The Project Gutenberg eBook of Istoria civile del Regno di Napoli, v. 3

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Title: Istoria civile del Regno di Napoli, v. 3

Author: Pietro Giannone

Release date: December 7, 2015 [eBook #50643]

Language: Italian

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ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI VOLUME III


ISTORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME TERZO

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI
M.DCCC.XXI


INDICE


[5]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO OTTAVO

Mentre l'Italia sotto la tirannide dell'ultimo Berengario e di Adalberto suo figliuolo gemeva, gl'Italiani ridotti nell'ultime miserie, pensarono di ricorrere ai soccorsi di Ottone figliuolo d'Errico Re di Germania, il quale avendo domati i Sassoni ed i Schiavoni, aveasi per le sue gloriose gesta acquistata fama non minore di quella di Carlo M., e s'era renduto per tutta Europa celebre e rinomato. Accelerò l'invito Adelaide vedova di Lotario, la quale possedendo la città di Pavia assegnata a lei per dote dal marito Lotario[1]; ed essendo ancor giovane e d'avvenenti maniere, fu fatta dimandare da Berengario per isposa di suo figliuolo Adelberto: ma ricusando ella lo sposo, sopra il suo rifiuto, Berengario la assediò in Pavia, [6] la prese e la mandò prigione nel castello di Garda: ella ebbe talento di fuggirsene, ed implorò il soccorso del Re Ottone, offerendogli di prenderselo in isposo e di cedergli le sue ragioni sopra il Regno d'Italia. Adelaide, Porfirogenito[2], Luitprando[3] ed altri comunemente la riputano figliuola di Berta e di Rodolfo Re della Borgogna; ma Lione Ostiense[4] dice esser discesa da' Proceri della Toscana, ed il nostro Anonimo Salernitano[5] la fa sorella di Gisulfo Principe di Salerno: checchè ne sia, Ottone, a cui non erano ignote le sue virtù ed avvenenza, tosto venne in suo soccorso, calò in Italia con potente esercito, la liberò dall'oppressione di Berengario, ed invaghitosi della di lei grazia e venustà, la sposò in moglie, e seco in Alemagna la condusse, lasciando Corrado Duca di Lorena a perseguitar Berengario e suo figliuolo, i quali furon costretti ad andare a ritrovar Ottone in Alemagna e sottomettersi alla sua volontà[6]. Ottone avendo ricevuto da essi il giuramento e l'omaggio, gli restituì ne' loro Stati, eccettuato il Veronese e 'l Friuli, che furono da esso dati a suo fratello Errico Duca di Baviera. Ma Berengario ed Adelberto appena restituiti ne' loro Stati, cominciarono a cospirare contro Ottone, e malmenare i suoi sudditi: affliggevano l'Italia con inudite oppressioni, e maltrattavano il Papa, e tutti gli altri Vescovi e Signori d'Italia. Portarono perciò eglino le loro querele e' lamenti ad Ottone, e lo pregarono della sua protezione, invitandolo a calar di nuovo in Italia per discacciarne questi tiranni. Il Papa [7] ed i Romani gli offerirono il Regno e la Corona imperiale: Valperto Arcivescovo di Milano gli offerì parimente di volerlo incoronare ed ungerlo Re d'Italia; e gli spedirono perciò una magnifica legazione.

Ottone assicurato del concorde animo di tutti gli Italiani, non volle trascurare occasione così opportuna: ed avendo tenuta una Dieta in Vormes, fece coronare in Aquisgrana Re di Germania Ottone II suo figliuolo, che non avea più di sette anni; ed egli, stabilite le cose d'Alemagna, avendo raunato un numeroso esercito, tosto traversando la Baviera, per la via di Trento, insieme con Adelaide sua moglie, in Italia portossi. Fu ricevuto dagl'Italiani con universale applauso, e quantunque Adelberto avesse proccurato d'opporsegli con considerabili forze, nulladimanco abbandonato da' suoi, abbandonò anch'egli l'impresa, e fuggendo, non ebbe altro scampo, se non di ricovrarsi nell'isola di Corsica[7]. Entrato per tanto Ottone senza contrasto in Pavia, costrinse Berengario a fuggirsene con Villa sua moglie e con tutta la sua famiglia: indi passando in Milano fu ricevuto con incredibile giubilo da tutti i Milanesi. Allora l'Arcivescovo Valperto memore della promessa fattagli, avendo convocato un Concilio di Vescovi, al cospetto di tutta la città, ed in presenza di tutti, fu Berengario con Adelberto privato del Regno, ed Ottone per Re d'Italia proclamato: indi condotto nella chiesa di S. Ambrogio con grande apparato e con solenne cerimonia, concorrendovi tutto il Popolo, lo unse, e così consecrato sopra il suo capo pose la Corona del ferro: così Ottone, che ora lo diremo Re di Germania insieme e d'Italia, avendo in [8] quest'anno 961 con tanta prosperità acquistato un tanto Regno, con solenni giuramenti promise di voler difendere Italia con tutti i suoi sforzi contro l'invasione di qualunque tiranno. Indi tornato in Pavia si condusse nel seguente anno 962 coll'Arcivescovo Valperto in Roma e con fioritissimo esercito, per ricevere dal Papa la Corona imperiale: portò anche seco Adelaide, e fu da' Romani ricevuto con non minore applauso ed allegrezza, che fu Carlo M. in quella città introdotto. Pari fu il giubilo ed il concorso e l'ardente desiderio de' Popoli di acclamarlo Imperadore d'Occidente: siccome eguali furono le solenni cerimonie che Papa Giovanni XII volle usar con Ottone, niente dissimili da quelle che praticò Lione con Carlo M. Egli incontrato da Giovanni entrò nella chiesa del Vaticano, ove essendo pronto ed apparecchiato tutto ciò che a sì augusta cerimonia richiedevasi, fu dall'Arcivescovo Valperto presentato al Pontefice, il quale tosto lo unse, e finalmente gli pose il diadema imperiale, gridando intanto tutto il Popolo ivi accorso felicità e vittoria ad Ottone Augusto Imperador Romano[8]: da poi avendo egli solennemente giurato difender l'Italia contro i sforzi di Berengario, e di chi avesse tentato perturbarla, in Pavia fece ritorno. Carlo Sigonio narra, che Ottone fece ancora restituire al Papa alcune terre della Chiesa, che nelle precedenti rivoluzioni d'Italia gli erano state occupate; rapportando appresso, che Ottone III confermò le donazioni, che da Carlo M. e da Lodovico Pio erano state fatte alla Chiesa di Roma; onde mal fa il Chioccarelli[9], [9] attribuendo questo privilegio di confermazione ad Ottone I non al III, come fece il Sigonio.

Ecco ciò che si dice traslazione d'Imperio dagl'Italiani a' Germani, della quale pure i romani Pontefici vogliono esserne riputati autori, non altrimenti che lo pretesero di quella nella persona di Carlo M.[10]. Così l'Imperio d'Occidente essendo prima passato da' Franzesi negl'Italiani, fu poi trasportato negli Alemani in persona d'Ottone, che l'ebbe per li diritti della sua conquista e per l'elezion libera de' Popoli oppressi, i quali non potevano trovare allora altro protettore, che lui per liberarsi dalla tirannia di Berengario. Comunemente da' nostri Scrittori[11] Ottone vien chiamato il primo Imperadore tedesco, ancorchè prima di lui fosse stato, come s'è detto, Arnolfo; perchè dicono, che da Lione VIII, R. P. nell'anno 974, col consenso di tutti i Romani fu l'Imperio aggiudicato ad Ottone ed a tutti i suoi successori in perpetuo, e fu l'Imperio romano con indissolubil nodo unito col Regno germanico[12], ciò che non può dirsi d'Arnolfo, il quale in quella rivoluzione di cose in mezzo a tante fazioni fu più per istudio delle parti, che per libera ed universale acclamazione eletto Imperadore.

[10]

CAPITOLO I. Ottone riordina il Regno d'Italia: sue spedizioni contra i Greci; ed innalzamento del contado di Capua in Principato.

Stabilito Ottone nel regno d'Italia, furono rivolti tutti i suoi pensieri a riordinarlo con migliori leggi ed istituti, non altrimente che fece Carlo M. proccurò, calcando le sue pedate, ristabilirlo dopo tante rivoluzioni in miglior forma: molte leggi di lui perciò si leggono, e Goldasto[13] ne inserì molte ne' suoi volumi, per le quali non meno il Regno germanico, che l'Italico fu riordinato. Non è però, come per l'autorità del Sigonio credette l'Abate della Noce[14], che Ottone avesse più distintamente di quello che fece Carlo M. stabilite leggi sopra i Feudi; poichè il primo facitor di leggi feudali fu Corrado il Salico, come diremo. Ma sopra queste nostre province assai maggiore autorità acquistossi Ottone, che Carlo M. istesso, e la sovranità, che vi esercitò fu di colui assai maggiore. Non erano i nostri Principi longobardi, come il Principe di Benevento, quello di Salerno ed il conte di Capua, in istato di opporsi alla sua dominazione, siccome fecero Arechi e Grimoaldo Principi di Benevento con Carlo M. e Pipino suo figliuolo; anzi dichiararonsi di lui ligi e feudatarj, sottoponendo a lui i loro Stati, [11] e riconoscendolo Re d'Italia con quella medesima sovranità, che i loro maggiori riconobbero gli antichi Re longobardi; e ciascuno di loro a gara mostravasi tutto a lui ossequioso e riverente, per acquistarsi la sua grazia e protezione.

Reggeva in questi tempi, come s'è detto, il principato di Benevento ed il Contado di Capua Pandulfo Capo di ferro insieme con Landulfo III, suo fratello, il quale tosto, che seppe che Ottone s'incamminava verso Capua per assicurarsi maggiormente della fedeltà di questi Principi, e di Gisulfo precisamente (il quale se bene, al creder dell'Anonimo, era suo cognato, dava però di se qualche sospetto di dipendere da' Greci, da' quali avea ricevuto l'onore del Patriziato) e che seco conduceva Adelaide sua moglie, uscì loro incontro con grande apparecchio, ed in Capua ove avea sua residenza condottigli, furono da questo Principe splendidamente e con sommo onore trattati[15]. Quivi, correndo l'anno 963, fermandosi, spedirono una Legazione in Salerno al Principe Gisulfo, invitandolo con molti doni di venire in Capua a riveder sua sorella. Gisulfo ancorchè dubbioso sospettasse di qualche sinistro incontro, finalmente accompagnato da' suoi verso quella città incamminossi, ed incontrato da Pandulfo e Landulfo lo presentarono all'Imperador Ottone, il quale con molta allegrezza surto dal Trono scese ad incontrarlo, ed abbracciatisi, si baciarono con molti segni d'allegrezza. L'Imperadrice Adelaide (se dee prestarsi fede all'Anonimo) veduto suo fratello corse ad abbracciarlo, e strettasi al suo collo baciollo più volte, rimproverandogli come senza lor invito non era venuto [12] tosto a riveder sua sorella: Gisulfo dopo abbracciamenti sì cari di sua sorella e di suo cognato con grande sua allegrezza e di tutti i suoi ritornossene in Salerno.

Allora fu, che Pandulfo Capo di ferro entrato in somma grazia d'Ottone ottenne per imperial autorità, che il Contado di Capua fosse innalzato ad esser Principato, e ad esser egli nomato Principe di Capua, siccome da poi furono gli altri, che a lui succedettero in Capua, e da questo tempo, non da Atenulfo I, cominciarono i Principi di Capua, come dimostra il nostro Pellegrino. Al quale onore successe da poi che Capua nell'anno 988 fosse stata parimente innalzata ad esser metropoli, e che Giovanni fratello di Landulfo da Vescovo ch'era di questa città, fosse stato sublimato in Arcivescovo da Gio. XIII, come diremo più diffusamente quando della politia ecclesiastica di questo secolo farem parola.

Così i nostri Principi riconobbero per lor Sovrano Ottone Imperadore come Re d'Italia, il quale per quest'istesse ragioni intraprese di scacciare dalla Puglia e dalla Calabria i Greci, che possedevano queste province, e di ridurre anche il Ducato napoletano sotto la sua dominazione.

Era in quest'anno 964 succeduto nell'Imperio di Oriente Niceforo Foca, il quale mal sofferendo che Ottone avesse in Italia acquistata tanta autorità, e che pensasse discacciar i Greci dalla Puglia e dalla Calabria, aveva munite queste province con forti presidj. Erano governate le città delle medesime da Straticò, magistrato, che lungamente durovvi sino a' Catapani; ed in Bari città metropoli della Puglia avea unito il maggior nerbo delle sue forze; nè meno poteva soffrire, [13] che non si dasse a lui altro, che il titolo d'Imperador de' Greci, e che all'incontro Ottone prendesse quello d'Imperador de' Romani.

Ma Luitprando Vescovo di Cremona suo intimo familiare consigliò ad Ottone, che prima di sperimentar le armi contro Niceforo, volesse tentare, se per mezzo d'una stretta parentela potesse da lui ottener ciò che sarebbe stato incerto di ottenere per mezzo d'una dubbia e crudel guerra; a questo effetto riputò mezzo assai pronto ed efficace, se Niceforo volesse dare in moglie la Principessa Anna, ovvero Teofania ad Ottone suo figliuolo, e per titolo di dote gli concedesse le due province Puglia e la Calabria. Era questa Principessa figliuola dell'Imperador romano Argiro e dell'Imperadrice Teofania, la quale per un esecrabile parricidio avea avvelenato Argiro, affinch'ella potesse sposarsi Niceforo. Allora fu, che Ottone spedì in Costantinopoli una magnifica Legazione a Niceforo, mandandovi per Ambasciadore il famoso Luitprando Vescovo di Cremona a dimandarla: quegli che si rendè celebre al mondo non meno per questa legazione, che per le molte sue opere, che ci ha lasciate.

Riuscì però inutile l'ambasceria di Luitprando presso Niceforo, il quale mal potendo ancora celare col medesimo l'astio, che covava internamente contro Ottone, lo trattò indegnamente, e dopo averlo fatto trattenere inutilmente quattro mesi in Costantinopoli, ne lo rimandò senza conchiusione alcuna.

Intanto Ottone lusingato, che dovrebbero aver effetto i suoi disegni, avea a se richiamato Ottone suo figliuolo, il quale fermatosi col padre in Roma, fu associato in quest'anno 968 all'Imperio e dal Pontefice era stato unto ed incoronato colla Corona imperiale. [14] E Niceforo in quest'istesso tempo, per ingannar maggiormente Ottone, e perchè potesse riuscirgli il disegno, prima che ne rimandasse Luitprando, gli mandò Ambasciadori offerendogli la sua parentela, che avrebbe mandata la Principessa Teofania in Calabria; e che perciò mandasse egli all'incontro gente quanto più tosto potesse in Calabria per riceverla.

Ottone, a cui non era nota a bastanza la fede greca, il credè, e ne scrisse anche a' Duchi di Sassonia, dando loro speranza, che in breve avrebbe ricuperata la Puglia e la Calabria, e riportato in Germania Ottone suo figliuolo già casato, e mandò tosto gente in Calabria per questo fine; ma giunti a pena, furono improvisamente colti per un'imboscata, che Niceforo fece lor preparare, ove molti restarono morti e gli altri presi, furono in Costantinopoli fatti portar prigionieri.

Allora Ottone detestando i Greci, fieramente sdegnato invase i confini della Calabria depredandola e ponendo sossopra tutta quella provincia. In questa congiuntura s'unirono con lui i nostri Principi longobardi, i quali come suoi Feudatarj erano obbligati seguirlo in Guerra; e Pandulfo Capo di ferro si portò anche in Calabria contro i Greci e contro i Saraceni, i quali erano stati da' Greci chiamati in lor ajuto: e Gisulfo Principe di Salerno, ancorchè di sospetta fede per l'aderenza, che teneva co' Greci, mostrò nondimeno in quest'occasione (essendosi poco prima rimesso sotto la protezione e clientela d'Ottone) di volerlo soccorrere in quest'impresa.

Fu pertanto ostinatamente combattuto co' Greci e Saraceni; e mentre Pandulfo con Ottone era in Calabria, gli venne l'avviso, che il Principe Landulfo suo germano era morto. Aveva costui tenuto il principato [15] di Benevento anni otto; e se bene di se avesse lasciato Pandulfo suo figliuolo, nulladimanco Pandulfo tosto che seppe la di lui morte, lasciando l'Imperadore in Calabria, si portò in Benevento ed avendo escluso suo nipote, sublimò il Principe Landulfo suo figliuolo, che perciò Landulfo IV fu detto[16].

Indi, essendosene Ottone ritornato in Ravenna, ottenne dal medesimo nell'anno 969, molti ajuti per invadere la Puglia, siccome con gli ajuti ricevuti da Ottone, e con alquanti giovani beneventani e capuani, l'invase, e presso Bovino col suo esercito accampossi. Ma i Greci usciti furiosamente dalla città, gli combatterono, e dopo una dubbia pugna, finalmente restò Pandulfo vinto e fatto prigione da' Greci. Erano questi sotto il comando d'Eugenio Patrizio, ch'era lo Straticò, il quale tosto lo fece condurre prigioniero in Costantinopoli. Intanto Gisulfo Principe di Salerno erasi avviato per soccorrere Pandulfo; ma tardi giungendo o fosse stato per impedimenti avuti o pure artificiosa malizia di moversi intempestivamente, tosto ritornossene in Salerno.

I Greci spinti dal furor della vittoria invasero i confini di Benevento, prendono Avellino e verso Capua s'inoltrano: e depredando tutto il paese, cingono la città istessa, e per quaranta giorni la tennero strettamente assediata.

Allora i Napoletani vedendo la fortuna de' Greci andar molto prospera s'unirono presso Capua con Eugenio Patrizio. Presedeva in questi tempi per Duca in Napoli Marino, la notizia del quale noi la dobbiamo all'Anonimo Salernitano, poichè presso gli altri Scrittori [16] niuna memoria abbiamo, dopo Giovanni, de' Duchi di Napoli, che fiorirono in questi tempi; e quella carta rapportata dal Summonte e creduta per vera dal novello Istorico Giannettasio traduttor del Summonte, dove si fa menzione di Oligamo Stella Duca, che 'l Giannettasio lo fa successore di Giovanni e di Ginello Capece, Baldassare Giovanne e Sarro Brancaccio Consoli, fu grossamente supposta, così perchè in questi tempi l'uso de' cognomi non erasi ancora ripigliato; come perchè il Capaccio[17] ed altri testificano quella carta non essersi mai trovata fra le scritture delle Monache di S. Sebastiano, ove fu finto conservarsi. Tanto che il nostro Pellegrino[18] dice assai bene, che non è da sperare una interrotta serie de' Duchi di Napoli, come d'Amalfi: nel che nè meno ci possono giovare alcune antiche carte date in Napoli, non esprimendo altro che i nomi ed i tempi de' greci Imperadori, alla dominazione de' quali era questo Ducato sottoposto.

Marino co' suoi Napoletani presso Capua accampossi, nè si impiegò ad altro, che a devastare il paese d'intorno con incendj e rapine; Eugenio vedendo che inutilmente si raggiravano intorno Capua, e temendo d'Ottone, di cui erasi sparsa voce, che con esercito numerosissimo di Alemanni, Sassoni e Spoletini verso Capua s'incamminava per soccorrerla, perchè non fossero colti in mezzo, pensò d'abbandonar l'assedio ed in Salerno ritirossi, accolto da Gisulfo, che lo trattò, sin che ivi si trattenne, con molta splendidezza, avverando per questo fatto il concetto, che di lui aveasi di non essersi mai distaccato da' Greci, e che simulatamente mostrasse aderire alle parti d'Ottone, e che [17] perciò così tardi mandasse il soccorso a Pandulfo. Eugenio dopo essersi trattenuto in Salerno alquanti giorni fece ritorno in Puglia[19]: nè passarono molti giorni che sopraggiunse in Capua l'esercito numerosissimo d'Ottone, e non trovati ivi i Greci, si mise a porre sossopra, ed a devastare tutto il territorio dei Napoletani, ed unito co' Capuani cinse di stretto assedio la città di Napoli. Ma non potendo espugnarla, ritornarono in dietro, e sopra Avellino, che era in poter de' Greci, a' quali poco prima s'era reso, s'accamparono, nè si travagliò molto, che tosto fu dai Beneventani ricuperata, indi in Benevento se ne tornarono, con proposito di passar in Puglia per discacciarne da questa provincia i Greci, ove tenevano raccolte tutte le loro forze, e che in Bari s'erano con numerosi presidj fortificati.

Non è da tralasciarsi in questo luogo, ciò che trattando della politia ecclesiastica in appresso più diffusamente diremo, che fermato l'esercito d'Ottone in Benevento in quest'anno 969, prima d'accingersi a sì dubbia impresa, e di muovere l'armi terrene, parve ad Ottone cominciare di là onde conviensi, cioè di ricorrere agli ajuti del Cielo. Era stato fin qui la Chiesa di Benevento governata da' Vescovi; ma ora Giovanni XIII, ciò che aveva fatto un anno prima di Capua, volle, a contemplazion d'Ottone e de' Principi Pandulfo e Landulfo, far il medesimo di Benevento; l'innalzò perciò a metropoli, e per suffraganee le assegnò molte Chiese, ed il primo Arcivescovo, che vi constituì in quest'anno 969, fu Landulfo, a cui concedette l'uso del Pallio, e confermogli le Chiese sipontina e garganica. [18] Mentre adunque l'esercito d'Ottone accingevasi a quest'impresa, Landulfo Arcivescovo con sacra cerimonia celebrò solennemente la messa, che fu da tutti intesa, e dopo questo furono dal medesimo Arcivescovo comunicati del Corpo e del Sangue del Signor Nostro Gesù Cristo: indi ricevuta la benedizione dallo stesso Prelato, s'avviarono con grande allegrezza verso la Puglia[20]. Ove è da notare che in questi tempi era ancora ritenuta in queste nostre parti ed in Italia la Comunione sotto l'una e l'altra specie, ed ammettevansi tutti alla participazione così del Corpo, come del Sangue, nè presso noi, se non in tempi più bassi, fu quella tolta.

L'esercito d'Ottone, che si componeva di Beneventani, Alemanni, Sassoni e Spoletini, giunto in Ascoli fu incontrato da Abdila Patrizio, che con buon numero di Greci pretese attaccarlo, poichè Eugenio per la sua estrema crudeltà era stato da' suoi preso e mandato in Costantinopoli prigione. Fu combattuto ferocemente presso Ascoli, e finalmente furono i Greci vinti e, fatto un gran bottino, se ne ritornarono i Beneventani trionfanti in Avellino[21].

Intanto Ottone indrizzò le sue genti verso Napoli, le quali nel contorno depredaron tutto il bestiame, e mentre Ottone se ne ritornava, fu tutta dolente ad incontrarlo Aloara moglie del Principe Pandulfo, con un suo figliuolo, pregandolo della liberazione di suo marito, che in Costantinopoli [19] era da Niceforo crudelmente trattato in oscura prigione[22]. Ottone tosto ritornò in Puglia, nella quale diede guasti grandissimi, cinse di stretto assedio Bovino, e molti luoghi d'intorno fece brugiare; ma mentre queste cose succedevano in Puglia, Niceforo in quest'anno 970, fu di morte violenta tolto al Mondo; poichè Teofania sua moglie insieme con Giovanni Zimisce crudelmente lo fecero ammazzare, ed in questo istesso anno Giovanni fu eletto Imperadore d'Oriente. Giovanni rivocando ciò che il suo predecessore aveva fatto, tosto sprigionò Pandulfo, l'assolvè e lo mandò in Puglia, raccomandandolo anche ad Ottone, che nei suoi Stati lo riponesse. Zimisce volle aver amicizia con Ottone, e (ciò che avevagli negato Niceforo) gli mandò Teofania, perchè si sposasse con Ottone suo figliuolo, la quale fu condotta in Roma, ove con molta splendidezza fu da Ottone sposata, ed Augusta proclamata[23]. Giunto Pandulfo in Bari, fu tosto chiamato da Ottone: Abdila glielo mandò assai onorificamente, e ricevuto da Ottone fu restituito ne' suoi Stati e nella pristina dignità: laonde Pandulfo per gratificare Giovanni della libertà donatagli, tanto si adoperò con Ottone che gli fece abbandonar l'impresa: onde fatta la pace, Ottone si ritenne d'invadere la Puglia e la Calabria, e queste province perciò non furon mai da Ottone conquistate, come si diedero a credere molti Scrittori contro ciò che narra l'Anonimo, scrittore contemporaneo. Partì Ottone, ed in Francia fece ritorno, nè più potè rivedere queste nostre regioni; poichè sopraggiunto poco da poi dalla morte, nell'anno 973, finì i giorni suoi, ed acquistatosi per le cose maravigliose [20] adoperate il soprannome di Magno, meritò esser comparato a Carlo il Grande.

CAPITOLO II. Ottone II succede al padre; disordini nel Principato di Salerno, nel quale finalmente vi succede Pandulfo.

Essendo morto in quest'anno Ottone il Grande, Ottone II suo figliuolo, che vivente il padre era stato associato all'imperio, cominciò a regger solo il Regno d'Italia, e ad esercitare quivi tutta quella sovranità, che suo padre aveasi acquistata, la quale sopra queste nostre province assai più accrebbesi per la discordia de' nostri Principi longobardi; poichè mentre Pandulfo Capo di ferro restituito in Capua sua sede, insieme con Landulfo IV suo figliuolo, che sedeva in Benevento, reggevano questi due Principati, accaddero in Salerno sì strane revoluzioni e sconvolgimenti, che posero sossopra tutto quel Principato. Origine di tanti mali fu la soverchia fidanza, ch'ebbe Gisulfo con suoi congiunti, i quali da esuli ch'erano, avendo voluto richiamargli ed ingrandirgli, portarono con inaudita ingratitudine la ruina del suo Stato.

Atenulfo II quegli, che, come si disse, discacciato da Capua erasi ricovrato in Salerno sotto Guaimaro II suo genero, lasciò più figliuoli, ch'esuli insieme col padre lungo tempo eran andati raminghi. Uno d'essi Landulfo chiamato, si ricovrò prima col padre in Salerno, da poi andossene ad abitare in Napoli; ma da poi ad intercessione di Gaidelgrima sua sorella, moglie [21] che fu di Guaimaro II, e madre di Gisulfo I. fu da questo Principe ch'era suo nipote, per non disgustarsi sua madre richiamato in Salerno; e Gisulfo oltre averlo affettuosamente accolto diedegli anche il Contado di Consa; ma perch'era un uomo assai crudele ed insoffribile, i Consani non potendolo più soffrire, lo discacciarono da Consa, nè Gisulfo potè tollerarlo guari in Salerno, onde discacciato bisognò che di nuovo in Napoli facesse ritorno con la sua casa: avea procreati Landulfo quattro figliuoli, Guaimaro, Indolfo, Landulfo e Landenulfo.

Accadde, che mentre Landulfo con questi suoi figliuoli erano in Napoli, Gisulfo s'ammalasse, onde Gaidelgrima sua madre, toltolo a tempo cominciò tutta dolente e lagrimosa a piangere, di che Gisulfo accortosi, dimandò, che s'avesse: ella rispose immantinente; piango, perchè avendo perduto mio marito, ora veggo te infermo: nè ho chi in tanta amaritudine possa consolarmi, poichè anche il mio fratello è da me lontano: che dunque, rispose Gisulfo, avrò da fare? che si richiami, replicò ella, con tutta la sua famiglia. Gisulfo vinto dalle lagrime di sua madre, che si richiami le rispose: e risanato da quella infermità, fu Landulfo tosto richiamato in Salerno, e portò seco tre suoi figliuoli, lasciando in Napoli Landulfo uomo d'ingegno astuto e pieno d'inganni.

Fu accolto Landulfo dal Principe con molti segni di stima, di molti poderi l'arricchì, e restituigli ancora il Contado di Consa; e niente prevedendo di ciò che poteva accadergli, l'innalzò tanto, che narra l'anonimo Salernitano[24] suo contemporaneo, che lo costituì [22] dopo lui nel primo grado in Salerno. Co' suoi figliuoli fu ancora liberalissimo, a Guaimaro diede il Contado di Marsico nel Principato di Salerno, concedendogli quasi tutte le ragioni ed emolumenti del suo fisco. Ad Indolfo donò il Contado di Sarno. A Landenulfo il Contado di Lauro, pure nel Principato di Salerno; ed essendosene costui poco da poi morto nell'anno 971 fu richiamato da Napoli Landulfo, al quale Gisulfo concedè il Contado stesso di Lauro, non senza indignazione de' Salernitani e de' Nobili di quella città, che vedevano con tanta imprudenza di Gisulfo sublimati questi Principi.

Landulfo padre, entrato in tanta grandezza, tosto cominciò a pensar modi, come potesse invadere il Principato di Salerno: egli vedutosi con tante forze si proccurò ancora il favore de' Duchi d'Amalfi e di Napoli, perchè l'assistessero a quest'impresa ed ajutato da quelle de' suoi figliuoli, e da Landulfo precisamente uomo accorto ed astuto, avendo con alquanti congiurato il modo, una notte, avendo corrotti i custodi, ebbe modo d'entrare nel Palazzo del Principe: ivi avendo preso l'infelice Gisulfo insieme con l'infelice Principessa Gemma sua moglie, figliuola d'Alfano ed agnata di Lamberto Duca di Spoleto, furono imprigionati, e dando a sentire agli altri essere stati ammazzati, fu la città posta sossopra. I Salernitani credutigli morti si posero in somma costernazione, nè sapendo che si fare in tanta revoluzione, furono costretti di giurare per Principe Landulfo lor tiranno, il quale temendo non si scoprisse esser vivi Gisulfo e la Principessa Gemma, tosto gli fece levare da Salerno ed in Amalfi gli fece condurre; indi, discacciati che gli ebbe, assunse anche per collega al Principato [23] Landulfo suo figliuolo in quest'istesso anno 972 ovvero 973.

Presedeva in questi tempi per Duca in Amalfi Mansone Patrizio, ed in Napoli, come si disse, Marino Patrizio. Questi intesi della congiura, subito che udirono essere stato Gisulfo da Salerno scacciato, vennero in Salerno con alquante truppe per soccorrere Landulfo, e stabilmente fermarlo nel Principato[25]. Non si vide maggiore ingratitudine di quella che usò Marino Duca di Napoli in quest'incontri, il quale dimenticatosi tosto de' beneficj ricevuti da Gisulfo, dimenticatosi ancora de' tanti giuramenti fatti di soccorrerlo, ora s'unisce col tiranno per discacciarlo dalla sede.

Ma furono questi disegni ed iniqui consigli dissipati ben tosto; poichè ricredutisi i Salernitani, che Gisulfo e la Principessa Gemma non eran morti, ma vivi erano in Amalfi, tosto cominciarono a tumultuare e a fremere contro essi medesimi di tanta credulità e de' passi che avean dati. S'aggiunse ancora, che Indolfo, che aveva veduto assunto per collega al Principato Landulfo suo fratello, e di lui niun conto tenersi, contro ciò che il padre con più sacramenti gli avea promesso, cominciò ad aspirare al Principato, sollecitando perciò Marino Duca di Napoli, che l'ajutasse in quest'impresa: fu perciò, per sedare in parte i tumulti, risoluto di prendere Indolfo e mandarlo in Amalfi, siccome preso che fu, nascostamente fu mandato in quella città: e tolto l'oppositore, i Salernitani furono costretti a giurare a Landulfo il Giovane, Principe assai crudele e scaltro. Ma con pernizioso consiglio richiamato non molto da poi Indolfo in Salerno, [24] questi dissimulando il torto, cominciò a rendersi i Salernitani benevoli, co' quali profusamente trattava, e ridotti al suo partito i più principali e' congiunti del Principe Gisulfo, cominciò ad insinuar loro, che discacciati i tiranni si dessero a Pandulfo Capo di ferro, il quale saprebbe colle sue forze restituirgli Gisulfo, ed intanto proccurassero fortificarsi ne' Castelli, affinchè alla venuta di Pandulfo potessero tosto portargli ajuto e soccorso. In fatti molti Proceri salernitani, e fra gli altri gl'istessi Riso e Romoalt, due celebri personaggi, pentitisi di quanto aveano cooperato nella congiura, si portarono in Amalfi avanti i Principi discacciati, ed ivi con molti giuramenti e pianti dolutisi del torto, che si era a loro fatto, promisero fare ogni sforzo di ritornargli nella pristina dignità.

Il Principe Pandulfo invitato da' congiunti del Principe Gisulfo e da' Salernitani, i quali in varj castelli s'erano fortificati per ricever il suo ajuto, compassionando il caso di quell'infelice Principe, che era suo consobrino, prese con incredibile allegrezza l'impegno di restituire Gisulfo in Salerno; ed avendo unito alquante sue truppe s'incamminò verso Salerno. Fu incontrato da Indolfo, che gli cercò per se il Contado di Consa; ma Pandulfo dichiarandosi che non poteva ciò fare; questi pien di mestizia pensò tornare in Salerno, ove fu preso da' suoi stessi ed a Landulfo consignato. Intanto Capo di ferro unitosi co' Salernitani, che stavano ne' castelli, espugnò tutti i luoghi del Principato di Salerno, depredando il paese intorno, ei cinse Salerno di stretto assedio. I Landulfi padre e figliuolo gli fecero molta resistenza, e non fidandosi de' Salernitani valevansi di Mansone Patrizio, che tenevan [25] presso di loro nel Palazzo co' suoi Amalfitani, ai quali diede la custodia delle torri che circondavano la città; ma non poteron lungo tempo resistere alle forze di Pandulfo, il quale finalmente nell'anno 974 l'espugnò, e discacciati i tiranni, non per se occupolla, ma in quest'istesso anno la restituì al legittimo Principe. Gisulfo e Gemma, o perchè così fra di loro fossero convenuti o pure per gratitudine di tanti beneficj, non tenendo figliuoli, adottaronsi per loro figliuolo Pandulfo figliuolo di Pandulfo, che vollero anche istituirlo Principe di Salerno, e Gisulfo volle averlo per Compagno nel Principato insin che visse, cioè sin all'an. 978[26]. Ed egli morto in quest'anno, restando Pandulfo successore in Salerno, volle anche Pandulfo suo padre assumere il titolo di Principe insieme col figliuolo, onde si fece, che nella persona di Pandulfo Capo di ferro s'unissero tre titoli, e fosse detto Principe insieme di Capua, di Benevento, e di Salerno. Quindi l'Anonimo Salernitano, che in questi tempi vivea, e che fin qui continuò la sua istoria, che a questo Principe dedicolla, in un carme che compose in lode del medesimo, lo chiamò Principe di queste tre città dicendogli:

Tempore praeterito Tellus divisa maligno

Unitur tuo ecce, tuente Deo[27].

Siccome il valore e prudenza di Atenulfo I potè far argine alla ruina de' Longobardi, la quale per le [26] tante rivoluzioni e disordini di queste province, era imminente; così ora la potenza di Pandulfo Capo di ferro trattenne alquanto il corso della loro caduta; ma s'avrebbe potuto sperare dal valore di questo Principe qualche buon frutto, se non avesse già poste profonde radici quella pessima usanza de' Longobardi di partir ugualmente i loro Stati tra' loro figliuoli, i quali se bene presentemente si vedevano ne' titoli uniti in una sola persona, non è però, che Capo di ferro non avesse aggiudicato il Principato di Benevento a Landulfo IV, suo figliuolo, e quello di Salerno a Pandulfo altro suo figliuolo. Tutti i Principi longobardi della razza di Landulfo I Conte di Capua, que' di Benevento ancora e gli altri di Salerno, ebbero costume di provvedere tutti i loro figliuoli di proprj Feudi; e se bene nel principio gli amministravano indivisi, ancorchè ciascuno riconoscesse la sua parte, e sotto le medesime leggi; nulladimanco la condizione umana dovea portare per conseguenza la discordia fra di loro, onde poi divisi in fazioni diedesi agli esterni pronta occasione d'occupargli. Le massime della politica s'apprendevano allora dalla Scrittura Santa, non avendo per la barbarie de' tempi altri libri donde fossero meglio istrutti: essi leggendo quivi l'ammonizione di Davide, dicente, non esservi cosa più gioconda, che habitare fratres in unum, si regolavano da questo detto: ma non vedevano che ciò era ben da desiderare, e conseguito da tenersi caro; ma per la condizione umana era difficile a porsi in pratica; e potevano dalla medesima scrittura apprendere, che ogni regno diviso, per se stesso sì dissolverebbe. Comunque siasi non gli dava il cuore che al primogenito si dasse tutto, per ciò fattosi luogo alla successione, la città principale era ritenuta [27] dal primogenito, e gli altri fratelli erano investiti di Contadi ed altri Feudi, de' quali per essere i possessori della stessa razza, da dependenti Signori, che ne erano, se ne rendevano assoluti. Così abbiam veduto di Radelchiso Principe di Benevento, il quale avendo da Caretruda generati dodici figliuoli, oltre Radalgario, che gli succedette, gli altri furono tutti Conti. Lo stesso accadde del Principato di Salerno, il quale, come si è detto, diviso da Gisulfo, con indignazione de' Salernitani, in tanti Contadi tra i figliuoli di Landulfo, fu veduto possedersi da tanti, oltre i Proceri salernitani, i quali ne' loro castelli viveano ben fortificati con assoluto ed independente arbitrio.

Ma sopra tutto il Principato di Capua patì questa deformazione; poichè dalla razza d'Atenulfo, come dal cavallo trojano ne uscirono tanti Conti e Signori, che riempierono non meno Capua, che Benevento di Contadi e Signorie. Del sangue di questo Principe uscirono i Conti di Venafro, di Sessa, d'Isernia, di Marsico, di Sarno, di Aquino, di Cajazza, di Teano e tanti altri. Li quali se bene, come si è altre volte detto, nel principio fossero stati conceduti in Feudo, nulladimanco poi ciò che era loro stato dato in amministrazione passò in signoria; ed insino a questi tempi la cosa era comportabile, perchè la concessione per la morte o fellonia del Conte, restava estinta, nè il Contado passava all'erede; ma in questi tempi indifferentemente praticavasi, per la ragione altrove rapportata, che passasse a' figliuoli ed eredi, concedendosi l'investiture pro se et haeredibus, siccome tra gli antichi monumenti si legge investitura fatta nell'anno 964 in Capua da Pandulfo Capo di ferro, e da Landulfo [28] suo figliuolo della città d'Isernia colle sue pertinenze a Landulfo e suoi eredi[28].

Così concedendosi tanti Contadi e Feudi, non solo vennero a multiplicarsi e poi dividersi in tante parti, ma investendone quelli del medesimo loro sangue, si invogliavano ad aspirare alla signoria independente, e posero con ciò in iscompiglio e disordine gli Stati, che per ultimo restarono preda d'altre nazioni.

§. I. Cognomi di famiglie restituiti presso di noi, che per lungo tempo erano andati in disuso.

Dal numero di tanti Feudi e Contadi posseduti da varie famiglie, sursero i cognomi per disegnarle; poichè i Longobardi non avendo cognomi per denotare le particolari famiglie, dalle città e terre che possedevano ed ove aveano fermata residenza, presero i cognomi; e cominciossi tratto tratto in queste nostre parti a restituire il costume degli antichi Romani; i quali cognomi se bene in questi tempi degli ultimi nostri Principi longobardi si cominciassero a restituire, succeduti da poi i Normanni, questi furono che gli accrebbero in immenso, onde si restituirono in tutti i cognomi, che diedero da poi distinzione alle famiglie.

I Romani, che non conobbero Feudi trassero i cognomi altronde, non da' luoghi che forse avessero i loro maggiori posseduti. Ma come che presso i medesimi [29] la pastorizia e l'agricoltura era avuta in molta riputazione, moltissime famiglie trassero il cognome dalle cose rusticane a queste appartenenti: quindi i Latuzj, i Melj, gli Frondisj, i Fabj, i Pisoni, i Lentuli ed i Ciceroni; e dalla pastorizia, i Bubulci, i Bupecj, Juvenci, i Porzj, Scrofe, Pilumni, Juni, Satirj, Tauri, Vituli, Vitellj, Suilli, Capriani, Ovini, Caprillj, Equini ed altri, de' quali fece lungo Catalogo il Tiraquello[29].

Anche presso i medesimi sortirono le famiglie il cognome dalla natura, che ora propizia, ora inimica deformò loro il corpo o l'animo d'alcun vizio, o l'arricchì di qualche speziale avvenenza, o di buon costume: così dalla larghezza de' piedi, surse il cognome de' Planci; dalla grassezza, quello de' Grassi; dagli capegli l'altro de' Cincinnati; da' nasuti, i Nasoni e tanti altri. Sovente da' costumi, come Metello Celere, dalla sua celerità; altronde dal caso, come Valerio Corvino; altrove dal luogo conquistato, come Scipione Affricano, e così degli altri[30].

Ma presso questi ultimi nostri Longobardi per la maggior parte i cognomi sursero dalle città e castelli, che i loro antenati possederono, e ne' quali essi trasferivano la loro abitazione, ed ivi dimoravano in tutto il tempo della loro vita. Così dal castello di Presensano surse il cognome di Presensano, la qual famiglia insieme col castello mancò in Capua dopo il tempo del Re Roberto. Così ancora presso Erchemperto[31], Marino in cognominato Amalfitano, perchè presideva in Amalfi, della quale città fu Duca; e presso il medesimo [30] Autore[32], Landulfo fu appellato Suessulano, perchè presideva a Suessula; e da Lione Ostiense[33] Gregorio fu cognominato Napoletano, perchè fu Duca di Napoli; e il medesimo Autore[34] cognominò Landulfo di Santa Agata (del quale più innanzi parleremo) non per altro, perchè fu Conte di quella città. E poichè tutti questi Proceri da Capua, dalla prosapia d'Atenulfo discesero, perciò presso gli Scrittori di questi tempi furono anche detti Nobili capuani, onde surse il cognome della illustre Famiglia capuana, e furon detti per lungo tempo Nobili capuani tutti coloro che furono della razza de' Conti e Principi di Capua, ancorchè fossero divisi in più famiglie, come il dimostra con somma accuratezza il diligentissimo Pellegrino[35]: quindi si fece che alcuni ritenessero anche da poi il cognome di Capuani o di Capua; ed altri dai luoghi che possedevano, ancorchè dell'istesso genere, si cognominarono. Così la famiglia di Sesto surse dal castello di questo nome nel Contado di Venafro, che da' Conti di questo luogo e da Pandulfo, al quale fu dato il cognome di Sesto, uscì, della quale parla Pietro Diacono[36]; la qual famiglia sotto il Re Guglielmo II ancor si legge essersi mantenuta con sommo splendore, ed occupare i primi posti della milizia, come potrà osservarsi presso Luigi Lello[37].

E quelle tre famiglie di Franco, di Citello e di Roselle, siccome furono della gente longobarda, così ancora devono reputarsi esser surte dalla razza d'Atenulfo [31] Principe, e da' luoghi posseduti da' loro antenati esser derivate, ben lo dimostra il Pellegrino; e molte altre famiglie longobarde, che trassero l'origine da questi Principi di Capua e da Atenulfo, anche discacciati i Longobardi, si mantennero in queste nostre parti sotto i Normanni, come più distintamente diremo innanzi, quando de' Popoli di questa Nazione ci tornerà occasione di trattare: tanto che ebbe a dire Lione Ostiense, che Atenulfo, ed i suoi descendenti per molte loro generazioni, tennero il Principato per cento settantasette anni in questi nostri contorni di Benevento e di Capua; poichè per molto tempo ne' Principati di Capua e di Benevento molti Baroni furono del sangue d'Atenulfo, che Signori di varj Feudi, stabiliron le loro particolari famiglie, dandosi a' loro congiunti l'investiture di molti Feudi, e sursero quindi in tutta l'Italia Cistiberina molti Conti e Baroni, ed altri Nobili; e l'istesso si fece nel Principato di Salerno. Parimente la famiglia Colimenta, donde pruova il Pellegrino esser surta la famiglia Barrile, non altronde, che dal castello Colimento, che ora diciamo Collemezzo, deriva; siccome il cognome della nobil famiglia Gaetana, da Gaeta; poichè da Lione[38] Ostiense Gaetani sono appellati coloro, che come Duchi tennero la città di Gaeta. Così ancora il cognome della illustre famiglia di Aquino, non altronde, che da' Conti di quella città è surto; siccome quelle de' Sangri, de' Sanseverini, degli Acquavivi e tante altre, dalle città, e terre da' loro maggiori possedute derivarono[39].

Anche presso questi ultimi nostri Longobardi sursero i cognomi, se bene più di rado, da' nomi de' loro [32] progenitori: così la famiglia Atenulfo ebbe tal nome da Atenulfo, padre che fu di Pietro Cardinal di Santa Chiesa; e moltissime altre. Trassero eziandio i cognomi origine da' Magistrati ed Uffizj, così ecclesiastici, come secolari, e per qualche mestiere da' loro antenati esercitato: la famiglia Mastrogiudice quindi, al dir di Freccia[40], ebbe origine: siccome quella de' Doci, degli Alfieri, de' Conti, de' Ferrari, Cavalcanti, Filastoppa e tante altre. Da' costumi ancora e dalla propria indole; da' colori, dagli abiti, dalle barbe, dal mento; dalle piante, fiori, animali, e da tante altre occasioni ed avvenimenti che sono infiniti[41].

Ma egli è da avvertire, che questa usanza di tramandar i cognomi a' posteri, perchè meglio si distinguessero le famiglie, cominciò sì bene appo noi nel fine di questo X secolo, ma molto di rado; onde nei diplomi ed altre carte di questi tempi, assai di rado si leggono cognomi. Si frequentarono un poco più nel XI e XII secolo appo i Normanni; ma nel XIII e XIV furono talmente disseminati e stabiliti, che comunemente tutte le persone, ancorchè di basso lignaggio, si videro avere proprj cognomi, con tramandargli a' loro posteri e discendenti[42].

[33]

§. II. Spedizione infelice d'Ottone II contro a' Greci, e morte di Pandulfo Capo di ferro.

Il costume de' nostri ultimi Longobardi, in tante parti di dividere i loro Stati, cagionò finalmente la loro ruina, e diede pronta e spedita occasione a' Normanni di discacciarli da queste nostre province; perchè questi Baroni, ancor che riconoscessero le investiture dei loro Contadi da' Principi di Capua e di Benevento e di Salerno, nulladimanco essendo dell'istessa razza d'Atenulfo, e molti aspirando a' Principati stessi di Capua, di Benevento e di Salerno, donde alcuni n'erano stati discacciati; ancorchè, come si è detto, Pandulfo Capo di ferro col suo valore e felicità reggesse insieme con Landulfo IV e l'altro Pandulfo suoi figliuoli Capua, Benevento e Salerno; nulladimeno morto Capo di ferro in Capua l'anno 981[43] cominciarono di bel nuovo in queste province le rivoluzioni e' disordini. S'aggiunse ancora, che Pandulfo, il quale avea proccurato, che fra gl'Imperadori d'Oriente con quelli d'Occidente si mantenesse una stabile e ferma amicizia, appena mancato, si videro rotte tutte le corrispondenze, e rinovate l'antiche gare; poichè Ottone II che mal sofferiva la Puglia e la Calabria essere in mano dei Greci sotto gl'Imperadori Basilio e Costantino, che erano al Zimisce succeduti nel 977, disbrigatosi come potè meglio degli affari di là de' monti, armato, coll'Imperadrice Teofania calò in Italia in quest'anno 980[44].

Erasi, come si disse, già introdotto costume, che [34] quando gl'Imperadori d'Occidente venivano in Italia, presso Roncaglia fermati, luogo non molto lontano da Piacenza, ivi solevano intimar le Diete, ove univansi i Duchi, Marchesi e Conti di molti luoghi d'Italia, i Magistrati delle città, ed anche l'Ordine ecclesiastico per trattar degli affari d'Italia più rilevanti: si esaminavano le querele de' sudditi contro i potenti: si davano l'investiture de' Feudi: si decoravano molti Baroni di titoli: si stabilivano molte leggi attenenti ancora allo Stato ecclesiastico, ed a' precedenti mali davasi qualche compenso. Ottone in quest'anno giunto in Piacenza assemblò la Dieta in Roncaglia, ove diede molti utili provvedimenti. Di questo Ottone sono quelle leggi, che abbiamo nel libro secondo delle leggi longobarde; e molte sotto il tit. qualiter quisq. se defendebeat[45], ove riprovandosi la prova per li giuramenti, si ritenne quella del duello, e moltissime altre sono state raccolte da Melchior Goldasto ne' suoi volumi[46].

Dato perciò qualche ristabilimento alle cose d'Italia, passossene Ottone in Roma, ove in un pranzo fece inumanamente trucidare molti Proceri a se sospetti d'infedeltà; indi col suo esercito nel seguente anno 981 venne in Benevento, dove fermossi per qualche tempo: fu anche in Napoli ricevuto da' Napoletani, i quali poco curandosi di violar la fedeltà dovuta agli Imperadori d'Oriente loro Sovrani, gli diedero anche soccorso; e mentre si tratteneva in queste nostre regioni proccurò ingrossare le sue truppe con quelle, che [35] gli eran somministrate da Benevento, da Capua, da Salerno e da Napoli, per invadere la Puglia. Trattenendosi quivi volle conoscere dello spoglio, che Giovanni Abate di S. Vincenzo a Vulturno si doleva aver patito da Landulfo Conte d'Isernia, che avea occupati tre castelli di quel monastero: pronunziò a favor del monastero, e glie ne spedì diploma in Benevento in quest'anno 981 a' 10 di ottobre[47].

In quest'istesso anno, come si è detto, accadde in Capua la morte di Pandulfo Capo di ferro, ed avendo la casualità portato, che il Vesuvio in quest'istessi tempi, siccome suole, eruttasse fuoco e fiamme, nacque appresso il volgo quella credenza, che quando da quel monte davansi cotali segni, o era preceduta o dovea seguire la morte di qualche uom ricco e potente ed insieme scellerato, e che la di lui anima era da' demonj per quella voragine portata all'inferno, la qual credenza ebbe origine, siccome sempre accadde in questi casi, dalla visione d'un Solitario, al quale, come narra Pier Damiano, parve aver veduta l'anima di Pandulfo esser portata da' diavoli al fuoco pennace dell'inferno[48]. Infatti Capo di ferro fu il più ricco e potente in queste nostre province, di quell'età: egli non solo fu Principe di Capua, di Benevento e di Salerno, ma era ancora Marchese di Spoleto e di Camerino, possedendo perciò poco men, che la metà di Italia[49]; ed ancorchè di lui si leggessero molte opere di pietà, d'aver in sommo onore avuto il Pontefice Giovanni XIII, e d'aver di molti doni e privilegi arricchito il monastero Cassinense in quel tempo che [36] visse, che al dir di Lione Ostiense[50] fu il più accettabile per li Monaci; nulladimanco la visione di quel Solitario fece perdere tutta la stima a quelli fatti, e fece credere di avergli operati non per animo sincero di pietà e di religione, ma per mondani rispetti: al che s'aggiungeva l'enorme discacciamento dal Principato di Benevento di Landulfo suo nipote.

Così ancora, essendo negli anni seguenti accaduta la morte di Giovanni Principe di Salerno, che fu avo dell'ultimo Guaimaro, il qual nell'anno 1052 da' suoi fu ucciso; vomitando in quel tempo il monte fiamme, Giovanni, che vivea in questa credenza, disse: Procul dubio sceleratus aliquis dives in proximo moriturus est, atque in infernum descensurus: il che fu poco da poi accomodato all'istesso Principe Giovanni, il quale la vegnente notte si trovò inopinatamente morto in braccio d'una sua putta[51]; onde maggiormente presso il volgo crebbe quella credenza, che ha durato lungamente sino a' tempi de' nostri avoli, e di credere ancora scioccamente, che il Vesuvio fosse una bocca dell'inferno.

Ma ritornando in via, morto Pandulfo, lasciò come si disse in Benevento Landulfo IV suo figliuolo, al quale in sua vita avea egli aggiudicato quel Principato, ed anche per pochi mesi dopo la morte del padre resse Capua. Lasciò Pandulfo un altro suo figliuolo, Principe in Salerno, quegli, il quale era stato adottato da Gisulfo, e che dopo la morte di suo padre per alcuni mesi resse questo Principato; ed insieme altri suoi figliuoli Atenulfo Conte e Marchese, [37] Landenulfo, Gisulfo, che fu Conte di Tiano, e Laidolfo[52].

Ma la morte di questo Principe tosto dissipò quell'unione, che non potea lungamente durare; poichè Pandulfo II che fu da lui discacciato dal Principato di Benevento, subito che l'intese estinto, volle vendicarsi del torto ricevuto, e discaccionne dal Principato Landulfo IV, appropriandosi a se Benevento, che poi lo trasmise a' suoi posteri; e Landulfo poco da poi finì ancora i giorni suoi; imperocchè Ottone avendo indrizzato il suo esercito (ch'era composto oltre di molte Nazioni, anche di Beneventani, fra' quali volle anche accompagnarsi questo Landulfo con Atenulfo suo fratello) verso Taranto per debellare i Greci ed i Saraceni ch'erano stati chiamati da' Greci in lor ajuto, nella battaglia che nel seguente anno 982 si diede, fu l'esercito d'Ottone disfatto, ed uccisi fra gli altri Principi Landulfo ed Atenulfo, e l'istesso Ottone appena potè scampare[53].

Quindi accadde, che al Principato di Capua, morto Landulfo, fossero succeduti Landenulfo suo fratello, ed Aloara sua madre, e che Ottone, rifatto come potè meglio il suo esercito, ritornato in Capua, confermasse questo Principato di Capua ad Aloara e a Landenulfo, che lo ressero dal suddetto anno 982 insino all'anno 993, quando morta quattro mesi prima Aloara, fu nel mese di aprile Landenulfo da' suoi miseramente ucciso[54].

Fu così infelice questa spedizione d'Ottone contro i Greci, e così grande la rotta data al suo esercito, [38] che fu costante opinione, che se i Greci avessero saputo servirsi della vittoria, avrebbero insino a Roma portate le loro armi. Ma in questo conflitto, siccome i Greci s'avvidero della poca fedeltà de' Napoletani e degli altri loro sudditi, così, e molto più, Ottone imputava la perdita a' Beneventani ed a' Romani[55], (appresso i quali era venuto in abbominazione per l'enorme uccisione fatta di molti Proceri in quel convito, onde appo d'essi acquistossi il cognome di Sanguinario) i quali nel meglio della battaglia l'avean abbandonato. Quindi si narra, che nel seguente anno 983 ritornato Ottone a Capua, e rifatto al meglio il suo esercito, sopra Benevento improvvisamente lo drizzasse, e dato in questa città un memorabil sacco, per recar a' Beneventani maggior dolore gl'involasse l'ossa di S. Bartolomeo, di cui eran tanto divoti, ed in Roma le facesse condurre per trasportarle da poi in Germania; ma prevenuto dalla morte in quest'anno accadutagli in Roma, non potè condurre a fine il suo disegno, onde rimase in quella città; oggi nella medesima s'adorano in un tempio nell'isola Licaonia del Tevere, resa oggi assai più celebre al Mondo per quest'ossa, che per ciò che del suo sorgimento ne scrisse Livio nella sua incomparabile Istoria.

I Beneventani non possono soffrire ciò che di questa traslazione narrano Ottone[56] Frisingense, Goffredo di Viterbo[57], Biondo[58] ed il Sigonio[59], ed altri più moderni. Essi per l'autorità di Roberto [39] Tuitense[60] appresso il Baronio e dell'Ostiense[61], vogliono che verso l'anno 1000, Ottone III non il II, essendo dal Monte Gargano ritornato a Benevento, avesse cercato a' Beneventani il corpo del S. Appostolo, i quali non avendo ardire di negarglielo, fossero ricorsi alla fraude, e tenendo ancor essi con somma venerazione il corpo di S. Paolino Vescovo di Nola, in vece di quello, gli avessero dato questo di S. Paolino: di che poi accortosi Ottone, grandemente offeso di tal frode, fosse di nuovo da poi ritornato in Benevento, ed avendo tenuta assediata per ciò questa città più giorni, non avendo potuto espugnarla, fu d'uopo che in Roma se ne tornasse. Ma Martino Polono[62], secondando il genio de' Romani, che lo vogliono nel Tebro, narra sì bene, che Ottone III dal Gargano ritornasse in Benevento; ma che a' Beneventani non altro, che il corpo di S. Paolino cercasse, i quali senza usar fraude alcuna glielo diedero. Così insorta fra' Scrittori moderni acerba contesa sopra quest'ossa, tra' Romani e' Beneventani, vengon due corpi in diversi luoghi adorati d'un medesimo Santo; ed i Napoletani pure pretendono, che il capo di questo Appostolo non sia nè a Roma, nè a Benevento, ma in Napoli nel monastero delle Monache di Donna Regina per donazione fattagliene da Maria moglie di Carlo II d'Angiò figliuolo di Carlo I, il quale dopo avere sconfitto Manfredi, da' Beneventani l'ebbe; ed il nostro Istorico Giannettasio il tiene per cosa certa, con tutto che accenni la fiera contesa, che sopra ciò ancor arde fra' Romani e' Beneventani. Ed abbiamo [40] veduto in questi ultimi nostri tempi miseramente affannarsi sopra questo soggetto molti Scrittori, a' quali, da poi che si saranno affaticati a dimostrare, che sia stato questo corpo trasferito in Roma, ovvero esser rimaso in Benevento, molto più loro resta da travagliare per render verisimile, come fino dall'India, siccome narra Sigeberto, si fosse trasportato in Lipari. Ma tutte queste dispute, non essendo del nostro istituto, volentieri le lasciamo ad essi, a cui ben stanno.

CAPITOLO III. I Greci riacquistano maggior vigore nella Puglia e nella Calabria; ed innalzamento del Ducato di Bari, sede ora de' Catapani.

I Greci, che sotto gl'Imperadori Basilio e Costantino aveano contro Ottone II riportata così insigne vittoria, si ristabilirono più fermamente nella Puglia e nella Calabria; e reggendo queste province con molto vigore, distesero i confini di quelle sopra i Principati di Benevento e di Salerno, pretendendo ancora sopra i Principi longobardi esercitar sovranità. Ma avvertiti per le cose precedute dell'infedeltà de' loro sudditi, per tenergli a freno, pensarono a ben presidiarle. Temevano ancora, che i Germani sotto Ottone non tornassero ad assalirle; e che i Saraceni, ancorchè confinati in alcune rocche, non le turbassero colle solite loro scorrerie, giacchè fortificati nel Monte Gargano non tralasciavano, quando lor veniva fatto, di scorrere e scompigliar la Puglia. Edificarono perciò a questi tempi molti ben forti castelli. Fondarono nella [41] Puglia piana una città, che chiamarono, per rinovare il glorioso nome d'Ilio, Troja: città che ancor dura, poichè anche i Normanni, dopo Melfi, la distinsero sopra tutte le altre città di quella provincia, che Capitanata ora si appella. Fondarono anche quivi Draconaria, Civitade, e Firenzuola, città ora distrutte, ed altre terre[63]. Per mantenere più in freno i loro sudditi, istituirono in Puglia un nuovo Magistrato chiamato in loro lingua Catapano, il quale avesse pieno potere, non ristretto da alcun limite, ma per se medesimo, senza chiederne permesso dalla Corte di Costantinopoli, potesse governare queste province con assoluto imperio. Bari, ove prima solevan risedere gli Straticò, fu assignata per sua sede, onde questa città si vide estollere il suo capo sopra tutte l'altre città della Puglia.

Donde questo nome di Catapano derivasse, il nostro Guglielmo Pugliese[64] ne fa derivar l'origine da questo stesso sterminato potere, che fu dato a questo Ufficiale, e dice, che si chiamasse Catapano,

Quod CATAPAN Graeci, nos JUXTA dicimus OMNE.

Quisquis apud Danaos vice fungitur hujus honoris,

Dispositor populi parat omne quod expedit illi,

Et JUXTA quod cuique dari decet, OMNE ministrat.

Ma Carlo Du-Fresne nelle note all'Alessiade della Principessa Anna Comnena deride questa etimologia di Guglielmo, e vuole che Catapanus appresso i Greci, sia l'istesso che presso i Latini Capitaneus. Quindi deride ancora Lione Ostiense, il quale nella sua [42] Cronaca[65], oltre di riputar questo nome proprio di uomo, quando si vede essere di dignità, stimò che la provincia di Capitanata, che da questi Ufficiali prese il nome corrottamente, dal volgo venga chiamata così, dovendosi appellare Catapanata; sostenendo Du-Fresne, che essendo l'istesso presso i Greci Catapanus, che fra i Latini Capitaneus, non già Catapanata, ma Capitanata giustamente si appelli; chiamando ancora Niceta[66] Capitanata quella Prefettura, la quale composta di più città o terre, ad un Capitano è sottoposta.

Avendo i Catapani collocata la loro sede in Bari, Lupo Protospata, che secondo dimostra il Pellegrino[67], non può dubitarsi, che fosse, se non di Bari, almeno Pugliese di nazione, tessè di loro lungo catalogo; ed il primo, che intorno a questi tempi nell'anno 999 presso il medesimo leggiamo aver governata questa provincia, fu Tracomoto, ovvero Gregorio, il quale assediò Gravina, e prese Teofilatto. Nell'anno 1006 fu mandato per Catapano in Puglia Xifea, che nel 1007 morì in Bari, a cui succedè nell'anno seguente 1008 Curcua. Sotto il magistrato di costui i Baresi ribellatisi, elessero per lor Principe Melo di sangue longobardo, che dimorava in Bari, quegli, che sarà celebre nell'istoria de' Normanni; ma repressi dai Greci, Melo fuggissene con Datto suo cognato ed andarono raminghi. Prima se ne andò in Ascoli, ma dubitando di tradimento, si trasferì in Benevento, di là in Salerno e poi a Capua, sollecitando que' Principi longobardi perchè l'aiutassero a liberar Bari dalla [43] tirannia de' Greci. Morto Curcua nell'anno 1010, gli succedette Basilio Catapano, nel tempo di cui dice Freccia[68], che Bari facta est sedes magnorum virorum Graecorum. Indi nel 1017 venne per Catapano Adronico che pugnò con Melo, e lo vinse[69].

Nell'anno seguente 1018 gli succedè Basilio Bugiano, che da Guglielmo Pugliese[70] vien chiamato Bagiano e da Lione Ostiense[71] Bojano. Questi fu che per lasciar di se memoria in Italia, tolta dal rimanente della Puglia una parte verso il Principato di Benevento, e fattane una nuova provincia col nome di Capitanata, vi fabbricò, come fu detto, alcune terre e città, come Troja, Draconaria, Fiorentino ed altre. Nel 1028 Cristoforo fu fatto Catapano; indi Pato, che governò sino al 1031, e nell'anno seguente fu Catapano Anatolico. Nel 1033 venne per Catapano Costantino Protospata, che si chiamò Opo. Indi Maniaco, a cui succedè nell'anno 1038 Niceforo, che nell'anno 1040 morì in Ascoli. A costui succedè Michele, che fu anche detto Duchiano, e dopo costui finalmente fu nel 1042 Catapano Exaugusto figliuolo di Bugiano, sotto il cui governo, essendo stato costui vinto dai Normanni, furono scacciati da queste province i Greci, e fu egli preso in battaglia in Benevento. Ed ancorchè queste province passassero da poi sotto la dominazione de' Normanni, come che non tutte in un tratto vi passarono, perciò anche dopo Exaugusto, si leggono presso Lupo e l'Anonimo di Bari, altri Catapani, de' quali, secondo l'opportunità, faremo memoria.

[44]

Il potere de' Greci adunque dopo questa rotta, che ebbe Ottone II, insino che cominciasse in queste province la dominazione de' Normanni, erasi reso molto più considerabile di quello, che fu negli anni precedenti, così per ciò che riguarda l'ampiezza de' confini che distesero, come per l'assoluto Imperio, che riacquistarono non meno gl'Imperadori d'Oriente sopra il governo politico e temporale, che i Patriarchi di Costantinopoli per lo governo ecclesiastico e spirituale sopra i Metropolitani e' Vescovi della Puglia e della Calabria.

La Puglia, che ne' tempi d'Arechi e degli altri Principi di Benevento suoi successori era al Principato beneventano attribuita, ora distratta ed in poter dei Greci ricaduta, diminuì notabilmente quel Principato. I Greci per questa parte si distendevano insino a Troja ed Ascoli, e toltone Siponto ed il M. Gargano, che a quel Principato erano ancor uniti verso Oriente, tutta quella estensione insino all'ultima punta d'Italia era de' Greci. S'aggiungeva ancor la Calabria secondo la moderna appellazione, che abbracciava non solo il Bruzio, Reggio, Cotrone e l'altre città vicine, ma anche abbracciava gran parte dell'antica Lucania, e per questa parte dal Principato di Salerno era terminata, il quale perciò aveva ristretti i suoi confini; nè in questi tempi abbracciava quell'estensione di paese, che a' tempi di Siconolfo a questo Principe ubbidiva. Quest'istessa ampiezza restrinse ancora per un altro lato i confini del Principato di Capua, tanto che non mai in altri tempi si videro dilatati tanto i confini del dominio de' Greci, che in questi, ne' quali tirandosi una linea dal Monte Gargano insino al promontorio di Minerva, ch'è la maggior latitudine del [45] regno; tutto ciò che riguarda l'Oriente e Mezzogiorno, era al dominio de' Greci sottoposto: siccome l'altra parte, che riguarda Occidente e Settentrione, ai Principi longobardi: ma siccome il Principato di Salerno si distendeva fuori di questa linea verso Oriente e Mezzogiorno; così ancora i Greci non s'erano affatto spogliati della loro dominazione verso l'altra parte, che non interamente era a' nostri Principi longobardi sottoposta; imperocchè in questa ancora v'erano i tre Ducati di Amalfi, di Napoli e di Gaeta, i quali ancorchè si reggessero in forma di Repubblica, e sovente dal Corpo d'esse non solo s'eleggessero i Magistrati, ma anche i Duchi; nulladimeno sempre gli Imperadori greci in essi Ducati ivi mantennero non deboli vestigi della loro autorità e supremo dominio; siccome del Ducato di Napoli, dalle cose già altre volte dette si è veduto; e nel Ducato d'Amalfi ancora solevano i Duchi confermarsi dagl'Imperadori d'Oriente, da' quali ne ricevevano la dignità del Patriziato.

Di Gaeta nè meno di ciò può dubitarsi; poichè se bene Lione Ostiense[72] rapporti, che Gaeta ubbidiva al Papa, e che perciò Giovanni VIII, l'avesse conceduta a Pandulfo Conte di Capua; nulladimanco fu quella ben tosto ricuperata da' Greci. I Papi pretendevano questa città per quelle ragioni, che gli fornì Carlo M. quando pretese toglierla a' Greci, e farne un dono alla Chiesa romana, siccome avea fatto di Terracina e delle altre spoglie de' Greci: ma Arechi immantenente s'oppose, e fece sì, che tosto questa città ritornasse nel dominio greco, onde da' Patrizj prima e poi da' Duchi fu governata. Ma perchè i Pontefici [46] romani non si dimenticano così di leggieri dei loro diritti una volta che credono avergli acquistati, mantennero sempre vive le loro pretensioni, e quando le congiunture ed i tempi gli favorivano, non potendo ritenerla per se, la concedevano a qualche Principe potente, acciocchè potesse difendersela da' Greci, siccome fece Giovanni VIII, concedendola a Pandulfo; ma perchè da costui facevasi de' Gaetani aspro governo, Docibile, che si trovava allora Duca di Gaeta, ricorse sino agli aiuti de' Saraceni per discacciarlo; onde si vede, che ne gli stessi tempi che narra Ostiense, Gaeta ubbidire al Papa, si fa menzione de' Duchi, che furono in quella città, dependenti dagl'Imperadori greci, come fu Giovanni, Gregorio, Docibile ed altri; ed in molte carte fatte in questi medesimi tempi in Gaeta, alcune delle quali le dobbiamo all'Ughello, si vede perciò notato il nome degl'Imperadori d'Oriente, che allora regnavano. Così in una fatta nell'anno 812 si legge: Imperantibus Domino nostro piissimo Imperatore Augusto Michaelio et Theophilo magnis pacificis Imperatoribus. Ed in un'altra fatta dopo il tempo del quale parla Ostiense, nel 884 si dice: Imperantibus Domino nostro Leone et Alexandro pacificis magnis Imperatoribus[73]. Ciò che manifestamente si conosce dal vedersi, che i Normanni dopo averne discacciati i Greci, si vollero intitolare non meno Principi di Capua, che Duchi di Gaeta: ancorchè lasciassero in quella città la medesima politia e forma di governo, e che i suoi particolari Duchi e Consoli la governassero[74].

[47]

Per questa cagione avendo i Greci tanto dilatati i loro confini, e non riconoscendo Feudi, non si leggono così nella Puglia come nella Calabria in questi tempi nè Contadi, nè Ducati, nè altre Baronie; ma ben se ne leggono moltissime nelle province a' Principi longobardi sottoposte. Quivi, come si è veduto, si sono intese le Contee di Marsico, di Molise, d'Isernia, d'Apruzzi, di Tiano e tante altre; ma la Puglia e la Calabria non se non quando passarono sotto la dominazione de' Normanni conobbero i Feudi; poichè i Normanni, traendo la medesima origine de' Longobardi, gli riceverono insieme colle loro leggi e costumi. Quindi in tutti que' luoghi, che tolsero a' Greci, v'introdussero i Feudi: e sursero quindi (oltre i Conti di Puglia e di Calabria) i Conti di Capitanata, di Principato, di Lavello, di Loritello; i Conti di Conversano, la memoria de' quali spesso s'incontra non meno nell'antiche carte, che nell'Alessiade della Principessa Anna Comnena, nella Cronaca di Lione presso Malaterra, Oderico Vitale e di tanti altri Scrittori[75]; i Conti di Catanzaro, di Sinopoli e di Cosenza; i Conti d'Aversa e quelli di Lecce; i Conti d'Avellino, di Fondi, di Gravina, di Montecaveoso, di Tricarico e tanti altri, de' quali ne' tempi de' Normanni ci tornerà occasione di favellare. Prima, quando questi luoghi erano in potere de' Longobardi, furono, come si disse, divisi in Castaldati, che non erano veri Feudi, ma le loro città erano commesse in amministrazione ed in ufficio a que' Proceri longobardi, nè poterono essere mutate in Feudi, come fu fatto in quelle province, che lunga stagione si mantennero presso i Longobardi; [48] perchè i Greci, che le tolsero parte a' Saraceni, i quali l'avean occupate a' Longobardi, e parte agl'istessi Longobardi, come s'è detto, non conoscevano Feudi.

Questo maggior vigore de' Greci ed estensione del loro dominio, portò ancora in conseguenza, che le Chiese di queste province, che secondo la disposizione dell'Imperador Lione furono sottoposte al trono di Costantinopoli, fossero con maggior vigore astrette ad ubbidire a' Patriarchi di Costantinopoli. Quindi si resero più vigorose le proibizioni di Niceforo Foca contro il rito latino, e che i Patriarchi di Costantinopoli s'avanzassero tanto, sino a comandare a tutti i Vescovi della Puglia e della Calabria, che per l'avvenire ne' sacrificj non si servissero più del pane azimo secondo il rito latino, ma del fermentato, conforme all'uso de' Greci; onde s'innasprirono le contese coi Pontefici romani, i quali non vollero in conto alcuno permetterlo, impegnando perciò l'Imperador Ottone a spedire, come si disse, Luitprando Vescovo di Cremona in Costantinopoli: le quali contese s'accrebbero assai più ne' tempi di Lione IX, quando il Patriarca Michele Cerulario scomunicò tutti i Latini, comprendendovi anche l'istesso Pontefice Lione, perchè, fra l'altre cagioni, non osservavano il divieto loro imposto di non consecrare più in azimo, ma che dovessero servirsi di pane fermentato. Donde è nato, che insino a' nostri tempi siano rimasi in questi luoghi alcuni vestigi del rito greco, e che molte Chiese insino al dì d'oggi il ritengano; ancorchè i Pontefici romani per abolire affatto questi vestigi della potestà esercitata quivi dal Patriarca d'Oriente, non abbiano trascurate le occasioni col tempo d'abolirgli, il che se bene fosse [49] loro riuscito in moltissime città, non è però, che oggi siasi affatto estinto e non sia ritenuto in alcune.

Per quest'istessa ragione non è fuor di proposito il credere, che a tali tempi in questi luoghi le Novelle degl'Imperadori d'Oriente, e le Compilazioni dei Basilici, l'Ecloghe, e gli altri libri, de' quali abbiam fatta memoria nel precedente libro, avessero quivi avuto qualche uso ed autorità; e forte conghiettura ce ne diede l'essersi, come si disse, in Taranto ritrovata l'Ecloga de' Basilici, e l'essersi, mantenuta in Otranto lungo tempo quella famosa libreria d'Autori greci, della quale favella Antonio Galateo. Egli è però vero, che se pure di questi libri s'ebbe qualche uso, non potè durare se non per poco, poichè tosto questi luoghi, essendo caduti sotto la dominazione de' Normanni, i quali abbracciarono le leggi longobarde non riconobbero da poi altre leggi, che quelle di questi Principi e le longobarde: ciò che dimostrano chiaramente le consuetudini stesse della città di Bari, le quali quasi che tutte derivano dalle leggi longobarde, onde i Cittadini di quella città l'appresero, quando la medesima fu lungo tempo sotto la loro dominazione, e quando da' loro Castaldi era governata: di che altrove ci tornerà occasione di favellare.

Ecco dunque lo stato, nel quale erano queste province, che oggi compongono il nostro Regno nel declinar del decimo secolo dopo la morte d'Ottone II, mentre in Oriente imperavano Basilio e Costantino germani. La Puglia e la Calabria (province che dilatando molto i loro confini, abbracciavano tutta la Puglia, la Japigia, la Mesapia, l'una e l'altra Calabria, con quella parte della Lucania, che si distende verso il Mare Jonio, e che perciò avean ristretti i tre Principati [50] di Capua, Benevento e Salerno) erano sotto la dominazione de' Greci. Il Ducato d'Amalfi, l'altro di Napoli e quello di Gaeta, ancorchè ritenessero aspetto di Repubblica, erano però per antichissime ragioni dipendenti dagl'Imperadori d'Oriente. In Capua reggeva Aloara con Landenulfo suo figliuolo. In Salerno Pandulfo suo fratello. In Benevento, Pandulfo II, il quale, avendo discacciato Landulfo IV figliuolo di Capo di ferro, aveva anche non molto da poi associato al Principato Landulfo suo figliuolo, che perciò Landulfo V lo diremo.

Ma sarebbe stato meno disordine, se questi tre Principati, ancorchè in gran parte estenuati da' Greci almeno avessero riconosciuti tre soli Signori: essi non solo riconoscevano per loro Sovrani gl'Imperadori di Occidente come Re d'Italia, i quali in quest'ultimi tempi v'esercitavano vigoroso potere ed autorità; ma, divisi ancora infra se stessi in più Contadi, diedero più pronta occasione alla lor ruina. Il Principato di Capua era diviso nel Contado di Fondi e di Sessa, ne' Contadi di Aquino, di Teano, d'Alife, di Caserta ed altri; quello di Benevento, ne' Contadi di Marsi, d'Isernia, di Chieti ed in alcuni altri; l'altro di Salerno nel Contado di Consa, di Capaccio, di Corneto e del Cilento; e molti Proceri de' Castelli di quel Principato eransi renduti già Signori; tanto che molti di questi Conti reputandosi, come lo erano, dell'istessa razza d'Atenulfo, altri come nati da' Principi di Salerno, da dependenti, ch'erano, si fecero assoluti Signori de' Contadi, come lo pretesero i Conti d'Aquino, di Marsi, d'Isernia, di S. Agata ed altri. Insino i Monaci Cassinesi, tutti quelli castelli, che per munificenza di varj Principi longobardi avean tratto tratto acquistato, [51] pretesero come liberi dominargli; e l'Abate della Noce[76] ha voluto sostenere, che gli possederono in allodio non già in Feudo, e che non riconoscevan diretto Signore non pagando perciò adoa; e perciò il munirono di baluardi, ed assoldavan gente per difendergli, e si videro mantener truppe di soldati, non altrimenti che gli Abati di S. Gallo, ed altri Prelati si facciano in Germania.

Sarebbe dunque stata maraviglia se più lungamente fosse durata la dominazione de' Longobardi in questi Principati, già che tal politia v'introdussero, che diede perciò opportuna e ben aperta via a' Normanni d'occupargli. Nè tampoco de' Greci potea sperarsi in quelle province lunga dominazione; poichè rendutisi insolenti a' sudditi e non essendosi molto curati di scacciar da quelle i Saraceni, cagionaronsi perciò essi medesimi la loro ruina; onde, e per l'una e per l'altra cagione, riuscì a' Normanni occupare tutte queste nostre province, e di ridurle in decorso di tempo sotto un solo Principe, e stabilirvi una ben ampia e regolata Monarchia, come ne' seguenti libri vederemo.

[52]

CAPITOLO IV. Ottone III succede nel Regno, e nell'Imperio: nuove rivoluzioni accadute per ciò in Italia, ed in queste nostre province; e sua morte.

Morto Ottone II in Roma nell'anno 883[77], e giunta quando men si pensava in Germania questa novella, empiè di confusione que' Principi; poichè ancorchè Ottone II lasciasse un altro Ottone suo figliuolo, [53] non essendo questi che di anni diciassette[78] diedesi occasione all'ambizione d'Errico Duca di Baviera, patruele del morto Ottone, di aspirare al Regno di Germania. I Romani dimandavano per Imperadore un Italiano nomato Crescenzio; ma gli Alemanni tosto ruppero questi disegni, che non potevano loro recare se non rivoluzioni e disordini; onde unitisi elessero per loro Re Ottone III col consenso anche del Pontefice Benedetto.

Ma l'esser questo Principe di età così tenera e mal adattata a reggere un tanto Regno, cagionò non meno in Alemagna, che in Italia disordini gravissimi; poichè mentre Ottone era tutto inteso a sedar i tumulti di Germania nati per questa sua elezione, in Italia accaddero sedizioni e gravi turbolenze. In Roma morto Benedetto romano Pontefice, fu eletto in suo luogo Pietro Vescovo di Pavia, che Giovanni XIV nomossi[79]; ed è verisimile, ch'essendo egli Cancelliere d'Ottone per la raccomandazione di questo Principe e' fosse stato innalzato a quella dignità. Ma Bonifacio Cardinal Diacono, il quale avendo prima occupata questa sede, ne era stato poi discacciato, e rifuggito in Costantinopoli fremendo del torto che riputava essergli stato fatto, [54] tornato da Costantinopoli venne in Roma l'anno 985, ed avendo risvegliati quelli del suo partito e guadagnato il Popolo, si rese il più forte di Roma: carcerò il Papa Giovanni, e lo rinchiuse nel castel di S. Angelo, dove lo fece morire di fame in capo a quattro mesi; ma Bonifacio non sopravvisse, che solo quattro altri mesi; onde da repentina morte tolto al Mondo, fu in suo luogo assunto al Pontificato Giovanni XV quegli che confermò la Metropoli di Salerno ad Amato Vescovo ch'era di quella città, innalzato Arcivescovo poco prima da Benedetto.

Ma Crescenzio, il quale avea preso contro Ottone il titolo di Console, e s'era impadronito del castello di S. Angelo, lo costrinse per timore a ritirarsi in Toscana, ed a pregare Ottone di venire in Italia a ristabilirlo nella sua sede. I Romani, che sapevano per esperienza quanto lor costassero le visite degl'Imperadori richiamarono Giovanni: ma Crescenzio contuttociò conservava la sua autorità in Roma. Ottone venuto in Italia nell'anno 996 stette per qualche tempo in Ravenna, e nel tempo di questo suo soggiorno in quella città, Papa Giovanni morì. I Romani furono costretti per comandamento dell'Imperadore ad elegger Papa in suo luogo Brunone suo fratel cugino, che prese il nome di Gregorio V, ma Crescenzio ben presto lo cacciò, e pose sulla sede Giovanni Vescovo di Piacenza. Questa azione non istette gran tempo senza gastigo, perchè Ottone venne subito coll'esercito, e con picciolo contrasto ristabilì Gregorio. Giovanni si salvò con Crescenzio nel castel di S. Angelo; ma l'Imperadore assediò la Fortezza, e vi sarebbe stata gran difficoltà a prenderla, se Crescenzio, che vigorosamente la difendeva, non fosse stato ucciso a tradimento. [55] Il nuovo Papa Giovanni fu preso, gli furono cavati gli occhi, troncati il naso e l'orecchie, e condotto in quello stato per le strade della città sopra un asino col capo rivolto verso la coda dell'animale. Tali furono i disordini e le rivoluzioni di Roma; nè minori furono per simili cagioni le sedizioni in Milano.

Ma in queste nostre province i disordini furono maggiori, ed in Capua più d'ogni altra parte. Reggeva, come si è detto, in questi tempi il Principato di Capua Landenulfo con Aloara sua madre, ma essendo questa Principessa morta dopo undici anni che resse col suo figliuolo, non passarono quattro mesi, che alcuni malvagi suoi sudditi in quest'anno 993 congiurati empiamente lo ammazzarono fuori della chiesa di S. Marcello, donde allora era uscito; e fu eletto in suo luogo per Principe di Capua Laidolfo suo fratello; ma non restò invendicata la morte di quest'infelice Principe, poichè Trasmondo Conte di Chieti suo congionto, avendo chiamato in suo aiuto Rinaldo ed Oderisio Conti di Marsi, indi a due mesi sopra Capua n'andò, e tennela assediata quindici giorni, dando il guasto a' luoghi d'intorno[80]; ed indi a poco pervenuto alla notizia d'Ottone III l'infame assassinamento di Landenulfo, vi mandò di nuovo i medesimi col Marchese Ugo, i quali non mai dall'assedio si levarono, finchè non furono dati loro i malfattori, sei de' quali furono fatti impiccare, e gli altri con diversi tormenti furono fatti penosamente morire. Ed essendo da poi venuto a notizia d'Ottone, che Laidolfo, il quale al Principato era succeduto, aveva tenuta mano nella morte del fratello, parendogli cosa [56] molto scellerata che un empio avesse in quel luogo a regnare, privollo del Principato nell'anno 999 mandandolo in esilio di là de' monti, e vi costituì Principe Ademario Capuano, figliuolo di Balsamo suo famigliare, che da fanciullo aveasi egli educato, ed a cui poco prima avea dato il titolo di Marchese[81]. Onde Laidolfo, secondo il vaticinio del B. Nilo, fu l'ultimo, che imperò in Capua ex semine Aloarae. Ma Ademario godè poco di tal fortuna, perchè fattosene indegno, fu tosto da' Capuani scacciato, e fu sublimato al Principato Landulfo di S. Agata, figliuolo di Landulfo Principe di Benevento, e fratello di Pandulfo II che reggeva Benevento dopo averne scacciato Landulfo IV. Non mancarono ancora le calamità in quest'istessi tempi, che apportarono i Saraceni in questo Principato; poichè scorsa, e devastata la campagna da questi fieri nemici, nel millesimo anno invasero Capua e la presero. Di che avvisato Ottone, tosto calò in Italia, disfece i Saraceni, e gli cacciò da Capua e da' suoi confini.

Nel Principato di Salerno accaddero non minori disordini: poichè morto Capo di ferro, rimase Principe, come si disse, Pandulfo suo figliuolo, per essere stato questi adottato dal Principe Gisulfo I, ma non potè Pandulfo se non per pochi mesi dopo la morte di suo padre ritenerlo, perchè privo di tal aiuto in quel medesimo anno 981 che morì il padre, perdè tosto il Principato, e s'intruse nel medesimo Mansone Duca d'Amalfi, il quale insieme con Giovanni I [57] suo figliuolo lo tenne due anni[82]: Ottone II subito in quest'istesso anno 981 nel mese di decembre non potendo soffrire l'intrusione di Mansone, assediò Salerno per discacciarnelo come illegittimo Principe: ma da poi avendo proccurato Mansone placare l'Imperadore, tanto operò finchè ottenne dal medesimo, che potesse ritenere il Principato.

Nè Ottone ebbe pensiero che fosse restituito a Pandulfo, forse perchè da lui era parimente riputato Principe illegittimo, essendo succeduto in quel Principato per l'adozione fatta da Gisulfo, e le consuetudini feudali[83], che tratto tratto eransi introdotte in questi luoghi, vietavano a' figliuoli adottati poter succedere ne' Feudi del padre adottivo. Comunque siasi, Mansone ritenne il Principato di Salerno per due anni, come rapporta la Cronaca salernitana, associando ancora a quello Giovanni I suo figliuolo, come fu detto. Ma morto da poi Ottone II nell'anno 983 i Salernitani mal sofferendo il dominio di Mansone Duca di Amalfi, per le continue inimicizie e gare, che tra Amalfitani e Salernitani furono sempre, tosto ne discacciarono Mansone, il quale già era stato anche discacciato dal Ducato d'Amalfi (se bene da poi lo ricuperasse, e lo reggesse per altri sedici anni) ed in suo luogo rifecero Giovanni di Lamberto, che fu detto II per distinguerlo da Giovanni I figliuolo di Mansone, chiamato di Lamberto dal nome di suo padre, forse consanguineo de' Duchi di Spoleto, i quali sovente valevansi de' nomi di Lamberto e di Guido; siccome questo Giovanni, Guido nomò un suo figliuolo [58] che associò al Principato. Regnò Giovanni II con Guido dall'anno 983 infino al 988[84], ma essendo morto Guido in quest'anno, associò al soglio l'altro suo figliuolo, Guaimaro appellato, col quale regnò fino all'anno 994. In quest'anno nell'istesso tempo che il Vesuvio cominciò a vomitar fiamme, mentre giaceva con una meretrice, si trovò una notte morto Giovanni[85], tanto che si confermò vie più ciò che il volgo credea, che quando il Vesuvio vomitava fiamme, l'anima di qualche ricco scellerato era portata nell'inferno. Rimanendo nel Principato Guaimaro, che III fu detto, per esservene stati altri due prima in Salerno, e maggiore ancora appellato da Ostiense[86], per distinguerlo dal minore, che fu Guaimaro suo figliuolo, il quale al Principato gli succedette, resse solo Salerno dopo la morte di suo padre insino all'anno 1018. Da poi avendo associato al soglio il suddetto suo figliuolo Guaimaro IV, lo tenne in compagnia del medesimo insino al 1031, nel qual anno morì. Sua moglie fu Gaidelgrima figliuola di Pandulfo II Principe di Benevento, e sorella di Pandulfo IV Principe di Capua, che perciò Ostiense[87] lo chiama suo cognato.

In Benevento non si ravvisava più quella maestà e floridezza di prima, e per gli sconcerti e tumulti poco prima accaduti per lo discacciamento di Landulfo IV reggeva il Principato Pandulfo II con continui sospetti e gare co' Principi di Capua. Egli però per mantenere il Principato nella sua posterità avea nell'anno 987 associato al soglio Landulfo suo figliuolo che V fu detto. E da poi avendo Landulfo procreato [59] un figliuolo chiamato Pandulfo, associò ancora al Principato questo suo nipote nell'anno 1014 che Pandulfo III fu detto, e regnò insieme col figliuolo e col nipote insino all'anno 1024, nel qual tempo morì[88]. Rimase nel Principato Landulfo V insieme con Pandulfo III insino che morì nell'anno 1033; questi associò ancora un suo figliuolo nell'anno 1038, che tenendo anche il nome di Landulfo, VI perciò fu detto. Alle calamità di Benevento s'aggiunse, che Ottone III, mal soddisfatto de' Beneventani, perciò che veniva loro imputato di aver abbandonato insieme co' Romani Ottone suo padre nella battaglia co' Greci, non poteva sofferirgli: quindi si narra che ritornato dal santuario di Gargano in Benevento tutto cruccioso per l'odio che portava a' Beneventani, avesse loro tolto il corpo di S. Paolino, e portatolo in Roma[89].

Ottone intanto per quietare in Roma i molti disordini che per la fellonia di Crescenzio eran rimasi, non essendogli bastato di aver fatto uccidere questo Tiranno, per dubbio che i Romani non tentassero nuove cose, portossi a questa città in quest'anno 1001, ma non potendo reprimere una nuova congiura tramatagli, non tenendo allora forze bastanti, riputò meglio uscir di Roma, e verso Lombardia incamminossi. Narrasi, che nel partire la moglie di Crescenzio, la quale l'Imperadore colla speranza del Regno aveala allettata al suo amore, vedutasi ora fuor di speranza avessegli tutta dolente, ma simulando il dolore, dato in dono un paio di guanti avvelenati[90], dal qual veleno Ottone insensibilmente essendone contaminato, [60] se ne morì. Lione Ostiense[91], e l'Arcivescovo di Firenze Antonino[92] narrano, che morisse di veleno apprestatogli in una bevanda, non già ne' guanti: ciò che sembra più credibile, ripugnando in fisica, secondo le osservazioni del Redi, che il veleno in cotal guisa dato, possa aver tanta forza e vigore di coagulare, o sciogliere il sangue sì che l'uom ne muoia. In fatti Ottone appena giunto presso Paterno non molto distante dalla città di Castellina ammalossi, e quivi prima di render lo spirito confessò morire di veleno: alcuni vogliono che morisse in Sutri in quest'istesso anno 1001 come l'Anonimo Cassinense; altri, come il Sigonio seguitato dal Baronio, nell'anno seguente 1002. Ci sono ancor rimase di questo Imperadore molte leggi, raccolte pure dal Goldasto[93]; ma non avendo di se lasciata prole maschile, e restando estinta in lui la progenie degli Ottoni, si videro i Germani in confusione grandissima per la nuova elezione, la quale doveva per necessità cadere in altro Principe fuori di quella Casa. Si diede perciò occasione a' nostri Italiani di nuovamente aspirare all'Imperio ed al Regno d'Italia, come lo pretesero, ponendo in su Ardoino figliuolo di Dodone Marchese Eporediense; onde tornossi agli antichi disordini.

[61]

CAPITOLO V. Instituzione degli Elettori dell'Imperio; ed elezione d'Errico Duca di Baviera.

Comunemente a questi tempi si crede, che avesse avuto principio l'istituzione degli Elettori dell'Imperio; poichè si narra, che Ottone III, disperato di prole, prevedendo i gravi disordini, che dovean sorgere in Germania per l'elezione del suo successore, pensasse in vita, col consiglio ed autorità di Gregorio V, stabilire il modo di questa elezione, e che per levare i torbidi, restringesse ciò ch'era di tutti i Principi della Germania, a' soli sette Elettori, e quindi aver origine gli Elettori, che oggi diciamo dell'Imperio.

Ma siccome il modo e l'autore, da chi fosse stato questo Collegio istituto, è incerto, così ancora è più incerto il tempo, nel quale fu tal costume introdotto, variando i Scrittori, e portando fra di loro sentimenti pur troppo diversi. Alcuni[94] la riportano a' tempi più remoti, volendo che da Carlo M. cominciasse; ma questa opinione vien condannata da tutti gli Scrittori, per falsa e ripugnante a tutta l'istoria, essendo manifesto che molto tempo da poi fu tal Collegio istituito, e da ciò che s'è narrato ne' libri precedenti di quest'Istoria, è molto chiaro, che i successori di Carlo M. non da certi Principi della Germania, ma da tutti [62] i Principi della Francia, e molto più dall'elezione del predecessore, in vita o ne' testamenti, eran eletti Imperadori, o come se fosse ereditario non uscì l'Imperio dalla stirpe di Carlo M., e Lodovico III figliuolo d'Atenulfo, ultimo che fu del sangue di Carlo, non lasciando di se prole, vinto da Berengario di Verona perdè insieme la vita e l'Imperio. Quindi, come si è veduto ne' precedenti libri, cominciò l'Imperio a scadere, poichè i nostri Italiani ed i Romani non riconoscevano altri per Re d Italia ed Imperadori, se non quelli, che per via delle armi restavano superiori a' lor nemici; così Berengario, Lodovico Boson, Ugone Arelatense, Lotario suo figliuolo, Rodolfo di Borgogna, ed altri occupando l'Italia, affrettarono ancora esser riputati Imperadori. Dall'altra parte i Principi della Francia e della Germania riconoscevano per Imperadore Corrado Re di Germania della stirpe di Carlo, il quale essendo prossimo alla morte, come narra Nauclero[95], persuase que' Principi, che per suo successore eleggessero Errico Duca di Sassonia. Ma così Corrado, come Errico non ebbero mai il titolo d'Imperadore, insino che dopo questi avvenimenti non fu eletto ab omni populo Francorum, et Saxonum (come dice Nauclero) Ottone il Grande, il quale avendo conquistata l'Italia, acquistò ancora col consenso del Popolo romano il nome, e la dignità d'Imperadore, e dal Papa in Roma fu unto e incoronato. E coloro, che ad Ottone successero, come il III Ottone, quasi come se ad essi per ragion ereditaria appartenesse, furono parimente da tutti i Principi della Germania eletti Imperadori, come si è veduto: tanto [63] che il voler riportare questo costume fin a' tempi di Carlo M. è un solenne errore a crederlo.

Per la falsità di questa credenza, surse l'altra che teneva, che il principio di questo Collegio dovesse porsi ne' tempi d'Ottone III, il quale disperato di prole, prevenendo gli sconvolgimenti che doveano accadere nell'elezione del suo successore, col consiglio ed autorità di Gregorio V, avesse ristretta questa facoltà, ch'era di tutti i Principi della Germania, per toglier le divisioni, a soli sette.

Ma Onofrio Panvinio[96] riprova ancora quest'opinione, e vuole che non prima della morte di Federico fosse stato questo Collegio di sette Elettori istituito da Gregorio X, romano Pontefice; poichè e' dice per molto tempo dopo la morte d'Ottone III tutti i Principi della Germania, come prima, così Vescovi, che laici eleggevano gl'Imperadori, ed in questo modo essere stato eletto Errico II, Corrado I e II, Errico IV e V, Lotario II, Federico I e Filippo I. Ma quest'opinione non contiene minor errore della prima, poichè molto tempo innanzi di Gregorio X hassi presso agli Scrittori antichi memoria di questi sette Elettori: di essi parlano Martino Polono, che scrisse sotto Innocenzio IV, Lione Ostiense, che fiorì sotto Urbano II ed il Concilio di Lione celebrato sotto l'istesso Innocenzio IV. Quindi il Baronio per isfuggire l'errore di Onofrio ne cade in un altro, credendo perciò che non da Gregorio X, ma da Innocenzio IV, nel Concilio di Lione fosse la prima volta stabilito il Collegio de' sette Elettori: ma si vede anche esser erronea tal opinione per quell'istesso, che si dice di [64] Gregorio X, poichè gli Scrittori, che fiorirono avanti il Concilio di Lione, o in quel torno, parlano di questo Collegio come di cosa molto antica. L'Autore del libro de Regimine Principum (malamente attribuito a S. Tomaso, onde a gran torto il nostro Cuiacio[97] caricò d'ingiurie questo Santo su la credenza, ch'egli ne fosse Autore, dicendogli, che delirasse per tutto il libro) fiorì prima del Concilio di Lione. Ostiense, che avanti questo Concilio scrisse la sua Cronaca ed Agostino Triunfo, che poco da poi scrisse dell'istituzione de' sette Elettori, a' tempi di Gregorio V la riportano, e ne parlano come di cosa molto antica: ond'è molto verisimile, che avesse avuto il suo principio ne' tempi del Concilio di Lione. Di vantaggio i sette Elettori, che si noverano in questo Concilio, sono diversi da coloro che sono ora, e che furono anticamente. Martino Polono fin ne' suoi tempi narra essere stati i tre Cancellieri, cioè l'Arcivescovo di Magonza Cancelliere della Germania, quello di Treveri Cancelliere della Francia, e l'altro di Colonia Cancelliere d'Italia; e quattro altri Principi pure Ufficiali dell'Imperio, il Marchese di Brandeburgo gran Camerario, l'Elettor Palatino Dapifero, il Duca di Sassonia Portaspada, ed il Re di Boemia Pincerna. Quelli però, che si contano nel Concilio di Lione sono altri, i Duchi d'Austria, di Baviera, di Sassonia e di Brabanzia, ed i Vescovi sono quelli di Colonia, di Magonza e di Salsburgo.

In tanta varietà di pareri, sembra più verisimile, che a questi tempi d'Ottone III fossesi istituito il Collegio degli Elettori; ma che ne' susseguenti poi si [65] ponesse in uso, e fosse praticato, che nell'elezione intervenissero solamente sette Elettori[98]; poichè gravissimi Autori narrano, che Ottone disperato di prole, perchè non accadessero sedizioni nell'elezione del suo successore, avesse consultato con Gregorio V il modo da tenersi nell'avvenire per l'elezione degl'Imperadori, nel che bisognò anche, che v'intervenisse il consenso de' Principi della Germania, a' quali s'apparteneva tal elezione: ed egli è credibile, che per lo bene della pace alcuni credessero questa loro ragione, con restringere, per evitar le confusioni ed i partiti, il numero degli Elettori a sette: se bene l'Istoria ne accerta che non così tosto si ponesse in pratica tal istituto, poichè molti Principi non volendo cedere questa loro prerogativa, vollero anche intervenire nell'elezioni. Così leggiamo, ch'Errico successore d'Ottone, non da sette Elettori, ma da' Principi della Germania, dice Nauclero, essere stato eletto, e restano ancora altri esempi consimili di essere intervenuti più Principi e Prelati della Germania, tanto che tra le Epistole di Gregorio VII n'abbiamo una di questo Pontefice drizzata a tutti i Vescovi, a' Duchi, e Conti della Germania per l'elezione d'un nuovo Re nel caso, che Errico non s'emendasse. Così facilmente s'accorderanno fra loro quelli, che dicono il Collegio de' sette Elettori sotto Ottone III essere istituito, e quelli che non prima di Gregorio X o d'Innocenzio IV vogliono avesse avuto principio, poichè questi parlano dell'uso e della pratica, quelli del solo istituto.

Dal che si conosce ancora, la vanità del Bellarmino in questo proposito, e de' suoi seguaci non esser inferiore [66] a quell'altra della translazione dell'Imperio ai Franzesi nella persona di Carlo M. o ne' Germani in quella d'Ottone, in volendo all'autorità del Papa attribuire questa istituzione; poichè nè il Papa, nè l'Imperadore istesso, senza il consenso de' Principi della Germania, del cui pregiudizio trattavasi, potevano restringere a' soli sette Principi questa facoltà, con spogliarne gli altri; nè potevan farlo, siccome in fatti non lo fecero; e gli Scrittori testimoniano, che col consenso degli altri Principi si restringesse a sette questa prerogativa. La Cronaca antica, della quale alcuni vogliono, che ne fosse Autore Alberto Stadense nell'anno 1240 porta, che per consenso de' Principi i Vescovi di Treveri e di Magonza eleggono l'Imperadore; ed Agostino Triunfo[99] narra, che nel tempo di Ottone, Gregorio V, avendo convocati e richiesti i Principi d'Alemagna, avesse istituiti i sette Elettori. Leopoldo[100] rapporta ancora, che in tempo d'Ottone III, che non ebbe figliuoli, fu istituito, che per certi Principi della Germania Ufficiali dell'Imperio, ovvero della Corte imperiale s'elegesse l'Imperadore; ma sopra tutti niuno più diligentemente ci descrisse questa istituzione di Nauclero[101], il quale dice, che Ottone III non avendo prole maschile, per consiglio de' Principi della Germania, stabilì, che morto l'Imperadore, in Francofort dovesse farsi l'elezione, costituendo per Elettori tre Arcivescovi, e quattro altri Ufficiali dell'Imperio di sopra rapportati; onde poi fu introdotto, che a soli questi Elettori s'appartenesse [67] eleggere l'Imperadore, il quale non era così chiamato ma solamente Cesare, e Re de' Romani, se non dapoichè in Roma dal Pontefice non fosse stato incoronato. Così l'Imperadore Ottone trascelse tra tanti Principi sette Ufficiali dell'Imperio per Elettori, forse per consiglio del Papa, ma principalmente per consenso dei Principi, che cederono alla lor ragione; ed il Pontefice Gregorio V approvò lo stabilimento fatto per consenso de' Principi. Tanto che tal istituzione non al Papa, ma più tosto all'Imperadore, e sopra tutto ai Principi stessi della Germania deve attribuirsi, siccome osservò ancora il Cardinal Cusano[102]. E se bene, come si è veduto, non così tosto che fu ciò stabilito, si fosse posto in pratica; nulladimeno da poi col correr degli anni, i Principi della Germania anteponendo il ben pubblico a' privati interessi, cedendo a' loro diritti a sette solamente restrinsero gli Elettori; i quali riconoscono tal autorità non dal Papa, nè dall'Imperadore, ma dal consenso comune di tutti coloro, a' quali prima appartenevasi tal elezione; e l'autorità Imperiale tutta dalla loro elezione dipende, non da altri; e se il costume fu di prender la corona d'oro in Roma dal Papa, ciò non fu riputato, che per una solennità e cerimonia, siccome degli altri Principi, che sogliono farsi ungere ed incoronare dai proprj Vescovi, come abbiam veduto de' Re d'Italia, di Francia, di Spagna, ed altri: tanto che Massimiliano Imperadore presso al Guicciardino[103], in una concione, che fece agli Elettori prima di passar in Italia, si protesta, e lor disse, ch'egli avea deliberato [68] di passare in Italia per ricevere la corona dell'Imperio con solennità (come è noto più di cerimonia, che di sostanza) perchè la dignità e l'autorità imperiale dipende in tutto dalla vostra elezione.

L'istituzione adunque di questo Collegio Elettorale, se bene avesse avuto il suo principio sin da' tempi d'Ottone III non fu però messa in esecuzione nell'elezione d'Errico Duca di Baviera, che gli succedè; poichè questo Principe, secondo il solito modo, fu fatto Re di Germania da' Principi e Prelati di essa. Intanto i nostri Italiani, scorgendo che Ottone non avea di se lasciati figliuoli, aspirarono di nuovo a ridurre l'Imperio ed il Regno d'Italia nelle loro mani. Infatti Ardoino in Pavia fu Re d'Italia proclamato, e tenne il Regno, ancorchè combattuto da Errico, poco men di due anni. L'Arcivescovo di Milano reputando a suo disprezzo ciò che s'era fatto in Pavia intorno all'esaltazione d'Ardoino senza sua autorità, mosse Errico a discacciarlo dal Trono. Non solo i Pontefici romani, ma sino gli Arcivescovi di Milano pretendevano, che l'elezione de' Re d'Italia appartenesse a loro; e ciò che prima fu istituito per sola solennità, e cerimonia di farsi i Re da loro ungere ed incoronare, da poi la pretesero di necessità, e che assolutamente ad essi s'appartenesse l'elezione. Documento (siccome infiniti altri se ne scorgeranno nel corso di quest'Istoria) che devono i Popoli ed i Principi guardarsi molto bene ne' proprj affari, in tutto ciò che appartiene ad essi, di non farvi ingerire i Preti, poichè costoro ciò che prima ricevono per cortesia, o riverenza dovuta alla loro dignità, da poi lo pretendono di necessità, anzi con somma ingratitudine niegano poi riconoscerlo da essi, ed alla loro autorità [69] e carattere l'attribuiscono. Così Arnulfo Arcivescovo di Milano (se dee prestarsi fede al Sigonio) tenne un Concilio di suoi Vescovi, e depose Ardoino, conferendo il Regno d'Italia ad Errico. Tanto che per questo fatto ne restarono gravemente offesi i Pontefici romani per le deposizioni, che vantano di poter essi soli fare di Regni ed Imperj, giacchè allora fin gli Arcivescovi di Milano tentarono di farlo per li Re d'Italia. Mandò per tanto Errico, invitato da Arnulfo, in Italia il Duca Ottone per discacciarne Ardoino, e fu guerreggiato con dubbia sorte: ma Arnulfo scorgendo, che non poteva così facilmente discacciar d'Italia Ardoino, il quale devastava tutto il Milanese, s'adoperò in maniera per Legati, che Errico in persona calasse in Italia: vennevi questo Principe con potente armata, prende Verona, ove Ardoino erasi presidiato, e lo confina in Pavia, e cintala di stretto assedio tosto la riduce in sua potestà, e con incendj e saccheggiamenti, la riduce in cenere[104]: da poi portatosi a Milano fu in questa città immantenente incoronato Re d'Italia dall'Arcivescovo; onde molti dei nostri Italiani, abbandonato Ardoino, s'unirono al partito dell'Arcivescovo e d'Errico.

Fu allora, che avendo Errico debellato e distrutto li suo emolo, portossi in questo anno 1013 presso Roncaglia, dove seguitando i vestigi, de' suoi maggiori, tenne una Dieta, e molte leggi da lui furono stabilite, le quali come Re d'Italia le stabilì, non avendo ancora assunto il nome d'Imperadore. Convennero nella Dieta, secondo il solito, molti Principi, Marchesi, Conti, Giudici, ed anche molti dell'Ordine ecclesiastico, [70] come Arcivescovi, e Vescovi. Fu allora, che stabilì questo Principe quelle leggi, che abbiamo nel libro primo e secondo delle leggi longobarde[105], le quali dall'antico Compilatore di que' libri furono all'altre aggiunte, come stabilite da Errico, che se non ancora Imperadore, era stato però Re d'Italia acclamato, dopo fugato Ardoino. Altre leggi accenna il Sigonio[106], e moltissime altre furono raccolte da Goldasto[107].

Portossi indi a poco Errico in Ravenna, donde spedì Legati in Roma al Pontefice Benedetto VIII per li quali gli espose esser apparecchiato venir in Roma a prender l'insegne e la Corona imperiale[108]; tosto si incamminò per quella città, ove accolto benignamente dal Papa e da' Romani, secondo il costume fugli con solita cerimonia e celebrità da quel Pontefice posta la Corona imperiale, ed Augusto dal Popolo fu proclamato: indi avendo confermati i privilegi alla Chiesa romana conceduti da' suoi predecessori non molto da poi tornossene in Germania, ove era richiamato. Così l'Imperio ed il Regno d'Italia dalla stirpe degli Ottoni passò nella Casa de' Duchi di Baviera nella persona d'Errico II ed Ardoino che poco men di due anni tenne il Regno d'Italia, perduta ogni speranza di riacquistarlo, si vestì Monaco in un monastero presso Turino.

Ma mentre Errico imperava nell'Occidente, e Basilio nell'Oriente, accaddero in queste nostre regioni [71] avvenimenti così portentosi e grandi, che finalmente tutti terminarono nella dominazione d'una nuova gente la quale da tenuissimi principj, per mezzo delle loro valorose azioni potè unire queste nostre Province, già in tante parti divise, e a tanti Principi sottoposte, sotto un solo Moderatore, e che finalmente in forma d'un ben fondato e stabil Regno le riducesse. Furono questi i prodi e valorosi Normanni, l'origine de' quali, e le loro famose gesta saranno ben ampio e luminoso soggetto de' seguenti libri di questa Istoria.

CAPITOLO VI. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto il decimo secolo insin alla venuta de' Normanni.

La politia ecclesiastica, che si vide a questi tempi introdotta presso di noi, comincia ad avere qualche rapporto alla presente, per quanto s'attiene all'innalzamento de' Vescovi in Metropolitani. I Papi, per la concessione del Pallio, trassero a se per nuovo diritto la ragione sopra i Vescovi, obbligandogli ad andare in Roma a riceverlo, innalzandogli a Metropolitani. Trasse quindi origine la pretensione, che le cause delle loro diocesi per appellazione, o per negligenza in trattarle dovessero portarsi a Roma: ed infine di voler soprantendere a tutti i loro affari; ed eressero perciò molti nuovi Metropolitani e Vescovi. Ebbero in ciò tutto il favore degli Ottoni Imperadori d'Occidente, e d'Ottone I sopra ogni altro, li quali contro l'ambizione de' Patriarchi di Costantinopoli gli difesero, [72] facendo valere la loro autorità anche sopra alcuni di quegli Stati, che s'appartenevano all'Imperio greco. Aveva Ottone I forte cagione di sostenergli, poichè niuno Imperadore fu cotanto da' romani Pontefici favorito, quanto lui. Se tra' Scrittori ancor si disputa del Sinodo tenuto da Adriano in Roma, dove narrasi essere stata data a Carlo M. la potestà di eleggere il Papa; non si dubita però che Lione VIII in un general Concilio tenuto nell'anno 964 in Laterano avesse ad Ottone M. ed a tutti gl'Imperadori germani suoi successori conceduto in perpetuo, non pure il Regno d'Italia ed il Patriziato romano, ed avesse con indissolubil nodo unito l'Imperio d'Occidente col Regno germanico, ond'è che Ottone, ed i suoi successori furono poi Sovrani di Roma; ma ancora d'ordinare la Santa Sede, ed eleggere il Papa a suo arbitrio e piacere. Confermogli ancora, ciò che Adriano avea conceduto a Carlo M. il diritto dell'investiture, dandogli potestà coll'anello e col bastone investire gli Arcivescovi ed i Vescovi delle loro Chiese. Di questo Concilio tenuto in Roma ne rendono testimonianza Luitprando[109], Ivone Carnotense[110], donde il prese Graziano[111], che volle pure inserirlo nel suo decreto; e Teodorico di Niem da un antico Codice fiorentino lo inserì anche nel suo Trattato delle Ragioni, e Privilegj dell'Imperio[112].

Così vicendevolmente favorendo l'un l'altro, vennesi molto più a corrompersi l'antica disciplina, ed il mutarsi l'antica disposizione delle Chiese. I Papi perciò più Vescovi ordinarono, e più metropoli cressero; [73] ma l'innalzamento di queste si vide che facevasi, secondando la disposizione delle città dell'Imperio, con adattarsi sempre la politia ecclesiastica alla temporale; siccome appunto accadde in queste nostre province.

Principato di Capua.

Tra le città più cospicue ch'erano in quelle province sottoposte a' Longobardi, si è veduto essere state Benevento e Salerno; ma ora Capua sopra ogni altra estolse il capo. Quindi (non volendosi tener conto di ciò che si facessero i Patriarchi di Costantinopoli nelle città al greco Imperio sottoposte) la prima città del nostro Regno, che fosse stata da' romani Pontefici innalzata ad esser metropoli, fu Capua. A Lodovico Imperadore era venuto in pensiero nell'anno 873 di render Capua metropoli; ma, come narra Erchemperto[113], frastornato per altre cure, non ebbe questo suo pensiero effetto. Ma nel Pontificato di Giovanni XIII, patendo costui fiere persecuzioni da' principali Signori romani, che lo discacciarono da Roma, venendo a Capua, fu cortesemente accolto dal Principe Pandulfo; il Papa riconoscente di questo beneficio, nell'anno 968 in grazia sua innalzò Capua ad esser metropoli, e consecrò Arcivescovo di quella Giovanni fratello del Principe[114]. Ebbe per suffraganei i Vescovi d'Atina, il qual Vescovado a' tempi di Papa Eugenio III fu soppresso, quello d'Isernia, che prima [74] andava unito colle Chiese di Venafro e di Bojano, l'altro di Sessa, che poi si sottrasse da questa metropoli, e fu posto sotto l'immediata soggezione del Pontefice romano; ed in decorso di tempo multiplicandosi tuttavia in questo Principato più Vescovi, ebbe ancora per suffraganei, siccome oggi ritiene, i Vescovi di Cajazza, di Carinola, di Calvi, di Caserta, di Teano e di Venafro. Furon anche suoi suffraganei i Vescovi d'Aquino, di Fondi, di Gaeta e di Sora, ma sottratti da poi dalla Chiesa di Capua, furono immediatamente sottoposti alla Sede Appostolica.

Principato di Benevento.

Il Principato di Benevento, non meno che quello di Capua, meritava ancora quest'onore; la sua estensione sopra tutti gli altri Principati e Ducati maggiormente lo richiedeva. Quindi si vede sopra tutti i Metropolitani del nostro regno, l'Arcivescovo di Benevento aver ritenuti ancora più Vescovi suffraganei. Fu pure un'anno appresso nel 969, innalzato Benevento dallo stesso Pontefice Giovanni XIII, ad esser metropoli: e siccome era quella riputata capo d'un sì ampio Principato, così secondando la politia della Chiesa quella dell'Imperio, si vide il Vescovo di Benevento Capo di tutte le Chiese del suo Principato. Fu in grazia dell'Imperador Ottone e del Principe Pandulfo costituito Arcivescovo di Benevento Landolfo, a cui Papa Giovanni concedè il Pallio, ed il titolo di Metropolitano[115]. Ciò che di particolare si osserva [75] in questa Chiesa si è, che il Vescovo beneventano prima d'essere innalzato al grado di Metropolitano, ebbe Siponto, e molte altre Chiese cattedrali a se soggette. Egli fu il più favorito non men da' Pontefici romani, che dagli Imperadori, e da' suoi Principi di innumerabili prerogative e privilegi. Costui un tempo videsi fregiato di quelle due insigni prerogative, le quali oggi al solo Pontefice romano sono riserbate, cioè di portar la mitra rotonda a guisa dell'antica Tiara pontificia con una sola corona fregiata d'oro; e di portare, mentre andava visitando la provincia, il Venerando Sacramento dell'Altare; ed ora pur ritiene a guisa de' romani Pontefici l'uso di segnare col sigillo di piombo le sue Bolle. Un tempo l'Arcivescovo di Benevento ebbe la temporal Signoria della città di Varano con molte altre terre e castelli, ed esercitava giurisdizione in molti luoghi, ed ora i suoi Vicarj sono Giudici ordinarj in grado d'appellazione delle cause civili tra' laici: e sopra le ville di S. Angelo, e della Motta, secondo che rapporta Ughello[116], ritengono ancora il mero e misto imperio.

L'estensione del suo Principato portò ancora in conseguenza, che il numero de' Vescovi suffraganei fosse maggiore di quanti mai Metropolitani fossero in queste province. Ne riconobbe un tempo fino a trentadue, insino che alcuni di essi non fossero innalzati o a Metropolitani, come fu quello di Siponto, che poi distaccatosi da questa Chiesa, resse per se medesimo la sua Cattedra: ovvero non fossero stati sottratti, [76] e sottoposti immediatamente alla Sede Appostolica, o altri, per la distruzione delle loro città, non fossero stati soppressi. Ebbe sin da questi tempi per suffraganei i Vescovi di S. Agata de' Goti, di Avellino, di Arriano, d'Ascoli, di Bovino, di Volturara, di Larino, di Telese, di Alife e di Siponto. Essendosi poi nel Regno da' romani Pontefici fatti più Vescovi, e molte Chiese rendute cattedrali, che prima non erano, fu veduto, come si è detto, il numero dei suffraganei molto maggiore. Quindi ora si vede, essendosi per nuova distribuzione diviso il Regno in più province, che questo Metropolitano abbia Vescovi suffraganei, non pure nel Principato Ultra, ma in altre province fuori di quello. Nel Contado di Molise vi ha il Vescovo di Bojano, e l'altro di Guardia Alfiera. Nel Principato Citra ve ne ha cinque, quello di Avellino, e gli altri d'Arriano, di Trivico, di Volturara, e di Monte Marano. In Terra di lavoro ne ritiene tre, quel di S. Agata de' Goti, d'Alife, e di Telese. In Capitanata sei, cioè Ascoli, Bovino, Larino, S. Severo, Termoli e Lucera. Li Vescovadi di Draconaria, di Civitade, di Firenzuola, di Frigento, di Lesina, di Montecorvino e di Turtiboli, che tutti furono suffraganei all'Arcivescovo di Benevento, per la desolazione delle loro città restano oggi estinti, ed unite le loro rendite ad altre Chiese cattedrali; e quelle di Lesina distrutta da' Saraceni, al magnifico ospedale della Nunziata di Napoli.

Teneva ancora in questa provincia, quando Siponto e 'l Monte Gargano erano compresi nel Principato di Benevento, la Chiesa sipontina e la garganica attribuite al Vescovo di Benevento sin da tempi di S. Barbato dal Duca Romualdo, acconsentendovi anche [77] Vitagliano R. P. il quale nell'anno 668, a Barbato, e suoi successori confermò la Chiesa sipontina; e poco men di quattrocento anni i Vescovi beneventani si intitolavano anche Sipontini, ond'è che Landulfo, che fu il primo Arcivescovo di Benevento, si nominava anche di Siponto; ma tolta da poi questa provincia da' Greci a' Longobardi, e passata quindi sotto la dominazione de' Normanni, furono da Benevento separate, e Siponto antica sede de' Vescovi fu innalzata a metropoli. La Chiesa sipontina sin da' primi tempi ebbe i suoi Vescovi; e negli atti del Concilio romano celebrato nell'anno 465, sotto Ilario R. P. si legge la soscrizione di Felice Vescovo di Siponto. Un altro Felice pur Vescovo di questa città troviamo ne' tempi di S. Gregorio M. a cui da questo Pontefice si veggono dirizzate molte sue epistole, e nel decreto di Graziano[117] fassi memoria di Vitagliano Vescovo di Siponto, a cui S. Gregorio drizzò parimente sue lettere. Caduta poi per le fiere guerre tra' Longobardi beneventani, e' Greci napoletani in istato lagrimevole, fu, come si disse, duopo unirla a quella di Benevento; donde non si staccò se non in questi tempi, quando sedendo in Roma Benedetto IX, nell'anno 1034, la divise da Benevento, e la decorò della dignità Arcivescovile, e quindi ne' decretali[118] s'incontra spesso il nome degli Arcivescovi sipontini. Pascale II, da poi le diede per suffraganeo il Vescovo di Vesti, che ancor oggi ritiene.

Ritengono questi Arcivescovi il nome di Sipontini, ancorchè Siponto sia ora distrutta, ed in suo luogo [78] sopra le ruine di quella dal Re Manfredi fossesi edificata un'altra città chiamata dal suo nome Manfredonia. I Pontefici romani, e per serbarle il pregio dell'antichità, e per l'odio che tengono al nome di Manfredi, le han fatto conservare l'antico nome. I Canonici e' cittadini garganici pure pretesero, che avendo gli Arcivescovi sipontini, o per l'amenità del luogo, ovvero per occasion di guerre, sovente trasferita la loro residenza nel Gargano, che dovessero chiamarsi non meno Sipontini, che Garganici, e che la loro chiesa non meno che Siponto dovesse godere degli stessi onori e prerogative; n'allegavan anche una bolla di Papa Eugenio III, e ne mossero perciò lite in Roma, che ha durato più secoli. Ma Alessandro III, profferì contro di essi la sentenza, poichè essendosi riconosciuta la bolla d'Eugenio, videsi rasa e viziata in quella parte, ove riponevan tutta la loro difesa. I successori d'Alessandro, Lucio, Celestino, Innocenzio III, e tutti gli altri Papi confermarono la sentenza d'Alessandro; onde ora la Chiesa sipontina solamente ritiene l'onore di metropoli, a cui i Garganici sono sottoposti.

Non mancò chi credette, che al Metropolitano di Siponto, quando Benedetto IX, l'innalzò a tal dignità, le avesse ancor dati quattro Vescovi per suffraganei, cioè quello di Troja, l'altro di Melfi, e quelli di Monopoli e di Rapolla; ma come ben pruova l'Ughello, questi o non mai, o per poco tempo salutarono l'Arcivescovo di Siponto come lor Metropolitano; poichè nel Concilio lateranense celebrato nell'anno 1179, sotto Alessandro III, i Vescovi di Melfi, e di Monopoli si sottoscrissero con gli altri Vescovi immediatamente sottoposti alla Sede Appostolica; e que' di Troja, e [79] di Rapolla non v'intervennero; e nel vecchio Provincial romano scritto da più di cinquecento anni addietro, questi due si dicono appartenere alla Provincia romana, e negli ultimi tempi quello di Rapolla fu estinto, ed unito al Vescovo di Melfi.

Non si vede ora l'Arcivescovo di Benevento avere suffraganei ne' due Apruzzi, che prima eran compresi nel Principato di Benevento; poichè i Vescovadi di queste due province, quasi tutti, come a Roma vicini, furono immediatamente sottoposti alla Sede Appostolica. L'Aquila edificata dall'Imperador Federico II, sopra le ruine d'Amiterno, del cui Vescovo fassi spessa memoria nell'Epistole di S. Gregorio M. fu fatta sede Vescovile da Alessandro IV, il quale da Forcone col consentimento di Bernardo, che n'era Vescovo, intorno l'anno 1257, traslatò quivi la sede, ed avendola collocata nella chiesa de' SS. Massimo e Giorgio, ordinò, che non si nomasse più Vescovo di Forcone, ma dell'Aquila, secondo che appare per la Bolla sopra di ciò spedita, riferita dal Bzovio negli Annali ecclesiastici, e se ne conserva copia autentica in pergameno nell'Archivio del convento di S. Domenico di Napoli, fatta estrarre ad istanza del Vicario di Paolo suo Vescovo nell'anno 1363. E questa Chiesa non è ad alcun Metropolitano suffraganea; ma immediatamente sottoposta a quella di Roma. Chieti parimente ebbe il suo Vescovo sotto l'immediata subordinazione del Papa, e non fu, se non negli ultimi tempi da Clemente VII, nell'anno 1527, renduta metropoli, a cui per suffraganei furono dati i Vescovi di Penna, d'Adria, e di Lanciano; ma questi pure da poi se ne sottrassero, e ritornarono sotto l'immediata soggezione di Roma; e Lanciano fu poi in metropoli innalzato, ma senza [80] darsegli suffraganeo alcuno, ritenendo solamente le preminenze ed il titolo di Arcivescovo; e solo il Vescovo di Ortona rimane ora suffraganeo al Metropolitano di Chieti.

Principato di Salerno.

Il Principato salernitano meritava pure, che in questo decimo secolo, siccome quello di Capua e di Benevento, avesse il suo Metropolitano; onde è che Giovanni Principe di Salerno ne richiese il Pontefice Benedetto VII, il quale nell'anno 974, innalzò questa città in metropoli, ed istituì Arcivescovo di quella Amato[119]; gli fu poi confermata questa prerogativa dal Pontefice Giovanni XV, onde l'Indice aggiunto all'Istoria del Regno d'Italia del Sigonio, che rapporta l'istituzione di questo Arcivescovado a Sergio IV nel 1009 contiene manifesto errore. Ebbe prima per suffraganei molti Vescovi, fra' quali furono quelli di Cosenza, di Bisignano, e di Acerenza. Questi, secondo la disposizione delle sedi sottoposte al Trono costantinopolitano, rapportata nel libro sesto di quest'istoria, furono attribuiti dall'Imperador Lione, cioè i Vescovi di Cosenza e di Bisignano al Metropolitano di Reggio, di cui erano suffraganei, e il Vescovo d'Acerenza al Metropolitano di S. Severina; ma da poi furono restituiti al Trono romano, e al Metropolitano di Salerno aggiudicati. Il Vescovo di Consa parimente era suo suffraganeo, siccome quello di Pesto, di Melfi, de la Calva, di Lavello, e di Nola; ma da poi quel di Pesto fu unito a quello di Capaccio, gli altri di [81] Melfi, di Lavello e di Bisignano, se ne sottrassero, e si sottoposero immediatamente alla Sede Appostolica, e quello di Nola fu fatto suffraganeo all'Arcivescovo di Napoli. Il monastero della Cava, essendo surto in questi tempi, di cui Alferio ne fu il primo Abate, innalzato poi in amplissima dignità, e da Urbano II nel 1091 decorato il suo Abate Pietro dell'uso della Mitra, fu da Bonifacio IX eretto in Cattedrale[120]. Ma Lione X diede poi alla Cava particolar Vescovo, e fu quello sottoposto immediatamente alla Sede Appostolica. Tre altri di questi Vescovadi furono da poi ancor innalzati a metropoli, e furon que' di Consa, di Acerenza e di Cosenza.

Il Vescovo di Consa da chi, ed in quali tempi fosse stato innalzato a Metropolitano, è molto incerto: forte conghiettura è quella dell'Ughello[121], che crede da Alessandro II, ovvero da Gregorio VII suo successore, essersi Consa resa metropoli; poichè si vede, che nell'anno 1051 sotto il Ponteficato di Lione IX il Vescovo di Consa era ancor suffraganeo all'Arcivescovo di Salerno; ed il primo, che s'incontra nominarsi Arcivescovo di Consa, fu Lione, che visse sotto il Ponteficato di Gregorio VII, e da questo Lione poi successivamente senz'interruzione si veggono tutti gli altri nominati Arcivescovi. Gli furon dati per suffraganei i Vescovi, che di tempo in tempo s'andavan ergendo ne' luoghi vicini; onde se gli diede il Vescovo di S. Angelo de' Longobardi, quello di Bisaccia, di Lacedogna, di Montemurro, di Muro, e di Satriano; ma quest'ultimo passò poi sotto il Metropolitano di [82] Salerno. Dell'altro di Belfiense, di cui nel Provinciale Romano fassi memoria, come sottoposto al Metropolitano di Consa, non ve n'è ora presso di noi alcun vestigio.

Il Vescovo d'Acerenza, che prima, secondo la Novella di Lione, era suffraganeo al Metropolitano di S. Severina, sottoposto al Patriarca di Costantinopoli, restituito al Romano, riconobbe per Metropolitano l'Arcivescovo di Salerno, e si legge dall'anno 993 insino al 1051 essere stato a costui suffraganeo. Fu poi da Niccolò II innalzato, e renduto Metropolitano; poichè ciò che alcuni scrissero questa dignità essergli stata conferita da Benedetto V, s'asserisce senza verun legittimo documento. Alessandro II, che a Niccolò succedè, nell'anno 1067 confermò all'Arcivescovo Arnolfo questa prerogativa di Metropolitano, e l'uso del Pallio; e gli diede per suffraganee le Chiese di Venosa, di Montemilone, di Potenza, Tulba, Tricarico, Montepeloso, Gravina, Oblano, Turri, Tursi, Latiniano, S. Quirico, e Virolo co' suoi castelli, ville, monasteri, e plebe; onde il nome degli Arcivescovi d'Acerenza cominciò a sentirsi, di cui anche nelle nostre decretali[122] sovente accade farsene ricordanza. Ma in decorso di tempo, desolata Acerenza, per le continue guerre, d'abitatori, bisognò che a lei per sostenerla s'unisse la Chiesa di Matera, la quale da Innocenzio II, essendo stata renduta cattedrale, fu con perpetua unione congiunta a quella d'Acerenza con legge, che l'Arcivescovo d'Acerenza per accrescer dignità alla Chiesa di Matera, si chiamasse ancora Arcivescovo di [83] Matera, e che quando dimorava in Acerenza, nelle scritture il nome di Acerenza fosse posto innanzi a quello di Matera; e tutto al rovescio poi si praticasse quando l'Arcivescovo trasferiva sua residenza in Matera. Questa alleanza non durò guari, poichè sotto Eugenio IV per togliere le discordie fra i Capitoli, e' cittadini dell'una e dell'altra città, furono divise, ed assegnato a Matera il proprio Vescovo. Tornaronsi poi ad unire; ma sotto Lione X insorte nuove contese, finalmente nel Ponteficato di Clemente VII fu dalla Ruota romana deciso il litigio a favor d'Acerenza, conservandole le antiche sue ragioni e preminenze. Ma questa città ridotta nell'ultimo scadimento, avendo perduto l'antico suo splendore; ed all'incontro, siccome portano le vicende delle mondane cose, Matera essendo divenuta più ampia, e d'abitatori più numerosa, bisognò trasferire la sede degli Arcivescovi di Acerenza in Matera, ove ora tengono la loro residenza; e le restano ancora cinque Vescovi suffraganei, quello d'Anglona trasferito nell'anno 1546 da Paolo III per la sua desolazione in Tursi, quello di Gravina, e gli altri di Potenza, di Tricarico e di Venosa.

Il Vescovo di Cosenza prima suffraganeo al Metropolitano di Reggio, e sottoposto al Trono costantinopolitano, tolto da poi a' Greci, e restituito da' Normanni al Romano, fu suffraganeo dell'Arcivescovo di Salerno; ma in qual anno, e da qual Pontefice ne fosse stato sottratto, ed innalzata Cosenza ad esser metropoli, non se ne sa niente di certo[123]. Comunemente si crede, che nel principio dell'undecimo secolo fosse stata decorata di questa dignità; poichè nell'anno 1056, nella [84] Cronaca di Lupo Protospata si fa memoria di un tal Pietro Arcivescovo di Cosenza; ed altri reputano che questo trasmutamento fossesi fatto sotto il Ponteficato di Gregorio IX o poco prima. Ancorchè le rendite, che gode, siano grandi, non ha che uno solo suffraganeo, e questi è il Vescovo di Martorano, essendo tutti gli altri Vescovi vicini esenti, e sottoposti immediatamente alla sede di Roma.

Ma sopra tutti gli altri Metropolitani di queste nostre province niuno come l'Arcivescovo di Salerno, può pregiarsi della prerogativa di Primate, della quale fu egli decorato da Urbano II, dichiarandolo Primate di tutta la Lucania; onde ancorchè i Vescovi di Consa, di Acerenza e di Cosenza, ch'erano suoi suffraganei, fossero stati poi innalzati a Metropolitani, Urbano II per una sua Bolla istromentata in Salerno nell'anno 1099, sopra questi, e sopra tutti i loro suffraganei lo costituì Primate. Ferdinando Ughello trascrive la Bolla, parte della quale vien anche rapportata dal Baronio, dove ad Alfano Arcivescovo di Salerno, ed a' suoi successori si concedono le preminenze di Primate sopra gli Arcivescovi di Acerenza e di Consa, e sopra tutti i loro suffraganei, i quali dovessero promettere prestargli ogni ubbidienza; prescrisse eziandio il modo della loro elezione: che presente il Legato della Sede Appostolica, e l'Arcivescovo Primate nelle loro metropoli, col consiglio ed autorità de' medesimi si dovessero eleggere, e, dopo eletti, colle loro patenti mandarsi in Roma a consecrarsi, e a ricevere il Pallio, ed a giurar da poi ubbidienza all'Arcivescovo di Salerno, come lor Primate. Ma queste prerogative col correr degli anni andarono in disuso, ed ora l'Arcivescovo di Salerno solamente sopra i Vescovi suffraganei, [85] che gli sono rimasi, esercita le ragioni di Metropolitano. Gli restano oggi i Vescovi d'Acerno, di Campagna, di Capaccio, di Marsico nuovo, di Nocera de' Pagani, di Nusco, di Policastro, di Satriano e di Sarno.

§. I. Disposizione delle Chiese sottoposte al greco Imperio, restituite poi da' Normanni al Trono romano. Puglia.

La principal sede del Magistrato greco, donde era amministrata non men la Puglia che la Calabria, la veggiamo ora collocata in Bari; quindi dagli Scrittori fu chiamata Capo di tutte le città della Puglia, e che ella teneva il primato in questa provincia. Il suo Vescovo perciò estolse il capo sopra tutti gli altri Vescovi della Puglia; s'aggiunsero i favori de' Patriarchi di Costantinopoli, i quali avendoselo appropriato, e sottoposto al Trono costantinopolitano, di molti privilegi, e prerogative lo ricolmarono. Ma sopra ogni altro si estolse per lo trasferimento quivi fatto delle miracolose ossa del santo Vescovo di Mira Niccolò; le quali fin dalla Licia, navigando alcuni Baresi per Levante, e ritornando da Antiochia per mare, dando a terra nelle maremme di Licia, venne lor fatto di involar di colà il sacro deposito, e nell'anno 1087, trasportarlo in Bari. Così Bari gareggiando ora con Benevento e con Salerno, se costoro pregiavansi dei corpi di due santi Appostoli, ella si vanta di quello di S. Niccolò; e con tanta maggior ragione, quanto che coloro ne conservano l'ossa aride ed asciutte, ma Bari le ha tutte grondanti di prezioso liquore; di che ne abbiamo un'illustre testimonianza, quanto è [86] quella dell'Imperador Emanuel Comneno, il quale in una sua Novella[124] lo testifica. Ebbe la Chiesa di Bari suoi Vescovi antichi; hassi memoria di Gervasio, che nell'anno 347, intervenne nel Concilio di Sardica: di Concordio, che si sottoscrisse nel Concilio romano, sotto il Pontefice Ilario nell'anno 465, e di altri, che non erano, che semplici Vescovi. Antonio Beatillo nella sua Istoria di Bari vuole, che sin dall'anno 530, nel Ponteficato di Felice IV, da Eugenio Patriarca di Costantinopoli fosse stato Pietro Vescovo di Bari innalzato al titolo ed autorità di Arcivescovo e di Metropolitano, essendo manifesto dalle greche Bolle, che si conservano ancora nel Duomo di Bari, che i Patriarchi di Costantinopoli confermavano gli Eletti, e ne spedivano le Bolle; ma siccome è vero, che Bari quando era sottoposta al greco Imperio, fu ancora attribuita al Trono costantinopolitano, leggendosi in Balsamone nell'esposizione, ch'egli fa de' Vescovadi a quel Patriarcato soggetti, fra gli altri, quello di Bari al numero XXXI, quello di Trani al numero XLIV, l'altro d'Otranto al LXVI e gli altri di Calabria al XXXVIII, nulladimanco ciò non deve riportarsi a tempi cotanto in dietro e remoti infino all'anno 530, quando queste province con vigore erano governate da' Goti, e nelle quali non avean che impacciarsi così nel politico e temporale, come nell'ecclesiastico e spirituale i Greci; essendo allora tutte le nostre Chiese amministrate dal Pontefice romano, nè l'ambizione de' Patriarchi di Costantinopoli s'era in que' tempi distesa tanto, sicchè avesse potuto invadere [87] anche queste nostre province, siccome si vide da poi ne' tempi di Lione Isaurico, e più, sotto gl'Imperadori Lione Armeno e Lione il Filosofo, che si portano per autori della disposizione delle Chiese sottoposte al Trono di Costantinopoli; ond'è da credere, che i Vescovi di Bari decorati prima secondo il solito fasto de' Greci col titolo di Arcivescovi, si fossero da poi renduti Metropolitani da' Patriarchi di Costantinopoli, con attribuir loro dodici Vescovi suffraganei, molto da poi, che Reggio, S. Severina ed Otranto furono sottoposti al Trono costantinopolitano, quando, vindicata Bari da' Longobardi e da' Saraceni, pervenne finalmente sotto la dominazione de' Greci.

La città di Canosa in tempo della sua floridezza gareggiò con Bari in quanto a' Vescovi: ebbe ancor ella suoi Vescovi antichi, e lungo di lor catalogo ne tessè Beatillo, incominciando dall'anno 347 fino all'anno 800, nel quale egli dice che Pietro Longobardo affine di Grimoaldo Principe di Benevento fu eletto Vescovo di Canosa, il qual egli crede che fosse l'ultimo, poichè ei soggiunge, che fu poi la sua sede innalzata in metropoli nell'anno 818, ond'egli fu l'ultimo Vescovo, e 'l primo Arcivescovo di Canosa; e non potendo dirsi, che a questo grado l'avesse innalzato il Pontefice romano, poichè verrebbe ad esser più antico di quello di Capua, quando tutti i nostri più appurati Scrittori questo pregio d'antichità lo attribuiscono a Capua, è da credere che dal Patriarca di Costantinopoli, non già dal Romano fosse stato a questi tempi il Vescovo di Canosa renduto Arcivescovo. Che che ne sia, distrutta da poi Canosa da' Saraceni, si videro uniti questi due Arcivescovadi nella persona di un solo, e la Chiesa di Canosa fu unita a quella [88] di Bari; ed Angelario, che a Pietro succedè, fu il primo, che nell'anno 845, si chiamasse Arcivescovo insieme di Bari e di Canosa, siccome da poi usarono tutti i suoi successori. Tolte da poi queste Chiese al Trono costantinopolitano, e restituite da' Normanni al Romano, i Pontefici romani lasciandole colla medesima dignità, cominciarono a disporne come a se appartenenti, concedendo all'Arcivescovo di Bari l'uso del Pallio, che prima non avea; e Gregorio VII, a richiesta del Duca Roberto, nell'anno 1078 creò Arcivescovo di Bari Urso, cotanto famigliare di quel Principe, e da poi nell'anno 1089 Urbano II da Melfi, ove tenne un Concilio, gito a Bari, a preghiere del Duca Roggiero e di Boemondo suo fratello, concedette, e confermò ad Elia allora Arcivescovo di Bari suo grande amico, per essere dimorati insieme Monaci nel monastero della Trinità della Cova, ed a' suoi successori per suffraganee le diocesi di Canosa, di Trani, di Bitetto, di Bitonto, di Giovenazzo, di Molfetta, di Ruvo, d'Andria, di Canne, di Minervino, di Lavello, di Rapolla, di Melfi, di Salpi, di Conversano, di Polignano, ed oltramare, anche di Cattaro, e le Chiese di Modugno, d'Acquatetta, di Montemiloro, di Biselpi, di Cisterna con tutte le altre Chiese delle città e terre a queste diocesi appartenenti, con spedirnele Bolla, che si legge presso Ughello, e vien anche rapportata dal Beatillo.

Ma di tanti suffraganei al Metropolitano di Bari assegnati, molti in decorso di tempo ne furono sottratti, passando chi sotto l'immediata soggezione della Sede Appostolica, altri soppressi, altri dati a Trani, la quale da poi fu innalzata anch'ella in metropoli. L'Arcivescovo di Trani è fra' moderni il più antico, [89] leggendosi molte epistole d'Innocenzio III dirizzate al medesimo; ma la sua istituzione non deve riportarsi a' tempi di Urbano II, ne' quali non era ancora che semplice Vescovo. Quindi erra il Beatillo[125], che da questa Bolla di Urbano vuol ricavare che noverandosi anche Trani fra l'altre Chiese attribuite per suffraganee all'Arcivescovo di Bari, avesselo creato per ciò anche Primate della Puglia, non altramente che l'istesso Urbano creò quello di Salerno Primate della Lucania, e siccome l'istesso Pontefice sublimò al grado e dignità di Primate in Ispagna l'Arcivescovo di Toledo, e l'altro di Tarracona; poichè nel Pontificato d'Urbano II Trani non era stata ancora innalzata a metropoli: ebbe quest'onore intorno a' tempi d'Innocenzio III, o poco prima, e poscia gli furono attribuite la città di Barletta, la quale all'Arcivescovo di Trani, non al Nazareno è sottoposta, Corato, ed il Castello della Trinità. Fu poi unita a questa Metropoli la Chiesa di Salpi, che per lungo tempo tenne i suoi Vescovi, ma da poi nell'anno 1547, si riunì a quella di Trani, siccome dura ancora. Tiene ora per suffraganei i Vescovi d'Andria e di Bisceglia, poichè in quanto al Vescovo di Monopoli sta immediatamente sottoposto alla sede di Roma.

Si sottrassero ancora dal Metropolitano di Bari il Vescovo di Melfi, passando sotto l'immediata soggezione del Papa, e l'altro di Canne, il quale sottratto da questa sede, fu attribuito all'Arcivescovo di Nazaret. Gli restano adunque ora per suffraganei li Vescovi di Bitetto, di Bitonto, di Conversano, di Giovenazzo, di Lavello, di Minervino, di Polignano, e di [90] Ruvo; e ciò che parrà strano, ritiene ancora per suffraganeo il Vescovo di Cattaro, città della Dalmazia sottoposta a' Veneziani, la qual prima era suffraganea all'Arcivescovo di Ragusi, poi a quello d'Antivari, e finalmente a quello di Bari[126]. Ma non è però, che insieme col Vescovo fosse a lui suffraganea la sua diocesi: ella ora in buona parte viene occupata dal Turco, il rimanente ritiene ancora il rito greco scismatico, e con esso molti errori: niegano il Primato al Pontefice romano; niegano il Purgatorio, e la processione dello Spirito Santo dal Padre, e dal Figliuolo; e gli ordini sacri dal Vescovo di Rascia comprano. Ritiene ancora l'Arcivescovo di Bari la giurisdizione di conoscere in grado d'appellazione le cause delle Corti di Molfetta, di Canosa, di Terlizzo, e di Rutigliano.

Risplende eziandio la Puglia per un altro Arcivescovo, che collocato nella città di Barletta, conserva ancora le memorie antiche della sua prima Sede: egli è l'Arcivescovo di Nazaret. Fu Nazaret città della Galilea al Mondo cotanto rinomata per li natali del suo Redentore, che da lei volle cognominarsi Nazareno. Liberata che fu Gerusalemme dal glorioso Goffredo, fortunato ancora che dopo il corso di tanti secoli trovò chi di lui si altamente cantasse; i Latini costituirono Nazaret metropoli; ma ritolta a costoro nell'anno 1190 la Palestina, ed in poter de' Saraceni ricaduta, si vide quest'inclita città in servitù de' medesimi, ed il suo Arcivescovo ramingo e fuggitivo, non trovò altro scampo, che in Puglia; e quivi accolto [91] dal romano Pontefice, affinchè si ritenesse la memoria ed il nome d'un così venerando Sacerdote, gli piacque costituirgli in Italia una sede onoraria, ed in Barletta, città della diocesi di Trani, stabilì la sua residenza. Fugli non lungi dalle mura di questa città assegnata una Chiesa con tutte le ragioni e dignità di Metropolitano; ed indi a poco molte Chiese parrocchiali furon a lui sottoposte. Non passò guari, che due Chiese cattedrali al suo Trono furono attribuite: quella di Monteverde nell'anno 1434 avendola Clemente VII unita alla Chiesa di Nazaret; e l'altra di Canne, che nell'anno 1455 Calisto III parimente a quella l'unì. Ruinata da poi per le guerre la prima Chiesa assegnatagli, fu trasferita nell'anno 1566 per autorità di Pio V la sede dentro la città, nella Badial Chiesa di S. Bartolomeo. L'Arcivescovo Bernardo da' fondamenti la rifece, e con molta magnificenza l'ampliò e l'adornò. Tiene quest'Arcivescovo la sua diocesi distratta in varie parti: ha chiese a lui sottoposte in Bari, in Acerenza, in Potenza, nella Terra di Vadula della diocesi di Capaccio, nella Saponara della diocesi di Marsico, ed altrove, e gode di molti benefizj chiamati semplici. Egli s'intitola Arcivescovo Nazareno, e Vescovo di Canne e di Monteverde per ispezial privilegio concedutogli da Clemente IV, confermatogli da poi da Innocenzio VIII, da Clemente VII e da Pio V, romani Pontefici. Tiene una singolar prerogativa di portar la Croce, il Pallio, e la Mozzetta, non solo in Barletta, e nelle altre Chiese della sua diocesi, ma per tutto il Mondo cattolico, nè sotto qualunque pretesto di concessione appostolica possono gli altri Arcivescovi contrastargliela. Egli non è sottoposto ad altri, che al romano Pontefice, ed [92] esercita nella sua Chiesa e diocesi tutta quella giurisdizione, che gli altri Arcivescovi esercitano nelle Chiese loro.

Calabria.

La metropoli più cospicua della Calabria sotto i Greci fu la Chiesa di Reggio. I Patriarchi di Costantinopoli al Trono loro l'avean sottoposta, e come si vide nel sesto libro di quest'Istoria, le aveano assegnati tredici Vescovi suffraganei, i Vescovi di Bova, di Tauriana, di Locri, di Rossano, di Squillace, di Tropeja, di Amantea, di Cotrone, di Cosenza, di Nicotera, di Bisignano, di Nicastro e di Cassano. Restituita poi da' Normanni questa metropoli al Trono romano, ritenne la medesima dignità, onde nelle antiche carte istromentate a' tempi di questi Normanni, e spezialmente del Duca Roggiero intorno l'anno 1086 si chiamano sempre Arcivescovi; e Gregorio VII intorno l'anno 1081 consecrò Arcivescovo Arnulfo, a cui il Duca Roberto fece profuse donazioni, arricchendo la sua Chiesa di molti beni. In decorso di tempo perdè poi alcuni di questi suoi Vescovi suffraganei.

Il Vescovo di Rossano, restituite queste Chiese al Trono romano, fu innalzato a Metropolitano, e nei tempi di Roggiero I Re di Sicilia, e poco prima, Rossano fu renduta sede arcivescovile: ond'è che fra le memorie, che oggi ci restano di Papa Innocenzio III e dell'Imperador Federico II, spesso degli Arcivescovi di Rossano si favella. Fu questa Chiesa la più attaccata al rito greco, ed ancorchè fosse stata restituita al Trono romano, non volle mai abbandonarlo; [93] tanto che i suoi cittadini non vollero rendersi al Duca Roggiero, se prima non concedesse loro un Vescovo del rito greco; poichè questo Principe ne avea nominato un altro del rito latino in vece dell'ultimo, ch'era morto, onde Roggiero gli concedette il greco[127]. Ebbe sette monasteri dell'Ordine di S. Basilio, onde tanto più la lingua ed i greci riti si mantennero in quella. Le furono ancora date alcune Chiese per suffraganee; ma da poi furon tutte sottratte, poichè alcune passarono sotto la immediata soggezione di Roma, ed il Vescovo di Cariati, che l'era rimaso, passò poi sotto il Metropolitano di S. Severina, tanto che ora Rossano, non men che Lanciano, non ha suffraganeo alcuno.

Il Vescovo di Cosenza fu pure sottratto dal Metropolitano di Reggio, e passò sotto quello di Salerno, ma poi anch'egli, come si disse, fu innalzato a Metropolitano. Gli altri parte furon soppressi, come quello di Tauriana, ora disfatta, nel cui luogo è succeduta Seminara, parte passarono sotto altri Metropolitani; ed ora le restano i Vescovi di Bova, di Cassano, di Catanzaro, di Cotrone, di Gerace, di Nicastro, di Nicotera, di Oppido, di Squillace e di Tropeja.

Il Metropolitano di S. Severina al Trono costantinopolitano sottoposto, restituito al romano, ritenne pure la medesima prerogativa, e nelle carte date ai tempi del Duca di Calabria Roggiero si ha memoria degli Arcivescovi di questa città. Dal Patriarca di Costantinopoli gli furon dati cinque Vescovi per suffraganei; ma da poi quello d'Acerenza fu renduto [94] Metropolitano, l'altro di Gallipoli passò sotto il Metropolitano d'Otranto, ed alcuni soppressi; ma in lor vece essendosene altri creati, si vede ora il Metropolitano di S. Severina avere per suffraganei i Vescovi di Cariati, d'Umbriatico, di Strongoli, d'Isola, e di Belcastro. Teneva ancora il Vescovo di S. Lione, ma fu poi soppresso, e le sue rendite furono unite alla metropoli: avea eziandio i Vescovi di Melito e di S. Marco, ma questi furon sottratti, e posti sotto l'immediata soggezione di Roma.

Otranto.

Al Metropolitano d'Otranto, se si riguarda la disposizione de' Troni sottoposti al Patriarca di Costantinopoli, fatta dall'Imperador Lione, non si vede assegnato alcun suffraganeo: ma da poi Niceforo Foca, secondo che ci testifica Luitprando[128] Vescovo di Cremona, intorno l'anno 968, sedendo nella Chiesa di Costantinopoli Polieuto Patriarca, dilatò la provincia di questo Metropolitano, e gli diede per suffraganee le Chiese di Turcico, d'Accrentilla, di Gravina, di Matera, e di Tricarico, comandando al Patriarca [95] Polieutto, che consecrasse i suoi Vescovi. Ma non ebbe questo comandamento gran successo; ed al Metropolitano d'Otranto, restituito che fu da' Normanni al Trono romano, gli furono assegnati altri Vescovi per suffraganei, e fu mantenuta questa Chiesa colla medesima prerogativa, leggendosi, che nell'Assemblea tenuta nell'anno 1068 da Alessandro II in Salerno, v'intervenne anche Ugo Arcivescovo d'Otranto. Gli furono poi da' romani Pontefici assegnati altri suffraganei, i quali oggi ancor ritiene, e sono i Vescovi di Lecce, d'Alessano, di Castro, di Gallipoli, e d'Ugento.

Brindisi e Taranto restituite stabilmente da Lupo Protospata Catapano intorno l'anno 980 all'Imperio greco, a Constantinopolitano Sacerdotes accipiebant, come scrisse Nilo Archimandrita. Ma Roberto Guiscardo Duca de' Normanni, avendo tolta Brindisi a' Greci, restituì la sua Chiesa al Trono romano. Fu riconosciuta per sede arcivescovile da Urbano II, il quale nell'anno 1088 la consecrò; e le fu dato per suffraganeo il Vescovo d'Ostuni: un tempo stette unita colla Chiesa d'Oria, onde gli Arcivescovi si nomavano di Brindisi e d'Oria; ma poi furon queste Chiese divise, e quella d'Oria rimase suffraganea al Metropolitano di Taranto, e Brindisi ritenne solamente quella d'Ostuni.

Taranto, restituita da' Normanni al Trono romano, fu da' Sommi Pontefici renduta metropoli intorno l'anno 1100, e le furon dati per suffraganei i Vescovi di Mottula e di Castellaneta, a' quali da poi s'aggiunse l'altro d'Oria.

[96]

Ducato di Napoli, e di Gaeta.

La Chiesa di Napoli, come si è veduto nel sesto libro di questa Istoria, non fu da' Greci innalzata a metropoli; ma i Patriarchi di Costantinopoli solamente decorarono il suo Vescovo coll'onore e titolo d'Arcivescovo, onde avvenne, che sopra tutti i Vescovi del suo Ducato teneva egli i primi onori e preminenze. Fu ella innalzata al grado di metropoli da' romani Pontefici nel dechinar di questo decimo secolo, nei tempi stessi, che Capua, Benevento, Salerno, Amalfi, e tante altre Chiese furono da' Pontefici innalzate a questa dignità. Nè Napoli, sottoposta ancora al greco Imperio, poteva esser frastornata dagl'Imperadori di Oriente, o da' Patriarchi di Costantinopoli a ricevere dal Romano questo innalzamento. I Pontefici romani furon sempre tenaci a non rilasciare la loro autorità sopra questa Chiesa, e fortemente riprendevano i di lei Vescovi, i quali da' Patriarchi di Oriente ricevevan l'onore d'Arcivescovi. Ma assai più in questi tempi invigorissi la loro ragione, quando nel Ducato napoletano era rimasa solamente un'ombra della sovranità degli Imperadori d'Oriente, governando i Duchi con assoluto, e quasi independente imperio questo Ducato, ridotto ora in forma di Repubblica.

Ma da qual romano Pontefice fosse stata innalzata Napoli in metropoli, ed in qual anno, non è di tutti concorde il sentimento. Il P. Caracciolo[129], per l'autorità di Giovanni Monaco sostiene che da Giovanni IX intorno l'anno 904 fosse stata renduta [97] Metropoli; ma dal Catalogo de' Vescovi tessuto dal Chioccarelli, che giunge sino a Niceta, il quale resse questa Chiesa dall'anno 962 sino al 1000, e da quanto si è finora veduto, non a Giovanni IX in quell'anno, ma a Giovanni XIII dee attribuirsi tal innalzamento: fatto in que' medesimi anni, ne' quali Capua, Benevento ed Amalfi furono rendute Metropoli; ciò che ben dimostra il Chioccarelli[130], facendo vedere, che da Niceta cominciarono a chiamarsi tutti gli altri suoi successori Arcivescovi. Ebbe un tempo per suffraganei i Vescovi di Cuma e di Miseno, ma ruinate queste città nell'anno 1207 restarono estinti, e furono unite le loro Chiese colle rendite alla Chiesa di Napoli. Edificata Aversa da' Normanni ebbe pure Napoli per suffraganeo il di lei Vescovo, ma questi poi se ne sottrasse, ponendosi sotto l'immediata soggezione del Papa. Ritiene ora solamente i Vescovi d'Acerra, di Pozzuoli e d'Ischia, a' quali s'aggiunse poi il Vescovo di Nola, che tolto all'Arcivescovo di Salerno, di cui prima era suffraganeo, fu poco prima del Ponteficato d'Alessandro III a quel di Napoli sottoposto. Questi pochi Vescovi furono attribuiti a Napoli; ed a chi considera lo stato presente delle cose, sembrerà molto strano, come Benevento, Salerno, Capua e tante altre città d'inferior condizione ritengano tanti Vescovi suffraganei, e Napoli capo d'un floridissimo Regno tanto pochi; ma chi porrà mente a' secoli trascorsi, e considererà quanto erano ristretti i confini del Ducato napoletano, quando Napoli fu innalzata ad esser Metropoli, ed all'incontro quanto fossero più distesi i Principati di Benevento, di Salerno [98] e di Capua, e quanto gli altri Ducati e Province sottoposte al greco Imperio, cesserà di maravigliarsi. E se questa città nel tempo che fu renduta Metropoli ebbe sì ristretto Ducato, e per conseguenza sì pochi suffraganei, ben in decorso di tempo gli auspicj suoi felici la portarono ad uno stato cotanto sublime, che ella sola potesse pareggiare le più ampie e più numerose province del Regno.

Città ch'a le province emula appare,

Mille Cittadinanze in se contiene.

Gaeta pur sottoposta al greco Imperio, perchè pretesa da' Pontefici, ed a Roma pur troppo vicina, quando fu da' Normanni a' Greci tolta, non fu nè data per suffraganea ad alcun Metropolitano vicino, nè innalzata a Metropoli, perchè il suo picciolo e ristretto Ducato nol comportava; onde il suo Vescovo fu sottoposto immediatamente alla Sede Appostolica; siccome ora a niun altro soggiace.

Ducato d'Amalfi, e di Sorrento.

Amalfi in questi tempi meritava, non meno che Napoli, essere innalzata in Metropoli: ella per la navigazione erasi renduta assai celebre in Oriente, e divenuta sopra tutte le altre città, la più ricca e più numerosa, concorrendo in lei per li continui traffichi non meno i Greci, che gli Arabi, gli Affricani, insino agli Indiani; e Guglielmo Pugliese[131] ne' suoi versi l'innalza perciò sopra tutte le città di queste nostre province. Ebbe questa città suoi Vescovi sin dal suo nascimento, e ne' tempi di San Gregorio M. si porta per Vescovo Primerio, nè questi vien riputato il primo. [99] La Chiesa di Roma era loro molto tenuta, così per le tante Chiese che gli Amalfitani ersero in Oriente, mantenendovi il rito latino, come per essere stati i primi nella Palestina a fondar l'insigne e militar Ordine de' Cavalieri di S. Giovanni gerosolimitano. Era perciò di dovere, che innalzandosi a questi tempi da' romani Pontefici tante Chiese in Metropoli, ad Amalfi se le rendesse quest'onore, la quale, ancorchè per antica soggezione dipendesse dal greco Imperio, nulladimanco innalzata a sì sublime stato, e governandosi in forma di Repubblica da' suoi proprj Duchi, sola un'immagine ed un'ombra della sovranità de' Greci in quella era rimasa. Tenendo adunque questo Ducato Mansone Duca, quegli che per qualche tempo occupò il Principato di Salerno, fu a preghiere di questo Duca, del Clero e del Popolo amalfitano, da Giovanni XV nell'anno 987 innalzato il Vescovo d'Amalfi a Metropolitano, e gli furono attribuiti per suffraganei i Vescovi del suo Ducato; poichè ciò che scrive Freccia, che nell'anno 904 dal Pontefice Sergio III fosse stata Amalfi renduta Metropoli, non avendo fondamento alcuno, vien da tutti comunemente riprovato. I suoi suffraganei sono li Vescovi di Scala, di Minori, di Lettere, e quello dell'isola di Capri, i quali ancor oggi ritiene.

Sorrento ebbe pure suoi Vescovi antichi; e trovandosi a questi tempi capo d'un picciol Ducato, fu anche ella innalzata in Metropoli. Marino Freccia puro autore di questa istituzione ne fa Sergio III intorno al medesimo anno, che crede essere stata innalzata Amalfi: ma comunemente si tiene, che da Giovanni XIII dopo Capua, si fosse nell'anno 968 renduta questa Chiesa metropolitana, e che Leopardo ultimo [100] suo Vescovo avesse avuto quest'onore. I Vescovi Suffraganei, ch'egli tiene, sono quel di Stabia che ora diciamo di Castellamare, e l'altro di Massa Lubrense a' quali da poi s'aggiunse l'altro di Vico Equense.

Ecco la disposizione delle Chiese delle nostre province cominciata a questi tempi nel declinar del decimo secolo, e perfezionata poi nel principio della dominazione de' Normanni; la quale siccome ha tutto il rapporto alla presente, che vediamo a' tempi nostri, così in niente corrisponde alla disposizione e politia temporale delle nostre province, per cagion che quando fu fatta la nuova distribuzione delle province di questo Regno, multiplicate poi in dodici, siccome ora veggiamo, v'erano già stabilite le Metropoli, le quali secondando la politia dell'Imperio, quella forma e disposizione presero, nella quale trovarono allora gli Stati quando e dove furono stabilite; e quantunque molte città cangiassero poi fortuna, e da grandi divenissero piccole, ovvero da piccole grandi, nulladimanco i Pontefici romani non vollero mutar la disposizione delle Metropoli già stabilite, così perchè si ritenesse il pregio dell'antichità, come anche per non far novità, cagione di qualche disordine. Empierono bensì di più Vescovi il Regno; con ergere molte Chiese in Cattedrali, che prima non erano, per quelle cagioni che saranno altrove rapportate ad altro proposito, ma non mutarono la disposizione de' Metropolitani. S'aggiunge ancora, che, come diremo al suo luogo, la nuova distribuzione delle nostre province in dodici, principalmente fu fatta per distribuir meglio l'entrade regali, e da Ministri che si destinarono, chiamati Tesorieri, per l'esazione di quelle, si multiplicò il numero; tanto che fu veduto nell'istesso tempo il numero [101] de' Governadori, ovvero Giustizieri, essere molto minore di quello de' Tesorieri, e negli ultimi tempi furon fatti pari: ed i luoghi destinati per la loro residenza furon sempre varj, spesso mutandosi, secondo il bisogno del regal Erario, ovvero l'utilità pubblica richiedeva; onde questa nuova disposizione non potè portare alterazione alcuna alla politia dello Stato ecclesiastico.

In questo stato di cose trovarono i Normanni queste nostre province, quando vennero a noi. Altra forma fu data alle medesime, quando passarono sotto la loro dominazione, e quando uniti tutti questi Stati, ch'erano in tante parti divisi, nella persona d'un solo stabilirono il Regno in una ben ampia e nobile Monarchia.

FINE DEL LIBRO OTTAVO.

[102]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO NONO

I Normanni, che nel nostro linguaggio non altro significano, che uomini boreali[132], siccome i Goti ed i Longobardi, non da altra parte del Settentrione, che dalla Scandinavia uscirono ad inondare l'Occidente. Essi cominciarono la prima volta a farsi sentire nei lidi della Francia a tempo di Carlo M. verso il fine del secolo ottavo; e quaranta anni da poi, o poco meno, cominciarono a travagliare i marittimi Fiaminghi e' Frigioni, sotto i cui nomi si comprendevano allora Trajetto al Reno, l'Ollanda, e la Valacria. I Re [103] di Francia per trattenergli furon a buon patto costretti nell'anno 882, di dar loro la Frisia per abitazione[133]. Ma non essendo abbastanza soddisfatti di questa provincia, cominciarono ad invadere altri luoghi d'intorno con incendj e rapine sotto Rollone lor Capo, famoso e valorosissimo Pirata, il quale nell'istesso tempo, che i Saraceni con non minor crudeltà inondavano la nostra cistiberina Italia, egli co' suoi Normanni travagliava miseramente, e con inaudita barbarie la Francia. Portarono questi Popoli l'assedio insino a Parigi, invasero l'Aquitania, ed altre parti ancora di quel Reame sotto il regno di Carlo il Semplice; onde non potendo questo Principe resister loro, pensò avergli per amici e per confederati; onde convennero, che Carlo dovesse stabilmente assegnar loro la Neustria, una delle province della Francia per loro sede, e dovesse dar a Rollone per moglie Gisla sua figliuola, come scrive Dudone di S. Quintino[134], o sua parente, secondo il parer del Pellegrino[135], ed all'incontro Rollone, deposta l'Idolatria ed il Gentilesimo, nel quale questi Popoli viveano, dovesse abbracciare la religione cristiana. Così fu eseguito intorno l'anno 900 di nostra salute[136]: a Rollone con titolo di Duca fu data stabilmente la Neustria, e sposata Gisla, il quale nell'istesso tempo fu da Roberto Conte di Poitiers tenuto al sacro fonte, dove insieme col nome, si spogliò di quella sua crudeltà e barbarie, e volle nomarsi Roberto dal nome del suo Compare; e seguendo l'esempio del lor Capo gli altri Normanni si resero da poi più culti ed umani. Rimasa questa provincia di Neustria [104] sotto il lor dominio, le diedero dal loro il nome di Normannia, che oggi giorno ancor ritiene.

Da questo Roberto primo Duca di Normannia ne nacque Guglielmo, che il padre creò Conte d'Altavilla, città della stessa provincia. Costui generò Riccardo, dal quale nacque un altro Riccardo: di questo II Riccardo nacque Roberto II, ed un altro Riccardo che III diremo. E da Roberto II ne nacque Guglielmo II, dal quale comunemente si tiene, che fosse nato Tancredi Conte d'Altavilla, quegli che ci diede gli Eroi, per li quali queste nostre province furon lungo tempo signoreggiate[137].

Ebbe Tancredi di due mogli dodici figliuoli maschi oltre altre femmine, delle quali una nomossi Fredesinna, che fu moglie di Riccardo Conte d'Aversa e Principe di Capua, un'altra fu moglie di Gaufredo Conte di Montescaglioso, ed un'altra ebbe per marito Volmando[138]. I figliuoli della sua prima moglie nominata Moriella furono Guglielmo soprannomato Bracciodiferro, Drogone ed Umfredo (i quali, come vedrassi, furono i tre primi Conti della Puglia) Goffredo e Serlone. Gli altri sette gli ebbe da Fredesinna sua seconda moglie, il primogenito de' quali fu Roberto soprannomato Guiscardo, ch'è lo stesso, che in antica favella normanna, scaltro ed astuto, e questi divenne Duca di Puglia e di Calabria, il II fu Malgerio, il III Guglielmo, il IV Alveredo, il V Umberto, il VI Tancredi, il VII ed ultimo fu Roggiero, che conquistò la Sicilia, e stabilì la Monarchia[139].

[105]

Questi però non furono i primi, che a noi ne vennero: essi, come vedremo, seguirono le pedate di alcuni altri Normanni, che poco prima si erano stabiliti in Aversa, onde bisogna distinguere gli uni dagli altri per non confondergli, come han fatto alcuni Scrittori. I primi vennero a noi intorno l'anno 1016. I figliuoli di Tancredi calarono in Italia intorno l'anno 1035. Ma non tutti, poichè due ne restarono in Normannia, nè gli altri tutti insieme ci vennero, ma secondo che le congiunture furono loro propizie, or due, or tre, ed in altra somigliante guisa incamminaronsi a queste nostre parti; nè maggiore fu il numero de' primi, come vedremo[140].

Ciò che apparirà di più portentoso ne' loro successi sarà, come un branco d'uomini che vengono di Francia a traverso di mille sciagure abbiano potuto rendersi padroni di uno de' più vaghi paesi del Mondo: come una sola famiglia di Gentiluomini di Normannia, soccorsi solamente da un picciol numero di suoi compatrioti, abbiano potuto stabilirsi una Monarchia ne' confini dell'Imperio d'Oriente e d'Occidente: abbiano potuto contro due potenti inimici riportar tante e sì maravigliose vittorie, liberar l'Italia e la Sicilia dall'incursioni, e dal giogo degl'infedeli Saraceni, ciò che a Potenze maggiori non fu concesso, e dopo avere debellati i Greci ed i Principi longobardi, fondare in Italia il bel Reame di Napoli e di Sicilia. Certamente a niun'altra Nazione, se ne togli i Romani, è sì fortunatamente avvenuto, che così bassi principj, in tanta potenza ed Imperio fossero arrivati. Le altre Nazioni, come abbiam veduto de' Goti e de' Longobardi, non [106] in forma di pellegrini, di viandanti vennero in Italia, ma con eserciti ben numerosi, che inondarono le nostre contrade, si stabilirono il Regno.

All'incontro se si considererà lo stato infelice, nel quale erano ridotte queste nostre province infra di lor divise, ed a tanti Principi sottoposte; e l'estraordinario valore e bravura di questa Nazione, non saranno per apportar maraviglia i loro fortunati avvenimenti. Si aggiunse ancora che le maniere di guerreggiare usate in que' tempi, non eran come quelle d'oggidì: non vi era allora quasi regola alcuna per assaltare o per difendersi. Un esercito intero si vedeva alcune fiate disfatto senza sapersi nè come nè per qual cagione, e la più grande abilità consisteva, o in una gran forza di corpo incomparabilmente maggiore de' nostri tempi, poichè praticavansi con maggior frequenza quegli esercizj, che posson giovare ad acquistarla; o pure in una bravura eccessiva, che faceva concepire a' combattenti tanta confidenza, donde sovente maravigliosi successi sortivano, o alla perfine in alcune imprese orgogliose, la cui condotta in altra guisa non sarebbesi potuto giustificare, se non dall'avvenimento che ne seguiva.

Questo è quello, che produceva quei vantaggi, che noi ravviseremo ne' Normanni, i quali aveano quel medesimo lustro e grandezza, che nell'azioni de' Romani spesse fiate ammiravansi. Ed in fatti di poche altre Nazioni si leggono tante conquiste, quante dei Normanni: essi posero sottosopra la Francia, e molte regioni di quella conquistarono. Guglielmo Normanno discese da' medesimi Duchi di Neustria, acquistossi il fioritissimo Regno d'Inghilterra, e lo tramandò alla sua posterità. La nostra Puglia, la Calabria, la Sicilia, [107] la famosa Gerusalemme e l'insigne Antiochia passaron tutte sotto la loro dominazione[141].

Ma come, e quali occasioni ebbero gli uomini di questa Nazione di venire in queste nostre regioni cotanto a lor remote, e come dopo vari casi se ne rendessero padroni, è bene che qui distesamente si narri; poichè non altronde potrà con chiarezza ravvisarsi, come tante e sì divise Signorie, finalmente s'unissero insieme sotto la dominazione d'un solo, e sorgesse quindi un sì bel Regno, che stabilito poscia con provide leggi, e migliori istituti, poterono i Normanni per lungo tempo mantenerlo nella loro posterità; nè se non per mancanza della loro stirpe maschile si vide, dopo il corso di molti anni, trapassato ne' Svevi, i quali per mezzo d'una Principessa del lor sangue, ad essi imparentata, vi succederono. Non potrebbe ben intendersi l'origine delle nostre papali investiture, e come fosse stato poi riputato questo Regno Feudo della Chiesa romana, se non si narreranno con esattezza questi avvenimenti, donde s'avrà ben largo campo di scovrire molte verità, che gli Scrittori, parte per dappocaggine, molti a bello studio tennero fra tenebre ed errori nascose.

Nel racconto delle loro venture, e di tutti gli altri avvenimenti di questa Nazione, non ho voluto attenermi, se non a' Storici contemporanei, ed a coloro, che più esattamente ci descrissero i loro fatti, la cui testimonianza non può essere sospetta. I più gravi e [108] più antichi fra' Latini saranno Guglielmo Pugliese, Goffredo Malaterra, Lione Ostiense, Amato Monaco Cassinese, Orderico Vitale, Lupo Protospata, l'Anonimo Cassinese, Pietro Diacono e Guglielmo Gemmeticense. E fra' Greci, la Principessa Anna Comnena, Giovanni Cinnamo, Cedreno, Zonara ed altri raccolti nell'istoria Bizantina, i quali Carlo Dufresne illustrò colle sue note.

Guglielmo Pugliese rapporta in versi latini, ancorchè poco eleganti, ma molto buoni per lo stile del secolo in cui vivea, le azioni e' fatti d'armi de' Normanni nella Calabria. Questi scrive, non come un Poeta s'avviserebbe, ma come un Istorico, che vuole solamente ad un racconto fedele insieme ed ordinato aggiunger il numero ed il metro. Arriva il suo racconto insino alla morte dell'illustre Roberto Guiscardo accaduta circa l'anno 1085. Diegli alla luce ad istanza di Papa Urbano II, che nell'anno 1088 fu innalzato al Ponteficato, e dedicogli a Rogiero figliuolo e successore di Roberto Guiscardo. Questo suo poemetto istorico manuscritto fu ritrovato da Giovanni Tiremeo Hauteneo Avvocato Fiscale della provincia di Roven nella libreria del monasterio di Becohelvino vicino Argentina.

Goffredo Monaco, di cognome Malaterra, è un Autore più degno di fede: scrisse egli in prosa molto a lungo l'istoria delle conquiste fatte in Italia da' Normanni, per ordine di Rogiero Conte di Sicilia e di Calabria, fratello che fu di Roberto Guiscardo. Quest'opera essendo stata lungo tempo sepolta in obblio, il di lei manuscritto fu ritrovato in Saragozza infra l'istoria de' Re d'Aragona l'anno 1578 da Geronimo Zurita, che la diede alla luce; ed il Baronio di questo [109] ritrovamento, come d'un vero tesoro ne parla; quindi coloro, che hanno scritta l'Istoria di Sicilia, per non aver letto quest'Autore, in molti abbagli sono incorsi.

Lione Vescovo d'Ostia è un Autore assai noto, e che va per le mani d'ognuno; essendo egli Religioso di Monte Cassino scrisse la Cronaca di quel monastero poco dopo il tempo, di cui saremo per ragionare; ed ancorchè il suo impegno fosse di far apparire al Mondo la santità e grandezza di quel Monastero, nulladimeno ci somministra molti lumi per bene intendere le cose de' Normanni, nel Regno de' quali egli scrisse.

Amato Monaco Cassinense fiorì intorno a questi medesimi tempi: fu anch'egli da poi fatto Vescovo, ancorchè non si sappia qual Cattedra gli si fosse data. Pietro Diacono[142] tra gli uomini illustri di Cassino novera quest'Amato, e rapporta esser egli stato intendentissimo delle sacre scritture, e versificatore ammirabile. Fra le altre sue opere, che compose, fu quella de Gestis Apostolorum Petri, et Pauli, indirizzata a Gregorio VII, R. P., e l'istoria de' Normanni[143] divisa in otto libri, che dedicò a Desiderio, quel celebre Abate di Monte Cassino, che assunto da poi al Ponteficato fu detto Vittore III. Quest'istoria de' Normanni scritta da Amato, per quel che sappiamo, non uscì mai alla luce del Mondo per mezzo delle stampe: Giovanni Battista Maro nell'annotazioni a Pietro Diacono rapporta, che a' suoi tempi questa istoria si conservava manuscritta nella Biblioteca Cassinense, [110] ove molte cose degne da sapersi intorno alle gesta ed a' riti de' Normanni erano accuratamente descritte. Ma l'Abate della Noce piange questa perdita, e nelle note alla Cronaca Cassinense[144], rapporta essere stata tolta da quella Biblioteca, siccome molte altre cose degne d'eterna memoria. Visse quest'Autore intorno l'anno 1070 nel qual tempo, secondo ciò che comportava quel secolo, essendo la letteratura, per lo più presso a' Monaci, ne fiorirono molti altri, come Alberico, Costantino, Guaifero, Alfano, che poi fu Arcivescovo di Salerno, ed altri, che possono vedersi presso Pietro Diacono.

Scrissero ancora de' Normanni qualche cosa Lupo Protospata, l'Anonimo Cassinense, e Pietro Diacono stesso; ma Orderico Vitale, e Guglielmo Gemmeticense molto più diffusamente, oltre di molti Scrittori moderni, che sono a tutti notissimi.

La Principessa Anna Comnena, detta ancora Cesaressa, si rese più famosa al Mondo per la sua mente e per la sua erudizione, che per la sua qualità e per li suoi natali: ella fu figliuola d'Alessio Comneno, detto il Vecchio, Imperador di Costantinopoli, e di Irene. Zonara e Niceta ci assicurano, che questa Principessa amava lo studio con un ardore estremo, e che la sua ordinaria occupazione era su i libri. Non solo s'applicava all'istoria ed alle belle lettere, ma ancora alla filosofia: ella scrisse in quindici libri la Istoria d'Alessio Comneno suo padre, al quale il nostro Roberto Guiscardo mosse una crudelissima guerra, che fu parte del soggetto della sua istoria; ed ancorchè alcune fiate, secondo il costume della sua nazione, [111] manchi di rapportare con esattezza la verità, nulladimanco deve esser creduta, qualora favella in commendazione di Roberto Guiscardo, cui per essere fiero inimico di suo padre, grandemente odiava. Promette ella nel proemio della sua istoria di non dire cosa, per la quale possa essere accusata di compiacenza o d'adulazione, e che non sia uniforme alla verità; nientedimeno si vede, che ciò ch'ella scrive di suo padre, è un elogio continuato. Gli Autori latini non sono di questo sentimento, poichè questi non parlano d'Alessio, che come d'un Principe furbo e simulatore, di cui il Regno fu più notabile per le sue viltà, che per le sue belle azioni: ed in vero la sua ingiusta gelosia fece gran torto a' Franzesi, che crocesegnati militavano sotto il famoso Goffredo di Buglione per la conquista di Terra Santa; ma forse evvi troppa asprezza nelle Opere de' Latini, siccome soverchia lode in quella d'Anna Comnena. Della sua istoria Hoeschelio ne pubblicò gli otto primi libri, ch'egli avea avuti dalla libreria Augustana. Giovanni Gronovio vi faticò da poi; e nel 1651 Pietro Poussin Gesuita gli diede fuori colla sua traduzion latina, che abbiamo della stampa del Louvre. Da poi il Presidente Cousin ce ne ha ancora data una traduzione in lingua franzese, e finalmente Carlo Dufresne l'illustrò colle sue note.

Giovanni Cinnamo visse sotto l'Imperador Emanuele Comneno, i cui fatti egli distese nella sua Istoria: egli è uno scrittore elegante, e si studia imitare Procopio. De' nostri Normanni sovente egli favella, e va ora la sua Storia parimente illustrata colle note di Carlo Dufresne. Cedreno, Zonara e gli altri Scrittori [112] raccolti nell'istoria Bizantina, de' nostri Normanni alle volte anche favellano.

L'occasione che si diede a' Normanni, che fin dalla Neustria si portassero in queste nostre parti, non deve attribuirsi ad altro, che al zelo ch'ebbero questi Popoli della nostra religion cristiana, dappoichè deposta l'Idolatria si diedero ad adorare il vero Nume. Correva allora appo i Cristiani il costume d'andar pellegrinando il Mondo, non tanto come oggi, per veder città e nuovi abiti e costumi diversi, quanto per divozione di veder i santuarj più celebri. Per tal cagione si resero in questa e nella precedente età famosi in Occidente, ed appresso di noi due celebri luoghi delle nostre province, quello del Monte Gargano per l'apparizione Angelica, l'altro del Monte Cassino per la santità e miracoli di S. Benedetto e dei suoi Monaci: ma sopra tutti i santuarj, com'era di dovere, estolse il capo nell'Oriente Gerusalemme, città santa, ove il nostro buon Redentore lasciò asperso il terreno del suo sangue, ed ove fu sepolto.

Fra tutti i Cristiani del Settentrione è incredibile quanto a quest'esercizio di pietà fossero inclinati i Normanni della Neustria: ad essi, nè la lunghezza del cammino, nè la malagevolezza de' passi, nè il rigor de' tempi e delle stagioni, nè la necessità di dover sovente traversar per mezzo di ladroni e d'infedeli, nè la fame, nè la sete, nè qualunque altro si fosse maggior periglio o disagio, recava terrore. Per rendersi superiori a tante malagevolezze s'univan a truppe a truppe, e tutti insieme traversando que' luoghi inospiti essendo di corpo ben grandi, robusti, agguerriti e valorosi, valevano per un'intera armata, e sovente sopra i Greci, e sopra gl'Infedeli diedero crudelissime [113] battaglie; e ruppero gli ostacoli. Solevano con tal occasione, o nell'andare o nel ritorno venire a visitare i nostri santuari di Gargano e di Cassino.

Nel cominciar adunque dell'undecimo secolo[145], quaranta, come scrive Lione Ostiense[146], ovvero, secondo l'opinion d'altri, cento di questi Normanni partiti dalla Neustria s'incamminarono verso Oriente, e fin che in Gerusalemme giungessero, fecero nel cammino molta strage di que' Barbari. Nel ritorno tennero altra strada; ed imbarcati sopra una nave solcarono il Mediterraneo, e nella spiaggia di Salerno[147] giungendo, sbarcarono in que' lidi, ed in quella città entrati, furono da' Salernitani, sorpresi dalla robustezza de' loro personaggi, onorevolmente ricevuti. Reggeva Salerno in questi tempi, come si è narrato, dopo la morte del Principe Giovanni, Guaimaro III suo figliuolo, chiamato, come si disse, da Ostiense[148], il maggiore, per distinguerlo dall'altro Guaimaro suo figliuolo, che gli succedette. Questo Guaimaro dall'anno 994 che morì Giovanni suo padre, resse il Principato di Salerno ora solo, ora con suo figliuolo insino all'anno 1031, nel quale il di lui figliuolo morì. Furono per tanto da questo Principe invitati a trattenersi in Salerno per ristorarsi dalle fatiche del viaggio, e per goder un poco l'amenità del paese. Ma ecco che sopraggiunse un accidente, nel quale a questi pochi Normanni diedesi opportunità di mostrare il lor [114] valore, e di compensare insieme con Guaimaro le accoglienze, che usò loro. Nel corso di quest'Istoria sovente si è narrato, che i Saraceni non mancaron mai d'infestare il Principato di Salerno, che ora dall'Affrica, e spesso dalla vicina Sicilia sopra molte navi giungendo alla spiaggia di quella città, depredavano i contorni della medesima, ed a campi e castelli vicini di molti danni e calamità eran cagione: Guaimaro, non avendo forze bastanti per potergli discacciare, proccurava per grossa somma di denaro comprarsi la quiete ed il minor danno. Essi ora ci vennero sopra molte navi, mentre questi Normanni erano in Salerno, e fattisi da presso Salerno minacciavano saccheggiamenti e ruine, se con grossa somma di denaro non si fosse ricomprata: Guaimaro, che non avea alcun modo da difendersi, si dispose a condiscendere alle loro richieste, ed intanto ch'egli co' suoi Ufficiali erasi occupato a far contribuire i suoi vassalli, i Saraceni calati dalle navi in terra, riempirono lo spazio ch'è tra il mare e la città, ove aspettando il riscatto, si diedero alle crapole ed alle dissolutezze. I Normanni, che non erano avvezzi soffrire quest'obbrobrio rimproverando a' Salernitani, come lasciassero trionfare con tanta insolenza i loro nemici, con disporsi più tosto da se medesimi a pagare le spese del trionfo, che pensare a difendersi, vollero essi con inaudita bravura vendicare i loro oltraggi, e prese l'armi, mentre i Saraceni a tutto altro pensando stavano immersi tra le crapole ed il riposo, gli assalirono all'improviso con tanto impeto e valore, che d'un numero considerabile di loro fatta strage crudele, gli altri sorpresi si misero tosto in fuga, e così costernati e dissipati, pensarono rientrar ne' loro vascelli assai più [115] presto di quello ne erano usciti, e pieni di scorno ritirarsi da quella piazza. Un fatto così glorioso portò a' Salernitani non minor allegrezza, che ammirazione, ed il Principe Guaimaro non sapeva in che modo dar segno della sua riconoscenza al lor merito: pregogli che restassero nel paese, offerendo loro abitazioni e carichi i più onorevoli; ma essi si protestarono in quell'azione non aver avuta mira ad alcun loro privato interesse; e che non volevano altra ricompensa, che il piacere d'aver soddisfatto alla loro pietà in combattendo a favor de' Cristiani contro degl'Infedeli. Del resto per corrispondere alle cortesie di Guaimaro, ed al desio che mostrava d'aver appo di se uomini di tal sorta, gli promisero, o di ritornare essi medesimi, o d'inviargli de' giovani loro compatrioti di pari valore[149]. Si risolsero per tanto di ritornar alla loro patria, per cui rivedere ardevano di desiderio. Il Principe, non potendo più arrestargli, usò loro tutte le maniere perchè almeno nel loro arrivo gl'inviassero gente di lor nazione; e mentre imbarcaronsi per la Normannia, fecegli accompagnare da molti suoi Ufficiali con barche cariche di frutti i più squisiti insino al loro paese: donò loro ancora delle vesti preziose d'oro e di seta, e ricchi arnesi di cavalli. I disegni di Guaimaro ebbero il loro effetto, e quell'aria di liberalità e di magnificenza fu non solo un invito, ma ben anche una forte attrattiva alla Nazione normanna, per farla venire in queste nostre regioni. Poichè giunti in Normannia, avendo esposto il desiderio de' nostri Principi che aveano di loro gente, valse molto a far prendere questo cammino ad un gran numero di persone, e ben anche di [116] chiarissimo sangue. Al che diede mano un'occasione, che saremo per rapportare.

Nella Corte di Roberto Duca di Normannia fra gli altri Signori, che frequentavano il suo Palazzo, furono Guglielmo Repostel ed Osmondo Drengot: questi offeso da Guglielmo, ch'erasi pubblicamente vantato d'aver ricevuto de' favori da sua figliuola, lo sfidò a singolar tenzone, e con tutto che Guglielmo si trovasse presso del Duca Roberto, il quale colla sua Corte prendevasi il piacere della caccia, s'abbattè col suo nemico nel bosco, gli passò attraverso del corpo la sua lancia, e l'uccise. Il Duca Roberto, riputando ciò suo oltraggio, proccurava averlo nelle mani per farne pubblica vendetta, laonde Osmondo per scappar via dallo sdegno del suo Sovrano, salvossi prima in Inghilterra; ed alla fine veggendo aperta sì bella strada in Italia, risolse quivi ritirarsi co' suoi parenti, e proccurò ancora tirar altri con se per imprendere il cammino. Si portò in fatti questo prode Normanno seco molti suoi fratelli, li quali, secondo narra Ostiense, furon Rainulfo, Asclittino, Osmondo e Rodulfo, seguitati da' figliuoli e nepoti, e da molti de' loro amici. Questo Rainulfo fu il primo Conte d'Aversa, e poi Asclittino, chiamato da Ordorico Vitale[150] Anschetillo de Quadrellis, che a Rainulfo succedè, dal quale traggono origine i primi Normanni, che ebbero il Principato di Capua, come vedremo.

Questi Eroi di chiarissimo sangue usciti dalla Francia con molta comitiva de' loro Normanni, furono da' nostri Principi ricevuti con allegrezza, e con molti segni di stima, memori di ciò che pochi anni prima [117] aveano adoperato i loro nazionali in Salerno. Alcuni rapportano, ch'essi da prima andarono in Benevento, altri che si posero al servigio del Principe di Salerno, ed altri che vennero in Capua[151]: tutte queste cose posson essere vere, poichè questi novelli Normanni, poco men disinteressati di quelli, che aveano combattuto in Salerno, erano pronti di darsi al servigio di colui, che gli avesse meglio riconosciuti: ed i nostri Principi longobardi avendosi ugualmente a difendere contro i Greci, e contro i Saraceni, ciascuno dalla sua parte bramava d'aver appresso di se uomini così valorosi, per mezzo de' quali speravano di conseguire qualunque vantaggio. Comunque ciò siasi, egli è certo che ancorchè non fosse appurato in qual anno precisamente passassero in Capua, prima però dell'anno 1017 in quella città si fermarono, mentre Melo fuggito da Bari avea in quella città ritrovato il suo asilo, ed era stato accolto da Pandolfo IV, il quale dall'anno 1016 insieme con Pandolfo II figliuolo di S. Agata reggeva in quelli tempi il principato di Capua[152]. Ciò che diede occasione a questi novelli Normanni unitisi con lui di segnalarsi in più nobili imprese.

I Greci che col nuovo Magistrato di Catapano, aveano reso insopportabile il lor governo nella Puglia, diedero occasione che in Bari, principal sede di quel Magistrato, nascessero perciò nuovi disordini e tumulti; poichè i Baresi non potendo più soffrire l'aspro governo, che d'essi faceva Curcua nuovo Catapano, animati da Melo prode e valoroso Capitano di sangue longobardo, che dimorava in Bari, ove da molto tempo avea trasportata la sua famiglia, si ribellarono dall'imperio [118] greco, e sperando dare alla lor patria la libertà, si misero sotto la guida di Melo, che per lor Capo insieme con Dato suo cognato l'elessero. Ma gl'Imperadori d'Oriente avvisati di questa rivoluzione, mandarono tosto in Italia Basilio Bagiano nuovo Catapano, il quale giunto nella Puglia con buona compagnia di Signori e di soldati di Macedonia pose l'assedio alla città di Bari. I Baresi vedutisi così stretti, invece di pensare a difendersi, attesero solamente a rappacificarsi co' Greci a costo di Melo, offrendo di darlo loro nelle mani; di che accortosi Melo, tosto se ne fuggì furtivamente in Ascoli con Dato, ed ivi non tenendosi a bastanza sicuro, ritirossi ben anche più lungi, ed intanto i perfidi suoi cittadini, per guadagnarsi la buona grazia de' Greci, inviarono a Costantinopoli Maralda sua moglie, e 'l suo figliuolo Argiro. Melo, che da Ascoli erasi ritirato in Benevento, indi in Salerno, erasi finalmente con Dato fermato in Capua, chiedendo a Pandolfo, siccome a' Principi di Benevento e di Salerno suoi Longobardi a volergli prestar ajuto contro i Greci. Arrivando in Capua ritrovò ivi i Normanni, che poc'anzi eranvi giunti: era egli già consapevole del lor valore, onde trovandogli opportuni a' suoi disegni, per le grandi promesse che lor fece, si diedero al suo servigio, ed avendo arrolate eziandio altre truppe presso de' Principi longobardi, delle quali sollecitava il soccorso, ragunò un'armata, che immantenente menò contro i Greci; ed avendogli assaliti, furono in tre successive battaglie disfatti, e si rese padrone d'alcune città della Puglia; ma poscia perdette tutto il frutto delle sue vittorie nel quarto combattimento, che accadde intorno l'anno 1019 presso la città di Canne, [119] luogo già rinomato per l'antica disfatta de' Romani[153]. Vinto Melo più tosto per lo tradimento de' suoi, che per la forza de' Greci, i Normanni gli si mantennero fedeli, combattendo con estremo valore. Pensò Melo, veggendo il suo partito assai debole, di chiedere soccorso altrove, ed avendo raccomandati tutti i Normanni che gli restavano a Pandolfo Principe di Capua, ed a Guaimaro Principe di Salerno, tosto partissi per Alemagna a ritrovare l'Imperador Errico, a cui avendo esposto lo stato lagrimevole di queste nostre province, che per l'ingrandimento de' Greci erano in pericolo di esser tutte smembrate dall'Impero d'Occidente, lo confortava ad inviare una grossa armata contra de' Greci, o pure che venisse egli stesso in persona a comandarla: Errico, che trovavasi distratto in altre imprese, e che alle promesse non ben corrispondevano i fatti, obbligò ben due fiate Melo a ripigliar quel viaggio per sollecitarlo a mandare i promessi soccorsi; ma nel mezzo di questi affari finì Melo la sua vita presso l'Imperador Errico, tanto che i Normanni per la perdita di questo lor valoroso Capitano si diedero a prender altri partiti.

Adinolfo fratello di Pandolfo Principe di Capua ed Abate di Monte Cassino, era travagliato quasi sempre da' Conti d'Aquino, i quali sovente facevano delle scorrerie sopra i beni di quella Badia, onde pensò l'Abate per difendergli valersi dell'opra e del valore de' Normanni[154], i quali assai bene, e con ogni fedeltà adempierono la commessione, che loro era stata data, guardando di continuo le terre di quel monastero da un Borgo appellato Piniatario, non lungi dalla città di [120] San Germano, ove s'erano fortificati. Altri Normanni seguendo Dato s'erano ritirati sotto gli auspicj di Benedetto VIII R. P., il quale aveva loro dato in guardia la Torre del Garigliano, ch'era del dominio della Chiesa; parendo così a Dato d'esser sicuro, posciachè la città di Capua lo copriva dall'insulto de' Greci.

Ma la perfidia di Pandolfo Principe di Capua cagionò nuovi sconcerti in queste regioni, che finalmente tutti terminarono a maggior ingrandimento de' Normanni. Questo Principe, ancorchè mostrasse in apparenza favorir le parti di Errico Imperador d'Occidente come a lui soggetto, nulladimanco nudriva di soppiatto con Basilio Imperador d'Oriente una stretta corrispondenza ed amicizia, e s'avanzò tanto, che finalmente s'indusse a mandar in Costantinopoli le chiavi d'oro, e sottopporre sè, la sua città, e l'intero Principato all'Imperio d'Oriente, in quel modo ch'era prima a quello d'Occidente[155]. L'Imperador Basilio, a cui per gl'interessi suoi molto importava quest'acquisto, tosto avvisonne Bagiano, al quale commise, che per mezzo di Pandolfo proccurasse aver in mano Dato co' Normanni, ch'erano in sua difesa. Questi eseguì con efficacia ed esattezza il comandamento del suo Principe, e perchè Pandolfo non fosse distolto dall'Abate Adinolfo suo fratello, pensò tirare al suo partito anche costui, come lo fece opportunamente per un mezzo assai efficace, qual si fu d'una gran donazione, che fece al suo Monastero dell'intera eredità d'un tal Maraldo di Trani, ch'erasi devoluta al Fisco[156]; ed avendo mandata una grossa somma di denaro a Pandolfo, lo priegò insieme, che se veramente era fedele all'Imperadore [121] Basilio, gli permettesse il passaggio per gli suoi Stati per aver in mano Dato. Gli fa ciò tosto accordato, e posto in ordine un non piccolo esercito venne ad assalir Dato nel Garigliano; gli assediati ancorchè colti improviso si difesero con molto coraggio per due giorni: ma alla fine bisognò, che il valore cedesse alla forza. Bagiano prese la Piazza, e trattò con estremo rigore tutti coloro, che vi trovò, fuorchè i Normanni in riguardo d'una calda preghiera, che l'Abate Adinolfo gliene fece. Ma non usò pietà con Dato; e questo disgraziato Capitano condotto in Bari sostenne il supplizio de' parricidi, essendo stato buttato in mare dentro un sacco.

L'Imperadore Errico avendo intesa l'invasion dei Greci, la perfidia del Principe Pandolfo, e la crudelissima morte di Dato, reputando fra se medesimo, che perduta la Puglia ed il Principato di Capua, se non affrettava i soccorsi, era in pericolo di perdere Roma e tutta l'Italia, tardi avveduto di ciò che Melo tante volte aveagli presagito, scosso finalmente da tanti avvenimenti, avendo unito una grossa armata, e chiamati i Normanni (ch'erano stati a preghiere di Adinolfo lasciati liberi) che militassero sotto le sue insegne, tosto in quest'anno 1022 verso Italia incamminossi[157]. Divise in tre corpi la sua armata: ad uno composto di undicimila soldati prepose per Capitano Poppone Patriarca d'Aquileja, che incamminossi verso Abruzzi, acciò che per quella parte entrasse nel dominio de' Greci: l'altro corpo era di ventimila soldati comandato da Belgrimo Arcivescovo di Colonia (poichè in questi tempi non vi avea niente di stranezza, [122] che i maggiori Prelati della Chiesa si vedessero alla testa degli eserciti, come ben tosto lo vedremo ancora praticare dagli stessi Pontefici romani) e questo fu mandato per la strada di Roma per avere in mano l'Abate Cassinense col Principe di Capua suo fratello, che ambedue venivano imputati presso l'Imperadore della cattura e morte di Dato: l'altro ritenne seco Errico, volendo egli in persona per la Lombardia e per la via della Marca venire a' danni de' medesimi Greci.

L'Abate Adinolfo subito, che fu avvisato, che gli andava contro un esercito intero, abbandonò il monastero, e per salvarsi in Costantinopoli, ad Otranto con gran fretta fuggissene, dove imbarcato nell'acque del mare Adriatico, nel quale Dato era stato sommerso, rotta la nave con tutti i suoi, affogò.

Il Principe suo fratello, quando si vide assediato dentro Capua dall'Arcivescovo di Colonia, dubitando d'esser tradito da' suoi vassalli, che l'odiavano a morte, si diede in man del Prelato, acciocchè il menasse da Errico, in presenza di cui promise provar la sua innocenza[158]. Lo ricevè Belgrimo sotto la sua custodia, e menollo da Errico, il quale allora teneva strettamente assediata Troja in Puglia, città, che i Greci in questo medesimo anno aveano edificata, la quale pochi giorni da poi si rese a lui. Rallegrossi l'Imperadore, e fatti assembrare tutti i suoi Baroni, così italiani come oltramontani, perchè conoscessero della sua causa, fu con universal consentimento sentenziato a morte; ma l'Arcivescovo, sotto la cui protezione si era egli posto, tanto seppe oprar con preghiere e pianti [123] presso l'Imperadore, che la pena di morte la fece commutare in esilio perpetuo; onde fattolo strettamente incatenare, in cotal guisa se lo menò seco in Germania.

Il Principato di Capua fu da Errico conceduto a Pandolfo Conte di Tiano, e nell'istesso tempo investì di questo Contado Stefano, Melo e Pietro, nipoti del celebre Melo, i quali erano sottentrati a sostenere quell'impegno medesimo contro i Greci, che promosse il loro zio[159]. Ecco come gl'Imperadori d'Occidente disponevano del Principato di Capua e de' Contadi dei quali era composto. Ma essendo stato obbligato Errico a richiamar la sua armata per cagione degli eccessivi caldi della Puglia, che gli Alemani, ond'era composta, non potevano più soffrire: confidò i disegni che avea su l'Italia al valore de' Normanni, lasciando a loro la cura di discacciar da Italia i Greci. Raccomandò loro spezialmente di soccorrere, qualora il bisogno il richiedesse, i nepoti del rinomato Melo, ai quali diede parimente in aiuto alcuni altri celebri Normanni: questi, secondo rapporta Ostiense, furono Giselberto e Gosmanno, Stigando, Turstino, Balbo, Gualtiero di Canosa ed Ugone Fallucca con diciotto altri valorosi compagni.

Raccomandò ancora l'Imperador Errico questi Normanni a' Principi di Benevento e di Salerno, ed a Pandolfo di Tiano novello Principe di Capua, a' quali impose dovessero di loro in tutti i bisogni valersi. Ma questi Principi tosto dimenticatisi della grande obbligazione che aveano i Longobardi a' Normanni, da' quali erano stati tanto ben serviti contra de' Greci, cominciarono [124] poscia a disprezzargli; sia perchè credessero di non aver punto bisogno di loro; sia perchè sentissero male il vedergli interessati nel servigio dell'Imperadore Errico. Gli lasciarono dunque errar pe' boschi senza nè pure conceder loro un luogo di ritirata; anzi giunsero infino a negar loro quel soldo, ch'era in costume pagarsi a' medesimi.

I Normanni, che non aveano gran sofferenza di sopportar questa ingiustizia, presero le armi contro gli abitanti del paese, e giunsero ben tosto a fargli stare a lor discrezione; e per ottenere più sicuramente ciò che volevano, crearonsi un Capo della loro Nazione. Il primo ch'elessero fu veramente abile a mantenere i loro interessi: fu questi Turstino, uno di quei valorosi nomati da Ostiense, uomo di merito singolare per lo posto a cui innalzavasi, e sopra tutto d'una forza di corpo presso che miracolosa. Ma essendosi indi a poco questo valoroso Capitano per fraude dei Pugliesi incontrato con un dragone, ancorchè l'uccidesse, restò dal velenoso fiato di quel serpente estinto, come rapporta Guglielmo Gemmeticense[160]. Non mancarono però successori valevoli a vendicarsi di sua morte, poichè i Normanni in luogo di Turstino concordemente si elessero per lor Capo Rainulfo prode e scaltro guerriero[161], che giunse il primo in Italia in qualità di Principe, e che fu il primo tra' Normanni a stabilirsi in queste nostre province certa e ferma sede, come qui a poco vedremo.

Intanto Errico, dopo aver regnato ventidue anni, finì i giorni suoi in Alemagna nell'anno 1025 senza [125] aver lasciato di se prole alcuna; ed ora per la sua pietà, e più per la singolar sua castità, narrandosi, che anche ammogliato volle serbarla, gli prestiamo que' onori che a Santi son dovuti. Egli edificò in Bamberga molte chiese, che sottopose al romano Pontefice. Principe prudentissimo, il quale considerando, che per non lasciar di se figliuoli, avrebbero potuto nell'elezione del suo successore nascere disordini e confusioni, avvicinandosi alla morte, chiamò a se i Principi dell'Imperio, e per suo successore designò[162] loro Corrado Duca di Franconia detto il Salico, Principe saggio e valoroso della illustre Casa di Sassonia[163]. I Principi dell'Imperio acconsentendovi lo elessero per Re di Germania ed Imperadore; onde non per eredità, ma per elezione, com'era il costume, fu innalzato Corrado al soglio, ancorchè proposto da Errico suo predecessore, come se gli Elettori di comune consenso avessero nella persona d'Errico rimessa la elezione, quasi per un compromesso. Nè fu osservato nella sua elezione ciò che Ottone III, avea prescritto, poichè non da' soli sette Elettori, ma da tutti i Principi fu eletto: fu molto tempo da poi, che come si disse, per evitar le turbolenze ed i disordini, si pose in pratica ciò, che Ottone prescrisse.

[126]

Morì in quest'istesso anno 1025 Basilio Imperatore d'Oriente ancora, e poco da poi nel 1028 Costantino, e per lor successore fu eletto Romano, cognominato Argiro.

(Abbiamo indicato adesso la morte d'Errico sotto la data dell'anno 1025 avendo seguito in ciò l'attestato di due Autori degni di fede. Lione Ostiense lib. 2 c. 58. Defuncto igitur augustae memoriae Imperatore Herrico anno Domini M.XXV; ed Ottone Frisingense VI c. 27. Anno ab incarnatione Domini M.XXV defuncto sine filiis Herrico. Ma secondo Lamberto Schafnaburgense, Ermanno Contratto, ed altri germani Scrittori rapportati da Struvio Syntag. Hist. German. dissert. 13 §. 28 pag. 387 morì nel mese di luglio del precedente anno M.XXIV).

CAPITOLO I. Fondazione della città d'Aversa, ed istituzione del suo Contado nella persona di Rainulfo Normanno I, Conte d'Aversa.

La morte d'Errico e l'elezione di Corrado fecero mutar faccia agli affari di queste nostre province. Il novello Principe di Capua Pandolfo di Tiano per li suoi abbominevoli tratti, e più per l'avidità dell'altrui, e per la propria avarizia era da tutti abborrito. Aveasi disgustati i Normanni, i quali, vedendosi troppo indegnamente trattati, inquietavano gli abitanti del paese, riducendogli a loro discrezione: perciò appo i suoi vassalli medesimi era entrato in abbominazione. Erasi ancora disgustato con Guaimaro III, Principe [127] di Salerno, e per li suoi modi ridusse le cose in tale estremità, che se lo rese fiero inimico.

Tutte queste cose portarono la sua ruina poichè Guaimaro morto Errico proccurò con ogni sforzo entrar nella grazia del novello Imperadore Corrado, e seppe sì ben portarsi, che si strinse con lui con ligami assai stretti di corrispondenza ed amore. Teneva Guaimaro per moglie Gaidelgrima sorella di Pandolfo IV, che trovavasi ancora in Alemagna dentro due carceri ristretto: il primo favore che richiese a Corrado fu di riporre in libertà suo cognato, e ristituirlo nel Principato di Capua[164]. Corrado alle sue preghiere condescese, liberò Pandolfo, ed al Principato di Capua ordinò, che fosse restituito.

Rainulfo, che co' suoi Normanni era stato così indegnamente trattato da Pandolfo di Tiano, apertasegli sì bella occasione di vendicarsi di lui, tosto s'unì con Guaimaro, ed alle forze di questo Principe aggiunse le sue per far rientrare Pandolfo IV nel Principato di Capua. In fatti questo Principe soccorso da Guaimaro e da' Normanni, aiutato anche dagli antichi suoi fautori che teneva nella Puglia, e dall'istesso Catapano Bagiano, e da' Conti de' Marsi, pose tosto l'assedio a Capua per discacciarne il competitore. Difese costui per un anno e sei mesi la Piazza; ma non potendo da poi più sostenerla, fu costretto renderla a Bagiano, il quale sotto la sua protezione e custodia ricevutolo, il fece insieme con Giovanni suo figliuolo, e con tutti i suoi portare a Napoli, ove da Sergio che n'era Duca fu cortesemente ricevuto.

Pandolfo IV, entrato in Capua e restituito nel Principato, [128] non contento, come sono gli uomini ambiziosi, di esser ritornato alle sue pristine fortune, sofferiva con animo maligno, che Pandolfo di Tiano avesse trovato appo Sergio sicuro asilo, onde cominciò a meditare nuove imprese sopra il Ducato di Napoli sotto questo pretesto.

Co' Normanni nemmeno usò quella gratitudine, che richiedevano i servigi rilevanti, che aveangli prestati in questa congiuntura, tanto che pensarono da loro stessi di stabilirsi in un luogo di que' contorni dove meglio potessero, che fosse bastevole per farvisi una comoda abitazione; e presero da prima un luogo, il quale credesi esser quello, che oggidì chiamasi Ponte a Selice, tre miglia sopra Aversa, che pareva fertilissimo[165]; ma quando si disposero a fabbricarvi, rinvennero il fondo della terra tutto paludoso; che perciò l'abbandonarono per girne là vicino a fabbricare la città, che poscia fu chiamata dal loro nome Aversa la Normanna, la quale fu da Rainulfo posseduta col titolo di Conte per le cagioni che diremo.

Pandolfo IV, non tardò che un anno a porre in effetto i suoi disegni contro Sergio Duca di Napoli. Era in questi tempi il Ducato napoletano, dopo Marino, di cui favella l'Anonimo Salernitano, governato da questo Sergio, ed ancorchè per antiche ragioni stesse sottoposto all'Imperadore de' Greci, nulladimanco si governava da' Duchi con assoluto arbitrio sotto forma e disposizione di Repubblica. Mosse intanto Pandolfo contro Napoli il suo esercito; Sergio colto così all'improviso, e lontano dagli aiuti de' Greci, da' quali non ebbe alcun soccorso, fu tosto obbligato uscir dalla [129] città, che dopo breve contrasto si rese al Principe Pandolfo: e fu la prima volta che Napoli fosse soggiogata da' Principi longobardi, e che passasse sotto il lor dominio dopo gli sforzi di tanti altri, che non poterono mai conquistarla: Pandolfo di Tiano scappato come potè meglio, fuggissene in Roma, ove ben tosto finì la vita in un miserabile esilio.

Scacciato Sergio dal Ducato napoletano, non potendo altronde ottener soccorso per discacciarne l'invasore, con provido consiglio si rivoltò agli aiuti dei Normanni, i quali assicurò di volergli trattare assai più generosamente di quello, che fin allora i Principi longobardi avean fatto. Rainulfo, che mal corrisposto da quel Principe, prendeva tutte le occasioni, per le quali potesse maggiormente stabilirsi e proccurare i suoi maggiori avvanzi, su queste promesse accettò l'invito; e co' suoi Normanni unissi con Sergio, e gli prestarono sì segnalati servigi, che obbligarono Pandolfo abbandonar Napoli dopo tre anni, che se n'era impadronito, e fecero rientrare in quel Ducato Sergio con sua somma gloria e stima.

Sergio non seguendo gli esempi de' Principi longobardi, memore delle promesse fatte a Rainulfo, osservò la parola data, e fece co' Normanni una stretta alleanza, e per unirsi con più stretti legami, si sposò una parente di Rainulfo; ed oltre ciò perchè stesse sicuro dagl'insulti del Principe di Capua, tra questa città e Napoli frapposevi un sicuro riparo, costituendo Rainulfo Conte sopra i suoi Normanni[166], al quale diede col titolo di Contado tutto il territorio intorno alla città, ch'essi fabbricavano e che allora aveano cominciato [130] ad abitare, la quale veniva a coprire il Ducato di Napoli; e poich'egli stava applicato a mantenere i Normanni in una grande avversione col Principe di Capua, si crede, che da ciò quella città fossesi nominata Aversa.

Non è verisimile ciò che il Summonte, per l'autorità di Giovanni Villani, dice, che la ragione che poteva avere il Duca Sergio di dare il titolo di Conte a Rainulfo, dovette essere il dominio, ch'avea Napoli in quel territorio, non essendo distante più che otto miglia; tanto maggiormente che il Villani[167] nella sua Cronaca di Napoli dice, che i Normanni edificarono Aversa, la quale per innanzi era castello di Napoli. Ma questo titolo, come più innanzi vedremo, fu confermato da poi a Rainulfo dall'Imperador Corrado. Ecco come i Normanni cominciarono ad avere in queste nostre regioni ferma sede; ma acquisti assai maggiori seguirono in appresso per quelle occasioni, che saremo qui a poco a narrare.

§. I. Venuta de' figliuoli di Tancredi Conte d'Altavilla. Morte di Corrado il Salico e sue leggi.

Rainulfo veggendosi in cotal maniera stabilito in Aversa, attese a fortificarvisi ed incominciò a trattarsi da Principe: inviò Ambasciadori al Duca di Normannia, invitando i suoi compatriotti, che venissero a gustar con esso lui l'amenità del paese, ove già possedeva un Contado: l'invogliò a venire colla speranza di poter anch'essi impadronirsi di alcuna parte di quello. A questo invito venne in Italia un numero [131] assai più grande de' Normanni, che per l'addietro fossevi giunto: con questi vennero i figliuoli primogeniti di Tancredi d'Altavilla capo della famiglia, di cui poc'anzi si narrò la numerosa prole, onde sursero gli Eroi, che conquistarono non pur queste nostre province, ma la Sicilia ancora. La spedizione de' figliuoli di Tancredi in queste nostre regioni deve collocarsi nell'anno 1035, i quali non tutti nell'istesso tempo ci vennero, ma i primi furono Guglielmo, Drogone ed Umfredo. Gli altri vennero da poi, e soli due rimasero nella loro patria[168].

Questi prodi Campioni andati prima a tentar la sorte in diversi luoghi, alla perfine cogli altri Normanni giunsero in Italia ed in Salerno sotto la protezione, ed a' stipendi di quel Principe finalmente si fermarono. Reggeva in questi tempi il Principato di Salerno Guaimaro IV, figliuolo del maggior Guaimaro, il quale sin dall'anno 1031 avea finito i suoi giorni. Questo Principe seguendo i vestigi di suo padre ebbegli cari, e riconoscendo questi novelli Normanni per giovani sopra tutti gli altri della loro Nazione molto distinti, ebbegli in maggior conto; fosse ciò per sua inclinazione o per politica, egli è certo, che in tutti i suoi affari valevasi di quelli, e ne faceva una grande stima, proccurando i maggiori loro ingrandimenti; e come Principe prudentissimo reggeva perciò con vigore e magnificenza il suo Stato.

Dall'altro canto Pandolfo Principe di Capua, che mal seppe conoscergli, era venuto, per la sua crudeltà ed avarizia, nell'indignazione di tutti: le frequenti scorrerie e rapine che faceva al monastero Cassinense erano [132] così insopportabili, che finalmente obbligarono quei Monaci, per liberarsi della sua tirannia, di ricorrere in Germania all'Imperadore Corrado, al quale avendo esposto con pianti e querele i guasti che dava a quel Santuario, lo pregarono a calar in Italia per liberarlo dalle mani di quel Tiranno, rammentandogli dover a lui appartenere la loro liberazione, essendo quel Monastero sotto la tutela sua, come era stato sotto li suoi predecessori, e immediatamente sotto la sua protezione[169].

S'aggiunsero ancora, per affrettar la venuta di Corrado in Italia, le rivoluzioni accadute in quest'istesso tempo in Lombardia, autore delle quali in gran parte era riputato l'Arcivescovo di Milano[170]. Per queste cagioni finalmente fu risoluto Corrado intraprender il cammino verso queste nostre parti, e nell'anno 1036 con valido esercito, avendo passato l'Alpi entrò in Italia, ed a Milano fermossi, ove sedati i tumulti colla prigionia de' rebelli, imprigionò ancora l'Arcivescovo di Milano autore di quelli. Passò indi a poco in Roma, ove ascoltò le querele, che contro il Principe di Capua gli furon portate da gente infinita: volle conoscere de' suoi falli, e portatosi nel monastero di Cassino, mandò Legati a Pandolfo per ridurlo di buon accordo a restituire ciò, che ingiustamente avea occupato a quel monastero; ma ostinandosi nella sua perfidia, sdegnato Corrado venne a Capua egli stesso, e Pandolfo fuggendo la sua indignazione ritirossi nella Rocca di S. Agata. L'Imperadore ricevuto in Capua con solenne apparato ed allegrezza, nel giorno di Pentecoste [133] fu quivi incoronato con gran celebrità, e colle consuete cerimonie. Era allor costume degl'Imperadori d'Occidente di replicar sovente queste funzioni ne' giorni più celebri dell'anno, nel che è da vedersi l'incomparabile Pellegrino nelle gastigazioni all'Anonimo Cassinense; poichè Corrado non in Capua fu la prima volta incoronato Re o Imperadore: fu egli prima salutato Re nell'anno 1026, ed Imperadore nell'anno seguente, quando la prima volta venne in Roma.

(In quest'anno appunto, che fu il 1027 fu coronato in Roma da Papa Giovanni l'Imperador Corrado, siccome narrano Wippone Prete pag. 433. Ottone Frisingense VI. cap. 29 che dice: Anno ab Incarnatione Domini MXXVII. Conradus Romam veniens etc. a summo Pontifice Joanne coronatus, ab omni Populo Romano Imperatoris, et Augusti nomen sortitur. Lo stesso scrissero Ermanno Contratto, Lamberto Schafnaburgense, Sigeberto Gemblacense, ed il Cronografo Sassone ad An. 1027. Passò in Puglia, e da poi in Germania fece ritorno. Nella fine da poi dell'anno 1036 ritornò di nuovo in Italia: sedò i tumulti in Milano: imprigionò quell'Arcivescovo, ed avendo celebrata la Pasqua dell'an. 1037 in Ravenna, sedati nel seguente anno 1038 i romori di Parma, tornò di nuovo in Alemagna. Così scrissero Wippone Prete pag. 440 et seqq. Ottone Frisigense VI. c. 31. dicendo: Italiam ingreditur, Nataleque Domini celebrans, per Brixiam ac Cremonam, Mediolanum venit, ejusdemque Urbis Episcopum, eo quod conjurationis erga cum factae reus diceretur, cepit, ac Pupioni Aquilejensi Patriarchae custodiendum commisit etc. Concordano Ermanno Contratto, gli Annali Ildesheimensi, il Cronografo Sassone, Alberico, e Lione Ostiense lib. 2. cap. 65.)

Intanto Pandulfo con tutti i mezzi proccurava placar [134] l'ira di Corrado, chiedendogli perdono; finalmente gli offerì trecento libbre d'oro, la metà delle quali offeriva sborsar prontamente, l'altra metà a certo tempo, promettendo frattanto insino all'intero pagamento di dargli per ostaggi una sua figliuola ed un nipote: gli accordò l'Imperadore l'offerta, al quale egli tosto mandò il denaro e gli ostaggi. Ma non molto da poi pentitosi questo Principe del fatto, e reputando di poter con facilità rientrare in Capua, subito che Corrado se ne fosse partito, negò finalmente, dopo molto prolungare, di mandargli il restante dell'oro. Corrado allora avendo scorto l'animo di questo Principe, e che appena egli partito, sarebbe col suo mal talento ritornato ben presto alle rapine ed alle crudeltà, pensò di privarlo affatto del Principato di Capua, e darne ad altri l'investitura.

Convocò per quest'effetto un'assemblea di Proceri e Magnati, e di molti suoi Baroni, alla quale volle che intervenissero ancora i Magnati stessi di Capua, acciocchè anche col loro parere e consiglio il facesse, e nel caso di doversi Pandolfo deporre dal Principato, più maturamente innalzarvi altro personaggio, che ne fosse meritevole. Fu pertanto deposto Pandolfo, e non ritrovandosi chi potesse meglio sustituirsi in suo luogo, del Principe di Salerno Guaimaro, Principe prudentissimo, e ch'era in somma grazia dell'Imperadore Corrado, fu a lui conceduto: e furon allora veduti questi due Principati uniti in un'istessa persona.

Pandulfo lasciato suo figliuolo nella Rocca di S. Agata, andò in Costantinopoli a chieder soccorsi dall'Imperadore. Ma questi prevenuto da Guaimaro, in vece di somministrargli ajuto, lo mandò in esilio, ove per due anni, e più insino che visse l'Imperadore, [135] dimorò: morto costui, dal suo successore fu liberato, ma non potendo ricever alcun ajuto, se ne tornò senza alcun frutto[171].

Allora fu che Guaimaro riconoscente de' segnalati servigj, che gli avean prestato i Normanni, non tralasciava occasion d'ingrandirgli, e di mostrar loro il desiderio, che nudriva in esaltargli, proccurò dall'Imperadore Corrado l'investitura del Contado d'Aversa a favor di Rainulfo[172]; poichè se bene, come abbiam narrato, Rainulfo da Sergio Duca di Napoli fosse sopra i Normanni stato fatto Conte; nulladimanco quel, che si fece allora, fu solamente un conceder in ufficio a Rainulfo quella dignità, cioè di costituirlo Capitano sopra i suoi commilitoni, come dottamente spiegò il Pellegrino. Gl'Imperadori d'Occidente riputavano allora ad essi solo appartenere il concedere ed investire i Feudi in tutta Italia, ed esser questa, loro singolar prerogativa: ad imitazion de' quali pretesero da poi i Pontefici romani, che ad essi soli s'appartenessero l'investiture de' Beneficj, di che ci tornerà occasione altrove di favellare. Perciò Guaimaro, per istabilire maggiormente i Normanni nel Contado d'Aversa, proccurò che Rainulfo dall'Imperadore ne fosse investito, in virtù della quale investitura se gli concedeva non solo in ufficio, ma anche in Feudo la Città, ed il Contado e tutte quelle regalie, che sogliono venir comprese in simili concessioni.

Ma ben Guaimaro ne fu corrisposto da' Normanni, poichè non molto da poi co' loro ajuti prese Sorrento, [136] e ritenendo per se il titolo di Duca di Sorrento, concedè questa città a Guido suo fratello. Conquistò ancora col loro ajuto Amalfi, che per se la ritenne, ed al suo Principato la sottopose[173]. S'usurpò poco da poi, il titolo di Duca di Puglia e di Calabria; in guisa che nella sua persona s'unirono tanti titoli e Signorie, che non fu Principe alcuno veduto in questi tempi, innalzato a tanta sublimità e grandezza in queste nostre province, quanto lui. Per queste ragioni in alcune carte rapportate dall'Ughello nella sua Italia sacra, fatte sotto il Principato di Guaimaro IV si osservano tanti titoli, che a questo Principe s'attribuivano, come in una data in Melfi, Vigesimo sexto anno Principatus Salerni Domini nostri Guaimarii gloriosi Principis; et sexto anno Principatus ejus Capuae, et quinto anno Ducatus illius Amalfis, et Sirrenti; et secundo anno suprascriptorum Principatuum, et Ducatuum Domini Gisulfi eximii Principis, et Ducis filii ejus; et secundo anno Ducatus eorum Apuliae, et Calabriae, mense Junii duodecima Indictione[174].

Intanto Corrado, da Capua partito, portossi a Benevento, indi per la Marca andossene oltre i monti, portando seco gli ostaggi, che da Pandolfo avea ricevuti; ed appena scorso un altro anno finì i giorni suoi in Alemagna nell'anno 1039 lasciando per successore nell'Imperio Errico suo figliuolo, detto il Negro.

(Corrado appena scorso un anno, che ritornò da [137] Italia, morì nel mese di giugno in Utrech nella Frisia in quest'anno 1039. Ottone Frisingense VI cap. 31. Non multo post reverso ab Italia Imperatore, Sanctamque Pentecostes in inferiori Trajecto Frisiae urbe celebrante, in ipsa solemnitate infirmatus XVII Regni, Imperii vero XIV anno diem ultimum clausit. Concordano Wippone pag. 402. Ermanno Contratto, Lamb. Schafnaburg, Mariano Scoto, Sigeberto Gemblacense, Corrado Ursperpense il Cronografo Sassone, e gli Annali Ildesheimensi).

Fra le molte prerogative, onde era Corrado adorno, fu la perizia delle leggi, ed il sommo studio, ch'ebbe in istabilirle: egli calando in Italia presso Roncaglia, siccome era il costume de' suoi predecessori, molte ne stabilì tutte prudenti e sagge. Alcune se ne leggono nel terzo libro delle leggi longobarde, altre ne' libri feudali, e moltissime altre ne raccolse Goldasto nei suoi volumi[175].

Egli fu il primo, che alle consuetudini feudali aggiungesse le leggi scritte per regolar le successioni: insino ad ora la successione de' Feudi si regolava secondo i costumi de' Longobardi, che in Italia gl'introdussero. I Feudi, secondo che abbiam veduto, per antica consuetudine non solevan concedersi se non a tempo[176], rimanendo in potestà del concedente, quando gli piaceva, ripigliarsi la cosa data in Feudo. Da poi fu introdotto, che per un'anno avessero la loro fermezza: in appresso s'ampliò durante la vita del vassallo, nè a' figliuoli s'estendeva; finalmente fu ammesso uno de' figli, ed era quando il Padrone al medesimo confirmava il Feudo, che al padre era stato [138] conceduto: poi s'ampliò a tutti i figli, nè oltre, per le consuetudini feudali s'estese la lor successione.

Corrado il Salico, avanti che in Roma giungesse a prender la Corona dell'Imperio, nell'anno 1026 in Roncaglia, secondo il costume de' suoi predecessori, nell'assemblea de' Principi e del Popolo, richiesto dai suoi vassalli, che fosse contento d'ammettere alla successione de' Feudi non pur i figli, come erasi per le consuetudini feudali introdotto, ma anche i nepoti nati da' figli, e questi mancando, potessero succedere ancora i fratelli del defunto, glie lo accordò, e fu perciò promulgata legge, per la quale stabilì, che se il Feudatario non avrà figli, ma nipote dal suo figlio maschio, abbia questi il Feudo: e se non avrà nepoti ma fratelli legittimi, abbiano questi ancora il Feudo, che fu del loro comune padre[177].

Questa legge, che vien per intero rapportata dal Sigonio[178], ancorchè i Compilatori de' Libri Feudali non ve l'avessero interamente in quelli inserita, si legge però nel libro terzo delle leggi longobarde, ove tutte le altre leggi degl'Imperadori d'Occidente come Re d'Italia furono raccolte, le quali non solamente in Lombardia ed in tutte le altre parti di Italia, ma ancora in queste nostre province, toltone quelle, che all'Imperio de' Greci erano sottoposte, ebbero forza e vigore, per quelle ragioni, che altre volte abbiam detto nel corso di questa Istoria, e particolarmente ne' tempi di Corrado, ne' quali l'autorità degl'Imperadori d'Occidente era nel colmo della sua grandezza ne' Principati di Capua, di Salerno ed in quel di Benevento; [139] essendosi veduto che essi deponevano i Principi stessi, e de' loro Principati disponevan a lor talento; anzi, siccome vedrassi più innanzi quando della compilazion di queste leggi e delle feudali tratterassi, maggiore fu nel nostro Regno la forza ed autorità delle leggi longobarde, che delle feudali.

Non è però, che Gerardo de Nigris Senator di Milano nel primo libro de' Feudi[179] non avesse rapportata la sentenza di questa legge; ed i Compilatori degli altri libri feudali la tralasciarono d'inserire tra le altre costituzioni feudali degli altri Imperadori, che a Corrado succedettero, per quest'istessa ragione che ritrovavasi già inserita ne' libri delle leggi longobarde, l'uso de' quali era più frequente presso i nostri maggiori, che quello de' libri feudali: se bene da un luogo d'Andrea d'Isernia[180] si raccoglie, che in alcuni Codici delle leggi feudali, che allora andavano attorno, ancor che in molti luoghi tronca e mutilata, era stata pure trascritta.

Altri Capitoli di questo Principe abbiamo nel libro secondo de' Feudi sotto il titolo de Capitulis Corradi, stabiliti parimente in Roncaglia, ove de' Feudi pur si tratta: nè, per dir ciò di passaggio, è condonabile l'errore di Carlo Molineo[181], il quale nell'istesso tempo, che biasima i nostri Interpreti, i quali per l'ignoranza dell'istoria caddero in molti errori, inciampa egli stesso in ciò che ad altri biasima; riputando questi Capitoli di Corrado, essere non del Salico, ma di Corrado II, quando quel Corrado di ch'egli parla, non fu mai in [140] Italia, onde avesse quelli presso Roncaglia potuto stabilire.

Quindi ancora si convince l'altro errore di Molineo[182], nel quale non possiamo non maravigliarci esservi ancora caduto, oltre Cragio ed Ornio, il nostro diligentissimo Pellegrino[183], i quali per leggiere cagioni reputarono Lotario I, nipote di Carlo Magno, autore di quella costituzione, che si legge nel libro primo de' Feudi[184], per la quale la successione dei Feudi fu estesa anche al patruo; tantochè se fosse di quello Imperadore, non Corrado il Salico verrebbe ad esser il primo, che alle consuetudini feudali aggiungesse sopra ciò leggi scritte, ma Lotario I, che più di 200 anni prima di Corrado tenne l'Imperio di Occidente.

Ma si convince questa legge essere di Lotario III (che altri con più verità appellano II, poichè dell'altro Lotario, che per pochi giorni in tante rivoluzioni di cose invase l'Imperio dopo Berengario, non dee aversi conto) non già di Lotario I, per essere stata promulgata in Roma nell'anno 1133, o 1137 sotto il Pontificato di Innocenzio, non già d'Eugenio, come scorrettamente si legge ne' Codici vulgati, nell'Assemblea (com'era il costume) de' Sapienti e Baroni di molte città d'Italia; e fu confermata da Lotario la legge di Corrado intorno alla successione de' Feudi; ed oltre di ciò, ampliata la successione anche a favor del patruo, il che Corrado non avea fatto, siccome dottamente notò l'incomparabile Cujacio[185] a torto [141] dal Pellegrino ripreso. E ciò si manifesta con maggior chiarezza ponderando, che se sino a' tempi di Lotario I, i patrui erano ammessi alla successione dei Feudi, sarebbe stata cosa ridevole, con tanta premura ed istanza porger preghiere a Corrado, come fecero allora i Feudatari, perchè stendesse la successione a' fratelli, quando ciò 200 anni prima fu conceduto da Lotario anche a favor de' patrui. Convincono altri argomenti, che deve questa legge attribuirsi a Lotario III, li quali possono vedersi presso Schiltero e Struvio[186]. Ma deve questo abbaglio condonarsi al diligentissimo Pellegrino, che volle per questa volta metter la falce nell'altrui messe, ma non già al Molineo intendentissimo delle nostre leggi feudali.

CAPITOLO II. Conquiste de' Normanni sopra la Puglia.

In que' medesimi tempi, che da Corrado si proccurava dar qualche provedimento alle cose d'Italia, sursero in queste nostre parti occasioni cotanto favorevoli per l'ingrandimento de' Normanni, che ricevute da essi con avidità gl'invogliarono a cose maggiori, ed a più alte imprese. Que' prodi e valorosi Campioni, che in Salerno militavano sotto gli auspicj di quello Principe, crebbero per varie congiunture in tanta potenza, che cominciò a rendersi sospetta a Guaimaro istesso: il credito, che s'acquistavano spezialmente i figliuoli di Tancredi, gli dava qualche ombra, quantunque [142] non osasse dimostrarlo; onde per sottrarsi da questi sospetti, si pose a cercar modo d'allontanargli da se con qualche onorevole occasione, temendo insieme fargli bene, o male in sua casa; ma ecco che gliene venne offerta una, la quale fu profittevole ugualmente ad entrambi.

L'Imperio d'Oriente, che, come si disse, dopo la morte di Basilio e di Costantino, era governato dall'Imperador Romano Argiro, per gli frequenti disordini e rivoluzioni civili, andava miseramente decadendo dalla sua grandezza e splendore; ed essendo esposto alle irruzioni de' Saraceni, il furor de' quali non erano bastanti quegl'Imperadori a reprimere, era passato in gran sua parte sotto la loro dominazione. I Greci che imputavano la loro declinazione alla dappocaggine de' loro Sovrani, sovente tumultuando si facevano lecito ammazzare il proprio Principe, ed in suo luogo sostituirne un altro, ch'essi stimavano atto a poter restituire l'Imperio nell'antica grandezza; ma da' successi contrari, e fuori delle loro speranze, spesso trovandosi delusi, reiterando imprudentissimamente i medesimi mezzi di tumulti ed uccisioni, cagionarono finalmente la total ruina di sì grande e vasto Imperio. A questo riguardo, avendo innalzato su 'l Trono Michele Paflagone, permisero che da costui l'Imperador romano fosse miseramente ucciso. Questo accorto Principe per giustificare appresso i Popoli la sua elevazione, e rendergli sicuri di non essersi, com'altre volte, ingannati nella sua esaltazione al Trono, pensò con una rilevante conquista, accreditarsi, e disegnò discacciar dalla Sicilia i Saraceni, e riunirla come prima al greco Imperio, onde da que' Barbari era stata sottratta: mandò per tal effetto nell'anno [143] 1037 un'armata in Italia sotto la condotta di Giorgio Maniace Catapano, il quale essendovi giunto, mise il tutto all'opra, per eseguire i disegni del suo Sovrano[187]. La fama del valore de' Normanni era giunta sin nell'ultimo Oriente, onde Maniace riputò quasi che necessario, per agevolar l'impresa, aver di questi valorosi Campioni: fece perciò in nome dell'Imperadore pregare il Principe Guaimaro di fargli avere di questi prodi soldati, che poc'anzi nel suo paese aveansi acquistata tanta riputazione, assicurandolo, che non mancherebbe occasione di riconoscere e ricompensare un tale servigio. Ma egli non bisognava a Guaimaro far tante promesse, per farlo consentire a ciò che cercava. Questi assai più che Maniace, desiderava di dargli i Normanni, a' quali avendo esposta la cosa, dimostrolla di lor sommo vantaggio, e da non rifiutarsi, aggiungendo ancora per se medesimo promesse molto vantaggiose a quelle che avea loro fatte in nome dell'Imperadore.

I Normanni considerando quest'occasione poter loro portare non men gloria, che maggior stabilimento dei loro interessi, tosto accettarono il partito, e partirono da Salerno in numero di trecento, avendo alla loro testa Guglielmo, Drogone ed Umfredo figliuoli, di Tancredi, che non avea molto che dalla Normannia erano quivi venuti[188]. Furono da Maniace con molta gioja ricevuti, ed immantenente, avendo fatto venire dalla Puglia e dalla Calabria, province che a' Greci ubbidivano, alquante truppe, fece preparar la flotta; [144] e partito per dar fondo in Sicilia, giunto a Messina la cinse di stretto assedio: fu tale il valor de' Normanni in quest'impresa, che resasi ben tosto la Piazza, Maniace a' soli Normanni dichiarò tener obbligo di sì bella conquista, e raddoppiando la stima, in cui gli avea, fece loro de' presenti con nuove promesse per animargli sempre più a valorosamente combattere[189]. Avanzossi nel paese, e si rese padrone di un gran numero di posti rilevanti, portando insino a Siracusa l'assedio. Comandava questa Piazza per li Saraceni un tal Arcadio, il quale con estremo valore assaltando l'armata de' Greci, la mise in disordine, di che grandemente gloriavasi, quando ecco che Guglielmo scaricogli sopra con furia un colpo di lancia, che lo rovesciò morto a' suoi piedi. I Greci e i Saraceni ne restarono ugualmente stupefatti, e tiensi che in quest'occasione fosse dato a Guglielmo il soprannome di Bracciodiferro.

Riunirono ben tosto i Saraceni le loro truppe, ma essendosi Guglielmo co' suoi posto alla testa de Greci, le dissipò in maniera, che i Greci restarono padroni del Campo; ma approfittandosi i Greci della vittoria a' Normanni sol dovuta, poich'essi altra parte non vi avevano avuta, che di spettatori, si presero tutte le spoglie de' nemici, e le divisero infra loro, senza lasciar nulla a' Normanni, che l'avevano col lor valore acquistate. Essi ancora col solito lor fasto ed alterigia cominciavano a tener poco conto di questa inclita gente, ed il comando delle Piazze a' Greci solamente era dato, senza farne parte alcuna a loro, come furono le promesse di Maniace. Mal soddisfatti di tanta [145] ingratitudine pensarono far penetrare a Maniace questi torti, che loro usavano i Greci, per iscorgere come egli la sentiva, e se approvava ciò ch'era avvenuto. Erasi accompagnato co' Normanni in questa spedizione un valentuomo lombardo della famiglia dell'Arcivescovo di Milano, come narra Ostiense[190], appellato Arduino; ma Curopalata e Cedreno vogliono, che quest'Arduino fosse stato Capitano della squadra normanna; il quale scaltro ed intendentissimo dell'idioma greco, serviva loro d'Interprete: mandarono costui a Maniace, affinchè venendogli in acconcio gli rappresentasse le loro querele, come fu destramente fatto; ma questo Capitano si tenne offeso di queste doglianze, e riconoscendole come un'attentato alla sua autorità, se la prese con colui, che glie l'espose. Di vantaggio avendo Arduino preso un bel cavallo da un Saraceno, cui avea rovesciato a terra, vennegli richiesto da poi per parte di Maniace, al quale egli costantemente avendolo negato, gli fu tolto a forza con molto suo rossore e vergogna, insino a farlo frustare intorno al Campo[191]. Guglielmo Pugliese[192] e Cedreno[193] rapportano questo affronto essere stato fatto ad Arduino non già da Maniace, ma da Ducleone, che a lui succedè nel comando. Comunque siasi, reputando i Normanni gl'ignominiosi tratti essere stati usati non meno a loro, che ad Arduino, che gli ricevette, fortemente irati, volevano sul campo istesso incontanente prendere le armi contro de' Greci per iscancellare col loro sangue l'ingiuria, che dianzi aveano ricevuta; ma Arduino, [146] che meditava vendicarsi con più frutto, l'impedì, e mostrandosi più scaltro, ch'i Normanni istessi, gl'impegnò a dissimulare, come lui, il fatto, infino ch'egli adempiesse un certo disegno, il quale avrebbe loro aperta strada a maggiori e più grandi conquiste.

Vennegli in pensiero, che per lo stato, nel quale erano le forze de' Greci nelle province di Puglia e di Calabria, non era da disperare, che invase da' Normanni non dovessero cedere sotto la loro dominazione; ed in fatti non potevano essi aspettar migliore tempo che questo; poichè queste province, per l'impresa della Sicilia, che aveano allora i Greci per le mani, erano tutte sfornite di truppe, avendole Maniace fatte trasportar, come si disse, in Sicilia a quell'impresa: nè era da temer de' provinciali, i quali per l'aspro governo de' Catapani che le reggevano, e per il loro fasto ed alterigia sovente aveano ribellato, e sol la forza gli tenea ristretti: tanto era lontano, che si volessero opporre a coloro, che proccuravano di sottrargli dall'Imperio de' Greci, cui essi abborrivano e detestavano in guisa, che per sottrarsene aveano tentato di sottoporsi a Melo ch'era lor Nazionale, e fatto cittadino Barese. Erano ancora le lor forze indebolite per le guerre, che spesso erano lor mosse da' nostri Principi longobardi; ma sopra tutto per le frequenti scorrerie de' Saraceni, i quali fortificati nel Monte Gargano tenevano la Puglia in continui timori e sconvoglimenti.

Dall'altra parte i Normanni si vedevan crescere tuttavia in gran numero, venendone altri da giorno in giorno, o dalla Normannia, ovvero da Terra Santa, ove andavano in pellegrinaggio. Lo stabilimento di Rainulfo [147] nel Contado d'Aversa conferiva molto a mantenere gli interessi della Nazione; poichè oltre la parentela e l'alleanza con Sergio Duca di Napoli, teneva questi così ben esercitati nell'arte militare i suoi guerrieri normanni, che non v'era impresa grande, alla quale essi non fossero adoperati.

Ma sopra tutte queste cose, non si può credere quanto vi cooperassero i sconvolgimenti, e' disordini che avvennero nella città di Costantinopoli, che posero sossopra gl'interessi di quell'Imperio, e di tutte le sue province. Queste furono le congiunture più favorevoli, che finalmente gli fecero venir a fine de' loro disegni nella maniera, che saremo qui a poco a narrare.

Arduino per coprire sotto contrario manto questi disegni, mostrossi con Maniace niente toccato degli affronti, siccome lo dissimularono i Normanni parimente, e come nulla di ciò fossegli avvenuto, trattenevasi tranquillamente con tutti i Greci suoi conoscenti. In breve seppe così ben simulare, che come narra Malaterra[194], avendosi con doni guadagnato il Secretario di Maniace, oprò tanto, che ottenne un passaporto per andar in Calabria con alquanti de' suoi. Lione Ostiense[195] narra, che per aver tal licenza diede a sentire, che voleva andar in Roma per sua divozione a visitar que' luoghi santi: comunque siasi, imbarcatisi una notte i Normanni con lui, traversarono il Faro col favor del passaporto senz'alcun ostacolo. Appena sbarcati in Calabria si misero a rovinar tutto il paese, e verso la Puglia s'incamminarono, pensando di rendersene padroni, e ne avean già conceputa una ben fondata speranza. Intanto Arduino portossi in Aversa a sollecitare [148] per la medesima impresa il Conte Rainulfo; gli espose i suoi disegni, la facilità della conquista, essere la Puglia senza difensori, i Greci all'intutto effeminati, la provincia ben ampia ed opulentissima, ed ormai doversi vergognare, ch'essendo cresciuto il numero dei Normanni insigni nell'armi, e per tante vittorie illustri, di tenergli più ristretti tra le penurie e disagi, e fra gli angusti confini d'un picciol Contado[196]. Piacque a Rainulfo il consiglio, approvando quanto Arduino aveagli esposto, e senza frappor dimora unisce alquante truppe, le dispone sotto dodici valorosi Capitani, e perchè fra essi non nascesse alcuna discordia, fu di buon accordo, convenuto, che gli acquisti si sarebbero egualmente fra di lor partiti; ma ad Arduino primo autor dell'impresa se gli fosse data la metà di tutto ciò che si sarebbe conquistato, giurando ciascuno con solenne sacramento d'osservar esattamente quel che fra d'essi erasi concordato. Ne rimandò adunque Arduino con trecento soldati, il quale unitosi con gli altri Normanni nella Puglia, portò l'assedio immantenente in Melfi, una delle città più considerabili allora della Puglia. Sorpresi gli abitanti, tosto resero la Piazza; indi immantenente occuparono Venosa, alla quale ben tosto aggiunsero Ascoli e Lavello. La città di Melfi, che per lo suo sito naturale era ben forte, avendola poscia ben fortificata, e di alte torri munita, si rese inespugnabile; quindi la costituirono sede del loro dominio, e capo delle altre città convicine da essi conquistate. Così i Normanni rendutisi in quest'anno 1041 padroni d'una considerabil parte della Puglia [149] cominciarono indi a poco a dilatar i confini della loro dominazione sopra tutta questa provincia.

I Greci sorpresi per questa perdita, ed impazienti per ripararla, furono impediti da disordini, che opportunamente quasi per favorire i Normanni accaddero in Oriente, e che posero in iscompiglio tutta la Corte di Costantinopoli. L'Imperador Michele sopra nominato Paflagone, cui l'Imperatrice Zoe amò tanto, che in ricompensa del commercio, che seco avea avuto, lo innalzò al Trono imperiale, cadde in una sorte di mal caduco, che attediato del governo l'obbligò a rendersi Monaco. Questi lasciò l'Imperio al suo nipote, chiamato parimente Michele, cognominato Calefato, sotto il governo di Giovanni suo zio; ma questo novello Cesare si rese per le sue crudeltà e per avere discacciato Giovanni, a cui tanto dovea, e molto più per aver trattato ingratamente l'Imperadrice Zoe, dalla quale era stato adottato per figlio, e che avea proccurato innalzarlo alla dignità imperiale, cotanto odioso ed abbominevole presso i suoi sudditi, che apertamente tumultuando rimisero Zoe nel Trono. Costei tosto, che fu in quello ristabilita, scacciò Calefato, facendogli anche cavar gli occhi, e sposossi con Costantino Monomaco, che divenne ancora consorte all'Imperio[197]. A cagione di questi torbidi, che precederono e seguirono da poi, gli affari della Puglia, della Calabria e della Sicilia givan molto male per li Greci. Maniace pensò approfittarsene, e diede qualche sospetto, che volesse per se occupar la Sicilia, ed essendone stato accusato alla Corte, fu ben tosto richiamato e condennato in una stretta prigione. Queste [150] diverse catastrofi impedirono la Corte di Costantinopoli a poter arrestare i disegni de' Normanni, i quali in quel mentre aveano felicemente eseguito in Puglia ciò, che Maniace disgraziatamente avea tentato di fare in Sicilia.

Ma alla perfine i Greci ruppero ogni indugio e l'Imperadore, unendo un valido esercito, lo mandò in Puglia sotto il comando d'un nuovo Generale Duclione appellato, per ripigliare le città, ch'erano state loro involate, con ordine di non far quartiere a' Normanni, ma di sterminargli affatto. Ecco che si pugna ferocemente presso il fiume Olivento, ma fu cotanta la bravura e il valore de' Normanni, che ancor che di forze e di numero molto inferiore, ruppero i Greci, ne fecero strage immensa, e Duclione appena scappato potè avvisarne di sì infausto avvenimento l'Imperadore in Costantinopoli[198]. Questo Principe fortemente crucciato fece unir altre truppe, e tosto le mandò a Duclione: si pugnò la seconda volta presso Canne, e pure i Greci restarono vinti. Vollero di nuovo presso il fiume Ofanto attaccar altra battaglia, ma i prodi Normanni sempre, forti e maravigliosi, lor diedero in questa terza volta sì terribile rotta[199], che sconfitti affatto, si resero padroni di molti altri castelli di quel contorno, e delle spoglie de' Greci arricchiti, si stabilirono con maggiore potenza in quella provincia.

Questi valorosi insieme e scaltri guerrieri, temendo che la lor potenza non portasse gelosia a' vicini Principi longobardi, e per maggiormente rendersi benevoli [151] gli animi delle genti del paese, pensarono eleggersi un supremo Comandante, che fosse della lor Nazione, al quale come commilitoni ubbidissero. Il Principe Pandulfo III, che reggeva in questi tempi Benevento teneva un suo fratello, Adinolfo appellato: pensarono a costui, e per lor Duca concordemente lo elessero[200].

Intanto la Corte di Costantinopoli, cui quest'infelici successi aveano oltremodo sorpresa, imputando a Duclione ogni difetto, tosto richiamollo, e fatto unire una più considerabile armata, la fece passar in Calabria sotto la condotta d'un altro Generale. Questi fu Exaugusto, soprannomato Annone da Malaterra, figliuolo di quel Bugiano, il quale nell'Imperio di Basilio si era così egregiamente portato contro il famoso Melo[201], ma questi, che non ebbe miglior fortuna del suo predecessore, venuto a battaglia co' Normanni sotto monte Piloso, o come rapporta Cedreno[202] presso Monopoli, ebbe sì strana e terribile sconfitta (nella quale segnalossi sopra tutti Guglielmo Bracciodiferro) che tagliata a pezzi la maggior parte del suo esercito, fugati e totalmente dissipati i Greci, fu ancor egli miseramente preso e fatto prigioniero. I Normanni tutti allegri e trionfanti per un'azione cotanto gloriosa, avuto fra d'essi consiglio che dovessero fare della persona d'Exaugusto, deliberarono di farne un dono al Duca Adinolfo, come fecero; ma questo Principe lasciati i Normanni, avendolo seco portato in Benevento, e pensando poterne da questa preda ritrarre grandi ricchezze, contro l'aspettazion de' Normanni, lo [152] vendè a' Greci, e trassene una rilevante somma d'argento.

Di che sdegnati fortemente i Normanni, i quali nè tampoco avevan avuto in tanti incontri gran saggi del suo valore, furono risoluti d'elegger altri per lor Duca, e concordemente elessero Argiro figliuolo del famoso Melo, il quale poco prima, stando carcerato in Costantinopoli, fuggì destramente dalle carceri coll'occasione della morte di Michele Paflagone, e ricovratosi in Puglia, fu da' Normanni ricevuto con grande applauso e stima; li quali non arrischiandosi ancora per li motivi di sopra addotti, far cadere questa elezione in uno della lor propria Nazione, stimarono meglio di portar questi ad onore sì grande, innalzandolo su d'uno scudo, secondo la maniera usata in quel tempo da' Popoli di Francia.

La Corte di Costantinopoli, non sapendo quai Capitani più eleggere, pensò Calefato di valersi di bel nuovo di Maniace, onde trattolo da prigione, lo mandò tosto in Calabria contro i Normanni[203]. Questi volle segnalar sopra gli altri la sua venuta con crudeltà inudita, e pose tanto terrore nel paese, che i Normanni, essendosi con lui cimentati presso Monopoli e Matera, e scorgendosi di forze disuguali pensarono meglio di ritirarsi dentro alcune Piazze forti, attendendo intanto che questa gran furia e tempesta per qualche prospero avvenimento passasse.

Non andarono ingannati, però che non passò molto tempo, ch'essendo stato, come si disse, l'Imperador Calefato deposto dall'Imperio, e dall'Imperadrice Zoe [153] innalzato al Trono Costantino Monomaco, a cui ella sposossi: Maniace sentendo dispiacere dell'innalzamento di Costantino, de' tanti disordini della Corte pensò di approfittarsi, e ribellando apertamente da Zoe e Monomaco, con disegno di farsi egli da' suoi aderenti acclamare Imperadore, perduta ogni speranza di soccorso da Costantino, s'intrigò a più pericolose imprese, che lo tennero occupato, e distratto in molte parti. Egli allora deposto ogni rispetto ed ubbidienza al suo Principe, devastò crudelmente e barbaramente tutti i contorni di Monopoli, di Matera: nell'istesso tempo, che dall'altra parte Argiro aveva preso Giovenazzo, e posto l'assedio a Trani: indi essendo stato dall'Imperador Costantino mandato Pardo con un tesor grande d'oro e d'argento in Puglia per nuovo Catapano, affin di reprimere la perfidia di Maniace: questi che ne fu avvisato, se gli fece incontro co' suoi soldati, ed ammazzatolo miseramente, gli tolse via ogni cosa, se medesimo arricchendone e profondendone ancora molta parte all'esercito, si fece gridare Augusto, vestendosi di tutte l'insegne imperiali[204]; da poi avendo in vano sforzata Bari, ritirossi a Taranto, ove avea collocata la sua sede. Quivi da Argiro e da' Normanni fu assediato, ma giti vuoti questi disegni, egli da poi in Otranto fermossi, donde finalmente nella Bulgaria, traversando l'Adriatico portossi: quivi pugnando con Stefano Sebastoforo, restò in battaglia vinto e preso: fugli troncato il capo, e mandato all'Imperadore in Costantinopoli[205].

I Normanni in tante rivoluzioni non tralasciarono [154] approfittarsene; onde senza molta fatica attesero a riacquistare ciò che aveano abbandonato all'arrivo di Maniace. E rassodate ora con maggior fermezza le loro fortune per altre conquiste, che di giorno in giorno facevano, pensarono per maggior sicurezza a non voler altri Capitani, che della loro Nazione; e se bene Argiro era da essi tenuto in molta stima, nulladimeno avendo scorto, che sotto la di lui condotta mal aveano potuto sostenere gli sforzi di Maniace, e che le maggiori azioni, e più gloriose a Guglielmo Bracciodiferro si doveano, credettero di far meglio di sottomettersi a lui; onde radunatisi in quest'anno 1043 nella città di Matera, ove Maniace pochi mesi prima avea esercitato le più grandi crudeltà, l'elessero lor Comandante, e datogli per onore il titolo di Conte, fu perciò, ch'egli fosse il primo, il quale Conte di Puglia si nomasse.

§. I. Di Guglielmo Bracciodiferro I Conte di Puglia, creato l'anno 1043.

Questi fu il primo Titolo, e principio di tutti gli altri Titoli, che la regal Casa normanna ebbe in Puglia e da poi in Sicilia, il qual non l'ebbe, nè per autorità di Papa Benedetto IX, nè dall'Imperador greco Costantino XI, che allor imperava in Oriente, ma, come narrano Lupo Protospata e Lione Ostiense, per elezione de' Capitani, de' soldati e del Popolo cioè de' Signori italiani, longobardi e normanni Capi e maggiori dell'esercito, i quali unitisi a consiglio, decretarono che si conferisse il titolo di Conte a Guglielmo Bracciodiferro; il qual decreto approvando tutti i Capitani minori, e tutto l'esercito italiano e normanno, [155] la soldatesca tutta l'acclamò Conte, che fu il meglio dato, e più legittimo, che se o dagli Imperadori di Oriente e d'Occidente, o dal Papa lo ricevesse. Egli è credibile, come suspica Inveges[206], che i Normanni in questa elezione avesser usate particolari cerimonie nel crearlo Conte, e che oltre il suono de' timpani e delle trombe, che comunemente accostumavasi nella promozione de' Conti (come può vedersi presso Ugone Falcando, quando Riccardo di Mandra fu fatto Conte di Molise) l'avessero eletto Conte coll'antica cerimonia italiana di dargli in mano lo stendardo; quasi che fosse stato costituito Gonfaloniere della nostra Lega italiana e normanna contro l'Imperador greco; e che da ora sopra dell'arme per segno di Corona usasse un semplice cerchio senza gioja, per distinguerlo dai titoli di Marchese e di Duca, e senza raggi, per distinguerlo da' titoli di Principe, ma così schietto, come era allora de' Conti.

I Normanni adunque avendosi in cotal guisa eletto per Conte di Puglia Guglielmo, acciocchè pacificamente potessero godere delle loro conquiste, ed infra di loro non potesse allignare alcun seme di discordia, pensarono a dividersi di buon accordo le terre conquistate, e quelle ancora che aveano in animo di conquistare. Essi nel cominciamento della loro dominazione nella Puglia introdussero una politia e forma di governo non dissimile a quella, che per dieci anni tennero i Longobardi, quando morto Clefi non curandosi di rifare un nuovo Re, distribuitesi infra di loro le città del Regno, ciascuno colle medesime leggi ed istituti amministrava il Contado a se commesso, [156] e nelle deliberazioni più gravi e di momento, in Pavia città principale solevan tutti convenire, ove assembrati consultavano degli affari più rilevanti della Repubblica.

I Normanni ancorchè militassero sotto un Capitano, che l'elessero per evitar le confusioni ed i disordini, che sogliono accadere quando nell'imprese un solo non imperi; nulladimeno ciascuno, più come compagno che come ministro in guerra, erasi adoperato, e molti v'aveano avuto nelle conquiste egual parte, e somministrata ugual opra e soccorso. Rainulfo Conte d'Aversa v'avea mandata molta gente sotto dodici Capitani: Guglielmo Bracciodiferro erasi cotanto in quell'impresa segnalato: eransi ancora distinti sopra gli altri Drogone e Umfredo suoi fratelli: Arduino primo autor dell'impresa; e molti prodi e valorosi Campioni i quali non lasciarono ancora in tante occasioni esporre le loro persone in ogni pericolo e cimento. Perciò essi sin dal principio, che s'accinsero a sì nobili impresa, di buon accordo convennero, che ciò che si sarebbe conquistato, non dovesse ad un solo darsi, che ne fosse sol padrone, ma ugualmente infra di lor partirsi. E quantunque Guglielmo fosse stato eletto Conte, questo non fu, che a sol titolo d'onore, non che, come fu da poi variato, la Puglia cedesse sotto la dominazione d'un solo.

Per queste cagioni fu da essi introdotto in questi principj un tal governo, che s'accostava più all'aristocratico, che al monarchico; perciò consultando il tutto con Guaimaro Principe di Salerno loro antico alleato, intimarono una Dieta in Melfi, ove tutti per quest'effetto dovessero convenire, alla quale invitarono [157] ancora Guaimaro e Rainulfo a dovervisi trovare[207]. Essi in questa guisa si divisero le città. A Rainulfo Conte d'Aversa si diede la città di Siponto col Monte Gargano con tutte le sue terre e luoghi appartenenti al medesimo. A Guglielmo Bracciodiferro si diede la città d'Ascoli, confirmandogli il titolo di Conte, che di comun consenso già gli si era concesso. A Drogone Venosa. S'assegnò ad Arnolino Lavello: Monopoli ad Ugone: Trani a Pietro: Civita a Gualtiero: a Ridolfo Canne: a Tristaino Montepiloso: Trigento ad Erveo: Acerenza ad Asclittino: S. Arcangelo a Rodulfo: Minervino a Raimfrido: e ad Arduino, secondo ciò, che aveano giurato, fugli ancora assegnata la porzion sua. Così fu partito ciò ch'essi infinora aveano conquistato in Puglia. Solo la città di Melfi, che era la prima e la più forte Piazza, che infino allora aveano acquistata, restò a tutti comune. Essi se la serbarono per aver un luogo ove potessero ragunarsi, qualora doveano deliberare delle cose più rilevanti della lor Nazione: quindi Melfi cominciò ad estollere il capo sopra l'altre città della Puglia, onde i romani Pontefici la riputaron capace di potervi ivi ragunare qualche Concilio, come fecero; ed essendosi anche Amalfi resa celebre per la navigazione, quindi avvenne, che presso gli Scrittori oltramontani, non bene intesi de' nostri luoghi, spesso confondendo l'una coll'altra città, prendono l'una per l'altra, ingannati dall'uniformità del nome.

Ecco come i Normanni si resero padroni della maggior parie della nostra Puglia: nè s'arrestò qui il corso delle loro conquiste, che poco da poi portarono [158] sopra l'altre province, come qui a poco ravviseremo. Essi la tolsero a' Greci, che la possedevano; ancorchè l'Imperador di Occidente vi pretendesse avervi dritto, come Re d'Italia, a' quali nel Regno de' Longobardi fa sottoposta, e da' Duchi di Benevento era amministrata per mezzo de' Castaldi, che vi mandava, e perciò ricaduta in poter de' Greci, aveano ne' tempi degli Ottoni sovente preteso di sottoporla all'Imperio d'Occidente, ancorchè i successi non corrispondessero a' loro disegni.

Intanto Argiro essendosi diviso da' Normanni, veduto che da essi nella distribuzione delle città non se gli era assegnata parte alcuna, avea rivolti i suoi pensieri ad altre imprese: egli non si curò molto di questo, poichè il suo intento era di farsi Principe di Bari, come Melo suo padre, ed avendo avute opportune occasioni di rendersi nella grazia dell'Imperadore Costantino Monomaco, per aver ripressa la fellonia di Maniace, ed obbligatolo a fuggir in Bulgaria, ove fu fatto morire, ottenne da questo Principe non sol la sua grazia, ma gli concedè Bari col titolo di Principe e Duca di Puglia, facendolo anche Patrizio, affinchè come suo dipendente mantenesse i suoi interessi, che avea in queste province. Così Argiro in questa altra parte della Puglia fermato, militando sotto gli auspicj dell'Imperador d'Oriente, diede principio al Principato di Bari, che finalmente passò pure sotto la dominazione de' Normanni, come diremo.

Intanto i Normanni siccome andavano maggior forza acquistando, così si facevano più animosi, e poco men che insolenti con invadere i vicini. Quelli che sotto Rainulfo Conte d'Aversa militavano, sovente molestavano il monastero di Monte Cassino, e finalmente [159] vennesi a manifeste invasioni; ma essendosi loro opposto l'Abate, era la cosa per terminare in una fiera guerra, se Guaimaro loro collegato, ed insieme amico dell'Abate non si fosse frapposto per pacificargli, come fece.

Ma in quest'anno 1046 rimasero i Normanni afflittissimi per la morte accaduta di due loro famosi Capitani. Quei di Puglia perderono il famoso Guglielmo, il Condottiero di tutti i loro affari, nella di cui persona s'univano con maraviglia l'intrepidezza ed il valore contro i nemici, e la dolcezza e l'affabilità verso i suoi. Egli, come scrive Guglielmo Pugliese[208] suo contemporaneo, era un Lione in guerra, un Agnello nella società civile ed un Angelo nel consiglio. Non regnò in Puglia, che tre anni, ed abitò in Italia dal 1035 che vi venne, insino alla sua morte dodici anni; e fu sepellito nella chiesa della Trinità di Venosa, città, la quale nella riferita divisione era stata assegnata a Drogone suo fratello. Gli altri d'Aversa poco da poi perderono il Conte Rainulfo al quale, non avendo di se lasciati figliuoli, diedero per successore Asclittino, che fu cognominato, secondo Ostiense[209], il Conte giovane, e da Orderico Vitale[210], de Quadrellis. Questi resse il Contado di Aversa picciol tempo, poichè morto nell'anno 1047 ancorchè avesse di se lasciati figliuoli, invase tosto il Contado Rodolfo, da Ostiense cognominato Cappello, e da Guglielmo Pugliese[211], detto Drincanotto; ma ben presto ne fu costui scacciato dagli Aversani, i quali elessero per Conte un altro Rodolfo, Trinclinotte appellato; e questi, morto poco da poi, gli Aversani [160] posero in suo luogo Riccardo figliuolo d'Asclittino, il quale trovandosi allora nella Puglia militando agli stipendj di Drogone, che aveagli anche data per moglie una sua sorella, fu da essi richiamato, ed al Contado d'Aversa proposto. Questi fu, che nell'anno 1058 avendo discacciato il Principe Pandolfo V da Capua, si rendè padrone di quel Principato, che poi trasmise a' suoi posteri, come diremo. Tanto che i primi Principi di Capua normanni dal sangue di questo Asclittino tutti discesero; nè bisogna confondergli con gli altri Normanni della Puglia e della Calabria, che furono della razza di Tancredi Conte d'Altavilla[212].

Questi ancora, per la morte di Guglielmo, pensarono immantenente a sustituire in suo luogo un altro, che potesse ugualmente sostenere le sue veci; onde elessero per Conte di Puglia Drogone suo fratello[213], prode e valoroso Capitano; Pirri, su la credenza che Guglielmo avesse lasciato di se figliuoli, scrisse, che intanto i Normanni, questi figliuoli esclusi, avessero in suo luogo eletto Drogone suo fratello, perchè quest'era il lor costume di preferire a' figli i fratelli maggiori del defunto; ma come ben osservò[214], questa è una ragione in tutto vana; poichè appresso i Normanni medesimi il Ducato di Normannia si trasferiva da padre a figlio; siccome il notano la Cronaca Normanna, e Gordonio; e mancando la descendenza del figliuolo, allora succedeva il fratello; siccome al III Riccardo, V Duca già sterile, succedè il II Ruberto, [161] VI Duca suo fratello, come notò Gordonio nell'anno 1028. Onde è più verisimile, che in quest'anno al titolo di Conte succedesse il fratello e non il figliuolo di Guglielmo I, perchè questi o non ebbe moglie in Italia ed in Francia; o se l'ebbe, fu donna sterile ed infeconda, come crede Inveges; ovvero che in questi principj non per successione, ma per elezione erano rifatti i Conti di Puglia.

§. II. Di Drogone II Conte di Puglia.

Mentre Drogone governava la Puglia, fu incredibile l'ardore e l'impazienza, che gli altri suoi fratelli minori, ch'erano rimasi in Normannia, aveano di venire a ritrovarlo; il loro padre Tancredi faticò molto per ritenerne almeno due appo lui, per mantenere la sua casa in Normannia. Roberto e gli altri suoi fratelli qui si condussero, seco portando molti altri gentiluomini della lor Nazione, i quali passavano in Italia non armati, o con levata di fanti e di cavalli, ma travestiti in abito di pellegrini, col bordone in mano e colla tasca alle spalle, come se andassero a' santuarj de' monti Cassino e Gargano, per non esser fatti prigionieri da' Romani, i quali vedendo in Puglia cotanto fiorire questa straniera Nazione, già l'avean per sospetta e nemica così degl'Italiani, come de' Greci[215]. Stabilivansi perciò, e augumentavansi sempre più i Normanni nella Puglia; al che conferiva l'accuratezza di Drogone, il quale, per meglio stabilirsi, fece creare [162] Conte Umfredo III, suo fratello, e primogenito a riguardo degli altri suoi fratelli minori; ed a Roberto, che fu poi detto Guiscardo, il primo nato della seconda moglie di Tancredi, conoscendolo per un Cavaliero più spiritoso ed intraprendente degli altri, lo impiegò ad imprese più nobili e generose. Egli avendo conquistata la Fortezza di S. Marco posta su la frontiera di Calabria, vi mise Roberto dentro per guardarla, ed insieme perchè potesse secondo le occasioni dilatar i confini sopra la Calabria.

Ma mentre così Drogone proccurava gli avanzamenti della sua Nazione, accaddero in questi tempi altri fortunati successi, che gli portarono maggior stabilimento e fermezza sopra la Puglia di recente conquistata. L'Imperador Errico II, che come si disse, a Corrado suo padre era nell'Imperio succeduto, essendo distratto per la guerra d'Ungheria, non avea potuto molto badare alle cose d'Italia; ma disbrigato come potè meglio di quell'impresa, fu per varie cagioni da dura necessità costretto di calare in Italia. Lo richiamavano in queste parti il sentire i tanti ravvolgimenti, che alla giornata accadevano in queste nostre province, sopra le quali egli come Re d'Italia non voleva perdere quella sovranità e que' diritti che v'aveano esercitato i suoi predecessori; e se bene non molto si curasse dell'ingrandimento de' Normanni nella Puglia e nella Calabria, riputando suo vantaggio se tutte intere queste due province si togliessero a' Greci; nulladimeno desiderava, che i Normanni fossero da se dipendenti, e siccome i Principi longobardi lo riconoscevano per Sovrano, così essi dovessero riconoscer lui. Ma molto più lo richiamavano in Italia i disordini e le confusioni, e le detestabili enormità di [163] Roma nate per l'elezioni de' romani Pontefici; poichè essendo diminuita in Roma l'autorità imperiale, ed avendo il Popolo riassunta l'autorità d'eleggere il Papa, ritornarono in quella Chiesa le confusioni ed i disordini. Non fu mai veduta questa città così miseramente afflitta per l'avarizia ed esecrandi costumi dell'Ordine ecclesiastico come in questi tempi. Non facevano allora difficoltà i maggiori Prelati comprare sfacciatamente per danari i più alti ministerj, fino al Sommo Sacerdozio, e scambievolmente vendere da poi le cose più sante. Non avean alcun riparo a viva forza, e colle armi alle mani invadere la Cattedra di S. Pietro; e quando le fazioni e le armi mancavano, di ricorrere alle ambizioni, alle simonie, a' veleni, ai tradimenti ed alle uccisioni; poichè non s'era ritenuto Benedetto vender parte del Ponteficato a Silvestro III, ed un'altra parte a Gregorio VI, sedendo tutti e tre in Roma in un medesimo tempo con molta confusione; massimamente, che questo Gregorio essendosi armato di soldati a piedi ed a cavallo, e con molta uccisione avendo occupata la Chiesa di S. Pietro con le armi, aggrandiva notabilmente la sua parte. Erano ite in bando le lettere, e la dottrina de' Padri e del Vangelo non avea in loro lasciato alcun vestigio. Non s'arrossivano i Diaconi, i Preti ed i Vescovi stessi nelle loro case, ed in Roma medesima tener pubblicamente le concubine, nè si vergognavano ne' loro testamenti lasciar eredi i loro figliuoli sacrilegi, che da quelle avean generati. In breve avean ridotta Roma in una Babilonia, nè v'era scelleraggine, che non commettessero; tanto che que' pochi, che per la loro somma virtù non furono contaminati, e che scrissero delle calamità di questi tempi, confessano non aver parole [164] bastanti per esprimere tante enormità e scelleratezze: ed il celebre Abate Desiderio, che visse in questi medesimi tempi, e che poi assunto al Ponteficato fu detto Vittore III, narrando in parte questi orribili eccessi, testifica sgomentarsi di rapportargli tutti per l'orrore, che tante enormità aveangli recato[216].

Venne perciò Errico in Roma in questo anno 1047.

(Sembra fra Scrittori esservi qualche varietà intorno a fissar l'anno di questa venuta d'Errico in Roma. Alcuni la fissano nell'anno 1046, altri nel 1047; ma tutti però dicono lo stesso; poichè que' Cronografi antichi, che cominciavano a contar gli anni dalla natività del Signore, la coronazione d'Errico seguita in Roma per mano di Papa Clemente II, nel giorno di Natale la portano nell'anno 1047. Così Lione Ostiense l. 2 c. 79 scrisse: Henricus Imperator Chuonradi filius, tot de Romana, et Apostolica sede nefandis auditis, caelitus inspiratus, anno Domini MXLVII. Italiam ingrediens, Romam accelerat. Siccome fè eziandio Ottone Frisingense VI c. 33 dicendo: Anno ab incarnatione Domini MXLVII. Henricus Rex victoriosissimus, in die Natalis Domini a Clemente coronatus, Imperatoris et Augusti XC, ab Augusto nomen suscepit. Inde per Apuliam exercitum ducens, cum honore ad Patriam revertitur. Ed Ermanno Contratto ad An. 1047. In ipsa Natalis Domini die, praefatus Suidegerus etc. ex more consecratus et nomine auctus, Clemens II vocatus est. Qui mox ipsa die Henricum Regem et Conjugem ejus, Agnetem, Imperiali Benedictione sublimavit, etc. Altri Cronografi, che non fan cominciar [165] l'anno da dicembre nel giorno di Natale, ma che da gennaro seguente o da marzo, collocano questi avvenimenti nell'anno precedente 1046 siccome fanno Sigeberto Gemblacense ad An. 1046 Alberico ad An. 1046 Mariano Scoto ad An. 1046 ed altri Germani Scrittori rapportati da Struvio Syntag. Histor. Germ. disert. 14 §. 18 pag. 407).

Ed ancorchè a tanti mali proccurasse dar qualche rimedio, con fugare Benedetto, mandarne via Silvestro e relegare in Germania Gregorio; con tutto ciò erano cotanto i costumi degli Ecclesiastici detestabili, e l'ignoranza sì grande, che dovendosi eleggere il nuovo Pontefice, con intenso dolore esclama Ostiense[217], che non si potè trovare alcuno in Italia, che fosse degno d'un tanto Sacerdozio; tanto che per minore male bisognò, che si venisse ad eleggere un Sassone, Vescovo ch'era di Bamberga, il quale Clemente II nominossi.

I Romani soddisfatti d'Errico per queste cose sì prosperamente adoperate, lo elessero per loro Patrizio, ed oltre della imperiale, lo fregiarono dell'aurea Corona patriziale. Disbrigato Errico dagli affari di Roma, a fin di comporre le cose di queste province, incaminossi verso le medesime con Papa Clemente, e visitato ch'ebbe Monte Cassino, in Capua fermossi[218]. Il Principe Guaimaro per nove anni avea tenuto il Principato di Capua, di cui da Corrado, tolto che l'ebbe a Pandulfo, n'era stato investito; ma questo Principe portava molta gelosia agli altri per tanti acquisti; egli dopo avere al Principato di Salerno aggiunto l'altro di Capua, aveasi ancora sottoposto il [166] Ducato di Sorrento, e l'altro più ragguardevole di Amalfi: teneva per suoi dipendenti i Duchi di Gaeta: ed oltre a ciò coll'aiuto degli stessi Normanni che Argiro, tenendo assediata Bari, aveagli mandati, aspirava alla conquista della Puglia e della Calabria; nè s'era ritenuto, come si disse, per mostrar il suo fasto, tra i suoi titoli usurparsi anche quello di Duca di Puglia e di Calabria.

Dall'altro canto Pandolfo, che da Corrado era stato scacciato, e che dopo la morte di Calefato, liberato dal successore dall'esilio, era ritornato in Italia, coll'aiuto de' Conti d'Aquino, e del Sesto cominciò a pensare come potesse riporsi nel suo Principato; laonde morto Corrado, il quale non potè mai per la sua crudeltà sopportarlo, e succeduto Errico, entrò in migliori speranze. In fatti venuto Errico a Capua per l'incessanti sue preghiere e ricchi doni, aggiungendosi ancora la gelosia della soverchia potenza di Guaimaro, l'Imperadore senza usargli violenza, si adoperò destramente con Guaimaro per farsi renunciare in sue mani il Principato di Capua, siccome seguì; e con ciò fu da lui restituito a Pandolfo ed a Landolfo suo figliuolo[219].

§. III. Prime investiture date dall'Imperadore Errico a' Normanni.

Composte in cotal guisa le cose di Capua, volle Errico assicurarsi de' Normanni, de' quali prendeva gran cura avergli per suoi dipendenti. Non aveano trascurato intanto Drogone Conte di Puglia, e Rainulfo [167] Conte d'Aversa subito ch'Errico giunse a Capua, di mostrarsegli riverenti e rispettosi: essi lo visitarono e regalarono di molti cavalli e di grossa quantità di denaro. Allora fu ch'Errico diede l'investitura a questi Principi normanni del Contado d'Aversa (siccome già Corrado avea fatto all'altro Rainulfo), ed a Drogone di tutto ciò ch'egli possedeva nella Puglia[220]. Così proccuravano questi novelli Principi stabilirsi con maggior fermezza in quelli Stati, ch'essi finora possedevano non con altro titolo, se non per quello, che veniva lor fornito dalla ragion della guerra. La Puglia e la Calabria ancorchè i Normanni l'avessero tolte a' Greci, non è però che gl'Imperadori d'Occidente non pretendessero appartenersi a loro come Re d'Italia, a cui queste province, durante il Regno de' Longobardi, erano sottoposte; perciò essi molte guerre ebbero co' Greci per riacquistarle, e per questa cagione non deve parere strano, se essi ancora di queste province in qualunque maniera che loro si offerisse la occasione, ne investissero coloro i quali a' Greci l'avean tolte, come fecero a' Normanni.

Ma non pure Errico investigli di questi Stati, ma concedè loro ancora tutto'l territorio beneventano, per l'occasione, che diremo. Reggeva in questi tempi il Principato di Benevento Pandolfo III, col suo figliuolo [168] Landolfo[221]: Errico, da poi che in Capua ebbe investiti i Normanni, partissi da questa città per portarsi in Benevento; i Beneventani per ciò che potrà osservarsi dalle cose precedenti, riputando aver ricevuto sempre de' maltrattamenti dagl'Imperadori d'Occidente, come avevano sperimentato sotto i due ultimi Ottoni, di mal animo ricevevano nella lor città gli Imperadori quando essi calavano in Italia: ora che intesero la venuta d'Errico, e che ivi si portava insieme con Papa Clemente II, gli resisterono, e chiuse le porte della città, e dentro di quella fortificatisi non vollero riceverlo. Errico fortemente sdegnato per quest'oltraggio, nè potendo allora colle armi vendicarsene, fece scomunicar dal Papa tutta la città, dal qual fatto, siccome altrove fu avvertito, maggiormente si conferma, che molto prima di Gregorio VII, l'uso degli interdetti generali d'una intera città fosse stato introdotto nella Chiesa; e non bastandogli questo, tolse ai Beneventani tutto il lor territorio, e que' luoghi aperti del Principato, che potevano di facile conquistarsi, ed a' Normanni per la sua autorità furono conceduti[222]. Così avendo Errico maggiormente stabiliti i Normanni ne' Contadi d'Aversa e di Puglia, e parte del Principato di Benevento, in Germania fece ritorno, seco menando Clemente R. P. e Gregorio già Pontefice, che avea in Germania relegato. In quest'anno adunque 1047 la regia Casa normanna cominciò a sottoporsi ad investitura, ed infeudazione non già da' romani [169] Pontefici, i quali a questi tempi non si sognarono di pretenderlo; ma dagli Imperadori d'Occidente, che come Re d'Italia, per le ragioni altre volte ricordate, credeano queste province appartenere al loro Imperio.

Ma mentre l'Imperadore d'Occidente così disponeva di queste nostre province, l'Imperador d'Oriente, a cui era stato rapportato, che Errico avea conceduta l'investitura a' Normanni della Puglia, e che disponeva di questa provincia come se appartenesse al suo Imperio, e non già a quello d'Oriente, com'era; e che perciò venivano i Normanni a stabilirsi in maniera, che non vi sarebbe poi stata speranza di scacciargli, pieno di rabbia e di cordoglio, si risolse di mandare tosto in Puglia un nuovo Ufficiale, Argiro appellato, carico d'oro e d'argento, e di preziosi drappi, affinchè non potendo colle forze discacciargli, s'ingegnasse di farlo per questo mezzo, e con invitargli in nome dell'Imperadore a passare colle loro truppe nella Grecia, avendogli destinati per Capitani d'una guerra che esso intendeva di fare a' Persiani, nella quale n'avrebbono ritratto un gran vantaggio[223]. I Normanni, che tosto s'accorsero dell'inganno, gli risposero con libertà, ch'essi non mettevano mai il piede fuori d'Italia, se non quando ne fossero colla forza scacciati. Il dispetto che n'ebbe Argiro di vedersi scoverto ogni suo artifizio, lo fece rivoltare ad altri più scellerati mezzi. Egli co' tesori, che avea recati da Costantinopoli, proccurò corrompere molti Pugliesi, e' più famigliari del Conte Drogone, e fra gli altri si guadagnò un uomo appellato Riso, ch'era anche suo compare[224]. Questo [170] traditore, mentre Drogone era in una delle sue Piazze, appellata Montoglio, ed andava su'l mattino alla chiesa, si nascose dietro la porta, ed avventandosegli sopra con un pugnale l'uccise; gli altri congiurati, i quali si erano parimente nascosti con Riso, uccisero un gran numero di gente della guardia del Conte, e presero il Forte. Lo stesso fu eseguito in diversi luoghi della Puglia, ch'erano intesi della congiura; tanto che fu de Normanni fatta maggior uccisione per questo tradimento, che non in tante guerre di molti anni.

Ma Umfredo, che vivente ancora Drogone era stato fatto Conte, subito che con estremo cordoglio ebbe intesa la morte di suo fratello, ed il barbaro assassinamento, che i Pugliesi aveano fatto alla sua Nazione, unì tutte le sue truppe, e rigorosamente avendo assediato il Forte Montoglio, se ne rese dopo questo assedio padrone; ed avuto in mano l'assassino co' suoi complici, fecegli morire con differenti sorti di rigorosissimi supplicj. Volle opporsi Argiro, mettendosi alla testa d'alquante truppe che unì; ma Umfredo gli fu sopra, lo disfece, ed obbligollo a ritirarsi confuso e vinto, il che gli tirò sopra la disgrazia dell'Imperadore, onde poco tempo dapoi ne morì di dolore. Da questo avvenimento, i Normanni per vendicarsi dei Greci rivoltarono tutti i loro pensieri per discacciargli dalla Calabria, e cominciarono a star più cauti coi Pugliesi, ed a trattargli con più rigore; i quali male sofferendo perciò il lor dominio, cominciarono ad empire di querele il Mondo, ed inventare contro i Normanni le più atroci calunnie, con accagionargli di mille delitti; e qualificando il loro dominio per tiranno [171] e per crudele, portarono le loro querele ad Errico, e poco da poi al Papa Lione, onde nacquero tante novità e disordini, come saremo ora a narrare.

CAPITOLO III. Origine delle nostre papali investiture: spedizione infelice di Lione IX contro i Normanni: sua prigionia e morte.

Il soggetto che abbiamo ora per le mani, per la sua novità e stranezza non ha bisogno di commendazione: contiene l'intraprese de' Pontefici romani sopra questo Reame, ed in qual maniera, e per quali deboli principj abbiano finalmente conseguito, che sia ora riputato Feudo della Chiesa romana. Nè della stranezza sarà minore la maraviglia, come senz'eserciti e senz'armate, unicamente per la loro somma accortezza e continua vigilanza abbiano potuto stabilirsi questo diritto, da essi acquistato non già come Capi della Chiesa universale, o Patriarchi d'Occidente, ma come Principi del secolo, e siano giunti a conseguire ciò che gl'istessi Imperadori d'Occidente e d'Oriente non poterono con lunghe guerre, e con eserciti armati stabilmente ottenere. Ma le gare degli altri Principi competitori, la stupidezza e superstizione de' Popoli, il secolo ignorante e barbaro, ed all'incontro la loro somma accortezza e diligenza, tutte queste cose unite insieme, poteron togliere tutti gli ostacoli ed impedimenti.

Dovendosi da ora innanzi spesso parlare de' Pontefici romani, perchè non mi s'imputi a temerità, il mio [172] proponimento è di favellarne non come Sommi Sacerdoti e Vicarj di Cristo, ma come Principi del secolo, i quali per possedere molti Stati e Principati in Italia, si erano attaccati agl'interessi di quella, come tutti gli altri Principi, che nella medesima aveano dominio. Distinguerò bene in loro questi due personaggi: di essi come Capi della Chiesa e Patriarchi d'Occidente, che hanno il governo delle nostre Chiese, si tratta quando della politia ecclesiastica si ragiona. Ora intrigati negli affari del secolo, solamente come gli altri Principi rappresenteranno la lor figura. Per tal cagione non si avrà difficoltà di vedergli a questi tempi mettersi alla testa d'eserciti armati, trattar leghe, ed arrolar soldati. Quindi resosi vie più irreconciliabile lo scisma tra' Greci e Latini, diedesi occasione a' Greci di chiamare i romani Pontefici, non già più Vescovi, ma Imperadori; e Pietro Diacono[225] negli atti della disputa che ebbe avanti l'Imperador Lotario, difesi per veri dall'Abate della Noce[226] contro il sentimento del Baronio, narra, che venuto in Italia da Grecia un Filosofo, orò avanti l'Imperador Lotario, e fra l'altre cose gli disse: Romanum Pontificem, Imperatorem, non Episcopum esse; e rapporta questo medesimo Scrittore[227], che avendo egli avuta disputa col medesimo intorno alla processione dello Spirito Santo dal Padre, e dal Figliuolo, fra l'altre cose gli rinfacciò il Greco, parlando d'Innocenzio II, dicendogli: In Occidentali climate nunc impletum videmus, quod Dominus per Prophetam dicit, erit, ut Populus, sic Sacerdos, cum [173] Pontifices ad bella ruunt, sicut Papa vester Innocentius facit, pecunias distribuunt, milites congregant, purpurea vestimenta amiciuntur.

Egli è però anche vero, che non potendo somministrargli i loro Stati forze e denaro sufficiente per mantenere eserciti numerosi, univano sovente alle armi temporali le spirituali, per le quali si rendevano ai Principi superiori ed a' Popoli tremendi. S'aveano appropriata la facoltà di deporgli da' loro Regni e Signorie, d'innalzargli ed abbassargli a lor talento, creare Duchi e Conti, ed infino di credersi facitori anche di Re e di Monarchi; e la cosa si ridusse negli ultimi secoli a tale estremità, che non vi fu Principe d'Europa, che come ligio non prestasse omaggio alla Sede Appostolica. In fine per questi mezzi pervennero a fare credere, che questo Regno fosse Feudo della lor Chiesa, ed a trattare i possessori come loro sudditi e vassalli.

Quindi nacquero le tante rivoluzioni e li tanti inviti di stranieri Principi fatti da' Pontefici al possesso di questo Reame, onde germogliarono tante guerre e disordini; e che in decorso di tempo i Re di Napoli considerando la potenza de' Pontefici essere istromento molto opportuno a turbargli il Regno, il quale per lunghissimo spazio confina col dominio ecclesiastico; alcuni, che non vollero soffrire il giogo, furon loro perpetui nemici, avendo moltissime volte perseguitati con l'arme i Pontefici, ed occupata più volte Roma; altri più placidi, che non vollero con quelli attaccar brighe, ricordandosi delle calamità accadute per ciò nel Regno de' Suevi, e negli ultimi secoli delle controversie, le quali i Re Alfonso I e Ferdinando suo figliuolo aveano molte volte avuto con loro, ed [174] essere sempre pronta la materia di nuove contenzioni per le giurisdizioni de' confini, per conto de' censi, per le collazioni de' benefizi, per lo ricorso de' Baroni, e per molte altre differenze, proccurarono tenersegli amici, ed ebbero sempre per uno de' saldi fondamenti della sicurtà loro, che da se dipendessero o tutti, o parte de' Baroni più potenti del tenitorio romano[228].

Si parlerà adunque ora de' Pontefici romani, come Principi; ed io reputo trattar così meglio la loro causa in questo soggetto dell'Investiture, che d'introdurgli in iscena con quell'altro personaggio. I Principi del secolo se riguarderanno i principj degli acquisti dei loro Reami e Monarchie, pochi potranno giustificargli con titoli legittimi. Essi non troveranno, che quello loro arreca la ragion della guerra, e molti troveranno usurpazioni e rapine; ma il lungo e pacifico possesso di molti secoli, gli fornisce di bastante ragione, e fa ora, che giustamente le posseggano, ed ingiusti saranno gl'Invasori. Così riguardando i Pontefici romani in quest'occasione come Principi, i quali possedendo in Italia molti Stati, eransi attaccati agli interessi di quella, ancorchè non potessero mostrar titolo bastante e legittimo di queste investiture, come qui a poco vedrassi, nulladimanco l'essersi per più secoli mantenuti in questo possesso, fa che oggi non possano reputarsi affatto spogliati di queste ragioni. Ma all'incontro a' Vicari di Cristo, ciò che a' Principi del secolo si reputa bastare, forse ciò non sarà sufficiente: essi dovrebbero entrar in iscrupolo, ed esaminare non tanto il tempo, ed il lungo possesso, ma l'origine, e riguardar le cagioni, i titoli ed i principj de' loro acquisti.

[175]

Ma prima, che si faccia passaggio a manifestar queste origini, e come a questi tempi cominciassero i romani Pontefici per queste investiture ad attentare sopra il temporale di queste province, con rendersele finalmente feudatarie, egli sarà a proposito, che in accorcio si faccia vedere lo stato di quelle, nel quale erano a questi tempi, e da qua' Principi eran dominate.

I tre Principati di Benevento, di Salerno e di Capua a' Principi longobardi eran sottoposti; in Benevento regnava Pandolfo III, col figliuolo Landolfo; in Salerno Guaimaro IV ed in Capua Pandolfo. Il Ducato d'Amalfi insieme con quello di Sorrento, che prima a quel di Napoli eran uniti, a Guaimaro ubbidivano. Quello di Gaeta era governato da Giovanni: l'altro di Napoli da Sergio era amministrato. La Puglia in gran parte era passata sotto la dominazione de' Normanni, e la Calabria n'era in pericolo, ma insino ad ora all'Imperio d'Oriente s'apparteneva. I due Imperadori d'Occidente e l'altro d'Oriente ugualmente sopra questi Stati vi pretendevano la sovranità e alto dominio. Quel d'Occidente come Re d'Italia lo pretendeva sopra tutto quel tratto di paese, che era prima compreso nell'antico Ducato di Benevento, ed abbracciava quasi tutto ciò che ora è Regno; quindi è, che sopra i Principi longobardi v'esercitava tutta la sovranità e potenza con deporgli, discacciargli da' loro Stati, e ad altri concedergli. Pretendeva lo stesso sopra la Puglia e la Calabria, che prima al Ducato beneventano furon in gran parte aggiunte; e poichè l'ambizione non ha confini che la possano circoscrivere, non v'era angolo di queste nostre regioni, che non pretendessero esser ad essi sottoposte; quindi s'arrogarono [176] la facoltà d'investire Rainulfo del Contado di Aversa, ancorchè questa città fosse stata edificata nel territorio del Ducato di Napoli, il quale per antiche ragioni agl'Imperadori d'Oriente, non già a quelli di Occidente s'apparteneva.

All'incontro l'Imperadore de' Greci, forse con più ragione, pretendeva al suo Imperio d'Oriente appartenere tutte queste province, donde da' Longobardi furon divelte ed ingiustamente occupate. Le province di Puglia e di Calabria essere indubitatamente a quello sottoposte: e li Ducati di Napoli, d'Amalfi, di Gaeta e di Sorrento dal suo Imperio esser dipendenti.

Fra questi due Principi fu contrastata e combattuta la sovranità di queste nostre province, per la quale nacquero in fra di loro le tante guerre, che abbiamo nel corso di quest'Istoria narrate. Insino ad ora i Pontefici romani non si erano sognati d'entrar per terzi, e pretender anch'essi sopra le medesime qualche ragione di sovranità. Essi se bene sopra le spoglie de' Longobardi, che a' Greci l'aveano tolte, mercè di Carlo Magno e de' suoi successori, si fossero resi Signori del Ducato romano, dell'Esarcato di Ravenna, di Pentapoli e d'alcune altre città d'Italia, come si è veduto ne' precedenti libri di questa Istoria: sopra queste province però che oggi compongono il nostro Regno non estesero mai la loro mano; e se bene si legga presso Ostiense, che sopra Gaeta vi pretendessero dritto, e che alcun tempo la possedessero, nulladimeno ben tosto ritornò sotto il dominio de' Greci, e poi dai particolari Duchi di quella città fu governata: e quest'istesse pretensioni, che si leggono sol ristrette sopra Gaeta, maggiormente convincono, che sopra tutte le regioni dell'altre province non vi era di che dubitare [177] Nè potevano in questi tempi tali pretensioni nascere dalla finta donazione di Costantino, o da quella di Carlo M. o di Lodovico il Buono; poichè è costante opinione presso i più gravi Scrittori, che tutti questi istromenti e diplomi, nella maniera che ora si veggono conceputi, furono supposti ne' tempi d'Ildebrando; e molto meno poteva sorgere questa loro pretensione da ciò che nel privilegio di Lodovico il Buono, e degli altri Imperadori suoi successori si legge di avergli questi Principi confermato il patrimonio beneventano, salernitano, capuano, napoletano e gli altri di Puglia e di Calabria; poichè questi patrimonj, siccome altrove abbiam veduto, non eran altro se non che i beni che la Chiesa romana per la pietà de' Fedeli, che glie le aveano offerti, teneva in queste province, e si dicevano il Patrimonio di S. Pietro; onde mal fece il nostro Chioccarelli[229], che per dar fondamento a queste investiture, si valse della donazione di Costantino e de' privilegi di Lodovico e d'Ottone. Nè si è mai inteso, che i Principi di Benevento, que' di Salerno, o di Capua, e molto meno i Greci, avessero insino ad ora riconosciuti i romani Pontefici per loro Sovrani, o che mai avessero de' loro Stati ricercate investiture, con farsegli uomini ligi, o giurargli fedeltà ed omaggio.

Non è dunque da dubitare che i Pontefici romani sopra queste nostre province non v'aveano alcuna superiorità, nè ragione alcuna, onde mai potessero indursi a pretenderla, ma per le occasioni che loro si manifestarono a questi tempi, e delle quali, ricevute da essi avidamente, con molta accortezza seppero valersi, [178] finalmente se l'acquistarono nella maniera, che diremo.

Dopo la morte di Clemente II, accaduta in Germania, dove nove mesi prima erasi unitamente coll'Imperadore portato; Benedetto, il quale scacciato da Errico erasi ritirato e munito ne' suoi propri castelli, invase ben tosto di nuovo il Ponteficato; ma non potè più ritenerlo, che otto mesi, poichè l'Imperador Errico dalla Germania mandò tosto Popone Vescovo di Brixen in Roma per successore di Clemente, che fu Damaso appellato. E questi morto di veleno dopo 22 giorni della sua esaltazione, i Romani cercando ad Errico, che gli mandasse per successore Bruno Vescovo di Toul, uomo di Nazione tedesco, e nato da regal stirpe, ma molto più illustre per la sua dottrina e santità de' costumi, lo elessero nell'anno 1049 romano Pontefice, e Lione IX fu appellato.

Si credè allora, come rapportano i Scrittori[230] suoi contemporanei, che per l'elezione di sì eminente soggetto, che in tempi sì rei non fu poco rinvenirlo, dovessero aver fine i tanti disordini del Clero, e riposarsi l'Italia in una tranquilla pace; ma quantunque la pietà di Lione e i suoi costumi incorrotti fossero tali, che finalmente l'avessero meritato il titolo di Santo; non è però che non tanto per lo suo naturale, quanto per l'altrui istigazione, non fosse stato riputato per autore di molte novità, che portarono con se disordini gravissimi, e conseguenze assai perniziose. Egli fu che mentre traversava la Francia vestito con abiti pontificali, incontratosi a Clugnì con Ildebrando Monaco Cassinese, uomo di singolar accortezza, si fece [179] da costui persuadere, che deposti gli ornamenti pontificali entrasse in Roma da pellegrino, ed ivi dal Clero e dal Popolo si facesse eleggere Pontefice, togliendo l'abuso da mano laica ricever quel sommo Sacerdozio[231]. Seme, che fu de' tanti disordini e guerre crudeli, che sursero da poi tra i Papi e gl'Imperadori d'Occidente, intorno alle investiture, i quali vedutisi contrastare questa prerogativa, che per più anni si aveano mantenuta, mossero per conservarsela eserciti armati, portando da per tutto incendi e ruine: e che all'incontro i successori di Lione, e sopra gli altri l'istesso Ildebrando, che tenne quella Sede, colle scomuniche, deposizioni e congiure, insino a far rivoltar i figliuoli contro i propri genitori, ponessero in iscompiglio Europa; onde persuasi assai più dall'esempio di Lione, che dalla forza della ragione renderonsi i Pontefici più animosi e ostinati nelle loro intraprese.

Ma assai più pernizioso, e di più ree conseguenze fu l'altro esempio, che diede Lione di porsi alla testa d'eserciti armati. Altre volte abbiam veduto Giovanni VIII e X romani Pontefici alla testa d'armate, però questi ebbero almeno il pretesto d'impugnar l'armi temporali contro i perfidi ed infedeli Saraceni, e contro coloro che s'erano a' medesimi collegati; ma ora Lione l'impugna contro i più fini Cristiani, come erano i Normanni, che in pietà, e nella religione cattolica non eran inferiori a qualunque altra Nazione: l'impugna senza ragionevole cagione o pretesto di religione, ma per solo fine d'ingrandire le forze temporali della Chiesa, e d'arricchirla di beni mondani; [180] move un'ingiustissima guerra cotanto a Dio spiacente, che coll'evento infelice fece palese la sua ira ed indignazione. Se a quest'impresa si fossero accinti i suoi predecessori, che per i loro abbominevoli costumi eran riputati la peste del Mondo, non avrebbe ne' suoi successori portato questo esempio tanto male; ma essere stata opera di Lione santo Pontefice, fecegli più animosi, nè si ritennero da poi avanzarsi in maggiori stranezze e novità; non avvertendo ciò che Pier Damiani Scrittor contemporaneo, parlando di questo fatto di Lione, dice che l'Appostolo Pietro fu Santo, non perchè negò Cristo, ma per l'altre sue insigni ed incomparabili virtù, siccome Lione non per questi fatti, ma per la sua innocenza e per gl'incorrotti suoi costumi, meritò questo titolo.

Lione IX adunque per la sua pietà e divozione ebbe frequenti occasioni di portarsi in molti luoghi di queste province. Venne nell'istesso anno 1049 che fu assunto al Ponteficato, e nel quale accadde la morte di Pandolfo Principe di Capua, a visitar il santuario del Monte Gargano[232]: indi al ritorno portossi a Monte Cassino, ove conversando assai familiarmente con quei Monaci, di molte prerogative ornò quel monastero, ed indi a Roma ritirossi. Ma non fece passar molto tempo, che nell'anno seguente 1050 vi ritornò di bel nuovo: vi è chi scrive, che in questo medesimo anno tenesse un Concilio a Siponto ove depose due Arcivescovi; ma di questo Concilio sipontino soli Viberto e l'Anonimo di Bari ne fan menzione, poichè nè presso Ostiense, nè in altri ve n'è memoria: indi terminate le visite de' santuari, volle vedere le città più [181] cospicue del paese, si portò prima in Benevento, ove ebbe occasione di ben affezionarsi que' cittadini, e tiratigli alla sua divozione, poichè stando ancora quella città sottoposta all'interdetto di Clemente suo predecessore, egli lo tolse.

Da poi nell'anno seguente volle veder Capua, indi ritornò la seconda volta a Benevento, nè volle tralasciare di portarsi in Salerno in questo medesimo anno 1051. Questa città nel seguente anno 1052 fu veduta ne' maggiori sconvolgimenti per l'orribile assassinamento di Guaimaro oppresso da una congiura orditagli dagli Amalfitani, che avea egli indegnamente trattati, da' suoi congionti e da alcuni Salernitani, i quali presso il lido del mare avendolo crudelmente ucciso, invasero la città. Ma Guido fratello di Guaimaro aiutato da' Normanni, dopo il quinto giorno riebbela, ed a Gisulfo figliuolo di Guaimaro fu resa, che al padre succedè nel Principato[233].

Ma nelle dimore che faceva in queste città il Papa piacevagli sentire le querele, che gli erano portate da' Pugliesi, e dagli stessi Principi longobardi contro i Normanni, i quali ricevendo tutto giorno maggiore incremento per li nuovi acquisti che facevano nella Calabria e nel Principato di Benevento, cominciavano ad insospettire i Principi vicini; e molto più a Lione, il quale, siccome i suoi predecessori s'insospettirono de' Longobardi, così egli mal soffriva che i Normanni s'avanzassero tanto, ed avendo scorto ch'erano uomini non così facili da potergli ridurre a lasciare l'acquistato, e che sovente facevano delle scappate sopra i beni delle Chiese, riputò non ben convenire agli [182] interessi suoi, dell'Imperadore Errico suo cugino, e dell'Italia che questa Nazione più oltre s'avanzasse: deliberò pertanto di passar in Alemagna, come fece in quest'istesso anno 1051, e portatosi dall'Imperadore Errico, l'espose che i Normanni resi oramai insoffribili agli abitanti del paese, estendevano i loro confini oltre i luoghi, de' quali furono da lui investiti, e che tentavano di soggiogar tutte quelle province, e sottrarle dall'Imperio d'Occidente; che insolenti depredavano ancora le robe delle Chiese: che non bisognava più sofferirgli, perchè avrebbero portato maggiore ruina, ma che dovessero di Italia scacciarsi: che gli dava il cuore di farlo, se fornito d'un numeroso esercito, lo rimandasse in Italia, perch'egli ponendosi alla testa di quello avrebbe scacciati questi Tiranni. Furono così efficaci gli ufficj di Lione appresso Errico, che lo persuase a dar mano a quest'impresa, ed avendo comandato, che s'unisse un numeroso esercito d'Alemani, ne diede il comando a Lione istesso, il quale già aveva ordinato che marciasse verso Italia[234]. Ma Gebeardo Vescovo di Eichstat, il quale era in grande familiarità dell'Imperador Errico, e ch'era suo Consigliero, riprovando un fatto sì scandaloso, che i Pontefici romani dovessero porsi alla testa d'eserciti armati contro i Cristiani, non potè non riprenderne acremente l'Imperadore, e tanto adoperossi, che destramente fece tornar indietro le truppe, solamente alcune rimanendone appresso Lione. Nè dee qui tralasciarsi, che quest'istesso Vescovo fatto poi Papa, detto Vittore II mutò tosto sentenza, e si doleva di questo fatto d'aver impedito a Lione sì numeroso soccorso, [183] riputando forse, che con quello meglio avrebbe potuto avanzar Lione gl'interessi della sua sede, di ciò che non gli venne fatto; poichè per la sua prigionia li peggiorò.

Non tralasciò allora Lione in questa occasione di pensare anche agl'interessi della sua Chiesa romana per una commutazione, nella quale così egli, come Errico trovavano i loro vantaggi. Errico I da' Germani appellato II avea in Bamberga a spese del proprio patrimonio edificata una magnifica chiesa in onore di S. Giorgio; e volendola ergere in cattedrale, proccurò da Benedetto Papa, che la consecrasse, ed in sede vescovile la ergesse: così fu fatto; ma bisognò che l'Imperadore offerisse alla Chiesa di Roma un annuo censo, che fu stabilito d'un generoso cavallo bianco con tutti i suoi ornamenti ed arredi, e di cento marche d'argento ogn'anno.

(L'Imperadore Errico il Santo nell'anno 1005 la Chiesa da lui edificata in Bamberga in onore di S. Giorgio, come scrive Ostiense, ma secondo gli Scrittori germani chiamata di S. Pietro, da un Sinodo tenuto in Francfort, precedente il consenso del Vescovo di Erbipoli, dentro i confini della cui diocesi era posta, l'avea fatta ergere in cattedrale, come si legge negli atti di questo Sinodo presso Ditmaro[235], Episcopatum in Bamberga, cum licentia Antistitis mei facere hactenus concupivi, et hodie perficere volo desiderium, dando in iscambio al Vescovo d'Erbipoli alcuni beni. E così l'erezione, come questa commutazione fu da poi nel seguente anno 1006 confermata per una bolla di Giovanni XVII che si legge presso [184] Gretsero nella vita d'Errico c. 40. E nel 1007 in un altro Sinodo di Francfort da tutti i Vescovi, che vi intervennero, fu di nuovo tutto ciò confermato ed ordinato Eberardo per primo Vescovo di Bamberga; onde opportunamente avvertì Struvio Syntag. Hist. dissert. 13. §. 26 pag. 385. che per ciò alcuni Scrittori confondendo la fondazione con questa confermazione, fissarono la fondazione nell'anno 1006 ed altri nell'anno 1007. Fu da poi nell'anno 1011 secondo Mariano Scoto, ovvero nell'anno 1012 secondo gli Annali Einsidelensi, Ditmaro, e Schafnaburgense, questa chiesa con gran celebrità dedicata, e consecrata da Giovanni Patriarca di Aquileia coll'intervento di 35 Vescovi, siccome narra Ditmaro ad d. An. 1012. E da poi Errico di ciò non contento volle avere anche il piacere, che Benedetto VIII venisse egli di persona a consacrarla, ed ergerla in sede vescovile, del qual fatto parla Lione Ostiense lib. 2 c. 46 tralasciando le cose precedenti, poichè questo faceva al suo istituto, ch'era di additarci l'origine e la cagione della commutazione, che poi da Errico il Negro si fece di queste ragioni acquistate per Papa Benedetto alla Chiesa romana sopra quella di Bamberga, colla città di Benevento.)

Voleva ora Errico il Negro liberar questa Chiesa dal censo, e dalla soggezione della Chiesa romana, con renderla esente da tal peso: Lione non ripugnava di farlo: ma non potendo ciò seguire, se vicendevolmente alla Chiesa romana non si assegnasse altra cosa, si pensò a qualch'espediente. Fu tosto ritrovato un modo vantaggioso per ambedue.

Errico per gl'indegnissimi tratti de' Beneventani, che avevano avuto ardimento di chiudergli in faccia [185] le porte, odiava a morte quella città; e pensando che con difficoltà avrebbe potuta ridurla sotto il suo arbitrio per vendicarsene, pensò commutarla col Papa per queste ragioni di Bamberga. Lo stato allora del Principato di Benevento era, come si è detto, che la città si reggeva dal Principe Pandulfo, e Landolfo suo figliuolo, ma gran parte di quello era già passato sotto la dominazione de' Normanni, a' quali l'istesso Errico avea in quella occasione, che si disse, conceduta tutta la terra beneventana; nè i Normanni, che anche senza questo, sapevano approfittarsi sopra le altrui spoglie, aveano tralasciato di farlo sopra il rimanente del Principato. Così Errico, che poco dava del suo, se non le ragioni di sovranità, che pretendeva sopra quella città, posseduta allora da Pandolfo diede in iscambio a Lione la città di Benevento, che egli a' Normanni non avea conceduta, nè s'estese oltre, poichè del territorio beneventano ne avea egli stesso poco prima investito i Normanni. E sarebbe stata cosa pur troppo incredibile, che questa permutazione fessesi fatta coll'intero Principato di Benevento, che se bene in questi tempi si trovasse molto estenuato per li Principati di Salerno e di Capua divelti; nulladimanco abbracciava più città e terre di una ben ampia e grande provincia del Sannio, che comprendeva gli Abruzzi, il Contado di Molise, e molte altre parti ancora dell'altre province; e sarebbe follia il credere, che il Principato di Benevento si fosse cambiato per cento marche d'argento, poichè il Cavallo bianco non fu rimesso; nè veramente può comprendersi, come alcuni moderni Scrittori, chi inconsideratamente, altri però per malizia, abbiano potuto farsi uscir dalla penna stravaganza sì grande senza [186] appoggio alcuno di Scrittore contemporaneo, ed invece della città di Benevento, scrivere del Principato beneventano; poichè noi non abbiamo Scrittore più antico, che parli di questa commutazione, che Lione Ostiense[236], il quale chiaramente rapporta, siccome la cosa istessa lo dimostra, che tal commutazione fu del Vescovado di Bamberga, colla città di Benevento non già del Principato; e Pietro Diacono[237], che poco da poi di Lione aggiunse al suo luogo questo successo, pure della città sola parla, non già del Principato: siccome le cose seguite da poi lo rendono manifesto, poichè la Chiesa romana ha ritenuta la città sola, non già il Principato, sopra il quale non pretese mai avervi particolar ragione, ma corse la fortuna di tutte le altre province, come osserverassi nel corso di quest'Istoria. Anzi nè meno a questi tempi ebbe esecuzione tal permuta; poichè Lione tornato in Italia colle truppe datogli dall'Imperadore, ancorchè pel terrore dell'armi, il Principe Pandolfo col suo figliuolo, all'arrivo di Lione fossero stati esiliati[238] da quella città, e fossesi eletto per Principe di Benevento un tal Rodolfo, nulladimanco ben presto vi ritornarono, e tennero Benevento per molti anni, insino che da Roberto non ne fossero scacciati nell'an. 1076 dal qual tempo per accordo fatto co' Normanni, la città di Benevento cominciò ad esser governata dalla Chiesa romana, ed il Principato da' Normanni; come [187] più innanzi diremo; onde il novello Istorico napoletano[239], che con grande apparato di parole narrando questi trattati avuti per questo cambio, dice essersi fatto col Principato di Benevento, erra d'assai, e si vede non aver letto Ostiense, che parla della città sola di Benevento.

Lione intanto postosi alla testa d'una grossa armata fornita di truppe alemane, e d'un gran numero di truppe italiane, e composta non meno di Laici, che di Cherici[240] diede il comando delle alemane e di quelle di Suevia a Guarnerio Suevo, e dell'altre ad Alberto Tramondo, ad Asto ed a Rodolfo poco innanzi da lui eletto Principe di Benevento, e verso la Puglia fece marciar l'esercito per dare con sì formidabili forze la battaglia a' Normanni, i quali trovandosi allora di forze ineguali, credè potere leggermente vincere, e discacciargli dalla Puglia, e da tutti i luoghi insino allora da essi conquistati.

I Normanni sorpresi dalla novella di questa marcia, ne concepirono grande spavento, non solo perch'essi in quella congiura orditagli da Argiro aveano perduto i principali lor Capi, e la maggior parte de' prodi guerrieri, ma perchè aveano da combattere con un'armata non punto composta di Greci e di Pugliesi, ma d'Alemani, uomini di statura e forza prodigiosa, pieni di coraggio, ed abili nell'arte militare: s'aggiungeva il non potersi fidare de' Pugliesi per l'avversione, in cui erano appresso quelli entrati. Pensarono perciò a' modi come potessero sottrarsi dalla tempesta, che gli soprastava; [188] onde spedirono a tal effetto Ambasciadori al Papa per domandargli la pace; offerirono d'ubbidirgli in tutte le sue cose; ch'essi non pretendevano altro, che di possedere quelle terre, che aveano acquistate co' loro travagli e sudori, e colle armi alle mani: che non avrebbero invase le robe della Chiesa, offerendogli il lor servigio con tanta sommissione e riverenza, che non poteva farsi con più umiltà e rispetto. Ma Lione che credea per le sue forze aver tra le mani la vittoria, stimolato anche dagli Alemani, che dalla statura bassa de' Normanni ne concepirono disprezzo, ne rimandò gli Ambasciadori con risposta pur troppo dura; ch'egli non voleva punto aver pace con essi, se non uscivano d'Italia; ma replicando coloro, ch'era quasi ch'impossibile ridurre una sì gran moltitudine a cercar altrove una ritirata per essi, e per le loro famiglie, furono sparse al vento le loro preghiere, e rimandati senza conchiuder cos'alcuna.

Quando a' Normanni furono riportate sì dure risposte, voltatisi alla disperazione, risolvettero infra loro, che più tosto bisognava finir di vivere gloriosamente, che lasciare con tanta indegnità e vergogna ciò ch'essi a costo di tanti sudori e travagli aveansi acquistato; e non curandosi punto, che oltre la disuguaglianza delle forze, mancavan loro ben anche i viveri, si risolvettero di ricever tosto la battaglia, ancorchè con tanto loro disavantaggio, risoluti o di morir tutti o di vincere.

Divisero perciò le loro truppe, che poterono radunare in tre corpi, a' quali per Comandanti preposero i più celebri Capitani ch'essi aveano, fra' quali erano allora sopra tutti gli altri eminenti il Conte Umfredo, Roberto Guiscardo, e Riccardo Conte d'Aversa, [189] figliuolo d'Asclettino, il quale a Rodolfo era succeduto.

Intanto l'esercito di Lione si collocò in atto di battaglia in una gran pianura presso Civitade nella provincia di Capitanata[241], ed avendo sotto i nominati Comandanti disposte le truppe, non v'era altro ostacolo per darla, se non una piccola montagna, che divideva amendue gli eserciti. I Normanni furono i primi a montarla per riconoscere gl'inimici, e ravvisata la situazione di quella infinita moltitudine d'Italiani, che niente aveano di regolare nella maniera di guerreggiare, ed un numero assai inferiore d'Alemani meglio disposti, e molto più da temersi, presero tosto le loro misure, e divisero la loro piccola armata in tre corpi. Diessi l'ala dritta a Riccardo Conte d'Aversa per iscaricar su gl'Italiani: Umfredo si mise nel corpo di battaglia per assaltar gli Alemani con quella cavalleria ch'avea; e Roberto Guiscardo ebbe l'ala sinistra con un buon numero di Calabresi scelti, che avea al suo servigio interessati, da poi ch'era stato nel loro paese. Egli avea ordine di non molto avanzarsi, ma di fare come un picciol corpo di riserba, sempre pronto a sostenere il resto dell'armata, ed a fornirla ne' bisogni di truppe recenti.

Riccardo assaltò da prima gl'Italiani comandati da Rodolfo, e caricogli improvisamente, e con tanto vigore, che non ebbero agio nè pur di far la minima resistenza. La paura gli confuse in maniera, che ritirandosi a poco a poco gli uni opprimevano gli altri, e seguitandogli valorosamente Riccardo, si diedero ad una fuga vergognosa, tanto che questo prode Capitano [190] a colpi di spade e di dardi ne fè strage infinita[242].

Il Conte Umfredo ebbe più che fare dalla sua parte cogli Alemani, e spezialmente con quelli di Suevia. Egli fece sopra di loro una terribile scarica di frecce, ma essi ne fecero una somigliante sopra di lui; onde bisognò metter mano alla spada, e l'uccisione per l'una, e l'altra parte fu terribile. Allora Roberto Guiscardo credette, che fosse tempo di venire al soccorso di suo fratello: vi accorse immantenente con Pandolfo, e Landolfo suo figliuolo esiliati da Benevento[243], seguitato ancora da' suoi Calabresi, i quali sotto la sua disciplina eran divenuti prodi soldati: egli andò con furia a buttarsi in mezzo de' nemici. Si pugnò ferocemente, e furono incredibili le ardite azioni di Roberto in questo combattimento; finalmente sconfisse i nemici[244], e con tanto empito e vigore gli confuse, che dopo aver d'essi fatta strage infinita, scorgendo che non erano in tutto spenti, ricominciando di bel nuovo a battere il resto, gli finì tutti di tagliar a pezzi[245].

Il Papa, che non molto lontano fu spettatore di sì fiera tragedia, vedutosi quando men se l'aspettava in tali angustie, prese il partito di ritirarsi dentro la città di Civitade[246]; ma questa non essendo un asilo per lui sicuro, fu immantenente assediata, e tantosto fu costretta a rendersi. Puossi comprendere qual fosse l'imbarazzo [191] del Papa, e la sua desolazione mentre cadeva in mano de' nemici, cui egli avea trattati con tanta durezza e severità, e di cui egli avea concetto, siccome aveagli dipinti presso l'Imperadore Errico, di gente barbara, inumana e senza religione.

Ma ben tosto s'avvide quanto appresso i Normanni fosse grande la forza della religion cristiana, e quanto il rispetto, che aveano di colui ch'essi adoravano per Capo della Chiesa cristiana, e Vicario di Cristo. Essi avrebbero potuto, giacchè come Principe del secolo li mosse guerra, Jure belli, e secondo le leggi della vittoria, trattarlo siccome esso vi compariva. Ma come grossolani non ben arrivavano a capire quella distinzione di due personaggi in uno, che gl'istessi Ecclesiastici introdussero nella sua persona per non far con tanta mostruosità apparire alcune azioni, che non starebbero troppo bene al Papa, come successore di S. Pietro. Essi lo riputaron sempre per questo eccelso carattere degno d'ogni rispetto e venerazione, che la forza della religione, di cui essi erano riverenti, ve l'impresse sì forte, che per qualunque altro non poterono perderlo; perciò con inudita pietà, e profondo rispetto lo condussero con ogni sorte d'onore e riverenza nel loro Campo. Non pure lo lasciarono in libertà, ma il Conte Umfredo ricevendolo sotto la sua parola, l'accompagnò egli stesso con gran numero di suoi Ufficiali in Benevento[247], promettendogli di vantaggio, che quando gli piacesse ritornar in Roma, l'avrebbe egli accompagnato insino a Capua[248]. Il Papa [192] sorpreso da queste maniere sì oneste e cristiane, cancellò dal suo animo ogni sinistro concetto, che prima di lor avea, e pentitosi di quanto insino a quell'ora avea con poca accortezza, e contro ciò che ricercava il suo carattere, adoperato, pianse amaramente le sue disavventure. Indi entrato in Benevento nella vigilia di S. Giovanni di quest'anno 1053 vi si trattenne insino a' 12 di marzo dell'anno seguente 1054 giorno della festività di S. Gregorio Papa[249]; e quivi per li travagli sofferti, e per passione d'animo caduto infermo, avendo a se chiamato il Conte Umfredo, si fece condurre a Capua, dove avendo dimorato dodici giorni, in Roma fece ritorno. Quivi arrivato per conciliare le discordie, che a questi tempi più che mai eransi rese implacabili tra la Chiesa romana, e la costantinopolitana, spedì all'Imperador Costantino Monomaco tre Legati, Pietro Arcivescovo d'Amalfi, Federico suo Cancelliero, ed Umberto Vescovo di S. Rufina, unita poi questa Chiesa da Calisto II al Vescovado di Porto; ma non ebbe questa Legazione alcun successo; poichè Lione non molto da poi con molti segni di pietà, e di ravvedimento finì santamente i giorni suoi nel mese d'aprile di quest'anno 1054, con lasciar di se, per la sua pietà e candidezza di costumi, titolo di Santo.

In questi rincontri si narra, che Lione dopo aver assoluti i Normanni dalle censure e dall'offese, che ei reputava aver da essi ricevute, avesse conceduto ad Umfredo, ed a' suoi eredi l'investitura della Puglia e della Calabria, ed anche di tutto ciò che potrebbe acquistare sopra la Sicilia, e che all'incontro Umfredo [193] avesse reso l'omaggio di quelle terre alla Santa Sede, come Feudi da lei dipendenti; e che questa fosse la prima Investitura, ch'ebbero i Normanni, come fra gli altri scrisse Inveges.

In fatti Gaufredo Malaterra[250] parlando della sommessione e rispetto che i Normanni in quest'incontro portarono a Lione, dice che questo Papa all'incontro: Omnem terram, quam pervaserant, et quam ulterius versus Calabriam, et Siciliam lucrari possent de Sancto Petro haereditali Feudo sibi, et haeredibus suis possidendam concessit. Ma questo non fu che un assicurare maggiormente i Normanni della sua amicizia perchè senza suo ostacolo proseguissero le loro conquiste, benedicendo le loro arme, e dichiarando perciò le loro future intraprese giuste; ciò che i Normanni come religiosi desideravano, almeno per pretesto di giustificare così i loro acquisti, e per non aver contrari i romani Pontefici, che s'erano allora per le censure e scomuniche resi a' Principi tremendi. Questi furono i principj delle nostre Papali investiture, le quali si ridussero poi a perfezione da Niccolò II per quelle, che diede a Roberto Guiscardo de' Ducati di Puglia e di Calabria e di Sicilia, come diremo.

Intanto i Normanni avendo disfatta l'armata di Lione, ancorchè l'avessero trattato con tanto rispetto, assicurati che furono di lui, non vollero perdere sì opportuna occasione di stendere la loro dominazione, e di portare altrove le loro armi. Niente resero al Papa di ciò, che pretendeva sopra Benevento; poichè se bene Pandolfo, Principe di Benevento, e Landolfo suo figliuolo, [194] alla venuta di Lione fossero stati esiliati da quella città, nulladimanco sconfitto Lione col favore de' Normanni, a' quali aveano dato ajuto in quella battaglia, tornarono di bel nuovo a reggere Benevento[251]; nè se non dopo molti anni cominciò a governarsi dalla Chiesa romana, tanto che la commutazione fatta con Errico non ebbe il suo effetto se non molto da poi, e più per munificenza de' Normanni, che per quella d'Errico. Nel che non bisogna ricercare altro miglior testimonio della antichissima Cronaca de' Duchi e Principi di Benevento, il cui Autore fu un Monaco del monastero di Santa Sofia di Benevento, che si conserva nell'archivio del Vaticano, e fu fatta imprimere dal diligentissimo Pellegrino, a cui fu trasmessa da Roma dall'Abate Costantino Gaetano Monaco Cassinense, che da un antico Codice del Vaticano l'estrasse[252]. In questa Cronaca[253] si legge, che se bene reggendo il Principato di Benevento Pandolfo, e Landolfo suo figliuolo, alla venuta di Lione fossero stati esiliati da Benevento, nulladimanco si soggiunse, che da poi vi tornarono, e Pandolfo dopo aver regnato molti anni in Benevento, finalmente abbandonò il secolo, e si rese Monaco nel monastero istesso di S. Sofia, lasciando Landolfo suo figliuolo per successore, il quale tenne il Principato per tutto il tempo che visse insino all'anno 1077. Onde si convince con molta chiarezza, che la permuta con Errico non ebbe effetto; ma se poi la Chiesa romana acquistò quella [195] città, tutto si dee alla liberalità de' Normanni, che per le ragioni che vi tenea per quella commutazione fatta da Errico, glie la rilasciarono, come qui a poco vedrassi.

Seppero ancora i Normanni ben servirsi di questa vittoria, sottoponendo tutta la Puglia al loro dominio dopo tredici anni di guerra, da che l'aveano invasa. Tolsero a' Greci Troja, Bari, Trani, Venosa, Otranto, Acerenza, e tutte le altre città di quella provincia, tanto che Guglielmo Pugliese potè dire:

Jamque rebellis eis Urbs Appula nulla remansit:

Omnes se dedunt, aut vectigalia solvunt.

Quindi furono poi rivolti tutti i loro pensieri alla impresa della Calabria, la conquista della quale saremo ora a narrare.

CAPITOLO IV. Conquiste de' Normanni sopra la Calabria: Papa Stefano successor di Lione vi si oppone; ma morto opportunamente in Firenze, vengon rotti i suoi disegni.

La morte di Lione IX rinovò in Roma i disordini per l'elezione del successore: e dappoichè per le contrarie fazioni stette quella Chiesa per un anno senza Capo, finalmente il famoso Ildebrando, che dal monastero di Cugnì erasi portato in Roma, ove fu fatto Sottodiacono di quella Chiesa, come uomo di somma accortezza, fu adoperato a por fine a tali confusioni. I Romani, non trovandosi nella lor Chiesa persona idonea per occupar quella Sede, mandarono [196] Ildebrando oltre i monti a dimandar all'Imperadore un successore, ch'egli in nome del Clero e del Popolo romano avesse eletto: assentì Errico, e fugli dimandato Gebeardo Vescovo di Eichstat, di cui fecesi poc'anzi menzione. Con sommo dispiacer d'Errico, che non voleva toglierselo dal suo lato, venne costui in Roma, ed innalzato a quella Sede, Vittore II fu nomato[254]. Come si vide nel Trono pontificio, tosto mutò sentimenti di quanto prima avea fatto mentr'era in Germania, dove avea a Lione impediti i domandati soccorsi, di che con gran pentimento amaramente, fatto Papa, si dolse. E se il suo Ponteficato non fosse stato cotanto breve, e la sconfitta precedente non avessegli scemate le forze, ed ingrandito quelle dei Normanni, avrebbero questi certamente sperimentato in Vittore gl'istessi sentimenti di Lione.

Ma morto egli in Firenze nel 1057 due anni dopo la sua esaltazione, e rifatto in suo luogo Federico Abate di Monte Cassino, e Cardinale, che prese il possesso di quella Sede il giorno di S. Stefano, e perciò prese il nome di Stefano X, da altri, per la cagione altrove rapportata, detto Stefano IX, furono da costui calcate le medesime vestigia de' suoi predecessori. Fu da' diligenti investigatori delle gesta de' Pontefici con istupore notato, che ancorchè i loro predecessori, per sostenere le loro intraprese, avessero sofferto morti, prigionie ed altre calamità; non per tutto ciò gli successori si spaventavano di proseguirle, anzi vie più forti e vigorosi s'esponevano ad ogni maggior rischio e cimento. Essi eransi persuasi, che l'ingrandimento dei Normanni in queste nostre province, era lo stesso che [197] il loro abbassamento, e lo reputavano come loro declinazione, siccome queste medesime gelosie tennero co' Longobardi, quando gli videro troppo potenti in Italia. Gli accagionavano perciò di mille delitti, che rapivano le robe delle Chiese, che desolavano le province; ed in fine proccuravano rendergli odiosi a' provinciali, per potere in cotal modo giustificare le loro intraprese, e renderle al Mondo commendabili. E se bene sopra queste province non potessero pretendervi ragione alcuna di sovranità; nientedimeno la loro grandissima gelosia degli avanzamenti de' Normanni pose costoro in tal necessità, che siccome prima doveano reprimere, ed opporsi alle forze degl'Imperadori d'Oriente a' quali finalmente queste province si toglievano: così ora aveano da contrastare co' Pontefici romani, i quali come se ad essi si togliessero, si opponevano con vigore a' loro disegni, nè v'era mezzo, che non adoperassero per impedire i loro progressi.

Prima, come si è potuto osservare nel corso di quest'Istoria, non avendo per se forze tali, solevano implorare gli aiuti de' Principi stranieri, siccome per discacciare i Longobardi ricorsero a' Franzesi; ora essendosi resi per lo dominio temporale di tanti Stati più forti, lontani questi soccorsi, e mancata ogni speranza di potergli avere dall'Imperadore, e potendogli somministrare i loro Stati forze sufficienti, lo facevano per se soli; e quando queste mancavano, solevano ricorrere al presidio delle armi spirituali e delle scomuniche, alle quali la forza della religione avea dato tanto vigore e spavento, che non solo a' Popoli ed a' Principi erano tremende, ma quel ch'è degno di stupore, erano formidabili e spaventose a' Capitani delle [198] milizie, ed a' soldati stessi, uomini per lo più scelleratissimi; i quali nell'istesso tempo, che s'atterrivano delle scomuniche, non avevano alcuna difficoltà di menare una vita scellerata, e d'usurparsi quello del prossimo, senz'alcun riguardo d'offendere la Maestà Divina.

Innalzato pertanto Stefano al Ponteficato romano, si dispose immantenente a voler discacciare d'Italia i Normanni. Traeva egli origine da' Duchi di Lorena, e nato da regal stirpe, voleva nel Ponteficato segnalarsi in opre grandi ed illustri. Fu prima da Lione IX fatto Cancelliero della Sede Appostolica: indi fu Abate di Monte Cassino, e poi da Vittore II fu fatto Cardinale. Assunto ora al Ponteficato vennegli in pensiero, imitando Lione, di voler discacciar d'Italia i Normanni[255]; anzi nato per cose più grandi s'accinse ad una più illustre impresa.

Un anno avanti nel 1056 era morto in Germania Errico, ed avea lasciato per successore un suo piccolo figliuolo di sette anni, che succeduto poi all'Imperio, fu col nome del padre anche chiamato Errico. Fra gli Scrittori germani ed italiani vi è gran confusione nel numero di questi Errichi. Errico il Negro da' Germani vien chiamato III, gli Italiani lo dicono II, non tenendo conto di quell'altro Errico, che non fu se non semplice Re di Germania, nè giammai Imperadore. Noi seguiteremo gli Italiani, onde il successore d'Errico il Negro lo diremo Errico III non IV. Morì Errico dopo aver regnato diciassette anni, e quattro mesi. Le sue leggi furon raccolte da [199] Goldasto[256], e Cujacio nel quinto libro de' Feudi ne registrò alcune a quelli appartenenti.

Per l'infanzia del figliuolo governava l'Imperadrice Agnesa sua madre: Stefano valendosi dell'opportunità del tempo, vennegli in pensiero d'innalzare al Trono imperiale il Duca Goffredo suo fratello, con risoluzione, che unendo le sue forze con quelle del fratello, potessero con facilità discacciare i Normanni d'Italia, a' quali egli portava odio implacabile.

Ma intanto questi valorosi Campioni sotto il famoso Roberto Guiscardo, a cui il Conte Umfredo suo Fratello avea somministrate molte truppe, perchè l'impiegasse alla conquista della Calabria, aveano fatti progressi maravigliosi sopra questa provincia[257]. Essi da poi che Roberto per una sua ingegnosa astuzia, erasi impadronito di Malvito, aveano steso più oltre i confini, e sotto la lor dominazione poco da poi fecero passare le città di Bisignano, di Cosenza e di Martura.

Nè la morte del Conte Umfredo accaduta in Puglia intorno l'anno 1056 avea potuto interrompere il corso di tante conquiste, anzi diede a quelle più veloce corso: poichè non lasciando Umfredo che due piccioli figliuoli, Bacelardo ed Ermanno, lasciò il governo de' suoi Stati a Roberto stesso, a cui raccomandò i figliuoli, e spezialmente Bacelardo suo primogenito; onde succeduto Roberto nel Contado di Puglia dava terrore a tutti i Principi vicini, e molto più a Stefano R. P., dal quale era perciò grandemente odiato.

[200]

Ma a Stefano, cui non mancava ardire di cacciare i Normanni d'Italia, mancavano però le forze, e sopra tutto i danari: fu perciò tutto inteso a farne raccolta, e l'impegno nel quale era entrato gli fece pensare un modo pur troppo violento e scandaloso. Egli che da Abate di Monte Cassino fu innalzato alla Cattedra di S. Pietro, volle nel Ponteficato stesso ritenere quella Badia, nè permise che in suo luogo fosse altri sustituito; onde disponeva di quel monastero per doppia ragione con tutta libertà ed arbitrio[258]. Per le molte oblazioni de' Fedeli in questo tempo, pur troppo per li Monaci prospero, aveano essi raccolto un ricchissimo tesoro d'oro e d'argento, che in quel monastero i Monaci con gran cura e vigilanza custodivano: Stefano vedendo che per nessun altro miglior modo poteva conseguir il suo fine, pensò averlo in mano, ed ordinò al Proposito di quel monastero, che tutto il tesoro d'oro e d'argento ch'ivi trovavasi l'avesse subito, e di nascosto portato in Roma. Avea egli disposto di passare con quello in Toscana, ove era il Duca Goffredo suo fratello, affinchè conferito con lui il suo disegno, potessero da poi ritornarsene insieme per discacciare d'Italia i Normanni. La costernazione nella quale entrarono i Monaci per sì infausta novella ben ciascuno potrà immaginarsela: essi tutti mesti e dolenti, tentarono invano colle lagrime rimovere il Papa; onde finalmente da dura necessità costretti, avendo ragunato tutto il tesoro, in Roma a Stefano lo portarono. Il Papa quando lo vide, e vide insieme la mestizia ed il dolore de' Monaci, che glie lo portarono, sorpreso allora dalla mostruosità del fatto, [201] ravvedutosi dell'eccesso, tosto pentissi d'averlo domandato, e lo rimandò indietro[259]. Ma poco da poi essendosi incamminato per la Toscana, fermatosi in Firenze, fu sorpreso da una improvvisa languidezza, che in pochi dì lo privò di vita in quest'anno 1058[260].

Così, morto Stefano, andarono a vuoto tutti i suoi disegni, e fu la costui morte sì opportuna a' Normanni, che non avendo altri, che impedisse i loro vantaggi, poterono indi a poco stendere le loro conquiste, non pur nella Calabria, ma sopra il Principato di Capua ancora, per un'occasione, che più innanzi saremo a narrare.

§. I. Roberto Guiscardo è salutato I. Duca di Puglia e di Calabria.

Intanto per la morte di Stefano tornò Roma di bel nuovo nelle confusioni e disordini; poichè Gregorio d'Alberico Conte di Frascati, ed alcuni Signori Romani, di notte, e con gente armata, posero per forza nella Santa Sede Giovanni Vescovo di Velletri, che prese il nome di Benedetto; ma essendosi opposto a quest'elezione Pier Damiano uomo da bene (il qual poco prima da Stefano richiamato dall'Eremo, era stato fatto Vescovo d'Ostia) insieme con gli altri Cardinali, fecero in guisa, che tornato Ildebrando dalla Germania, ove era stato mandato da Stefano all'Imperadrice Agnesa, avendo inteso tali disordini, fermossi in Firenze, da dove attese a far ritrarre i migliori Romani dal partito contrario, e col favore del [202] Duca Goffredo Marchese di Toscana oprò in maniera, che ragunati in Siena que' Cardinali, che non aveano avuta parte nell'elezione di Benedetto, vi elessero per Papa Gerardo Arcivescovo di Firenze. L'Imperadrice Agnesa madre d'Errico, confermò l'elezione, e diede ordine al Duca Goffredo di metter Gerardo in possesso, e di cacciarne Benedetto. Questi prese il partito di rinunziare il Ponteficato; onde Gerardo portatosi in Roma, vi fu riconosciuto per legittimo Papa, e fu chiamato Niccolò II, il quale poco da poi nell'anno 1059 tenne un Sinodo di 113 Vescovi, dove comparve Benedetto, dimandò perdono, e protestò, che gli era stata fatta violenza. In questo Concilio furono fatti regolamenti per la libertà dell'elezione del Papa, e stabilito, che i Cardinali dovessero in quella avere la parte migliore; poi l'eletto fosse proposto al Clero ed al Popolo, ed in ultimo luogo si ricercasse il consenso dell'Imperadore.

Queste revoluzioni, che molto spesso accadevano in Roma, e molto più i disordini, che nell'istesso tempo si sentivano nella Corte di Costantinopoli, maravigliosamente conferivano all'ingrandimento de' Normanni. Non temevano da parte alcuna di ricevere impedimenti; poichè la minorità d'Errico III, governando l'Imperadrice sua madre, non faceva molto pensare alle cose di queste nostre province. Costantinopoli, per la morte accaduta nell'anno 1054 di Costantino Monomaco, tutta era in disordine e confusione; poichè succeduta nell'Imperio Teodora sorella di Zoe, e dopo un anno quella morta, Michele Stratiotico fu dagli Ufficiali del Palazzo posto in suo luogo; ma questi, resosi poi Monaco, lasciò volontariamente la Corona nell'anno 1057, onde insorsero nuove fazioni per l'elezione del [203] successore; ma acquistando maggior forza quella di Isaacio Comneno, fu questi salutato Imperadore in quest'anno 1058.

I Normanni perciò con miglior agio attesero a dilatare i loro confini, e que' di Puglia sotto il famoso Roberto Guiscardo gli distesero sopra quasi tutta la Calabria. Questo Principe, essendo succeduto nel Contado di Puglia, era riconosciuto non già come Tutore di Bacelardo suo nipote, qual egli era secondo che narra Guglielmo Pugliese[261], ma come assoluto Signore. Egli sembrava, che in quest'occasione non fosse disposto a contentarsi d'una semplice tutela, siccome da dovero non se ne contentò da poi; anzi pretese, che dovea egli succedere ad Umfredo, conforme Umfredo era succeduto a' suoi fratelli primogeniti; ed egli avea già designato per suo successore Roggieri altro ultimo suo fratello, col quale avea diviso l'Imperio, e creatolo perciò come lui anche Conte. Era pertanto tutto inteso a discacciar i Greci dal rimanente della Calabria, prese Cariati e molte altre Piazze d'intorno, e portò finalmente le sue armi infino a Reggio capo di quella provincia, alla qual città pose l'assedio. Gli assediati non potendo lungamente sostenerlo si diedero a Roberto; ond'egli rendutosi Signore di così illustre ed antica città, non si contentò più del titolo di Conte, ma con solenne augurio e celebrità fecesi salutare, ed acclamare Duca di Puglia e di Calabria. Lione Ostiense[262] narra, che la gloria dell'espugnazione di Reggio gli partorì questo novello titolo. Curopalata scrisse, che lo produsse il governo trascurato e puerile [204] di Michele VII, Imperador Greco; ma il Pellegrino[263] fa vedere, che Roberto ad emulazione dei Greci, e per rintuzzare il lor fasto lo facesse. Aveano essi costituito Argiro in Bari Duca di Puglia, ancorchè questa nella sua maggior estensione fosse passata sotto il dominio de' Normanni: imperocchè i Greci ancorchè perdessero l'intere province, non perciò lasciavano di ritenere almeno i fastosi titoli ed i nomi di quelle, trasferendogli sovente in altra parte, siccome fecero dell'antica Calabria, la quale, come fu ne' precedenti libri osservato, passata che fu sotto la dominazione de' Longobardi, essi trasportarono questo nome di Calabria in un'altra provincia, che allora ancora ritenevano.

Chi a Roberto conferisse questo nuovo titolo di Duca, non è di tutti conforme il sentimento. Lione Vescovo d'Ostia par che accenni, che fu una casuale acclamazione del Popolo; ma Curopalata dice, che i Signori e Baroni pugliesi suoi vassalli, vedendo che egli allo Stato di Puglia avea aggiunta la Calabria, con pubblico consiglio, ritenendo per essi i titoli di Conti sopra le terre che s'aveano divise, decretarono il titolo Ducale a Roberto; donde si convince l'errore del Sigonio[264], il quale reputò, che insuperbito Roberto per l'espugnazione di Reggio in Calabria, e poco da poi per l'altra di Troja in Puglia, disdegnando l'antico titolo di Conte, per se stesso, e di sua propria autorità s'intitolasse Duca di Puglia e di Calabria.

[205]

Agostino Inveges[265] va conghietturando, che nella creazione di questo novello Duca s'osservassero quelle cerimonie, le quali a que' tempi s'osservavano in Francia nella creazione del nuovo Duca di Normannia, e sono descritte nel Tomo degli Scrittori antichi della Istoria de' Normanni; dove si narra, che l'Arcivescovo dopo alcune orazioni ed il giuramento, che prestava il nuovo Duca di difendere il Popolo a se commesso, e di usar con quello giustizia, equità e misericordia, davagli l'anello, e da poi gli cingeva la spada, ond'è verisimile, e' dice, che il normanno Guiscardo volendo consacrarsi Duca di Puglia in Italia, fossesi servito delle medesime cerimonie. Avevano pure i Duchi particolar Corona, Berrettino, Veste e titoli propri. La Corona ducale, che ponevano sopra le loro arme, secondo che la descrive Scipione Mazzella[266], era un cerchio senza raggi, o diciam punte di sopra (le quali convengono solamente al Principe) ma in luogo delle punte vi usavano alcune perle, e d'attorno alquante gioie. Il Berrettino, seconda insegna de' Duchi, Bartolomeo Cassaneo[267] ce lo descrive in forma d'uno cappello circondato d'una corona rotonda, ma non diritta, nè a modo di zona, che circondi il cappello, come usano i Re; e di questo cappello ducale, confessa Cassaneo, non averne potuto rinvenire l'origine. La veste ducale, suspica Inveges, che fosse simile all'abito arciducale d'Austria descritto dal Guazzi[268], cioè una veste di diversi colori, lunga sino a' piedi, [206] ed ornata di pelli d'Armellini. In cotal guisa adunque il Duca Roberto in quest'anno 1059 nelle pubbliche solennità apparve a' suoi sudditi, adornandosi coll'abito e Corona ducale; e quindi è che ne' privilegi e negli altri suoi diplomi cominciasse a servirsi di questo titolo: Ego Robertus Dux Apuliae et Calabriae.

CAPITOLO V. Il Principato di Capua tolto a' Longobardi, passa sotto la dominazione de' Normanni d'Aversa.

Non meno de' Normanni di Puglia, que' che collocarono la lor Sede in Aversa distesero sopra i paesi contorni i loro confini. Riccardo Conte d'Aversa accresciuto di forze intraprende d'invadere il Principato di Capua a se vicino, ed aspirando a quel Soglio, di stretto assedio cinse questa città. Reggeva allora Capua Pandolfo V, il quale se bene per qualche tempo avesse colle sue forze potuto difendere la città, nulladimanco Riccardo vie più stringendola, bisognò per liberarsene che offerisse al nemico settemila scudi d'oro[269]. Per questa somma Riccardo tolse l'assedio, ma per qualche tempo; poichè morto Pandolfo V nell'anno 1057, e succeduto Landolfo V, suo figliuolo, Riccardo invase di nuovo Capua, cingendola d'un più stretto assedio. I Capuani offerirono altra maggiore somma per liberarsi, ma Riccardo rifiutato ogni accordo, vuole che la città si renda nelle sue mani. Mal si possono indurre i Capuani; ma finalmente stretti [207] per la fame, cedendo Landolfo, e lasciando il Principato, fu Riccardo ricevuto e per Principe salutato in quest'anno 1058.

Volle Riccardo, non altrimente che fece Arechi primo Principe di Benevento, farsi ungere coll'olio sacro[270], il qual costume ritennero ancora da poi tutti gli altri Principi normanni, che furono di Capua[271]. E se bene i Capuani fra i patti della resa avessero ottenuto di ritenere per essi le porte e le torri della città, e di dover essere da loro guardate; nulladimanco dissimulando per allora il nuovo Principe Riccardo questo lor vantaggio, differì ad altro miglior tempo di privargli anche di questo. Intanto portatosi in Monte Cassino, ed ivi con molta solennità ricevuto da que' Monaci, fece ritorno nella campagna, la quale estendendosi insino al fiume Sele, tutta fra tre mesi la sottopose alla sua dominazione; indi a Capua tornato, avendo fatto ragunare tutta la Nobiltà, l'espose esser cosa molto ragionevole, che si consegnassero a lui le porte e le torri della città; ma costantemente avendo i Capuani ricusato di farlo, irato il Principe uscì dalla città, la cinse nuovamente di stretto assedio e la premè con dura fame.

I cittadini intanto mandarono il loro Arcivescovo oltre i monti a chieder aiuto all'Imperadore Errico: ma questo Principe, che non era in istato di pensare a queste nostre parti, lo rimandò indietro con offerte grandi e parole, ma senza alcun fatto ed utilità. I Capuani allora perduta ogni speranza, nè potendo più resistere, resero le torri, le porte, se stessi e tutte le loro sostanze alla discrezione e clemenza di Riccardo. [208] Così in quest'anno 1062 dopo essersi i Capuani per dieci anni bravamente opposti agli sforzi de' nemici, passò il Principato di Capua da' Longobardi a' Normanni[272], prima sotto il Principe Riccardo del sangue d'Asclettino, poi sotto gli altri suoi successori del medesimo lignaggio, e finalmente passò sotto la dominazione di quegli altri valorosi Normanni della razza di Tancredi Conte d'Altavilla, come nel seguente libro vedremo. Per la qual cosa non è scusabile l'errore del Sigonio[273], il quale reputò questo Riccardo fratello di Roberto Guiscardo, quasi che fino da questo tempo il Principato di Capua fosse passato sotto la dominazione de' Normanni di Puglia a' figliuoli del Conte Tancredi.

Ecco il fine della dominazione de' Longobardi nel Principato di Capua, che da Atenulfo con non interrotta serie di tanti anni finalmente nella persona di Landulfo V s'estinse in questa Nazione. Principe infelicissimo, che oltre essere stato costretto d'abbandonar il suo Stato, donde ne fu scacciato, avendo generati più figliuoli, gli vide con suo dolore e cordoglio andar raminghi per que' medesimi luoghi, ove egli avea regnato. E narra l'Abate Desiderio[274] nei suoi Dialoghi, aver egli nell'età sua veduti molti figliuoli di Landolfo di qua e di là esuli e raminghi, andar mendicando per sostenere la lor miserabile vita: il che egli attribuisce a castigo delle scelleratezze e crudeltà usate dal pessimo Principe Pandolfo IV, dal quale essi discendevano. Donde può ciascuno per se medesimo considerare, che il sangue di questi Principi [209] longobardi non s'estinse affatto nel Principato di Capua; poichè oltre che vi rimasero alcuni Conti della razza di Atenulfo, de' quali per qualche tempo per li loro Feudi che possedevano si potè tener conto e mostrar la loro discendenza in alcune famiglie; vi restarono ancora i figliuoli di Landolfo, da' quali per la loro estrema miseria e povertà non sarebbe forse incredibile, che ne fossero nati ed artigiani e lavoratori di terra ed altra gente di braccia, e che forse anch'oggi ancorchè ignoti, infra di noi vi siano: documento delle cose mondane, e della loro incostanza e volubilità, e di non doversi molto insuperbire per la nobiltà del lignaggio sopra gli altri, i quali se bene non la potranno mostrare, forse saranno discesi da più illustre e generosa prosapia ch'essi non sono. Un simile successo narra Seneca al suo Lucilio[275], che essendo in battaglia stato sconfitto l'esercito di Mario, molti uomini nati di gran parentado e di sangue nobile, così Cavalieri, come Senatori, nella sconfitta della fazione Mariana furono dalla fortuna atterrati, ed alcuni di quelli fece pastori, alcuni altri lavoratori di zappa ed abitatori di capanne.

Così i valorosi Normanni, debellati i Greci nella Puglia e nella Calabria, debellati i Longobardi nel Principato di Capua, gli vedremo nel seguente libro (rimettendo ivi di narrar la politia ecclesiastica di questo undecimo secolo) tutti trionfanti sottoporsi le restanti province e stabilirsi un ben ampio e fortunato Regno.

FINE DEL LIBRO NONO.

[210]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMO

Il Duca Roberto, che non facendo vedere a Bacelardo suo nipote il diritto della paterna successione, non già come Tutore del medesimo, ma come proprj amministrava i Ducati di Puglia e di Calabria, per maggiormente stendere i confini del suo dominio sopra l'altre province, e meglio assicurarsi degli acquisti fatti, proccurava con ogni sommessione, ammaestrato dall'esempio di Lione, tener soddisfatti i Pontefici romani; anzi reputava per questa via, avendogli per amici, di giustificare le sue imprese, e renderle al Mondo commendabili, e senza taccia d'usurpazione. All'incontro i Pontefici rendutisi ora per le scomuniche più tremendi a' Principi, non trascuravano le occasioni di profittare dell'opinione, che s'aveano presso tutti acquistata della loro superiorità e potenza. Perciò nel Ponteficato di Niccolò II si stabilirono fra noi con maggior fermezza le papali investiture; [211] al che conferì molto una sollevazione accaduta in Puglia nel medesimo tempo, che il Duca Roberto trionfava in Calabria.

Bacelardo mal soddisfatto del suo zio Roberto sovente dolevasi essergli stata tolta la successione dei paterni Stati, e movendo perciò la compassione di molti, avea tirato al suo partito molti Pugliesi, i quali apertamente sollevandosi invasero alcune Piazze della Puglia. Ma la vigilanza di Roberto tosto ripresse i mal conceputi disegni, perchè precipitosamente essendovi accorso, ridusse i luoghi sollevati, e spense subito l'incendio; anzi con tal occasione scorrendo nella più remota parte di Capitanata, ove i Greci si mantenevano ancora in alcune Piazze, le sorprese, e conquistò infra l'altre la città di Troja, che i Greci alquanti anni prima aveano edificata, ed aveanla costituita capo di quella provincia.

L'acquisto della città di Troja diede su gli occhi al Pontefice; poichè i Pontefici romani aveano in questi tempi pretensione, che questa città, non altramente, che Benevento, loro si appartenesse per singolar diritto[276]. Ma tutti gli Autori tacciono, onde mai questa particolar ragione sia lor venuta; poichè questa città, secondo quel che per l'autorità di Lione Ostiense[277] fu da noi rapportato, era nel dominio dei Greci, avendola nell'anno 1022 da' fondamenti edificata sotto il Catapano Bagiano, alla quale, per memoria della famosa Troja nella Frigia minore, diedero nome di Troja, e riputaronla come una colonia di quella.

[212]

E quantunque quando Errico calò in Italia con quell'esercito formidabile, si fosse accampato sopra questa città, come narra l'istesso Lione[278], ed avesse costretti i Trojani a rendersi a lui; nulladimanco loro perdonò poi[279], ed abbandonando que' luoghi, fece in Germania ritorno; nè si legge, che n'avesse fatto dono alla Chiesa romana, come si legge di Benevento. Ma comunque ciò siasi, Niccolò II il qual, seguendo il costante tenore de' suoi predecessori, mal sofferiva questi vantaggi di Roberto, col pretesto, che appartenesse quella città alla Sede appostolica, gli fece intendere, che dovesse a lui restituirla. Molto eran lontani i Normanni di restituire vilmente ciò, ch'essi aveano acquistato sopra i Greci colle loro armi, e con tante fatiche e travagli; onde Roberto, poco curandosi delle dimande del Papa, ripigliò il suo cammino verso la Calabria.

Non era in istato il Pontefice Niccolò II seguitando l'esempio di Lione, di movergli contro un esercito; eran lontani gli ajuti che poteva sperare dagl'Imperadori d'Occidente; anzi questi cominciavano ad alienarsi da' Pontefici romani, ed avergli in avversione per cagione, che contrastavan loro l'elezione del Papa e l'investiture degli altri beneficj, delle quali erano insin allora stati in possesso. Nè era da sperar soccorso dagli altri Principi longobardi vicini, poich'essendo il Principato di Capua passato sotto la dominazione de' medesimi Normanni, eran molto deboli le forze di coloro di Salerno, e molto più degli altri di Benevento. Molto meno era da sperare da' Greci, inimici implacabili de' Pontefici romani, per lo scisma [213] famoso, ch'avea fra queste due Chiese poste già profonde radici, e che avea alienati i Greci da' Latini.

Dunque non restava altro a Niccolò II che di ricorrere alle armi spirituali ed alle scomuniche. I Pontefici romani aveano già cominciate ad adoperarle contro i Principi, come s'è veduto ne' precedenti libri; nulladimanco s'erano mossi allora per cagioni ch'essi almeno credevano più oneste, e sovente per occasione di religione, e per le loro detestabili eresie; se ne valsero anche per rompere le confederazioni, che i Principi cristiani spesso facevano con i Saraceni infedeli, come fece Giovanni VIII co' Napoletani ed Amalfitani, ciò che riteneva uno spezioso pretesto di pietà e di religione. Ma da poi, come suole avvenire, che il buon uso degenera in abuso, cominciarono a valersene indifferentemente per mondani rispetti, o per gratificare qualche Principe, o sopra tutto per conservare i beni temporali della Chiesa, ovvero per ingrandirgli con nuovi acquisti. Così abbiam veduto, che perchè i Beneventani non vollero aprire le porte della loro città all'Imperador Errico, questi gli fece scomunicare da Clemente II, che come un suo corteggiano lo menava seco in Germania.

Le scomuniche nella primitiva Chiesa, siccome allora tutta la cura de' Prelati era sopra le cose spirituali, così non eran adoperate, se non contro gli Eretici, ovvero per la correzione de' pubblici peccatori: il principal uso era contro coloro, che non ben sentivano della nostra religione, i quali se dopo le tante ammonizioni non si ravvedevan de' loro errori, eran separati dalla Chiesa; ed in secondo luogo, per evitar gli scandali, eran adoperate contro i pubblici peccatori. Nè era altro il loro effetto, che di privargli di [214] tutto ciò, che la Chiesa dava a' suoi Fedeli di Sacramenti, e d'altre cose spirituali. Ma da poi, e spezialmente a questi tempi, essendo diminuita ne' Prelati la cura spirituale, ed all'incontro cresciuta nell'Ordine ecclesiastico l'avidità de' beni temporali, siccome prima s'usavan solamente per la correzione dei pubblici peccatori, e per gli Eretici, così da poi eran più frequentate per li beni temporali, così per difesa di quelli, come per ricuperargli, se per caso la poco cura de' predecessori gli avesse lasciati perdere.

Ma inutilmente si sarebbero adoperate quest'armi, se insieme non si fosse fatto credere a' Popoli, che in qualunque maniera lanciate, se non si restituivano le robe, erano i possessori irremissibilmente dannati, imputando ciò ad effetto della censura, più che del peccato. E per renderle più formidabili aveano ancora proccurato introdurre una nuova dottrina, che i scomunicati non pur fossero indegni di ciò, che la Chiesa dava a' suoi Fedeli, qual era l'effetto della scomunica, ma ancora che la scomunica disumanava, infamava, gli rendeva abbominevoli, esosi, vitandi, quasi appestati ed orribili, togliendo loro anche l'uso della vita civile e del commercio, stabilendo perciò molte decretali, che non potessero far testamenti, contratti, istituire azione alcuna in giudizio, adottare e far altri atti legittimi, non potessero esercitar uffici nella Repubblica e mille altre cose, di che forse ci sarà data occasione altrove di più diffusamente ragionare.

Per queste cagioni non si può credere quanto fosse in questi tempi il terrore e spavento delle censure non pur nella plebe, ma ne' personaggi di conto e nei Principi stessi; ed era veramente cosa da stupire, che i Capitani ed i soldati, uomini per altro scelleratissimi [215] e senz'alcun timor di Dio, e che senz'alcun riguardo d'offenderlo s'usurpano quello del prossimo, per timore poi delle scomuniche guardavano con gran rispetto le cose della Chiesa, nè vi era in questi tempi da poter usare maggiore difesa per conservar i beni temporali, se non di porgli sotto la custodia e protezione della Sede appostolica.

Da ciò ne nacque (come altrove fu avvertito) un'altra utilità grandissima per l'aumento de' beni temporali della Chiesa, poichè mossi da ciò molti di poco potere e di deboli forze, che per se stessi non erano bastanti di conservar il loro dall'altrui violenza, che per la corruttela del secolo eran cresciute, desiderosi d'assicurar le loro sostanze, ne facevano donazioni alla Chiesa con condizioni, che rimanendo appresso di loro la roba, ella glie le dasse in Feudo con una leggiera ricognizione; poich'erasi in questi tempi introdotto il costume, che i privati gli Alodj mutavano in Feudo, con farne donazioni a' Principi da chi ne erano investiti. E di questa sorte di Feudi chiamati Oblati pur ne abbiamo memoria ne' nostri libri feudali, e Cujacio ne tratta ben a lungo. Questo assicurava li beni, che da' Potenti non erano toccati, come quelli, la di cui protezione e diretto dominio era della Chiesa, la quale entrava perciò volentieri, nel caso d'invasione, alle censure per difendergli: e dall'altra parte il vantaggio della Chiesa era grandissimo, non tanto per la ricognizione che ne ricavava, ma perchè se ben vivente il possessore non ne ricavava altro, nulladimanco mancando poi la successione masculina de' Feudatari, come spesso accadeva in questi tempi per le frequenti guerre e sedizioni popolari, i beni cadevano alla Chiesa.

[216]

I Normanni non meno degli altri prendevano delle scomuniche spavento e terrore; poichè venuti di fresco alla religione cattolica, ed essendo di somma pietà e zelo verso la medesima, come lo dimostrano le frequenti loro peregrinazioni ne' più celebri Santuari di Occidente e d'Oriente ancora, e divotissimi della Sede appostolica più che ogni altra Nazione, come si vide da' trattamenti che fecero a Papa Lione; mal volentieri volevano esporsi a questi fulmini, di cui essi aveano il più gran terrore. Animato da ciò Niccolò II, volle provarvisi, e riputando in questa maniera, ciò che Lione non avea potuto con eserciti armati, di poter ottener egli colle censure, scomunicò solennemente Roberto co' suoi Normanni.

Furono però questi fulmini lanciati a voto; poichè i Normanni, non men ch'essi, si sapevano molto bene conservare ciò che co' loro sudori in mezzo a mille perigli aveansi acquistato, e lor pareva somma viltà cedere quel che acquistato con tanti travagli possedevano; e per riverenti che fossero de' Pontefici, e della Sede appostolica, nulladimanco quando si trattava di lasciar ciò che avean preso, seguendo gli esempi degli stessi Pontefici, non così volentieri si persuadevano a farlo; ed ancorchè delle censure scagliate contro di loro n'avessero sommo spavento e terrore, con tutto ciò non era tanto, che riputandole per questo fatto ingiuste, si dovessero disporre a lasciare niente di ciò che aveano preso.

Essendosi adunque portate le cose a questo stato, nel quale non vi poteva esser riposo e quiete tra l'una parte e l'altra: ciascuna venne seriamente a pensare, come potessero uscir da tanti sospetti ed inquietudini [217] per mezzo d'un accordo, che fosse per ambedue vantaggioso.

Roberto fra se medesimo considerava, che se bene stesse sicuro di non potere colla forza da' Pontefici romani esser costretto lasciar le sue conquiste, nelle quali s'era per tante vie stabilito; nulladimanco che non bisognava avergli inimici, poichè quantunque secondo lo stato presente delle cose non potessero ricever aiuti dagl'Imperadori d'Occidente, nè da altri Principi convicini; nulladimanco erasi per lunga esperienza veduto, che non sarebbon loro mancate occasioni, quando l'opportunità d'altro tempo lo portava, di turbargli: che le maggiori inquietudini ed ostacoli la sua Nazione gli avea sofferti da' Papi, più che dai Greci stessi. Lo spaventavano le censure, e più gli eventi infelici, che aveano sovente portato agli altri Principi: che presso i Popoli, a cui eran in sommo orrore, non potesse nascere qualche sollevazione, e particolarmente appo i Pugliesi, che non ben s'erano rassodati: che i suoi acquisti eran recenti in paesi stranieri, ove bisognava più tosto farsi degli amici, che degl'inimici: che i tumulti nati per Bacelardo suo nipote potrebbero esser fomentati di nuovo, con porre in su quel partito, nel che i Papi solevano usare ogni accortezza, tanto maggiormente che si portava opinione essergli da lui stata usurpata la successione: finalmente che bisognava aver amico il Papa, non solo per ciò che s'era acquistato, ma molto più per quel che rimaneva a conquistare nell'altre province, affinchè per l'autorità che s'aveano i Papi presa, potesse confermarlo nella possessione di ciò che sperava di avere.

Dall'altra parte il Papa considerava, che co' Normanni [218] erano inutili le scomuniche; ch'essi non erano gente da lasciare niente, se non s'adoperassero quei medesimi mezzi, che avean tenuto per conquistarle; che queste forze non eran da sperare dagli Stati della Chiesa, o dagli altri Principi vicini, e molto meno dagl'Imperadori d'Occidente, i quali essendosi da loro alienati per cagione dell'investiture e per l'elezione de' Pontefici, ancorchè Niccolò in un Concilio tenuto poc'anz'in Roma avesse proccurato soddisfare ad Errico; nulladimeno per l'avversione de' Romani erano vicine le cose a prorompere in aperte dissensioni e guerre crudeli: che per poter sostenere la causa del Clero, e del Popolo romano, e de' Sommi Pontefici contro gl'Imperadori, bisognava pensare da ora ad appoggiarsi ad un Principe forte e valoroso, perchè altrimenti sarebbe riuscita vana ogni loro impresa: ch'egli non poteva far miglior elezione di Roberto, il quale colle sue forze avrebbe potuto opporsi efficacemente, e restituire alla Chiesa romana quella prerogativa, che gl'Imperadori s'aveano usurpata: che finalmente vi poteva esser modo, col quale la Sede appostolica accordandosi con Roberto più tosto ne ritrarrebbe vantaggio, che nocumento.

Erano per queste considerazioni gli animi ben disposti per mezzo d'un accordo di far terminare ogni contesa, e far nascere la pace in mezzo a tanti sconvolgimenti. Roberto volle prevenire il Papa, ed essendosi ritirato in Calabria, inviogli un Ambasciadore con offerte generose di voler egli soddisfarlo in tutto ciò che desiderava, e che per tal effetto lo invitava ad un congresso, di cui gli prometteva, che avrebbe gran soggetto d'essere soddisfatto[280].

[219]

Il Papa, che non desiderava altro, e che avea ancora i suoi disegni, ne fu contentissimo, e ricevuta quest'offerta, coll'occasione di dover tenere un Concilio per riformare in qualche parte i detestabili costumi degli Ecclesiastici, gli mandò a dire, ch'egli quel Concilio l'avrebbe intimato in Melfi, dove sarebbesi portato in persona, ed ove uniti insieme avrebbero con soddisfazione comune composta ogni contesa.

La corruttela de' costumi ch'era nell'Ordine ecclesiastico in questi tempi, era in eccesso: e sopra tutto, tolta ogni vergogna, non aveano nè tampoco difficoltà tener le concubine pubblicamente nelle proprie case, ed i figliuoli nati da quelle, come con dolore narra Pier Damiani. Niccolò nel Concilio romano diede contro tali Concubinari, qualche provvidenza; ma in queste nostre province avea questo vizio poste sì profonde radici, che non v'era nè Vescovo, nè Prete, nè Diacono, nè minimo Cherico, che non se ne provedesse: Niccolò perciò in quest'anno 1059 nella città di Melfi tenne Concilio, ove condannò e detestò l'abuso, ponendo molte pene contro i concubinari, e depose ancora il Vescovo di Trani. Ma non perciò potè svellersi la mala radice; pareva quasi che impossibile, che i Preti potessero distaccarsene, e quindi è che ne' Concili tenuti da poi, non si vide inculcar altro, che di toglierle a' Preti, ma sempre invano; anzi in queste nostre province era così pubblico questo uso delle concubine, ed il numero fu tale, che arrivarono sino a pretendere l'esenzione dal Foro secolare, e di non star sottoposte alle pene, che i Principi secolari contro i concubinari avean stabilite, dicendo, ch'essendo della famiglia de' Preti, doveano non meno che questi godere del privilegio del [220] Foro. Ed è cosa maravigliosa il sentire, che Carlo II d'Angiò ordinasse ne' suoi tempi, che le concubine de' Preti non stassero sottoposte alla pena della perdita del quarto, come l'altre de' secolari, ancorchè non gli piacesse esentarle dal Foro, come i Preti pretendevano.

Essendo adunque il Papa al Concilio in Melfi, sopraggiunse ivi il famoso Roberto, che portò seco il Principe Riccardo con tutta la Nobiltà normanna; le allegrezze e l'accoglienze furono grandi; ma si venne da poi a quel che più importava.

I Normanni per assicurar meglio i loro Stati, proccuravano impegnare i Papi nella loro difesa, particolarmente contro gl'Imperadori, i quali avean ragione di ricuperargli, poichè ad essi si toglievano: la Puglia e la Calabria era cosa fuori di controversia, che agli Imperadori d'Oriente si toglievano, non già a' Pontefici romani, i quali non v'aveano alcun diritto. Dall'altra parte gl'Imperadori d'Occidente pretendevano, che ciò che I Normanni possedevano in queste nostre province, lo tenessero da loro in Feudo, avendogli investito Errico II, e che come vassalli dell'Imperio dovessero riconoscergli per Sovrani: Riccardo che avea involato il Principato di Capua a Landolfo, dovesse riputarsi come lor vassallo, non altramente che vi furono gli altri Principi di Capua longobardi suoi predecessori, essendo quel Principato sottoposto agl'Imperadori d'Occidente come Re d'Italia; pretendevano queste istesse ragioni sopra i Principati di Benevento e di Salerno, che Roberto intendeva d'invadere. Doveano adunque impegnarsi i Papi contro questi due potenti nemici, sopra i cui Stati finalmente si raggirava l'accordo.

[221]

Si pensò per tanto un modo, nel quale ciascheduno trovava il suo vantaggio. Era già, come s'è detto, introdotto costume, che ciascuno per conservar meglio i suoi beni gli sottoponeva alla Chiesa romana, alla quale, obbligandosi i possessori con una leggiera ricognizione, si dichiaravano ligi, giurandole fedeltà. I Pontefici romani in questi rincontri sempre v'aveano i loro vantaggi, poich'essi niente davano del loro, ed all'incontro, oltre della fedeltà giurata, ed il censo, nel caso di mancanza di prole legittima e maschile, i Stati si devolvevano alla Chiesa, ed era in loro arbitrio d'investirne da poi altri. I Popoli ed i Principi poco curavano d'esaminare se potessero farlo, o no, e donde venisse questo lor dritto d'investire, farsi giurare fedeltà, e di conceder anche titoli di Conti e di Duchi: bastava ad essi che fossero difesi colle scomuniche, delle quali si aveva tanto spavento, osservando, che i loro nemici sovente s'astenevano di mover loro guerra per non esporsi a' fulmini della Chiesa. S'aggiungeva ancora il vedere la potenza de' Pontefici romani essere in sì sublime grado ridotta, che s'arrogavano la potestà d'assolvere i loro vassalli da' giuramenti, e di poter ancora deponere gl'Imperadori ed i più grandi Monarchi della terra; onde molto meno recava loro maraviglia se potessero dar titoli di Conte e di Duca, quando presumevano di far essi gl'Imperadori stessi d'Occidente, e trasferire l'Imperio da una Nazione in un'altra.

Ma quello, che veramente portava stupore era il vedere, che s'erano persuasi, che non solo potessero i romani Pontefici investire e farsi dar giuramenti di fedeltà di quelle terre, che erano a loro offerte a questo fine; ma anche di province e Regni, che doveano [222] ancora conquistarsi. E presso coloro che s'accingevano alla conquista, trovava ciò facile credenza, perch'era cosa per loro molto acconcia, di poter in cotal guisa essere non pur animati all'impresa, ma assicurarsi delle future conquiste, perchè volendosi opporre i possessori, che erano spogliati, doveano ancora esporsi agli fulmini della Chiesa, che loro si opponeva.

Fu dunque cosa molto facile venire a capo di quest'accordo, come quello che finalmente si raggirava, come meglio sopra gli Stati altrui potesse ciascuno profittare. Niente importava che sopra le spoglie dei Greci e de' Longobardi si pattuisse. Niente ancora si badò al Principe Bacelardo, che si teneva dal zio spogliato. Niente al Principe Landolfo discacciato da Capua; ma ciascuno rimirando a' suoi propri comodi e disegni, conchiusero di buon accordo il tutto in cotale guisa. Che Roberto co' suoi Normanni fossero assoluti da tutte le censure. Che a Roberto si confermasse il Ducato di Puglia e di Calabria, ed oltre a ciò, che cacciando i Greci ed i Saraceni, che in gran parte tenevano occupata la Sicilia, dovesse il Papa investirlo anche di quell'isola con titolo di Duca; ed in fine, che a Riccardo Principe di Capua si confermasse il Principato, che a Landolfo avea usurpato.

All'incontro fu convenuto, che Roberto e Riccardo ed i loro successori si mettessero sotto la protezione del Papa, il quale confermava loro la possessione di tutti i Stati che aveano in Italia, e della Sicilia quando essi l'avessero conquistata sopra i Saraceni: che gli prestassero perciò il giuramento di fedeltà come Feudatari della Santa Sede, alla quale dovesse Roberto per ciascun anno pagare il censo di dodici denari di Pavia per ogni paio di buoi; siccome narra [223] Lione Ostiense[281]; e Fr. Tolomeo di Lucca aggiunge, che Roberto non s'obbligò a quest'annuo censo, o costretto, o ricercato dal Papa, ma di sua spontanea e libera volontà.

Questo fu stabilito in Melfi in quest'anno 1059 ed ancorchè alcuni scrivano, che ciò anche fu confermato nel Concilio dal Papa ivi tenuto; nulladimeno non essendo quest'affare appartenente al medesimo, che erasi sol ragunato per riformare i costumi degli Ecclesiastici, altri non ardiscono di dirlo, ma solamente che mentre il Papa coll'occasione del Concilio si trovava in Melfi, avesse ricevuto da' Normanni il giuramento della fedeltà, e data l'investitura. Che che ne sia, egli è certo, che si eseguì il trattato fedelissimamente da una parte e dall'altra; e Roberto prestò il giuramento di fedeltà, che il Baronio dice aver egli trovato nel Codice del Vaticano detto Liber censuum, ove vien riferita la formola, colla quale il Duca Roberto giurò al Papa fedeltà, che comincia: Ego Robertus Dei gratia, et S. Petri Dux Apuliae, et Calabriae, atque utroque subveniente futurus Siciliae. Nota il Sigonio, che il Papa non il confermò Duca colla cerimonia francese usata da' Duchi di Normannia, e di sopra rapportata, cioè con dargli l'anello nel dito, il berrettino in testa, e col cingergli la spada al fianco: ma colla cerimonia italiana, dandogli lo Stendardo nella destra, e facendolo Gonfaloniero di S. Chiesa; [224] onde Guiscardo da quest'anno cominciò a valersi di questo titolo Ducale: Dux Apuliae, Calabriae, et futurus Siciliae.

Alcuni anche rapportano, che Roberto allora avesse restituita a Papa Niccolò la città di Benevento, e la città di Troja; ma lo dicono senz'alcun fondamento di verità; poichè in questi tempi la città di Benevento era in potere di Landolfo Principe di Benevento, e di suo figliuolo Pandolfo, i quali erano stati già restituiti nel loro Principato, come rapporta l'Autore contemporaneo della Cronaca de' Duchi e Principi di Benevento; nè se non molto tempo da poi fu alla Chiesa romana, per le ragioni, che vi pretendeva, da Roberto restituita, quando, vinti ch'ebbe i Principi longobardi, che tennero quel Principato, gli cacciò da' loro Stati, come diremo più innanzi. Nè della città di Troja presso gravi e vecchi Scrittori si ha memoria alcuna, che si fosse al Papa restituita, non costando come mai v'avessero potuto avere diritto alcuno, quando poc'anni da poi, che fu da' Greci edificata, fu a' medesimi tolta dai Normanni; e par che i successi, e quel che anche oggi giorno veggiamo, confermino quanto si dice, poichè solamente Benevento si vede essere della Chiesa romana, ma di Troja non si legge, che fosse stata in alcun tempo sotto il di lei dominio.

Ecco il fondamento del diritto, che pretendono i Pontefici romani sopra i Reami di Napoli e di Sicilia: fondamento ancorchè a questi tempi debole e vacillante, nulladimanco in progresso di tempo renduto più fermo e stabile, potè per l'accortezza de' successori di Niccolò II sostenere fabbriche sì grandi ed eccelse, che arrivarono a disporre di questi Regni a [225] lor piacere ed arbitrio, ed a trasferirgli di gente in gente, come s'osserverà nel corso di quest'Istoria.

Essi deono questo benefizio e questa parte sì considerabile della loro grandezza temporale a' Normanni, i quali per impegnarli nella loro difesa, o particolarmente contro gl'Imperadori d'Oriente, i quali potevano pretendere, che una gran parte di ciò di che questi conquistatori s'erano impadroniti, loro s'appartenesse; ovvero che la tenessero da quei d'Occidente in Feudo, da chi n'aveano prima ricevute l'investiture: essi non fecero punto di difficoltà di dichiararsi ligi de' Pontefici romani, a fin che loro non si potesse far guerra senz'esporsi a' fulmini della Chiesa.

Questi furono i primi semi, che coltivati da poi da esperte mani, posero col correre degli anni radici così profonde, ed inalzarono piante così eccelse, che finalmente fu riputato il Regno di Sicilia essere spezial patrimonio di S. Pietro, e Feudo della Sede Appostolica romana. Quindi nacque, che presso i nostri Scrittori fosse stato creduto, che la Chiesa romana come suo patrimonio n'avesse investito i Normanni, chi allegando perciò la donazione di Costantino M., e chi quella di Pipino e di Carlo M., e chi le donazioni degli altri Imperadori d'Occidente. Vissero costoro in queste tenebre per l'ignoranza dell'istoria, infino che Marino Freccia[282] non cominciò fra' nostri ad aprir gli occhi, ed a ricever lume dall'istoria, con iscoprire l'inganno, e ad avvertire che queste investiture non possono fondarsi in altro che nella consuetudine, in vigor della quale la Chiesa romana è stata solita investire. E parlando di quest'investitura di Niccolò II [226] e dell'altre seguite in appresso, non ebbe difficoltà di dire: Ecclesia non dedit, sed accepit: non transtulit, sed ab alio occupatum recepit; compassionando il suo affine Matteo d'Afflitto, che scrisse aver Costantino M. donato questo regno alla Chiesa, con dire, affinis meus hìstoricus non est, auditu percepit, etc.

Questa prima investitura, perciò che riguarda la persona di Roberto, non abbracciava altro che il Ducato di Puglia e di Calabria, come cantò il nostro Guglielmo Pugliese[283]:

Robertum donat Nicolaus honore Ducali,

Unde sibi Calaber concessus, et Appulus omnis.

E per Riccardo abbracciava solamente il Principato di Capua. Ma v'erano semi tali, che ben poteva comprendersi, che il medesimo si sarebbe fatto per tutte le altre province, che insino a questo tempo non erano ancora passate sotto la dominazione de' Normanni: fu investito Roberto anche della Sicilia, che dovea ancora togliersi a' Greci ed a' Saraceni che la tenevano invasa. L'istesso certamente dovea credersi del Principato di Salerno, dell'altro di Benevento, d'Amalfi, di Napoli, di Bari, di Gaeta, e di tutto ciò che oggi compone il Regno, siccome l'esito lo comprovò; perchè conquistati che furono da' Normanni, e discacciati interamente i Greci ed i Principi longobardi, vollero anche da' Pontefici esserne investiti, i quali di buon gusto lo facevano, niente a lor costando, anzi il vantaggio era per essi assai maggiore, che di coloro che lo desideravano.

I Normanni all'incontro non molto si curavano di farlo, perchè oltre que' vantaggi, che si sono poc'anzi [227] notati, essi per allora niente di danno ne sentivano; poichè toltane quella piccola ricognizione del censo, appresso loro rimanevano le supreme regalie, governando i loro Stati con assoluto e libero imperio, come supremi ed indipendenti, e si riputavano piuttosto tributarj della Sede Appostolica, che veri Feudatarj; poichè in questi tempi l'essere uomo ligio, non era preso in quel senso, che ora si prende presso i nostri Feudisti, ma denotava una sorta di confederazione, e lega che l'inferiore con astringersi a giurargli fedeltà, prometteva al superiore di soccorrerlo in guerra, ovvero pagargli ogni anno certo tributo o censo[284]. Ciò che tra' Principi istessi era solito praticarsi, siccome fece Roberto Conte di Namur con Odoardo III Re d'Inghilterra[285], il Duca Gueldrio con Carlo Re di Francia, ed in fra di loro Filippo di Valois Re di Francia, ed Alfonso Re di Castiglia[286].

Co' Pontefici romani per le cagioni di sopra rapportate era più frequente il costume. I Re d'Inghilterra s'obbligarono alla Sede appostolica pagare il tributo, il quale sopra quel Regno sino a' tempi d'Errico VIII fu esatto, chiamato il denaro di S. Pietro; anzi non vi fu quasi Principe d'Europa, che non sottoponessero a tributo i loro Regni alla Chiesa romana; tanto che Cujacio parlando di questo costume renduto a questi tempi frequentissimo, ebbe a dire, et qui non Reges olim? I Pontefici romani in questi principj si contentavano del solo censo per render soave il giogo, ma tanto bastò, che in decorso di tempo potessero per la [228] loro accortezza aprirsi il campo a pretensioni maggiori, come lo seppero ben fare nell'opportunità, che si noteranno più innanzi nel decorso di questa Istoria.

CAPITOLO I. Il Ducato di Bari passa sotto la dominazione de' Normanni.

Terminato in Melfi in cotal guisa il Congresso con soddisfazione d'amendue le parti, il Papa tornossene in Roma, e Roberto in Calabria, per finir di ridurre alcune altre Piazze, che erano ancor rimase in potere de' Greci. Tosto se ne rese padrone; e scorgendo che il Conte Ruggiero suo fratello in quell'imprese s'era portato con estraordinaria fortezza e valore, lasciò il medesimo in Calabria per finire quel che restava, come fece valorosamente, ed egli intanto in Puglia ritornato, pensò nuovi modi per istabilirsi meglio le conquiste, e nell'istesso tempo aprirsi altre vie per maggiori acquisti.

Pensò per tanto d'acquistarsi alleanze e parentadi co' Principi longobardi, ed avendo scorto, che il Principe di Salerno per tanti Stati s'era sopra tutti gli altri avanzato, mandò Ambasciadori a Gisulfo II, che a Guaimaro IV suo padre era in quel Principato succeduto, a chiedergli la sorella per isposa. Il partito se bene non dovea rifiutarsi da Gisulfo, pure vi trovava qualche difficoltà, così perchè conoscendo il genio della Nazione, che pur troppo sapeva profittare sopra i Stati altrui, temeva non por questo parentado gli venisse qualche danno, come ancora perchè nell'istesso [229] tempo che Roberto gli chiedeva sua sorella, egli avea Alverada per moglie, dalla quale avea generato il famoso Boemondo. Ma replicando egli che aveala ripudiata, e credeva averlo potuto fare per essere sua parente, al che allora si stimava non potersi rimediare colle dispense del Papa, le quali non erano così frequenti: per non disgustarsi con lui sì apertamente, Gisulfo non osò di rifiutarlo; laonde diegli in maritaggio la primogenita delle sue sorelle appellata Sicelgaita[287]. E nel medesimo tempo sposò un'altra sua sorella minore, Gaidelgrima nomata, ad un altro Principe normanno, dandole in dote Nola, Marigliano Palma, Sarno, ed altri luoghi convicini, i quali non furon mai sottoposti a' Principi di Capua, ma a' Principi di Salerno[288]. Questi fu Giordano I figliuolo di Riccardo Conte d'Aversa, il quale dopo aver tolto a Landolfo ultimo de' Principi longobardi il Principato di Capua, ne avea fatto Principe Giordano suo figliuolo. Avealo ancora fatto Duca di Gaeta, come lui; non è però che Gaeta non avesse anche sotto questi due Principi i suoi Duchi particolari; ebbe Goffredo, ovvero Loffredo Ridello nell'anno 1072 ed altri; ma si diceano così, non altrimente, che si disse Pandulfo Conte di Capua, al quale Giovanni VIII l'avea conceduta, con tutto che vi fosse Docibile Duca, che a Pandolfo era sottoposto, sicom'era ora Goffredo ai Principi di Capua normanni.

Roberto intanto facendo ritorno in Calabria con questa novella sposa, s'accinse alla magnanima impresa della Sicilia[289], e dopo aver quivi col suo fratello Roggiero fatte molte conquiste, che si diranno in più [230] opportuno luogo, in Calabria fece ritorno; e poichè i Greci ancora si mantenevano in Bari, in Otranto, ed in alcune altre Piazze dell'antica Calabria, a discacciargli da quest'angolo, e principalmente da Bari, ove tenevano raccolte tutte le loro forze, drizzò tutte le sue cure ed ogni suo pensiero.

Ma pria che s'accingesse a quest'impresa bisognò che dissipasse una nuova congiura, che Goffredo e Gocelino principali Cavalieri normanni, col pretesto di riporre Bacelardo figliuolo d'Umfredo nel Contado di Puglia, del quale n'era stato spogliato da Roberto, aveano ordita. Tosto che questo valoroso Campione n'ebbe notizia, dissipò in maniera i Congiurati, che molti ne imprigionò, e fece punire con estremo rigore, disperdendo il resto: Gocelino per asilo si ritirò appo de' Greci in Costantinopoli; Goffredo in una fortezza; e l'infelice Principe Bacelardo salvossi in Bari, donde dopo alcun tempo portossi in Costantinopoli a dimandar soccorso all'Imperadore Costantino Duca, che nell'anno 1060 ad Isaacio era succeduto, per impegnarlo contro Roberto a riporlo ne' suoi Stati.

Erasi mantenuta la città di Bari insino a questi tempi sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente, e come capo di quella provincia riteneva ancora la sede de' primi Magistrati greci; anzi in questi tempi gl'Imperadori di Costantinopoli l'aveano innalzata ad esser metropoli d'un nuovo Principato, che di Bari fu detto, ed era prima chiamato Ducato, poichè vi aveano costituito Argiro per Duca, ed anche secondo il solito fasto de' Greci, Ducato d'Italia lo appellarono. In questa città essi tenevano raccolte tutte le loro forze, ed il maggior loro presidio; per la qual cosa per molti anni era stata la sorgiva delle sedizioni [231] contra i Principi normanni, ed un asilo sicuro per li sediziosi: il che fece meditar per lungo tempo al Duca Roberto il disegno d'assediarla.

Ma avvisati appena i Baresi de' disegni di questo Principe, ne mandarono tosto la novella in Costantinopoli all'Imperadore, il quale stimolato anche da Gocelino, mandò tosto per difesa della città un nuovo Catapano, Stefano Paterano, ovvero Sebastoforo nomato. Questi venuto in Bari si dispose ad una forte difesa, ed intanto Roberto avendo unito il suo esercito, non reputandolo allora sufficiente per l'assedio di quella capitale, andava scorrendo i luoghi vicini, e prima di portarlo in Bari, lo mise in Otranto, e tanto afflisse questa città insino che gli venne resa[290]: indi avendo fatto venire molti vascelli dalla Calabria, accresciuto il suo esercito d'altre truppe, si dispose finalmente in quest'anno 1067 a cingere Bari di stretto assedio per mare e per terra[291]. Fu quest'assedio assai memorabile, e pieno d'azioni gloriose così per l'una, come per l'altra parte, che l'istituto della mia opera mi costringe a doverle tralasciare, come fo volentieri, non mancando Scrittori, che minutamente le rapportano[292].

Durò quest'assedio, come narrano Guglielmo Pugliese[293] e Lione Ostiense[294], poco meno che quattro anni, e fu guerreggiato con estremo valore ed ugual ferocia. La difesa che fece il nuovo Catapano fu ostinata e valorosa, siccome gli aggressori intraprendenti ed arditi; ed avrebbe l'impresa de' Normanni sortito [232] infelice esito, se non fosse stata soccorsa l'armata di Roberto da Roggiero suo fratello, il quale resosi padrone di buona parte della Sicilia, mandogli di là un'altra armata in soccorso. Vinse alla perfine Roberto l'ostinazione degli assediati, e gli constrinse a render quella importantissima Piazza; onde nel mese d'aprile dell'anno 1070 gli furono aperte le porte, dandosi senz'alcuna condizione in potere della sua clemenza e valore[295]: il Duca Roberto entrato nella città, trattò i Baresi con tutta umanità: onorò il Catapano, al quale pose in suo arbitrio se volesse coi suoi Greci rimaner in Bari, che sarebbero stati da lui bene impiegati, ovvero tornarsene liberi in Costantinopoli, siccome risolvettero di fare; e dopo essersi fermato per molti giorni nella città spendendogli in pubbliche feste ed allegrezze, se ne partì dopo tre mesi con un'armata di 58 vascelli, che condusse seco in Sicilia all'espugnazione di Palermo[296].

Ecco come il famoso Roberto trionfò di Bari, città la quale dopo essersi mantenuta sì lungamente sotto il dominio de' Greci, e per varie vicende ora tolta, ed ora ripresa, finalmente in quest'ultima volta uscì dalla loro dominazione, e con essa la speranza di più riaverla; poichè senz'essere mai più ritornata in lor potere, ancorchè altre volte avessero tentato di ricuperarla, ma sempre inutilmente, si mantenne sotto il dominio di Roberto, che la tramandò a' suoi posteri. Ed ecco come il Ducato di Bari da' Greci passò a' Normanni sotto Roberto, il quale per amministrarlo vi creò un nuovo Duca, sotto il quale si reggeva. Così [233] tratto tratto s'andavan unendo queste province in una sola persona, come poi fortunatamente avvenne al Conte Roggiero, ch'ebbe la gloria di porre unita sopra il suo capo la Corona di Sicilia e del Regno di Puglia.

CAPITOLO II. Conquiste de' Normanni sopra la Sicilia.

Intanto essendo accaduta in Firenze nell'anno 1061 ne' principj di luglio la morte di Papa Niccolò II, che per due anni e mezzo tenne il Ponteficato[297], insorsero in Roma i soliti disordini e tumulti per l'elezione del successore. Il famoso Ildebrando per sedargli, unitosi co' Cardinali e con la Nobiltà romana, dopo tre mesi, elessero finalmente il Vescovo di Lucca di patria milanese, che Alessandro II appellossi. Nell'elezione non vi fecero aver parte alcuna all'Imperadore, il quale perciò fortemente sdegnato, fece eleggere il Vescovo di Parma suo Cancelliero per Papa, che Onorio II chiamarono per opporlo ad Alessandro; e non bastandogli questo, lo mandò in Roma con molte truppe per discacciarne il suo Competitore. Cominciarono quindi le discordie tra i Pontefici romani, e gl'Imperadori d'Occidente a prorompere in manifeste guerre e fazioni, e ciascheduno si studiava d'ingrossare il suo partito. Nè mancarono dalla parte dell'Imperadore gl'istessi maggiori Prelati della Chiesa, e' più insigni Teologi di quell'età, che sostenessero la [234] sua causa; ma contro tutti questi con inaudita arditezza e vigore faceva testa l'intrepido Ildebrando, il quale, perchè l'Arcivescovo di Colonia avea ripreso Alessandro, che senza il consenso di Cesare contro ciò ch'erasi dinanzi praticato, aveva avuto l'ardire di ricevere il Ponteficato: egli con tutto il vigore ed intrepidezza, gli rispose in faccia, che quella era una corruttela dannabile e cattiva più tosto, che consuetudine, contro i canoni della Chiesa; e che nè il Papa, nè i Vescovi, nè i Cardinali, nè gli Arcidiaconi, nè chi si voglia altro potevan farlo: essere la Sede Appostolica libera, e non serva: che se Niccolò II l'aveva fatto, stoltamente portossi, nè per l'umana stoltizia dovea la Chiesa perdere la sua dignità: che non si sarebbe mai per l'avvenire sofferta tanta indegnità, che i Re di Alemagna potessero costituir i Pontefici romani.

Crebbero perciò, e maggiormente s'esacerbarono le contenzioni, ma cresciuto il partito d'Alessandro per la accortezza e vigore d'Ildebrando, restò depresso quello d'Onorio, il quale in quest'istesso anno, che s'intruse nel Ponteficato, fu da quello deposto e condennato nel Concilio di Mantua, ma però non volle mai deporre l'insegne pontificali.

Nel Ponteficato d'Alessandro II, per l'accordo poco prima fatto col suo predecessore, non vi furono occasioni di contese tra lui, e' Principi normanni; anzi Alessandro confermò a Roberto ciò, che gli avea conceduto Niccolò II, e mandò al Conte Roggiero, nel mentr'era per accingersi all'impresa di Sicilia, lo stendardo per la conquista di quella; essendo allor costume, come narra il Baronio[298], che i Papi quando [235] volevano eccitare alcun Principe cristiano alla conquista d'un nuovo Regno, di mandargli lo stendardo, dichiarandolo Gonfaloniere di Santa Chiesa. I Normanni perciò proccuravano i loro vantaggi nell'istesso tempo, che mostravano avere tutto il rispetto alla Sede Appostolica; nè mancavano intanto lasciar di loro monumenti di pietà e di munificenza verso le Chiese, e precisamente verso il monastero di Monte Cassino, nel quale presidendo l'Abate Desiderio, Riccardo Principe di Capua gli fece donazioni sì larghe e generose, che narrano Lione e Pietro Diacono, non essere mai stato miglior tempo e più accettabile per quei Monaci[299]. Questo Principe, oltre di molti castelli e luoghi vicini a quel monastero, gli donò il castello dì Teramo, che per la fellonia del Conte, essendo stato prima secundum Longobardorum legem, com'ei dice nel Diploma riferito dal P. della Noce[300], aggiudicato al Fisco, passò a quel monastero. Molte altre Chiese donò al medesimo, essendo allora le Chiese in commercio e fra l'altre quella di Calena posta nel Gargano vicino la città di Vesti; poichè secondo la divisione fatta in Melfi, Siponto col Monte Gargano a Riccardo toccò in sorte. Perciò Desiderio, Abate, ancorchè di sangue longobardo, s'attaccò ai Normanni e fu loro dipendente, nè molto curavasi della depressione de' Principi longobardi, ancorchè prima mostrasse per la sua Nazione contrari sentimenti.

Ma questo Principe Riccardo, sentendo i progressi che i Normanni della stirpe di Tancredi d'Altavilla, [236] aveano fatto nella Puglia e nella Calabria, e che ora facevano in Sicilia, imputando a sua codardia il non corrisponder egli a quel valore, punto da sì acuti stimoli, non fu contento del Principato di Capua, che avea tolto a Pandolfo, ma ad imprese più generose e grandi si volle accingere. Egli pensava profittare delle gravi discordie, che passavano tra 'l Papa e l'Imperador Errico per le cagioni esposte, e per ciò non ebbe alcuno ritegno d'invadere la Campagna di Roma, e di avvicinarsi presso Roma istessa per prevenire ad Errico, che intendeva doversi portare a quella città per ricevere dalle mani del Papa la corona imperiale[301]. Com'egli fu avvicinato presso Roma, tentò tutti i mezzi co' Romani, perchè gli dessero il Patriziato, ch'era un sommo onore, e che soleva precedere all'altro dell'Imperio; ma Errico avendo avuta tal notizia, non perdè un momento di tempo a calar tosto in Italia con grand'esercito, portandosi ancora in suo soccorso Goffredo Marchese di Toscana. I Normanni, conosciutisi di impari forze, furono costretti abbandonar l'impresa, e ritirarsi dalla Campagna: e dopo alquante scaramucce, finalmente essendovisi frapposto Papa Alessandro, Riccardo accordossi con Goffredo, e fece a Capua ritorno.

Il Papa essendo poco da poi stato invitato dall'Abate Desiderio per consecrar la Chiesa di M. Cassino, da lui magnificamente rifatta, vi si condusse con Ildebrando e molti Cardinali, ove con solenne cerimonia e grande apparato, celebrò la funzione, intervenendovi dieci nostri Arcivescovi, e 43 Vescovi. E per renderla Desiderio più magnifica v'invitò anche tutti [237] i nostri Principi così normanni, come longobardi che tenevano allora queste province, come ancora i Duchi di Napoli e di Sorrento. Vi venne Riccardo Principe di Capua con Giordano suo figliuolo, e col fratello Rainulfo. Fuvvi Gisulfo Principe di Salerno co' suoi fratelli: ma ciò che dovrà notarsi al nostro proposito sarà, che in questa celebrità, come narra Ostiense[302], intervenne anche Landolfo Principe di Benevento, confermandosi per l'ocular testimonianza di Lione che vi fu presente e trovavasi Bibliotecario di Monte Cassino, quel che scrisse l'Anonimo Beneventano nella Cronaca de' Duchi e Principi di Benevento, che Landolfo fu restituito al Principato di Benevento, nè se non molto tempo da poi s'estinse il Principato dei Longobardi, passando la città sotto il Papa ed il resto di quello sotto i Normanni. V'intervenne ancora Sergio Duca di Sorrento; poichè Sorrento erasi distaccato dal Ducato di Napoli, al quale prima era sottoposto, come molto tempo prima avea fatto Amalfi; e questi due Ducati, essendo Amalfi già passata sotto i Principi di Salerno, in forma di Repubblica co' loro Duchi e Consoli si governavano ancorchè dependenti dall'Imperio greco[303]. Furonvi anche i Conti di Marsi, e molti altri Baroni longobardi e normanni, de' quali fin da questi tempi era un buon numero in queste province.

Solo il famoso duca Roberto quivi non convenne. Ritrovavasi egli insieme col Conte Ruggiero suo fratello in Sicilia, ove all'assedio di Palermo avea rivolti tutti i suoi pensieri e le sue forze. Quest'isola, che [238] caduta sotto il giogo de' Saraceni, erasi sotto Maniace, coll'aiuto de' Normanni, restituita in buona parte all'Imperio d'Oriente, disgustati i Normanni, e succeduti a Maniace Governadori poco abili, era stata ripigliata di bel nuovo da' Saraceni, i quali aveano discacciati i Greci da tutte le Piazze, e solo Messina era loro rimasa; ma alla fine furono costretti nell'anno 1058 anche abbandonarla, e lasciare tutta quell'isola alla discrezione e balia di quest'Infedeli. Roberto Guiscardo col suo fratello minore Ruggiero la invase, e dopo aver soggiogate quasi tutte le sue più principali città, era solo rimasa Palermo da conquistarsi; Piazza la più forte e principale dell'isola, ove i Saraceni aveano riposto tutto il loro presidio; ma l'assedio che vi posero questi due valorosi Campioni fu così stretto e vigoroso, che non passarono cinque mesi, che furono obbligati i Saraceni a renderla nelle mani di Roberto, il quale insieme con Ruggiero entrarono nella città con infinite acclamazioni de' Popoli. Roberto conquistato ch'ebbe Palermo, per cattivarsi gli animi de' Saraceni renduti ormai siciliani, diede loro libertà di religione, facendogli intendere, che stesse in loro libertà, o di farsi Cristiani, ovvero rimanere nella loro religione maomettana. Allora fu che Roberto investì[304] di tutta quest'isola Ruggiero suo fratello, creandolo Conte di Sicilia, colle forze ed egregie virtù del quale aveala acquistata. Ritenne per se la metà di Palermo, di Valle di Demona e di Messina; e lasciato in Sicilia suo fratello, in Puglia [239] fece ritorno, ed in Melfi fermossi[305]. Quindi è che Ruggiero non ricercò investitura dal Papa, perchè la teneva da Roberto suo fratello.

Così questi due Principi, regnando uno in Puglia col titolo di Duca, l'altro in Sicilia con titolo di Conte, ponevan terrore a' vicini. Alcuni, perciò che Roberto investì della Sicilia Ruggiero suo fratello, han voluto dire, che questi riconoscendo da lui il dominio, ed il titolo di Conte di Sicilia, quest'isola fosse subordinata a' Duchi di Puglia; e che il titolo regio ch'ebbe da poi Ruggiero da Anacleto Antipapa, di Re di Sicilia, confermatogli da Innocenzio II, come diremo, s'intendesse di questo nostro Regno, che si disse Regno di Puglia, e non dell'isola di Sicilia[306]. Altri per contrario, come Inveges[307], dicono, che questo nostro Regno fosse subordinato all'isola di Sicilia.

Ma da ciò che abbiam narrato, e molto più da quello che saremo per notare, si conoscerà chiaro, che nè il Regno di Puglia fu subordinato a quello di Sicilia, nè la Sicilia alla Puglia, avendo avuto ciascuno sue leggi ed istituiti particolari, ed essendo stati governati da' proprj Ufficiali. Egli è vero, che riguardandosi che i Normanni dopo aver conquistata la Puglia e la Calabria, si resero padroni di quella isola, e che come aggiunta al Ducato di Puglia e di Calabria, ne avesse da poi Roberto investito Ruggiero, par che la Sicilia dovesse dirsi subordinata a' Duchi di Puglia; nulladimanco avendo Roberto fermata [240] la sua sede in Puglia, e Ruggiero in Sicilia, e governati questi due Stati independentemente l'uno dall'altro, non può assolutamente dirsi, che l'uno stesse subordinato all'altro. E quantunque morto Roberto, Ruggiero succeduto anche nel Ducato di Puglia e di Calabria avesse fermata la sua regia sede in Palermo, ove la tennero anche i Re normanni suoi successori, non è però che il Regno di Puglia fosse stato subordinato a quel di Sicilia, ma come due Regni per se divisi si governavano, nè che fosse stato mai l'uno reputato come provincia dell'altro, come si farà chiaro nel proseguimento di quest'Istoria.

Roberto intanto ritornato in Melfi fu ricevuto con grande applauso e giubilo da tutti i Baroni di Puglia e di Calabria, i quali come loro Sovrano, si congratularono con esso lui della conquista di Palermo[308]. Solamente Pietro figliuolo del Conte di Trani non volle mai rendergli quest'onore, affettando questi un'intera independenza, ed avea perciò rifiutato di dargli soccorso per la spedizione di Sicilia[309]. Sdegnato perciò Roberto lo condannò a rimettergli in sue mani la città di Trani ed alcune altre terre che erano sotto di lui; ma Pietro opponendosi con intrepidezza, cagionò a se medesimo la sua ruina, poichè Trani assediata, e ben presto presa, l'altre Piazze di sua dipendenza, come Bisceglia, Quarato e Giovenazzo seguirono tosto l'esempio di Trani. Ritirossi per tanto Pietro in Andria, ove egli poteva difendersi assai lungo tempo: ma avendo avuto bisogno di viveri: ed essendo [241] uscito con una buona scorta per andare a cercarne nella campagna, portò la sua disgrazia, che nel ritorno fosse preso da' soldati del Duca. Roberto veggendolo così depresso, usogli grand'indulgenza; poichè avendosi fatto prestar giuramento di fedeltà, gli restituì generosamente tutte le Piazze, riserbandosi solamente Trani.

Intanto per la morte d'Alessandro II, accaduta nel mese d'aprile di quest'anno 1073, Pontefice che menando una vita tutta solitaria e privata, avea commesso il governo della Santa Sede al famoso Ildebrando: questi senza farne ricercare l'Imperadore, fece tosto unire il Clero ed il Popolo romano per l'elezione del successore; e nell'istesso giorno nel quale morì Alessandro fu acclamato egli per Pontefice. Domandò Ildebrando all'Imperador Errico la conferma di sua elezione; ma questo Principe stette qualche tempo a risolvere, e mandò il Conte Eberardo a Roma per prendere informazione in qual maniera fosse stata fatta un'elezione tanto sollecita. Ildebrando fece tante carezze al Conte, che l'indusse a scrivere in suo favore; ed Errico vedendo che l'opporsi all'elezione già fatta, non avrebbe avuto alcun effetto, perch'era Ildebrando di lui più potente in Roma, vi diede il consenso. Così fu egli ordinato Sacerdote, e poi Vescovo di Roma nel mese di giugno del medesimo anno 1073 e nella sua ordinazione prese il nome di Gregorio VII.

[242]

CAPITOLO III. Conquiste di Roberto sopra il Principato di Salerno ed Amalfi.

Roberto dopo aver domata la Sicilia entrò tosto in pensiero d'unire sotto la sua dominazione l'altre province, che rimanevano in queste nostre parti; e per un'opportuna occasione che diremo, gli venne fatto di conquistare il Principato di Salerno sopra Gisulfo suo cognato.

Gli Amalfitani, che, come si disse, caduti sotto la dominazione del Principe di Salerno Guaimaro, aveano sperimentato pur troppo aspro il di lui governo, per sottrarsi dal giogo invasero la città, e presso il lido del mare insieme con gli altri congiurati crudelmente l'uccisero; ma repressi da Guido suo fratello, dopo il quinto giorno sedati i tumulti, riebbe la città, ed a Gisulfo suo nipote figliuolo di Guaimaro fu restituita. Ma con tutto ciò Gisulfo assai più aspramente che il padre trattava gli Amalfitani, i quali pensarono di ricorrere al Duca Roberto perchè interponendosi con suo cognato, impetrasse da lui qualche umanità e clemenza per loro. Il Duca mosso da questi ricorsi, inviò Ambasciadori a Gisulfo pregandolo di rilasciare tanto rigore, con cui trattava gli Amalfitani: ma il Principe riguardando questa preghiera qual importuna rimostranza, ricevette di mal garbo coloro, che glie la vennero a fare; e cercando occasione di querela, pretese, che la Costa dopo Salerno infino al Porto del Fico appartenesse a lui; dichiarossi ancora di voler [243] far rientrare nel suo dominio Areco e Santa Eufemia, di cui il Duca erasi impadronito. Roberto alla prima proccurò di guadagnare suo cognato per le vie delle dolcezze, ed accomodar amichevolmente le cose[310]; ma Gisulfo rifiutò ogni trattato, fidato forse al soccorso che sperava da Riccardo Principe di Capua, il qual era entrato a parte ne' suoi interessi, essendo allora in discordia con Roberto Guiscardo. Costui per non aver da combattere con due nemici, trattò secretamente d'aggiustarsi con Riccardo, siccome, fattegli offerte assai vantaggiose, l'indusse a prendere il suo partito contra del Principe di Salerno[311]. Egli ancora firmò un trattato particolare con gli Amalfitani, e gli prese sotto la sua protezione, ed avendo messa la guarnigione dentro la loro città, si dispose a venire, seguito dalle sue truppe, e da quelle del Principe di Capua, a mettere l'assedio alla città di Salerno.

Tutti coloro, che prendevano parte negl'interessi di Gisulfo, l'avvertivano a prevenir la tempesta; e Gregorio VII che l'amava come suo figliuolo, e l'Abate Cassinense Desiderio ch'era suo grand'amico, lo consigliavano ad aver pace con Roberto[312]; ma egli ostinato nè meno volle dar loro risposta. Nè perciò desistette Desiderio, ma sapendo che Roberto avea già assediato Salerno impegnò il Principe Riccardo a venire con esso lui a disporre Gisulfo; ma nè meno poterono conseguire cos'alcuna, anzi non cessava di pubblicare con alterigia mal fondata, che non prezzava punto l'amicizia del Duca, alla quale per sempre rinunziava.

[244]

Roberto sdegnato, non guardò più alle maniere dolci, ma strinse l'assedio, e serrò quella città sì da presso che nel fine di cinque mesi, fu ridotta ad una estrema carestia. Quelli che la comandavano veggendo, che non poteva più mantenersi, pensarono alla loro sicurezza[313]. Uno de' principali ch'erano dentro la Piazza era Bacelardo figliuolo d'Umfredo, il quale dopo aver inutilmente aspettato gli ajuti dell'Imperadore di Costantinopoli tornossene in Puglia, e cercava per ogni parte di vendicarsi di suo zio; e per questo motivo egli era entrato in Salerno, affine di soccorrere Gisulfo, ma temendo di sperimentare il rigore del Guiscardo, s'egli cadeva nelle sue mani, fuggissene la notte; ed andò a ricovrarsi in una Piazza vicina, chiamata Sanseverino, che gli aprì le porte. Il Duca scrisse al Conte Ruggiero, che venisse al più presto da Sicilia ad assediar Sanseverino, fin tanto ch'egli fosse venuto a fine della spedizione di Salerno. Ma non si tardò molto ad espugnarlo, poichè le mura della città cominciarono ad aprirsi per tutte le parti, e gli abitanti stessi vennero ad invitar Roberto ad entrare per la più larga breccia, affine di prevenire ancora le disgrazie d'una Piazza presa per assalto. Gisulfo intanto non si rese per questo, ma si difese nella Cittadella; ma assalito più ferocemente dal Guiscardo, alla perfine fu obbligato di mostrare altrettanta sommissione, quanta fierezza avea prima mostrata: egli si rese alla clemenza del vincitore, e dimandogli per ogni grazia quella della sua libertà; fugli conceduta, essendosi prima ritirato in Monte Cassino, da poi si ricovrò sotto la protezione di Papa Gregorio VII, il [245] quale nella Campagna romana gli assegnò alcune terre, ove potesse abitare, non lasciando intanto egli di appellarsi Principe di Salerno, Duca di Puglia e di Calabria, come suo padre Guaimaro, non già di Sicilia, come per isbaglio si legge nello Stemma de' Principi di Salerno del Pellegrino.

Il Duca fece di bel nuovo fortificare Salerno, ma senza dimorarvi molto tempo, marciò tosto contro Bacelardo per togliergli il tempo di fortificarsi in Sanseverino. Egli vi giunse poco dopo suo fratello Ruggiero, che già aveva attaccata la Piazza; onde cintala più strettamente, fu forza rendersi a patti, ciocchè fece che Bacelardo insieme col suo fratello Ermanno pensassero di nuovo di ritirarsi in Costantinopoli: dove questi infelici Principi menarono il resto della lor vita in grande miseria, nella quale dopo molti anni morirono.

Ecco come in quest'anno 1075 secondo l'Anonimo Cassinese, Fr. Tolomeo di Lucca, e Camillo Pellegrino, il Principato di Salerno s'unì al Ducato di Puglia, di Calabria e di Sicilia, in poter de' Normanni, sotto il famoso Duca Roberto, il quale tenendo anche Amalfi, già minacciava l'altre parti, che restavano, di farle passare ancora sotto il suo dominio. Ed ecco come in Salerno s'estinsero i Principi longobardi; ma non però restò in tutto estinta questa Nazione; rimasero ancora, non altramente che nel Principato di Capua, molte famiglie dell'istesso sangue ne' Contadi vicini[314]. Rimasero Guaimaro Conte di Capaccio; Pandolfo Conte di Corneto; Giordano Signor del castello di Corneto del Cilento nipote del [246] Principe Guaimaro; Astolfo figliuolo del Conte Gisulfo; Romualdo figliuolo di Pietro Conte di Atenolfo; Castelmanno figliuolo d'Adelferio Conte; Berengario figliuolo d'Alfano Conte; Giovanni e Landulfo figliuoli d'Ademaro Conte, che fu detto il Rosso; Giovanni figliuolo di Guaimaro Conte; Glorioso figliuolo di Pandolfo Conte; i quali erano ancor viventi negli anni 1110 e 1114. E Sicelgaita figliuola di Glorioso vedova di Marino Cacapece di Napoli ancor vivea nell'anno 1155[315]. Così ancora da' Conti Guaiferio ed Alberto di questo sangue, narra Pellegrino, esser derivata in Salerno la nobile famiglia di Porta, la di cui posterità con ordine certo insino all'anno 1335 si ritrova nell'antiche carte: siccome di molti altri Conti salernitani per sette e otto generazioni insino a quel tempo esservi ne' vetusti monumenti riscontro, attesta questo medesimo Autore. E se oggi per ordine certo sarà quasi che impossibile trovar la serie de' medesimi, non è però, che fosse in questo Principato estinto affatto il sangue longobardo, e forse anche al presente starà nascosto sotto ruvidi panni di gente rusticana e selvaggia. Documento, niente essere la nobiltà del sangue, quando lo splendore e le ricchezze da lei si dipartono.

[247]

CAPITOLO IV. Il Principato beneventano passa interamente sotto la dominazione de' Normanni, e la città di Benevento alla Chiesa romana.

Il discacciamento del Principe Gisulfo da Salerno e da Amalfi, diede a Gregorio VII molto da temere per l'ingrandimento, che in conseguenza vedeva ne' Principi normanni; ma sopra tutto desiderando di riporre Gisulfo, cui tanto amava, nella sede donde ne era stato discacciato, perchè in questa maniera potesse bilanciar le forze di questi Principi, aspettava opportunità di farlo. Fu ancora più volte istigato di metter su un altro partito contro Roberto, e di proteggere i suoi nepoti discacciati; ma non tardò guari che l'istesso Roberto insieme con Riccardo gli aprirono una ben larga strada alle contenzioni e brighe. Non erano questi Principi soddisfatti d'aver cacciato Gisulfo da Salerno, ma vedendo che questi avea sotto Gregorio trovato nella Campagna romana ricovero, pensarono inseguirlo fin dove era, e con tal occasione invadere la Campagna; laonde spinsero incontanente verso quella volta le loro truppe, ed occuparono parte della Marca d'Ancona[316]. Ma da che in Roma ebbesi la novella, ch'egli e Riccardo s'avanzavano nelle terre della Chiesa, Gregorio che sopra tutti i Pontefici non era per sofferire un simil affronto, e che non aspettava altro che questo per dichiararsi loro inimico, ragunato [248] in Roma un Concilio con pubblica cerimonia e solennità scomunicò questi due Principi, e' loro aderenti[317]. Ma scorgendo ch'essi non molto curavansi di questi fulmini, adoperò nell'istesso tempo un mezzo più efficace: egli inviò contra di essi una buona armata, che fece loro tosto voltar cammino. Il Duca ed il Principe per non perder occasione di proccurarsi in altri luoghi altre conquiste, vennero nell'istesso tempo a portar l'assedio alla città di Benevento ed a Napoli. Il Duca strinse Benevento, ed il Principe Napoli.

La città di Benevento insino a questi tempi era stata governata da Landolfo VI. Questo Principe ancorchè avesse generati molti figliuoli, nulladimanco fu al Mondo padre infelice, poichè pianse la loro morte esso vivente. Pandolfo ch'egli avea al Principato associato, fu nell'anno 1074 ucciso da' Normanni presso Montesarchio: onde sopravvivendo a quest'unico figliuolo ch'eragli rimaso, tenne il Principato sino all'anno 1077, ma essendo già d'età grave e cadente, dopo aver regnato in Benevento 39 anni finì i giorni suoi in quest'anno 1077, nè lasciando di se altra prole, mancò in lui la successione de' Principi di Benevento. Ecco il periodo di questo Principato; e vedi intanto l'instabile condizione delle cose mondane. Questo Principato che sopra tutti gli altri stese i suoi confini, e che in tempo d'Arechi abbracciava quasi tutto ciò, che al presente è Regno di Napoli, ora s'estingue [249] affatto, il quale infortunio non ebbero gli altri Principati di Capua e di Salerno; poichè sebbene in questi mancassero i Principi longobardi, non però s'estinsero i Principati, ma passati sotto i Normanni, si mantennero lungamente, e Ruggiero ancorchè riducesse queste province in forma di Regno, non perciò l'estinse, assumendo fra gli altri titoli anche quelli di Principe di Capua e di Salerno, e ne onorò anche i suoi figliuoli. Ma quello di Benevento mancò all'intutto; poichè ricaduta la città in potere del romano Pontefice, l'altre terre e città del Principato passarono sotto la dominazione de' Normanni, che all'altre province da essi conquistate l'aggiunsero: e quindi è che ne' loro titoli non abbiano nemmeno ritenuto quello di Principe di Benevento, come affatto estinto.

Per la morte adunque accaduta di Landolfo VI ultimo Principe di Benevento senza prole, mancando la successione di quel Principe; tosto Gregorio pretese doversi la città restituire alla Chiesa romana. All'incontro Roberto, che molte terre di quel Principato avea occupate, pretese ridurre anche Benevento sotto la sua dominazione, come avea fatto di quelle terre le quali riconoscevano per loro capo Benevento. Perciò dando il pensiero a Riccardo Principe di Capua dell'assedio di Napoli, egli a quello di Benevento fu tutto rivolto. Ma queste due città, quella di Benevento per l'opera e vigilanza di Gregorio, l'altra di Napoli per lo valore de' suoi cittadini, difendendosi valorosamente, portarono in lungo gli assedj.

Intanto ammalossi Riccardo, il quale avendosi proccurata la grazia di Gregorio, assoluto da costui delle censure, poco da poi ne morì. Giordano suo figliuolo, che gli successe, nudrendo diversi sentimenti da suo [250] padre, levò tosto l'assedio da Napoli, e staccatosi dalla lega che suo padre avea fatta con Guiscardo, s'unì col Papa. Roberto ancora avendo lasciato alquante truppe all'assedio di Benevento, erasi ritirato in Calabria; onde Giordano per l'assenza sua, unitosi col Papa, portò tanto innanzi la cosa, che ricevuta da' Beneventani grossa somma di denaro, fece togliere immantenente l'assedio da quella città, mandando a terra tutti gli ordegni e macchine, che il Duca Roberto avea apparecchiate per ridurre quella città nelle sue mani.

Tanto bastò, che Roberto fortemente sdegnato dei portamenti di Giordano, tornasse tosto dalla Calabria in Puglia, ove ridotte Ascoli, Monte Vico ed Ariano, andò contro il Principe sopra il fiume Sarno per presentargli battaglia; e sarebbero fra di loro venuti alle mani, se l'Abate Desiderio non si fosse frapposto per la pace, il quale seppe con tanta efficacia e destrezza placare l'animo sdegnato di Roberto, che lo piegò a farla, rimanendo questi Principi come prima nella stessa amicizia[318]. Proccurò ancora Desiderio, che Roberto si rappacificasse con Papa Gregorio, e seppe così ben portarsi che andato in Roma proccurò che fosse dal Papa assoluto dalla scomunica, siccome ottenne, ed ebbe la gloria di por pace tra questi Principi nell'istesso tempo che le gare e discordie loro s'eran esacerbate in maniera, che si temeva non dovessero prorompere in più crudeli guerre.

Così i Normanni pacificati col Papa ottennero da lui l'assoluzione delle censure, ed all'incontro Roberto ridotte le terre di Monticulo, Carbonara, Pietrapalumbo, Monteverde, Genziano e Spinazzola, sotto il [251] suo dominio, più non curò di rinovare l'assedio alla città di Benevento; ma lasciatala così libera a Gregorio come la pretendeva, dall'ora cominciò questa città a reggersi per la Chiesa romana, la quale introducendovi nuova politia, per Rettori, che per lo più erano Cardinali, si governò in appresso[319].

Ecco come la città di Benevento passò in dominio della Chiesa romana, prima che queste province fossero ridotte ed unite in forma di Regno; e per questa ragione nell'investiture, che diedero da poi i Papi del Regno di Napoli, si riserbavano la città di Benevento, come quella che non era ivi compresa, ma fuori di quello, ed alla Chiesa romana sottoposta; quindi è che i Beneventani siano reputati come forastieri, e non naturali del Regno.

E vedi intanto come queste nostre province ch'erano a tanti Principi sottoposte si uniscono pian piano insieme nella persona di Roberto, le quali finalmente sotto Ruggiero Conte di Sicilia s'unirono in forma di Reame. Ora niente restava a Roberto di conquistare che il picciolo Ducato di Napoli. Questo Ducato, ancorchè riconoscesse gl'Imperadori d'Oriente per Sovrani, scorgendosi dalle scritture anche di quest'ultimi tempi, che si ponevano i nomi di quegl'Imperadori, come si osserva in quella portata dal Summonte, la quale si legge fatta sotto il nome d'Alessio Comneno; nulladimanco mantenevasi in forma d'una picciola Repubblica retta da' suoi Duchi e Consoli, i quali per la declinazione de' Greci in queste parti, aveano quasi [252] che scossa ogni dipendenza e subordinazione, che prima aveano cogl'Imperadori d'Oriente. Tutto il rimanente era passato già sotto la dominazione de' Normanni: sotto Roberto Guiscardo la Puglia, la Calabria, il Principato di Bari, di Salerno, Amalfi, Sorrento, e le terre del Ducato di Benevento. Sotto Riccardo il Principato di Capua, ed il Ducato di Gaeta; la qual città ancorchè avesse i suoi particolari Duchi, era però subordinata al Principe di Capua.

CAPITOLO V. Litigi, ch'ebbe l'Imperador Errico con Papa Gregorio, il quale ricorre al Duca Roberto, che lo libera dall'armi dell'Imperadore.

La pace che Desiderio proccurò tra il Papa ed il Duca Roberto fu sì opportuna per ambedue, che ciascuno ne ricavò per quella molti vantaggi, ma sopra tutto Gregorio, che in altra guisa sarebbesi trovato in angustie più gravi ed insuperabili; poichè certamente senza gli ajuti di Roberto, sarebbe stato da Errico oppresso. Le discordie tra lui e l'Imperadore erano esacerbate in maniera, che prorompendo in manifeste contenzioni, finalmente terminarono in sedizioni, guerre e scismi ostinati. I primi semi di tante discordie furono le impedite investiture, ed il vedersi escluso l'Imperadore nell'elezione del Papa; s'aggiunse ancora il dispetto, che la Contessa Matilda gli fece, per aver donate molte terre e castelli della Liguria, [253] e della Toscana alla Sede Appostolica[320]. Gregorio all'incontro accagionando Errico, che per denaro, e con privata autorità investiva i Vescovi ed Abati, lo riprese prima acremente, ma da poi nell'anno 1076 venne alle censure. Errico essendo stato ancora offeso per una superba ambasceria, che Gregorio gli avea mandata, fece tosto ragunar un Concilio in Vormazia, nel quale accusato Gregorio di molti delitti ed enormità, fu deposto; da poi mandò egli in Roma i suoi Ambasciadori con lettere piene di disprezzo e di contumelia, per le quali se gli notificava di dover deporre il Ponteficato. All'incontro Gregorio ragunato in Roma un altro Concilio scomunicò tutti i Vescovi, che alla sua deposizione in Vormazia avean consentito: depose Errico del Regno di Germania e di quello d'Italia, ed assolse tutti i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, che gli avean dato, proibendo loro di prestargli più ubbidienza, ed esortando tutti i Principi a prendere l'armi contro Errico. I Principi d'Alemagna considerando, che per la guerra che i Sassoni allora aveano mossa ad Errico, non era punto tempo da nudrire queste contese, persuasero all'Imperadore di proccurar la pace col Papa, e nell'istesso tempo proccurarono, che il Papa venisse in Alemagna, ove si sarebbero riconciliati, e accordato il tutto. Simulò Gregorio di volervi andare, ma essendo giunto a Vercelli, ritirossi a Canossa ch'era un castello posto nel distretto di Reggio. Errico premuto da' Sassoni voleva ad ogni suo costo aver pace col Papa, onde tosto passando l'Alpi venne ivi a trovarlo, e chiedergli [254] perdono[321]. Gregorio non volle prima ammetterlo; ma dopa averlo fatto per tre giorni aspettare scalzo alla porta di quel castello, essendosi interposti li familiari del Papa, e' Principi dell'Imperio, finalmente gli concedette il perdono.

Ma comprendendo, che per la sua acerbità, Errico maggiormente si sarebbe irritato, ed avendogli ancora Matilda avvertito, che l'Imperadore gli tendeva insidie per averlo in sue mani, tosto se ne tornò in Roma, ove nell'anno 1080, con maggiore celebrità, di nuovo scomunicollo, lo depose della Corona dell'Imperio, sciolse i suoi vassalli dal giuramento, vietò a tutti i Cristiani il prestargli ubbidienza: e diede il Regno di Alemagna a Rodolfo Duca di Suevia, esortando tutti i Principi di Germania ad eleggerlo Imperadore. Quando Errico riseppe che i Sassoni aveano eletto Rodolfo Imperadore per opporlo a lui, lasciò l'Italia, e passato in Francia presentò a Rodolfo la battaglia; pugnossi la prima volta ferocemente da ambedue, e fu fatta strage infinita, ma non bastando il tempo, si riserbò ad un'altra giornata: si tornò a combattere, e finalmente cedendo la parte di Rodolfo, venne fatto ad Errico di disfarlo. Restò in questa pugna Rodolfo miseramente ucciso, il quale in presenza de' suoi Capitani mostrando la sua mano tutta bruttata di sangue per le ferite, avanti di morire sì gli disse[322]: Vedete questa mia mano tutta bruttata di sangue; con questa io giurai al mio Signore Errico di non insidiare alla sua vita, ed alla sua gloria; ma il Pontefice romano mi ridusse a trasgredire i giuramenti dati, e ad [255] usurparmi quell'onore che a me non era dovuto. Qual fine io n'abbia conseguito voi già il vedete: lo vedranno ancora quelli che m'hanno istigato a questo.

Errico, sconfitto il suo rivale, memore degli oltraggi ed ingiurie ricevute da Gregorio, tosto ritornò in Italia; ed avendo fatto convocare prima in Magonza, e da poi in Breslavia un Concilio di Vescovi, fece deporre Gregorio, ed in suo luogo eleggere per Papa l'Arcivescovo di Ravenna, che Clemente III appellossi: indi calando in Roma con una potente armata, discacciato Gregorio, collocò Clemente in quella sede[323], dal quale volle anche ricevere la Corona imperiale. Gregorio intanto erasi ritirato nel castello di S. Angelo co' suoi, ove non potendo ricevere aiuto da' Romani, nè volendo altri soccorrerlo, essendo le forze dell'Imperadore pur troppo grandi, può credersi in quanta costernazione vivesse. S'aggiungeva ancora che Giordano Principe di Capua co' suoi Normanni, temendo che Errico da formidabili eserciti circondato non gli discacciasse dal Principato, proccurarono unirsi con lui contro Gregorio[324], onde le cose del Papa erano ridotte in istato pur troppo lagrimevole.

Non vi restava altro, che il ricorrere agli aiuti del famoso Roberto. Ma questi trovavasi molto lontano per soccorrerlo. Avea questo Principe ne' precedenti anni collocata in matrimonio una delle sue figliuole chiamata Elena, col figliuolo dell'Imperador Michele Ducas, appellato Costantino, Principe di tanta bellezza e sì ben disposto, che la Principessa Anna Comnena non fa punto di difficoltà di chiamarlo una [256] principale opera della mano di Dio. Costei ancora non può trattenere il suo sdegno contro dell'Imperador Michele, per aver dato un figliuolo sì bello alla figliuola d'un uomo come Roberto, cui ella tratta, secondo il fasto ed alterigia de' Greci, qual miserabile ladrone, ed indegno d'imparentarsi con gl'Imperadori d'Oriente; ma Elena infelice Principessa era caduta pochi anni da poi in uno strano eccesso di miseria; poichè Niceforo Botoniate avendo discacciato Michele dall'Imperio d'Oriente, avea confinata tutta la sua famiglia in un monastero, e con inaudita inumanità avea fatto castrare Costantino marito della Principessa Elena. Un'ingiuria sì crudele ridondava in molto disprezzo ancora del Duca Roberto, il quale non poteva far di manco di non sentirla; ma d'altronde riguardava con occulto piacere l'occasione di portare le sue armi in Oriente.

Per la qual cosa egli ascoltò benignamente un Greco, che comparve alla sua Corte, e si spacciava per l'Imperadore Michele stesso, il quale per dar credenza all'impostura, minutamente narrava il modo, col quale era scappato via dal monastero, in cui era stato racchiuso in odio solamente, come e' diceva, dell'alleanza che avea contratta co' Normanni. Il Duca fece fare a questo personaggio onori straordinari, come se effettivamente fosse stato l'Imperadore[325]; contuttochè molti Signori, ch'erano stati a Costantinopoli, ed aveano veduto Michele, confessavano che non lo ravvisavano per desso, o che bisognava che fosse molto cangiato. Ma Guiscardo non voleva entrar in questo dibattimento, se questi fosse il vero, o il falso Michele: tutto [257] eragli una cosa per giugnere al suo intento. Egli pretendeva solamente ricondurlo a Costantinopoli alla testa d'un'armata, e di restituirlo al Trono imperiale, disegnando forse d'innalzarvisi egli medesimo, se si trovasse che questi non fosse il vero Michele. In fatti non si dubitò, che fosse un giuoco per allettare più facilmente i Greci, e per aver un pretesto più plausibile d'intrigarsi negli affari dell'Imperio d'Oriente: qualunque si fosse il supposto Michele, che Anna Comnena dice essere stato un Monaco greco, appellato Rettore, non lasciò Roberto di profittare del carattere, che gli fece sostenere.

Ma mentre che il Duca avea apparecchiato tutto ciò, ch'era necessario per una spedizione tanto importante, ebbe avviso, che in Costantinopoli era nata una nuova revoluzione, che avea messo fuori la Principessa Elena dallo stato miserabile, in cui ella prima si trovava; poichè Alessio Comneno essendo stato poc'anzi dalle Legioni proclamato Imperadore in Tracia avea deposto dal trono, e fatto tosare Niceforo Botoniate; ed egli era entrato trionfante in Costantinopoli ove avendo fatto uscire dal monastero la Principessa Elena la trattava con grand onore, disegnando così guadagnarsi il Duca Roberto, cui grandemente stimava e vie più temeva, che non gli contrastasse sì be' principj.

Ma tutto ciò non bastava per arrestare i disegni di Roberto, il quale avendo già tutto all'ordine per quella spedizione, non volle perder tempo a darvi principio; ond'essendosi a tal effetto portato in Otranto, ove dovea imbarcarsi con tutta la sua armata, provide prima al governo de' suoi Stati ch'e' lasciava in Italia. Lasciò il governo de' medesimi nelle mani di Ruggiero [258] soprannomato Bursa suo figliuolo secondogenito, che egli avea generato da Sigelgaita sua seconda moglie, dichiarandolo erede in presenza del Popolo del Ducato di Puglia, di Calabria e di Sicilia[326]. Questi era un Principe di tutto garbo, e di estremo valore; e gli lasciò per Ministri il Conte Roberto di Loritello suo nipote ed il Conte Girardo persona di somma esperienza, e di conosciuta integrità.

Egli s'imbarcò insieme colla Duchessa Sigelgaita, che volle seguire suo marito come un'Eroina alla testa delle sue truppe. Portò seco ancora il valoroso Boemondo suo figliuolo avuto dalla prima moglie Adelgrita, ed alquanti Baroni normanni. Giunti che furono nell'anno 1081 nell'isola di Corfù cominciarono ad invadere quelle Piazze per ridurre quell'isola sotto la loro dominazione: Alessio Imperadore avvisato della mossa di Roberto, tosto fece apparecchiar un'armata per reprimerlo; e quindi cominciò fra questi due Principi una guerra sì crudele, che ebbe avvenimenti sì grandi che spinsero la Principessa Anna Comnena figliuola dell'Imperadore Alessio a tesserne l'istoria, nella quale, con tutto che cercasse ingrandire le gesta di suo padre, non potè però parlare di Roberto, se non con elogi d'estremo valore e fortezza. E condennandomi il mio istituto a tralasciare sì illustri avvenimenti, rimetto i curiosi all'istoria di questa Principessa, [259] ed a ciò che Malaterra e Guglielmo Pugliese ne scrissero. In breve dopo aver Roberto espugnata la città di Durazzo si rese padrone di quell'isola, ed aspirando a cose maggiori, spinse da poi le sue conquiste nella Bulgaria, facendo tremare tutto quel paese del suo nome fino alle porte di Costantinopoli.

Mentre che questo glorioso Eroe era intrigato in questa guerra con Alessio Comneno, ebbe pressanti e calde lettere dal Pontefice Gregorio[327], il quale nell'istesso tempo, che si rallegrava delle sue vittorie che riportava in Oriente, gli esponeva l'urgente bisogno che avea la Sede Appostolica del suo soccorso, e lo stato lagrimevole in cui trovavansi per le forze d'Errico. Il Duca era stato fin da che partì da Otranto avvisato de' sforzi d'Errico, il quale non essendo ancor partito da quella città, gli avea mandati Ambasciadori per tirarlo dalla sua parte; ma Roberto rimandatine tosto gli Ambasciadori, n'avea anche avvisato il Papa, con sentimenti sì obbliganti, sino a dichiararsi, che se non fosse già seguito l'imbarco delle sue truppe, l'avrebbe egli medesimo condotte alla volta di Roma; ma con tutto che lo stato de' suoi affari lo chiamassero necessariamente altrove, non perciò lasciava di raccomandar gl'interessi della Santa Sede al Conte Roberto suo nipote, ed al Conte Girardo suo grande amico[328].

Ma ora ch'erasi disbrigato dalla conquista di Corfù, e che in Bulgaria avea portate le sue vittoriose armi, avendo intesa l'urgenza del bisogno, con tutto che si trovasse nel colmo delle sue conquiste, le interruppe [260] per girne a prestar al Papa quell'aiuto, che gli avea promesso: e lasciando il governo della armata al suo figliuolo Boemondo ed al Conte di Brienna, ripassò in Italia sopra due vascelli con un piccolo numero delle sue genti, e venne ad approdare in Otranto.

Per bramoso ch'e' si sentisse di marciare immantinente verso Roma, non potè farlo sì presto, e si contentò mandare al Papa una grossa somma di denaro, aspettando che fossero terminati nella Puglia gli affari, che richiedevano indispensabilmente la sua presenza; poichè alcune città, presa l'opportunità della sua lontananza, aveano proccurato sottrarsi dal suo dominio, e poco dopo la sua partenza da Otranto, gli abitanti di Troia e d'Ascoli, aveano incominciato i primi ad ammutinarsi, ricusando di pagar i tributi al suo figliuolo Ruggiero, ed alcune altre città, e molti Baroni aveano seguitato questo malvagio esempio, e nel tempo medesimo ch'egli sbarcava in Otranto, Goffredo Conte di Conversano andava ad assediare la città d'Oria. Ma appena vi giunse il Duca, che dissipò gli Assalitori, i quali abbandonando l'impresa si diedero alla fuga. Colla stessa facilità, colla quale fece togliere l'assedio d'Oria, punì la città di Canne, distruggendola interamente, per essersi ammutinata con più ostinazione dell'altre. Queste gloriose spedizioni acchetarono ne' suoi Stati tutti i movimenti sediziosi, che dianzi erano surti.

Nulla più avrebbe impedito d'andare a Roma, se non Giordano Principe di Capua. Questo Principe, avendo, come si disse, preso il partito d'Errico contro del Papa, signoreggiava la Campagna colle sue truppe, onde bisognava a Roberto, per passare in Roma, [261] di toglier quest'ostacolo: ma questo valoroso Campione non solo fugò le nemiche truppe, ma portò l'assedio alla città d'Aversa per ridurla nelle sue mani. Giordano però difese la Piazza valorosamente; onde Roberto vedendo che non così presto poteva sperarsene la resa, sollecitando il Papa il soccorso, abbandonò l'assedio, ed in Roma portossi, ove trovò Gregorio strettamente assediato nel castello di S. Angelo, nell'istesso tempo che l'Imperadore e 'l suo Antipapa facevano tranquillo soggiorno nel Palagio di Laterano. Errico che si trovava in Roma con piccolo presidio, pensò uscir dalla città; Roberto all'incontro cinse Roma colla sua armata, e accostatosi sul bel mattino alla Porta di S. Lorenzo, che vide esser men guardata delle altre, fece appoggiar le scale alle mura, e montandovi sopra, aprì immantenente a tutta l'armata le porte. Ella passò senza difficoltà per le strade di Roma, e giunta al castel di S. Angelo, cavò fuori il Papa, e lo condusse onorevolmente al Palagio di Laterano[329].

I Romani del partito d'Errico restarono sorpresi d'una così valorosa azione; e quantunque da poi ripreso un poco di coraggio, avessero proccurato di ordire contro i Normanni una congiura, tosto Roberto v'accorse, e la ripresse in guisa, che i Romani costernati, risolvettero cercar pace al Papa, che loro la concedette.

Il famoso Guiscardo disbrigato da sì gloriosa impresa e sedati i tumulti, fece da poi uscir di Roma le sue truppe per ritornar in Puglia; ma Gregorio non fidandosi ancora de' Romani, e temendo d'esporsi [262] un'altra volta a' loro insulti, risolvette di seguire l'armata de' Normanni ed il Duca Roberto. Partissi intanto egli da Roma seguitato da' Cardinali e da un gran numero di Vescovi, e fermatisi per alquanti giorni nel monastero di Monte Cassino, ove dall'Abate Desiderio furono splendidamente trattati, ritirossi in Salerno, senza voler giammai ritornar più in Roma, la cui fedeltà gli fu sempre sospetta.

§. I. Investitura data da Gregorio VII al Duca Roberto.

In questo viaggio, che fece il Papa col Duca Roberto, fu rinovata da Gregorio l'investitura, che questo Principe da Niccolò II, e da Alessandro suoi predecessori avea avuto del Ducato di Puglia e di Calabria e di Sicilia, la qual si legge nelle Epistole[330] decretali di questo Pontefice, e porta la data di Cepperano, luogo, che si rendè poi celebre, per lo tradimento, che quivi il Conte di Caserta fece al Re Manfredi. In questa investitura è da ammirare la fortezza dell'animo, e intrepidezza d'Ildebrando, il quale non ostante i così segnalati e recenti beneficj, che avea ricevuti da Roberto, non volle però acconsentire, con tutto che si trovasse in mezzo dell'esercito de' Normanni, di ampliare l'investitura al Principato di Salerno, al Ducato d'Amalfi, e parte della Marca Firmana, che avea Roberto conquistato dopo l'investitura di Papa Niccolò, e che allora possedeva; ma solamente [263] volle investirlo di ciò che i suoi predecessori Niccolò ed Alessandro aveanlo investito, lasciando sospesa l'investitura per quest'altri luoghi.

E perchè per quest'atto non s'inferisse pregiudicio alle pretensioni delle parti, ciascuna espressamente riserbossi le sue ragioni. Roberto nel giuramento di fedeltà, che diede a Gregorio, promettendo d'aiutare la Sede Appostolica, e di difendere la regalia e le terre di S. Pietro contro tutte le persone, nè invaderle, nè cercare d'acquistarle, ne eccettuò espressamente Salerno, Amalfi e parte della Marca Firmana, sopra le quali, com'e' dice, adhuc facta non est diffinitio. All'incontro Gregorio nell'investitura dichiarò solamente investirlo di ciò, che i suoi predecessori Niccolò ed Alessandro gli avean conceduto, soggiungendo, de illa autem terra, quam injuste tenes, sicut est Salernus, et Amalphia, et pars Marchiae Firmanae, nunc te patienter substineo in confidentia Dei omnipotentis, et tuae bonitatis, ut tu postea exinde ad honorem Dei, et Sancti Petri, ita te habeas, sicut et te agere, et me suscipere decet, sine periculo animae tuae, et meae. Ciò che mostra quanto fosse accorto questo Pontefice, il quale nell'istesso tempo, che lasciava in sospeso Roberto, volle tenerlo anche a freno, per lo bisogno nel quale lo lasciava di lui, e de' successori suoi per aver di questi luoghi l'investitura; e di vantaggio volle mostrare essere de' soli Pontefici romani dare e togliere gli Stati altrui, e di giustificare o riprovare le conquiste de' Principi secolari a lor voglia, riputandogli giusti o ingiusti a lor talento; trovando ancora un mezzo assai ingegnoso tra gli acquisti giusti ed ingiusti, cioè di sostenere gli ingiusti possessori in confidentia Dei omnipotentis, acciochè, [264] siccome coloro si portavano colla Chiesa romana, così i Papi si regolassero di dichiarargli giusti o ingiusti Conquistatori.

E vedi intanto a ch'era giunta in questi tempi l'autorità de' romani Pontefici, e la stupidezza de' Principi del secolo, i quali per timore ch'essi aveano delle censure, per tema di non essere deposti, ed assoluti i loro vassalli da' giuramenti, non si curavano dipendere dal loro arbitrio, e riconoscere in essi tanta autorità, per non vedere in sedizioni e ruine sconvolti i loro Stati, atterriti dall'esempio pur troppo recente dell'Imperador Errico, che avea veduto ardere di crudel guerra la Germania, perch'ebbe poco amico Gregorio.

CAPITOLO VI. Conquiste del Duca Roberto in Oriente: sua morte, seguita poco da poi da quella di Gregorio VII.

Mentre che Roberto impiegava con tanta utilità le sue armi in Italia in servigio della Sede Appostolica; veniva dall'altra parte ricompensato di molti successi felici, che l'illustre Boemondo suo figliuolo si proccurava in Oriente. Questo valoroso Campione nell'istesso tempo che suo padre ebbe la gloria di fugare in Roma l'Imperador d'Occidente, venendo a battaglia con Alessio Comneno, ebbe anche la gloria di fugare in Bulgaria l'Imperadore d'Oriente.

La novella ch'ebbe Roberto di questa vittoria riportata da Boemondo sopra l'Imperadore Alessio, l'invogliò a passare di bel nuovo in Oriente per compiere [265] ciò che suo figliuolo, vi avea sì felicemente incominciato. Egli dopo aver dati providi ordini a' suoi Ufficiali per lo governo di questi Stati che lasciava in Italia, si mise in mare con una flotta considerabile, portando seco l'altro figliuolo Ruggiero, e molti altri Baroni principali; ed andò ad incontrare la flotta dei Greci, che era di forze non inferiore alla sua, essendosi unita a quella de' Veneziani infra l'isole di Corfù e di Cefalonia. Si combattè con tanto valore, che i Greci invece di stargli a fronte, si diedero alla fuga, e lasciarono la flotta de' Veneziani affatto sola: allora i Normanni mandate a fondo molte galere, dissiparono l'armata nemica, e facendovi più di duemila e cinquecento prigionieri, trionfarono questa seconda volta de' loro nemici in Oriente[331]. Ma per una grave corruzione d'aria accaduta in quell'orrido inverno, che obbligò far riposare le sue truppe, s'attaccò nell'armata un'infermità così contagiosa, che menò a morte più di diecimila persone, e la più bella parte di quella: Boemondo ne fu sì violentemente attaccato, che non si trovò altro rimedio, che di farlo ripassar in Italia per prendere un'aria migliore: e vi è chi scrisse[332], che questa malattia di Boemondo fosse stato effetto della malvagia volontà di Sigelgaita sua madrigna, la quale avea risoluto farlo morire, temendo che questo Principe non togliesse a Ruggiero suo proprio figliuolo, dopo la morte del Duca, i Stati di Puglia e di Calabria. Non si sono trattenuti ancora di dire, che Sigelgaita, essendosi scoverta tanta enormità dal Duca suo marito, per sospetto che avea, che il Duca se ne fosse vendicato, avesse disegnato ancora d'avvelenarlo, [266] e che l'anno seguente avendolo eseguito, se ne fosse fuggita col suo figliuolo Ruggiero, e con gli altri Signori ch'erano del suo partito, per mettere in possesso Ruggiero degli Stati d'Italia in pregiudizio di Boemondo. Checchè ne sia (poichè gli Autori, che hanno scritto nel tempo, e nel paese stesso, ove regnavano i Normanni, rapportano cose affatto contrarie della Duchessa Sigelgaita) da poi che Boemondo fu partito, il Duca inviò il suo secondogenito Ruggiero ad assediar Cefalonia, ch'erasi poc'anzi da lui ribellata.

Ma ecco, mentre questo invitto Eroe era tutto intento a quell'impresa, assalito il Duca nel mese di luglio da una febbre ardente fu costretto per curarsene a ritirarsi in Casopoli, picciol castello posto nel promontorio dell'isola di Corfù. Vi accorse immantenente Sigelgaita, ma intanto l'ardore della febbre era divenuto sì violento, che ben tosto nell'età sua di 60 anni lo privò di vita.

Sarà quest'anno 1085 sempre al Mondo memorando per l'infelice e luttuosa morte di quest'Eroe, e di due altri gran personaggi d'Europa. Fu infausto per i Normanni per la grave perdita di Roberto Guiscardo. Fu luttuoso per la Chiesa di Roma per la morte del famoso Ildebrando. E fu deplorabile per la Gran Brettagna per la perdita del celebre Guglielmo il Conquistatore Duca di Normannia, e Re d'Inghilterra[333].

[267]

La morte di Roberto sparsa fra le truppe normanne in Oriente, pose in tale costernazione l'armata, che non s'attendeva ad altro che a piangerlo; onde Sigelgaita ed il suo figliuolo Ruggiero s'affrettarono a portar il corpo del Duca in Italia. Giunti in Otranto, s'accorsero, che già cominciava a putrefarsi, il che fece risolvergli a lasciar in quella città il cuore e l'interiora, e dopo aver di bel nuovo imbalsamato il resto del corpo, lo trasportarono in Venosa, luogo della sepoltura degli altri Principi normanni. La città di Venosa, secondo che rapporta Guglielmo Pugliese[334] (il quale qui termina i cinque libri del suo Poema latino) non meno per li natali d'Orazio, che per serbare le tombe di tanti illustri Capitani, deve andarne altiera e superba sopra tutte l'altre città della Puglia. Quivi ancora riposano oggi giorno le ceneri di questo Eroe, che meritamente lo possiamo soprannominare il Conquistatore. Egli non ha dovuto che al suo valore ed alla sua industria il vantaggio d'esser passato da semplice Gentiluomo al numero de' Sovrani e d'un Sovrano il più temuto d'Europa, capace non solo ad imprendere contro i Principi più potenti del Mondo del suo tempo, ma ancora di vincergli, e di dar loro legge. Le virtù sue e le sue perfezioni del corpo e dell'animo furono così ammirabili, che i suoi più grandi inimici, come fu la Principessa Anna Comnena, ancorchè secondo il solito fasto dei Greci parlasse con [268] disprezzo de' suoi natali, non è però che non l'attribuisca tutte quelle eminenti qualità, che si richiedono por acquistare il titolo di Conquistatore. E quantunque queste sue grandi azioni andassero accompagnate da soverchia ambizione di dominare, che sovente l'obbligò ad usar crudeltà e dissimulazioni, questi son soliti difetti, da' quali niun Conquistatore al Mondo ne fu, o ne potè esser lontano. Del resto egli colla sua pietà verso la religion cristiana, colli considerabili ajuti che prestò alla Chiesa romana, colla munificenza che praticò con molte Chiese, e singolarmente col monastero Cassinense, seppe ben coprire appresso il volgo questi difetti, che per altra parte venivan difesi appresso gli uomini di Mondo colle massime dell'umana politica.

Regnò Roberto sotto il nome di Conte di Puglia e di Calabria quattro anni; sotto quello di Duca dodici; e quattordici sotto nome di Duca di Puglia, Calabria, di Sicilia, e di Signor di Palermo. Visse in Italia dal 1047 insino al 1085 anni trentanove; e lasciò da due mogli due figliuoli maschi. Alcuni rapportano, che perchè tra' suoi figliuoli non si disputasse della successione de' Stati che lasciava, avesse nel suo testamento lasciata la Sicilia a Ruggiero suo fratello, della quale già in vita ne l'avea investito con titolo di Conte. A Boemondo suo primogenito tutto ciò che avea conquistato nell'Oriente. Ed al secondogenito Ruggiero natogli da Sigelgaita il Ducato di Calabria, il Principato di Salerno, e tutto ciò che possedeva in Italia. Rapportano ancora, che intanto avesse trattato meglio il secondo figliuolo del primo, così perchè nel far questo suo testamento si trovò presente Sigelgaita, che proccurò gli avanzi di suo [269] figliuolo, posponendo il figliastro, come perch'essendo nato Boemondo dalla prima moglie, ch'egli suppose non esser legittima, per esser sua parente, riputava esser meglio nato Ruggiero, che Boemondo, e perciò antepose questi a quello. Ma, o che non avesse egli fatto testamento, come alcuni ne dubitano, o che questi suoi figliuoli non fossero contenti di quello; Ruggiero e Boemondo pretendevano ugualmente di succedere, ed ebbe ciascuno considerabili fazioni. Ma l'accortezza di Sigelgaita, impegnando a favor del proprio figliuolo Ruggiero Conte di Sicilia suo zio, fece che il partito di costui restasse il più forte; onde succeduto al Ducato di Puglia e di Calabria, ed a tutti gli altri Stati d'Italia conquistati da Guiscardo, cominciò egli ad amministrare queste province[335]. Ed avendo in oltre Ruggiero Conte di Sicilia mantenuto con esso lui più strette alleanze, che con Boemondo, per affezionarselo di vantaggio, gli cedette ancora molte Piazze della Calabria, che il Duca Guiscardo avea al Conte di Sicilia riserbate. Così dichiaratosi manifestamente il Conte del partito di Ruggiero, in tutte le occasioni s'affaticò di sostenerlo contro gli sforzi di Boemondo, il quale spesse volte, ma sempre inutilmente, tentò di sturbare i suoi Stati.

Fu memorabile ancora quest'anno 1085 per la morte accaduta in Salerno del famoso Ildebrando: morte per la Chiesa romana pur troppo luttuosa e deplorabile. Ella perdette un Papa il più forte ed intrepido di quanti mai ne fiorirono in tutti i secoli: egli non si curava punto d'esporsi a' più evidenti pericoli, ove vi correva il rischio della sua stima, e sovente [270] della libertà, per difendere contro i maggiori Re della Terra, e Monarchi del Mondo quelle prerogative e preminenze ch'e' riputava appartenersi alla Sede Appostolica; e persuaso che tutto ciò, ch'intraprendeva fosse appoggiato a fondamenti giustissimi, rendevasi per ciò più animoso e forte sopra i Principi stessi. Egli fu che alzando il suo pastorale sopra scettri e Corone, come se l'esser Capo della Chiesa universale, portasse ancora con se esser Monarca del Mondo, e Re de' Re, ed Imperadore degl'Imperadori, trattava i Principi e gl'Imperadori stessi con tanto strapazzo ed alterigia, che non si ritenne di scomunicargli, di deporgli da' loro Stati, trasferirgli in altre Nazioni, e sciorre i vassalli dalla loro ubbidienza.

E mostrando esser persuaso di poterlo fare, nè moversi se non per zelo di giustizia, e per difesa della Sede Appostolica, acquistò appresso molti gran plauso di zelante e di pio, di uomo ripieno di religione, giusto, dotto Canonista, e buon Teologo, e difensore intrepido de' diritti e libertà ecclesiastiche. Alle quali cose aggiungendo alcune altre virtù, delle quali era adorno, come d'una vita austera, e d'indefessa applicazione agl'interessi di quella Sede, d'un animo misericordioso verso i poveri, di prender la difesa degli oppressi, e di proteggere gl'innocenti, acquistonne fama di Santo; tanto che sebbene avesse di se lasciata presso alcuni Scrittori suoi contemporanei fama diversa, dandogli alcuni il titolo di novatore, d'ambizioso, di crudele, senza fede, altiero, di perturbatore de' Regni e di province, d'autor di sedizioni, di morti e di crudeli guerre, e d'aver voluto stabilire un dominio insoffribile nella Chiesa, tanto sopra lo spirituale, quanto sopra il temporale; non sono mancati però altri, secondo [271] che le fazioni portavano, di averlo per un Pontefice tutto zelo per il servizio di Dio, tutto saggio, tutto pio e misericordioso: e che avendo con rara unione insieme accoppiato alla santità de' costumi la fortezza e l'intrepidezza d'animo, sopra tutti i Principi della terra, abbia trovato negli ultimi nostri tempi chi[336] l'abbia dato il soprannome di Grande, non altrimente di ciò che fu appellato Gregorio I, detto Magno. Ma niun altro più meglio, e più al vivo ci diede il ritratto di questo Pontefice, quanto quel giudizioso dipintore che lo dipinse nella Chiesa di S. Severino di Napoli. Vedesi quivi l'immagine di questo Papa, tra le altre de' Pontefici dell'Ordine di S. Benedetto, avere nella sinistra mano il pastorale co' pesci, nella destra, alzata in atto di percotere, una terribile scuriada, e sotto i piedi scettri e Corone imperiali e regali, in atto di flagellargli. E dopo avere così mostrato essere stato Gregorio il terrore, ed il flagello de' Principi, e calpestare scettri e Corone, volendo ancora far vedere, che tutto ciò poteva ben accoppiarsi colla santità e mondezza de' suoi costumi, sopra il suo capo scrisse in lettere cubitali queste parole: Sanctus Gregorius VII.

[272]

CAPITOLO VII. Boemondo travaglia gli Stati di suo fratello; Amalfi e Capua si sollevano; ed origine delle Crociate.

La morte di Gregorio portò disordini grandissimi alla Chiesa di Roma, poichè imbarazzati i Romani nell'elezione del successore, a cagion che l'Antipapa Gilberto s'era impadronito d'alcune chiese di Roma, e voleva farsi riconoscere per legittimo Papa: finalmente dopo un anno si determinarono eleggere per successore Desiderio celebre Abate Cassinense, secondo ciò che Ildebrando istesso avea consigliato che dovendosi ricercare per li bisogni della Chiesa un Papa, che avesse mano co' Principi del Mondo, non s'appartassero da Desiderio. Ma questi s'oppose in maniera, e con tal resistenza, che finalmente quasi per forza, e suo malgrado lo acclamarono Papa sotto il nome di Vittore III. Ma repugnando egli ostinatamente, fu di mestieri che si ragunasse in Capua un Concilio, ove furono anche invitati i Principi normanni, perchè s'impiegassero a far accettare il Ponteficato a Desiderio. Fu in quest'occasione l'opra di Ruggiero Duca di Puglia così efficace, che ridusselo ad accettare; e condottolo in Roma, tolsero a forza a Gilberto la chiesa di S. Pietro, e fecero ordinar Vittore. Ugone Vescovo di Die Legato di Gregorio VII e promosso all'Arcivescovado di Lione, pretendeva parimente il Ponteficato; e fu uno di coloro, che più fortemente si opposero all'ordinazion di Vittore. I Romani del partito di Gilberto si posero di nuovo in possesso della chiesa di S. Pietro, e dopo molti atti di ostilità, Vittore [273] fu costretto a ritirarsi nel suo monastero di Monte Cassino, del quale uscì nel mese d'agosto per tenere un Concilio in Benevento, composto di Vescovi della Puglia e della Calabria, nel quale fece un discorso contro Gilberto, e di nuovo scomunicollo. Vi scomunicò parimente l'Arcivescovo di Lione, e 'l Vescovo di Marsiglia, e vi rinovò i divieti di ricevere le Investiture de' beneficj per le mani de' Laici. Ma nel tempo, in cui tenevasi questo Concilio, Vittore infermossi, il che l'obbligò a tornarsene in fretta a Monte Cassino, dove morì il dì 16 di settembre di questo anno 1087, dopo aver destinato Ottone Vescovo d'Ostia per suo successore.

Ricadde per tanto per la morte di Vittore di bel nuovo la Chiesa romana in angustie per l'elezione del successore; finalmente i Romani elessero per Papa Ottone, ch'era un Francese di Chastillon della diocesi di Rems, il quale tolto dal monastero di Clugnì per essere Cardinale, avea prestata una gran servitù a Gregorio VII, che l'avea inviato Legato in Alemagna contro Errico. Fu eletto in un'Adunanza di Cardinali e di Vescovi tenuta in Terracina, e nomato Urbano II.

Questo Papa sopra tutti gli altri fu il più ben affezionato a' Normanni; egli vedendo che Boemondo mal soffriva, che Ruggiero suo fratello si godesse tanti Stati in Italia, e che ritornato in Otranto avea mossa per ciò nuova guerra al fratello, si frappose fra loro, e gli accordò con queste condizioni, che Boemondo, oltre di quello che possedea, avrebbe di più la città di Maida e di Cosenza, ma da poi commutarono queste città, ed a Boemondo in cambio di Cosenza si diede Bari, rimanendo Cosenza al Duca Ruggiero. Portossi [274] in quest'anno 1089 Papa Urbano in Melfi[337] coll'occasione di celebrarvi un Concilio, ove espose il progetto della gran Crociata, e fu conclusa la lega contro gl'Infedeli: il Duca Ruggiero ivi andò ad onorarlo, e da Urbano fugli confermata l'Investitura, siccome i suoi predecessori aveano fatto a Roberto di lui padre[338].

Intanto essendogli ribellata Cosenza, il Duca ricorse al Conte di Sicilia suo zio, il quale tosto la ridusse; ed allora fu che Ruggiero, riconoscente di tanti beneficj ricevuti dal zio, gli donò la metà della città di Palermo, ove il Conte d'allora cominciò a farvi innalzare il castello, che oggi giorno s'appella il Palazzo regio[339]. Così regnando l'uno Ruggiero in Sicilia, l'altro in Puglia, vennero a stabilirsi col volger degli anni questi due Regni, che fra lor divisi, ciascuno colle sue proprie leggi ed istituti, e co' proprj Ufficiali si governavano.

Il Conte Ruggiero, il quale, per la morte di due suoi figliuoli, Goffredo e Giordano, erasi renduto padre infelice al Mondo, ebbe, in quest'anno 1093, la gioja di veder nascere dalla Contessa Adelaida sua moglie un altro figliuolo, che Simone appellossi: ciò che lo mise in istato di poter passare più deliberatamente in Calabria per reprimere un nuovo tumulto, che cominciava a surgere nella sua famiglia.

Il Duca Ruggiero suo nipote avea fatta un'illustre alleanza in isposandosi Adala nipote di Filippo I, Re di Francia, e figliuola di Roberto Marchese di [275] Fiandra[340]. Egli n'avea avuti due figliuoli, Guglielmo e Luigi, che doveano essere suoi successori. Ma essendosi il Duca non molto tempo da poi ammalato gravemente in Melfi, erasi sparso ancora rumore che fosse morto. Boemondo che allora dimorava in Calabria, non aspettò altri riscontri: immantenente prende le armi, ed invade le terre di suo fratello, protestando nientedimeno, che lo faceva in favore de' figliuoli del Duca, insino a che fossero in età di governare. Il Conte di Sicilia, che ebbe questo zelo per sospetto, e che si sdegnò perchè osasse di dar questi passi senza consigliarnelo, v'accorse con una potente armata, e subito che vi fu giunto, obbligò Boemondo a ritirarsi. Intanto il Duca essendosi riavuto con perfetta salute contro ogni speranza, Boemondo si portò incontanente in Melfi per dimostrargliene gioja, e per rimettergli tutto il paese, di cui erasi impadronito, giustificando quanto gli fu possibile la condotta, ch'egli avea tenuta.

Ma non finirono qui le turbolenze; un'altra assai più pericolosa se ne scoverse in Amalfi. Il Duca Ruggiero, fidando troppo de' Longobardi per la considerazione di Sigelgaita sua madre ch'era di questa Nazione, come quella che fu sorella dell'ultimo Principe di Salerno, non faceva difficoltà di commettere il governo delle sue Piazze a' Longobardi stessi, a' quali egli e suo padre l'avean tolte: fra l'altre diedero Amalfi in guardia de' Comandanti longobardi, i quali vollero ben tosto profittare de' disordini accaduti poco prima in Cosenza; poichè applicati il Duca ed il Conte suo zio a reprimere la fellonia de' Cosentini, [276] essi cacciarono da Amalfi tutti i partegiani del Duca, e trapassando ad aperta ribellione, ricusarono di ricevere lui medesimo. Il Duca fortemente irato di tanta fellonia, per ridurre la città, pensò allettar Boemondo suo fratello, pregandolo a prestargli soccorso, siccome questo Principe lo fece con tutta la sua milizia, che dalla Puglia e dalla Calabria teneva raccolta: invitò il Duca anche Ruggiero Conte di Sicilia a soccorrerlo; ed in fatti in quest'anno 1096 venne il Conte con ventimila Saraceni, e con infinita moltitudine di altre Nazioni a porre l'assedio ad Amalfi[341]. La Piazza fu investita da questi tre Principi con tutte le loro forze, e l'assedio fu così stretto, che se non fosse stata l'impresa attraversata da congiunture assai strane, certamente Amalfi si sarebbe resa.

Ciò che l'obbligò a scioglier l'assedio fu una nuova impresa che si offerse a Boemondo ed a' suoi soldati, i quali scordatisi dell'impegno nel quale erano, in un subito si voltarono altrove. Fu ciò la pubblicazione delle prime Crociate, l'invenzion delle quali devesi ad Urbano II primo lor autore[342]. Questi nell'anno 1095 avendo ragunato in Francia nella città di Chiaramonte un Concilio, animò tutti i Principi d'Europa all'impresa di Terrasanta, e fu tanto l'ardore di questi Principi, stimolati anche dal solitario Pietro, che posero, per accingersi a sì gloriosa impresa, in iscompiglio tutta l'Europa; ma sopra tutte le altre province, l'Italia e la Francia abbondò di gente, che anelavano di farsi crocesignare, e di prender l'armi per quest'espedizione. S'armarono il Grande Ugone fratello di Filippo I, Re di Francia, Roberto Duca di [277] Normannia. Goffredo Buglione Duca di Lorena, ed i Conti di Fiandra e di Tolosa. Ma fra i nostri Principi normanni, Boemondo col suo nipote Tancredi figliuolo del Duca Ruggiero natogli da Alberada sua prima moglie, come scrivono Pirri ed il Summonte (poichè Orderico Vitale[343], e l'Abate della Noce[344] portano Tancredi figliuolo d'una sorella di Boemondo) furono i più accesi per quest'impresa. Boemondo, sia stato vero zelo o dolore di non essere abbastanza distinto in Italia, ovvero per disegno di continuare le conquiste che avea cominciato con suo padre in Oriente, immantenente lasciato l'assedio d'Amalfi, si mise la Croce rossa sopra i suoi abiti, e fattosi recare dei mantelli di porpora, con gran apparecchio in minuti pezzi dividendogli, ne segnò anche i suoi soldati. Il suo esemplo, e la cura che si prendeva a promovere questa sua divozione, fece sì che a lui ed a Tancredi si unisse un gran numero di gente per seguirgli in quest'impresa. Furon seguiti sopra tutti gli altri da molti Pugliesi, Calabresi, Siciliani, e d'altre regioni d'Italia, tanto che tosto ne fu composta una grossa armata, e fecegli giurare con esso lui sul campo di non fare niuna guerra contra de' Cristiani infino, che non si fosse conquistato il paese degl'Infedeli. Il Duca Ruggiero, il quale si vide così ad un tratto abbandonato in Amalfi, e che la nuova Crociata gli avea tolta la più bella parte delle sue truppe, fu necessitato con gran rammarico e indignazione contra Boemondo, col quale non valsero rimproveri nè scongiuri, coprendosi [278] sotto il manto della religione, e del zelo, a togliere l'assedio per avanzato che si fosse. Il Conte Ruggiero vedutosi ancora abbandonato da' suoi, non potendogli impedirgli per un'espedizione così speziosa, s'ebbe pazienza, e pien di mestizia tornossene in Sicilia[345]. All'incontro Boemondo e Tancredi messisi alla testa de' loro Pugliesi e Calabresi, e d'infinito numero d'altre Nazioni, imbarcatisi in Bari cominciarono a navigare verso Oriente. Il nostro incomparabile Torquato nel suo divino poema, valendosi di quella licenza a' Poeti concessa, fa Tancredi Capitano di ottocento uomini a cavallo, che finge aver seco condotti dalla Campagna felice presso Napoli; ma in questi tempi nè a Boemondo, nè a Tancredi ubbidiva questa regione; tanto è lontano che quindi avesse potuto raccorgli. La Campagna felice in gran sua parte allora era al Ducato napoletano sottoposta, che si reggeva da Sergio Duca e Console sotto l'Imperador Alessio Comneno. Solo Aversa nuova città era in potere de' Normanni, ma d'altro genere, come si è detto, non già della razza di Tancredi Conte d'Altavilla, di cui discendevano Boemondo e Ruggiero. E Capua in questo mentre trovavasi essersi già ribellata da' Principi normanni; poichè morto in Piperno nell'anno 1090 il Principe Giordano, ancorchè avesse lasciato Riccardo suo figliuolo di tenera età per successore al Principato[346], nulladimanco i Longobardi capuani, subito che furono avvisati della morte di Giordano, cospirarono contro Riccardo, e contro la Principessa sua madre; ed avendosi poste in mano le Fortezze della città, ne discacciarono [279] tutti i Normanni; tanto che fu d'uopo a Riccardo, ed a sua madre per asilo ricovrarsi in Aversa, ove si trattennero insino che dal Duca di Puglia, e da Ruggiero Conte di Sicilia, non furono soccorsi, e restituiti in Capua.

Questo famoso Eroe dapoi che si levò dall'assedio di Amalfi, ritornato in Sicilia, non pensava ad altro, che di stabilire più fermo il dominio nella sua famiglia con illustri parentele. I più grandi Principi della Cristianità ricercavano a gara la sua amicizia e la sua alleanza. In fatti erano già quasi due anni, che la sua prima figliuola nell'anno 1093 era stata ricercata da Filippo I Re di Francia, e la seconda nell'anno 1094 fu sposata a Corrado figliuolo dell'Imperador Errico III. Questo Principe per le discordie di Errico suo padre con i romani Pontefici, fu da costoro stimolato a lasciare il partito di suo padre, e non bastandogli d'essersi attaccato al contrario, arrivò a tal estremità, che non fu punto difficile di movere apertamente contro il padre le armi; e portatosi in Italia, col favore del Pontefice, occupò molti luoghi, che dependevano dall'Imperio, e da lui sottratti ad Errico. Il Pontefice Urbano e la Contessa Matilda, non trovando miglior modo per mantenerlo, proccurarono farlo entrare nella famiglia del Conte di Sicilia, con fargli sposare la costui figliuola, perchè lo sostenesse contro gli sforzi di Errico[347].

Il Re d'Ungheria invidiandogli questa alleanza, due anni da poi mandò Ambasciadori al Conte a dimandargli un'altra figliuola per isposarla ad Alemanno suo figliuolo. Ruggiero non ricusò il partito, e con [280] molta pompa e celebrità fu tosto nel 1097 condotta la Principessa al marito. Questa prosperità sì estraordinaria nella famiglia di Ruggiero, ed i successi tanto illustri del suo Regno gli meritarono il soprannome di Gran Conte, ed intorno a questo tempo cominciò ad usarlo ne' suoi titoli.

Agostino Inveges, oltre a queste ragioni, rapporta, che fu mosso Ruggiero a chiamarsi Gran Conte, perchè egli avea creato Simone suo figliuolo Conte di Butera; e cominciandosi già in Sicilia ad introdursi l'uso de' Feudi e de' Contadi; ed essere decorati di questi titoli i figli, i nepoti e' vassalli del Conte, per distinguersi da costoro, cominciasse a sottoscriversi con questo nuovo titolo Magnus Comes Calabriae, et Siciliae.

Ma ciò che maggiormente fece rilucere la potenza di Ruggiero G. Conte di Sicilia, fu l'impresa di Capua. Riccardo figliuolo di Giordano, che discacciato da Capua, erasi ritirato in Aversa, non potendo per se solo ricuperar Capua, lo richiese di soccorso, e della sua protezione: promettendogli, in riconoscenza di questo importante aiuto, di farsi suo uom ligio, e fargli omaggio de' suoi Stati[348].

Ed aggiunge Malaterra[349], che Riccardo oltre la promessa fatta di prestargli omaggio, in ricompensa gli avesse anche offerta Napoli, la qual città dovea ancora conquistarsi. E molto a proposito avverte Inveges, che non si sa donde nascesse a Riccardo questa [281] ragione di così disporre di Napoli, che in questi tempi si governava da' suoi propri Duchi in forma di Repubblica. Il Conte non fu insensibile a queste offerte; poichè tosto unendo una sua armata, venne verso Capua, ove il Duca di Puglia suo nipote, e Riccardo eransi già uniti per assediarla: egli prima di cominciar l'assedio fece predare tutta la vicina Campagna: da poi strinse la città minacciando agli abitanti la lor ruina se non si rendessero[350]. In questo, avendo Urbano II inteso il pericolo de' Capuani, venne tosto al campo ov'erano questi Principi per ottenere da essi la pace, ed impedire la rovina di quella città. Egli fu ricevuto magnificamente da que' Principi, i quali consentirono di rimettere i loro interessi nelle sue mani, purchè i ribelli volessero far il medesimo, del che fu avvertito il Papa, che non farebbero punto. Con tutto ciò volle Urbano tentare di ridurgli, ed entrato nella città, ancorchè gli dessero parola di volerlo fare, quando si venne all'effetto, rifiutarono di voler rendere la città a chi si sia. Il Papa pentitosi d'essersi mosso per loro cagione, se ne ritornò indietro, niente curandosi di ciò avrebbe potuto di male accadergli. L'assedio si strinse per ciò più fortemente, ed Iddio in questo punto fece al Conte di Sicilia segnalatissimi favori; poichè la Contessa Adelaide sua sposa, che in quell'impresa avealo seguitato, vi divenne gravida. Si sgravò del parto in Melito di Calabria in decembre di quest'anno 1097, ovvero, come altri rapportano, in febbraio dell'anno seguente, e diè alla luce un figliuolo, il quale fu battezzato per mano di S. Brunone fondatore dell'Ordine de' Certosini, col [282] quale il Conte, per la gran fama che teneva di santità, avea strettissima amicizia, ed egli fu il primo, che stabilì nella Calabria quell'Ordine nascente, di cui si mostrò sempre protettore.

Al fanciullo fu posto nome Ruggiero: quegli che per le famose sue gesta fu il I Re di Sicilia. Errano perciò il Fazello, che scrisse questo Eroe esser nato in Salerno; e Pirri, che anticipando due anni questa nascita, nel 1095 lo dice nato in Sicilia. Il secondo favore, che Ruggiero ricevette dal Cielo per l'intercessione di S. Brunone fu l'essere stato liberato d'un tradimento, che un Greco appellato Sergio, aveagli macchinato; ma l'aver il Conte ripressa questa congiura col sangue de' congiurati, intimorì in guisa gli assediati, che tosto la Piazza fu resa, e restituita al Principe Riccardo: usò gran clemenza co' medesimi secondo il consiglio che glie ne diede il Conte, talmente che si contentò d'eleggere il suo soggiorno in una delle torri più alte della cittadella, ove entrò trionfante; onde ristabilito nel Principato di Capua, riconoscendo quest'importante conquista da' due Ruggieri, fece loro in segno di gratitudine ogni onore, e come uomo ligio giurò loro omaggio.

Questi due Principi spediti da quest'impresa si ritirarono unitamente in Salerno ove si trattennero insieme per qualche tempo. Meditava il Duca di Puglia, sopra le altre città de' suoi dominj in Italia, trasciegliere Salerno per sua sede regia, siccome avea pensato anche Roberto Guiscardo, conquistata che l'ebbe, di costituirla città metropoli, non altramente, che per quello riguarda la politia ecclesiastica, avea fatto il Pontefice Giovanni XIII. Perciò la sua più lunga [283] residenza la faceva in Salerno[351]; il di cui esempio seguirono da poi i suoi successori. Quivi ospiziò il suo zio colla Contessa e col picciolo figliuolo poc'anzi natogli, il quale gli fu successore ne' suoi dominj.

CAPITOLO VIII. Urbano II fa suo Legato il Conte Ruggiero, onde ebbe origine la Monarchia di Sicilia.

Urbano II per congratularsi con questi Principi del buon successo della loro spedizione di Capua, venne a trovargli in Salerno, e volendo in ricompensa di tanti benefizi prestati alla Sede Appostolica, mostrarsi loro grato, creò Ruggiero suo Legato in Sicilia. In quest'anno 1098, ed in questo Congresso fu istromentata quella Bolla, di cui non vi è memoria che sia stata conceduta ad alcun altro Principe della Cristianità, per cui vanta la Sicilia la sua Monarchia, e per cui s'è preteso, che i successori del G. Conte Ruggiero fossero padroni ne' loro Stati, così dello spirituale, come del temporale.

Erasi introdotto costume da' Pontefici romani di spedir loro Legati appostolici in varie province dell'Orbe cristiano; e n'ebbero di varie sorte. Alcuni che erano i più eminenti, ed a' quali era conceduta più ampia e particolar giurisdizione, eran chiamati Legati a latere, poichè dal Concistoro e Collegio de' Cardinali, che sedevano a lato del Pontefice, erano prescelti, e perciò Laterali chiamogli Ivone Carnotense in una [284] lettera[352] ch'e' scrisse a Pascale II. Altri erano o Vescovi, o Diaconi della Chiesa romana, i quali erano destinati dal Pontefice per Legati presso gl'Imperadori o Regi, i quali non aveano altra incumbenza, se non nella Corte di que' Principi di proccurar i negozi della Sede Appostolica, ed invigilare per gl'interessi della medesima, e questi presso gli antichi si dissero Apocrisiarii, ovvero Responsales. Ma fu ancora da poi introdotta un'altra sorta di Legati, che si chiamavano Provinciali. Questi per lo più erano Vescovi o Arcivescovi delle province istesse ove reggevano le loro Cattedre, ai quali come Legati della Sede Appostolica veniva data molta autorità e giurisdizione, e conceduti vari privilegi da potersene valere co' loro provinciali, e sovente la Legazione si dava alla Cattedra, non alla persona. Così l'Arcivescovo d'Arles era Primate e Legato delle Gallie in vigore d'un antichissimo privilegio conceduto a quella sede, e confermato da poi da Ormisda e da Gregorio I, e dagli altri romani Pontefici[353]. Così ancora l'Arcivescovo di Cantorberì era Primate e Legato d'Inghilterra per un privilegio, che Innocenzo II concedè a Teobaldo Arcivescovo di quella città, ed a' suoi successori; onde è che in Inghilterra questi erano appellati Legati nati, come ci testimonia Polidoro Virgilio[354], poichè non alla persona, ma alla Cattedra fu tal privilegio conceduto. Siccome il Vescovo di Pisa, ed i suoi successori, da Gregorio VII furono dichiarati Legati della Santa Sede nell'isola di Corsica.

Si davano ancora queste Legazioni in alcune province [285] dell'Orbe cristiano, non già alle Cattedre, ma alle persone, destinando i Sommi Pontefici certe persone per Legati in vari luoghi. Così Lione il Grande costituì Anastasio Vescovo di Tessalonica Vicario della Sede Appostolica per l'Oriente, e nelle regioni dell'Affrica. Gelasio I, per l'Egitto elesse Acacio. Ormisda per la Betica, e per la Lusitania Salustio Vescovo di Siviglia; e per le Gallie l'istesso Pontefice costituì suo Vicario Remigio di Rems, senza derogare al privilegio dell'Arcivescovo d'Arles: Ormisda istesso elesse il Vescovo Giovanni per tutta la Spagna. Vigilio creò per l'Illirico, il Vescovo di Locrida, siccome fece anche Gregorio I. Martino I costituì Giovanni Vescovo di Filadelfo per Legato nell'Oriente contro i Monoteliti. E sopra tutte le altre province la Francia ebbe molti di questi Legati ne' tempi di Carlo Martello, di Carlo il Calvo, e più ne' tempi ne' quali siamo, sotto Gregorio VII ed Urbano II, tanto che per la frequenza di questi Legati s'estinsero in gran parte le ragioni e preminenze di Legato e di Primate nell'Arcivescovo d'Arles; e non solo i romani Pontefici vi mandavano Legati perchè presiedessero a tutta la Gallia; ma ancora a certe province vi mandavano particolari Legati, come nell'Aquitania, de' quali Alteserra[355] ne rapporta un numero ben grande.

Questi Legati per lunga esperienza si conobbe, che recavano alle Province, ov'erano dirizzati, danni, e molestie insopportabili[356], poichè oltre di scemarsi con [286] ciò l'autorità e la giurisdizione de' Vescovi e de' Metropolitani, traendo a se tutte le cause, e sovente inquirendo e conoscendo delle cause e delitti de' medesimi Prelati, per la loro avarizia e fasto tenevano depressi i Vescovi e tutto l'Ordine ecclesiastico, onde vennero in tanta abbominazione a' provinciali, che ricorsero a' loro Re, perchè vi dessero riparo. Per la qual cosa i Principi d'Europa proccuravano o di non ricevergli affatto, ovvero di non ricevere se non quelli ch'essi volevano. In Inghilterra perciò fu fatta convenzione fra Urbano II col Re Guglielmo, per la quale fu stabilito, che niun Legato si ricevesse in quell'isola, se non colui che voleva il Re[357]. In Francia i loro eccessi furon tali, che finalmente si risolvettero i Vescovi di supplicare il Papa, che gli togliesse affatto per ristoro delle loro diocesi; siccome in fatti ottennero, che non più si mandassero, onde risorse la potestà de' Metropolitani e de' Primati in quella provincia, e si pose quiete in quel Regno. L'Imperador Federico in Alemagna con suo editto ordinò, che non si ricevessero affatto. Nella Scozia vi è legge stabilita nel 1188 approvata da' Pontefici Clemente III, Innocenzio III ed Onorio III che proibisce poter alcuno ivi esercitare il diritto di Legazione, se non fosse Scozzese; ed il simile si legge per le Spagne.

Nell'isola di Sicilia pur i Papi aveano in usanza crear questi Legati; e si legge[358] che sin da' tempi di Gregorio I avesse questo Pontefice creato Massimiano [287] Vescovo di Siracusa Legato di Sicilia, concedendo questa prerogativa alla sua persona, non già alla Cattedra[359]. Nemmeno ne furono esenti quest'istesse nostre province, ancorchè tanto a Roma vicine; poichè nella Cronaca di Lione Ostiense[360] si legge, che Niccolò II, dopo aver fatto Cardinale Desiderio celebre Abate Cassinense, lo creò ancora suo Legato in tutta la Campagna, nel Principato, nella Puglia e nella Calabria, se bene la sua autorità fossegli stata ristretta sopra tutti i monasteri e Monaci di quelle province come si scorge dalle parole del privilegio, che rapporta ivi l'Abate della Noce.

Urbano II adunque, volendo in questi tempi, ciò che i suoi predecessori avean prima fatto, rinovar l'usanza di crear in Sicilia un Legato, vi nominò il Vescovo di Traina. Non ben s'intese da' Siciliani questo fatto, e molto più se n'era offeso il Conte Ruggiero, il quale essendosi così ben distinto per tanti segnalati servigi prestati alla Santa Sede, con aver discacciati i Saraceni infedeli da quell'isola, tolte tutte le Chiese al Trono costantinopolitano, con restituirle al romano, e soccorsa la Chiesa nelle maggiori sue calamità, riputava non dover meritare questa ricompensa. In questo Congresso tenuto in Salerno se ne dolse col Papa, e fecegli comprendere assai liberamente quanto ciò eragli dispiaciuto, e ch'egli era determinato a non punto soffrirlo.

Ma Urbano che si sentiva cotanto obbligato a questo Principe, e dal quale si prometteva maggiori ajuti [288] per la Sede Appostolica, riputandolo il più abile istromento in questi tempi, ove potesse appoggiare tutte le sue speranze contro gl'Imperadori d'Occidente, non tralasciò sì bella occasione per maggiormente obbligarselo. Non solamente su questo punto gli diede tutta la soddisfazione, annullando in quell'istante la Legazione, che avea data al Vescovo di Traina, ma con raro esempio trasferì al G. Conte medesimo tutta quella autorità che come suo Legato avea data a quel Vescovo, creando lui ed i suoi legittimi eredi e successori Legati nati della Sede Appostolica in quell'isola, promettendogli di non mettervi giammai alcun altro contra suo grado, e che tutto ciò ch'egli era per fare per un Legato, fosse fatto per lui, e suoi successori. Ne fu tosto spedito in Salerno per mano di Giovanni Diacono della Chiesa romana il privilegio, nel mese di luglio, il settimo dell'Indizione, e l'undecimo del Ponteficato di Papa Urbano II.

Questo avvenimento in cotal guisa lo narra Malaterra, il quale insieme porta la Bolla d'Urbano, Scrittore gravissimo, e di que' tempi, il quale qui termina i quattro libri della sua Latina Istoria; e di cui Orderico Vitale[361] antico Scrittore delle cose normanne scrive: De quorum (idest Ducis Roberti Guiscardi, et Comitis Rogerii) probis actibus, et strenuis eventibus Gotifredus Monachus cognomento Malaterra, hortatu Rogerii Comitis Siciliae elegantem libellam nuper edidit.

Questa scrittura sì notabile meritava, che si fosse rapportata tutta intera; ma riguardando la politia di quel Reame, non del nostro, ci siamo contentati d'averne [289] recato con nettezza ciò che contiene, tanto più, che non mancano Scrittori[362], che la rapportano intera, e ben negl'istessi Annali del Baronio potrà leggersi.

Questo è il fondamento della cotanto famosa Monarchia di Sicilia, per cui i successori di Ruggiero, e sopra tutti i Re d'Aragona, che signoreggiarono da poi quel Reame con lunga serie d'anni, si sono mantenuti nel possesso di questa sì nobile ed illustre prerogativa contro tutti i sforzi, e' dibattimenti surti sopra questo punto in processo di tempo. Non riputandosi cosa impropria, e strana d'essersi potuto a' Principi concedere tal facoltà di Legato della Sede appostolica, quando i Papi stessi reputarono queste persone, come sacrate, essendosi già introdotto il costume di ungersi col sacro olio, e non come all'intutto laici, ma partecipi ancora del Sacerdozio gli riputarono; e se non stimarono incompatibile alle loro persone di creargli Canonici di S. Pietro, con ammettergli coi sacri abiti al Coro, e rendergli consorti in tutte le altre funzioni, e celebrità sacre; non dovrà parere strano che possano ancora ritener queste prerogative, che finalmente si raggirano intorno alla ecclesiastica giurisdizione, non già intorno all'ordine.

Secondo le massime del dritto Canonico, e la pratica della Corte di Roma si è in più occasioni veduto, che nel diritto la potenza della giurisdizione è distinta dalla potenza dell'ordine, e che quest'ultima è attaccata all'ordine medesimo, e non può essere comunicata a quelli, che non l'hanno per loro carattere. [290] Non si può commettere ad un Prete per far l'ordinazione; nè ad un Diacono per consecrare, o per assolvere; poichè la facoltà dell'ordinare è attaccata al carattere episcopale, ed il potere di consecrare e d'assolvere all'ordine presbiterale: ma per ciò, che riguarda la potenza della giurisdizione, ella può essere comunicata a persone, che non sono negli ordini, ancorchè s'eserciti sopra quelli, che vi sono, o anche negli ordini più elevati, che non sono quelli a chi si è accordata questa giurisdizione. Li Papi non hanno fatto difficoltà di praticarla in più occasioni, nominando Legati, i quali erano semplici Diaconi per giudicare materie di fede, e cause di Vescovi, anche per tenere il loro luogo ne' Concilj, e dando privilegi ad Abati e Monaci per esercitar la giurisdizione episcopale; e ciò ch'è più stonante, anche alle Badesse, che danno dimissorie, hanno Archidiaconi, ed altri Officiali, ed esercitano tutto ciò, che appartiene alla giurisdizione episcopale; ed in quest'istesso nostro Regno oggi giorno veggiamo, che la Badessa del Monastero di Conversano esercita sopra i suoi Preti giurisdizione, ed ha privilegio di valersi di Mitra, e di Pastorale, come i Vescovi fanno. E Carlo II d'Angiò nella Chiesa di S. Nicolò di Bari ebbe luogo in quel Coro sopra gli altri Canonici, e fu riputato come di lor corpo, ed ebbe giurisdizione sopra que' Preti, come diremo al suo luogo.

Non è del nostro istituto entrare in que' dibattimenti, che da poi sursero intorno a questo punto, e nelle cose che sono state scritte da' Spagnuoli, e da altri diversi Autori, come materia lontana dal nostro proposito. Ma non posso tralasciar di dire, che il Cardinal Baronio con molta importunità, e poca verità [291] ardì d'impugnarla negli ultimi tempi, da poi che quel Regno n'era stato in possesso per tanti secoli. Stampò egli al principio dell'anno 1605 il suo tomo XI, degli annali ecclesiastici, e venendo di rapportar questo fatto, inserì nella sua Istoria un discorso lunghissimo contra la Monarchia di Sicilia, ove con isforzati, e lividi argomenti non trascurò di movere ogni macchina per abbatterla. Ma ciò che non deve condonarsi alla memoria di quell'uomo, si è d'aver pieno quel suo discorso di tanta maldicenza ed acerbità contra molti Re d'Aragona di celebre memoria, e spezialmente contro Ferdinando il Cattolico, riputandogli Tiranni, e che sotto questo nome di Monarchia abbiano voluto in quel Regno introdurre la tirannide, che capitato il libro in Napoli ed a Milano, fu da que' Ministri regi proibito, ed ordinato, che non si vendesse, nè tenesse, per rispetto del loro Principe Filippo III, che allora regnava, i cui progenitori paterni erano stati da quel Cardinale sì indegnamente trattati.

Ma mostrò il Baronio sì gran risentimento di questa proibizione del suo libro, che avendone avuto l'avviso quando per la morte di Clemente VIII, era la sede vacante, fece unir tosto il Collegio de' Cardinali, dai quali fece far un'invettiva contro que' Ministri, e non bastandogli aver offeso quel Principe in quella guisa, volle toccarlo in un altro punto non men geloso di sua regal giurisdizione; poichè in quella apertamente biasimavansi que' Ministri, come nel proibir il suo libro avessero posto mano nell'autorità ecclesiastica, quasi che a' Principi non fosse lecito per quiete dello Stato far simili proibizioni. E dopo creato il Pontefice Paolo V fece scrivere al Re Filippo sotto li 13 Giugno di quest'istesso anno una lunga lettera con grave doglianza, [292] che in vilipendio dell'autorità ecclesiastica, li Ministri regj in Italia avessero proibito il suo libro, quando ciò al Papa solamente s'apparteneva. Però la prudenza di quel Re giudicò meglio di rispondere coi fatti, e lasciò correre la proibizione pubblicata da' suoi Ministri.

Ma il Cardinale non si potè contenere, che nel 1607 stampando il XII tomo non inserisse poco a proposito un discorso di quest'istessa materia, con molta acerbità e livore declamando contro i Principi, che voglionsi impacciare a proibir libri, non ritenendosi ancora di dire, che lo fanno perchè i libri riprendono le loro ingiustizie. Il Consiglio di Spagna con la solita tardanza e irrisoluzione vi procedè con lentezza; non si mosse nemmeno per questa terza offesa, ma lasciò scorrere altri tre anni, e nel 1610 il Re fece un editto, condennando, e proibendo quel libro con maniera così grave, che destramente tocca il Baronio, così bene com'egli avea toccato li Re suoi progenitori. E per dargli maggior riputazione e forza, fu l'editto fatto pubblicare in Sicilia, con decreto e sottoscrizione del Cardinal Doria, e mandato per lo Mondo in istampa. In Napoli fu mandato l'editto al conte di Lemos, che si trovava allora Vicerè, il quale a' 28 febbrajo dell'anno seguente 1611 fece pubblicar Banno con molta pubblicità, col quale si condennava il libro. La corte di Roma restò sbigottita tanto per l'editto, quanto per l'esecuzione fatta dal Cardinale, e del Banno pubblicato a suon di tromba in Napoli. Però in Spagna non si mossero punto, e l'editto resta oggi giorno nel suo vigore.

Fu questa contesa rinovata con modi assai più forti negli ultimi nostri tempi, quando Papa Clemente XI [293] vedendo il Regno di Sicilia caduto in mano del Duca di Savoja, credette tempo opportuno di profittare sopra la debolezza di quel Principe; e ridusse la cosa in tale estremità, che nell'anno 1715 non si ritenne di pubblicar una Bolla, colla quale abolì la Monarchia, stabilendo in un'altra in quel Reame una nuova ecclesiastica Gerarchia; ma riuscirono vani tutti questi sforzi, poichè nè le Bolle ebbero alcun effetto, nè niuna mutazione o novità s'introdusse in quell'isola; e molto meno quando poi quel Regno fece ritorno sotto l'Augustissima Famiglia Austriaca.

Scrisse con questa nuova occasione a difesa della Monarchia il celebre Teologo di Parigi Lodovico Ellies Dupino, dove fece vedere quanto insussistente e vano sia ciò che il Baronio avea sostenuto in contrario, e quel che il Papa avea ordinato in quella sua Bolla. Uscì questo suo libro nell'anno 1716 dove si narrano minutamente l'origine ed i progressi di questa contesa, ed i successi di questa briga, con tanta diligenza e dottrina, che bisogna riportare il Lettore a quanto egli ne scrisse intorno a questo soggetto.

La Bolla di Urbano fu dirizzata al Conte Ruggiero, e suoi successori, e non comprendea che i suoi Stati che possedeva allora, cioè la Sicilia ed alcune Piazze che e' teneva in Calabria, onde perciò s'intitolava M. Comes Calabriae, et Siciliae.

Ma non meno del Conte era benemerito il Duca Ruggiero della Sede appostolica; ond'era di dovere, che Urbano al Duca di Puglia, ch'era presente, dispensasse suoi favori; ond'è da credere, che a questo tempo fosse a' Duchi di Puglia conceduto quel privilegio, di cui l'antica Glossa Canonica, e molti de' più [294] vecchi Scrittori rapportano intorno alla collazione dei beneficj del Regno.

In questi tempi per togliere l'investitura da' Principi secolari eransi ragunati frequenti Concilj, e per ultimo nel Concilio romano celebrato da Urbano nell'anno 1099 poco prima di morire, erasi di nuovo sotto terribili anatemi vietato agli Abati, a' Propositi delle chiese, ed a tutti gli Ecclesiastici di ricevere beneficj dalle mani de' laici. Con tutto ciò pretesero sempre i Principi non dover essi reputarsi in ciò puramente laici, nè potersi loro togliere quelle prerogative, delle quali per lungo tempo n'erano stati in possesso. Che era ben di ragione, che avendo essi fondate le chiese ed arricchitele del loro patrimonio, essi ne dovessero aver le investiture; che siccome prima nell'elezione de' Ministri della chiesa v'avea parte il popolo, non dovea parere strano, se i Principi, a' quali fu trasferita ogni potestà, potessero ora farlo per se soli[363]. Che ciò facendo, niente davano agl'investiti di spiritualità, ma la lor concessione si restringeva alla temporalità, ancor che nell'investirgli si valessero, secondo era il costume, dell'anello e della verghetta. Ciò che con maggior ragione lo pretendevano i nostri Duchi di Puglia, i quali aveano in queste province molte chiese sin da' fondamenti erette, e dotate di molti loro beni per la lor somma pietà inverso il culto della Religion cristiana. Si aggiungeva ancora d'aver debellati gli infedeli Saraceni, e d'aver restituite tutte le chiese al Trono romano, che prima gli erano state tolte dal Patriarca di Costantinopoli.

[295]

I Pontefici romani per non contendere su questo punto co' Principi amici e ben affezionati, a' quali senza recarsi pregiudizio volevano gratificare, sovente usavano di conceder loro per privilegio ciò ch'essi pretendevano per giustizia: i Principi badando solo all'effetto, nè curandosi d'altro, l'accettavano. All'incontro i Papi credevano maggiormente così stabilire i loro diritti, acciocchè secondo che le congiunture portavano, potessero o rivocargli, o contrastargli. Quindi è che gli antichi Re di Sicilia investivano de' beneficj ecclesiastici in tutte le Chiese del Regno di Puglia, siccome ne rende a noi fedel testimonianza l'antica Chiesa Canonica[364], la quale se contro i canoni stabiliti in tanti Concilj osservò che i Duchi di Puglia davano l'investiture de' beneficj, disse che ciò lo facevano per privilegio del Papa, il quale poteva a' laici concedere questa preminenza; e lo testimoniano ancora tutti i nostri più antichi Scrittori del Regno, come Marino di Caramanico, Andrea d'Isernia, ed altri[365]. E per questo privilegio si difendeva Federico II quando se gl'imputava, che a suo modo dava le investiture delle chiese di queste province[366]: anzi egli si doleva che i Papi tentavano di diminuire le ragioni, che i Re di Sicilia aveano nell'elezione de' Prelati, non ostante il lor privilegio, il quale da Innocenzio III non poteva moderarsi, come fece con Costanza, quando egli era ancor fanciullo. Ma di ciò più opportunamente ci tornerà occasione di favellare quando della politia ecclesiastica tratteremo.

[296]

§. I. Concilio tenuto da Urbano in Bari, e sua morte, seguita poco da poi da quella del Conte Ruggiero, e d'altri Principi.

Intanto Urbano dopo essersi in Salerno trattenuto con questi Principi, se ne passò in Bari, ove avea intimato un Concilio di Padri greci e latini per determinare il Dogma della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo, nel che i Greci non convenivano[367]. Intervennero in questo Concilio 185. Vescovi, e volle assistervi anche S. Anselmo Arcivescovo di Cantorberì, che per affari della sua Chiesa si trovava allora in Italia. Vi furono perciò tra' Greci e Latini grandi dibattimenti; ma furono da S. Anselmo coloro convinti, e determinato secondo ciò che teneva la Chiesa latina; ma non per questo finì lo scisma, che sostenuto con ardore da ambe le fazioni per lungo tempo tenne divise queste due Chiese, che non valse umana diligenza per riunirle.

Spedito Urbano da questo Concilio portossi in Roma, ove dopo esser intervenuto al Concilio romano, del quale poc'anzi si disse, non passarono molti mesi, che in questo medesimo anno 1099 finì in quella città i giorni suoi. Meritò questo Pontefice essere annoverato tra i più grandi Papi ch'ebbe la Chiesa romana; egli tenendo questa Sede poco men che dodici anni, adoperò molte eroiche azioni, e si rese celebre al Mondo per la spedizione de' Crociati, essendone stato il primo autore, Egli sopra tutti gli altri Pontefici fu il più ben affezionato a' nostri Principi normanni, nè [297] con essi ebbe occasion alcuna di disturbo, ma gli amò come padre i propri figliuoli, e per quanto s'apparteneva a lui, proccurò i loro maggiori vantaggi. Per la di lui morte fu eletto Papa l'Abate Rainerio di Toscana, che Pascale II appellossi; ed in questo medesimo anno i nostri presero Gerusalemme, e ne fu eletto Re il famoso Goffredo Buglione, al quale dopo la sua morte succedette Balduino suo fratello, avendo intanto Boemondo presa Antiochia, e fattosene Principe, che la trasmise a' suoi posteri.

La morte di Urbano fu non molto tempo da poi seguita da quella del Gran Conte Ruggiero: egli essendo già molto avanzato in età, trovandosi in Calabria, rese chiara al Mondo la città di Melito ove morì nel mese di Luglio dell'anno 1101[368]. E non a bastanza pianto da' suoi, fugli nella maggior chiesa di quella città edificata da lui, eretto un sepolcro, ove ancor oggi si conservano le sue gloriose ossa. Egli visse settanta anni, avendone regnato sedici dopo la morte di Guiscardo suo fratello. Ebbe più mogli, dalle quali avea avuti molti figliuoli, ma tre soli maschi a lui sopravvissero, nati dalla sua ultima sposa Adelasia, la quale prese il governo degli Stati immantenente dopo la morte del marito con Roberto di Borgogna suo genero[369]. Questi tre figliuoli furono Simone, che morto poco dopo il padre, non ebbe la sorte di succedergli nel Contado di Sicilia[370]. Goffredo soprannominato di Ragusa, di cui l'istoria non ci somministra alcun [298] riscontro: alcuni[371] credono che fosse nato dalla prima moglie Erimberga, e che insieme col fratello Giordano fosse al padre premorto. Ruggiero II fu quegli al quale lasciò i suoi Stati in una situazione così illustre e vantaggiosa, che poco da poi gli possedette con titolo e Corona di Re, e che la fortuna l'innalzò ad unire nel suo capo le due Corone di Puglia e di Sicilia, e che con titolo regio signoreggiò ancora queste nostre province, come qui a poco diremo. Lasciò ancora il Conte Ruggiero due figliuole, Matilda ed Emma: Matilda fu moglie di Rainulfo Conte d'Avellino. Per la qual cagione ne' disturbi che accaddero da poi tra il Re Ruggiero, con l'Imperador Lotario II ed il Papa Innocenzio II fu da Innocenzio, Rainulfo costituito duca di Puglia contro Ruggiero suo cognato nell'anno 1137. Fu questa Matilda quella che persuase ad Alessandro Abate Telesino di scrivere l'Istoria di Ruggiero suo fratello, com'e' testifica nel primo libro della medesima. Emma altra figliuola fu moglie di Rodolfo Maccabeo Conte di Montescaglioso[372]; non facendo allora questi Principi difficoltà di dare le loro figliuole, o sorelle per ispose a' loro Baroni, i quali per la maggior parte erano dell'illustre sangue normanno o longobardo, e potenti per molti ampi Stati, e ricche Signorie. Coloro che fanno Costanza moglie d'Errico Imperadore figliuola di questo Ruggiero, errano di gran lunga; fu ella nipote, non già figliuola del Gran Conte Ruggiero, come nata dal Re Ruggiero suo figliuolo, come diremo.

Il principio di questo duodecimo secolo, nel quale [299] siamo, fu luttuosissimo non solo per la morte del Gran Conte Ruggiero, ma di molti altri Principi che lo seguirono. Morì poco da poi nel mese di gennaro dell'anno 1106. Riccardo II Principe di Capua dopo la cui morte non lasciando di se figliuoli, gli succedè al Principato Roberto suo fratello, che lo tenne insino al 1120 nel qual anno morì[373]. Nell'istesso anno 1106 nel mese d'agosto finì ancora i giorni suoi l'Imperador Errico III a cui succedette Errico IV suo figliuolo, il quale non meno che il padre, quasi ereditando co' Stati l'odio contro i Pontefici romani, fu assai più acerbo con Pascale II e co' suoi successori di ciò ch'era stato suo padre con Gregorio VII. Egli volendo sostenere con maggior vigore le ragioni delle investiture, minacciava di voler calare con potente armata in Italia contro Pascale. Questo Pontefice per occorrere ad un tanto periglio, venne a Capua per sollecitare il Principe Roberto, ed il Duca Ruggiero, perchè l'aiutassero contro gli sforzi d'Errico; ma Errico venuto in Italia con valido esercito, e giunto in Roma, ove il Papa era ritornato, ed eragli (credendo così reprimere il suo orgoglio) col Clero e 'l Popolo romano andato incontro per riceverlo, lo fece conducere con tutti i suoi dentro i suoi alloggiamenti, come prigioniero, ove per forza gli estorse le ragioni dell'investitura, e lo costrinse di vantaggio secondo il solito rito e cerimonie a farsi incoronare Imperadore[374]. Ma subito che Errico partì d'Italia, Pascale in un Concilio tenuto da poi in Laterano, annullò, e cassò tutti quegli atti, avendo intanto poco [300] prima sollecitato il Duca di Calabria, ed il Principe di Capua con gli altri Normanni, e l'istesso Boemondo, perchè unite le loro armate soccorressero la Chiesa romana contra le persecuzioni, che, come diceva, sofferiva da Errico.

Ma la morte di questi due Principi Boemondo e Ruggiero accaduta l'una poco dopo l'altra, frastornò tutti i suoi disegni. Morì Boemondo in quest'anno 1110 in Antiochia, ed il suo cadavere trasportato in Italia, fu fatto seppellire a Canosa nella Chiesa di S. Sabino. Lasciò di se un figliuolo nomato pur Boemondo, che al Principato d'Antiochia, ed agli altri suoi Stati successe. Lasciò ancora un'altra sua figliuola, ed amendue raccomandò a Tancredi suo nipote.

Ma più deplorabile fu a queste nostre province la morte accaduta in Salerno nel mese di febbraio dell'anno 1111 del famoso Duca Ruggiero[375]. Fu egli con gran pompa, e molte lagrime sepolto nella maggior chiesa di Salerno, edificata dal Duca Guiscardo suo padre: nè lasciò di se altra stirpe virile, se non Guglielmo, natogli dalla Duchessa Ala sua seconda moglie, il quale, morto suo padre, al Ducato di Puglia ed agli altri suoi Stati succedette.

Il Duca Guglielmo, non meno che suo padre volle continuar col Papa l'istessa amicizia e corrispondenza, nè mancò di soccorrerlo nelle contese che con più ardore si proseguivano con Errico. Eransi a questi tempi cotanto esacerbate queste contenzioni, che l'Imperador Alessio Comneno pensò profittarne, scrivendo a Pascale II che se voleva riconoscer lui per Imperadore d'Occidente, l'avrebbe prestati contro Errico [301] validi aiuti[376]. Ed intanto avendo Guglielmo stabilito in più perfetta forma lo Stato, non mancò di chiedere al Papa la conferma dell'investitura del Ducato di Puglia, e di Calabria, come i suoi predecessori aveano ricevuta. Nè Pascale mancò tosto di concedergliela, come fece nell'anno 1114 mentre era in Cepperano a celebrar un Concilio, ove Guglielmo portossi per riceverla[377]. Ma mentre questo Pontefice era tutto inteso per reprimere gli sforzi d'Errico oppresso da gravi, e noiose cure ammalossi in questo anno 1118 nel quale a' 12 gennaro finì di vivere[378].

Morì ancora nel mese d'agosto del medesimo anno Alessio Imperadore d'Oriente, a cui nell'Imperio successe Giovanni Porfirogenito suo figliuolo. Ben tosto ci libereremo dalla cura di tener conto degl'Imperadori d'Oriente; poich'essi avendo perduto tutto ciò, che possedevano in queste nostre province, con poca speranza di più riacquistarlo, non vi fu occasione di più pensare, ed intrigarsi negl'interessi di queste regioni. Niente più era loro rimaso che un'ombra di sovranità, che ancor ritenevano sopra il picciolo Ducato napoletano, il quale non guari si vedrà passare altresì sotto la dominazione del famoso Ruggiero I Re di Sicilia e di Puglia. Si governava ancora questo Ducato sotto forma di Repubblica per suoi Duchi e Consoli, ed in questi Tempi n'era Duca Giovanni, il quale morto non molto tempo da poi, mentre regnava in Oriente Porfirogenito, fece luogo a Sergio, ultimo Duca che fu de' Napoletani. Poichè passata da poi [302] Napoli sotto Ruggiero, ancorchè non immutasse la forma del suo governo, vi creava egli nondimeno i Duchi a suo arbitrio e vi costituì Duca, Anfuso uno de' suoi figliuoli, come si dirà a più opportuno luogo.

CAPITOLO IX. Litigi, ch'ebbe l'Imperador Errico IV con Papa Gelasio II. Investiture date da questo Pontefice a' nostri Principi normanni; e scisma fra Calisto II e Gregorio VIII.

Intanto dopo la morte di Pascale, il Clero ed il Popolo romano elessero per suo successore Giovanni Gaetano Monaco Cassinense, che Gelasio II chiamossi[379]. Tosto che l'Imperador Errico seppe l'elezione calò in Italia, mandando intanto suoi Legati a Gelasio, con ambasciata, che se egli era disposto ad accordargli ciò che Pascale aveagli prima conceduto intorno alle investiture, egli era per riconoscerlo per Pontefice, in altro caso, avrebbe posto un altro Papa nella Chiesa. Ma repugnando Gelasio, e vedendo che l'Imperadore s'approssimava con potente armata a Roma, uscì da questa città, ed accompagnato da molti Vescovi e Cardinali, dal Prefetto di Roma e da molti Nobili di quella, in Gaeta sua patria ricovrossi: quivi ordinato Prete, essendo ancor Diacono, fu da quei Vescovi e Cardinali che seco avea, e dagli Arcivescovi di Capua, di Benevento, di Salerno e di Napoli, [303] in presenza di molti Principi ed Abati, consecrato Pontefice romano.

I nostri Principi normanni, e sopra gli altri Guglielmo Duca di Puglia, Roberto Principe di Capua, Riccardo dell'Aquila, e moltissimi altri Baroni di queste Province, accorsero tutti a Gaeta offerendogli ogni lor aiuto[380]. Guglielmo, ed il Principe di Capua prestarono i giuramenti di fedeltà come ligi della Sede appostolica ch'erano, ricevendo essi la conferma dell'investiture in quella guisa che i loro predecessori aveanle ricevute dagli altri Pontefici. Ed è da notare che i Principi di Capua in questi tempi prestavan l'omagio al Papa, nell'istesso tempo, ch'erano ligi al Duca di Puglia.

Ma non è qui da tralasciare ancora, che Guglielmo non bastandogli aver avuta l'investitura da Pascale, la volle anche da Gelasio, dal quale non potè ottener altro, che una conferma ristretta sempre al Ducato di Puglia e di Calabria, guardandosi bene di stenderla al Principato di Salerno ed Amalfi, ed a tutti quegli altri Stati, ch'erano già passati sotto la dominazione de' Duchi di Puglia. Così leggiamo nella formola di questa investitura rapportata dall'Abate della Noce[381], che Gelasio la diede a Guglielmo: Quemadmodum Gregorius Papa tradidit illam Roberto Guiscardo Avo tuo; et sicut Urbanus Papa eam Rogerio Patri tuo prius, et postea tibi tradidit; sic et ego trado tibi eandem Terram cum honore Ducatus per illud idem donum, et consensum. Ma è da notare l'errore occorso in questa formola, e mancare in essa dopo la [304] parola postea il nome di Pascalis; poichè Guglielmo non mai da Urbano ricevè investitura, come quegli che premorì a Ruggiero suo padre, e Guglielmo succedè al padre nel Ponteficato di Pascale, dal quale, e non da Urbano la ricevette, come rapporta Pietro Diacono.

Intanto s'esacerbarono le contese tra il Papa e l'Imperadore: questi tosto che seppe essersi Gelasio partito da Roma, fece elegger Maurizio Arcivescovo di Braga, che si fece chiamare Gregorio VIII. Dall'altra parte Gelasio venuto a Capua scomunicò l'Imperadore, l'Antipapa, e tutti i complici ed operò che Roberto Principe di Capua ragunasse le sue truppe per opporle ad Errico, affinchè introducesse lui in Roma. Roberto, unita una considerabile armata, prende il cammino verso il monastero Cassinense, per quindi passar in Roma insieme col Papa, come aveagli promesso; ma avendo inteso che l'Imperadore non era molto lontano con forze superiori, non volle partirsi da Cassino, ed avendo quivi ricevuti gli Ambasciadori d'Errico, che lo consigliavano a ritirarsi, egli abbandonando l'impresa a Capua tornossene. Quindi Gelasio, dopo varie vicende di fortuna, abbandonato dai Normanni, finalmente non potendo resistere a tante forze, pensò andarsene con alquanti Vescovi e Cardinali in Francia, e giunto nel monastero di Clugnì, stanco finalmente per tante cure moleste e per tanti incomodi sofferti in quel penoso viaggio, quivi infermatosi finì la sua vita il dì 29 di gennaio dell'anno 1119 dopo aver non più che un'anno e cinque giorni con tanti travagli, e patimenti tenuta quella sede.

Tosto i Cardinali, vedendosi privi d'un tanto Pontefice, e che mal potevano opporsi a Gregorio, se [305] immantenente non provvedessero al successore, elessero in quel medesimo monastero Guido Cardinale Arcivescovo di Vienna nato di regal stirpe, come quegli ch'era figliuolo del Conte di Borgogna a' Re di Francia per sangue cotanto vicino, e Calisto II chiamossi, il quale subito portossi in Roma, ove dal Clero, dal Senato e Popolo romano con segni di molta stima fu ricevuto. Il falso Papa Gregorio lasciando Roma si fortificò a Sutrio, castello per sito ben forte, ove co' suoi ritirossi[382].

Intanto Calisto, per toglier dalle radici questo scisma, pensò non esservi altro rimedio, che il ricorrere agli aiuti de' nostri Principi normanni, venne perciò a Benevento, ove fu visitato dal Duca Guglielmo, da Roberto e da tutti i Baroni di quel contorno, i quali offerendogli le loro truppe, tutti stimarono doversi Sutrio stringere di stretto assedio. In fatti non passò molto che fu questo Castello strettamente assediato, tanto che finalmente bisognò rendersi: Maurizio venne nelle mani di Papa Calisto, il quale lo fece strettamente custodire in una forte Rocca come suo prigioniero. E qui finì questo scisma di travagliare di vantaggio la Chiesa romana, nella quale cominciò a godersi qualche pace.

Ma fu questa pace interrotta dalla morte accaduta in quest'anno 1120 di Roberto Principe di Capua, dal quale Calisto avea ricevuti sì importanti servigi. Non lasciò questo Principe, che un solo figliuolo chiamato Riccardo III, il quale al suo padre nel Principato successe. Ma questo Principe non più che pochi giorni tenne il Principato: poichè appena consecrato [306] secondo il solito costume de' Principi di Capua normanni, che solevan ungersi col sacro olio per mano dell'Arcivescovo, finì tosto i giorni suoi in Capua; nè lasciando di se progenie alcuna, gli succedè Giordano II, suo zio, fratello di Roberto suo padre[383].

Resse Giordano il Principato di Capua senza disturbo ben sette anni, insino al 1127 nel qual anno morì. Sua moglie fu Gaitelgrima figliuola di Sergio Signor di Sorrento, la quale sin dall'anno 1111 erasi con lui sposata, e gli avea portato in dote Nocera con molti luoghi vicini sottoposti a quella città. Da questa sua moglie gli nacque Roberto II, che gli successe, e fu l'ultimo Principe di Capua della razza di Asclettino; poichè discacciato dal Principato da Ruggiero I, Re di Sicilia, ebbe la disgrazia di vedere dalla sua casa uscire questa grandezza, che i suoi maggiori per lo spazio di tanti anni s'avevano con tanta prudenza e valore mantenuta, come diremo nel Regno di Ruggiero.

Intanto Papa Calisto, sedate alquanto le discordie, attese a comporre in quella miglior forma, che potè lo stato della sua sede; e sopra tutto proccurò di conservar col Duca di Puglia Guglielmo quell'istessa corrispondenza ed amicizia che v'avea tenuto il suo predecessore. Nè Guglielmo mostrò sentimenti diversi, poichè volle da lui, siccome avean fatto i suoi predecessori con Gelasio e Pascale, ricevere l'investitura del Ducato di Puglia e di Calabria, facendosi uomo ligio della Sede Appostolica, e ricevendo con lo stendardo l'investitura; ed arrivato Calisto in Troja, egli lo ricevette in quella città con ogni segno di stima [307] e di riverenza[384]; siccome fece nell'anno 1121 in Salerno, ove venuto, trovandosi ivi ancora il Conte di Sicilia Ruggiero, fu da questi Principi accolto con molto rispetto ed ossequio[385].

Tenne da poi nell'anno 1123 un Concilio in Laterano per dar rimedio a molti disordini, che nella sua Chiesa erano nati per le gare avute con Errico. Proccurò aver pace col medesimo, e dopo avere con molta prudenza quietate le cose della Sede Appostolica, finalmente nell'anno seguente 1124 finì in Roma i suoi giorni[386], lasciando di se gran desiderio e molta afflizione; e si vide ben tosto quanto fosse riuscita grave alla Chiesa romana tal perdita, poichè appena morto, divisi i Cardinali in fazioni elessero due Papi, alcuni Lamberto Vescovo d'Ostia, che Onorio II chiamossi, gli altri Teobaldo Cardinale di S. Anastasia, che Celestino II fu appellato. Ma questo scisma, che si temeva non dovesse lungamente perturbar la Chiesa, fu con istupore di tutti ben tosto represso; poichè cedendo il partito di Celestino, come più debole, a quello d'Onorio, i di lui partegiani s'unirono con costui, onde sedati i disordini, Onorio fu da tutti avuto e venerato per vero Pontefice.

[308]

CAPITOLO X. Lotario Duca di Sassonia succede nell'Imperio di Occidente per la morte d'Errico; ed unione di tutte queste nostre province nella persona di Ruggiero Gran Conte di Sicilia, per la morte di Guglielmo Duca di Puglia.

Le discordie, che nell'anno 1125 accaddero in Germania per la morie di Errico IV, turbarono in gran parte lo stato delle cose d'Italia: per non aver lasciato questo Principe di se prole maschile, sursero tra i Principi della Germania grandi dissensioni per eleggere il successore: due sopra tutti gli altri aspiravano all'Imperio, e con maggior contenzione di animo; Corrado nipote d'Errico, e Lotario Duca di Sassonia[387]. I Principi dell'Imperio ragunati per togliere i disordini, che ne potevan nascere, furono risoluti di compromettere quest'elezione nell'arbitrio dell'Arcivescovo di Magonza, dichiarando che colui, il quale egli avesse stimato degno dell'Imperio romano, senza dubbio avrebbero tutti eletto. L'Arcivescovo che portava odio implacabile non pur ad Errico, ma a tutti della sua razza; senza molto deliberare ne escluse tosto Corrado, e proponendo Lotario come Capitano in guerra esercitatissimo, pio e prudente, lo prepose a tutti, giudicandolo il più degno ed idoneo, che all'imperiale seggio potesse innalzarsi: fu approvata l'elezione, e Lotario per Imperadore salutato. In cotal guisa per [309] l'industria e destrezza di questo Prelato passò l'Imperio da' Tedeschi, che per tanti anni l'aveano tenuto, a' Sassoni nella persona di Lotario, che alcuni III, altri con più verità chiamarono II.

Corrado impaziente della repulsa, nè potendo soffrire, che altri che egli fosse stato surrogato in luogo di suo zio, avendo tirati al suo partito alcuni Principi della Germania, si fece da questi coronare per Re di Germania. Così cominciarono le discordie tra questi Principi, le quali a lungo andare cagionarono molti disordini e confusioni nell'Imperio; ma Lotario come eletto dalla maggior parte, e ciò che più importava, confermato da' Pontefici romani, fu riconosciuto per Imperadore per tutto Occidente.

Ma ecco che mentre Onorio reggeva la Sede Appostolica, e Lotario l'Imperio, mentre per la morte accaduta di Giordano, reggeva Capua Roberto suo figliuolo, e mentre Sergio ultimo Duca governava il Ducato di Napoli, accadde in Salerno in quest'anno 1127[388] la morte di Guglielmo Duca di Puglia, il quale dopo la morte di Ruggiero suo padre, avea retto queste province per lo spazio di sedici anni[389].

La morte di questo Principe cagionò alla fine, che interamente tutte queste nostre province s'unissero in una persona in forma di Regno, e che s'introducesse per conseguenza nuova politia, e più stabile e perfetta forma di governo. Poichè non avendo questo Principe lasciato di se figliuoli, s'estinse in lui e nel suo ramo la progenie di Roberto Guiscardo[390]. Non vi era altri, [310] che avesse potuto succedere a' suoi Stati, che il Conte di Sicilia Ruggiero suo zio cugino, come quegli, che era figliuolo ed erede di Ruggiero, fratello del Guiscardo. Nè poteva ricercarsi allora altro Principe di forze più potente, di consanguinità cotanto stretto, espertissimo delle armi, accorto e prudente, quanto il Gran Conte di Sicilia, il quale portandogli la fortuna un retaggio sì grande, ne abbracciò avidamente l'occasione. In fatti, perchè non fosse impedito da altri, non tardò Ruggiero un momento a prendere il possesso di una tanta eredità. Egli tosto imbarcatosi in Messina sopra una armata venne improvvisamente in Salerno, ove secondo il costume e la solita cerimonia si fece dall'Arcivescovo di Capua consecrar Principe di Salerno[391]. Passò immantenente a Reggio, ove Duca di Puglia e di Calabria fu salutato; e scorrendo per queste province, fu da tutte le città ricevuto ed acclamato per loro Sovrano.

Il Pontefice Onorio subito ch'intese, che Ruggiero con tanta celerità, senza sua saputa e senza richiederne da lui investitura, erasi impossessato, oltre della Puglia e della Calabria, del Principato di Salerno, di Amalfi e di tutti questi Stati, se n'offese grandemente; e temendo che uniti colla Sicilia tanti dominj, la soverchia potenza di Ruggiero finalmente non terminasse in depressione della Chiesa di Roma, cominciò ad alienarsi da lui, ed a pensar modo di trattenere il corso di tanta felicità. Quindi i suoi successori, come si vedrà più innanzi, scorgendo che Ruggiero, ciò che i suoi predecessori Duchi di Puglia non poterono conseguire, avea gloriosamente unita nel suo [311] capo la Corona di Puglia e di Sicilia, ebbero sempre per sospetta la sua potenza, e mutando stile, cominciarono ad essergli avversi, ed a frapporre mille impedimenti al suo ingrandimento. Ma questo Principe col suo valore e prudenza ruppe gli ostacoli, e condusse felicemente a fine i suoi disegni; poichè ancorchè i Principi di Capua fossero ligi a' Duchi di Puglia, amministrandosi però quel Principato con piena libertà e potere da Roberto II, Ruggiero dopo esserne stato investito da Anacleto, nell'anno 1135 ne discacciò Roberto, che fu l'ultimo Principe, ed a se appropriò sì gran Principato. Il Ducato napoletano ch'era l'ultimo rimaso a passar sotto la sua dominazione, e che per tanti secoli s'era mantenuto in libertà contro gli sforzi de' Longobardi e de' Normanni, finalmente nell'anno 1139 lo ridusse egli sotto il suo dominio. Tanto che niente restava in queste nostre province, che a Ruggiero non fosse sottoposto. Ed in cotal maniera, avendo unito nella sua persona tutte queste province, vedutosi in tanta sublimità, sdegnando i titoli di Conte e di Duca, volle prendere il titolo di Re; e poichè avea costituito per capo del Regno di Sicilia Palermo, ivi trasferì la sua regia sede. Ed avendo sotto la sua dominazione tutto il Ducato di Puglia e di Calabria (anche quelle terre ch'erano state lasciate al Principe Boemondo) tutto il Principato di Salerno e di Capua, il Ducato d'Amalfi, l'altro di Napoli e di Gaeta, ed il Principato di Bari, volle perciò ne' pubblici atti intitolarsi: Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, et Principatus Capuae. Il qual titolo fu da' suoi successori lungamente serbato: sotto il nome di Re di Puglia, ovvero di Re d'Italia tutte queste nostre province comprendendo.

[312]

Ma le famose gesta di Ruggiero I, Re di Puglia e di Sicilia, com'egli colla sua prudenza e valore superasse i molti ostacoli, che i romani Pontefici, e Lotario Imperadore frapposero a questa sua grandezza, come con nuove leggi ed istituti stabilisse meglio questo Reame, e più perfetta forma gli desse, saranno ben ampio soggetto del libro seguente; ricercando intanto l'istituto di quest'opera, prima d'incominciarlo, che in breve diasi un saggio della forma e disposizione nella quale trovò Ruggiero queste nostre province quando ereditolle, non solo per ciò che concerne il numero de' suoi Baroni e la politia ecclesiastica, ma sopra tutto delle leggi e delle lettere che in questa età in quelle fiorivano.

CAPITOLO XI. Leggi longobarde e feudali ritenute da' Normanni. Le discipline risorgono nel Regno loro per gli Monaci Cassinensi; e per gli Arabi in Salerno.

I Normanni, ancorchè secondo le leggi della vittoria, conquistate che ebbero queste nostre province, avessero potuto impor quelle leggi a' vinti, ed introdurre ne' luoghi conquistati quella forma di governo, che lor fosse stato più a grado; nulladimanco lasciarono vivere i Provinciali con quelle stesse leggi ed istituti che aveano; anzi insino ad ora, nuove leggi da loro non furono introdotte, siccome fecero i Longobardi, ma ben paghi delle leggi longobarde e romane, a loro imitazione non solo lasciarono vivere i loro sudditi nelle proprie leggi, ma essi medesimi si [313] adattarono a quelle. Il primo, che nuove leggi v'introdusse, fu Ruggiero I Re, come nel seguente libro diremo[392].

Portò ciò in conseguenza, che niente ancora mutossi intorno a' Feudi, le cui Consuetudini procedenti per la maggior parte dalle leggi longobarde, restarono così intatte com'erano, e le leggi degl'Imperadori sino ora su di quelli stabilite, furono da essi con non minor rispetto ricevute e fatte osservare. Anzi avendo discacciati dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Sicilia i Greci ed i Saraceni, che Feudi non conobbero: furono essi, che in queste province ed in quell'isola li introdussero, ad esempio dell'altre, che erano più lungamente durate sotto la dominazione de' Longobardi. Quindi multiplicossi il numero de' Baroni, ed oltre di coloro ch'erano ne' Principati di Benevento, di Salerno e di Capua, si sentirono anche da poi nella Puglia i Conti di Conversano, di Trani, di Lecce, di Monopoli, di Andria[393] e moltissimi altri; e nella Calabria que' di Catanzaro, di Sinopoli, di Squillace e di Cosenza, di Tarsia, di Bisignano, di Girace, di Melito, di Policastro, e molti altri.

E se bene queste due province ritolte a' Longobardi da' Greci, avessero sperimentato per lungo tempo la loro dominazione, nulladimanco conquistate da' Normanni, furono ben tosto le leggi longobarde in esse introdotte, e tutte le città delle medesime secondo i lor dettami si reggevano; anzi Bari che fu la principal sede, prima degli Straticò, e da poi de' Catapani, più di tutte le altre, alle leggi longobarde s'attenne, [314] e le consuetudini di questa città, non altronde derivano, se non dalle leggi longobarde; per la qual cosa Ruggiero I Re di Sicilia, dopo aver presa ed espugnata quella città, volendo riordinarla di buone leggi, fu da' Baresi richiesto, che lasciassegli vivere con le proprie loro consuetudini e particolari costituzioni, che tenevano, tratte dalle leggi longobarde, essendo stata lungo tempo la lor città sotto i Longobardi, come sotto Ajone, Melo, Meraldizo, Grimoaldo ed altri Principi di sangue longobardo: e Ruggiero avendole lette e commendate, ordinò che quelle s'osservassero, siccome lungamente da poi ebbero vigore, ed insino a' nostri tempi s'osservano[394].

L'avere i Normanni per lo spazio poco men d'un secolo, da che conquistarono la Puglia insino a Ruggiero I Re, tenuto tanto conto delle leggi longobarde, e l'averle preposte a tutte le altre, fece sì che passassero in queste province per legge comune; ed i nostri Professori non indrizzavano ad altro il loro studio, che a queste per appararle, come quelle, che poste in maggior uso ne' Tribunali aveano tutta autorità e vigore, e per quelle solamente le liti erano decise.

Le leggi romane erano, come più volte si è notato, solamente ritenute come una tradizione: e presso la plebe, ch'è l'ultima a deporre gli antichi istituti erano rimase come antica usanza, non già come legge scritta. La romana giurisprudenza, ed i libri di Giustiniano, ne' quali era contenuta (siccome tutte l'altre discipline) erano andati in dimenticanza, e d'essi rara [315] era la notizia in questi tempi, ed in queste nostre parti, e molto meno lo studio e l'applicazione.

Ma non dobbiamo fraudar qui della meritata lode i Monaci Cassinensi, i quali furono i primi che cominciarono in mezzo di tanta oscurità a recar qualche lume a tutte le professioni in queste nostre province. La diligenza del famoso Desiderio Abate Cassinense, che innalzato al Ponteficato Vittore III fu detto, fece che si cominciasse ad aver notizia di qualche libro di quelli di Giustiniano, siccome degli altri d'altre facoltà. Questo celebre Abate dopo aver ingrandito quel monastero d'eccelse fabbriche, diedesi a ricercare molti libri per fornirlo d'una numerosa Biblioteca; e non essendo ancora in Italia introdotto l'uso della stampa, con grandissimo studio e molta spesa, avuti che gli ebbe, fecegli trascrivere in buona forma. Fra gli altri Codici furono le Istituzioni di Giustiniano e le sue Novelle[395]. Ma questi libri come cose rare si reputavano allora, nè giravano attorno per le mani d'ogni uno, come ora; ma si custodivano, come cosa di molto pregio in qualche illustre Biblioteca. Solo nella Chiesa romana era più frequente l'uso di quelli, ed anche presso alcuni Imperadori d'Occidente, i quali alle volte stabilendo qualche loro costituzione si riportavano a quelli. Del Codice di quest'Imperadore, ancor che in questi tempi per la Francia (come è chiaro dall'epistole d'Ivone Carnotense) e per l'Italia ancora (com'è manifesto da alcune leggi degl'Imperadori d'Occidente, particolarmente d'Errico II[396] [316] e dalle decretali di alcuni Papi, che allegano alcune leggi del medesimo) ne girasse qualch'esemplare; nulladimanco a pochi era in uso, eziandio agli stessi Professori, i quali lo trascuravano per non aver quella forza e vigore nel Foro, che acquistò da poi.

Le Pandette non s'erano ancora scoverte in Amalfi, in modo che i nostri Professori n'avessero potuto aver notizia. Ve n'era bensì qualch'esemplare in Francia, siccome dimostrano l'epistole d'Ivone, nelle quali sovente s'allegano alcune leggi[397] de' Digesti, poichè in quella provincia, per le famose sue Biblioteche, non vi era cotanta ignoranza di questi libri; e del Codice Teodosiano, e del suo Breviario ne girava attorno ancora più d'un esemplare.

Presso di noi nella sola Biblioteca Cassinense potevan vedersi le Istituzioni e le Novelle di Giustiniano, tanto è lontano che l'uso delle medesime a questi tempi fosse così frequente ne' Tribunali delle città di queste nostre province, come ora.

Solo le leggi longobarde eran le dominanti, e ciascun Tribunale secondo quelle diffiniva le sue cause, e secondo le medesime si regolavano le successioni, i testamenti, i contratti, la punizion de' delitti, le confiscazioni e tutti i giudicj. Sono fra monumenti delle nostre antichità ancor'a noi rimasi alcuni vestigi, che i Giudici appoggiavano le loro sentenze sopra queste leggi; e Lione Ostiense[398], il litigio insorto intorno [317] l'anno 1017 tra il monastero di Monte Cassino con i Duchi di Gaeta, e' Conti di Trajetto, narra che fu deciso non meno per le leggi romane, che per le longobarde. Camillo Pellegrino[399] rapporta un diploma di Riccardo II Principe di Capua, per cui fu fatta donazione alla chiesa di S. Michele Arcangelo in Formiis di molti beni, e fra gli altri d'alcuni, che a Riccardo suo avo erano pervenuti per alcune confiscazioni seguite secundum Longobardorum legem. E questo medesimo Scrittore[400] rapporta due sentenze profferite anche dopo questi tempi, una dell'anno 1149 sotto il Re Ruggiero, e l'altra nell'anno 1171 sotto il Re Guglielmo, nelle quali si vede per le leggi longobarde essere le cause decise.

Nè in questi tempi, nel decider le cause, ricercavano i Giudici tanto apparato e tanta pompa, come osserviamo a' tempi nostri. Essi credevano che quelle sole potessero bastare, e ciò anche procedeva perchè non si dava luogo a tante lunghezze, a tanti raggiri e sottigliezze. Ogni città teneva il suo Tribunale, ed i suoi Giudici: e le liti senza molto apparato presto eran terminate; quando accaddevano controversie intorno a' confini, o che in altra maniera vi si richiedesse l'ispezion oculare, si portavano sulla faccia del luogo, ed ivi presto la causa si finiva; nè eran dispendiati i litiganti di ricorrere a' Tribunali remoti, ma nella loro città avanti i loro Giudici le controversie eran tosto terminate.

[318]

§. I. Prime raccolte delle leggi longobarde; e loro Chiosatori.

Avendo dunque, particolarmente in questi tempi, acquistata tanta forza in queste province le leggi longobarde, i nostri Professori tutti s'applicavano allo studio delle medesime; nè essendo stato fin qui, chi l'avesse in un sol volume raccolte, nel quale e le leggi de' Re longobardi, e quelle che dagl'Imperadori di Occidente, come Re d'Italia, erano state sinora promulgate, fossero state unite insieme per uso del Foro, e per maggior agio e comodità degli Avvocati e dei Giudici: finalmente intorno a questi tempi ne fu fatta la compilazione, per la quale in un sol volume furono tutte queste leggi raccolte.

La prima raccolta che noi possiamo mostrare di queste leggi, è quella che ancor si conserva nell'Archivio del monastero della Trinità della Cava, ove in un volume membranaceo scritto in lettere longobarde, si vedono inseriti tutti gli editti de' Re d'Italia, incominciando da Rotari, che fu il primo a dar leggi scritte a' Longobardi. Dopo l'editto di Rotari, siegue l'altro di Grimoaldo: indi sieguono le leggi di Luitprando: poi quelle di Rachi, e finalmente quelle d'Astolfo, che fu l'ultimo Re longobardo, che avesse stabilite leggi; poichè, come si disse, Desiderio suo successore ed ultimo de' Re longobardi, intricato in continue guerre, non potè pensare alle leggi. Ma poichè, non ostante che Carlo M. avesse discacciato Desiderio, ed il Regno d'Italia da' Longobardi fosse trasferito a' Franzesi, non cessò la dominazione de' Longobardi in queste nostre province sotto i Principi di Benevento, i quali ad [319] esempio de' Re longobardi, stabilirono molte leggi, le quali lungamente nel Principato di Benevento, che in que' tempi abbracciava quasi tutto ciò che ora è Regno di Napoli, s'osservarono: perciò il Compilatore suddetto, che intraprese questa fatica per comodità de' nostri, in quel suo volume inserì ancora i Capitolari d'Arechi primo Principe di Benevento, e quel d'Adelchi suo successore; e dopo avere framezzate in quello alcune sue operette, fa una breve sposizione d'alquante leggi per uso de' Beneventani, e molto più per gli Capuani, per li quali mostra aver fatta quella fatica; tanto che per ciò, e per alcune altre conghietture, suspica Camillo Pellegrino[401], che l'Autore fosse stato capuano. In questa raccolta aggiunse egli ancora alcune sue operette legali sotto questi sconci e goffi titoli. Quantas caussas debet esse judicata sine Sacramentum. Item quantas caussas fieri debet per pugna judicata. Memoratorium pro quibus caussis filii ab haereditate patris exeredati fieri debet. Chiudono in fine il libro i Capitolari di Carlo Magno, di Pipino, di Lodovico, e degli altri Imperadori, i quali discacciati i Longobardi per Carlo Magno furono Re d'Italia.

Questa è la più antica raccolta, che noi abbiamo delle leggi longobarde fatta da un Capuano, il cui nome è a noi ignoto, la quale non mai impressa, si conserva nell'Archivio cavense. Il tempo nel quale fu fatta, suspica il Pellegrino essere nel principio di questo undecimo secolo intorno all'anno 1001 o poco da poi; poichè l'Autore v'inserisce un Catalogo dei Duchi e Principi di Benevento, e de' Conti di Capua, e lo tira sino al detto anno, sino al Principe di Capua [320] Adimaro. Mostra divantaggio aver conosciuto Pandolfo Capodiferro Principe di Capua, il quale morì nell'anno 981. E questo è ancora il primo ed il più antico Autore, che noi possiamo mostrare avere scritte opere legali adattate a questi tempi, ne quali tutta la cura ed applicazione de' nostri Professori era intorno alle leggi longobarde.

Chi fosse l'Autore di quell'altra vulgata compilazione divisa in tre libri, e distinta in più titoli che ora si legge inserita nel volume dell'autentico, non è di tutti conforme il sentimento. Che fosse ella antica, si dimostra da' libri feudali[402], dove si allegano molte leggi longobarde, che ella racchiude. Alcuni[403] credono, che fosse fatta ne' tempi di Lotario III ovvero II Imperadore da Pietro Diacono Monaco Cassinense, ancorchè per privato studio, ma con impulso però dello stesso Imperador Lotario, non potendosi dubitare, che Pietro fosse stato suo Logoteta in Italia, e costituito da lui Cartulario e Cappellano nell'Imperio[404]. Lo argomentano dal vedersi, che dopo Lotario non si leggono in questa compilazione altre Costituzioni d'Imperadori posteriori; poichè se bene nelle ultime edizioni di Lindenbrogio e nelle vulgate si legga una costituzione di Carlo IV si vede chiaro, che quella vi fu aggiunta da poi, non leggendosi nella raccolta di Melchior Goldasto, ch'è più antica dell'edizione di Lindenbrogio; nè quella si appartiene punto al Regno d'Italia. Struvio[405] aggiunge un'altra conghiettura dal [321] vedersi, che alcuni esemplari portano anche il nome di Pietro Diacono.

Altri per contrarj argomenti di ciò non s'assicurano, ed il suo Autore dicono esser incerto. Dubitano esserne stato Pietro Diacono, poichè questi nella Cronaca Cassinense[406] noverando minutamente tutte le sue opere che compilò dopo essersi fatto Monaco, e facendo di esse minuto catalogo, sino a porvi i proemj che fece ad alcuni libri non suoi, ed a riferire due inni che compose a Santa Giusta, ed alcuni sermoni, ed altre minuzzerie: di questa compilazione non ne favella affatto; quando, se egli ne fosse stato Autore, non avrebbe mancato di farne pompa, parlando egli delle sue cose, ancorchè di picciolo rilievo, con estraordinario compiacimento. Si aggiunge, che Carlo di Tocco, antichissimo nostro Giureconsulto, nel proemio delle Chiose che fece a questi libri, parlando dei Compilatori, dice che per la loro antichità, non avea potuto saperne i nomi; e pure Carlo di Tocco fu molto vicino a' tempi di Lotario, poichè visse nel Regno di Guglielmo Re di Sicilia, ed avrebbe potuto sapere se ne fosse stato Autore Pietro Diacono.

Che che ne sia, egli è certo che questa seconda Raccolta divisa in tre libri, ancorchè mal fatta, senza ordine di tempo, e con grande confusione, ebbe miglior fortuna, che la prima più metodica, e dove secondo l'ordine de' tempi furono raccolti tutti gli editti de' Re longobardi, ed i capitolari degli altri Imperadori Re d'Italia. Questa non mai impressa giace ancor sepolta nell'Archivio della Cava; all'incontro quella, di cui fassene Autore Pietro Diacono, ebbe molte edizioni, [322] alcune separate, altre unite al volume dell'Autentico; e Basilio Giovanni Eriold colle leggi Saliche, Alemanne, Sassone, Brittanne, e d'altre Nazioni, fecela ristampare in Basilea nell'anno 1557. Melchior Goldasto ne fece fare un'altra edizione, e Federico Lindenbrogio la fece di nuovo ristampare, e l'unì al Codice delle leggi antiche.

L'uso ed autorità, che diedero i nostri maggiori a questi libri fu tale, che secondo quelli eran decise le liti ne' Tribunali; perciò i più antichi nostri Professori v'impiegarono le loro fatiche in commentarli, e farvi delle note. Il primo che impiegasse i suoi talenti sopra questi libri, e che con ben lunghe chiose gl'illustrasse fu Carlo di Tocco. Questi nacque nella Terra di Tocco posta su'l Beneventano, donde, come era l'uso di que' tempi, prese il cognome; e seguendo l'esempio de' suoi maggiori, per esser nato, com'egli dice, di padre similmente Dottor di leggi, si portò giovanetto in Bologna per apprendervi ragion civile; ed ebbe la sorte d'avere per maestri Placentino[407], Giovanni[408], Ottone Papiense[409], e Bagarotto[410], discepoli che furono del famoso Irnerio. Ritornato poi nel Regno fu fatto Giudice in Salerno[411]; ed essendo ancor giovane, fu sotto il Re Guglielmo I, nell'anno 1162, creato Giudice della Gran Corte[412]. Fu riputato uno de' più insigni Giureconsulti de' suoi tempi, e fra [323] noi estese la sua fama anche presso coloro, che gli successero.

L'occasione che fu data a questo Giureconsulto di impiegare i suoi talenti sopra le leggi longobarde, non fu altra se non quella, ch'ebbero Ermogeniano e Gregorio a compilare i loro Codici. Questi due Giureconsulti, vedendo che per le nuove leggi de' Principi cristiani, l'antica giurisprudenza de' Gentili romani ruinava, vollero per mezzo de' loro Codici, quanto più fosse possibile ripararla, perchè almeno si conservasse in quelli. Così ne' tempi di Guglielmo, essendosi già ritrovate le Pandette in Amalfi, ed essendosi cominciate ad insegnare nell'Accademie d'Italia, i Giureconsulti di que' tempi eran tratti dalla loro eleganza e gravità ad apprenderle, e con ciò cominciando a riputar barbare ed incolte quelle de' Longobardi, lo studio delle medesime era tralasciato. Era stato a suoi dì da Irnerio, Bulgaro, Martino, Giacomo, Ugone, Pileo, Ruggieri, e da altri chiosato tutto il corpo della ragion civile; ed al costoro esempio tutti gli altri abbandonavano lo studio delle longobarde, donde potea ricavarsi maggior utile nel Foro. A questo fine Carlo di Tocco per finire di toglierne il disprezzo, come già erasi cominciato, e per invogliarli ad apprenderle, avendo fatto sommo studio sulle Pandette, proccurò illustrar le longobarde, confermando, o illustrando ciò che disponevano colle leggi romane, come fece per mezzo delle sue Chiose, le quali per la maggior parte non contengono altro, che spesse citazioni delle leggi romane, acciò che per questo mezzo s'invogliassero i Professori a studiarle, perchè con più utilità potessero servirsene per uso del Foro, appo a quale le Pandette non facevano ne' suoi tempi alcuna [324] autorità, come diremo a più opportuno luogo. Fu questa sua fatica cotanto utile e commendata dai posteri, che acquistò forza e vigore poco meno delle leggi stesse; ed Andrea d'Isernia parlando di questa Chiosa del Tocco fatta alle longobarde, dice che plurimum in Regno approbatur[413]. Colla medesima lode ne parlano Luca di Penna, Matteo d'Afflitto, ed altri nostri antichi Autori.

Per quest'istessa cagione ne' tempi dell'Imperador Federico II innalzandosi assai più lo studio delle leggi romane, che traeva a se tutti i Professori, i quali scordatisi con poca loro utilità delle leggi longobarde, ch'erano quelle, per le quali potevano vincer le cause ne' Tribunali, erano tutti intesi alle romane, fu data occasione ad Andrea Bonello da Barletta di far alcuni Commentarj sopra le longobarde, per li quali notò tutte le differenze, che v'erano tra l'une e l'altre leggi, affinchè nell'avvenire, com'egli dice, non si dasse occasione d'errare agli Avvocati, i quali mentre erano tutti intesi ad apparare le leggi romane, trascuravano le longobarde; onde sovente nelle cause era forza di soggiacere, e d'esser vinti da' Professori d'inferior grado e dottrina. Così egli narra esser accaduto una volta ad un grande Avvocato, il quale con ben grandi apparati difendendo una causa, avendo allegate a pro del suo Clientolo molte leggi romane: surse all'incontro certo Avvocatello suo oppositore, il quale portando nascosto sotto il mantello il libro delle leggi longobarde, dopo averlo fatto arringare a sua posta, cacciò fuori il libro, dal quale recitate alcune leggi, che decidevano a suo favore il caso, riportò la vittoria con [325] grande scorno del suo Avversario, il quale pien di rossore vinto andò via.

Fu Andrea Avvocato fiscale sotto l'Imperador Federico II, ed avuto in molta stima da questo Principe, il quale per suo consiglio istituì la Curia Capuana. Fu un Giureconsulto molto rinomato nella sua età, e presso i suoi successori avuto in molta riputazione. Andrea d'Isernia[414] lo chiama valente Dottore, Matteo d'Afflitto[415] gran Giurista; ed altri non lo nominano, se non con grandi elogi. Compose, oltre a quest'opera utilissima, e necessaria per sapersi le differenze dell'une e dell'altre leggi, altri Commentarj sopra le leggi romane, sovente allegati da Napodano e da Afflitto; e poichè, oltre di questi Autori, non si ha riscontro che fossero allegati da altri, si crede che fossero da poi dispersi; siccome le sue Chiose sopra le nostre Costituzioni, furono per poca diligenza de' Copisti confuse con quelle di Marino di Caramanico, tal che ora mal si possono discernere.

Biase da Marcone, che visse a' tempi del Re Roberto, e fu suo Consigliere e familiare, pure sopra le leggi longobarde impiegò i suoi talenti, commentandole[416]. Ne compilò un grosso volume, che manuscritto si conservava appresso Marino Freccia, come egli dice nel libro de' Suffeudi. Francesco Vivio[417] lo chiama uomo di grand'autorità nel Regno, e specialmente pel suo trattato delle differenze del diritto dei Romani, e quello de' Longobardi: fu egli coetaneo ed amico di Luca di Penna, e discepolo di Benvenuto di [326] Milo Vescovo di Caserta, cui professava grandi obblighi per averlo da niente ridotto a quello stato. Niccolò Boerio pure impiegò le sue fatiche sopra queste leggi. E negli ultimi tempi sotto l'Imperador Carlo V, Giambattista Nenna di Bari famoso Giureconsulto della sua età, compose un libro sopra queste leggi, con una spiega per alfabeto delle parole astruse de' Longobardi, che fece stampare in Venezia nell'anno 1537[418]. Ma in decorso di tempo scemandosi sempre più la forza e l'autorità presso noi di queste leggi, ed andate finalmente in disuso, finirono i nostri Professori d'impiegarvi più i loro studj, e rimangono ora affatto oscure ed abbandonate.

§. II. Le discipline risorgono fra noi per opera de' Monaci Cassinensi.

Nel principio di questo secolo risvegliati gl'ingegni dal sonno, in cui erano stati nel precedente, si applicarono alle discipline; ed i contrasti che vi furono non meno fra gl'Imperadori d'Occidente ed i romani Pontefici, che fra i Greci ed i Latini, eccitarono gli animi a' studj, e diedero occasione a coloro, che si erano attaccati ad un de' partiti, che aveano qualche capacità, d'esercitare le penne, e di far comparire il lor sapere. Lo scisma, che in questi tempi teneva divisa la Chiesa greca dalla latina, e particolarmente la contenzione sopra il dogma della processione dello Spirito Santo, teneva ancora esercitati gl'ingegni, perchè più del solito s'applicassero a studj sacri e della teologia. Alcuni imitarono assai bene gli antichi, o nello [327] stile, o nella maniera di scrivere, ma per la maggior parte essendo senza cognizione di lingue e d'istoria, sentirono della barbarie e della rozzezza del secolo precedente; ed alcuni cadettero nella maniera di scrivere secca e sterile de' Dialettici. Lo studio della teologia e delle altre scienze, che nel secolo precedente era stato posto in dimenticanza, fu tra di noi rinovato per opera de' Monaci, ma sopra ogni altro per quelli di Monte Cassino. Nel principio ognuno contentavasi di seguire l'antico metodo, e di riferire l'esplicazione de' Padri sopra la Scrittura Sacra; nè trattavano de' dogmi che di passaggio e per accidente. Ma sul fine di questo secolo si cominciarono a fare delle lezioni di teologia sopra i dogmi della religione, a proponere varie questioni sopra i nostri misterj, e a risolverle per via di ragionamenti, e secondo il metodo della dialettica. I libri d'Aristotele cominciavano a farsi sentire per gli Arabi che a noi li portarono; e credettero i nostri Teologi averne bisogno per le dispute contro gli Arabi stessi, onde l'accomodarono alla nostra religione, i cui dogmi e morale spiegarono secondo i principj di questo Filosofo, e trattarono la dottrina della Scrittura e de' Padri coll'ordine e con gli organi della dialettica, e della metafisica tratta da' suoi scritti. Questa fu l'origine della teologia Scolastica, che divenne poco da poi la principale, e quasi l'unica applicazione de' nostri Monaci e delle nostre Scuole.

I Monaci Cassinensi si distinsero fra noi in questo secolo sopra tutti gli altri: essi s'applicarono a questi studj; e mantennero presso di noi le Scuole sacre con molta cura, e dove il Catechismo era con molta diligenza spiegato da valenti Teologi, de' quali era in [328] questi tempi il numero grande. Oltre il celebre Abate Desiderio cotanto noto nell'istoria, fuvvi Alfano, che da Monaco Cassinense passò poi alla Cattedra di Salerno, e compose molte opere delle quali Pietro Diacono e Giovanni Battista Maro tesserono lunghi Cataloghi[419]. Fuvvi Albarico di Settefrati Terra posta nel Ducato d'Alvito, Monaco Cassinense, che parimente si segnalò e per la sua pietà, e per le molte opere, che scrisse[420]. Oderisio de' Conti de Marsi, di cui Pietro Diacono e Maro rapportano le opere che compose. Pandulfo Capuano, che fiorì in Cassino sotto l'Abate Desiderio nell'anno 1060, e che si distinse sopra gli altri per la letteratura non meno sacra che profana, come si vede dal Catalogo delle sue opere, che ci lasciò Pietro Diacono[421]. Il Monaco Amato, Giovanni Abate di Capua, di cui il Diacono e 'l Marco lungamente ragionano. L'istesso Pietro Diacono, e tanti altri, che ci lasciarono per le loro opere, di loro non oscura memoria.

Ma non pure in questi studj, che per altro dovean essere loro proprj, i Monaci Cassinensi si segnalarono, ma si distinsero ancora per le buone lettere e varia erudizione; e quel poco che si sapeva presso di noi a questi tempi, in loro era ristretto, e qualche cognizione, che se n'avea, ad essi la doveano le nostre province. Così osserviamo nella Cronaca[422] di quel monastero, che Alberico compilò un libro de Musica, ed un altro de Dialectica. Pandulfo Capuano scrisse de Calculatione, e de Luna; altri sopra consimili soggetti, [329] come può vedersi presso Pietro Diacono[423], dai Cataloghi delle loro opere, che tessè; ed altri impiegarono la loro industria a ricercar libri di varie erudizioni e scienze, e farli trascrivere, come fece Desiderio, che oltre i libri appartenenti alle cose sacre ed ecclesiastiche, fece trascrivere l'Istoria di Giornande de' Romani e de' Goti: l'Istoria de' Longobardi, Goti e Vandali: l'Istoria di Gregorio Turonense: quella di Giuseppe Ebreo de Bello Judaico: l'altra di Cornelio Tacito con Omero: l'Istoria d'Erchemperto: Cresconio de Bellis Libicis: Cicerone de Natura Deorum: Terenzio ed Orazio: i Fasti d'Ovidio: Seneca: Virgilio con l'Egloghe di Teocrito: Donato ed altri Autori. Nè minore poco da poi fu la cura e la diligenza di Pietro Diacono, il quale oltre alle sue opera raccolse l'astronomia da più antichi libri. Ci diede Vitruvio abbreviato de Architectura: un libro de Generibus lapidum pretiosorum, ed altri moltissimi, dei quali egli ne tessè un lungo catalogo.

§. III. Della Scuola di Salerno famosa a questi tempi per lo studio della filosofia e della medicina introdotte quivi dagli Arabi.

Gli Arabi, non già perch'eran Maomettani, è da dire, che abbiano fatta sempre professione d'ignoranza, come comunemente si crede: fuvvi tra loro un gran numero d'uomini insigni pel loro sapere, gli scritti de' quali riempirebbero grandissime librerie. Prima di questo undecimo secolo, erano più di trecento anni, che studiavano con applicazione; ed i loro studj non [330] furono mai tanto forti, quanto allora, che presso di noi furono più deboli, cioè nel nono e decimo secolo. In qualunque paese dove per tante conquiste si stabilivano, essi coltivavano due sorte di studio: l'una lor propria riguardante la lor religione, ch'è quanto dire l'Alcoirano, e le tradizioni che attribuivano a Maometto, ed a' primi suoi discepoli ed espositori, onde ne uscirono le quattro Sette da noi nel libro sesto rammentate; l'altra riguardava gli studj, ch'essi avean presi dai Greci, e questi eran più nuovi, rispetto a quelli dei Musulmani, i quali erano tanto antichi, quanto era la lor religione.

Questi Popoli, come altrove fu narrato, avendo soggiogate molte regioni del romano Imperio, e depredate molte province dell'Asia, infra le prede ed i bottini fatti in Grecia, avendovi per avventura trovati alcuni libri, si diedero con fervore non ordinario agli studj delle lettere; e se ne invogliarono in guisa, che verso l'anno 820 fecero da Califo Almanon dimandare all'Imperadore di Costantinopoli i migliori libri greci, ed avuti, gli fecero tradurre tutti in Arabico. Ma di questi libri, di quelli della poesia non facevano alcun uso, perchè oltre d'essere dettati in una lingua straniera, e d'un gusto tutto differente dal loro, vi era ancora il rispetto della propria religione, la qual facevagli abborrire l'Idolatria, onde giudicavano non esser loro permesso di leggerli, e contaminarsi per tanti nomi di falsi Dei, e per tante favole, onde erano ripieni. La medesima superstizione gli fece ancora abborrire i libri dell'Istorie, sprezzandosi da loro ciò ch'era più antico del loro Profeta Maometto. Dei libri politici non potevan certamente averne uso, perchè la forma del loro governo era tutta altra delle [331] Repubbliche più libere: essi viveano sotto un Imperio assolutamente dispotico, ove non bisognava aprir bocca se non per adulare il lor Principe; e di non ricercare altri mezzi, che d'ubbidire al volere del lor Sovrano.

Non trovarono adunque altri libri accomodati al loro uso, che quelli de' Matematici e de' Medici e de' Filosofi. Ma come non cercavano nè politica, nè eloquenza: così la lezione di Platone non era lor convenevole; tanto più, che per bene intenderlo era necessaria la cognizione de' Poeti, che trattano la religione e l'Istoria de' Greci. Abbattutisi perciò nell'opere di Aristotele, d'Ippocrate e di Galeno, si diedero con fervore a studiarle. Piacque lor molto più Aristotele colla sua dialettica e colla metafisica, studiandolo con tutto il fervore, e con incredibile assiduità. Si applicarono anche alla sua fisica, principalmente agli otto libri, che non contengono quella se non in generale; imperciocchè la fisica particolare, che ha bisogno d'esperienze e di osservazioni, non la riputavano tanto necessaria.

La medicina fu sopra ogni altro da essi tenuta in pregio, e la studiavano sopra i libri d'Ippocrate e di Galeno; ma la fondavano principalmente sopra generali discorsi delle quattro qualità del temperamento de' quattro umori, e sopra le tradizioni de' rimedi, senza farne alcun esame, ma mischiandoli con infinite superstizioni; e perciò non coltivavano l'anotomia ricevuta da' Greci molto imperfetta. Ma non così fecero della chimica, la quale se non è stata da essi inventata, ricevette al certo da essi molto ingrandimento; ma vi frammischiarono anche tanti vizj che sino ad oggi è sommamente difficile di separarli: tante vanità di promesse, tanta stranezza di discorsi, tanta [332] superstizione di operazioni, e tutto ciò che poscia generò i ciarlatani e gl'impostori. Passavano quindi agevolmente dagli studj della chimica a quelli della magia, e di ogni sorta di divinazione, alli quali gli uomini naturalmente s'arrendono, quando non sanno la fisica, la storia e la religione. Ciò che lor diede molto aiuto in queste illusioni, fu l'astrologia, ch'era il fine principale de' loro studj di matematica. Infatti coltivarono questa pretesa scienza sotto l'Imperio de' Musulmani con tanto fervore, ch'ella era ormai divenuta la delizia de' Principi, regolando su tal fondamento le imprese loro più grandi. Lo stesso Califo Almanon prese a calcolare le tavole astronomiche, che furono tanto celebri; e bisogna confessare, che hanno molto servito per le sue osservazioni, e per le altre utili parti della matematica, come per la geometria e l'aritmetica. Lor deesi l'algebra e lo zero per moltiplicare per dieci; il che poi rendette le operazioni degli Aritmetici tanto facili. Quanto all'astronomia aveano il vantaggio medesimo, che avea stimolato gli antichi Egizj e Caldei a bene applicarvisi, perchè abitavano i medesimi paesi, ed avevano di più tutte le osservazioni degli antichi, e tutte quelle aggiunte da' Greci.

Questi Popoli adunque inondando le province di Europa ne' tempi più barbari ed incolti, e nel colmo dell'ignoranza e stupidezza: ne' paesi ove arrivavano si conciliavano, o col nome de' loro famosi Maestri, sotto i quali aveano studiato, o per li gran viaggi da essi fatti, o per la singolarità delle loro opinioni una stima ed un credito grande. Si sforzavano di rendersi distinti con qualche nuova sottigliezza di logica o di metafisica, e non s'applicavano, che al più maraviglioso, al più raro, al più malagevole a spese del gradimento, [333] del comodo e dell'utile ancora. Furono perciò in Europa ammirati, ed i loro savi tenuti in gran pregio. I libri di Mesue, d'Avicenna, d'Averroe (che il Commento fece, del famoso Rasi) e di tanti altri, furono avuti appo noi in somma stima e riputazione. E Carlo M. fece i loro libri Arabici tradurre in latino insieme con alcuni Autori greci, ch'erano stati da essi in Arabico tradotti, affinchè la loro dottrina si diffondesse per tutte le province del suo Imperio. Quindi avvenne, che i Francesi e gli altri Cristiani latini appresero degli Arabi quello, che gli Arabi stessi aveano appreso da' Greci, cioè la filosofia d'Aristotile, la medicina, e le matematiche, sprezzando la lor lingua, la loro istoria e poesia, siccome gli Arabi sprezzate aveano quelle de' Greci. E siccome gli Arabi aveano contaminate quelle discipline, così da noi furon ricevute tutte imbrattate: la filosofia tutta vana ed inutile, perchè lontana dalla fisica particolare che avea bisogno di sperienze e di osservazioni; l'astrologia piena d'illusioni e di vane divinazioni; ma sopra tutto la medicina piena di spropositi e di superstizioni.

I primi libri adunque, che sopra queste facoltà si cominciarono a studiare, furono quelli degli Arabi, e per la medicina fra gli altri quelli di Mesue, e di Avicenna; ed i primi che gli studiassero furono i Chierici ed i Monaci, perchè la letteratura fra questi era ristretta; perciò a questi tempi essi soli erano i Filosofi, essi soli i Medici. Quindi leggiamo, che in Francia Fulberto Vescovo di Chartres, ed il Maestro delle sentenze, erano Medici: Obize Religioso di San Vittore era Medico di Luigi il Grosso: Riccardo Monaco di S. Dionigi, che scrisse la vita di Filippo Augusto, [334] lo era parimente. Ed in queste nostre Province i migliori Medici erano i maggiori Prelati, ed i più celebri Monaci Cassinensi, come vedremo; ed erasi nell'Ordine ecclesiastico cotanto radicata questa professione, che un Concilio di Laterano tenuto sotto Innocenzo II nell'anno 1139 considera come un abuso di già invecchiato, che i Monaci ed i Canonici Regolari, per procacciarsi ricchezze facessero professione d'Avvocati e di Medici: e perchè il Concilio non parlava che di Religiosi professi, la medicina non lasciò d'esser esercitata da' Chierici per lo spazio ancora di trecento altri anni.

Quante occasioni si fossero date a' nostri provinciali di comunicare con questi Arabi, donde poterono apprendere queste scienze, ben si è veduto ne' precedenti libri di questa Istoria, e dalle varie abitazioni, che ebbero i Saraceni in queste nostre regioni, nel Garigliano, nella Puglia, nel Monte Gargano, in Bari, in Salerno, in Pozzuoli, ed in tanti altri luoghi; in guisa che ancora oggi a noi nella comune favella ci rimangono molti loro vocaboli, come altrove fu notato; ed in Pozzuoli si serbano ancora quattro marmi con iscrizioni in rilievo di caratteri orientali saracineschi. Si aggiunse ancora a questi tempi maggior comunicazione con gli Arabi per la vicinanza della Spagna, di cui aveano essi più d'una metà; ed il continuo commercio per li viaggi in questi tempi frequentissimi in Oriente, per cagion delle Crociate.

Ma come presso di noi nella città di Salerno la loro dottrina, e specialmente la medicina, fossesi così ben radicata, sì che questa città, sopra tutte le altre delle nostre province, n'andasse altiera per la famosa Scuola quivi fondata, non è stato, per quanto io mi [335] sappia, fra tanti nostri Scrittori fin qui investigato. Coloro, che credettero la Scuola salernitana essersi da Carlo M. istituita insieme colla Scuola di Parigi e di Bologna, vanno di gran lunga errati, essendosi altrove in quest'Istoria mostrato, non aver potuto Carlo in questa città fondare Accademie, come quella che non fu mai sotto la sua dominazione; anzi in que' tempi, che si narra la fondazione delle Scuole di Parigi e di Bologna, tra Carlo M. ed il Principe Arechi furono guerre cotanto ostinate, che non fu possibile ridurlo; ed Arechi avea così ben fortificato Salerno, che fu riputato il più sicuro asilo de' Principi longobardi contro gli sforzi di Carlo e de' suoi figliuoli.

In tempi adunque meno lontani bisogna riportar l'origine di questa Scuola, la quale ne' suoi principj non fu istituita per legge di qualche Principe, e perciò non acquistò nome d'Accademia, o di Collegio, ovvero d'Università, ma di semplice Scuola. Cominciò a stabilirsi in Salerno, perchè in questa città, come marittima, vi erano spesse occasioni di sbarco di gente Orientali ed Affricani. I Saraceni in tempo degli ultimi Principi longobardi la visitavano spesso, onde gli Arabi ebbero occasione di farvi lunghe e spesse dimore. Si è veduto nel precedente libro, che i Saraceni ora dall'Affrica, e spesso dalla vicina Sicilia sopra navi giungendo alla spiaggia di quella città mettevano terrore a' Salernitani, i quali per liberarsi da' saccheggiamenti e da' danni, che inferivano ne' loro campi e castelli vicini, non avendo forze bastanti per poterli discacciare, pattuivan con essi tregua, ed accordavano la somma per comperarsi la quiete: per unire il denaro vi voleva tempo, onde i Saraceni calavano [336] dalle navi in terra, e nella città, ed aspettavano, sin che dagli Ufficiali destinati dal Principe a far contribuire da' suoi vassalli le somme richieste, non si fosse unito il riscatto. Queste invasioni erano molto spesse, tanto che i Salernitani vi si ci erano accomodati; nè se non a' tempi di Guaimaro il Maggiore ne furono, come si disse, da' valorosi Normanni liberati. Or con queste occasioni conversando spesso i Salernitani con gli Arabi, appresero da essi la filosofia, ma sopra ogni altro si diedero agli studj della medicina, nella quale riuscirono eminenti.

Ma infra gli altri, che resero illustre la Scuola salernitana, fu Costantino affricano. Questi oriondo di Cartagine, per le sue peregrinazioni in molte parti dell'Asia e dell'Affrica avea appreso da quelle Nazioni varie scienze; ma sopra tutto si diede alla medicina ed alla filosofia. Egli navigò in Babilonia ove apprese la grammatica, la dialettica, la geometria, l'aritmetica, la matematica, l'astronomia e la fisica de' Caldei, degli Arabi, de' Persi, de' Saraceni, degli Egizj e degl'Indi; e dopo aver nel corso di 39 anni quivi finiti questi studj, tornossene in Affrica. Ma gli Affricani che mal soffrivano d'esser da lui oscurati per l'eccesso di tanta dottrina, pensarono d'ammazzarlo. Il che avendo penetrato Costantino, imbarcatosi di notte tempo su d'una nave, in Salerno si portò: ove per qualche tempo in forma di mendico stette nascosto[424].

Era, come altre volte si è detto nel corso di quest'Istoria, la città di Salerno frequentata da' Popoli di queste Nazioni, onde non passò guari che vi capitasse il fratello del Re di Babilonia, tirato forse dalla curiosità [337] di veder questa città, la quale da Roberto Guiscardo era stata innalzata a metropoli, ed ove avea trasferita la sua residenza, e la quale pel continuo traffico e commercio d'infinite Nazioni a quel Porto, erasi resa l'emporio d'Occidente. Da questo Principe fu Costantino scoverto, e celebrando al Duca Roberto le sue eccelse prerogative, fece sì che Guiscardo lo accogliesse con somma cortesia, e gli rendesse tutto quell'onore, che ad uomo di quella qualità si conveniva. Si trattenne perciò egli in Salerno, ove ebbe campo di maggiormente promovere gli studj di filosofia, e sopra tutto di medicina, nella quale sopra tutte le altre facoltà era eminente; dopo essersi per molti anni trattenuto in Salerno, ritirossi a Monte Cassino, ed ivi si fece Monaco; ed in tutto il tempo che dimorò in quel monastero, non attese ad altro, che a tradurre varj libri di diverse lingue, ed a comporre molti trattati di medicina, de' quali Pietro Diacono[425] tessè un lungo catalogo.

Crebbe perciò la fama della Scuola salernitana, la quale in gran parte la deve a' Monaci Cassinensi, i quali la promossero per gli studj assidui, che facevano sopra la medicina. Sin da' tempi di Papa Giovanni VIII questi Monaci eransi dati a tali studj; e Bassacio loro Abate, di medicina espertissimo, ne compose anche alcuni libri[426], dove dell'utilità ed uso di molti medicamenti trattava, non riputandosi a que' tempi, come si è detto, cosa disdicevole, che i Cherici ed i Monaci professassero medicina. Quindi presso di noi nella [338] città di Salerno, ed altrove non si sdegnavano di professarla i più insigni e nobili personaggi. Alfano Arcivescovo di Salerno, narra Lione Ostiense[427], ch'era espertissimo in medicina, e che la sua maggior applicazione era di curare gl'infermi. Romualdo Guarna pur Arcivescovo di quella città, non isdegnava di professarla, siccome tutti i Nobili salernitani riputavano sommo lor pregio d'esserne instrutti, e di praticarla; e questo costume durò in Salerno per molti anni appresso: ond'è che alcuni non ben intesi di questa usanza, adattando i costumi presenti agli antichi, riputarono esser altri quel Giovanni di Procida, che fu celebre Medico, da quel famoso Giovanni Nobile salernitano autore della celebre congiura del vespro Siciliano, quasi che mal si convenisse ad un Nobile professar medicina.

Rilusse perciò la Scuola di Salerno assai più per tanti insigni personaggi che professavano quivi la medicina, e riputossi a questi tempi la più dotta e la più culta di quante mai ne fiorissero in Europa. Quindi avvenne, che da Salerno si chiamavano i Medici, e che i più grandi personaggi caduti in gravi infermità si portavano ivi per curarsi, siccome fece il celebre Abate Desiderio, il quale come narra Lione, per guarirsi d'una sua malattia, alla quale le molte vigilie ed astinenze l'avean condotto, portossi in Salerno. E ne' tempi che seguirono, pur si narra, che Guglielmo il Malo, ammalatosi in Palermo, e crescendo tuttavia il male, fece venire Romualdo Guarna Arcivescovo di Salerno assai dotto in Medicina per curarsi, il quale benchè gli ordinasse molti rimedi valevoli al suo male, [339] egli nondimeno non poneva in opera, se non quelli che a lui parevano, per la qual cosa s'accelerò la morte[428]. Quindi ancora si legge, che i migliori farmaci erano in Salerno fabbricati; onde si narra, che Sigelgaita da Salerno facesse venire i veleni per attossicare il figliastro ed il suo marito Roberto.

Ma quello, che diede maggior nome a questa Scuola fu l'opera, che compilò Giovanni di Milano, famoso Medico in Salerno, la quale ebbe l'approvazione di tutta la Scuola salernitana, e che sotto il nome della medesima al Re d'Inghilterra fu dedicata. Ciò che intorno a questi medesimi tempi, ne' quali siamo, accadde per un'occasione, che bisogna rapportare, affinchè non paja strano come i Medici salernitani per un Re cotanto lontano, e col quale essi non aveano alcun attacco, avessero voluto pigliarsi tanta pena d'unire in quel libro, dettato in versi lionini, i precetti donde potesse conservarsi in salute, ed a lui dedicarlo.

Ma cesserà ogni maraviglia se si terrà conto di quanto nel precedente libro di quest'Istoria fu narrato intorno alla venuta de' Normanni, e de' figliuoli di Tancredi in queste nostre parti: rampolli tutti di Roberto Duca di Normannia; e se riguarderassi, che negl'istessi tempi, che i nostri Normanni conquistarono la Puglia e la Calabria, ed indi il Principato di Salerno, gli altri Normanni che rimasero nella Neustria, sotto Guglielmo Duca di Normannia invasero l'Inghilterra, e dopo innumerabili vittorie finalmente intorno l'anno 1070 ridussero quel Regno sotto la dominazione del famoso Guglielmo, che perciò fu soprannomato il Conquistatore. Così regnando in Salerno, ed in Inghilterra [340] Principi d'un istesso sangue, e tutti della razza di Rollone primo Duca della Neustria, fu cosa molto connaturale, che fra di loro, e' loro sudditi vi fosse amicizia e buon'alleanza.

Ma a qual Re d'Inghilterra i Medici di Salerno dedicassero in questi tempi quel libro, e con qual occasione è bene che si narri. Guglielmo Duca di Normannia dopo aver conquistato il Regno d'Inghilterra, lasciò di se tre figliuoli, Guglielmo Ruffo, Roberto, ed Errico. A Guglielmo primogenito fu ceduto il Regno d'Inghilterra: ma questi morì senza figliuoli nell'istesso tempo, che Goffredo Buglione insieme con Roberto si trovava nell'espedizione di Gerusalemme. Avea Roberto, cui il padre avea costituito Duca di Normannia, dopo aver ceduto il Regno d'Inghilterra a Guglielmo Ruffo, voluto seguitar, ad esempio degli altri Principi, Goffredo in quella spedizione, e dovendo passare in Palestina venne in Puglia per imbarcarsi con tutti gli altri; ma essendo quivi giunto nel rigor dell'inverno, passò tutta l'invernata dell'anno 1096 presso i Principi normanni della Puglia e di Calabria suoi parenti, da' quali con tutti i segni d'affetto fu ricevuto e accarezzato. Soppraggiunta da poi la primavera tragittò il mare, ed in Palestina col famoso Goffredo all'impresa di Gerusalemme s'accinse. Fu quella finalmente presa, ma nell'istesso tempo fu amareggiata a Roberto tal vittoria per la funesta novella della morte di Guglielmo suo fratello senza figliuoli, al quale egli dovea succedere. Gli fu offerto il Regno di Gerusalemme, ma egli rifiutollo, dovendo ritornare in Inghilterra a prender possesso di quel Reame, di cui egli era più vicino erede. Nel ritorno ebbe a passar di nuovo per queste parti, onde in Salerno fu da [341] quel Principe suo congiunto con ogni stima ed onore accolto. E poichè nell'assedio di Gerusalemme avea ricevuta una ferita nel braccio destro, la quale essendosi mal curata era degenerata in fistola, consultò quivi i Medici di Salerno che dovesse fare per guarirsela. Que' Medici osservando, che quella ferita era proceduta da una freccia avvelenata, gli dissero che non vi era altro modo per guarirsene, se non si facesse succhiare da quella il veleno, che v'era. Non volle a ciò consentire il pietoso Principe per non porre in rischio colui che dovea succhiarla; ma la Principessa sua moglie con raro esempio d'amore, non curò ella esporsi al periglio, e mentre Roberto dormiva, senza che potesse accorgersene fece tanto, e sì spesse volte replicò il succhiare, che tutto trasse il veleno della ferita, e reselo sano.

(Alcuni stimano favoloso questo racconto del succhiamento del veleno. Ed intorno alla successione dei figliuoli di Guglielmo conquistatore del Regno d'Inghilterra, devono vedersi gli accurati Storici inglesi, a' quali dee in ciò prestarsi più fede, che a qualunque altro Scrittore straniere).

Volle da poi Roberto, che que' Medici gli prescrivessero una norma e ragion di vitto, perchè potesse conservarsi in quella salute, nella quale l'aveano restituito. Fu per ciò con tal occasione composto il libro, il quale se bene fosse stato composto da uno di que' Medici, porta però in fronte il nome di tutta la Scuola, non altrimente di ciò, che veggiamo essersi fatto dalla Scuola conimbricense in quella sua opera filosofica. Fu dedicato a Roberto, chiamandolo Re d'Inghilterra: non perchè questo Principe fosse stato da poi in realtà Re di quel Regno, ma perchè tornando [342] dalla Palestina per prenderne il possesso, come a lui dovuto, non potevano aver difficoltà di chiamarlo Re di quel Regno a lui appartenente. Ma il suo fratello Errico, trovandosi egli in Inghilterra quando accadde la morte di Guglielmo Ruffo, valendosi dell'occasione per l'assenza di Roberto, invase il Regno, e per se occupollo, e se ben Roberto fosse giunto ivi con numeroso esercito per ricuperarlo, fu però da Errico disfatto e superato, onde restò escluso di quel Reame. Perchè fosse a quel Principe l'opera più gradita, e potesser meglio que' precetti ridursi a memoria, la composero in versi leonini, nella cui composizione in questa età consisteva tutto il pregio ed eccellenza de' Poeti; e perchè la dedicarono ad un Principe normanno, presso i quali questo genere di versi era il più giocondo e gradito; nè appresso di essi si faceva cosa memorabile, che non fosse dettata in questo metro. Tutti gli elogi, i marmi, e gli epitafi de' loro Principi, si componevano in questi versi; così fu dettato l'epitafio del loro primo Duca Rollone; e così ancora tutti gli altri de' nostri Principi normanni. Fu pubblicata quest'insigne opera nell'anno 1100 la quale divulgata per tutta Europa, è incredibile quanta gloria e fama apportasse a' Medici salernitani. Ebbe molti Chiosatori, e il più antico fu Arnoldo di Villanova famoso Medico di Carlo II d'Angiò. I due Giacomi Curio, e Crellio v'impiegarono pure le loro fatiche, ed ultimamente Renato Moreau, e Zaccaria Silvio la illustrarono colle loro osservazioni. Quindi per molti secoli avvenne, che la Scuola di Salerno per l'eccellenza della medicina fu sopra tutte l'altre chiara e luminosa nell'Occidente.

Così la prima Scuola, che dopo la decadenza [343] dell'Imperio romano, e lo scadimento dell'Accademia di Roma, fosse stata istituita in queste nostre province fu quella di Salerno: ma con tal differenza, che siccome in quella della medicina non si tenne molto conto, così in questa, trascurate l'altre professioni per l'ignoranza del secolo, la medicina che non potè andar disgiunta dalla filosofia fu il principal scopo e soggetto; poichè coloro che ve l'introdussero non d'altre scienze erano vaghi, nè altre professavano con maggior studio e fervore, che la medicina e la filosofia. E perchè dagli Arabi l'appresero, presso i quali solo i libri di Ippocrate, d'Aristotele e di Galeno erano tenuti in sommo pregio, quindi avvenne, che nelle scuole per la medicina Galeno, sopra tutti gli altri, era preposto per maestro, e per la filosofia Aristotele, il quale con fortunati successi ebbe fra noi per molti secoli il pregio d'essere riputato il principe di tutti gli altri Filosofi.

Ma in questi tempi non era questo studio, che semplice scuola, poichè non fu fondato da' Principi, nè per molto tempo ricevè leggi, o regolamenti da' medesimi, perchè potesse dirsi Collegio ed Accademia, ovvero Università. Da poi che l'ebbe, prese anche questi nomi, ed il primo fu Roggiero I Re di Sicilia, il quale essendo stato anche il primo tra' Normanni a darci molte leggi, infra l'altre che promulgò, fu quella[429], per la quale proibì che niuno potesse esercitar medicina, se prima da' Magistrati e da Giudici non sarà stato esaminato ed approvato. Ma più favore ricevè questa Scuola da Federico II, il quale ordinò che niun s'arrogasse titolo di Medico, o ardisse di [344] professar medicina, se non fosse stato prima approvato da' Medici di Salerno o di Napoli, e non avesse da questi ottenuta la licenza di medicare. E ne' tempi meno a noi lontani, avendo gli altri nostri Re successori di Federico, e particolarmente il Re Roberto, la Regina Giovanna I, il Re Ladislao, Giovanna II ed il Re Ferdinando I conceduto a questa Scuola altri onori e privilegi, fu finalmente eretta in Accademia, ed innalzata a dar gradi di Dottore particolarmente per lo studio della medicina, nel quale fioriva, ancorchè si fosse poi in quella introdotto d'insegnarsi altre facoltà.

CAPITOLO XII. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto l'undecimo secolo, insino a Ruggiero I Re di Sicilia.

I Pontefici romani si videro in questo secolo in un maggior splendore, e la loro potenza grandemente cresciuta, così sopra il temporale, come sopra lo spirituale delle nostre Chiese; e si renderono molto più a' Popoli tremendi, ed a' Principi sospetti. La deposizione d'Errico Imperadore, le scomuniche che senza riguardo, anche sopra Principi coronati, erano frequentemente fulminate, le spedizioni per Terra Santa, l'introduzione delle Crociate, e 'l contrastare l'investiture a' Principi secolari, fece loro acquistare non minor ricchezza, che potenza sopra i maggiori Re della terra. Ed intorno a distendere la loro autorità spirituale sopra tutte le Chiese d'Occidente, non fu veduta la loro potenza più assoluta e maggiore che in questi tempi, [345] particolarmente sotto il Ponteficato di Gregorio VII. Si mandavano Legati a latere in tutte le province di Europa: si mandavano da Roma i Vicarj: si chiamavano i Vescovi a Roma per render conto di lor condotta: si confermavano, o riprovavano le loro elezioni: si ricevevano le appellazioni delle loro sentenze, ammettevano le querele de' loro diocesani, o decidendole in Roma, ovvero assegnando Giudici a tutti i luoghi. In breve entravano a conoscere nelle particolarità di quanto succedeva nelle loro diocesi. Trassero perciò una infinità di cause in Roma, ovvero destinando Commessarj ne' luoghi da essi nominati, gli facevan operare colla loro autorità.

Si proccurarono introdurre nuove massime ed idee del Ponteficato romano, e stabilire quasi per articolo di fede, che il romano Pontefice abbia autorità di deporre i Re ed i Principi de' loro Regni e Dominj, se non ubbidivano a' suoi comandamenti, e sciorre i loro vassalli dall'ubbidienza: che il Papa non meno dello spirituale, che del temporale fosse Principe e Monarca; e che tutto l'Ordine ecclesiastico sia affatto libero ed immune da ogni potestà e giurisdizione di Principi secolari, anche nelle cose civili e temporali, e ciò per diritto non umano, ma divino. E poichè a questi tempi i soli Ecclesiastici e' Monaci, ma sopra gli altri quelli della Regola di S. Benedetto, possedevano lettere, ed il Popolo era in una profonda ignoranza, perciò tutto quello, che lor veniva da' Monaci e Preti dato ad intendere, come oracolo era ricevuto; quindi come narra Giovan Gersone, riputavasi il Papa esser un Dio, e che teneva ogni potestà sopra il Cielo, e sopra la terra.

La Chiesa greca, che in ciò non conveniva colla [346] latina, e che perciò riputava il Pontefice romano, non Vescovo, ma Imperadore, venne in una più aperta divisione, separandosi affatto dalla latina, e perchè l'erano state tolte da' Normanni tutte le Chiese, che prima erano sottoposte al Trono costantinopolitano, e restituite al romano, non ebbe più che impacciarsi colle nostre Chiese. Quindi non ci sarà data da qui innanzi occasione di favellare più del Patriarca di Costantinopoli, la cui autorità, non meno che il greco Imperio, andava alla giornata scadendo. I nostri valorosi Normanni avendo discacciati affatto dalla Sicilia, e da queste nostre province i Greci, restituirono al Pontefice romano tutte le nostre Chiese; e perchè maggiormente si manifestasse quanto fosse grande il beneficio, che i nostri Principi aveano perciò reso alla Chiesa romana, Nilo Doxopatrio, che si trovava allora Archimandrita in Sicilia, scrisse un trattato delle cinque Sedi patriarcali, che a questo fino dedicò a Ruggiero I Re di Sicilia, nel quale, come fu narrato nel sesto libro di quest'Istoria, noverò le Chiese che erano state restituite al Trono romano da' Normanni, e tolte al costantinopolitano.

Per queste cagioni, e per altri segnalati servigi prestati da' Normanni alla Chiesa romana, oltre alla Monarchia fondata in Sicilia, a' nostri Principi, nel Regno di Puglia, furono serbate intatte le ragioni delle investiture, e che nell'elezione de' Prelati, senza la lor permissione ed assenso, da poichè erano stati dal Clero e dal Popolo eletti, non potesse alcuno ordinarsi. Onde la Glosa Canonica[430] disse, che nel Regno di [347] Puglia ciò costumavasi per facoltà, che n'aveano i Re dalla Sede Appostolica. Sia per questa ragione, sia per le molte altre rapportate da noi altrove ad altro proposito, egli è evidente, che nel Regno de' Normanni, nell'ordinazione di tutti i Vescovi e Prelati di queste nostre province, era riputato necessario l'assenso del Re, senza il quale era inutile ogni elezione. Così abbiam veduto, che il Duca Ruggiero, restituita la Chiesa di Rossano al Trono romano, e tolta al greco, nominò egli il Vescovo in luogo dell'ultimo, ch'era allora morto; ma perchè quegli era del rito latino, i Rossanesi, che erano assuefatti al rito greco, ripugnarono di rendersi al Duca, se prima non concedesse loro un Vescovo del rito greco, siccome gli compiacque. E nell'elezione d'Elia Arcivescovo di Bari seguita nell'anno 1089 questo medesimo Principe vi diede il suo assenso, dopo il quale fu consecrato in Bari da Papa Urbano II[431], siccome ancor fu praticato nell'elezione del Vescovo d'Avellino a tempo del Re Ruggiero, dandovi il suo assenso Roberto Gran Cancelliero di Sicilia in nome del Re[432]. E vi è chi scrisse[433], che il Re Ruggiero fra l'altre cagioni, onde si disgustò con Papa Innocenzio II, ed aderì ad Anacleto, una si fu, che Innocenzio s'era offeso di lui, perchè s'abusasse troppo, ed audacemente di questa parte, che avea nell'elezioni de' Vescovi ed Abati, impedendo la libertà di quelle; ed il Cardinal Baronio[434] rapporta ancora il mal uso, [348] che faceva Ruggiero di questa potestà; e che una fiata a tre persone diverse avea per prezzo, secondo che gli veniva offerto, conceduta la Chiesa d'Avellino, e poi la diede al quarto, che non la pretendeva; ma il Baronio mal fu inteso di questo fatto, perchè non il Re, ma Roberto suo Gran Cancelliero fece escludere i tre come simoniaci, e volendo schernire la loro malvagità, pattuì con tutti e tre separatamente, e poi riscosso il denaro, gli deluse, e fece eleggere per Vescovo un povero Frate di buona e santa vita, e che punto a ciò non badava; come narra Giovanni di Salisburì Vescovo di Sciartres[435]. Non meno i nostri Re normanni, che i Svevi ritennero questa prerogativa; onde avvenne, che stando Federico II sotto il Baliato d'Innocenzio III in tutte l'elezioni, il Papa stesso dava l'assenso, ma vice Regia, come Balio ch'egli era del giovanetto Principe; come diremo ne' seguenti libri.

Ritennero ancora i nostri Principi normanni la Regalia nelle nostre Chiese, non altramente che rimase in Francia; poichè dopo la morte de' Vescovi, fino che fosse creato il successore, essendo tutte le Chiese del Regno, e particolarmente quelle, che sono prive di Pastore, sotto la potestà regia, essi disponevano dell'entrate delle medesime, e perciò erasi introdotto costume che morto il Prelato, i Baglivi del Principe prendevano la cura e l'amministrazione dell'entrate delle medesime, insino che le Chiese fossero previste; siccome lo testifica l'istesso Re Ruggiero I in una sua Costituzione[436].

[349]

§. I. Monaci, e beni temporali.

Non meno delle Chiese, che sopra i monasteri, che tuttavia andavansi di nuovo ergendo sotto altre Regole e nuove riforme, stendevano i nostri Principi normanni la loro potestà e protezione. La loro pietà e religione, siccome fu cagione che lo Stato monastico in questo secolo ricevesse grandi accrescimenti e ricchezze, così meritava, che avendone essi molti arricchiti, ed altri da' fondamenti eretti, che si conservassero sotto la loro cura e protezione. Le cotante ricchezze, ed il gran numero de' monasterj dell'Ordine di S. Benedetto, e le grandi facoltà, che furon a quelli date, introdussero nell'Ordine monastico un gran rilasciamento. I Monaci perderono assai della riputazione di santità, e si perdette affatto la disciplina ed osservanza regolare nei monasterj; poichè s'intromisero ne' negozi di Stato e di guerra, frequentavano le Corti, e s'intricavano grandemente nell'imprese de' Pontefici contro i Principi. Tanto rilasciamento spinse molti ad abbracciare una vita più austera, onde si diede principio allo stabilimento di nuovi Ordini, i quali tutti facevano professione di seguire la Regola di S. Benedetto, benchè avessero qualche usanza ed instituto particolare.

In Italia, nel principio di questo secolo, Romualdo ritiratosi nelle solitudini si fermò, menando vita eremitica, nella campagna d'Arezzo, ove abitando in una casa d'un certo uomo chiamato Maldo, istituì una Congregazione di Monaci, che dal luogo ove prima abitarono, furono chiamati Camaldolesi[437]. Si multiplicarono [350] da poi in gran numero i monasteri di questo Ordine in tutta Italia, e penetrarono ancora in queste nostre province. Pier Damiano istituì parimente una Congregazione di Romiti del medesimo genere; e Giovanni Gualberto di Firenze avendo lasciato il suo monastero per abbracciare una vita più austera e regolare, si ritirò in Vallombrosa, e vi gittò i fondamenti di una nuova Congregazione.

Ma furono maggiori i progressi appresso noi dell'Ordine de' Certosini istituito da S. Brunone nell'anno 1086. Brunone fu nativo di Colonia, e mentr'era Canonico di Rems, volle ritirarsi insieme con sei dei suoi compagni nella solitudine della Certosa, che lor fu assegnata da Ugone Vescovo di Grenoble. Nell'anno 1090 Urbano II lo chiamò in Italia, dove si ritirò in una solitudine della Calabria nominata la Torre. La fama della sua santità invogliò Ruggiero Gran Conte di Sicilia ad aver con lui stretta amicizia; ed essendosi sgravata la Contessa Adelaide sua moglie in Melito, e dato alla luce un figliuolo, lo fece battezzare per mano di Brunone: a sua intercessione ricevette dal Cielo Ruggiero maggiori favori, e segnalatissimo fu quello d'essere stato liberato da un tradimento, che il greco Sergio aveagli macchinato, perciò in Calabria si vide quest'Ordine essere stato presso noi prima stabilito, a cui i nostri Principi normanni concederono di grandi prerogative e ricchezze. I Re Angioini poi in Napoli arricchirono assai più un loro monastero fondato nel monte di S. Eramo sotto il nome di S. Martino, per una chiesetta, che eravi prima dedicata a questo Santo; ed in progresso di tempo crebbero le loro ricchezze in tanto eccesso, quanto ora si vede.

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Si videro ancora a questi tempi in Francia sorgere altre riforme sotto altre Regole, donde poi vennero a noi. Due Gentiluomini di Vienna, Gastone e Girondo, avendo votate le lor persone, e le lor facoltà al soccorso di coloro, ch'erano assaliti dall'infermità della risipola, ovvero fuoco sacro, che andavano ad implorare l'intercessione di S. Antonio in Vienna, diedero principio all'istituzione dell'Ordine di S. Antonio, composto da principio di alcuni laici, e poi di Religiosi, i quali fecero professione della Regola di S. Agostino. L'anno 1098 Roberto Abate di Molesmo si ritirò in Cistella nella diocesi di Scialen sopra Saona con alcuni Religiosi, in numero di ventuno; vi fondò un monastero, e vi lasciò alcuni Religiosi, i quali vi restarono da poi ch'e' fu ritornato in Molesmo. Questa riforma fu approvata nell'anno 1100 dal Papa; e Stefano Ardingo pose nell'anno 1100 la prima mano alla perfezione di quest'Ordine, che divenne floridissimo.

Ma presso di noi rilusse assai più nel principio del seguente secolo intorno l'anno 1134 sotto Ruggiero I Re di Sicilia una nuova riforma dell'Ordine di San Benedetto, il cui autore fu Guglielmo da Vercelli. Questi fu il fondatore dell'Ordine de' Frati di Monte Vergine, il quale per la fama della santità della sua vita fu molto caro al Re Ruggiero, ed a Giorgio d'Antiochia suo Grand'Ammiraglio, ed usando spesso nella Corte del Re per li bisogni de' suoi Frati, era da molti Cavalieri della Casa reale stimato e riverito per Santo. Ruggiero perciò favorì il suo Ordine, ed arricchì molto il monastero novellamente da lui fondato in Monte Vergine, non molto da Napoli lontano. Giovanni di Nusco Frate del suo Ordine, che visse a' suoi tempi, [352] e che scrisse la vita del Santo, la quale secondo testifica Francesco Capecelatro[438], scritta in carta pecora con caratteri longobardi si conserva nell'Archivio del monastero di Monte Vergine, porta un privilegio spedito dal Re Ruggiero in Palermo alli 8 di dicembre dell'anno 1140, nel quale il Re per la salute dell'anima del Conte Ruggiero suo padre, per quella della Regina Adelaida sua madre, e di Albiria sua moglie, concede a' Frati di Monte Vergine la Chiesa di S. Maria di Buffiana, confermando loro parimente per la stessa scrittura, tutti i poderi e le rendite, che allor teneano, e tutte quelle che per l'avvenire fossero loro concedute; il qual privilegio è sottoscritto in nome del Re dal Principe Guglielmo suo figliuolo. Crebbe in decorso di tempo l'Ordine, e nella strada del Seggio di Nilo fu eretto un nuovo monastero con chiesa, la quale fu da poi ampliata dal famoso e celebrato Giureconsulto Bartolomeo di Capua, e dove al presente giacciono l'ossa dell'altro nostro famoso Giureconsulto Matteo degli Afflitti.

Ma egli è ben da notare, che queste riforme dell'Ordine di S. Benedetto nacquero per lo rilasciamento della disciplina ed osservanza regolare cagionato dalle tante ricchezze, che corruppero ogni buono costume. Ma chi crederebbe, che queste istesse riforme fondate principalmente sopra il disprezzo de' beni mondani, fossero state cagioni di maggiori acquisti all'Ordine monastico di beni temporali? I creduli devoti edificati dalla vita austera de' primi fondatori, e presi dalla loro santità, e da' miracoli, che se ne contavano, non guari tardarono a profondere i loro beni, con farne amplissime [353] donazioni alle Chiese, e a' nuovi monasterj, che s'andavan ergendo; tanto che in decorso di tempo si videro le loro ricchezze non inferiori a quelle de' primi come si vide chiaro ne' Certosini, ne' Frati di Monte Vergine e ne' Camaldolesi ancora; onde bisognava riformare la Riforma ed in cotal maniera rimasero i primi acquisti, e sempre più se ne facevano de' nuovi. E non senza stupore fu veduto ne' seguenti secoli, che sursero nuovi Ordini fondati cotanto in questo disprezzo de' beni mondani, che perciò presero il nome di Mendicanti, a tre voti aggiungendo il quarto di vivere in mendicità e d'elemosine; e pure scorgendosi, che questa austerità gli accreditava tanto presso i Popoli che gli invogliava maggiormente ad arricchirgli, per non mandar a voto i loro desiderj, si trovò modo di rendergli capaci di nuovi acquisti, onde in decorso di tempo le quattro Religioni Mendicanti si videro in tanta ricchezza, che cagionando rilasciamento, bisognò pensare a nuove riforme. Ma che pro? i Domenicani Riformati per qualche tempo si mantennero, ma dapoi tornarono a quel di prima. Da' Carmelitani ne surse negli ultimi secoli una più austera riforma di Carmelitani Scalzi, che ne' primi loro instituti non professavano altro che mendicità, ed un totale abborrimento de' beni temporali; ma dapoi si trovò modo di rendergli capaci di successione, d'eredità e d'ogn'altro acquisto, tanto che presso di noi crebbero le loro ricchezze in quel grado che oggi ognun vede. Ma quello che supera ogni credenza si è il vedere, che a' tempi del Pontefice Paolo IV surse un nuovo Ordine di Chierici Regolari chiamato ora de' Teatini, i quali non pure doveano vivere poveri e mendici, ma per loro istituto, quasi emulando gli altri Ordini fondati nella mendicità, ed [354] aggiungendo maggiori rigori, fu loro proibito che non potessero nemmeno andar limosinando; ma considerando che i gigli del campo, e gli uccelli dell'aria, senza nè filare, nè in altro modo travagliarsi vivono e vestono, così essi dovessero totalmente abbandonarsi nella Divina Providenza, la quale siccome provede a quelli, avrebbe anco di loro presa cura e pensiero: e pure niente tutto ciò ha giovato; perchè non sono mancati chi correndo loro dietro, abbian voluto con larghe donazioni ed eredità arricchirgli quasi a lor dispetto; ma essi niente curandosi di quest'oltraggi, non han ricusato riceverle; e si è trovato ancor modo di rendergli capaci di legati e di successioni, in guisa che le loro ricchezze sono giunte a segno, che presso noi hanno innalzati edificj cotanto magnifici e stupendi, che le loro abitazioni non sembrano più monasterj ma castelli, e s'han posto addietro i più superbi palagi ed edificj delle più illustri città del Mondo.

Vi furono in questo secolo, e nel seguente molte altre occasioni, onde l'Ordine ecclesiastico fece grandi acquisti. La principale fu la Milizia di Terra Santa; fu veramente cosa da stupire il vedere, quanto fossero accesi gli animi, non pure delle persone volgari, ma de' Principi stessi per queste spedizioni: la divozion, che s'avea de' luoghi santi e sopra ogn'altro di que' di Gerusalemme, fu così intensa, che non curando nè disagi, nè pericoli, s'esponevan a viaggi lunghissimi, pieni d'aguati e di ladroni: le asprezze, li rigori e le astinenze che soffrivano, riuscivano loro di piacere; e narrasi[439], che Folco Conte di Angiò andò [355] fino a Gerusalemme, per farsi quivi flagellare da due suoi servidori, con la fune al collo davanti al Sepolcro di Nostro Signore. Può ciascun immaginarsi da ciò, quanto fosse intenso il fervore di andare, o di contribuire all'acquisto di que' Santuarj, e vindicargli dalle mani degl'Infedeli. Non si teneva conto delle robe, delle mogli, e de' figliuoli; ma i mariti ed i padri, abbandonando ogni cosa, e vendendo quanto avevano, s'ascrivevano a questa milizia, e passavano il mare; nel che fra noi si distinsero sopra tutti li Pugliesi ed i Calabresi, i quali sotto Boemondo e Tancredi, abbandonando le loro case, gli seguirono; anzi le donne stesse, senz'aver riguardo a' proprj figliuoli, vendevano i beni lor rimasi, per sovvenire alla guerra. I Pontefici romani, ed i Vescovi delle città, per mezzo dei loro Brevi, ricevevano sotto la loro protezione le case ed i negozj de' Crocesignati, e questo apportò alle loro Chiese quell'accrescimento, che suol apportare l'esser Tutore, Curatore, o Proccuratore di vedove, pupilli e minori; nè il Magistrato secolare poteva più difendere alcuno per lo terrore delle scomuniche, che a questi tempi si adoperavano senza risparmio. S'aggiunse ancora, che Eugenio III costituì, che ogni uno potesse per questa pietosa impresa alienare eziandio i Feudi; e se il padrone diretto non voleva egli riceversegli, potessero, anche contro il voler suo, esser pigliati dalle Chiese, il che aprì la strada d'acquistare molto largamente.

Avvenne anco, che li Pontefici romani si valsero delle armi preparate per Terra Santa a qualche impresa, con che augumentarono il temporale della Chiesa romana; ed anche li Legati ponteficj, e li Vescovi dei luoghi dove le suddette armi si congregavano per [356] unirsi a far viaggio, sì valsero di esse per diversi aumenti della temporalità delle loro Chiese. Ma sopra ogni altro crebbero gli acquisti, perchè fu introdotto, che chi non poteva andar di persona alla sacra guerra, per disciogliersi forse dal voto fatto pagava in denari l'importar della spesa del viaggio, e con ciò non solo veniva sciolto dal voto fatto, ma ne otteneva anche indulgenze, ed altre concessioni, e s'avea come se personalmente vi fosse andato. Le offerte e raccolte, che perciò si facevano, importavan molta quantità di denari cavati da' fedeli, e più assai dalle donne, e da altri, ch'erano inetti a servire alla guerra in propria persona. Questo denaro non tutto si spendeva per la guerra; di qualche cosa ne partecipò senza dubbio qualche Principe; ma notabile parte ancora restò in mano de' Prelati, laonde le cose ecclesiastiche fecero molto aumento.

Da ciò ne nacque una nuova spezie d'Ordini regolari, e furono questi gli Ordini militari; la qual cosa se ben nuova, vedendosi istituite religioni per sparger sangue, fu però ricevuta con tanto ardore, che in brevissimo tempo si videro in gran numero, ed acquistare grandi ricchezze. Il primo fu quello di S. Giovanni di Gerusalemme, ovvero degli Spedalieri, stabilito per ricevere i Pellegrini, che andavano in quella città. Il secondo fu quello de' Templarj istituito l'anno 1118, l'impiego de' quali era di provvedere alla sicurezza de' Pellegrini, combattendo contro coloro, che a' Pellegrini eran molesti. L'ultimo fu l'Ordine de' Teutonici, li quali facevano professione di soddisfare all'uno, e all'altro di questi impieghi; e quanto questi Ordini crescessero in ricchezza, e [357] spezialmente gli Spedalieri, ed i Teutonici, è a tutti palese.

A loro imitazione sursero poi quelli di S. Giacomo e di Calatrava, li quali furono istituiti in Ispagna per li pellegrinaggi a S. Giacomo di Galizia; e per occasion consimile si videro altri Ordini in altri paesi. Il fervore così intenso, che s'avea a questi tempi di questi nuovi Santuarj, intiepidirono alquanto la divozione, che prima s'avea più fervorosa, di quello di Monte Cassino, e dell'altro del Monte Gargano; ma crebbe però quello di S. Niccolò di Bari, per essere a questi tempi, come nuovo, più degli altri frequentato.

Furono ancora a questi tempi scoverti altri modi per dar accrescimento assai notabile a' beni ecclesiastici. Il riveder bene la materia delle Decime; lo stabilire le Premizie, ed il diritto delle Sepolture; ed il ricever ogni cosa da qualunque sorta di persone. Le Decime da volontarie rendute già necessarie, quando non si pagavano, erano per via di censure con molta acerbità esatte: e fu stabilito, che si pagassero non solo le Prediali de' frutti della terra, ma le Miste ancora, cioè de' frutti degli animali; ed ancora le Personali, della industria e fatica umana. Ed in decorso di tempo Alessandro III determinò intorno l'anno 1170 che si procedesse con scomuniche per far pagare interamente le Decime de' molini, peschiere, fieno, lana, e delle api; e che la Decima fosse d'ogni cosa pagata prima, che fossero detratte le spese fatte nel raccogliere li frutti; e Celestino III nel 1195 statuì, che si procedesse con scomuniche per far pagar le Decime non solo del vino, grano, frutti degli alberi, delle pecore, degli orti, e delle mercanzie, ma anche [358] dello stipendio de' soldati, della caccia, ed ancora dei molini a vento; e tutte queste cose sono espresse nelle Decretali de' Pontefici romani. Ma a' Canonisti ciò nemmen bastò, e passarono più oltre, dicendo che il povero è obbligato a pagar la Decima di quello, che accattando trova per elemosina alle Porte; e che la meretrice sia tenuta pagar la decima del guadagno meretricio, ed altre tali cose, che il Mondo non ha mai potuto ricevere in uso.

Alle Decime aggiunsero le Primizie le quali furono primieramente instituite da Alessandro II, imitando in ciò la legge mosaica, nella quale furono comandate a quel Popolo: la quantità di esse da Mosè non fu stabilita, ma lasciata in arbitrio dell'offerente: li Rabbini da poi, come testifica S. Girolamo, determinarono, che non fosse minore della sessagesima, nè maggiore della quarantesima; il che fu ben imitato dai nostri nel più profittevol modo, avendo statuito la quarantesima, che si chiamò poi il Quartese.

Non minori emolumenti si ritraevano dalle Sepolture, e dall'altre funzioni ecclesiastiche: prima le Decime erano pagate a' Curati per l'amministrazione dei Sacramenti, per le sepolture e per altre loro funzioni, onde per questi ministerj non si pagava cos'alcuna; ma poi qualche persona pia e ricca donava, se gli piaceva, per la sepoltura de' suoi qualche cosa, e passò così innanzi quest'uso, che la cortesia fu convertita in uso, e s'introdusse anche in consuetudine il quanto si dovesse pagare. Si venne poi alle controversie, negando li secolari di voler pagare cos'alcuna, perchè perciò pagavano le Decime, e gli Ecclesiastici negavano di voler far le funzioni, se non [359] si dava loro quello, ch'era in usanza. Innocenzio III poi nell'anno 1200 stabilì, che gli Ecclesiastici facessero le funzioni, ma dopo quelle fossero i Secolari con censure forzati a servare la lodevole consuetudine di pagar quello, ch'era solito.

Fu introdotta ancora un'altra novità contra i Canoni vecchi, la qual giovò molto per l'acquisto di maggiori ricchezze: era proibito per li Canoni di ricever cos'alcuna per donazione o per testamento dai pubblici peccatori, da' sacrileghi, da chi era in discordia col fratello, dalle meretrici, ed altre tali persone: furono levati affatto questi rispetti, e ricevuto indifferentemente da tutti; anzi appunto li maggiori e più frequenti legati e donazioni erano di meretrici, e di persone, che per disgusti co' suoi, lasciavano alle Chiese. In cotal guisa i Pontefici romani usavano ogni diligenza per ajutare gli acquisti, e di conservare l'acquistato; al che per proprio interesse tutto l'ordine ecclesiastico non solo acconsentiva, ma colla penna e con le prediche dava mano ed inculcava.

FINE DEL LIBRO DECIMO

[360]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO UNDECIMO

Ruggiero, che da qui a poco lo diremo I Re di Sicilia e di Puglia, avendo con tanta celerità, e senza richiederne investitura dal Papa, preso il possesso di queste nostre province, alle quali per la morte di Guglielmo senza figliuoli era succeduto, esacerbò in maniera l'animo d'Onorio, che non fu possibile, nè con Legazioni, nè con offerte che gli si fecero della città di Troja, placarlo; nè finalmente il timore di perdere Benevento, potè rimoverlo. Egli scomunicò Ruggiero tre volte[440]; e vedendo che questi fulmini erano infruttuosamente lanciati, si rivolse alle armi temporali; e per maggiormente accalorare la spedizione, che intendeva fare contro questo Principe, portossi immantenente in Benevento, ove incoraggiò molti a prender l'armi per vendicarsi dell'offesa, che riputava aver ricevuta; [361] e quelle già ragunate, l'affretta a tutto potere verso la Puglia, ove Ruggiero col suo esercito erasi accampato. Ma questo accorto Principe scorgendo, che l'armata del Papa era composta di truppe somministrategli da alcuni ribellanti Baroni, e che (siccome l'ira e lo sdegno d'Onorio) non poteva lungamente durare in quell'unione, non gli parve d'usargli ostilità, ma schivando ogn'incontro, lasciò passar quell'està senza combattere. Nel cominciar dell'inverno si dileguò tosto quell'unione, e restò il Papa senza gente; quindi abbandonando l'impresa tosto in Benevento tornossene. Ruggiero che non voleva con lui brighe, gli fece richieder di nuovo la pace, ed abboccatisi insieme presso Benevento sopra un ponte che fecero drizzare nel fiume Calore, fu quella subito conchiusa nel principio di quest'anno 1128[441], ed i patti furono, che Ruggiero, siccome i suoi predecessori aveano fatto, giurasse fedeltà al Papa, con promettergli il solito censo; ed all'incontro Onorio gli desse l'investitura del Ducato di Puglia e di Calabria, secondo il tenore dell'altre precedenti, siccome fu eseguito[442]. Riuscì cotanto profittevole per la Chiesa romana questa pace, che ribellandosi poco da poi i Beneventani, Ruggiero, che con buona armata si trovava nella Puglia, tosto v'accorse, e ridusse quella città nell'ubbidienza della Chiesa.

Ma questo Principe avendo con tanta sua gloria composte le cose di queste province, ed acquistata l'amicizia del Pontefice Onorio, ritirossi in Palermo; e vedendosi per tante prosperità e benedizioni Signore di tante province, reputò mal convenirsi più a lui i [362] titoli di Gran Conte di Sicilia, e di Duca di Puglia; ma un più sublime di Re doversene ricercare. Al che diede maggiori stimoli Adelaida sua madre, la quale essendo stata moglie di Balduino Re di Gerusalemme, ancorchè da poi ripudiata, riteneva il titolo Regio, ed alla conquista di quel Regno istigava il figliuolo Ruggiero, che movesse l'armi; aggiungendosi ancora il riflettere, che coloro, i quali anticamente aveano dominata la Sicilia, con titolo di Re aveanla signoreggiata[443]; stimò dunque prender questo titolo, ed avendo costituita Palermo capo del Regno, Re di Sicilia, del Ducato di Puglia e di Calabria, e del Principato di Capua, volle chiamarsi; ed in cotal guisa da' suoi sudditi per Re salutato, ne' diplomi e nelle pubbliche scritture questi furono i titoli, che assunse: Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, Principatus Capuae. Quindi il Fazzello narra, che nel mese di maggio dell'anno 1129, correndo allor il costume che i Re dalle mani de' loro Arcivescovi ricevessero la Corona e l'unzione del sacro olio, si facesse egli in Palermo in presenza de' principali Baroni, di molti Vescovi ed Abati, e di tutta la Nobiltà e Popolo, coronare per Re di Sicilia, e di Puglia da quattro Arcivescovi, da quelli di Palermo, di Benevento, di Capua e di Salerno: il che non poteva essere più legittimamente, e con più avvedutezza, e con maggior celebrità fatto. Altro non si ricercava [363] perchè Ruggiero a tal sublimità s'innalzasse, e legittimamente il titolo di Re ricevesse. Al volere del Principe concorreva ciò che principalmente, anzi unicamente sarebbe bastato, cioè la volontà de' Popoli, che lo acclamarono, la quale prima d'essersi introdotta la cerimonia di farsi ungere e coronare da' Vescovi, era riputata sufficientissima. Così fu da noi altrove osservato, che Teodorico Ostrogoto fu gridato Re d'Italia, e così gli altri Re longobardi. I riti e le cerimonie furon sempre varie, siccome le Nazioni, alcune usavano innalzare l'eletto sopra uno scudo; altre si servivano dell'asta, ed altre d'altro segno[444].

Ma trovandosi ora introdotto il costume, che questa celebrità si faceva per mano de' Vescovi, li quali ponevano all'eletto la Corona sul capo e l'ungevano coll'olio sacro: non fu trascurato in quest'occasione da Ruggiero; poichè essendo stato egli acclamato Re, oltre della Sicilia, anche del Ducato di Puglia e di Calabria, e del Principato di Capua e di Salerno, che abbracciava queste nostre province, furono perciò adoperati que' quattro Arcivescovi, a' quali per antica usanza s'apparteneva d'ungere e coronare i loro Principi; i quali rappresentando per le loro province, delle quali erano Metropolitani, tutta la Sicilia, e tutta questa nostra cistiberina Italia, venivan a coronarlo quasi di quattro Corone in un istesso tempo, cioè l'Arcivescovo di Palermo per la Sicilia, ed i nostri tre Arcivescovi per tutte quelle province, che anticamente eran comprese ne' Principati di Benevento, di Capua e di Salerno: il che non si fece senz'esempio, poichè avevano potuto osservare che gli altri Re solevano di tante [364] Corone coronarsi di quanti Regni essi aveano; nè perciò da un solo Vescovo, ma da più era solito farsi incoronare, siccome Hinemaro Vescovo di Rems narra della coronazione di Carlo il Calvo fatta a Metz nell'anno 869.

Non poteva dunque essere più legittimamente fatta la coronazione di Ruggiero, nè poteva alcun dolersi, che questo Principe senza ricercar altro lo facesse. Ma i Pontefici romani, come si è altrove notato, fra le altre loro magnanime intraprese, onde proccuravan d'ingrandire la loro autorità, erano entrati nella pretensione, che niun Principe cristiano potesse assumere il titolo di Re senza loro concessione e permesso. E tanto più s'erano resi animosi a pretenderlo, quanto che l'istessa autorità s'arrogavano nell'elezione degli Imperadori d'Occidente, pretendendo che senza di essi niun potesse innalzarsi a quella sublimità, e che dalle loro mani dipendesse l'Imperio, nè s'arrossivano di dire che l'Imperio, siccome tutti gli altri Regni, dipendessero da loro, come credettero Clemente V ed Adriano. Nè mancò chi scrivendo all'istesso Imperador Federico I non avesse difficoltà di dirgli in faccia, che l'Imperio fosse un beneficio de' romani Pontefici, di che Federico ne fece quel risentimento che ciascun sa, obbligando quel Papa, per emendare la sua jattanza a ricorrere a guisa di pedante a spiegar la parola beneficio, ed in qual senso egli avessela presa. Essi adunque co' Principi si vantavano di poterlo fare, e d'aver tal potestà come Vicarj di colui, per quem Reges regnant. Ed i Principi all'incontro n'erano ben persuasi, e credevano, che siccome i Re d'Israele erano con molta solennità unti da' Profeti, così essi per esser riputati Re dovean da loro farsi ungere e coronare. [365] Quindi nacque che molti Principi della Cristianità non aveano difficoltà di promettergli perciò tributo, o rendersi Feudatari della Chiesa romana. Così fin dall'anno 846 Etelulfo Re d'Inghilterra portatosi in Roma, e fattosi confermare il titolo di Re da Papa Lione IV, rese i suoi Regni tributarj alla Sede Appostolica d'anno in anno d'uno sterlino per famiglia, e cotesto tributo, che denominossi il denajo di S. Pietro, fu da poi pagato per insino al tempo d'Errico VIII. E vie più ne' tempi posteriori crescendo la loro ignoranza e stupidezza, si videro altri Principi seguitare quest'esempio, e rendergli tributo. Nel 1178 Alfonso Duca di Portogallo, avuto da Alessandro III il titolo regio per gli egregi fatti da lui adoperati contro i Mori di Spagna, gli promise il censo. Lo stesso fece Stefano Duca d'Ungheria, quel di Polonia, d'Aragona, ed altri Principi; tanto che l'istesso Bodino[445] non ebbe difficoltà di dire, i Re di Gerusalemme, d'Inghilterra, d'Ibernia, di Napoli, Sicilia, Aragona, Sardegna, Corsica, Granata, Ungheria, e dell'isole Canarie essere Feudatarj della Chiesa romana. E l'accortezza de' Pontefici romani fu tanta, che per conservarsi con quei Principi questa sovranità, ancorch'essi fossero veri Re, e così da Popoli salutati, e dagli altri Principi d'Europa reputati, nulladimanco vedendo che non si curavano di ricever da essi questi stessi titoli, con facilità perciò loro gli davano, e quelli coll'istessa facilità gli accettavano, non badando all'arcano che si nascondeva sotto quella liberalità: così negli ultimi tempi a Paolo IV nostro Napoletano gli venne fantasia d'ergere l'Ibernia in Regno, e se bene Errico VIII l'avesse prima fatto, [366] e questo titolo fosse continuato da Odoardo, da Maria e dal marito, nulladimanco dissimulando il Papa di saper il fatto d'Errico volle fare apparire ch'egli ergesse quell'isola in Regno, perchè in quella maniera il Mondo credesse, che de' soli Pontefici romani fosse l'edificare, e spiantar Regni, e che il titolo usato dalla Regina fosse come donato dal Papa, non come decretato dal padre. Lo stesso i nostri maggiori videro nella persona del Duca di Toscana, innalzato da' Pontefici con titolo di Gran Duca. E se la cosa si fosse ristretta a' soli Pontefici romani sarebbe stata forse comportabile, ma si giunse, che fino gli Arcivescovi di Milano s'arrogavano l'autorità di far essi i Re d'Italia, come si è veduto ne' precedenti libri di questa Istoria.

Ma dall'altra parte non era meno strana la pretensione, che aveano gl'Imperadori d'Occidente, di poter essi ancora dar titoli di Re, ed ergere gli Stati in Reami: essi lo pretendevano perch'essendo risorto l'Imperio d'Occidente nella persona di Carlo M., ed essendo successori di quell'Augusto Imperadore, credevano ben come tali di poterlo fare in tutto Occidente; e se il Senato romano intraprendeva ben questa potestà nello Stato popolare di fare Re, molto più essi credevano a loro appartenersi. Sopra tutti gl'Imperadori Federico I ebbe questa fantasia: egli mandò la spada e la Corona regale a Pietro Re di Danimarca, attribuendogli il nome di Re per titolo d'onore solamente, con espressa riserva (come rapporta Tritemio[446]) della sovranità del suo paese all'Imperio; il che fu [367] dannoso allo stesso Imperio, poichè perciò li Re di Danimarca presero a poco a poco occasione di sottrarsi dalla soggezione dell'Imperio, e da poi si sono resi affatto Sovrani in conseguenza del titolo di Re.

(Girolamo Muzio Chron. Germ. lib. 20 Crusius Annal. Suevie. part. 3 lib. 2 cap. 2 Bodin. de Rep. lib. 2 cap. 3 ciò attribuiscono a Federico II non al I: vedasi Sigonio de Regno Italiae Lib. 13 che rapporta il fatto di Barisone creato Re di Sardegna ad istanza, e con denari de' Genovesi).

L'istesso Imperadore diede titolo di Re al Duca d'Austria; ma a costui avvenne tutto il contrario che a' Re di Danimarca, poichè avendo ottenuto questo titolo con egual riserba della sovranità, volle troppo presto allontanarsi dal suo Sovrano, ed avendo rifiutato d'ubbidirlo, ne fu privato dodici anni da poi di questa qualità di Re, e costretto chiamarsi solamente Duca. Questo medesimo Imperadore diede ancora titolo di Re al Duca di Boemia con la medesima ritenzione di Sovranità: nel che non ci ebbe da poi alcuna mutazione, sì per la picciolezza del suo Reame vicino alla sede imperiale, come perchè questo Re è uno degli Elettori.

Altrove fu notato, che alcuni credettero, l'Inghilterra avere un tempo ancor ella salutato l'Imperadore come Feudataria, come fra gli altri scrisse Cujacio[447], la Francia non giammai. Ma gl'Inglesi glie ne danno una mentita, ed Arturo Duck[448] dice, che Cujacio senza ragione ciò scrisse; poichè nell'istesso secolo, che la Francia scosse la dominazione dell'Imperio, la scosse [368] ancora l'Inghilterra, e che non meno i Franzesi, che i Brittanni sono indipendenti dall'Imperio.

Da queste pretensioni, che il Papa e l'Imperadore tennero di poter creare Re, e che tutti i dominj dipendessero da loro, ne surse da poi presso i nostri Dottori, secondo le fazioni, un ostinato contrasto, e chi sosteneva secondo i sentimenti di Clemente e di Adriano, che l'Imperio e tutti i Regni dipendessero dal Papa: chi all'incontro dall'Imperadore; e Bartolo[449] sostenitore delle ragioni dell'Imperio, s'avanzò tanto in questa opinione, e passò in tale estremità, che non ebbe difficoltà di dire esser eretico chi niega l'Imperadore esser Signore di tutto il Mondo: ciocchè meritò la riprensione di Covarruvia[450], e d'altri Scrittori, che riputarono cotal proposizione degna di riso.

Ma se bene erano fra lor divisi in sostenere le pretensioni, o dell'uno o dell'altro, furono però d'accordo in dire, che tutte le Sovranità del Mondo cristiano dipendessero, o dal Papa o dall'Imperadore. Proposizione quanto falsa, altrettanto repugnante al buon senso, ed a quel che osserviamo negli altri Regni e Monarchie; poichè la Sovranità non procede altronde, che o dalla conquista, o dalla sommessione de' Popoli; nè il Papa, secondo quel che si sarà potuto notare in più luoghi di quest'Istoria, come successore di S. Pietro, o Vicario di Cristo ha ragione di poterlo pretendere, non essendo stata questa la potestà data a S. Pietro da colui, che si dichiarò il Regno suo non esser di questo Mondo, ma quella fu tutta spirituale, e tutta drizzata al Cielo, come a bastanza nel primo libro. [369] quando della politia ecclesiastica ci fu data occasione di ragionare, fu dimostrato. E se oggi lo vediamo Signore di tanti Stati, ed aver sì belle ed insigni prerogative negli Stati altrui, tutto fu o per concessione de' Principi e loro tolleranza, o per consuetudine, che col tempo introdotte, per la loro esquisita diligenza ed accortezza, avendo a lungo andare poste profonde radici, non poteron poi in molte parti più sradicarsi, come ne può esser ben chiaro esempio questo nostro Reame, che per volontaria esibizione de' suoi Principi fu reso a quella Sede feudatario, i quali o per loro concessione o tolleranza molte cose su di esso le permisero: delle quali avremo molte occasioni di notare nel corso di questa Istoria.

E molto meno gl'Imperadori d'Alemagna potean ciò pretendere; poichè se si parla di que' Regni, che da Carlo M. non furono conquistati, come le Spagne, e tanti altri, non vi può cader dubbio alcuno, che rimasero vere Monarchie, e dall'Imperio independenti. Nè restituito l'Imperio d'Occidente nella persona di quell'Augustissimo Principe si fece altro, che siccome egli parte per successione, parte per conquista, si vide ingrandito di tanti Regni e province, onde meritamente potesse darsegli titolo d'Imperadore; così essendosi da poi in tempo de' suoi successori molti Regni e molte province perdute, e sottratte dall'Imperio, ritornarono essi così come erano prima, che Carlo M. assumesse quel titolo; e per conquista, o per sommessione de' Popoli, essendo passati sotto la dominazione d'altri Principi, questi come veri Monarchi e veri Re independenti gli possederono, siccome fu l'Inghilterra, ed il Regno di Francia; ed i Franzesi pretendono, che la Francia non solo non fu unita da Carlo M. all'Imperio, ma vogliono [370] che più tosto l'Imperio, fosse stato membro della Monarchia franzese.

Così Ruggiero, per quel che s'attiene alla Sicilia, come quella che non mai fu da Cario M. conquistata nè all'Imperio d'Occidente sottoposta, ma più tosto a quel d'Oriente, non avea alcun bisogno, volendo ridurla in forma di Regno, come fu anticamente, di ricorrere all'Imperador d'Occidente. E se bene, per quel che riguarda a queste nostre province, v'avessero avuta i medesimi in alcune d'esse la Sovranità, e per Sovrani da' Principi longobardi fossero riputati, come furon quelle, che nel Ducato beneventano, quando era nella sua maggior grandezza, erano comprese; nulladimanco i Normanni le sottrassero da poi totalmente dall'Imperio, così dall'occidentale, come, per quel che riguarda la Puglia e la Calabria, dall'orientale, e come independenti da quest'Imperj le dominarono. E quantunque dagl'Imperadori d'Occidente avessero nel principio ricevute l'investiture della Puglia, nientedimeno, come si è veduto, ciò non ebbe alcun effetto, perchè i Normanni da poi più tosto si contentarono essere Feudatarj della Sede Appostolica, che dell'Imperio. Nè gl'Imperadori d'Occidente molto se ne curarono. Egli è però vero, che così Lotario II come gli altri suoi successori, quando le occasioni loro si presentavano, non si ritennero di movere queste loro pretensioni di Sovranità: così Lotario, quando s'ebbe da investir Ranulfo del Ducato di Puglia e di Calabria contro il nostro Ruggiero, pretese volerlo egli investire, e pretendendo il Papa Innocenzio II all'incontro ciò appartenersi a lui; per non far nascere infra lor discordie, delle quali se n'avrebbe potuto profittar Ruggiero, inimico comune, si convenne che tutti [371] due insieme l'investissero, come fecero investendolo per lo stendardo. E del Principato di Salerno e d'Amalfi, del quale i Papi non si trovavano aver ancora fatta alcuna investitura a' Normanni, vi fu tra Innocenzio II e l'istesso Lotario contrasto; pretendendo Lotario doverlo investir egli: al che s'oppose fortemente il Papa, onde nacquero fra loro quelle discordie, delle quali si seppe ben valere il nostro Ruggiero[451]. E per quest'istesse pretensioni in tempi men a noi lontani Errico VII, il primo Imperadore che fu della illustre Casa di Lucemburgo, citò Roberto Re di Napoli, e Conte di Provenza avanti il suo Tribunale a Pisa, perchè pretendeva che il Regno di Napoli fosse Feudo dell'Imperio: come in fatti lo bandì, e lo depose dal Reame, del quale investì Federico Re di Sicilia, il quale in effetto venne in Calabria per conquistarlo, e prese Reggio, e molte altre Piazze di quella riviera. Ma essendo poco da poi morto Errico, svanì l'impresa ed egli deluso in Sicilia fece ritorno.

Ma essendosi da poi l'Imperio di costoro ristretto nell'Alemagna, ed oggi giorno considerandosi come semplici Principi, senza che possan pretender Sovranità nell'istesso Imperio, dove in effetto quella risiede come ha ben provato Bodino; ed all'incontro essendosi gli altri Principi per lungo corso di anni ben stabiliti ne' loro Stati e Reami con totale independenza dall'Imperio, vantano oggi con ben forte ragione essere i loro Stati vere Monarchie, siccome se ne vanta il nostro Reame, non ostante l'investiture che i nostri Principi ricevano da' Sommi Pontefici; le quali, come vedrassi nel corso di quest'Istoria, non derogano [372] punto all'independenza ed alla sovranità, ed alle supreme regalie, delle quali sono adorni, e per le quali son reputati, come lo sono, veri Monarchi.

Ma ritornando alla coronazione del nostro Ruggiero se bene in questi tempi gl'Imperadori d'Occidente pretendessero Sovranità sopra queste nostre province; nulladimeno i Pontefici romani l'aveano di fatto esclusi e solamente era loro rimasa la pretensione. I Principi normanni non si curavano per ciò aver da essi l'investiture, e niun pensiero se ne prendevano. Ma all'incontro era in ciò, ed a questi tempi così grande l'autorità de' Papi, che i Principi senza di loro stimavano non poter assumer nè titolo di Re, nè altro più spezioso, che vi fosse, e sopra gli altri ne stavano ben persuasi i Principi normanni, e Ruggiero stesso.

Anzi non sono mancati diligenti Autori, che scrissero Ruggiero non mai aver avuto quest'ardimento per se solo d'incoronarsi Re, ed assumere quel titolo senza loro permissione e beneplacito; e che una sola volta fosse stato incoronato da Anacleto nell'anno 1130 non già due, una da se solo nell'anno 1129, l'altra da Anacleto nel seguente anno. Nel che non vogliamo miglior testimonio dell'accuratissimo Pellegrino[452], il quale per l'autorità di Falcone beneventano, e dell'Abate Telesino, sostiene che sol una volta Ruggiero si facesse incoronare, e ciò per autorità d'Anacleto: poich'essendo per la morte d'Onorio, accaduta in febbraio dell'anno 1130 nato lo scisma tra Innocenzio II ed Anacleto II, eletti ambedue nell'istesso giorno da due contrarie fazioni per romani Pontefici, piacque [373] a Ruggiero seguire il partito d'Anacleto, il quale riputando ciò a sua somma ventura, perchè munito di sì valido appoggio potesse resistere al partito d'Innocenzio, proccurava di non negargli cosa che gli cercasse; in fatti venuto Anacleto in Avellino nel mese di ottobre di quest'istesso anno, quivi s'appuntò di coronarlo, siccome nell'istesso mese ritornato in Benevento, in questa città gli spedì la Bolla, che si legge presso il Baronio; ed avendo Anacleto mandato in Sicilia un suo Cardinale perchè lo incoronasse, fu Ruggiero dal medesimo coronato in Palermo nel mese di dicembre dell'istesso anno nel giorno di domenica della Natività di N. S. con quella celebrità ed apparato, che ci descrive l'Abate Telesino Scrittor contemporaneo, che vi fu presente, e che fu molto famigliare, e cotanto caro a Ruggiero. Falcone Beneventano, Pietro Diacono[453], ma sopra tutti più minutamente l'Abate Telesino[454], e tutti gli antichi parlando di questa coronazione la narrano come la prima e l'unica, nè fanno memoria alcuna d'altra coronazione che Ruggiero per se stesso avessesi proccurata nell'anno precedente. Ed a dir il vero, se mai vi fosse stata, certamente l'Abate Telesino, che così a minuto scrisse i fatti di questo Principe, e con tanta esattezza quella che seguì per Anacleto, non avea motivo di tralasciar la prima, poichè avrebbe rapportato un fatto ch'egli come cotanto benevolo e familiare di Ruggiero, avrebbe approvato, nè in grazia di Ruggiero l'avrebbe taciuto. Nè avrebbe tralasciato di riferire tanta celebrità e pompa, nè il consenso di tanti insigni Prelati e Signori che narrasi [374] essere intervenuto in questa prima coronazione, celebrata in tempo, che non vi era scisma alcuno nella Chiesa, anzi quando Onorio per la pace fatta con Ruggiero, rimase con questo Principe amicissimo.

Il primo che di tal coronazione, seguita con tanta celebrità per mano di quattro Arcivescovi, ci dasse riscontri fu il Fazzello[455], da cui forse il Sigonio l'apprese. Ma questi con tanta incoerenza unisce insieme molte cose, che non ci dee far molta autorità. Altri per dar credenza a questo racconto, allegano una Cronaca[456] non ancor impressa d'un tal Maraldo Monaco Cartusiano; ma non dicono di quanta antichità fosse; nè Maraldo fa menzione che d'una sola coronazione. Per questi argomenti, e perchè tutti gli Antichi la tacciono, nè d'essa fanno alcuna memoria, il Pellegrino porta opinione che Ruggiero non si fece coronare se non una sol volta, e ciò per autorità di Anacleto, ch'egli in quello scisma riputava, come lo riputavano allora non solo i suoi Regni, ma gran parte d'Italia, ed i Romani stessi, vero Pontefice, come colui che ebbe la maggior parte de' Cardinali che lo elessero, se bene Innocenzio un poco più prima di lui fosse stato eletto dalla minor parte. So che Inveges non acquetandosi a questi argomenti del Pellegrino, porta opinione contraria; narra, che Ruggiero, essendosi coronato per propria autorità, eletto che fu Innocenzio, avessegli richiesto, che con sua Bolla gli confermasse questa coronazione; ma che poi non avendo potuto ridurre Innocenzio a confermarla, abbandonando il partito d'Innocenzio, fosse ricorso ad Anacleto, [375] il quale volentieri gli compiacque. Che che ne sia, o fosse stata questa la prima, ovvero la seconda coronazione di Ruggiero, egli è certo che questo Principe reputò non bene, nè stabilmente o legittimamente poter assumere quel titolo, nè ergere i suoi Stati in Reami, se non vi fosse stato il permesso, o conferma di Anacleto ch'egli reputava vero Pontefice, al quale avea renduti i suoi Stati tributari, e de' quali i suoi maggiori ne aveano ricevute l'investiture.

§. I. Investitura d'Anacleto data a Ruggiero I Re di Sicilia.

Allora fu che Anacleto, cui tanto premeva l'alleanza ed amicizia di Ruggiero, oltre ad averlo costituito Re, ed ordinato a tutti i Vescovi ed Abati de' suoi dominj, che lo riconoscessero per tale, e gli giurassero fedeltà, concedè a questo Principe una più ampia investitura, che i suoi predecessori Duchi di Puglia non aveano potuto mai ottenere: poichè oltre ad investirlo della Sicilia, della Puglia e della Calabria, gli diede ancora l'investitura del Principato di Capua, e quel che parrà strano, altresì del Ducato napoletano, come sono le parole della Bolla[457], e come eziandio rapporta Pietro Diacono[458].

[376]

Che glie le dasse del Principato di Capua, ancorchè pure fosse cosa molto strana, che nell'istesso tempo, che quello veniva posseduto da Roberto, il qual n'era Principe, volesse investirne altri; poteva però sostenersi il fatto, ed era scusabile, perchè avendo i Principi di Capua suoi predecessori da' Papi ricevuta l'investitura di quel Principato, tal che venivano riputati ancor essi Feudatari della Sede Appostolica, non altrimenti che i Duchi di Puglia e di Calabria, ed avendo voluto quel Principe seguitare il partito di Innocenzio suo inimico, avrebbe potuto forse così colorirsi e darsi al fatto comportabile apparenza. Ma del Ducato napoletano, ch'era dall'Imperio d'Oriente dipendente, e che in forma di Repubblica si governava dal suo Duca, che in quel tempo era Sergio, con qual appoggio potesse farlo Anacleto, non si sa veramente comprendere; e se pure i Napoletani, ciò che lor s'imputava, seguivano il partito d'Innocenzio, ciò non recava a lui ragione di disporre di quel Ducato, che per niuno pretesto poteva appartenergli. Ma tutte queste considerazioni niente impedivano allora a' Pontefici romani di far ciò che poteva ridondare in maggior loro grandezza: erano già avvezzi d'investire altrui di paesi che essi non possedevano, e sopra de' quali non vi avean che pretendere, come fecero della Sicilia e di quest'altre nostre province.

Nè a Ruggiero molto premea d'andar esaminando cotali diritti, bastava con ciò aver un minimo appoggio, affinchè quel che il Papa gli concedeva colla [377] voce e colle scritture, potesse egli conquistarlo con le armi; credendo così giustificare le sue conquiste, siccome ben seppe fare poco da poi, che discacciato Roberto da quel Principato, e mossa guerra a' Napoletani, si rese padrone così dell'uno, come dell'altro Stato.

Ma potrebbe per avventura recar maraviglia come in questa occasione non fosse stato investito Ruggiero anche del Principato di Salerno. Ciò avvenne perchè i Pontefici romani pretendevano che quel Principato interamente s'appartenesse alla Chiesa romana, se bene non si sappia per qual particolar ragione. Perciò Gregorio VII, perciò tutti gli altri suoi successori lo eccettuaron sempre nell'investiture, come abbiamo osservato. Ed in fatti quando Lotario, avendolo tolto a Ruggiero se ne rese padrone, e volle appropriarselo, Innocenzio se ne offese, ed acremente se ne dolse, dicendo, che quello s'apparteneva alla Chiesa romana, ciò che fu motivo di discordia fra il Papa e Lotario, come rapporta Pietro Diacono[459]. L'investitura fu data a Ruggiero, a' suoi figli, ed eredi di quelli jure perpetuo. Ed il censo fu stabilito di seicento schifati l'anno[460].

[378]

CAPITOLO I. Papa Innocenzio II collegatosi coll'Imperador Lotario move guerra al Re Ruggiero. Il Principe di Capua, ed il Duca di Napoli s'uniscono con Lotario, sono disfatti, e Ruggiero occupa i loro Stati.

Intanto Innocenzio, vedendo che il partito d'Anacleto, a cui Ruggiero erasi unito, era più potente del suo, e che egli dentro Roma non poteva contrastargli la Sede, come quegli, ch'era figliuolo di Pier Lione, ricco e potente cittadino romano, erasi partito nascostamente da Roma con que' Cardinali, che l'avevano creato Papa, ed andossene a Pisa, ove fu da' Pisani come vero Pontefice ricevuto con tutti i segni di stima e d'ossequio. Pisa in questi tempi, infra le città d'Italia, erasi molto distinta per la potenza e valore de' suoi cittadini, ma molto più per le forze ed armate marittime che manteneva; onde Innocenzio, imbarcatosi di là ad alcun tempo su le lor galee, se ne passò in Francia per indurre il Re Lodovico a prender la sua protezione contro agli sforzi del suo rivale. Quivi giunto ragunò un Concilio nella città di Rems, ove scomunicò Anacleto e tutti coloro, che seguivano la sua parte; ma vedendo, che il Re di Francia non poteva somministrargli quegli aiuti, de' quali allora avea bisogno, proccurò impegnar Lotario Imperadore alla sua difesa, nel quale trovò maggior disposizione e prontezza che in Lodovico. Aspirava egli di togliere a Ruggiero queste province, che credeva essergli state usurpate da questo Principe; e con tal opportunità [379] di indurre ancora il Papa a concedergli le cotanto contrastate investiture. In effetto la prima cosa che cercò ed ottenne da Innocenzio furono le investiture, le quali tosto le furono accordate, come scrive Pietro Diacono[461] Autor contemporaneo. Il Baronio dando una mentita a questo Scrittore, dice, che avendo Lotario ciò preteso, gli fu fatta resistenza da Bernardo Abate di Chiaravalle, il quale consigliò Innocenzio, che non v'assentisse, e che secondo il suo consiglio Innocenzio ne l'avesse escluso, allegando lo Scrittore della vita di questo Santo, che fu Bernardo di Bonavalle Scrittore di tempi più bassi.

Che che ne sia, Innocenzio dispose l'Imperadore a calar tosto in Italia, e giunto in Roma insieme con lui, trovandosi occupata la chiesa di S. Pietro da Anacleto, Innocenzio albergò nel Palagio di Laterano, e l'Imperadore con suoi soldati s'attendò alla chiesa di S. Paolo. Frattanto al partito d'Innocenzio eransi aggiunti molti Baroni della Puglia mal soddisfatti di Ruggiero. I più segnalati fra gli altri furono Rainulfo Conte d'Airola e d'Avellino, Roberto Principe di Capua e Sergio Duca di Napoli. Rainulfo ancorchè cognato del Re, come quegli che teneva per moglie Matilda sua sorella, erasi disgustato con Ruggiero per cagion, che trattando egli troppo severamente la moglie, obbligò Ruggiero a togliergliela, e fattala venire a lui, l'inviò in Sicilia con un figliuolo di lei, e del Conte chiamato Roberto; ed avendo intimata al Conte la guerra gli tolse Avellino e Mercogliano, ed oltre a ciò, venuto in suo potere Riccardo fratello di Rainulfo, il quale parlava baldanzosamente contro di lui, [380] gli fece cavar gli occhi e tagliar il naso. A Rainulfo unissi Roberto Principe di Capua mal soddisfatto degli andamenti del Re, il quale apertamente aspirava a togliergli il suo Principato, del quale, non ostante che Roberto ne fosse in possesso, si fece da Anacleto dar l'investitura. In questi medesimi sospetti per le medesime cagioni era entrato Sergio Duca di Napoli, il quale se bene (se deve prestarsi fede all'Abate Telesino, poichè l'Arcivescovo Romualdo, e Falcone beneventano non fanno in questo tempo menzione alcuna di tal fatto) dimorando il Re in Salerno dopo la vittoria ottenuta sopra gli Amalfitani, atterrito dalla sua potenza ed estremo valore, venisse a sottoporre la città di Napoli al suo dominio; nulladimanco tale sommessione, se vi fu, non ebbe alcun effetto, poichè da poi volle sostenere con tutto lo spirito la libertà della sua città, e fugli fiero inimico congiurandosi insieme con Roberto e Rainulfo in favore del partito d'Innocenzio; e non bastando a questi tre aver infra di loro fermata questa lega, sollevarono ancora molte altre città della Puglia, e trassero con loro molti Baroni, che ribellando contro il lor Sovrano presero le armi contro chi men doveano e contro il proprio Principe le rivoltarono, ponendogli sossopra queste province di qua del Faro. E maggiore fu la baldanza di questi congiurati, quando seppero che Lotario insieme con Innocenzio in quest'anno 1133 era entrato in Italia, e giunti a Roma, ad una nuova e più vigorosa spedizione contro Ruggiero si apparecchiavano; onde per accelerar l'impresa tosto si portarono in quella città il Principe Roberto, il Conte Rainulfo e molti altri Baroni di queste province insieme con molta altra [381] gente per discacciar Ruggiero affatto da tutta la Puglia.

Accadde allora nel mese di giugno di quest'anno 1133 la coronazione di Lotario seguita in Roma con molta pompa per le mani d'Innocenzio, nella cui celebrità essendo concorsi molti Duchi, Marchesi e altri Baroni d'Italia, fu data occasione a Lotario, siccome i suoi maggiori solevano fare in Roncaglia, di stabilire a loro richiesta alcune leggi feudali, onde dopo Corrado il Salico, fu egli il secondo, che su i Feudi promulgasse leggi scritte; e fu allora da lui confermata la celebre legge di Corrado intorno alla successione de' nepoti e de' fratelli, della quale si fece da noi menzione ne' precedenti libri, quella appunto che vedesi registrata nel secondo libro de' Feudi[462], e che malamente fu dal Molineo e dal Pellegrino attribuita a Lotario I, dando occasione all'errore, per vedersi per incuria degl'Impressori in luogo d'Innocenzio esservi stato posto il nome d'Eugenio, come avvertì saggiamente Cujacio. Nè dovea moversi l'avvedutissimo Pellegrino a credere, che non potesse tal costituzione essere di questo Lotario poichè nell'iscrizione che porta, si legge: Constitutiones Feudales Domini Lotarii Imperatoris, quas ante januam B. Petri in Civitate Romana condidit: quasi che non potesse sentirsi di questo Lotario, il quale non potè con Innocenzio stabilire queste leggi ante januam B. Petri, quando siccome narra Ottone Frisingense[463], il Palazzo di S. Pietro veniva allora occupato da Anacleto; poichè, o l'iscrizione è viziata, siccome in vece d'Innocenzio fu per ignoranza ancora posto Eugenio, o pure non [382] è incredibile, che Anacleto avesse ciò permesso a Lotario, quando ciò niente dovea importargli; tanto maggiormente che presso appurati Scrittori si legge[464], che giunto Lotario in Roma per mezzo d'uomini saggi e religiosi ebbe molti trattati con Anacleto di levare così grave scisma nella Chiesa, e ben potè in questo mentre seguire quella celebrità avanti la porta del Palazzo di S. Pietro.

Ma non minore fu in ciò l'errore del nostro Andrea d'Isernia, il quale reputando, e con verità, che le Costituzioni, che stabilì Lotario in quest'anno in Roma, non potevano obbligare queste nostre province, le quali da Ruggiero s'erano affatto all'Imperio sottratte, non potè darsi a credere che fra i Sapienti delle altre città di Italia, che intervennero in quella Assemblea co' Duchi, Marchesi ed altri Baroni della medesima, come di Milano, Pavia, Cremona, Mantova, Verona, Trivigi, Padua, Vicenza, Parma, Lucca e Pisa, vi avessero potuto anche intervenire quelli della città di Siponto, come si legge in quella Costituzione: città a questi tempi ancor celebre della Puglia, come da' precedenti libri di questa Istoria s'è potuto in più occasioni notare, la quale al dominio di Ruggiero era sottoposta: onde si diede ad indovinare, o che il luogo fosse corrotto, ed in vece di Syponti, dovesse leggersi Senarum, ovvero (ciò che deve condonarsi alla rozzezza di quel secolo nel quale scrisse) che vi fossero un'altra città in Lombardia, o nella Toscana chiamata Siponto. Poichè niente strano deve sembrare, che vi fossero in quella Radunanza intervenuti ancora i Sapienti di Siponto, a chi considera, [383] che quella si tenne in tempo nel quale, se bene quelle province, che oggi compongono il nostro Regno, fossero state già da Ruggiero all'Imperio sottratte; nulladimeno per la congiura in questo tempo ordita dai Baroni contro questo Principe, i quali seguendo il partito di Roberto Principe di Capua, e di Rainulfo Conte d'Avellino eransi ribellati, ed aveano costretto Ruggiero ad abbandonar la Puglia, e di ritirarsi in Sicilia per unire le sue armate e reprimere la ribellione, come da poi fece: non potè Ruggiero impedire la loro andata in Roma, li quali tanto più si resero animosi contro di lui, quando intesero che Lotario era colà giunto per movere, insieme uniti, guerra contro di lui: e perciò non poterono i Sapienti di Siponto, allora ribelli, recar pregiudicio a Ruggiero, in maniera che fossero obbligati i di lui vassalli osservare quella Costituzione di Lotario suo inimico, come diremo ad altro proposito.

Ma tanti apparati di guerra e tanti inimici di Ruggiero insieme aggiunti, non poterono mai costernare l'animo di questo invitto Principe: egli tornato da Sicilia con poderose armate, dopo varia fortuna, che lo rese ora perdente, ora vincente, finalmente dissipò i suoi inimici: obbligò Lotario a tornarsene senza alcun frutto in Alemagna: costrinse Innocenzio a ritirarsi di nuovo in Pisa, ove celebrò un altro Concilio. Abbattè l'orgoglio di Rainulfo e di Roberto; e repressa la ribellione de' Baroni di Puglia, restituì questa provincia alla sua ubbidienza: e niente altro rimaneva perchè tutto questo Reame passasse sotto la sua dominazione, fuorchè Napoli, Benevento e Capua, e gli Stati del Conte Rainulfo; onde fermato in Salerno, alla conquista di queste città fu totalmente [384] rivolto, e sopra ogni altra di Capua e di Napoli; onde a tal fine fece ritorno in Sicilia per approntar nuove forze per conquistarle.

Il Principe Roberto, che ben prevedea il male, che gli soprastava, non tralasciò ogni sforzo per impedirlo, s'unì co' Pisani, e gito in Pisa ottenne da' medesimi valido soccorso di molte navi e soldati[465]. Proccurò anche che a' Pisani si unissero in suo ajuto i Genovesi, ed i Veneziani; onde ritornato nel Principato di Capua, andossene in Napoli, ove fu caramente ricevuto da Sergio, e dal Conte Rainulfo che in questa Piazza erasi ritirato. Espose a' medesimi la lega, che nuovamente avea conchiusa in Pisa in presenza d'Innocenzio co' Pisani, Genovesi e Veneziani, e come avea promesso a' Pisani, acciocchè fossero venuti in suo soccorso, tremila libbre d'argento. Fu con gran giubbilo intesa da Sergio, e da' suoi confederati questa novella, onde senza frapporvi dimora, tolsero ambedue gli argenti delle Chiese di Napoli e di Capua, e fattane quella somma di moneta, prestamente la mandarono a' Pisani.

Ma ecco che mentre costoro così si sforzano di resistere a Ruggiero, che questo Principe ritornando da Sicilia con sessanta galee, giunge in Salerno, e tosto sopra Napoli pose l'assedio; ma difendendosi questa città con estremo valore, abbandonolla, e verso Capua drizzò li suoi eserciti; ed avendo presa Nocera, e molti altri castelli di quel contorno, fu Capua assalita, la quale incontanente gli si rese[466]. Il Re entrato in quella, vi fu a grande onor ricevuto, ed avendo [385] dopo breve contrasto conquistati gli altri luoghi del Principato, tornò di nuovo a cinger Napoli di stretto assedio.

Ecco come in quest'anno 1135 Ruggiero dopo varj casi unì agli altri suoi Stati il Principato di Capua, del quale aveane già avuta l'investitura da Anacleto. Egli poco da poi ne investì Anfuso suo figliuolo, dandogli di sua mano lo Stendardo, ch'era a questi tempi la cerimonia, che s'accostumava nelle investiture; e fu perciò Anfuso da' Capuani per lor Principe salutato, giurandogli fedeltà. Ma egli è ben da notare, che i Capuani giurarono fedeltà ad Anfuso, salva tamen Regis, et filii ejus Rogerii (Ducis Apuliae) fidelitate, qui ei in Regnum successurus erat, come rapporta l'Abate Telesino; poichè avendo Ruggiero al suo Regno unito il Principato di Capua, ancorchè ne avesse investito Anfuso, non volle però che lo reggesse independentemente dalla Corona, e da lui, e dal suo figliuolo Ruggiero Duca di Puglia, dichiarato successore del Regno.

Avea il Re Ruggiero dalla sua prima moglie, che fu Alberia figliuola d'Alfonso Re di Spagna, generati cinque figliuoli. Il primo, che dovea succedergli al Regno, ed il quale il padre l'avea perciò istituito Duca di Puglia, fu chiamato Ruggiero[467]; ma questi essendo a lui premorto nell'anno 1148 diede luogo agli altri suoi fratelli secondogeniti alla successione. Da questo Ruggiero narrasi, che fosse nato Tancredi, quegli, che succedè al Regno di Sicilia, riputato suo figliuolo bastardo, come si dirà più innanzi. Il secondo fu Tancredi, al quale il padre avea assignato [386] il Principato di Bari, o veramente di Taranto, perchè allora non avea acquistato ancora quel di Capua: e questi pure prima di tutti gli altri suoi fratelli, premorì al padre prima dell'anno 1144.

Il terzo fu questo Anfuso, o come altri dicono Alfuso, onde Girolamo Zurita suspica che lo dicessero così dal nome d'Alfonso Re di Spagna suo avo materno: ma Wolfgango Lazio[468] è di parere, che sia nome Goto, derivato da Idelfonso, e questo da Hildibrunzo, vocabolo gotico, a favore scilicet et amore foederis. Costui da Ruggiero in quest'anno 1135 fu creato Principe di Capua; il quale poco da poi nell'anno 1139 essendo già passato il Ducato napoletano sotto la sua dominazione, fu fatto anche Duca di Napoli, secondo che scrive il Pellegrino; ma questi seguitò la sorte degli altri suoi fratelli maggiori, poichè premorendo pure al padre, finì li giorni suoi nel medesimo anno 1144.

Il quarto fu Guglielmo I quegli che dopo la morte d'Anfuso creato dal padre Principe di Capua e Duca di Napoli, e morto da poi Ruggiero altro suo fratello, fatto Duca di Puglia in suo luogo; finalmente nell'anno 1151 fu da Ruggiero assunto per suo Collega al Regno, e fu coronato e dichiarato suo successore; siccome morto suo padre gli successe, e per più anni tenne il Regno di Sicilia e di Puglia; poichè Errico altro suo fratello morì giovanetto vivente il padre avanti la morte di Ruggiero suo maggior fratello.

Ebbe Ruggiero altre mogli: Sibilla sorella del Duca di Borgogna, dalla quale presso i più diligenti Scrittori non si legge che avesse procreati figliuoli: Beatrice, [387] dalla quale gli nacque Costanza, quella che destinata a cose più grandi con varie vicende si vide moglie d'Errico VI Imperadore, e dalla quale nacque il famoso Federico II. le cui gesta saranno ben ampio soggetto di quest'Istoria. E vi sono chi a queste tre mogli di Ruggiero aggiunge la quarta, che dicono essere stata N. sorella d'Anacleto, della famiglia di Pier Lione; e la quinta chiamata Airolda figliuola del Conte de' Marsi[469].

Ma mentre Ruggiero tenendo assediata Napoli, per mare travagliava questa città, scorgendo, che per l'estremo valore de' suoi cittadini non era per rendersi così subito, partissi dall'assedio, lasciando a' suoi Capitani la cura di quello, ed egli in Salerno fece ritorno; ove imbarcatosi sopra la sua armata passò in Sicilia per poter nella vegnente primavera ritornar con esercito più numeroso ad espugnarla, siccome narra Alessandro Abate di S. Salvatore della Valle Telesia, il quale qui termina i quattro libri della sua latina istoria normanna.

Intanto il Principe di Capua Roberto era andato in Pisa a cercar soccorso; ma non fu a tempo, poichè tornato da quella Città, ritrovò Capua già presa, e furono inutili tutti gli altri suoi sforzi, che fece da poi per riacquistarla; onde vedute disperate le sue cose, fece di nuovo in Pisa ritorno. Il Duca di Napoli Sergio ancora, vedendo in tale strettezza la sua città, temendo dell'ultima sua ruina, se non avea presti ajuti, imbarcatosi sopra un naviglio passò anch'egli in [388] Pisa per soccorso, ma non avendolo potuto ottenere, tutto afflitto se ne tornò indietro a Napoli.

Ma il Principe Roberto avendo ritrovato in Pisa Papa Innocenzo, fu da costui stimolato a passare in Alemagna, e a chiedere in suo nome, ed in nome del Pontefice soccorso a Lotario Imperadore. Giunto egli in Lamagna fu caramente dall'Imperadore accolto, il quale lo rimandò tosto in Pisa con certa promessa di venire nel seguente anno in Italia a liberar la Chiesa di Roma dallo scisma, ed a restituire Roberto nel suo Principato. In questi tempi per la sua dottrina, e più per la bontà de' costumi Bernardo Abate di Chiaravalle aveasi acquistata in Europa gran fama di santità; onde non meno presso l'Imperadore, che del Papa Innocenzio era in somma stima tenuto, ed i suoi consigli erano di grande autorità, ed avendo proccurato Innocenzio in questo scisma trarlo alla sua parte contro Anacleto, non può dubitarsi che fu uno de' mezzi più adoperati ed efficaci a favor d'Innocenzio, e che prendendo le sue parti con ardore non gli portasse molto ajuto e conforto. Egli non si ritenne in queste congiunture scrivere calde e pressanti lettere all'Imperador Lotario, che come avvocato e difensore della Chiesa, calasse tosto in Italia a reprimere l'orgoglio de' Scismatici, ed a vendicarsi di Ruggiero. Ed il suo zelo fu tanto, che in una lettera che scrisse a Lotario, non ebbe alcun ritegno di chiamar Ruggiero usurpatore, e che ingiustamente aveasi usurpata la Corona di Sicilia, non altramente, che Anacleto la sede di S. Pietro: Caesaris est, e' diceva a Lotario, propriam vindicare Coronam ab usurpatore Siculo. Ut enim constat Judaicam sobolem Sedem Petri in Christo occupasse injurias sic proculdubio omnis, qui in Sicilia [389] Regem se facit, contradicit Caesari; come se la Sicilia Ruggiero l'avesse sottratta all'Imperio d'Occidente, e Lotario dovesse reputarsi come un altro Ottaviano Augusto a riguardo di tutte le province del Mondo.

Furono però quest'inviti cotanto efficaci, che finalmente Lotario si dispone a calar la seconda volta in Italia con eserciti più poderosi e con forte deliberazione di abbattere lo scisma, e discacciar Ruggiero da queste province; scrisse perciò ad Innocenzio, che nella festività di S. Jacopo di quest'anno 1136 si sarebbe egli partito di Lamagna[470]. Papa Innocenzio tantosto inviò tal novella al Duca di Napoli Sergio, ed il Principe Roberto con cinque navi cariche di vettovaglia andò a soccorrer Napoli, che grandissima fame pativa, per tenerla i soldati del Re così stretta, che da niun lato per terra potevano introdursi viveri. E fatti certi Sergio ed i Napoletani della venuta dell'Imperadore, ritornò prestamente il Principe Roberto a Pisa, e di là n'andò ad incontrar Lotario, il quale ritrovò aver già passate le Alpi, ed essersi attendato a Cremona.

§. I. Lotario cala la seconda volta in Italia, ed abbatte le forze di Ruggiero.

Fu nel declinar di questo anno 1136 nel mese di novembre, che questo Imperadore fermato in Roncaglia (che come altre volte abbiam detto, è un campo piano e largo posto sopra il Po non molto lontano [390] da Piacenza)[471] ragunò, secondo il costume de' suoi maggiori, una Assemblea di tutti gli Ordini così ecclesiastico di Arcivescovi e Vescovi, come de' Nobili, di Duchi, Marchesi, Conti, ed altri Baroni, e de' Magistrati delle città d'Italia, ove a richiesta de' medesimi per mezzo d'una sua Costituzione stabilì alcune altre leggi feudali, che riguardano principalmente la proibizione di poter alienare i Feudi. Questa Costituzione noi l'abbiamo nel libro secondo de' Feudi[472]; ed anche nel libro terzo delle leggi longobarde[473]. Nè l'istesso Pellegrino[474] può negare che sia di questo Lotario; onde da ciò ancora si convince, che il Compilatore delle leggi longobarde, unì le Costituzioni degl'Imperadori come Re d'Italia, cominciando da Carlo M. sino a quest'ultimo Lotario (poichè quella di Carlo IV fu aggiunta molto tempo da poi di questa Compilazione) perchè gli altri Imperadori che dopo Lotario tennero l'Imperio d'Occidente, e che sovente calati in Italia presso Roncaglia stabilirono altre leggi, atteso che queste riguardavano solamente i Feudi: i Compilatori delle Consuetudini Feudali, che furono a tempo di Federico I non stimarono unirle alle leggi longobarde, ma facendo una Compilazione a parte l'unirono al Corpo delle Consuetudini Feudali, onde ne surse un nuovo Corpo di leggi dette Feudali, che ultimamente da Cujacio fu distinto in cinque libri, come trattando di questa Compilazione a suo luogo più distesamente diremo.

Non vide Ruggiero più fiera procella di quella, che [391] gli mosse Lotario in questa seconda volta, che calò in Italia. Si vide in un baleno sottratte dal suo Regno le più belle province, com'erano queste di qua del Faro: al suo arrivo si rinvigorirono le speranze de' suoi nemici, ed i mal contenti si resero più animosi a prorompere in aperte sedizioni; poichè in prima non mancò Lotario, avvisato delle angustie, nelle quali era ridotta la città di Napoli, e che i suoi cittadini per le case, e per le piazze perivan di fame, di mandar lettere ed Ambasciadori a Sergio, ed ai Napoletani, confortandogli a durare per picciol tempo nell'assedio, ch'egli tantosto sarebbe venuto in lor soccorso. Ed in fatti non tardò guari, che s'incamminò verso Apruzzi, e pervenuto al fiume Pescara, valicatolo, soggiogò Termoli con molti luoghi di quella provincia; e passato in Puglia, prese la città di Siponto, ed atterrì in maniera i Pugliesi, e gli pose in tanta costernazione, che tutte le città di quel contorno insino a Bari, ove Lotario era passato, si diedero in sua balìa.

Intanto Innocenzio, che dimorava a Pisa, erasi già partito di colà, e passato a Viterbo per incontrarsi con l'Imperadore, il qual intesa la venuta del Papa in quella città, gl'inviò tosto Errico suo genero con tremila soldati, e gli mandò a dire che proccurasse di conquistare le terre della Campagna di Roma, e di restituire il Principato di Capua a Roberto, perch'egli per altro cammino avrebbe proccurato di toglier a Ruggiero l'altre province della Puglia: onde Innocenzio con altro esercito venne a S. Germano, che tantosto se gli diede. Indi passato a Capua non vi essendo chi potesse resistergli, tosto si rese padrone di quella città, e ripose in essa e nel suo Principato [392] il Principe Roberto[475]. E scorso da poi in Benevento, dopo breve contrasto, i Beneventani si resero a lui. Indi partissi per girne a ritrovar Lotario in Puglia, il quale avea già presa Bari[476], e sol gli restava d'espugnare la sua forte Rocca, la quale Ruggiero avea edificata, e di grosso e valoroso presidio munita; ma quella finalmente espugnata, portossi l'Imperadore ed Innocenzio sopra Melfi di Puglia: ed avendola per alcun tempo tenuta assediata, l'ebbero alla fine in lor balìa.

Fu in questo anno 1137 che Lotario avendo tolta a Ruggiero la Puglia pensò di crearne un nuovo Duca, ed avendo fatto in Melfi a tal fine ragunare un Parlamento, ove fece chiamare tutti i Baroni di quella provincia, trattò ivi della creazione di questo nuovo Duca, mandando in tanto i suoi eserciti verso Salerno per assediare quella città. Insorsero per tal occasione gravi contese tra Lotario ed Innocenzio intorno a quest'elezione[477]: pretendeva Innocenzio per le ragioni altre volte addotte, che siccome i suoi predecessori aveano investito i Normanni del Ducato di Puglia, così ora essendosi tolto a costoro, suo dovesse essere il potere di investirne altri. All'incontro Lotario pretendendo esser queste province dipendenti dall'Imperio d'Occidente, essere degl'Imperadori la facoltà dell'investire altri[478], siccome di fatto l'Imperador Errico ne avea investiti i Normanni. La discordia s'accese in maniera, che se non fosse stato il timore conceputo, che Ruggiero lor comune nemico non se ne profittasse, sarebbe terminata in aperta guerra. A questo [393] fine si pensò un espediente, col quale proccurossi di non recarsi pregiudizio alle ragioni dell'Imperio, nè della Chiesa; e fra lor si convenne che il nuovo Duca si dovesse da ambedue investire[479]. Fu eletto Rainulfo Conte d'Avellino di nazione normanna, non Germano, come credette il Sigonio[480], cognato del Re, e figliuolo del Conte Roberto, il quale era nato dal vecchio Conte Rainulfo fratello germano di Riccardo I Principe di Capua[481].

Fu adunque Rainulfo creato nuovo Duca di Puglia, e gli fu dato lo Stendardo, con cui fu investito del Ducato per mano d'ambedue, d'Innocenzio e di Cesare. E Falcone Beneventano aggiunge, che a' 5 di settembre l'istesso Papa Innocenzio nella chiesa arcivescovile di Benevento unse Rainulfo in Duca di Puglia, essendo a questa unzione presenti il Patriarca di Aquileja, molti Arcivescovi, Vescovi ed Abati. Così insino a questo punto i due più fieri nemici di Ruggiero, i quali si erano così ben distinti a favor di Lotario e del Papa, riceverono i premj de' loro sudori e travagli: Roberto fu restituito nel Principato di Capua, e Rainulfo a più sublime dignità fu promosso. Rimaneva l'altro, ch'era Sergio co' suoi Napoletani, i quali finora avean con inaudita costanza in mezzo a tante calamità e penurie sostenuto l'assedio della loro città; perciò Lotario ed Innocenzio verso queste parti rivoltarono tutti i loro sforzi, e tenendo i loro eserciti presso Salerno, pensarono di espugnar prima questa città, e da poi passare a levar l'assedio di Napoli, aspettando in tanto il sospirato [394] soccorso di Pisa, senza il quale non poteva per via di mare portarsi soccorso alcuno in quella città, e senza il quale non era da sperare di poter ridurre Amalfi e gli altri luoghi marittimi d'intorno, sotto la dominazione di Cesare. Ma ecco che pur troppo opportunamente i Pisani con cento legni armati, siccome avean promesso, giunsero in Napoli, ed introdotto soccorso in questa città, tanto che non vi era più timore di rendersi, non guari da poi fu loro da Cesare comandato, che passassero in Amalfi affin di ridurre quella città co' luoghi vicini, siccome vi passarono con quaranta sei galee, e quivi giunti, espugnarono Amalfi, Scala e Ravello, e facendo gran bottino in quella città, e nella sua riviera, ridussero Amalfi sotto la dominazione dell'Imperadore.

CAPITOLO II. Ritrovamento delle Pandette in Amalfi; e rinovellamento della giurisprudenza romana, e de' libri di Giustiniano nell'Accademie d'Italia.

Fu in quest'incontro, che la città d'Amalfi ancorchè espugnata, si rese luminosa e chiara ne' secoli seguenti sopra tutte le altre città d'Europa: poichè alla sua gloria d'aver un suo cittadino trovata la bussola, s'accoppiò quella d'essersi con tal occasione trovato in questa città il volume delle Pandette di Giustiniano Imperadore da taluni creduto che fosse propriamente quello istesso, che questo Imperadore fece compilare. Gli esemplari di questo volume erano quasi che sepolti, per le molte Compilazioni seguite appresso [395] de' Basilici, e per le molte altre cagioni, che si dissero nel settimo libro di quest'Istoria: solo per la Francia, come fu altrove notato, ne girava attorno qualcheduno, poichè osserviamo che Ivone Carnotense, che fiorì a' tempi di Pascale II verso l'anno 1099 nelle sue epistole allega sovente le leggi delle Pandette[482]. Ma in Italia n'era affatto perduta ogni memoria: solamente, come si disse, il Codice, le Istituzioni, e le sue Novelle erano conosciute, più per diligenza de' romani Pontefici, e per li Monaci, appresso i quali era allora la letteratura, che per altro.

In fatti molte leggi del Codice vediamo noi da' Pontefici romani rapportate nelle loro decretali, come in quelle di Gregorio III e d'altri Pontefici[483]: delle Istituzioni, e delle Novelle non era così rara la notizia, poichè abbiam veduto che il celebre Abate Desiderio nella sua Biblioteca Cassinense ne conservava gli esemplari; ma la più bella parte, ch'era quella delle Pandette, ed ove racchiudesi il candore e la pulitezza delle leggi Romane, era a noi molto più nascosta, e rara la notizia. In Ravenna non è ancor deciso il dubbio, se veramente se ne conservasse qualche parte. Guido Pancirolo[484] rapporta l'opinione di alcuni, che credevano nell'anno 1128 in Ravenna in un'antica Biblioteca essere state ritrovate le Pandette, le quali offerte a Lotario, avendole riconosciute per legittimo parto dell'Imperador Giustiniano, avesse ordinato, che pubblicamente si spiegassero nelle Scuole. Ma l'istesso Pancirolo riputa più vera l'opinione di [396] coloro, che scrissero in Ravenna il Codice di Giustiniano essersi ritrovato, non già le Pandette, le quali in Amalfi in quest'anno 1137 per l'occasione già detta furono scoverte. Alla città dunque di Amalfi non molto da Napoli lontana si dee questa Gloria; non già a Melfi di Puglia, come alcuni Oltramontani scrissero i quali non ben intesi de' luoghi particolari, e delle città di queste nostre Province, hanno sovente preso abbaglio in confonder l'una coll'altra città; siccome per contrario il Concilio celebrato in Puglia a Melfi nell'anno 1059 sotto Niccolò II, dissero che si fosse celebrato ad Amalfi. Alcuni altri, forse tratti dall'amore della gloria della loro patria, non si ritennero di dire che non in Amalfi, ma che in Napoli i Pisani mentre entrarono a soccorrerla, l'avessero trovate, e che toltele a' Napoletani in Pisa le trasportassero; della qual credenza ancorchè vana, e che non ha alcun appoggio, e ripugnante a tutta l'istoria, è gran maraviglia che avesse trovato chi ne restasse preso come fu il Summonte e Francesco de' Pietri, il quale fra gli altri suoi deliri, onde tessè la sua istoria, non tralasciò inserirvi anche questo. E novellamente un moderno Scrittore pugliese pur sognò che nè in Amalfi, nè in Napoli si fossero trovate le Pandette, ma in Molfetta, e non per altra ragione, se non per la somiglianza del nome, e se non perchè Molfetta era la patria dello Scrittore: così oggi (non altramente, che della patria d'Omero e del Tasso) contrastano molte città per appropriarsi la gloria di questo ritrovamento.

Ma oltre agli antichi Annali, non deve ciò parer cosa strana a coloro, i quali dal corso di quest'Istoria avranno appreso quanto gli Amalfitani fossero [397] stati per le navigazioni celebri, e quanta fosse la frequenza de' traffichi e del commercio, che avean nelle parti d'Oriente e nella Grecia, ciocchè non l'ebbero quelle città, le quali ancor esse aspirano a questa gloria; onde fu cosa molto propria, che gli Amalfitani fra le altre cose che da Levante portarono nella loro città, v'avessero anche portate le Pandette, volume così raro, e nel quale era riposto il candore delle leggi romane; ed in fatti comunemente si narra[485], che per opera d'un Mercante paesano, navigando in Levante, l'avesse quivi comprate, e nel suo ritorno ne avesse fatto un dono alla patria. Nè può recarsi in dubbio, che i Pisani fra le altre prede, che fecero in Amalfi, fu questa delle Pandette, e questa sola, in premio delle loro fatiche sofferte in quell'impresa, cercarono ardentemente a Lotario Imperadore, il quale gliele concedette di buona voglia; onde trasportate da loro in Pisa, acquistarono perciò il nome di Pandette Pisane, che lo ritennero poco men di tre secoli insino all'anno 1416, nel quale surta guerra fra i Pisani e' Fiorentini, Guido Caponio Capitano de' Fiorentini avendo espugnata e presa la città di Pisa, come una gran parte del suo trionfo, trovate in quella le Pandette, le trasferì in Fiorenza, ove oggi giorno con venerazione, e come cosa di gran pregio si conservano nella Biblioteca de' Medici in due tomi divise: onde quando prima erano appellate Pisane si dissero da poi Fiorentine, come oggi giorno ritengono il nome. Gli antichi Annali di Pisa appresso Plozio Grifo, Rainero Grachia Pisano antichissimo Istorico, che scrisse sono più di 300 anni de Bello Tusco in cotal [398] guisa narrano questo ritrovamento insieme e trasportamento da Pisa in Firenze, e Plozio presso Taurello afferma, aver tenuto egli in casa un antico istromento di questa donazione che Lotario fece a' Pisani delle Pandette Amalfitane. Così ancora lo rapportano il Sigonio[486], Raffael Volaterrano, Angelo Poliziano[487], Antonio Gatto[488], Francesco Taurello[489], Arturo Duck[490], e tutti gli altri Scrittori, insino a Burcardo Struvio[491], ch'è l'ultimo fra i moderni a confermarlo.

(Dopo tutti costoro, ultimamente Errico Brenemanno nella sua Historia Pandectarum, impressa ad Utrecht l'anno 1722, esaminando questo punto d'istoria, tolse ogni dubbio, con far imprimere pag. 410 le parole della Cronica antica o siano Annali Pisani, che egli trascrisse da un antico Codice manuscritto, che si conserva nella Biblioteca de' Domenicani di Bologna: dove parlandosi della guerra, che Papa Innocenzio, e Lotario coll'aiuto de' Pisani, mossero contro il Re Ruggiero di Sicilia, si leggono queste parole: Li Pisani pridie nonas Augusti armorono 46 Galee, et forono a la costa de' Malfi, et quello dì per forzia lo presero con septe Galee et doe Nave; in la quali ritrovarono le Pandette composte dalla Regia Maestà di Justiniano Imperatore, e dopoi quella brusorono etc.)

Lotario se bene avesse a' Pisani conceduta una cosa di tanto pregio, essendo egli un Principe dotto, e sopra a tutto riputato saggio facitor di leggi, non trascurò [399] di osservarle, e scorto che in esse v'era il candor delle leggi romane, pensò non doversi trascurare 1'utile che poteva da quelle ritrarsi, e che non doveano, siccome prima, rimaner così tra le tenebre nascoste e sepolte. Evvi gran contrasto tra i Bolognesi e gli altri Scrittori, se Lotario avesse con suo editto stabilito che le Pandette pubblicamente si leggessero in Bologna, ovvero per privato studio d'Irnerio si fossero ivi insegnate insieme con gli altri libri di Giustiniano. Li Dottori bolognesi narrano, che Lotario diede ordine ad Irnerio, il quale in Bologna leggeva filosofia, che pubblicamente le dichiarasse, il che egli cominciò a fare nell'anno 1128 ciò che sarebbe accaduto prima, che le Pandette si fossero trovate in Amalfi. Corrado Uspergense dopo aver narrata l'istoria di Lotario, dice che Irnerio lo facesse a petizione della Contessa Matilda; e negli Argomenti dell'Istoria di Bologna, che s'attribuiscono a Carlo Sigonio, nell'anno 1102 si legge che la Contessa Matilda ad Irnerio che ivi leggeva filosofia, avesse imposto spiegarle, e che vi facesse le prime chiose. Ma Burcardo Struvio[492] stima favoloso ciò che Corrado narra della Contessa Matilda, che mentre imperava Lotario avesse ciò imposto ad Irnerio, essendo indubitato, che Matilda morì nell'anno 1115 prima dell'Imperio di Lotario, e l'istesso Sigonio riprova ancora ciò che Corrado dice, per questa istessa ragione[493]. Quindi Struvio crede, che quegli Argomenti, che si leggono dopo [400] l'istoria di Bologna non han potuto esser mai opera del Sigonio, il quale manifestamente nella sua Istoria del Regno d'Italia dice il contrario, e riprende Corrado che l'avea scritto.

I più gravi Autori perciò condannano per favoloso questo racconto, e rapportano che Irnerio, nè per autorità della Contessa Matilda, nè per comando di Lotario avesse nella Scuola di Bologna interpretati i libri di Giustiniano, ma per privato studio, e per soddisfare la sua ambizione.

Irnerio a questi tempi, ne' quali la Giurisprudenza insieme colle altre discipline cominciavano a risorgere, fu riputato uno de' migliori Giureconsulti. Della sua patria contendono i Germani ed i Milanesi, ed i Fiorentini pur ne vogliono la lor parte: egli prima fu dato a' studj di Filosofia e delle Lettere umane secondo che comportava l'uso di que' tempi, e si crede che navigasse in Levante, ed in Costantinopoli le avesse apprese; indi a Ravenna tornato, avessele quivi insegnate, ed acquistasse gran fama d'uomo di lettere. Ma dismesso poi lo studio di Ravenna, fu da' Bolognesi chiamato nella loro città, dove si pose a leggere Filosofia. Erasi in Bologna stabilita una Scuola, ove s'insegnava anche giurisprudenza, ed eravi Pepone che la professava; ed essendo tra' Professori insorta disputa sopra la parola AS denotante le dodici oncie, Irnerio con tal occasione si diede a studiare i libri di Giustiniano, e divenne famoso Giurista, tal che oscurò la fama di Pepone. Fece sommo studio sopra il Codice, e sopra le Instituzioni e le Novelle di Giustiniano, accorciandole, ed adattandole poi alle leggi del Codice, perchè si conoscesse in che le Novelle discordavan da quelle; fece ancora le prime sue chiose [401] a questi libri; ed egli fu il primo che nell'anno 1128 commentasse le leggi romane. Coloro che scrissero in Ravenna in quest'anno essersi trovato un altro esemplare de' Digesti, oltre di quello, che correva per la Francia, dicono che Irnerio prima che fossero in Amalfi trovate le Pandette (che Angelo Poliziano[494] credette essere quelle istesse che pubblicò Giustiniano, nel che discordano Andrea Alciato[495], ed Antonio Augustino[496], e dalle quali egli è almen certo, per essere antichissime, che furon tratti gli altri esemplari[497]) impiegasse i suoi talenti anche sopra i Digesti, e che insieme con gli altri libri di Giustiniano le insegnasse in Bologna, e vi facesse le prime sue chiose. Ma gli altri, che ciò niegano, e dicono che i primi esemplari delle Pandette fossero usciti in Italia da quelle d'Amalfi, sostengono che Irnerio spiegasse in quella Accademia i Digesti da poi che furono ritrovate in Amalfi, ma non già per autorità e comandamento che ne avesse avuto dall'Imperador Lotario: ma per privato suo studio, siccome prima in Bologna faceva sopra gli altri libri di Giustiniano, e sopra l'altre discipline, senza ordine dell'Imperadore. Nè quell'Accademia in questi tempi fu istituita da Lotario, nè per suo editto si legge, che avesse comandato, che quivi si dovessero spiegare, ed insegnare per sua autorità i libri di Giustiniano, siccome sostiene Federico Lindenbrogio[498]; soggiungendo Ermanno Conringio[499], che se Lotario avesse ciò ordinato, [402] e gli fosse stato tanto a cuore la Scuola di Bologna, trovate che furono in Amalfi le Pandette, non a' Pisani, ma a' Professori bolognesi ne avrebbe fatto dono.

Ma quantunque sopra ciò non si leggesse particolar editto di Lotario, non è però, che questo Principe non favorisse questi studj, e che a' suoi tempi la Scuola di Bologna non fiorisse molto più che ne' passati, avendovi Irnerio sopra le leggi romane fatti progressi maravigliosi; onde avvenne che questi studj furon coltivati e promossi, e molti vi s'applicarono in guisa, che dalla Scuola d'Irnerio ne uscirono poi valenti Dottori, i quali o in voce, e per mezzo delle loro chiose in iscritto, illustrarono le leggi di Giustiniano, e diffusero il loro studio, non pure in Bologna, ma per tutte le Accademie d'Italia. Sursero quindi Martino da Cremona: Bulgaro, che a' tempi di Federico Barbarossa fiorì cotanto in Bologna: Ugone, e Giacomo Ugolino, Ruggieri, Ottone e Placentino, che si resero cotanto celebri nell'Accademia di Montpellier in Francia. Pileo discepolo di Bulgaro, che in Bologna ed in Modena si rese illustre per le sue Quistioni Sabbetine. Alberico della Porta di Ravenna: ed il di lui discepolo Azone, il quale fra i Giureconsulti della sua età tenne il primo luogo, maestro del nostro Roffredo Beneventano, di Balduino e di tanti altri.

Da questo risorgimento de' libri di Giustiniano nell'Accademie d'Italia, e dalla Scuola d'Irnerio comunemente si crede, che avessero origine le solennità da poi praticate in creare i Dottori, attribuendosi ad Irnerio, che per autorità di Lotario concedesse a' Professori di legge il grado del Dottorato, leggendosi, che avesse dichiarati Dottori Bulgaro, Ugolino, Martino e [403] Pileo[500]. E narra Acerbo Morena[501], ch'essendo Irnerio nell'ultimo di sua vita, se gli accostarono i suoi scolari, e gli domandarono, chi voleva, che dopo la sua morte fosse il lor Dottore, ed egli lor nominò Bulgaro, Martino e Ugone, ma che tenessero Giacomo in suo luogo, onde questi fu costituito lor Dottore. Ma Itterio[502] e Conringio[503] reputano, che queste solennità in conferire i gradi di Dottore nell'Accademie, traesse origine da' Francesi, donde poi l'appresero gl'Italiani.

Credettero il Sigonio[504], Arturo Duck[505], ed altri, che Lotario, oltre d'aver comandato, che i libri di Giustiniano si leggessero per sua autorità nelle pubbliche Accademie, ordinò che anche ne' Tribunali si allegassero, e che tralasciate le leggi longobarde, quelli solamente i Giudici seguissero. Ma la costoro opinione non ha fondamento veruno d'istoria, non leggendosi, non pure editto alcuno di Lotario, come sarebbe stato necessario che ciò comandasse, ma nemmeno Istorico contemporaneo, che lo scrivesse; ond'è che i più gravi Scrittori[506], e lungamente Lindenbrogio[507] ripruovano il costoro errore. Quel che poi manifestamente convince il contrario, è il vedersi, che le leggi longobarde in Italia, e più in queste nostre province lungamente da poi si mantennero, e ne' Tribunali secondo quelle si decidevano i litigi, e la legge romana [404] come per tradizione era mantenuta da' provinciali; nè a questi tempi da' libri di Giustiniano era allegata, i quali non aveano ancora acquistata nel Foro autorità alcuna, siccome tratto tratto l'acquistaron da poi per uso più, e per forza della ragione, che per legge di alcun Principe.

Ma se mai di Lotario fossevi stata legge, che ciò comandasse, quella certamente nelle nostre province, ch'erano sotto la dominazione del Re Ruggiero suo inimico, non avrebbe avuto alcun vigore. Questo Principe, come qui a poco vedremo, ricuperò ben tosto tutte quelle province, che Lotario avea invase, e debellò tutti i suoi nemici, riunendole al suo Regno di Sicilia, che stabilito in forma di vera Monarchia non ubbidiva altre leggi, se non quelle, che i Longobardi v'introdussero, e quelle che egli stabilì da poi. E ciò non pur accadde imperando Lotario, e durante il Regno di Ruggiero, ma anche nel tempo de' Re normanni suoi successori, i quali continuando perpetua guerra con Corrado e Federico I che a Lotario successero, non permisero mai, che le costoro leggi fossero in queste province osservate, e che avessero alcuna forza ed autorità; ed in fatti come più innanzi vedrassi, non per le leggi romane contenute in questi libri, ma per le leggi longobarde, e per le romane, che come per tradizione erano ritenute da questi Popoli, si decidevano le liti. Nè appresso di noi vi fu anche occasione che questi libri si potessero leggere nelle nostre pubbliche Scuole; poichè insino a Federico II gran fautore delle lettere, che l'introdusse in Napoli, noi non avevamo Accademie; nè se non ne' tempi più bassi, essendo gli ultimi a seguitare l'esempio delle altre città d'Italia, cominciarono in queste province gli studj [405] di questi libri, e ad allegarsi nel Foro più per forza di ragione, che di legge, come si vedrà nel corso di quest'Istoria.

CAPITOLO III. Il Re Ruggiero prosiegue la guerra con Innocenzio: morte d'Anacleto, seguita poco da poi da quella di Lotario Imperadore, e di Rainulfo Duca di Puglia: Ruggiero ricupera le città perdute; e tutte queste province col Ducato napoletano al suo Imperio si sottomettono. Innocenzio è fatto prigione, e pace indi seguita tra lui e 'l Re, al quale finalmente concede l'investitura del Regno.

Espugnata da' Pisani Amalfi, e gli altri luoghi di quel contorno, ordinò Lotario a' medesimi, che andassero ad oste a Salerno, alla quale impresa fece anche venir da Napoli il Duca Sergio, e da Capua il Principe Roberto, ed egli v'inviò il Duca Rainulfo con mille de' suoi Alemanni; dalle quali genti insieme unite, fu strettamente Salerno assediato.

Era questa città difesa da Roberto Cancelliero del Re Ruggiero, il quale non teneva altra milizia per difender quest'importante Piazza, che solo quattrocento soldati con alcuni Baroni de' circonvicini castelli; ma al picciol presidio suppliva la fede e l'amor de' Salernitani verso Ruggiero, i quali per essere stati lungo tempo sotto il dominio di quel Re, gli erano come a loro antico Signore fedelissimi. S'aggiungeva ancora la gratitudine per la quale erano tanto obbligati a questo Principe, da cui sopra tutti gli altri [406] erano stimati, ed in gran pregio tenuti, avendo scelta tra tutte le città di questo Regno, Salerno per fede della sua regal Corte; e siccome nell'isola di Sicilia egli avea posta la sua residenza in Palermo, così quando era obbligato per gli affari di queste province di passare il Faro, non altrove, che in Salerno faceva dimora. Per le quali cagioni con molto valore si difendevano dagli insulti degli assalitori; tanto che i Pisani, sperimentata la loro fortezza, per vincer la loro costanza fecero comporre una macchina per isforzar le mura della città, della quale ebber tanto spavento i Salernitani, che cominciarono a disperar della difesa; onde essendo sopraggiunti all'assediata città il Pontefice e l'Imperadore, i Salernitani inviando a Cesare loro messaggi si sottoposero a lui, con condizione, che i soldati stranieri potessero girne ove lor meglio gradiva, onde alcuni d'essi partirono, ed altri insieme co' Baroni e Capitani, che colà erano, si ritirarono alla Rocca della città, valorosamente mantenendola sotto il dominio del lor Signore. I Pisani avendo saputo essersi i Salernitani resi all'Imperadore, ed essere stati da lui ricevuti senza dirne nulla a loro, sdegnati fieramente di tal dispregio, arsero tantosto le macchine, che avean composte per espugnar Salerno, ed apprestati lor legni volevan ritornare a Pisa; e l'avrebber posto ad esecuzione se il Pontefice, cui molto premea la loro alleanza, non gli avesse con molte preghiere, e con larghe promesse trattenuti; ma sì fatta discordia cagionò, che non s'espugnasse la Rocca, la quale perciò rimase alla divozione di Ruggiero.

Maggiori furono le discordie, che nacquero per questa stessa cagione tra l'Imperadore ed Innocenzio, pretendendo questi la città di Salerno appartenersi alla [407] romana Chiesa, e sebbene finora non si sappia per qual particolar ragione, con tutto ciò si vede che Gregorio VII non volle in conto alcuno investirne Ruggiero, siccome nè tampoco gli altri suoi successori, per questo istesso che pretendevano quella città alla Sede Appostolica appartenersi; ma Lotario opponendosi fortemente a tal dimanda, fece che Innocenzio s'acchetasse[508], non volendo quest'accorto Pontefice romper con lui in vantaggio di Ruggiero, il quale da queste discordie avrebbe per se ritratto maggior profitto: non fu però che Innocenzio non sentisse di ciò grave dispiacere, e che non cominciassero perciò gli animi ad alienarsi da quella concordia, nella quale prima erano uniti.

Partirono alla fine (credendo aver terminata la loro spedizione) da queste nostre province Innocenzio e Lotario, il quale avendovi lasciato Rainulfo suo Capitano con molti altri Ufficiali perchè potesser opporsi a Ruggiero, e mantener gli acquisti fatti, se ne andò col Pontefice in Roma, e di là per la via di Toscana prese il cammino per Alemagna[509]. Ma Ruggiero, che infino ad ora cedendo all'impeto di tante procelle, aspettava tempo migliore per riacquistar in uno tratto il perduto, appena ebbe avviso, che Lotario erasi dalla Campagna partito, che ragunò in Sicilia una grossa armata; e come intese ch'egli era in Roma per passar in Alemagna, calò prestamente in [408] Salerno colla sua armata[510]. Tosto si rese questa città al suo antico padrone, e di là gitone ad oste a Nocera, la ripose tantosto sotto il suo dominio, ed il somigliante fece di tutte le terre colà d'intorno, di cui era Signore il Duca Rainulfo. Indi andò sopra Capua, e fieramente sdegnato col Principe Roberto per essere stato il primiero istrumento della venuta di Lotario in Italia, quella prese a forza, e vi fece dare uno spaventevole sacco. Andò poscia col vincitore esercito in Avellino, e quello preso con tutti i circonvicini luoghi, verso Benevento avanzossi. I Beneventani sgomentati anch'essi per la felicità di Ruggiero mandarono parimente a sottoporsi a lui, e lasciando il partito d'Innocenzio, al quale poco anzi aveano giurata fedeltà, aderirono ad Anacleto per far cosa grata al Re, il quale venuto, passò poi a Montesarchio, che tantosto se gli rese: indi entrato nella Puglia cominciò con molto valore a sottoporsi molte città della medesima. Il Duca Rainulfo, come vide Ruggiero entrato nella Puglia, ragunò dalle città di Bari, Trani, Melfi, e da Troja 1500 valorosi soldati, e s'avviò contro Ruggiero, disposto di voler piuttosto morire combattendo, che cedere vilmente al nemico.

Intanto erano pervenuti a notizia d'Innocenzio i progressi di Ruggiero, e vedendo lontano l'Imperadore, e che non vi era da fondar molta speranza nè nel Duca Rainulfo, nè ne' Capitani di Cesare, pensò di mandare al Re Bernardo Abate di Chiaravalle, al quale diede in incombenza di trattar la pace, e di ridurre in concordia il Re col Duca; ma riuscite vane [409] le pratiche di Bernardo in que' tempi molto riguardevole e per la sua dottrina, e molto più per la santità della vita, vennero il Duca ed il Re alle mani, e pugnatosi vigorosamente, restò in questo incontro Ruggiero perdente; ma niente però importandogli tal perdita, ritirato in Salerno, rinvigorisce le sue truppe per di nuovo invadere la Puglia. Non lasciava però l'Abate di Chiaravalle di trattar continuamente col Re per ridurlo in pace col Pontefice; e finalmente ottenne da lui, che venissero tre Cardinali d'Innocenzio, e tre altri d'Anacleto innanzi a lui, perchè udite le ragioni d'amendue, avrebbe poi deliberato quel che gli fosse paruto più convenevole. In effetto Innocenzio gli mandò il Cardinale Aimerico Cancelliere di S. Chiesa, ed il Cardinale Gherardo uomini di molta autorità, insieme coll'Abate Bernardo; ed Anacleto gli mandò similmente tre altri suoi Cardinali, quali furono Matteo parimente suo Cancelliere, Gregorio, e Pietro Pisano uomo riputato in questi tempi di molta eloquenza e dottrina, e molto versato nella Sacra Scrittura[511]. Giunti in Salerno, volle il Re per più giorni sentirgli; indi ragunato tutto il Clero salernitano, e buona parte del suo Popolo coll'Arcivescovo Guglielmo, e gli Abati de' monasteri, postasi la cosa in deliberazione ed in iscrutinio, non si venne mai a conchiuder per opra di Ruggiero, il quale, secondo narra Falcone beneventano, proccurava tirar in lungo queste ragunanze per trattenere con questi trattati di pace Innocenzio ed il Duca Rainulfo, affinchè intanto potesse egli rifarsi de' danni patiti, [410] ed unir nuovo esercito. L'Abate di Bonavalle ed il Cardinal Baronio narrano altrimenti il fatto di ciò che ne scrisse Falcone Autor contemporaneo: dicono aver solo Bernardo con Pietro Pisano trattato quest'accordo con Ruggiero, e che sebbene Pietro restasse convinto dalle ragioni di Bernardo, il Re però non volle unirsi mai con molta pertinacia ad Innocenzio, tanto che obbligò l'Abate di Chiaravalle a partirsi di Salerno, e di ritornare in Roma. Che che ne sia, Ruggiero senza conchiuder niente se ne partì ancora, e salendo su la sua armata andò in Sicilia, per ritornare in Puglia con eserciti più numerosi.

Ma ecco mentr'egli dimorava in Sicilia, in quest'anno 1138 a' 7 di gennaro accadde in Roma purtroppo opportunamente la morte d'Anacleto, la qual fece, che questo scisma, che per otto anni avea travagliata la Chiesa si spegnesse. I figliuoli di Pier Lione, e gli altri seguaci d'Anacleto tosto avvisarono al Re la morte del lor Pontefice, con dimandargli se e' reputava espediente, che se gli creasse successore. Ruggiero, a cui premeva di nudrire simili discordie, perchè il partito d'Innocenzio, al suo contrario, non molto s'avanzasse, rispose che tosto lo creassero: siccome in fatti i Cardinali del partito d'Anacleto unitisi insieme, elessero per successore Gregorio Romano Cardinale de' Santi Appostoli, a cui posero nome Vittore IV. Ma in questo incontro fu tale l'opera dell'Abate Bernardo, che alle sue persuasioni così Vittore, come i suoi Cardinali che l'elessero, si sottoposero ad Innocenzio, ed avendo deposto Vittore tutte le insegne del Papato a' suoi piedi, s'estinse del tutto lo scisma[512] laonde i Romani [411] cotanto si lodarono di Bernardo, che per onorarlo gli diedero perciò il nome di Padre della lor patria; ma egli che faceva profession di Santo, avendo a noja gli onori di questo Mondo, partendosi di Roma, in Francia, al suo monastero di Chiaravalle, fece ritorno. Pietro Diacono[513] che appunto qui termina la sua Giunta alla Cronaca di Lione Ostiense narra in altra guisa il fatto: dice che Innocenzio per mezzo d'uno grosso sborso di denari che diede a' figliuoli di Pier Lione, ed a coloro che gli aderivano, gli trasse alla sua parte: onde i Cardinali, che aveano eletto Vittore, destituti d'ogni ajuto, per dura necessità si sottoposero ad Innocenzio. Vi è chi lo scusa, anche ammesso ciò per vero, dalle colpe di simonia, allegando altri consimili esempli, come fece l'Abate della Noce in questo luogo.

Innocenzio veduti racchetati gli affari di Roma, e libero da tali discordie, rivolse tutti i suoi pensieri contro Ruggiero, ed alla guerra della Puglia; onde gitone ad Albano ragunò grosso esercito per unirsi col Duca Rainulfo: dall'altra parte il Re avendo parimente unite le sue truppe, passò dalla Sicilia a' confini della Puglia per riporre sotto il dominio le rimanenti città di quella provincia. Non mancò il Duca Rainulfo d'opporsi, ma invano, onde il Re all'impresa di Melfi voltò tutti i pensieri, ma non potendo espugnarla per la valida difesa, prese tutti i castelli d'intorno, e dopo ciò tornato a Salerno quindi partissi di nuovo per Sicilia.

Accadde in quest'istesso anno 1138 nella Valle di Trento la morte di Lotario Imperadore: Principe oltre [412] al valor delle armi, dotato di molte virtù, e soprattutto amator delle lettere e del giusto: e merita esser sopra tutti gli altri rinomato, per essersi a' suoi dì restituito in Italia lo splendor delle leggi romane, e permesso che quelle si insegnassero nell'Accademie d'Italia. Cagione, che da poi col correr degli anni riacquistassero tanta autorità, e che si rendessero cotanto chiare e luminose, che oscurate le altre leggi delle altre Nazioni oggi sono la norma di tutte le Genti, e nell'Accademie meritamente tengono il primo luogo e per le quali la più illuminata parte del Mondo si governa. Ed è ben degno, che dagli amatori della legal disciplina sopra tutti gli altri venga d'immense lodi commendato.

Fra gli Elettori dell'Imperio occorsero gravi contese per rifar il successore. Aspiravano al soglio Corrado Duca di Suevia suo nepote, ed Errico di Baviera suo genero; ma finalmente escluso Errico fu Corrado innalzato a sì grande dignità, e fu salutato Imperadore da' Duchi, Principi, Marchesi e da tutti i Grandi dell'Imperio, non essendosi ancora ristretta quest'autorità a' soli sette, come si fece da poi[514].

Dall'altra parte Innocenzio, cui non altra cura premeva, che di abbattere il partito di Ruggiero, avendo nell'entrar dell'anno 1139 fatto convocare un Concilio in Roma, scomunicò ivi di nuovo Ruggiero, e tutti coloro, che avean seguite le parti d'Anacleto[515]. Ma fulmine assai più ruinoso sopravvenne ad Innocenzio non guari da poi; poichè nell'ultimo giorno d'aprile il Conte d'Avellino e Duca di Puglia, che [413] con sì fiera e continua guerra avea travagliato il Re suo cognato, ammalandosi d'una grave malattia morì in Troja di Puglia, e fu dal suo Vescovo Guglielmo e da' suoi cittadini, dolorosissimi della sua morte con molte lagrime nel Duomo sepolto.

Pervenuta in Sicilia la novella della sua morte, quanto contento apportasse al Re Ruggiero non è da dimandare: egli allora tenne per finita la guerra; onde uniti prestamente i suoi soldati passò in Salerno[516]; ed ivi congregati tutti i Baroni, che seguivano la sua parte, andò a Benevento, indi avendo soggiogati molti luoghi del Conte d'Ariano, il quale fuggì a Troja, prese parimente in breve tempo tutte le città e castelli di Capitanata. Ebbe il Re, come dicemmo, tra gli altri suoi figliuoli natigli da Alberia sua prima moglie, Ruggiero primogenito, il qual perciò fu da lui creato Duca di Puglia: questi pareggiando il valor del suo padre, ch'era passato all'assedio di Troja, soggiogò da poi tutti gli altri luoghi della Puglia, tanto que' posti infra terra, quanto quegli ch'erano alla riviera del mare[517]: la sola città di Bari, ch'era allor valorosamente difesa dal Principe Giaquinto non potè avere in sua balìa; onde egli disperando della resa, prese consiglio d'andarsene al Re suo padre, che stava campeggiando la città di Troja. Era questa città difesa da Ruggieri Conte d'Ariano, che colà con grosso numero di soldati erasi rifugiato, difendendola egli con molta ostinazione, obbligò il Re a partirsi dall'assedio, il quale unitosi col figliuolo volse i suoi [414] eserciti verso Ariano, facendo preparar molte macchine di legno per espugnarla.

Intanto Papa Innocenzio avendo intesa la rea novella della morte del Duca Rainulfo, ed i felici progressi del Re in Puglia, non volendo lasciar que' luoghi senza difesa, ragunate le sue truppe, e messosi alla testa delle medesime, uscì da Roma, e venne a S. Germano. Ruggiero che per questa spedizione di Innocenzio veniva frastornato nel meglio de' suoi progressi tentò, prima di venir con lui alle armi, se potesse riuscirgli di placarlo con dimandargli pace, inviò a questo fine suoi Messi offrendosi pronto ad ogni suo volere. I Messi furono ricevuti cortesemente da Innocenzio, il quale mandò altresì a Ruggiero due Cardinali ad invitarlo, ch'egli venisse a S. Germano per potere con effetto pacificarsi insieme. Il Re era allora tornato di nuovo all'assedio di Troja, ed avendo ricevuti onorevolmente i Cardinali, levatosi da quell'assedio insieme cui Duca suo figliuolo s'avviò prestamente a S. Germano: fu per otto giorni[518] maneggiato quest'affare; ma essendosi Innocenzio ostinato a pretendere la restituzione del Principato di Capua al Principe Roberto, e non volendo il Re a cotal fatto in modo alcuno consentire, fu disciolto ogni trattato, ed avendo ragunati i suoi soldati partì da S. Germano. Il Papa intesa la sua partita se ne andò colle sue genti al castello di Galluccio, cingendolo di stretto assedio: la qual cosa venuta incontanente a notizia del Re, ritornò velocemente indietro, e giunse improviso a S. Germano; per la cui presta venuta il Pontefice, ed il Principe Roberto ch'era con lui, fur percossi [415] da subito spavento in guisa tale, che senza alcuno indugio si tolsero dall'assedio del castello di Galluccio per ritirarsi in luogo sicuro; ma il Re inviò subito il Duca di Puglia suo figliuolo con ben mille valorosi soldati, acciocchè tendendogli aguati assaltasse per lo cammino il Pontefice. La qual cosa mandata felicemente ad effetto, andò la bisogna in modo, che fur rotte e poste in fuga le genti papali, ed Innocenzio istesso non senza ingiurie e dispregi fu condotto prigioniero al Re insieme col Cancelliere Almerico, e con molti Cardinali, ed altri uomini di conto, ponendosi anche i vittoriosi soldati a rubar i ricchi arnesi del Pontefice, ove fu ritrovata grossa somma di moneta, salvandosi solo colla fuga Roberto Principe di Capua.

Ecco a qual fine infelice han sempre terminate le spedizioni de' Pontefici contro i nostri Principi, ed ecco il frutto che han sempre ritratto, quando deposto il proprio mestiere, han voluto a guisa de' Principi del Mondo alla testa d'eserciti armati coprirsi di elmo in vece di tiara, e vestir di corazza in vece di stola e di dalmatica.

Questo memorando avvenimento succedette li ventuno di luglio di quest'anno 1139[519] come ben pruova l'avvedutissimo Pellegrino[520] contro quello che il Baronio, e D. Francesco Capecelatro scrissero, i quali non intendendo il luogo di Falcone, scrissero la prigionia d'Innocenzio esser succeduta a' dieci di questo mese. Nè lascerò qui di dire, conforme molto a proposito [416] avvertì il medesimo Capecelatro nella sua Istoria de' Re normanni, ch'è tra le moderne la più accurata di quante mai narrano i successi di questi Re, esser manifesto l'errore di coloro, che questa rotta e prigionia d'Innocenzio scrissero esser avvenuta nel principio del suo Pontificato e tutta altrimente di quel, ch'ella avvenne, e che perciò si cagionasse lo scisma d'Anacleto; poichè gli Autori contemporanei, e quei che poco da poi mandarono alla memoria de' posteri questi successi, in quest'anno e nel modo che s'è narrato la rapportano, come la cronaca di Falcone antichissimo Scrittor beneventano, l'Anonimo Cassinense, le Istorie dell'Arcivescovo Romualdo e di Ottone Frisingense, e le molte lettere scritte sopra tal materia da S. Bernardo Abate di Chiaravalle: per l'autorità di sì gravi e vecchi Scrittori il Cardinal Baronio, il riferito Capecelatro, e l'incomparabile critico de' nostri fatti Camillo Pellegrino in tal guisa rapportano questi avvenimenti.

Ma non meno per questa prigionia d'Innocenzio, che per quella di Lione, rilusse la pietà de' Normanni verso la Sede Appostolica; ancorchè Ruggiero, secondo ciò che dettavano le leggi della vittoria, avesse potuto trattar Innocenzio come suo prigioniero, come si sarebbe fatto ad ogni altro Principe del Mondo; nulladimanco non sapendo egli distinguere differenti personaggi nel Pontefice, gli rese tutti quegli onori, che sono dovuti al Vicario di Cristo: gli mandò suoi Ambasciadori a chiedergli perdono, e a pregarlo che si fosse pacificato con lui. Innocenzio vinto più da questa generosità e grandezza d'animo di Ruggiero, che dalla sua forza, consentì volentieri alle sue dimande: e ben [417] presto dopo quattro giorni[521] nel dì che si celebrava la festività di S. Giacomo fu presso Benevento la pace conchiusa. Per parte del Papa si tolsero tutte le scomuniche fulminate contro Ruggiero, e contro i suoi aderenti: onde il Re col suo figliuolo Ruggiero andarono a mettersi a' suoi piedi e a riconoscerlo per vero Pontefice; e gli giurarono perciò ambedue sopra i santi Evangeli fedeltà così a lui, come a tutti i Pontefici suoi successori legittimamente eletti, e gli si resero ligj, con promettergli il solito censo di 600 schifati l'anno e di restituirgli Benevento. All'incontro il Papa consegnandogli di sua mano lo stendardo, come allor si costumava, l'investì del Reame di Sicilia, del Ducato di Puglia e del Principato di Capua, riconoscendolo per Re, e confermandogli tutti quegli onori e dignità che a' Re s'appartengono.

L'investitura spedita dal Pontefice sopra ciò, fu trasportata dai registri della libreria di S. Pietro di Roma dal Cardinal Baronio, e si legge ne' suoi annali[522]; nella quale occorrono più cose degne d'essere osservate. Primieramente dice Innocenzio, ch'egli calcando le medesime pedate de' suoi predecessori, ed avendo avanti gli occhi i meriti di Roberto Guiscardo e di Ruggiero suo padre, i quali con tanti sudori e travagli aveano estirpato dalla Sicilia, e da queste province i Saraceni implacabili nemici del nome Cristiano, s'erano resi degni d'immortal fama; gli confermava perciò il Regno di Sicilia a lui dal suo antecessore Onorio investito, con la preminenza di Re, e con tutti gli onori e dignità Regali; aggiungendo [418] ancora il motivo e la ragione per la quale doveasi Ruggiero possessore di quell'isola innalzare al titolo di Re, e la Sicilia in Regno, che è quell'istessa che rapporta l'Abate Telesino, perchè anticamente quell'isola ebbe le prerogative di Regno, e' propri suoi Re che la dominarono: Regnum Siciliae (sono le sue parole) quod utique, prout in antiquis refertur historiis, Regnum fuisse, non dubium est, tibi ab eodem antecessore nostro concessum cum integritate honoris Regii, et dignitate Regibus pertinente, Excellentiae tuae concedimus, et Apostolica authoritate firmamus; reputando con ciò fra le altre potestà de' sommi Pontefici esser quella d'ergere, o restituire i Reami, e' Regi, e tanto maggiormente in quello di Sicilia, della quale i predecessori di Ruggiero dalla Sede Appostolica ne furono investiti.

Gli conferma l'investitura del Ducato di Puglia, che dal suo predecessore Onorio eragli stata data; e del Principato di Capua, vivente ancora il Principe Roberto, che ne fu spogliato; e quando prima avea usati tanti sforzi per farglielo restituire, ora ne dà l'investitura a Ruggiero, soggiungendo: Et insuper Principatum Capuanum integre nihilominus nostri favoris robore communibus, tibique concedimus: ut ad amorem, atque obsequium B. Petri Apostolorum Principis, et nostrum, ac successorum nostrorum vehementer adstringaris: pretendendo in cotal guisa giustificare per legittimo l'acquisto fatto di questo Principato da Ruggiero Jure belli; e non per altro fine, affinchè siano Ruggiero, e' suoi successori più riverenti ed ossequiosi alla Sede Appostolica, non altrimente di quello, che si dichiarò Gregorio VII nella sua investitura.

[419]

§. I. Il Ducato napoletano, Bari, Brindisi, e tutte le altre città del Regno si sottomettono al Re Ruggiero.

Merita ancora riflessione di non essersi in questa investitura fatta menzione alcuna del Principato di Salerno; poichè i Pontefici romani, ancorchè non si sapesse per qual particolar ragione, sempre pretesero questo Principato appartenersi alla Sede Appostolica, non altrimente, che Benevento. Non si vede nella medesima nè pur nominato il Ducato napoletano, onde vanno di gran lunga errati coloro, che scrissero Innocenzio avere investito Ruggiero anche di Napoli: nè possiamo non maravigliarci quando nell'Istoria Napoletana ultimamente data fuori dal P. Giannettasio[523] leggiamo, che da questo punto Napoli da libera Repubblica passasse sotto la regia dominazione di Ruggiero; e l'Autore quasi dolendosi di questo fatto pel sentimento che mostra d'aver perduta la sua patria il pregio di essere libera, accagiona Innocenzio, come 'l permetesse, quando quella città apparteneva all'Imperio d'Oriente; quasi che anche se fosse stato vero il fatto, fosse cosa nuova de' Pontefici romani investire de' Stati, che loro non s'appartenevano; e se ciò parvegli novità, come non sorprendersene, quando vide da' Papi investire i Normanni della Puglia e della Calabria, province, che a' Greci s'involavano, e sopra le quali vi aveano non minori ragioni, che sopra il Ducato napoletano. Questo Ducato passò a' Normanni non già per investitura datagli da' romani Pontefici, ma per ragion [420] di conquista, e per sommessione de' Napoletani, come qui a poco diremo. Solo nella Bolla d'Anacleto, dopo l'investitura del Principato di Capua si soggiunse: Honorem quoque Neapolis, ejusque pertinentiarum; che non denotava altro che l'onore d'esserne Duca, con restare la città con l'istessa forma e politia; e solamente Pietro Diacono[524] scrisse, che Anacleto, oltre al Principato di Capua investisse anche Ruggiero del Ducato di Napoli; ma ciò che fece Anacleto, non volle Ruggiero dopo la pace fatta con Innocenzio, che gli giovasse; e del Ducato di Napoli, siccome di quello d'Amalfi, di Gaeta, del Principato di Taranto e di Salerno, non volle altri che ve n'avesse parte se non la ragion della conquista, e la sommessione de' Popoli.

In effetto, ritornando là donde ci dipartimmo, avendo Ruggiero dopo questa pace, liberamente lasciata al Papa la città di Benevento, mentre quivi dimorava, vennero i Napoletani sgomentati anch'essi della felicità di Ruggiero a sottomettere la loro città al suo dominio, come già prima avea fatto Sergio lor Duca. Questo Duca, se dobbiamo prestar fede ad Alessandro Abate Telesino, molti anni prima avea sottomessa la città di Napoli a Ruggiero, ma da poi pentitosi del fatto s'unì col Principe Roberto e col Conte Rainulfo di lui nemici, e lungamente gli fece guerra: tornò poi al partito di Ruggiero, tanto che militando sotto le di lui insegne, nella battaglia che perdè Ruggiero presso Salerno, restò morto con altri Baroni dalle genti di Rainulfo.

In quest'anno adunque 1139 sperimentando i Napoletani [421] il valor di Ruggiero si sottoposero stabilmente al suo dominio: ed essendo rimasi per la morte di Sergio senza Duca, elessero col consentimento del Re in lor Duca Ruggiero suo figliuolo[525]. Inveges, pruova Ruggiero, non Anfuso essere stato eletto Duca. Il Pellegrino vuole, che fosse Anfuso. Che che ne sia, ancorchè questo Ducato passasse sotto la regia dominazione di Ruggiero, non volle però egli che si alterasse la forma del suo governo e la sua politia, furono i medesimi Magistrati, e le medesime leggi ritenute, e confermò alla città tutte quelle prerogative e privilegi che avea, quando sotto gli ultimi Duchi, sottratta all'intutto dall'Imperio d'Oriente, avea presa forma di libera Repubblica; e per questa ragione osserviamo, che anche dopo Ruggiero insino all'anno 1190 come il Capaccio[526], o qual altro si fosse l'Autore della latina istoria napoletana, rapporta, vi siano stati altri Duchi di Napoli, come un altro Sergio, ed un tal Alierno, in tempo del quale fu conceduto a' negozianti d'Amalfi, dimoranti in Napoli, quel privilegio rapportato da Marino Freccia, e di cui fassi anche menzione nella riferita istoria. Non è però, come stimarono alcuni, che Ruggiero gli lasciasse l'intera libertà, a guisa d'uno Stato libero ed indipendente. Credettero così, perchè rapporta Falcone beneventano, che Ruggiero dopo la presa di Troja e di Bari nel seguente anno 1140 fece ritorno in Napoli, dove narra, che fu da' Napoletani lietamente e con molta festa accolto, e con tanta pompa [422] e celebrità, che niuno Re, nè Imperadore fu giammai in essa con tanto onor ricevuto: che il seguente giorno cavalcando per la città, salito in barca passò poscia al castel di S. Salvatore posto sopra una isoletta dentro del mare non guari da Napoli lontana, che diciamo oggi il castel dell'Uovo per la sua figura, ed ivi essendo, avendo a se chiamati li cittadini napoletani, con quelli de libertate Civitatis, et utilitate tractavit, come sono le parole di Falcone, dalle quali ingannati credettero, che i Napoletani quivi trattassero con Ruggiero della libertà della loro città, quando, come ben dimostra l'avvedutissimo Pellegrino[527], di niente altro trattò il Re, se non dell'immunità e franchigia che pretendevano da lui i Napoletani, che fu loro tosto da Ruggiero accordata; ed avrebbe potuto togliersi da quest'errore il Capaccio per quell'istesso privilegio, ch'egli adduce, dove i Napoletani concedendo libertà a' Negozianti del Ducato d'Amalfi commoranti in Napoli, per libertà non intendono altro, che una tal sorte di franchigia ed immunità, come da quelle parole: Ut sicut ista Civitas Neapolis privilegio libertatis praefulget, ita et vos negotiatores, campsores, sive apothecarii in perpetuum gaudeatis; ma di qual libertà parlasi nel privilegio? ut nulla condictio, come siegue, de personis, et rebus vestris, sive haeredum, et successorum vestrorum negotiatorum in Neapoli habitantium requiratur; sicut non requiritur de Civibus Neapolitanis.

Non fu dunque che lasciò Ruggiero il Ducato napoletano all'intutto libero ed indipendente: lo lasciò bensì colle medesime leggi e Magistrati, e con quell'istessa [423] forma di Repubblica; il che non denotava altro, se non la Comunità, non la dignità delle pubbliche cose, come nel primo libro di quest'Istoria fu notato; nell'istessa guisa appunto, che lasciolla Teodorico, quando ordinò, che godesse di quelle stesse prerogative, che avea; onde si ha che Ruggiero lasciasse la giurisdizione intorno all'annona a' Nobili ed al Popolo, che sotto nome d'Ordini di Eletti, o Decurioni, ovvero Consoli venivano designati; e la giurisdizione intorno alle cose della giustizia, il Re la volle per se, come appunto fece Teodorico, che mandava i Comiti ad amministrarla, costituendovi ora Ruggiero il Capitanio col Giudice, siccome nell'altre città e castelli del Regno si praticava.

Egli è però vero, che Ruggiero non usò tanta cortesia e gentilezza in niuna altra città del suo Reame, quanto che in Napoli; poichè oltre di lasciar intatti i suoi privilegi, a ciascun Cavaliere diede in Feudo cinque moggia di terra con cinque coloni a quella ascritti, promettendo ancora di maggiormente gratificargli, se serbando a lui quella fedeltà che gli aveano giurato, mantenessero la città quieta ed in pace sotto il suo dominio[528]. Nel che non possiamo non maravigliarci del Fazzello[529], il quale, non bastandogli d'aver malamente confuso intorno a questi fatti le cose, i tempi e le persone, aggiunge ancora di suo cervello, che dopo essersi conchiusa la pace tra Innocenzio e Ruggiero, fosse questi entrato in Napoli con gran plauso, e che in quel giorno avesse creati cento cinquanta Cavalieri, e che quivi per due mesi in feste [424] e passatempi si fosse trattenuto, contro tutta l'istoria, e contro ciò, che Falcone beneventano rapporta intorno a questi successi.

Mostrò ancora Ruggiero un'altra particolare affezione verso i Napoletani, perchè fece misurar di notte le mura della città per saper la sua grandezza, e quella ritrovò essere di giro 2363 passi; ed essendo nel seguente giorno innanzi a lui ragunato il Popolo napoletano, domandò amorevolmente loro se sapevano quanto era il cerchio delle lor mura, ed essendogli risposto di no, il Re loro il disse: di che ebber maraviglia, e rimasero insiememente lieti dell'affezione di lui[530].

E vedi intanto le vicende delle cose mondane, questa città, che in tempo di Ruggiero a riguardo delle altre, che erano in queste province, era di così brevi recinti, ora emula dell'istesse province, non solo si è resa metropoli e capo di un sì vasto Reame; ma la sua grandezza è tale, che agguaglia le città più insigni e maravigliose del Mondo.

Ma prima che Ruggiero entrasse in Napoli questa seconda volta con tanto plauso e giubilo, avea già restituita tutta la provincia di Capitanata sotto il suo dominio; avea presa Troia capo della medesima, nella qual città non volle mai entrare, ancorchè il Vescovo Guglielmo ed i cittadini per loro messi lo pregassero che v'entrasse; ma rispondendo egli che finchè quel traditor di Rainulfo fra di loro dimorasse non voleva vedergli, temendo i Troiani l'ira del Re, fecero prestamente rompere il sepolcro di Rainulfo, e ne trassero il suo cadavere già corrotto, e messogli una fune [425] al collo lo strascinarono per le pubbliche strade della città, e poscia il gettarono in un pantano di brutture; il qual miserabil caso venuto in notizia del figliuolo Duca di Puglia e di Napoli, andò a ritrovar suo padre, e tanto s'adoperò col medesimo, che fu a Rainulfo data di nuovo sepultura[531].

Avea ancora dopo questa espedizione espugnata Bari e fatto miseramente morire il Principe Giaquinto; e ritornato da poi in Salerno tolse tutti gli Stati a coloro, ch'erano stati suoi nemici, dando loro bando da' suoi Reami; ed inviò prigionieri in Sicilia Ruggiero Conte d'Ariano insieme colla sua moglie. Scacciò anche affatto Tancredi Conte di Conversano, e gli tolse Brindisi ed altre sue terre, tanto che fu costretto d'andarsene oltremare in Gerusalemme. Ed essendosi in cotal guisa, con presta e maravigliosa fortuna, restituite tutte queste province sotto la sua dominazione, passò in Sicilia, donde mandò i Giustizieri e Governadori in ciascheduna provincia, acciocchè i Popoli soggetti godessero una tranquilla pace, stabilendo altresì nuove leggi per lo ben del Reame, delle quali quindi a poco farem parola. Ed entrato poscia l'anno 1140, avendo ragunato un nuovo esercito, inviò quello sotto il comando del Principe Anfuso suo figliuolo, acciocchè avesse soggiogata quella parte di Abruzzi posta di là del fiume Pescara, che aspettava al Principato di Capua; ove tantosto che giunse il Principe prese molti luoghi, distruggendone anche molti altri, che gli avean fatta resistenza: nella qual provincia poco appresso il Re inviò parimente il Duca Ruggiero con grosso numero di soldati, il quale congiuntosi [426] col fratello, soggiogarono interamente quei luoghi sino a' confini dello Stato della Chiesa, assicurando il Pontefice, che ne temeva, che non sarebbero per infestare in conto alcuno i confini del suo Stato. Intanto il Re era colla sua armata tornato di nuovo in Salerno, e di là passato in Capua, ed avendosi richiamati i suoi figliuoli, per assicurar meglio Innocenzio, passò poscia ad Ariano, ove tenne una Assemblea, che fu la prima che questo Re unisse in Puglia, nella quale intervennero due Ordini, quello de' Baroni, e l'altro ecclesiastico de' Vescovi e Prelati per mettere in migliore stato le cose di quella provincia. Indi fece battere una nuova moneta d'argento mescolata con molto rame, che fu chiamata Ducato; ed un'altra più picciola, detta Follare, tutta di rame, la qual volle che valesse la terza parte d'un Romasino, che valeva dodeci grana e mezzo della comunale moneta di rame, che oggi corre; ed otto Romasini facevano il Ducato da lui stampato, proibendo sotto gravi pene, che non si spendesse ne' suoi Reami la moneta antica assai miglior della sua, con grave danno, e de' Popoli soggetti, e di tutta Italia. Andò poi a Napoli, ove trattò co' Napoletani con quella magnanimità e cortesia, che si disse poc'anzi; ed indi tornato in Salerno, imbarcatosi su la sua armata fece di nuovo ritorno in Palermo, lasciando al Governo di Puglia il Duca Ruggiero, ed in Capua il Principe Anfuso, come narra Falcone beneventano, il quale qui pon fine alla sua Istoria, siccome poco prima finì la sua Alessandro Abate Telesino.

Ecco come Ruggiero, dopo avere col valore e virtù sua superati tanti e sì potenti nemici, unì stabilmente tutte queste nostre province sotto il Regno d'un solo. [427] Si videro ora fuori d'ogni altro timore d'esser di nuovo da stranieri nemici assalite, o da interne rivoluzioni sconvolte, avendovi il suo valore introdotta una più sicura e più tranquilla pace; tanto che cedendo i rumori delle battaglie e delle armi, gli fu dato spazio di potere in miglior forma stabilire il suo Regno, e di nuove leggi, e più salutari provedimenti fornirlo, in guisa che sopra tutti gli altri Reami di Occidente n'andasse altiero e superbo.

CAPITOLO IV. Il Regno è stabilito, e riordinato con nuove leggi ed Ufficiali.

Fu in cotal guisa stabilito il Regno, e queste nostre province pria divise in più Dinastie, e a varj Principi sottoposte, ora s'uniscono in una ben ampia e nobile Monarchia sotto la dominazione d'un solo. Il Ducato di Puglia e di Calabria; il Principato di Taranto, di Capua e di Salerno; i Ducati di Bari, di Napoli, di Sorrento, di Amalfi e di Gaeta, i due Abruzzi, ed infine tutte le regioni di qua del Tebro infino allo Stretto siciliano, ecco come in forma di Regno s'uniscono.

Ma i Siciliani non senza forte ragione pretendono, che non ancora fossero queste province unite in forma di Regno per se solo, ed indipendente dal Regno loro di Sicilia. Dicono, che rimasero come membri dipendenti dalla Corona di Sicilia, ch'era il lor capo, e precisamente da Palermo, ove il Re Ruggiero avea collocata e dichiarata la sua sede regia, ed ove era la [428] Casa regale, ed ove i più supremi Ufficiali della Corona risiedevano, de' quali era la cura ed il governo ancora di queste province.

Ed in vero se si vogliano considerare i principj di questo Regno, e la Bolla d'Anacleto, che fu il primo a fondarlo, è chiaro, che un solo Regno fu stabilito, che abbracciava come capo la Sicilia, e come membri la Calabria e la Puglia e le altre province di qua del Faro, costituendo egli per capo di sì ampio Reame la Sicilia, come sono le parole della Bolla: Et Siciliam caput Regni constituimus. Quindi ancora si vede, che prima Ruggiero ne' suoi titoli s'appellava Re di Sicilia, del Ducato di Puglia e del Principato di Capua; come se uno fosse il Regno, ma che abbracciasse così quell'isola, come queste altre province di qua del Faro. Ciò che manifestamente si vede dalle Costituzioni di Federico II compilate da Pietro delle Vigne, dove per Regno di Sicilia non pur intese la sola isola, ma tutte l'altre terre di qua del Faro; e più chiaramente si scorge dalla Costituzione Occupatis[532], dove Federico assegnando a ciascuna città del Regno di Sicilia un solo Giustiziero ed un Giudice, ne eccettua tre sole città, cioè Napoli, Capua e Messina, nelle quali per la loro grandezza ne stabilisce più; e Napoli e Capua le chiama città del Regno di Sicilia. Ed Andrea da Barletta, che fu coetaneo di Federico II, dicendo, che per vecchia consuetudine in Regno isto Siciliae le leggi de' Longobardi derogavano alle leggi romane, chiamò Regno di Sicilia quello, che ora diciamo Regno di Napoli, non potendo intendere dell'isola di Sicilia, dove i Longobardi non poser mai [429] piede, e le loro leggi non furon ivi giammai osservate. Donde si convince, che i romani Pontefici non introdussero novità, prendendo il Regno di Sicilia non solo per l'isola, ma per tutte l'altre province di qua del Faro, che lo componevano; ma solamente per meglio spiegare quanto questo Regno di Sicilia abbracciasse, nell'investiture date da poi agli Angioini introdussero di dire Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum, ed il primo che si valesse di questa formola fu Clemente IV, il quale nell'anno 1065 avendo investito del Regno di Napoli e di Sicilia Carlo d'Angiò, chiamollo Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum. Così egli fu il primo, che per maggior chiarezza usò questa distinzione, non già che prima di lui per Regno di Sicilia non venisse inteso così l'uno, come l'altro Reame; onde è che il Fazzello[533], Arniseo[534], ed altri, malamente di ciò ne facciano Autori i romani Pontefici, quasi che contro l'antica descrizione d'Italia, e contro tutti gli Storici e Geografi antichi, dei quali il Fazzello tesse un lungo catalogo, che per Sicilia la sola isola intesero, avessero voluto trasportar anche questo nome alle altre province di qua del Faro.

Il medesimo fu da poi usato da' susseguenti Pontefici; e Gregorio XI ciò non bastandogli, avendo nell'anno 1363 conchiusa la pace tra Giovanna Regina di Napoli, e Federico III Re di Sicilia, chiamò nel suo diploma col nome di Sicilia il Regno di Napoli, e con quello di Trinacria il Regno della Sicilia. E Martino Re di Sicilia nominò pure [430] ne' suoi diplomi il Regno napoletano Siciliam citra Pharum, ed il siciliano Siciliam ultra Pharum; e finalmente essendosi questi due Regni riuniti nella persona di Alfonso I, egli fu il primo, che usasse intitolarsi Rex utriusque Siciliae; del qual titolo poi si valsero i Re successori, i quali di amendue questi Regni furono possessori.

Fa forza ancora un'altra ragione a favor de' Siciliani, che pretendono queste province essere sotto Ruggiero rimase ancora come membri a riguardo del Regno di Sicilia, dal vedersi, che Ruggiero in Palermo stabilì la sua sede, e quivi la lor residenza aveano costituita ancora i primi Ufficiali della Corona, dai quali dipendevano tutti gli altri minori, distribuiti non solo nell'isola, ma anche in queste nostre province. In fatti si vede, che avendo questo glorioso Principe ad emulazione del Regno di Francia, da cui traea l'origine, introdotto nel suo i Grandi Contestabili, i Grandi Cancellieri, i Grandi Giustizieri, i Grandi Ammiranti, i Grandi Camerarj, i Grandi Protonotarj, e i Grandi Siniscalchi; questi supremi Ufficiali della Corona risiedevano presso la regal sua persona in Palermo, ed all'incontro in queste nostre province erano mandati i Giustizieri, i Camerarj, i Contestabili, ed i Cancellieri particolari, a ciascheduno dei quali si dava il governo d'una provincia, come alle province di Terra di Lavoro, della Puglia[535] ed altre, i quali erano subordinati a quelli sette ch'erano nella Casa regale ed i quali perciò acquistarono il nome, [431] prima di Maestri[536] Giustizieri, ovvero Maestri Cancellieri, e poi lo mutarono in Grandi Giustizieri, Grandi Ammiranti, e Grandi Cancellieri; e leggiamo perciò in una carta dell'anno 1142 della Sicilia sacra[537], rapportata ancora da Camillo Tutini[538], che il celebre Giorgio Antiocheno Grand'Ammirante del Re Ruggiero, dicevasi Georgius Admiratorum Admiratus; ed il cotanto rinomato Majone di Bari Grand'Ammirante del Re Guglielmo, in una lettera scritta dal medesimo Re a Papa Adriano IV vien chiamato Majo Magnus Admiratus Admiratorum; ed egli medesimo nelle sue scritture si firmava: Majo Magnus Admiratus Admiratorum[539], come diremo appresso più distesamente, quando di questi Ufficiali dovremo ragionare.

Ma le ragioni, che in contrario convincono, queste province sotto Ruggiero essersi unite in un Regno separato ed independente da quello della Sicilia, non sono men forti, nè d'inferior numero delle prime. Ciò che Anacleto si facesse in quella sua Bolla, della quale l'istesso Ruggiero, fatta la pace con Innocenzio, si curò poco; egli è certo, che il Ducato di Puglia, sotto il qual nome a tempo de' Normanni si denotava tutta la cistiberina Italia, fu non altrimenti che il Contado di Sicilia eretto in Reame independente l'uno dall'altro Regno; e presso gli Scrittori di questo duodecimo secolo e de' seguenti, era per ciò chiamato il Regno di Puglia, ovvero d'Italia, non altramente che l'altro, Regno di Sicilia; ed i loro Re si appellarono non meno di Sicilia, che di Puglia, o d'Italia. Ed ebbero [432] ancora queste nostre province la sede regia, siccome a questi tempi era Salerno; ed anche la città di Bari fu un tempo riputata Metropoli, Regiam Sedem, et totius Regionis Principem, come la qualifica Marino-Freccia[540]. Donde nacque la favola, che in Bari si fosse introdotto il costume di coronarsi i Re di Puglia colla corona di ferro, onde il Bargeo nella sua Siriade di Bari parlando, disse:

..... primi unde insignia Regni

Sceptraque, purpureosque habitus, sacramque tiaram,

Sumere tum Reges, Siculique, Italique solebant.

ed il nostro Torquato nella sua Gerusalemme conquistata[541] cantò pure:

E Bari, ove a' suoi Regi albergo scelse

Fortuna, e diè corone, e insegne eccelse.

Ciò che a questi Poeti, intendendo forse degli antichi Re Tarantini, o favoleggiando, è permesso, non è condonabile ad alcuni Storici[542], i quali si diedero a credere, che veramente i Normanni ed i Svevi Re di Puglia s'incoronassero in Bari colla corona di ferro. Scrissero perciò che l'Imperadore Errico e Costanza sua moglie s'incoronassero a Bari; e che in Bari anche si fosse incoronato il Re Manfredi. Racconti tutti favolosi, poichè siccome si vedrà nel corso di quest'Istoria, e come pruova Inveges[543], questi Principi in Palermo, non già in Bari si coronarono. E narra Marino Freccia[544] (alla cui fede dovea acquietarsi il [433] Beatillo, e non appartarsene senza ragione) che non avendo egli letto in alcuno Scrittore, che i Re di Puglia si coronassero a Bari, essendosi egli portato nell'anno 1551 in quella città, ne dimandò di questa coronazione i Baresi, i quali con maraviglia intesero la dimanda, come cosa nuova, non avendo essi tradizione alcuna, che nella loro città si fosse mai nei passati secoli praticata tal celebrità.

Ma non perchè in Bari città metropoli della Puglia, ovvero in Salerno sede regia de' Normanni, non si fossero incoronati questi Re, ma in Palermo, non perciò non amavano essi esser intitolati non meno Re di Sicilia, che di Puglia, ovvero d'Italia. Fra i monumenti delle nostre antichità ci restano ancora molte carte, nelle quali il Re Ruggiero e Guglielmo suo figliuolo così s'intitolavano. Nel tomo terzo della Sicilia Sacra se ne legge una, nella quale a Ruggiero dassi questo titolo: Rogerius Rex Apuliae etc, ed in altre rapportate dall'Ughello pur si legge lo stesso; ed Agostino Inveges[545], che reputò queste nostre province membri del Regno di Sicilia, dalle molte carte, ch'egli stesso rapporta, ove leggendosi titoli conformi, avrebbe potuto di ciò ricredersi; e nell'Archivio del monastero della Trinità della Cava abbiam noi veduto un diploma del Re Ruggiero spedito nel 1130 primo anno del suo Regno, che ha il suggello d'oro pendente, nel quale Ruggiero così s'intitola: Rogerius Dei Gratia Siciliae, Apuliae et Calabriae Rex, Adjutor Christianorum, et Clypeus, filius, et haeres Rogerii Magni Comitis: quindi è che nelle [434] decretali[546] de' romani Pontefici i nostri Re vengono chiamati Re di Puglia.

Ma merita maggior riflessione un diploma rapportato da Falcone beneventano, dove questo titolo dassi a Ruggiero: Rogerius Dei gratta Siciliae, et ITALIAE Rex, Christianorum Adjutur, et Clypeus. Nel che affin di evitar gli errori, ne' quali sono molti inciampati, è da notarsi, che la Puglia, la quale fu sempre dimostrata per quella regione d'Italia di qua di Roma, ch'è bagnata dal mare Adriatico, e che secondo la descrizione d'Italia non abbracciava più che la X provincia di quella, fu da poi secondo il solito fasto dei Greci da essi chiamata assolutamente Italia; poichè, dominando essi prima tutta l'Italia, ed avendo da poi perdute quasi tutte le province di quella, con essergli negli ultimi tempi rimasa la sola Puglia; diedero alla medesima il nome d'Italia; perchè potessero ritener almeno nel nome quel fasto di chiamarsi ancora Signori d'Italia. Così abbiam veduto, che avendo essi perduta l'antica Calabria, e ritenendo ancora il Bruzio, e parte della Lucania, perchè non si scemassero i loro titoli, continuarono ancora a creare gli Straticò di Calabria, i quali tenendo prima la loro residenza in Taranto, perduta la Calabria, gli mandarono a risedere a Reggio, e quindi amministrando il Bruzio, e quella parte della Lucania, che era lor rimasa, diedesi perciò il nome di Calabria a quelle province che ora ancora il ritengono. Per questa ragione da Lupo Protospata viene chiamato Argiro Principe e Duca d'Italia, non intendendo certamente dell'Italia, secondo la sua maggior estensione, circondata da [435] amendue i mari e dall'Alpi; ma della sola Puglia, di cui allora era capo Bari. Parimente quest'istesso Scrittore nell'anno 1033 ed altrove, chiama Costantino Protospata Catapanus Italiae[547].

(Gli Antichi Scrittori però, chiamavano Italia quell'ultima punta, che dal Golfo di S. Eufemia e di Squillaci si distende sino allo Stretto siciliano, detta poi Bruzia ed ora Calabria. Ciò pruova con alcuni passi di Aristotile, di Dionisio Alicarnasseo e di Strabone, Samuel Bocarto Geogr. Sacr. in Canaam, lib. 1, c. 33).

Intorno a che ne abbiam noi un altro chiarissimo documento in un diploma greco, il quale nell'anno 1253 in tempo dell'Imperador Corrado Re di Sicilia, fu fatto tradurre in Latino, che si legge presso Ughello[548], nel quale non essendosi, quando fu quello instromentato, ancora queste province innalzate in Reame, il Conte Ruggiero così s'intitola: Hoc est sigillum factum a Rogerio Duce Italiae, Calabriae, et Siciliae: ove si vede chiaro che per Italia i Greci non intendevano altro che la Puglia. E nella vita del Beato Nilo, che dal greco fu tradotta in latino da Cariofilo, si legge, che Niceforo regebat utramque Provinciam, Italiam, et Calabriam nostram, non intendendo altro per Italia, se non che la Puglia, da' Greci allor posseduta; e per questa medesima ragione da' greci Scrittori, e fra gli altri da Niceforo Gregora vien sempre appellato Carlo d'Angiò Rex Italiae; il quale da' Latini, siccome allora volgarmente si parlava, era detto Rex Apuliae. Anzi questo greco idiotismo di chiamare [436] la Puglia Italia, non solo fu ritenuto da' Scrittori di quella Nazione, ma fu usato ancora da' nostri Autori latini, siccome presso Falcone beneventano s'incontra molto spesso, dove parlando dell'espugnazione fatta da Lotario Imperadore del castello di Bari, dice, de tali tantaque victoria tota Italia, et Calabria, Siciliaque intonuit[549].

Così infino che la Puglia fu ritenuta da' Greci, acquistò anche il nome d'Italia, col quale non si denotava altro, che quella sola provincia; ma da poi per opra de' Normanni avvenne, che il nome di Puglia oscurò i nomi di tutte le altre province a se vicine, le quali per questa cagione sotto questo nome eran anche designate. Ciò avvenne, perchè i Normanni le loro prime gloriose imprese l'adoperarono nella Puglia; e da poi che questa Nazione ne fece acquisto con tanta loro gloria e vanto, se ne sparse la fama per tutto l'Occidente, onde risonando il nome di Puglia frequentemente per le bocche de' stranieri, rimasero quasi del tutto oscuri i nomi dell'altre congiunte regioni; e fu bene spesso, spezialmente da' forestieri, in lor cambio unicamente usurpato il nome di Puglia per tutte l'altre province adiacenti; quindi avvenne, che per la Puglia s'intendeva non solo quella provincia, ma tutta l'Italia cistiberina, e tutte quelle province, che oggi compongono il Regno di Napoli; non altrimente di ciò, che presso i Popoli orientali dell'Asia veggiamo usarsi, i quali per le gloriose gesta de' Franzesi, tutti gli occidentali, non con altro nome chiamano, se non di Franzesi; la qual gloria non è nuova di questa Nazione; poichè sin da' tempi di Ottone [437] Frisingense, per le frequenti spedizioni di Terra Santa, onde si renderono in Oriente rinomatissimi, leggiamo presso questo Scrittore, che gli Orientali, e singolarmente i Greci, ogni uomo occidentale, lo chiamavano Franzese[550]. Perciò intitolandosi Ruggiero Rex Apuliae, non della Puglia presa nel suo stretto e vero senso, dee intendersi, ma di tutto ciò che ora forma il nostro Regno. Per quest'istessa cagione molti Scrittori, ancorchè nominassero la sola Puglia, intendono però di tutta questa gran parte d'Italia, come presso Pietro Bibliotecario nella vita di Pascale, ed altri Autori spesso s'incontra[551]. Quindi avvenne ancora, che comunemente presso i nostri Popoli questo Regno, prima che da' romani Pontefici così spesso se gli dasse il nome di Sicilia di qua del Faro, e che negli ultimi tempi acquistasse quello di Regno di Napoli, fossesi appellato Regno di Puglia.

Fu perciò molto facile, che siccome da' Greci era stato dato il nome d'Italia alla Puglia, che non abbracciava più che una sola provincia, si fosse quello dato da poi con maggior ragione a tutte l'altre province di qua del Tebro, che pure sotto nome di Puglia erano denotate; onde si fece che a Ruggiero riuscisse meglio chiamarsi Re d'Italia, che di Puglia, così per esser un titolo più sublime e spezioso, risorgendo nella sua persona quello de' Re d'Italia, del quale se n'erano fregiati i Goti ed i Longobardi, come anche perchè sopra la Puglia non ritrovava questo titolo di Re, siccome lo trovò sopra la Sicilia; se pure non avesse voluto ricorrere a quegli antichissimi Re [438] de' Dauni, de' Lucani e di Taranto, de' quali Freccia[552] tratta ben a lungo, ma pur troppo infelicemente. Reputò adunque Ruggiero intitolarsi non men Re di Sicilia, che d'Italia, per Italia non intendendo altro che la cistiberina, siccome presso gli Autori di questi tempi assolutamente per Italia intendevano questa parte; in quella guisa appunto, che avvenne, quando per le province d'Italia assolutamente erano denotate quelle sole, ch'erano sottoposte al Prefetto d'Italia, non quelle, che ubbidivano al Prefetto della città di Roma, ancorchè venissero comprese nella descrizione dell'Italia presa nella sua più larga estensione.

Si conosce da ciò chiaro, che intitolandosi Ruggiero non meno Re di Sicilia che d'Italia, ovvero di Puglia, che due Regni furono stabiliti independenti l'uno dall'altro, non un solo in guisa, che queste nostre province avessero avuto a reputarsi come membri e parte del Regno di Sicilia.

Si dimostra ciò ancora dalle leggi proprie, che ritenne, le quali non furono comuni con quelle della Sicilia, che si governava con leggi particolari; poichè queste nostre province anche da poi che furono ridotte in forma di Regno sotto Ruggiero, non riconobbero altre leggi, che le longobarde, e secondo le medesime si amministravano, le quali non ebbero autorità, nè alcun uso nella Sicilia, che non fu da' Longobardi mai acquistata, per non aver avute questa Nazione forze marittime, siccome l'ebbero i Normanni; onde il lor vigore non s'estese mai oltre il Faro. Così ciascun Regno avea leggi proprie, e secondo le medesime ciascun si regolava independentemente dall'altro; [439] e ciascuna di queste province avea il suo Giustiziero co' suoi Tribunali, nè le cause quivi decise si portavano per appellazione in Palermo, quasi che ivi vi fosse un Tribunale superiore a tutti gli altri, ma restavano tutte in esse, come diremo più partitamente quinci a poco, quando degli ufficj della Corona farem parola.

E se tra le nostre antiche memorie non abbiamo, che Ruggiero o altro suo successor normanno avesse mandato nel Regno di Puglia alcun Vicerè, che avesse avuto il governo generale di tutto il Reame, come si praticò da poi negli ultimi tempi da' Principi d'altre Nazioni; ciò non fu per altro, se non perchè Ruggiero, e' due Guglielmi suoi successori solevano molto spesso in Salerno venire a risedere, ed anche perchè il lor costume era di creare i figliuoli della lor Casa regale, o Duchi di Puglia, o Principi di Capua o di Taranto, ed a' medesimi perciò commettere il governo de' Ducati o Principati a lor conceduti, siccome fece appunto Ruggiero, il quale ritiratosi a Palermo, lasciò il governo di queste province a' due suoi figliuoli, a Ruggiero Duca di Puglia, e ad Anfuso Principe di Capua.

Ma siccome è vero, che il Regno di Puglia fu independente da quello di Sicilia, e che avea leggi e Magistrati particolari, così ancora non può negarsi, che le leggi che Ruggiero stabilì in questo tempo, ed i supremi Ufficiali della Corona, che a somiglianza del Regno di Francia v'introdusse, furono comuni ad ambedue; essendo noto, che gli Ufficiali della Corona erano destinati così per l'uno, che per l'altro Reame; e così fu osservato finchè l'isola di Sicilia si sottrasse [440] da' Re angioini, e si diede sotto il governo de' Re aragonesi, come vedremo nel corso di questa Istoria.

CAPITOLO V. Delle leggi di Ruggiero I, Re di Sicilia.

Ruggiero adunque essendo in cotal guisa con presta e maravigliosa fortuna divenuto tanto e sì potente Re, avendo debellati i suoi nemici, e ridotte sotto la sua ubbidienza le province ribellanti, pensò per via di molte utili e provvide leggi ridurle in quiete, dalla quale per le tante e continue guerre erano state assai tempo lontane.

Si governavano queste province, come tante volte si è detto, colle antiche leggi romane già quasi spente, e ritenute per tradizione più tosto, e come antiche usanze, che per leggi scritte. Le dominanti erano le leggi longobarde, le quali appresso i Normanni restarono intatte, e con molta religione osservate: e con tutto che si fossero in Amalfi ritrovate le Pandette, ed in alcune Accademie d'Italia, e precisamente in Bologna, si cominciassero per opra d'Irnerio a leggersi, ed il Codice colle Novelle di Giustiniano non fossero cotanto ignote; nulladimanco Ruggiero non permise, che ne' suoi dominj questi libri avessero autorità alcuna, ma alle leggi longobarde era dato tutto il vigore, e quelle solo s'allegavano nel Foro, e per esse si decidevano le controversie: di che n'abbiamo un illustre monumento, che mette in chiaro questa verità, perch'essendo insorta in quest'istessi tempi di [441] Ruggiero nell'anno 1140 lite tra il monastero di S. Michele Arcangelo ad Formam presso Capua, e Pietro Girardi di Madaloni, pretendendo i Monaci di quel monastero aversi il suddetto Pietro occupato un territorio ne' lor confini, che dicevano appartenersi al monastero, fu prima la causa conosciuta da Riccardo, e da Leone Giudici di Madaloni, e da poi fu decisa in Capua, da essi e da' Giudici capuani, secondo ciò che Ebolo regio Camerario di Capua avea ordinato; e la sentenza fu profferita a favor del monastero dopo essersi fatto l'accesso sul luogo controvertito, dopo prodotti gli istromenti, e dopo esaminati alcuni testimonj; e fu trattata secondo ciò che le leggi longobarde stabilivano, e decisa a tenor delle medesime leggi, come può osservarsi dall'istromento della sentenza, che a futura memoria de' posteri, com'era allora il costume, si fece stipulare, il quale vien rapportato per intero da Camillo Pellegrino nella sua Istoria de' Principi longobardi[553].

Ma vedendo ora questo savio Principe, che il suo Regno per le tante turbulenze e mutazioni accadute, avea bisogno di nuove leggi per riparar i molti disordini che vi aveano lasciati le tante e continue guerre, si diede il pensiero di stabilirle; e se ben prima di lui Roberto Guiscardo, ed il Conte Ruggiero suo avo v'avessero introdotte alcune lodevoli Consuetudini, delle quali non è a noi rimasa altra memoria, se non quella che leggiamo presso Ugone Falcando[554]; [442] nulladimanco egli fu il primo, che imitando Rotari Re de' Longobardi molte ne stabilì, le quali per mezzo d'uno suo editto promulgò nel Regno di Sicilia e di Puglia, volendo che quelle leggi s'osservassero in tutti due questi Reami, e fossero comuni ad ambedue. Queste sono le prime leggi del Regno, che volgarmente chiamiamo Costituzioni, le quali da Federico II Imperadore nipote di Ruggiero, insieme con le sue, e degli altri Re suoi predecessori furono da Pietro delle Vigne unite in un volume, come più partitamente diremo quando di questa compilazione dovremo ragionare. Tenne Ruggiero nello stabilirle il medesimo modo, che tennero i Re longobardi; cioè di stabilirle nelle pubbliche Assemblee convocate a questo fine degli Ordini de' Baroni ed Ufficiali, de' Vescovi e d'altri Prelati. Agostino Inveges[555] porta opinione, che Ruggiero, quando nell'anno 1140 prima di passar la seconda volta in Napoli, fermato in Ariano, tenne ivi la primiera Assemblea di Baroni e Vescovi, ed altri Prelati ecclesiastici, avesse decretate quelle Costituzioni, che abbiamo tra quelle di Federico II, le quali furono comuni per tutti i suoi Stati, contro l'opinione di Ramondetta[556], il quale con manifesto errore credette, che quelle non fossero statuite per l'isola di Sicilia. E narra Falcone[557] beneventano, che in quest'Assemblea promulgasse anco un editto, col quale fu proibito di potersi più spendere certa moneta romana, [443] chiamata Romasina; facendo coniare in suo luogo altre nuove monete, ad una delle quali, come si disse, diede nome di Ducato di valore d'otto Romasine, la quale avea più mistura di rame che d'argento; siccome fece coniare i Follari; onde non pure i Tarini di Amalfi, ma queste nuove monete ebbero corso nel Regno.

Delle leggi di questo Principe noi solamente 39 ne abbiamo, sparse da Pietro delle Vigne nel volume delle Costituzioni, che compilò per comandamento di Federico II, e la prima è quella, che s'incontra nel libro primo sotto il titolo quarto de Sacrilegio Regnum. Fu per la medesima riputato come delitto di sacrilegio il porre in disputa i fatti, i consigli e le deliberazioni del Re; la quale Ruggiero, ritenendo quasi le medesime parole, tolse dalla legge del Codice sotto il titolo de Crimine Sacrilegii, ove gl'Imperadori Graziano, Valente e Teodosio stabilirono il medesimo: nè Ruggiero fece altro che di mutar il nome d'Imperadore, e porvi quello di Re. Ove è degno da notarsi, che le leggi del Codice di Giustiniano a tempo di Ruggiero non aveano vigore o autorità alcuna ne' suoi dominj; ma egli le leggi, che prese da quel volume, volle che s'osservassero come leggi proprie, e non di Principe straniero; non altrimenti che i Goti Re di Spagna, ancorchè dal Codice di Giustiniano avessero preso molte leggi, vollero che il loro Codice, non quello, avesse autorità ne' loro Stati.

Abbiamo l'altra di questo Principe sotto il titolo che siegue de arbitrio Regis, ove si comanda doversi dall'arbitrio del Giudice temperare quelle leggi, che cotanto severamente punivano i sacrileghi, purchè non si tratti di manifesta destruzion di tempj, o violenta [444] frattura d'essi, ovvero di furti di notte tempo praticati di vasi sacri ed altri doni fatti alle Chiese: nei quali casi vuol che si pratichi la pena capitale.

Il Summonte vuole che la terza legge di Ruggiero sia l'altra, che siegue sotto il titolo de Usurariis, e così anche fa il suo traduttore Giannettasio, ma con manifesto errore; poichè quella non è di Ruggiero, ma di Guglielmo II suo nipote, attesochè stabilendosi in essa, che le quistioni degli usurarj riportate alla sua Curia, debbano terminarsi conforme al decreto del Papa ultimamente nella romana Curia promulgato, non si può intendere se non del decreto fatto da Papa Alessandro III nel Concilio di Laterano, che fu a tempo di Guglielmo II non di Ruggiero, come più diffusamente diremo parlando delle leggi di quel Principe; ond'è che nelle edizioni più corrette porti in fronte questa Costituzione Gulielmus, e non Rogerius.

La terza è quella, che si legge sotto il titolo de Raptu, et Violentia monialibus illata, per la quale viene imposta pena capitale a' rattori delle vergini a Dio sacrate, ancorchè non ancora velate, o anche se per motivo di matrimonio l'avessero rapite: fu ancor questa presa dal Codice di Giustiniano[558] ove quell'Imperadore stabilì il medesimo.

Se ne leggono due altre sotto il titolo de Officialibus Reip. Per la prima si stabilisce, che gli Ufficiali, che in tempo della lor amministrazione avranno sottratto il pubblico denaro, siano puniti di pena capitale. Per la seconda vien ordinato che gli Ufficiali che per lor negligenza faranno perdere o diminuire le pubbliche facoltà, siano astretti nella persona e nei [445] beni a resarcire il danno, rimettendo loro per la sua pietà regia altre pene, che meriterebbero.

La sesta l'abbiamo sotto il titolo de Officio Magistrorum Camerariorum, et Bajulorum, ove s'ordina a' Giustizieri, Camerari, Castellani e Baglivi d'esser solleciti a somministrar a' Secreti della Dogana, ed a' Maestri Questori ovvero loro Ufficiali ogni lor consiglio ed aiuto sempre che ne saranno richiesti: la quale fu colle medesime parole rinovata da Guglielmo sotto il titolo de Officio Secreti.

La settima è collocata sotto il titolo de restitutione mulierum nel libro secondo; poichè quella che si legge nel libro primo sotto il titolo de Advocatis ordinandis se bene in alcune edizioni portasse in fronte il nome di Ruggiero, ella però è di Federico II come si vede chiaro dallo stile, e dalle cose che tratta; onde è che in altre edizioni più corrette, non si legge: Rex Rogerius, ma Idem, denotando Federico autor della legge precedente. In questa legge ordina Ruggiero a' suoi Ufficiali, che debbano, quando il bisogno lo richiede e sia conveniente, sovvenire alle donne non leggiermente gravate: la quale essendo molto generale ed oscura; Federico II volle dichiarar i casi, ne' quali alle donne debba darsi aiuto, onde questo Imperadore promulgò un'altra Costituzione, che si legge sotto il titolo de in integrum restitutione mulierum al libro secondo; ove dice: Obscuritatem legis Divi Regis Rogerii avi nostri de restituendis mulieribus editam declarantes, etc.

L'ottava e la nona sono poste sotto il titolo de Poena Judiciis, qui male judicavit. Nella prima si condannano i Giudici a nota d'infamia, e pubblicazione de' loro beni, ed alla perdita dell'ufficio, se con [446] frode e con inganno avranno giudicato contro le leggi; e se per ignoranza, la pena si rimette all'arbitrio del Re. Nella seconda s'impone pena capitale, se per denaro avran condennato alcuno a morte.

La decima, che abbiamo sotto il titolo primo de Juribus rerum regalium del libro terzo, merita maggior riflessione di tutte l'altre; poichè è la prima legge feudale, che abbiano i nostri Principi normanni stabilita nel Regno. Chi prima su i Feudi avesse promulgata legge scritta, fu, come si è detto, l'Imperador Corrado il Salico, che riguarda la lor successione: l'Imperador Lotario alcune altre ne promulgò, ed una fra l'altre molto conforme a questa di Ruggiero de Feudo non alienando; ma siccome le leggi degli Imperadori d'Occidente insino a Lotario, come tutte le altre leggi longobarde comprese in quel volume non isdegnò Ruggiero che s'osservassero nel suo Regno, anche da poi che fu sottratto, e restò independente dall'Imperio, così non volle mai soffrire, che le leggi di Lotario suo inimico avessero alcuna autorità nei suoi dominj; perciò se bene Lotario presso Roncaglia nell'anno 1136 avesse promulgata legge, per la quale veniva proibito a' Feudatari alienare i Feudi, non avendo quella autorità alcuna nel Regno di Sicilia e di Puglia, bisognò che questo Principe, provvedendo alle sue Regalie, ne stabilisse una particolare, ch'è questa, per la quale strettamente si proibisce non solo a tutti i Conti, Baroni, Arcivescovi, Vescovi, Abati, ed altri qualsivoglia che tenessero Feudi o Regalie grandi o piccole che si fossero, di potergli in alcun modo alienare, donare, vendere in tutto o in parte, o in qualunque maniera diminuire; ma anche lo proibisce a' suoi Principi stessi, che erano allora i suoi [447] propri figliuoli, cioè Ruggiero Duca di Puglia, Anfuso Principe di Capua, e Tancredi Principe di Taranto, non potendo in questi tempi, come rapporta Ugone Falcando[559] niuno aspirare a questi titoli di Principe o di Duca, salvo che i figliuoli del Re; e quindi è che Ruggiero in questa Costituzione gli chiama Principes nostros. E questa è quella Costituzione cotanto da Federico commendata, e che poi gli piacque ampliare in tutti gli altri contratti, alienazioni, transazioni, arbitramenti e permutazioni, dando potestà a coloro che senza il suo consenso e licenza alienassero di poter jure proprio rivocargli, siccome oggi giorno tuttavia si pratica, e va per la bocca de' nostri Forensi, appo i quali è molto celebre questa Costituzione di Federico[560], che comincia: Constitutionem divae memoriae Regis Rogerii avi nostri super prohibita diminutione Feudorum, et rerum Feudalium ampliantes, etc.

Non merita minor riflessione la undecima, che si legge sotto il titolo terzo dell'istesso libro terzo; poichè si vede per quella essere stato sempre lecito ai Principi di por freno a' loro sudditi, ed impedirgli, sempre che si recasse danno alla Repubblica, ed alle loro Regalie, di ascendere al Chericato. Così abbiam veduto, che Costantino M. proibì a' benestanti di farlo; e l'Imperador Maurizio vietò a' soldati di farsi Monaci, di che tanto Gregorio M. si doleva, non perchè riputasse di non esser in potestà degl'Imperadori di poterlo comandare, o che la legge fosse ingiusta, come egli stesso con ingenuità confessa, ma per esser di pernizioso esempio chiudere in tal maniera la via dello [448] spirito per mondani rispetti. Ruggiero in questa sua legge temperando un'altra sua Costituzione, per la quale si proibiva affatto a' villani, senza licenza di lor padroni, di poter assumere l'Ordine chericale, stabilì: che solamente que' villani non potessero ascendere al Chericato, i quali per rispetto della lor persona fossero obbligati servire, come sono gli ascrittizi, i servi addetti alla gleba, ed altri consimili; ma que' che sono obbligati servire per riguardo del tenimento, ovvero beneficio del quale furono investiti, non gl'impedisce che anche senza licenza de' lor padroni possano farlo ma in tal caso devono rassegnar prima il beneficio nelle mani de' loro padroni, e poi farsi Cherici.

La duodecima legge di Ruggiero, che è sotto il titolo de dotario costituendo, riguarda ancora i Feudi, ed è la seconda, che questo Principe promulgò sopra di essi. In questa si permette a' Baroni, ed agli altri Feudatari, non ostante la proibizion di alienare, di poter sopra i Feudi costituire alle loro mogli il dotario, a proporzion de' Feudi, che posseggono, e secondo il lor numero e qualità. A' Conti e Baroni, che tengono più castelli si permette ancora di poterne uno assignare alle lor mogli per dotario, purchè però non sia quel castello, donde la Baronia, ovvero il Contado prenda il nome. Così a' Conti di Caserta non sarà lecito dar Caserta per dotario, ma bensì un altro castello del suo Contado; donde i nostri Autori[561] appresero, che l'assenso semplicemente conceduto, non s'estende mai al Capo della Baronia, o del Contado.

La decimaterza, che abbiamo sotto il titolo de matrimoniis [449] contrahendis[562] merita ancora riflessione. Si vede chiaro per la medesima, che a' tempi di Ruggiero non fu reputata cosa impropria de' Principi, stabilire leggi intorno a' matrimoni; nè Giovanni Launojo la trascurò nel suo trattato: Regia in matrimonium potestas[563]; siccome non si dimenticò dell'altra di Federico II che incomincia: Honorem nostri diadematis, a questa conforme. Non ancora i Pontefici romani s'avean appropriata questa autorità, la quale da poi da Innocenzio III[564] e più dagli altri suoi successori fu reputata lor propria, e tolta a' Principi secolari. Sono pieni i Codici di Teodosio e di Giustiniano di queste leggi, ed insino a' tempi di Teodorico Re d'Italia e di Luitprando leggiamo, che essi non solo ci diedero le leggi intorno al modo e forma di contraergli, ma di vantaggio ci stabilirono i gradi ne' quali eran vietati, ed al Principe s'apparteneva di dispensargli; e Cassiodoro ne' suol libri ci lasciò le formole di tali dispense. Ruggiero in questa legge comandò, che i matrimoni dopo gli sponsali, e la benedizion sacerdotale, si dovessero celebrar solennemente e palesemente, proibendo affatto i matrimoni clandestini, in maniera che i figliuoli nati da tali matrimoni non si debbano reputare legittimi, nè succedere perciò a' loro padri, nè per testamento nè ab intestato: lo donne che perdano le loro doti, quasi che nè date, nè matrimonio possa considerarsi in questi contratti, contra la sua legge celebrati. Vuole però che a questo rigore non soggiacciano le vedove; nè abbia luogo ne' matrimoni contratti prima del tempo [450] della promulgazion di questa sua legge. Federico II aggiunse da poi a' Conti, Baroni, ed a tutti gli altri Feudatari un altro legame, che non potessero prender moglie senza sua permissione; ed essendosi ammesse alla succession feudale le femmine, vietò a Baroni sotto pena della perdita de' loro Feudi, di casare le figliuole o nipoti, ovvero sorelle senza sua licenza, affinchè i Feudi non passassero a famiglie incognite, della cui fedeltà il Principe era dovere, che ne fosse informato, come lo stabilì nella Costituzione Honorem nostri diadematis, sotto il titolo, de uxore non ducenda sine permissione Regis.

Andrea d'Isernia, che fu Guelfo e perciò perpetuo detrattore delle gesta di Federico, scrivendo sotto i Re angioini in un secolo dove correvan altre massime, biasimando Federico, alle costui parole Honorem nostri diadematis, aggiunge: imo destructionem animae istius Federici Imperatoris prohibentis per obliquum matrimonia instituta a Deo in Paradiso. Come se all'economia del Principe non s'appartenesse far leggi sopra i matrimoni, e molto più in quelli de' suoi Baroni[565], ed impedirgli sovente, se si conoscessero perniziosi allo Stato, ovvero cagione di discordie interne tra famiglie nobili, e di numerose fazioni; di che i nostri Autori, e Francesco Ramos[566] fra gli altri, hanno trattato ben a lungo. E pur è vero, che non fu Federico il primo, che stabilì questa legge, egli la trovò nel suo Regno, ed il suo primo autore fu Guglielmo detto il Malo. I Baroni non si dolevano della legge, ma dell'abuso, che ne faceva Guglielmo, [451] poichè questo Principe, perchè i Feudi ricadessero al suo Fisco, non mai concedeva la licenza di poter casare le loro figliuole, ovvero la differiva tanto, finchè fatte già vecchie, divenivano sterili, siccome presso Ugon Falcando[567] se ne lagnavano i Grandi del Regno di Sicilia, tumultuando perciò contro Guglielmo. Questa legge fu osservata in Sicilia insino al Regno del Re Giacomo, avendola questo Principe, in un Parlamento ivi tenuto, fatta abolire[568]. E presso di noi durò insino al Regno di Carlo II d'Angiò, il quale in un de' suoi Capitoli[569], stabiliti nel piano di S. Martino, la venne a riformare.

Non meno considerabile è la legge quattordici di Ruggiero, posta sotto il titolo de Administrationibus rerum Ecclesiasticarum post mortem Praelatorum; poichè in lei più cose considerabili si incontrano. Primieramente merita riflessione ciocchè dice Ruggiero, essere tutte le Chiese del suo Regno, e particolarmente quelle, che sono prive del lor Pastore, sotto la sua potestà e protezione. Secondo, che perciò erasi introdotto costume non mai interrotto, o impugnato che morto il Prelato, i Baglivi del Re prendessero la cura ed amministrazione dell'entrate delle medesime, insino che le Chiese fossero proviste; e per terzo [452] non adempiendo i Baglivi la loro incumbenza, secondo le relazioni, che ne avea avute, avea stimato stabilir legge, colla quale comandava, che dopo la morte dei Prelati, non più a' Baglivi si commettesse l'amministrazione e custodia delle Chiese, ma a tre de' migliori, più fedeli e sapienti della Chiesa, i quali debbano invigilare, e custodirle insino che saranno quelle proviste; con distribuire intanto delle rendite una porzione a coloro che servono alle medesime dimorando in esse, e l'altra per le fabbriche, o altro bisogno della Chiesa; ed eletto il Pastore, restituire il rimanente a lui, ovvero dargli conto dell'amministrazione passata. Gli spogli, che si videro da poi introdotti dalla Corte romana per tirar ivi ogni denaro, erano inauditi, e sarebbero stati reputati come destruttori non meno della disciplina ecclesiastica, che del buon governo del Regno: tutto era della Chiesa, e si spendeva per quella, e quel che sopravvanzava, era riserbato al successore. Non vi eran Nunzi o Collettori o Commessari, che appena spirato il Prelato dessero il sacco alla di lui casa, con prevenirlo sovente prima che quegli spirasse[570]. Quindi i nostri Re non meno che quelli di Francia vantavano la Regalia, come infra gli altri la pretese il Re Corrado[571]; e quindi deriva che abbiano sempre presa la cura, ed invigilato che l'entrate delle Chiese non capitino male, e sovente avessero ordinato, che delle medesime si riparassero le fabbriche, si sequestrassero a questo fine, e diedero perciò molti utili e salutari provedimenti, [453] siccome ne' tempi men a noi lontani fecero Ferdinando I d'Aragona, il Re Federico, il Gran Capitano, il Duca d'Alcalà, ed altri che possono vedersi ne' volumi giurisdizionali presso Chioccarello[572].

Nè deve tralasciarsi quel che Andrea d'Isernia[573] notò sopra questa Costituzione di Ruggiero, la qual egli con manifesto errore crede, che fosse di Guglielmo, dicendo che quando ella fu stabilita parve giusta e regolare, perchè allora non era ancor compilato il volume de' decretali; e che sebbene Ruggiero con tanta utilità diede questa providenza, però da poi i Canonisti non hanno voluto ricever queste leggi de' Principi secolari, etiam si pro eis condantur, quia nolunt ut ponant falcem in messem alienam. Ma prima, che uscisse il volume de' decretali, non era stimata cosa impropria de' Principi di stabilir tali leggi, e particolarmente de' nostri Principi, li quali avendo essi fondate quasi tutte le Chiese del Regno di loro patrimonio, era giusto che fossero nella loro potestà e protezione.

La decimaquinta Costituzione di Ruggiero l'abbiamo nel libro terzo sotto il titolo de prohibita in terra demanii constructione Castrorum. Proibisce ne' luoghi demaniali del Re, che niuno possa sotto colore di miglior difesa erger torri, o Rocche; dovendo bastargli per lor sicurezza quelle del Re, o la sua regal protezione. La decimasesta è sotto il titolo de injuriis Curialibus personis irrogatis; per la quale viene [454] a' Giudici imposto, che nel punir l'ingiurie notino diligentemente la qualità delle persone, alle quali si fanno, da chi, in qual luogo ed in che tempo; e se saranno offesi i suoi Ufficiali, si dichiara essersi fatta ingiuria non solamente a costoro, ma anche la dignità sua regale rimanerne offesa.

La legge 17 che è sotto il titolo de probabili experientia Medicorum è la prima, che presso di noi fosse stabilita, intorno ad evitar quanto fosse possibile, que' mali, che l'imperizia de' Medici poteva cagionare. Prima i prudentissimi Romani reputarono, che l'elezione ed approvazione de' Medici, non a' Presidi delle province, ma agli Ordini o Decurioni della città s'appartenesse per quella ragione, che Ulpiano[574] espresse con queste elegantissime parole: Ut certi de probitate morum, et peritia artis, eligant ipsi, quibus se, liberosque suos in aegritudine corporum committant. Ruggiero in questa sua legge ordinò, che niuno potesse medicare, se prima non si presenterà avanti i suoi Ufficiali e Giudici per essere esaminati, e dichiarati abili a quell'esercizio, imponendo pena di carcere e confiscazion de' loro beni, se per se soli senza questo esame temerariamente presumeranno di medicare. Federico II da poi dichiarando più ampiamente questa legge del suo avo, molte altre leggi stabilì intorno a' Medici, per le quali la Scuola di Salerno fu eretta in Accademia, siccome altresì quella di Napoli, ove piacque a questo Principe fondarne un'altra più famosa ed illustre, come diremo quando de' fatti di questo glorioso Augusto ci tornerà occasion di ragionare.

[455]

Leggesi ancora sotto il titolo de nova militia un'altra Costituzione di Ruggiero, che è la 18 per la quale vien proibito, che niuno possa esser ascritto alla milizia, se non deriverà da militare schiatta; e parimente che niuno possa esser Giudice o Notajo se i padri loro non siano stati di simile professione. Questa legge da Federico nella Costituzione seguente vien confermata, ed aggiunto ancora, che niuno di vil condizione possa esser ascritto a questi Ufficj, nè possa militare se non fia per lato paterno discendente da soldato. Egli è però vero, che Bartolomeo di Capua ci attesta, che queste Costituzioni a' suoi tempi non erano in osservanza nel Regno di Sicilia, avea però inteso, che così si praticava nel Regno di Francia, donde Ruggiero, per emular gl'istituti di quel Regno, l'apprese. E molto a proposito notò il Summonte, questa seconda Costituzione esser di Federico, non già di Ruggiero, come porta l'iscrizione nella vulgata edizione, vedendosi chiaramente, che per questa vien confermata quella di Ruggiero dal suo nipote Federico: poichè si fa menzione della precedente con quelle parole, contra prohibitionem divae memoriae avi nostri. Oltre a ciò, si conferma da quel, che rapporta Riccardo da S. Germano nella sua Cronaca, ove dice, che Federico nel Parlamento che tenne a S. Germano nel mese di febbrajo dell'anno 1232 tra l'altre sue Costituzioni che fece, vi fu anche quella de militibus; come osservò anche Tutini[575] dell'origine de' Seggi.

La 19 è quella che abbiamo sotto il titolo de Falsariis, per la quale si punisce con pena capitale colui che falsificasse o mutasse le lettere del Re, o il suo [456] suggello. La ventesima è sotto il titolo seguente de cudentibus monetam adulterinam, ove con pena di morte e di confiscazione, si puniscono non solamente coloro, i quali coniassero moneta falsa, ma anche quelli che scientemente la ricevono, o in alcun modo consentono a tanto delitto. La ventesimaprima è sotto il titolo, che siegue de rasione monetae, per la quale vengon a morte parimente dannati, e confiscati i beni di coloro, che ardiranno di tosare, o in qualunque modo diminuire le monete d'oro o d'argento.

Se ne leggono da poi sette altre sotto sette diversi titoli disposte, per le quali varie pene s'impongono a' falsari. La prima scusa coloro, che ignorantemente si saranno serviti d'istromenti falsi. La seconda punisce con pena di falso, chi si vale di testimoni falsi. La terza colla medesima pena condanna quelli che nascondono, tolgono, radono o cancellano i pubblici testamenti. La quarta priva dell'eredità paterna colui che cancella, o nasconde il testamento del padre per succedergli ab intestato. La quinta dichiara che la qualità della persona aggrava e minuisce la pena del falso. La sesta punisce di pena capitale coloro, che avranno, o venderanno veleni, o medicamenti nocivi per alienar gli animi; e per la settima si dispone, che non sarà in tutto fuor di pena colui, che porgerà altrui poculi amatorj, o cibi nocivi, ancorchè per quelli non siasi recato alcun danno: le quali Costituzioni furono da poi da Federico approvate, e più ampiamente distese ne' titoli seguenti.

Nelle leggi, che sieguono di questo Principe, si vede chiaro quanto fra l'altre virtù sue ebbe cura dell'onestà ed onor delle donne. Nella 29 che abbiamo sotto il titolo de poena adulterii, si toglie a' mariti di [457] poter in giudicio accusare d'adulterio le loro mogli, se in lor presenza permetteranno a quelle di trastullarsi co' loro drudi con atti lascivi e disonesti; e nella trentesima, che siegue sotto il titolo de prohibita quaestione foeminae, oltre dell'infamia, minaccia pena grave, e degna de' suoi tempi a que' mariti, che permetteranno alle mogli commettere adulterj.

Non meno piene d'onestà sono l'altre sei, che sieguono; proibisce per la prima alle donne oneste la conversazione colle prostitute, alle quali però vieta, che si possa usar violenza. Per la seconda, de repudiis concedendis, si permette al marito di poter dimandar il libello del repudio alla moglie, mentre che giustamente l'accusa d'adulterio. Per la terza de lenis; si puniscono colle pene istesse dell'adultere quelle, che useranno ruffianesmi per corrompere la castità delle donne. La quarta, confermata da poi da Federico, è terribile contro le madri, che prostituiscono le loro figliuole vergini; oltre della pena de' ruffiani, vuol che lor si tronchi il naso, soggiungendo queste gravi parole: Castitatem enim suorum viscerum vendere, inhumanum, et crudele; ma se mai per se stessa alcuna si sarà prostituita, e la madre avrà solamente dato il suo consenso, si lascia all'arbitrio del Giudice di punirla. Per la quinta sotto il titolo de poena uxoris in adulterio deprehensae, si permette al marito, che possa uccidere la moglie, e l'adultero ritrovandogli sul fatto, senza però interporre intervallo alcuno di tempo alla vendetta; e nella sesta sotto il titolo de poena mariti ubi adulter aufugit, si stabilisce, che se il marito lascerà fuggire l'adultero, e ritenerà la moglie, debba esser punito come ruffiano, purchè senza sua colpa l'adultero scappasse.

[458]

Così Ruggiero avendo per queste leggi proveduto all'onestà delle donne, con non minor saviezza provede alla sicurtà degli uomini; si leggono perciò tre altre sue leggi, che sono l'ultime, che abbiamo di questo Principe; e che compiscono il numero di trentanove. Per la prima sotto il titolo de venditione liberi hominis; si riduce in servitù colui, il quale scientemente venderà un uom libero. Per la seconda sotto il titolo de incendiariis, si impone pena capitale contro coloro, i quali fraudolentemente porranno fuoco nelle case altrui. E nell'ultima, s'impone la medesima pena a chi si sarà precipitato da alto, averà menato un sasso, o un ramo senza gridare, o avvisare, onde avesse ammazzato alcun uomo: il rigore della quale fu poi da Federico temperato nella Costituzione seguente.

Ecco come Ruggiero, dopo avere stabilito il suo Regno, lo riordinò con sì provvide ed utili leggi. Ancorchè per alcune di esse si dasse providenza su i matrimonj, su l'amministrazione delle Chiese, sopra i repudj e sopra i Cherici, non perciò erano riputate improprie, a questi tempi, de' Principi secolari. Non ancora s'erano intese quelle querele, che nacquero da poi de' Pontefici romani d'essersi offesa la loro immunità, e che fosse questo un metter la falce nella messe altrui. Cominciarono essi poco da poi pian piano a pretenderlo, e vi diedero l'ultima mano quando Gregorio IX ridotti in un Corpo tutti i rescritti, che servivano alla grandezza romana, ed esteso ad uso comune quello, che per un luogo particolare, e forse in quel solo caso speziale era statuito, ed aboliti tutti gli altri, cavò fuori il decretale, che principiò a fondare e stabilire la Monarchia romana. Ecco parimente, come in questo nostro Reame, alle leggi antiche [459] romane ritenute più per costume, che per leggi scritte, ed alle leggi longobarde, si fossero aggiunte da Ruggiero queste sue Costituzioni, le quali a riguardo delle romane e longobarde erano riputate leggi particolari, siccome quelle comuni ed universali.

§. I. Delle leggi feudali particolari del Regno.

Ma essendosi come altre volte abbiam notato, multiplicate in queste province le Baronie ed i Feudi, siccome in tutta Italia, surse ancora una nuova legge, feudale appellata. Questa nella sua origine fu introdotta per le costumanze de' Longobardi nelle città d'Italia, le quali furono varie e diverse, secondo varie eran le usanze di ciascuna città; tanto che la ragion feudale, prima non poteva chiamarsi, se non che legge non scritta de' Longobardi, onde è, che alcuni saviamente la dissero figlia del tempo, e da' Longobardi introdotta in Italia, non per iscritto, ma per costume; crebbe in cotal guisa da poi, insino che Corrado il Salico, che fu il primo, non pensasse colle leggi scritte ad accrescerla; siccome al di lui esempio fecero da poi gli altri Imperadori suoi successori; onde tutto ciò, che da queste Consuetudini feudali introdotte da' Longobardi, e dalle leggi scritte degli Imperadori surse, fu riputato la ragion comune dei Feudi; poichè in tutta Italia, e da poi in tutta Europa, adattandosi a lei l'altre province, furono quelle Consuetudini e leggi ricevute ed abbracciate. E per questa ragione a riguardo de' Feudi, non vi era differenza alcuna tra quelli, che viveano colle leggi longobarde, e quelli che si governavano colle leggi romane; poichè i Romani non conobbero Feudi, e se [460] alcun Romano era investito di qualche Feudo, era tenuto osservare la legge longobarda, che de' Feudi disponeva, già che dalle romane niente potea ritrarsi.

Questa ragion comune feudale, prima di Ruggiero siccome era egualmente osservata in tutta Italia, così ancora ebbe forza ed autorità in queste nostre Province. Ma ridotte ora da Ruggiero in forma di Regno, e sottratte dall'Imperio, siccome alle leggi comuni romane e longobarde, aggiunse questo savio Principe le proprie, stabilite particolarmente per li suoi dominj, così ancora alla legge comune feudale, volle aggiungervi altre sue leggi feudali particolari, che dovessero osservarsi nel suo Regno, siccome tra le sue Costituzioni che sono a noi rimase, due ne abbiamo osservato attenenti a' Feudi. Seguitando le costui pedate aggiunsero da poi i due Guglielmi suoi successori altre leggi feudali; e finalmente Federico II moltissime altre ne stabilì, che si leggono nel volume delle Costituzioni; onde si fece, che nel nostro Regno altro fosse il Jus comune feudale, che è quello compreso ne' libri feudali, ed altro quello particolare per queste sole nostre province, che incominciandosi da Ruggiero, s'accrebbe da poi da Guglielmo, e più da Federico, e che col correr degli anni da tutti gli altri Re, che ressero questo Regno, fu in quella forma, che oggi si vede ampliato per tante Costituzioni, Capitoli, Grazie e Prammatiche, come diremo a più opportuno luogo. Nel che dovrà avvertirsi; che risedendo nella persona di Federico II la dignità imperiale e regale di Re di Sicilia, quelle sue Costituzioni, che si veggono ne' libri de' Feudi, sono quelle appartenenti al Jus comune de' Feudi; quelle, che sono [461] nel volume delle nostre Costituzioni, appartengono al Jus feudale particolare del Regno di Sicilia.

Ruggiero adunque, siccome fu il primo, che alle romane e longobarde aggiungesse nuove leggi, così ancora fu il primo, che alla ragion comune feudale aggiungesse nel suo Regno nuove leggi feudali particolari, per le quali fu introdotto nuovo costume di succedere a quelli contro le longobarde; e fu perciò, che introdusse il nuovo Jus Francorum, onde da poi presso di noi si rese celebre quella distinzione dei Feudi de Jure Longobardorum et Francorum.

Fra gli altri pregi di questo Principe, è lodato cotanto dagli Scrittori quel suo costume di voler essere informato delle leggi e costumi delle altre Nazioni, e ciò che reputava commendabile, introdurlo nel Regno suo; ma di niuna altra Nazione era egli più amante, quanto della franzese, donde egli traea origine; perciò fu più inchinato d'introdurre nel suo novello Regno tutte quelle usanze, e tutti quegl'istituti, che osservava in quel floridissimo Reame; per questa istessa cagione, come osserveremo quindi a poco, v'introdusse egli i sette Ufficj della Corona, che ivi erano; ed amante pur troppo de' Franzesi, diede gelosia e cruccio a' Siciliani e a' Pugliesi, che si vedevan perciò posposti negli onori a' forestieri[576].

Quindi, come si è detto, trassero l'origine nel nostro Regno i Feudi Juris Francorum, poichè Ruggiero facendo venir spesso dalla Francia Capitani ed altri soldati franzesi, si serviva di loro in tutte le sue ardue imprese, essendo stata sempre questa gente per valor militare riputata sopra tutte le altre; onde Ugone [462] Falcando dice, che perciò soleva Ruggiero fargli venire: Transalpinos maxime, cum ab Normannis originem duceret, sciretque Francorum gentem belli gloria caeteris anteferri, plurimum diligendos elegerat, et propemodum honorandos. E questo costume fu ritenuto anche da poi da' due Guglielmi suoi successori, anzi ne' principj del Regno di Guglielmo II fu cotanto nella sua Corte il favore de' Franzesi, che non si ritenne di crear suo Gran Cancelliero un Franzese, onde si rese numerosa la sua Corte di questa gente con indignazione grandissima de' Nazionali[577].

Per questo avvenne, che militando valorosamente questi Capitani sotto l'insegne di Ruggiero, e de' due Guglielmi, furono da essi investiti di molti Feudi, onde abbandonando la Francia, fermarono in queste province le loro famiglie, non lasciando intanto di vivere secondo i proprj loro costumi, che da Francia portarono; ed insino a' tempi di Federico II lor si permise, che dovessero così ne' giudicj, come in altre occorrenze, esser giudicati secondo i loro patrj istituti e costumi, fra' quali il più considerabile era, che ne' Feudi dovesse succedere il primogenito, esclusi tutti gli altri fratelli minori, non già, come con molta imprudenza si praticava da' Longobardi, secondo i quali venivan tutti ammessi alla successione, dividendo con tanto discapito dello splendore delle loro famiglie i Feudi; una delle principali ragioni, che fu della rovina de' medesimi in queste nostre province, come altrove fu da noi osservato. In tutta la Francia, come ne rendono a noi testimonianza Ottone Frisingense e [463] Cujacio[578], con provido consiglio fu istituito, che i soli primogeniti succedessero ne' Feudi, reputando così potersi conservare lo splendor delle famiglie. Così tutti que' Capitani e soldati franzesi, che furono investiti di Feudi in queste nostre province, ritennero questo costume; e Ruggiero, ed i due Guglielmi, non solamente loro il permisero, ma anche che ritenessero tutti lor altri istituti, tanto che Federico II per toglier le confusioni, che si cagionavano perciò in questo Reame per queste leggi infra di lor difformi, ebbe bisogno di stabilire una Costituzione speziale, che è quella che si legge sotto il titolo de Jure Franc. in judic. subl. per la quale tolse, che ne' giudicj potessero più servirsi di que' loro particolari istituti; e tolse ancora quell'altro lor barbaro costume del duello, per quella sua celebre Costituzione Monomachiam.

Non però tolse, anzi approvò il lor costume, come molto commendabile, che ne' Feudi succedesse il primogenito; quindi avvenne che presso di noi tutti i Feudatarj si distinguessero in Franchi e Longobardi: per Franchi intendendo coloro che viveano intorno alle successioni de' Feudi Jure Francorum, e per Longobardi, quelli che viveano secondo la lor antica usanza, d'ammetter tutti i figliuoli alla successione de' loro Feudi. Era però il Jus Francorum reputato come speziale a riguardo del Jus Longobardorum, ch'era il comune, tanto che scrisse Andrea d'Isernia[579], colui che dice esser Franco, e perciò non dover dividere co' fratelli, allegando una ragione speziale, suo dee esser il peso di provarlo, già che comunemente tutti si presumono [464] vivere secondo il Jus comune de' Longobardi, che stabilisce i Feudi doversi tra fratelli dividere.

Fu adunque in tempo di Ruggiero, che s'introdusse nel Regno questa ragion speziale di succedere ne' Feudi all'uso de' Franzesi, il quale non soddisfatto d'aver con sì provide leggi stabilito il suo novello Reame, e dalla Francia introdottovi nuovi costumi ed istituti per dargli forma più nobile, volle ancora illustrarlo, e renderlo più maestoso con introdurvi nuove dignità e più illustri, che prima non ebbe, onde ad emulazione di quello di Francia, l'adornò de' Principali Ufficj della Corona, che in quel Regno da molto tempo erano stati introdotti.

CAPITOLO VI. Degli Ufficj della Corona.

Dapoi che in Francia, nella stirpe di Ugo Ciappetta, restò estinta quella sublime dignità di Maestro del Palazzo, che come ruinosa a' Principi stessi, come si vide chiaro nel Regno di Ghilperico, fu riputato saggio consiglio di que' Re di spegnerla affatto, si videro da questa suppressione grandemente accresciuti quattro altri Ufficj di quella Corona, le cui funzioni eransi prima trasfuse in quello di Maestro del Palazzo, che per la sua grandezza e sublimità avea assorbiti tutti gli altri. Egli era perciò detto Capo de' Capi di tutti gli altri Ufficiali: Duca de' Duchi: e non senza ragione era assomigliato al Prefetto Pretorio sotto gli ultimi Imperadori romani. A lui non meno si riportavano le cose della guerra, che della giustizia; sovrastava [465] alle Finanze, ed alla Casa del Re: in breve, era il Superior generale di tutti gli Ufficiali del Regno senza eccezione.

Dalla suppressione dunque di quest'Ufficio ripigliarono gli altri Uffizj della Corona la loro antica autorità, non riconoscendo poi altri per lor Capo e superiore, che il Re istesso; onde perciò i supremi vennero con titolo di Grandi decorati. Surse il Gran Contestabile, che ebbe la soprantendenza della guerra, ed il comando degli eserciti in campagna. Il Gran Ammiraglio capo dell'armate navali, che ebbe il comando sopra mare in guerra ed in pace. Il Gran Cancelliero per la soprantendenza della giustizia, capo di tutti gli Ufficiali di pace, e Magistrato de' Magistrati, dipendendo da lui i Giustizieri, i Protonotarj, e tutti gli altri minori Cancellieri. Il Gran Tesoriero, ovvero Gran Camerario, capo della Camera de' Conti, ed Ufficial supremo delle Finanze; ed il Gran Siniscalco, ovvero Giudice della Casa del Re, poichè ebbe il governamento della medesima.

Tutti questi Ufficj erano chiamati della Corona, ovvero del Regno, perchè non riguardano il servigio della persona del Re, ma del Regno: e Ruggiero stabilito ch'ebbe il suo, ve gl'introdusse insieme con gli altri Ufficiali minori subordinati a' medesimi. Prima, queste nostre province non gli conobbero, e le loro funzioni venivano esercitate sotto altro nome da diversi altri Ufficiali: e se ben sotto i Goti se ne fosse avuta qualche conoscenza, avendocene Cassiodoro lasciata qualche notizia, onde è da credersi, che i Franzesi dai Goti gli apprendessero; nulladimanco essendo stati questi discacciati da' Greci, ed i Greci da' Longobardi, si [466] vede che nè gli uni, nè gli altri in tutto il tempo, che dominarono queste Province, l'usarono[580]. I Greci le governarono per Straticò e Catapani; onde è, che oggi ancora presso di noi sia rimasto qualche vestigio di questi Ufficiali. In Salerno ancor si ritiene il nome di Straticò, come in Messina. In Puglia i Catapani furono assai rinomati; onde è che per questo nome di Magistrato ritenga oggi il nome di Capitanata una provincia del Regno. Ebbero ancora i Greci altri Ufficiali, come i Maestri de' Cavalieri, per li quali lungamente ressero il Ducato di Napoli. Ebbero i Patrizj, i Protospata, ed altri moltissimi; nè mai usarono i soprannomati. Solamente è chi dice, che l'Ufficio di Protonotario fosse d'origine greco, ma di ciò ne parleremo al suo luogo.

I Longobardi certamente non gli conobbero; essi prima divisero i Governi in Castaldati, a ciascuno preponendo un Castaldo per reggerlo, al quale s'appartenevan così le cose della guerra, come della giustizia. Da poi crearono i Conti, che nella loro origine non erano più che Ufficiali, e non Signori; ciascuno avendo il governo del Contado a se commesso sin tanto che poi col correre degli anni cominciassero a mutargli, e da Ufficj, ridurgli in Feudi e Signorie, come altre volte abbiamo osservato.

Furono adunque i Normanni, e sopra tutti il famoso Ruggiero, che avendo ridotti i suoi dominj in un ampio e potente Reame, era di dovere che vi introducesse questi Ufficj, che in altri Regni, e particolarmente in quello di Francia, erano riputati proprj [467] della Corona regale, e come tanti lumi, che facessero maggiormente risplendere il suo regal diadema.

§. I. Del Gran Contestabile.

Quello che meritamente, e secondo il comun sentimento degli Scrittori s'innalza sopra tutti gli altri, e tiene il primo luogo, è il Gran Contestabile. Nella sua origine, appresso i Franzesi era chiamato il Gran Scudiero del Re, e perciò da Aimone[581] viene appellato Regalium Praepositus Equorum, come parimente l'attesta il suo nome latino Comes stabuli, molto frequente negli antichi libri, di cui Caronda[582] riferisce molti be' passi, e sostiene Loyseau[583] contro l'opinion d'alcuni moderni, e spezialmente di Cujacio[584], ch'è di contrario sentimento.

Ha due grandi prerogative: l'una, egli è custode della spada del Re, poichè quando vien promosso a sì sublime dignità, il Re gli dà tutta nuda la sua spada nelle mani, per la quale egli all'incontro in quell'istante gli dà la fede ed omaggio, come appunto si narra dell'Imperador Trajano, il quale dando la sua spada nuda a Sura Licinio Prefetto Pretorio, gli disse queste memorabili parole: Accipe hunc ensem, ut si quidem recte Reip. imperavero, pro me, sin autem secus, in me utaris. Perciò l'insegna di questa dignità è la spada nuda; siccome il nostro Torquato seppe ben esprimere nella persona del Gran Contestabile d'Egitto, collocandolo perciò in quella rassegna alla destra del Re, [468] appartenendo a lui il primo luogo sopra tutti gli altri Ufficiali della Corona, e dandogli la spada nuda per sua insegna.

.... alza il più degno

La nuda spada del rigor ministra.

L'altra prerogativa è, che negli eserciti egli ha il comando sopra tutte le persone, anche sopra i Principi del sangue: dispone gli alloggiamenti, istruisce le squadre, distribuisce le sentinelle: sono a lui subordinati i Marescialli, e tutti gli altri Ufficiali minori: in breve ha il supremo comando negli eserciti mentre sono in campagna, onde di quest'altra prerogativa parlando il Tasso cantò:

Ma Prence degl'eserciti, e con piena

Possanza è l'altro ordinator di pena.

Ma tutta questa sua autorità ed alto imperio potea esercitarlo negli eserciti in campagna, non già nelle Piazze, nè sopra i Governadori delle province; onde mal fanno coloro, che vogliono far paragone de' Gran Contestabili co' presenti nostri Vicerè, li quali non solo hanno il comando degli eserciti in campagna, ma anche in tutte le Piazze, sopra tutti i Governadori delle province, così in terra, come in mare, e sopra tutti gli altri Ufficiali della Corona. Egli è però vero che presso i Vicerè risiedono le prerogative del Gran Contestabile; poichè le cose di guerra a lui s'appartengono, ed egli dispone gli eserciti in campagna, a cui ubbidiscono tutti gli altri Generali e Marescialli; ma quando il Vicerè sia assente dal Regno, nè fosser altri dal Re deputati a quest'impiego, potrebbe ne' casi repentini e quando la necessità lo portasse, il Gran Contestabile servirsi della sua giurisdizione, e riassumere [469] ciò, che prima era della sua incumbenza, come dice Marino Freccia[585].

Il primo Contestabile, che tra le memorie antiche abbiamo nel Regno di Ruggiero, fu Roberto di Bassavilla Conte di Conversano[586]. Questi fu figliuolo di un altro Roberto parimente Conte di Conversano, e di Giuditta sorella di Ruggiero: fu adoperato da Ruggiero nelle imprese più ardue, e meritò per la disciplina militare, nella quale era molto versato, da questo Principe esser innalzato a sì sublime dignità. Nel Regno di Guglielmo I si rese più rinomato, e da questo Principe fu investito del Contado di Loritello; ma da poi essendosi da lui ribellato, gli pose sottosopra il Regno insieme con altri Baroni, onde Guglielmo toltagli questa dignità, la diede a Simone Conte di Policastro suo cugino, che fu il secondo Contestabile, di cui ci sarà data occasione di più lungamente ragionare nel Regno di Guglielmo; e ne' tempi di Guglielmo II fu Contestabile Roberto Conte di Caserta[587].

Merita riflessione che questi Contestabili, siccome tutti gli altri supremi Ufficiali, che prima si dissero Maestri Contestabili, e poi Magni Contestabili, erano comuni così a queste nostre Province, come alla Sicilia, insino che questa isola fosse stata dagli Aragonesi tolta agli Angioini; e se bene solevano a questa dignità innalzare i nostri Baroni, come quelli che per ampiezza di dominj e Contadi, e per le parentele che aveano co' Principi stessi, i quali non si sdegnavano allora imparentarsi con loro, facevano la principal [470] figura sopra tutti gli altri Baroni di quell'isola; e spesso solevano risedere ne' loro Stati; nulladimeno avendo i Re normanni fermata la loro sede regia in Palermo, solevano regolarmente in questa Corte appresso la persona del Re risiedere, dal quale erano impiegati ne' più rilevanti affari della Corona. Perciò non bisogna confondergli co' minori Contestabili, i quali erano mandati ad una particolar provincia, ed a' quali o era commesso il governo di qualche città, o gli era dato il comando d'alcuni reggimenti o di fanteria o di cavalleria; poichè se bene questi erano pure chiamati Contestabili, il loro posto però era molto diverso, e di gran lunga inferiore a' grandi e primi Contestabili, i quali perciò erano chiamati Regni Comestabuli. Così nella Cronaca di Not. Riccardo di S. Germano scritta ne' tempi di Federico II leggiamo, che Filippo di Citero, erat Comestabulus Capuae. E ne' tempi posteriori si leggono molte carte rapportate dal Tutini[588], nelle quali la Contestabilia era ristretta al governo d'una città sola, e ad una particolare incumbenza: così spesso s'incontra nelle scritture del regio Archivio della Zecca: Henricus Comestabulus Foggiae: ed in alcuni istromenti del medesimo Archivio, pur si legge Franciscus Garis Comestabulus vigintiquatuor Balestrarum; ed altrove: Franciscus de Diano Comestabulus Peditum.

Così ancora venivano chiamati Comestabuli Regii Hospitii i Mastri di stalla della Casa reale. E parimente li Capitani delle milizie, ch'erano in ciascheduna Provincia del Regno, che oggi si dicono Capitani del Battaglione, erano ancora Contestabili nomati. [471] Osserviamo perciò Pietro della Marra Contestabile di Terra di Lavoro; Guglielmo Ponciaco Contestabile in Basilicata; Mattia Gesualdo Contestabile nel Principato, Gualtiedi del Ponte Contestabile in Capitanata, Adamo Morerio Contestabile in Terra d'Otranto, e Gentile di Sangro Contestabile nell'Apruzzi.

Nel Regno degli Angioini quest'Ufficio non perdè niente del suo antico splendore; anzi, come scrisse Marino Freccia, Carlo I d'Angiò soleva concederlo colle medesime prerogative, ed all'istesso modo del Regno di Francia, ordinando che in quella guisa appunto dovesse esercitarsi nel suo Regno di Sicilia. E Carlo II suo successore stabilì molti Capitoli attenenti a' Gran Contestabili, rapportati dal Tutino, a' quali sottopose tutti i Marescialli del suo Regno. Ma ora quest'Ufficio, per le cagioni, che si diranno nel progresso di quest'Istoria, è a noi rimaso sol a titolo d'onore e senza funzione, essendo la sua autorità passata in gran parte nella persona del Vicerè; e solo i Gran Contestabili ritengono la precedenza nel sedere in occasion di Parlamenti, e nell'altre pubbliche celebrità, con molte altre preminenze, come il vestirsi di porpora e d'armellini con berrettino; ed ultimamente ancorchè gli fossero stati lasciati questi onori, se gli è pure levato il soldo, che prima godevano.

§. II. Del Grand'Ammiraglio.

Dovrebbe occupar il secondo luogo tra' Ufficj della Corona quello del Gran Cancelliere, siccome s'usa presso i Franzesi; ovvero quello di Gran Giustiziero siccome ora si osserva presso di noi; ma due ragioni mi spingono dopo il Gran Contestabile a favellare [472] del Grand'Ammiraglio: l'una per la grande uniformità che egli tiene col Gran Contestabile; poichè avendo ambedue la soprantendenza della guerra, il primo sopra gli eserciti in campagna, e questo secondo sopra l'armate di mare, mi muove, innanzi che si faccia passaggio agli Ufficiali di pace ed a quelli di giustizia, a dover del Grand'Ammiraglio ragionare: l'altra più potente si è il vedere, che a' tempi di questi Re normanni, ne' quali siamo, fu la dignità del Grande Ammiraglio riputata assai più di quella del Gran Cancelliere, e di qualunque altro Ufficiale di giustizia; perchè essendo questi Re potenti in mare cotanto che per le loro armate si resero gloriosi e tremendi per tutto Oriente, portando le loro vittoriose insegne insino alle porte di Costantinopoli, e nell'Affrica fecero maravigliosi acquisti; il loro imperio sopra il mare era più ampio e considerabile, che quello di terra; onde avvenne, che ne' tempi di Ruggiero, e dei due Guglielmi suoi successori, l'esser Grand'Ammiraglio del Regno di Sicilia, era il più alto grado, nel quale alcuno potesse mai essere innalzato. In fatti vediamo che il famoso Majone di Bari, che a' tempi di Ruggiero era Gran Cancelliere, entrato da poi in somma grazia del Re Guglielmo, fu da costui, per dargli un saggio della grande stima, che faceva della sua persona, innalzato ad esser Grand'Ammiraglio; ed Ugone Falcando, narrando lo stato della Corte nei principj del Regno di Guglielmo II, nel qual tempo reggeva l'ufficio di Gran Cancelliere l'Eletto di Siracusa, e quello di Gran Camerario del palazzo Riccardo Mandra, dice che Matthaeus Notarius cum sciret Admiratum se non posse fieri, ob multam ejus nominis invidiam, Cancellariatum totis nisibus appetebat.

[473]

Se riguardiamo l'impiego e le funzioni di questo Ufficio, non è da porsi in dubbio, che non fosse antichissimo, conosciuto da' Romani, e più dalle regioni d'Oriente bagnate dal mare; poichè presso Livio abbiamo i Prefetti delle classi marittime, e nell'antica Gallia presso Cesare spesso s'incontrano i Prefetti marittimi, fra quali sopra tutti si distinse Bibulo. Ma il suo nome certamente non lo ritroveremo presso i Romani; ed io acconsento all'opinione di coloro, che stimano questa voce essere non già provenzale, come credette l'Alunno[589], ma saracena; come ben pruovano da molti passi dell'Istoria del Fazzello[590], Pietro Vincenti[591] ed il Tutini[592]. Ed in vero i Saraceni furono molto potenti in mare, ond'è che nell'istorie loro spesso s'incontrano questi nomi d'Ammiragli, poich'ingombrando essi l'Oriente, e gran parte dell'Occidente, come la Spagna, l'Affrica e la Sicilia, luoghi nella maggior loro estensione bagnati dal mare, ebbero perciò molti Generali di mare, da essi Ammiragli chiamati.

Gli conobbero ancora i Greci e gli ultimi Imperadori d'Oriente, i quali per opporsi agli sforzi dei Saraceni bisognò, che si provedessero d'armate marittime essi ancora, e non è fuor di ragione il credere che in queste nostre province gli avessero i Greci prima introdotti, poichè non essendogli negli ultimi tempi rimaso altro, che molte città nella riviera del mare, come quelle della Calabria, e parte della Lucania, Amalfi, Napoli e Gaeta, tutti luoghi marittimi [474] bisognò provedersi d'armate per conservargli da' Saraceni, i quali siccome avevan loro tolta la Sicilia, così passavano pericolo quest'altre città ancora di qua del Faro di correre la stessa fortuna. In fatti osserviamo, che gli Amalfitani si resero potenti in mare, e nell'arte nautica espertissimi, tanto che i Greci gli ebbero per valido presidio, ed in essi per le cose marittime fondavano le maggiori speranze; e come altrove fu avvertito, s'avanzarono tanto in questo mestiere, che oltre alle frequenti navigazioni per tutte le parti orientali, furono riputati arbitri delle controversie marittime; e siccome a' tempi de' Romani, i Rodiani si lasciarono in dietro tutte le altre Nazioni, tanto che le leggi Rodie erano la norma di tutti i Popoli dell'Imperio, per le quali le liti insorte su la nautica venivan decise; così presso di noi, tutte le liti, e tutte le controversie surte intorno alla navigazione, si decidevano secondo le leggi, ed instituti degli Amalfitani; e Marino Freccia[593] attesta, che insino a' suoi tempi questi litigi venivan terminati secondo le leggi amalfitane. Quindi avvenne, che per essere gli Amalfitani tutti dediti alla navigazione, ed esperti nella nautica, riuscì finalmente a Flavio Gisia Amalfitano, ne' tempi di Carlo II d'Angiò, uomo sagacissimo, di rinvenire la Bussola tanto necessaria per le navigazioni.

Ma avendo ora i Normanni discacciati dalla Sicilia i Saraceni, e da questi nostri luoghi i Greci, per potergli difendere dall'invasione così degli uni, come degli altri, bisognò che parimente si fortificassero in mare. E quanto in ciò i Normanni s'avanzassero, e [475] precisamente a tempo del famoso Ruggiero, e de' due Guglielmi, ben è chiaro dall'istoria de' Regni loro. Per questa ragione l'Ufficio di Grand'Ammiraglio a questi tempi fu reputato il più rinomato ed illustre; onde avvenne, ch'essendo il numero delle loro armate ben grande, e perciò convenendo tener più Ammiragli, il primo, e capo sopra di tutti, si fosse appellato Ammiraglio degli Ammiragli.

Avea egli perciò le più insigni prerogative, che mai possono immaginarsi intorno all'Imperio del mare: egli comandava sopra mare in pace ed in guerra: era sua incumbenza la costruzione de' vascelli e delle navi del Re, reparargli e disporgli per mantener il commercio: tener li Porti in sicurezza in tutta l'estensione del Reame, e conservare i lati marittimi sotto l'ubbidienza del Re; ed erano a lui subordinati tutti gli altri Ammiragli delle province e de' porti, i Protontini, i Calefati, i Comiti, i Carpentieri, e tutti gli altri minori Ufficiali marittimi[594].

Presentemente il nostro Grand'Ammiraglio ritiene la giurisdizione così civile, come criminale sopra tutti gli Ufficiali a lui subordinati, e sopra tutti coloro, che vivono dell'arte marinaresca[595]: tiene perciò un particolar Tribunale, ove i Giudici creati dal Grande Ammiraglio amministrano giustizia a tutti coloro che sono ad essi subordinati, ed ha leggi particolari stabilite sulla nautica, onde le liti si decidono: tanto che siccome per li Feudi è surto un nuovo corpo di leggi feudali, così ancora per la nautica, un nuovo corpo [476] di leggi nautiche abbiamo, del quale qui a poco farem parola. Ritiene ancora presso di noi per sua insegna il fanale, siccome anticamente avea il Grande Ammiraglio di Francia, il quale ora non più il fanale, ma l'Ancora ha per insegna[596]. Ha purpurea veste, e ne' Parlamenti siede alla parte destra del Re, dopo, ed al lato del Gran Contestabile.

Il primo, che s'incontra nel Regno di Ruggiero, fu Giorgio antiocheno: fu costui da Ruggiero per la sua eminente virtù, ed esperienza nelle cose marittime chiamato fin da Antiochia, e fu da questo Principe creato Grand'Ammiraglio, del cui consiglio e prudenza valevasi Ruggiero, così nell'imprese di mare, come di terra[597], avendo avuto per costume questo glorioso Principe di chiamare a se da diverse regioni del Mondo uomini esperti, non meno nell'armi, che nelle lettere. Riportò Ruggiero per quest'invitto Capitano molte vittorie in Grecia, portando le sue vittoriose insegne insino alla porta di Costantinopoli. Liberò Lodovico Re di Francia, che mentre ritornava dalla Palestina fu da' Greci preso per presentarlo all'Imperador di Costantinopoli, poichè incontrandosi colle navi de' Greci le combattè e vinse, e liberò tosto il Re franzese, il quale da Ruggiero fu con molto onor ricevuto in Sicilia, donde poscia in Francia fece ritorno. Egli fu il primo che nelle scritture pubbliche si sottoscrivesse: Georgius Admiratorum Admiratus, come dalla carta, che porta il Tutini; perciocchè secondo il numero delle armate, convenendo tener più Ammiragli in diverse parti del Regno, il primo meritamente s'appellava Ammiraglio degli Ammiragli.

[477]

Il secondo, che abbiamo pure nel Regno di questo Principe, fu l'Eunuco Filippo, il quale non altrimenti di ciò che Claudiano narra d'Eutropio, che da Eunuco fu innalzato ad esser Console, così egli da Ruggiero fu creato Grand'Ammiraglio. Costui, come narra Romualdo Arcivescovo di Salerno[598], fu dalla sua giovanezza allevato nella casa reale di Ruggiero; era di costumi non dissimili da quelli d'Eutropio, e covrendo il vizio sotto il manto di virtù, s'avanzò tanto nella benevolenza del Re, che fu riputato degno di esser innalzato all'onore di Maestro del Palazzo reale; da poi il Re dovendo in Turchia far l'impresa di Bonna, trascelse Filippo al maneggio di quella guerra, e nell'anno 1149 lo creò Grand'Ammiraglio, il quale postosi alla testa d'una grossa armata di vascelli prese la città, e carico di molte prede, se ne ritornò trionfante in Sicilia, ove per lungo tempo fece dimora; ma vedutosi da poi in tanta grandezza, mal potendo coprire la sua occulta religion saracinesca, che fin ora avea celata sotto il manto della cristiana, si scovrì poi, ch'egli odiava in estremo i Cristiani, ed oltremodo amava gli Ebrei ed i Maomettani, mandando sovente messi e doni in Lamecca al sepolcro dell'impostore Maometto. Ruggiero avendo scoperte queste scelleraggini e dubitando, che se con memorando esempio non si correggesse la malvagità di costui era da temere, che non ripullulasse la religion saracinesca in quell'isola, dalla quale con tanto studio e fatiche avea proccurato cacciarne i perfidi Saraceni: fece prender di lui aspro e severo castigo; poichè fatto subito convocare i Sapienti e i Baroni del suo Consiglio, fu da costoro [478] condennato alla pena del fuoco ed avanti il Palazzo regio fu al cospetto di tutti fatto buttare ad ardere nelle fiamme.

Successe da poi nel Regno di Guglielmo a questa carica di Grand'Ammiraglio il famoso Maione di Bari, i cui fatti per ciò che concerne all'istituto di quest'Istoria saranno ben ampio soggetto del libro seguente. Costui innalzato da Guglielmo a' primi onori del Regno esercitava il posto di Grand'Ammiraglio con maggior fasto e con una totale independenza. Ancora egli, per essere eziandio così chiamato dal Re, si firmava: Majo Admiratus Admiratorum; avendo sopra tutti gli altri Ammiragli del Regno la suprema autorità ed il sovrano comando.

Nel che dovrà avvertirsi, siccome altre volte fu detto, che ne' tempi de' Normanni e Svevi, insino che questo Regno fu diviso da quello di Sicilia, quando passò sotto la dominazione degli Aragonesi per quel famoso vespro Siciliano, uno era il Grand'Ammiraglio, che avea la soprantendenza sopra tutti gli altri Ammiragli delle province così dell'uno, come dell'altro Reame; a differenza del Regno di Francia, nel quale da poi che quella Monarchia ebbe acquistata la Provenza, fu diviso in quattro: poich'era uno Ammiraglio in Guienna; l'altro in Brettagna; il terzo in Provenza, il qual sebene non avesse nome d'Ammiraglio, ma di Generale delle Galere, com'è ora quello di Napoli, nulladimeno avea l'istessa potenza degli Ammiragli, dimodochè all'antico Ammiraglio non rimase se non il suo antico lato di Normannia e Piccardia col titolo d'Ammiraglio di Francia indefinitamente[599]. Non così nel Regno [479] di Sicilia, ove uno era il Grand'Ammiraglio e teneva sotto di se tutti gli altri Ammiragli, detto perciò Admiratus Admiratorum, poichè nelle altre parti del Regno di qua e di là del Faro, non solamente le province, ma anche le città aveano i loro particolari Ammiragli, subordinati tutti al primo e Grande Ammiraglio. In fatti in queste nostre province erano molti Ammiragli in un tempo istesso, siccome ce ne accerta la Cronaca Cassinense[600], ove di alcuni di essi sovente accade farsi memoria; e quasi in tutte le città marittime vi risiedeva un Ammiraglio per ciascheduna e questi per lo passato eran creati dal Re, ed aveano cura de' legni e de' vascelli regi. E ne' tempi posteriori de' Re angioini, venivano chiamati Protontini, i quali amministravan giustizia a tutti coloro che viveano dell'arte marinaresca, che risiedevano in quelle città e riviere. Così il Tutino rapporta molte carte, nelle quali molti vengono nomati Ammiragli di diverse città di mare, come Landulfo Calenda Ammiraglio di Salerno, Lisolo Sersale Ammiraglio, ed altri moltissimi. In questa maniera avendo i nostri Re normanni, non meno per terra, che per mare proccurato stabilire il loro Imperio, ed avendo perciò istituito vari Ufficiali, a' quali il governo e la sicurezza del mare, de' porti, del commercio, delle navigazioni, e de' traffichi era commesso proccurarono perciò stabilire ancora molte leggi, dalle quali in decorso di tempo, surse, non altrimenti che si fece de' Feudi, un nuovo corpo di leggi Nautiche appellate; e che col correr degli anni, siccome abbiam veduto, dopo il Jus comune feudale, sorgere una nuova ragione feudale non comune, ma speziale per questo [480] nostro Reame: così ancora per la nautica, oltre il Jus comune, una nuova ragion particolare per queste nostre province.

Delle leggi navali.

Le leggi appartenenti alla Nautica presso i Romani non erano altre, se non quelle, che da' Rodiani appresero: perciò la legge Rodia fu cotanto rinomata, e n'andò cotanto chiara e luminosa in tutto quel vasto Imperio, che gl'Imperadori Tiberio, Adriano, Antonino, Pertinace e Lucio Settimio Severo stabilirono molte leggi approvandole, e dando loro forza e vigore per tutto l'Imperio; onde ne surse il Jus Navale Rodiano, tratto dall'undecimo libro de' Digesti[601], il quale dalla Biblioteca di Francesco Piteo, dove lungo tempo giacque sepolto, fu finalmente pubblicato al Mondo. Ma da poi avendo gl'Imperadori d'Oriente, in Costantinopoli, città per tre suoi lati bagnata dal mare, fermata la loro sede, e le maggiori loro forze collocate nelle armate navali, attesero molto più per mezzo di queste, che d'eserciti terrestri a conservare i loro dominj e le ragioni di quel cadente Imperio, le quali circondate nella maggior loro estensione dal mare, più dall'armate, che dagli eserciti potevano tenersi in sicurezza; perciò di questi ultimi Imperadori d'Oriente abbiamo più leggi attinenti alla nautica ed al commercio del mare, ed alla sicurezza de' porti, e delle [481] navigazioni, le quali furono raccolte parte da Leunclavio, e da Pietro Peckio, e parte ultimamente dall'incomparabile Arnoldo Vinnio, il quale ebbe la cura d'impiegare gli alti suol talenti anche intorno a queste leggi, e sopra l'opera del Peckio aggiungere le sue osservazioni.

Ma queste leggi degl'Imperadori d'Oriente patirono in queste nostre regioni quel medesimo infortunio, che tutte l'altre loro compilazioni. Presso di noi la Tavola Amalfitana, come dice Marino Freccia[602] era quella donde s'apprendevano le leggi attinenti alla nautica; nè è inverisimile, che gli Amalfitani per le spesse navigazioni e continuo traffico, che aveano cogli Orientali, dalle leggi di quegl'Imperadori, e più dalla lunga esperienza, e da' pericoli sofferti in mare, l'apprendessero. E poichè ne' medesimi tempi i Catalani, gli Aragonesi, i Pisani, i Genovesi ed i Veneziani parimente s'erano renduti potenti in mare e celebri, non altrimenti che gli Amalfitani, per le navigazioni nelle parti orientali ed altrove, ne nacque perciò un nuovo corpo di statuti e costumanze, che ora ristretto in un picciol volume, va attorno sotto nome di Consolato del Mare, donde i Naviganti prendon la norma per terminare le lor contese, il che producendo buon effetto ne' sudditi, da ciascun Principe vien approvato; ed i regolamenti in quello stabiliti, come loro particolari statuti e costumanze vengono inviolabilmente osservati.

[482]

Questi Capitoli, onde si compone il Consolato del Mare, furono approvati da' Romani, da' Pisani, dal Re Luigi di Francia, dal Conte di Tolosa, e da molti altri Principi e Signori; ed i Re d'Aragona, ed i Conti di Barzellona ve ne aggiunsero degli altri; ed Arnoldo Vinnio non s'allontana dall'opinione di coloro, che narrano questa compilazione essersi fatta a' tempi di S. Lodovico Re di Francia. Fu data poi alle stampe in Venezia da Giovambatista Pedrezano, il quale intitolò questa Raccolta: Il libro del Consolato de' Marinari, e lo dedicò a M. Tomaso Zarmora Console allora in Venezia per l'Imperadore Carlo V; fu da poi nell'anno 1567 ristampato in Venezia stessa, ed è quello, che ora va attorno per le mani d'ognuno; e che nel Tribunale del Grand'Ammiraglio del nostro Regno ha tutta l'autorità e 'l vigore.

Ma i nostri Principi di ciò non soddisfatti, vollero per questo Regno stabilire sopra gli affari marittimi, particolari leggi. L'Imperador Federico II, oltre di quelle che furono inserite nel Codice[603], stabilì molti Capitoli attinenti all'Ufficio dell'Ammiraglio, ne' quali si prescrive al medesimo ciò che deve esser della sua incumbenza, quello che se gli appartiene, e sin dove s'estende l'autorità sua. Ne' tempi de' Re angioini furono aggiunti a' medesimi molti altri Capitoli, per li quali fu in nuovo modo prescritta la sua autorità, come si osserva in quelli stabiliti da Carlo II d'Angiò a Filippo Principe d'Acaja e di Taranto, suo figliuolo quartogenito, quando lo creò Grand'Ammiraglio, che vengon trascritti dal Tutini. Da poi i Re aragonesi accrebbero molte altre cose a' Capitoli de' loro predecessori, [483] che dovea osservar l'Ammiraglio, e molti ne aggiunse Ferdinando I a Roberto S. Severino Conte di Marsico, quando nell'anno 1460 lo creò Ammiraglio, pur rapportati dal Tutino. Ed in tempo degli Austriaci molte prammatiche si promulgarono attinenti a quest'Ufficio, delle quali, quando ci tornerà occasione, non si tralascerà farne memoria.

Tanta e tale era la dignità del Grand'Ammiraglio ne' secoli andati, e cotanto era grande la sua incumbenza, che per regolarla vi fu uopo di tanti provvedimenti finchè ne surse una nuova ragione, nautica appellata. Ma sì sublime Ufficio nel nostro Regno sin da' tempi di Marino Freccia cominciò a decadere dal suo splendore, e molto più ne' tempi men a noi lontani, ed oggi appena serba qualche vestigia della sua grandezza, ritenendo, oltre gli onori e preminenze, un Tribunale a parte da se dipendente, e la giurisdizione sopra coloro che vivono dell'arte marinaresca. Le cagioni di tal declinazione ben s'intenderanno nel corso di questa Istoria, ove si conoscerà, che sin a tanto, che i nostri Re furono potenti in mare, ed insino che i Normanni, gli Svevi, e sopra tutti gli Angioni mantennero molte armate navali, crebbe nel suo maggior splendore; ma da poi diminuite l'armate, e passato il Regno sotto la dominazione degli Austriaci, essendosi introdotta nuova forma e nuovo regolamento dipendente da quello di Spagna, mancò tanta autorità, e passò in parte a' Generali delle galee, sebbene non coll'istessa potenza e prerogative del Grand'Ammiraglio.

[484]

§. III. Del Gran Cancelliero.

Non dovrà sembrar confuso e perturbato l'ordine che io tengo in noverando gli Ufficj della Corona, e se, non serbando quello tenuto dagli altri Scrittori, vengo a parlare, dopo il Grand'Ammiraglio, del Gran Cancelliero. So che Marino Freccia diede a quest'Ufficio l'ultimo luogo, se bene non si sappia per qual ragione il facesse, giacch'egli medesimo ne' Parlamenti, e nell'altre funzioni pubbliche, gli dà il sesto luogo, e lo fa precedere al Gran Siniscalco, il quale non siede a lato, ma a' piedi del Re. Altri perciò lo collocano nel sesto luogo dopo il Gran Protonotario; e così questi, come Freccia, danno il secondo luogo al Gran Giustiziero dopo il Gran Contestabile.

Li Franzesi però dopo il Gran Contestabile, collocano il Gran Cancelliero; ed io dico, che gli uni, e gli altri assai bene han fatto di disporgli con questo ordine. Altro è il Gran Cancelliere di Francia, altro fu il Gran Cancelliero di Sicilia a' tempi de' Normanni, ed altro è, e pur troppo diverso il Gran Cancelliero del Regno di Napoli, precisamente se si riguardano i tempi, ne' quali scrissero il Freccia, e gli altri Autori, e più se avrem mira a' tempi nostri.

Hanno le dignità secondo il volere de' Principi, le loro declinazioni, ed i loro innalzamenti: il Principe siccome è l'Oceano di tutte le dignità, così è anche la lor regola e la lor norma; e siccome ben a proposito disse Giorgio Codino[604] degli Ufficiali del Palazzo, egli è lecito a' Principi innovare così le cose, [485] come i nomi a lor modo, ed innalzare ed abbassare secondo loro aggrada.

Il Cancelliero presso i Franzesi era l'istesso, che il Questore presso i Romani nella maniera, che Simmaco[605], e Cassiodoro ce lo descrissero: Quaestor es, legum conditor, regalis consilii particeps, justitiae arbiter. Era per ciò il Capo della giustizia, come il Contestabile Capo delle armi: Principe di tutti gli Ufficiali di pace; Magistrato de' Magistrati, e fonte di tutte le dignità.

Perchè fosse chiamato Cancelliero, non è di tutti conforme il sentimento. Il Vecchio Glossario dice, che fosse così detto, perchè appartenendo a lui l'esaminare tutti i memoriali, che si danno al Principe, avea potestà di segnare ciò che pareva a lui, che potesse aver cammino, e di cancellare le importune dimande, dando di penna su i memoriali con tirar linee sopra di quelli per lungo, e per traverso a guisa di cancelli. Ma questa è una molto strana etimologia, che dovesse prendere il Cancelliere il suo nome più tosto da ciò, ch'egli disfà, che da quello, che fa. Meglio interpretarono Cassiodoro[606] e Agatia[607], che lo derivarono a Cancellis; poichè dovendo questo Ufficiale soprantendere alla spedizione di tutti i rescritti del Principe, sentire tutti coloro, che gli presentavano i memoriali, acciocchè non fosse premuto dal Popolo, ed all'incontro da tutti fosse veduto, soleva stare fra Cancelli, siccome si praticava in Roma ed in Francia; ond'è che Tertulliano soleva dire: Cancellos non adoro, subsellia non contundo.

[486]

Tiene egli perciò per sua insegna il suggello del Re, onde appresso i Franzesi è anche nomato Guardasigillo, poichè per le sue mani passano tutti i privilegi, e tutte le spedizioni del Re ch'egli suggella; dando titolo, ovvero lettere di provisione a tutti gli Ufficiali, le quali può egli rifiutare, o differire come gli piace non suggellandole. Quindi il nostro Torquato al Gran Cancelliere d'Egitto gli dà per sua insegna il suggello:

L'altro ha il sigillo del suo Ufficio in segno.

Gode perciò molte insigni prerogative; ha la presidenza al Consiglio di Stato negli affari civili del Regno, onde il Tasso soggiunge:

Custode un de' secreti, al Re ministra

Opra civil ne' grandi affar del Regno.

Ha l'espedizion degli editti, e ogni altro comandamento del Re. Ha la soprantendenza della giustizia, ed egli è il Giudice delle differenze, che accadono sopra gli Ufficj ed Ufficiali, regolando le lor precedenze, e distribuendo a ciascun Magistrato ciò ch'è della sua incumbenza, perchè l'uno non attenti sopra l'altro.

Queste erano le grandi prerogative de' Cancellieri di Francia, donde l'apprese Ruggiero, e del Regno di Sicilia a tempo de' Normanni. Dignità pur troppo eminente, e che gareggiava quasi con quella de' Principi stessi: onde meritamente era a costoro, dopo il Contestabile, dato il secondo luogo.

Il primo Cancelliere, che s'incontra nel Regno di Ruggiero fu Guarino Canzolino molto celebre presso Pietro Diacono nella Giunta alla Cronaca Cassinense[608]: di costui Ruggiero valevasi ne' più gravi affari [487] della Corona, e gli diede la soprantendenza, ed il supremo comando di queste nostre province. Narrasi, che Guarino per lo sospetto, che avea de' Monaci Cassinensi che non s'unissero al partito di Lotario, erasi finalmente risoluto, fattisi venire da Benevento, dalla Puglia, dalla Calabria e da Basilicata molti soldati, ed alcune macchine di guerra, di espugnare Monte Cassino; ma che non guari da poi infermatosi in Salerno, giunto all'estremo di sua vita, mentr'era per uscirgli l'anima dal corpo, gli fossero uscite di bocca gridando queste parole: Ahi Benedetto e Mauro perchè m'uccidete? onde narra Pietro Diacono[609], che nel medesimo tempo Crescenzio Romano Monaco di quel monastero per non esser riputato meno degli altri, tutto sbigottito e tremante dicesse a' suoi Monaci, ch'avea avuta visione, nella quale gli apparve uno spaventevole lago tutto di fuoco, le cui orribili onde s'innalzavano sino al Cielo; e per esse vedea ravvolgersi l'anima del Gran Cancelliere: che eragli sembrato parimente di vedere due Frati alla riva del lago, e dal più vecchio di loro esser dimandato se sapea chi fosse colui, che vedea così dall'onde travagliato, e rispondendo egli del no, gli fu dal medesimo manifestato esser l'anima di Guarino, ch'era condennata a sì fatta pena per aver travagliato i Monaci di Monte Cassino, il quale richiesto chi egli si fosse, rispose ch'era Frate Benedetto; ed in questo destossi Crescenzio, e la vision disparve.

L'altro Cancelliere, che ne' tempi di Ruggiero esercitò quest'Ufficio, fu Roberto, di legnaggio inglese[610]. Ruggiero, come altre volte fu notato, nel governo de' suoi Reami si servì sempre di Ministri di [488] molta dottrina e prudenza, facendogli venire anche da remote parti; e siccome innalzò ad esser Grand'Ammiraglio Giorgio d'Antiochia, così anche sin da Inghilterra chiamò questo famoso Roberto, che oltre averlo impiegato agli affari più rilevanti della sua Corona, e di commettere a lui la difesa di Salerno, quando da Lotario, dal Principe di Capua e da' Pisani fu assediata, gli commise ancora il governo della Puglia e della Calabria; e fu cotanto luminosa la fama della sua saviezza ed integrità, che Giovanni Saresberiense Vescovo dei Carnuti[611], narra di lui un avvenimento da non tralasciarsi in quest'Istoria. Governando questo Gran Cancelliero la Puglia e la Calabria, avvenne che per morte del suo Prelato vacasse la Chiesa di Avellino. Nell'elezione del successore, era di mestieri ricercarsi la volontà e l'assenso del Re, siccome costumavasi in tutte le Chiese cattedrali: Roberto che in nome del Re dovea darlo, ne fu ricercato istantemente da molti; infra gli altri ebbe tre forti pretensori, un Abate, un Arcidiacono, e un secolare della Casa del Re, che teneva un fratello Cherico, i quali fecero con Roberto grandi impegni, e ciascun di essi gli promise grossa somma di moneta se avesse fatto crear il Vescovo secondo il suo intendimento: il Cancelliero volendo schernire la loro malvagità, pattuì con tutti tre separatamente, dando loro ad intendere, che fatto avrebbe quello che ciascun d'essi chiedea; ed avuti pegni e sicurtà de' promessi pagamenti, venne il giorno stabilito alla elezion del Vescovo, nel qual ragunato il Clero d'Avellino con molti Arcivescovi, Vescovi, ed altri Prelati e persone di stima, raccontò [489] Roberto la frode, che coloro commetter voleano; ed avendogli come simoniaci fatti escludere dalla prelatura per sentenza di tutti coloro che colà erano, e riscosso in pena del lor fallo il danaro convenuto, si adoperò poscia, che fosse eletto Vescovo un povero Frate di buona e santa vita, ma che punto a ciò non badava, a cui diede l'assenso.

Il terzo Gran Cancelliero, che incontriamo nel Regno di Ruggiero si fu il cotanto rinomato Giorgio Majone. Nacque costui in Bari d'assai umile condizione, ma dotato dalla natura d'una maravigliosa facondia ed accortezza, fece tanto, ch'essendo figliuolo d'un povero venditor d'olio[612], ebbe modo d'esser posto in Corte nella real Cancelleria, ove dal Re Ruggiero fu prima creato suo Notajo: da poi avendo occupati altri minori ufficj della Cancelleria, fu fatto Vicecancelliero, e finalmente innalzato ad esser suo Gran Cancelliero, e fu cotanto caro a questo Principe, che finchè visse l'adoperò negli affari più rilevanti del suo Regno; e morto Ruggiero, con raro esempio, per le sue arti fu così caro a Guglielmo suo figliuolo, che oltre ad averlo creato Grand'Ammiraglio, pose anche in sua mano tutto il governo del Regno. Sotto i due Guglielmi tennero quest'Ufficio i primi personaggi di que' tempi: tennelo l'Eletto di Siracusa, e da poi Stefano di Parzio Arcivescovo di Palermo.

Cotanta in questi tempi era la grandezza e dignità di questo supremo Ufficio così in Francia, come in Sicilia appresso i Normanni; nè minori eran le sue preminenze nelle Corti d'altri Principi. Ma da poi fu riputato savio consiglio de' Principi di togliergli tante [490] e così eminenti prerogative, con riunirle ad essi donde procederono; del che n'abbiamo un ben chiaro ed illustre esempio nel Cancelliere della Santa Sede di Roma. Ne' tempi antichi ebbe questa Sede un Cancelliere, l'autorità del quale era sì grande, che gareggiava col Papa istesso: veniva perciò occupato da' primi personaggi; e da questo posto regolarmente si faceva passaggio al Ponteficato. Così Papa Gelasio II porta l'epitafio composto da Pietro Pittaviense, avanti d'essere Papa, Archilevita fuit, et Cancellarius Urbis; e narrasi ancora, che Alessandro II quando fu eletto Papa era Cancelliere della Sede Romana.

Ma da poi Bonifacio VIII vedendo l'autorità del Cancelliere in Roma in tanta grandezza, sì che, come dicono molti Scrittori[613], quasi de pari cum Papa certabat, abolì questo Ufficio di Cancelliere in Roma, ed attribuendo la Cancelleria a se medesimo, vi stabilì solamente un Vicecancelliere; onde è che in Roma questo Ufficio di Vicecancelliere non riconosce altro per suo maggiore nella medesima sfera, poichè il Cancellierato al Papa è attribuito; ed essendosi perciò prima quest'Ufficio dato a coloro, che non erano Cardinali, si dissero sempre Vicecancellieri; ma da poi essendosi tornato a darlo a' Cardinali, ritenne ancora questo medesimo nome di Vicecancelliere, ancorchè fosse estinto quello del Cancelliere; non altrimenti che chiamano Prodatario e Vicedatario quel Cardinale che è Prefetto alla Datarìa del Papa, quantunque non esercitasse le veci d'altro Ministro a se superiore; poichè la Cancelleria e Datarìa fu al Papa attribuita.

[491]

Per questa medesima ragione solo nel Sesto Decretale si fa menzione del Vicecancelliere, come notò la Glossa[614], e Gomesio sopra le regole della Cancelleria; se bene Onofrio Panvinio al libro de' Pontefici dice, che dal tempo d'Onorio III non vi furono più Cancellieri in Roma, ma solamente un Vicecancelliere.

Non altrimenti accadde nel nostro reame a questo supremo Ufficio di Gran Cancelliere; poichè a tempo del Re Cattolico, e dell'Imperador Carlo V la Cancelleria fu attribuita al Re[615], e fu eretto perciò un nuovo Tribunale amministrato da' Reggenti detti perciò di Cancelleria, i quali esercitano tutto ciò, che prima era dell'incumbenza del Gran Cancelliere, perchè essi sottoscrivono i memoriali, che si danno al Principe, essi pongono mano ai privilegi, essi hanno l'espedizione degli editti, e de' comandamenti del Re. Essi sono li Giudici delle differenze, che accadono tra gli Ufficiali, decidendo le precedenze, e distribuendo a ciascun Magistrato ciò, ch'è della loro incumbenza; presso di essi risiede la Cancelleria, e con essa i scrigni, i registri, e tutto ciò che prima era presso il Gran Cancelliere: hanno perciò un Secretario, e molti altri Ufficiali minori, che si dicono perciò di Cancelleria, di che altrove, quando ci toccherà di trattare di questo Tribunale, ragioneremo.

Quello, che oggi è nella Casa de' Principi d'Avellino, non è che un Ufficio dipendente da questo, di cui ora trattiamo; poichè le sue prerogative si ristringono solamente sopra il Collegio de' Dottori, e le di [492] lui funzioni non altre sono che di promovere al grado del Dottorato, tener Collegio di Dottori a questo fine per esaminare i Candidati, approvargli, riprovargli, e far altre cose a ciò attinenti; poichè presso noi il dare il grado di Dottore non è dell'Università degli Studj, ma del Principe, il quale ne ha delegata questa sua potestà al Gran Cancelliere, e suo Collegio. Molti di questi Cancellieri ebbe la Francia, come il Cancelliere dell'Università di Parigi, ch'era anticamente un Ufficio di tale importanza, che Bonifacio VIII per li grandi affari, ch'egli aveva in Francia se l'appropriò a fin d'avere l'autorità particolare sopra quell'Università principalmente verso i Teologi, i quali dal Cancelliere hanno i gradi, la benedizione e commessione di predicare per tutto il Mondo; ma dopo la morte di Bonifacio, l'Università di Parigi fece tutti gli sforzi per riaver quest'Ufficio, tanto che da Benedetto XI suo successore le fu renduto; onde per evitare per l'avvenire simile usurpazione, fu dato ad una Canonia della Chiesa cattedrale di Parigi[616].

E per questa cagione Marino Freccia trattando di questi Ufficj, avendo avanti gli occhi solamente ciò che si praticava a' suoi tempi, pose il Gran Cancelliero nell'ultimo luogo, poichè il Gran Cancelliero d'oggi, che vien reputato uno de' sette Ufficj del Regno, non è che un rivolo di quel fonte: non esercita, che una delle molte prerogative, che prima adornavano quella dignità essendosi oggi quasi ch'estinto, e attribuita la Cancelleria al Re, che perciò per esercitarla vi eresse un nuovo Tribunal supremo, detto di Cancelleria, amministrato, come s'è detto, da' Reggenti.

[493]

Non è però da tralasciare, che in tempo dell'Imperadore Federico II e del Re Carlo d'Angiò, ancorchè quest'Ufficio fosse molto decaduto dall'antico suo splendore, riteneva però la giurisdizione sopra tutti i Cherici del palazzo reale, e sopra tutti i Cappellani regj: di che molto si maravigliava Marino Freccia[617], come un laico sopra i Cherici potesse stender la sua giurisdizione, quando questi, e per ragion divina, canonica ed imperiale sono da' laici esenti; onde per togliere questa, che a lui sembrava stranezza, volle ricercarne le cagioni. Disse che ciò era, perch'essendo questo Regno del patrimonio di S. Pietro, bisognava credere, che i Re anche fossero stati investiti dalla Sede Appostolica di questa prerogativa, e perciò si debbiano reputare, come Ministri e Delegati della Sede Appostolica. Nè ciò deve sembrar strano, e' dice, perchè i Re non devono considerarsi come meri laici, poichè s'ungono, e prima erano anche Sacerdoti. E ciò non bastandogli soggiunge, che Federico e Carlo ebbero specialmente tal autorità dalla Sede Appostolica, acciocchè deputassero un Giudice sopra tutti i Cherici della Casa regale; e che da poi parendo cosa disdicevole, e non decorosa, che un laico come Delegato della Sede Appostolica esercitasse giurisdizione sopra i Cherici, da Alfonso I, si fosse destinato un de' suoi Cappellani per Giudice, il quale esercitando giurisdizione sopra tutti gli altri Cappellani e Cherici della cappella del Re, si fosse perciò detto Cappellano maggiore, e ciò con licenza della Sede Appostolica; onde si fece che non fosse più del [494] Gran Cancelliere quest'incumbenza, ma del Cappellano maggiore.

Ma non dovea cotanto maravigliarsi Freccia, se a questi tempi il Cappellan maggiore era subordinato al Gran Cancelliere, ed assistesse alla sua Cancelleria; poichè in Francia, come rapporta Pietro di Marca[618], praticavasi lo stesso nella linea de' Re carolingi; nel qual tempo nel palazzo regale presedevano il Maestro del Palazzo per le cose dell'Imperio, ed il Cappellano maggiore, detto ancora Arcicappellano per le cose ecclesiastiche e del Sacerdozio, il quale, come avverte Inemaro, Vice Regis in consessu Episcoporum et Procerum jus dicebat, nisi causae gravitas exigeret Regis praesentiam. E non già a tempo d'Alfonso I d'Aragona, ma molto tempo prima si vede essersi distaccata questa preminenza dall'Ufficio di Gran Cancelliere; e fu quando, avendo Carlo I d'Angiò collocata la sua Sede regia in Napoli, fu destinato uno de' suoi Cappellani per Giudice, il quale esercitasse giurisdizione independentemente dal Gran Cancelliere, sopra tutti gli altri Cappellani e Cherici della Cappella regia onde prese il nome di Protocappellano regio, ovvero di Maestro della Cappella regia, e finalmente di Cappellano maggiore; del cui ufficio, siccome dei simiglianti introdotti da Carlo I d'Angiò nella sua Casa regale di Napoli, dovremo nel Regno suo favellare.

Così in decorso di tempo, passate le grandi e molte prerogative di quest'Ufficiale nella Cancelleria del Re; passata ancora quest'altra nel Cappellan maggiore con [495] totale independenza; oggi non rimane altro al Gran Cancelliero, che il conferir i gradi del Dottorato, in legge, teologia, filosofia e medicina, e la soprantendenza nel Collegio de' Dottori[619]. Ritiene bensì l'onere della porpora, di sedere ne' Parlamenti, e nelle altre funzioni pubbliche ove interviene il Re; ma nel sesto luogo, ed a man sinistra allato del Re dopo il Gran Protonotario, e tra i sette Ufficiali del Regno vien anche annoverato.

§. IV. Del Gran Giustiziero.

L'Ufficio del Gran Giustiziero se bene presso i Franzesi fosse subordinato al Gran Cancelliere, ch'era il Magistrato de' Magistrati e Capo di tutti gli Ufficiali di giustizia, e sotto il Regno di Ruggiero la sua autorità non fosse cotanto ampia; nulladimeno avendo Guglielmo suo successore istituito il Tribunal della Gran Corte, e da poi Federico II, avendo stabilito per più Costituzioni che il Maestro Giustiziero, che a quel Tribunale soprastava, fosse il Capo e supremo sopra tutti gli altri Giustizieri delle province, si fece che questo Ufficio non solo fosse riputato un de' maggiori e più grandi del Regno, ma che occupasse il secondo luogo dopo il Gran Contestabile: per questa cagione egli siede il primo alla sinistra del Re, veste di porpora, ed ha per sua particolar insegna lo stendardo; di che presso noi è ancor rimaso vestigio, poichè in congiuntura di doversi eseguire la condanna di alcuno sentenziato a morte, si caccia questo stendardo [496] fuori di un balcone, in segno dell'autorità del Gran Giustiziero. E quanto più da Federico II, fu innalzato il Tribunal della Gran Corte costituendolo supremo e superiore nel Regno sopra tutti gli altri, ove dovessero trattarsi non solamente le cause civili e criminali, ma anche le cause feudali, delle Baronie, de' Contadi, de' Feudi quaternati, e di più tutte le cause d'appellazioni; ed oltre a ciò non solo volle che si riportassero per via d'appellazione quelle, che si erano agitate ne' Tribunali degli altri Giustizieri delle province, ma anche le cause delegate dal Re; avendo sottoposti alla sua giurisdizione tutti i Duchi del Regno, i Principi e tutti gli altri Baroni; ed in oltre che potesse conoscere anche de' delitti di Maestà lesa: tanto il Giustiziero, che avea la soprantendenza di questo Gran Tribunale, crebbe sopra tutti gli altri Ufficiali della Corona, e Gran Giustiziero meritamente appellossi; e Federico in una sua Costituzione[620] lo chiamò perciò luminare majus, per lo splendore del quale si oscurano gli altri minori, onde è che visitando egli le province, cessano gli altri Giustizieri.

Nel che dovrà notarsi, che sin da questo tempo de' Re normanni si cominciò quella divisione delle province, che oggi in gran parte ancor riteniamo, le quali in questi tempi non aveano nome di province, ma di Giustizierati preso da' Giustizieri, da' quali venivano governate[621]; non altrimenti che ne' tempi dei Longobardi, si dissero Castaldati da' Castaldi, che ne aveano il governo. Infatti abbiamo, ne' tempi del Re Guglielmo II, Tancredi Conte di Lecce Giustiziero [497] della Puglia e di Terra di Lavoro; il Conte Pietro Celano e Riccardo Fondano, essere stati Giustizieri delle stesse province[622]. Così sovente ne' tempi posteriori leggiamo ne' registri rapportati dal Tutino[623], che mandandosi questi Giustizieri nelle province, si nominavano perciò non Magistri Giustizieri, o Magni Giustizieri, a differenza del Giustiziero del Regno, ma di quelle sole province delle quali aveano avuto il governo. Così Giovanni Scotto si disse Giustiziere d'Apruzzo, e Guglielmo Sanfelice Giustiziere di Terra di Lavoro, donde le province presero queste denominazioni, e surse lo Justiziariato di Calabria, lo Justiziariato di Puglia, di Terra di Lavoro ed altri, che oggi province si chiamano; anzi in quest'istessi tempi de' Normanni e de' Svevi ancora, sovente una provincia era governata da due Giustizieri, siccome nei tempi di Guglielmo II nella provincia di Salerno vi erano due Giustizieri, Luca Guarna e Filippo da Cammarota. E nell'anno 1197 abbiamo[624], che Roberto di Venosa e Giovanni di Frassineto furono ambedue Giustizieri della terra di Bari. E nel 1225 Pietro d'Eboli e Niccolò Cicala furono Giustizieri di Terra di Lavoro[625]. Il che da poi da Federico II fu in miglior forma mutato e stabilito, che per ciascuna provincia, fosse uno Giustiziero, il quale dovesse avere un sol Giudice ed un Notaio d'atti, che oggi diciamo Mastrodatti, siccome stabilì nella Costituzione Occupatis al libro primo. Ciò che fu da poi ritenuto dagli Angioini, li quali in ciascuna provincia [498] mandavano un solo Giustiziero, che oggi da noi Preside s'appella.

Chi fosse stato nel Regno di Ruggiero Maestro Giustiziero, non abbiamo, che un sol riscontro nell'Archivio della Trinità di Venosa, in un istromento rapportato dal Tutini, ove si legge che nell'anno 1140 fu Giustiziero dei Re Errico Ollia. Ego Henricus Ollia Dei gratia Regalis Justitiarius; ma ne' tempi de' due Guglielmi suoi successori, così presso Romualdo Arcivescovo di Salerno, come nella Cronaca di Notar Riccardo da S. Germano, se ne incontrano molti; come Roberto Conte di Caserta, Ruggiero Conte di Andria e Luca Guarna, come diremo ne' Regni di questi Principi; onde fassi chiaro l'error di coloro, che reputarono questo Ufficio averlo introdotto nel Regno Federico II. Fu sì bene da questo Imperadore in più sublimità e in miglior forma stabilito per mezzo delle sue molte Costituzioni attinenti a quest'Ufficio, non già che egli fosse stato il primo ad introdurlo, come dalle medesime sue Costituzioni ciascuno potrà conoscer chiaramente. Altre leggi furono da poi promulgate a' tempi degli Angioini intorno all'Ufficio del Gran Giustiziero e molti Capitoli abbiamo sopra ciò di Carlo II, che trattano della sua giurisdizione ed incumbenza; ma dovendo di quest'Ufficiale trattare più ampiamente, quando del Tribunale della Gran Corte della Vicaria farem parola, riserbiam perciò in quel luogo di discorrere così del suo incremento, come della sua declinazione; poichè essendosi in decorso di tempo sotto i Principi aragonesi ed austriaci eretti altri Tribunali, siccome quello della Gran Corte perdè sua antica autorità e dignità, così ancora il Gran Giustiziero restò in gran parte spogliato del suo splendore [499] e delle sue preminenze; tanto che oggi è rimaso solo a titolo d'onore, nè ritiene altro se non la precedenza sopra gli altri Ufficiali dopo il Gran Contestabile, di cuoprirsi di porpora nelle funzioni e celebrità pubbliche, e di godere quelli onori e preminenze che godono gli altri Ufficiali della Corona.

§. V. Del Gran Camerario.

Ciò che nel Regno di Francia era chiamato il Gran Tesoriero, per la soprantendenza, che teneva delle Finanze, presso di noi Gran Camerario appellossi, essendo egli il Capo Ufficiale della Camera de' conti del Re. Prima la sua incumbenza era di aver custodia della persona del Re, dentro la sua Camera accomodare il suo letto, aver la cura e il pensiero di provvedere il Re e i suoi figliuoli di abiti: disponere le sentinelle per custodia della persona del Re nella sua Camera, ordinare gli uscieri, distribuire le vesti per la famiglia del Re, e custodire le gioie ed altri monili preziosi, l'oro, l'argento ed i panni di lana o di seta. Ma la sua principal incumbenza era di ricevere tutto il denaro, che si manda alla Camera del Re; soprantendere a tutti gli altri Tesorieri del Regno, levargli ed in suo luogo sostituire altri. Era ancora sua incumbenza di aver notizia di tutte le ragioni appartenenti al regio Fisco, delle rendite, delle gabelle e di tutti gli Ufficiali. Avea perciò giurisdizione sopra tutti li Tesorieri e Commessari delle province, sopra tutti gli erari e Percettori dell'entrate del Regno, e tenea conto del denaro del Re, che a lui per qualunque cagione era da' Percettori inviato, i quali doveano a lui render conto di tutte l'esazioni ed entrate. [500] Quindi avvenne, che siccome in Francia, essendo li Tesorieri dispersi in tutto il Regno, e la loro carica divisa per le province, fu riputato necessario ergere un Tribunale supremo e generale delle Finanze, dove si formasse lo stato intiero di quelle, e se ne facesse il ripartimento a ciascuno de' Tribunali particolari delle province, e dove finalmente tutto si riportasse: così presso di noi surse perciò un nuovo Tribunale supremo e generale delle Finanze, ove tutto si riportasse: Capo del quale era il Gran Camerario, essendo egli il supremo sopra tutti gli altri Ufficiali, che sono impiegati intorno alle cose fiscali, a' diritti ed alle esazioni, rendite e gabelle del Re, come sono i Camerarj delle province, i Portolani, i Secreti, i Doganieri, gli Erarj ed ogni altro, da' quali egli riceve i conti; onde perciò fu appellato Capo ufficiale della Camera de' conti, che ha molta simiglianza al Comes sacrarum largitionum presso i Romani; e siccome presso coloro più erano gli Quaestores pecuniarum, così ancora presso noi più furono i Tesorieri minori, i Camerarj, i Portolani, i Secreti, i Doganieri ed altri, de' quali era incumbenza di raccogliere il denaro del Re. Questo Tribunale in tempo di Federico II e dei Re della Casa di Angiò si reggeva per li Maestri Razionali nella Corte della Regia Zecca; i quali erano detti Maestri Razionali, perchè la maggior loro incumbenza era di invigilare, affinchè i minori Camerarj, Tesorieri, Doganieri ed altri rendessero ragione della loro amministrazione, e ricevevano perciò da essi i conti dell'esazioni fatte e del denaro che mandavano alla Camera del Re.

Grandi privilegi e prerogative furono concedute dal Re Lodovico d'Angiò e da Giovanna I, a questi Maestri [501] Razionali[626], li quali erano anche chiamati M. Razionali della Gran Corte, ed a' tempi de' Re angioini da' personaggi, che sostenevano queste cariche, si vede quanto chiara ed illustre fosse questa dignità; poichè si legge, che il famoso Andrea d'Isernia, il celebre Niccolò Alunno d'Alife, ed altri insigni Giureconsulti sotto il Re Carlo II, Roberto ed altri Re suoi successori furono Maestri Razionali.

A' tempi posteriori degli Aragonesi, il Re Alfonso II, a questo Tribunale unì l'altro da lui eretto della Summaria, il qual si reggeva per quattro Presidenti legisti e due idioti, dandogli un Capo, che vi presedesse in luogo del Gran Camerario, onde prese il nome di suo Luogotenente[627]. Si vide per ciò questo Tribunale in maggior splendore ed autorità; poichè oltre alla cura del patrimonio regale, gli fu data anche la cognizione delle cause feudali, le quali prima s'appartenevano alla Gran Corte. Surse quindi il nome della Camera Summaria, e Presidenti della Summaria, prendendo tal denominazione (senza che ci andiamo lusingando con etimologie più speziose di summa rei, ovvero rationis, come vaneggia Luca di Penna[628], seguitato a torto da Marino Freccia[629], di che a ragione ne fu ripreso dal Reggente Moles) dalla cognizione sommaria, che doveano prendere sopra i conti, declaratorie, o significatorie, che da' Maestri Razionali si spedivano. Onde siccome appresso i Franzesi questo Tribunale si appella la Camera de' conti, ovvero [502] delle Finanze: così presso di noi per l'istessa cagione fu detta Camera della Summaria. Ciò che maggiormente si conferma da un privilegio dell'istesso Re Alfonso inserito nelle nostre prammatiche[630], dove il Re chiaramente dice, essersi questo Tribunale chiamato della Summaria, quod rationes ipsae in Camera per Praesidentes, et Rationales ibidem ordinatos SUMMARIE viderentur: di che ci tornerà occasione di parlare più ampiamente, quando dell'istituzione di questo Tribunale della Camera seguita nel Regno d'Alfonso I, ci toccherà di favellare.

Questo supremo Ufficio di Gran Camerario, siccome è vero ciò che dice Freccia, che fu da Carlo I d'Angiò ristabilito in miglior forma, a somiglianza di quello di Francia: non è però che fosse stato Carlo il primo ad introdurlo, essendo stato conosciuto dai nostri Re normanni e svevi; e di molti Camerarj fassi nel Regno di questi Principi memoria: molti se ne leggono nel Regno di Ruggiero istesso, ma i loro nomi essendo stati a noi involati dall'antichità del tempo, non abbiam potuto qui registrargli. Ben nei tempi di Guglielmo I suo successore, infra gli altri, leggiamo Maestro Camerario del palagio reale, Gaito Joario; dopo la morte del quale fu creato Maestro Camerario Gaito Pietro Eunuco, ambedue Saraceni[631]. Era presso questi il nome di Gaito, nome di Ufficio, che non voleva denotar altro, che Capitano[632]. E nel Regno di Guglielmo II, pur leggiamo, che Gaito Riccardo fu Maestro Camerario del regal palagio[633]; e che Gaito Martino avea cura della regal Dogana. E [503] sotto il medesimo Re pur abbiamo menzione de' Camerari di Calabria, che risedevano in Reggio, fra i quali fu Giovanni Colomeno, di cui ci tornerà occasione di parlare nel Regno di questo Principe[634]. Così ancora ne' tempi de' loro successori Svevi, e nelle Costituzioni di Federico[635] si leggono molte leggi attinenti a quest'Ufficio, così del Maestro Camerario, come degli altri Camerarj inferiori delle province, Doganieri, Maestri Secreti ed altri, de' quali il Toppi tessè lungo catalogo.

Carlo d'Angiò lo ridusse in miglior forma a modo del Regno di Francia, stabilendo un solo Gran Camerario, al quale tutti gli altri Camerarj delle province ubbidissero, ed a cui tutto si riportasse, costituendolo Ufficial supremo di tutte le Finanze. E ci diede molte leggi scritte e stabilimenti intorno alla sua incumbenza, formando un particolar regolamento di questo Ufficio, nel quale non potè nè meno dimenticarsi de' vocaboli franzesi; poichè stabilì, che fosse dell'autorità del Gran Camerario di deputare, sustituire e correggere i Graffieri, de' quali l'incumbenza era scrivere e notare, siccome degli Antigraffieri di controscrivere e notare, che noi ora nel Regno chiamiamo Credenzieri, affinchè non si commettesse frode nell'esazioni. Stabilì ancora i Maestri degli Arresti, onde è che ancora presso noi fosse rimase questo vocabolo franzese, e diciamo perciò gli Arresti della Camera, siccome essi chiamano le determinazioni e sentenze de' loro Parlamenti[636].

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Ne' tempi posteriori, e men a noi lontani, cominciò il Gran Camerario a perdere queste tante sue prerogative, ma non già il Tribunale della Camera; perchè reggendosi questo dal suo Luogotenente, co' Presidenti e Razionali della medesima, come che il crearlo non s'appartiene più a lui, ancorchè si chiami suo Luogotenente, ma al Re; quindi è nato che se bene questo Tribunale si fosse innalzato al pari degli altri Tribunali supremi del Regno il Gran Camerario però è oggi rimaso per solo titolo di onore, nè più s'impaccia degli affari del medesimo, ne è della sua incumbenza d'intrigarsi nell'entrate della Camera del Re, ma tutto si fa dal Luogotenente e suoi Ministri, i quali al Vicerè, che è in luogo del Principe, son obbligati dar conto della loro incumbenza, avendo un particolar Tesoriero da chi viene conservato il denaro del Re. Ritiene però le sue preminenze, così nel sedere alla parte sinistra del Re dopo il Giustiziero[637], occupando il quarto luogo, come nelle congiunture solenni di nozze, o altre funzioni pubbliche, di vestirsi di porpora, e tra i sette Ufficj della Corona è ancora annoverato, ed insino agli ultimi tempi se gli pagava il soldo.

§. VI. Del Gran Protonotario.

Pietro Vincenti, che distese un libretto de' Protonotarj del Regno, piuttosto tessè un catalogo di coloro, che esercitarono questa carica nel Regno, che ci descrisse il loro Ufficio ed impiego. Il Protonotario, ovvero Logoteta non vi è dubbio che presso di noi [505] prese il suo principio da' Greci, siccome denota la voce istessa; ma ciò non fa che quest'Ufficio non fosse conosciuto da' Romani sotto altro nome. Nell'Imperio, essendo egli il Capo de' Notai era perciò chiamato Primicerius Notariorum, ed era decorato della dignità Proconsolare, e dopo due anni d'esercizio diveniva illustre. Avea nell'antico Imperio sotto di se tre sorte o gradi di Notai, che sono apertamente distinti nel Codice Teodosiano[638]. I primi erano intitolati Tribuni Praetoriani, et Notarii; ed anche, come l'attesta Cassiodoro[639], erano chiamati Candidati; e questi avevano la dignità de' Conti. I secondi erano semplicemente detti Tribuni, et Notarii; e questi aveano la dignità de' Vicarii. Finalmente i terzi erano chiamati Notarii familiares, ovvero domestici, li quali avevano l'ordine, o dignità della Consularità.

Ma non bisogna confondere questi Nomi con quelli d'oggi, che i Romani appellarono Tabelliones, i quali come diremo, aveano funzioni diverse, ed erano Ufficj differentissimi. Siccome non bisogna confondere l'Ufficio del Gran Protonotario a' tempi de' nostri Re normanni, svevi, angioini ed aragonesi, con quello del Viceprotonotario d'oggi, ristretto alla sola creazione de' Notai e Giudici cartularj, ed alle legittimazioni.

L'Ufficio del Gran Protonotario era ne' tempi di questi Re cotanto illustre, che in gran parte somigliavasi a quello del Primicerio de' Notai presso i Romani. Questi, secondo ce lo descrive Cassiodoro[640] e Giacomo Gottofredo[641], era del Concistoro del Principe, [506] avea il pensiero e la cura di notare tutti gli atti ed i secreti del Principe, che si facevano nel suo Concistoro: per lui uscivan fuori i responsi ed i decreti imperiali, e sovente le orazioni degl'Imperadori fatte al Senato si recitavano dal Primicerio: in breve egli era il Secretario fedele del Principe, a cui non vi era secreto o consiglio, che non si confidasse, e perciò l'obbligo della sua carica lo astringeva continuamente ad assisterlo, e con indefessa applicazione attendere alle spedizioni de' suoi imperiali comandamenti. Teneva perciò sotto di se que' tre gradi di Notaj, che ridotti a forma di Milizie, o di Collegio, militavano sotto di lui, i quali aveano molta somiglianza a' Secretarj d'oggi di Stato, o del Gabinetto e della casa del Re, de' quali favelleremo nel Regno di Carlo II d'Angiò.

Uguale era l'Ufficio e potestà del Gran Protonotario ne' tempi di questi Re. Il suo principal impiego non era già della creazione de' Notai e de' Giudici cartularj, ma d'assistere continuamente appresso la persona del Re, ricevere le preci e i memoriali, che si portavano a quello, sentire nell'udienze coloro che aveano al Re ricorso, e farne al medesimo relazione: per le sue mani passavano tutti i diplomi, e da lui s'istromentavano. Tutte le nuove costituzioni, gli editti e le prammatiche, che il Re stabiliva, erano dal Protonotario dettate e firmate. Ciò che il Principe, o nel suo Concistoro, o in ogni altro suo Consiglio sentenziava o decretava, egli riducevalo in forma di sentenza o di decreto, ovvero in forma di diploma o privilegio[642], e si vide nel Regno di Carlo II, [507] d'Angiò in quanta eminenza arrivasse, quando questo Ufficio era esercitato da Bartolomeo di Capua, per mano del quale passavano i più gravi e rilevanti affari della Corona.

Ma siccome in decorso di tempo il Tribunale della Gran Corte della Vicaria abbassò il Gran Giustiziero riducendolo in quello stato, che oggi si vede, così l'erezione del Consiglio di S. Chiara a' tempi d'Alfonso I Re d'Aragona fece quasi che sparire il Gran Protonotario; e quantunque Alfonso concedendo al Presidente di quello ugual potestà, si dichiarasse ch'egli non intendeva pregiudicare alle preminenze del Gran Protonotario, tanto che o egli, o il suo Viceprotonotario era ammesso a presiedere in quel Consiglio, e sovente a commettere le cause, non altrimenti che faceva il Presidente; nulladimanco a poco a poco l'Ufficio di Gran Protonotario fu ridotto poi a titolo di onore, e rimase fuori di quel Consiglio; e s'arrivò a tale, che dovendo il Gran Protonotario assistere di persona, nè senza nuova permissione del Re potendo elegger altri per Viceprotonotario, che assistesse in suo nome, non concedendosi più dal Re tal facoltà, siccome si legge[643] essersi conceduta da Carlo II a Bartolomeo di Capua: il Viceprotonotario non più si creava da lui, ma a dirittura dal Re, come si pratica tuttavia. Per questa cagione fu introdotto, che il Gran Protonotario, quando era dal Re eletto, pigliava con molta solennità il possesso nel Consiglio di S. Chiara, con intervenire insieme col Presidente, e tutti gli altri Consiglieri in tutte le sentenze, che si profferivano quella giornata; e per questa coerenza s'introdusse ancora, [508] che il Re creava Viceprotonotario l'istesso Presidente del Consiglio, onde quasi sempre si videro queste cariche unite in una medesima persona, come più diffusamente diremo nel Regno d'Alfonso I.

In decorso di tempo essendo innalzati a quest'Ufficio i primi Baroni, non più Giureconsulti, come ai tempi di Bartolomeo di Capua: i Gran Protonotarj, come personaggi d'alta gerarchia, quasi sdegnando d'intervenire di persona nel Consiglio di S. Chiara, i Viceprotonotarj venivano ad assistervi; ma questi poi non essendo più creati da essi, ma dal Re, vennero per ciò affatto i Gran Protonotarj ad esserne esclusi, e di non aver poi parte alcuna in quel Consiglio. Dall'altra parte i Presidenti del Consiglio, l'autorità de' quali era grandissima, esclusero poi i Viceprotonotarj dalle commesse delle cause, e da tutte l'altre preminenze, che rappresentando la persona del Gran Protonotario prima aveano; onde venne a restringersi la loro autorità alla sola creazione de' Notai e de' Giudici cartularj, ed alle legittimazioni, che ora gli rimane.

Ma quantunque l'Ufficio di Viceprotonotario si fosse ristretto a queste tre sole incumbenze: portando la creazione de' Notari e de' Giudici, il visitare i loro privilegi e protocolli, grandi emolumenti: sursero gravi contese fra i Gran Protonotarj, che pretendevano quelli a loro doversi, ed i Viceprotonotarj, che come destinati dal Re, tutti ad essi se gli appropriavano: intorno a che Marino Freccia[644] rapporta una fiera lite, che a' suoi tempi per ciò s'accese fra il Duca di Castrovillari Gran Protonotario, ed il famoso Cicco Loffredo [509] Viceprotonotario. Presentemente tutte queste contese son finite, poichè il Viceprotonotario non riconoscendo da altri, che dal Re quella carica, se l'appropria solo, ed ora l'Ufficio di Gran Protonotario è rimaso a sol titolo d'onore, senza soldo e senza emolumenti; ritiene però gli onori di vestire di porpora, e di sedere ne' Parlamenti nella parte destra del Re dopo il Grand'Ammiraglio.

Ma egli è ben da avvertire, che i Notari d'oggi, la creazion de' quali s'appartiene al Viceprotonotario, non hanno conformità alcuna con que' Notari, delli quali si parla nel Codice Teodosiano, e di cui parla Cassiodoro, i quali, come si è detto, aveano più somiglianza con gli Ufficiali della Secretaria, o Cancellaria del Re, li quali hanno il pensiero degli atti, e delle scritture del Re, che co' Notari presenti, la cui incumbenza si raggira agl'istromenti, ed atti de' privati, ancorchè il lor Ufficio pubblico fosse. Hanno costoro più coerenza co' Tabellioni degli antichi Romani, l'Ufficio de' quali era a questo somigliantissimo; con una sola differenza, che nella persona dei Notari d'oggi si vedono uniti insieme l'Ufficio dei Tabularii, e quello de' Tabellioni.

Presso i Romani coloro, ch'erano destinati ad aver la custodia de' pubblici Archivj, ove si conservavano i pubblici istromenti, ed i monumenti delle cose fatte, si chiamavano Tabularii, poichè il luogo, dove quelli si serbavano, era appellato Tabularium; ed i Greci lo chiamavano Grammatophylacium, ovvero Archium[645]; e sovente la cura di questi luoghi era commessa ai servi pubblici, cioè comprati con pubblico denaro delle [510] città, o delle province; e questi Tabularj, perchè pubblici, non solo per la Repubblica, ma anche per ciascheduno privato potevano intervenire e stipulare, acquistare, e in lor nome prender anche la possessione[646]. L'Imperador Arcadio poi discacciò dal Tabulario i servi pubblici, e comandò che i Tabularj fossero uomini liberi[647], i quali come persone pubbliche potessero stipulare per altri, non altrimenti che il Magistrato[648]. Ma l'Ufficio di questi Tabularj non era altro, che custodire nell'Archivio i pubblici istromenti e monumenti delle cose fatte, e come persone pubbliche di poter intervenire e stipulare per altri.

Li Tabellioni erano quelli, i quali avanti a' Tabularj dettavano e scrivevano i testamenti, e stendevano i contratti, facendone pubblici istromenti[649], che si davan poi a conservare a' Tabularj. Questi Tabellioni erano ancora chiamati Nomici cioè Juris studiosi, perchè in quelli per concepir bene, e dettare gl'istromenti, ovvero testamenti, vi si ricercava ancora qualche perizia delle leggi[650]. Altri interpretarono la voce Nomicus, cioè Legitimus, perchè egli rendeva legittimi tutti gli atti. Che che ne sia, egli è certo, che i Tabellioni, che oggi noi appelliamo Notari, eran tutto altro da' Tabularj, i quali erano preposti all'Archivio, siccome fra di loro vengon distinti da Giustiniano nelle sue Novelle[651], e non bisogna confondergli, come fecero Accursio[652], Goveano[653], e Forcatolo[654].

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Queste due funzioni però s'uniron poi nelle persone de' nostri Notari; poichè siccome prima i Tabellioni avanti a' Tabularj scrivevano gl'istromenti, e presso questi nell'Archivio si conservavano: poi fu introdotto, che gl'istromenti o testamenti avanti a' Tabellioni si scrivessero, senza più ricorrere a' Tabularj, e ch'essi medesimi gli conservassero, facendone protocolli, e custodendogli non più ne' pubblici Archivj, ma nelle proprie case. Quindi nacque, che confondendosi quest'uffici, fosse il Notaro riputato persona pubblica, e che siccome i Tabularj potevano stipulare per altri, potessero anch'essi farlo.

Divenne perciò l'Ufficio de' Notari di maggior fede e confidenza: ond'è che i Principi nel creargli vi stabilirono certe leggi, e ricercarono molti requisiti, d'essere incorrotti, e di buona fama, fedeli ed intelligenti; che sappiano scriver bene, ben intendere le convenzioni delle parti per poterle poi nettamente ridurle in iscritto: siano secreti, liberi, cristiani, conoscano i contraenti, e perciò nazionali de' luoghi, ove desiderano esercitare. Quindi richiedendo quest'Ufficio una somma fedeltà, si vide ne' tempi antichi esercitarsi presso di noi da persone nobili; e siccome un tempo non si sdegnavano i Nobili, particolarmente i Salernitani, esercitar medicina, così ancora molti Nobili de' nostri Sedili, non si sdegnarono ne' tempi antichi farsi Notari; e Marino Freccia[655] testifica aver egli veduto molti istromenti, registri, inventarj, ed altri antichi monumenti scritti per mano di Notari nobili, le cui famiglie, egli dice, non voler nominare, per non dar dispiacere a' loro posteri leggendole. Quindi nacque [512] ancora presso i nostri Autori la massima, che per l'esercizio del Notariato, non si perdano i privilegi della Nobiltà, e che non debbano i Notari noverarsi fra gli artegiani[656].

§. VII. Del Gran Siniscalco.

Siccome presso i Franzesi, dopo la suppressione de' Maestri del palazzo, quattro Ufficj della Corona furono grandemente accresciuti, che riguardavano la guerra, la giustizia, le finanze, e la casa del Re; e per quel che si attiene alla guerra, surse il Gran Contestabile, per la giustizia il Gran Cancelliere, e per le finanze il Gran Tesoriero Capo ufficiale della Camera de' conti: così ancora per quel, che riguarda la casa del Re, innalzossi il Gran Maestro di Francia, anticamente chiamato Conte del palazzo, cioè Giudice della casa del Re, ch'ebbe il governamento della medesima.

Non altrimenti nella Corona di Sicilia, oltre gli altri Ufficiali annoverati, si vide ad esempio di quello di Francia il Gran Maestro di Sicilia, chiamato con vocabolo ancor franzese Siniscalco, ovvero Maggiordomo della casa del Re, il quale avea il governamento della medesima, e la cura ed il pensiero di provedere il regio Ospizio di ogni sorte di viveri, secondo il bisogno richiedeva: era ancora della sua incumbenza di provedere delle biade ed altre vittovaglie per li cavalli della stalla del Re, tener cura delle foreste, e delle caccie riserbate per divertimento del Re, de' familiari, ed altri servidori della casa reale, sopra i [513] quali teneva giurisdizione di correggergli, e castigargli eccetto che sopra i Ciambellani, i quali per essere intimi servidori e Cubicularj del Re, che pongono il Re in letto, e lo scalzano, e sono nella Camera secreta del Re, perciò furono esenzionati dalla giurisdizione del Gran Siniscalco, siccome li Collaterali del Re, che erano partecipi del consiglio segreto del Re, e riputati come parte del corpo del Re[657].

Era egli perciò il Giudice della Casa reale, e sotto la cura sua era tutta la famiglia del palazzo regio, e tutti gli altri Ufficiali minori della casa del Re, i quali secondo i particolari loro impieghi assunsero varj nomi; onde sursero molti Ufficj detti non già della Corona, ma solamente per questo fine, della Casa del Re.

Noi a tempo de' Normanni non abbiamo riscontri di questi minori Ufficiali, ma sì bene del Gran Siniscalco, che si disse così per esser il maggiore, e sopra tutti gli altri Siniscalchi minori dell'Ospizio regio; e se bene a' tempi di Ruggiero non abbiamo fra le reliquie dell'antichità, chi fosse stato suo Gran Siniscalco; egli è però che in tempo di Guglielmo I suo successore leggiamo suo Gran Siniscalco Simone cognato del famoso Majone, di cui abbiamo anche memoria presso il Pellegrino[658] al quale anche Guglielmo diede il governo della Puglia[659]; onde non è da dubitare, che quest'Ufficio insieme con gli altri fosse da' Normanni introdotto fra di noi.

Ma siccome ciò è vero, così anche è certissimo, che in tempo degli Angioini, e particolarmente di [514] Carlo II ricevè miglior forma, e su 'l quale furono dati varj provedimenti, e stabilito nuovo modo, e dategli altre incumbenze, secondo la Tabella stabilita per quest'Ufficio, che rapporta Freccia; ond'è che in Napoli si videro sorgere quegli altri Ufficj minori della casa del Re, dipendenti dal Gran Siniscalco: e la ragione si fu, perch'avendo Carlo I d'Angiò fermata la sua regia sede in Napoli, il Gran Siniscalco si distinse sopra tutti gli altri Ufficiali della casa reale, che furono molti: abbiamo perciò nel Regno di questi Angioini sovente memoria de' Maggiordomi della casa reale, de' Maestri de' cavalli regi, de' Maestri Panettieri regi, dei Maestri de' Palafrenieri e della scuderia regia, de' Maestri dell'Ospizio regio, de' Maestri delle razze regie, de' Maestri Massari, e de' Siniscalchi dell'Ospizio regio, siccome ne' tempi di Giovanna I leggiamo: Phichillus Gaetanus Reginalis hospitii Senescallus; e sotto Carlo III si legge: Nobilis vir Bartholomeus Tomacellus miles Regii hospitii Senescallus; e sotto Ladislao si trova Paolino Scaglione Siniscalco dell'Ospizio di detto Re ed altri rapportati dal Tutini[660]. Così ancora Ufficiali della casa del Re subordinati al Gran Siniscalco erano il Preposito della cucina del Re: il Preposito della buccellaria regia. Il Giudice dell'Ospizio regio. I Ciambellani Regj. I Valletti della Nappa del Re. I Cacciatori Regj. Il Custode degli uccelli del Re. I Falconieri del Re, ed altri, de' quali ci tornerà occasione di favellare nel Regno di questi Principi più distesamente.

Ma siccome ne' tempi degli Angioini il Siniscalco per li tanti Ufficiali a se sottoposti fu nel maggiore [515] incremento e sublimità, e furono le sue prerogative ritenute ancora ne' tempi degli Aragonesi, per cagione che questi Re mantennero la loro residenza in Napoli così da poi passando questo Regno sotto la dominazione degli Austriaci, e perdendo questa città il pregio d'esser sede regia, si scemarono in gran parte le prerogative del Gran Siniscalco, e mancarono molti de' soprannomati Ufficiali della Casa del Re, e finalmente per quest'istessa cagione in progresso di tempo restò presso noi a sol titolo d'onore, senza funzione e senz'esercizio.

Per questa suppressione s'innalzarono molti di quegli Ufficj dipendenti da lui, e ad esser riputati (se bene non delli sette della Corona) almeno de' maggiori del Regno, e ad altri non subordinati, come il Maestro delle razze regie, che chiamarono il Cavallerizzo del Re. Il Gran Montiere Maggiore, ovvero il Maestro della caccia del Re, che sopra i Cacciatori regj, e sopra tutte le foreste del Re e caccie ha la soprantendenza; ed altri de' quali ci tornerà occasione di parlare a più opportuno luogo. Nel che non dobbiamo tralasciar d'avvertire, che siccome di quasi tutti gli Ufficiali sinora annoverati possiamo far qualche paragone ed aver qualche riscontro tra gli Ufficiali nella Notizia dell'Imperio: de' Gran Montieri però non bisogna cercarne de' simiglianti, poichè gl'Imperadori romani non erano inclinati alla caccia, come furono i nostri Re, che reputando quest'esercizio proprio della professione delle armi, alle quali erano inclinati, e che sovente perciò non per ministri, ma per essi guerreggiavano: stimarono per la caccia così rendersi esperti de' siti e positure de' monti, valli, poggi, piani, e fiumi, [516] che regolarmente hanno l'istesse positure, e siti in tutta la terra.

Così oggi presso di noi l'Ufficio del Gran Siniscalco per la lunga assenza de' nostri Re dal Reame, tenendo altrove collocata la regia loro sede, è quasi estinto, ed è sol rimaso a titolo d'onore: ritiene bensì nelle congiunture di qualche Parlamento o pubblica celebrità le sue prerogative e preminenze: veste di porpora, e siede nell'ultimo luogo a' piedi del Re, e tra sette Ufficj della Corona è annoverato.

Ecco come Ruggiero stabilisse il suo Regno; ecco quali fossero le leggi e la politia che v'introdusse, gli Ufficiali per i quali veniva amministrato, e come dopo tanti travagli lo riducesse in una ben ferma e tranquilla pace. Ma non contento il magnanimo suo cuore d'avere stabilita in cotal guisa la Monarchia, fu da poi tutto inteso agli acquisti di nuovi Reami e province, ancorchè poste nelle parti più remote e lontane dell'Affrica.

CAPITOLO VII. Spedizione di Ruggiero in Affrica; sue virtù, e sua morte.

Intanto il Pontefice Innocenzio dopo aver governata quattordici anni la Chiesa romana, il dì 24 di settembre dell'anno 1143 morì in Roma molto afflitto per li travagli, che gli diedero gli Arnaldisti ed i Romani, i quali erano entrati nell'impegno di voler riporre la lor patria nell'antica sua libertà, e di ristorare in Roma l'antico Ordine senatorio ed equestre [517] per abbassare l'Ordine ecclesiastico, e per tal cagione facevan continui tumulti contro il Pontefice.

Fu in suo luogo eletto Guido Castello Cardinale del titolo di S. Marco ed acclamato Papa sotto il nome di Celestino II, il quale, appena erano scorsi sei mesi del suo Ponteficato, che insospettito della grandezza di Ruggiero, tentò di rompere la pace fatta dal suo predecessore con questo Principe; ma sopraggiunto poco da poi, il dì 8 di marzo dell'anno seguente 1144 dalla morte, non potè farlo. Crearono i Cardinali per suo successore Gerardo Caccianemico da Bologna Cardinal di Santa Croce, che si nomò Lucio II.

Questo Pontefice, seguitando le pedate di Celestino ebbe animo non ben pacato con Ruggiero, e proccurando questo Principe d'averlo amico, s'abboccarono insieme nel monastero Cassinense; ma non potendo riuscir l'accordo per le difficoltà, che frapposero i Cardinali, il Re entrò ostilmente nello Stato della Chiesa, prese Terracina, e molti altri luoghi della Campagna di Roma[661]: non ci bisognò altro perchè i Cardinali tosto cedessero alle difficoltà frapposte: venne il Papa subito a concordia, il quale avendo conceduto a Ruggiero molte prerogative, gli fu restituita Terracina con gli altri luoghi perduti. Allora fu che questo Pontefice per maggiormente stabilir la Monarchia di Sicilia, oltre di quello, che a Ruggiero era stato accordato da Urbano II gli concedette l'Anello, i Sandali, lo Scettro, la Mitra e la Dalmatica e che non potesse inviar ne' suoi Reami per Legato [518] se non colui, che egli volesse[662] (quantunque il Sigonio[663] dica, che questi ornamenti furono conceduti a Ruggiero nell'anno seguente 1145 da Onorio III non da Papa Lucio II) onde è che in Sicilia i Re vantano d'esser Signori non men del temporale, che dello spirituale; ed in fatti nelle monete, che fece battere Guglielmo I, dall'un de' lati si vede il Re coronato con corona di quattro raggi, avere la Verga in mano, la Stola o Dalmatica avanti il petto incrocicchiata, ed assiso nel regio Trono mostrare i Sandali[664].

(Dalle accuse però, che i Romani portarono all'Imperadore Corrado contro Ruggiero, rapportate da Goldasto[665], si vede, che la concessione della Verga, Sandali ed Anello s'attribuisce a Papa Innocenzio II nell'anno 1140 non già a Lucio II, e molto meno ad Onorio III secondo il parer del Sigonio).

Gli Arnaldisti, che continuavano a travagliar Roma sotto il famoso Arnaldo da Brescia lor Capo, che era stato condannato da Innocenzio II nel Concilio di Laterano, accusarono Lucio a Corrado Re de' Romani, significandogli, che il Papa per mezzo di molta moneta, avea conceduto a Ruggiero queste prerogative, e che s'era perciò con lui, ch'era suo inimico, collegato a suo danno[666].

Fece da poi Ruggiero ritorno in Palermo, ed in questo medesimo tempo gli morì Anfuso Principe di Capua suo figliuolo, il cui Principato egli concedette a [519] Guglielmo, che fece anche Duca di Napoli; e che gli fu poi successore ne' suoi Reami. Agostino Inveges[667] e Camillo Pellegrino[668] rapportano, che fra questi due anni 1142 e 43 gli fosse morto anche Tancredi suo secondogenito Principe di Bari e di Taranto, che fu il primo de' figliuoli che morì, e poi Anfuso terzogenito in quest'anno 1144. Ruggiero in questo medesimo anno tornò in Capua, ove celebrò la primiera generale Assemblea; poichè quella, che avea guari innanzi celebrata in Ariano, fu solo di Prelati e Baroni di Puglia: intervenne nella medesima fra gli altri suoi figliuoli il nominato Guglielmo con gli Arcivescovi, Vescovi ed Abati, ed altri molti Conti e Baroni; nella quale diede molti provvedimenti per lo buon governo del Regno, e compose altresì varie liti, e particolarmente una, ch'era nata fra Giovanni Vescovo di Aversa, e Gualtieri Abate di S. Lorenzo della medesima città sopra la pescagione del lago di Patria[669]; ed il diploma è rapportato dal Chioccarelli[670].

Morì poco da poi nell'anno 1145 in Roma Papa Lucio II, e Bernardo Abate di S. Anastagio, discepolo di S. Bernardo, fu eletto in suo luogo da' Cardinali, sotto nome di Eugenio III, il quale con tutto che i Romani e gli Arnaldisti non cessassero di inquietarlo, avendo avviso che in Soria le cose de' Cristiani andavano di male in peggio, si rivolse a soccorrere quei santi luoghi, e per mezzo delle sue lettere e delle persuasioni di S. Bernardo mosse l'Imperador Corrado [520] e Lodovico Re di Francia a gire con grande e poderosa armata in Terra Santa. Ruggiero non volle entrare a parte in questa lega, perchè si faceva per conservare il Regno di Gerusalemme a Balduino III quando egli, come fu detto, era stato sempre istigato da Adelaida sua madre alla conquista del medesimo; onde avendo posti i suoi Regni in tranquilla e sicura pace, per esser egli d'animo grande ed avido di regnare, pensò stendere le sue conquiste in altre più remote parti. Si accinse per tanto all'impresa dell'Affrica, ed avendo ragunata in Sicilia una grande armata se ne passò con essa nel Reame di Tunisi, ed assaltato quel Re, gli tolse la città di Tripoli, Affrica, Stace e Cassia, e 'l travagliò di modo anche negli altri luoghi del Regno, che il costrinse, pacificandosi con lui a pagargli ogni anno il tributo[671], che per trenta anni continui così a lui, come al suo figliuolo Guglielmo fu pagato; onde avvenne come rapporta Inveges[672], che la Chiesa tripolitana d'Affrica si rendesse suffraganea a quella di Palermo. Ruggiero tutto glorioso per aversi reso tributario il Re di Tripoli, per sua impresa militare si servì di quel verso, che lo fece anche scolpire nella sua spada:

Appulus, et Calaber, Siculus mihi servit, et Afer.

Portò ancora le sue vittoriose armi in Grecia; poichè essendo a questi tempi morto l'Imperador Calojanne, e succeduto nell'Imperio Emanuele suo figliuolo, questi inviò suoi Ambasciadori al Re, richiedendolo d'imparentarsi seco, e Ruggiero per porre in effetto tal domanda, inviò in Costantinopoli altresì suoi messaggieri; [521] ma il perfido Greco cangiatosi di pensiero, dopo avergli un pezzo tenuti a bada, fece anche porgli in prigione; di che fortemente sdegnatosi Ruggiero, posto insieme grosso stuolo di vascelli in Otranto, gl'inviò con molti suoi baroni in Grecia, sotto il comando di Giorgio d'Antiochia suo Grand'Ammiraglio, il quale presa la città di Mutine, assaltò l'isola di Corfù; e passato quindi colla sua armata alla Morea, e da poi scorrendo nel seno Saronico appresso Cenerea Porto di Corinto, pose a ferro e fuoco tutti que' campi; indi diede il guasto in tutta l'Acaia e ruinò Tebe, nè lasciò luogo alcuno ne' contorni di Negroponte, nè di Boezia che non danneggiasse; donde, oltre alle ricche prede, trasse parimenti i Maestri, che sapeano comporre drappi di seta e seco poscia in Sicilia, ed in queste nostre province gli condusse, non essendo prima di que' tempi pervenuta notizia di tal arte in Italia; e se non fosse stato impedito da' Veneziani, i quali richiesti dall'Imperador Emanuele erano venuti con sessanta galee in suo soccorso e l'obbligarono a tornarsene in Sicilia, avrebbe portato le sue vittoriose insegne insin sotto le mura di Costantinopoli.

Ma tutti questi trionfi furono conturbati dalla morte d'Errico suo quintogenito, rimanendogli ora, di tanti figliuoli, sol due, Ruggiero Duca di Puglia e Guglielmo Duca di Napoli e Principe di Capua. Camillo Pellegrino dice, Errico esser morto in età molto infantile, ma con manifesto errore, poichè se fu figliuolo della Regina Albiria, e questa morì nell'anno 1134, per certo Errico a questo tempo era almeno giovanetto di 14 anni. E s'accrebbero i travagli, quando scoverse, che l'Imperador Corrado in quest'anno 1149 s'era a suoi danni confederato coll'Imperador Emanuele, e quando [522] poco da poi nel medesimo anno gli morì Ruggiero Duca di Puglia; vedendosi tra pochi anni privo di quattro figliuoli, rimanendogli solo Guglielmo, al quale per la morte di Ruggiero diede il Ducato di Puglia[673]. Pensò il vedovo Re casarsi perciò di nuovo, e prese per moglie Sibilia sorella del Duca di Borgogna; ma questa Principessa nell'anno seguente 1150 trapassò anch'ella in Salerno, e fu sepolta nella chiesa della Trinità della Cava, dove ancor ora s'addita il suo tumulo[674].

§. I. Coronazione di Guglielmo I, e morte di Papa Eugenio e dell'Imperador Corrado, a cui succedette Federico Barbarossa.

Ruggiero vedutosi così solo assunse per suo collega Guglielmo, e lo fece coronare ed ungere Re di Sicilia in Palermo in quest'istesso anno 1150 la qual cerimonia si fece da Ugone Arcivescovo di Palermo, onde Inveges[675] rapporta, che se bene la famiglia Caravella pretenda esser di suo diritto il coronare i Re di Sicilia, i Palermitani però glie lo contrastano, dicendo questa ragione non esser d'altri, che del loro Arcivescovo. Che che ne sia, dal 1150 nelle scritture si noverano gli anni del Regno di Guglielmo, nel quale il padre l'associò. E Ruggiero, morta Sibilia così di repente, senza che vi avesse potuto generar figliuoli, tornò a maritarsi, e prese per moglie Beatrice sorella del Conte di Retesta, la quale dopo la sua morte rimanendo [523] gravida gli partorì Costanza che tolse per marito, essendo d'anni 30 e non mai stata monaca, come con errore hanno scritto multi Autori, Errico di Svevia, che per sua cagione divenne poscia Re di Sicilia, come al suo luogo più diffusamente diremo; quindi si vede quanto fosse favoloso ciò che si narra di Ruggiero e delle richieste da lui fatte all'Abate Gioachimo intorno a' vaticinj, che si contano fatti dal medesimo sopra Costanza; ond'è, che altri, come il Villani, non a Ruggiero, ma a Guglielmo riferiscono quegli avvenimenti.

Morì nel seguente anno 1151 l'Imperador Corrado in Alemagna nella città di Bamberga, non senza sospetto che fosse stato avvelenato per opra di Ruggiero, per l'inimicizia che sempre tennero fra di loro, siccome tutti gl'Imperadori ebbero co' Re di Sicilia, per conciliar i quali non bastarono le interposizioni di Pietro Abate di Clugnì, uomo in questi tempi per la sua bontà e dottrina assai celebre e rinomato. Fu eletto successore il suo nipote Federico Duca di Svevia detto Barbarossa prode e savio Principe, i cui fatti ci somministreranno ben ampio soggetto nel seguente libro.

Fu seguitata nell'anno seguente 1152 la morte di Corrado da quella d'Eugenio, il quale dopo aver racchetate le cose di Roma, essendo stato in questa città lietamente accolto, anch'egli poco da poi se ne morì, ed in suo luogo fu nel 1153 creato Pontefice il Cardinal Corrado romano, e fu nomato Anastasio IV.

Ruggiero intanto, dopo aver per opra de' suoi Capitani conquistata in Affrica la città d'Ippona celebre al Mondo per avervi in quella Cattedra seduto il grande Agostino, messi da parte i pensieri della guerra, fermatosi in Palermo, lasciò in questi altri due anni di vita che gli rimasero, monumenti perenni, non meno [524] della sua magnificenza, che della sua pietà; poichè oltre aver edificato un magnifico Palagio in Palermo, ed aver ivi eretta una nobil Cappella regia sotto il titolo di S. Pietro; ed in Messina un'altra chiesa dedicata a S. Niccolò: fondò in Bari un magnifico tempio a Niccolò Vescovo di Mira.

Eransi, come si disse, sin dall'anno 1078 trasferite in Bari l'ossa di questo Santo; ed ora si resero di stupore al Mondo, per lo liquore che si vide grondar da loro: crebbe la fama del portento, ed in questi tempi si rese perciò questo santuario, e Bari cotanto celebre in Oriente, che portava venerazione agl'istessi Imperadori Greci, come si vide dell'Imperador Emanuele, il quale nelle sue Novelle fece ancor memoria di sì insigne miracolo. Ruggiero, tratto da divozione, sovente portavasi in Bari, ond'è, che graziosamente confermasse a' Baresi le loro consuetudini; ed eresse quivi al Santo questo magnifico tempio, con dichiararlo sua cappella reale[676], nè volle, che fosse sottoposto all'Arcivescovo della città, ma assolutamente al Pontefice romano, creandovi il Priore, e molti Canonici: l'arricchì di molte rendite di castelli, ed altri poderi: la qual cosa si scorge da una scrittura in marmo, che colà si vede benchè il Beatillo, che ha scritta l'Istoria della città di Bari, e la vita di detto Santo, non faccia menzione alcuna di tal fatto, dando a detta chiesa e priorato più antico e diverso principio. Altri vogliono, che Carlo d'Angiò, non Ruggiero istituisse quel priorato, e dichiarasse cappella regia quel Tempio; di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.

[525]

Donò ancora Ruggiero molti nobili arredi d'oro e d'argento alla cappella di S. Matteo in Salerno, ed il dominio di molte terre; ed altri ricchi doni al Monastero della Trinità della Cava; ed ancorchè non gli piacesse usar la forza co' Saraceni e Giudei ch'erano in Sicilia per la loro conversione, usava però gran diligenza ed industria, che ne' suoi Reami si convertissero alla fede di Cristo.

Ma ecco, che questo Principe, dopo essersi reso cotanto chiaro ed illustre al Mondo per li suoi fatti egregi, ammalatosi nel principio di quest'anno 1154 nel mese di febbrajo lasciò in Palermo la terrena spoglia in età di 58 anni di sua vita[677]: breve età alle magnifiche cose da lui adoperate; la cui morte fu poco da poi nel mese di dicembre del medesimo anno seguitata da quella del Pontefice Anastasio, nel cui luogo fu eletto Adriano IV.

Principe veramente grande e glorioso, che le sue magnanime imprese lo innalzarono ad essere uno dei più potenti e grandi Re della terra, che pose terrore non meno agl'Imperadori d'Occidente che d'Oriente, e che seppe in mezzo a questi due potenti Imperj far sorgere il suo Regno, a' medesimi di spavento: egli provido di Consiglio e valoroso nelle armi, usò non men somma costanza nell'avversa fortuna, che moderazione nella prospera. Amicissimo non meno d'uomini valorosi nell'arme che nelle lettere, che sin da' remoti e lontani paesi fattigli a se venire, gl'innalzò a' primi onori del Regno. Egli saggio facitore di nuove leggi governò con somma giustizia i suoi Stati. Careggiò, [526] ed amò sommamente i Francesi, traendo di Francia i suoi maggiori il legnaggio. Della sua pietà lasciò ben chiari monumenti, e se bene altri l'incolpa d'aver usata troppa crudeltà con suoi nemici e rubelli: ciò però non era in lui da biasimare; poichè usò tutte quelle arti, ch'eran proprie e necessarie ad un Principe, che intendeva stabilire un nuovo Regno.

So che S. Bernardo, e l'Imperadore Emanuele parlarono di lui come d'un Tiranno e d'un usurpatore: ma il primo seguendo il partito d'Innocenzio e di Lotario, fecesi lecito di quelle cose, che gli dettavano allora la sua fazione: come si vide chiaro, che pacificato Ruggiero con Innocenzio, finirono l'usurpazioni e le tirannidi, delle quali prima dalla fazione d'Innocenzio e di Lotario era incolpato; ond'è che si leggano dell'istesso Bernardo molte lettere scritte da poi a Ruggiero piene di molte lodi, che dà a questo Principe. Ed il nostro moderno Istorico napoletano, non prima di questa pace, dice che Ruggiero da pessimo si fece buono; poichè presso gli Scrittori di questa tempra, il Principe pessimo è colui, che per difendere le supreme sue regalie, si oppone a' Pontefici romani, siccome il buono è quello, che s'umilia e che cedendo, proccura con loro aver pace. Dall'Imperador Emanuele non poteva aspettarsene il contrario per esser suo capital inimico, siccome furono tutti i Principi normanni agli Imperadori d'Oriente per le continue guerre che arsero infra di loro; quindi fu, che la Principessa Anna Comnena trattò come un ladrone il famoso Roberto Guiscardo per la crudel guerra, che mosse ad Alessio Comneno suo padre.

So ancora che altri riprendono questo Principe per aver seguito le parti d'Anacleto falso Pontefice e rifiutato [527] Innocenzio; ma dovrebbero avvertire, che imputando ciò a Ruggiero, vengono anche ad incolpare quasi tutto il Mondo cattolico, che credette allora Anacleto, non Innocenzio esser il vero Papa. Furono creati amendue nell'istesso giorno, e se bene Innocenzio fosse stato il primo eletto, nulladimanco Anacleto ebbe maggior numero di voti; nè poterono giovare ad Innocenzio i suffragi de' Cardinali, i quali dopo aver eletto Anacleto passarono al suo partito. Il Popolo romano, ed i principali di quella città, se bene prima aderissero ad Innocenzio, nulladimanco per più manifesti divolgarono da poi al Mondo, che essi avendo conosciuta poi la verità, aveano Anacleto per vero Pontefice. I Monaci Cassinensi col loro Abate per tale anche lo tennero: molti Vescovi e Cardinali ed i maggiori Prelati della chiesa, favorivano le parti d'Anacleto. Così anche fecero molti altri Principi e Regni; e la Francia prima del Concilio ragunato a Stampis, città posta tra Parigi ed Orleans, che determinò a favor d'Innocenzio, n'era in gran dubbio. Errico Re d'Inghilterra, avea gran timore se riconosceva Innocenzio per Pontefice, ed insino che S. Bernardo non lo assicurasse in sua coscienza, non volle riceverlo per tale[678]. E se la Germania seguì le parti sue, fu mossa più dall'impegno di Lotario, che dal non averne dubbio. La verità non poteva allora porsi in chiara luce fra le tante e sì contrarie fazioni che l'avean tutta involta: fu il Mondo allora spettatore d'una lagrimevol tragedia: Innocenzio da un canto scomunicava Anacleto co' suoi aderenti: dall'altro Anacleto scomunicava Innocenzio [528] co' suoi seguaci: contendevan insieme Bernardo e Pietro Pisano, e questi era non men del primo riputato savio e dotto. Molte dispute insorsero tra i più gravi Teologi di que' tempi, tanto che per l'impegno di ciascheduna delle parti, rimase la cosa almen dubbia presso le genti. Nel qual dubbio, come ben disse S. Antonio[679] parlando dello scisma accaduto tra Urbano VI e Clemente VII ancorchè sia necessario di credere, che siccome è una la chiesa cattolica e non più, così ancora uno debbe essere il suo capo e non più; con tutto ciò se accade per qualche scisma crearsi in un medesimo tempo più Papi, non è necessario per la salute di credere assolutamente questo o quello, ma solamente uno d'essi, che fosse legittimamente eletto: e l'indagare chi delli due fosse legittimamente eletto, non siam obbligati di farlo, nè di saperlo: ed i Popoli in ciò devono seguire i suoi maggiori, e ciò che fanno i Prelati delle loro regioni; onde questo stesso Scrittore non imputa a peccato a S. Vincenzo Ferreri del suo medesimo ordine, il quale quasi tutto il corso di sua vita consumò in Avignone sotto l'ubbidienza di Benedetto XIII che quivi avea trasferita la sua Corte, ancorchè gl'Italiani e con essi molte altre Nazioni, lo reputassero Apostata e Scismatico, avendo Urbano per vero Pontefice; poichè fu per errore ed ignoranza di fatto, che gli fece credere, che Benedetto fosse tale; ed un semplice errore non fa niuno nè eretico, nè scismatico: tanto più in cosa cotanto intrigata e dubbia, e sovente molte cose ci possiam far lecite quando sia dubbio, che non dovremmo, quando la cosa fosse esposta [529] in chiara luce. Se alcuna ombra di colpa rendè men chiari i pregi di questo Principe, solo fu, perchè anche da poi che quasi tutto il Mondo riconobbe Innocenzio per vero Pontefice, ed anche da poi morto Anacleto, volle pertinacemente mantener l'impegno, con far in suo luogo crear altri; ma ben è chiaro che non lo fece per altro che per fini di Stato, non di religione: voleva tenere per cotal via depresso Innocenzio suo inimico implacabile, con mantener ancor viva la fazion contraria, affinchè Innocenzio si riducesse ad aver con lui pace. Ma ciò non bastò all'ostinato Pontefice, il quale volle egli porsi alla testa d'eserciti armati per fargli guerra e ruinarlo. Ma tutto al rovescio andò la bisogna, fu egli preso in battaglia e fatto suo prigioniero. Questo fatto maggiormente fece rilucere la pietà di Ruggiero, che con tutto che avesse potuto usar sopra di lui le leggi della vittoria, lo riverì e lo riconobbe allora come Vicario di Cristo, con lui volle aver pace, e fu da poi il maggior difensore, ch'avesse la Chiesa romana contro gli sforzi degl'Imperadori non meno d'Oriente che d'Occidente, siccome lo era stato il famoso Roberto Guiscardo, e lo furono i due Guglielmi suoi successori.

Non lasciò altri figliuoli questo Principe dalle tante mogli ch'ebbe, toltane Costanza sua postuma, che Guglielmo suo successore nel Regno, e prevedendo che, siccome lo lasciava erede ne' Regni, non poteva sperarne che da lui ereditasse le sue virtù, vedendosi con suo cordoglio mancare tutti gli altri suoi figliuoli, e che la morte togliendo i migliori, lasciava stare i rei, l'associò ancor vivente al Regno e volle averlo per collega, affinchè regnando insieme, apprendesse da lui [530] l'arte di ben reggere i Popoli a se da Dio commessi.

Lasciò bensì dalle quattro concubine, che ebbe in varj tempi alcuni figliuoli. Erra il Fazzello, che scrisse, che Tancredi Principe di Bari, o di Taranto fosse figliuolo d'una concubina di Ruggiero[680]; poichè questi come si disse fu suo figliuolo legittimo, natogli da Albiria sua prima moglie. Nè l'altro Tancredi, che fu il quarto Re di Sicilia, fu figliuol di questo Ruggiero Re, fu bensì suo nipote nato da Ruggiero suo primogenito Duca di Puglia; onde quali figliuoli da questa prima concubina Ruggier lasciasse, non se ne ha niente di certo. Dalla seconda ebbe Simone, al quale il padre lasciò in testamento il Principato di Taranto: ma il Re Guglielmo suo fratello glielo tolse, e gli diede il Contado di Policastro. La terza fu madre di Clemenzia Contessa di Catanzaro, che prima si maritò con Ugone di Molino Conte di Molise, e da poi fu pretesa da Matteo Bonello genero del Grand'Ammiraglio Majone. La quarta fu madre di colei, che la Regina Margherita moglie del Re Guglielmo I casò con Errico suo fratello bastardo, con dote del Contado di Montescaglioso.

Nè deve sembrar strano, se questo Principe cotanto religioso, avesse anche tenute nel suo palazzo le concubine: non era in questi tempi il concubinato un nome cotanto vergognoso, come oggi si sente. Prima presso i Romani, come altrove fu notato, era riputato una congiunzion legittima, e le concubine erano quasi che mogli, siccome il concubinato era chiamato semimatrimonio. [531] E quando non si faceva difficoltà a' Preti di potersi ammogliare, era anche a costoro permesso di aver una, o sia moglie, o concubina, come si legge nel Concilio Toletano I. Quindi poi nacque che non avendo la Chiesa latina voluto permetter a' Preti le mogli, come la greca, si stabilirono da poi tanti Concilj per togliere ancora a' medesimi l'uso delle concubine, il qual costume però bisognò per più secoli travagliare per estirparlo, cotanto avea poste profonde radici, come in altre occasioni si disse; ma ne' laici durò il concubinato per molti secoli; e sebbene in Oriente Lione per mezzo d'una sua Novella lo proibì affatto; la qual fu da poi rinovata da Costantino Porfirogenito: in Occidente però i Longobardi lo ritennero, siccome molte altre Nazioni; e Cujacio rapporta, che sin ne' suoi tempi, alcuni Popoli della Francia presso i Pirenei ancor lo ritenevano. I Normanni che furono esatti osservatori delle leggi e costumi de' Longobardi, anche lo ritennero; onde non dee recar maraviglia, se Ruggiero oltre alle mogli, avesse nel suo palazzo avuto anche delle concubine in tempi diversi; non essendo stato mai permesso, che in un istesso tempo avesse alcun potuto avere e moglie e concubina, ovvero due mogli, o due concubine insieme, se non presso gli Ebrei ed i Turchi, appo i quali la poligamia non fu vietata; onde siccome era loro permesso tener più mogli, così anche si facevan lecito aver più concubine. Fu ne' tempi posteriori dalle leggi civili tolto affatto il concubinato, e da più Concilj tenuti da poi indifferentemente a tutti proibito e vietato; tanto che oggi è riputato non già, come prima, una congiunzion legittima ed onesta, ma vergognosa ed opprobriosa, [532] in maniera che ora hassi più in orrore il tener la concubina, che commetter adulterj, incesti e stupri, e contaminarsi d'altre più nefande libidini. Così il tempo muta le cose, e fa che quel, che prima era onesto, rendasi poi biasimevole e vergognoso.

FINE DEL VOLUME TERZO.

[533]

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI
NEL TOMO TERZO

LIBRO OTTAVO pag. 5
 
Cap. I. Ottone riordina il Regno d'Italia: sue spedizioni contra i Greci; ed innalzamento del Contado di Capua in Principato 10
Cap. II. Ottone II succede al padre: disordini nel Principato di Salerno, nel quale finalmente vi succede Pandulfo 20
§. I. Cognomi di famiglie restituiti presso di noi, che per lungo tempo erano andati in disuso 28
§. II. Spedizione infelice d'Ottone II contro a' Greci; e morte di Pandulfo Capo di ferro 33
Cap. III. I Greci racquistano maggior vigore nella Puglia e nella Calabria, ed innalzamento del Ducato di Bari, sede ora dei Catapani 40
[534]
Cap. IV. Ottone III succede nel Regno, e nell'Imperio: nuove rivoluzioni accadute perciò in Italia, ed in queste nostre province: e sua morte 52
Cap. V. Instituzione degli Elettori dell'Imperio, ed elezione d'Errico Duca di Baviera 61
Cap. VI. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto il decimo secolo infin alla venuta de' Normanni 71
Principato di Capua 73
Principato di Benevento 74
Principato di Salerno 80
§. I. Disposizione delle Chiese sottoposte al greco Imperio, restituite poi da' Normanni al Trono romano. Puglia 85
Calabria 92
Otranto 94
Ducato di Napoli e di Gaeta 96
Ducato d'Amalfi e di Sorrento 98
 
LIBRO NONO
 
Cap. I. Fondazione della città d'Aversa, ed istituzione del suo Contado nella persona di Rainulfo Normanno I Conte d'Aversa 102
§. I. Venuta de' figliuoli di Tancredi Conte di Altavilla. Morte di Corrado il Salico, e sue leggi 130
Cap. II. Conquiste de' Normanni sopra la Puglia 141
§. I. Di Guglielmo Braccio di ferro I Conte di Puglia, creato l'anno 1043 154
[535]
§. II. Di Drogone II Conte di Puglia 161
§. III. Prime investiture date dall'Imperador Errico a' Normanni 166
Cap. III. Origine delle nostre papali investiture: Spedizione infelice di Lione IX contro i Normanni: sua prigionia e morte 171
Cap. IV. Conquiste de' Normanni sopra la Calabria: Papa Stefano successor di Lione vi s'oppone; ma morto opportunamente in Firenze, vengon rotti i suoi disegni 195
§. I. Roberto Guiscardo è salutato I Duca di Puglia e di Calabria 201
Cap. V. Il Principato di Capua tolto a' Longobardi, passa sotto la dominazione de' Normanni d'Aversa 206
 
LIBRO DECIMO
 
Cap. I. Il Ducato di Bari passa sotto la dominazione de' Normanni 228
Cap. II. Conquiste de' Normanni sopra la Sicilia 232
Cap. III. Conquiste di Roberto sopra il Principato di Salerno ed Amalfi 242
Cap. IV. Il Principato di Benevento passa interamente sotto la dominazione de' Normanni, e la città di Benevento alla Chiesa romana 247
Cap. V. Litigi ch'ebbe l'Imperador Errico con Papa Gregorio, il quale ricorre al Duca Roberto, che lo libera dall'armi dell'Imperadore 252
[536]
§. I. Investitura data da Gregorio VII al Duca Roberto 262
Cap. VI. Conquiste del Duca Roberto in Oriente: sua morte, seguita poco da poi da quella di Gregorio VII 264
Cap. VII. Boemondo travaglia gli Stati di suo fratello: Amalfi e Capua si sollevano; ed origine delle Crociate 272
Cap. VIII. Urbano II fa suo Legato il Conte Ruggiero; onde ebbe origine la Monarchia di Sicilia 283
§. I. Concilio tenuto da Urbano in Bari, e sua morte seguita poco da poi da quella del Conte Ruggiero, e d'altri Principi 296
Cap. IX. Litigi, ch'ebbe l'Imperador Errico IV con Papa Gelasio II. Investiture date da questo Pontefice a' nostri Principi normanni; e scisma fra Calisto II e Gregorio VIII 302
Cap. X. Lotario Duca di Sassonia succede nell'Imperio d'Occidente per la morte d'Errico; ed unione di tutte queste nostre province nella persona di Ruggiero Gran Conte di Sicilia, per la morte di Guglielmo Duca di Puglia 308
Cap. XI. Leggi longobarde e feudali ritenute da' Normanni. Le discipline risorgono nel Regno loro per gli Monaci Cassinensi, e per gli Arabi in Salerno 312
§. I. Prime raccolte delle leggi longobarde; e loro Chiosatori 318
[537]
§. II. Le discipline risorgono fra noi per opera de' Monaci Cassinensi 326
§. III. Della Scuola di Salerno famosa a questi tempi per lo studio della filosofia e della medicina introdotte quivi dagli Arabi 329
Cap. XII. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto l'undecimo secolo, insino a Ruggiero I Re di Sicilia 344
§. I. Monaci, e beni temporali 349
 
LIBRO UNDECIMO
 
§. I. Investitura d'Anacleto data a Ruggiero I Re di Sicilia 375
Cap. I. Papa Innocenzio II collegatosi coll'Imperador Lotario move guerra al Re Ruggiero. Il Principe di Capua, ed il Duca di Napoli s'uniscono con Lotario, sono disfatti, e Ruggiero occupa i loro Stati 378
§. I. Lotario cala la seconda volta in Italia; ed abbatte le forze di Ruggiero 389
Cap. II. Ritrovamento delle Pandette in Amalfi; e rinovellamento della giurisprudenza romana, e de' libri di Giustiniano nell'Accademie d'Italia 394
Cap. III. Il Re Ruggiero prosiegue la guerra con Innocenzio: morte d'Anacleto, seguita poco da poi da quella di Lotario Imperadore, e di Rainulfo Duca di Puglia: Ruggiero ricupera le città perdute; e tutte queste province col Ducato napoletano al suo Imperio si sottomettono. Innocenzio è fatto prigione, e pace indi seguita tra lui, e 'l Re, al quale finalmente concede l'investitura del Regno 405
[538]
§. I. Il Ducato napoletano, Bari, Brindisi, e tutte le altre città del Regno si sottomettono al Re Ruggiero 419
Cap. IV. Il Regno è stabilito, e riordinato con nuove leggi ed Ufficiali 427
Cap. V. Delle leggi di Ruggiero I Re di Sicilia 440
§. I. Delle leggi feudali particolari del Regno 459
Cap. VI. Degli Ufficj della Corona 464
§. I. Del Gran Contestabile 467
§. II. Del Grand'Ammiraglio 471
Delle leggi navali 480
§. III. Del Gran Cancelliero 484
§. IV. Del Gran Giustiziero 495
§. V. Del Gran Camerario 499
§. VI. Del Gran Protonotario 504
§. VII. Del Gran Siniscalco 512
Cap. VII. Spedizione di Ruggiero in Affrica; sue virtù, e sua morte 516
§. I. Coronazione di Guglielmo I, e morte di Papa Eugenio e dell'Imperador Corrado, a cui succedette Federico Barbarossa 522

FINE DELL'INDICE.

NOTE:

1.  Putean. l. 4, Ab. de Nuce in Chron. Ostiens. lib. 1 cap. 61.

2.  Por. lib. 6 de Admin. Imp. cap. 26.

3.  Luitprand. l. 4. c. 6.

4.  Ostiens. l. 1. c. 61.

5.  Anon. Saler. part. 7. num. 2.

6.  Frisigens. l. 1. c. 19.

7.  Anon. Salern. part. 7 num. 1.

8.  Anonim. Salern. part. 7 num. 1. Luitprand. l. 6 c. 6.

9.  Chiocc. in Indic. t. 1. Reg. Jurisdict.

10.  V. Dupin. Eccl. disciplin. dissert. ult.

11.  Frisingen. l. 6 c. 17 et c. 24. Radevic. l. 1 c. 6.

12.  V. Struv. hist. Juris Publ. c. ult. §. 2.

13.  Goldast. Const. Imp. Tom. uno, pag. 215 seqq. tom. 3 pag. 303, seqq.

14.  Ab. de Nuce in not. ad Chron. Ostien. l. 1. cap. ult. in fin.

15.  Anon. Salernit. pag. 7 num. 2.

16.  Anon. Salern. p. 7.

17.  Capac. Forast.

18.  Pellegr. in Tumulo Boni Cons.

19.  Anon. Salern. part. 7.

20.  Anon. Salern. part. 7, n. 5. Missamque ab Archiepiscopo Landulfo audierunt, et Corporis, et Sanguinis Domini Nostri Jesu Christi participati sunt. Et sic accepta benedictione a praedicto Sanctissimo Pontifice, Apuliam venerunt.

21.  Anon. Salern. loc. c.

22.  Anon. Salern. part. 7 num. 66.

23.  Sigon. A. 972.

24.  Anon. Saler. part. 7 n. 7.

25.  Anon. Salern. part. 7 num. 10.

26.  Pellegr. in not. ad Anon. Saler. pag. 216. In Archivio Cavensi: Nos Pandulfus Princeps filius b. m. D. Pandulfi Princ. declaro, quod Gisulfus, et Gemma adoptaverunt in filium.

27.  Leggesi questo Carme presso Pellegr. loc. cit. pag. 223.

28.  Leggesi questa investitura presso Ciarlant. nel Sannio, pag. 241. Concedimus et confirmamus tibi supranominato Landulfo Comiti dicto fratri nostro et haeredibus tuis praedictam civitatem Iserniae cum omnibus castellis, etc. ad avendum et possidendum et fruendum et dominandum vos et haeredibus vestris.

29.  Tiraq. de nobilit. cap. 32 num. 10. V. Alex. ab Alex. dier. gen. V. Sirm. in Sidon. tom. 1 in praefat.

30.  V. Knipschild. de Fideicom. c. 1 num. 20.

31.  Erchemp. num. 26.

32.  Erchemp. num 27 et 67.

33.  Ostiens. lib. 1 cap. 49.

34.  Lib. 2. cap. 15.

35.  Pellegr. de Stem. Princ. Long. p. 287.

36.  In Auctuar. ad Ostiens. lib. 4 cap. 75.

37.  Aloys. Lellus in Elencho privilegiorum Archiepiscopalis Ecclesiae Montis Regalis, num. 4.

38.  Ostiens. l. 2 c. 35.

39.  V. Ammirat. Fam. Napol.

40.  Freccia de Subfeud. pag. 24.

41.  V. Dufresne in Glos. v. Cognom.

42.  V. Mabillon de Re Diplom. l. 2 c. 7.

43.  Pellegr. in Stem. Princ. Capuae.

44.  Sigon. A. 980.

45.  LL. Long. lib. 3 1, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44.

46.  Goldast. Tomo uno, pag. 225, 226. Tom. 3, pag. 305.

47.  Baron. A. 981 n. 4.

48.  V. Pellegr. part. 7 ad Anon. Salern.

49.  Pellegr. part. 7. Anon. Salern.

50.  Lib. 2 cap. 2.

51.  Pellegr. loc cit. pag. 222.

52.  Pellegr. in Stem.

53.  Sigon. A. 982.

54.  Pellegr. in Stem.

55.  Sigon. A 982.

56.  Otho Frisingens. lib. 6 c. 25.

57.  Gofridus Viterb. par. 17 de Ott. 2.

58.  Blond. hist. Rom. dec. 2 lib. 3.

59.  Sigon. de Reg. Italiae, lib. 7.

60.  Rob. Tuitensis lib. 2. cap. 24.

61.  Leo Ostiens. lib. 2 cap. 24.

62.  In Chronic. lib. 4.

63.  Leo Ostiens. lib. 2 cap. 50.

64.  Guill. Appul. lib. 1.

65.  Ostiens. lib. 2 cap. 50.

66.  Nicetas in Man. lib. 2.

67.  Pellegr. Castigat. in Chron. Lupi Protosp.

68.  Apud Pellegr. in Cast. p. 81.

69.  Chron. Anon. Barens. apud Pellegr.

70.  Guil. Appul. lib. 1.

71.  Ostiens. lib. 2 c. 50.

72.  Ostiens. lib. 2 cap. 43.

73.  Ughel. tom. 1. Ital. Sacr. de Episc. Cajet.

74.  Ab. de Nuce ad Ostiens. l. 1 c. 63.

75.  V. Du-Fresne in Not. ad Alexiad. Annae Comnen.

76.  Ab. de Nuce Chr. Ost. l. 1 c. 5.

77.  (Non è da tralasciare la favola rapportata dall'Autore del Frammento Urstisiano tom. 2 pag. 82 di una singolar cagione di morte di questo Imperadore; e tanto maggiormente perchè riguarda il santuario del Monte Gargano, ed una tradizione, che ancor dura in quel luogo. Anno Domini, e' scrive, DCCCCXCI. Otho Rex, peragrata Italia, venit in Montem Gargani, et cognovit a referentibus Angelorum obsequia nocturno tempore ibi esse, nec ullum mortalium velint interesse, cujus causa notitiam cum disposuisset curiosius indagare, Apostolicum convenit super hac re primum. Cui cum Apostolicus consilium suum indidisset, sibi minus placere illum Angelicis ministeriis interesse, parvi pendit consilium Papae, et eo ignorante proficiscitur in Montem Gargani. Ubi dum pernoctaret, inter caetera quae cognovit Sanctorum Mysteria, veniam consequutus est Angelorum, quod temere sacratum locum introierat; tantum ab Angelis prostratus, pro quodam judicio, quod perfecisse debuerat, nec fecit, pro negligentia transverberatus est: Deinde Sanctus Michael jussit eum Romam remeare, statuto sibi die, quo cum vellet invisere. Sicque cruentatus Rex Romam repedavit, et Benedicto Papae cuncta a se visa retexuit. Igitur Rex valido languore tactus, vita decessit, et ab Archangelo receptus, superis est sociatus Anno Domini DCCCCXCIV. Burcardo Struvio Ist. Germ. dis. 13 §. 6 dopo aver rapportato questo Frammento, soggiunge: Sed quis crederet hasce fabulas ob Chronologiam etiam haut convenientem suspectas? Ejusdem farinae sunt nugae quas de Laurentio Martyre, quasi ultore alii fingunt, de quibus Baronius ad annum 983 §. 11).

78.  (Alcuni Scrittori Germani rapportati dallo stesso Struvio loc. cit. §. 8 p. 562 scrissero, che Ottone III quando succedè al Padre, era di età più tenera; e Gobelino Persona non lo fa che puerulus duorum annorum Aet. VI C. L.).

79.  Sigon. An. 984.

80.  Sigon. A. 911.

81.  Ostiens. lib. 2 cap. 15 V. Cam. Pellegr. in Serie Com. Cap. 8. p. 207.

82.  Chron. Saler. apud. Pellegr. in Stem. Princ. Saler.

83.  Lib. 2 tit. 26.

84.  Pellegr. in Stem. Princ. Saler.

85.  Petr. Damian. lib. 1 Epist. 9.

86.  Ostiens. lib. 1 c. 37.

87.  Ostiens. l. 2 c. 57.

88.  Pellegr. in Stem.

89.  Sigon. ad A. 1001.

90.  Sigon. et Baron. ad A. 1002.

91.  Ostiens. l. 2 c. 24.

92.  Antonin. 2 part. tit. 16 cap. 3 §. 4.

93.  Gold. tom. 3 p. 311.

94.  Jordanes in Chronico ex Inn. III in cap. Venerabilem, de Elect. et electi potestate.

95.  Naucl. generat. 31. A. 937.

96.  Honofr. in lib. de Comitiis Imperii.

97.  Cujac. de Feud.

98.  V. Dupin. de antiq. Eccl. disc. dis. 7.

99.  August. Triumphus l. de potest. Ecclesiae, qu. 35.

100.  Leopold. de Jure Imperii c. 3.

101.  Naucl. generat. 34. A. 994.

102.  Card. Cusan. de Concor. Cact. l. 3 c. 4.

103.  Guicc. hist. l. 7.

104.  V. Pellegr. in Append. pag. 300 et igne cremavit eam.

105.  Lib. 1 l. 36, 37 de homicid. lib hom. l. 4 de Parricid. lib. 2 l. 16 de prohib. nupt. V. Struv. hist. jur. Germ. §. 15.

106.  Sigon. ad A. 1013.

107.  Goldast. tom. 3 p. 311, 312.

108.  Ostiens. l. 2 c. 31. A. 1014.

109.  Luitpr. l. 6 c. 21.

110.  Ivo in Pannom. l. 8 c. 156.

111.  Grat. c. 23 dist. 63.

112.  V. Struv. hist. Jur. publ. §. 2.

113.  Erchemp. n. 36.

114.  Leo Ostiens. l. 2 c. 9. Sigon. l. 7. A. 966. Baron. Annal. ad A. 968. Pellegr. in Serie Ab. Cass. in Aligern. pag. 37.

115.  Anon. Salern. part. 7 n. 5 ed ivi Pellegr. Chron. Monast. S. Bart. de Carpineto, l. 1. V. Baron. ad A. 968 n. 66. Marium Viper. in Chron. Episc. et Archiep. Ben. l. 2.

116.  V. Ughel. Ital. Sacr. de Archiep. Ben.

117.  Decr. can. si justos 27 qu. 2.

118.  Decretal. c. te referente, de Celebrat. mis. c. 2 de Adulter.

119.  V. Ughel. Ital. Sacr. de Archiep. Saler.

120.  Ab. de Nuce in Ostiens. lib. 2 cap. 30.

121.  Ughell. Ital. Sacr. de Archiep. Comps.

122.  Decretal. cap. cum Clem. de Testam. cap. si de collus. de reg. Eccles. Inn. III. in cap. cum olim, de Cleric. conjug.

123.  V. Ughel. Ital. Sacr. de Archiep. Consent.

124.  Novel. 2 de Feriis, §. 4 in honorem miraculis celebris unguentoque scaturientis Nicolai.

125.  Beatil. Istor. di Bari, lib. 2.

126.  Bulla Urbani II apud Ughel. Simul et Catara, quae in transmarini litoris ora sita esse cognoscitur.

127.  V. Ughel. Ital. Sacr. de Archiep. Rossan.

128.  Luitprand. Nicephorus, cum in omnibus Ecclesiis homo sit impius, livore quo in nos abundat, Constantinopolitano Patriarchae praecipit, ut Hydruntinam Ecclesiam in Archiepiscopatus honorem dilatet; nec permittat in omni Apuliae, seu Calabriae, Latine amplius, sed Graece divina mysteria celebrari. Scripsit itaque Polyeuctus Constantinopolitanus Patriarcha Hydruntino Episcopo, quatenus sua auctoritate habeat licentiam Episcopos consecrandi in Accerentilla, Turcico, Gravina, Matera, Tucarico, qui ad consecrationem domini Apostolici pertinere videntur.

129.  P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. Monum. cap. 1 sect. 10.

130.  Chioc. de Episc. Neap. A. 962.

131.  Guil. Appul. lib. 3. Rer. Norman.

132.  Gaufredo Malaterra l. 1 c. 3 hist. in tom. 3. Hisp. illustr. Guglielmo Pugliese l. 2. de gest. Norm. in Italia in princ. Guglielmo Gemmeticense l. 2. hist. Nortm. c. 4. Nortmanni dicuntur quia lingua eorum Boreas, North vocatur: homo vero, Man, id est homines Borealas per denominationem nuncupantur.

133.  Grot. in Proleg. ad hist. Got.

134.  L. 2 hist. Nortm.

135.  In hist. Long. in Stemmate.

136.  Grot. in Prolegom. loc. cit.

137.  V. Inveges nel princ. della part. 3 degli Annali di Palermo, ove porta l'Albero de' Duchi di Normannia.

138.  Peregrin. in Stemmate.

139.  Malater. lib. 1 c. 4. V. Dufresne in Stem. Ducum. Apuliae ad Hist. Comnen.

140.  Malat. lib. 1 c. 9, 11, 19. 38. Ost. lib. 2 cap. 67.

141.  Roger. Oveden. apud Grot. in Prolegom. Audax Francia Normannorum militiam experta delituit. Ferox Anglia captiva succubuit. Dives Apulia sortita refloruit. Hierosolyma famosa, et insignis Antiochia se utraque supposuit.

142.  Petr. Diaconus de Viris Illustrib. sacri Cassin. Archisterii.

143.  Petr. Diac. lib. 3 c. 35 in Actuar. Chronic. Cassin.

144.  Lib. 3 cap. 35.

145.  Pellegr. in Serie Ab. Cass. in Atenulfo: vergente A. Christi millesimo.

146.  Ostiens. l. 2 c. 37. Quadraginta numero Normanni in habitu peregrino.

147.  Ostiens. lib. 2 cap. 37.

148.  Ostiens. lib. 2 cap. 37. A Guaimaro majore, qui tunc Salerni principabatur.

149.  Ostiens. lib. 2 cap. 37.

150.  Odoric. Vital. l. 3.

151.  Ostiens. loc. cit.

152.  Pellegr. in Stem.

153.  Ostiens. l. 2 c. 37.

154.  Ostiens. l. 2 c. 38.

155.  Ostiens. l. 2 c. 38.

156.  Ostiens. loc. cit.

157.  Ostiens. lib. 2 cap. 39.

158.  Ostiens. lib. 2 cap. 40.

159.  Ostiens. lib. 2 cap. 41.

160.  Guglielmo Gemmet. lib. 7 cap. 30.

161.  Gemmet. loc. cit. Guil. App. lib. 1.

162.  (Sigeberto Gemblacense ad An. 1024. Henricus Imperator, consulentibus sibi Principibus super substitutione Regni, designans Conradum... moritur. Leo Ostiens. loc. cit. Chuonrado Duce, qui et Cono dictus est, ejusdem Henrici electione in Regem elato. Otto. Frising. loc. cit. Conradus natione Francus, consilio Antecessoris sui, cujus tamen dum adhuc viveret, gratia carebat, ab omnibus electus, etc.)

163.  Antoninus 2 part. hist. tit. 16 cap. 4 §. 1. Virtute militari strenuus, sapientia, et scientia juris maxime florens.

164.  Ostiens. lib. 2 cap. 58.

165.  Guil. App. lib. 1.

166.  Pellegr. in Stemmat. An. 1030. Ostiens. lib. 2 cap. 58.

167.  Chronic. Neap. Jo. Villani lib. 1 c. 60.

168.  Malat. lib. 1 cap. 9, 11, 19 et 38. Ost. lib. 2 cap. 67.

169.  Ost. lib. 2 cap. 65.

170.  Antonin. 2 part. tit. 16 cap. 2. §. 1.

171.  Ostiens. lib. 2 cap. 65.

172.  Ostiens. lib. 2 cap. 65. Rainulfum quoque, ipsius Guaimarii suggestione, de Comitatu Aversano investivit.

173.  Ostiens. l. 2 c. 65. Eodem tempore Guaimarius, Normannis faventibus, Surrentum cepit, et fratri suo Guidoni contulit. Amalfim nihilominus suo dominatui subdidit.

174.  Ughell. de Archiep. Amalf. pag. 255 t. 7.

175.  Goldast. t. 3 p. 312.

176.  Lib. 1. Feud. tit. 1 §. 1.

177.  Lib. 3. LL. Longob. tit. 8 de beneficiis, l. 4.

178.  Sig. A. 1026.

179.  Lib. 1 tit. 1 §. 2.

180.  Audr. in Comm. in l. omnibus post tit. de prohib. Feud. alien. per Lothar.

181.  Molin. de Feud. p. 51.

182.  Molinaeus de Feud. n. 33.

183.  Pellegr. in dissert. pag. 62.

184.  Lib. 1. Feud. tit. 19.

185.  Cujac. de Feud. lib. 2 tit. 17. Nam quod sequitur de successione Feudi, constat primum introduxisse Conradum, confirmavit autem Lotharius.

186.  V. Struv. histor. Jur. Feud. §. 1.

187.  Curopalata hist. fol. 109. Cedreno hist. fol. 109. Lupo Protospata in Cron. Long. p. 1. Cronaca Barense apud. Pellegr. A. 1038.

188.  Ostiens. lib. 2 cap. 67.

189.  Malater. l. 1 h. c. 6.

190.  Ostiens. l. 4 c. 63. Pellegr. in Castig. ad Lup. Protop.

191.  Ostiens. l. 2 c. 67. Malater. l. 1 c. 8.

192.  Gugl. Appul. l. 1.

193.  Cedr. p. 623.

194.  Malater. lib. 1.

195.  Ostiens. lib. 2 cap. 67.

196.  Ostiens. loc. cit.

197.  Gugliel. Appul. Cedrenus, pag. 619 et seqq.

198.  Ostiens. l. 2 cap. 67. Gaufr. Malat. lib. 1 cap. 9. Guglielm. App. lib. 1.

199.  Gugliel. Ap. Ter Gallis illo victoria contigit anno.

200.  Ostiens. lib. 2 cap. 67.

201.  Apul. lib. 1. Cedren. p. 623.

202.  Cedren. pag. 604.

203.  Gugl. App. lib. 1.

204.  Gugliel. App. lib. 1.

205.  Cedren. pag. 624 e 625. Zonaras.

206.  Annal. di Palerm. part. 3. An. 1043.

207.  Ostiens. lib. 1 cap. 67.

208.  Gul. Ap. lib. 2 c. 12.

209.  Ostiens. lib. 2 cap. 67.

210.  Orderic. Vital. lib. 3.

211.  Gugl. Appul. lib. 1.

212.  Pellegr. in Stem.

213.  Malater. lib. 2 cap. 12. Exequiis celebratis, secundus frater Drogo totius Apuliae dominatum suscepit.

214.  Inveg. par. 3. A. 1046.

215.  Orderic. Vital. lib. 3. Sub specie Peregrinorum peras, et baculos portantes (ne caperentur a Romanis) in Apuliam abierunt.

216.  Desider. lib. 3 in prin. Ab. de Nuce in Excurs. hist. ad Ostiens. lib. 2 cap. 79.

217.  Ostiens. lib. 2 cap. 79.

218.  Ostiens. lib. 2 cap. 80.

219.  Ostiens. lib. 2 cap. 80.

220.  Ostiens. loc. cit. Drogoni Apuliae et Rainulfo Aversae Comitibus ad se convenientibus, et equos illi plurimos, et pecuniam maximam offerentibus, universam, quam tunc tenebant terram, Imperiali investitura firmavit.

(Hermannus Contractus ad An. 1047. Imperator vero Roma egressus, nonnulla Castella sibi rebellantia caepit. Provincias illas prout videbatur, disposuit, Duces Nortmannis, qui in partibus commorantur, et aliis eo loco Urbibus, constituit).

221.  Pellegr. in Stemm.

222.  Ostiens. loc. cit. Totam Civitatem a Romano Pontifice, qui cum illo tunc erat, excommunicari fecit; cunctamque Beneventanam Terram Normannis auctoritate sua confirmans, ultra montes exinde est reversus; Gregorium Expontificem secum asportans.

223.  Guglielm. App. lib. 2.

224.  Malater. p. 13.

225.  Auctar. Chron. Cass. lib. 4 cap. 115.

226.  Ab. de Nuce in Excurs. hist. ad dict. lib. 4 cap. 8.

227.  Petr. Diac. loc. cit. cap. 116.

228.  V. Guicciard. hist. Ital. lib. 1.

229.  Chioc. tom. 1 dell'Invest.

230.  Desiderius Abb. Ostiens. lib. 2 c. 81.

231.  Ottone Frising. VI. cap. 3.

232.  Lione Ostiense lib. 2 cap. 82.

233.  Ostiens. lib. 2 c. 85.

234.  Ostiens. lib. 2 c. 84.

235.  Ditmaro l. 6 p. 383.

236.  Ostiens. lib. 2 cap. 46. Postmodum Leo IX Papa vicariationis gratia Beneventum ab Henrico Corradi filio recipiens, praedictum Episcopum Bambergensem sub ejus ditione remsit, equo tantum, quem praediximus, sibi retento.

237.  Petr. Diac. ad Ostiens. lib. 2 c. 84.

238.  Chron. Duc. et Princ. Benev. apud Pellegr. pag. 266 et exiliati sunt.

239.  P. Giannetas. hist. Neap. lib. 9.

240.  Lambert. apud Baron. A. 1053 num. 3. Item alios quamplures tam Clericos, quam Laicos in re militari probatissimos.

241.  Malaterra l. 2 c. 14.

242.  Ostiens. l. 2 c. 87.

243.  Chron. Duc. et Princ. Benev. apud Pellegr. pag. 266.

244.  Gugliel. Appul. l. 2.

245.  Ostiens. loc. cit. Omnibus tandem in ipso certamine trucidatis Normanni Dei judicio extitere victores.

246.  Malater. lib. 2 cap. 14. Intra Urbem Provinciae Capitanatae, quae Commitata dicitur.

247.  Anonym. Barens. apud Pellegrin. ann. 1052. Comprehenserunt illum, et portaverunt Benevento, tamen cum honoribus.

248.  Ostiens. lib. 2 cap. 87.

249.  Malater. lib. 2 cap. 14. Ostiens. loc. cit.

250.  Malater. lib. 2 cap. 14.

251.  Chron. Duc. et Princ. Benev. apud Pellegr. pag. 266. Postmodum autem reversi sunt in Beneventum.

252.  Pellegr. de Chronica Ducum, et Princ. Ben. pag. 262. Idem in Stemm. et alibi pluries.

253.  Chron. n. 8 et 9 apud Pellegr. pag. 266.

254.  Ostiens. lib. 2 c. 89.

255.  Ostiens. lib. 2 c. 96 et 99.

256.  Goldast. tom. 3 pag. 312.

257.  Gul. Ap. lib. 1. Roberto fratri Calabras acquirere terras concedit.

258.  Ostiens. lib. 2 cap. 98.

259.  Ostiens. lib. 2 cap. 99.

260.  Ostiens. lib. 2 cap. 100.

261.  Guil. Appul. lib. 1.

262.  Ostiens. lib. 3 cap. 16. Et ex tunc coepit Dux appellari.

263.  Pellegr. Castigat. in Lup. Protosp. A. 1055.

264.  Sigon. Histor. de Regn. Italiae lib. 9. A. 1059. Rhegio Calabriae Oppido, et Troja Apuliae capto superbus ultro se Ducem Apuliae atque Calabriae appellabat.

265.  Invent. Annal. di Paler. part. 3. A. 1059.

266.  Mazzel. descriz. del Regno di Napoli pag. 374.

267.  Chassau. Catalog. glor. Mund. part. 1 concl. 9 pag. 8.

268.  Guazzi hist. Moder. pag. 78.

269.  Ostiens. lib. 3 cap. 16.

270.  Ostiens. loc. cit.

271.  Pellegr. in Stem.

272.  Ostiens. lib. 3 cap. 16.

273.  Sigon. lib. 9. A. 1059.

274.  Desid. Dial. lib. 1. Pellegr. in Stem.

275.  Senec. ad Lucil. Epist. 47.

276.  Freccia de Subfeud. lib. 8. Speciali quodam jure sibi vindicet, sicut Beneventum.

277.  Ostiens. l. 2 c. 40.

278.  Ostiens. cod. loc. c. 39.

279.  V. Baron. A. 1022.

280.  Gulielm. Appul. l. 2.

281.  Ostiens. lib. 3 cap. 16. Hisdem quoque diebus, et Richardo Principatum Capuanum, et Rothberto Ducatum Apuliae, et Calabriae, atque Siciliae confirmavit, cum Sacramento, fidelitate Romanae Ecclesiae ab eis primo recepta, nec non investitione census per singulos annos, per singula boum paria, denarios duodecim.

282.  Freccia de Subfeud. lib. 1 pag. 53.

283.  Guil. Apul. lib. 2.

284.  V. Pratejum. Lex Jurid.

285.  Frossard hist. lib. 1 cap. 14.

286.  V. Bodin. de Republ. lib. 1.

287.  Ostiens. l. 3 c. 16.

288.  Pell. in Stem.

289.  Ostiens. loc. cit.

290.  Ostiens. l. 3 c. 16.

291.  Goffredo Malaterra lib. 2 cap. 43.

292.  Beatil. Istor. di Bari, lib. 2.

293.  Guil. Appul. lib. 2.

294.  Ostiens. loc. cit.

295.  Malater. lib. 2. cap. 42.

296.  Guil. Ap. lib. 2. Lupo Protosp.

297.  Ostiens. lib. 3 cap. 21.

298.  Baron. A. 1066 n. 2.

299.  Ostiens. lib. 3 cap. 17 et 18.

300.  Abb. de Nuce ad Ostiens. lib. 3 cap. 18.

301.  Ostiens. lib. 3 cap. 25.

302.  Ostiens. lib. 3 cap. 3.

303.  V. Carol. Borrel. in Vindic. Neap. Peregr. in Campan. circa fin.

304.  Ostiens. lib. 3 cap 16. Sicque fratrem Roggerium de tota investiens Insula, et medietatem Panormi, et Demonae, ac Messanae sibi retinens.

305.  Malaterra lib. 2 cap. 4. V. Fazzel. Hist. Sicul.

306.  Tutino de' Contestabili del Regno.

307.  Inveges istor. di Palermo, tom. 2.

308.  Gul. Appul. lib. 3.

309.  Gul. App. Dux Petro suspectus erat, quia prorsus eunti ad fines Siculos vires adhibere negarat.

310.  Malat. lib. 3 cap. 2.

311.  Gul. Appul. lib. 3.

312.  Paul. Diacon. l. 3 c. 45.

313.  Malat. lib. 3 cap. 4.

314.  Pellegr. in Stemm. Princ. Salernit.

315.  Pellegr. in Stemm.

316.  Paul. Diac. l. 3 c. 45.

317.  Baron. in fin. lib. Epist. Gregorii VII. Celebravit Synodum Romae, in qua excommunicavit Robertum Guiscardum Ducem Apuliae, et Calabriae, et Siciliae cum omnibus fautoribus ejus.

318.  Petr. Diac. Auct. l. 3 c. 45.

319.  Anon. in Chr. Duc. et Princ. Ben. n. 15 apud Pellegr. Post cujus Principis obitum, recta est Civitas per Romanam Ecclesiam.

320.  Auctuar. P. Diac. in Ostiens. l. 3 c. 49.

321.  Auctuar. P. Diac. l. 3 cap. 49.

322.  Hemoldus Chronici Sclavorum lib. 1 cap. 29.

323.  Auctuar. P. Diac. lib. 3 cap. 50 et 53.

324.  Auct. P. Diac. lib. 3 cap. 50.

325.  Malat. lib. 3. Anna Comnen. lib. 4.

326.  Gugl. App. lib. 4.

Advenit interea Conjux, Comitesque rogati,

Egregiam sobolem multo spectante Rogerum.

Accersit Populo, cunctisque videntibus illum,

Haeredem statuit, proponit et omnibus illum.

Jus proprium Latii totius, et Appula quaeque,

Cum Calabris, Siculisque loca Dux dat habenda Rogerio.

327.  Malat. lib. 3.

328.  Gul. Appul. lib. 4. Roberto Comiti committitur, atque Girardo. Alter fratre satus, fidissimus alter amicus.

329.  Auct. P. Diac. lib. 3 cap. 53.

330.  Vol. 3. Epist. decretal. Greg. VII. L'Investitura data da Gregorio VII al Duca Roberto vien anche rapportata da Lunig. nel Codice Diplomatico d'Italia, Tom. 2 p. 843.

331.  Anna Comn. lib. 5.

332.  Order. Vital. lib. 7.

333.  Protospata, l'Anonimo di Bari, Orderico. La Cronaca di Fossanova, tom. 1. Ital. Sacr. Ughel. col. 46. La Cronaca de' Duchi di Benevento nell'istoria Longob. del Pellegrino. La Cronaca dell'Anonimo Monaco di S. Sofia di Benevento. La Cronaca Salernitana nella cit. hist. Longob. L'Anonimo Sigonio, Panvinio, Gordonio e Pirri, tutti questi pongono la morte di Guiscardo in quest'anno 1085.

334.  Gugl. App. Urbs Venusina nitet tantis decorata sepulchris.

335.  Malater. l. 3 c. 42.

336.  Pallavic. hist. del Conc. di Trent.

337.  Pellegr. ad Lupum Prot. A. 1089.

338.  Romuald. Arc. Salern. apud Baron.

339.  Malat. lib. 4 c. 17.

340.  Malat. lib. 4 c. 19.

341.  Pellegr. ad Lup. A. 1096.

342.  Malat. lib. 4 c. 2.

343.  Orderico Vital. lib. 1. Hist. Norm. Tancredus Odonis Boni marchisii filius, et Comes de Rossivolo cum suis fratribus.

344.  Ab. de Nuce Chr. lib. 4 cap. 11.

345.  Malater. lib. 4 c. 2. Dux in Apuliam secedit, Comes in Siciliam revertitur.

346.  Paul. Diac. lib. 4 cap. 10.

347.  Malater. loc. cit.

348.  Malater. lib. 4 cap. 26. Homo Apuliae Ducis factus fuerat.

349.  Loc. cit. ad A. 1097 cap. 5. Vice recompensationis Neapolim, quae sibi similiter recalcitrabat, si praevalere posset, fiducialiter concedens.

350.  Petr. Diac. l. 4. c. 10.

351.  Guil. App. lib. 6.

352.  Ivo Epist. 109.

353.  Altes rer. Aquit. lib. 4. cap. 5.

354.  Polid. lib. 3, rer. Anglic.

355.  Rer. Aquit. lib. 4. cap. 5.

356.  Jo. Salisberiensis lib. 15 cap. 16. et lib. 6 cap. 22. Sed nec Legati Sedis Apostolicae manus suas excutiunt ab omni munere, quin interdum in Provinciis ita debaccantur ac Satban ad Ecclesiam flagellandam a facie domini Provinciarum diripiunt spolia, ac si thesauros Croesi studeant comparare.

357.  V. Ugo di Flavigni, ed Eadmero lib. 5. hist.

358.  Gregor. lib. 2. Indit. 10. Epist. 7.

359.  Inveges lib. 3. Proinde supra cunctas Ecclesias Siciliae te Vice Sedis Apostolicae ministrare decernimus, quas non loco tribuimus, sed personae.

360.  Ostiens. lib. 3 cap. 13.

361.  Order. Vit. hist. Norman. lib. 3 fol. 483.

362.  Fazzel. Rer. Sicul. Inveges lib. 3. Vien rapportata anche da Lunig, Tom. 2. Cod. Ital. Diplom. pag. 846.

363.  V. Duaren. de Sacr. Eccles. min. nemini Regum. 16 qu. 7.

364.  Glos. cap. placuit, in princ. et in cap.

365.  Andr. de Isern. in prooem. Constit. Regn.

366.  Nauclerus generat. 41.

367.  V. Pellegr. al Lup. A. 1099.

368.  Lup. Protosp. A. 1101. Obiit Rogerius Comes Siciliae mense Julii.

369.  Malater. lib. 4. cap. 19. Romuald Salernit.

370.  Aless. Teles. lib. 1 cap. 2 et 3.

371.  Malater. lib. 3 cap. 10, 11 et 36 et lib. 4 cap. 14 et 18.

372.  Pell. in Stemm.

373.  Pellegr. in Stemm.

374.  Pellegr. in Castigat. ad Anonim. Cassin.

375.  Pellegr. in Stem.

376.  P. Diac. lib. 4 c. 46.

377.  P. Diac. lib. 4 c. 49. Investivit de Ducatu Apuliae, et Calabriae.

378.  P. Diac. lib. 4 c. 64.

379.  P. Diac. lib. 4 cap. 64.

380.  P. Diac. lib. 4 c. 64.

381.  Ad Chronic. Cas. lib. 4. cap. 64.

382.  Pellegr. in Castigat. ad Anon. Cass. A. 1119.

383.  Pellegr. in Stemmate.

384.  P. Diac. lib. 4 cap. 68.

385.  Pellegr. in Cast. ad Fal. Benev. A. 1121.

386.  Pet. Diacon. lib. 4 cap. 83.

387.  Petr. Diac. lib. 4 cap. 87.

388.  Chron. Romualdi Arch. Salern. Falcon. Benevent. ann. 1127.

389.  P. Diac. lib. 4 cap. 96. Pellegr. in Stemm.

390.  Petr. Diac. loc. cit. Atque in ipso omnis Roberti Guiscardi familia, quae ex ipso descenderat, finita est.

391.  Abb. Telesin. lib. 1.

392.  Vedi Apologia Tom. V part. 2 cap. 11, 12 e segg.

393.  Pellegr. in Castigat. ad An. Cass. A. 1132.

394.  Consuet. Bar. in prooemio Romuald. Archiep. Saler. in Chronic. Massilia. Beatil. hist. di Bari, lib. 2.

395.  Chron. Cassin. lib. 3 cap. 63. Instituta Justiniani, Novellam ejus.

396.  Constit. Henric. in ll. Longobar. lib. 2 tit. 67 l. 11 dove si ricorre alla l. 25. C. de Episc. ch'è di Marciano; ed alla l. 2. C. de jurejur. propter. calumn. ch'è di Giustiniano.

397.  Ivo Epist. 46. Unde et in lib. Pandectarum continetur, allegandosi la l. 7, 11, 13. D. de sponsalib. E nell'Epist. 69 s'allega la l. 11 e 14. D. cod. tit. de sponsalib.

398.  Ostiens. lib. 2 c. 35.

399.  Pellegr. in Stem. Princ. Longobard. p. 288.

400.  Pellegr. hist. Princ. Longob. pag. 251 et 256.

401.  Pellegr. in Append. lib. 1 hist. Princ. Longob. pag. 300.

402.  Lib. 1 Feud 10 et lib. 2, 21 et 28. Struv. Hist. Jur. Gothic. et Langob. §. 2.

403.  Coring. de orig. jur. cap. 23. Ædit. Collect. Const. et legum Imp. in prolegom. Struv. loc. cit.

404.  Chron. lib. 4 cap. 125.

405.  Struv. loc. cit.

406.  Chron. lib. 4 cap. 66.

407.  Carol. de Tocco glos. in l. 1. Longob. de Scandal. l. si quis 6 de eo qui pecul. lib. 1.

408.  L. Long. l. si quis puellam, de injur. mulier. l. si quis aliis, de Adulter.

409.  L. si quis 4 de his, quae a viro.

410.  L. 4. de ultim. volunt.

411.  L. si quis cum altero, de Testib.

412.  Ciarlant. lib. 4 cap. 13. Toppi de origin. Trib. M. C. cap. 10.

413.  Andr. de Iser. De his, qui Feud. dar. poss. §. et quia.

414.  In Constit. minorib. de Jure Balii.

415.  In eadem Const. in princ.

416.  Ciarlant. del Sannio lib. 4 cap. 26.

417.  Viv. decis. 163.

418.  Beatil. hist. di Bari lib. 4.

419.  V. Toppi, e Nicod. in Bibliot. Neapolit.

420.  V. Ciarlan. del San. lib. 3 c. 34.

421.  P. Diac. de Viris illustr. c. 26. Monac. Cassin.

422.  Chron. lib. 3 c. 35.

423.  De Viris illustr. Monac. Cassin.

424.  Chron. Cass. lib. 3 c. 35.

425.  Chr. Cas. lib. 3 c. 35. V. Maurum in notis ad P. Diac. de vir. illustr.

426.  V. Petr. Diac. de vir. illustr. cap. 13 et ibi Marum. V. Ab. de Nuce ad Chron. Cas. l. 1 c. 23.

427.  Chr. lib. 3 c. 7.

428.  Capecelatr. hist. l. 2 pag. 109.

429.  Constit. Regn. lib. 18 de probabili experim. Medicor.

430.  Glos. c. placuit, in princip. et in cap. nemini Regum 16 q. 17.

431.  Archid. Barens. apud Baron. ad an. 1091. Electo Elia in Archiepiscopum Barii, voluntate, atque consensu Ducis Rogerii filii Ducis Roberti Pellegr. in Lup. Protospat. ann. 1089.

432.  Jo. Saresber. de Nugis Curialium. Capecelatr. hist. l. 1 c. 61.

433.  Azorius Institut. mor. p. 2 l. 5 c. 44 §. Innoc.

434.  Baron. ad ann. 1097 tom. 11 fol. 694.

435.  Jo. Saresb. loc. cit. Capecelatr. loc. cit.

436.  Constit. Regn. tit. de Administr. rerum Eccl. post. mortem Praelat.

437.  Sigon. de Reg. Ital. l. 8 ann. 1009.

438.  Istor. di Nap. l. 1 p. 52.

439.  V. Michel. di Montagna ne' suoi saggi, l. 1 c. 40.

440.  Ab. Telesin.

441.  Falco Benev.

442.  Petr. Diacon. l. 4 c. 96.

443.  Ab. Teles. Quia olim sub priscis temporibus super hanc ipsam Provinciam Reges nonnullos habuisse traditur. E nella Bolla, o sia Investitura d'In. II si disse: Regnum Siciliae, quod utique prout in antiquis refertur historiis, Regnum fuisse, non dubium est.

444.  V. Patric. in Marte Gallico.

445.  V. Bodin. de Rep. c. 6.

446.  Tritem. c. 17. Ottone Frisingense l. 2, de gestis Federici I c. 5. Bodino de Rep. l. 2 c. 3.

447.  Cujac. l. 1. de Feud. tit. 2. §. et quia vidimus.

448.  Artur. de auth. jur Rom. lib. 2. de Angl. num. 1.

449.  Bart. in l. hostes. de Captivis.

450.  Covar. pract. quaest. 1.

451.  P. Diac. l. 4 c. 117.

452.  Pellegr. in Castigat. ad Falc. Ben. A. 1130.

453.  Chr. Cass. lib. 4. c. 7.

454.  Ab. Telesin. lib. 2. cap. 1.

455.  V. Faz. decad. 2 l. 7.

456.  Chron. MS. di S. Stefano del Bosco.

457.  Bolla d'Anacl. Coronam Regni Siciliae, et Calabriae, et Apuliae, etc. Donamus etiam, et auctorizamus tibi, et tuis haeredibus Principatum Capuanum cum omnibus tenimentis suis, quemadmodum Principes Capuanorum tam in praesenti, quam in praeterito tenuerunt. Honorem quoque Neapolis, ejusque pertinentiarum, etc.

458.  P. Diac. lib. 4 c. 97. Petrus preterea Cardinalis Rogerio Duci Apuliae coronam tribuens, et per privilegium Capuanum Principatum, et Ducatum Neapolitanum cum Apulia, Calabria, et Sicilia illi confirmans, Regemque constituens, ad suam partem attraxit.

459.  P. Diac. l. 4 c. 117.

460.  Bulla Anacl. Concedimus igitur, donamus, et auctorizamus tibi, filio tuo Rogerio, et aliis filiis tuis secundum tuam ordinationem in Regnum substituendis, et haeredibus suis coronam Regni Siciliae, et Calabriae, et Apuliae, etc. Tu autem censum, et haeredes tui, videlicet sexcentos schifatos, quos annis singulis Romanae Ecclesiae persolvere debes, etc.

461.  Chron. Cass. l. 4 c. 97.

462.  Lib. 2 de Feud. tit. 19.

463.  Frising. l. 7 c. 18.

464.  Capec. Latr. lib. 1 p. 14.

465.  Falco Benev.

466.  Abb. Telesin. l. 3 c. 27. Petr Diac. l. 4 c. 97.

467.  Pell. in Stemm.

468.  Wolf. Laz. de migrat. gent. lib. 10.

469.  Orderic. Vital. Carol. Dufresne in Stemm. ad hist. Comnen.

470.  Falc. Benev.

471.  Otho Frising. in Frid. l. 2 c. 12. Gunther. l. 2.

472.  Lib. 2 tit. 52 de prohib. Feud. alien. per Lothar.

473.  LL. Longob. tit. ult. l. 3.

474.  Pellegr. ad Anonim. Cassin. A. 1136.

475.  P. Diac. L. 4 c. 105.

476.  P. Diac lib. 4 c. 106.

477.  P. Diac. lib. 4 c. 106.

478.  Otho Frising. in Chron.

479.  Falco Benev.

480.  Sigon. de Reg. Ital. l. 11.

481.  Pellegr. in Stem.

482.  Ivo Epist. 46, 69 etc.

483.  Cap. lator, de Pignorib. ove il P. si rapporta alla l. qui filios 6. C. Quae res pignor. oblig. pos.

484.  Pancir. de Clar. II. Interpr. l. 2 c. 13.

485.  Capece Latr. l. 1 hist. p. 35.

486.  Sigon. de Regn. Ital. lib. 11. p. 270.

487.  Polit. Miscel. cap. 41.

488.  Ant. Gatt. hist. Gymnas. Ticin. cap. 12 p. 92.

489.  Taurel. in Praelat. PP. Fluv.

490.  Artur. l. 1 c. 5 num. 13.

491.  Struv. hist. Jur. Just restaur cap. 5 §. 8.

492.  Struv. hist. Jur. Just restaur. c. 5 §. 10.

493.  Sigon. de Regn. Ital. lib. 12 pag. 272. In eo tamen, aperte falsus, quod Matildis rogatu id suscepisse muneris ait, quae multo ante Lotharii Imperium e vita migravit.

494.  Polit. lib. 10. Ep. 14.

495.  Alciat. dispunct. lib. 3 cap. 12.

496.  August. Emendat. l. 1 c. 1.

497.  Struv. hist. Jur. c. 5 §. 10.

498.  Lindenbrog. in Prolegom. in Cod. ll. Antiq.

499.  Conring. de Orig. Jur. Germ. cap. 21.

500.  V. Itterium de Gradib. Academicis, cap. 3 §. 9.

501.  Morena de Reb. Laudens. apud Leibnitium, tom. 1 pag. 118.

502.  Itter. loc. cit. c. 4 §. 25.

503.  Conring. de Antiquitat. Acad. diss. 14 p. 134.

504.  Sigon. de Reg. Ital. lib. 11.

505.  Artur. de usu et auct. Jur. Civ. lib. 1 c. 14.

506.  V. Struv. hist. Jur. Just. restaur. cap. 5 §. 10. Stokmans decis. 1 num. 18.

507.  Linden. loc. cit.

508.  P. Diac. lib. 4 c. 117. Quae res inter Pontificem, et Caesarem dissentionem maximam ministravit, Papa dicente, Salernitanam Civitatem Romanae Ecclesiae attinere; Imperatore e contra, non Pontifici, sed Imperatori pertinere debere, dicente.

509.  P. Diac. lib. 4 cap. 126.

510.  Falc. Ben. Audiens Rex Rogerius Imperatorem viam redeundi arripuisse, exercitu convocato, Salernum venit.

511.  Sigon. de Regn. Ital. lib. 12. insigni per ea tempora eloquentia, singularique doctrina.

512.  Falc. Benev. ad ann. 1138. Vita S. Bernardi.

513.  Lib. 4 c. ult.

514.  P. Diac. lib. 4 c. 117.

515.  Falc. Benev. an. 1139. Otho Frisigens.

516.  Falc. Benev.

517.  P. Diac. lib. 4 cap. 126 praeter Barum, Trojam, atque Neapolim, omnem Terram quam facile amiserat, facilius coepit recuperare.

518.  Falc. Benev.

519.  Falc. Benev. ann. 1139.

520.  Pellegr. in Castig. ad Falc. Benev. ann. 1139.

521.  Anon. Cassin.

522.  È rapportata anche la Bolla di questa Investitura da Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 p. 850.

523.  Histor. Napol. lib. 11.

524.  P. Diac. lib. 4 cap. 97.

525.  Falc. Benev. In his diebus Cives Neapolitani venerunt Beneventum, et Civitatem Neapolim ad fidelitatem Domini Regis tradentes, Ducem filium ejus dixerunt, et ejus fidelitati colla submittunt.

526.  Capac. lib. 1 cap. 12.

527.  Pelleg. ad Falc. Ben. ann. 1140.

528.  V. Pellegr. Cast. ad Falc. Benev. ann. 1140.

529.  Fazzel. poster. decad. lib. 7.

530.  Capec. Lat. hist. lib. 1 pag. 50.

531.  Falc. Benev.

532.  Constit. Occupatis, lib. I.

533.  Fazzel. de reb. Sicul. dec. 1 lib. 1 cap. 2.

534.  Arnis. tom. 1 pag. 519 et 566 num. 6.

535.  Anonym. Cassin. an. 1208. Constitutis Magistris Justitiariis Apuliae, et Terrae Laboris Comite Petro Celano, et Richardo Fundano, etc.

536.  Camill. Pellegr. in Castig. ad Anonym Cassin. ann. 1208.

537.  Sicil. Sacr. tom. 3 fol. 275.

538.  Tutin dell'Uffic. del Gran Ammir.

539.  Beatill. Hist. di Bari, lib. 2 p. 108.

540.  Freccia de Subfeud. lib. 1 pag. 43 num. 6.

541.  Tasso Gerus. conquist. cant. 1.

542.  Alberto Bononiens. in descript. Ital. Regione X fol. 224 Beatill. Hist. di Bari, l. 1 e nella Vita di S. Niccolò di Bari.

543.  Inveges Hist. di Paler. tom. 3.

544.  Freccia loc. cit. num. 4.

545.  Inveges hist. Palerm. tom. 3.

546.  Cap. veritatis, de jurejur.

547.  V. Pellegr. ad Lup. Prot. ann. 1042.

548.  Ughell. tom. 9 Ital. Sacr. pag. 671.

549.  V. Pell. ad Lup. ann. 966.

550.  Otho Fris. lib. 7 c. 4.

551.  V. Pellegr. ad Cast. Fal. ann. 1117.

552.  Freccia de Subfeud. lib. 1 pag. 44.

553.  Pellegr. pag. 251.

554.  Ugo Fal. parlandosi di Guglielmo I. Ut his, aliisque perniciosis legibus antiquatis, eas restituat Consuetudines, quas avus ejus Rogerius Comes a Roberto Guiscardo prius introductas, observaverit, et observari praeceperit.

555.  Inveg. hist. Palerm. tom. 3.

556.  Ramond. l. 2 c. 6.

557.  Falc. Benev. Monetam suam introduxit, unam cui Ducatus nomen imposuit, octo Romasinas valentem, quae magis aerea, quam argentea probata tenebatur: induxit etiam tres follares aereas Romasinam unam appretiatos.

558.  L. Raptus, C. de Raptu Vir.

559.  Ugo Falc. fol. 69 et 70.

560.  Constit. Regn. lib. 3 tit. 5.

561.  Afflict. decis. 265 2 col Loffr. in paraph. cap. 8 col. 3 in princ. et in cons. 39 num. 30.

562.  Constit. lib. 3 cap. 1.

563.  Laun. 3 par. art. 2 c. 8.

564.  C. inhibitio de Clan. despens.

565.  V. Andreas disput. Feud. cap. 3 §. 8 num. 46.

566.  Ramos ad L. Jul. et Pap. l. 3 cap. 49, 50 et 51.

567.  Ugo Falcand hist. Sic Filias suas innuptas domi toto vitae tempore permanere; nec enim inter eas absque permissione Curiae matrimonia posse contrahi; adeoque difficile permissionem hanc hactenus impetratam, ut alias quidem tunc demum liceret nuptui dare, cum jam omnem spem sobolis senectus ingruens substulisset, alias vero perpetua virginitate damnatas sine spe conjugii decessisse.

568.  Cap. Regn. Sicil. cap. 22 in matrimoniis.

569.  Cap. item statuimus, de matrim. contrah.

570.   V. D. Juan Chumacero, y Carrillo, Memorial. cap. 8 e 9 num. 61.

571.  Diploma Corradi apud Math. Paris in hist. Anglic.

572.  Chioc. t. 17.

573.  Andrea d'Iser. Non erat compilatum volumen decretalium. Et quamvis utiliter statuat pro Ecclesiis tamen Canonistae non recipiunt leges Principum secularium, etiam, etc.

574.  Ulp. l. 1 D. de decr. ab. ord. facient.

575.  Tutin. Orig. de' Seg. cap. 14.

576.  Ugo Falcand.

577.  Ugo Falcand.

578.  Cujac. lib. 1 de Feud. tit. 9 in fin.

579.  Andr. Iser. in Const. prosequentes.

580.  Marin. Frecc. de Subfeud. pag. 21 a ter.

581.  Aimon. lib. 3 cap. 7.

582.  Carond. al 1 delle sue Pandette, c. pen.

583.  Loys. lib. 4 degli Ufficj della Corona, cap. 2, numer. 15.

584.  Cujac. l. nu. C. de Comitib. et Tribun. Scolar.

585.  Freccia de Subfeud. de Offic. M. Comest. n. 23.

586.  Ug. Falc. istor. Sicil. fol. 21.

587.  Notitia Judicati apud Pellegr. p. 256.

588.  Tutin. dell'Uffic. de' Contest. nel princ.

589.  Alun. Fabr. del Mon. numer. 542.

590.  Fazz. lib. 6 post. Decad.

591.  Vinc. Tear. de Gran Ammir. nel princ.

592.  Tutin. dell'Uffic. dell'Ammir. nel princ.

593.  Frecc. de Subfeud. lib. 1 de Offic. Admir. n. 8.

594.  Freccia lib. 1 loc. cit. n. 1.

595.  V. Tapp. de Jur. Regn. de Offic. M. Adm. numer. 2. Tass. de Antef. ver. 3 obs. 3 Tribun. 3 numer. 221.

596.  Loyseau Des Off. de la Cour, c. 1.

597.  Chr. Romual. Guarna M. S.

598.  Chron, Romuald. M. S.

599.  Loyseau loc. cit.

600.  Lib. 3 c. 44.

601.  Digest. tit. 9. Nautae, Caup. stab. Tit. 1 de Exercitoria act. Ad l. Rhodiam de Jactu. Tit. 9 de Incend. ruin. naufrag.

602.  Freccia de Subfeud. de Offic. Admirat. n. 7. Hinc in Regno non lege Rhodia maritima decernuntur, sub tabula, quam Amalfitanam vocant, omnes controversiae, omnes lites, ac omnia maris discrimina, ea lege, ea sanctione, usque ad haec tempora finiuntur.

603.  Cod. de Furtis Collat. X. l. navigia quoque.

604.  Codin. cap. 2 nu. 5 Langleo 7 Seniest. 7.

605.  Simm. Epit. 17 lib. 1.

606.  Cassiod. lib. 11 Ep 6.

607.  Agat. lib. 5.

608.  Petr. Diac. lib. 4 c. 98 et 101 Capecelatr. lib. 1 pag 22.

609.  Petr. Diac. lib. 4 c. 102.

610.  Capecelatr. lib. 1 pag. 60.

611.  Jo. Saresb. lib. de Nugis Curialium. Capecelatr. loc. cit.

612.  Ugo Falcon.

613.  Zabarell. in Clem. Romana de Electionib. Freccia lib. 1 de Offic. M. Cancel. num. 4.

614.  Gl. Pram. Sanctio, §. Romanae, verb. Vice-Cancellarius.

615.  Freccia lib. 1 de M. Cancell. num. 29.

616.  Loyseau Des Offic. loc. cit.

617.  Freccia de Subfeud. lib. I de Off. M. Canc. nu. 24 et 25.

618.  Marca de Concord., lib. 4 cap. 7 num 3 et lib 8 cap. 14 num. 6.

619.  V. Tappia de Jure Reg. tit. de Offic. M. Canc. num. 9. Tassone de Antef. vers. 3 obs. 3 num. 271 et 283.

620.  Constit. honorem lib. 1.

621.  Pellegr. in disser. Duc. B. p. 78.

622.  Pell. ad An. Cass. an. 1208.

623.  Tutin. de' Maestr. Giustiz. in princ.

624.  Nell'Archivio della Certosa di Capri instrum. Sig. V. 1197.

625.  Ricc. di S. Germ. Cron. 1.

626.  V. Capece Galeot. resp. fisc. 1 n. 51.

627.  Costanzo hist. lib. 18.

628.  Luc. de Penna l. si quando la 3 C. de Bonis vacantib. lib. 10 col. 2.

629.  Freccia de Subfeud. de Offic. M. Camer. num. 4 V. Surgent. de Neap. illustr. cap. 7 num. 2 et 3 et cap. 26 num. 24 in fin. vers. dicta est autem Summaria.

630.  Pragm. 1 de Offic. Procur. Caesar.

631.  Ugo Falcand.

632.  Capecelatr. lib. 2 pag. 107.

633.  Capecelatr. lib. 3 pag. 119.

634.  Capecelatr. lib. 3 pag. 128.

635.  Constit. si quando forte, sub tit. de forma qualiter sint locandae res Fiscales Constitut. Authoritatem Magistris. Constit. Magistris Procuratoribus, etc.

636.  V. Freccia loc. cit. num. 11 et 12.

637.  Freccia loc. cit. num. 11 et 12.

638.  Cod. Th. l. 3 de Primic. et Notar.

639.  Cassiod. lib. 4 Epist. 3.

640.  Cassiod. 6 var. 3 10 et 16 et 11 var. 18.

641.  Goth. l. 1. 2. C. Th. de Primic. et Notar.

642.  Freccia de Subfeud. de Offic. Logot. et Proton. num. 1 et 2.

643.  Frec. loc. cit. num. 17.

644.  Frec. loc. cit. num. 22.

645.  Budeus in annot. reliquis in PP.

646.  V. Aulis. in Comment. ad tit. de Verb. Oblig. cap. 2 qu. 2.

647.  L. generali, C. de Tabular. lib. 10.

648.  Institut. §. cum autem, de Adopt.

649.  Nov. 44 de Tabell. Nov. 97 de instrum. Caut. l. 1 C. Th. de Crim falsi.

650.  Nov. 66 §. 1 in princ.

651.  Nov. 44.

652.  Accurs. l. si pupillus absens, D. Rem pupil. salv. fore, et l. non aliter, D. de Adoption.

653.  Govean. 2. lect. 10.

654.  Forcat Dialog. 98 n. 3.

655.  Freccia de Subfeud. lib. 1 tit. de Offic. Logot. numer. 14.

656.  V. Tapp. de Jur. Regn. de Offic. Notar. num. 6. 7. 8.

657.  Freccia de Subfeud. lib. 1. Offic. M. Senescal.

658.  Pellegr. in Notitia Judicat. pag. 257.

659.  Capecelatr. lib. 2 pag. 77.

660.  Tutin. degli Offic. del Regn. in princ.

661.  Pelleg. in Anon. Cassin. ann. 1143. Cron. di Fossanova, an. 1144.

662.  Otho Frising. de reb. gest. Frid. lib. 2 cap. 27. 28.

663.  Sigon. de Regn. Ital. l. 11.

664.  Inveges l. 3 hist. Paler.

665.  Goldast. Constitut. Imperial. Tom. I pag. 261.

666.  Otho Frising. de gest. Frid. lib. 1 c. 27. 28. Et siculus dedit ei multam pecuniam pro detrimento vestro, et Rom. Imperii.

667.  Inveg. hist. Pal. tom. 3.

668.  Pellegr. part. 1. in Stem. Pr. Capuae.

669.  Capecelatr. hist. lib. 1 pag. 51.

670.  Chiocc. de Archiep. Neap. ann. 1118 in Marino.

671.  Anon. Cassin. ann. 1145. Fr. Tolom. di Lucca Chron. tom. 3. Hisp. illustr. fol. 375.

672.  Inveg. hist. Paler. tom 3.

673.  Romuald. in Chron.

674.  Anon. Cassin. an. 1150. Obiit Sibilia Regina, Rex Rogerius constituit Gulielmum Ducem filium suum Apuliae Regem.

675.  Inveg. hist. Pal. tom. 3.

676.  Capecelatr. lib. 1 pag. 59.

677.  Camil. Pellegr. ad Anon. Cassin. ann. 115. Capecelatr. hist. lib. 1 pag. 59.

678.  Auct. vitae S. Bernardi.

679.  Anton. 3 part lib. 22 cap. 2 tit. 2.

680.  V. Inveges lib. 3 hist. Pal.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.