze ogni male in danno de' Modenesi. Varie guerre eziandio furono in questi tempi nell'Astigiano e nel Piemonte [Chron. Astense, cap. 94, tom. 11 Rer. Ital.], che per essere di poco momento io le tralascio. Altre ne furono in Romagna [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], dove Diego di Larae, conte di quella provincia pel re Roberto, andò all'assedio di Forlì nel dì 28 di giugno, ma con poco profitto. Poscia nel settembre seguì pace fra lui e i Cesenati dall'una parte e i Forlivesi dall'altra.

Spedì nel gennaio di quest'anno [Raynaldus, Annal. Eccl.] papa Giovanni XXII lettere esortatorie di pace, e nunzii ancora ai principi e alle città d'Italia, insinuando loro che, deposti gli odii, e dato fine alle fazioni, abbracciassero tutti la concordia. Questo appunto [398] era, ed è, l'uffizio de' sommi pontefici; ed abbiam già veduto di sopra che tali esortazioni fecero frutto in Piacenza, Parma e Modena. Ma altro ci volea che parole a guarir le cancrene d'allora. Si aumentò poi questa terribil malattia, dacchè papa Giovanni, cessando d'essere padre comune, sposò gl'interessi del re Roberto, e divenne aperto protettore de' soli Guelfi. Era questo pontefice, per attestato di Ferreto [Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom. 9 Rer. Italic.] e del Villani [Giovanni Villani, lib. 9.], creatura d'esso re. Da lui riconosceva tutto il suo essere, perchè in sua corte era dal nulla salito in alto, e coll'aver finte lettere (se pure è vero) a nome d'esso re, avea ottenuto dal papa il vescovato di Freius; e poi per opera di lui era giunto alla sacra porpora e al pontificato. Chi ben rifletterà al sistema di questi tempi, non avrà difficoltà ad immaginare che il suddetto re Roberto tendeva al dominio di tutta l'Italia; odiava i Ghibellini fautori dell'imperio, perchè contrarii a' suoi disegni; nè volentieri vedeva in Italia imperadore alcuno, standogli davanti agli occhi i pericoli corsi sotto Arrigo VII. Cadde pure in acconcio dei suoi affari che in Germania fossero eletti in discordia due re de' Romani, cioè Lodovico il Bavaro e Federigo d'Austria. Gran cura ebbe sempre Roberto che papa Giovanni non decidesse mai la contesa; e dacchè, siccome vedremo. L'ebbe il Bavaro decisa coll'armi, Roberto procurò che seguitasse la ripugnanza della corte pontificia a non voler mai riconoscere per re dei Romani esso Bavaro: dal che provennero sconcerti e scandali gravissimi. Stuzzicò inoltre esso re papa Clemente V, e poi lo stesso papa Giovanni XXII, a far da padrone nel regno d'Italia, vacante l'imperio, per quanto allora si pretendea. Motivo di stupore, siccome già accennai, può esser oggidì, come si giugnesse in quei tempi a dichiarar vassalli della [399] santa Sede gl'imperadori, e spettante al papa l'assoluto comando in esso regno italico nella vacanza dell'imperio. Ma non è da stupire, considerando che il re Roberto faceva allora da papa; nè i pontefici operavano se non quello che a lui piaceva. Per questa via si studiava Roberto di stendere le ali per l'Italia tutta colla depression de' Ghibellini, ed innalzamento de' Guelfi suoi partigiani. Il peggio fu che sopra questa base dell'autorità temporale e del governo dei papi nel regno d'Italia si fondarono le scomuniche e gl'interdetti contra chi non era ubbidiente ai voleri pontifizii. Abbiamo dagli Annali Milanesi [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Bonincontr., Chron., lib. 2, cap. 22, tom. 12 Rer. Ital.] che nell'anno precedente, ma più probabilmente nel presente, avea papa Giovanni comandato che niuno in Italia s'intitolasse vicario imperiale, nè si mischiasse nel governo delle terre dell'imperio senza licenza della Sede Apostolica. Perciò Matteo Visconte, lasciato quel titolo, si fece proclamar dal popolo signor generale di Milano. E perch'egli non mise in libertà i Torriani prigioni, come pretendeva il papa, nè volle dipendere da lui nel dominio di Milano, fu sottomessa quella città all'interdetto, e poi scomunicato esso Matteo. All'incontro Cane dalla Scala [Cortus, Chronic., tom. 12 Rer. Ital.] nel dì 16 di marzo del presente anno riconobbe per re de' Romani l'eletto Federigo d'Austria, gli giurò fedeltà, e da lui prese il titolo di vicario dell'imperio in Verona e Vicenza. Intimò in quest'anno papa Giovanni [Raynaldus, Annal. Eccles.] ai Ferraresi di rilasciare il dominio di quella città in mano de' vescovi di Bologna e d'Arras suoi deputati, sotto pena delle scomuniche. Ma i Ferraresi, che troppo malconci s'erano ritrovati dacchè passò la lor città sotto il governo pontificio, diedero di belle parole, ma si guardarono di venire a' fatti, sentendosi troppo bene sotto il governo de' marchesi estensi.

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Anno di Cristo mcccxviii. Indizione I.
Giovanni XXII papa 3.
Imperio vacante.

Diedesi nel dì 25 di marzo di questo anno principio ad una memorabile dolorosa scena in Genova [Georgius Stella, Annales Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 68.], per l'implacabil discordia di que' cittadini. I Doria e gli Spinoli fuorusciti ghibellini, pieni di astio contra de' Fieschi, Grimaldi e degli altri Guelfi dominanti nella patria, fecero venir di Lombardia con un possente esercito di cavalleria e fanteria Marco Visconte figliuolo di Matteo, il quale, unito colle forze d'essi fuorusciti, cinse d'assedio la città di Genova, città ben provveduta prima dai Guelfi, e con impareggiabil coraggio da loro difesa. La torre del Faro per due mesi si tenne salda contro tutti gli sforzi degli assedianti. Infine fu presa; preso ancora fu il borgo di Prea e quel di Sant'Agnese nel dì 27 di giugno, e si cominciò a tormentare colle macchine la città medesima. Trovandosi in questa maniera molto allo stretto i Genovesi dominanti, spedirono ambasciatori al re Roberto, esponendogli quel che loro avveniva per avere aderito alle di lui insinuazioni, ed offerendogli la signoria della città, purchè in tanto bisogno recasse loro soccorso. Non altro che questo desiderava ed aspettava Roberto. Però, messa insieme una flotta di ventisette galee e di quaranta uscieri, cioè navi grosse da trasporto, e di altri legni, dove imbarcò mille e dugento cavalieri, sei mila fanti e copiosa vettovaglia [Chron. Astense, cap. 99, tom. 9 Rer. Ital.], in persona egli stesso colla regina sua moglie, e con Filippo principe di Taranto e Giovanni principe della Morea, suoi fratelli, venne a Genova nel dì 20 di luglio, e vi fece nel dì seguente la sua solenne entrata. Poscia nel dì 27 d'esso mese fu data a lui, e insieme a papa Giovanni, la signoria assoluta di Genova per [401] dieci anni avvenire. Era un'apparenza quella compagnia del papa. Roberto se ne serviva per fare paura ai Ghibellini, e maggiormente assodare la sua fazione e signoria in quella città. Non cessò per questo l'armata ghibellina di far guerra viva alla città, molestandola continuamente coi trabucchi e colle altre macchine da guerra e con varii assalti; e, tuttochè Roberto avesse un poderoso esercito, superiore di molto a quel de' nemici, per gli aiuti a lui venuti dalla Toscana, pure, tenendo i nemici le fortezze d'intorno, campeggiar non poteva, e gli conveniva dimorare stretto nella città. Di grandi prodezze si fecero in tal occasione da amendue le parti; ma troppo io mi dilungherei se volessi narrarle. Arrivò a tanta audacia Marco Visconte, che mandò a sfidare lo stesso re di combattere con lui a corpo a corpo per terminar quella contesa: del che molto si offese, e grande sdegno ne prese Roberto.

Secondo il pessimo costume di questi sì sconvolti tempi, turbossi nell'anno presente la quiete di Modena [Moranus, Chron. Mutinens., tom 11 Rer. Ital. Johann. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital.], dove era signore Passerino de' Bonacossi, signore ancora di Mantova. Zaccheria de' Tosabecchi gli tolse la nobil terra di Carpi nel dì 17 di gennaio. Nella mezza notte dello stesso giorno Francesco dalla Mirandola con Prendiparte suo figliuolo e Guido de' Pii, nobili e potenti di questa città, che nel precedente anno aveano ricevuto per grazia di rientrarci, mossero a rumore il popolo modenese, e coll'armi costrinsero i provvisionati di Passerino a ritirarsi nelle case de' nobili di Fredo, dove assediati, impetrarono poi l'uscita libera fuori della città. Così Francesco Pico dalla Mirandola si fece proclamar signore di Modena. Niccolò da Fredo gli consegnò dipoi Spilamberto, per liberar Giovanni suo fratello dalle carceri, e similmente Arrivieri da Magreta gli rassegnò il suo castello. Nel dì primo di marzo tutti gli sbanditi da Modena rientrarono nella città [402] con gran festa; ma nel dì 2 d'aprile il suddetto Francesco bandì le famiglie dei nobili da Fredo, da Magreta e de' Buzzalini; le quali, ricorse a Passerino, fecero che egli con Cane dalla Scala e molte schiere d'armati nel dì 27 di luglio venisse ad assediar Modena. Vedendo poi che niuna commozione si facea nella città, e dato in darno un assalto dai fuorusciti, se ne andarono tutti dopo sette dì, malcontenti. Più felicemente riuscì ai collegati Ghibellini l'impresa di Cremona, dove signoreggiava il marchese Jacopo Cavalcabò di fazione guelfa. Diedero essi nuovo aiuto a Ponzino de' Ponzoni [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]; e questi, con intelligenza d'alcuni cittadini, entrò la mattina per tempo nel dì 9 d'aprile (il Corio [Corio, Istor. di Milano.] scrive di febbraio, ma credo con errore) in quella città, e prese la piazza. Allora il Cavalcabò in fretta coi suoi seguaci scappò fuori della città [Giovanni Villani, lib. 9. cap. 89.]. Il Ponzone dipoi fu proclamato dal popolo signore di Cremona, ma di Cremona città oramai spopolata ed impoverita per le tante passate sciagure. Giovanni da Bazano scrive [Johann. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic.] che Passerino dei Bonacossi fu dipoi creato signor di quella città. Anche in Padova accadde mutazion di governo [Cortus. Chron., tom. 9 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, tom. 12 Rer. Ital. Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital.]. Dacchè riuscì alla accortezza e potenza di Jacopo da Carrara e de' suoi consorti di far ritirare da quella città la ricca ed emula casa de' Macaruffi con altre potenti famiglie, e con Albertino Mussato istorico, facile fu a lui di ottenere ancora il principato di quella città. Fece pertanto esso Carrarese raunare il consiglio generale dei Padovani, dove espose la necessità di quei tempi d'eleggere un signore perpetuo, in cui stesse la balia e la cura del pubblico governo per cagion de' correnti bisogni. Il concerto era fatto; senza venire [403] allo scrutinio, tutti i Guelfi e i Ghibellini ancora, con segreto contento di Cane dalla Scala, gridarono lor signore Jacopo da Carrara, che fu il primo di sua casa a signoreggiar quella terra. Questi poi, per quanto potè, cercò l'amicizia di Cane: al qual fine promise ancora di dar per moglie Taddea sua figliuola di età puerile a Mastino nipote d'esso Cane. In un parlamento tenuto a dì 16 di dicembre in Soncino, fu nel presente anno [Ferretus Vicentinus, lib. 7, tom, 9 Rer. Ital. Gualv. Flamma, cap. 357, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] dichiarato il suddetto Cane dalla Scala capitan generale della lega dei Ghibellini collo stipendio di mille fiorini d'oro per mese. Se crediamo a Galvano Fiamma, fu questo un ripiego preso dalla sagacità di Matteo Visconte, perchè il re Roberto facea di grandi esibizioni a Cane per istaccarlo dagli altri Ghibellini. Aveva esso Cane [Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital.] dei trattati con alcuni cittadini di Trivigi, e vogliosissimo di quell'acquisto, nel dì primo d'ottobre spedì colà Uguccion dalla Faggiuola suo capitan generale coll'esercito suo. Non ebbe effetto la congiura. Tuttavia in suo potere vennero le principali terre di quel contado, cioè Noale, Asolo, Monte di Belluna, e fu cominciato un blocco a quella città.


   
Anno di Cristo mcccxix. Indizione II.
Giovanni XXII papa 4.
Imperio vacante.

Ostinatamente continuarono anche nel verno i Lombardi e i Genovesi fuorusciti l'assedio di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Rincresceva non poco al re Roberto di trovarsi così chiuso in quella città, e senza poter fare impresa alcuna luminosa e degna di un par suo. Finalmente gli fu suggerita la maniera propria di vincere quella pugna. Fece egli imbarcare nelle sue navi quattordici mila combattenti con ordine di sbarcare [404] a Sestri di Ponente, per aver campo di far battaglia coi nemici in quella pianura. Corsero per impedire lo sbarco i Ghibellini; ma finalmente nel dì cinque di febbraio la fanteria guelfa saltò in terra, e, benchè tre volte rispinta, fece ritirare i Ghibellini a Castiglione, e di là ancora li fece poco appresso sloggiare. Allora Marco Visconte, trovandosi fra due fuochi, e temendo anche della fede dei fuorusciti genovesi, perchè era insorta discordia fra i Doria e gli Spinoli, levò precipitosamente il campo, lasciando indietro parte ancora dell'armi e del bagaglio, e con gran fretta si ritirò a Buzzala, a Gavi e ad altri luoghi. Tutto contento allora il re Roberto d'aver liberata Genova, e lasciato ivi per suo vicario Ricciardo Gambatesa, nel dì 29 d'aprile, colla regina, co' fratelli e molti suoi nobili e genti d'armi s'imbarcò in sette galee (il Villani scrive, e con più verisimiglianza [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 96.], in quaranta), e fece vela per andare alla corte pontificia dimorante in Avignone. Credevansi oramai i Genovesi di riposare, quando nel dì 25 di maggio si videro i Ghibellini di Savona entrare con sei galee ben armate nel porto di Genova, e rapire una grossa galea carica di merci, destinata per Fiandra. Poscia nel dì 27 di luglio eccoti arrivar l'esercito de' fuorusciti e dei Lombardi ghibellini, che di nuovo strinsero d'assedio la città medesima di Genova. Aveano essi armato in Savona vent'otto galee, colle quali fecero gran danno alle riviere e alla stessa città. Nulla dirò io degli assalti e delle frequenti battaglie succedute in questo insigne assedio. Se grandi furono le offese, non minor fu la difesa, gareggiando in valore ambedue le parti; e per tutto l'anno seguitò dipoi questa brutta musica con istrage di moltissimi combattenti. Fu continuato per tutto il verno l'assedio, ossia blocco di Trivigi, fatto dall'armi di Cane dalla Scala [Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Trovandosi [405] in così pericoloso stato Rambaldo conte di Collalto, gli Avvocati, Azzoni ed altri nobili di quella città, spedirono ambasciatori a Federigo duca di Austria, eletto re de' Romani, pregandolo di prendere la signoria di Trivigi e di soccorrerli. Accettata volentieri tale esibizione, Federigo inviò tosto il conte di Gorizia con un grosso corpo di milizie tedesche a prendere il possesso di quella città. Allora Cane si ritirò da que' contorni, e cercò l'amicizia d'esso conte, con cui ancora stabilì pace nel mese di giugno. Ma l'inquieto Cane non finiva mai un'impresa, che nello stesso tempo non ne macchinasse un'altra. Ancorchè fossero freschi i capitoli della pace fermata coi Padovani, pure cominciò a cercar de' pretesti per romperla. Fatta lega con Rinaldo ed Obizzo marchesi di Este, dominanti in Ferrara, Rovigo ed altri paesi, pretese che Jacopo da Carrara signor di Padova rimettesse in città tutti i fuorusciti: altrimenti vi avrebbe egli provveduto. Era disposto il Carrarese a farlo; ma Cane, trovati degli altri uncini, non si mostrò contento delle condizioni, e poi nel dì quinto d'agosto andò all'assedio di Padova. Cercò allora Jacopo da Carrara soccorso dal conte di Gorizia. S'interposero anche i Veneziani per la pace, ma senza effetto, perchè troppo ingorde erano le dimande di Cane. Jacopo da Carrara, che non volea veder perire così miseramente la patria sua, fece esibire al conte di Gorizia la signoria di Padova, da darsi a Federigo duca d'Austria. Vi acconsentì il conte con far di larghe promesse ai Padovani nel dì quattro di novembre. E Federigo mandò nuove genti in aiuto loro. Non era ancora palese questo trattato, quando il conte di Gorizia, mostrandosi tuttavia in favore di Cane, spedì al di lui campo cento de' suoi cavalieri, con ordine segreto che, uscendo i Padovani, tentassero con loro di far prigione Cane. Più scaltro Cane, al vedere esposta bandiera rossa nelle mura di Padova, immaginò [406] tosto quel ch'era, e disarmati quei Tedeschi, li fece tutti prigioni. Sotto quella città terminò sua vita Uguccion dalla Faggiuola, che tanto avea fatto parlare di sè in Italia, e fu onorevolmente seppellito in Verona.

Guerra eziandio fu in Piemonte [Chron. Astense, cap. 99, tom. 11 Rer. Ital. Bonincontrus, Chron. Mod., cap. 23, tom. 12 Rer. Italic.]. Nella vigilia di san Giovanni Batista di giugno Marco Visconte figliuolo di Matteo con gli usciti d'Asti, e più di mille cavalli ed altrettanti fanti, andò sotto la città di Asti, dirupò gli spalti, e diede un assalto, in cui circa cinquanta soldati entrarono nella città, ma furono anche vigorosamente respinti. Scorgendo più difficile di quel che si pensavano l'impresa, se ne andarono con Dio. All'incontro Ugo del Balzo, vicario del re Roberto in Piemonte, uno de' più prodi capitani di quel tempo [Gualvaneus Flamma, cap. 358, tom. 11 Rer. Italic.], si portò con tutte le sue forze e con quelle degli Astigiani sul fine di novembre all'assedio d'Alessandria, città allora soggetta ai Visconti, e per tradimento entrò nel borgo di Bergolio. Ma, andando nella seconda domenica di dicembre a Monte Castello con un corpo di sua gente, si scontrò con Luchino Visconte mandato da Matteo suo padre con quattrocento cavalli in soccorso di Alessandria. Subito furono le lancie in resta; gran combattimento si fece: rimasero sconfitti i Provenzali, e lo stesso Ugo del Balzo con più di venti ferite perdè ivi la vita. Nel dì 16 di maggio Manfredi de' Pii prese la nobil terra di Campi colla morte e prigionia d'alcuni de' Tosabecchi [Bonifacius Moranus, Chron., tom. 11 Rer. Ital. Johan. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.], che se n'erano impadroniti. Poscia Francesco dalla Mirandola, signore allora di Modena, nel dì 28 di settembre colla milizia de' Modenesi andò all'assedio di Carpi. Tanto fecero con danari i fuorusciti, che Giberto da [407] Correggio, nell'andare con gran quantità di cavalli verso il Bresciano, si portò colà e fece levar quell'assedio. Il perchè Francesco dalla Mirandola, trovandosi attorniato da' nemici, mentre anche i signori di Sassuolo, ad istanza di Passerino de' Bonacossi, gli faceano guerra viva, venne alla risoluzione di trattar accordo con esso Passerino signore di Mantova, e di restituirgli il dominio di Modena. La concordia fu fatta, e nel dì ultimo di novembre ritornarono i Bonacossi in possesso di questa città. Furono mandati a' confini i Guelfi, ma con lasciar godere i beni alle loro famiglie. A tutti faceva paura in questi tempi l'infaticabil Cane dalla Scala: ma spezialmente ne temevano i Bresciani, perchè li teneva in un continuo allarme per le molte castella che stavano in mano dei lor fuorusciti ghibellini, protetti dal medesimo Cane e da Passerino signor di Mantova. Fatto dunque consiglio generale in Brescia, determinò quel popolo di dar la signoria della lor città al re Roberto, capo e protettor de' Guelfi, sperando sotto le ali sue di sostenersi meglio in mezzo a tanti nemici [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. Non era il re partito per anche da Genova, quando arrivarono colà i Bresciani coll'offerta suddetta, che fu di buon cuore accettata nel dì 28 di gennaio, siccome apparisce dalle lettere d'esso re scritte a' Bresciani, e rapportate dal Malvezzi. Poscia, giunto Roberto ad Avignone, di colà spedì a Brescia per suo vicario Giovanni da Acquabianca nel mese di giugno. Risentirono ben tosto i buoni influssi della loro risoluzione i Bresciani; imperocchè Roberto ordinò ai Fiorentini, Bolognesi ed altri della lega guelfa di somministrar loro un abbondante soccorso.

Fecesi in Bologna [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 99.] una taglia di mille cavalieri; capitano d'essa Giberto da Correggio, che vi unì altra sua gente e i fuorusciti di Cremona, e marciò alla [408] volta di Brescia. Quivi col popolo bresciano fece gran guerra ai lor fuorusciti, e quasi tutte le castella da loro occupate ritornarono alla divozione della città. Fece di più il Correggiesco. Alle istanze di Jacobo Cavalcabò, che seco militava coi fuorusciti guelfi di Cremona, venne coll'esercito e collo stesso regio vicario per isnidar da Cremona i Ghibellini. Era divenuta oramai quella smunta città il giuoco della fortuna [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Una notte del mese d'ottobre per tradimento v'entrò Giberto da Correggio colla sua armata, la qual vi commise crudeltà ed iniquità senza fine; uccise o discacciò i Ghibellini ed il presidio ivi posto da Cane e da Passerino. Se crediamo al Corio [Corio, Istor. di Milano.], il Cavalcabò tornò ad esserne signore; ma le Croniche più vecchie asseriscono che ne restò padrone Giberto, il quale non vi dovette far le radici, per quanto vedremo. Ma mentre il suddetto vicario regio era in Cremona (il perchè non si sa), il popolo di Brescia corse al palagio della sua residenza, e diede il sacco a tutto quanto il suo arnese. Elessero dipoi per vicario un Simone Tempesta oltramontano, che fu poscia confermato dal re Roberto, ma non senza suo sdegno, avendo egli digerita la insolenza di quel feroce popolo per non potere di meno. Fu mandato in quest'anno da papa Giovanni per conte della Romagna [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] Aimerico da Castello Lucio, gran dottore di legge. Questi fabbricò poi una fortissima rocca in Bertinoro ed un buon castello in Cesena. L'ubbidivano i Romagnuoli in pagar le taglie e il tributo de' Fumanti, ma per sè ritennero le città e terre collo stesso dominio o governo di prima. Secondo la Cronica di Cesena, una fiera pestilenza fu in quest'anno in Italia, e specialmente afflisse la Romagna. Nella marca d'Ancona, non so se per gli demeriti degli uffiziali pontifizii, oppure per le [409] iniquità dei popoli, seguirono delle funeste novità [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. I popoli di Recanati e d'Osimo presero l'armi contra di Amelio marchese di quella marca, e trucidarono ben trecento de' suoi parziali, non la perdonando il loro furore neppure agl'innocenti figliuoli; scacciarono ancora il vescovo ed il clero, con altre enormità che son da tacere. Chiamarono essi al loro governo Federigo conte di Montefeltro, gran caporale dei Ghibellini in quelle contrade [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 102.]. L'esempio di costoro servì ai Ghibellini di Spoleti, spalleggiati dal medesimo conte Federigo, per prender nel novembre l'armi contro ai Guelfi concittadini, e per cacciarne ducento in prigione, e mettere in fuga il resto. Quivi ancora seguirono omicidii, incendii ed altre scelleraggini, compagne fedeli dei saccheggi. Per questo eccesso i Perugini, guelfi allora di fazione, che non erano potuti accorrere a tempo in aiuto degli oppressi, impresero poi l'assedio di Spoleti. E il papa mandò in Italia Beltrando dal Poggetto cardinale di San Marcello, il quale dai malevoli veniva creduto figliuolo del medesimo papa [Petrarca, epist. 7 sine titulo. Giovanni Villani, et alii.], per provvedere ai disordini dello Stato ecclesiastico, originati principalmente dal volere stare i papi a darsi bel tempo in Provenza, abbandonata la sedia loro data da Dio e i sudditi proprii. Fece in quest'anno [Bonincontrus, Chron. Mod., lib. 2, cap. 25, tom. 12 Rer. Ital.] Matteo Visconte un'azion degna di lode, e fu quella di ricuperare il tesoro della chiesa di Monza, che già fu impegnato dai Torriani quarantasei anni prima, consistente in corone d'oro, calici ed altri vasi ornati di pietre preziose, di valore di ventisei mila fiorini di oro. Disimpegnato che l'ebbe, portollo in persona a Monza nella vigilia del santo Natale, e colle sue mani lo pose nell'altare, raccomandandolo efficacemente a quei canonici.

[410]


   
Anno di Cristo mcccxx. Indizione III.
Giovanni XXII papa 5.
Imperio vacante.

Arrivato nell'anno precedente ad Avignone il re Roberto per chiedere a papa Giovanni aiuto contra de' Lombardi assediatori di Genova, allora fu che espresse il suo sdegno e desio di vendicarsi; giacchè a lui pareva un enorme affronto quell'averlo i Lombardi assediato e ristretto in Genova, perchè doveano quegl'insolenti, dacchè seppero essere ivi in persona un re, colla testa bassa andarsene con Dio. Giovanni canonico di San Vittore, scrittor di questi tempi, confessa [Johannes Canonicus S. Victoris, in Vita Johannis XXII.], avere Roberto anche egli così assedialo il papa, suo, per così dire, schiavo, che niuna spedizione si faceva allora nella curia pontificia. Dictus autem rex cum papa moram faciens ita eum suis negotiis occupabat, quod nihil, aut parum expediebatur in Curia, immo etiam negotia personalia papae totaliter infecta remanebant. Ma che si trattava con tanti colloquii in que' gabinetti? Di annientare il ghibellinismo in Italia, e di aprir la strada al re Roberto di divenir padrone d'essa Italia, con escludere i due litiganti eletti re de' Romani in Germania [Raynald., in Annal. Eccles, ad hunc ann., num. 9. Annal. Mediolan., cap. 92, tom. 16 Rer. Italic.]. A questo fine Roberto si fece creare o conformare vicario d'Italia, vacante l'imperio, e subordinato a lui con questo titolo Filippo di Valois, del quale fra poco parleremo. Se riusciva a Roberto di abbassare i Ghibellini, e di ottenere il dominio o governo delle città tenute da loro, siccome avea fatto di tante città guelfe, avrebbe poi pensato se conveniva restituir tutto a chi avesse voluto venir di Germania a cercar la corona di Italia. Niuno intanto dei due principi litiganti osava di calare in Italia, perchè Roberto [411] seppe ben instruire papa Giovanni XXII per impedirlo. Ora la maniera di distruggere il velenoso serpente del ghibellinismo era quella di schiacciarne il capo, cioè Matteo Visconte, padrone allora di Milano, Pavia, Piacenza, Novara, Alessandria, Tortona, Como, Lodi, Bergamo e d'altre terre. Vinto questo, andava il resto. Operò dunque Roberto, che se Matteo non ubbidiva co' suoi figliuoli ai comandamenti del papa, fosse scomunicato, e posto l'interdetto a tutte le città da lui possedute; e che anche il papa gli facesse guerra, ed impiegasse i tesori della Chiesa in questa creduta probabilmente santa impresa. A buon conto, dieci galee, preparate ed armate dal papa per mandarle in Terra santa, furono cedute al re per valersene in aiuto de' Genovesi. Ma perciocchè si sarebbe potuto dire, siccome infatti si disse [Annal. Mediolan., cap. 91, tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano, all'an. 1318.], che al pontefice sconveniva il mischiarsi in guerre per invadere gli Stati altrui, e poco ben sonare il far servire la religione a fini politici; mentre non appariva che i romani pontefici avessero diritto alcuno temporale sopra Milano e sopra le altre città di Lombardia, marca di Verona e Toscana, mentre essi principi tenevano quelle città dall'imperio e le conservavano per l'imperio [Raynaldus in Annal. Eccles., num. 10.]: fu anche trovato il ripiego di dar colore di religione a questa guerra. Andò pertanto ordine agli inquisitori di fare un processo di eresia a Matteo Visconte e a' suoi figliuoli [Bonincontrus Morigia, Chron. Mod., lib. 2, cap. 26, tom. 12 Rer. Ital.]; e lo stesso dipoi fu fatto contro Cane dalla Scala, Passerino signor di Mantova, i marchesi estensi signori di Ferrara, ed altri capi de' Ghibellini d'allora: i quali tutti, benchè protestassero d'essere buoni cattolici e ubbidienti alla Chiesa nello spirituale, pure si trovarono dichiarati eretici, e fu predicata contro di loro la croce. In somma abusossi il re Roberto, [412] per quanto potè, della smoderata sua autorità nella corte pontificia, facendo far quanti passi a lui piacquero a papa Giovanni, con porgere ora motivo a noi di deplorare i tempi d'allora. Che i re e principi della terra facciano guerre, è una pension dura, ma inevitabile, di questo misero mondo. Inoltre, che il re Roberto tendesse a conquistar l'Italia, può aver qualche scusa. Altrettanto ancora faceano dal canto loro i Ghibellini; nè questi certo nelle iniquità la cedevano ai Guelfi. Ma sempre sarà da desiderare che il sacerdozio, istituito da Dio per bene dell'anime e per seminar la pace, non entri ad aiutare e fomentar la ambiziose voglie de' principi terreni, e molto più guardi dall'ambizione sè stesso.

Ora il papa e il re Roberto, a fin di compiere la meditata impresa, sommossero il giovane principe Filippo di Valois della casa di Francia, figliuolo di quel Carlo, tuttavia vivente, che già vedemmo in Italia a' tempi di Bonifazio VIII [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 107. Gualvaneus Flamma, cap. 359, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Astense, cap. 101, tom. eod.], e il mandarono in Lombardia con bella armata di baroni ed uomini d'armi. A lui si unì con altra gente, e coi fuorusciti guelfi di varie città, Beltrando dal Poggetto cardinale legato. Fecero amendue capo alla città d'Asti, che ubbidiva al re Roberto, nel giorno cinque di luglio. Già un mese correva che con viva guerra si disputava fra le due potenti case de' Tizzoni e degli Avvocati il possesso e dominio della città di Vercelli. I cavalieri tedeschi di Matteo Visconte erano a quell'assedio in favore de' Tizzoni ghibellini. Udito questo rumore, Filippo di Valois, senza voler aspettare i rinforzi d'altri combattenti, che gli doveano venir di Francia, parte dal papa, parte dal re Roberto, dal re di Francia e dal principe Carlo suo padre, ed anche da Bologna e Toscana, corse a Vercelli per desio di liberar gli Avvocati guelfi assediati dai Ghibellini. Ma non perdè tempo Matteo [413] Visconte [Bonincontrus Morigia, lib. 2, cap. 26, tom. 12 Rer. Ital.] ad inviare a quella medesima danza Galeazzo e Marco suoi figliuoli con più di tre mila cavalli (altri dicono cinque mila) e circa trenta mila pedoni, raccolti da tutte le città sue suddite o amiche di Lombardia. A questo formidabile sforzo d'armi venne incontro l'esercito franzese con apparenza di voler battaglia; ma battaglia non seguì. Bensì avvenne che Filippo di Valois, qual era venuto, se ne tornò con sue genti in Francia, maledetto e vituperato dagli aderenti suoi rimasti in Italia colle mani piene solamente di mosche. Molte per questa cagione furono le dicerie d'allora [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 107. Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Chi attribuì la di lui ritirata a' danari ben impiegati dai Visconti, per guadagnar lui, o Bernardo da Mangolio o Mercolio, suo maresciallo; e chi all'essersi trovato quel principe come assediato, senza poter avere sussistenza per gli uomini e per li cavalli; e chi all'avergli Galeazzo Visconte, o in persona o per mediatori [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], fatto conoscere lo svantaggio in cui egli si trovava, per essere l'armata, de' Milanesi e collegati più di due cotanti che quella della Chiesa; e che esso Galeazzo, per la riverenza professata da lui a quel principe, al conte di Valois suo padre, da cui era stato fatto cavaliere, nol volea offendere, come potea. E questo è ben più probabile, considerato il valore e l'onoratezza di quel principe, e confessando il Villani, essersi scusato Filippo col pontefice e col padre d'aver così operato, perchè esso papa e il re Roberto non l'aveano fornito a tempo della moneta e gente promessa. Quel che è certo, regalato dai Visconti e, in buona armonia con loro, se ne tornò Filippo di Valois in Francia, principe, che, siccome vedremo nell'anno 1328, per la mancanza de' figliuoli di Filippo il Bello, succedette in quel fioritissimo regno.

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Continuò ancora in quest'anno lo ostinato assedio di Genova, e l'aspra guerra fra i Genovesi sostenuti dal re Roberto, e gli usciti loro, collegati coi Ghibellini lombardi, sì per terra che per mare. S'empierebbono molte carte, se si volesse riferir tutte le varie prodezze ed azioni militari sì dell'una che dell'altra parte. Scrive Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 115.], aver creduto i savii che, in comparazione dell'assedio di Troia, non fosse da meno quello di Genova, per le tante battaglie che ivi succederono. Presero i Genovesi guelfi dominanti molte galee degli usciti Ghibellini, che s'erano ritirate in Lerice [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Andarono ad Albenga, e tolsero quella città ai nemici nel dì 22 di giugno, con darle un orrido saccheggio senza rispetto alcuno ai sacri templi, e con altre simili iniquità. Al grosso borgo di Chiavari toccò la medesima sventura più d'una volta, ora dai Guelfi ed ora dai Ghibellini. In questi tempi collegatosi coi suddetti usciti ghibellini, e con Matteo Visconte, Federigo re di Sicilia [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 15, tom. 10 Rer. Ital.], mandò in loro aiuto quarantadue tra galee e legni grossi da trasporto. Allora fu così stretta per mare la città di Genova, che, non potendo ricevere più vettovaglia da quella parte, cominciò quasi a disperare. Ma il papa e il re Roberto, fatto un armamento di cinquantacinque galee in Napoli e Provenza, spedirono a tempo quella flotta, alla cui vista i Siciliani veleggiarono alla volta di Napoli, e diedero il sacco all'isola d'Ischia. Inseguiti indarno dalla flotta provenzale e napoletana, di cui era ammiraglio Raimondo da Cardona, che poco o nulla fece in quest'anno, tornarono dipoi ai danni di Genova.

Mosse guerra Castruccio signor di Lucca in quest'anno nel mese d'aprile a' Fiorentini, e tolse loro Cappiano, Monte Falcone e Santa Maria al Monte. Tornato [415] poscia a Lucca senza vedere movimento dei Fiorentini, che non si aspettavano questo insulto, con cinquecento cavalli e dodici mila fanti [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 107.] cavalcò contra de' Genovesi guelfi nel mese d'agosto. Entrato nella Riviera di Levante, se gli arrenderono varie castella; e già si preparava egli a fare di più, quando gli fu recata la nuova che i Fiorentini con grande sforzo erano entrati nel territorio di Lucca nelle contrade di Valdinievole, mettendo tutto a ferro e fuoco. Più che di fretta se ne tornò Castruccio indietro, e vigorosamente venne a Cappiano in sulla Gusciana a fronte de' Fiorentini. Quivi stettero le due armate solamente badaluccando sino al verno, che tutti li fece tornare a casa. Essendo morto in quest'anno nel dì primo di maggio Gherardo della Gherardesca, chiamato Gaddo, conte di Donoratico e signore di Pisa, dal popolo pisano in luogo suo fu eletto signore il conte Rinieri suo zio paterno, appellato Neri, il quale amò e favorì forte i Ghibellini e chi era stato parziale di Uguccione; e, per meglio sostenersi, fece lega con Castruccio signore di Lucca, dandogli occultamente favore contro de' Fiorentini. S'ebbe tanto a male Cane dalla Scala signor di Verona che Federigo duca d'Austria avesse preso il dominio di Padova, che, come se punto non curasse di lui, continuò la guerra con quella città [Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital.]. Tentò furtivamente di entrarvi nel dì 3 di giugno, e ne fu rispinto. Diede il guasto al raccolto dei Padovani, e talmente li ristrinse, che niuno ardiva d'uscire fuor delle porte. Male stava quel popolo; tutte le sue castella, fuorchè Bassano e Pendisio, erano in poter di Cane, che neppure lasciava venir l'acque alla città per macinare, ed avea fabbricata una forte bastia al ponte del Bassanello. Perciò i Padovani con lettere e messi tempestavano il conte Arrigo di Gorizia, vicario del duca d'Austria, [416] che portasse loro soccorso, altrimenti erano spediti. Giunse infatti esso conte con ottocento elmi, cioè cavalieri, la notte del dì 25 d'agosto, ed entrò, senza essere sentito dall'oste nemica, in Padova. Nel dì seguente uscirono i Padovani e Tedeschi per visitar la fossa tirata da Cane intorno alla città. Cane anch'egli usci della bastia con pochi per osservar quella novità, cioè come i Padovani fossero divenuti sì arditi. Venne una freccia a ferirlo in una coscia. Tornossene dunque indietro e mise in armi la sua gente. Ma essendosi inoltrata la cavalleria tedesca, l'esercito di Cane prese tosto la fuga, lasciando indietro armi e bagaglio, e abbandonando la lor forte bastia. Cane stesso, inseguito da' Tedeschi, spronò forte alla volta di Monselice. Per buona fortuna trovò un contadino, il quale con una cavalla andando al mulino, e veggendo Cane col suo cavallo sì stanco, gli esibì la sua giumenta. Con questa egli giunse a Monselice; e di là poi per Este si ridusse a Verona. Questa fu la prima volta che Cane, imparò a conoscere cosa è la paura. Andarono poscia i Tedeschi e Padovani, ma lentamente, a Monselice, e l'assediarono, battendo quella terra coi mangani; e intanto i bravi Tedeschi davano il guasto alla campagna, come quel non fosse paese dei Padovani amici. In questo tempo spedì Cane il marchese Malaspina ed Aldrighetto conte di Castelbarco al conte di Gorizia, che era passato ad Este. Quel che trattassero, non si sa. Solamente è noto che il conte, lasciato l'esercito, se ne tornò a Padova: il che inteso da' Padovani, che erano sotto Monselice, come se avessero veduto coi lor occhi dati da Cane al conte di Gorizia dei sacchetti d'oro, tutti in collera e furia se ne tornarono anch'essi a Padova, lasciando indietro le macchine da guerra, nel dì 24 di settembre. Cominciossi da lì innanzi a trattar di pace, e fu data di nuovo alle fiamme in queste turbolenze la bella terra d'Este. Erasi trattato aggiustamento fra i marchesi Estensi signori di Ferrara [417] e papa Giovanni XXII. Volevano essi riconoscere Ferrara dalla Chiesa romana; esibivano censo e di sposare gl'interessi del papa nelle congiunture presenti [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Ma il papa persisteva in voler libero quel dominio, e che gli Estensi sloggiassero. Questa dura pretensione mandò a monte ogni trattato; la città fu sottoposta all'interdetto [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], scomunicati i marchesi Rinaldo ed Obizzo, e contra di loro si diede principio ad un processo d'inquisizione, per cui que' principi, benchè zelanti cattolici, e per antica inclinazione Guelfi, si videro con lor maraviglia cangiati in eretici e nemici del papa. L'assedio di Spoleti, fatto da' Perugini [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 102.], durava ancora nell'anno presente; ma cessò, perchè Federigo conte di Montefeltro fece ribellare ad essi Perugini la città d'Assisi, ad assediar la quale, lasciato Spoleti, volarono gli adirati Perugini. Restati liberi gli Spoletini, commisero poco appresso una troppo nera scelleraggine, col correre a far vendetta dei danni ricevuti da quei di Perugia contra ducento buoni lor concittadini di parte guelfa, che erano carcerati, con attaccar fuoco alla prigione, dove tutti perirono. Circa questi tempi, se pur non fu prima, la città d'Urbino passò sotto il dominio del suddetto Federigo conte di Montefeltro [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Recanati, Osimo e Fano si ribellarono al papa [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 122.]. Nel mese d'agosto i Guelfi di Rieti, coll'aiuto delle genti del re Roberto, presero l'armi contra de' Ghibellini, e ne uccisero più di mille. Ma da lì a quattro mesi i Ghibellini usciti, assistiti dalle forze di Sciarra dalla Colonna, mentre i Guelfi erano all'assedio di un castello, rientrarono in quella città, da cui rimasero esclusi i loro avversarii. Ripetiamolo pure: maledette fazioni, quanti mali recarono mai alle lor patrie e all'Italia tutta, la quale oggidì, trovandosi [418] così quieta e guarita da quelle pazzie, dovrebbe ben rallegrarsi e restarne tenuta a Dio.


   
Anno di Cristo mcccxxi. Indizione IV.
Giovanni XXII papa 6.
Imperio vacante.

Dacchè Filippo conte di Valois si fu ritornato in Francia co' suoi guerrieri, Matteo Visconte continuò l'assedio a quella parte di Vercelli che era occupata dalla famiglia degli Avvocati [Chron. Astense, cap. 102, tom. 11 Rer. Ital.], con istar ivi la sua gente dalla metà di settembre fino alla metà d'aprile dell'anno presente. Giacchè gli assediati non poteano più tenersi per la mancanza dei viveri, gli Astigiani allestirono una gran quantità di carra di vettovaglie per inviarle all'affamata città. Più di trecento cavalieri catalani, uniti con assaissimi fuorusciti guelfi lombardi, andarono per iscorta a questo convoglio; ma, venute all'incontro d'essi le soldatesche del Visconte, gli sbaragliarono colla morte e prigionia di più di ducento, e colla presa di tutto il convoglio. Veggendosi allora privi d'ogni speranza gli Avvocati, capitolarono, come poterono, la resa in numero di mille e cinquecento persone. Simone degli Avvocati da Colobiano, nei tempi addietro signor di Vercelli e gran nimico di Matteo Visconte, con dodici de' principali della sua fazione fu condotto alle carceri di Milano; le sue case e fortezze spianate dagli emuli Tizzoni. Uberto, vescovo di quella città e fratello del suddetto Simone, sotto buona guardia fu ritenuto in Vercelli, ma seppe trovar la via di deludere le guardie, e di salvarsi. Così tutto Vercelli rimase in potere del Visconte. Avea già inviato il legato apostolico Beltrando dal Poggetto [Annal. Mediol., cap. 92 et seq., tom. 16 Rer. Ital.] alcuni suoi ufficiali a Matteo Visconte, domandando ch'egli rinunziasse il dominio di Milano, che i cittadini riconoscessero [419] per loro signore Roberto re di Napoli, e che fossero messi in libertà i Torriani ed altri carcerati, a' quali fosse lecito di rientrare in Milano e di godere i lor beni; perchè in tal maniera tutti vivrebbono in pace sotto il dominio dei re suddetto. Per varie ragioni risposero i Milanesi e il Visconte di non volerne far altro. Rimandò il legato un suo cappellano per trattare. Matteo il fece prendere e metterlo in prigione. Però v'ha chi crede che solamente nell'anno presente egli co' figliuoli e fautori fosse scomunicato, dichiarato eretico e negromante, e sottoposta all'interdetto la città di Milano con tutte le altre dipendenti dai Visconti. Certo è che tutte le suddette censure nell'anno seguente furono scagliate contra di lui. Non cessava la ostinata guerra fra i Genovesi e i lor fuorusciti uniti coi Lombardi [Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e tuttavia si faceano di grandi battaglie sotto quella città. In mare ancora gli uni agli altri andavano prendendo le navi e guastando quelle riviere. In aiuto de' Genovesi mandò il re Roberto più di venti galee provenzali e dieci altre de' Calabresi, le quali, unite con quattordici di Genova, veleggiarono tutte ai danni di Savona posseduta da' Ghibellini. Discesero in terra ad Andoria, ed eccoti lo esercito copioso de' Ghibellini che venne ad attaccar battaglia. V'era alla testa Manuello Spinola vescovo d'Albenga, che, dimentico del suo carattere, in vece del pastorale, volle tutto armato maneggiar la spada. Ne fu gastigato da Dio, perchè sulle prime, cadutogli il cavallo, e restatovi egli sotto, venne ucciso. Il fine di quel conflitto favorevole fu ai Ghibellini. Di altre zuffe accadute in quelle contrade io non fo menzione, per non dilungarmi di troppo. Giacchè l'armi spirituali si trovarono di poco nerbo per ismuovere Matteo Visconte, i suoi figliuoli e i Milanesi, e per renderli sottomessi alle politiche pretensioni di papa Giovanni XXII e del [420] re Roberto, si pensò a provare se avessero più efficacia l'armi temporali. Però esso pontefice ed il re suddetto [Chron. Astense, cap. 104, tom. 11 Rer. Ital.] nella primavera di quest'anno inviarono in Lombardia, con titolo di vicario d'esso re Roberto, Raimondo da Cardona Aragonese, ossia Catalano, uomo di gran vaglia e credito nel mestier della guerra. Un grosso corpo di cavalleria venne con lui, ed arrivò nel dì 11 di maggio ad Asti. Due giorni dopo Marco Visconte entrò di concordia nella villa di Quargnento, e diede il guasto ad altre ville dell'Astigiano. Il Cardona anch'egli prese e bruciò quelle di Moncastello, Quargnento ed Occimiano. Mise ancora per cinque giorni a sacco i contorni d'Alessandria, e poi marciò alla volta di Tortona, credendosi di mettervi il piede; ma a fronte suo comparve Marco Visconte con più copioso esercito, che fermò i di lui passi, senza nondimeno azzardarsi a combattimento alcuno. Ognuno si ritirò, e il Cardona guadagnò il borgo, ma non il castello di Bassignana e di Pezzeto.

Venne in quest'anno, nel dì 25 di novembre a Modena Passerino de' Bonacossi signor di Mantova [Johan. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital. Bonifacius Moranus, Chron., tom. 11 Rer. Ital.], e mise qui per capitani Francesco suo figliuolo, e Guido e Pinamonte figliuoli di Butirone suo fratello, e tornossene a Mantova. Stavasene quieto in essa città di Modena Francesco dalla Mirandola, già signore della medesima città, con Prendiparte e Tommasino suoi figliuoli, senza aver per anche imparato quanto poco s'abbia a fidar de' tiranni. Scoppiò finalmente contra d'essi l'odio de' Bonacossi. Francesco figliuolo di Passerino li fece prendere, e carichi di catene li mandò al Castellaro, fortezza del Modenese, dove, chiusi nel fondo di una torre, li fece morir di fame: crudeltà che fa e farà sempre orrore a chiunque legge i fatti barbarici di quei tempi sciagurati. Nello stesso tempo si portò Francesco all'assedio della Mirandola, [421] e tanto la strinse e battagliò, che i difensori nell'ultimo di dicembre con buoni patti ne capitolarono la resa. Ma il Bonacossa, calpestando poi quei patti, mise a sacco quella terra, e tutta la distrusse. Guidinello da Montecuccolo in questi tempi fece ribellare ai Bonacossi la rocca di Medolla ed altre castella della montagna; ed essendosi fatta una spedizione di gran gente contra di lui, capitani d'essa Sassuolo signor di Sassuolo, e Manfredino da Gorzano, Guidinello coi conti di Gomola diede loro una rotta, in cui restò prigioniere lo stesso Manfredino. Avea il legato apostolico Bertrando fatto venire da Aquileia il patriarca Pagano dalla Torre [Corio, Istoria di Milano.] con quanta forza potesse, giacchè il mestier dell'armi, cotanto da' sacri canoni abborrito nelle persone di Chiesa, non dovea credersi in quei corrotti secoli cosa spiacente a Dio. Venne Pagano a Crema, e cominciò a molestar le vicine contrade, e massimamente Lodi. Galeazzo Visconte signor di Piacenza passò a Crema coll'esercito suo, diede il guasto ai contorni, assediò anche per lo spazio d'un mese quella terra; ma, nulla profittando, se ne tornò a Piacenza, e nel viaggio s'impadronì di Soresina. Venuta la state, si portò all'assedio di Cremona, nel qual tempo i suoi riportarono due vittorie, l'una contra de' Cremaschi, e l'altra contra del conte di Sartirana. Jacopo Cavalcabò, trovandosi così stretto in Cremona, andossene per cercar aiuto a Bologna e Firenze. Con secento uomini d'armi se ne tornò; e non potendo passare il Po [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], si ridusse alla terra di Bardi sul Piacentino, e, v'entrò, ma non già nella rocca. Nell'ultimo dì di novembre eccoti Galeazzo Visconte; si viene al combattimento; resta disfatto con molta strage dei suoi il Cavalcabò, e vi lascia anche la vita. Leone degli Arcelli, gran nimico di Galeazzo, fu allora condotto prigione nelle carceri di Piacenza. Ciò fatto se ne ritornò [422] Galeazzo a maggiormente angustiare l'afflitta città di Cremona, sperandone ora più facile la conquista, dacchè era rimasta senza signore. Nel dì 25 di luglio di morte naturale passò al paese dei più Giberto da Correggio [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.], già signore di Parma, ed allora bandito di Parma, nel suo castello di Castelnuovo. Da quanto abbiam detto si può argomentare ch'egli non ebbe il dominio di Cremona, o se l'ebbe, dovette abbandonarlo, e ridursi alle sue castella. Ai suoi figliuoli dipoi fu permesso di rientrare ed abitare in Parma.

Nel mese di luglio di quest'anno in Bologna s'alzò una fiera sedizione [Chron. Bononiense, tom. 18 Rerum Italic. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] contra di Romeo de' Pepoli. Per testimonianza del Villani [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 129.], egli era riputato il più ricco cittadino privato d'Italia, facendosi conto che avesse centoventimila fiorini d'oro più di rendita ogni anno. La fama probabilmente ingrandì di troppo il di lui avere. Quel che è certo, queste sue immense ricchezze, e l'esser egli come signore di quella terra, gli fecero guerra, siccome persona di troppo esposta all'invidia de' suoi concittadini. Però nel dì 17 del suddetto, mese i Beccadelli ed altri nobili mossero il popolo a rumore contra di lui. Si rifugiò egli occultamente in casa di Alberto de' Sabbatini, tuttochè contrario alla sua parte; e questi per tre mesi onoratamente il tenne nascoso, tanto che trafugato se ne scappò a Ferrara a trovare i marchesi d'Este suoi parenti. Per la sua partita molto si turbò in Bologna la parte guelfa. Collegaronsi in questo anno i Fiorentini col marchese Spinetta Malaspina, ancorchè ghibellino [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 128.]; ed egli dall'un canto ripigliò molte delle terre toltegli in Lunigiana da Castruccio, e i Fiorentini dall'altro posero l'assedio a Monte Vettolino. Castruccio, rinforzato [423] da molta gente venuta in suo aiuto dalla Lombardia, andò contro l'oste de' Fiorentini, e li fece ritirar ben presto. Per quindici dì ancora senza alcun contrasto diede il sacco a molte ville d'essi Fiorentini, con lor grande vergogna. Ricavalcò poi in Lunigiana, dove riacquistò tutte le terre rioccupate dal marchese Spinetta, e prese anche Pontremoli, con obbligare il marchese a tornar di nuovo come in camicia a Verona ai servigi di Cane dalla Scala. Perchè Federigo re di Sicilia si teneva per ingannato da papa Giovanni XXII e da Roberto re di Napoli, che, con dargli belle parole di pace, gli aveano cavato di mano Reggio di Calabria ed altre terre, senza più voler intendere parola di pace; neppur egli volle stare alla tregua di tre anni già fissata dal papa. Sfidò dunque il re Roberto. Papa Giovanni per questo lo scomunicò [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 16, tom. 10 Rer. Ital.]. Fece anche Federigo (non so se prima o dappoi) coronare re di Sicilia don Pietro suo figliuolo, senza voler attendere i capitoli della pace degli anni addietro, per cui dopo sua morte avea da restituirsi al re Roberto il regno di Sicilia. Da lì a due anni diede a questo suo figliuolo per moglie Isabella figliuola del duca di Carintia. Nel gennaio di questo anno [Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital.] Cane dalla Scala conchiuse pace coi Padovani, e con suo vantaggio; perchè, a riserva di Cittadella, ritenne quanto egli avea occupato nel loro territorio. Restituì Asolo e Monte di Belluna sul Trivisano al conte di Gorizia; e le altre pendenze furono compromesse in Federigo d'Austria eletto re de' Romani. Guecelo da Camino, essendo morto il vescovo di Feltro, occupò quella città, ma non il castello, che si difese. Noi vedemmo all'anno 1316 ch'egli s'era impadronito di quella città, ma dovette poi perderla. Gli avvenne anche ora lo stesso perchè da lì a tre dì arrivato Cane dalla Scala, con iscacciarne esso Guecelo, ne [424] divenne padrone. Morì in quest'anno nel dì 13 di settembre, oppur nel mese di luglio, Dante Alighieri Fiorentino, celebratissimo poeta, nella città di Ravenna [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 133.], in età d'anni cinquantasei. Bandito dalla patria, si ricoverò in quella città, sommamente caro a Guido Novello da Polenta signor di Ravenna. Nel suo poema, ossia nella Commedia sua, dà continuamente a conoscere il suo ghibellinismo, ma specialmente lo scoprì in un libro intitolato Monarchia, dove, per quanto seppe, dimostrò non essere gli imperadori dipendenti nel temporale dal papa, non che suoi vassalli. Questo libro, pubblicato da Simone Scardio eretico nell'anno 1556, fu poi proibito in Roma.


   
Anno di Cristo mcccxxii. Indizione V.
Giovanni XXII papa 7.
Imperio vacante.

Benchè sul principio di quest'anno un bell'aspetto prendesse la fortuna dei Visconti, pure, andando innanzi, cominciò forte a vacillare, e parve vicino alla rovina. Avendo Galeazzo Visconte continuato l'assedio alla città di Cremona [Corio, Istor. di Milano.], nel dì 17 di gennaio dell'anno presente n'entrò in possesso; e, fattosi eleggere signore di quella città, v'introdusse tutti i fuorusciti, eccettochè i Cavalcabò: dopo di che se ne tornò a Piacenza, dove si dichiarò nemico suo Verzusio Lando, per aver egli, secondochè allora fu detto, mostrate voglie impure verso Bianchina, bellissima ed insieme onesta moglie d'esso Verzusio [Bonincontrus Morigia, lib. 3, cap. 2, tom. 12 Rer. Ital.]. Galeazzo tolse al Lando il castello di Rivalta; ma costogli ben caro l'aver perduta l'amicizia di questo nobile, siccome fra poco vedremo. Nel febbraio il legato pontificio, cioè il cardinale Beltrando dal Poggetto, nel luogo di Burgolio dell'Alessandrino, [425] con gran solennità fulminò tutte le maledizioni di Dio, e pubblicò e confermò tutte le scomuniche e gl'interdetti contro la persona di Matteo Visconte, de' suoi figliuoli e fautori, e delle di lui città, col confisco de' beni, schiavitù delle persone, come se si trattasse di Saraceni. Furono ancora aperti tutti i tesori delle indulgenze e del perdono de' peccati a chi prendeva la croce e l'armi contra di questi pretesi eretici. Nello stesso mese in Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom, 17 Rer. Ital.] con grande allegria di quel popolo si fece la pubblicazione di quelle scomuniche e della medesima crociata. Dopo aver fatto Raimondo da Cardona, generale del papa e del re Roberto, molti danni all'Alessandrino [Chronic. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] e Tortonese, andò colle macchine militari per espugnare il castello di Bassignana. Nel dì 6 di luglio Marco Visconte con due mila cavalli e dieci mila fanti andò a trovarlo [Bonincontr. Morigia, lib. 3, cap. 27, tom. 12 Rer. Ital.]. Tuttochè Raimondo fosse inferior di gente, pure temerariamente andò ad assalirlo, e gran sangue si sparse. Ma egli ne rimase sconfitto, e più di cinquecento cavalieri e circa ducento balestrieri e pedoni de' suoi furono menati prigioni. Poco nondimeno servì ai Visconti questo vantaggio, perchè di tanto in tanto venivano spediti nuovi rinforzi al Cardona da papa Giovanni e dal re Roberto, ed erano in aria altri nuvoli. E qui convien prima accennare un altro spediente preso da esso papa e re, per mettere a terra i Ghibellini. Fecero essi maneggio, acciocchè Federigo d'Austria eletto re de' Romani venisse colle sue forze in Italia alla distruzion de' Visconti, dandogli a credere di voler decidere la lite dell'imperio in suo favore, e mettere a lui in capo la corona [Corio, Istor. di Milano.]. Non si attentò già Federigo di venire in persona per timore del Bavaro, ma bensì, dopo aver ricevuto dal papa un aiuto di cento mila [426] fiorini d'oro, fece calare in Italia Arrigo suo fratello, il quale con due mila cavalli arrivò a Brescia [Malvec., Chronic. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], accolto con sommo onore da quel popolo. Quivi era ancora Pagano dalla Torre patriarca d'Aquileia, che, pubblicata contra de' Visconti e degli altri Ghibellini, chiamati ribelli della Chiesa, la terribil bolla delle scomuniche, predicò la crociata, e mise in armi quattro o cinque mila persone pronte a' suoi cenni. L'arrivo di Arrigo d'Austria sbalordì i principi de' Ghibellini, che non si sentivano voglia di cedere a' suoi comandamenti, e resistendo parea loro d'alzar bandiera contro all'imperio, per essere il di lui fratello eletto re de' Romani. Fatto un parlamento, spedirono a lui ambasciatori, rappresentandogli che solenne pazzia sarebbe quella di procedere contra dei Ghibellini, unici fedeli dell'imperio in Italia; essere quella una trama del re Roberto per annientare la fazion ghibellina ed innalzar la guelfa: il che se gli veniva fatto, restava egli padron dell'Italia, e metteva un buon catenaccio alle porte di essa, di modo che nè il re Federigo, nè altro principe di Germania avrebbe più potuto goderne la signoria. Trovò Arrigo co' suoi consiglieri fondate queste ragioni; e comunicatele al fratello, gli fece mutar parere; laonde, allorchè era in viaggio per andare a rimettere in Bergamo i fuorusciti guelfi, che gli aveano promesso venti mila fiorini, non volle passar oltre, schiettamente dicendo: Son io venuto qua per abbattere i fedeli dell'imperio? Signor no. Piuttosto ad innalzarli. E fattagli istanza da' Bresciani, perchè li liberasse dalla molestia de' fuorusciti, disse di farlo, purchè gli dessero le porte della città in guardia e due mila fiorini. Il danaro, ma non le porte, vollero dargli i Bresciani, ed egli sdegnato passò con sue genti a Verona, dove magnificamente ricevuto da Cane Scaligero, gli furono contati a nome della lega ghibellina sessanta mila [427] fiorini, coi quali se ne ritornò assai contento in Germania.

Ancorchè passasse questo minaccioso turbine, pure avea esso dianzi recato gran pregiudizio agli affari di Matteo Visconte. Imperciocchè molti nobili milanesi fin dal mese di febbraio si diedero a macchinare la di lui depressione; parte per vedere che si preparavano in Italia, in Francia e fino in Germania tante armi contra di lui e della loro città; parte per terror delle scomuniche; e parte perchè segretamente guadagnati dal disinvolto legato del papa, che prometteva i secoli d'oro ai Milanesi, e particolari ricompense a certe persone, se si davano al papa e al re Roberto. Secondo alcuni scrittori [Bonincontrus Morigia, Chron. Mod., lib. 3, cap. 2, tom. 12 Rer. Ital. Chron. Astense, cap. 105, tom. 11 Rer. Ital.], pare che lo stesso Matteo si mostrasse inclinato a cedere; ma, secondo altri [Corio, Istoria di Milano. Gualvan. Flamma, cap. 361, tom. 11 Rer. Ital.], fra il suo cuore e le sue parole passava poca armonia, ed egli si trovò in grandi affanni allo scorgere che titubavano nella fede i primati milanesi. Ne scrisse ai collegati ghibellini; fece venir di Piacenza Galeazzo suo primogenito, in cui mano rassegnò il governo; e poi si diede alla visita de' sacri templi, con professar dappertutto la fede cattolica. Probabilmente questi fieri sconcerti d'animo, aggiunti all'età d'anni settantadue, quei furono che il fecero cader malato nel monistero di Crescenzago, dove finì di vivere circa il dì 27 di giugno dell'anno presente. Dagli scrittori milanesi egli vien chiamato Matteo il Magno per cagion del suo gran senno che il condusse a sì alto grado di principato; ma non si sa che alcuno il piagnesse morto, perchè vivo avea forte aggravati i popoli, nè era esente da vizii. Lasciò dopo di sè cinque figliuoli, Galeazzo, Marco, Luchino, Stefano, tutti e quattro ammogliati, e Giovanni cherico, già eletto arcivescovo di Milano, ma rifiutato dal papa. [428] Tennero questi celata la morte del padre per lo spazio di quattordici dì; e fecero seppellire il di lui corpo in luogo ignoto per cagion delle scomuniche e dell'interdetto: dopo il qual tempo Galeazzo ebbe maniera di farsi proclamare signor di Milano. Ma non gli mancarono de' nemici in casa. Fra gli altri si contò Francesco da Garbagnate, quel medesimo che avea sotto Arrigo VII aiutato con tanta attenzione Matteo Visconte a salire, e che poi riempiuto di benefizii e di roba da lui, era divenuto uno de' più benestanti ed autorevoli di Milano. Del pari Lodrisio Visconte figliuolo d'un fratello d'esso Matteo, per tacere degli altri, palesò il suo mal talento contra di Galeazzo. Accadde in questi tempi la vittoria, che già abbiam detto, riportata da Marco Visconte in Bassignana, il cui borgo venne ancora alle sue mani; ma ciò non trattenne punto il pendio della fortuna avversa ad esso Galeazzo. Aveva egli lasciata in Piacenza Beatrice Estense sua moglie col giovinetto Azzo suo figliuolo alla custodia della città [Johann. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic. Chron. Astense, tom. 11 Rer. Italic.]. Intanto Verzusio Lando, che era presso il legato pontificio, manipulò una congiura con alcuni cittadini di Piacenza; ed ottenuto da esso legato un buon corpo di cavalleria, nella notte precedente al dì 9 di ottobre arrivò a quella città. Per un'apertura fatta dai traditori (fra' quali Buonincontro [Boninc. Morigia, lib. 3, cap. 4, tom. 12 Rer. Italic.] mette anche Manfredi Lando, benchè la Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] dica il contrario) entrò Verzusio nella città. Ebbe il giovane Azzo Visconte la sorte di potersi salvare per senno della marchesa Beatrice sua madre e donna virile, la quale, gittando dalle finestre gran copia di moneta, fermò i soldati papalini, e fece attaccar lite fra loro, e in questo mentre diede tempo al figliuolo di scappare a Fiorenzuola con dodici cavalli. Patì ella [429] dipoi delle gravi molestie; pure fu onorevolmente accompagnata fuori di Piacenza. Nel dì 27 di novembre fece la sua entrata in quella città il legato pontificio, e i Piacentini si diedero al papa, eleggendolo per loro signor temporale, secondo la Cronica di Piacenza, toto tempore vitae suae. Intorno a questo punto, cioè del dominio allora acquistato da papa Giovanni nella città di Piacenza, s'è disputato negli anni addietro fra gli avvocati della Chiesa romana e quei dell'imperadore, pretendendo i primi che il popolo di Piacenza, dopo alcuni anni, con pubblico atto riconoscessero che Piacenza col suo distretto immediate subjecta sit et fuerit ab antiquo sanctae romanae Ecclesiae; e pretendendo gli altri, con addurre pubblico documento, che quella sia un'impostura, e che la signoria di Piacenza, data a quel pontefice, fosse chiaramente ristretta al tempo della vacanza dell'imperio, come fu fatto circa questi tempi da Parma, Modena ed altri simili città non mai suggette in addietro al temporal dominio de' romani pontefici.

Anche i Rossi co' figliuoli di Giberto da Correggio [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] nel dì 19 del mese di settembre occuparono la città di Parma, e ne scacciarono Giamquillico di San-Vitale con tutti i suoi aderenti ghibellini. Scrivono altri [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] che fecero prigione il San-Vitale, e il misero in una gabbia di ferro. Abbiamo negli Annali Ecclesiastici [Raynald., in Annal. Eccles. ad hunc annum, num. 13.] l'atto in cui quel popolo si mise anch'esso sotto il dominio del papa, ma vacante imperio, sicut nunc vacare dignoscitur. Certamente può quest'atto far dubitare d'interpolazione nel troppo diverso spettante a Piacenza. I Reggiani anch'essi dimandarono ed ebbero dal legato pontificio un vicario del papa al loro governo. Ma eccoti un'altra peripezia. Andarono tanto innanzi le mine interne [430] ed esterne in Milano, che quei primati, avendo guadagnato il presidio tedesco di quella città [Bonincontrus, Chron. Mod., lib. 3, cap. 7, tom. 12 Rer. Ital. Chron. Astense, cap. 109, tom. 11 Rer. Ital.], nel dì 8 di novembre mossero a rumore la terra contro a Galeazzo Visconte, il quale, dopo aver sostenuto con gran vigore più battaglie, finalmente fu costretto a prendere la fuga. Si ritirò egli a Lodi, dove amorevolmente venne accollo dai Vestarini, caporali della fazion ghibellina di quella città. Qualche accordo, ma non so ben dir quale, pare che succedesse, o almen si trattasse, fra il legato del papa e i reggenti allora di Milano, che tuttavia si tenevano a parte ghibellina, e fecero lor capitano un tal Giovanni dalla Torre Borgognone. Ma che? Nella Martesana cominciarono i Guelfi a muovere delle sedizioni, e s'impadronirono della città di Monza coll'espulsion de' Ghibellini. Corsero allora a Monza assaissimi ribaldi di Bergamo e di Crema; ma vi accorsero ancora Lodrisio Visconte e Francesco da Garbagnate coll'esercito milanese, per gastigar questa ribellione, benchè fatta da pochi malviventi, e per forza v'entrarono. Quivi le crudeltà e la lussuria si sfogarono per tre dì, e andò ogni cosa a sacco, senza distinguere Guelfi da Ghibellini. Poco andò che, trovandosi in confusione il governo di Milano, nè mantenendosi dal legato ai Milanesi, nè da' Milanesi alla guarnigion tedesca le promesse, i Tedeschi, pentiti di aver cacciato Galeazzo Visconte, che li teneva dianzi nella bambagia, spedirono a Lodi ad invitarlo. Fece egli segretamente trattar con Lodrisio Visconte, e si convenne con lui [Boninc. Morigia, lib. 3, cap. 14. Corio, Istoria di Milano. Gualvaneus Flamma, cap. 361, tom. 11 Rer. Ital.]; laonde nel dì 9 di dicembre rientrò, e fu confermato capitano e signore della città. Se n'andò a spasso il Borgognone, e per paura di Galeazzo, Francesco da Garbagnate, Simon Crivello ed altri nobili, già congiurati contra di lui, si ridussero a Piacenza, [431] dove si diedero a muovere cielo e terra contra de' Visconti. Nel dì 3 di settembre di quest'anno Cane dalla Scala e Passerino signor di Mantova e Modena [Moranus, Chronic., tom. 11 Rer. Ital. Johannes de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], con grosso esercito, a cui intervennero anche i Modenesi, andarono sotto Reggio in favore de' Sessi e degli altri fuorusciti ghibellini. Cinque bei borghi avea quella città; tutti furono dati alle fiamme, parte da' cittadini e parte dagli assedianti. La nuova della mutazion seguita in Parma li fece tornare in fretta alle lor case. Nel dì 9 di maggio [Chron. Bononiens., tom. eodem.] Romeo de' Pepoli con Testa de' Gozzadini e cogli altri usciti di Bologna, rinforzato da assaissimi Ferraresi e Romagnuoli, avendo intelligenza con alcuni de' suoi parziali in Bologna, andò colà una notte, sperando di rientrare nella città. E già aveano rotti i catenacci e le serrature d'una porta; ma andò loro fallito il colpo, perchè dal popolo mosso all'armi fu impedito loro l'ingresso. Furono perciò mandati a' confini i Gozzadini e molti altri nobili di quella città; alcuni ancora finirono la vita col capestro, e la città restò tutta sossopra. Morì poscia Romeo de' Pepoli nel dì primo di ottobre in Avignone, dove si era portato per ottenere il favor del papa.

Tenevano la signoria di Ravenna in questi tempi Guido e Rinaldo fratelli da Polenta [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6.]. Dimorava il primo in Bologna, capitano di quel popolo; l'altro se ne stava in Ravenna, arcidiacono di quella chiesa, e d'essa già eletto arcivescovo dopo la morte accaduta in quest'anno di un altro Rinaldo arcivescovo di santa vita. Ostasio da Polenta signore di Cervia, in cui la smoderata voglia di dominare avea estinto ogni riflesso di parentela e sentimento d'umanità, ito a Ravenna come amico, barbaramente tolse di vita esso Rinaldo arcivescovo eletto, ed occupò il dominio di quella città. Dopo [432] un lunghissimo assedio i Perugini [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 137.] riacquistarono nel dì 2 d'aprile la città d'Assisi, ma con loro infamia, perchè contro i patti corsero la terra, ed uccisero a furore più di cento di que' cittadini, e smantellarono dipoi tutte le mura e fortezze di quella città, con altri aggravii. Pareva in questi tempi Federigo conte di Montefeltro in un bell'ascendente di fortuna, perchè padrone d'Urbino e d'altre città ghibelline, che il riguardavano come lor capo in quelle contrade, bench'egli fosse scomunicato dal papa, e dichiarato, secondo l'uso d'allora, eretico ed idolatra. Per gl'impegni della guerra aveva egli caricato di taglie ed imposte gli Urbinati. Quel popolo in furia nel dì 22 d'aprile (il Villani dice 26) si mosse contra di lui. Rifugiossi egli nella sua fortezza della Torre. Ma ritrovandosi ivi sprovveduto di gente e di viveri, col capestro al collo chiedendo misericordia, si diede nelle mani dell'inferocito popolo. La misericordia che usarono a lui e ad un suo figliuolo, fu di metterli in pezzi, e di seppellirli come scomunicati a guisa di cavalli morti. Nel dì primo di gennaio dell'anno presente i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 139.] si liberarono dalla signoria del re Roberto. V'ha chi scrive, averla spontaneamente rinunziata esso re. Si può crede un'immaginazione. Le città allora avvezze alla libertà trovavano pesanti i padroni, ancorchè buoni; nè Roberto era principe da disprezzar così nobil boccone. Tornarono in quest'anno alle mani degli uffiziali pontificii le città di Recanati, di Fano e d'Urbino. Anche Osimo loro si diede nel mese di maggio; ma nell'agosto si tornò a ribellare; ed unito il popolo d'essa città con quei di Fermo e Fabriano, e coi Ghibellini di quelle parti, fece guerra al marchese della marca d'Ancona. Castruccio signor di Lucca cotanto molestò i Pistoiesi, che quel popolo fece, contro la volontà dei [433] Fiorentini, tregua con lui, obbligandosi di pagargli ogni anno quattro mila fiorini d'oro. Continuò in quest'anno ancora l'aspra guerra fra i Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 18 Rer. Ital. Giovanni Villani.] i e loro usciti ghibellini; e quantunque il re Roberto mandasse in aiuto dei primi una buona flotta, pure non potè impedire che i fuorusciti non ripigliassero per forza la città d'Albenga. Di gran sangue fu sparso in quest'anno in Germania; imperocchè i due eletti re de' Romani, cioè Federigo duca d'Austria e Lodovico duca di Baviera, vennero con due possenti eserciti alle mani, per decidere le lor contese col ferro nel dì 28 o 29 di settembre [Rebdorf. Cortus. Histor, tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9. Continuat. Albert. Argentin., et alii.]. In quella terribil giornata, che costò la vita a molte migliaia di persone, rimase sconfitto e prigioniere del Bavaro il re Federigo con Arrigo suo fratello. Scrittore c'è che sembra attribuire la disavventura di questi principi a gastigo di Dio, perchè, chiamati dal papa in Italia contro ai tiranni ed eretici di Lombardia, aveano tradita la causa pontificia con ritirarsi. Idea strana che vuole far Dio sì interessato ne' politici disegni e nell'ingrandimento temporale dei papi, come certamente egli è nella conservazione della sua vera religione e Chiesa; e quasi fosse peccato grave l'essere desistito un re de' Romani, futuro imperadore, dall'assassinar sè stesso col procurar la rovina de' Ghibellini amanti dell'imperio, e l'esaltazione de' Guelfi nemici d'esso imperio.


   
Anno di Cristo mcccxxiii. Indiz. VI.
Giovanni XXII papa 8.
Imperio vacante.

Piena di guai fu in quest'anno la Lombardia per l'ostinata guerra continuata da papa Giovanni e dal re Roberto [434] ai Visconti [Bonincontrus Morigia, Chron. Mod., lib. 3, cap. 19, tom. 12 Rer. Ital. Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano, et alii.]. Fece il legato pontificio Beltrando massa grande di gente. N'ebbe da' Bolognesi, Fiorentini, Reggiani, Parmigiani, Piacentini ed altri Lombardi. Venne Arrigo di Fiandra con un corpo d'armati a trovarlo per desiderio di riaver Lodi, di cui il fu imperadore Arrigo VII lo avea investito. Accorse Pagano dalla Torre patriarca con Francesco, Simone, Moschino ed altri Torriani, conducendo seco molte schiere di combattenti furlani. In somma si contarono alla mostra del suo esercito otto mila cavalli e trenta mila pedoni. Galeazzo coi fratelli Visconti procurò anch'egli quanti aiuti potè da Como, Novara, Vercelli, Pavia, Lodi, Bergamo, e da altri amici suoi; e, benchè di troppo gli fossero superiori di forze i nemici, pure si preparò ad una gagliarda difesa. Già era succeduto un conflitto nel dì 25 di febbraio al fiume Adda [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 189.]. Avea Galeazzo inviati i suoi due fratelli Marco e Luchino con sei mila fanti e mille cavalli a guardare il passo di quel fiume. Nel dì suddetto in vicinanza di Trezzo lo passarono Simone Crivello e Francesco da Garbagnate nemici fieri de' Visconti, con assaissime squadre d'armati. Marco Visconte, che si trovava a quel passo con cinquecento soli cavalli, gli assalì, e fece strage di molti, fra' quali essendo stati presi i suddetti due capi de' fuorusciti milanesi, non potè contenersi dall'ucciderli di sua mano. Crescendo poi la piena de' nemici, perchè ne passò un altro gran corpo, Marco con perdita di pochi de' suoi si ritirò a Milano. Entrò poi il formidabil esercito del legato nel territorio di Milano sotto il comando di Raimondo da Cardona, di Arrigo di Fiandra, di Castrone nipote del legato, e d'altri tenenti generali [Gualvan. Flamma, cap. 362, tom. 11 Rer. Italic.]. Dopo l'acquisto di Monza, di Caravaggio e di [435] Vimercato, un altro fatto d'armi succedette nel dì 19 d'aprile al luogo della Trezella (Garazzuola vien chiamato dal Villani) fra i suddetti due fratelli Visconti e parte dell'esercito pontificio, in cui restò indecisa la vittoria. Maggiore nondimeno, secondo alcuni, fu la perdita dal canto di quei della Chiesa. Secondo il Villani, n'ebbero la peggio i Visconti. Passò dipoi nel dì 13 di giugno tutta la armata papale sotto Milano, ed accampossi ne' borghi di Porta Comasina, di Porta Tosa, Ticinese e Vercellina. Quasi due mesi durò quell'assedio, ma con poco frutto. Molti erano i Tedeschi che militavano in questi tempi in Italia, al soldo specialmente de' principi ghibellini: gente di gran valore, ma di niuna fede e venale. Si lasciarono corrompere dal danaro quei ch'erano in Milano al servigio di Galeazzo Visconte; e un dì presero l'armi contra di lui per ucciderlo od imprigionarlo. Si salvò egli nel suo palazzo, dove l'assediarono; ma Giovanni Visconte suo fratello, allora cherico, mosse all'armi tutte le soldatesche italiane, obbligò quei ribaldi a chiedere pace e misericordia, che loro fu conceduta, perchè il tempo così esigeva [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 211.]. Anzi i medesimi fecero che dieci bandiere d'altri Tedeschi, che erano al soldo della Chiesa nel campo, si partirono di là ed entrarono in Milano. L'essere andato fallito questo colpo agli uffiziali del papa, e il venire ogni dì scemando la loro gente per le sortite de' nemici e per le grandi malattie che condussero al sepolcro anche lo stesso Castrone generale dell'armata, e l'essere giunti ottocento uomini d'armi spediti da Lodovico il Bavaro in aiuto di Galeazzo Visconte: questi motivi, congiunti colla mancanza delle vettovaglie, furono cagione che una notte tutte quelle gran brigate levarono precipitosamente il campo, e si ritirarono a Monza sul fine di luglio, con separarsi dipoi la loro armata. Nel mese susseguente i Milanesi andarono all'assedio di Monza, e vi [436] stettero sotto quasi due mesi; ma, avendo il legato inviata gran quantità di cavalli e fanti in aiuto di quella terra, se ne tornarono gli assedianti a guisa di sconfitti a Milano. Molti altri fatti di guerra succederono, prima che terminasse l'anno che io per brevità tralascio [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital. Georgius Stella, Annales Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Ma non si dee tacere che in quest'anno Raimondo da Cardona nel dì 19 di febbraio ebbe a buoni patti la città di Tortona, e da lì a pochi giorni dalla guarnigione a forza di oro ebbe anche il castello. E nel dì 2 di aprile parimente la città d'Alessandria, per paura di assedio, venne in suo potere.

Nel dì 17 di febbraio dell'anno presente, riuscì ai Genovesi [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 186.], dopo tanti affanni e dopo un sì lungo e sanguinoso assedio, di cacciar dai borghi della loro città i fuorusciti, con farne prigioni molti, e guadagnare un grosso bottino. Castruccio signor di Lucca, sempre indefesso, riacquistò molte terre nella Garfagnana, e mise l'assedio a Prato, perchè quel popolo non gli volea pagar tributo, come faceano i Pistoiesi. Ma, accorsi con grande oste i Fiorentini, il fecero ritirare in fretta, senza operare di più, perchè la discordia, febbre ordinaria di quella città, scompigliò il parere di chi avea più senno. Era signore di Città di Castello in questi tempi Branca Guelfucci, che tiranneggiava forte quel popolo. Fecero trattato segreto alcuni di que' cittadini con Guido de' Tarlati da Pietramala, vescovo d'Arezzo, il quale spedì loro Tarlatino suo nipote con trecento cavalli. Entrati nel dì 2 d'ottobre costoro in tempo di notte, e corsa la terra, per forza ne cacciarono Branca e tutti i Guelfi, riducendo quella città a parte ghibellina: avvenimento sì sensibile alle città guelfe, che Firenze, Siena, Perugia, Orvieto, Gubbio e Bologna fecero dipoi grossa taglia insieme per far mutare stato a quella città. Fu poscia scomunicato per questo dal papa il vescovo d'Arezzo. [437] Anche il popolo d'Urbino nel mese di aprile, a cagion de' soverchi aggravii, si ribellò ai ministri della Chiesa [Raynaldus, Annal. Eccl.]. Cominciò in quest'anno la rottura grande fra papa Giovanni XXII e Lodovico il Bavaro. Era Lodovico rimasto senza chi gli contrastasse la corona dell'imperio, perchè teneva nelle sue prigioni l'emulo Federigo duca d'Austria, con aggiugnere alcuno scrittore ch'esso Federigo infin l'anno presente rinunziò in favore di lui le sue ragioni: il che non so se sia vero. Il papa e il re Roberto, a' quali premeva che durasse in quelle parti la discordia, nè l'Italia avesse imperadore, o alcuno imperador tedesco, per arrivar intanto al fine de' lor disegni, non solo animarono Leopoldo, valoroso fratello di Federigo, a sostener la guerra contra del Bavaro, ma indussero anche il re di Francia a somministrargli de' gagliardi aiuti. Intanto Galeazzo Visconte e gli altri principi ghibellini, al vedersi venire addosso un sì fiero temporale dell'armi del papa, caldamente si raccomandarono con lettere e messi a Lodovico per ottener soccorso, rappresentandogli, che se riusciva al pontefice e a Roberto di aggiugnere a tante altre conquiste quella di Milano, era sbrigata pel regno d'Italia; perciocchè da che fosse giunta a trionfare la fazion guelfa nemica dell'imperio, poco o nulla sarebbe mancato a Roberto per mutare il titolo di vicario in quello di re d'Italia e d'imperadore; giacchè il papa mostrava abbastanza di non voler più Tedeschi a comandar le feste in queste contrade, e ognun sapeva ch'egli era lo zimbello delle voglie d'esso Roberto. Perciò Lodovico nell'aprile di questo anno inviò i suoi ambasciatori al legato cardinale, dimorante in Piacenza, con pregarlo di astenersi dal molestar Milano, ch'era dello imperio [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 194.]. Rispose l'accorto cardinale, non pretendere il papa di levare allo imperio alcuno de' suoi diritti, ma bensì di conservarli tutti; e ch'egli si maravigliava [438] come il loro signore volesse prender la protezione degli eretici. Fece anche istanza d'una copia del loro mandato, ch'essi cautamente negarono di avere su questo. Lodovico, informato che a nulla avea servito l'ambasciata, e che Milano era stretto d'assedio, mandò colà, come abbiam detto, ottocento (se pur furono tanti) uomini d'armi, che furono l'opportuno preservativo della caduta di quella città, inevitabile senza di questo soccorso. Dio vi dica l'ira di papa Giovanni, attizzata specialmente dal re Roberto [Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital.]. Nel dì 9 d'ottobre pubblicò egli un monitorio contra del Bavaro, accusandolo d'aver preso il titolo di re de' Romani senza venir prima approvato dal papa; e d'essersi mischiato nel governo degli Stati dell'imperio, spettante ai romani pontefici, durante la vacanza di esso; e di aver dato aiuto ai Visconti, benchè condannati come nemici della Chiesa romana ed eretici. Poscia nel luglio del seguente anno lo scomunicò [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Lodovico di Baviera, intesa questa sinfonia, in un parlamento tenuto nell'anno seguente in Norimberga, fece un'autentica protesta, allegando che il papa faceva delle novità, ed era dietro ad usurpare i diritti dell'imperio, con toccar altre corde ch'io tralascio; ed appellò al concilio generale. Ecco dunque aperto il teatro della guerra fra esso Lodovico e il papa: guerra che si tirò dietro de' gravissimi scandali, per quanto vedremo.


   
Anno di Cristo mcccxxiv. Indizione VII.
Giovanni XXII papa 9.
Imperio vacante.

Continuando la guerra della Chiesa contra de' Visconti, Raimondo da Cardona generale del papa, con Arrigo di Fiandra e Simone dalla Torre [Bonincontrus Morigia, Chron. Modoet., tom. 13 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 138.], condusse lo [439] esercito suo verso Vavrio, borgo da lui posseduto, per isloggiare i nemici venuti per infestare il ponte ch'egli avea sopra l'Adda. Galeazzo e Marco Visconti colà accorsero anch'essi. Secondo il costume degli scrittori parziali al loro partito, Bonincontro Morigia scrive che i Milanesi erano molto inferiori di gente agli altri; il Villani dice il contrario. Certo è che nel dì 16 di febbraio si venne ad un fatto d'armi. Il Villani lo fa succeduto nel dì ultimo di quel mese. Probabilmente fu nel penultimo d'esso mese allora bissestile, scrivendo l'autore degli Annali Milanesi [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] in die Carnisprivii (cioè del carnovale) die Martis penultimo februarii. Avea dato ordine Galeazzo ad alcuni dei suoi più arditi soldati che, all'udire attaccata la zuffa, entrassero in Vavrio, e mettessero fuoco dappertutto. Diedesi fiato alle trombe, e un duro ed ostinato combattimento si fece. Tra per la forza de' Milanesi, e per la funesta scena del borgo che era tutto in fiamme, l'esercito pontificio si mise in rotta. Moltissimi ne furono uccisi, fra' quali Simone Torriano; più ancora se ne annegarono nel fiume, e alle mani de' vincitori fra gli altri assaissimi prigioni vennero Raimondo da Cardona ed Arrigo di Fiandra. Questo ultimo, secondo il Villani, si riscattò dai Tedeschi che l'aveano preso, e con essi tratti al suo partito venne a Monza. Il Morigia, autore che ne prese migliore informazione, asserisce non essere egli restato prigione, e che fuggendo, per miracolo di san Giovanni Batista, arrivò salvo a Monza. Il Cardona dipoi nel mese di novembre, fatto negozio colle guardie a lui poste in Milano, se ne fuggì, e a Monza anche egli si restituì. Monza, dico, la qual fu susseguentemente assediata da Galeazzo Visconte e dalle sue genti. Mandò il legato due mila soldati alla difesa di quella città, intorno a cui furono fatte varie bastie e battifolli. Nel settembre fecero una sortita gli assediati, avendo alla testa Verzusio Lando con ottocento [440] cavalli e mille e cinquecento fanti. Ben li ricevette con soli cinquecento cavalli Marco Visconte, e li sconfisse, colla morte di trecento ottanta d'essi, il che mise in somma costernazione quel presidio di crocesignati, i quali altro mestier non faceano, se non di rubar le zitelle e mogli altrui, di ammazzar uomini e fanciulli, e saccheggiare e incendiar le case. Entrarono anche di consenso dello stesso cardinal legato nella chiesa maggiore di Monza, ne presero quanti vasi d'oro e d'argento e reliquiarii v'erano; il che non so come ben s'accordi coll'avere precedentemente scritto il medesimo Morigia che i canonici, prevedendo le disgrazie che avvennero, aveano nascoso in segretissimo luogo il ricco tesoro di quella chiesa. Secondo il suddetto Morigia [Morigia, lib. 3, cap. 27, tom. 12 Rer. Ital.], la fuga di Raimondo da Cardona fu di consenso segreto dello stesso Galeazzo Visconte, perchè gli fece egli sperare di adoperarsi per la restituzion di Monza, e di ottenergli anche buon accordo col papa. Infatti andò esso Raimondo ad Avignone, ed espose l'impossibilità di vincere i Visconti, e che Galeazzo intendeva di conservare per sè il dominio di Milano, e di mantenere a sue spese cinquecento uomini d'armi al servigio del papa, dovunque egli volesse. Non dispiacquero al papa i patti; ma siccome egli non ardiva di muovere un dito, se non gliene dava licenza il re Roberto, così ordinò che se ne parlasse al medesimo re. Ne parlò Raimondo al re, e ne ebbe per risposta che accetterebbe così fatta proposizione, purchè Galeazzo giurasse di adoperar tutte le sue forze in servigio d'esso re contra l'imperiale potenza. Ed ecco come l'ambizion di Roberto si cavò il cappuccio; ecco svelati i motivi di tanti processi contra del Bavaro, de' Visconti e degli altri Ghibellini di Italia, sotto pretesto di disubbidienze e d'eresie. Tutto tendeva per diritto o per traverso a distruggere l'imperio, e ad esaltare chi s'abusava dell'autorità e della penna del pontefice, divenuto suo [441] schiavo, per arrivare all'intera signoria d'Italia. Ma Galeazzo Visconte protestò di voler sofferire piuttosto ogni male, che andar contro al giuramento da lui prestato a chi reggeva l'imperio. Trattò egli dipoi col cardinale Beltrando legato la restituzione di Monza; e già era accordato tutto, quando il legato, coll'esibizione di otto mila fiorini d'oro ad alcuni traditori, si credette di occupar la città di Lodi: il che se veniva fatto, Monza non si rendeva più. Il tentativo di Lodi andò a voto, e molti de' traditori furono presi [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 270.]: il che cagionò che nel dì 10 di dicembre si rendesse la città di Monza a Galeazzo. Colà egli richiamò chiunque era fuggito, e mise tra loro la pace; poi nel marzo dell'anno seguente cominciò a fortificare il castello d'essa città in mirabil forma, con farvi anche delle orride prigioni. Vi fu chi disse [Bonincontrus Morigia, lib. 3, cap. 31, tom. 11 Rer. Ital.] che Galeazzo faceva far ivi quelle carceri per sè e per li suoi fratelli, e che potrebbono esser eglino i primi a provarle. Col tempo il detto si verificò; ma forse dopo il fatto nacque tal predizione.

Correvano già due anni e più che i Perugini col ministro del papa, governatore del ducato spoletino, tenevano assediata la città di Spoleti con bastie e battifolli fabbricati all'intorno [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 243.]. La fame finalmente costrinse quel popolo ad arrendersi, salve le persone, nel dì 9 di aprile. Per buona cautela de' Fiorentini e Sanesi, che v'erano colla lor taglia ad oste, non seguì maleficio alcuno nell'entrare in essa città, la quale fu ridotta a parte guelfa, e rimase distrittuale di Perugia. Fecero dipoi essi Perugini l'assedio della Città di Castello occupata dal vescovo d'Arezzo coll'aiuto dell'altre città della lega guelfa. Nel dì 22 d'aprile [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] il re Roberto colla regina sua moglie e Carlo duca di Calabria suo figliuolo, e [442] colla moglie figliuola di Carlo di Valois, dalla Provenza incamminati per mare a Napoli, con quarantacinque vele arrivarono a Genova. Fece ivi un gran broglio, affinchè il limitato dominio di dieci anni di quella città, a lui già dato nell'anno 1318, divenisse perpetuo. Ne nacque discordia fra i cittadini: chi volea tutto, chi meno, chi nulla. Finalmente si acconciò l'affare con prorogargli la signoria anche per sei anni avvenire. Fece egli alquante mutazioni in quel governo, ristringendo la libertà del popolo. Nel suo passaggio ebbe grandi presenti ed onori dai Pisani, i quali in questi tempi si trovano in gravi affanni, essendo che don Alfonso figliuolo di Giacomo re d'Aragona e Catalogna, passato con buona armata in Sardegna, andava loro togliendo a poco a poco tutti i luoghi posseduti da essi in quell'isola, e diedero loro anche nel mese di maggio dell'anno presente una rotta a Castello di Castro. Per concerto fatto nel dì 3 di marzo [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 239. Istor. Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.] veniva il vicario del re Roberto a ripigliare il possesso di Pistoia; ma fu forzato a tornarsene vergognosamente indietro, perchè, assalito per istrada dalle genti di Filippo de' Tedici, il quale in questo anno appunto tolse la signoria di Pistoia nel dì 24 di luglio ad Ormanno Tedici abbate di Pacciana suo zio, e se ne fece egli signore, e conchiuse una tregua con Castruccio signore di Lucca, pagandogli ogni anno tre mila fiorini d'oro di tributo. Adirati i nobili padovani [Cortus. Histor., lib. 3, tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9. Chronic. Patavin., tom. 8 Rer. Ital.], spezialmente i Carraresi, contra di Cane dalla Scala, tanto fecero, che trassero in Italia il duca di Carintia, e Ottone fratello del duca d'Austria, per isperanza di mettere un buon collare al collo d'esso messer Cane. Vennero questi principi con ismisurato esercito di cavalleria tedesca ed unghera, che si fece ascendere al numero di quindici mila cavalli. Diedero [443] costoro il sacco al Friuli per dove passarono. Arrivati nel dì 3 di giugno a Trivigi, vi consumarono tutto. Prima ancora che arrivassero sul Padovano, a furia fuggivano i miseri contadini di quel paese, perchè informati che coloro, dovunque giugnevano, facevano un netto, bruciavano, nè rispettavano donne, nè monache. Nel dì 21 d'esso mese con questa diabolica armata arrivò il duca di Carintia a Padova, e nel dì seguente cavalcò a Monselice. Oh qui sì che c'era bisogno di senno a Cane dalla Scala. Non gli mancò in effetto. Unì quante genti potè [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Obizzo marchese d'Este e signor di Ferrara con gran copia di cavalli e fanti ferraresi corse a Verona in suo aiuto. Milanesi, Mantovani, Modenesi, anch'essi volarono colà, e tutti si posero a guardar le fortezze. Ma Cane non ripose già la sua speranza in questi combattenti. Persuaso egli della verità di quel proverbio: Miglior punta ha l'oro che il ferro, non tardò a spedire Bailardino da Nogarola ed altri ambasciatori, allorchè il duca fu giunto a Trivigi, e susseguentemente in altri luoghi, tenendolo a bada con proposizioni d'accordo e con altri raggiri; e finalmente, esibite grossissime somme di danaro, ottenne tregua da lui sino al venturo Natale. Si vide allora quella bella scena, che il duca, dappoichè la sua gente ebbe rovinata coi saccheggi buona parte del Padovano, in cui sollievo era venuta, e ricavati trentamila fiorini d'oro da quella città, senza far danno alcuno alle terre dello Scaligero, contra di cui era stato chiamato, se ne tornò nel dì 26 di luglio in Carintia: gridando i confusi ed impoveriti Padovani, essere peggior l'amicizia di quella gente, che la nemicizia con Cane. Nel dì 23 di novembre morì Jacopo da Carrara, già signore di Padova, lasciando sotto la cura di Marsilio da Carrara le sue figliuole e i suoi bastardi. Abbiamo dalla Cronica di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] [444] che nel luglio di quest'anno Speranza conte di Montefeltro coi figliuoli del già ucciso conte Federigo ritornò in Urbino; dal che pare restituita quella famiglia nel dominio d'essa città; ma di ciò non ne so il come. Nel dì 3 di giugno in Rimini Pandolfo Malatesta e Galeotto suo figliuolo, con altri Malatesti e nobili, furono fatti cavalieri [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Magnifiche feste e giostre per tal occasione si fecero, col concorso di gran nobiltà di Firenze, Perugia, Siena, Bologna e di tutta la Toscana, marca d'Ancona, Romagna e Lombardia. Quivi si contarono più di mille e cinquecento cantambanchi, giocolieri, commedianti e buffoni: il che ho voluto notare, acciocchè s'intendano i costumi e il genio di questi secoli. Il conte Speranza e il conte Nolfo, figliuoli del fu conte Federigo di Montefeltro, nel dì 9 d'agosto vennero coll'esercito di Urbino contro alcune castella di Ferrantino Malatesta, dove s'erano rifugiati gli uccisori del suddetto conte Federigo, e, presi que' luoghi, fecero crudel vendetta di que' traditori. Anche i marchesi estensi Rinaldo ed Obizzo, signori di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], nel dì primo di novembre ritolsero all'arcivescovo di Ravenna la grossa terra, appellata anche città, d'Argenta col suo castello. Intanto, contuttochè Lodovico il Bavaro deducesse le sue buone ragioni, pure non potè impedire che in questo anno papa Giovanni, subornato dal re Roberto [Raynaldus, Annal. Eccles., num. 6.], non fulminasse contra di esso Lodovico le censure, e facesse predicar la crociata, secondo il deplorabil uso di que' tempi, contra di lui, siccome accennammo all'anno precedente. Però si diede egli con più vigore ad accudire agli affari d'Italia; e cotanto s'ingegnò in Germania, che frastornò i disegni di Carlo re di Francia, il quale, prevalendosi anch'egli del favore del papa, macchinava di farsi eleggere re ed imperador [445] de' Romani. Di più non dico di queste controversie, lasciandone volentieri ad altri la discussione.


   
Anno di Cristo mcccxxv. Indizione VIII.
Giovanni XXII papa 10.
Imperio vacante.

Cominciò in quest'anno gara e discordia fra Galeazzo Visconte signor di Milano e Marco suo fratello, che col tempo quasi condusse a precipizio la casa de' Visconti [Bonincon., Chron., lib. 3, cap. 35, tom. 12 Rer. Ital.]. Pretendeva Marco parte nel dominio; altrettanto Lodrisio Visconte lor cugino, allegando le tante fatiche da lor sofferte per tenere in piedi la vacillante fortuna della lor casa. Ma Galeazzo, eletto solo signore dal popolo, non volea compagni nel governo. Diedersi perciò Marco e Lodrisio a far delle combricole e congiure con altri nobili contra di Galeazzo; e perchè scoprirono ch'egli andava maneggiando qualche onorevol accordo con papa Giovanni, cominciarono a scrivere lettere a Lodovico il Bavaro, sollecitandolo a calare in Italia [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Intanto Galeazzo nel dì 21 di febbraio mosse guerra ai Parmigiani, coll'inviare contra loro il valoroso giovine Azzo suo figliuolo, il quale s'impadronì del castello di Castiglione. Ma, assediato il medesimo castello dai Parmigiani, lo riebbero nel dì 15 di marzo colla libera uscita de' soldati del Visconte. Nel dì seguente si diede allo stesso Azzo Borgo San Donnino: perdita che cagionò sommo affanno ai Parmigiani e Piacentini; tanto più perchè Azzo non tardò a mettere sossopra i loro contadi con saccheggiar ed incendiar molte terre. Perciò nel dì 14 di giugno uniti essi Parmigiani coll'esercito spedito loro da Piacenza dal cardinal legato, impresero l'assedio di Borgo San Donnino. Durante questo assedio nel mese di luglio i marchesi estensi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] signori di Ferrara, Passerino [446] signor di Mantova e Modena, e Cane dalla Scala, con grosso naviglio per Po andarono ai danni del Piacentino. Più gravi sconcerti seguirono in questi tempi in Toscana [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 294. Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Filippo Tedici signor di Pistoia, dopo aver fatta un'ingannevol pace e lega co' Fiorentini, che non gli vollero mai dare un soldo per acquistar essi quella città, come avrebbono potuto, nel dì cinque di maggio per dieci mila fiorini d'oro, e per altri vantaggiosi patti avuti da Castruccio signor di Lucca, il lasciò entrare con sue genti in Pistoia, dove prese e disarmò il picciolo presidio che vi aveano inviato i Fiorentini, e fece subito dar principio ad un forte castello in essa città. Incredibile fu il dispetto e rabbia de' Fiorentini, che, più del diavolo, aveano paura di Castruccio. Gran consolazione nondimeno e coraggio recò loro il sospirato arrivo di Raimondo da Cardona, richiesto da essi al papa per lor capitano, che nel dì 6 del suddetto mese entrò in Firenze. Al pontefice, che volea mandarlo in Toscana, allegò egli [Bonincontrus, lib. 3, cap. 32, tom. 12 Rer. Italic.] il giuramento fatto a Galeazzo Visconte di non militar per un anno in Italia contra de' Ghibellini; ma il papa se ne rise, con dire che per li capitoli della resa di Monza i prigioni tutti si aveano a rilasciare; e però gli diede l'assoluzione dal giuramento. Venne egli dunque francamente a prendere il comando dell'armata de' Fiorentini con assai Borgognoni e Catalani seco condotti.

Presero i Fiorentini per assedio nel dì 22 di maggio il castello d'Artimino [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 300 e seg.], e poscia nel dì 12 di giugno fecero uscire in campagna il loro capitano Raimondo con un fiorito esercito di circa due mila e cinquecento cavalli, la maggior parte Francesi, borgognoni e Fiamminghi, e di quindici mila fanti, col carroccio, con somieri più di sei mila, e con mille e trecento [447] trabacche e padiglioni, senza i rinforzi delle amistà che vennero dipoi, ed accrebbero quella gente con più di cinquecento cavalieri e cinque mila pedoni. A Pistoia, Castruccio non si trovava allora che con mille e cinquecento cavalli, e la metà di fanteria rispetto a' nemici. Fecero i Fiorentini nella festa di san Giovanni Batista correre il pallio presso alla porta di Pistoia; presero il passo della Gusciana, e la rocca e il ponte di Cappiano [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Senens., tom. 15 Rer. Ital.]; poscia strettamente assediarono Altopascio, e lo costrinsero alla resa. Vinse nel consiglio il parere di chi volle che l'armata s'inoltrasse verso Lucca. Al Poggio fra Montechiaro e Porcari trecento cavalieri de' migliori dello esercito fiorentino furono alle mani con quei di Castruccio, e n'ebbero la peggio, quantunque Castruccio vi restasse scavallato e ferito. Era l'armata dei Fiorentini accampata in sito svantaggioso, e Castruccio ardea di voglia di assalirla; ma troppo era scarso di gente, ed aspettava soccorsi da Galeazzo Visconte e da Passerino de' Bonacossi [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Vi mandò il Visconte Azzo suo figliuolo con ottocento cavalieri tedeschi, il quale, dopo introdotto un buon soccorso nel Borgo di San Donnino assediato dalle genti della Chiesa, marciò a quella volta. Anche Passerino v'inviò ducento altri cavalieri. All'avviso di questo grosso rinforzo giunto a Castruccio, Raimondo da Cardona si ritirò ad Altopascio. Castruccio, che non dormiva, con dei badalucchi tenne tanto a bada la loro armata, che nel dì 23 di settembre arrivato Azzo Visconte coi suoi cavalieri, e formate le schiere, attaccò la battaglia. In poco d'ora furono rotti e sbaragliati i Fiorentini con vittoria segnalata e compiuta; perciocchè, nel tempo stesso che si combattea, l'accorto Castruccio mandò a prendere il ponte a Cappiano, e tagliò il passo a' fuggitivi. Molti ne furono uccisi, molti più ne restarono [448] presi, fra' quali lo stesso Raimondo da Cardona generale con assai baroni franzesi. Tutta la gran salmeria di tende ed arnesi venne alle mani de' vincitori; e si arrenderono poi a Castruccio le castella di Cappiano, Montefalcone ed Altopascio, nel qual ultimo luogo fece prigioni cinquecento soldati. Così in un momento la ridente fortuna de' Fiorentini si cambiò in sospiri e pianti.

Nel giugno e luglio di quest'anno [Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital. Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] Francesco de' Bonacossi, figliuolo di Passerino signor di Mantova e Modena, fece guerra a Giovanni ed Azzo signori di Sassuolo; tolse loro Fiorano ed assediò la terra di Sassuolo, essendosi uniti al suo esercito in persona Cane dalla Scala e i marchesi d'Este. Ebbe quella terra e Monte Zibbio. I Bolognesi, oltre alla protezione da lor professata ai signori di Sassuolo, riceverono anche lettera ed ordine dal papa di procedere ostilmente contra di Passerino, e che si predicasse la crociata contra di lui, siccome dichiarato eretico per l'eresia del ghibellinismo, a fine di frastornar gli aiuti ch'esso Passerino e Cane potessero dare a Castruccio e a Borgo San Donnino assediato. Perciò i Bolognesi con tutte le lor forze nel luglio e ne' seguenti mesi altro mestier non fecero che di saccheggiar le ville di Albareto, Sorbara, Roncaglia, Solara, Camurana, ed assaissime altre, con danno inestimabile dei cittadini e distrittuali di Modena. Nel dì 29 di settembre riuscì a Passerino di avere per tradimento Monte Veglio, castello de' Bolognesi. Corse tosto il popolo di Bologna all'assedio di quel castello, e vi stette sotto un mese e mezzo. Attese intanto Passerino a raunar gente per rimuoverli di là. Venne con assai fanteria e cavalleria Rinaldo marchese d'Este e signor di Ferrara. Cane dalla Scala con molte forze vi giunse anch'egli; ma inteso che Passerino volea aspettare Azzo [449] Visconte, il quale, dopo la vittoria di Castruccio ad Altopascio, dovea restituirsi in Lombardia, se ne tornò a Verona, perchè fra lui e Galeazzo, padre d'esso Azzo, erano nate delle amarezze. Rinaldo Estense fu dichiarato capitan generale dell'armata, ed, arrivate le squadre di Azzo Visconte, passarono tutti il Panaro, la Muzza e la Samoggia, e presentarono la battaglia ai Bolognesi nel luogo di Zappolino, nel dì 15 di novembre. Al primo assalto furono rovesciati i Bolognesi; e però essi attesero a menar non le mani, ma i piedi. Fanno le storie modenesi [Johan. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital.] l'esercito di Bologna consistente in trenta mila fanti e mille e cinquecento cavalli, e quello de' Modenesi in otto mila pedoni e due mila cavalli [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 321.]. Dicono uccisi più di due mila Bolognesi, e presi più di mille e cinquecento, fra i quali Angelo da San Lupidio podestà di Bologna, Malatestino de' Malatesti, Sassuolo da Sassuolo, Jacopino e Gherardo Rangoni fuorusciti di Modena, Filippo de' Pepoli ed altri nobili. Oltre a mille cavalli, acquistarono i vincitori immensa copia d'armi, tende e bagaglio, che si calcolò ducento mila fiorini d'oro. Nel giorno seguente marciò innanzi il vittorioso esercito; ebbe e saccheggiò il castello di Crespellano; poscia nel dì 17 continuò il viaggio sino al borgo di Panigale e alle porte di Bologna, dove, per far onta a quel popolo, furono corsi tre pallii, uno in onore di Azzo Visconte signor di Cremona; un altro per li marchesi estensi, ed uno per Passerino signor di Mantova e Modena. Fu dato il sacco e il fuoco ai palazzi e contorni di Bologna, alle ville di Unzola, Rastellino, Argelata, San Giovanni in Persiceto, Castelfranco ed altre. Nel dì 24 si rendè a Passerino il castello di Bazzano; ed in tal maniera terminò in queste parti la campagna. Cosa dicessero i facili interpreti de' giudizii di Dio, al vedere cotanti sinistri avvenimenti [450] delle crociate di papa Giovanni XXII, io nol so dire.

Sul principio di quest'anno, essendo finite le tregue co' Padovani [Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital.], Cane dalla Scala non tardò a vendicarsi degli affanni a lui dati da quel popolo nell'anno precedente; prese varii luoghi del Padovano, e portò gl'incendii e saccheggi fino alle porte di Padova. S'interpose Lodovico il Bavaro, e fece rinnovar la tregua fino alla festa di san Martino; e compromesso fu fatto in lui di quelle differenze. Ma Padova, oltre alla guerra esterna, ne ebbe in quest'anno anche un'interna. Ubertino da Carrara e Tartaro da Lendenara, perchè insolentivano nella città, ed uccisero Guglielmo Dente, furono banditi e ricorsero a Cane Scaligero. Paolo fratello di esso Guglielmo rivolse i pensieri della vendetta contra degli altri Carraresi innocenti, e nel dì 22 di settembre, assistito copertamente dal podestà e dal presidio tedesco, mosse a rumore il popolo contra di essi. Per un'ora si fece aspro combattimento nelle piazze, e così nobilmente si sostennero i valorosi Carraresi, che Paolo Dente fu forzato alla fuga, ma con riportarne essi di molte ferite. Per cagione d'esse Marsilio maggiore picchiò alla porta della morte; Niccolò, Obizzo e Marsilio minore n'ebbero anch'essi la lor parte. Tornarono poscia in Padova Ubertino da Carrara e Tartaro da Lendenara, amendue giovinastri scapestrati. Numero non c'è delle loro insolenze; giustizia più non si faceva in Padova; tutto andava alla peggio. Ne dovea ben ridere Cane, che facea continuamente l'amore a quella nobil città. Dopo la vittoria di Altopascio stette poco in riposo il prode Castruccio signor di Lucca e di Pistoia. Prese Segna, ed ivi si afforzò nel dì 30 di settembre [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 315.], e poscia cominciò le sue scorrerie fino alle porte di Firenze, saccheggiando, bruciando e guastando tutto quel paese. Nella [451] festa di san Francesco, a dì 4 d'ottobre, fece sotto quella città correre tre pallii, uno da uomini a cavallo, un altro da fanti a piè, ed il terzo da meretrici: il tutto in dispetto e vergogna de' Fiorentini, i quali, quantunque avessero dentro gran cavalleria e gente a piè innumerabile, pure non osarono mai d'uscire a fargli contrasto. Tornò Castruccio nel dì 26 d'ottobre a dar loro un altro rinfresco; ed Azzo Visconte, che tuttavia era con lui, volendo rendere la pariglia a' Fiorentini, i quali aveano fatto correre il pallio sotto Milano, ne fece correre anche egli uno alla lor vista, e poi s'inviò verso Modena, siccome abbiam detto. Prese Castruccio la Rocca di Carmignano, il castello degli Strozzi ed altri luoghi, e con sua oste andò scorrendo infino a Prato. Gran costernazione era in Firenze per tali disastri, a' quali ancora s'aggiunse un'epidemia per la tanta gente rifuggita nella città. Ben cento mila fiorini d'oro ricavò Castruccio dal riscatto de' prigioni fatti in quest'anno, col qual rinforzo gagliardamente sostenne la guerra. Per altro era anch'egli scomunicato e condannato dal papa qual nemico della Chiesa ed eretico. Per essere diffamato per tale, niente più vi voleva che l'essere ghibellino. Fu nell'ottobre di quest'anno [Henric., Rebdorf. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, et alii.] che Lodovico il Bavaro rimise in libertà Federigo duca d'Austria, il quale, vinto dagli affanni della prigionia, fece a lui una cessione di tutti i suoi diritti sopra la corona. Ma, secondo alcuni scrittori, non è ben chiaro in che consistesse l'accordo seguito fra loro. I documenti portati dal Rinaldi [Raynal., in Annal. Eccles.] abbastanza confermano che Federigo fece quella rinunzia, benchè forse se ne pentisse dipoi, e che il papa la dichiarò nulla; e che Leopoldo suo fratello, il quale non vi acconsentì, nell'anno seguente terminò colla morte tutte le sue contese. Spedì nel maggio di quest'anno il re Roberto ai [452] danni della Sicilia Carlo duca di Calabria suo figliuolo con una formidabile flotta di galee e di legni grossi da trasporto, fra' quali si contarono venti galee di Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Oltre alla gran fanteria, menò egli circa due mila e cinquecento cavalli. Sbarcata presso a Palermo questa potente armata, imprese l'assedio di quella città, e vi stette sotto più di cinque mesi, con guastare intanto ed incendiar molte parti di quell'isola, e poi se ne tornò con Dio. Non altra gloria che questa riportò egli nel suo ritorno a Napoli. Leggesi questa guerra descritta da Niccolò Speciale [Nicolaus Specialis, lib. 7, cart. 17, tom. 10 Rer. Ital.]. Erano gli Aragonesi e Catalani all'assedio di Cagliari in Sardegna, città che forse sola restava ai Pisani in quell'isola. Nel dicembre fecero essi Pisani armare venti galee ai fuorusciti genovesi, padroni di Savona, e con queste ed altre loro navi fecero vela per soccorrere quella città. Ma i Catalani, con prendere otto di quelle galee, obbligarono l'altre a ritornarsene indietro con poco loro piacere. Nell'anno 1297 s'era data la città di Comacchio ad Azzo marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena e Reggio [Piena Esposizione, cart. 268 e 365.]. Le disgrazie poi sopravvenute alla casa d'Este nel 1308 la fecero passare in altre mani. Nel dì 6 di febbraio dell'anno presente tornò essa spontaneamente sotto la dolce signoria de' marchesi d'Este Rinaldo ed Obizzo, dominanti in Ferrara.


   
Anno di Cristo mcccxxvi. Indizione IX.
Giovanni XXII papa 11.
Imperio vacante.

Non si sa che Galeazzo Visconte in questi tempi cosa alcuna di rilievo operasse, forse perchè trattava qualche aggiustamento col papa, o perchè non si fidava de' suoi parenti e de' nobili di Milano. Perciò Passerino, restato quasi solo [453] in ballo, nel dì 28 di gennaio [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] fece una pace svantaggiosa coi Bolognesi, come se avesse ricevuta egli, e non data una rotta nell'anno antecedente; imperocchè restituì loro Bazzano e Monteveglio, con tutti i prigioni [Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic.], a riserva di Sassuolo da Sassuolo, che condusse a Mantova, e di cui poscia si sbrigò col veleno. A lui restituirono i Bolognesi Nonantola e la torre di Canoli. Ma nulla giovò a Passerino questa pace. Venne in questi tempi il cardinal Beltrando a Parma, e quel popolo nel dì 27 di settembre si diede a lui, vacante imperio. Altrettanto fece nel dì 4 di ottobre la città di Reggio [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Avea già esso legato mosse le sue armi contra del medesimo Passerino dominante in Mantova e Modena. Verzusio Lando capitano della Chiesa, colla armata pontificia venuto nel marzo sul Modenese, pose l'assedio a Sassuolo, ed in pochi dì s'impadronì del borgo e della rocca. Prese dipoi Gorzano, Spezzano e Marano. Per forza ebbe Castelvetro, con mettere a filo di spada quel presidio, eccettochè i due podestà. Nel dì 3 di luglio lo stesso Verzusio, coi fuorusciti di Modena, cioè Rangoni, Pichi dalla Mirandola, Sassuoli, Savignani, Guidoni, Grassoni, Boschetti, ed altri, venne sotto Modena, mettendo a ferro e fuoco tutti i contorni. Bruciò due borghi della città, cioè quei di Bazovara e Cittanuova; e i cittadini stessi diedero poscia alle fiamme gli altri due di Ganaceto e d'Albareto. Si sottopose a Verzusio il castello di Formigine, e così a poco a poco venne in suo potere tutto il contado, se si eccettuano Campo Galliano, il Finale, San Felice e Spilamberto. Passò egli dipoi a' danni di Carpi, e bruciò in quelle parti più di secento case. Anche i Bolognesi [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], dimentichi ben tosto della pace fatta, corsero ai danni del Modenese. Un'altra [454] parte dell'esercito pontificio inviata a Borgoforte, tolse a Passerino parte del suo territorio di qua da Po, e gli diede anche una rotta su quel di Suzara. Tentarono bensì Obizzo marchese d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] ed Azzo Visconte, uniti con Passerino, di fare una diversione all'armi pontificie, venendo con grosso naviglio per Po a Viadana e Cremona, ma senza operar cosa alcuna di riguardo. Non si sa che Cane dalla Scala in quest'anno facesse veruna impresa. Probabilmente era anche egli in qualche trattato col pontefice; e sappiamo dalla Cronica Veronese [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.], che nel dì 9 di luglio comparvero a Verona gli ambasciatori di papa Giovanni XXII e del re Roberto, ed ebbero molti ragionamenti con esso Cane, ma senza penetrarsi i lor segreti. Si tenne ancora un parlamento in San Zenone di Verona nel dì suddetto, dove intervennero Passerino, i marchesi estensi, e Galeazzo Visconte, per trattare dei fatti loro.

Sbigottiti intanto i Fiorentini per li continui progressi di Castruccio, misero bensì nuove gabelle per adunar danaro, e spedirono in Germania ed altrove per assoldar gente [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 328. Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]; ma il migliore scampo e ripiego fu creduto quello di raccomandarsi ai capi primarii de' Guelfi, cioè a papa Giovanni e al re Roberto. Si servì Roberto di questa congiuntura per suggerire ai suoi ben affetti di Firenze che prendessero per loro signore Carlo duca di Calabria suo figliuolo. Il negozio si fece. Gli fu data la signoria di Firenze per dieci anni, con obbligo di mantenere in servigio di quel popolo mille cavalieri coll'assegno di ducento mila fiorini d'oro per anno. Nel dì 13 di gennaio in Napoli accettarono il re ed il duca questa elezione. Castruccio, sentendo sì fatte nuove, ne fu ben malcontento, e però, dato il fuoco a Segna, si ritirò a Carmignano, [455] dove fece di molte fortificazioni. Il generale de' Fiorentini Pietro di Narsi nel dì 14 di maggio avea ordito un tradimento per torgli quella terra, e con ducento cavalieri de' migliori e cinquecento fanti andò a quella volta. Informatone Castruccio (forse questo trattato era doppio), il colse in un agguato, lo sconfisse e l'ebbe prigione con altri assai. Fecegli tagliar la testa, perciocchè avea contravvenuto al giuramento fatto di non essere contra di lui, allorché un'altra volta fu suo prigione. Mandò il papa per suo legato in Toscana il cardinal Giovanni degli Orsini, che seco condusse quattrocento cavalieri provenzali, ed entrò in Firenze nel dì 30 di giugno. Colà prima, cioè nel dì 17 di maggio, era pervenuto Gualtieri duca d'Atene e conte di Brenna con quattrocento cavalieri, inviatovi per suo vicario dal duca di Calabria, il quale da lì a cinque giorni pubblicò lettere papali, come il pontefice avea creato il re Roberto vicario d'imperio in Italia, vacante imperio. Poscia nel dì 12 di luglio arrivò a Siena [Chron. Sanense, tom. 10 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. ultim.] Carlo duca di Calabria con copiosa gente d'armi. Seco era la moglie e Giovanni principe della Morea, suo zio paterno, e gran baronia. Dimandò la signoria di quella città, e per questo vi fu non poco rumore; ma in fine consentì quel popolo di dargliela per cinque anni avvenire. Fatto far pace fra i Tolomei e Salimboni, se ne partì, e nel dì 30 di luglio arrivò a Firenze, ricevuto ivi con processione ed immenso onore. L'accompagnavano mille e cinquecento lance; e, richieste le amistà, ebbe da' Sanesi trecentocinquanta cavalieri, trecento da' Perugini, ducento da' Bolognesi, cento dagli Orvietani, cento dai Manfredi signori di Faenza, oltre a molti altri: di maniera che, congiunta questa gente con i quattrocento cavalieri già venuti col duca d'Atene, e colla fanteria e cavalleria dei Fiorentini, fu al suo comando una fioritissima armata. Tuttavia nulla di rilevante [456] operò egli in quest'anno per la diligenza e prodezza di Castruccio, il quale ridusse a nulla gli sforzi del marchese Spinetta Malaspina collegato col duca di Calabria, e fece tornare a Firenze l'armata di esso duca senza aver conquistata veruna fortezza, e però con onta e vergogna. Cominciarono ben tosto i Fiorentini a provare il peso del novello loro signore, perchè non mantenne loro i patti, e mandò per terra l'autorità de' loro priori, e in un anno costò il suo governo a quella città più di quattrocento migliaia di fiorini d'oro. Ma il riccio era entrato nella tana, e i Fiorentini non trovarono miglior riparo contro al temuto ed odiato Castruccio, il quale tenne dipoi gran tempo a bada il legato ed il duca con lusinghe di pace e d'accordo.

Altra maniera non seppe pensare il re Roberto per ridurre a' suoi voleri Federigo re di Sicilia, che di spedir ogni anno l'armata sua a dare il guasto a quell'isola, tanto che, stanchi quegli abitanti, si gittassero nelle sue braccia [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 19, tom. 10 Rer. Italic. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 347.]. Però in quest'anno ancora sul fine di maggio inviò colà una flotta di ottanta vele col conte Novello della casa del Balzo, che puntualmente eseguì gli ordini del re con guastar le contrade di Patti, Milazzo, Cattania, Agosta e Siracusa. Il che fatto, senza aver provato contrasto alcuno, se ne venne in Toscana, dove prese due castella ai conti di Santa Fiora. Trattando la città di Fermo nella marca in quest'anno accordo colla Chiesa, quei di Osimo con altri Ghibellini vi entrarono, e, messo il fuoco al palagio del comune, vi arsero o magagnarono molta buona gente, e sturbarono tutta la concordia. In Rimini la matta voglia di dominare fece vedere in quest'anno una brutta scena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 9, cap. 350. Cronica Riminese, tom. 15 Rer. Ital.]. Essendo mancato di [457] vita nell'aprile Pandolfo Malatesta signore di quella città, gli succedette nel dominio Ferrantino figliuolo di Malatestino, e nipote di esso Pandolfo. Nel dì 9 di luglio Ramberto figliuolo del fu Giovanni Malatesta invitò esso Ferrantino con altri Malatesti ad un convito, dove fece prigione lui e Malatestino di lui figliuolo, e Frarino e Galeotto de' Malatesti. Fu a rumore tutta la città. Polentesa moglie di Malatestino, coraggiosa donna, corse colla spada sguainata in piazza, e, presa la bandiera, cercò di muovere in suo favore il popolo; ma perchè fu creduto che i presi fossero stati uccisi, non ebbe seguito. Da lì a tre dì Malatesta figliuolo del fu Pandolfo, che era a Pesaro, entrò in tempo di notte in Rimini, e, venuto il dì, fu obbligato Ramberto a fuggirsene alle sue terre di Ceola e Castiglione; e nel viaggio da quei di Santo Arcangelo gli furon tolti i prigioni, che se ne tornarono ben allegri a Rimini. Fece poi Ferrantino guerra alle terre d'esso Ramberto, il quale (mi sia lecito riferirlo qui fuor di sito) cercò da lì innanzi tutte le vie di rimettersi in grazia di lui. Erano corsi regali innanzi e indietro, e tutto parea ben disposto, quando nell'anno 1329 oppure 1330, Ferrantino (Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6.] dice Malatestino figliuolo di Ferrantino, e così la Cronica di Cesena [Chron. Caesen. Cronica Riminese.]) fece ordinare una caccia: di tale occasione si servì Ramberto per presentarsegli davanti, e dimandargli colle ginocchia a terra perdono delle passate offese. La risposta che gli diede Ferrantino, ossia Malatestino, fu di cacciar mano ad un coltello, e scannarlo. Dominando in Cesena Ghello da Calisidio, nel dì 20 di giugno Rinaldo de' Cinci, fattolo prigione, occupò la signoria di quella città. Nel dì 12 di luglio Aimerigone, maresciallo delle genti del papa in Romagna, e Amblardo Visconte, nipoti d'Aimerigo arcivescovo di Ravenna e conte della Romagna, entrati con poca [458] gente in Cesena, ed, alzato rumore nel popolo, presero il suddetto Rinaldo, al qual poscia fu mozzato il capo, e quella città restò pienamente in potere degli uffiziali pontificii. Nel marzo ancora di questo anno Azzo Visconte, signore di Cremona, coi fuorusciti di Brescia [Malvec., Chronic. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] e coi rinforzi di Passerino signor di Mantova, ostilmente entrò sul Bresciano, e prese le castella di Trenzano, Roado, Coccai, Erbusco, Cazzago ed altri luoghi, dando un gran guasto a quel paese.


   
Anno di Cristo mcccxxvii. Indizione X.
Giovanni XXII papa 12.
Imperio vacante.

Fece negozio in questi tempi il cardinale legato di Lombardia Beltrando dal Poggetto per aver la signoria di Bologna [Matthaeus de Griffonibus. Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Bononiense, tom. eodem. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; e quel popolo, avendo consentito ai di lui voleri sotto certi patti, spedì ambasciatori a Parma, invitandolo a venire a prenderne il possesso. Nel dì 5 di febbraio arrivò egli colà, incontrato con gran solennità e col carroccio dal popolo, che fece incredibil festa e bagordi per più giorni, come se fosse calato un angelo dal cielo. Trovavasi la città di Modena in gravi angustie, perchè circondata all'intorno da città che s'erano date ai capitani del papa; la maggior parte ancora delle sue castella ubbidivano ai nemici; nè Passerino si sentiva forze per darle sufficiente soccorso. Però cominciarono alcuni nobili a meditar la maniera di scuotere il giogo [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Johannes de Bazano, tom. 15 Rer. Ital.]. Il legato anch'egli coi fuorusciti con segrete ambasciate loro aggiugneva sproni. Nel dì 2 d'aprile si scoprì una congiura fatta da Tommasino da Gorzano, unito con altri nobili e plebei. Furono presi, e la pagarono colla testa. Intanto il legato co' Bolognesi [459] mise a sacco e fuoco il basso Modenese, ebbe il castello di Solara, e a maggiori angustie ridusse il popolo di Modena. Veggendo il vicario di Passerino di non essere sicuro in mezzo a tanta turbazione de' cittadini, si ritirò fuori della città. Allora i Pii, i Gorzani e i Fredi commossero all'armi il popolo, e nel dì cinque di giugno con amichevol forza e senza spargimento di sangue ne fecero uscire la guarnigion di Passerino, che per tanti anni avea smunta e tiranneggiata questa città col suo territorio. Trattarono poscia accordo col cardinale legato, e si sottomisero al di lui governo, vacante imperio, con varii patti e riserve, registrate nella Cronica del Morano. Così questa afflitta città cominciò a respirare, ma senza che la fazion dominante permettesse l'entrarci a molti nobili fuorusciti, con lasciar nondimeno ad essi goder le rendite loro. Per questi ed altri progressi del legato pontificio, e, molto più, per la venuta in Toscana di Carlo duca di Calabria con tante forze, i caporali ghibellini si vedeano in poco buono stato, e temevano di lor rovina. Avvisaronsi adunque di chiamare in Italia Lodovico il Bavaro, per opporre forza a forza [Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 15.]. Venne egli a Trento nel mese di febbraio, e quivi tenuto fu un gran parlamento, a cui intervennero Marco Visconte, Passerino de' Bonacossi, Obizzo marchese d'Este, Guido Tarlati vescovo d'Arezzo, gli ambasciatori di Castruccio, de' Pisani e di Federigo re di Sicilia. Vi andò ancora Cane dalla Scala, ma accompagnato da settecento cavalli, perchè non si fidava del duca di Carintia, a cagion della guerra ch'egli avea co' Padovani, de' quali era allora signore quel duca. Richiese Cane il dominio di Padova con esibire al Bavaro gran somma di danaro; e perchè non ebbe l'intento, se ne partì disgustato, minacciando d'accordarsi tosto col legato del papa. Tanto fecero gli [460] amici, che tornò indietro, e seguì poi una tregua fra lui e i Padovani. In quel parlamento fu conchiuso che il Bavaro calasse in Italia, e venisse a prendere la corona del regno, promettendogli i capi de' Ghibellini cento cinquanta mila fiorini d'oro. Se vero è ciò che scrive il Villani, in quel parlamento Lodovico pubblicò che papa Giovani XXII era eretico, e non degno papa, opponendogli varii articoli, secondochè a lui era stato suggerito da due dotti ribaldi, cioè da Marsilio da Padova e da Giovanni Giandone, ossia di Gant, che coi loro velenosi scritti condussero il Bavaro a varie empietà e pazzie. Era egli veramente irritato forte contra del papa, parendogli una fiera ingiustizia quel non volerlo riconoscere per re dei Romani, e ciò per fini politici; ma egli tenne una via obbrobriosa ed indegna per vendicarsene.

Nel dì 13 di marzo si partì da Trento esso Lodovico Bavaro, e poscia sul principio di maggio venne per le montagne, arrivò a Como, menando seco appena seicento cavalli, ed era bene scarso di moneta. Venne poi di Germania molta cavalleria, allorchè fu giunto a Milano [Bonincontr. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Ital.], dove nel dì 16 di maggio con grande onore il ricevette Galeazzo Visconte. Quantunque Marco fratello e Lodrisio zio d'esso Galeazzo con altri nobili avessero declamato forte contra del medesimo Galeazzo, pure il Bavaro gli confermò il vicariato, ossia la signoria di Milano, Pavia, Lodi e Vercelli. Quindi fu intimato il dì della Pentecoste per la sua coronazione [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 18. Chron. Veronense, tom. 18 Rer. Ital.]. Concorse ad onorare questa funzione Cane dalla Scala con mille e cinquecento cavalli ed altrettanti fanti (scrivono solamente cinquecento altri storici); e venne anche, per quanto fu creduto, con qualche speranza di procacciarsi la signoria di Milano, ben sapendo il mal [461] animo che nudriva contra di Galeazzo la nobiltà milanese; ma gli andò fallito il colpo. Già gli avea esso Galeazzo preparato l'ospizio nel monistero di Santo Ambrosio, fuor di Milano. Fece Cane fabbricare in una notte un ponte sulla fossa della Posterla, per entrare a suo piacimento nella città. Galeazzo l'altra notte gliel fece disfare; tal contesa fu poi rimessa nel Bavaro. Seguì la coronazione d'esso Lodovico colla corona ferrea [Annal. Mediol., cap. 16 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 18. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, cap. 366.], e di Margherita sua consorte con corona d'oro, nel dì 31 di maggio (v'ha chi dice nel dì primo di giugno) nella basilica di Santo Ambrosio; e giacchè era bandito da Milano frate Aicardo arcivescovo, fecero quella funzione tre vescovi scomunicati e interdetti dal papa, cioè Federigo de' Maggi di Brescia, Guido Tarlati di Arezzo ed Arrigo di Trento. Vi intervennero ancora Rinaldo marchese di Este e signor di Ferrara con trecento cavalieri, e Francesco figliuolo di Passerino signor di Mantova con trecento, ed altri popoli ghibellini. Non passò gran tempo che s'imbrogliarono gli affari di Galeazzo Visconte col Bavaro. Ossia, come vuole il Villani, che richiedendo il Bavaro una contribuzion di danari, Galeazzo superbamente gli rispondesse; oppure, come altri vogliono, che Marco e Lodrisio Visconti coll'altra nobiltà di Milano pontassero tanto appresso il Bavaro per far deporre Galeazzo, e ritornare a repubblica la loro città: certo è che nel dì 20 di luglio il Bavaro fece mettere le mani addosso ad esso Galeazzo, a Luchino e Giovanni cherico suoi fratelli (Stefano lor fratello morì all'improvviso in quel giorno stesso, e fu creduto di veleno) e ad Azzo suo figliuolo. Poscia intimò a Galeazzo la pena della testa, se fra il termine di tre dì non gli consegnava il forte castello da lui fabbricato nella terra di Monza. Mandò l'ordine Galeazzo, ma indarno, perchè quel castellano un altro [462] ordine innanzi avea avuto di non darlo ad alcuno, se personalmente non gliel comandava lo stesso Galeazzo. Corsero colà la marchesana Beatrice Estense sua consorte e Ricciarda sua figliuola, tutte affannate, e colle man giunte scongiurarono il castellano a cedere la fortezza; e trovatolo più duro che mai, se ne tornarono piene di doglia a Milano. Finalmente, ben certificato quel castellano che v'andava la testa del suo signore [Bonincontrus Morigia, Chron. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.], consegnò quel castello alle genti del vescovo d'Arezzo, e nelle prigioni del medesimo castello, fabbricate dallo stesso Galeazzo, fu egli ristretto co' due suoi fratelli e col figliuolo, verificandosi quanto per accidente era stato predetto, se pur sussiste quella predizione. Non gli mancavano peccati da farne penitenza. Di questo fatto gran piacere ebbero i nobili di Milano e le città guelfe, ma il Bavaro si tirò addosso una grande infamia per tanta ingratitudine verso i Visconti; e di qui si può dire ch'ebbe principio la meritata sua rovina. Furono poi eletti ventiquattro nobili, che reggessero a comune la città di Milano; sopra lor nondimeno istituì il Bavaro un suo vicario, che fu Guglielmo da Monteforte.

Cavò esso Bavaro, in questi tempi, ben ducento mila fiorini d'oro dalle borse dei Ghibellini, e specialmente de' Milanesi; poscia nel dì quinto, oppure nel dodicesimo giorno d'agosto quasi alla sordina uscì di Milano, e agli Orci del Bresciano tenne un parlamento con Cane dalla Scala, Rinaldo Estense, Passerino ed altri capi ghibellini. Vuole il Villani [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 31.] che il Bavaro conducesse colà Marco, Luchino ed Azzo Visconti, i quali poscia fuggirono, e cominciarono guerra a Milano. Anche il Fiamma [Gualv. Flamma, cap. 365.] scrive che Giovanni, Luchino ed Azzo fra poco tempo furono rilasciati, e ritenuto il solo Galeazzo. Ma più fede merita Buonincontro [463] Morigia, vivente allora in Monza, che ci assicura essere stati i suddetti Visconti rimessi in libertà solamente nell'anno seguente; ed è certissimo che Marco seguitò il Bavaro in Toscana. Venne esso Bavaro colle sue genti a Cremona, e pel contado di Parma e per la via di Pontremoli passò alla volta di Lucca, senza che il legato del papa, che avea forze non poco grandi, gli facesse contrasto alcuno per le montagne, siccome avrebbe potuto. Fu accolto con sommo onore da Castruccio, che si fece, o allora, o nel dì 4 di novembre, dichiarare ed investire da lui duca di Lucca e Pistoia, ed anche di Prato, San Gemignano, Colle e Volterra [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 36.], tuttochè non ne fosse padrone, per isperanza di acquistar que' luoghi, i quali aveano già preso per lor signore Carlo duca di Calabria. Credevasi Lodovico di entrar quetamente in Pisa, città sempre stata camera dell'imperio, e perciò, senza entrare in Lucca, cavalcò tosto colà. Ma quei che governavano la città, per timore di perdere il loro stato, e per odio a Castruccio, gli serrarono le porte in faccia, e si accinsero alla difesa. Castruccio colle sue forze fu chiamato colà; v'andarono anche assai balestrieri della riviera di Genova, e si diede principio all'assedio di quella città nel dì 6 di settembre. Durò questo un mese; e, nata poi discordia fra quei cittadini, capitolata la resa, gli aprirono le porte. Pose il Bavaro ai Pisani una colta di sessanta mila fiorini d'oro, e dietro a questa un'altra di cento altri mila; e bisognò pagarli. A tante estorsioni si vide come morto quel popolo. Altri cinquanta mila si crede che raccogliesse da Castruccio per li suddetti privilegii, e per averlo parimente creato suo vicario in Pisa [Istorie Pistolesi. Cortus. Chron., tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 34.]. Succedette in questi tempi davanti allo stesso Bavaro una villana contesa di parole fra Guido vescovo [464] d'Arezzo ed esso Castruccio, in cui l'un l'altro chiamò traditore. Il vescovo arrabbiato si partì per tornarsene alla sua signoria di Arezzo; ma, caduto infermo al castello di Monte Nero in Maremma, quivi scomunicato, pentito nondimeno, secondo alcuni, terminò i suoi giorni. Pier Saccone da Pietramala divenne poi signore d'Arezzo e di Città di Castello. Lodovico nel dì 21 di dicembre con tre mila cavalieri e grossa fanteria s'inviò per Maremma alla volta di Roma; il che udito dal duca di Calabria, anch'egli si mosse da Firenze colla moglie, con tutti i suoi baroni e con mille e cinquecento cavalli nel dì 28 del mese suddetto, per accorrere alla difesa del regno di Napoli.

In quest'anno [Nicolaus Specialis, lib. 7, cap. 20, tom. 10 Rer. Ital.] nel mese di luglio il re Roberto tornò a spedire in Sicilia Rogieri da Sanguineto conte di Catanzaro con settanta galee, fra le quali diecisette de' Genovesi, a dare il solito guasto a quell'isola; ma poco profitto ne ricavò. Nel tempo stesso, affin di prevenire i disegni del Bavaro calato in Lombardia, mandò Giovanni principe della Morea suo fratello con mille cavalli ad afforzar le terre del ducato di Spoleti e di Campagna. Questi volle entrare in Roma; non gliel permisero i Romani. Andò a Viterbo; e, trovato quel popolo contrario a' suoi voleri, guastò il paese. Intanto cinque galee di Genovesi al servigio d'esso re Roberto presero la città d'Ostia, e la diedero alle fiamme; del che i Romani concepirono grande odio contra d'esso re, nè vollero ammettere il cardinale Orsino legato, che da Firenze passò colà per mettere pace. Nel dì 28 di settembre esso legato col principe suddetto della Morea s'impadronì di San Pietro e della città Leonina, con tagliar a pezzi que' Romani che v'erano in guardia, ma nel dì seguente tutto in armi l'infuriato popolo di Roma ripigliò quel luogo. Nella notte del dì [465] quinto di luglio, vegnente il dì sesto [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Alberghettino figliuolo di Francesco dei Manfredi signor di Faenza, ad istigazione, per quanto fu creduto, di Ostasio da Polenta, scacciò da Faenza la guarnigione del padre, che era allora fuori della città, e se ne fece signore. Ecco se mancava in secoli sì sconvolti ogni specie d'iniquità. Cecco de' Manfredi, che l'aveva aiutato a questo tradimento, proditoriamente ne fu anch'egli dipoi scacciato con altri della casa de' Manfredi. Era in questi tempi signore d'Imola Ricciardo de' Manfredi: perchè quel popolo scoprì ch'egli voleva dar la città al cardinal Beltrando dal Poggetto legato pontificio, nel primo dì, oppure nell'ottavo di settembre, si mosse a rumore, e sulla piazza venne alle mani con lui e colla gente della Chiesa. Rimasero soperchiati que' cittadini; ve ne furono morti più di quattrocento, e la città andò a sacco; laonde rimase tutta desolata. Fece poi guerra il legato a Faenza, unito col suddetto Ricciardo; ma Alberghettino de' Manfredi valorosamente si difese. Borgo San Donnino in Lombardia nel dicembre di quest'anno, per trattato fatto con que' terrazzani, si arrendè al figliuolo di Giberto da Correggio. V'entrò egli a nome del legato pontificio, che per averlo spese buona somma di danaro. Gli Spinoli ghibellini tolsero alla città di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] l'importante castello di Monaco. E nel dì 30 di maggio i Piacentini con grosso naviglio per Po andarono a Cremona [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], sperando di conquistar quella città; ma i Cremonesi virilmente si difesero, e infine diedero una sconfitta ai mal venuti. Leggonsi nella Storia Ecclesiastica sotto questo anno [Raynaldus, in Annal. Eccles.] le lettere del popolo romano a papa Giovanni XXII, pregandolo istantemente di venire a Roma alla sua sedia. Con belle parole e varii pretesti si scusò [466] il pontefice di non poter per ora esaudirli, e raccomandò forte ai Romani di andar d'accordo col re Roberto, e di non ammettere il Bavaro. Ma Sciarra Colonna, capo de' Ghibellini, avea già preso delle contrarie misure. Nel dì 23 d'ottobre il suddetto pontefice fulminò contra del Bavaro, come eretico, tutte le censure, ed ogni altra pena spirituale e temporale che si possa mai immaginare. Poscia nelle tempora dell'Avvento fece la promozion di dieci cardinali, tre de' quali italiani, sei franzesi ed uno spagnuolo.


   
Anno di Cristo mcccxxviii. Indiz. XI.
Giovanni XXII papa 13.
Imperio vacante.

Strepitosi avvenimenti e grandi mutazioni furono in quest'anno in Italia [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 47 e 53.]. Nel dì due di gennaio pervenne Lodovico il Bavaro a Viterbo, dove da Silvestro dei Gatti, che dominava in quella città, fu accolto a grande onore. Costui, per ricompensa, sotto varii pretesti fu poi da lì a qualche tempo fatto prendere dal Bavaro, e martoriato per sapere dov'era il suo tesoro; sicchè perdè trentamila fiorini e la signoria di Viterbo. A quella città nello stesso tempo arrivò Castruccio con trecento cavalieri de' suoi migliori, e mille balestrieri. Non erano ben d'accordo i Romani intorno all'accettare il Bavaro, e gli spedirono ambasciatori a Viterbo per patteggiar seco. Ma segretamente animato egli da Sciarra dalla Colonna, e da altri di parte ghibellina, trattenendo in ciance gli ambasciatori, diede la marcia all'esercito, e nel dì 7 del medesimo mese giunse alla città Leonina, e smontò al palagio di San Pietro, e vi dimorò quattro giorni. Entrò poscia in Roma, e, salito in Campidoglio, fece fare un'aringa al popolo romano con una sparata di ringraziamenti, di lodi e di promesse di esaltar Roma alle stelle. Piacquero tanto queste melate parole ai Romani, che il dichiararono senatore e capitano di Roma per [467] un anno. Poscia nel dì 17 d'esso mese, giorno di domenica (e non già in altro dì), si fece con somma solennità e magnificenza la coronazion di Lodovico in San Pietro, non già per le mani del romano pontefice, o de' suoi delegati, come conveniva, ma per quello di Jacopo Alberti vescovo di Venezia, e di Gherardo vescovo d'Aleria, anch'esso scomunicato. Perchè alla funzione mancava il conte del sacro palazzo, secondo il vecchio rituale, Lodovico, dopo aver fatto cavaliere di sua mano Castruccio duca di Lucca, conferì a lui questa dignità. Fu coronata eziandio Margherita sua moglie; e in tal congiuntura il novello preteso imperadore pubblicò tre decreti, uno per la conservazione della fede cattolica, uno per la riverenza dovuta agli ecclesiastici, ed uno per la difesa delle vedove e dei pupili: con che si fece non poco onore presso i Romani. Creò ancora senatore e suo vicario in Roma Castruccio, il quale portò in quelle funzioni una veste di seta cremesi con queste parole ricamate d'oro dinanzi al petto: È quello che Dio vuole. E nel di dietro quest'altre: Sarà quello che Dio vorrà. Continuò il Bavaro la sua dimora in Roma, e nel dì 14 d'aprile pubblicò varie leggi contra chi fosse trovato in eresia, o in reato di lesa maestà contra dell'imperadore. Poscia nel dì 18 d'esso mese nella piazza di San Pietro tenne un gran parlamento [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 71. Raynald., Annal. Eccl. Baluz., Vit. Pap.], dove fece citare, se alcuno v'era che prendesse a difendere prete Jacopo da Caorsa, il quale si faceva chiamare papa Giovanni XXII. Niuno rispose. Saltò su bensì il sindaco di quella parte del clero di Roma, che antepose lo amore dell'oro a quello della religione, e pregò Lodovico di procedere contra il detto Jacopo di Caorsa. Si sfoderarono dunque varii articoli di pretesa eresia e di lesa maestà d'esso pontefice, pretendendo ch'esso avesse anche bandita la croce contro ai Romani: per le quali cagioni il [468] Bavaro dichiarò decaduto papa Giovanni dal pontificato, e reo di eresia e lesa maestà, con varie pene ch'io tralascio. Nel dì 23 d'aprile col consenso del popolo romano fu pubblicata una legge, che ogni papa in avvenire dovesse tener la sua sedia in Roma, e non istarne absente che tre mesi l'anno: altrimenti s'intendesse casso dal papato. Finalmente nel dì 12 di maggio, nella piazza di San Pietro, Lodovico colla corona in capo propose al numeroso popolo di Roma di fare un nuovo papa. Fu proposto fra Pietro da Corvara, nativo d'Abbruzzo, dell'ordine de' Minori, grande ipocrita; e il popolo, perchè la maggior parte odiava papa Giovanni per la sua permanenza di là dai monti, l'accettò. Costui prese il nome di Niccolò quinto; fece anche prima della consecrazione la promozion di sette falsi cardinali, e nel dì 22 di maggio fu consecrato vescovo da uno di essi, con prendere dipoi la corona dalle mani del medesimo Lodovico, il quale di nuovo si fece coronar imperadore da questo suo idolo.

Tante bestialità di Lodovico il Bavaro in arrogarsi l'autorità di deporre un papa, legittimo papa, nè giammai caduto in eresia, come egli pretese, e di eleggerne un altro contro i riti e canoni della Chiesa cattolica [Albert. Mussatus, in Lud. Bavar. Bernard. Guid. Cont. Ptolom. Lucens.], stomacarono forte allora chiunque portava buona coscienza e lume di ragione; e solamente piacquero a molti eretici e scismatici tanto religiosi che secolari, de' quali era piena la corte d'esso Bavaro, e coi consigli de' quali soli egli si regolava. Mostruosità ed empietà enorme non ha bisogno di essere maggiormente dichiarata e detestata. Questa poi fu quella che finì di dare il tracollo agl'interessi di lui in Italia. Ma qui convien interrompere il corso delle azioni di Lodovico per venire in Toscana. Mentre Castruccio se ne stava in Roma, facendola da grande in quella corte e città, e molto prima dell'empia [469] tragedia che abbiamo riferito [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 57. Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], Filippo da Sanguineto, vicario del duca di Calabria in Firenze, cominciò a tessere certo trattato per torgli la città di Pistoia. Fatti i preparamenti, la mattina innanzi giorno del dì 28 di gennaio si presentò egli alle fosse di quella città, con ponti, scale ed altri edifizii, due mila fanti e settecento cavalli. Data alle mura la scalata, v'entrò, e dopo lunga battaglia colla guarnigion di Castruccio, s'impadronì della terra, con fuggirsene Arrigo e Valerano, figliuoli del medesimo Castruccio, e i lor soldati a Serravalle. La misera città andò tutta a sacco, e durò ben dieci giorni la crudel ruberia: il che trattenne que' soldati dal far altre conquiste nel territorio. Per mare e per terra fu spedito a Castruccio il funesto avviso di questa perdita. Egli, dopo tre dì, avutolo, si congedò ben tosto dal Bavaro, ed immediatamente nel primo giorno di febbraio s'avviò alla volta di Pisa colla sua gente. Lasciata poi questa in cammino, marciò egli innanzi colla maggior sollecitudine possibile, ed arrivò a Pisa con soli dodici cavalli nel dì 9 del mese suddetto. Da lì a qualche giorno vi giunse anche la sua milizia. Prese egli nel mese d'aprile al tutto la signoria di essa città di Pisa, ed impose colte e gabelle per fornirsi di danaro, risoluto di riacquistare Pistoia, e ciò senza riguardo alcuno al Bavaro, che ne era padrone, e al conte d'Ottinghe inviato colà per governar la città. Si volle egli rifare, perchè dava la colpa al Bavaro della perdita di Pistoia, per averlo forzato ad andar seco a Roma. Poscia nel dì 15 di maggio col popolo di Lucca e di Pisa cinse d'assedio essa città di Pistoia [Chron. Sanense, tom. 15 Rer. Ital.]. Per sua buona ventura era innanzi nata gara tra i Fiorentini e Filippo da Sanguineto, a chi dovesse toccar la spesa di provvedere Pistoia, città fornita di viveri appena per due mesi. Nè l'un nè gli altri volendo cedere, ed informato [470] Castruccio di questo litigio e dello stato di Pistoia, tanto più s'animò ad assediarla. Di grandi battifolli, steccati e fosse fece egli fare all'intorno, acciocchè niuno potesse recarle soccorso, e cominciò a tormentar la città colle macchine e con frequenti assalti. In questo mentre anche i Fiorentini fecero un gagliardo apparecchio di gente, colla giunta d'altra che lor venne dal cardinal Beltrando legato, da Bologna, Siena, Volterra ed altre terre. Con queste forze, superiori di molto a quelle di Castruccio, almeno nella cavalleria, l'esercito fiorentino nel dì 20 di luglio andò a postarsi in faccia dei trinceramenti di Castruccio sotto Pistoia. Mostrò ben egli di voler battaglia; ma siccome cauto capitano si tenne forte nel suo campo; e maggiormente afforzandolo con forti ripari, lasciò che i Fiorentini, non veggendo maniera di snidarlo di là colla forza, marciassero verso Pisa, credendosi eglino che Castruccio si moverebbe per timore di perdere quella città. Nulla si mosse egli; un terribil sacco fu dato al territorio pisano sino alle porte; e intanto Simone dalla Tosa capitano di Pistoia, perduta la speranza del soccorso per l'allontanamento de' suoi, e perchè gli era oramai fallita la vettovaglia, nel dì 3 d'agosto (salve le persone col loro equipaggio) rendè a Castruccio quella città con grande vergogna e rabbia de' Fiorentini, i quali, udita la perdita di Pistoia, si ritirarono tosto a casa. V'ha chi scrive, aver Castruccio, dappoichè esso ottenne Pistoia, preso Prato, e dato verso Fucecchio una rotta all'armata fiorentina; ma di ciò non parlando le più vecchie storie, passerò a dire che egli, per paura del Bavaro, cominciò una tela co' Fiorentini e col papa; ma per tante fatiche ed affanni cadde da lì a non molti giorni infermo in Lucca; e, chiamati i suoi tre figliuoli Arrigo, Giovanni e Valerano, lasciò gli Stati al maggior di età, ordinando loro e ai consiglieri di ben fornire le città di Pisa, Lucca e Pistoia, e di stare uniti insieme. [471] Poscia nel dì 3 di settembre nel colmo di sua grandezza e fortuna, in età di soli quarantasette anni, diede fine alla sua vita colla temporal gloria d'essere stato il più accorto, prode e belicoso principe de' suoi tempi e tale, che, se la morte non gli troncava il volo, pericolo v'era che Firenze e la Toscana tutta soccombessero alla di lui somma sagacità e bravura. Leggesi la di lui vita scritta da Niccolò Tegrimi nobile lucchese [Tegrim., Vita Castruccii, tom. 11 Rer. Ital.], dove i suoi costumi e le sue massime si trovano pienamente descritte. I suoi figliuoli corsero Lucca, Pistoia e Pisa, e se n'impossessarono, con aver tenuta celata sette giorni la di lui morte: per la quale non si può esprimer quanta festa e tripudio si facesse in Firenze. Pareva a quel popolo di essere rinato.

Non avea cessato Castruccio, dacchè il Bavaro giunse a Lucca e Pisa [Bonincontr. Morigia, Chronic. Mod., cap. 37, tom. 12 Rer. Ital.], di far tutti i più premurosi uffizii appresso di lui per ottenere la libertà a Galeazzo Visconte, e ai di lui fratelli e figliuoli. Lo stesso Marco Visconte, autor principale della lor rovina, che avea seguitato il Bavaro in Toscana, conoscendo l'eccessivo error commesso in danno della propria casa, e pentito del fallo, tuttodì si raccomandava per questo a Castruccio. Stette duro il Bavaro. Appresso in Roma tanto esso Castruccio, quanto altri principi ghibellini interposero la loro intercessione per la liberazion loro, e alle preghiere succederono le minaccie di abbandonarlo, se non concedeva loro tal grazia. Finalmente si lasciò vincere il Bavaro, e l'ordine andò che fossero rimessi in libertà. Scrive il Villani [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 31.] che Lodovico condannò Luchino ed Azzo a pagare venticinque mila fiorini d'oro, e che ne pagarono sedici mila. Comunque sia, ci assicura Buonincontro che li rimise in sua grazia, comandando che venissero in Toscana. Nel dì 25 di marzo furono [472] liberati dalle carceri di Monza; quel popolo segretamente diede loro molti regali; ed essi andarono a Lucca a trovar Castruccio, il quale teneramente abbracciò Galeazzo, ed il creò suo generale all'assedio di Pistoia. Quivi per li crepacuori passati e per le fatiche presenti, gravemente s'infermò Galeazzo; e portato per ordine di Castruccio a Pescia, nel mese d'agosto, prima della resa di Pistoia, in età di cinquantun anni meschinamente morì, lasciando un grande esempio della volubilità delle grandezze terrene. Torniamo ora al Bavaro, i cui disegni in Roma erano di assalire il regno di Napoli; ma l'essersi partito da lui Castruccio con sue genti, e il non comparir mai, secondo il concerto, la flotta di Federigo re di Sicilia, che s'era collegato con lui ai danni del re Roberto, arenò tutta l'impresa. Fece bensì unito coi Romani a lui qualche guerra, ma di poco momento, perchè troppo penuriava di moneta, e vi era discordia nell'esercito suo. All'incontro, il re Roberto [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 96.] prese Ostia, Anagni ed altri luoghi. Per questi ed altri motivi il Bavaro, non veggendosi più sicuro in Roma, se ne partì col suo antipapa nel dì 4 d'agosto, con fargli le fischiate dietro quel popolo romano che dianzi tanta festa avea mostrato per lui, e venne a Viterbo. Nel dì seguente entrarono in Roma Bertoldo Orsino e Stefano dalla Colonna, prendendone possesso a nome di papa Giovanni, e colà ancora successivamente arrivarono il cardinal legato ed ottocento cavalieri del re Roberto, con esserne fuggiti Sciarra dalla Colonna, che da lì a non molto mancò di vita, Jacopo Savello e gli altri Ghibellini. Venuto il Bavaro a Todi, dalla qual città cavò quattordici mila fiorini, pensava di passare a dirittura ad Arezzo, istigato dai Ghibellini di marciare addosso a Firenze, quando gli giunse nuova che don Pietro, figliuolo di Federigo re di Sicilia, con una potente flotta andava in traccia di lui, e desiderava di seco abboccarsi [473] a Corneto. Andò colà, e dopo molti contrasti e rimproveri, per essere egli tardato tanto a venire, si trattò di nuovo di far guerra al re Roberto. Ma troppo era in collera Lodovico, perchè Castruccio gli avea tolta Pisa, e però volle prima portarsi colà. Nel viaggio colla sua gente e co' Siciliani prese Grosseto; e, giuntagli colà la nuova della morte di Castruccio, affrettò i passi, e nel dì 21 di settembre arrivò a Pisa, ricevuto con somma allegrezza da quel popolo. Se ne fuggirono a Lucca i figliuoli di Castruccio, conoscendo d'essere troppo in odio ai Pisani. L'armata siciliana in tornando a casa, assalita da una fiera tempesta, colla perdita di quindici galee e con altri danni, arrivò molto sconciata e scemata in Sicilia. Andò poscia il Bavaro a Lucca ad istanza di quei cittadini, e tolse la signoria di quella città ai suddetti figliuoli di Castruccio con giubilo di quel popolo. Ma finì presto la lor festa, perchè il Bavaro impose loro una colta di cento cinquanta mila fiorini d'oro; stoccata che arrivò loro al cuore. Parimente per danari riconfermò il dominio di quella città agli stessi figliuoli di Castruccio. Anche l'allegrezza dei Pisani si convertì ben tosto in lutto, avendo essi dovuto pagare altri cento mila fiorini d'oro. Questi erano i benefizii, co' quali Lodovico il Bavaro si rendeva amabile ai popoli di Italia. Pure, con tutti questi fieri salassi alle borse altrui, non correano le paghe ai suoi soldati, e, per tal motivo, fatta congiura, ottocento dei suoi migliori cavalieri tedeschi nel dì 29 d'ottobre disertarono da Pisa, e corsero a Lucca per impadronirsene; ma, trovate le porte chiuse per avviso precorso della lor venuta, diedero il sacco ai borghi di quella città, e poi ridottisi sul Ceruglio nella montagna di Vivinaia, quivi si fortificarono, con vivere da lì innanzi di rapine e di tributi di tutti i contorni. E perciocchè il Bavaro, non avendo attenuta la promessa di pagar loro sessanta mila fiorini, inviò ad essi Marco Visconte per [474] trattar di concordia, il ritennero prigione: dal che poi nacquero altre novità che andremo vedendo.

Già di sopra accennammo che Cane dalla Scala, tuttochè ghibellino, andò poco d'accordo coi Visconti. Era anche disgustato di Passerino de' Bonacossi signor di Mantova. Perciò diede mano e braccio ad una congiura formata contra di lui [Johannes de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.] dai figliuoli di Luigi da Gonzaga, cioè Guido, Filippino e Feltrino, nobili antichi di Mantova, che si truovano registrati vassalli della contessa Matilda. Ebbero essi dallo Scaligero e da Guglielmo di Castelbarco ottocento fanti e trecento cavalli, co' quali inaspettatamente entrati in Mantova la mattina del dì 16 d'agosto, correndo quivi la festa di san Leonardo, s'impadronirono della piazza. Il Platina scrive [Platina, Hist. Mantuan., lib. 2, tom. 20 Rer. Italic.] ciò succeduto nel dì 17 di luglio. Accorso Passerino, vi restò trucidato [Moran., Chron. Mutin., tom. 11 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Furono presi Francesco e l'abbate di Sant'Andrea suoi figliuoli, e Guido e Pinamonte figliuoli di Botirone già suo fratello, e consegnati a Niccolò Pico ed agli altri nobili della Mirandola, i quali li condussero al castello del Castellaro della diocesi di Modena, e, in vendetta della morte di Francesco lor padre, quivi nelle prigioni barbaricamente li lasciarono morir di fame. In tal congiuntura si sfogò lo sdegno de' congiurati anche contro molti de' parziali e soldati di Passerino, che non poterono fuggire, e massimamente contra de' suoi crudeli uffiziali. Inestimabili ruberie furono fatte in quella rivoluzion di Stato, e la maggior parte del bottino toccata a Cane dalla Scala fu creduta da alcuni ascendere alla somma di cento mila fiorini d'oro. Questo miserabil fine ebbe Passerino, che pel suo aspro governo di tant'anni si guadagnò da' Mantovani e Modenesi il titolo di tiranno. Venne appresso dal popolo di [475] Mantova proclamato lor signore di nome Luigi da Gonzaga; ma l'esercizio del dominio restò nei suoi valorosi figliuoli, i quali coi lor discendenti renderono poi gloriosa in Italia la famiglia Gonzaga, e continuarono la signoria in Mantova sino al principio del presente secolo decimo ottavo di Cristo, in cui io scrivo. In quest'anno ancora Carlo duca di Calabria, unico figliuolo di Roberto re di Napoli [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 109.], infermatosi, giunse al fine di sua vita nel dì 9 ovvero 10 di novembre, con dolore inesplicabile del padre e di que' popoli, perchè era buon principe, amatore della giustizia, pio ed amorevole verso tutti. Non lasciò dopo di sè alcun maschio, ma bensì due femmine, Giovanna già nata, e Maria, che nacque dopo la morte del padre da Maria di Valois, sorella di Filippo di Valois, il quale in questo anno, venuta meno la figliuolanza di Filippo il Bello, diventò re di Francia. Col tempo il regno di Napoli ebbe da piagnere maggiormente la perdita di questo principe senza eredi maschi, siccome andremo vedendo. In Firenze fu gran duolo per la sua morte; ma molti ancora internamente se ne rallegrarono, perchè finì il suo dominio in quella città, ed ivi si tornò alla libertà primiera. Erano in questi tempi signori della città di Lodi Sozzo e Jacopo de' Vestarini, ed aveano esaltato di molto un lor famiglio, già mugnaio, uomo fiero, nominato Pietro Tremacoldo, per soprannome il Vecchio, con farlo capo delle lor guardie, e lasciargli in mano le chiavi di una porta della città [Bonincontrus Morigia, Chron. Modoet., cap. 38, tom. 12 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.]. Molte scelleraggini e crudeltà commise costui in servigio de' padroni, ma seppe anche guadagnarsi l'amicizia di molti. Perchè Sozzino giovine della casa dei Vestarini gli stuprò una nipote, e, fattane doglianza, ebbe in risposta solamente delle minaccie, talmente s'inviperì, che ne volle far alta vendetta. Però, introdotta una notte in Lodi una gran masnada di [476] fanti, mise la terra a rumore, e presi i suddetti due signori, con quattro altri di quella casa (se ne fuggì Sozzino con altri), rinserrolli in uno scrigno, e quivi di fame li lasciò perire. Agl'indagatori de' gabinetti celesti dovette allora sembrar questo un giusto giudizio di Dio; perchè i Vestarini, dacchè aveano imprigionato alcuni, li dimenticavano nelle carceri, e permisero che molti d'essi morissero di fame, ridendo allorchè udivano che i miseri urlavano per non aver che mangiare. Fecesi per forza questo ribaldo vecchio proclamare signor di Lodi, e spedì subito a Guglielmo di Monteforte vicario di Milano, assicurandolo che terrebbe la città a parte ghibellina, e di aver tolto di vita i Vestarini, perchè voleano dar Lodi al legato del papa.

Sempre più andava peggiorando lo stato di Padova [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital. Albertinus Mussatus, de Gest. Ital., lib. 12, tom. 8 Rer. Italic.]. Niccolò da Carrara, con gli altri fuorusciti, nell'anno precedente avea fatta gran guerra a quella città, maggiore la fece nell'anno presente con venir sino alle porte, e togliere ai Padovani buona parte de' loro raccolti. Entro di Padova Ubertino da Carrara con Tartaro da Lendenara teneva in continua inquietudine i miseri cittadini; nè giustizia si facea, nè modo si trovava da frenar le di lui insolenze. Corrado da Ovestagno, vicario del duca di Carintia in essa città, ad altro non attendeva co' suoi Tedeschi che ad ammassar danaro con ispogliar case e chiese, biasciando intanto de' Pater nostri, e facendo colle spoglie de' Padovani fabbricar chiese e monisteri nel suo paese. Mostrava bensì, secondo la sua politica, Cane dalla Scala di voler conservare le tregue con Padova, ma sotto mano porgeva aiuto ai fuorusciti, acciocchè facessero quanto di male potessero alla lor patria. Nè per quanti ricorsi fossero fatti al duca di Carintia, al legato del papa e a' marchesi estensi, per ottener aiuto, alcuno volea muovere [477] un dito in lor favore. Marsilio da Carrara, uno de' più accorti uomini del suo tempo, veggendo andar così in malora la città, finalmente si appigliò al partito di fare il proprio negozio, con dar Padova a Cane dalla Scala, ed averne egli solo il merito tutto [Gatari, Ist. Pad., tom. 17 Rer. Ital. Chron. Patav., tom. 8 Rer. Ital.]. Segretamente adunque spedì Filippo da Peraga a Cane, offerendogli il dominio della città, purchè Mastino dalla Scala di lui nipote sposasse Taddea da Carrara (che Alda è chiamata dal Mussato) figliuola di Jacopo già signore di Padova, e Marsilio conseguisse i beni di alcune ricche famiglie fuoruscite e il vicariato della città, ma solamente di nome, dovendovi Cane mettere tutti gli uffiziali, con altri patti vantaggiosi per lui. Altro non cercava che questo Cane, il quale da tanti anni ansava dietro a sì nobile acquisto, e tante guerre avea fatto e tanto danaro speso, senza mai poter ottenere il suo intento. Andò Mastino a Venezia, ed occultamente sposò Taddea da Carrara, che ivi si allevava, e compiè il matrimonio. Ciò fatto, Marsilio, dopo avere introdotto con varii pretesti molte centinaia di contadini armati in Padova, nel dì 3 di settembre, per avere più sciolte le mani e più balia ad eseguire il trattato, fece destramente insinuare al popolo di dare a lui la signoria della città; e ciò fu fatto. Poscia licenziò i Tedeschi, che erano ivi di presidio, soddisfatti delle lor paghe. Finalmente nel maggior consiglio della città spiegò la risoluzione da lui presa di cedere a Cane dalla Scala il dominio di Padova, giacchè altra maniera non v'era di salvarsi in mezzo a tante tempeste [Albertinus Mussatus, tom. 8 Rer. Ital.]. Niuno osò di contraddire; e però, eletto il sindaco, nel dì 7 di settembre lo stesso Marsilio da Carrara con esso e con molti de' principali cittadini cavalcò a Vicenza, e presentò le chiavi della città a Cane, il quale appena si trattenne dal baciare un dono sì caro. Fece la sua [478] magnifica entrata Cane in Padova nel dì 10 del suddetto mese, ricevuto con plauso e benedizioni da quel popolo, oramai convinto che altro rimedio non v'era a' suoi mali, fuorchè questo. La liberalità del novello principe si diffuse sopra i suoi più cari, e massimamente sopra Marsilio da Carrara, alle spese nondimeno de' fuorusciti, appellati ribelli; di modo che Marsilio divenne, di ricco che era, sommamente ricchissimo. Toccò ad essi fuorusciti lo starsene in esilio; e perchè Albertino Mussato, celebre storico, il quale ampiamente racconta questi fatti, osò di rientrare in Padova senza licenza, fu mandato a' confini a Chioggia, dove nell'anno seguente finì di vivere e scrivere. Solennemente ancora fu di nuovo sposata Taddea Carrarese da Mastino dalla Scala.

Tornato Cane a Verona, volle solennizzar questa importante conquista con una magnifica festa. Tenne dunque corte bandita in quella città nel dì ultimo di novembre. La Cronica di Verona [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] dice nell'ultimo d'ottobre. Forse cominciò allora la festa, ed essendo durata un mese, terminò nel fine di novembre. Concordano gli autori in dire [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Albertinus Mussatus, lib. 12, tom. 18 Rer. Ital.] che incredibil ne fu la magnificenza per la varietà dei tornei, delle giostre, delle illuminazioni e d'altri pubblici suntuosi solazzi; pel concorso smisurato de' nobili di tutte le circonvicine città, essendovi stati cinque mila cavalli forestieri, ed intervenuti anche Obizzo marchese d'Este signor di Ferrara [Gazata, Chron. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], e Luigi da Gonzaga signore di Mantova; e finalmente per li gran regali fatti dallo Scaligero, che tenne sempre tavola aperta a tutta la nobiltà sì del paese che forestiera. La maggior solennità fu nel giorno in cui egli di sua mano creò cavalieri trentotto nobili delle prime case di Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Mantova, Bergamo, Como, Reggio di [479] Lombardia e Vercelli. Simili funzioni in Italia si faceano in que' secoli pieni di guerre, e chiamati da noi barbari, ma che più non si mirano in Italia, tanto ingentilita, per essersi perduta la voglia delle corti bandite, e del giostrare e torneare, dacchè tante armate straniere fan qui dei torneamenti d'altra fatta. Aggiungasi la descrizione che il padre del Gazata, storico reggiano di questi tempi [Gazata, in Praefat. ad ejus Histor., tom. 18 Rer. Ital.], a noi lasciò del nobilissimo genio d'esso Scaligero. Gran copia teneva egli di cortigiani; ed, oltre a ciò, non v'era uomo di qualche grido o per le lettere, o pel mestiere dell'armi, o per singolarità in qualche arte, il quale, sbattuto dalla fortuna o dalle rivoluzioni della patria, sì frequenti in questi tempi, ricorresse a lui, che non fosse ben veduto e provveduto di abitazione e tavola nella sua corte. Venivano essi con tutta proprietà e lautezza serviti, e, secondo le lor professioni, erano distribuiti. Quivi i poeti, lì i filosofi, in altre camere gli artefici, i predicatori e simili. Sopra la porta di quelle camere si mirava qualche pittura che alludeva alla lor professione. Eranvi musici di canto e suono, e buffoni per rallegrar di tanto in tanto le cene ed i pranzi: ben addobbato il palazzo di arazzi e pitture. Talvolta ancora Cane voleva alla sua tavola or questo or quello di que' valenti uomini; ed uno fra gli altri fu Dante Alighieri, celebre poeta, che, bandito da Firenze, provò quanta fosse la generosità di questo principe, degno perciò di maggior vita e di comandare a più popoli. Funesto riuscì quest'anno a Venezia, perchè la morte rapì il loro doge, cioè Giovanni Soranzo [Contin. Danduli, tom. 12 Rer. Ital.], a cui nel dì 8 di gennaio succedette in quella dignità Francesco Dandolo. Nè si dee tacere che, all'entrare di luglio [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 90. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], venendo da Avignone la paga per li soldati del legato di Italia, consistente in sessanta mila fiorini [480] d'oro, e scortata da cento cinquanta cavalieri, usciti fuor d'un agguato i Pavesi, ne presero almeno la metà con assai arnesi, somieri e prigioni. Ed ecco dove andavano le decime raccolte pel papa dall'aggravato clero. Anche negli anni addietro Jacopo re d'Aragona occupò da ducento mila fiorini d'oro, che gli uffiziali di papa Giovanni XXII aveano ricavato dagli ecclesiastici del suo regno, e se ne servì per torre la Sardegna ai Genovesi. Furono in quest'anno ancora novità in Reggio di Lombardia e in Parma. Nel mese di giugno Guiduccio e Giovanni de' Manfredi, e Giovanni Riccio da Fogliano, nobili reggiani [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], uccisero Angelo da San Lupidio governatore di quella città per la Chiesa, ed uomo di molta pietà ornato, e poi se ne andarono alle lor castella. Era anche in Parma [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 95.] governatore pontificio Passerino dalla Torre; ma perchè con imposte ed altri aggravii opprimeva quel popolo, Marsilio de' Rossi ed Azzo da Correggio, nobili di quella città, nel dì primo di agosto scacciarono lui e il presidio papalino, e si fecero padroni di Parma. Nel dì seguente unitisi coi Fogliani e Manfredi suddetti, entrarono parimente in Reggio, e posero in fuga Arnaldo Vachera nuovo governatore inviatovi dal legato: con che amendue queste città tornarono a parte ghibellina, e que' nobili fecero lega con Cane dalla Scala, e con gli altri di sua fazione: avvenimento che atterrì forte il partito de' Guelfi. Ma il cardinal Beltrando legato tanto fece in Romagna [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 94. Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], che Alberghettino de' Manfredi signor di Faenza s'accordò con lui, parendo nondimeno che esso Alberghettino non gli lasciasse mettere il piede in quella città. In quest'anno un orribil tremuoto, oltre ad altri luoghi, sì fieramente conquassò la città di Norcia, che vi perirono da quattro mila persone.

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Anno di Cristo mcccxxix. Indizione XII.
Giovanni XXII papa 14.
Imperio vacante.

Stando in Pisa Lodovico il Bavaro, si trovava più che mai fallito di moneta. Erano alla corte di lui Azzo figliuolo e Giovanni fratello del fu Galeazzo Visconte [Bonincontr. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 117.], e forse erano forzati a starvi. Unitisi questi con Marco Visconte, stato sempre in grazia d'esso Bavaro, seppero così ben trattare i fatti loro, che coll'esibizione di settanta mila fiorini d'oro (il Villani dice cento venticinque mila), da pagarsegli parte in Milano e parte dappoi, ottennero quanto vollero: cioè Azzo impetrò il vicariato di Milano, e Giovanni dall'antipapa, che era venuto a Pisa, fu creato cardinale, e suo legato generale per tutta la Lombardia nel dì 18 di gennaio. Di questo danaro assegnò il Bavaro trenta mila fiorini d'oro ai Tedeschi ribellati che stavano nel Ceruglio, sperando di riavergli al suo servigio; ma, perchè non corse la moneta, Marco Visconte, siccome già accennai, fu ritenuto come ostaggio e mallevadore da essi. Andossene il valoroso giovane Azzo Visconte, accompagnato dal Porcaro (così è nominato dal Villani: io il credo Burgravio) uffiziale del Bavaro, per entrare in possesso di Milano, e giunse in Monza con giubilo di quel popolo. Quivi si fermò tredici dì, perchè Guglielmo conte di Monteforte governatore di Milano non volea cedere, se non era prima soddisfatto delle sue paghe. Azzo il soddisfece, e prese il dominio di Milano. Scrive il Villani che il Porcaro suddetto, a nome del Bavaro, ebbe da Azzo venticinque mila fiorini d'oro, coi quali marciò alla volta di Lamagna, senza mandare un soldo ad esso Bavaro, nè a' cavalieri del Ceruglio: del che il sitibondo Bavaro provò grande affanno. Anche Giovanni zio d'Azzo, e falso cardinale, dovette [482] tornare in tal congiuntura a Milano; ed allora avvenne ciò che narra Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic.]: cioè che in quella città insorsero molti falsi religiosi, pubblicamente predicanti che papa Giovanni XXII era eretico scomunicato, deposto ed omicida, esaltando poi alle stelle l'antipapa Niccolò. Una gran fazione di frati minori col loro generale fra Michele da Cesena era allora troppo inviperita contra del papa per alcune ridicole questioni della lor povertà. Accadde ancora che nel dì 2 di febbraio il capitano pontificio del Patrimonio cogli Orvietani [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 118 e 122.] credendosi d'occupare la città di Viterbo, vi entrò ostilmente; ma vi rimase sconfitto. Oltre a ciò, il conte di Chiaramonte, creato marchese della marca d'Ancona dall'antipapa, con gente del Bavaro e cogli altri Ghibellini entrò nella città di Jesi; e presovi Tano, che la signoreggiava, o piuttosto la tiranneggiava, col credito d'essere uno de' primi caporali de' Guelfi, gli fece tagliare la testa. Albertino Mussato attesta [Albertinus Mussatus, in Ludov. Bavar.] che esso conte s'impadronì della maggior parte della marca. I Romani anche essi, perchè pativano gran carestia, nè Guglielmo da Ebole vicario del re Roberto, e senatore allora di Roma, provvedeva al loro bisogno, alzato rumore, il cacciarono vituperosamente dalla lor città, e crearono senatori Stefano dalla Colonna e Ponciello degli Orsini, che seppero provvedere di grano quella città. Finalmente i Tarlati di Pietramala, signori di Arezzo e di Città di Castello, possenti ghibellini, s'impadronirono di Borgo San Sepolcro, togliendolo alla Chiesa.

In tale stato di confusione si trovava l'Italia, quando a tutto un tempo si vide andare in depressione il Bavaro col suo antipapa, e risorgere gli affari di papa Giovanni [Raynaldus, Annal. Eccles. ad ann. 1328, num. 54.]. I primi ad abiurare l'uno [483] e l'altro furono Rinaldo, Obizzo e Niccolò fratelli, marchesi estensi, signori di Ferrara, Rovigo, Comacchio ed altri luoghi. Non potendo essi accomodarsi più alle stravaganti ed empie azioni di Lodovico il Bavaro, massimamente dopo la detestabil creazione dell'antipapa, cercarono fin dall'anno precedente di mettersi in grazia del pontefice, e gli spedirono ambasciatori ad Avignone con espressioni di tutta umiltà, offerendosi a' suoi servigi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Il papa, duro finora con essi, al considerare il proprio pericoloso stato per le tante novità d'Italia, si ammollì facilmente verso di loro. Fecesi conoscere (e ci volea ben poco) che non erano quei miscredenti ed eretici che venivano spacciati ne' falsi processi fabbricati contra di loro. Però il papa, dopo ricevuta la confessione, che essi riconoscevano Ferrara per istato indubitato della Chiesa romana, annullò le scomuniche, e levò l'interdetto a Ferrara, nè più inquietò gli Estensi per conto del possesso e della signoria di quella città; anzi loro la confermò coll'obbligo del censo annuo di dieci mila fiorini d'oro. Fecero di più i marchesi [Raynaldus, Annal. Eccl. ad hunc annum, num. 20.]. Servironsi della parentela che passava fra loro ed Azzo Visconte, e di Beatrice Estense madre di esso Azzo, e zia de' marchesi, per istaccare il medesimo Azzo dal Bavaro. Troppo era chiaro che niun potea fidarsi di questo principe, il quale, chiamato in Italia contra de' Guelfi, nulla finora avea operato di rilevante contra d'essi; con attendere solamente a rovinar gl'interessi de' principi e delle città ghibelline sue seguaci, avendole smunte tutte di danaro, e sì obbrobriosamente maltrattati i Visconti. Ultimamente ancora avea di nuovo nel dì 16 di marzo [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 124.] tolta la signoria di Lucca ai figliuoli di Castruccio, e datala a Francesco Castracane degli Interminelli per ventidue mila fiorini [484] d'oro. Questi ed altri motivi, congiunti col riguardo della religione, sì malmenata dal Bavaro, fecero buona breccia nel cuore d'Azzo Visconte; e tanto più perchè gli stava tuttavia davanti agli occhi l'orrida prigionia patita in Monza, e gli altri indegni strapazzi fatti al padre e alla sua famiglia dallo sconoscente Bavaro. Cominciò pertanto a trattare segretamente ad Avignone per acconciarsi col papa, e si rimise in sua grazia, siccome dirò all'anno seguente; nè più mandò un soldo al Bavaro, che pure al sommo penuriava di moneta. Giudicò bene il Bavaro di calar egli in persona in Lombardia, giacchè assai chiaramente scorgeva che non più per lui, ma contra di lui era Azzo Visconte [Bonincontrus Morigia, Chron. Mod., cap. 40, tom. 12 Rer. Ital.]. Giunto al Po, secento suoi fanti balestrieri disertarono, e andarono a prendere soldo dal signor di Milano: colpo che sconcertò non poco l'animo del Bavaro. Tenne un parlamento a Marcheria sino al dì 21 d'aprile [Albertinus Mussatus, in Ludov. Bavar.], al quale si trovò Cane dalla Scala, accompagnato da più armati che non avea lo stesso Bavaro, perchè neppur egli si fidava molto di chi parea rivolto ad assassinar gli amici, e non a distruggere i nemici. Quivi si trattò di far oste contra di Milano. I fatti danno assai a conoscere che lo Scaligero non se ne volle impacciare. Aveva egli altre idee in capo. In questo mentre Azzo Visconte nel dì 17 d'aprile spinse a Monza cinquecento cavalli, che, entrati in quella città, se ne impadronirono. Lodovico duca di Tech, ivi governatore pel Bavaro, si ritirò co' suoi Tedeschi nel castello, dove con grandi fossi e steccati fu rinserrato. Arrivò sul principio di maggio il Bavaro a Lodi, e gli furono serrate le porte in faccia; poscia fu sotto Monza, ed entrò nel castello; ma ritrovò il presidio del Visconte ben preparato nella terra alla difesa [Gualvaneus Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.]. [485] Nel dì 11 di giugno si portò colla sua gente sotto Milano, e ne cominciò l'assedio, alloggiando nel monistero di San Vittore. Azzo avea prese tutte le precauzioni necessarie, ed era per lui tutto il popolo, il quale andava facendo di tanto in tanto dei badalucchi con gli assedianti, villaneggiando i Tedeschi. Ma Azzo, da uomo prudente, non lasciava passar giorno che non mandasse mattina e sera qualche rinfresco e regalo di vini preziosi e di altri viveri al Bavaro. Si trattò d'accordo; ed Azzo, per ricuperar dalle mani di lui il forte castello di Monza, e per mandarlo via il meno malcontento che si potesse, gli pagò una somma di danaro: non si sa quanto.

Nel dì 19 di maggio andò il Bavaro a Pavia [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 146.], e quivi stette sino al principio d'ottobre; nel dì 25 settembre diede ad Azzo Visconte l'investitura del vicariato di Milano, rapportata dal Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Passò dipoi a Cremona, e di là a Parma, per certi trattati che avea di torre Bologna al cardinal Beltrando dal Poggetto. Ma, scoperta la trama, nel dì 9 di dicembre si portò a Trento per parlamentare con certi baroni di Germania, e affine di provveder gente, mostrandosi risoluto di tornare alla primavera contra di Bologna. Colà gli arrivò nuova della morte di Federigo duca d'Austria emulo suo, e che gran moto si faceva per eleggere un nuovo re de' Romani: però passò in Germania per attendere a' fatti suoi, nè mai più gli venne voglia di comparire in Italia, dove lasciò un'abbominevol memoria di sè medesimo presso i Guelfi, e forse non minore presso degli stessi Ghibellini. Maneggiossi in questi tempi Cane dalla Scala per introdurre accordo fra il Bavaro ed Azzo Visconte, nè volle mai dar braccio ad esso Bavaro per le sue meditate imprese. Solamente mandò e lasciò andare Marsilio da Carrara con gente in aiuto de' Rossi, mentre il legato [486] del papa facea guerra a Parma [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Marsilio fu quasi preso da Simone da Correggio in quella spedizione. Ora, dopo aver Cane tenute in esercizio le sue truppe senza far nulla per molto tempo [Chron. Patav., tom. 8 Rer. Ital.], finalmente nel dì 4 di luglio si mosse da Padova con potente esercito, e andò a mettere l'assedio a Trivigi. Guecelo Tempesta avvocato e signor di Trivigi si sostenne per quattordici giorni; ma veggendo che il duca di Carintia, in vece di inviare un gagliardo soccorso, animava solamente con delle grandiose promesse, nel dì 18 del detto mese capitolò con buoni patti la resa di quella città. Magnificamente v'entrò il vittorioso Scaligero; ma a sì bel giorno tenne dietro una bruttissima sera. Ecco sorpreso Cane da una mortal malattia, che nel dì 22 d'esso mese, in età solamente di quarantun anno, il fa sloggiare dal mondo, allora appunto ch'egli era giunto all'auge della grandezza: principe glorioso, amato e temuto non meno pel valore che pel senno, e per la sua magnificenza ed onoratezza. S'egli maggiormente campava, par bene che si sarebbe stesa la sua potenza molto più oltre. Era padrone di Verona, Vicenza, Padova, Trivigi, Feltre, Cividal di Friuli e d'altri luoghi, dei quali restarono eredi i due suoi nipoti Alberto e Mastino, legittimi figliuoli di Alboino, senza che v'abboccassero i suoi figliuoli bastardi. Marsilio da Carrara, che con Bailardo da Nogarola assistè alla morte d'esso Cane, corse tosto a portarne la nuova a Padova, ed onoratamente fece che quel popolo giurasse nelle sue mani fedeltà ai due fratelli Scaligeri. Alberto dalla Scala nel dì 27 di luglio [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.] prese il possesso di Padova, ed appresso vennero in potere di lui Conegliano, Asolo, e le restanti castella del Trevisano. Bartolomeo e Giliberto, figliuoli bastardi del predetto Cane, sul fine di quest'anno accusati d'aver macchinato contra la vita e [487] lo stato de' due regnanti Scaligeri, furono presi e condannati ad una perpetua carcere. Francesco loro maestro fu strascinato a coda di cavallo, e poscia impiccato per la gola. Era in questi tempi Marco Visconte tuttavia per ostaggio coi Tedeschi nel Ceruglio, amato e riverito da loro, perchè il conoscevano personaggio di gran perizia nei fatti di guerra [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 129.]. Come fu partito di Toscana il Bavaro, s'intesero essi Tedeschi con altri che stavano di guarnigione nell'Agosto, cioè nel castello ossia nella fortezza di Lucca; e, fatto lor capitano il suddetto Marco Visconte, a dì 15 d'aprile cavalcarono di notte, e furono ricevuti nell'Agosta. Minacciando poi di correre la città, Francesco Castracane, signore ivi pel Bavaro e i Lucchesi, diedero loro d'accordo la signoria di Lucca; e, perciocchè tal fatto era succeduto con segreta intelligenza de' Fiorentini che aveano promessa buona somma di moneta, mandarono i Tedeschi a Firenze per l'adempimento della parola, offerendo anche di dar Lucca al comune stesso di Firenze per ottanta mila fiorini d'oro. Per le dissensioni che di leggeri intervenivano allora nei consigli delle repubbliche, non accettarono i Fiorentini il partito. Se n'ebbero ben a pentire andando innanzi.

Anche i Pisani, dacchè videro il Bavaro, impegnato in Lombardia, pensarono a scuotere il di lui giogo; e fatto venir da Lucca Marco Visconte con alcune masnade di Tedeschi ribellati al Bavaro, nel mese di giugno levarono la terra a rumore, e ne cacciarono Tarlatino da Pietramala, che vi era vicario per esso Bavaro, co' suoi soldati, e si tornarono a reggere a repubblica. Altrettanto fece anche Pistoia. Ossia che Marco Visconte trattasse occultamente co' Fiorentini per farli padroni di Lucca, e forse anche di Pisa, e che perciò i Pisani cominciassero a mostrar diffidenza di lui; oppure che egli, uso agl'imbrogli, spontaneamente [488] volesse andare a trattar co' Fiorentini: certo è ch'egli si partì di Lucca, e venne a Firenze, dove, ben ricevuto dai priori [Bonincon. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Ital.], dopo molti ragionamenti con loro, e da loro regalato, ma riconosciuto per uomo instabile, sen venne alla volta di Bologna, dove dicono che segretamente si abboccò col cardinal Beltrando, con voce che gli promettesse di fargli avere Milano. Portatosi poscia a Milano, nel dì 14 d'agosto, fu amorevolmente accolto dal nipote Azzo, signore della città, e dai suoi fratelli Luchino e Giovanni, ai quali fece di gravi rimproveri, perchè lo avessero lasciato tanto tempo per ostaggio, senza pagare il convenuto danaro. Quindi si diede a grandeggiare in Milano; avea più seguito che lo stesso nipote Azzo; e fu creduto che gli volesse anche torre la signoria. Scrivono alcuni, che essendo ben uniti Azzo, Luchino e Giovanni, tra che gli andamenti di Marco erano loro sospetti, e il non potersi eglino dimenticare della rovina e prigionia lor procurata da esso Marco due anni prima, determinarono di sbrigarsene. Pietro Azario pretende [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] che Luchino non solamente niuna mano ebbe al fatto, ma ne restò fortemente irritato. Invitaronlo dunque ad un convito [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 133.], dopo il quale, chiamatolo in camera, fecero strangolar lui, e gittar giù dalle finestre il suo corpo nel dì 8 di settembre, oppure in altro giorno. Questo atto di gettarlo dalle finestre non par vero, stante l'onorevol sepoltura che i nipoti e i fratelli gli fecero dare. Altri dicono [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] che egli da sè stesso, credendo di salvarsi, si gittò giù, e morì di quel salto. Almeno fu sparsa questa voce. Passò anche male all'antipapa Niccolò, bene nondimeno, secondo il suo merito [Bernardus Guid., in Vit. Johann. XXII.]. Partito che fu il Bavaro da Pisa, quel popolo, non vedendo volentieri [489] in lor casa un sì abbominevol mostro, gli fecero intendere che se n'andasse. Raccomandossi costui al conte Fazio di Donoratico, che il tenne occulto per alquanti mesi in un suo castello; ma, per paura che i Fiorentini l'avessero scoperto, e gliel togliessero, segretamente il ridusse di nuovo a Pisa nell'anno seguente, e tennelo appiattato in sua casa fino al dì quarto d'agosto. In fine, essendo traspirato dove egli era, si cominciò a trattare di darlo in mano di papa Giovanni, che fu lietissimo di questo regalo, e fece perciò molte grazie a' Pisani [Raynaldus, in Annal. Eccles. ad ann. 1330.]. Abiurati i suoi errori in Pisa, e ricevutane l'assoluzione, fu condotto in una galea a Marsilia, e di là ad Avignone, con una salva di villanie e maledizioni dovunque egli passava. Quivi pubblicamente davanti al papa in pubblico concistoro rinnovò la sua abiura; poscia posto in carcere, trattato come familiare, ma custodito qual nemico, da lì a tre anni diede fine a' suoi giorni. Ed ecco dove andò a terminare la detestabil tragedia di Lodovico il Bavaro contro della Chiesa romana. S'erano già tolte di sotto il dominio pontificio le città di Parma e Reggio [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Il cardinal Beltrando legato nel dì 19 di marzo fece oste contra queste città con ottocento cavalli e più di sedici mila fanti, dando il guasto a tutto il paese. I Correggieschi erano con lui. Orlando e Pietro de' Rossi teneano Parma, i Manfredi Reggio. Dovette seguire qualche accordo fra loro; imperciocchè nel dì 17 d'agosto chiamati a Bologna [Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 8 Rer. Ital.] il suddetto Orlando ed Azzo de' Manfredi, il legato, che non manteneva patti, se non quando gli tornava il conto, perchè non gli vollero dare l'intero dominio di Parma e Reggio, li fece imprigionare. Nel settembre rinnovò la guerra contro di quelle città, e bruciò i borghi di Reggio e quante ville potè. Nel novembre Marsilio [490] e Pietro de' Rossi, irritati contro al legato per la prigionia d'esso Orlando, condussero il Bavaro a Parma, e da lui ottennero il vicariato di quella città. Nel dì 27 d'esso mese mise il Bavaro un suo vicario in Reggio.

Fecero pruova anche i Modenesi dell'infedeltà del legato [Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic.], il quale non volendo stare a' patti precedenti, in occasion delle guerre suddette, nel dì ultimo di giugno fece assediar Modena per quattro giorni. Accordo poi seguì nel dì 4 di luglio, essendo stati obbligati i Modenesi a ricevere di presidio cinquanta uomini d'armi del legato, e di concedergli la quarta parte del dazio delle porte [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]. Ma dacchè il popolo di Modena seppe che il Bavaro era venuto a Parma, ed avea posto presidio in Reggio, saltarono su molti amatori della parte dell'imperio, che cominciarono a consigliare che, giacchè Dio avea lor mandata la buona fortuna di potersi dare all'imperadore, non bisognava lasciarsi scappar dalle mani sì bella occasione. A piè pari vi saltò dentro il forsennato popolo; supplicò per aver presidio tedesco, ed ebbe la sospirata grazia, con inviar anche in dono al Bavaro tre mila fiorini d'oro: picciolo refrigerio alla sua sete. Il conte palatino di Turge, maresciallo del Bavaro, con ottocento cavalli la sera del dì 28 di novembre entrò in Modena, giorno felice, giorno beato. Non capivano in sè stessi i mal accorti Modenesi per l'allegrezza; corsero tutti a baciar l'armi e le vesti de' ben venuti Tedeschi; buona cena preparata per loro, e facevano ai pugni per averli cadauno in lor casa. Nel giorno seguente cominciarono questi onorati forestieri a visitar granai, cantine e fenili dei cittadini: tutto era roba loro, a sentirli parlare; e chi neppur intendeva il loro ferloccare, si accorgeva ai fatti che parlavano daddovero. Diedersi [491] poi a spogliare il territorio, a mettere colte e taglie: ogni dì ce n'era una nuova; i poveri osti e bottegai perderono tutti la scherma: tante erano le avanie e maniere di rubare e di prendere tutto senza pagare, che adoperavano questi sottili ed inumani insidiatori delle sostanze altrui. Curiosa cosa e insieme compassionevole si è il racconto minuto che delle loro invenzioni e ribalderie fa Bonifazio Morano autore di veduta. Oh allora sì che proruppero i Modenesi in mirabili atti di pentimento; ma il fallo era fatto, e conveniva farne la penitenza. Anche lo spirituale di questa città andò tutto sossopra, perchè il Bavaro mandò a star qui nel dì undici di dicembre un certo Orlando vescovo tedesco, il quale, intitolandosi vicario dell'antipapa, afflisse in varie maniere il clero, e metteva all'incanto tutti i benefizii. Intanto nel dì 15 d'esso mese Guido e Manfredi de' Pii ottennero dal Bavaro il vicariato di Modena, e diedero principio alla lor signoria, ma senza poter mettere alcun freno all'indicibil ingordigia e disordine degli scapestrati Tedeschi. La Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] mette sotto l'anno precedente che Ricciardo de' Manfredi occupò Faenza, e poi la diede al cardinale legato. Ma, secondo il Villani [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 140.] avendola esso legato assediata nel dì 6 di luglio, l'ebbe a patti, dopo venticinque giorni, nell'anno presente da Alberghettino de' Manfredi, al quale fece di grandi promesse, e intanto il volle confinato in Bologna. Ma perchè si scoprì nell'ottobre di quest'anno [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] in essa città di Bologna una congiura contra del legato per dar quella città al Bavaro, il medesimo Alberghettino con altri nobili primarii di Bologna ebbe tagliata la testa. Quando allora per semplici sospetti o per vendetta si volea torre taluno dal mondo, sempre era in pronto la voce e il processo d'una congiura. Può nondimeno essere che questa fosse vera; [492] ma il legato era in poco buon concetto presso di tutti. Ucciso fu nel settembre di quest'anno Silvestro de' Gatti tiranno di Viterbo, e quella città coll'altre del Patrimonio e della Marca venne all'ubbidienza del cardinale Orsino legato del papa [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 143. Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Esibirono più volte i Tedeschi del Ceruglio, dominanti in Lucca, ai Fiorentini quella città per danari; e questi, o per diffidenza della fede di quell'aspra gente, o perchè sperassero miglior mercato, non vi vollero giammai acconsentire. Udendo poi che i Pisani erano in trattato di comperarla per sessanta mila fiorini d'oro, ne sturbarono il contratto col fare gran guerra a Pisa, ed obbligar quel popolo a chiedere pace. Fecesi innanzi in questo mezzo Gherardino Spinola Genovese, e collo sborso di trenta mila fiorini (Giorgio Stella scrive [Georgius Stella, in Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] settantaquattro mila), comperata da' Tedeschi la signoria di quella città, v'entrò nel dì 2 settembre: il che rincrebbe forte ai Fiorentini, nè vollero perciò dare ascolto alcuno alle proposizioni di pace loro fatte da esso Spinola. La suberbia e avarizia di quel popolo la vedremo ben gastigata, andando innanzi.


   
Anno di Cristo mcccxxx. Indizione XIII.
Giovanni XXII papa 15.
Imperio vacante.

Maggiormente risorse in quest'anno in Italia l'autorità di papa Giovanni, dacchè, tornato Lodovico il Bavaro in Germania, non v'era apparenza che gli tornasse voglia di rivedere l'Italia, dacchè colle passate azioni e colle sue infedeltà ed estorsioni avea troppo alienato da sè gli animi degl'Italiani. L'antipapa, siccome abbiam detto, andò a far penitenza de' suoi reati nella prigione avignonese. I marchesi estensi signori di Ferrara già s'erano riconciliati col pontefice. I Romani anch'essi ravveduti, con avergli [493] spediti ambasciatori, gli prestarono la dovuta ubbidienza. I Pisani, pel servigio a lui prestato di dargli nelle mani il desiderato antipapa, ottennero quel che vollero da lui. Azzo Visconte signor di Milano, e Luchino e Giovanni suoi zii nell'anno addietro aveano fatto negozio con esso papa per guadagnar la sua grazia, con aver inviati ambasciatori e chiesto perdono, ed aver Giovanni deposta la porpora cardinalizia ricevuta dall'antipapa, ed abiurata la sua amicizia [Gualvaneus Flamma, Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.]. Ma pare che solamente nel febbraio di quest'anno, oppure più tardi, si desse compimento al loro trattato, giacchè gran merito s'era fatto esso Azzo col rivoltarsi contra del Bavaro. Fu perciò pienamente tolto l'interdetto a Milano, e Giovanni fu da lì a qualche tempo creato vescovo di Novara. Perciò la Dio mercè in Italia cessò lo scisma, e dappertutto Giovanni XXII era riconosciuto per vero e legittimo papa. Lo stesso Bavaro anch'egli si studiò di placarlo, con avere interposti alla corte pontificia i buoni ufizii di Giovanni re di Boemia, di Baldovino arcivescovo di Treveri e di Ottone duca d'Austria [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Esibiva egli di abolire tutti gli atti passati, di confessarsi reo, di riceverne la penitenza, purchè se gli conservasse l'imperio. Oh quest'ultimo non piaceva al papa, e perciò tutto il resto fu sprezzato, e continuossi a tenerlo per iscomunicato ed eretico. Ma con tutta questa depressione del Bavaro, ed esaltazione di papa Giovanni, non cessavano già in Italia le pestilenti dissensioni de' Guelfi e Ghibellini; e chiunque avea forza, cercava di stendere le fimbrie del suo dominio. Continuò dunque la guerra anche nell'anno presente, ma con pochi considerabili avvenimenti. Il cardinal legato Beltrando dal Poggetto inviò le sue genti a' danni dei Reggiani [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], le quali bruciarono molto di quel paese, con ridursi poi a Rubbiera. Ebbero i capitani [494] d'essa armata un trattato, per cui a tradimento dovea essere loro data la terra di Formigine. Vennero essi perciò a quella volta nel dì 24 d'aprile con secento cavalli e quattrocento fanti [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 154.]; ma avutone sentor Guido e Manfredi de' Pii signori di Modena, arrivarono a tempo colle milizie per disturbar le faccende degli avversarii. Rimasero chiusi i papalini in un prato, circondato da fossi e paludi, di modo che, senza poter fare buona battaglia, nè fuggire, vi rimasero quasi tutti morti o prigionieri. Fra gli ultimi si contarono Beltramone e Raimondo del Balzo, e un fratello bastardo del re Roberto. Il primo era maresciallo dell'armata pontificia. Furono essi condotti prigioni a Modena [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], poi comperati per sei mila fiorini d'oro dai Rossi signori di Parma; e, per attestato di Matteo Griffone [Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], servirono poi a liberar col cambio dalle carceri di Bologna Orlando Rosso ed Azzo Manfredi, iniquamente detenuti. Per questa perdita sbigottì molto il cardinal legato.

Ma giacchè abbiam parlato di Modena, convien ora aggiugnere, che continuando le innumerabili ruberie dei Tedeschi posti di guarnigione in questa città, con essere ridotti i cittadini a nulla avere che fosse suo, perchè quella bestial gente adoperava la mannaia (chiamata da essi la chiave dell'imperadore) per entrare dappertutto e prendere tutto, era ridotto il popolo alla disperazione, e gli pareva d'essere nel profondo dell'inferno. Trovò Manfredi de' Pii riparo a tanti guai, con fare che Marsilio de' Rossi vicario generale del Bavaro venisse in persona a Modena, e seco menasse via secento di questi manigoldi. Ce ne restarono trecento, i quali dipoi, il meglio che potè, tenne in freno la prudenza di Manfredi. Fece il legato capitan generale [495] della sua armata Malatesta signore di Rimini, e nel dì 18 di giugno l'inviò a dare il guasto a Spilamberto. Dopo avere ricevuto soccorso di gente da Reggio e da Parma, andò la milizia di Modena [Johannes de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.] nel dì 24 a Piumazzo con pensiero di dar battaglia; ma i nemici si ritirarono, e recarono poi altri danni al Modenese, con venir anche alle lor mani la terra di Formigine. Compiè in questo anno il suddetto cardinal Beltrando l'inespugnabil castello, da lui fabbricato in Bologna, con molte torri, alte mura ed immense fortificazioni [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], e andò per la prima volta ad abitarvi. Dava egli ad intendere ai buoni Bolognesi che non avea quella fabbrica da servire per lui, ma bensì al papa, che era risoluto di venire in Italia, e di mettere la sua residenza in quella città: cosa che produrrebbe inesplicabil vantaggio ai cittadini, e farebbe correre fiumi d'oro e d'argento per le loro strade. La verità era, ch'egli solamente intendeva di assicurar sè stesso, e di mettere i ceppi a quella potente città. Si prevalsero di queste congiunture i marchesi estensi, divenuti amici del pontefice e del legato, per occupare ai Modenesi la terra del Finale nel dì 27 di luglio. Nel mese d'ottobre cavalcò il maresciallo della Chiesa colle sue genti sul Modenese, e prese le mercatanzie che venivano da Mantova a Modena. Ciò riferito a Modena, uscì armato il popolo, e mise il nemico in rotta, con ricuperar tutto, e condurlo trionfalmente in città. Sul principio di giugno riuscì ai Parmigiani di togliere al legato Borgo S. Donnino [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 158 e 166.]. Impadronironsi anche i Fiorentini di Monte Catino, castello de' Lucchesi, e corsero fino alle porte di Lucca, colla presa d'alcune altre castella di quei contorni. Videsi una scena nuova in Italia nell'anno presente. Dei due fratelli Alberto e Mastino dalla Scala signori di [496] Verona, Padova e d'altre città, il primo, tenendo sua stanza in Padova, attendeva, siccome uomo pacifico, a darsi bel tempo. Mastino, persona bellicosa e feroce, tutto era applicato alla guerra. Ricorsero a lui per aiuto i Ghibellini usciti di Brescia [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.]; ed egli, presa la lor protezione, per isperanza di ridurre alla sua ubbidienza quella città, entrò nel mese di settembre sul Bresciano, e dopo aver occupata a poco a poco una gran quantità di castella, finalmente imprese l'assedio della città stessa [Cortus., tom. 12 Rer. Ital.]. Accadde che in questi tempi venne a Trento Giovanni conte di Lucemburgo e re di Boemia, figliuolo del già imperadore Arrigo VII, per alcuni suoi importanti affari, dicono del matrimonio di Giovanni suo picciolo figliuolo con una figlia del duca di Carintia [Bonincontr. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Italic.]. Trovandosi alle strette il popolo guelfo di Brescia, gli spedì ambasciatori, offerendogli il dominio della loro città, sua vita natural durante, e con patto di non introdurre in città i Ghibellini senza il consenso del loro consiglio generale, ch'egli non penò molto ad accettare. Rimandò intanto quegli ambasciatori a Brescia con trecento de' suoi cavalli, e fece intimare a Mastino di non molestar quella città, perchè era cosa sua. Mastino si ritirò, e Giovanni dipoi nell'ultimo dì di dicembre arrivò con più di quattrocento cavalli a Brescia, dove con eccessi di gioia e sommo onore fu ricevuto. Mastino non si fece poi pregar molto a rendergli le terre tolte ai Bresciani, ma con riceverne la promessa di rimettere in città gli usciti ghibellini. Quali conseguenze avesse un così inaspettato avvenimento, lo vedremo all'anno seguente. Secondo la Cronica di Giovanni da Bazzano [Johann. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.], nel dì primo di [497] novembre fu dato il dominio della città di Cremona a Marsilio de' Rossi signore di Parma.


   
Anno di Cristo mcccxxxi. Indiz. XIV.
Giovanni XXII papa 16.
Imperio vacante.

La venuta in Italia di Giovanni re di Boemia diede allora e dà tuttavia da astrologare ai politici ed agli storici. Pretende il Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccles. ad ann. 1330, num. 39.] ch'egli, siccome attaccato forte agli interessi di Lodovico il Bavaro, per consiglio e col consenso di lui venisse a sostenere il partito de' Ghibellini: cosa da lui meditata molto prima dell'acquisto di Brescia. V'ha ancora chi il pretende venuto come vicario d'Italia per esso Bavaro: il che nondimeno è falso, non apparendo ch'egli usasse giammai questo titolo. Altri poi pretendono [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 173.], che quantunque papa Giovanni con sue lettere pubblicasse che quel re di suo assenso non fosse entrato in Italia, e mostrasse di disapprovarlo, pure segretamente se l'intendesse con lui, e gradisse i suoi progressi. Questi misteri non è facile il dicifrarli. Sembra che sulle prime il Bavaro solamente si tenesse indifferente al veder Giovanni divenuto signor di Brescia, ma che poi gl'increscesse non poco il maggior innalzamento suo, e ne procurasse la rovina. All'incontro, può essere che sul principio il papa niuna mano avesse a farlo calare in Italia; ma, andando innanzi, si compiacesse della di lui grandezza, perchè sempre più veniva a tener lontano dall'Italia l'odiato Bavaro, benchè egli mostrasse il contrario, per non disgustare il re Roberto, aspirante anch'esso all'italico regno. Sia come essere si voglia, piantato che fu in Brescia il re Giovanni, senza badare alle promesse fatte a que' cittadini, richiamò colà tutti i Ghibellini fuorusciti, e volle che nella città fosse pace [498] ed unione fra tutti, per quanto fu in sua mano: del che gli venne gran lode per tutta Lombardia. Azzo signor di Milano corse tosto a visitarlo per rinnovar la buona amicizia stata fra l'imperadore Arrigo VII di lui padre e la città de' Visconti, e gli portò anche di molti regali [Bonincontr. Morigia, Chron. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.]. Era la città di Bergamo in gran confusione e guerra civile per le fazioni. S'avvisò ancora quel popolo che questo principe, il quale niuna parzialità mostrava per le pazze sette degl'Italiani, sarebbe efficace medico alla grave sua malattia, e gli spedì ambasciatori, con sottomettersi al suo dominio, nel dì 12 di gennaio. Giovanni anche in quella città rimise la buona armonia e pace. Con questa paterna cura e fama di esatta giustizia tal credito s'acquistò egli, che Crema e Cremona da lì a poco il vollero per loro signore. Anche Ravizza Rusca signore di Como gli aveva promesso il dominio di Como, ma poscia il burlò [Gazata, Chronic. Regiens., tom. 18 Rerum Ital. Bonincontrus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Se crediamo a Galvano Fiamma [Gualvaneus Flamma, de Gest. Azon, tom. eod. Idem., in Manipul. Flor., cap. 369.], lo stesso Azzo Visconte nel dì 8 di febbraio per decreto del popolo milanese a lui sottopose Milano, e prese il titolo di suo vicario. Così nel mese di febbraio Pavia, Vercelli e Novara, senza ch'egli lo cercasse, inviarono ambasciatori a dargli la signoria delle loro città. Da' Reggiani [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], Parmigiani, Modenesi, Mantovani e Veronesi gli vennero ambascerie, desiderando tutti di aver buona amicizia con lui. Nel dì 2 di marzo si portò egli a Parma, e da lì a tre dì nel pubblico consiglio fu proclamato signore di quella città: dopo di che fece rientrare in casa i Correggieschi e gli altri fuorusciti guelfi. Medesimamente essendo venuto nel dì 15 d'aprile a Reggio, quel popolo fece delle pazzie d'allegrezza, e gli conferì il dominio [499] della città, sperando, anzi chiedendo ad alte voci, che deponesse i Manfredi e Fogliani, signoreggianti in essa. Giunto a Modena, qui ancora nel consiglio generale fu accettato per signore. Un incanto sembrò questa mutazione. Strana cosa tuttavia non dee parere, come per tutta Italia, senza altro esame, ognun prendesse inclinazione a questo principe e re straniero, imperocchè tutti si figuravano sotto il di lui governo di vedere estinte le fazioni, e di godere una dolce soavità di pace.

Crebbe poi la maraviglia, perchè avendo i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 170.] continuato e maggiormente stretto l'assedio di Lucca mercè degli aiuti di gente loro inviata dal re Roberto, dai Sanesi e Perugini, quando erano sul più bello di conquistar quella città, ed aveano anche trattato segreto coi maggiori di Lucca; Gherardino Spinola signore di quella città, accortosi della mena, mandò tosto suoi ambasciatori al suddetto re di Boemia, pregandolo di accettar la signoria di Lucca con certi patti, fra' quali verisimilmente non mancò quello di restare vicario di lui in essa città. Non perdè tempo il re Giovanni ad inviare ambasciatori al campo de' Fiorentini, pregandoli di levarsi di là, perchè Lucca era sua città. Fu risposto che quell'impresa si faceva a petizione del re Roberto; e che perciò non poteano distorsene. Ma poscia, udito che Giovanni facea marciare ottocento cavalieri per dar soccorso a Lucca, e trovandosi discordia nell'esercito loro, si ritirarono nel dì 25 di febbraio da quell'assedio. Arrivarono poi nel dì primo di marzo gli ottocento cavalieri del re di Boemia a Lucca; e il primo a provare quanto fossero mal fondate le sue speranze nel Boemo, fu lo stesso Gherardino Spinola, perchè niun patto fu a lui mantenuto, e gli convenne uscir di quella città, piagnendo la perdita di essa e del tanto danaro impiegato per comperarsi un crepacuore. Anche i Modenesi e Reggiani [500] tardarono poco a disingannarsi [Gazata, Chron. Regiens, tom. 18 Rer. Ital.]. Nè quelli voleano per padroni i Pii, nè questi i Fogliani e Manfredi; da tale speranza mossi s'erano dati al re di Boemia; ma il re per danari li confermò per suoi vicarii in queste città, e il più bello fu che il danaro pagato da essi per continuar nel dominio fu cavato con una colta messa alle borse del medesimo popolo, il quale li volea deposti. Accadde inoltre, che venuto esso re Giovanni a Modena [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], si portò, accompagnato dal marchese di Monferrato e dal conte di Savoia, nel dì 16 d'aprile a Castelfranco ad un abboccamento col cardinale legato Beltrando dal Poggetto. Ebbero fra loro un lungo secreto colloquio; e perchè non bastò quel giorno a smaltire tutti i loro interessi, nel dì seguente tornarono a vedersi in Piumazzo, e non fu men lungo dell'altro il ragionamento loro. Non traspirò di che trattassero; ma seguirono tra loro molte finezze e un buon concerto; e furono osservati partirsi l'uno dall'altro molto allegri e contenti. Bastò questo, perchè allora i principi d'Italia aprissero gli occhi e prendessero in diffidenza non solo il Boemo, ma il papa stesso, deducendo da questi andamenti che fossero ben d'accordo e collegati insieme esso pontefice e il re; e che le lor mire fossero di assorbire, sotto lo specioso titolo di metter pace, l'Italia tutta. I primi dunque a far argine a questi occulti disegni, furono i marchesi estensi signori di Ferrara, Mastino dalla Scala signor di Verona e d'altre città, i Gonzaghi signori di Mantova, ed Azzo Visconte signor di Milano, tutti molto adombrati all'osservare quasi in un momento cresciuta cotanto la potenza del re Giovanni in Italia, e la sua unione col legato pontificio. A questo fine nel dì 8 d'agosto stabilirono fra loro in Castelbaldo una lega difensiva ed offensiva. Anche i Fiorentini adirati non solo per [501] questo contra del Boemo, ma anche perchè era figliuolo d'Arrigo VII già lor fiero nemico, e perchè avea lor tolto, per così dire, di bocca il tanto sospirato acquisto di Lucca, s'accostarono nell'anno seguente a questa lega; anzi mossero tanti sospetti in cuore del re Roberto, che il trassero nella medesima alleanza. Sicchè, con istupore d'ognuno, si vide questa gran mutazione in Italia, cioè Guelfi e Ghibellini divenuti ad un tratto tutti uniti per abbassare il re di Boemia ed il frodolento legato. Diedero parimente nell'occhio a Lodovico il Bavaro questi rigiri ed ingrandimenti d'esso re in Italia; e però cominciò ad attizzar contra di lui i re di Polonia e d'Ungheria, e il duca d'Austria, i quali poi nel novembre dell'anno presente gli mossero guerra, e recarono immensi danni ai di lui Stati della Germania.

Fece intanto il re Giovanni venire in Italia Carlo suo figliuolo primogenito, che con un grosso corpo di combattenti arrivò a Parma, ed egli appresso nel mese di giugno, oppure sul principio di luglio, lasciato in Parma il giovinetto figliuolo sotto la cura di Lodovico di Savoia [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 181. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Italic.], marciò ad Avignone per tessere col papa e col re di Francia grandi tele, cioè, secondo le apparenze, per soggiogar la Italia ed innalzar la sua casa, oppur quella di Francia, sulle rovine del Bavaro. Questi suoi passi maggiormente convinsero i principi d'avere un pericoloso nemico in casa; ed accertossene anche il re Roberto, perchè nel mese di settembre Teodoro marchese di Monferrato, collegato del re Giovanni, gli tolse la città di Tortona colle rocche, e ne cacciò la di lui guarnigione con suo danno e vergogna. La ricuperò poi Roberto nell'anno seguente. Prosperarono in quest'anno gli affari del cardinale legato in Romagna. Nel dì 3 di maggio, secondo [502] la Cronica di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], Malatesta figliuolo di Pandolfo, anteponendo all'amore della sua casa i proprii vantaggi, si accordò con esso cardinale a' danni di Ferrantino Malatesta, signore di Rimini, e degli altri suoi parenti [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 179. Cronica Riminese, tom. 15 Rer. Ital.], e l'aiutò a scacciarli da quella città. Egli in ricompensa fu creato capitan generale della armata pontificia, ed assediò le castella dove si erano ritirati i medesimi suoi parenti, trattandoli da nemici capitali. Si meritò per questo il soprannome di Guastafamiglia. Poscia il cardinale, giacchè, a riserva di Forlì, tutte le altre città della Romagna erano alla loro ubbidienza, raunò una possente oste della sua gente e di tutti i Romagnuoli, e mise l'assedio ad essa città di Forlì, devastando il territorio all'intorno. Erane signore Francesco degli Ordelaffi dopo la morte di Cecchino, accaduta in quest'anno. Quivi fabbricate alcune bastie, acciocchè tenessero bloccata quella città, tornò poscia l'armata a' suoi quartieri. Abbiamo dalle Croniche di Bologna [Chronic. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] che nel mese di novembre gli Ordelaffi fecero pace col legato; e, cedutogli Forlì, egli vi pose un governatore. Ma secondo le stesse ed altre Croniche [Chron. Caesenat., tom. 14 Rer. Ital.], pare che questa cessione si compiesse nel dì 26 di marzo dell'anno seguente, e che, in ricompensa di essa, il legato investisse Francesco degli Ordelaffi della città di Forlimpopoli. Cotante belle parole seppe poi dire il medesimo cardinale legato al popolo di Bologna, che l'indusse nel mese di novembre a dargli più ampio dominio nella loro città, e ad inviare ambasciatori a papa Giovanni, per dichiarare che Bologna perpetuamente sarebbe della Chiesa romana. Altrettanto fecero dal canto loro, se pure è vero, i Piacentini [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Nel dì 26 di luglio del presente anno, trovandosi [503] molto sconciata dalle discordie civili la città di Pistoia [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 186.], i Fiorentini, mossi da spirito di carità, ma non cristiana, spedirono colà cinquecento lancie e mille e cinquecento pedoni, che corsero la città, gridando: Vivano i Fiorentini. Si fecero dare la signoria d'essa città per un anno, e poi nell'anno seguente vi cominciarono un forte castello per più sicurtà della terra, diceano essi; e voleano dire, per seguitar sempre ad esserne padroni. Nuova guerra insorse quest'anno fra i Catalani e i Genovesi [Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 188.]. Lamentavansi i primi che i Genovesi, i quali erano da gran tempo in credito di fare i corsari, quando se la vedeano bella, avessero recato di gravi danni ai loro legni. Il perchè con una flotta di quarantadue galee e di trenta navi armate, venuti alle due riviere di Genova, vi guastarono e bruciarono molti luoghi. Cagione fu questo loro insulto che i Guelfi dominanti in quella città, e i Ghibellini fuorusciti, padroni di Savona e d'altre terre, che già avevano fatta tregua fra loro, trattassero d'accordo e pace. A questo fine amendue le parti spedirono ambasciatori al re Roberto signore della città, che vi acconsentì nel dì 2, oppure 8 di settembre, ma di poco buona voglia; perchè fra le condizioni v'era che tutti i suddetti Ghibellini rientrassero in Genova e si accomunassero gli uffizii; e il re dubitava della lor forza, e più dell'animo loro.


   
Anno di Cristo mcccxxxii. Indiz. XV.
Giovanni XXII papa 17.
Imperio vacante.

Benchè i marchesi d'Este Rinaldo, Obizzo e Niccolò, signori di Ferrara, si fossero molto prima d'ora concordati con papa Giovanni, pure solamente in quest'anno fu dato compimento ad essa concordia. Nel mese di giugno vennero le bolle del vicariato di Ferrara, loro [504] conceduto da esso pontefice [Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], con obbligo non di meno di rimettere in mano del cardinale legato la terra ossia la città d'Argenta. Diede esecuzione esso legato alle lettere papali, riebbe Argenta, e nel febbraio seguente fu levato l'interdetto dalla città di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Che frutto ricavassero da questo accordo i marchesi, lo vedremo all'anno seguente; intanto abbiamo, che essi si spogliarono della suddetta Argenta; il legato promise loro gran cose, e nulla poi attenne. Parlano gli Annali Bolognesi delle feste e falò fatti in Bologna, perchè nello stesso mese di febbraio vennero lettere pontificie che assicuravano quel molto credulo popolo, come era risoluta la venuta del pontefice in Italia, e fissata la sua residenza in quella città [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 199.]: tutte cabale del cardinale Beltrando dal Poggetto, il quale creato conte della Romagna e marchese della marca d'Ancona, ad altro non attendeva che a stabilir bene in suo pro que' principati, anzi ad accrescerli, e macchinava tutto dì la rovina de' marchesi estensi e degli stessi Fiorentini, e di chiunque si mostrava contrario a Giovanni re di Boemia, seco collegato. Tenne poscia nel dì 18 di marzo un general parlamento in Faenza [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], e nel dì 26 andò a prendere il possesso di Forlì, sicchè in Romagna non vi restò città o signore che non fosse ubbidiente a' suoi cenni. Ma perciocchè in Bologna i saggi si vedevano alla vigilia di perdere affatto l'antica libertà, e di divenire schiavi perpetui del legato, tra pel giogo imposto loro col fortissimo castello quivi fabbricato, e per la lega contratta da lui col re di Boemia, probabilmente loro scappò detta qualche parola non ben misurata, per cui, insospettitosi il cardinale, finse di voler parlare con Taddeo de' Pepoli, Bornio de' Samaritani, Andalò de' Griffoni e [505] Brandalisio de' Gozzadini, cittadini potenti di quella città, e li trattenne prigioni. Se non li rilasciava presto, già il popolo avea cominciato a tumultuare, ed era imminente una gran sedizione. Abbiamo dal Villani [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 211.] che nel novembre il re Giovanni di Boemia andò ad Avignone per abboccarsi col papa: del che ebbe gran gelosia il re Roberto, e voleva impedire la di lui andata. Ma piacque il contrario al pontefice, il quale fece due diverse figure, mostrando di esser in collera col Boemo, e sgridandolo per gli acquisti fatti in Italia, quando nello stesso tempo per quindici dì era ciascun giorno a segreto consiglio con lui, e fece varie ordinazioni, che col tempo vennero alla luce. Tutto era allora simulazione e dissimulazione in quella corte; e di questa arte poi poteva leggere in cattedra il cardinale Beltrando legato di Bologna, Romagna e marca d'Ancona. Intanto i principi di Lombardia collegati contra del re di Boemia non istavano oziosi. Secondo i patti della lega, che la Cronica di Verona [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] dice fatta, o confermata nel dì 22 di novembre di quest'anno, ad Azzo Visconte, pel partaggio fatto tra loro [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], dovea toccare Bergamo e Cremona; ad Alberto e Mastino dalla Scala, Parma; ai Gonzaghi, Reggio; e Modena ai marchesi estensi. Mastino dalla Scala avea già ricevute segrete lettere dai primati guelfi di Brescia [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital. Johannes de Bazano, tom. 9 Rer. Italic. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital.], che l'invitavano all'acquisto di quella città, disgustati dal re di Boemia, per aver egli contra i patti fabbricata quivi una fortezza, ed impegnata la riviera di Garda ai nobili da Castelbarco; avea anche donate varie castella di quel distretto a' suoi uffiziali, e staccata la giurisdizione di Val Camonica dalla città. Ora Mastino, messi in campagna due mila scelti cavalli e gran corpo di fanteria, parte de' quali era [506] di Obizzo marchese d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], che accorse in persona ad aiutar Mastino, e fingendo che venissero da Asola, terra allora posseduta dal legato sui confini del Bresciano, sotto il comando di Marsilio da Carrara li fece la mattina del dì 15 di giugno arrivare alle porte di Brescia [Bonincontr. Morigia, Chron. Mod., tom. 9 Rer. Ital.]. Portavano finte bandiere della Chiesa, e gridavano: Viva la Chiesa. Furono tosto in armi i Guelfi della città, e corsero ad aprire per forza la porta di San Giovanni, per cui entrata la gente di Mastino, cominciò a gridare: Viva la Chiesa, e muoia il re. Allora si rifugiarono nel castello i soldati del re Giovanni; ma perchè non era esso ben provveduto, e si diede un feroce assalto a quegli uffiziali, non già coll'armi, ma coll'esibizion di danaro [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 203.], nel dì 4 di luglio lo renderono, e se n'andarono pei fatti loro. I Ghibellini di quella città, fuorchè pochi scappati nel castello, se ne stavano quieti; ed ancorchè sentissero gridare: Viva Mastino dalla Scala, si credevano assai sicuri al sapere che lo Scaligero era gran caporale della lor fazione, ma restarono ingannati. Mastino, che non ascoltava se non i consigli della propria ambizione, li sagrificò all'odio de' Guelfi (così d'accordo ne' patti); cioè permise che per tre giorni i Guelfi infierissero contra d'essi Ghibellini [Chronic. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.], molti de' quali rimasero uccisi, e gli altri forzati a fuggire fuori della città. Una gran percossa ebbe in tal congiuntura la già sì potente famiglia de' Maggi. Così la nobil città di Brescia venne in potere dei signori dalla Scala.

Sconvolta era eziandio la città di Bergamo per le fazioni civili [Gualvaneus Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.]. Azzo Visconte signor di Milano nel mese di settembre si portò coll'esercito suo colà, e nel dì 27 di quel mese (non so se per assedio [507] o per amichevol trattato) ne acquistò la signoria, togliendola alle genti del re di Boemia. Nella Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] è scritto che vi perirono molti dell'armata sua. Egli poi v'introdusse i Rivoli ed altri fuorusciti, e volle che fosse pace fra tutti: dal che gli venne gran lode. Erasi mosso da Parma Carlo figliuolo del re boemo, por dar soccorso a Bergamo; ma, per paura d'azzardar troppo, se ne tornò indietro. Nello stesso settembre [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 203.] il Visconte, gli Scaligeri, i marchesi estensi e i Gonzaghi strinsero la lega col comune di Firenze e col re Roberto: tutti contro al Bavaro e al re di Boemia, e a chi desse loro aiuto e favore, facendosi gl'Italiani segni di croce al mirare in lega potenze dianzi sì nemiche e di mire affatto opposte. Pensavano anche i marchesi estensi alla conquista di Modena, destinata ad essi in lor parte. Nè mancava la pazza discordia di malmenare ancora questa città. Già ne erano esclusi e fuorusciti i nobili Rangoni, Grassoni, Boschetti e signori da Sassuolo. Nel gennaio di questo anno erano stati mandati a' confini altri nobili [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], ed altri verso il dì 22 di giugno malcontenti se ne fuggirono. Ritirossi Nicolò da Fredo a Spilamberto, e quei dalla Mirandola e da Magreta alle lor terre, che si ribellarono contra della città. Sul fine di settembre Rinaldo marchese d'Este con Alberto dalla Scala e Guido da Gonzaga entrò sul Modenese, guarnito d'un copioso esercito; mise l'assedio al castello di San Felice con sette mangani che continuamente flagellavano quella terra. Nello stesso tempo il grosso della loro armata venne sino ai borghi di Modena, prendendo varii luoghi fra la Secchia e il Panaro. Aggiugne il Villani che, dopo aver Azzo Visconte tentato di prendere Cremona [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 207.], ma con restarne [508] cacciate le sue genti che in parte vi erano entrate, cavalcò anch'egli dipoi sotto Modena con mille e cinquecento cavalieri, e vi stette intorno per venti dì, guastando tutti i contorni: per la qual cosa il legato, che era in Romagna, corse tosto a Bologna per paura di perdere quella città. Manfredi de' Pii sì bravamente difese Modena [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], che veggendo i collegati di buttare il tempo, se ne tornarono indietro [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Si ridusse il marchese Rinaldo sotto San Felice, il cui assedio continuava. Erano i Ferraresi vicini ad impadronirsene, quando Alberto dalla Scala, per segrete preghiere di Manfredi de' Pii, se n'andò con sua gente. Ma, udita che ebbe Mastino la vergognosa ritirata del fratello, spedì altra fanteria e cavalleria in sussidio dell'Estense. Seguitò l'assedio sino al dì 25 di novembre, in cui ebbe un funesto fine per li Ferraresi. Imperciocchè Manfredi de' Pii, raccomandatosi al legato, e ad Orlando Rosso di Parma e ai Manfredi di Reggio, ebbe un possente soccorso di cavalleria da tutte le parti, e in persona venne in aiuto suo Carlo figliuolo del re Giovanni, e Pietro e Marsilio de' Rossi [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Cortus. Hist. tom. 12 Rer. Ital.]. Con questi rinforzi tutto il popolo di Modena atto all'armi marciò a San Felice. Andò il guanto della battaglia, che da Giovanni da Campo San Piero generale de' marchesi fu accettato; e nel dì suddetto, festa di santa Caterina, si azzuffarono le armate. Durò il fiero ed ostinato combattimento da terza fino alla sera, ora rinculando gli uni ed ora gli altri; in fine perchè le fanteria modenese attese a scannare i cavalli nemici, restò sconfitta l'oste de' marchesi, fatto prigione il Campo San Piero lor generale con assaissimi altri, e tutto il loro equipaggio co' militari attrezzi venne alle mani de' vincitori. Circa ottocento cavalieri [509] fra l'una parte e l'altra rimasero estinti sul campo; e fu creduto che da gran tempo sì crudel battaglia non fosse succeduta [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. In così felice giornata il principe Carlo fu fatto cavaliere da un Tedesco, ed egli compartì lo stesso onore a Manfredi de' Pii, a Giberto da Fogliano, e a Nicolò e Pietro de' Rossi. S'impadronì in quest'anno Azzo Visconte dell'importante castello di Pizzighettone sull'Adda nel dì 22 di settembre, e verso il fine di novembre [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 210.] cavalcò colle sue milizie a Pavia, ed, assistito dai nobili da Beccheria, v'entrò e corse la città. Non potendo resistere alla di lui forza le masnade del re Giovanni, si ridussero nel castello già fabbricato da Matteo Visconte, e vi si sostennero sino al venturo marzo, siccome diremo. Parimente in quest'anno a' dì 22 di maggio Giovanni Visconte, zio di esso Azzo, già creato vescovo di Novara [Corio, Istoria di Milano. Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 370.], ebbe maniera di cacciar da quella città i Tornielli, che ne erano padroni, e si fece anche proclamar signore in temporale della città suddetta, dove richiamò tutti gli usciti, e rimise la pace da gran tempo perduta. Ma esser potrebbe che questo fatto appartenesse agli anni seguenti, siccome si ha dagli Annali Milanesi [Annal. Mediol., tom. 15 Rer. Ital.]. Lo stesso Galvano Fiamma, che nel Manipolo dei Fiori racconta ciò all'anno presente, in altra sua opera [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.] ne favella al seguente. Aveano i Pisani tolta a' Sanesi la città di Massa in Maremma; ma essendo essi all'assedio di un castello [Chron. Sanense, tom. 15 Rer. Ital.], i Sanesi coll'esercito loro nel giorno 16 di dicembre diedero loro una sconfitta con grave loro danno, e con far prigione Dino dalla Rocca lor capitano.

[510]


   
Anno di Cristo mcccxxxiii. Indiz. I.
Giovanni XXII papa 18.
Imperio vacante.

Per la vittoria riportata nel precedente novembre dal principe Carlo a San Felice colla sconfitta dell'esercito estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], Beltrando cardinale legato, siccome persona di niuna fede, dimenticando l'investitura di Ferrara data agli Estensi, si figurò venuto il beato giorno di aggiugnere ancor quella città alle sue conquiste. Però fece muover guerra dagli Argentani a' Ferraresi nel mese di gennaio, e poco appresso, senza disfida alcuna, anche egli spedì le sue genti a dare il guasto al territorio di Ferrara. Avvenne che nel dì 6 di febbraio stando il marchese Niccolò a Consandolo [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], facendo la guardia a quella Stellata, arrivarono colà le milizie del legato, e diedero battaglia. Accorse armato il marchese; ma, cadutogli il cavallo in un fosso, fu preso e condotto con altri nelle carceri di Bologna, e la Stellata venne in poter de' nemici. Questo felice colpo facilitò all'armata pontificia il passaggio del Po; e però senza contrasto giunse fin sotto Ferrara, e postatasi nel borgo di sotto e sul Polesine di Santo Antonio, cinse quella città d'assedio. Tutti i primati della Romagna colle genti di quella provincia e di Bologna, per ordine del legato, vennero a quell'impresa. Un grosso naviglio ancora fu spedito per Po a' danni di quella città, che venne bersagliata dalle macchine militari, e tentata con varii assalti per più di nove settimane. Implorarono in tante angustie i marchesi il soccorso de' principi confederati, i quali, perchè troppo premeva loro che non cadesse nelle mani dell'ambizioso legato così importante città, vi spedirono cadauno un corpo di cavalleria e fanteria. Ne mandò Azzo Visconte lor cugino, ne mandarono i Gonzaghi, i Fiorentini, ma più Mastino dalla Scala. Appena [511] furono entrati in Ferrara questi rinforzi, che, tenuto consiglio di guerra, fu risoluto di dare nel dì seguente addosso a' nemici. Però nel felicissimo giorno 14 d'aprile il marchese Rinaldo, lasciato alla guardia della città il marchese Obizzo suo fratello, fu il primo ad uscire coi coraggiosi Ferraresi, e percosse nei nemici [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital, Chron. Bononiense, tom. eodem. Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Gli tennero dietro tutti gli altri campioni, e sì vigoroso fu l'assalto, che in breve andò in rotta tutto il potente campo pontificio con vittoria sì segnalata, che fu comparabile colle migliori di quel secolo. Alcune migliaia di persone vi restarono uccise od annegate, prese più di due mila, guadagnati duemila cavalli, con immenso bottino di bagaglio, armi ed arnesi da guerra, e gran quantità di navi. Fra i prigioni si contarono il conte d'Armignacca venuto di Francia per maresciallo dello esercito papale, due nipoti del legato, l'uno dei quali suo camerlengo, Malatesta e Galeotto da Rimini, Ricciardo e Cecchino de Manfredi da Faenza, Ostasio da Polenta da Ravenna, Francesco degli Ordelaffi da Forlì, i conti di Cunio e Bagnacavallo, Lippo degli Alidosi da Imola, tutti gran signori sotto l'ubbidienza del legato, ed altri nobili di Bologna e Romagna. L'avvocato di Trivigi conferì in sì felice giornata l'ordine della cavalleria al marchese Rinaldo, ed egli poi fece cavalieri il marchese Obizzo suo fratello ed altri suoi parenti. Paga doppia fu sborsata ai soldati, e nel dì 18 di giugno le genti dei marchesi diedero una rotta anche agli Argentani e ad altra gente del legato: del che fu gran rumore ed urli in Argenta.

Considerabil perdita fece nella sconfitta di Ferrara il cardinal legato; e pure peggiori ancora ne furono le conseguenze [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. De' prigioni fatti, e tutti ben trattati, ritennero i marchesi estensi il solo conte di Armignacca, che dopo trentatrè [512] mesi di prigionia col pagamento di cinquanta mila fiorini d'oro si riscattò. I nipoti del legato con altri nobili guasconi furono cambiati col marchese Niccolò, che era prigione in Bologna. Tutti gli altri gran signori della Romagna ebbero da lì a non molto la libertà senza riscatto veruno, ma con segreti patti e promesse fatte ai marchesi, che vennero presto alla luce, benchè fingessero di essere liberati collo sborso di molta moneta, mostrandosi poi corrucciati contro al legato, che un soldo non volle spendere per la loro liberazione. Ora Malatesta e Galeotto dei Malatesti [Chron. Caesen., tom. 14, Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], dacchè furono liberi, segretamente fecero pace e lega con Ferrantino e cogli altri della lor casa; e nel mese d'agosto diedero principio alla ribellione contra del cardinale legato, assistiti da varii rinforzi venuti loro da Arezzo, dalla Marca e da Ferrara. Presero tutto il contado di Rimini, e nel dì 17 di agosto assediarono la stessa città, dove entrarono vittoriosi nel dì 22 di settembre, con ispogliare e cacciarne il presidio del legato. Nello stesso tempo Francesco degli Ordelaffi [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 226.] penetrato occultamente entro un carro di fieno in Forlì, e, mossa a rumore la terra, se ne impadronì nel dì 12, oppure 19 dello stesso settembre, e pienamente ancora ebbe il dominio di Forlimpopoli. Parimente Ghello da Calisidio nel dì 25 del medesimo mese fece rivoltar Cesena. La guarnigion pontificia si rifuggì nel forte castello, e lo difese sino al giorno 4 del seguente gennaio, in cui a buoni patti lo rendè agli assedianti. E tuttochè, il legato con un esercito di due mila cavalli e sei mila pedoni entrasse nel territorio di Cesena, e vi prendesse molte castella, pure niun tentativo fece per ricuperar quella città. Poscia nel mese di ottobre Ostasio e Ramberto da Polenta occuparono Ravenna, Cervia e Bertinoro, ed apertamente si ribellarono al cardinale legato. Ecco i [513] frutti della guerra da lui mossa contro la buona fede ai marchesi di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; i quali nel novembre di quest'anno mandarono un grosso esercito per terra e per Po addosso alla città d'Argenta. Perchè il ponte fabbricato da quel popolo non si potè rompere con tutte le pruove dell'armi, il marchese Rinaldo, fatta tagliare gran copia di salici, la lasciò andar giù per la corrente del fiume; e questa affollata al ponte, tenendo in collo l'acqua, lo ruppe in fine. Dopo di che si formò l'assedio di quella città, che durò sino all'anno seguente.

Si vide sconvolta Roma in questi tempi per le nemiche fazioni de' Colonnesi ed Orsini. Furono uccisi a tradimento Bernardo e Francesco Orsini da Stefano dalla Colonna figlio di Sciarra [Raynaldus, in Annal. Eccles., n. 25. Giovanni Villani, lib. 10, cap. 220.]. Corse colà Giovanni cardinale Orsino, legato apostolico in Toscana, ed, abusandosi della sua autorità, fece colle forze della Chiesa, viva guerra ai Colonnesi, del che fu ripreso da papa Giovanni, con ordinargli di ritornare al suo uffizio. Una fierissima disavventura occorse nel giorno primo di novembre alla città di Firenze, creduta da alcuni gastigo di Dio, per l'enorme dissolutezza che regnava allora in quella città [Giovanni Villani, lib. 11 cap. 1.]. Essendo caduto uno smisurato diluvio d'acque, l'Arno spaventosamente si gonfiò, ed, uscito degli argini, inondò gran tratto di paese. Seco trasse alberi e legnami in tal copia, che fatta rosta ai ponti di Firenze, li fracassò, ed altamente allagò la maggior parte della città e il territorio tutto fino a Pisa. Inestimabile fu il danno recato a quella città e a tanto paese, per la morte di molte centinaia di persone e d'infinito bestiame, guasto di case, palagi e magazzini; di maniera che que' popoli si crederono come giunti al giudizio finale. Se non eguali, grandi nondimeno furono i danni recati anche dal Tevere ai contadi [514] di Borgo San Sepolcro, Perugia, Todi, Orvieto, Roma ed altri luoghi: il che diede occasion di disputare in Firenze, se tanti disordini venissero da cagion naturale, oppure miracolosamente dalla mano di Dio. Ma questo medesimo flagello ha patito Firenze con altri luoghi della Toscana nel principio di novembre dell'anno 1740. Le nevi cadute troppo di buon'ora ai monti, che per non essere dal freddo indurate, facilmente si squagliano al primo vento caldo, quelle sono che cagionano sì fatte stravaganze. Però guardati da nevi abbondanti fioccate sul fine d'ottobre, o sul principio di novembre.

Nel gennaio dell'anno presente [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 213.] Carlo figliuolo del re di Boemia andò a Lucca. Gran festa fecero i Lucchesi per la sua venuta; ma in breve lor venne freddo, perchè egli pose loro una colta di quaranta mila fiorini d'oro, e a gran fatica ne ricavò venticinque mila. Tornossene presto in Lombardia, perchè il re Giovanni suo padre calò di Francia in Piemonte con ottocento cavalieri scelti di oltramonte. Nel dì 26 di febbraio giunse il re a Parma, e di là si mosse nel dì 10 di marzo per dare soccorso al castello di Pavia, assediato da Azzo Visconte. V'introdusse egli bensì qualche vettovaglia, ma senza poter fare sloggiare il nemico esercito, ch'era fortemente affossato e trincierato intorno al castello [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Partito ch'egli fu, seguitò l'assedio; e finalmente o per l'esca dell'oro, o per difetto di viveri, esso castello nel mese di giugno capitolò la resa al Visconte, salve le persone. Restarono padroni di quella città i Beccheria, e in parte lo stesso Visconte. Giovanni suo zio, vescovo e signor di Novara, circa questi tempi seppe così ben maneggiarsi alla corte pontificia, che ottenne l'amministrazione dell'arcivescovato di Milano, con pagare annualmente all'arcivescovo Aicardo bandito mille e cinquecento fiorini d'oro. Dopo di che si [515] diede a ricuperare i diritti di quella chiesa, a rifare il palazzo archiepiscopale, a fabbricar nuovi palagi e case, e a tenere una magnifica corte in Milano: con che la fortuna e grandezza de' Visconti ogni dì saliva più in alto. Ora il re di Boemia col suo esercito, accresciuto da' Piacentini e dagli altri suoi fedeli, cavalcò sul distretto di Milano, distrusse Landriano, e diede il guasto a gran tratto di paese, sperando pure di tirar a battaglia Azzo Visconte; ma questi si guardò di dargli un tal gusto. Passò il re fino a Bergamo, dove trovò quel popolo e presidio ben preparato a difendersi. Fecesi poi una tregua fra lui e i collegati. Nel mese di giugno si portò a Bologna [Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], accompagnato da' suoi vicarii, cioè da Orlando Rosso di Parma, Manfredi Pio di Modena, Guglielmo Fogliano di Reggio, e Ponzino de' Ponzoni di Cremona, e quivi col cardinale legato strinsero lega contra tutti i nemici del papa e del re di Boemia. Due volte fu a Lucca, città che i figliuoli di Castruccio tentarono in quest'anno di torgli, ma non la poterono tenere. Un buon salasso ogni volta diede alle borse di quel popolo, ed ivi lasciò per signore, o vicario Marsilio (o piuttosto Pietro) dei Rossi, con ricavare da lui trentacinque mila fiorini d'oro. Così avea venduto agli altri il vicariato delle altre città. Suo costume fu ancora di alienare con gran franchezza i beni de' comuni, e d'infeudare le castella, perchè era liberalissimo verso i suoi uffiziali, e nello stesso tempo assai povero, e tutto dì lo strigneva il bisogno di moneta. Giacchè durava la tregua, nel dì 5, oppure 19 di ottobre andò a Verona [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital.], dove con sommo onore, ma non senza meraviglia di molti, fu accolto da Alberto e Mastino fratelli dalla Scala, e magnificamente regalato da essi. Da lì a due giorni, accompagnato da Marsilio da Carrara sino alla Chiusa, passò [516] in Germania, bastevolmente disingannato delle sue grandiose idee di farsi qui un altro regno. Dicea di volerci ritornare, ma non ne trovò mai più la via; e gl'Italiani non si curarono punto di lui, giacchè non aveano riportato da lui se non aggravii e danni. Carlo suo figliuolo l'avea preceduto nel medesimo viaggio, ed era anch'egli verso la metà d'agosto passato per Verona, con ricever ivi magnifici trattamenti e bei regali dagli Scaligeri. Grandi controversie erano state fin qui fra Carlo Uberto re d'Ungheria e Roberto re di Napoli [Giovanni Villani, lib. 10, cap. 224.], pretendendo il primo come suo retaggio il regno napoletano, per essere figliuolo di Carlo Martello primogenito del re Carlo II, laddove Roberto era secondogenito di esso re Carlo II. Si composero tali differenze solamente nel presente anno, perchè Roberto non avendo di sua prole se non due nipoti, nate dal fu duca di Calabria Carlo suo figliuolo, promise in moglie la primogenita Giovanna ad Andrea primogenito del suddetto re Carlo Uberto. Venne perciò lo stesso re d'Ungheria per mare col figliuolo, di età allora di soli sette anni, nel regno di Napoli, e quivi con dispensa del papa seguì il magnifico loro sposalizio. Se ne tornò in Ungheria il padre, e Andrea rimase in Napoli nella corte del re Roberto, zio e suocero suo.


   
Anno di Cristo mcccxxxiv. Indizione II.
Benedetto XII papa 1.
Imperio vacante.

Fu quest'anno, in cui finalmente tracollarono affatto gli ambiziosi disegni del cardinale Beltrando dal Poggetto legato pontificio. Continuarono sì ostinatamente i marchesi d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] anche nel verno l'assedio d'Argenta, che que' cittadini per mancanza di viveri si ridussero a capitolar la resa, se nel termine di otto giorni non venisse loro soccorso dal legato. Di ciò avvisato il cardinale, [517] spedì quanta gente potè a quella volta; ma il marchese Rinaldo era così ben fornito d'uomini, di macchine e d'armi per terra, e di naviglio per Po, che non poterono i nemici accostarsi giammai ad Argenta, e disperati se ne tornarono indietro. Perciò Argenta nel dì 8 di marzo tornò sotto il dominio de' marchesi. Fece in quello stesso mese il legato una bastia alla torre di Portonaro. Allora i marchesi, infastiditi di tanta persecuzione, incominciarono un segreto trattato coi Gozzadini, Beccadelli ed altri loro amici bolognesi contra del legato [Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], ben consapevoli dell'odio universale ch'egli si era guadagnato in quella città per le tante estorsioni di danari, e per tener così spesso occupato quel popolo nelle sue spedizioni militari, e per le avanie ed insolenze continue de' suoi uffiziali e cortigiani, dai quali non era salvo neppure l'onor delle donne. Mentre era impegnato l'esercito d'esso cardinale nella fabbrica della detta bastia, mandarono i marchesi della fanteria e cavalleria a dare il guasto al Bolognese dalla parte di Cento (cosa non mai dianzi fatta da loro per rispetto che portavano alla Chiesa), e fecero correre il terrore più innanzi. Allora con simulate preghiere ricorsero i Bolognesi al legato, acciocchè spedisse alla difesa di que' luoghi le soldatesche sue rimaste in città, giacchè in essa città assai quieta niun bisogno ve n'era. Così fece il cardinale. Ma non sì tosto fu uscita ed allontanata quella gente, che nel dì 17 di marzo Brandaligi de' Gozzadini levò il rumore, gridando: Popolo, popolo; muoiano i traditori [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fu in armi tutto il popolo, e prese il palazzo della biada e il vescovato, dove era il maliscalco del legato, che fuggì con altri uffiziali. Quanti Franzesi si trovarono per la città, tutti furono messi a fil di spada; rotte le carceri, riacquistarono [518] la libertà tutti i prigioni; e poscia fu assediato il legato nel suo castello. Non si tardò a spedirne L'avviso ai marchesi di Ferrara per averne aiuto, ed essi immantenente vi mandarono un buon corpo di fanteria e cavalleria. Nello stesso tempo il popolo di Ferrara corse alla bastia fabbricata dal legato, e dopo il saccheggio interamente la distrusse. Vennero ben verso Bologna i soldati del legato per soccorrerlo, ed uccisero anche molti Bolognesi; ma non poterono mutare il sistema delle cose. Durante questo fier movimento, benchè i Fiorentini ne sguazzassero [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 6.], siccome consapevoli del mal animo e dei disegni d'esso legato anche contra di loro; pure, credendo di farsi onore col papa, inviarono senza indugio a Bologna quattro ambasciatori con trecento cavalieri ed alcune schiere di fanti, i quali con preghiere e lusinghe indussero il popolo bolognese ed il legato alla concordia, con che egli se ne andasse libero con tutti i suoi e con tutto il suo avere. Nella seconda festa di Pasqua grande, cioè nel dì 28 di marzo, s'inviò il legato con gran tesoro nelle some e con sua famiglia, scortato da' Fiorentini, alla volta di Firenze; ma accompagnato ancora dalle fischiate e villanie sonore della plebe bolognese. In Firenze fu accolto coll'onore dovuto ad un pari suo; ma non accettò il regalo di due mila fiorini che volle fargli quel comune. Passò dipoi a Pisa, e per mare in Provenza, dove disse, per ricompensa del buon servigio, quanto male seppe de' Fiorentini, attribuendo loro il mal successo dell'impresa di Ferrara; dal che erano tutte procedute l'altre pessime conseguenze. Circa i medesimi tempi giunse ad Avignone anche Giovanni cardinale degli Orsini, altro legato del papa, il quale non raccontò se non guai della sua legazione. Intanto il popolo di Bologna, continuato l'assedio del castello del legato, lo ridusse alla resa nel mese di aprile, e corse a furore a smantellarlo, [519] senza lasciarvi pietra sopra pietra. La Romagna tutta restò in ribellione, e in gran terrore le poche città che tenevano per la Chiesa e pel re Giovanni. Ed ecco dove andarono a terminar le tante guerre fatte da papa Giovanni XXII per servire alle politiche idee di Roberto re di Napoli, che mirava a stendere l'ali dappertutto: guerre sostenute colla spesa di più milioni, tutto sangue del clero dei regni cristiani, impiegato in che? in guerre che recarono per corso sì lungo la desolazione e infiniti affanni all'Italia tutta. Egli non conquistò l'altrui, e perdè molto del proprio, lasciando intanto in somma confusione Roma e il resto degli Stati della Chiesa, per la sua sempre deplorabil residenza di là da' monti, e lungi dalla particolar greggia a lui commessa da Dio.

Restavano tuttavia fedeli al re Giovanni in Lombardia le città di Cremona, Parma, Reggio e Modena, perchè governate da chi si professava vicario di lui. Laonde i principi collegati si mossero per effettuare interamente il partaggio fatto fra loro di esse città [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Già Mastino dalla Scala avea mossa guerra a Parma, che dovea essere sua. Erano confederati seco i Correggeschi fuorusciti di quella città, e questi, coll'aiuto delle genti di Mastino, presero Brescello, e lo fortificarono nel dì 18, oppure 20 di gennaio [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Ma essendo essi nel dì 23 di febbraio venuti a danneggiare il Reggiano, i Fogliani, signori della città, usciti colle lor forze, li posero in rotta, con far bottino per più di dieci mila fiorini, e condurre prigionieri Gotifredo e Niccolò da Sesso, Ettore conte di Panigo, Giovanni de' Manfredi ed altri nobili, che poi furono riscattati da Mastino collo sborso di sei mila e secento fiorini d'oro. Nel dì 7 di marzo [Corio, Istoria di Milano.] la città di Vercelli per ispontanea dedizione di quel popolo [520] venne in potere di Azzo Visconte. Poscia nel dì 22 d'aprile esso Visconte unì le sue armi con quelle de' marchesi estensi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], de' signori dalla Scala e de' Gonzaghi, e formato un esercito di trenta mila combattenti tra cavalleria e fanteria, con sei mila carra, passò all'assedio di Cremona. Signore di quella città era Ponzino de' Ponzoni, che fece gagliarda difesa; ma veggendo egli oramai guastato tutto il paese, e crescendo le angustie della città, capitolò una tregua, per cui prometteva di rendere Cremona ad Azzo Visconte, se nello spazio di due mesi e mezzo non veniva esercito del re di Boemia, capace di rimuovere quell'assedio; e diede buoni ostaggi per questo. Finì poi il tempo della tregua, senza che comparisse aiuto alcuno del re Giovanni; e però Cremona pacificamente nel dì 15 di luglio si sottomise al dominio del Visconte. Mentre durava la tregua suddetta, nel dì 7 di maggio venne l'esercito de' collegati a dare il guasto al Reggiano sino alle porte della città, e stette in quelle contrade sino al dì 20, facendo immensi mali. Altrettanto poi fecero al contado di Modena. Nel dì primo di giugno tornarono sul Reggiano, e di là sul Parmigiano a dì 6 d'esso mese, desolando dappertutto con quella spietata forma di guerra che era in uso a quei tempi, e fa orrore oggidì al solo udirla. Intanto Marsilio dei Rossi sotto mano a forza d'oro avea tramato un tradimento colle brigate tedesche de' collegati [Chron. Estense, ibid. Gazata, ibid.], gente senza fede: il che vien confermato da Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 11 cap. 8.], con aggiugnere che il trattato fu incominciato dal cardinal Beltrando, legato il quale avea depositati dieci mila fiorini d'oro da pagare, se que' ribaldi prendevano i capi della armata, e massimamente Mastino dalla Scala; del che fu egli avvertito a tempo. Ora certo è che nel dì 7 di giugno suddetto [521] nacque gran rumore nel campo collegato, e di gravissimi sospetti insorsero: laonde si divise quell'esercito, ed ognuno tornò con paura alle sue case; e ventotto bandiere d'essi Tedeschi vennero allora in Parma al servigio de' Rossi. Poscia nel dì 12 d'agosto le genti dello Scaligero assediarono Colorno, terra del Parmigiano, e se ne impadronirono nel dì 25 d'ottobre; essendo ben usciti i Rossi con grande sforzo per soccorrerlo, ma senza poterlo effettuare, perchè v'era Mastino dalla Scala in persona con tutte le sue forze, che ben munito di fosse e steccati non volle azzardar la battaglia. Nè si dee tacere che la città di Bologna, la qual dopo la cacciata del legato si credea di dover godere giorni felici, perchè ridotta in libertà [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], si trovò in istato peggiore di prima; e ciò per ambizione dei più potenti cittadini, e la rinata discordia fra quelle famiglie. Taddeo Pepoli e Brandaligi dei Gozzadini voleano dominar sopra gli altri. Però nel dì 8 d'aprile si venne all'armi in quella città, e molti furono confinati. Ma peggio accadde nel dì 2 di giugno, perchè le due fazioni principali, cioè la Scacchese dei Pepoli, e la Maltraversa de' Sabbattini, Beccadelli, Boatieri ed altri, vennero a battaglia fra loro, e gli ultimi rimasero sconfitti. Furono, secondo il Villani, mandate ai confini circa mille e cinquecento persone; ed era quella città in pericolo di disfarsi, se i Fiorentini non avessero mandato colà ambasciatori e genti d'arme che rimediarono alla loro vacillante fortuna.

Infermossi nell'autunno di questo anno papa Giovanni XXII in Avignone, ed arrivò al fine di sua vita nel dì 4 di dicembre, in età di circa novanta anni, con molta divozione e compunzion di cuore. Lasciò egli una memoria assai svantaggiosa di sè stesso presso i Tedeschi, ma più presso gl'Italiani. L'aver egli mostrata della pendenza a negare la vision beatifica de' santi prima del finale [522] giudizio, fece molto sparlare di lui. La verità è, ch'egli prima di morire chiaramente protestò di non tener tale opinione, anzi dichiarò il contrario; siccome ancora è fuor di dubbio ch'egli non incorse in errore nella quistione della povertà de' frati minori, per la quale tanti d'essi, infatuati del loro scolastico sapere, si rivoltarono empiamente contra di lui insieme col loro generale Michele da Cesena. Ma per quel che riguarda il governo economico della Chiesa di Dio, dei gran conti egli ebbe da fare con chi giudica indispensabilmente ciascuno. Un papa sì dedito per tutta la sua vita alle guerre e alle conquiste di stati temporali, rallegrandosi oltre modo dell'uccision de' nemici, davanti a Cristo sì grande amator della pace, e che non cercò mai regni terreni, dovette far pure la brutta comparsa. E tanto più per la gran sete ch'egli ebbe di raunar tesori, e per vie che non possono mai lodarsi, ed è da desiderare che più non trovino degli imitatori. Giovanni Villani, informatissimo della corte pontificia, ci assicura [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 19.] ch'egli, se vacava pingue arcivescovato o benefizio, non badava ad elezione alcuna; ma promoveva ad esso un arcivescovo o vescovo men grasso, e a quest'altro vescovato un altro; in maniera che sovente la vacanza d'una chiesa si tirava dietro la permutazione di cinque o sei chiese: tutto per cavar danari da tante collazioni. Ed ha ben tuttavia l'Italia (per tacere degli altri paesi) di che lagnarsi di questo pontefice. Per lo spazio di mille e trecento anni il clero e popolo delle città, oppure il solo clero avea eletto ed eleggeva i sacri pastori. Quanto operasse san Gregorio VII papa nel secolo undecimo, per restituire ai medesimi questo diritto, l'abbiamo già veduto. Lo tolse loro papa Giovanni XXII, con riservare a sè tali elezioni, sotto pretesto di levar le simonie: laddove tanti altri pontefici, e pontefici santi, contenti di detestare e proibire quel vizio, non aveano nel resto voluto [523] pregiudicare all'antichissima disciplina della Chiesa. Inoltre fu egli il primo ad inventar le annate, che tuttavia durano, e fecero allora gridar molto le ignoranti, ma più le dotte persone. Parve ancora che eccedesse nel ridurre in commende tanti monisteri e chiese. In somma tra per questi ed altri mezzi trasse e ragunò infinito tesoro; ed oltre alle tante somme da lui spese in guerre, per attestato del suddetto Villani, si trovarono nel suo erario diciotto milioni di fiorini d'oro in contanti; e sette altri milioni in tanti vasi e gioielli: di modo che esso Villani ebbe a dire: Ma non si ricordava il buon uomo del vangelo di Cristo, dicendo ai suoi discepoli: Il vostro tesoro sia in cielo, e non tesaurizzate in terra. Ma il detto tesoro diceva egli di ragunarlo per l'impresa di Terra santa, che Filippo re di Francia fingeva di voler fare, per divorar intanto le decime del clero. Se a lui giovasse sì fatta scusa nel tribunale di Dio, a me non tocca di dirlo. Raunatisi poi i cardinali, vennero nel dì 20 di dicembre all'elezione d'un nuovo pontefice [Anonym., Vit. Benedicti XII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], e questi fu il cardinal Jacopo Furnier, ossia del Forno, da Saverduno diocesi di Pamiers, che dianzi era stato monaco cisterciense, personaggio assai dotto nella teologia, d'incorrotti costumi, di sante intenzioni. Prese il nome di Benedetto XII, nè tardò a rivocar le tante commende di vescovati e badie fatte dai suoi predecessori, salvo ai cardinali; e si applicò con zelo a riformare gli abusi introdotti, a rimettere in buono stato il monachismo, e a provveder di degni pastori le chiese. In quest'anno ancora, allorchè il legato si trovava confinato in castello dai rubellati Bolognesi [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], Ricciardo de' Manfredi s'impadronì delle città e fortezze di Faenza ed Imola, e ne fu proclamato signore senza ingiuria ed offesa di que' cittadini. Anche i Malatesti nel dì 21 di marzo tolsero al marchese [524] d'Ancona la città di Fossombrone. In quest'anno [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 23.] frate Venturino da Bergamo dell'ordine de' Predicatori, missionario, andò per le città di Lombardia e Toscana predicando la penitenza e la pace, ed ebbe gran seguito di persone, che vestite con cotta o cappa bianca, con una colomba di ricamo sul mantello, in numero di più di dieci mila arrivarono seco fino a Roma. Fece di gran bene; ma non gli mancarono persecuzioni ed accusatori alla corte pontificia. Per questo fu chiamato ad Avignone, dove giustificò la sua credenza; ma perchè egli avea pubblicamente disapprovata la lontananza de' papi da Roma, gli fu impedito il tornare al suo santo ministero. Ne parla ancora un anonimo scrittore delle cose di Roma, da me dato alla luce [Anonymus, Hist. Roman., tom. 3 Antiquit. Italic.].


   
Anno di Cristo mcccxxxv. Indiz. III.
Benedetto XII papa 2.
Imperio vacante.

Furono in quest'anno fatte istanze dal popolo romano a Benedetto XII, perchè riconducesse in Italia la corte pontificia [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. Anche Lodovico il Bavaro gli fece penetrar le sue premure, per esser rimesso in grazia della Sede apostolica; anzi lo stesso pontefice il prevenne con amore paterno e con amorevoli esortazioni. Tutto era disposto a fare questo buon pontefice, perchè condotto da spirito non secolaresco, ma ecclesiastico, e non da ambizione ed interesse, ma dal vivo desiderio del ben della Chiesa e della pace de' fedeli. Per quanto osserva il Rinaldi, Filippo re di Francia, secondo i suoi fini politici, con aver dalla sua tanti cardinali franzesi, impedì la venuta del santo Padre in Italia; ed esso re poi, e seco il re Roberto, tante difficoltà trovarono, tanti rigiri fecero, che restò frastornata la concordia [525] col Bavaro suddetto. Se di sua libertà fosse stato un pontefice di massime tanto diritte, gran vantaggio sarebbe venuto alla Chiesa di Dio. Continuarono in quest'anno le loro imprese i principi collegati di Lombardia, per partire fra loro le spoglie del re Giovanni [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 30.]: intorno a che cominciarono a nascere fra loro gare e discordie. Dovea essere Parma di Mastino e d'Alberto dalla Scala; ma Orlando e Marsilio de' Rossi, conoscendo quanto Azzo Visconte andasse innanzi agli Scaligeri in lealtà ed onoratezza, trattarono di cedere a lui Parma e Lucca. Per questo fu vicina a rompersi la lega. Interpostisi gli ambasciatori de' Fiorentini, perchè Mastino fece di gran promesse di far loro rendere Lucca da Pietro de' Rossi, stabilirono un accordo, per cui Parma toccasse a quei dalla Scala, e ad Azzo Visconte si desse aiuto per conquistare Piacenza e Borgo San Donnino. Fece Mastino di larghi patti ai Rossi [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], e loro promise quanto seppero desiderare, con obbligarsi eglino di fargli aver Lucca; e però nel dì 4 di giugno dal consiglio generale di Parma fu dato il dominio di quella città a' signori dalla Scala; e nel dì 20 o 21 d'esso mese vi fece la sua entrata Alberto Scaligero con gran copia di cavalleria. Poscia nel dì 26 entrò lo stesso Scaligero con tutte le sue forze nel territorio di Reggio, saccheggiando e bruciando dappertutto. Riparo non aveano a questa rovina Guido e Roberto Fogliani signori della città [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]; e per conseguente intavolarono anch'essi un accordo cogli Scaligeri, riportandone delle vantaggiose condizioni. Adunque nel dì 3 di luglio entrarono essi Scaligeri in Reggio, e poi nel dì 11 d'esso mese ne diedero il possesso e dominio a Guido, Filippino e Feltrino da Gonzaga. Ma qui non serbò l'insaziabil Mastino i patti della lega, perchè volle che i Gonzaghi riconoscessero da lui in feudo quella città, e gli pagassero [526] ogni anno a titolo di ricognizione feudale un falcone pellegrino. Ne rimasero molto disgustati i Gonzaghi, ma lor convenne inghiottir la pillola. Tentarono del pari i marchesi d'Este di ridurre alla loro ubbidienza Modena [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Annal. Mutin., tom. 11 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], assegnata loro in parte nella lega. Vennero perciò da Ferrara nel dì 15 di giugno con armata numerosa di fanti e cavalli Rinaldo e Niccolò fratelli estensi, e diedero il guasto a Fredo, Ramo, Campo Galliano ed altre ville. Giunsero poi sotto la città, e fabbricarono una larga e forte bastia con fosse, palancato e battifredi nel borgo di santa Caterina ossia di Albareto. Perchè cadde infermo in questa spedizione il prode marchese Rinaldo, si fece portare a Ferrara, dove nel dì ultimo di decembre diede fine alla sua vita. Intanto il marchese Niccolò s'impossessò di Formigine, Spezzano e Spilamberto; sicchè restò Modena da tutte le parti stretta e bloccata dalle armi degli Estensi.

Maggiori furono in quest'anno i progressi di Azzo Visconte. Nel dì 25 del mese di luglio [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.] cavalcò col suo esercito verso la città di Como, che era assediata dal vescovo fuoruscito di quella città. Ne era signore Franceschino Rusca ossia Ruscone, malveduto dal popolo per le sue quotidiane ingiustizie, delle quali fa menzione Buonincontro Morigia [Bonincontrus, Chron. Mod., lib 3, cap. 46, tom. 12 Rer. Ital.]. Trovandosi egli alle strette, esibì quella città al Visconte, che v'entrò, e in ricompensa gli lasciò per suo patrimonio Bellinzona, con altri patti. Siccome fu detto di sopra all'anno 1328, signoreggiava in Lodi un uomo vile, già di professione mugnaio, cioè Pietro Tremacoldo, che colla strage de' Vestarini se n'era fatto padrone. I cittadini, che gli portavano odio immenso per le sue passate e presenti crudeltà, segretamente invitarono Azzo Visconte a liberarli da quel [527] tiranno. Marciò egli a quella volta nel dì ultimo del mese d'agosto; da essi cittadini gli fu data una porta, e dipoi con gaudio grande la signoria della città. Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, Man. Flor., cap. 373. Idem, de Gestis Azon. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] scrive che con assedio e per forza l'ebbe. Il Tremacoldo fu condotto prigione a Milano. Ognuno si credeva che di mala morte sarebbe perito; ma il Visconte, non avendo mai dimenticato un servigio da lui fatto a Galeazzo suo padre, gli diede la libertà, con obbligarsi egli di non uscire mai più di Milano. Azzo ridusse in Lodi il vescovo e tutti gli altri usciti, che erano circa tre mila, e quivi fabbricò poi un forte castello, siccome ancora fece nella città di Como. Minacciò poscia esso Visconte l'assedio alla nobil terra di Crema; e questo bastò perchè quel popolo nel dì 18 di ottobre gli mandasse le chiavi. Nella stessa maniera se gli renderono le castella di Caravaggio e Cantù, e il borgo di Romano: ne' quali luoghi ancora fece fabbricar delle fortezze. Sottopose poi alla città di Milano l'isola di Lecco, che per quarant'anni era stata rubella a' Milanesi, e sopra il fiume Adda fece piantare un ponte di pietre tagliate. Di questo passo camminava la fortuna e l'industria d'Azzo Visconte, principe per le sue rare virtù sopra gli altri commendato in questi tempi, la cui madre, cioè Beatrice Estense, donna per senno, saviezza ed altre rare doti amatissima da tutti, finì sua vita nel dì primo di settembre, e fu con mirabil onore seppellita in una nobilissima cappella nella chiesa de' Minori di Milano, senza che si verificasse ciò che volle predire di lei Dante nel suo poema. Lasciò ella al figliuolo un valsente di più di quaranta mila fiorini d'oro, senza gli altri preziosi arredi. Restava solamente dinanzi agli occhi di Azzo Visconte la città di Piacenza, ch'era tuttavia occupata dal presidio [528] pontificio [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Non volle, egli a dirittura tentarne l'acquisto, ma diede braccio a Francesco Scotto, figliuolo del fu Alberto signore di quella città, per farne uscire quella guarnigione. Pertanto nel dì 25 di luglio divampò la congiura, ed, alzato rumore, si venne all'armi. I Fontana e Fulgosi colla lor fazione messi in fuga, andarono a fortificarsi in varie loro castella. In questa guisa cessò il dominio della Chiesa romana in quella città, e ne fu proclamato signore Francesco Scotto. Detto fu che ne' patti da lui fatti con Azzo Visconte era stabilito di dover egli poi cedere al medesimo Azzo quella città. Vero o falso che fosse, richiesto dal Visconte di consegnargliela, diede per risposta un bel no; e però il Visconte, tirati dalla sua i fuorusciti di quella città, somministrò loro forze tali, che ad essi fu facile, prima che terminasse l'anno, d'impadronirsi di tutte le castella del contado di Piacenza. Scrive il Villani [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 31.] che quella città nel dì 27 di luglio si rendè al Visconte; avergliela poi tolta gli Scotti, e che nel dì 15 di dicembre del presente anno Azzo la ricuperò. La Cronica di Piacenza [Chronic. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] ciò riferisce all'anno seguente, e con essa va d'accordo Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.], e del medesimo parere sono altri storici piacentini e il Corio [Corio, Istoria di Milano.]: laonde è da credere che sia scorretto il testo del Villani, o ch'egli abbia preso abbaglio. Ne riparleremo perciò all'anno seguente.

Ubbidiva tuttavia la città di Genova al re Roberto [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]; ma siccome città che in così sconcertati tempi piena sempre era di mali umori, nè sapea governarsi in pace da sè, nè sapea sofferir lungamente governo straniero, nel dì 24 di febbraio proruppe in una general sollevazione e [529] guerra civile, che durò sino al dì 28 di esso mese, in cui i Ghibellini, rinforzati dagli uomini di Savona e della Riviera occidentale, obbligarono i Fieschi ed altri Guelfi potenti ad uscire della città e a ritirarsi a Monaco. Il capitano e presidio del re Roberto senza alcun danno se ne partirono anch'essi. Raffaele Doria e Galeotto Spinola furono creati capitani del popolo, e guerra incominciò cogli usciti. In quest'anno nel dì 13 di giugno [Nicolaus Specialis, lib. 8, cap. 6, tom. 10 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 11, cap. 29.] esso re Roberto mandò un'armata di sessanta galee e d'altri legni a' danni della Sicilia sotto il comando di Giovanni conte di Chiaramonte, rubello del re Federigo, e del conte di Corigliano. Altro non fecero che dare il guasto alla valle di Mazara e alle coste di Trapani, Marsala, Grigenti ed altri luoghi. Tante belle promesse fece in quest'anno Mastino dalla Scala ad Orlando e Marsilio dei Rossi esistenti in Verona (alcuni aggiungono [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Italic. Giovanni Villani, et alii.] aver egli adoperate anche le minaccie), che indussero Pietro de' Rossi lor fratello a cedergli la città di Lucca, con ritenere i Rossi Pontremoli e molte altre castella. Colà mandò egli un vicario con cinquecento cavalieri a prenderne il possesso nel dì 20 di dicembre, facendo intanto credere con lettere e parole finte d'aver presa quella città per darla ai Fiorentini, siccome per li patti della lega era tenuto. Ma era in Mastino la lealtà una cosa forestiera; regnava in suo cuore la sola ansietà di dominare e d'accrescere il suo stato: male nondimeno per lui; da ciò vedremo essere poi seguita la sua rovina. Rapporta il Leibnizio [Leibnit., Cod. Jur. Gent., tom. 1, num. 73.] una cessione fatta nell'anno 1334 da Giovanni re di Boemia a Filippo re di Francia di tutte le sue ragioni sopra la città di Lucca. Ma i re franzesi d'allora non erano quei d'oggidì, nè l'Italia d'allora quella che è a' di nostri; e perciò [530] a nulla servì quel pezzo di carta. Nata nel mese d'agosto discordia fra i conti di Montefeltro [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], riuscì al conte Nolfo di torre il dominio d'Urbino al conte Speranza. Guerra eziandio fu fra i Tarlati da Pietramala signori d'Arezzo e i Perugini. Neri dalla Faggiuola levò ai primi Borgo San Sepolcro, e parimente i Perugini nel dì 30 di settembre tolsero loro la Città di Castello.


   
Anno di Cristo mcccxxxvi. Indizione IV.
Benedetto XII papa 3.
Imperio vacante.

Per essere oramai padroni i marchesi estensi di quasi tutte le castella del contado di Modena, Guido e Manfredi dei Pii finalmente conobbero l'impossibilità di sostener la città contro le forze d'essi marchesi [Moranus, Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Johann. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Estens., tom. eod.]. Però, affine d'ottener buoni patti in renderla, Manfredi cavalcò a Verona, con implorar la mediazione di Mastino dalla Scala. Colà ancora si portò dipoi il marchese Obizzo, e nel dì 17 di aprile alla presenza di Alberto e Mastino dalla Scala seguì fra loro lo strumento d'accordo, in cui s'obbligarono i Pii di cedere il possesso e dominio di Modena a' marchesi d'Este Obizzo e Niccolò e lor discendenti, con ritener in lor balìa la nobil terra di Carpi e il castello di San Felice, e con altri vicendevoli patti. Scrivono i Cortusi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.] che Mastino diede Modena in feudo agli Estensi. Se fosse ciò vero, sarebbe questa da aggiugnere alle altre iniquità di Mastino, perchè liberalmente doveano gli Estensi avere questa città secondo i patti della lega. Ma io la tengo per un sogno de' Cortusi. Lo strumento della cessione suddetta, che io ho sotto gli occhi, non ha menoma parola di questo. I Pii cedono la città assolutamente ai marchesi, e non già agli [531] Scaligeri; nè le armi di questi aveano presa Modena, siccome fecero di Reggio, da poter pretendere in essa qualche diritto. Ora, in esecuzion del trattato, Manfredi Pio, tornato a Modena, fece dal popolo eleggere per signori i marchesi estensi; e però nel dì 13 di maggio il marchese Obizzo, accompagnato da gran nobiltà e dalle sue genti d'armi, ed incontrato dai Pii e dal popolo tutto fuori della città, fra le universali acclamazioni entrò in Modena e ne prese il possesso. Ne' giorni seguenti, richiamati alla lor patria tutti i fuorusciti, cioè i signori di Sassuolo, i Rangoni, Boschetti, Guidoni, Pichi dalla Mirandola, quei da Magreta, da Fredo, da Gorzano, da Savignano, rientrarono anch'essi nella città, accolti con lagrime d'allegrezza dagli altri cittadini; e la pace e concordia rifiorì da lì innanzi sotto sì amorevoli e giusti padroni in questa città. Attese nell'anno presente Azzo Visconte, per testimonianza de' Cortusi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], di Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. eod. Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] e d'altri storici, alla conquista di Piacenza. Per otto mesi con fosse, steccati e battifredi tenne l'esercito suo assediata quella città; nè potendo più reggere a tanta piena Francesco Scotto, finalmente ne capitolò la resa nel dì 15 di dicembre al Visconte, ritenendo per sè la terra di Fiorenzuola. Azzo introdusse colà la pace e tutti i banditi, e vi fece alzare un forte castello. In quest'anno ancora, essendosi nel mese di marzo data al medesimo Visconte la nobil terra di Borgo San Donnino fra Parma e Piacenza, nulla più vi restò in Lombardia delle terre già possedute da Giovanni re di Boemia, e svanì il suo nome in Italia.

Era cresciuta a dismisura l'alterigia di Mastino dalla Scala (non parlo d'Alberto, perchè era un buon uomo, e solamente attendeva a darsi bel tempo) al vedersi padrone di Verona, Brescia, Vicenza, Padova, Trivigi, Feltre, Belluno, [532] Parma, Lucca ed altri luoghi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Piena era la sua corte di grandi della Lombardia e Toscana, ricorrendo ognuno a lui per protezione per grazie. Ma questa sua superbia, la fede da lui non osservata ai collegati nella passata lega, e la voce sparsa che egli si vantava di voler essere in breve re di Lombardia, e che avesse anche preparata a questo oggetto una corona d'oro, gli concitarono contra l'odio universale del Visconte, degli Estensi e de' Gonzaghi. Ma specialmente si rodevano di rabbia i Fiorentini, perchè troppo sconciamente delusi da lui nell'acquisto di Lucca, città loro dovuta in vigore de' patti della lega [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 44.]. Gli mandarono ambasciatori; mostrò egli di aver fatto di grandi spese per ottener quella città dai Rossi. Giunsero i Fiorentini a cercarla per mercato, esibendo fin trecento sessanta mila fiorini d'oro. Ne parve contento Mastino, ma poco appresso li burlò per isperanza di stendere maggiormente le fimbrie in Toscana. Erano già con lui gli Aretini. Ora avvenne che Mastino cominciò ad imbrogliarsi col comune di Venezia, col non voler osservare gli antichi lor patti coi Padovani. Irritati da ciò i Veneziani, non lasciavano venire a Padova mercatanzie da Venezia, e negavano il sale. Mastino, all'incontro, per far loro dispetto, si diede a far delle saline al lido del mare, e fece quivi fabbricar una torre per sicurezza di esse. Altre liti insorsero a cagion d'alcune castella che erano sotto la protezione del doge. Cominciò dunque la repubblica veneta un grande armamento. Fin qui Marsilio da Carrara, potentissimo e ricchissimo cittadino di Padova, era stato il braccio diritto de' signori dalla Scala, e coll'opere e coi consigli avea cooperato sempre alla loro esaltazione. Fidati nel suo zelo e nella sua sperimentata destrezza ed eloquenza, il mandarono a Venezia per trattar di pace. Ch'egli tutto il contrario operasse sotto mano, siccome volpe vecchia [533] ch'era, si potrà argomentare da quanto vedremo andando innanzi. Perciò a guerra si venne. Più bella apertura di questa non poteva accadere ai Fiorentini per vendicarsi del disleale Mastino; perciò pigri non furono a stringere una forte lega coi Veneziani ai danni di lui. Nè qui si fermò la faccenda: studiaronsi gli unì e gli altri di suscitar tutta la Lombardia contra di essi Scaligeri. I primi a ribellarsi nel mese di giugno furono Orlando e Marsilio de' Rossi, che da Verona fuggirono a Venezia, e Pietro lor fratello si ritirò a Pontremoli, allegando d'essere maltrattati da Mastino, che esaltava i Correggeschi lor nemici, e di non essere sicuri della vita in mano di lui. Marsilio fu preso per lor capitano generale dal Veneziani, Pietro dai Fiorentini; ma siccome questo ultimo era personaggio di maggior valore e perizia militare, fu ceduto a' Veneziani, che gli diedero il bastone del comando della loro armata. Sul fine d'ottobre entrò questa sul Padovano, prese varii luoghi, e si postò a Bovolenta, ma senza succedere alcun riguardevole fatto. Parve nondimeno più favorevole la fortuna agli Scaligeri, che tolsero Pontremoli ai Rossi, e diedero qualche percossa ai Veneziani. Per la gran copia di gente che era in Padova, e massimamente di Tedeschi, i quali faceano rubamenti e insolenze a furia, fu quella città in gravi affanni e pericoli. Intanto l'esercito veneto prese le saline di Mastino, e disfece la torre o bastia quivi fabbricata. Si credette imminente un gran fatto d'armi, e nulla poi succedè.


   
Anno di Cristo mcccxxxvii. Indiz. V.
Benedetto XII papa 4.
Imperio vacante.

Tardi conoscendo Mastino dalla Scala d'essersi per l'ingordigia ed orgoglio suo condotto ad un mal passo col nimicarsi la potente signoria di Venezia [534] e il comune di Firenze, implorò lo aiuto de' suoi vecchi confederati [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Obizzo marchese d'Este, unitosi con Guido da Gonzaga, Giovanni de' Pepoli, Manfredi de' Pii, ed altri ambasciatori, nel mese di gennaio si portò a Venezia per trattar dì pace. Trovò quei senatori troppo risoluti alla guerra, se Mastino non rilasciava Padova, Trivigi, Parma e Lucca [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Anzi eglino con tante ragioni eccitarono il marchese a far lega con loro, ch'egli non seppe esentarsene. Un gran parlamento ancora si tenne nel mese d'aprile in Cremona, dove intervennero Mastino, Azzo Visconte, il marchese Obizzo, Guido da Gonzaga, ed altri signori di Lombardia. Volle Mastino muoverli a prestargli soccorso in quella sua urgenza. Non si trovò chi volesse muovere un dito per lui, perchè erano tutti disgustati della di lui poca fede e smoderata ambizione. Per lo contrario, da lì a qualche tempo si collegarono tutti contra di lui. Intanto venti bandiere di Tedeschi, che erano al soldo di Mastino, passarono nel campo veneto. Ribellaronsi ancora agli Scaligeri Cittadella, Asolo, Conigliano, ed altre terre del Padovano e Trevisano. Nel giugno si raunarono in Mantova le genti di Azzo Visconte, degli Estensi e de' Gonzaghi, e con esso loro venne ad accoppiarsi l'esercito de' Veneziani e Fiorentini, condotto da Marsilio Rosso, essendo rimasto in Bovolenta Pietro suo fratello con mille e cinquecento cavalli e molta fanteria. Luchino Visconte, zio d'Azzo, fu creato capitan generale dell'armata collegata, e tutti entrarono sul Veronese, facendo gran guasto. Mastino, che, oltre all'essere uomo prode in guerra, aveva anch'egli un poderoso esercito, arditamente venne loro incontro, e li sfidò a battaglia nel dì 26 dì giugno. Ossia che Luchino Visconte fosse un codardo, come alcun vuole; oppure, come altri [535] scrivono [Johannes de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. eod. Gazata, Chron, Regiens., tom. 18 Rer. Ital., Bonincontrus Morigia, Chronic. Modoet., tom. 12 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, de Gest. Azonis, tom. eod.], che i Tedeschi dell'armata collegata avessero ordito un tradimento (e molti di essi in fatti, siccome persone venali e date a chi più loro offeriva, andarono a' servigi di Mastino): certo è che i collegati pieni di spavento sgarbatamente si ritirarono a Mantova, lasciando indietro tende ed arnesi da guerra, e si separarono. Allora Mastino corse colle sue genti sino alle porte di Mantova, mettendo tutto a sacco e fuoco. Tentò poscia d'impedir la riunione dell'armata di Marsilio Rosso con quella di Pietro suo fratello; ma non gli venne fatto, siccome neppur di tirare ad una battaglia i due fratelli Rossi, perchè furono d'avviso i Veneziani di stancare piuttosto Mastino, sul supposto ch'egli non potesse sostener lungo tempo l'eccessiva spesa del mantenimento di tante soldatesche, fra le quali erano quattro mila lancie tedesche. Dimorava intanto in Padova Alberto dalla Scala, fratello maggiore di Mastino, uomo di pace e non di guerra, quanto dedito ai piaceri, altrettanto nemico delle fatiche. I suoi due principali consiglieri erano Marsilio ed Ubertino da Carrara. Grande zelo, siccome dissi, aveva in addietro mostrato Marsilio per gl'interessi degli Scaligeri; ma più gli premevano i proprii. Non dimenticava egli di essere già stato signore di Padova; e siccome avea data quella città a Cane dalla Scala, così non si faceva scrupolo di ritorla ai di lui nipoti, essendo massimamente quel popolo ridotto alla disperazione per le tante contribuzioni e insolenze che giornalmente si faceano in quella città. Segretamente perciò Marsilio se l'intese coi Veneziani. Se è vero ciò che narrano i Gatari [Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital.], avendo Mastino avuto sentore del tradimento, scrisse più d'una volta ad Alberto che si assicurasse de' due Carraresi, [536] e li levasse dal mondo. Alberto scioccamente loro mostrava gli ordini del fratello. Se n'ebbe bene a pentire. Veggendosi dunque Marsilio come scoperto, si affrettò a compiere il premeditato disegno. Due volte era venuto Pietro dei Rossi sino ai borghi di Padova, ma s'era poi ritirato. Vi tornò la terza volta nel dì 3 d'agosto [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Patavin., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Veronense, tom. eod.], e allora gli fu aperta la porta di Ponte Corvo da Marsilio. Vi entrò egli colle sue genti; fece prigione e mandò poi alle carceri di Venezia il mal accorto Alberto dalla Scala; spogliò d'armi e cavalli la guarnigion di Mastino, e cinquecento ne fece prigionieri. Nel dì 6 d'agosto fu data dal popolo la signoria di Padova a Marsilio da Carrara. Gran festa si fece in Venezia e Firenze per questo felice colpo, da cui, all'incontro, restò sommamente sbalordito Mastino. Non perdè tempo il valoroso Pietro de' Rossi a passar coll'armata sotto Monselice, e cominciò a dar dei furiosi assalti a quella forte terra. Ma nel dì 7 d'agosto colpito da una lancia manesca con ferita mortale, nel dì seguente morì, mostrando un'esemplare pietà e un'eroica intrepidezza nel prendere commiato dal mondo. Perderono i Veneziani un gran generale d'armata, e un personaggio di somma liberalità, che non passava l'età di anni trentaquattro, e dai più de' Lombardi fu compianta la sua morte. Erasi prima condotto a Venezia Marsilio de' Rossi suo fratello, uomo di non minor sapere e coraggio nelle cose di guerra; ma, preso da mortal malattia, anche egli finì di vivere in quella città nel dì 14 del suddetto agosto. Orlando Rosso fu scelto pel comando dell'armata.

Non fu men riguardevole l'altra perdita che fece Mastino nel dì 8 di ottobre [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.]. Ebbe Azzo Visconte un trattato [537] con alcuni cittadini bresciani, che, forate le mura, introdussero nel dì suddetto le di lui genti nella città vecchia, e poi presero la nuova, di modo che tutta la città, da cui fuggì Bonetto de' Malvicini governatore ivi per Mastino col suo presidio, venne in potere del Visconte. Si difese il castello sino al dì 13 di novembre, ed allora capitolò la resa. Gran gioia parimente fu in quella nobil città per essere caduta in mano di un miglior signore, il quale richiamò colà tutti gli usciti, e vi fece fiorir la pace. Profittò ancora della decadenza, in cui si trovarono gli Scaligeri, Carlo figliuolo di Giovanni re di Boemia. Era egli divenuto signore della Carintia, ed entrato in lega coi Veneziani, nel mese di luglio o di agosto s'impossessò di Feltre, e nell'anno seguente di Belluno, smembrando ancor quelle città dalla signoria degli Scaligeri. Provarono medesimamente felice quest'anno in Toscana i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 69.]. Unitisi essi coi Perugini, aveano fatta lunga guerra alla città d'Arezzo. Pier Saccone de' Tarlati da Pietramala, signore di quella città, coi suoi consorti, trovandosi oramai al verde e senza maniera di poter resistere a tante forze, badò alle proposizioni di accordo che segretamente gli fece fare il comune di Firenze, di pagargli venticinque mila fiorini d'oro, con altri privilegii e vantaggi facili allora a promettersi in tali occasioni, ma che facilmente ancora svanivano nel progresso del tempo. Compiuto il trattato, nel dì 10 di marzo presero i Fiorentini il possesso d'Arezzo; e Pier Saccone venuto a Firenze, non vi fu carezza ed onore che egli non ricevesse qual gran benefattore da que' cittadini. Ma i Fiorentini, che tanto rumore aveano alzato contra di Mastino, perchè, senza attendere i patti della lega, avea ritenuta per sè la città di Lucca, dimenticarono anch'essi che nella lega contratta co' Perugini ogni conquisto che si facesse sopra gli Aretini avea da esser comune. Eppur eglino vollero tutta per sè la città di [538] Arezzo: del che gran querele fece, e restò forte amareggiato il comune di Perugia: tanto è vero che a noi sembrano sol giuste le bilance favorevoli ai nostri interessi, difettose quelle che sono ad essi contrarie. Fecero poscia i Fiorentini oste contra di Lucca, e un fiero guasto diedero a Pescia, Buggiano ed altri luoghi. Anche in Bologna nell'anno presente seguì mutazione [Matth. de Griffon., Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. eodem.]. Pareano amicissimi Taddeo de' Pepoli e Brandaligi de' Gozzadini, amendue gran caporali e potenti giratori del governo di Bologna. Ma cadaun dal suo canto andava studiando la maniera di scavalcare il compagno. Nel dì 3 di luglio vennero alle mani Jacopo e Giovanni figliuoli di Taddeo Pepoli col suddetto Brandaligi; ed essendosi ingrossata la gente da ambe le parti, ne seguì gran battaglia. Sopraggiunse Taddeo dei Pepoli, che fece fermar la mischia, e seco prese Brandaligi, il menò a casa sua, dove con belle parole l'indusse a disarmarsi. Ma eccoti quei da Loiano, i Bentivogli, i Bianchi ed altri amici de' Pepoli con gran seguito, che violentemente entrati in casa di Brandaligi, la mettono a sacco, e le attaccano il fuoco. Se ne fuggì egli di Bologna, nè mai più vi tornò. Stette quella città fluttuante, venendo intanto mandati molti a' confini, sino al dì 28 d'agosto, in cui i soldati diedero alle armi in piazza, gridando: Viva messer Taddeo de' Pepoli. Per forza esso Taddeo fu creato capitan generale e signor di Bologna, città che era allora in lega co' Veneziani e Fiorentini. In quest'anno di lunga infermità nel dì 25 di giugno terminò i suoi giorni Federigo re di Sicilia [Nicolaus Specialis, lib. 8, cap. 8.], principe di gran senno e valore, che per tanti anni seppe sostenersi in capo la corona contro tutti gli sforzi del re Roberto. Restarono di lui tre maschi, cioè Pietro II re, Guglielmo duca e Giovanni marchese. Ma non ereditò [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 70.] il re Pietro nè l'ingegno [539] nè il coraggio del padre; e però cominciossi sotto di lui a scompigliare la buona armonia de' Siciliani, e si ribellarono i conti di Ventimiglia e di Lentino.


   
Anno di Cristo mcccxxxviii. Indiz. VI.
Benedetto XII papa 5.
Imperio vacante.

Per le tante perdite dell'anno precedente in grandi affanni e sospiri si trovava Mastino dalla Scala, nè sapea a qual partito volgersi per ottenere soccorso [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Avea nel dicembre scorso mosse proposizioni di pace a Venezia, e per trattarne colà si portarono Obizzo marchese d'Este, Marsilio da Carrara signore di Padova, Guido da Gonzaga, Giovanni figliuolo di Taddeo Pepoli, gli ambasciatori d'Azzo Visconte, de' Fiorentini e dello stesso Mastino. Sì alte erano tuttavia le pretensioni de' Veneziani, perchè esigevano che egli dimettesse Trivigi, Lucca e Parma, che andò a terra ogni speranza di aggiustamento. Vivamente si raccomandò poscia Mastino a Lodovico il Bavaro, per aver gente ed altri aiuti da lui, con dargli in ostaggio Francesco Cane suo figliuolo ed altri nobili per sicurezza de' pagamenti; ma restò burlato da lui. Poco poi potè godere del nuovo suo principato Marsilio da Carrara signore di Padova, perchè, infermatosi, nel dì 21 di marzo dell'anno presente mancò di vita. Non lasciando egli figliuoli proprii, prima di morire, coll'assenso della repubblica veneta, fece eleggere suo successore nella signoria di Padova Ubertino da Carrara suo cugino, che stato nella gioventù discolo e malvivente, cominciò a governare il suo popolo, più procurando di farsi temere che amare [Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital.]. Per altro fu uomo di gran senno, e tenne in molta riputazione il nome suo e di sua casa. La prima impresa di lui quella fu di portarsi all'assedio di Monselice, per affrettarne [540] il più tosto possibile l'acquisto. Ma dentro vi era Pietro del Verme, la cui fedeltà verso Mastino, ed insieme la bravura ed accortezza rendea vani tutti i tradimenti e gli assalti d'Ubertino. Fecero fra loro una guerra arrabbiata. Intanto Orlando Rosso generale dell'armata veneta nel mese d'aprile mise in marcia le sue genti, e saccheggiando pervenne fino alle porte di Verona, dove fece correre un palio. Nel dì 8 di maggio se gli diede Montecchio maggiore, terra che da lì a non molto fu assediata da Mastino. Fu egli astretto a ritirarsene con mal ordine; e seguirono dipoi varii combattimenti, ma con isvantaggio sempre delle di lui milizie, che specialmente nel dì 29 di settembre furono sconfitte a Montagnana. Finalmente nel dì 19 di agosto [Chron. Patav., tom. 8 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.] la terra di Monselice si arrendè ad Ubertino da Carrara, ma non già la rocca, di cui si cominciò l'assedio. Uscì libero colla sua gente Pietro del Verme, e cavalcò a Verona. Per danari ebbe poscia il Carrarese anche la rocca di Monselice nel dì 18 di novembre. Tale doveva essere in questi tempi la rabbia di Mastino [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.], che cavalcando per Verona nel giorno 27 d'agosto insieme con Azzo da Correggio, incontratosi con Bartolomeo dalla Scala vescovo della città, per meri sospetti ch'egli tramasse congiura contra di lui, come avea fatto il vescovo di Vicenza, sguainata la spada, di propria mano l'uccise. Per questa scelleraggine contra di lui procedette papa Benedetto XII alle rigorose censure, e stette Mastino gran tempo in disgrazia della santa Sede. Nel dì 19 di ottobre le genti venete entrarono ne' borghi di Vicenza, e quivi si afforzarono; colpo che fece disperare Mastino, e più che mai applicarsi ad un trattato di pace, siccome diremo all'anno seguente.

Giacchè in Sicilia regnavano delle dissensioni, e al valente re Federigo era [541] succeduto il re Pietro, persona di mente assai debole [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 78.], stimò Roberto re di Napoli che fosse giunto il sospirato giorno da poter ricuperar quell'isola. Nel mese dunque di maggio spedì colà una flotta di sessanta tra galee e legni da trasporto con mille e cinquecento cavalieri e molta fanteria. Un'altra parimente, ed anche maggiore, ne inviò a quella volta nel mese di giugno sotto il comando di Carlo duca di Durazzo suo nipote. Ognuno si credeva che tante forze ingoierebbero senza fallo la Sicilia tutta; ma appena, dopo lungo assedio, presero Termole, e intanto entrata la peste, ossia una forte epidemia, in quell'armata, bisognò sloggiare, e tornarsene con perdita di molta gente a Napoli. Riuscirono inutili tutti i tentativi, umiliazioni ed esibizioni fatte da Lodovico il Bavaro per riacquistare la grazia del papa [Albertus Argent., Chron.]. Colpa non fu del buon pontefice, che inclinava alla pace, e chiaramente dicea che compativa gli eccessi commessi dal Bavaro, perchè il suo predecessore Giovanni XXII, col non volergli fare giustizia, l'avea come spinto nel precipizio. Disse anche all'orecchio agli ambasciatori di Lodovico, quasi piangendo, d'essere dispostissimo a favorire il lor principe; ma aver lettere di Filippo re di Francia, colle quali il minacciava di trattarlo peggio di quel che Filippo il Bello avea trattato papa Bonifazio VIII, qualora assolvesse il Bavaro dalle scomuniche. Ecco se è vero che i romani pontefici furono in una babilonica schiavitù, finchè vollero tener ferma la loro residenza di là da' monti. So che questo è negato da alcuni; se poi con buone ragioni, nol so. Ora cotali durezze della corte pontificia, benchè cagionate dalla prepotenza altrui, diedero occasione al Bavaro e agli elettori dell'imperio (eccettuatone Giovanni re di Boemia) di unire una dieta nel territorio di Magonza, in cui nel dì quindici di luglio formarono [542] un decreto [Rebdorf., Histor. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital. Raynaldus, Annal. Eccles.], che chiunque è eletto dai principi elettorali concordi, o dalla maggior parte di essi, re de' Romani, non ha bisogno d'approvazione e consenso della santa Sede per prendere il titolo di re e per amministrare i diritti dell'imperio: il che fu una gran ferita all'autorità e agli antichi diritti della santa Sede. Tanto è poi andata innanzi la faccenda, che laddove gli antichi principi eletti prendevano il titolo solamente di re di Germania e d'Italia, oppure de' Romani, senza giammai usar quello d'imperadori de' Romani, se non dopo la coronazione romana, cominciarono ad intitolarsi, anche senza essere coronati dal papa, imperadori de' Romani: il che è divenuto uso stabile. Intorno a questi punti disputano gli eruditi politici: lasciamoli noi disputare, e andiamo avanti. Venne in quest'anno a morte nel dì 21 d'aprile Teodoro marchese di Monferrato [Benven. da S. Giorg., Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.], che avea portato in Italia il sangue de' greci imperadori, ed ebbe per successore Giovanni suo unico figliuolo, che superò in valore e fortuna il padre.


   
Anno di Cristo mcccxxxix. Indiz. VII.
Benedetto XII papa 6.
Imperio vacante.

A mal partito, e in gran pericolo di perdere il resto, oramai si trovava Mastino dalla Scala per la forza e superiorità di tanti suoi nemici; e però più che mai si diede all'ingegno per uscir fuori di questa troppo ostinata tempesta. Studiossi dunque di guadagnare (il Villani dice [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 89.] col potente segreto della moneta) alcuni maggiorenti di Venezia, e segretamente trattò di pace particolare co' Veneziani, rimettendosi tutto in loro, e pregandoli nello stesso tempo di non volerlo disfare. Fece anche correr voce [543] che se non seguiva aggiustamento, sarebbe calato Lodovico il Bavaro in Italia con sei mila barbute: il che potè influire a far accettare le proposizioni d'accordo nel senato veneto. Non mancarono i Veneziani d'avvisare per tempo i Fiorentini ch'era in piedi questo trattato; ma perchè loro si esibivano solamente alcune castella, e non già la città di Lucca, che, secondo i patti della lega, si dovea cedere al loro comune, se ne sdegnarono forte, parendo lor questo un tradimento. Inviarono pertanto a Venezia i loro ambasciatori, acciocchè disturbassero l'accordo, oppure insistessero per la cessione di Lucca. Di più non poterono ottenere. Adunque nel dì 24 di gennaio del presente anno [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.] si conchiuse la pace in Venezia, le cui condizioni si veggono riferite dal Cortusi. In vigor di essa ai Veneziani fu ceduta la città di Trivigi; ad Ubertino da Carrara Bassano e Castelbaldo; ai Fiorentini Pescia, Buggiano ed Altopascio, oltre ad altre terre prese innanzi da loro al territorio di Lucca. Alberto dalla Scala coi Fogliani di Reggio ed altri prigioni fu liberato dalle carceri, e nel dì 14 di febbraio arrivò a Verona, incontrato da Mastino suo fratello a Legnago. Grandi schiamazzi fecero per questo accordo i Fiorentini; ma a che servirono? Certo fu mirabil cosa che Mastino in mezzo a sì fiero incendio potesse conservare le città di Verona, Vicenza, Parma e Lucca; la qual ultima andò egli a visitare nel primo giorno di aprile, con dar buon ordine alla guardia d'essa, ben persuaso che i Fiorentini, se si fosse presentata l'occasione, avrebbono dimenticata ben tosto la pace fatta con lui. Volle dal popolo di Lucca venti mila fiorini d'oro, perchè ne avea gran bisogno. In Parma lasciò a quel governo Azzo da Correggio suo zio materno, che il servì di proposito, per quanto vedremo. Un altro assai strepitoso avvenimento [544] appartiene all'anno presente, che si vede riferito fuor di sito non solamente dal Corio [Corio, Istor. di Milano.], ma anche da Bonincontro Morigia [Bonincont. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Ital.] e da Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic.], autori contemporanei, narrandolo gli uni all'anno 1337, e l'altro al 1339. Forse son guasti i loro testi, o la diversità dell'era cristiana produsse questo imbroglio; certo essendo che il fatto, ch'io son per narrare, accadde in quest'anno, come s'ha da Giovanni Villani [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 96.], dal Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], dai Cortusi [Cortusiorum Histor., tom. 12 Rer. Ital.] e da altri storici [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Appena fu stabilita la pace suddetta, che a Mastino parve un'ora mille anni di sgravarsi del troppo pesante fardello di tante milizie che erano al suo soldo, per esser egli restato co' suoi sudditi smunto affatto di moneta. Specialmente gli era a carico la cavalleria tedesca, che in gran numero era stata a' suoi servigi.

Usava in corte di Mastino Lodrisio Visconte, figliuolo di un fratello di Matteo Magno, cioè quel medesimo che nell'anno 1327 unito con Marco Visconte procurò più degli altri la depressione di Galeazzo Visconte, e la prigionia di lui, di Azzo, Luchino e Giovanni Visconti. Dacchè il giovane Azzo ricuperò il dominio di Milano, Lodrisio o spontaneamente se n'andò, o fu cacciato da quella città. Gli venne in pensiero di valersi di questa congiuntura per riavere il contado del Seprio, di cui fu ne' tempi addietro investito; anzi di occupar Milano, se gli veniva fatto. Ne trattò con Mastino. Bella occasione parve a lui questa di vendicarsi d'Azzo Visconte, che gli avea tolta Brescia. Diede lo Scaligero le paghe ai soldati, mostrando di licenziarli, e Lodrisio di assoldarli in servigio proprio. Circa tre mila e cinquecento uomini d'armi raunò egli, e gran copia di fanti: alla [545] quale armata diede il nome di compagnia di s. Giorgio. S'ingrossò questa dipoi, perchè si trattava di andare a bottinare in paese grasso e ricco. E fu essa (il che è da notare) la prima compagnia di soldati masnadieri, e ladri che si formò in Italia, e servì poi d'esempio a tante altre, che vedremo insorgere a' danni degli Italiani, e vengono chiamate compagnie dagli storici fiorentini. S'inviò Lodrisio Visconte con quest'armata di ferrabuti pel Bresciano, dando il sacco dappertutto, e, passato il fiume Oglio, afflisse le campagne del Bergamasco. Nel dì 9 di febbraio valicò l'Adda, senza che potessero impedirgli il passo le soldatesche postate alle ripe; e andò a riposare a Legnano, mettendo intanto a sacco e fuoco quelle contrade. Colà convocò quanti amici potè [Gualvaneus Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic. Bonincontrus Morigia, Chron., tom. eod.], e vi concorsero a furia i ribaldi, dimodochè già pensava di marciare a dirittura verso Milano. A questo non mai pensato accidente si trovava mal provveduto Azzo Visconte; affrettossi dunque di chiamare da tutte le sue città le milizie, e dimandò soccorso a tutte le sue amistà. Era allora la terra coperta d'alta neve e di ghiaccio: contuttociò i marchesi Estensi cugini d'Azzo [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Italic.] immediatamente gl'inviarono alcune centinaia di cavalli sotto il comando di Brandaligi da Marano. Altri combattenti gli vennero da Tommaso marchese di Saluzzo suo cognato, da Lodovico di Savoja suocero suo, dal conte di Savoja, da Jacopo signor di Piemonte, da Taddeo de' Pepoli, dai Gonzaghi e da Genova. Altri aiuti ancora erano per viaggio, ma senza poter giugnere a tempo alla fiera danza che si fece. Fu commessa la guardia di Milano a Giovanni Visconte, zio d'Azzo e vescovo di Novara, con ottocento cavalli. Fu dato il comando dell'armata a Luchino Visconte, altro zio del medesimo Azzo. Uscito dunque Luchino con più di tre mila e cinquecento [546] cavalli, duemila balestrieri, e quattordici mila fanti, andò ad accamparsi a Nerviano col grosso di sua gente, compartendo il restante in Parabiago e nelle ville circonvicine. Lodrisio, che già cominciava a penuriar di viveri e foraggi, non volle maggiormente differir la battaglia; e tanto più perchè sapeva che l'esercito de' Visconti di giorno in giorno s'andava più ingrossando per l'arrivo di nuove truppe. Era il dì 21 di febbraio, festa di s. Agnese, e fioccava la neve a furia. Uscito prima del far del giorno da Legnano, andò ad assalir quella parte dell'esercito milanese che era a Parabiago. Dormiva tuttavia la buona gente. Lodrisio li svegliò ben tosto, e cominciò a farne macello. Quei che poterono prendere l'armi e saltare a cavallo, bravamente si diedero anch'essi a menar le mani; ma molti ne perirono, e vi andava il resto, se non giugneva Luchino Visconte col suo corpo di gente. Allora si diede principio ad una terribile e sanguinosa battaglia, e si fecero di gran prodezze da ambe le parli, cedendo ora gli uni ed ora gli altri. La presa della città di Milano, che si faceva da Lodrisio sperar vicina alla sua gente, animava i suoi al forte combattimento, e sprone era agli altri la difesa della patria e l'amor della gloria. Prevalsero dopo molte ore di ostinata contesa cotanto l'armi di Lodrisio [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.], che Giovanni del Fiesco, cognato di Luchino, poco fa fatto cavaliere, fu ucciso, e lo stesso Luchino generale rimase prigione.

Già la vittoria parea dichiarata in favor di Lodrisio, quando arrivarono freschi alla battaglia trecento cavalieri savoiardi, ed Ettore conte di Panago o Panigo, con altra gente che, trovando i nemici pel sì lungo combattere stanchi e disordinati, attendendo allo spoglio, poca difficoltà incontrarono a sbaragliarli ed atterrarli. Fu riscosso Luchino; Lodrisio si diede per prigione a Giovannino Visconte figliuolo di Vercellino e nipote [547] suo, dianzi fatto prigioniere da lui. Pochi de' suoi si salvarono, parte uccisi, parte presi [Cortusior. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Più di quattromila combattenti fra l'una parte e l'altra rimasero estinti sul campo; e degli stessi vincitori pochi vi furono che non riportassero qualche ferita e segnale perpetuo d'essere stati a quel fatto: sì duro ed ostinato fu il loro conflitto. Il Villani scrive che de' soli Milanesi vi restarono morti settecento cavalieri e più di tremila a piedi [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 96.]; e che cinque furono i combattimenti e le sconfitte di quella giornata tra dall'una parte e dall'altra: del che fu egli informato da persone degne di fede, che vi si trovarono presenti. E, tornando il vittorioso Luchino a Milano, sconfisse ancora Malerba capitano di settecento cavalieri, che Lodrisio avea mandati al passo verso Milano, per dare addosso a chi scappasse a quella volta. Più di settecento cavalli vi furono uccisi, e di quei di Lodrisio ne furono presentati due mila e cento presi, senza gli altri rubati e trafugati. Insomma non v'era memoria di una battaglia sì fiera e pertinace, fatta in mezzo alla grossa neve, come fu questa. Corse voce, nata probabilmente dall'immaginazion della buona gente, che s'era veduto in aria s. Ambrosio col flagello percuotere i nemici, e perciò da lì innanzi si cominciò a dipignere quel santo arcivescovo, ed anche a coniarlo nelle monete, col flagello in mano, e non già per qualche vittoria riportata contro i Francesi, come crede il volgo. Perchè poi la clemenza fu una delle virtù principali d'Azzo Visconte, la fece ben egli risplendere anche in questa congiuntura. Quantunque degni di morte fossero que' masnadieri per tante ruberie ed incendii commessi, pure a tutti diede la libertà col sol giuramento di non più militare contra di lui. Neppur volle infierire contra dello stesso Lodrisio, autore di sì dolorosa tragedia. Contentossi di confinarlo insieme con due suoi figliuoli nella fortezza di San Colombano, dove [548] sopravvisse alcuni anni, e fu poi rimesso in libertà. Restò dovunque Azzo Visconte pacifico signore di Milano, Como, Vercelli, Lodi, Piacenza, Cremona, Crema, Borgo S. Donnino, Bergamo, Brescia e di altri luoghi. Teneva parte di dominio in Pavia; essendo mancata di vita Giovanna figliuola del conte Nino pisano, sua sorella uterina, perchè nata da Beatrice Estense sua madre nel primo matrimonio, per testamento d'essa ebbe tutta la di lui pingue eredità in Pisa, e le ragioni d'essa sopra il giudicato di Gallura, cioè sopra la terza parte della Sardegna. Però nell'anno presente prese la cittadinanza di Pisa, e mosse le sue pretensioni contra del re d'Aragona, occupatore della Sardegna. Aggiugne Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.], che dalle civili fazioni di Genova gli fu anche esibito il dominio di quella città, e che per la sua morte andò in nulla questo trattato. Giorgio Stella negli Annali di Genova di ciò non dice parola. Ma che? in tanta gloria, in si grande innalzamento della casa de' Visconti, ecco la morte che rapisce nel dì 14 o 16 d'agosto dell'anno presente Azzo Visconte in età di soli trentasette anni. Non si saziano Buonincontro Morigia [Bonincontrus Morigia, Chron. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.] e Galvano Fiamma, scrittori contemporanei, di descrivere le insigni doti e virtù di questo principe, che non avea allora pari in Italia, trattone il re Roberto. Era egli l'amore di Milano perchè pio, perchè giusto e clemente, perchè egualmente amava e favoriva Guelfi e Ghibellini, e per tutte le sue città voleva la pace fra i cittadini. Somma fu la sua magnificenza in fabbricar palagi, fortezze, ponti e delizie; grande la sua gloria per le vittorie ottenute, per tante città conquistate, e per avere risuscitata e cotanto accresciuta la potenza della sua casa. Nè è maraviglia se i popoli sì facilmente si accordassero in volerlo per padrone, perchè egli era padre [549] de' religiosi, amator della concordia, affabilissimo, inclinato sempre a far grazie, geloso della castità, e ornato d'altre nobili virtù. Di Caterina figliuola di Lorenzo di Savoja non ebbe prole, e però l'eredità dei suoi Stati e beni, o per testamento, per succession legale, pervenne ai due suoi zii paterni Luchino e Giovanni, tuttavia solamente vescovo di Novara. Ossia che Giovanni spontaneamente lasciasse al fratello la sua parte del dominio, oppure, siccome io vo sospettando che Luchino maggior di età ed uomo fiero non volesse compagni nel governo: sappiam di certo che il solo Luchino da lì innanzi fu principe di Milano e dell'altre città, che prima ubbidivano al nipote Azzo.

Novità furono in Genova nell'anno presente [Georgius Stella, Annal. Genuens. tom. 17 Rer. Ital. Annal. Mediol., tom. 18 Rer. Italic.]. Parendo al popolo di quella città di non essere assai ben trattati dai nobili, nè dai capitani della terra, che in questi tempi erane Raffaello Doria e Galeotto Spinola, fecero istanza di avere un nuovo abbate, che così chiamavano quel magistrato che presso gli antichi Romani si appellava tribuno della plebe. Vi acconsentirono mal volentieri nondimeno i due capitani. Ora nel dì 25 di settembre unitosi il popolo e i mercatanti per crear l'abbate, non sapevano accordarsi. Capitato nell'adunanza Simone o Simonino Boccanegra (fu creduto per altri fini) fu proposto costui per abate da uno scimunito. I più gridarono di sì, e per forza gli misero in mano lo stocco. Ebbe egli un bel dire che i suoi maggiori, stante il lor essere nobili, non erano mai stati abbati, e che li pregava di eleggere un altro. Gran tumulto si fece, ed uscì una voce che dicea signore, e tutti a gara gridarono signore. Allora fu consigliato il Boccanegra da uno degli stessi capitani e dal vecchio abbate di accettare l'elezione per paura di peggio; e però rispose che era pronto ad essere abbate, signore, e tutto quel che loro piacesse. Allora si [550] rinforzò la voce di signore, e non finì la lite, che il crearono loro doge ossia duce, o duca, con piena balìa e con alcuni del popolo per suoi consiglieri. Però i due capitani, l'un dopo l'altro, uscirono dalla città; e questo fu il primo doge che avesse quella città. Era Simone Boccanegra uomo di petto e di molto senno: laonde diede principio con molto vigore al suo dominio, ed ebbe ubbidienza dalla maggior parte delle terre delle due riviere. Per anni parecchi avea il re Roberto tenuta la signoria della città d'Asti [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 113.]. Giovanni marchese di Monferrato gliela tolse nel giorno 26 di settembre dell'anno presente, con iscacciarne i Solari e gli altri Guelfi, e introdurvi i Gottuari e i Rotari cogli altri Ghibellini. Niuna difesa fece il presidio di esso re, perchè si trovò aver impegnate armi e cavalli per difetto di paghe. Di gran danno fu questa perdita a Roberto a cagion delle altre sue terre di Piemonte, e ne esultò forte la fazion ghibellina di Lombardia. Leggesi nella storia di Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrat., tom. 23 Rer. Italic.] lo strumento, con cui il popolo d'Asti prende per suo signore il marchese Giovanni. Fece ancora in quest'anno guerra alla Sicilia il re Roberto, e vi prese l'isola di Lipari. Era generale della sua flotta Giufredi di Marzano conte di Squillaci. Mentr'egli assediava il castello di quell'isola, venne il conte di Chiaramonte colla flotta de' Messinesi a dargli battaglia nel giorno 17 di novembre; ma sconfitto restò egli prigione. Per l'uccisione del vescovo di Verona era Mastino dalla Scala sotto le scomuniche [Raynald., Annal. Eccles.]. Per rimettersi in grazia del papa, e inoltre per aver la di lui protezione, e salvar le città sue attorniate da potenti avversarli, dopo aver fatto maneggio alla corte di Avignone, prese nel giorno primo di settembre il vicariato di Verona, Parma e Vicenza (Lucca non v'è nominata) dal pontefice, [551] vacante imperio, con obbligo di pagare annualmente al papa cinque mila fiorini d'oro, e mantenere dugento cavalli e trecento pedoni al servigio della Chiesa. Ed ecco come il buon pontefice Benedetto XII amichevolmente ottenne ciò che il gran caporale de' Guelfi Giovanni XXII con tante guerre non avea mai potuto ottenere. Mancò di vita in questo anno nel giorno ultimo di ottobre Francesco Dandolo doge di Venezia [Marino Sanuto, Ist. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], ed ebbe per successore Bartolomeo Gradenigo, eletto nel dì 9 di novembre.


   
Anno di Cristo mcccxl. Indizione VIII.
Benedetto XII papa 7.
Imperio vacante.

Cessata la guerra, sopravvennero in quest'anno all'Italia altre calamità, cioè la carestia e la peste, portate da oltramare [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 11, cap. 113.]. Vivevano allora alla buona gli Italiani; specialmente i Veneziani e Genovesi, per cagion della mercatura, frequentavano le coste dell'Egitto, della Soria e dell'imperio greco, trafficando fino al mar Nero. Erano anche in guerra queste due nazioni nei tempi presenti. Se in quei paesi regnava la peste (e va ella sempre saltellando dall'un paese all'altro), facilmente la portavano in Italia le navi cristiane. Siccome allora non vi erano lazaretti, nè si faceano spurghi, nè si usavano altre diligenze e cautele che inventò poi la saggia provvidenza de' posteri per impedire l'ingresso a questo terribil malore, o per estinguerlo venuto; così a man salva veniva esso a metter piede nelle nostre contrade. Cominciò dunque nell'anno presente ad infierire la pestilenza in Italia, e ci durò gran tempo, siccome diremo [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nella sola città di Firenze morirono dodici mila persone. Siena anch'essa perdè gran copia de' suoi migliori cittadini. Giunto poi all'eccesso [552] il prezzo de' viveri, perchè o la gran neve caduta nel verno, che non si sciolse se non verso il fine di marzo, o altra cagione guastò i raccolti. E fu questo solo malanno bastante a generar malattie, e a popolar di cadaveri i sepolcri. Avea già dato principio Luchino Visconte al suo governo di Milano e degli altri suoi Stati con vigore [Petrus Azarius, Chron., cap, 9, tom. 16 Rer. Ital.]; ma i Milanesi, avvezzi a quello del savio ed amorevol principe Azzo, si rattristavano al vedersi sotto Luchino di costumi ben diverso dal suo predecessore. Fin qui aveva menata una vita da prodigo, conversando più coi cattivi che coi buoni, dormendo il giorno e vegliando la notte; e dato alla sensualità in maniera, che quantunque prima avesse avuta per moglie una degli Spinoli, che giovane mancò di vita, ed avesse allora per moglie Isabella de' Fieschi, giovane di rara bellezza, pure da altre donne avea procreato varii bastardi, fra i quali Brusio, che per la sua bravura e magnificenza fece dipoi gran figura nel mondo. Leggevasi inoltre in faccia a Luchino l'austerità; cosa forestiera in lui era il perdonare; e fuorchè i proprii figliuoli, niun altro mai seppe amare, e neppure i parenti, de' quali anzi fu persecutore. Fra gli altri viveano allora Matteo, Bernabò e Galeazzo, figliuoli di suo fratello, giovani di molta avvenenza e cari al popolo. Mandolli tutti e tre a' confini Luchino, siccome uomo pien di sospetti, nè mai volle ascoltar preghiere in lor favore. Fors'anche n'ebbe qualche fondamento, per un avvenimento che appartiene all'anno presente [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.]. Odiava Luchino e trattava male chiunque era stato ministro, o uffiziale, o amico del suo nipote Azzo, perchè a' tempi di lui tenuto assai basso, quando i consiglieri e cortigiani d'Azzo tutti aveano gran potere, ed erano smisuratamente cresciuti in ricchezza. Fra gli altri Lombardi veniva riputato [553] il più facoltoso Francesco da Posterla, già consigliere d'Azzo; e questi tra per lo sdegno di vedersi maltrattato da Luchino, e per la conoscenza dell'animo alterato de' Milanesi verso questo nuovo padrone, tramò con assaissimi nobili una congiura contra di lui, con pensiero di esaltare i tre nipoti suddetti dello stesso Luchino. S'eglino ne avessero contezza, non si sa. Fu scoperta la congiura; il Posterla co' suoi figliuoli ebbe tempo da fuggire in Avignone. Ma Luchino nol perdè mai di vista. Lettere finte sotto nome di Mastino dalla Scala l'invitarono a Verona con esibizioni larghe. Per questo venne egli in nave alla volta di Pisa, dove preso ad istanza di Luchino, e condotto nel 1341 a Milano, dopo avere rivelato varii complici, lasciò co' suoi figliuoli e con altri la testa sopra d'un palco. Non venne più voglia ad alcuno de' Milanesi di far trattato contra di Luchino: tal terrore mise in tutti la severità ed implacabilità di quest'orso. Ed egli da lì innanzi usò di tener due fieri cani corsi davanti alla camera dove dormiva. Ed uscendo per città, gli aveva sempre a lato. Guai se alcuno facea qualche cenno indiscreto verso di lui; se gli avventavano questi cani, e lo stendevano a terra. Per altro, non mancarono delle virtù e delle belle doti a Luchino: del che parleremo altrove.

Fu fatta in quest'anno una cospirazione di molti nobili di Genova contra di Simonetto Boccanegra, novello doge di quella città [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 11, cap. 101.]. Si scoprì essa nel dì cinque di settembre; e siccome il Boccanegra era uomo franco e valente, essendo caduti in sua mano due de' maggiori nobili di casa Spinola, formatone il processo, fece loro tagliare il capo: con che atterrì gli altri, e fortificò non poco il suo stato. Ottaviano di Belforte nel settembre di questo anno occupò il dominio della città di Volterra, e ne scacciò il vescovo, che era suo nipote. Anche in Firenze venne alla [554] luce in quest'anno una congiura, per cui fu gran rumore in quella città, e si mandarono a' confini assaissimi nobili, massimamente della casa de' Bardi. Sul fine poi di giugno gli Spoletini diedero una sconfitta a quei di Rieti, che assediavano il castello di Luco. E nel luglio avendo Malatesta signore di Rimini assediato il castello di Mondaino e Verucchio, Ubertino da Carrara signore di Padova, e marito d'Anna Malatesta, vi mandò gente assai, che diede una rotta all'esercito del Malatesta. Era tuttavia in disgrazia del papa la città di Bologna per l'espulsione del legato pontificio [Raynaldus, in Annal. Ecclesiast. Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 11 Rer. Ital.]. Diede mano il buon papa Benedetto XII ad un accomodamento, con cui nel dì 21 d'agosto dichiarò vicario di quella città per la santa Sede Taddeo de' Pepoli, impostogli l'obbligo di pagare ogni anno a titolo di censo otto mila fiorini d'oro. Tenuta fu in Mantova nel dì 8 di febbraio una solennissima corte bandita [Gazata, Chron. Regiens., tom. eod. Johannes de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.], a cui intervennero Mastino dalla Scala, Obizzo marchese d'Este e Matteo Visconte. Il motivo di tale festa fu che il vecchio Luigi da Gonzaga signor di Mantova e Reggio fece promuovere all'ordine della cavalleria i tre suoi figliuoli Guido, Filippino e Feltrino, ed altri nobili; e seguirono in tal congiuntura alcuni maritaggi di quei principi, fra' quali Ugolino figliuolo di Guido sposò una sorella di Mastino. Nel settembre essendosi sollevato il popolo di Fermo contra di Mercenario tiranno di quella città, ed avendolo ucciso, tornò all'ubbidienza della Chiesa romana con altri luoghi della marca d'Ancona.


   
Anno di Cristo mcccxli. Indizione IX.
Benedetto XII papa 8.
Imperio vacante.

Non s'era fin qui ben riconciliata colla santa Sede la casa de' Visconti e la [555] città di Milano [Raynaldus, in Annal. Eccles., num. 29. Gualv. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.]. Luchino signor d'essa e d'altre città, e Giovanni suo fratello, tuttavia vescovo e signor di Novara, tanto fecero che in quest'anno ebbero buona pace da papa Benedetto XII, con promettere di pagargli cinquanta mila fiorini d'oro. Confermò loro in questa occasione il papa il vicariato di Milano e dell'altre città da loro possedute, finchè fosse vacante l'imperio, e gli obbligò ad alcune penitenze; ma senza apparire qual censo annuo fosse loro imposto. Che anche i Gonzaghi per Mantova e Reggio, e i marchesi estensi per Modena prendessero nella forma suddetta il vicariato dal papa abbiamo chi lo scrive [Append. ad Ptolom. Lucens.]. Signoreggiavano tuttavia in Parma Alberto e Mastino dalla Scala [Cortusiorum Hist., tom. 12 Rer. Ital.], fidandosi specialmente di Guido, Azzo, Giovanni e Simone da Correggio, loro zii dal lato della madre, e che nelle loro disgrazie erano sempre stati sostenuti e beneficati dagli Scaligeri. Ma in questi barbari tempi la fede era cosa rara, e la voglia di dominare andava sopra a tutti i riguardi della società civile. Unironsi segretamente essi Correggeschi coi Gonzaghi signori di Mantova e di Reggio, da noi poco fa veduti sì amici e parenti di quei dalla Scala; ebbero anche intelligenza o lega col re Roberto, con Luchino Visconte signor di Milano, e con Ubertino da Carrara signor di Padova; coll'aiuto dei quali congiurarono di torre Parma ad essi Scaligeri. Era in Parma podestà e capitano delle genti d'armi Bonetto da Malvicina [Chron. Estense, tom. 16 Rer. Ital.], il quale, scoperte le mire de' Correggeschi, nel dì 21 di maggio diede all'armi, per affogar, se poteva, la nascente ribellione. Fece Guido da Correggio arrostar le strade della città; il popolo tutto fu per lui, e presero la porta di San Michele. Dura e lunga battaglia si fece, in cui molti dei Parmigiani patirono; [556] ma per due volte furono respinti i soldati degli Scaligeri con tale mortalità d'essi, che in fine fu d'uopo prendere la fuga, e lasciar libera la città in mano del popolo e de' Correggeschi, a' quali fu poi, chi dice in quest'anno, e chi nel 1345, data la signoria. Per questo tradimento irritati forte gli Scaligeri contra de' Gonzaghi, giacchè non poteano contra dei Correggeschi, voltarono l'armi e la vendetta sopra di Mantova. Alberto dalla Scala corse con finte bandiere sino alle porte di quella città, e quasi v'entrò. Ito a voto il colpo, mise a ferro e fuoco nel dì 3 di giugno quel territorio, e menò via un gran bottino. Allora i Gonzaghi ricorsero a Luchino Visconte e ad Ubertino da Carrara per aiuto, ed, ottenuti gagliardi soccorsi, nel settembre cavalcarono sino alle porte di Verona, rendendo la pariglia de' danni sofferti a quel distretto, con bruciare palazzi e case, far prigioni più di mille uomini, e prendere più di due mila capi di buoi, cavalli ed altri animali. Inviarono anche il guanto della battaglia, ma Alberto dalla Scala non si sentì voglia di accettarlo, e con mal ordine si ritirò.

La perdita di Parma fece pensar tosto Mastino dalla Scala a metter la città di Lucca all'incanto, giacchè non gli era più possibile di fornirla e mantenerla sotto il suo dominio [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 126.]. Tanto i Pisani come i Fiorentini si fecero innanzi ed offerirono. Volle Luchino Visconte anche egli mettervi una zampa, offerendo mille cavalieri a' Fiorentini per assediare e conquistar quella città, ma non fu accettato il partito. Ora il marchese Obizzo signor di Ferrara fu eletto per mediatore del contratto fra Mastino e i Fiorentini; e questo si conchiuse, con promettere il primo agli altri la tenuta libera di Lucca, e gli altri di pagare a lui ducento cinquanta mila fiorini d'oro in certe paghe. Per sicurezza de' patti stabiliti Mastino inviò a Ferrara per ostaggi un suo figliuolo bastardo, e sessanta nobili di Verona e Vicenza; e cinquanta simili ne mandarono [557] i Fiorentini, fra' quali era lo stesso Giovanni Villani scrittore della Cronica accreditata della patria sua. Riceverono gli uni e gli altri ogni maggior onore e finezza dal marchese Obizzo, e spesso li voleva alla sua mensa. In questa maniera era preparato il buon boccone per li Fiorentini, ed essi avevano aperta la bocca per prenderlo, quando la mala fortuna l'intraversò. Ai Pisani, informati del mercato fatto, rincresceva troppo il vedere che Lucca, città sì vicina, cadesse in mano dei Fiorentini; e però piuttosto che permettere un sì fatto acquisto, vollero arrischiar tutto. Ed eccoti che all'improvviso, con quante forze poterono, marciarono sul Lucchese, e impossessatisi del castello del Ceruglio e di Monte Chiaro, ossia Carlo, nel dì 22 d'agosto andarono a mettere l'assedio a Lucca. Avevano essi fatta lega con Luchino Visconte, allorchè gli diedero Francesco da Posterla dianzi imprigionato [Johann. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.]; e promessi a lui cinquanta mila fiorini d'oro, ne ottennero due mila cavalli, comandati da Giovanni Visconte da Oleggio, creduto suo nipote, di cui avremo assai da parlare andando innanzi. Ebbero ancora dai Gonzaghi, dai Correggeschi dominanti in Parma, da Ubertino Carrarese e da altre amistà non pochi rinforzi di cavalli e fanti; e con tale armata formarono in breve tempo una mirabil circonvallazione intorno a Lucca, e parimente un'altra intorno al loro campo con fosse, steccati e bertesche. Non poteano darsi pace i Fiorentini per questo incidente; e tosto, fatto ricorso ai Sanesi, Perugini, Bolognesi, a Mastino dalla Scala, ai marchesi di Ferrara e ad altri ancora, ebbero soccorso da tutte le parti, di maniera che misero insieme un esercito di tre mila ed ottocento cavalieri, e più di dieci mila pedoni al soldo loro, senza le masnade dei contadini. Con queste forze, eletto per generale Maffeo da Ponte Carale, nobile bresciano, entrarono ostilmente nel Lucchese, [558] e presero varie castella. Intanto fece Mastino istanza per l'esecuzion del trattato, minacciando di dar Lucca ai Pisani; e contentatosi di detrarre dalla somma pattuita settanta mila fiorini di oro, volle che i Fiorentini prendessero il possesso di Lucca. Riuscì ad un corpo di lor gente e di Mastino di rompere le linee nemiche in un sito, ed entrare in quella città, che loro fu consegnata, sicchè cominciarono a far quivi i padroni. Poscia, nel dì 2 d'ottobre, si avvisarono di dare battaglia a' nemici [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.], che l'accettarono senza farsi pregare. Aspro e fiero fu il combattimento, e sulle prime fu rovesciata la schiera grossa de' Pisani, abbattuta l'insegna di Luchino Visconte, e fatto prigione Giovanni da Oleggio suo capitano; ma in fine rimasero rotti i Fiorentini, che conquassati si ritirarono il meglio che poterono. Lieve fu l'uccisione; circa mille restarono prigioni, fra' quali alcuni nobili di Firenze col loro generale, e varii contestabili di Mastino e de' marchesi di Ferrara, che si portarono valentemente in quel conflitto. Ma, secondo l'autore della Storia Pistoiese [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], maggior fu la perdita de' vinti di quel che scriva il Villani. In gravi affanni per cotali disgrazie si trovarono i Fiorentini; ma rincorati da Mastino, dai marchesi d'Este e dal Pepoli signore di Bologna, che spedirono loro nuove milizie, si diedero a rifar l'armata e a fornirsi di gente, senza nondimeno poter ottenere dal re Roberto con tutte le lor fervorose istanze aiuto alcuno. Era invecchiato il re, e dal Villani viene imputato che, secondo il costume di quell'età, egli solamente attendesse a raunar moneta. Ma Roberto avea la Sicilia, dove impiegar le forze e il denaro, senza gittarlo in soccorso altrui.

Infatti non lasciava esso re Roberto di continuamente pensare alla Sicilia; ed avendo già conquistata l'isola di [559] Lipari [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 137.], s'avvisò di potere in quest'anno impadronirsi di Milazzo. Pertanto nel dì 11 di giugno spedì verso colà una potente flotta con altra armata per terra, affine di rinfrescar quella di mare a misura del bisogno. Fu assediato Milazzo, e con un lungo trincieramento serrato; nè avendo con tutti i suoi tentativi potuto il re don Pietro dar soccorso alla terra, questa capitolò nel dì 15 di settembre la resa; e fu un bell'acquisto pel re Roberto. Secondochè s'ha da Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.], studiò Luchino Visconte in questi tempi di pubblicar delle belle ed utili leggi per togliere gli abusi introdotti nelle passate rivoluzioni, volendo dappertutto la pace; e quantunque si desse ben a conoscere per ghibellinissimo di genio, pure egual protezione prendeva dei Guelfi, e vegliava alla sicurezza d'ognuno, ad impedire i mangiamenti degli uffiziali ed alla buona custodia della giustizia; di modo che Pietro Azario, allora vivente, ebbe a dire [Petrus Azarius, Chron., cap. 9, tom. 16 Rer. Ital.] ch'egli sarebbe stato tenuto per santo, se fosse stato men aspro e severo nei gastighi, e non avesse così implacabilmente perseguitati i suoi nipoti. Fioriva in questi tempi Francesco Petrarca, uomo allora di mirabil credito nella poesia latina, e che dipoi fu solamente ammirato per la volgare. Essendo egli ito a Napoli, di molte dimostrazioni di stima e finezze ricevette dal re Roberto, principe amator delle lettere e dei letterati [Muratori, Vit. del Petrarca, Rime.]. Voleva esso re indurlo a ricevere in quella metropoli la laurea poetica; ma invitato il Petrarca a Roma, antepose ad ogni altra quell'augusta città; e però, nel dì 8 d'aprile, giorno di Pasqua dell'anno presente, nel Campidoglio con solennità magnifica gli fu conferita la corona d'alloro, dato ampio privilegio, e fatti dei bei regali. Servì poi cotale esempio per invogliar di simile [560] onore altri poeti de' secoli susseguenti; e i più sel procacciarono dagl'imperadori con un pezzo di carta pecorina, pagata nondimeno assai caro da essi.


   
Anno di Cristo mcccxlii. Indizione X.
Clemente VI papa 1.
Imperio vacante.

Nel dì 25 d'aprile di quest'anno, compiè la sua carriera in Avignone Benedetto XII sommo pontefice [Raynaldus, Annal. Eccles. Vitae Pontificum Romanorum, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Son d'accordo quasi tutti gli scrittori d'allora, che s'egli fosse vivuto in secoli meno sconvolti e ferrei, ed avesse goduta la libertà necessaria per operare, di cui era privo pel suo soggiorno negli Stati oltramontani del re Roberto, sarebbe riuscito uno dei più insigni ed utili pastori della Chiesa di Dio: tanto era il suo zelo per la religione, la purità de' costumi, e così buona e retta la sua intenzione in tutte le sue azioni. Per quanto potè, promosse la riforma del clero secolare e regolare, ed allontanò la simonia dalla corte pontificia, vegliando specialmente, acciocchè fossero provvedute le chiese e i benefizii di persone per la dottrina e per la bontà della vita accreditate. Nè si studiò punto d'ingrandire o ingrassare i proprii parenti, anzi volle che seguitassero nella bassezza del loro stato. L'altre sue belle doti e lodevoli operazioni si leggono nella Storia ecclesiastica. Però strano è il vedere come Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.] così fieramente si scagli contro la memoria di questo pontefice, con dire che universale fu l'allegrezza di sua morte, perch'egli avea conturbato tutti gli ordini de' religiosi: il che è un rivolgere in suo biasimo ciò che gli si doveva attribuire a lode, non potendosi negare che in questi tempi il monachismo e fratismo giacesse in una deplorabil corruzion di costumi, [561] ed inosservanza delle sue regole. Aggiugne che lasciò un immenso tesoro, consistente in mille e cinquecento cofani, cadaun de' quali conteneva trenta mila fiorini d'oro (il che darebbe una somma di quarantacinque milioni di fiorini), e gioie inoltre di valore di dugento mila fiorini. Se ciò è vero (ed è anche scritto da uno degli autori della sua Vita, che multum thesaurum Ecclesiae congregavit), non sono io per iscusarlo; ma certo non per vendere benefizii gli avrà accumulati; nè egli amò di scialacquarli in mantener delle armate, come avea praticato il suo predecessore Giovanni XXII. Giugne il Fiamma fino a dire che fu scritto contro di lui un libro per provare che questo papa fu eretico, e che tale era stato suo padre e il figliuolo di un suo fratello: tutte spropositate calunnie. Questo guadagno fece il buon papa coll'aver voluto guarir le piaghe de' frati, e coll'osar infino di riveder quelle de' Predicatori, del qual ordine fu lo stesso Galvano Fiamma. E probabilmente di qua venne l'avere sparlato di lui anche altri vecchi storici. Non istette più di dodici giorni vacante la santa Sede [Vitae Roman. Pontif., P. I et II, tom. 3 Rer. Ital.], perciocchè nel giorno 7 di maggio fu eletto papa il cardinal Pietro Ruggieri, personaggio dotto, magnanimo e liberale, ma che in far da padrone non la cedeva ad alcuno. Era nobilmente nato nella diocesi di Limoges, già monaco benedettino, arcivescovo di Sens, e poi di Roano. Fu con gran solennità coronato col nome di Clemente VI nel giorno della Pentecoste, 19 del mese suddetto, e tardò poco a provveder di pastori le tante chiese che dicono lasciate vacanti da papa Benedetto XII per lo strano scrupolo e timore di mal provvederle, quasichè fosse seccata la sorgente de' buoni nel cristianesimo. All'avviso della creazione di questo novello pontefice, i Romani gli spedirono tosto una magnifica ambasceria [Raynaldus, Annal. Ecclesiast. Vit. Nicolai Laurentii, tom. 3 Antiquit. Ital.], in [562] cui si trovò Cola di Rienzo, eloquentissimo, ma fantastico umore, di cui avremo a parlare fra poco. Le lor suppliche battevano in far premura al papa per la sua sospirata venuta. Anche il Petrarca [Petrarcha, lib. 2 Epist.] con un suo poemetto latino tentò di spronarlo a sì bella e giusta impresa: passi tutti e parole gittate, perchè già era fitto il chiodo, nè si volea muovere di Francia la corte pontificia. A questo fine non solamente Benedetto XII avea cominciato in Avignone a far fabbricare un superbissimo palagio per la residenza de' papi, ma anche i cardinali vi aveano edificati dei bei palagi per loro stessi.

Continuarono tutto il verno ostinatamente i Pisani l'assedio di Lucca: nel qual tempo i Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 11, cap. 138.] niuna diligenza lasciarono indietro per mettere insieme una poderosissima armala, consistente in cinque mila cavalli e fanteria senza fine [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Si mosse questa da Firenze nel giorno 25 di marzo con animo di soccorrere l'angustiata città. Capitan generale era Malatesta de' Malatesti signore di Rimini. Un mese e mezzo spese egli senza far nulla, perchè vanamente adescato di qualche accordo da Nolfo figliuolo del conte Federigo dà Montefeltro, capitano de' Pisani. Intanto una grave sciagura occorse alla città d'Arezzo [Giovanni Villani, lib. 11. Johannes de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.]. Trapelò che i Pisani erano dietro a far rubellare quella città ai Fiorentini. Vero o falso che fosse, preso fu Pier Saccone de' Tarlati, il quale dianzi avea ceduta loro quella città, con assai altri suoi consorti, e tutti andarono a riposar nelle carceri di Firenze. Furono inoltre cacciati da Arezzo tutti i fazionarii ghibellini, il numero de' quali, se crediamo a Giovanni da Bazano, ascese a più di quattro mila persone: con che quella città rimase come disfatta. Ribellaronsi ancora gli Ubaldini al comune di Firenze, [563] e gli fecero guerra colla presa di varie castella. Ora il Malatesta, che vide svanite le speranze del progettato accordo, nel giorno primo di maggio andò ad accamparsi in faccia ai Pisani assediatori di Lucca, cercando tutte le vie o di tirare a battaglia i nemici, o di forzare i loro trincieramenti, per introdur gente e vettovaglie nella città. Si tennero stretti nel campo loro i Pisani, senza voler azzardare un fatto d'armi. Riuscì ad alcune squadre fiorentine di valicare il fiume Serchio, e di atterrar parte degli steccati con danno de' Pisani; ma furono respinte, e in questo mentre cominciò la pioggia, che fece ingrossare il fiume e tolse la speranza al Malatesta di più penetrar da quella parte. A tali disgrazie si aggiunse la penuria delle vettovaglie: laonde egli nel dì 19 di maggio levò il campo, e, passato al Ceruglio, gli diede battaglia, senza poterlo avere. Spedì poi gran gente nel territorio di Pisa, che vi recarono bensì de' gravissimi danni, ma non liberarono da vergogna e scorno lui e tutta l'oste de' Fiorentini, per aver così infelicemente tentato il soccorso di Lucca; i cui difensori, al vedere estinta ogni loro speranza per la ritirata dell'esercito amico, finalmente nel dì 6 di luglio capitolarono la resa della città, salve le persone col loro equipaggio. Così venne Lucca in poter de' Pisani; e il comune di Firenze, che avea spese centinaia di migliaia di fiorini d'oro per sostener quella guerra, non sapea darsi pace di un sì contrario avvenimento; e tanto più perchè non aveano accettato un partito di aggiustamento, per cui i Pisani aveano loro esibito cento ottanta mila fiorini d'oro per una sola volta, e inoltre dieci altri mila fiorini d'omaggio ogni anno in perpetuo. Ne erano contenti i saggi, ma dai meno assennati, che forse erano i più, rimase disturbato il contratto: difetto assai facile ne' governi, qualora dipendano da assaissimi, e massimamente da' giovani, le risoluzioni negli scabrosi affari.

[564]

Era in questi tempi capitano all'esercito de' Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 1.] con cento e venti uomini a cavallo Gualtieri duca di Atene, ma solo di titolo, e conte di Brenna, barone franzese, i cui maggiori già vedemmo re di Gerusalemme. Seco portava egli il credito di raro valore e maestria di guerra. I buoni Fiorentini, senza sapere che volpe fosse quella, e che con tutti quei bei titoli egli era poverissimo di moneta, anzi vagabondo e fallito, giacchè si trovavano mal soddisfatti di Malatesta lor capitano, gli esibirono la carica di capitano e conservatore del popolo. L'accettò egli con gran benignità, e tosto cominciò a far tagliare teste ad alcuni ricchi del popolo, ed a farsi rendere ragione dell'amministrazione del danaro del pubblico, con assai condanne in favor del fisco: rigore che dispiacque a moltissimi, attesochè alcuni di essi erano creduti innocenti; ma diede nel genio ai nobili, che voleano abbassata la potenza del popolo. Tanto poi seppe fare lo scaltrito duca, ben conoscente delle divisioni de Fiorentini, che nel generale parlamento tenuto nel giorno ottavo di settembre si fece proclamar signore a vita di Firenze e del suo distretto. Il lupo è nella mandra: suo danno, se non saprà sfamarsi. Abbassò egli tosto i priori ed altri uffiziali; prese al suo soldo circa ottocento cavalieri franzesi e borgognoni, oltre ad altri italiani; conchiuse pace coi Pisani con vantaggiose condizioni, ma al dispetto de' Fiorentini troppo irritati contro al comune di Pisa; nella qual occasione Giovanni Visconte da Oleggio cogli altri prigionieri fu rimesso in libertà. Poi mille altre novità fece il duca d'Atene in Firenze, tutte ad una ad una annoverate da Giovanni Villani, e tutte in oppressione della libertà di quel popolo, e de' grandi stessi che l'aveano aiutato a salire. Il peggio fu che cominciò a spremere le borse del popolo con estimi, prestanze ed altre gravezze, accumulando fuori dello Stato quanta moneta potè. Se [565] di così buon signore fossero contenti i Fiorentini, poco ci vuole ad immaginarselo. In quest'anno nel dì 8 di agosto finì di vivere don Pietro re Aragona re di Sicilia, e gli succedette Lodovico suo figliuolo di età solamente di cinque anni e sette mesi [Fazell., de Reb. Sic., dec. 2, lib. 9.] sotto la tutela di Giovanni duca di Randazzo, suo zio paterno, il quale, essendosi ribellata Messina, e data al re Roberto, accorse a tempo, e la rimise sotto l'ubbidienza del nipote. Il Villani [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 13.] dà questa gloria a Guglielmo, altro zio del re novello.

Già s'è veduto come Lodrisio Visconte fu il primo a dar esempio ad altri di formar delle compagnie di soldati masnadieri e ladri. La composta da lui andò presto in fumo. Se ne formò un'altra picciola sotto il comando di Malerba capitano tedesco, il quale passò ai servigi di Giovanni marchese di Monferrato. Nell'anno presente avvenne di peggio. Correvano i Tedeschi al soldo degl'Italiani, ed ora a questo ora a quel principe servivano, ma con fede sempre incerta, non mantenendo essi le promesse, se capitava un maggiore offerente. Fu licenziata una gran frotta di costoro dal comune di Pisa. Guarnieri, duca di non so qual luogo di Germania, fecesi capo di questa gente; molto più ne raunò da altre contrade di Italia, e vi si unirono anche assaissimi Italiani: con che si formò una compagnia, dagli storici toscani appellata compagna, di più di tre mila cavalli, e di copiosa moltitudine di fanti, meretrici, ragazzi, ribaldi: gente tutta bestiale, senza legge, sol volta ai saccheggi, agl'incendii, agli stupri. Guai a quel paese dove giugnea questo flagello. Prima degli altri a farne pruova fu il territorio di Siena [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.]. Li mandò in pace quel popolo collo sborso di due mila e cinquecento fiorini d'oro. Portarono il malanno sopra il distretto della Città di Castello, d'Assisi e d'altri luoghi. Il duca d'Atene, i Perugini ed [566] altri popoli coll'esorcismo d'alcune migliaia di fiorini fecero passare questo mal tempo in Romagna [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Nel dì 7 di ottobre arrivò essa compagnia, chiamata dagli scrittori la gran compagna, a Rimini, e gran danno fece a quel distretto. Erasi ribellata la città di Fano a Malatesta signore d'esso Rimini [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; e benchè vi accorresse Pandolfo suo figliuolo, e pel castello, che si conservava tuttavia alla sua divozione, uscito a battaglia coi cittadini, molti ne uccidesse; pure non potè ricuperar la città. Il perchè Malatesta, avendo preso al suo servigio quella bestial compagnia, verso il dì 6 di dicembre andò all'assedio di Fano, la qual città se gli arrendè poscia nel dì 15 di esso mese. Di gran faccende ebbero e di molti parlamenti fecero in Ferrara Obizzo marchese d'Este, Mastino dalla Scala e Taddeo de' Pepoli signor di Bologna, o prevedendo o sentendo già le minaccie che quella spietata gente volea scaricarsi sopra de' loro Stati [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Fecero essi lega insieme per questo, e v'entrarono i signori d'Imola e Faenza, Ostasio da Polenta signore di Ravenna e Cervia. Giovanni figliuolo di Taddeo Pepoli, assistito dalle suddette amistà, con una bell'oste cavalcò a Faenza per contrastare il passo al duca Guarnieri, se gli veniva talento di voltarsi a queste parti. Circa tre mila e cinquecento cavalli fu detto che il Pepoli conducesse a quell'impresa, oltre alla numerosa fanteria, ed oltre a due quartieri del popolo di Bologna. Ma, senza far pruova dell'armi, si trovò poi altro temperamento a questo bisogno, siccome vedremo all'anno seguente. Secondo Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic.], essendo già morto Aicardo arcivescovo di Milano, gli succedette in quell'insigne chiesa Giovanni Visconte, fratello di Luchino, già vescovo e signor temporale di Novara, nel dì 6 [567] d'agosto dell'anno presente. A vele gonfie entra qui il suddetto Fiamma nelle lodi di questo prelato, esagerando le di lui belle doti, e specialmente la magnificenza, nel qual pregio superava tutti i prelati d'Italia. Ma dimenticò egli di accennar anche l'estrema di lui ambizione e i suoi troppo secolareschi pensieri, che noi vedremo saltar fuori, andando innanzi. Aggiugne il medesimo scrittore, che macchinando i Pavesi contra de' fratelli Visconti, cioè di Luchino e d'esso Giovanni, fecero questi un formidabil preparamento per terra e per acqua affine di mettere l'assedio a Pavia. Tal fu il terrore incusso a quel popolo, che trattarono tosto d'accordo con quelle condizioni che vollero i Visconti, salvando bensì la libertà, ma con dipendenza da essi. Morì nell'agosto di questo anno Carlo Uberto re d'Ungheria, e quella corona pervenne a Lodovico suo figliuolo. L'altro suo figliuolo Andrea era alla corte di Napoli, sposo di Giovanna nipote del re Roberto, coll'espettativa della successione in quel regno.


   
Anno di Cristo mcccxliii. Indizione XI.
Clemente VI papa 2.
Imperio vacante.

Si videro in quest'anno da papa Clemente VI confermate contra di Lodovico il Bavaro tutte le censure di papa Giovanni XXII. Cercò questi di placarlo [Albertus Argentinus, Chron. Raynaldus, Annal. Eccles.], e, a persuasione del re di Francia, che gli facea dell'amico, spedì ad Avignone solenni ambasciatori con facoltà di accettare tutte le condizioni che al papa fosse piaciuto d'imporgli. Gli fu imposto di confessar tutte le eresie che gli venivano imputate, di deporre l'imperio, e di nol ricevere se non dalle mani del papa; di consegnar prima nelle mani d'esso pontefice la persona sua e de' suoi figliuoli; e finalmente di cedere alla Sede apostolica molte terre e diritti dell'imperio. [568] Portate in Germania queste condizioni, nella dieta de' principi furono trovate sì esorbitanti ed ignominiose, che tutti protestarono non potersi elle accettare, e d'essere tutti pronti a sostenere le ragioni dell'imperio contra della prepotenza del papa, il quale intanto cavava buon profitto dalla vacanza di esso coi censi imposti ai vicarii del regno italico. Ma papa Clemente già tesseva una tela per creare un altro imperadore, siccome risoluto di non voler mai in quel grado il duca di Baviera. Presto ce ne avvedremo. Terminò il corso di sua vita in quest'anno nel giorno 19 di gennaio Roberto re di Napoli, e signore della Provenza e d'altri Stati in Piemonte, principe non men celebre per la sua pietà, che per la sua letteratura, per la giustizia, saviezza e per molte altre virtù. Dal Villani è scritto [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 9.] ch'egli in vecchiaia si lasciò guastare dall'avarizia, per cui restò erede di gran tesoro sua nipote. Nè vo' lasciar di accennare che la morte di questo re vien posta da Domenico da Gravina [Dominicus de Gravina, Chron., tom. 12 Rer. Ital.], autore contemporaneo, anno domini MCCCXLII, mense januarii, decima Indictione, XIV die mensis ejusdem; e però sarebbe da riferire all'anno precedente, in cui correva l'indizione decima. La Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] e la Sanese [Cronica Sanese, tom. eod.] vanno anch'esse d'accordo col Gravina. Tuttavia non si può dipartire dal Villani, il qual mette la morte di esso re nel 1542, seguendo l'era fiorentina, e che conduce l'anno 1542 sino al giorno 25 di marzo del nostro 1543. Con esso convengono Giorgio Stella negli Annali di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], Giovanni da Bazano [Johann. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital.] e gli storici napoletani. Però, in vece dell'Indictione X, si dee credere che il Gravina scrivesse [569] Indictione XI. Non restò prole maschile del re Roberto, ma bensì due sue nipoti, figliuole del fu Carlo duca di Calabria, cioè Giovanna e Maria. Erede del regno fu la prima, già sposata col giovinetto Andrea fratello di Lodovico re d'Ungheria, la quale fu poi coronata per le mani del cardinale Aimerico legato pontificio, ma senza che al consorte Andrea fosse conferita la medesima corona. Si accorsero in breve i Napoletani del fulmine sopra di loro scagliato nella caduta del savio re Roberto, perchè non tardò a sconvolgersi il regno, e poscia ad andar tutto in rovina. Di circa sedici anni era Giovanna, che, posta in libertà, nè discernimento avea per guardarsi da chi cercava di sedurla, nè mettea guardia alle sue giovanili inclinazioni. Cominciò a disamare il marito, forse anche mai non l'avea amato, perchè non s'era egli per anche saputo spogliare della barbarie ungarica, nè mostrava abbondanza di prudenza e di senno. Insolentivano i suoi uffiziali e cortigiani ungheri; e, per accrescere maggiormente il fuoco della dissensione, si trovavano allora in Napoli molti principi della real casa, appellati perciò i Reali, cadauno de' quali aspirava al regno, o almeno al comando. Fra gli altri furbescamente, e al dispetto degli Ungheri, Carlo duca di Durazzo sposò Maria sorella della regina Giovanna: matrimonio che partorì molta discordia e peggiori conseguenze in avvenire. Io non mi dilungherò maggiormente in descrivere il disordine in cui restò la real corte di Napoli, perchè ciò esigerebbe una narrazion troppo diffusa. Ne andrò solamente accennando i principali avvenimenti, secondochè il filo della storia richiederà.

Nell'anno presente ancora a' dì 4 di gennaio, essendo già mancato di vita Bartolomeo Gradenigo doge di Venezia [Raphael Caresinus, Chron., tom. 12 Rer. Ital. Marino Sanuto, Istor., tom. 22 Rer. Ital.], fu eletto per quella dignità Andrea Dandolo, quel medesimo a cui siam [570] tenuti per la bella Storia veneta, da me data alla luce. Non avea egli che 36 anni, e pure, contra l'uso di quella saggia repubblica, ascese al trono: cotanto era in credito la di lui prudenza, onestà, sapere e cortesia. Vegniamo ora agli affari di Firenze. Lo studio continuo di Gualtieri duca d'Atene, signore di quella città, era di schiantare affatto la libertà de' Fiorentini [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 15.], e di assodar sè stesso in un'assoluta signoria: al qual fine avea contratta lega co' marchesi estensi, cogli Scaligeri, Pepoli ed altri signori, abbassando intanto in casa chi poteva opporsi a' suoi voleri, strapazzando la nobiltà, e valendosi di ministri crudeli ed ingiusti. A così fatto asprissimo governo non era avvezzo nè sapeva adattarsi il popolo di Firenze; e però si cominciarono a formar segretamente delle congiure contra di lui da varii cittadini di tutti gli ordini, senza che l'uno sapesse dell'altro. Della principale venne in conoscenza il duca; ma ritrovato che vi teneano mano tante grandi e potenti famiglie, servì questo solamente a mettere lui e il popolo in maggior gelosia e timore. Pure avea egli messi i suoi pezzi a segno per farne una memorabil vendetta nel giorno 20 di luglio, festa di sant'Anna, quando nel medesimo giorno si alzò universalmente a rumore la cittadinanza, risoluta di tutto mettere a repentaglio per liberarsi dall'odiato non signore, ma tiranno. Abbarrata e asserragliata ogni via della città per impedire il corso alla cavalleria del duca, corsero in furia a rompere le prigioni delle Stinche, presero e saccheggiarono il palazzo del podestà, ed assediarono il duca nello stesso palazzo. Gran soccorso venne loro da Siena [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.], da San Miniato e da altri luoghi; e maggiormente perciò animati strinsero tanto l'assedio, che obbligarono il duca e i suoi Borgognoni per la fame a chiedere misericordia, a dar loro nelle mani alcuni degli spietati suoi uffiziali della giustizia, [571] nella strage de' quali si sfogò alquanto la rabbia del popolo. Consentirono in fine nel giorno terzo di agosto che il duca se ne potesse uscire, salva la vita di lui e de' suoi, e di poter seco condurre il bagaglio, con rinunziare giuridicamente ad ogni sua ragione e pretensione sopra quella città. In questa maniera ricuperarono la loro libertà, ma con gravissimo lor danno; imperciocchè Pistoia nel dì 27 di luglio [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.] si ribellò, disfece il castello e cominciò a reggersi a comune, tenendo nondimeno la parte guelfa. Arezzo, Volterra, Colle e San Geminiano fecero altrettanto: sicchè ben caro costò a Firenze la riacquistata sua libertà. A tali disavventure si aggiunse la discordia cittadinesca fra i nobili e il popolo. Pretendeano i primi, sì per la ragion comune della cittadinanza, come pel merito d'aver cooperato al riacquisto della libertà, d'entrare a parte degli onori e degli uffizii della città, e alcun di loro fu anche ammesso nel numero dei priori; ma il popolo, sempre timoroso della prepotenza de' grandi (e in fatti cominciò a provarne gli effetti), spronato da Giovanni dalla Tosa e da altri, diedero un dì all'armi, e cacciarono i priori nobili. Sdegnata perciò la nobiltà si preparava anch'essa a valersi della forza; e, nata perciò un'universal sollevazione del popolo, si venne a battaglia con alcune delle più potenti e ricche famiglie di Firenze, specialmente co' Bardi e Frescobaldi, i palagi de' quali, vinti colla forza e saccheggiati, furono dal fuoco distrutti. Si quetò in fine il rumore, e Firenze fu ridotta a governo popolare, e, quel ch'è più, al governo del popolo minuto.

Minacciando più che mai la gran compagnia masnadiera del duca Guarnieri di passar dalla Romagna su quel di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital. Matthaeus de Griffonibus, Chron., tom. eodem.], Taddeo de' Popoli signore di quella città, invece di avventurare [572] una battaglia con gente disperata, e che nulla avea da perdere, s'appigliò al saggio partito di difendersi coll'oro, e vi acconsentirono gli Estensi e Scaligeri suoi collegati. Passò dunque nel giorno 25 o 26 di gennaio quella barbarica armata pel contado di Bologna senza far danno. Nel dì 28 o 29 venne ad accamparsi nelle ville del Modenese [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.] al Colombaro, al Montale, a Mugnano, Formigine, Bazovara, e vi si fermò per otto giorni [Chron. Estense, tom. eod.]. Contuttochè da Modena fosse recata a costoro l'occorrente vettovaglia, pure fecero un netto di tutto il foraggio, vino e masserizie dei contadini, e molti ancora della povera gente si trovarono impiccati da razza cotanto spietata. Andarono poi nel dì 4 di febbraio su quel di Reggio, e di là sul Mantovano, commettendo dappertutto indicibili danni e violenze. Tornarono dipoi sul Modenese a Ganaceto, Soliera, Carpi, Campo Galliano, e ad altre ville. Tutto era pieno di desolazione. L'ultimo ripiego per allontanar sì grave tempesta fu di accordarsi con loro, pagando dieci mila fiorini d'oro: con che dessero buoni ostaggi d'andarsene con Dio alle case loro. Fu data esecuzione all'accordo; e quella mala gente piena d'oro e di spoglie, parte se ne tornò in Germania, e parte divisa entrò al soldo di varii principi d'Italia [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Era in questi tempi guerra fra i marchesi estensi, Scaligeri e Pepoli dall'una parte, Luchino Visconte e i Gonzaghi dall'altra. Nel dì 21 di gennaio, avendo Obizzo marchese d'Este qualche trattato in Parma, colle sue genti e con quelle de' collegati, alle quali s'unirono Giberto da San Vitale, Vecchio de' Rossi, Ugolino Lupo ed altri Parmigiani, segretamente cavalcò alla volta di Parma. Perchè non ebbe effetto il trattato, se ne tornarono indietro colle pive nel sacco, senza recar danno ad alcuno. Seguì poi nel giorno [573] 25 di marzo una tregua di tre anni fra il Visconte, gli Estensi e gli altri alleati. Parimente nel maggio di quest'anno Mastino dalla Scala signor di Verona e Vicenza, ed Ubertino da Carrara signor di Padova [Cortusiorum Histor., tom. 12 Rer. Ital.] giudicarono più spediente il dar fine alla vecchia lor nemicizia, ed, insieme abboccatisi a Montagnana, si abbracciarono e fecero pace fra loro: il che recò non poca gelosia ai Veneziani, signori allora di Trivigi.


   
Anno di Cristo mcccxliv. Indizione XII.
Clemente VI papa 3.
Imperio vacante.

Nel dì 28 o 29 di maggio mancò di vita in Ferrara Niccolò marchese d'Este, e al corpo di lui con gran solennità fu data sepoltura [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Johannes de Bazano, Chron. Mutinense, tom. eod.]. Restò perciò unico signore di Ferrara e Modena il marchese Obizzo, il quale in quest'anno appunto acconciò i suoi interessi con papa Clemente VI, ricevendo da lui la conferma del vicariato di Ferrara, con promettere l'annuo censo per quella città alla santa Sede, e un altro per Argenta all'arcivescovo di Ravenna. In molte angustie si trovavano in questi tempi Azzo e Guido da Correggio signori di Parma. Durava contra di loro la nemicizia di Mastino dalla Scala, collegato degli Estensi e de' Pepoli. Aveano anche sulle spalle i Sanvitali, Rossi, Lupi ed altre potenti famiglie fuoruscite di quella città, che faceano lor temere qualche occulta congiura fra gli stessi cittadini. Vennero dunque in parere di vendere Parma al suddetto marchese Obizzo per settanta mila fiorini d'oro. Non fu difficile al marchese di ottenere da Mastino dalla Scala il beneplacito di accudire a questo trattato, perchè così veniva lo Scaligero a vendicarsi de' Correggeschi, e s'impediva che Parma non cadesse nelle mani di Luchino Visconte, principe che più degli altri pensava a [574] dilatare il suo dominio. Stabilito il contratto nel dì 23 d'ottobre [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], fu spedito dal marchese con alcune squadre di cavalleria e fanteria Giberto da Fogliano a prendere il possesso di quella città, che gli fu dato dal suddetto Azzo da Correggio. Ma restò ben deluso Guido suo fratello, perchè Azzo, aggraffato tutto quell'oro, niuna parte a lui ne lasciò toccare; laonde Guido con Giberto ed Azzo suoi figliuoli disgustato si ritirò a Brescello e Correggio sue terre. Tenuto fu poscia un parlamento in Modena nel dì quarto di novembre, dove, intervenuti Mastino dalla Scala, e il suddetto Azzo con Giovanni suo fratello e Cagnolo nipote, cederono ogni lor ragione sopra Parma al marchese Obizzo. Disposte in questa maniera le cose, ed ottenuto un passaporto da Filippino da Gonzaga signore di Reggio, si mosse da Modena il marchese nel dì 10 di novembre con quantità numerosa di fanti e cavalli per andare a visitar l'acquistata città. Seco erano Malatesta signore di Rimini, Ostasio da Polenta signor di Ravenna e Cervia, Giovanni figlio di Alberghettino dei Manfredi signor d'Imola, ed altra fiorita nobiltà. Incontrato ed accolto con somma allegrezza dai Parmigiani, nel dì 24 di novembre fu da essi eletto e proclamato per loro signore. Fin qui il sereno non potea essere più bello, ma durò ben poco.

In questo mentre Filippino da Gonzaga, ito a Milano, congiurò con Luchino Visconte alla rovina dell'Estense, e niuna difficoltà trovò in lui, perchè gli fece sperar l'acquisto di Parma. Luchino, senza mettersi in pena per la tregua già stabilita coll'Estense, diede al Gonzaga ottocento cavalieri, e molte bande di fanti e balestrieri, che segretamente per varie vie s'inviarono a Reggio [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Ora nel dì 6 di dicembre, dopo aver lasciato buon ordine in Parma, si mise in viaggio [575] il marchese colle sue genti per tornarsene a Modena, e si fermò la notte a Montecchio. Nel giorno seguente, arrivate le sue milizie alla villa di Rivalta del distretto di Reggio di Lombardia, scoppiò il tradimento del Gonzaga, ch'era in agguato con tutte le sue forze, ed improvvisamente assalì i mal venuti. Marciavano senza alcuna ordinanza e con tutta pace le genti dell'Estense, e perciò furono ben tosto messe in isconfitta, restando prigioni settecento ventidue persone, e fra loro molti contestabili e nobili, cioè Giberto da Fogliano con un figliuolo e nipote, Giovanni de' Malatesti da Rimini, Sassuolo da Sassuolo, ed altri ch'io tralascio. Per la valida difesa de' Tedeschi fu riscosso dalle mani de' nemici il marchese Francesco Estense figliuolo del fu Bertoldo. Veniva dietro alle sue genti il marchese Obizzo cogli altri signori, e, udito l'inaspettato colpo, si ritirò a Montecchio, e di là a Parma. Gran rumore fece per tutta Lombardia la fellonia ed infame impresa di Filippino da Gonzaga [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 34. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]; ed egli se ne scusava con dire d'aver bensì conceduto il passaporto per l'andare, ma non già pel ritornare: scusa da non adoperarsi se non da principi di mala fede e di poca onoratezza. Dopo avere il marchese Obizzo lasciato per suo vicario in Parma il marchese Francesco suddetto, nel dì 21 di dicembre venne a Piolo, poscia a Frassinoro e Monfestino, e nel dì del santo Natale fu in Modena. Mastino dalla Scala, il Pepoli e Francesco degli Ordelaffi, ognun di essi gli mandò rinforzi di gente. Erasi Luchino Visconte disgustato co' Pisani [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 25.] pel mal trattamento (diceva egli) da lor fatto a Giovanni da Oleggio suo capitano [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], e per aver essi cacciati dalla città di Lucca i figliuoli di Castruccio. Ai potenti non mancano mai pretesti per isfoderar la spada contra chi è da meno, [576] Mandò perciò in aiuto del vescovo di Luni mille e ducento cavalieri. Pietrasanta e Massa furono prese dal vescovo, e la gente di Luchino nel dì 5 d'aprile in una battaglia diede una fiera percossa ai Pisani, e passò anche sul loro contado, prendendo varie terre. Se non era la pestilenza ch'entrò nell'armata del Visconte, si trovava a mal partito il comune di Pisa. La instabile città di Genova cangiò di doge sul fine di quest'anno [Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 18 Rer. Ital.]. Era malveduto Simone Boccanegra dalle quattro principali famiglie di quella città, cioè dai Doria, Spinoli, Fieschi e Grimaldi, in parte allora fuoruscite. Di gran partigiani aveano queste entro e fuori di Genova. Però venuti i fuorusciti ne' borghi della città, senza recar danno alcuno, il Boccanegra, accortosi di quel che si tramava, non volle aspettare di scendere per forza, ma occultamente nel dì 23 di dicembre si ritirò co' fratelli e colla famiglia, andando a Pisa. Entrarono gli usciti; la pace si ristabilì, e poi, non senza tumulto, fu nel giorno di Natale proclamato doge di quella città Giovanni da Murta dell'ordine de' nobili. Ma poco stette a sconvolgersi Genova per la divisione e discordia, troppo allora familiare in quell'altero popolo, siccome apparirà all'anno seguente.


   
Anno di Cristo mcccxlv. Indizione XIII.
Clemente VI papa 4.
Imperio vacante.

Fu memorabile quest'anno per l'orrida tragedia della morte d'Andrea fratello di Lodovico re d'Ungheria, e marito di Giovanna I regina di Napoli [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 50. Dominicus de Gravina, tom. 12 Rer. Ital.]. Dolevasi egli di veder la corona sul capo alla moglie, e sè stesso privo di quell'onore, e, per conseguente, di poca autorità, contro i patti già stabiliti nel suo accasamento. Tanto maneggio si fece in [577] Avignone, che papa Clemente VI finalmente ordinò la sua coronazione, e deputò un cardinale legato per la funzione. Allora fu che la regina, la quale non amava di aver compagni sul trono, e taluno dei Reali, aspiranti al trono medesimo, e i malvagi ministri, de' quali abbondava allora la corte di Napoli, determinarono di togliere di vita questo principe, prima ch'egli giugnesse a prendere in mano le redini del governo. Qui, secondo le passioni ordinarie degli storici, gran discordia si truova in assegnar le cagioni dell'avversione di Giovanna al principe marito. Alcuni ci rappresentano essa Giovanna innocente, ed Andrea per giovane di poco senno, barbaro ne' suoi costumi, circondato da ministri ungheri più barbari di lui e insolenti [Johann. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital.]. Sognarono ancora ch'egli non era atto a soddisfare ai doveri del matrimonio. Altri poi cel dipingono [Petrarcha, lib. 6, Epist. 5. Vita Clementis VI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.] per un agnello e principe dotato di molta virtù, ed essere solamente stato imprudente nel lasciarsi scappare di bocca che gastigherebbe chiunque allora si abusava della confidenza colla regina, in obbrobrio d'essa e in danno del pubblico. Aggiungono che Giovanna s'era data ad una vita libertina, e, vivendo in adulterio, e in una corte, dove trionfava il vizio, non potea sofferire che il marito giugnesse al comando, per cui anche a lei sarebbe toccata la briglia. Quel che è certissimo, nè osa negarlo Tristano Caracciolo [Tristan. Caracciol., in Johann. I Vit., tom. 22 Rer. Ital.], il qual pure prese, un secolo e più dipoi, a difendere la fama di questa regina, essa fu consapevole dell'infame trattato contro il marito. Venuta quella corte a diporto ad Aversa, nella mezza notte del dì 18 di settembre i camerieri svegliarono Andrea, e col pretesto che in Napoli fosse tumulto, il fecero uscir di camera della regina. Ma non così tosto fu uscito, che i congiurati gli misero un [578] laccio alla gola e lo strozzarono; poscia da una finestra gittarono il di lui corpo giù nel giardino, come se colà fosse caduto da sè stesso. Che orrore, che strepito facesse un sì barbaro assassinio in Aversa, in Napoli, anzi per tutta Europa, non si può dire. Nella Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] è narrato diffusamente il fatto. Piena allora di paura corse la regina Giovanna a Napoli, e, sentendo vicina una sollevazione, non potè di meno di non permettere che fosse formato processo: laonde aspra giustizia si fece d'alcuni, ma senza toccare Carlo duca di Durazzo, creduto manipolatore di tanta iniquità; e molto men contro la regina, la quale tanto al papa quanto al re d'Ungheria volle far credere d'essere innocente, senza nondimeno che ne restasse persuaso alcuno. Infiniti malanni produsse poi questo esecrando eccesso, che accenneremo fra poco.

Terminò sua vita in quest'anno nel dì 25, oppure in uno de' seguenti giorni di marzo, Ubertino da Carrara signore di Padova [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital. Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital.], con lasciar dopo di sè la memoria d'essere stato uomo violento, perduto nella libidine, ed implacabil persecutore de' suoi ribelli. Dichiarò suo successore ed erede Marsilietto Pappafava della casa da Carrara, e suo parente, ma lontano. Era quest'uomo dabbene e giusto, prometteva perciò un buon governo al popolo suo; ma non seppe il misero ben guardarsi dall'ambizione altrui. Jacopo da Carrara, figliuolo di Niccolò e nipote del suddetto Ubertino, parendogli fatto gran torto nell'anteporre a lui Marsilietto, dopo aver guadagnato con belle promesse alcuni dei di lui familiari [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.], nella notte del di cinque, oppure nove di maggio introdotto con molti armati nella camera di esso Marsilietto, quivi a man salva l'uccise. Servitosi poi del di lui sigillo, prima che si divolgasse il micidiale eccesso, fece prendere la tenuta di Monselice [579] e delle altre fortezze, si assicurò de' nipoti di Marsilietto, e dal popolo, che non potea di meno, venuto il dì, fu proclamato signore. Non bastò a Filippino Gonzaga d'aver fatto l'insulto ad Obizzo marchese d'Este, che narrai nell'anno precedente; mosse anche aperta guerra a lui, e a Mastino dalla Scala di lui collegato. Luchino Visconte era quegli che facea forte colle sue genti il Gonzaga, ridendosi della tregua non ancor finita coll'Estense. Nel dì 22 di gennaio marciò Filippino sul Veronese coll'esercito suo a' danni degli Scaligeri, e vi si fermò alquanti giorni. Capitò in questi tempi in Lombardia un legato del papa con far correre voce di voler mettere pace fra i principi; ordinò anche molti parlamenti, ma senza giovare ad alcuno. Ebbe nondimeno l'avvertenza di giovare a sè stesso, perchè fu ben regalato da tutti; e quasi che fosse venuto solamente per rallegrar la sua borsa, senza prendersi maggior briga, se ne andò con Dio.

Durando tuttavia la guerra del suddetto Luchino Visconte contra de' Pisani [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], spedì egli in Toscana con gran gente il suddetto Filippino. In tali angustie si trovarono allora i Pisani, che cominciarono a trattare di comperar la pace; e buon per loro che allora il Visconte e il Gonzaga ebbero bisogno di accudire ai loro affari di Lombardia, e di richiamar di Toscana le loro milizie. Promisero i Pisani di pagare a Luchino ottanta mila fiorini d'oro (il Villani dice cento mila [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 37.]) per una volta sola, ed ogni anno un palafreno e due falconi, e di rendere i lor beni ai figliuoli di Castruccio. Ecco se sapeva il Visconte far ben profittare l'armi sue in questi tempi. Intanto Obizzo marchese d'Este avea stretta una buona lega con Mastino dalla Scala e con Taddeo de' Pepoli contra di Luchino e dei Gonzaghi, per difesa della sua città di Parma [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; e, quantunque il [580] Pepoli promettesse molto, ed attendesse poco, pure colle sue forze e con quelle poche che potè ricavar da essi alleati, nel dì 16 di marzo cavalcò sul Reggiano, ed impadronissi di San Polo, delle quattro castella, di Covriago e d'altri luoghi. Nel dì 4 d'aprile i Rossi cogli altri Ghibellini di Parma, attizzati dal segreto favore di Luchino, fecero una sollevazione in Parma. Il marchese Francesco d'Este, vicario ivi per Obizzo, coi Sanvitali e coi Guelfi prevalse all'empito loro; laonde molti furono presi e decapitati. Venuto poscia un buon rinforzo di Tedeschi a Parma, inviato colà da Mastino, nel dì 26 di giugno si mosse da Parma l'esercito estense, e, all'improvviso presentatosi alla città di Reggio, diede la scalata alle mura, e gran gente v'entrò combattendo fino alla piazza [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Quel popolo, trovandosi troppo tenagliato, nulla più desiderava che di rimettersi sotto gli Estensi. Ma perchè non giunse a tempo, per mancanza di scale, l'aiuto che occorreva, furono respinte da Filippino le genti dell'Estense, e molti vi rimasero presi, uccisi ed annegati nelle fosse. Tornate poi che furono in Lombardia le soldatesche di Luchino [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.], maggiormente si rinforzò la guerra. Grossissima era l'oste del Visconte e de' Gonzaghi; questa, dopo aver preso Soragna e Castelnuovo, si accampò a Colecchio. Uscì anche di Parma il marchese Francesco Estense, e si mise a fronte dell'esercito nemico. Andò il guanto della disfida per una giornata campale, che fu esibita ed accettata da esso marchese; ma quando pur si credea imminente il conflitto, le genti del Visconte si ritirarono, ed ebbero dipoi alcune spelazzate da quei dello Estense.

Ribellossi nel mese d'agosto di questo anno ai Veneziani la città di Zara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital. Marino Sanuto, Istor., tom. 22 Rer. Ital. Caresinus, Chron., tom. 12 Rer. Italic.]. [581] Un potente esercito per mare e per terra fu spedito colà affine di ricuperarla. Furono fatte molte bastie intorno alla terra, e dati de' furiosi assalti; ma quel popolo con gran vigore si sostenne, e soffrì l'assedio per tutto il verno seguente. Quando si credea rimessa la pace in Genova per l'elezione di Giovanni da Murta doge [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], dovendovi rientrare senza armi i fuorusciti, si sconcertarono più che mai gli affari. Non fu permesso ai nobili il ritorno alla patria; anzi il popolo sollevossi, e li costrinse coll'armi a ritirarsi dai borghi della città; e dipoi, formato un esercito, marciò per ricuperar dalle mani d'essi nobili Porto Maurizio, Diano e Oneglia; e in fatti ritornarono in lor potere que' luoghi. Per mettere fine a questa confusione, fu rimessa a Luchino Visconte la decision delle loro liti; e questi, dopo avere nel dì 18 di giugno intimata la tregua fra essi, nel dì 6 di luglio proferì poi il laudo della pace, per cui fu permesso ai fuorusciti di tornare in Genova, a riserva d'alcuni degli Spinoli, Grimaldi e Fieschi, obbligati a stare dieci miglia lungi dalla città. Passò in questo anno per Genova e Bologna Umberto Delfino di Vienna [Raynaldus, in Annal. Eccles.], spedito da papa Clemente VI per generale d'un esercito di crociati contra de' Turchi, facendo predicar dappertutto la medesima crociata. Giunto a Ferrara, fu ben ricevuto e ragalato dal marchese Obizzo, e di là passò in Levante, ma senza farvi alcuna prodezza: il perchè impoverito se ne tornò indietro, e gli affari dei cristiani in Oriente seguitarono ad andar peggio che prima. Scorretto dee essere il testo della Cronica Veronese, mentre scrive che in quest'anno [Idem, ibidem.] Bernabò Visconte nipote di Luchino prese per moglie Beatrice, soprannominata Regina, figliuola di Mastino dalla Scala. Succederono tali nozze [582] dopo la morte d'esso Luchino, e nell'anno 1550, siccome dirò andando innanzi.


   
Anno di Cristo mcccxlvi. Indiz. XIV.
Clemente VI papa 5.
Carlo IV re de' Romani 1.

Mosse in quest'anno papa Clemente le macchine tutte per abbattere l'odiato Lodovico Bavaro, che s'intitolava re dei Romani ed imperadore. Un pezzo era che si maneggiava di mettere sul trono cesareo Carlo marchese di Moravia, figliuolo di Giovanni re di Boemia. Si effettuò in questo anno il negoziato. Il principe Carlo e il re suo padre vennero ad Avignone; concertarono col pontefice quanto occorreva; gli promisero quanto egli richiedeva. E però si videro fulminate nuove censure contra del Bavaro, e si ordinò agli elettori di venire ad una nuova elezione [Albertus Argent., Chron.], con avere il re di Francia comperati i voti di alcuni a caro prezzo. Verso il fine di luglio fu eletto dalla maggior parte d'essi elettori in re de' Romani il suddetto principe, che fu poi appellato Carlo IV fra gl'imperadori. E giacchè non gli fu permesso di ricevere la corona in Aquisgrana, la coronazione sua seguì nella città di Boemia nel dì 25 di novembre. Fiera discordia nacque in Germania per questa elezione. I più la tenevano per invalida, e chiamavano Carlo l'imperadore de' preti. E perciocchè in questi tempi a' dì 24 d'agosto [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 66.] nella sanguinosissima battaglia accaduta a Cresci fra le armate di Filippo re di Francia e di Odoardo re d'Inghilterra, colla totale sconfitta della prima, restò trucidato con altri gran signori Giovanni re di Boemia, che era ito in soccorso del re di Francia suo gran protettore, non mancarono gli aderenti del Bavaro, secondo l'uso dei ciechi mortali, di attribuire la di lui morte all'essersi egli ribellato contro il sovrano, cioè contro la casa di Baviera. Ma nell'anno venturo noi vedremo quetato [583] lo scisma insorto fra questi due pretendenti alla corona imperiale. Per la morte da noi sopra narrata di Andrea, destinato re di Napoli, seguitò maggiormente a scompigliarsi quel regno. Chi teneva, siccome dissi, per innocente, e chi per colpevole la regina Giovanna di sì enorme assassinio, e chi era per lei, e chi contra di lei. Già si disponeva Lodovico re di Ungheria a calare in Italia, non tanto per desio di vendicare la morte obbrobriosa del fratello, quanto per isperanza di far suo il regno di Napoli. Non dormì già in tanto sconvolgimento di cose Lodovico giovane re di Sicilia, o, per dir meglio, il tutore suo zio. La città o terra di Milazzo, già occupata in quest'isola dal re Roberto, ubbidiva tuttavia alla regina Giovanna. Andò ad assediarla l'esercito siciliano; e perchè non correano le paghe, a cagione dei suddetti disordini, quel presidio con patti onorevoli rendè la terra. Tentò ancora il re unghero di far lega col siciliano contra della regina Giovanna; ma perchè l'Aragonese faceva istanza che restasse affatto libera la Sicilia dalle pretensioni dei re di Napoli, non seguì per ora accordo alcuno fra essi. Continuando i Veneziani l'assedio della ribellata Zara con istrage vicendevole di gente [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital. Johannes de Baiano, Chron. Mutinens., tom. eod.], quel popolo, piuttostochè ricorrere alla misericordia, volle darsi a Lodovico re d'Ungheria, e gli spedì ambasciatori per questo. Di buon cuore accettò questi l'offerta, e con un formidabile esercito venne al loro soccorso nel mese di giugno. Molti furono gli assalti dati alle bastie de' Veneziani, ma senza frutto. Finalmente in campagna aperta nel di primo di luglio si venne ad un fatto d'armi, che riuscì glorioso per l'esercito veneto. Il perchè il re unghero, o perchè scorgesse l'impossibilità di vincere contro gente così valorosa ed ostinata nel proposito suo, oppure perchè maggiormente gli stesse a cuore l'impresa del regno di Napoli, con poco onore ricondusse [584] a casa le immense sue soldatesche, molto nondimeno scemate. Allora fu che gli Zarattini, vedendo fallita ogni loro speranza, implorarono il perdono, che dai saggi Veneziani non fu loro negato; e così tornò quella città alla lor divozione, dopo avervi (dicono i Cortusi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]) impiegata la somma d'un milione per riacquistarla.

Sul fine del carnovale, essendo spirata la tregua fra i Gonzaghi signori di Mantova e Reggio, e gli Scaligeri signori di Verona e di Vicenza, Alberto dalla Scala coll'esercito suo corse depredando sino alle porte di Mantova [Chron. Estense.]. Obizzo marchese d'Este anche egli fece vigorosa guerra ad essi Gonzaghi dalla parte di Modena. Ma siccome egli trasse a ribellione i Manfredi e Roberti nobili di Reggio, così ancora i Gonzaghi ebbero maniera d'indurre a ribellarsi al marchese le castella di Gorzano e di San Felice. Presero ancora la terra di Cuvriago, e fecero gran danno al Parmigiano. Cogli aiuti di Mastino dalla Scala avea il marchese Obizzo unito un potente esercito di circa cinque mila cavalli, oltre alla numerosa fanteria, con disegno di vettovagliare la città di Parma, o di dar battaglia ai nemici, se si presentava l'occasione; e a questo fine fece marciar la sua gente nel dì 25 di luglio sul Reggiano. Ma da lì a pochi giorni Mastino dalla Scala richiamò dodici bandiere di gente d'armi tedesca dallo esercito del marchese, per mandarle in aiuto di Luchino Visconte. Venne con ciò a scoprirsi che era seguita una segreta concordia fra gli Scaligeri e il Visconte, contro ai patti della lega. Questo inaspettato colpo fece allora prendere altre misure al marchese, il quale, conoscendosi abbandonato e tradito dagli amici, e scorgendo la troppa difficoltà di poter sostenere Parma, città con cui non comunicavano i suoi Stati, ed attorniata da potenti nemici, cioè dal Visconte signore di Cremona, Borgo San Donnino e Piacenza, [585] oltre ad altre città, e dai Gonzaghi signori di Mantova e Reggio: cominciò a trattar segretamente di una onorevol concordia collo stesso Luchino Visconte, giacchè egli era il sostenitor de' Gonzaghi, e facea l'amore a Parma, ma senza mostrare di farlo. Accadde che in questi tempi Isabella del Fiesco, moglie di esso Luchino, la quale finora niun maschio gli avea partorito, diede alla luce in un parto due figliuoli con indicibile allegrezza del marito e dei Milanesi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Si mosse dunque da Ferrara il marchese Obizzo, accompagnato da Ostasio da Polenta signore di Ravenna, e da molta nobiltà, nel dì 7 di settembre [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e per la strada di Verona arrivò alla terra di Novato sul Bresciano, dove furono ad incontrarlo Matteo Visconte e Bruzio figliuolo naturale di Luchino, che gli fecero molto onore. Fu ad incontrarlo a Cassano Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, che l'accompagnò fino alla città, dove, alloggiato nel palazzo d'esso arcivescovo, ricevè da lui e da Luchino quante finezze e carezze egli seppe desiderare. Fecesi con gran pompa il battesimo dei due figliuoli di Luchino, al primo dei quali fu posto il nome di Luchino Novello: e li tennero al sacro fonte esso marchese Obizzo, Giovanni marchese di Monferrato, Castellano da Beccheria signor di Pavia, ed Ostasio da Polenta, onorevoli doni fecero ai fanciulli e alla madre. Allora fu che il marchese Obizzo cedette a Luchino Visconte la città di Parma [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] con essere rimborsato da lui del danaro speso in acquistarla da Azzo da Correggio. Ebbero occasion di piagnere i Parmigiani, avendo cambiato un placido padrone in un asprissimo, che non tardò a spogliar di tutte le loro fortezze que' nobili. Partissi poi da Milano il marchese Obizzo nel dì 26 di settembre; e, giunto che fu a Ferrara, tanto si adoperò presso di lui Mastino dalla Scala assistito da un ambasciatore di Luchino Visconte, che lo indusse nel [586] dì 27 d'ottobre a pacificarsi coi Gonzaghi, e la pace fu solennemente stipulata dipoi in Modena nel dì 12 di dicembre.

Colla giunta di Parma crebbe non poco la potenza dei due fratelli Visconti Luchino e Giovanni. Ma si dee aggiugnere ch'egli ebbe in varii tempi anche la signoria d'Asti, città potente ne' secoli andati [Petrus Azarius, Chron., cap. 9, tom. 16 Rer. Italic.]. Perchè la nobil casa dei Soleri, di fazione guelfa, possedendo ventiquattro castella ed altre fortezze, voleva padroneggiar troppo in quella città, i Ghibellini, cioè i Gottuari, Isnardi e Turchi, chiamarono Giovanni marchese di Monferrato, e gli diedero il dominio della città sotto certi patti. Scacciati di colà i Soleri, gran guerra cominciarono contra dei cittadini coll'aiuto delle terre del Piemonte spettanti al re Roberto. Però quel popolo invitò a quella signoria (non so dirne l'anno preciso) Luchino Visconte, il qual poscia distrusse tutte le famiglie de' Soleri, con ridurli a non possedere un palmo di terreno sull'Astigiano. Nè qui si ristrinse l'industria e fortuna di Luchino. Acquistò anche Bobbio, Tortona nell'anno seguente, ed Alessandria, non so quando. Tolse al re Roberto, oppure alla regina Giovanna, nel seguente anno la città d'Alba, Cherasco, ed altre terre sino a Vinaglio e all'Alpi; e parimente nell'anno presente gli fu data la signoria, ossia l'alto dominio della Lunigiana [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Se fosse sopravvivuto più, non restava probabilmente terra in Piemonte che non venisse alle sue mani. Di questo passo camminava ad un sì alto ingrandimento la casa dei Visconti, con far gran paura ad ogni vicino. Eppure andò essa dipoi tanto più oltre, siccome vedremo. A petizione di Lodovico re d'Ungheria in quest'anno [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 73.] Niccolò Gaetano conte di Fondi, nipote del fu papa Bonifazio VIII, cominciò la guerra contro la regina Giovanna nella [587] Campania, coll'impadronirsi di Terracina e del castello d'Itri presso Gaeta. La stessa città di Gaeta sollevatasi, non volle più ubbidire alla regina. Io non so come Giorgio Stella racconti sì diversamente questa faccenda, con dire [Georg. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] che, giunta a Terracina l'armata navale dei Genovesi, composta di ventinove galee, comandata da Simone Vignoso, a forza d'armi fece ritirare da quell'assedio il conte di Fondi; essersi il popolo di Terracina sottomesso al dominio del comune di Genova; ed aver essi Genovesi cacciato da Sessa il suddetto conte, il qual dianzi avea tolta quella città alla regina Giovanna. Scrive inoltre lo Stella, avere la flotta genovese continuato il suo viaggio in Levante, ed interrotti i disegni del delfino di Vienna, arrivato coi crocesignati in quelle parti, giacchè i Genovesi pensavano solamente al proprio vantaggio, e non a secondare i desiderii del papa e le mire della crociata. Poscia nel dì 16 di giugno, sbarcati nell'isola di Scio, impresero l'assedio di quel castello, e lo costrinsero alla resa nel dì 5 di settembre: con che tutta quell'isola cominciò ad ubbidire a' Genovesi. Impadronironsi ancora di Foglia vecchia e di Foglia nuova, e maggiori progressi ancora avrebbero fatto, se la ciurma delle galere, mossa a sedizione, non avesse fatto svanire altre loro idee. Fu in questo anno un'estrema carestia per quasi tutta l'Italia, e maggiormente questa inasprì nell'anno seguente, per essere andati a male i raccolti a cagion delle dirotte pioggie.


   
Anno di Cristo mcccxlvii. Indiz. XV.
Clemente VI papa 6.
Carlo IV re de' Romani 2.

Divenuto già re de' Romani e re di Boemia Carlo figliuolo del fu re Giovanni, perchè pretendeva il contado del Tirolo, che gli era contrastato da [588] Lodovico il Bavaro e da Lodovico marchese di Brandeburgo suo figliuolo, venne in abito di pellegrino a Trento con isperanza di ridurre alla sua ubbidienza quel paese [Chron. Estense, tom. 15 Rer Italic. Giovanni Villani, lib. 11, cap. 84.]. Non gli mancò d'assistenza papa Clemente VI, perciocchè mosse con premurose lettere Luchino Visconte, Mastino dalla Scala, il patriarca d'Aquileia e i signori di Mantova a prestargli aiuto; ed ognuno in fatti spedì colà un gagliardo rinforzo di cavalleria e fanteria. Se gli diede il popolo di Trento, ed egli nel dì 27 di marzo assistè alla messa in quel duomo in abito imperiale. Impadronissi ancora di Feltro e di Belluno. Essendo poi passato all'assedio di Marano nel Tirolo, eccoli sopravvenire il marchese di Brandeburgo con forze superiori di armati, che gli diede una rotta, e il fece fuggire a Trento. Ma si mutò in questo anno faccia alle cose; imperciocchè trovandosi Lodovico il Bavaro alla caccia nel dì 11 di ottobre [Albert. Argentin., Chron. Rebdorf., Annal.], sorpreso da un colpo d'apoplessia e caduto da cavallo, spirò l'anima sua. V'ha chi dice esser egli morto con segni di penitenza, lo niegano altri; ma è fuor di dubbio che da niun sacerdote ebbe l'assoluzion de' peccati e delle censure [Raynaldus, Annal. Eccles.], portando al mondo di là una pesante soma di colpe principesche e private. La morte sua fu la vita di Carlo IV re dei Romani, perchè i suoi affari cominciarono immediatamente a prosperare, con riconoscerlo per re molti principi e non poche città della Germania, quantunque non mancassero altri che passarono all'elezione di Odoardo re d'Inghilterra, poi di Federigo marchese di Misnia, e poi di Guntero conte di Suarzemburgo. Con danari seppe il re Carlo indurre i due ultimi a non accettare, o a rinunziare l'esibita corona. Per lo contrario, in Italia si aprì un nuovo teatro di calamità a cagione di Lodovico re d'Ungheria, ansante di vendicar [589] la morte ignominiosa del fratello Andrea, ma più di conquistare il regno di Napoli, al qual fine determinò di passare egli in persona in Italia. Spedì innanzi i suoi ambasciatori, per aver libero il passo da' principi italiani; e questi, giunti a Ferrara nel dì 24 d'aprile, ebbero buon accoglimento dal marchese Obizzo d'Este. Continuato poscia il lor viaggio, arrivarono ai confini del regno, e cominciarono dei maneggi per muovere a ribellione que' popoli. Certo è che, a papa Clemente VI non piaceva che un sì potente principe venisse a piantar il piede nel regno di Napoli. Oltre di che, a cagione del suo soggiorno in Provenza, terra della regina Giovanna, pendeva più a favorir questa che quello. Intanto essa regina nel dì 20 d'agosto sposò Luigi principe di Taranto, uno de' Reali [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 98.]: matrimonio in que' tempi disapprovato dagli zelanti cristiani. Alcuni credono ch'ella fin d'allora ne ottenesse la dispensa dal pontefice. Il Rinaldi meritamente la riferisce all'anno seguente. Accordossi ancora la regina Giovanna con Lodovico re di Sicilia, cedendo ad ogni pretensione sua sopra quell'isola, con patto che egli, in occasione di guerra, dovesse mantenere al di lei servigio quindici galee. Mancò ad un tale accordo l'approvazione del papa, diretto padrone della Sicilia.

Gran voglia aveva Isabella del Fiesco, moglie di Luchino Visconte, di veder la rara e magnifica città di Venezia. Però pubblicò in quest'anno un voto da lei fatto, allorchè fu per partorire nell'anno addietro i due suoi gemelli, di visitare la basilica di San Marco in quella città. L'addolciato marito non potè negarle il contento di adempiere così santa divozione, e le formò uno splendidissimo corteggio della primaria nobiltà delle sue città. Nella Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] si veggono annoverati tutti i nobili scelti da Milano, Tortona, Alessandria, Cremona, [590] Brescia, Vercelli, Lodi, Novara, Asti, Como, Bergamo, Piacenza e Parma, ed anche da Pavia, siccome ancora le nobili donne destinate ad accompagnarla, oltre ai paggi, staffieri e alla prodigiosa minor famiglia [Johann. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic.]. Per una regina non si poteva far di più. Si mosse ella da Milano nel giorno 29 d'aprile, e grandi onori ricevè in Verona da Alberto e Mastino dalla Scala; grandi in Padova da Jacopo da Carrara; maggiori poi in Venezia da quella splendida repubblica. Soddisfatto che ebbe in Venezia alla sua divozione, e veduta la celebre funzione dell'Ascensione, se ne tornò per Padova, Verona e Mantova a Milano. Dove andasse poi a terminare questo sì divoto pellegrinaggio, non istaremo molto a vederlo. Una scena curiosa, cominciata nell'anno addietro in Roma, maggiore comparsa fece nel presente [Vita di Cola di Rienzo, Antiquit. Ital., tom. 3.]. Per la lontananza de' papi era divenuta quella mirabil metropoli un bosco d'ingiustizia; ognun facea a suo modo; discordi erano i due senatori, l'uno di casa Colonna, e l'altro di casa Orsina, con due diverse fazioni; le entrate del papa e del pubblico divorate; le strade piene di ladri, di modo che più non s'attentavano i pellegrini di portarsi colà alla visita dei santi luoghi. Si alzò su un giorno, e fece popolo un certo della feccia del volgo, cioè Niccolò figliuolo di Lorenzo Tavernaro, appellato volgarmente Cola di Rienzo, giunto col suo studio ad essere notaio. Costui era uomo fantastico; dall'un canto facea la figura di eroe, dall'altro di pazzo. Soprattutto gli stava bene la lingua in bocca. Tanto declamò contro ai disordini di Roma e alle prepotenze de' grandi, che indusse di popolo a consentirgli il titolo e la balìa di tribuno. Ciò gli bastò per cacciare di Campidoglio i senatori, e per farsi signore di Roma [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Johannes de Bazano, tom. eod.], con intitolarsi [591] pomposamente: Nicola, severo e clemente, liberator di Roma, zelante del bene dell'Italia, amatore del mondo e tribuno augusto. Formò poscia de' magistrati, mettendovi degli uomini di merito; fece giustiziar varii capi di fazione, che mantenevano quantità di masnadieri, e assassinavano alle strade; intimò il bando ai grandi, che solevano farla da prepotenti, se non giuravano sommessione al buon governo, di maniera che, fuggiti i malviventi, in breve mise in quiete la città, e si potea portar per le strade l'oro in mano. Gli venne in testa il capriccioso disegno non solamente di riformare Roma, ma di rimettere anche in libertà l'Italia tutta, con formare una repubblica, di cui fosse capo Roma, come fu ne' secoli antichi. Scrisse perciò lettere di gran magniloquenza a tutti i principi e alle città italiane, e trovò chi prestò fede ai suoi vanti. Spedì loro degli ambasciatori, e rispose alle lettere dei principi con graziose esibizioni: cotanto credito s'era egli acquistato col rigore della giustizia. I Perugini, gli Aretini ed altri si diedero a lui. In somma chi facea plauso a queste novità, e chi ne rideva. Da Francesco Petrarca, insigne poeta d'allora, fra gli altri, fu scritta in sua lode una suntuosa canzone [Petrarca, Rime.], che tuttavia si legge, credendosi egli che veramente questo uomo avesse a risuscitar la gloria di Roma e dell'Italia. Ma altro ci volea a così vasta impresa che un cervello sì irregolare e mancante di forze. Perchè il popolo di Viterbo gli negava ubbidienza, si mise Cola in ordine nell'anno presente, per far guerra a quella città; e l'avrebbe fatta, se Giovanni da Vico prefetto e signor di Viterbo non si fosse sottomesso con rendergli varie rocche. Andò poi tanto innanzi la bestialità d'esso tribuno, che con gran solennità si fece far cavaliere [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 89. Johan. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], e si bagnò nella conca di porfido, [592] dove i secoli barbari s'immaginarono che fosse stato battezzato l'imperador Costantino il Grande, e si fece coronar con varie corone. Poscia citò papa Clemente VI e i cardinali che venissero a Roma. Citò anche Lodovico il Bavaro non per anche defunto, e Carlo di Boemia, e gli elettori a comparire e ad allegar le ragioni, per le quali pretendevano allo imperio. Finora avea egli rispettato il papa; si mise in fine sotto i piedi ogni riguardo anche verso di lui e de' suoi ministri; e però non potè più stare alle mosse il vicario pontificio, e proruppe in proteste, delle quali niun conto fu fatto, dicendo il vanaglorioso Cola di far tutto per ordine dello Spirito Santo, del quale pubblicamente s'intitolava candidato. Non potevano digerire i Colonnesi, gli Orsini, i Savelli ed altri grandi romani tanto sprezzo, o, per dir meglio, strapazzo che facea di loro il tribuno, giacchè avea fatto imprigionarne i principali, ed annunziata loro anche la morte; se non che si placò, e li rimise in libertà. Eglino dunque con grosse squadre di cavalli e fanti nel dì 20 di quest'anno vennero alla porta di San Lorenzo con disegno d'entrare in Roma, e d'insegnar le creanze al tribuno. Ma egli, messo in armi il popolo, con tal empito il fece uscire contra di loro, che li mise in isconfitta, colla morte di Stefano, Giovanni e Pietro dalla Colonna, e d'altri nobili e di molti delle loro masnade. Salì per questo in alto la gloria e la riputazione di Cola.

Era già riuscito ai ministri o partigiani di Lodovico re d'Ungheria di muovere a ribellione contra della regina Giovanna l'Aquila, città benchè nata a tempi di Federigo II Augusto, pure pervenuta da lì non molto ad un'ampia popolazione e potenza [Dominicus de Gravina, Chron., tom. 12 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 12, cap. 88.]. Erano in discordia i Reali di Napoli; ma cotante promesse furono fatte a Carlo duca di Durazzo, che s'indusse a prendere il baston del comando [593] per procedere contro degli Aquilani. Tenne egli coll'esercito suo assediata per tre mesi, ma indarno, quella città. Intanto venuto in Italia il vescovo di Cinque Chiese con ducento nobili ungheri ben in arnese e con danaro assai, assoldò molta gente nella Romagna e nella Marca; ebbe non pochi aiuti da Ugolino de' Trinci signor di Foligno e dai Malatesti signori di Rimini, e con circa mille uomini d'armi e numerosa fanteria andò ad unirsi con altri mille cavalli e fanti, già assoldati nell'Abbruzzo per parte del re Lodovico d'Ungheria. Il timore di quest'armata fece sloggiare di sotto l'Aquila gli assediatori; e tanto più perchè succeduto nel medesimo tempo il matrimonio della regina con Luigi principe di Taranto, il duca di Durazzo deluso e mal soddisfatto non volle più guerreggiar contra degli Ungheri. Seppero ben prevalersi di tal discordia i capitani del re Lodovico; perchè, posto l'assedio alla città di Sulmona, senza che alcuno ne tentasse giammai il soccorso, se ne impadronirono nel mese di ottobre, continuando poi le lor conquiste sino a Venafro, Tiano e Sarno. Arrivò nel mese di novembre Lodovico re d'Ungheria nel Friuli ad Udine, senza che sicuramente si raccolga dagli scrittori ch'egli menasse con seco un esercito potente. Forse non avea più di mille cavalli. Perchè era in collera coi Veneziani, non accettò il loro invito [Johan. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. eodem. Giovanni Villani, lib. 12, cap. 106.]. Onorevolmente ricevuto a Cittadella da Jacopo da Carrara signore di Padova, sul principio di dicembre passò a Vicenza e Verona, dove Alberto e Mastino dalla Scala splendidamente il trattarono, con dargli ancora trecento de' loro cavalieri, acciocchè lo accompagnassero a Napoli. Per Ostiglia venuto a Modena, fu incontrato con tutto onore da Obizzo marchese d'Este, che non fu da meno degli altri in fargli un nobile trattamento. Fuorchè in Imola e [594] Faenza, dove il conte della Romagna pel papa nol lasciò entrare, ricevè somme finezze dappertutto dove passò, in Bologna dai Pepoli, in Forlì dagli Ordelaffi, in Rimini dai Malatesti, in Foligno dai Trinci. Con trecento cavalieri il seguitò pel viaggio Francesco degli Ordelaffi. Ma essendosegli presentato in Foligno il legato del papa per intimargli sotto pena di scomunica di non far da padrone nel regno di Napoli senza l'assenso del papa, il re, che già toccava con mano la pretension del pontefice in favore della regina Giovanna, gli rispose assai bruscamente che il regno era suo per successione dei suoi maggiori; che risponderebbe alla Chiesa pel feudo; e che della scomunica non curava, perchè sarebbe patentemente ingiusta. Arrivò poscia questo principe all'Aquila nella vigilia di Natale, e quivi attese ai preparamenti per condurre a fine l'incominciata impresa.

Nel ritornare nell'anno addietro Ostasio da Polenta signor di Ravenna da Milano in compagnia di Obizzo marchese d'Este, nella terra di Trezzo rimase come morto una notte a cagione del fumo di carbone acceso nella sua camera dai famigli, perchè facea freddo. Portato a Ravenna così malconcio, terminò i suoi giorni nel dì 14 di novembre [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e gli succederono nel dominio di Ravenna Bernardino suo figliuolo, e in quello di Cervia Pandolfo altro suo figliuolo. Lamberto, terzo de' figliuoli, nulla possedeva. Di questo partaggio non erano contenti i due ultimi fratelli, e però pensarono ad un tradimento. Nel dì 5 d'aprile spedirono a Ravenna un messo a Bernardino, notificandogli, che essendo caduto gravemente infermo Pandolfo, se volea vederlo vivo, non tardasse a venire. Venne Bernardino, e, preso, fu posto in una dura prigione. Nella notte cavalcò Pandolfo a Ravenna con molti armati, e fatto esporre alle guardie della porta da un cortigiano guadagnato di Bernardino, di essere venuto a prendere de' medicamenti [595] necessarii al finto infermo, gli fu permessa l'entrata in città. S'impadronì Pandolfo di essa senza fatica; ma, interpostosi poi Malatesta signor di Rimini, nel dì 24 di giugno Bernardino fu liberato dalle prigioni di Cervia, e in Ravenna si conchiuse pace coi fratelli. Ma di questa si dimenticò ben presto esso Bernardino, e ricordevole solamente dell'oltraggio patito, sotto pretesto che Pandolfo e Lamberto macchinassero contro la sua vita, nel dì 7 di settembre [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] fece loro mettere le mani addosso, e gl'imprigionò, prendendo in sè tutto il dominio di Ravenna e poi di Cervia. Lasciarono poscia la vita i suddetti col tempo nelle carceri d'essa Cervia. Nel dì 29 di settembre Taddeo de' Pepoli signor di Bologna compiè il corso di sua vita [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e concordemente da quel popolo fu data la signoria della città a Giovanni e Giacopo figliuoli di esso Taddeo. Poco durò il bizzarro governo di Cola di Rienzo in Roma. Dopo la vittoria riportata, di cui si è favellato di sopra, gli si erano maggiormente esaltati i fumi alla testa, e tiranneggiando cominciò a perdere l'amore del popolo. Contra di lui soffiava forte il legato del papa, e più i grandi fuorusciti. Mandò ben Cola le sue genti all'assedio del castello di Marino de' Colonnesi, ma nulla ne profittò [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 12, cap. 104.]. Ora nel dì 15 di dicembre di quest'anno (e non già nel marzo del susseguente, come ha il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]) Giovanni Pipino conte di Altamura e Minerbino, bandito dal regno di Napoli siccome uomo intrigante e masnadiere, o per suoi particolari disgusti o disegni, oppure a sommossa del legato apostolico e de' nobili, fece una sollevazione in Roma contra del tribuno, laonde si diede campana a martello, e si asserragliarono le strade. Quantunque non accorressero in aiuto del tribuno gli Orsini [596] e il popolo, come egli sperava, pure egli era provveduto di tali forze che facilmente avrebbe potuto sconfiggere chiunque se gli opponeva. Ma appena fu messa in rotta una delle sue bandiere, che siccome uomo vile e codardo, senza fare ulterior resistenza, si ritirò in castello Sant'Angelo, e poi travestito da frate se ne fuggì, allorchè passò il re d'Ungheria alla volta dell'Aquila. Nel dì 17 entrò in Roma Stefanuccio dalla Colonna, ed, aboliti gli atti del tribuno, a riserva delle paci fatte, rimise quella città all'ubbidienza del papa, e furono poi creati tre senatori, un colonnese, un orsino e il legato pontificio. Cola di Rienzo, divenuto mendico e screditato, si ridusse poi alla corte di Carlo IV re de' Romani, e, col racconto di varie rivelazioni e promesse di gran cose, cominciò la tela di un'altra fortuna; ma informatone il papa, volle nelle mani questo ciarlatano, e il tenne poi per molto tempo incarcerato in Avignone. In due fazioni era ne' tempi correnti divisa la città di Pisa, cioè nei Raspanti e Bergolini [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 118.]. Nel dì 24 di dicembre si sollevarono i Bergolini, cioè i Gambacorti, gli Agitati ed altri contra dei Raspanti, che comandavano allora a bacchetta, e riuscì loro d'abbattere e scacciare Dino della Rocca, capo d'essa fazione, co' suoi aderenti, e di prendere il dominio della terra: e qui cominciò l'ascendente della famiglia Gambacorta. Secondo la Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], in quest'anno Luchino Visconte coll'aiuto di Giovanni marchese di Monferrato acquistò le città di Tortona e d'Alba. Anche il marchese guadagnò per sè la terra di Valenza [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. E perciocchè i continuati progressi di Luchino in Piemonte non potevano piacere al conte di Savoia Amedeo VI, nè a Jacopo di Savoia principe della Morea, questi si collegarono col duca di Borgogna e col conte di Ginevra contra di Luchino [597] e del marchese di Monferrato. Guerra fu fatta, e nel mese di luglio si venne ad un crudele combattimento, in cui perì dall'una parte e dall'altra gran copia d'uomini e di cavalli; ma in fine se ne andò sconfitto il marchese di Monferrato. Di questo fatto d'armi non ebbero notizia nè Benvenuto da San Giorgio, nè il Guichenone nella Storia della real casa di Savoia.


   
Anno di Cristo mcccxlviii. Indizione I.
Clemente VI papa 7.
Carlo IV re de' Romani 3.

Di funestissima memoria fu e sarà sempre l'anno presente a cagion della furiosa peste che spogliò l'Italia, e a cui altra simile dianzi non si era veduta, nè si vide dappoi. Portata essa di Levante dalle galee genovesi nell'anno precedente [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 83.], fece di molta strage in Firenze ed altre terre di Toscana, e più in Bologna e nella Romagna, in Provenza ed in altre parti. Parve che nel novembre cessasse questo micidial malore; ma siccome i popoli d'allora viveano molto alla spartana, senza usar diligenza per tenerlo lungi, e venuto ch'era, per liberarsene: così tornò egli più rigoroso e feroce di prima nell'anno presente ad assalir il più delle città dell'Italia, e fu inesplicabile la mortalità della gente dappertutto, fuorchè in Milano e in Piemonte. Matteo Villani attesta [Matteo Villani, lib. 1, cap. 2. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital.] che in Firenze e nel suo distretto dei cinque uomini di ogni sesso ed età ne morivano i tre e più. Fra gli altri vi lasciò la vita Giovanni Villani suo fratello, autore di una celebre storia, di cui han profittato finora gli Annali presenti. In Bologna [Matth. de Griffonibus, tom. 18 Rer. Ital.] delle tre parti del popolo due rimasero prive di vita; ed Agniolo di Tura scrive [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.] che nella città e borghi di Siena vi perirono ottanta mila persone: il che par troppo. [598] Passò poi questo flagello in Francia, Alemagna, Inghilterra ed altri paesi, lasciando dappertutto una non mai più udita desolazione. Non v'ha scrittore che non ne parli con incredibil orrore: ed allora fu che i popoli rimasti in vita cominciarono ad usar qualche diligenza per guardarsi da lì innanzi da questo morbo distruggitore delle città: la qual cautela è maggiormente dipoi andata crescendo in guisa, che se la pestilenza è entrata in qualche contrada d'Italia, non ha fatto progresso nell'altre, come poco fa s'è provato in quella dell'infelice Messina, a cui si son posti buoni argini che durano tuttavia. Per tali precauzioni e rigori corrono già circa cento quattordici anni che la Lombardia non ha provata la terribile sferza di quel malore. Eransi postate al fiume Volturno verso Capua le milizie della regina Giovanna [Giovanni Villani, lib. 12, cap. 110.], per contrastare il passo al re d'Ungheria, sotto il comando di Luigi principe di Taranto, e marito d'essa regina, che cogli altri Reali era accorsa colà. Ma il re unghero, senza voler mettersi a passar quivi il fiume, per la strada già tenuta dal re Carlo I tirò alla volta di Benevento, dove arrivò nel dì 11 di gennaio. Quivi, unito il suo esercito, si trovò avere più di sei mila cavalli e un'infinità di fanti; e concorsero a fargli riverenza ed omaggio tutti i baroni del paese e gli ambasciatori di Napoli. A questo avviso i Reali, che erano a Capoa, abbandonato Luigi principe di Taranto, si ritirarono a Napoli. La stessa regina Giovanna, che s'era ridotta in un de' castelli, udendo che già l'Unghero s'inviava a quella volta, nascostamente una notte [Domin. de Gravina, Chron., tom. 12 Rer. Ital.], con quel poco tesoro che potè raunare, s'imbarcò in una preparata galea, e fece dirizzar la prora verso Provenza. Arrivò poscia il principe suo marito, ed anch'egli con Niccolò Acciaiuoli Fiorentino, suo fidato consigliere, preso un picciolo legno, andò [599] a sbarcare nella Maremma di Siena. Giunse il re Lodovico nel dì 17 di gennaio ad Aversa [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Italic.]. Colà tutta la nobiltà di Napoli fu a fargli riverenza. In un fiero imbroglio si trovarono allora i principi reali, egualmente apprendendo il fuggire che il presentarsi al re. Furono assicurati con salvocondotto, purchè non avessero tenuta mano all'assassinio del duca Andrea. Pertanto vennero ad Aversa Carlo duca di Durazzo, Luigi e Roberto fratelli, e Roberto e Filippo principi di Taranto, fratelli di Lodovico marito della regina Giovanna. Furono accolti con allegrezza ed onore, e desinarono nella sala, dove era anche la tavola del re.

Dopo il desinare, messa il re in armi tutta la sua gente, mostrando di voler cavalcare a Napoli, volle vedere il verone, onde fu gittato nel giardino il corpo dello strangolalo suo fratello. Quivi rivolto al duca di Durazzo, l'accusò di quel misfatto, e dicono che il convinse con lettere; e quantunque il duca si scusasse ed implorasse misericordia [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], gli Ungheri se gli avventarono addosso, e, feritolo di più colpi, lo stesero morto a terra, e dipoi nel giardino medesimo lanciarono il corpo suo. Gli altri Reali furono presi, messi nel castello d'Aversa, e poscia con buona scorta inviati in Ungheria, dove gran tempo dimorarono carcerati. Gran dire che vi fu per questa barbarica giustizia. Molti la biasimarono, perchè fatta senza ordine giudiciario, e perchè esso Carlo duca di Durazzo, oltre all'essere il più compiuto e valoroso di quei principi, veniva creduto innocente; altri poi giudicarono ben dovuta ai peccati di lui e degli altri Reali la morte e prigionia suddetta. Entrò poscia il re Lodovico in Napoli, ma senza volere il baldacchino preparatogli, e vestito di tutte armi colla barbuta in capo, attendendo dipoi a far processi, a mutar gli uffizii e a riformar la città, come a lui piacque. [600] Avea la regina Giovanna partorito un figliuolo, per nome Carlo Martello, creduto, secondo le presunzioni, figliuolo del fu suo marito Andrea. Il re, fattoselo condurre davanti, graziosamente il vide, e creollo duca di Calabria, ma poi coi Reali prigioni l'inviò in Ungheria, acciocchè fosse ivi educato. Fece poi istanze alla corte pontificia per ottener la corona ed investitura di Napoli; ma papa Clemente VI se ne mostrò ben alieno, adducendo che non era provato per anche alcun reato nella regina Giovanna; e che in ogni caso il regno era dovuto al fanciullo Carlo Martello, con altre ragioni pubblicate dal Rinaldi [Raynald., Annal. Eccles.]. Tentò parimente il re unghero d'impetrare l'investitura della Sicilia, e su questo ancora riportò una bella negativa dal papa. Non si può negare, molta fu la felicità del re Lodovico in conquistare un sì bel regno in sì pochi giorni e senza colpo di spada; ma uguale non fu già la prudenza di lui. Si pensò egli d'aver fatto tutto, dacchè niuno vi era in quel regno che ricalcitrasse, e non gli avesse prestato omaggio; nè si avvisò che più difficile era il conservare che l'acquistare un paese, dove l'instabilità dei popoli e il desio continuo di cose nuove sono malattie abituali di quelle contrade. Però licenziò tosto buona parte dell'esercito suo; e perciocchè la pestilenza entrata in quel regno vi facea gran macello [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], non fidandosi egli di stare in mezzo a sì fatti pericoli, determinò di ritornarsene in Ungheria. Appena dunque passati quattro mesi dopo l'arrivo suo andò ad imbarcarsi a Barletta, con aver deputato per suo vicario Corrado Lupo con altri uffiziali e gente che governasse e difendesse il regno. Lasciò il re mal soddisfatti i baroni napoletani colle sue asprezze e coll'aver tolto a moltissimi i loro lucrosi uffizii. Si aggiunse il duro comando e procedere dei ministri di lui, giacchè [601] gli Ungheri ne' lor costumi allora spiravano troppa barbarie, benchè Matteo Villani asserisca [Matteo Villani, lib. 1, cap. 16.] che facevano buona giustizia, nè recavano danno o villania ad alcuno. Comunque sia, si risvegliò ben tosto in quella nobiltà e in molti il desiderio di riavere la regina Giovanna, sotto il cui governo, e colle corti di tanti Reali, l'allegria e l'opulenza mai non mancavano a quella insigne metropoli. Ne corsero le voci, e ne andarono anche gli inviti alla regina medesima in Provenza.

Ora è da sapere che questa principessa giunta che fu in Provenza, perchè insorse sospetto ch'ella era per vendere quella provincia ai Franzesi, fu detenuta come prigione da que' maggiorenti, e specialmente dai signori del Balzo. In questo mentre Lodovico principe di Taranto suo marito, senza che gli fosse permesso di entrare in Firenze, s'imbarcò a Porto Pisano [Matth. Palmerius, in Vita Nicolai Acciajoli, tom. 13 Rer. Ital. Giovanni Villani, lib. 12, cap. 114.], e, non osando di metter piede in Provenza, andò con Niccolò Acciaiuoli per altra via ad Avignone. Quivi per mezzo del papa tanto si adoperò che fu rimessa in libertà la regina. Ricevuta questa qual sovrana in quella città, dopo aver guadagnati in suo favore i voti della corte pontificia, la quale convalidò colla dispensa il contratto matrimonio, impiegò da lì innanzi tutti i suoi pensieri per la ricupera del regno di Napoli. Le mancava il più importante mezzo, cioè il danaro; si trovò in necessità di vendere al papa e alla Chiesa romana la stessa città d'Avignone col suo distretto [Vita Clementis VI, P. II, tom. 3 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 1.], per cui nondimeno ricavò, se è vero, solamente trenta mila fiorini d'oro: il che pare piuttosto un prestito o un dono, che una vendita di sì nobil città con ampio territorio. E perchè quella città era feudo dell'imperio, siccome parte del regno arelatense, non durò gran fatica papa Clemente VI [602] ad impetrare da Carlo IV sua creatura la cession di tutte le ragioni imperiali su quella città, di modo che essa restò ed è tuttavia della santa Sede apostolica. Leggesi lo strumento di tal vendita dato alla luce dal Leibnizio [Leibnit., Cod. Jur. Gent., tom. 1, num. 93.], e fatto non già nell'anno 1358, come per errore è ivi scritto, ma bensì nell'anno presente 1348. In ricompensa di questo contratto diede il papa a Luigi marito di Giovanna il titolo di re.

Cotanto ancora esso Luigi e la regina sua moglie andarono limosinando dagli amici e dai sudditi, che unirono danaro da poter noleggiare dieci galee genovesi al loro servigio. E perciocchè Niccolò Acciaiuoli, spedito innanzi da essi, fece lor sapere d'aver ben disposti gli affari e gli animi de' baroni, e che avea preso al suo soldo il duca Guarnieri capo di mille e ducento barbute tedesche, cioè cavalieri; s'imbarcarono senza perdere tempo in Marsilia nelle galee genovesi, ed arrivati sul fine d'agosto a Napoli, con grande onore vi fecero la loro entrata. Ma i castelli d'essa città erano tuttavia in mano degli Ungheri, e convenne farne dipoi l'assedio. Abbiamo parlato all'anno 1342 del poco fa mentovato duca Guarnieri, e della sua compagnia. Questa si sciolse allora, ma egli colle reliquie di essa passò dipoi a' servigi del re d'Ungheria. Appena si trovò egli cassato di nuovo da esso re, che si diede a formare un'altra non men possente compagnia di quelle genti d'arme che non aveano più servigio. Venuto con questi masnadieri in Campagna di Roma, cominciò a saccheggiare quelle terre e castella che non si voleano riscattar col danaro [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Perchè il popolo di Anagni si animò a difendere la terra, con disegno di non pagar tributo a quella mala gente, infuriati coloro con un generale assalto entrarono per forza in quella città, e, messi a filo di spada gli abitanti di ogni sesso, lasciarono quivi un orrido spettacolo della crudeltà degli [603] uomini, più fieri talvolta delle fiere stesse. Siccome già accennai, benchè fosse preceduto qualche esempio di simili compagnie di assassini, pure questo duca Guarnieri fu considerato in questi tempi come principal autore e promotor delle medesime.

Abbiamo dalla Cronica Estense che nel mese di aprile l'esercito di Luchino Visconte andò sul Genovesato ad assediare non so quai luoghi. Secondo il Corio [Corio, Istoria di Milano.], s'impadronì di Gavi e di Voltabio; ma Pietro Azario aggiugne [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] che Luchino, voglioso di sottomettere la città di Genova al suo dominio, fece lega coi fuorusciti, cioè coi Doria, Spinoli, Fieschi e Grimaldi, e spedì un grosso esercito allo assedio di quella città sotto il comando di Bruzio suo figliuolo bastardo, e di Rinaldo degli Assandri di Mantova; e che sarebbe passata male per quella città, se la morte di Luchino, di cui parleremo all'anno seguente, non avesse interrotta quell'impresa. Giorgio Stella, storico genovese, sotto questi tempi si fa conoscere mancante di notizie intorno alla sua patria. Costume fu di Luchino di valersi dei collegati, finchè servivano ad ingrandirlo; poscia non gli era difficile il trovar motivi, o pretesti per volgere l'armi anche contra di loro. Giovanni marchese dì Monferrato gli avea fatto ottenere Alba, Tortona ed altri luoghi; ma perciocchè anche egli, senza dimenticare i proprii affari, avea ricuperato quasi tutte le terre del suo marchesato, perdute per la mala condotta del marchese Teodoro suo padre, anzi era dietro a stendere più oltre le sue conquiste, Luchino se ne ingelosì, e cominciò a mostrar del freddo verso di lui. Perciò il marchese un dì, inaspettatamente si fuggì da Milano a Pavia, lasciando indietro tutti i suoi famigli ed arnesi; e corse voce che, se tardava a farlo, correva pericolo di qualche grave disgrazia. Si è veduto [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] che ancora i Gonzaghi, signori [604] di Mantova e di Reggio, dianzi erano tutti suoi, e principali autori furono di fargli conseguire il dominio di Parma. Noi li troviamo nel presente anno non solo caduti dalla sua grazia, ma eziandio assaliti quai nemici. Per ordine di lui nel giorno 24 di maggio i sindaci e trombetti delle città di Brescia e Cremona comparvero nella piazza di Mantova, facendo istanza che i Gonzaghi restituissero alcune castella, appartenenti in addietro a quelle comunità, con tutte le rendite percette dal dì dell'occupazione, altrimenti intimavano loro la guerra. Perchè i Gonzaghi non si sentirono voglia di restituirle, Luchino mosse l'armi contra di loro, prese Casal Maggiore, Sabioneta, Piadena, Asolo, Montechiaro ed altre fortezze, e il suo esercito passò sotto Borgoforte.

Nel medesimo tempo Mastino dalla Scala colle sue genti dall'una parte, ed Obizzo marchese d'Este colle sue dall'altra, marciarono ai danni de' Mantovani. Filippino da Gonzaga [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], che era ito con cento barbute e ducento fanti a Napoli in servigio del re d'Ungheria, tornato che fu a casa, unita quanta milizia potè, nel di 30 di settembre andò improvvisamente a visitar l'esercito di Luchino ch'era sotto Borgoforte [Platina, Hist. Mant., tom. 12 Rer. Ital.]; e, trovatolo senz'ordine, lo mise facilmente in rotta: il che fu cagione che anche le milizie dello Scaligero e dello Estense con gran fretta si ritirassero, lasciando indietro molti de' loro arnesi. Se si ha qui da credere al Corio [Corio, Istoria di Milano.], riuscì ai maneggi del suddetto Luchino che in questo anno papa Clemente VI dichiarasse Bernabò e Galeazzo Visconti, nipoti odiati e banditi da esso Luchino, sospetti nella fede, spergiuri e detestandi, e che non potessero contrarre matrimonio, nè godessero morendo dell'ecclesiastica sepoltura: della qual nefanda dichiarazione appellarono quei due fratelli all'imperadore. Se ciò è vero, non andò senza vergogna la corte pontificia, con lasciarsi [605] così travolgere dai privati odii di Luchino; ma più sicuro è il sospendere la credenza di un tal fatto, giacchè non se ne truova vestigio negli antichi storici. La fortuna fu in quest'anno propizia alla casa de' Malatesti [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; imperciocchè nel mese di maggio Galeotto, col consentimento dei cittadini, ebbe il dominio della città d'Ascoli. Ma nelle storie napoletane altrimenti si parla di questa città. Malatesta anch'egli con esso Galeotto suo fratello [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] sconfisse nel dì 14 di novembre in un'imboscata l'esercito di Gentile da Mogliano signore di Fermo, ed ebbero prigione lui stesso; e, se volle ricuperar la libertà, gli convenne accordar loro quel che richiesero. Poscia nel dì 6 di dicembre, invitato, esso Malatesta da alcuni cittadini d'Ancona, s'impadronì amichevolmente dell'una parte di quella città, e colla forza dell'altra. Capo d'Istria si ribellò ai Veneziani [Rafain., Chron. Venet., tom. 12 Rer. Ital.], ma accorsi questi con gagliarde forze, ricuperarono quella città colla prigionia degli autori della sedizione. Tolta fu a Carlo IV la città di Trento, e data al marchese di Brandeburgo figliuolo di Lodovico il Bavaro. Ma questo fatto in altre Croniche è raccontato sotto l'anno seguente.


   
Anno di Cristo mcccxlix. Indizione II.
Clemente VI papa 8.
Carlo IV re de' Romani 4.

Andò sossopra in quest'anno il regno di Napoli per la guerra insorta in quelle parti [Matteo Villani, lib. 12, cap. 35.]. Molto paese occupavano tuttavia gli Ungheri. Il re Luigi colla regina Giovanna sua moglie, ben assistito dai Napoletani, mentre si facea l'assedio de' castelli di quella città, uscì in campagna coll'esercito suo, ed intraprese l'assedio di Nocera, dove trovò de' bravi difensori. Domenico da Gravina, scrittore parziale del re d'Ungheria, [606] descrive [Dominicus de Gravina, tom. 12 Rer. Ital.] i varii avvenimenti di quella guerra. Dopo lunga difesa le fortezze di Napoli vennero in potere della regina; e intanto la maggior parte delle terre del regno inalberarono le bandiere della medesima, di modo che gli Ungheri non aveano più che Manfredonia, il Monte di Santo Angelo, Ortona, Guiglionese ed alcune castella in Calabria. La città di Nocera si arrendè al re Luigi, marito della regina, ma non già il castello che era fortissimo. Gli Ungheri, comandati da Corrado Lupo vicario del re Lodovico d'Ungheria, a forza d'armi presero e saccheggiarono la città di Foggia. Obbligarono inoltre il re Luigi ad abbandonar l'assedio d'esso castello di Nocera, per colpa specialmente del duca Guarnieri, uomo di niuna fede, il quale, nello stesso tempo che militava ai servigi di esso re Luigi, teneva intelligenza con Corrado Lupo, e guastava tutti i disegni: il che fece calar non poco di riputazione il medesimo re Luigi. Andò tanto innanzi la malvagità di costui, che stando egli a Corneto con quattrocento cavalieri alla guardia di quella terra, una notte si lasciò sorprender ivi con tutta la sua gente da Corrado, e fu ritenuto prigione. Comunemente fu creduto che fosse concertato fra loro il fatto. Misesi egli una taglia di trenta mila fiorini d'oro; e perchè il re Luigi negò di volerlo riscattare a sì alto prezzo, si servì egli di questo pretesto per prendere servigio nella armata degli Ungheri, e trasse a sè quanti Tedeschi potè; perlochè peggiorarono di molto gli affari del re Luigi, che si ritirò malconcio a Napoli. Crebbe ancora l'esercito degli Ungheri per la venuta di Stefano vaivoda di Transilvania con più di trecento nobili ungheri: laonde alla loro ubbidienza tornarono Baroli, Trani, Bitonto, Giovenazzo, Molfetta ed altri luoghi. Ma sopprattutto in lor vantaggio tornò l'acquisto della città d'Aversa, i cui abitanti volontariamente loro si sottomisero. S'inoltrò poi l'esercito ungarico [607] del re Lodovico verso Napoli, e fatto correr voce falsa che fra i soldati ungheri e tedeschi fosse insorta gran discordia, s'invogliarono i Napoletani di venir con loro a battaglia. Adunque nel dì 6 di giugno, benchè il re Luigi contraddicesse [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], i baroni napoletani con gran baldanza e pompa uscirono ed ordinarono le loro schiere contra gli Ungheri; ma furono così ben ricevuti, che presto andarono in rotta, e vi restarono prigionieri Roberto di San Severino, Raimondo del Balzo, il conte d'Armignacca e buona parte de' principali nobili della città di Napoli. Per tal vittoria scorrendo gli Ungheri sino alle porte della città, obbligarono que' cittadini a ricomperar la loro vendemmia collo sborso di venti mila fiorini d'oro. In questo piede erano gli affari di Napoli, mentre anche in altri luoghi del regno continuava la guerra, ora prospera per gli uni ed ora per gli altri.

Nel dì 24 di gennaio di quest'anno la morte troncò il corso alla vita e all'ingrandimento, che tutto dì si facea maggiore, di Luchino Visconte [Petrus Azarius, Chron. Regiens., tom. 16 Rer. Ital.]. La città di Milano gli era sommamente obbligata, perchè magnificata oltre modo da lui in potenza, ricchezze ed impieghi lucrosi, conservata in pace, e regolata non men essa che tutte l'altre città a lui soggette con incorrotta giustizia. Se vogliamo stare all'opinione di Giovanni da Bazzano [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], egli morì di peste; ma da altra cagione credettero altri proceduta la sua morte. Siccome dicemmo all'anno 1347, Isabella del Fiesco sua moglie, donna di molta avvenenza, andò per cagion di voto, vero o finto, a San Marco di Venezia. Questa libertà le diede campo di soddisfare alle sue illecite voglie contra la fede maritale. Benvenuto Aliprando [Benven. Aliprando, Cronica di Mantova, tom. 5 Antiquit. Ital.] e dopo lui Bartolomeo Platina nelle [608] Storie di Mantova [Platin., Hist. Mant., tom. 20 Rer. Ital.], chiaramente scrivono che essa invaghita di Ugolino Gonzaga, seco il condusse a Venezia con familiarità detestabile; e perchè le dame e donne di confidenza avrebbono potuto rivelare il segreto, ad esse ancora fu dato agio di procacciarsi quella pastura che vollero. I malanni di casa d'ordinario son gli ultimi a saperli i padroni e mariti, e Luchino finalmente scoprì i proprii. Fanno i suddetti storici mantovani autore dello scoprimento Mastino dalla Scala, il quale in questa maniera attizzò lo sdegno di Luchino contra dei Gonzaghi. E certo s'egli vivea più lungo tempo ne avrebbe procurato lo sterminio, come attesta il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Ma non sussiste già che Luchino facesse imprigionar la moglie, come asserisce il Platina. Secondo altri, accortasi ella essere venuto il marito in cognizione de' suoi falli, s'affrettò a dargli il veleno, per cui terminò i suoi giorni [Corio, Istoria di Milano.]. Sembra nondimeno alquanto inverisimile che la cagion della guerra contro ai Gonzaghi procedesse da questo, perchè tanto tempo prima l'abbiam veduta incominciata, nè intanto si scorge che Luchino facesse risentimento alcuno contra della moglie. Pietro Azario [Petrus Azarius, Chron. Regiens., tom. 16 Rer. Ital.], scrittore contemporaneo, e ben informato di quegli affari, confessa gli scandali accaduti nel divoto pellegrinaggio d'Isabella del Fiesco e delle sue dame; ma perciocchè l'amore e la tosse non si possono occultare, n'ebbe in fine contezza il tradito Luchino. Gli scappò detto un dì di voler fare in breve la maggior giustizia che mai avesse fatto in Milano. Rapportata alla moglie questa parola, sospettò o s'accorse che la festa era preparata per lei. L'Azario non volle dire di più, e terminò il racconto con quel verso attribuito a Catone:

Nam nulli tacuisse nocet. Nocet esse locutum.

[609]

Secondo lo stesso Azario, l'arcivescovo Giovanni fece giurar fedeltà a Luchino Novello figliuolo del defunto suo fratello Luchino: il che par difficile a credersi. Bruzio, figliuolo bastardo di Luchino, che in addietro era stato il primo nobile della corte paterna, e come secondo padrone di Milano, avea tiranneggiato massimamente Lodi, della qual città era governatore (siccome persona, che dopo aver molto applicato alle lettere, d'esse unicamente s'era poi servito per commettere delle iniquità), se ne fuggì, e andò ramingo un pezzo, finchè in una città de' Veneziani meschinamente morì. Succedette, se pure non vogliam dire che continuò Giovanni Visconte arcivescovo di Milano nel dominio di Milano, Lodi, Piacenza, Borgo San Donnino, Parma, Crema, Brescia, Bergamo, Novara, Como, Vercelli, Alba, Alessandria, Tortona, Pontremoli ed altri luoghi in Piemonte. E benchè gli Astigiani si fossero dati a Luchino solamente durante la di lui vita, pur volle anch'egli la signoria di quella città. Una delle prime sue azioni quella fu di richiamar dall'esilio i due suoi nipoti Bernabò e Galeazzo, figliuoli di Stefano suo fratello, che Luchino avea banditi propter opera ipsorum non bona, siccome scrive il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Liberò ancora esso arcivescovo dalle carceri Lodrisio Visconte suo cugino [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], imprigionato, allorchè fu sconfitto a Parabiago da Azzo Visconte. Fece inoltre Giovanni arcivescovo sul fine d'aprile pace coi Gonzaghi; ma fra essi Gonzaghi e Mastino dalla Scala non cessò la guerra. Ne' mesi di aprile e giugno l'esercito veronese, condotto da Cane Scaligero figliuolo di Mastino, venne a dare il guasto al Mantovano, con lasciar dappertutto funesti segni dell'odio suo. Ed essendosi poi quelle genti ritirate nel dì 3 d'agosto, l'armata de' Mantovani, consistente in mille cavalli e gran quantità di fanteria, [610] passò sul Veronese per rendere la pariglia agli Scaligeri. Per tradimento s'impadronirono del castello di Valezzo; ma sopraggiunto Alberto dalla Scala col suo sforzo, loro diede addosso, e li sconfisse. Per un trattato che era con alcuni cittadini di Jesi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Cronica Bolognese, tom. 18 Rer. Ital.], Malatesta Unghero, figliuolo di Malatesta de' Malatesti signore di Rimini, entrò con copia d'armati in quella città nel dì 10 di gennaio. Allora messer Uomo di santa Maria, che n'era signore, colle milizie sue e degli amici fece quanta difesa mai potè, e lungo fu il contrasto dell'armi fra loro; ma in fine prevalse il Malatesta, e rimase padrone della città. Nel dì primo di settembre [Johann. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital.] (Matteo Villani scrive [Matteo Villani, lib. 1, cap. 45.] nel dì 4 d'esso mese) un fierissimo tremuoto si fece udire per la maggior parte d'Italia, e massimamente nella Puglia, dove le città dell'Aquila e d'Ascoli ed altre terre patirono immenso danno. Anche in Perugia precipitarono molte torri e case. E la terza parte del tetto della basilica di S. Paolo fuori di Roma cadde con assai altre chiese e fabbriche in Roma stessa. Dei danni patiti in Napoli, Aversa, Monte Casino, San Germano, Sora ed altri luoghi parla Matteo Villani. In questi tempi fiorivano Bartolo da Sassoferrato e Francesco Petrarca Fiorentino, l'uno gran legista, e l'altro poeta celebre; e cominciò anche a farsi conoscere Giovanni Boccaccio da Certaldo. La Sicilia era tutta sconvolta per due potenti fazioni insorte in quel regno, giacchè il re era tuttavia di poca età ed incapace di governo, e la morte gli avea rapito il valoroso suo zio, che col suo senno avea tenuto in addietro que' popoli in freno; laonde infelicissima divenne quell'isola, verificando il detto del Savio, che per lo più una pensione della minorità de' regnanti sono i disordini.

[611]


   
Anno di Cristo mcccl. Indizione III.
Clemente VI papa 9.
Carlo IV re de' Romani 5.

Gran celebrità diede all'anno presente il giubileo istituito in Roma da papa Clemente VI [Raynaldus, Annal. Eccles.], il quale per le istanze de' popoli, e massimamente de' Romani, ridusse a cinquant'anni questa piissima funzione, adducendo tutti che troppo lungo era Io spazio di cento anni decretato da papa Bonifazio VIII, perchè resterebbe da questo pio vantaggio esclusa almeno un'intera generazion di cristiani. L'avere il papa nell'anno precedente intimata a tutti i popoli cristiani la concessione di tanta indulgenza e perdono, fece muovere un'infinità di gente alla volta di Roma; e stimolo grande s'accrebbe alla lor divozione dal terribil ceffo della morte, che per cagion della pestilenza si era lasciato vedere per tutto, o quasi per tutte le Provincie cristiane ne' tre anni precedenti, e tuttavia durava in qualche paese. Maraviglia fu il vedere l'immensa quantità di gente che da tutte le parti della cristianità concorse a questo perdono. Piene continuamente erano le strade maestre dell'Italia di viandanti, come nelle fiere [Matteo Villani, lib. 1, cap. 56.]; e Matteo Villani calcolò che in Roma, durante la quaresima, si contasse (se pure è credibile) un milione e ducento mila pellegrini: di modo che troppo superiore fu il concorso di questa volta in paragone dell'altro dell'anno 1300. Tutta, per così dire, Roma era un'osteria, e la divozione altrui mirabilmente servì all'avidità de' Romani, che ricavarono tesori da tanta gente, guadagnando anche sfoggiatamente per la carezza degli alloggi e de' viveri, senza volere che i forestieri ne conducessero, per assorbir essi tutto il guadagno. E perciocchè questo loro ingordo contegno produsse talvolta mancanza di vettovaglia, ne nacquero tumulti, e il cardinale Annibaldo da [612] Ceccano legato apostolico corse dei pericoli [Vita di Cola di Rienzo, Antiquit. Ital.]. Questi poi, prima che compiesse l'anno presente, attossicato con assai di sua famiglia, cessò di vivere. De' tanti tesori che colarono in questa congiuntura nelle chiese di Roma, l'una parte toccò alle chiese medesime, e l'altra al papa, il quale impiegò poi questo danaro in raunar milizie per far guerra in Romagna. Conte di quella provincia era Astorgio di Duraforte; e trovando egli tutte le città occupate da' signori che nella storia ecclesiastica son chiamati tiranni, si mise in cuore di ricuperar tutto il paese. Per questo fine richiese d'aiuto i principi di Lombardia e i comuni di Toscana, accompagnando le richieste sue con premurose lettere del papa. L'arcivescovo di Milano gl'inviò cinquecento barbute. Mastino dalla Scala, i Pepoli signori di Bologna ed Obizzo Estense signor di Ferrara e Modena gliene mandarono a proporzione. Non si vollero incomodare per lui i Toscani. La prima impresa, che tentò questo ministro pontificio, fu contra di Faenza, signoreggiata allora da Giovanni de' Manfredi, che dianzi ne avea cacciate le genti del conte [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nel dì 16 di maggio imprese l'assedio del castello di Solaruolo. Il Manfredi, che avea preveduto il colpo, vi aveva introdotta una buona guarnigione, e questa fece gagliarda difesa sino al dì 6, oppure 8 di luglio, in cui succedette una strepitosa novità. Trattava Giovanni de' Pepoli d'aggiustamento fra il conte della Romagna e Giovanni Manfredi, per far rendere alla Chiesa Faenza. Mostrò il conte desiderio di abboccarsi col Pepoli prima di conchiudere il trattato; e il Pepoli, benchè contro il parere di Jacopo suo fratello, che doveva essere più accorto di lui, andò a trovarlo nel campo di Solaruolo. Fu ricevuto con gran festa; ma andò questa a terminare in suo grave affanno, perchè fu fatto prigione con un [613] suo nipote figliuolo di Jacopo: ducento cavalieri da lui mandati in aiuto del conte furono anche essi presi, rubati di tutto e ritenuti prigioni. Il Manfredi e Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì, per resistere al conte Astorgio, aveano preso al lor soldo il duca Guarnieri condottiere di cinquecento barbute tedesche, il quale si era partito dal regno di Napoli, siccome dicemmo. Fece correr voce il conte ch'esso duca, per trattato di Giovanni de' Pepoli, era venuto a Faenza, e per questo egli avea fatto mettere le mani addosso al Pepoli. Se ciò sussistesse, nol so dire: ben so che questa prigionia fu universalmente tenuta per un gran tradimento, e che in que' tempi i ministri inviati dal papa in Italia furono per lo più in concetto d'uomini di poca lealtà e capaci di tutto, ma spezialmente attenti ad empiere le loro borse. Abbiamo dalla Cronica Estense che nel precedente giugno avea lo stesso conte della Romagna tenuto dei trattati segreti, con promessa di trenta mila fiorini d'oro ai traditori, per far uccidere Giovanni e Jacopo dei Pepoli; ma, scoperta la trama, ebbe fine colla morte di due nobili bolognesi. Condotto Giovanni de' Pepoli nelle carceri d'Imola, gli fu proposto, se amava la libertà, di cedere Bologna all'armi del papa: al che si mostrò egli o fintamente o veramente disposto, e cominciò a scriverne a Jacopo suo fratello. Intanto il conte s'impadronì di Castello San Pietro; ma perciocchè le sue soldatesche, per ritardo di paghe, si ammutinarono, pretendendo settanta mila fiorini d'oro, il conte, non avendo altro ripiego, mise in lor mano Giovanni de' Pepoli per pegno, con tassare il di lui riscatto ottanta mila fiorini d'oro. Oltre a ciò, lasciò loro in guardia Castello San Pietro, ed accrebbe poi le ostilità contra Bologna. Fece allora Jacopo de' Pepoli venire il duca Guarnieri con sua gente per difesa della città, e ricorse ancora per aiuto a Giovanni Visconte arcivescovo e signor di Milano. Bella occasione di pescar nel [614] torbido parve questa al Visconte, personaggio pieno d'ambizione e di vaste idee non meno del fu suo fratello Luchino. Anch'egli perciò mandò un corpo di cavalleria in rinforzo ai Pepoli. Gliene spedì eziandio Ugolino Gonzaga, e vi andò in persona Malatesta signor di Rimini con assai gente: stomacati tutti del tradimento fatto dal ministro papale a Giovanni de' Pepoli. Per lo contrario, Mastino dalla Scala, ricordevole che i Pepoli erano stati in lega coi Gonzaghi contra di lui, inviò nuova gente in sussidio del conte della Romagna.

Trovandosi intanto Giovanni de' Pepoli in ostaggio de' soldati pontificii, venne ad un accordo, promettendo loro venti mila fiorini d'oro di presente, e il resto per tutto il dì 6 di settembre; e se ciò non eseguiva, di tornar nelle loro forze, con dare intanto per ostaggi i suoi figliuoli. Ebbero esecuzione i patti, ed egli rimesso in libertà, giacchè gli andò a vuoto un trattato di sorprendere il conte della Romagna, nel dì 9 di settembre cavalcò a Milano per trattare con Giovanni Visconte de' suoi affari. Trovavansi questi in male stato, perchè forze non c'erano per resistere alla guerra mossa dal conte di Romagna, e mancava la pecunia per riscattare i figliuoli. Parte dunque per necessità, e parte per vendicarsi del medesimo conte, segretamente vendè la città di Bologna all'arcivescovo Visconte per ducento mila fiorini, secondo Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 1. Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]; laonde il Visconte spedì tosto a Bologna i due nipoti Bernabò e Galeazzo con gran gente d'armi come ausiliarii de' Pepoli. Allorchè essi Pepoli si avvisarono d'essere assai forti per poter eseguire il contratto [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] fecero eleggere signor di Bologna Giovanni Visconte nel dì 25 d'ottobre, ma con rabbia e dispetto de' migliori e del popolo tutto, che andava gridando per le strade: Noi non vogliamo essere venduti. Tuttavia bisognò [615] prendere il giogo. Era ne' tempi addietro Bologna considerata, non come una città, ma come una provincia: tanto lungi si stendeva il suo distretto, e tanta era la copia degli scolari, i quali talvolta arrivarono al numero di tredici mila. L'acquisto fattone dall'arcivescovo di Milano fu un principio di grandi sciagure per essa città, sì perchè il popolo guelfo di fazione non sapea sofferire il giogo dei Ghibellini, e sì perchè di ciò s'ingelosirono forte i Fiorentini ed altri principi di Lombardia, conoscendo abbastanza la sfrenata avidità del Biscione: che così si cominciò a soprannominar la casa dei Visconti per cagione della vipera, ossia del serpente dell'armi sue gentilizie. Nei patti suddetti Jacopo de' Pepoli si riserbò la signoria di San Giovanni in Persiceto e di Sant'Agata, e Giovanni quella di Crevalcuore e Nonantola: il che maggiormente accese l'odio de' Bolognesi contra dei Pepoli.

Fu in quest'anno [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Cortusiorum Histor., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] che Giovanni Visconte, per meglio stabilire la sua casa, procurò a Bernabò suo nipote in moglie Regina figliuola di Mastino, e all'altro suo nipote Galeazzo Bianca sorella di Amedeo VI conte di Savoia. Sul fine di settembre in Verona fu sposata Regina, e alla nobil funzione intervennero Obizzo marchese d'Este e Jacopo da Carrara signor di Padova, i quali, secondo l'uso di que' tempi, non dimenticarono di fare degli splendidi regali alla sposa. Celebraronsi poscia con pompa maggiore in Milano nel giorno medesimo le nozze di amendue, e quelle ancora di Ambrosio figliuolo di Lodrisio Visconte. Successivamente nel mese di novembre Can Grande dalla Scala figliuolo di Mastino prese per moglie Isabella figliuola del già Lodovico il Bavaro, e sorella del marchese di Brandeburgo. Corte bandita e gran solennità fu fatta in Verona per questa occasione [616] Nell'anno presente [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] Lodovico degli Ordelaffi s'impadronì di Bertinoro, e Francesco degli Ordelaffi occupò Meldola. Erano essi collegati coi Manfredi di Faenza contro al conte di Romagna. Guerra in questi tempi bolliva tra il patriarca di Aquileia Beltrando, Guascone di patria, prelato di grandi virtù, e il conte di Gorizia, con cui si erano uniti molti castellani del Friuli ribelli del patriarca [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Mentre con ducento uomini d'armi era esso patriarca in viaggio verso Udine, fu colto da' nemici; nè solamente andò sconfitta la sua gente, ma restò egli preso, e, trafitto da un colpo di spada, vi lasciò miseramente la vita. Ciò pervenuto all'orecchio del duca d'Austria, corse frettolosamente con poderosa copia di combattenti nel Friuli, e si mise in possesso d'Aquileia, d'Udine e degli altri luoghi, alla riserva di Sacile. Gran vendetta fu poi fatta di questo esecrando misfatto. Avea fin qui con assai prudenza governata la città di Padova Jacopo da Carrara, e s'era guadagnato l'amore del pubblico, ma non già di Guglielmo bastardo da Carrara, che per li suoi cattivi portamenti era sequestrato in Padova [Gatari, Histor. Padov., tom, 17 Rer. Ital. Cortus. Histor.]. Perchè costui non poteva ottener la licenza d'andarsene a suo piacimento, talmente s'inviperì, che nel dì 21 di dicembre, festa di san Tommaso, trovandosi con esso solo in una camera, sfoderato un coltello, gli tagliò il ventre, onde cadde morto a terra, Guglielmo dalle guardie fu messo in brani. Universale fu il pianto de' cittadini per questa perdita; e perciocchè non si trovava in città se non Marsilio fanciullo, figliuolo di esso Jacopo, fatto un gran concorso al palazzo, fu creduto bene di metterlo a cavallo e di condurlo per la città, acciocchè si tenesse in quiete il popolo, finchè venissero Jacopino fratello e Francesco primogenito dell'ucciso signore, i quali venuti nel dì 22 [617] del suddetto mese, entrambi furono di comun concordia del popolo proclamati signori.

Terminò in quest'anno sul principio di gennaio o di febbraio i suoi giorni Giovanni da Murta doge di Genova, dopo aver con assai zelo e prudenza governata quella repubblica [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. In luogo suo fu eletto Giovanni di Valente. Ma in questo anno ebbe principio una nuova guerra fra i Genovesi e i Veneziani, nazioni emule da gran tempo per la mercatura che faceano in Levante. Erano i primi padroni di Gaffa nella Crimea [Marino Sanuto, Ist., tom. 22 Rer. Ital.], e pretendendo che i Veneziani non navigassero nel mar Nero, ossia Maggiore, presero alcuni loro legni, e ne ritennero la mercatanzia. Essendo riuscite vane le istanze fatte per via di ambasciatori, affinchè restituissero il maltolto, adunarono i Veneziani una flotta di trentacinque galee sotto il comando di Marco Ruzino. Con questa avendo colte nel di 29 di agosto quattordici galee di mercatanti genovesi ad Alcastri, cinque ne presero, e all'altre fu messo fuoco da' Genovesi medesimi; oppure, secondo lo Stella, dieci vennero alle loro mani, e quattro si salvarono a Scio. Più di mille prigioni furono condotti a Negroponte. Ecco dunque dichiarata la guerra fra queste due nazioni, sì potenti allora in mare. Diede essa motivo dipoi a' Veneziani di collegarsi col re di Aragona, nemico anch'esso de' Genovesi; e di queste maledette divisioni e rivalità de' cristiani seppero ben profittare allora i Turchi con istendere la loro potenza nell'Asia. Benchè sembrassero gli affari del re d'Ungheria in assai buono stato dopo la rotta data ai Napoletani, pure cangiarono presto faccia per l'infedeltà ed ingordigia de' Tedeschi, comandati dal duca Guarnieri. Cominciarono essi a tumultuare in Aversa per cagion delle paghe che non correvano [Dominicus de Gravina, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Stefano [618] vaivoda di Transilvania, generale dell'armata unghera, tentò di placarli col dar loro nelle mani i baroni napoletani prigioni, acciocchè col riscatto di essi si rimborsassero. Racconta il Gravina che que' crudi masnadieri, per indurre essi nobili a pagare cento mila fiorini d'oro, con varii tormenti li ridussero quasi a morte: laonde promisero di pagare quella somma, che Matteo Villani fa ascendere fino a ducento mila fiorini. Ma neppur questo bastando al compimento delle paghe da loro pretese, si scoprì una risoluzione da lor fatta di far prigione lo stesso vaivoda. Perlochè il vaivoda una notte con tutti i suoi Ungheri se ne andò alla volta di Manfredonia. Rimasti i Tedeschi padroni d'Aversa e d'altri luoghi, trattarono una tregua col re Luigi e coi Napoletani, ricavandone cento mila fiorini d'oro. Cento altri mila furono loro promessi, se cedevano Aversa, Capoa ed altri luoghi ad esso re Luigi. Ma in fine costoro, non avendo più sussistenza di viveri, si ritirarono da Aversa, e la depositarono in mano del cardinal di Ceccano [Matteo Villani, lib. 1, cap. 87.]. Il duca Guarnieri con settecento cavalieri, siccome dicemmo, venne dipoi a Forlì e Bologna, dove prese soldo. Corrado Lupo con altri Tedeschi si acconciò di nuovo ai servigi del vaivoda. Avendo poscia il re Luigi ripigliato Aversa, e fortificatala, parevano risorti i di lui affari, quando eccoti Lodovico re d'Ungheria, che con gran gente, mosso dalle sue contrade, viene a sbarcare in Manfredonia. Unite insieme le sue forze in Baroli, si trovò che ascendevano a quasi quattordici mila Ungheri a cavallo ed otto mila Tedeschi parimente cavalieri, e a quattro mila fanti lombardi. Il Villani, forse con più fondamento, la fa minore di qualche migliaio. Conquistò Bari, Bitonto, Baroli, Canosa, Melfi, Matalona, Trani ed altre terre. I Salernitani gli aprirono le porte: in una parola venne alle di lui mani, fuorchè Aversa e Napoli, tutta la Terra di Lavoro. Lungo tempo si trattenne [619] dipoi il re d'Ungheria all'assedio di Aversa, nè, per quanti assalti desse alla terra con gran perdita di sua gente, potè vincerla. L'ebbe in fine per trattato da quei cittadini. Ma intanto papa Clemente VI non intermetteva diligenza alcuna per mettere fine a questo fiero sconvolgimento del regno di Napoli, facendo proporre, per mezzo di due cardinali, tregua o pace. Il re d'Ungheria, che gran voglia avea di ritornarsene al suo paese, vi diede orecchio; molto più il re Luigi e la regina Giovanna sua moglie, che erano giunti al verde, nè sapeano più come sostenersi. Fu dunque rimessa al pontefice la cognizion della differenza, con che intanto i due re e Giovanna uscissero del regno. Se si trovava colpevole la regina della morte del duca Andrea, dovea perdere il regno, e questo darsi al re unghero; se innocente, avea da tornarne in possesso, e pagare al re unghero per le spese della guerra trecento mila fiorini d'oro. Venne il re d'Ungheria per sua divozione a Roma, e poscia si ridusse ai suoi stati d'Ungheria. La sentenza della corte pontificia in fine fu favorevole alla regina Giovanna, come ogni saggio ben prevedeva; e il re di Ungheria per sua magnanimità neppur volle o pretese i trecento mila fiorini, che gli si doveano secondo i patti. In quest'anno Benedetto di Buonconte de' Monaldeschi, dopo avere ucciso due de' suoi consorti, si fece signore d'Orvieto. Giovanni de' Gabrielli anch'egli prese la signoria di Gubbio; e perciocchè i Perugini andarono all'assedio di quella città, il tiranno chiamò in suo aiuto Bernabò Visconte, che per l'arcivescovo suo zio vi mandò un rinforzo di cavalleria, e in questa guisa si difese.


   
Anno di Cristo mcccli. Indizione IV.
Clemente VI papa 10.
Carlo IV re de' Romani 6.

L'acquisto fatto da Giovanni Visconte arcivescovo di Milano della città di Bologna, con indignazione era stato inteso [620] da papa Clemente VI [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.], sì per vedere occupata da un sì potente signore una sì riguardevol città della Chiesa, come ancora per conseguenze fastidiose che ne poteano avvenire. Però nel novembre dell'anno precedente gli avea scritto un breve fulminante, con ordine di restituire entro un termine prefisso quella città, e con intimazione delle censure contra di lui, di Galeazzo suo nipote e dei Pepoli, se non ubbidiva. Mandò anche in Italia nell'anno presente un suo nunzio per far leghe contra del Visconte. Se s'ha in ciò da prestar fede al Corio [Corio, Istoria di Milano.], arrivato questo nunzio a Milano nel gennaio di quest'anno, rinnovò le istanze pontificie per la restituzion di Bologna, e disse per parte del papa al Visconte, che si eleggesse, o d'essere solamente arcivescovo, o solamente principe temporale, perchè l'uno e l'altro non volea che fosse. Aspettò l'arcivescovo a dargli la risposta la seguente mattina nel duomo, dopo aver celebrata solenne messa. Fatta ripetere l'istanza del nunzio in presenza del popolo, prese colla man manca la croce, e coll'altra una spada nuda, e disse al prelato: Monsignore, risponderete al papa da parte mia, ch'io con questa difenderò l'altra. Il pontefice, avuta questa risposta, sottopose all'interdetto tutte le città dell'arcivescovo, e citò lo stesso arcivescovo a comparire in Avignone: al che gli fece sapere d'essere pronto. Diede intanto ordine al suo ministro d'Avignone di far quivi de' preparamenti per dodici mila cavalli e sei mila fanti; e il ministro cominciò con furia a preparar fieno e case per li forestieri che il Visconte andava mandando colà. Avvisatone il papa, volle saperne da esso ministro la cagione: e uditala, e che la spesa già fatta ascendeva a quaranta mila fiorini, gli rimborsò quella somma, e comandogli di far sapere al suo padrone che non s'incomodasse per venir colà. Non farei sicurtà io che questo non fosse uno di que' racconti che vengono [621] dal popolo per esaltar le cose del proprio paese. Quello che è fuor di dubbio, l'oro, sì potente in tante altre congiunture, qui ancora esercitò il suo potere. Cioè nel dì 24 di settembre dell'anno presente ebbe maniera il Visconte di riportar dal papa l'investitura di Bologna collo sborso di centomila fiorini d'oro in due rate; e così cessò tutta la collera della corte pontificia contra del Biscione. Ma da Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 1.] questo accordo è riferito al dì 8 di maggio, e dal Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] all'ottobre dell'anno seguente. Secondo lo stesso Villani, il Visconte diede da bere a tutti i maggiorenti d'essa corte, come dicono in Milano, nella tazza di santo Ambrosio. E perciocchè i Fiorentini, pensando ai casi loro, studiaronsi di far venire in Italia Carlo IV re de' Romani, seppe molto bene l'arcivescovo trattenere quest'altro principe con aurei regali, e con rappresentargli, qual indecenza sarebbe il venire contra chi sosteneva i diritti dell'imperio in Italia, laddove i Fiorentini e gli altri Guelfi non cercavano se non di abolirli.

Mentre queste cose passavano in corte del papa, Bernabò Visconte, il quale in vece del fratello Galeazzo era ito al comando di Bologna [Cronica di Bologna, tom. eod.], riscattò dalle mani de' Tedeschi i due figliuoli di Giovanni dei Pepoli, e da essi ricavò ancora il possesso di Castello San Pietro, e ricuperò Lugo, ed ogni altra fortezza e castello del Bolognese. Il duca Guarnieri soddisfatto delle sue paghe, e carico d'oro, andò ai servigi di Mastino dalla Scala; e il conte della Romagna [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], cioè Astorgio di Duraforte, accortosi tardi della pazza sua condotta e dei mali effetti della sua dislealtà, screditato se ne tornò oltramonti. A dì 14 di aprile arrivò al governo di Bologna Giovanni Visconte da Oleggio. La parzialità e fidanza grande che aveva in costui l'arcivescovo, fecero credere a molti [622] ch'egli fosse suo figliuolo. Nel dì 3 di maggio l'esercito del Visconte andò allo assedio d'Imola sotto il comando di Bernabò, con cui furono Francesco degli Ordelaffi signor di Forlì e Giovanni de' Manfredi signor di Faenza. Ma dentro v'era Guido degli Alidosi, che fece una gloriosa difesa, finchè l'arcivescovo mosse l'armi sue contro la Toscana. Intanto nel dì 21 di giugno si scoprì un trattato in Bologna; se vero o finto, io nol saprei dire. Andando la notte in ronda un uffiziale di Giovanni da Oleggio, trovò la porta di Strà Castiglione non serrata con chiave. Imprigionato il capitano e tormentato, accusò Jacopo de' Pepoli come congiurato coi Fiorentini, per ritorre quella città; e nominò alcuni complici, i quali tormentati confessarono lo stesso. Fu perciò preso Jacopo de' Pepoli ed Obizzo suo figliuolo, dimorante in San Giovanni in Persiceto, terra che, non men di Crevalcuore e di Sant'Agata, si diede poco appresso a Giovanni da Oleggio. Francamente se ne andò a Milano Giovanni dei Pepoli, che dimorava allora in Nonantola, a lamentarsi coll'arcivescovo di quanto avea operato il di lui uffiziale, pretendendolo un'iniquità e una mera calunnia. Gli fu permesso di stare in Milano coll'assegno d'una pensione mensuale, purchè facesse venir colà un suo figliuolo, e cedesse la terra di Nonantola: il che fu eseguito. Jacopo condannato ad una perpetua carcere, nell'ottobre fu condotto a Milano; ma alcuni de' suoi compagni come rei finirono la vita loro sopra un patibolo in Bologna. Dacchè Giovanni Visconte non potea, per li patti fatti col papa, stendere le sue conquiste verso la Romagna, rivolse i suoi pensieri alla Toscana. Sturbò le leghe che andavano maneggiando in Lombardia i Fiorentini, ed egli tirò al suo partito i Pisani e tutti i Ghibellini di quelle parti. Non isbigottiti per questo i Fiorentini [Matteo Villani, lib. 1, cap. 95.], attesero a premunirsi contra l'ingordo prete, che colla sua potenza già si scopriva disposto ad ingoiar [623] tutti i vicini. La prima loro impresa fu di assicurarsi di Pistoia. V'erano dentro delle turbolenze per la nemicizia dei Panciatichi coi Cancellieri; e temendo che non ne approfittasse il Biscione, il quale tuttavia faceva dell'amico loro, nel dì 26 di marzo tentarono di sorprenderla con una scalata sul fare del giorno. Fallito il colpo, misero l'assedio a quella città, e la tennero stretta per qualche tempo, finchè, venuti gli ambasciatori di Siena a trattare d'accordo, ottennero sul fine d'aprile che quel popolo prendesse alla loro guardia i Fiorentini.

Era quasi spirato il mese di luglio, quando si fecero palesi i disegni dell'arcivescovo e signor di Milano Giovanni Visconte contra de' Guelfi toscani. Marciò il di lui esercito da Bologna alla volta di Pistoia, ed, impadronitisi della Sambuca, si accampò sul territorio di Pistoia. Ne era capitan generale il soprammentovato Giovanni da Oleggio. Nello stesso tempo si mossero contro ai Fiorentini gli Ubaldini, i Tarlati e i Pazzi di Valdarno. Cavalcarono dipoi le genti del Visconte sul distretto di Firenze sino a Campi e Peretola; ma quivi, cominciando a penuriar di viveri, poco si poterono fermare, e passarono in Mugello. Cinsero poscia d'assedio la terra di Scarperia [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]; ma quegli abitanti col presidio de' Fiorentini fecero così valorosa difesa, che, per quanti assalti si dessero alla terra, non solo niun vantaggio ne riportarono gli assedianti, ma furono sempre respinti con loro danno e vergogna. Sicchè nel dì 16 di ottobre prese Giovanni da Oleggio il partito di valicar l'Apennino, e di tornarsene collo screditato suo esercito a Bologna, senza aver preso un castello di conto. Per sì felice avvenimento furono in gran gloria ed allegria i Fiorentini, e ne scapitò forte l'onore dell'arcivescovo di Milano. Nè si dee tacere che nel mese di settembre, mandando i Perugini in aiuto dei Fiorentini secento de' lor cavalieri, tutta bella gente d'armi [624] Pier Saccone de' Tarlati, che avea ricevuto un sussidio di quattrocento cavalieri tedeschi dal capitano del Visconte, postosi in agguato, gli assalì; e, benchè sulle prime restasse egli prigione, pure riavuto sconfisse i Perugini con far prigioni trecento de' lor cavalieri, e prendere ventisette bandiere. Nel novembre seguente esso Pier Saccone per tradimento entrò in Borgo San Sepolcro, terra molto ricca, e se ne impadronì: nè i Perugini, con tutto il loro sforzo, poterono impedire ch'egli non acquistasse ancora le rocche, le quali si erano tenute forti per qualche tempo. Intanto per la guerra insorta fra i Veneziani e Genovesi, dall'una e dall'altra repubblica fatto fu un forte armamento [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; ma più in Genova, dove si allestirono sessantaquattro galee con gran copia d'armati, e massimamente di balestrieri, sotto il comando di Paganino Doria. Passata questa possente flotta nel mese di luglio nel golfo di Venezia, recò danno a varii luoghi, e poi dirizzò le prore verso Negroponte, dove erano i prigioni di lor nazione. Trovarono in quel porto tredici o più galee veneziane; v'ha chi scrive che le presero, e mandarono a Genova colle mercatanzie; e chi, avere il general de' Veneziani attaccato ad esse il fuoco. Tennero gran tempo i Genovesi assediata quella città, e l'assalirono in fine con tal empito, che v'entrarono per forza, e liberarono i lor prigioni; ma, conoscendo di non poter tenere quel luogo, dopo avergli dato fuoco in più siti, se ne andarono a Pera. Intanto i Veneziani collegatisi coi Catalani, o vogliam dire col re d'Aragona [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Estense, ubi supra.], nemico spacciato de' Genovesi, gli spedirono ventitrè corpi di galee, perchè le armasse di sua gente, siccome egli fece. Altre ventisette ne armarono nobilmente gli stessi Veneziani. Unitisi questi legni in Sicilia, fecero vela nel novembre verso l'Arcipelago, e [625] raccolti altri di lor bandiera che erano in Levante, si trovarono i Veneziani avere una flotta di sessanta galee, che svernò in quelle parti. Intanto i Genovesi s'erano impadroniti dell'isola di Tenedo, togliendola ai Greci, ed aveano dato il sacco ad altre loro terre: dopo di che passarono anch'essi il verno in quelle contrade. Nel dì 3 di giugno dell'anno presente passò all'altra vita Mastino dalla Scala signore di Verona e Vicenza, principe rinomato e temuto assaissimo in vita sua, e di cui, più che di altri, Giovanni Visconte cercò l'amicizia e paventò il valore. Lasciò, oltre a molti bastardi, dopo di sè tre figliuoli legittimi, cioè Can Grande secondo, Can Signore e Paolo Alboino. Era tuttavia vivente Alberto dalla Scala suo fratello, e questi si contentò che anche i nipoti fossero eletti e proclamati signori. Ma, o sia che al solo Can Grande fosse data la signoria con suo zio, oppure che gli altri suoi due minori fratelli cedessero: certo è che il governo restò in mano di Can Grande dopo la morte d'Alberto, la quale avvenne a dì 13 di settembre dell'anno seguente, senza che di lui restasse prole alcuna legittima. Riuscì nell'anno presente al pontefice Clemente VI, siccome già accennammo, di mettere pace fra il re Lodovico d'Ungheria e il re Luigi di Napoli: laonde gli affari di quest'ultimo cominciarono a prosperare, e i baroni a poco a poco vennero a riconoscerlo per loro signore.


   
Anno di Cristo mccclii. Indizione V.
Innocenzo VI papa 1.
Carlo IV re de' Romani 7.

Fu questo l'ultimo anno della vita di papa Clemente VI [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Infermatosi egli in Avignone, passò all'altra vita nel dì 6 di dicembre. Lasciò dopo di sè la lode d'essere stato pontefice d'animo grande, liberale e limosiniere. Acquistò Avignone alla Chiesa, e in quella città [626] fece di sontuose fabbriche, per eternar ivi il soggiorno de' papi, se avesse potuto, con grave mormorazion degl'Italiani, e specialmente di Roma. Non si guardò neppur egli d'impiegare il danaro della Chiesa in guerre. Attese, benchè con poco frutto, a seminar la pace fra tutti i principi cristiani, non avendo preso partito se non nella guerra di Filippo re di Francia contra dell'Inglese: nel che consumò molto tesoro. Il Baluzio [Baluz., Praefation. ad Vit. Papar. Aven.], che si sforza di difendere i suoi papi avignonesi dalle querele e censure degl'Italiani, i quali non si possono ritenere dal detestare la permanenza de' papi in Provenza, siccome cagione di tanti disordini della corte pontificia, di Roma ed anche dell'Italia; dovette credere picciola cosa l'essere divenuti que' pontefici schiavi delle voglie dei re di Francia e di Napoli; e la dissolutezza in cui cadde la lor corte fra le delizie d'Avignone. Sotto lo stesso Clemente VI non solamente essa non migliorò, ma peggiorò di molto, perchè, per attestato di Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 2, cap. 43.], questo papa in ingrandire ed arricchire i suoi parenti, non conobbe limite, e la Chiesa rifornì di più cardinali suoi congiunti, e fecene di sì giovani e di sì disonesta e dissoluta vita, che ne uscirono cose di grande abbominazione. Nè il papa stesso fu in ciò esente da taccia, non essendosi, allorchè era arcivescovo, guardato dalle femmine: e neppur nel papato si seppe contenere, andando a lui le grandi donne, come i prelati; e specialmente la contessa di Turena tanto fu possente in cuore di lui, che per lei facea gran parte delle grazie. Giunse poi l'avidità di far danaro ad innumerabili riserve ed espettative di benefizii, e a conferire a molti lo stesso benefizio, che in fine toccava a chi avea la fortuna di carpire il breve dell'Anteferri. Lascio gli altri disordini della corte avignonese, onde nacquero non pochi scandali, in guisa che taluno diede il nome di Babilonia, non [627] già alla santa Chiesa romana, sempre salda nelle vere dottrine, ma al dissoluto vivere di quella corte, nel mentre che Roma, legittima sede e vescovato proprio de' romani pontefici, andava di male in peggio per la lontananza de' suoi pastori, e tutte le sue città erano ormai cadute in mano de' tiranni. Nel dì 18 del suddetto dicembre s'affrettarono i cardinali di eleggere un papa a lor modo, per prevenire il re di Francia, che veniva in fretta ad Avignone per farne uno a beneplacito suo [Vita Innocentii VI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Cadde l'elezione nel cardinale Stefano di Alberto, nato nella diocesi di Limoges, vescovo allora d'Ostia, personaggio provveduto di molta scienza, zelo e giustizia, che prese il nome d'Innocenzo VI. Non tardò egli a riformare alcuno de' più gravi abusi che correvano sotto il suo antecessore, annullando le riserve di tanti benefizii e tante commende, delle quali non erano mai sazii i porporati e prelati d'allora, ordinando ancora la residenza ai vescovi e agli altri benefiziati, che dianzi correvano a darsi bel tempo alla corte pontificia, e ad uccellar nuovi benefizii. Riformò ancora il lusso della sua corte e de' cardinali, che era giunto all'eccesso; e cominciò a conferire i benefizii a persone di merito, laddove prima si davano per raccomandazione de' favoriti senza esame di dottrina e di costumi.

Nel dì 13 di febbraio dell'anno presente vennero in vicinanza di Costantinopoli i Veneziani e Genovesi, tutti pieni d'odio e d'invidia gli uni contra degli altri [Caresin., Histor., tom. 12 Rer. Ital. Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 2, cap. 59.]. Menavano i primi un'armata di settantacinque galee tra le proprie e le armate da' Catalani, e quelle di Giovanni Cantacuzeno imperador de' Greci loro confederato. Ne era generale Nicoletto Pisani. La flotta de' Genovesi, comandata da Paganino Doria, ascendeva a sessantaquattro galee. Terribil fu quella battaglia, [628] fatta in più parti e con più rimesse. Vi si sparse gran sangue, e in fine parve che la vittoria fosse de' Genovesi. Imperciocchè il generale de' Catalani, e molti nobili e più di due mila persone dalla parte dei Veneziani e Catalani vi rimasero uccise; e furono prese da' nemici quattordici galee venete, dieci de' Catalani e due de' Greci, e circa mille e ottocento uomini. Ma avendo anche i Genovesi perdute tredici loro galee, oltre a sei che erano fuggite, ed essendo morti nel conflitto più di settecento della lor gente, fra' quali non pochi de' principali cittadini di Genova, neppur essi cantarono il trionfo. Si ritirarono i Veneziani, perchè più malconci degli altri, e si accinsero a riparare il danno, per tentare miglior fortuna in un altro combattimento. I Genovesi all'incontro, per vendicarsi del Cantacuzeno, chiamati in loro aiuto i Turchi, che vi andarono con sessanta legni armati, e ricevute da Genova dieci altre galee, si misero ad assediar Costantinopoli, e ridussero a tale quella città, che nel dì 6 di maggio obbligarono l'imperadore greco a dimandar la pace, che fu stabilita con molto loro vantaggio pel commercio, e coll'espulsione de' Veneziani e Catalani da Costantinopoli, ma con vergogna del nome cristiano. Seguì nell'anno presente in Napoli la coronazione del re Luigi e della regina Giovanna per mano di un legato apostolico, correndo la festa della Pentecoste nel dì 27 di maggio. Con gran solennità fu eseguita quella funzione [Raynaldus, Annal. Eccles. Matteo Villani, lib. 3, cap. 8.], essendovi intervenuti quasi tutti i baroni e vassalli del regno, a' quali fu conceduto un generale indulto di tutte le passate ribellioni: con che tornò a fiorir la pace in quelle contrade. Ma il papa permise al re Luigi la corona, a condizione che, se mai premorisse a lui la regina Giovanna senza figliuoli, il regno pervenisse a Maria di lei sorella, e Luigi dimettesse il titolo di re, con riassumere quello di principe di Taranto. Per cacciar poscia [629] dal regno Corrado Lupo, il quale con grosso corpo di Tedeschi s'era afforzato a Nocera de' Pagani, altro mezzo non ebbe il re Luigi che di adoperar l'efficace ricetta dell'oro, ottenendo da lui quanto volle, collo sborso di trentacinque mila fiorini. Fece anche ritornare alla sua ubbidienza la città dell'Aquila. Ma perchè era rimasto nel regno fra Moriale, che cogli Ungheri teneva tuttavia il castello, ossia la città d'Aversa, mandò il re Luigi per Malatesta da Rimini con dargli il titolo di vicario del regno. Andò colà Malatesta con quattrocento cavalieri, e continuò a perseguitare i ladroni, a tener nette e sicure le strade, e a far pagare le colte. Finalmente si voltò contra di fra Moriale, ed assediò Aversa, tenendola talmente stretta per tutto il dicembre, che il costrinse a renderla, e insieme tutto il tesoro da lui adunato con tante ruberie, fuorchè mille fiorini d'oro che il re per sua bontà gli permise di asportare.

Furono guerre nell'anno presente in Toscana. Quivi sussistevano tuttavia sparse qua e là molte soldatesche di Giovanni Visconte [Matteo Villani, lib. 3, cap. 35.]. Francesco Castracani degli Interminelli, dopo aver tenuto l'assedio più di quattro mesi a Barga, terra de' Fiorentini in Garfagnana, sconfitto da essi Fiorentini, lasciò ivi gli arnesi e molti prigionieri nel mese di ottobre. Bettona, terra ricchissima, che non la cedeva alle città [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.], fu assediata dai Perugini, presa ed interamente disfatta. Pier Saccone dei Tarlati ebbe delle percosse da' Fiorentini. Gravissime scosse di tremuoto gran danno recarono in Toscana ed in altre parti. Spezialmente in Borgo Santo Sepolcro [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] nel dì 26 di dicembre e ne' susseguenti si rovesciò la maggior parte degli edifizii, colla morte di circa due mila persone. Roma in questi tempi, per le civili discordie de' nobili e del popolo, provava anche essa non pochi affanni. Ne fu cacciato [630] Luca Savelli da Rinaldo Orsino senatore. Fecero anche i Romani esercito contra Viterbo, ma vergognosamente se ne tornarono a casa. Nel dì 15 del mese di marzo infermatosi in Ferrara Obizzo marchese d'Este [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Cortus, Histor., tom. 12 Rer. Ital.], fatti a sè venire i cinque suoi figliuoli, cioè Aldrovandino, Niccolò, Folco, Ugo ed Alberto, a lui nati da Lippa dagli Ariosti, e poi legittimati col matrimonio, li fece cavalieri, e compartì lo stesso onore ad altri nobili ferraresi, modenesi, padovani e d'altre città. Poscia nel dì 19 o 20 d'esso mese compiè il corso di sua vita, lasciando nel popolo un gran desiderio di sè e un giusto motivo di lagrime. Il maggiore de' suoi figliuoli, cioè Aldrovandino, nel giorno seguente fu nel pieno consiglio di quella città, e così in quello di Modena, eletto signore. Se l'ebbe a male Francesco Estense, figliuolo del marchese Bertoldo, che fin allora era stato in isperanza di succedere in quel dominio; e però nel dì 2 d'aprile, fingendo di non vedersi sicuro in Ferrara, se ne absentò, e ritirossi a Padova, poscia in Milano, dove si diede ad ordir delle tele contra del marchese Aldrovandino, delle quali parlerò a suo luogo. Per testimonianza del Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], storico di questi tempi, nè suddito della casa d'Este, Aldrovandino era signor buono, persona d'onore, giusto e savio.


   
Anno di Cristo mcccliii. Indizione VI.
Innocenzo VI papa 2.
Carlo IV re de' Romani 8.

Il poco profitto che faceano l'armi di Giovanni Visconte in Toscana l'indusse finalmente a cercare o ad ascoltare trattati di pace coi comuni di Firenze, Siena e Perugia [Matteo Villani, lib. 3, cap. 59.]. E tanto più vi condiscese egli, perchè ben seppe che quei comuni aveano fatto gagliardo ed efficace maneggio per far calare in Italia [631] Carlo IV re de' Romani: il che a lui non piaceva. Tenutosi dunque un congresso fra gli ambasciatori in Sarzana, nel gennaio di quest'anno fu stabilita e poi pubblicata la pace con condizioni onorevoli per ambedue le parti. Seguitando più che mai l'izza de' Genovesi e Veneziani, i primi allestirono sessanta galee, e fecero lega con Lodovico re d'Ungheria, principe che non avea mai dimesso l'odio e le pretensioni sue contra de' Veneziani per le città della Dalmazia. Infestarono ancora l'Adriatico con alcuni loro legni, e fecero delle insolenze fino alla città di Venezia. Dal canto loro anche i Veneziani rinnovarono la lega con Pietro re di Aragona a danni de' Genovesi, essendosi convenuti che questo re armasse trenta galee al suo soldo, e venti al soldo de' Veneziani. Se ne armarono altre venti in Venezia, di modo che misero insieme una flotta di settanta galee. Vennero ad unirsi coi Catalani i legni veneti verso la Sardegna [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e i Genovesi affrettatisi con cinquantadue galee per trovarli separati, non ostante la loro unione, vennero a battaglia nel dì 29 di agosto verso Loiera, ossia alla Linghiera. La più ardita ed arrischiata gente che fosse allora in mare erano i Genovesi, e perciò sprezzatori d'ognuno. Quivi si fiaccò la loro alterigia. Per viltà d'Antonio Grimaldi loro ammiraglio, che con diecinove galee se ne fuggì, rimase il rimanente sconfitto. Di loro perirono circa due mila persone; trenta galee vennero in potere dei vincitori, e da tre mila e cinquecento furono i prigioni, fra' quali molti de' grandi e principali di Genova. Col calore di questa vittoria occuparono dipoi i Catalani varie terre suddite dei Genovesi in Sardegna; ma avendo anche voluto soggiogare il giudice d'Arborea, ne ebbero sì cattivo mercato, che perderono l'acquistato, e la maggior parte ancora di quel che possedevano prima. Avvilironsi talmente per la disavventura suddetta i Genovesi, che parea loro d'essere affatto [632] perduti. Tutto era lamenti e pianto; trovavansi anche in gran penuria di viveri, senza poterne ricevere per mare, perchè i nemici ne erano padroni. Nè per terra ne poteano sperare, perchè Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, che già avea l'occhio a profittar delle loro disgrazie, non ne lasciava passare. Crebbe dunque la confusione in Genova, e le fazioni dei Guelfi e Ghibellini risvegliate l'accrebbero a dismisura. Venne finalmente quel popolo, con istupore d'ognuno, alla risoluzione di darsi al medesimo Giovanni Visconte. Pietro Azario, non so come, scrive [Petrus Azarius, Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che Simonino Boccanegra allora doge ne fece il trattato, per ricavarne anche del vantaggio in suo pro, quando il Boccanegra tanto prima era stato deposto, ed in que' tempi Giovanni di Valente portava questo titolo. Adunque nel dì 10 di ottobre l'arcivescovo fece prendere il possesso di Genova con settecento cavalieri e mille e cinquecento fanti, diede loro per governatore Guglielmo marchese Pallavicino di Cassano; ampie provvisioni di grano v'inviò, e insieme di danaro: sicchè rifiorì quivi la pace, ogni discordia cessò, e il coraggio tornò in cuore a quell'ardito popolo. Lodansi gli storici genovesi del governo del Visconte, perchè li trattò con amore; fece fabbricar l'orologio del pubblico, fin qui cosa nuova fra loro, e slargare le strade da Genova a Nizza con grande utilità della mercatura; e rimise in credito le armi e la potenza de' Genovesi, siccome diremo all'anno seguente.

Fra Moriale, cavaliere di Rodi, e non già del Tempio, che fu cacciato da Aversa, s'era acconcio col prefetto di Vico, e con esso lui avea inutilmente assediato Todi. Perchè non correano le paghe, costui, siccome uomo avvezzo alle prede, staccossi da lui, e cominciò a formare una di quelle compagnie di soldati ladroni e masnadieri che abbiam di sopra veduto; nè questa fu già la prima, come stimò Matteo Villani. Fatto correr voce per [633] l'Italia che darebbe soldo a tutti, mise insieme da mille e cinquecento barbute e più di due mila fanti, e cominciò le sue imprese dal vendicarsi di Malatesta signor di Rimini, che gli avea fatto sì brutto giuoco in Aversa. Era Malatesta all'assedio di Fermo, ed avea ridotta quasi all'estremo quella città, quando fra Moriale, ad istanza di Gentile da Mogliano, signore o tiranno di quella terra, costrinse Malatesta a ritirarsi. Cresciuto poi di gente, si diede a saccheggiar le terre della Marca e il contado di Fano. L'anno fu questo, in cui papa Innocenzo VI [Raynaldus, Annal. Eccles.], veggendo oramai tutte le città della Chiesa in Italia cadute in mano di tiranni; e massimamente dolendogli che il prefetto da Vico avesse ultimamente occupate quasi tutte le terre del Patrimonio e di Roma, ed anche Orvieto; spedì in Italia Egidio Albornoz cardinale spagnuolo, personaggio di gran petto e mente, che avvezzo nelle armi prima di portare la sacra porpora, sapea far non meno da generale d'armata che da legato apostolico. Con ampia facoltà venuto egli in Italia, magnificamente fu accolto e trattato in Lombardia per tutte le città dall'arcivescovo di Milano, fuorchè in Bologna, dove nol lasciò entrare. Nel dì 11 di ottobre arrivò a Firenze, e poscia ito a Montefiascone, ebbe sulle prime il contento di tirar con un accordo i Romani a riceverlo per protettore, e a seco unirsi contra di Giovanni da Vico prefetto di Roma, signor di Viterbo, ed usurpatore di tante terre della Chiesa romana. Di grandi dissensioni e guerre nell'agosto di quest'anno erano state in Roma per le fazioni degli Orsini, Colonnesi e Savelli. Il popolo a furore avea lapidato e morto Bertoldo degli Orsini senatore [Vita di Cola di Rienzo, Antiquitat. Ital.]; ma finalmente, coll'eleggere loro tribuno Francesco Baroncelli, cioè il notaio del senatore, ridussero le cose in migliore stato; ma il rimedio fu di corta durata, e però si mise la città [634] sotto la protezione del valente cardinale legato.

Per li buoni uffizii della corte pontificia, cioè del fu Clemente VI papa, erano stati da Lodovico re d'Ungheria rimessi in libertà sul fine dell'anno precedente i Reali di Napoli [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], tenuti fino allora prigioni, cioè Roberto principe di Taranto e Luigi duca di Durazzo, coi lor fratelli. Nel gennaio di questo anno giunsero a Venezia, e furono ben accolti dipoi nei suoi Stati da Aldrovandino marchese di Este, e in fine giunsero a Napoli. Si udì poco fa menzione di Gentile da Mogliano signore di Fermo, e delle discordie fra lui e Malatesta padrone di Rimini. Non avea forse Gentile da contrastare con sì possente e valoroso nemico. Venuto in Lombardia, niun aiuto potè ricavar da Giovanni Visconte, nè dal marchese Aldrovandino. Da Francesco degli Ordelaffi signor di Forlì, e nemico de' Malatesti, ottenne dodici bandiere; ma nel viaggio furono disfatte, e quasi tutte prese in un'imboscata dal Malatesta, il quale, prevalendosi della vittoria, passò dipoi all'assedio di Fermo; ma, interpostosi l'arcivescovo Visconte, tregua fu fatta sino al dì 20 d'agosto. Finita questa, Galeotto de' Malatesti col fratello Malatesta tornò a stringere d'assedio la medesima città. Nel dì 26 d'agosto il marchese Francesco d'Este, che s'era ritirato da Ferrara, unito un poderoso esercito nella Romagna e Marca, in compagnia di Malatesta giovane, figliuolo del suddetto Malatesta, venne sul Ferrarese, credendosi d'ingoiare la città d'Argenta. Ma avendola il marchese Aldrovandino signor di Ferrara premunita con poderosa guarnigione, e vedendo il Malatesta vano il suo tentativo, passò ad impadronirsi di Porto Maggiore. Le forze di Aldrovandino e una malattia sopraggiunta ad esso Malatesta li fecero ritornar colle bandiere nel sacco a Rimini a dì 26 di agosto. Si erano nello stesso tempo mossi anche i Mantovani e Padovani ai danni d'Aldrovandino. In sua difesa uscì in [635] campagna Can Grande dalla Scala: il che bastò a dissipar questi nuvoli, e a far conoscere al marchese chi dovea egli tener per amico e chi per nemico.


   
Anno di Cristo mcccliv. Indizione VII.
Innocenzo VI papa 3.
Carlo IV re de' Romani 9.

Diedesi con vigore in quest'anno il cardinale Egidio Albornoz legato apostolico a ricuperar dalle mani de' tiranni le terre della Chiesa [Raynald., Annal. Eccles.]. Mirando Roma sempre in confusione, si avvisò di adoperare uno strumento alquanto strano per mettere al dovere le teste sempre inquiete e divise dei Romani, e per frenar la prepotenza de' grandi. Cioè avendo seco Niccolò di Lorenzo, ossia Cola da Rienzo, uomo benchè di cervello stravagante, pure ben provveduto di lingua e di vaste idee, il mandò colà, dopo averlo provato assai destro e fedele nelle azioni militari da esso cardinale intraprese. Essendo già stato ucciso il Baroncello, che era divenuto tiranno [Vita di Cola di Rienzo, lib. 2, cap. 17.], fu ricevuto Cola in Roma dal popolo con immenso onore. Chiamò egli tosto all'ubbidienza i baroni romani oppressori del popolo. Nulla ne vollero far i Colonnesi, anzi diedero principio a delle ostilità contro Roma. Allora Cola con bella armata andò all'assedio di Palestrina, terra di que' nobili. Altri che lui vi voleva a disfare quel forte nido; però tutto confuso se ne tornò a casa. Fra Moriale, quel gran masnadiere, di cui abbiam parlato di sopra, dopo avere messa in contribuzione la Marca e la Toscana, commesse innumerabili iniquità, e raunato gran tesoro, capitò a Roma, o per visitare due suoi fratelli, o perchè chiamato colà dal senatore, per valersene nei bisogni della guerra. Fu riferito a Cola di Rienzo, essere scappato di bocca a costui che voleva uccidere esso Cola. Il fece prendere e tormentare, e poi tagliargli la testa nel dì 29 d'agosto: pena degna [636] de' suoi misfatti, e applaudita dagli Italiani, ma che tirò addosso a Cola una universale mormorazione de' Romani, perchè fu creduto un calunnioso pretesto per ispogliarlo delle ricchezze e prede fatte in tanti paesi. Una sola parte nondimeno ne ebbe; la maggiore toccò a Giovanni da Castello. L'aver poi Cola posta una gabella sopra il vino, che dispiacque forte, fatto troncare il capo a Pandolfuccio di Guido, uomo virtuoso ed amato da tutti, e varie sue capricciose pazzie che degeneravano in crudeltà, servirono a fargli perdere il concetto, e a guadagnarli l'odio della maggior parte del popolo. Pertanto nel dì 8 di settembre, levatosi a rumore esso popolo contra di lui, l'assediò in Campidoglio, ed attaccò fuoco al palazzo. Se ne fuggì egli travestito da facchino, ma riconosciuto, fu ucciso a forza di pugnalate dall'infuriata gente. Così in breve tempo ebbero fine due aborti della fortuna, che diedero molto da ragionar di sè in questi tempi, insegnando che non è mestier d'ognuno il fondare de' principati con fidarsi dell'incostanza de' popoli, e senza gran provvision di prudenza. Ora il cardinale Albornoz legato del papa avea già fatto pubblicar le scomuniche pontificie contra chiunque occupava in Italia gli Stati della Chiesa romana; ma perchè queste armi senza le temporali alla pruova si truovano spuntate, mosse l'esercito suo contra di loro [Matteo Villani, lib. 4, cap. 10.]. Il primo assalito fu Giovanni da Vico prefetto. Costui trattò tosto di pace, ma poco tardò a mancar di parola; e però il legato gli tolse Toscanella e l'assediò in Orvieto. Per paura di peggio, il prefetto andò a gittarsegli ai piedi, e gli consegnò quella città. Seppe far meglio i suoi affari Gentile da Mogliano signore di Fermo, perchè, senza voler aspettare la forza, andò spontaneamente a trovare il cardinal legato a Foligno, e gli diede la tenuta di Fermo: atto così gradito da esso legato, che dichiarò Gentile gonfalonier della Chiesa romana.

[637]

Strepitosa novità accadde in Verona. Can Grande dalla Scala, signore di quella città, era ito a Bolzano in compagnia di Can Signore suo fratello, per abboccarsi col marchese di Brandeburgo suo cognato [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Fregnano dalla Scala suo fratello bastardo colse questo tempo per effettuare il disegno di torgli la signoria: intorno a che già passava intelligenza fra lui e i Gonzaghi signori di Mantova. Nella notte del dì 17 di febbraio, ossia ch'egli fosse d'accordo con Azzo da Correggio, lasciato da Can Grande per governatore di Verona, oppur, come vuole il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], che Fregnano fattolo, a sè venire, gli minacciasse la morte, se non acconsentiva, amendue sparsero voce, esser giunte lettere che portavano la morte improvvisa di Can Grande, e mossero la guarnigione ad uscir di Verona, con farle credere che Bernabò Visconte veniva con gente a quella volta. Nella seguente mattina Fregnano con Alboino, suo fratello minore e legittimo, cavalcò per la città, e si fece proclamar signore. In aiuto suo giunse ancora Feltrino ed altri da Gonzaga con assai nobiltà e milizia di Mantova. Nel dì 24 d'esso mese Bernabò Visconte, chiamato in soccorso da Fregnano, oppur mosso da speranza di pescare in quel torbido, comparve con ottocento, ovvero con tre mila barbute e con altra soldatesca, e dimandò di entrare in Verona. I Gonzaghi, per timore ch'egli occupasse la città, indussero Fregnano a negargli l'entrata, cosicchè Bernabò, vedendosi deluso, tentò per forza di voler superare una porta; ma, conoscendo l'impossibilità dell'impresa, giudicò meglio di ritornarsene a Milano. Per questo fu da alcuni creduto che anche l'arcivescovo di Milano avesse tenuta mano a questo fatto. Volarono intanto gli avvisi di tal tradimento a Can Grande, che non perdo tempo a tornarsene indietro. Assicuratosi di Vicenza, con quelle truppe [638] che avea e che potè raunare, arrivò la notte stessa a Verona, dappoichè se ne era partito Bernabò. Dal custode della porta di Campo Marzo fu lasciato entrare in città, e tosto fece intonare: Viva Cane, e muoiano i traditori. Fatto giorno, Cane passò il ponte, ed ebbe all'incontro Fregnano coi suoi, che fece lunga battaglia, ma in fine vi lasciò la vita insieme con Paolo Pico dalla Mirandola, eletto da lui per podestà di Verona, ed altri suoi partigiani. Sollevatosi tutto il popolo in favor di Cane, fu preso Feltrino da Gonzaga co' suoi consorti e soldati, e corse pericolo della vita; ma in fine si riscattò con trenta mila fiorini d'oro. Dopo sì felice avvenimento nello stesso mese giunse a Verona il marchese di Brandeburgo con assai gente per aiutar Cane, ma non vi fu più bisogno di lui.

Per la troppo cresciuta potenza di Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, e perchè l'ingordigia sua non era per far mai punto fermo, si collegarono insieme la repubblica di Venezia, il marchese Aldrovandino signor di Ferrara e Modena [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], i Gonzaghi signori di Mantova e Reggio, e i Carraresi signori di Padova. In essa entrò dipoi anche Can Grande dalla Scala signor di Verona e Vicenza. L'avere il Visconte occupata Bologna, e il far tuttodì passar le sue genti pel Reggiano e Modenese, teneva in un continuo allarma questi popoli. Men male perciò fu creduto dall'Estense e dai Gonzaghi il far testa ad una potenza che andava a divorar tutto. Ora i Gonzaghi furono i primi a cominciar la festa, impossessandosi di alcune navi milanesi, vegnenti da Venezia col carico di mercatanzie, ascendenti al valore di settanta mila fiorini d'oro. Spedì tosto l'arcivescovo il suo esercito a' danni del Reggiano e Modenese, con prendere le castella di Fiorano, Spezzano e Guiglia, e piantar due forti bastie, oppur una al [639] passo di Santo Ambrosio sul Panaro [Petrus Azarius, Chron., cap. 11, tom. 18 Rer. Ital.]. Erasi unita tutta sotto il comando del conte Lando Tedesco di Suevia la gran compagnia, che dianzi ubbidiva a fra Moriale, accresciuta dipoi a dismisura pel concorso di chiunque aspirava alle prede. Queste masnade furono prese al loro soldo dai collegati, e con esse formato un esercito di più di trenta mila armati, combatterono le suddette due bastie, e voltatisi poi verso Guastalla, e passato il Po, nel settembre si diedero a guastare il territorio di Cremona.

In questo tempo una mortale infermità portò all'altra vita Giovanni Visconte arcivescovo e signor di Milano, e mise fine alle sue grandiose secolaresche idee. Discordi sono gli scrittori nell'assegnare il giorno della sua morte. Nel dì 11 di settembre scrive il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]; nel dì 4 di ottobre Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 4, cap. 25.]; nel dì cinque di esso mese, giorno di domenica il Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Sto io con quest'ultimo, perchè il giorno quinto d'ottobre cadde in domenica; e Pietro Azario [Petrus Azarius, Chron. Regiens., tom. 16 Rer. Ital.], benchè il faccia morto nel dì 4 d'ottobre, pure confessa che fu giorno di domenica. Lo stesso abbiamo dalla Cronica di Matteo Griffone [Matth. de Griffonibus, Chron., tom. 18 Rer. Italic.], dalla Bolognese [Chron. Bononiens., tom. eod.], dalla Piacentina [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] e da quella de' Cortusii [Cortusiorum Histor., tom. 12 Rer. Ital.]; e però s'hanno da correggere l'altre storie, e massimamente gli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], che il dicono morto nel dì ultimo d'ottobre. A lui senza opposizione succederono i tre suoi nipoti, nati dal fu Stefano suo fratello, cioè Matteo, Bernabò e Galeazzo. Gli Stati furono divisi in tre parti. A Matteo toccarono Lodi, Piacenza, Parma, Bologna e Bobbio; a Bernabò [640] Bergamo, Brescia, Cremona ed altre terre; a Galeazzo Como, Novara, Vercelli, Asti, Alba, Alessandria, Tortona e molte terre del Piemonte. Milano e Genova rimasero indivise, e tutti e tre vi comandavano, camminando fra loro con molta concordia. Si figurò la lega di Lombardia di poter più agevolmente ottenere l'intento suo contro la possanza di Giovanni Visconte, quando era vivente, col chiamare in Italia Carlo IV re di Boemia e de' Romani; e mandò a questo fine ambasciatori; ma nel medesimo tempo anche il Visconte facea per mezzo de' suoi delle belle offerte, promettendogli la corona ferrea, subito che fosse calato in Italia. Perciò Carlo, trovando ben disposti gli animi degl'Italiani, ed ottenuta licenza dal papa, si mise in viaggio nell'ottobre di quest'anno con poco accompagnamento di gente d'armi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], e nel dì 3 di novembre col patriarca d'Aquileia suo fratello arrivò a Padova, con grande onore accolto da Jacopino e Francesco da Carrara signori di quella città. Fu ad incontrarlo prima del suo arrivo colà Aldrovandino marchese d'Este, e da che fu partito da Padova, andò Can Grande dalla Scala a fargli riverenza a Legnago. Riposossi in Mantova per qualche settimana il re Carlo per trattare, se era possibile, di concordia fra i collegati e i Visconti. Gli spedirono i fratelli Visconti una nobile ambasciata con suntuosi regali, promesse d'aiuti e della corona ferrea. Si fece valere l'attaccamento loro agl'interessi dell'imperio, e quanto avesse operato Matteo lor avolo contro i ribelli della corona, cioè contro i Guelfi, di modo che Carlo restò soddisfattissimo di loro, e si dispose a passare a Milano. Così rimasero delusi i collegati, che a loro spese aveano tirato in Italia questo debole principe; e niun profitto ne ricavarono, essendosi egli convenuto coi Visconti di non molestarli, purchè gli dessero la corona d'Italia, e una buona scorta fino a Roma per prendere l'altra dell'imperio.

[641]

Non avea mancato Giovanni Visconte, quando era vivente, d'inviare ambasciatori a Venezia, per mettere pace fra quella repubblica e quella di Genova. Uno degli ambasciatori fu il celebre Francesco Petrarca, al quale nulla servì la sua eloquenza per condurre a buon fine questo negoziato. Andrea Dandolo doge e il suo consiglio, erano sì mal animati contra dei Genovesi, e malcontenti dell'arcivescovo per la signoria e protezion presa di quel popolo, che ricusarono ogni proposizion d'accomodamento. Colle lor forze e coll'aiuto dell'arcivescovo armarono essi Genovesi trentacinque galee [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Caresin. Chron. tom. 12 Rer. Ital.], e ne fu generale il prode Paganino Doria. Dopo essere state queste in corso contra dei Catalani, vennero in Levante in traccia de' Veneziani, abbruciarono Parenzo, e presero alcune ricchissime cocche veneziane. Trovarono poscia a Portolungo verso Modone, ossia nel porto della Sapienza, la maggior parte della flotta veneta, composta di trentacinque galee, sei grosse navi e venti altri legni minori sotto il comando di Niccolò Pisano. Nel dì 4 di novembre virilmente andò il general genovese ad assalir nel porto la nemica armata, e tal dovea essere in questi tempi in credito la bravura de' Genovesi in mare, oppur fosse altro accidente, che contra il solito sbigottiti i Veneziani, senza far molta difesa si diedero tutti per vinti. Furono condotti que' legni a Genova con più di cinque mila prigioni, fra' quali lo stesso general pisano, e poi bruciati. Per istrada fuggirono ben due mila de' prigioni fatti; e furono anche prese da altri legni veneziani due galee genovesi, che s'erano sbandate dallo stuolo. Abbiamo da Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 4, cap. 32.] minutamente descritto questo avvenimento, sì funesto alla gloria e potenza de' Veneziani, e tale che in Venezia molto si temette che la vittoriosa armata volasse colà a fare del resto. Risparmiò Iddio [642] l'avviso e il dolore di sì inusitata sconfitta ad Andrea Dandolo, virtuosissimo doge di Venezia e scrittore della famosa Cronica Veneta, da me data alla luce; imperocchè nel dì 7 di settembre di questo anno [Marino Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Italic.] egli era passato a miglior vita, e in luogo suo nel dì 11 d'esso mese era stato surrogato Marino Valiero ossia Faliero. Nè si dee tacere che trovavasi in questi tempi l'isola di Sicilia disfatta e ridotta a gran carestia per la disunione di que' baroni e popoli, stante la minorità del re don Luigi figliuolo del re don Pietro [Matteo Villani, lib. 4. cap. 3.], e le due prepotenti fazioni, l'una de' Catalani, e l'altra de' conti di Chiaramonte. Per maneggio di Niccolò Acciaiuoli, gran siniscalco di Napoli [Matth. Palmerius, in Vita Nicolai Acciajoli, tom. 13 Rer. Ital.], si accordò il conte Simone di Chiaramonte con Luigi re di Napoli; e questi spedì immediatamente colà sei galee con poca gente d'armi, e molti legni carichi di grano e di vettovaglia; la qual oste bastò a fare che le città di Palermo, Trapani, Milazzo, Mazara, ed altre terre e castella al numero di cento dodici, alzassero le bandiere del re di Napoli. Questa era la congiuntura, in cui il re Luigi s'impadronisse di tutta la Sicilia; al che non era mai potuto arrivare in sua vita il re Roberto con tanti sforzi e possenti spedizioni da lui fatte per ricuperare quel regno. Ma in troppa debolezza si trovava allora il regno di Napoli a cagion delle guerre passate e di tanti Reali che conveniva mantenere, fra' quali anche vi fu Luigi duca di Durazzo, il quale si ribellò, e bisognò domarlo coll'armi. Gran guadagno nondimeno fu quello del re Luigi in Sicilia nell'anno presente, e questo crebbe anche nel seguente. Pure la Sicilia giunse a mutar padrone; e in questo anno i Messinesi occuparono tre galee ed altri legni pieni di vettovaglie, che il re Luigi mandava per rinforzo a Palermo.

[643]

In occasion della guerra insorta fra l'arcivescovo Visconte e i collegati, fu nel dì 10 di giugno alquanto di sollevazione in Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], perchè da Giovanni da Oleggio governatore era uscito ordine che due quartieri della città cavalcassero armati alla volta di Modena, e il popolo, mal soddisfatto del governo milanese, non si sentiva di sacrificar le vite in servigio di così pesante padrone. Giovanni da Oleggio, che era un mal arnese, cacciò per questo in prigione gran copia di cittadini nobili e plebei; molti ne fece giustiziare, altri tormentare; e durò assai giorni questa tragedia. Tolse ancora l'armi agli abitanti, di modo che di terrore e confusione era ripiena quella città. Arrivò poi nel dì 21 d'agosto sul contado di Bologna parte dell'esercito de' collegati, di cui era capitan generale Francesco da Carrara, uno de' due signori di Padova, e si unì colla gran compagnia del conte Lando Tedesco. Saccheggiando e bruciando le ville di quei contorni, arrivarono fin presso alla città di Bologna. Secondo i Cortusii [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], avrebbono potuto impadronirsene; ma il conte Lando, che, secondo il costume di quegl'iniqui masnadieri, mentre militava per l'una parte, sapea servire all'altra nemica, ne impedì l'acquisto, e dipoi ricusò di combattere le due bastie del passo di Sant'Ambrosio; e per questa cagione s'ebbe da lì innanzi gran sospetto della fede di costui; e Francesco da Carrara, temendone qualche tradimento, giudicò meglio di ritirarsi a Padova, e di lasciare il baston del comando in vece sua a Feltrino da Gonzaga.


   
Anno di Cristo mccclv. Indiz. VIII.
Innocenzo VI papa 4.
Carlo IV imperadore 1.

Sul principio di quest'anno giunse a Milano Carlo IV re de' Romani, accompagnato da pochi dei suoi, ma con gran [644] magnificenza ricevuto da Galeazzo e Bernabò Visconti, e suntuosamente regalato da essi [Matteo Villani, lib. 4, cap. 39.]. Gli fecero vedere in mostra tante migliaia di cavalieri e fanti che aveano, e parte finsero d'avere al loro soldo, facendo far varie comparse alle medesime loro truppe: tutto, come diceano, ai servigi di sua maestà. Nella festa dell'Epifania, cioè nel dì sei di gennaio, egli prese la corona ferrea dalle mani di Roberto arcivescovo di Milano. Se crediamo a Matteo Villani, scrittore di grande autorità, la di lui coronazione fu fatta in Monza; ma verisimilmente egli prese abbaglio, avendo noi una folla di scrittori, ed alcuni ancora di essi contemporanei, che l'asseriscono celebrata nella basilica di Sant'Ambrosio in Milano. Oltre agli storici da me citati altrove [Muratorius, de Coron. Ferrea, tom. 2, Anecdot. Latin.], ci assicurano di questo gli Annali Milanesi [Annales de Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], le Croniche Piacentina [Chronic. Placentin., tom. eod.], Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], Sanese [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.] e Cesenate [Chronic. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], il Rebdorfio [Rebdorfius, Annal.] ed altri. Volevasi veramente far questa funzione in Monza, ciò apparendo da un breve di papa Innocenzo VI rapportato dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], ma dovette vincerla l'arcivescovo e il popolo di Milano, che la vollero in Sant'Ambrosio, secondo l'antico rito. Da Milano passò Carlo a Pisa. Bollivano fiere discordie in quella città per la fazione de' Bergolini, cioè de' Gambacorti e di Cecco Agliati, che dominava, e l'altra de' Raspanti, che si opponeva alla prima. Aprirono tali dissensioni la strada al re per assumere di concordia de' cittadini (sforzata nondimeno per conto de' Gambacorti) il dominio di quella città, e di mettervi le sue guardie. Dopo essere stato a Lucca, e dipoi a Siena, dove, a petizione del popolo commosso, [645] annullò il reggimento dei Nove, divenuto troppo odioso alla città, s'inviò alla volta di Roma. Prima non avea seco più di mille cavalieri, la maggior parte datagli dai fratelli Visconti. Ne arrivarono in Toscana dalla Germania ben quattro altre migliaia, tutta bella gente, con gran baronia e colla regina Anna moglie del medesimo re. Con questa sì poderosa scorta se n'andò egli a Roma, dove nel dì quinto d'aprile, giorno solenne di Pasqua di Risurrezione, fu conferita a lui e alla regina moglie nella vaticana basilica la corona imperiale dal cardinal Pietro di Beltrando vescovo d'Ostia, deputato a ciò dal sommo pontefice. Con qual ordine e magnificenza il popolo romano in questi tempi incontrasse gl'imperadori e i legati apostolici, si raccoglie da una memoria da me prodotta nelle Antichità Italiane [Antiquit. Italicar., Dissert. XXIX, pag. 855.]. Lo stesso dì (che così era ne' patti) il nuovo imperador Carlo IV, senza potersi fermare di più in Roma, si mise in viaggio alla volta della Toscana, dove tutti i popoli l'aveano riconosciuto per sovrano [Matteo Villani, lib. 5, cap. 20.], e gli stessi Fiorentini collo sborso di cento mila fiorini d'oro aveano da lui impetrato degli ampli privilegii. In Siena [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital. Cortus. Hist., tom. 12 Rer. Ital.] volle maggiormente mutar quel governo, con far signore della città Niccolò patriarca di Aquileia suo fratello naturale; ma poco durò questa novità. Fu vergognosamente deposto e cacciato il buon prelato. Attendeva questo imperadore più a far danaro che a guarir le piaghe dell'Italia; e perchè i Lucchesi, allora sottoposti al comune di Pisa, gli esibirono gran somma d'oro, parve a lui che sarebbe stato un peccato il lasciar cadere in terra così vistosa offerta. Traspirato in Pisa questo troppo disgustoso trattato, mosse il popolo a sollevarsi nel dì 21 di maggio. Furono creduti autori di questo furor popolare i Gambacorti, perchè i più de' grandi e del [646] popolo traevano alle loro case; e di questa congiuntura si prevalsero i Raspanti loro nemici per atterrarli. Gran battaglia fu nella città fra i soldati dell'imperadore e del popolo; ma in fine rimasero rotti i cittadini, e si quetò il rumore. A sette dei Gambacorti per tal cagione fu troncato il capo. La commozion di Pisa animò il popolo di Lucca a tentar la sua liberazione dal giogo de' Pisani, e giacchè l'imperadore, fattosi dare il castello dell'Agosta, vi avea messo presidio de' suoi Tedeschi, altro non restava che di cacciar dalla città i soldati pisani. Adunque nel dì 22 di maggio, fatte entrare in Lucca molte masnade di contadini, levarono la terra a rumore; ma, afforzatisi i Pisani in alcune case, diedero tempo al comune di Pisa di spedire colà un grande sforzo di gente, che non solamente sostenne la città, ma costrinse ancora i Tedeschi a consegnar loro il castello dell'Agosta. Veggendosi dunque l'imperadore mal sicuro in Pisa, per quanto era avvenuto, ed insieme oltraggiato dai Sanesi e malveduto dai Fiorentini, non volle far più lunga dimora in Pisa, e si ritirò a Pietrasanta, dove con gran gelosia si fermò più giorni. Quindi passò per gli Stati dei fratelli Visconti, ma senza che fosse lasciato entrare in città alcuna, fuorchè in Cremona, dove fu ammesso coll'accompagnamento di poca gente e disarmata. Di là poi passò in Boemia, seco portando molto oro, ma molta vergogna ancora.

Gli affari del cardinale Egidio legato apostolico parve che sul principio dell'anno prendessero cattiva piega; imperciocchè Gentile da Mogliano, creato da lui gonfaloniere di santa Chiesa, fellonescamente gli ritolse la città di Fermo [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 4, cap. 52.]. Questo avvenne per maneggio di Malatesta signor di Rimini suocero suo, che, rappacificatosi con lui, l'indusse a ribellarsi, e gli diede soccorso di gente. Passava ancora nemicizia tra Francesco degli Ordelaffi [647] signore di Forlì e il suddetto Malatesta. Al vedersi ambedue esposti alla forza del cardinale legato, personaggio risoluto di voler ricuperare gli Stati della Chiesa, ed anche scomunicati e fin dichiarati eretici dal medesimo (perocchè allora ci volea poco a sfoderare ancora questa arma), fecero pace insieme, e si collegarono con Gentile, per resistere unitamente tutti e tre al valente cardinale. Nell'aprile di quest'anno riuscì al suddetto signore di Forlì con ducento cavalieri di metterne in rotta quattrocento del legato, che si erano posti in agguato, credendosi di farlo prigione. Diversa fu la fortuna di Galeotto de' Malatesti, fratello del poco fa mentovato Malatesta. Era egli gran maestro di guerra, e si trovava all'assedio di un castello di Recanati, dove si era ben fortificato. Ma più di lui ne seppe Ridolfo da Camerino, capitano della gente della Chiesa, che vigorosamente l'assalì in quel sito, e, dopo ostinata battaglia, sbarattò le di lui genti, e fece prigione lo stesso Galeotto ferito in più parti. Per questa vittoria l'esercito pontificio cavalcò fino alle porte di Rimini, prese Santo Arcangelo, Verrucchio e due altre castella vicino a Rimini, e, fabbricate alcune bastie intorno a quella città, ne formò un blocco. Non vi volle di più, perchè Malatesta cominciasse nel mese di maggio a maneggiare un accordo col legato, il quale da uomo saggio non ebbe difficoltà di accettarlo, e di accordargli assai oneste condizioni, contentandosi ch'egli restituisse Ancona ed alcune altre terre alla Chiesa, e ritenesse il dominio di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone, riconoscendole nondimeno dalla Sede apostolica, e pagando l'annuo censo. Ciò fatto, i fratelli Malatesti giurarono fedeltà, e prestarono da lì innanzi onoratamente braccio al cardinale per l'altre sue imprese. Per questo accordo intimidito il popolo di Fermo, e per non provare il meritato gastigo della sua ribellione, nel mese di giugno levò rumore nella città contra Gentile da Mogliano, e il costrinse [648] a ritirarsi nella rocca, dove restò poi assediato dalla gente del legato, e costretto a capitolare. Gli lasciò il legato tre castella, ma, non contentandosene colui, gliele ritolse dipoi: laonde andò ramingo a finir malamente i suoi giorni in altri paesi. Anche i Polentani signori di Ravenna e Cervia si ridussero all'ubbidienza del legato, se pur non fu nell'anno seguente.

Governava intanto tirannicamente Giovanni Visconte da Oleggio la città di Bologna a nome di Matteo Visconte [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Perchè Galeazzo Visconte fratello di Matteo gli occupò nel contado di Como un buon castello colla valle di Belegno a lui spettante, se ne lamentò; ma per quanto se ne dolesse, non gli fu mai fatta giustizia. Mandò ancora Matteo Visconte a Bologna delle persone con ordine di fare il sindacato al medesimo Giovanni. Uomo di gran coraggio e di maggiore astuzia era l'Oleggio, e, chiamandosi offeso per tal trattamento, determinò di farne tal vendetta che tornasse anche in suo pro. Pertanto ben disposte le cose, nel dì 18 di aprile mise in armi tutti i suoi parziali, cioè i Maltraversi e Ghibellini; fece prigioni gli uffiziali di Matteo Visconte; in breve tempo tirò alla sua ubbidienza tutte le castella forti del contado, a riserva di Bazzano, che si sostenne fedele ai Visconti; e si fece proclamar protettore, o, come altri scrivono, signore di Bologna. Una contribuzione da lui fra poco imposta di venti mila fiorini d'oro ai cittadini, cagionò di gravi lamenti, ma convenne pagarla. Ad istanza ancora dei Maltraversi, cioè de' Ghibellini, fece prendere quattrocento cittadini guelfi, sospetti d'essere a lui contrarii, e li mandò ai confini; tali nondimeno e tante furono le doglianze del popolo, che stette poco a richiamarli. Di questo colpo sì pregiudiziale ai Visconti si rallegrarono forte i collegati lombardi: nè tardò il marchese [649] Aldrovandino d'Este a spedir dei buoni aiuti all'Oleggio, per tenerlo saldo nell'usurpato dominio. All'incontro, ne furono turbatissimi i Visconti, e tosto inviarono il marchese Francesco d'Este con un esercito sul Bolognese, che recò molti danni a quelle ville e tentò anche di prendere Bologna, ma ne fu bravamente respinto.

Intanto nel dì 26 di settembre venne a morte Matteo Visconte, personaggio di molta avvenenza, che non avea pari nella facondia, e superava anche i suoi fratelli nelle virtù, se non ch'era stranamente guasto dalla lussuria. Comune fama fu ch'egli morisse di veleno datogli da' suoi due fratelli Bernabò e Galeazzo [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano. Matth. de Griffonib., Chron., tom. 18 Rer. Ital.]; chi immaginò perchè gli fosse scappato di bocca, essere bella cosa il dominar senza compagni; e chi perchè, essendo egli bestialmente perduto nella libidine, e facendo incetta di belle donne nobili, ad onta ancora de' lor genitori o mariti, temerono che ne seguisse un dì qualche sollevazione. Fors'anche la sfrenata lussuria sua il consumò. Certo è ch'egli, quasi all'improvviso, mancò di vita. Giacchè non lasciò dopo di sè maschi, divisero i due fratelli la di lui eredità. A Bernabò toccarono Lodi, Parma e la perduta Bologna, colle castella di Marignano, Pandino e Vavrio; a Galeazzo Piacenza, Bobbio, Monza, Vigevano ed Abbiate. Milano fu diviso in due parti, e Genova restò indivisa. Non passarono due mesi che lo scaltro Giovanni da Oleggio intavolò un trattato di pace con Bernabò Visconte; e seguì infatti, credendosi per tal via Bernabò di poter meglio ottenere il suo intento, cioè di atterrarlo, essendosi convenuto ch'egli metterebbe i podestà in Bologna: Giovanni da Oleggio ne godrebbe il dominio sua vita natural durante; e questo dopo morte ritornerebbe a Bernabò. Con gran festa e solenni bagordi fu pubblicata questa pace in Bologna [650] nel dì 7 di dicembre. Signoreggiavano in Padova Jacopino da Carrara e Francesco da Carrara nipote suo; e sembrava fra loro un'invidiabil concordia [Matteo Villani, lib. 5.]. Era Francesco generale della lega di Lombardia contro ai Visconti. Preso un pretesto, cavalcò a Padova, e nel dì 18 di luglio nell'ora di cena fece mettere le mani addosso allo zio, e il mandò prigione in una fortezza, dove con suo comodo finì quello che gli restò di vita. Sua moglie Margherita da Gonzaga con un figliuolino d'un anno fu rimandata a Mantova, e Francesco prese tutta la signoria di Padova. Secondo i Cortusi [Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], Jacopino tramava insidie alla vita di Francesco per mezzo di Zambone Dotti, che convinto fu messo in una gabbia di ferro, e poscia ucciso da' suoi stessi parenti. Altrettanto dicono i Gatari [Gatari, Cron. di Padov., tom. 17 Rer. Ital.], con aggiugnere che fra le mogli d'essi due signori era insorta emulazione, e quindi essere venuto il trattato di avvelenare Francesco. Comunque sia, per attestato del Villani, non si potè levar di testa a molti, che unicamente per la malnata cupidigia di dominare, abborrente ogni compagnia sul trono, Francesco da Carrara inventasse quelle accuse, affine di sbrigarsi di suo zio, e di regnar solo. Un'altra più funesta scena si fece vedere quest'anno in Venezia [Sanuto, Istor., tom. 22 Rer. Ital. Caresinus, Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Sulla cadrega di legno di Marino Faliero doge di Venezia una mattina si trovò scritto: Marin Faliero dalla bella moglie: altri la gode, ed egli la mantiene. Perchè, scoperto il malfattore, cioè Michele Steno, non ne fu fatta aspra giustizia dagli avogadori, cotanto se ne sdegnò il doge, che si diede a macchinar una congiura coi popolari, per far tagliare a pezzi i nobili, e farsi egli signore di Venezia. Dovea scoppiar la mina nel dì 15 d'aprile; ma prima di quel tempo, traspirato un sì nero disegno, poste le [651] mani addosso al doge, nel luogo stesso, dove avea fatto il giuramento nell'assunzione al ducato, fu a lui tagliata la testa nel dì 17 d'aprile, e a molti de' congiurati il capestro abbreviò la vita. Fu poscia eletto doge nel dì 21 d'esso mese Giovanni Gradenigo.

Fecero in quest'anno all'uscita di maggio essi Veneziani una svantaggiosa pace col popolo di Genova [Matteo Villani, lib. 5, cap. 48.]. Per lo contrario, alcune navi de' Genovesi fieri corsari nel mese di giugno s'impadronirono a tradimento della città di Tripoli in Barberia. La preda quivi fatta in danari e mobili preziosi ascese ad un milione ed ottocento mila fiorini d'oro. Circa sette mila furono i prigioni fra uomini e donne. E quantunque il loro comune non approvasse, o facesse vista di disapprovar quel fatto, pure si mantennero in quella città, finchè trovarono un ricco saraceno, a cui la venderono per cinquanta mila doble d'oro, e se ne tornarono in fine a Genova con infinite ricchezze, le quali fecero lor poco pro, perchè quasi tutti in breve tempo capitarono male, o tornarono in povero stato. Dai collegati di Lombardia, dappoichè si furono accorti delle ribalderie e della corrotta fede del conte Lando Tedesco, fu licenziata la gran compagnia de' suoi masnadieri; e sentendo costoro che v'era guerra in Puglia contro Luigi re di Napoli, come gli avvoltoi alle carogne, così trassero anche essi a quella volta; nè trovando contraddizione, andarono malmenando il paese, e poi passarono in Terra di Lavoro, accostandosi anche alla stessa città di Napoli. Avea raccolto da varie parti Niccolò degli Acciaiuoli siniscalco circa mille barbute di gente tedesca, e pareva che il re Luigi volesse uscire in campo contra di que' ribaldi. Nulla se ne fece, anzi, perchè non correano le paghe, molti di que' mille uomini d'armi si andarono ad unire alla gran compagnia del conte Lando, che sguazzava alla barba de' regnicoli. In fine il re Luigi, [652] per levarsi d'addosso un sì grave fardello, s'accordò di pagare a quegli assassini cento cinque mila fiorini d'oro, trentacinque mila in contanti, e il resto in due rate, purchè se ne andassero. Bisognò per questo torchiar le borse de' Napoletani e dei mercatanti, non senza gravi lamenti di que' popoli, i quali fecero per questo anche una sedizione popolare, che non ebbe conseguenza. Intanto don Luigi d'Aragona re di Sicilia coll'aiuto dei Catalani avea ripigliate alcune delle terre occupate dal re di Napoli; ma non potè proseguire il corso della vittoria, perchè la morte il rapì nel mese di novembre nella sua verde età. Gli succedette don Federigo suo minor fratello, di cui presero cura i Catalani, restando più che mai l'isola lacerata e sconvolta per la fazion contraria de' Chiaramontesi.


   
Anno di Cristo mccclvi. Indizione IX.
Innocenzo VI papa 5.
Carlo IV imperadore 2.

La pace conceduta da Bernabò Visconte a Giovanni da Oleggio si scoprì in fine fatta per tradirlo [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Matthaeus de Griffonibus, Chron., tom. eod. Matteo Villani, lib. 6, cap. 6.]. Certamente l'Oleggio la conservò con tutta onoratezza; ma Bernabò, fingendo di volere far guerra al marchese di Ferrara, mandò sul Bolognese con assai combattenti Arrigo figliuolo di Castruccio, già signore di Lucca, il quale, entrato in Bologna, cominciò a manipolare una congiura contra dell'Oleggio. La buona fortuna e insieme l'avvedutezza di Giovanni gli fecero scoprir la trama. Arrigo di Castruccio, due conti da Panigo ed altri non pochi ebbero tagliata la testa per questo; e per tal tradimento non sapendosi più l'Oleggio indurre a fidarsi de' Visconti, si collegò con Aldrovandino d'Este marchese di Ferrara, e cogli altri alleati contra de' medesimi Visconti, e fedelmente proseguì da lì innanzi in questa lega. Tale [653] fu il frutto che riportò Bernabò dalla scoperta sua infedeltà. Avea intanto Galeazzo Visconte suo fratello disgustato Giovanni Paleologo marchese di Monferrato, principe per valore, per potenza ed accortezza molto riguardevole [Petrus Azarius, Chron., cap. 12, tom. 16 Rer. Ital.]. Bastava anche ad alienar l'animo d'ogni vicino dai Visconti la smoderata loro superbia ed insaziabilità, per cui niuno dei principi si credea più sicuro in casa sua. Era il marchese di Monferrato unito coi Beccheria di Pavia, anzi, come vicario generale costituito da Carlo IV Augusto, teneva un buon piede in quella città. Perciò mandò la sfida a Galeazzo, le cui città confinavano col suo marchesato. Se l'intese cogli Astigiani, signoreggiati allora dai Visconti contro i patti ch'essi aveano stabilito col fu Luchino Visconte. Ora il marchese Giovanni s'impadronì della medesima, allora possente e buona, città di Asti, con un giudizioso stratagemma; e tuttochè i fratelli Visconti inviassero gran gente in aiuto al castello, che tuttavia si tenea per loro, ebbe tal vigore il marchese, che quella fortezza venne alle sue mani. Tolse anche a Galeazzo la città di Alba [Matteo Villani, lib. 6, cap. 3.], e gli fece ribellare Cherasco, Chieri e tutte le terre del Piemonte, e si strinse dipoi in lega con Amedeo conte di Savoia, appellato il conte verde. Rivolsero i due fratelli Visconti il loro sdegno contra di Pavia, e con grandi forze nel mese di maggio andarono ad assediar quella città da ogni parte, risoluti di non levare il campo, se prima non la riducevano alle loro voglie. Ma, per non impiegar ivi troppa gente, la strinsero dipoi con tre bastie, e ne seguirono varii combattimenti coi Pavesi. Intanto Bernabò, intento ad altre imprese, spedì due mila cavalieri, grossa fanteria ed un copioso naviglio per Po all'assedio di Borgoforte sul Mantovano. Ma di là furono fatti sloggiare; nè andò molto che i Pavesi, animati da un soccorso loro inviato dal marchese [654] di Monferrato, e più dalle prediche di frate Jacopo Bussolari dell'ordine agostiniano, a cui aveano gran divozione e fede [Chronic. Placentin., tom. 16 Rer. Italic.], usciti di città nel dì 27 di maggio, presero valorosamente quelle bastie, abbruciarono il naviglio che i Visconti teneano sul Ticino, e con gran guadagno di munizioni ed arnesi rimasero liberi affatto per ora dai loro artigli. Oltre a ciò, Filippo ed Ugolino da Gonzaga, signori di Mantova e Reggio, venuti a Modena [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.], ed uniti con Ugolino da Savignano capitano delle genti di Aldrovandino marchese d'Este, nel dì 6 di febbraio andarono per assalire l'esercito de' Visconti, che, venuto sul Reggiano, avea quivi fabbricata una bastia, cioè una di quelle fortezze di legno che si piantavano allora, e ben munite faceano e sosteneano gran guerra. Ritirossi l'armata nemica, e, dato l'assalto alla bastia, fu presa colla strage di molti, e col far prigioni circa quattrocento soldati. Poscia nel dì 10 d'esso mese marciarono a San Polo, che era assediato da' nemici, e li misero in fuga, con prendere ducento uomini e trecento cavalli. Un'altra buona percossa ebbero le genti del Biscione, cioè da Bernabò, a Castiglione delle Stiviere, sul finire d'agosto. Dopo aver lungamente assediata quella terra, ne furono con loro vergogna e danno cacciati dalle milizie de' Gonzaghi e del marchese di Ferrara.

Intanto, capitata in queste parti la gran compagnia del conte Lando, quantunque poco capitale potesse farsi della fede di costui e della sua gente, pure l'Estense e i Gonzaghi la presero al loro soldo. Formata in questa maniera una poderosa armata di cavalieri e fanti, si inviarono alla volta di Parma e Piacenza, ed arrivarono fin sul distretto di Milano, mettendo a sacco quelle contrade, e commettendo le enormità tutte che soleano praticarsi dagli Oltramontani d'allora. [655] Andò poscia la gran compagnia di quei masnadieri ai servigio di Giovanni marchese di Monferrato, contro cui aspramente guerreggiavano i Visconti. Ma qui non finirono le disgrazie di essi Visconti [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]. Il marchese di Monferrato tolse loro Novara; e se il conte Lando, uomo di corrotta fede, avesse secondato i di lui disegni, avrebbe fatto delle maggiori conquiste. Il peggio fu che Genova in questo anno a dì 14 di novembre levatasi a rumore [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], si sottrasse all'ubbidienza de' Visconti, dimenticandosi ben presto que' cittadini che coll'appoggio dell'arcivescovo Giovanni da un basso stato erano risaliti ben alto. Dacchè quel popolo vide i due fratelli Visconti, Bernabò e Galeazzo, impegnati in una guerra sì viva in Lombardia, e tolte loro varie città dal marchese di Monferrato, cominciarono a scoprire la lor voglia di rimettersi in libertà, e non ne faceano mistero. Trovavasi in Milano a guisa d'ostaggio Simonino Boccanegra, che negli anni addietro era stato doge di Genova. Sapea ben parlare, e diedesi a far credere ai Visconti, che se gli avessero permesso di tornare a Genova, per la pratica ch'egli avea di quel popolo, gli dava cuore di pienamente calmarlo. Gli fu creduto, ed andò. Ma giunto colà, fece tutto il rovescio, ed egli fu che commosse i cittadini a ribellarsi, cioè i popoli, perchè i nobili non furono con lui. Nel dì seguente 15 di novembre si fece egli proclamar doge di Genova, e ridusse il governo affatto popolare, con escluderne i nobili, e mandare ai confini alcuni de' più potenti. Dopo di che entrò in lega col marchese di Monferrato contra de' Visconti. Ma questo marchese, dacchè si fu impadronito di Novara, attendendo a conservare un sì bell'acquisto e ad assediare il castello, benchè ricercato dalla lega lombarda [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.], ricusò di marciare sul Milanese. [656] Perciò il conte Lando e i collegati ch'erano a Mazenta, Casorate e Castano, terre da loro spogliate d'ogni sostanza, al vedere che ogni dì più s'ingrossava l'armata de' Visconti, giudicarono meglio di ritirarsi a Pavia. Quando eccoti nel dì 13 di novembre il marchese Francesco d'Este e Lodovico Visconte, capitani de' fratelli Visconti, che vengono coll'esercito milanese ad assalirli alla coda. Se il conte avesse voluto uscir di strada, e mettersi al largo, avrebbe forse vinta la pugna; ma siccome egli non istimava un frullo le genti di Milano, così non si mise gran pensiero di loro. Il fatto andò diverso da quello ch'egli pensava; fu messo in fuga e sbandato l'esercito suo; molti nobili signori rimasero prigionieri; e lo stesso conte Lando ebbe bisogno degli speroni per ritirarsi a salvamento in Pavia. Fra gli altri vi fu preso il vescovo d'Augusta, chiamato Marcuardo, che s'intitolava vicario. All'anno presente e giorno suddetto vien riferito questo fatto dall'Annalista Piacentino e dal Corio; ma, secondo Pietro Azario, pare che appartenga all'anno seguente, scrivendo egli che esso conte svernò nel Novarese, e fece in quel tempo continua guerra alle ville del distretto di Vercelli; e che, tornato nella primavera a Mazenta, sentendo che l'esercito milanese avea riacquistato Casorate, volle ritirarsi in aria sprezzante a Pavia, ma ne riportò la percossa suddetta.

Al cardinale Egidio Albornoz legato apostolico, dopo avere ricuperato il Patrimonio, il ducato di Spoleti, la marca di Ancona e buona parte della Romagna, altro non restava da fare che di sottomettere Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì, Forlimpopoli e Cesena, siccome ancora Giovanni e Rinieri de' Manfredi signori di Faenza. Contra di loro fece predicar la crociata, e profuse immense indulgenze: il che, per attestato di Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 6, cap. 14.], servì a ricavar danaro da tutte le parti, perchè non vi era voto, o peccato [657] che spendendo non si rimettesse ed assolvesse: il che fu un saccheggio alle borse di molti paesi, e servì ad ingrassare i banditori di essa crociata. Andò il cardinale all'assedio di Faenza, e nello stesso tempo, cioè nel mese di giugno, perchè udì che la gran compagnia del conte Lando veniva di Puglia per entrar nella Marca, si accostò con altro corpo di gente alla città d'Ascoli. Quel popolo, temendo della venuta di quegli assassini, prese il miglior partito di darsi al legato, che n'entrò ben volentieri in possesso. Anche il signore di Fabriano di casa Trinci, che fin qui s'era tenuto saldo senza cedere agli ordini del legato, venne in questi tempi all'ubbidienza sua, e da lui riconobbe quella signoria. Faenza si arrendè al legato per patti fatti coi Manfredi signori di quella terra, a' quali egli lasciò godere alcune castella [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. V'entrò il cardinale nel dì 17 di novembre. Fu anche dato il guasto a Cesena, che ubbidiva allora al signore di Forlì. Era questa città difesa da Cia moglie di Francesco, donna di raro valore e di spiriti virili, la quale, vestendo l'armi a guisa degli uomini, fece di molte prodezze, e lungamente difese quella terra. Una più grave tempesta si scaricò in quest'anno addosso ai Veneziani [Gatari, Ist. Padov., tom. 17 Rer. Ital.]. Lodovico potentissimo re d'Ungheria da gran tempo nudriva mal animo contra di quella repubblica, non tanto per Zara ed altre città ch'egli pretendeva [Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital.], quanto perchè gli avevano negata qualsivoglia assistenza di navi e di gente per la guerra fatta al regno di Napoli. Benchè durasse la tregua di otto anni con quella repubblica, più non volle aspettare a tentarne la vendetta. Due poderosissimi eserciti mise egli insieme; e presi de' pretesti di rottura, l'uno spinse in Dalmazia, e l'altro inviò alla volta d'Italia. Richiese ai Veneziani la Dalmazia e l'Istria; si sarebbe anche contentato d'un annuo censo; ma sembrando [658] ingiuste e dure tali dimande ai Veneziani, che da tanto tempo signoreggiavano quelle contrade, elessero piuttosto di difendersi con pericolo, che di cedere con vergogna. Venne in persona il re Lodovico coll'esercito unghero in Italia nel mese di giugno, e i Cortusi [Cortus. Histor., lib. 11, cap. 8, tom. 12 Rer. Ital.] (probabilmente con della iperbole) scrivono che la sua armata fu creduta di cento mila cavalli. Unironsi con lui i conti di Collalto, chiamati conti di Trevigi, perchè tali erano stati i lor maggiori, e quei di Vonigo ed altri castellani di quelle parti. Strinse d'assedio la città di Trivigi, e si impadronì d'Asolo, Ceneda e Conegliano. Frattanto nel dì 8 d'agosto giunse al fine di sua vita Giovanni Gradenigo doge di Venezia, e fu in suo luogo eletto Giovanni Delfino a dì 14 d'esso mese. Era questi capitano ossia governator delle armi venete chiuso in Trivigi, città allora assediata dal re unghero. Spedì il senato veneto ambasciatori al re, pregandolo di lasciarne liberamente uscire il loro doge. Secondo i Cortusi e i Gatari, Lodovico cortesemente accordò lor questa grazia; ma, per attestato del Caresino, la negò loro, gloriandosi di tenere assediato un doge di Venezia. Da lì nondimeno a qualche tempo ne uscì il Delfino, e felicemente condotto a Venezia salì sul trono, ma in tempo in cui si trovava sopraffatta da troppo gravi calamità la sua repubblica. Per maneggio di Niccolò Acciaiuoli gran siniscalco riuscì in quest'anno nel mese di novembre a Luigi re di Napoli di occupar il fortissimo castello di Mattagriffone sopra Messina [Matteo Villani, lib. 8, cap. 39.]: per la cui presa e pel bisogno ancora che aveano di vettovaglia i Messinesi, anche la città alzò le di lui bandiere: acquisto che fu creduto dover decidere la controversia del dominio della Sicilia. In quella importante città fecero la loro entrata nel dì 24 di dicembre il re Luigi e la regina [659] Giovanna, e grande allegrezza e gala nel loro accoglimento fece tutta quella cittadinanza.


   
Anno di Cristo mccclvii. Indizione X.
Innocenzo VI papa 6.
Carlo IV imperadore 3.

Quantunque il cardinale Egidio Albornoz legato del papa tante prodezze avesse fatto negli Stati della Chiesa, dove altro non gli restava da sottomettere, se non l'ostinato Francesco degli Ordelaffi signor di Forlì e Cesena [Matteo Villani, lib. 7, cap. 56.]; pure, per uno di quei colpi segreti che facilmente accadono nelle gran corti, fu egli richiamato dal papa ad Avignone, e mandato in sua vece al governo dell'armi con molta autorità Androino abbate di Clugnì, che s'intendeva più di dire il breviario che di trattar affari di guerra. Tenne il cardinale nel dì 27 d'aprile un gran parlamento in Fano, dove si licenziò, e raccomandò a tutti la fedeltà verso la santa Sede; ma, conoscendo ognuno di che errore e pericolo fosse il lasciar partire in sì fatte contingenze un uomo di tanto senno, tutti, ed anche lo stesso abbate di Clugnì, cotanto lo scongiurarono di differir almeno sino al settembre la sua andata, che si fermò. Teneva il cardinale un trattato coi cittadini di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], e questo scoppiò nel dì 29 di esso mese d'aprile. Levò rumore il popolo, gridando: Viva la Chiesa; e, prese l'armi, con tal possanza combatterono contro ai provvisionati di Francesco degli Ordelaffi, che gli astrinsero a ritirarsi nella Murata; che così si appellava quella fortezza. Non potè riparare all'improvviso colpo la valorosa Cia, moglie d'esso Ordelaffo; fece bensì ella tagliar la testa a due suoi consiglieri sospetti del tradimento, e poi si accinse disperatamente alla difesa della Murata. Un gran sacco ed incendio di case fu il regalo che per tal mutazione toccò a quella [660] misera città. A questo avviso, il cardinale coi Malatesti e con Roberto degli Alidosi da Imola corse a Cesena con tutte le sue forze, ascendenti tra fanti e cavalli a cento ottanta bandiere. Vinta fu la murata, e Cia si ritirò nella rocca [Vita di Cola di Rienzo, Antiquit. Ital.]. Col continuo cavare, fu messa sui pontelli la torre maestra che dava l'entrata in quella rocca; nè volendosi mai rendere la feroce donna all'aspetto del pericolo, nè alle esortazioni di Vanni degli Ubaldini suo padre, che corse apposta colà, attaccato il fuoco ai pontelli, fu fatta in fine cadere la torre, di modo che nel di 21 di giugno restò presa la rocca, e Cia ritenuta prigione coi figliuoli e nipoti. A tale conquista succedette quella di Bertinoro; e, ciò fatto, rivolse il legato le sue genti contro a Forlì. Ma convenne interrompere il corso della vittoria, perchè avendo Francesco degli Ordelaffi implorato soccorso da Bernabò Visconte, questi, per non iscoprirsi nemico della Chiesa, segretamente indusse il conte Lando con danari (esca sola ricercata da lui) a condurre nel mese di giugno la gran compagnia verso la Romagna. Potrebbe nondimeno essere che senza istigazione di Bernabò, e alle istanze dell'Ordelaffi si movesse il conte. Vennero questi masnadieri nelle vicinanze di Forlì. Erano quattro mila cavalieri, mille e cinquecento balestrieri, oltre ad una smisurata folla di ribaldi e femmine che correvano alla carogna. La Cronica di Piacenza ha [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] che fu solamente una parte della gran compagnia, consistente in soli tre mila combattenti. Bandì il legato [Matteo Villani, lib. 7, cap. 84.] il perdon generale de' peccati a chi prendea la croce contra di costoro. Chi non potea o non volea procedere colle armi, e massimamente le donne, guadagnavano, ciò non ostante, il perdono con pagare; nè passava dì che il legato con questa buona mercatanzia non ricavasse mille e mille ducento fiorini d'oro. Benchè si [661] trovasse egli più forte di gente che la compagnia; pure, temendo di azzardare una battaglia, meglio amò di far tornare in Lombardia quegl'iniqui collo sborso di cinquanta mila fiorini. Pertanto sul fine d'agosto, dopo aver messo l'assedio alla città di Forlì, lasciato il governo dell'armata all'abbate di Clugnì, se ne tornò accompagnato da Malatesta di Rimini ad Avignone, glorioso, benchè maltrattato da quella corte. Nè si dee tacere che, conoscendo egli che la sorgente di tanti guai, a' quali era allora sottoposta buona parte dell'Italia, veniva dalla soverchia avidità e potenza dei due fratelli Visconti, stabilì lega offensiva e difensiva nel dì 28 di giugno con Aldrovandino marchese d'Este, vicario di Ferrara per la santa Sede, e di Modena per l'imperio, coi Gonzaghi signori di Mantova e Reggio, con Giovanni Visconte da Oleggio signore di Bologna, con Giovanni marchese di Monferrato vicario di Pavia, con Simone Boccanegra doge di Genova, e coi Beccheria da Pavia. Lo strumento fu da me dato alla luce [Piena Esposizione, Append., num. 14.]. Parve fatta quella lega contro alla compagnia del conte Lando, ma esso mirava più oltre.

Due mila barbute e gran moltitudine di fanti inviò in quest'anno sul principio di giugno Bernabò Visconte, sotto il comando di Galasso Pio, nel territorio di Modena, dove fece di gran danno [Johann. de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Ital.]. Venuto il luglio, s'inoltrò quest'armata fino a Piumazzo sul Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], parendo che avesse qualche intelligenza (e fu anche vero) in Bologna. Nel dì 11 d'esso mese le milizie de' Gonzaghi, dell'Estense e dell'Oleggio, comandate da Feltrino Gonzaga, andarono virilmente ad assalire l'armata nemica, e le diedero una buona spelazzata, tanto che la costrinsero a ritirarsi per la via di Nonantola a Carpi, e poscia al loro paese. Fu ben costretto alla resa sul fine di gennaio [662] dell'anno presente da Giovanni marchese di Monferrato il castello di Novara, nè fu possibile ai Visconti con tutti i loro sforzi di dargli soccorso; ma perciocchè il conte Lando, che tuttavia era in quelle parti colla sua gran compagnia, non si accordava con Ugolino da Gonzaga capitano della lega, di più non migliorarono gl'interessi della stessa lega. Anzi verso il fine d'agosto peggiorarono [Matteo Villani, lib. 7, cap. 98.]; imperciocchè riuscì ai Visconti di torre per tradimento ai signori da Gonzaga il castello di Governolo: il che fu cagione, per cui i medesimi Visconti, volte a quella parte la possanza delle lor armi, assediarono Borgoforte, e se ne impadronirono. E così trovandosi sciolte le mani a maggiori imprese, passarono sul Serraglio di Mantova, e posero l'assedio alla stessa città di Mantova. Per questo i collegati, benchè tante volte traditi dal conte Lando, pure, necessitati da così strane vicende, tornarono a chiamarlo in Lombardia al loro soldo. Colà si portò egli nel mese di ottobre colle sue masnade, ed unitosi con Ugolino Gonzaga e coll'altra gente della lega, tutti entrarono nel distretto di Milano, saccheggiando e bruciando [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 8, cap. 18. Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Lasciati in Castro, castello del Milanese, mille barbute (le barbute erano allora uomini d'armi con due cavalli) e cinquecento fanti, affinchè il nemico fosse distratto in quelle parti, s'inoltrò l'armata sul Bresciano. Giovanni Bizozero, capitan generale di Bernabò, si levò per questo di sotto a Mantova, e, andato loro incontro nel mese di dicembre al passo dell'Oglio, venne a battaglia. Ostinatamente fu combattuto; ma restò sconfitto l'esercito del Visconte, e fatto prigione lo stesso suo capitano con venti conestabili ed altra gente. Poco differente fortuna provò un'altra parte dell'armata d'essi Visconti, la quale, avendo assediato in Castro i soldati suddetti della [663] lega, si credeva d'ingoiarli; ma fu virilmente rispinta ed obbligata a ritirarsi. Seguito io qui l'ordine delle cose e dei tempi tenuto da Matteo Villani, autore molto accurato, e che scrivea gli avvenimenti d'allora, il cui racconto vien confermato dalla Cronica di Piacenza; perciocchè le storie di Pietro Azario e del Corio sembrano a me imbrogliar qui i tempi e le imprese.

Nel maggio di quest'anno Luigi re di Napoli, dimorante in Messina, facendo credere a quel popolo di voler quivi tener la sua corte per sei anni, si avvisò di far l'assedio di Cattania [Matteo Villani, lib. 7, cap. 72.]. Con mille e cinquecento cavalieri ed assai fanteria Niccolò degli Acciaiuoli Fiorentino gran siniscalco formò quell'assedio. Ma da due galee catalane essendo state prese due del re Luigi, destinate a portar la vettovaglia al campo, talmente rimasero sbigottiti gli assedianti, prima sì baldanzosi, che si diedero ad una precipitosa fuga sul fine del suddetto mese, lasciando indietro tende e bagaglio. Furono inseguiti dalla guarnigion di Cattania, e maltrattati dai villani, con restar prigione il conte Camarlingo. Le storie di Napoli aggiungono che anche Niccolò Acciaiuoli fu preso, e riscattato col cambio di due sorelle del re di Sicilia Federigo, soprannominato il Semplice. Ma abbiamo da Matteo Villani, ch'egli per valore d'un buon destriere si salvò, con aver nondimeno perduto gran tesoro di gioielli e di arnesi. Questa disgrazia e la ribellione molto prima cominciata nel regno di Napoli da Luigi duca di Durazzo, il quale s'era unito con Giovanni Pipino conte di Minerbino, furono cagione che il re Luigi se ne tornasse a Napoli, per attendere a quello che più gl'importava nelle congiunture presenti. Intanto continuava la guerra di Lodovico re d'Ungheria contra de' Veneziani nel Trevisano e in Dalmazia. Sostennero con vigore questo gran peso i Veneziani in questa parte, ed altrettanto andavano facendo in [664] Dalmazia [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital. Marino Sanuto, Istor., tom. 22 Rer. Ital. Cortusiorum Hist., tom. 12 Rer. Italic.]. Ma nel settembre di quest'anno accadde che, per tradimento dell'abbate di San Grisogono, ossia di San Michele di Zara, una notte furono introdotte con iscale per le mura le milizie unghere: laonde quella riguardevol città fu presa, e non passò l'anno che anche il castello d'essa fu obbligato a rendersi: disavventure che in fine fecero prendere al senato veneto la risoluzion di chiedere pace, e di ottenerla, siccome diremo all'anno seguente. Ma intanto penetrato alle città di Traù e di Spalatro l'avviso che i Veneziani esibivano al re quelle due città, il popolo d'esse, per farsi merito con esso re, a lui si diedero prima del tempo, senza voler dipendere dall'altrui volontà. Anche Simone Boccanegra doge di Genova tanto s'industriò in questo anno, che ridusse all'ubbidienza sua Ventimiglia, Savona e Monaco: con che assai crebbe in riputazione il governo suo. Era in questi tempi frate Jacopo Bussolari dell'ordine de' Romitani di santo Agostino in gran credito in Pavia per la sua pietà ed astinenza, e più per le sue ferventi prediche [Petr. Azar., Chron., tom. 16 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 8, cap. 2.]. Perciò, divenuto arbitro del popolo, il menava a suo piacere. Non contento egli d'impiegare il suo talento negli affari spirituali, cominciò a mischiarsi nel governo temporale. Tenevasi forte con lui Giovanni marchese di Monferrato, siccome quegli che aspirava al dominio di Pavia, città allora di gran potenza e ricchezze. Un dì (e fu creduto a suggestion del marchese) perorò così bene frate Jacopo contro i signori di Beccheria, signori da gran tempo di quella città, ma discordi fra loro e poco timorati di Dio, che indusse il popolo a scuotere il loro giogo, e a governarsi a comune. Castellino, Fiorello e Milano, i primi della suddetta famiglia, essendone fuggiti, intavolarono segretamente [665] un trattato coi signori di Milano, pensando col braccio loro di ritornare in Pavia. Scoperto il negoziato, furono cacciati della città gli altri da Beccheria, e presi da cento cittadini loro amici, dodici de' quali ebbero mozzato il capo. Quindi venuto a Pavia il marchese di Monferrato con mille e ducento cavalieri e quattro mila fanti, mosse il frate tutto quel popolo, ed egli alla testa loro marciò sul Milanese, da dove asportò una sterminata copia d'uve, di cui Pavia pativa troppa penuria.


   
Anno di Cristo mccclviii. Indizione XI.
Innocenzo VI papa 7.
Carlo IV imperatore 4.

La gran potenza e i fortunati successi di Lodovico re d'Ungheria nella guerra da lui mossa alla repubblica veneta indussero quel saggio senato a pregarlo di pace, con rimettere a lui, sapendo quanto fosse magnanimo, le condizioni dell'accordo [Gattari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer Ital. Matteo Villani, lib. 8, cap. 30.]. Gradì il re così manierosa offerta, accettò i loro ambasciatori, e rispose di non voler danari, perchè niun bisogno avea dell'altrui moneta, ma bensì che pretendea quello che anticamente era della sua corona. Però fu convenuto che a lui restassero le città dell'Istria, Dalmazia e Schiavonia; e laddove da tanto tempo indietro il doge di Venezia si intitolava dux Venetiarum, Dalmatiae, Croatiae, et quartae partis totius imperii Romaniae, bisognò ridurre quel titolario al solo dux Venetiarum. Per altro il re restituì loro tutte le castella prese sul Trevisano, con obbligare i Veneziani a dar pace a tutti que' castellani, e a fornirgli nelle occorrenze ventiquattro galee alle spese del medesimo re. In questa dolorosa maniera terminò la guerra del re unghero, terrore allora di tutti i vicini, colla repubblica veneta. Restò un'amarezza grande di quel senato contra di Francesco da Carrara signore di [666] Padova, perchè egli avea usato di molte finezze al re Lodovico e alle sue genti durante la guerra suddetta di Trivigi; con lamentarsi inoltre, perchè egli continuamente avesse somministrato vettovaglie al campo nemico, senza di che sarebbe stata presto terminata la guerra in quelle parti per mancanza di sussistenza. Rispondeva il Carrarese d'aver ciò fatto per necessità della vicinanza, e per salvare il proprio paese, mentre avrebbono que' Barbari preso per forza e senza pagamento ciò che si fosse loro negato. Ma nè queste nè altre ragioni ritennero i Veneziani dal farne vendetta, allorchè il tempo propizio loro si presentò. Era anche stata guerra in regno di Napoli per la ribellione del duca di Durazzo: laonde s'erano riempiute d'assassini e di mala gente tutte quelle contrade. Ma dacchè il conte di Minerbino, grande autore e fomentatore di sedizioni, fu, secondo il suo merito, impiccato, ebbe campo Niccolò Acciaiuoli gran siniscalco con altri baroni di metter pace fra il re Luigi e il suddetto duca, e gli altri Reali nel maggio di quest'anno. Gran festa se ne fece, e dacchè furono banditi dal regno gli uomini d'arme forestieri, si restituì la tranquillità a quel regno.

Tornò nell'aprile di quest'anno Galeazzo Visconte all'assedio di Pavia per terra e per acqua [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Italic.]. Perchè fu creduto che i signori da Beccheria, che erano col Visconte, fossero gl'istigatori di questa guerra, fra Jacopo Bussolaro, di cui s'è parlato di sopra, tanto strepito fece colle sue prediche, piene in apparenza di zelo, per la lor distruzione, che il popolo, uomini, donne e fanciulli corsero a diroccare e spianare da cima a fondo tutti i loro bei palagi: impresa veramente nobile di quel religioso cappuccio, quasi che peccassero le case, onde meritassero un sì barbaro gastigo. Grande fu lo sforzo de' Pavesi per la difesa della città, e fecero anch'essi un nobile armamento di navi sul Ticino per resistere al copioso [667] naviglio di Galeazzo, formato in Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], di cui era capitano Fiorello da Beccheria. Fra queste due armate navali succedette un giorno un fiero combattimento ad uno steccato fabbricato da' Pavesi in quel fiume. Restarono morti e feriti assaissimi dall'una parte e dall'altra; ma ne andarono infine sconfitti i Pavesi; fu distrutto lo steccato, e quattro lor galeoni con altre barche vennero in potere de' Piacentini. Durava nello stesso tempo la guerra di Bernabò Visconte contro ai Gonzaghi, Estensi e Bolognesi [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nel dì 20 di marzo s'affrontarono le loro armate a Monte Chiaro, che era allora del distretto di Cremona, e tutti menarono ben le mani. La vittoria si dichiarò in favore de' collegati. Ma neppur questo servì a vantaggiar gl'interessi di Ugolino da Gonzaga, perchè i Visconti dopo una perdita pareva sempre che comparissero più forti di prima; e il contado di Mantova, per la perdita di Governolo e Borgoforte e del Serraglio, si trovava in gravi angustie e in pericolo di peggio. Perciò cominciò egli a muovere parola di pace, e trasse nel sentimento suo anche Aldrovandino Estense signore di Ferrara, e Giovanni da Oleggio, giacchè tutti si consumavano in questa guerra senza profitto alcuno. Prestò volentieri orecchio a questa proposizione anche Bernabò Visconte per desiderio di rompere il nodo di quella lega, e perchè a lui nulla costava di far oggi una pace, e domani il romperla, se gli tornava il conto [Johannes de Bazano, tom. 15 Rer. Ital.]. Spedirono i collegati a Milano i loro plenipotenziarii, ed in essa città fu conchiusa e pubblicata la pace nel dì 8 di giugno. A quel trattato intervennero anche gli ambasciatori di Carlo IV imperadore, di Giovanni marchese di Monferrato, di Venezia e d'altri signori. E perciocchè Galeazzo Visconte pretendea la restituzion di Novara e di Alba, a lui tolte dal suddetto marchese, [668] fu rimessa la decisione di questa pendenza all'imperadore, il qual poscia decise che fossero restituite a Galeazzo quelle due città, e che questi restituisse al marchese la terra di Novi sul confine del Genovesato. Per quello che vedremo, pare che nulla fosse determinato per conto di Pavia [Corio, Istor. di Milano.]. Essendo poi nato nel settembre un figliuolo a Bernabò Visconte, ne vollero essere compari al battesimo Aldrovandino marchese d'Este, Ugolino da Gonzaga e Giovanni da Oleggio. V'andarono in persona i due primi coll'accompagnamento di copiosa nobiltà. L'Oleggio, volpe vecchia, vi mandò per suo ambasciatore un suo nipote. Di ricchi presenti, secondo il costume d'allora, fecero questi signori a Regina dalla Scala moglie di Bernabò, e al figliuolo Lodovico. L'Estense donò una coppa d'oro piena di perle, anelli e pietre preziose di valore di circa dieci mila fiorini d'oro; il Gonzaga sei coppe di argento dorato, e l'Oleggio molte pezze di panno d'oro e gran quantità di zibellini. Sotto questo bel colore comperarono i men forti l'amicizia dei più forti. Furono anche celebrate in Milano le nozze di Caterina, figliuola del fu Matteo Visconte, con Ugolino da Gonzaga, e si fecero per tal occasione bellissime giostre e torneamenti in quella città. Ma Feltrino da Gonzaga, insospettito che il nipote Ugolino coll'alleanza contratta coi Visconti l'escludesse dal dominio di Mantova, prima che egli tornasse a Mantova, cavalcò a Reggio, e prese l'intero possesso di quella città, e provvide di molta gente Suzara, Reggiuolo e Gonzaga, per impedir gli attentati del nipote. Ugolino, venuto anch'egli a Mantova, ad esclusion dello zio prese in sè tutta la signoria di quella città, e tra loro da lì innanzi sempre fu un grosso sangue.

Per la pace seguita in Lombardia restò licenziata la gran compagnia del conte [669] Lando [Matteo Villani, lib. 8, cap. 60.], e questa sen venne sul Bolognese nel mese di giugno, e si accampò a Budrio. Era ito in Germania il conte, portando seco gl'immensi tesori raccolti da tante ruberie in Italia, co' quali fece acquisto di terre e castella. Seppe costui così ben dipignere a Carlo IV imperadore i vantaggi che potea portare a lui e allo imperio la sua gente in Toscana, che Carlo il dichiarò suo vicario in Pisa, e forse per la Toscana. Tornato questo capo di assassini in Italia, allorchè fu sul Bolognese, intese come i suoi caporali aveano presa condotta dai Sanesi, e n'ebbe piacere, perchè al precedente motivo si aggiugnea quest'altro di passare in Toscana. Aveano i Perugini assediata Cortona. Ora i Sanesi, che di mal occhio vedevano l'ingrandimento de' vicini Perugini, ed erano anche pulsati per aiuto dai Cortonesi, non solamente mandarono gente alla difesa di quella città, ma anche presero al loro soldo Anichino di Bongardo, anch'esso Tedesco, che avea messa insieme una compagnia di circa mille e ducento barbute. Con tali rinforzi sul fine di marzo usciti in campagna, fecero levar l'assedio di Cortona con perdita non lieve e molta vergogna de' Perugini. Per cancellar tale onta, più che mai feroci ed ingrossati di gente se ne tornarono i Perugini sotto Cortona. Vennero poscia i Sanesi a battaglia, e ne furono malamente sconfitti, con veder poi gli stessi nemici alle lor porte: dal che irritati chiamarono al loro soldo la gran compagnia. In tale stato di cose avvenne che il conte Lando, giacchè intese l'invito accettato dalla sua gente di passare sul Sanese, ed egli stesso pel nuovo suo vicariato bramava di portarsi colà, si mise in viaggio nel dì 24 di luglio per uno scosceso ed aspro cammino dell'Apennino, a lui prescritto dai Fiorentini. Ma non potendosi contenere i suoi soldati dal rubare e maltrattare i montanari, costoro in numero solamente di ottanta si postarono ne' siti superiori della via, e rotolando giù grossi [670] sassi, senza che potessero quegli sgherri nè offendere, nè difendersi, li misero in fuga. Vi furono morti circa trecento di essi, oltre a molti presi, e più di mille cavalli e trecento ronzini con assai roba rimasta in preda ai vincitori. Lo stesso conte Lando malamente ferito fu condotto prigione, ma con promessa di molti danari trafugato si condusse a Bologna, dove ben accolto da Giovanni da Oleggio, per la sua poca cura fu in pericolo della vita. Il resto di quella mala gente si ridusse nel contado d'Imola. Francesco degli Ordelaffi, che vedea mal volentieri stretta la sua città di Forlì da due bastie poste dal legato pontificio, tirò al suo soldo quei masnadieri per isperanza che smantellassero le due nemiche fortezze. Costoro fecero di grandi crudeltà e saccheggi in Romagna nel restante dell'anno. Ma avendo la corte pontificia d'Avignone riconosciuta la balordaggine commessa nel richiamar d'Italia l'assennato e valoroso cardinale Egidio, il rimandò in quest'anno con titolo di legato ed ampia autorità negli Stati della Chiesa. Passata la metà di dicembre, arrivò egli in Romagna, e si diede a studiare i mezzi per vincere la pugna contro l'ostinato signore ossia tiranno di Forlì. I Sanesi intanto [Cronica Sanese, tom. 15 Rer. Ital.] e i Perugini, che erano in guerra, e si trovavano stanchi ed esausti per le perdite vicendevolmente fatte di genti e di avere, vennero a pace. Restò ai Sanesi una specie di dominio in Cortona. Montepulciano venne in poter dei Perugini.


   
Anno di Cristo mccclix. Indizione XII.
Innocenzo VI papa 8.
Carlo IV imperadore 5.

Dacchè Bernabò Visconte ebbe sciolta la lega lombarda, che tanto gli avea dato da fare, benchè avesse fatta pace ancora con Giovanni da Oleggio signor di Bologna, nè questi occasione alcuna gli avesse dato di romperla; pure si preparò in quest'anno per fargli guerra, tenendo per [671] fermo che fosse giunto il giorno beato di ricuperar Bologna [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital. Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Italic.]. Unita dunque una armata di quattro mila cavalli e di molta fanteria, di cui fece capitano il marchese Francesco Estense fuoruscito di Ferrara, nel dì 6 di dicembre questa arrivò nelle vicinanze di Modena. Avea l'Oleggio ben preveduto questo nembo, e a tal fine spediti i suoi soldati con parte del popolo di Bologna alla guardia del fiumicello Muzza, e fatto anche fortificar quelle ripe; ma appena giunse la voce dell'avvicinamento di un sì poderoso esercito nemico, che tutti diedero volta e si ritirarono a Bologna. Nel dì 8 del suddetto mese avendo l'armata milanese passato in due guadi il fiume Panaro, andò a mettere l'assedio a Crevalcuore, e per accordo entrò in quella terra nel dì 17. Poscia nella festa del santo Natale arrivò ne' contorni di Bologna; levò a quella città il canale dell'acqua del Reno, e per conseguente l'uso de' mulini, e fabbricò una bastia a Casalecchio. Allora fu che Giovanni da Oleggio cominciò a prevedere di non poter sostenere a lungo tante forze venutegli addosso, massimamente perchè neppure uno alzava un dito per lui.

Prima che queste cose avvenissero [Petrus Azarius, Chron. Regiens., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. eod.], Galeazzo Visconte, aiutato da Bernabò suo fratello, spedì un poderoso esercito sotto il comando di Luchino dal Verme all'assedio di Pavia. Moriva di voglia di quella sì riguardevol città; e seco erano i signori da Beccheria, i quali aveano già prese tutte le castella della Lomellina e del distretto pavese. Frate Jacopo Bussolari, di cui abbiam parlato altre volte, dell'ordine di santo Agostino, e non già degli Umiliati, come ha il Corio [Corio, Istor. di Milano.], non cessava colle sue prediche di animar quel popolo alla difesa, promettendo loro continuamente vittorie. E perciocchè era venuto meno il danaro, [672] con persuadere alle donne l'abbandonare il lusso e le pompe, cavò loro di mano tutti gli anelli, e gioielli e vesti preziose, e da' cittadini tutti i vasi d'oro e d'argento, colla vendita dei quali fatta in Venezia ricavò assai pecunia per supplire a' bisogni della guerra. Ma questo a nulla giovò. Cominciò la città a penuriar di grano. Il buon frate ne cacciò tutti i poveri, gl'inabili e le donne di mala vita. Pure di dì in dì cresceva la carestia [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], e a questi malanni s'aggiunse una grave epidemia, che portò gran gente all'altro mondo. Secondochè scrisse il Corio, i Pavesi durante questo assedio fecero una sortita con tal bravura, che misero in isconfitta l'esercito del Visconte, uccidendone e prendendone assaissimi. Dal che nondimeno non punto sbigottito Galeazzo, in breve rifece l'armata, e più forte di prima tornò a strignere d'assedio Pavia. Nulla di ciò s'ha da Pietro Azario storico di questi tempi. Ma siamo assicurati da Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 9, cap. 35.] e dagli Annali di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] che Giovanni marchese di Monferrato, vedendosi tolta la maniera di soccorrere quella città, non meno per terra che per acqua, prese al suo soldo la compagnia del conte Lando, e fattala venire per la riviera di Genova, andò con essa gente a postarsi verso Bassignana. Non poterono i Visconti impedire un dì lo sforzo di costoro, che non introducessero in Pavia un convoglio di vettovaglia; ed allora accadde, a mio credere, il conflitto poco fa accennato dal Corio. Ma nel mese di settembre peggiorò la febbre di Pavia, con aver Galeazzo Visconte tirata al suo soldo buona parte della suddetta compagnia del conte Lando, gente senza legge e fede, pronta a vendersi ogni dì a chi più le offeriva. Restò solamente al servigio del marchese di Monferrato Anichino di Bongardo Tedesco con circa due mila persone tra cavalieri e fanti. Perciò veggendo fra Jacopo Bussolari e i principali [673] di Pavia disperato ii lor caso, nel mese di novembre cominciarono a trattare con Galeazzo della resa della città, e a procurar dei vantaggiosi patti. Impetrarono tutto, e il Visconte anch'egli ottenne il possesso e dominio di Pavia. Gran confidenza mostrò il Visconte al Bussolari in quel trattato, ed anche dopo essere entrato padrone in Pavia; ma giacchè il superbo frate, nel procacciare agli altri una buona capitolazione, scioccamente avea dimenticato di chiedere alcuna sicurezza o vantaggio per la propria persona, da lì a pochi giorni fu preso, e condannato dal suo generale ad una perpetua prigionia nella città di Vercelli: gastigo a cui non si oppose il Visconte, o, per dir meglio, gastigo a lui procurato segretamente dal Visconte medesimo, e d'istruzione ad altri d'attendere al loro breviario, e di non mischiarsi ne' secolareschi affari, e molto meno in quei di guerra. Fece poi Galeazzo fabbricar un forte castello in Pavia per tenere in briglia quel popolo, che da tanto tempo manteneva una grave antipatia con Milano e co' signori di Milano. Grande accrescimento di potenza fu questo a Galeazzo Visconte.

Fu ben presa, siccome dicemmo, al suo soldo da Francesco degli Ordelaffi la compagnia del conte Lando; ma parte perchè egli non potea mantenerla, e parte per li prudenti maneggi del cardinale Egidio legato, questa si voltò verso il contado di Firenze, cercando da sfamarsi e da trovar buon bottino. Non si lasciarono far paura in questa occasione i Fiorentini, ed usciti in campagna con quanta gente d'armi poterono adunare anche delle loro amistà, mostrarono a que' masnadieri i denti in maniera, che a guisa di sconfitti si partirono dal loro distretto, passando dipoi a' servigi del marchese di Monferrato. Restato perciò in asse il bestiale signor di Forlì, e sempre più stretta la sua città, si ridusse in fine come disperato a quella risoluzione che mai non volle prendere in addietro, benchè con patti di molto vantaggio. Interpostosi [674] adunque Giovanni da Oleggio [Matteo Villani, lib. 9, cap. 36.], andò l'Ordelaffo a rendersi liberamente al cardinale legato, il quale nel dì 4 di luglio prese il possesso di quella città e di tutte le fortezze, con gran festa di que' cittadini che si videro liberati da un aspro giogo. All'Ordelaffo il prode cardinale diede l'assoluzione, e lasciò la signoria di Forlimpopoli e di Castrocaro. Così la Romagna restò in pace, e tutta all'ubbidienza della Chiesa romana. Terminò i suoi giorni in quest'anno, nel dì 10 oppure 13 di marzo [Rubeus, Hist. Ravenn., lib 9. Matteo Villani, lib. 9, cap 13.] Bernardino da Polenta signore, o piuttosto tiranno di Ravenna, uomo perduto nella lussuria, uomo crudele, che enormi aggravii avea imposto a quel popolo, di modo che in Ravenna non abitavano più se non dei contadini e de' poveri artigiani. Erede suo fu Guido da Polenta, suo figliuolo, proclamato signore da quei cittadini, tutto diverso dal padre, che, richiamato alla patria ogni fuggito e bandito, si diede a governar con placidezza ed amore il suo popolo, e dal cardinale legato riportò la conferma di quel dominio. Can Grande signor di Verona, anche egli per la sua vita dissoluta e crudele [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital., pag. 420.] s'era guadagnato l'odio del popolo suo. Maltrattava del pari i suoi due fratelli, cioè Can Signore e Paolo Alboino, e non men la moglie, benchè bella e savia donna, perchè perduto dietro a due meretrici. E perciocchè Can Signore udì un giorno certe minaccie che il fecero temere della vita, scelse il dì 14 di dicembre per vendicarsene. Trovato dunque per istrada in Verona Can Grande, che a cavallo se ne andava a diporto, avventandosi, con uno stocco il passò da parte a parte, e morto il lasciò. Se ne fuggì egli a Padova, benchè niuno in Verona si movesse contra di lui. Il perchè nel dì 17 d'esso mese tornato colà con gente datagli da Francesco da Carrara signore di Padova, dappoichè [675] Paolo Alboino suo fratello era stato eletto signore, non trovò difficoltà veruna a farsi proclamar suo collega nella signoria. Degna di memoria è la forse non mai veduta strabocchevol quantità ed altezza delle nevi cadute in quest'anno in Lombardia. In Modena, Bologna ed altre città fu alta due ed anche tre braccia, laonde rovinarono molte case; e scaricata dai tetti, arrivava sino alle gronde delle case, nè per contrada alcuna si potea passare, nè buoi o carra mettersi in viaggio.


   
Anno di Cristo mccclx. Indizione XIII.
Innocenzo VI papa 9.
Carlo IV re de' Romani 6.

Per qualche tempo si andò sostenendo Giovanni da Oleggio contro le forze di Bernabò Visconte, perchè dal cardinale Egidio legato apostolico fu sovvenuto di qualche soldatesca, e l'accortezza sua provvedeva a molti pericoli e bisogni. Ma vedendo troppo chiaro l'impotenza sua di resistere a sì gagliardo nemico, il quale avea anche avuto a tradimento Castelfranco e Serravalle, e non sapendo a qual partito volgersi per tener salda la città di Bologna, così strettamente bloccata ed angustiata da varie bastie [Matteo Villani, lib. 9, cap. 65.], cominciò a trattare col cardinale di cedere a lui Bologna. Ne trattò ancora co' Fiorentini, e lo stesso Bernabò, dopo aver penetrati i di lui maneggi, entrò anche egli al mercato. Ma il pallio toccò all'avveduto cardinale Egidio, il quale in contraccambio assegnò all'Oleggio il dominio della città di Fermo sua vita naturale durante, e ne diede il possesso ai di lui stipendiati [Johann. de Bazano, Chron. Mutinens., tom. 15 Rer. Ital. Matth. de Griffonibus, Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Uscì nascostamente fuor di Bologna nella notte antecedente al primo giorno d'aprile Giovanni da Oleggio, senza che il popolo potesse fargli oltraggio alcuno in vendetta delle tante tirannie loro usate; [676] e ne presero la tenuta Blasco Gomez nipote del cardinale, e Pietro da Farnese capitano della gente di esso legato, con giubilo immenso di que' cittadini. Poco nondimeno durò la loro allegrezza; perchè inviato dal capitano suddetto ordine alle milizie di Bernabò di levarsi dal contado di Bologna, siccome città della Chiesa, loro venne un ordine in contrario da esso Bernabò di continuare il blocco, e di far peggio di prima. Però seguitando per molti mesi ancora le genti del Visconte a vivere in quelle contrade e a saccheggiar tutte le ville, incredibil danno ne seguì a que' popoli, e Bologna più che prima si trovò in gravissime angustie. Al cardinale Albornoz mancava la possanza per fare sloggiar il nemico; pertanto ricorse al re Lodovico di Ungheria, pregandolo d'un soccorso di sua gente al soldo della Chiesa. Nè lo chiese invano [Additam. ad Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Mandò il re in Italia un corpo di più di quattro, e v'ha chi dice più di sei mila arcieri a cavallo al cardinale, crescendo con ciò i cani a divorar le viscere de' miseri Italiani. La gente di Bernabò, senza voler aspettare l'arrivo di questi barbari, nel dì primo di ottobre si ritirò pel Modenese alla volta di Parma, con lasciar ben provvedute le bastie intorno a Bologna. Arrivati gli Ungheri, non volle il cardinale lasciarli stare in ozio, ma li spinse, insieme colle genti di Malatesta signor di Rimini, a' danni de' Parmigiani [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Commisero costoro nel passaggio pel Modenese crudeltà enormi contro uomini, donne e fanciulli, saccheggiando dappertutto. Più nefanda ancora fu la loro barbarie nel distretto di Parma, dove maggiormente attesero a saziar la loro ingordigia ed avarizia, che a vincere l'assediata città e a debellare i nemici. Se ne tornarono di dicembre, e fu creduto che Bernabò gli avesse addolciti con qualche prezioso liquore. In questo mentre i Bolognesi con tutto il loro sforzo espugnarono [677] le bastie di Bernabò poste a Castenaso, a Casalecchio e in altri siti, e se ne impadronirono: con che restò quieta quella città.

Intanto Bernabò, pertinace nel proposito suo, s'applicò a provvedersi sempre più di gente e di danaro per continuar la guerra contro Bologna. Senza curarsi delle censure ecclesiastiche, ed anche per far dispetto al legato, smisuratamente aggravò di contribuzioni il clero secolare e regolare delle sue città, con ricavarne più di trecento mila fiorini d'oro. Prese al suo soldo il conte Lando, lo spedì in Germania per trarre in Italia un nuovo rinforzo di ladri e ribaldi, ridendosi intanto del legato, e minacciandolo più che mai pel primo tempo. In questo mentre Galeazzo suo fratello dopo l'acquisto di Pavia pensò maggiormente a nobilitar la sua casa con un illustre parentado [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Sapendo che Giovanni re di Francia si trovava in necessità di danaro per pagare il riscatto della sua persona promesso al re d'Inghilterra, da cui aveva ottenuto di potere ritornare in Francia, con lasciare in Londra buoni ostaggi per questo, trattò di ottenere Isabella figliuola d'esso re in moglie per Galeazzo suo figliuolo, assai giovinetto, perchè nato nel 1354, che fu poi nominato Gian-Galeazzo. Fu conchiuso il trattato [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] per mezzo di Amedeo VI conte di Savoia, fratello di Bianca moglie del suddetto Galeazzo. Cento mila fiorini d'oro scrive il Corio [Corio, Istor. di Milano.] pagati da Galeazzo al re per impetrar sì nobil nuora; nomine mutui, sive doni, dice l'autore della Vita d'Innocenzo VI [Vita Innocentii VI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Soggiugne esso Corio, essere stata pubblica voce che questa alleanza gliene costasse ben cinquecento mila. Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 9.] fa giugnere la spesa fino a secento mila; e ciò con sommo aggravio de' suoi sudditi, forse per la giunta del viaggio e delle suntuosissime [678] nozze che si fecero in tal occasione. Arrivò la real principessa a Milano nell'ottobre con accompagnamento mirabile di Franzesi e Lombardi, e quivi le feste e i bagordi furono senza fine. Pietro Azario rende testimonianza di quella straordinaria magnificenza e delle smoderate spese che fecero piagnere i popoli suoi. Date furono dal re in dote alla figliuola alcune terre nella Sciampagna, che, erette in contea, portarono al genero Gian-Galeazzo il titolo di conte di Virtù, sotto il qual nome per molti anni dipoi fu egli conosciuto, siccome vedremo. Erano state donate da Carlo IV imperadore a Lodovico re d'Ungheria le città di Feltro e Cividal di Belluno [Additamenta ad Cortusior. Hist., tom. 12 Rer. Ital.]. Il re, che professava non poche obbligazioni e molto amore a Francesco da Carrara signore di Padova, a lui ne fece un regalo nell'anno presente. Nel mese di novembre ne mandò il Carrarese ben volentieri a prendere il possesso. Intanto la Sicilia si trovava in grandi affanni, e lacerata per la guerra ch'era fra i Catalani, difensori del giovinetto re don Federigo, e le genti di Luigi re di Napoli, con cui teneano i Chiaramontesi. Ma il re Luigi non vi potea accudire, perchè, oltre al ritrovarsi smunto di gente e di pecunia, e il duca di Durazzo ed alcuni baroni di dubbiosa fede, venne anche ad infestare il suo regno Anichino di Mongardo con una poderosa compagnia di masnadieri tedeschi ed ungheri. Costui, dopo aver succiato quanto danaro potè da Giovanni marchese di Monferrato, secondo il costume di que' malvagi, l'abbandonò, e sen venne in Romagna a cercar migliore ventura. Quattordici mila fiorini d'oro cavò dalla borsa del cardinale legato Albornoz, con patto di uscir degli Stati della Chiesa romana. Se n'andò egli dunque verso il regno di Napoli con circa due mila e cinquecento cavalieri tra tedeschi ed ungheri, e gran ciurma di fanti; ed, entratovi, cominciò ad assassinar [679] le ville di quelle contrade, e a prendere alcune terre; e quivi passò il verno fra le abbondanti maledizioni di que' popoli.


   
Anno di Cristo mccclxi. Indizione XIV.
Innocenzo VI papa 10.
Carlo IV imperatore 7.

Teneva tuttavia la gente di Bernabò Visconte nel Bolognese Castelfranco, ed alcune altre castella [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Italic. Johannes de Bazano, tom. 15 Rer. Italic.], e a poco a poco ingrossandosi, ricominciò per tempo la guerra in quelle parti. Il cardinal Egidio Albornoz, veggendo mal parate le cose, e che penerebbe a resistere a sì potente avversario, siccome personaggio di gran cuore e senno, nel dì 15 di marzo si mise in viaggio, risoluto di passare personalmente in Ungheria per mare ad implorar più gagliardi soccorsi dal re Lodovico, giacchè gli Ungheri precedentemente inviati in aiuto del legato, parte s'erano arrolati nell'armata di Bernabò e parte nella compagnia di Anichino di Mongardo. Avea lo stesso re fatto sperare al papa d'essere pronto a venire in persona in Italia colle sue forze, per metter fine all'insaziabilità di Bernabò, uomo nato solamente per rovinare i propri sudditi e gli altrui con tante guerre. Ma, ossia che i regali fatti a tempo correre dallo stesso Bernabò nella corte del re unghero facessero buon effetto, ovvero che non si accordassero le pive fra la corte pontificia e lui, certo è che il cardinale gittò via i passi, e se ne tornò qual era ito, senza ottener soccorso veruno. In questo mentre a dì primo di aprile ebbero le genti di Bernabò a tradimento il castello di Monteveglio. Nel dì 15 d'esso mese passò il medesimo Bernabò con poderoso esercito in vicinanza di Modena, e andò a posarsi a Castelfranco. Messo dipoi l'assedio a Pimaccio ossia Piumazzo, nel dì 10 di maggio s'impadronì di quel castello, e fra cinque giorni anche del girone: il che fatto, se ne [680] tornò per Modena a Parma, accompagnato da pochi, lasciato nel Bolognese l'esercito suo sotto il comando di Giovanni Bizozero. Tre bastie furono piantate dalle genti sue due miglia lungi da Bologna in tre siti, cioè una al ponte di Reno, una a Corticella, e la terza a San Ruffillo. Con queste briglie intorno male stava Bologna. Nuovi guai ancora si suscitarono in Romagna, perchè Francesco degli Ordelaffi, già signore di Forlì [Matteo Villani, lib. 12, cap. 53.], dacchè vide acceso sì gran fuoco, si mise a' servigi di Bernabò, e seco ebbe Giovanni de' Manfredi già signore di Faenza. Ora amendue coll'armi del Visconte e de' lor parziali cominciarono guerra or contra Forlì, or contra Rimini. Per mancanza di vettovaglia insorsero in Bologna non pochi lamenti e sospetti di congiure, parendo al popolo di non poter lungamente durarla così. Ma il saggio cardinale Albornoz e il vecchio Malatesta signore di Rimini col senno provvidero al bisogno [Matth. de Griffonibus, Chronic. Bononiens. tom. 18 Rer. Ital.]. Finsero una lettera scritta a Francesco degli Ordelaffi per parte di un suo amico, che gli promettea l'entrata in Forlì, s'egli con corpo di gente si fosse presentato a un determinato tempo colà. A questo fine si mosse egli con ottocento barbute, lasciando per conseguente smagrito l'esercito del Bizozero. Matteo Villani racconta in altra guisa lo stratagemma fatto da Malatesta al generale del Visconte. Oltre a ciò, una notte, senza che alcuno se ne accorgesse, arrivò in Bologna Galeotto de' Malatesti con cinquecento barbute e trecento Ungheri. Era il dì 20 di giugno, in cui il cardinale ordinò che tutta la miglior gente di Bologna fosse in armi a un tocco di campana. Più di quattro mila ben guarniti e vogliosi di battaglia, unitisi colle genti d'armi, a dirittura marciarono alla bastia di S. Ruffillo, ed assalirono con tal vigore il campo nemico, che, dopo lunga difesa, rimase buona parte della [681] gente di Bernabò od estinta sul campo, o presa, e pochi si salvarono colla fuga. Lo stesso generale del Visconte, cioè Giovanni da Bizozero, con circa mille armati fu condotto prigioniere a Bologna. La bastia di S. Ruffillo fu presa, e per tale sconfitta le guarnigioni di Bernabò che erano nelle altre due bastie, dopo avere attaccato fuoco, precipitosamente si ritirarono a Castelfranco.

Nè questa fu la sola avversità di Bernabò. Perch'egli teneva Lugo in Romagna, mille e ducento de' suoi cavalieri nel novembre inviati a quella volta vollero passare il ponte di Reno [Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ita.]. Uscì il popolo di Bologna, li perseguitò, e buona parte di essi fece prigionieri. Nella Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] questo fatto è narrato all'anno seguente. Così nel mese di giugno [Matteo Villani, lib. 10, cap. 61.] avendo egli un segreto trattato in Correggio per prendere quella terra, Giberto da Correggio lo penetrò, ed ottenute da Ugolino da Gonzaga signor di Mantova quindici bandiere di cavalieri, fece vista di lasciar entrare le diciassette bandiere di cavalieri colà inviate da Bernabò, ed aperta la porta, gli ebbe tutti prigioni. Parimente nel settembre [Johann. de Bazano, Chron. Mutin., tom. 15 Rer. Ital.] essendosi portata a Revere sul Mantovano una parte dell'esercito di Bernabò, mettendo tutto a sacco, Ugolino da Gonzaga col popolo di Mantova andò valorosamente ad assalir quella gente, e totalmente la sconfisse colla strage e prigionia di molti. Ma non era in que' tempi molto difficile il rimettere in piedi le armate, per quel che riguarda la gente perchè l'uso portava che i vincitori, riunendo tutti i conestabili, uffiziali, ed altre persone capaci di taglia, lasciavano andar con Dio i prigioni gregarii, con spogliarli solamente dell'armi e de' cavalli. In questo mentre Galeazzo Visconte fratello di Bernabò attendeva a [682] fabbricar la cittadella di Pavia, e per desiderio di ristorar quella città afflitta dalle guerre passate, con privilegio imperiale fondò quivi nell'anno presente un'illustre università, conducendo colà valenti lettori di leggi e dell'altre scienze [Corio, Istor. di Milano.], ed obbligando tutti gli scolari degli Stati sudditi suoi e del fratello a portarsi a quelle scuole. Ma neppur egli fu senza avversità. L'esempio delle scellerate compagnie de' soldati masnadieri che cominciarono in Italia, servì di norma a suscitarne delle nuove anche in Francia in occasion della tregua o pace stabilita fra i re di Francia e d'Inghilterra. Erano composte d'Inglesi, Franzesi, Normanni, Spagnuoli, Borgognoni. Tutta la gente di mal affare concorreva a queste scomunicate leghe per isperanza di bottinare, e sicurezza di vivere alle spese di chi non avea forza maggior di loro. In grandi affanni e pericoli fu per questo la stessa corte sacra di Avignone, perchè quella mala gente, senza religione, entrò in Provenza, e se non otteneva danari, minacciava lo sterminio a tutti. Ci mancava ancor questa, che dopo essere calpestata l'Italia da tanti masnadieri tedeschi ed ungheri, venissero fin dall'Inghilterra nuovi cani a finire di divorarla. Ora portò l'accidente che Giovanni marchese di Monferrato, sentendosi solo ed esposto alle forze troppo superiori di Galeazzo Visconte suo nemico, altro ripiego non sapendo trovare al suo bisogno, benchè burlato più volte dalle infide compagnie dei Tedeschi, passò in Provenza, per condurre in Italia alcune di quelle che soggiornavano nei contorni di Avignone. Una ne incaparrò, chiamata la compagnia bianca [Matteo Villani, lib. 10, cap. 64.], e il papa, per levarsi di dosso quella bestial canaglia, e per iscaricare il mal tempo addosso ai contumaci Visconti, vi contribuì da cento mila fiorini d'oro. Il marchese con sì sfrenata gente, la quale, secondo la Cronica [683] Piacentina [Chronic. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], ascendeva a dieci mila tra cavalieri e fanti, venne in Piemonte.

Questa fu la prima volta e l'occasione che misero il piede in Italia soldatesche inglesi, le quali poi recarono tanti guai a varii paesi, e andarono crescendo, perchè questi ne chiamavano degli altri, e la voce del gran guadagno bastava a muovere i lontani anche senza pregarli. Ricominciò dunque il marchese con sì poderoso rinforzo in Piemonte la guerra contra di Galeazzo, e gli tolse alcune castella, commettendo orribili crudeltà, spezialmente nel Novarese. Per buona giunta Galeazzo, affine di levar loro il nido, finì di bruciare e distruggere molte terre e ville di quel distretto, non per anche rovinate dai nemici. Pietro Azario [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Italic. pag. 370.] ce ne ha conservato il funesto catalogo. Ma non tentò il marchese impresa alcuna contro le città, perchè dianzi le aveva il Visconte ben guernite di genti d'armi e di munizioni. Accadde che Amedeo conte di Savoia venne in questi medesimi tempi ad una sua terra di Piemonte. Ne ebbe contezza la compagnia bianca de' suddetti masnadieri, e con una marcia sforzata quivi sorprese il conte e la sua baronia. Rifugiossi bensì il conte nel castello, ma assediato, gli fu forza di venire ad un accordo, e di liberarsi con cento ottanta mila fiorini d'oro, parte pagati allora, parte promessi con buone cauzioni. Perchè il Guichenone non parla di ciò nella Storia della real casa di Savoia, non so dire il nome di quella terra. Adunque per tali guerre tutta era in affanni la Lombardia; e i Visconti, per sostenerla, indicibili aggravii metteano non solamente ai secolari, ma al clero ancora; ed in quest'anno Galeazzo occupò tutti i frutti e le rendite degli ecclesiastici di Piacenza. Gravissimi flagelli erano questi, e pure se ne provò un maggiore nell'anno presente; [684] cioè una fierissima inesorabil pestilenza [Matteo Villani, lib. 10, cap. 71. Rebdorfius, Annal. Vita Innocentii VI, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Infierì essa in Francia, in Inghilterra ed in altri paesi, con levare dal mondo le centinaia di migliaia di persone. Entrò in Avignone, e vi fece una strage immensa di quel popolo, e privò di vita anche otto o nove cardinali, con assaissimi altri uffiziali della corte pontificia. Per questo motivo ancora, cioè per timor di cadere vittima d'essa peste, la compagnia suddetta de' soldati masnadieri si acconciò volentieri col marchese di Monferrato, sperando in Italia il godimento della sanità. Ma ossia che gli stessi portassero il malore in Italia, o ch'esso vi entrasse per altra porta, certa cosa è che in quest'anno nel mese di giugno, e poscia nell'anno seguente, si diffuse la peste nel Piemonte, Genova, Novara, Piacenza, Parma ed altre città. Milano, preservato nella terribilissima peste del 1348, non potè guardarsi da questa, e ne rimase desolato per la gran perdita di gente. In tempi di guerra la peste sguazza, e va senz'argini dovunque vuole. Galeazzo Visconte si ritirò a Monza, Bernabò a Marignano, e vi si tenne con tal guardia e ritiratezza, che corse dappertutto, e durò lungo tempo, la voce che fosse morto. Esenti da questa calamità ne andarono in quest'anno [Johannes de Bazano, Chron., tom. 15 Rer. Italic.] Modena, Bologna e la Toscana; ma in Venezia incredibil fu la moria di quel popolo, e fra gli altri vi lasciò la vita nel dì 12 di luglio [Caresin., Chron., tom. 2 Rer. Ital.] Giovanni Delfino doge di quella repubblica, in cui luogo fu eletto Lorenzo Celso, giovane quanto all'età, ma vecchio per la sua saviezza e prudenza. In quest'anno nella notte del dì secondo di novembre venendo il dì terzo, passò al paese dei più Aldrovandino marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena, Comacchio e [685] Rovigo [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Italic.]. Benchè lasciasse un figliuolo legittimo, cioè Obizzo IV, pure il marchese Niccolò suo fratello prese le redini del governo di tutti gli Stati senza contraddizione alcuna. Per discordie nate nell'agosto di quest'anno [Matteo Villani, lib. 10, cap. 67.] fra Bocchino signore o tiranno di Volterra, e Francesco de' Belfredotti suo parente, si sconvolse tutta quella città. Corsero immediatamente al rumore i lesti Fiorentini, e tanto seppero fare, ch'essi di volontà del popolo occuparono la signoria di quella città con gran dispetto de' Pisani e Sanesi. Nel mese di ottobre anche ai Sanesi riuscì di sottoporre al loro comando Monte Alcino.


   
Anno di Cristo mccclxii. Indizione XV.
Urbano V papa 1.
Carlo IV imperadore 8.

Fu chiamato in quest'anno da Dio a miglior vita Innocenzo VI sommo pontefice in Avignone [Vita Innocentii VI, P. II, tom. 3 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 11, cap. 26.], essendo succeduta la di lui morte nella notte del dì 12 venendo il 13 del mese di settembre, dopo il contento d'aver inteso che i Romani, prima ribelli, gli aveano data la libera signoria della città, con patto che il cardinale Albornoz non vi avesse uffizio o giurisdizione alcuna. Se men amore avesse egli avuto per li suoi parenti, ossia men cura d'ingrassarli, così lodevoli furono le altre sue operazioni, che fra gli ottimi pontefici avrebbe potuto prendere qualche sito. Poichè, quanto al dirsi da Pietro Azario [Petrus Azarius, Chron., tom, 16 Rer. Ital., pag. 370.] che devastò la Chiesa romana, nè fece grazia ad alcuno; e che chiunque volle benefizii, bisognò che li comperasse da lui e da' suoi cortigiani, con pagare poscia le rendite del primo anno al tesoriere del signor di Milano: si può dubitare se tal racconto in tutto sia assistito dalla verità. Certo è nondimeno che i Visconti [686] allora aggravavano forte i beni delle chiese, senza alcun timor di Dio. Non accordandosi i cardinali in eleggere papa alcuno dell'ordine loro [Vita Innocentii VI.], finalmente diedero i lor voti a Guglielmo di Grimoaldo, abbate di San Vittore di Marsilia, dell'ordine di San Benedetto, uomo di sessanta anni, scienziato, di vita sommamente onesta e religiosa, che odiava la pompa della corte d'allora. Non era egli in Avignone, perchè dianzi inviato con titolo di nunzio alla regina Giovanna, e trovandosi in Firenze, gli fu segretamente portata la nuova, giacchè si tenne occulta l'elezione, finchè egli arrivasse ad Avignone. Racconta Giorgio Stella [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], tanta essere stata la di lui umiltà, che, in passando per Genova, avvegnachè sapesse d'essere papa, pure andò a visitare il doge Boccanegra, accompagnato da un solo notaio. Nella notte nel dì 30 d'ottobre giunse egli ad Avignone, e nel dì seguente, pubblicato papa, prese il nome di Urbano V, con essere poi seguita nel dì 6 di novembre la sua coronazione. Cessato lo spavento della peste, saltò fuori de' nascondigli Bernabò Visconte, e venne a Parma, dove cominciò un trattato per avere a tradimento la città di Reggio. Matteo Villani scrive [Matteo Villani, lib. 10, cap. 90.] che cinque mila de' suoi masnadieri (numero, a mio credere, eccessivo) entrarono in quella città; ed avere Feltrino da Gonzaga signor della terra con gran valore, benchè con poca gente, assaliti e messi in fuga gli entrati, e fattine molti prigioni. Parevano in poco buono stato gli affari del cardinal Egidio Albornoz, legato per la potenza di Bernabò, il quale pien di superbia moveva esorbitanti pretensioni alla corte pontificia in un trattato incominciato di pace. Ma in breve cangiò aspetto la forma, perchè l'industrioso porporato cotanto s'affaticò che strinse seco in lega [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.] verso il fine di [687] aprile Niccolò marchese di Ferrara, Francesco da Carrara signor di Padova, e Feltrino da Gonzaga signore di Reggio, tutti interessati nell'impedire l'accrescimento di potenza di Bernabò, che di niun facea conto e tutti conculcava. Per questa lega ricuperò il marchese Niccolò dal cardinale le due terre di Nonantola e Bazzano, già tolte al distretto di Modena dai Bolognesi: il che loro molto dispiacque. Nel dì 19 di maggio strinse il marchese Niccolò maggiormente l'alleanza sua col signor di Verona [Johann. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. eod.], avendo presa per moglie Verde dalla Scala, sorella d'esso Can Signore. Fu notificata per mezzo degli ambasciatori loro da questi principi a Bernabò la lega contratta, con pregarlo di dar orecchio ad una buona pace. Furono essi dileggiati da quel bestione, e la Cronica Padovana [Additamenta ad Cortus. Hist., tom 12 Rer. Italic.] ha che egli mandò tre abiti bianchi a quei del Carrarese, e li forzò a prendere l'udienza pubblica in quella forma. Donò loro de' vasi d'argento, ma con figure derisorie di tutti, e si vantava che tratterebbe da putti ognun di questi suoi nemici.

Nè tardò il Visconte a dar principio alla guerra, facendo scorrere sul Modenese le genti sue ch'erano a Castelfranco sul Bolognese. Anichino di Mongardo, dopo essere stato in Puglia colla sua compagnia, ed essersene partito con poco onore, era venuto a' servigi di Bernabò. Costui circa il dì 20 di maggio con tre mila cavalli ed altrettanti fanti venne sul Modenese a Massa e Solara, distruggendo il paese, e piantò una bastia a Solara sul canale, ossia sul Panaro; e, ciò fatto, se ne tornò in Lombardia. Sul fine dello stesso mese il vecchio Malatesta signor di Rimini capitano della lega [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] raunò la sua armata in Modena, e venuto sul basso Modenese a Massa, quivi piantò anche egli una bastia. Poscia marciò sul Parmigiano [688] a' danni di Bernabò, alle cui genti verso Peschiera fu data una rotta sul principio di giugno. Teneva esso Bernabò l'importante fortezza di Rubiera, posta sulla Via Claudia al fiume Secchia, che gli serviva d'asilo per far passare le sue armi alla volta del Bolognese. Salvatico de' Boiardi, che gliela avea data con ritenersi il Cassero, la ribellò, e consegnò quella terra al marchese di Ferrara [Johann. de Bazano, tom. 15 Rer. Ital.]. Per tale acquisto in Modena e Bologna gran festa si fece, e si accesero molti falò. Ribellaronsi in questi tempi molte nobili casate guelfe di Brescia a Bernabò [Corio, Istor. di Milano.], e dopo aver prese alcune castella di quel territorio, si collegarono con Cane Signore dalla Scala. Fu in pericolo la stessa città di Brescia [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital., pag. 392.], e l'esercito della lega essendovi accorso, vi mise l'assedio, e ne fece scappare Bernabò che dentro v'era. Ma, sopraggiunta la peste, sconcertò tutta l'impresa, con essere forzata quell'armata a ritirarsi [Matteo Villani, lib. 11, cap. 4.]. Modena in quest'anno e Bologna [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] furono sommamente afflitte da essa pestilenza, siccome ancora varie parti della Toscana e del regno di Napoli provarono il medesimo flagello. Scritto è che in Modena e ne' suoi borghi perirono trentasei mila persone. Fra le varie vicende della guerra sul Bresciano riuscì a Bernabò di ritorre ai collegati Ponte Vico sull'Oglio, con far prigione quel presidio, consistente in dieciotto bandiere tra cavalieri e fanti. Anche nel novembre riportò la sua gente sul Reggiano alquanto di vittoria sopra i collegati. Contuttociò poco ben passava ad esso Bernabò la guerra in queste parti, e più favorevole non era la fortuna a Galeazzo suo fratello nella guerra con Giovanni marchese di Monferrato. Trovandosi questo principe assai forte per la gran compagnia d'Inglesi, Franzesi e Normandi ch'egli avea [689] tratta di Provenza, s'impadronì di Voghera, Sala, Garlasco, Romagnana, Castelnuovo di Tortona, e di altre terre su quel di Novara, di Tortona e di Pavia. Avea Galeazzo al suo soldo il conte Lando colla sua compagnia di Tedeschi; ma costui poco si curava di spargere il sangue per altrui [Petrus Azarius, Chronic., tom. 16 Rer. Ital., pag. 380.]. L'unico suo intento e dei suoi era di spremere il sangue dalle borse altrui, e di vendersi, a chi più dava. Con più fedeltà servirono gl'Inglesi al marchese di Monferrato, sotto il comando di Albaret Sterz capitano di quella gente, e di nazione Tedesco. La lor bravura, i lor costumi, le loro scelleraggini si veggono descritte da Pietro Azario, siccome ancora da lui abbiamo il filo della guerra fatta in quelle parti colla distruzione di tutti que' paesi. Col marchese teneva Simonino Boccanegra doge di Genova, ed in rinforzo suo inviò colà molta gente insieme con Luchinetto, figliuolo del fu Luchino Visconte signor di Milano, a cui avea data in moglie una sua figliuola. Tentò questa gente la città di Tortona, ma invano. Furono devastate o spogliate assaissime terre dagli armati, e nello stesso tempo la pestilenza facea del resto.

Per giunta a tanti scompigli della misera Italia insorse in quest'anno guerra fra le repubbliche di Firenze e di Pisa [Matteo Villani, lib. 11, cap. 2.], città rivali fin da' vecchi tempi. Gran preparamento d'armi e d'armati fece l'uno e l'altro popolo. Nel dì 19 di luglio giunse l'armata de' Fiorentini, passato il fosso Arnonico, ardendo e saccheggiando, sino in vicinanza di Pisa, dove, a scorno dei Pisani, fece correre un ricco palio di velluto. Presero i Fiorentini le terre di Pecciole, Montecchio, Aiatico e Toano, e ne arsero molte altre. Anche per mare fecero guerra a' Pisani, avendo preso al soldo loro quattro galee genovesi, colle quali occuparono l'isola del Giglio e Porto Pisano. Però l'anno presente riuscì molto funesto al popolo [690] di Pisa. Nelle nobilissime ed antichissime case di Savoia e d'Este non si leggono tradimenti ed omicidii dimestici. Non così fu nelle meno antiche e meno nobili dei Carraresi, degli Scaligeri ed altre d'Italia, siccome abbiam veduto. Entrò nell'anno presente questo diabolico pensiero, figliuolo della troppa voglia di dominare, in Lodovico e Francesco figliuoli di Guido da Gonzaga [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nel dì 13 di ottobre (il Platina [Platin., Histor. Mant., tom. 20 Rer. Ital.] scrive nel dì 2 di esso mese) amendue congiurati contra di Ugolino signore di Mantova, lor fratello maggiore, ed uomo di gran senno e valore, il privarono proditoriamente di vita, e presero in sè la signoria della città con grande affanno di Guido lor padre tuttavia vivente, benchè altri scriva ch'egli stesso n'ebbe la colpa. Un grosso anacronismo è quello del Corio [Corio, Istor. di Milano.], che riferisce questa detestabile uccisione all'anno 1376. Venne a morte in questo anno a' dì 26 di maggio Luigi re di Napoli, marito della reina Giovanna, in età d'anni quarantadue. Il ritratto che di lui lasciò Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 10, cap. 100.], è assai svantaggioso, rappresentandolo uomo di vita assai sconcia e dissoluta, poco amico del suo sangue, vile nelle avversità, che appresso di sè mai non volle uomini virtuosi, che formò il suo consiglio di sola gente malvagia, e maltrattò la reina sua consorte, con giugnere alcune volte a batterla. Ora trovandosi la reina Giovanna vedova, e conoscendo di non poter senza appoggio governar le teste calde de' Napoletani, e tener in freno i principi reali, pensò di accasarsi di nuovo. Fece premura Giovanni re di Francia alla corte di Avignone, per darle in marito Filippo duca di Tours suo figliuolo cadetto; ma Giovanna, volendo piuttosto chi le ubbidisse, che chi le comandasse, antepose Giacomo d'Aragona, figliuolo del re di Maiorica, giovane bello [691] e valoroso, con patto che non assumesse il titolo di re, e si contentasse di quello di duca di Calabria; e nascendo figliuoli, giacchè Giovanna era anche in età capace di farne, ad essi, e non al padre, si devolvesse il regno. Il contratto stabilito nel dì 14 di dicembre dell'anno presente si legge intero presso il Rinaldi [Raynald., Annal. Eccles.].


   
Anno di Cristo mccclxiii. Indizione I.
Urbano V papa 2.
Carlo IV imperadore 9.

Fu solennemente scomunicato nel marzo di quest'anno da papa Urbano, e dichiarato eretico, Bernabò Visconte, con tutte le maledizioni e pene che si usavano in quei tempi, non ostante che il re di Francia pontasse assaissimo in favore di lui [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital. Raynaldus, Annal. Eccles.]. Inferocì maggiormente per questo il Visconte, ed inteso che le genti del marchese di Ferrara coll'altre dei collegati aveano assediato, o si disponevano ad assediar la bastia di Solara sul Modenese, in persona, con due mila e cinquecento cavalieri e molta fanteria, cavalcò nel principio d'aprile a quella volta, ed ebbe tal possanza, che introdusse trentasei carra di munizioni da bocca e da guerra in essa bastia. Vi entrò egli stesso, e visitò tutto; ma colpito da un verrettone in una mano, si condusse a Crevalcuore per farsi curare, lasciando l'oste in que' contorni. Allora Feltrino da Gonzaga, che pochi giorni prima avea ricevuto il bastone da comando di tutta l'armata collegata, valorosamente uscì ad assalire i nemici. Durò sino al vespro l'ostinata battaglia con gran prodezza degli uni e degli altri [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Mutinens., tom. eod.]; ma in fine fu rovesciato e disfatto interamente l'esercito del Visconte. Vi restarono prigionieri assaissimi signori della [692] prima nobiltà [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Italic. Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Additamenta ad Cortusior. Histor., tom. 12 Rer. Ital.], fra' quali Ambrosio Visconte bastardo di Bernabò, e generale della sua armata, Lionardo dalla Rocca Pisano, Andrea dei Pepoli da Bologna, Marsilio e Guglielmo Cavalcabò da Cremona, Guido Savina da Fogliano Reggiano, Giberto e Pietro signori di Correggio, Giovanni Ponzone da Cremona, Sinibaldo figliuolo di Francesco degli Ordelaffi, Beltramo Rosso da Parma, Antonio figliuolo di Giberto San Vitale da Parma, Giovanni dalla Mirandola, Giberto Pio, Niccolò Pelavicino da Piacenza, oppure da Parma, ed altri, dei quali fa menzione anche Matteo Villani [Matteo Villani, lib. 12.]. Scrive questo autore che nel dì 16 d'aprile succedette esso fatto d'armi. La Cronica di Bologna la mette nel dì 6. Parmi più sicuro l'attenersi alla Cronica Modenese di Giovanni da Bazzano, terminata appunto in questo anno, dove è detto che die dominico IX aprilis venne Bernabò a fornir la bastia di Solara, e che, nell'andarsene, fu sconfitto dalle genti del marchese d'Este e della lega. Dopo sì gloriosa vittoria fu continuato l'assedio della bastia di Solara, la quale nel dì 31 di maggio si trovò obbligata a rendersi al marchese Niccolò d'Este. E i signori della Mirandola, che dianzi tenevano la parte di Bernabò, lasciarono entrare in quella terra la guarnigion della lega [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma sul principio di giugno eccoti comparire un nuovo esercito di Bernabò sul Modenese, che si accampò alla villa de' Cesi, e quivi fabbricò una nuova bastia. Ribellossi ancora al marchese Niccolò Galasso de Pii signore di Carpi. La politica di Bernabò era di sciogliere il più presto che potea le leghe fatte contro di lui. Però, veggendo che questa già s'era messa a dargli delle dure lezioni, prestò subito orecchio ad un trattato di pace; e laddove egli in Milano e i suoi ambasciatori [693] in corte del papa parlavano alto per l'addietro, cominciarono a favellare più dolce. Il perchè nel settembre fu fatta una tregua fra lui e la lega, acciocchè fra tanto si smaltissero le difficoltà della pace, di cui si trattò nel verno seguente [Additamenta ad Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.]. Di questo riposo si servì Bernabò, per ben munire le castella da lui occupate, e la bastia de' Cesi, con grave incomodo e danno dei Modenesi.

Nei medesimi tempi più che mai dura fu la guerra fra Galeazzo Visconte e Giovanni marchese di Monferrato. Venuto in Italia Ottone della nobilissima casa di Brunsvich, principe di gran senno e valore [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital., pag. 408.], entrò anch'egli al servigio del marchese, ed unitosi con Albaret capo della compagnia degl'Inglesi, di fiere ostilità fece contra del Visconte. Giacchè andò in fumo un trattato di pace promosso dallo stesso Galeazzo, la compagnia degli Inglesi nel dì 4 di gennaio di quest'anno, valicato a guazzo il Ticino, entrò furibonda nel contado di Milano. Prese Mazenta, Corbetta; arrivò a Legnano, Nerviano, Castano, e giunse fin cinque o sei miglia in vicinanza di Milano. Più di secento nobili fecero prigioni, e carichi d'immense spoglie se ne tornarono sani e salvi a Romagnano. Avvenne che nel dì 22 d'aprile essi Inglesi cavalcarono per vettovaglia a Briona sul Novarese. Trovavasi allora in Novara a' servigi di Galeazzo il conte Corrado Lando, capitano, tante volte di sopra nominato, della compagnia de' masnadieri tedeschi. Costui, benchè poco gl'importassero gli andamenti e saccheggi de' nemici [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], pure tanto fu tempestato, che, dato di piglio alle armi, co' suoi cavalcò per iscacciare gl'Inglesi. Venne con loro alle mani, ma, percosso con una lancia, lasciò ivi la vita, pagando con un sol colpo tante iniquità da lui commesse per più anni in varie [694] contrade d'Italia. Ma perciocchè non potea il marchese di Monferrato supplire alle tante spese che occorrevano per pagare la suddetta copiosa compagnia bianca degl'Inglesi, pensò a scaricarsi della maggior parte d'essi. Per buona fortuna erano capitati colà gli ambasciatori de' Pisani, offerendosi di prenderli al loro soldo, e si stabilì il contratto: del che fu ben contento Galeazzo Visconte, che d'accordo permise loro di passare pel Piacentino alla volta di Pisa. Erano circa tre mila cavalieri, tutti brava gente. Ottone di Brunsvich col resto di quella compagnia stette saldo al servigio del marchese. Sminuite in questa maniera le forze nemiche, Galeazzo da lì innanzi ricuperò molte terre a lui tolte ne' contadi di Pavia e Tortona: al che molto contribuì il senno e valore di Luchino del Verme suo capitan generale.

In quest'anno essendo gravemente malato Simone Boccanegra doge di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Matteo Villani, lib. 11, cap. 42.], il popolo prese l'armi, e messe le guardie al palagio ducale, creò, vivente ancora il Boccanegra, un nuovo doge, cioè Gabriello Adorno, mercatante di molta saviezza e buona fama, senza che fosse permesso ai nobili e grandi d'intervenire all'elezione. O sia che al Boccanegra avesse alcuno dato dianzi il veleno, oppur che ciò succedesse dipoi, certamente pubblica voce corse ch'egli fosse aiutato a sbrigarsi dal mondo. Obbrobriosamente più per li Genovesi che per lui, fu portato il suo cadavero alla sepoltura da due facchini e da un famiglio. Seguitò in quest'anno ancora la guerra de' Fiorentini contro i Pisani [Idem, cap. 45.], con vicendevol perdita ora degli uni ed ora degli altri. Ma in una battaglia, che fu assai aspra sul Pisano, restò rotta dai Fiorentini, e dal prode lor capitano Pietro da Farnese l'oste de' Pisani, e vi fu fatto prigione Rinieri da' Baschi capitano dell'armata. Poscia nel mese di maggio [695] cavalcò l'esercito fiorentino di nuovo sino alle porte di Pisa, e quivi fece battere moneta d'oro e d'argento in dispetto dei Pisani: che di queste inezie si pasceva allora la vanità de' nostri Italiani. Essendo mancato di vita nel seguente giugno il valoroso Pietro di Farnese, in suo luogo fu eletto capitano della guerra Ranuccio suo fratello, uomo di molta lealtà, ma poco sperto nel mestier della guerra. Arrivò intanto la compagnia degl'Inglesi, comandata da Albaret, in Toscana [Filippo Villani, lib. 11, cap. 63.], ed allora i Pisani cavalcarono senza opposizione alcuna sul contado di Firenze, con rendere il sacco a misura colma ai Fiorentini. Saccheggiando e bruciando giunsero fin sotto le porte di Firenze, e quivi impiccarono tre asini, per far onta a quegli abitanti, e li caricarono di villanie. Per questa mutazion di fortuna i Fiorentini elessero per lor capitano Pandolfo Malatesta, che si portò colà, menando seco cento uomini d'arme e cento fanti. Tardarono poco ad esserne scontenti, perchè assai segni diede egli di volerli ridurre a dargli la signoria della città: dal che erano essi ben lontani. Preso che ebbero gl'Inglesi e Pisani nel dì 6 di settembre il borgo di Feghine, andò verso quella parte tutta la gente d'armi de' Fiorentini [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Italic.]; ma sul principio d'ottobre spintisi loro addosso gl'Inglesi, li misero in rotta, facendo prigione Ranuccio da Farnese e molti altri nobili, oltre la ciurma de' soldati. Fu anche disfatta da' Sanesi nel dì 8 d'ottobre la compagnia del Cappello di gente tedesca, la qual veniva al servigio del comune di Firenze. Cagion furono poco appresso i mali portamenti di Pandolfo Malatesta, che i Fiorentini il cassassero, e chiamassero per lor capitano Galeotto Malatesta, uomo di gran credito, ma vecchio. Se ne ritornarono poi a Pisa sul venire del verno gl'Inglesi carichi di prede e di prigioni, e si risero de' Pisani che li vedeano mal volentieri entro la [696] città. Venne in quest'anno a Napoli Giacomo infante di Maiorica, nuovo marito della regina Giovanna [Raynaldus, Annal. Eccles.], nè tardarono ad insorgere dissensioni fra loro, parendo a lui cosa vergognosa l'avere per moglie una regina, senza partecipar del titolo e degli onori del trono, e senza poter mettere presidio neppure in una sola fortezza. Il papa con sue lettere lo esortò all'osservanza de' patti; ma egli non fu mai per l'avvenire contento d'un matrimonio che il facea comparire servo e non padrone in quel regno, anzi se ne tornò presto in Ispagna. Nel giugno di questo anno [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] Can Signore dalla Scala menò moglie Agnese figliuola del duca di Durazzo, e per molti giorni tenne in Verona corte bandita, alla quale intervennero Niccolò marchese di Ferrara, Francesco da Gonzaga signore di Mantova, Regina moglie di Bernabò Visconte, e gli ambasciatori d'altri signori.


   
Anno di Cristo mccclxiv. Indizione II.
Urbano V papa 3.
Carlo IV imperadore 10.

Cotanto s'adoperarono co' lor buoni uffizii Carlo IV imperadore e i re di Francia e d'Ungheria [Raynaldus, in Annal. Eccles.], che fu conchiuso il trattato di pace fra la Chiesa romana, il marchese Niccolò d'Este signor di Ferrara [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], Francesco da Carrara signor di Padova, i Gonzaghi e gli Scaligeri dall'un canto, e Bernabò Visconte dall'altro, nel dì 3 di marzo. In vigore di questa pace rinunziò il Visconte a tutte le sue pretensioni sopra Bologna, e restituì Lugo, Crevalcuore e qualunque altro luogo occupato da lui negli Stati della Chiesa; e parimente al marchese di Ferrara qualsivoglia fortezza o bastia ch'egli tenesse nel distretto di Modena. Obbligossi il papa [Corio, Istoria di Milano.] di pagare a Bernabò cinquecento [697] mila fiorini d'oro in otto rate; e furono rilasciati tutti i prigioni. Per l'esecuzion di essa pace essendo venuto a Milano il cardinale Andreino legato apostolico, Bernabò gli fece grande onore, e poscia sul principio d'aprile in segno di sua allegrezza volle che si facesse un solenne torneo, a cui invitò tutti i principi e baroni italiani. In questa occasione [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] il suddetto cardinale legato trattò e stabilì pace anche fra Giovanni marchese di Monferrato e Galeazzo Visconte: con che cessò in quelle parti ancora il furor della guerra, e ne partirono gli Inglesi quivi restati, coll'andarsi ad unire agli altri che erano in Toscana. Fecero dipoi [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 18 Rer. Ital.] questi due principi una permuta di terre che l'uno avea occupato all'altro. E quanto a Galeazzo, egli seguitò ad affliggere i suoi popoli, e specialmente il clero con nuove taglie e contribuzioni. Pubblicò ancora contra dei traditori de' suoi Stati la lista delle pene e dei tormenti che si doveano dar loro. La rapporta l'Azario, e fa orrore. Inoltre tanto egli, come Bernabò fecero smantellar assaissime castella e fortezze ne' loro Stati che appartenevano ai nobili guelfi, per tor loro la comodità e voglia di ribellarsi in avvenire. Se con tal maniera di governo si facessero amare i due fratelli Visconti, ognuno può immaginarselo. Fu quasi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] tutta la Lombardia, Romagna e Marca in quest'anno sommamente afflitte da un diluvio di cavallette ossia di locuste volatili, venute, per quanto fu creduto, dall'Ungheria. Oscuravano il sole, quando, alzatesi a volo, passavano da un luogo all'altro, e durava il passar loro due ore continue, tanto era lungo, ampio e sterminato l'esercito loro per aria. Consumavano l'erbe e tutta l'ortaglia dovunque si posavano. Pare che Filippo Villani [Filippo Villani, lib. 11, cap. 60.] dia [698] il nome di grilli a queste locuste, giacchè scrive che un vento li portò per mare. Io l'avrei chiamato uno sproposito, se nella Vita di Urbano V [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Italic.] non si vedessero distinti i grilli dalle locuste. Nel maggior rigore del verno non lasciarono gl'Inglesi, confermati al loro soldo dai Pisani, di fare di quando in quando delle cavalcate sul territorio di Firenze, portando a varie terre la desolazione. Anche il suddetto Villani descrive i lor costumi, e l'arte e l'ordine da essi tenuto nella guerra con bravura e sprezzo dei patimenti: al che le milizie italiane non erano allora molto usate. Non bastò ai Pisani la gran brigata degl'Inglesi da loro assoldati, capo de' quali si comincia in questi tempi ad udire Giovanni Aucud, in inglese Kauchouod, dai Toscani chiamato Aguto, uomo che s'acquistò dipoi gran rinomanza in Italia. Presero anche al loro soldo Anichino di Bongardo, capitano di tremila barbute tedesche, licenziato da Galeazzo Visconte dopo la pace suddetta: con che erano di molto superiori di forze ai Fiorentini. Contuttociò pregarono il papa d'interporsi per la pace, e a questo fine spedì il santo padre a Pisa e Firenze frate Marco da Viterbo, generale de' frati minori. Ma i Fiorentini, pregni di superbia e d'odio, rigettate le proposizioni, vollero piuttosto guerra che pace; tanto più perchè il conte Arrigo di Monforte condusse in loro aiuto un bel corpo di cavalleria tedesca.

Pertanto l'armata pisana, forte di sei mila uomini a cavallo, oltre alla fanteria, tornò sul distretto di Firenze, giugnendo fino alle porte della città, distruggendo, secondo il costume, tutto il paese. Varii badalucchi succederono in questi tempi fra le nemiche squadre; e il valoroso conte di Monforte arrivò sino a Porto Pisano e a Livorno, ed arse quei luoghi. Non risparmiarono i Fiorentini in tal congiuntura il danaro per far desertare dal campo pisano gran quantità di Tedeschi e d'Inglesi. Avendo essi già [699] preso per loro capitano Galeotto Malatesta, insigne mastro di guerra [Filippo Villani, lib. 1, cap. 97.], arditamente nel dì 29 di luglio mossero la loro armata alla volta di Pisa. Sei miglia lungi da quella città a Cascina erano accampati, quando Giovanni Aucud [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Italic.], presa ogni precauzione, andò con tutte le sue forze ad assalirli. Atroce e lunga fu la battaglia, e in fine i Pisani ed Inglesi rotti presero la fuga, restandone morti circa mille, e prigionieri circa due mila, che trionfalmente furono poi menati a Firenze. Tra per questa disgrazia, e perchè passò al soldo de' Fiorentini buona parte degl'Inglesi, i Pisani si trovarono in gran tremore e spavento. Spedirono Giovanni dell'Agnello, uomo popolare, ma astutissimo, a Bernabò Visconte per aiuto, e ne ebbero a prestanza trenta mila fiorini di oro. Ma il furbo ambasciatore, tornato a Pisa, seppe ben prevalersi dello scompiglio, in cui era la sua patria; imperciocchè spalleggiato da Giovanni Aucud si fece eleggere doge di Pisa per un anno. Intanto colla mediazione dell'arcivescovo di Ravenna e del generale de' frati minori si trattava di pace. Vi acconsentirono finalmente nel dì 30 d'agosto i Fiorentini, perchè si seppe, o fu fatto credere, che i Pisani avessero indotto Bernabò Visconte a prendere la lor protezione con dargli Pietrasanta. Decorosa e di molto vantaggio fu cotal pace ai Fiorentini, avendo i Pisani restituite loro tutte le franchigie ed esenzioni in Pisa e suo distretto, e ceduta Pietrabuona, e promesso di pagare per dieci anni dieci mila fiorini d'oro al comune di Firenze nella festa di s. Giovanni Battista. Così dopo essersi disfatti questi due comuni, ed avere ingrassati colla rovina loro gli oltramontani masnadieri, si quotarono, e diedero commiato alle lor soldatesche. Anichino di Bongardo, avvezzo [700] a vivere di rapina, passò su quel di Perugia, e gli altri andarono a dare il malanno ad altri popoli. Durante questa guerra aveano fatto più cavalcate su quel di Siena le compagnie de' masnadieri inglesi e tedeschi, e sempre convenne che i Sanesi con danari si liberassero da quella mala gente. Ma allorchè furono costoro licenziati dai Pisani e Fiorentini, la compagnia de' Tedeschi appellata di San Giorgio, di cui erano capitani Ambrosio, figliuolo bastardo di Bernabò Visconte, e il conte Giovanni di Auspurgo [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.], accozzatasi con quella degl'Inglesi, governata da Giovanni Aucud, andò a solazzarsi sul Sanese, spogliando, bruciando ed uccidendo. E perchè i Sanesi disperati uscirono con tutto il loro sforzo nel dì 28 di novembre, passarono quei malandrini a Sarzana, e poscia se n'andarono su quel di Perugia e Todi. Infelice quel paese, dove arrivavano queste ingorde e fiere locuste. Nel mese di luglio dell'anno presente si ammalò il vecchio Malatesta signor di Rimini, Fano, Pesaro e Fossombrone [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], rinomato signore per tante sue imprese di guerra e per la molta sua saviezza. Per attestato della Cronica di Rimini, in tutto il tempo della sua infermità attese ad opere di molta virtù e di grande edificazione, sì per la sua compunzione, come per le grazie e limosine ch'egli fece. Finalmente nel dì 27 d'agosto dell'anno presente [Chron. Estense, tom. eod.], e non già dell'anno seguente, come ha la Cronica di Filippo Villani, passò all'altra vita, restando signore di quegli Stati Galeotto Malatesta suo fratello, impegnato allora in servigio de' Fiorentini. Lasciò dopo di sè due figliuoli, cioè Pandolfo e Malatesta Novello, soprannominato Unghero, che parteciparono del governo col suddetto loro zio.

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Anno di Cristo mccclxv. Indizione III.
Urbano V papa 4.
Carlo IV imperadore 11.

Pareva che questo dovesse essere anno di pace, dacchè i fratelli Visconti s'erano quetati coll'aggiustamento dell'anno precedente. Ma le maledette compagnie dei masnadieri inglesi e tedeschi, accresciute dagli Ungheri e da tutti i ribaldi italiani, non lasciarono goder il frutto della pace fatta. In Lombardia si posarono l'armi, ma non cessarono gli aggravii dei popoli ne' paesi sottoposti ai Visconti. Galeazzo in questi tempi, essendo gravemente molestato dalla podagra [Corio, Istoria di Milano.], non si vedea più volentieri in Milano, perchè Bianca di Savoia sua moglie, Giovanni de' Pepoli ed altri suoi consiglieri gli metteano in testa dei sospetti di Bernabò suo fratello, la cui brutalità e ingordigia di dominare facea paura a tutti. Ritirossi dunque a Pavia, dove avea già terminato un fortissimo castello e un suntuosissimo palagio. Scoprissi nel dì 25 di gennaio dell'anno presente [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] in Verona una congiura che andava ordendo Paolo Alboino dalla Scala contra di Can Signore suo fratello maggiore, per privarlo del dominio. Fu preso esso Paolo, e mandato prigione a Peschiera. A molti de' suoi complici ed istigatori fu mozzato il capo, e tutta quella città fu in conquasso per questo. Secondo le Croniche di Siena [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.] e di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], la compagnia degl'Inglesi condotta da Giovanni Aucud era entrata in Perugia, commettendo ivi i disordini consueti. Ossia che Anichino di Bongardo colla sua compagnia di Tedeschi si trovasse nel medesimo paese, o che i Perugini il facessero venire in loro aiuto, certo è che si servirono essi di questo chiodo per cacciar l'altro. Un fiero e crudel combattimento [702] seguì tra essi Inglesi e Tedeschi uniti coi Perugini nel dì ultimo di luglio, e durò fino alla sera, con fama che restassero sul campo fra l'una e l'altra parte circa tre mila persone estinte. La peggio toccò agl'Inglesi, de' quali più di mille e cinquecento furono condotti prigionieri a Perugia. Allora fu che Giovanni Aucud fuggendo se ne tornò col resto di sua gente sul contado di Siena. Implorarono i Sanesi l'aiuto di Anichino di Bongardo e di Albaret Tedesco; e questo bastò per far ritirare l'Aucud. Ma nel dì 15 di ottobre eccoti comparire su quel medesimo territorio Ambrosio figliuolo bastardo di Bernabò Visconte, condottiere anch'egli di un'altra possente compagnia di masnadieri tedeschi ed italiani. Fecero i Sanesi ammasso di gente, e il costrinsero a prendere altra via. Tutte queste visite costarono a quel popolo gravissime somme di danaro per iscacciare quei cani con accordo o per forza. Smunse Ambrosio anche dai Fiorentini sei mila fiorini d'oro, mostrando di volersene tornare in Lombardia. Andò poscia costui a dare la mala pasqua alla riviera orientale di Genova.

Erano state circa questi tempi gravi discordie e principii di guerra fra la repubblica di Venezia e Francesco da Carrara signore di Padova [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.]. Per l'amicizia già contratta e tuttavia vigorosa del Carrarese con Lodovico re d'Ungheria, i Veneziani erano forte disgustati, e cercavano le vie di nuocere al primo. Attaccarono liti con pretesto di confini, ed ancorchè gli ambasciatori del re d'Ungheria, del legato del papa, de' Fiorentini, Pisani e del marchese d'Este s'interponessero, i Veneziani più che mai comparivano renitenti alla pace. Tuttavia questa in fine si conchiuse, e il Carrarese, per non poter di meno, accettò quelle condizioni che vollero i più forti: perlochè all'odio antico contra de' Veneti s'aggiunsero motivi nuovi. Era anche il Carrarese in rotta con Leopoldo duca di [703] Austria per cagione di Feltro e Belluno, già donati a lui dal re d'Ungheria. Unissi per tanto col patriarca d'Aquileia per fargli guerra, e succedettero anche molte ostilità. Maneggiossi intanto l'accasamento di esso duca d'Austria con Verde figliuola di Bernabò Visconte [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.]. Per effettuar queste nozze, e condurre la sposa in Germania, venne a Milano nel mese di luglio Ridolfo fratello d'esso duca [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]; ma quivi infermatosi (e fu creduto di veleno) terminò i suoi giorni. Ciò non ostante, seguì il matrimonio suddetto. Per la morte di questo principe, e per altre cagioni, cessò il preparamento di guerra fra lui e Francesco da Carrara. Ma per conto di tale avvenimento sembra meritar più fede la Cronica di Verona [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Da essa impariamo che nel dì 12 di febbraio Leopoldo fratello del duca d'Austria con cinquecento cavalli arrivò a Verona, e nel dì seguente andò a sposar la figliuola di Bernabò. Tornossene egli nel dì 8 di marzo a Verona, e immediatamente ripassò in Germania, carico di regali a lui fatti da' Visconti e dallo Scaligero. Poscia nel dì 14 di giugno giunse a Verona il duca Ridolfo, fratello d'esso Leopoldo, con trecento cavalli, e, passato a Milano, quivi terminò i suoi giorni nel dì 20 di luglio. Fu rapito in quest'anno dalla morte nel dì 18 di luglio [Caresin., Chron. Venet., tom. 12 Rer. Ital.] anche Lorenzo Celso doge di Venezia, principe glorioso, per avere ricuperata l'isola di Candia, che s'era ribellata, ed ebbe per successore in quella illustre dignità, nel dì 25 d'esso mese, Marco Cornaro, uomo di gran sapere e di maggiore prudenza [Chron. Veron., ubi sup.]. Nel dì 28 di maggio di quest'anno Carlo IV imperadore con gran comitiva di principi e baroni tedeschi si portò ad Avignone [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], dove dai cardinali e dal [704] papa Urbano V fu accolto con sommo onore. Lunghi e segreti ragionamenti passarono fra il pontefice e lui; il tempo rivelò che aveano concertata una lega, e disposto di venire in Italia per desiderio di metterla in pace, siccome vedremo andando innanzi.

Scura è in questi tempi la storia di Napoli e quella di Sicilia, per un biasimevole difetto del Fazello, che non assegna i tempi delle cose quivi avvenute, con togliere a me il campo di riferirle a' suoi anni precisi. Quel che è certo, nel novembre di quest'anno finì i suoi giorni Niccolò degli Acciaiuoli Fiorentino, gran siniscalco del regno di Napoli [Matth. Palmerius, Vit. Nicolai Acciajoli, tom. 13 Rer. Ital.], pel cui senno la reina Giovanna e il re Luigi si erano sostenuti in mezzo alle gravi loro tempeste. Ma Giovanna dimenticò ben presto i di lui rilevanti servigi, con aver bensì alzato, ma in breve depresso, un figliuolo di lui. In Sicilia (non ne so io determinare il tempo) don Federigo re di quell'isola ricuperò Palermo, e in fine ritolse anche Messina alla reina Giovanna: laonde andarono in fumo tutte le conquiste da lei fatte in quelle contrade. Avvenne ancora che Giacomo infante di Maiorica e duca di Calabria, che già vedemmo marito d'essa reina, ma disgustato di lei, all'udire insorta guerra in Ispagna, colà si portò, e vi rimase prigione. La reina dipoi il riscattò collo sborso di sessanta mila ducati d'oro. Se ne tornò egli nell'anno seguente in Italia, ma poveramente. La Cronica di Bologna ha [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] che la reina Giovanna, donna di gran coraggio, e che sapea montare a cavallo, quando occorrea, l'avea tenuto in prigione più di sei mesi, per levargli di testa la voglia d'essere re; ma io non saprei assicurar la verità di questo fatto.

[705]


   
Anno di Cristo mccclxvi. Indizione IV.
Urbano V papa 5.
Carlo IV imperadore 12.

Nacque nel maggio dell'anno presente a Galeazzo Visconte in Pavia una figliuola da Bianca di Savoia, a cui fu posto il nome di Valentina [Corio, Istoria di Milano.], e col tempo passò in Francia, maritata in un principe di quella real casa. Per questa nascita si fecero mirabili feste in quella città. Ed essendo in tal congiuntura capitati colà Niccolò marchese d'Este e Malatesta Unghero, che andavano per loro affari alla corte del papa, tennero insieme con Amedeo conte di Savoia al sacro fonte la fanciullina. Passarono dipoi i due primi principi a Milano, dove ricevettero di grandi finezze da Bernabò, quando il lor viaggio ad Avignone avea per iscopo la rovina di lui, se la fortuna gli avesse assistiti. Giunti questi due principi al papa, il mossero a maneggiare una lega, in cui avessero luogo non solamente il papa stesso [Raynaldus, Annal. Eccles.], i suddetti due signori, Francesco da Carrara, Lodovico e Francesco da Gonzaga, ma anche lo stesso Carlo imperadore, a cui fu d'essa lega dato il baston da comando, e Lodovico re d'Ungheria. Questa poi fu conchiusa nel dì 7 d'agosto dell'anno seguente. Le apparenze erano che la volessero unicamente contro le compagnie de' soldati masnadieri, flagello insopportabil allora dell'Italia; ma creduto fu che segretamente si trattasse della depression de' Visconti, la potenza de' quali dava da gran tempo troppa gelosia a cadauno de' principi d'Italia. Appena l'accorto Bernabò ebbe sentore di questo maneggio, che per chiarirsi delle lor intenzioni diede ordine a' suoi ambasciatori di far istanza per essere ammesso in quella lega. Il papa li rimise allo imperadore, e l'imperadore gli andò menando a mano un pezzo, tanto che Bernabò si assicurò de' lor disegni. Il perchè comandò ad Ambrosio suo figliuolo, il quale [706] si trovava allora nel Genovesato, di assoldar sempre più gente. Fu ubbidito. Pagava profumatamente, nè di più ci volea perchè tutti i ribaldi e malcontenti ed Inglesi e Tedeschi corressero a lui: laonde raunò un formidabile esercito [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Italic.]. Passò questa gente alla Spezia, e ad altri luoghi della riviera di Genova, saccheggiando dappertutto. Arrivarono a Levanto, andarono a Chiavari. Tutti fuggivano per quelle parti, e in Genova stessa era sommo lo spavento.

E pur crebbero gli affanni nel dì 13 di marzo, perchè Galeazzo Visconte mandò ad intimar la guerra a quel popolo. Si dubitò forte che bollissero intelligenze per deporre Gabriello Adorno doge, dacchè fu manifesto essersi unito coi nemici Lionardo di Montaldo, rivale dell'Adorno, e bandito in Genova. Fu dunque preso il partito dal consiglio di Genova di trattar accordo coi signori di Milano, e restò dipoi nell'anno seguente convenuto che i Genovesi pagassero loro ogni anno quattro mila fiorini d'oro, e mantenessero quattrocento balestrieri al loro servigio, e in tal guisa cessò quel rumore. Per questo accordo Ambrosio Visconte colle sue masnade si ritirò da que' contorni, e tornò con Giovanni Aucud a salassare i miseri Sanesi [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]. Se vollero essi levarsi d'addosso queste sanguisughe, dappoichè varii loro luoghi aveano patito il sacco e l'incendio, fu d'uopo pagare a' dì 23 di aprile dieci mila e cinquecento fiorini di oro e molte carra di armadure, oltre a varii altri regali di commestibili. Se ne andarono costoro col malanno alla volta di Roma. Al servigio dei Perugini dimorava allora Albaret Tedesco, capitano della compagnia della Stella. Perchè costui trattava un tradimento in danno di quella città, nel novembre tagliata gli fu la testa. D'ordinario andavano a finir male questi capi d'assassini. Colla morte naturale, che seguì nell'anno presente, di Giovanni da [707] Oleggio, stato già tiranno di Bologna, la città di Fermo ritornò sotto il pieno dominio della santa Sede. Più istanze aveano fatte i Romani affinchè papa Urbano V riportasse la sedia pontificale e la residenza in Roma. Veggonsi ancora lettere esortatorie del Petrarca per questo. Forse niun bisogno avea egli di tali sproni, perchè, prima anche d'essere alzato al trono pontificale, attribuiva i disordini dello Stato della Chiesa, anzi dell'Italia tutta, alla lontananza dei papi, ed avea già mostrata la sua disposizione a levarsi dalla Provenza. Pertanto, avendo presa la risoluzion di venire a Roma, scrisse in questo anno al cardinale Egidio Albornoz che gli preparasse il palagio in Roma, ed un altro in Viterbo, dove pensava di passar la state dell'anno prossimo venturo.


   
Anno di Cristo mccclxvii. Indiz. V.
Urbano V papa 6.
Carlo IV imperadore 13.

Finalmente volle Urbano V papa dar compimento alla risoluzion sua di trasferirsi in Italia, al dispetto de' cardinali franzesi che fecero di mani e di piedi per frastornare questo lodevol disegno. Da Venezia, da Genova, da Pisa e dalla reina Giovanna gli furono a gara esibite galee per condurlo, e servirgli di sicurezza e scorta [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Ne accettò egli venticinque, e con queste nel dì 23 di maggio arrivò a Genova, accolto con immensa allegrezza da quel popolo. Più di mille persone per fargli onore si vestirono di drappo bianco, che così era allora il rito. Volle alloggiar fuori di città; ma, fattagli paura di qualche possibil sorpresa dalla parte de' Visconti, co' quali non si erano peranche acconci i Genovesi, elesse un luogo più sicuro. Pontificalmente vestito, e addestrato da Gabriello Adorno doge e da Deliano de' Panciatichi da Pistoia podestà, cavalcò per la città, e nel dì 28 sopra le galee imbarcatosi di nuovo, [708] passò nelle vicinanze di Pisa, ma senza volere smontare in terra [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Giunto a Corneto, quivi trovò il cardinale legato Egidio Albornoz, e con lui andò a fermare in Viterbo nel dì 9 di giugno i suoi passi [Raynald., Annal. Ecclesiast.]. Indicibil fu in tutta Italia il giubilo per questa venuta del pontefice. Non tardarono i Romani a spedirgli una solenne ambasciata colle chiavi della città; e Niccolò Estense marchese di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], dopo aver magnificamente accolti in Modena que' cardinali che vennero per terra, e dopo essere ito apposta a Venezia a prendere Jacopo conte di Savoia, ed averlo condotto a Rovigo nel dì 3 di ottobre, si partì da Ferrara con settecento uomini d'armi e duecento fanti riccamente vestiti, ed arrivò nel dì 12 a Viterbo, dove era stata una sedizion del popolo che mise gran paura a tutta la corte papale. Non altro che lui aspettava il pontefice per muoversi alla volta di Roma; e però sotto la guardia del marchese e delle sue genti nel dì 14 s'inviò colà, accompagnato da Amedeo VI conte di Savoia, da Malatesta Unghero signor di Rimini, da Ridolfo signore di Camerino, e da copiosissima nobiltà di tutti gli Stati della Chiesa e di Toscana, e dagli ambasciatori dell'imperadore, del re di Ungheria, della reina Giovanna, e d'altri principi e città. Sperava egli di far quella solenne entrata in compagnia dello stesso imperadore Carlo IV (che questo era il concerto); ma sopraggiunti varii affari a quell'Augusto, differì egli sino all'anno venturo la sua venuta. Accolto con incontro magnifico dal clero e popolo romano, fra gli strepitosi viva andò il papa a smontare alla basilica vaticana. Sulle scalinate, o per ordine o con licenza di lui, il marchese Niccolò conferì l'ordine della cavalleria a sei nobili italiani e ad altrettanti tedeschi. Andò poscia il papa ad alloggiar nel palazzo vaticano [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.].

[709]

Mancò di vita in quest'anno nella città di Viterbo, a dì 24 d'agosto, un lume del sacro collegio, cioè il cardinal Egidio Albornoz, personaggio, la cui memoria fu e sarà sempre celebre nella storia ecclesiastica per le tante imprese da lui fatte in servigio temporale della Chiesa romana, e per la sua mirabil attività e saviezza. Nel dì 5 d'aprile di quest'anno avea egli tolta a' Perugini la città d'Assisi. Per questa perdita fu sommamente afflitto il papa, perchè più che mai abbisognava de' consigli e dell'appoggio di questo insigne porporato. Trovò esso pontefice al suo arrivo la famosa città di Roma ridotta in pessimo stato, cadute le maestose fabbriche degli antichi Romani, chiese rovinate, palagi abbandonati, case vote o diroccate, e con mano toccò gli amari effetti della sì lunga assenza de' pontefici. Cominciò ben egli a medicar queste piaghe; ma, siccome vedremo, le concepute speranze da lì a non molto svanirono. Era divenuta la Toscana un misero teatro delle insolenze e della crudeltà de' soldati masnadieri. Spezialmente Siena e Perugia ne provarono in questi tempi un nuovo scempio [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]. Correndo il mese di gennaio, tornò sul Sanese Giovanni Aucud colla compagnia degl'Inglesi, desertando, secondo il solito, quel paese. Succederono varie battaglie di poco momento. Passarono costoro sul Pisano a dar la sua a quel territorio; ma sul principio di marzo eccoli di nuovo ad infestare il distretto di Siena. Allora i Sanesi, unito quanto poterono di gente massimamente unghera, e ricevuto dai Perugini un buon rinforzo, vollero tentar la fortuna con una giornata campale nel dì 6 di marzo a Montalcinello. Male per loro, perciocchè furono rotti colla morte o prigionia di moltissimi. Fra i presi si contò Ugolino da Savignano nobile modenese, loro conservatore e capitano di guerra, a cui fu messa taglia di dieci mila fiorini d'oro. Cavalcò poscia l'Aucud sul contado di [710] Perugia. Anche quel bravo popolo si appigliò all'uso del ferro, piuttosto che a quello dell'oro, per allontanar questi divorati da' suoi confini; ma, venuto a battaglia al ponte di San Gianni, ne andò sconfitto colla morte, per quanto portò la fama, di circa mille e cinquecento persone.

Grandi feste si fecero nel dì 3 di giugno in Milano [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], perchè vi si celebrarono le nozze di Marco figliuolo di Bernabò Visconte con Isabella figliuola di Stefano (ossia di Federigo) conte palatino e duca di Baviera. Parimente Bernabò diede per moglie a Stefano duca di Baviera Taddea sua figliuola. A questo anno ancora riferiscono gli Annali di Milano e il Corio [Corio, Istoria di Milano.] le disavventure di Ambrosio Visconte, bastardo di Bernabò. Era egli colla sua campagnia di masnadieri passato in regno di Napoli verso l'Aquila, mettendo in contribuzione e saccheggiando quelle contrade. La reina Giovanna, raccolte tutte le sue milizie sotto il comando di Giovanni Malatacca Reggiano, le spedì contra d'Ambrosio. Si venne ad una battaglia, l'armata d'Ambrosio fu disfatta, ed egli con altri conestabili condotto nelle carceri di Napoli, dove gran tempo fece penitenza, ma sforzato, delle rapine e dell'altre molte sue iniquità. Io non so se questo fatto appartenga all'anno presente. Ne' Giornali Napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Bonincontr., tom. eod.] e da Sozomeno se ne parla all'anno 1370. Tuttavia sembra che più fede meriti la Cronica di Siena [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.], dove all'anno seguente viene raccontata questa battaglia, succeduta a Sacco del Tronto in Puglia. Erano circa dieci mila tra fanti e cavalli quei d'Ambrosio; così fiera fu la rotta, che pochi ne camparono, essendo rimasti o sul campo, o presi in paese tutto irritato contra sì bestiale canaglia. Ambrosio, ferito e preso, andò a riposar [711] nelle prigioni. Secento di costoro furono menati prigioni a Roma, giacchè anche le milizie del papa aveano avuta parte alla vittoria. Trecento ne fece impiccare il papa; gli altri condotti a Montefiascone, perchè vollero fuggire, furono anche essi col laccio tolti dal mondo. Questa parve una crudeltà al Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Nell'anno presente [Caresinus. Chron., tom. 12 Rer. Ital.] a' dì 13 di gennaio compiè il corso di sua vita Marco Cornaro doge di Venezia, e fu alzato a quella dignità Andrea Contareno nel dì 20 di esso mese. Intanto Bernabò Visconte, pieno di fiele con tra di Lodovico e Francesco da Gonzaga signori di Mantova, si collegò con Can Signore dalla Scala, padrone di Verona e Vicenza, disegnando di assediar Mantova, e facendo credere, se gli riusciva, di farne un dono allo stesso signor di Verona.


   
Anno di Cristo mccclxviii. Indiz. VI.
Urbano V papa 7.
Carlo IV imperadore 14.

Continuò papa Urbano il suo soggiorno nel palazzo del Vaticano anche nella primavera di quest'anno, e nel mese di marzo Giovanna regina di Napoli e Pietro re di Cipri vennero a Roma per baciargli i piedi, e per trattar dei loro affari [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Ad essa regina in segno d'onore fu donata dal pontefice la rosa d'oro. Venuta la state, andò il santo Padre a villeggiare a Montefiascone, della cui buon'aria e situazione si compiacque assaissimo. Eresse quivi un vescovato e un capitolo di canonici. Insigni parentadi si studiò sempre Bernabò Visconte di fare; ma Galeazzo suo fratello gli andò innanzi anche in questo. Bianca sua moglie era sorella di Amedeo VI conte di Savoia; Isabella, moglie di Gian Galeazzo suo figliuolo avea per padre il re di Francia. Contrasse egli parentela in quest'anno anche col re [712] d'Inghilterra [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], con dare in moglie a Lionello ossia Lionetto, figlio d'esso re e duca di Chiarenza, Violante sua figliuola. La dote fu magnifica, perchè, oltre a ducento mila fiorini d'oro [Corio, Istor. di Milano.], concedette al genero la città d'Alba e molte castella in Piemonte, come Montevico, Cuneo, Cherasco e Demonte. Nel dì 27 di maggio venne il reale sposo a Milano [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], accolto con ismisurata pompa e regali senza fine dai Visconti fratelli, e da gran nobiltà dell'uno e dell'altro sesso. Celebraronsi le nozze nel dì cinque di giugno, nel qual giorno si fecero nobilissimi conviti, che si veggono descritti dall'autore degli Annali Milanesi e dal Corio. Alla prima mensa, dove sedeano i principi, fu ammesso anche Francesco Petrarca insigne poeta: tanta era la di lui riputazione. Ma infausto fine ebbe questo matrimonio; imperciocchè il suddetto principe inglese, divenuto padrone d'Alba e delle suddette castella in Piemonte, per intemperanza, o per altre cagioni, finì di vivere in Pavia nell'anno presente (altri dicono nel seguente) con incredibil rammarico e gravissimo danno di Galeazzo, il quale non solamente perdè il genero, e seco le speranze di appoggio dalla parte del re d'Inghilterra, ma neppur potè ricuperar Alba e l'altre terre dotali del Piemonte, delle quali si fece padrone Odoardo il Dispensiere inglese, siccome andremo vedendo.

Stava in questo mentre Bernabò Visconte suo fratello attento agli andamenti e preparamenti de' principi collegati, ben prevedendo che l'aveano giurata contra di lui; sapea eziandio che Carlo IV imperadore, capo della lega, si disponea a passar in Italia con formidabili forze. Però da tutte le parti cercò al suo soldo gente, e determinò di prevenire i nemici colle sue armi e con quelle di Can Signore dalla Scala suo collegato. Erano allora le armate di Italia, siccome osservò il Corio, composte [713] di varie nazioni. In quelle di Bernabò e di Galeazzo si contavano Italiani, Tedeschi, Ungheri e Borgognoni; e lo stesso succedea in quelle degli Estensi, Gonzaghi e Scaligeri. Il papa nell'esercito suo avea gran copia di Franzesi, Spagnoli, Bretoni, Provenzali e Pugliesi. Fra poco vedremo comparire anche l'imperadore con Boemi, Schiavoni, Polacchi ed altre nazioni. Se l'Italia stesse bene fra tanti e sì varii, quasi dissi, cani e ladroni, ognun può immaginarselo. Avvenne [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Italic.] che nel dì 9 di marzo, trovandosi in Parma una grossa guarnigione di Bernabò, vennero alle mani i soldati italiani coi tedeschi ed ungheri, e degli ultimi ne rimasero uccisi trentadue. Fecero gli uffiziali del Visconte far tregua di tre mesi fra loro, e si quetò per allora il tumulto. Ora Bernabò, unite le sue armi con quelle del fratello Galeazzo e dello Scaligero, all'improvviso nel dì cinque d'aprile portò la guerra sul Mantovano per terra e per acqua [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.], avendo fatto calare per Po una copiosa flotta di galeoni armati. Entrò nel serraglio di Mantova da due parti, mettendo a sacco e fuoco tutto il paese, e quivi fabbricò una bastia fortissima. Anche dalla parte di Guastalla mandò un esercito verso Borgoforte, e se ne impadronì. Non tardò Niccolò marchese d'Este a spedire in soccorso de' collegati Gonzaghi i suoi galeoni armati per Po. Giunta a Borgoforte questa flotta, attaccò battaglia con quella del Visconte. Dieci ore durò il combattimento; in fine la peggio toccò ai legni estensi; e quelli che non si poterono salvar colla fuga, rimasero in potere dei vincitori. Ciò fatto, l'esercito di Bernabò si accostò maggiormente a Mantova. Intanto andarono covando i Tedeschi l'odio conceputo contra de' soldati italiani per la rissa succeduta in Parma, finchè se la videro bella. Essendo un dì sul Mantovano, senza far caso della tregua giurata, assalirono i fanti italiani. Lunghissimo fu il combattimento, e molti furono trucidati [714] dall'una e dall'altra parte; ma perchè gl'Italiani erano in minor numero, toccò loro la peggio; e circa settecento d'essi si gittarono nel Po. Bernabò, ch'era in Parma, corse a Guastalla tutto dolente, e tanto si maneggiò, che fecero pace insieme. Anche in Bergamo, giunta la nuova dell'assassinio fatto agl'Italiani dai Tedeschi ed Ungheri, quarantacinque di quei Tedeschi, i quali erano ivi in presidio, furono spogliati ed uccisi.

Si mosse, nell'aprile di quest'anno, dalla Boemia Carlo IV imperadore [Chron. Estense., tom. 15 Rer. Ital.] con un possente esercito, accompagnato dai duchi di Sassonia, d'Austria, di Baviera, da' marchesi di Moravia e di Misnia, e da varii altri vescovi e gran signori. Giunse nel dì 5 di maggio a Conegliano, dove fu a rendergli i suoi ossequii Niccolò marchese di Ferrara. Nel dì 12 di giugno arrivò a Figheruolo sul Ferrarese, e seco si congiunsero, le milizie di papa Urbano, governate dal cardinale Anglico, vescovo d'Albano, fratello d'esso pontefice, con quelle della reina Giovanna. L'anonimo autore degli Annali Milanesi [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.] (se pur non è guasto il suo testo), per ingrandir la gloria de' Visconti, si lasciò scappar dalla penna che questa armata ascendeva a cinquanta mila cavalieri, senza la fanteria. L'autore della Cronica di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] narra che Carlo venne in Italia con trenta mila cavalieri. E all'incontro il Corio [Corio, Istoria di Milano.] scrive essere stata l'armata dei collegati di venti mila persone. Tuttavia, qualunque fosse l'esercito di lui, pareva che l'imperadore avesse da ingoiare i Visconti. Ma Carlo IV, principe debole di consiglio in quasi tutte le imprese sue, nulla fece di rilevante in questo anno. Mise l'assedio ad Ostiglia, terra allora del Veronese: non potè averla. Andò sotto alla bastia fabbricata da Bernabò nel serraglio di Mantova, e con tutti i suoi assalti e con tante forze non [715] potè vincerla. Il peggio fu che, ingrossato il Po, li suoi vollero tagliar l'argine del fiume per inondar la bastia; e quei della bastia voltarono le acque addosso al campo dell'imperatore, di modo che si trovò tutta la sua gente in pericolo, e convenne sloggiare in fretta, lasciando anche indietro buona parte del bagaglio. Del pari Can Signore fece tagliar l'Adige, e lo spinse addosso al Padovano. Andarono poi l'armi collegate a saccheggiare il Veronese. L'autore della Vita di papa Urbano V lasciò scritto [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] che Carlo si accomodò collo Scaligero, e lo staccò dalla lega del Visconte. Null'altro di rilevante fece l'imperadore con tanta potenza; e ciò che ridondò in suo non lieve disonore, fu l'essersi egli fermato tanto colle sue genti in Mantova, città amica e fedele, che quasi la ridusse all'ultimo esterminio. Ora, dopo aver Carlo procurato una tregua, e, per quanto fu creduto, ricevuta sotto mano buona somma di danaro dai Visconti, e dopo aver licenziato molte delle sue milizie, a guisa di vinto si partì da Mantova, e nel dì 24 d'agosto arrivò a Modena, dove il marchese gli fece molto onore. Poscia pel territorio di Bologna passò in Toscana, e nel dì cinque di settembre entrò nella città di Lucca.

Giovanni dell'Agnello doge di Pisa, perchè temeva assai di perdere suo stato per la venuta dell'imperadore, gli avea per tempo inviati suoi ambasciatori e regali, ed erasi accordato con lui, con permettergli l'entrare in Lucca, e cedergli il castello dell'Agosta. Carlo inviò innanzi il patriarca d'Aquileia suo fratello a prendere il possesso d'essa città, e dipoi vi si trasferì egli in persona. Quivi si trovò anche l'Agnello a riceverlo, oppure, come altri scrissero, v'andò egli dipoi con assai nobile accompagnamento a pagargli il tributo della sua divozione. Ma un dopo desinare stando egli con altri nobili in un ballatoio, ossia sporto, o [716] verone, o ringhiera, a veder le buffonerie d'un giocoliere [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.], cadde quel ballatoio, e con esso lui Giovanni dell'Agnello, il quale, per tal caduta, si ruppe una coscia. Altri vogliono che, rottosegli sotto per istrada un ponte di legno, ne ricevesse quella rottura; ma è più sicura la prima opinione. Portata a Pisa questa nuova, come se il doge, persona odiata e tenuta come tiranno, fosse morto, si levò a rumore tutto il popolo, gridando libertà; e quantunque i figliuoli dell'Agnello fossero corsi colà per sostenere l'autorità del padre, o farsi esaltare eglino stessi [Tronci, Memor. di Pisa.], bisognò che in fretta scappassero per non restar vittime del furore de' cittadini, i quali cominciarono a reggersi a comune. Nel dì 3 di ottobre arrivò ad essa Pisa l'imperadore coll'imperadrice. Impose una contribuzione a quel popolo, e prese in prestito da alcuni di que' mercatanti dodici mila fiorini d'oro. Minacciava intanto i Fiorentini, richiedendo da essi Volterra ed alcune castella tolte a' Lucchesi. La risposta fu, che gli risponderebbono per le rime, s'egli avea voglia di guerra. In questi tempi una strepitosa disunione fu in Siena fra i nobili e il popolo [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]. Spedirono i Salimbeni all'imperadore, perchè mandasse un corpo dei suoi armati. Egli vi spedì Malatesta Unghero signore di Rimini con ottocento cavalli, il quale, entrato in Siena, ed unitosi col popolo, atterrò il governo dei nobili. Colà poi da Pisa si trasferì anche l'imperadore nel dì 12 di ottobre, ed ebbe il dominio di quella città, dove dichiarò suo luogotenente Malatesta. Suo vicario avea anche lasciato in Pisa e Lucca Gualtieri vescovo d'Augusta. Per fiorini mille e secento venti in Firenze era in pegno la corona imperiale d'oro, perchè Carlo sempre si trovava sbrollo, tuttochè ruspasse danari da ogni parte. I Sanesi gliela disimpegnarono, e inoltre a lui pagarono e [717] prestarono altri danari. Dopo la dimora di pochi giorni in Siena l'Augusto Carlo cavalcò alla volta di Viterbo, dove l'aspettava papa Urbano [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Quivi, trattato che ebbero dei loro interessi, Carlo s'avviò verso Roma, e gli tenne dietro il papa. Vicino alla porta del castello Sant'Angelo s'incontrarono, e l'imperadore a piedi addestrò il pontefice, che veniva a cavallo, sino a San Pietro. Arrivata da lì ad alcuni giorni l'imperadrice Isabella, quarta sua moglie, con gran solennità fu coronata dal papa nella basilica vaticana correndo la festa degli Ognissanti. Sbrigato poi dagli affari che l'aveano condotto a Roma, sen venne di nuovo l'imperadore a Siena, dove trovò più che mai in confusione quella città e territorio; imperciocchè i nobili ridottisi alla campagna e alle lor castella, venivano di tanto in tanto sino alle porte della città saccheggiando e bruciando, di modo che i cittadini si morivano di fame. Fu dunque fatta una tregua, e si raffrenarono per un poco quei barbari movimenti.


   
Anno di Cristo mccclxix. Indizione VII.
Urbano V papa 8.
Carlo IV imperatore 15.

Venne sul principio di novembre dell'anno presente a Roma Giovanni Paleologo imperador de' Greci [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Il bisogno in cui egli si trovava del soccorso dei Latini per resistere alla sempre più crescente potenza de' Turchi, fatta ancor questa volta tacere la greca superbia, l'indusse a venire a' piedi del romano pontefice, dove, senza farsi molto pregare, abiurò gli errori de' suoi nazionali, e riconobbe la superiore autorità del papa nella Chiesa di Dio. Poco giovò al greco Augusto questo suo viaggio, e poco la di lui professione della fede alla Chiesa latina. Non era in questi tempi men valente Bernabò Visconte negli affari della guerra che nei maneggi di gabinetto. Fin l'anno [718] addietro, parte col segreto favore dei duchi d'Austria e di Baviera suoi generi, e parte, come corse la voce, e confessa il Corio [Corio, Istor. di Milano.], con regali disturbò tutti i disegni e gli sforzi di Carlo IV imperadore contra di lui, e riportò una tregua coll'armata de' collegati. Andò poscia egli destramente trattando con esso Augusto e col papa di pace, tanto che questa si stabilì fra esso lui, Galeazzo suo fratello, Can Signore dalla Scala, ed aderenti dall'un canto [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.], e dall'altro il pontefice, l'imperadore, la reina Giovanna, il marchese d'Este, i Gonzaghi, Francesco da Carrara, i Malatesti e i comuni di Siena e Perugia. Nel dì 13 di febbraio fu pubblicata questa pace, e demolita la bastia già fabbricata da Bernabò nel serraglio di Mantova. A questo gran guadagno si ridusse tanto sforzo d'un imperadore e di tanti suoi collegati. Fermavasi tuttavia in Siena esso imperador Carlo, dove facea da padrone assoluto con rabbia grande de' nobili, perchè esclusi, e non minore del popolo, che più non comandava le feste. I Salimbeni soli e Malatesta erano quelli che giravano le ruote del governo [Cronica di Siena, tom. eod.]. Ma nel dì 18 di gennaio cominciò il popolo a rumoreggiare; e, prese le armi, si attruppò, perchè erano stati deposti i suoi difensori. Uscì l'imperadore di palazzo, e colla barbuta in capo, e con circa tre mila cavalieri, accompagnato da Malatesta Unghero, trasse al rumore per isbandar quella gente. Ma i Sanesi coraggiosamente gli vennero contro, ed attaccarono battaglia al campo; battaglia che durò ben sette ore colla morte di molti baroni e di più di quattrocento uomini dell'imperadore. Rimase il popolo padrone del campo, e prese circa mille e ducento cavalli, e molte armi ed arnesi. Malatesta cotanto si raccomandò, che fu lasciato uscire di città con ducento cavalieri. Altrettanto fecero i Salimbeni. L'imperadore si rifugiò [719] nel palazzo, e restò quivi assediato. In tale stato altro scampo non ebbe che di venire ad un accordo con ricavar danari in compenso del danno e vergogna a lui fatta. Cinque mila fiorini ricevè in contanti allora, quindici altri mila furono promessi in tre paghe: con che perdonò ai Sanesi, e, confermati tutti i lor privilegii, assai malcontento se n'andò a Lucca. Forte gli batteva tuttavia il cuore. Fu in rotta coi Pisani; ma poi tra l'aggiustamento che fece con loro, e l'aver fatto ripatriare Pietro Gambacorta [Tronci, Annal. Pisan.], ne ricavò un regalo di cinquanta mila fiorini. Per altrettanta somma fece accordo coi Fiorentini. Sottrasse Lucca dal dominio de' Pisani per le tante istanze di quel popolo, che gli promisero altri venticinque mila fiorini, e quivi lasciò per governatore il cardinal Guido di Monforte. Poscia nel mese di luglio s'inviò coll'imperadrice alla volta di Bologna [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], dove fu a riceverlo Niccolò marchese di Este, e, condottolo a Ferrara con grande onore, andò poi accompagnandolo sino ai confini del suo Stato. Imbarcossi Carlo colla moglie, e passò in Germania, seco portando grosse somme d'oro, di cui era stato diligente cacciatore, con empiere l'Italia di carte pecore, ma seco molto più di vergogna portando per essere venuto in Italia a pacificarla, ed avendola più che mai scompigliata, e per avere prostituita in varie maniere la sublime dignità imperatoria.

Guerra fu in quest'anno fra papa Urbano V e i Perugini [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Perchè alla lor signoria erano state tolte le città d'Assisi e di Città di Castello, sdegnossi forte quel popolo contro il pontefice, e gli negava ubbidienza; anzi fece delle scorrerie fin sotto Viterbo, dove soggiornava lo stesso Urbano. Perciò contra di loro fu inviato un esercito con tali forze [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], che nel presente anno, dopo molto contrasto, [720] Perugia abbassò l'ali, e si sottomise al legittimo suo sovrano. Più strepito fece in Toscana un'altra guerra. Erasi dianzi ribellata ai Fiorentini la riguardevol terra di San Miniato. Dacchè fu uscito di Toscana l'imperadore, il comune di Firenze spedì l'esercito suo ad assediarla; ma Bernabò Visconte, che sempre andava in traccia di nuove brighe, si fece avanti, allegando di essere stato creato vicario di San Miniato dall'imperadore, e che, se non dismettevano quella danza, vi sarebbe entrato anch'egli colle sue armi. Non se ne misero pensiero i Fiorentini. Bernabò, condotta al suo soldo la compagnia degl'Inglesi di Giovanni Aucud, di cui s'era servito per dare soccorso a' Perugini contro le genti del papa [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], la spinse in Toscana per far levar quell'assedio. Generale dei Fiorentini era allora Giovanni Malatacca Reggiano, per attestato della Cronica Estense [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.], non sussistendo, come scrive l'Ammirati [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 13.], ch'egli avesse finita la sua condotta, e in suo luogo fosse subentrato Bartolino de Losco ossia de Bosco. Il Malatacca, siccome personaggio pratico del suo mestiere, non volea battaglia, tenendosi assai sicuro nelle sue bastie o trincee; ma i baldanzosi uffiziali di Firenze col comando e con pungenti parole il costrinsero al combattimento a Ponteadera. Fu disfatto il suo esercito nel dì 8 di dicembre dall'Aucud, ed esso Malatacca fatto prigione. Non cessò per questo l'assedio, perchè vi restavano le bastie, e colà i Fiorentini mandarono nuova gente. L'Aucud, dopo la vittoria, diede il guasto al distretto di Firenze sino alle porte.

Erasi ribellata ai Veneziani la città di Trieste [Caresin., Chron. Venet., tom. 12 Rer. Ital.]. Quest'anno valorosamente la ripigliarono. Di nuovo ancora si risvegliò la guerra fra Galeazzo Visconte e Giovanni marchese di Monferrato [Petrus Azarius, Chron. Regiens., tom. 16 Rer. Ital.]. [721] Dopo la morte di Lionello ossia Lionetto, figliuolo del re d'Inghilterra e genero di Galeazzo, la città d'Alba ed assai altre castella in Piemonte, date in dote alla figliuola, rimasero in potere di Odoardo il Dispensiere, che co' suoi Inglesi le tenne forte senza volerle restituire, ed anche per tradimento disfece un esercito inviato contra di lui. Ma gli mancava la pecunia. Il marchese di Monferrato corse al mercato, e collo sborso di ventisei mila fiorini d'oro ottenne in pegno dal Dispensiere quello Stato, come apparisce dallo strumento stipulato nel dì 27 d'ottobre, e rapportato da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Per questa cagione da Galeazzo fu intimata la guerra al marchese, e le sue milizie passarono a dare il guasto al Monferrato. Vicendevolmente il marchese, che avea preso ai suoi stipendii il Dispensiere e gl'Inglesi, entrò nel Novarese, con saccheggiar il paese, e bruciar le terre di Biandrate e Garlasco. La città di Sarzana in quest'anno spontaneamente si diede a Bernabò Visconte, ed egli tentò anche l'acquisto di Lucca, che non gli venne fatto [Corio, Istor. di Milano.]. Nacque nell'anno presente a' dì 10 di giugno in Cotignuola Sforza Attendolo, che vedremo celebre nel proseguimento della storia, e padre di Francesco Sforza duca di Milano. Negli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Italic.] (forse con più fondamento) vien riferita la di lui nascita al dì 29 d'esso mese, giorno di martedì. Turbolenze grandi furono in Pisa, e Pietro Gambacorta tanto seppe fare, che fu eletto capitano delle masnade, grado di molta considerazione in quella città. Per la quale elezione rimasero sconcertate le macchine di Bernabò Visconte, che amoreggiava quella città, o almeno si studiava di rimettere nel suo primiero posto il decaduto Giovanni dell'Agnello.

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Anno di Cristo mccclxx. Indizione VIII.
Gregorio XI papa 1.
Carlo IV imperadore 16.

Rimase in quest'anno sommamente afflitta Roma, anzi l'Italia tutta, per la risoluzione presa da papa Urbano V di ritornarsene ad Avignone [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Giusto motivo di questo divorzio punto non appariva, perchè Roma tutta gli ubbidiva, e il rispettava nelle forme dovute ad un sovrano e ad un vicario di Cristo. Lo Stato ecclesiastico già quasi tutto cominciava a godere i frutti di quella pace che egli vi avea portata. Per quanto si raccoglie dalla sua Vita [Vita Urbani V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], prese egli per pretesto di tornarsene in Francia, il potere più da vicino applicarsi a metter pace fra i re di Francia e d'Inghilterra, che si andavano allora divorando l'un l'altro. Ma il Petrarca forse toccò [Petrarcha, lib. 13 Rer. Sen., epistol. 13.] il punto, attribuendo ai cardinali franzesi l'aver commosso il buon papa a far questo salto. Avvezzi alle delizie della Provenza, e alla vita dissoluta che si tenea in quelle parti, non si poteano vedere in Italia. Per essere venuto il papa alla sua propria residenza, sparlarono sempre di lui finchè visse, e più ancora dappoichè la morte l'ebbe rapito. Tanto dunque si può credere ch'essi tempestassero, rappresentandogli il gran bene che ne verrebbe per quetar l'aspra guerra dei suddetti due re, ch'egli nella state di questo anno, partitosi da Roma per andare a villeggiare a Montefiascone, mentre riposò in Viterbo, scoprì la sua intenzione di riveder la Francia, con ordinare a tutti i cortigiani di prepararsi al viaggio. Per quanto gli fosse detto contro, e predetta la morte e lo sdegno di Dio, se andava, non si lasciò smuovere dal suo proponimento. Perciò nel dì 5 di settembre ito a Corneto, quivi si imbarcò, avendogli provveduto un suntuoso stuolo di [723] galee i re di Francia e d'Aragona, la reina Giovanna, i Pisani e i Provenzali. Ebbe a pentirsi da lì a non molto d'avere abbandonata la sua particolar greggia, e insieme l'Italia; perciocchè, giunto ad Avignone, stette poche settimane a cadere infermo; e questa infermità nel dì 19 di dicembre il trasse di vita. Pontefice dotato di tutte le più belle virtù convenienti al suo sublime santo ministero, umile sprezzator delle pompe, limosiniere, zelante del culto di Dio, e tale in somma che tenuto fu per santo dopo sua morte, si narravano grazie ottenute da Dio per intercessione di lui. Oltre a varie Croniche [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], ne fa fede anche il Petrarca nelle sue lettere; e l'autore della Cronica Bolognese [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] attesta che in quella città fu con indicibil duolo compianta la perdita di questo buon pontefice per li tanti benefizii ch'egli e il cardinale Anglico, suo fratello, aveano compartiti ad essa città, e per la fama de' suoi miracoli si cominciò a dipignere per le chiese la di lui effigie. Altrettanto abbiamo dagli Annali di Genova di Giorgio Stella [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Fu poi nel dì 30 di dicembre eletto sommo pontefice Pietro Ruggieri, figliuolo di Guglielmo conte di Belforte, e nipote di Clemente VI, che era cardinale di Santa Maria Nuova, giovane di età, ma vecchio di costumi, scienziato nelle leggi, ne' canoni e nella teologia, modesto, liberale, e amato da tutti per le sue oneste e cortesi maniere. Prese il nome di Gregorio XI. Dicono ch'egli fu scolare di Baldo gran legista in Perugia.

Secondochè scrive Matteo Griffoni [Matth. de Griffonibus, Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], riuscì a Giovanni Aucud d'introdurre in San Miniato, assediato da' Fiorentini, un convoglio di vettovaglia e di munizioni. Ciò non ostante, per tradimento di uno di quei terrazzani, appellato Luparello, i [724] Fiorentini entrarono nella terra nel dì 9 di gennaio dell'anno presente. Il presidio di Bernabò Visconte si ritirò nella rocca, la quale al fine venne anch'essa nelle lor mani. Ad alcuni di que' nobili cittadini ribelli fu mozzo il capo. Se ne fuggirono gli altri, cioè parte de' Mangiadori, conti di Collegalli e Ciccioni, e con essi Filippo Borromeo, da cui discende la chiarissima famiglia de' conti Borromei di Milano. Tolto dunque a Bernabò quel nido in Toscana, egli richiamò l'Aucud in Lombardia. Passò la sua compagnia d'Inglesi, calcolata circa due mila barbute, nel dì primo d'agosto sul Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], commettendo nelle vicinanze di quella città le consuete sue crudeltà, e dipoi se ne andò sul Parmigiano. Le paci che facea Bernabò duravano sempre quel solo tempo che a lui piaceva, perchè non gli mancavano mai pretesti di romperle, e sempre maneggiava ribellioni e tradimenti in casa de' vicini. Mosse egli guerra nell'anno presente a Feltrino Gonzaga signor di Reggio. Affinchè egli non s'impadronisse di quella città, accorsero in aiuto di lui le armi della Chiesa, de' marchesi estensi [Chronic. Estens., tom. 15 Rer. Ital.] e de' Fiorentini, che manteneano lega insieme per sospetto sempre di quel non mai quieto bestione. Nel dì 20 d'agosto succedette una battaglia tre miglia lungi da Reggio, in cui fu sconfitta parte del di lui esercito, e presa una bastia da lui fabbricata a San Rafaello. Avea Bernabò sovvertiti i principali della terra di Vignola nel Modenese, e massimamente i nobili Grassoni, per ribellarla al marchese Niccolò. Scoperto il trattato, ebbero que' traditori il meritato gastigo. Inoltre i signori di Sassuolo, dopo aver ucciso a tradimento sul Bolognese Gherardo de' Rangoni, uno de' nobili principali di Modena, e carissimo a Niccolò marchese d'Este, si ribellarono, ponendosi sotto la protezion di Bernabò. Questa ribellione fece tornare sul Modenese le genti della lega, che, passate sul Parmigiano, [725] aveano dato ivi un gran guasto. Assediarono esse la Mirandola, senza poterla avere; e nel ritorno furono colte in un agguato dall'Aucud spedito da Bernabò. Per questo colpo diedero i collegati orecchio a proposizioni di pace, la quale nel prossimo novembre a dì 12 fu pubblicata tra essi e Bernabò. Ma perchè non vi fu compreso Manfredino da Sassuolo, continuò la guerra del marchese Niccolò contra di lui, e ciò servì di pretesto a Bernabò per non osservare dipoi i capitoli d'essa pace.

Oltre misura fumava di collera Galeazzo Visconte contra di Giovanni marchese di Monferrato per l'occupazione della città d'Alba e di molte castella del Piemonte, siccome abbiam di sopra accennato. Però con un possente esercito andò nell'anno presente a farne vendetta [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placentin., tom. eod.]. Diede il guasto alle di lui castella verso Po, e pacificamente s'impadronì di Valenza nel mese di settembre. Condusse poi l'armata sotto Casale di Santo Evasio, e strinse quella terra con vigoroso assedio, e talmente l'angustiò, che per difetto di viveri que' cittadini nel dì 14 di novembre capitolarono la resa. Lo strumento di essa dedizione vien rapportato da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Per questa perdita presero brutta piega gli affari del marchese Giovanni. Secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], in questo medesimo anno esso Galeazzo ricuperò la città di Como, che colla Valtellina se gli era ribellata. Bernabò diede principio ad un mirabil ponte d'un arco solo sopra l'Adda a Trezzo, e fece fabbricar cittadelle a Brescia, Bergamo, Cremona, Pizzighettone, Crema, Pontremoli, Lodi, Sarzana ed altri luoghi. E perciocchè Galeazzo suo fratello [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] avea cominciato in Milano il castello di Porta Zobbia, anch'egli si mise a fabbricarne un altro nel sito dove ora è lo spedal maggiore. [726] Quanto a Genova, se la pace entrava talvolta in quella città [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], bisognava ben che s'aspettasse d'uscirne in breve per l'instabilità e bollore di quelle teste. Gabriello Adorno, allora doge di quella città, benchè persona esente da ogni taccia di tirannia, anzi lodevole in tutte le azioni sue, pure non giugneva a contentare un popolo che troppo amava le novità, diviso per le fazioni guelfa e ghibellina. Nel 13 d'agosto contra di lui insorse coll'armi una parte del popolo. Fece egli sonar campana a martello per aver soccorso, e niuno si mosse per lui. Fu preso per forza il palazzo ducale, ed allora molti de' mercatanti e del popolo si ridussero alla chiesa de' frati minori, dove proclamarono doge Domenico da Campofregoso, mercatante ghibellino di molta prudenza e ricchezze. Per maggior sua sicurezza fece egli ritenere il deposto Adorno, e mandollo prigione a Voltabio, facendolo custodire da buone guardie. L'anno fu questo [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 13.], in cui la città di Lucca, dopo tanti anni di servitù, ricuperò la sua libertà, per maneggio specialmente de' Fiorentini, assai informati de' movimenti di Bernabò Visconte, per ottenerla o con danari o colla forza. Venticinque mila fiorini sborsati al cardinal Guido, che n'era governatore, il fecero andar con Dio, e lasciar libero quel popolo, il quale fra le allegrezze della ricuperata libertà non dimenticò di atterrare l'odiata cittadella dell'Agosta, siccome quella che avea tenuto sempre in addietro il giogo addosso alla città.


   
Anno di Cristo mccclxxi. Indiz. IX.
Gregorio XI papa 2.
Carlo IV imperadore 17.

Fecero gran rumore in Italia nel presente anno le calamità della città di Reggio [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Padrone d'essa Feltrino da [727] Gonzaga tirannescamente opprimeva quel popolo, che perciò nulla più desiderava che di passar sotto altro signore. I Boiardi, Roberti, Manfredi, principali d'essa città, ne fecero parola al marchese Niccolò d'Este signor di Ferrara e Modena, rappresentandogli facile l'acquisto per la disposizion favorevole di que' cittadini. La voglia di slargare i confini, da cui non va esente alcuno de' principi; l'aver Feltrino usati in addietro varii tradimenti ed insolenze al marchese; e le pretensioni che tuttavia nudriva la casa d'Este sopra di Reggio, posseduto già da essa anche nel principio del corrente secolo, gli fecero dare il consenso a questa tentazione. Richiedeva l'impresa delle forze, e perciò prese egli al suo soldo la compagnia di masnadieri di varie nazioni, messa insieme dal conte Lucio di Suevia, non so se fratello del già ucciso conte Lucio Corrado, uomo che anche egli col prendere il soldo altrui, o pur colle rapine e coi saccheggi manteneva le truppe sue. Sul Sanese aveano costoro bruciate circa due mila case [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.], e spremuto da quel comune per accordo otto mila fiorini d'oro a' dì 22 di marzo. Vennero pel Bolognese a guisa di nemici; e il marchese, per coprire i suoi disegni, gl'inviò sotto Sassuolo, mostrando di voler quivi piantare una bastia, giacchè durava la guerra contra di Manfredino signor di quella terra. Poscia nel dì 7 d'aprile segretamente cavalcò la gente del marchese a Reggio, sotto il comando di Bechino da Marano; e presa la porta di San Pietro per forza, entrò vittoriosa nella città. Feltrino da Gonzaga si rifugiò nella cittadella, e tenne forte anche due porte della stessa città. Arrivò intanto lo scellerato conte Lucio colle sue sfrenate masnade. L'ordine era, ch'egli non entrasse nella città, per ischivare i disordini; ma costui trovò la maniera di introdurvisi con promessa di non danneggiare i cittadini. Ma appena quelle inique milizie furono dentro, che diedero un orrido sacco alle case, ai sacri templi, [728] con tutte le più detestabili conseguenze di sì fatte inumanità. Nè ciò bastando allo iniquo condottiere, dacchè intese che Feltrino trattava con Bernabò Visconte di vendergli Reggio, anch'egli concorse al mercato. Venne per questo a Parma Bernabò, dopo avere spedito a Feltrino Ambrosio suo figliuolo (già liberato per danari dalle carceri di Napoli) con aiuto di gente. Fu conchiuso il contratto fra lui e il Gonzaga nel dì 17 di maggio, come apparisce dallo strumento, per cui comperò Bernabò la città di Reggio pel prezzo di cinquanta mila fiorini d'oro, con lasciare a Feltrino il dominio di Novellara e Bagnolo, che erano del distretto di Reggio. Altri venticinque mila fiorini (quaranta mila dicono gli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]) pagò il Visconte al conte Lucio, affinchè gli desse libera la città. Dopo di che tanto il Gonzaga, che il conte Lucio si ritirarono, comandando costui alle genti del marchese d'andarsene, altrimenti avrebbe contra di loro adoperata la forza.

Enorme fu il tradimento; e pur con tanti esempi della mala fede di questi iniqui masnadieri, i principi d'Italia li conducevano al loro servigio; e il conte Lucio appunto passò da Reggio al soldo di Giovanni marchese di Monferrato, contro al quale aspramente guerreggiava Galeazzo Visconte. Scrisse il Corio [Corio, Istoria di Milano.], e prima di lui l'autore degli Annali Milanesi, essere state le milizie di Bernabò che diedero l'esecrabil sacco alla città di Reggio. La Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], siccome ho detto, e Matteo Griffone [Matth. de Griffonibus, Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] attribuiscono tanta iniquità alle soldatesche del conte Lucio. Ebbe bene a rodersi le dita per sì infelice impresa il marchese Niccolò. Non solamente non acquistò egli Reggio, ma servì lo sforzo suo a farla cadere in mano del maggiore e più potente nemico ch'egli avesse; e fu la rovina [729] di quella sfortunata città, la quale rimase desolata, essendosene ritirata buona parte de' cittadini o per le miserie sofferte, o per non restare sotto il duro dominio del crudele Bernabò Visconte. Poco stette ancora l'Estense a pagarne il fio, perchè Ambrosio Visconte nel dì 14 d'agosto con ischiere copiose d'armati diede il guasto al territorio di Modena, arrivò sul Ferrarese, assediò il Bondeno, e fece inestimabil preda di persone e bestiami. Le mire di Bernabò andavano oramai sopra Modena stessa: del che sommamente furono scontenti e in pena papa Gregorio e tutti i collegati, veggendo crescere sempre più la potenza del possente Biscione. Contro le forze di Galeazzo Visconte non potea intanto reggere Giovanni marchese di Monferrato, ed avea già perduta parte del suo paese. Appigliossi dunque al partito, siccome dicemmo, di condurre al suo soldo l'infedel conte Lucio, la cui compagnia si faceva ascendere a circa cinque mila uomini d'armi, oltre a gran quantità di balestrieri ed arcieri a piedi [Chronic. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.]. Venne Galeazzo Visconte a Piacenza, e quivi ammassò l'esercito suo, composto di diverse nazioni, Italiani, Tedeschi, Ungheri, Spagnuoli, Guasconi e Bretoni, con disegno d'impedire il passo a questi masnadieri. Ma alle pruove giudicò meglio di non far loro resistenza. Passarono dunque in Monferrato sul principio di giugno, e l'arrivo loro impedì che Galeazzo non facesse alcun altro progresso nell'anno corrente. Nel dicembre di quest'anno l'odio inveterato, che l'un contra l'altro covavano i Veneziani [Caresin., Chronic., tom. 12 Rer. Ital. Sanuto, Cron., tom. 22 Rer. Ital.] e Francesco da Carrara signor di Padova, finalmente scoppiò in un'aperta dissensione e in preparamenti di guerra. Gli autori veneti ne attribuiscono, e più probabilmente, la colpa a Francesco da Carrara, che, alzato in superbia per la protezione di Lodovico potentissimo re d'Ungheria, avea fabbricato [730] varie castella, argini e chiuse oltre la palude d'Oriago, e in altri siti che il comune di Venezia pretendea suoi. All'incontro, gli storici padovani [Gatari, Ist. Pad., tom. 17 Rer. Ital.] scrivono avere i Veneziani per odio ed invidia, e senza ragione, mossi cotali pretesti per vendicarsi del Carrarese a cagion della assistenza già data al re d'Ungheria, allorchè venne all'assedio di Trivigi; giacchè non altrove avea Francesco fabbricato quelle ville e fatte le fortificazioni, se non sul distretto di Padova.


   
Anno di Cristo mccclxxii. Indizione X.
Gregorio XI papa 3.
Carlo IV imperadore 18.

Secondo il Guichenone [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye.], Giovanni marchese di Monferrato, principe glorioso, forse per gli affanni patiti ne' sinistri successi della sua guerra con Galeazzo Visconte, gravemente s'infermò e terminò i suoi giorni. Nella Cronica di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.] è scritto che la sua morte accadde nel dì 13 di marzo del 1371. Ma il testamento e i codicilli di questo principe dati alla luce da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria di Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.], benchè non assai esatti nelle note cronologiche, abbastanza ci assicurano esser egli passato all'altra vita dopo il dì 14 di marzo dell'anno presente, e prima del dì 20 d'esso mese. Sotto la protezion del papa lasciò suo erede nel Monferrato Secondotto suo primogenito; e la città d'Asti volle che fosse per indiviso di esso Secondotto, e di Giovanni, Teodoro e Guglielmo altri suoi figliuoli, e di Ottone duca di Brunsvich suo parente, al quale avea anche donato varie altre castella, deputandolo per tutore e curatore de' suddetti suoi figliuoli insieme con Amedeo conte di Savoia. Aveva egli tenuto Ottone di Brunsvich in addietro per suo principal consigliere, e quasi secondo [731] padrone di quegli Stati: cotanta era la sua onoratezza, fedeltà e prudenza. Maggiormente si applicò esso duca da lì innanzi a sostener gl'interessi di quei principi giovinetti. Ma si trovava egli in gravi pericoli, perchè Galeazzo Visconte minacciava la città d'Asti, e in fatti passò ad assediarla nell'anno presente. Trattò di pace il duca di Brunsvich, ma ritrovate troppo alte le pretensioni di Galeazzo, che a tutte le maniere voleva Asti, se ne ritornò alla difesa di quella città e del Monferrato, con implorar l'aiuto del suddetto Amedeo conte di Savoia, valoroso principe di questi tempi. Era il conte cognato di Galeazzo, cugino de' figliuoli del fu marchese Teodoro, e perciò sembrava irresoluto; ma l'essersi Federigo marchese di Saluzzo collegato coi Visconti, e il timore che il crescere di Galeazzo non ridondasse in proprio danno, gli persuasero di entrare in lega col Monferrato. Inoltre seppe così ben rappresentare al papa la necessità di reprimere i Visconti [Raynaldus, Annal. Eccles.], siccome gente vogliosa di assorbir tutta l'Italia, che il trasse seco in lega, e n'ebbe gran rinforzo di gente e danari. Erano unite anche le altre milizie pontificie con quelle del marchese Niccolò Estense, di Francesco da Carrara e de' Fiorentini, per resistere in altre parti alle forze di Bernabò Visconte. Quanto al Monferrato, durò lungo tempo l'assedio d'Asti: v'andò un potente soccorso del conte di Savoia; seguirono varii combattimenti colla peggio de' Visconti [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]; e in fine sì vigorosa difesa fecero di quella città il conte ed Ottone duca di Brunsvich, con aver anche prese le bastie del Visconte, che Galeazzo fu forzato a ritirarsi colle mani vote.

Altro destino ebbe la guerra di Bernabò col marchese estense. Ambrosio suo figliuolo bastardo, scelto per capitano colla sua armata, collegato con Manfredino signor di Sassuolo, venne da Reggio a dare il guasto al territorio di [732] Modena [Annales Mediolan., tom. 16 Rerum Italic. Chronic. Placentin., tom. eod. Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Gli furono a fronte le genti del marchese, del legato pontificio, del Carrarese e de' Fiorentini, e corsero anche esse a' danni del Sassolese. Poscia nel dì 2 di giugno vennero alle mani le due nemiche armate. La sanguinosa battaglia durò ore quattro continue; voltò in fine la spalle quella de' collegati, con essere rimasti prigionieri Francesco e Guglielmo da Fogliano, nobili reggiani, capitani dell'Estense e della Chiesa, e Giovanni Rod Tedesco capitano de' Fiorentini, e circa mille soldati. Nè si dee tacere una delle tante crudeltà di Bernabò. Nel dicembre di quest'anno fece intimar la morte al suddetto Francesco da Fogliano, se non gli consegnava tutte le castella esistenti nel Reggiano. Ma non era in sua mano il darle, perchè v'era guarnigione del papa e del marchese Niccolò; e Guido Savina suo fratello, che in esse castella soggiornava, benchè scongiurato, sempre ricusò di consegnarle. Fece Bernabò ignominiosamente impiccare quel prode cavaliere: barbarie divolgata e detestata per tutta l'Italia. La perdita della battaglia suddetta, che si tirò dietro la presa di Correggio, venne da lì a non molto riparata coll'arrivo di numerose squadre d'armati, spedite dal cardinal Pietro Bituricense, venuto nel gennaio a Bologna legato apostolico, e da Giovanna regina di Napoli. Queste impedirono a Bernabò il piantare intorno a Modena due bastie, che gli erano costate sessanta mila fiorini d'oro. Ma perciocchè esso Bernabò, volendo prestar soccorso al fratello Galeazzo [Corio, Istor. di Milano.], contra di cui era marciato con molte forze Amedeo conte di Savoia, spedì verso Asti il figliuolo Ambrosio, e buona parte dell'esercito suo [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]: l'armata de' collegati s'inoltrò sul Reggiano e Parmigiano, dove fece immenso bottino, e rovinò il paese per otto giorni. Oltre [733] a ciò, la compagnia degl'Inglesi, sotto il comando di Giovanni Aucud, che militava per Bernabò Visconte, terminata la sua ferma, e disgustata, perchè non le fu permesso di venire a battaglia col conte di Savoia, passò ai servigi del papa e de' collegati; e giunta sul Piacentino, dopo aver prese parecchie castella di quel contado, quivi dolcemente si riposò nel verno alle spese de' miseri popoli. Verso lo stesso territorio di Piacenza si inviò nel novembre il conte di Savoia col disegno di entrar sul Milanese; ma i fiumi grossi e le buone difese fatte dai Visconti fecero abortir le sue idee [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.]. Eransi già ritirate ai quartieri le milizie de' collegati, ed era seguita una tregua con Bernabò per mezzo del re di Francia, quando Ambrosio Visconti, senza saputa del padre (per quanto si fece credere), cavalcò con tutte le sue genti di armi sul Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] nel dì 18 di novembre, dove diede un terribil guasto, e bruciò case e palagi. Arrivò fino alle porte di Bologna all'improvviso, niuno aspettando tal visita in vigor della tregua. Ne menò via ben tre mila buoi, e il danno recato si fece ascendere fino a secento mila fiorini d'oro. In Pavia nel dì 3 di settembre di quest'anno finì di vivere Isabella moglie del giovane Galeazzo Visconte conte di Virtù, e figliuola di Giovanni re di Francia, principessa che per le sue rare virtù si truova sommamente encomiata negli Annali di Milano e di Piacenza.

Non ostante che s'interponessero gli ambasciatori del legato pontificio, dei Fiorentini e Pisani, per impedir la guerra che s'andava preparando fra i Veneziani e Francesco da Carrara signor di Padova, maniera non si trovò per quetar le differenze [Caresin., Chron. Venet., tom. 12 Rer. Ital. Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital. Andreas de Redusio, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Severamente furono gastigati alcuni nobili veneti amici del Carrarese, [734] che gli rivelavano i segreti del consiglio. Ma ciò che maggiormente irritò il senato veneto, fu l'avere scoperta un'indignità del Carrarese, il quale segretamente avea spediti a Venezia alcuni suoi sgherri per levar di vita certi altri nobili suoi nemici, perchè attraversavano i trattati della concordia. A molti di quegli assassini costò la vita lo scoprimento del disegno; e per questo si venne all'armi. Gli avvenimenti di essa guerra, in cui fu assistito il Carrarese da Lodovico re d'Ungheria, furono varii, e veggonsi diffusamente descritti dal Caresino, dal Redusio e dai Gatari. Fino poi a questo anno erano durate le fiere nemicizie e guerre fra i re di Napoli Angioini e i re di Sicilia Aragonesi [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Dacchè il re Pietro tolse al re Carlo I la Sicilia, non mai durevol pace seguì fra loro; nel presente anno finalmente stabilirono un accordo Giovanna regina di Napoli e don Federigo d'Aragona re di Sicilia, essendosi indotto l'ultimo a riconoscere dalla regina in feudo quell'isola, e di pagarle annualmente a titolo di censo tre mila once d'oro, cadauna delle quali valeva cinque fiorini d'oro, e per conseguente quindici mila fiorini d'oro per anno: somma veramente pesante; e di usare il titolo di re di Trinacria, e non già di Sicilia, riserbato alla regina Giovanna. Il Fazello [Fazell., de Reb. Sic., lib. 9, cap. 6.] con error grave fa mancato di vita il re Federigo nell'anno 1368. Gli Atti pubblicati dal Rinaldi il comprovano vivo in quest'anno, ed autore della suddetta concordia, la quale fu approvata dal papa. Diede bensì fine al suo vivere nel dì 11 di luglio dell'anno presente [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] Malatesta Unghero signore di Rimini, e, secondo la Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], della sua morte fu gran danno, perchè era prode uomo, come sono stati sempre i Malatesti. Il dominio degli Stati rimase a Galeotto suo zio e a Pandolfo [735] suo fratello, il quale nell'anno appresso fece anch'egli fine a' suoi giorni. Facendosi in quest'anno la coronazione di Pietro re di Cipri, a cagion della precedenza fra i balii o consoli, insorse gran rissa fra i Veneziani e Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. In favore de' primi furono i Cipriotti: laonde alquanti Genovesi vennero uccisi, oppure precipitati dai balconi. Portata questa disgustosa nuova a Genova, si sollevò gran rabbia e tumulto in quel popolo, nè tardò quel doge Domenico da Campofregoso a mettere in ordine una possente armata marittima, di cui fu ammiraglio Pietro da Campofregoso, fratello del doge, per passare in Cipri a farne vendetta. Questo accidente risvegliò l'antica gara ed odio fra le due nazioni veneta e genovese, onde ne seguirono poi sconcerti e guerre implacabili.


   
Anno di Cristo mccclxxiii. Indiz. XI.
Gregorio XI papa 4.
Carlo IV imperadore 19.

Per continuare la guerra contro i Visconti papa Gregorio XI, come si usava in questi sì sconcertati tempi, impose le decime nell'Ungheria, Polonia, Dania, Svezia, Norvegia ed Inghilterra. L'oro indi raccolto servì ad accrescere le due armate, destinate l'una in Piemonte contra di Galeazzo Visconte, e l'altra sul Modenese contra di Bernabò, di lui fratello; i quali Visconti erano stati di nuovo scomunicati nella pubblicazion della bolla In Coena Domini. La vendetta che ne fece Galeazzo [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], fu di spogliar gli ecclesiastici sottoposti al suo dominio, e di esiliarli. Più discreto in questo fu Bernabò, quantunque opprimesse i suoi anche egli con esorbitanti gravezze. Ora giacchè era finita la tregua, senza che si fosse potuto intavolar pace fra i Visconti e i collegati, Bernabò nel dì 5 di gennaio spedì parte del suo esercito ai [736] danni del Bolognese [Matth. de Griffonibus, tom. 18 Rer. Ital.], cioè mille uomini d'armi da tre cavalli l'uno, e trecento arcieri. Questa masnada pervenne sino a Cesena saccheggiando tutto il paese. Ma mentre carichi di preda se ne tornavano indietro, venne con loro alle mani, nel passare verso San Giovanni il fiume Panaro [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], Giovanni Aucud coi suoi Inglesi e coi Bolognesi, e li mise in rotta, con far prigioni circa mille persone. Secondo la Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], la maggior parte degli sconfitti si salvò colla fuga; ma non è da credere, perchè erano in paese nemico. Poscia nel dì 20 di febbraio il legato della Chiesa coll'esercito marciò verso Piacenza e Pavia, e si impadronì del castello San Giovanni. Quasi tutte le altre castella del Piacentino ed alcune del Pavese, prevalendo in esse i Guelfi, si ribellarono a Galeazzo, dandosi al legato; il che poi fu la loro rovina. Nello stesso tempo Amedeo conte di Savoia con un'altra poderosa armata passò il Po e il Ticino, e giunse sino alle porte di Pavia, dove distrusse i giardini di Galeazzo Visconte. Poscia, venuto sul territorio di Milano, si accampò a Vicomercato, dove si fermò alquanti mesi, facendo scorrerie, e mettendo in contribuzione tutto il paese. Seco erano Ottone duca di Brunsvich e Luchinetto Visconte. S'inoltrò poscia sul Bresciano a cagion di un trattato di tradimento che avea in Bergamo. Colà penetrò colle sue genti anche il legato pontificio, chiamato in aiuto; e le sue masnade in saccheggi ed incendii si studiarono di non essere da meno degli altri. Affinchè non si unissero col conte di Savoia, accorse l'armata de' Visconti, e presso Monte Chiaro disfece buona parte di esso esercito pontificio, colla morte di circa settecento uomini, e coll'acquisto di cinquecento cavalli. Ma nel dì 8 di maggio comparendo colle loro squadre inglesi e franzesi Giovanni Aucud e il signore di Cussì, benchè inferiori [737] di gente, diedero una gran rotta all'esercito de' Visconti nel luogo di Gavardo, ossia al ponte del fiume Chiesi, dove rimasero prigionieri moltissimi nobili italiani e tedeschi, distesamente annoverati dall'autore della Cronica Estense [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.]. Fra i principali si contarono Francesco marchese d'Este fuoruscito di Ferrara; Ugolino e Galeazzo marchesi di Saluzzo, Castellino da Beccheria, Romeo de' Pepoli, Gabriotto da Canossa, Federigo da Gonzaga, Beltramo Rosso da Parma, e Francesco da Sassuolo, quel medesimo che, per avere ucciso il nobil uomo Gherardo de' Rangoni da Modena, occasionò la presente guerra. Gian-Galeazzo conte di Virtù, figliuolo di Galeazzo, che si trovò in quel frangente, per miracolo si salvò.

Narra il Gazata [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.] che in questi tempi passò per Milano e per Pavia un vescovo nipote del papa con seguito di cinquanta persone, il quale si esibì ai fratelli Visconti di trattar di pace col papa. Fu ben veduto, e gli fu dato salvocondotto per passare al campo del conte di Savoia, che si trovava allora sul Milanese. Ma Galeazzo, tenendogli buone spie alla vita, scoprì ch'egli portava seco cento venti mila fiorini d'oro per le paghe del conte. Buon boccone fu questo per lui; tutto sel prese, facendo poi dire al prelato che con sicurezza se n'andasse, ma che non dovea portar sussidii ai suoi nemici. Partissi nel dì 13 di maggio da Sassuolo Manfredino signor di quella terra per andare a Firenze. Appena fu fuori, che quegli abitanti gli serrarono le porte dietro. Volle rientrare, ma non potè. Fu appresso data la terra al marchese Niccolò Estense; e così andarono dispersi da lì innanzi i signori di Sassuolo con gastigo meritato da essi per la ribellione al loro signore, e per l'ingiusto ammazzamento del Rangone. All'incontro Guido Savina da Fogliano, staccatosi dalla lega, s'accordò con Bernabò Visconte, sottomettendo a lui ventiquattro [738] castella ch'egli possedeva nel Reggiano, e ne riportò dei vantaggiosi patti. Giovanni vescovo di Vercelli della casa del Fiesco in quest'anno colle milizie della Chiesa e colla fazion de' Brusati proditoriamente tolse a Galeazzo Visconte quella città, ma non già la cittadella, che si sostenne. In tale occasione barbaricamente essa città tutta fu posta a sacco, non men di quello che era succeduto alla città di Reggio. Era stato cagione l'avvicinamento del conte di Savoia [Corio, Istoria di Milano. Gazata, Chron.] che alcune valli del Bergamasco, per commozione de' Guelfi, s'erano ribellate a Bernabò Visconte. Egli perciò spedì colà, nel mese d'agosto, il prode suo figliuolo Ambrosio con copia grande di gente d'armi per mettere in dovere que' popoli. Trovavasi Ambrosio nella valle di San Martino ad un luogo appellato Caprino, quando gl'infuriati rustici il sorpresero con tal empito, che restò non solamente preso, ma anche vituperosamente ucciso nel dì 17 d'agosto. Da questo colpo fu anche aspramente trafitto il cuore di Bernabò suo padre; e però nel prossimo settembre cavalcò egli in persona con grosso esercito in quella valle, fece grande scempio di quelle genti, le quali in fine umiliatesi ritornarono alla di lui ubbidienza. Orrido e lagrimevole accidente fu l'occorso in quest'anno nella città di Pavia [Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placentin., tom. eod.]. Mentre dal castello si portava alla sepoltura il corpo del defunto giovinetto Carlo Visconte, figliuolo di Gian-Galeazzo, nel passare sul ponte, questo pel peso si ruppe, e caddero nell'acque profonde della fossa murata da amendue i lati più di ottanta persone nobili di varie città di Lombardia, e massimamente di Milano e di Pavia, che tutte rimasero miseramente annegate. Vi si aggiunse un altro caso strano; cioè, appena rotto il ponte, cominciò un diluvio di pioggia e gragnuola, che durò più di due ore: il che servì [739] ancora ad impedire ii soccorso di scale e corde agl'infelici caduti. Il Gazata, autore degno, in questi tempi di maggior fede, riferisce [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] questo infortunio al dì 3 d'aprile dell'anno seguente, e vuole che vi perissero cento e dieci persone nobili. Dopo la vittoria riportata dall'esercito collegato contra di Bernabò al fiume Chiesi, Giovanni Aucud, trovando che molti dei suoi Inglesi erano o rimasti estinti nel conflitto o feriti, e veggendosi in paese nemico senza vettovaglia, oltre all'andare le genti de' Visconti sempre più crescendo, ritirandosi bel bello, si ridusse a Bologna. Gli tenne dietro con gran fretta anche il conte di Savoia coll'esercito suo, e venuto sul Bolognese, quivi si fermò, aspettando indarno le paghe promesse, con desolar intanto quel territorio amico. Finalmente esso conte, non osando passare pel Piacentino e Pavese, fu obbligato, se volle tornare in Piemonte, a prendere la strada del Genovesato: il che gli costò molte fatiche, e perdita di gente e cavalli, terminando con ciò la campagna, senza aver preso che poche castella in Piemonte, e con aver solamente rovinati varii paesi.

Galeazzo Visconte gran guerra fece sul Piacentino, e ricuperò gran parte delle castella ribellate. Si trattò di pace; ma, non fidandosi il papa de' Visconti, i suoi ministri ritrovando più conto in seguitar la guerra, per cui arricchivano molto succiando la pecunia pontificia, e profittando de' saccheggi, andò per terra ogni trattato, e continuò la rovina di quasi tutta la Lombardia. Non era minor fuoco in questi tempi fra i Veneziani e Francesco da Carrara signor di Padova [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital. Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital. Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. La superiorità delle forze de' primi tale era, che il Carrarese, diffidando di potere resistere, cercò di tirar in lega Alberto e Leopoldo duchi di Austria, comperando nondimeno il loro aiuto con cedere ad essi le città di Feltre [740] e di Cividal di Belluno. Perciò quei principi spedirono molte soldatesche contra de' Veneziani sul Trivisano. Più altre ne inviò Lodovico re d'Ungheria e di Polonia, comandate da Stefano vaivoda. Intanto Uguccione da Tiene, nunzio di papa Gregorio XI, perorava presso i Veneziani per indurli alla pace. Condiscesero essi, ma, conoscendo la lor potenza, diedero varii capitoli contenenti eccessive dimande per parte loro, che il Carrarese sparse dipoi dappertutto per far conoscere l'ingordigia de' suoi avversarii. Fra varii incontri e piccioli fatti d'armi, uno spezialmente fu considerabile nel mese di maggio ad una fossa fatta dai Veneziani verso Pieve di Sacco. Sì vigorosamente combatterono allora gli Ungheri, che disfecero l'armata veneta, con far prigioni assaissimi nobili veneti. Ma in un altro fiero conflitto a dì primo di luglio, che riuscì favorevole a' Veneziani, restò prigione lo stesso Stefano vaivoda generale degli Ungheri con altri nobili di sua nazione ed italiani: il che fu d'infinito danno al Carrarese. Imperocchè gli Ungheri protestarono da lì innanzi di non voler più guerra, se non veniva posto in libertà il loro generale. A questo mal tempo se ne aggiunse un altro; e fu, che i Veneziani sollevarono segretamente Marsilio da Carrara contro di Francesco suo fratello signore di Padova. Si scoprì la congiura, e Marsilio ebbe tempo da fuggirsene a Venezia nel dì 3 d'agosto. Per tali disavventure, e perchè il popolo di Padova, disfatto da questa guerra, forte se ne lagnava, si trovava in grandi affanni Francesco da Carrara. Il perchè per mezzo del patriarca di Grado cercò colla corda al collo pace da' Veneziani: pace vergognosa e gravosa a lui, perchè data da chi era al disopra di lui, ma che servì a liberarlo dai pericoli maggiori, a' quali si vedeva esposto.

Scrive Andrea Redusio [Andreas de Redusio, Chron. Tarvis., tom. 19 Rer. Ital.] che il celebre Francesco Petrarca, allora abitante sul Padovano, fu spedito dal Carrarese a Venezia [741] per ottener questa pace, e che alla presenza dell'augusto senato veneto lo stupore gli tolse di mente l'orazion preparata. Secondo il Caresino [Caresin., Chron. Venet., tom. 12 Rer. Ital.], si obbligò il Carrarese a pagar cento mila fiorini d'oro per le spese della guerra. I Gatari [Gattari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.] dicono trecento cinquanta mila ducati ossia fiorini d'oro. Il Sanuto [Sanuto, Chron. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] scrisse ducento quaranta mila; con pagarne di presente i quaranta mila. Fu inoltre forzato a mandare al senato veneto Francesco Novello suo figliuolo a chiedere perdono, e a dirupar varie castella sui confini, e a cederne delle altre ai Veneziani: i quali piantarono i confini dove lor parve, senza che il Padovano osasse reclamare. In somma, per non poter di meno, ebbe una lezion sì dura, che pregno d'odio e di rabbia ad altro non pensò per l'avvenire che a farne vendetta. Fu pubblicata questa pace in Venezia nel dì 21 di settembre. Anche i Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] nell'anno presente diedero gran pascolo ai novellisti. Vogliosi essi di vendicarsi de' Cipriotti per l'affronto lor fatto nell'anno precedente, indirizzarono alla volta di Cipri la poderosa loro armata, composta di quarantatrè galee e d'altri legni minori, con circa quattordici mila combattenti. Presero nel dì 10 d'ottobre senza molto contrasto la capitale di quell'isola, cioè Famagosta; e quivi piantarono il piede con farsi rendere ubbidienza dalle altre città e terre dell'isola. Al giovinetto re Pietro Lusignano, con cui fecero la pace, lasciarono il titolo di re, obbligandolo a pagare loro ogni anno quaranta mila fiorini d'oro. Da queste dissensioni dei cristiani non lieve profitto intanto ricavarono i Turchi, la potenza de' quali ogni dì più andava crescendo in Asia, calando nello stesso tempo quella de' Greci. Essendosi in questo mentre [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.] ribellato alla regina Giovanna il duca d'Andria della casa del Balzo, [742] essa spedì contra di lui coll'esercito Giovanni Malatacca da Reggio, che assediò e prese Teano. Se ne fuggì il duca ad Avignone, spogliato di tutti i suoi Stati, i quali la regina vendè tosto ad altri baroni. Cosa strana vien raccontata dall'autore della Cronica di Siena [Cron. Sanese, tom. 15 Rer. Ital.]: cioè che in quest'anno (quasi fosse forza di maligno pianeta) i frati di varii ordini religiosi ebbero brighe e dissensioni, e ne seguirono varii ammazzamenti fra loro. E le calunnie ed oppressioni furono frequenti ne' lor monisteri. Frutti erano questi della general corruzion de' costumi che regnava allora in Italia, per colpa spezialmente della lontananza de' papi e delle guerre continue. Certo non v'ha scrittore di questi tempi che non tocchi il depravamento in cui si trovavano quasi tutti gli ordini religiosi.


   
Anno di Cristo mccclxxiv. Indiz. XII.
Gregorio XI papa 5.
Carlo IV imperadore 20.

Continuò bensì la guerra in Lombardia, ma assai melensamente, perchè era in piedi un vigoroso trattato di pace [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.]. Nel dì 26 d'aprile l'esercito della Chiesa e di Niccolò marchese d'Este passò su quel di Parma e Piacenza a' danni di quei paesi, e vi stette a bottinare sino al dì 3 di giugno. Copiosamente ancora fornì di gente e di munizioni le castella già ivi conquistate dal papa, e restate in suo potere. Nel ritorno diede il guasto intorno alle castella de' Fogliani di Reggio, perchè Guido Savina da Fogliano, senza curar i nipoti, figliuoli del giustiziato Francesco, le avea sottomesse a Bernabò Visconte. Fu anche dato il sacco ai contorni di Carpi, per gastigare Giberto Pio che s'era collegato con Bernabò. Nello stesso tempo Marsilio Pio suo fratello stava attaccato al marchese d'Este. Ciò che impedì altre militari imprese fu la pioggia continuata per più settimane, [743] che guastò le biade in erba, nè lasciò fare la raccolta de' fieni. Succedette perciò una gravissima carestia per quasi tutta l'Italia. E con questo malanno si collegò anche la pestilenza, che mirabili stragi fece in Milano, Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna, o, per dir meglio, in quasi tutta la Lombardia [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer, Ital.]. Si provò lo stesso flagello di carestia e moria in Roma, Firenze, Pisa ed altre città della Toscana, Romagna e Marca, siccome ancora in Avignone ed altri luoghi della Francia; per lo che rimasero spopolate alcune città. Finalmente, giacchè non si potè per ora conchiudere la pace fra la Chiesa e i Visconti, si stabilì almeno, per interposizione dei duchi di Austria, la tregua d'un anno, la quale fu bandita nel dì 6 di giugno. Probabilmente prima di questo tempo le milizie pontificie, che col vescovo di Vercelli assediavano la cittadella di Vercelli, dopo aver impedito i soccorsi che v'inviò Galeazzo Visconte, se ne impadronirono: con che tutta quella città restò all'ubbidienza della Chiesa. Se si vuol credere al Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], in quest'anno i Vigevanaschi, i Piacentini e Pavesi si ribellarono a Galeazzo Visconte, e si diedero alla Chiesa: cosa, a mio credere, lontana dal vero, perchè niuna di queste città nel temporale truovo io che facesse mutazione alcuna. Secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], Amedeo conte di Savoia non solamente si staccò dalla lega del papa, ma eziandio si collegò con Gian-Galeazzo conte di Virtù, figliuolo di Galeazzo Visconte. Ma non appartiene all'anno presente un tal fatto. Solamente nell'anno seguente, per attestato del medesimo storico, Gian-Galeazzo fu emancipato dal padre, ed autorizzato a potere far guerra e pace, con avergli assegnato il governo di Novara, Vercelli, Alessandria e Casale di Santo Evasio. Quanto poi alla concordia [744] col conte di Savoia, il Guichenone [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye.] ne rapporta lo strumento, e la fa vedere stipulata nel dì 29 d'agosto del 1378.

Ma Bernabò, che durante la tregua non potea impiegare i suoi pensieri in imprese di guerra, li rivolse tutti alla caccia. Questo era il suo più favorito divertimento [Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.], e per cagion d'esso ancora commise infinite crudeltà: mestiere per altro sempre a lui familiare. Sotto pena della vita e perdita di tutti i beni proibì a chi che sia l'uccidere cignali ed altre fiere; e questa barbarica legge fece eseguire a puntino, anzi stese i suoi processi a chi nei quattro precedenti anni ne avesse ucciso o ne avesse mangiato. In servigio della caccia parimente tenea circa cinque mila cani, e questi distribuiva ai contadini con obbligo di ben nutrirli e condurli ogni mese alla revista. Guai se si trovavano magri, peggio se morti: v'era la pena del confisco dei beni, oltre ad altre pene. Più temuti erano i canetieri di Bernabò che i podestà delle terre. E, quantunque per le guerre, per la carestia e moria fossero i suoi sudditi affatto smunti, accrebbe smisuratamente le taglie e i tributi, per adunar tesori da far nuove guerre. Alla vista e al rimbombo di queste ed altre tirannie di sì disumanato principe tutti tremavano, nè alcuno ardiva di zittire. Due frati minori, che osarono di muover parola a lui stesso di tante estorsioni, li fece bruciar vivi [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. Merita ora Francesco Petrarca che si faccia menzione della sua morte, accaduta nel dì 18 di luglio dell'anno presente nella deliziosa villa d'Arquà del Padovano [Tomasini, Petrarca rediviv.]. Tale era il credito di questo insigne poeta a' suoi tempi, che Francesco da Carrara signor di Padova e copiosa nobiltà vollero colla lor presenza onorare il di lui funerale. Ad esso Petrarca grande obbligazione hanno le lettere, perchè egli fu uno de' principali [745] a farle risorgere in Italia. In questi tempi gran guerra ebbero i Sanesi [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.] coi Salimbeni loro ribelli. E tornato il duca d'Andria nel regno di Napoli con un'armata di Franzesi, Guasconi ed Italiani, in numero di più di quindici mila combattenti, si condusse verso Capoa ed Aversa [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Non dormiva la regina Giovanna; anch'ella mise in campo un esercito numeroso. Ma per le esortazioni del conte camerlengo suo zio, il duca lasciò l'impresa, e se ne tornò di nuovo in Provenza. Veggendosi così abbandonate le sue truppe, formarono una compagnia sotto varii capitani, e s'impadronirono di una terra della duchessa di Durazzo. La regina, col regalo lor fatto di dieci mila fiorini, si sgravò di costoro, e rivolse il mal tempo addosso ad altri paesi.


   
Anno di Cristo mccclxxv. Indiz. XIII.
Gregorio XI papa 6.
Carlo IV imperadore 21.

Per la tregua fatta coi Visconti, e per la disposizione ancora ad una pace, pareva che omai si dovesse sperar la quiete in Italia. Ma eccoti dalla Lombardia passare l'incendio della guerra negli Stati della Chiesa. Gregorio XI era buon papa, ma buoni non erano gli uffiziali oltramontani da lui mandati al governo d'Italia [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens., tom. eod.]. Tutti attendevano a divorar le rendite della camera pontificia, e tutti a cavar danari per ogni verso, nè giustizia era fatta da loro: di maniera che i pastori della Chiesa (così erano chiamati), oltre al discredito, aveano guadagnato l'odio e la disapprovazione di tutti. Trascorre in questo argomento con molte esagerazioni l'autore della Cronica di Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], assai ghibellino, per quanto si vede, di cuore. Guglielmo cardinale legato di Bologna ebbe, in questi tempi, [746] un trattato segreto per occupar la bella terra di Prato ai Fiorentini, e, mostrando di non poter più mantenere le soldatesche, delle quali s'era servito contro i Visconti, le spinse alla volta di Toscana. Ne fu gran mormorio e sdegno in Firenze; e que' maggiorenti, i più allora inclinati al ghibellinismo, dal desiderio della vendetta si lasciarono trasportare ad esorbitanti risoluzioni contra del buon pontefice, tradito da' suoi ministri. Perciò si fornirono di gente d'armi, e a forza di danaro seppero ritenere Giovanni Aucud, che, entrando nel loro distretto co' suoi Inglesi, non facesse acquisto alcuno. La Cronica di Siena [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.] ha, che gli pagarono centotrenta mila fiorini d'oro, de' quali gravarono i cherici loro per settantacinque mila. Qui non finì la faccenda. Cominciarono ancora con segrete congiure a sommuovere le città della Chiesa a ribellione, promettendo a cadauna favore ed aiuto, acciocchè ricuperassero la perduta libertà. Nello stesso tempo fecero lega con Bernabò Visconte. Anzi abbiamo dal suddetto cronista sanese che lega fu fatta fra Bernabò Visconte, la reina Giovanna, i Fiorentini, Sanesi, Pisani, Lucchesi ed Aretini, per riparare agl'iniqui cherici. La prima città che alzò la bandiera della libertà colle spalle de' Fiorentini, nel mese di novembre fu la città di Castello oppure Viterbo, Monte Fiascone e Narni. Il prefetto da Vico, avuto Viterbo, in pochi dì s'impadronì anche della rocca [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Successivamente nel dicembre si ribellarono Perugia, Assisi, Spoleti, Gubbio ed Urbino: della qual ultima città s'impadronì Antonio conte di Montefeltro, siccome ancora di Cagli. Rinaldino da Monteverde si fece signore di Fermo. Ecco già un grande squarcio fatto agli Stati della Chiesa romana. Verso quelle parti inviò il legato Giovanni Aucud colla sua forte compagnia d'Inglesi, che era al soldo della Chiesa. Ma quel furbo maestro di guerra [747] nulla fece di rilevante, e lasciò che i Perugini tutti in armi divenissero padroni anche delle due fortezze della loro città. Mangiava costui a due ganascie, perchè segretamente tirava una pensione da' Fiorentini. In somma in pochi giorni si sottrassero al dominio della Chiesa ottanta fra città, castella e fortezze, nè si trovò chi facesse riparo a sì gran piena.

Giunse in quest'anno nel dì 17 oppure 19 d'ottobre al fine de' suoi giorni Can Signore dalla Scala signore di Verona e Vicenza [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.]. Suo fratello Paolo Alboino, siccome legittimo, avrebbe dovuto succedere in quella signoria, ma egli era detenuto prigione in Peschiera, e Cane, pensando più al mondo da cui si partiva, che all'altro a cui s'incamminava, prima di morire, il fece barbaramente strangolare, affinchè, senza contrasto, succedessero nel dominio i due suoi figliuoli bastardi Bartolomeo ed Antonio, i quali già avea fatto proclamar signori, dappoichè vide disperata la sua salute. Fu pubblicamente esposto il cadavero d'Alboino, e per questo cessò ogni pericolo di commozione. Ma, essendo i suddetti suoi figliuoli in età meno di sedici anni, corse Galeotto Malatesta, lasciato insieme con Niccolò marchese di Ferrara per loro curatore; ed esso marchese e Francesco da Carrara vi spedirono gente per lor sicurezza. In questi tempi trovandosi vedova Giovanna regina di Napoli per la morte già seguita dell'infante suo terzo marito, pensò di passare a nuove nozze [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], consigliata a questo o da' suoi ministri, o dal timore di Lodovico re d'Ungheria e Polonia, che tuttavia andava mantenendo, anzi producendo le sue pretensioni sopra quel regno, o sopra il principato di Salerno e la contea di Provenza. Dava ancora molto da sospettare alla regina Carlo di Durazzo, figliuolo del già Luigi suo zio, il quale allora si trovava a' servigi del suddetto [748] re Lodovico in Ungheria. Ancor questi aspirava al regno pel diritto del sangue. Mise dunque Giovanna gli occhi, benchè in lontananza, addosso ad Ottone duca di Brunsvich, e a lui diede la preminenza nella scelta d'un marito [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria di Monferrato, tom. 22 Rer. Ital.]. Per nobiltà, se si eccettuavano i re della schiatta franzese, niuno gli andava innanzi, perchè discendeva dall'antica e nobilissima linea estense guelfa di Germania, che avea prodotto illustri duchi e un imperadore. Pochi poi il pareggiavano nel valore e nella saviezza. Da alcuni anni in qua egli dimorava in Monferrato, lancia e scudo ai teneri figliuoli del fu marchese Teodoro suo parente. Per li suoi importanti servigi unitamente con essi figliuoli era investito delle città d'Asti e d'Alba, e della terra di Montevico, e non men d'essi dichiarato vicario generale dell'imperio in quelle parti da Carlo IV Augusto. Accettò questo principe l'offerta del regal matrimonio, e nell'anno seguente si diede compimento al contratto, ma colla condizion che la reina gli farebbe comune il letto, ma non il trono.


   
Anno di Cristo mccclxxvi. Indiz. XIV.
Gregorio XI papa 7.
Carlo IV imperadore 22.

Sempre più andarono peggiorando in quest'anno gli affari temporali della Chiesa romana in Italia. Pareva che tutti i popoli, anche delle più minute terre, andassero a guadagnar indulgenza, ribellandosi al papa loro legittimo signore. Ascoli si rivoltò; Civita Vecchia, Ravenna ed altre città non vollero essere da meno. Guglielmo cardinale legato apostolico tenne colla sua presenza per quanto potè in ubbidienza la città di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Matthaeus de Griffon., Chron., tom. eod.]; ma quel popolo al vederne tanti altri, che, scosso il giogo, aveano ripigliata la libertà, segretamente ancora stuzzicato da' Fiorentini, [749] autori di tutte queste sedizioni, finalmente nella mattina del dì 20 di marzo, mostrando sospetto che il cardinale fosse dietro a vendere Bologna a Niccolò marchese di Ferrara [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.] per mancanza di danari (che neppur un soldo veniva da Avignone), levarono rumore, e presero il palazzo. Fuggì travestito il legato, e poscia se ne andò a Ferrara. Fu dato il sacco a tutto il suo avere e a tutta la famiglia sua. Poscia, dacchè si furono que' cittadini impadroniti del castello di San Felice, che furiosamente fu smantellato, formarono governo popolare, e mandarono a Firenze per aver soccorso. Prima di questo avvenimento, cioè sul fine di dicembre, anche la città di Forlì [Chron. Foroliviense, tom. 22 Rer. Ital.], dopo avere scacciata la fazione guelfa, si sottrasse alla signoria della Chiesa, e nel dì dell'Epifania dell'anno presente acclamò per suo signore Sinibaldo, figliuolo di Francesco degli Ordelaffi, il quale nell'anno 1373 era mancato di vita in servigio de' Veneziani.

A sì fatti sconcerti vennero dietro in breve innumerabili mali in Italia. Soggiornava in Faenza il vescovo d'Ostia, conte della Romagna; e perciocchè Astorre ossia Astorgio de' Manfredi teneva pratiche per far ribellare ancor quella città, nè mancavano ivi risse e tumulti, chiamò colà Giovanni Aucud, che co' suoi Inglesi era all'assedio di Granaruolo [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital. Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.]. Entrato che fu l'Aucud colla sua gente, cominciò a fare istanza per le sue paghe. Perchè era vota la borsa del ministro pontificio, trovò l'iniquo inglese la maniera di pagarsi alle spese dell'infelice città [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], oppur ciò fu a lui ordinato, come fama corse, dallo stesso conte della Romagna, ch'era il peggior uomo del mondo. Col pretesto dunque che meditassero ribellione, trecento de' principali cittadini cacciò in prigione; spinse fuor di città gli altri (erano [750] circa undici mila persone dell'uno e dell'altro sesso), con ritener solamente quelle donne che piacquero a lui ed ai suoi. Tutta la città con inudita crudeltà fu interamente data a sacco, e vi restarono trucidate circa trecento persone, massimamente fanciulli. Ecco quai cani tenessero allora al suo servigio in Italia i ministri pontificii. Nel mese d'aprile anche Imola si sottrasse all'ubbidienza del papa, e ne divenne poco appresso padrone Beltrame degli Alidosi. Di Camerino parimente e di Macerata in queste rivoluzioni s'impadronì Ridolfo da Varano, personaggio di gran valore. Chiaramente conobbe allora papa Gregorio XI a quanti malanni avessero non men egli che i suoi predecessori esposta l'Italia, e soprattutto gli Stati della Chiesa colla lor lontananza. Perciò allora fu che prese la risoluzione di trasportar la corte di qua da' monti per timore di perdere tutto, giacchè Roma stessa tutta era in confusione, e buona parte de' baroni romani in rivolta. Ma conoscendo che la presenza sua sarebbe riuscita un inutile spauracchio, se non veniva fiancheggiata dall'armi, assoldò in breve tempo un esercito di Bretoni sì poderoso, che, secondo il comune uso d'ingrandir sempre il numero de' combattenti e i successi delle battaglie, fama fu che ascendesse a quattordici mila cavalli. Alcuni dicono dodici mila. Buonincontro [Bonincontrus, Annal. tom. 21 Rer. Ital.] non li fa più di sei mila cavalli, ed altri non più di quattro. Certo non furono solamente ottocento, come ha il Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Diede il pontefice il comando di quest'armata a Roberto cardinale della basilica de' dodici Apostoli, fratello del conte di Genevra, cioè ad un mal arnese, che zoppicava d'un piede, e maggiori vizii nascondeva nel petto.

Costui, dichiarato legato apostolico, calò in Italia, e sul principio di luglio arrivò con quella perfida e bestial gente [751] sul Bolognese [Matth. de Griffon., Chronic., tom. 18 Rer. Ital.]. Dopo essersi impadronito di Crespellano, Monteveglio ed altri luoghi, cominciò delle fiere ostilità contra de' Bolognesi; ma più si applicò a dei trattati segreti per ricuperar Bologna. Ridolfo da Camerino, generale de' Fiorentini, che ivi si trovava, uomo accorto, non mai volle uscire a battaglia. Proverbiato per questo, rispondeva: Io non voglio uscire, perchè altri entri. Nel dì 11 di settembre scoperte le mine tenute da esso cardinale in Bologna, ne pagarono il fio alcuni nobili che teneano mano alla congiura, coll'esserne stati alcuni decapitati, ed altri banditi. Continuò poi per tutto l'autunno la guerra sul Bolognese, commettendo i Bretoni ogni maggior crudeltà, con desolar tutto, e incendiar molte migliaia di case. Il Cronista Bolognese [Cronica di Bologna, tom. eod.] ce ne lasciò una lagrimevol descrizione, accompagnato da gravi doglianze contro i pastori della Chiesa. I Fiorentini e Bernabò Visconte non dimenticarono di dar soccorso in questi pericoli a Bologna. Ma Niccolò marchese di Ferrara favoriva la parte del papa, e fu creduto che il cardinale gli volesse vendere quella città. Intanto il papa conchiuse pace con Galeazzo Visconte [Gazata, Chron., tom. eod.], rilasciando a lui la città di Vercelli, Castello San Giovanni, e circa cento altre castella sul Piacentino, Pavese e Novarese: con che Galeazzo sborsasse in varie rate ducento mila fiorini d'oro. Ma ripugnando il vescovo di Vercelli a restituire Vercelli, Galeazzo ne entrò in possesso solamente nell'anno seguente, essendo stato tradito il vescovo da' suoi, e fatto prigione. Allo sdegno del papa contra de' Fiorentini, i quali aveano eccitato sì grave incendio negli Stati della Chiesa, parve poco il mettere l'interdetto a Firenze, il fulminare contra di quei magistrati le più terribili scomuniche ed altre pene. Stese ancora il gastigo contra di [752] qualunque Fiorentino che si trovasse in Europa, dando facoltà a cadauno di farli schiavi, e di occupar le loro mercatanzie ed ogni loro avere; e però in qualche luogo di Francia ed Inghilterra [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.], quasi fosse un enorme delitto l'essere Fiorentino, fu mirabilmente eseguita la concession papale, benchè si trattasse di tante persone innocenti, le quali niuna relazion aveano colle risoluzioni prese in Firenze: cosa che può far orrore ai nostri giorni, e dovea farlo anche allora. Furono cacciati da Avignone, e ne fuggirono da altri paesi per paura di tali pene tanti Fiorentini, che, venuti in Italia, poteano formare un'altra città. Fu posto l'interdetto a Pisa e a Genova, perchè que' popoli non aveano scacciato i Fiorentini.

La speranza intanto di rimediare a tanti sconvolgimenti di cose parea riposta nella venuta del pontefice; nè mancarono persone pie, e, fra l'altre, santa Caterina da Siena, che con lettere calde il sollecitarono a tal risoluzione, promettendogli cose grandi, se si lasciava vedere in Italia [Vita Gregorii XI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Perciò, venuto egli a Marsiglia nel dì 22 di settembre, e servito dipoi dalle galee della regina Giovanna, de' Genovesi e Pisani, s'imbarcò nel dì 2 d'ottobre, e nel dì 18 arrivò a Genova, dove si fermò alquanti giorni, a cagion del mare grosso, che per tutto il viaggio gli fu contrario, di modo che per quella fortuna si affogò il vescovo di Luni, e si ruppero molti legni. Finalmente giunse a Corneto, e, quivi sbarcato, celebrò poi le feste del santo Natale. Accorsero gli ambasciatori romani [Raynaldus, Annal. Eccles.] a complimentarlo, e gli diedero con uno strumento il pieno ed assoluto dominio di Roma, conservando nondimeno varii loro usi e privilegii. Guerra fu in questo anno fra Leopoldo duca d'Austria e i Veneziani per segreti impulsi, come fu [753] creduto, di Francesco da Carrara [Caresinus, Chron., tom. 12 Rer. Ital. Redusius, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Possedeva il duca le città di Feltro e di Belluno. Di colà a dì 15 di maggio spedì egli senza disfida alcuna tre mila cavalli addosso al territorio di Trevigi, che fecero in quelle parti un gran guasto, e piantarono dipoi due bastie a Quero. Forniti che si furono di gente i Veneziani, espugnarono quelle bastie, e il lor generale Jacopo de' Cavalli Veronese passò fin sotto Feltro, e vi mise l'assedio, ma poi se ne ritirò. Succedette anche un fatto d'armi colla peggio de' Veneziani. Interpostosi finalmente mediatore Lodovico re d'Ungheria, seguì fra loro una tregua di due anni, che fece depor l'armi ad amendue le parti. Arrivato a Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.] nel dì 25 di marzo dell'anno presente Ottone duca di Brunsvich, solennemente sposò la regina Giovanna. Riuscì parimente in quest'anno [Albert. Argentinensis, Chron. Magdeburgense.] a Carlo IV imperadore di far eleggere Venceslao suo figliuolo re de' Romani: il che seguì nelle feste di Pentecoste; ma gli convenne comperar questa elezione dagli elettori con esorbitante somma di danaro; cioè con promettere a cadaun di essi venti mila fiorini. Ne scarseggiava egli assaissimo, e però impegnò loro i dazii e le rendite dell'imperio.


   
Anno di Cristo mccclxxvii. Indiz. XV.
Gregorio XI papa 8.
Carlo IV imperadore 23.

Disposte in Roma tutte le cose pel solenne ricevimento di papa Gregorio XI, si mosse egli da Corneto, e per mare e pel Tevere arrivò colà nel dì 17 di gennaio [Raynald., Annales Eccles.]. Magnifico fu l'apparato, con cui l'accolse quel popolo, incredibile il plauso e l'allegrezza d'ognuno, tutti sperando finiti i pubblici guai, guarite le piaghe dell'Italia, dappoichè al vero suo [754] sito si vedea ritornato il vicario di Cristo con tutta la sacra sua corte. La piena descrizione dell'itinerario di questo papa, e del suo felice ingresso in Roma, l'abbiamo da Pietro Amelio agostiniano [Itinerar. Gregorii XI, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Ma questo sereno non durò molto. Troppo in secoli tali erano avvezzi i baroni e i popoli tutti alle rivoluzioni. Non sono men difficili ad estinguere i mali abiti del corpo politico, che quei del corpo naturale e dell'animo umano. In fatti dal popolo di Roma non gli fu mantenuto se non pochissimo di quello che aveano promesso [Vita Gregorii XI, tom. eod.], con seguitar massimamente i dodici caporioni a voler comandare, e a tenere in piedi i Banderesi. Francesco da Vico, tiranno di Viterbo e d'altri luoghi, soffiava nel fuoco; fors'anche i Fiorentini vi teneano pratiche per questo. Cercò dunque il buon papa di acconciar colle buone questi rumori. Andò poscia a villeggiare ad Anagni, e gli riuscì nel mese di novembre di pacificar il prefetto da Vico con accordo onorevole. Altrettanto bramava di fare coi Fiorentini, e loro apposta mandò ambasciatori; ma cotanto erano que' magistrati immersi nel loro vendicativo impegno, lusingandosi di sostenerlo con facilità dacchè aveano mossa sì gran tempesta, che rifiutarono ogni ragionevol concordia, benchè del non seguito accordo dessero eglino la colpa al papa, che a chiare note protestava di volersi vendicare de' Fiorentini. Più ancora si figuravano essi facile l'abbassamento della corte romana, perchè aveano saputo staccare a forza di danaro dall'armata pontificia Giovanni Aucud colla sua compagnia d'Inglesi. Scrive l'Ammirati [Ammirati, Istoria Fiorentina, lib. 13.] che gli assegnarono ducento cinquanta mila fiorini l'anno: tanta era la lor forza ed izza contra del pontefice. Ma per la condotta di costui, o per altri motivi, disgustato Ridolfo Varano signore di Camerino, e generale [755] dell'armi loro, inaspettatamente passò alla banda del papa. Il gastigarono i Fiorentini con far dipignere l'effigie di lui impiccato pe' piedi nel loro palazzo: del che egli si rise; e una pittura più sconcia degli Otto, che allora governavano Firenze, fece anch'egli fare in Camerino. Ma prima di questi avvenimenti, un troppo orribile fatto succedette nella città di Cesena, che gran discredito diede all'armi pontificie [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Avea quivi messa la sua residenza il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto; la sua guardia era di Bretoni. Nel dì primo di febbraio [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], perchè uno di questa mala gente volle per forza della carne da un beccaio, si attaccò una rissa. La disperazione avea preso quel popolo, perchè i Bretoni, dopo aver consumato tutto il distretto, erano dietro a divorar anche la città [Cron. di Rimini, tom. eod. Cron. di Siena, tom. eod.]. Trassero a questo rumore i cittadini in aiuto del lor compatriotto, e gli altri Bretoni a sostener il loro compagno. Divenne perciò generale la mischia, e più di trecento di quegli stranieri rimasero uccisi. Il cardinale pien di furore si chiuse nella Murata, e mandò per gl'Inglesi dimoranti in Faenza, che tosto corsero a Cesena, ed ebbero ordine di mettere a fil di spada quel misero popolo. Con ducento lance vi arrivò ancora Alberico conte Barbiano, che era al servigio della Chiesa. Corsero costoro per la terra, e fecero ben que' cittadini disperati quanta difesa poterono; ma soperchiati dall'eccessivo numero di que' barbari, non poterono lungo tempo reggere all'empito loro. Non vi fu allora crudeltà che non commettessero i vincitori; fecero un universal macello di quanti vennero loro alle mani, senza risparmiare vecchi decrepiti, fanciulli, religiosi, ed anche donne pregnanti. Dalla loro sfrenata libidine niun monistero di sacre vergini andò [756] esente; tutto in fine fu messo a sacco, chiese e case. Fu creduto che circa quattro mila persone rimanessero vittima del barbarico furore; fuggirono quei che poterono; e l'Aucud, per isgravarsi alquanto da sì grave infamia, mandò un migliaio di donne scortato fino a Rimini, ritenendo quelle che più furono di soddisfazion di que' cani. Circa otto mila di que' miseri fuggiti si ridussero a Cervia e Rimini limosinando, perchè spogliati di tutto. Grande sparlare che fu per questo de' ministri della Chiesa.

Ma neppur collo spoglio di Faenza e Cesena si saziò l'ingordigia di questi diabolici masnadieri. Andavano essi chiedendo paghe [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e paghe non venivano. Il perchè, nel giorno primo di marzo il cardinale legato portatosi a Ferrara, quivi per aver danaro vendè la desolata città di Faenza a Niccolò marchese d'Este, da cui nel dì 6 d'aprile fu mandato Selvatico Boiardo suo capitan generale con alquante schiere d'armati a prenderne il possesso. Ma troppo male impiegata fu quella somma d'oro (e fu di quaranta mila fiorini d'oro); imperciocchè essendosi nell'ultimo dì d'agosto partito da Ferrara il cardinal suddetto [Cronica di Rimini, tom. eod. Annal. Forolivien., tom. 21 Rer. Ital.], Astorre dei Manfredi, assistito da Bernabò Visconte, dai Fiorentini e Forlivesi, per una chiavica entrò di notte in Faenza, e se ne insignorì nel dì 25 di luglio, con restar sommamente beffato il marchese. Celebraronsi con pomposa solennità in quest'anno nel giorno ultimo di maggio le nozze di Francesco Novello figliuolo di Francesco da Carrara signor di Padova con Taddea figliuola d'esso marchese Niccolò. Trattarono in quest'anno i Bolognesi di pace col papa [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e nel settembre la conchiusero, avendo ottenuta facoltà per cinque anni avvenire di reggersi a comune, con pagare annualmente alla santa Sede dieci mila fiorini d'oro. In quest'anno [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 13.], [757] dacchè Ridolfo da Camerino ebbe volte le spalle ai Fiorentini, fece lor guerra colle forze del papa; ma ne riportò solamente danno, e gli fu anche data una rotta dal conte Lucio capitano de' Fiorentini. Reggevasi in questi tempi a comune la terra di Bolsena. Cadde in pensiero ad alcuni frati minori di sottometterli alla Chiesa, figurandosi forse di fare un'opera santa e meritevole [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital. Cronica di Siena, tom. eod.]; ed essendo il convento loro presso alle mura, v'introdussero una notte i Bretoni. Il bel guadagno fu, che questi Barbari misero tutta la terra a sacco, e vi tagliarono a pezzi forse cinquecento tra uomini e donne. Anche in Foligno fu novità. Sollevatosi parte di quel popolo nel dì 11 d'agosto, uccise Trincio de' Trinci signore di quella città, ed imprigionò un suo figliuolo; ma nel dì 22 di dicembre Corrado de' Trinci, fratello dell'ucciso, di volere di un'altra parte di esso popolo ricuperò la terra, e cavò di prigione il nipote. Era ogni cosa in conquasso in questi tempi negli Stati della Chiesa e nel vicinato; e i Fiorentini e Pisani fecero per forza dir le messe, senza volere rispettar l'interdetto. Il papa per questo fulminò maggiori scomuniche, ma senza far mutare cervello a' suoi nemici. Bernabò Visconte [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Italic.], per maggiormente assodare nel partito suo e de' Fiorentini Giovanni Aucud e il conte Lucio Tedesco da Costanza, diede a cadaun di loro in moglie due sue figliuole bastarde. Furono composte in quest'anno nel dì 15 di giugno [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] le differenze che vertivano fra Gian-Galeazzo Visconte conte di Virtù, e Secondotto marchese di Monferrato, con avere Gian-Galeazzo accoppiata in moglie al marchese sua sorella Violante, vedova di Lionetto d'Inghilterra, e con promessa di restituirgli Casale di Santo Evasio, ogni qualvolta fosse mancato di vita Galeazzo suo padre. Altre promesse fece dipoi Gian Galeazzo [758] al marchese e ad Ottone duca di Brunsvich, venuto apposta da Napoli per assistere al giovinetto marchese. Ma, siccome vedremo, Gian-Galeazzo non dovea credere che il promettere seco portasse l'obbligo di mantener la parola.


   
Anno di Cristo mccclxxviii. Indiz. I.
Urbano VI papa 1.
Venceslao re de' Romani 1.

Dell'anno presente funestissima sempre fu e sarà la memoria nella Chiesa pel deplorabile scisma che accadde. Attendeva il pontefice Gregorio XI a risarcir le chiese di Roma, divenute nido di gufi, perchè abbandonate per più di settanta anni da' cardinali, che, immersi nelle delizie di Provenza, niun pensiero si metteano de' loro titoli, e tutto lasciavano andare in rovina. Scorgendo ancora, che sminuendosi ogni dì più la forza delle sue armi, più giovevole gli sarebbe riuscita la pace che la guerra co' Fiorentini e coi lor collegati, adoperò la mediazione del re di Francia per trattare d'un aggiustamento, nè poco vi contribuiva santa Caterina da Siena. S'interpose ancora Bernabò Visconte [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]; e però in Sarzana si tenne un congresso, dove spedì il papa per suo plenipotenziario Giovanni cardinale della Grangia, vescovo d'Amiens, e v'intervennero quattro ambasciatori fiorentini, quei della regina Giovanna, e de' Veneziani e Genovesi. In persona ancora vi fu lo stesso Bernabò Visconte, mostrandosi più degli altri portato alla concordia [Leonardus Aretin., Hist., lib. 9.]. Il dibattimento fu grande; ma ciò che arenava l'affare consisteva nella pretensione del papa, che voleva essere rifatto di ottocento mila fiorini, spesi, come egli dicea, in questa guerra per colpa de' Fiorentini; laddove i Fiorentini non si sentivano voglia neppur di pagare un soldo, essendo stati i cattivi ministri del papa i primi ad offendere. Mentre si agitavano questi punti, eccoti [759] arrivare la morte di esso papa [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Lo aveano di nuovo sovvertito i cardinali franzesi per farlo ritornare in Francia, e si figurò la buona gente che Dio per questo tagliasse il filo de' suoi giorni, acciocchè si fermasse in Italia la corte pontificia, senza por mente agli innumerabili disordini e scandali che tennero dietro alla mancanza di questo pontefice. Succedette la di lui morte nel dì 27 venendo il dì 28 di marzo, e gli fu data sepoltura nella chiesa di Santa Maria Nuova [Vita Gregorii XI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Per tale avvenimento restò sospeso il trattato della pace; e i ministri adunati in Sarzana se ne ritornarono alle lor case per aspettar la creazione di un nuovo pontefice. Congregaronsi a' dì 7 d'aprile a questo fine in conclave i cardinali che si trovavano allora in Roma [Raynaldus, Annal. Eccles. Vita Gregorii XI, ubi supra.]. Quattro soli erano i porporati italiani, dodici i franzesi. Per cattivo augurio fu preso che in quello stesso giorno un fulmine entrò nel conclave, e, bruciati alquanti arnesi, uscì per una finestra. Cominciò tosto la discordia ad imperversare fra loro. I primi volevano un papa di lor nazione, acciocchè si fermasse in Italia la sacra corte. Da' Franzesi, che sospiravano di ricondurla di là da' monti, se ne voleva un franzese [Acta apud Papebrochium.]; e fra essi Franzesi quei di Limoges, che erano i più, particolarmente il desideravano della loro città. Non fu difficile al popolo romano il conoscere l'intenzion de' cardinali oltramontani; e però si svegliarono dei tumulti nella plebe, che gridava: Romano lo volemo, romano. Dagli stessi magistrati furono inviati ambasciatori al sacro collegio, con pregarlo di dare per questa volta alla Chiesa di Dio un papa romano oppure italiano; e in fine si venne ad esigerne solamente un romano; e intorno al conclave si udivano le voci minacciose del popolo che richiedevano lo [760] stesso. In grande imbroglio ed anche paura si trovavano per questo i cardinali: laonde, perchè non era creduto alcuno de' quattro porporati italiani atto a sì sublime ministero, finalmente di concorde volere elessero nel dì 8 di aprile Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari, di nazione Napoletano, che si abbattè allora in corte, sul riflesso che non potendo avere papa un nazionale i Franzesi, avrebbono almeno un suddito della casa di Francia, cioè della regina Giovanna. Accettò egli, dopo qualche renitenza, o vera o finta, la gran dignità. Ma non si attentavano i cardinali a pubblicar l'eletto, per timore che, non essendo romano, rimanessero esposte le lor vite al furore del popolo, il quale, subodorato che era seguita qualche elezione, più che mai insolentiva, e dimandava chi era l'eletto.

Ora accadde che venuto ad una finestra il vecchio cardinale di San Pietro, Francesco Tebaldeschi Romano, per acquetar quel tumulto, corse voce che egli era eletto papa. Tutti allora a gran voce gridando: Viva San Pietro, corsero alla casa del cardinale, e le diedero il sacco; tornati poscia al conclave, giacchè era ancor chiuso, rotte le porte, entrarono dentro, volendo vedere il novello pontefice, e si diedero a venerare il cardinal di San Pietro, che in fine espressamente lor disse di non esser egli papa, ma bensì l'arcivescovo di Bari, personaggio ben più meritevole del triregno. Intanto se ne fuggirono alcuni de' cardinali, chi in castello Sant'Angelo, e chi nelle fortezze di Roma. Venuta la mattina del dì 9 di aprile, fece l'arcivescovo di Bari notificar l'elezione sua ai magistrati della città, che ne furono contenti, e corsero tosto a rendergli i tributi del loro ossequio. Non volle egli che si procedesse innanzi, se non venivano i sei cardinali rifugiati in castello Sant'Angelo, i quali assicurati dal senatore vennero, ed uniti con cinque altri, rinnovarono l'elezione, che fu di nuovo accettata. Si cantò dipoi il Te Deum, ed intronizzato il papa, prese [761] il nome di Urbano VI. Seguì poi la sua coronazione nel dì 18 di aprile, giorno solenne, e a tutte le funzioni assisterono per alcune settimane i sedici cardinali che si ritrovavano allora in Roma; anzi col consiglio ed assenso de' medesimi furono spedite a tutti i re, principi e repubbliche le circolari, per notificar loro la canonica elezione del nuovo papa. Lo stesso scrissero questi porporati ai sei che erano rimasti in Avignone, di modo che pubblicamente e chiaramente tanto questi come quelli riconobbero per vero e legittimo pontefice Urbano VI. Ma non si può abbastanza deplorare il tradimento tanti anni prima fatto da Clemente V, con fissare la Sede apostolica di là dai monti. Quanti disordini da ciò provenissero, l'abbiam finora veduto. Il massimo forse è quello che ora son per dire. Aveano ben volontariamente consentito i cardinali franzesi all'elezion di Urbano; ma non sapeano darsi pace che si fosse guasto il nido delle lor delizie in Provenza, e che fosse ritornata in Italia la cattedra pontificia. Falso è quello che si legge presso d'alcuni storici, cioè che avessero eletto l'arcivescovo di Bari [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Gatari, Istor. di Padova, tom. eod.] solamente per liberarsi dalle violenze de' Romani, facendosi promettere da lui, che qualor fossero tutti in luogo libero, egli rinunzierebbe il papato. All'interno lor mal animo e dispiacere s'aggiunsero i disgusti che in poco tempo riceverono da Urbano [Thomas de Acerno, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Era egli in concetto di menar vita austera, e di nudrir molto zelo per la religione; ma non abbondava di prudenza, perchè l'alterigia e il credere troppo a sè stesso e agli adulatori gli toglieva la mano. Dicono ch'egli possedeva gran probità e molte altre virtù; ma o di queste non aveva egli se non la superficie, od almeno scomparvero tutte, dacchè fu salito al pontificato. In vece di usar l'umiltà, che sta bene anche ne' romani pontefici, per non dire di più; invece [762] di guadagnarsi almeno sui principii l'affetto de' cardinali, e di lavorare a poco a poco la riforma della corte pontificia, che veramente gran bisogno avea di correzione, cominciò egli tosto a trattar con aspre maniere que' porporati, a detestar la loro dissolutezza, l'avarizia, la simonia, i conviti, ad esigere la residenza dei vescovi, ed a minacciar varie novità, tutte bensì lodevoli, ma che toccavano sul vivo chi era usato alla libertà ed anche al libertinaggio. Di più non ci volle, perchè i cardinali franzesi concepissero disegni di scisma, per liberarsi da un pontefice sì contrario ai loro interessi e alle concepute speranze; e massimamente perchè con rotonde parole disse loro di voler creare tanti cardinali italiani, che pareggiassero od anche superassero il numero de' franzesi.

Col pretesto dunque del caldo, i cardinali oltramontani l'un dietro all'altro usciti di Roma si raunarono nella città d'Anagni, e quivi diedero principio alle lor conventicole, invitando colà nel dì 20 di luglio i tre cardinali italiani che erano rimasti col papa, uno de' quali, cioè Francesco cardinale di San Pietro, mancò poi di vita nel seguente agosto, con protesta che Urbano era stato legittimamente eletto, e ch'egli il riconosceva per vero successor di San Pietro. Comunicati a Carlo V re di Francia i lor disegni, il trovarono quei cardinali disposto a secondarli per la voglia di riavere un papa franzese, e di tirar di nuovo oltramonti la corte pontificia. Alla regina Giovanna di sommo piacere era riuscita (se pur fu vero) l'elezione d'un papa napoletano [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], ed avea anche inviato Ottone duca di Brunsvich suo marito con suntuoso accompagnamento e ricchi donativi a prestargli ubbidienza. Ma essendo ritornati esso duca e gli altri uffiziali per alcune cagioni non ben conosciute disgustati del papa, la regina anch'ella si diede a proteggere l'empie mene de' cardinali franzesi. Il focoso pontefice si lasciò [763] anche scappar di bocca, che avrebbe mandata quella regina a filare nel monistero di Santa Chiara. Gran fuoco partorirono queste parole [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Conobbe allora, ma troppo tardi, papa Urbano VI, assai informato di queste macchine, gli amari frutti dell'imprudenza sua nell'essersi scoperto sì rigido sul principio del suo governo, e ne tentò anche il rimedio coll'inviare ad Anagni i tre cardinali italiani per placare gli ammutinati, oppure per propor loro un concilio generale [Vita Gregorii XI, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Non fu accettata l'offerta, perchè que' porporati aveano già fisso il chiodo di ribellarsi. Per sicurezza chiamarono alla lor guardia la compagnia de' Bretoni comandata da Bernardo da Sala, contra di cui si oppose parte del popolo romano in armi per impedirgli il passaggio. Bisognò venire ad una battaglia. Fu questa infausta ai Romani; più di cinquecento rimasero sul campo, moltissimi altri furono fatti prigioni; e per questo in Roma seguì una fiera sedizione contra di tutti gli oltramontani, massimamente franzesi, che furono spogliati e messi nelle carceri. Venne il dì 9 d'agosto, e i dodici cardinali che erano in Anagni, undici franzesi, e Pietro di Luna spagnuolo, pronunziarono papa Urbano usurpatore della Sede apostolica e scomunicato. Ciò che fu più strano, i tre cardinali italiani, cioè quel di Firenze Pietro Corsini vescovo di Porto, quel di Milano, cioè Simone da Borzano e Jacopo Orsino, uomo di somma ambizione, lasciato Urbano, andarono a trovar gli altri, che erano passati a Fondi, sotto la protezione di Onorato conte di quella città, divenuto nimico del papa. Tuttavia, per testimonianza di Tommaso da Acerno [Thomas de Acerno, Part. II, tom. eod.], essi non consentirono all'empie loro risoluzioni.

Quivi nel dì 20 di settembre i suddetti quindici cardinali elessero un antipapa; e questo infame onore toccò allo [764] zoppo Roberto cardinale di Genova, che già abbiam veduto sì screditato per la sua crudeltà. Costui prese il nome di Clemente VII. Non ad altro motivo appoggiarono essi la loro sacrilega risoluzione, se non alla violenza loro usata dai Romani, per cui pretendeano nulla l'elezion precedente, per difetto di libertà. Il pontefice Urbano VI, trovandosi abbandonato da tutti i cardinali, nel dì 19 di dicembre (gli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] riferiscono ciò al dì 28 d'ottobre; altri anche prima del dì 20 di settembre) fece una promozione di ventinove cardinali, tutti persone di merito, che, a riserva di tre, accettarono. Negli stessi Annali sono descritti uno per uno. Dichiarò parimente privati della porpora e scomunicati i cardinali ribelli col loro capo. Ed ecco formato un lagrimevole e terribile scisma, per cui restò dipoi lungamente sconvolta e lacerata l'occidental Chiesa di Dio, ne seguirono infiniti scandali, e crebbe a dismisura la depravazion de' costumi non meno ne' secolari che negli ecclesiastici. Tanto papa Urbano, quanto l'antipapa Clemente sostennero le loro ragioni alle corti dei re e principi cristiani. Tennero il partito dell'antipapa il re di Francia, la regina Giovanna di Napoli, la Savoia, ed altri paesi confinanti alla Francia. Pel legittimo pontefice si dichiararono il resto dell'Italia, l'Inghilterra, la Germania, la Boemia, l'Ungheria, la Polonia e il Portogallo. Papa Urbano, perchè il bisogno premeva, nel dì 24 di luglio dell'anno presente fece pace con Bernabò Visconte. Anche i Fiorentini aveano spedita a Roma un'ambasceria onorevole per riconoscere esso pontefice. Neppur essi stentarono ad ottener pace da lui, e a condizioni ben diverse dalle pretese dal precedente papa.

Gravido fu d'altri funesti avvenimenti questo infelice anno. Nel dì 29 di novembre diede fine alla sua vita in Praga Carlo IV imperadore, principe di molta pietà e buona intenzione, ma di poco [765] valore, che tuttavia fu un eroe a petto del suo successore, cioè di Venceslao suo figliuolo [Albert. Argent., Chronic., Trithem. et alii.], già eletto re de' Romani, ed approvato poi anche da papa Urbano. Terminò parimente i suoi giorni nel dì 4 di agosto Galeazzo Visconte signor di Pavia, di molte altre città e della metà di Milano. Poco si dolsero di sua morte i sudditi suoi, perchè troppo aggravati da lui in occasion delle guerre passate. Se gli era attaccato ancora nel crescere degli anni il male de' vecchi, cioè l'avarizia; e non pagando egli i suoi soldati, cagione era che seguissero continui furti e rapine. In somma fu uomo cattivo, e considerato piuttosto come tiranno che come signore. Nel dominio de' suoi Stati succedette Galeazzo suo figliuolo, soprannominato conte di Virtù, che da lì innanzi fu appellato Giovan-Galeazzo [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.]. La doppiezza ed ingordigia di questo novello principe cominciò tosto a scoprirsi nell'anno presente. Imperocchè il popolo d'Asti, malcontento del governo di Secondotto marchese di Monferrato [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Italic.], accordatosi con un fratello del marchese medesimo, che era governatore della città, negò ad esso marchese l'ingresso, allorchè egli ritornava da Pavia colla moglie Violante. Gian-Galeazzo, essendo ricorso a lui come cognato, il marchese non mancò d'unire con lui le sue armi; e fatte poi di belle promesse per quetare quel popolo, prese il possesso della città, e mediante una capitolazione cominciò a mettervi il podestà e gli uffiziali a nome del marchese. Ma fu questa una mascherata; per tal via Gian-Galeazzo s'impadronì d'Asti, nè più volle renderlo al cognato; mostrando bene quanto più poderosa sia l'ambizione che la parentela fra i principi. Era Secondotto un umor bestiale e quasi furioso. Per minimi accidenti uccideva di sua mano uomini e fanciulli. Con animo di passare [766] in Monferrato, venne egli nel mese di dicembre a Cremona; ed arrivato a Langirano sul distretto di Parma, mentre era in una stalla, preso dal suo furore, strangolar volle un ragazzo di suo seguito. Allora un Tedesco, per salvar la vita al compagno, sguainata la spada, tal colpo diede sulla testa al marchese, che da lì a quattro giorni miseramente spirò l'anima sua, e fu seppellito in Parma [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Succedette nella signoria di Monferrato Giovanni Terzo suo fratello, tuttavia incapace di governo, il quale nel gennaio seguente costituì governatore de' suoi Stati il duca Ottone di Brunsvich tornato di nuovo apposta da Napoli, siccome fedel tutore di quella casa, per accudire agl'interessi del pupillo principe, e per ricuperare la città d'Asti: il che non gli venne mai fatto. Mosse in quest'anno Bernabò Visconte le pretensioni di Regina dalla Scala sua moglie contra di Bartolommeo ed Antonio dalla Scala signori di Verona e Vicenza. Cioè pretendeva ella, per essere bastardi i fratelli, di dover succedere, siccome legittima e naturale, in quel dominio. Nel dì 18 d'aprile, giorno solenne di Pasqua, entrò all'improvviso il grande sforzo dell'armi di Bernabò sul Veronese, e quivi fabbricate due bastie, diede un gran sacco al paese [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]. Voce comune fu che a Bernabò non potea mancare la conquista di quelle due città; ma egli avea al suo soldo Giovanni Aucud co' suoi Inglesi, e il conte Lucio co' suoi Tedeschi, cioè due personaggi avvezzi ai tradimenti, perchè troppo facili a lasciarsi corrompere dal danaro. Di questo onnipotente mezzo si servirono gli Scaligeri. Accortosi perciò della trama Bernabò, licenziati e banditi questi due capitani colla lor gente, diede luogo ad un trattato d'accordo. Si convenne che gli Scaligeri pagassero a lui di presente cento sessanta mila fiorini d'oro, e poscia quaranta mila altri ogni anno [767] per lo spazio di sei anni, in tutto quattrocento mila fiorini d'oro. Ma questa pace, siccome dirò, solamente seguì nell'anno susseguente, e diversamente ancora viene raccontato questo fatto dagli Annali Milanesi e da Daniello Chinazzi [Chinazzi, Istoria, tom. 15 Rer. Ital.]. Secondo essi, Francesco da Carrara mandò gagliardi soccorsi agli Scaligeri, e i Veronesi non solamente scorsero tutto il Bresciano, ma anche alzarono quattro bastie intorno a Brescia, di modo che Bernabò conchiuse nel settembre una tregua fino al principio di gennaio.

Di maggiore importanza e strepito fu un'altra guerra che si accese in questo anno: cioè contra dei Veneziani fecero lega insieme i Genovesi, Francesco da Carrara signor di Padova, Lodovico re di Ungheria e il patriarca d'Aquileia. Tutti aveano motivi o pretesti contra di quella repubblica, la quale in tanto bisogno non contrasse lega se non coi Visconti e col re di Cipri, ma poco o niun soccorso ne ricavò dipoi. Non si dee tacere che la scintilla di questa atroce guerra venne dall'Oriente. Nell'agosto dell'anno 1376 i Genovesi, presa la protezione di Andronico Paleologo, figliuolo accecato per ordine di Caloianni suo padre imperadore vivente, l'alzarono al trono, con deporre lo stesso suo padre amicissimo de' Veneziani. Per questa scelleraggine Andronico promise loro il castello e l'isola di Tenedo. Era quella una fortezza importantissima a cagione del passo nel mar Maggiore. Ma non ebbero effetto le promesse, perchè quel governatore, fedele a Caloianni, negò di consegnarla ai Genovesi, anzi la diede dipoi a' Veneziani. Montarono in furia per questo i Genovesi, e cominciarono le ostilità per mare contra di loro. Daniello Chinazzi e Andrea Redusio [Andreas de Redusio, Chron., tom. 19 Rer. Italic.], scrittori esattissimi e minuti di tutti gli avvenimenti di questa [768] rabbiosa guerra, narrano i diversi incontri delle nemiche armate. Favorevole fu in quest'anno ai Veneti la fortuna, e fra le altre imprese Vittor Pisani general di essi diede una rotta a Luigi del Fiesco generale de' Genovesi, costringendolo alla fuga, dopo aver prese cinque loro galee. Maritò Bernabò in quest'anno Valentina sua figliuola a Pietro Lusignano re di Cipri [Cronica Estense, tom. 15 Rer. Ital.], e nell'aprile coll'accompagnamento di secento quarantasei cavalli per Modena e Ferrara la mandò a Venezia, da dove, scortata da una squadra di navi veneziane, arrivò in Cipri. Ma non riuscì ad essi Veneti di ritorre a' Genovesi Famagosta capitale di quell'isola. Loro bensì venne fatto di obbligare a ritirarsi Francesco da Carrara, che avea stretto d'assedio la terra di Mestre. Fu in quest'anno, correndo il mese di luglio, in Firenze la congiura de' Ciompi [Gino Capponi, del tumulto de' Ciompi, tom. 18 Rer. Ital. Ammirati, Istoria di Firenze, lib. 14. Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.], cioè della più vil plebe, che saccheggiò e bruciò molti palagi de' nobili. Capo d'essi fu Silvestro de' Medici; ma poco durò la sua autorità, e fu dispersa quella canaglia. Ampia descrizione ce ne lasciò Gino Capponi, da me dato alla luce. Stesesi la pessima influenza di questo funestissimo anno anche a Genova. Benchè Domenico da Campofregoso doge di quella repubblica tenesse sempre ai fianchi la prudenza nel governo suo, pure il genio sempre tumultuoso di que' cittadini si mosse a rumore contra di lui, e nel dì 17 di giugno, in concorrenza di Antonio Adorno [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], fu eletto doge Niccolò di Guarco, uomo manieroso, ed amico anche de' nobili, che, per assicurarsi della sua signoria, rinserrò tosto in dure carceri il Campofregoso suo predecessore, e Pietro di lui fratello.

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Anno di Cristo mccclxxix. Indiz. II.
Urbano VI papa 2.
Venceslao re de' Romani 2.

Erasi, come abbiam detto, dichiarata in favore dell'antipapa Clemente Giovanna regina di Napoli, a ciò animata dal re di Francia, per li motivi politici, ma non cristiani, che abbiamo accennato di sopra. Però Clemente, affin di confermare nel suo partito i Napoletani, si portò per mare a quella città [Clementis VII Vita, P. II, tom. 3 Rer. Ital. Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Fu accolto dalla regina colle maggiori dimostrazioni d'ossequio, come se fosse stato legittimo papa; ma non l'intese così il popolo, siccome quello che per Urbano, creduto da essi vero papa, e riguardato come compatrioto, nudriva più affetto, mirando per lo contrario in Clemente un assassino della Chiesa di Dio. Fecesi perciò una gran sollevazione contra di lui, di maniera che la regina Giovanna, temendo anche di sè stessa, il fece sloggiare ben presto, e ritornare a Fondi. Perch'egli non si teneva quivi sicuro, nel mese di maggio s'imbarcò co' suoi scomunicati cardinali, a riserva di due, che lasciò in Italia ad accudire a' suoi interessi; e, dopo aver corso varii pericoli per le tempeste di mare, nel dì 10 di giugno arrivò a Marsiglia, e poscia andò a piantare la sua residenza in Avignone. Fece anch'egli de' nuovi cardinali, fece de' processi contra di papa Urbano VI, scomunicò i di lui cardinali; e siccome Urbano non men colle armi spirituali che colle temporali avea mossa guerra a lui e a' suoi aderenti, anch'egli altrettanto praticò, con inviar quei soccorsi di gente e di danaro che potè alla regina Giovanna, al conte di Fondi e al prefetto da Vico, ch'erano della sua fazione. E qui cominciò a vedersi un mostruoso sconvolgimento nella Chiesa di Dio, con darsi dall'uno e dall'altro i medesimi vescovati e benefizii [Theodoricus de Niem., Histor.]: [770] dal che nacquero private e pubbliche guerre e stragi. E i grandi, secondochè l'ambizione o l'interesse consigliava, aderivano a chi dei due contendenti più loro offeriva, sposando ora l'uno ora l'altro partito, e prevalendo quasi sempre i cattivi sopra i buoni, e toccando le chiese a persone indegne con sommo esterminio della disciplina ecclesiastica tanto ne' secolari che ne' regolari. Molti ancora dei prelati e preti aderenti ad Urbano furono presi, uccisi od annegati dai Clementini; e saccheggi, incendii ed ammazzamenti furono parimente fatti dall'altra parte [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Vita di santa Caterina da Siena.]. Gran noia e danno recava intanto ai Romani fedeli di papa Urbano castello Sant'Angelo, perchè tuttavia detenuto da un uffiziale dell'antipapa; e per questo il papa non potea abitare al Vaticano. L'assedio vi fu posto, e nel dì 29 d'aprile venne costretta quella fortezza alla resa colla fame, o piuttosto con danaro. N'ebbe non poca gioia il pontefice, il quale nello stesso mese fece predicare la crociata contra dell'antipapa e della regina Giovanna, e prese al suo soldo la compagnia di San Giorgio, composta di masnadieri italiani e tedeschi. Spese bene il suo danaro, perchè costoro diedero una fiera rotta alla compagnia de' Bretoni, che era a' servigi dell'antipapa, facendone grande strage, e prigioni quasi tutti i caporali della medesima [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Succedette questo fatto sotto Marino nel dì 28 d'aprile. Alberto conte di Barbiano, ossia di Cuneo, era il condottiere d'essa compagnia di San Giorgio, a cui si unirono anche le soldatesche romane. Questo fu il colpo che maggiormente affrettò l'antipapa a fuggirsene d'Italia. Dopo questi fatti la regina Giovanna, per placare il popolo, si mostrò inclinata ad abbandonar l'antipapa, e mandò anche suoi ambasciatori a Roma. Per colpa di chi avvenisse, nol so dire; ben so che nulla ne seguì; e tornati gli ambasciatori, continuarono [771] le ostilità fra essa e papa Urbano, il quale intanto inviperito cercava le vie di torle il regno, siccome in fatti avvenne dipoi, per quanto vedremo. I Bolognesi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], prevalendosi, di tali sconcerti, si rimisero maggiormente in libertà; e, per meglio sostenersi, fecero lega coi comuni di Firenze, Perugia e Siena, sempre nondimeno aderendo ad Urbano VI, papa legittimo.

Strepitosa fu nell'anno presente la guerra de' Veneziani e Genovesi. Il racconto di essa esigerebbe più carte ma io, seguitando la brevità, ne accennerò solamente i fatti più importanti, rimettendo per gli altri men riguardevoli il lettore a Daniello Chinazzi [Chinazzi, Istor., tom. 15 Rer. Ital.], al Caresino [Caresin., Chron., tom. 13 Rer. Ital.], ai Gatari [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.] e al Redusio [De Redusio, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Di molte prodezze avea fatto Vittor Pisani coll'armata navale veneta nell'Adriatico; ma questa armata si trovò molto sminuita e snervata per li patimenti del verno e per mancanza delle vettovaglie, indarno richieste e indarno aspettate da Venezia. Tuttavia, essendo sopraggiunta a Pola, dove egli si trovava, l'armata navale de' Genovesi, comandata dal valoroso Luciano Doria, il Pisani, sopraffatto dalle istanze de' suoi, benchè alcune delle sue galee gli mancassero, perchè non peranche spalmate, andò ad assalirla. Crudelissima fu la battaglia nel dì 5 oppure 6 di maggio; sul principio vi restò morto da un colpo de' nemici il Doria generale de' Genovesi, e presa la capitana. Ma sopraggiunte dieci altre galee genovesi, poste dianzi in aguato, non potè reggere la flotta veneta. Quindici galee rimasero in potere de' vincitori con più di due mila prigioni, parte dei quali fu decapitata dagli inumani Genovesi in vendetta dell'ucciso generale. Vittor Pisani con sette altre galee salvatosi, andò a presentarsi al consiglio in [772] Venezia; e quasichè la sfortuna e l'evento sinistro di un fatto d'arme fosse un delitto, fu, senza ascoltar sue scuse, cacciato in prigione. Ora per tal vittoria insuperbiti i Genovesi, si misero in pensiero di procedere innanzi per espugnar, se poteano, l'inespugnabil città di Venezia. Gran coraggio facea loro a tale impresa anche Francesco da Carrara signor di Padova lor collegato, ed implacabil nemico dei Veneziani. Venne anche loro un abbondante rinforzo di legni, d'armati e di munizioni da Genova, condotto da Pietro Doria, nuovo generale di tutta l'armata. Pertanto nel dì di Pentecoste comparvero i Genovesi al porto di San Niccolò di Lido; entrarono in Chiozza picciola, ed unitisi con loro i ganzaruoli, legni sottili inviati dal Carrarese, nel dì 16 d'agosto diedero un furioso assalto di molte ore alla stessa città di Chiozza grande, e se ne impadronirono colla morte di circa ottocento sessanta Veneziani, e prigionia di circa tre mila e ottocento. Fu data a sacco la misera città. A tale conquista tenne dietro quella di Loreo, della torre delle Bebbe e d'altri siti; e la vittoriosa armata scorreva sino a Malamocco, abbandonato da' Veneziani. Non si può esprimere la costernazione che tal perdita e il brutto aspetto di peggiori conseguenze cagionarono nell'animo dei Veneziani, gente in tante altre disavventure sempre coraggiosa e costante. Andrea Contareno doge non lasciò di far cuore ad ognuno, e fu risoluto nel consiglio d'inviare ambasciatori a Pietro Doria per trattar di pace, con un foglio in bianco, per accettar le condizioni anche più dure, purchè fosse in salvo la libertà di Venezia. Il signor di Padova, siccome uomo saggio, consigliò di accettar la pace. Ma il Doria non altra risposta diede agli ambasciatori, se non la seguente: Alla fè di Dio, signori Veneziani, non avrete mai pace da noi, se prima non mettiamo la briglia a quei vostri cavalli sfrenati che stanno sopra la porta della chiesa di san Marco. Imbrigliati che sieno, vi faremo [773] stare in buona pace. E ricusati i prigioni genovesi, con dire, che sperava di venir presto in persona a liberarli, con sì aspre maniere li licenziò. L'alterigia genovese fu la salute di Venezia [Caresin., Chron., tom. 12 Rer Ital.]. Molto ancora a salvarla contribuì l'ambizione ed avarizia loro; perciocchè se avessero rilasciata Chiozza al Carrarese, che ne faceva istanza, per attender essi colla loro armata a maggiori imprese, forse diverso esito avrebbe avuta la presente guerra. Ma si può credere che Iddio volesse salva in mezzo a tanti pericoli la nobilissima città di Venezia.

Spirata la speranza della pace, ad altro non pensarono i saggi Veneziani che a prepararsi per una gagliarda difesa. Ma ritrovarono il popolo mal disposto, perchè tutti bramavano per capitano di mare il valoroso ed innocente Vittor Pisani, e questi era nelle carceri [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Fu dunque presa la determinazione di metterlo in libertà, con pregarlo di dimenticar le ingiurie, e di avere per raccomandata la patria: il che non solo promise egli di fare, ma fece in effetto da lì innanzi con una gloriosa intrepidezza e costanza. L'allegria e il coraggio per questo si diffuse nel popolo tutto; ed essendo stato proposto di armare quaranta nuove galee, con promettere la nobiltà a chi maggiormente impiegasse uomini e denari in soccorso del pubblico, mirabil cosa fu il vedere la gara de' benestanti che andavano ad offerir sè stessi, i lor figliuoli, oppur somme rilevanti di danaro; di modo che in breve tempo fu rimessa in piedi una fiorita armata di legni e di gente, tutta pronta a dare il suo sangue in aiuto della patria. Leggesi nelle Storie del Chinazzi e dei Gatari il ruolo di coloro che generosamente contribuirono ad armare la suddetta flotta. Capitan generale di essa volle essere lo stesso doge Andrea Contareno; ammiraglio ne fu dichiarato Vittor Pisani. Intanto avendo Lodovico re d'Ungheria inviati a Francesco da Carrara dieci mila [774] de' suoi combattenti [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.], sotto il comando di Carlo figliuolo del già duca di Durazzo, spedì esso Carrarese Francesco Novello suo figliuolo colle altre sue forze all'assedio di Trivigi, lasciando che i Genovesi a lor talento si regolassero nella guerra. Trivigi fece bella difesa, e deluse tutti gli attentati de' nemici. Moltissimi fatti d'armi, parte favorevoli, parte contrarii, accaddero dipoi fra i Veneziani e Genovesi, ch'io tralascio, ristringendomi a dire, che accidentalmente attaccato il fuoco ad una cocca all'imboccatura del porto di Chiozza, questi si affondò, e chiuse la bocca di esso porto, con serrare nello stesso tempo in quella città i Genovesi. Fecero ben questi delle incredibili prodezze; ma non minori furono quelle de' Veneziani, i quali finalmente misero il formale assedio alla città di Chiozza. Prima di questi tempi, cioè nel giugno di quest'anno, era stato spedito Carlo Zeno valente capitano dai Veneziani in corso per infestare i Genovesi con nove galee. Diede egli il sacco alla riviera di Genova; fece di ricchissime prede; e sopra tutto nel dì 17 di ottobre prese una cocca de' Genovesi appellata la Bichignona, la maggiore e più ricca che allora solcasse il mare, in cui trovò merci di valore immenso, ascendente, per quanto fu detto, a più di cinquecento mila fiorini d'oro. Ma avvisato finalmente il Zeno de' bisogni della patria, lasciò il gustoso mestiere di corsaro, e se ne tornò a Venezia, conducendo seco quattordici galee, perchè in viaggio s'era accresciuto il suo stuolo. Con gran giubilo de' suoi concittadini arrivò nel dì primo di gennaio, e ritrovò che seguitava l'assedio di Chiozza non senza gran mortalità dall'una e dall'altra parte. Anch'egli fatto condottiere dell'armata, s'applicò ad obbligar quella città alla resa.

Per dar qualche aiuto a' Veneziani suoi collegati, Bernabò Visconte in quest'anno condusse al suo soldo [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Italic.] la compagnia [775] della Stella, composta di masnadieri. Capo di essi era Astorre de' Manfredi signor di Faenza, che indarno avea tentato di penetrar nel Modenese e Bolognese. Spinse il Visconte costoro all'improvviso nel dì 2 di luglio addosso ai Genovesi. Si fermarono essi a San Pier d'Arena in numero di circa quattro mila armati, buona parte cavalleria, e fecero un netto del paese. Perchè in Genova si dubitava di discordia e di cattive intelligenze, Niccolò di Guarco doge col suo consiglio giudicò meglio di adoperare l'esorcismo dell'oro per dissipare il mal tempo. Con diciannove mila fiorini d'oro gl'indusse ad andarsene con Dio. Andarono; ma che? Siccome gente di niuna fede, nel dì 22 di settembre eccoli comparir di nuovo nella villa d'Albaro presso alla città. Allora i Genovesi irritati da questo tradimento, presero le balestre e l'altre armi, e nel dì 24 usciti della città sul far del giorno, coraggiosamente gli assalirono, li ruppero, e ne fecero prigionieri assaissimi, con prendere tre bandiere di Venezia e Milano. Astorre Manfredi fatto prigione, con aver promessa buona somma di danaro a due Genovesi, in abito da contadino ebbe la fortuna di salvarsi. Fu intrapreso in quest'anno, siccome dissi, l'assedio di Trivigi da Francesco da Carrara signor di Padova [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.], e colà arrivò Carlo, soprannominato dalla Pace, figliuolo del fu duca di Durazzo, della prosapia di Carlo II re di Napoli, che seco, per ordine del re d'Ungheria, condusse dieci mila cavalli. Nella Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] non si parla se non di otto cento cavalli. Da Venezia gli furono spediti ambasciatori per trattare di pace. Nulla si conchiuse di questo; ciò non ostante, si lasciò egli corrompere dalla sete del denaro, e permise che i Veneziani introducessero quanta vettovaglia lor piacque in quella città e in varie castella: il che fu cagione che i Padovani, trovandosi traditi da chi men lo dovea, sciogliessero lo assedio di Trivigi. Intanto papa Urbano VI [776] maneggiava un segreto trattato per condurre esso principe Carlo alla conquista del regno di Napoli: impresa molto desiderata da Lodovico re d'Ungheria, il cui odio contro la reina Giovanna non mai s'era rallentato. Per dispor meglio le cose, se ne tornò Carlo in Ungheria, risoluto di procedere nell'anno vegnente alla volta di Napoli. Bench'io abbia raccontata nel precedente anno la discordia di Bernabò Visconte coi fratelli Scaligeri signori di Verona e Vicenza, pure [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] vien creduto che solamente in quest'anno nel dì 13 di maggio seguisse, se non la guerra, almen la pace fra loro. Vi s'indusse Bernabò, perchè avendo spedito Giovanni Aucud co' suoi Inglesi, e il conte Lucio Lando co' suoi Tedeschi ai danni del Veronese, se ne ritirarono dopo venti giorni con loro perdita: il che fu preso per un tradimento da Bernabò [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]. Nè volendo egli per questo pagarli, que' masnadieri fecero di gran saccheggio e bottino sul Bresciano e Cremonese. Li bandì Bernabò, e pubblicò una taglia contra di loro, ma ciò fu creduto una finzione. Andarono poi costoro in Romagna, e di là in Toscana.


   
Anno di Cristo mccclxxx. Indiz. III.
Urbano VI papa 3.
Venceslao re de' Romani 3.

Andava sempre più avvalorandosi lo incendio dello scisma. Papa Urbano pien di bile contro di Giovanna regina di Napoli [Raynaldus, Annal. Eccles.], principal promotrice, o almeno fomentatrice della deplorabil divisione insorta nella Chiesa di Dio, nel dì 21 d'aprile la dichiarò con bolla solenne scismatica, eretica, rea di lesa maestà, privata di tutti i suoi dominii, confiscati tutti i di lei beni, assoluto ogni suo suddito dal giuramento di fedeltà. Fulminò ancora le censure e la sentenza di deposizione contro Bernardo da Caors arcivescovo di Napoli, [777] per aver egli prestata ubbidienza all'antipapa Clemente. E diede per pastore a quella chiesa Luigi Bozzuto nobile napoletano, che fu per questo aspramente perseguitato dalla regina Giovanna. Ma i suoi principali maneggi furono con Lodovico re d'Ungheria e Polonia, offerendogli il regno di Napoli, acciocchè colle sue armi calasse in Italia. Lodovico, siccome quegli che da gran tempo temea che Giovanna chiamasse alla successione di quel regno qualche straniero, ed insieme amava Carlo dalla Pace sopra mentovato, principe suo nipote; non volle già egli, per essere vecchio, accudire in persona a quell'acquisto, ma bensì condiscese che esso Carlo, sbrigato che fosse della guerra co' Veneziani, marciasse alla volta di Napoli colle sue armi, per detronizzar la regina. Ora papa Urbano, per effettuar questo disegno, trovandosi scarso di danaro, e conoscendo la necessità di averne, giacchè la pubblicazion della crociata poco fruttava, non lasciò indietro mezzo alcuno per raunarne alle spese della Chiesa romana e delle altre ancora [Theodericus de Niem., lib. 1, cap. 22.]. Perciò riservò a sè stesso le rendite di tutti i beneficii vacanti; vendè a' cittadini romani assaissimi stabili e diritti delle chiese e dei monisteri di Roma, con ricavar da tali alienazioni più di ottanta mila fiorini di oro. Passando anche più innanzi, a misura dei bisogni, vendè poscia o convertì in moneta insino i calici d'oro e d'argento, le croci, le immagini de' santi, e gli altri mobili preziosi d'esse chiese [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Diede inoltre nel dì 30 di maggio di quest'anno facoltà a due cardinali d'impegnare o alienare i beni mobili ed immobili delle altre chiese, ancorchè contraddicessero i prelati, i capitoli e i titolari de' benefizii. Poco meno faceva in Francia l'antipapa Clemente. Tutto era ben impiegato per sostenere il loro impegno. La causa di Dio si allegava da entrambi, ma ognuno teneva per consigliera anche l'ambizione. Intanto in Napoli non s'ignorava il disegno [778] del papa e di Carlo dalla Pace, anzi dappertutto se ne discorreva senza riguardo alcuno [Vita Clementis Antipap., P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Però la regina Giovanna pensando alla propria difesa, e sperando assai nell'aiuto della Francia, dappoichè Dio non le avea data successione, e il figliuolo suo già condotto in Ungheria dovea essere mancato di vita; nel dì 29 di giugno dell'anno presente adottò per suo figliuolo Lodovico duca di Angiò, fratello di Carlo V re di Francia, soprannominato il Saggio, e ciò fece con partecipazione ed assenso dell'antipapa Clemente; affrettando quel principe ad accorrere in aiuto suo, prima che arrivasse il turbine che la minacciava dalla parte dell'Ungheria. Ma perchè nel settembre terminò il suddetto re Carlo i suoi giorni, cotal mutazione ritardò poi di troppo la venuta di esso Lodovico d'Angiò in Italia.

Continuarono i Veneziani con gran vigore per alcuni mesi ancora ad assediare la città e il porto di Chiozza, dove erano rinserrati i Genovesi [Chinazzi Istor., tom. 15 Rer. Ital. Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]; nel qual tempo seguirono molti fatti d'armi e di singolar bravura dall'una e dall'altra parte. Ma sempre più veniva mancando agli assediati la provianda; e quantunque da Genova fosse venuta un'armata nuova di ventitrè galee e di alcuni altri legni minori per dar loro soccorso, niuna via trovò questa per mettere gente in terra e sovvenire al bisogno de' suoi nazionali; tante erano le guardie e i passi presi dai Veneziani. Finalmente, vinti dalla fame, i Genovesi, nel dì 21 di giugno mandarono ambasciatori al doge Contareno, e si renderono a discrezione. Circa quattro mila d'essi e di altri loro ausiliarii rimasero prigioni, e furono condotti alle carceri di Venezia. Nel dì 24 il doge trionfante entrò in Chiozza. Vennero alle mani dei vincitori diciannove galee, assaissimi burchi e barche colle lor munizioni, e copiosa quantità di sale. Tutto il [779] rimanente, secondo le promesse, fu lasciato in preda alle soldatesche. Ed ecco dove andò a terminare il grave pericolo della nobilissima città di Venezia e la albagia de' Genovesi. Erasi intanto l'armata navale d'essi Genovesi, che navigava nell'Adriatico, accresciuta sino a trentanove galee, e sei galladelle. Con queste forze essi nel dì primo di luglio presero la città di Capo d'Istria, e la donarono al patriarca d'Aquileia, a cui i Veneziani la ritolsero nel dì primo di agosto per valore di Vittor Pisani, il quale con quarantasette galee ben armate fu inviato colà. Ma nel calore di queste imprese caduto infermo esso Pisani, nel dì 13 del mese suddetto gloriosamente diede fine alla sua vita [Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Impadronironsi poscia i Genovesi della città di Pola, e la consegnarono alle fiamme. Ribellossi ancora alla signoria di Venezia Trieste nel dì 26 di giugno, e si sottomise al patriarca d'Aquileia. Tralascio altri fatti; ma non debbo tacere che Francesco da Carrara nel maggio e nei seguenti mesi tornò a stringere d'assedio la città di Trivigi, e l'avea ridotta quasi agli estremi per mancanza di vettovaglie. Fecero sforzi grandi i Veneziani per soccorrerla di viveri, e riuscì loro di introdurvene, ma non tanto da assicurarla per l'avvenire; e massimamente peggiorò lo stato di quella città, dacchè il Carrarese nel novembre e dicembre s'impossessò di Porto Buffaledo e di Castelfranco. Perciò anche dopo la liberazion di Chiozza, seguitò la repubblica veneta ad essere in mezzo a gravissime burrasche.

Intanto Carlo dalla Pace, nipote del re d'Ungheria, con consentimento, oppure coll'ordine d'esso re, sul principio d'agosto si mosse da Verona con mille lancie di buoni combattenti ungheri, e cinquecento arcieri (negli Annali di Milano [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] è scritto che avea seco nove [780] mila Ungheri), premendo più a lui il suo disegno per la conquista del regno di Napoli, che i vantaggi della lega contra de' Veneziani; e per gli Stati del marchese d'Este arrivò sul Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], dove la sua gente, benchè amica, trattò il paese da nemico. Andò sino a Rimini, ed era per continuare il viaggio da quella parte, quando i fuorusciti fiorentini, che erano molti e potenti in questi tempi, l'indussero a cangiar cammino [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital. Ammirati, Istoria di Firenze, lib. 15.]. Aveano essi fatto prima venire la compagnia di San Giorgio, comandata da Alberico conte di Barbiano, sul Pisano, Sanese e Fiorentino, sperando di obbligare i cittadini dominanti a rimettergli in città. Ma Giovanni Aucud, preso per loro generale dai Fiorentini, e il conte Averardo di Lando lor capitano gli aveano fatti tornare indietro con poco lor gusto. In Toscana parimente era capitata la compagnia scemata di molto de' Bretoni, ma fece anche essa poche faccende. Le speranze dunque date da essi fuorusciti a Carlo dalla Pace gli fecero prendere il viaggio per la Toscana, figurandosi egli, se non potea conquistar terre, almeno di esigere ricche contribuzioni da quelle contrade. Gubbio se gli diede. Città di Castello fu vicina a far lo stesso, se non che, scoperto a tempo ch'egli veniva non per bene altrui, ma solo per pagar la sua gente colla libertà dei saccheggi, restò rotto il contratto. Arrivò egli nel settembre alla città d'Arezzo. I Bostoli ed Albergotti, dopo aver cacciati i loro avversarii, signoreggiavano dianzi in quella città, e vi aveano già ricevuto gli uffiziali di esso principe Carlo, ma con provar ben tosto gli effetti della lor balordaggine in aver messa la città e la fortezza in mano di gente barbara e senza fede, perch'essa da lì a non molto fece balzar le teste agli stessi Bostoli suoi benefattori ed amici. Siccome padrone assoluto di quella città, Carlo dalla Pace fece ivi battere sua moneta, [781] e cominciò a martellare i Sanesi per aver danaro. Ne smunse due mila fiorini d'oro e molta vettovaglia. A sommossa poi de' banditi fiorentini minacciava la città di Firenze, ed uscì anche in campagna co' suoi Ungheri e colla compagnia dei Bretoni; ma essendosi postato a' confini Giovanni Aucud, generale de' Fiorentini e gran maestro di guerra, con un bell'esercito, gli fece tosto perdere la voglia di passar oltre. Mise dunque, pel suo meglio, in trattato d'accomodamento le controversie, e, lasciando burlati i fuorusciti, stabilì un accordo co' Fiorentini, da' quali ricavò, sotto lo specioso titolo di prestito, quaranta mila fiorini d'oro, e promessa di non dar aiuto alla regina Giovanna, con altri patti. Non gli era mai d'avviso di levarsi di Toscana: tal paura gli era saltata addosso. Però, lasciata la città di Arezzo in cattivo stato, cavalcò alla volta di Roma, dove giunse prima che terminasse l'anno corrente, ricevuto con gran festa da papa Urbano VI [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], che il dichiarò senatore di Roma, e seco andò facendo le disposizioni per assalire nell'anno vegnente il regno di Napoli.

Due matrimonii seguirono nell'anno presente in Milano [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Italic.], amendue colla dispensa di papa Urbano, cioè quello di Violante, sorella di Gian-Galeazzo conte di Virtù, e già vedova di due mariti, con Lodovico Visconte, suo cugino carnale, perchè figliuolo di Bernabò. Anche lo stesso Gian-Galeazzo nel dì 2 d'ottobre prese per moglie Caterina figliuola del medesimo Bernabò, sua cugina carnale. Nè si dee tacere che due anni prima, trovandosi il regno di Sicilia diviso fra due fazioni, ed essendo la principessa Maria, erede di quel regno, come in prigione [Corio, Istor. di Milano.], aspirò Gian-Galeazzo alle nozze della medesima, e ne seguirono anche gli sponsali, con patto che il Visconte spedisse colà un corpo di combattenti [782] per mettere in libertà quella principessa, e ricuperar le terre occupate dai baroni; e similmente, ch'egli nel termine di un anno passasse in persona in Sicilia. Ma, scoperto questo trattato, il re d'Aragona, che, oltre all'avere in quell'isola il suo partito assai forte, non sapea digerire che un sì bel regno uscisse fuori della sua real casa: inviò nel precedente anno tre galee nel mare di Pisa ad aspettare che gli uomini d'armi del Visconte uscissero di Porto Pisano in navi, per andare in Sicilia. Seguì battaglia fra loro, e rimasero fracassati i Lombardi. Per questo accidente sinistro andò a monte il divisato matrimonio colla principessa, ossia regina di Sicilia [Fazellus de Reb. Siculis.], la qual prese dipoi per marito Martino della schiatta dei re aragonesi. Conseguentemente anche Gian-Galeazzo si accoppiò con Caterina sua cugina, sperando col mezzo di tale unione di allontanare il suocero e zio Bernabò da pensieri maligni contra di lui e de' suoi stati.


   
Anno di Cristo mccclxxxi. Indizione IV.
Urbano VI papa 4.
Venceslao re de' Romani 4.

In quest'anno ancora seguitò la guerra fra i Veneziani e Genovesi per mare [Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital. Redusio, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]; e Carlo Zeno, valente generale de' primi, fatti quanti danni potè agli altri, conservò l'onor della patria colle sue navi in corso. Ma per la guerra di terra non fu già propizia la sorte ai Veneziani. Francesco da Carrara continuava l'assedio o blocco di Trivigi, ed avendo occupate varie castella e paesi d'intorno, impediva ai Veneziani il recar soccorso a quell'afflitta città. Però il senato, che per le passate disgrazie si trovava esausto di denaro e scarso di combattenti, pensò ad abbandonar la terra, per attendere unicamente al mare, dove tuttavia erano assai forti i maggiori loro [783] avversarii, cioè i Genovesi. Trivigi non si potea lungo tempo sostenere: ma piuttosto che lasciarlo cadere in mano del Carrarese, determinarono i Veneziani di donare ad altri quella città: tanto era l'odio che gli portavano, e sì forte il riguardo ch'egli maggiormente non s'ingrandisse. Spedirono dunque Pantaleon Barbo a Leopoldo duca d'Austria, offerendogli Trivigi, purchè egli prendesse a far guerra contra del Carrarese. Nel dì 2 di maggio diedero essi al duca il possesso di quella città: il che fu una stoccata al cuore di Francesco da Carrara, il quale, dopo aver ridotto Trivigi alle estremità, si vide sul più bello tolto il boccone di bocca. Pertanto ordinò egli nel dì 6 di maggio che il suo campo, giacchè il duca era in viaggio, si levasse di sotto a quella città. Ma venendo Pantaleon Barbo suddetto colà con due carrette cariche di panno d'oro e d'argento, per regalare il duca d'Austria alla sua entrata in Trivigi, inciampato nelle truppe padovane, fu preso con tutto il suo equipaggio, e condotto a Padova sotto buona guardia. Era egli il maggior nemico che si avesse il Carrarese; e tuttochè graziosamente fosse rimesso in libertà, con promessa di non essergli contro, pure operò peggio di prima. Nel dì 7 del mese suddetto arrivò il duca Leopoldo con circa dieci mila cavalli nei contorni di Trivigi, e nel dì 9 fece la sua solenne entrata in essa città. Poco si fermò egli, e, lasciato quivi un copioso presidio, se ne tornò in Germania. Ed intanto il Carrarese seguitava a prendere le castella del Trivisano con istupor d'ognuno, e vi faceva inalberar le bandiere del re d'Ungheria, con dire di essere suo servitore. Di pace intanto si trattava alla gagliarda fra i Veneziani e la lega. Erasi interposto Amedeo conte di Savoia, duca di Chablais, e marchese d'Italia, principe allora di sommo credito, per quetar tanti turbini; e per la fede che ebbero in lui tutti gl'interessati, fu egli appunto accettato come mediatore e [784] compromessario di sì gloriosa impresa. A questo fine concorsero a Torino le ambascerie del re d'Ungheria, de' Veneziani, de' Genovesi, del signore di Padova, e del patriarcato d'Aquileia, che, per la morte del patriarca Marquardo, succeduta in quest'anno, si trovava allora mancante di pastore. Proferì il conte di Savoia il suo laudo nel dì 8 d'agosto in Torino [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], in cui decretò che il castello di Tenedo fosse rimesso in sua mano per due anni, dopo i quali lo dovesse spianare; che al Carrarese si restituissero alcuni luoghi, ed egli fosse disobbligato dai patti della pace dell'anno 1372, con altre condizioni ch'io tralascio. Da questa concordia restò escluso Bernabò Visconte. Non si può abbastanza esprimere l'universale allegria che questa pace produsse, massimamente nei popoli ch'erano mischiati nella guerra. E allora fu che il senato veneto mantenne la data parola a chi più degli altri si era segnalato in aiuto della patria, con avere specialmente alzate alla nobiltà veneta trenta famiglie popolari.

Era già pervenuto a Roma Carlo dalla Pace colla sua armata, siccome avvertimmo di sopra [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Il pontefice Urbano non solamente l'investì del regno di Napoli con sua bolla data nel dì primo di giugno, ma solennemente ancora di sua mano il coronò nel giorno seguente in tal congiuntura; e giacchè questo pontefice era tutto pieno di pensieri temporali, si obbligò ancora esso Carlo di conferire il principato di Capoa a Francesco Prignano nipote di lui, cioè la miglior parte del regno, conquistato ch'egli l'avesse. L'ardore con cui Urbano procedeva in questo affare, più che mai comparve; perciocchè allora fu specialmente [Theodoric. de Niem., Gobelinus, et alii.], che spogliò chiese ed altari per fornir di moneta questo suo favorito campione. Seco inoltre unì quante truppe potè, e colla sua benedizione l'inviò [785] contro la regina Giovanna. Avea questa riposte le sue speranze nel valore di Ottone duca di Brunsvich suo consorte, e nelle fallaci promesse de' baroni napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Ma era troppo divisa la cittadinanza di Napoli. Volevano alcuni la regina, altri papa Urbano, altri il re Carlo. Si oppose Ottone sulle frontiere all'esercito nemico; ma gli convenne ritirarsi [Bonincontrus Morigia, Annal., tom. 21 Rer. Italic.]. Inoltratosi il re Carlo fin sotto a Napoli, dove s'era afforzato il duca Ottone, fu creduto che si verrebbe a battaglia; ma trovaronsi traditori che nel dì 16 di luglio aprirono una porta della città al re Carlo. Entrato ch'egli fu, Ottone, dopo aver trucidato cinquecento de' nemici, si ridusse ad Aversa, e la regina in Castel Nuovo, dove restò assediata e in gravi angustie, perchè per balordaggine de' suoi ministri si trovò sfornita di vettovaglia. Fu dunque obbligata a capitolare, che se nel termine di alquanti giorni non veniva tal forza che la liberasse, ella si renderebbe al re Carlo, il quale nello stesso tempo mostrava delle buone intenzioni per lei. Perciò il duca Ottone nel dì 25 d'agosto, ultimo della capitolazione fatta, calato da castello Sant'Ermo, andò con sue genti a tentar la fortuna, ed attaccò un fiero combattimento coll'esercito del re Carlo. Ma essendo stato ucciso Giovanni marchese di Monferrato, che militava con lui (ed ebbe perciò successore nel dominio dei suoi stati Teodoro II suo minor fratello), e lo stesso duca Ottone nel calor della battaglia essendo restato gravemente ferito (non si sa se da' suoi o da' nemici) e poi fatto prigione, si mise in rotta e fuga tutto l'esercito suo. Questa vittoria decise del resto. La regina Giovanna rendè sè stessa e i castelli nel giorno seguente al re vincitore, e fu poi mandata prigioniera al castello di San Felice. La maggior parte delle terre a lui parimente prestò ubbidienza. Nel dì primo di settembre [786] arrivò a Napoli il conte di Caserta con dieci galee di Provenza, credendo di soccorrere la regina; ma ritrovò cielo nuovo in quelle parti. All'incontro giunse a Napoli Margherita, moglie del re Carlo, con Ladislao e Giovanni suoi figliuoli nel dì 11 di novembre, e nel dì 25 fu coronata regina dal cardinale legato apostolico con gran festa ed allegrezza di quel popolo, che per suo costume ogni dì vorrebbe dei re nuovi.

Accaddero in quest'anno le calamità della città di Arezzo [Gorelli, Chron., tom. 15 Rer. Ital.]. Avea il re Carlo inviato colà per suo vicario Giovanni Caracciolo. I mali suoi portamenti, oppur la giustizia severa ch'egli esercitava [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], cagion furono che la fazion guelfa, avendo prese le armi, il costrinse a ritirarsi nella fortezza. Era il mese di novembre, e trovavasi allora nel territorio di Todi colla compagnia di San Giorgio il conte Alberico da Barbiano, cioè, come già dissi, il più valente condottier d'armi che s'avesse allora l'Italia. Era egli in questi tempi ai servigi del re Carlo, e forse principalmente per la di lui buona condotta e bravura erano procedute con tanta felicità le battaglie e la conquista del regno di Napoli. Fu il conte chiamato con premurose lettere dal Caracciolo; ed egli, andato colà, ed entrato nel castello, senza che gli Aretini avessero punto provveduto alle difese, nel dì 18 di novembre piombò co' suoi masnadieri nella città, e diede un orrido ed universal sacco alle case non meno dei Guelfi che de' Ghibellini, senza risparmiar le chiese, i monisteri e l'onor delle donne. Ser Gorelli poeta aretino d'allora vien descrivendo tutte le enormità di quella tragedia. Boniforte Villanuccio, mandato dipoi colà dal re Carlo, fece del resto, e finì di pelare l'infelice città. Rimase perciò essa affatto desolata, e gli abitatori suoi per la maggior parte si sbandarono chi qua chi là, accattando il pane per sostenersi in vita. Un'altra funesta [787] scena succedette in quest'anno in Verona [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Signoreggiavano quivi i due fratelli bastardi Bartolomeo ed Antonio dalla Scala. La matta voglia di non aver compagni sul trono instigò il minore, cioè Antonio, a levar di vita il fratello. Non era a lui ignoto che Bartolomeo andava di notte con un solo compagno a solazzarsi con una sua amica: il che diede a lui campo di levarlo senza fatica e tumulto dal mondo. Nella mattina adunque del dì 13 di luglio fu ritrovato morto esso Bartolomeo con ventisei ferite nel corpo, e trentasei in quello del suo compagno, davanti alla porta d'un certo Antonio Veronese. Finse il malvagio fratello d'esserne estremamente conturbato, e fece martoriare e poi morire la donna ed alcuni suoi parenti innocenti, come se fossero stati autori dell'omicidio; ma ben conobbero i saggi, e più lo conobbe Francesco da Carrara, da qual mano era venuto il colpo; e perchè ciò gli scappò di bocca, e fu riferito ad Antonio, questi non gliela perdonò mai più. Fin qui la Provenza s'era mantenuta sotto l'ubbidienza dei re di Napoli con altre terre del Piemonte [Giornal. Napol., tom. 15 Rer. Ital.]. Clemente VII antipapa, dacchè intese conquistato dal re Carlo il regno di Napoli, ed imprigionata la regina Giovanna, investì d'esso regno Lodovico duca d'Angiò, zio del re di Francia, perchè già adottato da essa regina; e questi si mise anche in possesso della felice contrada della Provenza, benchè non senza molte opposizioni e contrasti d'alcuni di que' popoli.


   
Anno di Cristo mccclxxxii. Indiz. V.
Urbano VI papa 5.
Venceslao re de' Romani 5.

Lodovico duca d'Angiò, che a tempo non era potuto venire in Italia per impedir la caduta e prigionia della regina Giovanna, si mise in quest'anno in cuore di [788] liberarla dalle mani del re Carlo. A tale effetto raunò un formidabile esercito di Franzesi e d'altre nazioni. Costume è de' popoli, ed anche de' principi, siccome abbiam detto più volte, d'ingrandire a dismisura il ruolo delle armate. Oltre all'autore della Cronica di Forlì [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], vivente allora, giugne a dire che il di lui esercito ascendeva a sessantacinque mila cavalieri. L'autore degli Annali Milanesi [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.] gliene dà quarantacinque mila. Ma il Cronista Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] e Matteo Griffoni [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital.] con più giudizio scrissero ch'egli entrò in Italia con quindici mila cavalli, e tre mila e cinquecento balestrieri; ed avea seco Amedeo conte di Savoia, principe di gran riputazione. Era questo duca d'Angiò, se si ha da credere al Gazata, uomo crudelissimo, e da tutti odiato in Francia. Vantavasi egli di venire in Italia per abbattere papa Urbano, giacchè egli riconosceva l'antipapa Clemente per vero papa. Rapporta il Leibnizio [Leibnitius, Cod. Jur. Gent., tom. 1, n. 106.] un atto curioso d'esso Clemente, cioè una bolla di lui, colla quale instituisce e dona al suddetto duca d'Angiò e a' suoi discendenti il regno dell'Adria, formandolo colle provincie della marca di Ancona e Romagna, col ducato di Spoleti, colle città di Bologna, Ferrara, Ravenna, Perugia, Todi, e con tutti gli altri Stati della Chiesa romana, a riserva di Roma, Patrimonio, Campania, Marittima e Sabina. Dio non permise poi un sì grave assassinio allo stato temporale de' romani pontefici. Quell'atto vien riferito da esso Leibnizio nell'anno presente 1382. Ma ivi si legge: Datum Spelunga Cajetanae Dioecesis XV kalendas maji, pontificatus nostri anno primo: note indicanti l'anno 1379. Ma non par molto verisimile che, stando allora l'antipapa nel territorio di Gaeta, ideasse così di buon'ora uno [789] smembramento tale degli Stati della Chiesa. Comunque sia, affine di potere sicuramente passare per gli Stati de' Visconti, Lodovico cercò l'amicizia di Bernabò, e si convenne che il Visconte darebbe in moglie Lucia sua figliuola ad un figliuolo d'esso duca, e gli presterebbe quaranta mila fiorini d'oro, con altri patti d'assistenza per la conquista del regno di Napoli [Corio, Istoria di Milano.]. Negli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] è scritto avergli Bernabò promesso ducento mila fiorini d'oro a titolo di dote: e lo stesso autore, siccome il giornalista napoletano [Giornal. Napolet., tom. 15 Rer. Ital.], ci conservarono il registro dell'insigne nobiltà e baronia che accompagnò esso duca d'Angiò a questa spedizione. Fece Bernabò quante finezze potè all'Angioino nel suo passaggio; passaggio ben greve ai territorii, che tanta cavalleria ebbero a mantenere, e sofferir anche lo spoglio delle case. Furono ben trattati i Bolognesi; e Guido da Polenta signor di Ravenna alzò le bandiere d'esso duca di Angiò [Chron. Foroliviense, tom. 22 Rer. Ital.].

Aveva il re Carlo spedito il conte Alberico da Barbiano con trecento uomini d'armi per opporsi a questo passaggio. Per tale, benchè picciolo, aiuto Forlì e Cesena tentate dal duca si sostennero, e vi furono solamente bruciate alcune ville. Anche Galeotto Malatesta negò la vettovaglia. Ciò non ostante, e quantunque Alberico avesse dato il guasto a tutto il foraggio del paese di là da Forlì, pure l'armata angioina nel mese d'agosto passò oltre, ed essendosegli data Ancona, arrivò finalmente nel regno di Napoli. L'autore della Cronica di Rimini scrive [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] d'aver veduto passar quest'armata, e parve a lui e ad altri vecchi pratici della guerra di non essersene mai veduta una sì grossa, nè di più bella gente, di modo che comunemente si credeva che fossero più di quaranta mila cavalli. [790] Intanto il re Carlo, sentendo qual turbine terribile romoreggiasse contra di lui, secondo la mondana politica credette non essere più da lasciare in vita l'imprigionata regina Giovanna. Sui principii la trattò egli con assai umanità, le fece anche delle carezze, sperando d'indurla a cedere in suo favore non solo il regno di Napoli, ma anche la Provenza [Tristanus Caracciolus, Opusc., tom. 22 Rer. Ital.]. Tale nondimeno era l'odio che in suo cuore covava essa regina contra di questo ladrone (così ella il chiamava), che mai non volle consentire. Arrivate le galee di Marsiglia, siccome dissi, troppo tardi in aiuto suo, allora il re Carlo rinforzò le batterie, acciocchè essa confessasse d'essere trattata da madre, e comandasse ai Provenzali di ricevere esso re Carlo per signore. Finse ella di acconsentire, ma come furono condotti alla presenza sua gli uffiziali di quelle galee, da donna magnanima disse loro quanto potè di male del re Carlo, ordinando che si sottomettessero, non mai a quell'assassino, ma bensì a Lodovico duca d'Angiò, eletto da lei per suo erede; e che per conto di lei ad altro non pensassero se non a farle il funerale, e a pregar Dio per l'anima sua. Da ciò venne che il re Carlo la fece chiudere in dura prigione; ed allorchè intese che con tante forze era per venire il duca d'Angiò per liberarla, nel dì 12 di maggio, siccome hanno i Giornali di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], oppure nel dì 22, come ha il testo di Teodorico di Niem [Theodoricus de Niem, Histor.], o col veleno, oppure, come fu voce e credenza più accertata, con laccio di seta la fece privar di vita, e poscia esporre il suo cadavero, acciocchè fosse veduto da tutti. Tal fine ebbe la misera regina, la cui fama di molto restò annerita per la morte del suo primo marito Andrea, in cui certo è che ebbe mano. Tristano Caracciolo, scrittore di gran senno ed onoratezza, da lì a cent'anni fece assai conoscere [791] che nel resto delle azioni sue fu principessa giusta, saggia e degna di lode, benchè con fine sì ignominioso miseramente terminasse la vita.

Entrato il duca d'Angiò per la parte d'Abruzzo nel regno di Napoli, fu messo in possesso dell'importante città dell'Aquila, datagli da Ramondaccio Caldora. Ebbe Nola, Matalona, ed altre città e terre. Seco fu una gran frotta di baroni napoletani, che aveano tutti sposato il partito di lui e dell'infelice regina. Veggonsi essi ad uno ad uno annoverati dal Buonincontri ne' suoi Annali [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. E quindi nacque la fazione angioina, che lungo tempo durò poi, e tenne diviso quel regno. Per mediazione di papa Urbano condusse il re Carlo al suo soldo Giovanni Aucud con due mila e ducento cavalli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], che nel dì 22 d'ottobre giunse a seco unirsi. Così venne egli ad avere quattordici mila cavalli al suo servigio; ma il duca d'Angiò ne contava molte migliaia di più. Avrebbe il re potuto venire ad un fatto d'armi, siccome bramavano gli avversarii franzesi; ma, per consiglio del saggio conte Alberico da Barbiano, volle star sempre alla difesa, sperando che vedrebbe a poco a poco dissiparsi e venir meno le soldatesche del principe nemico, siccome in fatti avvenne. Portata al duca d'Angiò la nuova che l'Aucud era venuto a militare contra di lui, considerandolo tuttavia come capitano dei Fiorentini, ordinò che in Provenza fossero prese tutte le merci de' Fiorentini: ordine che fu puntualmente eseguito con grave danno di quella nazione [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]. Verità o finzione fosse, certo è che i Fiorentini l'aveano casso. Nel mese d'ottobre del presente anno mancò di vita Lodovico da Gonzaga signor di Mantova [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], e andò a rendere conto a Dio dei due suoi fratelli Ugolino e Francesco uccisi per ordine suo. Aveva atteso a mettere [792] insieme gran danaro. Gli succedette nel dominio Francesco suo figliuolo, che avea per moglie una figliuola di Bernabò Visconte. L'ultimo anno ancora della vita di Lodovico re d'Ungheria e di Polonia fu questo, cioè di un principe che abbiam veduto mischiato non poco negli affari d'Italia, e che lasciò dopo di sè una memoria gloriosa per la sua pietà e per le sue memorabili imprese [Cromerus et Bonfinius, de Reb. Hungar.]. Di lui non restò prole maschile. Solamente ebbe due figliuole, cioè Maria, che ereditò il regno d'Ungheria, e coronata prese il nome di re, e non di regina. Ad Edvige, altra sua figliuola, toccò il regno di Polonia. A questa grande eredità aspirava Carlo di Durazzo re di Napoli, pretendendo dovuti quei regni a sè, come maschio e parente stretto; ma per ora, trovandosi egli troppo occupato dalla guerra col duca d'Angiò, con dissimulazione se la passò. In vigor della pace fra i Veneziani e Genovesi, dovea essere consegnato ad Amedeo conte di Savoia l'importante castello di Tenedo [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. Spedirono essi l'ordine, ma Zanachi Mudazzo capitano di quella fortezza si ostinò in non volerla consegnare. Creduto ciò un'invenzione de' Veneziani, fu fatta in Genova gran rappresaglia e sequestro delle merci che erano ivi de' Fiorentini, perchè questi erano entrati mallevadori della consegna e distruzione di Tenedo. I Veneziani, che operavano con sincerità, furono obbligati a spedire uno stuolo di galee e d'altri legni colà, che, assediato quel castello, l'astrinsero nell'anno seguente alla resa, e dipoi lo smantellarono, portando altrove tutti gli abitanti. Venne a morte nel dì 5 di giugno Andrea Contareno doge di Venezia [Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital. Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], principe glorioso per aver salvata la patria in mezzo a tanti pericoli. Ebbe per successore Michele Morosino, eletto doge nel dì 10 d'esso mese. Ma poco potè egli [793] godere di quell'eccelsa dignità, di cui era sì meritevole per le sue rare virtù, perchè Dio il chiamò a sè nel dì 15 d'ottobre. Però l'elezione di un altro doge, fatta nel dì 24 di novembre, cadde nella persona di Antonio Veniero.


   
Anno di Cristo mccclxxxiii. Indiz. VI.
Urbano VI papa 6.
Venceslao re de' Romani 6.

La guerra del regno di Napoli tuttavia durava, ma fiaccamente era condotta non meno dal re Carlo che da Lodovico duca d'Angiò. Ora papa Urbano VI, uomo focoso, non potendo sofferire così gran lentezza, determinò di passare alla volta di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Raynald., Annal. Ecclesiast.]. Più nondimeno lo spigneva a quel viaggio la brama d'indurre il re Carlo all'osservanza delle promesse, giacchè questi s'era obbligato di conferire il ducato di Capoa e d'Amalfi con altre terre a Francesco da Prignano suo nipote, soprannominato Butillo [Theodoric. de Niem, Histor.]. A questa sua risoluzione s'opposero sei o sette de' cardinali; ma questo papa, sì pieno di pensieri secolareschi, era uomo cocciuto, nè volea consigli, nè chi gli contraddicesse. Fu a Ferentino nel settembre, e mandò ordine a que' cardinali che venissero a trovarlo, perchè volea continuare il viaggio a Napoli. Se ne scusarono con allegare la lor povertà, e la poca sicurezza delle strade infestate dai Bretoni, soldati dell'antipapa. Urbano, sempre pieno di diffidenza, prese questo rifiuto per un disegno di ribellione, e con una scandalosa bolla li minacciò di deporli, se non ubbidivano tosto. Portatosi ad Aversa, fu a fargli riverenza il re Carlo, il quale mal volentieri vide questa visita fatta a' suoi Stati, nè però mancò di onorarlo in tutte le maniere convenienti all'alta di lui dignità e sovranità. In quella stanza poco gusto ebbe il papa. Contuttociò unito col [794] re entrò nel dì 9 d'ottobre in Napoli, ricevuto dal clero e popolo con gran solennità ed ossequio. Gli fu dato l'alloggio in Castel Nuovo, e sotto specie di onore gli furono posti molti corpi di guardia, acciocchè poco potesse trattar co' Napoletani, giacchè il re Carlo, conoscendo il di lui umore, poco se ne fidava. Tuttavia scrive l'autore de' giornali napoletani che il re promise allora, o confermò la dianzi fatta promessa di dare a Butillo nipote del papa il principato di Capoa, il ducato di Amalfi, Nocera, Scafato ed altre terre. Pareva al papa di star male e come in prigione in quel castello. Tanto si maneggiò, che gli fu permesso di passare all'arcivescovato. Avvenne dipoi che Butillo suo nipote, uomo perduto nella sensualità, e dato unicamente ai piaceri, rapì di monistero di Santa Chiara una nobil monaca professa, e seco la tenne per alquanti giorni. Fu processato, e citato d'ordine del re Carlo; e perchè non si presentò, uscì contra di lui la condannagion della testa. Il papa, che scusava il nipote per la sua giovanezza, tuttochè egli fosse in età di quarant'anni, ne fece gran doglianza. Andò perciò in nulla il processo. Butillo fu messo in possesso degli Stati suddetti, e il papa conchiuse ancora il maritaggio di due sue nipoti con due de' primi baroni. Queste erano le grandi occupazioni del pontefice!

Per conto della guerra poco sangue si sparse in quest'anno. Ma un'altra guerra si facea dalla peste, la quale nel precedente anno risvegliata in Italia, inferocì nel Friuli [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], e portò al sepolcro nella sola Venezia circa cinquantasei mila persone. Provossi questo terribil flagello nell'anno presente in Padova, Verona, Bologna, Ferrara, Mantova e nella Romagna. Passò a Firenze, Siena e ad altri luoghi della Toscana, spopolando le terre; e strage non poca fece anche nel Piemonte, in Genova e nel regno di Napoli. Ne patì a dismisura l'armata del [795] duca d'Angiò. Fra i più riguardevoli gran signori che perirono allora, non so se per la peste o per altro malore, si contò ancora Amedeo VI conte di Savoia, che militava in favor d'esso duca: il che sommamente conturbò l'Angioino, perchè egli era il principal suo campione in quella gara, principe per molte sue belle doti ed imprese stimatissimo dappertutto, ed uno de' più illustri di quella nobilissima casa [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye.]. Accadde la sua morte nel dì primo ovvero nel dì secondo di marzo, con aver egli prima riconosciuto per vero papa Urbano VI. Ebbe per successore Amedeo VII suo figliuolo; e il corpo suo fu portato in Savoia. Gli tennero dietro le soldatesche sue. Per tali disavventure restò il duca d'Angiò smunto di forze; quel suo fioritissimo esercito era calato di troppo. Spedì dunque suoi messi a Carlo VI re di Francia suo nipote, pregandolo istantemente d'aiuto; e in vano non furono le sue preghiere [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital. Rubeus, Hist. Ravenn.]. Avendo la peste ridotta a mal termine la città di Ravenna, Galeotto Malatesta, signor di Rimini, Cesena ed altre città, valendosi del pretesto che Guido da Polenta avesse assistito il duca d'Angiò contra di Urbano papa, si avvisò di far buona caccia. Non ebbe già Ravenna, alla cui difesa accorse Guido signor della terra, ma bensì occupò al medesimo la città di Cervia. Pareva che dopo essere caduta in mano di Leopoldo duca d'Austria, principe potentissimo, la città di Trivigi, dovesse oramai essere sicura dagl'insulti di Francesco da Carrara signor di Padova [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. Ma il Carrarese, oltre l'essersi impadronito delle castella del Trivisano, e all'avere in varii siti di quel distretto fabbricate delle forti bastie, era uomo di petto e di mirabil accortezza. Messosi in testa di volere stancare il duca, nell'aprile spedì le sue [796] genti sino alle porte di Trivigi, e queste entrate nel borgo di Santi Quaranta, vi attaccarono il fuoco. Teneva il Carrarese occupata una torre in vicinanza di quella città, e di là recava ad essa continuamente molestia, ed impediva l'introdurvi vettovaglie. Venne in persona lo stesso duca Leopoldo con circa otto mila cavalli verso il fine di maggio, e condusse molte carra di viveri in Trivigi; prese la bastia di Nervesa, ma non potè espugnar la torre suddetta. Si trattò più volte di pace, e nulla in quest'anno si conchiuse. Il Carrarese troppo era innamorato di quella città, e la volea a tutti i patti. Se ne tornò il duca in Germania, lasciando più che mai Trivigi in cattivo stato. Le conseguenze di questa pugna le vedremo ben presto. Lungo tempo non potea durar la pace nell'inquieta città di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Nel marzo di quest'anno, perchè si volea mettere l'aggravio d'un denaro per libbra di carne, si sollevarono i beccai contra di Niccolò di Guarco lor doge, e contra del governo. Per più giorni tutta fu in tumulto la città. Parte del popolo, dopo aver preso il palazzo, e fatto fuggire il Guarco, acclamava per doge Antoniotto Adorno, che era corso a Genova. L'altra parte volea Leonardo da Montaldo legista. Prevalsero questi ultimi nel dì 7 di aprile, e, creato doge esso Leonardo, cessò tutto lo strepito popolare.


   
Anno di Cristo mccclxxxiv. Indiz. VII.
Urbano VI papa 7.
Venceslao re dei Romani 7.

Il guasto grande che la peste avea fatto nell'armata del duca d'Angiò accrebbe l'animo a Carlo re di Napoli per finalmente uscire in campagna con tutte le sue forze: al che nello stesso tempo l'incitava papa Urbano, a cui troppo stava a cuore l'abbattere questo potente protettore dell'antipapa [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Maggiore impulso venne [797] ancora dalle nuove che era in moto un altro esercito di cavalleria, che il re di Francia spediva in rinforzo del duca suo zio. Ascendeva l'armata del re Carlo a sedici mila cavalli e a molta fanteria; e seco erano assaissimi baroni napoletani, la lista de' quali si legge ne' Giornali da me dati alla luce. Nel dì 12 d'aprile arrivò il re Carlo con queste genti a Barletta, e fece prigione Raimondello Orsino, uno dianzi de' suoi più potenti e più prodi partigiani, probabilmente per sospetti di sua fede, ma non finì il mese stesso che questi ebbe la fortuna di fuggirsene e di passare all'armata del duca d'Angiò, il quale con grandi carezze il ricevette, e diedegli, mercè d'un matrimonio, il contado di Lecce. Ora trovandosi il re Carlo in Barletta, mandò nello stesso dì 12 al duca d'Angiò il guanto della disfida. Accettollo il duca di buon cuore, e diede per risposta, che fra cinque dì sarebbe alle porte di Barletta. Nulla più desiderava egli che di decidere la contesa con una battaglia. Ma il re Carlo, apprendendo poscia il rischio, a cui con quella disfida avea esposto sè stesso e la corona, fece venire al campo Ottone duca di Brunsvich, già marito della regina Giovanna, fin qui stato prigione nel castello di Molfetta, per consigliarsi seco, ben conoscendolo un capitano di rara sperienza e saviezza. Ottone, ben pesate le cose, fu di parere che il re tenesse a bada per alquanti giorni il nemico, e si guardasse da battaglia, perchè il duca d'Angiò non potea tener la campagna, e da per sè si andrebbe disfacendo. Però, a riserva di qualche scaramuccia vantaggiosa pel re Carlo, fatto di armi non seguì, e l'Angioino deluso e malcontento se ne ritornò indietro. Allora il re, per ricompensa del buon servigio, mise in libertà il duca di Brunsvich, e questi lieto se n'andò a trovare il papa.

Era passato da Napoli esso pontefice a Nocera, città di suo nipote, nel dì 16 di maggio, dove la sua corte patì di molti disagi. Nel giugno s'infermò di peste, o d'altro pericoloso male, il re Carlo, e [798] con gran fatica la scampò. Ma per lo stesso malore essendo morto il contestabile del regno, conferì questa carica al conte Alberico da Cunio, ossia da Barbiano. Diversa ben fu la sorte del suo avversario, cioè di Lodovico duca d'Angiò, principe già intitolato re di Napoli. O sia che egli fosse attossicato, o preso dalla peste, oppure, come abbiamo dai giornali suddetti, ch'egli si riscaldasse troppo nel voler impedire il sacco già incominciato da' suoi soldati nella città di Biseglio, che spontaneamente se gli era data: certo è, aver egli terminata in Bari la carriera del suo vivere [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] nel dì 10 d'ottobre. Nella Cronica di Forlì [Chron. Foroliviense, tom. 22 Rer. Ital.] è riferita la di lui morte a' dì 11 di settembre. Tramandò egli a Lodovico suo figliuolo di tenera età in questi tempi la signoria della Provenza e degli altri suoi Stati di Francia, e le sue pretensioni sul regno di Napoli. Per questo colpo d'inaspettata fortuna rimase senza maggior fatica il re Carlo vincitore, perchè le milizie angioine a poco a poco andarono sfumando per ridursi al loro paese, e non ne restò che una parte, la quale si mise sotto gli stendardi di Raimondello Orsino, valoroso continuator della guerra in quel turbatissimo regno. Erasi partito nella state dell'anno presente, siccome dianzi accennammo, per ordine del re di Francia Engerame sire di Cussì, ossia Coucy, con copiosa moltitudine d'uomini d'armi, per venire in aiuto del duca d'Angiò Lorenzo. Buonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] li fa ascendere a quindici mila cavalli; ma l'autore della Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] ed altri [Chron. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] neppure contano la metà. Fecero costoro gran danno al Piacentino in passando, con avervi bruciate e saccheggiate varie ville. Per la via di Pontremoli passarono a Lucca. In gran timore ed affanno furono per questo i Fiorentini; ma il buon uso de' regali e di una [799] ambasceria li difese. Altrettanto fecero i Sanesi [Cronica di Siena, tom. 15 Rer. Ital.]. I nobili Tarlati da Pietramala cogli altri Ghibellini usciti d'Arezzo di tal congiuntura si prevalsero per levar la signoria di quella città a Carlo re di Napoli. Nella notte del dì 29 di settembre il sire di Cussì colle sue brigate, avendo scalate le mura d'Arezzo, v'entrò, e restò di nuovo messa a sacco quell'infelice città. Si ridussero bensì nel castello le genti del re Carlo e i Guelfi, ma immantenente furono quivi assediati dai Franzesi. Allora i Fiorentini, che non poteano mirar di buon occhio gli oltramontani in quel nido, trattarono di far lega co' Sanesi, Perugini e Lucchesi, e intanto spedirono l'esercito loro ad assediare la città di Arezzo. Ma eccoti giugnere la nuova che Lodovico duca d'Angiò avea chiusi gli occhi a questa vita: il che fece risolvere il sire di Cussì a vendere quella spopolata città, per ritornarsene alle sue contrade. Data l'avrebbe ai Sanesi par venti mila fiorini d'oro [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 15.]. Non seppero questi abbracciare così buon partito. I Fiorentini, più presti e sagaci, conchiusero essi il contratto colla spesa di cinquanta mila fiorini, e con far paura di guerra ai Sanesi, se non lasciavano quel maneggio. Così la città d'Arezzo, ma desolata, venne, ossia ritornò per suo meglio alle mani de' Fiorentini nel dì 20 di novembre, e da lì a pochi giorni anche il cassero, ossia la fortezza, fu loro consegnata da Jacopo Caracciolo vicario del re Carlo. Gran festa si fece per tale acquisto a Firenze [Gazata, Chron. Regiens., tom. 19 Rer. Ital.]. I Tarlati con un manifesto spedito a tutti i principi d'Europa pubblicarono per traditore il sire di Cussì, perchè contro ai patti e giuramenti avea venduta quella città.

Dimorava tuttavia in Nocera papa Urbano VI, e questa sua lunga permanenza nel regno dispiacea forte alla real corte di Napoli [Theodor. de Niem, Hist. Raynald., Annal. Eccles.], che temea (se pur non [800] ne avea anche delle pruove) che un cervello sì ambizioso e fantastico facesse degl'intrighi per torre il regno al re, e darlo al suo caro nipote Butillo. Per farlo tornare a Roma, anche la regina Margherita gli avea usato delle insolenze, con impedire il passaggio delle vettovaglie a Nocera. Ora guarito che fu il re Carlo dalla sua lunga e pericolosa malattia [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], e tornato a Napoli nel dì 10 di novembre, informato del dimorar tuttavia il pontefice in Nocera, e de' sospetti che correvano, orgogliosamente gli mandò a dimandar la cagione perchè si fosse partito da Napoli, e a dirgli che vi tornasse. Doveva egli tener per meglio di averlo sotto i suoi occhi [Bonincontrus, Annal., tom. eod.]. La risposta d'Urbano fu, essere il costume dei re d'andare a' piedi del papa, e non già che il papa andasse ai re. A questo tuono aggiunse, che se Carlo desiderava di averlo per amico, liberasse il regno da tante gabelle. Replicò allora il re con più ardenza, ch'egli ne imporrebbe delle nuove; quello essere regno suo, conquistato coll'armi; e che il papa s'impacciasse de' suoi preti. Di qui ebbe principio una guerra scoperta fra il papa e il re Carlo. Rapporta il Rinaldi [Raynald., Annales Eccles.] una bolla di questo pontefice, data in Napoli nell'ultimo dì di novembre dell'anno presente, in cui, perchè era in collera con tutti gli ordini religiosi, proibì loro il poter confessare e predicare senza licenza de' parrochi. Suppone tal bolla tornato il papa a Napoli: il che non s'accorda coi giornali suddetti. Fece in quest'anno la peste molta strage in Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], ed ogni settimana circa novecento persone erano portate al sepolcro. Nel mese di giugno fu da essa colpito e poi rapito Leonardo da Montaldo doge di quella repubblica, per le sue virtù ed abilità degno di più lunga vita; e in luogo suo fu eletto doge [801] Antoniotto Adorno, dianzi bandito da quella città. Avea nel precedente anno Francesco da Carrara [Gatari, Istoria di Padova, tom. 21 Rer. Ital.] talmente angustiata la città di Trivigi, con prendere tutto all'intorno le castella e fortezze, che Leopoldo duca d'Austria cominciò a gustar le proposizioni di pace, e di vendere quella città al Carrarese. In fatti seguì fra loro il contratto, e parimente per quello di Ceneda, Feltre e Cividal di Belluno, secondo il Gataro iuniore, Francesco da Carrara pagò sessanta mila fiorini d'oro al duca. Ma il vecchio Gataro parla di cento mila, aggiugnendo di più, che sì gran somma fu ricavata sotto nome di prestito dalle borse de' cittadini padovani: e però laddove quel popolo avrebbe dovuto rallegrarsi non poco per l'accrescimento della potenza, altro non s'udì che mormorazioni, altro non si vide che malinconia, rari ben essendo que' popoli che non paghino caro le conquiste fatte dai loro signori. Nel dì 4 di febbraio fu dato il possesso di quella città al Carrarese, il quale magnificamente lo prese, e attese da lì innanzi a procacciarsi l'amore di quel popolo, che tanto avea patito, con donar loro grani da seminare, coll'esentarli da molte gravezze, con prestar danari ai marcatanti [De Redusio, Chron., tom. 19 Rer. Ital.], acciocchè tornasse a fiorire quella città; e in fine col conferir posti lucrosi ai Trivisani si studiò di amicarseli tutti. Mancò di vita in quest'anno nel dì 18 di giugno Beatrice, comunemente appellata Regina dalla Scala, moglie di Bernabò Visconte. Era, secondo il Corio [Corio, Istoria di Milano.], donna empia, superba e insaziabile in raunar tesori, e per ingrandire i figliuoli fu creduto che essa macchinasse contro la vita di Gian-Galeazzo Visconte signor di Pavia e d'altre città.

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Anno di Cristo mccclxxxv. Indiz. VIII.
Urbano VI papa 8.
Venceslao re de' Romani 8.

Due strepitosi avvenimenti d'Italia apprestarono in quest'anno copiosa materia da discorrere all'Europa tutta. Appartiene il primo a papa Urbano. Ostinatamente continuava egli la sua residenza in Nocera al dispetto del re Carlo e dei cardinali di suo seguito [Theod. de Niem, Hist. Gobelin. in Cosmod.], che adoperarono indarno esortazioni, preghiere e ragioni, perchè vi pativano essi, e vi pativa più la dignità della santa Sede per varii riguardi, ma specialmente per la rottura seguita col re Carlo. Un certo Bartolino da Piacenza, ardito legista, divolgò in questi tempi una scrittura di alquante quistioni, cercando, qualora il papa si trovasse troppo negligente o inutile al governo, o talmente operasse di suo capriccio, senza voler ascoltare il consiglio de' cardinali, che fosse in pericolo la Chiesa: se in tal caso potessero i cardinali dargli uno o più curatori, col parere de' quali egli fosse tenuto a spedir gli affari d'essa Chiesa. Sosteneva che sì, adducendone varie ragioni. Dal cardinale di Manupello di casa Orsina fu segretamente avvisato il papa che sei cardinali (cinque solamente ne riferiscono Teodorico di Niem e l'autore de' Giornali Napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]), cioè gli arcivescovi di Taranto e di Corfù, e i cardinali di Genova, di Londra, di San Marco e di Santo Adriano, personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro collegio, aveano veduta quella scrittura, e tener essi quella sentenza. Fu inoltre supposto al papa che essi avessero tramata una congiura per prenderlo nel dì 13 di gennaio, e di condannarlo poscia come eretico. Andò nelle furie Urbano VI, li fece caricar di catene, e cacciarli in dure prigioni nel dì 12 di esso mese; ed ordinò a Francesco Butillo suo nipote che gli [803] esaminasse per ricavarne la verità. La maniera di ricavarla, giacchè si protestavano innocenti, fu quella de' tormenti. A forza d'essi il vescovo dell'Aquila, accusato per complice, disse tutto ciò che vollero i giudici. Si legge che gli stessi cardinali, crudelmente tormentati, confessarono la congiura; ma, siccome diremo appresso, ciò non sussiste; e quand'anche fosse succeduto, ognun sa che mirabil virtù abbiano i tormenti per far dire anche ciò che non è e non fu; e a buon conto i miseri sempre da lì innanzi costantemente sostennero d'essere innocenti. Inutili furono stati gli uffizii del re Carlo e de' cardinali restati in Napoli in favore di quegl'infelici porporati, i quali dall'inesorabil pontefice furono poscia dichiarati privi della porpora e d'ogni dignità. E perciocchè ebbe egli sospetto, oppur seppe che tutte queste mene erano procedute con partecipazione e forte impulso del re Carlo, pubblicamente in Nocera scomunicò lui e la regina Margherita, privolli anche del regno; e, posto l'interdetto a Napoli, citò il re Carlo a dir le sue ragioni. Questi gagliardi passi servirono a maggiormente sconcertar gli animi. Carlo, udito anche il parere del clero, ordinò che non si osservasse l'interdetto, e perseguitò chi volea osservarlo, sino a farne annegare alcuni. Molto più poi irritato per la scomunica e sentenza suddetta, sul principio di febbraio spedì il gran contestabile, cioè il conte Alberico di Barbiano, collo esercito all'assedio di Nocera. Narra l'autore degli Annali Napoletani che il pontefice assediato, tre o quattro volte il dì s'affacciava ad una finestra, e colla campanella e torcia accesa andava scomunicando l'esercito del re; e l'esercito non per questo si moveva di là. Durante questo assedio furono altre volte crudelmente martoriati i cardinali prigioni per farli confessare. Teodorico da Niem presente non potè reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi, secondo lui, confessò. Furono rimessi nelle carceri [804] coll'ossa slogate a patir fame e sete, e gli altri malori della prigionia. Nel dì 5 di luglio arrivò a Nocera con un corpo di valorosi combattenti Raimondello Orsino, e fatta aspra battaglia colle genti del re, quantunque ne restasse ferito al piede, pure entrò co' suoi nella città in aiuto del papa. Guarito che fu, ricevuti dieci mila fiorini d'oro, passò in Calabria, e mosse Tommaso Sanseverino ed un Lottario di Suevia a venir con tre mila cavalli a liberare il papa. L'impresa ebbe effetto, e nel dì 8 d'agosto il pontefice uscì del castello, menando seco i cardinali e il vescovo d'Aquila prigioni, e il suo tesoro; e da quegli armati per montagne e vie scoscese fu condotto verso Salerno sino al mare, ma non senza rischio d'essere detenuto dagli stessi ausiliarii, i quali convenne placar coll'oro. Perchè il vescovo suddetto, malconcio per gli sofferti tormenti e pel cattivo cavallo, era lento nel viaggio, Urbano, sospettando malizioso il suo ritardo, riscaldossi così forte per la collera, che il fece uccidere, lasciandolo senza sepoltura nella via. Oh tempi, oh costumi! non si può far di meno di non esclamare. Erasi dianzi accordato il papa con Antoniotto Adorno doge di Genova per avere soccorso da lui, promettendogli d'andar a fissar la sua residenza in Genova stessa [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Essendo ciò sembrato un bel guadagno al doge, spedì egli dieci galere nel mare di Napoli, che furono pronte al bisogno d'Urbano. Salito esso pontefice in galea, dopo aver toccata Messina, felicemente arrivò in Genova nel dì 23 di settembre, e quivi prese alloggio in San Giovanni, e vi si fermò poi tutto il resto dell'anno. Nocera fu presa. Francesco Butillo nipote del papa restò prigioniere.

L'altra avventura che in quest'anno fece gran rumore per tutta la cristianità, fu la caduta di Bernabò Visconte. Era egli signore della metà di Milano, e delle [805] città di Lodi, Bergamo, Crema, Cremona, Brescia, Parma e Reggio. Quattro figliuoli legittimi avea, oltre ai bastardi, tutti e quattro valorosi, ambiziosi, capaci ognuno di gran cose [Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.]. Ad essi avea già distribuite le sue città, cioè a Lodovico Lodi e Cremona; a Carlo Parma, Borgo San Donnino e Crema; a Ridolfo Bergamo, Soncino e Chiara d'Adda; a Mastino minor di tutti Brescia, la Riviera e Val-Camonica. Gli altri suoi figliuoli sono annoverati nella Cronica Veneta del Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Godeva allora Bernabò, contra il suo solito, la pace, ma non la godeano già i suoi sudditi a cagion delle intollerabili estorsioni e gravezze loro imposte, e per l'insolenza e libidine dei suoi figliuoli. La sua bestial fierezza, i trasporti della sua collera e le violente sue esecuzioni sopra la vita de' sudditi, anche per cagioni leggere, e sopra tutto per la caccia, faceano tremar ognuno; laonde un sì aspro e crudo governo era ben contraccambiato coll'odio universale de' popoli. Della sua strabocchevol libidine altro non dirò, se non che vi fu un tempo in cui si contarono trentasei figliuoli suoi viventi tra legittimi e bastardi, e dieciotto femmine gravide di lui. Stava intanto Gian-Galeazzo Visconte, conte di Virtù e suo nipote, in Pavia, della qual città, siccome ancora di Piacenza, Novara, Alessandria, Bobbio, Alba, Asti, Como, Casale di Santo Evasio, Valenza, Vigevano, e di varie altre terre in Piemonte, era padrone. Perchè dalla moglie Caterina niuna prole maschile aveva egli ricavato fin qui, già faceano i lor conti sopra dei di lui Stati i figliuoli di Bernabò, anzi neppure si vedeva egli sicuro in vita: sì smoderata era l'ambizione di Bernabò, tuttochè suo zio e suocero, e quella de' suoi figliuoli. Fu anche detto che Bernabò avesse fatti de' tentativi contro la vita di lui, con istudiarsi di sedurre la figliuola, moglie d'esso Gian-Galeazzo, [806] la qual rivelasse tutto al marito. Comunque sia, l'arte tenuta da Gian-Galeazzo per difendersi dalle sue insidie era quella di non arrischiarsi mai di capitar in essa città di Milano, ancorchè a lui spettasse il dominio della metà di quella città [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Sopportava anche in pace tutte le superchierie che gli facea di quando in quando Bernabò; nè usciva mai senza un copioso accompagnamento di guardie. Diedesi inoltre ad una maniera di vivere che è la più efficace per ingannare altrui, cioè ad una vita divota [Gatari, Istor. di Padov., tom. 17 Rer. Ital.], conversando sempre con religiosi, frequentando le chiese, facendo abbondanti limosine, e mostrandosi alieno da ogni disegno di maggiormente ingrandirsi. Per questo suo bigottismo Bernabò il tenea per uomo dappoco e da nulla.

Si cavò Gian-Galeazzo la maschera in quest'anno. Fece egli prima sapere a Bernabò di voler passare alla visita della miracolosa immagine della Madonna di Varese per adempiere un suo voto, e che il pregava di scusarlo, se non entrava in Milano, quantunque sommamente desiderasse d'abbracciare il suo carissimo zio e suocero. Poscia partitosi da Pavia con grosso accompagnamento di gente, cioè delle sue guardie e di assaissimi altri guerniti d'armi di sotto (nella Cronica Estense [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital.] è scritto, aver egli menato seco cinquecento lance), nella sera del dì 5 di maggio si fermò a Binasco [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.], e nel dì seguente cavalcò nelle vicinanze di Milano. Bernabò gli mandò incontro due de' suoi figliuoli Lodovico e Ridolfo lungi due miglia, i quali furono ben accolti e trattenuti con assai carezze. Allorchè fu egli non molto distante dalla città, dove era allora lo spedale di Santo Ambrosio, uscì anche Bernabò per porta Vercellina, affine di fargli una visita con poche guardie, cavalcando una mula, tuttochè avvertito prima da un certo Medicina [807] suo cortigiano di non fidarsi, perchè egli avea poco prima osservato l'andamento, le vesti ed il contegno di quella gran truppa, che non pareva apparato da divozione. Ma era giunto il tempo che Dio voleva chiamare ai conti quell'uomo spietato, reo di tanti peccati. Si abbracciarono, si baciarono lo zio ed il nipote; e dopo sì bella festa Gian-Galeazzo, voltatosi a Jacopo dal Verme e ad Antonio Porro, disse loro in tedesco stinchier. Allora fu circondato Bernabò da tutti quegli armati; Jacopo gli tolse la bacchetta; Otto da Mandello gli tirò di mano e fuor della testa della mula la briglia, Guglielmo Bevilacqua gli tagliò il pendon della spada, gridando egli indarno al nipote che non fosse traditor del suo sangue. Furono anche presi e disarmati i suddetti due suoi figliuoli. Con questa preda Gian-Galeazzo entrò per la porta di fuori nel castello di porta Zobbia, che era suo. E di là poi, divolgato il caso, cavalcò per la città, udendo le gioiose acclamazioni del popolo, che gridava: Viva il conte, e muoiano le gabelle e le colte. Non vi fu chi alzasse un dito in favore di Bernabò; anzi l'accorto Gian-Galeazzo per ben attaccare esso popolo a' suoi interessi, gli permise di dare il sacco ai palagi del medesimo Bernabò e de' suoi figliuoli, dove erano raccolte di grandi ricchezze. Fu egli dichiarato signor generale di Milano, e la mattina seguente se gli arrendè il castello di San Nazaro, fabbricato da Bernabò, colla rocca di porta Romana. Quivi, secondo il Corio [Corio, Istoria di Milano.], vennero alle sue mani sei carra d'argento lavorato con altro prezioso mobile, e settecento mila fiorini d'oro in contante. Il Gazata, storico vivente allora, scrive [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.] che nella sola torre si trovò un milione e settecento mila ducati o sia fiorini d'oro, oltre ai mobili preziosi d'oro e d'argento. In pochi giorni vennero in potere di Gian-Galeazzo Lodi, Bergamo, Crema, Soncino, Ghiara [808] d'Adda, Cremona, Parma e Reggio, a riserva de' castelli d'esse città, che ressero per qualche giorno, ma in fine si diedero. Carlo figliuolo di Bernabò, allorchè seguì la prigionia del padre, udita tal nuova, corse a Cremona, poscia a Parma, e di là a Reggio. Dappertutto trovò i popoli in sedizione contra di lui per l'odiosa memoria di Bernabò; e però gli convenne ritirarsi a Mantova, con passare dipoi in Germania ad implorare aiuto dai duchi di Baviera e d'Austria suoi cognati. Il solo Mastino, altro figliuolo di esso Bernabò, ma assai giovinetto, perchè di soli dieci anni [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], corso a Brescia sua città con un buon nerbo di combattenti, sostenne per alquanti giorni l'assedio di quella cittadella aiutato dai Gonzaghi e da Antonio dalla Scala. Ma in fine capitolò la resa, con promettergli Gian-Galeazzo dodici mila fiorini d'oro l'anno sino a certo tempo, ma probabilmente con animo di nulla eseguire; che questo era il suo costume.

Così in poco tempo quella volpe di Gian-Galeazzo, dopo aver atterrato l'orso, giunse a formare una gran potenza in Lombardia, la qual cominciò a dar gelosia e timore a tutti i vicini. Ardita e pericolosa parve ai più sensati l'impresa da lui fatta; ma egli assai informato quanto si potesse promettere de' popoli, tutti disgustati per le bestialità, crudeltà ed estorsioni di Bernabò, si animò a tentarla, e gli venne fatta. E perchè un gran dire fu dappertutto, trattandosi di uno zio, egli pubblicò e mandò a tutti i principi un manifesto, in cui, coll'esporre in parte le iniquità di Bernabò e de' suoi figliuoli, cercò di giustificarsi come potè il meglio. Leggesi questo manifesto negli Annali Milanesi da me dati alla luce; ma non si può digerire ch'egli fingesse di essere stato assalito presso a Milano da Bernabò, e che per difesa il facesse prigione. Fu poi condotto Bernabò con Donnina sua amica nelle carceri del castello [809] di Trezzo, edificato da lui stesso, dove per più di sette mesi ebbe agio di riconoscere l'instabilità delle grandezze umane, e di chiamare ai conti la coscienza sua. Fugli poi dato il tossico, e nel dì 17 oppure 18 di dicembre, contrito de' suoi molti peccati, terminò i suoi giorni in età di sessantasei anni. Fece Gian-Galeazzo, per chiarir ben la sua morte, portare a Milano il di lui cadavero, dove gli furono fatte sì solenni esequie, come se fosse morto signore di Milano, se non che non avea lo scettro in mano. Gli fu poi data sepoltura in San Giovanni in Conca, dove tuttavia si mira la statua sua a cavallo. Potrebbe taluno maravigliarsi come di tanti principi, a' quali avea maritate Bernabò le sue figliuole, niuno alzasse mai un dito per aiutar lui o i suoi figliuoli. Ma così potente quasi in un momento divenne Gian-Galeazzo, che non osò alcuno d'affacciarsi; e poi a debil canna d'ordinario s'attiene chi si fida delle parentele. Per altro Galeazzo sapea l'arte di governar popoli. Consolò ogni città col diminuir le loro contribuzioni e gabelle, accordar que' privilegii che gli erano chiesti, levar gli abusi passati, e far ministrare buona giustizia ad ognuno. Il Gazata [Gazata, Chronic., tom. 18 Rer. Ital.], che fioriva in questi tempi, racconta aver egli ridotto l'aggravio di mille e ducento fiorini d'oro, che pagava il popolo di Reggio ogni mese, a soli quattrocento: conchiudendo ch'egli trasse dall'inferno le città già suddite di Bernabò, e le mise in paradiso. La tirannia, la crudeltà e il troppo salassare i popoli non furono mai il vero mezzo per continuare o propagare i dominii.

Fu in quest'anno guerra nel Friuli. Avea papa Urbano conferito il patriarcato d'Aquileia in commenda a Filippo d'Alanzone della real casa di Francia, cardinale vescovo di Sabina, e sua creatura [Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital. Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. S'ebbero a male quei d'Udine, perchè chiesa cotanto insigne e fornita [810] di sì nobil principato fosse ridotta alla condizion di tante badie, allora date in commenda, cioè in preda ai cacciatori di beni ecclesiastici, senza dar loro un vero patriarca. Però nol vollero accettar per signore, e pochi furono que' luoghi che a lui si sottomettessero. Si venne perciò all'armi. Ricorse il cardinale a Francesco da Carrara signor di Padova, siccome confinante per la tenuta di Trivigi, Ceneda, Belluno e Feltre; anzi fece a lui raccomandare da papa Urbano la protezione de' suoi affari. Perchè la brama o avidità di accrescere i proprii Stati è una febbre innata in tutti i dominanti, ma in chi più, in chi meno gagliarda a misura delle forze; il Carrarese vi saltò dentro a piè pari. Non è se non probabile che egli meditasse di procacciarsi una parte almeno di que' dominii. Ma i Veneziani, a' quali stava sul cuore ogni movimento del Carrarese odiato, si misero segretamente a dar aiuti di gente e danaro al comune di Udine. Nè ciò bastando, mossero contra di Francesco da Carrara il signor di Verona e Vicenza, cioè il giovane Antonio dalla Scala, pagandogli sotto mano ogni mese quindici mila fiorini d'oro. Invanitosi lo Scaligero per aver dalla sua la possente repubblica di Venezia, per quante preghiere e ragioni adoperassero gli ambasciatori padovani, non si volle mai rimuovere dal contratto impegno; e, fatta massa di gente, dimandò il passo per mandarla in Friuli in aiuto di Udine. Questo gli fu negato; e però cominciò a far delle scorrerie sul Padovano. Il Carrarese anch'egli per rendergli la pariglia, e a più doppii, fece cavalcar le sue genti con quelle del patriarca d'Aquileia sul Veronese e Vicentino, che ne riportarono inestimabil bottino. Mandò Antonio dalla Scala a dolersene col Carrarese, e gli fece con alterigia sapere di volerne vendetta, quand'anche dovesse perdere Verona e Vicenza; e che forse riuscirebbe ad un can giovine di prendere una volpe vecchia. Francesco da Carrara rigettò sulle genti del patriarca [811] quell'insulto, e saggiamente si offerì di far pace, e di rifare i danni dati. Ma lo Scaligero, sempre più alzando la testa, persistè nel suo proposito, ed attese più che prima a fornirsi di soldati. Nell'anno presente [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] cessò di vivere in Rimini Galeotto Malatesta signore di quella città, rinomato per la sua prodezza e saviezza. Pandolfo e Carlo suoi figliuoli unitamente succederono ne' suoi Stati. Furono ancora novità a' dì 13 di dicembre nella città di Forlì [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Italic. Annales Forolivienses, tom. 22 Rer. Ital.]. Quivi signoreggiava Sinibaldo degli Ordelaffi. Gli vollero risparmiar la fatica di comandare due suoi nipoti Pino e Cecco degli Ordelaffi; e però il presero e cacciarono in prigione, assumendo essi l'intero dominio di quella città.


   
Anno di Cristo mccclxxxvi. Indiz. IX.
Urbano VI papa 9.
Venceslao re de' Romani 9.

Dimorava tuttavia papa Urbano in Genova. Per soddisfare a quella repubblica [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], che dicea d'avere speso sessanta mila fiorini nell'armamento delle dieci galee inviate per trasportarlo colà, pagò colla roba altrui, cioè diede loro sotto l'apparente titolo di pegno tre terre che erano del vescovo d'Albenga. Intanto teneva in dure prigioni rinchiusi i sei cardinali seco condotti. Racconta Lorenzo Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 16 Rer. Ital. Sozomenus, Histor., tom. eod.], che essendosi, nel venire esso papa a Genova, fermato colle galee genovesi in Porto Pisano, Pietro Gambacorta, signore allora di Pisa, fu ad onorarlo, e insieme a pregarlo di mettere in libertà quegl'infelici porporati. Se li fece Urbano venire davanti: cadeano loro le vesti di dosso, erano squallidi e con barba lunga. Con aspre parole rinfacciò loro il delitto commesso; ma eglino [812] protestarono d'essere innocenti, e il chiamarono al giudizio di Dio, cioè a rendere conto della crudeltà che loro usava. Diede nelle smanie il pontefice, e li rimandò in galera, con rispondere poscia al Gambacorta, non meritar costoro compassione, dacchè non voleano chieder perdono del loro reato. In Genova [Theodoricus de Niem, Hist.] alle forti istanze del re d'Inghilterra liberò il cardinale Adamo Eston Inglese. Gli amici degli altri cardinali, uno de' quali era genovese, fecero più istanze ed anche delle congiure per liberarli. A nulla servì. Stette saldo il papa, e in fine, sempre diffidando di tutti quei che entravano nel suo palazzo, arrivò a farli morire. Chi disse che furono affogati in mare entro dei sacchi; ma Gobelino scrisse [Gobelinus, in Cosmod.] che furono strangolati in prigione. Senza orrore non si possono leggere azioni tali, che pregiudicarono troppo alla fama di questo pontefice. E perciocchè la congiura poco fa accennata per mettere in libertà quei miseri fece sospettare al papa che ne fossero autori due de' suoi cardinali, cioè Pileo da Prata arcivescovo di Ravenna, e Galeotto Tarlato da Pietramala; amendue, conoscendo a che pericolo fosse esposto chi solamente cadeva in sospetto presso un pontefice sì violento, se ne fuggirono da Genova, e andarono da lì a qualche tempo ad unirsi coll'antipapa Clemente. Intanto i Genovesi poco rispetto portavano a lui, e gli usarono anche delle insolenze, tanto col non fare giustizia dei congiurati suddetti, quanto col mandare i birri a far prigioni alcuni della famiglia d'esso papa nello stesso suo palazzo [Raynaldus, in Annal. Ecclesiast. Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.]. Il perchè Urbano, veggendosi strapazzato, determinò di mutar residenza; e nel mese di dicembre imbarcatosi, passò nella città di Lucca, dove nella vigilia del Natale con gran solennità, e coll'ossequio dovuto al vicario di Cristo, fu accolto.

[813]

Per la morte del re Lodovico d'Ungheria pretendea, siccome dicemmo, Carlo re di Napoli a quel regno. Appena dunque si fu allontanato dalle sue contrade papa Urbano, ancorchè restassero molti baroni e città in ribellione, pur volle accudire a quella conquista, sperando poscia colle forze degli Ungheri di poter più facilmente sbrigarsi da quei ribelli. E non gli mancavano frequenti e pressanti inviti dei principali baroni dell'Ungheria, dove egli stesso era stato allevato, e conservava non pochi amici. Fidatosi di così grandi promesse [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], nel dì 4 di settembre dell'anno precedente s'imbarcò, e con sole quattro galee e poca gente d'armi animosamente navigò verso il litorale dell'Ungheria. Quantunque la regina Maria, divenuta moglie di Sigismondo, fratello di Venceslao re de' Romani, possedesse quel regno, pure si trovava esso lacerato da diverse animose fazioni, volendo ognuna d'esse superiorizzare [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital. Bonfin., de Reb. Hung.]. Quivi dunque fu ricevuto il re Carlo con grande allegrezza e colle possibili dimostrazioni d'ossequio da ognuno, e nominatamente dalla regina Maria, e dalla regina Elisabetta sua madre, con passar fra di loro vicendevoli carezze. Andò tanto innanzi il maneggio, che di consentimento della maggior parte de' baroni Carlo fu coronato in Alba Reale re d'Ungheria. Portata questa nuova a Napoli nel dì 2 di febbraio, se ne fece gran festa; ma non tardò molto a seguirne il pianto. Le regine d'Ungheria, che aveano fin qui dissimulato il lor odio contra del re Carlo, sperando che andassero a voto i di lui disegni, allorchè si videro spossessate affatto del dominio, e passata in capo di lui la corona [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], tramarono col conte Niccolò da Zara, col vescovo di Cinque Chiese e con altri baroni di lor seguito la morte del re novello. Mentre egli dunque si trovava con esse in una [814] camera, entrò un Unghero che mortalmente il ferì nel capo a dì 7 di febbraio, e poi se ne fuggì, mostrando intanto le regine grande smania per tal tradimento. Forse sarebbe egli guarito dalla mortal ferita; ma il veleno fece del resto, di maniera che nel dì 24 d'esso mese con sentimenti cristiani terminò il suo vivere. Seguirono poi terribili rivoluzioni in Ungheria per cagione di questo eccesso, e ne furono aspramente perseguitate le regine, e tolta anche la vita alla madre; ma non appartenendo alla storia nostra quegli affari, li tralascio. Di esso Carlo restarono due figliuoli, Ladislao e Giovanna, amendue, perchè d'età incapace al governo, sotto la tutela della regina Margherita lor madre. Ma, uditasi la morte del re, allora sì che il partito degli Angioini si rinvigorì, e tutti i ribelli alzarono il capo. Non tardò ad accendersi più che mai la guerra. Tutta la casa Sanseverina, i conti di Cupersano, quei d'Ariano, di Caserta ed altri baroni vennero fin sotto Napoli con quattro mila e settecento cavalli; castello Sant'Ermo si ribellò; Napoli stessa, senza voler ubbidire alla regina, volle governarsi coi proprii uffiziali. Ed intanto i Sanseverini spedirono Ugo della lor casa in Francia, per far venire il giovinetto duca d'Angiò, e signor di Provenza, cioè Lodovico figliuolo dell'altro Lodovico d'Angiò, morto nell'anno antecedente, come s'è detto, in Bari [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Perchè una nave veneta carica di preziose merci, ma conquassata da una tempesta, era giunta a Napoli, e ne fu occupato tutto il carico della regina Margherita, se ne seppero ben vendicare i Veneziani: cioè le tolsero l'isola di Corfù e la città di Durazzo, incorporandole col loro dominio.

Sempre più s'andava riscaldando la guerra insorta tra Antonio dalla Scala signor di Verona e Vicenza, e Francesco da Carrara signor di Padova e Trivigi. Dopo varie ostilità riuscì nel dì 23 di [815] giugno [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Italic.] a Cortesia da Sarego, generale dell'armata veronese, e cognato dello stesso Scaligero, di superare i passi, e di entrar vittorioso sul Padovano, con far di molti prigioni, e stendere poi le scorrerie e i saccheggi sino alle porte di Padova. Quanto si ringalluzzì per questo felice colpo lo Scaligero, altrettanto restò piena d'affanni la città di Padova. Ma Francesco da Carrara, dopo aver confortato il popolo suo, ed animatolo a rifarsi del danno, mosse l'esercito suo contra dei nemici, che s'erano accampati alle Brentelle. Suo capitan generale era Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, maestro di guerra. Il vecchio Gataro vi mette anche Giovanni Aucud, Ugolotto Biancardo, Antonio Balestrazzo, Brogia, Biordo, Giacomo da Carrara, il conte da Carrara, fratelli naturali di Francesco. Ma il testo di quell'autore è qui difettoso; e s'ha da attendere l'altro del Gataro giovine, senza confondere le imprese dell'anno seguente col presente. Incontratesi dunque le due armate nel dì 25 di giugno, come ha anche il Gazata [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Italic.], vennero ad una general battaglia; e sul primo incontro furono rovesciate le schiere de' contadini padovani, e messe in fuga. Ma l'accorto Giovanni d'Azzo colle milizie veterane sì fieramente assalì le squadre nemiche, benchè molto superiori di numero, che le ruppe, e ne riportò un'intera vittoria. Restarono prigionieri lo stesso Cortesia da Sarego generale dei Veronesi, Ostasio da Polenta, ed un gran numero di altri nobili o conestabili, tutti registrati dai Gatari e dall'autore della Cronica Estense [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Diconsi ancora fatti prigionieri quattro mila e quattrocento sessanta soldati da piè e da cavallo, e tre mila quattrocento cinquanta di bassa condizione. Gran lunga meno ne dice il suddetto Cronista Estense, che merita in [816] ciò, a mio credere, più fede. Degli uccisi o annegati ottocento ventuno se ne contarono; scrive il Gazata mille e ottocento, e che il fatto d'armi durò quindici ore. Tutto allegro veniva al campo Antonio dalla Scala, perchè sul principio volò a lui l'avviso che i Padovani erano già in rotta. Sopraggiuntagli dipoi la nuova della totale sconfitta de' suoi, in fretta se ne tornò a Verona, malcontento sicuramente di sè stesso e dei suoi. Dopo questa vittoria, la quale non so come viene posta dal sopraddetto Cronista Estense circa il dì 12 di maggio, spedì Francesco da Carrara ambasciatori a Verona per esortar lo Scaligero ad una buona pace, con offerir anche onesti patti. Non ne riportarono essi se non delle orgogliose risposte. Anzi si diede lo Scaligero ad assoldare più che mai gente, e condusse il conte Lucio Lando al suo servigio con cinquecento lancie e quattrocento fanti. Riscattò ancora con danari i nobili prigioni. All'incontro, il Carrarese spinse le vittoriose sue milizie sul Veronese, che vi recarono immensi danni, e presero la bastia di Revolone. Trasse egli ancora al suo soldo il famoso capitan di guerra Giovanni Aucud, e maggiormente rinforzò l'esercito suo. Per lo contrario, rimesso in forze lo Scaligero, e creato suo capitan generale il suddetto conte Lucio, portò la guerra sul Trivisano, e fece di molti progressi e danni. Continuarono dunque le ostilità con gran vigore, finchè il verno consigliò tutti a prendere riposo. Ebbero guerra nella primavera dell'anno presente [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod. Gazata, Chron. Regiens., tom. eod.] i Bolognesi contra de' conti di Barbiano, ed assediarono quel castello. Al loro soldo si trovava il conte Lucio suddetto, che, secondo sua usanza, li tradì, e però nel dì 8 d'aprile si aggiustarono quelle differenze, restando il conte Giovanni padrone come prima di quel castello. Fecero i Bolognesi dipignere nel loro palazzo il suddetto conte Lucio, come traditore, [817] impiccato per un piede. S'era costui ritirato a Faenza, ed, unitosi con Astorre dei Manfredi signor di quella città, tornò ad infestare ii territorio bolognese, e a tener mano coi Pepoli banditi per farli ritornare in Bologna: il che costò la vita o il bando a molti. Oltre a ciò, nel dì 15 di giugno cavalcarono con tutte le lor forze i Bolognesi fino alle porte di Faenza, ardendo e saccheggiando. Seguì poscia accordo fra essi ed Astorre de' Manfredi. Ma nel dicembre di nuovo il conte Lucio colla sua compagnia venne sul Bolognese per vendicarsi dell'affronto a lui fatto, e grandi ruberie ed incendii ne seguirono.


   
Anno di Cristo mccclxxxvii. Indiz. X.
Urbano VI papa 10.
Venceslao re de' Romani 10.

Era tutto sconvolto, siccome dicemmo, per la morte del re Carlo il regno di Napoli; crebbero nell'anno presente i guai in quelle contrade. Perciocchè avendo i Sanseverini ed altri baroni del partito angioino commosso il giovinetto Lodovico duca d'Angiò, che s'era già intitolato re di Sicilia, cioè di Napoli, a venire in Italia, promettendogli la conquista di quel regno, egli mandò innanzi Ottone, duca di Brunsvich e principe di Taranto, con grandi forze. Ottone, siccome pratico del paese, prese quell'assunto, meditando vendetta della morte data alla regina Giovanna già sua moglie dal re Carlo contra dei di lui figliuoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Nel dì primo di giugno, unito egli coi Sanseverini e cogli altri baroni della sua lega, e con un copioso esercito, marciò alla volta di Napoli, incoraggito dalle dissensioni che bollivano fra la regina Margherita e i governatori della città eletti da quella nobiltà e popolo. Fu permesso a' suoi soldati di entrare nella città a cinquanta e sessanta per volta per fornirsi del bisognevole. Ciò dispiacendo alla fazion del re Ladislao e della regina sua madre, si venne un giorno a battaglia, [818] acclamando gli uni il re Ladislao e papa Urbano, ed altri il re Lodovico. S'inoltrò sì forte la briga, che la regina, temendo di sè e de' suoi figliuoli, nel dì 8 di luglio, dal castello dell'Uovo si trasferì a Gaeta, dove poi si fermò per anni parecchi. Venne Raimondo Orsino conte di Nola per sostenere la signoria della regina e la divozione a papa Urbano; ma essendo riuscito ad Ottone duca di Brunsvich d'entrare in Napoli nel dì 20 del suddetto luglio [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], non passò quel mese che prevalse affatto il partito angioino. Furono spediti ambasciatori al re Lodovico e all'antipapa Clemente, di modo che fu obbligato in quella città chi teneva per papa Urbano e pel re Ladislao a tacere. Vendetta allora fu fatta contra di coloro che si credeano aver avuta parte nella morte data alla regina Giovanna. Dimorava intanto papa Urbano in Lucca, mirando con dispetto le rivoluzioni di Napoli, tutte contrarie a' suoi interessi [Theodericus de Niem, lib. 1, cap. 63.]. Detestava egli Lodovico d'Angiò suo nemico e protettore del falso pontefice; ma non per questo aderiva punto al re Ladislao e alla regina Margherita sua madre. Avendo egli già fulminata la sentenza contra del re Carlo, e dichiarato devoluto il regno, non sapea fare un passo indietro. Gli mandò bensì la regina Margherita a Genova ambasciatori, pregandolo d'avere misericordia de' suoi figliuoli, e di permettere che all'ucciso re suo consorte fosse data l'ecclesiastica sepoltura. Anzi, sperando maggiormente di placarlo, liberò dalle carceri Francesco Butillo nipote di lui, e gliel'inviò fino a Genova. Nulla si potè per questo ammollire il duro cuore d'Urbano, che più che mai seguitò a far processi, e ad aggiugnere condanne a condanne contra della regina e de' suoi figliuoli; levò anche loro il principato d'Acaia. Gli cadde poscia in pensiero di poter conquistare per la santa Sede il regno di Napoli in mezzo ai rivali partiti; e giacchè era stato ucciso in Viterbo dai Romani Angelo [819] prefetto di Roma, ed era tornata quella città alla sua ubbidienza, da Lucca nel dì 23 di settembre si mosse egli, e trasferissi a Perugia, per essere più a portata dell'esecuzione de' suoi disegni.

Poichè non aveva potuto Francesco da Carrara indurre alla pace lo sconsigliato Antonio dalla Scala, non lasciò da lì innanzi via alcuna per atterrarlo affatto [Gatari, Istoria di Padova, tom. 18 Rer. Ital.]. Ebbe maniera di staccare da lui il conte Lucio, con promettergli dieci mila fiorini d'oro per regalo; e costui se n'andò. Quindi nello stesso mese di gennaio inviò l'esercito a' danni del Veronese sotto il comando di Giovanni d'Azzo e di Giovanni Aucud, due valenti e insieme accortissimi capitani, i quali per miracolo andavano ben d'accordo nel maneggio di questa guerra. Era con loro Francesco Novello da Carrara, primogenito del medesimo signor di Padova, con altri valorosi condottieri d'armi. Per lo spazio di quarantacinque giorni, dacchè furono entrati nel Veronese, continuarono a dare il guasto e saccheggio al paese. Ma usciti in questo mentre in campagna anche Giovanni degli Ordelaffi di Forlì e Ostasio da Polenta signor di Ravenna, capitani dello Scaligero, con armata più numerosa, cominciarono ad angustiar quella di Padova, con impedir le vettovaglie e levarle i foraggi; di maniera che furono obbligate le genti carraresi a ritirarsi a poco a poco per tornarsene sul Padovano. Grandi furono i disagi che patirono nel retrocedere, e si fu più volte vicino ad un fatto d'armi; ma gli avveduti generali de' Carraresi lo schivarono sempre per la debolezza in cui si trovavano le affamate loro milizie, tutto dì inseguite e molestate da' nemici. Allorchè furono essi giunti verso Castelbaldo al Castagnaro, talmente si videro incalzati e stretti dall'esercito veronese, che nel dì 11 di marzo convenne prendere battaglia. Vantaggiosamente si postarono i Padovani a un largo fosso, e quivi sostennero, anzi ributtarono più volte i nemici, essendo [820] già da qualche tempo introdotto l'uso delle bombarde da fuoco, le quali faceano grande strepito e strage. Dacchè ebbero i saggi capitani de' Carraresi fatto calar la baldanza all'oste contraria, Giovanni Aucud passò il fosso co' suoi, e con tal empito e forza assalì i Veronesi, che andarono a terra le lor bandiere, e in rotta tutto il campo loro. Secondo la lista che ne lasciarono i Gatari, restarono prigionieri circa quattro mila secento venti uomini d'armi a cavallo, fanti ottocento quaranta, e i due generali dello Scaligero, cioè Giovanni degli Ordelaffi ed Ostasio da Polenta [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], con altri assai nobili capitani, che furono poi tutti trionfalmente introdotti in Padova. Ma neppure per questa sì grave sconfitta prese miglior consiglio Antonio dalla Scala. Nel suo maltalento il mantennero i Veneziani, che gli mandarono tosto quaranta mila fiorini d'oro, promettendone anche più. E però quantunque il Carrarese di nuovo mandasse ambasciatori ad offerirgli pace, più testardo e adirato che mai contra del Carrarese, serrò gli orecchi ad ogni aggiustamento, e deluse ancora le pratiche fatte da Venceslao re de' Romani per riunir gli animi loro. Costò caro ai Veronesi e Vicentini questa pazza ritrosia del loro signore, perchè entrata ne' lor territorii l'armata dei Padovani, portò il sacco e la desolazione sino alle porte di Verona.

Stava intanto con occhio cerviere mirando queste rotture Gian-Galeazzo signor di Milano, e da quell'astuto che era pensò tosto a rivolgerle in profitto suo. Avea già nel precedente anno spediti ambasciatori tanto allo Scaligero che al Carrarese, offerendo lega nello stesso tempo ad amendue. Molto più continuò questo giuoco nell'anno presente. Francesco da Carrara, tra perchè gli premeva di non aver per nemico il potentissimo Visconte, con cui lo Scaligero era come d'accordo, e perchè vantaggiose esibizioni erano a lui fatte dal Visconte, strinse in fine lega nel dì 19 [821] d'aprile dell'anno corrente con lui. I patti erano, che vincendo toccasse a Gian-Galeazzo Verona [Corio, Istor. di Milano.], e al Carrarese Vicenza. Nel giorno stesso mandò il Visconte la disfida ad Antonio dalla Scala, allegando que' pretesti di muovergli guerra che non mancarono mai a chi colla voglia di conquistare può congiugnere le forze. Fu permesso a Giovanni d'Azzo di passare ai servigi del conte di Virtù, cioè dello stesso Gian-Galeazzo, che continuava a farsi chiamare così; e Giovanni Aucud anch'egli prese congedo dal signore di Padova. Restò nondimeno il Carrarese ben fornito di gente, e mentre il conte di Virtù mosse le sue armi contro lo Scaligero, e s'impadronì del castello di Garda, anch'egli spedì Francesco Novello suo figliuolo ed Ugolotto Biancardo suo generale sotto Vicenza. Fu molto bersagliata quella città, ma fu anche ben difesa, senza mai voler ascoltare proposizioni di resa. Di belle, ma simulate parole non di meno diedero que' cittadini, tanto che indussero l'esercito padovano a levar l'assedio, per attendere all'acquisto di varie terre tanto di quel territorio che del Friuli, giacchè Francesco da Carrara nello stesso tempo attendeva a quelle contrade [Gazata, Chron., tom. 18 Rer. Ital.]. Nel venerdì santo, d'aprile, entrarono per forza in Aquileia le genti sue, uccisero quegli abitanti, orridamente saccheggiarono fin le chiese, con asportarne i vasi sacri e le reliquie. E nella stessa maniera s'impossessarono nel settembre di Sacile e d'altri luoghi. Trovandosi Antonio dalla Scala in mezzo a questi due fuochi, e senza soccorso de' Veneziani, ch'erano dietro a ricuperar la Dalmazia; allora fu che conobbe gl'irremediabili falli delle sue malnate passioni, e che l'ira di Dio era sopra di lui. Mosse il re de' Romani Venceslao a ripigliare i negoziati di pace, e vennero in fatti nuovi ambasciatori a trattare col conte di Virtù, il quale colle sue arti li tenne a bada, tanto che [822] eseguì i segreti suoi maneggi. Erano questi un trattato tenuto da Guglielmo Bevilacqua nella città di Verona, che scoppiò nella notte del dì 18 d'ottobre. Troppo era stanco di quella guerra, e delle gravezze e de' saccheggi il popolo di Verona. Coll'aiuto d'alcuni cittadini traditori, dopo un fiero assalto dato alla porta di San Massimo, riuscì all'armi del conte di Virtù d'entrare in quella città. Antonio dalla Scala, consegnato il castello in mano a Corrado Cangier ambasciatore cesareo, se ne fuggì colla sua famiglia in barca per l'Adige a Venezia. Poco stette l'ambasciatore a far mercato del medesimo castello, e, ricevuta gran somma di danaro, se ne tornò col buon giorno in Germania.

Trovatisi poi quivi i segnali di tutte le fortezze, e di Vicenza stessa, il Bevilacqua tosto cavalcò a Vicenza con essi nel dì 21 del suddetto ottobre; e quel popolo fu ben istruito a rendersi a Caterina moglie del conte di Virtù, la quale, siccome figliuola di Regina dalla Scala, pretendeva al dominio di quella città; e con patto di non essere mai dati in mano del signore di Padova, troppo da loro odiato. Antonio dalla Scala dipoi rifugiatosi a Venezia, ma non sovvenuto dai Veneziani, e disprezzato dai Fiorentini e dal papa, per qualche tempo se n'andò ramingo. Finalmente, venendo con molti armati dalla Toscana nel mese d'agosto, sorpreso da malore (e fu detto per veleno) nelle montagne di Forlì, ossia di Faenza, miseramente terminò nell'anno seguente i suoi giorni, e tutto l'arnese suo andò a sacco [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Italic. Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Italic. Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Matth. de Griffon., Chronic., tom. 18 Rer. Ital.]. Lasciò un figliuolo maschio, tre figliuole e la moglie in istato poverissimo, a' quali fu assegnato il vitto dalla signoria di Venezia. Così quasi in un momento venne a mancare la signoria della famosa e potente famiglia [823] dalla Scala per la pazza condotta di Antonio, nella cui caduta e morte parve al pubblico di riconoscere i giudizii di Dio per l'assassinio da lui fatto al fratello. Si credeva poi Francesco da Carrara di cogliere anch'egli il frutto della guerra con Vicenza, a tenore delle capitolazioni della lega; ma ebbe che fare con un più furbo di lui. Scusandosi Gian-Galeazzo di non voler pregiudicare alle ragioni della moglie, alla quale, e non a lui, s'era data Vicenza, ritenne ancor quella per sè, facendo dipoi intimazione al Carrarese di non molestar da lì innanzi quel territorio [Chron. Estens., tom. 15 Rer. Ital. Gatari, Istor. di Padova, tom. 18 Rer. Ital.]. Che confusione, che rabbia allora rodesse il cuore di Francesco da Carrara, si può facilmente intendere. Per isbrigarsi da un debile nemico, se n'era tirato addosso un più potente, e il principio della sua rovina. Non dovea egli avere mai letto cosa fosse la società leonina. La regina Margherita tenne in quest'anno la città di Napoli ristretta per mare. Era quel popolo senza vettovaglia [Giornal. Napolit., tom. 21 Rer. Ital.]. L'industria e il valore di Ottone duca di Brunsvich e principe di Taranto sostenne quella città in maniera che fu provveduta, e schivò il pericolo di rendersi. Ma inviato dal re Lodovico monsignor di Mongioia per vicerè e governatore di quella città, Ottone, di ciò disgustato, si ritirò colle sue genti a Sant'Agata, e passò ai servigi del re Ladislao. Il castello dell'Uovo restava tuttavia in potere della regina Margherita madre d'esso Ladislao. Voglioso intanto Gian-Galeazzo Visconte di conservare ed accrescere la sua parentela colla real casa di Francia [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placentin., tom. eod.], diede nell'anno presente in moglie Valentina sua unica figliuola a Lodovico duca di Turena conte di Valois e fratello del re di Francia; parentado che egli piuttosto comperò, perchè diede in dote al genero ed immediatamente [824] consegnò la città d'Asti con varie castella del Piemonte. Dicesi che ne furono malcontenti gli Astigiani. Se ne ricordi il lettore, perchè vedremo questo matrimonio origine di gravi sconvolgimenti nello Stato di Milano. Presso Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] si legge lo strumento dotale d'essa Valentina coll'enumerazione di tutti i luoghi ceduti dal Visconte ad esso Lodovico suo genero.


   
Anno di Cristo mccclxxxviii. Indiz. XI.
Urbano VI papa 11.
Venceslao re de' Romani 11.

Fisso stava papa Urbano nel proponimento suo d'essere nemico a tutti e due i re litiganti pel regno di Napoli, cioè a Ladislao di Durazzo e a Lodovico II d'Angiò, lusingandosi egli di poter conquistare quel regno (per suo nipote, come fu creduto), dicendo d'esserne egli solo il padrone [Raynaldus, Annal. Eccles. Theodoric. de Niem, Histor. Gobel., in Cosmod.]. Cercò aiuti da Martino e Maria re di Sicilia; assoldò ancora molte soldatesche in Toscana e nel Patrimonio; mossesi in fine da Perugia per accostarsi maggiormente ai confini di Napoli. Ma, precipitato a terra nel viaggio dal mulo ch'egli cavalcava, e ferito in più parti, si fece condurre a Ferentino, senza voler badare alle preghiere di molti Romani accorsi per invitarlo a Roma. Tuttavia, perchè s'ammutinarono le milizie sue e l'abbandonarono, egli, vedendo fallite le sue speranze guerriere, nel novembre s'appigliò alla risoluzione di restituirsi a Roma, dove con poco onore entrò. Fu maggiormente assediato in quest'anno dal Mongioia e da' Napoletani angioini il castello di Capuana, che tuttavia ubbidiva al re Ladislao. Si difese per quanto potè il castellano; ma da che non venne fatto ad Ottone duca di Brunsvich e al conte Alberico gran contestabile [825] di dargli soccorso, tuttochè vi fossero accorsi con quattro mila e cinquecento cavalli, il castellano, non potendo più reggere, capitolò la resa nel dì 22 di aprile. Portò poscia il Mongioia l'assedio a Castel Nuovo; ma non potè mettervi il piede, perchè, venuti da Gaeta aiuti agli assediati, questi non si lasciarono più far paura da lì innanzi. Altri vedrà se questi fatti piuttosto appartenessero all'anno seguente. Di grandi mali faceano in questi tempi i corsari [Bonincontrus, Annales, tom. 21 Rer. Ital. Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] Mori di Tunisi ai lidi de' cristiani nel Mediterraneo. Spezialmente n'erano in pena Martino e Maria re di Sicilia. Adunque, per reprimere la baldanza di que' Barbari, s'accordarono co' Genovesi e Pisani, e composero una flotta di venti galee. Quindici d'esse furono di Genovesi sotto il comando di Raffaello Adorno. Ammiraglio dello stuolo fu Manfredi di Chiaramonte. Presero questi combattenti cristiani a forza d'armi l'isola di Zerbi, e quivi si fortificarono. Diede fine in quest'anno al suo vivere [Chronic. Estens., tom. 15 Rer. Ital.] Niccolò II marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena, Comacchio e Rovigo, nel dì 26 di marzo. Il magnifico suo, funerale fu accompagnalo dalle lagrime di molti. Passò la signoria al marchese Alberto suo fratello, contra del quale fu nel prossimo maggio scoperta una congiura [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.], maneggiata dal signore di Padova e da' Fiorentini, che mal sofferivano di vederlo divenuto amico del conte di Virtù. Il disegno era di ucciderlo, e di trasferire il dominio in Obizzo Estense suo nipote, figliuolo del già marchese Aldrovandino. Vi teneva mano anche la madre d'esso Obizzo. Fecesi rigorosa giustizia per questo. In fatti, se il defunto marchese Niccolò fu in addietro nemico dichiarato de' Visconti, non volle già imitarlo in questo il marchese Alberto. Anzi andò egli in persona con accompagnamento nobile nel dì 25 d'aprile a visitare [826] Gian-Galeazzo conte di Virtù, che tuttavia tenea la sua residenza in Pavia, e seco entrò in lega per le imprese che quell'astuto principe andava tutto dì macchinando.

Quanto più Francesco da Carrara signor di Padova ruminava il grande inganno fattogli dal suddetto Gian-Galeazzo, occupatore di Vicenza contro i patti della lega, tanto meno poteva egli astenersi dal chiamarlo spergiuro e traditore. E per tale il pubblicò anche nelle lettere scritte a tutti i principi. Durerà fatica il lettore a credere ciò che i Gatari [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.] lasciarono scritto; cioè che lo stesso Visconte il fece consigliare di lagnarsi di lui, per aver campo di vincere nel suo consiglio che fosse consegnata Vicenza al Carrarese. Più verisimile sembra che il dispetto naturalmente facesse prorompere Francesco da Carrara in invettive contra di chi l'avea burlato col mancare sì patentemente all'obbligo e ai patti. Ma ciò fece un bel giuoco al conte di Virtù, perchè gli servì di pretesto per intraprendere una nuova guerra contro alla casa di Carrara. Per effettuar questo disegno, ed impedire che alcuno non imprendesse la difesa del Carrarese, trattò e conchiuse lega nel dì 19 di maggio colla repubblica di Venezia [Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital.], promettendole la signoria di Ceneda, di Trivigi e d'altri luoghi; con Alberto marchese di Ferrara, accordandogli la restituzione di Este e d'altre terre anticamente spettanti alla casa estense; con Francesco Gonzaga signore di Mantova, e colla comunità di Udine. Mai non si avvisò Francesco da Carrara, benchè uomo di somma avvedutezza, che i saggi Veneziani potessero condiscendere alla maggiore esaltazione del conte di Virtù, e ad avere per confinante un sì potente signore che già facea paura a tutti. Ma s'ingannò, e non mancavano a lui peccati da farne penitenza anche in questa vita. Pertanto, ritrovandosi egli attorniato da tanti nemici, [827] e malveduto ancora da' Padovani, che mal sofferivano le tante nuove gravezze loro imposte, prese per necessità la risoluzione a lui suggerita di rinunziar Padova a Francesco Novello suo figliuolo e di ritirarsi a Trivigi, dove sperava più amore e fedeltà in quel popolo, tanto da lui beneficato. Nel dì 29 di giugno seguì la rinunzia, e nel dì seguente la partenza di Francesco il vecchio alla volta d'esso Trivigi. Fatta poi la disfida dal conte di Virtù, cominciò il suo possente esercito, guidato da Giacomo dal Verme, ad inondare il territorio di Padova. Altrettanto fecero dal canto loro i Veneziani. E quantunque Francesco Novello da Carrara animosamente colle sue troppo disuguali forze si opponesse, pure i nemici ora un luogo ora un altro andavano occupando; e passati, i serragli, sempre più si avvicinavano a Padova. A queste sue disavventure si aggiunse più d'una sollevazione fatta contra di lui dal popolo di Padova, sì per la troppo disgustosa visita della guerra in casa, come pel desiderio di mutar padrone, sperandone, secondo il costume delle umane lusinghe, migliore stato. In tal maniera crescendo ogni dì più il turbine esterno ed interno, Francesco Novello si ridusse a trattare d'aggiustamento. Mandò suoi ambasciatori al campo nemico, e finalmente si convenne con Giacomo dal Verme e coi provveditori veneziani che sarebbe permesso a lui d'andare in persona a trattare gli affari suoi col conte di Virtù, giacchè s'era egli figurato di poter ottenere buoni patti dalla magnanimità di quel principe; ma che intanto il castello di Padova verrebbe consegnato a titolo di deposito in mano del medesimo Giacomo dal Verme, da restituirsi, qualora non succedesse l'accordo, con altri patti, registrati nelle Storie dei Gatari. Fecesi la consegna del castello nel dì 23 di novembre, e in quello stesso giorno si mosse Francesco Novello da Padova con Taddea Estense sua moglie, co' figliuoli, e col meglio di sua roba in [828] oro, argento, gioie e danari, ascendente al valore di trecento mila fiorini d'oro, senza i panni; e s'inviò colla testa bassa alla volta di Verona per passare a Pavia. Già la città di Trivigi per sollevazion del popolo, che odiava il dominio de' Carraresi, s'era data alle armi del Visconte [Redus., Chronic., tom. 19 Rer. Ital.]. Erasi ritirato nel castello Francesco il vecchio. Gli fu spedito il marchese Spineta Malaspina a consigliarlo di rimettersi alla generosità del conte di Virtù. Di larghe promesse gli furono fatte, tanto ch'egli nel dicembre, consegnata quella fortezza agli uffiziali del Visconte, s'incamminò alla volta di Pavia. Ed ecco in poco tempo a terra la magnifica casa da Carrara, la quale non tardò a provare in che debili fondamenti ella avesse poste le sue speranze, e qual capitale s'avesse a fare del genio conquistatore del conte di Virtù. Intanto Padova, contro i patti, si diede ad esso conte, a cui nel dì 28 di dicembre fu spedita solenne ambasciata da quel popolo, con detestare il precedente governo dei Carraresi. Lo stesso fecero tutte le terre e fortezze, e Feltro e Cividal di Belluno. Oltre all'ingrandimento degli Stati, ebbe il conte di Virtù la consolazione ancora di veder nato un figlio maschio da Caterina Visconte sua moglie nel dì 7 di settembre dell'anno presente [Chronic. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], a cui fu posto il nome di Giovanni Maria.


   
Anno di Cristo mccclxxxix. Indiz. XII.
Bonifazio IX papa 1.
Venceslao re de' Romani 12.

Dimorando in Roma papa Urbano VI, andava meditando d'aprir egli il giubileo romano per l'anno 1390, giacchè desiderava questa gloria e contento [Theodoric. de Niem, Hist. Gobelinus, in Cosmod.], con aver insieme ordinato che da lì innanzi ogni trentatrè anni si celebrasse esso giubileo. Ma verso la metà d'agosto cominciò [829] a decadere la sua sanità, in maniera che alcuni sospettarono cagionata da veleno la sua infermità [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]. Continuò peggiorando sino al dì 18 di ottobre, in cui Dio il chiamò all'altra vita [Raynaldus, Annal. Eccles. Platina, Vit. Roman. Pontif.]. Lasciò di sè stesso una memoria infausta appresso gli storici, perchè colla sua imprudenza ed alterigia diede non picciola occasione al deplorabile scisma suscitato dall'altrui malignità ed ambizione, e perchè uomo rotto, implacabile, crudele, e volto più che ad altro ad ingrandire i proprii nipoti, che tardarono poco a svanire con tutte le lor grandezze e ricchezze. Per questo fu chiamato dall'autore degli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]: Vir pessimus, crudelis, et scandalosus, absque Consilio cardinalium, cujus dolis schismata incepere in Ecclesia Christi. Io so che la sua memoria è difesa dall'Ammirato [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 15.]; e pure è da pregar Dio che di simili teste calde, sprezzatrici del consiglio dei fratelli, ed atte a rovinar sè stesse ed altrui, niuna più sia posta al governo della Chiesa sua santa. Dai cardinali raunati in Roma al numero di quattordici fu poscia eletto papa nel dì 2 di novembre il cardinal Pietro Tomacelli Napoletano, benchè assai giovine, perchè uomo di petto, che assunse il nome di Bonifazio IX, e ricevette la corona nel dì 11 di esso mese. Eransi lusingati i Franzesi di veder finito lo scisma colla morte di papa Urbano VI, e che il loro antipapa Clemente verrebbe invitato a Roma. Poco stettero a disingannarsi, udita la creazion del novello pontefice, il quale non tardò a rimettere nei lor gradi quattro de' cardinali che per la acerbità del suo predecessore si erano ritirati dalla Chiesa romana. Continuava intanto la guerra nel regno di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]; e perciocchè il re Ladislao, dimorante in Gaeta colla regina Margherita sua madre, [830] era giunto ad età tollerabile per contraere matrimonio, fu conchiuso l'accasamento di lui con Costanza figliuola di Manfredi potentissimo conte di Chiaramonte in Sicilia [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]; e questa nel dì 5 di settembre giunse a Gaeta, condottavi da quattro galee siciliane. Si accomodò a queste nozze il giovinetto principe per cogliere una ricca dote in danaro, di cui era egli allora sommamente necessitoso; ma col tempo vedremo qual conto egli facesse di questa moglie e degli altrui benefizii. L'acquisto fatto nell'anno precedente dell'isola di Zerbi verso le coste dell'Africa [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] animò maggiormente in quest'anno i cristiani a tentar nuove imprese contra de' corsari tunesini. Quaranta furono le galee armate da' Genovesi, comandate da Giovanni Centurione, con venti altri legni grossi. Loro si unirono ancora alcune navi inglesi, e in questa flotta andò a militare con un corpo di bella gente il duca di Borbone della casa di Francia. Sbarcarono i cristiani verso Tunisi, fecero più battaglie, ma con isvantaggio, contro quei Barbari; laonde se ne tornarono indietro non sol senza guadagno, ma con grave danno e vergogna loro.

La potenza di Gian-Galeazzo Visconte, appellato conte di Virtù, la quale a passi di gigante andava crescendo, cominciò a mettere in apprensione non solamente i Bolognesi, ma anche i Fiorentini. I primi, perchè temeano ch'egli risvegliasse le pretensioni passate della casa sua sopra la loro città; e il timore passò presto in certezza [Matthaeus de Griffonibus, Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Essendosi scoperto nel dì 21 di novembre un trattato di alcuni cittadini di Bologna di dar quella città al conte di Virtù, costò loro la testa, e molti altri furono confinati. Per conto poi dei Fiorentini, vedeano essi che il conte di Virtù facea leva di gente in [831] Romagna [Ammirati, Istoria Fiorentina, lib. 15.]; eravi principio di rotture coi Sanesi, malcontenti de' Fiorentini a cagione di Montepulciano, e già inclinati a chiamare per lor protettore il Visconte, istigati dal desiderio di far calar l'alterigia a' lor vicini; e già ne aveano impetrato ducento lance. Ma che? il Visconte colla sua fina politica tanto in voce, che per mezzo de' suoi ambasciatori, non d'altro parlava che di pace, e si esibiva ancora a metterla in Toscana. Anzi, per meglio addormentare i potentati d'Italia, si mostrò ben pronto alla buona volontà di Pietro Gambacorta signore di Pisa, che facea premura di stabilire una lega per quiete d'ognuno. In Pisa dunque si trovarono gli ambasciatori del Visconte, di Ferrara, Mantova, Bologna, Perugia, Siena, Lucca e Firenze, degli Ordelaffi, dei Malatesti e d'altri signori; e si stipulò una lega fra loro; con qual frutto, non tarderemo a vederlo. Fino al dì 16 di febbraio restò la città di Trevigi [Gatari, Istor. di Pad., tom, 17 Rer. Ital. Caresin., Chron., tom. 12 Rer. Ital. Redusius, Chron., tom. 19 Rer. Ital.] in mano degli uffiziali del conte di Virtù. Forse anche di più vi sarebbe restata; ma l'apprensione della potenza veneta, e il sapere che il popolo di quella città acclamò solamente San Marco, e sospirava di passare sotto il saggio governo de' Veneziani, indussero finalmente il Visconte a consegnar quella città colle fortezze, e insieme Ceneda col suo distretto ad essa repubblica in esecuzion de' capitoli della lega. Parimente nel dì 17 di ottobre mise Alberto marchese di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] in possesso della nobil terra d'Este cogli altri luoghi a lui destinati nella lega suddetta. Nel dì 25 di giugno (e non già nel dì 15 di novembre, come ha il Corio [Corio, Istor. di Milano.]) esso conte di Virtù inviò a Parigi Valentina sua figliuola, maritata a Lodovico di Valois, che già dicemmo duca di Turena e fratello del re di Francia. Negli Annali [832] Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placentin., tom. eod.] e nella Storia del Corio si legge l'ampia nota dei gioielli, vasi d'oro e di argento, ed altri ricchi arnesi che seco portò questa principessa in Francia. Nel mese di novembre [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 7.] era stato gravemente infermo Guido da Polenta signor di Ravenna, e i suoi figliuoli Obizzo, Ostasio e Pietro già si credeano colla morte di lui di assumere il sospirato comando. Si riebbe egli dall'infermità; ma ciò che questa non fece, gli scellerati figliuoli fecero poco appresso, con prendere il padre, e confinarlo in una prigione, dove (il quando non si sa) infelicemente egli terminò la sua vita. Il Rossi e l'autor degli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] scrivono ciò avvenuto nel dì 28 di gennaio dell'anno seguente; ma l'autore della Cronica Estense, allora vivente [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], mette questo orrido fatto nel dicembre del presente. In Perugia ancora sorse fiera discordia fra i nobili e il popolo [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Furono uccisi da esso popolo venti persone di quei che si appellavano i Beccarini, e più di cinquecento esiliati, con occupar tutti i loro beni, in guisa che restò come desolata quella città.

Dimoravano Francesco il vecchio da Carrara in Cremona, e Francesco Novello suo figliuolo in Milano [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.], continuamente menati a spasso con belle parole dai ministri di Gian-Galeazzo conte di Virtù, ma senza mai poter muoversi di colà, e molto men di vedere la faccia del conte, che risedeva in Pavia. La rabbia di Francesco il giovane era immensa contra di lui, perchè contra de' patti gli avea preso il dominio di Padova senza prima seco accordarsi, e senza finora avergli assegnato alcun onorevol compenso. Tutto dì il chiamava traditore co' suoi famigliari; gli cadde anche in pensiero di ammazzarlo, e ne divisò anche la maniera; ma [833] avendo confidato l'affare ad Artuso conte, nobile padovano, a lui spedito dal padre, questi non per malizia, ma imprudentemente si lasciò uscir di bocca il segreto, tanto che la notizia ne pervenne a Gian-Galeazzo. Nulla di meno (e ciò sia detto in sua lode) Gian-Galeazzo, senza voler imitare i crudi tiranni, lo scusò, e dopo qualche tempo assegnò al Carrarese il possesso e dominio del castello di Cortesone nell'Astigiano, abitato da gente micidiaria, e inoltre cinquecento fiorini d'oro il mese. Mostrò Francesco Novello d'esserne contento, e solamente chiese licenza di poter abitare per quattro mesi in Asti, città ceduta dal Visconte al genero suo duca di Turena, finchè potesse far acconciare la casa dirupata che dovea servirgli di stanza. Accordatagli tal grazia, e preso il possesso del castello, andò con Taddea Estense sua moglie ad Asti. Quivi stando, ossia, come vuole l'Ammirati [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 15.], che segreto impulso gli fosse dato dai Fiorentini; oppure, come scrivono gli storici padovani, che lo sdegno suo incredibile contra del conte di Virtù, e insieme la speranza di ricuperare la perduta città di Padova, il movessero: determinò di fuggirsene. Fingendo dunque di voler andare a Vienna del Delfinato per adempiere un suo voto a santo Antonio, senza chiedere licenza, imprese il viaggio colla moglie nel mese di marzo di quest'anno, per quanto io credo, e passò l'Alpi. Nè sì tosto fu uscito de' confini del conte di Virtù, che fece anche uscir d'Asti tutti i suoi figliuoli, con ordine di passare a Firenze, dove anch'egli avea stabilito di portarsi. Andato ad Avignone, trattò coll'antipapa Clemente; poscia, imbarcatosi a Marsiglia, venne verso Genova, e parte per mare, parte per terra arrivò a Pisa, e finalmente a Firenze, dove si riposò. I pericoli da lui passati nel viaggio, e i patimenti sofferti furono ben molti. Bella è la dipintura che ne fa il Gatari iuniore nella sua Cronica. L'inaspettata fuga [834] del Carrarese sommamente dispiacque a Gian-Galeazzo Visconte, e fu poi cagione che sul fine di luglio facesse passare il vecchio Francesco di lui padre da Cremona nel castello di Como sotto buone guardie, senza dargli qualche libertà di trattare co' suoi, e con avergli occupato tutti i danari, gioie ed argenti per la somma di trecento mila fiorini d'oro. Avea lo scaltro vecchio mostrato, ed anche fatto intendere al conte di Virtù il singolar suo dispiacere per la fuga del figliuolo, e si esibì anche di farlo ritornare: al qual fine scrisse anche lettere assai calde al medesimo. Ma internamente giubilò per la coraggiosa risoluzione da lui presa; e a chi portava quelle lettere diede segreto ordine di maggiormente confortarlo a ricuperare il suo, senza apprendere i pericoli del padre, e di non mettersi mai più in mano del conte del Virtù con tutte le magnifiche sue esibizioni. Fermossi Francesco Novello in Firenze non poco tempo. Parve sulle prime grande il freddo di quei magistrati verso di lui, per non dar gelosia a Gian-Galeazzo; ma probabilmente in segreto trattavano con lui; e certo nell'andare innanzi gli mostrarono più affetto; giacchè quegli accorti cittadini tenevano per inevitabile la guerra coll'insaziabile signor di Milano. Un pezzo curioso e gustoso di istoria (torno a dirlo) è quello dei Gatari Padovani [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.] nella descrizion minuta delle avventure del suddetto Francesco Novello. Io appena le ho accennate, di più non permettendo l'assunto mio. Essendo ito in quest'anno Carlo VI re di Francia ad Avignone a visitar l'antipapa Clemente [Vita Clementis antipap., P. II, tom. 3 Rer. Italic.], per opera sua fu coronato nella festa dell'Ognissanti re delle due Sicilie Lodovico iuniore d'Angiò, che già meditava di venire in Italia. L'atto di quella funzione si legge nella raccolta del Leibnizio [Leibnitius, Cod. Jur. Gent., tom. 1, n. 107.].

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Anno di Cristo mcccxc. Indizione XIII.
Bonifazio IX papa 2.
Venceslao re de' Romani 13.

Creato che fu papa Bonifazio IX, non perdè tempo la regina Margherita a spedirgli da Gaeta ambasciatori [Raynald., Annal. Eccles. Theodor. de Niem, Histor.], per prestargli ubbidienza, e pregarlo di rimettere in sua grazia l'innocente suo figliuolo Ladislao, che era allora in età di circa quattordici anni. Bonifazio, meglio di quel che avesse fatto il suo predecessore, riflettendo alla necessità di proteggere gli affari di Ladislao, affine di opporlo al re Lodovico d'Angiò, creatura dell'antipapa, non solamente aveva assoluta la regina suddetta coi figliuoli nell'anno precedente da tutte le censure, ma nel presente ordinò ai popoli del regno di Napoli di ubbidire ad esso Ladislao, e mandò anche a coronarlo re in Gaeta per le mani di Angelo Acciaiuoli cardinale legato. Tanto maggior premura ebbe il pontefice di sostener gl'interessi di Ladislao [Vita Clementis antipapae, P. II, tom. 3 Rer. Italic.], perchè era già noto che il giovane Lodovico di Angiò s'affrettava per venire a Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Mossesi egli in fatti da Marsiglia nel dì 20 di luglio con ventuna tra galee e fuste, ed altri legni ben armati e forniti di copiose vettovaglie. Fu sbattuta da fiera tempesta la sua flotta; ciò non ostante, arrivò e sbarcò a Napoli nel dì 14 d'agosto. Per mal augurio fu preso che un Catalano, nell'inalberar la bandiera reale nella torre del Carmine, da un fulmine restò ucciso, e cadde con parte della torre la bandiera per terra. Risonò pel viva universale la città di Napoli; tutti i seggi gli giurarono fedeltà, e varie città e terre spedirono a riconoscerlo per loro signore. Sette mila fiorini d'oro applicati a Renzo Pagano castellano di castello Sant'Ermo operarono, ch'egli rimettesse in mano del re Lodovico [836] nel dì 19 d'ottobre quella fortezza. Capitolò ancora Pozzuolo, dopo aver sostenuto per lungo tempo l'assedio [Gobelinus, in Cosmodr.]. Celebrossi nell'anno presente il giubileo in Roma, col concorso d'innumerabili pellegrini, venuti particolarmente dalla Germania, Polonia, Ungheria, Boemia, Inghilterra ed altri paesi dell'ubbidienza di papa Bonifazio IX, ma non già dalla Francia e Spagna, che tenevano la parte dello antipapa. Di gran danaro raunò il pontefice con tal occasione, destinandolo al risarcimento delle chiese desolate di Roma, con impiegarne nondimeno buona parte in assoldar gente per dar soccorso al re Ladislao. Sul principio d'ottobre gl'inviò secento cavalli, e poscia condusse a' suoi servigi il conte Alberico da Barbiano, valente capitano, colle sue genti d'armi. Per tali spese occorreva gran somma di danaro; diede perciò facoltà a due cardinali di ricavarne coll'impegnare i beni delle chiese e de' monisteri; infeudò molte terre della Chiesa romana; e confermò i vicariati delle lor città ad Alberto d'Este marchese di Ferrara, ai Malatesti, agli Ordelaffi, agli Alidosi, ai Manfredi, ed altri signorotti della Romagna, imponendo loro l'annuo censo. Scomunicò eziandio l'antipapa Clemente, e Clemente dal canto suo [Vita Clementis antipapae, P. II, tom. 5 Rer. Ital. Annal. Foroliviense, tom. 22 Rer. Ital.] non mancò di fare lo stesso contra di lui. Essendo stato ucciso Rinaldo Orsino signore dell'Aquila, si diede quella città al sommo pontefice Bonifazio.

Già trasparivano i vasti pensieri di Gian-Galeazzo Visconte signor di Milano, inclinati alla monarchia d'Italia. Forze non gli mancavano, e meno molto l'ingegno e l'industria, potendosi egli contare pel più fino politico di questi tempi. Teneva egli corrispondenze e facea maneggi dappertutto, e massimamente in Toscana, dove avea già tratte all'aderenza sua le città di Siena e Perugia, disgustate de' Fiorentini [Ammirato, Istor. di Firenze, lib. 15.]. Avea anche delle tele [837] segrete in Pisa. Le parole sue e i suoi manifesti altro non sonavano che desiderii di pace; ma il contrario risultava dai fatti. Vegliavano intanto gli accorti Fiorentini, e veggendo ch'egli era dietro ad accendere il fuoco in Toscana, dacchè avea spedito a Siena Giovanni d'Azzo degli Ubaldini con assai squadre d'uomini d'armi, non tralasciarono diligenza e spesa veruna per mettersi in istato di fargli fronte. Certamente a quella repubblica soprattutto si dee, se il Visconte non assorbì allora la maggior parte d'Italia. Più d'ogni altra città era minacciata Bologna dalle armi di lui; e però, fatta lega con quel popolo, inviarono alla difesa d'essa il valoroso Giovanni Aucud lor generale con un corpo di combattenti. I Bolognesi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], che nell'aprile stavano in feste, ed aveano fatto un sontuoso torneamento, non lasciarono per questo, giacchè riconosceano il pericolo in cui si trovavano, di assoldar gente. Fecero venire per lor generale il conte Giovanni di Barbiano colla sua brigata d'uomini d'armi; ma nel passar egli pel distretto de' Malatesti, fu sconfitta la sua gente, ed insieme trecento lancie inviategli incontro da' Bolognesi. Pure egli arrivò a Bologna; ma nel dì primo di maggio colà giunsero ancora tre trombetti a sfidar quel comune. Uno era di Gian-Galeazzo, e gli altri due di Alberto marchese di Ferrara e di Francesco Gonzaga signore di Mantova; principi, ai quali conveniva allora far quello che voleva il Visconte, per non tirare la guerra addosso a sè stessi. Nel dì 4 d'esso mese entrò l'oste milanese, sotto il comando di Giacomo dal Verme, nel territorio di Bologna; andò all'assedio di Crevalcuore, e poco mancò che non se ne impadronisse. Ma uscito animosamente il popolo di Bologna, e fatta massa a castello San Giovanni in Persiceto, l'armata nemica levò il campo, e se n'andò con Dio. Ma eccola comparir di nuovo a' dì 20 di giugno, e pareva tutto disposto per venire ad un fatto d'armi, quando all'improvviso arrivò [838] ordine a Giacomo del Verme di tornarsene indietro. Il motivo di questo cangiamento di cose fu il seguente.

Dopo essersi fermato lungo tempo in Firenze Francesco Novello da Carrara [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], ed aver concertato con que' pubblici magistrati il come si avesse da far guerra al conte di Virtù, travestito avea impresi varii viaggi nell'anno precedente a Perugia, a Pisa e ad altri luoghi. Finalmente, passato in Germania, andò a trovare Stefano duca di Baviera per impegnarlo, secondo le istruzioni avute dai Fiorentini e Bolognesi, nella guerra contra del conte di Virtù. Trovò disposto quel principe a calare in Italia con un corpo d'armata. Passò ancora a Madrussa a visitar quel conte suo cognato, e ritrovato Michele da Rabatta onorato cavaliere, che tutto si offerì a' suoi servigi, fece quella leva che potè di alcune centinaia di lance tanto in Germania che nel Friuli. Ora Francesco Novello, come ebbe nuova che Gian-Galeazzo avea impegnate le sue armi contra de' Bolognesi, coraggiosamente con quel poco di gente se ne tornò in Italia con disegno di tentare il suo ritorno in Padova. Era egli assai informato che il popolo padovano, dianzi sì disgustato del governo carrarese, lungi d'aver trovato quel dolce che si figurava sotto il Visconte, ne provava l'amaro, e sarebbe volentieri ritornato all'ubbidienza primiera; rari essendo que' popoli che, perduto il proprio principe, e ridotta la lor città in provincia, non ne sentano eccessivo danno, tanto che giungono a desiderare un principe, quand'anche non fosse il migliore del mondo, piuttosto che essere governati, cioè desolati da mercenarii governatori. E già molti dei nobili padovani erano stati o carcerati o confinati a Milano, oppure se n'erano fuggiti.

Gran conforto fu questa cognizione al Carrarese, e molto più gli era stata la promessa a lui fatta dal duca di Baviera di condurre le sue armi in Italia contra [839] del signor di Milano. Passò egli pel Friuli col suo picciolo esercito, che nondimeno s'andò aumentando per istrada, concorrendo a lui massimamente i banditi da Padova. Appena giunto sul Padovano, a migliaia furono al suo seguito i villani armati, di modo che nel dì 19 di giugno si presentò alle mura del primo recinto di Padova, e diede un generale assalto [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Italic.]. La maggior parte di que' cittadini, all'udir Carro, Carro, e al veder le bandiere dell'antica casa da Carrara, e al sapere che v'era in persona Francesco Novello, non solo abbandonò la difesa delle mura, ma facilitò l'ingresso al Carrarese, che, entrato vittorioso, fece buona ciera a quanti si mostrarono allegri per la sua venuta. Nel dì seguente colla stessa facilità, aiutato da' cittadini, s'impadronì dell'interiore città, con essersi Luchino Rusca, Berretto Visconte e il marchese Spineta Malaspina ritirati nel castello insieme colla guarnigion milanese, continuando poi la guerra contra della città. Vennero in poco tempo alla divozion del Carrarese le terre e castella del distretto, ed egli non tardò a spedire ambasciatori a Venezia, Ferrara, Bologna e Firenze colla nuova della ricuperata città, per cui si fecero pubbliche feste nelle due ultime città. Anche i signori veneziani, dimenticate le ingiurie e gli odii passati, con più riguardo sì, ma con egual piacere, gustarono l'impresa del Carrarese, perchè mal volentieri si vedeano sì vicini al potente signor di Milano. L'aiutarono ancora con vettovaglie e munizioni da guerra. Quanto ad Alberto marchese di Ferrara, interamente anch'egli se ne rallegrò, ma il contrario mostrò in apparenza. Per la non mai aspettata perdita di Padova rimasero non poco sconcertate le misure del conte di Virtù, di modo che immediatamente, cioè nel dì 24 di giugno, richiamò dal Bolognese l'armata sua. Avvenne, che uditasi in Verona la novella [840] del cambiamento seguito in Padova, ed essere venuto con Francesco da Carrara il giovinetto Can Francesco dalla Scala, figliuolo del già Antonio signore di quella città, risvegliossi l'amore di molti di quel popolo verso la casa dalla Scala, e correndo colle armi alla piazza, contro il parere dei saggi e de' nobili, ribellarono la città, costrignendo il presidio milanese a ritirarsi nel castello, senza poi affossarsi e fortificarsi contra del medesimo. Eravi anche discordia fra i nobili e la plebe. Passò in quello stante Ugolotto Biancardo capitano del conte di Virtù, già spedito da lui con cinquecento lance all'assedio di Bologna, o, come è più probabile, al soccorso del castello di Padova, che vigorosamente si difendea. Giuntogli all'orecchio l'avviso della ribellion di Verona, mutato pensiero, tacitamente entrò di notte nel castello [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Poscia nella mattina seguente giorno 26 di giugno uscì furibondo contro gl'incauti Veronesi, uccidendo chiunque s'incontrava, senza trovarvi resistenza alcuna. Miserabil tragedia fu quella di sì nobile e ricca città. Tutta fu crudelmente messa a sacco senza distinzione d'innocenti e di rei, e senza risparmiare i luoghi sacri e l'onor delle donne, che furono in buona parte ritenute, quando il resto del popolo prese volontaria fuga, o ne fu cacciato, o imprigionato sì fieramente, che per qualche tempo restò desolata l'infelice Verona con orrore di ognuno.

Passò dipoi colle sue genti, e con alquante schiere di villani vicentini, Ugolotto Biancardo alla volta di Padova con voglia e speranza di fare un simile brutto giuoco a quella città, ed anche entrò nel castello, e si provò dipoi a dar battaglia a quei della città. Ma così ben ordinati trincieramenti avea fatto il Carrarese, e tal fu la difesa de' suoi, che il Biancardo, lasciato ben fornito quel castello, se ne ritornò indietro a Vicenza. Disponevasi [841] intanto il conte di Virtù per ispedire gran gente contro di Padova, quando i Bolognesi e Fiorentini interruppero i suoi disegni, coll'inviare le loro armi addosso al distretto di Parma. S'aggiunse che, sollecitato Stefano duca di Baviera da Francesco Novello per li soccorsi promessi, mandò innanzi secento cavalli, che nel dì 27 di giugno pervennero a Padova. Vi arrivò egli stesso dipoi in persona nel dì primo di luglio. Andrea Gataro scrive con sei mila cavalli ben in ordine; altri dicono con mille lance, cadauna di quelle, a mio credere, di tre o quattro cavalli. Con questo gagliardo rinforzo cessò il timore nel petto ai Padovani, e riuscì loro di costringere alla resa il castello di Padova, nel dì 25 ossia 27 d'agosto [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]; giacchè Ugolotto Biancardo, che ne' giorni addietro s'era mosso per tornare a rinforzarlo, rimase sconfitto dal conte da Carrara, fratello bastardo del medesimo Francesco Novello. Dopo tale acquisto non istette esso Carrarese in ozio; perocchè nel dì 19 di settembre, mosso l'esercito suo contro Alberto d'Este marchese di Ferrara, occupò nel Polesine la Badia e Lendenara, e passò all'assedio di Rovigo. Erano queste apparenze di nimistà fatte, per quanto si può credere, con intelligenza dell'Estense, affinchè egli si ritirasse con ragionevol motivo dalla lega contratta col signor di Milano. In fatti, essendosi interposto il duca di Baviera, con venir egli in persona a Ferrara nel dì 3 d'ottobre, seguì pace fra loro. Il Gataro iuniore [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.] scrive trattato questo accordo dalla signoria di Venezia, colla spedizion de' suoi ambasciatori a Padova. Certo è che il marchese abbandonò il conte di Virtù, amicossi col Carrarese, e colle comunità di Firenze e Bologna, ma colla neutralità verso il conte suddetto. Fin qui Antoniotto Adorno doge di Genova con sua lode e con vantaggio del pubblico avea retta quella [842] repubblica [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Nulladimeno, conoscendo egli cresciuta di molto l'invidia contra di lui, nel giorno 3 d'agosto imbarcatosi all'improvviso, si ritirò dalla sconoscente e sempre fluttuante città; perlochè fu in armi il popolo, ed elesse per successore di lui Jacopo da Campofregoso, figliuolo di Domenico, già doge della medesima città. In quest'anno ancora fu guerra in Toscana [Ammirato, Istoria di Firenze, lib. 15.]. I Sanesi col grosso corpo di gente, loro inviato dal conte di Virtù, sotto il comando di Giovanni di Azzo degli Ubaldini, e coll'aiuto de' Perugini lor collegati, diedero molto da fare ai Fiorentini, e presero alcune castella. Ma si raffreddò fra poco il loro ardire per la morte del medesimo Azzo, valoroso condottier d'armi, ed antico nemico de' Fiorentini [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], procurata, per quanto fu comunemente creduto, in Siena dai Fiorentini medesimi. Il Cataro, che il fa vivo nell'anno seguente, e intervenuto alle battaglie, a mio credere, s'ingannò. Anzi, per non potere il Visconte accudire alle cose di Toscana, a cagion delle mutazioni occorse in Lombardia, soffrirono i Sanesi non pochi danni per le scorrerie fatte dai provisionanti di Firenze nel loro territorio.


   
Anno di Cristo mcccxci. Indizione XIV.
Bonifazio IX papa 3.
Venceslao re de' Romani 14.

Poca materia degna d'osservazione ci viene in quest'anno somministrata dal regno di Napoli, dove la guerra lentamente procedeva fra i due emuli re Ladislao e Lodovico [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. All'ultimo venne fatto di costrignere alla resa il Castello Nuovo di Napoli, che per la fame non potè più lungamente resistere. Ma nel dì 2 di giugno se gli ribellò Pozzuolo, e tornò alla divozione del re Ladislao, che vien corrottamente, secondo l'uso del [843] volgo di allora, appellato Lancislao nella storia di Napoli. Molti de' baroni napoletani barcheggiavano in questi tempi, aspettando dove più inclinasse la fortuna. Il più potente fra essi era Raimondo soprannominato del Balzo, ma di casa Orsina, di cui si è parlato di sopra. Secondo il Rinaldi [Raynald., Annal. Eccles.], si studiò papa Bonifazio IX nell'anno presente di tirarlo nel partito del re Ladislao, con dichiararlo gonfaloniere della santa romana Chiesa. Altri, siccome vedremo, riferiscono questo fatto all'anno 1399. Inoltre esso papa [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] ricuperò la città di Spoleti dalle mani de' figliuoli di Rinaldo Orsino. Nel dì primo di novembre Amedeo VII conte di Savoia in età giovanile diede fine alla sua vita. Se vogliam credere al Guichenon [Guichenon, Histoir. de la Maison de Savoye.], cadutogli sotto il cavallo, mentre era alla caccia, di quella caduta morì. Merita però più fede l'autore contemporaneo della vita di Clemente VII antipapa, da cui sappiamo [Vita Clementis antipapae, P. II, tom. 3 Rer. Ital.] ch'egli mancò all'improvviso, e per veleno datogli, come fu creduto. Ebbe per successore Amedeo VIII non giunto per anche all'età di sette anni. Terminò ancora i suoi giorni il conte di Genevra, e senza prole. Per questo l'antipapa suo fratello prese il possesso e dominio di quella città, e tennelo fino alla morte. Erasi, come dicemmo, ritirato da Genova Antoniotto Adorno, e in suo luogo era stato eletto doge Jacopo da Campofregoso [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Nel dì 5 d'aprile rientrò l'Adorno in Genova, scortato da un corpo d'uomini d'armi de' marchesi del Carretto. Voltò subito mantello quel non mai quieto popolo, e, fatto smontare il Campofregoso, di nuovo acclamò doge l'Adorno, sotto il cui governo da lì a non molto la città di Savona si ribellò ai Genovesi. Nell'agosto di quest'anno insorse fiera guerra fra i Malatesti ed Antonio conte [844] d'Urbino [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.]. Pace fra loro fu poi conchiusa nel febbraio dell'anno seguente. Giacchè Alberto marchese di Ferrara godeva della pace, dopo avere abbracciata la neutralità in mezzo ai torbidi correnti allora [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], si mosse da Ferrara nel dì 8 di febbraio con superbo accompagnamento di nobili e cortigiani, tutti, al pari di lui, vestiti da pellegrini, e se n'andò a Roma a visitar papa Bonifazio IX, da cui, oltre all'assoluzione de' suoi peccati, conseguì molte grazie per la sua città di Ferrara, che tuttavia ne gode. Grande onore a lui fecero i Fiorentini, i Bolognesi e gli altri signori, per gli Stati de' quali passò.

Più che mai fecero in quest'anno i Fiorentini conoscere la loro risoluzione contra di Gian-Galeazzo signor di Milano. Non credevano salva la lor libertà, se non abbassavano sì gran potenza, e per abbassarla non perdonarono a spese [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 15.]. Erano essi malcontenti di Stefano duca di Baviera, pretendendo che venuto al soldo loro e de' Bolognesi in aiuto di Francesco Novello da Carrara, mai non avesse voluto guastar le sue belle truppe con esporle a qualche cimento contro gli Stati del Visconte. Il perchè, nata discordia, egli se ne ritornò colle sue genti in Baviera. Aveano essi, non tanto per difesa del Carrarese, quanto per allontanar dal loro paese la guerra, e tenerla in Lombardia, spedito a Padova il prode lor capitano inglese Giovanni Aucud con grosso corpo di genti d'armi. Poco fu questo. Aveano anche, a forza di danari e di promesse, mosso in Francia Giovanni conte d'Armagnacco a venire in Italia colla sua gran compagnia d'armati, per battere da più parti gli Stati del conte di Virtù. La prima impresa de' collegati fu di passare nello stesso gennaio sul territorio di Vicenza [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], e molto più su quel di Verona, [845] dove si lasciò la briglia ai saccheggi. Entrò questo esercito, venuto il febbraio, sul Mantovano, affine di obbligare Francesco Gonzaga, signore di quella città, a rinunziare alla lega col Visconte [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. eod. Chron. Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.]. Vi era intelligenza con lui, giacchè neppur egli si vedea sicuro da lì innanzi da chi era dietro ad ingoiar tutto. In fatti si staccò da quella lega, mostrando voglia per ora di starsene neutrale. Da lì a qualche tempo lo stesso Gonzaga, fatta processare come adultera Agnese, figliuola del già Bernabò Visconte, la privò di vita, dando con ciò motivo di molte ciarle ai curiosi politici. Fu infin creduto che il Gonzaga, per artificiosa trama del conte di Virtù, togliesse dal mondo la moglie. Il concerto intanto era che il conte di Armagnacco calasse in Italia di maggio colle sue genti, e dalla parte d'Alessandria assalisse gli Stati del conte di Virtù. Nello stesso tempo si dovea muovere Giovanni Aucud coll'armata de' collegati dal Padovano, e inoltrarsi sul Milanese, per isperanza d'unirsi coll'Armagnacco, e portar poi la guerra sino alle porte di Milano. Brutte erano senza dubbio le apparenze pel Visconte. A questo fine cavalcò Giovanni Aucud nel dì 10 di maggio colle forze de' collegati, ed entrò nel Bresciano, dando il sacco a quel paese e al Bergamasco. Penetrò ancora un buon corpo d'armati da Bologna sul Reggiano e Parmigiano [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], per tenere maggiormente distratte le armi nemiche. Ma nuova alcuna non s'udì nel mese suddetto, e neppur nel giugno seguente, dell'arrivo del conte d'Armagnacco; di modo che trovandosi intanto l'Aucud mancante di viveri, e insieme di qua e di là ristretto dalle guarnigioni ben disposte da Ugolotto Biancardo, oppure da Jacopo del Verme, capitani del Visconte, nel mese di luglio levò il campo. Inseguito da' nemici, diede loro una rotta, e poi con ordine maraviglioso [846] per mezzo al paese nemico si ridusse di nuovo sui confini del Padovano, carico d'onore e di bottino. Sulla fede di Andrea Gatari [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.] ho io scritta questa ritirata.

Ma eccoti avviso che l'Armagnacco è in Italia, e che viene furioso addosso al conte di Virtù. Tornò in campagna colle sue genti l'Aucud, e s'innoltrò fino sul Cremonese, per darsi mano co' Franzesi, se questi più si appressavano. Era il conte di Armagnacco in gran credito nel mestier della guerra; era parente della real casa di Francia, e seco conducea [Idem, ibid., Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Annales Mediolanenses, tom. eod.], chi dice quindici mila, chi dieci mila cavalli, e chi meno, con alcune migliaia di fanti. Venne egli baldanzoso, niun conto facendo de' Lombardi, anzi parlandone dappertutto con vilipendio. Fu il suo primo sforzo contro del Castellazzo, dove Jacopo del Verme generale di Gian-Galeazzo avea messo buon presidio. Usciti un giorno i difensori, diedero ad esso conte delle busse: il che fu cagione che egli s'ostinasse maggiormente a voler per forza quel castello. Come seguisse il resto delle sue imprese, v'ha discordia fra gli scrittori. A me sembra più da attendersi il racconto del Corio [Corio, Istor. di Milano.]. Venne un dì pensiero all'Armagnacco di riconoscere in persona la città di Alessandria, e con cinquecento de' suoi nobili e migliori cavalieri andò sino alle porte di quella città: e, smontato co' suoi, che andavano gridando: Fuori, o vilissimi Lombardi, stava aspettando, se uscivano. Irritato da tali ingiurie Jacopo dal Verme, colà inviato dal Visconte, spinse fuori cinquecento de' suoi più scelti combattenti, che attaccarono una cruda battaglia. Sostennero i Franzesi gran tempo, ma in fine sconfitti presero la fuga; indarno nondimeno, perchè quasi tutti rimasero prigioni. Lo stesso conte venne in poter dei nemici vincitori, e, condotto [847] in Alessandria, tardò poco a dar fine alla sua baldanza e a' suoi giorni, o per ferite, o per troppo essersi riscaldato ed avere bevuto [Poggius, Hist., lib. 3.], oppure, come alcuni sospettarono, per veleno. Per questa perdita spaventato il resto delle sue genti, si levò in fretta dall'assedio del Castellazzo; ma inseguiti alla coda dal valoroso Jacopo del Verme, e fra Nizza dalla Paglia ed Ancisa messi in rotta, buona parte d'essi fu uccisa o presa. Gran bottino fu fatto; e, presi gli ambasciatori fiorentini, si riscattarono a caro prezzo, non meno che gli altri nobili. Scrivono altri [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che seguì un general fatto d'armi tra i Lombardi e i Franzesi colla sconfitta degli ultimi. Comunque sia, indubitata cosa è che nel dì 25 di luglio una piena e mirabil vittoria ne riportò l'esercito del conte di Virtù, il quale perciò fece dappertutto fare gran festa.

Ora veggendosi egli liberato da questo turbine, v'ha chi scrive, aver egli tosto pensato a rispignere Giovanni Aucud, che s'era accampato sul Cremonese, con ispedirgli contro tutta la sua armata. Una delle imprese più rinomate di esso Aucud fu la ritirata ch'egli fece in questa congiuntura con tale prudenza e stratagemmi, che meritò di essere uguagliato ai più gloriosi capitani romani; di modo che, ad onta dei nemici incomparabilmente superiori di numero, e non ostante l'impedimento dei fiumi, diede loro delle percosse, e sano e salvo finalmente si ritirò colle sue milizie a Castelbaldo sui confini del Padovano. Ma ho io accennato due diverse imprese, cioè due ritirate fatte in quest'anno dall'Aucud; pure, ritrovandosi chi ne mette una sola (e forse con più verisimiglianza), desidero io che sia il suo luogo alla verità. Essere può molto bene che l'Aucud, prima che comparisse in Italia l'Armagnacco, sloggiasse dal Cremonese, nè più ritornasse in quelle parti. Così ha specialmente [848] la Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], che suol essere più fedele delle altre, perchè scritta da autori contemporanei. Ora il conte di Virtù, volendo vendicarsi de' Fiorentini, che coi lor maneggi e danari aveano messo a repentaglio il suo dominio [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 15.], spedì alla volta di Sarzana Jacopo del Verme, con ordine di assalire il distretto di Firenze, giunto che fosse sul Pisano, comandando nello stesso tempo alle altre sue genti alloggiate in Siena d'uscir anche elle coi Sanesi dall'altra parte a' danni de' Fiorentini. Preveduto questo colpo, fu richiamato frettolosamente da Padova in Toscana Giovanni Aucud colle sue soldatesche, e si provvidero i Fiorentini d'altre genti d'armi. Unitosi il Verme nel mese di settembre co' Sanesi, penetrò nel cuore del territorio fiorentino: ma gli fu sempre a fronte e a' fianchi l'accortissimo Aucud. Seguirono varii scontri fra loro, ora favorevoli ed ora sinistri, colla morte e prigionia di molti; ma niun riguardevole fatto d'armi accadde. Non si dee però tacere che la Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] racconta che nel dì 16 di dicembre, conducendo i Fiorentini da Pisa un gran convoglio di mercatanzie e vettovaglie, questo cadde in mano delle genti del Visconte, restando prese circa due mila some, e da secento cavalieri, che servivano di scorta ad esso convoglio. Nel mese di settembre, credendo il Visconte di trovare indebolito Francesco da Carrara per la partenza del suddetto Giovanni Aucud [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], inviò Ugolotto Biancardo con un altro esercito per infestare il Padovano. Piantò esso Ugolotto due bastie intorno a Castelbaldo. Ma il conte da Carrara, sopravvenuto col popolo di Padova, il fece, suo malgrado, ritirare, con dargli anche una pizzicata, e distrusse dipoi le inalzate bastie. Per testimonianza di Sozomeno [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.], in quest'anno i Sanesi, [849] che già erano sotto il patrocinio di Gian-Galeazzo Visconte, per maggiormente impegnarlo a sostenerli contro la potenza dei Fiorentini, lo elessero per loro signore; e cassati gli anziani ed altri magistrati, riceverono per loro governatore Andrea Cavalcabò a nome d'esso Visconte. Entrò in quest'anno Giovanni Sciarra col braccio della sua fazione in Viterbo, e, fatta strage di ducento di que' cittadini, e, cacciata fuor di città la parte contraria, violentemente s'impadronì di quella città.


   
Anno di Cristo mcccxcii. Indiz. XV.
Bonifazio IX papa 4.
Venceslao re de' Romani 15.

Dispiaceva forte papa Bonifazio l'arrabbiata guerra che si facea tra il conte di Virtù e i Fiorentini collegati col Carrarese [Corio, Istoria di Milano.]. Affine di smorzar questo fuoco, avea spedito Ricciardo Caracciolo, gran maestro dell'ordine di Rodi, a Firenze e Pavia per indurre le parti alla pace. E perciocchè anche Antoniotto Adorno doge di Genova con zelo avea fatte le medesime proposizioni, furono mandati a Genova gli ambasciatori delle potenze interessate; e, dopo grandi dibattimenti nel gennaio di quest'anno, si conchiuse una tregua di trent'anni fra loro [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Rinunziò Gian-Galeazzo alle sue pretensioni sopra Padova, con che Francesco Novello pagasse cinquecento mila fiorini d'oro al Visconte in cinquanta anni, dieci mila per anno. Andrea Gataro scrive [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], essere stati promessi solamente sette mila fiorini l'anno per anni trenta. Promesse sì lunghe sperava bene il Carrarese che non avrebbono effetto col tempo. Di Francesco il vecchio suo padre, che era prigione in Como (altri scrivono in Monza) nulla si parlò, figurandosi il figliuolo di poterne poi ottenere la liberazione dalla magnanimità di Gian-Galeazzo, se pure egli si curò molto [850] di riaverlo vivo. Gli altri capitoli della tregua, che fu pubblicata nel dì due di febbraio, si leggono presso il Corio, e son anche riferiti negli Annali del Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Disputandosi in quell'accordo, chi ne sarebbe garante, Guido Tomasi, ambasciator fiorentino, la finì con dire [Ammirati, Istoria di Firenze, lib. 16.]: La spada sarà mallevadrice per tutti. Ma poco fidandosi i potenti d'Italia del Visconte, principe che colle forze grandi univa poca fede per la cocente voglia di dilatar le fimbrie, vollero assicurarsi in avvenire contra i di lui tentativi. Francesco Gonzaga signore di Mantova quegli fu che più degli altri si mosse. Andò a Roma, Firenze, Pisa, Bologna e Ferrara, e fermò una segreta lega di tutte queste potenze, la qual conchiusa in Bologna nel dì 11 d'aprile, accresciuta nel progresso, finalmente nel dì 8 di settembre fu gridata in Mantova, e si scoprì che v'erano entrati anche Francesco Novello da Carrara, ed Astorre ossia Eustorgio de' Manfredi signore d'Imola. N'ebbe gran rabbia Gian-Galeazzo Visconte, il quale in questi tempi attese a fabbricare il fortissimo castello, che tuttavia sussiste nella città di Milano, ed ebbe nel dì 23 d'esso mese la consolazione di veder nato da Caterina sua moglie un secondogenito, a cui fu posto il nome di Filippo Maria [Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nè si vuol tacere che di molte insidie furono tese al suddetto Gonzaga nel suo ritorno da Roma; il perchè fu necessitato a venir per mare in Toscana, e di là a Firenze e Bologna. Gli facea la caccia il conte di Virtù.

Cominciò in quest'anno il giovinetto re Ladislao a tentar sua fortuna contra dell'emulo suo re Lodovico [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Nel dì 10 d'aprile spedì le sue genti allo sterminio della potente casa de' Sanseverini, che teneva gran signoria in Calabria. Andarono ben fallati i suoi conti; imperciocchè, sentendo questa mossa i Sanseverini, [851] cavalcarono un dì e una notte con fare settanta miglia (se tanto si può fare), e sull'alba assalirono il campo nemico, che a tutt'altro pensava, con isbarattarlo, far molti prigioni e guadagnar buon bottino. Si contarono fra i prigioni Ottone duca di Brunsvich principe di Taranto, ed Alberico conte di Barbiano. Costò al primo il riscatto non più di duemila fiorini d'oro; non più di tre mila all'altro, ma colla promessa di non militare per dieci anni contra di loro. Assai danaro si ricavò dalle altre persone di taglia, se vollero conseguire la libertà. Lorenzo Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] riferisce più tardi questo sinistro avvenimento, per cui il conte Alberico venne poi a militare in Lombardia. Andò il re Ladislao a Roma nel dì 30 di maggio, dove immensi onori gli furono fatti. E perciocchè la regina Costanza già era venuta in isprezzo ad esso re, ed era successivamente mancato di vita Manfredi di Chiaramonte Siciliano suo padre, Ladislao propose in Roma l'annientamento del suo matrimonio (secondo alcuni, non peranche consumato) con essa regina, allegando di avervi consentito senza la necessaria età, e come per forza, e ne riportò sentenza favorevole: perlochè la sfortunata principessa, deposti i titoli regali, e trattata qual privata femminuccia, fu poi collocata in matrimonio ad altri, siccome diremo. Tornato a Gaeta Ladislao, uscì finalmente per la prima volta in campagna coll'esercito de' suoi baroni, a' quali la regina Margherita teneramente colle lagrime sugli occhi il raccomandò. S'impadronì dell'Aquila, e fece prigione il conte di Monopoli. Fu attossicato in Capoa, e durò fatica a salvare la vita. Costrinse ad abbracciare il suo partito Tommaso Marzano duca di Sessa, ammiraglio del regno, e Stefano Sanseverino conte di Matera. Mise anche in rotta i nemici a Monte Corvino, luogo che in quella congiuntura andò a sacco.

[852]

Nell'anno presente [Raynald., Annales Ecclesiast. Histor. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.] Maria regina di Sicilia, condotta in addietro per forza in Aragona dalla fazione aragonese, e maritata a don Martino della real casa d'Aragona, venne col marito in Sicilia, correndo il mese di febbraio. Dopo avere oppressa, anzi spiantata la fazione contraria de' Chiaramontesi, Palermo, Catania ed altre città, vennero alla loro ubbidienza: al che si può credere che influisse non poco l'aver essi abbracciato il partito del vero pontefice Bonifazio IX. Ma essendo i medesimi da lì a qualche tempo tornati a riconoscere l'antipapa Clemente, si risvegliò una fiera ribellione in quell'isola, di modo che, a riserva di Messina, Siracusa e la rocca di Catania, tutto il rimanente si sottrasse al loro dominio. Non mancavano in tanto a papa Bonifazio turbolenze ne' suoi Stati, e cresceva l'impegno di sostener la guerra contra del nemico re Lodovico d'Angiò in favor dell'amico re Ladislao. Grande era il bisogno di danaro, ed egli per questo continuò ad impegnare i beni delle chiese di Roma, e ad erigere la metà delle annate per la collazion de' benefizii; del che furono universali le doglianze del clero, nè minori si sentirono per le decime imposte dall'antipapa al clero di Francia, e pur convenne pagarle. Grave discordia e guerra civile avea in addietro lacerata la città di Perugia per le fazioni de' Beccarini e Raspanti. S'invogliò quel popolo di chiamar colà papa Bonifazio, il quale, già disgustato delle insolenze a lui fatte dai Banderesi romani, non ebbe discaro di accettar quella città per sua residenza [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], con esigere innanzi che in mano sua fossero rimesse le porte e le fortezze. Si portò egli colà nel dì 17 d'ottobre, e si studiò di rimettere la pace fra i cittadini, pace nondimeno che, secondo l'abuso di quei tempi, non fu di lunga durata.

Dominava in Pisa da gran tempo [853] Pietro Gambacorta, governando, secondo varie Croniche, umanamente e saviamente quel popolo. Racconta all'incontro ne' suoi Annali il Tronci [Tronci, Annal. Pisani.], esser egli venuto in odio a tutti i cittadini di Pisa, non già per le azioni sue, ma per la prepotenza e per le insolenze de' suoi figliuoli, e d'altri della famiglia medesima. Somma confidenza aveva egli data a ser Jacopo d'Appiano, ossia da Pisano, uomo, benchè vile di nascita, benchè malvagio in eccesso, pure suo segretario favorito, di modo che per mano di costui passavano tutti gli affari più importanti di quell'illustre città. La bandita fazion de' Raspanti manteneva segrete corrispondenze con questo mal arnese; anzi lo stesso Gian-Galeazzo Visconte per fini suoi politici nascostamente fomentava stretta amicizia con lui; nè il Gambacorta seppe mai prestar fede ai Fiorentini e ad altri che gliel mettevano in sospetto. Per effettuare i suoi scellerati disegni l'Appiano, vecchio allora di settant'anni, occultamente introdusse in Pisa molte centinaia d'uomini suoi parziali, chiamati specialmente da Lucca e dalla Garfagnana [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Venuto il dì 21 di ottobre, uccise Jacopo Rosso de' Lanfranchi, uno de' primarii cittadini: fatto, per cui tutta la città fu in armi. Ancorchè non apparisse disposizione alcuna dell'ingratissimo Appiano contra del suo signore, pure Pier Gambacorta si afforzò con Lorenzo e Benedetto suoi figliuoli, e co' suoi provisionati. Ma non cessando di fidarsi dell'Appiano, restò miseramente ucciso egli, feriti e presi i suoi figliuoli, anch'eglino furono tolti dal mondo. Dopo di che il traditore Appiano ebbe seguito e forza per farsi proclamare signor di Pisa: colpo che sommamente increbbe ai Fiorentini, i quali, perduto un buon amico, ebbero da lì innanzi un dichiarato nemico in costui, siccome creatura [854] di Gian-Galeazzo Visconte, che all'aperta si diede poscia a conoscere gran protettore di lui. I fuorusciti allora rientrarono tutti in Pisa; ne uscirono i parziali de' Gambacorti, e non pochi altri de' migliori cittadini, e fra gli altri lo stesso arcivescovo Lotto Gambacorta. Di gravi molestie soffrì ancora in quest'anno la Toscana dalla compagnia di masnadieri raunata da Azzo da Castello e da Biordo de' Michelotti [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 16.]. Per liberarsene furono obbligati i Fiorentini a sborsare quaranta mila fiorini d'oro, sette mila i Sanesi, dodici mila i Pisani, otto mila i Lucchesi. Ecco se sapeano dare dei buoni salassi questi assassini. Altra via di cacciar costoro non ebbero i Perugini, che d'invitare alla lor città il papa, siccome abbiam già detto. In Genova gran commozione fu nell'anno presente contro ad Antoniotto Adorno doge di quella istabile repubblica [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Antonio Viale vescovo di Savona nel dì 19 d'aprile fu il primo ad entrar coll'armi nella città; ma preso e cacciato in un'orrida prigione fu costretto per qualche tempo a far penitenza dell'attentato sconvenevole ad un pari suo. Altro sforzo fu fatto nel maggio, ma con poco successo, contra di esso doge. Finalmente nel dì 16 di giugno i Guelfi tutti, prese le armi, fecero battaglia cogli avversarii, costrignendoli alla fuga, di modo che anche l'Adorno segretamente si ritirò fuori della città, e in luogo suo fu creato doge Antonio di Montaldo, parente del medesimo Adorno, benchè in età di soli ventitrè anni.


   
Anno di Cristo mcccxciii. Indizione I.
Bonifazio IX papa 5.
Venceslao re de' Romani 16.

Mentre papa Bonifazio dimorava in Perugia [Raynaldus, Annal. Eccles.], co' suoi buoni maneggi trasse [855] alla sua divozione il popolo d'Ancona, dianzi attaccato all'antipapa. Per guadagnarsi l'affetto de' Bolognesi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], accordò loro quanti privilegii e grazie seppero addimandare, confermando loro, fra le altre cose, il supposto privilegio di Teodosio imperadore. Acconciò ancora i suoi affari con altre città della Marca, lasciando ad esse la libertà, purchè pagassero un annuo censo. Viterbo, occupato da Giovanni Sciarra, gli era tuttavia contrario; ma i Romani, antichi nemici di quella città, ostilmente usciti contro alla medesima, obbligarono colla forza l'usurpatore a ricorrere alla clemenza del pontefice. Camerino, Jesi, Fabriano, Matelica ed altri luoghi occupati da varii signori, anch'essi gli ubbidirono, salva la signoria di que' potenti, che promisero censo anche essi. Ma nel mese d'agosto ebbe fine la quiete di Perugia, e la residenza del pontefice in quella città. Ne era esclusa la fazione de' Raspanti, ed, unitasi questa alla compagnia de' masnadieri di Biordo de' Michelotti, Perugino di patria, si portò sotto Perugia. Trattossi d'accordo, e, il papa, credendo alle promesse di que' fuorusciti, permise loro l'ingresso nella patria. Male per la fazion contraria de' Beccarini, contra dei quali non tardarono ad incrudelire col ferro i nuovi entrati; e non potendo il pontefice frenar così fatto furore, si ritirò ad Assisi. Entrò poscia Biordo in quella città, rimasta desolata, e tirannicamente ne prese il dominio. La partenza del papa da Perugia fu cagione che i Romani s'invogliarono di farlo ritornare a Roma. Spedirongli a questo fine ambasciatori; e giacchè non ebbero difficoltà a prendere quelle leggi che loro prescrisse il papa, il videro comparire a Roma, prima che terminasse l'anno presente. Ma non terminarono in quest'anno le violenze di Biordo [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Avea papa Bonifazio, secondo l'uso del nepotismo d'allora, creato marchese della Marca [856] Andrea suo fratello di casa Tomacelli. Biordo l'assediò in Macerata; per interposizione de' Fiorentini si salvò Andrea [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.], con avergli i Maceratesi pagata la somma di mille fiorini d'oro. Diversamente scrive Bonincontro, con dire che Biordo l'ebbe prigione, e ciò viene confermato da Teodorico di Niem [Theodoricus de Niem, Hist.]. Fu poi riscattato con danari dal papa, e Biordo s'impadronì di varie città e castella della Marca. Anche i Malatesti, cioè Carlo e Pandolfo, nel mese d'agosto coll'oste loro andarono fin sotto Forlì saccheggiando il paese. Poco vi mancò che non facessero prigioni Francesco e Pino degli Ordelaffi, i quali poi colla valevole applicazion del danaro liberarono per ora dalle forze de' nemici il loro paese.

Guerra non fu in quest'anno in Lombardia, ma si videro bene i preludii di quella che nacque nel seguente [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Italic.]. Penava Gian-Galeazzo Visconte a tenere in freno il rancore conceputo contra di Francesco Gonzaga signore di Mantova, perchè egli s'era staccato da lui, e molto più perchè avea manipolata una sì forte lega a' suoi danni, ed ultimamente ancora, unito ad Alberto marchese d'Este, era stato a Venezia a trattar con quella signoria. Intendeva ben egli a che fine esso Gonzaga, aiutato dai collegati, avesse piantato un ponte sul Po a Borgoforte, e ben afforzatolo ai due lati. Pertanto gli venne in pensiero di far anch'egli un brutto scherzo al Gonzaga con divertire dal loro letto le acque del Mincio. Fece a questo oggetto tagliare un monte presso a Valezzo; fece far di grandi chiuse ed altri lavorieri con incredibili fatiche e spese. Se riusciva il disegno, addio Mantova. Restava essa priva del lago, cioè della sua fortificazione, e vicina ad essere spopolata per l'aria fetente delle paludi. Ma più possanza ebbe l'escrescenza del fiume, che le invenzioni degli [857] architetti, e andò a male tutto quel dispendioso lavoro: disgrazia, a cui soccombe facilmente chi vuol far da maestro alla forza de' fiumi. Se ne erano ingelositi forte i collegati, e tennero per questo i loro ambasciatori un parlamento in Ferrara; e veduto poi che il fiume da sè stesso avea provveduto al bisogno, altro non fecero per allora. Venne a morte nel dì 30 di luglio [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.] Alberto marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena, Rovigo e Comacchio, principe di sempre cara ricordanza; e a lui d'unanime consenso dei popoli succedette nel dominio Niccolò marchese d'Este suo figliuolo, già investito degli Stati dal papa e dall'imperadore [Delayto, Annal., tom. eod.]. Era egli in età di nove anni e mesi, e però gli furono assegnati dal padre alcuni nobili per tutori, sotto la protezione dell'inclita repubblica di Venezia, la quale, unitamente co' Bolognesi, Fiorentini e Mantovani, inviò rinforzi di milizie a Ferrara e Modena [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], per sicurezza del giovinetto principe, e per isventar le trame che potesse tentare il conte di Virtù. Fu ancora in questo anno un terribile sconvolgimento nella discorde città di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. eod.] per li tentativi fatti più volte da Antoniotto Adorno affin di ricuperare la perduta dignità di doge. Troppo lontano mi condurrebbe l'argomento, se narrar volessi quegli avvenimenti, diffusamente descritti da Giorgio Stella. A me perciò basterà di accennare che il doge Antonio di Montaldo, cedendo alla forza, si ritirò. Pietro da Campofregoso fu assunto a quella dignità da alcuni; ma cadde anch'egli. Venne proclamato da altri Clemente di Promontorio; neppur egli durò. Con più bella apparenza fu esaltato Francesco Giustiniano del fu Garibaldo. Vi furono battaglie, e con tutti i suoi sforzi Antoniotto Adorno nulla potè ottenere. Finalmente, [858] prevalendo la fazione d'Antonio di Montaldo, questi riacquistò nel dì primo di settembre il trono ducale, e tornò alla sua quiete la scompigliata città, con restar nulladimeno in moto i mali umori delle detestabili fazioni. Guerra fu in quest'anno [Chron. Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.] fra Carlo e Pandolfo de' Malatesti signori di Rimini, Pesaro e d'altri luoghi dall'un canto, e Cecco e Pino degli Ordelaffi signori di Forlì. Si venne a battaglia fra loro nel dì 8 di agosto presso alla villa di Bosecchio, e ne andarono sconfitti gli ultimi, con lasciar molti prigionieri in mano de' nemici. Fin qui era stato ritenuto prigioniere nel castello di Monza [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] Francesco il vecchio da Carrara, trattato nondimeno con umanità da Gian-Galeazzo Visconte, quando s'avvicinarono i giorni suoi al fine. Mancò egli di vita nel dì 6 d'ottobre dell'anno presente; e il Visconte, uomo di massime grandi, fattolo imbalsamare, con esequie magnifiche gli celebrò il funerale. Ottenne dipoi Francesco Novello il cadavero del padre, e, fattolo condurre a Padova, quivi con solennissima pompa gli diede sepoltura nel dì 20, oppure 21 di novembre. L'orazione funebre fatta in tale occasione da Pietro Paolo Vergerio, insigne oratore di questi tempi, colla descrizione del funerale, fu da me data alla luce [Verger., Orat., tom. 16 Rer. Ital.].


   
Anno di Cristo mcccxciv. Indizione II.
Bonifazio IX papa 6.
Venceslao re de' Romani 17.

Terminò in quest'anno i suoi giorni l'ambizioso antipapa Clemente VII, dimorante allora in Avignone, lodato da quei della sua fazione, detestato e abborrito dagli altri [Vita Clementis antipapae, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Succedette la morte sua nel dì 16 di settembre, mentre l'Università della Sorbona e Carlo VI re di Francia [859] si maneggiavano forte per trovar ripiego colla forza allo scandaloso scisma che, tuttavia durando, producea innumerabili sconcerti nella Chiesa di Dio, essendo specialmente divenuta troppo familiare la simonia. Forse questo maneggio accelerò la morte di lui. Ma nulla si guadagnò coll'esser egli mancato di vita; perciocchè i cardinali del seguito suo raunati, senza voler ascoltare ragioni, gli diedero per successore da lì a dodici giorni il cardinal Pietro di Luna, che prese il nome Benedetto XIII, uomo d'ingegno destro, molto eloquente e negoziator finissimo. Abbiamo da Teodorico di Niem [Theodoricus de Niem, Hist.] che quest'uomo furbo, finchè fu cardinale, dappertutto parlando ai principi e predicando ai popoli, detestò sempre lo scisma, e fu inteso più volte dire, che s'egli arrivasse mai al papato, avrebbe ridotta la Chiesa alla sua prima unione. Fu questo uno de' motivi per cui i cardinali di Avignone concorsero ad eleggerlo. Mostrò egli anche dipoi la sua premura di metter fine a quella tragedia, in iscrivendo le lettere circolari della sua elezione ai principi: parole speziose per farsi credito, perchè i fatti gridarono dipoi sonoramente in contrario. Intanto papa Bonifazio IX non tralasciava diligenze per tirar nel suo partito gli aderenti in addietro all'antipapa Clemente, senza punto mostrar disposizione ai ripieghi che si proponevano per levare lo scisma. Nè già mancavano torbidi allo Stato ecclesiastico [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. Biordo Perugino proditoriamente s'impadronì d'Assisi nel dì 22 di maggio. Pandolfo Malatesta occupò Todi, poi Narni; diede il guasto ai territorii di Spoleti e di Terni, e introdusse in Orta i Bretoni ed altri soldati dell'antipapa. Fu perciò fulminata contra di lui la scomunica; ma questi fulmini in que' cattivi tempi poca paura faceano ai potenti di larga coscienza. Anzi abbiamo dalla Cronica di Forlì [Chron. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] che Carlo e Pandolfo Malatesti [860] comperarono nel dì 13 di luglio Bertinoro da papa Bonifazio per ventidue mila fiorini di oro: il che si dee credere fatto prima della scomunica. Grande applicazione davano intanto ad esso papa gli affari di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Si andava rinforzando il giovinetto re Ladislao per terra e per mare con disegno di tentare qualche impresa contra del nemico re Lodovico d'Angiò. Ma, giunta a Gaeta una fiera pestilenza, si ritirò esso re fuori della città con tutta la corte. Poco vi stette, perchè due galee di Mori fecero in quella marina più di cento schiavi; il che consigliò Ladislao a tornarsene in città. Fu circa questi tempi proposto da' mediatori ch'esso re desse in moglie all'Angioino Giovanna sua sorella, e cadaun d'essi tenesse quel che possedeva. Ladislao escluso da Napoli non vi trovò i suoi conti. Ma per lo sforzo che egli meditava di fare, troppo sfornita trovandosi la di lui borsa, nel dì 27 di ottobre con quattro galee si partì da Gaeta, e andossene a Roma. Per conto degli onori n'ebbe in eccesso, ma non così della pecunia. Tuttavia ricavato dal pontefice e da' cardinali quanto ne potè, nel dì 19 di novembre se nè tornò a Gaeta [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Avvenne che mentre egli dimorava in Roma, gl'insolenti Banderesi romani, cioè i capurioni delle milizie urbane, si levarono a rumore contra del papa, talmente ch'egli corse anche pericolo della vita. Il re colle sue guardie si oppose, e gli riuscì poi di mettere la concordia fra loro. Scrive Sozomeno storico ciò succeduto nel mese di maggio. Abbiam veduto che, secondo gli Annali Napoletani, Ladislao di ottobre si trasferì a Roma.

Perderono i Fiorentini quest'anno, a dì 17 di marzo, oppure, come ha Matteo Griffoni [Matthaeus de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.], nel mese d'agosto, il prode lor capitano, stato dianzi gran masnadiere d'Italia, cioè Giovanni Aucud, al quale fu data con sommo onore sepoltura in [861] Santa Maria del Fiore, dove tuttavia si mira la di lui memoria. A forza di danari s'accordarono con Biordo Perugino. Costui, dopo avere smunto dai Sanesi venti mila fiorini d'oro, entrò nella Romagna, e diede il sacco a varie terre. Jacopo di Appiano, tiranno di Pisa, temendo di costui, impetrò da Gian-Galeazzo Visconte quattrocento lancie, ed egli ben volentieri le spedì colà, per meglio assicurarsi di quella città. Turbata fu più che mai, nell'anno presente, la città di Genova dalla discordia e dalle sedizioni de' Guelfi e de' Ghibellini [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Il già doge Antoniotto Adorno con isforzi novi tentò di risalire sul trono, e deporre il doge Antonio di Montaldo. Furono in armi tutte le fazioni. Veggendo il Montaldo di non potere resistere alla possanza degli avversarii, nel dì 24 di maggio, deposte le redini del governo, si ritirò a Savona, indi a Gavi, per far guerra alla città. Niccolò di Zoaglio in luogo suo fu eletto doge; ma per poco tempo, perchè gli succedette colla forza Antonio di Guarco, proclamato doge da buona parte del popolo. Contra di questo nuovo doge essendo entrato in Genova Antoniotto Adorno, trovatosi abbandonato da' suoi, restò prigione; ma fu rilasciato con varii patti. Sino al dì ultimo d'agosto Antonio di Guarco tenne saldo il suo governo: ma, essendo rientrato in Genova l'Adorno, ed accolto con sonoro applauso da numeroso popolo, nella notte precedente al dì 3 di settembre esso Guarco prese la fuga, e si salvò anch'egli a Savona. Prevalendo allora i Ghibellini contra de' Guelfi, attaccarono il fuoco al palazzo dell'arcivescovo, cioè di Jacopo del Fiesco, e ad altre case dei nobili guelfi. Nello stesso dì 3 di settembre da' suoi parziali fu di nuovo eletto doge Antoniotto Adorno, ma con restare in armi i deposti Antonio di Montaldo, e Antonio di Guarco, i quali mossero le armi straniere contro la patria per sostenere la pugna. Infatti nell'anno presente, chiamato da [862] essi il sire di Cossì Franzese, ed assistito da Carlo marchese del Carretto, e dai nobili Doria, entrò armato nella riviera occidentale di Genova, e prese Diano, con far correre voce di sottoporre quella contrada al re di Francia. Ma non avendo tali forze da poter compiere sì vasto disegno, non tardò molto a ritirarsi. Restò la città di Genova e tutto il suo territorio in gran confusione per tali discordie e per tanti pretendenti.

Era, siccome dicemmo, succeduto al padre nella signoria di Ferrara Niccolò II marchese d'Este [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Contra di questo giovinetto principe insorse Azzo marchese Estense figliuolo di quel marchese Francesco che fuoruscito di Ferrara, e divenuto generale delle armi di Galeazzo Visconte, vedemmo far guerra agli Estensi allora dominanti. Ora anch'egli animato dall'età del marchese Niccolò incapace del governo e sotto mano fiancheggiato da Gian-Galeazzo signor di Milano [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.], cominciò più trame contro lo Stato di Ferrara, e trasse varii nobili e vassalli della casa d'Este nel suo partito. Obizzo da Monte-Garullo, castellano nelle montagne del Frignano, fu il primo ad alzar bandiera, con occupar varie castella di quelle contrade. Accorse l'esercito del marchese, ed unito coi Lucchesi nemici del medesimo Monte-Garullo, lo obbligò, dopo varie battaglie ed assedii, a chieder mercè. Venne con salvo condotto a Ferrara, ed ottenne da chi gli prestò fede più di quel che poteva sperare. Sollevossi ancora Francesco signor di Sassuolo, ed aiutato da Azzo signor di Rodea, prese Monte Baranzone ed altri luoghi in quelle parti. Era liberal di promesse il marchese Azzo verso chiunque gli aderiva [Delayto, Annal., ubi sup.]; e, facendo loro sperare alcuno degli Stati che si doveano conquistare, od altri premii, sollevò altri vassalli della casa d'Este contro il marchese Niccolò, con giugnere a farsi de' partigiani in Ferrara [863] stessa. Tuttavia, a riserva di alcune terre che si ribellarono, non potè Azzo far progressi, perchè da Venezia, Bologna e Firenze vennero nuovi soccorsi a Ferrara; ed Azzo da Castello, valoroso mastro di guerra, general del marchese Niccolò, non solamente fece svanir tutti i disegni dei nemici, ma anche assediò Castellarano, finchè tra la vicinanza del verno, e le genti che segretamente spediva in aiuto de' ribelli Gian-Galeazzo Visconte, gli convenne ritirarsi. Ribellatasi nel dì 7 di marzo di quest'anno [Hist. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.] la città di Catania a don Martino re di Sicilia, per mare e per terra fu da lui assediata, e colla fame forzata a rendersi nel dì 5 d'agosto. Cento mila fiorini d'oro dovettero pagar que' cittadini in pena della loro ribellione. Già pensava Carlo VI re di Francia allo acquisto di Genova [Corio, Istor. di Milano.]; e, per non aver contrario Gian-Galeazzo Visconte, conchiuse seco una lega in quest'anno; ed allora fu [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che il Visconte cominciò ad inquartar coll'arme sue del biscione i gigli della real casa di Francia. Anche il sire di Cossì, a nome di Lodovico divenuto duca d'Orleans e signore di Asti, cioè del marito di Valentina Visconte [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.], nel dì 16 d'ottobre fece lega con Teodoro marchese di Monferrato, ed in questa entrò anche Amedeo di Savoia principe della Morea.


   
Anno di Cristo mcccxcv. Indizione III.
Bonifazio IX papa 7.
Venceslao re de' Romani 18.

Con sommo zelo si adoperò in questo anno [Raynaldus, Annal. Eccles.] Carlo VI re di Francia coll'Università di Parigi per estinguere il pernicioso scisma della Chiesa di Dio, e spedì ambasciatori all'antipapa Benedetto, con proporgli varie maniere per giugnere alla riunione. [864] Cercò l'astuto ogni sutterfugio per sottrarsi alla cessione, e solamente si appigliò al ripiego di abboccarsi e di trattare con papa Bonifazio, ben riflettendo che mai per tal via non sarebbe seguito accordo alcuno. In questi tempi il pontefice Bonifazio attese a fortificarsi in Roma, con ridurre lo stesso Campidoglio in forma di fortezza: del che mormoravano non poco i Romani. Ma i maggiori suoi pensieri erano rivolti a dar vigore al re Ladislao, per desiderio di veder detronizzato il nemico re Lodovico d'Angiò, signoreggiante in Napoli. Spedì pertanto ad esso Ladislao un gran rinforzo di galee ed assai brigate di combattenti, acciocchè si portasse allo assedio di Napoli [Theodericus de Niem, Histor.]. In premio di tai soccorsi impetrò che il re investisse del ducato di Sora i pontificii nipoti. Ora Ladislao, uniti che ebbe tutti i suoi baroni e le forze sue, nell'aprile di quest'anno si portò all'assedio di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], strignendo quella nobil città per mare e per terra. Entro d'essa il re Lodovico, fornito di copiosa cavalleria niun timore, mostrava. Durò l'assedio sino al dì 15 di maggio, in cui, sopraggiunte quattro galee di Provenza, diedero la caccia alle pontificie, e furono cagione che Ladislao levasse il campo, e si ritirasse ad Aversa e poscia a Gaeta colle mani piene di mosche. Per maneggio de' Sanseverini l'almirante duca di Sessa di casa Marzano si staccò da lui, e si unì col re Lodovico. Nel dì 26 di dicembre Ladislao maritò con Andrea da Capoa Costanza di Chiaramonte, stata sua moglie, e ripudiata. Andando essa a marito, pubblicamente nella piazza di Gaeta piagnendo disse al novello sposo, doversi egli tenere per ben fortunato, dacchè avrebbe da lì innanzi per concubina la moglie del re Ladislao. Gran dispiacere e pietà recarono a tutti queste parole. Ma in tempi sì sconcertati le iniquità maggiori trovavano passaporto.

L'anno fu questo in cui Gian-Galeazzo, deposto il basso e miserabile titolo [865] di conte di Virtù [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.], prese quello di duca di Milano. Si procacciò egli questa onorevol dignità da Venceslao re de' Romani, per quanto fu creduto, collo sborso di cento mila fiorini d'oro. Il privilegio a lui conceduto da esso Venceslao in Praga nel dì primo di maggio dell'anno presente, vien riferito negli Annali Milanesi. Quivi egli è dichiarato duca di Milano a titolo di feudo con tutti gli onori e l'autorità competente a sì sublime grado. Nell'anno seguente, con altro diploma dato in Praga nel dì 13 d'ottobre, lo stesso Venceslao confermò al medesimo Gian-Galeazzo il ducato di Milano, e insieme la contea di Pavia, colle altre città e terre da lui possedute e dipendenti dall'imperio: cioè Brescia, Bergamo, Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Tortona, Bobbio, Piacenza, Reggio, Parma, Cremona, Lodi, Crema, Soncino, Borgo San Donnino, Verona, Vicenza, Feltro, Belluno, Bassano, Sarzana, Carrara, ed altre terre e ville con più ampia autorità. Non v'intervenne l'assenso degli elettori, i quali poscia fecero a Venceslao un reato di tal concessione. Ora nel dì 5 di settembre, o piuttosto, come ha il Delaito [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], nel dì 8 d'esso mese, festa della Natività della Vergine, si diede, con ammirabil sontuosità in Milano esecuzione alla grazia, avendo Benesio Camsinich, deputato da Venceslao, conferito il manto e le altre insegne ducali al nuovo duca [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Fu onorata questa magnifica funzione, di cui, oltre all'autore degli Annali di Milano, lasciò anche il Corio una copiosa relazione, da molti vescovi, dagli ambasciatori di quasi tutti i potentati d'Italia, e da innumerabil popolo, e festeggiata da suntuosissime giostre, tornei, conviti ed altri pubblici divertimenti; nè da gran tempo avea veduto l'Italia sì maestosi solazzi. Prese dunque il Visconte da lì innanzi il nome di Gian-Galeazzo duca [866] di Milano e conte di Pavia [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Maggiori sforzi fece in quest'anno il marchese Azzo Estense contra del marchese Niccolò signor di Ferrara. Con promettere Comacchio e la riviera di Filo ad Obizzo e Pietro da Polenta, signori di Ravenna e Cervia, li guadagnò al suo partito. Allettò ancora con danari ed altre promesse Cecco degli Ordelaffi signore di Forlì. Ma sopra tutti s'impegnò in favore di lui Giovanni conte di Barbiano, uomo solito a pescare nel torbido. Raunato un esercito di Romagnuoli, nel dì 20 di gennaio s'inviarono questi alla volta di Ferrara. Ma quando men sel pensavano, essendo venute loro incontro le milizie e il naviglio di Ferrara, nel passare che essi faceano il Po di Primaro, furono sconfitti e obbligati a tornarsene indietro. Ora giacchè il marchese Azzo tuttodì andava ordendo nuovi tradimenti contro la persona del picciolo marchese Niccolò, e dei suoi consiglieri e tutori, venne in mente a questi ultimi di valersi de' medesimi mezzi per isbrigarsi una volta da guerra sì dispendiosa, credendo lecito tutto contra di un indebito perturbator dello Stato, già processato e condannato con taglia.

Pertanto, trovandosi il marchese Azzo nelle terre di Giovanni conte di Barbiano [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 16.] trattarono, con esso conte di farlo uccidere, promettendogli in ricompensa la ricca e nobil terra di Lugo, e quella di Conselice, oltre ad una buona somma di danaro, che si dice ascendesse a trenta mila fiorini d'oro. Seguì l'accordo nel mese di marzo; fu mandato Giovanni da San Giorgio, come persona fidata, da Ferrara, che si accertasse della morte di Azzo. Ma memorabil sempre sarà la truffa che il conte di Barbiano fece in questa occasione [Chronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Matthaeus de Griffon., tom. eod.]. Dacchè il marchese Azzo fu ben riconosciuto dal deputato ferrarese, si ritirò esso Azzo in una vicina camera, dove immediatamente fece vestir de' suoi [867] abiti e del suo cappuccio un tal Cervo da Modena, familiare del conte, che gli si rassomigliava non poco. Scagliatisi poi addosso a questo misero innocente gli sgherri, a forza di pugnalate il tolsero di vita, avendolo specialmente ferito nel volto. Le grida e gli urli erano uditi dall'incauto messo ferrarese, che, dipoi entrato, vide steso a terra, e conobbe morto il creduto marchese Azzo. Dopo avere spedita la nuova a Ferrara, andò egli tosto coi segnali a lui confidati a dare il possesso delle terre di Lugo e Conselice a Giovanni conte di Barbiano, che le tenne per sè, ed anche per giunta fece prigioni le guarnigioni estensi, le quali poi convenne riscattar con danaro. Grande strepito fece per tutta Italia questo avvenimento; ma Iddio, che non paga ogni sabbato sera, raggiunse a suo tempo questo manipolator di tradimenti. Ne furono sì irritati i Veneziani, Fiorentini, Bolognesi, e i signori di Mantova e di Padova, che tutti inviarono nuovi rinforzi di gente a Ferrara, co' quali gran guerra fu cominciata contro le terre d'esso conte di Barbiano, con dare il guasto a tutto il paese, e piantar bastie in più siti. Crebbero, ciò non ostante, le segrete cabale dei marchese Azzo; trovò in Ferrara non pochi disposti ad una gran congiura; passò nell'aprile con quanti armati potè ottenere dal conte di Barbiano sul Ferrarese; ed accorsero in servigio di lui a migliaia i villani, allettati da voce sparsa del secolo d'oro sotto di lui. Già egli s'inviava verso Ferrara, quando nel dì 16 d'aprile, arrivato alla villa di Porto, si vide in faccia l'esercito ferrarese, con cui volontariamente s'era venuto a congiungere Astorre de' Manfredi signor di Faenza seco menando secento uomini d'armi. Si attaccò una crudel battaglia; vi fu messo a fil di spada più d'un migliaio di que' villani; sterminata copia s'ebbe di prigioni, e contossi fra loro il marchese Azzo, preso dal conte Corrado di Altimberg Tedesco. Fecero il possibile i Ferraresi per averlo in mano, ma l'accorto [868] Astorre il fece condurre nelle carceri di Faenza: con che respirò l'afflitta Ferrara. Si andava in questi tempi sempre più rinforzando di gente Gian-Galeazzo duca di Milano, con aver egli fra le altre provvisioni condotto al suo soldo il conte Alberico da Barbiano, famoso capitano, dopo averlo co' proprii danari riscattato dalla prigionia nel regno di Napoli. Continua gelosia davano questi ed altri segreti andamenti del duca ai collegati, e massimamente a Francesco signore di Mantova: il perchè neppur essi lasciavano di far preparamenti per difendersi dalle insidie di questo potente e industrioso avversario.


   
Anno di Cristo mcccxcvi. Indiz. IV.
Bonifazio IX papa 8.
Venceslao re de' Romani 19.

In quest'anno ancora molti passi furono fatti per tentare la riunion della Chiesa dai re di Francia, Inghilterra, Aragona e Castiglia. Il mezzo più proprio sembrava quello della cessione, cioè che amendue i pretendenti rinunziassero la dignità, per divenire all'elezione d'un solo. Ma abborrendo troppo l'oramai scoperto ambizioso antipapa Benedetto questo ripiego, l'università di Parigi appellò da lui al papa futuro legittimamente eletto [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Furono anche spediti ambasciatori a papa Bonifazio per esortarlo alla cessione; trovarono anche lui più alieno dell'altro da questa risoluzione. Tornarono in quest'anno i Perugini all'ubbidienza d'esso pontefice, e in grazia di lui fu rimesso Biordo de' Michelotti, che avea occupata quella città, Orvieto ed altri luoghi. Vien ciò riferito da Sozomeno [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital. Theodoricus de Niem, Hist. Aretin. Hist. Florentin.], con aggiungere che Biordo ritenne Todi, Orvieto ed altre terre, con pagare l'annuo censo alla Chiesa romana. Seguitò nel regno di Napoli la guerra, ma senza impresa degna di menzione. In Sicilia il [869] re don Martino giovane continuò ad abbassar la fazione contraria, che aderiva al partito di papa Bonifazio IX, giacchè quel re favoriva l'antipapa; ed essendo mancato di vita Giovanni re d'Aragona, Martino, padre d'esso Martino giovane, fu chiamato alla successione di quel regno; il che fu cagione che (non so se in questo o nel seguente anno) con quella corona di nuovo si riunisse la Sicilia. Giovanni dall'Aceto [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.] impadronitosi della città di Fermo, talmente colle sue crudeltà fece perdere la pazienza al popolo, che sul principio di giugno si mosse a rumore contra di lui. Rifugiatosi egli nel castello, chiamò aiuto dal conte di Carrara. Entrato questi nella fortezza, piombò poi addosso ai cittadini colle sue genti, e li mise in rotta, molti uccidendone. Il resto si sottrasse colla fuga al furore del tiranno: laonde quella città rimase desolata. Fu in quest'anno, nel dì 16 ovvero 17 di maggio, stabilita pace e lega in Firenze fra il duca di Milano, Fiorentini, Pisani, Sanesi, Perugini, Bolognesi, Lucchesi, il marchese di Ferrara, i signori di Padova, di Mantova, di Faenza e d'Imola, i Malatesti ed altri. Con questi artifizii Gian-Galeazzo cercava di tener a bada e addormentare chi poteva opporsi ai suoi segreti disegni; ma non gli venne fatto, come s'era figurato [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital. Ammirat., Istor. Fiorentina, lib. 16.]. Conchiusero i sempre vigilanti Fiorentini nel dì 24 ossia 29 di settembre una lega con Carlo VI re di Francia, in cui furono compresi gli altri lor collegati, cioè i Bolognesi, il marchese di Ferrara, e i signori di Mantova e di Padova. Pensarono con ciò di metter freno alle voglie di Gian-Galeazzo duca di Milano; e il re vi consentì volentieri, pel motivo che fra poco accennerò.

Neppure in quest'anno si provò quiete negli Stati del marchese di Ferrara [Delayto, ut supra.]. Francesco signor di Sassuolo, nemico di [870] esso marchese, dopo essersi compromesso in Astorre de' Manfredi, e aver depositata in mano di lui quella nobil terra, per tradimento se la ripigliò. E Giovanni conte di Barbiano con un grosso corpo di cavalleria e fanteria, assistito dai nobili Grassoni, venne fino a Vignola ed, essendosi impadronito di quella terra nel dì primo d'ottobre, coll'assedio forzò anche la rocca a rendersi a patti, senza però mantener egli la parola data a quella guarnigione. Maggiori furono le inquietudini in Toscana [Bonincontrus, Annales, tom. 21 Rer. Ital.], perchè fra i Lucchesi e Pisani seguirono varie ostilità. Erano i Lucchesi protetti ed aiutati dai Fiorentini, e stavano uniti con loro i Gambacorti banditi di Pisa. Laonde Jacopo d'Appiano signore ossia tiranno di Pisa, che stava attaccato forse al duca di Milano, gli dimandò soccorso. Fece vista il duca, colle sue solite arti, di licenziar il conte Alberico da Barbiano, e questi nel novembre con alcune migliaia di cavalli si portò nel territorio di Pisa [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Colà ancora passò pel Sanese il conte Giovanni di Barbiano con altre genti, di maniera che, comprendendo vicina la guerra, i Fiorentini assoldarono nuovi armati, ne ottennero dai lor collegati, e crearono general dell'armata loro Bernardone Spagnuolo, oppur di Guascogna, che menò seco seicento cavalli e ducento fanti. I fatti di Genova diedero in quest'anno molto da parlare all'Italia [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Antoniotto Adorno doge di quella repubblica, trovandosi in mezzo a varie fazioni e a molti avversarii, troppo ben vedea che traballava il suo trono. Teneva ben egli a' suoi servigi quattro mila fanti e mille cavalli, ma poco era questo al bisogno, stante il trovarsi egli mal sicuro in casa, ed essendo fuor di Genova continuamente in armi Antonio da Montaldo ed Antonio di Guarco, dogi deposti, e suoi fieri nemici. Il peggio fu che questi due ricorsero [871] per avere aiuto a Gian-Galeazzo duca di Milano, principe che in ogni imbroglio d'Italia sapeva aver mano; e tanto più s'interessò in questo, perchè, sperando di arrivare all'acquisto di quella potente città, contribuì loro un grosso corpo di combattenti. Conobbe allora l'Adorno che a guarire i mali della patria sua occorreva un più potente rimedio; e questo altro non poteva essere che quel di sottomettere Genova a qualche gran principe, la cui possanza ed autorità, volere o non volere, riunisse i discordi animi de' cittadini. Co' suoi consiglieri dunque ed aderenti mise in consulta l'affare. Furono proposti Lodovico duca d'Orleans, padrone d'Asti, e il duca di Milano; anzi lo stesso duca, penetrato questo disegno, spedì colà i suoi ambasciatori per accudire al mercato. Ma le inclinazioni di Antoniotto Adorno erano verso il re di Francia Carlo VI, e la vinse in fine la di lui volontà.

Mandò egli a Parigi un suo deputato a farne l'offerta. Era Carlo VI principe dotato di bellissimi talenti, ma suggetto ad un deplorabil incomodo di sanità, perchè di tanto in tanto cadeva in alienazione di mente, anzi in frenesia, per cui, se non si fosse provveduto, avrebbe ucciso i suoi più cari. Godeva nondimeno degl'intervalli quieti, ne' quali si dava a conoscere savio ed amabilissimo principe. Fu accettata l'esibizione con patto segreto di pagare all'Adorno quaranta mila fiorini d'oro, e di dargli due castella in Francia, e con altri pubblici patti in favore della città, espressi nello strumento stipulato in Genova stessa nel dì 25 d'ottobre, che si leggono negli Annali Genovesi. Ora nel dì 27 di novembre Antoniotto Adorno, col rinunziare la sua dignità, lasciò entrare in possesso di quel dominio gli uffiziali del re di Francia, ritenendo nondimeno per qualche tempo ancora quel governo col titolo di governatore regio. Sommamente dispiacque a papa Bonifazio, e non meno increbbe al duca di Milano la risoluzion di [872] quel popolo, al veder deluse le sue speranze, e di più a' suoi confini un sì potente monarca; ma gli convenne dissimular la rabbia con applicarsi a sfogarla altrove. Guerra fu in quest'anno [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital. Corio. Istor. di Milano.] fra Teodoro marchese di Monferrato ed Amedeo principe della Morea, assistito da Lodovico conte di Savoia. Durò essa un anno. Per tradimento fu occupata al Monferrato dal principe suddetto la bella terra di Montevico, oggidì appellata Monreale, città non più da lì innanzi restituita. All'incontro, Facino Cane Casalasco, che già avea cominciato ad acquistar grido nelle armi, tolse ai principi savoiardi due castella, ed inferì non pochi danni al Piemonte. Fecero poi questi principi nell'anno seguente un compromesso delle lor differenze nel duca di Milano, il quale differì molto, anzi non mai pronunziò alcun laudo, così esigendo la sua fina politica.


   
Anno di Cristo mcccxcvii. Indizione V.
Bonifazio IX papa 9.
Venceslao re de' Romani 20.

Nuovi tentativi in quest'anno ancora furono fatti dai re oltramontani per indurre papa Bonifazio alla cession del papato [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Così bene seppe parlare un certo Roberto romito franzese, che l'avea tratto alla risoluzion di convocare un concilio, in cui si decidesse quell'importante controversia, facendogli credere che l'antipapa non s'attenterebbe ad intervenirvi. Ma da lì a due giorni la madre, i fratelli ed altri parenti del papa con varii mondani motivi gli fecero cambiar pensiero. Secondochè abbiamo dal Bonincontro [Bonincontrus, Annal. tom. 21 Rer. Ital.], in quest'anno tentarono i Romani di ribellarsi ad esso pontefice. Egli, che non era figliuolo della paura, fece prendere i delinquenti, e coll'ultimo loro supplizio si liberò dal soprastante [873] pericolo. I Giornali Napoletani [Giornal. Napol., tom. 15 Rer. Ital.], che raccontano questo ed altri fatti fuori del loro sito, dicono che tredici furono i giustiziati, in casa de' quali si trovarono le bandiere del conte di Fondi, autore di essa congiura. Cominciarono in questo anno a declinar gl'interessi di Lodovico d'Angiò re dimorante in Napoli. Terra di Lavoro già ubbidiva al re Ladislao, nè restavano in potere dell'Angioino se non le terre del Ponte di Capoa. Trovandosi all'assedio di esse Luigi di Capoa, d'un colpo di bombarda vi restò ucciso. Con tutto ciò furono quelle fortezze dipoi obbligate alla resa. Il Bonincontro narra altri avvenimenti del regno di Napoli, come spettanti all'anno presente. Perchè io dubito che possano appartenere al seguente, chieggo licenza di parlarne allora. Procurò Gian-Galeazzo duca di Milano di tirare al suo servigio tutti quanti potè gli uomini d'armi d'Italia, e raunato con ciò un poderoso esercito di cavalieri e fanti [Corio, Istor. di Milano.], all'improvviso, parte per terra e parte colle navi per Po, lo spinse nel dì 5 d'aprile addosso a Francesco Gonzaga signore di Mantova, con far precedere le ragioni, che i potenti hanno sempre in saccoccia, di rompere la tregua che tuttavia durava. Consistevano queste specialmente nel rammemorare l'aver il Gonzaga data la morte a Caterina Visconte figliuola di Bernabò, quando egli medesimo avea dianzi tolta la vita e gli Stati allo stesso Bernabò, e a due suoi figliuoli, e tuttavia perseguitava gli altri figliuoli del medesimo suo zio. Ed acciocchè non potesse venir soccorso dalla Toscana al Gonzaga, ordinò al conte Alberico da Barbiano suo generale, la cui armata avea passato il verno sul Pisano, con gravissimo peso di que' popoli, di assalire i Fiorentini, mostrando d'essere capo di compagnia, e non già dipendente dagli ordini suoi.

Quanto a questa guerra della Toscana, [874] aveano creduto i Fiorentini di poterla risparmiare, con essersi tanto maneggiati, che aveano condotto ad un'amichevol pace i Lucchesi e i Pisani, le gare de' quali aveano tirate in Toscana le armi lombarde [Ammirat., Istor. Fiorentina, lib. 16.]. Ma si trovarono ingannati. Il duca volea la guerra anche in quelle parti; e Jacopo d'Appiano signor di Pisa, nemico fiero, benchè non aperto, de' Fiorentini, accendeva forte il fuoco; e tentò ancora di togliere loro San Miniato con una congiura che non fu ben condotta a fine. Entrò dunque il conte Alberico ostilmente nel dì 5 d'aprile colle sue forze nel territorio di Firenze, saccheggiando ora una ed ora un'altra parte, fin quasi alle porte di Firenze. Erano forti di gente anche i Fiorentini; e Bernardone lor generale con Paolo Orsino, Giovanni Colonna ed altri condottieri d'armi, siccome uomo ben pratico del suo mestiere, accorrendo ovunque richiedea il bisogno, tenne sempre i nemici in freno, nè loro permise di riportar vantaggio alcuno di rilievo. Riuscì anche alla sottile accortezza de' Fiorentini di staccare dal servigio del duca di Milano Biordo Perugino con cinquecento lancie del seguito suo. Comparì ancor qui qual fosse la fede del conte Giovanni da Barbiano. Era egli condotto dal duca, ma all'improvviso si partì da lui, e con cinquecento barbute passò al servigio dei Bolognesi, nemici del duca. Diversamente passava la guerra in Lombardia [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Con potentissimo esercito di cavalli e fanti, siccome dicemmo, circa il principio d'aprile Jacopo del Verme generale del Visconte occupò Marcheria ai Mantovani, e quindi passò alla parte superiore di Borgoforte col disegno d'entrare nel serraglio di Mantova. Dalla banda ancora del Veronese con altro esercito si mosse a quella volta Ugolotto Biancardo, governator di Verona per esso duca.

[875]

Trovavasi mal preparato per questa visita il signor di Mantova. Implorò tosto aiuto dai collegati, e gliene inviarono i Fiorentini e Bolognesi, siccome ancora il signore di Padova, quei di Ravenna, di Rimini e di Faenza. Niccolò marchese di Ferrara, che era allora giunto all'età di anni tredici e di tre mesi, ed avea presa per moglie Gigliola, figliuola del signor di Padova, vi spedì per Po una flotta di galeoni armati. Fu dichiarato capitan generale dell'esercito della lega Carlo Malatesti, uomo prode e cognato dello stesso signore di Mantova. La mira particolare di Jacopo del Verme era di espugnare e rompere il ponte posto da' Mantovani sul Po a Borgoforte; ma così virilmente fu esso difeso dai collegati, benchè inferiori di gente, che per gran tempo rimasero inutili tutti i suoi sforzi; anzi un ponte da esso Verme fabbricato in Po venne fracassato dal valore degli avversarii. Fu anche impedito il passaggio del Mincio ad Ugolotto Biancardo, il quale poscia s'impadronì di Mellara, terra del Ferrarese, negli anni addietro impegnata per bisogno di danari dai tutori del marchese al signore di Mantova. Durò il fiero contrasto di queste armate sino al dì 14 di luglio col continuo esercizio delle bombarde e dei verrettoni, e colla strage di molti da ambedue le parti; ma in quel dì una scossa terribile riportarono i collegati. Aveva il duca di Milano anch'egli una poderosa flotta di galeoni armati in Po; ora Jacopo del Verme, spirando in quei dì un vento gagliardo a lui favorevole, spinse contro il ponte di Borgoforte alcune zatte piene di canne, oglio, pece ed altre materie combustibili, e, per quanta resistenza facessero i difensori, non poterono trattenerle dall'unirsi al ponte e di bruciarlo, colla morte di circa mille uomini d'arme che vi erano sopra. Nè qui terminò la rovina. Calata furiosamente l'armata navale milanese pel Po addosso alla ferrarese, prese molti di que' legni, mise il resto in fuga, lasciandovi la vita assai gente o annegata o uccisa. Ciò fatto, entrarono nel [876] dì 25 di luglio vittoriosi nel serraglio di Mantova, dopo aver fatto un ponte sul fiume, e ripulsato il Gonzaga, che era ivi alla difesa con Malatesta de' Malatesti ed altri valorosi uffiziali. Stesero i Milanesi il saccheggio sino alla porta Cerese di Mantova, con fare immenso bottino di bestiame e di robe, perchè quegli abitanti si credeano ivi sicuri.

Per questo terribil colpo ebbe a disperarsi Francesco Gonzaga [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.]; e tanto più perchè non tardò Jacopo del Verme a mettere un forte assedio alla terra di Governolo, per serrare affatto il passo ai soccorsi stranieri. Concorse parimente a quell'assedio dalla parte di Verona coll'altro suo esercito Ugolotto Biancardo, e v'intervenne per Po anche la flotta navale del duca. Ma il generoso Carlo Malatesta, dopo aver incoraggito, colla speranza di gagliardi soccorsi, il Gonzaga, in persona passò a Venezia, Ferrara e Bologna, sollecitando ognuno a non lasciar perire il signore di Mantova, la cui perdita si sarebbe tirata addosso quella de' vicini. Per tanto si armarono in Venezia sette galee e molte barche; in Ferrara si fece gran preparamento di galeoni; i Bolognesi v'inviarono il conte Giovanni da Barbiano con cinquecento lancie, ed altre genti furono prese al soldo dal signore di Mantova. Già Governolo era quasi ridotto all'agonia, quando Carlo Malatesta, passato il Po verso il Bondeno coll'esercito suo nel dì 24 d'agosto festa di san Bartolomeo [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], assalì l'armata d'Ugolotto Biancardo, e riuscì a lui di entrare in Governolo, e di vettovagliarlo, siccome ancora venne fatto alla flotta ferrarese, dopo un atroce combattimento, di obbligare alla ritirata la milanese al ponte fabbricato dal Verme. Arrivò dipoi a Governolo il signor di Mantova con quante soldatesche egli potè seco condurre, e calarono pel Mincio anche tutte le sue barche armate. Ora, senza perdere tempo, nel dì [877] 28 d'agosto l'armata terrestre de' collegati diede una furiosa battaglia a quella del Biancardo, con metterla in rotta; e nel medesimo tempo la flotta navale dei Ferraresi e Mantovani colle galee suddette assalì la milanese con tal empito, che la sbaragliò e sconfisse. Queste due vittorie produssero con poca fatica la terza; perchè l'esercito grande di Jacopo del Verme, accampato nel serraglio contro a Governolo, al vedere la rovina dell'altro campo e delle lor navi, senza poter soccorrere nè agli unì nè agli altri, preso da panico spavento, ad altro non pensò che a salvarsi colla fuga, lasciando indietro buona parte delle tende e del bagaglio. Circa due mila cavalli vennero in potere de' vincitori, gran copia di vettovaglia e merci, e cinquanta navi armate, oltre ad altre settanta di negozianti venuti per provvedere l'armata milanese. Un giorno solo guastò tutta la tela sì felicemente condotta fin qui dal duca di Milano. È da vedere la Storia Padovana di Andrea Gataro, dove diffusamente si veggono descritti così stravaganti avvenimenti. Abbiamo dagli Annali Milanesi [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] che il duca di Milano fece morir d'orrida morte Pasquino Capello suo segretario, imputato di avere scritta una lettera, senza contezza del padrone, che chiamava Jacopo del Verme a Pavia; il che fu cagione della rotta suddetta. Si venne poi in chiaro, che la lettera era stata finta da Francesco Gonzaga: del che molto s'afflisse il duca di Milano.

Solenni allegrezze per sì prosperosi successi furono fatte da tutte le città dei collegati. Venne anche assediata da essi la terra di Mellara, e nel dì 27 di settembre racquistata. Ma Gian-Galeazzo Visconte era un forte colosso, ad atterrar il quale altre scosse che le suddette, si ricercavano. Oltre il far ritornare dalla Toscana in Lombardia il conte Alberico da Barbiano col più della sua armata [Ammirati, Istoria Fiorentina, lib. 16. Corio, Istor. di Milano.], prese al suo soldo Facino Cane da Casale [878] con cinquecento lancie; rifatta, anzi accresciuta di molto la sua flotta navale, ordinò nel dì 29 d'ottobre che essa tornasse sul territorio di Mantova. Trovò questa a Borgoforte le navi armate del signore di Mantova e del marchese di Ferrara; e messele in rotta, prese tre galee e venticinque galeoni con tutto l'armamento e gli uomini. Oltre a ciò, arrivato il conte Alberico colle sue genti, entrò di nuovo nel serraglio di Mantova, spianò tutte le fosse e fortezze mantovane, e portò la desolazione sino alle porte di Mantova. Ecco dunque di nuovo in peggiore stato di prima Francesco da Gonzaga, il quale avea già perduto Marcheria, Luzzara, Suzara, Solferino ed altri luoghi, e già temeva l'ultima rovina. Volle Dio che, accostandosi il verno, si ritirarono dal Mantovano le milizie del Visconte. Con tutto ciò il male stato, in cui egli si trovava, diede impulso alla repubblica di Venezia per entrar anch'essa nella lega contra del duca di Milano. Inoltre s'ingegnarono i Veneziani e Fiorentini di tirare al soldo loro il duca di Austria con alcune migliaia di soldati. Ma perchè il duca Gian-Galeazzo, avendo scoperto questo negoziato, nè volendo avere i Veneziani e quel duca, sì poderosi principi, addosso, propose partiti di tregua o pace; oppure perchè Francesco Gonzaga, stanco di questo brutto giuoco, si scoprì segretamente trattare col duca di Milano: lasciato andare l'Austriaco, i collegati diedero orecchio alla tregua, o pace proposta. Tutto il verno passò nel maneggio d'essa, siccome cosa desiderata da ognuno.

Contuttochè Genova si governasse a nome del re di Francia, e paresse che il rispetto di quel monarca dovesse tenerla in quiete [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 18 Rer. Italic.], pur, come prima, continuava ad essere in tempesta. Antonio di Montaldo, Antonio di Guarco non cessavano di farle guerra, nè mancavano altri nemici entro e fuori di casa. Perciò, o sia [879] che Antoniotto Adorno, veggendosi poco sicuro, procurasse d'avere un successore nel governo, o che tali fossero i patti: Carlo re di Francia mandò colà a reggere quella città Valerando di Lucemburgo, conte di Lignì e di San Paolo. Arrivò questi a Genova nel dì 18 di marzo con ducento uomini d'armi e molti nobili, ed altre genti venute al suo soldo; e prese le redini del governo, con farsi ben rispettare e ubbidire, ed ebbe in suo potere il castelletto e le altre fortezze. Ridusse non solamente Savona e Porto Maurizio all'ubbidienza del re, ma anche il resto delle terre di quella repubblica, di modo che per opera di lui in poco tempo si vide rifiorir la pace: cosa da gran tempo insolita in quelle contrade. Ma eccoti la peste entrare in Genova, e scorrere per tutte quelle riviere. Per paura d'essa, ovvero per altri suoi affari, nel mese d'agosto esso conte di Lignì se ne andò a Parigi, lasciando per suo vicario in quella città Pietro vescovo di Meaux. Fu essa peste anche in altre città d'Italia. Abbiamo dagli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] che, trovandosi al soldo di papa Bonifazio Mostarda forlivese condottier d'armi, costui furtivamente prese Ascoli, città della Marca, colla strage d'alcuni di quei cittadini.


   
Anno di Cristo mcccxcviii. Indiz. VI.
Bonifazio IX papa 10.
Venceslao re de' Romani 21.

Operarono quest'anno con forza Venceslao re de' Romani e Carlo VI re di Francia, ed altri re e principi, per ridurre alla pace la Chiesa troppo sconvolta a cagion dello scisma [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Stavano essi saldi in esigere che tanto papa Bonifazio IX, quanto il suo emulo Benedetto XIII antipapa rinunziassero; e a questo fine spedirono ambasciatori sì all'uno che all'altro. Ma ad ambedue troppo piacea questa sublime [880] dignità, ed erano ben risoluti di non abbandonarla se non colla morte. Diede papa Bonifazio almen buone parole, ma nulla di preciso, tanto che si liberò da tali istanze. All'incontro l'antipapa, dimentico de' giuramenti e delle promesse fatte nella sua creazione e dipoi, apertamente protestò di non voler mai dimettere il suo papato. Da ciò presero motivo il re di Francia coll'Università e coi prelati franzesi di sottrarsi alla di lui ubbidienza, giacchè quel re non gradiva questo preteso papa spagnuolo, nè di lui si fidava. E perchè Benedetto ricalcitrava più che mai, il maresciallo di Boucicaut, ossia Bucicaldo, che vedremo a suo tempo governatore di Genova, d'ordine del re si portò all'assedio d'Avignone; nè volendo que' cittadini maggiormente sofferire i danni della guerra, capitolarono coll'uffiziale del re: laonde fuggì la maggior parte de' cardinali antipapali; e l'ostinato Benedetto rinserrato nel palazzo pontificio, ch'era fortificato a guisa di fortezza, e ben provveduto, per tutto il verno rimase assediato dalle milizie francesi. Non ometteva diligenza alcuna in questi tempi il pontefice Bonifazio per promuovere gl'interessi del re Ladislao, ed atterrare il nemico re Lodovico d'Angiò. Per mezzo di Giovanni Tomacello suo fratello si adoperò non poco per tirare nel partito di Ladislao Jacopo Marzano ammiraglio del regno, Goffredo Marzano, Jacopo Orsino e Jacopo Stantardo, baroni illustri. Leggesi negli Annali Ecclesiastici del Rinaldi la concordia stabilita fra loro e il re Ladislao nel dì 14 di maggio dell'anno presente. Non poco abbassamento per questo venne al re Lodovico. Andò in lungo il trattato della pace o tregua fra i collegati e Gian-Galeazzo duca di Milano [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.]; ma finalmente fu conchiusa nel dì 11 di maggio una tregua di dieci anni con varii capitoli, e pubblicata nel dì 26 d'esso mese, [881] giorno di Pentecoste. Per quanto scrive Andrea Gataro [Gatari, Istor. di Padov., tom. 17 Rer. Ital.], Francesco Gonzaga signore di Mantova quegli fu che forzò gli altri a farla; perciocchè, senza notizia dei confederati, chiamato a Mantova, travestito da frate minore, Jacopo del Verme, con esso lui trattò di riconciliarsi col duca: il che penetrato da Francesco da Carrara signore di Padova, senza che egli potesse far tornare indietro il Gonzaga, diede impulso a tutti di venire all'accordo suddetto. Ma Gian-Galeazzo, che avea il cuore troppo volto alle conquiste, soleva ben far paci e tregue, ma con animo di romperle al primo buon vento. Finse egli, giacchè facea l'amore a Pisa, di licenziare dal suo servigio Paolo Savello, ed altri condottieri d'armi, mandandoli in Toscana ad unirsi colle altre milizie quivi lasciate dal conte Alberico da Barbiano. Entrarono questi in Pisa [Ammirat., Istor. Fiorentina, lib. 16.], e in tempo di notte furono a parlare con Jacopo d'Appiano signore di quella città, richiedendogli a nome del duca di Milano la guardia della cittadella di Pisa, Cascina, Livorno e Piombino. Restò attonito alla dimanda l'Appiano; e siccome scaltro vecchio, con rispettosa risposta prese tempo a risolvere. La risoluzione fu, che ordinò a Gherardo suo figliuolo (giacchè Vanni, altro suo maggior figliuolo, e giovine di grandi speranze, era mancato di vita nell'anno precedente) che unisse tutti i suoi soldati e parziali, e che gli avesse pronti in armi per la mattina seguente [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Fatto giorno, assalì Gherardo le lancie di Paolo Savello, ne uccise buona parte, fece prigione il resto col medesimo Savello ferito di tre ferite. Per questo accidente cominciò a trattarsi di pace e lega fra i Pisani e Fiorentini; al che gli ultimi accudivano ben volentieri.

Ma l'accorto duca di Milano col fingere di non curare quanto era succeduto, e con avere spedito a Pisa Antonio Porro a disapprovare il fatto de' suoi, e a confermar [882] l'Appiano nella sua amicizia [Tronci, Annal. Pisani.], tanto fece, che mostrando l'Appiano anch'esso di non credere venuto dal duca quell'ordine, ruppe ogni trattato co' Fiorentini, i quali si trovarono ben delusi. Rimise ancora in libertà il Savello e gli altri prigionieri. Ma che? infermatosi il medesimo Jacopo d'Appiano, nel dì 3 di settembre passò all'altra vita. Gherardo suo figliuolo, già sustituito in suo luogo nel dominio qualche tempo prima, corse tosto la città, nè ebbe opposizione alcuna. Tardò poco a correre voce che Gherardo volea vendere Pisa al duca di Milano: il che allarmò non poco i Fiorentini. Perciò s'affrettarono essi a spedir colà ambasciatori con facoltà di prometter molto per distornare quel mercato, e per indurre alla pace il giovane Appiano. Mostrossi egli molto alieno dal dimettere il dominio della città, e si esibì mediatore della pace fra loro e il duca di Milano. Fu nel dì 6 di maggio di quest'anno mutazione nella città di Bologna [Matth. de Griffon. Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod. Delayto, Chron., tom. eod.]. Fin qui la fazione degli Scacchesi ossia de' Pepoli avea signoreggiato. Carlo de' Zambeccari dottore coll'altra de' Maltraversi fece una sollevazione, e, deposti gli anziani, ne elesse de' nuovi, e cominciò a reggere la città a suo talento. Non seguì uccisione nè altro male per questo, solamente ciò fu principio d'altre maggiori rivoluzioni. Prese licenza da' Fiorentini il lor generale Bernardone [Sozomenus, Istor., tom. 16 Rer. Ital.], essendo terminata la sua ferma, e fatta la tregua suddetta. Passato in regno di Napoli ai servigi di Lodovico d'Angiò, a nome di lui s'impadronì della città dell'Aquila e di molte castella. Anche Broglio Trentino condottier d'armi, partito dal duca di Milano, fu assoldato da papa Bonifazio per un mese affine di far guerra ai Perugini. Finito il mese, il popolo d'Assisi, scacciato Ceccolino de' Michelotti loro signore, [883] elessero il medesimo Broglio in luogo di lui. Nel dì 23 di luglio [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] all'improvviso giunse a Ferrara Francesco II da Carrara signore di Padova con quattrocento uomini d'armi, ed altra gente; e, prevalendosi dell'età giovanile dell'inesperto suo genero Niccolò marchese, quivi e negli altri Stati della casa d'Este fece da padrone, mutando uffiziali e governatori, e mettendovi chi più era a lui in grado: il che diede non poca gelosia e molto da mormorare al popolo di Ferrara. In quest'anno a tradimento fu ucciso Biordo Perugino, che era come signore di Perugia, dall'abbate di San Pietro; e fu creduto per ordine del papa. Ma non per questo il papa ricuperò Perugia. Anzi quel popolo, alzatosi a rumore, prese le armi, sconfisse i di lui uccisori. In Genova non poteva aver luogo la quiete [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Nel mese di luglio i Ghibellini del contado si sollevarono, e, crescendo la lor forza, nel dì 17 entrarono nella città, e quivi tutto fu in arme e furore fra essi e i Guelfi, di maniera che, atterrito il vescovo di Meaux governatore regio, se ne fuggì a Savona. Seguitarono in Genova le battaglie e i saccheggi sino al dì 29 del suddetto mese, in cui si fece pace; pace nondimeno che durò solamente sino al dì 11 d'agosto, con rinnovarsi i combattimenti e gl'incendii, che durarono molti giorni ancora. Poca gente perì in così fieri contrasti; ma si fe' conto che tra le case bruciate e i tanti saccheggi patisse allora Genova il danno di un milione di fiorini d'oro: frutto amaro della pazza discordia di que' cittadini. Essendo poi giunto colà nel dì 21 di settembre Colardo di Callevilla consiglier regio, mandato per governatore dal re di Francia, fu accolto con molto ossequio, e ritornò la quiete in essa città.

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Anno di Cristo mcccxcix. Indiz. VII.
Bonifazio IX papa 11.
Venceslao re de' Romani 22.

Sino al dì 14 d'aprile l'antipapa Benedetto, assediato dal maresciallo Bucicaldo nel castello d'Avignone, si sostenne [Raynaldus, Annal. Eccles.]; ma non venendo i soccorsi ch'egli aspettava dal re d'Aragona, e cominciando a mancare il legno da bruciare con altre provvisioni, finalmente capitolò coll'interposizione degli ambasciatori aragonesi, promettendo di deporre la pontificia tiara, ogni qual volta papa Bonifazio anch'egli cedesse, oppure mancasse di vita, e di non ritardare in conto alcuno l'union della Chiesa. Promise e giurò quanto si volle, ma risoluto di nulla attendere dipoi. Gran partigiano degli scismatici ai confini dello Stato ecclesiastico era Onorato Gaetano conte di Fondi. Più mene avea tenuto con alcuni nobili romani per abbassare il dominio di papa Bonifazio IX; fors'anche avea tramato contro la di lui vita. Il pontefice in quest'anno a dì 2 di maggio pubblicò contra di lui tutte le censure, ed altre barbariche pene solite a fulminarsi in simili casi; e poscia addosso a lui spinse l'armi temporali con tal successo, che, secondo Gobelino [Gobelinus, in Cosmodr.], arrivò a sterminarlo affatto col braccio del re Ladislao. Ma non avvenne già tutto questo nell'anno presente, siccome vedremo. Per altro verso ancora maggiormente andavano prosperando gli affari d'esso re Ladislao, tanto per li suoi maneggi, che per quelli dell'amico pontefice. Fra i più potenti baroni del regno di Napoli si contava Raimondo del Balzo di casa Orsina, conte di Lecce e d'altre città. S'era egli tenuto in addietro neutrale fra i due re contendenti, facendosi credere amico non men dell'uno che dell'altro. Ma in fine, guadagnato dal papa, prese le armi contro a Lodovico d'Angiò; e giacchè era mancato [885] di vita senza figliuoli Ottone di Brunsvich principe di Taranto, egli s'impadronì del meglio di quel principato. Accorse bensì colà il re Lodovico, ma non solamente nulla vi guadagnò, vi fu anche assediato da Raimondo per terra e per mare. Mossosi per questo anche il re Ladislao da Gaeta col suo esercito, passò a quella parte, e, venutogli incontro l'Orsino con prestargli omaggio, l'investì immediatamente di quel principato. Noi vedemmo di sopra riferito dal Rinaldi all'anno 1391 l'avere esso Raimondo Orsino abbracciato il partito di papa Bonifazio. Potrebbe dubitarsi ch'egli aspettasse a farlo in questo anno. Fin qui la possente casa de' Sanseverini avea sostenuta in capo a Lodovico d'Angiò la corona di Napoli. Cominciò anch'essa a titubare e a tener trattati col re Ladislao, e tanto fece che il rendè padrone di Napoli. Sono discordi gli autori in dire di qual anno preciso Ladislao tornasse in possesso di quella nobilissima città. Il Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] fa ciò succeduto nell'anno 1397. Ma, secondo gli Annali di Giovenale Orsini citati dal Rinaldi, e secondo altri autori, appartien questo avvenimento all'anno presente, e però più sotto ne parlerò. Leggesi ne' Giornali Napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] differito il ritorno di Ladislao in possesso di Napoli sino all'anno seguente, e così ancora l'acquisto fatto del principato di Taranto da Raimondo Orsino; come pure, che nel dì 12 d'aprile di quest'anno i Sanseverineschi colle forze loro andarono all'assedio della città d'Aversa, e che nel dì 4 di maggio se ne tornarono quali erano venuti. Ma ciò è piuttosto da riferire all'anno precedente. Veggiamo parimente scritto che il re Ladislao spossessò del dominio di Capoa il conte di Alife; ma sembra questo fatto lo stesso che di sopra fu narrato all'anno 1397. La storia di Napoli si scorge in questi tempi mancante di qualche autentico e contemporaneo scrittore de' suoi avvenimenti, [886] riuscendo perciò molto intralciata e confusa.

Gherardo d'Appiano, divenuto signore di Pisa, era uomo di mente ristretta, di poco coraggio. Lasciossi egli tanto aggirare ora da spaventi, ed ora da lusinghe di Antonio Porro ministro del duca di Milano, che persuadendosi di non poter durare in quel dominio, e all'incontro di fare il bene della patria, s'indusse nel mese di febbraio a vendere quella città colle sue dipendenze ad esso Gian-Galeazzo pel prezzo di ducento mila fiorini d'oro [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.], e con riserbarsi la signoria di Piombino, dell'isola d'Elba, e di qualche altro castello. Conchiuso il trattato, mandò il duca a Pisa circa mille lancie, ed alcune compagnie di fanteria con pretesto di mutar le altre ch'egli prima aveva in quella città [Corio, Istoria di Milano. Tronci, Istor. di Pisa. Ammirati, Istoria di Firenze.]. Con questi ed altri armati Gherardo corse la città senza resistenza; laonde con facilità diede il possesso di Pisa all'uffiziale del Visconte. Ne furono ben malcontenti quei cittadini; più ne rimasero turbati i Fiorentini, che s'erano lasciati avviluppar dalle belle parole, cioè dalle finte promesse dell'Appiano, e vedeano sempre più crescere i ceppi alla loro libertà. Andò l'Appiano a mettere la sua stanza a Piombino, terra che ne' suoi discendenti durò sino dopo l'anno 1600; e rimase Antonio Porro governator di Pisa pel duca di Milano, con far credere ai Fiorentini il miglior vicinato del mondo. Ossia che i Sanesi non si fossero prima d'ora dati al medesimo duca, e l'avessero preso solamente per protettore, oppure che aspettassero fino a quest'anno a mettersegli in braccio: certo è, che, angustiati da Broglio capitano d'una compagnia di masnadieri, forse a sommossa del duca di Milano, anch'essi nell'agosto o settembre dell'anno presente [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] si spogliarono [887] della lor libertà, concedendo al medesimo duca la signoria della lor città: il che fu un altro colpo, onde restò trafitto il cuore alla repubblica di Firenze. Si dichiararono ancora aderenti al medesimo duca in Toscana i conti di Poppi e di Bagni, e gli Ubaldini tutti; e già Francesco Gonzaga signor di Mantova s'era messo ai servigi di lui. Però d'altro allora non si parlava che del grande ascendente e della fortunata politica del duca di Milano; ma con rammarico non ordinario di que' potentati, che miravano nell'esaltazione di lui il pericolo della propria rovina. S'aggiunse di più, che il duca co' suoi maneggi staccò dall'amicizia de' Fiorentini i Bolognesi. Cercò ancora d'indurre i Perugini, stanchi per la guerra col papa, ad accettarlo per loro signore, ma non gli riuscì se non nello anno seguente. Lucca inoltre parea del pari vicina a seguir l'esempio delle altre. Per tali successi in Firenze di gran consigli si fecero, affine di difendersi da così dilatata potenza, ma senza far movimento palese per non turbare la pace.

Passarono gli affari di Bologna nella seguente forma [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Nel dì 22 d'aprile Giovanni de' Bentivogli e Nanne de' Gozzadini, già fuorusciti, entrarono in quella città, con prendere la porta di Stra' San Donato, disegnando d'introdurre il conte Giovanni da Barbiano co' suoi armati, e di abbattere la fazion dominante dei Maltraversi. Carlo degli Zambeccari e gli altri del suo partito, che non dormivano, furono tosto in armi, e fecero prigioni i già entrati. Benchè molti li volessero morti, Carlo, più magnanimo degli altri, si contentò che fossero mandati a' confini, chi a Carpi, chi a Zara e chi a Genova. Ma che? Entrata la peste in Bologna, grande strage fece, e fra gli altri levò dal mondo lo Zambeccari ed altri capi dei Maltraversi ne' mesi di settembre, ottobre e novembre. [888] Avvenne [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] che nell'agosto il conte Giovanni di Barbiano colle sue genti passò sul Bolognese, commettendo molte ruberie e gravi insolenze alle donne nobili che erano in villa. Andava costui alla terra di Vignola, già da lui occupata nel territorio di Modena al marchese di Ferrara. Per tali insulti irritato non meno esso marchese, che i magistrati di Bologna, spedirono le loro milizie a Vignola; e trovato il conte che coi suoi dormiva senza far buona guardia, li condussero tutti prigionieri a Bologna. Andò sì innanzi l'ira del popolo, attizzata anche da Astorre de' Manfredi signor di Faenza, che volle liberarsi da così mal arnese, e però nel dì 27 di settembre furono decapitati nella pubblica piazza esso conte Giovanni, il conte Lippazzo suo nipote e il conte Bandezato suo parente. Un figliuolo d'esso conte Giovanni morì nelle carceri, e a Conselice ad altro suo parente era già stato mozzato il capo. Costò ben caro dipoi ai Bolognesi questa rigorosa giustizia. Ricuperò il marchese Niccolò di Ferrara, con tal congiuntura, Vignola, dopo quattro mesi d'assedio, e fece buon trattamento al conte Manfredi di Barbiano, rimasto prigione delle sue genti nella sconfitta di Vignola. Essendo mancati, come dicemmo, i principali de' Maltraversi, furono nel mese di novembre richiamati dall'esilio Giovanni de' Bentivogli, Nanne de' Gozzadini, e gli altri che manteneano buona corrispondenza col duca di Milano, e presero poi per forza il governo di quella città nel dicembre.

Celebre fu quest'anno per la pia commozione de' Bianchi, somigliante ad altre, che s'erano vedute nel precedente secolo, ed anche nel presente, se non che non s'ode in questa il fracasso della disciplina che si praticò nelle prime. Portavano essi cappe bianche, ed ivano incappucciati uomini e donne, cantando a cori l'inno Stabat mater dolorosa, che allora uscì alla luce. Entravano in processione [889] nelle città, e con somma divozione andando alle cattedrali, intonavano di tanto in tanto pace e misericordia. Passati quei d'una città all'altra, se ne tornavano poi la maggior parte alle lor case; e quei della città visitata portavano ad un'altra in processione il medesimo istituto. A chi avea bisogno di vitto, benchè fossero migliaia di persone, ogni città caritatevolmente lo contribuiva; essi nondimeno altro non richiedevano se non pane ed acqua [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Fu cosa mirabile il mirar tanta commozione di popoli, tanta divozione, senzachè vi si osservassero scandali, come scrivono alcuni. Più mirabil fu il frutto che se ne ricavò; perciocchè dovunque giugneano, cessavano tutte le brighe; si riconciliavano i nemici con infinite paci: e i più indurati peccatori ricorrevano alla penitenza, in guisa che le confessioni e comunioni con gran frequenza e fervore si videro allora praticate. Le strade erano sicure, si restituiva il mal tolto, e furono contati o vantati non pochi miracoli come succeduti in questo pio movimento. Siccome nei precedenti aveano avuta origine le scuole, ossia le confraternite de' Battuti, così nel presente ebbero principio altre confraternite appellate de' Bianchi, le quali tuttavia durano nelle città d'Italia, del che ho io altrove favellato [Antiquit. Ital. tom. I, Dissert. II.]. Tutte le storie italiane parlano sotto l'anno corrente di questa divozione, la quale, secondo il Delaito, venne fin da Granata, oppure, per sentimento di Giorgio Stella, nacque in Provenza, o almeno da quella parte penetrò in Italia, e, per la riviera d'occidente nel dì 5 di luglio giunse a Genova, imprimendo negli animi di quel popolo il timore santo di Dio, la penitenza e la pace. Di là passò poi in Toscana e Lombardia. Nel mese d'agosto i Modenesi vestiti di bianco in numero, chi dice di quindici, e chi di venticinque [890] mila persone, andarono a Bologna [Matthaeus de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]; e susseguentemente i Bolognesi si trasferirono ad Imola. Nella stessa maniera i Lucchesi portarono cosiffatta divozione a Pistoia [Ammirati, Istoria di Firenze, lib. 16.], e di là questa passò a Firenze; e poscia circa venti mila Fiorentini processionalmente, avendo per loro guida il vescovo di Fiesole, marciarono ad Arezzo. I signori veneziani sempre circospetti non vollero nelle lor terre questa unione di gente; e il duca di Milano anch'egli non la permise in alcuna delle sue città per sospetto di sedizioni. Peggio abbiamo da Teodorico di Niem [Theodoric. de Niem, lib. 2, cap. 26.]. Dice egli (non so se con verità) che alcuni impostori, fingendo miracoli, portarono dalla Scozia in Italia questa novità; ma che, dormendo le notti nelle chiese e ne' monisteri uomini e donne insieme sulla nuda terra, ne seguivano non pochi disordini, e la cosa andò a terminar male, siccome dirò all'anno seguente.

Torniamo ora alle novità del regno di Napoli, le quali tengo io per fermo succedute in questo, e non già in altro anno. Jacopo Delaito [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], Sozomeno [Sozomenus, Histor., tom. 16 Rer. Ital.] e Giorgio Stella [Giorgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], scrittori contemporanei, m'assicurano abbastanza ch'io non m'abbaglio in questo. Essendo riuscito al re Ladislao di tirar con segreti maneggi alla sua divozione i Sanseverineschi, stati in addietro il braccio destro del re Lodovico d'Angiò: cominciarono questi a divisar la maniera di sbrigarsi di esso re Lodovico, al quale non il solo nemico Ladislao facea paura, ma anche la povertà. Il consigliarono di passare a Taranto per assicurarsi che quel paese non cadesse nelle mani di Ladislao. Andò egli nel dì 8 di febbraio, e vi fu ricevuto sotto il pallio. Sfumò da lì a poco questa allegrezza, [891] perchè Raimondo del Balzo Orsino, secondo le cose narrate di sopra, l'assediò in quella città. Venne in questi tempi a Napoli Carlo d'Angiò fratello del re Lodovico, e restò ivi. Ma eccoti arrivare nel dì 9 di luglio a quella città il re Ladislao con sue galere, e trattare col popolo napoletano per entrare. Furono d'accordo, e Ladislao vi entrò; perlochè Carlo d'Angiò coi Provenzali si ritirò in Castello Nuovo, il quale fu immantenente cinto d'assedio. Ora trovandosi il re Lodovico confinato in Taranto, perseguitato da Raimondo Orsino, e abbandonato dalla casa Sanseverina, o, per meglio dire, da tutti, disperato s'imbarcò nelle sue galere, e venne alla volta di Napoli, credendosi di rientrarvi; ma ritrovò che la città avea mutato padrone. Il perchè mandò a trattare col re Ladislao, e fu stabilito di fargli rendere il Castello Nuovo, con che Carlo d'Angiò suo fratello fosse messo in libertà. Ciò fatto, diede le vele al vento, e se ne ritornò a' suoi Stati di Provenza confuso, con lasciar Ladislao trionfante. Gran peste fu in questo anno per la maggior parte d'Italia con fiera strage de' popoli. Poca diligenza per guardarsene usavano allora le città, e neppur lasciavano usarla le guerre e le sedizioni troppo frequenti in sì grande ondeggiamento dell'Italia. Quel gran male che faceva una volta la pestilenza, si proverebbe anche oggidì, se venissero meno le precauzioni e diligenze introdotte dipoi.


   
Anno di Cristo mcccc. Indizione VIII.
Bonifazio IX papa 12.
Roberto re de' Romani 1.

Avea papa Bonifazio restituito all'anno centesimo il giubileo romano, il quale perciò fu con gran solennità e concorso di gente celebrato nell'anno presente. Scrive Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], che avvicinandosi il tempo d'aprire esso giubileo, i Romani spedirono ambasciatori al papa, [892] che dovea essere fuori di Roma, pregandolo di venire alla gran città. Rispose che verrebbe, purchè eleggessero in senatore Malatesta figliuolo di Pandolfo Malatesta, e cassassero il magistrato de' Banderesi. Tutto fecero i Romani, perchè lo richiedeva il loro interesse: laonde Bonifazio riacquistò il pieno dominio di Roma: e fortificato castello Sant'Angelo, vi mise un buon presidio [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Fu, dissi, gran concorso di gente a Roma da molte parti della cristianità, e fin dalla Francia, benchè lo vietasse quel re ai suoi sudditi, sapendo essi che solamente in Roma si poteano guadagnar le indulgenze concedute dal vero pontefice Bonifazio IX. Ma durante la guerra del papa contra del conte di Fondi, male passava per li pellegrini, battendo le genti di esso conte le strade, e svaligiando chiunque in lor si incontrava. Entrò inoltre la peste in Roma, mietendo le vite non solo dei divoti stranieri, ma anche dei cittadini. Non si volle muovere di Roma papa Bonifazio [Theodoricus de Niem., Hist.] per timore di perdere quel dominio. Nè già gli mancavano de' nemici. Fra gli altri Giovanni e Niccolò dalla Colonna signori di Palestrina, avendo intelligenza con molti Romani malcontenti, entrarono una notte nel gennaio di quest'anno in Roma con un corpo di cavalleria e fanteria, gridando: Viva il popolo, e muoia papa Bonifazio IX tiranno. Penetrati sino alla piazza del Campidoglio, tentarono di espugnare quel palazzo ben fortificato; ma veggendo non farsi movimento alcuno da que' Romani [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital.] che erano di concerto con loro, per la paura che la congiura fosse stata scoperta, venuto il giorno, si ritirarono. De' loro uomini trentuno caddero in mano degli uffiziali del papa, e caldi caldi furono impiccati per la gola. Formato il processo contro d'essi Colonnesi e loro seguaci, fulminò poi Bonifazio le scomuniche ed altre pene nel dì 14 del seguente [893] maggio. E messi insieme due mila cavalli, mandò il popolo romano a dare il guasto alle terre d'essi Colonnesi.

A quest'anno (ma pare spettante al precedente) riferisce il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.] l'avere il pontefice proibito l'accesso a Roma, o almeno la permanenza in essa, alle compagnie divote de' Bianchi, con riprovare eziandio il loro movimento, come non istituito colle dovute licenze de' superiori ecclesiastici; e molto più perchè fra i buoni si trovavano mischiati degl'impostori e degli ipocriti, che fingevano dei miracoli. Ma chi degli scrittori portava affezione a quella pia novità, fu d'avviso che Bonifazio si servisse di sì fatti pretesti per non volere in Roma tante migliaia di persone, che aveano cominciato il moto loro dalla Provenza, per sospetto dì qualche mina fabbricata sotto colore di pietà dall'avversario antipapa. Per conto de' miracoli, che si dicono allora accaduti, certamente in simili bollori facile è che la malizia inventi o la semplicità si figuri delle soprannaturali avventure, che ben esaminate si truovino poscia insussistenti. Sicchè cessò la correria de' Bianchi, restandone solo nelle città l'istituto. E perciocchè la misera natura umana ha troppo pendio al male, colla stessa facilità, con cui tanti e tanti all'aspetto d'essi abbracciata aveano la penitenza, e data a' nemici la pace, colla medesima tornarono ben tosto ai vizii e peccati primieri, e seguitò il secolo ad essere pieno d'iniquità, d'abusi, di risse e guerre, come prima. Nè la peste, che in quest'anno ancora portò l'eccidio a moltissime città, e massimamente nella Toscana, fu bastante a far migliorare i costumi sregolati dei popoli. In quest'anno il re Ladislao, divenuto pacifico possessore di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], mosse anch'egli le armi sue contra di Onorato Gaetano conte di Fondi, e gli tolse alcune castella. Da tale sbigottimento e doglia fu preso il conte, uomo dianzi sì potente e temuto, [894] che se ne morì, e tutto il suo Stato pervenne alle mani del re. Per questo guadagno, e per gli altri suoi vantaggi, tornato Ladislao a Napoli, ordinò giostre e tenne corte bandita.

Non cessava Gian-Galeazzo duca di Milano di lavorar con doni e promesse per mezzo de' suoi ambasciatori affine di indurre i Perugini ad accettarlo per loro signore [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Ital. Delayto, Chron., tom. 18 Rer. Italic.]. Ne guadagnò molti, e massimamente il principal d'essi, cioè Ceccolino de' Michelotti fratello del già ucciso Biordo; in guisa che nel dì 30 di gennaio dell'anno presente dalla maggior parte di quel popolo gli fu data la signoria della città, ed egli vi mise il suo vicario. Da lì a non molto, cioè d'aprile, le genti sue, sotto il comando di Ottone de' Terzi Parmigiano, occuparono anche Assisi, pretendendolo come dipendenza di Perugia. Con questi passi di fortuna politica ogni dì più andava crescendo la potenza del duca. Aveva egli prima oppressi i marchesi Malaspina coll'armi, e tolta loro tutta la Lunigiana. E, secondo il Corio [Corio, Istor. di Milano.], nell'anno presente s'impossessarono le di lui milizie di Nocera e di Spoleti, del che sommamente s'alterò papa Bonifazio, e spavento sempre più s'accrebbe a' Fiorentini. Facino Cane, allora capitano d'esso duca, non so se a nome di lui, oppure di Teodoro marchese di Monferrato, che era in guerra con Amedeo di Savoia principe d'Acaia, tolse ad esso principe alcune castella, e diede il guasto alle di lui terre sino ai borghi d'Ivrea. Da per tutto stendea le mani l'ingordo Visconte [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]; e giacchè non potè ridurre alla sua ubbidienza la città di Lucca, diede almeno appoggio a Paolo Guinigi nobile della medesima, che con truppe a lui inviate da esso duca, e raccolte nella Garfagnana, mosse per forza quel popolo a dichiararlo capitano delle armi, e da lì a poco anche signore della città, dove per sua sicurezza diede principio [895] ad una rocca. Temendo intanto, e con ragione, i Fiorentini dell'insaziabil ambizione di questo principe, condussero al loro soldo cinquecento lancie. Trattavasi in questi tempi in Venezia di convertire in una pace la tregua dianzi stabilita fra esso duca e i collegati suoi avversarii. Il duca, mostrandosi sempre voglioso della medesima, condusse nondimeno sì destramente i suoi affari, che con buone condizioni la conchiuse nel dì 21 di marzo, e fu questa poi pubblicata nel dì 11 d'aprile [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Svantaggiose furono le condizioni d'essa per li Fiorentini; ma convenne loro accettarla qual era, per non potere di più. E fin qui era stato detenuto prigione in Faenza il marchese Azzo Estense, già preso nella rotta di Porto. Faceva Astorre de' Manfredi signore di quella città costar ben caro a Niccolò marchese la custodia di questo importante prigioniere, non cessando mai di domandar danari e di minacciare. Stanchi i Ferraresi di questa musica, allorchè Gian-Galeazzo figliuolo d'esso Astorre in compagnia della moglie di Carlo Malatesta passava travestito in nave per Po, il presero nel dì 3 di giugno, e il condussero nel castello di Ferrara [Matthaeus de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.]. Grandi smanie e lamenti fece per questo a Milano e a Venezia Astorre. Interpostisi finalmente i signori veneziani, fu pattuito che Astorre consegnasse al senato veneto il marchese Azzo da mandarsi a' confini in Candia, pel cui sostentamento il marchese pagasse annualmente tre mila fiorini d'oro. Con ciò il figliuolo d'Astorre, menato a Venezia, fu rimesso in libertà nel dì 23 di agosto. Mancò di vita in quest'anno Antonio Veniero doge di Venezia nel giorno 23 di novembre [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], e in luogo suo fu sublimato a quella dignità Michele Steno.

Per la morte data dai Bolognesi nel precedente anno a Giovanni conte di Barbiano e ad altri di quella casa, non potea [896] darsi pace il vecchio conte Alberico da Barbiano, soprannominato il gran contestabile, e celebre condottier d'armi in questi tempi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. eod.]. Era egli ai servigi del duca di Milano, e da lui impetrò un corpo di armati per voglia di vendicarsi. Ma contra de' Bolognesi ragion volea che no, perchè era stata abbattuta la fazione, da cui furono condannati alla morte i signori da Barbiano, e dominava allora la contraria. Lo sdegno dunque d'Alberico si rivolse contra di Astorre de' Manfredi signor di Faenza, ad istigazione di cui i suoi parenti lasciarono il capo sul palco. Gli stessi Bolognesi, che aveano preso per loro generale Pino degli Ordelaffi signor di Forlì, si collegarono col conte Alberico, e fecero viva guerra ad Astorre per tutto quest'anno, e tennero bloccata la città di Faenza, avendo ivi piantata una bastia. Un bel che fare avrebbe chi prendesse a descrivere tutte le rivoluzioni seguite in quest'anno nella troppo facilmente tumultuante città di Genova. A me basterà di accennare [Georg. Stella, Annal. Gen., tom. 17 Rer. Ital.], che, mossa sedizione da una parte di quel popolo contra di Colardo governatore pel re di Francia nel dì 12 di gennaio, tal paura gli fecero, che se ne fuggì a Savona. Fu eletto per governatore Batista Boccanegra con titolo di capitan delle guardie del re di Francia; eppure egli si diede a far guerra al castelletto presidiato da' Franzesi. Presero per questo le armi gli Adorni ed altri nobili; e, prevalendo la loro fazione e possanza, dopo molti combattimenti, rimase abbattuto il Boccanegra, e a lui fu sostituito Battista de' Franchi Lusiardo nel grado di capitano. Non cessarono per questo le risse e sedizioni fra quei di Guarco, di Montaldo, gli Adorni e Campofregosi. Tuttavia tenne saldo il suo grado il suddetto Batista fino al fine dell'anno presente. Videsi intanto comparire a Venezia Manuello Paleologo imperador de' Greci, che fu ivi con rara magnificenza accolto. Passò a [897] Padova [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital.], dove con grande onore incontrato da Francesco da Carrara e da Niccolò marchese di Ferrara, che s'era apposta portato colà, se n'andò poscia a Pavia [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.] a trovare Gian-Galeazzo Visconte duca di Milano, e di là poi si trasferì in Francia. Il motivo del suo viaggio era per chiedere soccorso ai principi cristiani d'Occidente contro la potenza dei Turchi, la quale minacciava oramai lo sterminio totale all'imperio de' Greci. Poco profitto ne ricavò egli. Sua fortuna fu che il gran Tamerlano imperador dei Tartari il liberò dall'oppressione di Baiazette imperador de' Turchi. L'anno ancora fu questo [Gobelinus. Theodericus de Niem. S. Antonin., et alii.], in cui contra di Venceslao re de' Romani si sollevò buona parte degli elettori e de' principi dell'imperio. Era egli venuto in disprezzo a tutti, non avendo mai atteso ad altro che ad imbriacarsi fra continui banchetti, perduto nell'amore d'una mulinaia, sprezzatore d'ogni legge, e solito per leggeri motivi a far morire persone di merito, e fin dei vescovi. Perciò fu presa la risoluzion di deporlo come persona inetta al governo. Si pretendeva ch'egli avesse pregiudicato all'imperio col creare duca di Milano Gian-Galeazzo Visconte, e molto più per avere abbandonata l'Italia, permettendo che esso duca l'andasse a poco a poco ingoiando. Papa Bonifazio IX anch'egli si dichiarò contra di lui, perchè non si dava pensiero alcuno, come protettor della Chiesa, per estinguere lo scisma. Fattene anche varie doglianze dagli elettori al papa, l'avea questi più volte paternamente ammonito a mutar vita; ma, vedendo che predicava al deserto, finalmente lasciò in libertà gli elettori di provvedere, come avessero creduto il meglio. Pertanto, dopo le citazioni, nel dì 20 d'agosto raunati i principi, esposero la dappocaggine e tutti gli altri di lui reati, e poscia vennero alla sentenza della [898] deposizione, con eleggere in sua vece re de' Romani Federico duca di Brunsvich, il quale non giunse alla corona germanica, perchè da una congiura gli venne tolta la vita. Si passò all'elezione d'un altro, e questa cadde in Roberto conte Palatino del Reno e duca di Baviera, principe valoroso e ben degno di quella carica. Era egli nipote di Lodovico il Bavaro. Venceslao, saputa la sua deposizione, come era d'animo abbietto, benchè molti seguitassero a tenere per lui, e massimamente in Italia il duca di Milano, pure si ritirò nel suo regno di Boemia, continuando a menar la vita di prima. Per le sue tirannie fu dipoi posto dai Boemi in prigione nel 1403. Fuggito di là, ebbe maniera di ricuperare il regno, in cui commise nuove crudeltà, finchè nell'anno 1418 morì d'apoplessia, da niuno compianto, e abborrito da ognuno.


   
Anno di Cristo mcccci. Indizione IX.
Bonifazio IX papa 13.
Roberto re de' Romani 2.

Il secolo quintodecimo, a cui do ora principio, noi lo vedremo non meno agitato dalle guerre e rivoluzioni, che i barbarici precedenti. Tuttavia per due capi, cioè per le lettere e per la milizia, lo troveremo differente dai finora scorsi, e molto superiore ai medesimi. Non v'ha dubbio che nell'antecedente secolo cominciarono le buone lettere, troppo depresse in addietro, ad alzare il capo, e massimamente si ravvivò la lingua latina. Contribuì allora a ciò non poco Francesco Petrarca, uomo singolare, colle sue opere latine. Ho io parimente dato alla luce le Storie di Ferreto Vicentino, e di Albertino Mussato Padovano, che non aspettarono il Petrarca a lavorar con istile non disprezzabile le loro storie. Sopra tutti meritano attenzione le opere di Pietro Paolo Vergerio Justinopolitano, il seniore, che per l'eloquenza son tuttavia assaissimo da prezzare. Ma in questo secolo quintodecimo si dilatò sì fattamente [899] lo studio delle lettere in Italia, che n'uscirono uomini per letteratura famosi, dei quali anche oggidì ammiriamo il sapere. Tanta è la copia d'essi, ch'io non mi metto a rammentarne neppur uno. Quello che specialmente cominciò a spronar gl'Italiani fu la venuta a Venezia sul fine del precedente secolo, e il passaggio dipoi a Firenze di Manuello Crisolora fuggito da Costantinopoli, il quale ben salariato si diede ad insegnare alla gioventù la lingua greca; e questa maggiormente accese lo studio della latina. Dagli Italiani susseguentemente impararono gli altri regni cristiani. Similmente nacquero nel presente secolo molti insigni uomini, che poscia ristorarono e perfezionarono la pittura, cioè Leonardo da Vinci, Pietro Perugino, Michel Angelo Buonarroti, Tiziano, Andrea del Sarto, Antonio Allegri detto il Correggio, Rafaello d'Urbino, ec. Per conto della milizia abbiam veduto che nel precedente secolo gl'Italiani costituirono il nerbo maggiore delle lor forze ed armate nella cavalleria straniera. Calavano allora a truppe i Tedeschi ed altri oltramontani, chiamati, o spontanei, in Italia, ben sicuri di trovar soldo o dai principi o dalle città libere. Ma s'è anche veduto quanto grande fosse l'avarizia loro, quanto poca la fede; e il maggiore di tutti i mali, fu lo aver essi introdotte le maledette compagnie di masnadieri, che sì lungamente afflissero le nostre contrade. Conobbero infine gl'Italiani di avere anch'essi mani, coraggio ed armi; e, lasciati andar gli stranieri, divennero agguerriti, ed ebbero capitani e generali di rara maestria e valore nel mestiere delle armi. Spezialmente in questi tempi fioriva Alberico conte di Barbiano, dianzi gran contestabile del regno di Napoli, dalla cui scuola uscirono altri insigni capitani. Così abbiam veduto Jacopo del Verme, Biordo e Broglia e Carlo Malatesta, che morì di peste nel precedente anno in Empoli. E qui conviene far menzione di Sforza degli Attendoli, nato in Cotignola della [900] Romagna [Corio, Istoria di Milano.] nell'anno 1369 a dì 10 di giugno. Il Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], il padre Bonoli [Bonoli, Istoria di Lugo.] ed altri non pochi scrivono, essere stata nobile la casa degli Attendoli onde egli uscì. Ma può restar del sospetto, che se gli attribuisse questa nobiltà, dappoichè egli, fu col suo valore salito in alto, e tanto più dappoichè Francesco suo figliuolo, anche più insigne nelle armi del padre, giunse a conquistare il ducato di Milano. Antica tradizion certo fu, ch'egli, zappando la terra, ed invitato da alcuni al mestiere delle armi, gittasse la zappa sopra una quercia, per prenderne augurio; se calava, di seguitar nel suo esercizio, e se restava nell'albero, di abbracciar la milizia. Non cadde la zappa, ed egli marciò alla guerra, dove per le sue violenze gli fu posto il soprannome di Sforza; e già in questi tempi avea cominciato ad acquistarsi il nome di valente guerriero, e comandava ad una squadra d'armati. Per testimonianza del Giovio, i suoi posteri Sforzi duchi di Milano non credeano falsa tal tradizione; e da qui a non molto noi vedremo esso Sforza nominato dai Romani villano da Cotignola. In questo medesimo anno, trovandosi esso Sforza al servigio dei Fiorentini con cento cinquanta uomini d'armi in San Miniato, Lucia Trezania, tenuta da lui per moglie di coscienza, ma poi ripudiata, partorì a' dì 23 di luglio Francesco figliuolo di lui, che col tempo fu gloriosissimo duca di Milano. Questo basti per ora.

Abbiamo dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.] che circa questi tempi papa Bonifazio, portato alla clemenza, ricevette in sua grazia Giovanni e Niccolò dalla Colonna, che colla corda al collo gli chiesero perdono. Lo stesso fece con Giacobello Gaetano figliuolo del defunto Onorato conte di Fondi, cioè di un gran nemico di esso papa, confermandogli alcuni feudi già [901] spettanti alla sua casa nello Stato pontifizio. Ma l'avversario suo, cioè l'antipapa Benedetto, che tuttavia era sequestrato nel palazzo, ossia castello di Avignone, ebbe maniera in quest'anno di guadagnare Lodovico duca d'Orleans reggente del regno. Questi riconciliò con lui i cardinali del suo partito, che l'aveano dianzi abbandonato per le sue crudeltà contro la città d'Avignone. Ratificò in tal congiuntura Benedetto le promesse fatte già di deporre il preteso papato, se così richiedeva il bisogno della Chiesa; e con ciò pare ch'egli riacquistasse la libertà. Ma, secondo altri atti, la sua liberazione succedette nell'anno 1403. Attese in questi medesimi tempi [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] Ladislao re di Napoli a domar que' baroni che restavano ribelli alla sua corona. All'uscita d'aprile cavalcò coll'esercito in Calabria, e ridusse all'ubbidienza sua tutte quelle terre, a riserva di Cotrone e di Reggio, che Niccolò Ruffo conte di Catanzaro consegnò alle genti di Lodovico d'Angiò, con andarsene dipoi in Provenza. Ma Ladislao tanto poi fece, che espugnò i Franzesi, ed ebbe tutto. E perciocchè morì l'almirante di casa Marzano, stato in addietro suo nemico, si volse con gl'inganni a distruggere quella casa, e sotto colore di un matrimonio trasse nella rete Goffredo figliuolo di esso almirante, con torgli Tiano, Alife e il ducato di Sessa. Aggiugne il Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] che in questo medesimo anno Ladislao cacciò da Amalfi Ruggieri Britanno, che avea occupato quel paese; ricuperò tutto l'Abruzzo; e poi, dimentico de' benefizii a lui compartiti da Dio, quantunque i Sanseverini si fossero uniti con lui, ed avessero mirabilmente contribuito a rimetterlo in Napoli, pure perchè gli erano stati contro in addietro, prese Tommaso ed alcuni altri di essi, e li cacciò in prigione. Un pari trattamento fece al duca di Venosa e al vescovo di Biseglia. Che [902] mal verme fosse Ladislao, di qui si può cominciar a comprendere. Ma negli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] l'oppressione de' Sanseverineschi vien rapportata all'anno 1404. E conviene aver pazienza se non si possono con ordinata cronologia riferire i fatti del regno di Napoli. Appena s'udì l'elezione di Roberto di Baviera re dei Romani, coronato in quest'anno, correndo la festa dell'Epifania, in Colonia da quell'arcivescovo Federigo, e traspirò l'inclinazione sua di calare in Italia contra di Gian-Galeazzo duca di Milano [Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital. Delayto, Chron., tom. 18 Rer. Ital. Amm., Ist. Fior., lib. 16.], che i Fiorentini gli spedirono ambasciatori a confortarlo e sollecitarlo a questa impresa. Al pari di loro, anche papa Bonifazio si studiò di muoverlo, siccome irritato contro il duca per l'occupazione da lui fatta di Perugia, Assisi ed altre terre della Chiesa. Si accordarono i Fiorentini di pagargli ducento mila fiorini d'oro, cioè cento mila allorchè fosse sboccato in Italia l'esercito di lui, e il resto in altre rate. Ben volentieri, ed apertamente, Francesco da Carrara signore di Padova, e segretamente i Veneziani aderirono a questa lega. Ma Niccolò Estense marchese di Ferrara, lungi dall'entrare in questo ballo, nel mese di settembre, accompagnato da molta nobiltà e genti d'armi in numero di quattrocento cinquanta cavalli, andò a Pavia a visitare il duca di Milano, che l'accolse con molto onore e finezze: cosa che ingelosì non poco i Veneziani, e fu cagione che parlassero alto coi ministri dell'Estense, il quale seppe tenersi neutrale in quelle scabrose contingenze. Sul principio d'ottobre fu a Trento Roberto re de' Romani con bella gente di armi, e andò ad unirsi seco colle sue ancora Francesco da Carrara, il quale fu creato capitan generale di tutta l'armata. Avea già spedito Roberto le lettere circolari, significando a' principi la sua venuta per prendere la corona [903] d'Italia, e intimando al duca di Milano di dimettere tutte le città dell'imperio indebitamente da lui possedute. Gian-Galeazzo gli mandò per risposta, che nol conoscea per nulla, essendo Venceslao legittimo re de' Romani, ed esso Roberto un usurpatore. Intanto accrebbe l'esercito suo, e lo spedì ai confini de' suoi Stati, col mettere specialmente un grosso presidio in Brescia, comandato da Facino Cane e da Ottobon Terzo.

A quella volta appunto per disastrosi cammini calò, dopo la metà d'ottobre, l'armata di Roberto, con cui erano ancora il burgravio di Norimberga e Leopoldo duca d'Austria. Già si erano ribellate al Visconte alcune valli del territorio bresciano. Nell'esercito del Visconte, oltre ai suddetti due capitani, si contavano Teodoro marchese di Monferrato, il conte Alberico di Barbiano, Carlo Malatesta, Galeazzo da Mantova, Taddeo del Verme ed altri capitani. Molte scaramuccie si fecero con danno per lo più de' Tedeschi; ma nel dì 21 d'ottobre si venne quasi ad un general fatto d'armi, in cui restò scavalcato e prigione il duca d'Austria, colla morte e prigionia di molte centinaia di Tedeschi, comparendo superiore ad essi la bravura ed arte della milizia italiana. E se non era Jacopo da Carrara figliuolo di Francesco signor di Padova, in piena rotta andava tutto il campo di Roberto. L'essere stato rilasciato il duca d'Austria da lì a tre giorni, fece insorgere sospetti ch'egli avesse maneggiato cogli uffiziali del Visconte qualche trattato contra de' Carraresi; di modo che questi si ritirarono colle lor genti, e nel dì 6 di novembre giunsero in salvo a Padova. Roberto anch'egli marciò alla volta di Trento, dove si partì da lui in discordia il suddetto duca coll'arcivescovo di Colonia [Sozomenus, Annal., tom. 16 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Son di parere altri storici che la ritirata di Roberto procedesse da timore per la fiera spelazzata [904] che gli era toccata nel precedente conflitto. Certamente non mostrò egli gran perizia nell'arte della guerra, nè seppe profittar punto delle forze sue, benchè superiori a quelle del Visconte. Da Trento venne poscia Roberto a Padova, e vi entrò con tutta la sua baronia nel dì 18 di novembre. Trasferissi di là a Venezia nel dì 10 di dicembre, accompagnato dal signore di Padova. Di grandi consigli si tennero quivi coll'intervento degli ambasciatori fiorentini, per continuar la lega e la guerra contro il duca di Milano. Ma Roberto dimandava danari, e i danari ostinati non voleano venire [Mutius, Histor. Germ., lib. 26.]: però non si trovava maniera d'accordo fra essi contraenti. Sino al fine dell'anno si fermò in Venezia Roberto. Regnò ancora in quest'anno la confusione in Genova, troppo essendo avvezzi que' cittadini e i distrettuali ancora alle gare e sedizioni [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]: finchè nel dì ultimo d'ottobre colà arrivò Giovanni il Meingle, soprannominato Bucicaldo, maresciallo del re di Francia, personaggio di mirabil vivacità e franchezza, a ripigliar le redini di quel governo. Seco condusse circa mille uomini d'armi, e fu accolto con grande onore. Fattesi egli tosto consegnar quelle fortezze che erano in mano de' Genovesi, nel dì 2 di novembre chiamò a sè Batista Boccanegra e Batista dei Franchi Lusiardo e dopo averli messi sotto guardia, li sentenziò a morte, perchè avessero usurpata la rettorìa della città senza licenza del re ne' passati tumulti. La sentenza fu eseguita ad un'ora di notte nella piazza del pretorio contra del Boccanegra, a cui fu mozzato il capo. Dovea farsi lo stesso del Lusiardo, già spogliato e colle mani legate; ma perchè si vide qualche movimento nel popolo accorso, e a ciò teneano gli occhi i soldati franzesi, il Lusiardo, che se la vide bella, alzatosi e cacciatosi nella folla, ebbe la fortuna di salvarsi. Bucicaldo in [905] collera fece subito tagliar la testa a quell'ufficiale che ne dovea aver cura. E questo buon cavallerizzo seppe in breve domar così bene quegli sbrigliati cavalli, che tornò in Genova e nel territorio la pace, ed ogni terra ubbidì, eccettochè Monaco posseduto da Lodovico Grimoaldo, ma che vedremo ricuperato da esso Bucicaldo nell'anno seguente, nel quale ancora sappiamo aver egli tolte le armi a tutti i cittadini di Genova, senza che si udisse tumulto alcuno: tanta paura si avea di lui.

Prima di questi avvenimenti fu in Bologna gran mutazione [Matth. de Griffon., Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod. Delayto, Annal., tom. eod.]. Gareggiavano fra loro in quella città Giovanni Bentivoglio e Nanne de' Gozzadini, cadaun d'essi aspirando alla signoria della città. L'accorto Bentivoglio, per rinforzare il suo partito, fece nel mese di febbraio entrare in città tutti gli amici del fu Carlo Zambeccari della fazion maltraversa, che erano confinati. Segretamente ancora si procacciò il favore del duca di Milano e de' suoi parziali. Con tal disposizione levato rumore nel dì 14 di marzo, si fece proclamar signore di Bologna. Allora fu che il duca si credette di aver da lì innanzi un fedele amico in esso Bentivoglio, e gli spedì ambasciatori per far lega con lui, ed egli acconsentì. Ma seppero dipoi tanto picchiargli in testa gli ambasciatori de' Fiorentini, rappresentandogli il pericolo d'essere divorato dal non mai contento duca, ch'egli si gittò nelle loro braccia e strinse lega con essi. Di questo si offese non poco il Visconte, ma siccome volpe vecchia dissimulò lo sdegno, con ordinar nondimeno al conte Alberico di Barbiano e ad Ottobuon Terzo che andassero in Romagna, e trovassero pretesti di guerra contra dei Bolognesi. Il pretesto fu, che il Bentivoglio si fosse accordato con Astorre signor di Faenza e nemico del conte Alberico. Fecero dunque essi delle scorrerie sul [906] territorio bolognese nel giugno, menando via gran quantità di bestiame e prigioni. Poscia, sbrigato che fu dalla guerra col re Roberto, ritornò esso conte Alberico sul Bolognese, e ripigliate le ostilità, s'impadronì del castello e della rocca di Dozza. Nanne e Bonifazio de' Gozzadini, per sospetto della lor vita, si ritirarono a Ferrara, e furono banditi. In Pistoia nell'anno presente [Sozomen., Chron., tom. 16 Rer. Ital.] Ricciardo de' Cancellieri, ribellatosi alla patria, prese il castello della Sambuca; ed assistito dal duca di Milano, a cui facea sperare il dominio di quella città, diede il guasto a tutta quella contrada. Ma i Fiorentini colle lor forze sturbarono i progressi del medesimo Ricciardo. Abbiamo dagli Annali di Milano [Annales Mediolan., tom. eod.] che in questi tempi Gian-Galeazzo duca, per sostener la guerra poco fa descritta, caricò sì spietatamente i suoi sudditi di taglie e prestiti, che molti, non potendo sostener tanti pesi, andarono raminghi pel mondo, oppure venivano imprigionati, e dai soldati erano occupati i lor beni. Perciò gemiti ed urli s'udivano fra tutti quei popoli. E tali per lo più son le glorie dei principi conquistatori.


   
Anno di Cristo mccccii. Indizione X.
Bonifazio IX papa 14.
Roberto re de' Romani 3.

Nulla di particolare abbiamo in questo anno delle azioni di papa Bonifazio IX, sennonchè egli fece lega coi Fiorentini contra dello Stato di Milano [Sozomenus, Chron., tom. eod.], e Giannello suo fratello con mille e cinquecento lancie andò all'assedio di Perugia; ma Ottobuon Terzo colle soldatesche del duca di Milano il fece tornar indietro con poco suo gusto. Nè altro sappiamo del re Ladislao [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], fuorchè l'aver egli contratto matrimonio con una sorella del re di Cipri appellata Maria, gentile [907] e savia signora, che giunse a Napoli nel dì 12 di febbraio con accompagnamento nobile di Cipriotti. Furono perciò fatte solenni giostre ed altre magnificenze in quella regal città. Dimorò per qualche tempo il re de' Romani Roberto in Venezia, disputando co' Fiorentini del danaro ch'egli si doleva di non avere ricevuto secondo i patti, ed esigendone dell'altro, se dovea continuare a tener le sue armi in Italia [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. Perchè non andavano a suo verso gli affari, e gli ambasciatori fiorentini s'erano ritirati, anch'egli, imbarcatosi sopra una galea sottile, se n'andò colla sua famiglia a Tisana. Assai nondimeno premeva alla signoria di Venezia di tener in Italia questo principe per contrapporlo alla smoderata potenza del duca di Milano. Fattolo perciò ritornare a Venezia nel dì 9 di gennaio, ottennero che i Fiorentini pagassero nuovi danari; laonde, parendo già fissata la sua permanenza in Italia, nel dì 29 del suddetto mese venne a Padova, e volle, per maggior sua sicurezza, prendere alloggio nel castello. Ma perciocchè i Fiorentini per loro imbrogli in Toscana, e per li bisogni del signor di Bologna, che era più che mai infestato da Alberico conte di Barbiano, non poteano unir con lui le proprie forze, nè si sentivano di voler sostenere colla sola lor borsa il peso di un sì dispendioso aiuto, e perchè neppure in Germania erano quiete le cose: il re Roberto in fine a dì 13 d'aprile congedatosi in Padova, e ritornato a Venezia, dopo qualche giorno s'imbarcò, e tornossene al suo paese, lasciando in Italia un misero concetto del suo nome e valore. Allora si slargò forte il cuore a Gian-Galeazzo Visconte, vedendosi tolto d'attorno un tal contradittore, e tosto s'applicò ad eseguire i disegni già conceputi contra di Giovanni Bentivoglio signor di Bologna, a cui dava il nome d'ingrato. Fin sul bel principio di quest'anno aveano cominciato gli affari d'esso Bentivoglio [908] a prendere cattiva piega [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. eod.]. Era entrato nel dì 29 di gennaio in quel territorio il conte Alberico con cinquecento lancie; altre schiere condotte da Marcoardo dalla Rocca si aggiunsero alle sue, e con loro parimente si unirono Bonifazio e Nanne de' Gozzadini. S'impadronirono essi per trattato nel dì 31 della Pieve di Cento, e poscia della rocca. Fu seguitato l'esempio di questa terra da Massumatico, San Prospero, Galiera, Vergà ed altre terre. Anche San Giovanni in Persiceto nel dì 3 di febbraio si ribellò gridando: Viva la libertà. Questo popolo dipoi nel dì 8 di marzo chiamò il Bentivoglio a parlamento, mostrando disposizione di far patti con lui. V'andò egli con due suoi capitani. I patti furono, che contra di lui spararono due bombarde, l'una delle quali uccise il cavallo a lui, e l'altra Scorpione suo capitano. Acclamò poscia esso popolo per loro signori Pandolfo e Malatesta de' Malatesti. Fortuna ebbe bene esso Bentivoglio nel dì 15 di febbraio di rompere il corpo di gente comandato da Marcoardo dalla Rocca e da Alberto Pio, e di far prigioni que' due capitani; ma un nulla fu questo al suo bisogno.

Avendo egli intanto implorato l'aiuto de' Fiorentini, questi gli mandarono Bernardone lor capitano con alcune centinaia di fanti e cavalli. Francesco da Carrara [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.] anch'egli inviò loro cinquecento fanti, bella gente e ben armata, ed anche trecento cavalieri condotti da Francesco Terzo e Jacopo suoi figliuoli. Andrea Gataro [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.] scrive, avere il signore di Padova spedito colà mille e cinquecento cavalli e trecento fanti; ma è ben più probabile il primo racconto. Comunque sia, poco era questo in paragon delle forze del duca di Milano, nel cui poderosissimo esercito, composto di otto mila cavalli e cinque mila fanti, ed altri dicono molto più, comparvero Francesco Gonzaga signor [909] di Mantova, Carlo, Pandolfo e Malatesta de' Malatesti, Antonio del Verme, il conte Alberico da Barbiano, Jacopo e Taddeo del Verme, Ottobuon Terzo, Facino Cane, ed altri rinomati capitani, i quali tutti concorsero a dare il generalato al vecchio conte Alberico, che potea essere maestro di ognuno nell'arte della guerra. Nel dì 22 di maggio entrò sul Bolognese l'armata duchesca, inferendo quei danni che suol fare la militar licenza anche senza l'ordine de' comandanti, facendo vista il Gonzaga e i Malatesti di far eglino quella guerra a nome proprio, e non già del duca di Milano. Avea postato Giovanni Bentivoglio le sue genti a Casalecchio, affinchè non fosse tolta l'acqua del canale di Reno alla città. Trasse colà anche l'esercito nemico, e nel dì 26 di giugno seguì fra loro un terribil fatto d'armi colla sconfitta de' Bolognesi, restando prigione di Facino Cane Bernardone generale de' Fiorentini e Francesco Terzo da Carrara, e del signore di Mantova Jacopo altro legittimo figliuolo del signore di Padova, oltre a Sforza Attendolo, Tartaglia e moltissimi altri. Per questa rotta il popolo di Bologna prese le armi contra del Bentivoglio, ed, occupate le porte [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], lasciò entrare non solamente i fuorusciti nemici di lui, ma anche i capitani del Visconte con alcune brigate d'armati. Essendo nascosto Giovanni Bentivoglio, fu nel dì 28 scoperto, e condotto alla piazza, restò vittima del furore di quel popolo, il quale non tardò ad acclamare per suo signore il duca di Milano, perchè non potea di meno; e fu poi questa elezione solennemente confermata a dì 10 di luglio nel general consiglio di quella città. Poco stette il duca ad ordinare che ivi si fabbricasse una cittadella. Gran danno e scontento n'ebbero i Bolognesi. Se a questa nuova restassero storditi i Fiorentini, facile è l'immaginarselo. Già si vedeano quasi da ogni lato circondati dal Biscione, padrone della Lunigiana, di Pisa, Siena, Perugia e Bologna. [910] Scrive il Corio [Corio, Istoria di Milano.] che dopo la presa di questa città inviò il duca in Toscana il conte Alberico con dodici mila cavalli e diciotto mila fanti, che strinsero d'assedio la città di Firenze. Aggiugne l'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] che nel dì 23 d'agosto fu sconfitta la gente d'esso duca dai Fiorentini. Ma di ciò nulla parlando il Delaito, il Poggio, l'Ammirato ed altri scrittori; anzi scrivendo essi che lo scaltro duca, per mostrar la sua moderazione, tosto trattò di pace e lega con Firenze, non è da prestar fede in ciò allo storico milanese. Nè si vuol tacere, che, condotto prigione da Facino Cane Francesco Terzo da Carrara [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.], allorchè fu in Parma, aiutato da un suo conoscente, ebbe la fortuna di fuggire, calandosi giù per le mura. Jacopo suo fratello prigioniere di Francesco Gonzaga fu menato a Mantova. Quantunque suo padre offerisse di riscatto cinquanta mila fiorini d'oro, il Gonzaga, dimentico dei servigi a lui prestati dalla casa di Carrara nella precedente guerra, stava saldo in volerne cento mila. Molto meno costò al Carrarese la liberazion del figliuolo; perciocchè concertato tutto con genti fidate, allorchè Jacopo un dì giocava alla palla in sito diviso dal lago da un muro, siccome era suo costume, uscì per un portello a pigliarla. Quivi, entrato in una barca preparata, che velocemente il condusse fuori del lago, trovò al lido dodici cavalle corridore, tenute da dodici uomini a cavallo, che l'aspettavano. Con queste arrivò egli sano e salvo nel dì 23 di novembre a Padova, e recò un'incredibil allegrezza al padre.

In questo auge di gloria e potenza ora si trovava Gian-Galeazzo Visconte duca di Milano; ma siccome nulla è di stabile nelle umane cose, venuta la peste a Pavia, egli si ritirò a Marignano sul Lambro. Quivi, preso da malattia, nel dì 3 di settembre in età di cinquantacinque [911] anni pagò il debito della natura; nè mancò chi sospettasse i Fiorentini autori di sua morte col veleno. Fu questo principe di gran mente ed astuzia, amatore della vita ritirata, magnanimo, clemente e glorioso agli occhi del mondo per le sue tante conquiste. Altre sue belle qualità sono riferite negli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]. S'egli maggiormente fosse vivuto, le disposizioni certamente erano ch'egli avrebbe steso molto più oltre i confini del suo dominio, giacchè cotanto era cresciuta la di lui potenza; e la febbre dei conquistatori, così pregiudiziale a' propri ed altrui sudditi, gli stava troppo fitta nel cuore. Dal testamento e da' codicilli suoi, il compendio de' quali vien riferito dal Corio [Corio, Istoria di Milano.], si raccoglie, aver egli lasciato col titolo di duca a Gian-Maria suo primogenito Milano, Cremona, Como, Lodi, Piacenza, Parma, Reggio, Bergamo, Brescia, Siena, Perugia e Bologna. A Filippo Maria secondogenito legittimo lasciò con titolo di conte Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Verona, Vicenza, Feltro, Belluno e Bassano colla riviera di Trento [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. A Gabriello suo bastardo, ma legittimato, lasciò Pisa e Crema. Andrea Biglia [Billius, in Hist., tom. 19 Rer. Ital.] non parla di Crema, e dice lasciatagli Pisa colla Lunigiana e Sarzana. Tralascio i suoi legati a cause pie. La solennità del funerale fatto al di lui cadavero nel dì 20 d'ottobre in Milano fu uno spettacolo de' più magnifici che mai si vedesse l'Italia. Vien descritto esso funerale da Andrea Gataro, dal Corio, ma specialmente da un opuscolo da me dato alla luce nel tomo decimosesto della Raccolta degli scrittori d'Italia. Alla morte di questo principe era preceduta una gran cometa visibile per tutta Italia; e chi si dilettava del vano e fallace mestiere d'indovinare l'avvenire, forse avea fatti i conti sulla di lui vita. Anzi scrivono che lo stesso [912] duca da ciò intese vicina la sua chiamata per l'altro mondo. Certo, dappoichè fu morto, i più si fecero buonamente a credere che quel fenomeno celeste avesse indicata la di lui morte. Pretesero altri predetta la formidabil rotta data in questo anno da Timur Bech, da noi appellato Tamerlano, imperador dei Tartari, al ferocissimo Baiazette sultano de' Turchi, gran flagello della cristianità in Oriente, il quale, restato prigioniere del barbaro vincitore, fra le catene terminò poi la vita. Tutte visioni della buona gente, che fa de' somiglianti lunarii, mentre io scrivo, per una cometa che si vide nel febbraio di quest'anno 1744. Per quanto abbiamo dagli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], cessò di vivere in quest'anno a dì 20 di luglio Pino degli Ordelaffi, signore di Forlì, di Forlimpopoli e d'altre terre, e a lui succedette nel dominio Cecco suo fratello. Vien lodato esso Pino per molte sue belle doti, ed universalmente fu dai sudditi compianta la sua morte. In quest'anno ancora morì Scarpetta degli Ordelaffi.


   
Anno di Cristo mcccciii. Indizione XI.
Bonifazio IX papa 15.
Roberto re de' Romani 4.

Cominciaronsi in quest'anno a provar gli effetti della morte di Gian-Galeazzo duca di Milano, cioè si cominciò a sfasciar la monarchia con tante guerre e fatiche da lui stabilita. Già fra i suoi figliuoli si era questa divisa; ma passò più oltre la malattia, con giugnere sino al cuore dello stesso dominio. Erano tuttavia i due figliuoli suoi, cioè Gian-Maria e Filippo, in età incapace di governo; e però il padre nel suo testamento, se crediamo al Corio [Corio, Istoria di Milano.], avea lasciata la reggenza a Caterina sua moglie, a Francesco Gonzaga signore di Mantova, al conte Antonio d'Urbino, a Jacopo del Verme, a Pandolfo Malatesta, al conte Alberico da Barbiano, e a Francesco Barbavara [913] Novarese. Andrea Biglia, autore di questi tempi, scrive [Billius, in Histor., tom. 19 Rer. Ital.] essere stati i principali tutori Pietro di Candia arcivescovo di Milano, Carlo Malatesta e Jacopo del Verme. Entrò ben presto la discordia fra i reggenti. La troppa autorità, che si attribuiva il Barbavara, unitissimo colla duchessa, suscitò l'invidia e l'ambizione nei colleghi; crebbero i disgusti, e i migliori consigli erano ben di rado abbracciati. Il peggio fu in questi primi tempi l'odio e lo spirito della vendetta di chi era rimasto nemico della casa de' Visconti [Ammirat., Istoria di Firenze, lib. 17.]. Si procurò di trattar pace co' Fiorentini; nulla si potè ottenere. Papa Bonifazio IX per le città dello Stato ecclesiastico usurpate, dopo aver pazientato in addietro per paura del potentissimo Biscione, ora determinò daddovero di ricuperare il suo. Il primo colpo ch'egli fece, fu di staccar da Milano e di prendere al suo servigio il conte Alberico, soprannominato il gran contestabile, tassato d'ingratitudine dagli storici milanesi perchè dimentico di tanti benefizii che gli aveva compartiti Gian-Galeazzo, e molto più perchè contra dei di lui figliuoli impugnò la spada in questo anno. Già era il papa collegato co' Fiorentini, ed ora con esortazioni e comandamenti trasse ancora nella stessa lega [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] Niccolò marchese d'Este signor di Ferrara, creandolo capitan generale dell'esercito della Chiesa. Dai reggenti di Milano furono spediti ambasciatori a Padova per quetare Francesco da Carrara, e si conchiuse che il Visconte l'assolverebbe da ogni debito, e inoltre cederebbe a lui Feltro e Cividal di Belluno. Mancò a tali promesse il governo di Milano, e perciò il Carrarese si cominciò ad armare per far guerra ai due fratelli Visconti. Molto più di lui si preparavano i Fiorentini per la medesima danza. Spedì il papa a Ferrara Baldassare Cossa cardinale con titolo di legato di Bologna, acciocchè accudisse col marchese estense alla riduzion di [914] Bologna. Sul fine dunque di maggio l'esercito pontifizio, comandato dal marchese e da Uguccion de' Contrarii, premessa la sfida, entrò nel Bolognese ostilmente. Col marchese erano il gran contestabile, Carlo e Malatesta de' Malatesti, Pietro da Polenta, Paolo Orsino ed altri capitani di grido. Dopo aver preso alcuni luoghi del Bolognese, improvvisamente marciò quell'armata pel Modenese e Reggiano ai danni del Parmigiano, e grosso bottino vi fece. Indi, ritornata sul Bolognese, attese ad altre conquiste.

Intanto in Milano contro la superbia di Francesco Barbavara si eccitò nel dì 25 di giugno una fiera sedizione da Antonio Visconte, dagli Aliprandi e da altri malcontenti; di modo che la duchessa col figliuolo Gian-Maria e col Barbavara si ritirò nel castello. Sopraggiunto poi Antonio Porro, crebbe il tumulto del popolo; seguirono moltissimi ammazzamenti; e il Barbavara prese il partito di fuggirsene a Pavia, e più lungi ancora. Il giovinetto Filippo Maria conte di Pavia si trasferì anch'egli a quella città per custodirla dalle rivoluzioni. Mirabil cosa fu il vedere scatenarsi in questi tempi per quasi tutte le città del ducato di Milano le dianzi addormentate fazioni de' Guelfi e Ghibellini, con fama che gl'industriosi Fiorentini spargessero sì gran fuoco dappertutto coi loro emissarii, e colle promesse d'aiuto a chiunque si ribellasse. Rolando Rosso coi Correggeschi ed altri Guelfi un gran turbine sollevò nel Parmigiano. Nel dì primo di luglio il marchese Ugo Cavalcabò occupò Cremona e poi Crema, ed ebbe soccorso da essi Fiorentini; Franchino Rusca si fece padron di Como; la fazion guelfa s'impadronì di buona parte di Brescia; in Bergamo si scannarono senza pietà le due nemiche fazioni; Lodi, la Martesana, Soncino, Bellinzona, e moltissime altre terre, chi si ribellò al duca, e chi fu sottoposta a gravi omicidii e saccheggi [Billius, Hist., tom. 19 Rer. Ital.]. Nè andò molto che anche gli Scotti, i Landi ed [915] altri nobili di Piacenza, cacciati gli Anguissoli, presero in sè il governo di quella città. Tutto in somma era in rivolta. In mezzo a tanto incendio pareano incantati i reggenti di Milano, sennonchè Ottobuon Terzo sostenne Parma, e Facino Cane con Galeazzo da Mantova difese bravamente Bologna dagl'insulti dell'esercito pontificio, il qual di nuovo fece una irruzione nel Parmigiano [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Italic.]. Pur presero essi Reggenti un buon consiglio, e fu di pacificare il papa. Datane la commissione a Francesco Gonzaga signore di Mantova, questi segretamente ne trattò col cardinal Cossa legato apostolico, per mezzo di Carlo Malatesta suo cognato, sì felicemente, che all'improvviso saltò fuori la pace fra loro nel dì 25 d'agosto, per cui furono restituite al papa le città di Bologna, Perugia ed Assisi, senza che il pontefice si prendesse in quella pace cura alcuna de' Fiorentini: del che fecero eglino molte doglianze. A questa pace si oppose, per quanto potè, Facino Cane, e fece gran danno alla città di Bologna; pure in fine se ne andò [Matth. de Griffon., Chron. Bonon., tom 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.], e nel dì 2 di settembre entrò il cardinal Cossa trionfante in quella città, di cui gli fu confermata la legazione dal papa. Nell'ottobre Nanne de' Gozzadini, che aveva ordito un tradimento per farsi signore di Bologna, mandò i suoi ad occupare una porta; ma il cardinale, che sapeva già e dissimulava tutto, non si lasciò trovare a letto. Fu preso Bonifazio fratello di Nanne, e questi lasciò la testa sul pubblico palco. Imprigionato ancora Gabbione figliuolo di Nanne, di questo si servì il cardinal legato nell'anno seguente per indurre suo padre a restituir la terra di Cento e la Pieve, minacciando la morte al figliuolo. Nanne promise; ma, non attenendo la parola, tolta fu la vita anche ad esso Gabbione. Parimente in Siena [Histor. Senensis, tom. 20 Rer. Ital.] si sollevarono sul fin di novembre le fazioni, [916] l'una per sottrarsi al duca di Milano, e l'altra per sostenerlo; laonde il vicario duchesco fu in gran pericolo.

Era attaccato il fuoco al bosco; anche Francesco da Carrara signor di Padova pensò a scaldarsi [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. La speranza di fare in suo pro qualche bel colpo in mezzo a sì grande sconvolgimento del ducato di Milano, parea fondatissima; e tanto più perchè una delle fazioni di Brescia gli facea sperar l'entrata in quella potente città. Il perchè, ottenuta permissione dai signori veneziani, che nondimeno il dissuasero non poco da imprendere quella guerra, nel dì 16 di agosto s'inviò colle sue armi unite a quelle di Niccolò marchese di Ferrara suo genero alla volta di Brescia, dove entrò nel dì 18 d'esso mese, e gliene fu dato il dominio. Ma essendo la cittadella costante nell'ubbidienza a Milano, e venuti colà con gran corpo di gente Jacopo del Verme, Ottobuon Terzo e Galeazzo da Mantova, non finì la faccenda, che ebbero per grazia le armi padovane e ferraresi di potersi ritirar illese alle lor case. Fece dipoi il Carrarese varie scorrerie sul Veronese, prese alcuni luoghi, vi piantò qualche bastia; ma Ugolotto Biancardo governator di Verona il tenne corto, e il signore di Mantova gli ritolse le torri di Legnago che egli avea preso. Tornando dai principi oltramontani Manuello imperador de' Greci con poco profitto de' suoi interessi, arrivò nel dì 22 di gennaio del presente anno a Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Italic.]. Ricevette grande onore da quel popolo, e dal regio governatore Bucicaldo, e se ne andò poscia al suo viaggio, malcontento dei cristiani occidentali. Intanto perchè i Genovesi erano in rotta con Giano re di Cipri, armarono nove galee, sette navi e un galeone contra de' Cipriotti. Lo stesso Bucicaldo volle essere in persona capitano della flotta a quella impresa, e sciolse le vele verso Cipri. Questo armamento fu [917] cagione che quel re, dopo avere ricevuto alcuni danni, chiedesse accordo collo sborso di molta pecunia, e colla promessa d'altra ad altro tempo. Il vittorioso Bucicaldo si figurò di poter fare qualche bel colpo in Soria contro gl'infedeli, ma nulla gli riuscì, siccome neppure di ottener pace per li Genovesi dal soldano di Egitto. Contuttociò navigava egli con gran fasto per que' mari, non si sa se per tornarsene a Genova, oppure pel fare qualche tentativo ed insulto contro le terre de' Veneziani nell'Adriatico; quando eccoti uscir di Modone Carlo Zeno generale de' Veneziani, rinomato per molto suo valore non meno in terra che in mare, che con undici galee e due uscieri, cioè navi grosse, teneva d'occhio e seguitava la flotta genovese [Delayto, Chron., tom. 18 Rer. Ital. Redusius, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Sulle prime parve amico; ma nel dì 7 d'ottobre scopertosi nemico, venne a battaglia con essi Genovesi. Si combattè con assai bravura dall'una parte e dall'altra; ma in fine Bucicaldo ebbe la peggio, e fu costretto a fuggirsene, con lasciar tre delle sue galee in potere de' Veneziani, i quali insieme colla gente le menarono a Modone. Il Sanuto scrive [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] che gran sangue si sparse in quel conflitto, e conferma la presa delle tre galee. Nel tornarsene a casa gli sconfitti Genovesi, incontratisi in due galee veneziane, anch'essi se ne impadronirono. Diede molto da parlare per Italia questo fatto, ed incredibile schiamazzo ne fece il borioso Bucicaldo, di maniera che quantunque nell'anno appresso seguisse pace fra i Veneziani e Genovesi colla restituzion de' prigioni, pure Bucicaldo non come governator di Genova, ma come persona privata sparse un manifesto, in cui trattava Carlo Zeno da traditore, sfidandolo a duello in terra ferma, oppure con una galea per parte di cadauno in mare. Se ne rise Carlo Zeno, e il lasciò tempestar quanto volle.

[918]

Nè si vuol tacere che sul principio di settembre, sollevatisi i Guelfi d'Alessandria, si ribellarono ai Visconti, ed implorarono aiuto da Genova per sottomettersi al re di Francia. Non fu pigro il vice-governatore di Genova a spedir gente in loro aiuto, con poca fortuna nondimeno; perchè, oltre all'essersi ritirati i Ghibellini nelle fortezze, arrivò colà Facino Cane con molte squadre, che ricuperò quella città, e mise in desolazione tutta la parte guelfa. Un simile orrido giuoco fece Pandolfo Malatesta a Como, dove fu egli spedito per ricuperar quella città. Bolliva in questi tempi gran discordia fra i magnati della Ungheria [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Coloro che non voleano per loro re Sigismondo fratello di Venceslao già re de' Romani, si avvisarono di chiamare a quella corona Ladislao re di Napoli, siccome principe che vi pretendea per le ragioni del re Carlo suo padre e per altri titoli, promettendogli sicuro per lui quel vasto regno. Ladislao non perdè tempo ad imbarcarsi, ed arrivò a Zara. In essa città, correndo il dì cinque d'agosto, fu egli coronato dall'arcivescovo di Strigonia, oppure da Angelo Acciaiuoli cardinal di Firenze [Raynaldus, Annal. Eccles.], spedito dal papa per dar braccio all'impresa. Ma avendo egli inviato i suoi deputati a prendere il possesso del rimanente del regno, trovò risorto più che mai il partito di Sigismondo, mutati d'opinione que' grandi e se stesso deluso. Il perchè adirato se ne ritornò a Napoli. Ne' Giornali Napoletani [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.] vien riferito questo avvenimento agli anni seguenti; ma, per gli atti che rapporta il Rinaldi e per l'attestato di varii altri scrittori, esso appartiene al presente. Sigismondo, siccome dissi, figliuolo di Carlo IV Augusto, si stabilì poscia sul trono dell'Ungheria, ma non senza crudeltà, e divenne col tempo imperador de' Romani.

[919]


   
Anno di Cristo mcccciv. Indiz. XII.
Innocenzo VII papa 1.
Roberto re de' Romani 5.

Era stato rimesso in libertà nel precedente anno l'antipapa Benedetto, e dacchè fu rientrato in pacifico possesso di Avignone, tanto seppe girar gli affari col far credere a chi non per anche assai il conosceva la sua prontezza a dimettere il papato [Raynaldus, Annal. Eccles.], se si fosse convenuto con papa Bonifazio, dipinto da lui come ostinato in mantenere lo scisma, che gli fu restituita l'ubbidienza da' Franzesi. Ora il furbo Spagnuolo, per maggiormente accreditarsi fra quei del suo partito, e dar ad intendere la sua buona volontà per la riunion della Chiesa, spedì in quest'anno verso il fin di settembre due vescovi con tre altri suoi ambasciatori a Roma per proporre a papa Bonifazio, non già, come andò spacciando, la vicendevol cessione del pontificato, ma bensì un abboccamento fra loro in un luogo determinato. Teodorico da Niem, autore molto sospetto agli annalisti pontifizii, scrive [Theodoricus de Niem, Hist.] che Bonifazio ricusò ogni partito, con sostenere ch'egli era vero papa, nè dover egli mettere in dubbio la legittima sua dignità. Al che risposero gli ambasciatori che il loro papa non era simoniaco, quasi tacitamente accusando Bonifazio di questo reato: del che egli molto si offese, ed eccessivamente montò in collera. Tale agitazion d'animo, e il mal di pietra, per cui era gravemente da qualche tempo afflitto esso pontefice, accrebbe sì fattamente i suoi incomodi, che nel dì primo d'ottobre diede fine alla sua vita. Non mancavano a Bonifazio delle belle doti, che il faceano degno del sublime suo ministero; ma i tempi disastrosi, ne' quali egli si trovò, cagion furono ch'egli piuttosto distrusse, che edificò. Il bisogno di far fronte all'antipapa, e di difendersi dagli aderenti di lui avversarli suoi, e di ricuperar le terre [920] della Chiesa, l'obbligò a cercar danaro per tutte le vie. Ne' primi anni del suo pontificato, perchè vi erano cardinali zelanti e nemici delle cose mal fatte, andò con qualche riguardo; ma infine si diede a vendere tutte le grazie, tornò in campo, dilatò e stabilì maggiormente il pagamento delle annate per chi voleva vescovati ed altri benefizii. Allora furono in corso le espettative, date talvolta a più persone dello stesso benefizio, e talvolta rivocate per cavar danaro da altri; allora si videro in grande uso le unioni de' benefizii, le dispense anche per li regolari, ed altre invenzioni per raccoglier moneta, delle quali parla Teodorico da Niem, accordandosi con lui anche gli autori della Vita di questo pontefice [Vita Bonifacii IX, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Ebbe madre, fratelli e nipoti. Gli esaltò ed arricchì per quanto potè. L'uno de' fratelli, cioè Giannello, creò marchese della marca d'Ancona, l'altro duca di Spoleti. Ad uno di questi fece anche dare dal re Ladislao la contea di Sora con altri Stati. Ma questi, dopo la di lui morte, andarono tutti in fumo; e Giannello non tardò a consegnar Perugia e la marca al nuovo papa. Soprattutto è da dolere che Bonifazio amasse più sè stesso che la Chiesa di Dio. Fece ben egli premura per un concilio, ma non mai s'indusse ad esibirsi per ben della Chiesa pronto a rinunziare la sua dignità. Se fatto l'avesse, avrebbe ognuno abbandonato l'antipapa, qualora anche egli non avesse fatto altrettanto, e si sarebbe venuto alla riunion della Chiesa. Congregaronsi poi in Roma nel conclave i nove cardinali che v'erano, con giurar prima tutti, che chiunque di essi fosse eletto papa, darebbe sinceramente mano ad abolire lo scisma, ed occorrendo, rinunzierebbe il papato. Cadde l'elezione nel dì 17 di ottobre in Cosmo de' Migliorati da Solmona cardinale e vescovo di Bologna, personaggio molto perito nella scienza legale, pratichissimo degli affari della sacra corte [Raynaldus, Annal. Eccles.], di maniere dolci, [921] ed affabile con tutti, e in gran riputazione presso tutti i principi. Prese il nome d'Innocenzo VII e nel secondo giorno di novembre fu solennemente coronato. Ma prima ancora della sua coronazione cominciarono i suoi guai, che non ebbero mai fine; e questi specialmente per colpa e prepotenza del re Ladislao, ingrato ai benefizii ricevuti della santa Sede, e che non vide mai misura alcuna nell'avidità del conquistare [Vita Innocentii VII, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Corse questo re a Roma con gran copia d'armati, parte per maneggiar ivi in persona i suoi interessi, affinchè non gli venisse pregiudizio nel trattare l'union della Chiesa, e parte per difendere, secondo le apparenze, il papa novello dalle insolenze del popolo romano, il quale sotto Bonifazio IX, pontefice di gran cuore, stette basso, e morto lui, col favore de' Colonnesi, rialzò la testa, movendosi a rumore, con seguirne varii omicidii fra essi e le genti del papa. Ma Ladislao, invece di pacificarlo col pontefice [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.], sotto mano maggiormente l'incitò contra di lui, per rendere se stesso più necessario a trattar dell'accordo. Seguì un tale accordo nel dì 27 d'ottobre, ed è rapportato intero dal Rinaldi, con patti molto vantaggiosi ai Romani (il che fece crescere la loro alterigia), e con aver ottenuto Ladislao di mettere una zampa nella creazione de' loro uffiziali. Aggiunge il Delaito [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] che nel dì 20 d'esso ottobre Ladislao occupò castello Sant'Angelo, e vi mise sua guarnigione. Dovette fingere di farlo per bene del papa, a cui, secondo Sozomeno, fu riservato San Pietro con esso castello. Tuttociò non di meno fu un nulla rispetto a quello che andremo vedendo.

Nel gennaio dell'anno presente [Corio, Istoria di Milano.] la duchessa di Milano, che si era ritirata in quel castello, fatti a sè venire con [922] belle parole Antonio e Galeazzo Porri con Galeazzo Aliprandi, autori della passata sedizione, fece lor mozzare il capo. Ottenne ancora che si richiamasse il fuggito Francesco Barbavara, e tornasse a seder nel consiglio; ma poco vi durò costui, perchè di nuovo sbalzato si sottrasse colla fuga al pericolo della vita. Nel dì 28 di marzo seguì pace fra i Guelfi e Ghibellini di Milano, senza però vedersene quel buon frutto che si sperava, essendo continuate le gare in quella città e nel suo territorio. Peggio avvenne nel rimanente dello Stato [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. I principali condottieri d'armi che aveano servito al defunto duca, e doveano sostenere il novello, cominciarono cadauno a voler profittare nell'universale tempesta e naufragio. Questi erano Pandolfo Malatesta, Ottobuono de' Terzi da Parma e Facino Cane. Tutti dimandavano paghe e ricompense Vedeano [Redus., Chronic., tom. eod.] che Giorgio Benzone avea occupato Crema; Giovanni Picciolo, Bergamo, città che poi venne in potere de' Soardi e de' Coleoni. Ugo ossia Ugolino Cavalcabò, siccome già dissi, abbattuti i Ponzoni, s'era solo fatto padrone di Cremona. E perciocchè egli dipoi, nell'andare a Brescia, fu preso e carcerato da Astorre Visconte, Carlo Cavalcabò suo nipote nel dì 18 di dicembre prese la signoria di quella città. In quest'anno medesimo, se pur non fu nel precedente, Giovanni da Vignate s'era impossessato di Lodi. Tutto insomma andava a ruba, e da per tutto regnava la confusione. Si credeano quei condottieri di meritar molto più. Per ciò anche Facino Cane prese la signoria d'Alessandria e d'altre terre, facendo nondimeno vista di tenerle a nome del conte di Pavia. Pandolfo Malatesta insistè così forte, che la duchessa condiscese a cedergli Brescia in guiderdone de' suoi servigi, ed egli ne entrò in possesso. Scrivono altri che anch'esso colla forza ne occupò il dominio. Ottobuono de' Terzi [923] neppur egli stette colle mani alla cintola. Collegatosi con Pietro de' Rossi, proditoriamente nel dì 8 di marzo entrò in Parma, e ne partì poi il dominio col Rossi. Ma di lì a poco, avendo escluso il collega, ne usurpò tutta la signoria per sè con gran dolore della fazion guelfa, che teneva per suo capo il Rossi. E perciocchè nel dì 16 uno di questa fazione uccise uno dei provvisionati di Ottobuono, questo fiero serpente co' suoi soldati sfogò il suo sdegno contro gli amici de' Rossi, senza neppure perdonare a donne, vecchi e fanciulli. Trecento e quattordici di quella fazione rimasero vittima del suo barbarico furore, e poi mandò que' cadaveri sopra delle carra ad una terra de' Rossi. Erasi già ribellata Piacenza al duca di Milano, e n'erano divenuti padroni gli Scotti. Portossi colà Ottobuono colle sue milizie, e con iscacciarne gli Scotti, ebbe in suo potere ancor quella città, eccettochè le fortezze, le quali tuttavia si tenevano pel duca di Milano. Fu invitato nel seguente aprile anche il marchese Niccolò Estense signor di Ferrara e Modena dai cittadini di Reggio, desiderosi di sottomettersi al placido di lui governo. Vi spedì egli le soldatesche sue sotto il comando di Uguccion de' Contrarii, di Sforza Attendolo, ch'egli avea preso ai suoi servigi, e d'altri valorosi capitani. Nel primo giorno di maggio quel popolo assediato levò rumore, e, prese le armi, si diede al marchese. Entrarono le sue genti in Reggio, formarono anche l'assedio della cittadella; ma ciò saputosi da Ottobuon Terzo, si dispose per soccorrer quella città, mostrando di farlo a nome del duca di Milano; e sotto questo colore s'impadronì ancora di quella città, dalla quale si ritirarono per tempo le milizie estensi. Nè tardò costui a far delle irruzioni e de' fieri saccheggi nel territorio di Modena. Ma fra gli altri gravissimi sconcerti del ducato milanese, orrido fu quello della discordia nata fra il giovinetto duca Giovanni Maria e Caterina duchessa sua madre, già figliuola [924] di Bernabò Visconte. Ritiratasi questa a Monza, Francesco Visconte, allora prepotente, segretamente inviò colà gente armata, che introdotta nella notte del dì 15 d'agosto in quella nobil terra, prese la duchessa, la condusse nel castello di Milano, dove da lì a poco tempo diede fine alla vita, e comunemente fu creduto per veleno. Se v'ebbe parte il duca suo figliuolo, come alcuni vogliono, Dio non aspettò a punir questo gran misfatto nell'altra vita. Poco mancò che Pandolfo Malatesta, trovandosi colla duchessa in essa terra di Monza, non fosse anch'egli preso. Ebbe la fortuna di salvarsi scalzo sino a Trezzo, da dove poi si ridusse a Brescia. Forse la cessione a lui fatta di Brescia fu uno de' reati della duchessa medesima. Abbiamo da Sozomeno [Sozomenus, Chron., tom. 16 Rer. Italic. Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] che anche il giovinetto Filippo Maria Visconte, che già vedemmo conte di Pavia, fu in questo anno carcerato da Zacheria potente cittadino di quella città. Prevalendosi di questo buon tempo anche Teodoro marchese di Monferrato, occupò ad esso Filippo Maria le città di Vercelli e Novara con altre terre del Piemonte. Alcune terre ancora vennero in potere del marchese di Saluzzo. Ecco dunque tutto in conquasso, anzi quasi affatto per terra la dianzi sì formidabil signoria de' Visconti.

Durava tuttavia l'odio di Alberico conte di Barbiano contra di Astorre dei Manfredi signor di Faenza, nulla men volendo che lo sterminio di lui [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Egli era divenuto più poderoso per l'acquisto di Castel Bolognese e d'altri luoghi di Romagna dopo la guerra di Bologna; e però, continuando le ostilità contra di lui, il ridusse a tale, che per non cadere in mano di questo inesorabil nimico, ceduta Faenza al cardinal Cassa legato di Bologna [925] per venticinque mila fiorini d'oro, colle lagrime agli occhi si ritirò a Forlì sotto la protezione di Carlo Malatesta suo parente; poscia ad Urbino, dove abitò in molta povertà, perchè non colse il danaro promessogli dal legato, uomo per altri conti di poca fede. In Toscana [Ammirat, Istor. di Firenze, lib. 166. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] i Fiorentini, veggendo in sì fiero scompiglio lo Stato de' Visconti, entrarono in isperanza di conquistar Pisa, massimamente per un secreto trattato che ivi aveano manipolato con alcuno di que' potenti cittadini. Signore allora di Pisa era Gabriello Maria Visconte figliuolo del defunto duca, ma uomo di poco senno, il quale, in vece di conciliarsi sul principio l'affetto del popolo, se ne tirò addosso l'odio a cagion delle sue estorsioni. L'armata de' Fiorentini andò fin sotto Pisa, ma, non essendosi fatto movimento alcuno in quella città, sfogò il suo sdegno contra del contado. Mirava, ciò non ostante, Gabriello Maria vacillante il suo dominio, senonchè gli facea coraggio Bucicaldo spinto da' Genovesi, anzi l'indusse a rendersi tributario del re di Francia, e a cedergli Livorno per godere della di lui protezione. E perciocchè i Fiorentini, di tal cessione avvisati da Bucicaldo, pareano farsi beffe delle sue minaccie, fece questi sequestrar tutte le loro mercatanzie esistenti in Genova, ed ascendenti al valore di cento cinquanta mila fiorini d'oro. Servì questo buon ripiego a far sì che i Fiorentini conchiusero una tregua col signore di Pisa. Aveano già i Sanesi [Bandin., Hist. Senens., tom. 20 Rer. Ital.] ricuperata in parte la lor libertà; ma solo in quest'anno pienamente se ne misero in possesso con licenziare Giorgio del Carretto governatore in addietro di quella città, e stabilirono pace coi Fiorentini. Ricuperarono dipoi molte delle loro castella, restando solamente guerra fra loro e i Salimbeni potenti cittadini e padroni di varie altre terre. Tanto poi fece in quest'anno il [926] suddetto Bucicaldo governatore di Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], che indusse buona parte di quel popolo a dare ubbidienza all'antipapa Benedetto; e se ne fece il pubblico atto nel dì 26 d'ottobre coll'intervento dell'arcivescovo, clero e popolo. Ma alcuni de' più timorati di Dio si assentarono per questo da Genova. Finì i suoi giorni nell'aprile dell'anno presente [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] Antonio conte d'Urbino, di Cagli e di Gubbio, signore di molta saviezza e valore. Ebbe per successore Guido Antonio suo figliuolo. Ma il più strepitoso avvenimento di quest'anno, tanto imbrogliato in Italia, fu la guerra mossa da Francesco da Carrara signore di Padova alle città del ducato di Milano, cioè a Vicenza e Verona. Moltissimi furono i fatti che esigerebbono un lungo filo di storia. Ne darò io solamente un breve compendio [Gatari, Istoria di Padova, tom. 17 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Nel mese di gennaio i Vicentini condotti da Taddeo del Verme fecero un'irruzione sul Padovano fino a Tencaruolo. Ma uscito il Carrarese col suo popolo, li mise in rotta con farne prigione mille e ducento. Con sei mila cavalli dopo la metà di febbraio fu spedito contra di lui Facino Cane. Andatogli a fronte Francesco da Carrara, coi serragli e colle buone guardie il tenne a bada, tanto che, ottenuto di potersi abboccare con lui, seppe tanto dirgli colla giunta di un mulo carico di fiaschi di vino, ma creduti dai più ripieni di fiorini d'oro, mandatogli in dono, che Facino, mosso ancora dal fiero sconvolgimento delle altre città dello Stato di Milano, nel dì 20 di marzo se ne tornò indietro, per tentare anch'egli in suo pro qualche buona preda, siccome abbiam detto che succedette.

Preparossi dunque il Carrarese a portare negli Stati nemici la guerra, senza voler badare ad un'ambasceria dei Veneziani, che venne per trattare di pace.

[927]

A questo uffizio era mosso il senato veneto dagl'impulsi della duchessa di Milano, e insieme dal proprio interesse di Stato, non potendogli piacere che s'ingrandisse la casa di Carrara, in addietro sì nemica e nociva al suo dominio. Avea il signore di Padova seco Guglielmo bastardo della casa dalla Scala co' suoi figliuoli Brunoro ed Antonio, i quali teneano corrispondenze segrete co' Veronesi, non mai dimentichi e tuttavia amanti della casa Scaligera. Vuole Andrea Gataro che convenissero insieme intorno alle conquiste. Vicenza doveva essere del Carrarese, Verona dello Scaligero. Comunque sia, nel dì 30 di marzo mosse Francesco da Carrara l'esercito suo, con cui il genero suo Niccolò Estense marchese di Ferrara andò ad unir le sue milizie; e dopo aver tentato alquanti giorni l'acquisto del castello di Cologna, che fece gagliarda resistenza, e col tempo capitolò, nella notte precedente il dì 8 di aprile, si presentò alle mura di Verona, e parte per le scale, parte per due rotture introdusse le genti sue in quella città, gridando: Scala, Scala, viva messer Guglielmo dalla Scala. Ugolotto Biancardo e Bartolomeo da Gonzaga capitani del duca di Milano colla lor guarnigione si ritirarono nella cittadella, a cui fu immantinente posto l'assedio. Guglielmo dalla Scala, benchè fosse, se crediamo al Gatari, da molto tempo indisposto di salute, fu proclamato signor di Verona. Perchè non era ben fornita di viveri la cittadella, Ugolotto Biancardo capitolò poi la resa, se per tutto il dì 27 d'aprile non gli fosse venuto soccorso. Intanto nel dì 21 d'esso mese Guglielmo dalla Scala finì di vivere. Il Gatari scrive di morte naturale; ma i più credettero che il veleno datogli dal Carrarese gli abbreviasse la vita. In luogo suo furono eletti signori di Verona Brunoro ed Antonio suoi figliuoli. Nel qual tempo Francesco Gonzaga signor di Mantova occupò Ostiglia e Peschiera, terre del Veronese. Mentre queste cose accadevano in Verona, Francesco III primogenito del Carrarese andò col popolo di Padova [928] a stringere d'assedio la città di Vicenza, sotto di cui seguirono tosto alcuni combattimenti con isvantaggio de' Vicentini. Ma sul più bello arrivò impensato accidente che disturbò tutta l'impresa. A nome della duchessa di Milano, che tuttavia comandava in questo tempo, era andato Jacopo del Verme a Venezia, per implorare il braccio di quella potente repubblica contra del Carrarese. La conclusione del trattato fu, che il Verme per aver gran somma di danaro da' Veneziani, ed affinchè Vicenza non venisse alle mani del Carrarese, fece una cessione di quella città ai signori veneziani. Vogliono altri che loro cedesse anche Verona, Feltro e Belluno. Per questa cagione, nel dì 25 di aprile ducento e cinquanta balestrieri veneziani, condotti da Giacomo da Tiene, ebbero maniera d'entrare nell'assediata Vicenza, dove inalberarono la bandiera di San Marco. Indi spedirono un trombetta a Francesco Terzo, per notificargli che Vicenza era data alla signoria di Venezia. Lasciò il Carrarese tornare costui nella città, con dirgli che non osasse più di venire senza salvocondotto: ma venuto egli di nuovo, senza essere munito di salvocondotto, fu, nel ritornare ch'egli faceva in Vicenza, ucciso: azione per cui si esacerbarono forte i Veneziani, e servì loro per titolo di far aspra guerra dipoi al signore di Padova. Nel dì 27 di aprile la cittadella di Verona si rendè a Francesco da Carrara, che vi mise dentro guarnigione sua, e non già degli Scaligeri, siccome disgustato con essi, perchè niun di loro avea voluto cavalcare a Vicenza, secondochè era ne' patti. Andossene dopo il Carrarese colle sue genti a trovare il figliuolo sotto Vicenza, con aver lasciato Jacopo, altro suo figliuolo, nella cittadella di Verona assistito da buon presidio. E già si preparava a dare un generale assalto a Vicenza, quando gli fu portata lettera della signoria di Venezia, in cui gli comandava di levare il campo di sotto a quella città, siccome dominio di San Marco. Benchè mal volentieri, anzi con [929] rabbia immensa, egli ubbidì, e si ritirò colle sue genti a Padova. Mandò poscia a Venezia il marchese Niccolò d'Este per intendere in che disposizione fosse quella signoria contra di lui. Non ebbe il marchese per risposta se non delle amare parole, e delle minaccie contra del Carrarese, e a lui fu ordinato di ritornarsene a Ferrara. Scoprì intanto esso Carrarese, che i due fratelli Scaligeri aveano spediti ambasciatori a Venezia per far maneggi contra di lui in proprio favore. Scrisse a Jacopo suo figliuolo, lasciato a Verona, che glieli mandasse prigioni a Padova: comando che fu senza ritardo eseguito, ma che diede molto da dire entro e fuori di Venezia. Poscia verso il fine di maggio con accompagnamento magnifico passò a Verona, dove per amore e per forza si fece eleggere signore di quella nobil città. Nè volendo Francesco Gonzaga restituirgli Ostiglia e Peschiera, dicono che il Cararese tramò contro la vita di lui: la qual trama scoperta, incitò il Gonzaga a collegarsi dipoi coi Veneziani contra di lui.

Si trattò poi di pace, vi s'interposero anche i Fiorentini; ma nulla si potè conchiudere: così alte e scure erano le pretensioni de' Veneziani. Il perchè Francesco da Carrara, sapendo che Venezia da tutte parti assoldava genti, si determinò alla guerra e difesa con gran coraggio. Fu preso per generale dai Veneziani Malatesta de' Malatesti signore di Pesaro, che seco menò mille lancie; secento altre ne condusse Paolo Savello, oltre ad altri condottieri, e si diede principio ad una arrabbiata guerra [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Grande era lo sforzo di gente d'armi che fece il senato veneto, tentando con tutte le sue forze di penetrar ne' serragli del Padovano. Mirabil era all'incontro la resistenza del signore di Padova, il quale, facendo conoscere a Niccolò marchese di Ferrara e al popolo ferrarese che la rovina sua si tirerebbe dietro quella de' vicini, tanto si adoperò che il trasse seco in lega; laonde anch'egli, preso al suo soldo il [930] gran contestabile e Manfredi conte di Barbiano con quattrocento lancie, e messe in marcia le soldatesche sue proprie, andò in aiuto del suocero. La prima impresa che fece, fu di togliere ai Veneziani le terre del Polesine di Rovigo, loro impegnate negli anni addietro. Ma eccoti in armi anche il marchese di Mantova per fargli guerra, siccome collegato de' Veneziani. Funesto colpo fu questo al Carrarese, perchè l'obbligò a distraere le sue forze sul Veronese. Aveano le genti del Padovano racquistata Peschiera; ma il Gonzaga nel dì 30 d'agosto andò ad accamparsi intorno a quella terra. Saputosi in Verona che quella gente stavasene sprovveduta e con poca buona guardia, le milizie carraresi, condotte da Cecco di San Severino, all'improvviso giunsero colà, e sbarattarono quel campo colla presa di trecento uomini d'armi e di tutti i carriaggi. Ciò non ostante, esso Gonzaga coi rinforzi venutigli da Venezia cominciò a prendere le castella del Veronese; nè forze v'erano da impedirlo. Seguirono poi nel decorso di quest'anno varii sanguinosi incontri fra le armi venete e carraresi sul Padovano. Avendo Malatesta de' Malatesti generale de' Veneziani, non so se di sua o d'altrui volontà, rinunziato il baston del comando, se ne tornò a Pesaro, e in luogo suo eletto fu Paolo Savello. Assalirono poscia i Veneziani con grossa armata di navi le bastie che il marchese di Ferrara avea piantato a Santo Alberto, e le presero: locchè cominciò a far paura alla stessa Ferrara. Nè minor affanno diede la loro armata grande di terra alla città di Padova; perchè nel dì 17 di novembre, superati i serragli, entrò nel ricco Piovado di Sacco, e fece immensi bottini, con essere ancora rimasto ferito lo stesso Francesco da Carrara nel caldo di una zuffa [Gatari, Istor. di Padova, tom. 17 Rer. Ital.]. Spedirono poscia i Veneziani sei mila tra cavalli e fanti verso Verona, i quali dopo una crudel battaglia furono disfatti da Jacopo da Carrara, colla prigionia di due mila e secento persone. Il [931] Delaito, autore più esatto [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] del Gataro, fa molto minore di gente e di prigioni questo fatto. Così terminò l'anno presente, foriere al certo di maggiori disavventure a Francesco II da Carrara, per la esorbitante potenza de' suoi nemici.


   
Anno di Cristo mccccv. Indizione XIII.
Innocenzo VII papa 2,
Roberto re de' Romani 6.

Non fu men gravida di funeste guerre e rivoluzioni l'Italia in quest'anno che nel precedente [Raynaldus, Annal. Eccles. Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.]. Stavasene assai quieto papa Innocenzo nel palazzo vaticano, dove nel dì 12 di giugno fece la promozione di undici cardinali, tutte persone di merito. Ma non erano già quieti i Romani, irritati spezialmente da Giovanni dalla Colonna nemico del papa, e, quel che fu peggio, fomentati ancora da Ladislao re di Napoli, principe ambizioso, che ardea di voglia di ghermire la stessa città di Roma, con disegno di farsi strada alla corona imperiale. Mandò egli un corpo di cavalleria in aiuto di essi Romani [Leonardus Aretin., Hist. sui temp., tom. 19 Rer. Ital.], che tentarono di occupar Ponte Molle, dove era presidio pontifizio, e dipoi misero campo sotto castello Sant'Angelo. Gli Orsini tenevano la parte del papa. Seguirono alquanti combattimenti, e si progettò poi di far concordia. Andarono undici de' principali Romani a trattarne col papa, il quale, siccome uomo mansueto ed amator della pace, favorevolmente gli ascoltò e licenziò [Vita Innocentii VII, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Ma ritornandosene costoro a casa, e passando davanti allo spedale di Santo Spirito, dove era alloggiato Lodovico dei Migliorati nipote del pontefice, ed uomo bestiale, colle soldatesche di Mostarda condottier d'armi, fece a sè venirli esso Lodovico, e con orrida crudeltà [932] li fece tutti tagliar a pezzi, e gittar giù dalle finestre i loro corpi. Questo barbaro scempio avvenne nel dì 6 d'agosto. Siamo accertati da Leonardo Aretino [Leonardus Aretin., Hist. sui temp., tom. 19 Rer. Ital.], scrittore insigne, che si trovava allora nella corte di Roma, da Teodorico di Niem [Theodoricus de Niem, Hist.], dal Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], da Sozomeno [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.] e da altri che quest'atto d'inumanità fu fatto senza menoma saputa, nonchè senza consenso del buon pontefice, placido e lontanissimo dal far sangue, e molto più da sì fatti eccessi. Allora il popolo romano diede campana a martello, ed infuriato si mise a perseguitar gli aderenti del papa, saccheggiò le lor case; e crebbe talmente il furore e la sollevazione, che il papa coi cardinali, per timor di sua vita, fu costretto a prendere nel dì 6 d'agosto la fuga, con ritirarsi a Viterbo. S'impadronirono affatto di Roma i cittadini, non volendo riconoscere Innocenzo per papa; diedero il sacco al palazzo pontificio, ed uccisero anche molte persone, massimamente dei cortigiani non fuggiti. Fu in questa occasione sollecito il re Ladislao a mandar gente a prendere il possesso di Roma [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.]; e però nel dì 20 d'agosto ecco comparire nel portico di San Pietro il conte di Troia e conte da Carrara con molte squadre di Ladislao. Se l'ebbero a male i Romani, e misero tosto le sbarre al ponte di Sant'Angelo. Tutti poscia in armi impedirono valorosamente ai regnicoli il passare il ponte. Allora fu che Mostarda da Forlì bravo condottier di armi restò ucciso da Paolo ossia da Antonio Orsino. Finalmente con iscorno e danno se ne tornarono a Napoli quelle soldatesche; furono cacciati i Colonnesi e Savelli, e Roma restò in possesso del popolo. Ma castello Sant'Angelo, di cui era governatore Antonello Tomacello, si tenne all'ubbidienza d'esso re. Intanto [933] Baldassare Cossa cardinale legato di Bologna tutto dì andava studiando le maniere di ricuperare le terre perdute della Chiesa [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Mosse primieramente guerra al conte Alberico gran contestabile, e al conte Manfredi da Barbiano. Gli addormentò con una tregua o pace fatta a dì 11 di marzo in castello San Pietro; ma perchè uomo pieno di cabale, prometteva molto ed attendeva poco, nel principio di giugno ripigliò la guerra contra di essi, e tolse loro alquante castella. Fece decapitare Cecco da San Severino, valente condottier d'armi, perchè non aveva eseguito un suo comandamento. Fatto anche venir con inganno a Faenza Astorre de' Manfredi, già signor di quella città, gli appose, oppure fece costare ch'egli menava trattati per rientrare in essa città, e gli fece nel dì 28 di novembre spiccar la testa dal busto. Morì in quest'anno [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] dopo lunga malattia a' dì 8 di settembre Cecco, cioè Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì, di Sarsina e d'altre terre, lodato da alcuni per suo valore e per l'amore della giustizia. Ma il Delaito [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] scrive che Cecco malato fu ucciso dal popolo, il quale s'era levato a rumore, e tolse di vita anche un giovinetto figliuolo di lui. Segno non è questo ch'egli godesse il concetto di molte virtù. Gli succedette nel dominio Antonio suo picciolo figliuolo; ma da lì a poco saltò in testa a quel popolo di governarsi a repubblica, ed eseguì il suo disegno. Corse colà nel seguente mese il cardinal Cossa col suo esercito, pretendendo d'ordine del papa la signoria di quella città. Virilmente gli fecero fronte i Forlivesi; laonde egli addormentò ancor questi con un trattato [S. Antonin., Par. III, tit. 22, cap. 4.], permettendo loro il governo coll'obbligo di pagare l'annuo censo alla camera apostolica.

[934]

Dacchè riuscì al prepotente regio governator di Genova Bucicaldo d'indurre quel popolo a levar l'ubbidienza a papa Innocenzo VII, per sottomettersi a Pietro di Luna, cioè all'antipapa Benedetto XIII, ardeva esso antipapa di voglia di far la sua comparsa in Italia [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Venne con questa intenzione a Nizza, dove si fermò finchè la stagione migliore gli assicurasse il viaggio, e finalmente per mare nel dì 26 di maggio arrivò a Genova. Un solenne accoglimento gli fu fatto da quel popolo per paura del governatore; poichè per altro i più teneano in lor cuore per vero papa il solo Innocenzo. Grandi cose volgeva in sua mente esso antipapa, soprattutto per iscreditare ed atterrare il suo avversario, spacciando sè stesso pronto alla cession del papato per riunire la Chiesa, ed Innocenzo all'incontro alieno dall'udir parlare di rinunzia. La verità si è, che nè l'uno nè l'altro aveano voglia di dimettere si gran dignità, e andavano giocando fra loro senza mai nulla conchiudere, facendo anche gli scrupolosi con dire di temer di fare un gran peccato rinunziando. In questo mentre ecco la peste entrar in Genova, morirvi uno dei suoi cardinali, infettarsi alcuni de' suoi cortigiani. Affine di sottrarsi a questo pericolo, nel dì 8 d'ottobre l'antipapa si ritirò da Genova, e andò a mettere la sua residenza in Savona. Intanto i Fiorentini vagheggiavano Pisa, ben conoscendo che Gabriello Maria Visconte non avea nè forze nè testa per sostenersi in quel dominio [Ammirat., Istoria di Firenze, lib. 16. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Sozomenus, Hist, tom. 16 Rer. Ital.]. Nulladimeno, in vece di adoperar la via delle armi, si gittarono al maneggio per indurre Gabriello a cedere quella città, con ricevere in contraccambio grossa somma di danaro. Ma Bucicaldo guastava ogni lor macchina. Vinsero questo oppositore con rappresentargli che, data loro Pisa, potrebbono [935] tutti accudire a salvar dalla rovina il signore di Padova, il quale con calde istanze loro si raccomandava. Probabilmente per la speranza o promessa del soccorso de' Fiorentini e Genovesi egli era entrato in quel pericoloso ballo. Si convenne in fine che Gabriello vendesse Pisa a' Fiorentini; il che penetrato dai Pisani, la città si levò a rumore, e fu costretto il Visconte a rifugiarsi nella cittadella, dove Bucicaldo inviò tanta gente e vettovaglia da potersi difendere. Fu poi conchiusa la consegna d'essa cittadella, e la cession d'ogni ragione di Pisa ai Fiorentini, i quali si obbligarono di pagare a Gabriello ducento sei mila fiorini d'oro. Gino Capponi [Gino Capponi, Istor., tom. 18 Rer. Ital.], che ci lasciò una diffusa descrizione di tutta la tragedia di Pisa, quegli fu che maneggiò l'affare, e prese il possesso della cittadella suddetta nel dì 31 d'agosto, pagata parte del pattuito danaro. Morivano di rabbia i Pisani al vedersi venduti come pecore, e tanto più ai Fiorentini, antichi loro emuli e nemici. Perciò nel dì 6 di settembre furiosamente si scatenarono contra d'essa cittadella, e venne lor fatto di ripigliarla più per azzardo o per poltroneria dell'uffizial fiorentino, lasciato ivi dal Capponi, che per loro insigne bravura. Il che fatto, spedirono ambasciatori a Firenze, chiedendo Librafatta ed altre terre consegnate a quel comune, con esibire il rifacimento delle spese. Non l'intesero per questo verso i Fiorentini; vollero guerra, e vi si prepararono con assoldar gente da varie parti, ed eleggere per lor generale il conte Bertoldo degli Orsini. Fra gli altri andò al loro soldo Sforza da Cotignola colle sue genti d'armi [Corio, Istoria di Milano.], e non tardò a far ivi sempre più conoscere la sua prodezza; imperciocchè, spedito con secento oppur con mille cavalli ad impedire che Gasparo de' Pazzi ed Angelo dalla Pergola non conducessero un corpo di gente al servigio de' Pisani, in una imboscata gli assalì, sbaragliò, e quasi [936] tutti li fece prigioni. Il Bonincontro, con cui vanno d'accordo Sozomeno ed altri, distingue tali azioni con dire che la gente d'Angelo dalla Pergola era mille e cinquecento cavalli, ed essere stato Lodovico de' Migliorati, nipote di papa Innocenzo, che a requisizion de' Fiorentini diede lor la sconfitta; ed aver poi Sforza messi in rotta cinquecento cavalli di Gasparo Pazzi, che già erano entrati sul Pisano. In sì cattiva positura di cose i Pisani ridussero in città i Gambacorti e la fazion de' Bergolini pria fuorusciti, con dar loro la pace quella de' Raspanti che dominavano [Sozomenus, Istor., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma nel dì 22 d'ottobre Giovanni de' Gambacorti, levato rumore coi suoi, si fece per forza crear capitano del popolo; indi perseguitò i Raspanti, saccheggiò le lor case, molti ne mise a filo di spada, e fra gli altri Giovanni dall'Agnello, nipote del fu Giovanni doge di Pisa. Gabriello Visconte restò padrone di Sarzana, ma per poco tempo, siccome appresso diremo.

Il maggior fuoco in quest'anno fu nelle contrade di Verona e di Padova [Gatari, Istor. di Pad., tom. 17 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital. Redusius, Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Aumentavansi ogni dì più le forze de' Veneziani, calavano quelle del signore di Padova. Il crollo maggior nondimeno a lui venne dall'essersi staccato da lui suo genero, cioè Niccolò marchese di Ferrara. Aveano le armi venete, per così dire, bloccata da lontano la città di Ferrara, di modo che, trovandosi essa molto scarsa di grano, nè potendone ricevere a cagion delle armi nemiche, que' cittadini cominciarono a consigliare il marchese che si accordasse colla repubblica. Se ne trattò, e la pace fu conchiusa nel dì 27 di marzo, ma con delle condizioni svantaggiose al marchese, il quale, fra le altre cose, dovette rimettere come era prima Rovigo e le terre dipendenti in mano de' Veneziani. Rimase trafitto da immenso dolore a questa nuova Francesco da Carrara; [937] ma come uomo di gran cuore, corse subito colle sue genti sul Polesine di Rovigo, prese alcune di quelle castella, mise l'assedio allo stesso Rovigo. Il marchese, per far conoscere ai Veneziani che contra del suo volere veniva fatta quell'irruzione, fu necessitato a prender l'armi contra del suocero, tanto che il fece sloggiar da quelle parti, ed eseguì puntualmente i patti della pace. Era in questi tempi sommamente angustiato il territorio padovano dalle armi venete, e nello stesso tempo un altro loro esercito con Francesco signore di Mantova tenea strettamente assediata Verona. Essendo cresciuta a dismisura in quest'ultima città la fame, nel dì 22 di giugno si levò a rumore il popolo veronese, ed aprì la porta del Vescovo al signore di Mantova e a Jacopo del Verme. Fu necessitato Jacopo da Carrara figliuolo del signor di Padova a ricoverarsi nella fortezza di Castel Vecchio; ma non si credendo quivi sicuro, travestito ne uscì per portarsi a Padova. Giunto a Cereta nel dì 26 di giugno, e o per tradimento della guida, oppure perchè venne riconosciuto, fu preso e condotto a Verona, e di là alle carceri di Venezia. Si rendè col tempo la cittadella di Verona ai Veneziani, i quali intanto spedirono a Padova Galeazzo da Mantova con quelle genti d'armi che non occorrevano più sul Veronese. Paolo Savello lor generale, che già avea occupati altri luoghi nel Padovano, ricevuto questo rinforzo, spinse l'esercito suo fin sotto Padova, dandole molti assalti. A poco a poco nel mese di agosto si renderono ai Veneziani le terre d'Este, Montagnana ed altre, di modo che ogni dì più scemava il dominio di Padova. Fece bensì Francesco Terzo figliuolo di quel signore con tutte le sue genti una sortita nel dì 21 d'esso mese addosso al campo nemico, che vivea con troppa confidenza. Il macello della gente fu grande, moltissimi i prigionieri, fra' quali lo stesso generale Paolo Savello; ma, accorso Galeazzo da Mantova colle sue squadre, percosse [938] i vincitori sì fieramente, che ricuperò il Savello, e fece retrocedere i Padovani con molta loro strage. Nel settembre Monselice, Legnago, Cittadella, Castelbaldo ed altre castella vennero all'ubbidienza de' Veneziani.

Tante disgrazie e il timore di peggio indussero finalmente Francesco da Carrara a cercar pace dal senato veneto per mezzo di Carlo Zeno; ed erano già come d'accordo ch'egli cedesse Padova, e ne ricevesse sessanta mila fiorini d'oro, colla libertà d'andare ovunque gli piacesse, e di asportare le suppellettili sue. Si pentì egli poco dappoi, e si ostinò a giocar l'ultima carta, tradito dalle speranze che gli davano i Fiorentini e Bucicaldo di soccorso; ma soccorso che mai non venne, per le mutazioni seguite in Pisa, ed accennate di sopra. Trovavasi allora la città di Padova sommamente afflitta dalla fame, e più ancora dalla peste, la quale si fa conto che in quella funesta congiuntura portasse al sepolcro ventotto mila persone. Però quel popolo, anche per timore del sacco, sospirava ripiego a' suoi guai. Gliel trovò un traditore capitano della porta di Santa Croce, cioè Giovanni di Beltramino, il quale ordì un trattato con Galeazzo da Mantova, rimasto comandante dell'esercito veneto, perchè Paolo Savello avrà dato fine alla vita e al comando. Nella notte adunque precedente al dì 17 di novembre, costui introdusse per le mura un corpo di gente nemica, e, fatto giorno, Galeazzo entrò con più forze nel borgo di Santa Croce. Si ritirò per questa improvvisata il Carrarese con Francesco Terzo suo figliuolo nel castello, e tenne poi parlamento con esso Galeazzo e coi provveditori veneti, di rendere loro esso castello e la città con buoni patti, facendogli ognuno sperare buon trattamento dal senato di Venezia. Ebbe salvocondotto per potere spedire a Venezia ambasciatori, e li spedì, ma non poterono impetrare udienza. Andato poi il Carrarese nel campo dei nemici col figliuolo, fu ivi tenuto a bada, tanto che il popolo padovano, [939] maneggiati i proprii interessi, fece entrare nella città le bandiere di San Marco, e diede a' Veneziani il possesso della città. Altrettanto fece Giacomo da Panego, con aprir loro le porte del castello. Ora trovandosi l'infelice Carrarese in mezzo a sì fiero naufragio, non sapea a qual partito appigliarsi, se non che Galeazzo da Mantova il confortò e consigliò di passare a Venezia per gittarsi a' piedi di quel senato, promettendogli perdono e buoni effetti della benignità de' signori veneziani. Si portarono i due Carresi colà in un ganzaruolo nel dì 30 di novembre, ed ammessi all'udienza del doge Michele Steno, si prostrarono a' suoi piedi, confessando la loro temerità, e addimandando misericordia e grazia. Altra risposta non ebbero che rimproveri all'ingratitudine loro e furono mandati nelle prigioni, dove era anche Jacopo altro figliuolo d'esso Francesco da Carrara, dove stettero sino al gennaio dell'anno seguente nel continuo martirio della considerazione del precedente felice loro stato, e dell'infelicissimo presente. Inclinava la clemenza veneta a lasciar loro la vita; ma giunto a Venezia Jacopo dal Verme, antico nemico della casa di Carrara, il quale dal servigio de' Visconti era passato a quello de' Veneziani, aggiunse olio al fuoco, ricordando a que' signori: Che uomo morto non fa guerra. Il perchè nel consiglio dei dieci fu risoluta la lor morte, ed eseguita senza dimora la sentenza contra di Francesco II padre nel dì 17 del suddetto mese, che fu strangolato in prigione; nè gli mancarono peccati degni dell'ira di Dio; e poscia nel dì 19 furono i suoi figliuoli Francesco III e Jacopo tolti anch'essi di vita col laccio. Restarono altri due figliuoli di Francesco II, cioè Ubertino e Marsilio, da lui mandati a Firenze, contra de' quali fu posta taglia. Il primo, infermatosi non so di qual male in quella città, finì di vivere nel dì 7 di dicembre del 1407. Marsilio, avendo nell'anno 1455 un trattato in Padova, si portò a quella volta; ma scoperto nella villa di Carturo [940] del territorio padovano nel dì 17 di marzo [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], preso e condotto a Venezia, lasciò la testa sopra un palco nel dì 28 d'esso mese. Ed ecco dove andò a terminare la tela degli ambiziosi disegni di Francesco Carrarese, con ingrandimento notabile in terra ferma dell'inclita repubblica di Venezia, che stese la sua signoria sopra le riguardevoli città di Padova, Verona e Vicenza, ed anche sopra Feltro e Belluno, cedutele dal duca di Milano, e collo sterminio della nobil casa da Carrara. Fu un gran dire per tutta l'Italia del fine di questa tragedia. Occupate poi le scritture del Carrarese, si scoprì che alcuni nobili veneti il favorivano, e n'ebbero il dovuto gastigo. Lo stesso Carlo Zeno, che pur tanto avea operato contra di lui, ebbe per questo non poche vessazioni.


   
Anno di Cristo mccccvi. Indizione XIV.
Gregorio XII papa 1.
Roberto re de' Romani 7.

Benchè dopo la fuga di papa Innocenzo VII da Roma quel popolo tenesse il pieno possesso e dominio di quella città, pure la pazza discordia quivi più che mai imperversava [Raynaldus, Annal. Eccles. Aretinus, Histor. sui temp., tom. 19 Rer. Ital. Theodoricus de Niem, Histor.]. Temevano inoltre dell'insaziabil ambizione del re Ladislao, dal cui presidio era occupato castello Sant'Angelo. Ma avendo Paolo Orsino messe in rotta le genti d'esso re, e restando accertati i Romani che il buon papa non solamente niuna mano avea avuta nella crudel bestialità di Lodovico suo nipote, ma l'avea al maggior segno detestata, pentiti delle insolenze usate contra del papa medesimo, il mandarono a chiamar da Viterbo. Senza farsi molto pregare, nel dì 15 di marzo si trasferì il pontefice a Roma [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.], ed incredibil onore gli fu fatto. Formò poscia processo contra del re Ladislao siccome perturbatore di Roma e dello Stato ecclesiastico; il [941] dichiarò decaduto dal regno, e privato di ogni privilegio. Strinse parimente d'assedio castello Sant'Angelo. Per le quali cose Ladislao giudicò meglio di pacificare il papa con un accordo, ch'egli poi pensava di non mantenere, e mediatore ne fu Paolo Orsino. In tal congiuntura fu restituito ad esso pontefice il castello suddetto nel dì 9 d'agosto con giubilo universal de' Romani, e Ladislao venne creato gonfaloniere della Chiesa. Ma poco potè poi godere di questo buono stato Innocenzo, perciocchè fu rapito dalla morte nel dì 6 di novembre: pontefice da tutti commendato per la sua mansuetudine, per l'abborrimento alla simonia, e desideroso di far del bene a tutti. Solamente l'aver egli alzato l'immeritevol suo nipote Lodovico de' Migliorati al grado di marchese della marca d'Ancona, che noi vedremo poi signor di Fermo, e il non aver data mano all'estinzion dello scisma, sminuirono non poco la gloria del suo pontificato. Non mancò chi sparse sospetti d'averlo fatto avvelenare il cardinal Cossa per timore di perdere la legazion di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Ma in que' tempi era suggetta a simili dicerie la morte di cadauno de' gran signori. Radunatisi nel conclave quattordici cardinali che si trovavano allora in Roma, per desiderio di riunir la Chiesa divisa, e per secondar le istanze di molti re e principi, che faceano premura di levar quello scandalo [Leonardus Aretin., Hist., tom. 19 Rer. Ital. Theodor. de Niem, Histor. Gobelinus.], tutti a gara si obbligarono con giuramento e voto, che chiunque fossa eletto papa, rinunzierebbe la dignità, qualunque volta anche l'antipapa facesse altrettanto, per devenire unitamente col partito contrario all'elezion d'un indubitato pontefice [Vita Innocentii VII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]: con altri bei capitoli e restrizion di tempo, tutto per ben della Chiesa. Restò dunque eletto nel dì 30 di novembre Angelo Corrano, cardinale di santa Maria, di patria Veneziano, già vescovo [942] di Venezia, ed allora patriarca di Costantinopoli, persona dottissima nella teologia, e tenuta in concetto di santa vita [Sozomenus, Istor., tom. 16 Rer. Ital.], che prese il nome di Gregorio XII. Fu egli creduto più d'ogni altro a proposito per togliere lo scisma, e venne dipoi coronato nel dì 19 di dicembre. Non solamente, fatto che fu papa, confermò il voto e la promessa di promuovere a tutto potere l'union della Chiesa, ma ne scrisse ancora calde lettere ed esortazioni all'antipapa e ai di lui cardinali, affinchè si mettesse fine alla lor deplorabil divisione. Senza far caso dell'accordo fatto nel precedente anno col popolo di Forlì [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic. Delayto, Annal., tom. eod.], Baldassare Cossa cardinale legato di Bologna mandò il suo esercito nel gennaio di quest'anno ai danni di quella città. Replicò poi la cosa nel dì 23 d'aprile, tanto che gli riuscì nel dì 19 ossia 29 di maggio [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] di sottomettere quella città ai suoi voleri, e tosto ordinò che quivi si fabbricasse una cittadella.

Oltre a Parma e Reggio, siccome dicemmo, avea Ottabuono de' Terzi occupata la città di Piacenza, mostrandosi, ciò non ostante, amico di Gian-Maria Visconte duca di Milano. Anche Facino Cane s'era impadronito d'Alessandria, ma non perciò lasciava di mostrarsi aderente ed unito con Filippo Maria Visconte conte di Pavia. Per ordine di Filippo, a mio credere, prese egli a liberar Piacenza dalla tirannia d'Ottobuono, e a questo fine si mosse egli a quella volta con poderoso esercito nel mese di maggio [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Perchè Ottobuono non credea di aver forze bastanti a resistergli, abbandonò Piacenza, ma col lasciar ivi lunga memoria della sua crudeltà, perchè le fece dar, prima di partirsi, un orrido universal sacco dalle sue genti d'armi, rapportato all'anno seguente dalla Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. eod.], colla morte di molti cittadini [943] e col rubamento di molte zitelle. Giunto colà Facino [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], dacchè ebbe colla forza costrette alla sua resa tutte le fortezze, si fece proclamar signore di quella città. Brutta scena si vide ancora in Cremona nel dì 31 di luglio. Da Gabrino Fondolo Cremonese restò tradito Carlo Cavalcabò signore di quella città; e fatto prigione egli, Andrea e quattro altri di quella nobil casa, tutti furono crudelmente privati di vita nelle carceri, impadronendosi in tal guisa il tiranno del dominio di quella città. Fu in quest'anno [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] afflitta di molto la città di Genova dalla peste. Predicava nello stesso tempo in quella città fra Vincenzo Ferreri dell'ordine de' Predicatori, che poi fu aggiunto al catalogo dei santi. Arrivò la moria anche a Savona, e cagion fu che Benedetto antipapa ivi dimorante scappasse a Monaco, indi a Nizza, e finalmente a Marsilia. Abbiamo il suo Itinerario, da me dato alla luce [Itinerar. Benedicti Antipapae, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Erasi intanto partito, perchè disgustato, dal servigio de' Veneziani Galeazzo da Mantova, uno de' più prodi condottieri d'armi che si avesse allora l'Italia, e che già vedemmo aver terminata la guerra di Padova in favor d'essi Veneziani [Annal. Forolivienses, tom. 22 Rer. Ital.]. Acconciatosi col duca di Milano, fu spedito a soggiogare i villani di una valle di Bergamo, oppur della Riva di Trento, che s'erano ribellati. Vi lasciò la vita ucciso da quella gente; e i Padovani credettero ciò vendetta di Dio, per aver egli, come diceano, sotto la parola tradito Francesco da Carrara già loro signore. Secondochè abbiamo dagli Annali di Lorenzo Bonincontri [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], essendo morto Raimondo Orsino potente principe di Taranto, con lasciar dopo di sè Gian-Antonio e Gabriello figliuoli di tenera età e una figliuola, il re Ladislao nella primavera di questo [944] anno volle profittar di tale occasione, e andò a mettere il campo intorno a Taranto. Prese tutte le castella di quel territorio. Impadronissi ancora di Conversano e di Sant'Angelo. Dopo lunga difesa entrò per tradimento anche nella città di Taranto. Si ritirò allora co' figliuoli nel castello Maria vedova del suddetto Raimondo. Possedeva ella un gran tesoro, ed anche era dotata di rara bellezza e di distinta nobiltà. Perciò Ladislao, volonteroso di dar fine a quella guerra, e di mettere le mani in quell'oro, si esibì di prenderla per moglie. Accettata la proposizione, egli la sposò, e da lì a due mesi la condusse a Napoli, dove con grande onore fu ricevuta. Da Sozomeno [Sozomen., Hist., tom. 16 Rer. Ital.], dall'autore de' Giornali Napoletani [Giornal Napolet., tom. 23 Rer. Ital.] e dalla Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] tali nozze son differite all'anno seguente. Il testo del Bonincontro è slogato in questi tempi.

Dappoichè i Fiorentini ebbero fatto un copioso ammasso di genti d'armi e provvigione di viveri per l'impresa di Pisa [Gino Capponi, Istor., tom. 16 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital. Poggius et alii.], nel dì 4 di marzo andarono a piantar l'assedio intorno a quella città, città mal preparata, perchè per varii sinistri avvenimenti le erano mancati i soccorsi di gente per terra, e quelli della vettovaglia per mare. Tuttavia i cittadini per l'inveterato odio verso de' Fiorentini si accinsero ad una valorosa difesa. Luca del Fiesco era generale de' Fiorentini. Sforza da Cotignola con Micheletto suo parente, e Tartaglia, condottieri di gente, erano anch'essi al loro servigio. Un dì che i Pisani aveano fatta una sortita, esso Sforza e Tartaglia con tal vigore, benchè inferiori di gente, gli assalirono e sbaragliarono, che non venne lor voglia da lì a molto tempo di uscire dalla città. Insorse poi discordia, anzi implacabil [945] nemicizia fra questi due capitani, e convenne separarli. Mandò intanto il duca di Borgogna ad intimare a' Fiorentini che Pisa era sua; ma questi se ne risero, nè lasciarono per questo di continuar le offese e gli assalti. Cresceva di dì in dì maggiormente la fame nella misera città, e giunse a tal segno, che per difetto di cibo mancava di vita la povera gente per le strade. Ora Giovanni Gambacorta, doge ossia capitano del popolo, pensò allora a profittar per sè stesso nella rovina della patria; e segretamente inviata persona a trattar coi Fiorentini, vendè lor Pisa per cinquanta mila fiorini d'oro, oltre ad alcune castella, che doveano restare in suo dominio, con altri suoi vantaggi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Pertanto nel dì 9 d'ottobre aperta una porta di Pisa, quel popolo, senza essere prima informato del contratto, vide entrare a bandiere spiegate l'esercito fiorentino, e prendere il possesso della città con sì buona disciplina, che niuno sconcerto ne seguì; ed arrivate poi carrette di pane, attesero tutti a cavarsi la fame, per cui la maggior parte erano divenuti scheletri. In questa maniera l'antica e già sì possente città di Pisa giunse a perdere la sua libertà, ma col guadagno di veder cessate le tante sue gare civili, e con accrescimento grande di gloria e potenza dalla parte dei Fiorentini. Da orribil pestilenza fu in quest'anno afflitta la città di Milano [Corio, Istoria di Milano.]. Quivi, oltre a ciò, tutto era in disordine per la discordia de' Guelfi e Ghibellini.


   
Anno di Cristo mccccvii. Indizione XV.
Gregorio XII papa 2.
Roberto re de' Romani 8.

Una speciosa apparenza di vedere in quest'anno il termine dello scisma diedero amendue i contendenti del papato [Raynaldus, Annal. Eccles.]. A udir le loro parole, lettere ed ambascerie, [946] si scorgevano pronti cadauno a spogliarsi del manto pontificio. Papa Gregorio XII, per ben accertare il pubblico della sua buona intenzione, spedì Antonio vescovo di Modena suo nipote con altri due ambasciatori a Marsilia [vita Gregorii XII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.] per convenire coll'antipapa Benedetto del luogo, dove s'avea a tenere il congresso fra loro. Si stabilì che amendue venissero alla città di Savona; e Teodorico da Niem [Theodoricus de Niem, Hist.] rapporta i capitoli formati per la maniera con cui doveano gli emuli venire, stare e regolarsi nel progettato loro abboccamento. Furono accettati e confermati da papa Gregorio, il bello fu che questo futuro viaggio a Savona servì ad esso pontefice di colore e pretesto per intimar le decime a tutto il clero d'Italia, Sicilia, Dalmazia, Ungheria ed altri paesi, come costa dai documenti rapportati dal Rinaldi. E perciocchè i prelati per le lunghe passate guerre trovandosi impoveriti, allegavano l'impotenza di pagare, non erano ascoltate le lor querele e ragioni; la pena della privazion degli uffizii, intimata a chiunque fosse renitente, obbligò ciascuno a soddisfare. Moltissimi perciò venderono i vasi e paramenti sacri delle lor chiese, come attesta l'autore della Vita d'esso pontefice. Teodorico da Niem aggiugne che le chiese e i monisteri di Roma furono obbligati ad impegnare od alienare le lor sacre suppellettili e molti dei loro poderi. Servì poi questo ammassamento di danaro a far vivere lautamente e splendidamente esso papa, la comitiva de' suoi nipoti, e la sua gran famiglia, di modo che consumava egli più in zucchero che non aveano fatto i suoi predecessori in vitto e vestito. E da lì a pochi mesi si videro i di lui nipoti secolari abbandonarsi ad ogni forma di lusso con pompa di numerosa servitù e di cavalli. Ingrato ancora verso Innocenzo VII suo predecessore, che lo avea esaltato, cacciò di corte la di lui famiglia e il nipote. Privò della marca di Ancona Lodovico de' Migliorati altro di [947] lui nipote, il quale, con raccomandarsi alla protezione del re Ladislao, occupò Ascoli e Fermo. Tolse ancora la camerlengheria ad un altro nipote d'esso Innocenzo, e la conferì ad Antonio suo nipote. Bene è che il lettore sappia tutte queste particolarità, acciocchè, vedendo poi deposto questo papa dai cardinali zelanti, comprenda che fu abbassato uno, il quale in apparenza era uomo santo, ma senza che i fatti corrispondessero a sì vantaggioso concetto.

Non piacque ad esso re Ladislao la convenzion fatta da Gregorio XII di passare a Savona per trattare coll'antipapa, perchè temeva che i Franzesi carpissero in quel congresso, qualche capitolo in favore della casa d'Angiò, pregiudiziale a' suoi diritti. Ora, per fargli paura ed imbrogliar le carte, fece che nel dì 17 di giugno [Antonii Petri Diarii, tom. 24 Rer. Ital.] i Colonnesi ed altri nobili romani entrassero per un pezzo di muro rotto nella città di Roma. Diedero alle armi i Romani; il papa si ritirò in castello Sant'Angelo. Nel dì seguente Paolo Orsino, ch'era al soldo del medesimo papa, andò ad attaccar battaglia co' nemici, li mise in rotta e fece prigioni Giovanni, Niccolò e Corradino Colonnesi, Antonio Savello, Jacopo Orsino ed altri baroni romani, ad alcuni de' quali fu tagliata la testa, ad altri restituita per danari la libertà. Credettero alcuni che questo badalucco fosse seguito di concerto fra il papa e Ladislao; ma Leonardo Aretino [Leonardus Aretinus, tom. 19 Rer. Ital.], che si trovava in Roma, attribuisce la trama ai soli parenti del papa, senza che egli ne avesse contezza. Vennero poi gli ambasciatori del re di Francia nel mese di luglio a sollecitar Gregorio pel divisato congresso, giacchè Antonio Corrario suo nipote avea largamente spacciata a Parigi la prontezza di suo zio alla cessione; ma Gregorio cominciò a mettere in campo delle difficoltà, e a produr diffidenze di Savona, proponendo altri luoghi. E perciocchè Paolo Orsino l'inquietava non [948] poco pel soldo non pagato della sua condotta, ascendente a sessanta mila fiorini d'oro, nel dì 9 di agosto co' suoi cardinali se n'andò a Viterbo, e di là nel settembre passò a Siena, ove fermò la sua residenza. Colà furono a trovarlo di nuovo gli ambasciatori dell'antipapa e del re di Francia, a' quali rispose ad aperta ciera di non voler Savona. Fu proposto d'andare a Lucca, o a Pietra Santa, e si convenne che papa Gregorio si trasferirebbe all'ultimo d'essi luoghi, e Benedetto antipapa a Porto Venere; ma si consumarono più mesi in pretensioni, perchè Gregorio voleva prima in sua mano tutte le fortezze di Lucca: al che Paolo Guinigi signore di quella città non si sapeva accomodare. Nè bastarono i suddetti ambasciatori, co' quali s'unirono anche quelli di Venezia, per muovere Gregorio a partirsi di Siena. Intanto passarono i termini già accordati pel congresso di Savona [Bonincontrus, Annal., tom, 21 Rer. Ital.], dove s'era portato l'astuto antipapa circa il principio d'ottobre, sparlando forte dell'avversario, quantunque neppur egli si sentisse voglia alcuna di rinunziare il papato, menando a mano chi forse gli credea. Certo nel cuore di tutti e due più poteva l'ambizione che la religione. Lasciossi ben intendere papa Gregorio, stando in Siena, che avrebbe rinunziato [Theodoric. de Niem, lib. 3, cap. 23.], purchè fossero a lui riservati i vescovati di Modone e Corone, e l'arcivescovato di Jorch in Inghilterra creduto allora vacante, benchè tal non fosse, con altre rendite; o purchè a' suoi nipoti fossero concedute in vicariato le città di Faenza, Forti, Orvieto, Corneto ed altri luoghi. Ma i saggi cardinali non crederono di aver tanta autorità da poter promettere ed eseguir le promesse. L'amor de' parenti, siccome vediamo, facea perdere a questo pontefice di mira il buon cammino; e si sa che eglino tutto dì gli mettevano davanti agli occhi pericoli e rovine, s'egli dimetteva la sacra tiara [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Ora l'antipapa [949] per far bene credere quanto contrario l'animo di Gregorio, altrettanto disposto il suo alla riunione, giacchè l'altro non si volea ridurre in Savona, venne maggiormente ad avvicinarsi a lui [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]; cioè servito da sei galee passò a Genova, e nel dì 20 di dicembre vi fece la sua solenne entrata.

Paolo Orsino in quest'anno con due mila lancie andò a Toscanella, dove fu ben ricevuto da quel popolo [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma da lì a qualche tempo, col pretesto che quei cittadini avessero tramata contra di lui una congiura, mise a sacco tutta quella nobil terra, e se ne fece padrone. Luigi de' Casali nel mese d'ottobre [Ammirato, Istor. Fiorentina, lib. 17.] uccise Francesco suo zio, oppur cugino, signore di Cortona, e ne usurpò egli il dominio. Lodovico de' Migliorati, siccome già accennai, divenuto signore d'Ascoli, in premio d'aver ceduta quella città al re Ladislao, fu creato conte di Monopello; ma poco ne godè, perchè Ladislao, a cui il mancar fede poco costava, gli ritolse quello Stato. Altre terre della marca d'Ancona furono prese da esso re; e Berardo Varano, signore di Camerino, collegatosi con lui, e ribellatosi al papa, s'impossessò anch'egli di varii luoghi. Dopo la perdita di Pisa era venuto a Milano Gabriello Maria Visconte, e, raccomandatosi al duca Giovanni-Maria suo fratello, fu creato suo consigliere, e crebbe molto in autorità. Si prevalsero della di lui lontananza i Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e Bucicaldo lor governatore, per impadronirsi di Sarzana, città rimasta in potere d'esso Gabriello. Il danaro fece tutto; e i governatori di quelle fortezze l'un dietro all'altro nel mese d'agosto, ricevuto il contante, le consegnarono ai Genovesi, i quali ne presero il possesso a nome proprio e del re di Francia. Durava la confusione, anzi più che mai cresceva in Milano [950] per le opposte fazioni de' Guelfi e Ghibellini [Corio, Istor. di Milano.], mancando maniere al giovinetto duca di calmare i loro tumulti. Lo stesso castello fortissimo di porta Zobia a lui non ubbidiva. Mostravano tutti in apparenza qualche rispetto a lui, e che i loro fossero movimenti privati per atterrar cadauno la parte contraria. Intanto Facino Cane gran guerriero di questi tempi, che, per attestato di Andrea Redusio [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.], si potea appellare un altro Alessandro, venne a Milano in soccorso de' Ghibellini con ischiere numerose di armati. Allora fu [Billius, Hist., lib. 2, tom. 19 Rer. Ital.] che, veggendosi a mal partito, i Guelfi, ricorsero per aiuto a Jacopo del Verme, e questi con ingorde promesse trasse colà Ottobuono de' Terzi con altre brigate di combattenti. Trovandosi Ottobuono in vicinanza di Binasco, terra occupata da Facino e da Gabriello Maria Visconte [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], nel dì 21 di febbraio si mosse in ordinanza di battaglia per assalire il nemico Facino; e per accidente anche Facino era in armi co' suoi per fare lo stesso. Incontratisi dunque gli eserciti, ne seguì un crudel fatto di armi con istrage e prigionia di moltissimi. La notte sola cessar fece il combattimento. Era toccata la peggio ad Ottobuono, ed, irritato per questo, dopo aver ricevuto un rinforzo da Jacopo del Verme, andò con gran furore, non so se in quella oppure in altra notte, ad assalir di nuovo il campo di Facino sul primo sonno. Non si aspettava Facino questa scortese visita; e però furono ben tosto messe in rotta le sue genti. Vi restarono prigionieri circa mille uomini d'armi; Facino si ricoverò in Binasco; Marquardo dalla Rocca, valoroso condottiere d'armi, fatto prigione, ed interrogato da Ottobuono, ove fosse Facino, rispose di non saperlo, e quand'anche lo sapesse, che non l'avrebbe rivelato. L'infuriato Ottobuono allora gli passò colla spada la [951] gola, e il lasciò morto. Ritirossi Facino ad Alessandria; Ottobuono per opera del Verme fu introdotto in Milano. Di che peso fosse costui, non tardò quel popolo a sentirlo. Si studiarono i cittadini di farlo partire, ma non partì senza aver prima cavato dalle borse più di cento mila fiorini d'oro; e poi si unì a Monza con Astorre Visconte bastardo di Bernabò, per far guerra a Milano. Racconto io in poche parole tutti questi fatti, perchè l'assunto mio non mi permette di più. Nè si dee tacere che Jacopo del Verme, già passato al soldo de' Veneziani, e spedito in Levante contro de' Turchi, quivi lasciò poi gloriosamente la vita. In questo anno a dì 17 di marzo Francesco da Gonzaga signore di Mantova, principe assai rinomato pel suo valore, terminò la sua vita, con succedere a lui Gian-Francesco suo figliuolo in età di circa quindici anni [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Corse subito a Mantova Carlo Malatesta, siccome zio materno d'esso novello principe, per dare buon sesto a quel governo. Erasi intanto ritirato a Parma Ottobuono, e perchè il costume suo era di vivere di rapine, passò con più di due mila cavalli, benchè nemicizia dichiarata non vi fosse, sul territorio della Mirandola e di San Felice, fermandosi quivi più d'un mese. Immenso fu il saccheggio ch'egli diede non solamente a quella contrada, ma anche a tutto il basso Modenese. Nè bastò questo alla crudel prepotenza. Sette navi grosse di mercatanti milanesi e veneziani, cariche di mercatanzie per valore di più di cento cinquanta mila fiorini d'oro, andavano giù per Po alla volta di Venezia. Aveano passaporto dello stesso Ottobuono, e a nulla servì; tutto fu preso dall'insaziabile ed infedel tiranno.


   
Anno di Cristo mccccviii. Indizione I.
Gregorio XII papa 3.
Roberto re de' Romani 9.

Tanto tempestarono i cardinali zelanti del ben della Chiesa, e gli ambasciatori [952] di varii principi, che papa Gregorio contro suo genio deliberò di muoversi da Siena per passare a Lucca [Ser Cambi, Cronica di Lucca, tom. 18 Rer. Italic.], affine di maggiormente avvicinarsi all'avversario antipapa Benedetto, il quale sul fine dell'anno precedente co' suoi cardinali era venuto a Porto Venere. Fu quel verno dei più rigorosi che mai si fossero provati, perchè tutta la riviera di Genova (cosa ben pellegrina) era coperta di ghiaccio e neve; e nel territorio di Siena, affinchè potesse passare il papa [Annali di Siena, tom. 19 Rer. Ital.], bisognò rompere coi picconi il ghiaccio. Giunse egli a Lucca nel dì 26 di gennaio, e durante questa tal quale vicinanza i due contendenti del papato giocavano a chi sapea più di scherma per iscreditar l'avversario, e ributtar sopra di lui la non seguita concordia. Gregorio si copriva col mantello della paura, allegando che non v'era sicurezza per lui in luoghi marittimi, dove comandava Bucicaldo; e l'antipapa teneva al suo servigio molte galee: e in parte non aveva il torto [Vita Gregorii Papae XII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Vicendevolmente l'antipapa, che, più astuto dell'altro, era venuto a Sarzana, ricusava ciò che Gregorio voleva, accettava ciò che era ricusato dall'altro. E proposto per luoghi di abboccamento Pietra Santa, Carrara, Lavenza, Motrone, Livorno e Pisa, gran tempo s'andò disputando, senza che mai si potessero accordar fra loro. Facevano essi un passo innanzi e due indietro, perchè sempre veniva in campo qualche sutterfugio. Per non poter di meglio, fu preso il ripiego di trattare anche in lontananza de' punti principali dell'accordo; ma data oggi una parola, domani si mutava, di modo che fu conchiuso di dar tutto in iscritto. Indarno ancor questo. Erano amendue risoluti d'ingannare l'un l'altro, e in fine il pubblico, perchè niun d'essi volea spogliarsi di quella splendida tiara, e neppure un d'essi mai si ridusse a dir chiaramente che rinunzierebbe. [953] Durante questo conflitto, i buoni cardinali e gli ambasciatori non si davano posa per muovere due colonne fitte sulla base dell'ambizione, e si affliggevano al veder buttati al vento tanti lor passi, preghiere ed insinuazioni. Giunse anche un predicator lucchese sul pulpito alla presenza del papa fino a riprenderlo in maniera intelligibile di spergiuro, di fede mentita e di voto trasgredito. Se l'ebbe tanto a male Gregorio, che fece carcerar l'oratore ardito, e per più giorni appena il tenne vivo con un tozzo di pane e di acqua; anzi, se non era Paolo Guinigi signor di Lucca, che s'interpose, fu creduto che l'avrebbe fatto morire: cosa che alterò e stomacò forte tutta la corte pontificia. Ciò che finalmente fece sciogliere in nulla tutto questo grande apparato, l'intenderanno ora i lettori.

Dalla parte dell'antipapa Benedetto il re di Francia co' più assennati suoi consiglieri trovarono la via di scoprire il di lui finto cuore [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Nel gennaio di quest'anno pubblicarono un editto, in cui era ordinato di negar l'ubbidienza all'uno e all'altro de' papi, se prima dell'Ascension del Signore, cioè del dì 24 di maggio, non era seguita l'unione. Di ciò informato Benedetto, fece nel dì 14 d'esso maggio presentare al re un breve, in cui scomunicava chi avesse rigettata la conferenza, ed approvata quella della cessione, e sottratta a lui l'ubbidienza. Di più non vi volle perchè il re col parlamento e colla Sorbona dichiarasse l'antipapa come scismatico ostinato, eretico, perturbator della pace della Chiesa, e perciò nol riconoscessero da lì innanzi per papa. Dall'altro canto avvenne che esso Benedetto, assistito da Bucicaldo governatore di Genova, spedì undici galee alla volta di Roma con disegno di sorprendere quella città, e di torla all'avversario. Il colpo andò fallito, perchè poco prima altri l'aveva occupata. E questi fu Ladislao re di Napoli, il quale, dopo [954] aver presa per forza Ostia nel dì 16 di aprile, con possente armata di cavalleria e fanteria, e alquante galee pel Tevere, andò a mettere il campo sotto Roma [Theod. de Niem, Hist. Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Era la città difesa da Paolo Orsino: ma, lasciatosi egli guadagnar dal danaro e dalle offerte di Ladislao, ne spalancò le porte nel dì 21 d'esso mese alle milizie di lui. V'entrò poscia lo stesso re solennemente nel dì 25 sotto il baldacchino portato da' nobili romani, e gran festa ne fece il popolo. Era dianzi fuggito di Roma il cardinale di Sant'Angelo vicario del papa; ma in mano de' suoi uffiziali restò castello Sant'Angelo. Fermossi il re in Roma sino al dì 23 di giugno, nel qual tempo creò nuovi conservatori della città, e, disposto a sua voglia quel governo, se ne tornò a Napoli. Un gran dire per tal novità fu dappertutto. Papa Gregorio, per la spedizion fatta dall'avversario Benedetto delle galee a Roma, pubblicamente gliene fece un reato [Vita Gregorii XII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], con licenziare per questo i di lui ambasciatori, e senza voler più udire parola d'unione. All'incontro Benedetto rispondeva d'avere in ciò aderito alle istanze di Paolo Orsino, ossia de' Romani, che aveano implorato il suo aiuto, vedendo venire armato Ladislao contro della città. Il bello fu che corse sospetto [Sozomenus, Hist., tom. 16 Rer. Ital.] avere il re Ladislao, di concerto col pontefice Gregorio, occupata Roma a fin di disturbare il congresso fra i due papi. Almen sembra certo, per testimonianza di Teodorico da Niem [Theodor. de Niem, lib. 3. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.], che i parenti di Gregorio, i quali raggiravano il povero vecchio papa, e frastornavano ogni buona di lui intenzione, mostrarono non poco giubilo dell'occupazion di Roma fatta da Ladislao; e questi ancora si mostrò per qualche tempo protettore di Gregorio. Nè qui si fermarono i passi del medesimo re. Le città di Perugia, [955] Orta, Amelia, Terni, Todi e Rieti se gli diedero senza sfoderare la spada.

Per le cose suddette già s'era spenta ogni speranza dell'union della Chiesa. Un altro avvenimento si aggiunse che maggiormente sconcertò gli affari. Verso la metà di quaresima papa Gregorio si lasciò intendere di voler creare de' nuovi cardinali. Perchè ciò dava assai a conoscere quanto egli fosse alieno dalla cession del papato, e molto più perchè ciò era contrario alle promesse e al giuramento da lui fatto di non crearne, i vecchi cardinali se ne sdegnarono forte, e ricusarono d'intervenire al concistoro. Differì il papa l'esecuzion del disegno fin dopo l'ottava di Pasqua; ed allora, intimato sotto altro pretesto il concistoro, cominciò a nominar quattro nuovi cardinali. S'alzarono tosto i vecchi porporati per uscirne, e trovarono serrate le porte. Finalmente dopo gran rumore uscirono, e il papa da lì a pochi giorni preconizzò i suddetti nuovi cardinali senza l'assistenza ed approvazione dei vecchi. Da ciò prese motivo il cardinal di Liegi di ritirarsi da Lucca a Librafatta sul Pisano [Vita Gregorii XII, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], dove corsero le genti del nipote del papa per fermarlo, e spogliarono parte della sua famiglia, e poi la sua casa in Lucca. Paolo Guinigi, che non voleva liti co' Fiorentini per la turbata giurisdizione, fece carcerare i famigliari del nipote pontificio, e permise che sei altri de' vecchi cardinali uscissero di Lucca. Si ricoverarono tutti a Pisa, spalleggiati da' Fiorentini, e pubblicamente fecero un'appellazione al concilio e papa futuro. Contra di questo appello e delle ragioni addotte da quei porporati uscirono scritture, rapportate dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], per giustificar papa Gregorio, ed anch'egli dal suo canto pubblicò varii monitorii contra de' fuggiti cardinali. Al vedersi in tale stato esso papa, giudicò che non gli convenisse l'ulterior soggiorno in Lucca, e scrisse [956] al re Ladislao [Ser Cambi, Istor., tom. 18 Rer. Ital.] che gli mandasse una convenevole scorta d'armati per guardia nel suo cammino. Si opposero i Fiorentini, e spedirono essi un corpo di gente con ostaggi per iscortarlo. Intanto si seppe che il suo avversario Benedetto, dappoichè intese come i Franzesi gli aveano sottratta l'ubbidienza, non fidandosi più di tornare ad Avignone, s'era imbarcato, ed avea [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] nel dì 17 di giugno fatto vela, senza toccar Genova, alla volta di Perpignano. Da lui parimente, d'ordine del re di Francia, si ritirarono tutti i cardinali franzesi del suo seguito, e, passati a Pisa, si unirono qui coi cardinali ribellati a papa Gregorio. Finalmente si mosse da Lucca anche esso papa nel dì 14 di luglio, e senza inviarsi per la Romagna verso la Marca, come pareva sua intenzione, perchè da Carlo Malatesta gli venne avviso che Baldassare Cossa legato di Bologna gli tendeva insidie, andò a dirittura a Siena, dove entrato nel dì 19 d'esso mese, ricevette molti onori e finezze da quel popolo. Quivi nel settembre pubblicò una bolla contra dell'ambizioso cardinal Cossa [Raynald., Annal. Eccles.], raccontando le varie di lui iniquità, con privarlo della legazione di Bologna, e dichiararlo ribello e nemico suo. Se ne rise il Cossa, fece levar da Bologna le armi del papa, strinse in questi medesimi tempi lega co' Fiorentini per opporsi ad ogni tentativo del re Ladislao, e per sostener sè stesso nel dominio, ossia nella tirannia di Bologna, Faenza e Forlì. Dopo aver dipoi ricusato papa Gregorio [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.] di voler assistere al concilio intimato in Pisa dai cardinali dell'una e dell'altra ubbidienza, ne pubblicò egli uno da tenersi o in Aquileia o in Romagna; fulminò ancora la scomunica e la privazion del cappello contra de' suoi nel dì 11 d'ottobre. A questi aveva egli [957] sostituiti altri nove cardinali. Invitato poscia Gregorio a Rimini da Carlo Malatesta, colà si portò nel dì 3 di novembre, perchè non si credeva abbastanza sicuro in Siena.

Portossi in quest'anno a Genova Gabriello Maria Visconte cacciato da Milano, per fare istanza a quel governatore di ottanta mila fiorini d'oro a lui dovuti da' Fiorentini per la cession di Pisa, dei quali era mallevadore lo stesso Bucicaldo, e per dimandarne rappresaglia. Tenuto fu a mano alquanti dì, finchè Bucicaldo, che non era allora in Genova, restò informato di tutto, e mandò al suo luogotenente le risoluzioni sue [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Fu dunque per ordine di lui preso Gabriello nel dì 16 di novembre; ed essendogli apposto, che fosse ito a Genova a petizion di Facino Cane per togliere quella città ai Guelfi, e darla ai Ghibellini, messo alla corda, con belle promesse fu indotto a confessare il fatto, di cui era affatto innocente [Ser Cambi, Istor., tom. 18 Rer. Ital.]. Gli fu poi tagliata la testa nel dì 25 di dicembre; tutto il suo avere fu occupato, e Bucicaldo pretese poi dai Fiorentini la gran somma da loro dovuta a quell'infelice giovane. Non più di ventidue anni avea egli allora, e ben conobbe ognuno che non era cosa da lui il trattato che gli fu apposto; laonde per tanta ingordigia ed iniquità crebbe il discredito di Bucicaldo, il quale nell'anno presente, inerendo agli ordini del re di Francia, levò l'ubbidienza all'antipapa Benedetto. Giurò ben di farne vendetta Facino Cane, e mantenne poi la promessa. In mezzo alle guerre civili si trovava intanto Giovanni Maria Visconte duca di Milano, e specialmente odio grande nudriva contra di lui il suddetto Facino, perchè, chiamato a Milano, corse pericolo d'essere tradito e di lasciarvi la vita. La fuga il salvò, e da lì innanzi si dichiarò nemico non solamente del duca, ma anche di Filippo Maria [958] conte di Pavia, suo fratello. Se l'intendeva egli con Castellino Beccaria, prepotente cittadino di Pavia, ed amendue tramarono quanti inganni poterono per mettere le mani addosso al prefato Filippo Maria giovane inesperto. Ma il governator del castello, in cui stava ristretto esso Visconte, nol volle mai lasciar uscire di là; e perchè alla salvezza di questo principe contribuì non poco Francesco Carmagnuola, allora soldato di lui, col tempo ascese poi a grandi onori, siccome vedremo [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Ora Facino Cane, unito con Teodoro marchese di Monferrato, con Astorre Visconte occupator di Monza, con Francesco Visconte ed altri nobili milanesi Ghibellini fuorusciti, gran guerra fece in quest'anno al duca Giovanni Maria e ai Guelfi allora dominanti in Milano, de' quali era capo Antonio Visconte. In tali angustie fu consigliato il duca di appoggiarsi alla potente casa de' Malatesti, cioè a Carlo signor di Rimini, uno de' più saggi e prodi signori che si avesse allora l'Italia, e a Pandolfo Malatesta signore di Brescia, il quale nell'anno presente entrò ancora in possesso della città di Bergamo, a lui venduta da Giovanni de' Soardi [Corio, Istor. di Milano.]. Per istrignere poi maggiormente questa lega ed amicizia, il duca nel dì 8 di luglio prese per moglie Antonia, figliuola di Malatesta de' Malatesti signor di Cesena, la quale dimorava allora in Brescia presso Pandolfo suo zio. Avendo egli in fatti eletto per suo governatore e difensore Carlo Malatesta, questi senza perdere tempo pose l'assedio al castello di Milano, detenuto allora da Gabriello Visconte menzionato di sopra e da Antonio Visconte. Furono costoro obbligati alla resa. Il Corio scrive nel mese di novembre, ma il Delaito, scrittore contemporaneo, mette ciò nel mese di febbraio. Gabriello fu inviato a' confini in Piemonte, e fece poi la morte che abbiam detto. Antonio Visconte fu inviato a [959] Ferrara, ma poi, richiamato a Milano, ivi perdè la vita. Con tutta nondimeno l'assistenza dei Malatesti, il duca di Milano si trovò per tutto quest'anno in gravissime angustie per la smoderata carestia che affliggeva la città di Milano e il resto de' suoi Stati, e per le forze de' nemici suoi, cioè di Facino Cane, che, impadronitosi di Novara, da quella parte gli era addosso con potente esercito, e di Astorre Visconte, che con altra armata scorreva di tanto in tanto sino alle porte di Milano. Anche Giovanni da Vignate tiranno di Lodi gli mosse guerra. Monza indarno fu assediata, e finì l'anno senza che alcun alleviamento si provasse a tante discordie e guai.

In questi tempi Ottobuono de' Terzi tiranno di Parma e di Reggio, non volendo stare in ozio, fece nel mese d'aprile una irruzione nuova nel territorio di Modena [Delayto, Annal.] mettendo tutto a sacco, senza riguardo alla pace che durava col marchese Niccolò di Ferrara, e senza disfida alcuna. S'interposero i Veneziani per acconciar questa briga, ma Ottobuono, sentendosi forte di gente, e voglioso di vivere alle spese altrui, rendè inutili i lor buoni uffizii, e continuò col suo mal talento contra dell'Estense, a ciò attizzato ancora da Carlo da Fogliano signore di molte terre del Reggiano. Tirò ancora nel suo partito Francesco signore di Sassuolo. Il perchè, determinatosi il marchese Niccolò di opporre forza a forza, cominciò ad armarsi, e fra gli altri condusse al suo soldo dalla Toscana Sforza da Cotignuola con ducento cinquanta uomini d'armi (il Corio dice con settecento cavalli) e il dichiarò suo capitan generale. Fece Ottobuono quanto potè per coglierlo nel venire ch'egli faceva da Bologna a Modena; ma Sforza, uomo accorto, prevenuto lo aguato, arrivò felicemente in Modena, e poscia uscito per la porta di Bazovara, attaccò una mischia col tiranno, obbligandolo, dopo due ore di combattimento, [960] a ritirarsi come in isconfitta. Anche in Romagna furono de' movimenti di guerra. Baldassarre Cossa cardinale legato di Bologna, in tempo che il conte Alberico di Barbiano, gran contestabile, era in Roma a' servigi del re Ladislao, mosse guerra alle di lui terre della Romagna; gli tolse Tosignano, Orivolo e Castel Bolognese. Per istigazione sua ancora e col braccio suo Lodovico conte di Zagonara occupò al conte Manfredi di Barbiano, benchè suo parente, le terre di Lugo, Conselice e Sant'Agata. Parimente Guido-Antonio conte d'Urbino s'impossessò nel mese di luglio della città d'Assisi per volontaria dedizione di que' cittadini, che si trovavano infestati dalle armi del re Ladislao. Nel maggio ancora di quest'anno, perchè non si potea più durare alle insolenze di Ottobuon de' Terzi, fecero insieme lega in Mantova contra di lui Giovanni Maria duca di Milano, Gian-Francesco Gonzaga signore di Mantova, Niccolò d'Este marchese di Ferrara, Pandolfo Malatesta signor di Brescia e Bergamo, e Gabrino Fondolo signor di Cremona; le cui genti nel dì 19 di giugno presso il Castelletto nel territorio di Cremona diedero la rotta ad un corpo di gente del medesimo Ottobuono, con far prigioni trecento tra cavalli e fanti. Uscì poscia in campagna nel mese di luglio Niccolò marchese coll'esercito suo contra del tiranno, e alla sua comparsa Francesco da Sassuolo, Azzo da Rodeglia e i Canossa di Reggio voltarono mantello, e si diedero ad esso marchese. Dopo di che egli passò a Rubbiera posseduta dai Boiardi, e cominciò le ostilità contra di Ottobuono, il quale, nel dì 8 di agosto, fece tagliar la testa a settantacinque uomini di Parma e Borgo San Donnino, imputati di sedizione contra di lui: il che maggiormente fece riguardarlo come un mostro di crudeltà per tutta Italia. Ma nel novembre Sforza Attendolo generale del marchese, avendo fatta una scorreria sul Parmigiano, cadde in un agguato di Ottobuono, e ne seguì un duro combattimento colla peggio d'esso [961] Sforza. In quest'anno Martino re d'Aragona diede una terribile sconfitta ai popoli della Sardegna [Hist. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.]; ma nel dicembre morì in Cagliari Martino il giovane suo figliuolo re di Sicilia.


   
Anno di Cristo mccccix. Indizione II.
Alessandro V papa 1.
Roberto re de' Romani 10.

La principal novità di quest'anno fu il concilio tenuto in Pisa dai cardinali dell'una e l'altra ubbidienza, quivi raunati contra dei due contendenti del papato, cioè di Gregorio e Benedetto [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Giacchè si vide disperato il caso dell'unione di questi due personaggi, più innamorati dello splendore della lor dignità che della Chiesa di Dio, fu creduto spediente di abbatterli tutti e due, e di creare un pontefice che fosse accettato da tutte le corone e potentati cristiani. A quel concilio intervennero, oltre ai cardinali suddetti, quattro patriarchi, dodici arcivescovi, ottanta vescovi, ottantasette abbati, i procuratori di molte università, e gli ambasciatori di Francia, Inghilterra, Polonia, Cipri, e di moltissimi duchi e principi cristiani. Quei di Roberto re de' Romani vi concorsero, ma per sostenere i diritti di papa Gregorio, e quei d'Aragona per difendere l'antipapa Benedetto. Furono tenute molte sessioni ne' mesi d'aprile, maggio e giugno, citati i due pretendenti; e infine, dopo avere esposto varii capi d'accusa contra di amendue per la loro pertinacia in lasciar divisa la Chiesa con sì lungo e deplorabile scisma, e dopo avere formato decreto che quello era concilio generale: nel dì 5 di giugno furono dichiarati eretici, scomunicati e deposti da ogni dignità ecclesiastica tanto Gregorio che Benedetto [Theodoricus de Niem, Hist. Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Finalmente nel dì 15 d'esso mese, giacchè Baldassare Cossa cardinale, principal motore di quella [962] macchina, perchè nemico di papa Gregorio, ricusò (non si sa il perchè) d'essere eletto, e propose piuttosto il cardinal Pietro Filargo da Candia, concorse appunto il concilio ad eleggere questo personaggio papa. Era egli di nazione Greco, nativo dell'isola di Candia, e non già di una terra del Novarese, come taluno ha preteso. Per molti anni militò egli nell'ordine de' frati minori; dopo i vescovati di Vicenza e Novara, fu creato arcivescovo di Milano, e poi cardinale, finalmente papa; uomo di gran dottrina, di molta dolcezza e di non minore liberalità, che prese il nome di Alessandro V, e fu coronato nel dì 17 di giugno. Si credettero i padri del concilio pisano di aver somministrato un efficace rimedio alle piaghe della Chiesa di Dio con tale elezione, ed in fatti molto si tagliò della cancrena; ma non perciò la cancrena si sradicò, anzi per altro verso essa crebbe. Prima si miravano nella Chiesa due papi, da lì innanzi tre se ne videro nel medesimo tempo. Si sa che Alessandro ebbe ubbidienza da buona parte dell'Italia, dalla Francia, Inghilterra, Polonia e da altri paesi del cristianesimo. Tuttavia seguitò papa Gregorio ad avere i suoi fautori negli Stati de' Malatesti, nel regno di Napoli, nel Friuli, in Baviera ed in altre contrade. E l'antipapa Benedetto continuò ad essere riconosciuto papa nella Aragona e in altri luoghi della Spagna. Inoltre papa Gregorio si trasferì nel maggio dell'anno presente nel Friuli, e tenne in Cividale un concilio, ma di pochi prelati, perchè i Veneziani da lui, benchè Veneto, si dipartirono, e diedero ubbidienza ad Alessandro V. In esso concilio furono da lui riprovati tutti gli atti di Pietro di Luna, ossia di Benedetto, e quei d'Alessandro, condannate le loro persone, e intimato a tutti i fedeli di non ubbidire se non allo stesso Gregorio. Altrettanto fece in Perpignano l'antipapa. Ed ecco di nuovo flagellata da continuate gravi calamità la vigna del Signore. Papa Gregorio fuggì dalle mani [963] de' Veneziani con gran fatica, e colle galee del re Ladislao si ritirò nel regno di Napoli. Scrive Sozomeno ch'egli concedette a Ladislao Roma, la Marca, Bologna, Faenza, Forlì ed altre terre della Chiesa, e ne ricavò venticinque mila fiorini d'oro. Se ciò è vero, gran tradimento fece costui alla Chiesa.

Non era ignoto a Lodovico II duca di Angiò, portante allora il titolo di re di Sicilia, che il novello papa e tutto il sacro collegio detestavano l'insolenza del re Ladislao, dappoichè avea usurpato il dominio di Roma e d'altre terre della Chiesa romana [Theodor. de Niem, Hist. S. Antonin., P. III, tit. 22.]. Per ciò spontaneamente, o piuttosto chiamato, sen venne a Pisa, sperando col braccio del papa nuovo di rientrare nel regno di Napoli, e di abbattere la potenza di Ladislao. E veramente non mancò papa Alessandro di processare esso Ladislao, e di pubblicar monitorii contra di lui; anzi, dato di piglio alle armi temporali, le spedì alla ricuperazion delle terre della Chiesa. Ora per conto d'esso Ladislao è da sapere ch'egli ne' mesi innanzi, cioè nel giorno 12 di marzo era arrivato a Roma con poderoso esercito di fanti e cavalli; poscia nel mese d'aprile con Paolo Orsino e col gran contestabile Alberico da Barbiano s'inviò alla volta della Toscana. Ma il gran contestabile nel dì 26 aprile finì i suoi giorni nel territorio di Perugia; e da ciò il cardinal Cossa prese occasione d'impadronirsi di Barbiano e d'altre terre, siccome abbiam detto. Per trattato de' cittadini anche il re Ladislao s'insignorì di Cortona, il cui signore Luigi dei Casali fu mandato prigione a Napoli. Inoltrossi poi sul Sanese, commettendo ogni maggiore ostilità, e portò il terrore sino alle porte di quella città e di Arezzo. Usava egli per sua divisa il molo: AVT CAESAR, AVT NIHIL. Eransi ben preparati i Sanesi e Fiorentini per la difesa. Malatesta de' Malatesti signor di Pesaro fu il generale eletto da essi Fiorentini. Ma in [964] quelle parti niun fatto d'armi rilevante accadde che sia degno di memoria, perchè Ladislao, sentendo che Baldassar Cossa legato di Bologna, e braccio diritto del nuovamente eletto pontefice, avea spedito genti di armi per la Marca alla volta di Abruzzo, con parte de' suoi tornò ad accudire a' proprii affari nel regno di Napoli, ne' quali tempi per far danari vendè la città di Zara a' Veneziani per cento mila fiorini. Ora nel settembre il re Luigi, cioè il duca d'Angiò, con cinquecento lancie condotte dalla Provenza, e con quanta gente potè unir seco il cardinal Cossa e la repubblica fiorentina [Ammirato, Istor. Fiorentina, lib. 18.], si incamminò con esso cardinale verso lo Stato pontificio. Si trovò ad Orvieto Paolo Orsino disposto ad impedire il passo; ma siccome questi era uno di que' condottieri d'armi che usavano di cangiar mantello, secondochè esigeva il tempo e il guadagno, essendo a lui esibito dai Fiorentini molto danaro e più vantaggiosa condotta, lasciò il servigio del re Ladislao, e si acconciò col re Luigi. Braccio da Montone Perugino, che riuscì poi sì gran capitano, militò anche egli nell'armata d'essi collegati. Si arrenderono al cardinale legato Orvieto, Montefiascone, Corneto, Sutri, Viterbo ed altri luoghi. Con questo prospero vento l'esercito vittorioso senz'altra opposizione arrivò fin sotto Roma [Antonii Petri Diarii, tom. 24 Rer. Ital.]; e nel dì primo d'ottobre il re Luigi e il cardinal suddetto con Malatesta, con Paolo, Jacopo, Francesco ed altri di casa Orsina, s'impadronirono di San Pietro e del palazzo papale; ed appresso castello Santo Angelo, custodito finora a nome del sacro collegio, prestò ubbidienza a papa Alessandro V. Era alla guardia di Roma pel re Ladislao il conte di Troia coi Colonnesi. Varii tentativi furono fatti, varii assalti dati a quella gran città dall'armi de' collegati, ch'erano passate di là dal Tevere, ma senza trovare maniera di entrarvi; e in questi badalucchi si consumarono [965] i mesi di ottobre, novembre e quasi tutto dicembre; di modo che come disperati il re Luigi e il cardinal Cossa se ne tornarono a Pisa, lasciando il Malatesta con un corpo di gente intorno a Roma, assistito da Paolo e dagli altri baroni di casa Orsina. Ciò che non poterono far le armi, creduto fu che lo facesse l'oro. Nella notte precedente al dì ultimo di dicembre, festa di San Silvestro, si levò a rumore il popolo romano, fu aperta una porta a Paolo Orsino, e le genti pontificie entrate, andarono a poco a poco espugnando il Campidoglio e le altre fortezze tenute da quei del re Ladislao, a riserva di porta Maggiore e di quella di San Lorenzo.

Più che mai si trovò confuso in questo anno il governo di Milano [Delayto, Chron., tom. 18 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.]. Lega fu fatta da quel duca col re di Francia per mezzo di Bucicaldo, coi principi di Savoia, col conte di Pavia, e con Bernardone governator d'Asti pel duca d'Orleans. Già si vedea che Bucicaldo e i Franzesi aveano delle mire sullo Stato di Milano. Per cagion di questa lega adirato Facino Cane si diede a bloccar Milano. Pandolfo e Carlo de' Malatesti, che regolavano dianzi quegli affari, prevalendo presso il viziosissimo duca gli adulatori e il partito de' Guelfi, l'un dietro l'altro disgustati si ritirarono anch'essi da Milano. E però Pandolfo in Brescia sua città, fatta una gran massa di gente, per vendicarsi di chi l'avea forzato ad abbandonar Milano, e passato il fiume Adda, s'inoltrò ne' monti di Brianza e nella Martesana. Ma ecco venir contra di lui Facino Cane, già dichiarato conte di Biandrate, Teodoro marchese di Monferrato ed Astorre Visconte con esercito poderoso. Fecesi un caldo fatto d'armi fra loro nel dì 7 d'aprile, giorno di Pasqua, nella valle di Ravagnate, senza che la vittoria si dichiarasse per alcun d'essi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Delayto, tom. eod.]. [966] Trattatosi poi di concordia, fu conchiuso che unitamente attendessero a scacciare i consiglieri del duca, e a mettere due governatori in Milano, l'uno per Facino e l'altro per Pandolfo. Fu dunque assediato da amendue Milano, e si venne dipoi ad una capitolazione, per cui Facino e Pandolfo si accordarono col duca, e i consiglieri fuggirono. Ma poco durò questo accordo, perchè Facino pretendea dal duca cinquanta mila fiorini d'oro con altre sconcie dimande, e si partì sdegnato da lui. Allora fu che Bucicaldo governatore di Genova, mirando sì sconvolto lo Stato di Milano, sì giovani e deboli i due fratelli Visconti, e figurandosi, siccome uom pieno di ambizione e di grandi idee, non difficile lo insignorirsi di Milano, procurò d'essere ammesso al governo di quella città dal duca, con impiegar sotto mano gran somma di danaro, presa ad usura dai Genovesi [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Partitosi da Genova nell'ultimo dì di luglio, andò a prendere il possesso dell'ottenuta carica in Milano [Diario Ferrar., tom. 24 Rer. Ital.]. Seco menò circa cinque mila cavalli, oltre a molti balestrieri e fanti, e, secondo il suo costume, cominciò a fare delle novità. Nulla diffidava egli de' Genovesi, ridotti, a suo credere, colla forza ed altura sua come tanti conigli; ma il popolo di Genova, benchè mostrasse una piena suggezione, manteneva nondimeno vivi gli antichi suoi spiriti, ed odiava a morte il di lui borioso governo. Ora, trovandosi alcuni Genovesi fuorusciti con Facino Cane e con Teodoro marchese di Monferrato, persuasero loro di levare a Bucicaldo la; città di Genova; e perciò sul fine d'agosto mossero le lor genti a quella volta. L'avvicinamento di queste armi diede impulso ai cittadini di Genova tanto guelfi che ghibellini nel dì 3 di settembre dì levarsi a rumore contra del luogotenente di Bucicaldo, che restò ucciso nel volersi ritirar nel castelletto. [967] Molti parimente de' Franzesi rimasero vittima del furor popolare. Levossi dunque Genova dalla signoria del re di Francia, e Facino Cane, contento d'essersi vendicato di Bucicaldo suo nemico, e di un regalo di trenta mila genovine, se ne tornò in Lombardia per assistere a' proprii interessi, ed occupò nel ritorno Novi, ch'era d'essi Genovesi. Ma per conto del marchese di Monferrato, in ricompensa del servigio prestato, fu egli eletto capitano di Genova cogli emolumenti soliti a darsi una volta ai dogi. Il castelletto colle altre fortezze a forza d'armi venne poi tolto ai Franzesi; laonde Genova restò in pace e in somma allegria. Questo fu il guadagno fatto da Bucicaldo; egli non solamente perdè Genova, ma anche il governo di Milano. Perciocchè, quantunque, all'avviso della sollevazion di Genova, corresse con alcune migliaia di cavalli e fanti sino a Gavi, pure, conoscendo l'impossibilità di ritornare nella perduta città, si ritirò in Piemonte, giacchè temeva di sua vita, se compariva in Milano. Tentò poscia di torre Novi a Facino; ma ne rimase sconfitto, di modo che svergognato si ridusse in Francia a raccontar le sue tante prodezze.

Fece ancora grande strepito in questo anno il fine di Ottobuono de' Terzi, tiranno di Parma e Reggio [Delayto, Annal., tom. 18 Rer. Italic.]. Andava continuando contra di lui la guerra Niccolò Estense marchese di Ferrara, collegato col cardinal Cossa e coi Malatesti. Il suo infaticabile e valoroso generale Sforza da Cotignuola con una irruzione dietro all'altra sul Reggiano e Parmigiano teneva il nemico assai ristretto. Il perchè Ottobuono mosse parola di pace. Si convenne che presso a Rubiera seguisse un abboccamento fra lui e il marchese d'Este. Infatti si portò esso Ottobuono con cavalli novanta a quel congresso. Vi giunse ancora il marchese Niccolò con cento cavalli, seco avendo il suddetto Sforza ed Uguccion de' Contrarii suo favorito. Dopo [968] i complimenti e gli abbracciamenti, fattosi avanti Sforza, con uno stocco passò da banda a banda Ottobuono. Altri scrivono [Corio, Istoria di Milano. Bonincontrus, Annal. tom. 21 Rer. Ital.] che fu Michele Attendolo, parente dello Sforza, che fece il colpo in vendetta de' crudeli strazii da lui contra le leggi della guerra patiti nelle carceri di esso Ottobuono. Il Delaito vuole che per essersi scoperto il disegno di Ottobuono di levar di vita il marchese d'Este, Sforza prevenisse l'iniqua di lui risoluzione. Comunque sia, quand'anche si creda (il che pare più verisimile) che contro la pubblica fede seguisse la morte di quel tiranno, certo è tanto essere stato l'odio universale contra di lui per le sue crudeltà ed infami azioni, che ognun benedisse la mano di chi avea liberato il mondo da quel mostro, senza far caso della maniera con cui s'era ottenuto questo gran bene. Accadde il fatto nel dì 27 di maggio. Condotto a Modena il cadavere dell'estinto Ottobuono, dal popolo in furia fu messo in brani, e trovossi insino chi mangiò delle carni di costui, come se si trattasse d'una fiera. Successivamente poi il marchese Niccolò, ottenuto soccorso dal cardinal Cossa, uscì in campagna sul principio di giugno, e dopo aver preso le castella d'Arceto, Casalgrande, Dinazzano e Salvaterra, che erano di Carlo Fogliano, ostilmente passò sul Parmigiano. Dopo varii acquisti e piccioli fatti d'armi, nel dì 26 di giugno il popolo di Parma, commosso dai nobili Sanvitali, si sollevò contra de' Terzi, ed, acclamato per suo signore il marchese d'Este, uscì fuori con gran festa a riceverlo. Fu egli introdotto fra gl'immensi viva della città, e datogli il dominio d'essa, fuorchè della cittadella, che assediata finalmente si rendè nel dì 27 di luglio. Parimente nel dì 28 di giugno si levò a rumore il popolo di Reggio, e fatto intender al marchese che il sospiravano per loro signore, Uguccion de' Contrarli volò a prenderne il possesso, e questi sforzò dipoi a rendersi [969] quella cittadella nel dì 22 di luglio. Per così prosperosi successi il marchese, dopo aver donato al prode Sforza Attendolo la bella terra di Montecchio, gli permise di passare al servigio de' Fiorentini con secento lancie ed alcune schiere di fanteria; di modo che anch'egli si trovò nell'esercito inviato da essi, siccome vedemmo, alla volta di Roma. Restò poi quasi messa in camicia la famiglia de' Terzi, che tuttavia occupava Borgo San Donnino, Castelnuovo, Fiorenzuola, la rocca di Guardasone ed altri luoghi. Da Orlando Pallavicino fu loro tolto Borgo, e da Alberto Scotti Fiorenzuola. Anche i Veneziani [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], benchè protettori de' Terzi, si impadronirono di Casal Maggiore, Brescello, Guastalla e Colorno. Resta nondimeno anche oggidì essa famiglia in Parma con isplendore e comodi di nobiltà.


   
Anno di Cristo mccccx. Indizione III.
Giovanni XXIII papa 1.
Sigismondo re de' Romani 1.

Fu cagione la peste entrata in Pisa che papa Alessandro V si ritirasse a Prato verso il fine dell'anno precedente, e poscia a Pistoia [Theodericus de Niem, in Johanne XXIII Papa. Raynaldus, Annal. Eccles.]. Quivi ricevette la lieta nuova che Roma era liberata dalle armi del re Ladislao. Fecero quanto poterono i Fiorentini per indurlo a portarsi colà, rappresentando che sarebbe più vicino alla guerra che si meditava di fare contra del re Ladislao nel regno di Napoli; ma più forza ebbe l'eloquenza di Baldassare Cossa cardinale legato di Bologna, ai cui cenni ubbidiva il buon papa, quasi come schiavo, perchè da lui principalmente riconosceva il pontificato. Volle il Cossa che Alessandro seco venisse a Bologna, e gli convenne nel furore del verno per montagne piene di ghiaccio e di neve passare a quella città [Matthaeus de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.], dove [970] fece entrata nel giorno 12 di gennaio con incredibil gioia del popolo bolognese, per vedere piantata nella lor città la residenza d'un romano pontefice. Quivi nel giovedì santo pubblicò un'ampia bolla contra ai due pretensori del papato Gregorio e Benedetto. Quivi ancora ricevette nel dì 12 di febbraio una solenne ambasceria de' Romani; che gli portarono le chiavi della città, e fecero grandi istanze, affinchè egli se ne andasse colà. Ma al cardinal Cossa non parve bene ch'egli si partisse da Bologna. In questo mentre, cioè nel giorno 18 di gennaio [Annal. Mediolan., tom. 22 Rer. Ital.], Giorgio degli Ordelaffi, essendosi ribellato il popolo di Forlimpopoli al papa, fu chiamato alla signoria di quella città, e nel dì 25 di esso mese furtivamente ancora entrò in quella di Forlì; ma ne fu scacciato da quel presidio. Andò poscia nel dì 8 d'aprile il cardinal Cossa a mettere l'assedio a Forlimpopoli. Essendosi intanto infermato papa Alessandro, ritornò esso cardinale a Bologna nel dì 28 di esso mese. Sino al dì 3 di maggio durò la malattia del pontefice, e di essa morì egli in quel giorno. Fu poi sparsa voce dai nemici del cardinal Cossa, che per veleno fattogli dare da esso cardinale fosse abbreviata la vita a quel degno pontefice; e tal voce maggiormente prese piede, allorchè, siccome vedremo, questo cardinale divenuto papa restò abbattuto dal concilio di Costanza. Dio solo può essere buon giudice di questi fatti. Solea questo buon papa dire, che egli era stato ricco vescovo, povero cardinale e mendico papa [Vita Melandri V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Unironsi dunque in conclave sedici cardinali, che si trovavano allora in Bologna, e per le raccomandazioni fervorose fatte dagli ambasciatori del re Lodovico duca d'Angiò, fu nel dì 17 di maggio eletto papa lo stesso cardinale di Santo Eustachio Baldassare Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII. Venne poscia a Bologna a baciargli i piedi il suddetto re Lodovico nel dì 6 [971] di giugno, e seco concertò la guerra, giù destinata contra di Ladislao re di Napoli. Dopo di che, nel dì 23 di esso mese s'inviò alla volta di Firenze. Circa questi tempi Paolo Orsino e Malatesta capitano de' Fiorentini ridussero all'ubbidienza del pontefice le città di Tivoli e d'Ostia [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Fece poi papa Giovanni XXIII nel dì 6 di giugno una promozione di quattordici cardinali, tutti persone di merito o per la loro nobiltà o per lo sapere. Fulminò le censure contro papa Gregorio e contro l'antipapa Benedetto; e Gregorio, che s'era ridotto a Gaeta, non mancò di fare altrettanto contra di lui. Ma si cominciarono ad imbrogliar gli affari di papa Giovanni in Romagna; perciocchè Giorgio degli Ordelaffi nel dì 12 di giugno occupò il castello d'Oriolo, e Gian-Galeazzo de' Manfredi, figliuolo del fu Astorre, nel dì 18 di esso mese s'impadronì di Faenza [Diar. Ferrar., tom. 24 Rer. Ital.]. Varii altri tentativi fatti dall'Ordelaffo per entrare in Forlì andarono tutti in fumo.

Grande sforzo di gente e di navi avea parimente in questi tempi fatto in Provenza il suddetto re Lodovico duca d'Angiò per passare ai danni del re Ladislao. Ma ancor questi pensò al riparo [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital. Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Diario Ferrar., tom. 24 Rer. Ital.]. Trovati i Genovesi, che per essersi sottratti al dominio franzese, si erano inimicati con quella nazione, assai disposti ad assisterlo contro del re Lodovico, fece armare in Genova cinque navi con suo danaro, comandate da Ottobuon Giustiniani. Spedì ancora a quella volta nove delle sue galee per vegliare agli andamenti de' Provenzali. Comparvero infatti sette navi grosse con assai altre minori del re Lodovico in quei mari nel dì 16 di maggio, conducendo circa otto mila persone; e i Genovesi, senza aspettar le galee di Ladislao che erano indietro, non tardò ad essere ricuperata; [972] e i Genovesi appresso s'impadronirono di cinque delle navi grosse nemiche. Delle restanti due, l'una fuggì, l'altra andò a fondo con tutti gli uomini. Questo colpo sconcertò di molto le misure del re Lodovico. Tuttavia tredici sue galee si lasciarono vedere nel mese d'agosto sulla riviera di Genova, e seguì anche battaglia fra esse e quelle di Genova e di Napoli, ma con restare indecisa la vittoria. Secondati intanto i Genovesi dalla flotta napoletana, fecero tornare alla loro ubbidienza la città di Ventimiglia, che pagò col saccheggio la resistenza sua. Presero anche il porto di Telamone ai Sanesi per tradimento del castellano [Cronica di Siena, tom. 19 Rer. Ital.], ma questo fu ricuperato nel dì 6 di ottobre. Si trasferì a Roma il re Lodovico, e vi fu ricevuto con grande onore nel dì 20 di settembre [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.]. Perchè era scarso di danari, non trovò maniera di danneggiar le terre del re Ladislao; sicchè, dopo essersi trattenuto sino all'ultimo giorno dell'anno, allora prese il cammino alla volta di Bologna, acciocchè la sua presenza desse più calore alle meditate imprese. Mancò di vita in quest'anno sul fine di maggio [Gobelinus, Lang. Cuspinian., et alii.] Roberto di Baviera re de' Romani, principe eminente nella pietà e clemenza; ma non altrettanto nel valore. Era tuttavia vivente l'inetto Venceslao; pure gli elettori, senza far conto di lui, si unirono in Francoforte per dargli un successore. Entrata fra loro la discordia, alcuni elessero nel mese di settembre Sigismondo re d'Ungheria fratello d'esso Venceslao, ed altri Giodoco marchese di Moravia, principe, che, per essere in età di novant'anni, poco godè di questo onore, perchè da lì a tre mesi, senza essere stato coronato, terminò la sua vita, ed aprì la strada a Sigismondo, per esser nel seguente anno ricevuto e riconosciuto da tutti per re de' Romani e di Germania. Era ben egli per le sue singolari virtù dignissimo [973] di sì alto grado. Questi, abbandonato il partito di papa Gregorio XII, dianzi avea abbracciato quello di papa Giovanni XXIII, il quale volentieri l'accolse, e il favorì per farlo promuovere dagli elettori suddetti.

Per la ritirata di Bucicaldo da Milano e per avere i Genovesi scosso il di lui giogo nell'anno precedente, il credito e la forza di Facino Cane era cresciuta a dismisura [Corio, Istoria di Milano.]. Parve dunque ai consiglieri di Giovanni Maria Visconte duca di Milano che il braccio di costui quel solo potesse essere che mettesse a terra i di lui nemici e ribelli, e restituisse la tranquillità alla città di Milano afflitta da tutte le bande. Si conchiuse dunque con esso una tregua nell'antecedente settembre, e questa diventò poi pace nel dì 3 di novembre: del che gran festa fu fatta in Milano, e Facino dipoi colle sue genti d'armi entrò in Milano. Ma nell'aprile di quest'anno si rivoltarono contra di lui le genti dello sconsigliato duca, di maniera che Facino ebbe fatica a salvarsi alla terra di Rosate. Di nuovo seguì concordia fra loro, e nel dì 7 di maggio rientrò egli in Milano, e gli fu accordato il titolo di governatore per tre anni avvenire con plauso di quel popolo. E perciocchè il duca e Facino erano disgustati forte di Filippo Maria conte di Pavia, contra di lui mossero le armi; ed avendo intelligenza con Castellino ed altri signori della casa Beccaria, il costrinsero a cedere la rocchetta del ponte di Ticino. Fu in questa occasione che, rotto il muro della città di Pavia, v'entrarono le milizie di Facino, ed avendo facoltà di dare il sacco alle case de' Guelfi, menarono del pari ancor quelle de' Ghibellini con grave sterminio di essa città. Che inquieto, che misero stato fosse allora quel dell'Italia, ognun sel vede. Filippo Maria si tenne ristretto in quel fortissimo castello. Questo fatto, secondo il Diario Ferrarese [Diario Ferrar., tom. 24 Rer. Ital.], succedette nel [974] principio dell'anno seguente. Per la morte di Martino re d'Aragona padre di Martino re di Sicilia premorto [Histor. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.], si cominciarono dei rumori in Sicilia, perchè Bernardo da Caprera s'impadronì della città di Catania. E non fu quieto il regno di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.], essendosi ribellati contra del re Ladislao Gentile da Monterano e il conte di Tagliacozzo di casa Orsina. Mandò il re gente ad assediar la Padula, che era di Gentile, e questo esercito vi stette lungo tempo a campo, tanto che Gentile fu cacciato dal regno. Quanto al suddetto conte di Tagliacozzo, egli andò ad unirsi con Lodovico d'Angiò. Fece anche Ladislao incarcerare in Napoli i fratelli di papa Giovanni della famiglia Cossa.


   
Anno di Cristo mccccxi. Indizione IV.
Giovanni XXIII papa 2.
Sigismondo re de' Romani 2.

Giunto a Bologna nel dì 16 di gennaio il re Lodovico d'Angiò [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rerum Italic.], non lasciò indietro esortazioni e ragioni per condurre a Roma il pontefice Giovanni XXIII. Dopo averlo disposto a questo viaggio, sul principio di marzo s'inviò egli innanzi a quella volta. Nel dì ultimo di esso mese gli tenne dietro il papa, con lasciare al governo di Bologna il cardinal di Napoli. Nel dì 11 d'aprile giunse nelle vicinanze di Roma [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.], e fece dipoi la sua solenne entrata in San Pietro col re Lodovico, che l'addestrava, nel sabbato santo. La festa del popolo romano fu grande. Fatti i preparamenti dell'armata, e benedette le bandiere, uscì il re Lodovico in campagna, incamminandosi nel dì 28 d'aprile verso il regno di Napoli, accompagnato da insigni condottieri d'armi, cioè da Paolo Orsino, Sforza Attendolo, Braccio da Montone [975] Perugino, Gentile da Monterano, dal conte di Tagliacozzo e da una fiorita nobiltà. Circa dodici mila cavalli e numerosa fanteria seco condusse [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Sul principio del maggio venne a mettersi a fronte di lui il re Ladislao con esercito quasi eguale a Roccasecca. Stettero guardandosi le due armate sino al dì 19 d'esso mese [Theodoricus de Niem, in Johanne XXIII. S. Antonin., et alii.], in cui, avendo innanzi il re Ladislao mandato il guanto della disfida, si azzuffarono. Crudele fu la battaglia, e piena in fine la sconfitta di Ladislao colla perdita delle bandiere, tende e bagaglio, e con restar prigionieri il legato del deposto papa Gregorio XII, conte da Carrara, i conti d'Aquino, di Celano, d'Alvito, e molti altri de' principali baroni di Napoli. Si salvò Ladislao, e con fatica, a piedi a Roccasecca, e come potè il meglio attese a fortificarsi per impedire i progressi dell'armata vincitrice: il che gli venne fatto. Fu creduto [Ammirato, Istor. Fiorentina, lib. 18.] che l'aver egli guadagnato sotto mano Paolo Orsino, questi andasse tanto tergiversando, che il re si rimise in forze, e fece poi testa a' nemici. S'aggiunse un altro fatto, per cui maggiormente venne calando la bella apparenza di detronizzar Ladislao. Lo scrivo sulla fede di Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], perchè a me resta dubbio essere lo stesso che quel dell'anno antecedente. Avea spedito il re Lodovico otto navi grosse e venti galee verso il regno di Napoli, acciocchè per mare secondassero l'impresa della sua armata di terra. Quasi nello stesso tempo che seguì la battaglia poco fa narrata, furono anche assalite le dette navi angioine dalla flotta di Ladislao, consistente in sette galee e sei navi, e furono prese. Giunto questo doloroso avviso alle galee di Lodovico, se n'andarono in Calabria per assistere a Niccolò Ruffo, che s'era in quelle parti insignorito di [976] varie castella, e nel cammino espugnarono Policastro. A nulla poi si ridussero tali conquiste, perchè il re Ladislao, tornato che fu in forze, mandò le sue genti in Calabria, che ricuperarono Crotone e Catanzaro, con obbligare Niccolò Ruffo a salvarsi in Provenza, da dove era venuto. Intanto il re Lodovico, trovati chiusi i passi per inoltrarsi nel regno di Napoli, e mancandogli danaro e viveri per mantenere l'armata, dolente la ricondusse a Roma nel dì 12 di luglio [Antonii Petri Diarii, tom. 24 Rer. Ital.], e poscia nel dì 5 d'agosto imbarcatosi, spiegò le vele verso la Provenza. Fortunato senza dubbio fu in sì disastrosi tempi il re Ladislao; ma molto contribuì a sostenersi contra di quel minaccioso torrente, l'aver egli nell'anno precedente procurato di staccare dalla lega del papa i Fiorentini, i quali stanchi erano omai di tante spese [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 18.]. Infatti, nel gennaio del presente anno furono sottoscritti i capitoli della pace fra loro, il più importante de' quali fu, ch'egli per sessanta mila fiorini d'oro vendè a' Fiorentini la città di Cortona: del che grande allegrezza fu fatta in Firenze per questo accrescimento di potenza. Dopo aver papa Giovanni nel dì 5 di giugno creati tredici cardinali, tutte persone di merito, grandi processi fabbricò dipoi contra del re Ladislao [Diario Ferrarese, tom. 24 Rer. Ital.]; e nel dì 9 di settembre il dichiarò scomunicato e privato di tutti i suoi titoli e dominii: armi che contra d'un principe tale, poco curante della religione, si trovarono affatto spuntate.

Dacchè il popolo di Bologna vide partito il papa, da cui in addietro, quando era solamente cardinale, era stato governato con mano assai pesante, sentì risorgere il desiderio dell'antica sua libertà. Scoppiò questo tumore nel dì 12 di maggio [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic. Cronica di Bologna, tom. eod. Diario Ferrar., ubi supra.]. Corsero que' cittadini all'armi, gridando: Viva il popolo e le arti; e il [977] cardinale legato si ritirò nel castello, oppur nella casa d'un mercatante, e fu dato il sacco al suo palazzo. Assediato il castello, si tenne saldo sino al dì 28 del mese suddetto, in cui si rendè ai cittadini, salva la roba e le persone, e fu poi disfatto. Sul principio di giugno Carlo Malatesta, gran protettore di papa Gregorio XII, arrivò colle sue genti d'armi a San Giovanni in Persiceto, terra da lui posseduta, ed assediata inutilmente nel precedente aprile dai Bolognesi: il che inteso da essi, tornarono nel dì 11 d'esso giugno a mettervi il campo. Ritrovato l'osso duro, fu giudicato meglio di far pace col Malatesta, il quale non solo restò padrone di San Giovanni, ma ancora si fece pagar trenta mila lire da essi Bolognesi. Anche il popolo della città di Forlì, udita la rivoluzion di Bologna, si levò a rumore, e, scacciati gli uffiziali del papa, acclamò per suo signore Niccolò marchese di Ferrara [Diario Ferrarese, tom. 24 Rer. Ital. Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.], il cui capitano Guido Torello ivi si trovava con un corpo d'armati. Ma entrati in essa città Giorgio ed Antonio degli Ordelaffi nel dì 7 di giugno con due mila pedoni, ne presero il possesso, e dopo qualche tempo costrinsero alla loro ubbidienza la rocca e la cittadella. Poco profittò Antonio di tal acquisto, perchè macchinando di levare il comando, e fors'anche la vita a Giorgio, scoperto il trattato (se pur fu vero), nel dì 30 di agosto venne preso e confinato in prigione da esso Giorgio, il quale restò solo padrone. Allora i Forlivesi per opera di Carlo Malatesta si partirono dall'ubbidienza di papa Giovanni, e aderirono a papa Gregorio. Nel dicembre ancora di quest'anno [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] si accese guerra fra Sigismondo re de' Romani, d'Ungheria e Boemia, e i Veneziani, pretendendo il re che gli fosse restituita Zara colla Dalmazia. Entrati gli Ungheri nel Friuli, presero Udine, Marano e Porto Gruaro, talmente [978] che il patriarca d'Aquileia scappò a Venezia. Impadronitisi ancora di Cividal di Belluno, Feltro e Serravalle, minacciavano di peggio; se non che i Veneziani, con incredibil diligenza formato un copioso armamento, e tolto al loro servigio per generale Carlo Malatesta, ruppero il corso alle conquiste di que' Barbari. Nella state di quest'anno [Diario Ferrarese, tom. 24 Rer. Ital.] Niccolò marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena, Reggio e Parma, essendo molestato da Orlando Pallavicino, che tenea occupato Borgo San Donnino, spedì colà il valoroso suo capitan Uguccion de' Contrarii con due mila cavalli e molta fanteria. Varie castella tolse Uguccione ad Orlando, e il ridusse a tale che fu obbligato a cedere la nobil terra di Borgo San Donnino al marchese, il qual, fattolo venire a Ferrara, il prese al suo servigio con decorosa provvisione. Era già entrato Facino Cane in Pavia [Id., ibid. Corio, Istoria di Milano.], nè altro più restava a Filippo Maria Visconte che quel fortissimo castello, dove s'era chiuso. Ma postovi l'assedio da Facino, gli convenne capitolare e rendersi. Fra i capitoli vi fu che Filippo Maria ritenesse il titolo di conte di Pavia, ma conte solo di nome, perciocchè Facino mise sua gente nel castello, ed era padron di tutto, dando al misero principe quanto gli bastava per vivere e mantenere una scarsa corte. Dopo questo andò Facino a far guerra a Pandolfo Malatesta signore di Brescia, ma senza apparir sulle prime se fosse guerra vera o da burla.


   
Anno di Cristo mccccxii. Indizione V.
Giovanni XXIII papa 3.
Sigismondo re de' Romani 3.

Tenne papa Giovanni nell'aprile di quest'anno un concilio nella basilica vaticana [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.], e nel dì 19 di giugno si partì dal di lui servigio colle sue genti d'armi Sforza da Cotignuola, divenuto già uno [979] de' più prodi condottieri che s'avesse allora l'Italia; e a nulla servì l'avergli il papa donata o venduta la terra stessa di Cotignuola. I danari e le promesse del re Ladislao privarono il papa di questo campione. Allegava egli per iscusa di non vedersi sicuro con Paolo Orsino, suo nemico ed uomo di buono stomaco. Di tal fuga, a cui fu dato nome di tradimento, e massimamente per esser egli passato al soldo di un nemico della Chiesa, si chiamò tanto offeso il papa [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], che fece in varii luoghi dipignere Sforza impiccato pel piede destro, con sotto un cartello, in cui Sforza fu pubblicato reo di dodici tradimenti, con tre rozzi versi, il cui primo fu:

IO SONO SFORZA VILLANO DALLA COTIGNUOLA.

Venne dipoi il medesimo Sforza col conte di Troia, conte da Carrara ed altri capitani, e con assai squadre d'armati verso Ostia, e quivi si accampò, ma senza che male alcuno ne seguisse Intanto papa Giovanni colla nemicizia di Ladislao, fomentatore dell'avversario Gregorio, mirava il suo stato non assai fermo; e dall'altra parte anche Ladislao paventava de' nuovi insulti da papa Giovanni, che proteggeva il di lui emulo Lodovico di Angiò. O l'un dunque o l'altro fecero muover parola di aggiustamento, e trovarono amendue il loro conto a conchiuderlo. Tanto più agevolmente vi concorse il pontefice, perchè intese che s'era maneggiata, fors'anche stabilita, da Ladislao una lega co' signori della Marca e Romagna contra di lui. Per attestato di Teodorico da Niem [Theodericus de Niem, in Johanne XXIII.], comperò papa Giovanni quella pace con isborso di cento mila fiorini, segretamente pagati a Ladislao. Altre più vantaggiose condizioni, e maggior somma di danaro accordata a quel re ne' capitoli della concordia, si leggono presso il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Ora Ladislao, per dar più colore al cangiamento che giù destinava [980] di fare, chiamata a sè una congregazion di vescovi e d'altri dotti ecclesiastici, loro espose gli scrupoli della sua solamente in questa occasione delicata coscienza, per aver finora aderito a papa Gregorio XII, quando quasi tutta la cristianità riconosceva per vero papa il solo Giovanni XXIII. La disputa andò a finire in favor d'esso papa Giovanni. Ciò fatto, si portò Ladislao a Gaeta a visitar papa Gregorio. De' di lui trattati segreti non era allo scuro Gregorio, e però immantenente gliene dimandò conto. Negò Ladislao, ma nel dì seguente gli fece intendere che si levasse da' suoi Stati in un determinato tempo, perchè non potea più sostenerlo. Trovossi allora in grandi affanni Gregorio e la corte sua; ma per buona ventura capitate colà due navi mercantili veneziane, in una d'esse s'imbarcò, e girando pel mare Adriatico fra molti pericoli e timori d'essere colto dalle insidie di papa Giovanni, arrivò in fine nel mese di marzo a Rimini, dove con ossequio e festa ben ricevuto dai Malatesti pose la sua residenza [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Fu assai che Ladislao nol sagrificasse alla politica sua e ai desiderii del pontefice Giovanni di lui avversario. Si pubblicò questa pace nel mese d'ottobre.

Vide in quest'anno la città di Milano un orrido spettacolo [Billius, Hist., lib. 2, tom. 19 Rer. Ital.]. Giovanni Maria Visconte duca s'era già tirato addosso l'odio universale del popolo, non tanto per le gravezze imposte, quanto per la sua inaudita crudeltà. Teneva egli de' fieri cani al suo servigio, e con essi facea sbranar le persone, alle quali volea male; talvolta ancora per ispasso li lasciava contra delle innocenti persone. Il Corio [Corio, Istor. di Milano.] ne racconta varii casi. Fecesi pertanto una congiura contra di lui da varii nobili, alcuni de' quali della stessa sua corte; cioè quei da Bagio, Ottone Visconte, Giovanni da Posterla, quei del Maino, i Trivulzi, i Mantegazi ed altri. [981] Ora mentre il duca nel dì 16 di maggio dalla corte passava alla Chiesa di San Gotardo, per udir messa, oppure mentre udiva messa, gli furono alla vita i congiurati, e con due ferite lo stesero morto a terra. Con questa facilità si sbrigarono essi dal duca, perchè in questi tempi non si trovava in Milano Facino Cane suo governatore e protettore. Si era egli dianzi con potente esercito portato all'assedio di Bergamo, posseduto da Pandolfo Malatesta, e dopo la presa de' borghi era vicino a veder anche la città ubbidiente a' suoi cenni. Ma, infermatosi gravemente, si fece portare a Pavia, dove tanto sopravvisse, che apprese la violenta morte data al duca da chi, per la lontananza, s'era arrischiato a fare quel colpo, e ne ordinò a' suoi la vendetta. Giovanni Stella [Johan. Stella, tom. 17 Rer. Ital.] scrive essere morto Facino nel giorno stesso in cui fu ucciso il duca. Egli era nativo di Santuà del Piemonte: altri dicono di Casale del Monferrato. Secondo la testimonianza del Biglia e del Corio, costui signoreggiava allora in Pavia, Alessandria, Vercelli, Tortona, Varese, Cassano, in tutto il lago Maggiore e in altre terre; ma spirò con lui tanta grandezza, perchè mancò senza prole. Dappoichè fu seguita la morte del duca Giovanni Maria, ed esposto il suo cadavero nel duomo, entrò in Milano con pochi Astorre, ossia Estorre, bastardo del fu Bernabò Visconte, chiamato il soldato senza paura [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.], che avea tenuta mano alla congiura, ed unito co' suoi partigiani, i quali, gridando: Viva Astorre duca, s'impadronirono del palazzo ducale, corse la città senza impedimento alcuno, ed assunse il titolo di duca. Ma il castello, di cui era governatore Vincenzo Marliano, per quante promesse e minaccie usasse Astorre, non gli volle prestare ubbidienza. La morte di Giovanni Maria duca, e forse più quella di Facino Cane, richiamò, per così [982] dire, in vita Filippo Maria Visconte suo fratello, conte di Pavia, che, perduto ogni suo dominio, meschinamente vivea in Pavia alla discrezione d'esso Facino, mancandogli talvolta il vitto. Prese egli tosto il titolo di duca di Milano; e giacchè Facino in morte l'avea raccomandato vivamente alle sue milizie, parea che non fosse da dubitare della loro assistenza. Ma queste genti venali voleano danari, e si preparavano di passare, chi al servigio di Pandolfo Malatesta e chi di Astorre Visconte. Un ripiego a sì fatti bisogni fu allora trovato da Bartolomeo Capra eletto arcivescovo di Milano, e da Antonio Bozero Cremonese, governator della cittadella di Pavia. Questi, dopo aver ricoverato Filippo Maria in essa cittadella, per sottrarlo alla bestialità delle truppe e alle insidie de' nobili da Beccaria, proposero che Filippo sposasse Beatrice Tenda, vedova del suddetto Facino. Vi si accomodò Filippo; Beatrice non solamente vi acconsentì, ma sborsò quattro mila fiorini d'oro, e, dopo essere stata sposata, diede a Filippo in dote altri tesori e le città suddette, benchè tutte non venissero allora alle mani di lui. Rallegrato l'esercito colle paghe di Beatrice, tutto si diede a Filippo Maria, il quale s'inviò con esso alla volta di Milano, dove Astorre Visconte, nel medesimo tempo che tenea assediato il castello, attendeva a sollazzarsi in feste e giuochi. Nel dì 16 di giugno introdusse il novello duca delle provvisioni di viveri nel castello, ed entratovi anch'egli, ne uscì poi verso la città, che già s'era mossa a rumore ed acclamava lui per signore. Per questo avvenimento Astorre con Giovanni Picinino, figliuolo del già Carlo Visconte, uscì di Milano e si ritirò alla nobil terra di Monza, di cui era padrone. Presi alcuni uccisori del duca, ebbero dalla giustizia il premio che si meritavano. Fu dalle genti del duca Filippo Maria assediata Monza, e dopo quattro mesi presa e messa a saccomano. Si rifugiò Astorre nel castello; ma [983] colto un dì da una pietra de' molti mangani che tempestavano quella fortezza, ebbe una gamba rotta, e di spasimo per essa ferita morì. Vidi io, nel 1698, in Monza il suo corpo per accidente disseppellito in quella basilica, tuttavia intero e coll'osso della gamba rotto. Certo che la sua santità non gli avea meritato questo privilegio. Valentina sorella d'Astorre sostenne poi quel castello sino al dì primo di maggio dell'anno seguente, in cui lo consegnò con buoni patti, riferiti dal Corio, a Francesco Busone, soprannominato il Carmagnuola, che di bassissimo stato pel suo valore e per la sua fedeltà era già salito al grado di consigliere e maresciallo del duca.

Nella città di Bologna, dacchè essa si ribellò a papa Giovanni XXIII, le arti e il popolo basso comandavano le feste [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Avvenne che nel dì 25 di agosto i Pepoli, Guidotti, Isolani, Manzuoli, Alidosi, Bentivogli ed altri nobili si levarono a rumore, e, deposto il governo popolare, cominciarono essi a reggere la città. Poscia nel dì 22 di settembre acclamarono la Chiesa, avendo già stabilito accordo con papa Giovanni, le cui armi presero il possesso della città, e nel dì 30 di ottobre arrivò colà per legato il cardinale del Fiesco. Anche la terra di San Giovanni in Persiceto tornò in potere de' Bolognesi, con iscacciarne il dominio de' Malatesti. Ebbero in questi tempi i Genovesi gran guerra coi Catalani [Joahnnes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], ed avendo spedito contra d'essi una flotta comandata da Antonio Doria, recarono loro dei gran danni Per cagione ancora di Porto Venere fu guerra fra essi e i Fiorentini; ma nell'anno seguente ne seguì accordo. Di maggior conseguenza fu la guerra che tuttavia durava tra Sigismondo re de' Romani e di Ungheria, e la signoria di Venezia [Sanuto, Istoria di Venezia., tom. eod.]. Vennero gli Ungheri [984] sino a Trivigi, mettendo tutto quel territorio a sacco. Dacchè se ne furono ritirati, l'armata veneta marciò in Friuli per ricuperar le terre tolte al patriarca d'Aquileia. Carlo Malatesta loro generale vi fece di molte prodezze. Nel dì 9 di agosto venne alle mani l'armata veneta cogli Ungheri, e il combattimento fu duro e sanguinoso per l'una e per l'altra parte; ma in fine ebbero gli Ungheri la peggio, e ne restarono moltissimi prigioni. Tre ferite, ma non mortali, ne riportò esso Carlo Malatesta. Pandolfo suo fratello, chiamato al comando delle armi venete, fece altri progressi, e tutto quest'anno spese in varii incontri e badalucchi. Tal guerra diffusamente narrata si vede da Andrea Redusio [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. In questi tempi ancora Braccio da Montone, fuoruscito di Perugia, cominciò cogli altri della sua fazione a far guerra alla patria [Johann. Baudin., Istor. Senens., tom. 20 Rer. Ital.]; ma ebbe una rotta da Nanne Piccolomini e da Ceccolino Perugino: il che gli servì di scuola per far meglio da lì innanzi il mestier della guerra, in cui divenne eccellente.


   
Anno di Cristo mccccxiii. Indizione VI.
Giovanni XXIII papa 4.
Sigismondo re de' Romani 4.

Di che tenore fossero la fede e i giuramenti di Ladislao re di Napoli, era assai noto; eppure papa Giovanni si lasciò attrappolare da un principe così infedele col credere sincera la concordia dell'anno precedente. Dove andasse questa a terminare, se n'avvide egli nell'anno presente. Dimorava esso papa in Roma alla spedizione de' sacri e de' temporali affari; ma non gli mancavano affanni e liti per l'inquietudine de' Romani, e per l'infedeltà di non pochi d'essi. Quando ecco nel mese di maggio s'ode [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.] che il re Ladislao ha spedito l'esercito suo [985] nella marca d'Ancona, e comincia ad impadronirsi di quelle terre. Speditogli contro Paolo Orsino, lungi dal reprimere le forze nemiche, restò assediato da Sforza suo nemico in Rocca Contrada. Da questo tradimento conobbe il papa che il malvagio re, voglioso del dominio di Roma, verso quella volta avrebbe indirizzate in breve l'armi sue. Così fu. Allorchè s'ebbe nuova ch'egli s'andava avvicinando, e fu nel dì 4 di giugno, papa Giovanni, dopo avere sgravato il popolo romano dalla terza parte della gabella del vino, chiamati i conservatori e principali romani a palazzo, dopo avergli esortati ad essere fedeli, e a non temere del re Ladislao, lasciò in mano loro il governo. Di magnifiche promesse fecero allora i Romani. Ritirossi nel dì 7 di esso mese il papa con tutta la corte in casa del conte di Monopello, e nella stessa notte, rotta una parte del muro di Roma, entrò Tartaglia condottier d'armi pel re Ladislao nella città, e nel dì seguente si mise senza contraddizione in possesso di Roma, giacchè niuno s'oppose, e non mancava chi tenea buona intelligenza col re. Allora papa Giovanni coi cardinali e con tutta la famiglia fu lesto a fuggire, inviandosi a Viterbo [Bonincont., Annal., tom. 21 Rer. Ital. Theodoricus de Niem, Hist. S. Antonin., et alii.]. Per istrada dai corridori nemici rimasero uccisi o svaligiati non pochi della corte sua. Il cardinale di Bari fu preso ed imprigionato; e in Roma la parte degli Orsini favorevole a papa Giovanni patì non poco danno in tal congiuntura. L'autore della Cronica di Forlì scrive [Chron. Foroliv., tom. 19 Rer. Ital.] che questo pontefice dai suoi avversarii era soprannominato per ischerno Buldrino, e ch'egli si ridusse a Radicofani: nel qual tempo corse voce che non si sapeva dove egli fosse. Ma nel dì 17 di giugno egli comparve a Siena, e dopo aver trattato della comune difesa con que' maestrati [Cronica di Siena, tom. eod.], nel dì 21 s'inviò alla [986] volta di Firenze. I Fiorentini, che non voleano tirarsi addosso l'indignazione di Ladislao [Leonardus Aretin., Hist., tom. 19 Rer. Ital. Ammirato, Istor. di Firenze, lib. 18.], non vollero per allora lasciar entrare nella città, contentandosi solamente di lasciargli prendere stanza in Santo Antonio del Vescovo fuori di essa città. Entrò il re Ladislao in Roma nel suddetto dì 8 di giugno, e da lì a due giorni si portò ad abitare nel palazzo vaticano, con ordinar poi l'assedio di castello Sant'Angelo, che tuttavia si tenea forte per papa Giovanni. Si sostenne quel castellano sino al dì 23 di ottobre, in cui finalmente rendè alle genti del re quella fortezza con gran festa e galloria de' Romani. Guadagnò egli dodici mila fiorini, co' quali si ritirò nel regno di Napoli. Intanto, inoltratesi le milizie del re Ladislao, ridussero, nel dì 24 del mese di giugno, alla di lui ubbidienza Ostia, e da lì a due giorni Viterbo, e successivamente tutte le altre terre sino ai confini del Sanese. Nel dì primo di luglio imbarcatosi il re in una galea, prese il viaggio alla volta di Napoli.

Dopo tre mesi fu ammesso in Firenze papa Giovanni, e quivi dispose con que' maestrati la maniera di far fronte agli ambiziosi pensieri del re Ladislao, principe che mostrava di voler la pace, ma guastandone nello stesso tempo ogni trattato colle esorbitanti sue pretensioni. Credette papa Giovanni, fin quando egli si tratteneva in Roma, che, ad assodare il suo stato e a frenare i passi dell'ingordo Ladislao, l'unico mezzo fosse l'intendersi con Sigismondo re de' Romani, d'Ungheria e Boemia, le cui armi in Italia erano vittoriose contro la signoria di Venezia. Per far conoscere a questo principe il suo buon animo verso la pace della Chiesa, divisa allora da tre papi, determinò di proporgli la convocazion d'un concilio generale, e destinò a lui due cardinali legati. Narra Leonardo Aretino [Leonardus Aretin., ubi supra.], che era allora suo segretario di [987] lettere, essere stata la sua idea che questo concilio si tenesse in luogo dove esso papa fosse il più forte. Ma allorchè fu per ispedire i legali con plenipotenza, lasciò questo punto raccomandato solamente alla loro prudenza. Andarono i legali a trovar Sigismondo; e Dio, che voleva confondere l'umana prudenza, e la fina politica di cui si pregiava papa Giovanni, permise che i medesimi legati convenissero con Sigismondo di raunar questo concilio nella città di Costanza, ubbidiente allora ad esso re, come sito il più comodo per l'intervento delle varie nazioni. Il che saputo da papa Giovanni, n'ebbe incredibil dispiacere, e fin d'allora cominciò a temere l'ultimo suo tracollo. Venne egli da Firenze a Bologna, dove entrò nel dì 12 di novembre [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.]; e, fermatosi quivi sino al dì 23 d'esso mese, s'inviò in quel giorno verso Lombardia, per abboccarsi col suddetto Sigismondo. Era calato questo principe in Italia, e concertato l'abboccamento col papa nella città di Lodi, si portò colà. Vi comparve anche lo stesso pontefice, e da quella città spedì le circolari [Raynaldus, Annal. Eccles.] per invitar tutti a concorrere ad esso concilio nell'anno seguente. Giovanni da Vignate, che era signore ossia tiranno di Lodi, grande onor fece a papa Giovanni e a Sigismondo; e perchè egli colla sua destrezza era divenuto padrone anche di Piacenza, in tal congiuntura, se crediamo al Corio [Corio, Istoria di Milano.], fece di quella città un dono al re Sigismondo. Voce comune era che esso re de' Romani fosse venuto per prendere la corona ferrea d'Italia; ma odiando egli Filippo Maria Visconte duca di Milano, niun accordo potè seguir fra loro. E tanto meno dipoi, perchè il duca fece la lega contra di lui coi Genovesi, col marchese di Monferrato e con Pandolfo Malatesta. Da Lodi, ove celebrarono la festa del santo Natale, passarono [988] dipoi Giovanni e Sigismondo a Cremona, quivi ben ricevuti da Gabrino Fondolo tiranno d'essa città. Si racconta di costui un fatto, di cui non oserei d'essere mallevadore, cioè aver egli detto, prima di morire, d'essere d'una sola cosa pentito. Ed era, che avendo egli condotto papa Giovanni e il re Sigismondo fin sulla cima dell'alta e nobil terra di Cremona [Campi, Istor. di Cremona.], non gli avesse precipitati amendue al basso, perchè la morte dei due principali capi della cristianità avrebbe portata dappertutto la fama del suo nome. Bestialità sì enorme difficilmente potè cadere in mente, se non per burla, ad un uomo si accorto, come egli fu. Tuttavia racconta il Redusio [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital., pag. 827.] che tanto il papa che Sigismondo, entrati in sospetto della fede di costui, insalutato hospite, si partirono di Cremona. Continuò ancora per li primi mesi di questo anno la guerra fra il suddetto re Sigismondo e i Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Si sparsero le genti di lui pel Veronese e Vicentino; succederono ancora molti incontri di guerra colla peggio ora dell'uno ora degli altri; ma in fine, conoscendo Sigismondo che v'era poco da sperare contro la potenza e vigilanza della signoria di Venezia, diede ascolto a proposizioni di tregua. Nel dì 18 d'aprile giunse a Venezia la nuova che s'era conchiusa essa tregua per cinque anni avvenire. Pandolfo Malatesta, che con singolar valore e fedeltà aveva servito alla repubblica in questa guerra, dopo aver ricevuto considerabili premii e finezze dai signori veneti, se ne ritornò a Brescia, e cominciò guerra contra del suddetto Gabrino Fondolo tiranno di Cremona, a cui tolse circa diciotto castella, con giugnere fino alle mura di quella città; ma non potè fare di più. Terminò i suoi giorni in quest'anno, nel dì 26 di dicembre, Michele Steno doge di Venezia [Idem, ibidem.], e gli [989] succedette poi in quella illustre carica Tommaso Mocenigo, nel dì 7 del prossimo gennaio. Questi si trovava allora ambasciatore in Cremona, ed avvisato sen venne segretamente a Venezia. Nel dì 2 di agosto di quest'anno [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] Giorgio degli Ordelaffi signor di Forlì, per ispontanea dedizion de' cittadini di Forlimpopoli, divenne padrone di quella terra. Troppo fin qui erano stati su un piede i Genovesi, gente allora inclinata troppo alle mutazioni. Loro signore ossia capitano, come vedemmo, era divenuto Teodoro marchese di Monferrato, in ricompensa di averli liberati dal giogo dei Franzesi. Mentre egli si trovava a Savona, per dar sesto ad una sollevazione di quella città, levossi a rumore il popolo di Genova, gridando libertà, nel dì 20 di marzo. Fuggirono gli uffiziali del marchese, e venuto a Genova Giorgio Adorno, personaggio ben voluto da tutti, fu eletto doge di quella repubblica. Seguì poscia, nel dì 9 di aprile, un accordo col marchese di Monferrato, il quale, contentandosi di ventiquattro mila e cinquecento fiorini d'oro, fece lor fine delle sue pretensioni.


   
Anno di Cristo mccccxiv. Indiz. VII.
Giovanni XXIII papa 5.
Sigismondo re de' Romani 5.

Dopo avere stabilito quanto occorreva pel concilio generale da tenersi in questo anno in Costanza [Raynaldus, Annal. Eccles.], si separarono papa Giovanni e il re Sigismondo. Da Cremona venne il pontefice a Mantova, e di là a Ferrara, dove fece la sua solenne entrata nel dì 18 di febbraio [Diario Ferrarese, tom. 24 Rer. Ital.]. In tale occasione tirò al suo partito, oppure maggiormente confermò in esso, Niccolò Estense marchese di Ferrara, il quale nell'anno precedente, per le persuasioni di Sforza Attendolo, s'era lasciato indurre a far lega col re Ladislao, e già ne avea ricevuto trenta mila fiorini d'oro, col bastone del [990] generalato. Rinunziò poscia e restituì il danaro. E qui non vo' lasciar di dire che questo principe nell'anno presente, essendosi messo in viaggio per andar alla divozion di San Jacopo di Galizia (era egli stato anche nell'antecedente anno al santo Sepolcro), nel passare, verso i confini del Genovesato, un castello appellato Monte San Michele di uno de' marchesi del Carretto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Italic.], fu messo prigione da quel castellano per l'unico fine di ricavar danari dal suo riscatto: iniquità praticata non poco dai tirannetti di questi tempi contro il diritto delle genti. Per liberarsi fu il marchese obbligato a promettere gran somma di danaro, la quale non so se fosse poi pagata, e se ne tornò a Ferrara con incredibil consolazione di quel popolo, che quanto l'amava altrettanto aveva deplorata la disgrazia avvenutagli. Giunto a Bologna, nel dì 26 di febbraio, papa Giovanni [Matthaeus de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.], quivi attese a rimettere in piedi il castello già smantellato da quel popolo, credendosi di quivi far le radici; ma altrimenti avea disposto la divina Provvidenza. Non mancavano intanto affanni ad esso pontefice, e timori a tutti i suoi cortigiani [Theodoric. de Niem, in Johanne XXIII.], perchè Ladislao re di Napoli, e padrone di Roma e d'altre città pontifizie, informato dei negoziati fatti dal papa col re Sigismondo contra di lui, fremendo minacciava di venir fino a Bologna per iscacciarlo di là. A questo fine si portò egli da Napoli a Roma nel dì 14 di marzo [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.], per prepararsi alla spedizione suddetta. A' Fiorentini non piaceano questi andamenti del re per gelosia del loro Stato; e perciò tanto si adoperarono che strinsero pace e lega con lui nel dì 22 di giugno; e Ladislao promise di non molestar Bologna, nè il suo contado. Sul principio di luglio, trovandosi Ladislao in Perugia con Paolo Orsino, che sotto la buona fede era a lui venuto, e con Orso da Monte [991] Rotondo ed altri baroni romani, non so per quali sospetti, li fece prender tutti e due, e condurli a Roma incatenati. In Paolo si univa la riputazion d'essere un prode condottier d'armi ed insieme il discredito d'uomo disleale; però la sua prigionia a molti dispiacque, e ad altri più fu gratissima. Ma peggio intervenne al medesimo re Ladislao. Mentre era a campo a Narni, s'infermò per male attaccatogli, per quanto corse la fama, da una bagascia perugina nelle parti oscene. Non era allora conosciuto il morbo gallico; ma, per attestato degli antichi medici, si provarono talvolta i medesimi mali influssi dell'incontinenza, ai quali si dava il nome di veleno. Tormentato Ladislao da atroci dolori, fu portato sopra una barella a San Paolo fuori di Roma; e venute due galee di Gaeta, s'imbarcò in una di esse, menando seco incatenato il suddetto Paolo Orsino, e s'inviò per andare a Napoli. Ma cresciuto il suo malore, e fattosi portare al lido, oppure in Castello Nuovo, come si ha dai Giornali Napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], quivi, nel dì 6 d'agosto (altri dicono prima, altri dopo), diede fine alla vita, non meno che ai suoi grandiosi disegni di conquistar l'Italia. Di mondana politica era egli senza dubbio ben provveduto, ma più di desiderio di gloria e d'ingrandimento. Nel mestier della guerra pochi gli andavano innanzi: al che non gli mancava coraggio, pazienza e vigilanza. Parve in lui piuttosto ombra che sostanza di religione; minore tuttavia venne provata in lui l'osservanza delle promesse; e sfrenata poi la libidine, per cui, massimamente in Roma, commise molti eccessi, e da cui in fine fu condotto a morte nella metà della ordinaria vita degli uomini.

La mancanza di questo re senza figliuoli aprì la strada a Giovanna di lui sorella per succedergli nel regno di Napoli. Giovanna Seconda si truova essa chiamata nelle storie. Era vedova di Guglielmo figliuolo di Leopoldo III duca d'Austria, dopo la cui morte senza figliuoli [992] se n'era tornata alla casa paterna. Non tardò essa ad essere riconosciuta da tutti per regina. Alzavano quasi tutti le mani al cielo per la gioia in Roma, Firenze ed altri luoghi, al vedersi liberati da questo re sì manesco e perfido; ma più d'ogni altro ne fece festa papa Giovanni XXIII, il quale sempre era in pena per così potente avversario [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Jacopo degl'Isolani, creato cardinale per guiderdone d'avergli fatto ricuperar Bologna, fu poscia spedito da lui alla volta di Roma a fine di ricuperar quegli Stati. Ed appunto nell'ottobre se gli diedero Monte Fiascone e Viterbo. Per conto poi di Roma, quella nobiltà e popolo nel sopraddetto mese d'agosto, dato le armi, si levarono dall'ubbidienza della regina Giovanna; e quantunque Sforza con altri capitani di essa regina entrassero in quella città, non vi si poterono sostenere contra le forze de' Romani. Non di meno castello Sant'Angelo si conservò fedele ad essa regina. Entrò poscia in Roma il cardinale di Sant'Eustachio, cioè l'Isolano, legato di papa Giovanni, nel dì 19 d'ottobre, e prese il governo di quella città. Nel cuore intanto di esso pontefice stava fitto il desiderio di portarsi a Roma, e non già all'incominciato concilio di Costanza. L'abborriva egli per timor di cadere, nè s'ingannò nel presagio. Tanto dissero, tanto fecero i cardinali, che lo smossero; laonde nel dì primo d'ottobre, come biscia all'incanto, da Bologna s'inviò a quella volta. Credesi ch'egli si fosse prima assicurato della protezion di Federigo duca d'Austria. Giunto a Costanza, fece l'apertura del concilio generale, rappresentante la Chiesa universale, nel dì 5 di novembre. Da tutte le parti della Chiesa latina concorsero colà vescovi, abbati, teologi e gli ambasciatori dei principi cristiani, e innumerabile nobiltà, che andò poscia di mano in mano crescendo [S. Antonin., Par. III, tit. 22.].

Non si potea vedere senza meraviglia [993] la sterminata unione di tanti riguardevoli ecclesiastici e secolari. E tutti ardevano di desiderio di vedere oramai tolto via lo scisma, e pacificata la Chiesa. Invitati ancora colà gli altri due papi, cioè Gregorio XII e Benedetto XIII, il primo si scusò con apparenti ragioni, e solamente inviò uno de' suoi cardinali, cioè quel di Ragusi, e Giovanni Contareno patriarca di Costantinopoli, che assistessero per lui. L'altro poi spedì alcuni prelati, che da lì a qualche tempo se ne andarono con Dio, vedendo mal incamminati gli affari pel loro principale [Vita Johannis XXIII, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Comparve ancora nella vigilia del Natale al sacro concilio il re Sigismondo colla regina Barbara sua consorte ad accrescere la magnificenza della funzione, e ad accalorare l'importantissimo negozio della pace della Chiesa. Si era egli fatto coronare re di Germania nel dì 8 dell'antecedente novembre in Aquisgrana. Nulla poi di riguardevole succedette nell'anno presente in Lombardia [Corio, Istor. di Milano.], se non che il re Sigismondo, tornando in queste parti, e facendo il nemico di Filippo Maria duca di Milano, mosse contra di lui Gabrino Fondolo tiranno di Cremona, Giovanni da Vignate tiranno di Lodi, e Teodoro marchese di Monferrato. Ma in nulla si ridussero i loro tentativi, perchè le forze del duca si andavano ogni giorno più aumentando. Fermossi per due mesi in Piacenza Sigismondo, divisando le maniere di nuocergli. Passò ad Asti, dove contra di lui insorse una sedizione, ed in fine, senza aver altro operato, se ne tornò in Germania. Fiera commozione fu nel dicembre di quest'anno in Genova [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], essendosi sollevati contra di Giorgio Adorno novello doge i popolari ghibellini, con avere per capo Batista da Montaldo. Durò per tutto quel mese il tumulto con varie civili battaglie, nelle quali nondimeno non si osservò [994] la crudeltà praticata da altre città in simili funeste congiunture. Se non falla il Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], dacchè il suddetto re Sigismondo fu slontanato da Piacenza, Filippo Maria duca spedì colà le sue genti d'armi, e ricuperò quella città nel dì 20 di marzo, e poscia il castello nel dì 6 di giugno. Nel novembre di quest'anno [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] Malatesta signore di Pesaro mosse guerra agli Anconitani, e diede varie battaglie alla stessa città, credendosi di averla per intelligenza con alcuni di quei cittadini; ma non gli venne fatto. Molti dei suoi restarono in quell'occasione estinti o presi. Pure circa ventinove castella di essi Anconitani vennero in potere di lui. Fu poi rimessa la lor lite nel senato veneto.


   
Anno di Cristo mccccxv. Indiz. VIII.
Sede di San Pietro vacante 1.
Sigismondo re de' Romani 6.

Chiunque mirava Giovanni XXIII papa nel maestosissimo concilio di Costanza, come romano pontefice, riverito da Sigismondo re, ossequiato da tanti cardinali, vescovi, prelati e nobili, e assiso sul trono alla testa di quella grande assemblea [Theodor. de Niem, in Johan. XXIII. Raynaldus, Annal. Eccles.], l'avrebbe chiamato il più felice e glorioso uomo del mondo. Ma non credea già così sè stesso papa Giovanni, perchè tormentato da un continuo batticuore di dover scendere da quella beata cattedra, in cui era seduto finora. In effetto da che si videro ostinati gli altri due papi in anteporre la loro ambizione al desiderato ben della Chiesa, quei padri cominciarono in disparte a scappar fuori con proposizioni di astrignerli colla forza alla cessione. Non vi mancarono Italiani che diedero ad essi padri in segreto nota di tutte le crudeltà, simonie ed altre iniquità dello stesso Giovanni. Ma non mancavano a lui spioni, perchè in abbondanza ne avea condotto seco; [995] e questi gli andavano rivelando tutti i segreti de' cardinali e de' vescovi. Lasciossi egli indurre a promettere la cessione del pontificato, purchè anche Angelo Corrario e Pietro di Luna, cioè gli altri due pretendenti al papato, facessero la stessa rinunzia. Ne fu fatta gran festa nel concilio. Ma perchè una tal condizionata promessa sarebbe rimasta senza effetto, stante la già conosciuta durezza degli altri due; cotante istanze furono fatte a papa Giovanni, che giunse insino ad obbligarsi alla cessione, quando altra maniera non vi fosse di unire la Chiesa. Oh, allora sì, che ottenuto questo importante punto, s'empierono di giubilo i padri del concilio. Ma, fatto ciò, se ne pentì ben presto Giovanni; ed avendo segretamente trattato con Federigo duca di Austria, nella notte del dì 29 di marzo prese così ben le sue misure, che se ne fuggì vestito da villano, e si ridusse a Sciafusa negli Svizzeri, dove ritrattò le promesse fatte. Gran rumore fu per questo nel concilio. Tralascio io i lor decreti, le loro istanze per farlo tornare, e le cabale di Giovanni per sottrarsi al fulmine che gli soprastava, bastandomi di dire, avere il re Sigismondo, unito con altri principi, usate le preghiere, le minaccie, e in fin le armi, per indurre il suddetto duca Federigo a prendere e consegnare il suddetto papa Giovanni, che si era ritirato a Brisacco. Tanto egli fece [Gobelinus, in Cosmodr.], che il duca, da rigorosi editti costretto, e già spogliato di moltissime sue terre e città, si ridusse a consegnarlo nel mese di maggio, e il fece condurre nelle vicinanze di Costanza, dove fu ritenuto sotto buona guardia [Theodoricus de Niem, in Johanne XXIII.]. Gli furono intimati i capi delle accuse, e nel dì 29 di maggio si procedette contra di lui alla sentenza della deposizion dal papato, e alla prigionia, per far ivi penitenza. Portato a lui questo decreto, vi si acquetò, e promise di non appellarsene mai. Nella stessa maniera fu pubblicata [996] la sentenza di deposizione contra di Gregorio XII e Benedetto XIII, siccome papi anch'essi dubbiosi e perturbatori della Chiesa. A questo avviso esso papa Gregorio, che avea buon fondo di virtù, nè finora si era mai indotto a rimediare al bene della Chiesa, perchè troppo assediato e ritenuto dalle contrarie insinuazioni de' suoi parenti, allorchè ebbe intesa la caduta di Baldassare Cossa, appellato finora papa Giovanni XXIII, conoscendo oramai disperato il caso anche per sè, e ricevuto buon lume da Dio, spedì a Costanza Carlo de' Malatesti con plenipotenza e con autentica cessione del papato. Arrivato colà il Malatesta nel dì 4 di luglio, con giubilo universale dei padri del concilio lesse e pubblicò la solenne rinunzia fatta da esso Angelo Corrario, al quale per questo lodevole spontaneo atto fu lasciata la porpora cardinalizia, e conceduto, sua vita natural durante, il governo della marca d'Ancona. Ed egli dacchè ebbe intesa la cessione sua accettata nel concilio, trovandosi in Rimini, fatto un solenne concistoro, generosamente la confermò, e depose la sacra tiara e tutti gli ornamenti pontificali, ripigliando il titolo di cardinale vescovo di Porto.

Vi restava da vincere Pietro di Luna, chiamato Benedetto XIII. Ritirato costui a Perpignano, quivi se ne stava esercitando la sua autorità sopra coloro che seguitavano a tenerlo per papa, come gli Aragonesi e Castigliani. Tanto egli, quanto Ferdinando re di Aragona e di Sicilia, pregarono con loro lettere il re Sigismondo di voler portarsi a Nizza, dove anch'essi si troverebbono, per tener ivi un congresso e trattar della maniera di pacificar la Chiesa. Sigismondo, principe piissimo, e principal promotore di questa grand'opera, assunse il carico di passare colà, non badando al suo grado, nè a spese, a disastri e pericoli, purchè ne venisse del bene alla Chiesa di Dio. Menando seco alquanti prelati e teologi, come ambasciatori del concilio, passò [997] per la Francia, e giacchè era svanita la proposizione dell'abboccamento in Nizza, andò sino a Narbona, dove il venne a trovare il re Ferdinando, benchè infermo. Non si potè trar fuori di Perpignano il malizioso Pietro di Luna; e però furono a trovarlo colà i due re nel dì 18 di settembre [Theodoricus de Niem, in Johanne XXIII. Raynaldus, Annal. Eccles.]. Ma Pietro (tanto può la forza dell'ambizione e della vanità) mostrava bensì di voler cedere il papato, ma sfoderava nello stesso tempo esorbitanti condizioni e proposizioni tendenti a guadagnar tempo, che davano abbastanza a conoscere non si accordar le di lui parole col cuore. Le preghiere e le minaccie a nulla servirono. Scappò anche segretamente da Perpignano, e si ritirò a Colliure; ma fu quivi assediato; e perciocchè i suoi cardinali l'abbandonarono, trovò la maniera di fuggirsene e di ritirarsi a Paniscola, cioè ad un fortissimo suo castello sul mare, non molto lungi da Tortosa, dove si rinserrò, risoluto di morire senza dimettere le insegne del preteso suo pontificato. Allora fu che i re Sigismondo e Ferdinando, irritati dall'ambiziosa ostinazione di questo mal uomo, l'abbandonarono, sottraendogli ogni ubbidienza [Labbe, Concilior., tom. 12.], e nel dì 15 di dicembre stabilirono nella città di Narbona alcuni articoli, affinchè unitamente coi prelati della Spagna si procedesse poi contra di Pietro di Luna. Nel suo passaggio per la Francia Sigismondo s'interpose per mettere pace fra i re di Francia ed Inghilterra, ch'erano alle mani fra loro, e solamente ritornò nell'anno seguente al concilio di Costanza.

Di novità e peripezie non poche abbondò in quest'anno il regno di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.]. Avea la regina Giovanna Seconda, appena salita sul trono, alzato al grado di conte camerlengo Pandolfo Alopo, uomo di vil prosapia, e talmente da lei favorito, [998] che corsero sospetti d'amicizia poco onesta fra loro. Costui con ismoderata autorità girava a suo talento gli affari della corte e del regno. Fece anche imprigionare Sforza Attendolo, il più valente condottier d'armi, che la regina avesse allora al suo servigio; e solamente dopo quattro mesi per le istanze di varii baroni il rimise in libertà con patto ch'egli sposasse la di lui sorella Caterina Alopa. Data esecuzione a questo trattato, Sforza fu poi creato gran contestabile del regno. Non mancavano torbidi in quel regno, e baroni ribelli e città sollevate. Persuase dunque il consiglio alla regina di eleggere un marito, col cui braccio potesse più sicuramente tener le redini del governo; ed ella fra molti scelse Jacopo conte della Marca del real sangue di Francia, che accettò ben volentieri l'esibizion di quelle nozze. Sul fine di luglio arrivato questo principe nel regno di Napoli, la regina gli mandò incontro gran copia di baroni, e fra gli altri il suddetto Sforza gran contestabile, con ordine di non gli dare altro titolo che quello di principe di Taranto e duca di Calabria: che così s'era convenuto negli articoli del contratto matrimoniale, già eseguito per via di un mandato colle cerimonie della Chiesa, come io vo credendo. Ma Jacopo, a' cui fianchi si misero tosto dei baroni desiderosi d'abbattere Sforza e Pandolfello, il consigliarono di levarsi d'attorno questi due potenti ostacoli, perchè in tal guisa si sarebbe aperta la strada ad essere re. In fatti nella città di Benevento fu preso Sforza, e cacciato in una dura prigione; nè andò esente da questa disavventura Francesco suo figliuolo con altri parenti del medesimo Sforza. Arrivato Jacopo a Napoli nel dì 10 d'agosto, consumato che ebbe il matrimonio, usurpò il titolo di re, oppure, come vogliono alcuni, ciò eseguì con consenso della medesima regina. Fece poi nel dì 8 di settembre mettere le mani addosso a Pandolfello; e l'infelice processato e condannato lasciò la testa sul palco nel dì primo [999] d'ottobre. Passando poi più oltre, cominciò a tenere ristretta e come prigioniera la regina, con attribuire a sè stesso tutta l'autorità, e senza lasciarne a lei un menomo uso, e neppur permettendole che fosse visitata da alcuno dei nobili. Paolo Orsino uscì in questi tempi di prigione per grazia del re Jacopo, da cui fu mandato a Roma, per imbrogliar quella città, mentre castello Sant'Angelo stava tuttavia alla divozione di Napoli, e colle bombarde facea guerra e danno al popolo romano [Antonii Petri Diarii, tom. 24 Rer. Ital.]. Arrivò egli colà nel dì 28 di novembre, e cominciò ad inquietare il cardinale di Sant'Eustachio, legato, e fece prigione Francesco degli Orsini con altre novità.

Ebbe Filippo Maria duca di Milano molte faccende in quest'anno [Corio, Istoria di Milano.], cioè guerra con Pandolfo Malatesta signore di Brescia, nel qual tempo la fazion dei Ghibellini di Alessandria, che, essendo fuoruscita, avea impetrata poco prima la grazia di ripatriare, si mosse a rumore, e diede quella città in mano a Teodoro marchese di Monferrato. Per buona fortuna del duca, in quel medesimo giorno Francesco Carmagnuola suo generale avea stabilita col Malatesta, per interposizion de' Veneziani, una tregua di due anni: laonde le armi sue ebbero la comodità d'accorrere ad essa città d'Alessandria, e di entrare per una porta nella fortezza, che tuttavia si mantenea, e di ricuperar la città. Per questo fatto il Carmagnuola fu dal duca Filippo creato conte di Castelnuovo [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Non andò così per Piacenza. Filippo degli Arcelli, nobile di quella città, nel dì 25 di ottobre usurpò il dominio con trucidar la guarnigione del Visconte. Pretende il Rivalta [Ripalta, Chron. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], storico piacentino, ch'egli le desse il sacco, e commettesse grandi crudeltà contra dei cittadini, e massimamente contra di Alberto Scotto conte di Vigoleno. Fece egli [1000] lega dipoi col marchese Niccolò di Ferrara, e coi signori di Brescia, Cremona e Lodi, in maniera che cominciò a dar da fare al duca di Milano. Per attestato del Bonincontro [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], in quest'anno Malatesta signor di Cesena fece viva guerra a Lodovico de' Migliorati signore di Fermo, e lo spogliò di molte castella. Di peggio sarebbe intervenuto a Lodovico, se non fosse giunto avviso a Malatesta che Braccio da Montone, capitano insigne di questi tempi, metteva a ferro e fuoco il contado di Cesena [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Italic. Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.]. Perciò, fatta tregua fra loro, corse alla difesa della propria casa. Guerra eziandio mosse in quest'anno il medesimo Malatesta a Ridolfo Varano signore di Camerino; ma non gli andò fatta, come s'era egli figurato. Genova, per la sollevazione cominciata nell'anno addietro, era tuttavia in armi [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], continuando le battaglie fra i cittadini, il bruciamento o smantellamento delle case. Per quanto si studiasse il clero con divote processioni, gridando misericordia e pace, di frenar sì pazzo bollor delle fazioni, stettero gl'inferociti animi saldi nelle risse fino al dì 6 di marzo, in cui, essendo stati eletti nove arbitri, proferirono l'accordo, consistente in permettere che Giorgio Adorno sino al dì 27 di quel mese ritenesse la sua dignità, e poi la dimettesse, con goder da lì innanzi di molte esenzioni e sicurezze. Furono deposte le armi, cessò tutto il rumore; e dappoichè l'Adorno lasciò vacante la sedia, nel dì seguente, giorno 28 d'esso mese, fu eletto doge Barnaba da Goano. Coll'elezione di cotesto prudente personaggio parea che s'avesse a godere quiete in Genova; ma troppo erano in quei tempi facili a scomporsi gli animi di quella focosa gente. Nel dì 29 di giugno gli Adorni e Campofregosi presero le armi contro del duca novello per deporlo. [1001] Perciò si fu di nuovo alle mani fra gli emuli e i loro aderenti; nè potendo resistere il Goano alla potenza degli avversarii, rinunziò la bacchetta del comando. In luogo suo nel dì 4 di luglio di comune consenso del popolo restò eletto doge Tommaso da Campofregoso: con che si restituì la pace alla scompigliata città.


   
Anno di Cristo mccccxvi. Indizione IX.
Sede di San Pietro vacante 2.
Sigismondo re de' Romani 7.

Spesero i Padri del concilio di Costanza questo anno in varii regolamenti spettanti alla disciplina ecclesiastica, in trattati per istaccar la Castiglia dall'antipapa Benedetto, e in citare lui stesso al concilio, e in processar gli eretici ussiti, senza parlare dell'elezion d'un nuovo romano pontefice, premendo loro, se mai si potea, di riportar la cessione d'esso antipapa, per procedere poi più francamente a dare un indubitato papa alla Chiesa di Dio. Ma l'ambizioso Pietro di Luna, che sì belle sparate avea talvolta fatto d'essere pronto alla cessione, quanto più mirava abbattuti i due suoi competitori, tanto più si confermava nella risoluzione di voler morire papa. Intanto non mancavano all'Italia guerre e rivoluzioni. Braccio da Montone, capitano del già papa Giovanni XXIII, avea tenuta fin qui a freno la città di Bologna colle armi sue [Matth. de Griffonib., Chron., tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. eod.]. Ma dacchè s'intese la caduta d'esso pontefice, ripigliarono i Bolognesi l'innato desiderio della lor libertà. Nel dì 5 di gennaio dell'anno presente diedero esecuzione ai loro disegni, coll'avere Antonio e Batista de' Bentivogli, e Matteo da Canedolo levato rumore, per cui tutto il popolo corse all'armi. Fu lasciato uscire il vescovo di Siena, che v'era governatore per la Chiesa; ma andò tutto il suo avere a saccomano. Udita questa nuova, Braccio, che si trovava a castello San Pietro, s'avviò tosto alla volta di [1002] Bologna colle sue genti, credendosi di ingoiarla, e d'arricchir colla preda i suoi. Trovati i cittadini bene in punto, e risoluti di difendere il ricuperato libero stato, capitolò con essi, e forse anche prima era d'accordo con loro; e dopo aver da essi ricevuto in termine di tre mesi un donativo di ottantadue mila fiorini d'oro, li lasciò in pace, e andossene a portar la guerra contro la sua patria Perugia, di cui con altri nobili era fuoruscito. Allora fu che rientrò in Bologna una gran copia di nobili cacciati in esilio sotto il rigoroso pontificio governo precedente, e cessarono le gran faccende che in addietro avea il carnefice in quella città. Nel dì 6 d'aprile ebbero il castello della porta di Galiera per dieci mila fiorini, dati a messer Bisetto da Napoli parente del fu papa Giovanni XXIII, e non perderono tempo a smantellarlo. Furono loro restituite anche le castella che teneva Braccio. Gran festa ed allegria si fece per più dì in Bologna per questa mutazione di stato.

Marciò intanto il valoroso Braccio alla volta di Perugia sua patria con quattromila cavalli e molta fanteria, per rientrar colla forza in quella città. Molte battaglie, molti assalti succederono, avendo i Perugini della fazion contraria fatto ogni sforzo per la loro difesa. Gian-Antonio Campano vescovo di Teramo diffusamente, ma non senza adulazione, lasciò scritte tutte le imprese di questo celebre capitano [Campanus, in Vita Brachii, tom. 19 Rer. Italic.], col difetto ancora comune a molti altri storici di quel secolo, cioè di non accennar gli anni: cosa di molta importanza per la storia. Si trovavano alle strette i Perugini; e conoscendo di non poter oramai più resistere a sì feroce nemico, misero le loro speranze in Carlo Malatesta signor di Rimini, accreditato condottier d'armi di questi tempi. L'offerta di molto danaro, e molto più l'avergli fatto credere che il prenderebbono per loro signore, cagion fu che [1003] egli s'impegnò a sostenerli contro del loro concittadino. Raunata dunque la maggior copia di cavalli e fanti che potè, si mosse a quella volta, avendo seco Angelo dalla Pergola con altri capitani, ed aspettando ancora che Paolo Orsino con altra gente venisse ad unirsi con lui. Era giunto su quel d'Assisi, e in vicinanza del Tevere, quando Braccio, sotto di cui militava Tartaglia, rinomato condottier d'armi, premendogli non poco che il Malatesta non arrivasse a darsi mano coi Perugini, gli andò incontro a bandiere spiegate, e nel dì 7 di luglio (il Bonincontro scrive [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] nel dì 15) gli presentò la battaglia. Durò questa sette ore con bravura memorabile d'entrambe le parti; ma perchè, secondo alcuni, era inferiore, non già di coraggio, ma di gente l'armata di Carlo Malatesta, ad essa toccò di soccombere. Rimase prigione lo stesso Carlo, con Galeazzo suo nipote e molti altri nobili [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]. Il Campano scrive che circa tre mila cavalieri prigionieri vennero alle mani di Braccio. Dio sa se neppure tanti ne avea condotti in campo il Malatesta, al quale fu imposta la taglia di cento mila fiorini d'oro, e trenta mila a suo nipote. Dopo molti mesi, a nulla avendo servito le raccomandazioni dei Veneziani, si riscattò Carlo con pagarne settanta mila. Il Sanuto scrive solamente trenta mila [Sanuto, Istor. Venet., tom. eod.]. Ma egli trovò la maniera di far danaro, con apporre a Martino da Faenza, uomo ricchissimo e che militava per lui, un reato di tradimento, per cui lo spogliò non solo del contante, ma anche della vita. Pandolfo Malatesta signor di Brescia suo fratello, giacchè era seguita tregua fra lui e il duca di Milano, con quattro mila cavalli e molti pedoni si portò a Rimini; ma a nulla giovò il suo arrivo colà, se non ad impedire che Braccio non occupasse più castella ai Malatesti di quel che fece.

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Imperciocchè Braccio dopo questa vittoria maggiormente s'ingagliardì; e i Perugini, presi da somma costernazione, altro ripiego non ebbero che quello di spedire a lui ambasciatori per offerirgli la signoria della città, e pregarlo di usar la clemenza verso de' concittadini suoi. Nel dì 19 di luglio fece egli armato la sua solenne entrata in quella città, trattò amorevolmente i nuovi sudditi, e cominciò un plausibil governo in quel popolo. Avea testa da far tutto. E perciocchè seppe che Paolo Orsino colle sue truppe era giunto a Colle Fiorito, mandò innanzi Tartaglia con un corpo d'armati, e con un altro gli tenne dietro [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.]. L'Orsino nel dì 5 d'agosto attorniato, quando men sel pensava, dai nemici, lasciò la vita sotto le spade di Lodovico Colonna, di Tartaglia e di altri, che gli voleano gran male. Pure ne avrebbono fatta aspra vendetta i suoi soldati, che corsero alle armi, ed aveano già ridotto Tartaglia in male stato, se non fosse sopravvenuto il rinforzo di Braccio, per cui rimasero disfatti e quasi tutti presi. S'impadronì poscia Braccio di Rieti, di Narni e di alcune castella dei Malatesti: tutte imprese che consolarono non poco i Perugini, per avere acquistato, benchè loro malgrado, un signore che accresceva lo splendore e dominio della loro città. Venne a morte nel dì 20 di settembre Malatesta signor di Cesena, e fratello di Carlo e di Pandolfo. E circa lo stesso tempo, se abbiamo da credere agli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], terminò i suoi giorni Gian-Galeazzo de' Manfredi signor di Faenza, a cui nella signoria succedette Guidazzo suo figliuolo. Ma, secondo altra Cronica, egli mancò di vita solamente nell'anno seguente. Benchè il Corio [Corio, Istoria di Milano.], siccome accennai, metta nell'anno precedente la tregua maneggiata dagli oratori veneti fra il duca di Milano e i collegati, cioè Pandolfo e Carlo Malatesti, il [1005] marchese di Ferrara e i signori ossia tiranni di Lodi, Cremona, Piacenza e Como; pure il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] la riferisce all'anno presente. L'anno poi fu questo che Filippo Maria duca suddetto, avendo con belle parole fatto venire a Milano Giovanni da Vignate signor di Lodi, ordinò, nel dì 19 d'agosto, che fosse preso e messo in una gabbia di ferro nella città di Pavia, dove nel dì 28 d'esso mese fu ritrovato morto, e si fece spargere voce che, percotendo il capo nei ferri, si era ucciso, senza averne obbligazione al boia. Intanto, spedito l'esercito a Lodi, tornò quella città all'ubbidienza del duca. La morte di costui mise a partito il cervello di Lottieri Rusca occupator di Como, in maniera che mandò a trattare di rendere al duca quest'altra città, purchè gli lasciasse Lugano con titolo di contea, e ne ricevesse quindici mila fiorini d'oro in dono. Così fu fatto, e Como ubbidì da lì innanzi al duca. Aggiugne il Sanuto che nel novembre di questo medesimo anno esso duca spedì le sue genti all'assedio di Trezzo: per le quali novità i Veneziani, mediatori della tregua fatta, pretesero ch'egli l'avesse rotta, e fosse incorso nella pena di trenta mila fiorini d'oro; e per questo gli spedirono ambasciatori. Ma il duca non lasciò di continuar la sua impresa. Nè sussiste, come scrive il Sanuto, che egli occupasse Bergamo in quest'anno. Ciò succedette nel 1419.

Pagò in quest'anno Jacopo dalla Marca re di Napoli la pena dell'ingratitudine sua verso la regina Giovanna sua moglie [Giornal. Napolit., tom. 21 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. eod.]. L'avea ella posto sul trono, ed egli la trattava come una fantesca, con averla privata non solo di ogni autorità, ma anche della libertà, tenendola ristretta nel palazzo. Ne fecero rispettose doglianze i Napoletani, ma senza frutto. Giulio Cesare di Capua, uno dei [1006] primi baroni, si esibì alla regina di uccidere il re [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.]. Credendo ella d'acquistarsi la grazia del marito, gli rivelò il fatto, per cui l'infelice barone fu decapitato. Dovea quest'atto di amore ispirare al re sentimenti di più umanità verso della consorte; pure non si mutò registro con lei. Parve ai Napoletani che fosse oramai tempo d'insegnar le leggi dell'onore e le creanze a questo ambizioso ed ingrato principe. Avendo dunque la regina ottenuto per grazia speciale di potere, nel dì 13 di settembre, uscire per andare a pranzo ad un giardino di un Fiorentino, allorchè si fu condotta colà, fu levato rumore, e il popolo in armi cominciò a gridare: Viva la regina Giovanna. Ottino Caracciolo, che era il maggior favorito d'essa regina, con altri baroni, la menò al castello di Capuana. Il re Jacopo si trovava allora senza le sue genti d'armi, perchè le aveva inviate in Abbruzzo contro ai ribelli; e però se ne fuggì nel castello dell'Uovo. Fece la regina assediar questo castello, e parimente Castello nuovo. Si interposero persone per accordo, e questo seguì con restare obbligato il re a deporre il titolo di re, contentandosi di quello di principe di Taranto e di vicario del regno; e ch'egli mandasse fuori d'esso regno tutti i Franzesi, soldati o cortigiani, a riserva di quaranta; e che liberasse Sforza dalla prigione. Si eseguì il trattato. Sforza, messo in libertà, ripigliò il grado di gran contestabile; e Ser-Gianni Caracciolo dipoi ottenne quello di gran siniscalco. Universal credenza fu che a Sforza salvasse la vita un atto coraggioso di Margherita sua sorella, maritata con Michele da Cotignola. Trovavasi essa a Tricarico col marito, e con varii altri parenti di Sforza, che tutti militavano con gran riputazione nel corpo delle di lui truppe, e cominciarono a far guerra al regno, dacchè ebbero intesa la prigionia di Sforza amato loro capo. [1007] Mandò il re Jacopo alcuni nobili a trattar con essi d'accordo, minacciando di far morire Sforza, se non rendeano Tricarico. Margherita comandò che s'imprigionassero gli ambasciatori: il che cagionò che i lor parenti facessero istanza al re di non incrudelir contro di Sforza, per non vedere condannati alla pena del taglione i loro congiunti. Furono ancora liberati dalle carceri alcuni altri parenti di Sforza, ma non già per allora Francesco di lui figliuolo, che Jacopo volle ritener come ostaggio della fede del padre. Era stato questo valoroso giovane paggio in corte di Niccolò marchese di Ferrara, ed allorchè Sforza suo padre passò al servigio del re Ladislao, fu chiamato colà, dove attese a fare il noviziato della milizia, ed avea già conseguite in dono alcune castella. Non si fermò qui la fortuna di Sforza; perchè la regina, affine di maggiormente unirlo ai di lei interessi, gli donò Troia con assai altre terre, e a Francesco suo figliuolo, in vece di Tricarico, concedette Ariano ed altri luoghi. Nel dì primo di aprile dell'anno presente mancò di vita Ferdinando re d'Aragona, Sardegna e Sicilia [Theodoricus de Niem, in Johanne XXIII. Surita, Marian., et alii.], ed ebbe per successore Alfonso suo figliuolo, le cui imprese occuperanno da qui innanzi molti anni di questa storia. Mostrò egli non minore zelo del padre per rendere la pace ed unione alla Chiesa di Dio. Nel dì 26 di febbraio di quest'anno [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.], passando Sigismondo re de' Romani per Sciamberì, eresse in ducato la contea di Savoia; laonde Amedeo, signor di quelle contrade e di parte del Piemonte, cominciò ad usare il titolo di duca, che s'è poi continuato nei successori suoi colla giunta ai dì nostri del regale.

[1008]


   
Anno di Cristo mccccxvii. Indizione X.
Martino V papa 1.
Sigismondo re de' Romani 8.

Dopo avere il concilio di Costanza compiuti tutti gli atti del processo contro di Pietro di Luna, che appellato Benedetto XIII s'era ostinato in voler sostenere il suo preteso pontificato, benchè l'Aragona, Castiglia ed altri popoli della Spagna si fossero sottratti dalla di lui ubbidienza [Labbe, Concil., tom. 12.]: finalmente nel dì 26 di luglio que' padri fulminarono contra di lui la sentenza, dichiarandolo spergiuro, decaduto da ogni dignità ed uffizio, scismatico ed eretico. Trattossi dipoi dell'elezione di un legittimo ed indubitato pontefice, e l'affare fu condotto sino al dì 11 di novembre, festa di san Martino vescovo, in cui concorsero i voti de' cardinali nella persona di Ottone cardinal diacono di San Giorgio al velo d'Oro, di nazione Romano, e di una delle più illustri famiglie d'Italia, cioè di casa Colonna. A cagion della festa che correa, egli prese il nome di Martino V, con portare al pontificato delle eccellenti doti d'animo e d'ingegno, e nel dì 21 d'esso mese fu coronato. Portata questa nuova in Italia, e per tutte le altre parti della cristianità d'Occidente, riempiè ognuno di consolazione ed allegrezza, per vedere dopo tanti anni estinto lo scandaloso e lagrimevole scisma, onde era stata sì malamente lacerata la Chiesa di Dio. Mancò eziandio in quest'anno nel dì 18 ossia 19 d'ottobre in Recanati il cardinale Angelo Corrario [Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.], da noi veduto in addietro papa Gregorio XII, a cui nel dì 26 di novembre furono celebrate nel concilio di Costanza solenni esequie. Era in questi tempi governata la città di Roma a nome della Chiesa da Jacopo Isolani cardinale di Sant'Eustachio legato, assistito anche da Pietro degli Stefanacci Romano cardinale di Sant'Angelo. Quantunque castello Sant'Angelo tuttavia [1009] fosse all'ubbidienza di Giovanna regina di Napoli, non apparisce che facesse guerra alla città, anzi, secondo alcuni, ne era divenuto padrone il suddetto cardinale legato. Ma eccoti nel dì 3 di giugno venir Braccio da Montone con tutte le sue genti d'armi a turbar la pace dei Romani. L'ambizione di questo prode capitano dopo l'acquisto di Perugia e di altre piccole città, e dopo la vittoria riportata contra Carlo de' Malatesti, non conosceva più limite, e però gli venne in pensiero di conquistare la stessa Roma [Campanus, Vit. Brachii, lib. 9, tom. 19 Rer. Ital.]. E non mancava qualche Romano traditor della patria d'animarlo all'impresa e di promettergli assistenza. Restò bensì sbigottito il popolo romano alla comparsa di questo inaspettato nemico; pure unito col cardinale legato si preparò alla difesa. Andarono gli stessi porporati a trovar Braccio per sapere la di lui intenzione; ed egli francamente rispose loro di voler entrare in Roma, solamente per conservarla al pontefice che si dovea creare. Stavasene egli accampato a Sant'Agnese, e conoscendo che i Romani non erano d'umore d'aprirgli le porte, cominciò a fare scorrere per li contorni le sue genti, che ben tosto condussero centinaia di prigioni. Tale ostilità, e il timore di non poter fare l'imminente raccolta de' grani, indusse i Romani a capitolare e a ricever Braccio come lor signore in città. Con detestazione de' buoni si scoprì che lo stesso cardinale di Sant'Angelo tenea mano ai disegni di Braccio, il quale nel dì 16 di giugno entrò in Roma trionfalmente, e preso solamente il nome di difensore della città, vi creò un nuovo senatore, essendosi ritirato il cardinale legato in castello Sant'Angelo. Diede poi principio nel dì 16 di luglio all'assedio d'esso castello, e venne a rinforzare la sua armata con grosso corpo di cavalleria e fanteria Tartaglia.

Allorchè si fu accertato il cardinale legato delle ambiziose idee di Braccio [1010] contra di Roma, avea già spedito a Napoli, pregando la regina Giovanna di soccorso di gente [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.]. Non andò a voto la richiesta, perchè la regina, bramosa di acquistarsi merito col papa futuro, assunse volentieri la difesa di Roma. Scelto fu per tale impresa il gran contestabile Sforza. Nè migliore si potea scegliere, perocchè egli sospirava le occasioni di vendicarsi di Braccio, il quale dianzi, per tirare al soldo suo Tartaglia da Lavello, l'avea aiutato ad occupar molte castella che appartenevano al medesimo Sforza nel Patrimonio. Trovandosi uniti, siccome dicemmo, Braccio e Tartaglia, contra d'amendue con grande ardore procedeva Sforza, seco conducendo il conte da Carrara, Gian-Antonio Orsino conte di Tagliacozzo, ed altri baroni romani. Giunto nel dì 10 d'agosto sino alle mura di Roma, mandò il guanto sanguinoso a Braccio in segno di sfida della battaglia [Antonii Petri Diar., tom. 24 Rer. Ital.]. Ma Braccio, che non si volea azzardare con un sì potente nemico, massimamente perchè non si vedea sicure le spalle dai Romani stessi, elesse il partito di battere la ritirata; e però nel dì 26 del suddetto mese uscì di Roma, e si inviò alla volta di Perugia. Nel giorno seguente Sforza co' suoi entrò nel palazzo del Vaticano colle bandiere della Chiesa e della regina; creò, di consenso del cardinale legato, nuovi uffiziali in Roma, e nel dì 3 di settembre fece condur prigione in castello il cardinale di Sant'Angelo, colpevole d'intelligenza con Braccio. Questi non vide più la luce, nè altro si seppe di lui. Niccolò Piccinino da Perugia, che, militando nell'armata di Braccio, avea già incominciato ad acquistarsi nome di valente capitano, e divenne poi sì celebre col tempo, era rimasto a Palestrina e a Zagaruolo con quattrocento cavalli. Le scorrerie e i saccheggi, ch'egli andava facendo sino alle porte di Roma, incitarono Sforza a liberar la città anche da questo nemico. Fu sconfitto il Piccinino e fatto prigione con altri de' suoi, e solamente [1011] dopo quattro mesi rilasciato col cambio d'altri prigionieri di Braccio e di Tartaglia. Erasi fermato a Toscanella lo stesso Tartaglia con un grosso corpo d'armati. Moriva di voglia Sforza di fare a questo suo nemico un brutto giuoco: all'improvviso si portò colà con isquadre scelte d'armati, mandò innanzi assai saccomani per tirarlo fuori della terra, nè andò fallito il suo pensiero. Tartaglia uscì co' suoi, e si mise ad inseguire i fuggitivi, quando ecco si vide venire incontro le schiere di Sforza. Caldo fu il combattimento, in cui Francesco figliuolo di Sforza, giovane allora di dodici anni, diede il primo saggio del suo valore, come se fosse stato veterano nel mestiere dell'armi. La peggio toccò a Tartaglia, che corse pericolo di essere preso, ed ebbe la fortuna di salvarsi nella terra. Svernò poscia l'invitto Sforza in Roma, e, lasciato un buon presidio sotto il comando di Foschino suo parente, nella primavera se ne tornò a Napoli. Intanto Braccio, ritornato a Perugia [Campanus, Vita Brachii, lib. 4, tom. 19 Rer. Ital.], attese a conquistare o a rendere tributarie varie terre della Chiesa, cioè Todi, Orvieto, Terni, Jesi, Spello, oltre a Narni e Rieti, dianzi occupate: il che sempre più gli conciliò l'affetto e la stima de' Perugini, che miravano crescere per opera di lui ogni dì più la lor potenza e riputazione. Obbligò ancora Lodovico Migliorati signor di Fermo [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], a redimersi dalle di lui vessazioni con una somma d'oro.

Per quanto abbiamo dal Corio [Corio, Istoria di Milano.] avendo il conte Carmagnola, generale di Filippo Maria duca di Milano, continuato anche pel verno l'assedio del forte castello di Trezzo sull'Adda, occupato dai Coleoni di Bergamo, finalmente nel dì 11 di gennaio se ne rendè padrone. Se crediamo al Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom 22 Rer. Ital.], quattordici mila fiorini quelli furono che finalmente espugnarono [1012] quella fortezza. Rivolse dipoi le armi sue il vittorioso Carmagnola, secondochè scrivono il Rivalta [Ripalta, Chron. Placent., tom. 20 Rer. Ital.] e il Sanuto, contra Piacenza. Era questa occupata da Filippo Arcelli, personaggio valoroso sì nelle armi, ma insieme crudele. Andò il Carmagnola ad accamparsi alla porta di Borgo Nuovo, e gli riuscì con un aguato di far prigione Bartolomeo Arcelli fratello d'esso Filippo, nel mentre che passava a Genova per chiedere soccorso a quella repubblica. Seco si trovò Giovanni figliuolo del medesimo Filippo, giovane di mirabil espettazione. Tutti e due questi miseri furono un dì guidati davanti a quella porta coll'intimazion della morte, se la città non si rendeva. Volle piuttosto l'Arcelli vedere eseguita così barbara e da tutti detestata sentenza, che cedere il possesso di Piacenza. Pure non corse gran tempo che la città fu presa, ed egli si ridusse nel castello. Ma, convinto dell'impossibilità di sostenersi, se ne fuggì; oppur, fatto accordo per alcune migliaia di fiorini, se ne andò con Dio, lasciando interamente in potere del Carmagnola col castello quella nobil città che per le passate sciagure era divenuta un deserto. Manca la città di Piacenza di autori di questi tempi che abbiano accuratamente descritte le sue calamità: anzi discordano gli storici nell'anno, in cui questa tornò alle mani del duca. Il Rivalta di ciò parla all'anno presente; il Corio e Giovanni Stella [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] al seguente; e neppure il Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 3.], storico piacentino, sa decidere la quistione, con rapportar nondimeno il fatto a quest'anno. Tuttavia parmi che dal Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] e dal Biglia [Billius, Hist., tom. 19 Rer. Ital.] si possa ricavar tanto lume da diradar queste tenebre: cioè avere Filippo Arcelli ne' tempi addietro occupata Piacenza. Gliela ritolse il Carmagnola, [1013] ma senza poter espugnare il castello. E perchè Pandolfo Malatesta uscì in campagna per liberar quel castello dall'assedio, trovandosi allora il duca senza forze da potersegli opporre, ordinò che la città fosse evacuata da tutti gli abitanti, i quali piagnendo si ridussero parte a Pavia, parte a Lodi. Rimase Piacenza disabitata, ed, entrativi l'Arcelli e il Malatesta, non vi trovarono se non le mura delle case. In quest'anno poi il Carmagnola tornò ad impossessarsi di Piacenza, e mise l'assedio al castello: questo poi solamente nell'anno seguente, o per la fuga dell'Arcelli, o per patto fatto con lui, venne alle sue mani. Passò dipoi l'Arcelli al servigio de' Veneziani, per li quali fece di molte prodezze, e conquistò il Friuli, siccome andremo dicendo.

Tentò ancora nell'anno presente il Carmagnola Pizzeghettone e Castiglione di Giaradadda, ma senza frutto. Si rivolse dunque a Cremona, e vi mise il campo, risoluto di sterminare il tiranno Gabrino Fondolo. In questi progressi del Visconte, Pandolfo Malatesta signor di Brescia già mirava i preludii della sua caduta; e però, avendo il duca rotte le tregue, anch'egli prese l'armi per soccorrere Cremona, senza che apparisca dipoi che facesse impresa alcuna degna di menzione. Abbiamo in oltre da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] che nel dì 20 di marzo dell'anno presente esso duca acconciò le differenze che passavano tra lui e Teodoro marchese di Monferrato, avendo in tal congiuntura il duca ricuperata dalle mani di lui la città di Vercelli, e il marchese ottenute varie castella colla cession d'ogni ragione sopra Casale di Sant'Evasio. Tornossi in questo anno a sconcertare la quiete di Genova [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] per cagion de' Guarchi, de' Montaldi, di Teramo Adorno, e d'altri fuorusciti, che ricorsero a Filippo Maria [1014] Visconte per impetrar soccorso contro la patria, vogliosi di deporre Tommaso da Campofregoso doge. Sperando il duca di pescare in questo torbido, diede volentieri orecchio al trattato, e somministrò loro un corpo di soldatesche. Ma di ciò all'anno seguente. Mancò di vita per la peste nel presente anno, e non già nel precedente, siccome dicemmo, Gian-Galeazzo de' Manfredi signor di Faenza [Chron. Foroliv., tom. 19 Rer. Ital.]; e in questi tempi appunto faceva la pestilenza grande strage in Firenze e Toscana. Nè poca era la balordaggine delle genti d'allora, perchè fuggendo i benestanti dalle città infette, senza opposizione trovavano ricovero nelle città sane; maniera facile di maggiormente dilatare l'eccidio. Fecero guerra in questo anno [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] i Bolognesi alla terra di San Giovanni in Persiceto, che era raccomandata a Niccolò Estense marchese di Ferrara. Ma questi ne diede loro la tenuta per ventisette mila fiorini d'oro, nè volle mettersi all'impegno di sostenerla. Nell'anno presente [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Italic.] ancora ebbe principio la guerra dei Veneziani contra di Udine e del Friuli. Lodovico patriarca d'Aquileia, signore di quel paese, era in lega con Sigismondo re de' Romani e di Ungheria; ma non gli venivano i soccorsi occorrenti al bisogno: il perchè vedremo andar peggiorando i di lui interessi negli anni seguenti.


   
Anno di Cristo mccccxviii. Indiz. XI.
Martino V papa 2.
Sigismondo re de' Romani 9.

Dopo avere papa Martino V imposto fine al concilio di Costanza [Raynald., Annal. Eccles.], nel dì 16 di maggio si mise in cammino alla volta di Sciafusa per calare in Italia, accompagnato dal re Sigismondo, da varii principi e da gran folla di gente per un tratto di strada. Arrivò nel dì 11 di luglio a [1015] Ginevra, dove gli ambasciatori d'Avignone gli prestarono ubbidienza. Partitosi di là solamente nel dì 3 di settembre per Susa, Torino e Pavia, passò a Milano nel dì 12 d'ottobre, dove il duca Filippo Maria l'avea invitato con gran premura. La magnifica sua entrata in quella città vien descritta dal Corio [Corio, Istoria di Milano.]. Messosi poi nel dì 17 d'esso mese in viaggio, si trasferì a Brescia, ricevuto con sommo onore da Pandolfo Malatesta, e di là marciò a Mantova. Quivi si riposò il resto dell'anno, con attendere in lontananza a rimediare ai disordini dello Stato ecclesiastico, nel quale trovò vacillante la sua autorità. Bologna s'era già rimessa in libertà; Perugia con altre città ubbidiva a Braccio da Montone; in Roma tuttavia regnava la discordia, e vi teneva il piede la guarnigione della regina Giovanna; in mano finalmente di varii signori era la Romagna e parte della Marca. Per cagione di questo sì sconcertato sistema i vigilanti Fiorentini gli esibirono per istanza di sua sicurezza la stessa città di Firenze o Pisa; ed egli si mostrò disposto ad accettare l'offerta. Inviò ambasciatori a Bologna, richiedendo il dominio temporale di quella città [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Altri ne inviarono a lui i Bolognesi, pregandolo di non s'impicciare nel civile loro governo, e tanto seppero fare, che egli si contentò di lasciarli come erano, con obbligo di pagare annualmente alla camera apostolica il censo di otto mila fiorini d'oro. Non volle per allora sentirsi parlare di Braccio, che pregava di ottenere in vicariato le città da lui possedute. Fu questo l'anno ultimo della vita di Teodoro II marchese di Monferrato, principe rinomato. È riferita dal Corio la sua morte all'anno precedente; ma Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] la rapporta al presente; e, siccome più informato degli avvenimenti della sua patria, merita qui [1016] maggior fede. Restò signore di quegli Stati Gian-Jacopo suo figliuolo. Diede molto da dire in quest'anno agl'Italiani la morte violenta [Corio, Istor. di Milano.] che Filippo Maria duca di Milano nel mese d'agosto inferì a Beatrice Tenda, già moglie di Facino Cane, e poscia sua. Fu essa imputata di amicizia disonesta con un certo suo familiare, epperò processata e tormentata. Ancorchè ne' tormenti confessasse il fallo, lo negava dipoi al confessore. Ciò non ostante, tagliata le fu la testa. Non si potè cavar di capo alla gente ch'ella altro reato non avesse, se non quello d'aver preso per marito il duca giovinetto, quando essa era d'età troppo disuguale, ed incapace di dar figliuoli. Però universalmente venne detestata, oltre alla crudeltà, l'ingratitudine del duca [Billius, in Hist., tom. 19 Rer. Ital.], a cui questo matrimonio avea portato immensi tesori ed era stato il principio d'ogni sua fortuna. Fece in quest'anno gran guerra esso duca di Milano alla città di Genova [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], con avere inviato un potente soccorso di gente d'armi agli Adorni, Montaldi, Guarchi ed altri fuorusciti di quella città, tutti rivolti a detronizzare il doge Tommaso da Campofregoso. Passò l'esercito loro fin sotto Genova; succederono moltissime zuffe coi cittadini; e furono presi e ripresi varii luoghi forti e castella, ma senza punto prevalere contro la possanza de' Campofregosi. Fu in questa occasione che le armi del duca di Milano s'impadronirono di Gavi, e di quasi tutte le terre e castella de' Genovesi situate di qua dal Giogo. Durò in tutto quest'anno sì fatta guerra sul Genovesato. Se l'intendeva coi Genovesi Pandolfo Malatesta signore di Brescia, e per fare una diversione, uscì in campagna colle sue genti; ma essendosi arrischiato a voler passare l'Adda, quivi restò spelazzato dalle squadre del duca di Milano. In questi tempi [1017] Giovanna regina di Napoli procurò di guadagnarsi la grazia del pontefice Martino, e strinse lega con lui per mantenerlo nel dominio di Roma, e delle altre terre della Chiesa [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. In ricompensa il papa promise di darle la corona del regno.

Ma perciocchè gran discordia insorse fra i ministri d'essa regina [Raynaldus, Annal. Eccles.], aspirando ciascuno al primato, di grandi turbolenze patì in quest'anno la città di Napoli. Il gran siniscalco Ser-Gianni Caracciolo, che era allora il primo nobile di quella corte e regno [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.], quantunque Chiara, sorella di Foschino e di Marco Attendoli parenti di Sforza, fosse promessa in moglie a Marino conte di Santo Angelo suo fratello, pure cominciò a mirar di mal occhio l'esaltazione di Sforza gran contestabile, massimamente dopo avergli la regina dato in feudo Benevento, non posseduto allora dalla Chiesa romana, e la terza parte delle rendite di Manfredonia. Maritò inoltre esso Sforza il figliuolo Francesco con Polissena della Ruffa, che gli portò in dote la città di Montalto, Cariate e molte altre belle terre in Calabria. Di altri nobili parentadi fecero parimente in quel regno gli altri Cotignolesi parenti di Sforza, che in copia erano già iti a militare sotto sì gran capitano, e tutti godevano distinti gradi nella milizia. Ora crescendo la nemicizia di Ser-Gianni verso del medesimo Sforza, e non potendo questi ottener giustizia di molti torti a lui fatti, anzi udendo che la regina l'avea dichiarato nemico, perduta la pazienza, mise in armi tutti i suoi; ed alzate le insegne, marciò a dirittura alla volta di Napoli, con accamparsi nel borgo delle Corregge, credendosi di riportar colla forza ciò ch'era negato alle giuste istanze sue. Si lasciò egli addormentare dalle lusinghe di Francesco Orsino, a lui spedito dal Caracciolo, perchè promise a bocca larga [1018] un amichevol accordo; ma mentre, su queste speranze, se ne sta Sforza poco in guardia, il popolo di Napoli, incitato dal Caracciolo alle armi, furiosamente nel dì 28 di settembre uscì di una porta, e diede addosso alle di lui genti, che disordinate non si aspettavano un tale incontro. Fecero, come poterono, testa, e il combattimento fu aspro, ed in fine fu obbligato Sforza a ritirarsi colla peggio e in rotta a Chiaia, perduto l'equipaggio e gran quantità di cavalli. Servì questa superchieria degli emuli, e il suo sfregio e la perdita patita, a maggiormente attizzarlo contra di che aggirava a suo modo la regina e la città; e però unito coi conti di Caiazzo e della Cerra, si diede a far correre le sue genti sino a Napoli con gravissimo danno e grida dei cittadini. Il perchè tanto i nobili che il popolo, preso il governo della città, nel dì 9 d'ottobre trattarono di pace col nemico Sforza. Egli ottenne la restituzion della roba a lui tolta, la liberazion dei prigioni, e che il gran siniscalco Caracciolo si partisse da Napoli. Il che eseguito, pace vi fu, e Sforza tornò a servir la regina. Braccio da Montone signor di Perugia, che, non diverso da quei capitani de' masnadieri da noi veduti nel precedente secolo, sapea mantener alle spese altrui l'esercito suo [Campanus, in Vita Brachii, lib. 4, tom. 19 Rer. Ital.], arrivò all'improvviso in quest'anno sul Sanese, e tale paura fece alle castella de' Salimbeni, che ne smunse quattro mila fiorini. Non avrebbono mai sognato i Lucchesi di vedere sul loro territorio Braccio, con cui niuna nemicizia aveano [Annali Sanesi, tom. eod. Histor. Sanensis, tom. 20 Rer. Italic.]; ma nel dì 10 di maggio, eccolo comparire colà, mettere a sacco tutta la campagna, con prendere un'infinità di bestiame. Era fuori di quella città Paolo Guinigi signore o tiranno di essa. Giunse a tempo per prepararsi a qualche difesa; nulladimeno, giudicando meglio di chiedere accordo, [1019] spedì ambasciatori a Braccio, e fu convenuto di pagargli cinquanta mila fiorini d'oro, parte in contanti, e parte in lettere di cambio ai banchieri fiorentini. Se queste sieno gloriose prodezze di Braccio, lo diranno i lettori. Portatosi anche a Norcia, e minacciata quella città d'assedio, fu d'uopo che quel popolo si riscattasse con quattordici mila fiorini d'oro. Finalmente, dopo avere presa la terra della Pergola, condusse la sua armata ai quartieri d'inverno.


   
Anno di Cristo mccccxix. Indiz. XII.
Martino V papa 3.
Sigismondo re de' Romani 10.

Ottennero l'intento loro i saggi Fiorentini con indurre papa Martino V ad andarsene nell'anno presente alla lor città, e a fissar ivi la sua residenza [Diario Ferrar., tom. 24 Rer. Ital.]. Mossosi egli adunque da Mantova, arrivò a Ferrara nel dì 8 di febbraio, e con sommo onore vi fu introdotto dal marchese Niccolò Estense. Quivi accordò la libertà e molti privilegii ai Bolognesi; ma non si sa il perchè non volle poi passar per Bologna. Probabilmente nudriva fin allora de' pensieri diversi contro quella città; nè tarderemo a vederne gli effetti. Fece egli il viaggio per la Romagna, e nel dì 18 del suddetto mese di febbraio entrò con gran pompa in Forlì [Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.], da dove poi si trasferì a Firenze. Nel dì 26 d'esso mese fece egli la sua entrata in quella città. La magnificenza fu grande, suntuosi i regali, tenendosi ben caro i Fiorentini, dopo tante rotture colla santa Sede, d'avere in lor casa un papa, e papa che parea risoluto di far quivi una lunga posata. E certamente non tardarono a provare i buoni influssi di questo gran pianeta; perciocchè, nel dì 2 di maggio [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 18.], il papa onorò della dignità archiepiscopale la chiesa di Firenze. Era fuggito dalle carceri di Germania Baldassare [1020] Cossa, già papa Giovanni XXIII. Gli facea la caccia papa Martino, credendo egli non mai sicuro il suo pontificato, finchè questo uomo si trovava in libertà e in istato di far nuovi imbrogli [Leonardus Aretin., Hist., tom. 19 Rer. Ital. Vita Martin. V, P. III, tom. 3 Rer. Ital.]. Scrivono altri che per le raccomandazioni di papa Martino, e col danaro d'alcuni mercatanti fiorentini, egli fu liberato. Ora il Cossa, o per consiglio di saggia politica, o per ispirazione di Dio, oppure per concerto già fatto, prese la risoluzione di umiliarsi al legittimo pontefice, e di metter fine per conto suo ai guai della Chiesa. Ottenne per mezzo de' Fiorentini, amici suoi, salvocondotto, e nel dì 13 di maggio venuto a Firenze, si gittò a' piedi di Martino, riconoscendolo per vero ed unico papa, e rinunziando liberamente ad ogni sua pretensione sul papato. Questo atto, di cui mirabilmente si rallegrò il pontefice, servì a lui di motivo per crear di nuovo cardinale, e primo tra' cardinali, esso Cossa. Ma non terminò l'anno che anche venne meno la vita di questo personaggio, famoso per la varietà della sua industria e fortuna, essendo egli morto nel dì 22 di dicembre. Nè sussiste, per attestato dell'Ammirati [Ammirato, Istor. Fiorentina, lib. 18.], che Giovanni de' Medici, padre di Cosimo il Magnifico, si arricchisse coi di lui tesori, perchè il suo testamento chiaramente pruova esser egli morto piuttosto povero che ricco. Ebbe in quest'anno [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Giornal. Napolet., tom. eod.] esecuzione l'accordo e la lega, già conchiusa fra esso papa Martino e Giovanna Seconda regina di Napoli. Promise la regina ai ministri pontificii di consegnare al papa castello Sant'Angelo, Ostia e le altre fortezze di Roma, città in cui regnavano tuttavia molte discordie fra i Savelli e gli Orsini. E nell'accordo suddetto non dimenticò già il papa l'esaltazione della propria casa, secondo l'uso de' suoi tempi. Avendo egli spedito a Napoli [1021] Giordano Colonna suo fratello, ed Antonio suo nipote, si vide la regina profondere le sue grazie sopra d'esso Antonio, con crearlo duca d'Amalfi e di Castello a mare, e con donargli poscia il principato di Salerno: di modo che pubblica credenza fu che vi fosse stato maneggio di far succedere questo nipote del papa nel regno di Napoli, allorchè mancasse di vita la regina.

Dacchè restò depresso Jacopo di Borbone conte della Marca, marito d'essa regina, se ne stette egli sempre malcontento. Ossia che fin d'allora fosse custodito sempre dalle guardie, oppure che, volendo fare delle novità, fosse messo in prigione: certo è che furono fatti premurosi uffizii per la liberazione di lui da alcuni re e principi, ma sempre indarno. All'autorità del pontefice riuscì di fargli ricuperare la libertà, nel dì 15 di febbraio dell'anno presente, con varii patti per la sicurezza e pel decoro suo. Parve rimessa la buona armonia fra lui e la moglie regina; ma perchè ella non cacciava di corte alcuni tristi, indispettito per vedersi poco prezzato, sul fine di maggio [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.], imbarcatosi in una nave, all'improvviso se ne andò a Taranto. Fu ivi assediato da Maria regina, già moglie di Ladislao, che per Gian-Antonio Orsino acquistò quel principato. Laonde Jacopo per disperazione fuggì, e di là si ridusse a Trivigi, e poscia in Francia, portando seco un immortale sdegno contro la regina e i Napoletani. Fecesi poi frate francescano, e i Sammartani scrivono [Sammarthan., Généal. de France, tom. 2.] ch'egli morì nel 1438. Spediti dal papa, nel mese di gennaio a Napoli il cardinal Morosino vescovo d'Arezzo ed Angelo vescovo di Anagni, questi solamente nel dì 28 di ottobre eseguirono la coronazion della regina Giovanna; per la qual funzione due mesi continui il popolo di Napoli fece feste e bagordi senza fine. Come possa stare che dopo tali atti lo stesso papa [1022] sul fine di quest'anno [Raynaldus, Annal. Eccles. ad ann. 1420.], per quanto vogliono alcuni, con sua bolla riconoscesse i diritti di Lodovico duca d'Angiò sul regno di Napoli, non si sa bene intendere. Certo è che Ser-Gianni Caracciolo, come esiliato, spedito dalla regina a Firenze, maneggiò con vigore i di lei interessi, ed ottenne quanto dimandò. Ma il Caracciolo era l'anima della regina Giovanna, di modo che i suoi nemici sparlavano, attribuendo ad amendue un illecito commercio. Nè potendo essa sofferire la di lui lontananza, voluta dallo Sforza, tanto s'industriò, che, placato lo Sforza, fece ritornare il suo caro, e riconciliollo con lui. Oltre al grado di gran contestabile del regno, ebbe in quest'anno Sforza da papa Martino quello di gonfaloniere della Chiesa, giacchè di lui si volea il pontefice servire per far guerra a Braccio, sommamente da lui odiato, perchè occupator di tante terre dello Stato ecclesiastico. E volentieri la regina e i Caracciolo diedero mano all'impresa, per allontanare Sforza da Napoli e dal regno [Cribell., Vit. Sfort., tom. 19 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.]. Troppo mi dilungherei se volessi tener dietro ai passi di questo valoroso capitano. Brevemente dirò ch'egli andò coll'esercito suo ad accamparsi fra Viterbo e Montefiascone. Gli venne incontro il non men prode Braccio, che poco prima s'era impadronito d'Assisi e della città, ma non della rocca di Spoleti [Campanus, Vita Brachii, lib. 4. tom. 19 Rer. Ital.]. Vennero alle mani nel dì 20 di giugno, quando il conte Niccolò Orsino, il quale fu poi imputato di segreta intelligenza con Braccio, essendo tenente della cavalleria di Sforza, dato di sprone al cavallo, si ritirò in Viterbo. L'esempio suo si trasse dietro il resto del campo sforzesco, il quale, inseguito da Braccio sino alle porte della città, diede a lui campo di far prigioni mille de' cavalli sforzeschi [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Stando in Viterbo Sforza, benchè mal ubbidito dai [1023] traditori, e colla peste entrata fra i suoi, non lasciò per questo di far molte prodezze contro al nemico Braccio, finchè giunse Francesco suo figliuolo con un buon rinforzo di gente. Allora, teso un aguato, fece assaltar dal figliuolo i Bracceschi, e nel combattimento ebbe prigionieri più di cinquecento cavalli. Per questo si ritirò Braccio indietro, e benchè seguissero varii altri incontri, poco vantaggio ognuno d'essi ne riportò. Ma singolar guadagno fece Sforza per altro verso, perchè riuscì alla di lui industria, o piuttosto ai segreti maneggi e all'oro del papa, di staccare Tartaglia da Braccio; da Braccio, dissi, pel cui ingrandimento tanto s'era fin qui affaticato esso Tartaglia. Mosse il pontefice contra di lui anche Guido Antonio da Montefeltro, signore d'Urbino e di Gubbio. Tolse questi bensì a Braccio la città d'Assisi, ma non già il castello. Accorsevi Braccio, e colla morte e prigionia di molti Urbinati la ricuperò. Non andò così pel castello di Spoleti assediato da un corpo di gente di Braccio, già divenuto padrone della città. Essendovi stato spedito da Sforza un rinforzo, che si unì colla guarnigion del castello, restarono sconfitti i Bracciani, e quella città tornò all'ubbidienza del papa. Intanto Braccio, per vendicarsi di Tartaglia, fece che gli Orvietani trattassero con lui di dargli quella città. Portossi colà Tartaglia con trecento cavalli ed altrettanti fanti, credendosi di avere fra le unghie la preda; ma, assalito da Braccio, vi lasciò quasi tutti i suoi prigioni, ed egli con pochi appena si salvò mercè del buon cavallo e degli sproni.

Niuna memoria ci resta sotto questo anno degli affari di Genova negli Annali di quella città. Ma si raccoglie abbastanza dal Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] e dal Corio [Corio, Istor. di Milano.] che Tommaso da Campofregoso doge altra maniera non seppe trovare per liberarsi dalla persecuzion del duca di Milano e de' suoi [1024] emuli, che di comperare a caro prezzo la pace dal medesimo duca nel mese di febbraio. Si convenne dunque di pagargli cinquanta mila fiorini d'oro presentemente, e nel termine di anni quattro altri cento cinquanta mila; siccome ancora di deporre il titolo di doge, assumendo quello di governatore; e di lasciar entrare in città i fuorusciti, eccettochè tre casate. Ciò fatto, Filippo Maria ordinò al Carmagnola di rivolgere l'armi contra di Gabrino Fondolo tiranno di Cremona. V'andò, e prese la maggior parte delle castella di quel territorio. Avea il pontefice Martino, fin quando era in Mantova, conchiuso un accordo fra il duca di Milano e Pandolfo Malatesta, signore di Brescia e di Bergamo, in vigore del quale doveano ricadere al duca quelle due città dopo la morte d'esso Pandolfo, che non avea figliuoli, con altri patti, e con lega offensiva e difensiva fra loro. Ma Pandolfo, al vedere l'amico Gabrino in pericolo, e temendo dopo la rovina di lui la propria, fingendo che Gabrino avesse a lui venduta Cremona, prese le armi per aiutarlo; con che impedì la caduta di Cremona. Allora il Carmagnola marciò coll'esercito suo a Martinengo nel dì 20 di giugno, e collo sborso di dodici mila fiorini vi mise dentro il piede, e poscia imprese l'assedio di Bergamo. Si sostenne quella città sino alla notte precedente al dì 24 di luglio, festa di san Jacopo apostolo. Quei che poterono, della guarnigion di Pandolfo, si salvarono nella cittadella; ma con poco frutto, perchè nel dì 26 si renderono a discrezione. Cita il padre Celestino [Celestino, Istor. di Bergamo.] la conferma fatta in quest'anno dal duca della capitolazione e de' privilegii della città di Bergamo. Dopo tale acquisto l'infaticabil Carmagnola continuò il corso della vittoria sul distretto di Brescia, portando seco il terrore, ma più il credito d'essere uomo osservator della parola, e di tenere in freno la licenza dei suoi soldati. Occupò gli Orci nuovi e vecchi, Palazzuolo, Pontoglio, Rovatto e molte altre [1025] castella: colle quali imprese gloriosamente terminò la campagna. Anche i Veneziani continuarono in quest'anno [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] la guerra nel Friuli contra di Lodovico patriarca d'Aquileia, senza lasciarsi muovere dal loro proponimento per l'interposizione del papa che mandò apposta a Venezia il cardinale di Spagna con titolo di legato per trattare d'accordo. Aveano il vento in poppa. Filippo Arcelli, già signor di Piacenza, creato lor generale, sapea eccellentemente il mestier della guerra; ogni dì più facea progressi nel paese nemico. Tanto egli operò che Cividal di Belluno si arrendè alla reppublica nel dì 7 d'aprile. Anche Sacile venne all'ubbidienza de' Veneziani verso la metà di agosto. Così fecero anche Prata, Serravalle ed altri luoghi. Nel medesimo tempo faceano i Veneziani guerra in Dalmazia alle città di Traù e di Spalatro, che erano occupate da Sigismondo re dei Romani e d'Ungheria, il quale, per la morte di Venceslao suo fratello, già re de' Romani, era divenuto padrone anche della Boemia, e per mezzo di Pippo, ossia Filippo degli Scolari Fiorentino, suo generale, riportò in quest'anno una mirabil vittoria contra di trecento mila Turchi.


   
Anno di Cristo mccccxx. Indiz XIII.
Martino V papa 4.
Sigismondo re de' Romani 11.

Le azioni fatte in quest'anno dal pontefice Martino danno assai a conoscere, che non era tanto difficile a mutar pensiero e sistema [Ammirat., Istoria di Firenze, lib. 18. Campan., Vita Brachii., tom. 19 Rer. Ital. Cribellus, Vita Sfortiae, tom. eod.]. Odiava a morte Braccio signor di Perugia; pure, per maneggio de' Fiorentini, stretti amici di Braccio, s'indusse a riceverlo in grazia, e a lasciargli in vicariato le città di Perugia, Assisi, Jesi e Todi con altre non poche terre da lui occupate, purchè [1026] restituisse al pontefice Narni, Terni, Orvieto ed Orta. Sul fine di febbraio comparve a Firenze lo stesso Braccio con accompagnamento magnifico, e fu accolto dal popolo fiorentino con tal plauso e pompa, come se fosse stato un re ed imperadore. Prostrato a' piedi del papa, non solamente riportò l'assoluzion delle censure e il vicariato suddetto, ma divenne ancora campion dello stesso pontefice per riacquistargli Bologna. Già dicemmo che esso papa avea con bei capitoli e privilegii accordata la libertà ai Bolognesi. Nell'anno precedente [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] era stata in quella città una sedizione e rissa fra Antonio de' Bentivogli e la sua fazione, e Matteo da Canedolo capo di un'altra fazione. Perchè toccò di soccombere all'ultima, fu questa cacciata di città e mandata a' confini, restando il Bentivoglio come padrone della città. Forse le preghiere di questi fuorusciti, e l'udire le divisioni che tuttavia duravano in Bologna, fecero nascer voglia e speranza al papa di sottomettere quella città. Braccio fu scelto per tale impresa. Spedì il pontefice innanzi un arcivescovo ed un abbate per suoi ambasciatori, che, nel dì 28 di febbraio entrati in Bologna, esposero con ornate parole il desiderio di sua santità d'aver egli il governo della città. La risposta poco favorevole fu portata a Firenze dagli ambasciatori bolognesi spediti colà. Però si venne all'interdetto, e poscia alla guerra contra di quel popolo. Anche Lodovico degli Alidosi signor d'Imola mandò la disfida a Bologna. Scrive Matteo Griffoni [Matthaeus de Griffonibus, Chron., tom. 18 Rer. Italic. Cronica di Bologna, tom. eod.] che nel dì 5 di maggio venne in quella città Gabrino Fondolo, olim dominus Cremonae, per generale delle armi d'essi Bolognesi. Ciò è da notare, siccome dirò più abbasso, perchè, secondo il Corio [Corio, Istoria di Milano.], Gabrino non era per anche stato spogliato di Cremona. Ci assicura anche [1027] il Campano [Campanus, Vit. Brachii, tom. 19 Rer. Ital.] che il Fondolo venne al servigio de' Bolognesi. Ora nel dì 17 dello stesso maggio comparve esso Braccio colle sue milizie sul territorio di Bologna, avendo seco Lodovico de' Migliorati signore di Fermo, ed Angelo dalla Pergola, capitani al soldo del papa. A poco a poco si andarono rendendo le castella de' Bolognesi; di modo che conoscendo quel popolo, benchè provveduto di molta soldatesca, dopo alcune piccole svantaggiose battaglie, l'impotenza a sostenersi, nel dì 15 di luglio vennero nel consiglio generale di quella città alla risoluzione di darsi liberamente al papa. Il che con patti onorevoli eseguito, vi entrò, e ne prese il possesso Gabriello Condolmieri cardinale di Siena, e poscia vi venne per legato Alfonso cardinale di Spagna.

Abbiam veduto nel precedente anno papa Martino d'accordo colla regina Giovanna: si mutò scena nel presente. Contra di lei cominciò il papa a favorire gl'interessi di Lodovico III duca d'Angiò e conte di Provenza, giovane ch'era poco prima succeduto a Lodovico II suo padre defunto, che avea spediti i suoi ambasciatori a Firenze per prestare ubbidienza a papa Martino [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.]. La cagione, per cui il papa era disgustato colla regina, fu perchè tornato Ser-Gianni Caracciolo gran seniscalco a Napoli, pien di veleno contra di Sforza gran contestabile, cominciò a nimicargli la regina, e la trattenne dall'inviar soccorsi di gente e di danaro a Sforza nella guerra che abbiam veduta poco fortunatamente da lui fatta a Braccio nell'anno antecedente, ancorchè il papa ne facesse calde e frequenti premure. Chiamato a Firenze Sforza, il pontefice Martino gli comunicò in segreto il suo disegno contra della regina; fors'anche vi fu maggiormente acceso da Sforza per vendicarsi del Caracciolo. Venuta dunque la state, si mosse Sforza con quanta gente potè [1028] raccogliere; e, passato nel regno di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], andò, nel dì 18 di giugno, ad unirsi col figliuolo Francesco, e con Michele e Foschino suoi parenti, che lo aspettavano alla Cerra col resto de' suoi combattenti; ed, inalberate le bandiere di Lodovico d'Angiò, si scoprì nemico della regina. Niun danno fece, finchè, avvicinato a Napoli, non le ebbe inviato per due trombetti il bastone e le insegne del contestabilato, e fatto esporre che o trattasse d'accordo coll'Angioino, oppure che si aspettasse la guerra. Manca il verisimile a ciò che scrive il vescovo Campano [Campanus, Vita Brachii, tom. 19 Rer. Ital.], cioè che Sforza entrasse in Napoli, e, fatta chiamare la regina ad una finestra di Castello Nuovo, le rinunziasse le insegne, e caricato di villanie da essa, l'obbligasse, con farle tirar contro alcune freccie, a ritirarsi. Accampossi col suo esercito Sforza presso a Napoli nel luogo del Formello, aspettando che giugnesse per mare la flotta di Lodovico d'Angiò, per operar seco di concerto. Intanto precorsa la fama di questo principe, il quale avea assunto il titolo di re di Sicilia, che così continuavano ad intitolarsi i re di Napoli, chiunque era della fazione angioina diede principio alle novità, e si ribellarono non poche terre del regno. Ma prima che venisse Sforza, e si trovassero in questa brutta apparenza di cose, e con timore di peggio, la regina ed il Caracciolo, siccome informati de' preparamenti dell'Angioino, aveano preso lo spediente d'inviar ambasciatori al papa per pregarlo d'interporsi in questa briga, e d'impedire gl'ingiusti insulti che si ammannivano contra di lei dal duca d'Angiò. Non avea peranche il papa alzata la visiera, mostrandosi neutrale in sì fatta turbolenza; ma l'ambasciatore, che fu Antonio Caraffa, soprannominato Malizia, uomo accortissimo, non tardò a scandagliar ben l'animo pontificio, e a scorgere che da quella parte non era da sperare [1029] alcun sussidio ai bisogni della regina; e in fatti era menato a spasso con sole belle parole. Ossia dunque che nascesse a lui in mente, come alcuni vogliono, un altro ripiego [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]; oppure che egli ne portasse seco da Napoli l'ordine e la plenipotenza: certo è, che, avendo fatta vista di tornarsene a Napoli, allorchè fu a Piombino, imbarcatosi in una galea, andò a trovare il giovanetto Alfonso re d'Aragona, Sardegna e Sicilia, per implorare l'aiuto suo in favore della regina.

Qui è da sapere che il re Alfonso, in cui non so se maggior fosse l'elevatezza della mente o il desiderio della gloria, un gran valore e una mirabile attività, avea già pensato a segnalarsi per tempo coll'acquisto della Corsica. Perciò nel precedente anno con una flotta di trenta galee e quattordici navi passò nel suo regno di Sardegna [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e finalmente piombò sopra il porto di Bonifazio, luogo fortissimo e il più caro che si avessero i Genovesi. Stupendo, ostinato fu quell'assedio, di cui ci lasciò una descrizione Pietro Cirneo [Petrus Cyrnaeus, Histor. Corsic., tom. 24 Rer. Ital.], e durò ben nove mesi. Era già ridotto quel castello all'agonia, quando Tommaso da Campofregoso doge o governatore di Genova, armate sette navi sotto il comando di Batista suo fratello, le spinse in Corsica, per salvare un sito di tanta importanza. Fecero delle maraviglie i valorosi Genovesi, e dopo fiero combattimento riuscì loro, non ostante la terribile resistenza de' Catalani, d'introdurre, sul principio di gennaio, un bastevol soccorso in Bonifazio, in guisa che fu costretto il re Alfonso a ritirarsi da quell'assedio. Non so dire s'egli fosse tuttavia in Corsica, oppure altrove, allorchè se gli presentò il Caraffa per impegnarlo al soccorso della regina, qualora il duca d'Angiò [1030] movesse l'armi contra di lei. Fece sulle prime Alfonso lo schivo; ma pensando che il regno di Napoli sarebbe una bella giunta al suo regno di Sicilia e agli altri suoi Stati, per consiglio ancora de' suoi cortigiani si lasciò vincere, e diede mano al trattato. Passò qualche mese per digerirlo in lontananza, e per istabilir le condizioni, non essendosi dimenticato Alfonso di richiederle ben vantaggiose alla sua corona. Restò dunque convenuto che egli fosse adottato per figliuolo dalla regina Giovanna, affine di succedere dopo la di lei morte; e che intanto egli fosse dichiarato duca di Calabria, e per sicurtà de' patti mettesse presidio in Castello Nuovo e Castello dell'Uovo. Ora mentre queste cose si trattavano, Lodovico d'Angiò, fatte armare in Genova sei navi comandate da Batista da Campofregoso, unì con esse sette sue galee, e ben provveduto di viveri e di gente, nel dì 15 d'agosto, felicemente arrivò al porto di Napoli [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.]; pagò circa quaranta mila fiorini d'oro alle truppe di Sforza, al quale si diede, in questi tempi, la città d'Aversa, conquista di gran momento per la guerra. Maggiormente allora fu da lui e da Sforza stretta d'assedio Napoli, ed in essa furono anche una notte vicini ad entrare per tradimento; ma eccoti comparire al lido, nel dì 6 di settembre [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], dodici galee e tre galeotte del re Alfonso; dicono altri che egli si trasferì colà in persona. Per trovarsi inferiori i legni de' Genovesi, prima che egli giugnesse, se n'erano tornati a casa. Sforza col duca d'Angiò gran battaglia diede per impedire lo sbarco de' Catalani; ma in fine fu astretto a battere la ritirata e condursi ad Aversa. Sbarcato Alfonso, la regina il riconobbe per suo figliuolo adottivo, gli consegnò Castello Nuovo, il creò duca di Calabria. Così terminò l'anno presente nel regno di Napoli, ma con essersi molte terre e baroni levati dall'ubbidienza della regina.

[1031]

Quali imprese facesse in quest'anno Filippo Maria Visconte duca di Milano, non bisogna chiederlo al Corio. Egli poco ne seppe. Differisce questo scrittore all'anno 1422 la conquista di Cremona; ed essa succedette nel presente anno, ciò ricavandosi da Matteo Griffonio [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.], e insieme da Andrea Biglia [Billius, in Histor., tom. 19 Rer. Ital.] e da Marino Sanuto [Sanuto, Ist. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Gabrino Fondolo tiranno di quella città, veduta già perduta la maggior parte delle sue castella, e che poco capitale potea farsi del soccorso degli alleati, non si volle aspettare addosso, all'aprirsi della campagna, l'esercito del Carmagnola. Perciò nel gennaio di quest'anno prese accordo col duca di Milano, lasciandogli Cremona per trentacinque mila fiorini d'oro, e con patto di ritenere per sè Castiglione, e di poter godere di quanti beni egli possedea. Non gli mancavano dei tesori, e certo li vagheggiava con gran cupidità il duca; pur questi la fece per ora da galantuomo, e gli osservò la parola della franchigia a lui accordata, aspettando di fare il resto ad altro tempo. Andò poscia costui, siccome dicemmo, al servigio de' Bolognesi. Era in collera esso duca con Pandolfo Malatesta per l'aiuto dato in addietro a Gabrino, pretendendo rotta ingiustamente da lui la tregua o pace stabilita da papa Martino. Infatti, essendo ricorso Pandolfo al papa per aiuto, non ne riportò se non de' rimproveri, per avere mancato ai patti. Nè i Fiorentini si vollero mischiare ne' fatti di lui. Vi restavano i Veneziani, creduti protettori del Malatesta. Ma, oltre al trovarsi eglino impegnati in questi tempi nella guerra del Friuli, erano essi disgustati per la morte data dai Malatesti a Martino da Faenza lor capitano, come accennammo all'anno 1416. Laonde l'accorto duca seppe così ben fare, che gl'indusse nel febbraio dell'anno seguente ad una tregua [1032] vicendevole per anni dieci, con promettere i Veneziani di non impacciarsi negli affari di Pandolfo. Altro dunque non vi fu che Carlo Malatesta signor di Rimini, e fratello d'esso Pandolfo, che gl'inviò in quest'anno un poderoso aiuto di tre mila cavalli e di molta fanteria, sotto la condotta di Lodovico Migliorati signore di Fermo; cosicchè Pandolfo giunse a formare un'armata di circa otto mila combattenti. Già il conte Francesco Carmagnola colle milizie duchesche era in campagna sul territorio di Brescia, quando nel dì 8 di ottobre si azzuffarono gli eserciti nemici. Il valore e la fortuna del Carmagnola furono superiori, e vi restò con altri nobili di conto prigioniere lo stesso signor di Fermo, al quale poco appresso il duca non solamente restituì la libertà, ma vi aggiunse ancora di molti regali. Fu particolare in Filippo Maria Visconte una tal magnanimità, e ne vedremo degli altri esempli. Questa vittoria e la tanto cresciuta potenza del duca fecero oramai conoscere al marchese Niccolò d'Este signor di Ferrara, Modena, Reggio e Parma che il duca, voglioso di ricuperar tutto ciò che aveano posseduto i suoi maggiori, e massimamente il duca Gian-Galeazzo suo padre, per le due ultime città gli avrebbe mossa guerra [Diario Ferrarese, tom. 24 Rer. Ital.]. Per ischivarla mosse da saggio un trattato di accordo, per cui si convenne nel mese di novembre che il marchese, cedendo al duca per sette mila fiorini d'oro Parma, riterrebbe in suo dominio la città di Reggio; e fu eseguita questa convenzione. Durarono poi le ostilità del Carmagnola sul Bresciano, e restò maggiormente bloccata Brescia dalle armi del Visconte; ma niuna importante impresa ne seguì nell'anno presente.

Intanto più che mai felicemente procedeva la guerra de' Veneziani in Dalmazia, in Friuli e nelle vicinanze [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Conquistarono essi Cataro, Traù, Spalatro [1033] ed altri luoghi in Dalmazia; si rendè loro la città di Feltro, Spilimbergo, Valvasone ed altre terre in Friuli. Ma ciò che maggiore risalto diede all'armi loro fu l'acquisto della città d'Udine, dove il valoroso lor generale Filippo degli Arcelli fece la sua entrata nel dì 7 di giugno. Tralascio altri progressi dei Veneziani, che in così poco tempo ricuperarono quasi tutta la Dalmazia, e divennero per la prima volta padroni della bella provincia del Friuli. Allora il patriarca Lodovico, trovandosi per le sue sconsigliate bravure spogliato di quel nobile Stato, ricorse a papa Martino, il quale spedì a Venezia legati per sostenere gl'interessi del patriarcato. Ma quei legati non erano cannoni, e però non fecero breccia alcuna nello animo de' veneti vittoriosi, che si teneano ben cara un'estensione sì rilevante della loro signoria. Fin qui era dimorato in Firenze il romano pontefice, onorato e servito da tutti [Leonardus Aretinus, Hist., tom. 19 Rer. Ital.]. Accadde, che quando Braccio venne in quella città, alcuni suoi fautori attaccarono in diversi canti delle strade alcuni versi in lode di Braccio e disprezzo del papa. V'era fra le altre cose:

PAPA MARTINO NON VALE UN QUATTRINO.

E i ragazzi l'andavano cantando per le strade. Il papa, in vece di sprezzare, come fanno i principi di animo grande, questi latrati plebei, o di cercarne provvedimento proprio, talmente se ne indispettì, che fin d'allora determinò di mutare stanza; e per quanto gli fosse poi detto, non si potè tenere. Adunque nel dì 9 di settembre [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 18.] si partì di Firenze con grande onore, e nel dì 20 fu in Siena. Di là passò a Viterbo, e giunse nel dì 28 a Roma, dove nel dì 30 fece magnificamente la sua entrata con plauso di tutto il popolo romano.

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Anno di Cristo mccccxxi. Indiz. XIV.
Martino V papa 5.
Sigismondo re de' Romani 12.

Gran copia di aderenti avea Lodovico III duca d'Angiò nel regno di Napoli [Cribell., Vit. Sfort., tom. 19 Rer. Ital.]. Spezialmente prevaleva la sua autorità nella Calabria, dove pendevano dai suoi cenni le città di Cosenza, Bisignano, Rossano, Santa Severina, San Marco, Crotone, Policastro ed altre terre, al governo delle quali inviò Francesco figliuolo di Sforza. Non erano molte le forze della regina Giovanna e del re Alfonso per resistere a questo avversario, sostenuto dal papa e dall'invitto Sforza. E quand'anche avessero potuto resistere, ne mancavano loro per cacciarlo fuori del regno. Durante dunque il verno fra le maniere di fortificare la lor fazione, fu creduta la migliore e più spedita di chiamare in loro aiuto Braccio, la cui riputazion nel mestier delle armi era celebre in questi tempi per tutta l'Italia. Pertanto gli spedirono l'invito con ingorde promesse di ricompensa [Campanus, Vit. Brachii, tom. 18 Rer. Ital.]. Braccio, dopo aver fatto il ritroso per maggiormente avvantaggiar le sue cose, finalmente condiscese a condizione che la regina lo investisse e metesse in possesso della città di Capoa e del suo principato, boccone da principe; e che il creasse contestabile del regno [Bonincont., Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Tutto gli fu accordato; e dacchè egli ebbe spedita gente a prendere il possesso di Capoa, (benchè il Campano sembri credere ciò seguito più tardi) tutto allegro cominciò a mettere in ordine e ad accrescere le sue genti, colle quali in fine si inviò in persona alla volta del regno di Napoli, avendo prima voluto sicurezza dalla regina di ducento mila fiorini d'oro per pagare le truppe. Essa parte ne fece sborsare, parte diede per mallevadori i mercatanti fiorentini [Histor. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.]. Mentre queste [1035] cose si trattavano, il re Alfonso, nel mese di febbraio diede una scorsa al suo regno di Sicilia, ch'egli non avea peranche veduto. Sbarcò a Palermo, e poscia andò visitando Messina e le altre città di quel fiorito regno: il che fatto, se ne tornò a Napoli per assistere alla regina contro gli sforzi di Lodovico d'Angiò e di Sforza. Entrò ancora nel regno colle sue forze il prode Braccio, e sulle prime s'impadronì di Solmona, di Sangro e d'altre terre. Poscia speditamente marciò ad Aversa per sorprender ivi, se potea, l'Angioino, sapendo che Sforza col meglio dei suoi era lungi di là. Ma non gli andò fatta. Sforza corse ad Aversa, ed, assicurata con buon presidio la città, rendè inutili i disegni dell'avversario. In questi tempi Jacopo Caldora, uno di quei baroni che avea prese l'armi contro la regina Giovanna, ed abbondava di coraggio e di soldatesche, allorchè Sforza si credeva di avere in lui il più fedel collegato, venne a scoprirsi di fede instabile, guadagnato da Braccio, con cui unì in fine le forze sue: colpo che sconcertò non poco gl'interessi di Lodovico d'Angiò e di Sforza. Braccio intanto col Caldora se n'andò a Napoli, e vi giunse nel punto che anche il re Alfonso con bella flotta e buon rinforzo d'armati nel dì 26 di giugno sbarcò in quel porto. Incredibile fu in Napoli l'allegrezza per la venuta di questi campioni, e favoritissimo fu l'accoglimento fatto a Braccio dalla regina e dal re.

Attendeva in questi tempi papa Martino V, già restituito a Roma, a dar sesto a quella città. Ma non sapeva egli digerire, che la regina Giovanna, senza farne consapevole il romano pontefice suo sovrano, non che senza chiederne il consenso, avesse adottato in figliuolo il re Alfonso, la cui mente e potenza già gli facea paura. Molto più si accese di sdegno allorchè vide Braccio suo vassallo impugnar le armi contra del duca d'Angiò da sè favorito, e cominciar la fabbrica di maggiore ingrandimento, che potea essere un dì troppo pregiudiziale agli Stati della [1036] Chiesa. In questi tempi venne il duca di Angiò a Roma, per rappresentare al papa lo stato assai dubbioso, se non anche pericoloso, de' suoi affari, e per chiedere aiuto. Gli diede il pontefice quel rinforzo che potè di denaro; ed ordinò a Tartaglia, che era al suo soldo, di andarsi ad unire a Sforza con cinquecento cavalli e qualche fanteria di sua condotta. Scrisse ancora un breve nel dì 29 di giugno [Raynaldus, Annal. Eccles.] ai signori sì ecclesiastici che secolari del regno di Napoli, comandando loro di non pagare alla regina i tributi, e di non ubbidire ai di lei ministri; ma non tralasciò intanto di procurare aggiustamento fra le parti [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. A questo fine inviò a Napoli nel settembre i cardinali di Sant'Angelo e del Fiesco, che trovarono l'osso troppo duro; e pare che se ne andassero senza aver nulla fatto. Il bello era che ne' medesimi tempi cominciò la regina a pentirsi di aver chiamato ed adottato il re Alfonso [Bonincontrus, Annal., tom. eod.], e per via di Bernardo Arcamone cominciò a trattar segretamente con Lodovico d'Angiò e Sforza: il che penetrato dal re Alfonso, gli diede un'incredibil gelosia. Per questa dubbietà di animi nulla di riguardevole succedette nel resto dell'anno fra le due nemiche armate, le quali, dopo varii movimenti, saccheggi e scaramuccie, si ridussero ai quartieri d'inverno. Si credeva ognuno di goder ivi la quiete [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.], quando all'improvviso il re Alfonso e Braccio, per levarsi l'impaccio della Cerra, luogo già occupato da Sforza, otto miglia lungi da Napoli, vi andarono a mettere l'assedio, e cominciarono colle bombarde ed altre macchine a bersagliar quella terra. Accorsovi Sforza con cinquecento cavalli, vi spinse dentro Santoparente ed altri dei suoi bravi parenti Cotignolesi con ottanta cavalli, i quali fecero tal difesa, che, disperando il re di vincere la pugna, ascoltò volentieri proposizioni d'accordo. Per [1037] onor suo fu ritrovato il ripiego che gli assediati esponessero la bandiera del papa, per la cui riverenza il re mostrò di ritirarsi. Scrive bensì il Campano [Campanus, Vita Brachii, tom. 19 Rer. Ital.] che Cerra gli si rendè, ma verisimilmente in ciò egli prese abbaglio. Soggiornando intanto il duca d'Angiò e Sforza in Aversa, e trovandosi con esso loro Tartaglia, antico nemico, e poco fa divenuto amico di Sforza, insorsero sospetti di mala fede contro di lui, e che egli avesse tenuto intelligenza di un tradimento con Braccio. Se fossero veri o falsi cotali sospetti, nol saprei dire. Sappiamo di certo ch'egli fu preso, e posto ai tormenti, nei quali dicono che confessò il delitto; laonde gli fu tagliata la testa. Confessa il Campano che Braccio trattava male qualunque dei soldati di Sforza che restasse prigioniere; regalava all'incontro e rimandava quei di Tartaglia: stratagemma forse usato da lui per metterlo in diffidenza col duca d'Angiò e con Sforza, siccome infatti avvenne. Ma costò caro al duca, perchè la maggior parte de' soldati di Tartaglia, credendo ucciso a torto il lor condottiere, a poco a poco desertando, si andarono ad arrolare nel campo di Braccio.

Così andavano gli affari di Napoli; nel qual tempo Filippo Maria duca di Milano andava stendendo le ali. La prima sua impresa nell'anno presente fu contra di Pandolfo Malatesta signore di Brescia. Già molte castella di quel distretto erano in mano del duca, e il conte Carmagnola con oste poderosa si preparava a fare del resto. Però, trovandosi troppo inferiore di forze il Malatesta, e stando come bloccato e privo di vettovaglie, capitolò col duca la cessione di quella potente città [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.] per trentaquattro mila fiorini d'oro, che gli furono sborsati. Entrò in Brescia il vittorioso Carmagnola nel dì 16 di marzo, e Pandolfo colla testa bassa se ne tornò a casa sua. [1038] Aveano i maggiori del Visconte signoreggiata la città di Genova. A Filippo Maria premeva di non essere da meno; e però in quest'anno si diede più che mai a far pratiche per mettervi il piede; e soprattutto l'animavano all'impresa i fuorusciti che erano ricorsi a lui. Tra le speranze dategli da questi, e il trovarsi non pochi degli stessi abitanti in Genova o per malevolenza o per invidia contrarii al governo di Tommaso da Campofregoso, buona disposizione apparve per ottenere l'intento. Ordinato dunque un convenevol esercito sotto il comando del Carmagnola, venuta la state [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], lo spedì nel Genovesato, premessa la sfida contra del Campofregoso. Non tardò Albenga con altre terre a rendersi. Passò dipoi l'armata sotto Genova, e ne formò da ogni parte l'assedio; ed affinchè non le venisse soccorso per mare, condusse il duca al suo soldo sette galee di Catalani [Ammirato, Istoria Fiorentina, lib. 18.]. Il Campofregoso, che per l'imminente bisogno nel dì 27 di giugno, col consenso de' Genovesi, avea venduto Livorno ai Fiorentini per cento mila fiorini d'oro, non omise diligenza per difendere il suo Stato. Armate ancora sette galee, comandate da Batista suo fratello, le spedì incontro ai Catalani. Ma venuti a battaglia questi legni, ne rimasero sconfitti i Genovesi, e prigione lo stesso Batista: colpo che mise la falce alla radice, e condusse Tommaso a trattar di composizione col Carmagnola, e per mezzo suo col duca. Non ebbe difficoltà il duca di lasciare al Campofregoso il dominio di Sarzana, purchè consegnasse Genova alle sue mani, perchè col tempo non mancano ragioni o pretesti ai conquistatori di ritorsi quello che per misericordia han lasciato sul principio. Promise ancora il duca a Tommaso trenta mila fiorini d'oro, e quindici mila a Spineta Campofregoso altro di lui fratello, acciocchè rendesse la città di Savona, di cui [1039] era in possesso. Così nel dì 2 di novembre il Campofregoso non senza lagrime uscì di Genova, e vi fece la sua entrata il conte Carmagnola, che ne prese il possesso a nome del duca, e rimise in casa tutti i fuorusciti e banditi. Di questo passo camminava la fortuna del duca di Milano. Men prosperosa non era quella de' Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Essi in quest'anno ricuperarono Drivasto, Antivari, Dulcigno, e quasi tutto il resto dell'Albania. Presero ancora nel Friuli alcune poche castella che avevano resistito fin ora: nella qual congiuntura Filippo degli Arcelli Piacentino, valente lor generale, restò colpito da un verrettone, per cui diede fine ai suoi giorni. E perciocchè il papa fece nuove istanze in favore del patriarca d'Aquileia per la restituzione del Friuli, quel saggio senato rispose che lo renderebbe ogni qual volta fosse rimborsato delle spese della guerra, a cui erano stati forzati dall'inquieto patriarca. Ascendevano queste spese a milioni. Però si venne ad un accordo, per cui fu solamente lasciata allo stesso patriarca la città di Aquileia colle castella di San Daniello e di San Vito. Tutto il rimanente fu, ed è tuttavia, della repubblica veneta, con essere cessata tutta la potenza temporale del patriarca d'Aquileia, il quale in addietro, dopo il romano pontefice, era il più ricco prelato d'Italia.


   
Anno di Cristo mccccxxii. Indiz. XV.
Martino V papa 6.
Sigismondo re de' Romani 13.

Anno di pace per l'Italia fu questo, e però niuno importante avvenimento viene somministrato alla storia. Veggendo il pontefice in gran declinazione gli affari del re Lodovico d'Angiò, e rincrescendogli ormai di gittar tanto danaro per voler sostenere un edifizio che da troppe parti minacciava rovina, prese il partito di trattare un accordo [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Pertanto di [1040] nuovo spedì a Napoli i due cardinali legati, se pure n'erano essi partiti, con istruzioni nuove, affinchè trovassero temperamento all'emulazione e guerra dei due re. Alfonso, oltre alla sua naturale accortezza, avea in mano di che far guerra al papa: cioè minacciava tuttodì di far risorgere il tuttavia vivente Pietro di Luna, già Benedetto XIII, condannato dal concilio di Costanza, e di farlo riconoscere di bel nuovo per papa nell'Aragona, Sardegna, Sicilia e regno di Napoli. Perciò fu d'uopo che papa Martino facesse il latino come volle Alfonso. Indusse dunque Lodovico d'Angiò nel mese di marzo a rimettere in mano de' legati Aversa e Castello-a-mare: luoghi che poi da lì a qualche tempo furono da essi cardinali consegnati alla regina Giovanna. Se ne tornò Lodovico a Roma senza danari, senza credito, a vivere, come potè, di ciò che il papa gli diede. Venuto l'aprile, il re Alfonso andò sotto Sorrento e Massa, e gli ebbe a patti, volendo che si rendessero a lui, e non alla regina: azione che alla medesima dispiacque non poco, cominciandosi a conoscere che il figliuolo adottivo s'istradava a far da padrone e ad occupar la signoria. Ma più se ne alterò il suo favorito, cioè Ser Gianni Caracciolo gran senescalco, il quale già mirava in aria il precipizio dalla sua autorità, qualora il re Alfonso crescesse nella potenza e nel comando. Il perchè tanto egli quanto la regina si diedero sotto mano a tirare nel loro partito Sforza Attendolo [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]; anzi persuasero al medesimo re che util cosa sarebbe il guadagnare questo insigne capitano, perchè tuttavia molti conti e baroni del regno tenevano la fazione angioina, alla quale, con levarle Sforza, si sarebbono tagliate le penne maestre [Cribell., Vita Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital. Vita Brachii, tom. eod.]. Braccio fu quegli che ebbe l'incombenza di trattarne, proponendo un colloquio con esso Sforza. In fatti, confidato Sforza nell'onoratezza di [1041] Braccio, animosamente l'andò nella state a trovar nel suo campo. Rinnovarono allora questi due valorosi emuli l'interrotta amicizia, e per due ore ebbero insieme una conferenza, in cui dicono che Braccio sinceramente rivelò all'altro le trame da lui fatte col conte Niccolò Orsino e con Tartaglia contra di lui. Quivi ancora fu conchiuso che Sforza fosse rimesso in grazia di Giovanni e d'Alfonso, cedendo loro l'importante luogo della Cerra. Ciò fatto, si restituì Braccio sollecitamente a Perugia, invogliato di sottoporre al suo impero Città di Castello, dove era invitato dai fuorusciti. Comparve d'avanti a quella città colle sue milizie, e giacchè i Fiorentini, suoi singolari amici, chiudevano gli occhi alle di lui conquiste, ne imprese l'assedio. Si sostennero que' cittadini finchè videro tutto preparato per un generale assalto, ed allora esposero bandiera bianca; e così Braccio n'entrò senza maggiore sforzo in possesso. Scrive il Buonincontro, ed è seco Leodrisio Crivello, che in tal congiuntura Braccio fece un'irruzione in quel di Norcia, e poi del Lucchese, ricavandone grandi somme d'oro. Ma, per conto del tempo, può essere che s'ingannino. Abbiamo già veduto appartenere agli anni addietro il danno da lui recato a que' due territorii. Intanto perchè la peste era entrata in Napoli, e la regina col re Alfonso ritiratasi a Gaeta, quivi soggiornava colla sua corte, Sforza si portò colà, e fu ben ricevuto sì da lei, come dal gran senescalco Caracciolo. Non così dal re Alfonso, che in questo prode uomo trovava un impedimento ai disegni della sua ambizione. Le apparenze dell'accoglimento fattogli da esso re furono belle, ma si stette poco a scoprire ch'egli il mirava di mal occhio; e però tanto più la regina e il Caracciolo si strinsero collo stesso Sforza. Andavano pertanto ogni giorno più crescendo le loro gelosie, ed erano da amendue le parti gli animi turbati; laonde fu di mestieri venire ad una composizione, per [1042] cui si dichiarò che Sforza servisse di difensore del regno non meno alla regina, che al re, ed egli fosse tenuto a prendere le armi pel primo d'essi che il chiamasse in suo aiuto. Dopo di che Sforza colle sue genti andò a passare il verno a Villafranca presso Benevento, e poscia alla città di Troia.

Altro non si sa che facesse in questo anno Filippo Maria duca di Milano, se non empiere di sospetti i rettori di Firenze [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 18.] sì per l'acquisto fatto di Genova, come per gli altri patti stabiliti con Tommaso da Campofregoso, che non potesse vendere se non ai Genovesi Sarzana. Teneva inoltre al suo soldo Angelo dalla Pergola, rinomato condottier di armi, che stanziava in questi tempi col suo corpo di gente su quel di Bologna. Crebbero perciò le gelosie de' Fiorentini, gente che sapea adoperare il microscopio negli affari del mondo. Venuto in oltre a morte nel dì 25 di gennaio [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Ammirat., ubi supra. Poggius, Hist., lib. 5, tom. 20 Rer. Ital.] Giorgio Ordelaffi signore di Forlì, con lasciar successore nel dominio Tebaldo suo figliuolo in età d'anni nove, la cui tutela fu assunta da Lucrezia sua madre, figliuola di Lodovico Alidosio signore d'Imola; corse a mischiarsi negli interessi di quella città il duca di Milano. Di più non ci volle per accrescere sempre più le gelosie de' Fiorentini; e però, quantunque il duca spedisse a Firenze ambasciatori per dissipare queste ombre, e proporre una lega, nulla ne seguì. Rincrebbe ancora ai Fiorentini l'aver esso duca trattata e conchiusa lega col cardinale legato di Bologna. Nel dicembre di quest'anno inviò il medesimo duca per governatore di Genova [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] il valoroso suo generale conte Carmagnola, ed intanto attendeva a far gente: lo che mise in sospetto anche i Veneziani. [1043] Scrive il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] che Asti, non so come, venne in quest'anno in potere di esso duca. Merita eziandio di esser fatta menzione che nell'anno presente si cominciarono per la prima volta a vedere in Italia i cingani o cingari, gente sporca ed orrida di aspetto, che contava di molte favole della sua origine, fingeva di andare a Roma a trovare il papa, e che intanto viveva di ladronecci. Capitarono costoro a Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] nel dì 18 di luglio, e poscia a Forlì [Chronic. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.] col loro capo, a cui davano il titolo di duca. Motivo oggidì potrà essere di ridere, se dirò che costoro diceano d'avere per patria l'Egitto, che il re d'Ungheria, dopo aver presa la lor terra, volle che andassero nello spazio di sette anni pellegrinando pel mondo. Spacciavano le lor donne l'arte d'indovinare; e chiunque si dimesticava di farsi strologar da esse, vi lasciava il pelo. Sappiamo altronde che questa canaglia si sparse per la Germania, e andò fino in Inghilterra, e tuttavia ne dura la semenza in Italia. Furono in quest'anno travagliate dalla peste molte città d'Italia. Niuna buona guardia, come ho detto altrove, si faceva allora dai disattenti Italiani per impedire l'ingresso o tagliare il corso a questo morbo micidiale; e però, entrato in un luogo, agevolmente si dilatava per gli altri.


   
Anno di Cristo mccccxxiii. Indiz. I.
Martino V papa 7.
Sigismondo re de' Romani 14.

Se crediamo al Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], terminò i suoi giorni in quest'anno Pietro di Luna, già antipapa Benedetto XIII, ostinato nello scisma, e sprezzatore dei decreti e delle censure della Chiesa universale raunata nel concilio di Costanza. Morì nella fortezza di Paniscola nel regno di [1044] Valenza; e l'avviso di sua morte avrebbe recata somma allegrezza a papa Martino e alla corte romana, se non fosse soppraggiunta un'altra nuova, che i due soli restanti cardinali di lui aveano osato di eleggere un nuovo antipapa, cioè Egidio Mugnos o Mugnone, canonico di Barcellona, a cui diedero il nome di Clemente VIII. Ma il Rinaldi anticipò di un anno la morte di costui, e però dirò il resto all'anno seguente. Basterà per ora sapere che Alfonso re d'Aragona quegli fu che per suoi politici motivi tenne sempre vivo l'antipapato di Pietro di Luna per avere uno spauracchio da valersene contra di papa Martino, a cui non cessava di chiedere esenzioni e grazie. Anche nell'anno presente fece egli istanza per l'investitura del regno di Napoli, giacchè la regina Giovanna l'avea adottato per figliuolo. Ma non mancò fermezza al pontefice per negargliela, asserendo egli di non poter far questo torto a Lodovico d'Angiò, a cui competevano giusti titoli sopra quel regno. Avea esso pontefice, per adempiere i decreti del concilio di Costanza, intimato il concilio generale da tenersi in questo anno a Pavia. E in effetto si diede principio a quella sacra assemblea in essa città, ma con meschino concorso di prelati. Entrata colà la peste, fu il concilio trasferito a Siena. Neppur quivi andò innanzi, siccome diremo, perchè il suddetto re volea mettere in campo le pretensioni di Pietro di Luna per far dispetto al papa: lo che obbligò papa Martino a differire a miglior tempo la tenuta del destinato concilio. Di questa sua perversa politica s'ebbe ben presto a pentire Alfonso. Quanto più in questo principe cresceva l'avidità d'impadronirsi del regno di Napoli, tanto più egli scorgeva crescere la diffidenza della regina, ed essergli contrario il gran senescalco Caracciolo. Ora, giacchè buona parte del regno per valore di Braccio era venuta alla di lui divozione, determinò di fare il resto col mezzo della violenza, e di [1045] ridurre la regina Giovanna nello stato in cui già la vedemmo sotto Jacopo conte della Marca. Gli storici a lui parziali attribuiscono la risoluzione alle insolenze e ai maligni consigli del suddetto gran senescalco Caracciolo, che ruppe ogni buona armonia fra lui e la regina [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Cribell. Vit. Sfort., tom. 19 Rer. Ital.]. Fatto dunque chiamare a sè il medesimo Caracciolo, benchè vi andasse armato di salvocondotto, pure il trattenne prigione nel dì 22 di maggio, ed immediatamente cavalcò al castello di Capuana per far lo stesso giuoco alla regina, che ivi dimorava. Per buona fortuna prevenuta essa da un segreto avviso di un suo familiare dell'imminente pericolo, ebbe tempo di far chiudere la porta del castello in faccia ad Alfonso, e non tardò a spedir più messi l'un dietro all'altro, a Sforza, allora dimorante fuor di Napoli a Mirabello, implorando il suo aiuto. Diede alle armi Sforza, e, raunati quanti potè de' suoi, si mise in viaggio alla volta di Napoli, e, giunto al Formello, trovò circa quattro mila tra cavalli e fanti del re Alfonso, inviati per impedirgli il passo. Erano gli Aragonesi tutti ben a cavallo, tutti superbamente vestiti, e superiori troppo di numero, perchè quei di Sforza si trovavano mal vestiti, e con cavalli magrissimi, e poco più di mille tra fanti e cavalli. Pure egli animosamente si spinse innanzi, ed attaccò la zuffa nel dì 30 di maggio. Fu atroce, fu lungo il combattimento; ma finalmente essendo sbaragliati gli Aragonesi, circa cento venti dei più nobili, oltre a moltissimi ordinarii soldati, rimasero prigionieri; di modo che quei di Sforza si rimisero bene in arnese sì di abiti che di cavalli e d'armi.

Dopo sì lieto successo Sforza si presentò alla regina, che l'accolse come suo angelo tutelare, e nel castello rassegnò tutti i prigioni. Poscia, senza perdere tempo, marciò colle sue genti alla volta d'Aversa, dove trovò quel vice-castellano [1046] catalano [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], il quale, sbigottito per la nuova della rotta data al re suo padrone, oppure guadagnato con quattro mila fiorini, da lì a non molto capitolò la resa di quella città. Ora, mentre Sforza stava a quell'assedio, giunsero nel dì 11 di giugno a Napoli otto navi grosse e ventidue galee di Alfonso, nelle quali destinava il re di mandar la regina Giovanna prigioniera in Catalogna [Cronica di Sicilia, tom. 24 Rer. Ital.]. Ne fu avvertito Sforza, e spedì tosto Foschino Attendolo con cinquecento cavalli a fin d'impedire lo sbarco; ma non bastò la resistenza di così piccolo numero di gente a sostener la forza troppo superiore dei Catalani, i quali entrarono nella città. Neppur lo stesso Sforza, che colà arrivò il giorno seguente, contuttochè bravamente combattesse più ore, potò respignerli; anzi toccò a lui d'abbandonar Napoli, e di ritirarsi nei borghi, dove si accampò. In questa occasione il re Alfonso, per intimorire ed occupare i Napoletani, temendo che si sollevassero, bruciò quella parte della città che è contigua al Castello Nuovo. Allora Sforza, veggendo in istato sì pericoloso gli affari, tratta fuori del castello di Capuana la regina, la condusse alla Cerra, e di là ad Aversa. Col cambio poi di varii dei suoi prigionieri riscattò Ser-Gianni Caracciolo, il quale non lasciò per questo il suo mal animo verso del benefattore Sforza; al contrario della regina, la quale per ricompensa donò a Sforza Trani e Barletta, due città della Puglia. Tornato che fu il gran senescalco alla corte in Aversa, la regina Giovanna, preso consiglio da lui, da Sforza e da varii giurisconsulti, dichiarò il re Alfonso decaduto dal diritto della figliuolanza per colpa della sua ingratitudine, ed elesse per suo figliuolo Lodovico duca d'Angiò, il quale usava anche il titolo di re, allora abitante in Roma. Venne il duca ad Aversa a trovar la regina, che l'accolse con buon cuore; ma intanto il castello [1047] di Capuana si rendè al re Alfonso; con che egli restò interamente padrone di Napoli. Con tutto ciò, perchè l'adozione del suo avversario, pubblicata per tutta l'Europa, facea gran rumore, e chiaro appariva che vi avea avuta mano papa Martino, Alfonso, diffidando del popolo di Napoli, pensò di tornarsene in Catalogna; e tanto più, perchè era minacciato di guerra in quelle parti per la nemicizia dei Castigliani, e in oltre s'udiva allestirsi in Genova un gagliardo stuolo di legni contra di lui per ordine di Filippo Maria duca di Milano, che dianzi s'era collegato colla regina Giovanna e con papa Martino. Pertanto mandò lettere a Braccio, ch'era allora all'assedio dell'Aquila, pregandolo di venir colle sue forze a Napoli; ma Braccio, che avea altri disegni, sperando di far sua la ricca città dell'Aquila, muovere non si volle, e solamente gl'inviò Jacopo Caldora con un corpo di gente che parve bastante unito coi Catalani a tenere in freno i Napoletani [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Cribellus, Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 18 Rer. Ital.]. Ora il re Alfonso nel dì 15 d'ottobre, avendo lasciato per governatore di Napoli l'infante don Pietro suo fratello, con dieciotto galee si mise in mare, e nel viaggio prese e saccheggiò l'isola d'Ischia. Fece ancora di peggio. Nel passare avanti a Marsilia, città allora del duca d'Angiò nemico suo, per vendicarsi di lui, all'improvviso tentò un'impresa che parve temeraria, eppure gli riuscì: tanto era egli ardito e sprezzator de' pericoli. Se ne stavano i Marsiliesi senza guardia, perchè senza apprension di nemici all'intorno, quando ecco Alfonso sopravvenir colla sua flotta, rompere la catena del porto, sorprendere quanti legni ivi si trovarono, ed attaccato il fuoco a parte della città, mettere tal terrore in essa, che il popolo corso all'armi non potè durarla contro di lui. Per tre giorni andò tutta a sacco quella ricca città; immensa fu la preda, [1048] e fra le altre cose tutti i vasi preziosi delle chiese, e tutte le reliquie del corpo di san Lodovico vescovo furono asportate a Barcellona e Valenza, verso dove Alfonso continuò il suo viaggio, perchè conobbe di non poter tenere quella città.

Vegniamo ora a Braccio da Montone [Campanus, Vit. Brachii, tom. 19 Rer. Ital.]. Dacchè egli si vide in pieno possesso della nobil città di Capoa e del suo riguardevol principato, siccome uomo pien di grandi idee, e che, appena salito un gradino, pensava a montare più allo, rivolse gli occhi, siccome dicemmo, alla ricca città dell'Aquila; e perchè questa si dichiarò del partito della regina contra del re Alfonso, bella occasione parve a lui questa d'impadronirsene, con isperanza, avuta che l'avesse, di non dimetterla sì presto, anzi di aggiugnerla al suo principato. Ne imprese dunque l'assedio, ma con trovare quel popolo risoluto di difendersi. E perchè egli per soggiogare una terra si ritirò di là per alquanti dì, lasciò campo a quei cittadini di premunirsi ben di viveri, e di rimettere in buono stato le fortificazioni della loro città. Però, tornatovi sotto, con più ardore la strinse; e trovando inutili, anzi dannosi, gli assalti, si preparò in fine a vincerla colla fame. Intanto gli Aquilani con varie lettere e messi imploravano aiuto dalla regina Giovanna. La commiserazione di quel popolo fedele, e più la conservazione di sì importante città per proprio interesse, furono pungenti sproni alla regina per accudir con vigore a preparare il soccorso. Fu mosso Sforza a questa impresa non meno dalle di lei premure, che dalla antica sua emulazione verso di Braccio. Però, quantunque il verno imminente invitasse le milizie al riposo, egli chiamò il figliuol Francesco dalla Calabria, Foschino, Michele e gli altri suoi fidi Cotignolesi colle loro truppe, e si mise in marcia alla volta dell'Aquila con quel successo che si vedrà all'anno seguente. Scrive il Crivelli [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.] avere Filippo Maria duca di [1049] Milano già fatto negozio per tirare lo stesso Sforza al suo servigio, e sostituirlo nel generalato al conte Carmagnola, il quale già vacillava nella grazia del duca; e che Sforza avea accettato l'impiego di consenso del papa e della regina, pensando di portarsi a Milano, dacchè avesse liberata l'Aquila. Non so io immaginare ch'egli volesse abbandonare il servigio della regina per altra cagione che per vedersi tuttavia malvoluto e perseguitato dal gran senescalco Caracciolo. Erasi, come già dissi, collegato esso duca di Milano col papa e colla regina Giovanna [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Alle istanze loro fece egli allestire in Genova una poderosa flotta di tredici galee, e di altrettante navi con altri legni, non senza querele de' Genovesi, perchè questo armamento costò a quella comunità ducento mila genovine. Con questa flotta, nel dì 14 di novembre, si unirono sei galee e una galeotta del re Lodovico di Angiò, armate di Provenzali, e due altre alle di lui spese si armarono in Genova. Quando si credeva che ammiraglio di essa flotta avesse da essere l'invitto conte Francesco Carmagnola governatore allora di Genova, arrivò colà, spedito dal duca per comandarla il conte Guido Torello: del che ognuno si stupì e dolse non poco. A noi sono ignoti i motivi per li quali s'era raffreddato l'amore del duca verso del Carmagnola, mirabile condottier d'armi, a cui principalmente dovea esso duca l'esaltazione sua. Certo è che di questa diffidenza e di tal trattamento si dolse e sdegnò oltre misura il Carmagnola, nè tarderemo molto a vederne gli effetti. Non si dee tacere che prima di questi tempi lo stesso duca, siccome principe che macinava sempre pensieri di maggiore ingrandimento, cominciò ad imbrogliar la quiete della Romagna. Già vedemmo dopo la morte di Giorgio Ordelaffo signore di Forlì preso il comando di quella città da Lugrezia figliuola del signor d'Imola a nome di [1050] Tebaldo suo picciolo figliuolo [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Italic. Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.]. S'aveano a male i Forlivesi che gl'Imolesi concorsi colà in folla facessero addosso a loro i padroni. S'ebbe anche a male il duca di Milano, che Lugrezia non si volesse dipartire dall'amicizia de' Fiorentini, e passar nella sua lega. Laonde, nel dì 14 di maggio, il popolo di Forlì si mosse a rumore, prese le porte e le fortezze della città, e mise sotto buona guardia la suddetta Lugrezia, la qual poi ebbe la maniera di ritirarsi a Forlimpopoli, con aver fatto credere di voler consegnare quella terra alle genti del duca di Milano. Allora i Forlivesi chiamarono in aiuto le genti d'esso duca, comandate da Angelo dalla Pergola, le quali, entrate in quella città, fecero finta d'andarvi a nome del papa, oppure di Niccolò marchese di Ferrara, e di guardarla pel fanciullo Tebaldo. Certo è che allora il papa e il duca passavano di buona intelligenza fra loro. Diedero perciò all'armi i Fiorentini [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 18.]; e preso per loro generale, nel dì 23 d'agosto, Pandolfo Malatesta signore di Rimini, lo spedirono in Romagna con assai forze per sostenere il partito di Lucrezia. Tacque l'Ammirati, ma non tacquero già gli Annali di Forlì, nè Andrea Biglia [Billius, Hist., pag. 63, tom. 19 Rer. Ital.], che nel dì 6 di settembre il popolo di Forlì con presidio duchesco mise in rotta le genti dei Fiorentini, con farne prigioniera la metà d'esse: lo che fece maggiormente divampar la guerra tra il duca e i Fiorentini, i quali cercarono allora di collegarsi coi Veneziani [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Spedirono per questo ambasciatori a Venezia; ma non trovarono favorevole alle lor dimande Tommaso Mocenigo doge, uomo vecchio ed amante della pace. Curiosissime sono le aringhe di questo doge, rapportate dal Sanuto, perchè ci fan tra le altre cose vedere qual fosse allora l'opulenza dell'inclita città di Venezia, e quali le [1051] forze di cadauno dei principi che allora signoreggiavano in Italia. Ma poco stette a terminare la gloriosa sua vita il doge suddetto, essendo venuto a morte nell'aprile di quest'anno, e in suo luogo fu eletto Francesco Foscaro, personaggio inclinato alla guerra.


   
Anno di Cristo mccccxxiv. Indizione II.
Martino V papa 8.
Sigismondo re de' Romani 15.

Si sciolse in quest'anno il concilio generale, cominciato con poco concorso in Siena, per varie difficoltà quivi insorte [Raynald., Annal. Eccles.]; laonde papa Martino determinò che il medesimo si avesse a celebrare da lì a sette anni in Basilea. Nell'anno presente [Vita Martini V, P. II, tom. 3 Rer Ital. Mariana, Histor., et alii.] diede veramente fine al suo vivere l'ostinato Pietro di Luna, cioè l'antipapa Benedetto XIII. L'età di novant'anni, a cui era giunto, ci porge motivo di credere che non da veleno, come corse voce, ma dai troppi anni procedesse la morte sua. A lui fu da due soli anticardinali dato per successore Egidio Mugnos o Mugnone, canonico; e costui, tutto che ridicolo pontefice, non lasciò di crear nuovi cardinali, e di esercitar le funzioni da papa: tutto per suggestione di Alfonso re d'Aragona, il quale, col mantener quest'idolo, volea tenere in apprensione il pontefice Martino V, e ricavarne a suo tempo dei vantaggi. Ma fra le cose che maggiormente angustiavano l'animo d'esso pontefice, era il duro assedio della città dell'Aquila, continuato già per più mesi da Braccio suo nemico, temendosi oramai la caduta di quella città nelle di lui mani. Se ciò succedeva, Roma sarebbe venuta a restar come bloccata da Braccio, uomo non mai sazio d'acquisti, e padrone dall'una parte di Perugia e d'altre città, e dall'altra di Capoa, dell'Aquila e di altri luoghi. Pertanto papa Martino, [1052] oltre al sollecitare continuamente la regina Giovanna e Sforza al soccorso, inviò anche ad esso Sforza tutti gli aiuti di gente armata che egli potè raunare. Erasi dunque mosso questo prode capitano coll'esercito suo verso la metà di dicembre dell'anno precedente con ferma speranza di giugnere a tempo alla liberazion dell'Aquila [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.]; e nel cammino avea sottoposti al suo volere Lanzano ed Ortona, dove celebrò la festa del santo Natale. Quivi, dato riposo alla armata, nel dì 4 del gennaio dell'anno presente al dispetto del verno marciò con tutta la gente innanzi per passare il fiume Pescara, là dove sbocca nel mare. Valicò egli intrepidamente quelle acque insieme con Francesco suo figliuolo, seguitato da quattrocento cavalli, coi quali esso Francesco mise in rotta un corpo di nemici posto alla riva opposta. Intanto, essendosi ingrossato il fiume pel flusso del mare vicino, il resto dell'armata si fermò, non osando passare. L'impaziente Sforza, dopo averli colla voce e colla mano indarno chiamati, di nuovo spinse il cavallo nel fiume per tornare di là, ed animar col suo esempio gli altri al passaggio. Ma ritrovandosi in mezzo all'acqua, e veggendo uno dei suoi uomini di armi, oppure un suo caro paggio, che nel voler passare s'affogava, si indirizzò per dargli aiuto. E già l'avea preso colla man destra per sollevarlo, quando al suo cavallo vennero meno i piedi di dietro, se pur non cadde in un gorgo; e Sforza armato, come era, piombò al basso, e quivi lasciò la vita, senza che mai più si trovasse il cadavero suo, che probabilmente fu rotolato nel mare. E questo miserabil fine fece Sforza Attendolo da Cotignola, che da basso stato era salito pel suo raro valore ad un'insigne potenza, e al credito d'uno dei primi generali d'armi che s'avesse allora l'Italia. Lasciò dopo di sè molti figliuoli, bastardi la maggior parte, fra' quali Francesco superò col tempo di gran lunga la [1053] gloria del padre. Per la morte sua restò scompigliato ogni disegno di quell'esercito. Braccio stesso, che si trovava allora a Chieti, e, inteso il passaggio di Sforza, già s'era posto in viaggio senza volerlo aspettare, dacchè ricevè la nuova della morte di lui, più che mai vigoroso tornò a strignere d'assedio la città dell'Aquila.

Ora Francesco figliuolo di Sforza dopo la perdita del padre volle accorrere alla guardia delle città e terre già possedute da esso suo genitore, e, lasciato un sufficiente presidio in Ortona, frettolosamente col resto dell'esercito si portò a Benevento; e, trovato che non v'era novità, andò ad Aversa. Quivi con tenerezza e distinzione fu accolto dalla regina Giovanna, la quale, per tener vivo il nome del padre, al cui valore ella era tanto obbligata, ordinò ch'egli da lì innanzi s'intitolasse Francesco Sforza; e dopo avergli confermati i dominii del padre, e datagli buona somma di danaro da pagar le milizie, l'animò a proseguir le cominciate imprese in difesa della sua corona. Intanto era giunta in quelle vicinanze in favore d'essa regina la poderosa flotta genovese, ben provveduta di gente brava e guerriera, che il Crivello [Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.] fa consistere in quattordici vascelli, ventitrè galee, tre galeotte, oltre ad altri legni minori. La prima impresa [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.] fu di impadronirsi di Gaeta città ricchissima in quei tempi, dove fecero gran bottino. Ebbero dipoi Procida, Castello-a-mare, Vico, Sorrento, Massa ed altri luoghi. Ciò fatto, si presentarono per mare davanti a Napoli; nel qual tempo anche Francesco Sforza col duca di Sessa e Luigi da San Severino, e con parte delle soldatesche già militanti sotto Sforza suo padre, che volentieri si ridussero sotto le bandiere del figliuolo, si accampò sotto la medesima città. Jacopo Caldora, Berardino dalla Corda degli Ubaldini, Orso Orsino ed altri capitani sotto l'infante don Pietro, fratello [1054] del re Alfonso, valorosamente difendeano la città. Ma Berardino, preso il pretesto che non correano le paghe, con licenza dell'infante se ne ritornò a Braccio. La ritirata di questo condottier d'armi, e il vedere che gli altri Italiani erano spesso a parlamento con quei di fuori, fecero talmente montare in collera l'infante, che determinò di bruciar Napoli. E l'avrebbe fatto, se Jacopo Caldora e Cola Sottile non se gli fossero opposti colle buone e colle brusche, tanto che depose quella crudel risoluzione. Da lì innanzi don Pietro non si fidò più del Caldora, e questi, accortosi di essere in pericolo, segretamente trattò accordo col conte Guido Torello. Perciò nel dì 12 d'aprile, aperta una porta di Napoli, vi entrarono le schiere genovesi e quelle della regina Giovanna, facendo prigionieri non pochi Aragonesi e Catalani, ma senza inferir danno ai Napoletani. Ciò fatto, misero l'assedio al castello di Capuana, che pochi giorni si tenne e si rendè con buoni patti. Passarono poi sotto Castello Nuovo, dove si era ritirato l'infante don Pietro. Gran festa fu fatta per tale acquisto da chiunque amava la regina; ed allora il giovine Lodovico duca d'Angiò a nome di essa entrò in Napoli. Ma Guido Torello colla flotta genovese, perchè la regina si trovava troppo sprovveduta di danaro da soddisfare al soldo e mantenimento di essi Genovesi, se ne partì [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e nel dì 26 di maggio con gran gloria pervenuto a Genova, quivi disarmò. Fu nella suddetta occasione, che avendo il Torello conosciuto di vista Francesco Sforza, giovane, che per tempo mostrava tutte le disposizioni a riuscir quello che poscia divenne col darne vantaggiosa relazione a Filippo Maria duca di Milano, l'invogliò di prenderlo ai suoi servigi, siccome più innanzi vedremo.

Correva già il tredicesimo mese che durava l'assedio dell'Aquila, assedio famoso e minutamente descritto da un [1055] rozzo sì, ma veridico poeta di quella città, ch'io ho dato alla luce nel tomo VI delle mie Antichità Italiane, sostenendosi con valore e costanza memoranda, non ostante la fame, da que' cittadini contro tutti gli sforzi di Braccio da Montone. Il conte Antoniuccio dall'Aquila fece delle maraviglie in difesa della patria. Tanto il pontefice Martino, quanto la regina premevano forte per soccorrere quell'afflitta città; ed amendue, avendo unite quante forze poterono, le spedirono alla volta dell'Aquila. Generale di questa armata fu scelto Jacopo Caldora; sotto di lui militavano Francesco Sforza colle milizie sforzesche, Lodovico Colonna colle pontificie, Luigi da San Severino, Niccolò da Tolentino ed altri capitani assai rinomati. Arrivò il Caldora con tutti i suoi alla cima della montagna, da dove si scopriva l'assediata città dell'Aquila e il campo nemico. Braccio, a cui era giunto con grosso rinforzo di gente Niccolò Piccinino, o perchè superbo si facesse beffe dell'esercito nemico, oppure perchè si figurasse, lasciandoli calar tutti al piano, d'averli come in pugno, non volle che si facesse un passo per assalirli nella scesa del monte, ancorchè i suoi capitani gli rappresentassero la facilità di sbaragliarli nelle vie strette di essa montagna. A chi Dio vuol male gli leva il senno. Disposta la fanteria in certi siti con ordine di non muoversi, s'egli non ne dava il segno, colla cavalleria si fece incontro all'armata nemica, già pervenuta al piano [Corio, Istor. di Milano.]. Attaccatasi la terribil battaglia nel dì 2 di giugno, per più ore si combattè con vicendevole strage di uomini e cavalli. Era stato lasciato il Piccinino con alcune squadre alla guardia della città, affinchè gli Aquilani non uscissero; ma veggendo egli i suoi o piegare o stanchi pel tanto menar delle mani, non si potè contenere, ed, abbandonato il posto, entrò anch'egli colla sua gente nel fiero conflitto. Fu questo la rovina dell'esercito di Braccio; imperocchè il popolo dell'Aquila [1056] (e fin le donne, se dice vero il Campano), scorgendo libero il varco, e il soccorso vicino, furiosamente uscì della città, e girando per le colline, si scagliò anche esso addosso al nemico con immense grida, che atterrirono i Bracceschi ed accrebbero il coraggio agli amici. Queste grida e il polverio alzato furono cagione che la fanteria di Braccio, la quale anche s'era perduta in parte a bottinare, non vide e non intese il segnale per muoversi; e però andò in rotta la di lui cavalleria, e Braccio stesso, mortalmente ferito, fu preso con gran copia dei suoi. Andò tutto il bagaglio in preda ai vincitori; la città restò liberata, e Braccio portato mezzo morto nell'Aquila, tardò poco a spirar l'anima, scomunicato com'era [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital. Leonardus Aretin., Hist., tom. eod. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Fu creduto che la sua ferita venisse dai fuorusciti Perugini, che la volevano sol contra di lui. In questa maniera terminò la vita e la potenza di Braccio Fortebraccio Perugino, personaggio diffamato da alcuni scrittori [Raynaldus, Annal. Eccles. Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. S. Antoninus, et alii.] per uomo di poca religione, di molta crudeltà e di ambizione smoderata, che in questi ultimi tempi era anche peggiorato nei costumi, col divenire più aspro del solito e sprezzatore d'ogni consiglio. Ma certo non gli si può negar la gloria di essere stato insigne nel mestier della guerra, e forse il maggior generale di armata che allora avesse l'Italia. Da Lodovico Colonna fu portato a Roma il cadavero suo, e vilmente seppellito fuori di luogo sacro. Nè si può esprimere la festa che di tal vittoria fecero i Romani, e massimamente il pontefice, che non solamente si vide libero da un formidabil nemico, ma anche nel giorno 29 di luglio ricuperò Perugia, Assisi e le altre città da lui usurpate, con essere anche tornato in potere della regina Giovanna il principato di Capoa. Giunse poi [1057] nel dì 20 di giugno a Napoli la flotta di 25 galee del re d'Aragona, che con alte grida si andò accostando alle mura, e diede in più volte molti assalti al molo picciolo, che bravamente fu difeso dai Napoletani colla morte di assaissimi Catalani. Altro dunque far non potendo quel comandante, nel secondo giorno di agosto cavò di Castello Nuovo l'infante don Pietro fratello del re Alfonso, lasciando in sua vece alla custodia di quella fortezza messer Dalmeo [Hist. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.]; e, dopo aver danneggiata la marina, arrivò circa la metà di esso mese insieme coll'infante a Messina. Vi ha chi riferisce all'anno seguente questo fatto. Venuto poi il settembre, esso don Pietro e don Federigo suo fratello fecero vela colla flotta verso l'Africa, per bottinare addosso ai Mori. In una rotta che diedero ad essi ne fecero prigioni più di tre mila.

Mentre queste cose si faceano nel regno di Napoli, si andò sempre più riscaldando la guerra in Romagna tra Filippo Maria Visconte e i Fiorentini [Ammirat., Istor. di Firenze, lib. 18. Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.]. Troppo di mal occhio miravano questi entrate le armi duchesche in Forlì; perchè l'avere ai confini un principe di tanta potenza, giusta gelosia facea nascere nel cuore di quel molto avveduto popolo. Crebbero maggiormente i dissapori e sospetti, dappoichè le armi del medesimo duca per tradimento misero nel dì primo di febbraio il piede in Imola, e fecero prigione Lodovico degli Alidosi signore di essa città [Billius, Hist., lib. 4, tom. eod.], che fu mandato a Milano. Questi, dopo essere stato parecchi mesi nelle carceri, rilasciato, si fece frate dell'osservanza di San Francesco. Spedirono perciò i Fiorentini Carlo e Pandolfo Malatesti signori di Rimini [Matth. de Griffon., Chron., tom. 18 Rer. Italic.], e circa dieci mila tra cavalli e fanti in Romagna. Dopo avere l'esercito duchesco, comandato da [1058] Angelo dalla Pergola, ridotto in angustia il castello di Zagonara [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], Carlo de' Malatesti per soccorrerlo s'inviò verso quelle parti. Però si venne ad un fatto di armi nel dì 27 oppure 28 di luglio, in cui sbaragliato restò prigioniere lo stesso Carlo Malatesta, e lasciaronvi la vita Lodovico degli Obizzi da Lucca, Orso degli Orsini da Monte Ritondo ed altri assaissimi. Tre mila e ducento cavalli furono presi, oltre alla perdita del bagaglio. Dopo questo prosperoso avvenimento passò l'armata duchesca all'assedio di Forlimpopoli, e nel dì 13 d'agosto se ne impadronì. Lo stesso fece di Bertinoro, Savignano e d'altre castella di que' contorni. Tolse anche ai Fiorentini Bagno, Dovadola e d'altre terre, e quattro castella nel territorio di Pesaro, ed altre in quello di Rimini. Leggesi minutamente descritta questa guerra da Andrea Biglia scrittore di questi tempi. Fu condotto prigioniere a Milano Carlo Malatesta; ma in vece di trovare nel duca un nemico, vi trovò un magnanimo amico. Tosto fu messo in libertà, accolto con onore ed amorevolezza dal duca, e dopo essere stato ben trattato, nel gennaio dell'anno seguente, caricato anche di regali, se ne tornò libero a casa. Fecegli inoltre restituire il duca tutte le castella a lui prese, con grave danno non di meno di coloro che le aveano rendute, perchè come colpevoli furono ben pelati da esso Malatesta. Con questa generosità trasse il duca nel suo partito i Malatesti. Voce comune fu, che se nel bollore di questa fortuna il duca spigneva le sue armi in Toscana, avrebbe ridotto a mal termine i Fiorentini, perchè Cortona, Arezzo ed altre terre stavano colle mani giunte aspettando chi loro porgesse aiuto per sottrarsi al dominio di Firenze. Ma nulla di più si tentò nell'anno presente, e nel susseguente mutarono faccia le cose. Mandò il duca Filippo Maria nel novembre di quest'anno per governatore di Genova [1059] il cardinal Jacopo Isolani [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]: dal che si avvide il conte Francesco Carmagnola di essere chiaramente decaduto dalla grazia del duca. Portatosi ad Abbiate per avere udienza dal duca, non potè averla, e però indispettito si ritirò ad Ivrea in Piemonte [Billius, Hist., lib. 4. tom. 19 Rer. Ital.]. Ebbe il duca fra non molto tempo a far gran penitenza di questa sua sconsigliata risoluzione. Perdè egli un gran capitano, ed uno ne provvide ai nemici suoi per propria rovina. Occupò bensì il duca i beni sì feudali che allodiali di esso Carmagnola, i quali il Biglia fa ascendere a quaranta mila fiorini di rendita: guadagno nondimeno da nulla, dacchè in breve vedremo ciò che gli costasse l'aver per nemico un generale di sì gran vaglia. I motivi poi dell'alienato animo del duca a me sono ignoti. Forse l'incontentabilità dei generali d'allora, fattasi conoscere nel Carmagnola, stancò il duca; se pur non volesse talun sospettare che le stesse facoltà sì abbondantemente a lui donate gli facessero guerra nell'animo del duca, siccome fecero una volta a Seneca in quel di Nerone.


   
Anno di Cristo mccccxxv. Indiz. III.
Martino V papa 9.
Sigismondo re de' Romani 16.

Degli affari di Napoli in questi tempi non ho scrittore antico che ne parli; e certo nulla di rilevante occorse in quelle parti. Nè il pontefice Martino mi porge motivo di parlare d'alcuna azione sua appartenente all'Italia. La sola guerra de' Fiorentini col duca di Milano quella è che diede allora pascolo agli amatori delle novelle [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 19.]. Aveano essi Fiorentini condotto al loro soldo Oddo Fortebraccio figliuolo del già defunto Braccio, e Niccolò Piccinino, che aveano, col radunar le disperse milizie braccesche, messa [1060] insieme una picciola armata. Correva il mese di gennaio, quando fu ordinato a questi due condottieri di passar l'Apennino per venire in Romagna ad unirsi colle altre soldatesche fiorentine. Eglino, benchè mal volentieri, in tempo sì aspro si misero in viaggio; ma, giunti in Val di Lamone nel dì primo di febbraio, parte dai paesani di Maradi che presero le armi, e parte dalla gente del duca posta in aguati, furono assaliti, sconfitti e i più fatti prigioni. Vi lasciò la vita il suddetto figliuolo di Braccio valorosamente combattendo [Matth. de Griffonib., Chron., tom. 18 Rer. Italic.], e fra gli altri rimasero prigionieri il suddetto Niccolò Piccinino con Francesco suo figliuolo, Niccolò da Tolentino e il conte Niccola Orsino, che furono condotti a Faenza [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], giacchè Guidazzo de' Manfredi signore di quella città era allora in buona armonia col duca di Milano. Ma o sia, come alcuni vogliono [Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.], che il Piccinino si prevalesse di questa sua disgrazia in favore de' Fiorentini, oppure che il conte Guidantonio da Urbino, o, come vuole il Poggio [Poggius, Hist., lib. 5, tom. 20 Rer. Ital.], lo stesso Carlo Malatesta gli facesse mutar animo: fuor di dubbio è che il signor di Faenza in quest'anno, nel dì 29 di marzo, ripudiata l'amicizia del duca di Milano, ed ottenute vantaggiose condizioni, entrò in lega co' Fiorentini, che mandarono tosto a lui un rinforzo di due mila persone. Mossero nello stesso tempo i Fiorentini contra del duca di Milano Tommaso da Campofregoso già doge di Genova, e signore allora di Sarzana, ed inoltre lo stesso Alfonso re di Aragona, il quale, disgustato di lui e dei Genovesi per la guerra fattagli in Napoli, comandò che la sua flotta ostilmente procedesse contra di Genova [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Comparvero dunque ventiquattro galee catalane nel dì 24 di aprile davanti a Genova, [1061] ad alta voce gridando le ciurme: Vivano i Campo Campofregosi, credendo forse che la fazion de' Fregosi facesse movimento. Nulla di ciò seguì; anzi fu in armi tutto il popolo per la difesa, perchè il solo nome de' Catalani, troppo odiati in essa città, bastava a concitar ciascuno contro di quella nazione. Però fecero vela i Catalani alla volta di Porto-Fino, e, saccheggiato quel luogo, andarono poi girando per quelle riviere affin di secondare ed avvalorare i tentativi che nello stesso tempo fece Tommaso da Campofregoso unito con altri fuorusciti di Genova, a' quali riuscì di prendere Rapallo, Recco, Sestri, Moneglia, Castiglione, Chiavari ed altri luoghi. Fece il duca armare in Genova dieciotto galee ed otto grosse navi per opporle ai Catalani, e queste nulla operarono. Gli convenne anche d'inviare cinque mila fanti, comandati da Niccolò Terzo a Sestri, per impedire i progressi del Campofregoso aiutato da' Fiorentini. Ma questa gente, venuta alle mani co' nemici, rimase sconfitta colla prigionia di più di mille persone, e morte di circa settecento. Per tale disgrazia concepì il duca dei sospetti contra di alcuni Genovesi, e li mandò a' confini. Intanto Guido Torello generale dell'armata ducale, ch'era in Romagna, passò in Toscana su quello d'Arezzo, e portò la guerra in casa altrui. Furono in campagna anche le milizie fiorentine; e, passato, nel dì 9 d'ottobre, in vicinanza della terra d'Anghiari, quivi ebbero una gran rotta con perdita o prigionia di moltissimi cavalli e fanti [Billius, Hist., lib. 4, tom. 19 Rer. Ital.]. Successivamente presso alla Faggiuola rimase disfatto un altro lor corpo d'armati con lasciarvi prigioni più di mille fanti. A queste disavventure s'aggiunse la terza. Rimesso in libertà Niccolò Piccinino, era ritornato al loro servigio; e perchè il tiravano in lungo senza accordargli la sua riferma, come egli ne faceva istanza, perduta la pazienza, all'improvviso si partì da loro colle sue truppe, [1062] e si ritirò a Perugia sua patria (forse nella primavera dell'anno seguente), e fu ingaggiato al suo servigio dal duca di Milano [Gino Capponi, Coment., tom. 18 Rer. Ital.]. Per questo, secondo l'uso di questi tempi, si vide dipinto esso Piccinino nel palazzo pubblico di Firenze qual traditore appiccato per un piede. La stessa pena, qualunque sia, patirono [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] Alberico conte di Cunio, Ardizzone da Carrara, Cristoforo da Lavello ed altri capitani, che in quest'anno si ritirarono dal servigio dei Fiorentini.

Non però fra queste sciagure si avvilì punto l'animo grande di quel popolo. Attesero essi a provvedersi altronde di gente; ma la maggior loro speranza la misero nel soccorso de' Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Italic.]. Spedirono dunque a Venezia nel novembre per ambasciatore Lorenzo Ridolfi, oppure, come scrive il Poggio, Palla Strozzi e Giovanni de Medici, che rappresentarono lo stato vacillante della repubblica fiorentina: caduta la quale, anche la Terra ferma de' Veneziani restava in pericolo di perdersi. Pervennero anche colà gli ambasciatori del duca a sostener le ragioni di lui [Billius, Histor., lib. 5, tom. 19 Rer. Ital.], e ad impedire il negoziato de' Fiorentini. Mostrò quel saggio senato desiderio che il duca s'acconciasse co' Fiorentini; e il duca non mancò di propor loro pace o tregua; ma nè l'uno nè l'altro piacque ai Fiorentini, i quali co' Veneziani pretendeano che il duca lasciasse Genova in libertà, nè s'impacciasse negli affari della Romagna: al che il duca non seppe acconsentire. Sicchè nell'anno appresso strinsero insieme lega Venezia e Firenze, con obbligazione imposta a' Fiorentini di pagare la metà della spesa, facendosi guerra col duca di Milano. Indubitata cosa è poi che il principal promotore di questa guerra fu il conte Francesco Carmagnola, insigne capitano di questi tempi: tanto seppe egli soffiar nel fuoco, [1063] ed accendere l'animo de' Veneti contra del Visconte, i quali già apprendevano che il duca senza freno era dietro ad ingoiare chiunque gli era vicino. Disgustato, siccome dissi, del duca, per colpa nondimeno de' mali arnesi ch'egli teneva in sua corte, arrivò il Carmagnola per gli Svizzeri a Venezia nel dì 23 dì febbraio, travestito con venti famigli e gran tesoro. Ebbe subito da' Veneziani la condotta di trecento cavalli, e l'annua pensione di sei mila ducati. Si sa ancora ch'egli rivelò a quella signoria non pochi segreti del duca: lo che servì ad incoraggirli alla guerra. Mancò di vita per la pestilenza nel luglio di quest'anno [Annales Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.] il fanciullo Tebaldo Ordelaffi signore di Forlì, per cagione di cui era insorta la guerra in Romagna. Dimorava in questi tempi [Billius, lib. 4 Hist., tom. 19 Rer. Ital.] Gabrino Fondolo, già tiranno di Cremona, in Castiglione, forte castello, poche miglia distante da quella città. Entrò in sospetto il duca della sua fede per certi di lui andamenti, e per aver trattato con de' Veneziani. Troppo difficil cosa era il prendere questa volpe nella tana. Ne assunse la cura l'Oldrado suo compadre e caro amico, il quale, condotti seco alquanti armati, passando fuori di Castiglione e fingendo che si fosse sferrato un cavallo, mandò a prendere un marescalco nella terra. Avvisato di ciò Gabrino, mandò ad invitare il compadre, che mostrò d'avere gran fretta e dispiacere di non poterlo vedere. Uscì fuori allora lo stesso Gabrino, e mentre parla all'amico, attorniato dagli armati vien preso. Entrò immantenente l'Oldrado nel castello, imprigionò due figliuoli di Gabrino con tutta la sua famiglia, e s'impossessò, a nome del duca, de' tesori di costui, che erano molti. Condotto Gabrino a Pavia, e processato, fu poi trasferito a Milano, dove sopra un pubblico palco lasciò la testa. Venne in quest'anno al soldo del duca suddetto [1064] il giovane Francesco Sforza con mille e cinquecento cavalli, gente valorosa, che avea servito sotto Sforza suo padre. Altrettanto fece anche Giovanni da Camerino, Ardiccion da Carrara ed altri capitani, che aveano abbandonato il servigio de' Fiorentini. E nel settembre [Chron. Foroliv., tom. 19 Rer. Ital.] fu assediata la città di Faenza dalle armi del duca, ma senza profitto alcuno.


   
Anno di Cristo mccccxxvi. Indiz. IV.
Martino V papa 10.
Sigismondo re de' Romani 17.

Siamo ora ad un gran fuoco, fuoco acceso nel presente anno in Lombardia contra di Filippo Maria duca di Milano dai Veneziani e Fiorentini collegati ai di lui danni. Dimorava in Venezia Francesco Carmagnola, dimentico affatto delle liberalità a lui usate da esso duca, e del cognome di Visconte a lui conferito, solamente pensando alle maniere di vendicarsi dei torti a lui fatti [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. La fama del suo valore e della sua maestria nell'arte della guerra perorava in suo favore. Si aggiunsero i progetti vantaggiosi ch'egli fece a quell'illustre senato, di modo che nel dì 11 di febbraio fu presa la risoluzione di crearlo capitan generale dell'armata di terra con provvigione di mille ducati d'oro al mese per la sua persona. Era egli assai pratico di Brescia, siccome città da lui già conquistata; dentro anche vi avea non pochi nobili amici e dei più potenti Guelfi, fra' quali spezialmente si distinsero gli Avogadri. Dispose egli tutto per involar questa città al duca di Milano, e gliene fu anche facilitata l'impresa dai ministri, che malamente servivano il duca, perchè si lasciava quella città, benchè frontiera, con iscarsa guarnigione, e poco provveduta di vettovaglie, e fin mancando di strame per soli trecento cavalli. All'improvviso dunque con otto mila persone si presentò il Carmagnola davanti [1065] a Brescia nel dì 17 di marzo dell'anno presente [Corio, Istor. di Milano.], ed, essendogli aperta una porta, v'entrò con tre mila e cinquecento cavalli. Ritirossi nella cittadella la gente del duca. Grande fu la letizia del popolo bresciano, perchè era mal soddisfatto del governo e delle gravezze del duca di Milano. Maggior festa di tale acquisto fu fatta in Venezia: nel qual tempo anche Gian-Francesco da Gonzaga marchese di Mantova si dichiarò collegato co' Veneziani, e con circa tre mila cavalli entrò anch'egli nel Bresciano per sottomettere quelle castella. Non andò molto che la maggior parte del territorio di Brescia o spontaneamente inalberò le bandiere di Venezia, o per forza le ricevè. Oltre a ciò, sul fine di marzo spinsero i Veneziani un'armata navale per Po fino a Cremona, dove bruciarono il ponte, e recarono altri danni, per impegnare in quelle parti le milizie duchesche, alle quali ancora diedero una rotta presso la suddetta città di Cremona.

Per l'importante ed impensata perdita della città di Brescia restò sbalordito il duca Filippo Maria, accorgendosi allora, ma troppo tardi, dello sconcio errore commesso in dar occasione al Carmagnola di diventargli nemico. Tuttavia, giacchè in mano de' suoi restava la cittadella nuova e la vecchia di Brescia coi borghi e con altri luoghi forti, si diede al riparo. Vuole il Sanuto che Francesco Sforza si trovasse in Brescia allorchè essa fu presa. Il Corio ed altri fanno in questi tempi lui in Milano, e le sue genti a Monte Chiaro e in altri luoghi del Bresciano. Quel che è certo, egli corse coi suoi e con Niccolò Piccinino a sostenere le preservate cittadelle, e fece quanta guerra potè all'armata veneta, che ogni giorno più andò crescendo nella città, la quale dalla parte del monte restò in potere dei Milanesi, e il resto di essa in mano de' Veneziani, laonde furono fatte di molte barricate e tagliate. Allora fu che il duca richiamò dalla Romagna [1066] Angelo dalla Pergola colle sue milizie, e consegnò nel dì 12 di maggio [Chron. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.] al legato pontificio le città di Forlì, d'Imola e di Forlimpopoli. Secondo il concerto fatto dai Veneziani col marchese Niccolò di Ferrara, dovea questi impedire il passaggio delle soldatesche ducali, siccome unito in lega coi Fiorentini e Veneziani; e fece in fatti non poca opposizione alle medesime al fiume Panaro. Ma perchè esse in fine trovarono maniera di passare a Vignola, fu creduto ch'egli tenesse segreta intelligenza col duca di Milano. Per lo contrario, liberati i Fiorentini dalla guerra in Toscana, non tardarono ad inviare Niccolò da Tolentino con quattro mila cavalli e tre mila fanti a Brescia [Ammirati, Istoria Fiorentina, lib. 19. Billius, Hist., lib. 5, tom. 19 Rer. Ital.]; con che s'ingrossò forte l'esercito del Carmagnola. Credesi che fosse parere d'esso Niccolò che si facesse un profondo fosso intorno alle cittadelle di Brescia, affinchè non vi potessero penetrare altri aiuti del duca di Milano; e il pensiero fu eseguito. Però andò bensì, sul fine di maggio, Guido Torello, spedito dal duca con quattro mila cavalli, tre mila e cinquecento pedoni, ed assaissimi balestrieri genovesi, menando gran copia di vettovaglie per provvedere al bisogno delle cittadelle. Ma se gli fecero incontro il Carmagnola e il marchese di Mantova con isforzo non inferiore di gente, talmentechè egli, non osando di tentare il passo, si ridusse a Monte Chiaro. Crebbero intanto le forze de' Veneziani, perchè in loro aiuto marciò il signor di Faenza con mille e ducento cavalli, Lorenzo da Cotignola con novecento cavalli, e Giorgio Benzone signor di Crema con quattrocento lance e trecento fanti. In oltre condussero i Veneziani nella lor lega, sul principio di luglio, Amedeo duca di Savoia, al quale, secondo il Guichenone [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.], accordarono tutte le conquiste ch'egli facesse dalla [1067] parte sua dello Stato di Milano. Che anche Gian-Giacomo marchese di Monferrato si collegasse contra del duca, l'abbiamo dal Corio e da Benvenuto da San Giorgio. Sicchè da tutte le parti restò assediato e battuto dai nemici il duca di Milano. Chi vuol vedere l'Italia provveduta d'insigni capitani e condottieri d'armi, non ha che da fissar l'occhio nel secolo di cui ora trattiamo.

Intanto ogni di più andavano guadagnando in Brescia le armi venete. Nell'agosto ebbero la porta delle Pile [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]; nel settembre quella della Garzetta con altri serragli e borghi. Dopo di che si diedero a bersagliar colle bombarde le cittadelle. Nel dì 21 d'esso settembre comparvero circa otto mila combattenti del duca per tentare il soccorso, ma furono con loro non lieve perdita respinti. Si rendè poi la cittadella nuova di Brescia; ed essendosi sostenuta la vecchia sino al dì 10 di novembre, capitolò anch'essa la resa, qualora per tutto il dì 20 d'esso mese non fosse soccorsa. Però, venuto quel giorno, entrarono in possesso d'essa l'armi venete, dopo una espugnazione delle più memorande che succedessero in Italia, minutamente descritta da Andrea Biglia e dal Redusio [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Era in pena il pontefice Martino [Poggius, Hist., tom. 20 Rer. Ital.] per questa rabbiosa guerra, non tanto pel suo paterno amore per tutti i cristiani, quanto per benevolenza particolare che egli professava al duca, da cui riconosceva molti benefizii, e massimamente la liberazione di Napoli. Il perchè, secondo il Sanuto, mandò per suo legato a Venezia Giordano Orsino cardinale e vescovo d'Albano, con ordine di maneggiar pace fra i potenti nemici. Ma il Sanuto falla. Niccolò Albergati cardinale di Santa Croce, e vescovo di Bologna, quegli fu che, spedito dal papa, vi andò [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Trattossi [1068] per più mesi di questa pace [Billius, Histor., lib. 5, tom. 19 Rer. Ital.], e finalmente fu essa conchiusa nel dì 30 di dicembre dell'anno presente con varii capitoli favorevoli ad ognuno de' principi collegati; e spezialmente fu accordato che Brescia con tutto il suo territorio restasse in potere e dominio della repubblica veneta. Abbiamo da Giovanni Stella [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] che nel dì 9 d'aprile dell'anno presente il duca di Milano stabilì pace con Alfonso re d'Aragona, e gli diede in deposito, ossia pegno per sicurezza di sua parola, le castella di Porto Venere e di Lerice; il che dispiacque non poco al popolo di Genova nemicissimo de' Catalani. Ebbero ancora essi Genovesi guerra in mare coi Fiorentini; ed, essendo entrati nel mese di settembre in quella città i fuorusciti coll'eccitare una sedizione, furono valorosamente respinti e ricacciati fuori da quei cittadini. Quiete si godè in quest'anno nel regno di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. eod.]; se non che la regina Giovanna con dei pretesti mandò il campo addosso al conte di Sarno, e gli tolse Sarno, Palma ed altri luoghi: tutto ciò per compiacere al papa, che desiderava di accomodar di quelle terre Alberto conte di Nola di casa Orsina, acciocchè egli rilasciasse Nettuno ed Astura ad Antonio Colonna suo nipote, principe di Salerno, siccome avvenne. Procurò in oltre esso pontefice una maggior fortuna ad esso suo nipote, accasandolo con Polissena Ruffa, la quale doveva ereditare il marchesato di Crotone e la contea di Catanzaro, con assai altre terre. Fece il medesimo papa in quest'anno, a dì 24 di maggio, una promozione di dodici cardinali [Raynaldus, Annal. Eccles.], persone tutte degne della sacra porpora.

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Anno di Cristo mccccxxvii. Indiz. V.
Martino V papa 11.
Sigismondo re de' Romani 18.

Nudriva ben Filippo Maria Visconte duca di Milano le stesse idee d'ingrandimento che ebbe Gian-Galeazzo suo padre; ma non accoppiava egli co' desiderii quella prudenza ed accortezza che in suo padre si osservò. Tenea appresso di sè cattivi ministri, [Billius, Hist., lib. 5, tom. 19 Rer. Ital.] che non gli permetteano di dar udienze, e gli faceano sapere solamente quel tanto che lor piacea. Il peggio era, che, senza sapersi accomodare ai rovesci della fortuna, andava continuamente macinando pensieri di vendetta, cioè cercando le vie di rovinarsi sempre. Ancorchè egli sul principio di quest'anno avesse confermati gli articoli della pace, pure pien di sdegno ad altro non pensava che alla guerra. Ad assodarlo in questo proponimento servì non poco la nobiltà di Milano, la quale, mal sofferendo una pace sì svantaggiosa, fece delle esibizioni per continuar la pugna, purchè il duca desse lor la balia di operare. Accettò egli l'offerta, e volle che questa gli fosse mantenuta; ma non mantenne già egli la condizione proposta: del che mormorò e si lagnò forte quel popolo aggravato oltre misura dal duca, e disgustato dal mal governo. Pertanto allorchè le potenze, collegate contra di lui, in vigor della pace stabilita furono per ricevere la tenuta delle terre ch'egli dovea dimettere nel Bresciano e nel Piemonte, si scoprì che l'incostante duca avea mutato pensiero, nè volea mantenere i patti. Per questa mancanza di fede i Veneziani e Fiorentini, tuttavia ben armati, determinarono di ricominciar la guerra, nè il cardinale Albergati legato della santa Sede, mediator d'essa pace, e personaggio di molta santità, potè impedirlo; anzi, stomacato della leggerezza del duca, si congedò da Venezia, e tornossene al suo vescovato di Bologna. [1070] Ricominciossi dunque la guerra per Po, dove il senato veneto inviò un'armata di ventisette galeoni e molti rediguardi [Sanuto, Istor. Ven., tom. 23 Rer. Ital.], incontro alla quale anche il duca ne spedì un'altra di venti galeoni, tre ganzare grandi incastellate e dodici rediguardi. Avendo questa flotta duchesca ripigliate le Torricelle, s'accostò a Casal Maggiore, che allora era in mano dei Veneziani; e venuto colà per terra Angelo dalla Pergola insieme con Niccolò Piccinino conducendo seco sette mila cavalli ed otto mila fanti, nel dì 28 di marzo assediò la stessa terra di Casal Maggiore. Se grandi furono le offese, non minor fu la difesa. Tuttavia fu costretta la terra a rendersi. Passarono i ducheschi sotto Brescello, occupato già dai Veneziani. Ma eccoti, nel dì 21 di maggio, la flotta veneta comparire, ed attaccare colla nemica una battaglia che fu ben aspra. Andò in fine rotta la flotta e gente del duca [Redus., Chron., tom. 19 Rer. Ital.]. Dopo questa vittoria trovandosi le armate di terra sul Bresciano [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano.], nel dì dell'Ascensione succedette un altro fiero fatto d'armi presso Gottolengo con isvantaggio dei Veneziani, perchè vi restarono prigionieri circa mille e cinquecento persone. Nel mese poi di luglio marciò il Carmagnola sul Cremonese, minacciando d'assedio quella città, di modo che lo stesso duca di Milano si portò colà per animare i suoi ad ogni maggior resistenza. Secondo i conti d'Andrea Biglia [Billius, Hist., lib. 6, tom. 19 Rer. Ital.] storico milanese di questi tempi, circa settanta mila combattenti fra l'una parte e l'altra si videro allora sul Cremonese, fra i quali più di venti mila cavalli: il che fa conoscere come gagliarde fossero allora le forze dell'Italia, benchè a queste armate non concorressero tanti altri principi italiani. Ora nel dì 12 di luglio, benchè l'esercito duchesco fosse sempre inferiore all'altro, pur venne di nuovo alle mani, [1071] ma non generalmente coi nemici. Incerto ne fu l'esito, essendovi restati tanto dall'una che dall'altra parte assaissimi prigionieri, e scavalcato nella zuffa lo stesso Carmagnola, il quale dopo il fatto si spinse addosso a Casal Maggiore, e fece così ben giocare le artiglierie, che lo ricuperò con far prigione il presidio.

Gran diversità intanto passava fra i due contrarii eserciti. In quello del duca tutto era discordia, non volendo i capitani cedere l'uno all'altro; e questi erano Angelo dalla Pergola, Guido Torello, il conte Francesco Sforza e Niccolò Piccinino. All'incontro nell'armata veneta il Carmagnola comandava a tutti, e sapea farsi ubbidire non meno dal signor di Faenza, da Giovanni da Varano signor di Camerino, da Micheletto e Lorenzo da Cotignola parenti di Francesco Sforza, e da altri capitani, annoverati da Andrea Redusio [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 2, tom. 21 Rer. Ital.], che dallo stesso Gian-Francesco marchese di Mantova: cosa di grande importanza nel mestier della guerra. Il perchè venne il duca in determinazion di creare un capitan generale persona di credito, sotto cui non isdegnassero di stare gli altri suoi condottieri d'armi. Fu scelto per questo grado Carlo Malatesta, esperto, ma poco fortunato, maestro di guerra. Venuto questi al campo, nulla fece di riguardevole per più settimane, finchè, aggirato dagli stratagemmi del Carmagnola, a Macalò nel dì 11 dì ottobre inaspettatamente fu assalito, e trovato coll'esercito mal ordinato, e in parte disarmato (se è vero ciò che hanno il Simonetta e il Corio, ma diversamente è narrato dal Biglia e dal Redusio), fu astretto ad una giornata campale. Interamente disfatti in essa rimasero i ducheschi colla prigionia di cinque mila cavalli e d'attrettanti fanti, e colla perdita di tutto il bagaglio. Lo stesso Carlo Malalesta si contò fra i prigionieri, ma ben trattato dai nemici, [1072] perchè cognato del marchese di Mantova; perlochè non andò esente da sospetti di perfidia. Ora questa terribil disgrazia, e l'avere il duca nei medesimi tempi addosso verso il Vercellese Amedeo duca di Savoia, e verso Alessandria Gian Giacomo marchese di Monferrato, e nel Genovesato i fuorusciti, e nel Parmigiano Orlando Pallavicino, tutti confederati ai danni di lui co' Veneziani e Fiorentini, gli mise il cervello a partito, in guisa che ricorse supplichevolmente per aiuto a Sigismondo re de' Romani, e al papa per la pace. Trovavasi allora la potente città di Milano sì ben provveduta d'armaruoli, che, per attestato del Biglia [Billius, Histor., lib. 6, tom. 19 Rer. Ital.], due soli d'essi presero a fornire in pochi giorni d'usbergo, celata e del resto delle armi quattro mila cavalieri e due mila pedoni. E perciocchè era allora in uso che, a riserva degli uomini di taglia, si mettevano in libertà i prigionieri, dappoichè loro s'erano tolte armi e cavalli (benchè l'aver ciò fatto il Carmagnola, gli pregiudicò non poco dipoi nell'animo dei Veneziani); perciò il duca raunò tosto quanto bastava per impedire il precipizio dei proprii affari. Seppe ben profittare intanto il Carmagnola del calore della vittoria con prendere Monte Chiaro, gli Orci, Pontoglio ed altre terre sino al numero di ottanta nel Bresciano e Bergamasco.

In questi giorni il duca di Milano, per liberarsi dalle forze di Amedeo duca di Savoia collegato co' suoi nemici, comprò la pace da lui con un trattato conchiuso in Torino nel dì 2 di dicembre dell'anno corrente [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye.], per cui il duca di Milano cedette all'altro la città di Vercelli, e prese per moglie Maria di Savoia figliuola del medesimo duca. Non piaceva al pontefice Martino, molto meno a Niccolò marchese d'Este signor di Ferrara, che il duca di Milano precipitasse; e però amendue si scaldarono per trattare di pace. [1073] Scelta fu per luogo del congresso la città di Ferrara, dove, giunto il piissimo cardinale di Santa Croce Niccolò degli Albergati, legato spedito dal papa, e gli ambasciatori di tutte le potenze interessate in questa guerra, si cominciò a trattare e si trattò per tutto il verno di pace. Nel mese di settembre dell'anno presente, secondo gli Annali di Forlì [Annal. Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.], oppure nel dì 4 d'ottobre, secondo la Cronica di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], giunse al fine di sua vita Pandolfo Malatesta signore di Rimini, personaggio rinomato per le sue imprese guerriere, e per essere stato padrone di Brescia e Bergamo, per quanto abbiamo veduto di sopra. Non lasciò figliuoli legittimi dopo di sè. Fecero guerra in questo anno i Fiorentini al duca di Milano anche nel Genovesato per mezzo di Tommaso da Campofregoso signore di Sarzana, e dianzi doge di Genova [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Nel mese di agosto condusse questi la sua gente e i fuorusciti fin sotto le mura di Genova; ma non andò molto che fu ributtato da' cittadini, colla perdita delle scale e prigionia di molti. Nel dì 14 di dicembre vi tornò egli con altro sforzo di gente; ma nel dì 28, uscito il popolo di Genova, rimasero prigioniere quasi tutte le di lui schiere, ed egli durò fatica a ritirarsi in salvo.


   
Anno di Cristo mccccxxviii. Indiz. VI.
Martino V papa 12.
Sigismondo re de' Romani 19.

Non so se nel principio di questo anno, come pare che il Simonetta abbia creduto [Simonetta, Vit. Francisci Sfort., lib. 2, tom. 21 Rer. Ital.], oppure sul fine del precedente, fosse inviato il conte Francesco Sforza da Filippo Maria duca di Milano alla volta di Genova con alcune schiere d'uomini d'armi per li bisogni di quella città, infestata da Tommaso da Campofregoso [1074] e dagli altri fuorusciti. Appena ebbe egli passato il giogo dell'Apennino, che si trovò in certi siti stretti assalito dai contadini di quel paese; fors'anche vi era con loro qualche gente d'essi fuorusciti. Fioccavano i verettoni in maniera, che molti de' suoi vi furono morti o feriti, ed egli costretto a retrocedere, finchè arrivato al castello di Ronco, ed, accolto da Eliana Spinola, potè salvarsi. Si servirono di questa sua disgrazia gli emuli alla corte del duca per iscreditarlo, e far nascere sospetti nella sua fede; sicchè, secondo alcuni, fu messo in castello. Almeno è certo [Corio, Istoria di Milano.] che fu come relegato a Mortara, dove quasi per due anni soggiornò con gravissimo patimento, perchè non correano le paghe, nè gli mancavano altri aggravii, senza ch'egli potesse mai persuadere al duca la sua innocenza. Dicono che se non era il conte Guido Torello, da cui venne protetto sempre, due volte la vita corse pericolo. La sua pazienza vinse poi tutto, perchè fece conoscere non aver egli mai avuto animo di passare al servigio de' Veneziani o Fiorentini. Continuò la guerra anche nei primi mesi di quest'anno, con avere il vittorioso conte Carmagnola prese non poche castella nel Bergamasco, e portato il terrore sino a quella città. Intanto in Ferrara il marchese Niccolò unito col buon cardinale Albergati vescovo di Bologna, si studiava a tutto potere di condurre alla pace le potenze guerreggianti. Erano alte le pretensioni del senato veneto, siccome quello che avea favorevole il vento; e mostrandosi inesorabile, esigeva che il duca cedesse, oltre alla già perduta città di Brescia, ancor quelle di Bergamo e Cremona. Sì caldamente e fortunatamente il cardinale e il marchese maneggiarono l'affare, che finalmente nel dì 18 d'aprile (l'Ammirati [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 18.] dice nel dì 16) si conchiuse la pace. Il principale articolo d'essa fu la cessione della città di Bergamo col suo [1075] distretto, e di alcune terre e castella del Cremonese alla repubblica veneta. I Fiorentini, che tanto aveano speso in questa guerra, non guadagnarono un palmo di terra. Fu anche accordata la restituzione di tutti i beni tolti dal duca al Carmagnola, con altri articoli e patti, distesamente riferiti da Marino Sanuto nella sua Storia [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. E tale fu il guadagno che ricavò in questa seconda guerra lo sconsigliato duca di Milano. Egli ratificò ed eseguì puntualmente così fatto accordo, e ritornò per un poco la quiete in Lombardia.

Ebbe in quest'anno papa Martino V delle inquietudini [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Matthaeus de Griffonibus, Chron., tom. eod.]. Nella notte precedente al dì 2 di agosto gl'instabili Bolognesi, che s'erano ingrossati forte in occasion della vicina guerra, sotto pretesto d'essere mal governati e molto aggravati dai ministri pontificii, si levarono a rumore, cioè la fazion di Batista da Canedolo, unita cogli Zambeccari, Pepoli, Griffoni, Guidotti ed altri. Prese l'armi anche la fazione di Antonio Bentivoglio, che allora dimorava in Roma, per opporsi all'altra in favore della Chiesa; ma rinculata lasciò il campo agli avversarii. Fu messo a sacco il palazzo del cardinale legato, il quale se ne andò poi con Dio; e la città tornò ad essere governata dagli anziani e confalonieri del popolo. Salvo castello San Pietro, castello Bolognese, Cento e la Pieve, tutte le altre terre e castella seguitarono o per amore o per forza l'esempio della città; e Luigi da San Severino venne per capitano de' Bolognesi. A questo avviso Carlo Malatesta signor di Rimini corse a sostenere castello San Pietro e castello Bolognese. Niccolò da Tolentino capitano di genti d'armi, che in questi tempi, passando pel Bolognese, volle lasciar la briglia ai suoi per saccheggiare il paese, restò sconfitto a Medicina dai Bolognesi, con perdita di quattrocento cavalli [1076] e di molti carriaggi, facendosi ascendere il danno suo a sessanta mila fiorini d'oro. Per cagione di tal novità papa Martino condusse al suo soldo Ladislao figliuolo di Paolo Guinigi signore di Lucca con settecento cavalli, i quali, giunti nel dì 15 di settembre sul Bolognese, si diedero immantinente al saccheggio del territorio. Ma, perchè era troppo poco al bisogno, il papa, con permissione della regina Giovanna, ottenne che Jacopo Caldora, uno dei più sperti capitani del regno di Napoli, venisse a quella danza con un grosso corpo di soldatesche. Però nel dicembre arrivò l'esercito pontificio ad accamparsi in vicinanza di Bologna, e, rotto il muro dalla parte del barbacane di San Giacomo, tentò anche l'entrata nella città; ma ne fu respinto. In questi tempi [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] venuta a Napoli la regina Giovanna, conducendo seco l'adottato suo figliuolo, cioè il re Lodovico d'Angiò, perchè Ser-Gianni gran senescalco nol vedea volentieri in Napoli, tanto fece che il mandò in Calabria, dove ridusse quasi tutte quelle contrade all'ubbidienza della regina Giovanna. Oltre a ciò, esso senescalco, perchè temeva della potenza di Jacopo Caldora, cercò la maniera di obbligarselo, con dare per moglie ad Antonio figliuolo di lui una sua figliuola, siccome ancora nell'anno seguente una altra ne diede a Gabriello Orsino fratello di Gian-Antonio Orsino principe di Taranto, cioè dell'altro signore più potente nel regno di Napoli: coi quali parentadi egli seguitò a sostenersi nella sua autorità, benchè odiato quasi da tutti. Fecero nel dì 9 di maggio dell'anno presente [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] i Genovesi pace col re d'Aragona e Sicilia, per cura del duca di Milano loro signore, il quale mandò al governo di quella città Bartolomeo Capra arcivescovo di Milano. Ma poco stette ad entrar colà ancora la peste, che infierì non poco nel basso popolo. Fu essa anche in Venezia. [1077] Nell'ottobre il duca di Milano celebrò le sue nozze con Maria di Savoia, ma nozze che nol doveano arricchire di prole alcuna.


   
Anno di Cristo mccccxxix. Indiz. VII.
Martino V papa 13.
Sigismondo re de' Romani 20.

Felice riuscì quest'anno alla Chiesa di Dio, perchè in fine si schiantarono affatto le radici del non mai ben estinto in addietro scisma d'Occidente [Raynaldus, Annal. Eccles. Bzovius.]. Dopo tante difficoltà incontrate fin qui con Alfonso re d'Aragona, il quale volea vendere con proprio vantaggio l'antipapa Egidio Mugnos ossia Mugnone, che tuttavia ostinato risedeva nel castello di Paniscola, riuscì al buon papa Martino, per mezzo del cardinale di Fox suo legato, di vincere l'animo del re, e d'indurlo ad abbandonare quell'idolo. Perciò Egidio, deposte le usurpate insegne del papato, venne, sul fine di luglio, ad una solenne rinunzia, ed ebbe per grazia di essere creato vescovo di Maiorica. Portatane la nuova a Roma, riempiè di giubilo quella sacra corte, e tutti i buoni del cristianesimo. Durava intanto la ribellione di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e Jacopo Caldora generale del papa, con cui era unito Antonio de' Bentivogli, la teneva ristretta, badaluccando e dando varii assalti, ma in vano tutti. Seco ancora fu Niccolò da Tolentino, che cercava le maniere di rifarsi contra de' Bolognesi dell'affronto e danno patito nell'anno antecedente, e prese loro Castelfranco. Buona parte del presente anno seguitò questa guerra, e varii tentativi furono fatti in Bologna dai parziali della Chiesa e del Bentivoglio per darsi al papa, ma che costarono la vita a chi gli ordì o ne fu complice. Finalmente, dopo essere stati a parlamento più volte gli ambasciatori di Bologna coi ministri del pontefice, nel dì 30 d'agosto si venne ad un accordo, per cui Bologna ritornò alla [1078] ubbidienza del papa con alcuni capitoli vantaggiosi a quel popolo. A tenore di questo aggiustamento, nel dì 25 di settembre entrò in quella città il cardinal Conti legato, che ne levò l'interdetto, e ristabilì quivi il governo pontificio. Secondo gli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], nel dì 12 di dicembre anche la città di Fermo colla rocca tornò in potere di papa Martino V per dedizione di que' cittadini. Altrettanto fece anche Città di Castello in Toscana. Giunse al fine di sua vita in questo anno a dì 14 di settembre [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] Carlo Malatesta signore di Rimini, mentre si trovava in Longiano, lasciando dopo di sè il credito di essere stato signor savio in pace, ma sventurato in guerra. Gli succederono Roberto, Sigismondo e Malatesta Novello, figliuoli tutti bastardi di Pandolfo Malatesta suo fratello, il primo in Rimini, un altro in Fano ed un altro in Cesena. Passò anche all'altra vita nel dì 19 di dicembre [Billius, Hist., lib. 7, tom. 19 Rer. Ital.] Malatesta signore di Pesaro, altro suo fratello. Avea questi dopo la morte di Carlo preteso, siccome legittimo, d'escludere i nipoti bastardi dalla di lui eredità, con far anche ricorso per questo a papa Martino. In sua parte nulla ottenne, e solamente servirono le istanze sue a fare che il papa, inviate colà l'armi sue, s'impadronisse d'alcune terre, siccome dirò all'anno seguente.

Ebbero in quest'anno non poche faccende i Fiorentini [Ammirat., Istoria di Firenze, lib. 19. Billius, Histor., lib. 7, tom. 19 Rer. Ital.], perchè volendo imporre la gravezza del catasto a tutti i loro distrettuali, che erano smunti di troppo per la passata guerra, e pretendendo il popolo di Volterra di doverne essere esente, si sollevò e ribellossi. Fecero i priori di Firenze marciare a quella volta Niccolò Fortebraccio, nipote del famoso Braccio, che colle sue genti, dopo [1079] la pace del duca di Milano, era tornato in Toscana, ed egli pose il campo intorno alla rivoltata città. Poco tempo potè resistere quel popolo, e, venuto a composizione colla corda al collo, perdè in tal congiuntura molti suoi privilegii, con divenire più pesante di prima il loro giogo. Erano da molto tempo sdegnati essi Fiorentini contra di Paolo Guinigi signore ossia tiranno di Lucca, perchè, dopo aver preso impegno di dare ai lor servigi nella guerra di Lombardia Ladislao suo figliuolo con settecento cavalli, l'avea poi trasmesso al soldo del duca di Milano contra di loro. Venne l'occasione di vendicarsene. Dopo l'impresa di Volterra, per loro segreta istigazione, come fu creduto, si portò il suddetto Niccolò Fortebraccio coi suoi combattenti sul territorio di Lucca, e cominciò a prendere alcune castella, e a mettere a sacco quelle contrade. Spedì il Guinigi a Firenze per pregar quei signori di comandare a Fortebraccio loro soldato che cessasse da tali ostilità; e n'ebbe per risposta, che di loro volontà non s'era fatto quel movimento, e che potevano ben pregare, ma non comandar che cessasse. Intanto il Fortebraccio andava scrivendo a Firenze, dargli l'animo di sottomettere Lucca, e che questo era il tempo di fare un acquisto per tanto tempo desiderato, e non mai eseguito da essi Fiorentini. Proposto nel gran consiglio questo affare, ancorchè non mancassero molti che dissuadessero tale impresa, pure prevalse la gelosia dei più, perchè già si tenevano in pugno Lucca, il cui possesso sarebbe riuscito di mirabil vantaggio ed accrescimento alla loro potenza. Adunque nel dì 15 di dicembre fu determinata la guerra contra di Lucca, e si diedero gli ordini al Fortebraccio d'imprenderla a nome della repubblica: al qual fine il rinforzarono di gente da tutte le bande. Ma, venuto il verno, convenne differir lo sforzo delle ostilità alla stagion migliore. In Genova furono ancora in quest'anno dei disturbi per cagione di Barnaba [1080] Adorno [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], il quale tentò di occupare il castelletto di quella città con un corpo di gente delle ville circonvicine. Andò a voto il suo disegno; e per questa cagione il duca di Milano inviò colà con una man d'armati Niccolò Piccinino valente capitano, che già a gran passi s'introduceva nella grazia e stima di quel principe. Negli stessi tempi [Istor. Napolet., tom. 23 Rer. Ital.] Jacopo Caldora, tornato dalla spedizion di Bologna in regno di Napoli, fu creato dalla regina Giovanna duca di Bari, crescendo talmente la sua potenza, che già comandava a tutto l'Abbruzzo.


   
Anno di Cristo mccccxxx. Indiz. VIII.
Martino V papa 14.
Sigismondo re de' Romani 21.

Intento più che mai papa Martino a ricuperare gli Stati della Chiesa romana, giacchè erano mancati di vita Carlo e Malatesta fratelli de i Malatesti, procurò di profittar della discordia insorta fra i consorti di quella famiglia, con ispedire in quelle parti le sue genti d'armi. Secondo il Biglia [Billius, Hist., lib. 7, tom. 19 Rer. Ital.], restò egli padrone della ricca e popolata terra di Borgo San Sepolcro, tanto apprezzata da Carlo Malatesta, che dianzi n'era in possesso. Conquistò ancora Bertinoro; e perchè Guidantonio conte d'Urbino secondò l'armi pontifizie in tale occasione, impadronitosi di alcune castella del Riminese, le ritenne poi per sè. Lorenzo Bonincontro aggiugne [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] che i Malatesti restituirono al papa, oltre al suddetto Borgo San Sepolcro, anche Osimo, Cervia, Fano, la Pergola e Sinigaglia: la qual ultima città fu data dipoi da esso pontefice a Malatesta signore di Pesaro. Nella primavera passarono sul Lucchese le forze de' Fiorentini con gran voglia e speranza di aggiugnere quella città al loro dominio, e la [1081] strinsero d'assedio [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 18.]. Ma non tardarono a conoscere, che gran tempo si richiedea all'impresa, giacchè Paolo Guinigi s'era, il meglio che avesse potuto, preparato a sostenersi [Billius, Hist., lib. 8, tom. 19 Rer. Ital.], e a vendere caro la propria rovina; oltre di che quei cittadini, benchè mal contenti del di lui governo, pure maggiormente ancora abborrivano quello de' Fiorentini. Filippo Brunelleschi, architetto allora ossia ingegnere di gran credito in Firenze, fece credere ai suoi di avere in saccoccia il segreto per ridurre in breve ai lor voleri i Lucchesi. Consisteva esso in voltare addosso a Lucca la corrente del Serchio, fiume che passa non lungi alle mura di quella città: proposizione impugnata da Neri Capponi e da altri [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.], convinti che gli ingegneri, per conto di dar legge alle acque, sovente formano di bei disegni in carta, che vani poi riescono alla sperienza. Fu nondimeno accettata, e dato principio al lavoro con gran copia di guastatori. Ma i Lucchesi, conosciuta tale intenzione, si premunirono con argini, in guisa tale, che in vece di nuocere alla città, si rivolse il fiume ad allagare il campo de' Fiorentini. Intanto Paolo Guinigi tempestava con lettere e messi gli amici, perchè il sovvenissero in tanto rischio, e massimamente fece ricorso a Filippo Maria duca di Milano e alla repubblica di Siena. Vedevano i Sanesi di mal occhio che i Fiorentini s'insignorissero di Lucca, e spedirono per questo ambasciatori a Firenze; tanto nulla di meno seppero adoperarsi i Fiorentini, che in Siena si ratificò la lor lega, e parve quieto quel popolo. Ma ritrovandosi in essa città di Siena mal soddisfatto de' Fiorentini Antonio Petrucci, ebbe egli delle segrete commessioni di aiutare il Guinigi per quanto potesse; e a tal fine si portò a Milano, dove coi messi del Guinigi attese a muovere quel duca in favore di Lucca. Ne avea gran voglia Filippo Maria. [1082] Ma perchè nei capitoli dell'ultima pace v'era ch'egli non si dovesse impacciare negli affari della Romagna e Toscana, gli conveniva stare zitto per non riaccendere la guerra. Tuttavia ricorse ad un ripiego.

Il conte Francesco Sforza, fatta già conoscere colla pazienza sua la sua fede ed innocenza, gli era rientrato in grazia [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 2, tom. 21 Rer. Ital.]. A lui fu data l'incombenza di soccorrere Lucca, e gran somma di danaro contata in segreto dal Petrucci, dal ministro del Guinigi e, come fu creduto, anche dal duca, il quale mostrò di licenziarlo dal suo servigio, siccome capitano venturiere, la cui condotta era finita. Con quel danaro il conte Francesco rimise ben in arnese le sue veterane fedeli truppe, e ne assoldò delle altre, e poscia inviatosi alla volta della Lunigiana, come condotto al soldo del signore di Lucca, andò a piantarsi a Borgo a Buggiano. Per la venuta di questo campione sciolsero i Fiorentini l'assedio di Lucca, e si ritirarono coll'armata a Ripafratta [Chron. Senense, tom. 20 Rer. Ital.], ed intanto crearono lor generale Guidantonio conte d'Urbino. Di questa congiuntura si prevalsero i Lucchesi per riacquistare la lor libertà, giacchè s'intese, o fu finto, che il Guinigi trattava di vendere a' Fiorentini quella città. Intorno a ciò intesisi prima col conte Francesco, misero un dì le mani addosso al medesimo Paolo Guinigi, ed appresso svaligiarono tutto il suo palazzo, nel qual mentre Ladislao suo figliuolo fu anche egli detenuto prigione dal conte Francesco. Il Guinigi con tutti i suoi figliuoli, per le istanze de' Lucchesi, fu condotto al duca di Milano, nelle cui carceri terminò dopo due anni i suoi giorni. Attese intanto la Sforza a ricuperare varie terre del territorio lucchese; ed è ben lecito il credere che gran somma d'oro ricavasse dai Lucchesi per averli doppiamente beneficati, liberandoli dalle unghie [1083] de' Fiorentini e dall'interno giogo tirannico del Guinigi. Il bello fu, che anche i Fiorentini, per levar di Toscana questo noioso ostacolo ai loro disegni, ricorsero alla spada d'oro, capace di tagliare ogni nodo. Per coonestare il fatto, si trovò che essendo restato creditore di settanta mila fiorini d'oro Sforza padre del conte Francesco, se gli pagherebbe questo danaro, purchè uscisse di Toscana, e si obbligasse per alcuni mesi di non andare ai servigi del duca di Milano. Pagato il contante, egli passò in Lombardia, e colle sue genti venne ad accamparsi su quello della Mirandola. Minutamente si trova descritta questa guerra da Andrea Biglia [Billius, Hist., lib. 8, tom. 19 Rer. Ital.]. Indarno mandarono i Lucchesi a Firenze per placare quella signoria. Non sapeano i Fiorentini digerire di aver fatta tanta spesa contra de' Lucchesi, e che in bene de' soli Lucchesi si fosse convertito tutto il loro sforzo. Perciò partito che fu Francesco Sforza, tornarono, come prima, all'assedio di Lucca [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 20.], e i Lucchesi tornarono a pulsare il duca di Milano per soccorso. Perchè Filippo Maria volea pure aiutarli, e nello stesso tempo parere di non intricarsi in que' fatti, permise che i Genovesi formassero una particolar lega coi Lucchesi, allegando che, secondo i lor privilegii, poteano farla [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Niccolò Piccinino in questi tempi attendeva a sottomettere le terre de' Fieschi e della Lunigiana al duca di Milano. Si mostrò che i Genovesi l'avessero eletto per lor capitano; e questi in fatti colle sue genti d'armi s'inviò verso Lucca, e fu a fronte del campo fiorentino, restando solamente frapposto il fiume Serchio fra le armate. Era di parere il conte di Urbino che non si togliesse battaglia. Venuto di Firenze ordine in contrario, seguì a dì 2 di dicembre un fatto d'armi funesto all'esercito fiorentino, il quale [1084] interamente fu rotto con prigionia di mille e cinquecento cavalieri, con perdita di bagaglio e di attrecci, e con altri danni. Il conte Urbino, Niccolò Fortebraccio e gli altri capitani, ben serviti dai lor cavalli, si salvarono chi a Librafatta e chi a Pisa [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Intanto la peste era in Lucca, e non ne era esente Genova, Roma ed altre città, fra le quali anche Firenze. Ora i Fiorentini, avendo spediti i loro ambasciatori a Venezia, faceano gran fuoco per rinnovar la guerra contra del duca di Milano, pretendendo che egli avesse contravvenuto ai patti della pace. Per attestato del Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], nel dì 22 d'agosto fu confermata la lega dei Veneziani e Fiorentini contra del duca di Milano. Nè si dee tacere che in questo anno la città di Bologna, sempre inquieta, perchè divisa dalle fazioni bentivoglia e de' Canedoli, tumultuò [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e da Baldassare Canedolo, unito coll'abbate de' Zambeccari, nel dì 17 di febbraio furono barbaramente uccisi nello stesso palazzo degli anziani Egano de' Lambertini, Niccolò de' Malvezzi, ed altri aderenti de' Bentivogli. Per cagione di queste turbolenze il cardinale legato uscì della città e si ritirò a Cento. Arrivò poi nel dì 25 di giugno il vescovo di Turpia colle bolle della legazion di Bologna; e questi, raunate le milizie della Chiesa con Antonio Bentivoglio e con gli altri fuorusciti, cominciò la guerra contro a quella città. Continuarono tutto quest'anno le ostilità, e intanto si trattava d'accordo col papa; ma questo non fu conchiuso se non nell'anno seguente.


   
Anno di Cristo mccccxxxi. Indiz. IX.
Eugenio IV papa 1.
Sigismondo re de' Romani 22.

Chiamò Dio in quest'anno a miglior vita papa Martino V, essendo succeduta la [1085] morte sua nella notte del dì 19 venendo al dì 20 di febbraio, per apoplessia a lui sopravvenuta [Raynaldus, Annal. Eccles. Vita Martini V, P. II. tom. 3 Rer. Ital.]. Fu buon pontefice; saviamente governò la Chiesa, e la lasciò libera da un ostinato scisma. Grande obbligazione per conto dell'impero temporale ebbe a lui la santa Sede, perchè era non men amato che temuto. La dianzi sì inquieta e divisa Roma fu per opera sua ridotta ad un'invidiabil pace. Era, a cagion de' torbidi passati, quasi tutto lo Stato ecclesiastico passato in mano di tirannetti; ne ricuperò egli buona parte, ed assodò l'autorità pontificia in quelle città che restarono in mano di varii signori. Nel dì 3 di marzo a lui succedette nella cattedra di san Pietro il cardinal di San Clemente Gabriello de' Condolmieri, di patria Veneziano, volgarmente appellato il cardinal di Siena, perchè fu vescovo di quella città, e prese il nome di Eugenio IV [Vita Eugenii IV, tom. eod.]. Seguì la coronazione sua nel dì 11 d'esso mese, e non già nel dì 12, come vuole il Rinaldi. Poco poi stette a vedersi una di quelle mutazioni che non fu la prima, ed ebbe molti altri esempli dipoi: cioè si scoprì il papa parziale degli Orsini, perchè per opera loro era giunto al pontificato, e, nemico de' Colonnesi nipoti del defunto pontefice. Veramente non fu senza censura in questi tempi la straordinaria cura ch'ebbe papa Martino d'ingrandire ed arricchire la per altro nobilissima sua casa. E papa Eugenio provò, che i nipoti di lui, cioè Prospero Colonna cardinale, Antonio principe di Salerno ed Edoardo conte di Celano [Billius, Hist., lib. 9, tom. 19 Rer. Italic.], aveano fatto lo spoglio del tesoro ammassato dal loro zio per valersene contra dei Turchi, ed asportata ancora una buona quantità di gioielli e d'altri preziosi mobili spettanti al palazzo apostolico e ad altri luoghi sacri Pertanto cominciò papa Eugenio a procedere contro del tesoriere [1086] Ottone e contra del vescovo di Tivoli, già camerieri d'onore di papa Martino; e più di ducento persone adoperate in varii ministeri da esso Martino furono private di vita. Allora fu che il cardinal Colonna uscì di Roma senza licenza del papa nè andò molto che Antonio e Stefano Colonnesi con gran gente armata entrarono nel dì 23 d'aprile in Roma stessa, e presero due porte [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Italic.], figurandosi che la lor fazione si moverebbe a rumore. Volle Dio, che niuno prendesse l'armi per loro; e però, venuti al papa dei soccorsi, fu spinto fuori di città Stefano Colonna, e messo a sacco il di lui palazzo, siccome ancor quelli del cardinal Colonna, del cardinal Capranica e d'altri loro aderenti. Avendo intanto papa Eugenio fatto ricorso alla regina Giovanna [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], questa gl'inviò Jacopo Caldora con tre mila cavalli, e mille e secento fanti. Era costui la stessa avarizia e molto più della fede e dell'onore gli stava a cuore il danaro. Non passò dunque gran tempo che in vece di far guerra ai Colonnesi, lasciatosi corrompere dai grossi regali d'Antonio principe di Taranto, divenne lor protettore ed amico. Pretende Neri Capponi [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.] ch'egli toccasse cento tredici mila fiorini di quei di papa Martino. Ma perchè seppe anche papa Eugenio giocar di danaro, il Caldora tornò ad assisterlo. Oltre a ciò, i Veneziani e Fiorentini spedirono in aiuto del pontefice Niccolò da Tolentino con un corpo di gente, di maniera che egli potè dar la legge ai Colonnesi ribelli. Trattossi dunque di accordo [Vita Eugenii IV, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]; e questo conchiuso, fu solennemente proclamato nel dì 22 di settembre. In vigor d'esso il principe di Salerno rilasciò al papa settantacinque mila fiorini d'oro: salasso che, unito col resto da lui speso in guadagnare il Caldora, gli votò affatto di sangue gli scrigni. Nè qui [1087] finì la sua disgrazia. Per attestato di Biondo [Blondus, Dec. 11, lib. 4.], teneva egli presidio, non senza biasimo del defunto suo zio, in Orta, Narni, Soriano, Gualdo, Nocera, Assisi, Ascoli, Imola, Forlì e Forlimpopoli. Fu obbligato a dimettere tutto. Diede in oltre occasione questo torbido alla regina Giovanna [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] di togliere al suddetto Antonio il principato di Salerno, e tutto quanto ella avea dianzi donato, per le continue istanze di papa Martino, ai di lui nipoti nel regno di Napoli: risoluzione non di meno, che non dovette andare esente da taccia d'ingratitudine, perchè quella corona ch'ella portava in capo si potea chiamare un dono d'esso papa Martino. Abbiam già veduto quanto egli avea fatto per lei. Attese ancora il pontefice Eugenio in questi medesimi tempi ad estinguere il fuoco che tuttavia durava per la ribellion di Bologna, giacchè quel popolo concorreva a ritornar alla sua ubbidienza [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], purchè ottenesse buone condizioni. Ed in fatti le ottenne, perchè il papa, vedendo risorta la guerra fra il duca di Milano dall'una parte, e i Veneziani e Fiorentini dall'altra, giudicò meglio di contentarsi di quel che potè, e di far cessare quel rumore. Adunque nel dì 24 d'aprile si pubblicò in Bologna la pace stabilita da quel popolo col papa, e successivamente v'entrarono i commessarii del papa a prenderne il possesso e dominio.

Erano irritati forte i Fiorentini contra di Filippo Maria duca di Milano, perchè loro avea tolto di mano l'acquisto di Lucca, e perciò di gran premura faceano in Venezia perchè s'aprisse un nuovo teatro di guerra. I Veneziani anch'essi, al vedere il duca sì inquieto e sempre armato, inclinavano a sfoderar di nuovo la spada; e tanto più perchè le esortazioni del Carmagnola e le conquiste fatte nelle precedenti due guerre faceano loro sperare di accrescerle collo [1088] imprenderne un'altra [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Mandò bensì il duca ambasciatori a Venezia per giustificare il fin qui operato da lui, e per trattare d'aggiustamento; ma vedendosi i saggi Veneziani menare a spasso con sole parole disgiunte da fatti, finalmente diedero all'armi. Forse il duca non desiderava che questo: cotanto gli stava sul cuore la perdita di Brescia e di Bergamo, e la speranza che la fortuna potesse cangiar faccia per lui. Aveva egli al suo servigio Niccolò Piccinino, ardito e valoroso capitano. Per opera ancora del fu papa Martino V s'era di nuovo acconciato al suo servigio il conte Francesco Sforza [Simonetta, Vit. Francisci Sfort., lib. 2, cap. 21 Rer. Ital.], il quale avea assaporata la speranza a lui data delle nozze di Bianca figliuola legittima del duca, in età allora non ancor atta al matrimonio. La prima impresa che tentò il conte Francesco Carmagnola, fu quella di Soncino. Gli fu promessa da quel castellano l'entrata in quella terra, mercè di un grosso regalo di contanti; ma il trattato era doppio. Presentatosi dunque colà il Carmagnola nella mattina del dì 17 di maggio con tre mila cavalli e più di due mila fanti, in vece della porta aperta di Soncino, trovò Francesco Sforza ed altri capitani ducheschi colle loro squadre che gli fecero il che va là. Attaccossi la mischia, e fu un maraviglioso fatto di armi che durò sino alla notte colla totale sconfitta del Carmagnola, il qual forse con soli sette cavalli si ridusse a Brescia. Restaronvi prigionieri circa mille e cinquecento cavalieri, oltre alla fanteria. Il Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] Veneziano sminuisce non poco questa vittoria. Comunque sia, e posto ancora che grande fosse il danno patito in questa lagrimevol giornata dai Veneziani, pure alla lor potenza e borsa non fu difficile l'accrescere in breve, non che il ristorare l'armata loro di terra, con ispedire nello stesso tempo un'altra [1089] possente armata navale per Po alla volta di Cremona, comandata da Niccolò Trivisano: alcuni la fanno ascendere a cento legni tra grossi e sottili. Più di dodici mila cavalli militavano allora in Lombardia sotto le insegne venete. Avea anche il duca di Milano preparata la sua flotta navale, il cui capitano era Pacino Eustachio da Pavia. Sen venne questa nel dì 22 di maggio [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Billius, Hist., lib. 9, tom. 19 Rer. Ital.] (il Simonetta dice [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 2, tom. 21 Rer. Ital.] nel dì 23) contro la nemica, e cominciò all'ore ventidue, tre miglia lungi da Cremona, la battaglia, che durò sino alla notte, con restar presi cinque galeoni ducheschi. Ma essendo nell'alba del giorno seguente Francesco Sforza, Niccolò Piccinino (il Sanuto nol nomina). Guido Torello ed altri capitani entrati con gran numero di genti d'armi negli stessi galeoni, la mattina suddetta sì bruscamente assalirono i Veneziani [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], che tutta la lor flotta rimase sterminata, e vennero in potere de' vincitori ventotto galeoni con altre barche, armi e munizioni senza numero, e circa otto mila prigioni. Avea il general Trivisano mandato a chiedere soccorso al Carmagnola, che stava accampato in quelle vicinanze coll'esercito di terra; ma egli punto non si mosse, dicono per avviso furbescamente fattogli dare che l'armata terrestre del duca si metteva in ordine per dargli battaglia. L'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, ubi supra.], che si trovò presente a questo fatto d'armi, asserisce essere stato quello uno dei più formidabili e mortali che mai si fossero veduti in Po, ed essere stati maggiori i fatti di quel che fu scritto. Certamente incredibile fu il danno patito in tal congiuntura dalla repubblica veneta [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Nè il Carmagnola nel resto dell'anno si attentò a far altra [1090] impresa, se non che nel dì 15 d'ottobre, avendo inteso che si facea poca guardia in Cremona, spedì colà un corpo de' suoi, ai quali riuscì di dare una scalata alla picciola fortezza di San Luca e di prenderla. Quivi si mantennero costoro per due dì, senza che il Carmagnola dipoi, tuttochè avvisato, volesse marciare a quella volta, allegando per iscusa di temer degli aguati de' nemici. Parte di quella gente da' Cremonesi fedeli al duca fu presa, e gli altri se ne tornarono al campo. E qui ebbero principio le diffidenze de' Veneziani contra del medesimo Carmagnola.

Nè solamente guerra fu in quest'anno in Lombardia. La sua parte n'ebbe anche la Toscana [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 20. Histor. Senens., tom. 20 Rer. Ital.]. Erano entrati i Sanesi e i Lucchesi in lega col duca di Milano contra de' Fiorentini. In Pisa stessa quel popolo, bramoso di ricuperare la perduta libertà, non era quieto. Ora trovandosi tuttavia nella primavera di quest'anno, cioè prima della guerra veneta, Niccolò Piccinino in Lunigiana [Billius, Hist., lib. 9, tom. 19 Rer. Ital.], dopo aver tolto Pontremoli a Gian-Luigi del Fiesco, nel dì 22 di marzo comparve sul Lucchese, ed, inoltratosi sul Pisano, cominciò a prendere varie di quelle castella. Passò anche sul Volterrano, siccome uomo speditissimo nelle sue imprese: nel qual tempo anche i Sanesi apertamente mossero guerra a Firenze, ed altrettanto ancora fece Jacopo, ossia Lodisio Appiano signor di Piombino. Erano a mal partito i Fiorentini allora, perchè sprovveduti di esercito e di capitano, e malmenati dal Piccinino, che ogni dì andava prendendo nuove terre, e lor conveniva tener buon presidio in Pisa, Arezzo ed altre città minacciate. Presero pertanto al loro servigio Niccolò da Tolentino e Micheletto Attendolo da Cotignola colle lor genti d'armi. Frequenti erano in questo secolo i condottieri d'armi italiani, annoverati nelle [1091] Croniche di Marino Sanuto. Cadaun di questi venturieri conduceva la truppa de' suoi combattenti, chi più chi meno, e prendeva poi soldo dove migliore trovava il mercato. Ma la salute de' Fiorentini altronde venne. Da che i Veneziani con tante forze ebbero aperto il teatro della guerra contro lo Stato di Milano, abbisognando il duca del Piccinino e delle sue truppe, il richiamò in Lombardia, e ne ricevè poi buon servigio, per quanto abbiamo veduto. Aveano essi Veneziani, a fine di far maggior diversione all'armi del duca [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 20.], e di sovvenire ancora al bisogno de' Fiorentini, inviata nel Mediterraneo a Porto Pisano una flotta di galee e d'altri legni comandata da Pier Loredano, dove si congiunse con altri legni de' Fiorentini. S'incontrò questa nel dì 27 d'agosto in vicinanza di Portofino colla genovese, inferiore di forze, di cui era capitano Francesco Spinola [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Attaccata la battaglia, per tre ore continue rabbiosamente si combattè fra quelle due nazioni ab antiquo nemiche, finchè, superata la capitana di Genova, si dichiarò la vittoria in favore de' Veneziani, colla presa di sette o otto galee [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.], e dello stesso ammiraglio Spinola. Dalla parte ancora del Monferrato fecero guerra al duca di Milano i Veneziani e Fiorentini, avendo tirato nella lor lega Gian-Giacomo marchese di quella contrada, e Bernabò Adorno ribello di Genova e padrone di alcune castella nel Genovesato, il quale nel mese di settembre infestò non poco la Riviera occidentale de' Genovesi. Spedito dal duca a quella volta Niccolò Piccinino nell'ottobre, ebbe la maniera di sconfiggerlo e farlo prigione nel dì 9 di quel mese. Dopo di che, per attestato di Giovanni Stella e del Sanuto, egli rivolse l'armi contra del Monferrato, e durante il verno [1092] ridusse quasi in camicia quel marchese [Poggius, Histor., lib. 6, tom. 20 Rer. Ital.] con torgli la maggior parte delle di lui terre, annoverate da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Non gli restava più se non Casale di Sant'Evasio con pochi altri luoghi, quando Amedeo duca di Savoia, parente suo e del duca di Milano, s'interpose per aggiustamento. Restò conchiuso che il marchese depositasse quelle poche terre, che restavano in mano sua, in quelle di Amedeo duca di Savoia; il che fu eseguito. Egli poi pieno d'inutili pentimenti incognitamente per gli Svizzeri si portò a Venezia ad implorar l'aiuto di quel senato, e a vivere alle spese dei Veneziani. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 2, tom. 21 Rer. Ital.] e il Corio [Corio, Istor. di Milano.] suo copiatore, e, quel che è più, il Biglia attribuiscono l'impresa del Monferrato al conte Francesco Sforza. Potrebbe essere che anche egli intervenisse a quella festa; s'egli poi fosse, o il Piccinino, come pretende il Poggio e Giovanni Stella, autore anch'esso contemporaneo, il principal mobile di quell'impresa, nol saprei dire. Aggiungono bensì tali autori, avere le soldatesche del duca in tal congiuntura commesse tali enormità, sfoghi, incendii e crudeltà contra dei Monferrini, che il raccontarle farebbe orrore.

Era negli anni addietro stato occupato Sigismondo re de' Romani, d'Ungheria e Boemia nelle terribili guerre degli ostinati eretici Ussiti, che sconvolsero lungamente la Boemia, e costarono sangue senza fine [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. In quest'anno, giacchè erano in qualche calma i suoi affari della Germania, determinò di venire in Italia per prendere le corone. Arrivò, non so dire se nell'ottobre, oppure nel novembre, a Milano, con seguito di poca gente, accolto con gran solennità da quel popolo, e lautamente spesato dal duca. Curiosa [1093] cosa fu il vedere che esso duca Filippo Maria, il quale soggiornava allora a Biagrasso per cagion della peste, quantunque praticasse tutte le maggiori finezze a questo gran principe sovrano suo, pure non si lasciò mai vedere a Milano, finchè vi dimorò Sigismondo, non so se per diffidenza, o per qualch'altro motivo. Certo è che non gli volle mai permettere l'entrata nel castello di Milano [Billius, Histor., cap. 9, tom. 19 Rer. Ital.]. Egli era una testa particolare. Nel dì 25 del suddetto novembre, festa di santa Caterina [Corio, Istor. di Milano. Muratorius, Comm. de Corona Ferrea.], seguì nella basilica di Sant'Ambrosio di Milano la coronazione di Sigismondo, avendogli Bartolomeo Capra arcivescovo posta in capo la corona ferrea. Fermossi poi in Milano nel verno, disponendo intanto il suo viaggio alla volta di Roma. Nei dì 5 di maggio dell'anno presente [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] i tre Malatesti, che dominavano in Rimini, Fano e Cesena, essendo di poca età, furono in pericolo di perdere la lor signoria per una sollevazione, non so se ordinata da Malatesta signore di Pesaro, oppure dagli uffiziali di papa Eugenio. Solamente apparisce che in questi tempi in Forlì dominava il pontefice. Ne' medesimi tempi Città di Castello assediata da Niccolò Fortebraccio [Bonincont., Annal., tom. 21 Rer. Ital.] ebbe soccorso da Guidantonio conte d'Urbino, e restò libera dalle unghie di lui. Furono infestati nell'autunno di quest'anno i Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] nel Friuli dagli Ungheri per ordine del re Sigismondo a petizione del duca di Milano, fra cui ed esso re passava buona corrispondenza ed amicizia. D'uopo fu che il senato inviasse al riparo Taddeo marchese d'Este con altri condottieri d'armi, i quali non perderono tempo a sconfiggere quei barbari, e a farli tornar di galoppo alle lor case. Si diede principio in questo anno al concilio generale di Basilea, presidente [1094] del quale fu a nome del papa Giuliano Cesarino, cardinale di gran credito in questi tempi.


   
Anno di Cristo mccccxxxii. Indiz. X.
Eugenio IV papa 2.
Sigismondo re de' Romani 23.

Erasi già cominciato in Basilea il concilio generale, ed ogni dì più andava crescendo il concorso de' Padri [Raynald., Annal. Eccles.]; ma poco stette papa Eugenio a pentirsi di averlo permesso in luogo, dove non poteva egli quel che voleva, perchè que' Padri diedero per tempo a conoscere voglia di limitare l'autorità del papa, e di attribuirsi una specie di superiorità sopra di lui. Per questo il pontefice determinò di chiamare a Bologna quel concilio, e ne mandò l'ordine al cardinal Giuliano legato. Ma quei Padri, assistiti dal re dei Romani e da varii altri potentati, furono di sentimento diverso, e vollero continuar le loro sessioni in Basilea; dal che nacque dissensione fra essi e il papa. Di più non ne dico, rimettendo il lettore in questo proposito alla storia ecclesiastica e agli atti di quel concilio. Era calato, siccome già accennai, il re Sigismondo per portarsi anche a Roma a prendere la corona imperiale; ma ritrovò anch'egli degli ostacoli a' suoi disegni. Il papa, oltre all'essere Veneziano, cioè di nazione allora nemica di Filippo Maria duca di Milano, avea de' particolari motivi di sdegno contra di lui, perchè o credea o sapea di certo che nella guerra fattagli nell'anno precedente dai Colonnesi esso duca avea avuta mano. E veggendo ora Sigismondo sì attaccato ad esso duca di Milano, non sapea escludere i sospetti della di lui venuta a Roma. Incagliossi per questo il viaggio di Sigismondo [Blondus, lib. 5, Dec. 3. Sabellicus, Platina, et alii.], il quale da Milano passò a Piacenza, e quindi a Parma, con far delle lunghe posate in quelle città. Nè sussiste, come si [1095] pensò Benvenuto da San Giorgio, che egli portatosi nel Monferrato, vi soggiornasse gran tempo. Andossene dipoi a Lucca, menando seco ottocento cavalli ungheri e secento del duca di Milano. Il Poggio [Poggius, Hist., lib. 7, tom. 20 Rer. Ital.] gli dà due mila tra cavalieri e fanti di suo seguito. Una delle maggiori premure di questo buon principe era quella di quetare i rumori dell'Italia, e si era anche esibito con calde lettere a trattar la pace fra il duca di Milano e i collegati avversarii. Ma egli ritrovò molto sconcertate le cose in Toscana. Militavano allora contra de' Fiorentini le milizie del duca suddetto e dei Sanesi sotto il comando di Alberico conte di Lugo [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Italic. Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.], con cui erano Bernardino dalla Carda degli Ubaldini, Lodovico Colonna, Antonio Petrucci, Ardizzon da Carrara ed altri capitani, ma discordi fra loro. Michele Attendolo da Cotignola generale de' Fiorentini, e Niccolò da Tolentino lor capitano seppero ben profittare della lor disunione; imperocchè nel dì primo di giugno [Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 20.] venuti con loro alle mani, li sbaragliarono, e fecero prigionieri più di mille cavalli. Io non so come tutto al rovescio è raccontato questo fatto d'armi da Pietro Rosso nella Storia di Siena [Petrus Russ., Hist. Senens., tom. 20 Rer. Italic.]. Secondo lui, vincitori furono i Sanesi, e Niccolò da Tolentino vi fu fatto prigione. Comunque sia, nel giorno innanzi era giunto a Lucca Sigismondo, ed ebbe il dispiacere d'intendere che quasi sotto i suoi occhi passarono dopo quella vittoria i capitani de' Fiorentini a dare il guasto al territorio lucchese. Ancorchè essi Fiorentini colle parole mostrassero rispetto alla sacra di lui persona e dignità, pure coi fatti si scoprivano suoi nemici, perchè egli era tenuto per parziale del duca di Milano, e de' Sanesi e Lucchesi loro nemici. Andavano perciò meditando d'impedirgli il passo alla volta di Siena. Ma mentre van [1096] consultando, Sigismondo scortato dalle milizie sue, del duca e di Siena, si mise in viaggio, e felicemente arrivò nel dì 11 di luglio ad essa città di Siena, dove fu accolto con incredibil onore e magnificenza da quel popolo, che l'aspettava a braccia aperte. Fermossi Sigismondo tutto il resto dell'anno in quella città, perchè non s'accordavano le pive del papa, con aggravio e doglianze non poche del popolo sanese, a cui costava troppo la sì lunga visita di questo principe, trattando egli intanto di pace, ed ascoltando gli ambasciatori de' Fiorentini, ma senza cavarne alcun sugo. Altri avvenimenti di guerra spettanti a quest'anno in Toscana riferisce il Rossi sopra mentovato nella Storia di Siena, che non occorre rapportar nella mia.

Quanto alla guerra di Lombardia, incredibile strepito fece in Italia ciò che in quest'anno accade al conte Francesco Carmagnola generale della veneta armata, il più accreditato capitano che si avesse allora l'Italia, ma famoso ancora per la sua superbia, onde era probabilmente proceduta anche la sua caduta dalla grazia del duca di Milano. Le ommissioni da lui commesse negli infausti avvenimenti dell'armi venete dell'anno precedente fecero nascere così gagliardi sospetti della sua lealtà nell'animo di chi reggeva quella repubblica, che nel dì 8 d'aprile [Sanuto, Istor. Venet., tom. 23 Rer. Ital.] fu risoluto nel loro consiglio di levargli non solamente il comando, ma, per maggior sicurezza, anche la vita. In questi tempi era in Venezia ordinariamente una specie di reato il perdere una battaglia, e gli sventurati capitani si doveano aspettare qualche gastigo. Mandato a chiamare il Carmagnola che venisse a Venezia col pretesto di voler udire il di lui parere intorno alla pace che se gli rappresentava vicina, andò egli francamente colà, onorato per tutto il cammino; ma vi trovò la prigione che l'aspettava. Fu messo ai tormenti, cioè a quella crudele e dubbiosa [1097] via di ricavar la verità dei delitti; e scrivono che egli in fine confessò il fallo della sua corrotta fede, senza che si dica se avessero sicure pruove in mano per convincerlo di questo reato. Può essere che le facessero. Il perchè collo sbadaglio in bocca condotto fra le colonne della piazza di San Marco, quivi lasciò egli miseramente la testa sopra un palco nel dì 5 di maggio [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Grandi furono le dicerie per questo, credendo molti che non sarebbe venuto a tal determinazione quel saggio senato senza buone ragioni; ed altri, che per soli sospetti e per paura di sua possanza si sbrigassero di questo eccellente capitano; e pretendendo altri che almeno meritasse di finir la sua vita in una prigione chi avea prestato sì rilevanti servigi a quella signoria. Di sua morte al certo pare che avesse occasione di rallegrarsi non poco il duca di Milano, per veder tolto a sè un sì pericoloso nemico, e a' Veneziani un capitano sì prode. Fu poscia eletto generale dell'esercito Gian-Francesco da Gonzaga signore di Mantova, il quale nell'anno presente collo sborso di dodici mila fiorini d'oro conseguì dal re de' Romani il titolo di marchese di Mantova. Giunto questo nuovo generale all'esercito della repubblica, vi trovò cavalli nove mila e secento, fanti otto mila, balestrieri ottocento, cernide sei mila, ed infiniti partigiani; ma niuna rilevante impresa fece egli in tutto quest'anno, fuorchè la presa di Soncino e d'alcune picciole terre. Nè dal canto del duca di Milano s'udì veruna bravura, eccettochè una vittoria riportata da Niccolò Piccinino in Valtellina, provincia spettante in addietro ad esso duca, ed occupata allora dall'armi venete. Vi era Giorgio Cornaro provveditore della repubblica con grosso corpo di gente. Colà portatosi il Piccinino attaccò la mischia, ma fu costretto a ritirarsi [Sanuto, Ist. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Vi tornò con intelligenza de' Ghibellini, ed, assaliti i Veneti, li sconfisse con tal [1098] fortuna, che pochi ne scamparono, e vi restarono presi lo stesso Cornaro provveditore, Taddeo marchese d'Este, Taliano Furiano, Cesare da Martinengo e molti altri condottieri d'armi. Il rumore di tal vittoria andò crescendo per via di sì fatta maniera, che l'autore della Cronica di Ferrara [Cronica di Ferrara, tom. 25 Rer. Ital.] ebbe a scrivere, aver in essa i Veneziani perduto tra morti e prigioni circa nove mila persone. Anche l'Ammirati [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 20.] fa ascendere il danno loro a tre mila cavalli e quattro mila fanti. Fu anche guerra in Val Camonica, la quale, secondo il Sanuto, venne in potere de' Veneziani, scrivendo all'incontro l'autore degli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] che vi furono presi e morti dalle genti del duca di Milano moltissimi de' nemici. Se crediamo al medesimo Sanuto, Gian-Giacomo marchese di Monferrato, già spogliato de' suoi Stati dal duca, fu in quest'anno rimesso in sua grazia colla restituzione di quanto avea perduto. All'interposizione di Sigismondo re dei Romani venne attribuita questa concordia. Ma ciò non sussiste, ed è da vedere il Guichenon [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.], che mostra tal restituzione effettuala solamente in vigor della pace, di cui parleremo all'anno seguente, e con varie difficoltà ancora in contrario nell'esecuzione della medesima.

Ebbero non poche molestie nell'anno presente i Genovesi [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] da una poderosa flotta di galee spedite da Venezia contra di loro, che andarono scorrendo per quelle riviere, e mettendo i luoghi men forti a sacco coll'assistenza dei Fregosi e d'altri fuorusciti di Genova. Talmente si difesero quei cittadini, che neppure riuscì ai nemici di prendere la assediata terra di Sestri di Levante, e diedero ancora delle busse ai fuorusciti che erano assai forti in terra. Nel dì 9 di [1099] ottobre [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital. Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.] venne a morte Galeotto Roberto Malatesta signore di Rimini, principe riguardevole per la sua piissima vita. E perchè in questi tempi ci volea poco a conseguir dai popoli il titolo di beato, gli fu esso accordato dai Forlivesi. Al Malatesta signore di Pesaro tolta fu nel dì 18 d'agosto quella città dalle genti della Chiesa: laonde i Malatesti si ritirarono a Fossombrone. Quanto al regno di Napoli, l'avea fin qui dispoticamente governato Ser-Gianni Caracciolo gran senescalco, tenendo come schiava la regina Giovanna [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Non contento di averne ricevuto in dono Capoa e molte altre terre, s'invogliò ancora del principato di Salerno; e perchè la regina non condiscese a concederglielo, siccome uomo superbo, usò parole disoneste contra di lei. Coloro che l'odiavano, ed erano la maggior parte dei nobili napoletani, e massimamente Ottino de' Caraccioli Rossi e la duchessa di Sessa, si servirono di questa congiuntura per atterrarlo; e tanto menarono, che la regina s'indusse a rilasciar l'ordine di farlo prigione. Ciò bastò ai congiurati per andare una notte a svegliarlo, e a trucidarlo a colpi di stocco, con rappresentar poi alla regina, la quale sommamente se ne afflisse, ciò essere succeduto perch'egli s'era messo in difesa. Furono poscia imprigionati Troiano suo figliuolo, e molti altri Caraccioli suoi attinenti, e saccheggiate le lor case. La Vita di Ser-Gianni scritta da Tristano Caracciolo fu da me pubblicata nella mia Raccolta Rer. Ital. Allora l'ambiziosa duchessa di Sessa cominciò a padroneggiar nella corte, nè permise che più venisse a Napoli il re Lodovico d'Angiò tuttavia dimorante in Calabria, ma in basso stato, con tutto che egli si figurasse venuto per lui il buon tempo, e si fosse messo in punto per trasferirsi a Napoli [Hist. Sicula, tom. 24 Rer. Ital.]. Era intanto approdato [1100] a Messina nel dì 6 di giugno dell'anno presente Alfonso re d'Aragona con ventidue galee e con alcune navi grosse. Sul principio d'agosto, rinforzata che ebbe con altri legni e con gran concorso di Siciliani quella flotta, fece vela verso Malta, e andò poscia a piombare addosso all'isola delle Gerbe in Africa. Ossia ch'egli non trovasse i suoi conti coi Mori padroni dell'isola, oppure che all'avviso delle mutazioni accadute in Napoli si risvegliassero le speranze sue di riacquistar ivi il dominio perduto, e tanto più perchè segretamente era favorito dalla duchessa di Sessa: se ne tornò in Sicilia nel mese d'ottobre, e dispose i suoi affari per passare in regno di Napoli. Nel dì 20 di dicembre arrivò ad Ischia, e quivi si fermò, aspettando d'udire se alla prefata duchessa riusciva di farlo adottar di nuovo per figliuolo della regina. Ma Urbano Cimino, che stava sempre all'orecchio d'essa regina, ed era tutto per Lodovico d'Angiò, ebbe maniera di sventar ogni mina della duchessa.


   
Anno di Cristo mccccxxxiii. Indiz. XI.
Eugenio IV papa 3.
Sigismondo imperatore 1.

Coll'essersi fermato in Siena quasi un anno Sigismondo re de' Romani, convertì le brevi benedizioni di quel popolo in maledizioni senza fine, stante lo strabocchevol aggravio che lor dava la sì lunga permanenza non meno di questo principe, che della sua corte e gente di armi [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Maneggiava egli intanto i suoi interessi con papa Eugenio IV per ottener la corona imperiale; e finalmente dopo essersi spianate tutte le difficoltà che il sospettoso pontefice avea frapposto, e dopo essersi conchiusa la pace fra le potenze guerreggianti, egli da Siena si mosse alla volta di Roma. Seguì, dissi, la pace fra i Veneziani e Fiorentini dall'una, e Filippo Maria Visconte duca di Milano dall'altra, e i lor collegati, per [1101] opera spezialmente dì Niccolò marchese d'Este, signor di Ferrara, Modena e Reggio. Erasi questo principe acquistato già il credito di paciere d'Italia colla sua onoratezza e destrezza: e siccome amico d'ognuno, e neutrale nell'ultima guerra, cotante istanze fece, che ognuno de' principi interessati in essa discordia spedì a Ferrara i suoi ambasciatori per trattare d'accordo sotto la sua mediazione [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]. Quivi si trovava ancora Luigi marchese di Saluzzo, suocero dello stesso marchese Niccolò, che unì i suoi uffizii a sì lodevole impresa. Dopo essersi dunque digeriti tutti i punti della controversia dai due marchesi arbitri, finalmente nel dì 26 d'aprile furono sottoscritti gli articoli della pace. Marino Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. eod.] e il Corio [Corio, Istoria di Milano.] la fanno conchiusa alcuni giorni prima. In vigor di essa tanto il duca di Milano, quanto i Veneziani, Fiorentini, Sanesi, Lucchesi ed altri collegati restituirono le terre occupate nella ultima guerra. Il solo Gian-Giacomo marchese di Monferrato ebbe molto a penare a vedersi rimesso interamente in possesso di tutte le terre a lui tolte dal duca di Milano, e delle altre raccomandate ad Amedeo duca di Savoia. Promossero amendue varie difficoltà, e tirarono in lungo il più che poterono la restituzione, con essere stata obbligata per questo la repubblica veneta a spedire più ambasciatori a fin di sostenere questo suo malconcio collegato. Intorno a ciò son da vedere Benvenuto da San Giorgio storico monferrino [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] e il Guichenone storico della real casa di Savoia [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.], che son ben discordi nella lor relazione. Ora dappoichè fu ritornata la calma in Toscana e Lombardia [Leonardus Aretin., Hist., tom. 19 Rer. Ital.], Sigismondo re de' Romani, d'Ungheria e di Boemia si [1102] mise in cammino verso Roma, dove pervenne nel dì 21 di maggio, accolto con gran magnificenza dal popolo romano, e con affetto paterno da papa Eugenio. Nel giorno ultimo dello stesso mese, festa della Pentecoste, seguì nella basilica vaticana la solenne di lui coronazione secondo il rito consueto; laonde cominciò egli ad usare ne' suoi diplomi il titolo d'imperador de' Romani, non usato fin qui dagli eletti se non dopo aver ricevuta la corona romana [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Partito di Roma nel mese d'agosto, venne per Perugia, e poscia a Rimini, e per la Romagna, dove fece varii cavalieri; e nel dì 9 di settembre pervenne a Ferrara [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], dove fu magnificamente ricevuto ed alloggiato dal marchese Niccolò, e diede l'ordine della cavalleria ad Ercole e Sigismondo figliuoli legittimi di esso marchese, e a Lionello, Borso e Folco bastardi del medesimo. Passò poscia a Mantova, e quivi, oltre all'aver dato, siccome accennai poco fa, a Gian-Francesco signore di quella città il titolo di marchese, stabilì ancora le nozze di Lodovico di lui figliuolo con Barbara figliuola del marchese di Brandeburgo. Osserva il Corio [Corio, Istoria di Milano.] con altri che Sigismondo entrò in Italia amico del duca di Milano, e ne partì nemico. Per lo contrario, al suo arrivo parea mal soddisfatto di papa Eugenio e de' Veneziani, ma loro amico se ne ritornò in Germania. Andossene dipoi a Basilea, dove quel concilio avea già mosse delle insolite pretensioni contra di papa Eugenio, con aver anche tirato nel loro parere il cardinal Giuliano legato presidente di quella sacra assemblea. Sostenne esso imperadore la dignità pontificia contra di que' sediziosi. Ma di queste controversie non è mio assunto il trattare, rimettendone la conoscenza alla storia ecclesiastica.

Non bollivano intanto in cuor di Filippo Maria duca di Milano se non sospetti [1103] e pensieri di vendette. Fra gli altri gli venne in diffidenza il conte Francesco Sforza, ed avea presa la risoluzione di farlo uccidere; ma, informato il conte di così perverso disegno, fondato nella sua innocenza [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.], a dirittura se n'andò a Milano, ed ebbe coll'aiuto degli amici maniera di giustificarsi e di dileguar tutte le ombre concepute del duca; il quale, mutato l'odio in amore e carezze, cominciò a riguardarlo come suo figliuolo. Era parimenti in collera esso duca contra di papa Eugenio, perchè nell'antecedente guerra avea congiunte l'armi sue con quelle de' Fiorentini ai danni del medesimo duca. Segretamente adunque s'intese col predetto Francesco Sforza, il quale, con prendere il pretesto di accorrere alla difesa degli Stati a lui spettanti in regno di Napoli, ed allora infestati da Jacopo Caldora, licenziato dal duca, direttamente se ne andò verso il regno per la Romagna. Nel mese di novembre passò pel Bolognese [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e, giunto nella marca d'Ancona, ossia perchè invitato da que' popoli, oppure per effettuar le occulte commessioni e trame del duca, cominciò colle sue genti ad insignorirsi di quella provincia, essendosi unito a lui Lorenzo Attendolo da Cotignola con altre milizie. Con lettere finte mostrava egli di far quelle conquiste a nome del concilio di Basilea [Raynaldus, Annal. Eccles.], che l'avea rotta col papa. Alle mani di lui volontariamente venne Jesi, e per forza il Monte dell'Olmo, e quindi Osimo e Fermo colla Rocca, Recanati ed Ascoli, essendo fuggito Giovanni Vitellesco governatore d'essa provincia. Anche la città d'Ancona si rendè a lui, e divenne sua tributaria. Si credeano quei popoli di darsi al duca di Milano, ma il conte chiaramente protestava di voler esserne egli signore [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.]. Udite queste nuove il duca, confortollo segretamente [1104] a continuar l'impresa. Nello stesso tempo con altre soldatesche entrarono nel ducato di Spoleti Taliano Furlano, Antonello da Siena e Jacopo da Lunato, condottieri d'armi, allegando anch'essi, cioè fingendo, d'essere colà inviati dal concilio suddetto. Nè qui finì tutta la scena. Anche Niccolò Fortebraccio, soprannominato dalla Stella, dianzi capitano del papa medesimo, rivolse l'armi contra di lui, e, dopo la presa di Tivoli, cominciò ad infestare la stessa Roma. In grandi angustie ed affanni era per tali movimenti il pontefice. Rimasta in questi tempi libera dalle guerre esterne la repubblica fiorentina, ne soffrì un'interna [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 20.]. Rinaldo degli Albizi con altri potenti, voglioso di abbattere la fazione di Cosimo de' Medici, il più ricco e saggio di que' cittadini, tanto fece, che Bernardo de' Guadagni gonfalonier di giustizia, chiamato a palazzo esso Cosimo, il trattenne prigione. Fu in pericolo la vita di lui. Tuttavia andò a finir la tempesta in relegar lui per dieci anni a Padova, Lorenzo suo fratello per due anni a Venezia, e gli altri Medici in altre città. Fermossi, come già dicemmo, Alfonso re d'Aragona ad Ischia colla sua flotta, aspettando mutazioni a sè favorevoli nella corte della regina di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Ridusse intanto alla sua divozione Jacopo duca di Sessa; ma questo servì appunto a rovinare gl'interessi suoi [Bonincontrus, Annal., tom. eod.]; perciocchè Gabella Ruffa duchessa di Sessa, da cui, siccome favorita della regina, dovea venire il buon vento, essendo nemica del duca suo marito, voltato mantello, impiegò tutti i suoi uffizii contra d'Alfonso. Egli dunque trovando deluse le sue speranze, fatta una tregua di dieci anni colla regina, se ne tornò schernito in Sicilia. Nel mese di dicembre [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Annales Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.] Antonio degli Ordelaffi, chiamato dal popolo, entrò in Forlì, e se ne fece signore, con iscacciarne [1105] la guarnigion pontificia. E Sigismondo Malatesta signore di Rimini, unito con Malatesta suo fratello, occupò la città di Cervia.


   
Anno di Cristo mccccxxxiv. Indiz. XII.
Eugenio IV papa 4.
Sigismondo imperadore 2.

Crebbero in quest'anno gli affanni di papa Eugenio [Raynaldus, Annal. Eccl.]. Dall'un canto l'affliggevano i Padri del concilio di Basilea, che insuperbiti faceano di mani e di piedi per abbassare l'autorità del papa, e far conoscere superiore ad essa quella del concilio generale. Andò tanto innanzi la briga, che Eugenio, colla mira di schivare uno scisma, contro sua voglia cedette ad alcune pretensioni di quei Padri: il che diede poi motivi a molte dispute fra i teologi. Dall'altra parte cresceva la persecuzione fatta agli Stati della Chiesa dal conte Francesco Sforza [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.]. Coll'acquisto della Marca avea questi rallegrata non poco ed accresciuta la sua armata, e però durante il verno passò nell'Umbria, con occupar Todi, Amelia, Toscanella, Otricoli, Mogliano, Soriano ed altre terre. Atterrito da questo fiero temporale il papa, altro mezzo non seppe trovare per quetarlo, che quello di trattare un accordo [Blondus, Dec. II, lib. 5.]. Spedì pertanto allo Sforza il suo segretario Biondo da Forlì, storico rinomato; e la conchiusione del trattato fu, che Eugenio concedette al conte Francesco in vicariato, sua vita natural durante, la marca d'Ancona, nel dì 25 di marzo; e per maggiormente impegnarlo alla propria difesa, il creò gonfaloniere della Chiesa romana. Si accinse in fatti lo Sforza a sostenere gl'interessi del papa; e perchè Niccolò Fortebraccio tenea stretta Roma, inviò due mila cavalli sotto il comando di Lorenzo Attendolo e di Leone Sforza suo proprio fratello [1106] in soccorso a Micheletto Attendolo, generale in questi tempi del papa. Andarono queste genti all'assedio di Tivoli, dove s'era fortificato il Fortebraccio, il quale da lì a non molto attaccò una battaglia, e n'ebbe la peggio. Portossi lo stesso conte Francesco all'assedio di Montefiascone, e l'avrebbe astretto alla resa, qualora Filippo Maria Visconte non avesse imbrogliate le scritture. S'ebbe questi forte a male che il conte Francesco avesse abbracciato contro la sua mente il partito del papa. Per quanto dunque fu creduto, ricorse ad un altro ripiego a fin di salvare le apparenze, e di far del male, secondochè sospirava, all'odiato pontefice. Cioè operò che i Perugini, ossia che avessero, oppure che fingessero d'aver paura del conte Francesco Sforza, chiamassero in loro aiuto Niccolò Piccinino lor concittadino [Ammirat., Istor. di Firenze, lib. 20.], il quale, mostrando di voler trasferirsi per bisogno di sua sanità ai bagni di Petriuolo, ottenne da' Fiorentini il passaggio di secento cavalli, ed altri cinquecento ne fece marciare per la Romagna. Giunto che fu il Piccinino, correndo il mese di maggio, in quelle parti, arrestò i disegni dello Sforza, e cominciò a camminar d'intelligenza con Niccolò Fortebraccio, il quale, ricevuto un rinforzo di gente da Viterbo, più che mai si diede ad inquietare ed angustiare i Romani. Ordiva egli nello stesso tempo delle trame co' Ghibellini di quell'augusta città, di modo che, sollevatosi il popolo romano nel dì 29 del mese suddetto, ed attizzato spezialmente da' Colonnesi [Raynaldus, Annal. Eccl. Blondus, et alii.], andò furiosamente a lamentarsi al papa delle vessazioni che lor conveniva di sofferire pel suo mal governo, e a far istanza che egli concedesse loro il reggimento temporale della città. Tanto il duca di Milano, quanto il concilio di Basilea fu creduto che segretamente soffiassero in questo fuoco. Andò tanto innanzi l'ardire de' Romani, che non solamente fecero [1107] prigione Francesco Condolmieri cardinale, e nipote d'esso papa, ma anche misero le guardie al palazzo del pontefice medesimo, abitante allora a' Santi Apostoli, ritenendolo anch'esso come prigioniere [Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Ebbe la fortuna papa Eugenio nel dì 18 di maggio di potersene fuggire travestito con due soli compagni da monaco Benedettino, ossia de' minori osservanti, e di potersi imbarcare in uno schifo, oppur brigantino. Accortisi di sua fuga i Romani, il perseguitarono e balestrarono molto per le rive del Tevere; ma volle Dio che sano e salvo egli pervenisse ad una galea che l'aspettava in mare di là da Ostia [Anonimo, Ist. di Firenze, tom. 19 Rer. Ital.]. Adagiatosi in essa pervenne egli nel dì 12 di giugno a Livorno, da dove passò poi a Firenze nel dì 25, accolto con grande onore da quel popolo.

Restò dunque Roma in potere di Niccolò Fortebraccio, ma con poco gusto di que' cittadini [Stephan. Infessuta Diar.]; imperocchè dall'una parte Micheletto e Lorenzo da Cotignola con Leone Sforza, e dall'altra il castellano di Sant'Angelo li tormentarono sì fattamente con saccheggi e morti, che cominciarono dopo alcun mese a desiderare e a parlar d'accordo. Pertanto nel dì 26 d'ottobre Giovanni de' Vitelleschi Vescovo di Recanati e il vescovo di Turpia [Petroni, Istor., tom. 24 Rer. Ital.] ripigliarono, di consenso de' Romani, il possesso e dominio di Roma a nome del papa. Furono assai vicine in questi tempi l'armata del conte Francesco Sforza unito con Micheletto Attendolo dall'una parte, e dall'altra quella di Niccolò Piccinino congiunto con Niccolò Fortebraccio, a venire alle mani fra loro [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.]; e succederono anche molti movimenti delle lor armi; ma, interpostisi gli ambasciatori del duca di Milano, seguì fra loro una specie di concordia, per cui si obbligò [1108] il Piccinino di non impacciarsi nelle cose di Roma. Mentre da quella parte erano sotto il peso dell'armi gli Stati della Chiesa, si accese un altro incendio in Romagna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Nel dì 21 di gennaio, essendosi sollevato il popolo minuto d'Imola, tolse quella città alle genti del papa, e chiamò colà le milizie del duca di Milano, che stanziavano a Lugo: il che diede motivo a Guidantonio dei Manfredi signor di Faenza di far guerra a quella città, e di occupar quasi tutte le castella del di lei contado. Per questa novità non meno i Veneziani che i Fiorentini, spinti massimamente dalle istanze del papa, strepitarono forte, lamentandosi che l'incontentabil duca di Milano avea chiaramente contravvenuto ai capitoli dell'ultima pace. E perchè anche in Bologna vi erano dei cattivi umori per cagion della fazione allora dominante dei Canedoli, spedirono i Veneziani sul territorio bolognese Gattamelata lor capitano con mille lancie, acciocchè tenesse l'occhio addosso a Bologna, intendendosi col governatore di quella città, che era allora il vescovo d'Avignone. Gattamelata senz'altre cerimonie s'impadronì di Castelfranco, di Manzolino e della rocca di San Giovanni in Persiceto; ed, essendo capitato nel dì 13 di giugno ad essa terra di San Giovanni Gasparo fratello di Batista da Canedolo con cinquecento cavalli, venendo dai servigi della repubblica veneta, il Gattamelata il fece prigione con tutta quella gente. Si sollevarono per questo i Canedoli in Bologna; e, dopo aver preso il governator pontifizio, introdussero in città ducento cavalli del duca di Milano. Trattossi poi d'accordo cogli ambasciatori del papa; ma perchè non fu rilasciato Gasparo di Canedolo, non ebbe effetto il trattato. Intanto nuova gente venne da Venezia a Gattamelata sul Bolognese e in Romagna, che occupò Castel Bolognese, Castello San Pietro ed altri luoghi. I Fiorentini vi spedirono anch'essi Niccolò da Tolentino [1109] colle lor soldatesche; e nel medesimo tempo il duca di Milano, oltre all'avervi inviata gente dal canto suo, richiamò anche Niccolò Piccinino colle sue squadre dalle terre del Patrimonio [Poggius, Histor., lib. 7, tom. 20 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Venne il Piccinino a postarsi ad Imola, e dopo varii piccioli fatti, nel dì 28 di agosto, siccome capitano accortissimo e maestro di guerra, avendo con falsi assalti tirata di qua da un ponte fra Imola a Castel Bolognese parte dell'esercito collegato de' Veneziani co' capitani stessi; e fatto da' suoi occupare quel medesimo ponte, non durò gran fatica a sbaragliar questo corpo. Dopo di che marciò di là dal ponte, e sconfisse il resto dell'armata nemica. Segnalatissima fu questa vittoria, minutamente descritta dall'Ammirati [Ammirati, Istoria di Firenze, lib. 20.], perchè il campo dei Veneziani e Fiorentini era composto di sei mila cavalli e tre mila fanti; e, secondo la Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], fu creduto che appena ne scampassero mille cavalli, restando gli altri prigionieri; e fra questi ultimi si contarono [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] lo stesso Niccolò da Tolentino generale de' Fiorentini, che morì poi, o fu fatto morire, Pietro Gian Paolo degli Orsini, Astorre de' Manfredi di Faenza, Cesare da Martinengo, ed altri condottieri d'armi. Ebbero la fortuna di salvarsi Gattamelata, Guidantonio de' Manfredi signor di Faenza e Taddeo marchese. Spese poscia il Piccinino i due seguenti mesi in liberar da' nemici varie castella del Bolognese.

In Firenze nel dì 26 di settembre gran tumulto fece quel popolo [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Italic.], e fu richiamato dall'esilio Cosimo de Medici con altri confinati. E perocchè la rotta data dal Piccinino in Romagna avea di molto esaltato il duca di Milano [Ammirati, Istor. di Fir., lib. 20.], i Fiorentini cercarono di condurre al servigio [1110] loro e della lega il conte Francesco Sforza, già divenuto marchese della marca d'Ancona. Questi si trovava allora di stanza a Todi, e, quantunque gli stessero davanti agli occhi i vantaggi che sperava dal duca di Milano coll'accasamento di Bianca di lui figliuola, pure, considerando che il Piccinino gli andava avanti nella grazia del duca, e che a lui, e non a sè, verrebbe raccomandato il comando dell'armata, antepose all'incertezza delle speranze dell'avvenire la certezza dei presenti vantaggi: e tanto più perchè gli premeva di conservare l'acquistato dominio della Marca, di tenersi amico il papa co' Fiorentini, e di conservare il grado di gonfalonier della Chiesa [Sanuto, Istor. di Venez., tom. 22 Rer. Ital.]. Pertanto si acconciò al servigio loro con ottocento cavalli e cinquecento fanti. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.] parla di tre mila cavalli e di mille fanti, e che ad esso conte Francesco fu promesso il generalato dell'armata de' collegati. Da molto tempo signoreggiava la famiglia de' Varani in Camerino. Per opera di Giovanni de Vitelleschi da Corneto vescovo di Recanati, e poi patriarca d'Alessandria, personaggio che per la sua superbia e crudeltà sfregiò di molto il pastorale e la mitra, fu ucciso Giovanni Varano da due suoi fratelli, e a Pietro Gentile altro lor fratello dallo stesso Vitellesco tolta fu la vita. Non passò molto che i due fratelli uccisori, cioè Gentile Pandolfo e Berardo, furono trucidati dal popolo di Camerino: con che i Varani perderono quella signoria, e i Camerinesi si fecero tributarii del conte Francesco Sforza con permissione di governarsi colle loro leggi. V'ha chi mette questo fatto sotto il precedente anno. Per alcun tempo avea Amedeo VIII duca primo di Savoia e principe di Piemonte [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.] gloriosamente e saviamente [1111] governati i suoi Stati, quand'ecco che nel novembre dell'anno presente, dato un calcio alle grandezze terrene, e rinunziato il governo ai due suoi figliuoli Luigi e Filippo, si ritirò in un romitaggio a Ripaglia presso il lago di Ginevra, ed ivi istituì l'ordine di San Maurizio. Fra poco vedremo questo principe in una positura ben diversa. Guerra intanto era nel regno di Napoli [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Bonincont. Annal., tom. eod.]. Sovvertita la regina Giovanna da' suoi consiglieri, cioè da gente invidiosa del potere e delle ricchezze di Gian Antonio Orsino principe di Taranto, ch'era allora il primo barone del regno, gli mosse guerra. Il re Lodovico d'Angiò, dimorante allora in Calabria, per ordine della regina menò contra di lui mille e cinquecento cavalli ed altrettanti pedoni. Tre altri mila cavalli condusse a questa impresa Jacopo Caldora, allora duca di Bari e signor dell'Abbruzzo; e la regina vi mandò cinque altri mila cavalli. Contra di questo torrente fece quanta difesa potè il principe di Taranto, aiutato da Gabriello Orsino duca di Venosa suo fratello; pure passavano male i suoi affari, ed era, dopo aver perduto alcune città, in pericolo di rimanere spogliato di tutto, essendo anche stato assediato in Taranto. Ma venuto il novembre, fu sorpreso da gagliarde febbri il re Lodovico, ed, essendo passato al castello di Cosenza in Calabria, verso la metà di quel mese passò a miglior vita: principe per le sue rare qualità compianto da tutti, e spezialmente dalla regina, ben pentita d'averlo trattato sì male per tanto tempo, con tenerlo lungi da sè. Aveva egli sposata in questo o nel precedente anno Margherita figliuola del suddetto Amedeo duca di Savoia, e sorella di Maria duchessa di Milano, ed avea anche impiegata o gittata buona parte della dote nella spedizione suddetta [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoje, tom. 1.]. Divenne poi [1112] questa principessa in seconde nozze moglie di Lodovico duca di Baviera, conte palatino del Reno. Per la morte di questo principe, e perchè Jacopo Caldora, sazio sino alla gola di prede, s'era ritirato a Bari, respirò alquanto il principe di Taranto; e con quelle poche genti che avea, uscito in campagna nel verno, in meno d'un mese ricuperò tutte le terre perdute: frutto massimamente delle sue amabili maniere, e della sua onoratezza e giustizia.


   
Anno di Cristo mccccxxxv. Indiz. XIII.
Eugenio IV papa 5.
Sigismondo imperadore 3.

Confermarono in quest'anno i Veneziani e Fiorentini la lega loro per dieci anni avvenire, per opporsi allora e dipoi agl'inquieti pensieri del duca di Milano [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Ma il manieroso Niccolò marchese d'Este e signor di Ferrara, eletto dalla provvidenza per dare ne' tempi addietro la pace all'Italia, questa volta ancora si sbracciò per ismorzar la nuova insorta guerra. Il credito della sua onoratezza in sì fatti maneggi animò il papa e tutte le altre potenze guerreggianti a compromettere in lui le lor differenze [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]: laonde nel dì 10 d'agosto furono segnati gli articoli della pace, vantaggiosi al papa, come si può vedere nella Storia del Biondo [Blondus, Dec. II, lib. 7.]; per li quali cessò la guerra di Romagna, Imola fu restituita al papa, e Bologna anch'essa si ridusse alla di lui ubbidienza. Tornò allora in essa città Antonio de' Bentivogli capo di sua fazione con altri fuorusciti, e quantunque non ribello del papa, anzi in addietro sempre a lui aderente, pure nel dì 23 di dicembre, per ordine di Baldassare di Offida ministro pontificio essendo stato preso, gli fu iniquamente e senza misericordia tagliata la testa. Per questo fatto tirannico fu vicina a ribellarsi di nuovo [1113] la città di Bologna. Gran festa nel gennaio del presente anno [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.] fu fatta in Ferrara per le nozze di Lionello, figliuolo del marchese Niccolò d'Este, con Margherita figliuola di Gian-Francesco da Gonzaga marchese di Mantova. Marsilio da Carrara, unico figliuolo legittimo di Francesco II già signore di Padova [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], fin qui avea menata vita privata e quieta, guardandosi dall'insidie di chi potea desiderar la sua morte. L'andò a cercare egli stesso nel marzo di quest'anno coll'avere ordito in Padova un trattato con alcuni di que' cittadini, che gli doveano aprire una porta e far ribellare la città. Nell'andare colà, ossia che fosse tradito da un suo compadre, oppure che i villani del Vicentino il riconoscessero, fu preso, e pagò colla testa l'infelice esito de' suoi disegni: alla qual pena soggiacquero ancora non pochi de' congiurati padovani. Prima poi che seguisse la sopra mentovata pace [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.], il conte Francesco Sforza generale della lega era venuto in Romagna colle sue genti con disegno di opporsi a Niccolò Piccinino spedito colà dal duca di Milano. Per la di lui lontananza incoraggito Niccolò Fortebraccio nemico del papa, con una marcia sforzata arrivò addosso a Leone Sforza, lasciato dal conte Francesco suo fratello a Todi con mille cavalli e cinquecento fanti per guardia de' suoi Stati, e il fece prigione coi più del suo seguito. Dopo di che stese le conquiste e i saccheggi nel territorio di Camerino, minacciando anche il resto della Marca. Fu da ciò obbligato il conte Francesco a volare colà. Spedito Alessandro Sforza suo fratello con Taliano Furlano contra d'esso Fortebraccio, che assediava allora Capo del Monte, su quel di Camerino attaccò la battaglia. Andò in rotta l'armata di Fortebraccio, ed egli stesso mortalmente ferito finì da lì a poco di vivere. Rallegrate le milizie [1114] vincitrici del conte col ricchissimo bottino, furono appresso condotte ad Assisi, già occupato dal suddetto Fortebraccio. Si rendè al papa quella città, e Leone fratello del conte fu rimesso in libertà.

Ma quello che più strepitoso riuscì nell'anno presente ci vien suggerito dalla Storia di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Poco stette la regina di Napoli Giovanna II, inferma da qualche tempo, a tener dietro al defunto suo figliuolo adottivo Lodovico d'Angiò. Mancò ella di vita nel febbraio, con lasciar erede Renato ossia Rinieri d'Angiò fratello di Lodovico. Vi fu chi pretese ingiusto quel suo testamento. Dimorando allora in Sicilia Alfonso re d'Aragona, teneva sempre gli occhi aperti sopra i fatti del regno di Napoli, e già era nel suo partito Gian-Antonio degli Orsini principe di Taranto col duca di Sessa e con altri baroni. Trovossi allora diviso il regno in varie fazioni. Papa Eugenio IV, pretendendolo devoluto alla santa Sede, non solamente spedì colà i monitorii, ma diede ordine a Giovanni Vitellesco di entrarvi coll'armi pontificie; nè gli mancava il suo partito. La città di Napoli con assai altre città e baroni teneva quello degli Angioini. E in terzo luogo, siccome ho detto, facendo il re Alfonso valere l'adozione già di lui fatta, benchè ritrattata dalla regina, ed assistito da molti di sua fazione, si mise in punto per ottener colla forza ciò che gli era contrastato dalle altre contrarie fazioni. Unita dunque una possente flotta, andò a sbarcare nel regno di Napoli, e a congiugnersi col duca di Sessa: nel qual tempo Jacopo Caldora e Michele Attendolo assediavano Capoa, occupata dalle genti del principe di Taranto. Gran peso avrebbe dato alle armi del re Alfonso l'acquisto di Gaeta città forte e mercantile: però la strinse d'assedio per mare e per terra, e cominciò a bersagliarla colle bombarde. Non sapendo i Gaetani, mal preparati alla difesa, a chi ricorrere, spedirono per aiuto a Genova. Nemici capitali dei Catalani erano da [1115] gran tempo i Genovesi; e questo motivo aggiunto alle esortazioni del duca di Milano loro signore, che si dichiarava malcontento del re Alfonso, bastò per muoverli [Johannes Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.]. Dopo aver dunque spedite due galee in soccorso di quella città, fecero un armamento di tredici grosse navi sotto il comando di Luca Asereto, valente maestro di guerra nelle armate di mare, e quello inviarono nel dì 22 di luglio alla volta di Gaeta. Appena ebbe l'animoso re Alfonso inteso l'avvicinamento di questa flotta, che in persona salì sulla propria, e si dispose per incontrare i nemici. Era essa composta di quattordici grosse navi e di undici galee, sopra le quali lo stesso re con tutta la nobiltà sua e dei baroni regnicoli, e con circa undici mila combattenti andarono come ad un sicuro trionfo, stante la troppa loro superiorità di forze. Le grida e le ingiurie, colle quali assalirono l'armata genovese, diedero, nel dì cinque d'agosto verso l'Isola di Ponza il principio alla terribil battaglia che quasi dal nascere del sole durò sino al suo tramontare. In essa fecero di grandi prodezze le milizie del re Alfonso; ma non si può abbastanza descrivere la bravura de' Genovesi, a' quali venne fatto di pienamente sconfiggere la contraria armata [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital. Petroni, Istor., tom. 24 Rer. Ital.], e di far prigione lo stesso re Alfonso, Giovanni re di Navarra ed Arrigo gran mastro di San Jacopo suoi fratelli, Gian-Antonio Orsino principe di Taranto, Jacopo Marzano duca di Sessa, Angelo Gambatesa conte di Campobasso, Onorato Gaetano conte di Morcone, ed altri non pochi signori, de' quali tralascio il nome. Delle quattordici navi del re una sola si salvò, in cui era l'infante don Pietro suo fratello.

Questa insigne vittoria di mare animò Francesco Spinola ed Ottolino Zoppo, che pel duca di Milano difendeano Gaeta, a tentare anch'essi la lor fortuna; ed usciti [1116] colle lor genti contra degli assedianti, vi diedero dentro, e li misero in rotta: con che restò interamente libera quella città. Ciò fatto, i vittoriosi Genovesi, bruciate le navi prese, e ritenuti i soli gran signori, fecero vela alla volta di Genova, senza volersi mettere ad altra impresa. Colà giunti, ed informato Filippo Maria duca di Milano di quel prospero avvenimento, volle che si conducessero a Milano tutti i prigioni. Ossia che i consigli del Piccinino od altri motivi politici avessero forza nell'animo del duca; oppure che il re Alfonso, principe di mirabil senno ed eloquenza, sapesse ben valersi della sua lingua e delle sue proferte in tal congiuntura, certo è che il duca il trattò come amico, e magnificamente l'alloggiò; e, fatta lega con lui, da lì a poco tempo il rimise in libertà con tutti i suoi. Portata questa nuova a Genova, se ne alterò sì forte quel popolo tra per l'odio loro a' Catalani, e per vedere sì miseramente perduto il frutto della lor vittoria, giacchè senza alcun riscatto, senza alcun vantaggioso patto per loro fu rilasciato Alfonso con tanta baronia, che fin d'allora cominciò a macchinar la risoluzione di sottrarsi al dominio del duca, di cui peraltro erano malsoddisfatti, perchè loro non avea mantenuti i patti [Corio, Istoria di Milano.]. Pertanto, nel dì 12 di dicembre, prese le armi, e gridando: Viva la libertà, si sollevarono, ed uccisero Obizzino ossia Pacino da Alzate ossia Alciato, governator della città, e scossero affatto il giogo duchesco. Questo guadagno fece colla sua generosità il duca di Milano. Aveano intanto i Napoletani [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] spediti messi per chiamare a Napoli Renato d'Angiò conte di Provenza, a cui diedero il titolo di re. Ma accadde ch'egli era stato fatto prigione in una battaglia da Filippo duca di Borgogna; nè potendo venire, spedì la regina Isabella sua moglie, erede del ducato di Lorena e principessa di gran saviezza, con Luigi suo secondogenito, chiamato principe di Piemonte. Venne essa; fu ricevuta [1117] con onore in Gaeta, e molto più in Napoli; ed avuta ubbidienza da molte altre città, spedì Micheletto Attendolo col figliuolo Luigi in Calabria, provincia che in breve fu ridotta alla divozione di lei. Ma don Pietro infante, avuto ordine dal re Alfonso suo fratello, dopo la sua liberazione, di venirlo a prendere, passando con undici galee davanti a Gaeta nel dì di Natale, e saputo che per la peste vi era restata poca guarnigione, se ne impadronì; e fermatosi quivi, inviò i legni a levare il fratello. Nè si dee tacere [Petroni, Istoria, tom. 24 Rer. Ital.] che il patriarca Vitellesco, trovandosi nel dì 31 d'agosto a campo contra del prefetto a Vetralla, l'ebbe per tradimento in mano, e gli fece tosto mozzare il capo nella piazza di Soriano. Continuava intanto il concilio di Basilea, col consenso bensì del papa, ma non senza quotidiani disgusti del medesimo pontefice, che specialmente s'ebbe a male nell'anno presente che que' Padri avessero abolite le annate de' benefizii, pretendendo essi che puzzassero di simonia, e data con ciò una fiera stoccata all'erario pontificio, il popolo di Fabriano si sollevò in questo anno [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.] contro a Tommaso Chiavelli tiranno della lor città, e dopo fatto un orrido macello di lui e di tutta la sua famiglia, si diedero al conte Francesco Sforza, che vi mise presidio.


   
Anno di Cristo mccccxxxvi. Indiz. XIV.
Eugenio IV papa 6.
Sigismondo imperadore 4.

Fin qui avea papa Eugenio tenuta la sua residenza in Firenze, onorato e rispettato da quel popolo, a cui non poco tornava il conto d'aver presso di sè la corte pontificia. I Romani, all'incontro, che dopo la fuga del medesimo papa, oltre al provare un cattivo governo, miravano crescere ogni di più la lor povertà [Petroni, Istor., ubi supra.], [1118] perchè privi delle rugiade papali, gli spedirono nel gennaio di quest'anno ambasciatori, pregandolo con tutta la sommessione a ritornarsene alla sua sede. Ma il pontefice, troppo ricordevole del recente affronto a lui fatto, li mandò in pace senza volerli consolare. All'incontro, considerando più convenevole alla sua dignità l'abitare in una città propria, che in casa altrui, prese la risoluzione di trasferirsi a Bologna. Si mosse dunque da Firenze nel dì 18 d'aprile [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e nel dì 22 fece la sua solenne entrata in essa città di Bologna. Qualche dissapore poi dovette insorgere fra esso pontefice e il conte Francesco Sforza, il quale colle sue genti era in Romagna. Per ordine del medesimo Eugenio [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital.] avea questi fatto l'assedio di Forlì, e costretto Antonio degli Ordelaffi a dimettere quella città, che tornò all'ubbidienza pontificia nel dì 24 di luglio. Perciò andavano tutte le cose a seconda dei desiderii d'Eugenio, se non che gli stava sul cuore la marca d'Ancona posseduta da esso conte, e cominciò a pentirsi d'avergliene conceduto il vicariato. Questo fu creduto il motivo per cui si diede a cercar da lì innanzi le vie di abbatterlo. Fece in questo mentre guerra ai conti di Cunio, e, tolta loro la nobil terra di Lugo, la donò a Lionello figliuolo di Niccolò Estense marchese di Ferrara. Baldassare da Offida podestà di Bologna, uomo scelleratissimo, fu il suo generale oppur commessario a tale impresa; nè il conte vi fu invitato. Solamente egli vi mandò parte delle sue truppe senza poi poterle riavere. Se l'intendeva costui con Niccolò Piccinino, generale del duca di Milano, emulo, anzi nemico del conte, il quale si trovava allora a Parma con gran gente, sollecitandolo affinchè venisse contra del medesimo conte. Andava allora anche il papa d'accordo col duca di Milano. Nè questo gli bastò. Avendo saputo [1119] che esso conte dimorava senza sospetto e guardie a Ponte Polledrano, perchè gli erano ignoti i pensieri del papa, si mise in procinto di sorprenderlo quivi, e di farlo prigione nel dì 24 di settembre [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Fu per buona ventura segretamente avvisato il conte da Niccolò cardinale di Capoa di quel che si tramava contra di lui; nè tardò a muoversi di là, e a deludere il disegno di chi gli volea male. Ma intercette poi lettere dell'Offida al Piccinino, tendenti alla propria rovina, senza potersi più contenere, segretamente messe in marcia le sue truppe, gli fu all'improvviso addosso, lo sconfisse, e spogliò quanti erano con lui. Se ne fuggì l'Offida a Budria; ma, colà portatosi il conte, l'ebbe nelle mani, e il mandò poi prigione nel girone di Fermo, dove lo scellerato fece quel fine che avea meritata la sua vita. Non mancò papa Eugenio di mandar persone al conte per certificarlo che senza sua contezza l'Offida gli avea tramute quelle insidie; ma Francesco credette quello che a lui parve.

Per la perdita di Genova non si sapea dar pace Filippo Maria duca di Milano [Giustiniani, Istor. di Genova.]. Subito che la stagion lo permise, spedì Niccolò Piccinino a quella volta coll'armata, sperando di ricuperar la città, giacchè si sosteneva tuttavia in mano delle sue genti il Castelletto. Ma Niccolò non giunse a tempo; il Castelletto assediato, e con più assalti tentato dal popolo di Genova, prima ch'egli giugnesse, capitolò la resa, con che svanirono tutte le speranze del duca. Voltò il Piccinino le armi contro la riviera d'occidente, con saccheggiar tutto il paese; assediò la città d'Albenga, ma non gli riuscì di mettervi dentro i piedi. In questo mentre i Genovesi aveano creato loro doge Isnardo Guarco, che non durò se non sette giorni in quella dignità, perchè Tommaso da Campofregoso il cacciò di sedia, e si fece [1120] di nuovo proclamar doge. Entrarono poscia i Genovesi in lega co' Veneziani e Fiorentini. Veduto che ebbe Niccolò Piccinino che nulla di sodo si potea conquistare nel Genovesato, passò, d'ordine del duca, in Toscana, giacchè i fuorusciti di Firenze con lusinghiere speranze gli faceano credere sicuri molti vantaggi. Ma non dormivano i Fiorentini [Ammirat., Istoria di Firenze, lib. 20.]. Presero essi al loro soldo, e con titolo di generale, il conte Francesco Sforza, il quale non tardò a comparire colà colle sue soldatesche, e andò a postarsi a Santa Gonda per impedire il passaggio dell'Arno al Piccinino, arrivato sul Lucchese. Niun tentativo fu fatto da esso Piccinino, eccettochè contro la terra di Barga, che egli assediò durante il verno. Ma avendo i Fiorentini dato ordine al conte Francesco di darle soccorso [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.], egli spedì colà Niccolò da Pisa, Pietro Brunoro e Ciarpellione con due mila e cinquecento uomini, che nel dì 8 di febbraio dell'anno seguente misero in rotta Piccinino, e fra gli altri fecero prigione Lodovico Gonzaga, figliuolo di Gian-Francesco marchese di Mantova, il qual poscia volle militare sotto le bandiere sforzesche. Imbarcatosi intanto il re Alfonso nelle galee speditegli da don Pietro suo fratello, con esse giunse nel dì 2 di febbraio a Gaeta [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Quivi s'andò disponendo per far guerra nel regno. Jacopo Caldora duca di Bari era il solo, in cui avessero speranza i Napoletani. Ma costui, avvezzo a pensare più a' proprii che agli altrui vantaggi, ito in Abbruzzo per raunar gente, sì fattamente disgustò quei popoli, che Sulmona, Cività di Penna ed altre terre alzarono le insegne del re di Aragona. Tornò poi Sulmona all'ubbidienza del re Renato, e Cività di Penna presa dal Caldora fu messa a sacco. Portò esso Caldora la guerra dipoi in Puglia contro del principe di Taranto, [1121] con assediar Barletta e Venosa, ma senza profitto. Menicuccio dall'Aquila, che avea preso soldo nell'esercito del re d'Aragona, prese Pescara: lo che fu cagione che anche la città di Chieti si ribellasse; e, quantunque il Caldora mettesse il campo a questa città, pure altro non potè fare che saccheggiar il paese d'intorno. Giovanni dei Vitelleschi patriarca di Alessandria in questi tempi, dimentico della cherica, la facea da generale d'armata pel sommo pontefice. Essendochè i Colonnesi e Savelli inquietavano forte Roma [Petroni, Istor., tom. 24 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], portò loro addosso nel mese di marzo la guerra, con prendere e disfare Savello, Albano ed altre loro terre. Assediò Palestrina; nè di quella sola s'impadronì, ma anche di Zagarolo, e d'altre terre di Lorenzo Colonna, costringendolo a ricoverarsi a Terracina. Quel che è più, il conte Antonio da Pontadera, condottier d'armi, che teneva in ischiavitù la Campagna di Roma, nel dì 15 di maggio restò dalle genti d'esso patriarca sbaragliato e preso. Fu condotto a Piperno, dove, per ordine del patriarca, gli fu mozzato il capo. Queste prodezze del Vitellesco, e molte altre terre da lui prese e saccomanate, tuttochè non molto convenevoli a persona di chiesa, pure portarono la pace e quiete a Roma, e ai suoi contorni; di modo che, essendo egli andato a Roma nel dì 29 d'agosto, dal popolo romano fu ricevuto come in trionfo, e gli furono anche donati mille e ducento fiorini in una coppa d'oro. Per questo andò crescendo la di lui superbia, con divenir non di meno maggiore la sua crudeltà.


   
Anno di Cristo mccccxxxvii. Indiz. XV.
Eugenio IV papa 7.
Sigismondo imperadore 5.

S'andarono sempre più imbrogliando gli affari del papa col concilio di Basilea. Pretendeano que' Padri non solamente [1122] di riformar la Chiesa, che ne abbisognava allora non poco, e i papi medesimi, ma voleano in tutto e per tutto farla da papi, anzi da più dei papi: cosa che Eugenio non volea sofferire. Andò sì innanzi il riscaldamento degli animi, che il concilio giunse a citare il papa a rispondere a varie accuse proposte contra di lui per cagion delle riserve dei benefizii, delle annate, del non ammettere le elezioni, di praticare apertamente, come essi diceano, la simonia, e sopra altri punti [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Dal che irritato Eugenio pubblicò una bolla, con cui dichiarò sciolto il concilio in Basilea, e determinò Ferrara pel luogo, dove si avea da tenere da lì innanzi il concilio, al quale ancora invitò i Greci. Intanto il patriarca Vitellesco, che nel precedente anno avea tolto Palestrina a Lorenzo Colonna, nel dì 20 di marzo mandò colà guastatori che interamente la diroccarono e spianarono, sicchè rimase affatto disabitata e un mucchio di pietre. E di questo ancora, perchè creduto ordinato dal papa, fu fatto a lui un reato dai Padri del suddetto concilio. Tenea mano a questa discordia Alfonso re d'Aragona. Non avendo papa Eugenio voluto accordargli l'investitura del regno di Napoli, richiesta da lui parte colle preghiere e parte colle minaccie, siccome quegli che già favoriva il partito del re Renato d'Angiò: Alfonso si voltò apertamente contra d'esso Eugenio, e fece di grandi offerte al concilio per torre Roma al pontefice. Parea intanto che prosperassero gli affari d'esso Alfonso nel regno di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], perchè i conti di Nola e di Caserta seguirono le di lui bandiere. Il perchè la regina Isabella, conosciuta vana per allora la speranza di veder liberato il re Renato suo marito dalla prigionia, ricorse per aiuto al papa; e questi ordinò al patriarca di passar colà con tutte le sue forze. Nel mese d'agosto entrò egli nel regno, e, dopo avere preso Capperano, s'impadronì di Venafro, di [1123] Santo Angelo, Rupecanina e Piedimonte, e poscia se ne andò a Napoli a visitar la regina, da cui ricevette grande onore e danaro per pagar le truppe. Partitosi di colà senza perdere tempo, ridusse all'ubbidienza della regina il conte di Caserta, e poi prese Montesarchio. Alle istanze del re Alfonso si mosse in questi tempi Gian Antonio Orsino principe di Taranto con un corpo di truppe, e il concerto era di prendere in mezzo il patriarca; ma questi, più astuto di loro, andò a trovare il principe a Monte Fuscolo, gli diede una rotta, e il fece prigione con assai altri baroni. L'onore e le carezze usate dal papa all'Orsino prestarono motivo a molti di credere che prima d'allora fossero d'accordo insieme [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Si staccò il principe infatti dal re Alfonso, e si unì col patriarca, il quale in premio della sua bravura meritò in quest'anno la porpora cardinalizia da papa Eugenio. Ma non andò molto, che nacquero disgusti fra esso patriarca e la regina; nè fra il principe di Taranto e Jacopo Caldora si rimise buona amicizia, di maniera che niun d'essi si fidava dell'altro; e fu anzi creduto che il patriarca e il Caldora apertamente fossero divenuti nemici. Ma avendo il re Alfonso assediata e quasi ridotta all'agonia la città d'Aversa, la regina scrisse lettere calde al patriarca e al Caldora, acciocchè la soccorressero. Allora fu che questi due personaggi comparvero anima e corpo insieme, e tutti e due nella vigilia di Natale mossero le lor armi alla volta d'Aversa. Tuttochè il re Alfonso da più di uno fosse avvertito che frettolosamente costoro marciavano contra di lui, nol sapea credere; e tanto indugiò, che quasi il sorpresero a tavola. Ebbe tempo da fuggire a Capua; ma andò in rotta tutta la sua gente; molti ne furono presi, ed interamente il bagaglio restò preda dei ben venuti e degli Aversani. Contuttociò essendo divampata la nemicizia fra il principe di Taranto e il Caldora, e non potendo il patriarca ricevere [1124] rinforzo nè dall'uno nè dall'altro, fu ridotto a mal partito, in guisa che, presa una picciola barca, in quella s'imbarcò e passò a Venezia, e di là poi a Ferrara, dove vedremo che si trasferì anche papa Eugenio. Quasi tutta la sua gente abbandonata prese soldo nell'armata di Jacopo Caldora, grande imbroglione, e di fede sempre incerta in quello sconvolgimento del regno.

Nel verno dell'anno presente [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 21.] Niccolò Piccinino s'era impadronito di Sarzana e d'altre terre della Lunigiana; ma uscito in campagna nell'aprile il conte Francesco Sforza generale de' Fiorentini con cinque mila cavalli e tre mila fanti, poco stette a ricuperar que' luoghi. Mossero in quest'anno anche i Veneziani guerra al duca di Milano, e cominciarono a far delle istanze ai Fiorentini per avere al comando della loro armata il suddetto conte Francesco, giacchè Gian-Francesco (e non già Lodovico, come vuole il Sanuto) marchese di Mantova lor generale, sdegnato perchè s'avvide d'essere in sospetto la sua fedeltà presso quel senato, proponeva di rinunziare il bastone. Ma anche ai Fiorentini premeva di ritenere in Toscana questo gran capitano per la voglia e speranza che nudrivano dell'acquisto di Lucca, città come abbandonata, per essere stato richiamato dal duca in Lombardia il Piccinino [Poggius, Histor., lib. 7, tom. 20 Rer. Ital.]. Cominciò per questo ad alterarsi la buona armonia fra essi Veneziani e Fiorentini. Presa non di meno che ebbe il conte Francesco la maggior parte delle castella del Lucchese [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.], e piantate alcune bastie intorno a Lucca, sen venne di qua dall'Apennino sul Reggiano colle sue truppe per accudire al servigio de' Veneziani; ma perchè essi nol poterono smuovere dal suo proponimento di non voler passare oltre Po, così portando i capitoli della sua condotta, disgustato di loro, [1125] perchè nol voleano pagare, se ne tornò in Toscana, dove passò il rimanente dell'anno. Poca felicità ebbero in quest'anno l'armi venete contra del duca di Milano. Niccolò Piccinino li travagliò assaissimo sul Bergamasco, dove prese alcune castella. E nel dì 20 di marzo diede una fiera spelazzata all'esercito loro presso il fiume Adda, dove, secondo gli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], circa tre mila soldati veneziani restarono o annegati o presi. Similmente nel dì 20 di settembre [Sanuto, Istor. Ven., tom. eod. Cron. di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] riuscì ad esso Piccinino di sconfiggere la loro armata con prendere molti uomini di taglia, e buona parte del bagaglio e delle artiglierie. Questi furono i motivi per li quali il senato veneto mise in dubbio la fede del marchese di Mantova. Ma non fu per ora accettata la rinunzia del marchese di Mantova; e perch'egli se ne andò a casa, fu eletto da' Veneziani per vicegenerale il Gattamelata. Mancò di vita nel dì 8 di dicembre dell'anno presente [Bonincontrus, Annal., tom. eod.] Sigismondo imperadore, lasciando dopo di sè una gloriosa memoria d'essere stato principe piissimo, prudentissimo, e di liberalità che s'accostava all'eccesso, massimamente verso de' poveri. Fu non di meno notata da Enea Silvio [Æneas Sylvius, Histor. Bohem. Krantzius, Thrithem., et alii.] la di lui incontinenza; del qual vizio macchiò sopra modo la propria fama anche Barbara Augusta di lui moglie. Lasciò erede de' suoi regni di Boemia ed Ungheria Alberto duca d'Austria genero suo. Se crediamo al Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], ribellatosi in quest'anno a papa Eugenio Pirro abbate casinense, castellano della fortezza di Spoleti, fu quivi assediato dagli Spoletini. In aiuto di lui chiamato nel mese di maggio Francesco figliuolo di Niccolò Piccinino, costui, a tradimento entrato nella città, la mise a sacco, colla [1126] morte ancora di molti di que' cittadini. Ma il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.] riferisce questo fatto all'anno seguente, e con più ragione.


   
Anno di Cristo mccccxxxviii. Indiz. I.
Eugenio IV papa 8.
Alberto re de' Romani 1.

Diedesi principio nel dì 8 di questo anno al concilio generale intimato da papa Eugenio IV in Ferrara, di cui fu presidente il piissimo cardinale Niccolò Albergati [Raynaldus, Annal. Eccles. Labbe, Concil., tom. 12.]. Nella prima sessione, tenuta da pochi prelati, si dichiarò terminato il concilio di Basilea, e furono annullati assai decreti da esso fatti senza l'approvazione del papa. Per maggiormente accreditar questa sacra raunanza il pontefice Eugenio volle intervenirvi in persona, e però, partito da Bologna, fece nel dì 27 d'esso mese la sua solenne entrata in Ferrara, addestrato dal marchese Niccolò d'Este; e poscia continuò le sessioni, per distruggere ciò che andavano tessendo i vescovi tuttavia ostinati nel concilio di Basilea. Invitati avea Eugenio a Ferrara i Greci, che già si mostravano propensi all'unione colla Chiesa latina, perchè ne speravano soccorsi contra de' Turchi, i quali già minacciavano l'ultimo sterminio all'imperio cristiano di Oriente [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.]. In fatti nel dì 4 di marzo giunse a Ferrara Giovanni Paleologo imperadore de' Greci, che fu accolto con sommo onore dai cardinali e dal marchese. Magnifico ancora era dianzi stato l'accoglimento fatto a lui in Venezia da quella repubblica. Comparve poscia a Ferrara anche il patriarca di Costantinopoli nel dì 8 di marzo, trattato anch'egli con grande onorificenza. Questi menò seco molti vescovi ed arcivescovi greci. Si cominciarono dunque le conferenze intorno agli articoli di domma e [1127] di disciplina, per li quali erano discordi le Chiese greca e latina; e furono tenute molte sessioni con dispute calde fra le due nazioni. Nel qual tempo al dispetto del sommo pontefice continuando i vescovi di Basilea il loro concilio, giunsero sino a formare un decreto, in cui si attribuirono l'autorità di sospendere l'autorità e giurisdizione di papa Eugenio, ed anche di processarlo. Alberto duca d'Austria, siccome erede del defunto imperador Sigismondo, per essere marito di Isabella di lui figliuola, nel dì primo di quest'anno fu coronato re d'Ungheria insieme colla moglie [Naucler., Gen. 48. Æneas Sylvius, Hist. Bohem.]. Susseguentemente dagli elettori nella città di Francoforte nel dì 20 di marzo fu concordemente eletto re de' Romani, e poco dappoi coronato in Aquisgrana. Ebbe dei contrasti per la corona di Boemia, di cui non di meno restò pacifico possessore: con che la già grande potenza dei duchi d'Austria crebbe di molto, ma per poco tempo a cagione della corta vita di questo principe. Mal soddisfatti si trovavano i Fiorentini della lor lega co' Veneziani, parendo loro che quelli pensassero unicamente al loro vantaggio, come era succeduto in addietro, e neppure avessero caro che Lucca venisse alle lor mani [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital. Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital. Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 21.]. Spedirono a Venezia Cosimo de Medici; nè spediente vi fu per una buona concordia; sicchè raffreddossi forte la loro lega. Anzi il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] scrive che questa andò per terra. Intanto il duca Filippo Maria inviò lettere e messi in Toscana al conte Francesco Sforza per ritrarlo al suo servigio: al qual fine principalmente fu adoperata la possente batteria delle nozze con lui di Bianca unica figliuola del duca medesimo, non però atta per anche al matrimonio, che gli si faceano credere immancabili. Inoltre il pregò d'interporsi coi Fiorentini, acciocchè [1128] lasciassero in pace la città di Lucca, raccomandata ad esso duca: altrimenti non poteva dispensarsi dall'inviare colà l'armi sue per liberarla dai loro insulti. Accordossi il conte col duca, e i Fiorentini, che di buon'ora s'erano accorti del maneggio, e lo riseppero anche dal conte, che era signor saggio e d'onore, presero anch'essi il partito di levar le offese da Lucca nel dì 28 di marzo, e di trattar accordo coi Lucchesi. In fatti, essendo intervenuti gli ambasciatori del duca, ne seguì pace, con restare a Lucca il solo piano di sei miglia, e il resto delle castella prese in potere de' Fiorentini: pace perciò molto disgustosa ai Lucchesi, ma necessaria in sì scabrose contingenze alla lor salvezza.

Filippo Maria Visconte fu principe professore d'una strana politica. Prometteva oggi per mancar di fede domani. Le vampe della vendetta e dell'ambizione tali erano in lui, che per qualunque pace non mai si estinguevano in suo cuore. Perciò familiari a lui erano le finzioni e le cabale per offendere altrui, e per mostrarsi innocente di quelle offese. S'era egli pacificato con papa Eugenio; ma si vide ben presto sollecitare ed animare per mezzo de' suoi ambasciatori il concilio di Basilea contra di lui. Peggio poi fece, siccome fra poco dirò. Avea tirato dalla sua di nuovo il conte Francesco Sforza con tale apparenza di voler effettuare il matrimonio di sua figliuola con lui, ch'era fin giunto a far tagliare le vesti e a pubblicar l'invito per quelle nozze; eppure era dietro a burlarlo. Si mostrava eziandio in apparenza amicissimo del re Alfonso; ma perchè il re non avea eseguito quanto largamente gli avea promesso in Milano, l'odiava, e sembrava sospirare la di lui rovina. Adunque per soddisfare a queste segrete passioni, facendo vista che Francesco Sforza fosse in sua libertà, gl'insinuò occultamente di passare con pretesti nel regno di Napoli a sostenere il partito del re Renato d'Angiò, e pubblicamente il pregò [1129] nel medesimo tempo [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.] di non offendere il re d'Aragona, come considerato da lui pel maggiore amico ch'egli avesse al mondo. Fece nello stesso tempo credere ad Alfonso d'essere con lui [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 4, tom. 21 Rer. Italic.], coll'inviare Francesco figliuolo di Niccolò Piccinino con un corpo di truppe, in aiuto del re medesimo. Ma costui giunto che fu ad Ascoli, unito coi fuorusciti di quella città, si perdè a saccheggiar quel paese, e, se non era il conte Francesco che inviasse soccorso a quei cittadini, Ascoli si perdeva. Tentò il giovane Piccinino anche Fermo; ma, essendo stato spedito dal conte Francesco colà Taliano Furlano, desistè dall'impresa. Quello onde si dolse non poco il conte Francesco, fu che per ordine del duca di Milano il Piccinino suddetto esibì sì vantaggiose condizioni ad esso Taliano, che lo staccò dal suo servigio e il trasse a quello del duca. Unito poscia con esso Taliano e coi Camerinesi, fece guerra alle terre del conte Francesco. E in tale occasione fu, secondo Simonetta, e per attestato ancora della Cronica di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], che Francesco Piccinino col suddetto Taliano, chiamato in aiuto dell'abbate di Monte Casino, ch'era assediato nella fortezza di Spoleti, entrò in quella città e la mise barbaramente a sacco, senza perdonare neppur ai luoghi sacri, come all'anno precedente ci fece sapere il Rinaldi. Passò intanto dalla Toscana nell'Umbria colle sue valorose milizie il conte Francesco Sforza. Venne alle sue mani Assisi. Erano i Norcini allora addosso ai Cerelani; li mise in rotta un corpo di gente ch'esso conte spedì contra di loro, e forzogli ancora ad implorar misericordia. Era parimente ribello del papa Corrado dei Trinci signor di Foligno. Tal terrore gli misero l'armi del conte, che mandò immantenente a raccomandarsi, e si sottomise agli ordini del sommo pontefice. [1130] Marciò poscia il conte nel regno di Napoli, e fece guerra a Josia Acquaviva aderente del re Alfonso, con impadronirsi di varie di lui terre sino al fiume Pescara, e insieme della città di Teramo. Gran confusione si mirava allora nel regno di Napoli [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Era riuscito all'assennato re Alfonso di attaccar di nuovo al suo partito il principe di Taranto, il conte di Caserta ed altri baroni, e in bella positura si trovavano i suoi affari. Ripigliarono poi migliore aspetto quei del re Renato, perch'egli sciolto dalle prigioni del duca di Borgogna col riscatto di ducento mila dobble d'oro, per la qual somma fu necessitato ad impegnare Stati ed amici, finalmente nel dì 19 di maggio arrivò a Napoli con dodici galee ed altri pochi legni, e fu con somma allegrezza accolto da quel popolo. Ma egli era povero; nè uscendo dalla sua borsa le aspettate rugiade, si raffreddò in breve la stima e l'amore de' Napoletani verso di lui. Ai suoi servigi si esibì pronto con tutte lo sue soldatesche Jacopo Caldora; e Micheletto Attendolo suo generale anch'egli si accinse vigorosamente alla di lui difesa. Ora il re Alfonso, per indebolire i suoi avversarii, calde lettere in primo luogo scrisse al duca di Milano, pregandolo di interporre i suoi uffizii presso il conte Francesco, acciocchè non gli fosse nemico. E il duca intenerito non mancò di farlo, anzi per questo scrisse anche ai Fiorentini che pagavano il conte, pregandoli di richiamarlo, usando eziandio minaccie, se nol faceano. Intervennero appresso altre mutazioni, per le quali infatti il conte ebbe da ritirarsi dal regno di Napoli. Secondariamente il re Alfonso, affine di allontanare il Caldora dal re Renato, marciò con tutte le sue forze in Abbruzzo; ebbe Sulmona, e mise il terrore per tutta quella provincia. Accorso colà Jacopo Caldora, fu a fronte del re; e, benchè egli fosse inferiore di forze, il tenne a bada con fargli credere di volersi accordar seco; tanto che il re Renato [1131] con Michele Attendolo venne ad unirsi seco nel dì 19 d'agosto. Era la loro armata di dieciotto mila persone; e però mandarono il guanto della disfida al re Alfonso, che lietamente l'accettò; ma per risposta mandò che gli aspettava in Terra di Lavoro, e quivi sarebbe venuto al fatto d'armi. Dopo di che, sapendo che poca gente d'armi si trovava in Napoli, passò colà, e nel dì 27 di settembre l'assediò per mare e per terra, facendo ben giocare le artiglierie. Vi stette sotto trentasei giorni; nel qual tempo una palla di bombarda sparata dai Napoletani percosse di balzo in testa l'infante don Pietro, fratello d'esso Alfonso, e il fece cader morto con incredibil cordoglio del medesimo re e di tutti i suoi. Perdute perciò le speranze di vincere quella città, Alfonso se ne tornò a Capoa; e il re Renato nel dì 9 di dicembre rientrò in Napoli.

Diede maggiormente a divedere in quest'anno il sempre inquieto duca di Milano qual fosse l'animo suo verso papa Eugenio IV [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Italic.]. Imperciocchè, mentre esso pontefice era intento in Ferrara al concilio, spedì nel dì 24 di marzo sul Bolognese Niccolò Piccinino suo generale con gran corpo d'armati. Andò costui girando per quei contorni, finchè ebbe, con gli Zambeccari ed altri amici de' Bentivogli ben concertato d'insignorirsi della stessa città di Bologna. In fatti nella notte antecedente al dì 21 di maggio, rotta la porta di San Donato, egli v'entrò colle sue genti, e ne prese il dominio per sè, con aver ben trattati que' cittadini. Fu cagione questo avvenimento che anche Imola e Forlì si ribellassero alla Chiesa [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], e il simile fecero tutte le castella di que' contadi. Entrò in Forlì Antonio degli Ordelaffi, e ne ripigliò la signoria; ma nel castello fu posto presidio dal Piccinino. Prima di questi fatti Astorre ossia Astorgio de' Manfredi signor di Faenza, unitosi colle sue genti ad esso [1132] Piccinino [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 7. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], avea occupato Bagnacavallo ed altre castella del territorio ravegnano; nel qual tempo, cioè nel dì 16 d'aprile, il Piccinino strinse d'assedio la stessa città di Ravenna; e, quantunque i Veneziani vi mandassero soccorso [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], pure Ostasio da Polenta, signore di quella città, fu costretto da lì a poco, cioè nel dì 21 d'esso mese, a dimandar accordo, per cui cacciò di Ravenna i Veneziani, e si dichiarò aderente al duca di Milano. Se di tali novità fosse malcontento il pontefice Eugenio, sel può ciascuno immaginare. Per quanto s'ha dagli Annali di Forlì [Annal. Foroliviens., tom. eod.], anche la bella terra ossia Borgo Santo Sepolcro fu proditoriamente tolta in quest'anno nel dì 26 d'agosto alla Chiesa romana. Per tali e tante turbolenze e movimenti di guerra, che il duca di Milano fingeva fatti dal Piccinino senza ordine suo, e mostrava anzi di lamentarsene, i Fiorentini richiamarono dal regno di Napoli il conte Francesco Sforza, che già s'era accorto d'essere beffato dal duca di Milano. Se ne tornò egli nella Marca, e volendo, secondo l'iniquo costume dei guerrieri d'allora, rallegrar le sue truppe con qualche saccheggio, trovati dei pretesti, che non mancano mai a chi vuol far del male, andò addosso alla ricca e popolata terra di Sassoferrato, patria di Bartolo celebre giurisconsulto, nelle vicinanze di Fabriano [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital. Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 3, tom. 21 Rer. Italic.]; e senza cercar accordo, in tre ore d'assalto v'entrò dentro. Quivi ancora fu commessa ogni sorta di crudeltà e disonestà nel terribil saccomano dato a quei cittadini e alle lor chiese. Ciò fatto, ridusse parimente colla forza Tolentino già ribellato a ritornare alla sua ubbidienza. Anche il popolo di Camerino si ridusse a chiedergli perdono e pace; dopo di che, messe a quartier d'inverno le [1133] sue soldatesche, attese a reclutarle per poter nella seguente primavera comparir forte in campagna. Terminò i suoi giorni nel dì 14 di novembre Malatesta signore di Pesaro.

Sole non furono in quest'anno le imprese di sopra narrate di Niccolò Piccinino. Siccome egli era un infaticabil capitano, nè si dava mai posa, appena sbrigato dalla Romagna, corse nel mese di giugno a Casal Maggiore, e mise il campo a quella nobil terra posseduta dai Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Non finì il mese, che si renderono que' cittadini con buoni patti. Passò poi l'Oglio fiume, mise il terrore per tutto il Bresciano, ed, arrivato al lago di Garda, s'impadronì di Rivoltella e dell'isola di Sermione. Minutamente son descritti questi ed altri fatti da Cristoforo da Soldo Bresciano nella sua Storia [Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.], e dal Platina [Platin., Hist. Mant., lib. 5.] in quella di Mantova. Gian-Francesco da Gonzaga, stato finora generale dei Veneziani, non fidandosi di loro, giacchè era terminata la sua condotta, non solamente nel dì 3 di luglio si licenziò dal loro servigio, ma si accordò anche col duca di Milano, per militare in favore di lui; ed in oltre, fatte correre le sue genti sul Veronese, presa Nogarola ed altri luoghi, vi fece molti prigioni. Di questo, come se fosse un grave tradimento, si lagnarono forte i Veneziani: intorno a che son da vedere le ragioni del Gonzaga addotte dal Platina. Prepararono dunque un'armata navale, e nel dì 28 d'agosto la spedirono su per Po ai danni del duca e del marchese di Mantova. Ed affinchè Niccolò marchese di Este signor di Ferrara non prendesse partito col duca, il quetarono con rilasciargli liberamente Rovigo con tutto il suo Polesine, tanti anni prima dato loro in pegno da esso marchese, quando era in verde età, per sessanta mila fiorini di oro. Continuò in questo mentre i suoi progressi Niccolò Piccinino, con insignorirsi [1134] di Gavardo, Garda, Salò, Lacise. E colla medesima prestezza, saltando or qua or là, ridusse in suo potere Chiari, Pontoglio, Soncino ed altri luoghi, tutti menzionati da Cristoforo da Soldo. Ma ritrovandosi egli a Roado, all'improvviso gli arrivò addosso Stefano detto il Gattamelata, che nel dì 10 d'agosto gli diede un pelata con prendere circa quattrocento cavalli de' suoi, ed ucciderne altrettanti. Prese all'incontro il Piccinino cento cavalli veneziani e cento fanti, ed in oltre ebbe Roado e Palazzuolo. Trovossi allora il Gattamelata come bloccato in Brescia; e perchè il senato veneto non avea esercito dalla parte di Verona (cosa che molto gli premea), il Gattamelata per quel di Lodrone e di Trento con tre mila cavalli e due mila fanti passò sino a Verona, e per ricompensa ebbe il bastone di generale. Tentò l'armata veneta navale sul Po Sermido, terra del marchese di Mantova, ma con poca fortuna, e se ne tornò indietro. Pietro Loredano comandante d'essa, giunto a Venezia, tardò poco a sbrigarsi da questa vita, e fu detto per malinconia della sua sfortunata spedizione. Intanto Niccolò Piccinino pose l'assedio alla città di Brescia, e intorno ad essa fabbricò alquante bastie. Fu gran peste nell'anno presente in Genova, e portò al sepolcro migliaia di persone.


   
Anno di Cristo mccccxxxix. Indiz. II.
Eugenio IV papa 9.
Alberto II re de' Romani 2.

Era entrata la peste anche nella città di Ferrara. Tra per questo disordine e pericolo, e perchè il pontefice Eugenio non si trovava assai quieto in quella città, da che Niccolò Piccinino avea presa Bologna, Imola e Ravenna [Raynald., Annal. Eccles. Labbe, Concilior., tom. 12.], determinò egli coi Padri di trasferire il concilio generale a Firenze. A questo cangiamento si accomodarono ancora l'imperadore e [1135] il patriarca de' Greci. E però nel dì 16 di gennaio [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] il papa imbarcato in una peota, servito dal marchese Niccolò di Este, sen venne a Modena co' cardinali, e per le montagne fu condotto sicuro sino a Firenze da esso marchese; giacchè niun d'essi si attentava di passare per Bologna, e suo distretto, perchè occupato dal Piccinino. L'imperador Giovanni Paleologo e il patriarca greco cogli altri vescovi orientali sul fine del medesimo mese s'inviarono anch'essi a quella volta, avendo loro conceduto il passo per la valle di Lamone il signor di Faenza. Fu dunque continuato in Firenze il suddetto concilio con gloria immortale di papa Eugenio IV, perciocchè ivi seguì la tanto sospirata unione delle Chiese latina e greca, benchè col tempo non meno pegli spaventosi progressi de' Maomettani, che per la perfidia de' Greci, poco frutto ne risultasse alla Chiesa di Dio. Questa santa opera, che dovea calmare gli spiriti sediziosi dei pochi vescovi tuttavia raunati in Basilea, servì forse a maggiormente inasprirgli. E però la sfrenata loro ambizione si lasciò trasportare nel dì 25 di giugno a formare il decreto della deposizione di Eugenio papa legittimo, con orrore di tutti i buoni, e disapprovazione della maggior parte del cristianesimo. Ma non tardò ad entrare nella stessa città di Basilea la peste [Æneas Sylvius, de Gest. Concil. Basil.], che fece gran paura a quei prelati, ed alcuni ancora ne portò al tribunale di Dio; tuttavia gli altri, benchè pochi, animati dal cardinale d'Arles, stettero saldi, e nel dì 5 di novembre giunsero ad eleggere un antipapa. Questi fu Amedeo duca di Savoia, che vedemmo dianzi ritirato in sua vecchiaia a Ripaglia nella diocesi di Ginevra, per far ivi vita eremitica, benchè non lasciasse sotto quell'abito di far anche da duca. Sotta la sua lunga barba non di meno e sotto quel rozzo abito alloggiava tuttavia l'antica voglia di comandare; e però, [1136] presentatagli l'elezione, si contorse bensì, e versò anche delle lagrime, ma in fine l'accettò. Prese il nome di Felice V, senza molto ponderare l'empietà di quell'atto, che non era mai scusabile nè presso Dio, nè presso gli uomini, avendo egli rinnovato nella Chiesa di Dio lo scisma, tanto detestato dalle leggi divine ed umane, e riprovato allora insino dal duca di Milano, quantunque genero d'esso Amedeo. Dacchè papa Eugenio con tutte le sue diligenze non avea potuto impedire questo scisma, informato che fu dell'esecrabile attentato de' prelati di Basilea, fulminò, ma solamente nell'anno seguente, contra d'essi la scomunica, e dichiarò eretico e scismatico lo stesso Amedeo; e per fortificare il suo partito, nel dì 18 di dicembre dell'anno presente fece in Firenze una promozione di diecisette cardinali di tutte le nazioni cattoliche.

Nel dì 27 d'ottobre di quest'anno [Duhravius, Nauclerus. Cuspinian., Æneas Sylv., et alii.] fu da immatura morte rapito, e non senza sospetto di veleno, Alberto II duca d'Austria, re de' Romani, d'Ungheria e di Boemia, e principe lodatissimo da tutti gli storici. Lasciò gravida la regina Isabella sua moglie, che poi diede alla luce Ladislao, riconosciuto per loro re dai popoli dell'Ungheria [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Continuò in questo anno ancora nel regno di Napoli la guerra fra i due nemici re Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò. Mantenevasi tuttavia in Napoli Castello Nuovo con guarnigione dell'Aragonese. Fu esso assediato per terra e per mare dalle genti di Renato, e non ostante lo sforzo fatto da Alfonso per soccorrerlo di gente e di vettovaglia, con aver anche messo il campo intorno alla stessa città di Napoli, quel castello nel dì di san Bortolomeo d'agosto capitolò la resa, e fu consegnato agli ambasciatori del re di Francia, i quali poi, maltrattati dal re Alfonso, lo diedero al re Renato. Dopo questa perdita Alfonso, [1137] impadronitosi di Salerno, ne investì Raimondo Orsino cugino del principe di Taranto, e creollo anche duca d'Amalfi. Ridusse del pari alla sua divozione Americo Sanseverino conte di Caiazza, e tutti gli altri baroni di quella casa. Sul fine di settembre essendosi mosso Jacopo Caldora duca di Bari colle sue genti dall'Abbruzzo per andarsi ad unire col re Renato, corse ad opporsegli il re Alfonso, e il tenne un pezzo a bada, finchè esso Jacopo nel dì 18 di novembre, sorpreso da mortale accidente, finì i suoi giorni con fama d'essere stato prode capitano, ma colla macchia di poca fede e di molta avarizia. Antonio Caldora suo figliuolo prese allora il comando di quell'armata, e fu confermato duca di Bari, siccome Raimondo suo fratello creato gran camerlengo. Erano i Caldoreschi la maggiore speranza di Renato. In questi tempi il re Alfonso, che era padrone di tutta la Terra di Lavoro, e continuamente angustiava Napoli, mise anche l'assedio al castello d'Aversa: il che cagionò di grandi affanni al re suo avversario.

Maggiormente fece strepito in questo anno la guerra di Lombardia [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.]. Avea Niccolò Piccinino, siccome già accennai, nell'ottobre dell'anno precedente bloccata e stretta con alcune bastie la città di Brescia, con isperanza di vincerla nel verno colla fame. Poco più di due mila difensori v'erano dentro, perchè gran gente a cagion della peste n'era uscita. Contuttociò que' cittadini fedelissimi alla repubblica veneta, che odiavano il governo del duca di Milano, fecero delle maraviglie in difesa della lor patria. Più e più assalti diede loro il Piccinino, facendo anche incessantemente giocar le artiglierie contro le loro mura; ma gl'intrepidi Bresciani sostenevano tutto, provvedevano a tutto, e fino i preti e i frati menarono allora le mani. Son diffusamente descritti questi fatti da Cristoforo da Soldo e dal Platina. Ora in tali angustie i [1138] Veneziani, che nell'anno precedente si erano mostrati quasi sprezzatori della lega co' Fiorentini, e dell'aiuto del conte Francesco Sforza, mutarono ben massima e linguaggio [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 21.]. Inviati a Firenze i loro ambasciatori, in tempo che Cosimo de Medici, uomo saggio, era gonfaloniere, nel dì 18 di febbraio riconfermarono la lega, alla quale s'aggiunsero ancora papa Eugenio e i Genovesi. A niun d'essi tornava il conto che prevalessero l'armi del Visconte, concordemente poi cominciarono a sollecitare il conte Francesco, acciocchè portasse soccorso in Lombardia agli affari sconcertati de' Veneziani. In questo mentre, raccomandandosi forte i Bresciani a Venezia per ottenere aiuto, perchè aveano tre nemici addosso, cioè l'armi del duca, la pestilenza e la fame; ebbe ordine il Gattamelata di passar colle sue truppe pel Trentino, e per Lodrone ed Arco, a quella volta. Andò; ma nel dì 12 di gennaio ebbe uno svantaggioso incontro colle soldatesche del Piccinino, che teneano i passi, e gli convenne retrocedere. Inoltratosi all'incontro in quelle parti Taliano Furlano con altre milizie duchesche [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], ebbe anch'egli nel dì 22 d'esso mese una rotta da Taddeo marchese d'Este e da Parisio conte di Lodrone. Irritato da questo fatto il Piccinino, marciò in persona a Lodrone; e, dopo averlo preso, tornò sul lago di Garda per vegliare ad un'armata di circa ottanta legni fra grandi e piccioli, che la repubblica veneta fece con immense spese portare per terra sino a Torbola sul lago suddetto. Tuttavia, perchè era troppo nemico dell'ozio, nel mese di marzo si spinse sul Veronese, passò in faccia ai nemici l'Adige, assediò e prese Legnago, Lonigo ed altre terre. In una parola non passò il mese di maggio che quasi tutto il territorio di Verona e Vicenza, sì il piano che il monte, si sottomise all'armi di lui e del marchese di Mantova, di cui doveano essere Verona e Vicenza, qualora se ne [1139] fossero impossessati. Ritirossi intanto il Gattamelata nel serraglio di Padova, premendogli di non avventurare ad una giornata la salute della repubblica. Intanto fu rallentato l'assedio di Brescia con somma consolazione di que' cittadini, che non ne poteano più. Questo inoltrarsi cotanto del Piccinino era per opporsi al conte Francesco Sforza, il quale, per le tante ragioni, preghiere e promesse a lui recate dagli ambasciatori di Venezia e Firenze, s'era messo in viaggio in soccorso dei Veneziani, giacchè scorgeva non potersi far capitale delle speranze a lui date dal duca.

Dopo aver preso Forlimpopoli, il conte Francesco sen venne pel Ferrarese con sette mila cavalli e quattro mila fanti ben in punto, e sul principio di luglio giunse sul Padovano [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.]. Unitosi poi coll'esercito del Gattamelata, in pochi giorni ebbe tutto il Vicentino in sua balia. Avea fatto in questo mentre il Piccinino a Soave e ad altri luoghi scavare di grandi fosse e tagliate; laonde fu forzato il conte a tenersi per la montagna, se volle andare innanzi, e gli convenne ancora urtar più d'una volta nei nemici. S'andò ritirando il Piccinino, e passò anche di qua dall'Adige: con che diede campo al conte di ricuperar tutto il di là. Pertanto si ridusse la guerra sul lago di Garda, dove a Torbola era la flotta veneta, contra la quale anche il duca di Milano si premunì con un'altra fabbricata a Desenzano. Trovavasi la veneta a Maderno sul lago con Taddeo marchese d'Este e con altri capitani, e parte delle soldatesche era in terra [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital. Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Arrivò loro addosso nel dì 26 di settembre Niccolò Piccinino tanto coi legni milanesi fabbricati sullo stesso lago di Garda, quanto colle soldatesche per terra, avendo seco il marchese di Mantova e Taliano Furlano; e tutta quella [1140] flotta pose in rotta colla presa de' legni, e con far prigione Taddeo marchese, i provveditori veneti ed altre persone da taglia. Inestimabile fu il danno che ne riportarono i Veneziani. Ma senza punto sgomentarsi s'accinse tosto la potenza veneta a formare una nuova flotta, non perdonando a spesa veruna. Respirava bensì Brescia, perchè ne era levato l'assedio; ma sprovveduta di vettovaglie, ne facea continue istanze alla repubblica veneta. Prese dunque il conte Francesco la risoluzione d'incamminarsi colà per le montagne e per la valle di Lodrone. Con disegno d'impedirgli il passo, si postarono il Piccinino e il marchese di Mantova al castello di Ten; ma eccoti nel dì 9 di novembre si veggono assaliti in quei passi stretti dal conte, e sono astretti alla fuga. Vi restarono prigionieri Carlo figliuolo del marchese di Mantova, Cesare da Martinengo, ed altri condottieri con cento uomini d'armi, e molti fanti e cernide. Ebbe fatica lo stesso Piccinino a salvarsi, e sulle spalle d'uomini si fece portare (fu detto in un sacco) a riva di Lago. Ma non mai comparve l'arditezza di esso Piccinino, come questa volta. Dopo la rotta suddetta non si sapea dove egli fosse. Da lì a pochi giorni giugne avviso al conte Francesco, come egli col marchese di Mantova avea data la scalata a Verona; ed, entratovi, se n'era quasi interamente impadronito, non restando più in mano de' Veneziani se non il Castel Vecchio e quello di San Felice, ed una delle porte. Parve cosa da non credere un sì inaspettato colpo. Era il conte all'assedio del soprannominato castello di Ten, e, ricevuta questa così stravagante nuova, non tardò nel dì 17 del predetto mese di novembre a mettersi frettolosamente colla sua armata in viaggio alla volta di Verona. Nella notte precedente al dì 20 essendo passato per le vie scabrose della montagna, entrò egli nel castello di San Felice, contra di cui già s'erano alzate le batterie, e che poco potea durare, perchè sprovveduto di gente [1141] e di viveri [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.]. Fatto dì, piombò il conte colle sue valorose squadre addosso agli assedianti, e, trovandoli in parte attenti a bottinare, gli sbaragliò. Tal fu la calca de' fuggitivi sul ponte dell'Adige, che questo si ruppe, laonde moltissimi si annegarono, e da due mila persone rimasero prigioniere. Con sì fatta velocità liberò il conte la città di Verona. Venne poscia il Piccinino sul Bresciano, dove diede gran sacco e danno, e maggiormente affamò quella città. Andò il conte Francesco all'assedio d'Arco, ma nol potè avere; e però, tornato sul Veronese, mise quivi a quartiere pel verno le sue affaticate schiere. Con tali prodezze terminò la campagna di quest'anno in Lombardia, avendo il conte Francesco lasciata a' Veneziani una perenne memoria del suo valore e della sua fedeltà. E di qui potè conoscere Filippo Maria duca di Milano il bel frutto delle sregolate sue risoluzioni. S'egli avesse avuto dalla sua, e non già nemico, lo Sforza, correa manifesto pericolo la repubblica veneta di perdere tutta la terra ferma, giacchè al solo Sforza si potè attribuire l'averla conservata, e con tanto decoro. In quest'anno [S. Antonin., Par. III, tit. 22. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] il patriarca Vitellesco capitano del papa mise il campo a Foligno, ed entratovi per tradimento sul fine dell'anno, fece prigione Corrado de' Trinci signore di quella città con due suoi figliuoli; e condottolo a Soriano, da quell'uomo crudele che era, gli fece mozzare il capo: con che la famiglia dei Trinci, che per più d'un secolo avea tenuta la signoria di Foligno, ne restò priva, e se n'andò dispersa. Nè si dee tacere che il duca di Milano, per tirare nel suo partito Guidantonio de' Manfredi signore di Faenza [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], gli donò, nell'aprile dell'anno presente, Imola, Bagnacavallo e la Massa de' Lombardi.

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Anno di Cristo mccccxl. Indizione III.
Eugenio IV papa 10.
Federigo III re de' Romani 1.

Dopo la morte di Alberto II duca di Austria e re de' Romani, Federigo Austriaco, figliuolo duca Ernesto e conte del Tirolo [Nauclerus, Cuspinian., et alii.], prese il governo del ducato dell'Austria e degli altri Stati della sua potente casa, e poscia nella festa della Purificazione della beata Vergine fu eletto in Francoforte re de' Romani di comune consenso degli elettori: principe piissimo, mansueto ed amator della pace. Il resto delle sue azioni lo lascio alla storia germanica. Fu sul principio disapprovato il suo contegno, perchè nello scisma cominciato dai pochi prelati di Basilea, egli insinuò alla nazione germanica la neutralità ed indifferenza, quando quasi tutti gli altri monarchi e principi [Blondus Stefanus Infessura, P. II, tom. 3 Rer. Ital. S. Antoninus, et alii.] tenevano, come ragion voleva, la parte del vero e legittimo papa Eugenio IV. Fin qui Giovanni Vitellesco da Corneto, patriarca d'Alessandria e cardinale, s'era acquistato credito di gran capitano di guerra presso gli uomini, ma non già presso a Dio, siccome uomo più di mondo che di Chiesa. Più saggi avea egli dato della sua smoderata ambizione, crudeltà e lussuria nel corso delle sue bravure, ed ultimamente avea ricuperata la rocca di Spoleti, con far prigione l'abbate di Monte Casino [Petroni, Istor., tom. 24 Rer. Ital.]. Da sì fatto uomo volle Dio liberare gli stati della Chiesa, e permise che papa Eugenio (non ben sappiamo se con veri o falsi fondamenti) prendesse gagliardo sospetto di lui, quasichè egli macchinasse d'impadronirsi delle città pontificie, e tenesse segreta intelligenza col duca di Milano e con Niccolò Piccinino, dicendosi che furono intercette alcune sue lettere [1143] scritte in cifra [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 21.]. Andò dunque ordine del papa ad Antonio Redo, castellano di castello Sant'Angelo, di farlo prigione, per poscia formare il suo processo. Ma diversamente passò la faccenda, perchè, volendo esso cardinale nel dì 18 di marzo partirsi da Roma, nel passare in vicinanza del suddetto castello, allorchè vide chi volea fermarlo, si mise alla difesa, e guadagnate alcune mortali ferite, fu portato là entro [Bonincont., Annal., tom. 21 Rer. Ital.], dove nel dì 2 di aprile finì i suoi giorni o per veleno o in altra guisa, e vilmente venne dipoi seppellito. Ostia, Soriano, Cività Vecchia ed altri luoghi ch'egli teneva, tornarono senza gran fatica in potere del papa.

Pensava seriamente Filippo Maria duca di Milano a levarsi di dosso il suo gran flagello, cioè il conte Francesco Sforza; e perchè sapea che i Fiorentini si trovavano allora mal provveduti per la guerra, determinò di portarla colà, immaginandosi che essi richiamerebbono incontanente in Toscana il conte alla loro difesa [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.]. Gli andarono per la maggior parte falliti i suoi disegni. Spedì egli adunque nel febbraio Niccolò Piccinino in Romagna con sei mila cavalli, che, giunto a Bologna nel dì 4 di marzo [Cronica di Bologna, tom. eod.], continuò poi il suo viaggio, e fece tal paura a Sigismondo Malatesta signor di Rimini, e agli altri suoi consorti, già stipendiati da' Veneziani, che presero accordo con lui. Impadronitosi poscia di Oriolo e di Modigliana, per la via di Maradi passò in Toscana, e penetrò nel Casentino, dove ebbe Romena e Bibbiena. Con tutta diligenza fecero i Fiorentini quella massa di gente d'armi che poterono, e soprattutto ebbero Micheletto Attendolo lor generale, e Pietro Giampaolo Orsino con altri condottieri d'armi. Ordinò anche il papa che marciassero in loro aiuto tre mila e cinquecento fanti di sua gente. Ma, per quanto i Fiorentini [1144] desiderassero e pregassero, non poterono impetrar da' Veneziani il conte Francesco Sforza, perchè troppo ne abbisognava quel senato per dar soccorso a Brescia. Andossene dipoi il Piccinino fino a Perugia sua patria con soli quattrocento cavalli, con pensiero di farsi signore di quella città. Avea, oltre a ciò, de' trattati in Cortona; ma si sciolsero in fumo tutti i suoi disegni. Ritornato perciò indietro, venne colla sua armata al già da lui occupato Borgo di Santo Sepolcro, mettendosi a fronte dell'esercito fiorentino, il quale s'era posto ad Anghiari [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 21. S. Antoninus, Poggius, Blondus, et alii.]. Poca stima faceva egli delle soldatesche nemiche, molta delle sue; e, venendo a battaglia, si tenea la vittoria in pugno. Volle farne la pruova nel dì 29 di giugno, festa solenne de' principi degli Apostoli, con attaccar la zuffa. Valorosamente si combattè da ambe le parti per quattro ore, e finalmente toccò al prode Piccinino d'andare in rotta, perchè i suoi vennero stanchi alla pugna, e si perderono anche a bottinare. Poco umano sangue vi si sparse; contuttociò gli scrittori fiorentini fanno ascendere a circa tre mila i cavalli presi, e si contarono fra i prigioni Astorre de' Manfredi, Sagramoro Visconte ed altri capitani del Piccinino. Di questa vittoria nondimeno poco seppero profittare i Fiorentini; il papa solo ricuperò in tal congiuntura Borgo Santo Sepolcro, ch'egli vendè poscia a' Fiorentini per bisogno di danaro. Andato intanto il Piccinino verso Perugia, sen venne poi pel paese d'Urbino alla volta della Lombardia, e però anche buona parte dell'armata Fiorentina calò di qua dall'Apennino in Romagna. Nel dì 15 di settembre tentò con breve assedio e con alcuni assalti la città di Forlì, nè potè averla. Prese bensì Bagnacavallo e Massa de' Lombardi, terre che per bisogno di pecunia il papa poco appresso vendè a Niccolò Estense marchese di Ferrara.

Non si stette colle mani alla cintola [1145] neppure la Lombardia. Per la somma carestia si trovava tuttavia in pericolo la città di Brescia, nè cessavano le premure ed istanze de' Veneziani per portarle soccorso [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.]. Perchè il passaggio del Mincio era guardato dal nemico marchese di Mantova, pativa molte difficoltà. Il solo lago di Garda parea piuttosto il varco per cui potesse passare un grosso convoglio di genti e di vettovaglie. A questo fine avea il senato veneto preparata una flotta di varie navi a Torbole, con far condurre colà per terra infin le galere: il che costò immense spese [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. In fatti nel dì 10 di aprile riuscì ad essa flotta di sconfiggere quella del duca di Milano, comandata da Taliano Furlano, e poscia di assediare e prendere Riva di Trento. Allora, senza badare a difficoltà, nel dì 3 di giugno [Cristoforo da Soldo, Istor., tom. 21 Rer. Italic.] passò il conte Francesco animosamente colle sue genti il Mincio, ricuperò Rivoltella, Lonato, Salò, Calcinato ed assaissimi altri luoghi. Più non militava con esso lui il Gattamelata da Narni, perchè, colpito da un accidente apopletico, diede poi fine alla sua vita nell'anno 1445 in Padova, dove tuttavia sulla piazza del Santo si mira la di lui statua equestre di bronzo alzatagli dalla repubblica veneta. Quanto più poi s'inoltrava l'armata veneta, tanto più si ritirava indietro la duchesca, siccome inferiore di forze, talchè le convenne ridursi al fiume Oglio. Ma anche lo Sforza comparve colà nel dì 14 di giugno [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.], e, venuto alle mani coll'esercito del duca tra gli Orci e Soncino, ne riportò vittoria con prendere tutto il carriaggio, e circa mille e cinquecento cavalli ducheschi. Buona parte d'essi era di Borso Estense figliuolo di Niccolò marchese di Este, il qual con mille cavalli era passato come venturiere al servigio del duca [1146] di Milano. Non solamente restò allora liberata Brescia da' nemici e dalla fame con ricco trasporto di biade, ma in poco tempo tornò alla divozione della veneta repubblica la maggior parte delle sue terre e castella colle altre perdute nel distretto di Bergamo: tutto per la valorosa condotta del conte Francesco Sforza. Nè queste furono le sole azioni sue. Si spinse egli più innanzi, e s'impadronì di Caravaggio e, in una parola, di tutta Geradadda, prima che terminasse il mese di giugno. Nei seguenti mesi continuò egli le sue conquiste sì in ricuperar le restanti terre perdute nel Bresciano e Veronese, che in prenderne altre sul Cremonese, e in togliere Peschiera ed altri luoghi al marchese di Mantova: tanto che, giunte le pioggie autunnali, ed accostandosi il verno, le soldatesche piene di bottino se l'andarono a goder ne' quartieri. In somma nuove occasioni al certo ebbe il duca di Milano di pentirsi di aver beffato ed abbandonato Francesco Sforza, che sarebbe stato, s'egli avesse voluto, il suo braccio diritto.

Neppure in quest'anno andò esente il regno di Napoli dalle dure pensioni della discordia, a cagion della guerra continuata fra i due re, cioè fra Alfonso re d'Aragona e Renato d'Angiò. Povero era Renato, e, mancandogli gente e pecunia [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], cioè i due maggiori requisiti a fare e sostenere la guerra, altra speranza non avea se non in Antonio Caldora duca di Bari. Ma questi a quanti messi gli mandava il re, affinchè cavalcasse in suo aiuto, adduceva per iscusa la mancanza del danaro, e il timore che in sua lontananza si ribellassero i popoli dell'Abbruzzo. Prese Renato allora l'ardita risoluzione di portarsi incognito in persona in quelle contrade, e l'eseguì con maraviglia d'ognuno. Raccolse in esso viaggio donativi, danaro e gente, e massimamente dagli Aquilani. Trovavasi egli nel dì 29 di giugno in faccia all'esercito aragonese, e mandò ad Alfonso la disfida [1147] della battaglia. La risposta dell'Aragonese fu, che, trovandosi egli padrone della maggior parte del regno, non si sentiva voglia di mettere a repentaglio tutta la sua fortuna in una giornata. Avrebbe nondimeno Renato assalito il campo nemico, e probabilmente con isperanza di vincerlo, perchè già si ritirava; ma l'infedele Caldora co' suoi ricusò di muoversi. Per questo esacerbato Renato il fece ritenere, e prese al suo soldo buona parte delle di lui milizie, lasciandolo poscia tornare in Abbruzzo con titolo di vicerè. Ma in vece di tornar colà il Caldora, cominciò a trattare accordo col re Alfonso. Dio punì la sua infedeltà, perchè in questo mentre Gian-Antonio Orsino principe di Taranto, già tornato alla divozione del re Alfonso, tenne trattato con Marino da Norcia governatore di Bari pel Caldora, ed entrò in possesso non solo di quella città, ma anche di Conversano e di tutte le altre terre dei Caldoreschi. Tornò poscia il re Alfonso colle sue genti all'assedio di Napoli, e però il re Renato, quantunque avesse ricuperato castello Sant'Ermo, tornò ad essere in disagio come prima, e ricorse a papa Eugenio per aiuto. Fin qui erano state rispettate le città e terre degli Sforzeschi in regno di Napoli, cioè quelle del conte Francesco e de' suoi fratelli. Il re Alfonso, secondo i Giornali di Napoli, le prese nell'anno presente, ancorchè fosse pace tra lui e il conte; e trovolle ricchissime per aver esse goduto finora e profittato della loro neutralità. Erano queste Benevento, Manfredonia, Bitonto ed altre non poche [Istor. Napolit., tom. 23 Rer. Ital.]: danno grave provenuto al conte Francesco per la sua lontananza, avendo egli perduto il proprio per sostenere l'altrui. Verisimilmente fu questo un sottomano del Visconte, che, per vendicarsi d'esso Sforza, segretamente attizzò contra di lui il re Alfonso. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.] differisce sino [1148] all'anno 1442 lo spoglio di tali città fatto al conte. In mano d'esso re venne anche la città d'Aversa col sua castello. Sigismondo Malatesta signore di Rimini [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], per interposizione di Niccolò marchese di Ferrara, si ritirò dall'amicizia del duca di Milano, e tornò a quella de' Veneziani: il che fu cagione [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] che anche Ravenna e i Polentani facessero lo stesso nel dì 14 d'agosto.


   
Anno di Cristo mccccxli. Indiz. IV.
Eugenio IV papa 11.
Federigo III re de' Romani 2.

Non mancarono affari neppure in quest'anno a papa Eugenio [Raynaldus, Annal. Eccles. Spondanus, in Annal. Eccles. Æneas Sylvius, in Epist.], perciocchè tuttavia lo scismatico concilio di Basilea, benchè composto di poche teste, continuava le sue sessioni, e l'antipapa Felice V, cioè Amedeo di Savoia, nel dì 24 di giugno, festa di san Giovanni Batista, con gran solennità si fece coronare colla pontificia tiara nella città di Basilea, dove fu gran concorso di gente, e creò anche quattro cardinali. E benchè il re Alfonso non lasciasse riconoscere per papa nei suoi regni il suddetto Amedeo, pure andava trattando col concilio di Basilea, siccome sdegnato con papa Eugenio, perchè questi ricusava di dargli l'investitura del regno di Napoli. Anzi nel mese di ottobre, per far paura ad esso pontefice, procurò che i prelati basiliensi inviassero a sè una ambasciata, mostrando ancora di voler ottenere dall'antipapa ciò che il papa gli andava negando. Ora Eugenio, non meno per queste ostilità d'Alfonso, che per le preghiere del re Renato, si volse a raccogliere quanti armati potè, e li spedì in regno di Napoli contra di Alfonso. Prima non di meno che giugnessero tali soccorsi, erano succedute alcune azioni vantaggiose al medesimo [1149] re d'Aragona [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]: cioè, accordatisi con lui i Caldoreschi, aveano inalberate le di lui bandiere. Cassano, Biccari, Caiazza, la Padula ed altre terre erano venute a sua divozione [Istoria di Napoli, tom. 23 Rer. Ital.]. Ora da che il conte Francesco Sforza ebbe ragguaglio della guerra mossa da esso Alfonso alle sue terre del regno di Napoli, inviò colà Cesare Martinengo con Vittore Rangone, e con un grosso corpo di cavalleria, il quale, unitosi con altre soldatesche della Marca, col conte di Celano, con Francesco da San Severino ed altri Napoletani [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], andò ad opporsi ai progressi del re Alfonso. Si trovava allora esso re all'assedio della città di Troia. Vennero le genti del conte Francesco alle mani con lui nel dì 10 di giugno, e, dopo un crudel fatto d'armi, n'ebbero la peggio con loro vergogna, ma senza gran danno, perchè la maggior parte d'essi fuggendo si salvò nella suddetta città di Troia, di maniera che fu forzato Alfonso dipoi a levarsi col campo di sotto a quella città. Nel seguente luglio Alessandro Sforza, governatore della Marca pel conte Francesco suo fratello, entrò anch'egli nel regno con mille e cinquecento cavalli. Per trattato ebbe il castello di Pescara; poscia all'improvviso arrivò addosso a Raimondo Caldora, che assediava Ortona, e il fece prigione insieme con cinquecento cavalli. Poco mancò che non pigliasse anche Riccio e Giosia di casa Acqua viva. Ebbero questi la fortuna di salvarsi a città di Chieti. Comparve poscia nel regno l'esercito pontifizio sotto il comando del cardinale di Taranto legato, e del conte di Tagliacozzo, consistente in circa dieci mila persone; ma non fece prodezza alcuna degna di menzione. Anzi il cardinale da lì a qualche tempo fece tregua col re Alfonso, e se ne tornò in Campagna di Roma. Questa fu la rovina del [1150] re Renato [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], perchè Alfonso mandò tosto don Ferdinando suo figliuolo con grosso corpo di combattenti a strignere d'assedio di bel nuovo Napoli, città che scarseggiava allora e maggiormente seguitò a scarseggiare di viveri. Avea certamente il papa a forza di danari fatto anche un armamento di alcuni legni in Genova, per inviarli contra d'Alfonso; ma spese malamente la pecunia, avendo mostrato i Genovesi voglia di far molto, con poi far nulla.

Per conto della Lombardia, veggendosi Filippo Maria duca di Milano in cattiva positura, per avere non solo perduti gli acquisti fatti, ma parte ancora del suo nella guerra co' Veneziani, avea fin dall'anno antecedente pregato Niccolò Estense marchese di Ferrara ad interporsi per la pace, siccome principe neutrale, e che avea sì buona mano in somiglianti affari [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Andò il marchese per tal effetto a Venezia, passò anche a Mantova per trattarne con quel marchese; nè solamente tenne filo di lettere col conte Francesco Sforza, ma, con licenza de' Veneziani, andò anche a trovarlo a Marmirolo. Una gran remora a questo affare era lo stesso conte; laonde per guadagnarlo tornò il duca di Milano ad esibirgli in moglie Bianca, unica naturale sua figlia, che seco portava le speranze di tutta la sua eredità. E perchè non poteva il conte prestar fede a chi più di una volta l'avea dianzi burlato, si trovò il ripiego di mandar Bianca a Ferrara in deposito presso il marchese Niccolò. Fu essa dunque condotta a Ferrara, dove come gran principessa fece la sua entrata nel dì 26 di settembre [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.] sotto baldacchino di panno d'oro, e stelle poi ad aspettare l'esito di sua ventura. Non so ben dire se per difetto del duca, principe incostante nelle sue risoluzioni, e che per la venuta di Niccolò Piccinino [1151] tornò ad alzare il capo, oppure per le pretensioni de' Veneziani, vogliosi di qualche buon boccone, anche in questa occasione andasse a terra la pratica della pace. Certo è che nel verno di quest'anno si ricominciò la guerra, e del dì 5 d'aprile il marchese Niccolò ricondusse Bianca a Milano, dopo aver perduta ogni speranza di comporre le cose. Era già tornato nell'anno precedente a Milano il suddetto Piccinino, ma quasi in farsetto; i suoi soldati veterani il seguitarono quasi tutti a piedi, perchè ogni lor sostanza avean perduto nella rotta d'Anghiari, essendo, come si è detto altrove, secondo la disciplina militare degl'Italiani d'allora, in uso di spogliar d'armi i soldati presi, e di lasciarli andare, con ritener solamente le persone da taglia [Cristoforo da Soldo, Ist. Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.]. Ancorchè la borsa del duca fosse estenuata affatto, pure si trovarono gravezze e maniere di spremere quelle dei particolari, tanto che il Piccinino si rimise in arnese, ed incoraggì il duca a nuove militari imprese. Eccolo dunque in campagna nel dì 13 di febbraio dell'anno presente passare il fiume Oglio con circa otto mila cavalli, e tre mila fanti. Questo passaggio mise il terrore nelle milizie venete, che svernavano nel Bresciano, e tutte si ritirarono alle fortezze [Simonetta, Vit. Francis. Sfortiae, tom. eod.]. Mille cavalli del conte Francesco si ridussero a Chiari. Fu loro addosso il Piccinino, e li prese insieme colla terra; e ritenuti i capi di squadra, lasciò andare il resto in bel giuppone. Non passò gran tempo che ricuperò tutta la Geradadda, prese Palazzuolo, tutta la valle d'Iseo, il piano del Bergamasco e gran parte del Bresciano: tanta era la sua velocità in simili azioni. Minutamente si veggono narrati questi fatti da Cristoforo da Soldo, storico bresciano. Solamente nel mese di giugno uscì in campagna Francesco Sforza, e passò sul Bresciano in cerca del Piccinino. Nel dì 25 d'esso mese seguì fra le sue genti [1152] e quelle d'esso Piccinino un incontro assai caldo, colla peggio degli Sforzeschi; e da lì innanzi andarono poi girando e come giocando le armate, senza volontà di provar la loro fortuna. Il motivo era, perchè si trattava forte di pace in segreto, e il conte Francesco, che onoratamente comunicava tutte le proposizioni ai commessarii veneziani, era il principale in questo dibattimento.

Ciò che diede impulso a ripigliarne il trattato, fu l'insolenza de' capitani del duca di Milano, i quali, mirando esso duca già avanzato in età, e senza figliuoli maschi, tutti d'accordo pensavano ad assicurar la loro fortuna con chiedergli qualche porzione dello Stato di lui. Faceva istanza il Piccinino par avere Piacenza in sua parte; Lodovico da San Severino per Novara; Lodovico dal Verme per Tortona; Taliano Furlano dimandava il Bosco e Fragaruolo nel distretto d'Alessandria. Dispiacque talmente questa sinfonia al duca, che, chiamato a sè Antonio Guidobuono da Tortona suo uomo fidato, ed amico ancora del conte Francesco Sforza, segretamente il mandò a far proposizioni d'accordo ad esso conte, offerendogli la figliuola Bianca, e la città di Cremona con Pontremoli in dote, e con altre esibizioni per appagar anche i Veneziani e Fiorentini. Andò tanto innanzi questa pratica, che, essendo conchiusi i principali articoli [Sanuto, Istor. di Venezia, tom. 22 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], nel dì primo d'agosto, mentre il conte Francesco assediava e batteva colle bombarde Martinengo, dove s'erano chiusi circa mille dei migliori cavalli del Piccinino, all'improvviso saltò fuori la tregua fra le parti guerreggianti, e cessò quell'assedio. Nel 3 d'esso mese Niccolò Piccinino, che coll'esercito suo era accampato in que' contorni, con tutti i suoi uffiziali andò a visitare il conte Francesco. Allora si abbracciarono e baciarono questi due gran capitani, e il conte, oltre all'onore e [1153] alle carezze che fece a tutti quei condottieri d'armi, perdonò anche a Taliano Furlano, che piagnendo gli dimandò perdono. Eletto dalle parti arbitro per conchiudere la suddetta pace, esso conte portossi alla Cauriana sul Mantovano, dove si raunarono ancora gli ambasciatori del papa, de' Veneziani e Fiorentini, del duca di Milano, e de' marchesi di Ferrara e di Mantova. Fra le condizioni accordate dal duca vi fu il matrimonio di Bianca sua figliuola, in età allora di sedici anni, col conte Francesco; e però prima di pubblicar la pace andò egli nel dì 25 d'ottobre [Chron. Placent., tom. 20 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] (il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.] dice il dì 24) con due mila cavalli presso a Cremona; e giunta colà anche Bianca con gran compagnia, la sposò in San Sigismondo, e prese il possesso di Cremona; per le quali nozze si fece mirabil festa in quella città con bagordi, giostre ed altre allegrie [Annales Forolivienses, tom. 22 Rer. Ital. Platina, Istor. di Mantova, lib. 5.]. Fu poi nel dì 20 di novembre pubblicata la pace, in cui Gian-Francesco marchese di Mantova, secondo la disgrazia de' più debili nelle leghe, lasciò il pelo, avendo dovuto restituire a' Veneziani Porto, Legnago, Nogarola, ed altri luoghi da lui presi, e rimettervi del proprio Valeggio, Asola, Lunato e Peschiera, a lui tolti da' Veneziani. Grande allegrezza fu quella di tutta Lombardia per questa pace.

Mutazione accadde nell'anno presente in Ravenna [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 7. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.]. Vi era signore Ostasio da Polenta, che col suo governo parea andare a caccia delle maniere di farsi odiare da' sudditi suoi. Se l'intesero questi col senato veneto, il quale chiamò a Venezia esso Ostasio colla moglie e col figliuolo, mostrando di voler far loro grande onore. Venne egli a Ferrara, e quantunque il marchese Niccolò il consigliasse [1154] di non andare, volle proseguire il suo viaggio. Giunto ch'egli fu colà, il popolo di Ravenna, dato di piglio all'armi nel dì 24 di febbraio, si suggettò a' Veneziani, che presero il dominio e possesso di quella città. Ostasio fu inviato in Candia, dove trovò non men egli che il figliuolo la morte col tempo: con che in esso mancò la nobil famiglia, o almen la signoria de' Polentani, che da lungo tempo dominarono in Ravenna. A papa Eugenio dispiacque non poco di veder passare quella sua città in mani sì potenti. Talmente s'era in questi tempi affezionato il duca di Milano a Niccolò Estense marchese di Ferrara, principe di sommo credito, che, chiamatolo a Milano, non solo si cominciò a reggere col suo consiglio, ma in certa guisa depositò in lui il governo de' suoi Stati. Corse anche voce che meditasse di farlo suo successore dopo la sua morte. Tanta parzialità del duca gli tirò tosto addosso l'invidia di chi era solito a comandare in quella corte, e di chi già pensava a veder succedere in quel ducato il conte Francesco Sforza. Cadde egli infermo nel dì 26 di dicembre, e in poche ore, con fama di veleno a lui dato, si sbrigò da questo mondo, con essere poi portato a Ferrara il cadavere suo, e datagli sepoltura nel dì primo dei seguente gennaio. Lionello suo figliuolo bastardo, ancorchè vi fossero Ercole e Sigismondo suoi figliuoli legittimi, a lui nati da Ricciarda figlia del marchese di Saluzzo, ma allora piccioli di età, per disposizione del padre e del papa, succedette nei dominio di Ferrara, Modena, Reggio, Rovigo e Comacchio. Fu anche guerra in quest'anno [Cronica di Rimini, tom. 20 Rer. Ital.] fra Sigismondo Pandolfo de' Malatesti signore di Rimini e il conte d'Urbino; ma per opera di Alessandro Sforza, fratello del conte Francesco, seguì pace fra loro. E nel mese di agosto i Sanesi [Chronic. Senense, tom. eod.] ebbero gravi molestie da Simonetta capitano di papa Eugenio; ma in fine lo sconfissero, e il fecero fuggire [1155] ferito alla di lui patria. I Veneziani dopo la pace cassarono gran copia delle lor soldatesche; e il bello fu, che quante ne potè tirar dalla sua il Piccinino, tutte le prese al suo soldo, ossia a quello del duca di Milano.


   
Anno di Cristo mccccxlii. Indizione V.
Eugenio IV papa 12.
Federigo III re de' Romani 3.

Già si godeva buona quiete in Lombardia, e la guerra tutta s'era ridotta nel regno di Napoli, dove la capitale, stretta d'assedio da Alfonso re d'Aragona, era valorosamente, ma con gran disagio, difesa dal re Renato d'Angiò e dai Napoletani, che molto lo amavano [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.]. Essendo nulladimeno in grave tracollo gli affari di esso Renato, questi nel verno non lasciò addietro preghiere e promesse al conte Francesco Sforza per condurlo nel regno alla propria difesa. E non trovò in questo molte difficoltà, perchè il conte era amareggiato forte a cagion dell'occupazione delle sue città già fatta dal re Alfonso nel regno. Misesi dunque in punto colle maggiori forze ch'egli potò raunare ed assoldare nei mesi del freddo, ed ebbe fra gli altri unito a' suoi disegni Sigismondo Pandolfo Malatesta signor di Rimini, e genero suo per cagione di Polissena sua figliuola con lui maritala in quest'anno. Mandato innanzi Giovanni suo fratello con parte dell'esercito, gli diede ordine d'unirsi nel regno di Napoli con Antonio Caldora, il quale già s'era partito dalla divozione del re Alfonso. Poscia il conte nel principio di maggio [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.] imprese il viaggio anche egli a quella volta col rimanente dell'esercito. Ma mentre egli rivolgea i suoi passi e disegni contra d'un lontano nemico, con bene strana scena trovò di averne un altro assai vicino, a cui non avrebbe mai pensato. Per quanto attesta il Simonetta, dacchè il re Alfonso conobbe [1156] i preparamenti dello Sforza contra di lui, si diede a tempestar con calde lettere Filippo Maria duca di Milano, acciocchè ritenesse il conte da quella spedizione. Da questo ancora si può scorgere che irregolar testa fosse quella del duca. Non erano, per così dire, quattro giorni che egli nel valoroso conte si era fatto un genero, e come un figliuolo; eppure non tardò ad operar contra di lui alla peggio, sia perchè gli dispiacesse di vederlo tuttavia protetto da' Veneziani e Fiorentini, ed unito con loro, ovvero che si fosse pentito di un accasamento fatto quasi per forza e suo malgrado. Però questo sì instabile principe suscitò contra del conte papa Eugenio, con rappresentargli d'essere venuto il tempo di ricuperar la Marca, e con offerirgli anche le sue forze sotto il comando del Piccinino. Infatti, fingendo egli di aver licenziato dal suo servigio Niccolò Piccinino, questi nel dì 3 di marzo arrivò con molta gente d'armi a Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], città a lui sottoposta, facendo vista d'andarsene a Perugia patria sua. Fu egli poi dichiarato gonfaloniere della Chiesa romana da papa Eugenio [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Italic.]; e giunto a Todi, posseduta allora dal conte Francesco, con un trattato se ne impadronì. Questa novità fece fermare il conte nella Marca, per accudire ai proprii interessi, e prese con Bianca sua moglie per sua residenza Jesi.

Mentre queste cose succedeano, Alfonso re d'Aragona, principe di gran mente e sagacità, e di non minore fortuna, continuava l'assedio della città di Napoli, con averla ridotta a gran penuria di vettovaglie [Giornal. Napol., tom. 22 Rer. Ital. Istor. Napoletana, tom. 23 Rer. Ital. Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Da due mastri muratori napoletani, che furono presi, gli fu insegnata la maniera d'entrare in Napoli, cioè per quello stesso acquedotto per cui tanti secoli prima Belisario s'era nella città medesima introdotto. Era esso [1157] strettissimo; il re Renato vi avea fatto mettere dei cancelli di ferro ed altri ripari, e fattavi fare la guardia; ma non fu continuata quest'ultima cautela. Perciò nel venerdì notte, vegnendo il sabbato, dì 2 di giugno, per quel condotto sotterraneo il re Alfonso spinse, chi dice quaranta, e chi più verisimilmente trecento o quattrocento de' suoi soldati entro la città; e questi fino all'apparir del giorno si tennero nascosi in una casa. Fatto giorno, ordinò il re che si desse un fiero assalto alle mura di Napoli alla parte opposta: nel qual tempo i soldati entrati, impossessatisi d'una porta, v'inalberarono la bandiera aragonese. Nello stesso tempo que' di fuori cominciarono colle scale a salir su per le mura; e quantunque il re Renato come un lione accorresse e facesse molte prodezze per trattenere questo torrente, pure fu in fine forzato a ritirarsi, per timore d'essere preso, in Castello Nuovo. Entrati dunque gli Aragonesi, per quattro ore diedero il sacco alla città, finchè arrivato anche Alfonso, mandò bando, pena la vita, che desistessero dalle offese. Grandi carezze fece ai Napoletani, e la città s'empiè in breve di vettovaglia. Giunsero in quel tempo due navi genovesi [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], che misero provvisioni in Castello Nuovo; e sopra d'esse imbarcatosi il re Renato, se n'andò a Firenze a raccontar le sue disavventure al papa, e a lamentarsi di lui, perchè avesse impedito al conte Francesco il recargli aiuto. Fu consolato con una bella investitura del regno di Napoli, che veramente venne a tempo al suo bisogno; e però se ne tornò da lì a qualche tempo in Provenza, assai chiarito della volubilità delle cose umane. Seppe ben prevalersi della sua fortuna il re Alfonso. Da lì a pochi giorni si rendè il castello di Capuana, e il Nuovo fu assediato. Nel dì 21 di giugno marciò coll'esercito suo contro ad Antonio Caldora, il quale nel dì 28, unito con Giovanni Sforza fratello del conte, animosamente andò ad attaccar [1158] battaglia col re. Se non era esso Caldora tradito da' suoi, forse gli dava una mala giornata; ma restò sbaragliato e preso. Secondo il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], grave sospetto di tradimento diede il medesimo Antonio. Poscia perchè egli rivelò al re le intelligenze di molti signori del regno col conte Francesco, ebbe salva la vita, e con quattro bicocche a lui concedute in Abbruzzo fu rimesso in libertà, essendo passate le sue genti al servigio di Alfonso. Giovanni Sforza, venuto colà con due mila cavalli, se ne tornò con soli quindici a trovare il conte suo fratello nella Marca. Non finì l'anno che, a riserva di Tropea e di Reggio di Calabria, tutto il regno venne alla divozione del re Alfonso, principe liberale verso gli amici, clemente verso i nemici, e che facea buona giustizia ad ognuno. Ebbe anche le due fortezze di Castello Nuovo e castello Sant'Ermo, de' quali il re Renato volle piuttosto fare mercato con Alfonso, che difenderli senza frutto alcuno.

Il papa, stato in addietro sì saldo contra del re Alfonso, dacchè il vide cotanto esaltato, cominciò ad addolcirsi con lui, e forse fin d'allora si diede ad intavolar seco un segreto trattato per abbattere il conte Francesco Sforza, e spogliarlo della marca d'Ancona [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Non si ricordava egli più dei servigi a lui prestati da questo insigne capitano di guerra, nè delle investiture a lui date, e confermate nell'anno presente, non credendosi tenuto ad osservar patti stabiliti in danno della Chiesa romana, dovendo valer solamente ciò che le è di utile. Trovò che il conte avea prese alcune terre della stessa Chiesa non comprese nella sua investitura. Era anche mal soddisfatto di lui, e con ragione, se è vero ciò che porta Neri Capponi [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.]; perchè nella pace non gli avea fatto immediatamente restituir Bologna, detenuta [1159] dal Piccinino, benchè ciò si dovesse effettuar solamente due anni appresso. Ed intanto il Piccinino non era tenuto reo, anzi era a' servigi del medesimo papa. Per attestato del Poggio [Poggius, Hist., lib. 6.], avea fatto lo Sforza il suo dovere per fargli restituire Bologna, ma il duca non volle. Pubblicò dunque il papa sul principio di agosto una bolla contra di Francesco Sforza, dichiarandolo privato del grado di gonfalonier della Chiesa, ribello e nemico. Dispiacque ciò forte ai Fiorentini e Veneziani, che proteggevano il conte, e i primi diedero anche ordine a Bernardo de Medici di metter pace fra esso conte e il Piccinino [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 22.]: il che si effettuò, con essersi veduti insieme ed abbracciati di nuovo questi due valorosi guerrieri. Ma che? non passò molto che il Piccinino occupò al conte la terra ossia città di Tolentino, e tornò alle ostilità. Il Medici di nuovo s'interpose, e racconciò gli affari; ma per poco tempo, perchè appena lo Sforza si fu mosso per passare nel regno contra del re Alfonso, con dare un fiero sacco a Ripa Transona, che il Piccinino alle istanze dei legati del papa gli tolse Gualdo, ed imprese dipoi l'assedio della città d'Assisi. Alla difesa vi fu inviato dal conte con della fanteria Alessandro Sforza suo fratello, ma indarno [Blondus, Dec. IV, lib. 1.]. L'avventura o disavventura stessa che dianzi provò Napoli, tornò a vedersi sotto Assisi. Cioè per un acquedotto, insegnatogli da un frate, il Piccinino una notte introdusse entro quella città un migliaio di fanti, colle spalle de' quali anche il resto delle sue genti v'entrò nel dì 30 di novembre [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]. Fu posta a sacco tutta l'infelice città, nè si lasciò indietro iniquità che non fosse commessa, senza neppure portare rispetto alcuno al venerabil tempio di San Francesco. Gran discredito [1160] venne a Niccolò Piccinino per questa barbarie, aggiunta all'aver due volte rotti i patti e giuramenti della pace fatta col conte. Ne' medesimi tempi il re Alfonso finì di prendere tutte le terre spettanti nel regno ad esso conte, e furono, secondo l'asserzione del Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.], Ariano, Manfredonia, Troia e Monte Sant'Angelo. Mandò bensì il conte Francesco uno de' suoi primi uffiziali, cioè Troilo, al re, per trattar d'accordo; ma Alfonso l'andò menando a spasso con belle parole, senza mai voler conchiudere cosa alcuna; anzi indusse con vantaggiose promesse Troilo stesso ad abbandonare il servigio del conte: il che, siccome vedremo, fu eseguito a suo tempo. Intanto, se crediamo al Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], nel dì 16 d'ottobre fu conchiusa una lega fra esso re Alfonso, il duca di Milano e Niccolò Piccinino contro la lega de' Veneziani, Fiorentini e conte Francesco. Fin qui avea Tommaso da Campofregoso doge di Genova lodevolmente governata quella città [Giustiniani, Istoria di Genova, lib. 5.]; ma essendo mancato di vita in quest'anno Batista suo fratello, ch'era il suo principale appoggio, ed avendo i Genovesi per loro nemici il re Alfonso e il duca di Milano, si manipolò una congiura contra di questo doge. Gian Antonio del Fiesco, che n'era il capo, entrò nella città con una frotta d'armati nella notte precedente al dì 18 di dicembre, e mosse a rumore il popolo. Fatto giorno, perchè Tommaso non si sentiva voglia di cedere, fu dato l'assalto al palazzo ducale, in maniera ch'esso doge si rifugiò nella torre dello Orologio, e si diede poscia a Raffaello Adorno. Furono creati gli anziani e capitani del popolo pel governo della città, la quale tornò ben tosto alla quiete primiera.

[1161]


   
Anno di Cristo mccccxliii. Indiz. VI.
Eugenio IV papa 13.
Federigo III re de' Romani 4.

Perchè papa Eugenio avea trasferito a Roma il concilio, ed inoltre perchè colla fervente voglia di riacquistare la marca d'Ancona, conoscea che non potea andare d'accordo co' Fiorentini, impegnati in favore del conte Francesco Sforza, determinò di lasciar Firenze per passare a Roma [Hist. Senensis, tom. 20 Rer. Ital.]. Misesi dunque in viaggio nel dì 7 di marzo, e giunse nel dì seguente a Siena, dove immensi onori ricevette da quel popolo. Fermossi in quella città sino al dì 5 di settembre, nel qual tempo venne a tributargli il suo ossequio Niccolò Piccinino gonfaloniere della Chiesa, a cui fu fatto un magnifico incontro. Stando quivi Eugenio, cominciò (seppure non avea cominciato molto prima) a tener pratica di pace e di lega col re Alfonso, per valersi del braccio di lui a cacciar dalla Marca Francesco Sforza. Era Alfonso esperto trafficante ne' suoi politici affari. Nel medesimo tempo avea tenuto trattato col conte Francesco e col Piccinino suo avversario, e finalmente conchiuse con chi più vantaggio gli promettea, cioè col Piccinino. Similmente, nel mentre che maneggiava concordia con papa Eugenio, facea di grandi esibizioni all'antipapa Felice, ossia ad Amedeo, e al concilio di Costanza, affin di ottenere l'investitura del regno di Napoli per sè e per don Ferdinando suo figliuol bastardo, già dichiarato duca di Calabria. Molto ancora a lui prometteva sì di privilegii come di danaro il suddetto Amedeo. Così facea finezze e paura nello stesso tempo non meno al papa che all'antipapa. Finalmente il pontefice Eugenio, dopo aver fatto il ritroso un pezzo, si acconciò con Alfonso, e gli accordò tutto quanto egli seppe dimandare, purchè egli impiegasse le forze sue per liberar la Marca dalle mani del conte [1162] Francesco. Nel dì 14 di giugno da Lodovico patriarca d'Aquileia e cardinale furono sottoscritti a nome del papa gli articoli di quella concordia, rapportati con altri atti dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Partito poi da Siena il papa, arrivò felicemente a Roma nel dì 28 di settembre [Petroni, Hist., tom. 24 Rer. Ital.], e nel dì 13 di ottobre diede principio nel Laterano al concilio. Guidantonio conte di Montefeltro e d'Urbino venne a morte nell'anno presente nel dì 21 di febbraio, e gli succedette, secondo la Cronica di Ferrara [Cronica di Ferrara, tom. eod.], nel dominio il conte Antonio suo figliuolo, oppure, secondo gli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], Taddeo parimente chiamato suo figlio. Oddo Antonio egli è appellato, e credo con più fondamento, dall'Ammirati [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 22.] e da altri. Grande novità succedette quest'anno in Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Nel precedente era venuto in quella città Francesco Piccinino per governarla a nome di Niccolò suo padre. Essendo infermo, si fece portare a castello San Giovanni, ed accompagnare da Annibale Bentivoglio e da Gasparo ed Achille dei Malvezzi. Giunto là, fece prendere questi tre nobili bolognesi, e mandò Annibale nella rocca di Varano su quel di Parma, Achille nella rocca di Mompiano sul Genovesato, e Gasparo nella rocca di Pellegrino nel Piacentino. Per quante premure facessero i Bolognesi presso il duca di Milano e presso Niccolò Piccinino per la liberazione di questi loro concittadini, altro non ne riportarono che belle parole e promesse. Si mossero perciò segretamente da Bologna due valorosi giovani, cioè Galeazzo e Taddeo de' Marescotti con tre altri amici d'Annibale Bentivoglio per cercare le vie di liberarlo. Giunti alla rocca di Varano, ebbero tal industria e fortuna, che una notte scalarono il muro, e misero le mani addosso al castellano e al suo famiglio; [1163] sicchè, entrati nella prigione, e limati i ceppi di Annibale, poterono poi nella notte seguente fuggirsene, menando seco il castellano, finchè furono in salvo. Vennero a Spilamberto sul Modenese, dove dal conte Gherardo Rangone ebbero consiglio ed aiuto; e, mandato innanzi l'avviso della lor venuta nel dì 5 di giugno [Sanuto, Ist. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], nella seguente notte furono dai loro amici tirati su per le mura con delle corde. Poscia senza perdere tempo, raunati i lor partigiani, e facendo sonare campana a martello a San Giacomo, col popolo in armi corsero furiosamente al palazzo del pubblico, dove abitava Francesco Piccinino, che indarno fece resistenza colle sue genti d'armi. Entrarono nel palazzo, vi fu preso il medesimo Piccinino colla sua brigata; e diedesi subito principio all'assedio del castello di Galiera, che teneva in freno la città.

Accadde che in quel tempo passava il conte Lodovico del Verme pel Bolognese, incamminato alla volta della Marca con molta gente a cavallo e a piedi, per unirsi a Niccolò Piccinino. Per questa novità egli si fermò, ed unito con Guidantonio de' Manfredi signor di Faenza, tenne saldo, e presidiò molte castella del Bolognese, e cominciò guerra colla città. Non tardarono i Bolognesi a spedir messi a Venezia e Firenze per soccorso, e nel dì 6 di luglio fecero lega con quelle due repubbliche. In loro aiuto furono spediti da Venezia il conte Tiberto Brandolino da Forlì e il conte Guido Rangone da Modena, valenti capitani di questi tempi, con mille cavalli e ducento fanti. Anche i Fiorentini v'inviarono Simonetto da Castello di Piero con ottocento cavalli e ducento pedoni. Nel dì 14 d'agosto venuto a Bologna l'avviso che il conte Lodovico del Verme s'era levato dalla Riccardina per passare alla Pieve e a San Giovanni con tre mila cavalli; Annibale de' Bentivogli, messi in armi i Bolognesi, andò a trovarlo a Ponte Polledrano, e con tal furia l'assalì, che, dopo [1164] breve combattimento, il mise in rotta. Vi rimasero presi da due mila cavalli, undici capi di squadra e tutto il carriaggio. La miglior arma che adoperarono il Verme e gli altri capitani furono gli speroni. Per questa importante vittoria tornarono alla divozion di Bologna tutte le terre e castella di quel distretto; e nel dì 21 si rendè la cittadella di Galiera, a spianar la quale immediatamente si accinse il popolo. Fu cambiato Francesco Piccinino con Gasparo ed Achille Malvezzi condotti dalle rocche dove erano prigioni. Così tornò in sua libertà la città di Bologna. Grandi poi furono in questo anno le applicazioni del papa e del re Alfonso per togliere la marca d'Ancona al conte Francesco [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Era già entrato esso re in Napoli su carro trionfale nel dì 26 di febbraio, precedendo tutta la fiorita nobiltà di quel regno. Andato da lì a qualche tempo Niccolò Piccinino a Terracina, oppure a Gaeta, a trovarlo, fu ricevuto con gran distinzione, ed onorato col cognome della casa d'Aragona (avea già quello della casa de' Visconti), e con lui concertò l'impresa della Marca. Aveva il conte Francesco presa e saccheggiata Santa Natolia nel territorio di Camerino, e ricuperato Tolentino; ed allorchè s'avvide del nembo che gli soprastava dalla parte del re d'Aragona e di Napoli, cominciò a sollecitare gli aiuti de' Veneziani e Fiorentini, che tardarono di troppo. Intanto il re, fatta da tutte le parti gran massa di gente d'armi, venne nel mese d'agosto in persona verso Norcia, ed andò ad unirsi con Niccolò Piccinino, il quale, assediando la terra di Visso nell'Umbria, la costrinse alla resa. Se vogliamo prestar fede agli Annali di Forlì [Annal. Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.], ascendeva l'armata del re e del Piccinino a trenta mila tra cavalli e fanti. Forze da resistere a sì grosso torrente non avea il conte Francesco [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.]; [1165] però, poste buone guarnigioni nelle piazze più importanti (cioè Alessandro suo fratello in Fermo, Giovanni altro suo fratello in Ascoli, Rinaldo Fogliano suo fratello uterino in Cività, Pietro Brunoro in Fabriano, Fioravante da Perugia in Cingoli, Giovanni da Tolentino suo genero in Osimo, Troilo da Rossano in Jesi, e Roberto da San Severino in Rocca Contrada), si ritirò egli con parte del suo esercito a Fano, città ben forte di Sigismondo Malatesta suo genero, per quivi aspettare i sospirati soccorsi de' collegati, coi quali potesse far fronte, occorrendo ai nemici.

Ma volle la sua disavventura che, oltre a Manno Barile, il quale sul principio di quest'anno l'avea abbandonato, anche altri suoi principali condottieri di armi in sì grave congiuntura il tradissero. Entrato dunque Alfonso col Piccinino nella Marca, ed inalberate le bandiere della Chiesa, tosto si volsero alla di lui ubbidienza San Severino, Matelica, Tolentino e Macerata. Pietro Brunoro gli diede Fabriano, ed acconciossi con lui [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Altrettanto fece Troilo, benchè cognato del conte Francesco, dandogli Jesi, e passando al suo servigio colle sue truppe. Con ciò vennero meno al conte Francesco più di due mila dei suoi cavalli, e molte schiere di fanteria, che andarono ad ingrossar maggiormente l'esercito nemico. Poscia anche Cingoli si rendè ad Alfonso, e il popolo d'Osimo, levato a rumore, ebbe forza di spogliare Giovanni da Tolentino ed Antonio Trivulzio col presidio [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Toscanella ed Acquapendente alzarono anch'esse le insegne della Chiesa. In somma non passò gran tempo che tutta la Marca, a riserva di Fermo, d'Ascoli e di Rocca Contrada, venne in potere del re e del Piccinino, che ne prese il possesso a nome del papa. Sbrigato dalla Marca il re Alfonso, nel dì 12 di settembre venne a mettere il campo alla città di Fano, dove si trovava il conte [1166] Francesco con gran gente; ma, conosciuto che poco onore potea guadagnare sotto sì forte città, nel dì 18 se ne tornò indietro, e portò le sue armi contro quella di Fermo, alla cui difesa si trovava Alessandro Sforza con buon presidio. Fu in questa occasione che rimasero puniti dei lor tradimenti Pietro Brunoro e Troilo cognato del conte Francesco [Giornal. Napolet., tom. 22 Rer. Ital.]. Furono intercette, cioè fatte cadere in mano del re, lettere scritte loro da esso Alessandro con ordine d'eseguire quanto era stato ordinato. Confessa il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], essere stato questo uno stratagemma del medesimo conte Francesco, che scrisse al fratello di così operare, per mettere in diffidenza presso il re que' due condottieri, dai quali egli era stato tradito. E ne seguì l'effetto. Fu dunque costantemente creduto che costoro con intelligenza del conte fossero passati nella regale armata, per poi assassinare il re. E perciò il re, messe in armi le sue truppe, li fece prendere amendue, e legati gl'inviò a Napoli, e di là li mandò in una fortezza del regno di Valenza, dove stettero per dieci anni. Secondo il Simonetta, furono anche spogliate tutte le genti d'armi dei suddetti due; ma l'autore de' Giornali Napoletani vuole che il re le prendesse tutte al suo soldo. Nè è da tacere una curiosa particolarità, di cui non io, ma Cristoforo da Costa negli Elogii delle donne illustri sarà mallevadore. Cioè che Pietro Brunoro da Parma, trovata una fanciulla, per nome Bona, nativa della Valtellina, di spirito non ordinario, seco la conduceva vestita da uomo, con avvezzarla al mestier della guerra. Dappoichè Brunoro fu messo prigione, ella andò a tutti i principi d'Italia e di Francia, e ne portò lettere di raccomandazione al re Alfonso per la liberazione di questo suo padrone, di maniera che egli uscì dalle carceri. Gli procurò essa in oltre una [1167] condotta di milizie dai Veneziani coll'assegno annuo di venti mila ducati; per li quali benefizii egli poi la sposò. Militò ella finalmente col marito, fece di molte prodezze, e con esso fu inviata contro i Turchi alla difesa di Negroponte. Quivi terminò i suoi giorni Brunoro, ed ella, tornando in Italia nel 1466, per viaggio ammalatasi, diede fine alla sua vita. Dopo avere il re Alfonso tentato invano Ascoli, e preso Teramo e Civitella con altri luoghi, ch'erano del conte Francesco, menò a quartiere le sue soldatesche nel regno di Napoli.

Era intanto restato tra Pesaro e Rimini Niccolò Piccinino insieme con Federigo conte d'Urbino, e con Malatesta signor di Cesena, e facea guerra or qua or là alle terre di Rimini, con ridursi in fine a Monteloro. Intanto in soccorso del conte Francesco arrivarono il conte Guido Rangone, Simonetto, Taddeo marchese di Este ed altri capitani con cavalleria e fanteria, spediti da' Veneziani e Fiorentini. Con sì fatti rinforzi il valoroso conte, menando seco Sigismondo Malatesta signore di Rimini e genero suo (della cui fede si dubitò non poco, allorchè il re Alfonso fu sotto a Fano), andò nel dì 8 di novembre insieme con Alessandro suo fratello e con gli altri capitani a trovare il Piccinino, e fu con lui alle mani, ancorchè il vedesse postato in un sito assai difficile e vantaggioso. Per molte ore durò l'atroce battaglia; e quantunque il Piccinino facesse delle maraviglie, più ne fece il conte Francesco, con dargli una gran rotta, prendere circa due mila cavalli, e tutto il ricchissimo bagaglio de' nemici. Col favor della notte si salvò con pochi esso Piccinino a Monte Ficardo, pieno di confusione e di dolore. Spese poi il conte qualche tempo, per le importune istanze di Sigismondo Malatesta, intorno a Pesaro, signoreggiato allora da Galeazzo Malatesta. Di là passò nella Marca, dove trovò che il Piccinino avea rinforzato di gente le principali città; e però, dopo aver ridotte alla sua divozione alcune [1168] poche castella, se n'andò a Fermo, e quivi svernò con parte delle sue milizie. Or mentre queste cose succedeano, e dacchè vide Filippo Maria duca di Milano che gli affari del genero suo, cioè del conte Francesco, andavano alla peggio nella Marca, siccome principe non mai fermo ne' suoi proponimenti, cominciò a pentirsi delle sregolate o balorde sue risoluzioni, e a desiderare ch'egli non perdesse il suo Stato. Perciò nel dì 8 di settembre spedì suoi ambasciatori a Venezia [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] per collegarsi con quella repubblica e co' Fiorentini in favore del conte, e fece anche sapere al re Alfonso di desistere dall'offenderlo. Si maravigliò forte il re di questa inaspettata mutazion di volere del duca; inviò a lui ed anche a Venezia ambasciatori; ma niuna grata risposta ne ricevette. Servirono questi passi del duca, e il trattato di lega fra lui, Venezia e Firenze, a fare [Annal. Foroliviens., tom. eod.] ch'egli poi si ritirasse da Fano, e se ne tornasse nelle sue contrade. Ed intanto nel dì 24 di settembre fu conchiusa la lega suddetta in Venezia, in cui ancora entrò Sigismondo Malatesta signore di Rimini. Elessero in quest'anno a dì 28 di gennaio [Giustiniani, Istor. di Genova, lib. 5.] i Genovesi pacificamente per loro doge Raffaello Adorno, di famiglia altre volte salita a quella dignità.


   
Anno di Cristo mccccxliv. Indiz. VII.
Eugenio IV papa 14.
Federigo III re de' Romani 5.

Trovandosi in Fermo Bianca Visconte moglie del conte Francesco Sforza, quivi nel dì 24 di gennaio diede alla luce un figliuolo [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Italic.]; del qual parto fu immantenente spedita la nuova al duca di Milano, padre di lei, per sapere qual nome si dovesse porre al nato figliuolo. Gli fu [1169] posto quello di Galeazzo Maria. Fra le sue disavventure ebbe almeno il conte Francesco questa consolazione. Ma, trovandosi senza danari, spedì per ottenerne Sigismondo Malatesta suo genero a Venezia, e ne ricavò questi buona somma, e la maggior parte ancora ne ritenne per sè a conto delle sue paghe. All'incontro Niccolò Piccinino fu ben rinforzato di gente e danaro dal papa e dal re Alfonso; laonde entrò in campagna per tempo, e cominciò le scorrerie pel territorio di Fermo. Dall'altra parte anche le milizie del re Alfonso ricominciarono la guerra. A Monte Milone si portò il Piccinino, ed, avendo passato il fiume Potenza, fu quivi colto da Ciarpellione, uno de' più valenti condottieri d'armi che si avesse il conte Francesco, e ne riportò una buona pelata colla prigionia di molti de' suoi. Si salvò egli miracolosamente, ritirandosi in una torricella, che rimase intatta, per non avervi fatto mente Ciarpellione. Perchè poi gli venne ordine dal duca di portarsi a Milano, e di fare intanto tregua col conte Francesco, eseguì Niccolò il primo comandamento, ma non già il secondo, avendoglielo impedito il legato del papa. Però, lasciato il comando dell'armata a Francesco Piccinino suo figliuolo, volò in Lombardia. Trovossi intanto il conte Francesco in gravi angustie, perchè Sigismondo Malatesta l'avea tradito con essersi messo in viaggio colle sue truppe, per andare ad unirsi con lui, ma con aver poi trovati de' pretesti per tornarsene a Rimini. Dall'altro canto, se Francesco Piccinino univa la sua armata coll'aragonese, non vedea modo da poter sostenere la città di Fermo contra di tante forze. Ora per impedir siffatta unione con quella gente che avea, prese lo spediente di andare a visitar esso Francesco Piccinino, che s'era ben postato a Monte Olmo. Secondo il Simonetta, era il dì di venerdì 23 d'agosto, quando gli fu a fronte, e colle schiere in battaglia l'assalì. Ma non battono i conti secondo il calendario. [1170] Negli Annali di Forlì è scritto che fu il dì 19 d'esso mese [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], e lo stesso vien confermato dalla Cronica di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], e dal Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], che per errore dice di maggio. Nè di ciò si può dubitare, stante una lettera scritta nel medesimo dì 19 d'agosto dal conte Francesco a Bologna, come s'ha dalla Cronica d'essa città [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. In quel conflitto certo è che segni di gran valore diede Francesco Piccinino colle sue squadre; ma egli combatteva con un capitano che in fatti d'armi fu maraviglioso, nè sapea esser vinto. Mentre si combatteva, Alessandro Sforza occupò le tende e il bagaglio de' nemici; poscia seguitò ad incalzarli dal suo canto; nel qual tempo il conte Francesco suo fratello con eguale attenzion ed ardore facea lo stesso dall'altro. In somma restò sbaragliato l'esercito di Francesco Piccinino colla perdita di quasi tre mila cavalli, ed egli col rifugiarsi in una palude cercò di salvarsi, ma da un suo fante tradito fu condotto prigione al conte Francesco. Ebbero fatica a ridursi in salvo il cardinal Domenico Capranica legato del papa, e Malatesta a Cesena. Nel dì seguente Monte Olmo si rendè al conte Francesco, ed ivi fu ritrovata gran copia d'uffiziali e soldati del Piccinino, che vi si erano rifugiati con assai cavalli e robe preziose. Ciò fatto, marciò il vittorioso Sforza a Macerata, e senza fatica se ne impossessò, siccome ancora di San Severino. Cingoli volle aspettar la forza prima di rendersi, e dopo otto giorni se gli sottomise con altri piccioli luoghi. Intanto esso conte fece tentar di pace papa Eugenio, che si trovava allora a Perugia, conturbato non poco per le di lui vittorie, dopo aver fulminate le scomuniche nel precedente maggio contra di lui e di Sigismondo Malatesta. Alle istanze del conte diedero maggior polso gli ambasciatori di Venezia e Firenze, di maniera che [1171] l'accordo seguì nel dì 10 d'ottobre, con avere il papa lasciate al medesimo conte in feudo con titolo di marchese tutte le terre da lui possedute e ricuperate prima del dì 15 oppure 18 del mese suddetto. A riserva d'Osimo, Recanati, Fabriano ed Ancona, il resto della Marca ubbidiva ai suoi cenni.

Era venuto a Milano Niccolò Piccinino, chiamatovi, come dissi (non si sa bene il motivo) dal duca. Non gli si partiva dal cuore l'affanno per la perdita di Bologna [Corio, Istor. di Milano.], e per la sconfitta a lui data dal conte Francesco Sforza. A questi pensieri, che il laceravano di dentro, si aggiunse l'altra dolorosa nuova non solo della rotta di Francesco suo figliuolo, ma d'esser egli anche caduto prigione nelle mani dell'emulo ossia nemico Sforza. Soccombè in fine alla malinconia, ed, infermatosi, terminò il corso del suo vivere nel dì 15 oppure 16 d'ottobre [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]: con che mancò uno de' più insigni generali d'armata che s'avesse l'Italia, a cui niun altro si potea anteporre, se non Francesco Sforza. Nelle spedizioni la sua attività e prestezza non ebbe pari; ma egli si prometteva molto della fortuna, e però azzardava bene spesso nelle sue imprese: laddove lo Sforza sempre operava con saviezza, e sapea cedere e temporeggiare, quando lo richiedeva il bisogno, nè temerariamente mai procedeva in ciò che imprendeva. Per la morte del Piccinino sommamente si afflisse il duca Filippo Maria, rimasto privo di sì valente, onorato e fedele capitano; nè potendo far altro, si rivolse a beneficare i di lui figliuoli Francesco e Jacopo, con aver ottenuta la libertà del primo dal conte Francesco, e con chiamarli amendue a Milano. Accadde ancora nell'anno presente [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] la morte di Oddo-Antonio conte di Montefeltro e d'Urbino, personaggio [1172] di costumi sfrenati e d'insoffribil lussuria. Per cagione di questi suoi vizii fu egli nella notte del dì 22 di luglio da molti congiurati ucciso, e in luogo suo proclamato signore Federigo suo fratello, e figliuolo bastardo di Guidantonio già conte, ancorchè comunemente creduto fosse figliuolo di Bernardino dalla Carda degli Ubaldini. Questi, essendo ito a Fermo per visitare il conte Francesco, stabilì tosto con esso lui lega difensiva ed offensiva. Venne a morte anche in quest'anno [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], nel dì 8 o pure 24 di settembre, Gian-Francesco da Gonzaga marchese di Mantova, assai invecchiato, ed ebbe per successore Lodovico suo figliuolo. Fu parimente chiamato da Dio a miglior vita nella città dell'Aquila a dì 20 di maggio [Raynaldus, Annal. Eccles.] frate Bernardino da Siena dell'ordine de' Minori, celebre missionario di questi tempi, che per le sue luminose virtù venne poi aggregato al ruolo de' santi. Similmente finì di vivere [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] Leonardo Aretino, segretario della repubblica fiorentina, uomo celebre allora per la sua letteratura e perizia della lingua greca. Si ammalò nel dì 5 d'aprile [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] di sì pericolosa malattia Alfonso re di Aragona e delle Due Sicilie, che corse in fin voce che era morto. Gran bisbiglio e movimento fu nei baroni del regno, di modo tale che guarito il re, ben s'avvide del poco capitale che potea farsi della fede de' regnicoli. Diede egli in questo anno [Istoria Napol., tom. 23 Rer. Ital.] per moglie a don Ferdinando duca di Calabria suo figliuolo Isabella di Chiaramonte, nipote di Gian Antonio Orsino principe di Taranto. Maritò eziandio Maria sua figliuola col marchese Lionello d'Este signor di Ferrara, Modena e Reggio. Fu pertanto spedito Borso d'Este fratello d'esso marchese con due galee veneziane a levar questa principessa che, accompagnata dal principe di Salerno, [1173] arrivò a Ferrara nel dì 24 d'aprile [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.]. Memorabil fu la magnificenza di queste nozze per la quantità delle feste e dei varii solazzi, che durarono quindici giorni coll'intervento degli ambasciatori di tutti i principi d'Italia. Fece guerra in quest'anno il re Alfonso ad Antonio Santiglia signore di Cotrone, Catanzaro ed altri luoghi in Calabria, e gli tolse tutti quegli Stati. Condiscese anche a far pace coi Genovesi [Giustiniani, Istor. di Genova. Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], co' quali era in guerra da gran tempo, e gli obbligò a pagargli ogni anno a titolo di censo un bacile d'argento, con accordar loro varii privilegii.


   
Anno di Cristo mccccxlv. Indiz. VIII.
Eugenio IV papa 15.
Federigo III re de' Romani 6.

Fra il duca di Milano e Francesco Sforza suo genero parve nel precedente anno restituita buona armonia, per quanto abbiamo veduto. Ma intervenne accidente che affatto la guastò. Dappoichè mancò, colla morte di Niccolò Piccinino, ad esso duca un raro generale delle sue armi, mise egli il guardo sopra Ciarpellione, cioè sopra il più accreditato capitano che si avesse allora Francesco [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], e segretamente cominciò a trattare con lui, per torlo al conte e farlo venire a Milano. Trapelò questo trattato, e se ne crucciò forte il conte, il quale, fidandosi poco del suocero duca, perchè assai ne conosceva l'umore, temeva anche dei malanni, se lasciava partire chi era stato partecipe di tutti i suoi segreti. Fece pertanto mettere prigione nella fortezza di Fermo Ciarpellione, e processarlo per varie sue iniquità [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Dopo di che nel dì 29 di novembre dell'antecedente anno il fece impiccare, con ispargere voce d'aver egli macchinato contro la vita del medesimo [1174] conte. Altamente si chiamò offeso per questo fatto il duca, e protestò di volersene vendicare. Francesco di tutto informò i Veneziani e Fiorentini, a' quali piacea più di vederlo nemico che amico del suocero. Si partì ancora dall'amicizia di esso conte Sigismondo Malatesta signore di Rimini, tuttochè genero del medesimo. Vagheggiava egli da gran tempo Pesaro e Fossombrone, goduti da Galeazzo Malatesta, cioè da chi era privo di figliuoli; anzi s'era già provato colla forza, ma indarno, d'impadronirsene [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.]. Avvenne che, per interposizione di Federigo conte d'Urbino, vendè Galeazzo al conte Francesco essa città di Pesaro per venti mila fiorini d'oro, con che Alessandro Sforza fratello del conte sposasse Costanza sua nipote, e divenisse padrone di quella città. Fossombrone eziandio fu venduto al conte Federigo per tredici altri mila fiorini. Era già per varii motivi mal soddisfatto lo Sforza di Sigismondo suo genero, uomo anche per altro conto di coscienza guasta; e però senza alcun riguardo verso di lui fece il suo negozio. Che disdegno e rabbia per questo provasse Sigismondo, non si può assai dire. Mosse da lì innanzi cielo e terra contra del conte Francesco, tanto presso il pontefice, quanto presso il re Alfonso e il duca di Milano. Spezialmente questo suo sdegno piacque al duca, per potere valersi di lui contra dello Sforza. Ora Filippo Maria co' suoi maneggi tanto fece, che papa Eugenio IV prese Sigismondo al suo soldo, e facendo sperare coll'aiuto proprio e d'esso signore di Rimini assai facile al papa il riacquistare Bologna, a poco a poco accese il fuoco d'una nuova guerra. Nè penò molto a tirarvi anche il re Alfonso, perchè la città di Teramo s'era data al conte Francesco; e Giosia Acquaviva ed altri del suo regno, ribellatisi a lui, si erano uniti col medesimo conte. Mentre questi concerti di guerra si andavano facendo, uno strepitoso accidente [1175] avvenne in Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Era in quella città in alta stima Annibale de' Bentivogli, perchè riguardato come glorioso liberatore della sua patria. Ma la invidia, nata, per così dire, col mondo, il facea mirar con occhio bieco da Baldassare da Canedolo, da' Ghiselieri e da alcuni altri cittadini. Andò tanto innanzi questa cieca passione, che costoro determinarono di levargli la vita. Fu invitato il Bentivoglio nel dì 24 di giugno, festa di san Giovanni Batista, da Francesco Ghiselieri, a tenergli un suo figliuolo al sacro fonte. Finita la funzione, ed usciti che furono di chiesa, Baldassare e gli altri congiurati, avventatisi addosso al Bentivoglio, con varie ferite lo stesero morto a terra [Annales Placentini, tom. 20 Rer. Ital.]. Poscia andarono in traccia d'alcuni altri amici di lui, e gli uccisero. Per questa enorme indegnità si levò a rumore tutto il popolo contro i micidiarii; diede il sacco alle lor case e le bruciò. Batista da Canedolo, benchè non intervenuto a quell'orrido fatto, indarno fece resistenza all'infuriato popolo, che trovatolo il tagliò a pezzi [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]; e quanti amici de' Canedoli vennero in mano d'esso popolo, rimasero vittima del loro furore. Che tal novità fosse fatta con intelligenza del duca di Milano, si conobbe tosto, perch'egli si dichiarò protettore de' Canedoli, e nel dì 26 di giugno Taliano Furlano capitano d'esso duca, che stanziava in Romagna con mille e cinquecento cavalli e cinquecento fanti ducheschi, entrò tosto nel Bolognese in aiuto de' Canedoli; ma ritrovatili o morti o sbandati, da lì a poco cominciò la guerra al Bolognese, e prese varii luoghi. Altrettanto ancora fecero Luigi da San Severino e Carlo da Gonzaga, altri capitani del medesimo duca. Ora i Fiorentini, siccome collegati de' Bolognesi, nel dì 27 di luglio spedirono in loro aiuto Simonetto con cinquecento cavalli e ducento fanti. Anche i Veneziani inviarono colà Taddeo marchese d'Este [1176] con altra gente. S'ingrossarono intanto sempre più le milizie del duca di Milano sul Bolognese, e corsero sino alle porte della città; ma null'altro di considerabile accadde in quelle parti nell'anno presente, fuorchè la presa di alcuni castelli, fra i quali il più importante fu San Giovanni in Persiceto, occupato nel dì 9 di settembre da Luigi da San Severino.

Abbiam veduto poco fa rimesso in grazia di papa Eugenio il conte Francesco Sforza, e stabilito accordo fra loro. Pure questo pontefice, quasi che i patti durar dovessero finchè gli tornava a conto il non romperli, appena si vide animato ed assistito dal duca di Milano, che ripigliò le armi contra di lui, e seco fu anche il re Alfonso. Ora il conte [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.], giacchè Sigismondo signor di Rimini s'era dichiarato nemico suo, dopo avere ricevuto da' Fiorentini soccorso di danaro, andò a mettere l'assedio alla ricca terra di Meldola, che gli costò molto tempo e fatica. L'ebbe a forza di armi nel dì 17 oppure 22 di luglio [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], e col sacco, crudelmente ad essa dato, si arricchirono tutti i suoi soldati. Ma nel dì 10 d'agosto [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] la città d'Ascoli nella Marca gli si ribellò, e tagliato a pezzi Rinaldo Fogliano, fratello uterino del conte Francesco, si diede al pontefice. Così, per le forti istanze di Sigismondo, comparvero dipoi in suo aiuto Taliano Furlano, Malatesta signor di Cesena ed altri capitani con ischiere numerose di cavalleria e fanteria, che seco si unirono. Finalmente anche il papa e il re Alfonso mandarono le lor genti nella Marca per impadronirsene affatto. In mezzo a questi due fuochi si trovava il conte, e con forze troppo disuguali. Tuttavia, conoscendo in maggior pericolo la Marca, lasciata parte delle sue milizie sotto il comando di Federigo conte d'Urbino, coll'altra marciò colà; e all'arrivo suo si [1177] ritirarono tosto Lodovico patriarca di Aquileia cardinale legato del papa, e Giovanni da Ventimiglia generale del re Alfonso. Ed eccoti arrivare in essa Marca anche Taliano, creato generale dal duca di Milano, con Sigismondo Malatesta, con Malatesta signor di Cesena ed altri capitani, che cominciò a strignere dall'una parte lo Sforza, e cercava le vie di unirsi dall'altra alle soldatesche del papa e del re. Intanto nel dì 15 d'ottobre Rocca Contrada, una delle migliori fortezze che si avesse il conte in quelle contrade, ribellatasi, venne in mano di Sigismondo, ossia del pontefice. Il perchè, peggiorando ogni dì più gl'interessi del conte, prese questi il partito di salvar la gente con ridursi di nuovo a Pesaro, dove avea lasciata Bianca Visconte sua moglie. Raccomandate adunque ad Alessandro suo fratello le città di Fermo e di Jesi, che restavano a lui ubbidienti, sen venne sul territorio d'Urbino, da dove col conte Federigo fece guerra a Sigismondo Malatesta, togliendo a lui alcune castella. Ma nel dì 26 di novembre il popolo di Fermo, avendo prese l'armi, ne cacciò il presidio del conte, e si sottomise alle armi del papa; e da lì a qualche tempo si rendè loro anche la rocca appellata il Girofalco venduta da Alessandro Sforza, per non poterla sostenere. Sicchè la sola città di Jesi restò in potere del conte, con essersi perdute tutte le altre terre. Nel dì 12 di marzo di quest'anno passò all'altra vita [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] Gian-Giacomo marchese di Monferrato, e i suoi Stati pervennero al marchese Giovanni suo primogenito. Un altro suo figliuolo appellato Guglielmo, condottier d'armi in questi tempi, era al servigio del duca di Milano.

[1178]


   
Anno di Cristo mccccxlvi. Indiz. IX.
Eugenio IV papa 16.
Federigo III re de' Romani 7.

Fulminò di nuovo in quest'anno nei mesi di aprile e di luglio le scomuniche papa Eugenio contra del conte Francesco Sforza e di tutti i suoi seguaci [Raynaldus, Annal. Eccl.]. E per vendicarsi de' Fiorentini, che colla profusione di molto danaro cagione erano che esso conte non andasse a gambe levate, intavolò un trattato col re Alfonso per muoverlo contra di loro, siccome poi fece nell'anno seguente. Intanto il conte era confortato da Cosimo de Medici, e da alcuni cardinali e baroni romani a marciare alla volta di Roma coll'armi sue, perchè avrebbe facilmente indotto per forza il pontefice ad un buon accordo [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.]. Gli promettevano ancora la ribellione di Todi, Narni e di Orvieto, con altri aderenti. Ma egli pensò a mettersi in viaggio, ed ancorchè si movesse sul fine di maggio per passare colà, ed arrivasse fino a Montefiascone e a Viterbo, pure per mancanza di vettovaglie, e perchè Todi ed Orvieto non corrisposero alle speranze dategli, gli convenne tornare indietro. Intanto il papa si provvide di gente, avendo chiamato in suo aiuto un corpo di quelle del re Alfonso, e Taliano Furlano ed altri condottieri, ch'erano nella Marca. Queste truppe dipoi, tornato che fu indietro il conte Francesco, se ne andarono addosso ad Ancona, città che dianzi avea fatta lega co' Veneziani, per non venir nelle mani del papa, e la costrinsero a sottomettersi. Passarono di poi alla terra della Pergola, dove era guarnigione di Federigo conte d'Urbino, e in pochi giorni l'ebbero ubbidiente ai loro voleri. Andarono poscia a postarsi solamente circa cinque miglia lungi dal campo, in cui colle poche [1179] sue truppe si era fortificato il conte Francesco su quel di Fossombrone. Trovavasi allora in Pesaro il conte Alessandro Sforza fratello del conte Francesco, e signore di quella città [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], e, veggendosi cinto da ogni intorno dalle armi nemiche, giudicò meglio, nel dì 25 di luglio, di venire ad un accordo col cardinale Lodovico legato del papa: risoluzione, di cui sommamente il conte Francesco si dolse, come di fiera ingratitudine, dacchè egli col suo proprio danaro avea acquistata quella città al fratello. Ma Alessandro si scusò colla necessità, assicurando il conte della sua non interrotta fedeltà ed amore: in segno di che mandò Bianca Visconte di lui moglie ad Urbino, contuttochè se gli opponesse non poco il cardinale. Fu ridotto in questi tempi così alle strette il conte Francesco Sforza, che si vide forzato a ritirarsi fino alle mura d'Urbino, mancandogli forze da poter fermare i progressi delle armi pontificie e duchesche, che gran guasto davano a quel territorio, e presero varie terre. Non contento Filippo Maria duca di Milano della guerra ch'egli facea nello Stato della Chiesa contra del conte Francesco suo genero, si lasciò così trasportare dalla pazza passione, che, credendo venuto il tempo di potergli anche togliere Cremona [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], quantunque città a lui ceduta con titolo di dote, si mise in punto per eseguir questa impresa. Era ciò espressamente contro i capitoli della pace fatta co' Veneziani e Fiorentini: non importa; sopra ogni altra riflessione andava lo sregolato empito dell'odio suo. Però, messo in piedi un esercito di cinque mila cavalli e mille fanti sotto il comando di Francesco Piccinino e di Luigi del Verme, lo spedì, sul principio di maggio, contro Cremona, di cui Orlando Pallavicino gli avea fatto sperar l'acquisto per una segreta cloaca. Impiegò questa gente alquanto tempo in prendere Soncino ed altre [1180] terre del Cremonese: nel qual mentre i Veneziani, veduta rotta la pace dal non mai quieto duca, ebbero tempo di potere spignere qualche soccorso d'armati in Cremona. Arrivato colà il Piccinino, vi trovò, più di quel che credeva, gente disposta alla difesa; laonde si accampò intorno ad essa città, sperando di costringerla colla fame alla resa. In questo tempo i Veneziani, giacchè con un'ambasciata non aveano potuto rimuovere il duca da questo disegno, ordinarono a Michele Attendolo da Cotignola, lor generale, di mettere insieme tutta l'armata, e di marciar contro ai ducheschi. Avea inoltre spedito il duca, per voglia di togliere anche Pontremoli al conte suo genero, Luigi da San Severino e Pietro Maria Rossi; ma altro non poterono far questi, che mettere a sacco il paese, perchè i Fiorentini, coll'inviare per tempo a quella terra un rinforzo di milizie, la salvarono. Ridotto a tali termini stava intanto il conte Francesco nel territorio d'Urbino, quando avvenne novità che il fece assai respirare.

Guglielmo fratello di Giovanni marchese di Monferrato dimorava in Castelfranco del Bolognese con Alberto Pio da Carpi, e con una brigata di quattrocento cavalli e di cento fanti in servigio del duca di Milano [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.]. Perchè passavano fra lui e Carlo Gonzaga de' disgusti a motivo di precedenza, si lasciò egli guadagnare dalle proferte di più lucrosa condotta che gli fecero i Veneziani e Bolognesi, e se l'intese con Taddeo marchese e con Tiberio Brandolino capitani de' primi. Perciò nella notte del dì 5 di luglio diede la tenuta di Castelfranco ai Bolognesi, ed unito con essi e co' Veneziani nel dì seguente cavalcò a San Giovanni in Persiceto, nella cui rocca egli teneva presidio, mentre nella terra alloggiava Carlo da Gonzaga con un grosso corpo di gente duchesca. Venuto alle [1181] mani con esso Gonzaga, lo sconfisse, e mise a saccomano tutta quella gente di armi, e prese anche la terra: per la qual vittoria tornarono poco appresso all'ubbidienza di Bologna quasi tutte le altre castella e terre di quel distretto. Parimente avvenne che i Fiorentini fecero largo partito a Taliano Furlano generale del duca di Milano contra di Francesco Sforza, offerendogli il generalato dell'esercito loro [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital. Ammirat., Istor. Fiorentina, lib. 22.]. Fosse accidente, o un tiro malizioso di essi Fiorentini, si riseppe il trattato, nè ci volle di più, perchè Taliano, d'ordine del duca e del cardinale legato, fosse preso nel mese d'agosto, e condotto a Rocca Contrada, dove gli fu recisa la testa. Pel medesimo motivo ebbe dipoi mozzato il capo anche Jacopo da Gaibana, altro condottiere d'armi. Nacquero forti sospetti al duca di Milano che anche Bartolomeo Coleone suo condottier d'armi tenesse delle intelligenze co' Veneziani; e furono questi cagione ch'egli venisse preso ed inviato nelle carceri di Monza. Sì fatti accidenti sconcertarono alquanto i felici andamenti dell'armata pontificia e duchesca, la quale intanto faceva alla peggio nel territorio d'Urbino. Unironsi poi colla armata veneta le genti d'armi di Taddeo marchese d'Este, di Tiberto Brandolino e di Guglielmo di Monferrato [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.]; ed allora fu che Michele da Cotignola generale dei Veneziani marciò contro l'armata duchesca accampala intorno a Cremona. Fece questo esercito non solamente ritornar molte terre alla divozione del conte Francesco, ma anche ritirare Francesco Piccinino dall'assedio di Cremona, con portarsi a Casalmaggiore, dove fece fabbricare un Ponte sul Po per aver viveri e strame dal Parmigiano. Era ivi nel fiume un mezzano ossia un'isola, dove la di lui armata si stese, e fortificossi con bastioni e bombarde. Ora Micheletto [1182] Attendolo colle sue genti arrivò colà con pensiero di dar loro la mala Pasqua. Il Simonetta scrive che ciò avvenne tertio kalendas octobris, cioè nel dì 29 di settembre. L'autore degli Annali di Forlì [Annales Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.], nel dì primo di ottobre. Ma Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.] e le Croniche di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] e di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e il Rivalta negli Annali di Piacenza [Annales Placent., tom. 20 Rer. Ital.] ci danno quel fatto di armi nel dì 28 di settembre. Non potendo le genti venete penetrare i trincieramenti fatti alla testa del ponte, trovarono per avventura non essere tanto alta l'acqua del Po, che non potessero arrivare al mezzano suddetto, dove, come in una città, si erano fatti forti i ducheschi. A quella volta dunque animosamente s'inviò la cavalleria veneta con fanti in groppa per l'acqua che arrivava sino alle selle dei cavalli, ed attaccarono la mischia con tal bravura, che misero in poco d'ora i nemici in iscompiglio. Se ne fuggirono i capitani ducheschi di là dal Po; ma perchè non v'era se non il ponte, per cui potesse salvarsi la sconfitta gente, e questo ancora, per paura d'essere inseguiti, fu rotto d'ordine di essi capitani; però la maggior parte di que' soldati rimase prigioniera colla perdita di tutto il bagaglio, munizioni e carriaggi, che fu d'immenso valore. Scrive Marino Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] che in sua parte toccarono a Micheletto generale cavalli ottocento, a Guglielmo di Monferrato cento, a Taddeo marchese secento, a Gentile figliuolo di Gattamelata ottocento, a Tiberio Brandolino quattrocento, a Guido Rangone quattrocento, a Cristoforo da Tolentino e ad altri altra parte, di maniera che più di quattro mila cavalli vennero alle lor mani. Gran festa si fece per così segnalata vittoria in Venezia e per tutte le terre della repubblica.

[1183]

Or questa gran percossa fece rientrare in sè stesso il poco saggio duca di Milano, che nel dì 5 d'ottobre spedì per un suo messo segreta lettera alla repubblica veneta chiedendo pace, ed esibendosi pronto a cedere tutto quanto egli avea preso nel Cremonese colla giunta di Crema. Tardò poco a comprendere, essere bensì in mano d'ognuno il cominciare una guerra, ma non essere poi così il finirla. I Veneziani, che avevano il vento in poppa, e ben conosceano la debolezza, a cui era ridotto il duca, sprezzata ogni proposizione d'accordo, ordinarono al loro generale di proseguire innanzi. Pertanto egli, dopo aver ricuperato Soncino, Caravaggio e tutte le castella del Cremonese, passò il fiume Adda, e ruppe di nuovo nel dì 6 di novembre [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresciana, tom. 21 Rer. Ital. Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Italic.] le milizie del duca, che gli si vollero opporre, con prendere circa secento cavalli, e far prigioni circa mille e ducento fanti. Corse dipoi sul Milanese, saccomanando il paese; ebbe Cassano colla rocca, e mirabilmente fortificò quella terra; finalmente andò a quartiere di inverno. Se stesse bene allora lo sconsigliato duca, non occorre ch'io ne avvisi il lettore. Dacchè egli ebbe la fiera sconfitta di Casalmaggiore, spedì al papa e al re Alfonso le più calde preghiere per ottener soccorso. Cominciò ancora con più e più lettere a pregare il prima tanto odiato e perseguitato suo genero, cioè il conte Francesco Sforza, acciocchè non l'abbandonasse in sì pericolosa congiuntura. Era sul principio d'ottobre arrivato ad esso conte un buon rinforzo di milizie, a lui inviate da' Fiorentini, e ciò bastò a farlo uscire in campagna contro le genti pontificie comandate da Lodovico cardinale e patriarca. Ma, non potendo mai tirarle a battaglia, imprese lo assedio di Gradara in quel di Pesaro, terra forte occupata già da Sigismondo [1184] signore di Rimini. Nello stesso tempo Alessandro Sforza signor di Pesaro, per opera di Federigo conte d'Urbino, rimesso in grazia del conte Francesco suo fratello, voltata casacca, ripigliò le armi contra di Sigismondo e de' pontifizii. Per mancanza di polvere da fuoco non potè il conte insignorirsi di Gradara; e perchè niun soccorso di danaro gli veniva con tutte le sue istanze nè da Venezia nè da Firenze, si ritirò in fine a Pesaro a dar riposo alle sue troppo stanche genti. Intanto papa Eugenio, il re Alfonso e Sigismondo Malatesta, avendo consentito il conte ad una tregua (per cui entrarono in grande sospetto di lui i Veneziani), spedirono circa quattromila cavalli in aiuto del duca di Milano nel mese di dicembre. Cesare da Martinengo, uno dei caporali di questa gente posta a svernare sul Parmigiano [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], abbagliato dalla fortuna de' Veneziani, passò dipoi nel febbraio susseguente, se non prima, colle sue schiere al loro servigio. Altrettanto fece colle sue anche Rinaldo da Montalbotto.


   
Anno di Cristo mccccxlvii. Indiz. X.
Niccolò V papa 1.
Federigo III re de' Romani 8.

Avea fin qui menata sua vita, pien di pensieri di guerra, e tormentato da affanni per cagion dello scisma di Basilea, il pontefice Eugenio IV, quando Iddio il chiamò a sè nel dì 23 di febbraio in Roma [Petroni, Istor., tom. 24 Rer. Ital. Vita Eugenii IV, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], città da lui beneficata dopo il suo ritorno colà, perchè vi ristorò le principali chiese che erano in rovina, vi mantenne buona pace e giustizia, e la sua mano era sempre aperta alle indigenze de' poveri. Fu pontefice di rare qualità; e benchè alquanto sfortunato negli affari sì spirituali che temporali, pure di gran cose operò sì nell'una che nell'altra parte. Memorabile restò la sua [1185] ricordanza, per aver uniti alla Chiesa cattolica i Greci, i Maroniti ed altre nazioni cristiane d'Oriente, e tentato di unire insino gli Etiopi. Eppure ebbe la disgrazia di lasciar la Chiesa latina in disordine per lo scisma nato in Basilea. Fu uomo di testa dura e di raggiri politici; nè alcun menomo eccesso si mirò in lui per ingrandire i suoi parenti, come ebbero in uso altri suoi predecessori. Tutto il suo studio era in conservare o ricuperare gli Stati della Chiesa romana: nel che impiegò molti tesori; ed ebbe anche singolar premura per reprimere la sempre più crescente baldanza e potenza dei Turchi: nel che profittò poco per la disunione e guerre delle potenze cristiane. Entrati i cardinali nel conclave, ed accordatisi nel dì 5 di marzo, elessero Tommaso da Sarzana, vescovo di Bologna, creato cardinale da Eugenio nell'anno precedente. Di bassa nascita era egli; ma questo immaginario difetto era senza paragone compensato dalle mirabili sue belle doti sì d'animo che d'ingegno, e dal suo universal sapere; di modo che personaggio non si potea scegliere più degno e più atto al pontificato di lui. Prese egli il nome di Niccolò V, e nel dì 18 d'esso mese fu solennemente coronato. Appena era mancato di vita papa Eugenio, che il re Alfonso, sotto pretesto di vegliare alla sicurezza di Roma, sen venne a Tivoli [Raynaldus, Annal. Eccles.], e quivi si piantò. Una delle prime cure del novello pontefice fu quella di fare sloggiare di là il re, e di estinguere lo scisma dell'antipapa Amedeo di Savoia: al qual fine impegnò Carlo re di Francia, promettendogli di confiscare tutti gli Stati d'esso Amedeo, se non ubbidiva, per concederli al medesimo re. Adoperossi per ricuperare affatto la marca di Ancona [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.]. Quivi non riteneva più il conte Francesco Sforza, se non la città di Jesi, che gli era sempre stata fedele. Le premure del duca di [1186] Milano, angustiato in questi tempi fieramente dai Veneziani, fecero mutar massime al medesimo conte e al re Alfonso, perchè il duca, trovandosi in grave pericolo, implorava quotidianamente il soccorso del genero. Però non fu difficile il tirare in fine ad un accordo il conte, che in sì urgente congiuntura si trovava necessitoso di pecunia. Trentacinque mila fiorini d'oro, ben pagati al conte, l'indussero a rilasciar quella città al pontefice, e a richiamarne la sua guarnigione. Similmente non tardò esso papa, siccome di genio pacifico, ad interporsi tosto per ismorzare il terribile incendio di guerra nato in Lombardia fra i Veneziani e il duca di Milano; ma cotali accidenti occorsero dipoi, che restarono vani tutti i paterni desiderii e disegni del buon pontefice.

La prosperità delle armi venete, che, dopo aver fabbricato un ponte sull'Adda, non trovavano ritegno alcuno, e portavano le desolazione sino ai borghi di Milano, avea messo in tal costernazione lo animo del poco saggio duca Filippo Maria, che a mani giunte non cessava di raccomandarsi al re Alfonso, a papa Eugenio allora vivente e a' Fiorentini. Ricorse fino al re di Francia, con esibirsi di restituire al duca d'Orleans la città d'Asti. Ma le sue maggiori speranze erano riposte nel credito e nel valore del conte Francesco Sforza, cioè in quel medesimo ch'egli sì lungamente avea perseguitato, e ridotto, co' suoi maligni maneggi, e colle armi e co' danari, a perdere l'intera marca d'Ancona, e con volerlo anche spogliare di Cremona. A lui lettere, a lui messi andavano di tanto in tanto, pregandolo e scongiurandolo di soccorso, e sollecitandolo a venire, senza lasciar indietro offerta e promessa alcuna che il potesse muovere, e soprattutto mettendogli davanti la succession de' suoi Stati. Perchè a questi andamenti teneano ben l'occhio aperto i Veneziani, anch'essi gli inviarono Pasquale Malipieri per tenerlo saldo nella lor lega, con fargli anche [1187] essi delle larghe esibizioni. E perciocchè il conte non dava categoriche risposte, si avvidero ben per tempo que' saggi signori ch'egli era per anteporre alla loro antica amicizia la nuova riconciliazione col suocero [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Italic. Corio, Istor. di Milano.]. Presero dunque la risoluzione di non aspettare ch'egli si dichiarasse, e di torgli intanto Cremona, se veniva lor fatto. Ordinato prima un trattato con alcuni Guelfi di quella città. Michele Attendolo lor generale nel dì 4 di marzo si presentò segretamente con quattromila cavalli e grossa fanteria alla porta d'Ognisanti di Cremona, credendosi di trovarla aperta. Gli andò fallito il colpo. Foschino Attendolo da Cotignola governatore, e Giacomazzo da Salerno capitano de' soldati del conte Francesco furono tosto in armi, raddoppiarono le guardie alle porte, alle mura, alle torri, cosicchè nè i cittadini osarono di far movimento; e i Veneziani, dopo avere scoperto il loro buon animo, si ritirarono colla bocca asciutta. Questo tentativo, oltre ad altri motivi che aveva il conte Francesco d'essere poco contento dei Veneziani, per averlo essi abbandonato nelle passate sue disavventure, e la segreta inclinazione da lui ben capita dei Fiorentini [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 22.], a' quali non piaceva che i Veneziani s'ingrandissero di troppo col mettere il duca in camicia, servì a lui di scusa per istrignere il trattato col suocero, a condizione che gli fosse pagato annualmente tanto di salario, quanto gli davano i Veneziani, ascendente a ducento quattro mila fiorini d'oro; e che gli fosse dato col titolo l'autorità di generale d'armata per tutti i di lui Stati. Pertanto alcune somme di danaro gli furono mandate da Milano, altre pagate in Roma: col quale rinforzo cominciò a mettere in ordine e ad accrescere le sue truppe. Ma mentre si crede di marciare a dirittura a Milano, alcuni de' cortigiani del duca, e i due Piccinini Francesco [1188] e Jacopo, invidiosi dell'innalzamento del conte, sparsero tai semi di diffidenza nel debolissimo duca, che più danaro non corse; e il duca andava ordinando al conte di passare o nel Padovano o nel Veronese, a motivo di fare una diversione, dando con ciò assai a conoscere di non volerlo in sua casa: tutti imbrogli che ritardarono la mossa del conte, e maravigliosamente giovarono ai Veneziani per tentar cose maggiori contra del duca. Venne l'armata loro pel ponte di Cassano nel cuore del Milanese, scorse tutta la Martesana, e andò finalmente ad accamparsi sotto a Milano, per le speranze date da alcuni di que' cittadini al general veneziano d'introdurlo a tradimento in quella città. Chiarito Micheletto, esser quelle parole vane, passò alle parti del monte di Brianza [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.], dove sconfisse Francesco Piccinino, ed altri capitani milanesi e le loro brigate. Mise dipoi l'assedio al forte castello di Lecco, dove spese circa quaranta giorni, con istrage e grave incomodo di sua gente, senza poterlo far piegare alla resa.

Conosceva intanto ogni di più il duca l'infelice suo stato, e l'imminente pericolo suo, ma ricercato e voluto; nè esservi altra speranza che l'aiuto del genero Sforza. Pertanto gli spedì affrettandolo a venire, e pregò il papa e il re Alfonso di provvederlo di danaro. Altro non fecero essi, se non ciò che s'è detto di sopra, dell'avere carpito dalle mani del conte la città di Jesi per la somma già accennata di danaro, con cui egli allestì la sua armata, e da Pesaro si mise in viaggio nel dì 9 d'agosto [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Aveva egli dianzi, nel dì 11 di marzo, insieme col conte Federigo d'Urbino fatto tregua con Sigismondo signor di Rimini, e con Malatesta Novello da Cesena di lui fratello. Consisteva l'esercito del conte in quattro mila cavalli e due mila fanti, co' quali venne a riposarsi alquanto a [1189] Cotignola. Ma eccoti un improvviso cambiamento di scena. Circa il dì 7 d'esso mese d'agosto cadde infermo Filippo Maria Visconte duca di Milano, e nel dì 13 diede compimento alla vita presente nel castello di porta Zobbia, senza lasciar dopo di sè prole maschile. Portato il suo corpo con poca pompa al duomo, potè allora quel popolo mirarlo morto, dopo averlo potuto vedere sì poco quando era in vita. Fu creduto che gli affanni e pericoli ne' quali si trovava involto, e ch'egli s'era colla sua balordaggine tirati addosso, il conducessero al sepolcro. S'egli avesse saputo prevalersi del regalo che la fortuna gli avea fatto di un genero, qual era il conte Francesco Sforza, cioè del miglior capitano che fosse allora in Italia, e fors'anche in Europa, poteva egli sperare di atterrar tutti i suoi nemici. Con fare sì scioccamente tutto il contrario, s'era ridotto alla vigilia di perdere colla riputazione anche tutti i suoi Stati. E qual fosse l'animo suo verso Bianca sua figliuola e verso il conte Francesco suo genero, che solo veniva per assistergli in sì grave urgenza, si diede ancora a conoscere nel fine di sua vita, se pure è vero ch'egli dichiarasse erede de' suoi Stati non già il conte Francesco Sforza, ma bensì Alfonso re d'Aragona e delle Due Sicilie [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], i cui uffiziali certo è che presero tosto il possesso del castello di Milano e della rocchetta. Dimorava il conte in Cotignola, quando nel dì 15 di agosto da Lionello d'Este marchese di Ferrara gli giunse segreto avviso della morte del duca: colpo che stranamente sconcertò le sue misure. Crebbe molto più la costernazione sua dacchè intese che il popolo di Milano, troppo stanco e disgustato del gravoso governo del duca defunto, avea gridato: Viva la libertà, e presa la risoluzione di reggersi a repubblica. Oltre a ciò, poteano pretendere quegli Stati il re Alfonso in vigore del testamento suddetto, se pur fu vero; e Carlo duca d'Orleans, per ragione di Valentina [1190] Visconte. Quel che era più, con tante forze si trovavano i Veneziani addosso allo Stato di Milano, senza che egli avesse nè danaro nè gente bastante a far grandi imprese. Oh qui sì che v'era bisogno d'ingegno. Contuttociò nel dì seguente marciò alla volta del Parmigiano, per quivi meglio considerare qual piega prendessero le cose, e qual volto mostrasse la fortuna a' suoi interessi in una sì strepitosa mutazion di cose.

Incredibile allora fu la rivoluzion dello Stato di Milano; tutto si riempiè di sedizioni, ed ognuno prese l'armi [Platina, Histor. Mant., lib. 6.]. Como, Alessandria e Novara aderirono alla repubblica milanese. Pavia si rimise in libertà senza voler dipendere da Milano. Parma si mostrò anch'essa inclinata al medesimo partito, e diede sol buone parole al conte Francesco, che tentò di averla. Anche Tortona negò ubbidienza ai Milanesi. All'incontro i Veneziani seppero così ben profittare di quell'universal disordine, che la città di Lodi loro si diede. Ebbero poscia il forte castello di San Colombano, situato tra Lodi e Pavia. Regnava allora gran discordia fra i cittadini di Piacenza [Ripalta, Hist. Placentin., tom. 20 Rer. Ital.]. Nel loro consiglio la fazion più potente la vinse, ed avendo spedito ai Veneziani per sottomettersi al loro imperio, non durarono fatica ad ottener quanto desideravano, e con patti i più vantaggiosi del mondo; per la qual cosa fecero poi gran festa e falò. Nel dì 20 d'agosto Taddeo marchese d'Este con mille e cinquecento cavalli veneti prese il possesso di Piacenza, e nel dì 22 arrivò colà con più gente Jacopo Antonio Marcello provveditore de' Veneziani. Intanto i Milanesi tutti d'accordo, con avere per loro capi Antonio Trivulzio, Teodoro Bossio, Giorgio Lampugnano ed Innocenzo Cotta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital. Corio, Istor. di Milano.], la prima cosa che fecero, fu di cavar dalle mani degli uffiziali del re Alfonso il castello e la rocchetta. Col regalo [1191] di diciassette mila fiorini d'oro ebbero queste fortezze, e tosto le spianarono da' fondamenti. L'ambasciata da essi inviata al campo veneto per ottener pace e far lega, fu accolta quasi con riso. Si tenevano allora i Veneziani quasi in pugno tutta la Lombardia. E però si rivolsero i Milanesi al conte Francesco Sforza, che era passato alla sua città di Cremona, pregandolo di voler assumere la difesa della lor libertà nella guisa ch'egli era per servire al defunto duca, offerendogli il comando della lor armata col titolo e con gli onori di generale. Non era lo Sforza solamente insigne per la sua perizia e bravura nell'armi; possedeva anche un'ammirabil accortezza nei politici affari; e però, quantunque gli potesse parere strano di doversi sottomettere ad un popolo, per comandare al quale egli era venuto; pure accettò l'offerta, e si accordarono le condizioni del suo generalato. Ebbe anche forza la sua lingua di trarre nella sua amicizia Francesco e Jacopo Piccinini, non ostante l'antico odio che passava fra le loro case e persone. Ciò fatto, uscì egli in campagna, ed, unite le sue truppe con quelle de' Milanesi, alle quali aggiunse ancora Bartolomeo Coleone fuggito dalle carceri di Monza dopo la morte del duca, avendolo affidato e guadagnato al suo servigio, andò all'assedio del castello di San Colombano. Mentr'egli quivi dimorava, erano in continua dissensione i Pavesi, aspirando alcuni a prendere per loro principe Lodovico duca di Savoia, altri Giovanni marchese di Monferrato, ed altri Lionello d'Este marchese di Ferrara. Ma non vi mancava il partito di coloro che anteponevano il darsi al conte Francesco, padrone di Cremona e sì celebre nel mestier della guerra, ossia al di lui figliuolo Galeazzo Maria [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Volle la fortuna del conte che si trovasse castellano in Pavia Matteo Bolognini Bolognese, e ch'egli per le istanze di Agnese dal Maino, parente di Bianca Visconte, trattasse segretamente [1192] di cedere al conte quella fortezza. Perciò al conte da lì a poco si diedero la città e cittadella di Pavia, con che egli assumesse il titolo di conte di Pavia, nè quel popolo fosse più suggetto a Milano. Ed ancorchè, presentita cotal intenzione de' Pavesi, fossero venuti gli ambasciatori milanesi per lamentarsene, e per esigere, secondo i patti, che le città prese dal conte si sottomettessero non a lui ma alla loro repubblica: tali scuse, belle parole e promesse sfoderò il conte, che eglino, benchè mal contenti, se ne tornarono a Milano, nè credettero ben fatto il litigar oltre, e molto meno il rompere la buona armonia col loro generale, giacchè non riuscì loro con nuova spedizione ai Veneziani d'indurli a verun accordo. Trovò lo Sforza nella cittadella di Pavia danari, gioie, assaissimo grano e sale, e gran copia d'attrezzi militari, tutto con gran fedeltà a lui consegnato dal Bolognini. Nè perdè egli punto di tempo ad ordinar la fabbrica di quattro galeoni e di altri legni, col disegno già conceputo di formar l'assedio di Piacenza. Intanto il castello di San Colombano, non potendo più reggere, e disperando il soccorso, se gli rendè.

Sul principio d'ottobre imprese il conte Francesco l'assedio di Piacenza per terra [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], assistito nel Po dall'armata navale, ben provveduta di cannoni e d'altre macchine militari, e condotta da Bernardo e Filippo Eustachi da Pavia. Nell'esercito suo si contavano i due fratelli Piccinini Francesco e Jacopo, Guidantonio ossia Guidazzo signor di Faenza, Carlo da Gonzaga, Alessandro Sforza suo fratello, il conte Luigi del Verme, il conte Dolce dall'Anguillara, ed altri valenti capitani. Alla difesa di Piacenza stavano Gherardo Dandolo provveditore de' Veneziani, e Taddeo marchese d'Este lor capitano con un numeroso presidio. Molti assalti furono dati a quella città, giocavano incessantemente le artiglierie; ma niuna apparenza v'era di superare così [1193] grande, così popolata e ben difesa città. I Veneziani, poichè mancava loro maniera di fare un ponte sul Po, per recar soccorso alla città suddetta, si accinsero a fabbricare una potente flotta di galeoni e d'altri legni da condursi per Po a quella volta. E intanto Michele Attendolo lor generale coll'esercito suo dava il guasto al territorio di Milano, prendendo anche varie castella, per veder pure di distorre lo Sforza da quell'assedio. Ma questi, dopo essere stato circa sei settimane sotto Piacenza, ed aver fatto coi suoi grossi cannoni una larga breccia nelle mura, e fatto cader due torri, determinò di dare un generale assalto alla città; e tanto più perchè udiva che si era già posta in cammino l'armata navale de' Veneziani per venire a sturbarlo. Scrive il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 10, tom. 21 Rer. Ital.] che il giorno di sì fiera azione fu ad sextumdecimum kalendas decembris, cioè nel dì 16 di novembre. Così pure ha la Cronica Piacentina del Rivalta [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.]. Cristoforo da Soldo dice nel dì 15 di novembre [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]; ma, soggiugnendo che fu in giovedì, si vede che quel numero è scorretto, e vuol dire anch'egli nel dì 16, che cadde in giovedì. Fierissimo fu quell'assalto, crudelissima la battaglia, e durò molte ore, avendo anche i galeoni del conte dalla parte del Po, che era allora grossissimo, fatta gran guerra alla città. Finalmente verso le ore venti il vittorioso esercito del conte Francesco entrò nella misera, anzi sopra ogni credere infelicissima città; imperocchè fu lasciata in preda ai soldati, e dato il sacco a tutte le case e chiese; non vi fu salvo l'onore delle vergini e delle matrone: di modo che non parvero cristiani, ma turchi coloro che tante iniquità commisero, colla desolazione di quella nobil città. E durò questa barbarie, se crediamo al Ripalta, molto [1194] tempo, senza che il conte vi mettesse freno, per quell'empia massima di tener contente le soldatesche, e di animarle ad altri simili fatti d'armi. Dieci mila cittadini rimasero prigionieri, e convenne riscattarsi a chiunque fu creduto capace di pagare. Il Simonetta, parziale del conte, confessa, è vero, le immense iniquità in tal occasione commesse; ma aggiugne avere il conte Francesco inviate persone a salvare i monisteri delle sacre vergini, ed aver comandato sotto pena della vita la restituzion delle donne, e fatto impiccare chi non ubbidì. E veramente Antonio Ripalta, che si trovò in mezzo a quell'orrida tragedia, e restò prigione, neppur egli parla de' monisteri. Perciò resto io dubbioso se s'abbia a prestar fede a Cristoforo da Soldo, allorchè scrive che le monache tutte furono svergognate, stracciate e malmenate. Con esso scrittore bresciano non di meno s'accordano l'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] e lo storico di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Si rifugiarono nella cittadella Gherardo Dandolo provveditor veneto, Taddeo marchese ed Alberto Scotto conte di Vigoleno, con assai loro gente; ma non trovandovi provvisione di viveri che per due giorni, non tardarono a rendersi prigionieri, essendo non di meno riuscito ad Alberto di fuggirsene, e di arrivar salvo sul Reggiano. Perchè poi di questa gran perdita fu incolpato (non so se a ragione o a torto) esso marchese, rimesso che fu in libertà, e tornato al campo veneto, nel dì 21 di giugno dell'anno seguente, d'improvviso cadde morto, non senza sospetto che gli fosse stata abbreviata la vita. Scrive santo Antonino [S. Antonin., P. III, tit. 22.], essersi nell'espugnazione della città di Piacenza il conte Francesco trovato in mezzo alla grandine delle palle e dei sassi nemici, di maniera che parve prodigioso l'aver egli salvata la vita. Con questa impresa, che gli fece grande onore presso i rettori della repubblica [1195] milanese, terminò egli la campagna presente, e si ritirò a Cremona, angustiata non poco sì per terra, come per Po dalle armi venete.

Nè si vuol tacere, che avendo Carlo duca d'Orleans dopo la morte del duca Filippo Maria, ricuperata la città d'Asti, mandò un gran corpo di cavalleria e fanteria, forse tre mila persone, concedutegli dal re di Francia sotto il comando di Rinaldo di Dudresnay. E perch'egli pretendeva all'eredità del duca defunto, siccome figliuolo di Valentina Visconti, perciò questo suo governatore portò la guerra sull'Alessandrino, prese molte castella, e si diede ad assediar la terra del Bosco. Verso la metà d'ottobre fu colà inviato dai reggenti di Milano Bartolomeo Coleone, che con circa mille cinquecento cavalli diede battaglia a quei Franzesi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e li mise, nel dì 14 d'ottobre, in isconfitta, con far prigione lo stesso lor condottiere Rinaldo; vittoria non di meno che costò ben cara anche ai vincitori [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 10, tom. 21 Rer. Ital.]. E gli Alessandrini, perchè i Franzesi non aveano dato quartiere alla lor gente, trucidarono poi quanti d'essi aveano fatti prigioni. Passò dipoi Bartolomeo a Tortona, e costrinse quel popolo a prestare ubbidienza a Milano. Non fu esente in quest'anno da novità la sempre inquieta città di Genova [Giustiniani, Istoria di Genova, lib. 5.]. V'era doge Raffaello Adorno. Ad istanza di molti suoi emuli rinunziò egli il governo nel dì 4 di gennaio. Venne sostituito a lui Barnaba Adorno, ma per pochi giorni, perchè nel dì 30 d'esso mese entrato in Genova Giano da Campofregoso, benchè con poca gente, ebbe tal senno e forza, che, detronizzato Barnaba, si fece proclamar doge di quella città. L'aiutarono a questa impresa i Franzesi, con aver egli fatto credere loro di rimettere Genova sotto il loro dominio, ma si trovarono poi beffati. Soggiacque alla guerra [1196] in questo anno anche la Toscana. S'era, mentre vivea il duca Filippo Maria, trattato non poco di pace in Ferrara colla mediazione del marchese Lionello d'Este fra i ministri d'esso duca e del re Alfonso, e i Veneziani e Fiorentini. Parea condotto a buon segno il negoziato, quando, per la morte del duca, avendo i Veneziani cangiata massima, andò per terra ogni speranza d'accordo [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 22.]. Ora il re Alfonso, dacchè vide impegnati i Veneziani nella guerra contro lo Stato di Milano, ossia per disegno di fare una potente diversione con assalire i Fiorentini lor collegati, oppure per voglia d'insignorirsi della Toscana, all'uscita d'ottobre con circa quindici mila tra fanti e cavalli venne in persona contra d'essi Fiorentini, in aiuto de' quali accorse il conte Federigo d'Urbino con secento cavalli e mille fanti [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital. Poggius, Histor., lib. 8.]. Per quanto facesse il re affine di smuovere i Sanesi dalla lor libertà, o dall'amicizia de' Fiorentini, altro non potè ottenere che provvisione di vettovaglie. Entrato in quel di Volterra, vi prese alcune castella, ed altre nel Pisano. Simonetto, che dal soldo de' Fiorentini era passato a quello del re, per terza ebbe Castiglione della Pescaia, luogo forte: dopo le quali poche prodezze il re Alfonso ridusse le sue genti a quartiere, alloggiandone la maggior parte nel Patrimonio, ossia negli Stati pontificii. Tornò Bologna in quest'anno [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] all'ubbidienza della Chiesa, perchè i Bolognesi amavano molto papa Niccolò, che poco anzi era stato lor vescovo. Ne riportarono vantaggiosi capitoli. Siccome già accennai, avea il conte Federigo d'Urbino comperata la città di Fossombrone, e pacifico possessor d'essa quivi signoreggiava [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Per tradimento d'alcuni di que' cittadini Sigismondo Malatesta signor di Rimini verso il principio [1197] di settembre v'entrò dentro, e cominciò l'assedio della rocca. Ma eccoti giugnere, nel dì 3 di quel mese, il conte Federigo con tutte le sue forze, ed attaccar la battaglia. Fu rotto il signor di Rimini, e Federigo, per castigo de' traditori, mise a sacco tutta la città ravvolgendo nel medesimo eccidio tanto i rei che gl'innocenti. Nella state dell'anno presente la peste fece non poca strage nella città di Venezia [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.]. Mirabil cosa pare che con tanto bollore e miscuglio di guerre non si diffondesse questo malore per tutta la Lombardia. Ma ne vedremo gli effetti nell'anno seguente.


   
Anno di Cristo mccccxlviii. Indiz. XI.
Niccolò V papa 2.
Federigo III re de' Romani 9.

Abbondò più che mai di strepitosi avvenimenti l'anno presente per la guerra de' Veneziani contra dello Stato di Milano. Avea quella potente repubblica sommamente accresciuta di gente la sua armata di terra, e specialmente colla giunta di Lodovico da Gonzaga marchese di Mantova, che in loro aiuto condusse mille e secento cavalli [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. II, tom. 21 Rer. Ital.]. Teneva inoltre a Casalmaggiore una formidabil flotta sul Po, da cui veniva stretta e continuamente infestata la città di Cremona. Riuscì ai lor maneggi di staccare da' Milanesi Bartolomeo Coleone di Bergamo. Se ne fuggì egli nel dì 15 di giugno con circa mille e cinquecento cavalli, e andò a rinforzare l'esercito veneto. Dall'altra parte il conte Francesco Sforza provava non pochi affanni, perchè dovea dipendere dal provvedimento e dalle risoluzioni del governo repubblicano de' Milanesi, che erano fra loro discordi. Sotto mano ancora i due figliuoli di Niccolò Piccinino Francesco e Jacopo, sì per l'odio antico, come per l'invidia presente, attraversavano tutti i suoi disegni, [1198] consigliando specialmente il governo di Milano di accordarsi co' Veneziani e di far pace. Infatti più e più ambasciatori furono spediti da Milano a tentar di questo i Veneziani. Ma in Venezia il medesimo chiedere pace facea crescere la altura e le pretensioni di quel senato. Tuttavia si sarebbono indotti i Milanesi ad ingoiar delle pillole amare, purchè seguisse accordo; tanta paura e diffidenza cacciavano loro addosso i malevoli del conte Francesco, con far credere ch'egli facesse la guerra col danaro di Milano, per sottomettere poi Milano a sè stesso. In somma si sarebbe probabilmente conchiusa pace (benchè Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Ist. Brescian., tom. 21 Rer. Italic.] creda che tutte queste fossero finzioni), se un dì gli abitanti di porta Comasina in Milano non avessero fatta una sollevazione contra chi la proponeva: laonde fu ripigliata la risoluzione di continuare la guerra. Uscito in campagna sul principio di maggio il conte Francesco, tolse ai nemici Monzanega, Vallate e Triviglio; e soprattutto fu considerabile l'acquisto da lui fatto di Cassano, perchè luogo di molta importanza pel passaggio dell'Adda. Vennero alle sue mani anche Melzo e Pandino; e quantunque Cremona si trovasse in molte angustie e pericoli per le continue molestie dell'armata navale de' Veneziani; pure, premendo più a' Milanesi Lodi che Cremona, gli convenne passare coll'esercito sotto quella città. Nulla quivi avendo fatto, andò a Casalmaggiore, dove s'era ritirata e fortificata la suddetta flotta veneta comandata da Andrea Querino e da Niccolò Trivisano. Nè perchè venisse a postarsi in quelle vicinanze Michele Attendolo general veneto dell'armata di terra, lasciò egli di assalir la loro flotta. Fece a questo fine discendere per Po l'armata de' galeoni pavesi, e dopo aver la notte fatto piantare dieci cannoni sulla riva del Po, nel dì 16 di luglio cominciò a far giocare le [1199] artiglierie, che faceano grande strage dei Veneziani. Non poteano andar innanzi, nè retrocedere i galeoni veneti, ed, essendo durata quella tempesta tutto il dì, nella notte il Querino, dopo aver fatto trasportare in Casalmaggiore le armi e le robe delle navi, con sette galeoni e una galea se ne fuggì, avendo prima fatto attaccare il fuoco al resto delle navi: il che fu una perdita e danno immenso per li Veneziani. Arrivato a Venezia, fu messo a riposar ne' camerotti, e condannato a tre anni di prigionia.

Andò poscia, nel dì 29 di luglio, il conte Francesco all'assedio di Caravaggio, e furono a vista le due armate nemiche; anzi vennero a caldissime mischie nei dì 15 e 30 d'agosto, che costarono molto sangue all'una e all'altra parte. Stava forte a cuore a' Veneziani la conservazione di Caravaggio, oltre al parer loro di perdere la riputazione, se lo lasciavano cadere sotto gli occhi della loro armata, che tra fanti, cavalli e cernide ascendeva a circa ventiquattro mila persone. Benchè fossero diversi i pareri de' capitani, pure, appigliatisi a quello del conte Tiberto Brandolino, comandarono al lor generale di venir ad un fatto di armi. All'alba dunque del dì 15 di settembre ordinate le schiere, improvvisamente diedero principio alla zuffa in tempo che il conte Francesco ascoltava messa, oppure pranzava. Passata per una palude molta cavalleria veneta, cioè per dove non aspettava il conte alcuna molestia, arrivò sino al di lui padiglione, e quasi mise in rotta la di lui gente. Ma si cangiò, dopo gran combattimento, il viso della fortuna. Due mila cavalli spediti dal conte per un bosco, nè scoperti, arrivarono addosso alla retroguardia del campo veneto, e la sbaragliarono: il che servì a mettere in fuga il restante delle loro brigate [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 13, tom. 21 Rer. Ital.]. Fu spaventosa quella sconfitta, e delle più memorabili [1200] di questo secolo. Di circa dodici mila cavalli veneti, secondo l'attestato di Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], appena ne scamparono mille e cinquecento; gli altri furono presi. Molto meno è scritto da altri. Vi rimasero prigionieri Roberto da Montalbotto condottiere di mille e ducento cavalli; il conte Guido Rangone da Modena capitano di settecento cavalli; Gentile da Lionesso capitano di mille e settecento cavalli, e i due provveditori veneti Almorò Donato e Gherardo Dandolo, dopo la perdita di Piacenza rimesso in libertà, con una gran torma d'altri uffiziali, oltre all'acquisto del ricchissimo bagaglio, per cui arricchì ogni menomo fantaccino. Questa insigne vittoria portò lo spavento a tutto il territorio di Brescia e di Bergamo, di modo che il conte Francesco, dopo aver preso Caravaggio, ed essere passato nel dì 20 di settembre oltre al fiume Oglio, vide portarsi le chiavi di quasi tutte le castella di que' due contadi. Perchè ne' patti da lui stabiliti colla comunità di Milano v'era che fosse sua Brescia, se per avventura l'avesse presa, a quella volta marciò egli, ben sapendo quanto essa fosse mal provveduta di guarnigione, di viveri e di fortificazioni. Ma ecco attaccar seco lite gli ambasciatori di Milano, che volevano vincere Lodi, e non Brescia. Non potè egli impedire che i due fratelli Piccinini con quattro mila cavalli, secondando le istanze de' Milanesi, e partendosi da lui, passassero all'assedio di Lodi. Questa discordia co' Milanesi, i quali sospettavano, e non a torto, che il conte pensasse a farsi signor di Milano; e l'aver egli scoperto ch'essi erano tornati a trattar di pace co' Veneziani; coll'aggiugnersi ancora che gli stessi Veneziani con incredibil prontezza e spese rimettevano in ordine la loro armata, ed aveano rinforzati i luoghi forti, ed aspettavano da' Fiorentini due mila [1201] cavalli condotti da Sigismondo signor di Rimini, e mille fanti comandati da Gregorio da Anghiari: tutto ciò mise a partito il cervello del conte, uomo di somma avvedutezza e di rari ripieghi. Mandò segretamente a proporre accordo a' Veneziani, e fu non solo ascoltato, perchè ad essi parea di star male non poco, dacchè aveano perduto tante terre e castella del Bresciano e Bergamasco; ma si concertò anche nel dì 18 di ottobre (seppur non fu nel dì 19) concordia e lega fra loro. Doveva il conte restituir tutti i prigioni e le terre prese nel Bresciano e Bergamasco. Crema si doveva cedere ad essi. Tutto il rimanente dello Stato di Milano avea da essere dello Sforza, con obbligarsi i Veneziani d'aiutarlo con gente e danaro a tale acquisto. La pubblicazione di questo accordo fece rimaner estatico ognuno. Ma quando il conte si credea di cominciar a goderne i primi frutti colla consegna di Lodi che gli si dovea dare da' Veneziani, trovò che nel dì innanzi, cioè nel dì 17 di ottobre, quella città s'era renduta a Francesco Piccinino per ordine della reggenza di Milano. Se i Veneziani giocassero netto in tal congiuntura non si sa. Eseguì bensì prontamente il conte tutto quanto egli avea promesso, col restituire ogni terra e prigione. Fuggì da lui in questi tempi Carlo da Gonzaga con circa mille e ducento cavalli, e cinquecento fanti; ma nel dì primo di novembre [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] tirò il conte al suo servigio Guglielmo fratello di Giovanni marchese di Monferrato, che si obbligò di servirlo con sette cento lancie da cavalli tre per lancia, in tutto cavalli due mila e cento, e con cinque cento fanti per otto mesi. Nella capitolazione seguita fra loro Francesco Sforza, secondo l'uso di coloro che promettono molto per eseguire poscia poco e nulla, non vi fu condizione che non accordasse a Guglielmo: cioè di dargli la città d'Alessandria, e in oltre [1202] quelle di Torino e d'Ivrea con una gran copia d'altre terre specificate, se pur venissero alle mani d'esso conte. Lodovico duca di Savoia anch'egli in questi tempi facea guerra allo Stato di Milano, ed avea occupato varie castella.

Quanto alla Toscana, infestata in quest'anno dall'armi del re Alfonso [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital. Ammirat., Ist. di Firenze, lib. 22.], i Fiorentini si studiarono di rinforzarsi col prendere quanta gente poterono al loro soldo. Fra gli altri a sè tirarono Sigismondo Malatesta signor di Rimini, uomo abbondante di valore, ma più di vizii. Costui s'era acconciato col re Alfonso, menando seco secento lancie da tre cavalli per lancia, e quattrocento fanti. N'avea anche ricavato trenta mila scudi. Ma, fattegli più vantaggiose offerte dai Fiorentini, lasciando burlato il re, si ridusse al loro servigio, e per opera loro si pacificò col conte Federigo d'Urbino nemico suo. Fu preso anche al loro soldo Taddeo de' Manfredi da Faenza con mille e ducento fanti. Morì appunto in quest'anno, a dì 18 oppure 22 di giugno [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], Guidantonio ossia Guidazzo suo padre ai bagni di Petriolo sul Sanese, con lasciare esso Taddeo ed Astorre ossia Astorgio figliuoli suoi successori nel dominio. Faenza pervenne ad Astorgio; Imola a Taddeo. Ora il re Alfonso andò a mettere l'assedio alla riguardevole terra di Piombino, posseduta allora da Rinaldo Orsino per le ragioni di Caterina da Appiano sua moglie. Era egli raccomandato da' Fiorentini, e questi non mancarono di spedirgli per mare qualche rinforzo di gente, e di munizioni da bocca e da guerra. Consumò il re tutta la state intorno a Piombino [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], con incredibil valore difeso da Rinaldo, che specialmente sostenne un furioso assalto dato nel settembre a quella terra: finchè la cattiva aria di quel paese fece tal guerra [1203] colle malattie alla gente d'esso re, che fu forzato a levare il campo, e a ritornarsene a casa; minacciando nondimeno i Fiorentini di vendicarsi di loro all'anno nuovo. Attese in quest'anno il pontefice Niccolò V a rimetter la pace nella Chiesa di Dio [Labbe, Concil., tom. 13.], e ad estinguere lo scisma d'Amedeo ossia di Felice V antipapa. La Germania, lasciata andare la neutralità, rendè ubbidienza al legittimo pastore della greggia di Cristo; e Carlo VII re di Francia, vigorosamente entrato nell'affare della pace della Chiesa, ridusse a buon termine le cose; tanto che nell'anno seguente vedremo composte le differenze tutte. Nel presente, a dì 4 di agosto, [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Italic.] Antonio degli Ordelaffi signore di Forlì compiè il corso di sua vita, e gli succederono nella signoria Cecco e Pino suoi figliuoli. Era afflitta in questi tempi la loro città dalla peste, che portò al sepolcro circa sei mila persone. In altre città d'Italia lo stesso malore si provò con grande mortalità di persone. Ci richiama di nuovo il conte Francesco Sforza, colle cui imprese voglio terminar l'anno presente. Non volea egli mai perdere tempo, e sapea secondare il buon volto della fortuna. Dacchè dunque fu accordato co' Veneziani, ed ebbe fatta una spedizione a Firenze, a Venezia e a Lionello Estense per aver soccorso di danari, s'inviò verso Piacenza, con far calare per Po nello stesso tempo i galeoni di Pavia. Avvegnachè i Piacentini fossero ben ricordevoli dell'infinito danno recalo loro nel precedente anno, pure non mancò fra loro chi consigliò di prenderlo per padrone; e a questo consiglio diede maggior peso la di lui armata di terra e del Po [Annales Placentini, tom. 20 Rer. Italic.]. Gli spedirono dunque di concorde volere ambasciatori; ed egli, nel dì 23 d'ottobre, v'entrò, con far grandi carezze a quel popolo, esentarlo per quattro anni da ogni tributo e [1204] gravezza, e concedere a chiunque era bandito il ritorno alla patria, fra' quali fu Alberto Scotto conte di Vigoleno. Passò dipoi la Sforza a Novara, e, nel dì 20 di dicembre, quella città gli presentò le chiavi [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 15, tom. 21 Rer. Ital.]. Nè terminò il presente anno che anche Alessandria se gli diede con tutte le sue castella. L'acquisto di Piacenza, dove il conte Luigi del Verme possedeva molte castella e beni, servì a maggiormente assodarlo colle sue truppe nel servigio del conte. E in vigore poi della convenzione stabilita da Guglielmo di Monferrato, lo Sforza, benchè contro cuore, gli diede il possesso d'Alessandria, a titolo nondimeno di feudo. Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] riferisce lo strumento fatto da quel popolo con esso Guglielmo. Vennero ancora al servigio dello Sforza da Milano tre fratelli da San Severino con circa ottocento cavalli. Per isvernar le sue milizie, il conte Francesco le ripartì nel territorio della città di Milano, dove egli s'era impadronito di Binasco, Biagrasso, Busto, Legnano, Cantù e di altre terre. Mancò di vita nel dicembre di quest'anno [Giustiniani, Istor. di Genova, lib. 5.] Giano da Campofregoso doge di Genova, in cui luogo fu sostituito Lodovico suo fratello.


   
Anno di Cristo mccccxlix. Indiz. XII.
Niccolò V papa 3.
Federigo III re de' Romani 10.

Ebbe in quest'anno il buon papa Niccolò V la consolazione di veder estinto lo scisma, formato già dai sediziosi prelati del concilio di Basilea [Raynaldus, Annal. Eccl. Labbe, Concil., tom. 13.]. Per finir questa scandalosa briga, la di lui prudenza non ebbe difficoltà di accordar vantaggiosa capitolazione all'antipapa Felice V, concedendogli il cappello cardinalizio, il grado di legato e vicario in [1205] tutte le terre del duca di Savoia, e la preminenza sopra gli altri porporati. Conservò ancora la lor dignità ad alcuni cardinali creati da lui, e rimise ne' primieri onori chiunque nel concilio suddetto avea offesa la santa Sede romana. Essendo poi ritornato il non più antipapa Amedeo al ritiro di Ripaglia, quivi attese a passare il resto dei suoi giorni in opere di pietà, finchè, secondo il Guichenone [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.], nel dì 7 di gennaio dell'anno 1451 Dio il chiamò all'altra vita, mentre egli si trovava in Ginevra [Bonincont., Annal., tom. 21 Rer. Ital.]. Già vivente lui era succeduto nel ducato di Savoia e principato del Piemonte Lodovico unico suo maschio figliuolo. Avea questo novello duca nelle turbolenze dello Stato di Milano occupato Romagnano, buona terra del Novarese [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 15, tom. 21 Rer. Ital.]; nè avendolo voluto restituire, il conte Francesco inviò colà il conte Luigi del Verme con parte del suo esercito, il quale così ben condusse la faccenda, che fece prigionieri tutti i Savoiardi e gli abitanti della terra. Se vollero la libertà, convenne loro riscattarsi, e se ne ricavò tal somma di danaro, che giovò non poco all'armata del conte. Negli Annali di Piacenza [Annales Placentini, tom. 20 Rer. Ital.] è attribuita questa impresa a Bartolomeo Coleone, inviato con altri capitani e con molte squadre d'armati in aiuto del conte Francesco dai Veneziani. Era lacerata in questi tempi da gravi dissensioni la città di Milano per le fazioni contrarie de' Guelfi e Ghibellini. Coi primi s'era unito Carlo da Gonzaga, e questi non lasciò indietro arte e trama alcuna per indurre il popolo a dargli il principato della città. Ma non mancavano fautori del conte Francesco, e n'erano i caporali il conte Vitaliano Borromeo, Teodoro Bosio e Giorgio Lampugnano. In sì fatti torbidi, vedendosi Francesco Piccinino decaduto dalla primiera autorità, prese la risoluzione di passare [1206] al servigio di Francesco Sforza, e di condurvi anche Jacopo suo fratello, il quale poco prima avea impedito ad Alessandro Sforza l'acquisto di Parma, il conte, quantunque, sapesse quanto questi due fratelli in addietro avessero operato contra di lui, e che non per elezione, ma per necessità si gittavano nelle sue braccia, e qual fosse l'odio antico della lor casa contro la propria, pure, siccome uomo che sapea ben maneggiar le carte, pensando che per qualche tempo gli potevano esser utili, colle più vistose carezze gli accettò, promettendo di tenerli come figliuoli, e promise in moglie a Jacopo Drusiana sua figliuola naturale, rimasta poco fa vedova di Giano da Campofregoso doge di Genova. Gli Annali Piacentini dicono che i due Piccinini vennero a lui nel dì 15 di gennaio con tre mila cavalli e due mila fanti, gagliardo rinforzo alla di lui armata. Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresc., tom. 21 Rer. Ital.] ci dà questo fatto al dì 19 di dicembre. Ma non tarderemo a conoscere qual fosse la loro fede. Sul principio del suddetto mese di gennaio anche la città di Tortona con tutto il suo distretto inalberò le insegne del conte Francesco. La Storia del Simonetta è difettosa perchè di rado assegna i tempi delle imprese.

Succederono in questi tempi in Milano non poche crudeltà di Carlo da Gonzaga e de' Guelfi suoi aderenti, contra di chi procurava o desiderava di dare la città allo Sforza. Tagliato fu il capo ad alcuni nobili, depresso il governo de' Ghibellini, molti de' quali furono mandati a' confini; ed altri chi qua e chi là fuggendo si misero in salvo. Andò tant'oltre l'odio di costoro contra d'esso Sforza, che pubblicamente diceano doversi spendere tutto per non averlo per loro signore; e che in fine meglio era darsi al demonio o al Turco, che a lui [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 17, tom. 21 Rer. Ital.]. Aveano [1207] fin qui sostenuta i Parmigiani la loro libertà, e contuttochè Alessandro Sforza fratello del conte Francesco, unito con Pier-Maria de Rossi conte di San Secondo, gl'inquietasse forte con un corpo di milizie, e tentasse anche un dì di prendere la lor città per tradimento (il che costò la vita a molti di que' cittadini autori del trattato); nondimeno dacchè il conte Francesco ebbe invialo colà Bartolomeo Coleone con due mila cavalli e cinquecento fanti, cominciarono a sbigottirsi. Si vollero dare al marchese di Ferrara Lionello d'Este; ma perchè questi ne fu dissuaso dai Veneziani, non accudì alla esibizione. Perciò in fine si diedero nel mese di febbraio ad Alessandro Sforza, che ne prese il possesso a nome del fratello. Per tutto il mese di gennaio avea il conte Francesco già presa la maggior parte delle castella del distretto di Milano. Per isperanza dunque che anche la città di Milano gli si dovesse rendere, giacchè non mancavano a lui delle persone benevole in quella città, determinò di accostarsi alla medesima e di bloccarla, acciocchè, se non valeva l'amore e il buon consiglio, la forza riducesse i suoi avversarli. Pose a questo fine il campo in più siti lungi dalla città, per impedire che non v'entrassero vettovaglie. Nel qual tempo anche i Veneziani, de' quali dovea essere la Geradadda e Crema [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.], uscirono in campagna di buon'ora, cioè nel gennaio dell'anno presente, con sommo aggravio de' Bresciani, e loro disagio per la cattiva stagione. Ebbero nel febbraio Caravaggio ed altri luoghi, e messo poscia il campo intorno a Crema, dirizzarono le batterie contra di quella nobil terra. Avea il conte Francesco anch'egli durante il verno inviati Francesco Piccinino, Luigi del Verme ed altri capitani con un buon corpo d'armati ad assediare l'insigne terra di Monza. Carlo da Gonzaga, che faceva allora il generale dei [1208] Milanesi, fu spedito con soldatesche al soccorso. Entrò egli una notte senza essere osservato in Monza, e la mattina seguente diede loro addosso, in maniera che li sconfisse, con prendere almen trecento cavalli, i cannoni e tutto il loro bagaglio. Fu osservato che Francesco Piccinino non si volle muovere colle sue truppe per soccorrere gli assaliti, segno che egli già ordiva un tradimento. Per tal vittoria alzarono forte la testa i Milanesi; e molto più perchè, essendosi collegati con Lodovico duca di Savoia, era loro data speranza che calerebbe dalle Alpi un nuvolo di cavalleria contra dello Sforza. Venne in fatti l'armata savoiarda, ma non mirabile, come s'era creduto, contra Novara [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 18, tom. 21 Rer. Ital.]; nè avendo potuto sorprendere quella città, s'impadronì di quasi tutte le castella del distretto, commettendo immense crudeltà e saccheggi. Erano circa sei mila cavalli. Cristoforo da Soldo li fa il doppio, secondo le voci spesso favolose de' tempi di guerra. Contra di loro il conte Francesco spedì Bartolomeo Coleone, e si andò badaluccando fra loro per molti giorni, finchè, passati i Savoiardi con più di tre mila cavalli ad assediare Borgo Mainero, Bartolomeo, benchè inferiore di gente, fu forzato nel dì 20 d'aprile a prendere battaglia. Fu questa assai sanguinosa sì per l'una che per l'altra parte; tuttavia rimasero in fine sconfitti i Savoiardi con prigionia di mille cavalli e presa del bagaglio. Bastò questa vittoria, perchè il duca Lodovico desistesse dal dar più molestia allo Stato di Milano.

Circa questi tempi il conte Francesco, venuta già la primavera, era uscito in campagna, ed avea ordinato a Francesco Piccinino e a Guglielmo di Monferrato di tornare all'assedio di Monza. Allora fu che si palesò l'infedeltà del Piccinino e di Jacopo suo fratello, perchè amendue, nel dì 14 oppure 15 di aprile, fatto prima [1209] segreto accordo colla reggenza di Milano [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], ed aperte loro le porte di Monza, con tutte le lor truppe v'entrarono. Ciò saputo, Guglielmo non tardò a ritirarsi di là con buon ordine, e a ridursi all'armata sforzesca. Con tre mila cavalli e mille fanti passarono dipoi i Piccinini a Milano con gran festa di quel popolo; e perchè Crema, assediata dai Veneziani, era oramai ridotta all'agonia, ebbero ordine di soccorrerla. Colà s'inviarono essi insieme con Carlo da Gonzaga, e con tali forze, che Sigismondo Malatesta, capitano de' Veneziani a quell'impresa, giudicò meglio di non aspettarli, e sciolse l'assedio nel dì 17 oppure 18 d'aprile. Andò intanto il conte Francesco all'assedio di Marignano, ed ebbe la terra. Capitolò dipoi anche la rocca di rendersi nel dì primo di maggio, se non le fosse venuto soccorso. Per darglielo uscirono sul fine di aprile di Milano i due Piccinini e Carlo da Gonzaga. Oltre alle loro truppe, conducevano seco venti mila giovani del popolo milanese, armati di schioppi, armi per la lor novità allora molto temute. Ma queste tante migliaia di giovani milanesi in armi si possono ben credere una spampanata degli storici adulatori o poco cauti. Certamente grande era la baldanza di quest'armata, e si sparse voce che ascendeva il numero di quelle milizie a sessanta mila persone. Gli aspettò nondimeno di piè fermo il conte Francesco, ed ordinò le sue schiere per ben riceverli, se aveano voglia di combattere. Ma quelli non s'inoltrarono, e intanto la rocca di Marignano venne in potere del conte. Perchè poi i Vigevaneschi, rinforzati da mille soldati inviati loro da Milano, mettevano a sacco e fuoco la Lomellina ed altre parti del territorio pavese, a quella volta marciò tosto il conte coll'esercito suo. Nel viaggio, avvertito che Guglielmo di Monferrato meditava di abbandonarlo, siccome disgustato per sospetti che ad istigazione segreta di esso conte la terra del Bosco non si volesse rendere a lui [1210] secondo i patti, il fece ritener prigione in Pavia, dove per avventura avea chiesta egli licenza d'andare. Per attestato di Benvenuto [Benvenuto da S. Giorgio. Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.], ciò avvenne nel dì primo di maggio, o piuttosto, come vuole il Ripalta [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], nel dì 13 d'esso mese. Fu egli poscia tenuto nelle carceri di Pavia un anno e dieci giorni, senza che il conte facesse per allora novità alcuna per conto d'Alessandria, anzi egli esortò quei del Bosco a rendersi a Giovanni marchese di Monferrato (non so come chiamato Bonifazio dal Simonetta) fratello d'esso Guglielmo [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.]. Durò qualche tempo l'assedio di Vigevano, valorosamente difeso dal presidio e da que' cittadini; ma finalmente si renderono, dopo aver corso un gran rischio di essere messi a sacco, nel dì 3 di giugno. Avea inoltre il conte inviato Alessandro suo fratello ad occupare castello Arquato, Fiorenzuola ed altri luoghi che erano de' Piccinini; il che fu eseguito; ed egli tornò nel territorio di Milano, e dopo aver preso Varese e la valle di Lugano nel Comasco, andò sotto a Lodi cioè nel fine d'agosto. Nel qual tempo Antonio Crivello castellano di Pizzighittone, importante fortezza sull'Adda, gliela diede, somministrandogli anche il comodo di prendere cinquecento cavalli e trecento fanti de' Piccinini, che erano ivi di guarnigione. Ebbe dipoi anche Cassano. Mancarono di vita per un'epidemia entrata nell'esercito sforzesco, o per altre cagioni, in quest'anno varii insigni condottieri d'armi, cioè Manno Barile, il conte Luigi del Verme, Roberto da Montealbotto, Cristoforo da Tolentino, Jacopo Catalano e il conte Dolce dall'Aguillara.

Era sul principio di settembre, quando Carlo da Gonzaga, uomo di fede sempre istabile, dopo aver fatto il padrone di Milano, per disgusto insorto fra lui e i Piccinini, e molto più per motivo di [1211] interesse, segretamente trattò accordo col conte Francesco, promettendo di dargli la città di Lodi e di Crema. All'incontro lo Sforza a lui promise Tortona con altri vantaggi [Cristoforo da Soldo, Ist. Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.]. Fu eseguito il trattato nel dì 11 di settembre, con essere entrate in Lodi le soldatesche del conte. Fin qui erano camminati i Veneziani con ottima fede verso lo Sforza, aiutandolo d'armati e di danaro [Ripalta, Histor. Placen., tom. 20 Rer. Ital.]. Ma avendo avuto ordini replicati Arrigo Panigarola Milanese mercatante in Venezia di proporre un aggiustamento, ed avendo alcuni ministri insinuato a quella repubblica, che se lasciavano prendere a questo incomparabil capitano tutto lo Stato di Milano, andava a rischio l'antica loro libertà, perchè egli avrebbe anche voluta dipoi la lor Terra ferma, e niuno gli avrebbe potuto fare resistenza: andò tanto inanzi l'istanza de' Milanesi, e l'apprensione di que' savii signori, che in questi medesimi tempi spedirono Pasquale Malipiero ed Orsato Giustiniano ad intimare al conte che desistesse dall'impresa di Milano. Ma avendo udito questi ambasciatori per istrada che il conte si era impossessato di Lodi, si fermarono, senza più portarsi ad esporre quell'ambasciata, per quanto narra Cristoforo da Soldo. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 21, tom. 21 Rer. Ital.] scrive che andarono prima ancora ch'egli s'impadronisse di Lodi: il che non sembra credibile. Si può al certo dedurre ch'egli nulla sapesse dell'intenzione de' Veneziani, al sapere che trattò onoratamente coi lor provveditori, affinchè venisse in lor potere, secondo i patti, Crema, che Carlo da Gonzaga gli fece avere. Non sarebbe già egli verisimilmente stato sì cortese, se mai avesse penetrato ciò che si tramava contra di lui in Venezia. Stabilito dunque che ebbero i Veneziani un accordo co' Milanesi, inviarono al conte, [1212] facendogli sapere d'essere in concordia col popolo di Milano, volendo che il conte ritenesse Novara, Tortona, Alessandria, Pavia, Parma e Cremona, e che Milano, restando libero, ritenesse Lodi, Como e tutto il di qua dall'Adda. In somma l'interesse fa le leghe, e l'interesse anche le guasta. Il Simonetta vuole che molto più tardi i Veneziani si levassero la maschera. Certo è che il conte, senza punto sgomentarsi per questo, marciò con tutte le sue forze da Lodi, e andò ad accamparsi intorno a Milano, benchè poi, ad istanza dell'ambasciator veneto, facesse una tregua di venti giorni, e si allontanasse di là. Mostrò ancora di voler pace collo parole, ma il contrario apparve ne' fatti. Perchè, quantunque avesse inviato a Venezia Alessandro suo fratello, e questi, per le minaccie de' Veneziani, avesse sottoscritta una capitolazione, egli non la volle ratificare. Passato dunque un certo tempo, volendo egli piuttosto esporsi ad ogni pericolo, che cedere al concerto fatto dai Veneziani e Milanesi già uniti contra di lui, attese ad affamar Milano, città allora mal provveduta di viveri, e trattò di pace con Lodovico duca di Savoia, cedendogli molle terre e castella da lui occupate in quel di Pavia, Alessandria e Novara. Lo strumento d'essa pace fu stipulato nel dì 20 di gennaio dell'anno seguente. In questo mentre, avendo Francesco Piccinino terminata sua vita in Milano, nel dì 16 d'ottobre, Jacopo suo fratello, che col tempo si meritò il titolo di Fulmine della guerra, fu accettato da' Milanesi, per comandare alle lor armi. Non finì l'anno presente, che nel dì 28 di dicembre lo Sforza mise in fuga il medesimo Jacopo e Sigismondo Malatesta generale de' Veneziani ne' monti di Brianza [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], e fece prigione non poca gente e molti loro uffiziali. Ebbe anche nel dì 13 di dicembre per danari la fortezza di Trezzo, acquisto di somma importanza per lui. Insorse guerra nell'anno presente [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] fra [1213] il re Alfonso e la repubblica di Venezia. La cagion fu che il re era in collera co' Veneziani per la guerra da lor fatta allo Stato di Milano, e bandì da' suoi regni la loro nazione. Perciò, formata da' Veneziani un'armata di trenta galee e di sei navi, questa recò non pochi danni ai legni d'Alfonso nel porto di Messina e in Siracusa. Intanto pareva disposto esso re a venire con un'armata verso Milano. Entrò nell'anno presente la moria in Roma [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], e cominciò a farvi strage. Per paura d'essa nel mese di giugno il pontefice Niccolò V sen venne a Spoleti, dove diedero fine alla lor vita molti dei suoi cortigiani. Andò poscia a Tolentino, e quindi alla santa casa di Loreto, e finalmente a San Severino. Nel dicembre ancora di quest'anno si sollevò il popolo di Camerino diviso in due fazioni. Chi voleva la Chiesa, chi la casa Varana. In fine gli ultimi prevalsero.


   
Anno di Cristo mccccl. Indizione XIII.
Niccolò V papa 4.
Federigo III re de' Romani 11.

Avea già il pontefice Niccolò V invitati i fedeli al sacro giubileo, che in quest'anno s'avea da tenere in Roma, e che fu in fatti celebrato con insigne divozione e concorso di persone da tutti i regni cristiani, al dispetto della pestilenza che regnava in Italia [Raynaldus, Annal. Eccles. S. Anton., Vita Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Dopo il primo giubileo dell'anno 1300, forse non fu mai veduto sì gran flusso e riflusso di gente in Roma, di modo che le strade maestre d'Italia pareano tante fiere. Accadde solamente una disavventura, che in un certo giorno (l'Infessura dice [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.] nel dì 19 di dicembre, e seco s'accorda l'autore della Cronica di Rimini [Infessura, Diar., P. II, tom. 3 Rer. Ital.]) tornando l'innumerabil popolo dalla benedizione del papa data in San Pietro, nel [1214] passare per ponte Santo Angelo, a cagion dello strepito fatto da una mula, divenne sì grande la calca, che quivi perirono più di ducento persone, parte soffocate dalla folla, e parte cadute nel Tevere: del che sommamente si afflisse il buon pontefice, il quale canonizzò in quest'anno Bernardino da Siena. Di gran tesori lasciò la pietà de' fedeli in Roma per l'occasione di questo giubileo, e d'essi poi si servì il saggio papa, non già a far guerre, ma bensì a ristorar le chiese, ad aiutare i poverelli, ed abbellir sempre più la bella città di Roma. Adoperossi egli ancora con premura degna del suo sublime e sacro carattere, affinchè si terminasse la guerra viva tra il re Alfonso e la repubblica fiorentina [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Nè andarono a vuoto i suoi maneggi, essendosi conchiusa la pace fra loro nel dì 29 di giugno, per cui fu obbligato Rinaldo Orsino signor di Piombino, che poi morì in questo anno di peste, a pagar da lì innanzi l'annuo tributo di cinquecento fiorini d'oro ad esso Alfonso. Nel dì 2 di luglio ebbe anche fine la discordia del medesimo re coi Veneziani [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 22. Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Italic.], essendosi, per opera del marchese Lionello signor di Ferrara, sottoscritta la pace fra loro dai comuni ambasciatori concorsi alla medesima città di Ferrara. Contribuirono molto a farla i cangiamenti delle cose di Milano, de' quali parlerò fra poco. Sciolto così il re Alfonso dai pensieri di guerra, si diede poi tutto ai piaceri, e ad una vita poco convenevole alla sua saviezza. Fu questo l'ultimo anno della vita del suddetto marchese Lionello, essendo egli stato rapito dalla morte nel dì primo di ottobre nel suo delizioso palagio di Belriguardo; principe d'immortale memoria, perchè, secondo la Cronica di Ferrara, fu amatore della pace, della giustizia e della pietà, di vita onestissima, studioso [1215] delle divine Scritture, liberale massimamente verso i poveri, nelle avversità paziente, nelle prosperità moderato, e che con gran sapienza governò e mantenne sempre quieti i suoi popoli, di modo che si meritò il pregiatissimo nome di Padre della patria. A lui succedette nel dominio di Ferrara, Modena, Reggio, Rovigo e Comacchio il marchese Borso suo fratello, che, quantunque illegittimo, fu anteposto ad Ercole e Sigismondo suoi fratelli legittimi. Era generale de' Veneziani Sigismondo Malatesta signor di Rimini. Fu cassato in quest'anno pei suoi demeriti. Fra le altre cose a lui fu attribuito il rapimento seguito in Verona di bellissima donna nobile tedesca, che con accompagnamento degno della sua condizione passava per quella città andando al giubileo di Roma. Piuttostochè consentire alle voglie libidinose di chi la rapì, si lasciò ella uccidere: caso che fece gran rumore per tutta Italia. S'egli veramente fosse reo di tale eccesso non saprei dirlo, perchè, per quanta inquisizione ne facessero i savii Veneziani, non si potè scoprirne l'autore. Certo è che la voce comune addossò ad esso Malatesta questa iniquità, e ne parlano fino i Giornali di Napoli. In sì cattivo concetto era esso Malatesta, che se non fu, certamente degno era d'essere creduto reo di tanta scelleraggine.

Per tutto il mese di gennaio e di buona parte del febbraio dell'anno presente [Cristof. da Soldo, Istor. di Brescia, tom. 21 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 21, tom. 21 Rer. Ital.] consisterono le diligenze dello invitto conte Francesco Sforza in sempre più angustiare la bloccata città di Milano, e in ben disporre le cose, acciocchè l'armata veneta, da cui continuamente i Milanesi imploravano soccorso, non giugnesse a condurvi vettovaglie. Crebbe perciò a dismisura la fame in quella gran città, con essersi ridotti i poveri a mangiar cavalli, cani, gatti, sorci, e in fin l'erbe, cioè ad ingoiare per un [1216] altro verso la morte, che cercavano dì fuggire. Se usciva gente per ricoverarsi altrove, ordine v'era ai capitani dello Sforza di ricacciar ognuno in città. Intanto i rettori, con belle speranze di presto aiuto, lusingavano il languente popolo, e veramente Sigismondo, generale allora de' Veneziani, era in qualche movimento alla volta di Milano. Ma questo soccorso dovea venire, e mai non veniva. Però nel dì 23 di febbraio Gasparo da Vimercato mosse a rumore qualche cinquecento uomini della plebe, che con alte grida andarono al pubblico palazzo, da dove furono respinti. Tornati colà in maggior numero, ed uscito Leonardo Veniero ambasciatore de' Veneziani, che finora avea confortati i Milanesi a star saldi, con mettersi a sgridare e minacciare i sediziosi, immediatamente fu dal furioso popolo tagliato a pezzi [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Italic.]. A questo spettacolo fuggirono tosto i reggenti; ed essendo restati padroni del palazzo gli ammutinati, che a vista d'occhio andavano crescendo, corsero ad impadronirsi delle porte. Nel seguente dì 26 di febbraio, raunato in Santa Maria della Scala il popolo, fu presa la determinazione di chiamar per loro signore il conte Francesco Sforza, e gliene fu incontanente spedito l'avviso a Vimercato, da dove egli stava in procinto di muoversi contro l'armata veneta, la quale era in moto. Jacopo Piccinino colla sua gente avea preso servigio in quell'esercito, dacchè vide la rivolta di Milano. Volevano i primarii cittadini che si stabilisse prima una capitolazione; ma il conte animato da' suoi benevoli, senza perdere tempo, marciò alla volta della città; e benchè con qualche fatica, pure v'entrò, incontrato fuori d'essa da copiosissimo popolo, ed accolto dentro dagli altri, tutti gridando: Sforza, Sforza, viva il conte Francesco. Andò prima a ringraziar Dio nella metropolitana, prese il possesso delle fortezze e delle porte, e, lasciato Carlo da Gonzaga al governo della città con [1217] buoni regolamenti per la quiete del popolo se ne tornò tosto a Vicomercato per vegliare agli andamenti dell'esercito veneto. Nello stesso tempo spedì ordini a tutte le città circonvicine, affinchè provvedessero di viveri l'affamato popolo di Milano: il che fu sì puntualmente eseguito, che in meno di tre dì abbondò la grascia in Milano, come se mai non vi fosse stato assedio, Sigismondo Malatesta appena ebbe intesa questa mutazion di cose, che se ne tornò di là dall'Adda, e fece tosto rompere il ponte. Da lì a due giorni Como, Monza e Bellinzona, terre state fin qui forti nel partito della repubblica di Milano, mandarono a prestar ubbidienza allo Sforza. Venuta poi la festa dell'Annunziazion della Vergine, cioè il dì 25 di marzo (che non so come vien detto dal Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 21, tom. 21 Rer. Ital.] sexto kalendas aprilis, e Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Istor. di Brescia, tom. eod.] scrive che fu nel dì 22 di marzo), fece questo gran capitano insieme colla consorte Bianca Visconte, e co' figliuoli Galeazzo Maria ed Alessandro, la sua magnifica entrata nella città di Milano, e fu acclamato duca di Milano. Per molti giorni durarono le giostre, le danze, i conviti e le altre feste per la di lui assunzione; e da tutti i principi d'Italia vennero a lui ambascerie per congratularsi, fuorchè dal re Alfonso e da' Veneziani. Rallegraronsi principalmente del di lui innalzamento i Fiorentini, perchè vedeano di mal occhio il tentativo fatto dai Veneziani per assorbire la Lombardia. Ed allora spirò ogni loro amistà con essi Veneziani, tanto più che in Venezia furono posti nuovi aggravii ai mercanti fiorentini, e si venne dipoi a sapere che essi Veneziani erano entrati in lega col re Alfonso, il cui odio contra de' Fiorentini non mai si estinse.

Poco indugiò Francesco duca di Milano ad ordinare che si rimettesse in [1218] piedi il castello di porta Zobbia, già demolito dal popolo milanese, e teneva continuamente quattro mila persone impiegate in quel lavoro. Stava tuttavia prigione in Pavia Guglielmo fratello di Giovanni marchese di Monferrato. Se volle riavere la libertà, gli convenne, nel dì 26 di maggio, venire ad una capitolazione, rapportata da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.], in cui cedette alle sue ragioni sopra la città d'Alessandria e suo territorio, a riserva del Bosco e d'alcune altre castella pervenute alle mani di suo fratello. Di queste poche avea egli da essere padrone, con obbligarsi ancora lo Sforza di pagargli annualmente due mila ducati, ossieno fiorini d'oro, in contraccambio dell'entrate ch'egli perdeva di Alessandria. Uscito di prigione, andò a Lodi, dove ratificò la convenzione; ma non sì tosto fu in libertà, che, giunto in Monferrato a dì 7 di giugno, giuridicamente protestò contro quello accordo, fatto, secondo lui, per minaccie e paura. Similmente nel dì 15 di novembre il duca Francesco ordinò che fosse ritenuto prigione Carlo da Gonzaga, altro condottier d'armi, dal quale era stato assistito non poco nella conquista di Milano. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 22, tom. 21 Rer. Ital.], che sa dare, secondo l'uso degli storici parziali, un bel colore a tutte le azioni del suo eroe, scrive che per avere lo Sforza fermata lega con Lodovico marchese di Mantova, e stabilito il matrimonio del suo primogenito Galeazzo Maria con una figliuola d'esso marchese, Carlo, siccome nemico del fratello, se l'ebbe tanto a male, che cominciò a sollecitare i Veneziani alla guerra, con intenzione di passare nella loro armata. Accertato di ciò il duca, lo imprigionò; ma che fra pochi giorni, per le preghiere del marchese suo fratello, il rilasciò, con obbligarlo nondimeno a cedere Tortona, di cui dianzi avea avuto [1219] il dominio. Verisimilmente si dovette allora sospettare che lo Sforza, allorchè ebbe bisogno pe' suoi affari de' suddetti due capitani, accordasse loro tutto quel che richiesero, per toglierlo poi loro, cessato il bisogno. Comunque sia, tace il Simonetta che Carlo, se volle la libertà, fu, oltre alla cession di Tortona [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], costretto a pagare sessanta mila fiorini di oro (del che ho io addotte altrove le pruove [Antichità Estensi, P. II.]), e fu confinato in Lomellina. Certo è poi ch'egli ruppe i confini, e, passato a Venezia, si acconciò con quella repubblica contra del marchese suo fratello, di cui seguitò ad essere nemico. Forse anche lo Sforza e il marchese andaron d'accordo in abbatterlo e ridurlo alla disperazione. Alla fame poi patita dal popolo di Milano, secondo il solito, tenne dietro la pestilenza in quest'anno; e questa gravissima, perchè, se crediamo al Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], nella sola città di Milano perirono sessanta mila persone. In Piacenza pochi restarono in vita. Si stese ancora questo malore per quasi tutta la Italia: cosa troppo facile, dacchè tanta gente era in moto per cagion del giubileo. Fu anche in Roma; laonde il pontefice, per isfuggirne la rabbia, fu di nuovo forzato a ritirarsi, nel dì 18 di giugno [Manett., Vita Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], e venne a Spoleti, poscia a Foligno e Fabriano. Colà nel dì 26 d'agosto ito a trovarlo Sigismondo Malatesta signore di Rimini [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.], fu onorato e regalato dal papa, ed ottenne che fossero legittimati i due suoi figliuoli bastardi Roberto e Malatesta. Tante volte s'è parlato dell'instabilità di Genova, città allora troppo amante di mutar padrone. In quest'anno ancora, correndo il mese di luglio, fu deposto dal governo il doge Lodovico da Campofregoso [Giustiniani, Istor. di Genova, tom. 15.]. Spedì il popolo a Sarzana [1220] a richiamare Tommaso da Campofregoso, già stato doge; ma, scusatosi egli per la troppa avanzata età, consigliò che eleggessero doge Pietro suo nipote: lo che fu eseguito nel dì 8 di dicembre. Del resto non fu in quest'anno nè pace nè guerra fra la repubblica di Venezia e Francesco duca di Milano. Ognuno d'essi avea paura dell'altro. Temeva il duca la potenza e ricchezza maggiore de' Veneziani; e i Veneziani stavano in riguardo pel singolar credito dello Sforza nel mestier della guerra. Tuttavia, giacchè il duca non era ben assodato nel nuovo dominio, i Veneziani andavano disponendo le cose per fargli guerra.


   
Anno di Cristo mccccli. Indizione XIV.
Niccolò V papa 5.
Federigo III re de' Romani 12.

Abbiamo veduto per tanti anni lacerata l'Italia, ora in una, ora in altra parte, dalla guerra. Parve miracoloso l'anno presente, perchè dappertutto fu, se non concordia d'animi, almeno pace. Di tempi così sereni si prevalse il pontefice Niccolò V, siccome dotato di gran mente e d'un animo regale, per lasciar di belle memorie alla città di Roma [Manett., Vita Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Sua cura fu di rimettere maggiormente in fiore le buone lettere, che già erano cominciate a risorgere in Italia, sì con richiamar a sè e premiar le persone dotte, sì ancora col radunare da tutta l'Europa e dall'Oriente manuscritti di tutte le arti e scienze, perchè la stampa de' libri non era peranche nata, o, se nata, era segreta. Formò con questo tesoro un'insigne biblioteca. Ordinò che si cominciassero a tradurre dal greco i santi Padri, ed anche gli storici e poeti di quella lingua. Fabbriche parimente insigni intraprese in Roma, tanto di sacri templi, come di ornamenti o fortificazioni alle rare memorie di quella e d'altre città, con avere specialmente stese queste sue grandiose idee alla Basilica [1221] Lateranense, e all'altra di Santa Maria Maggiore, e de' Santi Paolo, Lorenzo e Stefano. Tutte queste ed altre sue magnanime imprese si veggono diligentemente descritte nella di lui Vita da me data alla luce, e composta da Gianozzo Manetti Fiorentino, letterato insigne, perito delle lingue ebraica, greca e latina. Stefano Infessura anch'egli attesta [Infessur., Diar., tom. 3 Rer. Ital.], avere questo pontefice nell'anno presente ristorate le mura, le torri e le porte di Roma, acconciato il Campidoglio, accresciuto il torrione di castello Santo Angelo con altre fortificazioni, fatto un palazzo a Santa Maria maggiore, e la canonica di San Pietro e la chiesa di S. Teodoro, con altre fabbriche, ch'io tralascio. Di questo passo camminava il buon Niccolò papa, non cercando la dubbiosa gloria de' papi che profusero tanti tesori in guerre, ma bensì procurando di mantenere i suoi popoli in pace, e di far loro goder quelle rugiade, che Dio gli avea mandato in congiuntura del giubileo.

Non fu, siccome dissi, in quest'anno guerra in Lombardia; nondimeno la repubblica veneta mirava con occhio bieco il nuovo duca di Milano [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], e macchinava pensieri di guerra, essendosi collegata per questo con Alfonso re d'Aragona e delle Due Sicilie, con Lodovico duca di Savoia, con Giovanni marchese di Monferrato e co' Sanesi. La maggior loro speranza era che, trovandosi lo Sforza non peranche ben assodato sul trono, difficile non fosse il rovesciarlo. Per lo contrario non desiderava guerra il duca, siccome bisognoso di quiete per rimettere in buono stato il conquistato paese, troppo smunto e maltrattato dalle passate rivoluzioni. Oltre di che, egli non godeva quelle fontane di danari, delle quali abbondava allora Venezia, sì per l'estensione degli Stati a lei spettanti non meno in Italia che in Dalmazia e in altre contrade del Levante, come ancora perchè [1222] Venezia si riputava allora il più ricco emporio dell'Italia, anzi dell'Occidente. Il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital., pag. 963.] ci fa vedere una parte di que' tesori che il traffico portava in questi secoli alla piazza di Venezia. Ora il duca attendeva a premunirsi, e fece lega co' Fiorentini disgustati forte de' Veneziani; siccome ancora co' Genovesi e con Lodovico marchese di Mantova. Condussero i Veneziani al loro soldo Carlo da Gonzaga, e nell'anno seguente anche Guglielmo di Monferrato, cioè due capitani divenuti amendue per le ragioni sopraddette nemici del duca di Milano. Nel mese d'aprile dell'anno presente crearono capitan generale delle lor armi Gentile da Lionessa, uomo saggio e prode. Ma perchè Bartolomeo Coleone, che militava al loro servigio con mille e cinquecento cavalli e quattrocento fanti, pretendeva come dovuta a sè quella dignità, se ne adirò non poco, ed oltre al chiedere licenza col pretesto delle paghe che non correano, mostrò assai la sua disposizione di passare all'armata duchesca: fu presa la risoluzione di mettergli le mani addosso, e di tagliargli il capo. Data questa commessione a Jacopo Piccinino, egli con una marcia sforzata di notte arrivò addosso al Coleone, sorprese tutte le di lui genti, e poco mancò che non restasse prigione anche esso Bartolomeo. Ebbe egli la fortuna di salvarsi a Mantova, e restò in potere e al soldo dei Veneziani tutto il corpo de' suoi cavalli e fanti. Prese egli poi soldo nell'esercito duchesco, con aver promesso di grandi vantaggi allo Sforza. Lo spoglio fatto a lui e alle sue truppe si fa ascendere dal Sanuto ad ottanta in cento mila fiorini di oro. Fu anche pubblicamente decretato in Venezia, nel dì primo di giugno, che tutti i Fiorentini non privilegiati uscissero dagli Stati della repubblica [Ammirati, Ist. di Firenze, lib. 22. Poggius, lib. 8. Sanuto ed altri.], ed altrettanto fece anche il re Alfonso in tutte le [1223] sue terre: il che maggiormente irritò i Fiorentini, e li confermò nell'unione col duca di Milano. Premeva non poco ai Veneziani di tirar nella loro lega anche i Bolognesi, e molte furono le loro istanze, e caldi i loro maneggi [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], ma senza trovare in quel popolo voglia d'impacciarsi nelle brighe altrui. Tentarono dunque per altra via d'ottenere l'intento con dar braccio alle fazioni de' Canedoli fuorusciti. Assistiti questi dalle brigate dei signori di Carpi e di Coreggio, nel dì 8 di giugno venuti a Bologna, presero la porta di Galiera, e una parte d'essi giunse fino alla piazza. Sante de' Bentivogli, che i Bolognesi, benchè fosse creduto bastardo, aveano fatto venire per l'amore che portavano alla casa de' Bentivogli, giacchè Giovanni de Bentivogli figliuolo dello ucciso Ercole era in età non sufficiente a sostenere la sua fazione, allora fu in armi coi Malvezzi, Marescotti ed altri suoi aderenti. Seguì un combattimento, in cui furono costretti alla fuga i Canedoli, con lasciar ivi molti del loro seguito morti o prigioni.


   
Anno di Cristo mcccclii. Indizione XV.
Niccolò V papa 6.
Federigo III imperadore 1.

Avendo nell'anno precedente Federigo III re de' Romani risoluto di calare in Italia per prendere la corona imperiale in Roma, e mandati innanzi i suoi ambasciatori per disporre il pontefice Niccolò e i principi italiani al suo ricevimento [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Italic. Nauclerus, Platina, et alii.], sul principio di gennaio dell'anno presente entrò in Italia, conducendo seco Ladislao suo nipote, eletto re d'Ungheria e di Boemia, che allora era in età di dodici anni, ventidue vescovi, molt'altra baronia, e circa due mila cavalli, tutti ben montati, ma mal vestiti. Passando pel Friuli e per altri Stati della [1224] repubblica veneta, ricevè distinti onori. Allorchè entrò nel Polesine di Rovigo [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], fu incontrato da Borso d'Este signor di Ferrara con accompagnamento magnifico, e con lui, nel dì 17 del mese di gennaio, entrò in essa Ferrara. Quivi si riposò otto giorni in nobili solazzi e divertimenti; e regalato di quaranta corsieri e di cinquanta falconi ben ammaestrati alla caccia, continuò poscia il suo viaggio alla volta di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], dove arrivò nel dì 25 con gran festa e solennità di quel popolo. Non fu meno magnifico l'accoglimento a lui fatto nel dì 30 del suddetto mese [S. Antonin., P. III, tit. 22.] dalla repubblica di Firenze, allorchè entrò in quella città, da dove poi passò a Siena, e quivi si fermò per qualche tempo. Seco era Enea Silvio de' Piccolomini Sanese, vescovo di quella città, e segretario suo, uomo di mirabil ingegno e di gran letteratura, che fu poi papa Pio II. Nel dì 9 di marzo con incredibil magnificenza fece la sua solenne entrata in Roma [Infessur., Diar., P. II, tom. 3 Rer. Ital.], dove il saggio pontefice Niccolò per ogni buona precauzione avea rannate tutte le sue milizie, e ben munite le fortezze. Ossia perchè Federigo non avea voluto riconoscere per duca di Milano Francesco Sforza, oppure perchè in Milano durava tuttavia la peste, certo è ch'egli non andò a Milano, per prender ivi la corona ferrea. Inviò bensì lo Sforza il suo primogenito Galeazzo Maria a Ferrara con gran comitiva ad attestargli il suo ossequio e la sua ubbidienza, ma punto non si cangiò per questo l'animo d'esso Augusto verso di lui. Ora, giunto a Roma Federigo, fece istanza al pontefice di ricevere dalle mani di lui la corona del regno longobardico. Per testimonianza di Enea Silvio [Æneas Sylvius, Hist., lib. 4.], fu questo punto messo in consulta, e tuttochè reclamassero non poco gli ambasciatori di Milano, [1225] il papa procedè oltre, e nel dì 15 di marzo in San Pietro il coronò come re di Lombardia, dichiarando nulla di meno essere sua intenzione che tal atto non pregiudicasse al diritto dell'arcivescovo di Milano [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Nello stesso giorno avea egli prima congiunta in matrimonio con esso Augusto Federigo Leonora figliuola del re di Portogallo, ed anche essa fu per conseguente coronata. Poscia nel dì 18 del medesimo mese riceverono amendue dalle mani di esso pontefice la corona imperiale coi soliti riti e con incredibil festa del popolo romano, essendo passata tutta la gran funzione e permanenza dell'imperatore in Roma senza disturbo e con somma pace. Voglioso poscia l'Augusto Federigo di vedere il re Alfonso, principe celebratissimo di questi tempi, e zio dell'imperadrice, se n'andò con lei a Napoli. Gli onori quivi a lui compartiti dal re, splendidissimo signore, non ebbero fine. Di colà se ne tornò egli per mare nel dì 23 di aprile, ed alloggiò in San Paolo fuori di Roma, laddove poi partito nel dì 26, arrivò nel dì 8 di maggio a Bologna.

Nel giorno seguente pervenne a Ferrara [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], ed, accolto con ogni maggior onore dal marchese Borso, prese ivi riposo. Comparvero colà gli ambasciatori de' Veneziani, di Francesco duca di Milano e de' Fiorentini, per pregare esso marchese d'interporsi appresso l'imperadore, acciocchè trattasse di pace fra loro, giacchè era imminente la guerra. Ne dovette, come è credibile, trattar l'imperadore, ma con poca fortuna. Ebbe, specialmente in questi viaggi, occasione Federigo di meglio conoscere i meriti singolari d'esso Borso Estense signor di Ferrara [Nauclerus, Histor. Æneas Sylvius, Hist. Austr.], e volendo lasciargli una perenne memoria della generosa sua gratitudine, determinò di crearlo duca di Modena e Reggio, e conte di [1226] Rovigo e Comacchio, città che gli Estensi riconoscevano dal sacro romano imperio. Questa insigne funzione fu fatta nella festa dell'Ascensione, giorno 18 d'aprile, con incredibil concorso di popolo, ed incessante plauso de' Ferraresi e degli altri sudditi della casa d'Este. Era l'aquila bianca l'antica arme della casa estense. Carlo VII re di Francia le avea dati i tre gigli d'oro. Borso cominciò allora per privilegio dell'Augusto Federigo ad inquartare essi gigli coll'aquila nera imperiale da due teste. Nel giorno seguente Federigo, superbamente regalato e servito dal novello duca, si rimise in viaggio, e andossene a Venezia [Sanuto, Ist. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], dove quell'inclita repubblica fece mirabili sfoggi per onorarlo. Di là poi passò in Germania. Lo stesso giorno che Federigo si mosse da Ferrara fu quello in cui la repubblica di Venezia fece dar fiato alle trombe, con intimare e ricominciar la guerra contra di Francesco Sforza duca di Milano. Furono, dico, essi i primi a principiar la danza; ma nello stesso tempo anche Lodovico duca di Savoia, e Guglielmo fratello di Giovanni marchese di Monferrato, dalla lor parte mossero l'armi addosso agli Stati del medesimo duca. Similmente il re Alfonso spinse in Toscana contro i Fiorentini Ferdinando duca di Calabria suo figliuolo con otto mila cavalli e quattro mila fanti. Per quel che riguarda i Veneziani, la guerra da lor fatta si legge minutamente descritta da Porcello Napoletano nella Storia da me data alla luce [Porcell., Comment., tom. 20 Rer. Ital.]; autore a cui non manca l'adulazione, e che si truova sempre coll'incensiere in mano per esaltare i fatti anche menomi di Jacopo Piccinino, da lui appellato Scipione, e del conte Tiberto Brandolino, capitani allora della repubblica, e valenti senza dubbio nell'arte della guerra. Perchè niuna strepitosa impresa fu fatta in questa guerra, dirò io in breve che l'armata veneta, consistente in quindici mila cavalli [1227] e sei mila fanti, sotto il comando di Gentile da Lionessa, passato l'Oglio, entrò in Geradadda, con prender ivi varie castella, e fra gli altri Soncino, facendo scorrerie dappertutto. Per levarli di là, il duca col marchese di Mantova entrò coll'esercito suo nel Bresciano, e s'impadronì d'alcuni luoghi, il più importante de' quali fu Pontevico. E perciocchè i Veneziani, fatto un ponte sull'Adda, spedirono il conte Carlo da Montone con due mila cavalli per danneggiare il Lodigiano e Milanese, anche il duca spedì colà Alessandro Sforza signor di Pesaro suo fratello con un buon corpo d'armati per difendere il paese. Ma venuto egli alle mani con esso conte Carlo nel dì 25, oppure 20 di luglio [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 21, tom. eod.], fu messo in rotta, e, perduti circa ottocento cavalli, se ne fuggì a Lodi. Seguirono ancora varie scaramuccie ed incontri fra le due nemiche armate che campeggiavano sul Bresciano [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.], ma senza impegno o conseguenza degna di memoria. Per conto poi di Guglielmo di Monferrato, con circa quattro mila cavalli e due mila fanti entrato nell'Alessandrino, mosse anch'egli guerra al duca di Milano, ed occupò la maggior parte di quel territorio. Ma nel suddetto dì 25, oppure 26 di luglio, essendo stato spedito contra di lui Sagramoro da Parma con due mila cavalli, e verisimilmente anche con assai fanteria, gli diede tal rotta con prigionia di molti e presa del bagaglio, che gran tempo stette Guglielmo a rifar le penne. Fu anche in Toscana, siccome dissi, guerra per la venuta di Ferdinando duca di Calabria, inviato dal re Alfonso suo padre contra de' Fiorentini [Ammirat., Istoria Fiorentina, lib. 22.]; ma neppure in essa tali fatti si fecero che meritino luogo nella presente storia. Di alcuni soli piccioli luoghi s'impadronì [1228] Ferdinando. Dall'altra parte i Fiorentini, che aveano preso per lor generale Sigismondo Malatesta signor di Rimini, e al lor soldo il signor di Cesena fratello di esso Sigismondo, e Taddeo de' Manfredi signore d'Imola, e Michele da Cotignola con altri capitani: i Fiorentini, dissi, misero insieme tale armata, e la fecero così accortamente campeggiare, che tennero forte contra l'armata napoletana, costringendola infine a cercar quartiere d'inverno altrove, senza aver fatta conquista o combattimento di qualche rilievo. Altrettanto fecero dal canto loro due nemiche armate ch'erano sul Bresciano, giacchè i Veneziani, sfidati dal duca Francesco sul principio di novembre ad una giornata campale, accettarono bensì la sfida, e furono in ordinanza di battaglia; ma poi si ritirarono, senza far altro, spargendo voce ch'esso duca non volle il giuoco. Confessa Porcello ne' suoi Commentarli [Porcelli, Comment., lib. 8, tom. 20 Rer. Italic.], benchè parziale de' Veneziani, che questi, e non già il duca di Milano, quei furono che schivarono l'azzardo del fatto d'armi. Sapeano che la fortuna andava troppo d'accordo col valore e colla militar maestria di Francesco Sforza. In questi tempi il conte Tiberto Brandolino valoroso condottier d'armi, essendo terminata la sua condotta co' Veneziani, passò colla sua gente, cioè con mille e ducento cavalli e cinquecento fanti, al servigio del medesimo Sforza. Poco esatto si scorge Lorenzo Bonincontro in iscrivendo [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] sotto il presente anno, che venuti a battaglia i Veneziani collo Sforza e con Lodovico marchese di Mantova, rimasero sconfitti, ed essere restati prigioni in quel conflitto sette mila cavalli, Giovanni de' Conti e molti altri capitani. Appartien questo fatto all'anno seguente, e fu di gran lunga meno il danno de' Veneziani.

[1229]


   
Anno di Cristo mccccliii. Indiz. I.
Niccolò V papa 7.
Federigo III imperadore 2.

Tuttochè Francesco Sforza fosse quel grande eroe che convien confessarlo, e già signoreggiasse tutto il ducato di Milano, pure si trovava in istato da non poter competere nè durarla lungo tempo colla superior potenza della repubblica veneta, sì perchè troppo indebolito a lui pervenne lo Stato di Milano, e sì perchè nel medesimo tempo gli conveniva sostener la guerra anche contra Lodovico duca di Savoia, e contra di Guglielmo di Monferrato. Anche i signori di Correggio dal canto loro faceano guerra agli Stati di Parma e di Mantova. Unitamente dunque tanto egli come i Fiorentini [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 22. Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 21, tom. 21 Rer. Ital. Poggius, et alii.] si rivolsero a Carlo VII re di Francia, pregandolo d'aiuto, e fecero gli occorrenti maneggi per tirare in Italia Renato duca di Angiò e di Lorena, che tuttavia usava il titolo di re di Sicilia, facendogli credere che, sbrigati dalla guerra co' Veneziani, l'aiuterebbono colle loro armi a conquistare il regno, ed intanto annualmente gli pagherebbono cento venti mila fiorini d'oro. Accettò egli il partito, obbligandosi di calare in Italia con due mila e quattrocento cavalli. Mentre si trattava di questo affare, sul principio di gennaio [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital. Porcell., Comment., tom. 20 Rer. Ital.], vollero i Veneziani, non ostante il rigore del verno, fare una spedizione contro il marchese di Mantova, per torgli Castiglione delle Stiviere. E in effetto essendo deputato a questa impresa Jacopo Piccinino, dopo varii assalti che costarono la vita a parecchie centinaia di persone, costrinsero quella terra a rendersi, salva la roba e le persone. Ma non fu a quel misero popolo mantenuta la fede. Andò a sacco [1230] tutta la terra; gran bottino vi fu fatto, e niun riguardo fu avuto all'onore delle donne, con vituperio grave di chi permise tanta infedeltà e barbarie. Venuto il marzo, acquistarono essi Veneziani alcune castella; ma sotto Manerbe toccò a Gentile da Lionessa loro generale una ferita, per cui nel dì 15 d'aprile cessò di vivere. Fu dato il bastone del comando di quella armata a Jacopo Piccinino, personaggio che dopo Francesco Sforza era in questi tempi il più prode, attivo ed accorto condottieri d'armi. S'impadronirono le armi venete di alcune altre castella, con ricuperar anche Pontevico. Per l'uscita in campagna del duca di Milano, che tornò sul Bresciano, cessarono le lor conquiste. Intanto i Veneziani, per aderire alle brame di Carlo da Gonzaga, voglioso di ricuperar alcune sue castella toltegli dal marchese di Mantova suo fratello, gli diedero tre mila cavalli con cinquecento fanti. Dalla parte del Veronese entrò egli nel Mantovano, e faceva già dei progressi, quando nel dì 15 di giugno il marchese, assistito da Tiberto Brandolino, il venne a trovare, e fu con lui alle mani. L'aspra e dura battaglia durò cinque ore, e finì colla sconfitta di Carlo e de' Veneziani, che vi lasciarono più di mille cavalli ed alcuni capi di squadre. Andò in questo mentre il duca di Milano all'assedio di Gedo ossia Gaido, e tanto vi stette sotto, che se ne impadronì. Diedero anche le sue genti sotto Castiglione una buona percossa a quattro mila nemici nel dì 15 d'agosto. Avea ne' medesimi tempi Ferdinando duca di Calabria, per ordine del re Alfonso suo padre, riaccesa la guerra in Toscana, ma con far pochi fatti [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 22.]. I Fiorentini colle loro genti il teneano corto, e ripigliarono alcuni lor luoghi ancora. Perchè il duca di Milano abbisognava forte di danaro, avea mandato in loro aiuto il conte Alessandro suo fratello con due mila persone, e da loro avea ricavato ottanta mila fiorini d'oro.

[1231]

Ma eccoti la dolorosa nuova che Maometto II imperador de' Turchi, il quale nell'anno precedente avea messo l'assedio all'imperiale città di Costantinopoli, nel presente con un furioso assalto dato nel dì 29 di maggio [Naucler. Chalcondyla, Phrantz. Æneas Sylvius et alii.] se ne era impadronito, con tagliare a pezzi Costantino Paleologo ultimo imperadore dei Greci, e più di quaranta mila cristiani, con profanar tutte le chiese, e commettere i più orridi eccessi che si usano in tali congiunture, e massimamente dai Barbari. Tutto con perpetua infamia del nome cristiano e de' principi del cristianesimo d'allora, solamente applicati a scannarsi l'un l'altro: del qual fatto parvero nella opinione del mondo spezialmente rei il re Alfonso e i Veneziani, che, più degli altri a portata di soccorrere i miseri Greci, amarono piuttosto di far guerra in Italia a chi desiderava la pace. Ed ebbero bene a pentirsene gli stessi Veneziani, perchè molti lor nobili e mercatanti rimasero involti in quella sì deplorabil rovina, e peggio dipoi loro avvenne. Ora trafisse il cuore d'ognuno, e principalmente di papa Niccolò V, questa al maggior segno funesta e lagrimevole nuova, sì per la perdita di così nobile e importante città, come ancora per le sue pessime conseguenze, le quali poco si stette a provarle; perchè i Turchi tolsero Pera a' Genovesi, e cominciarono a stendere le lor conquiste pel mare Egeo con danno gravissimo ed incredibil terrore degli altri popoli cristiani. Allora fu che il pontefice [Raynaldus, Annal. Eccles.] piucchè mai accese il suo zelo per ismorzare in Italia, Germania ed Ungheria l'incendio delle guerre; e spedì a Venezia, a Milano, a Genova e a Firenze, acciocchè ognuno inviasse ambasciatori a Roma per trattar della pace, minacciando la scomunica a chiunque ripugnasse ad opera di tanto bisogno per la cristianità. Allo stesso fine scrisse caldissime lettere [1232] agli altri re e principi cristiani, sollecitando tutti a prestar aiuti per ricuperar Costantinopoli (cosa per altro oramai disperata), o per impedire gl'imminenti progressi de' Maomettani.

Spedirono bensì i principi d'Italia i lor ministri alla corte pontifizia; ma intanto si continuò a guerreggiare fra loro. S'era provato il re Renato di passar le Alpi con circa tre mila e cinquecento cavalli; gli si oppose Lodovico duca di Savoia [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 23, tom. 21 Rer. Ital.]. Costretto a passar egli per mare a Ventimiglia, e poscia ad Asti, tanto fece, che Lodovico delfino di Francia prese l'armi in suo favore, ed obbligò il duca di Savoia, benchè suocero suo, a lasciar passare la di lui gente nel mese di settembre. Giunto il re Renato in Monferrato, la prima impresa che fece, fu quella di pacificare Guglielmo, fratello di quel marchese, col duca Francesco: nel qual tempo Bartolomeo Coleone spedito dal duca occupò il borgo e la rocca di San Martino nel cuore del Monferrato. S'interpose dunque Renato, ed operò che Giovanni marchese e Guglielmo suo fratello compromettessero in lui tutte le differenze fra loro e Francesco duca di Milano. Il compromesso del dì 15 di settembre è rapportato da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Così cessò in quelle parti la guerra, e lo Sforza richiamò di là quattro mila combattenti, che vennero a rinforzar la sua armata sul Bresciano. Giunse colà dipoi anche lo stesso Renato co' suoi; e ingagliardito colla giunta di tante brigate l'esercito sforzesco, nel dì 16 d'ottobre andò all'assedio di Pontevico [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]. Per forza fu presa quella terra nel dì 19 dagl'Italiani, che le diedero tosto il sacco. V'entrarono susseguentemente anche le genti del re Renato, e vedendo già sparecchiata [1233] la tavola, cominciarono ad infierir contra di que' poveri abitanti, ammazzando uomini, donne e fanciulli. Erano i Franzesi d'allora gli stessi che quei d'oggidì per quel che riguarda l'amore dei piaceri, divertimenti e gozzoviglie; e però, giunte a Milano le squadre di Renato, dove trovarono delizie, non sapeano più partirsene. Ma diversi per altro conto da quei d'oggidì erano i Franzesi d'allora, perchè crudeli oltre modo e di maniere turchesche nel far la guerra, non volendo dar quartiere ai vinti che lo chiedevano, e commettendo altre simili barbarie: laddove gl'Italiani di questi tempi non solamente davano quartiere, ma, spogliati che aveano i prigionieri, siccome altrove ho detto, li lasciavano andar con Dio. Della cristiana moderazion de' Franzesi d'oggidì l'Italia e la Germania ha veduto frequenti gli esempli anche a' dì nostri. Ma così orrida crudeltà usata dai Franzesi suddetti, la maggior parte Piccardi, sparse un tal terrore per le terre ubbidienti ai Veneziani [Sanuto, Istor. Ven., tom. 21 Rer. Ital.], che mandavano innanzi le chiavi senza voler aspettare l'arrivo dell'esercito sforzesco. Caravaggio, Triviglio e tutta la Geradadda, a riserva di Soncino e Romanengo, tornarono in potere dello Sforza. Così in poco tempo quasi tutta la pianura del Bresciano si sottomise alle di lui armi. Roado, Palazzuolo, Chiari, Pontoglio, Martinengo, Manerbe, ed assaissime altre terre e molta parte della pianura di Bergamo vennero alla divozion del duca di Milano. Posto poi l'assedio agli Orci Nuovi, nel dì 12 di novembre, lo sforzò egli nel dì 22 alla resa, e Soncino anch'esso tornò alle sue mani. A tanti progressi contribuì non poco l'essersi precipitosamente ritirata a Brescia l'armata veneta per trovarsi troppo inferiore di forze alla nemica. Così terminò la campagna dell'anno presente, e le soldatesche furono distribuite a' quartieri d'inverno. Avea il pontefice Niccolò mandato a' confini in [1234] Bologna Stefano Porcaro nobile romano per sospetti del suo umor torbido [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Manett., Vit. Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Tramò costui una congiura con alcuni Romani contro la vita e lo Stato dello stesso papa; e nella festa di santo Stefano dell'anno precedente si partì all'improvviso da Bologna senza licenza del cardinal Bessarione legato di quella città. Con tutta fretta ne spedì il cardinale per un corriere l'avviso al papa, il quale, avendo tosto messe buone spie in campo [Infessura, Diar., tom. eod. Raynaldus, Annal. Eccl.], fece, nella vigilia dell'Epifania, prendere esso Porcaro in casa sua con alquanti de' suoi partigiani che già erano in armi. Formato il suo processo, fu, nel dì 9 di gennaio, impiccato per la gola. Soggiacquero alla medesima pena altri de' suoi congiurati, ed altri furono banditi. Intenzion di costoro era di ridurre Roma all'antica sua libertà. Ma per un papa che facea tanto di bene a Roma, fa tanto più orrore un così nero attentato.


   
Anno di Cristo mccccliv. Indiz. II.
Niccolò V papa 8.
Federigo III imperadore 3.

Sul principio di quest'anno il vecchio re Renato, impazientatosi (non ne sappiamo bene la vera cagione) della sua dimora in Italia, si congedò dal duca di Milano [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 23, tom. 21 Rer. Ital.], e senza che si trovasse maniera di ritenerlo, volle tornarsene colle sue genti in Francia, datogli il passo da Lodovico duca di Savoia. Lasciò in Italia Giovanni suo figliuolo, che portava il titolo vano di duca di Calabria, giacchè i Fiorentini il voleano per loro capitano, affin di opporre questo principe angioino ad Alfonso re di Napoli. Con tutti poi gli uffizii premurosi adoperati dal papa per intavolar la pace fra le potenze guerreggianti in Italia, niun buon successo fin qui avea avuto il suo zelo per [1235] colpa d'esso re Alfonso, il quale guastava tutto e si opponeva ad ogni onesta proposizione. Ma Iddio dispose che un semplice frate divenisse lo strumento di sì bella impresa, e la conducesse a fine [S. Antonin., Simonetta, Poggius, Cristoforo da Soldo ed altri.]. Fu questi fra Simonetto da Camerino dell'ordine di Sant'Agostino, religioso dabbene, abitante allora e ben voluto in Venezia, che, mosso dal suo buon genio, o piuttosto da segreta insinuazione dei saggi Veneziani, andò più d'una volta a Milano, proponendo la pace a quel duca, e riferendo a Venezia quel che occorreva. Erano stanchi di quella guerra i Veneziani, e maggiormente poi per la perdita di tanto paese nel Bresciano e Bergamasco: nel qual tempo ancora, per attestato di Cristoforo da Soldo, il conte Jacopo Piccinino lor generale, alloggiato con grosso corpo di gente in Salò, lasciò divorar dalle sue soldatesche tutta quella Riviera e Lonado, e commettere ruberie e disonestà senza numero. Si aggiugneva la paura della potenza turchesca, accresciuta a dismisura dopo la presa di Costantinopoli e d'altri paesi cristiani. Dall'altro canto Francesco Sforza duca di Milano si sentiva troppo smunto per la guerra suddetta, penuriando spezialmente di pecunia, cioè dall'alimento più necessario a chi vuol mantener armate. Gli pungeva anche il cuore l'essere sul principio di marzo passato dal suo servigio a quel de' Veneziani Bartolomeo Coleone, insigne capitano di questi tempi, colle sue squadre. Però, trovata questa buona disposizione in amendue le parti, il religioso predetto con segretezza e prudenza dispose un buon concerto per la concordia. Il duca di Milano onoratamente confidò ai Fiorentini suoi collegati ogni progetto, i quali, inviato colà Diotisalvi Neroni, accudirono anch'essi al trattato. Ma i Veneziani, irritati contra del re Alfonso, per aver egli colle sue ripugnanze ad ogni accordo ridotti gli ambasciatori a partirsi di Roma senza [1236] conchiusione, non gli vollero far confidenza alcuna de' loro particolari maneggi. Perchè non pareva allo Sforza fra Simonetto bastante a sì grande affare (forse non doveva egli avere per sì grande opera mandato autentico), la repubblica veneta spedì con esso lui Paolo Barbo cavaliere [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Italic.], che, travestito da frate minore, si portò a Lodi a trattarne colle facoltà occorrenti. Fu dunque nel dì 9 d'aprile in essa città di Lodi sottoscritta la pace fra i Veneziani e il duca di Milano, con lasciar luogo ad entrarvi al re, a' Genovesi, al marchese di Mantova e ad altri collegati [Du Mont, Corp. Diplomat., tom. 3.]. Ritenne in questa pace il duca la Geradadda, e restituì a' Veneziani tutto quanto avea preso nel Bresciano e Bergamasco. Il marchese rendè a Carlo Gonzaga suo fratello le castella che gli avea tolto. Per un articolo segreto restò in libertà il duca di ricuperar per amore o per forza le castella a lui occupate durante la suddetta guerra da Lodovico duca di Savoia, da Giovanni marchese di Monferrato e da Guglielmo suo fratello, e le tolte dai Correggeschi al marchese di Mantova.

Sdegnato il re Alfonso contro de' Veneziani, perchè, senza curar di lui, si fossero accordati collo Sforza, ricusò per un pezzo d'accettar quella pace. Vi si accomodò, come la necessità portava, il marchese di Mantova. Ma perchè era succeduto ai Correggeschi, al Monferrino e al Savoiardo quello ch'è intervenuto in altri tempi; cioè che i Veneziani aveano pensato più ai proprii che agli altrui interessi [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 23, tom. 21 Rer. Ital.]; lo Sforza, poco dopo la pace, spedì Tiberto Brandolino colle sue armi contra di loro, e gli obbligò a rendere il mal tolto: cioè passò Tiberio contra de' Monferrini, e si fece rendere varie terre pervenute alle lor mani. La concordia stabilita fra loro nel [1237] dì 17 di luglio si legge nel Corpo Diplomatico del signore Du Mont. Contro al duca di Savoia furono medesimamente inviati da una parte esso Brandolino, e da un'altra Roberto da San Severino, i quali cominciarono a stendere le loro scorrerie sino a Vercelli. Nel termine di tre giorni fece sì buon effetto il terrore delle lor armi, che tornarono alla divozion del duca Bassignana, Biandrate, Valenza, Bremide e tutti gli altri luoghi occupati nel Pavese e Novarese. Borgo di Sesia fu assediato, e costretto alla resa. Pertanto si sollecitò Lodovico duca di Savoia ad inviar ambasciatori per chiedere accordo. Questo fu stabilito, e il fiume Sesia fu da lì innanzi il confine dei loro Stati. Il Guichenone [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye.] (io non so come) non ha avuta difficoltà a negare, che Francesco Sforza facesse per questo guerra al duca di Savoia, e giugne a chiamare adulazione del Corio il dirsi da lui [Corio, Istor. di Milano.] che colla forza furono ricuperate quelle terre, adducendone per ragione l'essere stato compreso il duca di Savoia nella pace di Lodi, come collegato de' Veneziani e del re Alfonso. Però, secondo lui, il duca Francesco riebbe le terre suddette solamente per un trattato amichevole di accomodamento, sottoscritto nel dì 30 d'agosto di quest'anno, e pubblicato dal suddetto signore Du Mont. Ma il Corio altro non fa ne' racconti di questi tempi se non copiare il Simonetta, il quale ne sapeva ben più del Guichenone, e scriveva ciò che accadeva a' suoi giorni, e chiaramente parla della guerra suddetta: il che viene ancora confermato, da Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], autore non parziale e vivente in questi tempi. E però non è da dubitar d'essa guerra, a cui fu posto fine coll'accordo sopraccennato. Intanto perciocchè il re Alfonso stava renitente ad accettar la pace di Lodi, i Fiorentini e [1238] il duca di Milano trattarono e conchiusero lega co' Veneziani nel dì 30 d'agosto dell'anno presente, come apparisce dallo strumento riferito dal suddetto signore Du Mont [Du Mont, Corp. Diplom., tom. 3.]. Alla qual lega aderirono dipoi Borso d'Este duca di Modena e Reggio e signor di Ferrara, e i Bolognesi. Fecero anche pace i Veneziani nell'aprile di quest'anno con Maometto imperadore dei Turchi. Fu poi spedita la suddetta lega de' Veneziani e principi menzionati, e portata dai respettivi ambasciatori alla corte romana, acciocchè il pontefice Niccolò si adoperasse per ridurre alla pace anche il re Alfonso, e farlo entrare nella lega medesima [Raynaldus, Annal. Eccles. Manetti, Vita Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Nè egli mancò dì inviare a Napoli con essi ambasciatori il cardinal Domenico Capranica, uomo di gran destrezza ed abilità per somiglianti affari.


   
Anno di Cristo mcccclv. Indiz. III.
Callisto III papa 1.
Federigo III imperadore 4.

Era già da gran tempo malconcio per la podagra e chiragra il buon pontefice Niccolò V, e da qualche tempo ancora s'era familiarizzata con questi malori la febbre [Raynaldus, Annal. Eccl.]. Non la durò egli in mezzo a tanti nemici. Prima nondimeno di passare alla vera patria de' giusti, ebbe la consolazione d'intendere ch'era riuscito al cardinal Capranica d'indurre il re Alfonso nel dì 26 di gennaio dell'anno presente a ratificar la pace fatta in Lodi fra i Veneziani e il duca di Milano: cosa tanto bramata e procurata da esso pontefice. Motivo di maggiore allegrezza fu appresso l'avviso che lo stesso re era entrato nella lega de' Veneziani, Fiorentini e duca di Milano: per la quale si potea sperare unione di volontà e di forze per opporsi al torrente delle armi turchesche, minaccianti oramai l'Italia. In essa lega ebbe [1239] luogo il medesimo pontefice, ma dalla stessa Alfonso volle esclusi i Genovesi, Sigismondo de' Malatesti e Astorre dei Manfredi. Di questi suoi maneggi non potè poi cogliere alcun frutto il pontefice [Manetti, Vit. Nicolai V, P. II, tom. 3 Rer. Italic.], perchè nel dì 24 di marzo la morte il rapì, mentre egli facea dei preparamenti di gente e di navi per inviarle in soccorso de' cristiani contra del Turco. Sarà sempre in benedizione la memoria di questo insigne sommo pastore della Chiesa di Dio, per averla egli governata con prudenza, per essere stato pontefice disinteressato, lontano dal nepotismo, limosiniere, amatore e promotor della pace e delle buone lettere, e per le sue magnanime idee in tanti ornamenti accresciuti alle chiese e alla città di Roma, de' quali così il Manetti che il Platina [Platina, in Vita Nicolai V.] ci han lasciata onorevol memoria; siccome ancora ultimamente l'abbate Giorgi nella di lui Vita. Molto di più era egli per fare, e soprattutto avea già disegnata la magnifica fabbrica della basilica vaticana; ma venne la morte ad interrompere il filo de' suoi giorni e de' suoi pensieri. Entrati i cardinali nel conclave, nel dì 8 d'aprile elessero papa Alfonso Borgia Valenziano, vescovo della sua patria, uomo attempato, e dottissimo nelle leggi civili e canoniche, il quale prese il nome di Callisto III [Gobelin., Comment. Pii II, lib. 2. S. Antonin., Platina, Æneas Sylvius, et alii.]; nè tardò a mostrare un ardente zelo per far guerra al Turco, con ispedire legati a tutti i regni della cristianità, sì per movere i monarchi e principi a cotanto necessaria impresa, come ancora per raccogliere danari e predicar dappertutto la crociata. Ma a così bel mattino del novello pontefice vedremo che non corrispose la sera.

Dopo la pace e lega di sopra accennate s'avea oramai da godere un'invidiabil quiete; nè questa sarebbe mancata, se Jacopo Piccinino non l'avesse in qualche [1240] parte turbata [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]. Era egli generale de' Veneziani, che gli pagavano cento mila ducati l'anno. Non abbisognando più il senato veneto di tanta spesa, ed essendo terminata la sua condotta nel fine di febbraio, il cassarono, e ben volentieri, per le innumerabili ribalderie de' suoi soldati, che ugualmente trattavano nemici ed amici [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. In suo luogo fu creato generale de' Veneziani Bartolomeo Coleone. Abbiamo scrittori, e massimamente Porcello Napoletano [Porcelli, Comment., tom. 20 Rer. Ital.], che esaltano alle stelle questo Piccinino, chiamandolo specialmente Fulmine della guerra. Nè può già mettersi in dubbio che egli fosse uno dei più prodi guerrieri e condottieri d'armi che s'avesse allora l'Italia; ma vero è altresì ch'egli fu poco diverso dai capitani delle compagnie de' masnadieri, da noi veduti nel precedente secolo. Viveva egli alle spese di chi non era suddito, e si guadagnava l'amore de' soldati suoi con dare l'impunità a tutte le ruberie e furfanterie, e a qualsivoglia altro loro eccesso. Ora il Piccinino, licenziato dai Veneziani, si partì dai loro Stati, ed avendo preso in sua compagnia Matteo da Capoa, formato un corpo di più di tre mila cavalli e di mille fanti [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], venne a Ferrara, dove grande onore gli fu fatto dal duca Borso, perchè la politica insegnava di non disgustare, anzi di aver per amici personaggi di tal fatta, che andavano in traccia della buona ventura con forze da non isprezzare. Nudriva Jacopo Piccinino speranza di far rivoltar Bologna [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 23, tom. 21 Rer. Ital.], città già signoreggiata da Niccolò suo padre. Ma, preveduti per tempo i di lui movimenti, il pontefice Niccolò, allora vivente, avea pregato Francesco Sforza duca di Milano che inviasse gente colà per isventare qualunque tentativo che potesse far [1241] questo venturiere. Vi spedì egli Corrado Fogliano suo fratello uterino, e Roberto da San Severino con un corpo di gente poco inferiore a quello del Piccinino: lo che fu cagione che questi non osasse di far novità, e che i Malatesti e Manfredi, i quali dianzi per paura erano in segreto accordo con lui, si ritirassero da ogni promessa a lui fatta. Perciò il Piccinino continuò il suo viaggio verso la Toscana, e andò a fermarsi su quello di Siena. Avea egli de' conti particolari co' Sanesi. Oltre a ciò, Porcello Napoletano avea intronata la testa del re Alfonso con tanti elogi della bravura e mirabil prudenza militare del Piccinino, che il re cominciò segretamente e poi pubblicamente a favorirlo, e a desiderare d'averlo a' suoi servigi. Era anche il re disgustato de' Sanesi, perchè nella guerra co' Fiorentini l'avevano beffato; e però non gli dispiaceva che il Piccinino facesse loro del male. Infatti egli mosse lor guerra, ed avendoli trovati sprovveduti [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 23.], s'impadronì di Cetona, di Sartiane e d'altri castelletti, con istendere dappertutto le scorrerie. Raccomandaronsi i Sanesi al papa, a Venezia, a Firenze, a Milano. Tutti mandarono gente in loro aiuto, e si venne poi ad un fatto d'armi, senzachè alcuna delle parti cantasse la vittoria. Tuttavia il Piccinino, siccome inferior di gente [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.], si ritirò a Castiglion della Pescaia, che era del re Alfonso, ed ebbe anche a tradimento Orbitello. In questa picciola guerra non men le sue milizie che quelle dei collegati rimasero disfatte, ed egli si ridusse avere non più che mille persone. Se non era il re Alfonso che gli mandasse vettovaglie per mare, questo sì manesco guerriero non poteva più sussistere. Sul principio di luglio [Cronica di Bologna, tom. eod.] Giovanni d'Angiò, duca di Calabria di solo nome, e figliuolo del re Renato, veggendo estinta ogni sua speranza di entrare nel regno di Napoli per cagion della pace [1242] fatta da' Fiorentini col re Alfonso, rinunziò al generalato di quella repubblica, e, splendidamente regalato da essi Fiorentini, se ne tornò in Francia, e passò per Bologna. Giberto da Correggio, che con cinquecento cavalli era ito al servigio de' Sanesi, e preso da loro per generale, scoperto che teneva segreta intelligenza col Piccinino, qual traditore fu in Siena ucciso. In quest'anno ancora il re Alfonso, per l'odio che portava a' Genovesi, fece loro gran guerra per mare [Giustiniani, Istoria di Genova, lib. 15. Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] con una grossa flotta spedita sotto il comando di Bernardo Villamarino, ed anche per terra co' fuorusciti Adorni e del Fiesco. Pietro da Campofregoso doge di quella repubblica contra di tutte queste forze si seppe così ben sostenere, che andarono in fumo tutti gli sforzi de' suoi nemici.


   
Anno di Cristo mcccclvi. Indiz. IV.
Callisto III papa 2.
Federigo III imperadore 5.

Fu questo finalmente anno di pace. Restava tuttavia lo Stato di Siena involto nella guerra per cagion di Jacopo Piccinino, che s'era afforzato ad Orbitello [Gobelin., Comment. Pii II Papae.]. Inviarono bensì i Sanesi le lor milizie colle poche de' collegati rimaste in aiuto loro all'assedio di quella terra; ma apparenza non v'era di poterlo cacciare di là. Pertanto i Sanesi inviarono Enea Silvio celebre lor vescovo a Roma a pregare il papa che interponesse gli uffizii suoi paterni presso il re Alfonso, acciocchè si mettesse fine a questa briga, che troppo li smugneva e pesava lor sulle spalle. Accompagnato dunque dai ministri pontificii passò Enea a Napoli, e con tale eloquenza e destrezza si maneggiò, che il re si accordò e comandò al Piccinino di lasciare in pace i Sanesi [Ammirati, Ist. di Firenze, lib. 23.]. Venti mila fiorini pagati ad esso Piccinino servirono a fare ch'egli restituisse ai Sanesi [1243] le lor terre; dopo di che se ne andò egli in regno di Napoli a' servigi del re Alfonso nel dì 8 di ottobre, da cui fu posto a quartiere in Cività di Chieti in Abbruzzo colla paga di mille e ducento cavalli e secento fanti. Attesta inoltre Neri Capponi [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.] aver avuto esso Piccinino certa provvisione dal papa e dai Sanesi: tanto vi voleva per quetar questo masnadiere. Maggiormente poi si strinse nell'anno presente l'amicizia ed unione del suddetto re Alfonso con Francesco Sforza duca di Milano [Giornal. Napoletani, tom. 21 Rer. Ital.], stante l'avere il duca promessa Ippolita Maria sua figliuola in moglie ad Alfonso primogenito di Ferdinando duca di Calabria, e nipote dello stesso re. Similmente si conchiusero gli sponsali d'Isabella (ossia, come vuole il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 10, tom. 21 Rer. Ital.] col Corio [Corio, Istoria di Milano.], Leonora) d'Aragona, figliuola d'esso duca di Calabria, con Sforza Maria terzogenito del duca Francesco. Imperciocchè Galeazzo Maria suo primogenito avea già contratti altri sponsali con Susanna, da altri appellata Dorotea, figliuola di Lodovico marchese di Mantova, e al secondogenito, cioè a Filippo Maria, era stata obbligata in moglie Maria figliuola di Lodovico duca di Savoia. Così Francesco Sforza pensava a moltiplicare ed assodar la sua stirpe con tanti maritaggi.

Armò in quest'anno il pontefice Callisto III alquante galee per la sospirata spedizione contra de' Turchi [Raynaldus, Annal. Eccles.]; ma a lui vennero a poco a poco mancando gli aiuti degli altri principi cristiani. Il re di Francia neppur volle che si predicasse la crociata nel suo regno. I Veneziani, essendo in pace col Turco, si scusarono. Avrebbono i Genovesi vigorosamente accudito a questa impresa, se il re Alfonso non avesse proseguita contra di loro la guerra. Avea sulle prime esso re fatto credere di voler egli in persona andar [1244] contro ai Turchi, ed essere ammiraglio delle forze cristiane. Si ridusse infine tutta questa sparata a rivolgere contra de' Genovesi la flotta da lui preparata in Catalogna e Valenza, con protestare di voler prima domar l'alterigia de' Genovesi; il che fatto, volterebbe le prore verso la Turchia. E per quanto s'adoperasse papa Callisto, non potè rimuoverlo da questo proponimento. Diedero poi le sue navi il guasto alla riviera di Genova, senza nondimeno far paura per questo alla città. Provvide Iddio in altra maniera al bisogno della cristianità, perchè, trovandosi l'Ungheria in evidente pericolo d'essere ingoiata da' Turchi, in quest'anno gli Ungheri riportarono una insigne e miracolosa vittoria contra dell'immenso loro esercito verso Belgrado. Spedito anche Lodovico Scarampo cardinale di San Lorenzo in Damasco colle galee pontificie nell'Arcipelago, ricuperò tre isole dalle mani de' Turchi, e recò loro altri danni. Nel febbraio di quest'anno papa Callisto promosse alla sacra porpora Rodrigo Borgia suo nipote, che poi fu Alessandro VI papa. E nel dicembre fece un'altra promozione di cardinali, fra i quali si distinse Enea Silvio de' Piccolomini Sanese, vescovo della sua patria, uno de' più felici ingegni che si avesse allora l'Italia. Dall'Infessura [Infessura, Diar., P. II, tom. 3 Rer. Ital. Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] è riferita tal promozione all'anno seguente. Parve che Iddio mostrasse il suo sdegno in quest'anno contra del re Alfonso, seppure è lecito a noi di facilmente interpretare così i giudizii divini, allorchè non sopra i delinquenti re, ma sopra gl'innocenti popoli si scarica il flagello, delle calamità [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Æneas Sylvius, in Epist. 207. S. Antonin., et alii.]. Nel dì 5 di dicembre e in altri susseguenti giorni un sì terribil tremuoto scosse la terra nel regno di Napoli, che fu creduto non essersi da più secoli indietro provato un somigliante eccidio in quelle contrade. Caddero in Napoli [1245] molte chiese, torri e case colla morte di molte persone. Benevento, Sant'Agata, Brindisi, Ariano, Ascoli, Campobasso, Avellino, Cuma ed altre terre rimasero affatto diroccate e distrutte. Ad Aversa cadde il castello e la chiesa di San Paolo, il campanile e varie case, e le torri del Passo. Nocera di Puglia, Gaeta e Canosa per la metà furono rovesciate [Platina, in Vita Callisti III.]. Tralascio i danni di tante altre terre e luoghi. Le persone morte sotto le rovine chi le fece ascendere sino a cento mila, con esserne perite nella sola città di Napoli, per attestato d'alcuni, venti o trenta mila. Probabilmente non vi perì tanta gente; contuttociò fu questa una delle maggiori calamità che mai toccassero a quel regno. Nè si dee tacere che nei precedenti mesi di giugno e di luglio [Annales Placent., tom. 20 Rer. Ital.] si era veduta in Italia una gran cometa, che fu creduta dalla buona gente foriera della suddetta spaventosa disgrazia. Anche in Toscana tra Firenze e Siena, nel dì 22 d'agosto [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 23.], un terribile sconcerto nell'aria avvenne. Nuvoli neri, dieci sole braccia alti da terra, si raunarono, e poscia, scoppiando in baleni e fulmini, mossero vento sì impetuoso, che portò via i tetti delle case e chiese; molte ancora ne abbattè, sbarbicò dalle radici gran copia d'alberi, uccise animali, e trasportò uomini e carra colle bestie ben lontano da un luogo all'altro per aria: lagrimevole spettacolo, inferiore nulladimeno allo spaventoso che a' giorni nostri accadde nella stessa guisa, ma colla giunta del fuoco, al territorio di Trecenta sul Ferrarese, e a' luoghi circonvicini.


   
Anno di Cristo mcccclvii. Indiz. V.
Callisto III papa 3.
Federigo III imperadore 6.

Non lasciò il re Alfonso passare questo anno senza tenere in esercizio l'armi sue. Accanito contra Pietro da [1246] Campofregoso doge di Genova, a tutte le maniere il volea atterrare, e rimettere in Genova gli Adorni, co' quali probabilmente era in concerto di divenir poi egli padrone di quella sì importante città. Seguitò dunque a danneggiare i Genovesi; e questi, senza perdere il coraggio, armarono anch'essi molti legni per ripulsare la forza. Nè, per quanto dicesse o facesse il papa, volle Alfonso desistere, allegando sempre che n'erano in colpa i Genovesi medesimi. Ma in questi tempi la storia di Genova è mancante di scrittori: laonde poco si sa di quegli avvenimenti. Nè questo gli bastò. Era egli in collera anche contra di Sigismondo Malatesta signore di Rimini e Fano [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], perchè questi, siccome già accennai, preso al suo soldo nella guerra co' Fiorentini, lo avea burlato con passare al servigio degli stessi Fiorentini, e truffargli trenta ossieno quaranta mila fiorini d'oro. Ordinò dunque Alfonso a Federigo duca di Urbino, soldato suo, che attaccasse lite con esso Sigismondo. Fu ubbidito. Il re poi gli mandò in aiuto Jacopo Piccinino colla sua brigata di cavalleria e fanteria. Cominciarono essi le offese nel mese di novembre, tolsero al Malatesta alcune castella, e gli recarono molti altri danni. Non poca apprensione agli altri principi d'Italia diedero questi movimenti d'Alfonso, temendo ch'egli avesse delle mire più vaste. Francesco Foscari doge di Venezia era già pervenuto all'età decrepita [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Prima ancora di questi tempi avea dovuto inghiottire varie amare pillole di disgusti a lui dati dalla nobiltà sua compagna nel governo, a cagione di Jacopo suo figliuolo, cervello torbido, e che si metteva sotto i piedi le leggi della patria. Più d'una volta per questo egli avea chiesta licenza di rinunziare la sua dignità, ma senza essere esaudito, in considerazione de' molti meriti suoi colla repubblica. Tempo arrivò ch'egli, lontano dall'abbandonar il trono, fu forzato ad [1247] abbandonarlo. Sotto pretesto ch'egli a cagion della sua età non fosse più atto al governo, gl'intimarono di rinunziare. Ricusò ben egli di farlo; ma, ciò non ostante, il consiglio procedette innanzi, e, dichiaratolo deposto, nel dì 23 d'ottobre il rimandarono per forza alla sua casa, non senza grave mormorio del popolo, con assegno fattogli di due mila ducati d'oro l'anno finchè vivesse [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]. Visse nondimeno pochissimo, perchè, all'udire il lieto suono delle campane per la creazion del nuovo doge, tale affanno di cuore il prese, che gli crepò una vena nel petto, oppure per altro malore terminò i suoi giorni. Fu dunque in sua vece eletto doge Pasquale Malipiero, procuratore di San Marco, che colla gravità e bella presenza, e coll'amore della giustizia accoppiava non poca carnalità e lascivia. Per la di lui creazione di grandi feste furono fatte in Venezia.

Le maggiori applicazioni del vecchio papa Callisto III erano in questi tempi per commovere i principi cristiani ed anche i Persiani contro del Turco, che sempre più andava stendendo le ali [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Il cardinale Lodovico suo legato colla sua picciola flotta diede in quest'anno delle busse sotto Metelino a que' Barbari; picciolo rimedio a male sì grande. Ma poco o nulla si sbracciavano i re e principi della cristianità per secondare le idee e preghiere del papa; ed essendo morto Ladislao re d'Ungheria e di Boemia, que' popoli e l'imperador Federigo, in vece di accudire alla guerra contra il comune nemico, la cominciarono fra loro. Intanto andava ogni dì più crescendo la discordia fra papa Callisto e il re Alfonso. Si credeva il re di poter fare il padrone addosso a questo pontefice, perchè nato suo suddito, e sparlava anche di lui. Callisto, all'incontro, non voleva essere signoreggiato, nè potea sofferire che Alfonso, dopo il preso impegno [1248] della crociata contro de' Turchi, si burlasse di lui, con avere piuttosto rivolte le sue armi contra de' Genovesi e de' Malatesti. Però gli negò l'investitura del regno di Napoli per don Ferdinando duca di Calabria suo figliuolo bastardo, benchè legittimato da' papi precedenti: il che irritò forte Alfonso. I tremuoti dell'anno antecedente ed altri provati in Calabria anche nel presente, e il turbine già accennato della Toscana, e la peste che tuttavia andava girando per l'Italia e mietendo le vite degli uomini, dovettero essere i motivi, per li quali un frate Gian Batista dell'ordine de' Predicatori, che portava una barba lunghissima, e camminava a piè nudi, pubblicamente predicò in Piacenza nel dì 6 di luglio [Annales Placentini, tom. 20 Rer. Ital.], che s'avvicinava la venuta dell'Anticristo e il fine del mondo, allegando una simil predizione fatta da san Vicenzo Ferrerio. Alla più lunga si dovea verificar questa predizione nell'anno 1460. Se si sia verificata, ognuno può renderne buona testimonianza.


   
Anno di Cristo mcccclviii. Indiz. VI.
Pio II papa 1.
Federigo III imperadore 7.

Talmente avea il re Alfonso angustiata la città di Genova, pretendendo sempre che Pietro da Campofregoso doge dimettesse il governo, e che a' fuorusciti Adorni fosse restituita ogni loro libertà e diritto [Giustiniani, Istoria di Genova, lib. 5. Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.]; che esso doge, non trovando chi tra' principi volesse alzare un dito in sua difesa, nel febbraio di quest'anno per disperazione si appigliò alla risoluzion di dare piuttosto ad altri, che al re Alfonso suo nimico, la città di Genova. Trattò dunque per qualche tempo con Carlo VII re di Francia, e finalmente conchiuse, col consenso de' principali cittadini, di dar essa città a quel re con varii patti e privilegii del popolo genovese. Pertanto dopo [1249] aver eglino spediti ambasciatori al re Carlo, arrivò a Genova Giovanni d'Angiò figliuolo del re Renato, quello stesso che poco fa abbiam veduto in Italia generale de' Fiorentini. A lui fu consegnata Genova insieme col castelletto e colle altre fortezze di Genova e del Genovesato, nel dì 11 di maggio. Con questo contratto s'era immaginato quel popolo d'aver comperata la quiete, giacchè non si sapea persuadere che il re Alfonso volesse da lì innanzi cozzare con un re sì possente, qual era il re di Francia loro signore. Tutto il contrario avvenne. Alfonso maggiormente irritato, perchè s'avvide essersi quel popolo privato della libertà, per non cedere punto ai di lui voleri, e per fargli dispetto, più che mai s'accese di voglia di soggiogar quella città: al che continuamente ancora l'incitavano i fuorusciti Adorni, Fieschi e Spinoli. Avendo perciò inviate venti navi cariche di soldatesche e d'ogni sorta di munizione, ed inoltre dieci galee ben armate, al suo ammiraglio, cioè a Bernardo Villamarino, che con altre venti galee era svernato a Porto Delfino, ordinò di procedere contro la città di Genova. Nello stesso tempo, unite altre sue milizie a quelle che poterono mettere insieme gli Adorni e gli altri fuorusciti, volle che anche per terra se ne formasse l'assedio. Per la lunga passata guerra si trovavano allora non poco infievoliti i Genovesi: tuttavia animati dalla natia loro bravura, e dall'antico odio contra de' Catalani, si accinsero validamente alla difesa. Nè il duca Giovanni regio lor governatore, nè Pietro Fregoso ommisero diligenza e riparo alcuno per resistere a tanta tempesta. Dio sa nondimeno come sarebbe terminata quella tempesta. Onde meno se l'aspettavano venne loro il soccorso; e questo fu la morte dello stesso re Alfonso. Appena ne fu giunto l'avviso, che la nemica flotta si sciolse, chi come fuggendo a Napoli, e chi tornando a Barcellona. Nè fu men presto a ritirarsi l'esercito di terra; ed essendo da lì a qualche tempo mancati [1250] Barnaba e Rafaello Adorni, fu creduto che l'eccessiva doglia di aver perduto nell'amico re un gran protettore, ed insieme il vedere andata in fumo la speranza di conseguir una vittoria ch'essi si tenevano in pugno, servisse ad abbreviare i lor giorni. Tuttavia la città di Genova, ancorchè liberata dall'assedio, rimase in cattivissimo stato, perchè le fatiche sofferte e la carestia patita dal popolo in quell'assedio, furono seguitate da una grave epidemia, ossia peste, che fece strage di assaissime persone.

Giunse dunque al fine di sua vita Alfonso re d'Aragona, Valenza, Sicilia e Napoli, nel dì 27 di giugno dell'anno presente [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Blondus, Surita, Fazellus, et alii.], principe di gran fama ai suoi tempi non meno per la felicità della sua mente e della sua rara prudenza, che pel valore, per la liberalità e per l'amore delle lettere e de' letterati, che non mancarono di esaltar le sue lodi, e fra gli altri Enea Silvio, Antonio Palermitano suo segretario, Bartolomeo Fazio, che scrisse la sua Vita, Giorgio da Trabisonda e Lorenzo Valla. Ma cotante sue belle doti non andarono disgiunte da una sfrenata ambizione, da una scandalosa lascivia, e da una smoderata indiscretezza in aggravar di taglie, e gabelle i suoi popoli, oltre al voler fare da papa ne' suoi regni, con vender anche i benefizii ecclesiastici, se pure è vero ciò che narrano alcuni. Racconta il vivente allora santo Antonino [S. Antoninus, P. III, tit. 22.], ch'egli prima di morire consigliasse Ferdinando suo figliuolo a tenere un governo opposto al suo, cioè a levar tutti i dazii ed aggravii da lui aggiunti agli antichi, e che onorasse più i regnicoli e gl'Italiani, che gli Aragonesi e Catalani; e che in fine mantenesse la pace da lui fatta col papa e colle altre potenze. Perchè era privo di figliuoli legittimi, lasciò il regno di Napoli, come sua conquista, a don Ferdinando ossia Ferrante suo figliuolo spurio, ma legittimato [1251] dai papi; gli altri suoi regni di Sicilia, Aragona e Valenza, secondo la disposizion di Ferdinando suo padre, a Giovanni re di Navarra, suo fratello. Per la morte di lui, e per la successione del re Ferdinando, niun movimento, niuna novità seguì nel regno di Napoli. Ne avvenne bensì in Roma. Papa Callisto III, nel cui animo si crede che allignasse un vecchio odio contra d'Alfonso, benchè nato egli fosse in Valenza, città d'esso re, ma che in vita di lui non osò di prorompere in forma pubblica, si dichiarò tosto contrario a Ferdinando, con pretendere devoluto quel regno alla santa Sede, e con vietare a Ferdinando il prendere titolo di re. Cominciò inoltre a muovere cielo e terra, e a tener pratiche nel regno e co' principi d'Italia per fargli guerra. Spezialmente di larghe offerte inviò a Francesco Sforza duca di Milano per averlo dalla sua, ma ritrovollo tutto favorevole a Ferdinando. E qui combattono gli scrittori secondo le loro parzialità, cercando alcuni di giustificare e far comparire buono zelo la risoluzion di Callisto in voler suscitare nuove guerre in Italia, ed altri aggravando forte la memoria di lui pel preparamento di questa guerra. Quando fosse vero che Callisto ad altro non pensasse che all'ingrandimento de' suoi nipoti, nell'amor de' quali, dicono ch'egli era perduto [Raynald., Annal. Eccles. Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Italic. Surita, Pontanus, et alii.], avendo anche promosso alla sacra porpora due d'essi non degni di sì riguardevole dignità, e creato Pietro, altro suo nipote, duca di Spoleti, generale delle armi pontifizie, prefetto di Roma e castellano di Sant'Angelo, uomo anch'esso pieno di vizii, come anche furono altri suoi nipoti, per attestato d'Enea Silvio [Æneas Sylvius, Epist. 269.]: quando, dico io, fosse ciò vero, e le mire sue andassero a far passare la corona di Napoli in esso Pietro suo nipote, come scrisse il Simonetta; lodi chi [1252] può un sì fatto pontefice. E il dire che egli potè pensare a sostener le ragioni del re Giovanni, fratello del defunto Alfonso, oppur quelle di Renato d'Angiò, è un dir nulla, perchè Callisto nulla mai parlò di loro; nè il re Giovanni si prese cura alcuna di Napoli, e neppur vi potea pretendere; e l'avere il papa esibita al duca di Milano una parte di quel regno, toglie il luogo di credere ch'egli pensasse all'esaltazione degli Angioini.

Irritato Ferdinando da quanto pubblicamente e segretamente operava Callisto contro di lui, fu vicino a dar di piglio alle armi. Tuttavia si ritenne, e cercò solamente di placare il papa con ambascierie e lettere, che tuttavia niun buon effetto produssero in un pontefice, benchè vecchio, pieno di fuoco, il quale solea dire [Gobellin., Comment., lib. I. S. Antonin., Par. III, lib. 22, cap. 16.]: Essere proprio solamente degli uomini dappoco l'aver paura de' pericoli; e che i pericoli sono il campo onde si raccoglie la gloria. Ma venne la morte a dissipar tutti questi nuvoli. Cioè nel dì 8 di agosto (l'Infessura [Infessur., Diar. P. XI, tom. 2 Rer. Ital.] dice nel dì 6) mancò di vita papa Callisto III, lodato dal Poggio, dal Platina e da altri, massimamente per la sua gran liberalità verso de' poveri: con che Ferdinando restò libero dal pericolo di una grave tempesta. Dai cardinali entrati in conclave restò poscia eletto papa il cardinale Enea Silvio, nato in Corsignano, distretto di Siena, alla qual terra diede, col tempo il titolo di città e il nome di Pienza. Era egli vescovo della città suddetta sanese, e prese il nome di Pio II, personaggio d'eminente letteratura, e già celebre, non solamente per li suoi scritti, per la sua eloquenza, erudizione e vivacità d'ingegno, ma anche per la sua abilità negli affari del mondo, ne' quali da gran tempo fu impiegato: intorno a che si può vedere Giovanni Gobellino ne' Commentarii di Pio II (seppur d'essi non fu autore lo stesso Pio II), il Platina e [1253] Gian Antonio Campano nella di lui Vita. Sommamente applaudita fu l'elezione di quest'insigne uomo, succeduta, secondo il Platina [Platina, Vita Pii II.], nel dì 20 d'agosto, ovvero, come ha la storia di Siena [Thomas, Histor. Senen., tom. 20 Rer. Ital.], nel dì 21; oppure come scrivono l'Infessura e l'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], nel dì 19 d'agosto, e non già nel dì 3 di settembre, come pare che voglia il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.], nel qual giorno bensì fu egli coronato nella basilica lateranense. Altri hanno scritto [Ammirati, Istor. Fiorent.] nel dì 23 ovvero 27 d'agosto; intorno a che io lascerò disputar ad altri, essendo non di meno mirabile questa discordia in un fatto sì cospicuo degli ultimi secoli. Le prime e maggiori applicazioni di questo pontefice furono la guerra contro al tiranno di Oriente: al qual fine intimò tosto una dieta, da tenersi in Mantova nell'anno prossimo dagli ambasciatori di tutta la repubblica cristiana [Raynaldus, Annal. Ecclesiast. Gobellinus, Comment. Platina, Vita Pii II.]. Per disporre a ciò anche Ferdinando re di Napoli, condiscese nel mese di ottobre ad annullar tutti gli atti fatti dal suo predecessore contra di lui, e formare con esso re una capitolazione ad esso lui vantaggiosa. Avea Jacopo Piccinino capitano di Ferdinando occupate, dopo la morte di papa Callisto, le città di Assisi e Nocera, Gualdo ed altre terre. In vigore di esso accordo furono queste dipoi restituite alla Chiesa romana, siccome ancora la città di Benevento, già occupata dal re Alfonso.


   
Anno di Cristo mcccclix. Indiz. VII.
Pio II papa 2.
Federigo III imperadore 8.

Tale era l'ardore del pontefice Pio II per promuovere l'unione de' principi cristiani contro il nemico comune, che il rigore del verno nol potè impedire dal [1254] mettersi in viaggio nel dì 22 di gennaio [Gobellin., Platina, et Raynaldus, Annal. Eccles.] alla volta di Mantova, scelta per luogo del congresso, a cui erano stati preventivamente invitati. Vedesi descritto il suo viaggio dal Gobellino e dall'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Fermossi a Perugia tre settimane, avendo quivi ricevuto onori immensi. Passò a Siena nel dì 24 di febbraio, accolto ivi ancora con somma magnificenza da' suoi concittadini, verso i quali volendo esercitare la sua gratitudine, eresse in arcivescovato la chiesa di Siena. Arrivò a Firenze nel dì 25 d'aprile con gran festa di quel popolo; nel qual tempo passò a miglior vita Antonino arcivescovo di quella città, riguardevole letterato del presente secolo, che per la santità de' suoi costumi e delle singolari sue virtù meritò di essere registrato nel ruolo de' santi [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 23.]. Prima ancora del papa era giunto a Firenze Galeazzo Maria Sforza, primogenito di Francesco duca di Milano, spedito con pomposo accompagnamento di nobiltà, guardie e famiglia, affin di baciare, a nome del padre, i piedi a sua Santità. Per onorar questo giovinetto principe non lasciarono indietro i Fiorentini alcun solazzo e spettacolo, anche di grande spesa: tanta era l'amicizia ed attaccamento che essi professavano al duca. Pervenne Pio II da Firenze a Bologna nel dì 9 di maggio, prevenuto colà dallo stesso giovane Sforza nel dì 6 d'esso mese. Fu ricevuto il papa con singolar pompa da quel popolo, e, presentategli le chiavi della città, le restituì agli anziani. Poscia nel dì 16 del mese suddetto, partito di là in barca, arrivò fuori di Ferrara al monistero di Sant'Antonio, dove prese riposo sino al dì 18, in cui fece la solenne sua entrata [Gobellinus, Comment., lib. 2. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.] nella città, servito da innumerabil nobiltà, e massimamente dal signore, cioè da Borso d'Este duca, [1255] il quale procurò, colla varietà e magnificenza delle feste e degli apparati, di superar ogni altra città per dove era passato il pontefice; giacchè dal lato di sua madre si gloriava d'essere suo parente. Colà pervenne ancora il prelodato principe Galeazzo Maria. Fu nel dì 24 di maggio la festa del Corpo del Signore, e volle lo stesso pontefice far la funzione della sacra processione. Forse non s'era mai veduta Ferrara sì luminosa per l'immensa quantità di nobili e di popoli accorsi per vedere o per onorare il vicario di Cristo. Partitosi poi nel dì seguente il papa, fu accompagnato con vaghi bucentori sino ai confini del Mantovano, daddove passò a Mantova. In quella dieta cominciò a far uso della sua eloquenza per muovere l'assemblea ad una poderosissima spedizione contra dei Turchi, sollecitando intanto i re e principi ad inviare colà i loro ambasciatori, che tardavano molto a venire.

Non lieve remora a cotale impresa cominciò a provarsi per la guerra insorta fra il re Ferdinando e molti baroni del regno, i quali, quantunque, per ordine di papa Pio, Ferdinando fosse stato coronato re di Napoli dal cardinale Latino Orsino nel dì 11 di febbraio in Barletta [Istor. Napolet., tom 23 Rer. Ital.], pure avrebbono più volentieri veduto su quel trono Giovanni duca di Angiò, governatore allora di Genova a nome di Carlo VII re di Francia [Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.]. Il primo a sfoderar la spada fu Gian-Antonio Orsino, principe di Taranto, il più potente e ricco principe allora del regno, a cagion di tante terre ch'egli possedeva, e di cento mila ducati d'oro che soleva pagargli la camera regia pel mantenimento delle sue truppe. Ossia che il re Ferdinando fosse il primo a lasciar trasparire un mal animo verso la di lui grandezza, ed occupasse alcune castella di lui; che il poco fa mentovato Giovanni duca d'Angiò figliuolo del re Renato movesse l'Orsino a ribellione; [1256] oppure che esso Gian-Antonio ed altri baroni regnicoli mirassero di mal occhio Ferdinando, principe di mente e d'animo, e più di nascita, dissomigliante dal re Alfonso suo padre: certo è che fra esso principe di Taranto e il re Ferdinando in quest'anno si diede qualche principio alla guerra distesamente narrata da Gioviano Pontano, celebre letterato napoletano di questi tempi, ma che da me vien sol toccata di passaggio. Cessò questa fra poco mercè di una convenzione, ma non cessò l'odio conceputo da Gian-Antonio contra del re. Era, siccome dissi, governatore di Genova pel re di Francia il suddetto Giovanni duca d'Angiò, e credendo egli venuto il tempo di tentare l'impresa di Napoli prima che Ferdinando si assodasse sul trono, e tanto più perchè teneva buona intelligenza con alcuni baroni del regno; cominciò a preparar gente e danaro [Giustiniani, Istor. di Genova, lib. 5. Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 26, tom. 21 Rer. Ital.]. Avvertitone Ferdinando da Francesco duca di Milano, contra d'esso Giovanni suscitò Pietro da Campofregoso, già doge di Genova, che si trovava mal corrisposto, e perciò malcontento de' Franzesi, ai quali avea ceduta Genova. Questi per terra andò all'assedio di Genova accompagnato da quelle forze che potè raunar co' fuorusciti nel mese di febbraio. Ma dacchè si avvide andar ben d'accordo i cittadini coi Franzesi, si ritirò a Chiavari per aspettar tempo più propizio. E il Villamarino inviato nel mare dal re Ferdinando, accortosi anch'egli d'essersi armate dai Genovesi dieci galee per dargli addosso, se ne ritornò indietro. Verso il fine di agosto arrivarono a Genova dodici galee, mandate dal re Renato signor di Provenza al duca Giovanni suo figliuolo, colle quali unitesi le dieci de' Genovesi e tre loro vascelli, fecero vela, e andarono a Porto Pisano. Allora fu che a Pietro da Campofregoso parve più propria la occasione di assaltar Genova, rimasta [1257] alquanto sfornita di gente [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]; e però nel dì 13 di settembre improvvisamente di notte s'accostò alla città, e, data la scalata alle mura, vi s'introdusse con alcune schiere de' suoi. Venuto il giorno, ancorchè si trovasse deluso dalla conceputa speranza che quei della sua fazione si sollevassero in aiuto suo, pur venne coraggiosamente alle mani co' Franzesi; ma vi lasciò la vita, e quei che erano entrati, furono o morti o presi; e al resto di sua gente, inseguita dai vincitori, toccò la stessa disavventura. Scrive Cristoforo da Soldo [Cristoforo da Soldo, Ist. Brescian., tom. 21 Rer. Italic.] che il duca di Milano avea mandato in aiuto del Fregoso settecento cavalli sotto il comando di Tiberto Brandolino, e che anch'essi andarono via sconfitti. Il Simonetta seppe ben dissimular questo fatto. Sbrigato da questo nemico il duca Giovanni, volò a raggiugnere la sua flotta, con animo di trasferirsi in Calabria, dove tenea corrispondenza con Antonio Santiglia marchese di Cotrone, il quale gli avea fatto sperare lo acquisto di tutta la Calabria. Ma Ferdinando, scoperto l'affare, prevenne il colpo, con far prigione lo stesso marchese, ed essendo poi passato in Calabria a metter l'assedio a Catanzaro, ivi lasciò morti molti de' suoi senza potersene impadronire. Nel dì 5 d'ottobre arrivò colla sua armata navale il duca Giovanni a Napoli. La regina Isabella, donna prudente, essendo il re in Calabria, mosse il popolo alla difesa, di maniera che Giovanni, non vedendo movimento alcuno, se non nemico, nella città, se ne andò a Castello-a-mare del Volturno, dove fu ben ricevuto da Marino Marzano, principe di Rossano e duca di Sessa, che alzò le bandiere d'Angiò. De' suoi fatti meglio parleremo all'anno seguente.

Mentre questa briga era nel regno di Napoli, stando il pontefice Pio II in Mantova, arrivarono colà gli ambasciatori di varii principi e di molte teste coronate; [1258] e in persona vi comparve Francesco Sforza duca di Milano, menando seco un grandioso accompagnamento, e fu accolto con distinto amore ed onore dal pontefice e da Lodovico marchese di Mantova. Per lui recitò in quella pubblica assemblea un'orazione Francesco Filelfo, uno allora dei primi letterati d'Italia, che riscosse l'ammirazione d'ognuno, e fin dallo stesso papa, il quale nell'eloquenza latina non cedeva ad alcuno. In questi tempi tuttavia Federigo conte d'Urbino e Jacopo Piccinino erano addosso a Sigismondo Malatesta signore di Rimini colle male parole [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Cinquantasette castella gli aveano tolto, delle quali ne misero a saccomano ed abbruciarono trentasette. Lo avrebbono fors'anche ridotto agli ultimi sospiri; ma fu creduto che il Piccinino, guadagnato sottomano con regali, non gli volesse far quel male che potea. Sigismondo, trovandosi a mal partito, altro rifugio non ebbe che di ricorrere a Mantova per pregare il papa d'interporsi affine di ottenergli pace. Ossia che Pio, come vuole il Gobellino [Gobel., Comment., lib. 3.], arbitrasse egli; oppure, come ha la Cronica di Bologna, che fosse rimesso l'affare per ordine del pontefice al duca di Milano, suocero bensì di esso Malatesta, ma con ragione disgustato di lui: certo è che fu pronunciato il laudo, per cui restò obbligato Sigismondo a restituire al conte d'Urbino la Pergola ed altre terre a lui tolte, e a pagare in varie rate al re di Napoli quaranta mila ducati d'oro ch'egli avea truffato al re Alfonso, e di dare, per sicurezza di tal pace, al papa in deposito la città di Sinigaglia e il vicariato di Mondavio. Dura fu la legge, ma la necessità l'obbligò ad accomodarvisi. Così, ricuperate le sue castella, ebbe pace, ma pace comperata ben cara. Merita Poggio dei Bracciolini Fiorentino, segretario di quella repubblica, e letterato insigne di questi tempi, che si faccia menzione della sua morte, accaduta nell'anno presente a dì [1259] 30 di ottobre [Vita Poggii, tom. 20 Rer. Ital.], con lasciar dopo di sè molte opere e gran nome. Mancò pure di vita in Napoli Gianozzo Manetti, parimente Fiorentino, letterato non inferiore all'altro per la sua molta dottrina e cognizione delle lingue ebraica, greca e latina.


   
Anno di Cristo mcccclx. Indiz. VIII.
Pio II papa 3.
Federigo III imperadore 9.

Continuando il buon papa Pio II il suo soggiorno in Mantova, impiegò tutto il suo zelo per l'esecuzione del suo disegno intorno all'unione dei principi cristiani, gli ambasciatori de' quali erano concorsi a quella dieta [Gobell., Comment., lib. 3. Raynaldus, Annal. Eccles.]. Quei di Firenze, Siena, Genova e Bologna promisero soccorsi. Borso duca di Modena e signor di Ferrara chiaramente esibì trecento mila ducati d'oro. I Veneziani anche essi si mostrarono pronti a far guerra, ma voleano il comando dell'armata e delle genti degli altri principi. Più larghe erano le offerte del re Ferdinando, sennonchè egli si trovava involto in una pericolosa guerra col duca d'Angiò e coi suoi baroni. Nulla si potè ottener dalla Francia. Poco ancora potea sperarsi dalla Germania, perchè, per la morte di Ladislao re d'Ungheria e di Boemia, l'imperador Federigo, pretendendo a quei regni, pensava più a sè stesso che ai Turchi. Cosa promettesse Francesco duca di Milano non apparisce. I fatti fecero vedere che i suoi molti colloquii col papa furono di aiutare il re Ferdinando, e non già di guerreggiare in Levante. Furono nondimeno nella dieta di Mantova stabiliti varii punti intorno al formare una possente flotta per mare e un poderoso esercito per terra da inviare contro ai Turchi: tutte belle disposizioni, le quali dove andassero a terminare, non tarderemo a vederlo. Ciò fatto, senza badare al rigore [1260] del verno, mosse da Mantova il pontefice Pio nella metà di gennaio, ed arrivò a Ferrara nel giorno 17 [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], servito sempre nel viaggio per Po dal duca Borso con apparato di festa anche maggiore del precedente. Nel dì 22 arrivò a Bologna, e di là poi passò a Siena, dove si fermò sino al dì 1 di settembre: nel qual tempo andò ai bagni di Macerata e di Petriolo. Egli era maltrattato dalla gotta, e si facea portar dagli uomini in lettiga. Perchè vedea Sigismondo Malatesta, uomo torbido e malcontento della pace fatta, prese al suo soldo Lodovico Malvezzo [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], condottiere di ottocento cavalli e ducento fanti. E non il prese indarno, perchè Sigismondo nel novembre ruppe la guerra alla Chiesa, e andò all'assedio di Castello Moro; ma ne fu cacciato con suo disonore da esso Malvezzo.

Cresceva intanto l'incendio della guerra nel regno di Napoli. Già Marino Marzano principe di Rossano e duca di Sessa vedemmo che s'era congiunto con Giovanni duca d'Angiò, ossia di Lorena [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 26, tom. 21 Rer. Ital. Jovianus Pontanus. Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital. Gobellinus, et alii.]. Altrettanto fecero Antonio Caldora e gli altri Caldoreschi molto potenti nello Abbruzzo, e Pier Giovanni Cantelmo duca di Sora, e Niccola conte di Campobasso. Penetrato poi il duca Giovanni in Abbruzzo, trovò ubbidiente a' suoi cenni la città dell'Aquila. Intanto dal servigio di Ferdinando si levò ancora Ercole Estense, fratello del duca Borso, e colla sua brigata si gettò nel partito dell'Angioino, aprendogli le porte la città di Nocera dei Pagani. Ma quello che maggiormente rinforzò l'esercito del duca Giovanni fu la venuta al suo soldo di Jacopo Piccinino, già staccato dal servigio degli Aragonesi, sì perchè egli era gran capitano d'armi, e sì ancora perchè seco trasse un buon corpo di soldatesche [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Italic.]. Partitosi egli da Cesena sul fine di marzo, per la marca [1261] d'Ancona andò in Abbruzzo, accrescendo con ciò l'animo agli Angioini, in poter dei quali vennero dipoi Foggia, San Severo, Manfredonia e molte altre terre. Allora fu che Gian-Antonio Orsino principe di Taranto, levandosi la maschera, si dichiarò del partito angioino, ed unì col duca le sue forze, che erano ben molte. Con tale prosperità camminavano gli affari del duca; e già pareva ch'egli fosse per far balzare dal trono il re Ferdinando. Ricorse il re ai Veneziani e Fiorentini, ma niun di essi volle prendere impegno alcuno in favore di lui. Il solo papa e Francesco duca di Milano furono in suo aiuto. La maggior apprensione che si avesse lo Sforza dopo l'acquisto dello Stato di Milano, fu sempre quella dei Franzesi, per le pretensioni del duca d'Orleans al ducato di Milano, a cagione di Valentina Visconte. Mal volentieri si vedeva egli vicino esso duca di Orleans, padrone della città d'Asti. Gli stava anche sul cuore il dominio di Genova dato al re di Francia. Se fosse riuscito in oltre a Giovanni duca d'Angiò di conquistare il regno di Napoli, tanta potenza dei Franzesi in Italia potea far tremare un duca di Milano [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 27, tom. 21 Rer. Ital.]. Perciò Francesco Sforza diede circa due mila cavalli a Buoso Sforza suo fratello nel marzo di quest'anno, con ordine di andare ad unirsi con Alessandro Sforza signore di Pesaro suo fratello, e col conte Federigo d'Urbino, per impedire il passaggio del Piccinino alla volta del regno di Napoli. O non vollero, o non poterono essi tagliargli la strada; e però gli tennero dietro per la Marca, e, giunti anche essi in Abruzzo cominciarono a far guerra alle terre di Giosia Acquaviva. Non meno del duca di Milano avea i suoi motivi Pio II pontefice d'assistere al re Ferdinando in sì grave bisogno; nè egli potea sofferire i Franzesi, tanto più che negato gli aveano ogni sussidio contro dei Turchi. Pertanto inviò a Ferdinando [1262] in soccorso Simonetto da castello di Piero, e Rinaldo Orsino, con molte squadre di cavalleria. In questi tempi, volendo il re Ferdinando tirare nel suo partito Marino duca di Sessa, si lasciò condurre ad un abboccamento con lui, accompagnato da due soli compagni. Era venuto il duca con due altri per assassinarlo; ma egli così ben seppe difendersi colla spada, ch'ebbero tempo i suoi d'accorrere e di ripulsare i traditori.

Col pontifizio rinforzo esso re Ferdinando uscì dipoi in campagna, e giacchè il duca d'Angiò col principe di Taranto era coll'esercito suo pervenuto sino a Nola, andò a trovarlo, e fu a fronte dei nemici al fiume Sarno sul principio di luglio. Siccome superiore di forze, gli avea già ridotti a tale che li potea vincere colla fame. Ma da giovanile baldanza mosso, contuttochè Simonetto e gli altri saggi capitani il dissuadessero, volle dar loro battaglia nel dì 7 di luglio [Cristoforo da Soldo, Ist. Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.]. Andò in isconfitta tutta l'armata sua; Simonetto vi lasciò la vita; moltissimi furono gli uccisi, più i prigioni. Ferdinando con soli venti cavalli si ritirò salvo a Napoli [Tristan. Caracciol., Opusc., tom. 22 Rer. Ital.]. Ma, ritrovandosi senza danari, non ebbe scrupolo la regina Isabella, sua moglie saggia, di andare colla bussola in mano per Napoli cercando come per limosina soccorso; e con ciò raccolse una somma d'oro, tanto che il re si rimise alquanto in arnese. Ma quella vittoria si tirò dietro favorevoli conseguenze pel duca di Angiò. Nola col circonvicino paese se gli diede. Roberto conte di San Severino, e il duca di San Marco, con gli altri della casa di San Severino, non potendo di meno, vennero alla di lui ubbidienza. Così parimente fece Cosenza in Calabria, a riserva della rocca; e Castellamare in Terra di Lavoro, e moltissime altre terre e baroni del regno, di modo che a poco oramai si stendeva la signoria del re Ferdinando. Se il duca d'Angiò marciava a [1263] dirittura a Napoli, fu comune credenza che vi avrebbe messo dentro il piede, perchè neppur ivi mancava a lui una grossa fazion d'Angioini. Ma il principe di Taranto, che non volea finir sì presto la guerra, si oppose, e condusse il duca contro d'alcune terre e baroni tuttavia disubbidienti [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. In Napoli poi col tempo fu detto che la regina Isabella, nipote di esso principe di Taranto, vestita da zoccolante, fosse ita a trovarlo, e, gittatasi a' di lui piedi, il pregasse, che giacchè l'avea fatta regina, la lasciasse anche morire regina; e che egli perciò menasse a spasso da lì innanzi il duca d'Angiò. Non andò molto che anche a San Fabiano in Abbruzzo Jacopo Piccinino venne alle mani con Alessandro Sforza e col conte d'Urbino nel dì 27 di luglio [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Fu quella una sanguinosa ed ostinata battaglia, che durò dalle venti ore del giorno sino alle tre della notte, con gran perdita di cavalli da amendue le parti, ma maggiore da quella di Alessandro, il quale nella stessa notte tacitamente levò il suo campo, e si ridusse in salvo. Non restando dunque oppositore in quelle contrade, al Piccinino cadde in pensiero di far guerra al papa, per distorlo dalla lega col re Ferdinando. Calò dunque nell'autunno nel territorio di Rieti, dove prese alcune terre degli Orsini. Jacopo Savello, che molte altre ne possedeva nella Sabina, s'accordò tosto con lui. Per questa novità s'empiè di terrore Roma stessa. Di ciò avvisati Alessandro Sforza e Federigo conte d'Urbino, valicato l'Apennino, sen vennero su quel di Norcia; e l'arrivo loro servì a fare che ritornasse Jacopo Piccinino colle sue milizie a svernare in Abbruzzo. Tuttavia il papa pregò Francesco Sforza duca di Milano d'inviargli alquante delle sue truppe per maggior sua sicurezza. Aveva anche lo stesso duca spedito al re Ferdinando, dopo la rotta di Sarno, oltre a buona somma di denaro due mila [1264] cavalli ben in punto, e mille fanti, coi quali e colle sue truppe ricuperò molti luoghi intorno a Napoli, fece tornare alla sua divozione i Sanseverineschi, e riebbe la ricca città di Cosenza, capo della Calabria, che fu barbaricamente allora messa tutta a sacco. Per guadagnare alla parte sua Roberto da San Severino, il re Ferdinando gli diede il principato di Salerno, con ispogliarne Felice Orsino. Gran tribolazione patì in questo anno Venezia per cagion della peste, la quale, aiutata dalla negligenza degl'Italiani d'allora, troppo spesso s'introduceva nelle città, e dall'una passava alla altra con facilità mirabile. Nota parimente il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.] che in questi tempi la mirabil arte della stampa fu portata a Venezia, e cominciò a diffondersi a poco a poco anche per l'altre città italiane.


   
Anno di Cristo mcccclxi. Indiz. IX.
Pio II papa 4.
Federigo III imperadore 10.

Io non so come il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles. Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. eod. Giustiniani, Istor. di Genova, ed altri.] ed altri storici riferiscano sotto il precedente anno la rivoluzione di Genova, che certamente avvenne nell'anno presente. Per le gravezze smoderate che andavano mettendo i Franzesi a quella città, erano essi venuti in odio a non pochi; oltre a ciò la plebe non sapea digerire che il peso principale delle contribuzioni fosse a lei addossato, con goderne intanto esenzione molti dei nobili e dei più ricchi. Forse anche un segreto vento spirava dalla parte dell'accorto duca di Milano, a cui dispiaceva quel nido di Franzesi. Ora nel dì 9 di marzo la plebe si levò a rumore, e crebbe nella notte il tumulto, con essersi fatta nel giorno seguente tal massa di gente armata, che il luogotenente regio, trovandosi senza [1265] forze da poter resistere alla moltitudine, si ritirò nel castelletto. Entrarono allora in Genova Paolo Fregoso arcivescovo e Prospero Adorno, amendue seguitati da una copiosa frotta di villani armati, i quali forzarono gli altri Franzesi a ritirarsi anche essi nel castelletto. Seguì poi gran discordia tra i Fregosi e gli Adorni. Furono spinti parecchi di essi fuor di città; ma, accordati fra loro, venne dipoi eletto doge di Genova Prospero Adorno. Dopo di che si diedero a vigorosamente assediare il castelletto, e ricorsero per soccorso a Francesco Sforza duca di Milano, il quale aspettava a mani giunte l'occasione di cacciare di colà i Franzesi; nè si fece molto pregare ad inviar loro più migliaia di fanti, ed insieme una grossa somma di danaro, nutrendo fin d'allora la speranza d'impadronirsi egli di quella città. L'arcivescovo Paolo fu, per sospetti insorti, obbligato a ritirarsi; ma perchè giunsero nuove che Carlo re di Francia inviava sei mila combattenti contra di Genova per terra, e il re Renato signor della Provenza incamminava anch'egli a quella volta sette galeazze piene di gente; il duca di Milano fece tornar l'arcivescovo a Genova, mandò rinforzo di nuova pecunia, ed operò che Marco Pio signor di Carpi con sua brigata marciasse in aiuto de' Genovesi. Arrivarono finalmente per terra e per mare i Franzesi, e v'era in persona lo stesso re Renato. Non seppero servirsi del tempo: altrimente potevano sulle prime entrare in Genova. Assediarono dunque la città, e seguirono varii assalti e molti combattimenti, con difendersi valorosamente il doge, l'arcivescovo e i cittadini, aiutati dagli Sforzeschi, finchè nel dì 17 di luglio [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Gobellin., Comment., lib. 5.], mentre si faceva una general battaglia da ambe le parti, arrivati a Genova tre capitani dello Sforza, cioè Carlo Cadamosto da Lodi, Giorgio Dalmatino, soprannominato Targhetta, e Niccolò Epirota, [1266] i quali fecero credere imminente l'arrivo d'un gagliardo rinforzo di gente, inviato dal duca dì Milano; proruppero in sì alte voci d'allegrezza i Genovesi, gridando: Viva Sforza, viva il duca, che i Franzesi atterriti diedero tosto a gambe. Furono inseguiti dal furioso popolo di Genova, e parte da esso e parte dai contadini, fama fu che ne restassero uccisi più di due mila e cinquecento [Cristoforo da Soldo, tom. 21 Rer. Ital.], fra' quali circa cento cavalieri a speroni d'oro: il Filelfo ed altri dicono fin quattro mila; e ciò perchè i Franzesi, allora gente bestiale, non davano quartiere agli Italiani, e però dagl'Italiani furono pagati della stessa moneta. Vi restarono non di meno anche moltissimi d'essi prigioni. Dopo cotal vittoria insorse nuovamente lite tra gli Adorni e Fregosi. Prevalendo gli ultimi, toccò a Prospero Adorno d'uscir di città, e di perdere il governo. Col consentimento dell'arcivescovo fu eletto doge Spineta Fregoso suo cugino; ma da lì a poco entrato in Genova con molti armati Lodovico Fregoso, già stato doge di quella città, si fece eleggere di nuovo doge coll'abbassamento di Spineta. Questi ottenne il possesso del castelletto dal re Renato, il quale se ne tornò a Savona, tuttavia ubbidiente a lui, e poscia a Marsilia, portando seco una gran doglia per un'impresa così mal terminata. Venne poi a morte nel dì 22 di luglio Carlo VII, glorioso re di Francia, e però dalla di lui collera e vendetta rimasero liberi i Genovesi. Succedette in quel regno Lodovico XI, suo primogenito, principe d'umore strano, stato finora in discordia col padre.

Per conto del regno di Napoli, appena coll'arrivo della primavera poterono uscire in campagna gli emuli principi, che tutti furono in armi. In quattro luoghi era nell'anno presente la guerra. Sigismondo Malatesta, acconciatosi con Giovanni duca d'Angiò, facea guerra al papa. Era questi tenuto in briglia da Lodovico [1267] Malvezzo e da Pier Paolo de' Nardini [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 28, tom. 21 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Gobellin., Comment., lib. 5.]. Furono amendue assaliti nel dì 2 di luglio a Castello Leone dal Malatesta, e durò la zuffa ben cinque ore. Ebbero la peggio le truppe pontifizie, e vi morì il Nardini; il Malvezzo vi perdè tutto il credito, perchè non avea la gente che era obbligato a tenere, e Sigismondo rimase padrone del campo. Se non fuggiva Bartolomeo vescovo di Corneto, commissario del papa con quattro squadre di genti d'armi a Rocca Contrada, forse era differente il fine di quella battaglia. Misesi poi Sigismondo a' dì 19 di luglio in viaggio per passare in Abbruzzo ed unirsi col conte Jacopo Piccinino; ma, udito che il papa mandava Napolione Orsino con assai gente nella Marca, se ne tornò indietro alla difesa del proprio paese. Intanto non si può esprimere che sdegno ed odio concepisse il pontefice Pio contra d'esso Sigismondo; e però diede mano alle scomuniche, e sottopose all'interdetto tutte le di lui città e terre, e il fece dipignere qual traditore per gli Stati della Chiesa. Altra guerra fu nella Sabina, perchè s'erano ribellati i Savelli. Ma inviato ai loro danni Federigo conte d'Urbino colle milizie pontifizie, ridusse nel mese di luglio Jacopo Savello alla necessità di chiedere accordo, e l'ottenne. Guerreggiava nei medesimi tempi in Abbruzzo Jacopo Piccinino, ed avea messo il campo ad un castello. Accorsero in quelle parti Alessandro Sforza e Matteo da Capoa per dargli soccorso, e scontratisi per accidente in viaggio con Antonio Caldora, che colle sue genti andava ad unirsi al Piccinino gli diedero una rotta: lo che fu cagione, che esso Piccinino, levatosi da quell'assedio, cavalcasse verso il contado dell'Aquila. Ma tenendogli dietro Alessandro e Matteo, tanto fecero che il ridussero ad uscire d'Abbruzzo. Se n'andò egli a trovare il duca d'Angiò e il principe di Taranto, che allora si trovavano in Puglia. [1268] Poco mancò che non prendesse piede la discordia insorta fra il pontefice Pio e il re Ferdinando in questi tempi. La città di Terracina era allora sotto il dominio di Ferdinando. Fece rumore quel popolo, e Pio II mandò a prenderne il possesso. Acquistò ancora il conte d'Urbino molte terre nel regno di Napoli; e strano parve che le prendesse a nome del papa, il quale veramente le ritenne in suo potere. Fece il re Ferdinando molte doglianze per questi atti; ma sì grave era il bisogno che egli avea dell'assistenza papale nel lubrico suo stato, che gli convenne sagrificar questi piccioli interessi al maggiore. Infatti Pio II gl'inviò un possente soccorso di gente sotto il comando di Antonio suo nipote, figliuolo d'una sua sorella, adottato nella casa Piccolomini. E perciocchè esso Pio non volea essere da meno degli altri papi che aveano già cominciato, e seguitarono poi lungo tempo, a tenere per uno dei lor principali pensieri e desiderii quello d'ingrandire a dismisura i lor nipoti, dopo aver egli investito di varie terre della Chiesa questo suo nipote, procurò che anche il re Ferdinando il promovesse a gradi più alti [Istor. di Napoli, tom. 23 Rer. Ital.]. Ora, dopo avergli data esso re in moglie Maria sua figliuola bastarda, nel dì 27 di maggio il dichiarò ancora duca d'Amalfi e gran giustiziere del regno; e cavalcando per Napoli il tenne a' fianchi, con far portare davanti a lui un'insegna e un pennone. A lui parimente nell'anno 1465 donò la contea di Celano.

Coll'esercito suo uscì bensì Ferdinando in campagna, ma non avrebbe forse potuto resistere al duca d'Angiò e al principe di Taranto, che, colla giunta delle truppe del Piccinino, già erano superiori di forze, e il tennero anche come assediato in Barletta per alquanti giorni, se Alessandro Sforza non fosse anche egli arrivato colla sua gente a rinforzarlo. In oltre eccoti all'improvviso sbarcare a Trani, ed impadronirsi di quella città Giorgio Castriota appellato Scanderbech, [1269] potente signore in Albania, e celebre per le vittorie riportate contro ai Turchi, che con circa ottocento bravi cavalieri venne in aiuto del re Ferdinando. La venuta di questo principe, che lasciava la guerra contro il comune nemico, allora minacciante i suoi Stati, per correre a quella del regno di Napoli, diede occasione a molti di sparlare di papa Pio: quasi che tutti i suoi movimenti per incitare i cristiani a militare in Oriente, e per raccogliere tanta copia di danaro con decime ed indulgenze da tutta la cristianità, andassero poi a finire in una guerra contra dei Franzesi, per sostenere la corona sul capo a Ferdinando. Certamente l'autore della Cronica di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] con poco vantaggio parla del danaro ammassato per far guerra ai Turchi, che fu poi dissipato in altro uso. Coi rinforzi suddetti il re Ferdinando campeggiò per qualche tempo; assediò Gesualdo, e, dopo non so quanti giorni, in faccia ai nemici se ne impadronì; e andato anche sotto Nola, non solamente l'ebbe a patti, ma condusse anche ai suoi servigii il conte Orso Orsino, che v'era di guarnigione, e con esso lui la sua gente ancora, con che terminò la campagna [Raynald., Annal. Eccles.]. Avea il papa scomunicato chiunque seguitava il partito angioino. Nè si dee tacere che il medesimo pontefice, oltre all'aver canonizzata in quest'anno santa Caterina da Siena, fece anche nel dicembre una promozione di cardinali, tutti persone di merito, fra i quali merita d'essere menzionato Jacopo Ammanati Lucchese, appellato il cardinal di Pavia, perchè vescovo di quella città, uomo di rara letteratura e di singolar prudenza, come ne fan fede le sue lettere stampate.

[1270]


   
Anno di Cristo mcccclxii. Indizione X.
Pio II papa 5.
Federigo III imperadore 11.

S'era incominciato nell'anno precedente a scomporre la sanità di Francesco Sforza duca di Milano [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 28, tom. 21 Rer. Ital.], e i più dubitavano che già si fosse formata l'idropisia, da cui non potesse guarire. Andò, come suol avvenire, tanto innanzi la fama di sua malattia, che sul principio di questo anno si spacciò come accaduta la sua morte, o almeno che fosse vicino a quell'ultimo passo. Corse questa diceria per tutta l'Europa, e a distruggerla vi volle ben molto. Fu essa cagione che i contadini del Piacentino, pretendendosi smoderatamente aggravati di taglie e d'imposte dal duca, e credendolo già morto, si sollevarono nel dì 25 di gennaio [Ripalta, Annal. Placent., tom. 20 Rer. Ital.]. Circa sette mila d'essi nel dì 29 entrarono nella città, e con esso loro si unì la plebe della medesima Piacenza. Era ivi governator dell'armi Corrado Fogliano, fratello uterino del duca, il quale addormentò e burlò quei forsennati, con sottoscrivere tutti quanti i capitoli ch'essi addimandarono, cosicchè li fece desistere dal ribellare la città contro del duca. Venute poi alcune squadre di genti d'armi a Piacenza, maggiormente fermarono l'empito d'essi villani. Tuttavia, continuando essi nel loro ammutinamento, nel dì 5 di maggio giunse Donato Milanese colle genti del duca, e, data loro battaglia, li disfece, colla morte e prigionia di moltissimi, de' quali furono impiccati i più colpevoli. Fu preso il conte Onofrio Anguissola, che s'era fatto lor capo, e condannato a perpetua carcere. Per questa rivoluzione gran gente si partì da quel territorio, che perciò rimase in cattivissimo stato. Anche il conte Tiberto Brandolino, che era stato mandato a Piacenza per que' rumori nel dì 2 di febbraio, [1271] chiamato poi a Milano, fu messo in dura prigione per ordine del duca, imputato d'aver tenuta mano coi contadini sollevati, e che essendo già in accordo col duca d'Angiò e con Jacopo Piccinino, fosse per fuggirsene alla lor parte. Era valentissimo condottier d'armi, ma dicono ancora che non avea pari nella crudeltà. Questi poi nel dì 12 di settembre per disperazione si tagliò nelle carceri la gola, seppure altri non l'aiutò a terminare la vita. Intanto il duca Francesco per la sua buona complessione si riebbe dalla temuta idropisia, in maniera nondimeno che non riacquistò più il solito buon colore del volto, nè la primiera agilità delle membra. Si applicò poi col vigore di prima a sostener gl'interessi del re Ferdinando, che si trovavano tuttavia in mala positura, per mancanza spezialmente di pecunia, quantunque sì il papa che il duca pagassero puntualmente le rate pattuite.

Sul principio della state del presente anno [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 29, tom. 21 Rer. Ital.] il principe di Taranto e Jacopo Piccinino assediarono Giovenazzo, e colla artiglieria forzarono alla resa quella terra. Coll'uso della stessa forza conquistarono Trani e Barletta. Non poterono già vincere Ariano; e intanto s'impossessò il duca Giovanni di Manfredonia e de' luoghi circonvicini, per lo che le di lui genti continuarono le scorrerie e i saccheggi per la Puglia, finattantochè unitosi il re Ferdinando con Alessandro Sforza condottiere delle armi sforzesche, andò coll'esercito suo ad accamparsi un miglio lungi da Troia. Quivi ancora, stando a fronte le armate nemiche, nel dì 18 d'agosto si venne ad un general fatto d'armi. Dalle tredici ore sino alle diciannove durò l'aspro combattimento, e in fine, rovesciati, gli Angioini si diedero precipitosamente alla fuga. Per loro fu un gran sussidio la vicina città di Troia, dove i più si rifugiarono. Non si potè frenare la cupidigia dei vincitori soldati, [1272] che non si sbandassero e corressero a spogliare il campo e i tesori delle tende nemiche; lo che osservato dal Piccinino, che stava sulle mura di Troia, prese animo per uscir di nuovo contro i dispersi bottinatori, riuscendogli di ricuperar molti dei prigioni, e di uccidere o mettere in fuga assaissimi de' nemici. Più avrebbe fatto, se il re Ferdinando ed Alessandro, raunate alcune squadre di cavalleria, non l'avessero respinto entro la città. Tuttavia restò così indebolito per questa rotta l'esercito angioino, che Giovanni d'Angiò e il Piccinino nella seguente notte, lasciato un buon presidio in Troia, si ritirarono a Nocera, Manfredonia e Trani. Venne poscia in potere di Ferdinando Orsara; e la città di Troia per ripiego trovato si diede ad Ippolita, e non già ad Isotta, come ha il Gobellino [Gobel., Comment., lib. 10.], figliuola del duca di Milano, destinata moglie d'Alfonso figlio del re. Trovossi in essa abbondante massa di roba, lasciata dai fuggitivi nemici, e furono presi cinquecento cavalli. Foggia, San Severo, Ascoli ed altre terre tornarono all'ubbidienza del re. Maggiormente ancora si abbassò da lì innanzi lo stato del duca d'Angiò [Cristoforo da Soldo, Istoria Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]; imperocchè l'accorto re Ferdinando poco stette a spedir messi al vecchio principe di Taranto suo zio, cioè a Gian-Antonio Orsino, che con umili parole e proteste di non mai interrotto affetto il pregarono di pace, ben conoscendo il re, che se si staccava dal duca d'Angiò, questo potente signore, il qual solo co' suoi danari tenea in buona lena il contrario partito, non poteano durarla lungo tempo i suoi nemici. Tanto seppero dire quei messi, che si ridusse il principe nel dì 13 di settembre [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] ad abbracciare dal canto suo la pace col papa, col re e col duca di Milano. Rapportati si veggono dal Gobellino gli articoli di quella capitolazione. [1273] Per essa quanto migliorò la fortuna e crebbe l'allegrezza del re Ferdinando, altrettanto rimasero sbigottiti il duca d'Angiò, Jacopo Piccinino e Sigismondo Malatesta.

Ed appunto il Malatesta ci chiama ad accennar ciò che gli avvenne nell'anno corrente. Aveva egli raunato un bel corpo d'armata con pensiero di trasferirsi in Abbruzzo per le continue istanze del duca d'Angiò e del Piccinino [Gobellin., Simonetta, et alii.]. Si mise anche in viaggio, ed era pervenuto nella Marca a Monte Olmo, quando due nuove il fecero tornare indietro. L'una fu che Federigo conte di Montefeltro e d'Urbino, Napolione Orsino e Matteo da Capoa, capitani del papa, venivano con assai gente ai danni de' suoi Stati. L'altra che da alcuni traditori gli si prometteva l'acquisto di Sinigaglia, qualora si fosse presentato colla sua armata sotto quella città. In fatti corse egli a Sinigaglia [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], e cominciò a batterla colle artiglierie; e quantunque colà giugnesse anche l'esercito pontificio, ed assicurasse que' cittadini del soccorso, pure per maneggio de' congiurati non meno la città che la rocca si diedero a Sigismondo. Ma non volendo egli essere quivi assediato, nella notte precedente al dì 14 d'agosto ne uscì colle sue genti per ridursi a Mondolfo sulle sue terre. Non fu sì occulto il suo movimento, che nol sapessero i capitani papalini, i quali, messe in armi le lor soldatesche, sul far del giorno gli diedero addosso e lo sconfissero, inseguendolo fin sulle porte di Mondolfo, e facendo prigionieri circa mille e cinquecento cavalli, e fra gli altri Gian-Francesco Pico dalla Mirandola, che era ito ad unirsi ad esso Malatesta con ottocento cavalli. Si prevalsero di questa vittoria i capitani del pontefice, perchè non passò il mese di settembre che presero l'intero vicariato di Fano, ossia Mondavio, Mondaino, Santo Arcangelo, Verucchio, ed altre assaissime terre; in [1274] una parola quasi tutto il contado di Rimini. Se ne andò Sigismondo per mare in Abbruzzo a chiedere soccorso al duca Giovanni e a Jacopo Piccinino; ma ritrovò che essi abbisognavano anche più di lui di soccorso; e però, beffato della espettazione sua, se ne ritornò a provvedere il meglio che potè ai proprii bisogni. In Venezia diede fine in quest'anno al vivere suo il doge Pasquale de' Malipieri nel dì 5 di maggio [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.], e venne da lì a pochi giorni, cioè nel dì 12, in sua vece eletto doge Cristoforo Moro, che era procurator di San Marco. Tra Corneto e Cività Vecchia in quest'anno nelle montagne della Tolfa fu scoperta una miniera di allume di rocca, da cui venne da lì innanzi un gran profitto alla camera pontificia. Vaghi sempre in addietro i Genovesi di mutar governo, e sempre fra loro discordi [Giustiniani, Istor. di Genova, lib. 5.], ebbero nell'anno presente delle novità. Lodovico da Campofregoso doge fu cacciato dal trono e dalla città, e nel dì 14 di maggio Paolo Fregoso, ambizioso arcivescovo di quella città, si fece proclamar doge; ma non giunse al fine d'esso mese, che fu detronizzato. Per la terza volta nel dì 8 di giugno tornò ad essere doge Lodovico Fregoso. A tutti questi movimenti stava attento Francesco Sforza duca di Milano, uomo di fina accortezza; e siccome egli amoreggiava da gran tempo quella ricca e potente città, cominciò di buon'ora a preparare i mezzi per ottenerne il fine. Il primo passo fu quello di non irritare Luigi XI re di Francia, che manteneva le sue pretensioni sopra Genova. Tanto maneggiò che ottenne da esso re la rinunzia di quelle ragioni in favor suo: nella qual occasione si esibì di far prendere in moglie a Galeazzo Maria suo primogenito una principessa di soddisfazione del re [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Venuto a notizia di Lodovico Gonzaga marchese di Mantova questo trattato, se ne chiamò molto offeso, [1275] perchè, essendo già seguiti gli sponsali fra una sua figliuola ed esso Galeazzo Maria, si trovava aspramente burlato dal duca. Da ciò venne ch'egli s'unì co' Veneziani, dai quali fu preso per lor generale di Terra ferma.


   
Anno di Cristo mcccclxiii. Indiz. XI.
Pio II papa 6.
Federigo III imperadore 12.

Erasi ridotto, dopo la rotta ricevuta a Troia, il duca Giovanni d'Angiò in molte angustie per mancanza di danaro [Gobellin., Comment., lib. 11.], nè Jacopo Piccinino, che faceva bensì la figura di suo capitano, ma era infatti padrone del medesimo duca, sapea come fornire al bisogno. Insorse lite fra Rogerotto conte di Celano e Cobella sua madre. Ricorse il primo al Piccinino, che non tardò a passare colle sue armi colà. Il frutto che ne riportò lo sconsigliato Rogerotto, fu che il Piccinino prese Celano, e tutto lo mise a sacco, con far ivi grosso bottino di vasi d'oro e d'argento e di pietre preziose, e di gran quantità di grani e di pecore, con che ristorò la armata sua. Poscia, durante il verno, assediò Sulmona, e se ne impadronì, con farsi pagare da que' cittadini cinque mila ducati d'oro. Era anche andato il re Ferdinando a mettere l'assedio ad un castello di Marino principe di Rossano e duca di Sessa. Venne a quella volta il Piccinino, e il re fu obbligato a ritirarsi a Capoa: tutte azioni che fecero risorgere in alto il credito del Piccinino, che dianzi s'era molto abbassato. Si ridusse egli dipoi coi Caldoreschi in Abbruzzo, dove andò a trovarlo colle milizie Alessandro signor di Pesaro, fratello del duca di Milano, e in faccia di lui s'accampò. Trovavasi molto stretto il Piccinino, quando ecco nel dì 10 d'agosto [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] mandò a chiedere salvocondotto ad Alessandro per potersi abboccare con lui. L'abboccamento fu di pace o tregua, e, dopo molto dibattimento, [1276] si conchiuse ch'egli, abbandonato il duca d'Angiò, passerebbe al servigio del re Ferdinando colla sua gente, riterrebbe Sulmona ed altre terre da lui occupate, e gli sarebbono per un anno pagati novanta mila ducati d'oro per la sua condotta, cioè trenta mila dal re, altrettanti dal papa ed altrettanti dal duca di Milano. Così cessò egli di far guerra a Ferdinando. Tardi uscito in campagna esso re Ferdinando colle sue genti, andò a far guerra all'ostinato duca di Sessa Marino Marzano. Diede il guasto al suo paese, ed avendolo trovato i soldati pieno di vettovaglie e di roba, tutti empierono le borse. Prese varie sue castella e torri; diede anche una rotta alle genti di lui; ma non potè per allora fare di più. Dopo la pace e tregua stabilita col Piccinino, passarono le armi sforzesche addosso agli Aquilani. Aveano essi la peste in casa, e questa facea strage. Venuto a trovarli l'altro flagello della guerra, presero la risoluzione di trattar d'accordo; e però con buona capitolazione tornarono all'ubbidienza del re Ferdinando. Intanto Marino duca di Sessa, mirando in che bell'ascendente oramai fossero gli affari di Ferdinando, si sollecitò ad implorar perdono ed accordo. Il re, a cui premeva di guadagnar questo possente barone, e tanto più perchè il duca d'Angiò s'era annidato nelle di lui terre, gli fece buoni patti, se non che volle in ostaggio alcune fortezze di lui. E, per maggiormente adescarlo, promise Beatrice sua figliuola per moglie a Giambatista Marzano figliuolo d'esso Marino. Fu dunque forzato Giovanni duca d'Angiò ad allontanarsi da Sessa; nè dopo la perdita di tanti aderenti, avendo egli luogo migliore da assicurarvisi, passò a dimorar nell'isola d'Ischia, mettendosi con fidanza in mano di Pietro Toriglia, famoso corsaro, che, quantunque Catalano, avea seguitato il di lui partito, ed occupava quell'isola. Riteneva l'Angioino pochi altri luoghi nel regno alla sua divozione; ma in questi tempi il governatore [1277] del castello dell'Uovo vicino a Napoli, Catalano anche esso e traditore, diede quella fortezza al medesimo duca d'Angiò.

La guerra, che Federigo conte d'Urbino facea a Sigismondo Malatesta signor di Rimini, e suo antico nemico, al primo buon tempo si risvegliò più vigorosa che mai [Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 30, tom. 21 Rer. Ital. Gobellin., Comment., lib. 12. Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Andò egli a mettere il campo per terra intorno a Fano, e nello stesso tempo Jacopo cardinal di Tiano per mare con uno stuolo di navi concorse alla stessa impresa. Alla difesa di quella città stava Roberto figliuolo d'esso Sigismondo, che per lo spazio di quattro mesi si sostenne valorosamente contro gli assalti, le mine e le cannonate dell'esercito nemico, nè volea udir parola di rendersi. Eransi talmente inoltrati sotto le mura gli aggressori, che già imminente si scorgea la loro entrata e il sacco della città. Allora i cittadini segretamente spedirono al campo a trattar d'accordo, ed, ottenutolo, aprirono le porte al conte d'Urbino, da cui ebbero buon trattamento. Alla caduta di questa città, succeduta nel dì 26 di settembre [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.], tenne dietro quella di Sinigaglia, di Gradara, della Pergola e d'altre terre, di maniera che fu ridotto Sigismondo al possesso della sola città di Rimini e d'alcuni pochi castelletti. Messo così in camicia e disperato, si rivolse al patrocinio della signoria di Venezia, che già in segreto l'andava aiutando. Erano i Veneziani padroni di Ravenna, ed anche nel mese di maggio aveano comperata da Malatesta de' Malatesti la città di Cervia, acquisto d'importanza per le saline, dalle quali si ricava un utile non lieve; ma acquisto ch'era sommamente dispiaciuto al papa, perchè fatto senza licenza sua, e perchè troppo dannoso riusciva alla Chiesa l'andar le sue terre in mano d'una sì potente repubblica. [1278] Secondo il Sanuto [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Italic.], la compera di Cervia accadde nel dì 4 di luglio dell'anno seguente: lo che, se vero fosse, non apparterrebbe ai tempi di Pio II. Comunque sia, convenne al papa di sofferir tutto sul riflesso del bisogno delle forze venete per la meditata guerra col Turco. Mandarono i Veneziani ad esso pontefice ambasciatori, pregandolo di perdonare a Sigismondo pentito de' suoi falli; ma seppe ben loro negarlo il papa, troppo mal soddisfatto di lui. Contuttociò, avendo lo stesso Sigismondo inviati alcuni de' suoi a supplicarlo di pace e di perdono colle maggiori umiliazioni, e con ampio mandato di accettar qualunque legge che la Santità sua gl'imponesse, Pio condiscese finalmente nel mese di ottobre a rimetterlo in sua grazia, ma con dure condizioni, cioè senza restituirgli un palmo di quanto gli avea tolto, e con permettere bensì ch'egli ritenesse la città di Rimini, ma con sole cinque miglia di contado, ed obbligazion di pagare annualmente il censo di mille ducati d'oro alla camera apostolica. Nel dì 4 di giugno, per attestato del Gobellino [Gobell., Comment., lib. 11.], a cui si dee maggior fede che all'autore degli Annali di Forlì [Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], il quale scrive nel dì 24 di giugno, diede fine al suo vivere Biondo Flavio da Forlì, rinomato scrittore delle cose d'Italia, che lungo tempo avea faticato nella segreteria pontifizia. Mancò eziandio di vita Gian-Antonio Orsino principe di Taranto in età assai avanzata, e fu detto di morte naturale, nel dì 15 di novembre [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]; ma non mancano storici che il dicono strangolato nel castello d'Altamura da due suoi servitori corrotti dal re Ferdinando. Non si può negare, Ferdinando in promettere e mancar di parola, e in far pace per tradire, non ebbe pari; del che troppe pruove ne somministra la storia. Qualunque nondimeno fosse la morte di [1279] questo principe, certo è che il re Ferdinando non solamente rimase libero da una pungente spina [Pontan., lib. 6. Gobellin., Comment., lib. 12. Cristof. da Soldo, Istor. di Brescia, tom. 21 Rer. It.] (ben sapendo egli che fra esso principe e il duca d'Angiò, anche dopo la pace, passava buona intelligenza), ma eziandio avvantaggiò mirabilmente il suo Stato. Si trovò (seppure non si fabbricò) un testamento, per cui l'Orsino avea istituito erede dei suoi Stati, ch'erano assaissimi, il re Ferdinando. Però questi corse ad impossessarsi di Bari, d'Otranto, di Taranto e degli altri paesi, e massimamente d'Altamura e di altri luoghi forti, dove un gran tesoro di pecunia, di gioie e d'altri ricchi arredi, ammassati in tanti anni dal principe suddetto, grande avaro insieme e gran mercatante. Fama fu che ascendessero al valor d'un milione: mirabil rugiada, [1280] che servì al re per divenire ricco di povero ch'era, e per ristorar le sue truppe, le quali da gran tempo morivano di sete, e, in una parola, per ristabilire affatto il suo dominio. Colpo mortale fu questo, per lo contrario, a Giovanni duca di Angiò, e la depression totale del suo partito. In questi tempi ancora avea il re Ferdinando, andando unito con Alessandro Sforza [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 30, tom. 21 Rer. Ital.], fatti ritornare alla sua divozione Pier Paolo Cantelmo duca di Sora e i Sanseverineschi, e presa la ricca città di Manfredonia, che miseramente andò tutta a sacco. Scorse ancora nell'anno presente la peste per varie città d'Italia, mietendo le vite degli uomini, dei quali nella sola città di Ferrara perirono quattordici mila [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.].

FINE DEL VOLUME V.

INDICE

MCCLIX MCCLX MCCLXI MCCLXII MCCLXIII MCCLXIV MCCLXV MCCLXVI MCCLXVII MCCLXVIII MCCLXIX MCCLXX MCCLXXI MCCLXXII MCCLXXIII MCCLXXIV MCCLXXV MCCLXXVI MCCLXXVII MCCLXXVIII MCCLXXIX MCCLXXX MCCLXXXI MCCLXXXII MCCLXXXIII MCCLXXXIV MCCLXXXV MCCLXXXVI MCCLXXXVII MCCLXXXVIII MCCLXXXIX MCCXC MCCXCI MCCXCII MCCXCIII MCCXCIV MCCXCV MCCXCVI MCCXCVII MCCXCVIII MCCXCIX MCCC MCCCI MCCCII MCCCIII MCCCIV MCCCV MCCCVI MCCCVII MCCCVIII MCCCIX MCCCX MCCCXI MCCCXII MCCCXIII MCCCXIV MCCCXV MCCCXVI MCCCXVII MCCCXVIII MCCCXIX MCCCXX MCCCXXI MCCCXXII MCCCXXIII MCCCXXIV MCCCXXV MCCCXXVI MCCCXXVII MCCCXXVIII MCCCXXIX MCCCXXX MCCCXXXI MCCCXXXII MCCCXXXIII MCCCXXXIV MCCCXXXV MCCCXXXVI MCCCXXXVII MCCCXXXVIII MCCCXXXIX MCCCXL MCCCXLI MCCCXLII MCCCXLIII MCCCXLIV MCCCXLV MCCCXLVI MCCCXLVII MCCCXLVIII MCCCXLIX MCCCL MCCCLI MCCCLII MCCCLIII MCCCLIV MCCCLV MCCCLVI MCCCLVII MCCCLVIII MCCCLIX MCCCLX MCCCLXI MCCCLXII MCCCLXIII MCCCLXIV MCCCLXV MCCCLXVI MCCCLXVII MCCCLXVIII MCCCLXIX MCCCLXX MCCCLXXI MCCCLXXII MCCCLXXIII MCCCLXXIV MCCCLXXV MCCCLXXVI MCCCLXXVII MCCCLXXVIII MCCCLXXIX MCCCLXXX MCCCLXXXI MCCCLXXXII MCCCLXXXIII MCCCLXXXIV MCCCLXXXV MCCCLXXXVI MCCCLXXXVII MCCCLXXXVIII MCCCLXXXIX MCCCXC MCCCXCI MCCCXCII MCCCXCIII MCCCXCIV MCCCXCV MCCCXCVI MCCCXCVII MCCCXCVIII MCCCXCIX MCCCC MCCCCI MCCCCII MCCCCIII MCCCCIV MCCCCV MCCCCVI MCCCCVII MCCCCVIII MCCCCIX MCCCCX MCCCCXI MCCCCXII MCCCCXIII MCCCCXIV MCCCCXV MCCCCXVI MCCCCXVII MCCCCXVIII MCCCCXIX MCCCCXX MCCCCXXI MCCCCXXII MCCCCXXIII MCCCCXXIV MCCCCXXV MCCCCXXVI MCCCCXXVII MCCCCXXVIII MCCCCXXIX MCCCCXXX MCCCCXXXI MCCCCXXXII MCCCCXXXIII MCCCCXXXIV MCCCCXXXV MCCCCXXXVI MCCCCXXXVII MCCCCXXXVIII MCCCCXXXIX MCCCCXL MCCCCXLI MCCCCXLII MCCCCXLIII MCCCCXLIV MCCCCXLV MCCCCXLVI MCCCCXLVII MCCCCXLVIII MCCCCXLIX MCCCCL MCCCCLI MCCCCLII MCCCCLIII MCCCCLIV MCCCCLV MCCCCLVI MCCCCLVII MCCCCLVIII MCCCCLIX MCCCCLX MCCCCLXI MCCCCLXII MCCCCLXIII

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.