The Project Gutenberg eBook of Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1

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Title: Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1

Author: Pietro Giannone

Release date: December 7, 2015 [eBook #50641]

Language: Italian

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ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI VOLUME I


ISTORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME PRIMO

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI
M.DCCC.XXI


INDICE


[v]

AL POTENTISSIMO E FELICISSIMO

PRINCIPE

CARLO VI IL GRANDE

DA DIO CORONATO IMPERADORE DE' ROMANI
RE DI GERMANIA, DELLE SPAGNE, DI NAPOLI, D'UNGHERIA
DI BOEMIA, DI SICILIA, EC.

Avventurosa, e non men di queste Province fortunata deggio reputar io l'Istoria Civile del Regno di Napoli, che ora umilmente, e coll'animo, il più ch'io possa, riverente e divoto alla Cesarea e Cattolica Maestà Vostra presento; non sol tanto per aver ella la sorte d'uscire alla luce del Mondo sotto un Principe non meno eccelso e poderoso, che magnanimo e benigno; e di così rara e maravigliosa bontà, ch'essendo le sue grandezze maggiori della fama, non isdegna di prender in grado le più basse ed umili cose, allorchè da ossequiosa mano se gli porgono in dono; ma ancora per esser venuta a terminarsi ne' vostri innumerabili e segnalati beneficj, de' quali avete colmo questo Regno, e nelle vostre sublimi e gloriose [vi] azioni, di cui avete riempiuto il Mondo tutto; onde la beneficenza, e la fama di tutti gli altri Principi, che lo dominarono, di gran lunga sopravanzando, lo splendore stesso de' vostri Augusti Antecessori avete certamente oscurato.

Se mai, per effetto di vostra natural cortesia, tra la moltitudine delle occupazioni gravissime, che nel governamento di sì numerose Province, ed ampj Regni, onde il vostro grande Imperio si compone, tengono debitamente la divina vostra mente occupata, dall'altezza del supremo grado delle mondane cose, dove non men per retaggio de' vostri Maggiori, che per vostri meriti e virtù siete elevato, degnerà la Maestà Vostra abbassar l'occhio a riguardare ciò, che 'n questa Istoria si narra, per lo corso di presso a quindici secoli; potrà quindi chiaramente comprendere, non pur questo suo fedelissimo Regno, per dignità e per grandezza, non cedere a quanti ora ubbidiscono al suo gran nome; ma, che sotto tanti e sì varj Principi di nazioni diverse, onde e' fu dominato, dopo tanti, e sì varj cambiamenti del suo governo civile, veduto mai non fu nella più alta ventura, ed in tanta tranquillità e splendore, come ora, che riposa sotto il di Lei giusto e clementissimo dominio.

Nello scadimento del Romano Impero, sotto quegli ultimi Cesari, fu da straniere nazioni [vii] miseramente combattuto ed afflitto. I Longobardi, pugnando co' Greci e co' Normanni, e sovente tra lor medesimi, il renderon teatro miserabile di guerre e di rapine. Gli Svevi l'avrebbon certamente rilevato, se non fosse lor convenuto, quasi sempre colle armi in mano, dalle altrui intraprese coprirlo e difenderlo. Gli Angioini, che dal favore de' Romani Pontefici ne riconobbero l'acquisto, il posero in mille soggezioni e servitù; e dopo la morte dell'inclito Re Roberto, essendo caduto sotto la dominazione di femmine, e tra le competenze di più Reali di quella stirpe, da più parti combattuto, streme miserie ebbe a sofferire. Fu poi dal magnanimo Alfonso Re d'Aragona restituito nel suo antico lustro; ma avendolo in morte separato dagli altri suoi paterni Regni, e lasciatolo a Ferdinando suo natural figliuolo, non tanto sotto costui, quanto sotto i suoi discendenti, ritornò nelle primiere calamità e disordini. Il savio Re Ferdinando il Cattolico restaurollo dalle passate sciagure, e sotto l'imperio del vostro gran Zio, dell'invitto e glorioso Carlo V, videsi portato anche a maggior fortuna. Ma Filippo II di lui figliuolo, abbagliato da altre sue vastissime idee, poco ne curò la dechinazione, e molto meno i suoi discendenti. Ma essendosi a' nostri felicissimi tempi avventurosamente restituito sotto il vostro alto [viii] e potente imperio, a tanta grandezza con la vostra benefica mano l'avete sollevato là dove non fu veduto giammai. Stolta cosa mi parrebbe a dover credere, che i vostri immensi beneficj a quelli degli altri Re vostri predecessori comparar si potessero. Voi spinto dalla fedeltà e dall'amore de' nostri cuori, e più dalla grandezza e generosità del proprio, che non saprebbe donare, senza arricchire; non pur l'antiche degnaste di confermare, ma di nuove e copiosissime grazie, e tutte considerabili fregiarne. Onoraste la città nostra, e i suoi Eletti, di nuovi e più ragguardevoli titoli. Antiponeste i nativi del Regno nelle cariche, beneficj, e negli uffizj, escludendone i forestieri. Severamente vietaste, non più per utile del vostro erario, che de' vostri sudditi l'alienazione de' fondi dell'entrate regali. Imponeste, che per niun modo nelle cause appartenenti alla nostra S. Fede procedessero, se non gli Arcivescovi e gli altri Ordinarj di questo Regno, come Ordinarj, e con la via ordinaria che si pratica negli altri delitti, e cause criminali ecclesiastiche. Con più vostri regali editti comandaste, che in tutti i Beneficj, Vescovadi, Arcivescovadi, ed altre Prelature del Regno, ne fossero esclusi gli stranieri. Accresceste i privilegj a' Baroni, oltre a' gradi già stabiliti la succession feudale stendendo. Vostro [ix] ordinamento fu, che la ruota del Cedulario si togliesse: contro del regio fisco la prescrizion centenaria si ammettesse, anche nelle regalie, nelle cose giurisdizionali, e nell'altre vostre fiscali ragioni. E non minor beneficio è quello che ritrae il Regno, oggi che vive sotto le vostre temute insegne, dal venir compreso nelle tregue, che si fanno tra l'Imperio e 'l Turco; e dal commerzio, il quale Vostra Maestà è tutta intesa ad aprire, ed allargare nei nostri Porti colla Germania, e con altre più remote regioni. Cose tutte, di cui, in altri tempi, vano sarebbe stato il desiderio, non che la speranza.

Ma il maggior pregio, onde dobbiamo gir alteri nel suo felicissimo regno, è l'aver Ella col decoro dell'Imperial Maestà sostenute, e fatte valer tra noi, ed a nostro pro i suoi legali diritti, e le sue alte e supreme Regalie: affinchè più non si confondessero, come già fu, i confini tra 'l Sacerdozio e l'Imperio. Sotto i vostri auspicj furon queste due potenze ridotte ad una perfetta armonia e corrispondenza; e prendendo lodevolmente la cura dell'esterior politia ecclesiastica, vi mostrate tutto volto a restituir la disciplina nella Chiesa, di cui per instituzion Divina siete protettore ed avvocato; tal che oggi ammirasi la giustizia e la giurisdizione ecclesiastica nel suo giusto [x] punto, lasciandosi al Sacerdozio quel, ch'è di Dio, ed all'Imperio quel, ch'è di Cesare.

Se adunque questa Storia non si troverà degna d'altro pregio, sì n'avrà ella d'assai, nè potrò io pentirmi di avervi logorati in faticose vigilie molti anni, coll'aver manifestato al Mondo, quanto Voi nel beneficarci e nell'illustrarci, e negli atti di magnanimità e di valore, avete superati i beneficj e l'opere di tutti altri Re vostri predecessori; e che per rendervi per fama immortale ed eterno, immortali ed eterne cose operando, ogni umana grandezza addietro vi lasciate.

Il vostro grande e sublime intendimento ben comprenderà quali, e quanti debban essere i nostri obblighi per sì rari e stupendi beneficj, la cui dolce memoria non si estinguerà se non col Mondo. E se le grazie, e doni non altronde sogliono, che da dilezion provenire, quali più chiari segni, e più certi potrà mai darne il vostro paterno amore? E perchè essendo Voi ottimo, e nel più sublime grado di vera virtù, non potete amare se non se 'l buono, e ciò che maggiormente a quel s'avvicina; dovrem noi sempre più studiarci d'esser buoni e grati, almeno per le stesse massime de' cattivi, cioè per proprio interesse, per non interromperci il corso favorevole delle vostre benignissime grazie.

[xi]

Vengono, Principe eccelso, in quest'Opera, dove l'opportunità l'ha richiesto, sostenute le vostre regalie e preminenze, e le ragioni di quelle con ischietta e pura verità messe in chiaro; non già con intendimento, che s'abbia punto da scemare altrui ciò, che dirittamente se gli dee, che questo alla santa sua mente non s'affarebbe; ma perchè possan riformarsi con modi legittimi quegli abusi, a' quali la debolezza umana, in processo di tempo, ha potuto abbandonarsi; e per quell'affezione ed ardore, che ciascun vostro fedel vassallo è tenuto d'avere, non men per amore della verità, e per l'obbligo dovuto al proprio Signore, che per l'interesse che noi medesimi ci abbiamo. E quindi fia, se non m'inganno, che non solamente non abbia a dispiacer altrui, se vedrà d'averle io con franchezza cristiana difese; ma che questa Storia si renda meritevole dell'alta protezione della vostra potente mano: il che reputerò io degna mercede di queste mie lunghe fatiche, le quali portando in fronte la gloriosa scritta del vostro Imperial Nome, ed uscendo alla luce, come dono, ancorchè basso e mal conveniente a tanto Principe, sotto l'ombra de' vostri temuti allori, saranno sicure di non esser percosse dagli ardenti fulmini della maledica invidia, nè pur crollo veruno, o scossa dovran temere d'ingiuriosa fortuna.

[xii]

La vostra sola benignità mi fa ragion di sperare, che siate per accettarle con lieto e favorevol viso, onde le obbligazioni, ch'insieme con questo comune io porto, me con particolar maniera costringano a pregare con incessabili voti la Divina Bontà, che lungamente e sempre più prosperandola, conservi la sua eccelsa Persona, in guisa, che non ce n'abbiano a portar invidia i nostri nipoti: largamente concedendole ciò, che tanto si sospira, e che sol manca per compimento della universal tranquillità e contentezza.

Napoli 12 febbraio 1723.

Di V. S. C. e C. M.

Umiliss. devotiss. ed ossequiosiss. Vass. e Serv.

Pietro Giannone.

[1]

INTRODUZIONE

L'Istoria, che prendo io a scrivere del Regno di Napoli, non sarà per assordare i leggitori collo strepito delle battaglie, e col romor dell'armi, che per più secoli lo renderon miserabil teatro di guerra; e molto meno sarà per dilettar loro colle vaghe descrizioni degli ameni e deliziosi suoi luoghi, della benignità del suo clima, della fertilità de' suoi campi, e di tutto ciò, che natura, per dimostrar suo potere e sua maggior pompa profusamente gli concedette: nè sarà per arrestargli nella contemplazione dell'antichità e magnificenza degli ampj e superbi edificj delle sue città, e di ciò, che l'arti meccaniche maravigliosamente vi operarono: altri quest'ufficio ha fornito; e forse se ne truova dato alla luce vie più assai, che non si converrebbe. Sarà quest'Istoria tutta civile; e perciò, se io non sono errato, tutta nuova, ove della politia di sì nobil Reame, delle sue leggi e costumi partitamente tratterassi: parte, la quale veniva disiderata per intero ornamento di questa sì illustre e preclara region d'Italia. Conterà, nel corso poco men di quindici secoli, i varj stati, [2] ed i cambiamenti del suo governo civile sotto tanti Principi, che lo dominarono; e per quanti gradi giugnesse in fine a quello stato, in cui oggi 'l veggiamo: come variossi per la politia ecclesiastica in esso introdotta, e per li suoi regolamenti: qual uso ed autorità ebbonvi le leggi romane, durante l'Imperio, e come poi dichinassero; le loro obblivioni, i ristoramenti, e la varia fortuna delle tant'altre leggi introdotte da poi da varie nazioni: l'accademie, i Tribunali, i Magistrati, i Giureconsulti, le Signorie, gli Ufficj, gli Ordini, in brieve, tutto ciò, che alla forma del suo governo, così politico e temporale, come ecclesiastico e spiritual s'appartiene.

Se questo Reame fosse sorto, come un'isola in mezzo all'Oceano, spiccato e diviso da tutto il resto del Mondo, non s'avrebbe avuta gran pena a sostenere, per compor di sua civile istoria molti libri: imperciocchè sarebbe bastato aver ragione de' Principi, che lo dominarono, e delle sue proprie leggi ed istituti, co' quali fu governato. Ma poichè fu egli quasi sempre soggetto, e parte, o d'un grand'Imperio, come fu il romano, e da poi il greco, o d'un gran Regno, come fu quello d'Italia sotto i Longobardi, o finalmente ad altri Principi sottoposto, che tenendo collocata altrove la regia lor sede, quindi per mezzo [3] de' loro Ministri 'l reggevano; non dovrà imputarsi, se non a dura necessità, che per ben intendere la sua spezial politia, si dia un saggio della forma e disposizione dell'Imperio romano, e come si reggessero le sue province, fra le quali le più degne, ch'ebbe in Italia, furon certamente queste, che compongono oggi il nostro Regno. Non ben potrebbe comprenders'il loro cambiamento, se insieme non si manifestassero le cagioni più generali, onde variandosi il tutto, venisse anche questa parte a mutarsi; e poichè queste regioni, per le loro nobili prerogative invitarono molti Principi d'Europa a conquistarle, furon perciò lungamente combattute, ciascheduno pretendendo avervi diritto, e chi come tributarie, chi in protezione, e qual finalmente come feudatarie le pretese: si è riputato perciò pregio dell'opera, che i fonti di tutte queste pretensioni si scovrissero; nè potevano altramente mostrarsi, se non col dare una general'idea, e contezza dello stato d'Italia in varj tempi, e sovente degli altri principati più remoti, e de' trasportamenti de' reami di gente in gente, onde sursero le tante pretensioni, che dieron moto all'imprese, e fomento.

Nè cotali investigamenti sono stati solamente necessarj per dare un'esatta, e distinta cognizione dello stato politico e temporale [4] di questo regno, come per avventura sarà da alcuni riputato; ma eziandio per quello, che s'aspetta ad ecclesiastici affari; imperocchè non minori furon le contese fra' Principi del secolo, che fra' maggiori Prelati della Chiesa. Fu anche questo regno combattuto da' due più celebri Patriarchi del Mondo, da quel di Roma in occidente, e dall'altro di Costantinopoli in oriente. Per tutte le ragioni apparteneva il governo delle nostre Chiese al Pontefice romano, non pur come Capo della Chiesa universale, ma anche come Patriarca d'occidente, eziandio se l'autorità sua patriarcale avesse voluto restringersi alle sole città suburbicarie; ma il costantinopolitano con temerario ardire attentò usurpare le costui regioni: pretese molte Chiese di questo Reame al suo patriarcato d'oriente appartenersi: che di lui fosse il diritto di erger le città in metropoli, e d'assegnar loro que' Vescovi suffraganei, che gli fossero piaciuti. Era perciò di mestiere far vedere, come questi due patriarcati dilatassero pian piano i loro confini: il che non potea ben farsi senza una general contezza della politia dello Stato ecclesiastico, e della disposizione delle sue diocesi e province.

L'istoria civile, secondo il presente sistema del Mondo cattolico, non può certamente [5] andar disgiunta dall'istoria ecclesiastica. Lo stato ecclesiastico, gareggiando il politico e temporale de' Principi, si è, per mezzo dei suoi regolamenti, così forte stabilito nell'imperio, e cotanto in quello radicato, e congiunto, che ora non possono perfettamente ravvisarsi li cambiamenti dell'uno, senza la cognizione dell'altro. Quindi era necessario vedere, come, e quando si fosse l'ecclesiastico introdotto nell'Imperio, e che di nuovo arrecasse in questo Reame: il che di vero fu una delle più grandi occasioni del cambiamento del suo stato politico e temporale; e quindi non senza stupore scorgerassi, come, contro a tutte le leggi del governo, abbia potuto un Imperio nell'altro stabilirsi, e come sovente il sacerdozio abusando la divozion de' Popoli, e 'l suo potere spirituale, intraprendesse sopra il governo temporale di questo Reame, che fu rampollo delle tante controversie giurisdizionali, delle quali sarà sempre piena la repubblica cristiana, e questo nostro Regno più che ogni altro; onde preser motivo alcuni valentuomini di travagliarsi per riducere queste due potenze ad una perfetta armonia e corrispondenza, e comunicarsi vicendevolmente la loro virtù ed energia; essendosi per lunga sperienza conosciuto, che se l'imperio soccorre con le sue forze al sacerdozio, [6] per mantenere l'onor di Dio ed il sacerdozio scambievolmente stringe ed unisce l'affezion del Popolo all'ubbidienza del Principe, tutto lo Stato sarà florido e felice; ma per contrario, se queste due potenze sono discordanti fra loro, come se il sacerdozio, oltrepassando i confini del suo potere spirituale, intraprendesse sopra l'Imperio e governo politico, ovvero se l'Imperio rivolgendo contro Dio quella forza, che gli ha messa tra le mani, volesse attentare sopra il sacerdozio, tutto va in confusione ed in ruina; di che potranno esser gran documento i molti disordini, che si sentiranno perciò in questo istesso nostro Reame accaduti.

Nel trattar dell'uso e dell'autorità, ch'ebbero in queste nostre province, così le leggi romane, come i regolamenti ecclesiastici, e le leggi dell'altre nazioni, non si è risparmiato nè fatica nè travaglio: e forse il veder l'opera in questa parte abbondare, farà scoprir la mia professione, palesandomi al Mondo più Giureconsulto, che Politico. Veracemente meritava questa parte, che fosse fra noi ben illustrata; poichè non in tutti luoghi, nè in tutti tempi fu cotal uso ed autorità delle romane leggi sempre uniforme: onde avendo i nostri Giureconsulti trascurata questa considerabilissima parte, siccome altresì [7] quella dell'origine ed uso dell'altre leggi, che da poi nello stesso nostro Regno da straniere Nazioni s'introdussero; è stata potissima cagione, ch'abbian costoro riempiuti i lor volumi di gravi e sconci errori; da' quali con chiaro documento siamo ancora ammaestrati, quanto a ciaschedun sia meglio affaticarsi per andar rintracciando in sua contrada le varie fortune ed i varj casi delle leggi romane, e delle proprie, che con dubbio, e poco accertamento andar vagando per le province altrui. Imperocchè quantunque si possa, per un solo, tesser esatta istoria dell'origine e progressi delle lettere nell'altre professioni, e della varia lor fortuna per tutte le parti d'Europa, siccome veggiamo esser ad alcuni talora riuscito; nientedimeno quanto è alla Giurisprudenza, la quale spesso varia aspetto al variar de' Principi e delle Nazioni, egli non è carico, che possa già per un solo sostenersi, ma dee in più esser ripartito, ciascun de' quali abbia a raggirarsi nell'uso, nell'autorità e nelle varie mutazion, che troverà nella propria regione essere accadute. Così scorgiamo essersi della Giurisprudenza romana per alcuni eccellenti Scrittori compilata qualche istoria; però quasi si son affaticati a renderla chiara ed illustre, in narrando la sua origine ed i progressi ne' tempi, che l'Imperio romano [8] nacque, crebbe, e si stese alla sua maggior grandezza; ma i varj casi di quella, quando l'Imperio cominciò poi a cader dal suo splendore, la sua dichinazione, obblivione e ristoramento, l'uso e l'autorità, che le fu data ne' nuovi Dominj, dopo l'inondazione di tante nazioni in Europa stabilite; quando per le nuove leggi rimanesse presso che spenta, e quando ristabilita quelle oscurasse; non potranno certamente in tutte le parti d'Europa da un solo esattamente descriversi. Perciò ben si consigliarono alcuni nobili spiriti, dopo aver dato un saggio delle cose generali nel proprio Regno o provincia, prefiggersi i confini, oltre a' quali di rado, o non mai trapassarono.

Un uom di Bretagna, e dal Mondo diviso, reputando gli altri in troppo brevi chiostri aver ristretto l'ardire dell'ingegno umano, mostrò d'aver coraggio per tant'impresa. Fu questi il celebre Arturo Duck[1], il quale oltre a' confini della sua Inghilterra volle in altri e più lontani Paesi andar rintracciando l'uso e l'autorità delle romane leggi ne' nuovi dominj de' Principi cristiani; e di quelle di ciascheduna Nazione volle ancora aver conto: [9] le ricercò nella vicina Scozia, e nell'Ibernia; trapassò nella Francia, e nella Spagna; in Germania, in Italia, e nel nostro Regno ancora: si stese in oltre in Polonia, Boemia, in Ungheria, Danimarca, nella Svezia, ed in più remote parti. Ma l'istessa insigne sua opera ha chiaramente mostrato al Mondo, non esser questa impresa da un solo; poichè sebbene la gran sua diligenza, e la peregrinazione in varj paesi d'Europa, come nella Francia, nella Germania e nell'Italia, avessero potuto in gran parte rimuovere le molte difficoltà al proseguimento della sua impresa; nondimeno il successo poi ha dimostrato essersi ciò ben potuto da lui esattamente adempire nella sua Inghilterra, nella Scozia, nell'Ibernia, ed in alcune regioni da se meno lontane; ma nell'altre parti, e spezialmente nel nostro Reame, si vede veramente essersi da pellegrino diportato; conciossiacosachè, seguendo le volgari scorte, cadde in molti errori, non altro avendoci somministrato, che una molto leggier contezza dell'uso, e dell'autorità delle leggi, così romane, come proprie, qui introdotte da varj Principi, che lo ressero. Ned egli, per la sua ingenuità, nella conchiusion del libro potè dissimularlo, promettendosi appo stranieri trovar perdono, se trattando delle loro leggi e costumi, così parco stato fosse: e [10] confesso altro non essere stato suo intendimento, che d'invogliare i Giureconsulti d'altri paesi, acciocchè, prendendo esempio da lui, quel che egli aveva adempiuto nella sua Inghilterra, volessero essi fare con più diligenti trattati ne' proprj loro Regni o province. Per questa cagione, poco prima d'Arturo, alcuni Scrittori, senz'andar molto vagando, alle proprie regioni si restrinsero. Innocenzio Cironio[2] Cancellier di Tolosa volle raggirarsi per la sola Francia, ancorchè assai leggiermente la scorresse. Ma Alteserra[3] ciò con maggior esattezza, e più minutamente volle ricercare in quella provincia, ove ei nacque, cioè nell'Acquitania. E Giovanni Costa eccellente Cattedratico in Tolosa, promise di far lo stesso con maggior diligenza in tutto il Regno di Francia: ma questa sua grand'opera, che con impazienza era aspettata dal Cironio[4], da Arturo[5], e da tutti gli altri eruditi, non sappiamo ancora a' dì nostri, se mai uscita sia alla luce del Mondo. Giovanni Doujat[6] fece da poi lo stesso, non oltrapassando i confini della Francia; e talora è accaduto, che volendo alcuni esser troppo curiosi [11] nelle altrui regioni, abbiano nelle proprie trascurate le migliori ricerche, ed in mille errori esser per ciò inciampati.

Alla Germania non manca il suo Istorico, intorno a questo suggetto. Ermanno Coringio[7] compilò un trattato dell'origine, e varia fortuna delle leggi romane e germaniche, del quale fassi onorata memoria presso a Giorgio Pasquio[8]; ed a' dì nostri Burcardo Struvio[9] ne ha compilato un altro più difuso, rapportando altri Autori, che per l'Alemagna fecero lo stesso.

Non manca all'Olanda il suo, e Giovanni Voezio compilò un libro, intitolato: De Usu Juris Civilis et Canonici in Belgio unito.

Per la Spagna abbiamo, che Michele Molino ne distese un consimile per lo Regno d'Aragona. Giovanni Lodovico Cortes scrisse l'Istoria Juris Hispanici; e Gerardo Ernesto di Franckenau sopra questo argomento si distese più d'ogni altro[10]. Hanno pure intorno a ciò i loro Istorici, la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, e l'altre province settentrionali. Nè ve ne mancano ancora in alcune parti della nostra Italia, come in Milano per l'industria [12] di Francesco Grasso[11], ed in altri paesi ancora della medesima.

Nel nostro Regno solamente, ciò che gli altri, tratti dall'amor della gloria della loro Nazione, fecero, è stato sempre trascurato. Nè per certo dovrebb'essere maggior l'aspettazione e 'l desiderio, che vi si provedesse, della maraviglia, come in un Regno così ampio e fecondo di tanti valorosi ingegni che con le loro opere han dato saggio al Mondo, null'altro studio esser loro più a cuore, che quello delle leggi, abbian poi tralasciato argomento sì nobile ed illustre. Imperciocchè una Storia esatta dell'uso ed autorità, che nel nostro Regno ebbero le leggi romane, e de' varj accidenti dell'altre leggi, che di tempo in tempo furon per diverse nazioni in esso introdotte, onde ne vennero le prime oscurate, e come poi risorte avessero racquistato il loro antico splendore ed autorità, e siansi nello stato, in cui oggi veggiamo, restituite; dovrebbe in vero essere una delle cose appresso noi più considerabili, non per leggieri e vane, ma per gravi ed importantissime cagioni. Non perchè per troppa curiosità, e forse inutile, si dovesse esser ansioso di spiar le varie vicende di quelle; non perchè ne ricevano esse [13] maggior pompa e lustro, nè per ostentazione di peregrina e non volgar'erudizione; ma per più alte cagioni: queste sono, perchè da un esatta notizia di tutto ciò, che abbiam proposto oltre all'accrescimento della prudenza, per l'uso delle leggi, e per un diritto discernimento, ciascuno potrà ritrarne l'idea d'un ottimo Governo; poichè notandosi nell'Istoria le perturbazioni ed i moti delle cose civili, i vizj e le virtù, e le varie vicende di esse, saprà molto ben discernere, quale sia il vero, ed al migliore appigliarsi.

Ma sopra ogni altro, da ciò dipende in gran parte il rischiaramento delle nostre leggi patrie, e de' nostri proprj istituti e costumi; le quali cose non per altra cagione veggonsi dai nostri Scrittori sì rozzamente trattate, e sovente, senza comprendersene il senso, sì stranamente a noi esposte; se non perchè ignari della storia de' tempi, de' loro Autori, delle occasioni, onde furono stabilite, dell'uso e dell'autorità delle leggi romane, e delle longobarde, sdrucciolaron perciò in quei tant'errori, de' quali veggonsi pieni i lor volumi, e di mille puerilità, e cose inutili o vane caricati; e tanta ignoranza avea loro bendati gli occhi, che si pregiavano d'essere solamente Legisti, e non Istorici; non accorgendosi, che perchè non erano Istorici, eran perciò cattivi [14] Legisti, e rendevansi dispregevoli appo gli estranei, ed a molti ancora de' loro compatrioti. Carlo Molineo[12] di quanti sconci errori riprese, per ignoranza d'Istoria, non pur Baldo, ma eziandio il nostro Andrea d'Isernia? E di quanto scherno furono perciò i nostri agli altri Scrittori? Di quanto riso fu a costoro cagione Niccolò Boerio, che scrisse, i Longobardi essere stati certi Re venutici dalla Sardegna, il nostro Matteo degli Afflitti, e tanti altri?

Si aggiunge eziandio l'utilità grande, che dalla cognizione di tal Istoria si ritrae per l'uso del Foro, e de' nostri Tribunali, e per le controversie medesime forensi. Nel che non possiamo noi in questi tempi allegar miglior testimonio, che il Cardinal di Luca, stato celebre Avvocato in Roma, ed uomo nel Foro compiutissimo, il quale in quasi tutti i suoi infiniti discorsi, onde furon compilati tanti volumi, con ben lunga esperienza ha dimostrato in mille luoghi[13], non altronde esser derivati i tanti abbagli de' nostri Scrittori, se non dall'ignoranza dell'Istoria legale, tanto che non predica altro, così a' Giudici, come [15] agli Avvocati, che l'esatta notizia di quella, senza la quale sono inevitabili gli errori, e le scipitezze. Ma fra' nostri, niun altro rendè più manifesta questa verità, quanto quel lume maggiore della gloria de' nostri Tribunali, l'incomparabile Francesco d'Andrea, il quale in quella dotta disputazione feudale[14], che diede alla luce del Mondo, ben a lungo dimostrò, che non altronde, che da questa Istoria potevan togliersi le difficoltà, dove aveano inviluppata tal materia i nostri Scrittori; onde si videro perciò in mill'errori miseramente caduti. Ciò che dovea essere a tutti d'ammonimento quanto la cognizione dell'Istoria legale sia necessaria a tutte l'altre controversie del Foro. Nè lasciò questo gran Letterato, per quanto comportava il suo istituto, di darci di quella non debil lume. E veramente nostra disavventura fu, che ciò, che gli altri Scrittori fecero per gli loro paesi, non avesse egli tentato di far per lo nostro Reame, che certamente non avremmo occasione di dolerci oggi di tal mancanza. Poichè qual cosa non ci avremmo potuto promettere dalla forza del suo divino ingegno, dalla gran perizia delle leggi, dell'Istoria, e dell'erudizione; da quella [16] maravigliosa eloquenza, e dall'infaticabile applicazione ed esatta sua diligenza? Nè minori prerogative, a mio credere, si ricercano per riducere una tal impresa al suo compiuto fine, le quali, se disgiunte pur con maraviglia osserviamo in molti, tutte congiunte in lui solo s'ammiravano.

Grave dunque, e per avventura superiore alle mie poche forze, sarà il peso, ond'io ho voluto caricarmi: e tanto più grave, ch'avendo riputato, che non ben sarebbe trattata l'Istoria legale, senza accoppiarvi insieme l'Istoria civile, ho voluto congiungere in uno la politia di questo Reame con le sue leggi, l'Istoria delle quali non avrebbe potuto esattamente intendersi, se insieme, onde sursero, e qual disposizione e forma avessero queste province, che con quelle eran governate, non si mostrasse. E quindi è avvenuto, che attribuendosi il lor cambiamento a' regolamenti dello Stato ecclesiastico, che poi leggi canoniche furono appellate, siasi veduta avvolgersi questa mia fatica in più alte imprese, ed in più viluppi essermi intrigato, da non poter così speditamente sciormene: perciò fui più volte tentato d'abbandonarla, imperocchè, pensando tra me medesimo alla malagevolezza dell'impresa, a' romori del Foro, che me ne distoglievano, e molto più conoscendo [17] la debolezza delle mie forze, ebbi credenza, che non solamente ogni mio sforzo vano sarebbe per riuscire, ma che ancora di soverchia audacia potrebbe essere incolpato; onde talora fu, che, atterrito da tante difficoltà, rimossi dall'animo mio ogni pensiero di proseguirla, riserbando a tempo migliore, ed a maggior ozio queste cure.

S'aggiungeva ancora, che fin dalla mia giovanezza aveva io inteso, che il P. Partenio Giannettasio nelle solitudini di Surrento, sciolto da tutte le cure mondane, con grandi aiuti, e grandi apparati, erasi accinto a scrivere l'Istoria Napoletana, e se ben mio intendimento fosse dal suo tutto differente, nientedimeno dovendoci amendue, avvegnachè con fine diverso, raggirare intorno ad un medesimo soggetto, e ch'egli spiando più dentro, mi potesse toglier la novità di molte cose, ch'io aveva notate, ed altre forse meglio esaminarle, che non poteva io, a cui e tanti aiuti, e tant'ozio mancava, fui più volte in pensiero d'abbandonar l'impresa.

Ma per conforto, che me ne davano alcuni elevati spiriti, non tralasciai intanto di proseguire il lavoro, con intendimento, che per me solo avesse avuto a servire, e per coloro, che se ne mostravan vaghi; fra' quali non mancò chi, oltre d'approvare il fatto, e di spingermi [18] al proseguimento con acuti stimoli, di soverchia viltà accagionandomi, più audace perciò mi rendesse. Considerava ancora, che queste fatiche, quali elle si fossero, non doveano esporsi agli occhi di tutti: esse non dovean trapassare i confini di questo Reame; poichè a' curiosi solamente delle nostre cose erano indirizzate; e che se mai dovessero apportar qualche utilità, a noi medesimi fossero per recarla, e spezialmente, a coloro, che ne' Magistrati, e nell'Avvocazione sono impiegati, l'umanità de' quali essendo a me per lunga sperienza manifesta, m'assicurava, non dover essere questo mio sforzo riputato per audace, e che appo loro qualunque difetto avrebbe trovato più volentieri scusa e compatimento, che biasimo o disprezzo.

Ma mentre io così spinto per tanti stimoli proseguiva l'impresa, ecco, ch'appena giunto al decimo libro di quest'opera, si vide uscire alla luce del Mondo nell'anno 1713. la cotanto aspettata Istoria Napoletana, dettata in idioma latino da quel celebre letterato. Fu immantinente da me letta, e contro ad ogni mia espettazione, non si può esprimere, quanto mi rendesse più animoso al proseguimento; poichè conobbi, altro quasi non essere stato l'intendimento di quel valentuomo, che in grazia di coloro, che non hanno della nostra [19] italiana favella perfetta contezza, trasportare in buon latino l'Istoria del Summonte.

Essendomi pertanto liberato da questo timore, posso ora imprometter con franchezza a coloro, che vorranno sostenere il travaglio di legger quest'Istoria, d'offerirne loro una tutta nuova, e da altri non ancor tentata.

Mi sono studiato in oltre, tutte quelle cose, che da me si narrano, di fortificarle coll'autorità d'uomini degnissimi di fede, e che furono, o contemporanei a' successi, che si scrivono, o i più diligenti investigatori delle nostre memorie. Il mio stile sarà tutto schietto e semplicissimo, avendo voluto, che le mie forze, come poche e deboli, s'impiegassero tutte nelle cose, più che nelle parole, con indirizzarle alla sola traccia della verità; ed ho voluto ancora, che la sua chiarezza dipendesse assai più da un diritto congiungimento de' successi colle loro cagioni, che dalla locuzione, o dalla commessura delle parole. Non ho voluto nemmeno arrogarmi tanto d'autorità, che si dovesse credere alla sola mia narrazione; ho perciò procurato additar gli Autori nel margine, i più contemporanei agli avvenimenti, che si narrano, o almeno de' più esatti, e diligenti; e tutto ciò, che non s'appoggiava a documenti legittimi, o come favoloso l'ho ricusato, o come incerto l'ho tralasciato.

[20]

Io non son cotanto ignaro delle leggi dell'istoria, che non m'avvegga, alcune volte non averle molto attentamente osservate; e che forse l'aver voluto con troppa diligenza andar ricercando molte minuzie, abbia talor potuto scemarle la dignità; e che sovente, tirando le cose da' più remoti principj, siami soverchio dilungato dall'istituto dell'opera. Ma so ancora, che non ogni materia può adattarsi alle medesime forme, e che il mio suggello, raggirandosi intorno alla politia e stato civile di questo Reame, ed intorno alle sue leggi, siccome la materia era tutt'altra, così ancora doveasi a quella adattare altra forma; e pretendendo io, che qualche utilità debba ricavarsene, anche per le cose nostre del Foro, non mi s'imputerà a vizio, se discendendo a cose più minute, venga forse in alcuna parte a scemarsene la gravità, perchè finalmente non dovranno senza qualche lor frutto leggerla i nostri Professori, a' quali per la sua maggior parte, e massimamente in ciò, che s'attiene all'Istoria legale, è indirizzata; anzi alcune cose avrebbero per avventura richiesto più pesato e sottile esaminamento; ma non potendomi molto giovar del tempo, sarebbe stato lo stesso, che non venirne mai a capo. E l'essermi io talora dilungato ne' principj delle cose, fu perchè non altronde poteano [21] con maggior chiarezza congiungersi gli avvenimenti alle cagioni; il che, oltre alla notizia, mena seco anche la chiarezza, come si scorgerà nel corso di quest'Istoria.

Ma sopra quali più stabili fondamenti potea io appoggiar l'Istoria civile del nostro Reame, se non cominciando da' Romani, de' quali fu propria, per così dire, l'arte del Governo, e delle leggi; quando queste istesse nostre province ebbero la sorte d'esser per lungo tempo da essi signoreggiate? Per questo fine nel primo libro, anzi che si faccia passaggio a' tempi di Costantino Magno, che sarà il principio della nostra Istoria, si darà, come per Apparato, un saggio della forma e disposizione dell'Imperio romano, e delle sue leggi: dei favori de' Principi, onde furon quelle sublimate: della prudenza delle loro costituzioni: della sapienza de' Giureconsulti; e delle due celebri Accademie del Mondo, una di Roma in occidente, l'altra di Berito in oriente; poichè conoscendosi in brieve lo stato florido, in cui eran queste nostre province, così in riguardo di ciò, che s'attiene alla loro politia, come per le leggi, ne' tempi, ch'a Costantino precederono, con maggior chiarezza potranno indi ravvisarsi il dichinamento, e le tante rivolte e mutazioni del loro stato civile, che seguiron da poi, che a questo Principe piacque [22] di trasferire la sede dell'Imperio in Costantinopoli, e d'uno, ch'egli era, far due Imperi.

[23]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO PRIMO

Quest'ampia e possente parte d'Italia, che Regno di Napoli oggi s'appella, il qual circondato dall'uno e dall'altro mare, superiore ed inferiore, non ha altro confine mediterraneo, che lo Stato della chiesa di Roma, quando per le vittoriose armi del Popolo romano fu avventurosamente aggiunta al suo Imperio, ebbe forma di governo pur troppo diversa da quella, che sortì da poi ne' tempi degli stessi romani Imperadori. Nuova politia sperimentò quando sotto la dominazione de' Re d'Italia pervenne. Altri cambiamenti vide sotto gl'Imperadori d'oriente. E vie più strane alterazioni sofferse, quando per varj casi trapassata di gente in gente, finalmente sotto l'Augustissima Famiglia Austriaca pervenne.

Non fu ne' tempi dalla libera Repubblica divisa in province, come ebbe da poi; nè comunemente altre leggi conobbe se non le romane. I varj Popoli che in lei abitarono presero insieme, o diedero il nome [24] alle tante regioni, ond'ella fu divisa; e le città di ciascuna regione, secondo che serbarono amicizia, e fedeltà al P. R. quelle condizioni o dure, o piacevoli ricevettero, che s'aveano meritate. Nè bisogna cercare miglior forma di governo di quella, che in cotai primi tempi v'introdussero i providi Romani, appo i quali l'arte del governare fu così lor propria, che per quella sopra tutte l'altre Nazioni del Mondo si distinsero. Testimonio è a noi l'incomparabile Virgilio[15], il quale dopo aver date a ciascuna Nazione le lodi per quelle arti, onde sopra tutt'altre preson grido, del solo Popolo romano cantò, esser stata di lui propria l'arte del governare, e del ben reggere i Popoli. Per questa, non già per quella del conquistare si rendè quest'inclita gente sopra tutt'altre sublime; imperocchè se si vuole por mente alla grandezza del suo Imperio, posson ancora gli Assiri in alcun modo vantarsi del loro per Nino acquistato; i Medi, ed i Persi di quello per Ciro; ed i Greci dell'altro per Alessandro Magno fondato. Gli acquisti de' Turchi non furono inferiori a quelli de' Romani, e sotto i famosi Imperadori Maometto II. e Solimano, il loro imperio non fu a quello minore[16]; ed anche gli Spagnuoli con maggior ragione potranno opporgli quello de' Serenissimi Re di Spagna; maggiore, se si riguarda l'ampiezza de' confini, [25] di quanti ne vide il Mondo giammai[17]. E quantunque la prudenza de' consigli, l'intrepidezza de' loro animi, la felicità, e le molte virtù, onde tutte le loro imprese erano ricolme, fossero state eccellenti, ed incomparabili; nulla di manco il giudizio del Mondo, e de' più gravi Scrittori[18], che riputarono quasi tutte le loro spedizioni ingiuste, e le loro armi sovente senza ragionevol cagione mosse e sostenute, venne a' medesimi, e alla lor gloria non picciol detrimento a recare. Solamente in celebrando la sapienza del governo, e la giustizia delle loro leggi si stancarono le penne più illustri del Mondo, e per questo unico pregio meritamente sopra tutt'altri ne andarono gloriosi. Chiarissimo argomento sarà l'essersi veduto, che rovinato ed estinto già il loro impero, non per questo mancò ne' nuovi dominj in Europa fondati, la maestà e l'uso di quelle. Nè per altra cagione è ciò avvenuto, se non perchè le leggi de' Romani con tanta maturità e sapienza dettate, si diffusero e propagarono per tutte le parti del Mondo; non tanto per la potenza del loro imperio, nè perchè secondo la ragion delle genti fu sempremai inalterabil legge di vittoria, che i vinti passassero ne' costumi, e sotto le leggi de' vincitori, quanto per l'evidente utilità, che i popoli soggiogati ritraevano dal loro equabile e giusto governo. Quindi avvenne che le Nazioni più remote e barbare spontaneamente ricevessero le loro leggi, avendo la giustizia [26] e prudenza delle medesime per conforto della loro servitù. Così Cesare mentre trionfa in Eufrate, ed al suo imperio si sottopongono quelle regioni, vittorioso dava a que' popoli le leggi, ma a' popoli volenti. Nè vi bisognava meno, che la sapienza del lor governo, e la giustizia di queste leggi per produrre fra tante nazioni diverse e lontane quella docilità ed umanità di costumi, che Libanio[19] esagerava a coloro, che viveano secondo gl'istituti e leggi romane; e quella concordia, e quel nodo d'una perfetta società civile, che ci descrive Prudenzio[20] fra coloro, che sotto il giogo di quelle usavano. Anzi non sono mancati Scrittori[21] gravissimi, fra' quali non è da tacere l'incomparabile Agostino[22], che credettero per divina previdenza essersi fatto, che i Romani signoreggiassero il Mondo, affinchè per lo loro governo ricolmo di sapienza e di giustizia, i costumi e la fierezza di tante Nazioni si rendessero più trattabili e mansueti; perchè con ciò il genere umano si disponesse con maggior facilità a ricevere quella religione, la qual finalmente dovea abbattere il gentilesimo, e stabilita in più saldi fondamenti dovesse illuminar la terra, e ridurla ad una vera credenza, laonde in premio della loro giustizia fosse stato a loro conceduto l'imperio del Mondo. Gl'Impp. Diocleziano e Massimiano in un loro Editto, che si legge nel Codice Gregoriano, ci lasciarono delle leggi romane questo gravissimo encomio: Nihil nisi sanctum, ac venerabile nostra Jura custodiunt: et ita ad tantam magnitudinem Romana [27] majestas cunctorum Numinum favore pervenit: quoniam omnes suas leges religione sapienti, pudorisque observatione devinxit[23]. Per questa cagione avvenne che le Nazioni d'Europa, non come leggi d'un sol Popolo, ma come le leggi universali e comuni di tutte le genti le riputassero, e che i Principi e le Repubbliche si studiassero comporre i loro Stati alla forma di quelle, in guisa che oggi pare, che l'orbe cristiano si regga e si governi alla lor norma, ond'è che nell'Accademie ben istituite pubblicamente s'insegnino, e s'apparino a questo fine.

Ben egli è vero, che a chiunque riguarda la felicità dell'armi del P. R. parrà cosa stupenda, come in così breve tempo avesse potuto stendere il suo imperio sopra tante province, e sì lontane. Nè potrà senza sorprendersi, sentire, come nella sua infanzia, quasi lottando co' vicini, tosto gli vincesse; che soggiogata indi a poco l'Italia, adulto appena, stendesse le sue braccia in più remoti paesi. Prendesse la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e s'inoltrasse poi nell'ampie regioni della Spagna; e renduto già virile e possente, soggiogasse da poi la Macedonia, la Grecia, la Siria, la Gallia, l'Asia, l'Africa, la Bretagna, l'Egitto, la Dacia, l'Armenia, l'Arabia, e l'ultime province dell'oriente; tanto che alla perfine oppresso dal grave peso di tanta, e sì sterminata mole, bisognò che cedesse sotto il suo incarico medesimo.

Ma forse cosa più ammirabile e degna di maggior commendazione dovrebbe sembrare l'istituto e la moderazione, che praticò colle genti vinte e debellate. E non seguendo l'esempio degli Ateniesi, e de' Lacedemoni, [28] da' quali tutte come straniere venivan trattate prendendo di loro troppo aspro governo: quelle condizioni, o dure o piacevoli lor concedeva, che s'avesse meritato, o la loro fedeltà ed amicizia, ovvero l'ostinazione e protervia. Alcuni Popoli, dice Flacco[24], pertinacemente contra i Romani guerreggiarono. Altri conosciuta la virtù loro serbaron a' medesimi una costante pace. Alcuni altri sperimentando la loro fedeltà e giustizia, spontaneamente a color si rendettono ed unirono, e frequentemente portaron le armi contra loro nemici; onde era di dovere, che secondo il merito di ciascuna Nazione ricevessero le leggi e le condizioni; imperciocchè non sarebbe stata cosa giusta, che con eguali condizioni s'avessero avuto a trattare i Popoli fedeli, e coloro che tante volte violando la fede ed i giuramenti dati, ruppero la pace, e portarono guerra a' Romani. Per questa cagione fu da essi con diverse condizioni governata l'Italia dall'altre province dell'Imperio. Quindi avvenne, che nelle città istesse d'Italia fossero stati introdotti que' varj gradi, e quelle varie ragioni di cittadinanza Romana, di Municipj, di Colonie, di Latinità, di Prefetture, e di Cittadi Federate; e quindi avvenne ancora, che rendutisi Signori di tante, e sì remote province, con prudente consiglio si fosse istituito, che altre fossero Vettigali, altre Stipendiarie, o Tributarie: altre Proconsolari, ed altre Presidiali.

[29]

CAPITOLO I. Delle Condizioni delle città d'Italia.

I Romani avendo cacciati i loro Re, si vollero esentare affatto dalla signoria pubblica, per godere di una perfetta ed intera libertà, così per le loro persone, come per le loro facoltà. In quanto alle persone, essi non dipendevano da alcun Re, o Monarca: siccome non vollero dipendere da alcun Magistrato per diritto di signoria, per cui potessero essere chiamati sudditi, ch'è quel, che chiamavano Jus libertatis, il qual era uno de' diritti e privilegi de' cittadini romani. Nè tampoco vollero astringersi affatto alla potenza pubblica de' Magistrati, avendole tolto la facoltà di condannare a morte, e di far battere alcun cittadino romano. Ed egli è da credere, che sarebbonsi eziandio astenuti di Magistrati, se avessero potuto trovare altra forma di governarsi: cotanto odiavano la Signoria pubblica, a cagion della tirannia d'alcuni de' loro Re, i quali se n'erano abusati. Era ancora diritto de' cittadini romani l'esser annoverati nelle Tribù, e nelle Centurie da' Censori: dare i suffragi: poter esser assunti a' primi onori e supremi Magistrati: esser soli ammessi nelle legioni romane, e partecipi de' beneficj militari, e del pubblico erario: goder soli della potestà patria verso i figliuoli[25], delle ragioni della gentilità, dell'adozioni, della toga, del commercio, de' connubj, [30] e degli altri privilegi spiegati dottamente dal Sigonio[26].

In quanto alle facoltà, vollero ancora i Romani, che i loro retaggi fossero interamente liberi, cioè a dire, esenti dalla pubblica signoria, e che appartenessero ai proprietari di quelli Optimo Jure, ovvero, com'essi dicevano, Jure quiritium. Ciò che spinse Bodino[27] a dire, che la signoria pubblica sia una invenzione di popoli barbari, e che i Romani non la riconoscevano, nè sopra le persone, nè sopra i beni; la qual cosa è ben vera per le persone de' cittadini romani, e di coloro, che per privilegio eran tali divenuti; ed intorno a' beni, per le terre d'Italia: ma egli è facilissimo avvisare, che essi la riconoscevano a rispetto di coloro, che non erano cittadini romani, e che per conseguenza non avevano quel diritto di libertà, ch'era lor proprio: e sopra i retaggi situati fuori d'Italia, ben la riconobbero, come si vedrà quinci a poco, non essendo a' provinciali per le loro robe conceduto quel Jus Quiritium, che si conosceva per quell'antica loro divisione rerum mancipi et nec mancipi.

Questi erano i più ragguardevoli privilegi de' cittadini romani, cioè di coloro che in Roma, o ne' luoghi a se vicini ebbero la fortuna di nascere: e secondo, che alcuni di essi erano conceduti per ispezial grazia, e favore agli altri luoghi d'Italia, vennero quindi a formarsi quelle varie condizioni di Municipj, di Colonie, di Città federate e di Prefetture.

La condizione de' Municipj era la più piacevole ed onorata, che potesse alcuna città d'Italia avere, [31] particolarmente quando era a' medesimi conceduto anche il privilegio de' suffragi; nel qual caso, toltone l'ascrizione alle Curie romane, ch'era propria de' cittadini di Roma, i quali in essa dimoravano, i Municipj poco differivano da' cittadini romani stessi; ed eran chiamati Municipes cum suffragio per distinguergli da coloro, a' quali tal privilegio non era conceduto, detti perciò Municipes sine suffragio. Era ancora lor permesso creare i Magistrati, e di ritener le leggi proprie a differenza de' Coloni, che non potevan aver altre leggi, che quelle de' Romani. E quindi deriva, che infino a' nostri tempi, le leggi particolari d'un luogo o d'una città, le appelliamo leggi municipali; la quale prerogativa, o permettendo o dissimulando il Principe, veggiamo anche oggi, che molte città di queste nostre province la ritengono[28].

A' Municipj seguivano nell'onore le Colonie. Non possono gli Scrittori d'ogni età abbastanza lodar l'istituto di Romolo, così frequentemente da poi praticato da' Romani, di mandare nelle regioni vinte o vote, nuovi abitatori, che chiamarono Colonie. Da questo meraviglioso istituto ne derivavano più comodi: alla città di Roma, la quale oppressa dalla moltitudine de' cittadini per lo più impotenti e gravosi, veniva perciò a sgravarsene: a' cittadini medesimi, i quali, con assegnarsi loro in quelle regioni i campi, venivano ad aver conforto e comodità di vivere: agli stessi Popoli soggiogati, perchè erano i loro paesi più frequentati, i campi meglio coltivati, ed il tutto riducevasi a più grata forma di vivere, onde acquistavan essi ancora [32] costumi più politici e civili: e per ultimo, allo stesso romano Imperio; poichè oltre all'esser cotal ordinamento cagione, che nuove terre, e città s'edificassero, rendeva il paese vinto al vincitor più sicuro, e riempieva d'abitatori i luoghi voti, e manteneva nelle regioni gli uomini ben distribuiti: di che nasceva, che abitandosi in una regione più comodamente, gli uomini più vi moltiplicavano, ed erano all'offese più pronti, e nelle difese più sicuri, perchè quella Colonia, la qual è posta da un Principe in paese nuovamente occupato, è come una rocca, ed una guardia a tener gli altri in fede. Per queste cagioni le Colonie, come quelle, che in tutto derivavano dalla città di Roma, a differenza de' Municipj, (che per se soli si sostenevano, appoggiati a' propri Magistrati, ed alle proprie leggi) niente di proprio aveano, ma dovevan in tutto seguire le leggi e gl'instituti del P. R. La qual condizione, ancor che meno libera apparisse, nulladimeno era più desiderabile ed eccellente per la maestà e grandezza della città di Roma, di cui queste Colonie eran piccioli simulacri ed immagini. E col sottoporsi alle leggi del P. R. per la loro eccellenza ed utilità, era più tosto acquistar libertà, che servitù. Oltre che le leggi particolari e proprie de' Municipj, come rapporta Agellio[29], eran così oscure e cancellate, che per l'ignoranza delle medesime, non potevano nè anche porsi in usanza. Ma l'amministrazione ed il governo delle Colonie non d'altra guisa era disposto, se non come quello della città stessa di Roma; imperocchè siccome in Roma eravi il Popolo ed il Senato, così nelle Colonie la Plebe ed i Decurioni: [33] costor l'immagine rappresentando del Senato, colei del Popolo. Da' Decurioni ogn'anno eleggevansi due o quattro, secondo la grandezza o picciolezza della Colonia, appellati Duumviri o Quatuorviri, che avevan somiglianza co' Consoli romani. Vi si creava l'Edile, il qual dell'annona, de' pubblici edificj, delle strade, e delle simiglianti cose teneva cura: il Questore, cui davasi in guardia il pubblico Erario, ed altri Magistrati minori a somiglianza di Roma. In breve vivevasi in tutto co' costumi, colle leggi e cogli istituti de' Romani stessi: ed ai nuovi abitatori pareva, come se vivessero nella città stessa di Roma. Augusto fu che, avendo in Italia accresciute ventiotto altre Colonie, stabilì che queste non avessero facoltà indipendente d'eleggere dal loro corpo i Magistrati, ma lor concedette solamente, che i Decurioni dassero essi i suffragi di que' Magistrati che volevano, i quali suffragi dovessero mandar chiusi e suggellati in Roma, dove doveano crearsi[30].

Oltre a Municipj e alle Colonie furon ancora, prima della guerra italica, altre cittadi in Italia, che tenevano condizioni assai più onorate e libere. Queste erano le città federate, le quali toltone qualche tributo, che pagavan a' Romani per la lega e confederazione con essi pattuita, nell'altre cose erano riputate in tutto libere. Avevano la lor propria forma di Repubblica, vivevano colle leggi loro, creavano esse i Magistrati, e spesso ancora s'avvalevan de' nomi di Senato e di Popolo. Così appresso Livio leggiamo, che Capua ne' primi tempi, quando era Città Federata, non peranche [34] ridotta in Prefettura, si governava in forma di Repubblica, avendo Magistrati, Senato e Popolo, e proprie leggi. De' Tarentini ancor si legge, che se bene vinti, furono da' Romani lasciati nella loro libertà: de' Napolitani, de' Prenestini[31], di que' di Tivoli, e d'altri Popoli, essere il medesimo accaduto, ben ce n'accerta Polibio[32], le città de' quali eran così libere, ch'era permesso a' condennati in esilio, di farvi dimora, e soddisfar così all'imposta pena.

Sieguono nell'ultimo luogo le Prefetture. Non v'ha dubbio alcuno, che fra tutte le città d'Italia, quelle ridotte in forma di Prefettura, sortissero una condizione durissima; poichè quelle città che ingrate e sconoscenti al P. R. la fede datagli violavano, ridotte di nuovo in sua podestà, non altra condizione ricevevano, che di Prefettura; laonde siccome alle province ogni anno da Roma solean mandarsi i Pretori, così in queste città mandavansi i Prefetti, all'amministrazione e governo de' quali eran commesse; e perciò vennero chiamate Prefetture. Coloro, che in esse abitavano, non potevan usare, o le proprie leggi ritenere come i Municipj, nè dal loro corpo creare i Magistrati, come i Coloni: ma da' Magistrati di Roma venuti, eran essi retti, e con quelle leggi vivevano che a coloro d'imporre piaceva. Di questa condizione fu già un tempo Capua, cioè dopo la seconda guerra di Cartagine, ed avantichè da Cesare fosse stata mutata in forma di Colonia. Le Prefetture ancora eran di due sorti. Dieci città, tutte poste in questo Reame, eran [35] governate da dieci Prefetti, che dal Popolo romano si creavano e si mandavan al governo delle medesime. Queste furono Capua, Cuma, Casilino[33], Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessula[34], Atella e Calatia[35]. All'altre soleva il Pretor Urbano ogni anno mandare i Prefetti per reggerle, e queste erano Fondi, Formia[36], Ceri, Venafro, Alife, Piperno, Anagni, Frusilone, Rieti, Saturnia, Nursia ed Arpino.

Fu tempo, che il numero delle città federate in Italia era maggiore delle Colonie, de' Municipj e delle Prefetture: ma da poi si videro varie mutazioni, passando l'una Città nella condizione dell'altra, e questa in quella. Così Capua da Città Federata passò in Prefettura, indi nel Consolato di C. Cesare in Colonia: Cuma, Acerra, Suessula, Atella, Formia, Piperno ed Anagni prima Municipj, indi Colonie, e talora anche Prefetture. Fondi, Ceri ed Arpino in alcun tempo furono Municipj: Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli e Saturnia, Colonie: e Calatia, Venafro, Alife, Frusilone, Rieti e Nursia, mentre durò la libertà del P. R. furono sempre Prefetture.

Ma non dobbiamo tralasciar di notare, che questi varj gradi, e varie condizioni delle città d'Italia ebbero tutta la lor fermezza, mentre durò la libertà del P. R. poichè dopo, tralasciando che Augusto privò della libertà molte Città Federate, le quali licenziosamente troppo di quella abusavano[37]: essendosi per la legge Giulia adeguati i suffragi di tutti, e conceduta parimente la cittadinanza a tutta l'Italia, siccome da poi da Antonino Pio fu conceduta alle province: le [36] ragioni de' Municipj, delle Colonie e delle Prefetture furono abolite, e cominciarono questi nomi a confondersi, in guisa che alle volte la Colonia veniva presa per Municipio, il Municipio per Colonia, ed anche per Prefettura: onde dopo la legge Giulia tutte le città d'Italia, alle quali fu conceduto il Jus de' suffragi, potevan Municipj nomarsi; e da poi Antonino Pio fece una la condizione non pur delle città d'Italia, ma di tutte le genti, e Roma fu comun patria di tutti coloro, che al suo imperio eran soggetti[38].

Queste furon le varie condizioni delle città d'Italia. Non dissimil avrem ora da narrar quelle, che il Popolo romano concedette alle province fuori di quella.

CAPITOLO II. Delle Condizioni delle Province dell'Imperio.

Le terre delle province non lasciarono d'esser nella signoria pubblica dell'Imperio romano, e d'essere tributarie, come prima. I Romani, avendo nel corso di cinquecento anni soggiogata l'Italia, portando le vittoriose loro armi fuori di essa, sottoposero al loro imperio molti vasti ed immensi paesi, che divisero non in regioni, ma in forma di province. Le prime furon la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le due province della Spagna, l'Asia, l'Etolia, la Macedonia, l'Illirico, la Dalmazia, l'Affrica, l'Acaja, la Grecia, la Gallia Narbonese, l'Isole Baleari, la Tracia, la Numidia, Cirene, Cilicia, Bitinia, Creta, Ponto, la [37] Siria, Cipro e la Gallia transalpina. Alle quali da poi da' Cesari s'aggiunsero la Mauritania, la Pannonia, la Mesia, l'Egitto, la Cappadocia, la Bretagna, la Dacia, l'Armenia, la Mesopotamia, l'Assiria e l'Arabia.

Le principali condizioni, e le comuni a tutte queste province del romano Imperio furono: I. che dovessero ubbidire al Magistrato romano, ond'è che da' varj nomi de' Magistrati fossero altre appellate Proconsolari, altre Presidiali; II. che ricevessero le leggi del vincitore; III. che fossero al medesimo tributarie. Ma nell'imporre i tributi, fuvvi infra loro varietà considerabile: poichè i Romani, de' campi[39] occupati a' nemici, alcuni ne vendevano, altri venivan assegnati a' veterani, altri ancora si lasciavano agli antichi possessori, o per grazia, o per amicizia, o per altra cagione, che movesse il Capitano. Quelli, a' quali i campi non erano in tutto o in parte tolti, fecero o vettigali, o stipendiarj, ovvero tributarj; per la qual cosa alcune province si dissero da poi vettigali, altre stipendiarie, e tributarie. Le vettigali eran quelle, che pagavano certe gabelle, o dazj di cose particolari, e determinate, come del porto, delle cose venali, de' metalli, delle saline, della pece, e di cose simili, le quali solevano affittarsi a' Pubblicani. Le stipendiarie ovvero tributarie eran quelle, le quali un certo stipendio o tributo pagavano al P. R., ed ancorchè da Ulpiano[40] si confondessero questi due nomi di stipendio e di tributo, in realtà però erano diversi; poichè lo stipendio era un peso certo ed ordinario: il tributo era incerto e straordinario, [38] che secondo la varietà, o necessità de' tempi e delle cose s'imponeva[41].

In questa guisa adunque alcune province dell'Imperio romano furono vettigali, come l'Asia, la Gallia Narbonense e l'Aquitania: alcune altre tributarie. Ma siccome le condizioni delle città d'Italia non furono sempre le medesime, nè costanti, e furon poscia da' Cesari mutate: così lo stato delle province, cominciando ad introdursi il Principato, e l'autorità degl'Imperadori sempre più crescendo, mutarono anch'esse le condizioni, secondo il volere de' Principi. Così l'Asia fu vettigale infino, che Cesare, debellato Pompeo, non la trasformasse in tributaria[42]. La Gallia fu mutata parimente da vettigale in tributaria da Augusto, dappoichè intera fu manomessa[43]. Ed all'incontro ne' tempi seguenti si vide, che Vespasiano concedè il Jus Latii alle Spagne[44]. Nerone pur egli diede la libertà alla Grecia tutta; ma Vespasiano glie la tolse ben tosto, facendola di nuovo vettigale, e la sottopose a' Magistrati romani, come quella, che, siccome scrive Pausania[45], s'era dimenticata di servirsi a bene della libertà.

Finalmente gli altri Imperadori Romani, che nient'altro badavano, che di ridurre a poco a poco l'Imperio alla Monarchia, per togliere a' Romani tutti i lor privilegi (siccome erasi fatto delle città d'Italia, che per la legge Giulia furon tutte uguagliate a Roma) fecero anch'essi delle province; laonde l'Imperador Antonino[46], non osando alla scoverta togliere questi privilegi [39] al Popolo romano, gli comunicò per un fino tratto di stato a tutti i sudditi dell'Imperio, donando a' provinciali la cittadinanza romana[47], con fargli tutti Romani; il che altro non fu che togliere con effetto, ed abolire i privilegi de' cittadini romani, riducendogli in diritto comune; e come ben a proposito disse S. Agostino[48], ac si esset omnium, quod erat ante paucorum. Ciocchè Rutilio Numaziano spiegò così bene in que' suoi versi[49].

E lungo tempo appresso, Giustiniano tolse scovertamente questa differenza di terre d'Italia, e di province; e per abolire tutti i vestigi e l'orme della libertà popolare, disse finalmente, che questo Jus Quiritum era un nome vano e senza soggetto[50]. Ed in verità se gli tolse tutto il suo effetto, allorchè abolita la differenza rerum mancipi, et nec mancipi[51], fu stabilito, che ciascuno fosse arbitro e moderatore delle sue robe. Così da una parte i Romani rimasero senza privilegi; e dall'altra i Provinciali, a' quali fu conceduta la cittadinanza, non perciò ne guadagnarono cosa alcuna; imperocchè pian piano si ridusse l'esser riputati cittadini romani, ad un nudo e vano nome d'onore; poichè non per questo non erano costretti a pagare i dazj ed i tributi, come scrisse S. Agostino [40] medesimo[52]: Nunquid enim illorum agri tributa non solvunt? Anzi negli ultimi tempi della decadenza del loro Imperio, la condizione de' Provinciali si ridusse a tanta bassezza e servitù, che impazienti di soffrire il giogo e la tirannide degli Uffiziali romani, passavan volentieri alla parte de' Goti, e dell'altre Nazioni straniere. Salviano[53], Scrittore di questi ultimi tempi, che fiorì nell'imperio d'Anastasio Imperadore, rapporta, che i Provinciali passavano frequentemente sotto i Goti, nè di tal passaggio si pentivano, eleggendo più tosto, sotto specie di cattività viver liberi, che sotto questo specioso nome di libertà, essere in realità servi; in maniera, che e' soggiunge, nomen Civium Romanorum aliquando non solum magno aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur, ac fugitur; nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur. Ed Orosio[54], ed Isidoro parimente rendono testimonianza, che i medesimi eleggevano più tosto poveri vivere fra' Goti, che esser potenti fra Romani, e sopportare il giogo gravissimo de' tributi: di che ci sarà data altrove più opportuna occasione di lungamente ragionare.

Tali, e così varie furono le condizioni delle città d'Italia, e delle province dell'Imperio romano; ma qual forma di politia, e quante divisioni ricevesse l'Imperio infino a' tempi di Costantino il Grande, uopo è qui, per la maggior chiarezza delle cose da dirsi, che brevemente trattiamo.

[41]

CAPITOLO III. Della disposizione dell'Imperio sotto Augusto.

Quattro divisioni, per comun consentimento degli Scrittori, le quali altrettanti Autori riconoscono, e quattro aspetti e forme di Repubbliche ebbe l'Imperio Romano fino alla sua decadenza. Della prima, di cui Romolo fu l'autore, troppo a noi remota, e che niente conduce all'istoria presente, non farem parola: ma della seconda stabilita da Augusto, e della terza, che riconosce per suo autore Adriano, egli è di mestieri, che qui ristrettamente se ne ragioni, senza la cui notizia non così bene s'intenderebbe la quarta, che introdotta da Costantino M. fu poi da Teodosio il Giovane ristabilita, della quale nel secondo libro, come in suo luogo, ragioneremo.

Tutte quelle regioni, che nel corso di 500. anni furono soggiogate dal P. R. non con altro general nome, che sotto quello d'Italia furon appellate. Ma questa ebbe varj distendimenti, e varj confini; poichè prima i suoi termini erano il fiume Eso dal mar superiore, e il fiume Macro dal mar inferiore; ma dopo vinti, e debellati i Galli Senoni si distese infin al Rubicone; e finalmente essendosi a lei aggiunta anche tutta la Gallia Cisalpina, allargò i suoi confini infin alle radici dell'Alpi; onde furono i di lei termini, verso il mare superiore, l'Istria, il Castello di Pola, ed il fiume Arsia; nel mar inferiore, il fiume Varo, che da' Liguri divide la Gallia Narbonense; e per confine mediterraneo ebbe le radici dell'Alpi.

[42]

Fu l'Italia, secondo questa estensione, divisa da Cesare Augusto in undici Regioni[55], delle quali la I. abbracciava il vecchio, e 'l nuovo Lazio e la Campania: la II. i Picentini: la III. i Lucani, i Bruzj, i Salentini ed i Pugliesi: la IV. i Ferentani, i Marrucini, i Peligni, i Marsi, i Vestini, i Sanniti ed i Sabini: la V. il Piceno: la VI. l'Umbria: la VII. l'Etruria: l'VIII. la Gallia Cispadana: la IX. la Liguria: la X. Venezia, Carni, Japigia ed Istria: e la XI. la Gallia Traspadana. Queste regioni, com'abbiam di sopra narrato, secondo la varia condizione delle loro città, eran governate da' Romani, e secondo le costoro leggi viveansi, nè furon divise in province giammai.

In province furon divisi que' luoghi e quegli ampi paesi, che soggiogata l'Italia, coll'ajuto di lei conquistò da poi il P. R. Le prime furono la Sicilia, la Sardegna e la Corsica: quindi avvenne che la Sicilia, secondo questa descrizione dell'Imperio, fosse riputata provincia fuori d'Italia; onde Dione lasciò scritto, che avendo Augusto fatto un Editto, che i Senatori non dovessero andar senza licenza di Cesare fuori d'Italia, eccettochè nella Sicilia, e nella provincia Narbonense, bisognò che espressamente eccettuasse dall'Editto queste due province, perchè altrimente vi sarebbero state comprese. Furono poi aggiunte le Spagne e l'Asia, l'Etolia, la Macedonia, l'Illirico, la Dalmazia, l'Affrica, l'Acaja, la Grecia, la Gallia Narbonense, l'Isole Baleari, la Tracia, Numidia, Cirenaica, Cilicia, Bitinia, Creta, Ponto, l'Assiria, Cipro, e la Gallia Transalpina.

[43]

Nel tempo della libera Repubblica, il governo di queste province era regolarmente a' Presidi commesso, che da Roma in esse mandavansi. V'erano ancora delle province Consolari, a' Consoli, o vero Proconsoli, date in governo; queste sotto Pompeo e Cesare, furon le Spagne, le Gallie, l'Illirico e la Dalmazia: e la Cilicia e la Siria sotto Cicerone e Bibulo Proconsoli. Altre Pretorie, le quali furono I. Sicilia, II. Sardegna e Corsica, III. Affrica e Numidia, IV. Macedonia, Acaja e Grecia, V. Asia, Lidia, Caria, Jonia e Misia, VI. Ponto e Bitinia, VII. Creta, ed VIII. Cipro.

Furon da poi da' Cesari aggiunte altre province all'Imperio romano, ciò sono, la Mauritania, la Pannonia, la Mesia, l'Affrica, le province orientali, la Cappadocia, Britania, Armenia, Mesopotamia, Assiria, Arabia ed altre; le quali province da Augusto, altre in Proconsolari partite furon, altre in Presidiali. Le province più pacifiche e quiete, le quali senz'arme, ma col solo comandamento potevan governarsi, le diede egli in guardia e le commise alla cura del Senato, il quale vi mandava i Proconsoli. Le più feroci e le più torbide, che senza militar presidio non potevan reggersi, riserbò a se, ed in queste mandava egli il Preside. Ecco in brieve qual fosse la disposizion dell'Imperio romano sotto Augusto.

[44]

CAPITOLO IV. Della disposizione e politia di queste regioni, che oggi compongono il Regno di Napoli: e della condizione delle loro città.

Questa parte d'Italia adunque, che ora appelliamo Regno di Napoli, non era partita in Province; come fu fatto da poi ne' tempi d'Adriano.

Ella fu divisa in Regioni e da varj popoli, che in esse abitarono presero insieme, o diedero il nome agli abitatori. Abbracciava i Campani, i Marrucini, i Peligni, i Vestini, i Precuzj, i Marsi, i Sanniti, gl'Irpini, i Picentini, i Lucani, i Bruzj, i Salentini, gli Japigi, ed i Pugliesi.

Ciascuna di queste regioni ebbe città per loro medesime chiare ed illustri, le quali secondo la varia lor condizione eran da' Romani amministrate, e secondo le leggi de' medesimi viveano. Vi furon di quelle, che sortirono la condizione di Municipj, le quali, oltre alle leggi romane, potevan anche ritener le proprie e municipali. Di questa condizione nella Campania furono Fondi e Formia, la quale da poi fu da' Triumviri fatta Colonia; Cuma, ed Acerra, altresì da Augusto renduta Colonia; Sessa, ed Atella, le quali parimente lo stesso Augusto in Colonie da poi mutò: Bari in Puglia, e molte altre città poste in altre regioni.

Ma più numerose furon in queste nostre regioni le Colonie, che da tempo in tempo, e nella libera Repubblica, e sotto gl'Imperadori furono successivamente accresciute.

[45]

Colonie nella Campania furon Calvi, Sessa, Sinvessa[56], Pozzuoli, Vulturno, Linterno, Nola, Suessula, Pompei, Capua, Casilino, Calazia, Acquaviva, Acerra, Formia, Atella, Teano, Abella, e poscia la nostra Napoli ancora, la quale da Città Federata fu trasformata in Colonia.

Colonie parimente furono nella Lucania Pesto[57], Buxento[58], Conza ed altre città. Nel Sannio, Saticula[59], Casino, Isernia, Bojano, Telese, Sannio, Venafro, Sepino, Avellino, ed altre.

Nella Puglia, Siponto, Venosa, Lucera, che da città federata passò ancor ella in Colonia; e, per tralasciar l'altre, Benevento che ne' tempi d'Augusto, come rapporta Plinio[60], non già alla Campania, come fu fatto da poi, ma alla Puglia appartenevasi[61].

Colonie anche furono Brindisi, Lupia, ed Otranto, ne' Salentini. Valenzia, Tempsa, Besidia, Reggio, Crotone, Mamerto, Cassano, Locri, Petelia, Squillace, Neptunia, Ruscia, e Turio, ne' Bruzj[62]; alcune delle quali avvegna che prima godessero il favor di Città Federate, furon quindi in Colonie mutate; siccome Salerno, Nocera, ed altre città, ne' Picentini; ed alcune altre poste [46] nell'altre regioni, che non fa mestieri qui tesser di loro un più lungo catalogo.

In tutte queste città si viveva conforme al costume, alle leggi ed agl'istituti dell'istessa Roma. A somiglianza del Senato, del Popolo, e de' Consoli, aveano ancor'esse i Decurioni, la Plebe, e i Duumviri. Avean similmente gli Edili, i Questori, e gli altri Magistrati minori in tutto uniformi a quelli di Roma, di cui erano piccioli simulacri ed immagini: quindi è che si valevan de' nomi di Ordo, ovvero di Senatus Populusque[63]. E per questa ragione in alcuni marmi, che sottratti dal tempo edace son ancora a noi rimasi, veggiamo, che indifferentemente si valsero di questi nomi. Moltissimi possono osservarsi in quella stupenda e laboriosa opera di Grutero[64], ove fra l'altre leggiamo più inscrizioni poste da' Nolani ad un qualche loro benefattore, che tutte finiscono: S. P. Q. Nolanorum. Anche i Segnini nel Lazio ad un tal Volumnio dirizzarono un marmo, che diceva così[65].

L . VOLVMNIO
L . F . POMP
JULIANO . SEVERO
IIII . VIRO . COL . SIGN
PATRONO . COLONIAE . SUAE
S . P . Q . SIGNINUS

E Minturno pure ad un tal Flavio eresse quell'altro[66].

[47]

M . FLAVIO . POSTU
C . V . PATR . COL
ORDO . ET POPV
MINTVRNEN

Furonvi in queste nostre regioni eziandio le Prefetture. Erano in Italia, secondo il novero di Pompeo Festo ventidue Prefetture. A dieci città, che tutte eran in questo Reame, cioè Capua, Cuma, Casilino, Volturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessola, Atella, e Calazia, si mandavan da Roma dieci Prefetti dal Popolo romano creati, a' quali il governo e l'amministrazione delle medesime era commessa. A dodici altre, i Prefetti mandavansi dal Pretor Urbano, e secondo il costui arbitrio si destinavano: queste città eran Fondi, Formia, Cerri, Venafro, Alife ed Arpino, tutte nel Regno; Anagni, Piperno, Frusilone, Rieti, Saturnia e Nurcia, nell'altre regioni d'Italia.

La condizione di queste Prefetture, come s'è detto, era la più dura; non potevano aver proprie leggi, come i Municipj: non potevan dal Corpo delle loro città creare i Magistrati, come le Colonie: ma si mandavan da Roma per reggerle. Sotto le leggi de' Romani vivevano, e sotto quelle condizioni, che a' Magistrati romani loro piaceva d'imporre.

Non mancaron ancora in queste regioni, che oggi formano il nostro Reame, le Città Federate. Queste toltone il tributo, che per la lega e confederazion pattuita co' Romani pagavan a' medesimi, erano reputate nell'altre cose affatto libere: avevano la loro propria forma di Repubblica, vivevano colle leggi proprie: creavan esse i Magistrati, e spesso ancora valevansi [48] de' nomi di Senato e di Popolo. Di tal condizione ne fu per molto tempo la nostra città di Napoli, furon i Tarentini, i Locresi, i Reggioni[67], alcun tempo i Lucerini[68], i Capuani, ed alcun altre delle città greche, le quali eran in Italia, che tali furono, e Napoli, e Taranto, e Locri, e Reggio, le quali per molto tempo non solo nelle leggi e ne' costumi e negli abiti non s'allontanarono da' Greci, onde ebbero la lor origine, ma nè tampoco nella lingua. Queste città da' Romani furon sempre trattate con tutta piacevolezza e riputate più tosto per amiche e federate, che per soggette, e toltone il tributo, che in segno della confederazione esigevan da esse, lasciavanle nella loro libertà; tanto che, come se queste città fossero fuori dell'Imperio, era permesso a gli esuli Romani in quelle dimorare[69].

I.  DI NAPOLI, Oggi capo e metropoli del Regno.

Napoli, ancorchè piccola città, ritenne tutte queste nobili prerogative: ebbe propria politia, proprj Magistrati, e proprie leggi. Ma quali queste si fossero, siccome dell'altre Città Federate, ben dice il Sigonio[70], esser impresa molto malagevole in tanta antichità, e fra tante tenebre andarle ricercando. Pure per essere stat'ella città greca non sarà fuor di ragione il credere, essersi ne' suoi principj governata colla medesima forma di Repubblica e di leggi, che gli Ateniesi. [49] Ella ebbe i suoi Arconti, ed i Demarchi, Magistrati in tutto conformi a que' d'Atene. L'autorità degli Arconti prima non durava più, che un anno, come quella de' Consoli in Roma: da poi fu prorogata infino al decim'anno. Essi erano dell'ordine Senatorio, ed equestre: siccome i Demarchi, a somiglianza dei Tribuni romani, appartenevano al Popolo. Quindi non senza ragione i nostri più accurati Scrittori[71], la divisione, che oggi ravvisiamo in questa città tra i Nobili, ed il Popolo, la riportano fin'a questi antichissimi tempi. Altra congettura ancora ci somministra di ciò credere, dal veder, ch'essendo stata questa città greca, anzi con ispezialità così chiamata dagli antichi Scrittori, siccome dimostra[72] Giano Dousa per quel luogo di Tacito[73], dove di Nerone scrisse, Neapolim quasi Graecam urbem delegit, avea altresì, come Atene, le sue Curie, che i Napolitani con greco vocabolo chiamavano Fratrie.

Fu solenne istituto de' Greci distribuire i cittadini in più corpi, ch'essi appellavano File; e quelli sottodividere in altri corpi minori, che chiamavano Fratrie. Così in Atene il popolo era diviso in File, e le File in Fratrie; non altrimenti che i Romani, i quali anticamente erano distribuiti in Tribù, e le Tribù in Curie. Ma non in tutte le città greche eravi questa doppia distribuzione: alcune aveano solamente le File; altre le Fratrie; ond'è che i Grammatici spiegano l'un per l'altro, e danno l'istessa potestà così all'uno, che all'altro vocabolo. Napoli certamente ebbe distribuiti i cittadini in Fratrie, nè vi furon File.

[50]

Queste Fratrie, o sian Curie non eran altro che confratanze, o vero corpi, ne' quali si scrivevano e univano non già soli i congiunti o fratelli d'un'istessa famiglia, ma molt'insieme della medesima contrada; e per lo più la Fratria si componeva di trenta famiglie. Il luogo ove univansi era un edificio, nel quale oltre a' portici ed alle loro stanze, v'ergevano un privato tempio, che dedicavano a qualche loro particolar Dio, o Eroe; e da quel Nume, a cui essi dedicavan la Confratanza, si distingueva l'una dall'altra Fratria. In questo luogo celebravano i loro privati sacrificj, i conviti, l'epule, e l'altre cose sacre, secondo i loro riti e cerimonie distinte e particolari e convenienti a quel Dio, o Eroe, a cui era il tempio dedicato. Eranvi i Sacerdoti, i quali a sorte dovean eleggersi da questa, o da quella famiglia; e poichè regolarmente le Fratrie si componevano di trenta famiglie, da ciascheduna s'eleggevano a sorte i Sacerdoti. Convenivano quivi costoro, ed i primi della contrada; e non solamente univansi per trattar le cose sacre, i sacrificj e l'epule, ma anche trattavano delle cose pubbliche della città, onde presero anche nome di Collegj.

In Napoli vi furon molte di queste Confratanze dedicate a loro particolari Dii. Fra i Dii de' Napoletani i più rinomati e grandi furono Eumelo, ed Ebone: onde quella Fratria, che adorava il Dio Eumelo, fu detta Phratria Eumelidarum. Così l'altra, ch'era dedicata al Dio Ebone, era nominata Phratria Heboniontorum. Fra gli Dii Patrii che novera Stazio, ebbe ancor Napoli Castore e Polluce, e Cerere; onde varj tempj a costoro furon da Napoletani eretti, de' quali serba qualche vestigio ancora. Quindi la Fratria dedicata a questi Numi fu detta Phratria Castorum: intendendo [51] per questo dual numero così Castore, come Polluce, siccome l'appellavan gli Spartani, onde i loro giuramenti, per Castores; e quella dedicata a Cerere chiamossi perciò Phratria Cerealensium. N'ebbero ancora un'altra dedicata a Diana, della Phratria Artemisiorum, poichè presso a' Greci Artemisia era chiamata la Dea Diana[74]. Non pur agli Dii, ma anche agli Eroi solevan i Greci dedicar le Fratrie; così parimente Napoli oltre a quelle, che consecrò a' suoi patrii Dii, n'ebbe anche di quelle dedicate agli Eroi; ed una funne dedicata ad Aristeo, onde fu detta Phratria Aristeorum. Fu Aristeo figliuolo d'Apolline, e regnò in Arcadia: vien commendato per essere stato egli il primo inventore dell'uso del mele, dell'olio, e del coagulo: non fu però avuto per Dio, ma per Eroe. Delle Fratrie de' Napoletani Pietro Lasena avea promesso darcene un compiuto trattato, ma la sua immatura morte, siccome ci privò di molt'altre sue insigni fatiche, le quali non potè egli ridurre a perfezione, così anche ci tolse questa. Da tali Fratrie, siccome fu anche avvertito dal Tutini[75], nelle quali s'univano i primi e i più nobili della contrada, non pur per le funzioni sacre, ma anche per consultare de' pubblici affari, hanno avuto origine in Napoli i Sedili de' Nobili, i quali ne' monumenti antichi di questa città da' nostri maggiori eran chiamati Tocchi, ovvero Tocci, dal greco vocabolo θῶκος, che i latini dicono Sedile, ed oggi noi appelliamo Seggi, de' quali a più opportuno luogo ci tornerà occasione di lungamente favellare.

[52]

Questi greci instituti si mantennero lungamente in Napoli; e Strabone, che fiorì sotto Augusto, ci rende testimonianza, che fino a' suoi tempi eran quivi rimasi molti vestigi de' riti, costumi ed instituti de' Greci, il Ginnasio, di cui ben a lungo ed accuratamente scrisse P. Lasena[76]; l'Assemblee de' giovanetti, e queste Confratanze, ch'essi chiamavano Fratrie, e cent'altre usanze: Plurima, e' dice[77], Graecorum institutorum ibi supersunt vestigia, ut gymnasia, epheborum Coetus, Curiae (ipsi Phratrias vocant) et graeca nomina Romanis imposita; e Varrone[78] che fu coetaneo di Cicerone, pur lo stesso rapporta: Phratria est graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli etiam nunc.

Egli è però vero, che tratto tratto questa città andava dismettendo questi usi proprj de' Greci, ed essendo stata lungamente Città Federata de' Romani, e da poi ridotta in forma di Colonia, divenendo sempre più soggetta a Romani, cominciò a lasciare i nomi de' suoi antichi Magistrati, come degli Arconti e dei Demarchi, de' quali par che si valesse infino a' tempi d'Adriano, giacchè Sparziano[79] rapporta, parlando di questo Imperadore, che fu Demarco in Napoli; poichè era costume d'alcuni Imperadori romani volendo favorire qualche città amica, d'accettare, quando si trovavan in quella, i titoli e gli onori de' Magistrati municipali[80]. Ma da poi divvezzandosi col correr [53] degli anni dagl'istituti greci, e divenuta Colonia de' Romani, seguì in tutto l'orme di Roma, con valersi de' nomi di Senato, di Popolo, e di Repubblica, e de' Magistrati minori a somiglianza degli Edili, Questori, ed altri Ufficiali di quella città, non altrimenti che usavan tutte l'altre Colonie romane, come di qui a poco diremo.

Sono alcuni[81], che credono non esser mancati affatto in Napoli, non ostante il lungo corso di tanti secoli, questi istituti, ed alcune sue antichissime leggi; ma che ancora parte delle medesime durino fra noi, e sian quelle, che furon registrate nel libro delle consuetudini di questa città, che sotto Carlo II. d'Angiò si ridussero in iscritto, traendo quelle consuetudini (che non può dubitarsi essere antichissime) origine da queste leggi, le quali se bene dalla voracità del tempo furon a noi tolte, lasciarono però ne' cittadini, come per tradizione, quegl'instituti e costumanze, che nè il lungo tempo, nè le tante revoluzioni delle mondane cose, poteron affatto cancellare. Ma questo punto sarà meglio esaminato quando della compilazione di quel libro ci toccherà di ragionare.

Riguardando adunque ora questa città, come federata a' Romani, non può negarsi, che innanzi e dopo Augusto toltone il tributo, che pagava a' Romani, fu da essi trattata con tutta piacevolezza, e lasciata nella sua libertà, con ritener forma di Repubblica, e riputata più tosto amica, che soggetta. Chiarissimo argomento della sua libertà è quello, che ci somministra Cicerone[82]; poich'e' narra, ch'essendo stata per la legge Giulia conceduta la cittadinanza romana all'Italia, [54] fuvvi fra que' d'Eraclea, e nostri Napoletani gran contrasto e grandissimi dispareri, se dovessero accettare, o rifiutare quel favore da tutti gli altri popoli d'Italia molto avidamente bramato; e reputando alla perfine esser loro più profittevole rimanere nella lor antica libertà, che soggettarsi, per quest'onore della cittadinanza, a' Romani, anteposero la libertà propria alla romana cittadinanza. In brieve, toltone il tributo, che in segno della sua subordinazione pagava a' Romani, nel resto era tutta libera, siccome eran ancora tutte l'altre Città Federate, e si reputavano come fuori dell'Imperio romano; tantochè come s'è veduto, gli esuli de' Romani potevan in quelle soddisfar la pena dell'imposto esilio[83].

Ma a qual tributo fosse obbligata Napoli non men che Taranto, Locri e Reggio città anch'esse Federate, ben ce lo dimostran due gravissimi Scrittori, Polibio, e Livio. La lor obbligazione era di prestar le navi a' Romani nel tempo delle loro guerre. Queste città come marittime abbondavan di vascelli, e gli studj de' Napoletani furon più, che in altro, nelle cose di mare, come ben a proposito notò Pietro Lasena[84]; onde a quello gli obbligarono, che potevan esse somministrare; come in fatti nella lor prima guerra navale, ch'ebbero co' Cartaginesi, i Napoletani, i Locresi ed i Tarentini mandaron loro cinquanta navi. E Livio[85] introducendo Minione rispondente a' Romani, i quali eran venuti a dissuadergli la guerra che in nome d'Antioco intendeva fare ad alcune città greche, le quali stavan alla loro divozione, in cotal guisa [55] lo fa parlare: Specioso titulo uti vos, Romani, Graecorum Civitatum liberandarum, video; sed facta vestra orationi non conveniunt, et aliud Antiocho juris statuistis, alio ipsi utimini. Qui enim magis Smyrnaei, Lampsacenique Graeci sunt, quam Neapolitani, et Rhegini, et Tarentini, a quibus stipendium, a quibus naves ex foedere exigitis?

I Capuani, secondo che suspica l'accuratissimo Pellegrino[86], quando la loro città era a' Romani federata, non dovettero pagar tributo di navi, ma d'eserciti terrestri; perciocchè dominando eglino una fecondissima regione, dovevan i loro eserciti militari esser di fanteria, e di cavalleria; ed è ben noto, che i Capuani militarono in gran numero negli eserciti terrestri de' Romani. Ma siccome l'infedeltà de' Capuani verso i Romani portò la ruina della loro città, poichè ridotta in Prefettura, rimase senza Senato, senza Popolo, senza Magistrati, ed in più dura condizione, e servitù[87]; così all'incontro Napoli perseverando con molta costanza nella medesima amicizia co' Romani in ogni loro prospera e contraria fortuna, e singolarmente nel tempo della seconda guerra Cartaginese, quando le frequenti vittorie, che di coloro ottenne Annibale, avean riempiuta tutta l'Italia e la medesima Roma di confusione e di terrore, fu loro sempre fedele, e costante. Fu ancora questa città gratissima a' Romani per gli piacevoli costumi ed esercizj dei suoi Greci, e per l'amenità del suo clima, ond'i Romani d'ogni grado e d'ogni età, non che i men robusti ed i consumati dalle fatiche e dagli anni quivi solevansi condurre a diporto. Meritarono perciò i Napoletani, [56] che nella lor città non si mandasse alcun presidio, siccome all'incontro per la loro infedeltà meritaron i Capuani, che nella loro Città continuamente dimorasse presidio di soldati Romani, eziandio cessato il timore delle guerre co' prossimi Sanniti, giacchè la sua incostanza così richiedeva[88]. Ma in Napoli non fu mandato tal presidio, nè men in quel pericoloso tempo della sudetta guerra Cartaginese, fuorchè a richiesta de' medesimi Napoletani[89].

Così ancora per la loro intera fede meritarono, che niente si fosse scemato dell'altra condizione della loro confederazione, per la quale agli esuli Romani era permesso di potersi ricovrare in Napoli, e dimorarvi senza timore; dove condurre volevasi a questo fine lo scelerato Q. Pleminio, quando fra via fu fatto prigione da Q. Metello[90]. Nè è leggiero argomento, ch'una tal franchigia non fosse giammai violata, l'essersi anche in Napoli salvato Tiberio Nerone[91] allorchè nell'Imperio romano per le lunghe guerre civili e per le fazioni, nè le pubbliche leggi, nè altra cosa eran più rimase salve. In questa guisa adunque fu da' Romani premiata la fedeltà napoletana; e finchè si mantennero nella medesima città i suoi antichi usi, e costumi greci; ella quasi sola di tutte l'altre città di queste regioni non provò mutazione; avendo solamente avute per compagne, Reggio, Taranto e Locri[92].

[57]

II.  Napoli non fu Repubblica affatto libera, ed indipendente da' Romani.

Ma tutte queste prerogative furon de' Romani in premio della sua fedeltà, e per la vita gioconda, che in questa città solevan essi menare[93]; non già che Napoli fosse affatto libera da ogni servitù, e totalmente independente Repubblica, anche a dispetto e contra i sforzi de' Romani, come alcuni dall'amor della patria pur troppo presi, non si ritennero di dire. Potrà alcun forse persuadersi mai, che i vittoriosi e trionfanti Romani, avidissimi d'imperio, dopo aver fatto acquisto, non solamente di tutta l'Italia, ma quasi dell'intera terra nel loro tempo conosciuta, avendo soggiogati Re potentissimi e bellicosissime Nazioni, con lunghissimi terrestri e marittimi viaggi, e con faticosissime imprese per lo corso di molti secoli; non avessero avute forze bastanti a conquistare una città sola, che pur era su gli occhi loro? Mostrano ben costoro non avere nè pur piccola contezza delle romane istorie, e molto meno della generosità Romana. È egli cosa nuova avere i Romani in varj modi fatto dono della libertà a molti popoli, ed a molte città, e singolarmente alle greche dopo averne fatto acquisto, e talora d'avernele private in pena d'alcun lor fallo? Ne sono pieni d'esempj i libri d'Appiano Alessandrino[94], di Livio, di Svetonio, di Strabone, di [58] Tacito, di Dione di Vellejo, de' due Plinj, di Diodoro Siculo, di Giustino, di Plutarco, e d'altri assai; e per non andar raccogliendo ogni detto di sì gravi Autori intorno a questo non mai dubitato punto, potrassi apprender da quello, che della romana Monarchia, come in un epilogo, raccolse un solo Strabone[95] nel fine de' suoi libri della Geografia, cioè che fra le varie condizioni de' Regi, e delle province, le quali ubbidivano a quell'Imperio, eran ancora alcune città libere, o rimase in libertà per aver durato nell'antica loro confederazione; o fatte nuovamente libere in premio della lor fede: le sue parole in latino sono queste: Eorum, quae Romanis obediunt, partem Reges tenent, aliam ipsi habent, provinciae nomine, et Praefectos, et Quaestores in eam mittunt. Sunt et nonnullae Civitates liberae conditionis: aliae ab initio per amicitiam Romanis adjunctae: aliae ab ipsis honoris gratia libertate donatae. Sunt et principes quidam sub eis, et Reguli, et Sacerdotes: his permissum est patria sectari instituta.

Erano adunque tutte queste prerogative loro doni; e dalla forma del dire del romano Publio Sulpicio rispondente a Minione sul fatto di sopra recato, quae ex foedere debent, exigimus[96] ben si dinota aversi i Romani riserbato il tributo delle navi per una certa spezie di servitù: tanto è lontano, ch'essi all'incontro ne' bisogni de' Napoletani dovessero anche scambievolmente contribuir le navi, come pure alcuni hanno sognato. [59] Cicerone[97] ne somministra un simigliantissimo esempio di Messina, città parimente confederata coll'obbligo di dare una nave, declamando contra Verre, che per doni l'avesse fatta franca di quel tributo nel tempo della sua siciliana Pretura, e con ciò avesse diminuita la maestà della Repubblica, l'ajuto del Popolo romano, e tolto il jus dell'imperio. Pretio, atque mercede minuisti majestatem Reipublicae; minuisti auxilia P. R. minuisti copias, majorum virtute, ac sapientia comparatas. Sustulisti jus imperii, conditionem Sociorum, memoriam foederis; soggiungendo appresso: inerat nescio quomodo in illa foedere societatis, quasi quaedam nota servitutis. Oltre che i romani anche sopra i Napoletani sovente s'assumevan certa potestà di comporre i loro litigi co' popoli vicini, onde si legge appresso Valerio Massimo[98], che il Senato mandò Q. Fabio Labeone come arbitro a stabilire i confini fra' Nolani e Napoletani, per li quali erano venuti in contesa. In breve, queste città quanto ritenevan della loro franchigia e libertà, tutto lo riconoscevano dalla moderazione e dalla generosità romana: e sovente molte città, che di questo lor dono abusavansi, n'eran esse private: all'incontro alcune, le quali sapevan adoperarlo in bene, erano profusamente di maggiori prerogative ed onori arricchite. In fatti i Massiliesi furono liberati anche dal tributo; e Strabone[99] oltre all'esempio di Massilia, aggiunge anche quello di Neumasio. Cicerone[100] ancor rapporta, che per decreto del Senato fu conceduta, oltre a Massilia, e a Neumasio, [60] anche ad alcune altre cittadi, l'immunità dalla giurisdizione de' Romani, e rendute esenti da ogni potestà di qualunque lor Magistrato.

Essendo tale il costume e tanta la generosità dei Romani, potè credere con fondamento quel diligentissimo investigatore delle nostre antichità Camillo Pellegrino[101] che i Romani in decorso di tempo avesser anche fatti liberi i Napoletani non solamente dall'obbligo delle navi, ma anche d'ubbidire a qualunque lor Magistrato, sì per gli meriti della loro costante fedeltà, come per gli piacevoli diporti, che in Napoli prender solevano: onde, ei dice, che non sarebbe da riputarsi cosa strana, che questa città cotanto lor cara fosse stata da essi renduta franca del tributo delle navi nella universal pace del Mondo, imperando Augusto, e che l'avesser anche sottratta da ogni potestà di qualunque lor Magistrato. Cesare ben alcun tempo ebbe a sdegno i Napoletani, come scrisse Cicerone[102]; forse perch'essendosi in Napoli gravemente infermato Pompeo nel principio della lor gara, i Napoletani per la sua salute offerirono molti sacrificj, e col lor esempio mossero l'altre città d'Italia, e grandi e piccole a far perciò molti giorni feriati[103]. Ma Augusto all'incontro gli ebbe molto cari; e che d'alcun segnalato privilegio avesse lor fatto nobil dono, può esserne manifesto argomento, ch'essi in onor suo dedicaron e celebrarono un nobil giuoco d'Atleti, in cui egli stesso bramò d'esser presente[104]. La sua Livia, la quale condottavi dal suo primo marito Tiberio ne' loro maggiori perigli, vi si era [61] ricoverata[105]; il suo Virgilio, cui piacquer tanto gli ozj napoletani[106]; tutte queste cose dovettero essere stati soavi mantici d'un tant'amore; ond'è che non senza ragione s'attribuisca ad Augusto d'aver accresciuta questa città d'altre nuove prerogative, e d'averla prosciolta dall'obbligo delle navi, e sottratta dalla potestà di qualunque romano Magistrato. E per questa ragione alcuni[107], su la falsa credenza, che Napoli fosse interamente divenuta cristiana, sin dal primo giorno della predicazione, che si narra essersi quivi fatta da S. Pietro Apostolo, allorchè da Antiochia venendo a Roma, vi ordinò il primo Vescovo Aspreno: tennero fermamente, che in Napoli non vi fossero stati martirj di Cristiani; siccome quella, che non soggetta a' Principi gentili, nè ad alcun altro lor Magistrato, non permise quel macello in sua casa. Ma quanto ciò sia dal ver lontano, ben fu avvertito da Pietro Lasena[108] e ben a lungo fu dimostrato dal P. Caracciolo[109], e da noi sarà esaminato, quando della politia ecclesiastica di queste regioni farem parola.

Duraron in Napoli lungo tempo sotto i successori d'Augusto queste belle prerogative e queste piacevoli condizioni. Ma dappoichè i Napoletani cominciaron pian piano a svezzarsi da' costumi natii, e dagli usi de' Greci, e a quelli de' Romani accomodarsi, e finalmente ad imitare in tutto i costoro andamenti: prese la lor città nuovo aspetto e nuova forma di Repubblica. Fulvio[110] Ursino credette, che Napoli da Augusto fosse stata [62] renduta Colonia insieme coll'altre, che dedusse in Italia; ma da quanto si è finora detto e da ciò che ne scrive il P. Caracciolo[111], riprovando l'opinione di quest'Autore, si conosce chiaro, che non da Augusto, ma in tempi posteriori o di Tito, o di Vespasiano Napoli fu renduta Colonia. Che che ne sia, nè perchè passasse nella condizione di Colonia, perdè quella libertà e quella politia intorno a' Magistrati, che prima avea: non essendo a lei intervenuto, come a Capua, che da Città Federata passò in Prefettura. Ella come Colonia latina ritenne quel medesimo istituto di poter dal suo corpo eleggere i magistrati[112]: non si mandavan da Roma i Prefetti per governarla: ritenne ancora il Senato, il Popolo: ebbe i Censori, gli Edili, ed altri Magistrati a somiglianza di Roma. Se le permise valersi de' nomi di Senato e di Popolo e di Repubblica: e molti marmi perciò leggiamo co' nomi di S. P. Q. N. e fra gli altri quei trascritti da Grutero[113], che i Napoletani ad un tal Galba Bebio Censore della Repubblica dirizzarono.

[63]

S . P . Q . NEAPOLITANVS
D . D . L . ABRVNTIO . L . F .
GAL · BAEB · CENSORI ·
REIPV . NEAP .

e quell'altro,

S . P . Q . NEAPOLITANVS
L . BAEBIO . L . F . GAL .
COMINIO PATRONO COLONIAE .

Il qual nome di Senato mutaron poscia in quello d'Ordine, onde in molti marmi si legge O. P. Q. N. scambiandosi regolarmente questi nomi, come osserviamo indifferentemente in altri marmi d'altre Colonie.

Nè fu detta Colonia, perchè da Roma, o altronde fossero stati in lei mandati nuovi abitatori, ma rimanendo gli antichi, se le concedettono le ragioni del Lazio, siccome a tutte l'altre Colonie latine, le quali e della Cittadinanza e di molte altre prerogative erano fregiate[114]; e per questa cagione potè ritenere, a differenza dall'altre Colonie, le leggi patrie e municipali, senza avere in tutto a dipendere e a reggersi colle sole leggi romane, siccome in fatti molte patrie leggi e molti riti grecanici ritenne, i quali mai non perdette, e d'alcuni d'essi tuttavia ne serba oggi vestigio.

Grave adunque è l'error di coloro, che riputaron Napoli Repubblica totalmente libera ed indipendente dall'Imperio romano, solamente perchè si legge il nome della napoletana Repubblica in più d'una antica inscrizione, ed in più d'un antico Autore. Non avendo avvertito, che ne' tempi d'Adriano, e molto più di Costantino [64] M. e degli altri Imperadori suoi successori fu città, come tutte l'altre, al Consolare di Campagna sottoposta, siccome appresso mostreremo.

Molto maggiore fu l'error di coloro, i quali dieronsi a credere, che infin a' tempi di Rugiero I. Re Normanno, non fu ella in alcun modo soggetta a gl'Imperadori romani, nè da poi a' Goti Re d'Italia, e molto meno agi Imperadori d'oriente, tanto che Alessandro Abate Telesino[115] nell'istoria sua Normanna, parlando di Napoli soggiogata da Rugiero, preso da quest'errore, non potè contenersi di dire, che questa città, la quale vix unquam a quoquam subdita fuit. nunc vero Rogerio, solo verbo praemisso, submittitur; imperciocchè non perchè Napoli, come Città d'origine greca fosse da' Romani così benignamente trattata coll'onore di Città Federata; nè perchè, eziandio dopo divenuta Colonia latina, ritenesse lo stesso antico aspetto di Repubblica di poter dal suo corpo creare i Magistrati, e le propie leggi servare, delle dure condizioni dell'altre Prefetture non aggravata, dovrà dirsi, che fosse stata esente dal roman Imperio; e molto meno, che non fosse da poi sottoposta a' Goti, ed agl'Imperadori greci. Conciosiacchè ella certamente in potestà di costoro, non solamente per forza d'armi, ma per antichissima soggezione coll'Italia passò, ed a' medesimi ubbidì; come nel proseguimento di quest'istoria si farà manifesto; e se dagli Scrittori vien nominata Repubblica, fu perchè ritenne quella forma di governo, che nè da Romani, nè da' Goti le fu vietata.

Nè veramente dovrà muovere tanto cotali Autori quella parola Repubblica; poichè nella latina favella [65] quel vocabolo denota la comunità, non la dignità delle pubbliche cose, e sovente è usata per denotare qualche forma d'amministrazione, o di governo pubblico; anzi nelle Prefetture ancora, le quali eran prive d'ogni pubblico consiglio, erat, come disse Festo[116], quaedam earum Resp. neque tamen Magistratus suos habebant; a questo lor modo sarebbero state Repubbliche, nel tempo di Seneca[117], Capua ancora, e Teano, ovvero Atella. Il medesimo potrebbe anche dirsi di Nola, di Minturno, di Segna, e di molte altre Colonie, che pur si chiamaron Repubbliche, e ne' loro marmi mettevano parimente a lettere cubitali quel S. P. Q. Ne' tempi più bassi ancora ve ne sono ben mille esempj appresso buoni Autori, ed infiniti ce ne somministra il Codice di Teodosio[118].

Molto meno dovean cadere in quest'errore, traendo argomento dal dominio ch'ebbe Napoli dell'isola di Capri, e poi dell'isola d'Ischia, con cui quella permutò, per piacere a Tiberio[119]; poichè, come ben loro risponde l'accuratissimo Pellegrino[120], senza che fossero andati molto lontano, avrebbon potut'osservare, che Capua altresì, mentr'era Colonia, possedeva nell'isola di Creta la regione Gnosia. E se questo lor argomento, aver Napoli avuta signoria di quell'isola, fosse bastante a riputarla libera Repubblica, nè men sarebbe da dubitarsi, che questa prerogativa non l'avesse ancora ritenuta per molti secoli seguenti sotto i Goti, sotto gl'Imperadori d'Oriente, e sotto altri Principi; perciocchè [66] ritenne delle sue vicine isole il dominio, anche nel tempo di S. Gregorio M.[121], e più innanzi nel tempo ancora del Pontefice Giovanni XII. e similmente nel Pontificato di Benedetto VIII, ed eziandio in tempi meno a noi lontani, ne' quali, come si conoscerà chiaro nel corso di quest'istoria, sarebbe follia il credere, che fosse stata libera Repubblica ed indipendente da qualsivoglia altra dominazione.

III.  Delle altre città illustri poste in queste regioni.

Ecco in brieve l'aspetto e la politia che avevan nell'età, di cui si tratta, quelle regioni, che oggi compongon il Regno. Non era allora diviso in province, come fu fatto da poi, ma in regioni: ciascheduna delle quali aveva città, che secondo le loro condizioni, o di Municipio, o di Colonia, o di Prefettura, o di Città Federata, si governavano. Si viveva generalmente colle leggi de' Romani, siccome quelle, che per la loro eccellenza eran venerate da tutte le genti, come le più giuste, le più sagge, e le più utili all'umana società. Solamente si permise, che i Municipj, e le Città Federate potessero ritener le proprie e le municipali, ma queste mancando, si ricorreva a quelle, come a' fonti d'ogni divina ed umana ragione. Eran i governi secondo le condizioni di ciascheduna città: molte venivan rette da Prefetti mandati da Roma, moltissime da' Magistrati, che dal proprio seno era lor permesso d'eleggere, e quasi tutte si studiavano d'imitare il governo di Roma lor capo, della quale erano piccoli simulacri ed immagini.

[67]

Non, come ora, tutte le bellezze, tutte le magnificenze e le ricchezze, stavan congiunte in una città sola, che fosse capo e metropoli sopra l'altre: ciascuna regione avea molte città magnifiche ed illustri per se medesime, Capua solamente un tempo innalzò il suo capo sopra tutte le altre: già così chiara ed illustre, Lucio Floro[122] attesta essere stata anticamente paragonata a Roma ed a Cartagine, le più famose e stupende del Mondo: città così numerosa di gente e di traffico, ch'era riputata l'emporio d'Italia; in guisa, che i nostri Giurisconsulti[123] l'agguagliavan sempre ad Efeso, e quasi tutti gli esempj, che recano, o di casi seguiti per contrattazioni, o di rimesse di pagamenti promessi farsi in Capua da luoghi remotissimi, o di traffichi tra famosi mercadanti, non altronde sono tolti, che da Capua, e da Efeso.

Ebbe la Puglia quella famosa e per gli scritti di Livio, e d'Orazio cotanto celebrata Luceria: ebbe Siponto che per antichità non cedette a qualsivoglia altra città del Mondo: ebbe Venosa cotanto chiara ed illustre per gli natali d'Orazio: ebbe Benevento la più famosa e celebre Colonia de' Romani: ebbe Bari, ed altre Città per se medesime rinomate ed illustri.

Ebbero i Salentini Lupia, Otranto, e la vaghissima e deliziosa Brindisi, città anche celebre per lo famoso suo porto, e sovente da' nostri Giurisconsulti[124] rinomata a cagion delle spesse navigazioni, che regolarmente quindi s'intraprendevano per oriente. Ebbero i [68] Bruzj tante altre chiare ed illustri città, Taranto, Crotone, Reggio, Locri, Turio, Squillace: città feconde e produttrici di tanti chiari ed insigni Matematici e Filosofi, onde ne sorse una delle più nobili Sette della filosofia, detta perciò italica, ch'ebbe per Capo e Gonfaloniere Pitagora, il qual in esse visse ed abitò per lunghissimo tempo, ed in Crotone ebbe tal volta fino a secento discepoli, che l'ascoltarono.

Ebbero i Lucani Pesto, e Bussento: i Picentini Salerno, e Nocera: i Sanniti Isernia, Venafro, Telese, e Sannio cotanto chiara, che diede il nome alla regione. Ove lascio Sulmona ancor famosa per gli natali d'Ovidio, Nola, Sorrento, Pozzuoli, e quell'altre amene ed antiche città, Cuma, Baja, Miseno, Linterno, Vulturno, Eraclea, Pompei, e le tante altre, che ora appena serban vestigio delle loro alte rovine?

IV.  Scrittori illustri.

E chi potrebbe annoverare i tanti chiari e nobili spiriti, che in sì illustri città ebbero i natali, i Filosofi, i Matematici, gli Oratori, e sopra tutto i tanti illustri e rinomati Poeti? In breve. Quanto degli antichi oggi abbiamo di più rado e di più nobile nella filosofia e nelle matematiche, nell'arte oratoria, e sopra tutto nella poesia, tutto lo debbiamo a quegl'ingegni, che o furono prodotti da questo terreno, o che nati altrove in esso vissero, e quivi coltivaron i loro studj.

Così fra tanti potessi anch'io annoverarvi per la nostra giurisprudenza l'incomparabile Papiniano, come han fatto alcuni, che gli diedero per patria Benevento, che molto volentieri 'l farei: ma la necessità di dire il vero, e di non dover ingannare alcuno, mi detta il [69] contrario; poichè della patria di sì valentuomo niente può dirsi di certo, e per vane congetture si mossero coloro, dall'amor della Nazione pur troppo presi, a scrivere che fosse beneventano. Peggiore, e da non condonarsi fu la loro ignoranza, quando ciò vollero raccorre dalle nostre Pandette, e da quella legge di Papiniano[125] che sotto il titolo Ad S. C. Treb. abbiamo; imperciocchè ivi dal Giurisconsulto si riferiscono le parole di certo testamento fatto da un Beneventano, nel quale lasciava egli un legato Coloniae Beneventanorum patriae meae; e credendo che Papiniano di se medesimo favellasse, scrissero che la patria di questo Giurisconsulto fosse Benevento. Ciò che abbiam voluto avvertire, perchè quest'errore avendo per suo partigiano uno Scrittor grave fra noi qual'è Marino Freccia[126], ritrovasi ora sparso e disseminato in molti libri de' nostri Professori, ed anche appresso un moderno Scrittore del Sannio[127], a' quali, siccome Autori non tanto ignari e negligenti di queste cose, come gli altri, avrebbe forse potuto darsi facile credenza.

[70]

CAPITOLO V. Della disposizione d'Italia, e di queste nostre province sotto Adriano insin'a' tempi di Costantino il Grande.

Durò questa forma e disposizione delle regioni d'Italia e delle province dell'Imperio infin'a' tempi d'Adriano. Questo Principe fu che, siccome diede nuovo sistema alla giurisprudenza romana, così, dopo Augusto, descrisse in altra maniera l'Italia; poichè la divise non in regioni ma in province[128]. Siccome prima le sue regioni non eran più che undici, così egli poi distinsela in XVII. province. L'Isole, come la Sicilia, la Corsica, e la Sardegna che Augusto divise e separò dall'Italia, annoverandole con l'altre province dell'Imperio romano, Adriano alle province d'Italia unille. Dilatò i confini della Campagna, poichè quantunque Augusto vi avesse raccolto qualche parte del Sannio, i due Lazj, la Campania, e i Picentini, Adriano vi aggiunse da poi gl'Irpini, tanto che Benevento venne perciò in appresso ad esser chiamata città della Campagna[129]

Mutò anche la politia ed i Magistrati, poichè instituì quattro consolari[130], a' quali fu commesso il governo delle maggiori province d'Italia, e l'altre secondo [71] la lor varia condizione si commisero poi a' Correttori, ed altre a' presidi che furon nomi di magistrati di dignità disuguale.

Sotto la disposizione de' Consolari furon commesse otto province, le quali furono I. Venezia, ed Istria, II. la Emilia, III. la Liguria, IV. la Flaminia, e 'l Piceno, V. la Toscana, e l'Umbria. VI. il Piceno suburbicario, VII. la Campania, VIII. la Sicilia.

Sotto la disposizione de' Correttori due province I. la Puglia, e la Calabria, II. la Lucania, ed i Bruzj.

Sotto i Presidi sette, I. l'Alpi Cozzie, II. la Rezia prima, III. la Rezia seconda, IV. il Sannio, V. la Valeria, VI. la Sardegna, VII. la Corsica.

Diede alle province fuori d'Italia altra forma e disposizione.

La Spagna la divise in sei province, delle quali altre sortirono la condizione di presidiali, altre di consolari. Divise la Gallia, e la Britannia in diciotto province. L'Illirico in diciassette. La Tracia in sei. L'Affrica similmente in sei: e così parimente fece dell'Asia, e dell'altre province, delle quali non è uopo qui farne più lungo catalogo.

Presero per tanto nuova forma di governo queste Regioni, che oggi compongono il Regno di Napoli. Allora incominciossi a sentire in Italia il nome di Province; e secondo questa nuova disposizione d'Adriano quel che ora è regno, fu diviso in quattro sole province, I. parte della Campagna. II. la Puglia, e la Calabria, III. la Lucania, e li Bruzj, IV. il Sannio.

Nuovo apparve il governo e più assoluto togliendosi alle città molte di quelle prerogative, che o la condizione di Municipio, o di Colonia, di Città Federata loro arrecava: molto perdette Napoli della sua antica [72] libertà: molto l'altre Città Federate, e le Colonie. L'autorità e giurisdizione de' Consolari, de' Correttori, e de' Presidi era pur grande e maggior accrescimento acquistò, quando Costantino M. traslatando l'Imperial seggio in Oriente, commise interamente a coloro il governo di queste nostre province che fu dar l'ultima mano alla rovina d'Italia, introducendosi in quella nuova forma e disposizione, che sarà più distesamente narrata nel secondo libro di quest'Istoria.

CAPITOLO VI. Delle leggi.

Non bastava aver sì bene distribuite le province e le regioni se di buone leggi ed instituti insieme non si fosse a quelle proveduto. Nel che non minore mostrossi la saviezza e prudenza de' Romani, poichè se si riguarda l'origine delle loro leggi, e con quanta maturità e sapienza furono stabilite, con quanta prudenza da poi esposte, ed alla moltitudine e varietà degli affari adattate, a niuno la loro perpetuità parrà strana, o maravigliosa.

I Romani quantunque per lo spazio di più di due secoli si fossero governati colle leggi de' loro proprj Re[131], nulladimanco, quelli poi discacciati cancellaron eziandio le leggi loro[132], alcune poche solamente ritenendone, [73] cioè le leggi Tullie, le Valerie, e le Sacrate[133]. Del rimanente si governavano con gli antichi loro costumi, e con alcune non scritte leggi, le quali essendo varie ed incerte eran cagione di gravissime contese e disordini. Per la qual cosa considerando, che quelle non eran bastanti per lo stabilimento d'una perfetta e ben composta Repubblica; e che le peregrinazioni, e 'l conoscere le leggi e gl'instituti di varie genti, giova molto alla scienza di ben stabilirle, come dice Aristotele[134], procurarono che le leggi ed i costumi non pur d'una città, ma di molte si conoscessero ed esaminassero; affinchè ciò che in esse si rinveniva di specioso e d'illustre si ricevesse, ed a loro si trasportasse. E considerando altresì, che le leggi ottime dovevan esser quelle, che dal seno d'una vera e solida filosofia derivano, e che fra tutte le Nazioni la Greca fosse quella, la quale dimostravasi nella sapienza superiore a tutte l'altre: mandaron perciò in Atene, e nell'altre città della Grecia; eziandio nella città greche ch'erano in Italia, ed in quella parte ancora, che Magna Grecia anticamente fu detta, ove fiorirono i Pitagorici, e que' due celebri Legislatori Zeleuco, e Caronda[135], de' quali quegli diede le leggi a Locri, questi, a Turio[136]. Mandarono in Lacedemonia, mandarono nell'Etruria; facendo con ciò conoscere con nuovo [74] e rado esempio come la filosofia, la quale appresso i Greci era solamente ristretta ne' Portici, e nell'Accademie, potesse recar giovamento ancora alla società civile di tutti i cittadini; e come le massime ed assiomi di quella maneggiati non da semplici Filosofi, ma da Giureconsulti, potessero talora all'uman commercio adattarsi in guisa, sì che nel genere umano ne ritraesse insieme, ed utilità e giustizia; fonte di tutte le tranquillità e mondane contentezze. Così dalle leggi ed instituti di tante chiare, ed illustri città, e da quelle che Roma stessa ritenne, fu da' Decemviri nella maniera che ci vien largamente rapportata da Rittershusio[137], compilata la ragion civile de' Romani, e si composero quelle tante famose e celebri leggi delle XII. Tavole che furono i primi e perpetui fondamenti della romana giurisprudenza, ed i fonti come dice Livio[138], d'ogni pubblica e privata ragione, e delle quali ebbe a dir Cicerone[139]: Fremant omnes licet, dicam quod sentio, Bibliothecas mehercule omnium philosophorum unus mihi videtur duodecim tabularum libellus, si quis legum fontes, et capita viderit, et auctoritatis pondere et utilitatis ubertate superare.

Nè minore fu la loro sapienza nello stabilimento dell'altre leggi che da poi dal Popolo romano furono promulgate; poichè discacciati i Re, la maestà dell'Imperio rimanendo presso al popolo, era della sua potestà far le leggi[140]. Siccome non fu minore ne' Plebisciti, a' quali per la legge Ortenzia fu data forza ed autorità non inferiore a quella delle leggi medesime[141]; [75] ne' Senatusconsulti, che non avevan inferiore autorità[142]; e finalmente negli Editti de' Magistrati i quali d'annuali ch'erano fatti perpetui per la legge Cornelia, furono sotto Adriano Imperadore per opera di Giuliano in ordine disposti che chiamarono Editto perpetuo[143]; donde forse quella bella parte della giurisprudenza[144], la quale fu poi cotanto illustrata da G. C. romani, che servì in appresso per cinosura e base di quella, ch'oggi è a noi rimasa ne' libri di Giustiniano[145].

CAPITOLO VII. De' Giureconsulti, e loro libri.

Ma quel che principalmente alle leggi de' Romani recasse maggior autorità e fermezza, fu l'essersi mai sempre lo studio della giurisprudenza avuto in sommo pregio ed onore appresso gli uomini nobilissimi di quella Repubblica. Conoscevano assai bene, che non mai abbastanza si sarebbe provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole e nude leggi, se nella città non vi fosse eziandio chi la lor forza e vigore intendesse ed esponesse; e nell'infinita turba delle cose e varietà degli affari, non potesse al Popolo giovare. Perciò vollero, che a sì nobile esercizio si destinassero uomini sapientissimi ed i più chiari lumi della città, i Claudj, [76] i Sempronj, gli Scipioni, i Muzj, i Catoni, i Bruti, i Crassi, i Lucilj, i Galli, i Sulpizj[146], ed altri d'illustre nominanza; a' quali è manifesto, non altra cura essere stata più a cuore, che lo studio della giurisprudenza, e la cognizione della ragion civile; giovando al pubblico o colle loro interpretazioni, o disputando, o insegnando, o veramente scrivendo. E qual altra gente possiamo noi qui in mezzo recare, la quale colla romana potesse in ciò contendere? Non certamente l'ebrea, la cui legal disciplina, essendo molto semplice e volgare non fu mai avuta in molta riputazione[147]. Non i Greci stessi (per tralasciar d'altri) presso de' quali l'ufficio de' Giureconsulti si restringeva in cose pur troppo tenui e basse, e la lor opera si raggirava solamente nell'azioni, nelle formole e nelle cauzioni, in guisa che i Professori come quelli che erano della più vile e bassa gente, non venivano decorati col venerando nome di Giureconsulti, ma di semplici Prammatici; tanto che Cicerone[148] soleva dire che tutte le leggi e costumi dell'altre Nazioni a fronte di quelle de' Romani, gli sembravan ridevoli ed inette. Appresso dunque i Romani solamente presiedevano, quasi custodi delle leggi, uomini nobilissimi, dotati d'ogni letteratura e di sapienza incomparabile, gravi, incorrotti, severi e venerabili, ne' quali era riposto tutto il presidio de' cittadini: a costoro e per le pubbliche e per le private cose si ricorreva per consiglio: a costoro o passeggiando nel Foro, o sedendo in casa, non solamente per le cose appartenenti alla ragion civile, ma per ogni altro affare ricorreva il padre di famiglia volendo maritar [77] la figliuola, ricorreva chi voleva comperare il podere, coltivare il suo campo ed in somma non vi era deliberazione così pubblica, come privata e domestica, che da' loro consigli non dipendesse; tanto che soleva dire lo stesso Cicerone[149], che la casa d'un Giureconsulto era l'oracolo della città. Avevano essi ancora tre altre principali funzioni: il consigliar le parti ch'era l'unica funzione degli antichi pratici: il consultare i Giudici su i punti del diritto ne' processi che si dovean giudicare: e finalmente l'esser assessori de' Magistrati per istruire e qualche volta per giudicare i processi o con loro, o senza loro[150]: Avevan ancora un'altra autorità cioè, che quando sopravveniva qualche difficile questione in Roma, essi univansi tutti insieme per disputarla e concertarla, e questa conferenza appellavasi disputatio fori, di cui Cicerone fa menzione nel libro primo ad Q. F. e nelle Topiche; e quel ch'essi risolvevano in tali assemblee era chiamato Decretum, ovvero recepta sententia, la quale era una spezie di legge non iscritta, come tratta molto metodicamente Revardo[151].

Ma se grande ed in sommo onore fu lo studio della giurisprudenza ne' tempi della libera Repubblica, non minore fu certamente sotto gl'Imperadori infin a' tempi di Costantino M. Poichè essendo negli ultimi tempi del cadimento della Repubblica mancati tanti insigni G. C. e per vizio del secolo tratto tratto introdottosi, che ciascuno fidando solamente ne' suoi studj, pubblicamente interpretava a suo modo le leggi, ed a suo talento consigliava e rispondeva, acciocchè per la moltitudine [78] de' Professori, o per la loro imperizia e sordidezza, una cosa di tanto pregio ed importanza non s'avvilisse: ovvero come dice Pomponio[152] (o qual altro si fosse l'Autore di quel libro) affinchè fosse maggior l'autorità delle leggi, fu da Augusto stabilito che indifferentemente niuno potesse arrogare a se questa potestà come erasi fatto per lo passato; ma per sola sua autorità e licenza interpretassero e rispondessero; e che ciò dovessero riconoscere per suo beneficio; e per premio delle insigni loro virtù, della singolar erudizione e per le perizia delle leggi civili: laonde ingiunse egli, che si dovesse prender lettere da lui; e quindi avvenne che i G. C. fossero riputati come ufficiali dell'Imperio; di che l'Imperadore Adriano s'offese a ragione, dicendo, che non era dell'Imperadore dar carattere di capacità, qual si richiede per esser Giureconsulto; ond'è che Pomponio[153] saggiamente scrisse: Hoc non peti, sed praestari solere. Di maniera che d'allora innanzi i Giureconsulti, consigliando per l'autorità dell'Imperadore, erano come ufficiali pubblici[154], ed in perpetuo magistrato: almeno come Manilio qualifica il Giureconsulto: Perpetuus populi privato in limine Praetor.

Si vide ancora la giurisprudenza romana per li favori de' Principi ne' medesimi tempi al colmo della sua grandezza e dell'onore; poichè i Principi stessi, a' quali oggi solamente si commendan le discipline matematiche, non altro studio maggiormente avevan a cuore, che quello delle leggi: nè altri che i Giureconsulti negli affari più ardui e gravi si chiamavan a consiglio. [79] Così leggiamo d'Augusto prudentissimo Principe, che volendo a' codicilli dar quella forza ed autorità, che poi diede, dice il nostro Giustiniano[155] che convocò a se uomini sapientissimi, tra i quali fu Trebazio, del cui consiglio soleva sempre mai valersi nelle deliberazioni più serie e gravi. Così parimente appresso gl'Istorici di que' tempi osserviamo, che Trajano avesse in sommo onore Nerazio Prisco e Celso padre: Adriano si servisse del consiglio di Celso figliuolo di Salvio Giuliano, e d'altri insigni Giureconsulti[156]. Piacque ad Antonino Pio l'opera di Volusio Meziano, d'Ulpio Marcello e d'altri. Marco Antonino Filosofo, nelle deliberazioni e nello stabilir le leggi voleva sempre per collega Cerbidio Scevola gravissimo Giureconsulto, al quale si dà il pregio d'avere avuti per discepoli molti celebri Giureconsulti, e fra gli altri Paolo, Trifonino, ed il grande e l'incomparabile Papiniano: Alessandro Severo adoperava i consigli d'Ulpiano, nè da lui stabilivasi costituzione senza il parere di venti Giureconsulti[157]: Massimino il Giovane si serviva di Modestino. Nè per ultimo gli stessi Imperadori nelle loro constituzioni medesime, vollero fraudare quei grand'uomini del meritato onore; poichè in esse con sommi encomj si valevano della coloro autorità come fecero Caro, Carino, e Numeriano di Papiniano[158], e come fece Diocleziano, che con elogi si vale dell'autorità di Scevola, e fecero altri Imperadori degli altri Giureconsulti[159].

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E nel vero chi attentamente considererà quel, che oggi è a noi rimaso dell'opere di questi Giureconsulti (poichè di coloro, che fiorirono ne' tempi della libera Repubblica poche cose ci restano) la maggior parte delle quali non so se dobbiamo dolerci di Giustiniano, che per quella sua compilazione ci tolse, ovvero lodarci di lui, perchè per le vicende e revoluzioni delle cose mondane, senza quella forse niente ne sarebbe a noi pervenuto; conoscerà chiaramente non solamente quanto fosse ammirabile la loro saviezza e dottrina, ma s'accerterà eziandio che niente dalla loro esattezza fu tralasciato per la deliberazione di quanto mai potesse occorrere, o nel Foro, o negli altri affari della Repubblica. Perciocchè a' Prammatici e Forensi si provvide abbastanza co' libri delle questioni e de' responsi, de' decreti, delle costituzioni, dell'epistole e de' digesti. A coloro che ne' Magistrati, ed all'ufficio di giudicare venivan assunti, erano ben pronti ed apparecchiati moltissimi libri degli ufficj de' vari Magistrati, e della loro autorità e giurisdizione. Quei che delle cose teoretiche eran vaghi per apprendere la disciplina legale, avevan abbondantissimi fonti, onde il loro desiderio potessero adempiere: trovavan chi con note pienissime a loro sponeva le leggi del Popolo romano i Senatusconsulti, gli Editti de' Magistrati, l'Orazioni, le Costituzioni de' Principi, ed i Responsi degli antichi Giureconsulti; e chi compilasse speciali trattati di quasi tutte le materie, che alla giurisprudenza potessero mai appartenere. Nè mancarono ancora i libri delle varie lezioni: e per ultimo, chi pensasse di ridurre a certo metodo ed ordine la giurisprudenza istessa, come oltre di quel che di se lasciò scritto [81] Cicerone[160], lo ci dimostran l'iscrizioni de' loro volumi, che ragionevolmente oggi deploriamo, gli enchiridj, le pandette, le regole, le sentenze, le definizioni, i brevi, ed i libri delle instituzioni. In guisa che se il corso di tanti secoli e le funeste vicende del Mondo, siccome n'ha involati molti altri pregi dell'antichità, non ci avesse tolt'i libri ancora di così eminenti Giureconsulti, non avremmo certamente oggi bisogno dell'opere di coloro, che nella barbarie de' tempi a questi succedettero; o per meglio dire, non sarebbe stata data lor occasione di gravar la giurisprudenza di tanti nuovi ed insipidi volumi.

Nè minore alla prudenza e diligenza de' medesimi fu la dignità e l'eleganza dell'orazione. Egli è veramente cosa degna d'ammirazione, che l'eleganza del dire sia in tutti così uguale e perfetta, ancorchè non fiorissero in un tempo medesimo, ma distanti per secoli interi che niente si possa aggiungere o desiderare; e se vuole porsi mente al loro stile ed al carattere, non saprebbesi distinguere di leggieri a qual di loro dovesse darsi il primo luogo: ed è degno ancora da notarsi, ciocchè Lorenzo Valla[161] e Guglielmo Budeo[162] di questa ugualità e nettezza di parole e di sentenze de' loro libri parlando, lasciaron scritto, che se ad essi fu di maraviglia l'ugualità che nell'epistole di Cicerone s'osservava, quasi che non da molti, ma da un solo Cicerone fossero state scritte; maggiore senz'alcun dubbio era quella, che dall'opere di questi Giureconsulti raccolte nelle Pandette prendevano; siccome quelli [82] i quali non in un istesso tempo, ma in tempi lontanissimi e per secoli distanti ebbero vita: poichè incominciando da Augusto infin a' tempi di Costantino M. sotto di cui pur furon in pregio Ermogeniano, Arcadio Carisio Aurelio e Giulio Aquila (le memorie de' quali anche da Giustiniano si veggono sparse ne' suoi cinquanta libri de' Digesti) corsero ben tre secoli, ne' quali, se appresso gl'Istorici Oratori e Poeti, e negli altri Scrittori osserviamo lunga differenza di stile, in questi Giureconsulti però fu sempre uguale e costante.

Non dovrà adunque sembrar cosa strana, se in decorso di tempo, (e precisamente sotto Valentiniano III.) acquistassero tanta autorità e forza le sentenze e l'opinioni di questi Giureconsulti, che dice Giustiniano[163] essere stato finalmente deliberato, che i Giudici non potessero nel giudicare allontanarsi da' loro Responsi.

Ma poichè questo è un punto d'istoria, che non ben inteso ha cagionato in alcuni molti errori, però siami lecito avvertire che ciò non dee sentirsi, come han creduto alcuni, che quest'autorità l'acquistassero quando Augusto ingiunse di prender lettere da lui, quasi che consigliando per l'autorità dell'Imperadore, avessero i loro Responsi tanta forza ed autorità, sì che i Magistrati dovessero nel giudicare seguitargli. Ciò repugna a tutta l'istoria legale; poichè fin da' tempi della libera Repubblica fu data loro quest'autorità, ma nel caso solamente, come abbiam di sopra narrato, quando sopravveniva qualche difficile questione in Roma, ed essi univansi tutti insieme per disputarla e diffinirla, e quel che da loro risolvevasi in tali assemblee, era chiamato decretum, ovvero recepta sententia, ch'era [83] una spezie di legge non iscritta, dalla quale non potevan certamente i Giudici allontanarsi nel decidere i piati: come quella che nel foro lungamente disputata e ricevuta, avea acquistata forza e vigore non inferior alle leggi medesime. Il che fu da poi anche praticato di qualche lor sentenza nel Foro ricevuta a' tempi d'Augusto, e sotto gli altr'Imperadori suoi successori. Ma è affatto repugnante al vero, che, senza questo, ogni semplice lor sentenza ed opinione avesse tosto che proferita, tanta autorità, sì che i Magistrati dovessero inviolabilmente seguitarla; e ciò tanto meno ne' tempi d'Augusto, quando le contese fra' Giureconsulti proruppero in manifeste fazioni, onde si renderono così famose le Sette de' Sabiniani, e de' Cassiani da una parte; e de' Proculejani, e Pegasiani dall'altra[164]. Nè giammai queste contese si videro più ostinate, che sotto Augusto, quando la Repubblica cominciava a prender forma di Principato; poichè sotto il di lui imperio erano per una parte sostenute da Attejo Capitone discepolo d'Offilio; e per altra da Antistio Labeone, discepolo di Trebazio: sotto Tiberio, da Massurio Sabino, ch'ebbe per antagonista Nerva padre: sotto Cajo, Claudio e Nerone, da Cassio Longino, onde preser nome i Cassiani; e da Proculo, onde i Proculejani: sotto i Vespasiani, da Relio Sabino, onde sorsero i Sabiniani; e da Nerva figliuolo, e Pegaso, onde i Pegasiani. E sotto Trajano, Adriano, ed infin a' tempi d'Antonino Pio, furon dalla parte de' Sabiniani e Cassiani, Prisco, Javoleno, Alburnio, Valente, Tusciano e Salvio Giuliano: e da quella de' Proculejani e Pegasiani, Celso padre, Celso figliuolo e Prisco Nerazio.

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E se bene dopo Antonino Pio fosse mancato il fervore di così acerbe contese, e le discordie non fossero cotanto ostinate, onde ne sorsero i Giureconsulti Mediani[165], i quali non volendo soffrire la servitù di giurare nelle parole de' loro maestri, prendessero altro partito non perciò cessarono le controversie e l'opinioni difformi, in guisa che fu d'uopo poi, che alcune si terminassero colle decisioni de' Principi. Nè Giustiniano, ancorchè si vantasse per quella sua compilazione aver tolte tutte queste dissensioni, potè molto lodarsi della diligenza del suo Triboniano, il quale se bene desse ciò ad intendere a quel Principe, non però moltissime ne scapparono dalla sua accuratezza, ed oggi giorno se ne veggono i lor vestigj nelle Pandette; tanto che coloro, i quali vivendo in tal pregiudicio per li vanti di Giustiniano, si dieder a credere non esservi in quella compilazione antinomia alcuna, quando poi s'abbattevano nella contrarietà di due leggi, sudavano ed ansavano per conciliarle, nè altra impresa in fine si trovavan avere per le mani, se non come suol dirsi Peliam lavare; ed in fatti sovente osserviamo Ulpiano di proposito discordar da Affricano, e così un Giurisconsulto dall'altro[166].

In tanta varietà di pareri, sarebbe sciocchezza il credere, che fosse a' Magistrati imposta necessità di seguire le coloro opinioni, toltone però quelle, che dopo lungo dibattimento fossero state nel Foro ricevute. E molto meno ne' tempi d'Augusto, e degli altri Imperadori infino a Costantino M., ne' quali presedevano [85] Magistrati adorni di molte rade ed insigni virtù, e ad essi per la loro dottrina e prudenza era pur troppo noto, quali sentenze di Giureconsulti erano state nel Foro ricevute, e seguentemente quali dovessero rifiutare, e di quali tener conto ne' loro giudicj; senza che alla lor esperienza e sommo sapere nulla confusione potè mai recare la varietà dell'opinioni. La loro prudenza e dottrina, ed il fino giudicio non era inferior a quello de' Giureconsulti medesimi; poichè i Romani mostrarono la lor sapienza non pur nello stabilire le leggi e nell'interpretarle; ma conoscendo, come dice Pomponio[167], che non si sarebbe a bastanza provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole leggi, e colle interpretazioni, che a quelle si davano da' Giurisconsulti, se non si deputassero ancora Giudici gravissimi, severi, incorrotti e sapientissimi, che potessero a ciascheduno render sua ragione, grandissima per tanto fu la cura e la diligenza, che posero a creare ottimi Magistrati. Onde ciò, che dice Giustiniano essersi deliberato, che i Giudici non potessero dalle opinioni e sentenze de' Giureconsulti allontanarsi, non dee attribuirsi nè ad Augusto, come credettero Cujacio ed altri, del quale certamente non può recarsi sopra ciò veruna costituzione, nè a niuno degli altr'Imperadori di quei tempi, ne' quali la giurisprudenza era nel colmo della sua magnificenza e grandezza: ma tener per fermo, che Giustiniano parlasse degli ultimi tempi, ed intendesse della costituzione[168] di Valentiniano III. quando caduta già la giurisprudenza romana dal suo splendore, e mancati quei chiarissimi Giureconsulti, e quei [86] gravi ed incomparabili Magistrati, e succeduta l'ignoranza delle leggi, delle sentenze e de' Responsi di quei lumi della giurisprudenza, si ridusse la bisogna in tanta confusione e disordine, che i Giudici per la loro dappocaggine non sapevan ciò, che dovessero farsi nel giudicare, e sovente dagli Avvocati eran con false allegazioni aggirati. Per riparar dunque a tanti mali, fu uopo a Valentiniano dar norma a' Giudici, e stabilir loro di quali Giureconsulti dovessero vedersi nel giudicare, e dalle sentenze de' medesimi non partirsi. Rifiutò le note da Paolo e da Ulpiano fatte a Papiniano (ma intorno a ciò fu da poi contraria la sentenza di Giustiniano), ordinò in oltre, che recitandosi diverse sentenze, dovesse vincere il maggior numero degli autori e se fosse il numero uguale, dovesse preporsi quella parte, per la quale era Papiniano: e per ultimo, che dovesse rimettersi alla moderazione ed arbitrio del Giudice, se le sentenze riuscissero in tutto pari. Tanto riparo ne' tempi di Valentiniano III fu mestiere darsi, ruinata già la legal disciplina: il che non era necessario ne' tempi di que' chiarissimi Giureconsulti infin al Gran Costantino, dove par che cessassero, dopo Modestino, Ermogeniano ed Arcadio Carisio, questi famosi oracoli di giurisprudenza; poichè alcun'altri, che fiorirono sotto di lui, e de' suoi figliuoli d'oscura fama, niente di preclaro diedero alla luce del Mondo, mancato già quell'antico e grave instituto dell'interpretazioni e de' Responsi; e solamente furono contenti nelle scuole insegnare ciò, che da quei primi si era scritto e trattato, come andrem appresso divisando.

Abbiamo riputato trattenerci alquanto in parlando di questi Giurisconsulti, e delle loro opere, solamente [87] perchè il corpo delle leggi, che dopo Costantino vagò per l'Oriente e per l'Occidente era composto per la maggior parte delle loro sentenze; poichè delle leggi delle XII tavole, dopo l'incursione de' Goti in Italia, e 'l devastamento di Roma, nel qual tempo, al creder di Rittersusio[169], quelle si perderono, non ne fu tramandato altro a' posteri, che alcuni frammenti, i quali in Cicerone, Livio, Dionisio, Agellio[170] e singolarmente in alcuni libri di questi Giureconsulti si leggono; e ciò che oggi di esse abbiamo, tutto si dee alla felicità de' nostri tempi e de' nostri avoli, ed all'industria d'alcuni valent'uomini, che le raccolsero ed interpretarono; fra' quali i primi furono Rivallio[171], Oldendorpio, Forstero, Balduino, Contio, Ottomano, Revardo, Crispino, Rosino, Pighio, ed Adriano Turnebo, a' quali succederono Teodoro Marcilio, Francesco Piteo, Giusto Lipsio e Corrado Rittersusio; ed ultimamente alla gran diligenza ed accuratezza di Giacomo Gottifredo dobbiamo, che nelle sue tavole, secondo che furono da' Decemviri composte, le ordinasse e disponesse. E dell'altre leggi, che dal Popolo romano furono da poi stabilite, de' Plebisciti, de' Senatusconsulti, e degli editti de' Magistrati, non altra notizia a' nostri maggiori ne pervenne, se non quella, che nell'opere de' riferiti antichi Scrittori, e sopra tutto ne' libri di questi stessi Giureconsulti si ritrova notato; [88] nel che parimente fu ammirabile la diligenza degli Scrittori degli ultimi tempi, che con instancabile fatica l'andaron da' varj marmi e tavole, e da' ruderi dell'antichità raccogliendo; e stupenda certamente fu in ciò quella di Barnaba Brissonio[172], di Antonio Augustino, di Fulvio Ursino, di Balduino, di Francesco Ottomano, di Lipsio, e di molti altri amatori dell'antichità romana. Solamente de' volumi di questi Giureconsulti, che dopo Augusto fiorirono ne' tempi che a Costantino precedettero, era pieno il Mondo, e da' quali si regolavano i Tribunali; tanto che da poi ne' tempi di Valentiniano III per la lor confusione bisognò darvi provedimento; e ne' tempi, che seguirono, per la loro moltitudine fu data occasione a Giustiniano di far quella sua compilazione delle Pandette, che ne' seguenti secoli infino a dì nostri formarono una delle due parti più celebri della nostra giurisprudenza.

CAPITOLO VIII. Delle costituzioni de' Principi.

Se grande era il numero de' libri de' Giureconsulti, non minore poi apparve l'ampiezza delle costituzioni de' Principi: tanto che vennero a farsi delle medesime più compilazioni, e Codici. E quindi tutto il corpo delle leggi si vide ridotto a queste due somme parti: cioè a' libri de' Giureconsulti, per li quali poi se ne compilarono dal nostro Giustiniano le Pandette: ed alle costituzioni de' Principi, onde ne sorsero le compilazioni [89] di più Codici, e le molte collazioni per le costituzioni Novelle; e ciò oltre alle Instituzioni, che solamente per istruire la gioventù, vaga dello studio legale, furono compilate. E poichè la narrazione di questi fatti n'ha trattenuti più di ciò, che per avventura non richiedeva una general contezza, convien ora, che con ugual diligenza facciam altresì distinta memoria delle costituzioni di que' Principi, che prima di Costantino regnarono nella floridezza della romana giurisprudenza: con che si renderà ancora di più chiara intelligenza quel che avrà a dirsi nel proseguimento di quest'Istoria.

Approvato che fu dal Popolo romano il Principato, come alla Repubblica più salubre ed espediente (neque enim, dice Dione[173], fieri poterat, ut sub populi Imperio ea diutius esset incolumis) tutta quella potestà, che teneva egli in promulgar le leggi, fu trasferita al Principe, niente in sostanza presso di se rimanendo; imperocchè il sentimento d'alcuni, che credettero il Popolo romano non essersi spogliato della sua autorità, ma che solamente al Principe l'avesse comunicata, è un errore così conosciuto, e da valentissimi Scrittori dimostrato, che stimeremmo, oltre d'esser fuori del nostro istituto, abbondar d'ozio a volerlo qui confutare. E somma simplicità certamente sarebbe darsi a credere, che il Popolo romano non si fosse, o non fosse stato affatto spogliato di quella potestà, solamente perchè gl'Imperadori romani si fossero astenuti de' nomi di Re, e di Signore. Fu questo un tratto di fina politica; poichè conoscendo esser questi nomi al Popolo odiosi, mostraron anch'essi [90] d'abbominargli; e di vantaggio per non introdurre nella Repubblica in un tratto nuova forma totalmente diversa, vollero ritenere i medesimi Magistrati, e l'istesse solennità de' Comizj, e del Senato[174]: ma in sostanza sotto queste speziose apparenze esercitavano la piena potestà regia, come ce n'accertano[175] Alessandrino, e Dione[176] il qual dice: Haec omnia eo fere tempore ita sunt instituta: at re ipsa Caesar unus in omnibus rebus plenum erat imperium habiturus; soggiungendo più innanzi: Hoc pacto omne populi, Senatusque imperium ad Augustum rediit. E molto meno doveano cadere in quest'errore, perciocchè al Popolo rimanesse quella immaginaria e vana ragione di dare gli suffragj, o quella precaria e finta autorità del Senato nello stabilir le leggi; poichè in questi tempi erano ancor rimasi, come savissimamente dice Tacito, vestigia morientis libertatis; onde con verità, del Popolo romano parlando, disse Giovenale[177], che colui, il quale innanzi dava l'Imperio, i fasci, le legioni, e tutto, nei suoi giorni solamente due cose ardentemente desiderava, Panem et Circenses.

Egli è però vero che procurando gl'Imperadori di mantener quella medesima apparenza di Repubblica, s'usurparono non in un tratto, ma a poco a poco la sovranità di quella; e che nel corso di molt'anni si renderono da poi veri Monarchi; poichè il Senato romano dopo le guerre civili, avendo, sia per timore o per lusinga, conferito a Giulio Cesare il nome d'Imperadore, questo soprannome o titolo d'onore fu continuato in appresso da Augusto, e poi da' suoi successori, [91] che lo trovarono molto acconcio a' loro disegni, prendendolo a doppio senso in cumulando e giungendo insieme le sue due significazioni, la cui prima attribuiva loro il puro comandamento in ultimo grado, quale è il comando militare d'un General d'armata, e l'altro rendeva la lor carica perpetua e continua in tutti i luoghi; la qual cosa non era degli altri uffici, della Repubblica romana. E benchè nel cominciamento quest'Imperadori facessero sembiante di contentarsi del comando militare libero ed esente dalle forme, alle quali i Magistrati ordinari eran astretti, con soggezione alla sovranità della Repubblica; nondimeno essi comandavan assolutamente, e disponevano della Repubblica come loro piaceva, per la qual cosa Svetonio chiamava la loro dominazione speciem principatus[178].

Se tanta autorità dunque aveansi usurpata i primi Imperadori, allorchè nella languente Repubblica conservavansi ancora reliquie d'antica libertà: essendo poi di questa a poco a poco ogni immagine affatto svanita, non si può dubitare che gl'Imperadori seguenti, di veri Monarchi, e di Sovrani Principi il carattere e l'assoluta potestà independentemente non esercitassero; e più quelli, che ritrovaronsi poscia in Oriente, paese di conquista.

Trasferita per tanto nel Principe questa potestà, ciò che a lui piacque ebbe vigor di legge; ma per accorta politica, chiamaron que' loro ordinamenti, editti o costituzioni, e non leggi, simulando di voler lasciare intatta al popolo la potestà di far le leggi[179]. Queste costituzioni de' Principi non erano d'una medesima [92] spezie, ma si distinguevano dal fine e dall'occasione, che aveva il Principe quando le stabiliva. Alcun eran chiamate Editti; ed era allorchè il Principe per se medesimo si moveva a promulgar qualch'ordine generale per l'utilità ed onestà de' suoi sudditi, indirizzandolo o al Popolo, o a' provinciali, ovvero, ciò che accadeva più frequentemente, al Prefetto del Pretorio. Altr'eran nomate Rescritti, i quali dagl'Imperadori alle domande de' Magistrati, ovvero alle preghiere dei privati s'indirizzavano. Eran ancora di quelle appellate Epistole; ed accadeva quando il Principe rescriveva a' privati, che della loro ragione il richiedeano; e venivan dette eziandio Epistole quelle, che per occasion simile dirizzava egli talora al Senato, a' Consoli, a' Pretori, a' Tribuni, ed a' Prefetti del Pretorio. Vi furono anche di quelle, le quali chiamaronsi Orazioni, indirizzate al Senato, colle quali gl'Imperadori confermavano i senatusconsulti; e sovente si scrivevano anche a richiesta del Senato, o del Senato e del Popolo insieme. Costituzioni parimente si dissero i Decreti, che si profferivano su gli atti fabbricati nel concistoro del Principe; ed era quando il Principe stesso conoscendo della causa, intese le parti, profferiva il decreto. Fu questo lodevol costume degl'Imperadori non abbastanza commendato da tutti gli Scrittori dell'Istoria Augusta, e molti esempi n'abbiamo nel Codice di Teodosio[180], siccome altresì uno molto elegante nelle Pandette di Giustiniano[181]. E questi decreti, ancorchè interposti in causa particolare, per [93] la dignità ed eminente grado di chi gli profferiva, avean in simiglianti casi forza e vigor di legge[182].

Si leggono ancora nel codice Teodosiano[183] alcune costituzioni appellate Prammatiche, promulgate in occasione di domande venute da qualche provincia, città, o collegio; ed il Principe comandava ciò che credea convenire; nelle quali quando ordinava doversi far qualche cosa, chiamavansi Jussiones, quando si proibiva, e vietava di farsi, eran dette Sanctiones. Ve n'eran in fine dell'altre, che si dissero Mandati de' Principi, ed erano per lo più alcuni ordinamenti dirizzati a' Rettori delle province, a' Censitori, Inspettori, Tribuni, e ad alcun'altri Ufficiali, in occasione di qualche particolar loro bisogno, che per bene e quiete della provincia richiedeva spezial providenza; de' quali mandati nel Codice di Teodosio se ne ha un titolo intero[184].

Tutta questa sorte di costituzioni, delle quali ne sono pieni i Codici di Teodosio e di Giustiniano, a tre spezie furon da Ulpiano[185] ristrette; a gli Editti, ai Decreti, ed all'Epistole; ciò che volle anche far Giustiniano, quando a queste tre parimente le restrinse[186].

Fu veramente cosa di somma maraviglia, che fra quelli romani Imperadori, che ressero l'Imperio fino a Costantino, essendovi stati alcuni iniqui, crudeli, e più tosto mostri sotto spezie umana, come Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Caracalla, ed altri; le loro costituzioni nondimeno ugualmente splendessero [94] di saviezza, di giustizia e di gravità: tutte sagge, tutte prudenti, eleganti, brevi, pesanti, e tutto diverse da quelle, che da Costantino, e dagli altri suoi successori furon da poi promulgate, convenienti più tosto ad Oratori, che a Principi[187]. Il che non altronde derivò, se non da quel buon costume, ch'ebbero di valersi nel loro stabilimento dell'opera di celebri Giureconsulti, senza il consiglio de' quali così nell'amministrazione della Repubblica, come in tutte l'altre cose più gravi, niente si facea. Per questa ragione dee presso di noi esser in maggior pregio il Codice di Giustiniano, che quello di Teodosio; imperocchè Giustiniano compilò il suo anche delle costituzioni degl'Imperadori avanti Costantino, ciò che non fece Teodosio, che solamente volle raccorre quelle de' Principi, che da Costantino M. infino al suo tempo regnarono. E per questa ragione parimente osserviamo, che alcune costituzioni, delle quali i Giureconsulti fanno menzione nelle Pandette, si trovano nel Codice di Giustiniano, ma non già possono leggersi in quello di Teodosio.

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CAPITOLO IX. De' Codici Papiriano, Gregoriano, ed Ermogeniano.

Le costituzioni di questi Principi, che dopo Augusto, incominciando da Adriano infino a Costantino M. fiorirono, furono per la somma loro eccellenza anche raccolte in certi Codici. La prima compilazione, ancorchè non universale di tutti i Principi, che precedettono, per quanto n'è stato a noi tramandato, fu quella, che Papirio Giusto fece delle costituzioni di Vero, e d'Antonio; questo celebre G. C. del quale Giustiniano ce ne lasciò anche memoria nelle Pandette, fiorì ne tempi di Settimio Severo, e le costituzioni di questi due fratelli compilò; partendole in venti libri[188]. Giacomo Labitto[189] in quella sua opera ingegnosa, e molto utile, dell'Indice delle leggi, fa un catalogo di tutte le leggi, che da questi venti libri di Papirio raccolse Triboniano. Nè dopo questa compilazione s'ha memoria, che se ne fosse fatta altra nei tempi, che seguirono, se non quelle due di Gregorio e d'Ermogeniano, Giureconsulti, che fiorirono ne' tempi di Costantino M. e de' suoi figliuoli, e da coloro presero il nome i due Codici Gregoriano, ed Ermogeniano. In questi due Codici furon raccolte le costituzioni di più Principi, cominciando da Adriano Imperadore fino a' tempi di Costantino: poichè nel Codice Gregoriano [96] si riferisce una costituzione sotto il Consolato di Diocleziano nell'anno 296, dieci anni prima dell'imperio di Costantino[190]. Questi due Giureconsulti si proposero l'istessa epoca, e ne' loro Codici amendue raccolsero le costituzioni indistintamente di quelli Principi, che da Adriano fino a Costantino M. ressero l'Imperio, come è manifesto dalle leggi, che in essi si leggono; onde meritamente fu da Giacomo Gottifredo[191] notato d'error Cujacio, che stimò aversi Gregorio, ed Ermogeniano proposte epoche diverse, e che ne' loro Codici riferissero le costituzioni di diversi Principi, non senza distinzione alcuna, come fecero, ma bensì Gregorio d'alcuni, ed Ermogeniano d'altri.

Credette Giacomo Gottifredo non fuor di ragione, che intanto questi Giureconsulti avessero cominciata la loro compilazione da Adriano, e non da Principi predecessori, perchè Adriano fu creduto autore d'una certa nuova giurisprudenza per quel celebre suo Editto perpetuo, che stabilì, la cui materia ed ordine, servì per cinosura ed archetipo della giurisprudenza; e che fu il corpo più nobile della legge de' Romani, e Capo della giurisprudenza, che a noi è oggi rimasa. E forte indizio n'è, che Ermogeniano[192] istesso ne' libri epitomatici, le reliquie de' quali pur le dobbiamo a Giustiniano, si propone voler seguire l'ordine medesimo dell'Editto perpetuo. Fu ancora d'Adriano singolare e notabile la forma, che diede per l'amministrazione degli uffici pubblici e palatini, e della milizia parimente, la qual forma fu costantemente osservata fino a Costantino, il quale cominciò a variarla, e poi a' tempi [97] di Teodosio il Giovane fu all'intutto variata e mutata, e prese la giurisprudenza altro aspetto, come si farà vedere nel corso di quest'istoria. Nè pare inverisimile ciò, che suspica Gotifredo[193], che questi Codici, quando si pervenne all'età di Costantino, e de' suoi figliuoli Imperadori cristiani, si fossero continuati da questi Giureconsulti gentili, per ritenere almeno qualche aspetto dell'antica giurisprudenza, giacchè per le nuove leggi, le quali da coloro, e da altri cristiani Imperadori frequentemente si promulgavano, veniva a cagionarsi in quella notabile mutazione. E che cotali Giureconsulti de' tempi di Costantino, e dei suoi figliuoli, fossero pur anche gentili, con assai forti congetture ce n'assicura il lodato Gotifredo.

Egli è però a noi incerto, se per autorità pubblica, o per privata fossero stati questi due Codici compilati da Gregorio, e da Ermogeniano: parendo che un luogo d'Egineta riferito da Gotifredo possa persuaderne a credere, che fossero stati scritti per privata autorità. Ma che che sia di ciò, egli è indubitato, che l'autorità di questi Codici fu grandissima; e furono pubblicamente ricevuti, in maniera che gli Avvocati, e gli Scrittori di que' tempi, e de' più bassi ancora, degl'interi loro libri si servirono, quando dovevan allegar qualche costituzione. Di essi valevasi S. Agostino[194], come è manifesto nel lib. 2. ad Pollentium; ove s'allega del Codice Gregoriano una costituzione d'Antonino, che fu pretermessa nel Codice di Giustiniano. De' medesimi ancora si servì l'Autore della collazione delle leggi Mosaiche colle romane, che [98] secondo Freero[195], e Gotifredo[196] fiorì nel sesto secolo prima però di Giustiniano, e nell'istessa età di Cassiodoro: si allega da costui una costituzione di Diocleziano dal Codice Gregoriano nel lib. 5. de nuptiis; parte della quale fu inserita da Giustiniano nel suo Codice[197]; e dell'istesso Codice Gregoriano se ne rapporta un'altra, con notarsi ancora il Consolato di Diocleziano nell'anno 296. Se ne servì parimente l'Autore di quell'antica consultazione, che serbata dall'ingiuria del tempo ancor oggi leggiamo per l'industria di Cujacio fra le sue, citandosi del Codice Ermogeniano la l. 2. de Calumniatoribus: se ne valse per ultimo Triboniano, il quale da questi due Codici, e da quello di Teodosio compilò il suo per ordine di Giustiniano. E del compendio, ovvero breviario di essi si servirono dappoi, oltre all'Autore della suddetta antica consultazione, Papiniano nel libro de' Responsi, ed altri Scrittori de' tempi più bassi, come a suo luogo dirassi. Di questi due Codici oggi appena sono a noi rimase alcune reliquie, e certi frammenti, che dopo lo scempio fattone da Triboniano sono a noi pervenuti, e che pur le dobbiamo alla diligenza di Cujacio.

Della compilazione del Codice Teodosiano, come quella, che si fece molti anni da poi ne' tempi di Teodosio il Giovane, avrem occasione di lungamente ragionare, quando de' fatti illustri di quel Principe ci toccherà favellare.

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CAPITOLO X. Delle Accademie.

Non solamente in questi fioritissimi tempi, e specialmente sotto l'Imperio d'Adriano, per tanti celebri Giureconsulti, e per la sapienza di questo Principe, per quel suo editto, e per le tante costituzioni degli altri savissimi Principi, era lo studio della giurisprudenza nel maggior suo splendore, e nel colmo della sua grandezza, ma lo rendevan ancor florido e rilevato le due celebri Accademie del Mondo, l'Ateneo di Roma in Occidente, e la Scuola di Berito in Oriente.

I.  Dell'Accademia di ROMA in Occidente

Prima d'Adriano nell'inclita città di Roma non vi erano pubbliche Accademie. I Maestri nelle loro private stanze, ch'essi chiamavan pergole, insegnavano alla gioventù[198]; ed i Giureconsulti stessi, oltre a quelle commendabili loro funzioni d'interpretare, scrivere, rispondere, consigliare, ed altre rapportate di sopra, avean ancora per costume nelle lor case insegnare a' giovani la ragion civile; e Cicerone racconta di se, ch'egli attese a questi studj sotto la disciplina di Q. Scevola figliuolo di Publio, ancorchè questi, com'e' dice, nemini ad docendum se dabat[199]. Labeone[200] così s'avea diviso l'anno, che sei mesi era in Roma frequentato [100] da' studiosi, che andavan da lui ad apprender la legal disciplina, e sei altri mesi si ritirava in Villa a comporre libri, onde lasciò quattrocento volumi. Sabino, come anche narra Pomponio[201], poichè non era dei beni di fortuna abbastanza fornito, sovente da' suoi scolari era sovvenuto: huic nec amplae facultates fuerunt: sed plurimum a suis auditoribus sustentatus est; e così anche si praticava nell'altre professioni, siccome per le matematiche n'abbiamo il testimonio di Svetonio[202], e per la grammatica l'Autore del libro degl'illustri Grammatici.

Adriano fu il primo, che nella regione VIII del Foro romano fondò l'Ateneo, ove pubblicamente dovessero insegnarsi le discipline, e le lettere; e quel luogo, ch'è posto alle radici del monte Aventino, ancor oggi ritiene la memoria delle scuole de' Greci[203], imperocchè in esso si facea professione non meno della latina, che della greca eloquenza, e non meno i Retori, e Poeti latini, che i greci vi avevan il loro luogo. Fanno di questo Ateneo onorata memoria Dione[204], Lampridio, Capitolino, Gordiano, e Simmaco[205].

Alessandro Severo l'ampliò, e ridusse in forma più nobile. Stabilì il salario a' Retori, Medici, Grammatici, ed a tutti gli altri Professori. Instituì gli Auditori pubblici, ed assegnò ancora alcune rendite a' Studenti, figliuoli di poveri, pur che però fossero ingenui[206]. I Romani di queste genti di lettere non facevan ordine a parte, ma le lasciavano mescolate nel terzo stato, e [101] non avean tante persone, quante noi, che prendesser le lettere per professione e vocazione loro speciale[207]: da poi quelle poche ch'essi n'aveano, le ridussero in milizie, le quali eran uffici quasi perpetui, di maniera che facevan di loro più stima, che noi, e di grandissimi privilegi onoravangli, come si vede nel Codice di Teodosio.

Or per la celebrità di questa famosa Accademia, concorrevano in Roma in gran numero i giovani da tutte le parti per apprender le buone lettere, e spezialmente la legal disciplina. Non eran sole queste nostre province, ch'oggi forman il Regno di Napoli, a mandar lor giovanetti a studiare in Roma, ma le province più remote e lontane eziandio; e non pur dalle Gallie, ma dalla Grecia, e dall'Affrica ancora ne venivano. Nelle nostre Pandette sono ancor rimasi alcuni vestigi, che n'accertano di quest'usanza di mandarsi in Roma i giovani a studiare: abbiamo un responso di Scevola, che diede a favor d'un giovane, che studiorum causa Romae agebat, rapportato da Ulpiano[208], il qual anche parla del viatico solito assegnarsi dai padri a' figliuoli quando gli mandavan in Roma a studiare: e questo medesimo Giureconsulto altrove[209] fa anche memoria di quest'usanza di mandare i giovani a Roma a studiare, della quale ne fa altresì menzione Modestino[210], ed altri nostri Giureconsulti. E venivano, particolarmente per dare opera allo studio delle leggi, sin dalla Grecia i giovani in Roma; onde si rendè celebre anche perciò la sfacciata libidine di Domiziano, [102] che imprigionò Arca avvenente fanciullo, il qual fin dall'Arcadia era venuto in Roma per apprender la giurisprudenza, solamente perchè con rado e memorando esempio non volle acconsentire alle sue impudiche voglie[211]: di che il giovanetto appresso Filostrato[212] tutto dolente accagionava suo padre, che potendo farlo instruire delle greche lettere in Arcadia, l'avea mandato in Roma per apprender le leggi. I Greci medesimi, che non sogliono esser paghi, se non di loro stessi, e delle cose proprie, pur furono costretti confessare, che dalle leggi romane solamente potevasi apprender una giusta e diritta norma di costumi; onde Dione Crisostomo[213] orando presso a' Corinti, e volendo persuader loro, ch'egli essendo dimorato per lungo tempo in Roma appresso l'Imperador Trajano, avea sempre onestamente vivuto, di quest'argomento si valse: ch'egli stando in Roma, era stato in mezzo alle leggi, non potendo traviare, chi fra quelle conversava. Ne vennero anche dall'Affrica, come nei tempi più bassi testimonia d'Alipio l'incomparabil Agostino[214], del quale narra, che Romam processerat, ut jus disceret. Dalla Gallia, e dall'altre province occidentali in questi medesimi tempi men a noi lontani era frequente il concorso de' giovani in Roma per lo studio delle leggi. Di Germano Vescovo altissiodorense n'è testimone Errico altissiodorense in que' suoi versi[215]. [103] E Costanzo[216] nella di lui vita pur dice: Post Auditoria Gallicana, intra Urbem Romam Juris scientiam plenitudini perfectionis adjecit. Rutilio Numaziano[217] favellando di Palladio gentil giovane franzese, pur disse, ch'era stato mandato in Roma ad apprender legge.

E Sidonio[218] Apollinare persuade Eutropio, che vada ad apprender giurisprudenza in Roma, che perciò chiamolla, domicilium legum. Onde non pur dagli Scrittori di questi tempi, ma anche de' tempi che seguirono, meritò Roma questi encomi, non solamente per la giurisprudenza, ma per l'eloquenza, e per tutt'altre discipline. Così leggiamo appresso Claudiano, Roma esser chiamata Armorum, Legumque parentem, quae prima dedit cunabula juris[219]: ed altrove legum genitricem: appresso Simmaco, Latiaris facundiae domicilium[220]: e così appresso Ennodio, Girolamo, Cassiodoro, e molt'altri Scrittori.

E fu cotanta la cura degl'Imperadori, ed il loro studio d'invigilar sempre al decoro e ristabilimento di quest'Accademia, ch'essendo, ne' tempi di Valentiniano il vecchio, Roma già caduta dal suo antico splendore, ed i giovani dati in braccio a' lussi, e ad ogni sorte di vizio, tanto che l'Accademia era molto scaduta dal suo instituto, ed introdotti in essa molti abusi, pensò questo Principe, di cui era molto grande la sollecitudine [104] de' studj di Roma, riparare a cotali disordini, e promulgò quivi a tal effetto quella celebre costituzione, che dirizzò nell'anno 370. ad Olibrio Prefetto di quella città, parte della quale ancor si legge nel Codice Teodosio[221], ove stabilì undici leggi accademiche per rimediare a tanti abusi, delle quali in più opportuno luogo farem parola. Tanto che ristorata per queste leggi potè poi lungamente mantenere il suo lustro, e tirare a se, come innanzi, i giovani da tutte le parti d'occidente per apprender le lettere, e massimamente la Giurisprudenza. Così ne' tempi di Teodorico Ostrogoto vediamo ancor durare quest'usanza di mandarsi a Roma i giovani ad apprender le discipline; anzi volle questo Pincipe, che non dovesse concedersi licenza a' medesimi di far ritorno alle paterne case, se non compiuti in quella città i loro studj. In fatti negò tal licenza a Filagrio, ancorchè suo benemerito, il quale avendo mandat'in Roma a studiare alcuni suoi nipoti, e volendo richiamarli, ordinò a Festo, che non gli lasciasse partire, esagerando cotanto la stanza di Roma per li giovani: Nulli sit ingrata Roma, quae dici non potest aliena: illa eloquentiae faecunda mater: illa virtutum omnium latissimum templum[222]. La negò parimente a Valeriano, il quale avea mandati li suoi figliuoli a Roma a studiare, e scrisse a Simmaco, che non lasciassegli partire[223]. Questo medesimo instituto fu da poi continuato da Atalarico suo nipote, il qual imitando Valentiniano ne prese anche spezial cura e pensiero, e si legge ancora appresso Cassiodoro[224] una [105] lettera, che volle scrivere perciò al Senato di Roma, nella quale riordina i studj, e stabilisce i soliti stipendi per coloro, che militavano in quell'Accademia, nella quale oltre a' Grammatici, Oratori ed altri Professori, v'avevan ancora luogo gli Espositori delle leggi: onde per questo nuovo ristoramento potè da poi, eziandio ne' tempi più barbari, meritar Roma que' pregi e quegli encomj, che le danno più Scrittori di questa bassa età, raccolti dal Savarone[225] sopra Sidonio[226] Apollinare.

II.  Dell'Accademia di BERITO in Oriente.

Berito è città posta nella provincia di Fenicia in Oriente, e fu cotanto benemerita a Teodosio il Giovane, che la decorò del titolo di metropoli della Fenicia, come Tiro, città per lo studio delle leggi non men celebre in Oriente, che Roma nell'Occidente; e siccome in Roma la legge civile era insegnata in latino, così a Berito in greco. Per la famosa accademia in essa stabilita fu chiamata la città delle leggi; e che riempieva perciò il Mondo delle medesime. Da chi quest'Accademia fosse stata instituita, non se ne sa niente di certo: quel che però non può pors'in disputa è, che fiorisse molto tempo prima di Diocleziano Imperadore, com'è manifesto da una costituzione di questo Imperadore, [106] che si legge nel Codice di Giustiniano[227], indirizzata a Severino, e ad altri scolari dell'Arabia, i quali per apprender la disciplina legale dimoravan in Berito.

A questa città, come domicilio delle leggi, concorrevano i giovanetti di tutte le province dell'Oriente. Chiarissima testimonianza è quella, che ce ne dà Gregorio Taumaturgo Vescovo di Neocesarea nell'orazion panegirica ad Origene[228], ove narra aver egli appresa la giurisprudenza romana nell'Accademia di Berito, celebre per lo studio di tutte le professioni, ma singolarmente per quella delle leggi. Nè minore fu la fama di questa Accademia sotto Costanzo e Costante circa gli anni di Cristo 350. Il Geografo antico[229], (il qual Autore dobbiam noi alla diligenza dell'eruditissimo Giurisconsulto G. Gotifredo) che fiorì ne' tempi medesimi, parlando della città di Berito, e dell'Accademia delle leggi dice così, secondo l'antica traduzione latina: Berytus Civitas valde delitiosa, et Auditoria legum habens, per quae omnia judicia Romanorum. Inde enim viri docti in omnen orbem terrarum adsident Judicibus, et scientes leges custodiunt Provincias, quibus mittuntur legum ordinationes. Per ciò Nonno[230] nelle Dionisiache diceva, che Berito riempieva la terra tutta di leggi. Eunapio[231] ancora, che fiorì sotto Costanzo, Zaccaria Scolastico[232] e Libanio[233], che visse sotto Valente, chiamano perciò Berito madre delle leggi. E [107] ne' tempi dell'Imperador Valente fu tanto il concorso de' giovani a questa città per apprender le leggi, che Libanio stesso si duole essersi perciò tralasciato lo studio dell'eloquenza. Ed Agatia[234], favellando della ruina di Berito a cagione del tremuoto, che abbattè quasi tutta la città, afferma esservi accaduta strage grandissima de' cittadini, e di gran numero di coloro, che ivi dimoravano per apprender le leggi Romane. Finalmente il nostro Giustiniano[235] pur nomò Berito città delle leggi, ed altrove[236], nutrice delle medesime; donde egli fece venir Doroteo ed Anatolio, perchè unitamente con altri avesser parte nella fabbrica de' Digesti, non concedendo licenza d'esplicar le leggi in Oriente ad altre Accademie, fuorchè a quelle di Berito, e di Costantinopoli (perchè questa si trovava ne' suoi tempi fondata già da Teodosio il Giovane l'anno 425.) siccome nell'Occidente a quella di Roma.

Vi furon ancora in questi tempi in alcune città d'Oriente altre Accademie, ove si professavan lettere, come in Laodicea, della quale Alessandro Severo fece menzione in una sua costituzione, che ancor oggi leggiamo nel Codice di Giustiniano[237]. In Alessandria, intitolata il Museo, della quale parla Agatia[238]; ed in Cesarea. Siccome in Occidente, oltre di quella famosa di Roma, alcune città avevan similmente le loro scuole, ove potevan i giovani apprender lettere. Nè la nostra Napoli ne fu priva, poichè, come dirassi quando dell'instituzione dell'Accademia napoletana favelleremo, Federico II. Imperadore non fu il primo, che da' fondamenti [108] la ergesse, ma l'essere stata sempre questa città, come Federico stesso la chiama, antiqua mater, et domus studii[239], si mosse egli perciò a rinovar questi suoi antichi studj, e ad ingrandirli in una più nobile, e magnifica forma, innalzando l'Accademia napoletana sopra tutt'altre, e comandando perciò, che i giovani così di questo Regno, come di quello di Sicilia andassero in Napoli ad apprender le discipline, come più a lungo si diviserà, quando di tal ristoramento farem parola. Nè mancarono Scuole nell'altre città greche di queste nostre province, in quella maniera, che richiedeva il loro istituto; ma questi studj, allorchè fioriva Roma, rimasero tutti oscurati ed estinti, tosto che sorse l'Ateneo; e da poi avendo Roma riempiuto l'Imperio tutto delle sue leggi, le province d'Occidente mandavan i loro giovani in quella città, come lor madre, ad apprenderle; siccome quelle d'Oriente mandavangli a Berito. E si diede finalmente l'ultima mano alla ruina di tutte queste Scuole minori, quando Giustiniano a tre sole città concedè licenza d'esplicar le leggi, cioè all'una, e all'altra Roma, ed a Berito; non ad Alessandria, non in Cesarea, non alla perfine ad alcuna altra città dell'uno, o dell'altro Imperio.

Dell'Accademia di Costantinopoli non era qui luogo di favellare, come quella, che molto tempo da poi nell'anno 425. fu da Teodosio il Giovane instituita e ridotta nella sua forma; onde se ne darà saggio nel libro seguente di quest'istoria.

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III.

Ecco in qual floridissimo stato erano queste nostre province ne' tempi, che a Costantino precedettero: quando ciascheduna città si studiava di comporre la sua politia e governo, ad imitazion di Roma, della quale vantavano essere piccioli simulacri ed immagini: quando secondo le sue leggi vivevano: e quando la giurisprudenza romana, ch'era la lor norma e regola, era giunta nel colmo e nella più alta stima, se si pon mente o a' favori de' Principi, o alla prudenza delle loro costituzioni, o alla sapienza de' Giureconsulti, o alla maestà dell'Accademie, e dottrina de' Professori, o alla probità de' Magistrati. Non è occulto, che alcuni pur troppo vaghi di novità, volendo rendersi per qualche stravaganza rinomati, non si sono ritenuti di biasimar le leggi romane come troppo sottili e ricercate, e che sovente s'oppongono al buon senso, ed al comunale intendimento degli uomini. Si è veduto ancora, chi ha voluto perciò prendersi briga d'andarle esaminando, con riprovarne alcune, come alla ragione ed all'equità contrarie. Altri ne dettaron particolari trattati, che vengon rapportati da Giorgio Pasquio[240]: e fra' nostri volle anche tentarlo il Cardinal di Luca, che ne distese più discorsi[241]. Ma ben si sarà potuto conoscere quanto costoro siano traviati; i quali col debole e corto lume de' loro ingegni han preteso affrontare una verità per tanti secoli conosciuta e professata da' maggiori uomini, che fiorirono quando il genere umano [110] si vide in tant'elevamento ed eminenza, in quanta non fu mai per l'addietro, e che non sappiamo se mai potrà ritornare in quella sublimità, in cui fu ammirato mentre durò il roman Imperio. I Romani ci diedero le leggi savie e giuste, come per isperimento si conobbe ch'erano le più utili, conformi all'equità naturale, e adattate per la società civile ed all'umano commercio: che se fosse ad ognuno lecito farsi giudice sopra le leggi, ed a suo giudicio e capriccio dar regola a questa bisogna, vorrebbe ciascuno, fidando nel suo ingegno, sostenere al pari di chiunque altro la propria opinione; ed ecco i disordini e le confusioni, ed ecco alla per fine introdotto fra noi un deplorabile scetticismo. Solone perciò dimandato s'egli aveva date agli Ateniesi le più giuste e le più savie leggi, rispose, le migliori che si confacessero a' loro costumi, e le più acconce a' loro profitti; imperocchè la giustizia e la sapienza delle leggi non dipende da ragioni astratte e metafisiche, ma dall'utilità che recan a' popoli, al commercio ed alla vita civile: di che per più secoli ne diedero bastanti riprove le romane: onde avvenne che ruinato l'Imperio, non per questo ne' nuovi dominj in Europa stabiliti, cessò la maestà e l'uso delle medesime. L'utilità e l'onestà sono la norma delle leggi, e quelle saranno sempre le giuste, che riescono a' popoli utili ed oneste: ciò che meriterebbe un trattato a parte, non essendo del nostro instituto.

Altri vi sono, i quali empiono il Mondo di querele contra i Romani per la moltiplicità di tante leggi: questa querela non è nuova, ma molto antica, e fin da' tempi della libera Repubblica s'intese; tanto che Cesare[242], e Pompeo pensarono di darvi qualche compenso, [111] con ridurre ad un cert'ordine la giurisprudenza romana: il che se non potè mai ridursi ad effetto da uomini sì illustri, molto meno s'è potuto da poi sperare dagli altri, come impresa affatto disperata ed impossibile, non che dura e malagevole. Ma queste querele, o quanto meglio farebbon costoro, se le scagliassero contra i depravati costumi degli uomini, contra la lor ambizione e dissolutezza, anzi che contro alle leggi: ben è egli vero che moltitudine di vizj e moltitudine di leggi si secondano, e si producono l'una l'altra quasi sempre; ond'è che Arcesilao[243] soleva dire, che siccome dove sono molte medicine e molti medici, quivi sono infermità abbondanti, così dove abbondan le leggi, ivi essere ingiustizia somma; nulladimanco non è somma ingiustizia, nè sono molti vizj, perchè sieno molte leggi, ma ben sono molte leggi, perchè sono molti vizj. Per riparare a' corrotti costumi degli uomini, non v'era altro rimedio, che quello delle leggi. L'Imperio romano molto tempo prima avrebbe veduta la sua rovina, se di quando in quando la prudenza di qualche Principe non v'avesse dato riparo per mezzo delle leggi. Eran a' Romani sempre innanzi agli occhi molti domestici esempi, che gli ammonivano, niun altro freno esser più potente alla dissolutezza degli uomini, quanto le leggi. Sapevan benissimo, che fin da' primi tempi della loro Repubblica niente altro più ardentemente bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al Re ogni cosa rimettersi, ed al suo arbitrio; nè ciò per altra cagione, se non per quella, che con molta eleganza vien rapportata da Livio[244]: [112] Regem, e' dicevano, hominem esse a quo impetres ubi jus, ubi injuria opus sit: esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci, et ignoscere posse: inter amicum, et inimicum discrimen nosse. Leges, rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi, quam potenti; nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris: periculosum esse, in tot humanis erroribus, sola innocentia vivere. Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli, e che dirittamente si oppongono a quel che insegnò Aristotele nella sua politica[245]. Ove sia Repubblica senza vizj, certamente mal fa, chi vuol caricarla di leggi, siccome mal fa, chi ad un corpo sano vuol applicar medicamenti. Ma se quella, già data in preda a' lussi, minaccia rovina, non v'è altro riparo, che ricorrere alle leggi. E meglio in questi casi sarà, che nella Repubblica abbondino le leggi, le quali proveggano e s'oppongano ad ogni vizio[246], che rimetter tutto all'arbitrio de' Magistrati, il giudicio de' quali sta sottoposto agli affetti ed alle macchinazioni e tranelli de' litiganti.

Egli è pur vero, che alla corruttela de' costumi non si rimedia abbastanza colle leggi; ed in ciò non si può non commendare quel gravissimo ammaestramento di Bacone di Verulamio[247], che dovrebbon i Principi aver sempre innanzi agli occhi, dicendo egli che la maggiore lor cura e pensiero dovrebbe essere non tanto, come fanno, di rimediar agli abusi ed alle corruttele colle leggi, quanto d'invigilare su l'educazione de' giovani. Sopra il buono allevamento de' medesimi dovrebbon [113] impiegare per mezzo delle leggi tutto il lor rigore; poichè in questa maniera in gran parte si scemerebbe il numero de' vizj e per conseguenza il numero delle leggi. Star tutt'intesi a ben ristabilire, e fornir di buoni instituti e di Professori l'Accademie e l'Università de' studj, ed in ciò porre ogni lor cura. Erasi negli ultimi nostri tempi cominciato a veder qualche riparo da' Collegj instituiti per la gioventù, nel che furon eminenti i Gesuiti. Ma par ora che scaduta già in quelli la prima disciplina, veggasi ancora andare scemando quell'antico fervore, e corrompersi sempre più ogni buon instituto. Richiederebbero veramente queste cose più tosto un Censore, che un Istorico, onde potendo fin qui bastare ciò che se n'è divisato come per un apparato delle cose che avranno a seguire, farem passaggio, dopo aver narrata la politia ecclesiastica di quest'età, a' tempi di Costantino, donde quest'istoria prende suo principio.

CAPITOLO XI. Della Politia Ecclesiastica dei tre primi secoli.

La nuova religione cristiana, che da Cristo Signor nostro cominciò ne' tempi di Tiberio a disseminarsi fra gli uomini, ci fece conoscere due potenze in questo Mondo, per le quali e' bisognava che si governasse, la spirituale, e la temporale, riconoscenti un medesimo principio, ch'è Iddio solo[248]. La spirituale nel Sacerdozio, [114] o stato ecclesiastico, che amministra le cose divine e sacrate: la temporale nell'Imperio, o Monarchia, o vero stato politico, che governa le cose umane e profane: ciascuna di loro avente il suo oggetto separato: i Principi perchè soprantendano alle cause del secolo: i Sacerdoti alle cause di Dio. Ciascuna ancora ha suo potere diverso e distinto; de' Principi il punire, o premiare con corporale pena, o premio: de' Sacerdoti con spirituale. In breve, a ciascuna fu dato il suo potere a parte: laonde siccome non senza cagione il Magistrato porta la spada, così ancora i Sacerdoti le chiavi del Regno de' Cieli.

Non così era prima presso a' pagani, i quali non riconoscevano nel Mondo queste due potenze infra loro separate e distinte; ma in una sola persona l'unirono: ond'è che i loro Re soli n'eran capi e moderatori: e la ragion era, perch'essi della religione si servivan per la sola conservazione dello Stato, e non la indirizzavano, come facciam noi, ad un altro più sublime fine. Così presso a' Romani il Pontificato Massimo lungo tempo durò nella stessa persona degl'Imperadori[249], e se bene avessero separati Collegi di Sacerdoti, a' quali la cura della lor religione era commessa, nientedimeno come che della medesima si servivano per la sola conservazione dello Stato, dovean per conseguenza le deliberazioni più gravi al Principe riportarsi, che n'era il Capo: istituto, che ad essi fu tramandato da' loro maggiori, appo i quali, come dice Cicerone[250], qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant; ut enim sapere, sic divinare, regale ducebatur. Quindi Virgilio[251] del Re Annio cantò. [115] Rex Anius, Rex idem hominum, Phoebique Sacerdos.

Appresso gli antichi Greci questo medesimo costume veggiamo, che ci rappresenta Omero, dove gli Eroi, cioè i Principi, eran quelli che facevan i sacrifizj: degli Ateniesi e di molte altre città della Grecia lo stesso narra Platone: appresso gli Etiopi, scrive Diodoro, che i Re eran i Sacerdoti: siccome ancora appresso gli Egizj narra Plutarco; ed appresso gli Spartani Erodoto[252].

Ma presso a' Cristiani la religione non è indirizzata alla conservazione dello Stato, ed al riposo di questo Mondo, ma ad un più alto fine, che riguarda la vita eterna, e che ha il suo rispetto a Dio, non agli uomini: e quindi presso di noi il Sacerdozio è riputato tanto più alto e nobile dell'Imperio, quanto le cose divine sono superiori all'umane, e quanto l'anima è più nobile del corpo e de' beni temporali. Ma dall'altra parte, essendo stata data da Dio la spada all'Imperio per governar le cose mondane, vien ad essere questa potenza più forte in se medesima, cioè a dire in questo Mondo, che non è la potenza spirituale data da Dio al Sacerdozio, al quale proibì l'uso della spada materiale; poscia che ha solamente per oggetto le cose spirituali, che non sono sensibili; ed il principale effetto della sua forza è riserbato al Cielo; come ce ne fece testimonianza l'istesso nostro buon Redentore, dicendo, il suo Reame non esser di questo Mondo, e che se ciò fosse, le sue genti combatterebbono per lui.

Riconosciute fra noi queste due potenze procedenti da un medesimo principio ch'è Iddio, da cui deriva [116] ogni potestà, e terminanti ad un medesimo fine, ch'è la beatitudine, vero fine dell'uomo; è stato necessario, si proccurasse, che queste due potenze avessero una corrispondenza insieme, ed una sinfonia[253], cioè a dire un'armonia ed accordo composto di cose differenti, per comunicarsi vicendevolmente la loro virtù ed energia, dimanierachè se l'Imperio soccorre colle sue forze al Sacerdozio, per mantenere l'onor di Dio; ed il Sacerdozio scambievolmente stringe ed unisce l'affezion de' Popoli all'ubbidienza del Principe, tutto lo Stato sarà felice e florido: per contrario, se queste due potenze sono discordanti fra loro, come se il Sacerdozio abusandosi della divozion de' Popoli intraprendesse sopra l'Imperio, o governamento politico e temporale, ovvero se l'Imperio voltando contra Dio quella forza, che gli ha posta fra le mani, attentasse sopra il Sacerdozio, tutto va in disordine, in confusione ed in ruina.

Egli è Iddio, che ha messo quasi da per tutto queste due potenze in diverse mani, e l'ha fatte amendue sovrane in loro spezie, affinchè l'una servisse di contrappeso all'altra, per timore che la loro sovranità infinita non degenerasse in disregolamento, o tirannia. Così vedesi, che quando la sovranità temporale vuole emanciparsi contra le leggi di Dio, la spirituale le si oppone incontanente; e medesimamente la temporale alla spirituale[254]: la qual cosa è gratissima a Dio, quando si fa per via legittima, e sopra tutto quando si fa direttamente e puramente per suo servigio, e per lo ben pubblico, non già per l'interesse particolare e per intraprender l'una sopra l'altra.

[117]

E poichè queste due potenze si rincontrano per necessità insieme in tutti i luoghi, ed in tutti i tempi, ed ordinariamente in diverse persone; e dall'altra parte tutte due sono sovrane in loro spezie, niente affatto dipendendo l'una dall'altra; l'infinita Sapienza per evitare il disordine estremo, che nasce inevitabilmente dalla loro discordia, ha piantati limiti sì fermi, ed ha messe separazioni sì evidenti fra loro, che chiunque vorrà dare, benchè piccol luogo alla ragione, non si potrà ingannare nella distinzione delle loro appartenenze; poichè qual cosa è più facile a distinguere, che le cose sacrate dalle profane, e le spirituali dalle temporali? Non bisogna dunque, se non praticare questa bella regola, che il nostro Redentore ha pronunciata di sua propria bocca, Reddite quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo. Regolamento assai breve, ma per certo assai netto e chiaro, perchè quando la cura dell'anime, e delle cose sacrate appartiene al Sacerdozio, egli bisogna, che il Monarca stesso se gli sottometta in ciò, che concerne direttamente la religione ed il culto di Dio, se sente d'avere un'anima, e se vuol essere nel numero de' figliuoli di Dio e della Chiesa; chiaro e famoso è l'esempio dell'Imperador Teodosio, il quale alla censura d'un semplice Arcivescovo si rendè, ed adempiè la penitenza pubblica, che gli era stata da colui ingiunta: l'attesta ancora l'esempio di Davide, Qui et si regali unctione Sacerdotibus, et Prophetis praeerat in causis saeculi, tamen suberat eis in causa Dei[255].

Reciprocamente ancora, poichè la dominazion delle cose temporali appartiene a' Principi, e la Chiesa è [118] nella Repubblica, come dice Ottato Milevitano, e non già la Repubblica nella Chiesa, bisogna che tutti gli Ecclesiastici, ed anche i Prelati della Chiesa ubbidiscano al Magistrato secolare in ciò ch'è della politia civile[256]. Si omnis anima potestatibus subdita est, ergo et vestra (dice S. Bernardo[257] ad Errico Arcivescovo di Sens) quis vos excepit ab Universitate? Certe, qui tentat excipere, tentat decipere; e S. Gio. Grisostomo sponendo il passo di S. Paulo: Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita est, dice, etiam si fueris Apostolus, Evangelista, Propheta, Sacerdos, Monachus, hoc vero pietatem non laedit[258]. In breve, il Papa S. Gregorio[259] il Grande: Agnosco, dice, Imperatorem a Deo concessum non militibus solum, sed et Sacerdotibus etiam dominari.

Poichè dunque la distinzione di queste due potenze è tanto importante, egli è stato ben necessario dar loro nomi differenti, cioè coloro, i quali hanno la potenza ecclesiastica, sono chiamati Pastori e Prelati; e gli altri, che possedono la temporale, sono particolarmente nominati Signori o Dominatori. Appellazione, ch'è interdetta agli Ecclesiastici di propria bocca di N. S. il quale in due diversi tempi, cioè nella domanda de' figliuoli di Zebedeo, e nel contrasto di precedenza sopravvenuto fra' suoi Apostoli, poco avanti la sua santa passione, reiterò loro questa lezione: Principes gentium dominantur eorum, vos autem non sic, etc. Lezion che S. Pietro ha ben raccolta nella sua prima lettera, dicendo a' Vescovi: Pascite, qui in vobis est, gregem Dei [119] non ut Dominantes in Cleris, sed forma facti gregis, cioè a dire, stabilito in forma di greggia, il cui pastore non è il signore e proprietario, ma il ministro e governatore solamente[260]. Così Dio gli dice: Pasce oves meas, e non già tuas[261].

Ed in verità la potenza ecclesiastica essendo diretta sopra le cose spirituali e divine, che non sono propriamente di questo Mondo, non può appartenere a gli uomini in proprietà, nè per diritto di signoria, come le cose mondane, ma solamente per esercizio ed amministrazione, fin a tanto che Iddio (il qual solo è il Maestro, e signore delle nostre anime) commette loro questa potenza soprannaturale, e per esercitarla visibilmente in questo Mondo sotto suo nome, ed autorità, come suoi Vicarj e Luogotenenti, ciascuno però secondo il suo grado gerarchico, appunto come nella politia civile più Ufficiali, essendo gli uni sotto gli altri, esercitano la potenza del Sovrano Signore.

Tutto ciò si dice per ispiegare la proprietà de' termini del soggetto della presente opera, non già per diminuire in parte alcuna la potenza ecclesiastica, la quale per contrario riferendosi direttamente a Dio, dee essere stimata ben più degna di quella de' Principi della Terra i quali ancora non avean nel principio la loro, che per ufficio e per amministrazione, appartenendo la Sovranità, o per meglio dire la libertà perfetta allo Stato in corpo. Così in que' tempi erano pur essi chiamati Pastori de' Popoli, come vengon qualificati da Omero: ma l'oggetto della lor potenza, che consiste nelle cose terrene, essendo adattato a ricever la signoria, [120] o potenza in proprietà, essi l'hanno da lungo tempo guadagnata, ed ottenuta in tutti i paesi del Mondo: de' quali molti parimente ve ne sono, dove essi han ottenuto non solamente la Signoria pubblica, ma ancora la privata, riducendo il lor Popolo in ischiavitudine.

Non si possono ritrovar pruove più considerabili della distinzione di queste due maniere di potestà, nè più solenni esempj del cambiamento della potestà per ufficio e per esercizio, in quella di proprietà e per diritto di signoria, che in quel che accadde nel Popolo di Dio, quando annojato d'esser comandato da' Giudici, ch'esercitavano sopra di lui la sovranità per ufficio ed amministrazione assolutamente, egli volle avere un Re, il quale da allora innanzi avesse la sovranità per diritto di signoria. Ciò che dispiacque grandemente a Dio, il quale disse a Samuello ultimo de' Giudici, essi non hanno te ricusato, ma me, affinchè io non regni più sopra loro: e poco da poi: Tale sarà il diritto del Re, etc.[262]. Il che significa, che Iddio stesso era il Re di questo Popolo, ed aveva sopra lui la proprietà e la potenza, allorchè era governato da semplici Giudici o Ufficiali[263]; ma che ciò non sarà più, quando avrà un Re, il quale s'abuserà di questa potenza in proprietà. Bella instruzione agli Ecclesiastici di lasciare a Dio la proprietà della potenza spirituale, e contentarsi dell'esercizio di quella, come suoi Vicarj e suoi Luogotenenti, qualità la più alta e la più nobile, che potesse esser sopra la terra.

Ecco la distinzione della potenza spirituale e della temporale, che ben dimostra, che l'una non include [121] e non produce l'altra, medesimamente non è superiore all'altra; ma che amendue sono o sovrane, o subalterne in diritto loro, e in loro spezie.

Ma nientedimeno questa distinzione non impedisce, che l'una e l'altra non possano risiedere in una istessa persona, e talora, ch'è più, a cagion d'una medesima dignità. Tuttavolta bisogna prender cura, che quando esse risiedono nella medesima dignità, fa mestiere, che ciò sia una dignità ecclesiastica, e non già una signoria, o ufficio temporale; poichè la potenza spirituale essendo più nobile della temporale, non può dipendere, nè essere accessoria a quella, siccome non può appartenere agli uomini laici, a' quali appartengono ordinariamente le potenze temporali, e sopra tutto la potenza spirituale non può tenersi per diritto di signoria, nè deferirsi per successione, nè possedersi ereditariamente, come le signorie temporali.

Donde siegue, per dir ciò di passaggio, che è errore contro al senso comune d'aver in Inghilterra voluto attribuire al Re, o alla Reina la sovranità della Chiesa anglicana, in quel modo, che se l'attribuisce la temporalità del suo Reame, quasi fosse da questa dependente[264]: ebbe ciò suo cominciamento da collera, e da una particolar indegnazione d'Errico VIII. contra 'l Papa, il qual negò d'approvare il di lui divorzio, di che prese egli tanto sdegno, che ricusò per l'innanzi di pagargli più quel tributo, che lungo tempo avanti si pagava in Inghilterra; e quel ch'è più, seguendo lo sfrenato impeto dell'ira, si dichiarò Capo della Chiesa anglicana immediatamente dopo Gesù Cristo, e costrinse il suo Popolo a giurare, che lo riconosceva [122] Signor sovrano tanto nelle cose spirituali, che temporali: error, che apparve poi visibilmente, quando la Reina Elisabetta sua figliuola venne a regnare; imperocchè si vide allora una femmina per Capo della Chiesa anglicana, e la sovranità spirituale caduta nella conocchia.

Ora, benchè per qualche tempo queste due potenze sieno state nelle medesime persone fra il Popolo di Dio, cotesto però si fece in modo, che la temporale era sempre accessoria al Sacerdozio; ma da poi che il Popolo volle esser dominato da' Re, questi Re non ebbero la potenza spirituale: e se pur talora la vollero essi intraprendere, ne furon aspramente puniti da Dio, come è manifesto per l'istoria d'Ozia[265]: ed in quanto a' Pagani, s'è già veduto, che in più Nazioni i Re sono stati Sacerdoti, sottomettendo la religione allo Stato, e non se ne servivano, che in quanto ella era necessaria allo Stato: ma noi instruiti in migliori scuole, abbiam'appreso di preferire la religione, c'ha il suo rispetto a Dio, e riguarda la vita eterna, allo Stato, che non riflette, se non agli uomini, ed al riposo di questo Mondo. Ma non vi è però alcun inconveniente, nè repugnanza, che la potenza temporale sia annessa, e rendasi accessoria e dependente dal Sacerdozio, come ne' seguenti libri di quest'Istoria osserveremo nella persona del Pontefice romano, e negli altri Prelati della Chiesa: non già perchè fosse stata prodotta dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistata di volta in volta per titoli umani, per concessioni di Principi, o per [123] prescrizioni legittime, non già Apostolico Jure, come dice S. Bernardo[266]; nec enim ille tibi dare, quod non habebat, potuit.

Ecco il rincontro di queste due potenze in sovranità independenti l'una dall'altra, e riconoscenti un sol principio, ch'è Iddio, distinte con ben fermi limiti per propria bocca del nostro Salvatore, in guisa che l'una non ha che impacciarsi coll'altra.

§. I.  Politia Ecclesiastica de' tre primi secoli in Oriente.

Riconoscendo noi adunque per la religione cristiana nel Mondo queste due potenze, bisognerà che si narri ora, come la spirituale fosse cominciata ad amministrarsi fra gli uomini, e come perciò tratto tratto nell'Imperio, ed in queste nostre province si fosse stabilita la politia, e lo stato ecclesiastico, che ne' secoli seguenti portò uno de' maggiori cambiamenti dello stato politico, e temporale di questo Reame.

In que' tre primi secoli dell'umana redenzione, prima che da Costantino Magno si fosse abbracciata la cristiana religione, non potrà con fermezza ravvisarsi nell'Imperio alcuna esterior politia ecclesiastica. Gli Apostoli ed i loro successori intenti alla sola predicazione del Vangelo, non molto badarono a stabilirla; e ne furon impediti ancora dalle persecuzioni, che gli costringevano in privato e di soppiatto a mantenere l'esercizio della loro religione fra' Fedeli.

Il nostro buon Redentore adunque, dovendo ritornar al Padre, che lo mandò in questo Mondo per mostrarci una più sicura via di nostra salute, volle, dopo [124] averci dati tanti buoni regolamenti, lasciare in terra suoi Luogotenenti, a' quali questo potere spirituale comunicò, perchè come suoi Vicarj mantenessero e promulgassero da per tutto la sua religione. E volle valersi, non già del ministero degli Angioli, ma piacendogli innalzare il genere umano, volle eleggere per più profondi misteri non i più potenti uomini della terra, ma i più vili ed abbietti; volendo con ciò darci un'altra nota di distinzione tra queste due potenze, che l'una non riguarda nè stirpe, nè altri pregi, che il Mondo stima, ma solamente lo spirito, non il sangue e gli altri umani rispetti. Lasciò per tanto questa potenza agli Apostoli suoi cari discepoli, i quali, mentre egli conversò fra noi in terra, lo seguirono; a' medesimi diede incumbenza d'insegnare e predicare la sua legge per tutto il Mondo; e diè loro il potere di legare e sciorre, come ad essi pareva, impegnando la sua parola, che sarebbe sciolto in Cielo, quel ch'essi prosciogliessero in terra, e legato quel che legassero.

Gli Apostoli ancorchè riconoscessero per lor Capo S. Pietro, nel principio a tutt'altro pensarono, che a stabilire un'esterior politia ecclesiastica, poichè intenti solamente alla predicazion del Vangelo, ed a ridurre l'uman genere alla credenza di quella religione, ch'essi procuravano di stabilire, e di stenderla per tutte le province del Mondo, non badarono, che a questo solo: si sparsero perciò e s'incamminarono per diverse parti, ove più il bisogno, ovvero l'occasione gli portava. Le prime province furon quelle d'Oriente, come più a Gerusalemme ed alla Palestina vicine: scorsero in Antiochia, in Ismirna, in Efeso, in Alessandria e nell'altre città delle province d'Oriente, nelle quali fecero miracolosi progressi, riducendo que' Popoli alla vera [125] credenza: nel che non molto venivano frastornati ed impediti dagli Ufficiali dell'Imperio, poich'essendo queste province lontane da Roma, capo e sede degl'Imperadori, non erano così da presso i loro andamenti osservati; onde poterono stabilire in molte città di quelle province la religione: e fare in più luoghi più unioni di Fedeli, ch'essi chiamaron Chiese. Ma in questi principj, come dice S. Girolamo[267], fondate ch'essi avevano nelle città le Chiese, erano quelle governate dal comun consiglio del Presbiterio, come in Aristocrazia. Da poi cresciuto il numero de' Fedeli, e cagionandosi dalla moltitudine confusioni e divisioni, si pensò, per ovviare a' disordini, di lasciare bensì il governo al Presbiterio, ma di dar la soprantendenza ad uno de Preti il qual fosse lor Capo, che chiamaron Vescovo, cioè a dire, Inspettore, il quale collocato in più sublime grado, avea la soprantendenza di tutti i Preti, ed al quale apparteneva la cura ed il pensiero della sua Chiesa, governandola però insieme col Presbiterio: tanto che 'l governo delle Chiese divenne misto di monarchico ed aristocratico, onde Pietro di Marca[268] ebbe a dire, che il governo monarchico, della Chiesa veniva temperato coll'aristocratico.

Alcuni han voluto sostenere, che in questi primi tempi il governo e politia delle Chiese fosse stato semplice e puro aristocratico presso a' Preti solamente, niente di più concedendo a' Vescovi, che a' Preti, non reputandogli di maggior potere ed eminenza sopra gli altri: ma ben a lungo fu tal errore confutato dall'incomparabile [126] Ugone Grozio[269]; ed il contrario ci dimostrano i tanti cataloghi de' Vescovi, che abbiamo appresso Ireneo, Eusebio, Socrate, Teodoreto ed altri, da' quali è manifesto, che fin da' tempi degli Apostoli ebbero i Vescovi la soprantendenza della Chiesa, e collocati in più eminente grado soprastavano a' Preti, come loro Capo. Così, non parlando de' Vescovi di Roma come cosa a tutti palese, in Alessandria, morto che fu S. Marco Evangelista, il qual soprastava a quella Chiesa, narra San Girolamo[270], che i Preti sempre ebbero uno, che eleggevan per loro Capo, et in celsiori gradu collocatum. Episcopum nominabant. Morì S. Marco nell'anno 62 della fruttifera incarnazione, e nell'ottavo anno dell'Imperio di Nerone[271]: e dopo lui fu in suo luogo rifatto, vivendo ancora S. Giovanni Apostolo, Aniano; ad Aniano succedette nel governo di quella Chiesa Abilio; ad Abilio, Cerdone; e così di mano in mano gli altri[272]. In Antiochia, Evodio, Ignazio, ec. In Gerusalemme, vivente ancor S. Giovanni, dopo la morte di S. Giacomo, tennero il Vescovato di quella città, Simone, Giusto, ec. In Ismirna dagli Apostoli stessi, cioè da S. Giovanni, fu preposto a' Preti per Vescovo Policarpo, che governò quella Chiesa fin ad un'età provetta. Così ancora la Chiesa d'Efeso, ancorchè amministrata da' Preti, a costoro però uno era, che presedeva, e dopo Timoteo, ne fu per qualche tempo Capo S. Giovanni medesimo: detto perciò Principe del Clero, ed Angelo della Chiesa: succedettero quindi Tito ed altri in appresso; tanto che nel Concilio di Calcedonia[273] per bocca di Leonzio [127] Magnesiano leggiamo: A Sancto Timotheo, usque nunc XXVII. Episcopi facti, omnes in Epheso ordinati sunt.

Nè dovrà sembrar cosa strana, per dir ciò di passaggio, che gli Evangelisti, il cui impiego era d'andar girando per le province dell'Imperio, e predicare il Vangelo, avessero potuto essere Vescovi d'alcune città; poichè, come ben avvisa Ugon Grozio[274], essi avean anche per costume di fermarsi in qualche luogo ove scorgevano, che la loro più lunga dimora potesse essere di maggior profitto: e fermati adempievano tutte le parti d'un buon Vescovo, presedendo al Presbiterio. E per questa cagione noi leggiamo, che gl'istessi Apostoli furono Vescovi d'alcune città, perchè in quelle lungamente dimorati aveano governate le loro Chiese, come tutti gli altri Vescovi, da essi in altre città instituiti, facevano.

Così col correr degli anni, disseminata la religion cristiana per tutte le province dell'Imperio, ancorchè mancassero gli Apostoli, succedettero in lor luogo i Vescovi, i quali, soprastando al Presbiterio, ressero le Chiese: e si videro perciò nelle città costituiti i Vescovi, come dice S. Cipriano: Jam quidem per omnes Provincias, et per Urbes singulas constituti sunt Episcopi. Onde da poi fu stabilmente costituito, che nel governo delle Chiese uno de' Preti dovesse soprastare agli altri, ed al quale dovesse appartenere la cura della Chiesa, come testifica S. Geronimo[275]: In toto Orbe decretum est, ut unus de Presbyteris electis caeteris superponeretur, ad quem omnis cura Ecclesiae pertineret.

[128]

Egli è però vero, che quantunque S. Cipriano dica, che in ciascheduna città fosse stato il Vescovo instituito, si sa nondimeno che moltissime non l'ebbero, e furon governate e rette dal solo Presbiterio; poichè gli Apostoli non in ogni Chiesa instituirono i Vescovi, ma molte ne lasciaron al solo governo del Presbiterio, quando fra essi non v'era alcuno, che fosse degno del Vescovato, come dice S. Epifanio[276]: Presbyteris opus erat, et Diaconis, per hos enim duos Ecclesiastica compleri possunt; ubi vero non inventus est quis dignus Episcopatu, permansit locus sine Episcopo; ubi vero opus fuit, et erant digni Episcopatu, constituti sunt Episcopi. E quelle Chiese, che rimanevan senza Vescovo, dice S. Girolamo, che communi Presbyterorum consilio gubernabantur. Così di Meroe città dell'Egitto testifica S. Atanasio[277], che fino ai suoi tempi non avea avuto Vescovo, e si governava dal solo Presbiterio: e così di molte altre città dell'Imperio testificano molti Scrittori di que' tempi.

Tale fu la politia in questi primi secoli dello stato ecclesiastico, nè altra gerarchia si ravvisò, nè altri gradi distinti, se non di Vescovi, Preti e Diaconi, i quali come loro Ministri teneano anche cura dell'oblazioni, e di ciò che al sacro ministero era necessario. Questi componevano un sol Corpo, di cui il Vescovo era Capo, e gli altri Ministri, o meno o più principali erano i membri, ed era come un Consiglio o Senato del Vescovo, che insieme con lui governava la Chiesa. Quindi S. Girolamo[278] ragionando de' Vescovi, dicea [129] che anche quelli aveano il lor Senato, cioè il ceto de' Preti; siccome anche dicea San Basilio[279]; ed Ignazio scrivendo a' Tralliani affermava, che i Preti fossero i Consiglieri del Vescovo, gli Assessori di quello, e che dovessero riguardarsi come succeduti in luogo del Senato Apostolico: quindi era che S. Cipriano non soleva trattar cos'alcuna di momento senza l'intervento o consiglio de' suoi Preti e Diaconi, come si raccoglie dalle sue epistole[280].

Alcuni credettero[281], che questa politia di dar la soprantendenza a' Vescovi e superiorità su i Preti fosse stata introdotta anche ad esempio de' Gentili, appresso i quali nel Sacerdozio parimente si notavano più gradi; e si vede ciò non solamente essersi praticato da' Greci e da' Romani, ma essere stata anche disciplina antichissima de' Druidi nella Gallia, come narra Cesare ne' suoi Commentarj[282]: Druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet authoritatem. Presso a' Burgundi fuvvi ancora il Sacerdote massimo, come narra Marcellino[283], e nella Repubblica giudaica questo stesso costume approvò anche Iddio S. N. quando a tutti i Sacerdoti prepose uno di maggiore autorità.

Ma quantunque fosse ciò probabile, e che a loro imitazione si fosse instituito tal ordine, nulladimanco dovrà sembrare a ciascuno più verisimile ciò che Grozio[284] suspica, essersi questa politia introdotta ad esempio delle Sinagoghe degli Ebrei, delle quali par [130] chè le Chiese fondate dagli Apostoli fossero simulacri ed immagini: ed in fatti osserviamo, che in molti luoghi le Sinagoghe erano senz'imperio, siccome la Chiesa da se non ha imperio alcuno, e tutta la sua potenza è spirituale; si vede ancora, che gli Apostoli predicando per la Palestina e per le province d'intorno il Vangelo, trovavano in que' tempi molte Sinagoghe ben instituite fin da' tempi della dispersione babilonica: e ricevendo queste per la predicazione degli Apostoli la fede di Cristo, giacchè ad esse prima d'ogn'altro fu predicato l'Evangelo, non vi era cagione, perchè dovessero mutar politia, ed allontanarsi da quella, che l'esperienza di molti secoli aveva approvata e commendata per buona; si aggiungeva ancora, che riusciva agli Apostoli più acconcia al loro fine, perchè in cotal guisa, dovendo disseminar una nuova religione nell'Imperio gentile, si rendeva la novità meno strepitosa, nè dava tanto su gli occhi agli Ufficiali dell'Imperio, a' quali poco importava, che niente mutandosi della lor esteriore politia, le Sinagoghe divenissero Chiese; e fondandosi altrove altre Chiese, perchè all'intutto conformi agl'instituti giudaici, a' quali già essi s'erano accomodati, picciola novità loro s'arrecava nè tanta che potesse turbar lo stato civile dell'Imperio. Così in ogni Sinagoga essendovi uno, il qual soprastava agli altri, che chiamavan il Principe, in suo luogo sostituirono il Vescovo: erano in quelle i Pastori, ed a costoro succedettero i Preti: v'eran ancora gli Elemosinieri, i quali avean in gran parte corrispondenza co' Diaconi.

[131]

§. II.  Politia ecclesiastica in Occidente, ed in queste nostre regioni.

Sparsa intanto per le province d'Oriente questa nuova religione, ed avendo in quelle parti avuto mirabili progressi, si procurò anche stabilirla nell'Occidente. Alcuni degli Apostoli, e molti loro discepoli s'incamminaron perciò verso queste nostre regioni. Narrasi che S. Pietro stesso lor Capo, lasciando la Cattedra d'Antiochia, avendo instituito Vescovo in quella Chiesa Evodio, navigasse con molti suoi discepoli verso Italia per passare in Roma: che prima approdasse in Brindisi, quindi ad Otranto[285], e di là a Taranto, nella qual città vi predicasse la fede di Cristo, con ridurre molti di que' cittadini alla nuova credenza, e vi lasciasse Amasiano per Vescovo[286]. Alcuni anche han voluto[287], che visitasse eziandio Trani, Oria, Andria, e per l'Adriatico navigasse infino a Siponto; indi voltando le prore indietro, costeggiando i nostri lidi capitasse a Reggio, nelle quali città piantasse la religione cristiana: poi da Reggio partitosi con suoi compagni, navigando il mar Tirreno, e giunto nel nostro mare, riguardando l'amenissimo sito della città di Napoli, determinossi di sbarcarvi per ridurla alla vera credenza: e qui vogliono, che incontratosi nella porta della città con una donna chiamata Candida, molti prodigi con lei e con suo fratello Aspreno adoperasse, di che mossi i Napoletani, [132] riceverono da lui il battesimo, e prima di partirsi per Roma, instituisse Vescovo di questa città Aspreno, che fu il primo. Narrasi ancora, che in questo passaggio medesimo S. Pietro s'innoltrasse insino a Capua, e che dopo aver ridotta questa città, vi lasciasse per Vescovo Prisco, uno degli antichi discepoli di Cristo nella cui casa fece apparecchiar la Pasqua, e nel Cenacolo cibossi co' suoi discepoli. Che in oltre essendosi portato fin ad Atina, città ora distrutta, v'avesse istituito Marco per Vescovo: e finalmente prendendo il cammino per Roma nel passar per Terracina, avesse quivi ordinato Vescovo Epafrodito. I Baresi similmente pretendono, che S. Pietro in questo passaggio, non meno che a Taranto ed Otranto, fosse capitato anche in Bari[288]. I Beneventani che pure ad essi avesse lasciato il primo Vescovo Fotino[289]. Que' di Sessa pretendono il medesimo, e che avesse lor dato Simisio per Vescovo. In brieve, se si vuol attendere a sì fatte novelle, non vi riman città in queste nostre regioni, che non pretenda avere i suoi Vescovi instituiti, o da S. Pietro o dall'Apostolo Paolo, come vanta Reggio del suo primo Vescovo Stefano, o da gli settantadue discepoli di Cristo nostro Signore, o finalmente dai discepoli degli Apostoli. In fatti Pozzuoli tiene il suo primo Vescovo essere stato Patroba de' 72 discepoli, e discepolo di S. Paolo, del quale egli fa menzione nell'epistola a' Romani, e che ordinato Vescovo da S. Pietro, capitato in Pozzuoli, vi seminasse la fede cristiana.

Narrasi ancora, che questa prima volta giunto S. Pietro [133] in Roma, bisognò che tosto scappasse via, a cagion de' rigorosi editti, ch'avea allora pubblicati l'Imperador Claudio contra gli Ebrei, volendo che tutti uscissero di Roma[290]. Che ritornato perciò in Gerusalemme, dopo avere ordinati molt'altri Vescovi nelle città d'Oriente, se ne venisse di nuovo in Italia per passare la seconda volta in Roma; e che in questo secondo passaggio capitando nella Villa di Resina presso a Napoli, e quivi colle sue predicazioni convertendo e battezzando quella gente, vi lasciasse Ampellone per meglio instruirli nella fede di Cristo: donde ritornato poscia in Napoli, fu da Aspreno e da' Cristiani napoletani ricevuto con infiniti segni di stima e di giubilo, fondandovi una Chiesa: e che in questo secondo passaggio scorresse per molte altre città della Puglia. Indi passato in Roma, stabilisse in quella città la sua Sede, ordinandovi Vescovo Lino, il quale dopo patito il martirio, ebbe per successore Clemente, indi Cleto, ed Anacleto, e gli altri Vescovi, secondo il catalogo, ch'abbiamo de' Vescovi di Roma[291].

Altri all'incontro con un sol fiato han preteso mandar a terra tutti questi racconti, e rendergli favolosi: poichè si sono impegnati con pari temerità, che pertinacia, a sostenere che S. Pietro non solamente non fosse capitato in queste nostre parti, ma sfacciatamente han ardito d'affermare, che nemmen fosse stato in Roma giammai. Il più impegnato per questa parte, si vede esser Salmasio[292], il quale contra ciò che credettero [134] i Padri[293] antichi della Chiesa, e ciò che a noi per antica tradizione fu tramandato da' nostri maggiori, vuol egli per ogni verso che S. Pietro non fosse mai stato a Roma; ponendo in disputa quel, che con fermezza ha tenuto sempre e costantemente tiene la Chiesa: il che diede motivo a Giovanni Ovveno[294] di credere falsamente, che rimanesse questo punto ancor indeciso.

An Petrus fuerit Romae, sub Judice lis est.

Ma che che sia di questa disputa, la quale tutta intera bisogna lasciarla agli Scrittori ecclesiastici, che ben a lungo hanno confutato quest'errore: a noi, per quello che richiede il nostro instituto, basterà, che sia incontrastabile, che o da S. Pietro stesso, o da gli Apostoli, ovvero da' loro discepoli, o da altri lor successori, fosse stata in molte città di queste nostre regioni introdotta la religione cristiana, e fondate molte Chiese, o sien unioni di Fedeli, ed instituiti perciò molti Vescovi, assai prima che da Costantino M. si fosse abbracciata la religione nostra, cioè ne' tre primi secoli dell'umana Redenzione. Si rende tutto ciò manifesto, non pure da' frequenti e spessi martirj, che seguiron in queste nostre regioni, ma da' cataloghi antichi, che ancor ci restano de' Vescovi di molte città. Napoli prima di Costantino M. ne conta moltissimi: Aspreno, Epatimito, Mauro, Probo, Paolo, Agrippino, [135] Eustazio, Eusebio, Marciano, Cosma, ed altri. Capua novera ancora i suoi, Prisco, Sinoto, Rufo, Agostino, Aristeio, Proterio e Proto. Nola, Felice, Calionio, Aureliano e Massimo. Pozzuoli, Patroba, Celso e Giovanni. Cuma, Mazentio. Benevento anche ha i suoi, fra i quali il famoso Gennaro, che sotto Diocleziano sostenne il martirio. Atina vanta fin da' tempi degli Apostoli, Marco, da poi Fulgenzio ed Ilario. Siponto novera parimente i suoi. Bari, Otranto, Taranto, Reggio, Salerno, ed altre città di queste nostre province prima di Costantino, ebbero i loro Vescovi, de' quali lungo catalogo ne fu tessuto da Ferdinando Ughello in quella laboriosa opera dell'Italia Sacra.

Ma siccome non può mettersi in disputa, che la religione cristiana fosse stata introdotta in molte città di queste nostre province ne' primi secoli, e che vi fosse in ciascuna di esse molto numero di Fedeli riconoscenti i Vescovi per loro moderatori; così non potrà dubitarsi, che l'esercizio di questa religione si fosse da essi usato con molta cautela, e di soppiatto e ne' nascondigli più riposti delle lor case, e sovente nelle grotte più sconosciute e lontane dal commercio delle genti. Con minor libertà certamente poterono i nostri primi Vescovi in queste province cotanto a Roma vicine, mantener tra' Fedeli questa religione, di quel che far potevan coloro delle province orientali, come da Roma più lontane. Erano gl'Imperadori romani tutt'intesi a spegnere affatto questa nuova religione. Il solo nome di Cristiano gli faceva esosi ed abbominevoli, e per rendergli più esecrandi, gli accagionavan di molti delitti e scelleraggini: ch'essi fossero omicidi, aggiugnendo che ammazzassero gl'infanti, e si cibassero delle loro carni: che fossero incestuosi, [136] e che nelle loro notturne assemblee mischiati, con esecrande libidini si contaminassero[295]. Ed a coloro che per la manifesta lor probità non potevan imputar queste scelleratezze, rendevano detestabili presso agli Imperadori, come disprezzatori del culto degl'Iddii; che defraudassero gl'Imperadori del lor onore, mettessero sottosopra le leggi romane ed i loro costumi e tutta la natura, non volendo invocar gl'Idii, nè degnando di render loro i sacrifizj, laonde venivan chiamati Atei, Sacrileghi, Perturbatori dello Stato e dei costumi, e pestilenza eterna del genere umano e della natura; poichè col disprezzo, dicevan essi, che i Cristiani facevan de' loro Dii, ne stimolavan l'ira alla vendetta, onde eran cagione di molti mali negli uomini e nelle Nazioni; tanto che presso de' Gentili passò per comune e perpetua querela, che i Cristiani fossero cagione di tutti i loro mali: la qual perversa opinione durò in Roma fin a' tempi di Alarico, quando prese quella città, attribuendo questa lor disgrazia all'ira degl'Iddii, i quali per lo disprezzo, che di lor si faceva e della loro religione, vendicavansi in cotal guisa de' Romani: ciò che mosse S. Agostino contra questa vana credenza a scrivere i libri della città di Dio, e di far sì, che Orosio scrivesse la sua Orchestra, ovvero i suoi libri dell'Istoria contra i Pagani[296].

Per queste cagioni gli Imperadori cominciarono a perseguitargli: e terribile sopra ogni altra fu la persecuzione di Nerone, che con severi editti gli condannò, come pubblici inimici dello Stato e del genere [137] umano, a pena di morte[297]. Domiziano seguitò le sue orme. Trajano non fu contro d'essi cotanto crudele, poichè, rescrivendo a Plinio, Proconsole allora in Ponto ed in Bitinia, che lo richiedeva, come dovesse punirgli, atterrito dal numero grande, che alla giornata vedeva crescere in quelle province, gli ordinò che accusati e convinti, contro di loro severamente procedesse, ma non accusati, non dovesse farne altra inquisizione, usando più tosto connivenza. Nel che, come nota Vossio, fu maggiore la clemenza di Trajano gentile contra i Cristiani, che degli stessi nostri Cristiani, non pur contra i Maomettani, ma contra i Cristiani medesimi imputati d'eresia, contro a' quali l'Inquisizione, Tribunale nuovamente introdotto, procede con molto rigore, per inquisizione e senz'accusa: del quale Tribunale altrove ci tornerà occasione di lungamente ragionare. Crudelissimi nemici del nome cristiano ancora furon Adriano e gli Antonini: Severo, Massimino, Decio, Valeriano, Diocleziano, Massimiano, Galerio e finalmente Massenzio; e se cotali persecuzioni furono nell'altre province dell'Imperio feroci, assai più terribili si patirono senza dubbio nella nostra Campagna, e nell'altre province, delle quali ora si compone questo Reame, come più a Roma vicine. Gli Ufficiali, da' quali venivan governate, per aderire al genio de' Principi, e per farsi conoscere zelanti del lor servigio, essendo più da presso osservati, eseguivan con rigore e prontezza i loro editti: quindi è che dalla Campagna e da queste nostre province a ragione si vantino tanti Martiri[298], e che quasi tutti que' primi [138] Vescovi delle loro città s'adorino oggi per Santi, siccome quelli, che in mezzo a sì fiere tempeste costantemente confessarono la fede di Cristo, ed intrepidi non curarono nè stragi, nè morti. Sono ancor oggi a noi rimasi i vestigi del Cimiterio Nolano: le memorie de' martirj[299] praticati in Pozzuoli ne' tempi di Diocleziano: e tanti altri Cimiterj de' Martiri nell'altre province, che da poi, data la pace di Costantino alla Chiesa, furon da' Fedeli scoverti e manifestati; onde è che concorrendo alle tombe de' Martiri per devozione i Popoli delle città convicine, si fossero in appresso que' luoghi frequentati e renduti pieni d'abitatori, e costruttevi nuove terre e castelli: e quindi è nato, che prendessero il nome di quel Santo, e che oggi nel nostro Reame, le nuove terre non altronde s'appellino, che da qualche Santo lor tutelare[300].

In questi tempi cotanto turbati, niuna esterior politia ecclesiastica poteva certamente ravvisarsi in queste nostre province: i Fedeli per lo più nascosi e fuggitivi, e con tante turbolenze, se non di soppiatto potevan attendere a gli esercizj della lor novella religione. I Vescovi badavano con molto lor pericolo alle sole conversioni, e praticando in città tutte gentili, secondo che la necessità gli astringeva, scorrevan or [139] in una, or in altra città; tanto era lontano, che potessero pensare al governo politico delle lor Chiese.

Per queste cagioni niuna mutazione o cambiamento potè recarsi nella politia dell'Imperio, e tanto meno in queste nostre province a tali tempi, per la nuova religione cristiana. Le città eran tutte gentili, gentile era la religione, che pubblicamente si professava, i Magistrati, le leggi, i costumi, i riti tutti. I Cristiani erano riputati come pubblici inimici, perturbatori dello Stato, e come tali fuori della Repubblica: le loro adunanze severamente proibite, non potevan aver Collegi separati, non potevan le lor Chiese posseder cos'alcuna. Tutte le città di queste nostre province, ancorchè nelle medesime molti Cristiani vivessero di nascosto, e tuttavia il numero de' Fedeli crescesse, eran gentili, ed il Gentilesmo era pubblicamente professato. Ciascuna città governandosi ad esempio di Roma, e molte da' Magistrati romani, si studiava anche nella religione imitare il suo Capo: e ciò non pur facevano i Municipj, le Colonie, e le Prefetture: ma anche le Città Federate, che maggior libertà avevano.

§. III.  NAPOLI, siccome tutte l'altre città di questo Regno erano universalmente Gentili.

Napoli non già, come altri crede, divenne tutta intera cristiana fin dal primo dì della predicazione, che dicesi esservi stata fatta da San Pietro. Ben è probabile, che alcuni de' Napoletani abbracciasser incontanente la fede di Cristo, e con molta cautela, seguendo il lor Vescovo Aspreno, vivessero occulti in tal credenza; ma tutto il resto era idolatra, e questo culto veniva pubblicamente professato. Anzi che fra le città [140] greche di queste nostre regioni, Napoli fu certamente la più superstiziosa e la più attaccata a gli errori degli Etnici, ed all'antica sua religione. Aveva pubblici templi, e varie Deità: ad Eumelo suo patrio Dio: ad Ebone[301], che per l'aggiunto se gli dava di chiarissimo, ovvero risplendentissimo Dio, si crede lo stesso che Apollo, ed era ancor detto Dio Mitra: a Castore e Polluce: a Diana: a Cerere, ed a tant'altri Numi. Ebbe altresì le Fratrie (come s'è già notato) dedicate non solamente a' suoi patrj Dii, ma anche agli Eroi, dove ne' privati tempj in quelle costrutti, sacrificavasi dalle famiglie, che quivi si raunavano. Infiniti eran ancora i giuochi, che per celebrare con maggior pompa e solennità le lor feste in questa città si facevano, e rinomati tanto, che tiravan dalle più remote parti gli spettatori: famosissimi fra i quali eran i giuochi Lampadici, celebrati con tanto studio e maestria, che invogliavano gli stessi Cesari ad esserne spettatori; nè inferiori ammiravansi i festeggiamenti al tempio di Cerere presso alla marina, onde perciò questa Dea vien da Stazio nomata Actia Ceres[302].

Vanamente credono alcuni, che in Napoli cessassero queste festività, e questi tempj, tantosto che fuvvi da S. Pietro predicato il Vangelo. Imperocchè è manifesto, che vi si mantenner quelli per molto spazio dappoi: Stazio, che scrisse sotto Domiziano, nelle sue Selve ed altrove fa di queste feste e di questi giuochi [141] frequente menzione. Più scioccamente ancora si sono altri persuasi, che nel Ginnasio, il qual era in Napoli dedicato ad Ercole, vi si facessero esercizj di lettere, e che fosse stat'onorato da Ulisse, come ascoltatore; quasi che in mezzo a que' tanti suoi lunghi e faticosi errori, se gli fosse svegliato l'appetito di metters'in Napoli ad apprender lettere. Era il Ginnasio instituito per esercitarvi il corpo nel corso, nel cesto, nelle lutte, e negli altri giuochi Ginnici ed Atletici: e tanto celebre ed illustre era questo Ginnasio per lo rado e stremo valore degli Atleti, che non solamente tirava a se peregrini di remotissimi paesi ma (ch'è più notabile) fino gli stessi Imperadori, i quali portavansi spesso in questa città, e godevan d'esserne spettatori insieme e spettacolo. Fu tal Ginnasio favorito da Augusto, da Tiberio, da Caligola, da Claudio, ed assai più da Nerone. Tito ne fu sommamente vago ed, abbattuto dal tremuoto, il rifece: l'onoraron ancora Domiziano, Trajano, Adriano, M. Aurelio il filosofo, Comodo, Settimio, ed Alessandro Severo, e quasi tutti gl'Imperadori, che a Costantino precederono. Venendo dunque Napoli, a cagion di tali spettacoli, cotanto da questi Imperadori frequentata, la più parte de' quali essendo stati nemici fieri ed acerbi, e crudelissimi persecutori della cristiana religione; qual mai potrà persuadersi, che questa città, dopo il passaggio di S. Pietro per Roma, avesse il Gentilesimo deposto e pubblicamente abbracciata la religione cristiana e professata? Non i costumi de' Napoletani tenacissimi del culto dei loro patrj Dii, non le frequenti dimore de' romani Imperadori in questa città, non il costoro mortal odio contro de' Cristiani il possono certamente persuadere; ma ben più tosto chiaramente convincon il contrario, [142] e ne dimostrano quanto grave errore sia stato il credere, che in Napoli non vi furon martirj, quando è indubitato, siccome nemmen potè negarlo lo stesso P. Caracciolo, che ve n'ebbero, e molti e spessi; ed il Cardinal Baronio[303], favellando de' SS. Fausto e Giulita, rapporta in Napoli essere stati martoriati. Conciossiachè la città, quantunque creder si volesse, che come federata non fosse stata sottoposta a' romani editti, era ella nondimeno per se stessa idolatra, onde acerbissima nemica de' Cristiani, e tali parimente eran coloro, che ne ministravan il governo. Anzi per la gran superstizione de' Napoletani, e per la somma loro venerazione verso i patrj Numi, eziandio dappoichè Costantino M. diede la pace alla Chiesa, si penò gran tempo innanzi che il falso culto potesse interamente abolirvisi, siccome in altre città dell'Imperio altresì, ed in Roma stessa fino a' tempi degl'Imperadori Arcadio, ed Onorio, Principi religiosissimi e risoluti di sterminare nell'Imperio l'Idolatria, non vi si potè affatto estinguere. Ed è tutta mal tessuta favola ciò, che narrasi delle tante chiese ed altari in Napoli eretti da Costantino M. come chiaro vedrassi ne' seguenti libri di quest'Istoria: onde a ragione reputò il Giordano, seguitato dal Tutini[304], che il tempio dedicato in Napoli da Tiberio Giulio Tarso a Castore e Polluce, fosse stato poscia da' Napoletani consecrato al vero Nume in onor di S. Paolo Apostolo, non già nel tempo di Costantino M. ma di Teodosio Imperadore. Simmaco[305], il qual ebbe vita nel quarto [143] secolo, ci fa vedere ch'ella si mantenne gentile per molt'anni, dappoichè da Costantino fu abbracciata la religione Cristiana; laonde per questa costanza di non aver seguitato l'esemplo dell'altre città, ma d'aver ritenuta l'antica religione, vien da lui lodata e fregiata del titolo di città religiosa. Ecco le sue parole: Quamprimum Neapolim petitu Civium suorum visere studeo: illic honori Urbis religiosae intervallum bidui deputabo. Dehinc, si bene Dii juverint, Capuano itinere; venerabilem nobis Romam, laremque petemus. Ciascun sa, che Simmaco fu fiero ed atroce nemico de' Cristiani, onde chiamando Napoli città religiosa non poteva a patto veruno intendere della cristiana religione; ma solamente perchè ruinando da ogni lato il Gentilesimo, reputò egli Napoli cospicua e religiosa per quella falsa religione, che da lei costantemente si riteneva e professava.

Camillo Pellegrini[306] lasciò a' Letterati napoletani la cura di sciogliere il nodo, che questo passo di Simmaco gli metteva per le mani, poichè veramente è incompatibile colla comun credenza de' Napoletani, che questa città fosse divenuta cristiana fin dalla prima predicazione di S. Pietro. Ma questo difficil passo, ben fu assai prima scoverto dal nostro accuratissimo Chioccarelli[307], (cui a ragione P. Lasena suo amicissimo solea chiamare, per le sue diligenti investigazioni, can bracco) e s'impegnò di superarlo, con dare diverso senso a quella parola Religiosae; cioè che volesse intender Simmaco, non già della religione pagana, ma della cristiana. Interpretazione, la quale in [144] vero pur troppo s'allontana dalla condizione di que' tempi, e dalla religione di quell'Autore, alla quale fu egli tanto tenacemente attaccato, quanto alla cristiana implacabilmente nemico. Un Frate Carmelitano Scalzo[308] a' nostri tempi ha voluto ancor egli prendersi questa briga, ma non eran da ciò le sue penne, onde assai più infelicemente ne venne a capo. Se però la verità dee esserne più amica d'ogni altra cosa, e se liberi dalla passione d'un affettato ed ozioso amore verso la Patria vorremo con diritto occhio guardarvi, agevolissima per nostro avviso la soluzione del nodo si troverà, anzi niun nodo esservi certamente scorgeremo, quando si voglia por mente allo stato d'allora di queste città cotanto a Roma vicine, della quale si pregiavan come di lor Capo imitare ogni andamento, ed a queste nostre province d'Occidente, dove non si finì d'abbatter l'Idolatria fin'a' tempi d'Arcadio e d'Onorio.

Nell'altre province, e più in quelle d'Oriente poteva un poco meglio ravvisarsi la politia ecclesiastica, e professarsi con più libertà la cristiana religione, come quelle, dove le persecuzioni non furon cotanto rabbiose e feroci; ma non per tutto ciò recossi alterazione alcuna allo Stato civile, o altro cambiamento: imperocchè come perseguitata e sbandita dall'Imperio, non poteva pubblicamente ritenersi, e molto meno professarsi.

§. IV.  Gerarchia ecclesiastica, e Sinodi.

Non conobbe la Chiesa in questi tre primi secoli altra gerarchia, nè altri gradi, se non di Vescovi, [145] Preti e Diaconi. I Vescovi ch'avevan la soprantendenza, e a' quali tutti gli ordini della Chiesa ubbidivano, col loro sommo zelo e carità, se per avventura divisione alcuna scorgevan tra' Fedeli, tosto la componevano, e sedavano gli animi perturbati. La carità era uguale, così negli uni, che negli altri, ne' primi di servirsi con moderazione della loro preminenza, ne' secondi d'ubbidir loro con intera rassegnazione. Se occorreva deliberarsi affare alcuno di momento intorno alla religione, acciocchè si mantenesse fra tutte le Chiese una stabile concordia e legame, e non fosse discordante dall'altra: solevan i Vescovi infra di loro comunicar ciò che accadeva, e per mezzo di messi o di lettere, che chiamavan formate, mantenevan il commercio, e così tutti uniti con istretto nodo, rappresentanti la Chiesa universale, si munivano contra le divisioni e scismi, che mai avessero potuto insorgere[309].

Quando lor veniva fatto, e le persecuzioni davan qualche tregua, sicchè avesser potuto da varie città unirsi insieme in una, raunavansi essi ne' Sinodi, per far delle decisioni sopra la vera fede, per regolar la politia e' costumi de' Cristiani, ovvero per punire i colpevoli, e deliberavano ciò che altro occorreva: seguitando in ciò l'orme degli Apostoli, e di S. Pietro lor Capo, il quale in Gerusalemme ragunati i Fedeli, tenne Concilio, che fu il primo, detto perciò Gerosolimitano, e che negli atti degli Apostoli fu da S. Luca inserito[310].

Nel secondo secolo, quando erasi più disseminata la religione, così nelle province d'Oriente, come d'Occidente si tennero altri Sinodi. I primi furono nell'Asia, [146] nella Siria e nella Palestina. In Occidente ancora cominciaron in questo secolo, essendosene in Roma e nella Gallia tenuti contra l'eresie di Montano, de' Catafrigi, e per la controversia Pascale[311].

Nel terzo secolo si fecero più spessi in Roma contro Novato e suoi seguaci, ma più nell'Asia e nell'Affrica.

§. V.  De' regolamenti ecclesiastici.

Non ebbe la Chiesa ne' primi tempi altri regolamenti, se non quelli, ch'erano della Scrittura Santa, nè altri libri erano conosciuti: da poi per l'occasione de' Concilj tenutisi, furon alcuni altri regolamenti in quelli stabiliti, onde erano le Chiese di quelle province governate.

Questi non eran, che regolamenti appartenenti alla disciplina della Chiesa, non essendo stato giammai negato al Sacerdozio il conoscimento delle differenze della religione, ed il far regolamenti appartenenti alla lor disciplina. Anche a' Sacerdoti del Paganesimo era ciò lecito di fare: ed era diritto comune, così di Romani, come di Greci, che ogni Comunità legittima conoscesse de' suoi proprj negozj, e vi facesse de' regolamenti. Cajo nostro Giureconsulto, favellando di simili Comunità e Collegi, dice: His autem potestatem facit lex, pactionem quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica legge corrumpant; e rapporta una legge di Solone, nella quale lo stesso era stabilito fra Greci[312]. [147] Giovanni Doujat[313], e Dupino[314] gran Teologo di Parigi, insegnarono, che la Chiesa non solamente abbia tal autorità per diritto comune, per cui ciascuna società dee aver qualche forma di governo, per mantenersi senza confusione e disordini, e per potervi stabilire de' regolamenti, ma che fu anche da Cristo conceduta agli Apostoli questa potestà di far de' canoni appartenenti alla disciplina della Chiesa; essendo indubitato, che N. S. diede autorità a' suoi Apostoli e loro successori di governare i Fedeli in tutto ciò che riguarda la religione, così circa il rischiaramento de' punti della fede, come intorno alla regola de' costumi. E questi furono i primi fondamenti ed i principj, onde trasse origine la ragion canonica, la quale da poi, col lungo correr degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da' romani Pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente sottomettersi le leggi civili, tanto che dentro un Imperio medesimo, contra tutte le leggi del governo, due corpi di leggi diverse si videro, intraprendendo l'una sopra l'altra. Origine che fu ne' seguenti secoli delle tante contese giurisdizionali, e de' tanti cangiamenti dello Stato politico e temporale dell'Imperio, e di queste nostre province, come nel corso di quest'Istoria partitamente si conoscerà.

In questi primi secoli però niuna alterazione recaron alla politia dell'Imperio tali regolamenti: essi eran solamente ristretti per le differenze della religione, ed a ciò che concerneva il governo delle Chiese, e la lor disciplina: nè delle cose civili e dell'Imperio s'impacciavano, lasciando tutto intero a' Principi il governo della Repubblica, come prima.

[148]

§. VI.  Della conoscenza nelle cause.

Ebbe ancora la Chiesa in questi tempi, come cosa attenente alla sua disciplina, la censura, e correzion de' costumi fra Cristiani. Se qualche Fedele deviando dal diritto cammino, inciampava in qualche eresia, ovvero per qualche pubblico e notorio peccato, scandalizzava gli altri, era prima secretamente ripreso, perchè si ravvedesse: se non s'emendava, denunciavasi alla Chiesa, cioè al Vescovo e Presbiterio co' Fedeli, dalla quale era la seconda volta ripreso, e se per fine ciò non ostante s'ostinava nell'errore e nella libertà del vivere, era scacciato dalla loro Comunione, ed avuto come tutti gli altri Gentili e Pubblicani, privandolo di tutto ciò, che dava la Chiesa a' suoi Fedeli, e 'l lasciavan nella società civile con gli altri Gentili; nè, se non dopo un vero pentimento ed una rigorosa penitenza, veniva di nuovo ammesso nella loro Comunione.

Questa correzion di costumi, durante lo stato popolare di Roma, risedeva presso a' Censori, chiamati perciò Magistri morum, i quali avevan potere di notar d'ignominia ogni sorta di persone, per li casi, di cui la giustizia non avea costume d'inquirere, come saggiamente e ben a lungo tratta Bodino. Instituto certamente assai commendevole, il qual essendo mancato sotto gl'Imperadori, fu rilevato da' primi Cristiani, che per mezzo di questa censura mantenevansi in una singolar purità di costumi, come testimonia Plinio de' Cristiani de' suoi tempi: ed è quello, che dice Tertulliano nel suo Apologetico, parlando dell'Assemblee della Chiesa: Ibidem, dic'egli, Exhortationes, castigationes, et [149] Censura Divina: ond'è, ch'essi chiamaron il Capo di ciascuna Chiesa Episcopon, come che significasse Inspettor de' costumi della sua Chiesa: per la qual cosa, le scomuniche ed altre pene della Chiesa sono chiamate ancor oggi censure ecclesiastiche: materia, che richiederebbe più lungo discorso, ma quello di Bodino può supplire.

Erasi ancora in questi tempi introdotto costume fra' Cristiani di sottomettere le loro differenze al giudicio della Chiesa, a fine di non piatire avanti a' Giudici pagani, secondo il precetto di S. Paolo nella prima a' Corinti. Talmente che si vede in Tertulliano, in Clemente Alessandrino, ed in altri Autori di questi tempi, che coloro, i quali non volendovisi sottomettere, facevan litigare i Cristiani dinanzi a' Magistrati gentili, erano riputati presso che infedeli, o almeno cattivi Cristiani: ma questi giudicj, che davansi da' Vescovi, non eran che pareri arbitrali, nè obbligavan i litiganti che per onore; come allorchè persone ragguardevoli intromettonsi alla composizione di qualche differenza: del rimanente nè eran costretti a sottomettervisi, nè proferito il parere potevan essere astretti ad eseguirlo, lasciando loro la libertà di ricorrere a' Magistrati secolari.

Sopra queste tre sole occorrenze prese la Chiesa a conoscere nel suo cominciamento; ciò sono, sopra gli affari della fede e della religione, di cui ella giudicava per forma di politia: sopra gli scandali e minori delitti, di cui ella conosceva per via di censura e di correzione: e sopra le differenze fra' Cristiani, che a lei riportavansi, le quali decideva per forma d'arbitrio e di caritatevole composizione. Donde si vede, che gli Ecclesiastici non avevan quella cognizione perfetta, che [150] nel diritto chiamasi giurisdizione: ma la loro giustizia era chiamata notio, judicium, audientia, non giammai jurisdictio.

§. VII.  Elezione de' Ministri.

Era ancor cosa appartenente alla disciplina della Chiesa di fornirla de' suoi Ministri: e Dupino[315] scrisse, essere stata da Cristo conceduta anche questa potestà a gli Apostoli di sostituire nelle Chiese i loro successori, cioè i Vescovi, i Preti ed altri Ministri. Ed in vero gli Apostoli, come si raccoglie dall'Istorie Sacre[316], in molti luoghi ordinaron i Vescovi e gli lasciaron al governo delle Chiese, ch'essi aveano fondate: ma da poi mancati gli Apostoli, quando per la morte d'alcun Vescovo rimaneva la Chiesa vacante, si procedeva all'elezione del successore; ed allora si chiamavan i Vescovi più vicini della medesima provincia, almeno al numero di due, o di tre; ch'era difficile in questi tempi il tener Concilj numerosi, se non negl'intervalli delle persecuzioni: ed alle volte le sedi delle Chiese restavano gran tempo vacanti; e quelli unendosi insieme col Presbiterio e col Popolo fedele della città, procedevan all'elezione[317]. Il Popolo proponeva le persone che desiderava s'eleggessero, e rendeva testimonianza della vita e costume di ciascuno, finalmente unito col Clero, e i Vescovi presenti, acconsentiva all'elezione, onde tosto il nuovo eletto era da' Vescovi consecrato. Alcune volte il Clero ed il Popolo [151] avean nell'elezioni maggiore o minor parte, poichè in alcune esponeva solamente i suoi desiderj, e rendeva le testimonianze della vita e costumi: in altre s'avanzava ad eleggere[318], come accadde nell'elezione di S. Fabiano Vescovo di Roma, che al riferir d'Eusebio fu eletto a viva voce di Popolo, il quale aveagli veduta sul capo fermarsi una colomba: il che quando accadeva, ed i Vescovi lo stimavan conveniente, era da essi l'elezione approvata, ed ordinato l'eletto: e nell'istesso tempo si faceva l'elezione e la consecrazione, ed i medesimi Vescovi erano gli elettori e gli ordinatori. Nè vi si ricercava altro; imperciocchè in questi tre primi secoli non era stata ancor dichiarata da' canoni la ragion de' Metropolitani sopra l'ordinazioni de' Vescovi della loro provincia, come fu fatto da poi nel quarto secolo; di che tratteremo nel libro seguente, quando dell'esterior politia ecclesiastica del quarto e quinto secolo ci tornerà occasione di favellare.

Questa in brieve fu la disciplina ecclesiastica intorno all'elezioni de' Vescovi di questi tre primi secoli, secondo si ravvisa dall'Epistole di S. Clemente Papa, e di S. Cipriano Scrittore del terzo secolo[319]. L'elezione de' Preti e de' Diaconi s'apparteneva al Vescovo, al qual unicamente toccava l'ordinazione, ancorchè nell'elezione il Clero ed il Popolo v'avessero la lor parte.

[152]

§. VIII.  Beni temporali.

Non furon nella Chiesa in questi primi tempi tante facoltà e beni, sicchè dovesse molto badare all'amministrazione e distribuzione de' medesimi, e stabilire anche sopra ciò suoi regolamenti. Ne' suoi principj non ebbe stabili, nè peranche decime[320] certe e necessarie: i beni comuni delle Chiese non consistevano quasi che in mobili, in provigioni da bocca, ed in vestimenti, ed in danajo contante, che offerivano i Fedeli in tutte le settimane, in tutti i mesi, o quando volevano, atteso che non vi era cos'alcuna di regolato, nè di forzato in quelle offerte. Quanto agl'immobili, le persecuzioni non permettevano di acquistarne, o vero di lungo tempo conservargli. I Fedeli volontariamente davan oblazioni e primizie, per le quali fu destinata persona, che le conservasse, e ne' tempi di Cristo Salvator nostro ne fu Giuda il conservatore; ma non v'era altro uso delle medesime, se non che di servirsene per loro bisogni d'abiti e per vivere, e tutto il di più che sopravanzava, distribuivasi a' poveri della città.

Quest'istesso costume, dopo la morte del nostro Redentore, serbarono gli Apostoli, i quali tutto ciò che raccoglievan da' Fedeli, che per seguirgli si vendevan le case ed i poderi, offerendone ad essi il prezzo, riponevan in comune: e non ad altr'uso, come s'è detto del denaro si servivano, se non per somministrare il bisognevole a loro medesimi, ed a coloro che destinavano per la predicazione del Vangelo, e per sostenere [153] i poveri e bisognosi de' luoghi dove scorrevano. E crescendo tuttavia il numero de' Fedeli, crescevano per conseguenza l'oblazioni, e quando essi le vedevano così soprabbondanti, che non solamente bastavan a' bisogni della Chiesa d'una città, ma sopravanzavano ancora: solevan anche distribuirle nell'altre Chiese delle medesime province, e sovente mandarle in province più remote, secondo l'indigenza di quelle ricercava: così osserviamo nella scrittura, che S. Paolo, dopo aver fatte molte raccolte in Macedonia, in Acaja, Galazia e Corinto, soleva mandarne gran parte alle Chiese di Gerusalemme. E dopo la morte degli Apostoli, il medesimo costume fu osservato da' Vescovi loro sucessori. Da poi fu riputato più utile ed espediente, che i Fedeli non vendessero le loro possessioni, con darne il prezzo alle Chiese: ma che dovessero ritenersi dalle Chiese stesse, acciocchè da' frutti di quelle e dall'altre oblazioni si potesse sovvenire a' poveri ed a' bisogni delle medesime: ed avvenga che l'amministrazione appartenesse a' soli Vescovi, nulla di manco costoro intenti ad opere più alte, alla predicazione del Vangelo e conversion de' Gentili, lasciavan il pensiero di dispensar li danai a' Diaconi: ma non per ciò fu mutato il modo di distribuirgli; poichè una porzione si dispensava a' Sacerdoti e ad altri Ministri della Chiesa, i quali per lo più vivean tutti insieme ed in comunità, e l'altra parte si consumava per gli poveri del luogo.

In decorso di tempo nel Pontificato di Papa Simplicio intorno all'anno 467, essendosi scoverta qualche frode de' Ministri nella distribuzione di queste rendite, fu introdotto, che di tutto ciò, che si raccoglieva dalle rendite e dall'oblazioni, se ne facessero quattro [154] parti, l'una delle quali si serbasse per li poveri, l'altra servisse per li Sacerdoti ed altri Ministri della Chiesa, la terza si serbasse al Vescovo per lui e per li peregrini che soleva ospiziare, e la quarta, cominciandosi già ne' tempi di Costantino M. a costruire pubblici templi, e farsi delle fabbriche più sontuose, e ad accrescersi il numero degli ornamenti e vasi sacri, si spendesse per la restaurazione e bisogni dei medesimi. Nè questa distribuzione fu in tutto uguale; poichè se li poveri erano numerosi in qualche città, la lor porzione era maggiore dell'altre; e se i Tempj non avean bisogno di molta reparazione, era la lor parte minore.

Ecco in breve qual fosse la politia ecclesiastica in questi tre primi secoli della Chiesa, che in se sola ristretta, niente alterò la politia dell'Imperio, e molto meno lo stato di queste nostre province, nelle quali per le feroci persecuzioni a pena era ravvisata: in diverso sembiante la riguarderemo ne' secoli seguenti, da poi che Costantino le diede pace: ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata nell'età men a noi lontane, quando non bastandole d'aver in tante guise trasformato lo stato civile e temporale de' Principi, tentò anche di sottoporre interamente l'Imperio al Sacerdozio.

FINE DEL LIBRO PRIMO.

[155]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO SECONDO

Il principio del quarto secolo dell'umana redenzione, ed il decorso de' seguenti anni, vien a recare nel romano Imperio sì strane revoluzioni, che mostruosamente deformato nel suo capo e nelle membra, prendendo altri aspetti e nuove forme, più non si riconosce per quello che già fu. Ecco, che mancato ogni generoso costume, i Romani dati in preda agli agi ed alle morbidezze, da forti e magnanimi, renduti effeminati e deboli: da gravi, severi ed incorrotti, pieni d'ambizione e di dissolutezza. Vedesi perciò snervata e scaduta la militar disciplina; e quell'armi, che prima avean portato il terrore e le vittoriose insegne fin a gl'ultimi confini del Mondo, divenire cotanto vili ed imbelli, che non vaglion più a reprimer le forze di quelle medesime Nazioni, delle quali esse tante e tante volte avevan gloriosamente trionfato; ma con eterna lor ignominia cedendo, e lasciandosi vergognosamente vincere, ne vien in brieve l'Imperio tutto fracassato [156] e miseramente trafitto. Vedasi la Pannonia, la Rezia, la Mesia, la Tracia e l'Illiria soggiogate dagli Unni; le Gallie perdute; le Spagne da' Vandali, e da' Goti manomesse; l'Affrica già occupata da' Vandali; la Brettagna da' Sassoni; e l'Italia, Regina delle province, dai Goti già debellata e vinta; e Roma stessa saccheggiata e distrutta. Nè miglior fortuna ebbero col correr degli anni le cose de' Romani in Oriente. Vedesi la Siria, la Fenicia, la Palestina, l'Egitto, la Mesopotamia, Cipro, Rodi, Creta, e l'Armenia occupate da' Saracini. Ecco perduta l'Asia minore. Ecco finalmente tutte debellate e vinte le province dell'Imperio romano.

Vedesi nel cader dell'Imperio declinare ancor le lettere e le discipline tutte: comincia la giurisprudenza a perder quel suo lustro e quella dignità, in cui per sì lungo corso d'anni l'avevan mantenuta e conservata tanti preclarissimi Giureconsulti, il favor de' Principi, la sapienza delle loro costituzioni, la prudenza de' Magistrati, la dottrina de' Professori, l'eccellenza dell'Accademie. Più non s'udiranno i nomi di Papiniano, di Paolo, o d'Africano: tacquero questi oracoli, nè altri responsi per l'avvenire ci saran dati da' loro successori; i quali, d'oscura fama essendo, maggior peso non s'addossarono, che d'insegnare nelle Accademie ciò, che que' maravigliosi spiriti avean lasciato delle loro illustri fatiche. E pure di queste (tanto calamitosi e lagrimevoli tempi succederono) appena una rada ed oscura notizia a' posteri n'era pervenuta, la quale sarebbesi eziandio in tutto certamente spenta, se la prudenza di Valentiniano III. non fosse opportunamente con le sue costituzioni accorsa al riparo. E vedesi ancora la scienza delle leggi che prima era solamente professata da' maggiori lumi della città di Roma, [157] vilmente maneggiata, e ridutta ad esser mestiere de' più vili uomini del Mondo.

Non si leggeranno più con ammirazione e stupore quelle prudenti e savie costituzioni de' Principi con tanta eleganza e brevità composte; ma da ora avanti prolisse e tumide, e più convenienti ad un Declamatore, che ad un Principe, da non paragonarsi di gran lunga colle prime, nè per eloquenza, nè per gravità, nè per prudenza civile.

I Magistrati, perduta quella severità e dottrina, prenderanno altri nomi e co' nuovi nomi, nuovi costumi ancora: da incorrotti, venali: da sapienti e gravi, ignoranti e leggieri: da moderati, ambiziosi: ed alla fine ripieni di tanta rapacità e dissolutezza, che se la prudenza di Costantino, di Valentiniano, e d'alcuni altri Principi di quando in quando non avesse repressa la loro venalità ed ambizione per mezzo di molti editti[321], che pubblicarono a questo fine, più gravi ed enormi disordini avrebbon infallibilmente partorito.

L'Accademie già per l'ignoranza de' Professori, e per li pravi costumi de' giovani rendute inutili e piene di sconcerti. I giovani dati già in braccio a' lussi, agl'intemperati conviti, a' giuochi, agli spettacoli, alle meretrici, ed a mille altre scelleratezze, di rado le frequentavano; tanto che sarebbon affatto mancate, se la providenza di Valentiniano il vecchio non fosse stata presta a darvi riparo con quelle sue XI. leggi Accademiche, che in Roma ad Olibrio Prefetto di quella città dirizzò nell'anno 370.

Tante e sì strane mutazioni, non solamente alla corrotta [158] disciplina ed a' depravati costumi deon attribuirsi, ma ancora a quella nuova divisione e nuova forma, che a Costantino piacque di dare all'Imperio romano. Egli fu il primo, che volle recare ad effetto, ciò che Diocleziano avea primo tentato, di divider l'orbe romano in due principali parti, e di uno far due Imperi[322]. Imperocchè quantunque fossero stat'innanzi più Imperadori talora a regnare insieme; nientedimeno non feron fra di loro giammai divisione alcuna, nè l'Imperio, o le province, nè le legioni furon a guisa d'eredità mai partite. Costantino fu il primo, che, come dice Eusebio[323], divise tutto l'Imperio romano in due parti, quod quidem nunquam antea factum esse memoratur. Perciò pose tutto 'l suo studio a fondar nell'Oriente Costantinopoli, ed impiegò per quest'opera tutta la sua magnificenza e tutto il suo potere, acciocchè emula di Roma fosse, come questa Capo nell'Occidente, così quella nell'Oriente[324]. Divise per tanto l'Imperio in Orientale ed Occidentale, assegnando a ciascuno le sue province. Tutte quelle province Orientali oltramarine, che sono dallo stretto della Propontide insino alle bocche del Nilo, l'Egitto, l'Illirico, Epiro, Acaja, la Grecia, la Tessaglia, la Macedonia, la Tracia, Creta, Cipro, tutta la Dacia, la Mesia, e l'altre province di quel tratto, all'Imperio Orientale, ed alla città di Costantinopoli suo Capo le sottopose, e sotto più Diocesi comprese. All'Imperio Occidentale ed alla città di Roma lasciò le Spagne, la Brettagna, le Gallie, il Norico, la Pannonia, le province della [159] Germania, la Dalmazia, tutta l'Affrica, e l'Italia; disponendole in guisa, che due Imperadori potessero regger l'Imperio, l'uno nell'Occidente, l'altro nell'Oriente. Divise parimente il Senato, e que' Senatori, ch'eran eletti dalle province dell'Imperio occidentale, volle, che rimanessero in Roma; quelli d'Oriente in Costantinopoli: e lo stesso stabilì de' Consoli. Diede a Costantinopoli, come a Roma, il Prefetto con uguali preminenze e privilegi; e tutte le parti dell'Imperio in altra guisa distinse. La qual nuova divisione è di mestiere qui distintamente rapportare; poichè gioverà non solamente per ben intendere la spezial politia e stato temporale di queste nostre province; ma servirà ancora in appresso per capire con maggior chiarezza la politia ecclesiastica, e come siasi in quella maniera, che oggi si vede, introdotta nell'Imperio ed in questo nostro Reame.

CAPITOLO I. Disposizione dell'Imperio sotto Costantino Magno.

Costantino adunque dubitando, per l'esempio dei suoi predecessori, del troppo potere del Prefetto Pretorio, che sovente s'avea usurpato l'Imperio, divise il suo ufficio in quattro parti, e questo fu per moltiplicazione, facendo quattro Prefetti: e con ciò venne a dividersi tutto l'orbe romano in quattro climi, o vero tratti. Questi abbracciavano un immenso spazio di Cielo e di terra, e dentro i loro confini più diocesi si comprendevano[325]; e furono, l'Oriente, l'Illirico, [160] le Gallie, e l'Italia, a' quali diede quattro Rettori, che con nome antico, ma di nuova amministrazione, chiamò Prefetti al Pretorio: e noi abbiam collocata in ultimo luogo l'Italia perchè in essa dovremo fermarci.

ORIENTE.

Sotto la disposizione del Prefetto Pretorio dell'Oriente pose cinque diocesi, ed erano, l'Oriente, l'Egitto, l'Asiana, la Pontica, e la Tracia; le quali diocesi, secondo è manifesto dal Codice Teodosiano, e dagli atti d'alcuni antichi Concilj, in questi tempi componevansi di più province[326].

I. Nella diocesi d'Oriente, capo della quale era la città d'Antiochia, erano XV. province, I. Palestina prima. II. Palestina seconda. III. Fenicia prima. IV. Siria. V. Cilicia. VI. Cipro. VII. Arabia. VIII. Isauria. IX. Palestina salutare. X. Fenicia del Libano. XI. Eufratense. XII. Siria salutare. XIII. Osdroena. XIV. Mesopotamia. XV. Cilicia seconda.

II. Nella diocesi dell'Egitto, il cui capo era Alessandria, eran sei province. I. la Libia superiore. II. la Libia inferiore. III. la Tebaïde. IV. l'Egitto. V. l'Arcadia. VI. l'Augustanica.

III. Nella diocesi Asiana, capo essendo Efeso, erano dieci province. I. Panfilia. II Ellesponto. III. Lidia. IV. Pisidia. V. Licaonia. VI. Frigia Pacaziana. [161] VII. Frigia salutare. VIII. Licia. IX. Caria. X. L'isole di Rodi, Lesbo, e le Cicladi.

IV. Undici province ebbe la Pontica, cui capo era Cesarea, e queste furono. I. Paflagonia. II. la Galazia. III. Bitinia. IV. Onoriade. V. Cappadocia prima. VI. Cappadocia seconda. VII. Ponto Polemoniaco. VIII. Elenoponto. IX. Armenia prima. X. Armenia seconda. XI. la Galazia salutare.

V. La Tracia, della quale prima ne fu capo Eraclea, da poi Costantinopoli, si componeva di sei province. I. Europa. II. Tracia. III. Emimonto. IV. Rodope. V. Mesia seconda. VI. Scizia.

ILLIRICO.

Sotto l'amministrazione del Prefetto Pretorio dell'Illirico erano due diocesi, la Macedonia, e la Dacia.

I. La Macedonia, di cui fa capo Tessalonica, si componeva di sei province. I. Acaja. II. Macedonia. III. Creta. IV. Tessaglia. V. Epiro vecchio, ed Epiro nuovo. VI. parte della Macedonia salutare.

II. La Dacia di cinque. I. la Dacia Mediterranea. II. la Dacia Ripense. III. Mesia prima. IV. Dardania Prevalitana. V. parte della Macedonia salutare.

GALLIE.

Sotto l'amministrazione del Prefetto Pretorio delle Gallie erano tre diocesi, le Gallie, le Spagne, e la Brettagna.

I. La diocesi delle Gallie era composta da diciassette province, e fu I. Viennense. II. Lugdunense [162] prima. III. Germania prima. IV. Germania seconda. V. Belgio primo. VI. Belgio secondo. VII. l'Alpi Marittime. VIII. l'Alpi Pennine. IX. Maxima Sequana. X. Aquitania prima. XI. Aquitania seconda. XII. Novempopulana. XIII. Narbonense prima. XIV. Narbonense seconda. XV. Lugdunense seconda. XVI. Lugdunense Turonia. XVII. Lugdunense Senonica.

II. Quella delle Spagne era composta di sette province. I. Betica. II. Lusitania. III. Galizia. IV. Tarraconense. V. Cartaginense. VI. Tingitania VII. le Baleari.

III. L'altra della Brettagna, di cinque. I. Maxima Cesariense. II. Valentia. III. Britannia prima. IV. Britannia seconda. V. Flavia Cesariense.

ITALIA.

Finalmente sotto la disposizione del Prefetto Pretorio d'Italia erano tre diocesi: l'Italia, l'Illirico, e l'Affrica. La diocesi dell'Illirico, della quale Sirmio fu la principal città, era composta di sei Province. I. Pannonia seconda. II. Savia. III. Dalmazia. IV. Pannonia prima. V. il Norico Mediterraneo. VI. il Norico. L'Affrica di cinque. I. Affrica, ove era Cartagine. II Bisacena. III. Mauritania Sitifense IV. Mauritania Cesariense. V. Tripolitana.

L'Italia fu divisa in diciassette province, siccome furon distinte sotto Adriano; e questa divisione durò nell'età più bassa infino a' tempi di Longino: l'ordine delle quali, secondo si legge nel libro della Notizia dell'Imperio (che per comun parere non può dubitarsi, che sia antichissimo e composto a' tempi di Teodosio il Giovane) è questo, che siegue. I. Venezia. II. Emilia. [163] III. Liguria. IV. Flaminia, e Piceno Annonario. V. Tuscia, ed Umbria. VI. Piceno Suburbicario. VII. Campania. VIII. Sicilia. IX. Puglia, e Calabria. X. Lucania, e Bruzj. XI. Alpi Cozzie. XII. Rezia prima. XIII. Rezia seconda. XIV. Sannio. XV. Valeria. XVI. Sardegna. XVII. Corsica.

Paolo Warnefrido[327] Diacono d'Aquileja dà a quelle divers'ordine, perciocchè, per cagion d'esempio, la Liguria, che qui è posta nel terzo luogo, e l'Emilia nel secondo, le colloca nel secondo, e nel decimo. Ma vi è fra loro una più notabile varietà, poichè Paolo dividendo la provincia dell'Alpi in due province, chiamando l'altra Alpi Appennine, accrebbe il numero con una di più di quelle, che nella Notizia sono descritte, nella quale solamente il nome dell'Alpi Cozzie si ritrova. Ma egli, come ben dice Camillo Pellegrino[328], par che abbia ciò fatto di suo proprio arbitrio, poichè cita a favor suo la forma del ragionare d'Aurelio Vittore contra coloro, che non le stimavan due, e non più tosto alcun imperial rescritto, il quale in questo proposito sarebbe stato il proprio e fermo autore, in cui avrebbe avuto da appoggiare il creder suo; sicchè ancor di suo parere dovette mutar l'ordine suddetto, che molto meno importava.

Tutte queste province non sortiron una medesima condizione, imperocchè, avvegnachè tutte ubbidissero e stassero sotto la disposizione del Prefetto Pretorio d'Italia, avevan però altri più immediati Amministratori, a' quali era particolarmente commesso il loro governo. Erano prima divise in due Vicariati, uno detto [164] di Roma, l'altro d'Italia. Nel Vicariato di Roma erano dieci province: la Campagna: l'Etruria e l'Umbria: il Piceno Suburbicario: la Sicilia: la Puglia e Calabria: la Lucania e Bruzj: il Sannio: la Sardegna: la Corsica e la Valeria. Nel Vicariato d'Italia, il cui capo era Milano[329], furono sette province: la Liguria: l'Emilia: la Flaminia e Piceno Annonario: Venezia, a cui da poi fu aggiunta l'Istria: l'Alpi Cozzie: e l'una e l'altra Rezia. Le prime erano sotto la disposizione del Vicario di Roma, onde perciò si dissero anche province Suburbicarie. Le seconde tenevansi sotto la disposizione del Vicario d'Italia, e perciò da alcuni Scrittori vengono semplicemente chiamate province d'Italia, distinguendole dall'altre, le quali ancorchè racchiuse tra l'Alpi, e l'uno e l'altro mare, e perciò comprese nell'Italia (prendendo questo nome nella sua ampia significazione) nulla di meno ristrettamente province d'Italia eran nomate quelle, che al Vicario d'Italia ubbidivano, la cui sede era Milano. Così osserviamo negli atti del Concilio di Sardica celebrato nell'anno 347 che correndo allor il costume di sottoscriversi i Vescovi, che intervenivano ne' Concilj non solamente col nome della propria città, ma anche della provincia, alcuni si sottoscrissero in questa maniera: Januarius a Campania de Benevento. Maximus a Tuscia de Luca. Lucius ab Italia de Verona. Fortunatus ab Italia de Aquileja. Stercorius ab Apulia de Canusio. Securus ab Italia de Ravenna. Ursacius ab Italia de Brixia. Portasius ab Italia de Mediolano, ec. E questo era, perchè Verona, Aquileja, Ravenna, Brescia, e Milano erano nelle province, che al [165] Vicario d'Italia ubbidivano: ciò che non potea dirsi di Benevento, di Lucca, e di Canosa, le quali erano nelle province del Vicariato di Roma, non già del Vicariato d'Italia[330].

Ebbero ancora queste province altri più immediati Ufficiali, a ciascuno de' quali era particolarmente il governo d'una provincia commesso; ma non erano d'un medesimo grado e condizione. Alcune eran dette Consolari; perchè per loro moderatore sortirono un Consolare come furono Venezia, Emilia, Liguria, Flaminia, e Piceno Annonario, la Toscana e l'Umbria, il Piceno Suburbicario e la nostra Campania. Altre si dissero Correttoriali, perchè da' Correttori, non già da' Consolari eran amministrate; le quali furono la Sicilia: la Puglia, e Calabria; la Lucania, e Bruzj. E per ultimo alcune si nomarono Presidiali, perchè ai Presidi sottoposte; e queste furono l'Alpi Cozzie, la Rezia prima e seconda, il nostro Sannio, Valeria, Sardegna, e Corsica. Così i primi Moderatori di queste province erano i Prefetti Pretorj, i secondi li Vicarj, gli ultimi e' più immediati eran i Consolari, i Correttori, ed i Presidi, dell'ufficio ed impiego de' quali è di mestiere, che qui brevemente si ragioni.

[166]

CAPITOLO II. Degli Ufficiali dell'Imperio.

I Prefetti al Pretorio eran quelli, ne' quali dopo i Cesari, s'univano i primi onori e le prime dignità dell'Imperio[331]: a costoro si dava la spada dall'Imperadore per insegna della loro grandissima autorità[332]: sotto la cui amministrazione e governo erano più diocesi, e colle diocesi, le tante province, che le componevano: avevan sotto di loro i Vicarj, i Rettori delle province, i Consolari, i Correttori, i Presidi, e tutti i Magistrati di quelle diocesi, alla cui amministrazione soprastavano. Essi dovevano con vigilanza attendere e provvedere a' difetti di questi Magistrati[333], ammonirgli, insinuar loro le leggi, ed in somma invigilare a tutte le loro azioni: i quali Magistrati all'incontro ai Prefetti dovevan ricorrere, riferire e consigliarsi di ciò che di dubbio e scabroso loro veniva per le mani. Potevasi, oltre a ciò, da tutti i Tribunali suddetti appellare a' Prefetti Pretorj, da' quali riconoscevansi le cause dell'appellazioni, e le coloro sentenze discusse, o le rifiutavan, o l'ammettevan, senza che delle deliberazioni de' Prefetti Pretorj ad altra appellazione alcuna si dasse luogo, ma solamente alla retrattazione, che noi ora diciamo Reclamazione[334].

A' Prefetti per lo più gl'Imperadori solevan dirizzare [167] le loro costituzioni, affinch'essi le promulgassero per le province di lor disposizione: avevano sotto la lor censura anche i Proconsoli, e d'infinite altre prerogative eran adorni, delle quali dottamente scrissero Codino, Gotifredo, e Giacomo Gutero[335]. Furon, oltre a costoro, due altri Prefetti destinati al governo delle due città principali del Mondo, cioè Roma, e Costantinopoli, sotto la disposizione de' quali eran i Prefetti dell'Annona, e molt'altri Magistrati, che alla cura e governo di quelle città sotto varj impieghi venivan destinati: de' quali non accade qui far parola.

Dopo i Prefetti seguivan i Proconsoli; dignità pur illustre, ed ornata dell'alte insegne, delle scuri e dei fasci. Nell'Oriente ve ne furon due, cioè nell'Acaja, e nell'Asia, ed alcune volte fuvvi il terzo in Palestina. Nell'Occidente solamente uno, e questi nell'Affrica.

Tenevan il terzo luogo i Vicarj, inferiori a' Proconsoli, ma di gran lunga superiori, ed eminenti sopra tutt'altri Magistrati. Questi, che tali si dissero, perchè le veci e la persona de' Prefetti rappresentavano, onde nell'antiche iscrizioni si chiamano Propraefecti, erano preposti al reggimento dell'intere diocesi, e delle province, delle quali si componevano. Soprastavano ai Rettori, ed agli altri Magistrati inferiori. La loro principal cura era d'invigilare a' tributi, ed all'annona, gastigar i desertori ed i vagabondi, e custodirgli infino che al Principe se ne desse notizia[336]. Non solamente giudicavano ex ordine, ma sovente ex appellatione, ed alcune volte anche ex delegato[337]. Ebbero [168] i Vicarj l'Asia, la Pontica, la Tracia, l'Oriente, la Macedonia, l'Affrica, la Spagna, la Gallia, e la Brettagna. Fuvvi ancora il Vicario della città di Roma, sotto la cui disposizione erano, come s'è detto, alcune province d'Italia, che si dissero perciò province Suburbicarie. Italia similmente ebbe il suo Vicario, e del di lui governo furon alcun'altre province, onde province d'Italia propriamente si dissero. E tutti questi, per esser d'alto ed eminente grado, eran chiamati Judices majores[338].

Sieguono in appresso gli Ufficiali di minor grado, detti perciò Judices minores; e fra questi il primo luogo era de' Rettori delle province, a' quali il governo e l'amministrazione d'alcune d'esse era commessa: questi erano sotto la disposizione del P. P. al quale degli atti di coloro potevasi appellare. Tenevan il Jus gladii; e la lor principal cura era di spedir le liti tanto civili, quanto criminali, ove della roba e della vita degli uomini si trattava, e d'invigilare, che a' provinciali non si facesse ingiuria e danno dagli Ufficiali minori, e perciò eran tenuti in certo tempo dell'anno a scorrere tutta la provincia, e non pur nelle città, ma in tutti i villaggi, per ricevere le querele de' provinciali, e con diligenza ricercar l'insolenze e disordini ivi accaduti, per darvi riparo. A costoro fu diretto da Costantino M. quell'aureo editto, con cui si puniscono così severamente le venalità e rapacità dei Giudici, che si legge nel Codice di Teodosio[339].

Sieguono in secondo luogo i Consolari, a' quali il [169] governo e l'amministrazione d'una sola provincia si commetteva. Questi eran in maggior dignità, che i Correttori, ed i Presidi: e per insegne tenevano ancor essi i fasci, ed erano distinti col nome di Clarissimi. Solevano anche a' Consolari gl'Imperadori dirizzare le loro costituzioni e perciò le province Consolari erano di maggior dignità, che le Correttoriali, e le Presidiali. Fra l'altre, la Fenicia ebbe il Consolare che ora in Tiro, ora in Berito, ora in Damasco faceva residenza, ed al quale da' Cesari molte leggi furon dirizzate. Sotto il governo de' Consolari furono quasi tutte le province più riguardevoli d'Italia, l'Emilia, la Liguria, Venezia, il Piceno, la Sicilia, la Flaminia, e la nostra Campania.

Dopo i Consolari erano i Correttori a' quali parimente si commettevano i governi delle province, che sotto la disposizione del P. P. amministravano, ed erano parimente ornati col nome di Clarissimi. Questi quasi in niente eran inferiori a' Consolari, di gran lunga però avanzavano nella dignità i Presidi: ed anche ad essi i Principi dirizzavano le loro costituzioni. Alcune province d'Italia furon governate da' Correttori, come la Toscana, la cui sede fu Firenze[340]: la Puglia, e Calabria; e la Lucania, e' Bruzj, delle quali più innanzi distintamente tratteremo.

Vengono nell'ultimo luogo i Presidi, a quali i governi delle province erano parimente commessi; questi altresì venivan nomati Clarissimi, aveano per insegne le bandiere, e sotto la disposizione del P. P. eran collocati. L'altre province d'Italia furono all'amministrazione de' Presidi assegnate, come il Sannio, Valeria, [170] l'Alpi, le Rezie, la Sardegna, e la Corsica: e rade volte gl'Imperadori dirizzavano a costoro le loro costituzioni. Giacomo Gutero[341] tiene altro ordine, collocando in primo luogo i Presidi, indi i Consolari, i Correttori, e nell'ultimo i Rettori delle province, seguendo l'ordine tenuto da Zenone[342] in una sua costituzione, che leggiamo nel Codice di Giustiniano. A noi però giova con Gotofredo[343] seguir meglio l'ordine tenuto dall'Imperadore Graziano nel Codice Teodosiano, ove i Presidi tengono l'ultimo luogo.

CAPITOLO III. Degli Ufficiali, a' quali era commesso il governo delle nostre province.

Ciò che dunque ora noi appelliamo Regno di Napoli, o si riguardi la disposizione d'Adriano, o quella di Costantino, era diviso in quattro sole province: anzi la Campania non è ora tutta intera dentro a' suoi confini; ma parte di quella è rimasa fuori, ed occupa molto altro paese ch'ora è dello Stato della Chiesa romana. Queste Province erano: I. la Campagna: II. la Puglia, e la Calabria: III. la Lucania, ed i Bruzj: IV. il Sannio. Una Consolare: due Correttoriali: e l'altra Presidiale. Tutte del Vicariato della città di Roma, e perciò tutte Suburbicarie appellate.

Richiede per tanto l'ordine di quest'opera, che partitamente [171] di ciascheduna di queste province si ragioni, de' Magistrati a' quali ne fu commesso il governo, delle leggi e de' loro ordinamenti; perchè si vegga qual forma di politia avessero ne' tempi di Costantino fin agli ultimi Imperadori d'Occidente.

§. I.  Della Campagna, e suoi Consolari.

Quella regione, che al dir di Paolo[344] Warnefrido, per gli ubertosi e piani campi, che intorno a Capua sono, Campania fu detta, ebbe già in varj tempi ora più ristretti, ora più spaziosi confini di quel, ch'oggi non sono. Si distese in alcun tempo dal territorio romano insino a Silaro fiume della Lucania; abbracciava Benevento, e dilatò per altra parte i suoi termini fino ad Equo Tutico oggi appellato Ariano. Fu perciò riputata una delle più celebri ed illustri province d'Italia, e per l'ampiezza e vastità de' suoi confini, e per le molte e preclare città, che l'adornavano, ma soprattutto per Capua, suo capo e metropoli, cotanto chiara, ed illustre; perciò al governo ed amministrazione di questa provincia non furon mandati Correttori, o Presidi, ma Consolari: Magistrato, come s'è detto, se bene inferior al P. P. ed al Vicario di Roma, sotto la cui disposizione reggevasi, era nondimeno ornato di più grandi prerogative di quelle dei Correttori, e de' Presidi. La loro sede era Capua: e fu tanta la stima ed il lor grado appresso gl'Imperadori, che sovente venivan loro indirizzate molte costituzioni, e mandati imperiali.

Costantino il Grande, dopo avere sconfitto e morto [172] Massenzio (che fattosi acclamar in Roma Augusto, per sei anni con vera tirannide avea signoreggiata l'Italia) trionfando in Roma, e sottomettendosi volentieri al suo dominio l'Italia, e tutte l'altre province dell'Occidente, come prima avean fatto le Gallie, la Spagna, e la Brettagna, mentre nell'anno 313 risedeva in quella città, cominciò a ristorar l'Italia dei passati danni, ed a provvedere a' di lei bisogni. Promulgò quivi a tal fine molte utili e salutari costituzioni, che dirizzò al Popolo romano, e che ancor oggi abbiamo nel Codice di Teodosio[345]; ed indi passato in Milano, per mezzo d'altri editti, che pubblicò in quella città, ristabilì, come potè il meglio, le cose d'Italia. Passossene da poi nella Gallia, e nella Pannonia; e quindi fatta la pace con Licinio, nuovamente in Italia si restituì, e nell'anno 315, in Aquileja fermatosi, passò poi in Roma, ed a Milano: e dopo altri viaggi ne' seguenti anni fatti nella Dacia, e nella Gallia, ritornò in Roma nel 319 ove per li seguenti quattro anni si trattenne, nè ad altro intese, se non per mezzo di varj editti a restituire quanto più fosse possibile nell'antica forma le cose di Roma, e d'Italia.

Ma passato da poi in Oriente, e vinto nell'anno 325, e spento Licinio, fattosi già Monarca di tutto l'Imperio, cominciò (secondo che contro la comun credenza prova Pagi[346]) a gettare i fondamenti della nuova Roma; ed ancorchè nel seguente anno 326 tornando in Italia, da Aquileja passasse a Milano, e quindi a Roma, partissi nondimeno da poi da questa città, nè mai più fecevi ritorno, ma nell'Oriente trasferì per sempre la sua sede, dove nell'anno 338 volendo [173] ridurre a fine la gran mole di Costantinopoli, adoperovvi tutta la sua cura e tutto lo studio, consumandovi il resto della sua vita, contento di mirar da lontano le cose di queste nostre parti. Quindi nacque il principio d'ogni male in Occidente, che in progresso di tempo portò la ruina di Roma, e la dissoluzion dell'Imperio. Quindi le tante querele de' Romani: onde Porfirio nel Panegirico a Costantino dirizzato, scongiurandolo gli dice:

Et reparata jugans moesti divortia mundi

Orbes junge pares: det leges Roma volentes

Principe te in populos.

Per la qual cagione alcuni lo riputarono più tosto distruttore dell'antica Roma, che facitor della nuova: poichè avendo egli commesso il governo d'Italia ai suoi Ufficiali, cominciò a venir meno ogni buona disciplina: e stando egli lontano, questi abusando l'alta potestà a lor conceduta, si videro in breve declinar le forze ed il vigore di queste nostre province. Lasciò l'amministrazione al Prefetto P., a' Vicarj, e nell'ultimo luogo a' Consolari, a' Correttori, ed a' Presidi, a' quali immediatamente era commesso il governo di ciascuna provincia.

Ebbe l'Italia per Prefetto P. sotto questo Principe nell'anno 321, Menandro. Negli anni seguenti 334, 335 e 336, ebbe Felice, quegli, che da Preside, che fu di Corsica nell'anno 319 fu poi in quest'anni inalzato da Costantino a cotal sublime dignità. Questi per suo successore ebbe nello stesso anno 336 Gregorio, di cui sovente ragiona Ottato Milevitano nei suoi libri. De' Vicarj di Roma, che ressero sotto Costantino, non s'ha altra notizia, se non che d'un tal Gennaro, ovvero Gennarino[347], nell'anno 320.

[174]

Ma de' Consolari di questa nostra provincia di Campagna, è di mestiere che dal lungo obblio, ove fin'ora sono stati sepolti, qui se ne sottragga la memoria.

Il primo Consolare, del quale possa da noi aversi contezza, che sotto Costantino M. avesse immediatamente governata e retta la nostra Campagna, fu Barbario Pompejano. Tenne questi, siccome tutti gli altri Consolari di questa provincia, la sua residenza in Capua, la quale n'era capo e metropoli. A costui, che ne fece richiesta, dirizzò Costantino M. nell'anno 333, mentre risedeva nella Tracia e propriamente in Apri: luogo non molto distante da Costantinopoli, quella cotanto celebre e famosa costituzione[348], per la quale s'impone a' Magistrati, che debbiano inchiedere della verità delle preci ne' rescritti ottenuti dal Principe, in guisa che non possano eseguirgli, se l'esposto dalle parti non sia conforme al vero: della quale si compiacque tanto Giustiniano, che volle inserirla anche nel suo Codice[349]. Ciò che poi vollero eziandio imitare i romani Pontefici, inserendola nelle loro decretali[350].

L'altro Consolare della nostra Campagna, che governò sotto questo stesso Principe, fu Mavorzio Lolliano, per la testimonianza che ce ne dà Giulio Firmico[351]. A costui dedicò Firmico, sotto l'imperio di Costantino, i suoi libri astronomici, celebrando nella prefazione dell'opera[352] gli alti meriti d'un tal sublime spirito, il quale dopo aver deposte l'insegne di Consolare di Campagna, fu da Costantino innalzato [175] a' più eccelsi onori, dandogl'il governo di tutto l'Oriente e finalmente l'insegne d'ordinario Console; e morto Costantino, fu poi nell'anno 342, sotto Costante, rifatto Prefetto della città di Roma, e sotto Costanzio suo fratello fu anche Prefetto P. d'Italia. Di lui fassi eziandio memoria presso ad Ammiano Marcellino, appo il qual Autore ne' gesti dell'anno 356, si legge anche il di lui elogio[353].

Nè d'altri Consolari di questa provincia, del tempo di Costantino abbiam noi notizia, se non che in un marmo trovato nell'anno 1712, nel tenimento della terra di Atripalda, ov'era l'antica città d'Avellino, si legge la seguente iscrizione, nella quale fassi memoria di un tal Taziano, che fu Consolare della Campagna.

TATIANI
C. JULIO RUFINIANO
ABLAVIO TATIANO C. V. RUFI
NIANI ORATORIS FILIO FISCI PA
TRONO RATIONUM SUMMARUM
ADLECTO INTER CONSULARES JUDI
CIO DIVI CONSTANTINI LEGATO PRO
VINCIAE ASIAE CORRECTORI TUSCIAE
ET UMBRIAE CONSULARI AE
MILIAE ET LIGURIAE PONTIFICI
VESTAE MATRIS ET IN COLLE
GIO PONTIFICUM PROMA
GISTRO SACERDOTI HER
CULIS CONSULARI CAM
PANIAE HUIC ORDO SPLEN
DIDISSIMUS ET POPULUS
ABELLINATIUM OB INSIGNEM
ERGA SE BENIVOLENTIAM ET RELI
GIONEM ET INTEGRITATEM EJUS STATUAM
CONLOCANDAM CENSUIT.

[176]

Questa iscrizione maggiormente conferma ciò, che fu da noi dimostrato, che anche dopo Costantino Magno non fu presso noi affatto abolita l'antica religione pagana, leggendosi quivi, che questo Consolare era del Collegio de' Pontefici, e Sacerdote d'Ercole: dei quali pregi gli Avellinesi non vollero fraudarlo in una sì pubblica iscrizione, riponendogli fra gli altri suoi titoli, come furon quelli di Correttore della Toscana, di Consolare dell'Emilia, e della nostra Campagna. La Toscana fu pure provincia Correttoriale, e la sede de' Correttori era Fiorenza, siccom'è manifesto da più leggi del Codice Teodosiano: di che è da vedersi Giacomo Gotifredo; onde ben si legge nel marmo Correctori Tusciae.

Nè di Costantino si leggono nel Codice di Teodosio altre costituzioni dirizzate ad altri Consolari della nostra Campagna. Non mancan però in quello altri suoi editti indirizzati al Prefetto Pretorio d'Italia, o al Vicario di Roma, a' quali non solamente la cura delle diocesi a lor commesse generalmente s'incarica, ma particolarmente per questa provincia in più sue leggi altri particolari provvedimenti si danno.

Tolto intanto a' mortali nel mese di Maggio dell'anno 337 questo Principe, le cui alte e magnanime imprese gli portaron il soprannome di Grande, succedè all'Imperio d'Occidente Costante suo figliuolo, al quale nella divisione fatta cogli altri fratelli toccò l'Affrica, e l'Illirico, la Macedonia, la Grecia, e l'Italia, ed in conseguenza queste nostre province. Per tal cagione molte costituzioni si leggono di questo Principe nel Codice di Teodosio, che riguardan il governo di quelle, e particolarmente della Campagna; e se non sappiamo quali Consolari avesse questa provincia sotto Costante, [177] si veggon però sue leggi, per le quali appare aversi presa di essa particolar cura e pensiero. Di questo Principe è quella legge registrata nel suddetto Codice sotto il titolo de Salgamo, letta ed accettata in Capua, metropoli di questa provincia, promulgata da Costante nell'anno 340 per reprimere l'insolenza de' soldati, che coll'occasione della guerra, che allora faceva in Italia con Costantino suo fratello (il quale in questo stess'anno presso Aquileja fu vinto e morto) inquietavano la Campagna, e per li fastidiosi lor tratti e licenza militare l'onore e le sostanze de' provinciali malmenavano; e forte argomento di credere, che Costante in quest'anno avesse per qualche tempo fatta dimora in Capua, ce ne dà Atanasio per quel che scrive nella sua Apologia a Costanzo[354].

Ma, morto in appresso Costante nell'anno 350, dieci anni dopo Costantino suo fratello, rimase solo Imperadore l'altro suo fratello Costanzo; onde queste nostre province coll'Italia caddero sotto il di lui Imperio. Regnando dunque Costanzo, furono Prefetti al P. d'Italia negli anni 352 e 353 Merilio Ilariano; a cui succedè Mavorzio Lolliano nell'istesso anno 353 quegli, che fu Consolare della nostra Campagna, e negli anni seguenti, Tauro; a' quali da Costanzo furono indirizzate molte sue costituzioni. Governò anche in questi medesimi tempi per Vicario di Roma Volusiano, al quale parimente Costanzo indirizzò alcune sue leggi[355]. E quantunque sotto questo Principe sian ignoti i Consolari della Campagna, nè si sappiano i loro nomi, in modo che non si leggono editti indirizzati a coloro [178] da Costanzo, vi sono però molte di lui costituzioni dirette a' P. P. d'Italia per le quali si prende cura di questa provincia. In fatti nell'anno 355 dirizzò una sua costituzione a Mavorzio Lolliano allora P. P. d'Italia, la quale perchè toccava i bisogni di questa provincia fu letta e pubblicata in Capua, come porta la sua soscrizione[356]. E questo Principe fu colui, che per torre le contese giurisdizionali, che sovente sorgevano fra i Prefetti P. d'Italia, ed i Prefetti di Roma, intorno all'appellazioni, separò le province; e mentre egli risedeva a Sirmio, città assai illustre della Pannonia, dirizzò nell'anno 357 a Tauro P. P. d'Italia quella celebre costituzione[357] ove stabilì, che tutte l'appellazioni, che dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla nostra Campagna, dalla Puglia e Calabria, dalla Lucania e Bruzj, Piceno, Emilia, Venezia, e dall'altre province d'Italia, si riportavan in Roma, non già dal Prefetto di Roma, ma da quello d'Italia, si dovessero conoscere e giudicare.

Resse Costanzo l'Imperio undici anni, avendo finito suoi giorni nell'anno 361, e gli succedè Giuliano, al quale perciò ricaddero queste nostre province. Fu sotto lui Prefetto Pretorio d'Italia Mamertino, e Vicario di Roma Imerio; a costoro Giuliano, e particolarmente al primo, dirizzò molte leggi. Quali fossero stati i Consolari della Campagna ne' tempi di Giuliano, Simmaco[358] chiaramente ce l'addita nel libro decimo delle sue epistole. Quivi volendo dimostrar la congiunzione, [179] che in questi tempi era fra i Pozzolani e' Terracinesi, poichè stendendosi allora i confini della Campagna infino a Terracina, erano gli uni, e gli altri sotto un sol Moderatore, ch'era il Consolare, dice Simmaco che Lupo, essendo sotto Giuliano Consolare della Campania, ben s'avvide e considerò l'angustie, nelle quali vivevano i Terracinesi. Di questo Lupo Consolare della Campania ancor oggi in Capua se ne serban le memorie in una iscrizione di marmo attaccata alla chiesa de' Frati del Carmelo, dove si leggono, benchè alquanto tronche, queste parole[359]:

. . RIUS LUPUS
. . . . V. C
. . ONS. CAMP
. . URAVIT

Da quest'istessa epistola di Simmaco si raccoglie eziandio, che a Lupo in quella carica fosse succeduto Campano. In Napoli, come città al Consolare di Campagna pur sottoposta, serbasi ancora la memoria d'un altro Consolare chiamato Postumio Lampadio: il marmo si vede oggi prostrato in terra avanti la chiesa della Rotonda, dove si legge

POSTUMIUS
LAMPADIUS
V. C. CONS. CAMP
CURAVIT

Ma nel Codice di Teodosio non vi è alcun vestigio, che da Giuliano, o dal suo successore, fosse stato [180] a costoro indirizzato editto, o mandato alcuno imperiale.

Morto Giuliano nella guerra de' Persi nell'anno 373, ed indi a poco anco Gioviano, non durando più l'Imperio di questo religiosissimo Principe[360], che otto mesi, se vogliamo prestar fede a Zosimo[361] e Sozomeno, ovvero dieci, secondo Filostorgio[362], fu assunto all'Imperio Valentiniano, il quale creò Augusto Valente suo fratello, e fra di loro fu in cotal guisa diviso l'Imperio[363].

Valentiniano serbossi l'intero Occidente, cioè tutto l'Illirico colla Macedonia, l'Affrica, le Gallie, le Spagne, la Brettagna, e l'Italia. Ed a Valente si lasciò tutto l'Oriente[364].

Valentiniano adunque, a cui l'Italia fu sottoposta, dopo avere scorse l'altre regioni del suo Imperio, e date a quelle i provvedimenti opportuni, venne in Italia, e prima in Aquileja, ove in due soli mesi, settembre ed ottobre di quest'anno 364, dieci costituzioni pubblicò, ed allo stato d'Italia ed al governo della medesima attese, e varj editti e per la Campagna diretti al Consolare, e per la Lucania e Bruzj e Toscana a' Correttori, ed a Mamertino allora Prefetto d'Italia, furon da questo savissimo Principe promulgati[365].

Governarono nel suo Imperio come Prefetti Pretorj d'Italia Mamertino cotanto rinomato nell'opere d'Ammiano Marcellino, Rufino, Probo, ed ultimamente Massimino. Vicarj di Roma furono nell'anno 364 Severo, [181] nell'anno 367 Magno, nell'anno 372. Probo, e nell'anno 373 Simplicio[366]. Si leggono ancora più Consolari della nostra Campagna, a' quali varie leggi furono dirizzate.

Era in quest'anno 364 Consolare della Campagna Buleforo, al quale, risedendo Valentiniano in Altino città di Venezia, furono dirizzate due costituzioni, che si leggono nel Codice di Teodosio, una sotto il titolo, Quibus equorum usus, l'altra sotto il titolo, usus interd. per le quali, affinchè da questa provincia s'estirpassero i ladronecci e molt'altri disordini, fu proibita severamente l'asportazione de' cavalli e dell'armi, comandando, che niuno senza sua licenza potesse quelle movere. A quest'istesso Buleforo, mentr'era Consolare della Campagna, dirizzò nell'anno seguente 365 quell'altra costituzione[367], che si legge sotto il titolo de Cursu publico, risedendo egli in Milano. Diede ancora questo Principe opportuni provvedimenti, perchè fossero esterminati i ladroni, che allora grandemente infestavano la Campagna, proccurando che fosse restituita la pace e tranquillità a questa provincia. Sue parimente furono la l. 1. de Pascuis, ed alcune altre costituzioni, per le quali alla quiete d'Italia, e precisamente di queste regioni, ch'oggi forman il Regno, con somma applicazione e studio intese. Egli ancora in quest'istess'anno 365 mentre era in Verona, provvide a' bisogni del comune d'Avellino, città posta dentro a' confini di questa provincia, comandando con sua particolar costituzione[368], ch'ancor leggiamo nel Codice di Teodosio, che s'abolisse tutto ciò, che dall'ordinario [182] Giudice erasi fatto in pregiudicio di quel comune, contra l'antica lor consuetudine.

Succedè a Buleforo in quest'anno 365 per Consolare Felice, a cui parimente in quest'anno, risedendo Valentiniano in Milano, indirizzò quella costituzione[369], che si legge nel C. Teod. sotto il tit. ad S. C. Claudianum, della quale fece anche menzione l'Autore di quell'antica consultazione inserita da Cujacio tra le sue nel cap. 10. E se bene quell'Autore in vece di Campaniae legga Macedoniae: nondimeno, siccome notò il diligentissimo Gotifredo[370], si convince d'errore per la soscrizione che porta, donde è chiaro essere stata soscritta da Valentiniano Imperadore d'Occidente, mentr'era in Milano, e per conseguenza dover quella appartenere all'Occidente, non già all'Oriente, nel quale è posta la Macedonia.

A Felice sotto Valentiniano stesso succedè nella carica di Consolare della Campagna Anfilochio. A costui nell'anno 370, stando Valentiniano in Treveri, fu indirizzata quella legge, che sotto il tit. de Decurionibus ancor si vede nel Codice di Teodosio[371].

Resse Valentiniano l'Occidente, e con tanta prudenza l'Italia, e queste nostre province, che niente era da desiderare: ristabilì l'Accademia di Roma, e molto riparò la giurisprudenza già inchinata, e quasi affatto caduta dal suo antico lustro e splendore: represse per varj editti la rapacità e venalità de' Giudici. Principe religiosissimo, al quale dopo Costantino Magno molto dee la cristiana religione, e maggiori utilità certamente n'avrebbe l'Italia ritratte, se dopo soli dodici anni d'Imperio non fosse stato tolto dal Mondo.

[183]

Morì Valentiniano nell'anno 364, e fu dopo sei giorni nella Pannonia fatto Imperadore il figliuol Valentiniano, il quale con Graziano suo fratello in questa guisa si divise l'Imperio d'Occidente (poichè l'Oriente era retto da Valente lor zio): a Graziano toccarono le Gallie, le Spagne e la Brettagna: a Valentiniano l'Illirico, l'Affrica e l'Italia[372].

Sotto Valentiniano II. e Graziano furono Prefetti Pretorj d'Italia, Massimino, Antonio, Esperio, Probo, Siagrio, Ipazio, Flaviano, Principio, Eusignio, e Pretestato. Sotto Valentiniano solo, Trifolio, Polemio, Taziano, Apodemio, Destro, ed Eusebio. I Vicarj di Roma furono, Potito, Antidio, Ellenio, ed Orienzio[373].

Ma quali fossero sotto questo Imperadore i Consolari della Campagna non se ne trova alcun vestigio. Non mancan però di Valentiniano II. moltissime costituzioni, come quegli, che resse l'Imperio diciotto anni, colle quali al governo ed amministrazione di queste province, e dell'Italia generalmente provvide. Quella legge[374], che sotto il tit. de Extraord. leggiamo nel Cod. Teod. è di questo Principe, che l'anno 382 dirizzò a Siagrio Prefetto Pretorio d'Italia, per la quale si prende cura della Campania, Puglia e Calabria, Lucania e Bruzj; in questi tempi molto turbate ed afflitte.

Morì Valentiniano II. presso a Vienna l'anno 392 dopo aver regnato diciotto anni; e tennero dopo lui l'Imperio Teodosio M. ed Arcadio, ed Onorio suoi figliuoli. Ad Onorio toccò l'Occidente, onde l'Italia, e queste nostre province a lui si sottoposero. E morto [184] Teodosio nell'anno 395 pur Onorio ritenne l'Occidente, avendo Arcadio suo maggior fratello regnato in Oriente. Molti furono i Prefetti Pretorj d'Italia sotto Onorio, come colui, che lungamente visse, tenendo l'Imperio d'Occidente trentun'anno: e quelli furono Messala, Teodoro, Adriano, Longiniano, Senatore, Curzio, Teodoro II, Ceciliano, Giovio, Giovanni, Faustino, Palladio, Melizio, Liberio, Felice, Faustino, Giovanni, Selevio, Adriano, Palladio, Giovanni, e Proculo. I Vicarj di Roma, che ressero in tempo d'Onorio, furon Varo, e Benigno[375]. E de' Consolari della Campagna, pur sotto di lui si legge Gracco. A costui, mentre risedeva Onorio in Milano dirizzò nell'anno 396 quella costituzione, che leggiamo nel Codice di Teodosio sotto il tit. de Collegiatis[376]. A questa provincia ancor provvide Onorio, concedendole qualche indulgenza nel pagare i tributi, com'è manifesto da quella sua Costituzione[377], che dirizzò a Destro Prefetto Pretorio d'Italia. E molte altre sue leggi abbiamo, per le quali governò queste nostre province, nel medesimo tempo, che in Oriente imperava Teodosio il Giovane figliuolo d'Arcadio.

Morto finalmente Onorio in Ravenna l'anno 423, ancorchè Teodosio il Giovane per un anno reggesse solo l'uno e l'altro Imperio, nulladimeno nell'anno seguente 424 creò in Occidente per Augusto Valentiniano III. al quale coll'Italia furono sottoposte queste nostre province. Furon sotto di lui Prefetti Pretorj d'Italia Volusiano, e Teodosio. E quantunque non si leggano di questo Valentiniano costituzioni dirizzate a' Consolari [185] della Campagna, fu non però egli un Principe, a cui molto dee non solamente l'Italia, e queste nostre province per la particolar cura e provvido governo, che ne prese, ma anche la nostra giurisprudenza, che già vacillante fu da lui ristabilita in Occidente, nell'istesso tempo, che Teodosio suo collega avea posto tutto il suo studio a ripararla in Oriente; di che a più opportuno luogo ci toccherà distesamente ragionare.

Questi dunque sono stati gli Ufficiali per li quali da' tempi di Costantino M. infino a quest'ultimi di Valentiniano III. fu amministrata e retta la nostra Campagna. Per questa cagione osserviamo noi alcuni marmi d'antichi edifici, che nelle città di questa provincia, per opera de' Consolari della Campagna, dirizzavano i Campani, i Napoletani, i Beneventani, ed altri, che possono vedersi in quella laboriosa opera di Grutero dell'iscrizioni dell'orbe antico romano; ed in Capua, ed in Napoli ancor oggi, come s'è veduto, si serba di lor memoria. Capua fu la lor sede, siccome quella, che in questi tempi era capo e metropoli della Campagna, come la chiamò anche Atanasio[378], il quale favellando nell'Epistola ad Solitarios del Concilio di Sardica, e de' Legati da lui spediti, fra i quali Vincenzo Vescovo di Capua, acciocchè l'Imperador Costanzo facesse ritornare alle loro sedi que' Vescovi, che avea discacciati, dice; Missis a Sancto Concilio in legationem Episcopis Vincentio Capuae, quae Metropolis est Campaniae etc. E per questa cagione ancora s'osservano molte costituzioni del Codice di Teodosio lette, ed accettate in Capua, perchè il Consolare, che faceva sua residenza in questa città, doveva pubblicarle [186] ed aver cura, che si spargessero per l'altre città di questa provincia, acciocchè fossero note a tutti i provinciali.

§. II.  Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori.

Alla Campagna siegue la Puglia accompagnata con la Calabria, nella quale è la regione Salentina, che unite insieme, secondo il libro della Notizia dell'uno, e dell'altro Imperio, formavano la nona provincia d'Italia, e secondo il novero di Paolo Diacono[379], la decima quinta. Si distendeva quest'ampia provincia da Oriente fino al mar Adriatico, ch'ebbe per confine, e verso Occidente e Mezzo dì; i suoi termini furono il Sannio, i Bruzj e la Lucania. Le sue più celebri ed abbondanti città furono Lucera, Siponto, Canosa, Acerenza, Venosa, Brindisi, e Taranto, e nel sinistro corno d'Italia, che si distende per cinquanta miglia, ebbe Otranto, città assai comoda ed adatta a qualunque traffico, e che suo emporio meritamente potè nomarsi.

I Pugliesi adunque ed i Calabresi eran governati e retti da un solo Moderatore. L'ampiezza ed estensione di questa provincia meritò, che non fosse Presidiale, ma Correttoriale; cioè, che l'amministrazione di essa si commettesse a' Correttori, non a' Presidi, Ufficiali a coloro inferiori. Ma quali fossero stati i Correttori di questa provincia, ed ove avessero fermata la lor sede, niente può affermarsi di certo. Nel Codice di Teodosio non si legge alcun imperial editto, che a questi Correttori fosse stato indirizzato: in Venosa solamente città della Puglia, fra gli antichi monumenti, che serba, [187] si legge un'iscrizione, nella quale d'un tal Emilio Restituziano, Correttore della Puglia e della Calabria, fassi memoria con queste parole[380]:

LUCULLANORUM. PROLE. ROMANA
AEMILIUS. RESTITUTIANUS
V. C. CORRECTOR. APULIAE. ET. CALABRIAE
IN HONOREM
SPLENDIDAE. CIVITATIS. VENUSINORUM
CONSECRAVIT

Simmaco[381] fa anche menzione de'Correttori della Puglia, i quali impropriamente chiamò anche Rettori. Soleasi ancora in luogo di Correttore mandarsi talora alle province Magistrato d'ugual potere, che appellavasi Juridicus. E di questo nella nostra Puglia ne serbano ancora la memoria due iscrizioni rapportate da Gutero[382]; in una si legge:

HERCULI. CONSERVATORI
PRO SALUTE. L. RAGONI
JURIDIC. PER. APULIAM
PRAEF. J. D.

in un'altra ch'è in Roma:

C. SALIO. ARISTAENETO. C. V.
JURIDICO. PER. PICENUM. ET
APULIAM

S'incontrano ancora bene spesso nel Teodosiano Codice molte leggi, per le quali a' bisogni di questa [188] provincia si diede particolar provvedimento. Era quella posta (oltre del Correttore, dal quale immediatamente veniva governata) sotto la disposizione del Prefetto P. d'Italia, al quale, per via d'appellazione, potevasi aver ricorso; e se mancano costituzioni dirette a' Correttori, non mancan però di quelle, che al Prefetto P. d'Italia per lo governo della medesima si mandavano. Sotto l'Imperio di Valentiniano il Vecchio fu travagliata ed infestata da' ladroni; in guisa che a quel prudentissimo Principe fu uopo con severe leggi darvi riparo e proccurarne sollecitamente lo sterminio, indirizzando a tal fine quella sua costituzione a Rufino allora P. P. d'Italia in luogo di Mamertino, a cui apparteneva ancora tener cura di questa provincia, come dell'altre d'Italia, per la quale costituzione[383] a' mali sì gravi di questa provincia fu dato opportuno rimedio.

Osservasi parimente in questo Codice un'altra legge dello stesso Valentiniano data in Lucera nell'anno 365 che porta questa soscrizione: VIII. Kal. Octobris. Dat. Luceriae ad Rufinum (in locum Mamertini) PF. P. Italiae. Giacomo Gotofredo[384] suspica, che questa Lucera non fosse quella di Puglia, ma l'altra che nella Gallia Circumpadana, fra Milano, Verona, ed Aquileja è posta, oggi detta Luzara: ma dall'argomento di quella legge, e da quanto in essa si contiene intorno a' pascoli, per più veementi conghietture dobbiamo creder'esser questa di Puglia, siccome quella che tiene i più ubertosi e piani campi, che altra regione non ebbe giammai, per la pastura degli armenti e delle gregge assai celebri e considerabilissimi presso [189] a' Romani, ed appo tutti i Scrittori delle cose rusticane e pastorali, e che anche tengono il vanto presso di tutte le regioni d'Europa. Ma ciò che sia di questo, egli è certissimo, che non minore dell'altre, fu la cura di questa provincia appo gli altri Imperadori occidentali, a' quali il governo dell'Italia s'apparteneva.

Era la Puglia e la Calabria ne' tempi d'Onorio molto infestata da' Giudei, i quali licenziosamente vivendo, di non poca confusione eran cagione, e non piccol detrimento da essi si recava alla religione cristiana: ritrovavasi in questo medesimo tempo Prefetto P. d'Italia Teodoro, uomo religiosissimo, appo il quale pari era l'abbominazione a questa nazione, che l'amore ardentissimo verso la religione cristiana; tanto che meritò quella stima, che della di lui persona ebbe S. Agostino, dedicandogli quel suo libro intitolato de vita beata, com'egli stesso testifica[385]. Per dare a tanti mali qualche compenso proccurò Teodoro, che si reprimesse in questa provincia tanta insolenza e licenziosa vita de' Giudei; onde nell'anno 398 ottenne da Onorio quella cotanto laudevole, e non mai a bastanza celebrata costituzione[386], colla quale fu repressa la lor insolenza ed a ben dure condizioni gli sottopose.

Da Onorio eziandio fu a questa provincia nell'anno 413 conceduta l'immunità e qualche indulgenza de' tributi, come si legge in una sua costituzione[387], di cui a più opportuno luogo ragioneremo: e non mancan ancora altre costituzioni riguardanti il governo e retta amministrazione che gli altri Principi presero di sì vasta e considerabile provincia, a' Prefetti d'Italia [190] indirizzate, delle quali secondo l'opportunità farem parola.

§. III.  Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori.

La Lucania stese i suoi ampj confini molto più, che oggi non si mirano: incominciando dal fiume Silaro abbracciava non pur quel ch'ora appellasi Basilicata, ma dall'altra parte si dilungava infin a Salerno, anzi questa stessa città era dentro a' suoi confini, poichè i Correttori della Lucania anche quivi solevano risedere. A lei in quanto all'amministrazione furon congiunti i Bruzj, che s'estendevano oltre a Reggio fino allo stretto siciliano nell'ultima punta d'Italia.

Erano i Lucani, e' Bruzj sotto un solo Moderatore. Il Correttore, che dagl'Imperadori si mandava al governo di queste regioni, reggeva con piena autorità amendue queste province. La sua dignità ancorchè non tanta quanto quella de' Consolari, era di gran lunga superiore al grado de' Presidi, e solamente eran dipendenti e sottoposti a' Prefetti d'Italia, ed a' Vicarj di Roma, a' quali potea aversi ritorso.

La loro sede era collocata nella città di Reggio, capo e metropoli di questa provincia, avvegnachè talora solessero i Correttori trasferirla anche in Salerno nella Lucania, secondo richiedeva il bisogno de' pubblici affari. Quindi è, che in queste due città ancor oggi si veggano gli avanzi d'alcuni marmi, che a' Correttori erano stati dirizzati: in Reggio nella chiesa della Cattolica si legge, ancorchè dal tempo in qualche parte rosa, questa iscrizione.

[191]

CORRECTORI. LUCANIAE
ET. BRITTIORUM. INTE
GRITATIS. CONSTANTIAE
MODERATIONIS. ANTI-
STI. ORDO. POPULUSQUE
RHEGINUS

E nella città di Salerno in un arco, che prima era, ove oggi è il sedile di Portaretese, vi s'osservavano alcune statue di marmo sopra le loro basi, in una delle quali si leggevano queste parole[388].

ANNIO. VITTORINO, V. C
CORRECTORI. LUCANIAE
ET. BRUTIORUM. OB
INSIGNEM. BENEVOLEN
TIAM. EJUS. ORDO. POPU-
LUSQUE. SALERNITANUS

Solevano gl'Imperadori eziandio a questi Correttori indirizzare le loro costituzioni, che per utilità delle province, e per dar compenso a' disordini, che ivi nascevano, sovente eran costretti di promulgare; e può pregiarsi questa provincia sopra l'altre, che le prime leggi, che Costantino M. dopo sconfitto Massenzio promulgasse per Italia, fossero quelle, che a' Correttori della Lucania, e de' Bruzj si mandarono: tanto che a noi è più antica la memoria de' Correttori di questa provincia, che de' Consolari della Campagna.

Il primo, che ne' primi anni dell'Imperio d'Italia [192] di Costantino reggesse questa provincia, fu Claudio Plotiano, al quale fin dall'anno 313 poco dopo la sconfitta di Massenzio dirizzò Costantino, stando in Treveri, quelle due costituzioni, che si leggono nel Codice di Teodosio[389], per le quali diede nuova forma e modo alle consulte, che solevan i Giudici dubbiosi fare all'Imperadore nelle cause de' privati.

Succedè a Claudio nell'anno 316 Mechilio Ilariano, a cui da Costantino in quest'istesso anno fu mandata quella legge, che nel Codice di Teodosio[390] vedesi sotto il tit. de Decur., e che dal nostro Giustiniano portando l'istessa iscrizione d'Ilariano Correttore della Lucania e de' Bruzj, fu inserita nel suo Codice sotto il medesimo titolo[391]. Ed a quest'istesso Correttore s'indirizzò l'altra costituzione di Costantino, che si legge sotto il tit. ad l. Corn. de Falso nel Teodosiano[392].

Ad Ilariano succedè nel 319 alla dignità di Correttore di Lucania, Ottaviano, al quale, risedendo egli in Reggio, dirizzò Costantino M. la l. 1. de Filiis Milit. apparit. che fu letta ed accettata in Reggio, poichè quivi era la sede de' Correttori[393].

Ma niun'altra memoria è sì chiara ed illustre, che faccia vedere in quanta stima ed eminenza fossero i Correttori della Lucania, quanto quella famosa e celebre costituzione di Costantino, che si legge nel Codice di Teodosio[394] sotto il tit. de Episcopis, che a questo Ottaviano Correttore nella Lucania in quest'anno [193] 319, dirizzò; per la quale rendè i Cherici immuni da' pesi civili, affinchè non si distogliessero dagli ossequj delle cose sacre e divine. Costantino una consimile legge dettata coll'istesse parole, aveva dirizzata sette anni prima ad Anulino Proconsole dell'Affrica; e come accuratamente notò Gotofredo, quella costituzione era simile, non però la stessa, che poi mandossi ad Ottaviano: quella fu proferita molti anni prima, cioè nell'anno 315 ovvero nel fine dell'anno 312; questa nell'anno 319; quella fu indirizzata ad altro Magistrato, cioè ad Anulino: questa ad Ottaviano; quella apparteneva ad altra parte del suo Imperio, cioè all'Affrica, della quale allora Anulino era Proconsole; questa alla Lucania, ed a' Bruzj, della quale Ottaviano era Correttore. Fu tal rinomata costituzione pretermessa da Giustiniano nel suo Codice, perchè in esso molte consimili lessi s'inserirono: ma ben dal Cardinal Baronio[395] vien riferita, e nell'istesso anno 319 fu puntualmente notata.

Quali fossero i Correttori di Lucania sotto l'Imperio di Costante, di Costanzo, e di Giuliano, non vi è di loro memoria alcuna; non potendo noi mostrare alcun editto, che da questi Principi fosse stato a costoro indirizzato: ma non mancan però loro costituzioni spedite a' Prefetti d'Italia, le quali mostrano quanta cura e sollecitudine avessero delle cose d'Italia, e di questa provincia in particolare.

Ma de' Correttori della Lucania, che sotto Valentiniano ebbero il governo e l'amministrazione di questa provincia, ben possiamo dal lungo e profondo obblio trar fuori i loro nomi. Artemio fu il primo, quegli, [194] di cui sovente s'incontrano memorie nell'istoria d'Ammiano Marcellino[396]: a costui, risedendo Valentiniano in Aquileja, indirizzossi nel 364 quella costituzione che sotto il tit. de privil. Apparit. Magistr. leggiamo. E dall'iscrizione di questa legge si vede, che quest'Artemio trasferisse sovente la sua residenza in Salerno, poichè in Salerno fu quella letta ed accettata. A quest'Artemio stesso furono da Valentiniano, permanendo ancora in Aquileja, indirizzate in questo medesimo anno la l. 6. de privileg. eor. qui in sacr. palat., e la l. 21. de Cursu publico.

Ma da niun'altra apparirà meglio la dignità e la stima appo gl'Imperadori, de' Correttori della Lucania, e di questo Artemio, quanto da quella costituzione[397] non abbastanza celebrata di Valentiniano I. che sotto il tit. de officio Rectoris Provinciae si vede. Fu quella, quando ancora questo Principe risedeva in Aquileja, nell'anno 364 indirizzata ad Artemio. I più ragguardevoli e chiari titoli, che dalla generosità e magnanimità d'alcun Principe possono sperarsi, eran profusamente a questo Correttor della Lucania conceduti: Carissime nobis: Gravitas tua: Sublimitas tua, ed altri consimili, eran i più frequentati. A costui indirizzò quella costituzione, nella quale inculcava ai Giudici l'integrità e la diligenza nella spedizione delle liti: che dovessero conoscere e deliberar nelle cause, o si trattasse della vita, o delle sostanze degli uomini, pubblicamente e nel cospetto e sotto gli occhi di tutti, non privatamente e ne' secreti delle case, ove davasi luogo a' negoziati ed a' traffichi: che le sentenze una [195] volta proferite, dovessero pubblicarsi e leggersi al cospetto di tutti, perchè sotto gli occhi d'ogn'uno si ponesse ciò che i Giudici faceano, e se secondo le leggi e l'ordine della verità avesser giudicato, ovvero perversamente e per gratificare l'una delle parti; ond'è che ne' Tribunali di questo Regno fu sempre, ed ancor oggi dura lo stile di leggersi e pubblicarsi le sentenze, ancorchè ridotto ora a pura cerimonia e formalità. Proibì a cotali Giudici i pubblici spettacoli ed i giocosi trattenimenti, acciocchè non si allontanassero e trascurassero la cura dalla pubblica e privata utilità, e si sottraessero perciò dagli atti serj e gravi.

Sotto Valentiniano I. ancora resse la Lucania e' Bruzj Simmaco, che succedè ad Artemio nel seguente anno 365. Quella costituzione[398] che sotto il tit. de Cursu publico, si legge nel C. Teod. fu, mentre questo Principe era in Milano, mandata a Simmaco allora Correttore di questa provincia. Nè d'altri Correttori della Lucania più innanzi trovasi vestigio in quel Codice, e non pur sotto questo, ma nè anche ne' tempi degli altri Imperadori, che seguirono: poichè, se bene sotto il tit. de contr. empt. si legga una costituzione[399] di Teodosio M. che porta anche il nome di Valentiniano II. accettata e pubblicata in Reggio nell'anno 384, ed un'altra[400] pur accettata in Reggio sotto il tit. de operib. publicis, non dee però intendersi di Reggio città posta ne' Bruzj, ma, come nota il diligentissimo Gotofredo, d'un altro Reggio posto nell'Oriente dodici miglia lontano da Costantinopoli. Il che si rende manifesto, non solamente perchè all'Imperio di Teodosio [196] M. non fu assegnata l'Italia, ma quella, essendo toccata coll'Occidente a Valentiniano II. veniva da costui retta ed amministrata; ma ancora perchè quelle leggi da Teodosio furono indirizzate, la prima a Cinegio, l'altra a Cesario amendue Prefetti P. dell'Oriente, di cui Teodosio fu Imperadore. Ed in questo luogo non dee tralasciarsi di notare il costume degl'Imperadori di questi tempi, i quali, ancorchè diviso fra loro l'orbe romano, ciascuno reggesse la sua parte, nè dell'altra s'impacciasse, con tutto ciò le leggi, che da essi ne' loro dominj si promulgavano, portavan il nome di tutti que' Imperadori, che allora reggevano l'Imperio, avvegnachè da uno solamente fosse stata ordinata[401]: siccome ne' pubblici monumenti s'osserva, che quantunque l'opera ad un solo fosse stata eretta, porta nondimeno il nome di tutti gl'Imperadori regnanti. L'ignoranza del qual costume fu cagione a molti Scrittori di gravissimi errori, e che le leggi d'un Principe riferissero ad un altro; di che secondo l'opportunità se ne vedranno gli esempj.

Occorrono ancora nello stesso Codice di Teodosio molte altre costituzioni de' Principi, le quali (se bene non dirette a' Correttori di questa provincia, ma o a' Prefetti d'Italia, ovvero ad altri Magistrati) mostrano de' Lucani, e de' Bruzj aver somma cura e providenza tenuta. Dovevano questi Popoli, come tutti gli altri di queste province, portare il vino in Roma per provvedere all'annona di quella città: ma come che da questa eran alquanto lontani, fu loro conceduto, che potessero soddisfare in danaro ciò ch'essi eran tenuti in vino[402].

[197]

Onorio concedè loro anche l'immunità de' tributi e gabelle, come si vede da quella sua costituzione[403], che sotto il tit. de indulg. debit. leggesi nel Codice di Teodosio. E fin qui sia detto abbastanza della Lucania e de' Bruzj, e suoi Correttori.

§. IV.  Del Sannio, e suoi Presidi.

Tiene l'ultimo luogo il Sannio, provincia ancorchè assai nota ed illustre presso agli antichi Romani per la ferocia e valore de' suoi Popoli, e per la felicità delle lor armi, che spesso ebbero il vanto d'abbatter quelle de' Romani stessi, non fu però decorata ne' tempi più bassi d'altri Magistrati, che de' Presidi, inferiori in dignità a tutti gli altri Moderatori di province. Sortì per tanto la condizione di provincia Presidiale, e perchè rade volte solevan gli Imperadori indirizzar le loro costituzioni a' Presidi, perciò di essi, e de' loro nomi è a noi affatto incerta ed oscura la memoria. Varj furono i suoi confini, secondo il variar de' tempi. Paolo Diacono la ripone fra la Campagna, il mare Adriatico, e la Puglia; e fuvvi tempo, nel quale abbracciava molto più di ciò ch'ora comprendon l'Abbruzzi, il Contado di Molise, e la Valle Beneventana. Le sue più rinomate città furon Isernia, Sepino, Theate, oggi Chieti, Venafro, Telesia, Bojano, Afidena, e Sannio, che diede il nome all'intera provincia.

Era questa provincia, oltre del Preside, da cui immediatamente reggevasi, sotto la disposizione e governo del Prefetto P. d'Italia, e del Vicario di Roma. Nè fu trascurata da Valentiniano il Vecchio, il quale, essendo [198] pervenuto a sua notizia, che veniva infestata da' ladroni, pensò tosto al riparo, mandando per quest'effetto al Prefetto suddetto d'Italia quella costituzione[404], che oggi ancor si legge nel C. Teodosiano.

Non fu eziandio trascurata da Onorio, il quale nell'anno 413 concedè a questa provincia non mediocremente aggravata, alcun rilascio di tributi, come dalla costituzione[405] di quest'Imperadore che dirizzata al Prefetto suddetto d'Italia leggiamo nel Codice di Teodosio. Nè mancan altre leggi, per le quali diedesi dagli altri Imperadori providenza a gli affari di questa provincia, dirette a' Prefetti d'Italia, a' quali era sottoposta.

CAPITOLO IV. Prima invasione de' Vestrogoti a' tempi d'Onorio.

Non sentirono queste province nel Regno di Costantino, nè degli altri suoi sucessori, infin ad Onorio, que' mali e quelle calamità ch'avevan già cominciato a portare i Goti nell'altre province dell'Imperio. Questi Popoli, usciti dalla Scandinavia ne' tempi di Costantino M. e prima ancora, vissero in comune fortuna, quantunque sotto un sol Capo militassero, fino a Ermanarico, che si fece loro Re, ma morto costui, fra di loro si divisero, e ne' tempi di Valente Imperadore, quelli, che chiamavansi Vestrogoti s'elessero per lor Capitano Fridigerno, e poi per loro Re Atanarico. [199] Teodosio il Grande, amator della pace, seppe sì ben contenergli ne' loro limiti, che con essi non pur ebbe continua pace, ma gli ridusse in tale stato, che morto Atanarico loro Re, senza prendersi essi cura di eleggerne un altro, tutti si sottoposero al romano Imperio, e fecero della milizia un sol corpo, militando sotto l'insegne di Teodosio, che gli ebbe per suoi confederati ed ausiliarj. Ma estinto questo Principe nell'anno 395 e succeduto all'Imperio d'Oriente Arcadio suo figliuol maggiore, e reggendosi l'Occidente dall'altro suo figliuolo Onorio, cominciaron questi Principi, lussuriosamente vivendo, a turbar la Repubblica, ed a togliere a' Vestrogoti lor ausiliarj que' doni e quelli stipendj, che Teodosio lor padre, per contenergli sotto l'Imperio romano e sotto le sue insegne, largamente avea loro assegnati. Del che malcontenti i Vestrogoti, e dubitando, che per sì lunga pace potesse nell'ozio snervarsi il lor valore e fortezza, deliberarono far di presente, ciò che avean trascurato ne' tempi di Teodosio, creandosi un Re, che fu Alarico, uomo che per la sua bizzaria aveasi appo i suoi acquistato soprannome d'audace; e come quegli, che traeva sua origine dall'illustre stirpe de' Balti, lo riputaron abilissimo a poter con decoro e magnificenza sostenere la regal dignità. Questi considerando, che di sua maggior gloria e della sua nazione sarebbe stato acquistar con proprj sudori i Regni, che viver oziosi e lenti in quelli degli altri, persuase a' suoi di cercar nuovi paesi per conquistargli; onde raccolto, come potè il meglio, un competente esercito, avendo superata la Pannonia, il Norico e la Rezia, entrò in Italia, che trovatala vota di truppe ed in lungo ozio, con molta celerità [200] cominciò ad invaderla, e presso a Ravenna fermossi, sede allora dell'Imperio d'Occidente[406].

Avea già Onorio, lasciato Milano, in quest'anno 402 trasferita la sua residenza in Ravenna, da lui destinata sede dell'Imperio, acciocchè potesse con più facilità opporsi all'irruzione, che per questa parte solevan tentare le straniere Nazioni. Ma gli venne cotanto improviso ed inaspettato quest'insulto degli Vestrogoti, che trovandosi sorpreso, nè potendo con quella celerità, che sarebbe stata necessaria, ragunar eserciti per reprimergli, fu obbligato a prestar subitamente orecchio a' trattati di pace da Alarico offertigli, il quale se bene proccurasse co' suoi fermarsi in Italia, nulladimeno fu accordato, che dovessero i Goti abbandonarla, dandosi loro in iscambio l'Aquitania e le Spagne, province quasi che perdute da Onorio; poichè da Gizerico Re de' Vandali erano state in gran parte occupate. Consentirono i Goti, e lasciata l'Italia, alla conquista di quelle regioni erano tutti i loro animi rivolti; nè per questo lor primo passaggio patì l'Italia cos'alcuna di male. Ma furon irritati da poi per gl'ingannevoli tratti di Stilicone, il quale presso a Polenzia, città della Liguria, mentr'essi a tutto altro pensavano, gli attaccò improvisamente; e quantunque dissipati e vinti[407], nulladimeno ripreso da poi tantosto animo e raccolti insieme, dall'inganno e dall'ingiuria stimolati, furiosamente si rivolsero, e lasciando la destinata impresa, posero in fuga Stilicone col suo esercito, e nella Liguria ritornati, proseguirono a devastar con quello l'Emilia, la Flaminia, la Toscana, e tutto ciò che altro [201] lor veniva tra' piedi, fin a Roma trascorrendo, ove tutto il circostante paese similmente depredarono e saccheggiarono: alla fine entrati in Roma, la spogliarono solamente, non permettendo Alarico che s'incendiasse, nè ch'alcuna ingiuria a' tempj si facesse.

Non pur Roma più volte, e le province sopraddette patirono questi travagli e questi mali, ma non molto da poi l'istesse calamità sostennero l'altre ancora, che oggi compongon il nostro regno. La Campagna, la Puglia e la Calabria, la Lucania ed i Bruzj, ed il Sannio soffersero lo stesso destino. Scorrevano i Goti portando in ogni parte flagelli, e ruine, nè si fermarono se non arrivati nell'ultima punta d'Italia, ove trattenuti dallo stretto Siciliano, ne' Bruzj posero la lor sede: e quivi mentre a nuove imprese della Sicilia, e dell'Affrica si dispone Alarico, essendosi in quello stretto naufragate le navi, che per ciò aveva disposte, dall'avversità di sì funesto accidente toccato amaramente nell'animo, finì suoi giorni con morte immatura presso a Cosenza, e non mai abbastanza pianto da' suoi, fu nel fondo del fiume Busento con molte ricchezze depredate in Roma seppellito[408].

La morte d'Alarico fu cagione, che le cose d'Italia, e di queste nostre province, ripigliando sotto l'imperio dello stesso Onorio qualche tranquillità, assai pacifiche ritornassero: poichè se bene Ataulfo[409], che ad Alarico suo parente succedè, ritornato in Roma, avesse a guisa delle locuste raso ciò che in quella città dopo le tante prede e saccheggiamenti era restato ed avesse da capo miseramente spogliata l'Italia, ed Onorio esausto di forze non potesse contrastargli; nientedimeno, [202] essendosi da poi Ataulfo congiunto in matrimonio con Galla Placidia sorella d'Onorio, potè tanto l'amor, che portava a questa Principessa, ed il vincolo del nuovo parentado appresso lui, che racchetatosi con Onorio, tutta libera lasciogli l'Italia, ed egli co' suoi nelle Gallie fece ritorno, contro a' Franchi ed a' Borgognoni, che quelle infestavano, portando le sue armi; donde si gittarono in quelle regioni i primi semi del loro Reame, imperocchè dopo la morte d'Ataulfo ed indi a poco di Rigerico, essendo succeduto Vallia, gli fu da Onorio stabilmente assegnata l'Aquitania con molt'altre città della provincia di Narbona, ove fermata la residenza in Tolosa, si dissero Re de' Vestrogoti, cioè de' Goti Occidentali, a differenza degli Ostrogoti, che le parti orientali, e l'Italia da poi signoreggiarono, come più innanzi diremo.

Onorio adunque, morto Alarico e purgata di Goti l'Italia, per la pace indi fatta con Ataulfo, volendo ristorar de' passati danni queste province, nell'anno 413 promulgò quella costituzione[410], ch'oggi ancor leggiamo nel C. di Teodosio. Erano la Campagna, la Toscana, il Piceno, il Sannio, la Puglia e la Calabria, la Lucania e' Bruzj, in istato pur troppo lagrimevole ridotte, e perciò risedendo egli in Ravenna, sede allora dell'Imperio d'Occidente, dirizzò a Giovanni Prefetto P. d'Italia quella legge, nella quale a tutte queste province concedè indulgenza di non potere i suoi provinciali esser astretti a pagare interamente i tributi, ma contentossi, che pagando solamente la quinta parte di ciò, ch'essi solevano, tutto il resto lor si rimettesse.

[203]

Nè minore ne' seguenti anni fu la cura, che prese Onorio di queste province; poichè risedendo, come si disse, in Ravenna, molte leggi per la buona amministrazione di esse promulgò. Sua parimente fu quella data in Ravenna[411]; per cui passato il decennio si tolse a' testamenti ogni vigore, la qual oggi pur abbiamo nel Codice di Giustiniano. E nell'anno 418 nuovo indulto di tributi concedè alla Campagna, al Piceno, ed alla Toscana; e sinchè visse al riparo delle cose d'Italia fu tutto inteso e pronto.

Ma essendo egli in Ravenna, nell'anno 423 finì i giorni suoi; onde Teodosio il Giovane, che nell'Imperio d'Oriente era succeduto ad Arcadio suo padre[412], quantunque per breve tempo avesse e' solo governato l'Imperio, fece tantosto dichiarar Augusto, ed Imperador d'Occidente Valentiniano III. figliuolo di Costanzo, e di Placidia, la quale dopo la morte d'Ataulfo, restituita ad Onorio, a Costanzo fu sposata. Valentiniano portatosi in Ravenna, ed indi a poco in Roma, rassettò molte cose di quella città, e a dar riparo alla giurisprudenza, ne' suoi tempi già caduta dall'antico splendore, pose ogni cura; mentre nello stesso tempo Teodosio pensava in Oriente a ristabilirla nell'Accademia di Costantinopoli; ed alla fabbrica del nuovo Codice, che dal di lui nome fu detto Teodosiano, avea rivolti i suoi pensieri.

Questo fu dunque lo stato delle province ch'oggi forman il nostro Regno, da' tempi di Costantino fino a Valentiniano III., ne' quali tempi furon dominate da quelli Cesari, a' quali, secondo le varie divisioni dell'Imperio, [204] l'Italia appartenne: questi sono Costantino M., Costante e Costanzo suoi figliuoli, Giuliano, Gioviniano, Valentiniano I., Valentiniano II., Onorio e Valentiniano III. Furono parimente sotto la disposizione e governo de' Prefetti d'Italia, e de' Vicarj di Roma. Ed ebbero in oltre altri più immediati Moderatori: un Consolare, due Correttori, ed un Preside, da' quali, risedendo nelle province a loro commesse, eran più da presso rette e governate.

Secondo le leggi romane, e le costituzioni di questi Principi venivan amministrate; nè il nome d'altre leggi s'udiva. Toltone alcune città, nelle quali essendo ancor rimaso qualche vestigio dell'antiche ragioni di Municipio e di Città Confederata, conforme a' loro particolari istituti si vivea; in ogni provincia non si riconobbero altre leggi, che quelle de' Romani, alle quali solevan quest'istesse città in mancanza delle loro municipali, aver ricorso, siccome a' fonti d'ogni umana e divina ragione. Nè quel primo turbamento, che sotto Alarico portarono i Vestrogoti a queste nostre province, recò verun oltraggio alla politia ed alle leggi de' Romani; poichè questo Principe in mezzo all'armi non potè pensare alle leggi; non fece, che scorrere queste regioni; e quantunque per qualche tempo si fosse fermato ne' Bruzj, nuove leggi da lui non furon introdotte. Nè tampoco dopo lui, dal suo successore Ataulfo, il quale pacificatosi finalmente con Onorio, tutta libera lasciò a costui l'Italia, la quale egli poscia, e Valentiniano III. resse ed amministrò, come avean fatto gli altr'Imperadori d'Occidente loro predecessori.

[205]

§. I.  Non furono queste province ad altri cedute, o donate.

Nella considerazione delle quali cose se si fossero pur un poco fermati i Scrittori di questo Regno, e massimamente i nostri Giureconsulti, non sarebbon certamente incorsi in quelli così gravi e sconci errori de' quali han riempiuti i lor volumi: nè cotanto leggiermente sarebbonsi lasciati persuadere a creder quella favolosa donazione di tutt'Italia, che voglion supponere fatta da Costantino nell'anno 324 a Silvestro romano Pontefice, quattro giorni da poi, che fu da costui in Roma battezzato. Errore, che sparso negli Scrittori italiani, e più ne' libri de' nostri Professori, toltone un solo Bartolo, fu cagione d'infiniti altri abbagliamenti, anche in cose di più perniziose conseguenze: imperciocchè alcuni di essi si son avanzati fino a porre in istampa, che dopo questa donazione gli altr'Imperadori succeduti a Costantino non ebbero ragione, o diritto alcuno sopra queste nostre province, come quelle che s'appartenevano a' Pontefici romani ed erano del patrimonio di San Pietro: e quindi esser nata la ragione dell'investiture date poi da essi ad altri diversi Principi: aggiugnendo che fin da tali tempi il nostro Regno fosse stato distaccato dall'Imperio, e perciò non mai più sottoposto a gl'Imperatori d'Occidente, e molto meno a quelli d'Oriente. Il nostro Consigliere Matteo degli Afflitti[413] arrivò a tal estremità, che non si sgomentò di dire, che dopo questa [206] donazione, tutte l'altre costituzioni promulgate dagli altr'Imperadori succeduti a Costantino, per difetto di potestà, non ebbero in queste nostre province forza, nè vigor alcuno di legge scritta. I Reggenti[414] stessi del nostro C. Collaterale non arrossiron eziandio di scrivere, che dopo questa donazione, i successori di Costantino non ebbero giurisdizione alcuna di far leggi sopra queste province, e che perciò dovea ricorrersi alla ragion canonica, e non alla civile. Merita pertanto che qui non si defraudi della meritata lode Marino Freccia[415] nostro Giureconsulto; egli, fra' nostri fu il primo, che per avere avuto buon gusto dell'istoria, rimproverò a' nostri Scrittori error sì grave: nè 'l perdonò tampoco al Consigliero Afflitto, di cui professava esser congiunto per affinità: nè con altra difesa seppe di tal errore scusarlo, se non col dire, affinis meus historicus non est.

Ma se questi Scrittori per l'ignoranza de' tempi, ne' quali vissero, meritan qualche scusa, e a loro non già, ma al vizio del secolo si volessero questi difetti imputare: non meritano però compatimento veruno i nostri moderni, i quali dopo tante riprove, dilettansi per impegno tener chiusi gli occhi, acciocchè non ricevan un poco di lume, che tanto basterebbe per isgombrare le lor tenebre, nelle quali si compiaccion di vivere. È oggi mai stato dimostrato abbastanza per tanti chiari e valent'uomini[416], che quel finto istromento [207] di donazione fu opera, che non sorse prima dell'ottavo, o nono secolo, come che da poi siasi proccurato di farlo anche inserire ne' decreti di Graziano[417], quando negli antichi, secondo attestano S. Antonino[418], ed il Cardinal Cusano[419], non si leggeva: nè prima di quel tempo s'ebbe di lui notizia alcuna: ora disputasi solamente fra' Scrittori, qual abbia potuto essere l'Autore, che da prima diede corpo e moto a questa larva. Alcuni contendono, che fosse stata opera di qualche greco Scismatico, il quale, o per rifondere tutta la grandezza della Chiesa in Roma agl'Imperadori d'Oriente, ovvero per aver campo da declamare e burlarsi della Chiesa latina e de' romani Pontefici, secondo il costume della nazione a quelli avversissima, avesse proccurato, coll'iscovrimento poi di cotal falsa invenzione, di discreditargli e rendergli odiosi al Mondo; siccome imputavan ad essi parimente molt'altri fatti strani e portentosi, eccedenti la lor potestà. E conforme nel progresso di quest'Istoria vedremo, i Greci di Gregorio II. scrissero, ch'avesse scomunicato l'Imperador Lione, depostolo dall'Imperio, ordinato a' sudditi di non pagargli tributi, e perciò assolutigli dal giuramento, e mille altri eccessi narrati nelle loro storie, non per altro, che per rendergli esosi e per mostrargli al Mondo usurpatori dell'altrui ragioni; ancorchè poi i più impegnati per la Corte di Roma, di ciò che i Greci scrissero per un fine, se ne valessero per un altro.

Altri, fra i quali è Pietro di Marca[420], scrissero, [208] che quell'istrumento fosse stato finto e supposto non già da alcun Greco, o Scismatico, ma da Latino e Fedele: tutti però concordano esser favoloso; e tanto più se ne persuasero, quanto che molti esemplari veggonsene tutti infra loro varj e difformi. D'una maniera si legge questa donazione nel decreto di Graziano[421]: di un'altra è quella trasferita dal greco in latino, rapportata da Teodoro Balsamone[422], e trovata nella libreria Vaticana: di diverso tenore la riferiscono l'istessi R. Pontefici, Nicolò III. e Lione IX.[423]; d'altro modo Pier Damiano[424], Matteo Blastare, Ivone di Chartres, e Francesco Burfatto[425]: ed altrimente la rapporta Alberico[426]: in brieve sin a dodici, e più esemplari se ne leggon tutti infra loro varj e differenti.

Ma se a cotali rapportatori furon ignoti i fatti di Costantino, e niente curaron d'Eusebio e degli altri Scrittori contemporanei, appo i quali d'un fatto sì strepitoso e grande evvi un profondissimo silenzio; almeno avrebbon dovuto disingannarsi dal solo Codice Teodosiano, e dalle costituzioni dello stesso Costantino, che in quello si leggono. Voglion comunemente costoro, che Costantino mentr'era in Roma nella primavera di quest'anno 324 avesse usata questa cotanta prodigalità con Silvestro, quattro giorni dopo il suo battesimo: ma certa ed indubitata cosa è, che Costantino in questi stessi supposti mesi del 324 mai [209] in Roma non fu siccome colui, che di quel tempo trovavasi in Oriente tutto occupato nella guerra contra Licinio; la quale terminata con averlo sconfitto, e riportatane piena vittoria, è noto altresì, che passato in Tessalonica quivi si fermasse, ed in questi stessi mesi appunto di quest'istess'anno 324 non partissi da quella città[427]: il che manifestamente si prova per due sue costituzioni, che nel suddetto Codice Teodosiano ancor si leggono: ciò sono per la l. 4. sotto il tit. de Naviculariis, la quale fu promulgata da Costantino in quest'istesso tempo mentre era in Tessalonica, e dirizzata ad Elpidio, sotto il Consolato di Costantino III. e Crispo III. che porta questa data: Dat. VIII. Id. Mart. Thessalonicae. Crispo III. et Constantino III. Coss. e per quell'altra sua famosa costituzione[428] ove si prescrive la norma delle dispense dall'età così a maschi, come a femmine, che alquanto guasta e tronca fu inserita anche da Triboniano nel Codice di Giustiniano[429]. Questa legge Costantino la fece quando in quest'istesso anno 324 era in Tessalonica, come narra Zosimo[430] e porta la sua data: Dat. VI. Id. Aprilis Thessalonicae, Crispo III. et Constantino III. Coss. come emenda Gotofredo: e fu indirizzata a Lucrio Verino, il quale in quest'anno era Prefetto della città di Roma, com'è manifesto dalle parole della Notizia de Prefetti di Roma, ove si legge Crispo III. et Constantino III. Coss. Lucr. Verinus Praefectus Urbi: ond'è che scorrettamente si legga [210] l'iscrizione di questa legge nel Codice di Giustiniano: ad Verinum P. Praetorio.

Queste leggi convincono per favolosa non meno questa donazione, che il battesimo di Costantino per mano del Pontefice Silvestro[431]. Nè dovean altri moversi per gli atti di questo Pontefice, i quali dallo stesso Baronio non sono ricevuti, ma riputati per favolosi: e favola certamente è ciò, che in essi si narra, che in quest'anno 324 fosse stato Prefetto di Roma Calfurnio, quando dalle date delle riferite leggi è manifesto, che fu Prefetto di quella città Lucrio Verino. Dovea più tosto movergli l'istoria d'Eusebio di Cesarea[432] uom grave ed ingenuo, che fiorì ne' medesimi tempi e che i gesti di questo Principe minutamente descrisse: e dove fatti sì grandi e memorabili, se fossero veramente accaduti, egli non è credibile, che dalla diligenza ed accuratezza di sì fatt'uomo si fossero potuti tralasciare e trascurargli in un'istoria, che pochi anni dopo la morte di Costantino fu pubblicata alla luce del Mondo, e girava fra le mani di tutti, i quali con molto scorno e biasimo d'Eusebio avrebbon allora potuto rinfacciargli tant'ignoranza, e smentirlo ancora di ciò, ch'avea narrato d'essersi Costantino battezzato in Nicomedia negli ultimi giorni di sua vita, non già in Roma.

Ma di ciò, ch'ora alcuni dubitano, non ne dubitaron certamente gli antichi Scrittori così greci, come latini. Teodoreto, Sozomeno, Socrate, Fozio, ed altri greci Autori scrissero[433], Costantino aver ricevuto il [211] battesimo non già per le mani di Papa Silvestro in Roma, ma in Nicomedia, essendo per morire: e fra' Latini, S. Ambrogio, S. Girolamo, il Concilio d'Arimini pur tennero la medesima credenza[434]. Quindi è che i nostri più gravi e dotti Teologi, ed i più diligenti Scrittori ecclesiastici, quali furon il Cardinal di Perrone, Spondano, Petavio, Morino, e l'incomparabile Arnaldo[435] contra il sentimento del Baronio, come favoloso riputarono ciò, che volgarmente si crede del battesimo di Costantino finto in Roma per mano di Silvestro romano Pontefice in quest'anno 324 quattro giorni prima della favolosa donazione. Ciò che dovea bastare ad Emanuello Schelstrate[436], e non ricorrere, come fece, a quella strana ed infelice difesa, che Costantino battezzato già in Roma, fu da Eusebio fatto ribattezzare in Nicomedia; poichè anche se si volesse concedere, che Costantino nell'ultimo di sua vita inchinasse alla dottrina d'Arrio, e de' suoi seguaci; non avevano però gli Arriani, in questi primi tempi del lor errore, usato mai di ribattezzare i Cattolici, che passavano nella loro credenza, come ben pruova Cristiano Lupo: nè se non molto da poi S. Agostino[437] intese tal novità, che alcuni Arriani pretendevan di fare, di che egli, come di cosa assai stravagante e nuova, cotanto si maravigliava e biasimava.

Nè dovrà sembrar cosa strana (quantunque questo sia uscire alquanto dal nostro cammino) che Costantino, cotanto zelante della cristiana religione, e che [212] nell'anno seguente 325 volle esser presente al gran Concilio di Nicea, ove diede l'ultime prove della sua pietà, operasse, essendo ancor Catecumeno, tanti pietosi e generosi atti verso questa sua novella religione. Niuna stranezza apparirà se si distingueranno i tempi, ne' quali Costantino abbracciò questa religione, da quelli del suo battesimo; e se si considererà il costume, che correva allora tra' Grandi di differire il battesimo fin al tempo della lor morte.

Costantino non molto dopo la sconfitta di Mazenzio, assai prima dell'anno 324 in cui si narra il suo battesimo in Roma, avea abbracciata la religion nostra, dando segni manifestissimi di se, e del suo amore e beneficenza inverso di quella. Prima di quest'anno 324 molte costituzioni aveva promulgate attinenti o all'immunità de' Cherici da' pesi civili, o alla costruttura de' suoi tempj, o alla destruzione ed abbattimento di quelli de' Gentili; ed eziandio quella cotanto rinomata sua costituzione[438], per la quale fu conceduta licenza alle Chiesa di potere acquistare robe stabili, ed a tutti data libertà di poter lasciare a quelle nei loro testamenti ciò che volevano, onde nacque il principio delle loro ricchezze, e massimamente della Chiesa di Roma sopra ogn'altra, non fu altrimente promulgata da poi, ma tre anni innanzi, che seguisse in Roma questo favoloso battesimo. Non dee adunque sembrar cosa strana, se negli anni seguenti ancor Catecumeno, proseguisse con tenor costante a favorirla, e di tante prerogative e pregi adornarla.

Era ancor in questi tempi costume, come s'è accennato, che i maggiori e più illustri personaggi [213] dell'Imperio, ancorchè abbracciassero questa religione solevan però per pessima usanza differire il battesimo fino a' maggiori loro pericoli di vita, e quando s'esponevan a qualche dubbia e perigliosa impresa. Nè tal costume si spense ne' tempi di Costantino, o de' suoi figliuoli, ma durò molto da poi anche nel regno degli altri suoi successori, quantunque vi fossero dei Principi per altro religiosissimi. Così leggiamo di Teodosio il Grande, il qual ancorchè abbracciasse la religione cristiana e chiari segni della sua pietà mostrasse, visse però sempre Catecumeno, e non prima volle battezzarsi, se non quando gravemente infermato in Tessalonica l'anno 380, vedendosi in pericolo, fece chiamare a se il Santo Vescovo Acolio, da cui fu battezzato, e non meno la salute dell'anima, che quella del corpo recuperò[439].

Valentiniano II. Principe, di cui soleva dirsi, che siccome tutto il male nel suo Regno a Giustina sua madre dovea attribuirsi, così a lui tutto il bene, come ben si conobbe dopo la costei morte; essendo ancor Catecumeno, non prima, che quando fu nel procinto d'andare a combatter co' Barbari, sollecitò S. Ambrogio a venire prestamente a battezzarlo. Ma mentre quel santo Vescovo traversava l'Alpi per rendersi a Vienna, ove questo Principe dimorava, intese la sua funesta morte: poichè Arbogasto mal contento d'essergli da lui stato tolto il comando dell'esercito, guadagnatosi alcuni suoi Ufficiali, e gli eunuchi del palazzo, lo fece strangolar nel proprio letto mentre dormiva la notte del Sabato a' 15 Maggio dell'anno 392, vigilia di Pentecoste. Il qual funesto accidente meritò [214] esser compianto per una dotta e molto elegante orazion funebre di quel Vescovo[440], che recitò nelle di lui magnifiche e pompose esequie: nella quale mostrò, che il battesimo desiderato da questo Principe, e domandato con tant'ardore, avealo purificato di tutte le macchie de' suoi peccati, e portatolo al godimento delle delizie d'una vita eterna.

È nota parimente l'istoria di S. Ambrogio stesso, a cui non prima, che fosse promosso al Vescovato di Milano, fu dato il battesimo. E narrasi ancora di quel famoso e celebre Benevolo primo Cancelliere dell'Imperadrice Giustina, che per non istromentar quell'editto, per cui davasi licenza agli Arriani di professar liberamente il lor errore, fece quel sì generoso e nobil rifiuto, e ritiratosi dalla Corte, volle allora ricevere il battesimo, ch'avea, secondo il costume dei grandi, agli ultimi tempi differito: e molti altri esempj potrebbon qui recarsi, tratti dalle profane e sacre storie. E di questo costume è da credersi, che intendesse il nostro Torquato[441], e che fosse ancor in Etiopia nel Regno di Senapo, allorchè favoleggiando di Clorinda e del suo differito battesimo cantò:

A me, che le fui servo, e con sincera

Mente l'amai, ti diè non battezata;

Nè già poteva allor battesmo darti,

Che l'uso nol sostien di quelle parti.

Credevasi, che differendosi il battesimo fin agli ultimi momenti di vita, venivan perciò a sfuggirsi i cotanti rigori delle pubbliche penitenze, che di que' tempi usava la Chiesa co' Cristiani penitenti: e che fosse di [215] maggior accertamento per la lor salute eterna prolungarlo, poichè potendo ciascuno esser ministro di questo Sacramento, eziandio l'Infedele, il Neofito, ed ogni vil femminetta, ed essendo la sua materia sempre presta, qual è l'acqua, e la sua forma molto spedita e facile, consistendo in poche e semplici parole: rado, o non mai al più disgraziato e sfortunato uomo del Mondo potrebbe accader morte così improvisa, che non vi fosse un poco di tempo da poter esser tocco da sì salutifere acque, le quali in un istante per gl'infiniti meriti di Cristo, rendendolo mondo di tutte le sozzure in questa mortal vita contratte, lo sbalzavan con certezza nella felicità d'un'altra immortale ed eterna.

Ma avvedutisi da poi, che per un sì reo costume si dava occasione a gli uomini di menare una vita licenziosa e prona ad ogni enormità e scelleratezza: e fatti ancora dall'esperienza accorti, che molti così ne morivano, come vissero; e che sovente il caso potea esser così improviso, che mancassero questi ajuti, nel che terribile dovette sembrar loro il funesto accidente di Valentiniano; cominciaron per tanto i Padri della Chiesa a declamare contro a questa perniziosa usanza: onde Basilio, col suo fratello Gregorio[442] di Nizza, fecero tutti i loro sforzi in questo medesimo secolo, per abolire cotal pericoloso costume; e S. Ambrogio, che l'avea seguito, dopo aver compianto il suo infortunio, si diede a combatterlo, e fece quanto potè per isradicarlo, declamando spesse volte e fortissimamente contra questo abuso[443]; tanto che alla fine fu dalla [216] Chiesa affatto discacciato, nè giammai più tollerato, onde oggi il suo contrario lodevolmente si pratica.

Ma ritornando là, onde siam partiti, queste nostre province nel Regno di Costantino, ad altri non furon sottoposte, nè donate. Da questo medesimo Principe dopo l'anno 324 come prima, e finchè visse furon dominate e rette, egli n'ebbe la cura ed il pensiero, commettendo a' Prefetti d'Italia, a' Consolari, a' Correttori, ed a' Presidi il governo ed amministrazione di quelle; e moltissime leggi a costoro dirette stabilì, per le quali furon molti provedimenti dati intorno alla retta lor amministrazione. Così spedito che fu Costantino dal Concilio Niceno, e dagli affari d'Oriente, tornò nell'anno seguente 326 per la Pannonia in Italia, ed in Aquileja fermossi; ove nel mese d'Aprile di quest'anno promulgò alcune costituzioni[444]; indi passato in Milano, ne promulgò dell'altre[445] nel mese di Luglio; e finalmente nello stesso mese venuto per l'ultima volta a Roma, lungo tempo vi si trattenne con Elena sua madre, la quale in questo medesimo anno 326 del mese d'Agosto tra gli abbracciamenti del figliuolo, e de' nipoti quivi trapassò e fu sepolta[446]. In questo anno stesso molte leggi[447] in Roma furon da Costantino promulgate intorno all'annona della medesima città; e per altre bisogne di queste province d'Italia molte cose furon da questo Principe stabilite, infino che tornato in Oriente, al ristabilimento del nuovo Imperio, e di Costantinopoli volse ogni suo pensiero.

[217]

Ma non per questo si trascurarono le cose d'Occidente, e di queste nostre province, le quali commesse a' Prefetti d'Italia, e più immediatamente a' Consolari, Correttori e Presidi, furon così da Costantino, come dagli altri Principi suoi successori fino a Valentiniano III. come si è veduto, rette e dominate: tanto è lontano, che altri avessero avuto sopra di quelle diritto, o superiorità alcuna.

Favola dunque dee riputarsi ciò, che di Napoli a questo proposito si narra, ch'essendo in questi tempi dentro a' confini della Campagna, ed al Consolare d'essa provincia sottoposta, fosse stata da tal donazione solamente eccettuata, essendo piaciuto a Costantino per se ritenerla, per quella graziosa cagione, che dovendo fare frequenti e spessi viaggi da Roma alle parti orientali oltramarine volesse serbarsi una città, nella quale potesse tra via fermars'un poco, e dagli incomodi e strapazzi del viaggio ristorarsi. Più favolosi ancora sono e più inetti gli altri racconti de' viaggi fatti da questo Principe con Papa Silvestro in Napoli: e quel che più degno si fa di riso è, ch'entrambi si fossero imbarcati nel porto di questa città, ed andati insieme in Nicea metropoli della Bittinia, e quivi fossero intervenuti a quel gran Concilio: e ritornando poscia Costantino in Italia nell'anno 326 si fosse fermato in Napoli, ove fu di nuovo accolto dalla Repubblica napoletana con grandissimi segni di stima e di giubilo; e che avesse quivi tante chiese edificate, e cento altre seccaggini, delle quali hanno sin al vomito ripieni i lor volumi: tanto che coloro, che considerano sì favolosi racconti, e che questo Principe nel passare in Italia, non per altra strada vi si conducea, che per la Pannonia; e che se pur voleva di Roma portarsi [218] nelle parti orientali per viaggi marittimi, avea pronta e spedita la via Appia, che fu continuata fin a Brindisi, ove potea con più agio imbarcarsi; tantochè il P. Caracciolo[448], il quale ci vuol render verisimile lo sbarco di S. Pietro a Brindisi, non per altra cagione si mosse a crederlo, se non perchè questa era la strada più battuta da coloro, i quali per viaggi marittimi volean o da Roma portarsi in Oriente, o quindi a Roma, per queste cagioni ragionevolmente dubitano, se mai Costantino avesse veduta Napoli, tanto è lontano, che quivi fosse dimorato, e tante chiese avessevi edificate, come se non per altra cagione, che per fondarvi tempj sacri egli vi si conducesse[449]; quando al contrario, qualche vestigio di greca struttura, che vediamo ancor rimaso in alcune chiese di questa città, non all'età di Costantino M. dee riportarsi, ma a' tempi più bassi degli altri Costantini Imperadori d'Oriente verso gli ultimi tempi de' Greci, quando il Ducato napoletano era a gl'Imperadori Greci sottoposto: di che ci tornerà occasione a più opportuno luogo di ragionare. Ed il P. Caracciolo[450] stesso non potè negare, che molte Chiese, le quali s'attribuiscono a Costantino M. fossero state erette in Napoli da altri in tempi posteriori; ancorchè persuaso egli, che questo Imperadore fosse stato con Elena sua madre in Napoli, abbia creduto, che quella di S. Restituta, e l'altra de SS. Apostoli fossero state da lui edificate: ciò che non potendo provare colla [219] testimonianza d'Autori contemporanei, ricorre alla tradizione, e ad Anastasio, ed a gli altri Scrittori dei tempi più bassi[451].

CAPITOLO V. Delle nuove leggi, e nuova giurisprudenza sotto Costantino, e suoi successori.

La nuova disposizione dell'Imperio di Costantino, siccome portò tante mutazioni nello stato civile delle sue province, così ancora all'antica giurisprudenza de' Romani fu cagione di varj cambiamenti. Cominciò quella a prender nuova forma e nuovi aspetti, dappoichè cominciaron da lui le nuove leggi, ponendo tutto il suo studio a cancellar l'antiche ed introdurre nuovi costumi nell'Imperio: quindi è, che Giuliano soleva chiamarlo Novatore e perturbatore dell'antiche leggi e costumi[452]: ecco per lui mutati i giudizj, ed abolite l'antiche formole, e nuovi modi d'instruirgli introdotti. I Magistrati prendon altro nome, e se talora si ritiene l'antico, diversa però è la loro giurisdizione e vario l'impiego; s'introducono nuove dignità, e differenti veggonsi non pur gli Ufficiali del palazzo, ma della Milizia ancora: varie fra essi e nuove sono le precedenze; onde avvenne, che nuovi nomi e nuovi titoli attenenti alla loro giurisdizione ed autorità si leggano nel Codice di Teodosio[453].

Ma per niun'altra più potente cagione si recò alla [220] giurisprudenza antica de' Romani tanto cambiamento, quanto che per la veneranda religione cristiana, che abbracciata con tanto ardore da Costantino, lo rendè tutto inchinato e desideroso di stabilir nuove leggi, le quali secondo le massime di questa nuova religione dovettero essere alquanto contrarie e difformi da quelle de' Gentili. Fu egli imprima tutto inteso a mutare i costumi de' Romani e la lor antica religione: a questo fine promulgò molti editti al Popolo romano indirizzati, ed a' Prefetti di quella città, ed in tutti que' quattr'anni, che dimorò in Roma, cioè dall'anno 319 fin all'anno 322 non ad altro attese: proibì in Roma, che fu la città più attaccata alle superstizioni dell'antica religione, che gli Aruspici potessero privatamente presagire de' futuri avvenimenti, ancorchè in pubblico il permettesse: che i padroni non potessero valersi della potestà, ch'aveano sopra i servi, se non moderatamente e con sommo ritegno[454]; e ciò secondo le massime della nuova religione, e per quel ch'esageravano i Padri della Chiesa, fra i quali era Lattanzio, che non inculcava altro, se non che i servi, come fratelli dovessero trattarsi da' loro Signori. Nuovi modi di manumissioni introdusse nelle Chiese; perchè a costoro fosse più agevole, e pronto l'acquisto della libertà[455]. Diede nuovo sistema a' repudj, agli sponsali, ed a' matrimonj[456]; represse la leggerezza de' divorzj e stabilì con più tenace nodo la santità degli sponsali e delle nozze. Abolì le pene del celibato[457], [221] e scosse altri pesanti gioghi, che l'antica legge romana su la cervice degli uomini avea imposto[458].

Seguendo i dettami di questa nuova religione, fu terribile co' rapitori delle vergini, e con coloro che disprezzando la santità delle nozze si dilettavano di Venere vaga[459]; pose freno al concubinato, contro al quale già prima avea cotanto declamato e scritto Lattanzio[460]. Vietò qualsivoglia opera nel dì di Domenica, e secondo il nuovo rito della Chiesa, rendè feriati altri giorni, che prima non erano[461]. Volle che per qualunque formole o parole, che nelle chiese si facessero le manumissioni, s'acquistasse a' manumessi piena libertà[462]. Concedè a tutti licenza, che liberamente potessero lasciare alle chiese per testamento ciò, ch'essi volessero[463]: ed oltre di prender lodevolmente la cura e la protezione della Chiesa, e de' suoi canoni, volle anche intrigarsi, più di quel che forse comportava la dignità sua imperiale, nelle quistioni sorte fra i Padri d'essa: onde rendè perciò le contese più strepitose, e si diede maggior fomento alle discordie e contenzioni, che non si sarebbe fatto, se quelle dispute a coloro si fossero interamente lasciate, a' quali bene stavano: nè si sarebbe veduta la Chiesa poco dappoi ardere fra l'accese faci degli Arriani, che così la malmenarono; ma forse si sarebbe mantenuta con quella schiettezza e simplicità, colla quale si mantenne in que' tre primi secoli, e nella quale Cristo Redentor nostro l'avea lasciata.

[222]

Reputò a lui doversi appartenere il governo, e la politia esteriore della Chiesa: perciò molte leggi attinenti a questo furon da lui promulgate, vietando ai benestanti, ed a coloro ch'erano idonei per l'amministrazione de' pubblici Ufficj, di poter assumere il Chericato, permettendolo solamente ad uomini di tenue fortuna e di bassa condizione[464]; e diede inoltre altri provvedimenti intorn'alle persone e beni delle chiese. Quindi avvenne, che gli altr'Imperadori a lui succeduti nell'Imperio e nella medesima religione, seguitando le stesse pedate, varie altre costituzioni aggiugnessero appartenenti alla politia esteriore della Chiesa, ed alle persone de' Vescovi e de' Cherici, ed all'amministrazione e governo de' loro beni. E quantunque di Valentiniano I. scriva Sozomeno[465], che poco s'impacciò di queste cose, niente imponendo a' Sacerdoti, nè fu studioso di mutar nulla di meglio, o di peggio nell'osservanze della Chiesa; contuttociò pur si leggono nel Codice di Teodosio alcune sue costituzioni riguardanti alla sua politia, e particolarmente intorno all'elezion de' Cherici, e degli altri Ministri della Chiesa. Ma moltissime altre costituzioni aggiunsero da poi tutti gli altri suoi successori, Valentiniano II, Teodosio, Graziano, Arcadio, Onorio, e gli altri: tantocchè nei tempi di Teodosio il Giovane, di queste leggi ne fu compilato un intero libro, ch'è l'ultimo di quel suo Codice: e si vide perciò la giurisprudenza romana per quella parte, che s'apparteneva alla ragion divina, e pontificia, tutta diversa da quel di prima, ed affatto nuova, e da quella difforme. Il qual istituto essendosi da poi continuato dagli altri Imperadori, e particolarmente [223] dal nostro Giustiniano, cadde finalmente negli ultimi Imperadori d'Oriente, i quali abusando la loro potestà, ridussero negli ultimi secoli dell'Imperio la cosa in tale stato, che all'arbitrio del Principe sottomisero interamente la religione: per la qual cosa fu da valentuomini[466] saviamente avvertito, esser error grave di coloro, che dalle costituzioni novelle di questi ultimi Imperadori vogliono prendere una sicura norma per porre i giusti confini fra il Sacerdozio e l'Imperio, e fra l'una e l'altra potestà: ma di ciò più diffusamente ci toccherà ragionare, quando della politia ecclesiastica di questi tempi tratteremo.

Il zelo adunque della nostra religione, direttamente opposta a quell'antica de Gentili, impresso nel cuore d'un Principe, a cui ubbidiva l'uno e l'altro Imperio, potè variare i costumi, le leggi, e gl'instituti degli uomini. Questo non solamente gli fece pensare alla costruttura di nuovi tempj, ed all'abbattimento degli antichi, ma ciò, che fra le leggi loro sembravagli o troppo superstizioso, o soverchio sottile, mutava egli e cancellava: di che chiarissima testimonianza ne danno le molte sue costituzioni, che a questo fine furon da lui promulgate, e che si leggono nel Codice di Teodosio[467]. E Costanzo suo figliuolo, che alL'Imperio gli succedè, tenne pure il medesimo ordine, e volle ancor egli in molte cose allontanarsi dagli antichi instituti, ed in cose di religione massimamente, com'è chiaro [224] da molte sue costituzioni, che si leggon in quel Codice[468].

Dal che ne nacque, che Costantino lasciò di se varia e diversa fama appo i Cristiani, e presso a' Gentili. I nostri per questi fatti il cumularon d'eccelse lodi; e quindi prese argomento Nazario[469] nell'Orazion panegirica, che nell'anno 321 gli fece, d'innalzar le sue lodi, con dire: Novae leges, regendis moribus, et frangendis vitiis constitutae, veterum calumniosae ambages recisae, captandae simplicitatis laqueos perdiderunt. Isidoro[470] nel libro dell'Origini pur disse, che da Costantino cominciarono le nuove leggi: e Prospero Aquitanico[471] chiamò Principi legittimi gli Autori di tali leggi, perchè da' Principi Cristiani furono promulgate.

Ma presso a' Gentili, i quali mal volentieri soffrivano queste mutazioni, così lui come Costanzo suo figliuolo furon acerbamente biasimati e mal voluti. Perciò Gregorio, ed Ermogeniano Giureconsulti ambedue Gentili che fiorirono sotto Costantino e suoi figliuoli, dubitando, che per queste nuove costituzioni di Principi cristiani la giurisprudenza de' Gentili non venisse affatto a mancare, si diedero a compilare i loro Codici, ne' quali le leggi degl'Imperadori Gentili, cominciando da Adriano infino a Diocleziano, uniron insieme; perchè quanto più fosse possibile si ritenesse l'antica. E quindi avvenne, che assunto all'Imperio Giuliano nipote del G. Costantino, come quegli che nacque da Costanzo suo fratello, avendo pubblicamente rinunziata la religione cristiana, ed abbracciato il paganesimo, [225] ingegnossi a tutto potere (ancorchè non gli paresse usare l'armi della crudeltà, come avean fatti gli altri Imperadori Gentili suoi predecessori) di ristabilire il culto dell'antica religione, e l'antiche leggi, per abbattere il Cristianesimo: onde fu tutto rivolto a cancellare ciò, che Costantino avea fatto, chiamandolo perciò, come narra Ammiano Marcellino[472], Novatore e perturbatore dell'antiche leggi, e degli antichi costumi: Julianum, memoriam Constantini, ut Novatoris, turbatorisque priscarum legum, et moris antiquitus recepti, vexasse; molte sue leggi perciò ancor ora nel Codice di Teodosio si leggono, per le quali è manifesto non avere avuto ad altro l'animo rivolto, che ad abolir le leggi di Costantino, e restituir l'antiche: ecco quali fossero le sue frequenti formole sopra di ciò: Amputata Constitutione Constantini patrui mei, etc. antiquum Jus, cum omni firmitate servetur[473]; ed altrove:[474] Patrui mei Constantini Constitutionem jubemus aboleri, etc. Vetus igitur Jus revocamus. Ed avendo questo Principe secondo l'antica disciplina di molte costituzioni accresciuta la ragion civile, e sopra tutto invigilato alla spedizione delle liti, avendo anche in gran parte recise l'imposizioni, che tiravan i suoi predecessori, e dati chiari documenti della sua vigilanza, valor militare, e di molte altre virtù, fu che non pure presso a' Gentili acquistasse fama d'un Principe saggio e prudente, come Libanio[475] per questo stesso l'innalza e lo magnifica nell'Orazion funebre, che gli fece; ma che ancor da Zonara riportasse questi [226] encomj; e ciò che sembrerà strano, eziandio dai Scrittori di questi ultimi nostri tempi; fra quali tiene il primo luogo Michele di Montagna[476], il quale oltre a prender la di lui difesa dell'Apostasia, e d'altri misfatti, che comunemente se gl'imputano, di eccessive lodi lo cumula, e fin'al cielo l'estolle.

Ma perchè l'Imperio di questo Principe non durò più che due anni, essendo stato nel fiore della sua età ucciso da' Parti, non avendo che 31 anni; succeduto Valentiniano il Vecchio nell'Occidente, e Valente suo fratello nell'Oriente, Principi a' quali non era men a cuore la religione cristiana, di quello che fu a Costantino; riuscì perciò vano ogni sforzo di Giuliano contro di lei, la quale fu parimente dagli altri Principi successori ritenuta, avvegnacchè mal concia e depravata per la pestilente eresia d'Arrio, che attaccatasi ne' Capi dell'Imperio, si diffuse per tutto l'orbe cristiano, e penetrò ancora ne' petti delle Nazioni straniere; ed essendo da questi Principi state calcate le medesime orme di Costantino, ed alle costui leggi altre lor proprie aggiunte, si venne a dare alla giurisprudenza quell'aspetto e quella forma, che nel Codice di Teodosio ora ravvisiamo.

[227]

CAPITOLO VI. De' Giureconsulti, e loro libri; e dell'Accademia di Roma.

Quantunque la giurisprudenza de' Romani per la nuova divisione dell'Imperio, per la nuova disposizione degli Ufficiali, e per la nuova politia, e religione in esso introdotta, prendesse altri aspetti e nuove forme, non può nulladimeno dubitarsi, che la cagione del suo cambiamento e della sua declinazione, non in gran parte fosse anche stata la perduta antica disciplina, e la mancanza d'una buona educazione ne' giovani: mancata dunque la disciplina, e l'educazione, si videro i giovani dati in braccio a' lussi, a' frequenti conviti, alle delicatezze, a' giuochi, ed alle meretrici, siccome di questo secolo appunto si doleva Ammiano Marcellino[477]: onde non potè certamente produrre que' incorrotti e gravi Magistrati, quei saggi e prudenti Giureconsulti, gli Africani, i Marcelli, i Papiniani, i Paoli, ed i tant'altri insigni e rinomati, che ne' preceduti secoli fiorirono. L'opera de' Giureconsulti, che ne' tempi di Costantino, e de' suoi figliuoli, a que' primi lumi succederono (essendovi tra essi stato un certo Innocenzio cotanto da Eunapio celebrato, Anatolio, ed alcuni altri d'oscuro nome) non si raggirava in altro, se non ad insegnare ed esporre nell'Accademie ciò, che da que' preclari ed incomparabili Spiriti trovavasi scritto, e di raccogliere, comentare, e a miglior lezione ridurre i loro libri. Ed essendo [228] mancato l'uso dell'interpretazione, e de' responsi, e ridotto l'esercizio de' Giureconsulti a due cose solamente, cioè all'insegnare nell'Accademie, e all'arringare, o scrivere per le liti nel Foro, che tratto tratto cominciò a farsi per danajo contra l'antica legge Cincia: si ridusse il mestiere in questi tempi a tal vilipendio, che alla fine divenne arte di liberti. Perciò Mamertino[478] soleva compiangere questa perduta dignità della giurisprudenza, anche prima di Giuliano, ed amaramente dolersi, e dire: Juriscivilis scientia, quae, Manlios, Scaevolas, Servios in amplissimum gradum dignitatis extulerat, libertorum artificium dicebatur. Presso a Fozio[479] si legge, che Asterio Vescovo di Amasea, che visse intorno l'anno 400, raccontava esser egli stato discepolo d'un certo Scita servo comprato da un cittadino d'Antiochia, che pubblicamente professava giurisprudenza; quando presso agli antichi Romani l'esercizio degli Oratori, o Padroni delle cause, che erano gli Avvocati parlanti, era sì onorevole, che i Senatori romani, e gli altri personaggi grandi vi menavan la lor giovanezza: parimenti era il principal modo nello stato popolare di giungere alle cariche grandi, poichè difendendo le cause gratuitamente, siccom'essi facevano, obbligavano strettamente molte persone, ed acquistavano per conseguenza un gran numero di clienti, e quindi un grandissimo rispetto ed autorità fra il Popolo, che lor importava molto per conseguire i grandi Ufficj. S'aggiungea, che coloro, che sapevan ben arringare, avean un gran vantaggio nell'assemblee del Popolo, il quale si mena volentieri per l'orecchie: [229] onde avviene che nello Stato popolare gli Avvocati sono ordinariamente quegli, che hanno più potenza od autorità; ma sotto gl'Imperatori l'autorità degli Avvocati fu assai diminuita, come dice l'Autore del Dialogo de Oratoribus, attribuito a Tacito, perciocchè il favor popolare non serviva più a niente per ottener le grandi cariche, ed allora fu, che non potendo più esser ricompensati, se non con danari, divennero per tanto mercenarj; gli Imperadori però non volendogli affatto abbassare, gli ridussero in Milizia, attribuendo loro in conseguenza tutti que' belli privilegi, che avevan i soldati, ed ancora altri particolari, spezialmente questo, che dopo aver esercitata la loro carica per lo spazio di 29 anni, divenissero Conti[480]. Ma se tanto abbassamento si fosse solamente veduto ne' Giureconsulti, sarebbe stato più comportabile; penetrò egli nell'Accademie ancora, e ne' Tribunali.

L'Accademia di Roma erasi per l'ignoranza e viltà de' Professori, e per le dissolutezze degli Scolari ridotta a tal lagrimevole stato, che Valentiniano il Vecchio, perchè non fosse affatto estinta, fu neccessitato nell'anno 370, essendo in Treveri, promulgare una ben lunga costituzione, che dirizzò ad Olibrio Prefetto della città di Roma, nella quale XI leggi accademiche stabilì, dando riparo a molti abusi in quella introdotti. Volle primieramente, che gli Scolari, i quali dalle province dell'Imperio andavan a Roma per istudiare, portassero lettere dimissoriali spedite da' Rettori, ovvero da' Consolari, Correttori, o Presidi di quelle province donde partivano, nelle quali lettere si esprimesse la loro patria, i loro natali, ed i meriti e la dignità de' loro progenitori, e della loro razza.

[230]

Per II ordinò, che giunti in Roma dovessero presentar queste lettere al Maestro del Censo, ed a' Censuali; III che questi Ufficiali avesser il pensiero subito che gli Scolari eran entrati in Roma, di domandar loro a quale professione intendevan applicare, se all'eloquenza romana o greca, ovvero se volessero attendere a' più profondi studj, come della filosofia, o giurisprudenza; IV che fosse cura e pensiero de' medesimi Ufficiali assegnare agli Studenti gli Ospizj in luoghi lontani e remoti da ogni disonestà; V che dovessero invigilare a' lor andamenti, e star tutt'accorti per allontanargli dalle prave conversazioni, molto per la gioventù pericolose; VI proibì Valentiniano a' medesimi Scolari la troppa frequenza de' pubblici spettacoli, dando riparo con ciò a quegli abusi, che Ammiano Marcellino si doleva d'essers'introdotti per questi giovani, che consumavan il tempo in continui lussi, in amoreggiamenti, ed in frequenti spettacoli, come corruttela di costumi, e cagione d'allontanarsi dagli studj; VII proibì loro parimente gl'intempestivi e frequenti conviti, ne' quali solevan per gran parte del giorno e della notte menar l'ore in crapule, e tra mille licenziosi ragionamenti; VIII che quegli Scolari, che contro queste leggi menassero vita licenziosa, e indegnamente si portassero, dovessero severamente punirsi, con battergli pubblicamente, indi scacciargli dalla città, e fargli imbarcare, per mandargli donde eran venuti; IX stabilì il tempo de' loro studj: che il ventesimo anno della loro età sia il fine di quelli, quando prima ne' tempi di Diocleziano era nell'età di 25 anni, e che cinque anni dovessero impiegare a' studj più gravi: siccome della giurisprudenza particolarmente, stabilì ancora il nostro Giustiniano; X ordinò, che si dovessero [231] in un libro notare i nomi degli studiosi in ciascun mese, quali essi fossero, e donde venissero, per sapersi quanto tempo eran dimorati in Roma, ed il tempo ancora de' loro studj: ciò che ancora oggi noi diciamo Matricolarsi, e descriversi nella Matricola; XI Valentiniano stabilì, che dovesse ogn'anno mandarsi a lui la Matricola, per conoscere quali fossero gli Studiosi in quella descritti, acciocchè secondo il merito ed istituzione di ciascuno potesse egli premiargli, e servirsene nel governo della Repubblica.

Cotanto questo provvido Principe ebbe a cuore l'educazione de' giovani, e la riforma di questa Accademia; tanto che ristorata per queste leggi, potè ne' seguenti anni richiamare a se, e dall'Affrica, e dalla Francia, e dall'altre province occidentali, in gran numero i giovani ad apprender le buone lettere, e la legge civile in Roma, che fu perciò poi detta il domicilio delle leggi.

Si riparò da Valentiniano nel miglior modo che si potè la ruina della giurisprudenza nell'Accademie; ma nel Foro, e ne' Tribunali era pur troppo miserabile lo scempio, e l'aspro governo, che di quella facevasi da' Giudici, e dagli Avvocati. La dappocaggine dei Magistrati, e sovente la loro rapacità ed ambizione, l'ignoranza ancora degli Avvocati, e più la malizia, ed i lor inganni avevan posto in confusione tutte le costituzioni de' Principi, ed i libri de' Giureconsulti.

Da' soli Codici Gregoriano ed Ermogeniano poteva aversi certezza, quando s'allegava qualche costituzione imperiale per la decisione d'alcun litigio, e a quelli si dava tutto il peso e autorità: del resto, tutto era disordine, e confusione. Perocchè da Costantino, e da' suoi successori molte costituzioni eran state promulgate [232] di condizioni varie, appartenenti a diverse regioni de' due Imperj, ed a varj Magistrati, secondo il bisogno indirizzate, e spesse volte fra loro opposte; delle quali prima che da Teodosio il Giovane si fossero in un certo volume raccolte e partite, non s'aveva distinta notizia, e moltissime ne stavan sepolte; onde ciascun allegava, e cacciava fuori quella costituzione, che pareagli condurre alla decision favorevole della sua causa[481].

De' libri di tanti famosi e celebri Giureconsulti non minor era la confusione ed il disordine. La notizia, che se n'aveva, era assai confusa ed incerta: quale sentenza avesse per la disputazione del Foro acquistata forza di legge, e dovessero i Giudici seguire, era uscito dalla lor memoria; s'allegava indifferentemente, e sovente si recitava un responso all'altro contrario; delle contrarietà de' quali era allora il numero grandissimo, tanto che Giustiniano con tutti i suoi sforzi non potè nella sua Compilazione toglierli affatto. A questa confusione sen'aggiungeva un'altra considerabilissima, che que' Codici, i quali giravano attorno fra le mani degli uomini, non essendo ancor in Europa introdotto l'uso delle stampe, eran per l'incuria de' Librari, e degli Antiquarj, scorrettissimi, e pieni di mille errori.

A riparar tanti danni, che per lungo tempo avevan ne' Tribunali a questo lagrimevole stato ridotta la giurisprudenza, surse alla fine Valentiniano III nell'Occidente, e Teodosio il Giovane nell'Oriente. Questi Principi furono, che cospirando ad un medesimo fine, unirono insieme la lor opera, ed il loro studio, prendendosi ciascuno a riparar per la sua parte mali così [233] gravi: Valentiniano a dar compenso a' disordini, che per la dubbia autorità delle costituzioni de' Principi, e varietà de' libri di Giureconsulti antichi ne seguivano; e Teodosio ad impresa più nobile e generosa accingendosi, alla fabbrica d'un nuovo Codice, ed allo ristabilimento dell'Accademia di Costantinopoli, volse tutti i suoi pensieri.

Valentiniano adunque nell'anno 426 risedendo in Ravenna, dove aveva trasferita la sede dell'Imperio, mandò al Senato di Roma una ben lunga e prolissa orazione, per la quale fra le molte cose, a tutti questi disordini spezialmente diede riparo: parte di questa orazione si legge nel Codice di Teodosio, sotto il tit. de Responsis prudentum, e parte, ancorchè in questo Codice oggi non sia, fu da Giustiniano[482] però inserita nel suo, sotto il tit. de Legibus. In questa parte registrata da Giustiniano dassi la norma, quali costituzioni imperiali, quali rescritti potessero ne' giudicj leggersi ed allegarsi per le decisioni delle cause, e quali fra quelle dovessero appresso i Giudici aver forza e vigore: quali leggi, come generali, dovessero da tutti ugualmente osservarsi, con eccettuarne que' rescritti, che a relazione, e particolar richiesta furono in qualche particolar negozio emanati: che non tutti i rescritti de' Principi, che dalle Parti si producevano nei giudicj, avessero vigore; non quelli, che contro alle disposizioni delle leggi, da' litiganti erano stati estorti; non quegli altri nè meno, che contenevan surrezioni, ed orrezioni, i quali tutti volle, da' Giudici si rifiutassero, e non s'eseguissero[483].

[234]

In quell'altra parte della sua orazione da Teodosio approvata, e nel suo Codice inserita, dassi particolar provvidenza intorno a' libri degli antichi Giureconsulti, che senz'ordine sparsi in questa età erano di non poca confusione.

Volle primieramente, che agli scritti di questi cinque Giureconsulti, cioè di Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino si prestasse intera fede, ed allegati e ne' giudicj letti, avessero appo i Giudici tutta la forza, e tutta l'autorità per la decisione delle cause. II Che quest'istessa forza avessero le sentenze, ed i trattati di Scevola, di Sabino, di Giuliano, di Marcello, e degli altri G. C., che da que' cinque nelle lor opere fossero stati inseriti, o che da essi si celebrassero. Gli scritti di questi antichi Giureconsulti eran in Occidente allora ancor in essere, se bene nel Regno di Tolosa appo i Goti ne' tempi posteriori fossero dispersi, come testifica l'Interprete su questa costituzione di Valentiniano. In Oriente però si conservarono fino a' tempi di Giustiniano, il quale di questi scritti si valse nella sua compilazione delle Pandette. III Diede le cautele, e la norma in qual maniera i Giudici potessero sicuramente degli scritti di questi G. C. valersi nella decisione delle cause, e come i Causidici dovessero allegargli, cioè, che quelli, che per lo più si portavan attorno inemendati e scorretti, si riscontrassero co' Codici emendati: per le quali correzioni solevan in quest'età, non solamente per li libri di giurisprudenza, ma di tutt'altre professioni, scegliersi uomini i più dotti, ed i più esatti Gramatici di questi tempi; de' quali non altro era la loro cura e studio, se non di ridurre ad una perfetta lezione col confronto de' più esatti ed emendati testi, gli scritti, che correvano [235] per le mani de' Professori. Siccome altresì all'emendazione degli esemplari di Livio, e de' libri della Scrittura Sacra spezialmente, ove le scorrezioni erano più perniziose, furon impiegati uomini avvedutissimi. Di Luciano, testimone dignissimo ne è Suida: ed Ireneo scongiurava il suo libraro per dominum nostrum Jesum Christum, et gloriosum ejus adventum, quo judicaturus est vivos, et mortuos, ut conferat postquam transcripserit, et emendet ad exemplar unde descripsit. L'istessa sollecitudine ebbero Aponio, Girolamo, ed Agostino, i quali non molto si curavano de' ricchi e vistosi Codici, ma tutto il loro studio era d'avergli esatti ed emendati[484]. Cotanto in questi tempi s'invigilava a tal opera, come quella, che riputavasi di somma importanza; poichè da ciò sovente dipendeva la decisione di molte controversie nella Chiesa, e d'infinite cause nel Foro.

Diffinì in oltre Valentiniano, siccome abbiamo anche altrove ricordato, che quando ne' giudicj venivan allegate diverse ed opposte sentenze di questi antichi e famosi Giureconsulti, dovesse il maggior numero degli Autori prevalere, cioè, che le loro sentenze si numerassero, non si pesassero, ed a quello dovesse il Giudice appigliarsi, di che ebbe poi contrario sentimento Giustiniano; ma se il caso portasse, che il numero dell'una parte, e dell'altra fosse uguale, volle che fra tutti soprastasse Papiniano, in guisa che prevalesse quella parte, che dal suo canto trovavasi avere sì illustre Giureconsulto: la qual prerogativa non dovrà sembrar strana per Papiniano, riputato in ogni età il più insigne di tutti gli altri, quando ne' tempi de' nostri [236] avoli si narra, che simile prerogativa per decreto regio fosse stata ancora conceduta a Bartolo per la Spagna e per la Lusitania, se dobbiamo prestar fede a Gio. Batista de Gazalupis, che lo rapporta[485]. Maggiore fu quella di S. Gio. Crisostomo nell'interpretazione delle Scritture Sacre; giacchè nella Chiesa orientale fu per invecchiata consuetudine introdotto, che la di lui interpretazione dovesse preporsi a quanto mai dagli altri Padri della Chiesa si fosse variamente esposto: siccome nell'occidentale di gran peso furono anche le sue interpretazioni; di che ben chiari testimoni posson essere a noi Girolamo, ed Agostino. Di vantaggio stabilì Valentiniano, che se in tutto, e d'autorità, e di numero fossero pari le sentenze allegate, in questo caso al prudente arbitrio del Giudice il tutto si rimettesse, il quale fra se medesimo con giusta bilancia pesando l'opinioni, a quelle dovesse attenersi, che più giuste, e all'equità conformi reputasse.

Per ultimo le note di Paolo, e d'Ulpiano fatte al Corpo di Papiniano lor maestro, rifiutò, e volle che niuna autorità avessero ne' giudicj: ed in questo altresì fu poi differente il sentimento di Giustiniano, il quale non affatto le rifiutò, ma molte, e particolarmente quelle di Paolo, nella compilazione de' Digesti mescolò e ritenne: le Sentenze di Paolo però, ordinò Valentiniano, che sempre valessero, ed avessero ogni autorità e vigore. E di questa costituzione di Valentiniano, e dell'altre simili in questi tempi promulgate, intese Giustiniano, quando disse, ch'era stato [237] ordinato, che le sentenze de' Giureconsulti avessero tanta autorità, sicchè non fosse lecito a' Giudici allontanarsi da' loro responsi, siccome fu anche da noi avvertito nel primo libro di questa Istoria.

Tale fu la providenza di Valentiniano III acciocchè nel Foro si togliessero que' perpetui disordini, e quelle confusioni, che recava la poca notizia delle costituzioni de' Principi, e de' libri de' Giureconsulti: onde fu in Occidente restituita la giurisprudenza, nel miglior modo che fu possibile, a qualche dignità e splendore.

§. I.  Dell'Accademia di Costantinopoli.

Ma maggiori furon gli sforzi di Teodosio il Giovane, per ristorare la giurisprudenza in Oriente: egli cominciò dodeci anni prima della fabbrica del suo nuovo Codice a ripararla nell'Accademie. Costantino il Grande fin dall'anno 332 per fornir la città di Costantinopoli di tutto ciò che mai fosse di rado ed eccellente, e per renderla in tutto emula di Roma, aveva posta ogni sua cura e diligenza, ad invitare in quella molti Professori di lettere. Costanzo suo figliuolo verso l'anno 354 l'adornò d'una famosa Biblioteca, onde Temistio perciò il cumulò di tante lodi. Valente nell'anno 372 l'accrebbe grandissimamente, tanto che volle, che alla conservazione della medesima vi fossero sette Antiquarj, quattro greci e tre latini, i quali badassero a comporre i Codici, ed a riparar quelli dal tempo consumati, ed altri Ministri destinò, perchè ne avessero cura e pensiero. Niuno però infino a' tempi di Teodosio il Giovane, pensò a stabilire in questa città un'Accademia, che potesse pareggiar quella di Roma. Teodosio adunque fu colui, che nell'anno 425 pensò [238] di stabilirla: il suo luogo fu il Campidoglio nella regione VIII lontana dal mare, e mediterranea, ricca di molti portici costrutti a questo fine, e fu perciò chiamata Capitolii Auditorium. Acciocchè abbondasse di Professori, e di Scolari, e ritenesse quella dignità e grandezza, ch'egli intendeva di dargli, stabilì, che i Professori non potessero insegnar la gioventù fuori di questo Auditorio nelle private celle, come prima soleva farsi in Roma. Assegnò a quest'Accademia molti Professori secondo la facultà, che dovevan appararsi; e tutti arrivavan al numero di trent'uno. Tre Oratori per la romana eloquenza, e diece Gramatici. Per l'eloquenza greca stabilì cinque Sofisti, e parimente diece Gramatici: onde vent'otto eran coloro, parte Gramatici, parte Oratori e Sofisti, perchè di queste facultà istruissero la gioventù. Per coloro poi, che a più profonde scienze volevan impiegarsi, ne stabilì tre solamente, uno per la filosofia, e per la giurisprudenza due, i quali in essa insegnassero le leggi civili[486]. A' tempi dello stesso Teodosio vi spiegò le leggi Leonzio famoso Giureconsulto, che tra' Legisti fu il primo ad aver l'onore e 'l grado di Conte Palatino: nè mancaron da poi altri celebri Professori, che la renderon chiara ed illustre. A' tempi di Giustiniano professaron quivi giurisprudenza Teotilo, e Cratino, que' medesimi, che chiamati da lui intervennero alla fabbrica dei Digesti[487].

Nè fu minore in quest'Accademia il concorso dei giovani per apprender legge civile, di quello, che nell'Occidente [239] teneva Roma, e Berito nell'Oriente. E maggiore eziandio si vide, quando da Giustiniano fu vietato all'altre Accademie, come a quella d'Alessandria e di Cesarea, d'esplicar le leggi, non concedendo licenza ad altre, fuorchè nell'Oriente, a quella di Berito, ed a questa di Costantinopoli, e nell'Occidente a quella di Roma.

CAPITOLO VII. Delle costituzioni de' Principi, onde formossi il Codice Teodosiano.

Non bastò a Teodosio d'aver in cotal guisa dato riparo alla cadente giurisprudenza, e d'averla in cotal modo restituita nell'Accademie: erano ancora pochi coloro, come dice l'istesso Teodosio[488], qui juris civilis scientia ditarentur, et soliditatem verae doctrinae receperint. L'immensa copia de' libri[489], la gran mole delle tante costituzioni imperiali fra se discordanti, tenevagli ancor'in una profonda oscurità e densa caligine. A toglier queste tenebre volse finalmente Teodosio l'animo suo, onde alla fabbrica d'un nuovo Codice tutto inteso, rifiutate le tante efimere costituzioni de' Principi dettate secondo l'occasion de' tempi, e le molte inutili e fra di lor contrarie, raccolse in un volume solamente quelle, che credè bastare a quanto mai potesse occorrere ne' Tribunali per la decisione delle cause.

Adunque nell'anno 438, come ben pruova l'avvedutissimo [240] Gotofredo, non già nell'anno 435 come stimò Cironio, e credettero altri, ingannati dalla erronea soscrizione della Novella di Teodosio[490], fu tal Codice da questo Principe compilato e pubblicato: alla fabbrica del quale elesse otto insigni e nobili Giureconsulti, e come e' ci testifica, di conosciuta fede, di famosa dottrina, e tale in somma da potersi paragonare agli antichi. Il primo, che vi ebbe la maggior parte, fu Antioco, già Prefetto P. ed Ex-Console, di cui s'incontrano sovente presso a Marcellino, Suida, e Teodoreto onorate memorie. Fuvvi Massimino, vir Illustris, come lo chiama Teodosio istesso[491], Exquaestor nostri Palatii, eminens omni genere literarum. Fuvvi Martirio, vir Illustris, Comes, et Quaestor nostrae Clementiae fide interpres. Furonvi Speranzio, Apollodoro, e Teodoro, viri spectabiles, Comites sacri nostri Consistorii. Fuvvi Epigenio, vir spectabilis, Comes, et Magister memoriae; e per ultimo Procopio, vir spectabilis, Comes ex magistro libellorum, jure omnibus veteribus comparandi: tutti delle più sublimi dignità fregiati, e della dottrina legale espertissimi.

L'impiego a lor dato in quest'opera fu di raccoglier le costituzioni di molti Principi, che stavano nascose ed in tenebre sepolte, ed in un corpo unirle: quelle poi raccolte, emendarle, e dalle molte brutture ed errori purgarle: per ultimo colla maggior brevità in compendio raccorciarle.

Era senza alcun dubbio assai grande la selva delle costituzioni degli Imperadori cristiani, che da Costantino M. infine a questi tempi s'erano nell'uno, e nell'altro Imperio diffuse e sparse; onde non bisognò [241] meno a questi Compilatori, che il numero di sedici libri, ne' quali ancorchè accorciate, potessero accorle ed unirle. Imperciocchè se si riguarda il tempo, che si framezza, non è meno di cento ventisei anni, cioè dagli anni di Costantino 312 infino a questo anno 438; se gl'Imperadori, le cui costituzioni in questo Codice si raccolsero, il lor numero non è minore di sedici: Costantino M: tre suoi figliuoli Costantino, Costanzo e Costante: Giuliano, Gioviano, Valentiniano, Valente, Graziano, Valentiniano il Giovane, Teodosio M., Arcadio, Onorio, Teodosio il Giovane, Costanzo e Valentiniano III; se le varie sorte delle costituzioni, in esso s'incontrano non pur gli editti, ma eziandio i varj rescritti, le molt'epistole a' Magistrati dirette: l'orazioni al Senato, le prammatiche, gli atti, ed i decreti fatti nel Concistoro de' Principi, e finalmente i molti lor mandati a' Rettori delle province, ed a gli altri Ufficiali indirizzati.

Non fu certamente tralasciata niuna parte della pubblica e privata ragione, che in questo Codice non si fosse trasferita, come è pur troppo manifesto dall'argomento de' suoi libri, e dal novero de' titoli. Delle costituzioni de' Principi appartenenti alla ragion privata, a' contratti, a' testamenti, alle stipulazioni, a' patti, all'eredità, e ad ogn'altro a questa attenente, se ne compilarono ben cinque libri. Per quel che s'attiene alla ragion pubblica, niente evvi che desiderare; qui si descrivono le funzioni di tutti i Magistrati, dassi la Notizia delle dignità, dassi la norma per le cose militari: dispongonsi gl'impieghi degli Ufficiali: si stabiliscono l'accusazioni criminali: si dichiarano le ragioni del Fisco: si dispongono le cose appartenenti all'annona, ed a' tributi: si dà providenza al Comune [242] delle città, a' Professori, agli spettacoli, alle pubbliche opere, agli ornamenti, ed in somma si prende cura e pensiero di tutto ciò, che alla pubblica pace e tranquillità possa mai conferire. Nè si tralasciò la ragion Pontificia, anzi un intero libro si compilò di varie costituzioni a questa appartenenti, nelle quali varj negozj ecclesiastici, ed alla religione attinenti, si diffiniscono: in guisa che non v'è parte della ragion privata, pubblica, o divina, che in questo Codice non si racchiuda.

I nomi de' Principi, che le proferirono, il luogo, il tempo, le persone a cui furon indirizzate, perchè non s'invidiasse a' lor Autori la gloria, e s'evitasse ogni confusione e disordine, non furon soppressi, ma con ogni diligenza lasciati intatti.

Nondimeno l'opera non riuscì così esatta e compiuta, che in essa non s'osservino molti difetti ed errori lungo di lor catalogo ne tessè il diligentissimo Gotofredo[492], che non fa uopo qui rammemorargli; ma non dee passarsi sotto silenzio quello gravissimo, e non da condonarsi a Teodosio Principe cristiano, d'avervi anche in esso molte leggi empie, e alla sua religione in tutto opposte, inserite. Il proponimento suo fu delle costituzioni de' Principi cristiani solamente far raccolta, incominciando da quelle del G. Costantino: perciò Prospero Aquitanio chiamò questo Codice, libro nel quale le leggi de' Principi legittimi furon raccolte, Principi legittimi appellando egli i Principi cristiani, delle cui sole costituzioni era composto. In oltre il suo disegno, ed il fine in compilarlo fu, affinchè potesse servir nel Foro, e nelle cotidiane controversie [243] allegarsi, e secondo le sue leggi, quelle terminarsi in tempo, che la religion cristiana erasi già fermamente nel suo soglio stabilita. Come dunque potrà condonarglisi d'avere ancor quivi mescolate molte costituzioni di Giuliano apostata, affatto contrarie a molte altre di Principi cristiani, ed oltre ciò, del titolo di Divo decorarlo? Come inserirvi quelle costituzioni, che a' suoi tempi avevan acquistata nota pur troppo chiara d'empietà e di superstizione, come la l. 1. de paganis di Costantino Magno, nella quale si permette l'uso pubblico dell'Aruspicina, e l'altra di Valentiniano il Vecchio, per la quale vien permessa la libertà di qualunque religione, ed approvato anche l'uso dell'Aruspicina[493]? Leggi ancorchè tollerabili, quando da quelli Principi per dura necessità si proferirono, da non riferirsi però in un Codice, che all'uso di un'altra età dovea servire, ed in tempi, nei quali la religion cristiana avea già poste profonde radici ne' petti umani. Chi potrà soffrire in esso la l. 4, et 6. di Giuliano de Sepulchris violatis, le quali sono piene di superstizione, e di gentilesmo; chi la l. ult. di Valentiniano il Giovane collocata sotto il titolo de fide Catholica, per la quale confermandosi il Conciliabolo d'Arimini diedesi alla pestilente eresia d'Arrio maggior vigore e forza, che non le poteron dare gli Autori medesimi, ed i suoi maggiori fautori e parteggiani? Dovrebbe certamente l'animo suo essere stato rimosso da questo misfatto, per quello generoso insieme, e pietoso rifiuto di Benevolo, che ritrovandosi primo Cancelliere dell'Imperadrice Giustina, l'unica promotrice di quella legge, non volle in alcun modo [244] segnarla, e contentossi anzi vivere privatamente nelle sue paterne case, che rimanersi pien di stima in Corte partecipe di opera sì indegna. Chi per ultimo le leggi da Arcadio promulgate apertamente contra i Cattolici, e contra Crisostomo, e suoi Joanniti[494]?

Non così certamente si portaron i Compilatori del Codice di Giustiniano, i quali tutte queste costituzioni rifiutarono, come si dirà, quando dovrem favellare della compilazione di quello, seguita nel sesto secolo dell'umana Redenzione.

§. I.  Dell'uso, e autorità di questo Codice nell'Occidente, ed in queste nostre province.

Compilato adunque che fu in questo anno 438 il Codice di Teodosio, e per pubblica autorità promulgato, fu subito ricevuto, non meno per l'Oriente, che per l'Occidente. Nell'Oriente acquistò immantenente tutto il vigore, perchè Teodosio suo Autore, appena pubblicato, cacciò fuori una sua Novella diretta a Florenzio Prefetto P. dell'Oriente, che porta il titolo de Theodosiani Codicis auctoritate, per la quale vietò, che d'allora in poi a niuno fosse lecito nel Foro valersi delle costituzioni d'altri Principi, se non di coloro, che in questo Codice fossero inserite: incaricandogli ancora, che per mezzo di pubblici editti, a tutti i Popoli, ed a tutte le province facesse noto questo suo divieto, ed alla lor notizia portasse la promulgazione, ed autorità, ch'egli dava a questo Volume.

Nell'Occidente non fu minore la sua fortuna; ancorchè Teodosio, come quegli, a cui ubbidiva solamente [245] l'Oriente, non potesse in queste parti occidentali dargli quell'autorità, che gli diede nel suo Imperio; nulladimeno, perchè prima con Valentiniano suo Collega n'aveva egli comunicato il consiglio, anzi di concerto avevan ogni lor opera a questo stesso fine indirizzata; non tantosto fu quello ricevuto nell'Oriente, che Valentiniano gli diede tutta l'autorità e forza nell'Occidente. Ancora avea prima questo Principe mandato a Teodosio, ed a coloro, che furon eletti alla fabbrica di questo Codice, suoi scrigni delle costituzioni promulgate in Occidente da' Principi suoi predecessori, che 'l dominarono[495], ed insieme con esse aveva raccolte ancora le costituzioni sue, che per tutto l'anno 425 aveva, risedendo ora in Aquileja, ora in Roma, e finalmente in Ravenna, ove trasferì la sua sede, promulgate; e fra queste, ancor quella sua famosa Orazione, che molto all'intento di Teodosio conferiva, per la quale a' disordini delle tante costituzioni, e de' libri de' Giureconsulti si dava riparo, la qual Orazione da Teodosio fu inserita in questo Codice, cioè quella parte solamente, in cui trattavasi de' libri de' Giureconsulti, riputando superflua l'altra per le costituzioni de' Principi; imperocchè egli sopra di ciò dava più esatta e minuta providenza in questo stesso suo Codice.

Per questa cagione Valentiniano gli diede nell'Occidente il medesimo vigore, che gli avea dato Teodosio nell'Oriente; e se bene non si legge sopra ciò alcuna speziale sua costituzione, non può nondimeno cadervi dubbio veruno: poichè anche dopo scorsi diece [246] altri anni, ne' quali da Teodosio s'erano promulgate molt'altre sue Novelle, e che in un altro volume separato furon pubblicate, Valentiniano con espressa sua Novella[496], la qual è fra le Teodosiane, quelle parimente confermò, aggiungendovi questa ragione, ut sicut uterque Orbis individuis ordinationibus regitur, iisdem quoque legibus temperetur. Oltre che il rispetto e l'obbligazioni, che Valentiniano teneva con Teodosio eran pur troppo grandi, essendo da lui stato creato Augusto, e da poi fatto suo genero; ond'è, che Valentiniano il soleva chiamar padre, e Teodosio a lui, suo figliuolo; quindi è, che nell'istessa Novella, facendo menzione di questo Codice, come di già ricevuto nel suo Imperio, con questi segni di stima ne favelli: Gloriosissimus Principum Dominus Theodosius Clementiae meae pater leges a se post Codicem Numinis sui latas, nuper ad nos, sicut repetitis Constitutionibus caverat, prosequente sacra praeceptione direxit. Anzi fu tanta la venerazione, in cui Valentiniano ebbe questo Codice, che nelle sue Novelle, le quali da tempo in tempo infino all'anno 452 poco prima della sua morte promulgò, sovente in confermazione de' suoi editti, e per dar loro maggior autorità, valevasi delle leggi, che nel Codice di Teodosio eran inserite: così nella Novella[497] 10 dell'anno 451, e nella Novella 12 de Episcopali judicio del 452, e nell'altra sotto il tit. de honoratis etc. 45 si vede essersi servito delle leggi d'Onorio, d'Arcadio, e di Graziano, che in questo Codice furono da Teodosio inserite.

[247]

Ma quel che parrà strano, assai più fortunati successi ebbe questo Codice nell'Occidente, che nell'Oriente: poichè nelle parti orientali la sua durata non s'estese più, che a novant'anni, cioè fin a' tempi di Giustiniano, il quale facendosi Autore d'un nuovo Codice, quello estinse e cancellò; ma nell'Occidente ebbe eziandio presso a quelle nazioni, che barbare si dicevan, assai miglior fortuna; poichè presso agli Ostrogoti in Italia, a' Vestrogoti nelle Gallie e nelle Spagne, e presso a' Borgogni, Franzesi e Longobardi, fu in tanta stima ed onore avuto, che conforme alle leggi, che in quello si contenevano, a lor piacque di reggere non pure i Popoli, che soggiogavano, ma loro medesimi ancora, siccome nel progresso di quest'Istoria ne' seguenti libri più partitamente dirassi. E per ultimo ne' nostri tempi, e de' nostri avoli meritò questo Codice, che per la sua sposizione e rischiaramento s'impiegassero le fatiche de più valorosi e sublimi ingegni, che fiorissero ne' due ultimi secoli, quando risorto dalle lunghe tenebre, nelle quali era giaciuto, per opera di Giovanni Sicardo, che al sentir di Doujat[498] fu il primo, che lo cavò fuori alla luce del mondo in Basilea, ancorchè assai tronco e mutilato; ridotto poi in miglior forma nell'anno 1540 in Parigi da Giovanni Tillio[499] (quegli che da Protonotario della Corte del Parlamento di Parigi, e ch'ebbe parte nella fabbrica del processo della cotanto famosa causa del Principe di Condè, fu da poi creato Vescovo di Meaux) meritò che intorno a tant'opera impiegasse la sua dottrina e diligenza eziandio l'incomparabile Cujacio; [248] ed alla fine, che con perpetui, e non mai abbastanza lodati commentarj, ricolmi della più fina ed elevata erudizione, ponesse tutto se stesso, e tutto il suo sapere ed accuratezza il diligentissimo Giacopo Gotofredo, il quale morto al piacere dell'immortal suo nome, dopo le sue cotanto lunghe ed ostinate fatiche, non potè aver la fortuna di sopravvivere a questa sua impareggiabil opera, e degna d'immortale ed eterna memoria.

Ecco quali furono le vicende della giurisprudenza romana da' tempi di Costantino M. insino all'Imperio di Teodosio il Giovane, e di Valentiniano III suo collega: ecco con quali leggi essi governarono l'uno e l'altro Imperio. I volumi, che giravan intorno, onde dovean prendersi ed allegarsi le leggi per le controversie del Foro, ed insegnarsi nell'Accademie, furono: de' Giureconsulti, i libri di Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino tenevano il primo luogo: i trattati di Scevola, Sabino, Giuliano, Marcello, e degli altri Giureconsulti celebrati da' sopraddetti cinque nei loro scritti, avevan parimente tutta l'autorità e forza. Le note di Paolo, e di Ulpiano fatte al Corpo di Papiniano furon in questi tempi da Valentiniano rifiutate, ancorchè da poi da Giustiniano ricevute ed ammesse; ma le sentenze di Paolo sopra ogni altro furono stimate, e di somma autorità e vigore riputate.

Delle costituzioni de' Principi: i due Codici, Gregoriano ed Ermogeniano, ne' quali le leggi de' Principi Gentili da Adriano sin a Diocleziano furon raccolte, facevan in questi tempi piena autorità, ancorchè per privato studio, senza commission pubblica, da que' due G. C. fossero stati compilati: le costituzioni [249] de' Principi quivi raccolte, s'allegavano con piena fiducia nel Foro, e nelle consultazioni: d'esse si servì, come s'è veduto nel primo libro, S. Agostino[500], allegando una costituzione d'Antonino registrata nel Codice Gregoriano: se ne valse l'Autor della collazione delle leggi mosaiche colle romane, che secondo Gotofredo fiorì nel decorso del sesto secolo ne' tempi di Cassiodoro; l'adoperò ancora l'Autor di quell'antica consultazione, ch'oggi fra quelle di Cujacio leggiamo: e ne' seguenti tempi anche Triboniano; e del loro Compendio, Papiano, ed altri Scrittori de' tempi più bassi. E per ultimo era tenuto nel maggior vigore ed autorità il Codice di Teodosio, colle Novelle recentemente da questo Principe, e da Valentiniano suo collega promulgate.

Questi adunque furon i libri, ne' quali in questa età contenevasi tutta la ragion civile de' Romani; dai quali ne' Tribunali, e nelle Accademie, presso a' Professori, e Causidici, e presso a' Magistrati, e Giudici si prendevan le norme del giudicare, dello scrivere, e dell'insegnare. Insino a tali tempi non s'udiron leggi straniere in queste province, che oggi formano il nostro Regno. Il venerando nome solamente della legge romana era inteso e riverito, e conforme a' suoi dettami furon quelle rette ed amministrate, fin che non furon nuovamente infestate da quelle medesime Nazioni, che già in questi tempi stessi aveanle cominciate a perturbare, le quali ancorchè non osassero di fare alle romane leggi alcun oltraggio, anzi dassero a quelle fra loro onorato luogo, non poteron però fra tanti ravvolgimenti di cose rimaner così intere e salde, che [250] non restassero contaminate, ed in maggior declinazione, appresso non si vedessero, come si mostrerà ne' seguenti libri di quest'Istoria.

CAPITOLO VIII. Dell'esterior politia ecclesiastica, da' tempi dell'Imperador Costantino M. infino a Valentiniano III.

Dopo aver Costantino M. abbracciata la religione cristiana, e posta in riposo la Chiesa, si vide quella in un maggiore esterior splendore ed in una più ampia e nobile Gerarchia. I Vescovi, che in que' tre primi secoli, in mezzo alle persecuzioni, nelle città dell'Imperio governavano le Chiese, ora che pubblicamente da tutti poteva professarsi questa religione, e che cominciavan ad ergersi tempj ed altari per mantenere il culto di quella, si videro, secondo la maggioranza delle città, nelle quali reggevan le Chiese, in varj e diversi gradi disposti, ed in maggior eminenza costituiti. Cominciarono perciò a sentirsi i nomi di Metropolitani, di Primati, d'Esarchi, ovvero Patriarchi, corrispondenti a quelli de' Magistrati secolari, secondo la maggiore o minor estensione delle province, ch'essi governavano.

Pietro di Marca Arcivescovo di Parigi[501], Cristiano Lupo Dottor di Lovanio, Emanuello Schelstrate Teologo d'Anversa, Lione Allacci, ed altri, con ben grandi [251] apparati sforzaronsi di sostenere, che così la dignità di Metropolitano, come la Patriarcale, dagli Apostoli riconoscessero il lor principio, e che da essi fossero state instituite. Ma Lodovico Ellies Dupin[502] insigne Teologo di Parigi ben a lungo riprova il lor errore, e confutando gli argomenti recati dall'Arcivescovo di Parigi, dimostra con assai forti e chiare pruove, che nè da Cristo, nè da gli Apostoli tali dignità fossero state instituite: ma che in questi tempi, data che fu la pace da Costantino alla Chiesa, cominciaron ad instituirsi, e che secondando la disposizione delle province dell'Imperio, e le condizioni delle città metropoli di ciascheduna di quelle, fosse stata introdotta nella Chiesa questa politia e questa nuova Gerarchia.

E la maniera colla quale ciò si facesse, fu cotanto naturale e propria, che sarebbe stata maraviglia, se altrimenti fosse avvenuto. Già dalla descrizione delle province dell'Imperio fatta sotto Costantino s'è ravvisato, che le diocesi, componendosi di più province, avean alcune città primarie, ovvero metropoli, dalle quali l'altre della medesima provincia dipendevano: a queste si riportavan tutti i giudicj dell'altre città minori: a queste per li negozj civili, e per gli altri affari, come suole avvenire, tutti i provinciali ricorrevano. La Chiesa, essendo stata fondata nell'Imperio, come dice Ottato Milevitano, non già l'Imperio nella Chiesa, prese per ciò, data che le fu pace, nelle cose ecclesiastiche l'istessa politia, adattandosi a quella medesima disposizione delle province, ed alle condizioni delle città che ritrovò. Così quando dovea ordinarsi [252] o deporsi qualche Vescovo, quando nelle Chiese occorreva qualche divisione, o disordine, quando dovea deliberarsi sopra qualche affare, ch'era comune a tutte l'altre chiese della provincia, non essendovi gli Apostoli a' quali prima per queste cose solea aversi ricorso, era mestiere, che si ricorresse al Vescovo della città metropoli, e Capo della provincia. Ed in cotal guisa cominciò prima per consuetudine tratto tratto ad introdursi questa politia; onde la distribuzione delle Chiese si fece secondo la forma dell'Imperio, e le città metropoli dell'Imperio divennero anche metropoli della Chiesa, ed i Vescovi, che vi presedevano, acquistarono sopra l'intere province la potestà, così d'ordinare, o deporre i Vescovi delle città soggette, e di comporre le loro discordie, come anche di raunare i Sinodi, e sopra altre bisogne; ma questa potestà non era assoluta, poichè senza il consiglio de' Vescovi della stessa provincia niente potevan fare; questa consuetudine fu nel quarto secolo, e ne' seguenti ancora per molti canoni in alcuni Concilj stabiliti, confermata; onde tutta la Chiesa al modo della civil politia fu disposta e distribuita.

Questa distribuzione e Gerarchia della Chiesa, conforme alla politia dell'Imperio apparirà più chiara e distinta, se avremo innanzi agli occhi quella disposizione delle diocesi, e delle province, che in questo libro abbiam descritta sotto l'Imperio di Costantino: quivi si vide l'Imperio diviso in quattro parti, al governo delle quali altrettanti moderatori destinati. L'Oriente, l'Illirico, le Gallie e l'Italia.

(Questa istessa disposizione delle diocesi, e province dell'Imperio, alla quale si conformò la divisione [253] delle province della Chiesa, viene parimente descritta da Binghamo[503]).

ORIENTE.

Fu l'Oriente diviso in cinque diocesi, ciascuna delle quali abbracciava più province, Oriente, Egitto, Asia, Ponto, e Tracia.

La diocesi d'Oriente ebbe per sua città primaria, Capo di tutte l'altre, Antiochia nella Siria, ond'era ben proprio, che questa città anche nella politia ecclesiastica innalzasse il capo sopra tutte l'altre, e che il Vescovo, che reggeva quella Cattedra, s'innalzasse parimente sopra tutti gli altri Vescovi delle Chiese di tutte quelle province, delle quali questa diocesi si componeva. Si aggiugneva ancora l'altra prerogativa d'avere in Antiochia il Capo degli Apostoli S. Pietro fondata la Chiesa, e predicatovi il primo l'Evangelo; ancorchè poi gli fosse piaciuto di trasferir la sua cattedra in Roma.

Le province che componevano la diocesi d'Oriente, prima non eran più che dieci, la Palestina, la Siria, la Fenicia, l'Arabia, la Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro; ma da poi crebbe il lor numero insin a' quindici; imperocchè la Palestina fu partita in tre province, la Siria in due, la Cilicia in due, e la Fenicia parimente in due. Ecco come ora ravviseremo in ciascuna di queste province i loro Metropolitani, secondo la politia dell'Imperio.

La Palestina, prima che fosse divisa, non riconosceva altra città sua metropoli, che Cesarea; onde il [254] suo Vescovo acquistò le ragioni di Metropolitano sopra i Vescovi dell'altre città minori: ed essendo poi stata divisa in più province, ebbe in una per metropoli la città di Scitopoli, e nell'altra quella di Gerusalemme; ma non perchè d'una provincia ne fossero fatte tre, venne, per questa nuova divisione ed accrescimento di due altre metropoli, a derogarsi le ragioni di Metropolitano al Vescovo di Cesarea, ma rimasero come già eran i Vescovi di Scitopoli, e di Gerusalemme suffraganei al Metropolitano di Cesarea: e quando celebrossi il gran Concilio di Nicea, ancorchè a Gerusalemme città Santa molti onori e prerogative fossero state concedute, in niente però vollero quei Padri, che si recasse pregiudizio al Metropolitano di Cesarea, Metropoli propria dignitate servata, dice il settimo canone di quel Concilio; e non per altra ragione, se non perchè, essendo una la provincia della Palestina, e Cesarea antica sua Metropoli, trovandosi acquistate già tutte le ragioni di Metropolitano da quel Vescovo, non era di dovere, che per quella nuova divisione venisse a perderle, o a scemarsele. Nè se non molto tempo da poi, la chiesa di Gerusalemme fu decorata della dignità Patriarcale, come più innanzi vedremo.

L'altra provincia di questa diocesi fu la Siria, ch'ebbe per metropoli Antiochia, Capo ancora di tutta la diocese; ma poi divisa in due, oltre ad Antiochia, riconobbe l'altra, che fu Apamea.

La Cilicia, che parimente fu in due province divisa, riconobbe ancora due metropoli, Tarso, ed Anazarbo.

La Fenicia, divisa che fu in due province, riconobbe anche due Metropoli, Tiro e Damasco. Eravi [255] ancora nella Fenicia la città di Berito, celebre al Mondo, come s'è veduto nel primo libro, per la famosa Accademia ivi eretta. Ne' tempi di Teodosio il Giovane, Eustazio Vescovo di questa città ottenne da quel Principe rescritto, col quale Berito fu innalzata a Metropoli: per la qual cosa Eustazio in un Concilio, che di que' tempi si tenne in Costantinopoli, domandò, ch'essendo la sua città stata fatta metropoli, si dovesse in conseguenza far nuova divisione delle Chiese di quella provincia, ed alcune di esse, che prima s'appartenevan al Metropolitano di Tiro, dovessero alla sua nuova metropoli sottoporsi. Fozio, che si trovava allora Vescovo di Tiro, scorgendo l'inclinazion di Teodosio, bisognò per dura necessità, che approvasse la divisione. Ma morto l'Imperador Teodosio, e succeduto nell'Imperio d'Oriente Marciano, portò il Vescovo Fozio le sue doglianze al nuovo Imperadore del torto fattogli, chiedendo, che alla sua città antica metropoli si restituissero quelle Chiese, che l'erano state tolte. Fece Marciano nel Concilio di Calcedonia riveder la Causa, e parve a que' Padri, che tal affare non secondo la nuova disposizione di Teodosio, e secondo le novelle costituzioni de' Principi dovesse regolarsi, ma a tenor de' canoni antichi: e lettosi nell'Assemblea il canone del Concilio Niceno, col quale si stabiliva, che in ciascheduna provincia un solo fosse il Metropolitano, fu determinato a favor del Vescovo di Tiro, e restituite alla Cattedra tutte le Chiese di questa provincia: poichè secondo l'antica disposizione delle province della diocesi d'Oriente, la Fenicia era una provincia, ed un solo Metropolitano riconobbe.

Così quando i Vescovi volevan intraprendere sopra [256] le ragioni del loro Metropolitano, solevan ricorrere agl'Imperadori, ed ottener divisione della provincia, e che la lor città s'innalzasse a metropoli, affinchè potessero appropriarsi le ragioni di Metropolitano sopra quelle Chiese, che toglievansi al più antico. In fatti l'Imperador Valente in odio di Basilio divise la Cappadocia in due parti, e così facendosi nell'altre province, seguì ancora la divisione delle province della Chiesa, come testimonia Nazario; perocchè ne' tempi, che seguirono, non fu ritenuto il rigore del Concilio Niceno, il quale, possiam dire, nella sola causa di Fozio Vescovo di Tiro essere stat'osservato, giacchè da poi secondo eran le città dagl'Imperadori innalzate a metropoli, e divise le province, si mutava per ordinario anche la politia ecclesiastica; anzi dallo stesso Concilio Calcedonense fu anche ciò permesso, per quelle parole del can. 17. Sin autem etiam aliqua Civitas ab Imperatoria auctoritate innovata fuerit, civiles, et publicas formas, ecclesiasticarum quoque Parochiarum ordo consequatur. Quindi poi nacque, che mutandosi la disposizione e politia dell'Imperio, si videro anche tante mutazioni nello Stato ecclesiastico, siccome si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

In cotal guisa l'altre province ancora di questa diocesi d'Oriente, come l'Arabia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro, secondo la disposizione e politia dell'Imperio riconobbero i loro Metropolitani, i quali furon così chiamati, perchè presedevan nelle Chiese delle città principali delle province, e per conseguenza godevano d'alcune ragioni e prerogative, che non aveano gli altri Vescovi preposti all'altre Chiese delle città minori della provincia. Così essi ordinavan i Vescovi eletti dalle Chiese [257] della provincia; convocavan i Concilj provinciali, ed aveano la soprantendenza e la cura, perchè nella provincia la fede, e la disciplina si serbasse, ch'erano le ragioni, e privilegj de' Metropolitani, per li quali si distingueano sopra i Vescovi: ed in cotal maniera, dopo il Concilio Niceno, intesero il nome di Metropolitano tutti gli altri Concilj, che da poi seguirono, e gli altri Scrittori ecclesiastici del quarto, e quinto secolo.

Egli è ancor vero, che vi furon alcuni Vescovi, ch'ebbero solamente il nome di Metropolitano, e per sol onore furono così chiamati, non già perchè ritenessero alcuna di quelle ragioni e prerogative: così il Vescovo di Nicea solamente per onore ottenne il nome di Metropolitano, con esser anteposto a tutti gli altri Vescovi di quella provincia; ma non già restò esente dal Metropolitano di Nicomedia, di cui era suffraganeo: così anche furon i Vescovi di Calcedonia, e di Berito. E secondo questo instituto negli ultimi nostri tempi pur veggiamo nel nostro Regno molti Vescovi come quelli di Nazaret, di Lanciano, e di Rossano, ed in Sardegna il Vescovo Arborense, o sia d'Oristagni, i quali per onore godono il titolo di Metropolitano, ancorchè non avessero provincia, o Vescovo alcuno per suffraganeo.

Il nome d'Arcivescovo non è di potestà, come il Metropolitano, ma solo di dignità: e prima non soleva darsi, se non a' primi, e più insigni Vescovi, ed anche molto di rado. Ne' tre primi secoli non s'intese, nè si legge mai tal nome: cominciò nel quarto secolo a sentirsi, prima presso ad Atanasio, e da poi in alcuni altri Scrittori, ma di rado. Nel quinto secolo fu più usitato, e cominciò a darsi a' Vescovi di Roma, [258] a quelli d'Antiochia, d'Alessandria, di Costantinopoli, di Gerusalemme, d'Efeso, e di Tessalonica. Nel sesto diedesi anche a quel di Tiro, d'Apamea, e ad alcuni altri: San Gregorio Magno diede da poi questo nome a' Vescovi di Corinto, di Cagliari, e di Ravenna: e ne' seguenti tempi del secolo ottavo fu dato a questi, e ad altri insigni Metropolitani, come di Nicopoli, di Salona, d'Acquileja, di Cartagine, e d'altre città. Ma negli ultimi tempi, e ne' secoli men a noi lontani questo nome promiscuamente se l'attribuirono tutti i Metropolitani anzi sovente fu dato a' semplici Vescovi, che non erano Metropolitani; donde avvenne, che presso a' Greci degli ultimi tempi fossero più gli Arcivescovi che i Metropolitani, perchè fu facile a' semplici Vescovi d'attribuirsi questo spezioso nome, ma non così facile di sottoporsi le Chiese altrui. E per questa cagione si veggon ancora nel nostro regno molti Arcivescovi senza suffraganei: di che più ampiamente tratterassi, quando della politia ecclesiastica di questi ultimi tempi ci toccherà ragionare.

Ecco come nelle province della diocesi d'Oriente ravvisiamo i Metropolitani secondo la disposizione delle città metropoli dell'Imperio. Ecco ancora come in questa diocesi ravviseremo il suo Esarca, ovvero Patriarca, che fu il Vescovo d'Antiochia, come quegli, che presedendo in questa città, Capo della intera diocesi, presedeva ancora sopra tutti i Metropolitani di quelle province, delle quali questa diocesi era composta, e di cui erano le ragioni, e privilegj patriarcali, cioè d'ordinare i Metropolitani, convocare i Sinodi diocesani, ed aver la soprantendenza e la cura, che la fede e la disciplina si serbasse nell'intera diocesi. Prima questi erano propriamente detti Esarchi, [259] perchè alle principali città delle diocesi erano preposti, e più province sotto di essi avevano: onde nei canoni del Concilio di Calcedonia in cotal guisa, e per questa divisione di province, e di diocesi, si distinguevano gli Esarchi da' Metropolitani: così Filalete Vescovo di Cesarea, e Teodoro Vescovo d'Efeso furon chiamati Esarchi, perchè il primo avea sotto di se la diocesi di Ponto, ed il secondo quella dell'Asia. Egli è però vero, che alcune volte questo nome fu dato anche a' semplici Metropolitani: ed i Greci negli ultimi tempi lo diedero profusamente a più Metropolitani, come a quel d'Amira, di Sardica, di Nicomedia, di Nicea, di Calcedonia, di Larissa, ed altri. Nulladimeno la propria significazion di questa voce Esarca non denotava altro, che un Vescovo, il quale a tutta la diocesi presedeva, siccome il Metropolitano alla provincia. Alcuni di questi Esarchi furon detti anche Patriarchi, il qual nome in Oriente, in decorso di tempo, a soli cinque si restrinse, fra i quali fu l'Antiocheno.

I confini dell'Esarcato d'Antiochia non s'estesero oltre a' confini della diocesi d'Oriente, poichè l'altre province convicine essendo dentro i confini dell'altre diocesi, appartenevano a gli altri Esarchi. Così la diocesi d'Egitto, come quinci a poco vedrassi, era all'Esarca d'Alessandria sottoposta, e l'altre tre diocesi d'Oriente, come l'Asiana, la Pontica, e la Tracia, erano fuori del suo Esarcato; anzi nel Concilio costantinopolitano espressamente la cura di queste tre diocesi a' propri Vescovi si commette. Nè quando il Vescovo di Costantinopoli invase queste tre diocesi, ed al suo Patriarcato le sottopose, come diremo più innanzi, si legge, che il Vescovo d'Antiochia glie l'avesse contrastato, come a lui appartenenti.

[260]

La seconda diocesi, ch'era sotto la disposizione del Prefetto Pretorio d'Oriente, fu l'Egitto. La città principale di questa diocesi fu la cotanto famosa e rinomata Alessandria: quindi il suo Vescovo sopra tutti gli altri alzò il capo, e la sua Chiesa, dopo quella di Roma, tenne il primo luogo: s'aggiungea ancora un'altra prerogativa, che in questa Cattedra vi sedè S. Marco Evangelista primo suo Vescovo.

Fu questa diocesi prima divisa in tre sole province, l'Egitto strettamente preso, la Libia e Pentapoli, e quindi è che nel sesto canone del Concilio Niceno si legga: Antiqua consuetudo servetur per Aegyptum, Lybiam, et Pentapolim, ita ut Alexandrinus Episcopus horum omnium habeat potestatem. La Libia fu da poi divisa in due province, la superiore e l'inferiore: s'aggiunse l'Arcadia, la Tebaide e l'Augustamnica: e finalmente, la diocesi d'Egitto si vide divisa in dieci province, ed altrettante città metropoli sursero, onde dieci Metropolitani furon a proporzione del numero delle province indi accresciuti. Questi al Vescovo d'Alessandria, come loro Esarca, e Capo della Diocesi erano sottoposti, sopra i quali esercitò tutte le ragioni, e privilegi esarcali. I confini del suo Esarcato non si distendevano oltre alla diocesi d'Egitto, che abbracciava queste dieci province. Nè s'impacciò mai dell'Affrica occidentale, come ben pruova l'accuratissimo Dupino[504], onde furon in gravissimo errore coloro, che stimarono tutta l'Affrica, come terza parte del Mondo, al Patriarcato d'Alessandria essere stata sottoposta. Anche questo Esarca, come quello d'Antiochia, acquistò da poi il nome di Patriarca, e [261] fu uno de' cinque più rinomati nel quinto, e sesto secolo, come diremo più innanzi.

La terza diocesi disposta sotto il Prefetto P. d'Oriente fu l'Asia, nella quale, una provincia, detta ristrettamente Asia, fu Proconsolare; e metropoli di questa provincia, ed insieme Capo dell'intera diocesi fu la città d'Efeso. L'altre province, come Panfilia, Elesponto, Lidia, Pisidia, Licaonia, Licia, Caria, e la Frigia, che in due fu divisa, Pacaziana, e Salutare, erano al Vicario dell'Asia sottoposte, e ciascuna ebbe il suo Metropolitano: oltre ciò era un Metropolitano nell'isola di Rodi, ed un altro in quella di Lesbo.

La diocesi asiana divenne una delle Autocefale, come quella che nè al Patriarca d'Alessandria, nè a quello d'Antiochia fu giammai sottoposta. Riconosceva, solamente il Vescovo d'Efeso per suo Primate, come colui, che nella città principale di tutta la diocesi era preposto; per questa ragione Teodoro Vescovo d'Efeso fu detto Esarca, siccome furon appellati tutti gli altri, che ressero quella Chiesa; poichè la lor potestà si distendeva non pure in una sola provincia, ma in tutta la diocesi asiana. Ma non poterono questi Esarchi conseguire il nome di Patriarca; perchè tratto tratto quello di Costantinopoli non pur restrinse la loro potestà, ma da poi sottopose al suo Patriarcato tutta intera questa diocesi.

La quarta fu la diocesi di Ponto, la cui città principale era Cesarea in Cappadocia. Prima questa diocesi si componeva di sei sole province, che furono Cappadocia, Galazia, Armenia, Ponto, Paflagonia, e Bitinia; tutte queste da poi, toltone Bitinia, furon divise in due, onde di sei, che prima erano, si vide il [262] lor numero multiplicato in undici, che altrettanti Metropolitani conobbero. In questa diocesi era la città di Nicea, che nel civile, e nell'ecclesiastico ebbe la prerogativa d'essere dagl'Imperadori Valentiniano e Valente innalzata in metropoli. S'oppose a tal innalzamento il Vescovo di Nicomedia, ch'era la città Metropoli di quella provincia, pretendendo, che ciò non dovesse cagionar detrimento alcuno alle ragioni, e privilegi della sua Chiesa metropolitana; ma perchè Valentiniano e Valente avevan bensì conceduta a Nicea quella prerogativa, ma non già, che perciò intendessero togliere le ragioni altrui; per ciò furon al Metropolitano di Nicomedia conservati i privilegi della sua Chiesa, e che quella di Nicea potesse ritener solamente l'onore ed il nome, ma non già le ragioni e privilegi di Metropolitano. Sopra tutti questi Metropolitani presedeva il Vescovo di Cesarea, ch'era la città principale di questa diocesi. Per questa ragione fu anch'egli appellato Esarca, come quelli d'Antiochia, d'Alessandria, e d'Efeso: ma non già come quei due primi potè acquistar l'onore di Patriarca, poichè la sua diocesi fu da poi non altrimenti, che l'Asiana sottoposta al Patriarcato di Costantinopoli.

La quinta ed ultima diocesi, che ubbidiva al Prefetto P. d'Oriente, fu la Tracia, Capo della quale era Eraclea. Si componeva di sei province, Europa, Tracia, Rodope, Emimonto, Mesia e Scizia; e ciascuna riconobbe il suo Metropolitano: ma da poi in questa diocesi si videro delle molte e strane mutazioni, così nello stato civile, che ecclesiastico. Prima per suo Esarca riconosceva il Vescovo d'Eraclea, come Capo della Diocesi, il quale avea per suffraganeo il Vescovo di Bizanzio; ma in appresso, che a Costantino [263] piacque ingrandir cotanto questa città, che fattala Capo d'un altro Imperio, volle anche dal suo nome chiamarla, non più Bizanzio, ma Costantinopoli, il Vescovo di questa città innalzossi, secondando la politia dell'Imperio, sopra tutti gli altri, e non solamente non fu contento delle ragioni di Metropolitano, ovvero di Esarca, con sopprimer quello d'Eraclea; ma decorato anche dell'onore di Patriarca, pretese poscia stender la sua autorità oltre a' confini del suo Patriarcato, ed invadere ancora le province del Patriarcato di Roma, come più innanzi dirassi.

Ecco in breve, qual fosse in questi tempi, che a Costantino seguirono, la politia dello Stato ecclesiastico nella Prefettura d'Oriente, tutta conforme e adattata a quella dell'Imperio.

ILLIRICO.

Non disuguale potrà ravvisarsi l'ecclesiastica politia in quelle diocesi, che al Prefetto P. dell'Illirico ubbidirono, cioè nella Macedonia, e nella Dacia. La diocesi di Macedonia, che abbracciava sei province, cioè Acaja, Macedonia, Creta, Tessaglia, Epiro vecchio, ed Epiro nuovo, ebbe ancora la città sua principale, che fu Tessaglia, dalla quale il suo Vescovo, come Capo della diocesi, reggeva l'altre province, e sopra i Metropolitani di quella esercitava le sue ragioni esarcali. La diocesi della Dacia di cinque province era composta, della Dacia Mediterranea, e Ripense, Mesia prima, Dardania, e parte della Macedonia Salutare. Ci tornerà occasione della politia di queste diocesi più opportunamente favellare, quando del Patriarcato di Roma tratteremo; e potendo fin qui bastare ciò, che [264] della politia dello Stato ecclesiastico d'Oriente fin'ora s'è narrato per la conformità, ch'ebbe con quella dell'Imperio, passeremo in Occidente, per potere fermarci in Italia, e più da presso in queste nostre province ravvisarla, per conoscere ciò che di nuovo ne recasse, e qual mutazione portasse al loro Stato politico, e temporale.

GALLIE.

Ma prima bisogna notare ciò, che da' valenti investigatori delle cose ecclesiastiche fu osservato, che più esattamente corrispose la politia della Chiesa a quella dell'Imperio in Oriente, e nell'Illirico, che in Occidente, ed in queste nostre province. Nell'Oriente appena potrà notarsi qualche diversità di piccol momento; ma nell'Occidente se n'osservano molte. Nelle Gallie se ne veggon delle considerabili: nell'Italia pur alcune se ne ravvisano: ma molto più nell'Affrica occidentale, ove le metropoli ecclesiastiche non corrispondono per niente alle civili.

Le Gallie, secondo la descrizione di sopra recata, che a quel Prefetto ubbidivano, eran divise in tre diocesi: la Gallia, che abbracciava diciassette province, la Spagna, che si componeva di sette, e la Brettagna di cinque.

La Gallia non v'è alcun dubbio, che prima tenesse disposte le sue Chiese, secondo la disposizione delle province, che componevano la sua diocesi, in maniera che ciascuna metropoli ecclesiastica aveva corrispondenza colla civile; ed in questi primi tempi non riconobbe la Gallia niun Primate, ovvero Esarca, siccome le diocesi d'Oriente, ma i Vescovi co' loro Metropolitani [265] reggevano in comune la Chiesa gallicana. E la cagion era, perchè nella Gallia non vi fu una città cotanto principale ed eminente sopra tutte altre, sì che da quella dovessero tutte dipendere, siccome nell'altre parti del Mondo. Ma da poi si videro molte di quelle città in contesa per le ragioni di Primate. Nella provincia di Narbona fuvvi gran contrasto fra i Vescovi di Vienna, e l'Arclatense[505], di cui ben a lungo tratta Dupino[506]. Nell'Aquitania ne' tempi posteriori altra contesa s'accese fra i Vescovi Bituricense[507], e Burdegalense[508], che potrà vedersi appresso Alteserra[509]. In quest'ultimi tempi nell'Occidente quei Vescovi, i quali di qualche principalissima città erano Metropolitani, s'arrogaron molte altre prerogative sopra gli altri Metropolitani, e si dissero Primati, ancorchè prima questo titolo s'attribuiva indifferentemente a tutti i Metropolitani: così nella Francia il Metropolitano di Lione appellasi Primate, e ritiene assai più prerogative, che non gli altri Metropolitani.

La Spagna riconobbe in questi primi tempi qualche politia ecclesiastica, conforme a quella dell'Imperio, ma da poi mutandosi il suo governo politico, fu tutta mutata, e secondo che una città, o per la residenza de' Principi, o per altra cagione s'innalzava sopra l'altre di più province, così il Vescovo di quella Chiesa, non contento delle ragioni di Metropolitano, s'arrogava molte prerogative sopra gli altri, e Primate diceasi: così oggi la Spagna ha per suo Primate l'Arcivescovo di Toledo, come la Francia quello di Lione.

La Brettagna, ancorchè prima riconoscesse qualche [266] politia ecclesiastica, conforme alla civile dell'Imperio, nulladimeno occupata che fu poi da' Sassoni, perdè affatto ogni disposizione, nè in essa si ritenne alcun vestigio dell'antica politia, così nello stato civile, come nell'ecclesiastico.

ITALIA.

Abbiam riserbato in questo ultimo luogo la Prefettura d'Italia, poichè in quella secondo il nostro istituto dovremo fermarci, per conoscere più minutamente la politia ecclesiastica delle nostre province in questi tempi.

Sotto il Prefetto d'Italia, come s'è veduto, erano tre diocesi, l'Illirico, l'Affrica, e l'Italia: delle due prime non accade qui favellare; ma dell'Italia, nella quale veggiamo instituito il più celebre Patriarcato del Mondo, è di mestieri, che un poco più diffusamente si ragioni: ciò che anche dovrà riputarsi uno de' maggiori pregi di questa diocesi, che quando gli altri Patriarcati, e quell'istesso di Costantinopoli, che attentò di usurpar eziandio le costui ragioni, sono già tutti a terra, il solo Patriarca di Roma sia in piedi; ed unendosi anche nella sua persona le prerogative di Primo, e di Capo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico, e sopra quanti Patriarchi vi furon giammai, meritamente può vantarsi la nostra Italia, e Roma, esser ella la principal sede della religione, siccome un tempo fu dell'Imperio.

Al Prefetto d'Italia, come sè detto, due Vicariati erano sottoposti: il Vicariato di Roma, e quello d'Italia. Nel Vicariato di Roma erano poste dieci province. Tutte le quattro nostre province; onde ora si compone [267] il Regno, cioè la Campagna: la Puglia e Calabria: la Lucania e Bruzj: ed il Sannio, appartenevano al Vicariato di quella città. Vi andavan ancora comprese l'Etruria e l'Umbria: il Piceno Suburbicario: la Sicilia: la Sardegna: la Corsica e la Valeria.

Sotto il Vicariato d'Italia, il cui Capo fu la città di Milano, erano sette province: la Liguria: l'Emilia: la Flaminia, ovvero il Piceno Annonario: Venezia, a cui da poi fu aggiunta l'Istria: l'Alpi Cozzie, e l'una e l'altra Rezia.

Questa divisione d'Italia in due Vicariati portò in conseguenza, che la politia ecclesiastica d'Italia non corrispondesse a quella d'Oriente; poichè non ogni provincia d'Italia, siccome avea la città metropoli, ebbe il suo Metropolitano, come in Oriente, ma le città, come prima, ritennero i semplici Vescovi; e questi non ad alcun Metropolitano, ma o al Vescovo di Roma, o a quello di Milano erano suffraganei: quegli del Vicario di Roma al Vescovo di quella città, gli altri del Vicariato d'Italia al Vescovo di Milano[510].

Le province, che al Vicariato della città di Roma s'appartenevano, come ben pruova il Sirmondo[511], per questo stesso s'appellarono suburbicarie: onde le Chiese suburbicarie eran quelle, che nel Vicariato di Roma eran comprese. G. Gotofredo, e Cl. Salmasio sono d'altro sentimento: essi, restringono in troppo angusti confini le province e le Chiese suburbicarie, e pretendono, che fossero state quelle, che per cento miglia intorno a Roma, e non oltre si distendevano, e che al Prefetto della città di Roma ubbidivano. Altri [268] diedero in un'altra estremità, e sotto nome di province suburbicarie intesero, chi l'universo Imperio di Roma, e chi almeno tutto l'Occidente, come con grandi apparati studiaronsi provare Emanuello Schelstrate, e Lione Allacci[512].

Ma Lodovico Ellies Dupino[513] non può non commendare per vera l'opinione di Sirmondo, e riprovando così l'una, come l'altra delle opposte sentenze, sopra ben forti e validi fondamenti stabilisce le province e le Chiese suburbicarie essere state quelle, che al Vicario di Roma ubbidivano, e che da quel Vicariato eran comprese.

Per questa cagione avvenne, che secondando la politia della Chiesa quella dell'Imperio, il Vescovo di Roma sopra tutte queste province esercitasse le ragioni di Metropolitano. Non potea chiamarsi propriamente Esarca, perchè non l'intera diocesi d'Italia fu a lui commessa, siccome eran nomati gli Esarchi d'Oriente, i quali dell'intere diocesi avean il pensiero; ma la diocesi d'Italia essendosi divisa in due Vicariati, questo fece, che non si stendesse più oltre la sua autorità, nè fuori, nè dentro l'istessa Italia; poichè fuori di queste province suburbicarie, i Metropolitani di ciascuna provincia ordinavano tutti i Vescovi, ed essi da' Vescovi della provincia eran ordinati[514]: e se si legge, avere i romani Pontefici in questi medesimi tempi raunato talora da tutte le province d'Occidente numerosi Sinodi, cotesto avvenne, non per ragion dell'autorità sua di Metropolitano, ma per ragion del [269] Primato, che tiene sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico; la qual cosa in progresso di tempo (confondendosi queste due autorità) portò quell'estensione del Patriarcato romano, che si vide da poi, quando non contento delle province suburbicarie, si sottopose l'Illirico, dove mandava suoi Vicarj; ed indi non solamente si dilatò per tutte le province d'Italia, ma per le Gallie, e per le Spagne ancora, tanto che acquistò il nome di Patriarca di tutto l'Occidente, come si vedrà più innanzi.

Ma in questi tempi, ne' quali siamo di Costantino, infino all'Imperio di Valentiniano III l'autorità sua, che per ordinario diritto esercitava, non s'estendeva più, che nelle sole province suburbicarie[515]. E perciò avvenne ancora; che il R. P. esercitasse in queste province la sua autorità con maggiore e più pieno potere, che non facevan gli Esarchi d'Oriente nelle province delle loro diocesi; imperciocchè a lui come Metropolitano s'appartenevano l'ordinazioni, non solamente de' Vescovi delle città metropoli, ma anche di tutti gli altri Vescovi di quelle province: quando in Oriente gli Esarchi l'ordinazione di questi Vescovi la lasciavano a' loro Metropolitani.

Nè il nome di Patriarca dato al Pontefice romano, fu cotanto antico, come agli Esarchi d'Oriente. Se voglia riguardarsi l'antichità della Chiesa, fu prima questo nome di Patriarca dato in Oriente per encomio anche a' semplici Vescovi[516]: poi si ristrinse agli Esarchi, ch'avean cura dell'intere diocesi, per la qual cosa presso a' Greci tutti gli Esarchi con questo nome di [270] Patriarca eran chiamati. Ma in Occidente infra i Latini, il primo che si fosse nomato, fu il Pontefice romano: ed i Greci medesimi furono i primi a dargli questo encomio, ma non prima de' tempi di Valentiniano III. In questi tempi Lione R. P. fu da' Greci e da Marciano stesso Imperador di Oriente chiamato Patriarca; nè prima, come notò l'accuratissimo Dupino, da' Latini stessi, o da' Greci se gli diede tal nome: ed il Sirmondo[517] non potè contra Claudio Salmasio allegar sopra ciò esempi più antichi, che degli Imperadori Anastasio e Giustino, i quali aveano chiamato Patriarca Ormisda Vescovo di Roma.

Per questa cagione nelle nostre province non leggiamo noi Metropolitano alcuno: ed ancorchè dopo Costantino si fosse veduta in maggior splendore la Gerarchia ecclesiastica, le città delle nostre province però non ebbero, che i soli Vescovi, come prima, non riconoscenti altri, che il Vescovo di Roma per loro Metropolitano. Ciò che non accadde nelle province d'Oriente, nelle quali, come s'è veduto, ciascuna provincia ebbe il suo Metropolitano, il quale sopra i Vescovi di quella provincia esercitava le ragioni sue di Metropolitano: presso di noi fu diversa la politia: poichè, ancorchè la provincia della Campagna avesse la sua città metropoli, la quale fu Capua, non per questo il suo Vescovo sopra gli altri Vescovi della medesima provincia alzò il capo, con rendersegli suffraganei: nè se non ne' tempi a noi più vicini, e propriamente nell'anno 968, la Chiesa di Capua fu renduta metropoli, ed il suo Vescovo acquistò le ragioni di Metropolitano sopra molti Vescovi di quella provincia [271] suoi suffraganei. La Puglia parimente, e la Calabria non riconobbe se non molto da poi i suoi Metropolitani; e se non voglia tenersi conto di ciò, che dal Patriarca di Costantinopoli si disponeva intorno alle Chiese di questa provincia, Bari, Canosa, Brindisi, Otranto, Taranto, S. Severina, e l'altre città della medesima, non gli riconobbero, se non ne' secoli seguenti, e Siponto più tardi da Benedetto IX fu nell'anno 1034 costituita metropoli. Lo stesso s'osserva nella provincia della Lucania, e de' Bruzj, dove Reggio e Salerno, che secondo la politia dell'Imperio erano in questi tempi le città metropoli della medesima provincia, non ebbero, che i soli Vescovi, e Reggio conobbe da poi i Metropolitani, mercè del Patriarca di Costantinopoli, siccome Salerno da Benedetto V nell'anno 984, e così gli altri, che veggiam ora in questa provincia. Il Sannio ancora gli conobbe molto tardi: Benevento fu innalzato a questo onore da Giovanni XII nell'anno 969 un anno dopo Capua: e tutti gli altri Metropolitani, che ora scorgonsi moltiplicati in tanto numero in tutte queste nostre province, hanno men antica origine, come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questa Istoria.

Ne' tempi adunque, ne' quali siamo di Costantino sino a Valentiniano III, le Chiese di queste nostre province, come suburbicarie, ebbero per loro Metropolitano il solo Pon. Romano: a lui solo s'apparteneva l'ordinazione de' Vescovi[518]: e quando mancava ad una città il Vescovo, il Clero ed il Popolo eleggevan il successore, poi si mandava al R. P. perchè l'ordinasse[519]; il quale sovente, o faceva venir l'eletto [272] a Roma, ovvero delegava ad altri la sua ordinazione; e da poi s'introdusse, che quando accadevan contese intorno all'elezione, egli le decideva, o per compromesso si terminavano: il qual costume vedesi continuato ne' tempi di S. Gregorio M. del quale ci rimangono ancora nel Registro delle sue Epistole molti provvedimenti, che diede per l'elezione de' Vescovi di Capua, di Napoli, di Cuma e di Miseno, nella Campagna; e nel Sannio, de' Vescovi di Apruzzi[520][521].

Ed in Sicilia, come provincia suburbicaria, pur osserviamo la medesima autorità esercitata da' romani Pontefici intorno all'elezione de' Vescovi, come è manifesto dall'Epistole di Lione, e da quelle di Gregorio M.[522].

Ecco in brieve qual fu del quarto e quinto secolo la politia ecclesiastica in queste nostre province: ebbero, come prima, i soli Vescovi, nè riconobbero sopra le loro città alcun Metropolitano: solo il Pontefice romano esercitava le ragioni di Metropolitano sopra quelle, e vi tenea spezial cura e pensiero. Per questa cagione, nè l'eresia d'Arrio, nè la Pelagiana poteron [273] giammai in queste province por piede[523]. Nè i Patriarchi di Costantinopoli eran ancora entrati nella pretensione di volere al loro Patriarcato sottoporre queste province, siccome tentaron da poi a tempo di Lione Isaurico, e del Pontefice Gregorio II, e posero in effetto ne' tempi seguenti; di che altrove avrem opportunità di favellare. Nè in queste nostre province si conobbe fin a questo tempo altra Gerarchia, che di Diaconi, Preti, Vescovi, e di Metropolitano, qual era il Vescovo di Roma, Capo insieme, e Primo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico. Alcuni anche a questo tempo mettono l'instituzione de' Sottodiaconi, degli Acoliti, Esorcisti, Lettori, ed Ostiarj; ed eziandio d'alcuni altri Ministri, che non s'appartengono punto all'ordine gerarchico, ma alla custodia ed alla cura delle temporalità della Chiesa: di che altrove ci tornerà l'occasione di ragionare.

§. I.  De' Monaci.

In Oriente però s'erano già cominciati a sentire i Solitarj, appellati in lor favella Monaci: ma questi non eran, che uomini del secolo, senza carattere e senza grado, i quali nelle solitudini, e ne' deserti dell'Egitto per lo più menavano la lor vita: data che fu pace alla Chiesa dall'Imperador Costantino, cominciò a rilasciarsi nella comunità de' Cristiani quella virtù, che ne' tre primi precedenti secoli in mezzo alle persecuzioni era esercitata: e siccome non era più di pericolo l'esser Cristiano, molti ne facevan professione, senz'esser ben convertiti, nè ben persuasi del disprezzo [274] de' piaceri, delle ricchezze, e della speranza del Cielo. Così coloro che vollero praticare la vita cristiana in una maggior purità, trovarono più sicuro il separarsi dal Mondo, ed il vivere nella solitudine[524].

I primi Monaci, che ci comparvero, furon in fra di loro divisi e distinti in due ordini, ciò sono, Solitarj, e Cenobiti: i primi si chiamaron anche Eremiti, Monaci, Monazonti, ed Anacoreti. Alcuni han voluto tirar l'origine del Monachismo da' Terapeuti, che credettero essere una particolar società di Cristiani stabilita da S. Marco ne' contorni d'Alessandria, de' quali Filone descrive la vita. Ma se bene Eusebio avesse creduto, che i Terapeuti fossero Cristiani, ed avesse loro attribuito il nome di Asceti; nulladimanco è cosa affatto inverisimile riputar quelli, Cristiani e discepoli di S. Marco. Poichè quantunque la vita, che di lor ci descrive Filone, fosse molto conforme a quella de' Cristiani, le molte cose però che e' soggiunse dei loro riti e costumi, come l'osservanza del Sabato, la Mensa sopra la quale offerivano pani, sale, ed isopo, in onor della sacra Mensa ch'era dentro al vestibolo del tempio, e mille altre usanze, che non s'accordano co' costumi degli antichi Cristiani, convincono e fan vedere, che coloro fossero Ebrei, non Cristiani. Il nome di Asceti, che Eusebio loro attribuisce, non deve fargli passar per Monaci, poichè siccome il termine d'Asceti è un termine generale, che significa coloro, che menano una vita di quella degli altri più austera e più religiosa, così non si può conchiudere aver egli creduto, che gli Asceti fosser Monaci[525].

[275]

Comunque ciò siasi, egli è cosa certa, che erano nel quarto secolo questi Monaci moltiplicati in guisa, che non vi fu provincia dell'Oriente, che non ne abbondasse. La diocesi d'Oriente, il cui capo era Antiochia, ne fu piena: in Egitto il numero era infinito. Nell'Affrica, e nella Siria parimente abbondavano: ed in Occidente eran ancora in questi tempi penetrati fin dentro a' confini del Vescovato romano, nella nostra Campagna, e nelle circonvicine province, siccome è chiaro da una costituzione di Valentiniano il Vecchio dirizzata nell'anno 370 a Damaso Vescovo di Roma[526]. Palladio[527] ancor rapporta, in queste nostre province, come nella Campagna e luoghi vicini, verso la fine del quarto secolo, molti aver menata vita eremitica e solitaria: ed il P. Caracciolo[528] non pur nella Campagna, ma anche nel Sannio e nella Lucania ne va molti ravvisando.

Questi viveano nelle solitudini e ne' deserti, ed ivi menavan una vita tutta divota, sciolti da ogni cura mondana, e lontani dalle città, e dal commercio degli uomini. Si fabbricavano per abitare povere cellette, e passavano il giorno lavorando, facendo stuoje, panieri, ed altre opere facili, e questo lor lavorio bastava non solo per alimentargli, ma ancora per far grandi elemosine. I Gentili reputavano questa lor vita, oziosa ed infingarda, onde ne furono acerbamente calunniati da' loro Scrittori[529], accagionandogli, che in queste [276] solitudini si contaminassero d'ogni sozza libidine, e di nefandi vizj. Non avevan certa regola, nè si legavan a voto alcuno: la lor vita quieta tirava della molta gente al bosco, tanto che ne venner tosto a nascere degli abusi; perchè molti per isfuggire i pesi della Curia, e degli altri carichi della Repubblica, e per menare una vita affatto oziosa, e sottrarsi da ogni altra obbligazione, sotto finto pretesto di religione, lasciavano le città, e andavansi ad unire con questi Solitarj; tanto che fu di mestieri a Valente di proibire questi loro recessi, e ordinare, che si richiamassero da que' luoghi nelle città, a portare i carichi lor dovuti[530].

Ma i Solitarj, non guari da poi, degenerando dal lor instituto, troppo spesso frequentavano le città, e s'intrigavano negli affari del secolo; nè vi occorreva lite ne' Tribunali, nè faccenda, o qual altro si fosse negozio nelle piazze, ch'essi non ne volessero la lor parte: e crescendo vie più la lor audacia, furon sovente cagione nelle città di molti disordini e tumulti: di che se ne leggono molti esempj appresso Eunapio[531], Crisostomo, Teodoreto, Zosimo, Libanio, Ambrosio, Basilio, Isidoro Pelusiota, Geronimo, ed altri: tanto che bisognò, che i Giudici, e gli altri Magistrati ricorressero all'Imperador Teodosio M. perchè rimediasse a' disordini sì gravi, ed alla Rep. perniziosi, e da quel Principe fu proferita legge, colla quale fu comandato, che non partissero dalle loro solitudini, nè capitassero mai più nelle città: ma non passarono [277] venti mesi, che Teodosio in grazia de' medesimi Solitarj rivocò la legge[532].

Ebbero costoro per loro Gonfaloniere nella Tebaide Paolo, detto perciò primo Eremita: nella Palestina, Ilarione, e ne' deserti d'Egitto Geronimo, i quali con intento d'imitare, così vivendo, Elia e Giovanni precursor di Cristo, si renderono per la loro austerità assai rinomati e celebri.

Gli altri s'appellaron Cenobiti, ovvero Religiosi, perchè essi avevansi prescritte certe regole di vita, ed in comunità vivevano. Traggon questi la lor origine dagli Esseni, ch'era una Setta di Giudei distinta dai Terapeuti, e la maniera del loro vivere era molto diversa da coloro, siccome quelli, che menavan una vita tutta contemplativa, e molto divota, della quale Filone[533] appresso Eusebio fa lungo racconto, descrivendola tutta simile a quella de' nostri Religiosi.

Il primo lor Duce nella Tebaide fu Antonio. In Grecia Basilio, il quale gli obbligò a tre voti, che diciamo ora esser essenziali alla Religione, cioè d'ubbidienza per combattere l'alterigia del nostro spirito; di castità risguardante i moti nel nostro corpo; e di povertà, per una totale abbominazione a' beni di fortuna.

(Altri vogliono, che Basilio non fosse stato Institutore di alcun nuovo Ordine, ma solo il direttore di que' che si erano già resi Monaci, siccome infra gli altri credette Binghamo[534].)

S. Benedetto gl'introdusse in Italia, e propriamente nella nostra Campagna: ma ciò avvenne nel principio [278] del sesto secolo sotto il Regno di Totila, di che nei libri, che seguono, ci verrà a proposito di ragionare più a lungo, come d'una pianta pur troppo in questo nostro terreno avventurosa, che distese i suoi rami, e dilatò i germogli in più remote regioni.

S. Pacomio diede anche perfezione all'ordin monastico, ed unì molti Monasterj in congregazione: loro diede una regola, e fondò monasterj di donzelle. Erano state già prima introdotte alcune comunità di donzelle, le quali facevano voto di virginità, e dopo un certo tempo ricevevano con solennità il velo. Così essendo la vita monastica dell'uno e dell'altro sesso divenuta più comune, furono stabiliti monasterj, non solo vicino alle città grandi, ma eziandio dentro le stesse città, ed in quelli i Monaci viveano in solitudine in mezzo al Mondo, praticando la loro regola sotto un Abate, ovvero Archimandrita; ed il Monachismo da Oriente passò in Occidente verso il fine del quarto secolo.

Di questi Cenobiti ne' secoli seguenti ne germogliaron infiniti altri Ordini di regole diverse, che potranno vedersi presso a Polidoro Virgilio[535], de' quali nel corso di questa Istoria, secondo l'opportunità, se ne farà menzione.

S. Agostino pur volle nell'Affrica introdurre un altro Ordine di regolarità: egli fu l'Autore de' Canonici Regolari, avendo posti in vita religiosa i suoi Preti della Chiesa d'Ippona. Non gli chiamò nè Monaci, nè Religiosi, ma Canonici, cioè astretti a regole, ch'eran mescolate di chericheria, e della pura vita monastica: e fu chiamata vita apostolica, per l'intento, che s'avea [279] di rinnovare la vita comune degli Apostoli: eran essi astretti agli accennati tre voti, ed avean clausura[536].

(S. Agostino vien anche da Duareno[537] riputato Autore de' Canonici Regolari. Ciò che lo stima molto probabile anche Binghamo[538], se bene Onofrio Panvinio[539], ed Ospiniano[540], credano che fosse stato Autore Papa Gelasio I intorno l'anno 495. È certo però, che S. Agostino non fu institutore degli Eremiti Agostiniani, siccome costoro vantano, poichè nè quel Dottore fu mai Romito, nè si legge aver dettate regole per loro uso, siccome saviamente ponderò Binghamo[541]. Delle origini ed istituzioni di tanti nuovi Ordini de' Monaci venuti da poi nel Mondo, oltre Polidoro Virgilio, son da vedersi Ospiniano[542] e Creccelio[543]).

Sorsero da poi i Mendicanti, i quali agli tre descritti voti aggiunsero il quarto della mendicità, cioè di vivere di elemosina. Indi seguiron i Fratelli Cavalieri, come furon quelli di S. Giovanni in Gerusalemme, i Teutonici, i Templarj, che furono sterminati per Clemente V, i Commendatori di S. Antonio, i Cavalieri di Portaspada, di Cristo, di S. Lazaro, ed altri annoverati da Polidoro Virgilio, i quali erano chiamati Fratelli Cavalieri, ovvero Cavalieri Religiosi, a differenza de' Cavalieri Laici di nobiltà, de' quali tratteremo ne' seguenti libri di questa Istoria.

Di questi nuovi Ordini di Religiosi ne' tempi, nei quali si manifestarono, faremo qualche breve racconto: donde non senza stupore scorgerassi, come in queste [280] nostre province, col correr degli anni, abbian potuto germogliar tanti e sì varj Ordini, fondandovi sì numerosi e magnifici monasterj, che ormai occupano la maggior parte della Repubblica, e de' nostri averi, formando un corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar lo Stato civile e temporale di questo nostro Reame.

In questi secoli, ne' quali siamo di Costantino M. fino a Valentiniano III niuna alterazione recaron allo Stato politico, perocchè quantunque molti Solitarj fossero già nel Vescovato di Roma allignati, per quello che si ricava dalla riferita costituzione di Valentiniano il Vecchio: ed in queste nostre province fossero ancor penetrati, dove ristretti in qualche solitudine menavano la lor vita: niente però portaron di male, o di turbamento allo Stato, nè furon osservati, nè avuti in alcuna considerazione, e niente perciò s'accrebbe all'ecclesiastica Gerarchia.

(È manifesto che a questi tempi i Monaci non si appartenevano alla Gerarchia ecclesiastica, rigettandosi nell'Ordine de' Laici da quel che ne scrisse Isaaco Alberto[544], dicendo: Monachi quales primo erant quo extra Ordinem constituti, ad Hierarchiam imperantem non pertinent. Lindano[545] pur de' Monaci parlando, disse: Qui omnes sicuti erant Ordinis Laici, ita una cum reliquis Templi choro, quem dicimus, erant exclusi. Insino Graziano confessò, che fino a' tempi di Siricio, e di Zosimo, Monachos simpliciter, et non Clericos fuisse, Ecclesiastica testatur Historia, come sono le sue parole[546]).

[281]

I Cenobiti è manifesto, che, prima di S. Benedetto, eran radissimi, ed i lor monasterj assai più radi, e di niun conto. Poichè ciò che si narra del monastero eretto in Napoli da Severo Vescovo di questa città, che fiorì nell'anno 375 sotto il nome di S. Martino, quando questo Santo era ancor vivo[547]; dell'altro di S. Gaudioso, che si pretende fondato da S. Gaudioso stesso Vescovo di Bitinia nell'anno 438, il qual, fuggendo la persecuzione di Gizerico Re dell'Affrica, si ricoverò in Napoli[548]; quando quello ebbe i suoi principj circa l'anno 770 da Stefano II Vescovo di questa città[549]: e di alcuni altri fondati in altre città di queste nostre province[550], e rapportati a questi tempi, sono tutte favole mal tessute, e da non perderci inutilmente l'opera ed il tempo in confutarle.

§. II.  Prime collezioni di canoni.

I regolamenti, che tratto tratto, da poi che Costantino diede pace alla Chiesa, cominciaron a stabilirsi dallo Stato ecclesiastico, se bene tuttavia per lo corso d'un secolo e mezzo fino a Teodosio il Giovane e Valentiniano III. moltiplicassero; nulladimeno non davan in questi tempi alcun sospetto, o gelosia a gl'Imperadori; imperocchè allora non si poneva in dubbio, ed era cosa ben mille volte confessata, anzi non mai negata dagli stessi Ecclesiastici, che i Principi per la loro autorità e protezione, che tenevan della Chiesa, potevano lodevolmente della stessa canonica [282] disciplina prender cura e pensiero, ed emendar ciò, che allo Stato avrebbe potuto esser di nocumento e di disordine: di che ne rende ben ampia e manifesta testimonianza l'intero libro decimosesto del Codice di Teodosio, compilato unicamente per dar provvedimento a ciò, che concerneva le persone e le robe ecclesiastiche.

All'incontro appartenendo, come s'è detto nel primo libro, alla Chiesa la potestà di far de' canoni attenenti alla di lei disciplina, avendo già per la pietà di Costantino acquistato maggior splendore, e posta in una più ampia e numerosa Gerarchia, ebbe in conseguenza maggior bisogno di far nuovi regolamenti per buon governo della medesima, e per accorrere a' disordini, che sempre cagiona la moltitudine: perciò oltre a' libri del Testamento Vecchio e Nuovo, ed alcuni canoni stabiliti in varj Sinodi tenuti in quelli tre primi secoli, se ne formaron poi degli altri in maggior numero ne' Concilj più universali, che si tennero a questo fine; poichè data che fu pace da Costantino alla Chiesa, fu più facile, che molte Chiese unite insieme comunicassero e trattassero sopra ciò, che riguardava la disciplina; poichè intorno a tutti gli altri affari esteriori, gli Ecclesiastici ubbidivano a' Magistrati, ed osservavan le leggi civili.

Da questo tempo, e non da più antica origine cominciarono i canoni, de' quali si formaron da poi più Collezioni; poichè quantunque alcuni abbian creduto, che fin dal principio del nascente Cristianesimo vi fossero stati alcuni regolamenti fatti dagli Apostoli, che anche a' nostri dì si veggono raccolti al numero di 85 sotto il titolo di Canones Apostolorum: nulla [283] di meno nè l'opinione del Turriano[551], che stimò tutti essere stat'opera degli Apostoli, nè quella del Baronio e del Bellarmino, i quali credettero, che cinquanta solamente di que' canoni fossero Apostolici sono state da savj Critici abbracciate, i quali comunemente giudicano esser quella una raccolta d'antichi canoni, e propriamente de' canoni fatti ne' Concilj congregati prima del Niceno, come, per non entrare in dispute, potrà vedersi appresso Guglielmo Beveregio[552], Gabriel d'Aubespine, Lodovico Dupino, ed altri, e quel ch'è più notabile, Gelasio P. gli dichiara apocrifi nel can. Sancta Romana, dist. 15.

Lo stesso si dice del libro delle costituzioni Apostoliche falsamente attribuito a S. Clemente, per la grande autorità di quel Santo Pontefice, o che da prima sia stato supposto sotto il nome di Clemente, o che da poi fosse stato da Eretici corrotto, egli è certo, che non tiene alcuna autorità nelle materie di Religione, essendovi state aggiunte varie cose in diversi tempi; onde se bene in esso si rappresenti l'intera disciplina, almeno della Chiesa orientale, conchiudono tuttavia gli uomini più sensati, che non possa esser più antico del terzo secolo[553]. Ed ancorchè prima di questo tempo dobbiam credere, che varj Concilj si fossero dagli Ecclesiastici raunati, secondo le varie occorrenze della purità della dottrina cristiana, o dell'integrità della disciplina, quanto la persecuzione quasi continua de' Pagani, e l'infelicità de tempi loro [284] permetteva; nondimeno i veri canoni di quelli si son perduti, e son tutti apocrifi gli altri, che si millantano; ed in spezie gli atti del Concilio di Sinuessa per l'apostasia di Marcellino P., e 'l decreto, che la prima sede da niuno possa venir giudicata, essere certamente cose tutte apocrife, ben lo dimostra Baronio[554] per autorità di S. Agostino, come inventato dai Donatisti; anzi Cironio[555] prova che l'accusa di Marcellino non fu mai vera: che che ne dica fra' nostri il P. Caracciolo[556].

Finalmente in quanto all'Epistole de' Sommi Pontefici, benchè di queste se ne trovin antichissime del primo e secondo secolo, pure, toltone due lettere di S. Clemente a' Corintj, che sono Ascetiche più tosto, che Decretali, oggi è costantissima sentenza de' più diligenti ed accurati Critici, non dico fra' Protestanti, come Blondello, e Salmasio, ma tra piissimi Cattolici, come i Cardinali Cusano, e Baronio, Marca, Petavio, Sirmondo, Labbeo, Tomasino, Pagi, ed altri, che tutte le Decretali, che si leggon scritte da' Pontefici romani prima di Siricio Papa, che morì nell'anno 398 e che si trovano nella raccolta d'Isidoro Mercatore, il quale comparve al Mondo verso la fine dell'Imperio di Carlo Magno, sieno in verità spurie e supposte, e da quell'impostore a suo talento formate: de hac Isidori impostura, dice Tomasino[557], inter doctos jam convenit.

I primi canoni adunque, donde cominciarono le [285] tante Collezioni, sono quelli, che si trovano ne' Concilj del quarto secolo. I primi Concilj fra gli Ecumenici furono quel di Nicea in Bitinia, congregato per ordine di Costantino nell'anno 325, e quello di Costantinopoli per comandamento di Teodosio M. nell'anno 381. I più antichi de' Concilj provinciali (benchè variamente se ne fissi l'epoca da Cronologisti, nè possa additarsene certamente l'anno) furono quel di Gangra nella Paflagonia, di Neocesarea in Ponto, d'Ancira in Galazia, d'Antiochia in Siria, e di Laodicea in Frigia: fuor di molti altri fatti in Affrica, in Ispagna, ed altrove meno rinomati.

Dopo questo tempo, cioè verso la fine del quarto secolo, intorno l'anno 385 si pubblicò la prima Collezione di canoni per opera d'un certo Vescovo d'Efeso chiamato Stefano, come su la fede di Cristofano Justello attesta Pietro di Marca[558]. In essa si veggono cento sessantacinque canoni presi da que' sette Concilj, due generali, e cinque provinciali della Chiesa d'Oriente poco fa mentovati, cioè 20 dal Concilio di Nicea, 24 da quello d'Ancira, 14 da quello di Neocesarea, 20 da quello di Gangra, 25 dal Concilio d'Antiochia, 59 da quello di Laodicea, e 3 da quello di Costantinopoli[559]. Ed è da notare, che i primi canoni appartenenti alla politia e disciplina ecclesiastica furono stabiliti nel Concilio d'Ancira celebrato l'anno 314, poichè negli altri più antichi Concilj solo si trattò di cose appartenenti a' dogmi, ed alla dottrina della Chiesa. Questa Collezione, o sia stata fatta da Stefano per proprio studio o per autorità d'alcun [286] Concilio d'Oriente, non può di certo stabilirsi: vero è però, che in tal maniera fu applaudita, e così universalmente ricevuta, che il Concilio di Calcedonia a quella si rapportò, e volle, che da essa i canoni si leggessero, approvandola con quelle parole: Regulas a Sanctis Patribus in unaquaque Synodo usque nunc prolatas teneri statuimus[560]. E perchè questi canoni erano tutti scritti in greco, per comodità delle Chiese occidentali se ne fece una traduzion latina, il cui Autore è incerto. Nè la Chiesa romana, e le Chiese di queste nostre province si servirono d'altra raccolta, se non di questa così tradotta, fino al sesto secolo, quando comparve la Compilazione di Dionisio il Piccolo: e la Chiesa Gallicana, e Germanica continuarono a servirsene fin al secolo nono. Ella, secondo Justello, ebbe per titolo: Codex Canonum Ecclesiae universae: e secondo Florente, quest'altro: Collectio Canonum Orientalium.

In processo però di tempo, per una seconda Collezione, o sia Giunta, autor della quale crede Doujat[561] essere stato l'istesso Vescovo Stefano, fatta dopo l'anno 451, vi si aggiunsero tutti i sette canoni del primo Concilio di Costantinopoli, de' quali tre solamente erano nella prima, otto canoni del Concilio d'Efeso, e ventinove di quello di Calcedonia, tutti generali; dimodochè tutta questa Collezione era composta di 206 canoni. Alcun tempo da poi furon aggiunti li canoni del Concilio di Sardica, e cinquanta degli 89 canoni, che chiamansi Apostolici, e 68 canoni di S. Basilio; e l'autore di questa nuova Giunta, o sia [287] Collezione, crede Doujat[562] essere stato Teodoreto Vescovo di Cirro. È manifesto dunque, che fin ai tempi di Valentiniano III l'una e l'altra Chiesa non conobbe altri regolamenti, che quelli, che furon in questo Codice raunati.

Ed è da notare, che non avendo infin a questi tempi la Chiesa niente di giustizia perfetta, e di giurisdizione, questi regolamenti obbligavano per la forza della religione, non per temporale costringimento, nè gli trasgressori eran puniti con pene temporali, ma con censure, ed altri spirituali gastighi, che poteva imporre la Chiesa: ond'è che i Padri della Chiesa, quando avean finito il Concilio, dove molti canoni s'erano stabiliti, perchè fossero da tutti osservati, dubitando, che per la condizione di que' tempi torbidi e sediziosi, e pieni di fazioni, particolarmente fra gli Ecclesiastici stessi, i quali sovente, non ostante le decisioni del Concilio, volevan ostinarsi ne' loro errori, solevano ricorrere agl'Imperadori, per la cui autorità erano i Concilj convocati, e dimandar loro che avessero per rato ciò che nel Concilio erasi stabilito, e comandassero che inviolabilmente da tutti fossero osservati. Così narra Eusebio[563], che fecero i Padri del Concilio di Nicea, i quali da Costantino M. ottennero la conferma de' loro decreti. Ed i Padri del Concilio Costantinopolitano I, ricorsero all'Imperador Teodosio M. per la conferma de' canoni di quello[564]. E Marziano Imperadore promulgò un editto, col quale confermò tutto ciò che dal Concilio di Calcedonia erasi stabilito con i di lui canoni[565]; e generalmente [288] tutti gli altri Imperadori, quando volevano, che con effetto si osservassero, solevano per mezzo delle loro costituzioni comandare, che fossero osservati, e lor davan forza di legge con inserirgli nelle loro costituzioni, pubblicandogli colle leggi loro, come è chiaro dal Codice di Teodosio, dalla Raccolta di Giovanni Scolastico, dal Nomocanone di Fozio, e da ciò, che poi gli altri Principi d'Occidente, e Giustiniano Imperadore ordinò per essi, come si conoscerà meglio, quando de' fatti di questo Principe ci toccherà favellare.

§. III.  Della conoscenza nelle cause.

Lo Stato adunque ecclesiastico ancorchè, da Costantino posto in tanto splendore, avesse acquistata una più nobile esterior politia, e fosse accresciuto di suoi regolamenti, non però in questi tempi, e fino all'età di Giustiniano Imperadore, per quel che s'attiene alla conoscenza delle cause, trapassò i confini del suo potere spirituale: egli era ancor ristretto nella conoscenza degli affari della religione, e della fede, dove giudicava per forma di politia; nella correzion de' costumi, dove conosceva per via di censure; e sopra le differenze tra' Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio, e di caritatevole composizione.

Non ancora avea la Chiesa acquistata giustizia contenziosa, nè giurisdizione, nè avea Foro, o territorio nella forma e potere, ch'ella tien oggi in tutta la Cristianità: poichè quella non dipende dalle chiavi, nè è propriamente di diritto divino: ma più tosto di diritto umano e positivo, procedente principalmente [289] dalla concessione o permissione de' Principi temporali, come si vedrà chiaro nel progresso di questa Istoria.

Vi è gran differenza tra la spada, e le chiavi, ed ancora tra le chiavi del Cielo, ed i litigi de' Magistrati: ed i Teologi sono d'accordo che la tradizione delle chiavi, e la potenza di legare e di sciogliere data da Cristo Signor nostro a' suoi Apostoli importò solamente la collazione de' Sacramenti, ed in oltre l'effetto importantissimo della scomunica, ch'è la sola pena, che ancor oggi possono gli Ecclesiastici imponere a loro, ed a' laici, oltre all'ingiugnere della penitenza; ma tutto ciò dipende dalla giustizia, per dir così, penitenziale, non già dalla pura contenziosa[566]; o più tosto dalla censura e correzione, che dalla perfetta giurisdizione. Questa porta un costringimento preciso e formale, che dipende propriamente dalla potenza temporale de' Principi della terra, i quali, come dice S. Paolo, portano la spada per vendetta de' cattivi, e per sicurtà de' buoni. E di fatto le nostre anime, sopra le quali propriamente si stende la potenza ecclesiastica, non sono capaci di preciso costringimento, ma solamente dell'eccitativo, che si chiama dirittamente persuasione. Quindi è, che i Padri tutti della Chiesa, Crisostomo[567], Lattanzio, Cassiodoro, Bernardo, ed altri, altamente si protestano, che a loro non era stata data potestà d'impedire gli uomini dai delitti, coll'autorità delle sentenze: Non est nobis data talis potestas, ut auctoritate sententiae cohibeamus homines a delictis, dice Crisostomo[568]; ma tutta la loro [290] forza era collocata nell'esortare, piangere, persuadere, orare, non già d'imperare. Per la qual cosa fu reputato necessario, che anche nella Chiesa i Principi del Mondo esercitassero la lor potenza, affinchè dove i Sacerdoti non potessero arrivare co' loro sermoni ed esortazioni, vi giugnesse la potestà secolare col terrore e colla forza[569].

A' Principi della terra egli è dunque, che Dio ha data in mano la giustizia: Deus judicium suum Regi dedit, dice il Salmista: ed il Popolo d'Israello domandando a Dio un Re, disse: Constitue nobis Regem, qui judicet nos, sicut caeterae nationes habent. E quando Iddio diede al Re Salomone la scelta di ciò, che volesse, questi dimandò: Cor intelligens, ut populum suum judicare posset: domanda, che fu grata a Dio; laonde S. Girolamo disse, che Regum proprium officium est facere judicium, et justitiam[570]. In brieve in tutta la Sacra Scrittura la giustizia è sempre attribuita e comandata a' Re, e non mai a' Preti, almeno in qualità di Preti; perchè Nostro Signore istesso, essendo stato pregato da certo uomo, perchè imponesse la divisione fra lui, e suo fratello, rispose: Homo quis me constituit Judicem, aut divisorem super vos[571]? Ed in quanto agli Appostoli, ecco ciò, che ne dice S. Bernardo ad Eugenio: Stetisse Apostolos lego judicandos, judicantes sedisse non lego. Nè in quelli tre primi secoli, siccome s'è veduto nel primo libro, toltone quelle tre accennate conoscenze, ebbero i Preti quest'ampia giustizia contenziosa, che hanno al presente.

[291]

Nè tampoco l'ebbero nel quarto e quinto secolo: imperocchè quantunque l'Imperio fosse governato da Imperadori cristiani, toltone la conoscenza delle sole cause ecclesiastiche, essi venivan da' Magistrati secolari[572], così ne' giudicj civili, come criminali, giudicati e riguardati essi ancora come membri della società civile: e non essendo stata loro conceduta, nè per diritto divino, nè fin allora per legge d'alcun Principe, immunità, o esenzione alcuna, dovevan in conseguenza da' Magistrati secolari nelle cause del secolo esser giudicati. E di fatto nel Concilio Niceno accusandosi i Vescovi l'un l'altro, portaron i libelli dell'accuse a Costantino, perchè gli giudicasse; ancorchè a questo Principe fosse piaciuto, per troncar le contese, di buttargli tutti al fuoco. Costantino stesso giudicò la causa di Ceciliano, ed Attanasio accusato di delitto di maestà lesa, con sua sentenza fu condennato in esilio. Costanzo suo figliuolo ordinò, che la causa di Stefano Vescovo d'Antiochia si trattasse nel suo palazzo[573]; ed essendo stato convinto, fu con suo ordine deposto da' Vescovi. Valentiniano condannò alla multa il Vescovo Cronopio, e mandò in esilio Ursicino, e' suoi compagni, come perturbatori della pubblica tranquillità[574]. Prisciliano, ed Instanzio furono condennati per loro delitti ed oscenità da' Giudici secolari, come testifica Severo. Della causa di Felice Aptungitano, di Ceciliano, e de' Donatisti conobbero ancora i Magistrati secolari[575]. Ed i Vescovi [292] d'Italia ricorsero a Graziano e a Valentiniano, pregandogli, che prendesser a giudicare Damaso da loro accusato.

Nè si fece nelle sue cause civili di questi secoli mutazione alcuna, essendo noto, che non volendo i litiganti acquetarsi al giudicio de' Vescovi, che come arbitri solevano spesso esser ricercati per comporle, e volendo in tutte le maniere piatire, e venire al positivo costringimento, dovevan ricorrere a' Rettori delle province, ed agli altri Magistrati secolari, ed instituire avanti a' medesimi i giudicj, e proponere le loro azioni, ovvero eccezioni, come i due Codici Teodosiano, e Giustinianeo ne fanno piena testimonianza[576]: e quando venivan citati in alcuno di questi Tribunali, dovevan dar mallevadoria judicio sisti[577].

Nell'estravagante ed apocrifo titolo de Episcopali judicio, che fu collocato in luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine del Codice di Teodosio si legge una costituzione[578] di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, colla quale pare, che si dia a' Vescovi la cognizione delle cause fra Ecclesiastici, e parimente, che non siano tirati a piatire altrove, che avanti di loro stessi: ma quantunque tal legge sia supposta, come ben a lungo dimostra Gotofredo, e tengono per certo tutti i dotti; niente però da quella poteron cavarne i Preti; poichè con espresse e precise parole ivi si tratta delle sole cause Ecclesiastiche, la conoscenza delle quali l'ebbe sempre la Chiesa per forma di politia: ecco le sue [293] parole: Quantum ad causas tamen Ecclesiasticas pertinet. Graziano[579], al quale ciò dispiacque, glie le tolse affatto, e nel suo decreto smembrò la legge, e variò la sua sentenza: ciò che non fu nuovo di questo Compilatore, siccome altrove ce ne saranno somministrati altri riscontri. Anselmo[580] su questa legge pur fece simili scempj, e maggiori in cose più rilevanti se ne sentiranno appresso.

Oppongono gli Ecclesiastici alcune altre costituzioni di simil tempra, e molti canoni contro a verità sì conosciuta; ma risponde loro ben a lungo, ed a proposito Dupino[581] gran Teologo di Parigi, il quale meglio d'ogni altro ci dimostrò, che i Cherici, così nelle cose civili e politiche, come nelle cause criminali, non furono per diritto divino esenti dalla potestà secolare, siccome nè da' tributi, nè dalle pene: ma che in decorso di tempo per beneficio degl'Imperadori e dei Principi, in alcuni casi l'immunità acquistarono; ciò che si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

Così è, che la Chiesa fin a questi tempi non aveva acquistata quella giustizia perfetta, che il diritto chiama Giurisdizione sopra i suoi Preti, e molto meno sopra gli altri del secolo; nè allora avea territorio, cioè jus terrendi, come dice il Giureconsulto[582] nè per conseguenza perfetta giurisdizione, che inerisce al territorio, nè preciso costringimento, nè i Giudici di essa erano Magistrati, che potessero pronunciare quelle tre parole essenziali, do, dico, abdico. Per la qual cosa essi non potevano di lor autorità fare imprigionar [294] le persone ecclesiastiche: siccome oggi il giorno ancora s'osserva in Francia, che non possono farlo senza implorare l'ajuto del braccio secolare[583]. E perchè per consuetudine s'era prima tollerato, e poi introdotto, che il Giudice ecclesiastico potesse fare imprigionar coloro, che si trovavano nel suo Auditorio, tosto Bonifacio VIII alzò l'ingegno, e cavò fuori una sua decretale[584], con cui stabilì, che i Vescovi potessero da per tutto, e dove essi volessero ponere il lor Auditorio, per farv'in conseguenza da per tutto le catture: la qual opera, perchè non poteva nascondersi, fece, che quella decretale in molti luoghi non fosse osservata, ed in Francia, come testifica Mons. Le Maître[585] si pratica il contrario. In fine gli Ecclesiastici non ebbero carcere fin al tempo d'Eugenio I, come c'insegna il Volaterrano[586].

Egli è altresì ben certo, che in questi secoli la Chiesa non avea potere d'imponer pene afflittive di corpo, d'esilio, e molto meno di mutilazion di membra, o di morte: e ne' delitti più gravi d'eresia, toccava a' Principi di punire con temporali pene i delinquenti i quali Principi per tenere in pace e tranquilli i loro Stati, e purgargli di questi sediziosi, che turbavan la quiete della Repubblica, stabilirono perciò molti editti, dove prescrissero le pene ed i gastighi a color dovuti: di queste leggi ne sono pieni i libri del Codice di Teodosio, e di Giustiniano ancora. Nè in questi tempi i Giudici della Chiesa potevano condennare [295] all'emende pecuniarie[587]; e la ragion era, perch'essi non avevan territorio[588], e secondo il diritto de' Romani, i soli Magistrati, ch'hanno il pieno territorio, potevano condennare all'emenda[589]; ma poi, ancorchè la Chiesa non tenesse nè territorio, nè Fisco, intrapresero di poterlo fare, con applicare a qualche pietoso uso, come a Monaci, a prigioni, a fabbriche di chiese, o altro, la multa, di che altrove avremo nuovo motivo di ragionare.

Non potendosi adunque dubitare, che tutto ciò, che oggi tiene la Chiesa di giustizia perfetta e di giurisdizione, dipenda per beneficio e concessione de' Principi, alcuni han creduto, che queste concessioni cominciassero da Costantino il Grande, quegli che le diede pace ed incremento. Credettero, che questo Principe per una sua costituzione estravagante, che si vede inserita nel fine del Codice di Teodosio[590] avesse stabilito, che il reo, o l'attore in tutte le materie, ed in tutte le parti della causa, possa domandare, che fosse quella al Vescovo rimessa: che non gli possa esser denegato, avvegnachè l'altra parte l'impedisse e contraddicesse: e per ultimo, che ciò che il Vescovo proferirà, sia come una sentenza inappellabile, e che tosto senza contraddizione, e non ostante qualunque impedimento, debbano i Magistrati ordinarj eseguirla: cosa, che se fosse vera, la giurisdizione temporale sarebbe perduta affatto, o almeno non servirebbe, che per eseguire i comandamenti degli Ecclesiastici. [296] Fu in alcun tempo questa veramente stravagante costituzione reputata per vera, vedendo parte di quella inserita ne' Capitolari di Carolo M.[591], ed ancora ne' Breviari del Codice Teodosiano; e Giovanni Seldeno[592], perchè la trovò in un Codice antico manuscritto di Guglielmo, Monaco malmesburiense, credette, che veramente fosse di Costantino.

Altri l'attribuirono non già a Costantino, ma a Teodosio il Giovane, come fecero Innocenzio[593], Graziano[594], Ivone, Anselmo, Palermitano, e gli altri Compilatori di decreti, mossi perchè in alcuni Codici manuscritti portava in fronte questa iscrizione: Arcad. Honor. et Theodos.

Ma oggi mai s'è renduto manifesto per valenti e gravi Scrittori esser quella finta e supposta, non altramente, che la donazione del medesimo Costantino[595]. Giacomo Gotofredo[596] a minuto per cento pruove dimostra la sua falsità, tanto che bisogna non aver occhi per poterne dubitare: si vede ella manifestamente aggiunta al Codice di Teodosio in luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine di quello, intitolata con queste parole: Hic titulus deerrabat a Codice Theodosiano: si porta ancora senza Console, e senza data dell'anno: e tutta opposta a molt'altre costituzioni inserite in quel Codice stesso: non si vede posta nel Codice di Giustiniano, nè di lei presso agli Scrittori dell'Istoria Ecclesiastica hassi memoria alcuna.

[297]

Coloro che l'attribuiscono a Teodosio, di cui la vera legge[597] si vede dopo questa supposta costituzione, vanno di gran lunga errati; imperciocchè questa vera legge di Teodosio è tutta contraria a quella, determinandosi per essa, che i Vescovi non possano aver cognizione, se non delle materie di religione, e che gli altri processi degli Ecclesiastici sieno determinati e sentenziati da' Giudici ordinarj: e non è credibile, che Teodosio avesse voluto inserire nel suo Codice una legge tutta contraria alla sua. Di vantaggio le leggi degli altri Imperadori, rapportate in quel Codice, benchè fatte in favor della Chiesa, non l'attribuiscon però tal giustizia, e spezialmente la Novella[598] di Valentiniano III. è direttamente contraria, dicendo, che secondo le leggi degl'Imperadori, la Chiesa non ha giurisdizione, e che seguendo il Codice Teodosiano, ella non può conoscere, che delle materie di religione.

Ma oltre alla vera legge di Teodosio di sopra rapportata, si vede, che in tempo d'Arcadio e d'Onorio, la Chiesa non aveva se non la sua primitiva ragione di conoscere per forma d'arbitrio, ancorchè ciò eziandio le venisse contrastato, laonde promulgaron essi una legge, per mantenergliela, di cui ecco le parole: Si qui ex consensu apud sacrae legis Antistitem, litigare voluerint, non vetentur sed experientur illius, in civili dumtaxat negotio, more arbitri sponte reddentis judicium[599]. E questa fu la pratica della Chiesa in questi secoli, che i Vescovi s'impiegavano per forma d'arbitrio in comporre le liti, che loro per consenso [298] delle parti erano riportate, come ne fanno testimonianza Basilio[600], e con addurne gli esempli, Gregorio Neocesariense, Ambrogio, Agostino e gli Scrittori dell'Istoria Ecclesiastica Socrate, e Niceforo[601]. Ciò che durò lungamente fino a' tempi di Giustiniano, il quale fu il primo, che cominciò ad augmentare la conoscenza de' Vescovi per le sue Novelle, come vedremo nel sesto secolo: poichè negli ultimi tempi, ne' quali siamo di Valentiniano III egli è costante, che i Vescovi non avevano, nè Foro, nè territorio, nè potevan impacciarsi d'altre cause, che di religione così tra' Cherici, come tra' Laici, siccome Valentiniano stesso n'accerta per una sua molto notabile Novella[602], di cui eccone le principali parole: Quoniam constat Episcopos Forum legibus non habere, nec de aliis causis, quam de Religione posse cognoscere, ut Theodosianum Corpus ostendit; aliter eos judices esse non patimur, nisi voluntas jurgantium sub vinculo compromissi procedat, quod si alteruter nolit, sive laicus, sive clericus sit, agent publicis legibus, et jure communi; aggiungendo, che i Cherici possano esser citati innanzi al Giudice secolare: ciò che senza dubbio era il diritto e la pratica innanzi Giustiniano, come si vede in molte leggi del suo Codice[603]: e questo solo privilegio era dato agli Ecclesiastici, di non poter essere tirati a piatire fuori del lor domicilio e dimora; e nelle province non potevan essere convenuti innanzi [299] altro Giudice, che avanti il Rettore della provincia; siccome a Costantinopoli innanzi al Prefetto Pretorio[604].

Così è, che intorno la conoscenza della Chiesa nelle cause, non si mutò niente in questi tempi di quel che praticavasi negli tre primi secoli: nè in queste nostre province ebbero i nostri Vescovi giustizia perfetta, nè Foro, nè territorio: nè per quel che s'attiene a questa parte, lo Stato ecclesiastico portò, fino a questo tempo, alcuna mutazione nel politico e temporale, restringendosi la sua conoscenza alle cause di religione, che giudicava per via di politia, ed a quell'altre due occorrenze dette di sopra: e tutta la giurisdizione ed imperio era de' Magistrati secolari, innanzi a' quali sia Prete, sia laico, si ricorreva per le cause, così civili, come criminali, senza eccezione veruna.

Ma quantunque per questa parte non s'apportasse allo Stato civile alterazione alcuna, non fu però, che in questi medesimi tempi non si cagionasse qualche disordine, per ciò che concerne l'acquisto de' beni temporali, che tratto tratto agli Ecclesiastici, ed alle Chiese, per la pietà de' Fedeli si donavano, ovvero per la troppo avarizia de' Cherici si proccuravano.

§. IV.  Beni temporali.

Chi dice religione, dice ricchezze, scrisse il nostro Scipione Ammirato[605], che fu Canonico in Firenze; e la ragione è in pronto, e soggiunge, perchè essendo [300] la religione un conto, che si tiene a parte con M. Domenedio; ed avendo i mortali in molte cose bisogno di Dio, o ringraziandolo de' beni ricevuti, o dei mali scampati, o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente succedano, necessariamente segue, che de' nostri beni, o come grati, o come solleciti facciamo parte, non a lui, il quale Signor dell'Universo non ha bisogno di noi, ma a' suoi tempj, e a' suoi Sacerdoti. Data che fu dunque da Costantino pace alla Chiesa, potendosi professar da tutti con piena libertà la nostra religione, cominciò in conseguenza a crescer quella di beni temporali. Prima di Costantino le nostre Chiese, come una certa spezie d'unione ed assembramento reputato illecito, non potevan certamente per testamento acquistar cosa alcuna, non meno, che le Comunità de' Giudei, e gli altri Collegi, che non aveano in ciò alcun privilegio[606].

Questi Corpi erano ancora riputati come persone incerte, e per conseguenza i legati a loro fatti non aveano alcun vigore. Ne' tempi poi del Divo Marco[607] fu fatto un Senatus consulto, col quale si diede licenza di poter lasciare a' Collegi, o ad altre Comunità ciò, che si volesse[608]. Fu perciò rilasciato il rigore, che prima vi era; e quantunque le nostre Chiese come Collegi illeciti, non potevan esser comprese sotto la disposizione del senatusconsulto, con tutto ciò si osserva, che nel terzo secolo, sia per tolleranza, sia per connivenza, cominciavano ad avere delle possessioni: ma subito, che Costantino nell'anno 312 abbracciò [301] la religione cristiana, rendendo con ciò non pur leciti, ma venerandi e commendabili i nostri Collegi, si videro le Chiese abbondar di beni temporali. E perchè non vi potesse sopra di ciò nascer dubbio, e maggiormente si stimolasse la liberalità de' Fedeli a lasciargli, promulgò nell'anno 321 un editto, che dirizzò al Popolo romano, col quale si diede a tutti licenza di poter lasciare ne' loro testamenti ciò che volessero alle Chiese, ed a quella di Roma spezialmente[609]. Così Costantino cotanto della cristiana religione benemerito arricchì le nostre Chiese, e non solamente per questa via, ma anche per avere ordinato, che si restituissero a quelle tutte le possessioni, che ad esse appartenevano, e che ne' tempi di Diocleziano, e di Massimiano eran loro state tolte, sopra di che promulgò anche un altro editto rapportato da Eusebio[610]. In oltre stabilì, che i beni de' Martiri, se non aveano lasciati eredi, si dessero alle Chiese, come afferma l'Autor della sua vita[611].

Ma siccome questo Principe per la nuova disposizione, che diede all'Imperio, fu riputato più tosto distruggitore dell'antico, che facitore d'un nuovo, così anche fu da molti accagionato, che più tosto recasse danno alla Chiesa per averla cotanto arricchita, che l'apportasse utile; poichè in decorso di tempo gli Ecclesiastici per l'avidità delle ricchezze ridussero la faccenda a tale, che oltre a dimenticarsi del loro proprio ufficio, ad altro non badando, che a tirare e rapire l'eredità de' defunti, furon cagione di molti abusi [302] e gravi disordini, che perciò nella Repubblica si introdussero: tanto che obbligaron i Principi successori di Costantino a por freno a tanta licenza.

Ne' suoi tempi S. Giovan Crisostomo[612] deplorava questi abusi, e si doleva, che dalle ricchezze delle Chiese n'erano nati due mali, l'uno che i laici cessavano d'esercitarsi nelle limosine: l'altro che gli Ecclesiastici, trascurando l'ufficio loro, ch'è la cura delle anime, diventavano Procuratori, Economi, e Dazieri, esercitando cose indegne del loro ministerio.

Non erano ancora cinquant'anni passati, da che Costantino promulgò quelle leggi, che per l'avarizia degli Ecclesiastici, sempre accorti in profittarsi della simplicità massimamente delle donne, fu costretto Valentiniano il Vecchio nell'anno 370 a richiesta forse, come suspicano alcuni, di Damaso Vescovo di Roma, di promulgare altra legge[613], con cui severamente proibì a' Preti ed a' Monaci di poter ricever sia per testamento, sia per atto tra' vivi qualunque eredità, o roba da vedove, da vergini o da qualsivoglia altra donna, proibendo loro, che non dovessero con quelle conversare, siccome purtroppo licenziosamente facevano; contro alla quale cattiva usanza declamarono ancora Ambrogio e Girolamo: e questa legge, oltre ad essere stata dirizzata a Damaso, fu ancora fatta pubblicare in tutte le chiese di Roma, perchè inviolabilmente si osservasse. Estese in oltre Valentiniano questa sua costituzione a' Vescovi, ed alle vergini a Dio sacrate, a' quali insieme con gli altri Cherici, e Monaci proibì simili acquisti[614].

[303]

Venti anni appresso per le medesime cagioni fu astretto Teodosio il Grande a promulgarne un'altra consimile[615], per la quale fu vietato alle Diaconesse per la soverchia conversazione, che tenevan con gli Ecclesiastici, di poter lasciare a' Monaci, o Cherici le loro robe in qualunque modo, che tentassero di farlo, anzi questo Principe vietò ancora alle medesime Diaconesse di poter lasciare eredi le Chiese, e nemmeno i poveri stessi, ciò, che Valentiniano non osò di fare: se bene Teodosio dopo due mesi rivocò in parte questa sua legge permettendo[616] alle Diaconesse di poter lasciare a chi volessero i mobili: ancorchè l'Imperador Marciano nella sua Novella[617] reputasse in tutto aver rivocata Teodosio la sua legge, siccome infine volle far egli, di che è da vedersi Giacomo Gotofredo ne' suoi lodatissimi Comentarj[618].

I Padri della Chiesa di questi tempi non si dolevano di tali leggi, nè che i Principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero, che perciò si fosse offesa l'immunità, o libertà della Chiesa; erano in questi tempi cotali voci inaudite, nè si sapevano; ma solamente dolevansi delle ragioni, che producevano tali effetti, e che mossero quegl'Imperadori a stabilirle, cioè di loro medesimi, e della pur troppa avarizia degli Ecclesiastici, che se l'aveano meritate: ecco come ne parla S. Ambrogio[619]: Nobis etiam privatae successionis emolumenta recentibus legibus denegantur, et nemo conqueritur. Non enim putamus injuriam, quia [304] dispendium non dolemus, etc. Più chiaramente lo disse S. Girolamo[620], scrivendo a Nepoziano; Pudet dicere, Sacerdotes Idolorum, Mimi, et Aurigae, et Scorta haereditates capiunt, solis Clericis, ac Monachis hac lege prohibetur: et non prohibetur a Persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de lege conqueror, sed doleo cur meruerimus hanc legem. Cauterium bonum est; sed quo mihi vulnus, ut indigeam cauterio? Provida, securaque legis cautio: et tamen nec sic refrenatur avaritia, per fideicommissa legibus illudimus, etc. Così è, che in questi tempi s'apparteneva alla giurisdizione, e potestà del Principe il rimediare a questi abusi, e dar quella licenza, o porre quel freno intorno agli acquisti de' beni temporali delle Chiese, ch'e' riputava più conveniente al bene del suo Stato. Ciò che ne' secoli men a noi remoti in tutti i dominj d'Europa fu dagli altri Principi lodevolmente, e senza taccia di temerità imitato. Così Carlo M. di gloriosa memoria praticò nella Sassonia; e nell'Inghilterra Odoardo I, e III, ed Errico V[621]. Nella Francia lo stesso fu osservato da S. Lodovico[622], ch'è cosa molto notabile, e poi successivamente confermato da Filippo III, da Filippo il bello, da Carlo il bello, da Carlo V, da Francesco I, da Errico II, da Carlo IX e da Errico III. Ed abbiamo un arresto presso a Papponio[623], per cui il Senato di Parigi, proibì i nuovi acquisti a' Cartusiani, e Celestini. Nella Spagna Giacomo, Re d'Aragona[624] statuì simili leggi ne' Regni soggetti a quella [305] Corona; siccome nella Castiglia, in Portogallo, ed in tutti gli altri Regni di Spagna osservasi il medesimo, ci attestano Narbona, e Lodovico Molina[625]: ed in varj luoghi di Germania, e della Fiandra si osservano consimili statuti[626]. Nell'Olanda Guglielmo III Conte con suo editto dell'anno 1328 lo proibì severamente[627]. E nell'Italia in Venezia, ed in Milano si pratica il medesimo[628]: nè vi è provincia in Europa, nella quale i Principi non riconoscano appartenere ad essi, ed alla loro potestà fornire i loro Stati di simili provedimenti.

Nelle province, ch'ora compongon il nostro Reame di Napoli, se si riguardano i tempi, che corsero da Costantino fino a Valentiniano III, le nostre chiese, che già tuttavia in Napoli, e nelle altre città s'andavan da' Vescovi ergendo, non fecero considerabili acquisti: e si conosce chiaro dal vedersi, che non possono recar in mezzo altri titoli, se non procedenti, o da concessioni fatte loro da Principi Longobardi, o da Normanni, che furon più profusi degli altri, o finalmente da' Svevi, e dagli Angioini. I monasterj cominciarono nel principio del Regno de' Longobardi a rendersi, per gli acquisti, considerabili; ed ancorchè S. Benedetto nel tempo di Totila fosse stato il primo ad introdurgli in Italia, non si vide però quello di Monte [306] Casino nella Campagna cotanto arricchito, se non nell'età de' Re Longobardi: ma col correr degli anni moltiplicossi in guisa il numero delle Chiese, e dei monasterj in queste nostre province, e gli acquisti furono così eccessivi, che non vi fu città o castello, piccolo o grande, che non ne rimanesse assorbito. Fu tal eccesso ne' tempi dell'Imperador Federico II represso per una sua legge, che oggi il giorno ancor si vede nelle nostre costituzioni[629], per la quale, imitando, come e' dice, i vestigi de' suoi predecessori, forse intendendo di questi Imperadori, o com'è più verisimile, de' Re Normanni suoi predecessori, la costituzione dei quali ciò riguardante si trova ora essersi dispersa, proibì ogni acquisto di stabili alle Chiese.

(La costituzione di Federico II riguardante la proibizione degli acquisti de' beni stabili alle Chiese, Monasterj, Templarj, ed altri luoghi religiosi, è una rinovazione della costituzione antica, che era nel Regno di Sicilia di qua e di là dal Faro, non già, che l'Imperadore riguardasse alle costituzioni del Codice di Teodosio, o di Giustiniano. Nelle risposte, che diedero i Vescovi di Erbipoli, di Wormes, Vercelli, e di Parma a Papa Gregorio IX sopra l'accuse fatte a questo Imperadore, che avesse spogliati i Templarj, e gli Ospitalieri de' stabili, che possedevano, dicono, che Federico non fece altro, che rivocare alcune compre, che essi aveano fatte in Sicilia di beni Burgensatici contro il prescritto di questa antica costituzione, che avea avuto nel Regno di Sicilia sempre vigore ed osservanza. Le parole dell'accusa, e della difesa sono le seguenti, le quali si leggono non meno presso [307] Goldasto[630], che presso Lunig[631]. Propositio Ecclesiae: Templarii et Hospitalarii bonis mobilibus et immobilibus spoliati, juxta tenorem pacis non sunt integre restituti. Responsio Imperialis: De Templariis et Hospitalariis verum est, quod per judicium, et per antiquam Constitutionem Regni Siciliae, revocata sunt feudalia, et burgasatica, quae habuerunt per concessionem Invasorum Regni, quibus equos, arma, victualia, et vinum, et omnia necessaria ministrabunt abunde, quando infestabant Imperatorem, et Imperatori, tunc Regi, pupillo, et destituto, omne omnino subsidium denegabant. Alia tamen feudalia et burgasatica dimissa sunt eis, qualitercumque ea acquisierunt et tenuerunt ante mortem Regis Willielmi II seu de quibus haberent concessionem alicujus Antecessorum suorum. Nonnulla vero burgasatica quae emerunt, revocata sunt ab eis secundum formam antiquae Constitutionis Regni Siciliae, quod nihil potest eis sine consensu Principis de burgasaticis inter vivos concedi, vel in ultima voluntate legari, quin post annum, mensem, septimanam, et diem, aliis burgensibus secularibus vendere, et concedere teneantur. Et hoc propterea fuit ab antiquo statutum, quia si libere eis, et perpetuo burgasatica liceret emere sive accipere, modico tempore totum Regnum Siciliae (quod inter Regiones mundi sibi habilius reputarent) emerent, et adquirerent; et hoc eadem Constitutio obtinet ultra mare).

Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre massime, che persuasero non potere [308] il Principe rimediare a questi abusi; e riputata per ciò la costituzione di Federico, empia ed ingiuriosa all'immunità delle Chiese, si ritornò a' disordini di prima; e se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le Chiese, e' Monasterj abbondare di tanti Stati e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta loro d'assorbire quel poco, ch'è rimaso in potere dei secolari: ma di ciò più opportunamente si favellerà ne' libri seguenti, potendo bastare quel che finora s'è detto della politia ecclesiastica di queste nostre province del quarto, e metà del quinto secolo.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

[309]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO TERZO

I varj moti civili, le grandi mutazioni di Stato, e le vicende della giurisprudenza romana, che avvennero dopo la morte di Valentiniano III infino al Regno di Giustino II Imperadore, saranno il soggetto di questo libro. Si narreranno gli avvenimenti di un secolo, nel quale nuovi dominj, straniere genti, e nuove leggi vide l'Italia, e videro queste nostre province, che ora compongono il Regno di Napoli. Infino a questo tempo non altri Magistrati si conobbero, non altre leggi, se non quelle de' Romani: da ora innanzi si vedranno mescolate con quelle di straniere Nazioni, le quali, ancorchè barbare, meritan però ogni commendazione, non solo per le molte ed insigni virtù loro, ma anche perchè furon delle leggi romane così ossequiose e riverenti, che non pur non osaron oltraggiarle, ma con somma moderazione, contro alle leggi della vittoria, che dettavano di far passare i vinti sotto le leggi dei vincitori, le ritennero. Non aspettino per tanto i Lettori, [310] che dovendo io in questo, e ne' seguenti libri favellar de' Goti, de' Longobardi, e de' Normanni, che hanno una medesima origine, debbia, come han fatto moltissimi, aspramente trattargli da inumani, da fieri, e da crudeli, ed avere le loro leggi per empie, ingiuste, ed asinili, come vengon per lo più da' nostri Scrittori riputate. Splenderà ancora nelle gesta de' loro Principi, non meno la fortezza e la magnanimità, che la pietà, la giustizia, e la temperanza; e le loro leggi, e i loro costumi, se bene non potranno paragonarsi con quelli degli antichi Romani, non dovranno però posporsi a quegli degli ultimi tempi dello scadimento dell'Imperio, ne' quali la condizione d'esser Romano divenne più vile ed abbietta, che quella di coloro, che barbari e stranieri furono riputati.

Dovendo adunque prima d'ogn'altro favellar de' Goti, non è del mio instituto, che venga da più alti principj a narrar la loro origine, e da qual parte del Settentrione usciti, venissero ad inondare queste nostre contrade. Non mancano Scrittori, che ci descrissero la loro origine, i progressi, e le conquiste sopra varie regioni d'Europa; ed ultimamente l'incomparabile Ugone Grozio[632] ne trattò con tanta esattezza e dignità, che oscurò tutti gli altri: quel che però dee sommamente importare, sarà il distinguere con chiarezza i Goti Orientali dagli occidentali: poichè dall'avergli alcuni nostri Autori confusi e non ben distinti, han parimente confuse le loro leggi e costumi, ed appropriato agli uni ciò, che s'apparteneva agli altri, come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questo libro.

L'origine del loro nome non è molto oscura: essi [311] che per l'ospitalità e cortesia verso i forastieri furono assai rinomati e celebri, anche prima che abbracciassero il Cristianesimo, s'acquistarono presso a' Germani il nome di buoni: Boni, dice Grozio[633] Germanis sunt Goten, aut Guten: onde avvenne, che poi presso a tutte l'altre Nazioni d'Europa Goti s'appellassero. Furono divisi secondo i siti delle regioni, che abitarono, in Goti Orientali, o siano Ostrogoti, e Goti Occidentali, ovvero Westrogoti, che i Latini corrottamente chiamarono Visigoti. Quegli ch'abitarono le regioni più all'Oriente rivolte verso il Ponto Eussino, insino al fiume Tiras, e che poi con permissione degli Imperadori orientali ebbero la Pannonia, la Tracia, ed ultimamente l'Illirico per loro sede, furon appellati Ostrogoti, ed eran governati da Principi della non meno antica, che illustre Casa degli Amali, donde trasse la sua origine Teodorico Ostrogoto, che resse queste nostre province. Gli altri, che verso Occidente furono rivolti, e che a' tempi d'Onorio ressero l'Aquitania, e la Narbona, e da poi molte province della Spagna, Westrogoti furon nominati: questi erano comandati dai Principi della Casa de' Balti: gente illustre altresì, ma non quanto la stirpe degli Amali, la quale in nobiltà teneva il vanto: Tolosa fu la loro sede, capitale della provincia, detta poi per la loro residenza questa contrada Guascogna, che tanto vuol dire in loro lingua, quanto Gozia Occidentale[634]; benchè altri dicano, che da' Vasconi, popoli di Spagna, che varcati i Pirenei occuparono questa provincia, fosse detta Guascogna.

[312]

CAPITOLO I. De' Goti orientali, e delle loro leggi.

I Principi Vestrogoti della stirpe de' Balti, essendo stata loro sotto l'Imperio d'Onorio, da questo Principe stabilmente assegnata l'Aquitania, e molte altre città della Narbona, in Tolosa fermaron la loro sede, onde poi Re di Tolosa si dissero. Essi a tutto potere proccuravano stender il lor dominio nell'altre province della Gallia, e delle Spagne, le quali eran da' Vandali malmenate ed oppresse. Più volte a Vallia, che, come si disse nel precedente libro, a Rigerico successor di Ataulfo succedè, fortunatamente avvenne, che nelle Spagne trionfasse d'essi, e lor desse molte gravi, memorabili rotte. Morì Vallia, dopo aver riportate contro a' Vandali tante vittorie, in Tolosa l'anno di Cristo 428 ed a lui succedè nel Regno Teodorico[635]. Gli scrittori variano nel nome di questo Principe: Gregorio di Tours[636] lo chiama Teudo: Isidoro, Teudorido: Idacio, Teodoro; ma noi seguendo Giornandes[637] Scrittore il più antico, e 'l più accurato delle cose de' Goti lo chiameremo con Alteserra[638] Teodorico. Resse questo Principe l'Aquitania anni ventitrè, prode ed eccellente Capitano, che contro ad Attila ne' campi di Chaalon diede l'ultime prove del suo valore: fu egli in questa battaglia gravemente ferito, e sbalzato di cavallo restò tutto infranto, ed indi a poco morì. Lasciò [313] di lui sei figliuoli maschi, Torrismondo, Teodorico il Giovane, Federico, Evarico, Rotemero, ed Aimerico, ed una figliuola, che collocolla in matrimonio con Unnerico figliuolo di Gizerico Re de' Vandali.

Torrismondo adunque succedè nel Reame, il quale, ancorchè si fosse trovato insieme col padre contro ad Attila, e fosse stato in quella battaglia ferito, intesa ch'ebbe la morte del medesimo, tornò subito in Tolosa, ove con universale acclamazione fu nel Trono regio assunto[639]. Il Regno di questo Principe ebbe brevissima durata, e se dee prestarsi fede ad Isidoro, non imperò più che un sol anno; poichè per opera di Teodorico e Federico suoi fratelli, che mal soffrivan il suo governo, fu crudelmente ucciso[640].

Teodorico il Giovane suo fratello gli succedè nel Regno: Principe, secondo Sidonio Apollinare[641], dotato di nobili ed eccellenti virtù: ed ancorchè il genio degli Vestrogoti mal s'adattasse alle leggi romane, contra il costume degli Ostrogoti, che l'ebbero sempre in somma stima e venerazione, fu non però Teodorico II amantissimo delle medesime, e n'ebbe grandissima stima.

Gli Vestrogoti per le continue guerre, ch'ebbero co' Romani, furon non poco avversi alle leggi romane; tanto che parlando de' loro tempi, ebbe a dire Claudiano[642] : Moerent captivae pellito judice leges. Ataulfo loro Re, che, come si disse, ad Alarico I succedè, per la ferocia del suo animo, già meditava d'esterminarle in tutto; ma raddolcito per le continue persuasioni [314] e conforti di Placidia sua moglie cotanto da lui amata, se n'astenne, e mutò consiglio; ed ancorchè i suoi Goti mal ciò soffrissero, pur egli appresso Orosio[643] confessò, che non poteva senza quelle la Repubblica perfettamente conservarsi, nè gli dava il cuore di toglierle affatto: Neque Gothos, e' dice, ullo modo parere legibus posse, propter effraenatam barbariem, neque Reip. interdici leges oportere, sine quibus Resp. non est Respublica. Onde narrasi[644], che questo Principe nell'anno 412 avesse per pubblico editto comandato a' suoi sudditi, che le leggi de' Romani insieme co' costumi de' Goti osservassero. Goldasto[645] tra le costituzioni imperiali ne rapporta l'editto, ma si vede esser conceputo coll'istesse parole poc'anzi riferite di Orosio, e molte cose in esso aggiunte, che in quell'Autore non sono.

Ma a Teodorico il Giovane, del quale si favella, fu in tanto pregio lo studio delle romane leggi, che Sidonio Apollinare[646] introducendolo in un suo Carme a parlar con Avito, così gli fa dire:

————— mihi Romula dudum

Per te jura placent.

Ed altrove[647] chiamò questo Teodorico .... Romanae columen, salusque gentis. Ed appresso Claudiano, parlandosi di questo Principe, come osservò Grozio[648] pur si legge, Vindicet Arctous violatas advena leges. Nè gli Vestrogoti, ne' tempi di questo Re, o de' suoi predecessori ebbero proprie leggi scritte, nè si presero mai cura di formarle.

[315]

Ma morto Teodorico nel decimoterzo anno del suo Regno, essendogli stato renduto da Evarico ciò che egli fece a Torrismondo, succedette nel Reame Evarico suo fratello. Questi fu il primo, che diede a' Goti le leggi scritte, come ce n'accerta Isidoro[649]: Sub hoc Rege Gothi legum instituta scriptis habere coeperunt, nam antea tantum moribus, et consuetudine tenebantur: per la qual cosa da Sidonio[650] in un epistola, che dirizzò all'Imperadore Lione, fu celebrato Evarico per Principe saggio, e conditor di leggi: Modo per promotae limitem sortis, ut Populos sub armis, sic fraenat arma sub legibus.

Nel Regno di questo Principe cominciaron le leggi de' Romani ad oscurarsi, non già in Italia, ma nell'Aquitania, e nella Narbonia, ed in alcun'altre province della Spagna; poichè queste nuove leggi, che Teodoriciane furon dette, proposte per opera de' Goti a' provinciali, si fece in modo, che le Teodosiane non cotanto s'apprezzassero, ed al deterioramento di quelle non poco vi cooperò ancora la malvagità de' proprj romani Ufiziali, e particolarmente di Seronato Prefetto allora delle Gallie, il quale favorendo le parti de' Goti, e tradendo il suo proprio Principe, era ai Romani avversissimo; tanto che da Sidonio[651] era chiamato il Catilina di quel secolo. Costui fu pernizioso a' Romani stessi, non solamente per le gravi perdite cagionate dalla sua ribalderia all'Imperio d'Occidente nella Gallia, ma molto più per lo disprezzo e vilipendio, che faceva delle leggi Teodosiane, con innalzare all'incontro quelle de' Goti. Ancor oggi appresso [316] Sidonio[652] si leggono le querele de' provinciali contra costui: Exultans Gotis, insultans Romanis, illudens Praefectis, colludensque numerariis, leges Theodosianas calcans, Teodoricianasque proponens, veteres culpas, nova tributa perquirit. Onde si vide in questi tempi la condizione de' Romani, per la rapacità di quest'uomo pestilente, che d'eccessivi ed esorbitanti tributi gli caricava, ridotta in tale stato, che come fu detto nel I libro, i provinciali eleggevan più tosto la servitù de' Goti, che la libertà de' Romani; onde Salviano[653] d'essi parlando disse: Passim, vel ad Gothos, vel ad Bagaudas, vel ad alios ubique dominantes Barbaros migrant et commigrasse non poenitet; malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi. Itaque nomen civium Romanorum aliquando non solum magno aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur, ac fugitur, nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur. Paolo Orosio[654] attesta ancora, che i provinciali eleggevan più tosto tra' Barbari vivere, che tra' Romani: Qui malint inter Barbaros pauperem libertatem, quam inter Romanos tributariam sollicitudinem substinere. Quindi Isidoro[655] potè conchiudere: Unde, et hucusque Romani, qui in Regno Gothorum consistunt, adeo amplectuntur, ut melius sit illis cum Gothis pauperes vivere, quam inter Romanos potentes esse, et grave jugum tributi portare. Ma cotanta ribalderia di Seronato non rimase lungo tempo impunita, poichè strascinato in Roma, fugli tronco il capo, in cotal guisa soddisfacendo la pena di tante sue scelleratezze.

[317]

Furon le leggi da Evarico stabilite chiamate Teodoriciane, non perchè riconoscessero per loro Autori i due Teodorici di sopra memorati, come diedesi a credere il Baronio[656], che ne fece Autore Teodorico il Giovane predecessore d'Evarico, poichè a tempo dei medesimi niuna legge scritta ebbe questa Nazione. Molto meno furon così appellate, perchè forse l'Autore di quelle fosse stato Teodorico Ostrogoto Re d'Italia, come altri si persuasero: perocchè questo Principe, come diremo più innanzi, ebbe sentimenti assai diversi intorno alla cura delle leggi romane, e regnò molto tempo da poi in Italia, morto già Sidonio Apollinare, il quale non poteva nomar queste leggi Teodoriciane, perchè questo Teodorico ne fosse Autore. Teodorico Ostrogoto, come dirassi, regnò in Italia ne' tempi di Anastasio Imperador d'Oriente nell'anno 493 e 500, quando Sidonio Apollinare era già morto, com'è manifesto appresso Gregorio di Tours[657]; laonde meritamente fu da Cironio[658] incolpato d'errore Cujacio, che Autore di queste leggi ne fece Teodorico Re d'Italia.

Sirmondo, e Dadino Alteserra[659] saviamente dissero, che fossero queste leggi chiamate Teodoriciane per paranomasia, per opporle alle Teodosiane, acciocchè siccome i Romani valevansi delle Teodosiane, così i Goti avessero leggi proprie, che con diverso senso, ma con conforme suono si dicessero Teodoriciane: ma siccome osservò Cironio[660], sarebbe questa una paranomasia troppo insulsa, se Evarico non fosse stato ancora [318] chiamato Teodorico; onde il dottissimo Savarone[661] sopra quel luogo di Sidonio Apollinare, assai chiaro dimostra, che il vero nome di questo Principe fosse stato quello di Teodorico: Grozio[662] poi nel suo Nomenclatore ci fa vedere che questo Re si fosse chiamato anche Evarico per questo stesso, che fu il primo fra' Re Goti a compor leggi: Evarix, e' dice, alias Evaricus. Evva ricch, Legibus pollens. In glossis Lex, Evva.

§. I.  Del Codice d'Alarico.

Poterono sotto il Regno d'Evarico, ma molto più per la ribalderia di Seronato soffrire questi oltraggi le leggi romane, ma tolto dal Mondo sì reo uomo, essendo da poi nell'anno 484 morto Evarico, sursero quelle di bel nuovo, e tornarono nell'antico lor vigore; poichè d'Alarico figliuol d'Evarico, che nel Reame gli succedè, furono i sentimenti assai diversi; imperocchè le querele de' provinciali, che mal sofferivan l'abbassamento delle medesime, trovaron quel luogo presso ad Alarico, che appo al padre non ebbon giammai. Erano note a questo Principe le doglianze degli Aquitani, e degli altri suoi sudditi, i quali mal volentieri si sarebbon accomodati alle leggi Teodoriciane, e che a gran torto lor involavansi le leggi romane, colle quali eran nati e cresciuti. Era altresì a lui noto con quanta stima venivan ricevute da Teodorico Ostrogoto, che già ne' suoi tempi regnava in Italia, la cui figliuola Teodelusa egli aveva per moglie, e perciò da [319] Teodorico veniva suo figliuolo chiamato, come si vede appresso Cassiodoro in quella affettuosa epistola, che gli scrisse[663]: fu per tanto risoluto nel ventesimo secondo anno del suo Regno di compiacergli; onde avendo trascelti uomini prudentissimi, ed i più insigni Giureconsulti, che fiorissero nella sua età, a quali prepose Gojarico[664], non altramente, che di Triboniano fece l'Imperador Giustiniano nella Compilazione delle Pandette e del suo Codice, impose a' medesimi, che dalle costituzioni del Codice Teodosiano, e dalle sentenze di varj Giureconsulti sparse in diversi libri, ne formassero un nuovo Codice. E perchè non si diminuisse la maestà del suo Imperio, quasi che di leggi straniere d'altri Principi avesse bisogno per governare i popoli a se soggetti, volle, che questo nuovo Codice in suo nome si pubblicasse, e che le leggi in quello contenute da lui ricevessero la forza ed il nerbo, perchè potessero costringersi i suoi sudditi ad ubbidirle.

I più vulgati e celebri libri, ne' quali in questi tempi contenevasi la ragion civile de Romani, se riguardansi le costituzioni de' Principi, eran i Codici Gregoriano, Ermogeniano, e quel di Teodosio con le di lui Novelle, e l'altre di Valentiniano a quello aggiunte; e fra i volumi de' Giureconsulti, fiorivan in questa età, sopra tutti, le sentenze di Paolo, e l'Instituzioni di Cajo; perciò per opera di que' valenti uomini[665] fu dalle costituzioni di que' Codici, dal corpo di quelle Novelle, e dalle sentenze di questi Giureconsulti compilato questo nuovo ristretto Codice; laonde perciò anche Breviario del Codice Teodosiano fu dagli Scrittori [320] di que' tempi, e della seguente età nominato, il quale secondo il computo del Gotofredo[666] fu condotto a fine l'anno 506. La cui Compilazione dee a Gojarico, e suoi Colleghi attribuirsi[667], non già ad Aniano Cancellier d'Alarico, come stimarono Giovanni Tillio e Cujacio, ingannati forse da ciò, che scrisse Sigeberto[668]. Aniano nella fabbrica del medesimo non v'ebbe alcuna parte, ma solamente da lui d'ordine d'Alarico fu pubblicato e sottoscritto in Ayre città della Guascogna nel Concilio d'ambedue gli Ordini[669], cioè degli Ecclesiastici e de' Nobili; poichè di questi tempi in Francia il terzo Ordine non era d'alcun momento, nè d'autorità veruna[670]. La qual pubblicazione, e sottoscrizione d'Aniano rendesi manifesta dal Comonitorio d'Alarico diretto al Conte Timoteo, che va innanzi al Codice Teodosiano, nel quale si leggono queste parole[671]: Anianus vir spectabilis, ex praecepto D. N. gloriosissimi Alarici Regis, hunc Codicem de Theodosianis legibus, atque sententiis Juris, vel diversis libris electum, Aduris anno XXII eo Regnante edidit atque subscripsit.

Alcuni per questo stesso rispetto han creduto, che nel medesimo tempo Aniano avesse composte ancora le note nelle Sentenze di Paolo, e nell'Instituzioni di Cajo, come scrissero Deciano[672], ed Arturo[673] con manifesto errore; poichè in questo Breviario, oltre [321] alle leggi trascelte dal Codice Teodosiano, vi furon anche riposte le sentenze di questi Giureconsulti dai mentovati Compilatori, non già da Aniano. E quelle interpretazioni, che s'osservano nel Codice di Teodosio, non ad Aniano, ma a coloro debbon attribuirsi, come diligentemente osservò Gotofredo ne' Prolegomeni di quel Codice[674]. È da notarsi ancora, che essendo state unite queste note ed interpetrazioni a quel Codice, ne nacque presso agli Scrittori de' seguenti secoli un errore, che volendo allegar le leggi di quel Codice, allegavan sovente, come costituzioni del medesimo, una di queste interpretazioni o note di Paolo Giureconsulto, siccome fu avvertito da Savarone[675] sopra Sidonio Apollinare. Così veggiamo, che Ivone di Chartres[676], che fiorì nell'anno 1092 sovente allega per leggi di questo Codice, ciò ch'era dell'Interpretazione di Paolo Giureconsulto: Graziano[677] poi nel suo decreto prende moltissimi di somiglianti abbagli, siccome fu da Gotofredo[678], e da altri osservato.

§. II.  Traslazione della sede regia degli Vestrogoti da Tolosa di Francia, in Toledo nelle Spagne.

Questa fu la varia fortuna, che la romana giurisprudenza sostenne appresso gli Vestrogoti Re di Tolosa, che all'Aquitania, ed a molti luoghi della Gallia, oltre alle province della Spagna, imperavano: ma vedi [322] le vicende dell'umane cose. Alarico, che dopo ventitre anni d'Imperio avea sì bene stabilito il suo Regno in Francia, e che di tutt'altro poteva temere, che di dover'esser egli l'ultimo Re di Tolosa, fu del Regno e della vita privo, ed in lui s'estinse la dominazione de' Goti nella Gallia. Clodoveo Re di Francia, sia per zelo di religione, sia per ragion di Stato, di mal animo soffriva avere Alarico per compagno nell'Imperio delle Gallie[679]. Era in fatti Alarico, come furon tutti i Goti, Ariano: Clodoveo ardente di zelo per la religion cattolica recentemente da lui abbracciata, diliberò movergli contra l'armi, e dalla Gallia discacciarlo: così questo Principe, come si legge appresso Gregorio di Tours[680], parlò a' suoi soldati: Valde moleste fero, quod hi Ariani partem teneant Galliarum, eamus cum Dei adjutorio, et superatis redigamus Terram in ditionem nostram. Ecco, che assembrati gli eserciti, assale i confini de' Goti, si pugna ferocemente ne' campi di Vique, ed Alarico sbalzato di cavallo, rimane dalle mani proprie di Clodoveo estinto. I Goti per la morte del loro Re in somma costernazione posti, furon dispersi, e quasi che in tutto alla perfine distrutti. Trionfa Clodoveo, e prende molte città, e castelli: Teodorico suo figliuolo penetrando nell'interiori parti dell'Aquitania, tutte si sottomette quelle città: Clodoveo con trionfal pompa entra in Tolosa, sede che fu già gran tempo de' Re Goti, e tutti i tesori d'Alarico vi prende. Ecco il fine della dominazion de' Goti [323] nell'Aquitania, e vedi intanto la mano del Signore, come trasferisce i Regni di gente in gente.

Conquistatasi da Clodoveo l'intera Aquitania con Tolosa, rimasero sotto l'Imperio de' Goti le Spagne, ed ancor parte della provincia di Narbona, per la quale lungo tempo da' Goti fu poi guerreggiato co' Francesi: ed avvegnachè finalmente se ne fossero questi renduti padroni, però nella Francia Narbonese, come dice Grozio[681], non s'estinse affatto il sangue Gotico, nè quivi mancò in tutto la stirpe de' Balti, rimanendovi ancora quelli della famiglia di Baux, i quali non altronde, che da questi Goti tirano la lor origine, e conservavan tuttavia in quella provincia parte del Principato d'Orange. Un altro ramo di questa stessa famiglia di Francia fu trasferito nel nostro Regno di Napoli; dove si disse appresso noi di Baucio, ovvero del Balzo, che tenne il Principato d'Altamura, il Ducato d'Andria, ed il Contado d'Avellino; del che non vogliamo altro miglior testimonio, che Grozio stesso; ecco le sue parole: Aliaque ejusdem familiae propago in Regno Neapolitano Principatum Altamurae, Ducatum Andriae, Comitatum Avellinae, virtutis non degenerantis monumenta tenuit.

Gli Vestrogoti discacciati da Tolosa e da Francia posero la loro sede regia in Toledo nelle Spagne. Quivi per lungo tempo tennero il Regno infin alla spaventosa e terribile irruzione de' Saraceni. Tennelo Gesalarico, e da poi Teodorico Ostrogoto Re d'Italia, il quale volendosene poi ritornar in Italia, lasciò quello ad Amalarico suo nipote. Tennelo anche sotto Giustiniano Imperadore poco men, che diciotto anni Teudio, [324] e dopo lui Teudiscolo per un sol anno: Agila per cinque: Atanagildo quattordici, e dopo la di lui morte seguita in Toledo, Liuba[682]. Leovigildo suo fratello gli succedette nel Regno, Principe di vasti pensieri, e che fu tutto inteso ad ampliare i confini del suo Imperio. Vinse i Cantabri, che sono i Biscaini, ed i Navarresi, Amaya, e molt'altre ribellanti città si sottopose: egli fu perciò detto il Conquistatore, perchè gran parte della Spagna conquistò: Nam antea Gens Gothorum, come dice Isidoro[683], angustis finibus arctabatur. Ma tante sue virtù furon oscurate per le persecuzioni, che diede a' Cattolici, e per la ferocità e crudeltà del suo animo, non perdonò nè meno ad Ermenegildo suo figliuolo.

§. III.  Del nuovo Codice delle leggi degli Vestrogoti.

Presso a tutti questi Principi le leggi romane non furon in molta stima avute, e molto meno presso a Leovigildo, il quale portando gli stessi sentimenti d'Evarico, volle alle sue leggi gotiche aggiungerne dell'altre, e ciò, che nelle medesime egli credette fuor di ordine o superfluo, volle correggere e togliere, e con miglior metodo ordinare: In legibus quoque (narra Isidoro[684]) ea, quae ab Evarico incondite constituta videbantur, correxit, plurimas leges praetermissas adjiciens, plurasque superfluas auferens. Accrebbe ancora questo Principe di molto l'Erario, e dopo diciotto [325] anni di Regno, nell'anno 586 morì in Toledo sua sede regia.

Non diversi sentimenti intorno alle leggi romane portarono i suoi successori: Reccaredo suo figliuolo (che fu il primo il quale lasciò l'Arianesimo per abbracciare la religione cattolica, dal che fu nomato il Re Cattolico, soprannome poi ripigliato da Alfonso, e Ferdinando Re d'Aragona, e dai suoi successori) Liuba II. Vitterico, Gundemaro, Sisebuto, Reccaredo II. Svintila, Sisenando, Cintila, Tulca, e Chindesvindo, Principi tutti Cattolici e religiosi, aggiungendo le loro leggi all'altre de' loro predecessori, fecion sì, che ne surse col correr degli anni questo nuovo Codice, delle leggi Vestrogote detto[685]. Le leggi che si hanno in quello, alcune portano in fronte il nome degli Autori, come di Gundemaro Re e degli altri, che regnarono dopo Evarico e Leovigildo: altre sono sotto il nome di legge antica, che potrebbero attribuirsi ad Evarico o più tosto a Leovigildo, che corresse ed accrebbe le costui leggi. Fu tanta l'autorità di questo Codice, che oscurò in queste province affatto lo splendore delle leggi romane; poichè Chindesvindo[686] Re dei Vestrogoti, che a Tulca succedè, promulgò un editto, per cui sbandì la legge romana da tutti i confini del suo Regno, e ordinò, che solo questo Codice s'osservasse, sotto vano e stupido pretesto, perchè quella ricercava troppo sottile interpetrazione. Ecco le parole del suo Editto[687]: Alienae gentis legibus, ad exercitium utilitatis imbui, et permittimus, et optamus; ad [326] negotiorum vero discussionem, et resultamus, et prohibemus. Quamvis enim eloquiis polleant, tamen difficultatibus haerent: adeo cum sufficiat ad Justitiae plenitudinem, et praesentatio rationum, et competentium ordo verborum, quae Codicis hujus series agnoscitur continere, nolumus, sive Romanis legibus, sive alienis institutionibus amodo amplius convexari. Questa costituzione ritrovandosi per errore di Benedetto Levita registrata tra' Capitolari di Carlo M. diede occasione al Gonzalez[688] di credere, che Carlo fosse stato il primo a sterminare dal Foro l'uso delle romane leggi. Recisvindo suo figliuolo, che nel Regno gli succedette, rinovò gli ordinamenti del padre, e volle, che fuor di questo Codice non s'ubbidissero altre leggi siano romane, ovvero Teodosiane, o d'altre straniere genti. Nullus, e' dice, prorsus ex omnibus Regni nostri praeter hunc Librum, qui nuper est editus, atque secundum seriem hujus omnimode translatum, alium librum quocumque negotio in judicio offerre pertentet[689]. Tenne Recisvindo il Regno dopo la morte del padre tredici anni, e morì in Toledo l'anno di nostra salute 672[690], nel quale Vamba fu eletto suo successore.

Egli è però vero, che questo Codice ad emulazione di quello di Giustiniano fu compilato, e diviso perciò in dodici libri. I Compilatori ebbero presente ancora il Codice Teodosiano, e quello d'Alarico, come è manifesto dalle costituzioni, che in esso si leggono[691]. [327] Si valsero ancora del Codice di Giustiniano, connumerando[692] i gradi della consanguinità coll'istesso ordine, e quasi coll'istesse parole, di cui si valse Giustiniano ne' libri delle Instituzioni; e quel ch'è più notabile, fu con puro latino scritto, e non già con quello stile insulso e barbaro, del quale valevansi l'altre Nazioni; tanto che Cujacio[693] perciò ne prende argomento, che fosse quella gente più culta di tutte l'altre. E fu cotanta l'autorità di questo Codice, che non solo presso agli Vestrogoti, ma anche appo l'altre Nazioni ebbe vigore e fermezza, siccome presso a' Borgognoni, ed a' Sassoni; anzi ne' Concilj tenuti in Toledo spesso le sue costituzioni s'allegano, e di quelle sovente fassene illustre ed onorata memoria: onde si videro nella Spagna in cotal guisa mescolate le leggi romane con quelle de' Goti; e non pure in questa età, ma anche ne' tempi susseguenti furon osservate non solo da' Goti, ma anche da' Saraceni[694], i quali dopo l'anno 715 avendo inondata la Spagna, le ritennero, nè nuove leggi v'introdussero, salvo che alcune poche intorno a' giudicj criminali, come della bestemmia del falso lor Profeta Maometto; ed ultimamente questi essendo scacciati, da' Re Spagnuoli stessi furon ritenute, come per la testimonianza di Roderico scrisse Grozio[695], fino al Regno d'Alfonso IX o X, il quale, essendo, cancellate in buona parte per disusanza le [328] leggi de' Goti, introdusse nella Spagna le romane, che nell'idioma spagnuolo, per opera di Pietro Lopez, e di Bartolomeo d'Arienza fece tradurre e divulgare, le quali ora ritengono tutto il vigore, e leggi delle Partite s'appellano[696].

Questo Codice delle leggi degli Vestrogoti, noi lo dobbiamo alla diligenza di Pietro Piteo, il qual fu il primo, che comunicollo a Giacomo Cujacio, della qual cortesia tanto se gli dimostra tenuto. Nè io voglio che mi incresca di qui recarne le sue parole[697]: Gothorum, sive Visigothorum Reges qui Hispaniam, et Galiciam Toleto Sede Regia tenuerunt, ediderunt XII Constitutionum libros, aemulatione Codicis Justiniani, quorum auctoritate utimur saepe libenter, quod sint in eis omnia fere petita ex jure civili, et sermone latino conscripta, non illo insulso caeterarum gentium, quem nonnunquam legimus ingratis: ut gens illa maxime, quae consedit in Hispania, plane cultior caeteris, hoc argumento fuisse videatur. Communicavit autem mihi ultro Petrus Pitheus, quem ego hominem, et si amore, et perpetuo quodam judicio meo dilexi semper vix jam ex ephebo profatus fore, ut probitate, et eruditione aequalium suorum, nemini cederet: tamen pro singulari isto beneficio, maximam modo animi benevolentiam, et summa, ac singularia studia omnia me ei debere confiteor, idemque erit erga eum animus bonorum omnium, si, quod vehementer exopto, eos libros in publicum conferre maturaverit. Ciò che Cujacio desiderava, fu da Piteo già adempiuto; poichè non guari da poi, permise, che questi libri si dassero alle [329] stampe, come e' dice, scrivendo ad Odoardo Moleo: Imo etiam, ne quid Orienti Occidens de eadem gente invideret, legis Visigothorum libros XII ut tandem aliquando ederentur, concessi[698]. A costui parimente dobbiamo l'Editto di Teodorico Ostrogoto Re d'Italia, di cui più innanzi favelleremo.

Nè perchè la Spagna fu poi invasa da' Saraceni, mancò ivi affatto il nome e 'l sangue de' Goti, siccome non mancarono le loro leggi. Vanta con ragione la maggior parte della Nobiltà di quel Regno ritenerne non meno il sangue, che i nomi: ed in fatti, come osservò Grozio[699], nomi Gotici sono quelli di Ferdinando, di Frederico, Roderico, Ermanno, e altri consimili, che gli Spagnuoli ritengono. I Re medesimi di Spagna vantarono, e vollero esser creduti discender essi dal figliuolo di Favilla Pelagio, nato di regia stirpe, il quale nell'irruzione Saracinesca avendo raccolte le reliquie delle sue genti in Asturia, quivi si mantenne, ancor che in tenue fortuna, ma con nome regio, sperando, che la sua posterità un tempo, come poi avvenne, potesse ricuperare i loro aviti Regni: Ad hunc, come dice Mariana, Hispaniae Reges nunquam intercisa serie cum semper, aut parentibus filii, aut fratres fratribus successerint, clarissimum genus referunt. Frouliba, moglie di Pelagio, fu ancor ella Gota, ed il suo genero Aldefonso fu parimente Goto del sangue del Re Reccaredo. Goti furon dunque, e della regal stirpe de' Balti, i Re di Spagna, i quali per lo spazio di settecento anni avendo con istancabili e continue fatiche purgata la Spagna dall'inondamento [330] Arabico, stesero finalmente il loro dominio non pure sopra gran parte d'Europa, dell'Affrica, e dell'Asia, ma si sottoposero un nuovo e sconosciuto Mondo, e ressero ancora per lunga serie d'anni queste nostre province, che ora compongono il Regno di Napoli.

Abbiam riputato diffonderci alquanto intorno alla serie di questi Principi vestrogoti, ed intorno alla varia fortuna della giurisprudenza romana, ch'ebbe presso a' medesimi nella Francia e nella Spagna, con parlarne separatamente da quello, che n'avvenne fra gli Ostrogoti nell'Italia; non solamente per additar l'origine de' Re di Spagna, da' quali ne' secoli più a noi vicini fu questo nostro Reame governato, ma anche, perchè si distinguessero le vicende della giurisprudenza romana appresso queste due Nazioni, le quali non ebbero in ciò uniformi sentimenti, ma totalmente opposti e diversi. E tanto maggiormente dovea ciò farsi, quanto che gli Scrittori mischiano le leggi degli uni e degli altri: nè ponendo mente alla serie e genealogia di questi Principi, e alle varie abitazioni ch'ebbero, confondono gli uni cogli altri, e credon, che in Italia appresso gli Ostrogoti avesse avuta parimente autorità questo Codice, con ascrivere a' Principi ostrogoti ciò che gli vestrogoti fecero. Nel qual errore non possiamo non maravigliarci d'esservi incorso eziandio il diligentissimo Arturo Duck[700], il quale senza tener conto de' tempi e delle regioni diverse dominate da questi Principi, fra i Re Vestrogoti confonde Atalarico Ostrogoto, e con ordine al quanto torbido e confuso tratta questo soggetto.

[331]

CAPITOLO II. De' Goti orientali, e loro editti.

Degli Principi ostrogoti dell'illustre Casa degli Amali lunga serie ne fu da Giornandes tessuta nelle sue istorie[701]; prima d'Ermanarico se ne contano ben sei, Amalo, Isarna, Ostrogota, che fiorì nell'Imperio di Filippo, Cniva, Ararico, e Geperico. Ermanarico poi fu quegli, che distese più d'ogni altro i confini del suo Regno, e soggiogò molte Nazioni. Egli fu un Principe di molto valore, ma d'assai maggior felicità: la sua morte recò alla condizione degli Ostrogoti non piccolo detrimento; poichè lui estinto, i Vestrogoti si separarono, ed a' tempi dell'Imperador Valente elessero Fridigerno per lor Capitano, indi Atanarico per loro Re, e dopo costui, nell'Imperio d'Onorio, Alarico, la serie de' cui successori, che regnaron prima in Francia, e poi in Ispagna, s'è di sopra rapportata. Vinitario dell'istessa stirpe degli Amali ad Ermanarico succedè; ma costui quantunque ritenesse le medesime insegne del Principato, nulladimeno rimasero gli Ostrogoti sottoposti agli Unni, come quelli, che nelle loro regioni dimoravano. Mal sofferendo perciò Vinitario l'Imperio degli Unni; andavasi pian piano studiando di sottrarsi dal giogo loro, infin che gli venne fatto d'impadronirsi della persona di Box loro Re, de' suoi figliuoli, e di settanta de' principali Signori del suo Reame, che tutti per terribile esemplo [332] degli altri affisse in croce, e per più giorni fece veder pendenti i loro cadaveri; ma non potè godere della libertà del suo Imperio, che per un sol anno, perchè avendogli mossa guerra il Re Balambro, ancorchè nella prima e seconda battaglia rimanesse costui vinto, e molta strage degli Unni seguisse; nella terza però fu Vinitario ucciso per un colpo di saetta, che gli percosse il capo, da Balambro stesso avventatagli. Confusi perciò e costernati gli Ostrogoti, tutti all'imperio di Balambro si sottoposero; ma per aversi questo Principe sposata Valadamarca nipote di Vinitario, ricevettero molte onorevoli condizioni di pace; poichè avvegnachè rimanessero agli Unni sottoposti, non mancavan però con consiglio e permissione de' medesimi d'eleggersi sempre un loro Re, che gli governasse. Ebbero perciò dopo la morte di Vinitario, Unimondo figliuolo del già famoso e potente Re Ermanarico. A costui succede Torrismondo suo figliuolo, prode e valente giovane, che contra i Gepidi riportò sovente grandi vittorie: la memoria del quale fu tanto cara appo gli Ostrogoti, che, lui estinto, per quarant'anni vollero vivere senza Re, insino a Valamiro. Fu Valamiro figliuolo di Vandalario nato da un fratello di Ermanarico, e perciò di Torrismondo consobrino[702]. Da costui nacquero tre figliuoli, Valamiro, Teodemiro, e Videmiro, ne' quali conservavasi l'illustre famiglia degli Amali. Valamiro fu assunto al Regno, ma fra questi fratelli fu cotanto l'amore e la gratitudine, che scambievolmente l'uno all'altro porgeva la sua opera perchè conservassero in pace il Regno. Erano però sottoposti ad Attila Re degli Unni, al cui Imperio era [333] uopo ubbidire; nè era lor permesso di ricusare di combatter sovente contra gli Vestrogoti stessi loro parenti, così portando la necessità della suggezione nella quale trovavansi.

Ma la dominazione degli Unni nelle parti Orientali, per la morte d'Attila lor valoroso ed invitto Re, venne miseramente a mancare; poichè avendo questo Principe di se, e delle molte sue mogli procreati innumerabili figliuoli; mentre essi fra loro pugnano e contendono per la successione del Regno, vennero tutti a perderlo: perocchè Ardarico Re de' Gepidi approfittandosi delle loro contese, fece d'essi misera strage, e gli disperse in guisa, che l'altre Nazioni, le quali erano sotto gli Unni, per sì prosperi avvenimenti poterono scuotere il giogo della loro servitù, ed insieme co' Gepidi ricorrere a Marciano, che allora imperava nell'Oriente, perchè stabilmente a loro distribuisse quelle regioni, ch'essi col proprio valore avevano sottratte dalla tirannide degli Unni.

Era Marciano nell'anno 450 succeduto a Teodosio il Giovane nell'Imperio d'Oriente, il quale con gratissimo animo ricevendogli in protezione, concedè loro la pace, e assegnò a' Gepidi interamente la Dacia, sede, che fu degli Unni, da' quali essi l'avevano ricuperata. I Goti scorgendo, che i Gepidi se l'avrebbono ben difesa, per non contrastar con essi, amaron meglio, che si assegnasser loro del romano Imperio altre terre, come fu fatto; onde nella Pannonia trasferirono la loro sede. I confini della Pannonia erano allora, verso l'Oriente la Mesia superiore, dal Mezzo Giorno la Dalmazia, dall'Occidente il Norico, e dal Settentrione il Danubio: provincia ornata di più città fra le quali sopra tutte s'innalzava Sirmio, ove gl'Imperadori sovente solevan fermarsi.

[334]

Trasferita adunque dagli Ostrogoti la lor sede nella Pannonia, vissero lungo tempo sotto il Regno di Valamiro loro Re, e di Teodemiro e Videmiro suoi fratelli; i quali ancorchè divisi di luoghi, che fra essi ripartironsi, eran però ne' consigli e nelle deliberazioni così strettamente uniti e congiunti, che da un solo sembrava esser la Pannonia retta e governata[703]. Questi spesso ributtarono le armi, che loro venivan mosse da' figliuoli d'Attila, i quali riputandogli desertori del loro Imperio, sovente gli assalivano, sin che sconfitti da Valamiro, nella Scizia non furon confinati. Nacque a Teodemiro in questo stesso giojoso tempo della vittoria riportata contro a' figliuoli d'Attila, Teodorico, quegli che fin da' suoi natali dando di se alte speranze, per le sue nobili maniere ed eccellenti virtù, entrato in somma grazia dell'Imperador Zenone, ebbe la fortuna per molti anni con nome regio di signoreggiar l'Italia, e queste nostre province.

Continuavasi intanto fra l'Imperador Marciano e Valamiro, e suoi fratelli una perfetta e stabil pace; ma offesi questi, che nella Corte imperiale di Costantinopoli, un tal Teodorico figliuolo di un soldato veterano, se ben Goto, però non della stirpe degli Amali, aveva tirato a se gli animi di tutti, e che dall'Imperadore niun conto d'essi facevasi, sottraendosi loro gli stipendj, che solevan dall'Imperio ricevere: sdegnati perciò acerbamente, mossero incontanente centra l'Imperio l'armi, e posero sossopra la Dalmazia, e l'Illirico. Prestamente l'Imperadore mutò sentimenti: laonde per tenergli amici, mandò Ambasciadori a stabilir [335] con essi con più forte nodo una più ferma e stabil pace, offerendo loro non pur quegli stipendj, che per lo passato aveva denegati, ma anche tutto ciò, che fin a quel tempo dovevano conseguire, obbligandosi eziandio di corrispondergli nell'avvenire, purchè essi si contenessero ne' loro confini, nè guerra all'Imperio portassero. Furono accordate le condizioni: ma l'Imperadore per istar maggiormente sicuro, volle che per ostaggio si desse il fanciullo Teodorico figliuolo di Teodemiro. Ripugnava l'affettuoso padre, nè poteva soffrire, che sì caro pegno se gli togliesse; ma finalmente persuaso dalle preghiere di suo fratello Valamiro glie lo concedette. Fu per tanto fermata tra Goti e Romani una ferma e stabil pace, pegno della quale fu Teodorico, che, dato in ostaggio, fu in Costantinopoli portato nelle mani dell'Imperador Lione il Trace, ch'allora era in Oriente a Marciano succeduto, il quale per l'avvenenza e gentili maniere del fanciullo, così caro l'ebbe, che più di proprio figliuolo l'amò e ritenne.

Essendosi adunque i Goti con sì forte nodo di pace stretti co' Romani, contra varie Nazioni, che con loro confinavano, sovente mossero l'armi: ma ecco che mentre Valamiro valorosamente combatte i Sciti, sbalzato dal suo cavallo, fu da essi ucciso, onde i Goti per vendicar la morte del Re loro, pugnarono sì fortemente contro a' medesimi, che affatto l'estinsero, e debellarono. Muove altresì Teodemiro l'armi contro a' Svevi, ed Alemanni, e di essi fa crudel macello, gli disperde, e quasi affatto gli estingue: e mentre trionfando ritorna nella Pannonia sua sede, ecco che Teodorico suo figliuolo dato in ostaggio, se ne ritorna da Costantinopoli onusto di doni, licenziato dall'Imperador [336] Lione, perchè in libertà piena godesse il patrio suolo.

Ritornato Teodorico nella Pannonia, appena uscito dalla puerizia, non avendo diciotto anni finiti, comincia a dar di se saggi d'incredibil valore; poichè senza che Teodemiro suo padre il sapesse, raguna molte truppe de' suoi più ben affezionati, ed il numero di poco men, che seimila uomini unendo, valica il Danubio, e contra Babai Re di Sarmati porta le sue armi, il quale poco anzi aveva trionfato di Camundo Capitan romano; lo vince, l'uccide, e sopra lui piena vittoria riportando, sorprende anche la città di Semandria, che da' Sarmati era stata occupata, nè la rende a' Romani, ma al suo Reame la sottomette.

Ma mentre i Goti così depredano i lor vicini, vie più cresce l'ardore di dilatare i lor confini, e cercare in altre parti più agiate sedi: Videmiro per tanto si dispone co' suoi di passar in Italia, come fece, ma appena ivi giunto, furon da inaspettata morte troncati tutti i suoi disegni; onde succedutogli nel Regno il figliuolo, che Videmiro parimente nomossi, questi confortato da Glicerio, ch'allora imperava nell'Occidente; da Italia nella Gallia volse il suo cammino, ed unitosi cogli Vestrogoti suoi parenti, potè co' medesimi purgar la Gallia, e le Spagne da molte Nazioni che l'infestavano, e difendere quelle province centra l'invasione de Vandali.

Teodemiro all'incontro suo zio con Teodorico suo figliuolo, stimolato anche da Gezerico Re de' Vandali, verso la Dalmazia e l'Illirico portò le sue armi, prende Neissa principal città di questa provincia, indi Ulpiano, e tutti gli altri luoghi, ancorchè inaccessibili quelli ti fossero; sottomette al suo Imperio Eraclea, [337] e Larissa città della Tessaglia: trascorre più oltre, ed all'impresa di Tessalonica ancor aspira. Trovavasi alla guardia di questa città Clariano Patrizio e Capitan romano, il quale colto così inaspettatamente da Teodemiro, e considerando le sue forze non sufficienti a potergli resistere, gli mandò Legati con molti doni, perchè dall'assedio di quella città si rimanesse. Furon accordate tosto le condizioni di pace, lasciandosi a' Goti tutti que' luoghi, che eransi a loro renduti, cioè Ceropellas, Europo, Mediana, Petina, Bereo, e gli altri paesi dell'Illirico, ove i Goti col loro Re, deposte l'armi, tranquillamente si posarono. Non molto da poi gravemente infermossi Teodemiro, il quale convocati i Goti, avendo disegnato ad essi Teodorico suo figliuolo per loro Re e suo successore, da tutti compianto, finì i giorni suoi[704].

§. I.  Di Teodorico ostrogoto, Re d'Italia.

Intanto l'Italia per la morte di Valentiniano III, accaduta nell'anno 455[705] era per la variazione di tanti Principi e Imperadori tutta sconvolta e miseramente afflitta: Massimo, autor dell'infame assassinamento, si fece acclamar Imperadore d'Occidente, e sposò Eudossia moglie di Valentiniano, e figliuola di Teodosio; ma avendole manifestato, ch'egli era stata la cagione della morte del suo primo marito, ella chiamò dall'Affrica Genserico Re de' Vandali, il quale venne con potente armata in Italia, ed entrato in Roma interamente la devasta e saccheggia, e Massimo, [338] mentre fugge, fu dal Popolo romano lapidato e sbranato. Dopo aver Genserico scorse molte province, volgesi in dietro con proposito d'abbandonarla, e ripassare in Affrica: scorre per la nostra Campagna, e tutta la devasta e scompiglia, prende Capua e Nola, e molte altre città di questa provincia sono distrutte e poste a sacco: indi a Cartagine fece ritorno. Avito in queste turbolenze col favor degli Vestrogoti si fece in Francia gridar Imperadore, ma ben presto lasciò la porpora; poichè Marciano Imperadore, che, come si disse, era succeduto nell'Imperio d'Oriente a Teodosio il Giovane, avendo intesa la morte di Massimo, proccurò, che dal Senato e da' soldati si creasse Imperadore Maggioriano, come seguì nell'anno 457. Fu questi non molto da poi per opera di Severo fatto uccidere, il quale s'intruse nell'Imperio; ma non passò il terzo anno, che Severo fu fatto privar di vita da Ricomero, il quale stabilì in suo luogo Antemio; ebbe questi ancora il favor di Lione, che nell'anno 457 per la morte di Marciano era nell'Imperio d'Oriente succeduto. Ma essendosi da poi contra Antemio dichiarato Ricomero, fu da costui parimente fatto morire nell'anno 472, e fece in suo luogo collocare Olibrio, il quale non regnò più, che otto mesi, e Glicerio più per la sua potenza, e per essere sostenuto dai Vestrogoti, che per libera elezione, fu in Ravenna dichiarato Imperadore. Ma questi appena finì un anno d'Imperio, che Giulio Nipote nell'anno 474 lo fece deporre, e prese egli il titolo d'Imperadore: Oreste stabilito da lui Generale delle sue armi, si ribellò contro di esso, e fece dichiarare in Ravenna suo figliuolo Augustolo Imperadore.

I Principi stranieri vedendo tanta confusione e disordine [339] presso a' Romani, ben pensarono d'approfittarsene, siccome fece già Evarico vestrogoto, e fecero molti altri; ma nel Regno d'Augustolo, crescendo via più il disordine, venne fatto agli Eruli e Turingi, sotto Odoacre lor Capitano, invitato anche dagli amici di Nipote, d'occupar finalmente l'Italia: uccide Oreste, e discacciato dall'Imperio Augustolo, lo manda in Napoli in esilio nel Castello di Lucullo, che ora noi diciamo dell'Uovo[706]. Ed ecco in Augustolo estinto l'Imperio de' Romani in Occidente in quest'anno 476 tanto che ebbe a dire Giornande: Sic quoque Hesperium Romanae Gentis Imperium, quod septingentesimo vigesimo tertio Urbis conditae anno, primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, cum hoc Augustolo periit, anno decessorum, praedecessorumque Regni quingentesimo sexto; Gothorum dehinc Regibus, Romam, Italiamque tenentibus. Terminò ancora nella sua persona il nome d'Imperador d'Occidente, perchè Odoacre essendosi renduto padrone di Italia, non prese altra qualità, che di Re.

Tenne Odoacre il Regno d'Italia, secondo Giornande, poco men, che quattordici anni[707], infino che da Teodorico Ostrogoto nell'anno 489 non ne venne scacciato, e confinato in Ravenna, ove lo cinse di stretto assedio. Non ebbe l'Italia, non ebbero queste nostre province tempi più miserabili di quelli, che corsero dalla morte di Valentiniano III, infino al Regno di Teodorico; poichè se vorrà considerarsi di quanto danno sia cagione ad una Repubblica, o ad un Regno [340] variar Principe, o governo, si potrà quindi facilmente immaginare, quanto in tali tempi patissero queste nostre province per la variazione di tanti Principi, ed Imperadori. Tutto era disordine, tutto confusione e sconvolgimento: le leggi avvilite, e più la giustizia. Gl'Imperadori, che sì spesso eran rifatti, a tutt'altro badavano: solamente alcune Novelle di Marciano, di Maggioriano, di Severo, e d'Antemio, sono a noi rimase, le quali da Giacopo Gotofredo furon raccolte, quelle che veggonsi impresse dopo il suo Codice Teodosiano. Ma assunto al Regno Teodorico, meritò questo Principe non mediocre lode; poichè egli fu il primo, che facesse cessare tante calamità, tal che per lo spazio poco meno di 38 anni, che regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che gli antichi mali e desolazioni più in lei non si conoscevano; imperciocchè reggendola secondo gl'istituti e leggi de' Romani, la restituì nell'antico splendore e maestà. Per la quale cosa conviene a noi narrar particolarmente i gesti di questo eccelso Principe, a cui molto debbon queste nostre province, ch'ora compongono il Regno di Napoli.

Teodorico dopo la morte di Teodemiro suo padre, assunto al paterno Reame, dominava nell'Illirico, ove gli Ostrogoti, come dicemmo, dopo quelle conquiste, posando l'armi si fermarono. Reggeva allora l'Oriente Zenone, il quale nell'anno 474 era all'Imperador Lione succeduto in Oriente: questi avendo inteso, che Teodorico era stato dagli Ostrogoti eletto Re, dubitando che per lo troppo suo potere non inquietasse il suo Imperio, stimò richiamarlo in Costantinopoli, ove giunto con incredibili segni di stima l'accolse, e fra i primi Signori del palazzo lo fece prima arrolare; [341] non guari da poi per suo figliuolo l'adottò, e creollo ordinario Console, dignità in que' tempi la più eminente del Mondo: nè gli bastò questo, ma volle ancora, che per gloria d'un sì ragguardevol personaggio gli fosse eretta avanti la Reggia dell'imperial palagio una statua equestre. Ma mentre questo Principe godeva in Costantinopoli tutti quegli agi e quegli onori, che da mano imperiale potevan dispensarsi, il generoso suo animo però mal sofferiva di veder la sua gente, che nell'Illirico era trattenuta, invilita nell'ozio ed in povertà ed angustie, ed egli starsene oziosamente godendo quelle delizie, menando una vita neghittosa e lenta: da sì potenti stimoli riscosso, si risolve a più magnanime imprese, e portatosi all'Imperador Zenone, secondo che narra Giornande[708], così gli parla. Ancorchè a me, ed a' miei Goti, che al vostro Imperio ubbidiscono, niente manchi per la vostra magnanimità e grandezza, piacciavi nondimeno udire i voti e i desiderj del mio cuore, che son ora liberamente per esporvi. L'Imperio d'Occidente, che lunga stagione fu governato da' vostri predecessori, va tutto in guerra, e non vi è barbara nazione, che non lo devasti, scompigli e manometta: Roma, che fu già capo e signora del Mondo con l'Italia tutta dalla tirannide d'Odoacre è oppressa: voi solo permetterete, che stando noi qui oziosi e infingardi, altri depredino sì bella parte del vostro Imperio? che non mandi me colla mia gente a portar ivi le nostre armi? Noi vendicheremo i vostri torti e le vostre onte, ed oltre che risparmierete le gravi spese, che, stando noi qui, sostenete, se io coll'aiuto del Signore vincerò, risanerà [342] la fama della vostra pietà e del vostro onore per tutto il Mondo. Io son vostro servo e vostro figliuolo ancora, onde sarà più espediente e ragionevole, che se vincerò, abbia io per vostro dono a posseder quel Regno, che ora è premuto dalla tirannide di straniere genti, che tengono il vostro Senato, e gran parte della vostra Repubblica in vile servitù e cattività: se io trionferò d'esse, per tua munificenza possederò l'Occidente: se resterò vinto, al vostro Imperio, ed alla vostra pietà niente si toglie, anzi ne guadagnerete queste gravi e rilevanti spese.

Sì magnanima risoluzione di Teodorico, ancorchè forte spiacesse all'Imperador Zenone, che mal sofferiva il suo allontanamento, pure, e per non contristarlo, e seco medesimo pensando, che meglio fosse, che i suoi Goti, di riposo impazienti, portassero altrove le loro armi, e non inquietassero le parti Orientali, volle compiacerlo, e concedendogli tutto ciò che domandava, caricatolo di ricchissimi doni, lo lasciò andare, raccomandandogli sopra ogni altra cosa il Senato, ed il Popolo romano, di cui dovesse averne ogni stima e rispetto. Esce fuor di Costantinopoli Teodorico ripieno d'altissime speranze, e ritornando a' suoi Goti, fa sì, che molti lo seguissero, e per cammin diritto, avviandosi per la Pannonia, verso Italia drizza il suo esercito. Indi entrando ne' confini di Vinezia, presso al ponte di Lisonzo non lungi d'Aquileja, pone i suoi alloggiamenti.

I messi intanto di questa mossa eran precorsi ad Odoacre, il quale, sentendo essersi Teodorico già accampato in quel ponte, gli muove incontro il suo esercito. Ma Teodorico, prevenendolo, ne' Campi di Verona, gli presenta la battaglia, pugnasi ferocemente, e [343] Teodorico delle genti nemiche fa strage crudele: onde audacissimamente entrando in Italia, passato il Pò, presso a Ravenna accampa il suo esercito, ed all'assedio di questa imperial città è tutto rivolto. Odoacre, che si ritrova dentro, fa ogni sforzo in munirla, e sovente con notturne scorrerie inquieta l'esercito dei Goti; ed in questa guisa pugnando, ora perdente, ora vincente, si giunge al terzo anno di quest'assedio: ma invano s'affatica Odoacre, poichè fra tanto da tutta Italia era Teodorico per suo Re e signore acclamato, ed ogni cosa così pubblica, come privata, i suoi voti secondava. In tale stato scorgendo Odoacre esser ridotta la sua fortuna, e riguardandosi solo in Ravenna, e che già per lo continuo e stretto assedio, mancavano i viveri, deliberò rendersi, onde mandò Legati a Teodorico a chiedergli pace: fugli accordata; ma da poi entrato in sospetto, che Odoacre gl'insidiasse il Regno, gli fece toglier la vita.

Intanto di sì avventurosi successi diede Teodorico distinti ragguagli all'Imperador Zenone, avvisandolo non rimanergli altro, che Ravenna sola per l'intera conquista dell'Italia; ébbene sommo piacere Zenone, onde con suo imperial decreto confermogli l'Imperio d'Italia; e per suo consiglio deponendo l'abito Goto, non già d'imperial diadema, ma di regie insegne e di regale ammanto si cuopre, e Re de' Goti e de' Romani è proclamato[709]. Indi nel secondo anno dell'Imperio d'Anastasio, che a Zenone succedette, prese, per [344] la morte d'Odoacre, Ravenna, e nell'anno 493 fermò in questa città, come avevan fatto i suoi predecessori, la regia sede.

Se fu mai Principe al Mondo, in favor del quale nell'acquisto de' suoi Regni concorressero tanti giusti titoli, certamente dovrà reputarsi Teodorico a rispetto del Regno d'Italia. Era già a' suoi dì l'Imperio d'Occidente, per la morte d'Augustolo, finito affatto ed estinto: la Spagna da' Vandali, dagli Vestrogoti, e dai Svevi era occupata: la Gallia da' Francesi, e da' Borgognoni: la Germania dagli Alemanni, e da altre più inculte e barbare Nazioni: l'Italia non potendo essere difesa dagl'Imperadori d'Oriente, era stata da essi abbandonata, e lasciata in preda di più barbare genti: Gizerico Re de' Vandali la devasta e depreda: Odoacre, l'invade, e sotto la sua tirannide la fa gemere. Giunge Teodorico a liberarla, ed a suo costo per mezzo d'infiniti perigli, col valor delle sue armi, e colle forze della sua propria Nazione supera il Tiranno, lo discaccia, e l'uccide. Tutti i Popoli per loro Re e signore l'acclamano, ed il suo Regno desiderano. Se v'era chi sopra Italia avesse alcun diritto, era l'Imperador d'Oriente; ma Teodorico mandato da lui viene a conquistarla, ed a discacciarne l'invasore. Conquistata che l'ebbe colle proprie forze, gli viene da Zenone confermato l'Imperio, e per suo consiglio ed autorità dell'insegne regali s'adorna, e Re d'Italia è gridato, transfondendo nella sua persona i più supremi diritti. Nel che non vogliamo altri testimoni, che i Greci stessi, niente dico di Giornande, che come Goto potrebbe forse ad alcuni sembrar sospetto, niente d'Ennodio, quel Santo Vescovo di Pavia, che per la giustizia del suo Regno gli stese una orazione [345] panegirica[710]; vagliami Procopio[711] di nazione greca, il quale nella sua storia, siccome tanto si compiace de' suoi Greci, così a' Goti non fu molto favorevole: ecco ciò, ch'e' narra di questo fatto, secondo la traduzione di Grozio: At Zeno Imperator, gnarus rebus uti, ut dabant tempora, Theodorico hortator est, ut in Italiam iret, Odoacroque devicto, sibi ipse ad Gothis pararet Occidentis Regnum. Quippe satius homini in Senatum allecto, Romae, atque Italis imperare, Invasore pulso, quam arma in Imperatorem cum periculo experiri. Per la qual cosa i miserabili Goti, quando nel Regno di Teja ultimo loro Re furono costretti da Giustiniano a lasciar l'Italia, ricorrendo a' Francesi per aiuto, fra l'altre cose, che per movergli alla loro difesa poser loro innanzi gli occhi, fu il dire, che ciò, che i Romani allora facevano ad essi, avrebbono un dì fatto a loro altresì; poichè or che vedevan le loro forze abbattute, con ispeziosi pretesti moveano loro guerra, con dire, che Teodorico invase l'Italia, che a' Romani s'apparteneva: Cum tamen, essi dicevano appresso Agatia[712], Theodoricus non ipsis nolentibus, sed Zenonis quondam Imperatoris concessu venisset in Italiam, neque eam Romanis abstulisset, qui pridem eam amiserant, sed depulso Odoacro invasore peregrino, Belli jure quaesivisset quaecunque ille possederat.

E morto l'Imperador Zenone, Anastasio, che gli succedè nell'Imperio d'Oriente, portò gli stessi sentimenti del suo predecessore avendolo per giusto e legittimo Principe; poichè se bene appresso l'Anonimo [346] Valesiano, che fu fatto imprimere da Errico Valesio dopo Ammiano, rapportato da Pagi nella sua Dissertazione hypatica de Consulibus, si legga, che i Goti, morto nell'anno 493 Odoacre, sibi confirmaverunt Theodoricum Regem, non expectantes jussionem novi Principis (intendendo d'Anastasio, che allora era a Zenone succeduto) ciò che, come avverte Pagi[713], insino ad ora fu ignorato; nulladimanco dall'Epistole di Cassiodoro si vede, che Anastasio approvò poi ciò, che i Goti aveano per propria autorità fatto; anzi finchè visse, mantenne con Teodorico una ben ferma e sicura amicizia, esortandolo sempre, che amasse il Senato, abbracciasse le leggi de' Principi romani suoi predecessori, e proccurasse sotto il suo Regno mantener l'Italia unita in una tranquilla e sicura pace: di che Teodorico ne l'accertava con promesse e con effetti, come si vede dalle sue Epistole, che appresso Cassiodoro si leggono dirizzate ad Anastasio[714].

Giustiniano stesso, che discacciò i Goti d'Italia, non potè non riputar giusto e legittimo il Regno di Teodorico, e degli altri Re d'Italia suoi successori: poichè conquistata che l'ebbe per opera di que' due illustri Capitani, Belisario, e Narsete, abolì sì bene tutti gli atti, concessioni e privilegi di Totila da lui reputato invasore e Tiranno, ma non già quelli di questo Principe, e degli altri suoi successori[715].

(La subordinazione e riverenza nella quale furono i Re Goti agl'Imperadori d'Oriente, si convince apertamente dalle monete di questi Re, che si conservano ancora ne' più rinomati Musei d'Europa, nelle quali [347] in una parte si vede l'effigie degl'Imperadori, nell'altra non già imagine alcuna di Re Goto; ma solo i loro nomi, toltene alcune monete di rame forse per concessione avutane dagl'Imperadori, se ne vede anche l'effigie. Di quelle d'argento nel Museo cesareo di Vienna se ne veggono alcune, le quali da una parte hanno l'effigie dell'Imperadore Giustiniano, e dall'altra i nomi di questi Re: Athalaricus Rex. Theodatus Rex. Vitigis Rex. Baduela Rex. Il Bandurio le ha pure impresse; ed il Paruta porta anche una consimil moneta del Re Teia. Il dubbio che sorge, come Giustiniano permettesse a Baduela, che è lo stesso, che Totila, coniar monete colla sua imagine, ed il di lui nome, quando lo riputava invasore e Tiranno, viene sciolto dal Bandurio, al quale volentieri ci rimettiamo).

In fatti Teodorico, ancorchè non gli fosse piaciuto d'assumere il nome d'Imperadore, era in realtà da tutti i suoi Popoli tenuto per tale; e Procopio stesso dice, che niente gli mancava di quel decoro, che ad uno Imperador si conveniva; anzi Cassiodoro reputò, che questo nome stava assai più bene a lui, che a qualunque altro, ancorchè chiarissimo Imperador romano: ed in effetto questo Principe sia per riverenza degl'Imperadori d'Oriente, sia perchè Odoacre non prese altra qualità, che di Re, sia perchè queste Nazioni straniere riputassero più profittevole e vigoroso il titolo di Re, come dinotante una signoria affatto indipendente e libera, che quello d'Imperadore, non volle giammai assumere tal nome d'Imperadore di Occidente, come fece da poi Carlo M. E pure, o si riguardi l'estensione del dominio, o l'eminenti virtù, che l'adornavano, non meno, che Carlo M. sarebbe [348] stato meritevole di tal onore. Egli possedeva l'Italia con tutte le sue province, e la Sicilia ancora. Nè questa parte d'Europa solamente era sotto la sua dominazione. Tenne la Rezia, il Norico, la Dalmazia colla Liburnia, l'Istria, e parte della Svevia: quella parte della Pannonia, ove sono poste Sigetinez, e Sirmio: alcuna parte della Gallia, per la quale co' Francesi sovente venne all'armi, e per ultimo reggeva, come Tutore d'Amalarico suo nipote, la Spagna; tanto che Giornande[716] ebbe a dire: Nec fuit in parte Occidua gens, quae Theodorico, dum viveret, aut amicitia, aut subjectione non deserviret.

Non ancora in Occidente erasi introdotto quel costume, che i Re s'ungessero, ed incoronassero per mano de' Vescovi delle città metropoli. In Oriente cominciava già a praticarsi questa cerimonia; ed in questi medesimi tempi leggiamo, che Lione il Trace dopo essere stato dal Senato di Costantinopoli eletto Imperadore, fu incoronato da Anatolio Patriarca di quella città. Se questa usanza si fosse trovata introdotta in Italia, e fosse piaciuto a Teodorico portarsi in Roma a farsi incoronare Imperadore da Papa Gelasio, siccome fece Carlo M. con Papa Lione III, certamente che oggi pure si direbbe essere stato trasferito l'Imperio d'Occidente da' Romani ne' Goti per autorità della sede Apostolica romana.

[349]

§. II.  Leggi romane ritenute da Teodorico in Italia, e suoi editti conformi alle medesime.

Ma avvegnachè a questo Principe non fosse piaciuto assumere il nome d'Imperador d'Occidente, egli però resse l'Italia, e queste nostre province, non come Principe straniero, ma come tutti gli altri Imperadori romani. Ritenne le medesime leggi, i medesimi Magistrati, l'istessa politia, e la medesima distribuzione delle province. Egli divise prima gli Ostrogoti per le terre co' Capi loro, acciocchè nella guerra gli comandassero, e nella pace gli reggessero, ed eccetto che la disciplina militare, rendè a' Romani ogni onore. Comandò in prima, che le leggi romane si ritenessero, ed inviolabilmente s'osservassero, ed avessero quel medesimo vigore, ch'ebbero sotto gli altri Imperadori di Occidente; anzi fu egli di quelle cotanto riverente e rispettoso, che sovente appresso Cassiodoro in cotale guisa ne favella: Jura veterum ad nostrani cupimus reverentiam custodiri. Ed altrove: Delectamur jure Romano vivere; ed in altri luoghi: Reverenda legum antiquitas, etc.[717]. Laonde i Pontefici romani si rallegravano con Teodorico, che come Principe saggio e prudente avesse ritenuta la legge romana in Italia. Così Gelasio, secondo rapporta Gotofredo[718], ovvero Simmaco suo successore, secondo vuole Alteserra[719], si congratulava con Teodorico: Certe est magnificentiae [350] vestrae, leges Romanorum Principum, quas in negotiis hominum custodiendas esse praecepit, multo magis circa Beati Petri Apostoli Sedem pro suae felicitatis augumento, velle servari. E per questa cagione ne' primi cinque libri di Cassiodoro, che dell'Epistole e editti di Teodorico si compongono, non vedesi inculcar altro a' Giudici, ed a' Magistrati, che la debita osservanza e riverenza delle leggi romane: e moltissime costituzioni del Codice Teodosiano, e molte Novelle di Teodosio, di Valentiniano, e di Majoriano, in que' libri s'allegano, delle quali lungo catalogo ne tessè il diligentissimo Gotofredo ne' suoi Prolegomeni a quel Codice[720].

Nè altra fu l'idea di questo Principe, che mantenere il Regno d'Italia con quelle stesse leggi, e col medesimo spirito ed unione, con cui Onorio, Valentiniano III, e gli altri Imperadori d'Occidente l'aveano governato. Così egli se ne dichiarò con Anastasio Imperador d'Oriente: Quia pati vos non credimus inter utrasque Respublicas, quarum semper unum corpus sub antiquis Principibus fuisse declaratur, aliquid discordiae permanere; quas non solum oportet inter se otiosa dilectione conjungi, verum etiam decet mutuis viribus adjuvari. Romani Regni unum velle, una semper opinio sit[721]. Per la qual cosa da Teodorico nuove leggi in Italia non furono introdotte, credendo bastar le Romane, per le quali lungo tempo s'era governata. E se bene ancor oggi si legga un suo editto[722] contenente cento cinquanta quattro capi (il quale lo debbiamo alla diligenza di Pietro Piteo, che lo fece imprimere) [351] però, toltone alcuni capi, che del gotico rigore sono aspersi, come il capo 56, 61 ed alcuni altri, tutto il rimanente è tolto dalle leggi romane, siccome Teodorico stesso lo confessa nel fine del medesimo: Nec cujuslibet dignitatis, aut substantiae, aut potentiae, aut cinguli, vel honoris persona, contra haec, quae salubriter statuta sunt, quolibet modo credat esse veniendum, quae ex Novellis legibus, ac veteris juris sanctimonia pro aliqua parte collegimus. Nè vi è quasi capo del suddetto editto, che disponga cosa, la quale nelle leggi romane non si trovi. Onde sovente Teodorico per corroborar il suo comando, o divieto, alle medesime si rapporta. Così nel cap. 24 secundum legum veterum constituta: e nel cap. 26 secundum leges: e nel cap. 36 legum censuram, ed altrove.

Ma ciò, che rende più commendabile questo Principe fu, che volle eziandio, che queste leggi fossero comuni non solo a' Romani, ma a' Goti stessi, che fra i Romani vivevano, come è manifesto per questo suo editto, lasciando a' Goti poche leggi proprie, le quali, come più a loro usuali, più tosto lor proprie costumanze erano, che leggi scritte: ma in ciò ch'era di momento, come di successioni, di solennità, di testamenti, d'adozioni, di contratti, di pene, di delitti, ed in somma per tutto ciò, che s'appartiene alla pubblica e privata ragione, le leggi romane erano a tutti comuni. Nè altre leggi contendendo il Goto col Romano, o il Romano col Goto, volle che i Giudici riguardassero per decidere le loro liti, come espressamente Teodorico rescrisse ad un tal Gennaro Preside del nostro Sannio: Intra itaque Provinciam Samnii, si quod negotium Romano cum Gothis est, aut Gotho [352] emerserit aliquod cum Romanis, legum consideratione definias; nec permittimus discreto jure vivere, quos uno voto volumus vindicare[723]. Solamente quando le liti s'agitavan fra Goto e Goto volle, che si decidessero dal proprio Giudice, ch'egli destinava in ciascuna città, secondo i suoi editti, i quali, come s'è detto, ancorchè contenessero alcune cose di gotica disciplina, non molto però s'allontanavan dalle leggi romane; ma in ciò i Romani anche venivan privilegiati, poichè solo se la lite era fra Goto e Goto, poteva procedere il lor Giudice: ma se in essa occorreva, che v'avesse anche interesse il Romano, attore o reo che questi si fosse, doveva ricorrersi al Magistrato romano: ed in questa maniera era conceputa da Teodorico la formola della Comitiva, che si dava a coloro, che da lui erano eletti per Giudici de' Goti in ciascheduna provincia, rapportata da Cassiodoro nel settimo libro fra le molt'altre sue formole[724].

§. III.  La medesima politia, o Magistrati ritenuti da Teodorico in Italia.

Siccome somma fu la cura di Teodorico di ritenere in Italia le leggi romane, non minore certamente fu il suo studio di ritenere ancora l'istessa forma del governo, così per quel che s'attiene alla distribuzione delle province, come de' Magistrati e delle dignità. Egli ritrovando trasferita la sede imperiale da Onorio e Valentiniano suoi predecessori in Ravenna, che non a caso, e per allontanarsi da Roma, ivi la collocarono, ma per esser più pronti ed apparecchiati a reprimer [353] l'irruzioni de' Barbari, che per quella parte si inoltravan ne' confini d'Italia, ivi parimente volle egli fermarsi; onde le querele de' Romani erano pur troppo ingiuste e irragionevoli, quando di lui si dolevano, perchè in Ravenna, e non in Roma, avesse collocata la sua sede regia. Ben del suo amore inverso quella inclita città lasciò egli manifestissimi documenti, ornandola di pubbliche e chiare memorie della sua grandezza e regal animo, e della sua magnificenza, cingendola ancora di ben forti e sicure mura. Non fu minore il suo amore e riverenza verso il Senato romano, come ne fanno pienissima fede le tante affettuose epistole da lui a quel Senato dirizzate, piene d'ogni stima e rispetto, che si leggono presso a Cassiodoro. In Ravenna adunque, come avean fatto i suoi predecessori, collocò la sua regia sede; e quindi resse l'Italia, e queste nostre province, che ora compongono il Regno di Napoli, con quelli Magistrati medesimi, co' quali era stata governata dagl'Imperadori romani.

De' Magistrati e degli altri Ufficiali del palazzo e del Regno, ancorchè alcuni ne fossero stati sotto il suo governo nuovamente rifatti, e ne' nomi e ne' gradi qualche diversità vi si notasse, se ne ritennero però moltissimi, se non in tutto nella potestà e giurisdizione simili a quelli de' Romani, molti però nel nome ed assaissimi anche in realtà a' medesimi conformi. Si ritennero i Senatori, i Consoli, i Patrizj, il Prefetto al Pretorio, i Prefetti della città, ed i Questori. Si ritennero i Consolari, i Correttori, i Presidi, e moltissimi altri. Qualche mutazione solamente fu negli Ufficiali minori, essendo stata usanza dei Goti in ogni, benchè picciola città, mandare i Comiti, e particolari Giudici per l'amministrazione del [354] governo e della giustizia, e di creare alcuni altri Ufficiali, di cui nella Notizia delle dignità dell'Imperio è ignoto il nome.

Ma se in questo divario de' Magistrati introdotto da' Goti, vogliamo seguire il sentimento dell'accuratissimo Ugon Grozio, bisognerà dire, che in ciò fecero cosa assai più commendabile, che i Romani stessi; imperciocchè, e' dice, appresso a' Romani furon molti nomi di dignità affatto vani e senza soggetto: Multa apud Romanos ejusmodi inani sono constantia, Vacantium, Honorariorum, etc.[725]. All'incontro i Goti ebbero sentimenti contrarj, come si legge in Cassiodoro[726]: Grata sunt omnino nomina, quae designant protinus actiones, quando tota ambiguitas audiendi tollitur ubi in vocabulo concluditur, quid geratur. In oltre Grozio riflette, che i Romani mandando per ciascheduna provincia un Consolare, o un Preside, il qual dovesse avere il governo e la cura di tutte le città e castelli della provincia, molti de' quali eran assai distanti dalla sua sede: quindi avveniva, che non potendo il Preside esser presente in tutti que' luoghi, venivan perciò a gravarsi i provinciali d'immense e rilevanti spese, poichè bisognava ch'essi ricorressero a lui da parti remotissime. Presso a' Goti la bisogna in altro modo procedeva: avevan bensì le province i loro Consolari, i Correttori, ed i Presidi, nulladimeno non solamente alle più principali città, ma eziandio a ciascheduno, benchè piccolo castello, mandavansi i Comiti, o altri Magistrati inferiori, fedeli, incorrotti, e dal consentimento de' popoli approvati, acciocchè potessero [355] render loro giustizia, ed aver cura de' tributi, e altri bisogni di que' luoghi.

Tanto che questa disposizione di Magistrati, che oggidì ancora nel nostro Regno osserviamo, di mandarsi Governadori e Giudici ad ogni città, la dobbiamo non a' Romani, ma a' Goti.

E se ne' tempi nostri si praticassero que' rigori e quelle diligenze, che a' tempi di Teodorico usavansi nella scelta di tali Ministri, cioè di mandare uomini di conosciuta integrità e dottrina, e a' Popoli accettissimi, vietando perciò l'appellazioni ad altri Tribunali lontani, e sol permettendole, quando o la gravità degli affari, o una manifesta ingiustizia il richiedesse, certamente d'infinite liti, e di tanti gravi dispendj vedrebbonsi libere queste nostre province, ch'ora non sono. E per questa cagione presso a molti Scrittori tanto s'esagera il governo de' Popoli orientali ed affricani, che noi sovente nelle comuni querele sogliamo perciò invidiargli; perocchè questi non pur nelle città, ma in ogni piccolo castello hanno i lor Giudici sempre pronti ed apparecchiati, e le liti non tantosto sono fra essi insorte, che subito veggonsi terminate, rarissime volte, o non mai, ammettendo appellazioni; perchè la gente tenendo nella venerazione dovuta il Magistrato, a' suoi decreti tosto s'acqueta, e soffre più volentieri, che se le tolga la roba controvertita, che andar girando in parti lontane e remote con maggiori dispendj, e coll'incertezza di vincere, e sovente col timore di tornar a perdere; e stiman esser di loro maggior profitto, che ad essi s'usi una ingiustizia pronta e sollecita, che una giustizia stentata e tarda. Perciò Clenardo[727] avendo lasciata Europa, e in [356] Affrica nel regno di Feza ricovratosi, soleva a molti suoi amici europei scrivere, ch'egli non invidiava le magnificenze e grandezze di tante belle città, solamente perchè non dovea più nel Foro rivoltarsi tra tanta gente malvagia e piena di cavilli: nè ivi faceva uopo de' loquaci Causidici, ma se occorreva tra quegli Affricani qualche lite, era sempre presto il Giudice a deciderla, nè tornavan a casa i litiganti, se non terminato il litigio. Ma questo, nello stato delle cose presenti, è più tosto da desiderarsi, che da sperarsi; poichè il male è nella radice; oltracchè nell'elezione de' Magistrati non s'attendon più quelle prerogative, che forse in quei tempi, ch'ora noi chiamiamo barbari, accuratamente s'attendevano: ciò che allora era rimedio, presentemente in mortifero veleno si trasmuterebbe: giacchè fin da' tempi d'Alfonso I. Aragonese si trasfuse il male di concedere a' Baroni del Regno ogni giurisdizione ed imperio. E oggi sono più i governi, che si concedono da' medesimi, che quelli, che sono dal Re provveduti e la maggior parte del Regno è governata da essi nelle prime istanze; onde era espediente, che s'ammettessero que' tanti ricorsi a' Tribunali superiori che oggi giorno osserviamo; giacchè non potè praticarsi il disegno, che Carlo VIII, Re di Francia, in que' pochi mesi, che tenne questo Regno, avea conceputo, di togliere a' Baroni ogni giurisdizione ed imperio, e ridurgli a somiglianza di quelli di Francia, e dell'altre province d'Europa[728].

Ma ritornando onde siamo dipartiti, i Goti, secondo [357] che ci rappresentano i libri di Cassiodoro, furon molto avvertiti nella scelta de' Magistrati, e non meno nell'elezione de' maggiori Ufficiali, che in quella de' minori, che mandavano in ciascuna città, ponendovi ogni lor cura e diligenza: quindi presso a Cassiodoro leggiamo tanti nuovi Ufficiali, i Cancellieri, i Canonicarj, i Comiti, i Referendarj; e le tante formole, colle quali eran tante e sì varie dignità conferite a' soggetti di conosciuta bontà e dottrina. Pietro Pantino[729] scrisse un non dispregevol libro delle dignità della Camera gotica: ma come fu osservato da Grozio[730], senza la costui fatica e diligenza, ben potevano quelle ravvisarsi e comprendersi dal libro sesto e settimo di Cassiodoro, ove tutte queste dignità ci vengono rappresentate e descritte.

§. IV.  La medesima disposizione delle province ritenuta in Italia dal Re Teodorico.

Ritenne ancora questo Principe la stessa divisione delle province, che sotto l'Imperio di Costantino, e de' suoi successori componevano l'Italia: era ancora il medesimo numero di quel d'Adriano: ed in diciassette eran ancora distinte, nè ciò, ch'ora appelliamo Regno di Napoli, in più province fu partito: quattro ancora furono sotto la dominazione di Teodorico. I. la Campagna. II. la Calabria colla Puglia. III. la Lucania, e' Bruzj. IV. il Sannio. Alla provincia della Campagna furono mandati, come prima, i Consolari a governarla: [358] all'altre due di Calabria, e Lucania i Correttori; ed al Sannio i Presidi.

Della Campagna, e suoi Consolari.

Il primo Consolare della Campania, che ne' cinque libri di Cassiodoro[731] s'incontra, fu un tal Giovanni, a cui Teodorico mandò una epistola, nella quale tanto gli raccomandava la giustizia, e la cura della pubblica utilità, decorandolo col titolo di Viro Senatori, come dall'iscrizione: Joanni V. S. Consiliari Campaniae, Theod. Rex. A questo stesso Giovanni indirizzò Teodorico quel suo editto, che presso a Cassiodoro[732] anche si legge, per cui fu severamente proibita quella pessima usanza, che nella Campania e nel Sannio erasi introdotta, che il creditore senza pubblica autorità, ma per privata licenza si prendeva la roba del debitore per pegno, nè la restituiva, se del suo credito non fosse stato soddisfatto; anzi sovente si prendeva la roba non del debitore, ma d'un suo amico, vicino, o congiunto, che in Italia son chiamate Rappresaglie: si vietò tal costume severamente, e s'impose pena della perdita del credito, e di restituire il doppio, nel caso, che si fosse fatta rappresaglia non al debitore, ma all'amico, o congiunto. Zenone Imperadore quest'istesso avea comandato per l'Oriente con una sua consimile costituzione[733]: onde Teodorico, che intendeva reggere l'Italia colle medesime massime, volle anche in ciò imitarlo: Giustiniano poi lo ripetè nelle sue Novelle[734]. Nè [359] volle mai Teodorico permettere, che s'usassero simili violenze nel suo Regno, ma che i creditori, secondo che parimente dettavano le leggi romane, per vie legittime di pubblici giudizj, sperimentassero le loro ragioni.

Trovandosi questo Principe esausto a cagion delle guerre sostenute alcun tempo co' Francesi, ebbe necessità di far da questa provincia proveder di vettovaglie i suoi eserciti; e si legge perciò un altro suo editto[735], imponendo a' Navicularj della Campagna, che trasportassero que' viveri nelle Gallie. Meditava ancora d'imporle altri pesi; ma orando a pro di questa provincia Boezio Severino[736], e ponendogli avanti gli occhi le tante sue miserie, e le tante afflizioni e desolazioni, che per l'invasione de' Vandali aveva patite, clementissimamente Teodorico le concedè ogni indulgenza, nè di nuovi pesi volle maggiormente caricarla; anzi avendo i Campani, e particolarmente i Napoletani ed i Nolani, per l'irruzione del Vesuvio accaduta in questi tempi, patiti danni gravissimi, concedè a' medesimi indulgenza anche de' soliti tributi, come scorgesi presso a Cassiodoro in quell'altro suo editto[737], nel quale con molto spirito e vivezza si descrivono i fremiti, l'orride nubi, ed i torrenti di fuoco, che suole mandar fuori quel monte. Cassiodoro è maraviglioso in simili descrizioni, ma quel che non se gli può condonare, è, che oltre al valersi d'alcune ardite iperboli, e d'alcune metafore soverchio licenziose, introduce in sì fatta guisa a parlar Teodorico, che non saprebbesi scernere, se voglia ordinar leggi, [360] e dar providenza a' bisogni delle sue province, come era il suo scopo, o pure voglia far il declamatore, introducendolo sovente a parlare in una maniera, che non si comporterebbe nè anche a' più stravolti Panegiristi de' nostri tempi.

Aveva veramente la Campania, quando Gezerico dall'Affrica si mosse con potente armata ad invadere l'Italia, patiti danni insopportabili. Fu allora da' Vandali aspramente trattata, devastando il suo paese, e Capua, ch'era la sua metropoli, fu barbaramente saccheggiata, e poco men, che distrutta. Queste stesse calamità sofferirono Nola e molte altre città della medesima. Napoli solamente per cagion del suo sito fu dal furor di quei Barbari esente: città allora, ancorchè piccola, ben difesa però dal valore de' suoi cittadini, dal sito, e più dalle mura forti, che la cingevano. E per questa varia fortuna, che sortirono, avvenne da poi, che molte città di queste nostre province da grandi si fecion picciole, e le picciole divennero grandi; quindi avvenne ancora, che ruinata Capua e molte città di questa provincia, Napoli cominciasse piano piano ad estollersi sopra tutte l'altre, e ne' tempi dei Greci e Longobardi si rendesse capo d'uno non picciol Ducato.

Ne' tempi di Teodorico, niuna altra città di questa provincia leggiamo, che si fosse rallegrata cotanto dell'imperio di questo Principe, quanto Napoli; nè altra, che avesse con tanti e sì cospicui segni di fedeltà e di stima mostrata la sua divozione ed ossequio verso di lui. Assunto che fu Teodorico nel Trono, gli eressero i Napoletani nella maggiore lor piazza una statua, quella, che da poi s'ebbe per infausto presagio dell'infelice fine della dominazione de' Goti in Italia; [361] poichè, come narra Procopio[738], avevan i Napoletani innalzata a Teodorico questa statua composta, con maraviglioso artificio, di picciole petruzze di color vario, e così bene tra lor commesse, che al vivo rappresentavano l'effigie di quel Principe. Essendo ancor vivente Teodorico si vide il capo di questa statua da se cadere, disciogliendosi quel compaginamento di pietruzze, che lo formavano: e non guari da poi si seppe in Napoli la morte di questo Principe, ed in suo luogo esser succeduto Atalarico suo nipote. Passati otto anni del Regno di costui, si videro in un subito da loro scomporsi quelle, che formavan il ventre; e nell'istesso tempe s'intese la morte d'Atalarico. Non molto da poi caddero l'altre, che componevan le parti genitali, ed insieme s'ebbe novella della morte d'Amalasunta figliuola di Teodorico. Ma quando ultimamente si vide Roma assediata da' Goti per riprenderla, ecco, che vanno a terra tutte quell'altre, che le coscie e i piedi formavano, e tutta cadde da quel luogo, dove era collocata: dal qual fatto conghietturarono i Romani, dover l'esercito dell'Imperadore d'Oriente rimaner superiore, interpretando, per li piedi di Teodorico non denotarsi altro, che i Goti, a' quali egli avea imperato; e questo vano e ridicolo presagio fu di tanta forza appresso le genti volgari, le quali soglionsi muovere più per si fatte cose, che per qualunque più culta diceria di Capitano, che fattesi ardite, presero non leggiera speranza della vittoria. Nel che parimente giovaron certi versi Sibillini, posti fuori da alcuni Senatori romani, molto adattati ad imposturar la gente, il senso de' quali, come ponderò assai bene Procopio, [362] prima dell'esito delle cose non potea in veruno conto capirsi per intelletto umano; poichè que' versi eran cotanto disordinati e confusi, e veramente fanatici, che sbalzando da' mali dell'Affrica alla Persia, indi fatta menzione de' Romani, passavan poi a parlar degli Assirj: ritornavan a favellar de' Romani, e poi a cantar delle calamità de' Britanni: quando poi si vedeva il successo, allora si ponevano in opera mille graziose interpretazioni, e scoprivano per l'evento seguito il senso degli oscuri e fantastici versi.

Ma ritornando al nostro proposito, fu Napoli a Teodorico molto fedele e divota: ed all'incontro questo gratissimo Principe trattò i Napoletani con non minori segni d'amore e di gratitudine: nè picciolo segno di stima dee riputarsi quello, che tra le formole delle Comitive del primo ordine, che da Teodorico solevan darsi a coloro, a' quali egli commetteva il governo di qualche illustre città, si legga ancora appresso Cassiodoro[739] quella destinata per Napoli; poichè questo Autore le formole solamente rapporta, che a' personaggi destinati al governo di qualche famosa città si solevan dare, non già quelle delle minori. Leggonsi solo quelle della città di Siracusa, di Ravenna, di Roma, ed altri luoghi cospicui: per le altre città minori una generale solamente se ne legge adattata per tutte; e le Comitive, che davansi per lo governo di queste, non eran del primo, ma del secondo ordine, com'è manifesto dalla formola stessa appresso Cassiodoro[740]. Nè si tralasciano nella Comitiva (oppure se ci aggrada nomarla col linguaggio de' nostri tempi, Cedola, ovvero Patente) le prerogative [363] di questa città, le sue delizie, la sua eccellenza, quanto sia decoroso l'impiego, quanto ampia l'autorità e giurisdizione, che se gli concede; e quanto pieno di maestà il suo Tribunale: ella è chiamata[741]: Urbs ornata multitudine Civium, abundans marinis, terrenisque deliciis: ut dulcissimam vitam te ibidem invenisse dijudices, si nullis amaritudinibus miscearis: Praetoria tua officia replent, militum turba custodit. Conscendis gemmatum Tribunal, sed tot testes pateris, quot te agmina circumdare cognoscis. Praeterea litora, usque ad praefinitum locum data jussione custodis. Tuae voluntati parent peregrina commercia. Praestas ementibus de pretio suo, et gratiae tuae proficis, quod avidus mercator acquirit. Sed inter haec praeclara fastigia, optimum esse Judicem decet, etc. Nè minori sono l'affettuose dimostranze, che da questo Principe eran espresse nella lettera solita darsi al provisto, scrivendo alla città di Napoli in commendazione del medesimo; la formola della quale pur la dobbiamo a Cassiodoro[742]; e da essa può anche raccorsi, che Teodorico lasciasse a' Napoletani quell'istessa forma di governo, ch'ebbero ne' tempi de' Romani, cioè d'aver la Curia, o Senato, come prima, dove degli affari di quella città per quel che s'attiene alla pubblica annona, al riparo delle strade, ed altre occorrenze riguardanti il governo della medesima, avessero cura: e solamente loro togliesse il poter da' Decurioni eleggere i Magistrati, i quali quella giurisdizione avessero, che concedeva egli al Governadore, o Comite, che vi mandava. Ebbe ancora questa provincia il suo Cancelliero, la cui carica e funzioni ci sono rappresentate [364] da Cassiodoro nell'undecimo e duodecimo libro delle sue Opere[743].

Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori.

Siccome non volle Teodorico mutare il governo della Campagna ne' Magistrati superiori, lasciando i Consolari in essa, come ebbe sotto i Romani: così nè meno piacque al medesimo mutarlo nella provincia della Puglia e Calabria. Non divise egli, intorno al governo, la Puglia dalla Calabria, nè mutarono queste province nomi, come ne' tempi che seguirono, furon variati: sotto un solo Moderatore furon amministrate, ancorchè al governo di ciascuna città, particolari Comiti, o sia Governadori mandasse, secondo la commendabile usanza de' Goti.

Il Primo Moderatore della Puglia e Calabria, che ne' primi cinque libri di Cassiodoro s'incontra, fu un tal Festo, ovvero Fausto, come altri leggono; a costui si vede da Teodorico indirizzata quell'epistola[744], per la quale si concede a' pubblici Negoziatori della Puglia e Calabria la franchigia de' dazi e gabelle, e sono da notarsi i speziosi e decorosi titoli co' quali Teodorico tratta questo Ministro.

Tenne Teodorico particolar cura di questa provincia, e de' suoi campi, e molte salutari providenze egli vi diede, come in più luoghi appresso Cassiodoro potrà osservarsi[745]. Fra le città della Puglia più cospicue fu un tempo Siponto, che ora delle sue alte ruine appena serba alcun vestigio: città quanto antica, [365] altrettanto nobile e potente, tanto che i suoi Sipontini ne' seguenti tempi poteron sostenere lunghe guerre co' Napoletani e co' Greci, come nel suo luogo diremo. Dalle comuni calamità, che per l'irruzione dei Vandali, e per la tirannide d'Odoacre travagliarono l'Italia, non restò libera questa città: furono i suoi cittadini in que' tre, ultimi anni di guerra, che Odoacre sostenne con Teodorico, per essersi renduti i Sipontini a questo Principe, crudelmente da Odoacre trattati, ed i loro campi devastati, tanto che i Negozianti sipontini in grand'estremità ridotti, ricorsero alla clemenza di Teodorico, chiedendogli l'immunità de' tributi, e qualche dilazione per li loro creditori: fu loro per tanto pietosamente da questo Principe conceduto, che per due anni non potessero esser travagliati per li tributi, nè molestati da' loro creditori, come da un'altra epistola diretta al suddetto Fausto Moderatore di questa provincia, o pure, come altri leggono, ad Atemidoro, si scorge presso al Senatore[746].

Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori.

Siegue la provincia della Lucania e de' Bruzj, intorno al cui governo niente ancora fu da Teodorico variato. Si ritennero i Correttori, nè i Bruzj da' Lucani furon divisi, ma sotto un sol Moderatore, come prima, rimasero. Reggio fu la lor sede, ond'è, che appresso Cassiodoro[747] si raccomandano i cittadini di questa città ad Anastasio Cancelliero della Lucania e de' Bruzj, e l'origine del nome di Reggio è descritta: [366] Rhegienses cives, ultimi Brutiorum, quos a Siciliae corpore violenti quondam maris impetus segregavit, unde Civitas eorum nomen accepit; divisio enim ῥῆγησις Graeca lingua vocitatur etc.

Non dee riputarsi picciol pregio di questa provincia l'avere avuto ne' tempi di Teodorico per suo Correttore Cassiodoro medesimo, che fu il primo personaggio di questa età, cui Teodorico profusamente cumulò di tutte le dignità, che dalla sua regal mano potevan dispensarsi. Nel principio del suo Regno, essendo le cose della Sicilia, per lo nuovo dominio, ancora fluttuanti, fu trascelto Cassiodoro al governo di quell'isola. Indi dato bastante saggio degli altissimi suoi talenti, nella Lucania e ne' Bruzj per Correttore di questa provincia fu mandato. Non molto da poi alla dignità di Prefetto Pretorio fu assunto, e finalmente al supremo onore del Patriziato fu da Teodorico promosso[748], come per la formola, che Cassiodoro stesso ne' suoi libri ci propone, è manifesto[749]; dalla quale par che possa senza dubbio ricavarsi, come il Barrio, Fornerio, Romeo, e moltissimi altri Autori scrissero[750], essere stata il Bruzio, e propriamente Squillace patria di sì nobile spirito, e che al suo terreno debba darsi tutto il vanto d'aver pianta sì nobile prodotta, come anche da quelle parole di Teodorico si raccoglie: Sed non eo praeconiorum fine contenti, Brutiorum, et Lucaniae tibi dedimus mores regendos: ne bonum, quod peregrina Provincia (intendendo della Sicilia) meruisset, genitalis soli fortuna nesciret.

[367]

Fu dopo Cassiodoro, sotto questo stesso Principe, Correttore della Lucania e de' Bruzj Venanzio, al quale Teodorico scrisse quell'epistola, in cui l'esazion de' tributi di questa provincia gl'incarica; così appresso Cassiodoro leggiamo[751]: Venantio Viro Senatori Correctori Lucaniae, et Brutiorum, Theod. Rex. Di questo stesso Venanzio fassi da Teodorico onorata menzione in quel suo editto[752] indirizzato ad Adeodato, dove si legge: Viri spectabilis Venantii Lucaniae, et Brutiorum Praesulis[753] e del Correttore di questa provincia pur nel capo seguente presso a Cassiodoro fassi menzione, come da quelle parole: Corrector Lucaniae, Brutiorumque. Tenne ancora la Lucania, e' l Bruzio il suo Cancelliero, come può vedersi appresso Cassiodoro[754].

A' Navicularj della Lucania, siccome a quelli della Campagna, ancora fu da Teodorico comandato il trasporto delle vettovaglie in Francia, come si legge appresso il Senatore[755]. Nè da Atalarico suo nipote fu questa provincia trascurata. Egli diede opportuni provvedimenti, perchè una gran fiera, che si faceva in questi tempi, e dove concorreva molta gente di tutte l'altre province, ed una gran festività, che si celebrava nel dì di S. Cipriano, non fosse disturbata: donde fu data occasione a Cassiodoro[756], come altrove[757] fece del fonte Aretusa posto nel territorio di Squillace, di descriverci il maraviglioso fonte Marciliano, ch'era nella Lucania, ed impiegare nella descrizione del medesimo, secondo il solito stile, tutte le sue arditezze [368] ed iperboli: e quel ch'è più, ponendole in bocca d'un Principe, che non aveva altro scopo, che con severi editti proibire, che tanta celerità non fosse da' rei, e perversi uomini disturbata.

(Il fonte Marciliano in Lucania descritto da Cassiodoro Lib. 8 Ep. 33 era vicino alla città chiamata Cosilina, oggi distrutta, la quale avea un sottoborgo, chiamato Marciliano, dove poi andò ad abitare il Vescovo, onde promiscuamente fu da poi nominato, ora Episcopus Marcellianensis, ora Cosilinus. Ecco come ne parla Ostenio nelle note a Carlo S. Paolo in Lucania, et Brutia: Cosilianum antiquissima Lucaniae Civitas. Cassiodor. var. lib. 8 Ep. 33. Suburbicum habuit Marcilianum, sive Marcellianum, unde Marcellianensis Episcopus, et Cosilinus promiscue dicebatur. Contrastano i vicini abitatori per appropriarsene i ruderi; e chi vuole, che sian quelli, onde sorse la città di Marsico, altri pretendono, che da que' ruderi fosse sorta, non già Marsico, ma la città di Sala).

Del Sannio, e suoi Presidi.

Viene in ultimo luogo il Sannio, provincia, siccome appo i Romani, così ne' tempi di Teodorico, non decorata d'altro, che di Preside. In questa provincia si legge presso a Cassiodoro[758] essersi da Teodorico mandato a preghiere de' Sanniti un tal Gennaro, ovvero come altri[759] leggono, Sunhivado per lor Moderatore e Giudice, imponendosegli, che accadendo litigio nella medesima tra' Romani con Goti, ovvero fra' Goti con Romani, dovesse secondo le leggi romane diffinirlo; [369] non volendo egli permettere, che sotto varie e diverse leggi i Romani co' Goti vivessero, le cui parole già furon da noi, ad altro proposito, recate. Ebbe anche questa provincia i suoi Cancellieri, come è chiaro appresso Cassiodoro[760]; e del Sannio pur altrove[761] fassi da Teodorico memoria; tanto che non v'è stata provincia di quelle, che ora compongon il nostro Regno, che, per le memorie, che a noi sono rimase di questo Principe, le quali tutte fra gli altri Scrittori le dobbiamo a Cassiodoro, non si vegga da Teodorico providamente amministrata e dati giusti ed opportuni rimedi per lo governo loro.

§. V.  I medesimi Codici ritenuti, e le medesime condizioni delle persone, e de' retaggi.

Quindi può distintamente conoscersi, che le nostre province, estinto l'Imperio romano d'Occidente, ancorchè passassero sotto la dominazione de' Goti, non sentirono quelle mutazioni, che regolarmente ne' nuovi dominj di straniere genti soglion accadere. Non furon in quelle nuove leggi introdotte, ma si ritennero le romane, e la legge comune de' nostri provinciali fu quella de' Romani, ch'allora ne' Codici Gregoriano, Ermogeniano, e sopra ogni altro nel Codice di Teodosio, e nel Corpo delle Novelle di questo Imperadore, di Valentiniano, Marziano, Magioriano, Severo, ed Antemio suoi successori si contenevano: ed a' libri di quelli Giureconsulti, che Valentiniano trascelse, era data piena autorità e forza.

Non s'introdusse nuova forma di governo, e si ritennero [370] i medesimi Ufficiali; nè la variazione de' Magistrati fu tanta, che non si ritenessero le dignità più cospicue e sublimi. Poichè l'idea di Teodorico, e poi del suo successore Atalarico fu di reggere l'Italia, e queste nostre province col medesimo spirito e forma, colla quale si resse l'Imperio sotto gl'Imperadori; ed è costante opinione de' nostri Scrittori, che le cose d'Italia sotto il suo Regno furon più quiete e tranquille, che ne' tempi degli ultimi Imperadori d'Occidente, e ch'egli fosse stato il primo, che facesse quietare tanti mali e disordini.

Quindi è avvenuto, che ancor che queste nostre province passassero da' Romani sotto la dominazione de' Goti, non s'introducessero, siccome nell'altre province dell'Imperio romano, quelle servitù ne' Popoli, che passati sotto altre Nazioni sofferirono. Così quando la Gallia fu conquistata da' Franzesi, fu trattata come paese di conquista; essendo cosa certa, che si fecero signori delle persone e de' retaggi di quella, cioè si fecero signori perfetti, così nella signoria pubblica, come nella proprietà e signoria privata[762]: ed in quanto alle persone, essi fecero i naturali del paese servi, non già di un'intera servitù, ma simili a quelli, che i Romani chiamavan Censiti, ovvero Ascrittizj, o Coloni addetti alla gleba[763]. Non così trattaron i Goti l'Italia, la Sicilia, e queste nostre province, ma lasciaron intatta la condizione delle persone, poichè non gli governava un Principe straniero, ma un Re, che si pregiava di vivere alla romana, e di serbare le medesime leggi ed instituti de' Romani. Furon [371] bensì in molti villaggi delle nostre province di questi Ascrittizj, e Censiti (siccome vi furon anche de' servi, perchè a' tempi de' Goti l'uso de' medesimi non s'era dismesso[764]) ma quelli stessi, loro discendenti, in quella maniera, che prima si tenevano dai Romani, e di essi ci restano ancora molti vestigi nei Codici di Teodosio e di Giustiniano, che poi i secoli seguenti chiamaron angarj e parangarj[765]. Ciò che si conferma per un avvenimento rapportato da Ugone Falcando in Sicilia a' tempi del Re Guglielmo II, poichè essendo i cittadini di Caccanio ricorsi al Re contra Giovanni Lavardino franzese, il quale affliggeva i terrazzani, con esigere la metà delle loro entrate, secondo che diceva esser la consuetudine delle sue terre in Francia; e riportate queste querele al G. Cancelliero, ch'era allora Stefano di Parzio, perchè questi era ancor egli franzese, lasciò la cosa senza provvedimento, onde i suoi nemici gli concitarono l'odio di tutti i Siciliani, e di molti cittadini e terrazzani, gridando, ch'essi eran liberi, e che non dovea permettere, secondo l'uso di Francia: Ut universi Populi Siciliae redditus annuos, et exactiones, solvere cogerentur juxta Galliae consuetudinem, quae cives liberos non haberet.

Ed in quanto a' retaggi e terre della Gallia, i Franzesi vittoriosi le confiscaron tutte, attribuendo allo Stato l'una e l'altra signoria di quelle[766]. E fuori di quelle terre, che ritennero in dominio del Principe, distribuiron tutte l'altre a' principali Capi e Capitani [372] della loro Nazione; a tal uno dando una provincia a titolo di Ducato; ad un altro un paese di frontiera a titolo di Contea; e ad altri de' castelli e villaggi con alcune terre d'intorno a titolo di Baronia, Castellania, o semplice Signoria, secondo i meriti particolari di ciascheduno, ed il numero de' soldati, ch'aveva sotto di se; poichè davansi così per essi, che per li loro soldati. Non così fecero i Goti in Italia, ed in queste nostre province, poichè si lasciarono le terre a loro posseditori, nè s'inquietò alcuno nella privata signoria de' loro retaggi: e le province e le città eran amministrate da' medesimi Ufficiali, che prima, secondo che si governavano sotto l'Imperio di Valentiniano e degli altri Imperadori d'Occidente suoi predecessori. Nè in Italia, ed in queste nostre province l'uso de' Feudi, e de' Ducati e Contadi fu introdotto, se non nel Regno de' Longobardi, come diremo nel quarto libro di questa Istoria.

§. VI.  Insigni virtù di Teodorico, e sua morte.

Fu veramente Teodorico di tutte quelle rade e nobili virtù ornato, che fosse mai qualunque altro più eccellente Principe, che vantassero tutti i secoli. Per la sua pietà e culto al vero Iddio, fu con immense lodi celebrato da Ennodio Cattolico, Vescovo di Pavia. E se bene istrutto nella religione cristiana, i suoi Dottori gliela avessero renduta torbida e contaminata per la pestilente eresia d'Arrio, siccome fecero a tutti i Goti; questa colpa non a' Goti dee attribuirsi, ma a' Romani stessi, e spezialmente all'Imperadore Valente, che mandando ad istruir questa Nazione nella religione cristiana, vi mandò Dottori Arriani; tanto [373] che Salviano[767], quel Santo Vescovo di Marsiglia, nomò questa loro disgrazia, fallo non già de' Goti, ma del Magisterio romano, e testifica questo Santo Vescovo, che nel medesimo lor errore non altro fu da essi riguardato, se non che il maggior onore di Dio: e per questa pia loro credenza ed affetto, non dover essere i Goti reputati indegni della fede cattolica, i quali, comparate le lor opere con quelle de' Cattolici, di gran lunga eran a costoro in bontà e giustizia superiori, o si riguardi la venerazione delle Chiese, o la fede, o la speranza, o la carità verso Dio; quindi è che Socrate[768], Scrittore dell'Istoria Ecclesiastica, a molti Goti, che per la religione furono da' Pagani uccisi, dà il titolo di Martiri, come quelli, che con semplice e divoto cuore eransi a Cristo lor Redentore dedicati. E se per altrui colpa incorsero i Goti in quest'errore, ben fu questa macchia tolta e compensata col merito di Riccaredo del loro sangue, che purgò dall'Arrianesmo tutta la Spagna.

E fu singular pietà de Goti, e di Teodorico precisamente d'astenersi da ogni violenza co' suoi sudditi intorno alla religione, nè perchè essi eran dei dogmi Arriani aspersi, proibiva perciò a' suoi Popoli di confessar la fede del gran Concilio di Nicea[769]; anzi Teodorico in tutto il tempo, che resse l'Italia e queste nostre province, non pure lasciò inviolata ed intatta la religione cattolica a' suoi sudditi, ma si permetteva ancor a' Goti stessi, se volessero dall'Arrianesmo passare alla fede di Nicea, che liberamente fosse a lor lecito di farlo.

[374]

Maggiore rilucerà la pietà di questo Principe, in considerando, che della cattolica religione, ancorchè da lui non professata, ebbe egli tanta cura e pensiero, che non permetteva, che al governo della medesima s'eleggessero, se non Vescovi di conosciuta probità e dottrina, de' quali fu egli amantissimo e riverente: di ciò presso a Cassiodoro[770] ce ne dà piena testimonianza il suo nipote stesso Atalarico: Oportebat enim arbitrio boni Principis obediri, qui sapienti deliberatione pertractans, quamvis in aliena Religione, talem visus est Pontificem delegisse, ut agnoscatis illum hoc optasse, praecipue quatenus bonis Sacerdotibus Ecclesiarum omnium Religio pullularet.

Quindi avvenne, come Paolo Varnefrido, e Zonara raccontano[771], ch'essendo nato ne' suoi tempi quel grave scisma nella Chiesa romana, tosto fu da lui tolto col convocamento d'un Concilio, e le cose restituite in una ben ferma e tranquilla pace. Si leggon ancora di questo Principe rigidissimi editti, come similmente d'Atalarico suo nipote, per li quali severamente vengon proibite tutte quelle ordinazioni di Vescovi, che per ambizione, o interveniente denaro si facessero, annullandole affatto, e di niun momento e vigore riputandole[772]; siccome più distesamente diremo, quando della politia ecclesiastica di questo secolo favelleremo. E pur di Teodorico si legge, che quantunque nudrisse altra religione, volle che i Vescovi cattolici per lui porgessero calde preghiere a Dio, delle quali sovente credette giovarsi. Per la qual cosa non dee parere strano, siccome dice Grozio, che [375] Silverio Vescovo cattolico romano fosse stato a' Greci sospetto, quasi che volesse e desiderasse più la Signoria de' Goti in Italia, che quella de' Greci stessi.

Ed alla pietà di questo Principe noi dobbiamo, che queste nostre province, ch'ora formano il Regno di Napoli, ancorchè sotto la dominazione de' Goti Arriani poco men che 70 anni durassero, non fossero di quel pestilente dogma infestate, ma ritenessero la cattolica fede, così pura ed intatta, come i loro maggiori l'avevan abbracciata, e che potè poi star forte e salda alle frequenti incursioni de' Saraceni, che nei seguenti tempi l'invasero e le combatterono: imperocchè piacque a Teodorico non pur lasciarla così stare, come trovolla, ma di favorirla, ed esser eziandio della medesima custode e difensore: dal cui esemplo mossi Atalarico, e gli altri Goti suoi successori, si fece in modo, che durante il loro dominio, non restò ella nè perturbata nè in qualunque modo contaminata.

Della giustizia, umanità, fede, e di tutte l'altre più pregiabili e nobili virtù di questo Principe, non accade, che lungamente se ne ragioni: Cassiodoro nei suoi libri ci fa ravvisare una immagine di Regno così culto, giusto e clemente, che a ragione potè Grozio[773] dire: planeque si quis cultissimi, clementissimique Imperii formam conspicere voluerit, ei ego legendas censeam Regum Ostrogothorum Epistolas, quas Cassiodorus collectas edidit. Onde non senza cagione potevan i Goti appresso Belisario vantarsi di questa lode[774]: nè senza ragione Teodorico stesso potè dire: [376] Aequitati fave: eminentiam animi virtute defende, ut inter nationum consuetudinem perversam, Gothorum possis demonstrare justitiam: ed altrove: Imitamini certe Gothos nostros, qui foris praelia, intus norunt exercere justitiam. E fu cotanto lo studio e la cura di questo Principe nel reggere i suoi sudditi con una esatta e perfetta giustizia, che si dichiarò co' medesimi volersi portar con esso loro in modo, che si dolessero più tosto d'esser così tardi venuti sotto l'imperio de' Goti. Procopio ancorchè Greco, non può non innalzare queste regie ed insigni sue virtù: egli custode delle leggi; giusto nell'assegnare i prezzi all'annona; esatto ne' pesi e nelle misure; e nell'imporre tributi, fu maravigliosa la sua equabilità, e sovente per giuste cagioni era pronto a rimettergli: se i suoi eserciti in passando danneggiavan i paesani, soleva Teodorico ai Vescovi mandare il denaro per risarcirgli de' patiti danni: se v'era bisogno di materia per fabbricar navi o di munire d'altra guisa i suoi campi, pagava immantenente il prezzo: egli liberalissimo co' poveri, e la maggior parte del suo regal impiego era il sovvenimento e la cura de' pupilli e delle vedove, di che chiara testimonianza ce n'ha data Cassiodoro.

La moderazione di questo Principe, da' suoi fatti di sopra esposti è pur troppo nota: e' potendo far passare i vinti sotto le leggi de' Goti vincitori, volle, che colle leggi proprie, colle quali eran nati e nudriti, vivessero. Permise, che sotto il suo Regno Roma fosse dallo stesso romano Senato governata: che giudicasse il Romano tra' Romani: tra' Goti e Romani, il Goto ed il Romano. Che quella religione ritenessero ch'avevan succhiata col latte[775], avversissimo d'introdurre [377] novità, come quelle, che sogliono essere sempremai alle Repubbliche perniziosissime, e cagione di molti e gravi disordini.

La sua temperanza fu da Ennodio chiamata modestia sacerdotale: ei secondo l'usanza della sua Nazione parchissimo ne' cibi, e molto più sobrio nelle vesti. Nel suo Regno i Goti si mantennero continentissimi e casti, nè fu insidiata la pudicizia delle donne: Quae Romani polluerant fornicatione dice Salviano[776], mundant Barbari castitate: ed altrove: Impudicitiam nos diligimus, Gothi execrantur, puritatem nos fugimus, illi amant. Vivevan di cibi semplicissimi, di pane, di latte, di cascio, di butirro, di carne, e sovente cruda, macerata solamente nel sale. Tralascio per brevità le sue virtù regie: infin oggi s'ammirano in Roma ed in Ravenna i monumenti della sua magnificenza negli edificj, negli acquedotti ed in altre splendide opere. Dal corso de' suoi fatti egregi, incominciando dalla puerizia, è pur troppo noto il suo valore, la fortezza, la sua magnanimità, il suo sublime spirito, ed il suo genio sempre a grandi e difficili imprese prontissimo. Principe e nella guerra e nella pace espertissimo, donde nell'una fu sempre vincitore, e nell'altra beneficò grandemente le città, ed i Popoli suoi: e la virtù sua giunse a tanto, che seppe contenere dentro a' termini loro, senza tumulto di guerre, ma solo con la sua autorità, tutti i Re barbari occupatori dell'Imperio. E per restituire l'Italia nell'antica pace e tranquillità, molte terre e fortezze edificò infra la punta del mare Adriatico e l'Alpi, per impedire più facilmente il passo a' nuovi Barbari, [378] che volessero assalirla. Tanto ch'è costantissima opinione di tutti gli Scrittori, che mediante la virtù e la bontà sua, non solamente Roma ed Italia, ma tutte l'altre parti dell'occidental Imperio libere dalle continue battiture, che per tanti anni da tante inondazioni di Barbari avevan sopportate, si sollevarono, ed in buon ordine, ed assai felice stato si ridussero.

So che alcuni credono esser queste tante virtù di Teodorico, state imbrattate dall'insidie, e morte finalmente fatta dare ad Odoacre; e nell'ultimo della sua vita da alcune crudeltà cagionate per varj sospetti del Regno suo. con avere ancora fatto morire Simmaco, e Boezio suo genero, Senatori, ed al Consolato assunti: uomini di nobilissima stirpe nati, nello studio della filosofia consumatissimi, religiosissimi, e per fama di pietà e di dottrina assai insigni.

Ma se vogliano questi fatti attentamente considerarsi, la ragion di Stato difende il primo; e dell'essere stato crudele con Simmaco, e Boezio, dobbiamo di quello stesso incolpar Teodorico, di che fu incolpato da suoi domestici: Id illi injuriae, come dice Procopio, in subditos primum, ac postremum fuit, quod non adhibita, ut solebat, inquisitione de viris tantis statuerat. In questo solamente mancò Teodorico, ch'essendo stati per invidia imputati Simmaco, e Boezio di macchinar contro alla sua vita, ed al suo Regno, gli avesse senza usare molta inquisizione in caso sì grave, in cui richiedevasi somma avvedutezza, condennati a morte; del resto, come ben osservò Grozio[777], Actum ibi, non de Religione, quae Boëthio satis Platonica fuit, sed de Imperii statu. Non fu [379] mosso certamente Teodorico da leggier motivo, ma per cagione di Stato, non già di religione, come alcuni credono. Ben si sono scorti, quali sentimenti fossero di questo Principe intorno a lasciare in libertà le coscienze degli uomini, ed appigliarsi a quella religione, che lor piacesse. Nè per Boezio poteva accader ciò, la cui religione fu più platonica, che cristiana. E se dee credersi a Procopio, ben di quel suo fallo poco prima di morire ne pianse Teodorico amaramente con intensissimo dolore del suo spirito; poichè essendosegli, mentre cenava, apprestato da' suoi Ministri un pesce di grossissimo capo, se gli attraversò nella fantasia così al vivo l'immagine di Simmaco, che parvegli quello del pesce essere il costui capo, il quale con volto crudele ed orribile lo minacciasse, e volesse della sua morte prender vendetta: tanto che spaventato per sì portentosa veduta, corsegli per le vene un freddo, che obbligatolo a mettersi a giacere, si fece coprir di molti panni; ed avendo raccontato ad Elpidio suo Medico ciò che gli era occorso, In Simmacum, ac Boëthium quod peccaverat, deflevit: poenitentiaeque, ad doloris magnitudine, non multo post obiit, come narra Procopio.

Giornande niente dice di sì strano successo, ma lo fa morire di vecchiezza, narrando, che Teodorico postquam ad senium pervenisset, et se in brevi ab hac luce egressurum cognosceret, fece avanti di lui convocare i Goti, e' principali Signori del Regno, a' quali disegnò per suo successore Atalarico, figliuolo d'Amalasunta sua figliuola, il quale morto Eutarico suo padre, pur dell'illustre stirpe degli Amali, non avendo più, che dieci anni, sotto la cura ed educazione di sua madre viveva. Non tralasciò morendo di raccomandare [380] a' medesimi la fedeltà, che dovevan portare al Re suo nipote; raccomandò loro ancora l'amore e riverenza verso il Senato e Popolo romano, e sopratutto incaricò, che dovesser mantenersi amico e propizio l'Imperadore d'Oriente, col quale procurassero tener sempre una ben ferma e stabil pace e confederazione: il qual consiglio avendo religiosamente custodito Amalasunta, le cose de' Goti infinchè visse il suo figliuolo Atalarico, andaron assai prosperamente; poichè per lo spazio d'otto anni, che regnarono, mantennero il lor Reame in una ben ferma e tranquilla pace. Tale fu la morte di questo illustre Principe, che avvenne nell'anno 526 di nostra salute, dopo aver regnato poco men che 38 anni, e ridotta l'Italia, e queste nostre province nell'antica pace e tranquillità.

§. VII.  Di Atalarico Re d'Italia.

Prese il governo del Regno per la giovanezza di Atalarico, Amalasunta sua madre. Principessa ornata di molte virtù, la quale uguagliò la sapienza de' più savj Re della terra; ella governò il Reame, e la giovanezza del suo figliuolo con tanta prudenza, che non cedeva guari a quella di Teodorico suo padre. Ella, appena morto costui, ricordevole de' suoi consigli, fece da Atalarico scrivere a Giustino I. Imperadore (il qual essendo succeduto ad Anastasio, allora imperava nell'Oriente) calde ed officiose lettere, per conservare tra essi quella concordia, che Teodorico aveva incaricata. Altre parimente ne fece scrivere al Senato ed [381] al Popolo romano affettuosissime, e piene d'ogni stima le quali ancor oggi appresso Cassiodoro leggiamo[778].

Mantenne quell'istessa forma ed istituto nel governo che Teodorico tenne; nè durante il Regno di suo figliuolo permise, che alcuna cosa si mutasse: le medesime leggi si ritennero[779], gl'istessi Magistrati, l'istessa disposizione delle province, e la medesima amministrazione. Tutti i suoi studj erano di far allevare il giovine Principe alla romana, con farlo istruire nelle buone lettere e nelle virtù, tenendo per questo effetto molti maestri, che l'insegnassero. Ma i Goti, ed i Grandi della Corte dimenticatisi prestamente dei consigli di Teodorico mal sofferivano, che Amalasunta allevasse così questo Principe, e gridando, ch'essi volevano un Re, che fosse nudrito fra l'armi, come i suoi antecessori, fu ella in fine costretta d'abbandonarlo alla lor condotta, la quale fu tanto funesta a questo povero Principe, che caduto in molte dissolutezze, perdè affatto la salute, e venne in tale languidezza, che lo condusse ben tosto alla tomba: poichè appena giunto all'ottavo anno del suo regnare, finì nel 534 i suoi giorni. Origine, che fu de' mali e della ruina de' Goti in Italia, de' disordini, e delle tante rivoluzioni, che da poi seguirono, mentre già all'Imperio d'Oriente era stato innalzato da Giustino, Giustiniano suo nipote, quegli che per le tante sue famose gesta sarà il soggetto del seguente capitolo.

[382]

CAPITOLO III. Di Giustiniano Imperadore, e sue leggi.

Mentre in Italia per la prudenza di Amalasunta conservavasi quella stessa pace e tranquillità, nella quale Teodorico aveala lasciata, ed il Regno d'Atalarico, come uniforme a quello del Re suo avolo, riusciva a' popoli clementissimo, fu da Giustino, richiedendolo il Popolo costantinopolitano, fatto suo Collega ed Imperadore Giustiniano suo nipote nel dì primo d'Aprile dell'anno di nostra salute 527. E morto quattro mesi da poi Giustino, cominciò egli solo a reggere l'Imperio d'Oriente[780]. Questi fu quel Giustiniano, cui i suoi fatti egregi acquistaron il soprannome di Grande; sotto di cui l'Imperio ripigliò vigore e forza, non men in tempo di pace, che di guerra, a cagion dei famosi Giureconsulti, che fiorirono nella sua età, e del valore di Belisario e di Narsete suoi illustri Capitani. Le sue prime grand'imprese furon quello adoperate in tempo di pace. Egli ne' primi anni del suo Regno s'accinse a voler dare una più nobil forma alla giurisprudenza romana, ed invidiando non men a Teodosio il Giovane, che a Valentiniano III quella gloria che acquistaronsi, l'uno per la compilazione del famoso Codice Teodosiano, e l'altro per la providenza data sopra i libri de' Giureconsulti, volle non pur imitargli, ma emulargli in guisa, che al paragone la fama [383] di coloro rimanesse oscura e spenta; e nell'Oriente non meno, che nell'Occidente non più si rammentassero i loro egregi fatti.

§. I.  Del primo CODICE di Giustiniano.

Adunque non ancor giunto al secondo anno del suo Imperio, nel mese di Febbrajo dell'anno 528 promulgò un editto, al Senato di Costantinopoli dirizzato, per la compilazione d'un nuovo Codice. Trascelse alla fabbrica di questa opera da tre Ordini gli uomini più insigni del suo tempo, da' Magistrati, da' Cattedratici, e da quello degli Avvocati: dall'Ordine de' Magistrati furon eletti Giovanni, Leonzio, Foca, Basilide, Tomaso, Triboniano, e Costantino: dei Professori, fu trascelto Teofilo; e dall'Ordine degli Avvocati Dioscoro, e Presentino, a' quali tutti fu preposto il famoso Triboniano, come lor Capo.

La forma, che a costoro si prescrisse, fu di dover da' tre Codici, Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, raccorre le costituzioni de' Principi, che quivi erano, ed oltre a questo, di aggiugnervi ancora l'altre, che da Teodosio il Giovane, e dagli altri Imperadori suoi successori infin a lui erano state di tempo in tempo promulgate, eziandio quelle che si trovasse egli medesimo aver emanate; le quali tutte in un volume dovessero raccogliere. Prescrisse lor ancora l'istituto ed il modo, cioè di troncar quello, che in esse trovavan d'inutile e superfluo, togliere le prefazioni, levare affatto quelle, ch'eran tra loro contrarie, raccorciarle, mutarle, correggerle, e render più chiaro il loro sentimento: collocarle secondo l'ordine de' tempi, e secondo la materia, che trattano. Non tralasciassero [384] a ciascheduna costituzione di porv'i nomi degl'Imperadori, che le promulgarono, il luogo, il tempo, e le persone a chi furon indirizzate: il tutto ad emulazione di Teodosio, come è manifesto dall'editto di Giustiniano, che leggiamo sotto il tit. de novo Cod. faciendo.

Impiegarono per tanto quest'insigni Giureconsulti le lor fatiche poco più d'un anno per la compilazione di questo nuovo Codice, tanto che nel principio del terzo anno del suo Imperio, e propriamente in Aprile dell'anno seguente 529 fu compiuto e promulgato: e con altro editto, che si legge sotto il tit. de Justinianeo Cod. confirmando, ordinò, che questo Codice solamente nel Foro avesse autorità, che i Giudici di quello si servissero, e che gli Avvocati non altronde, che da questo allegassero nelle contese forensi le leggi; proibì affatto i tre primi Codici, i quali volle, che rimanessero senza alcuna autorità, nè in giudicio potessero più allegarsi; donde nacque, che in Oriente s'oscurò il Codice di Teodosio. Il che però non avvenne in Occidente, e in Italia precisamente, ove, durante la dominazione de' Goti, questo di Giustiniano non fu ricevuto, e furono perciò più fortunati i successi del Codice Teodosiano in Occidente, che nell'Oriente, per opera di Giustiniano.

Le Costituzioni, che in questo nuovo Codice, in dodici libri distinto, unironsi, come raccolte da' tre primi Codici, cominciavan da Adriano, infin a Giustiniano, e le leggi promulgate da 54 Imperadori, contenevano. E quindi è, che alcune costituzioni allegate da' Giureconsulti nelle Pandette, in questo nuovo Codice si leggano, che non possono leggersi nel Codice di Teodosio, come quello, che comincia da Costantino [385] M. ma che ben erano ne' Codici di Gregorio e di Ermogene, da' quali anche fu questo ultimo compilato.

§. II.  Delle PANDETTE, ed INSTITUZIONI.

Per emular Giustiniano la fama di Teodosio, non contentossi del solo Codice: volle, che ad impresa più nobile e difficile si ponesse mano, cioè a raccorre ed unire insieme i monumenti di tutta l'antica giurisprudenza, e con ordine disporgli; e siccome erasi fatto delle costituzioni de' Principi, che da Adriano infin a lui fiorirono, così anche si facesse de' responsi degli antichi Giureconsulti; delle note loro, ch'essi si trovassero aver fatte alle leggi de' Romani, e precisamente all'editto perpetuo; de' loro trattati; de' libri metodici, e finalmente di tutti i lor Commentarj; l'opere de' quali erano così ampie e numerose, che se ne contavan infin a duemila volumi. Nel quarto anno del suo Imperio diede Giustiniano fuori un altro editto[781] a Triboniano indirizzato, dove quest'Opera si comanda, ed al medesimo Triboniano, ed a sedici altri suoi Colleghi si dà l'impiego di così ardua e malagevole impresa. Furono trascelti ingegni i migliori di quel secolo, e quali veramente richiedevansi per opera sì difficile. Oltre a Triboniano furon eletti Teofilo e Cratino, celebri Professori di legge nell'Accademia di Costantinopoli; Dorodeo, ed Anatolio pur anche Professori nell'Accademia di Berito: dell'Ordine de' Magistrati intervenne pure Costantino; e dell'Ordine degli Avvocati undici ne furono trascelti, Stefano, [386] Menna, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo, Leonide, Leonzio, Platone, Jacopo, Costantino e Giovanni[782].

Mentre costoro sono tutti intesi a questa gran fabbrica, che dopo il corso di tre anni condussero a fine, piacque al medesimo Giustiniano d'ordinare a Triboniano, Teofilo, e Doroteo, che in grazia della gioventù compilassero le Instituzioni, ovvero gli elementi, e principj della legge, perchè i giovani, incamminandosi prima per questo sentiero piano e semplicissimo, potessero poi inoltrarsi allo studio delle Pandette, che già si preparavano: siccome infatti da quelli tre insigni Giureconsulti, ad esempio degli antichi, cioè di Cajo, Ulpiano e Fiorentino, furon tantosto compilate; e quantunque la fabbrica de' Digesti fosse stata innanzi comandata, nulladimeno per questo fine si procurò, che le Instituzioni si pubblicassero prima delle Pandette, come in effetto un mese prima, cioè a Novembre dell'anno 533, nel settimo anno del suo Imperio, furono promulgate e divolgate. Divisero questi elementi in quattro libri, in novantanove titoli, e, se anche si vogliano numerare i principj de' medesimi, in ottocento e sedici paragrafi. Opera, secondo il sentimento dell'incomparabile Cujacio, perfettissima ed elegantissima, che non dovrebbe caricarsi tanto da così ampj e spessi commentari, come a' dì nostri s'è fatto, ma da aversi sempre per le mani, e col solo aiuto di picciole note, e per via semplicissima a' giovani insegnarsi, siccome fu l'idea di coloro, che la composero, e di Giustiniano stesso, che la comandò.

Pubblicati questi elementi, si venne prestamente a fine della grand'Opera delle Pandette, le quali un [387] mese di poi, e propriamente nel Decembre dell'istesso anno 533 si pubblicarono per tutt'Oriente, e nell'Illirico. Appena nata, sortì due nomi, l'uno latino di Digesti, l'altro greco di Pandette, ambidue dagli antichi Giureconsulti tolti ed usurpati: fulle dato nome di Digesti, perchè ne' libri, che contengono, furono con certo ordine, e sotto ciascun titolo collocate le sentenze degli antichi Giureconsulti, e disposte, per quanto fu possibile, secondo il metodo e la serie dell'editto perpetuo: si dissero anche Pandette, come quelle, che abbracciano tutta la giurisprudenza antica[783].

Donde, da quali Giureconsulti, e da quali loro libri furono composti i Digesti, è cosa molto facile a raccoglier dal catalogo degli antichi Giureconsulti, e dell'opere loro, che ancor oggi veggiamo prefisso alle Pandette fiorentine. Ivi leggonsi 37 Autori, chiarissimi Giureconsulti da noi sovente lodati, quando nel primo libro, facendo memoria de' Giureconsulti, che da Augusto infin a Costantino M. vissero, notammo sotto quali Imperadori fiorissero: oltre a questi fassi onorata memoria di molti altri, i quali meritarono esser nominati e lodati nell'opere loro, ovvero che meritaron esser con giusti commentarj, o con perpetue note esposti ed illustrati. Nel che non dobbiamo defraudar della meritata lode Jacopo Labitto, il quale con somma diligenza ed accuratezza compose un Indice delle leggi, che sono nelle Pandette, ciascheduna delle quali, oltre al disegnarle, l'Autore va distintamente notando, da qual libro, o trattato di questi antichi [388] Giureconsulti sia stata presa, separando fra di loro le leggi, che si trovano sparse in tutto il corpo de' Digesti, e poi arrolando ciascuna delle medesime sotto quel trattato, o libro del Giureconsulto, onde fu tolta. Fatica quanto ingegnosa, altrettanto utilissima per poter ben intendere il vero senso delle medesime; essendo cosa maravigliosa il vedere, come l'una riceva lume dall'altra, quando sotto i libri, onde furon prese, si dispongono; il qual lume non potrà mai sperarsi, quando così sparse si leggono. E ben quest'Autore diffusamente dimostra con più esempli, quanto conduca l'uso di quell'Indice alla vera interpretazione delle leggi, e quanto fosse stato commendato da Cujacio suo Maestro, il quale fu quegli, che l'animò a proseguire questa bell'opera, e di darla alle stampe. Confermò Cujacio col suo esempio ciò, che da Labitto era stato dimostrato, mettendo in opera, e riducendo in effetto ciò che colui aveva insegnato: quindi si vede, che questo incomparabile Giureconsulto nel commentar le leggi delle Pandette, tenne altro metodo, ed altro sentiero calcò di quello, che erasi per l'addietro calcato dagli altri Commentatori: cioè di separare le leggi, e quelle ch'eran d'Affricano e prese da' suoi libri, unille insieme, e sotto i propri titoli le dispose, indi con quest'ordine le commentò, come altresì fece sopra Papiniano, Paolo, Scevola ed alcuni altri Giureconsulti; il maraviglioso uso del quale, e di quanti comodi sia cagione ben anche l'intese Antonio Augustino, che compilò un altro non dissimil Indice, e lo sentono ancora tutti coloro, che della nostra giurisprudenza sono a fondo intesi.

Piacque in tanto a Triboniano, ed a' suoi Colleghi partire questa grand'Opera de' Digesti in sette parti [389] principali, distinguerla in cinquanta libri, e dividerla in 430 titoli. Se vogliam riguardare le Pandette fiorentine, ch'oggi con molta stima si conservan in Firenze nella Biblioteca de' Medici, le vedremo in due volumi ben grandi divise: se bene Crispino[784] rapporta, che anticamente di tutti i 50 libri ne fosse fatto un sol volume; ma quelle, che vanno or attorno per le mani d'ogn'uno, sortiron varia divisione, secondo le varie edizioni. Delle molte, ch'oggi s'osservano, e particolarmente in quest'ultimi nostri tempi, che sono infinite, tre sono le più celebri, e ricevute nell'Accademie e ne' Tribunali d'Europa. La prima edizione, cioè la volgare e meno corretta, è quella, della quale si valsero Accursio, e gli altri antichi Glossatori. La seconda vien detta Norica, ovvero di Norimberga, ed è quella che Gregorio Aloandro nell'anno 1531 fece imprimere. La terza appellasi Fiorentina, ovvero Pisana, la quale da noi deesi a Francesco Taurello, che nell'anno 1553 dalla libreria dei Medici fece darla alle stampe.

La vulgata partizione di quest'Opera in tre volumi è assai più antica di ciò, ch'altri crede; poichè fin da' tempi di Pileo, di Bulgaro e di Azone, per maggior comodità fu in tal maniera divisa[785], essendo la mole sua così vasta, che comprendendosi in un sol volume, non avrebbe potuto senza gran disagio leggersi e maneggiarsi. Come poi a ciascun volume fosse dato il nome, al primo di Digesto Vecchio, al secondo d'Inforziato ed al terzo di Nuovo, quando tutti e tre nacquero in un istesso tempo, egli è assai [390] malagevole a recarne la ragione. Essersi detto il primo vecchio, e l'ultimo nuovo, non sarebbe cosa molto strana; ma quel di mezzo appellarsi con istrano vocabolo Inforziato, è quello che ha esercitate le penne di più Scrittori, i quali in cose cotanto tenui han voluto pure abbassare il lor ingegno.

Alcuni han creduto essersi chiamato Inforziato dalla voce greca φορτίον, che in latino significa onus, perchè quel volume contiene le leggi più obbliganti, come di restituzioni di dote, di tutele, eredità, alimenti, prestazioni di fidecommissi ed altro[786]. Più tollerabile è la conghiettura di Bernardo Valtero[787], il quale disse, che corrottamente siasi così chiamato per vizio degli Scrittori, i quali in vece d'Infarcitum, come posto in mezzo tra 'l vecchio, e 'l nuovo, lo dissero Infortiatum. Ma sopra tutte l'altre, migliore par che sembri quella d'Alciato, che la riputò voce barbara ed insulsa[788]; ovvero l'altra che ultimamente comunicò a Giovanni Doujat[789] Claudio Cappellano Dottor della Sorbona e regio Professor di lingua ebraica in Parigi: questi suspica esser derivato dal Caldeo Forthiata, la qual voce da' Rabini fu sovente presa per significar testamento ed ultima volontà dell'uomo; onde potè avvenire, che taluno, o per ischerzo, o per ostentar novità, volendo dir testamento, avesselo chiamato Inforziato, ed indi, trasferita questa voce a quel volume de' Digesti, ove de' testamenti si tratta, avesse preso questo nome; ma ciò che siasi di questo, in cui certamente non sono riposte le ricchezze [391] della Grecia, rimettendoci in via, egli è costantissimo, che pubblicati i Digesti da Giustiniano, e sparsi per tutto l'Oriente, essendo stato commesso a' Prefetti dell'Oriente, dell'Illirico, e della Libia, che gli notificassero a tutti i Popoli alla loro giurisdizione soggetti, come è manifesto dalla prefazione, che Giustiniano prepose a' Digesti ed altrove[790], non poteron però penetrare allora in Italia, ed in queste nostre regioni, come quelle, che sotto alieno Principe, e sotto la dominazione de' Goti ancor duravano; nè in questo terreno poteron esser piantati ed acquistar quella autorità e quella forza, che poi, dopo il corso di più secoli, fortunatamente ottennero, ed in tanta stima e riputazione sursero, quanto è quella nella quale oggi si veggono.

§. III.  Del Secondo Codice di Giustiniano di repetita prelezione.

Posto fine a quest'Opera veramente regia, non perciò quietossi questo eccelso Principe; egli essendo stato avvertito, che nel compilar de' Digesti erasi osservato, che molte controversie restavan ancor indecise negli scritti di quegli antichi Giureconsulti, e che bisognava terminarle colla sua autorità imperiale; e di vantaggio avendo egli fra tanto, dopo pubblicato il primo Codice, promulgate altre sue costituzioni, le quali vagavano sparse, e non affisse ad alcun volume; ed essendosi osservato eziandio, che molte cose nel Codice già compilato mancavano; comandò nel seguente anno, che fu l'ottavo del suo Regno, e propriamente [392] nell'anno 534, che quel Codice s'emendasse e ritrattasse, con farsene un altro più compiuto e perfetto[791]. Diedesi per tanto il pensiero a cinque di coloro, ch'intervennero alla fabbrica de' Digesti, cioè a Triboniano e Doroteo, ed a tre altri Avvocati, Menna, Costantino e Giovanni: questi secondo l'ordine prescritto loro da Giustiniano, che si legge nel suo Codice[792], levarono dal primo quelle costituzioni, che stimaron oziose e superflue, o che fossero state dalle altre emanate da poi corrette ed abolite.

Erano corsi cinque anni tra il primo Codice e questo secondo, e nello spazio di questo tempo molte costituzioni eransi da Giustiniano stabilite. Nel Consolato di Decio, dopo la promulgazione del primo Codice, ne furon pubblicate da Giustiniano alcune, fra le quali fu assai famosa quella che leggiamo sotto il tit. de bon. quae lib.[793], dove fu generalmente stabilito, che ciò che il figliuolo altronde acquistava, non ex paterna substantia, fosse suo peculio avventizio, e l'usufrutto solamente fosse del padre, contra ciò, che nell'antica e mezza giurisprudenza era disposto. Da poi nel Consolato di Lampadio e d'Oreste furono promulgate quasi tutte le cinquanta decisioni, che per togliere le controversie ed ambiguità degli antichi Giureconsulti, piacque a Giustiniano stabilire[794]; molte delle quali abbiamo sotto il tit. de usufr. [393] come la l. 12, 13, 14, 15 e 16 poichè la 17, ancorchè sia una delle 50 decisioni, fu fatta l'anno seguente dopo il Consolato di Lampadio. Non pure in questo Consolato si promulgaron quasi tutte queste decisioni, ma anche furon fatte altre costituzioni, come la l. 7 che leggiamo sotto il tit. de bon. quae lib. dove fu stabilito, che non s'acquistasse al padre l'usufrutto delle robe donate al figliuolo dal Principe, o dall'Imperadrice, e l'altra nobilissima, cioè l. un. C. de rei ux. act. Fu anche in quest'anno 530, che fu il quarto dell'Imperio di Giustiniano, promulgata quell'altra sua costituzione, che si legge sotto il tit. de vet. jur. enucl. ove, come si disse, Giustiniano comandò a Triboniano ed a sedici altri Giureconsulti la fabbrica de' Digesti.

Nell'anno seguente dopo il Consolato di Lampadio, e quinto dell'Imperio di Giustiniano, ne furon promulgate moltissime, come la l. 2 de Constit. pecun. ove fu abolita l'azione receptizia, la l. 2 C. Com. de legat. ove fu tolta la differenza de' legati e fidecommessi particolari; la l. 2 C. de indic. viduit. dove restò abolita la legge Giulia Miscella; la l. 3 C. de Edict. D. Hadrian. toll., per la quale si tolse e cancellò l'editto d'Adriano per la vigesima dell'eredità; e la l. 4 C. de liber. praet. ove rimase abolita la differenza del sesso nell'eseredazione. In questo medesimo anno furono ancora promulgate quelle nobili costituzioni, cioè la l. si quis argentum 35 C. de donat. la l. ult. C. de jur. delib. la l. ult. C. qui pot. in pign. ed alcune altre.

Nel secondo anno dopo il Consolato di Lampadio e d'Oreste si pubblicò la l. 2 Cod. de vet. jur. enucl. e nell'anno seguente 533, settimo del suo Imperio, [394] furon pubblicate l'Instituzioni, e come si disse, un mese da poi le Pandette. Questi due anni si notano così, perchè furono senza Consoli.

Aggiunsero perciò i Compilatori in questo nuovo Codice tutte queste costituzioni, che secondo Balduino[795] e Rittersusio[796] oltrepassano il numero di 200, promulgate dopo il primo Codice fra lo spazio di cinque anni, che possono anche vedersi appresso Aloandro nel catalogo de' Consoli al suo Codice aggiunto, delle quali Francesco Raguellio[797] ne compilò particolari commentarj: siccome fece anche Emondo Merillio sopra le 50 decisioni[798]. Per queste si variò non poco il sistema di varie materie alla nostra giurisprudenza attinenti, e particolarmente restò variata la dottrina de' peculj, de' legati e d'altre moltissime cose. Donde ne siegue, siccome anche avvertirono Balduino[799] e Rittersusio[800], che sia error grave il credere, che in questo nuovo Codice vi si fossero solamente aggiunte le cinquanta decisioni, e che toltone queste decisioni, in niente altro discordano le Pandette da questo Codice di repetita prelezione.

Ridotte adunque in questa miglior forma, ed in questo nuovo Codice le costituzioni de' Principi, nel quale anche furono inserite alcune costituzioni dei successori di Teodosio e di Valentiniano, come di Marciano, Lione, Antemio, Zenone, Anastasio e Giustino, comandò Giustiniano, che il primo Codice non avesse più autorità, nè vigore alcuno: ma che questo [395] secondo, che ad esempio degli antichi chiamò di repetita prelezione, dovesse solamente ne' Tribunali in fatti i giudicj aver forza e vigore; nè d'altronde, che da esso, potessero le costituzioni nel Foro allegarsi, cassando tutte l'altre, che forse si trovassero andare sparse e vaghe fuori del medesimo; ond'è, che alcuni assai a proposito avvertirono, che di niun vigore sien quelle costituzioni di Zenone, o d'altro Imperadore, che non veggiamo inserite in questo Codice, le quali solo dobbiamo alla diligenza ed erudizione di qualche Scrittore, che dalle lunghe tenebre, ove eran sepolte, le cavò fuori, alla luce del Mondo restituendole; molte delle quali si debbono all'industria di Conzio, di Giacopo Cujacio, di Dionisio e di Giacopo Gotofredo, e d'alcuni altri eruditi; l'uso delle quali sarà, non di valersene, come costituzioni di Principi, che ci facciano legittima autorità, ma solo per ricever da esse qualche lume per intender meglio le ricevute, e quelle, che per antica usanza hanno acquistato appresso noi nel Foro forza di legge. E quantunque la costituzione di Zenone stabilita intorno agli edificj e prospetto del mare, sia difesa da molti per legittima e d'autorità, cioè, perchè quella si vede da Giustiniano confermata nelle sue Novelle, e nel Codice viene dichiarata non essere stata locale, per Costantinopoli solamente, ma comprendere tutte l'altre province dell'Imperio[801].

Fu cotanto rigido Giustiniano in non volere ammettere altre costituzioni, che quelle, le quali in questo Codice fossero insieme unite e congiunte, che tutte quell'altre, che per qualche grave bisogno, o per dare [396] altra providenza fossero per emanarsi nell'avvenire, volle che si raccogliessero a parte in altro volume, al quale si desse il nome non di Codice, ma di Novelle costituzioni, e che formassero un altro Corpo separato dal suo Codice: onde se bene il nome di Codice, generalmente parlando, potesse convenire ad ogni libro, a caudicibus arborum deducto vocabulo; nulladimeno i nostri Giureconsulti per antonomasia Codice solamente appellarono quel libro, ove con certo ordine erano raccolte le costituzioni imperiali; poichè siccome dopo Cujacio avvertì Gotofredo[802], le costituzioni e rescritti de' Principi, solevano scriversi ne' Codici e Pugillari, ch'eran tavole di legno ed anche di rame, o d'avorio, le quali per conservarne la memoria serbavansi negli Scrigni, o sia Cancellaria del Principe, ond'è che leggiamo che Teodosio il Giovane, quando fece compilare il suo Codice, mandò a ricercare a Valentiniano III le Costituzioni da lui fatte per l'Occidente, che conservava ne' suoi Scrigni per poterle unire colle sue, e degl'Imperadori suoi predecessori, e compilarne quel Codice. All'incontro i responsi de' Prudenti, onde si compilarono i Digesti, soleano scriversi nelle Membrane, non già in legno, o in rame.

Abolito dunque il primo Codice, del quale se ne estinse affatto la memoria, a questo secondo si diede tutta l'autorità, ed è quello ch'oggi ci va per le mani, e del quale si servono tutti i Tribunali, tutte le Accademie d'Europa, diviso, come ogn'un vede, in dodici libri, e distinto in 776 titoli. Le sue costituzioni furon quasi tutte dettate in lingua latina, e contiene [397] le costituzioni di 54 Imperadori, cominciando da Adriano infino a Giustiniano, siccome è manifesto dal loro catalogo, che Aloandro e Dionisio Gotofredo prefissero a' loro Codici. L'Indice delle leggi promulgate da ciascheduno Imperadore pur lo dobbiamo alla industria e diligenza di Jacopo Labitto e d'Antonio Agostino, che agli studiosi della nostra giurisprudenza riesce non men utile e comodo, che quello composto da' medesimi de' responsi de' Giureconsulti nelle Pandette.

Alcuni han ripreso Giustiniano, Principe cotanto cattolico, che in questo Codice abbia fatto inserire molte costituzioni non degne della sua pietà e religione. Il nostro Matteo degli Afflitti seguitando questo errore scrisse, che molte leggi inique avesse fatte inserire ne' tre ultimi libri: ma ben ne fu ripreso dal Valenzuola. Altri dissero, che mal facesse Giustiniano a trasferir nel suo Codice la legge di Valente contra i Solitarj, ed Amaja non ardisce in ciò difenderlo: ma si vede chiaro che quella legge non fu stabilita contra i veri Solitarj, ma contra coloro, che sotto pretesto di religione, affettando lo esserci, s'univano con quelli per isfuggire i pesi della Curia. Alcuni altri lo riprendono, perchè molte leggi riguardanti l'usure ed i repudj stabilisse, con permettergli; ma Godelino[803], Leotardo[804] ed altri lo difendono. Altri perchè molte leggi attinenti all'esterior politia ecclesiastica v'inserisse; ma costoro sono degni di scusa, perocchè non posero mente alla condizione di que' tempi, ne' quali furono promulgate, ma secondo le massime [398] de' secoli, ne' quali scrissero, reputarono non convenirsi all'autorità del Principe di stabilirle; ciò che meglio si vedrà, quando della politia ecclesiastica di questo secolo tratteremo.

§. IV.  Delle Novelle di Giustiniano.

Se bene abbastanza si fosse proveduto da Giustiniano allo studio della giurisprudenza con queste tre sue lodevoli opere, cioè dell'Instituzioni, de' Digesti e del Codice; nulladimeno, come che col correr degli anni, secondo le varie bisogne e nuove emergenze, fu d'uopo dar nuove providenze, ed emanar nuove costituzioni, si fece in modo, che non molto da poi crebbero queste tanto, che bisognò unirle in un altro volume, il quale delle novelle costituzioni fu detto. Furon queste di tempo in tempo da Giustiniano emanate, e non già in sermon latino, come l'altre racchiuse nel Codice, ma quasi tutte in greca lingua concepute[805], toltane la Nov. 9, 11, 23, 62, 143, 150 che furono dettate in latino[806], nelle quali veramente evvi molto che desiderare intorno all'eleganza, brevità, gravità e dottrina; e quanto le costituzioni de' Principi, che da Costantino M. infino a lui fiorirono, cedono alle costituzioni degli altri più antichi Imperadori, da Adriano fino a Costantino, tanto queste Novelle di Giustiniano cedono in brevità ed eleganza alle seconde, in guisa che s'è sempre retroceduto, ed andato di peggio in peggio, leggendosi queste ora con molta nausea piene di loquacità, tumide e [399] prive affatto di quella brevità, gravità ed eleganza delle prime: ma ciò, che più importa, osservasi nelle medesime una certa incostanza e leggerezza inescusabile, mutandosi e variandosi ciò, che non molto prima erasi stabilito, e quel che poco anzi piacque, poco da poi si muta e si cancella. La qual cosa ha dato motivo a molti di credere, che tanta instabilità procedesse dalla leggerezza femminile di Teodora moglie di Giustiniano, che sovente s'intrigava in sì fatte cose; e dall'avarizia di Triboniano, che per denaro sovente mutava e variava le leggi a sua posta[807].

Di queste Novelle solamente novantasei furono a notizia degli antichi nostri Glosatori, ancorchè Giuliano Professor di legge nell'Accademia di Costantinopoli, poco da poi di Giustiniano, avendole in compendio ridotte e trasportate dalla greca nella lingua latina, infino al numero di centoventicinque ne traducesse. Ne' tempi meno a noi lontani ne furon da Aloandro ritrovate dell'altre, ed infino al numero di 165 accresciute: Giacopo Cujacio n'aggiunse altre tre, tanto che il loro numero arriva oggi a quello di 168[808].

Ma non dee tralasciarsi d'avvertire, che nell'unire insieme queste Novelle non fu osservato con esattezza l'ordine de' tempi, scorgendosi molte di esse, che furono promulgate negli ultimi tempi dell'Imperio di Giustiniano, esser preposte a quelle, che si fecero prima, ed all'incontro alcune pubblicate prima, occupare l'ultimo luogo. Così nel nono anno dell'Imperio di Giustiniano nel Consolato di Belisario, quando cominciarono [400] a stabilirsi, furono promulgate le Novelle 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e nel medesimo anno ancora la Novella 24, 25, 26, 27, 28, 29, 32, 42, 51, 102, 103, 107, 110, 116, 118 e 157. Nel seguente anno, dopo il Consolato di Belisario, si promulgò la Novella 19, 20, 21, 22, 31, 38, 39, 40, 43, 45, 122, e nell'anno seguente, undecimo del suo Imperio, si fecero le Novelle 41, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 59, 60, 61 ed altre moltissime.

Nel Consolato di Giovanni, e duodecimo dell'Imperio di Giustiniano, furon pubblicate le Novelle 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 76, siccome nell'anno appresso le Novelle 78, 79, 80, 81, 83, 97, 99, 101, 133, 162, e nel seguente, nel Consolato di Giustino, la Novella 98.

Nel Consolato di Basilio, e decimoquinto dell'Imperio di Giustiniano si proferirono le Novelle 108, 109, 111, 113, 115, 117, 119, 120, 121, 123, 124, 125, 128, 129, 130, 131, 132, 134, 135, 136, 137, 145, 146, 147, 153. Ne' seguenti anni niente da Giustiniano promulgossi; ma nell'anno 32, ultimo del suo Imperio, fu emanata la Novella 141 onde l'ultima di tutte dee riputarsi questa, come quella, che si fece nell'anno 558.

Queste Novelle insieme co' tredici editti promulgati di tempo in tempo da Giustiniano, furono unite e raccolte in un volume, non per ordine di Giustiniano[809], ma dopo la sua morte per privata diligenza ed industria, come mostrano Cujacio ed Antonio Agostino, senza tenersi altr'ordine di quello, che di sopra [401] s'è detto. Fu tutta opera degl'Interpetri poi dividerle in nove Collazioni, le quali a similitudine de' libri contengono ciascheduna più titoli. E fu nominato da poi ne' tempi di Bulgaro Autentico, o perchè a queste costituzioni, come quelle, che promulgate dopo le leggi del Codice, loro si desse maggiore autorità e peso; ovvero, com'è più probabile, che al paragone dell'Epitome latina fatta da Giuliano, questa opera, come quella, che conteneva le Novelle intere, e come furon da Giustiniano promulgate, doveva riputarsi l'origine e l'autentica[810].

Abbiam di queste Novelle tre versioni latine: una antica, della quale si crede Autore Bulgaro; ma Cujacio[811] ed altri vi dissentiscono: l'altra fatta da Aloandro: e la terza da Errico Agileo. Non convengono gli Autori nè nel nome, nè nell'età di questo antico Interpetre. Alcuni lo credettero, o più antico, ovvero coetaneo di S. Gregorio M., allegando e trascrivendo questo Pontefice molti passi di queste Novelle ne' suoi libri, della quale opinione fu anche Balduino[812]. Ma Antonio Agostino[813] seguitato da Rittersusio rapporta, che ne' tempi di Irnerio e di Bulgaro fu per opra di un certo Monaco trovato il volume greco di queste Novelle, il quale lo tradusse in latino. Fu questi chiamato Bergonzione Pisano, del quale anche si narra, che traducesse in latino quelle clausole greche, che si trovano ne' libri de' Digesti.

La traduzione fatta da Aloandro seguì in questo [402] modo: conservavasi in Firenze un volume MS. delle greche Novelle, dal qual libro fiorentino fu copiato quello di Bologna: di questo si servì Aloandro, e fu il primo che diede alle stampe le Novelle greche da lui tradotte in latino. La prima edizione si fece nell'anno 1531, non senza gloria del Senato di Norimbergh, il quale somministrò le spese. Errigo Scrimgero molti anni dopo, avendo avuto in mano in Venezia un altro esemplare MS. più esatto, che fu del Card. Bessarione, supplì da questo nuovo volume molto di ciò che mancava nell'edizione di Norimbergh, e stampò le Novelle in quell'idioma, cioè greco: donde ne nacque poi la terza traduzione di Errico Agileo, il quale tradusse ancora le Novelle di Lione; e Conzio ne trasportò ancora alcune altre nella latina favella.

Vernero, ovvero, come i nostri l'appellano, Irnerio, con non picciol comodo degli studiosi, avendole accorciate, a ciascuna legge del Codice, che per le Novelle venisse corretta, o che trattasse di simil argomento, aggiunse il ristretto delle medesime, perchè potesse conoscersi ciò, che su quel soggetto erasi innovato per queste novissime costituzioni di Giustiniano, che perciò acquistaron il nome d'Autentiche, le quali cautamente debbon co' suoi fonti, onde derivano, confrontarsi; poichè alle volte si discostano da' medesimi, e Giorgio Rittersusio[814] figliuolo di Corrado novera 70 luoghi, che discordano da' loro originali.

È ancora d'avvertire, che in tre cose principalmente differisce dal Codice questo volume delle Novelle. La prima, che il Codice abbraccia le costituzioni di più [403] Principi, cominciando da Adriano infino a Giustiniano; e le Novelle sono costituzioni del solo Giustiniano. La seconda, che le leggi del Codice furono quasi tutte dettate in sermon latino, e le Novelle in greco. La terza, che nel Codice le costituzioni sono ripartite in certe classi e collocate sotto varj titoli, secondo la varietà del soggetto che trattano, e molte volte ne sono state più disposte sotto un titolo; quando nel volume delle Novelle ciascheduna costituzione ha il suo titolo, e furono senz'ordine unite insieme, con serbarsi solamente l'ordine del tempo: il qual ordine nemmeno fu in tutto osservato, come di sopra s'è veduto.

§. V.  Dell'uso ed autorità di questi libri in Italia, ed in queste nostre province.

Quantunque Giustiniano, per queste insigni sue opere, avesse nell'Oriente oscurata la fama di Teodosio, tanto che s'estinse affatto il nome del costui Codice, nè altrove, che a questi suoi libri poteva ricorrersi, o nel Foro, o nell'Accademie, e fossero stati nell'Imperio d'Oriente questi soli ricevuti, e rifiutati tutti gli altri; nulladimeno nell'Occidente, ed in Italia precisamente, diversa fu la lor fortuna; poichè essendo stati da Giustiniano pubblicati negli ultimi anni del Regno d'Atalarico, mentre ancor durava la dominazione de' Goti, non furono in Italia, nè in queste nostre province ricevuti, nè qui, come in alieno terreno, poterono esser piantati e metter profonde radici; ma si ritennero gli antichi Codici, e gli antichi libri dei Giureconsulti, ed il Codice di Teodosio niente perdè di stima e di autorità; anzi appresso gli Vestrogoti [404] per l'autorità d'Alarico, fu in somma riputazione avuto, tanto che il suo Compendio, che essi chiamavan Breviario, non pure appresso i medesimi, ma anche appresso gli Ostrogoti e presso a molte altre Nazioni, come Borgognoni, Francesi e Longobardi niente perdè di pregio e d'autorità, e ciò ch'era legge dei Romani, in questi libri era racchiuso.

E se bene dopo la morte d'Atalarico, ed indi a poco d'Amalasunta, le cose de' Goti in Italia si riducessero ad infelicissimo stato, e Giustiniano col valore di Belisario riportasse di loro più vittorie, ed avesse con particolar editto[815] ordinato l'osservanza delle leggi romane, ne' suoi libri contenute, per tutte le province d'Italia; e da poi che Belisario nel decim'anno del suo Imperio ebbe espugnata Napoli, la Puglia, la Calabria, il Sannio e la Campania, avesse tolte ai Goti queste province: nulladimeno avendo poi costoro sotto Totila, valorosissimo Principe, ripreso l'antico spirito e valore, e poste in tanta revoluzione le cose d'Italia, che a tutt'altro potè badarsi, che alle leggi in mezzo a tant'armi e guerre sì crudeli e feroci, rimasero perciò di nuovo senza vigore ed autorità alcuna le leggi romane ne' libri di Giustiniano contenute. E quantunque alla fine negli ultimi anni del suo Imperio avesse riportata de' medesimi intera vittoria, e sotto Teja ultimo loro Re gli avesse per mezzo di Narsete interamente debellati e sconfitti; contuttociò, sopraggiunto non molto da poi dalla morte, e succedutogli Giustino il Giovane, Principe inettissimo, non andò guari, che l'Italia passò sotto il dominio dei Longobardi, i quali seguitando gli esempi de' Goti, [405] non altre leggi riconobbero, se non le proprie e quelle de' Romani, che nel Codice di Teodosio eran comprese, e ciò che per tradizione era rimaso delle medesime nella memoria de' provinciali; nulla curando dei libri di Giustiniano, de' quali poca e rada era la notizia, come quinci a poco partitamente vedrassi.

Si aggiunse ancora, che non passarono molti anni, che questa medesima fortuna cominciarono ad avere in Oriente, ove, come diremo ne' seguenti libri, parte per imperizia ed inezia de' suoi successori, parte per invidia, vennero in tanta dimenticanza, per le tante altre compilazioni, che ad emulazione di Giustiniano seguirono, che di questa di Giustiniano rimase ogni fama oscurata e spenta. E vedi in tanto le strane vicende delle mondane cose: questa grand'opera di Giustiniano con tanta cura e studio compilata, che per tutti i secoli avrebbe dovuto correre gloriosa e immortale, appena mancato il suo Autore, che restò anch'ella per lo spazio di cinque secoli sepolta in tenebre densissime, ed in una profonda oblivione: risorta poi in Occidente a' tempi di Lottario, fu così avventurosa, che alzò i vanni e la fama sopra tutte l'altre province del Mondo, nè trovò Nazione alcuna culta, o barbara che fosse, che in somma stima e venerazione non l'avesse, e che non la preferisse alle medesime loro proprie leggi e costumi.

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CAPITOLO IV. Espedizione di Giustiniano contra Teodato Re d'Italia successor d'Atalarico.

Dopo aver Giustiniano in così fatta guisa posta l'ultima mano a dar certa e stabil forma alla giurisprudenza romana, disbrigato dalle leggi, passa con non disugual fortuna all'armi. Principe così nella pace, come nella guerra fortunatissimo; poichè, siccome per condurre a fine quell'impresa delle leggi, quanto magnanima e nobile, altrettanto ardua e difficile, ebbe ne' suoi tempi Giureconsulti insigni, quali furono Triboniano, Teofilo, Doroteo, e tutti quegli altri, dei quali s'è fatta onorata menzione, che poteron ridurla a perfezione; così nell'armi ebbe Capitani valorosissimi ed insigni, un Belisario, un Narsete, Mondo ed alquanti altri, i quali per le loro incomparabili virtù e gloriose gesta, accrebbero non meno la sua gloria, che per tante conquiste l'Imperio; onde potè il suo nome andarne appresso la posterità fregiato con tanti titoli, d'Alemannico, Gotico, Francico, Germanico, Antico, Alanico, Vandalico ed Affricano, per le tante genti vinte e debellate. Nè minor fu la sua fortuna per li tanti illustri e valorosi Capitani, che fiorirono a' suoi tempi, quanto per le opportunità, che se gli presentarono per agevolar le conquiste; e particolarmente nella guerra, che mosse a' Goti per l'impresa d'Italia, di cui saremo brevemente a narrare i successi.

Da poi che Belisario ebbe trionfato de' Vandali nell'Affrica, [407] e presa Cartagine, avendo fatto prigioniero Gilimere loro Re, e portatolo in trionfo a Costantinopoli; vedendo Giustiniano sottomesso al suo Imperio quel vastissimo Regno, rivolse tutti i suoi disegni alla impresa d'Italia per sottrarla dalla dominazione dei Goti; ed una opportunità assai prospera, che presentossegli, accelerò l'impresa, e diede maggiori stimoli all'esecuzione.

Amalasunta, Principessa prudentissima, come vide suo figliuolo Atalarico per la sua dissolutezza caduto in una mortale languidezza, che non v'era più da sperare di sua vita, dubitò, che dopo la morte di suo figliuolo non sarebbe potuta vivere in sicurezza fra i Goti, i quali l'odiavano a morte, perciocchè non poteva ella sofferire i loro disordini e dissolutezze; e perch'era ella infinitamente stimata dall'Imperadore Giustiniano, e tenuta dal medesimo così cara ed in tant'onore, che venne fino ad insospettirsene e rendersene gelosa Teodora sua moglie, incominciò celatamente a trattar con Giustiniano, come potesse mettere il Reame d'Italia fra le sue mani, pensando, che in questa maniera otterrebbe la sua quiete e sicurezza; ma la morte improvvisa di suo figliuolo non le diede tanto tempo di potere adempiere il suo disegno; per la quale cosa dubitando, che i Goti, non volendo sofferire il suo governo, non facessero prontamente un Re a loro capriccio, destramente gli prevenne, mettendo sul Trono Teodato suo cugino, figliuolo d'Amalafrida sorella del Gran Teodorico, pur egli dell'illustre gente Amala[816]. Era costui un Principe, che aveva menata sua vita nelle solitudini di Toscana, e nello studio della [408] filosofia Platonica era tutto immerso[817]; uomo di molte lettere, e per la lingua latina sopra ogn'altro eccellente, la quale a' suoi tempi era tanto caduta dal suo candore, che riputavasi a gran pregio, chi fosse di quella a pieno esperto; anzi se dobbiamo prestar fede a Cassiodoro[818], poichè Procopio nulla ne dice, fu Teodato anche versato nella teologia, e negli studi ecclesiastici; imperocchè nell'epistola d'Amalasunta scritta al Senato di Roma, ove gli dà conto dell'innalzamento al Trono del medesimo, fra gli altri pregi e lodi, che si danno a Teodato, è l'essere ancora un Principe molto erudito nelle discipline ecclesiastiche. Ma tutte queste lettere e queste erudizioni non furono bastanti a mutar la sua natura e la bassezza della sua mente; poichè del rimanente fu un uomo inespertissimo delle cose militari, timido, pigro, e sopra tutto avarissimo, senza onore, senza probità e pieno di tanta perfidia e malvagità, ch'era capace di fare le più cattive azioni del Mondo, quando gli fossero ispirate, o dalle sue proprie, o dall'altrui passioni.

Ben di questa sua perfida natura sen accorse da poi con suo estremo periglio l'infelice Principessa Amalasunta; poichè assunto al Trono, obbliando tutte le promesse, ch'aveva fatte alla sua benefattrice, si lasciò governare da' parenti di coloro, che questa Principessa avea fatti morire per loro falli; e seguendo il consiglio di queste genti la fece levare dal palagio di Ravenna[819], e condurre in prigione in un'isola posta nel mezzo del lago di Bolsena, e dopo scorsi alquanti [409] giorni la fece barbaramente strozzare nel bagno, nel medesimo tempo, ch'egli domandava la pace all'Imperador Giustiniano: avendo costretta prima questa miserabile Principessa a scrivere all'Imperadore per ottenerla. Non mancano Scrittori, che narran Teodato esser indotto a tanta scelleratezza non pure per la malvagità della sua natura, e per li consigli di quelli di sua Corte, ma anche per opera e per le persuasioni di Teodora moglie di Giustiniano, la quale ingelosita per l'amor, che suo marito portava a questa Principessa, dubitò, che questi un giorno non dovesse abbandonar lei per Amalasunta.

Giustiniano in tanto, furiosamente sdegnato per sì orribile brutalità di Teodato e degli Ostrogoti, si risolse di vendicar la morte di Amalasunta: e dall'altro canto ardente di desiderio di riunire l'Italia all'Imperio, pensò questa esser la miglior opportunità, che mai potesse presentarsegli per mover guerra a' Goti, e discacciargli d'Italia.

(Un altro pretesto ebbe Giustiniano per l'invasione di Sicilia, e fu per la restituzione del Promontorio, o sia castello Lilibeo di Sicilia, che Giustiniano pretendeva appartenersi all'Affrica. Questo Promontorio, ancorchè parte della Sicilia, Teodorico avealo dato per dote alla sua sorella Amalafrida, quando la maritò a Trasimondo Re de' Vandali, siccome narra Procopio Lib. I, Belli Vandal. c. 8. Avendo dunque Giustiniano per Belisario estinto il Regno vandalico, e restituita l'Affrica all'Imperio, pretendeva che il Lilibeo, come parte accessoria ed appartenente all'Affrica, dovesse Amalasunta restituirlo all'Imperio; ma questa savia Regina destramente andava sfuggendo la dimanda con umilmente rispondergli che di quella dotazione [410] fatta da Teodorico non dovea aversi conto, come contraria alle leggi de' Goti, le quali proibiscono potersi alienare alcuna parte del Regno, siccome Procopio istesso, rapportando le vicendevoli pretensioni, scrisse nel Lib. 2 c. 5. Amalasunta, vedendo che colla forza non potea resistere a Giustiniano, gli rispondeva con ogni rispetto, dicendo: Lilybeum est Gothici juris, neque tanta odia meretur, come lo ripete Procopio anche nel Lib. I, Belli Gothici, c. 1 et 3 e con maniere rispettose ritenne l'Imperadore a non dare alcuna mossa. Ma morta questa infelice Principessa, Giustiniano non ebbe più quel rispetto, che avea fino allora avuto; onde con quest'altro pretesto del Lilibeo invase tutta la Sicilia, per la qual cosa saviamente ponderò Ludewig in vita Justiniani M. c. 8 §. 91 n. 456 pag. 417 dicendo: Quilibet facile intelligit hoc; non tam Lilybeum hic causam actam, quam viae vel claudendae, vel aperiendae Siciliae universae).

Adunque nell'anno del Signore 535, avendo scelto Belisario per quest'impresa, e fatti molti preparativi per mare e per terra, spedillo con potent'armata verso la Sicilia, riputando non d'altronde doversi cominciar le conquiste, che dalla Sicilia, la quale, come nutrice di quelle province ch'oggi formano il nostro Regno, dovea, quella presa, rendergli più facile la conquista delle medesime.

Tentò ancora Giustiniano tutte le strade per agevolar questa impresa, e fece tutti i sforzi per avere in aiuto i Franzesi, portando a' medesimi le sue doglianze contra i Goti, ed allegando le cagioni, ch'egli riputava giustissime per questa guerra. I Goti, e' dice appresso Procopio[820] rapta Italia, quae nostri haud [411] dubie est juris, non pur non curano di restituirla all'Imperio; ma di vantaggio han cercato il mio disprezzo nella morte crudelmente data ad Amalasunta da me cotanto stimata, ed in tanto pregio avuta, nell'istesso tempo, che mi dimandavan pace. Ma i Franzesi non si mossero ad aiutarlo, anzi irritato da poi Teodeberto loro Principe nipote del gran Clodoveo, che Giustiniano ne' suoi editti a tanti elogi avea anche aggiunto il prenome di Francico, quasi che pure avesse debellata la sua inclita gente, gli mossero i Franzesi guerra, e presero l'armi contro di lui a favore di Teodato, e poi di Vitige.

Frattanto Belisario giunto in Sicilia, non travagliò molto, per la confusione, ch'ivi era, a conquistarla: la prende, e da Messina immantenente passa a Reggio, ove gli furon aperte le porte; ed indi prendendo il cammino per terra, verso Roma indirizzossi. Tutti i luoghi, che per via incontrava, spontaneamente gli si rendevano. Prende per tanto senza molto contrasto i Bruzj, la Lucania, la Puglia, la Calabria, ed il Sannio. Benevento, e quasi tutte le città principali di queste province, a lui si renderono per lo terrore delle sue armi, e molto più per lo spavento de' Goti, e per la stupidezza e timore di Teodato. La Campania solamente contrastò per quanto le sue forze poterono. In questa provincia le città, che potevan difendersi erano Napoli e Cuma: Napoli s'oppose con molto valore e intrepidezza, e sofferse molti giorni l'assedio senza volersi rendere; ma da poi scovertosi da un soldato fortunatamente un acquedotto, che si stendeva fin dentro la città, per questo, con somma costanza, ancorchè più volte costernati, alla fine i Greci penetrarono fin dentro alla medesima, e con [412] istordimento degli assediati, entrati che furono, posero sossopra la città, e più lagrimevole e funesto sarebbe stato il sacco, che le diedero, se Belisario non avesse posto freno alla rapacità de' soldati. Siegue Belisario dopo la conquista di queste nostre province il cammino verso Roma, ed in fine la prende nell'undecimo anno dell'Imperio di Giustiniano, dopo sessanta anni, ch'era stata da straniere Nazioni occupata.

Intanto per lo spavento di queste armi, e per le tante vittorie di Belisario, vie più intimorito Teodato tenta tutte le strade per ottener la pace da Giustiniano: manda più Legati in Costantinopoli, fra quali Agapito R. P. offerendogli patti e condizioni per rendersi[821]. Aveva pure Giustiniano mandato in Italia per trattar questa pace un tal Pietro, uomo assai venerabile, e ne' maneggi di Stato espertissimo: Teodato fa molti progetti al medesimo, il quale senza espressa volontà dell'Imperadore non potendogli accettare, fece sì che si mandassero a dirittura a Costantinopoli. Offeriva Teodato a Giustiniano la Sicilia: che il Popolo romano ne' giorni solenni e festivi, o in qualunque altra pubblica funzione, o nel teatro, o nelle piazze potesse, avanti il nome di Teodato, celebrare il nome dell'Imperadore; che non potesse dirizzarsi alcuna statua, o sia di marmo, o di bronzo, o di qualsivoglia altra materia, nè veruna medaglia colla sola immagine di Teodato, ma dovesse insieme dirizzarsi, o imprimersi quella dell'Imperadore ancora, con darsi all'effigie dell'Imperadore il miglior luogo alla destra di Teodato.

Mentre s'attendevano i sentimenti di Giustiniano, non cessava Teodato di domandare spesso all'Ambasciadore, [413] di cui aveva somma stima e venerazione, come dalle sue epistole presso a Cassiodoro, se sarebbe l'Imperadore per accettare l'offerte condizioni. Lagnavasi pure con Pietro altamente di Giustiniano, che per leggiere cagioni avessegli mossa sì crudel guerra, e che sotto varj pretesti cercasse togliere ai Goti l'Italia con somma ingiustizia, quando ch'essi l'avevan ricuperata dalle mani d'Odoacre colle proprie lor forze, e col consentimento dell'istesso Imperadore Zenone. Nè a tutte queste querele altro rispondevasi da Pietro, come ancora si faceva da' Capitani Greci, se non col dire; che non disconveniva a Giustiniano di ricuperar quelle province, le quali a tutti era noto essere state tolte all'Imperio, e che a lui, al qual era commessa la cura del medesimo, conveniva far tutti gli sforzi per restituirle là donde furon divelte[822]. I progetti intanto mandati da Teodato a Giustiniano, furon da costui derisi, non altrimenti, che derise Alessandro M. quelli offertigli da Dario, il quale offeriva per dote della figliuola tutti que' luoghi, ch'erano tra l'Ellesponto ed il fiume Hali, i quali erano già stati da lui conquistati[823]: nè altrimente di ciò, che fece il Popolo romano con Vologeso Re de' Parti[824]; e che fece da poi Carlo M. con Niceforo, il qual offeriva la Sassonia già soggiogata[825]; imperocchè Teodato offeriva la Sicilia, ch'era stata già occupata da Belisario con le province del nostro Reame: onde ributtate queste condizioni, crebbe via più il timor di Teodato, e lo sgomento de' Goti.

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I miserabili Goti, vedutisi in tanta costernazione, e scorto il timor di Teodato, e che per la di lui dappocaggine eransi ridotti a stato sì lagrimevole, vollero tentare se con Belisario almeno potessero riuscire questi trattati di pace; onde mandaron Legati al medesimo perchè gli esponessero le loro giuste querele, e lo trattenessero dall'impresa. Ammessi da Belisario cominciaron ad esporgli i torti, che per questa ingiusta guerra si facevan a' Goti. Grande ingiuria, ei diceano[826], è questa, che ci fanno i Romani, i quali contro di noi, essendo ad essi confederati ed amici, prendon l'armi senza ragione alcuna. I Goti non per forza hanno tolta a' Romani l'Italia: Odoacre fu quegli, che con molta strage rapilla, mentre Zenone imperava nell'Oriente, il quale, non potendo vendicarsi e ritorgli la grande ingiusta preda, nè avendo forze tali, che potesse opporsi alla tirannide degli Eruli, chiamò il nostro Principe Teodorico, che minacciavagli allora, per alcuni disturbi fra di loro insorti, di volerlo assediare dentro a Costantinopoli medesima, e lo pregò, che volesse perdonare al nuovo inimico per la memoria delle dignità del Patriziato e Consolato romano, ch'aveagli conferito, e della stima, che avea fatto sempre della di lui persona; e che tutto il suo valore, e tutta la ferocia della sua gente dovesse altrove indirizzare; prendesse l'armi contra Odoacre e vendicasse la morte d'Augustolo infamemente da colui ucciso: dovesse ritorgli l'Italia, ch'egli liberamente concedeva a lui ed a' suoi Goti, affinchè potessero per sempre in ogni futura età reggerla e ritenersela con sì giusto titolo ed ottima ragione. Venne [415] Teodorico in Italia, e col suo valore e colle proprie forze de' suoi Goti discaccia il Tiranno, e col consenso e confederazione di tutti i Principi d'Oriente resse così bene per tanti anni l'Italia, la quale ora dopo la di lui morte è da' suoi Goti governata: con qual ragione dunque si pretende muover guerra sì ingiusta a coloro, che la posseggono con sì giusti titoli, dopo averla tanti anni con tanta giustizia posseduta ed amministrata?

Ma Belisario, che vedeva volar dal suo canto la vittoria, non era in istato di muoversi per sì fatte cose, le quali se non sono accompagnate colla forza a niente giovano: rispose loro in volto assai severo e grave, ch'essi soverchio eransi avanzati nel dire, che Teodorico fu ben mandato da Zenone per combatter Odoacre, ma non già, che da poi avesse da insignorirsi d'Italia; poichè non importava nulla all'Imperadore, che non ricuperandosi all'Imperio, stasse sotto la servitù, o dell'uno o dell'altro Tiranno; ma che si liberasse Italia, e sotto le leggi Imperiali vivesse: ma Teodorico essendosi valorosamente portato contra Odoacre, si fece poi lecito molte cose, ricusando di renderla al vero Padrone. A me, dicea egli, sono in ugual grado, e chi rapisce per forza, e chi ritiene la roba, che non è sua, contro alla volontà del padrone: onde quella regione, che s'appartiene all'Imperio, io non sarò mai per concederla a persona veruna del Mondo.

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§. I.  Di Vitige, Ildibaldo, ed Erarico Re d'Italia.

Per sì dura risposta, datisi i Goti in braccio alla disperazione, usaron tutti i loro sforzi, e tutte le lor arti, per trovare qualche riparo all'imminente precipizio. Non lasciaron impunita la stupidezza di Teodato, e veggendo per sua cagione esser caduti in tanta ruina, ed esser inutile il di lui Imperio per la sua inezia, prima lo discacciarono, e poi l'uccisero, ed in suo luogo elessero in mezzo all'esercito Vitige, gridandolo loro Re. Goldasto[827] rapporta un'altra cagione di sua morte: cioè avere i Goti scoverto, che Teodato attediato per sì lunghe e travagliose guerre, erasi finalmente convenuto con Giustiniano di lasciargli il Regno, purchè gli dasse una grossa pensione annua, per potersi ritirare nelle solitudini, e vivere a se ed a' suoi studj di filosofia: e le lettere così quella di Teodato scritta a Giustiniano, come la risposta del medesimo, sono rapportate dall'istesso Goldasto. Teneva Vitige per moglie Matasuenda figliuola della Principessa Amalasunta: Principe di molto valore e prudenza, di cui ce ne rendon testimonianza i suoi egregi fatti, ed alcune sue orazioni ed epistole, che ancor si leggono appresso Cassiodoro[828], e Goldasto[829].

Questi appena assunto al Trono, dopo aver tentata in vano la pace con Giustiniano[830], cinse d'uno stretto [417] assedio Roma, e tennela un anno e nove giorni assediata, fin che riuscì a Belisario di liberarla nell'anno 538. Onde vedutosi deluso dalle sue speranze, ritiratosi con sua moglie in Ravenna, non passò guari, che Belisario vittorioso da per tutto l'imprigionasse insieme con la Principessa sua moglie, e fortunatamente gli riuscisse (richiamato da Giustiniano) di nuovo trionfare in Costantinopoli di Vitige Re dei Goti, come avea fatto di Gilimere Re de' Vandali.

Avendo l'Imperador Giustiniano richiamato Belisario in Costantinopoli per sospetti di Stato, e mandati in Italia in suo luogo Giovanni e Vitale difformi in tutto da colui di valore e di costumi, fece sì, che i Goti riprendendo animo, crearon per loro Re Ildibaldo[831], ch'era Governador in Verona; ma questi per la sua crudeltà, fu tantosto da' Goti ucciso, ed eletto in suo luogo Erarico, che anche poco da poi fu dagli stessi Goti morto, per lo sospetto, ch'ebbero di lui d'essersi confederato co' Greci; e fu Totila innalzato al Trono.

§. II. Di Totila Re d'Italia.

Sotto questo Principe, per la singolar sua virtù ed estremo valore, i Goti ripresero ardire, e ricuperarono molte province da Belisario occupate; ruppe egli le genti dell'Imperadore, e racquistò la Toscana. Non guari da poi ricuperò queste nostre province, che ora forman il Regno. Riacquista il Sannio, e devasta Benevento, che prese a forza d'arme, buttando a terra [418] le sue mura. Passa indi nella nostra Campagna, e pone l'assedio a Napoli, e fra tanto prende Cuma, e tutte l'altre piazze lungo il mare; e durando ancor l'assedio di Napoli, con ciò sia che la sua armata s'era renduta potentissima per un infinito numero di Goti, i quali accorsero a lui da tutte le parti, egli s'impadronì senza resistenza per suoi Luogotenenti della Puglia, della Calabria, e dell'altre province, dalle quali ne tirò somme immense, che s'eran unite per Giustiniano. I Napoletani alla fine renderonsi, e quantunque dubitassero, che per la fatta resistenza non fossero da Totila severamente trattati, sperimentaron nondimeno la mansuetudine di questo Principe, il quale non pur fu difensore e custode della pudicizia delle donne napoletane[832], ma trattogli assai benignamente, e con somma umanità. Ed in sì fatta maniera per valore di Totila ritornaron queste nostre province di nuovo sotto la dominazione de' Goti, che per inezia di Teodato eransi perdute.

Infin a questi tempi i Pontefici romani non eransi intrigati negli affari di Stato, e de' Principi; nè molto eransi curati, che l'Italia da' Romani passasse ora sotto il dominio de' Goti, ora de' Greci. I loro studj eran tutti indirizzati alla riunione della Chiesa d'Occidente con quella d'Oriente, e a dar sesto in varj Concilj alle varie controversie insorte tra' Vescovi d'Oriente intorno a' dogmi, ed alla disciplina. I Pontefici Silverio, e Vigilio furon i primi: Silverio rendutosi perciò sospetto a' Greci, quasi che desiderasse in Italia più la dominazione de' Goti, che quella de' Greci, fu da Belisario accusato d'avere avuta intelligenza coi [419] Goti. Era Silverio per la morte di Papa Agapito stato eletto in sua vece in Roma, e riconosciuto dal Clero e dal popolo Romano per Vescovo legittimo di quella città. All'incontro Vigilio, Diacono della Chiesa di Roma, che mandato per affari di religione in Costantinopoli, era rimaso in quella città, aspirando anche egli al Papato, e vedendosi prevenuto da Silverio, ch'era sostenuto da' Romani e da' Goti, mette in opera tutti i maneggi con Giustiniano, per indurlo a mandar Belisario di nuovo in Italia con potente armata, per ritogliere a' Goti tutto ciò che sotto Totila avean ricuperato: e già lo persuade a mandarlo. Usa ancora tutte l'arti ed ingegni coll'Imperadrice sua moglie, permettendole di ricever Teodosio, Antimo e Severo alla sua comunione, e d'approvare la loro dottrina, s'ella lo faceva elegger Papa.

Ritorna per tanto Belisario in Italia per discacciarne i Goti; ma ritornato con poche forze, perde più tosto la riputazione delle cose prima fatte da lui, che altra maggiore ne racquistasse; imperocchè Totila, trovandosi Belisario con le sue truppe ad Ostia, sotto gli occhi suoi espugnò Roma, e veggendo non potere nè lasciarla, nè tenerla, in maggior parte la disfece e caccionne il Popolo, menando seco i Senatori; e stimando poco Belisario, andò coll'esercito in Calabria ad incontrar le genti, che di Grecia in aiuto di Belisario venivano. Belisario vedendo abbandonata Roma, la ripigliò tantosto, ed entrato nelle romane ruine, con quanta più celerità potè, rifece a quella città le mura, e vi richiamò dentro gli abitatori. Vigilio, ripresa da Belisario Roma, partì da Costantinopoli con ordine secreto dell'Imperadrice diretto a Belisario per far riuscire il suo disegno. Giunto a Roma lo diede [420] a Belisario, e gli promise del danaio, purchè lo ponesse in quella sede: Belisario fece venire a se Silverio, ed accusatolo d'intelligenza co' Goti, lo stimolò a riconoscere Antimo: negando di farlo Silverio, fu spogliato degli abiti sacerdotali, e mandato a Patara in esilio, facendo in sua vece elegger Vigilio. Ma ai progressi, che si speravano di Belisario, tosto s'oppose la fortuna, perchè Giustiniano in quel tempo assalito da' Parti, richiamò Belisario. Questi per ubbidire al suo Signore, abbandonò l'Italia, e rimase questa provincia a discrezione di Totila, il quale di nuovo prese Roma; ma non fu con quella crudeltà trattata, che prima, perchè pregato da S. Benedetto, il quale in que' tempi aveva di santità grandissima fama, si volse più tosto a rifarla. Giustiniano intanto aveva fatto accordo co' Parti, e pensando di mandar nuova gente al soccorso d'Italia, fu dagli Sclavi, nuovi Popoli settentrionali ritenuto, i quali avevan passato il Danubio, ed assalita l'Illiria e la Tracia; in modo, che Totila ridusse quasi l'intera Italia sotto la sua dominazione.

Ma non molto goderon i Goti de' frutti di tante vittorie, perchè vinto ch'ebbe Giustiniano gli Sclavi, mandò in Italia con potenti eserciti Narsete Eunuco, uomo in guerra esercitatissimo, il qual accrebbe i suoi eserciti coll'istesse genti straniere, e fra l'altre Nazioni, come Eruli, Unni, e Gepidi, servivasi anche de' Longobardi, che portò dalla Pannonia; i quali da poi seppero così ben valersi della notizia di sì bel paese, e dell'occasioni che loro si presentarono, che da ausiliarj fecionsi conquistatori, come più innanzi diremo. Non ancor Narsete erasi sbrigato dall'impresa della Tracia per venire in Italia, che il Governador [421] di Taranto, lasciando le parti ed il servigio di Totila, remise la sua piazza fra le mani d'alcuni imperiali, ch'eran calati a Cotrone; onde Totila sorpreso per queste perdite, e stordito dalla grandezza dell'apparecchio della guerra, che la fama pubblicava ed ingrandiva per tutto, che Narsete faceva contro di lui, inviò Teja valorosissimo Capitano per arrestar Narsete al passo; ma non essendo riuscito a Teja d'impedirlo, ecco che Narsete, rotto ogni argine, inonda con potenti eserciti le Campagne, nè potè farsi altrimente, che non si venisse ad una campal battaglia, nella quale Totila, avendo dati gli ultimi segni del suo valore, non potendo resistere alle forze di gran lunga superiori del suo nemico, rimase vinto e morto, ed i suoi Goti sconfitti e debellati: onde gl'infelici riunitisi, come poteron il meglio, dopo sì crudel battaglia, si ritiraron in Pavia, dove crearono loro Re Teja, nel cui valore ed audacia era riposta ogni speranza, per istabilire il loro imperio in Italia. All'incontro Narsete dopo questa vittoria prese Roma, e l'altre città a lui si renderono.

Potè questa sconfitta abbattere in guisa le forze de' Goti in Italia che in appresso più non valsero a ristabilirvisi; ma assai maggior nocumento recò loro la perdita di Totila valorosissimo loro Re: Principe, che col suo valore, e molto più colla sua prudenza e bontà seppe ristorar in modo le fortune de' suoi Goti, che quasi aveale ridotte in quel medesimo stato in cui lasciolle Teodorico. Egli per lo spazio poco men di dieci anni che regnò, tanti monumenti lasciò del suo valore, della sua bontà, e di molt'altre virtù delle quali era ornato, che non v'è Scrittore, il quale non lo commendi, e per tante sue virtù infin al Cielo [422] non l'estolga: egli ancor che Goto, dice Paolo Varnefrido, abitò co' Romani, come un padre co' suoi figliuoli, niente mutò delle loro leggi, e de' loro istituti. L'istessa amministrazione, e la medesima forma delle province e del governo ritenne, come Teodorico aveale lasciate: amantissimo della giustizia e dell'equità; ed è veramente ammirabile l'orazione[833], che questo Principe fece a' suoi soldati, dopo aver presa Napoli in commendazione della giustizia e dell'altre virtù, che presso a Procopio ancor leggiamo. La sua bontà, e mansuetudine verso i vinti, vien celebrata sovente da quest'istesso Storico ancor che greco. Egli serbò intatta e sicura da ogni disprezzo Rusticiana moglie che fu di Boetio, femmina infesta al nome Goto, e della quale i Goti non erano niente soddisfatti.

Nè men della sua temperanza poteron tacere gl'Istorici: egli fu, che sovente salvò la pudicizia e la libertà delle matrone romane, e che, presa Napoli, fu dell'onor delle donne zelantissimo, e che severamente punisse gli altrui misfatti: che di semplicissimi cibi fosse contento co' suoi Goti, come di pane, latte, cacio, butirro, e di carni salvagge e ferine, e di queste allo spesso crude, ed alle volte salate. Tanto che per l'esempio di questo Principe poterono i Goti avere il vanto d'esser essi reputati i temperati, i giusti ed i mansueti, non gl'istessi Romani, ne' quali, come disse Salviano[834], era da desiderare la virtù, la giustizia, e la temperanza de' Goti medesimi.

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§. III.  Di Teja ultimo Re de' Goti in Italia.

Gl'infelicissimi Goti, dopo la battaglia per loro funestissima datagli da Narsete, usando tutti i loro sforzi e industria per trovar mezzi pronti per ristorarsi delle passate perdite, oltr'aver eletto per loro Re Teja, valorosissimo Principe, tentarono i soccorsi de' Principi vicini. Ricorsero a' Franzesi, e mandaron ad essi Ambasciadori per muovergli al loro soccorso. Merita veramente esser da tutti letta ed ammirata l'orazione di questi Legati tutta piena d'affetti e di nobilissimi sensi, ch'esposero a' Franzesi, la quale presso Agatia[835] ancor si legge. Se il nome de' Goti, essi dicevano, mancherà, ecco che i Romani saranno pronti ed apparecchiati contro di voi a rinovar l'antiche guerre. Nè alla loro cupidigia mancheranno pretesti speziosi, e ricercati colori. Vi ricorderanno i Marj, i Camilli e i molt'Imperadori, che guerreggiarono co' Germani, e che oltre al Reno estesero i confini del loro Imperio. E per queste ragioni voglion esser riputati, non come rapitori degli altrui Stati, ma come se niente fosse d'altrui, ed il tutto lor proprio, vantano di non far altro, che coll'armi loro giuste e legittime ricuperare ciò, che da' loro maggiori era stato posseduto: non per altre cagioni mossero a noi così ingiustamente la guerra; come se il nostro sempre glorioso Principe ed autore di questa impresa, Teodorico, a torto e per ingiuria avesse ad essi tolta l'Italia: perciò han creduto esser loro lecito di toglierci le nostre sostanze, estinguere la maggior parte [424] della nostra gente, e de' Capitani fra noi i più sublimi ed eminenti: incrudelire contra le nostre mogli, contra i propri nostri figliuoli, ed a portargli in dura servitù: quando Teodorico non con loro repugnanza, ma con particolar concessione e permessione di Zenone lor Imperadore venne in Italia, non già togliendola a Romani, i quali l'avean perduta, ma colle proprie sue forze, e col suo proprio valore, avendo discacciato Odoacre invasor peregrino, jure Belli acquistò ciò, che questi avea occupato. Ma i Romani da poi che si videro ristabiliti, niente curando del giusto e del ragionevole, col pretesto della morte d'Amalasunta si finsero in prima irati contra Teodato, e da poi non tralasciaron di muoverci ingiusta guerra, e per forza rapirci ogni cosa. E pure questi sono, che vantan esser soli i sapienti, essi soli esser tocchi del timor di Dio, essi tutte le cose dirizzare secondo la norma della giustizia. Perchè dunque non v'accada un giorno quel che da noi presentemente si patisce, ed il pentimento non vi giunga tardi, quando più non potrà giovarvi, debbon ora prevenirsi gli inimici, nè dee da voi tralasciarsi l'occasione presente di mandar contro a' Romani un pari esercito, al quale presieda un vostro valoroso Capitano, che adoperandosi con prudenza e valore contro d'essi, procuri disturbargli dall'impresa d'Italia, e noi restituisca nella possessione della medesima.

Ma riuscì inutile questa lor ambasceria co' Franzesi, da' quali niente poteron ottenere; perocchè avendo Teodiberto, dopo la guerra mossa a Giustiniano, poco prima di morire stabilita una ferma e stabile pace col medesimo nell'anno 548, la quale poi fu confermata da Teodobaldo suo figliuolo, non vollero, ricordevoli [425] di questi patti, in conto alcuno indursi a romper la pace; tanto che si trattennero, e di muover l'armi contro a' Goti ad istigazione di Giustiniano, e di portarle contra i Romani, ancorchè i Goti glielo richiedessero con calde istanze: e se bene dopo estinta già la dominazione de' Goti, nell'anno 555 morto il Re Teodobaldo, Leotaro, ed il suo fratello Bucellino Generale delle truppe d'Austrasia, co' Franzesi e cogli Alemanni avessero tentata l'impresa d'Italia, e si fosse il primo avanzato fin in Puglia e Calabria, ed il secondo, oltre all'aver devastato il Sannio, fosse scorso fino in Sicilia; nulladimeno i loro eserciti furon non molto da poi disfatti. Quello di Leotaro da un fiero morbo, che in una state l'estinse: e l'altro di Bucellino, fu da Narsete a Casilino interamente sconfitto. E fu questa la prima volta, che i Franzesi tentassero sottoporre alla loro dominazione queste nostre province: presagio, che fu pur troppo infausto, di dovere le lor armi nell'impresa d'Italia aver sempremai infelicissimo fine, siccome sovente l'esperienza ha dimostrato ne' secoli men a noi lontani, che que' gigli più volte piantati in questi nostri terreni non poteron mai mettervi profonde e ferme radici.

Esclusi per tanto i Goti dal soccorso de' Franzesi, tutte le speranze furon collocate nel valore di Teja, il quale fece sforzi i più maravigliosi, che potessero mai desiderarsi in casi così estremi, per ristorare le fortune de' Goti. Egli incontrato da Narsete a piedi del nostro Vesuvio, accampò così bene il suo esercito che con tutto le due armate non fossero separate, che dal fiume Sarno, dimoraron nondimeno due mesi a scaramucciare, non potendo Narsete tentare il passaggio avanti l'esercito di Teja, ch'era Signore del ponte, [426] nè ritirarsi per paura, che i Goti non portassero soccorso a Cuma: ma alla fine essendo riuscito a Narsete, ch'era di gran lunga superiore di forze, di dar battaglia, Teja facendo l'ultime pruove del suo valore ed ardire, rimase in quella miseramente ucciso; onde i Goti già costernati, veggendosi privi di sì glorioso Capitano, risolsero di rendersi a Narsete, il quale lor accordò, che se ne potessero andare dalle terre dell'Imperio con tutti gli argenti ch'essi avevano, e di vivere secondo le loro leggi. Così fu accordato il trattato di buona fede da una parte e dall'altra, dopo 18 anni di guerra, in maniera che tutte le Piazze essendosi messe fra le mani de' Commessarj di Narsete, i Goti usciron d'Italia l'anno del Signore 553, dove 64 anni, da Teodorico loro Re, infin a Teja avevano regnato.

Ecco il fine della dominazione de' Goti in Italia, ed in queste nostre province: gente assai illustre e bellicosa, che tra gli strepiti di Marte non abbandonò mai gli esercizi della giustizia, della temperanza, della fede, e dell'altre insigni virtù, ond'era adorna; non così barbara ed inumana, com'altri a torto la reputa. Lasciò vivere i Popoli vinti e debellati colle stesse leggi romane colle quali eran nati e cresciuti; e delle quali era sommamente ossequiosa e riverente: che non mutò la disposizione e l'ordine di queste nostre province; non variò i Magistrati; ritenne i Consolari, i Correttori, ed i Presidi, e molt'altri costumi ed istituti mantenne, siccome eran in tempo degl'istessi Imperadori romani: tanto che queste nostre province ricevettero altra forma e nuova amministrazione, non già quando stettero sotto la dominazione de' Goti, ma quando passarono sotto gl'Imperadori d'Oriente; i [427] quali mandando in Italia gli Esarchi, e dividendo le province in più Ducati, diedero perciò alle medesime disposizione diversa da quella di prima, come di qui a poco vedremo.

Non si poterono però evitare que' disordini e quelle confusioni, che le tante feroci e crudeli guerre soglion apportare alle discipline ed alle lettere: certamente in Italia in questi tempi; per quel s'appartiene alla giurisprudenza, non potevano sperarsi Giureconsulti cotanto rinomati, nè così insigni Professori ed Avvocati, ch'avessero potuto restituirla nell'antico splendore nel Foro e nell'Accademie. Non dee però riputarsi di piccol momento, in mezzo a tante e sì feroci armi, che pensassero i Re goti, come fecero Atalarico e Teodato, di mantener quanto più fosse possibile l'antico lustro del Senato romano, e dell'Accademia di Roma, con provederla di Professori esperti nella legal disciplina, come fece Atalarico[836], e d'illustri Grammatici, perchè la lingua latina non affatto si perdesse fra tante lingue straniere e barbare: ed infatti in quest'istessi tempi sarebbe mancata all'intutto, se non si fosse ristabilita in quell'Accademia, e Teodato col suo esempio, essendone vaghissimo non v'avesse dato riparo. Fin da questi tempi si lodava Roma per la purità della lingua latina, perchè in tutte l'altre province d'Italia era già di barbarie ricolma; e gl'istromenti, che per mano di Tabellioni, ch'oggi diciamo Notaj, si stipulavano, non eran di miglior condizione, intorn'alla lingua, di quel ch'oggi s'usa in Italia. Narra Fornerio[837] in Cassiodoro, serbarsi [428] in Parigi nella libreria del Re un antico istromento di transazione conceputo con formole non migliori di quelle, che usiam oggi, nel quale un tal Stefano tutore di Graziano pupillo si transiggè col medesimo per una certa lite, che fu rogato in Ravenna nell'ultim'anno dell'Imperio di Giustiniano, cioè nel 38 all'indizione 12 che cade nel 564 di Cristo. E perciò anche in questi tempi si riputava cosa di sommo pregio, chi di lingua latina fosse intendente, siccome fra l'altre lodi, che si davan a Teodato per le sue molte lettere, una era questa. Pure con tutto ciò vide Italia in quest'età un Ennodio, un Giornande, un Boetio Severino, un Simmaco, un Cassiodoro, un Aratore, ed alcun'altri valent'uomini, non in tutto sforniti di scienze e d'erudizione.

Giustiniano, sconfitti ch'ebbe per mezzo di Narsete i Goti, e ritolta l'Italia dalle lor mani, a richiesta, com'ei dice, di Vigilio Pontefice romano, promulgò nel penultim'anno del suo Imperio una prammatica[838] di più capi, nella quale a' disordini fin allora patiti in Italia, e nell'altre parti occidentali, pensò dar qualche riparo; fu questa indirizzata ad Antioco Prefetto d'Italia, e data in Costantinopoli nel 37 anno del suo Imperio. In quella, siccome si confermano tutti gli atti e donazioni fatte da Atalarico, e da Amalasunta sua madre, e da Teodato istesso, così all'incontro, riputando Totila per Tiranno, tutti gli atti e donazioni fatte da costui nel tempo della sua tirannide, gli abolisce, gli abbomina, e vuol che di quelli non se n'abbia ragione alcuna; vuol che nelle prescrizioni di 30 e 40 anni non debba computarsi il [429] tempo, ch'Italia stiè sotto la tirannide di Totila: che nelle liti insorte fra' Romani, non si mescolassero Giudici militari, ma che i civili l'avessero a decidere: diede previdenza a' superinditti imposti a' Negoziatori delle province di Calabria, e di Puglia: e molte altre leggi promulgò allo stato d'Italia, e di queste nostre province appartenenti, che posson osservarsi in questa prammatica in più capi distinta, la quale si legge dopo le Novelle. Ma cosa assai più notabile osserviamo nella medesima: alcuni per conghietture ed argomenti scrissero, che per essersi la pubblicazione delle Pandette, e del Codice commessa da Giustiniano al Prefetto dell'Illirico, per questo dobbiam credere, ch'in Italia si fossero anche pubblicate: non bisognan argomenti in cosa sì manifesta: per questa prammatica abbiamo, che Giustiniano per suo particolar editto ordinò, che le leggi inserite nei suoi libri s'osservassero per tutt'Italia. Ma perchè poi nel Regno di Totila le cose de' Greci andaron in ruina, ed i Goti ritornarono nel pristino dominio, in mezzo a tante rivoluzioni di cose, non poterono certamente aver luogo le sue leggi. Ristorati da poi per Narsete gli affari de' Greci, e debellati affatto i Goti, volle per questa prammatica, che non solamente quelle leggi s'osservassero per tutt'Italia, ma anche quell'altre sue costituzioni Novelle, ch'avea da poi promulgate, in guisa che, formata col voler di Dio una Repubblica, una e sola anche fosse l'autorità delle leggi per tutte le sue parti, come sono le parole della prammatica, che come notabili per lo nostro istituto, e da altri fin qui, ch'io sappia, non mai osservate, sarà bene di trascriverle: Jura insuper, nel leges Codicibus nostris insertas, quas JAM sub edictali programmate [430] in Italiam dudum misimus, obtinere sancimus; sed et eas, quas POSTEA promulgavimus Constitutiones, jubemus sub edictali propositione vulgari ex eo tempore, quo sub edictali programmate evulgatae fuerint etiam per partes Italiae obtinente, ut una Deo volente facta Repubblica, legum etiam nostrarum ubique prolatetur auctoritas.

Ma non perchè si fosse spento il nome de' Goti in Italia, si mantennero queste province lungo tempo sotto gl'Imperadori d'Oriente, ed i libri di Giustiniano ebbero forse lunga durata: morto Giustiniano, ritornarono di bel nuovo, se non sotto la dominazione de' Goti, sotto quella de' Longobardi, i quali traggon la lor origine da' Goti stessi, e de' quali sono rampolli e germogli, come si vedrà, quando d'essi farem memoria.

Nè perchè queste province passassero sotto l'imperio di Giustiniano, vi fu tanto di spazio, che potessero le di lui leggi stabilirvisi, e che l'insigni sue Compilazioni avessero potuto in esse poner piede, e metter qui profonde radici; se pur ci vennero, tosto delle medesime si spense affatto la memoria ed ogni vestigio, poichè appena Giustiniano ebbe la gloria d'aver liberata Italia da' Goti, che distratto per la seconda guerra della Persia, e per l'invasioni degli Unni, fu dalla morte non guari da poi nell'anno 565 sopraggiunto, in età già matura d'anni 82, dopo averne imperato 38 e mesi otto. Principe, che se non avesse nell'ultimo di sua vita oscurata la sua fama per l'eresia Eutichiana[839], che volle abbracciare, nè mai abjurarla, avrebbe superata la gloria di molt'Imperadori [431] per la pietà, per la magnificenza, per li tanti egregi suoi fatti, e per le tante insigni vittorie, che e nella pace e nella guerra lo renderon immortale; come ce lo rappresentano tutti i più famosi Storici de' suoi tempi, e quelli ancora che dopo lui fiorirono, Teofilo Abate suo maestro[840], Procopio, Agatia, Teofane, Zonara, Marcellino, Evagrio e Niceforo fra' Greci; e fra' Latini, Cassiodoro, Varnefrido, ed altri moltissimi[841]; tanto che si rende ora inescusabile l'error di coloro, che reputarono, per la testimonianza di Suida, questo Principe così illiterato e tanto rozzo, che nemmeno sapesse l'abbiccì; quando Giustiniano egli medesimo testifica d'aver letti e riconosciuti i libri delle sue Istituzioni. L'error nacque dalla scorrezione del testo di Suida, che fece stampare in Milano Demetrio Calcondila, ove in vece di Giustino, come leggesi in tutti i Codici di Suida del Vaticano, si leggeva Giustiniano[842]; onde ciò, che con errore s'ascrive a Giustiniano, dee attribuirsi a Giustino, Zio e Padre adottivo di Giustiniano, come il manifesta Procopio, testimonio di veduta, asserendo che Giustino da pecorajo divenuto soldato, ed indi Comite, finalmente, con maraviglioso ravvolgimento di fortuna, si vide al Trono imperiale innalzato, e che non sapendo scrivere, firmava gli atti pubblici con certo istromento, o segno fatto apposta, siccome usava di far Teodorico ancora; il quale se bene fosse quel principe cotanto grande, quanto s'è narrato, era nondimeno di lettere ignaro; e come ne' tempi più bassi si legge di Vitredo [432] Re di Canzia, e di Tassilone Duca di Baviera. E da alcuni fu anche detto, che Carlo M. istesso non sapeva scrivere, quantunque sapesse leggere, e fosse dottissimo.

CAPITOLO V. Di Giustino II Imperadore; e della nuova politia introdotta in Italia, ed in queste nostre province da Longino suo primo Esarca.

Morto Giustiniano, si fransero tutti i suoi disegni, e le fortune degl'Imperadori orientali tornarono alla declinazione di prima; poichè essendo succeduto nell'Imperio Giustino il Giovane, figliuolo di Vigilanzia, sorella di Giustiniano, troppo da lui diverso; e per la sua stupidezza essendosi dato tutto in braccio al governo di Sofia sua moglie, per consiglio della medesima rivocò Narsete d'Italia, e gli mandò nell'anno 568 Longino per successore[843].

Giunto Longino in Italia con assoluto potere ed imperio datogli dall'istesso Giustino, tentò nuove cose, e trasformò lo Stato di quella: egli fu il primo, che desse all'Italia nuova forma e nuova disposizione, e che nuovo governo v'introducesse, il quale agevolò e rendè più facile la ruina della medesima: egli se bene fermasse la sua sede in Ravenna, come avevano fatto gl'Imperadori occidentali, e Teodorico co' suoi Goti, volle però dare all'Italia nuova forma[844]. Tolse [433] via dalle province i Consolari, i Correttori ed i Presidi, contra ciò ch'avevan fatto i Romani ed i Goti stessi, e fece in tutte le città e terre di qualche momento, Capi, i quali chiamò Duchi, assegnando Giudici in ciascheduna d'esse per l'amministrazion della giustizia. Nè in tale distribuzione onorò più Roma, che l'altre città[845]; perchè tolto via i Consoli ed il Senato, i quali nomi infin a questo tempo eranvisi mantenuti, la ridusse sotto un Duca, che ciascun anno di Ravenna vi si mandava, onde surse il nome del Ducato romano: ed a colui, che per l'Imperadore risedeva in Ravenna, e governava tutta l'Italia, non Duca, ma Esarca pose nome, ad imitazione dell'Esarca dell'Affrica. Presso a' Greci, Esarca diceasi colui, che presiedeva ad una diocesi, cioè a più province, delle quali la diocesi si componeva: così nella Gerarchia della Chiesa si vide che quel Vescovo, il quale ad una diocesi, e seguentemente a più province, delle quali si componeva, era preposto, non Metropolitano, che aveva una sola provincia, ma Esarca era chiamato. Così l'Italia patì maggiori trasformazioni sotto l'Imperio di Giustino Imperador d'Oriente, che sotto i Goti medesimi, i quali avevan procurato di mantenerla nell'istessa forma ed apparenza, con cui dagli antichi Imperadori d'Occidente fu retta ed amministrata.

Le province, in quanto s'appartiene al governo, furono mutate e divise; e siccome prima ciascuna aveva il suo Consolare, o Correttore, o il Preside, ai quali stava raccomandata l'amministrazione ed il governo [434] delle medesime, per questa nuova divisione poi dandosi a ciascuna città o castello il suo Duca, ed un Giudice, ciascheduno d'essi sol s'impacciava del governo di quelle partitamente, e solamente all'Esarca, che da Ravenna governava tutta l'Italia, stavan sottoposti, sotto la cui disposizione erano: ed a cui nei casi di gravame si ricorreva da' provinciali. Quindi nelle nostre province trassero origine que' tanti Ducati, che ravviseremo nel Regno de' Longobardi, parte sotto la dominazione de' Greci, come fu il Ducato di Napoli, di Sorrento e d'Amalfi, il Ducato di Gaeta e l'altro di Bari; e parte sotto i Duchi Longobardi, i quali avendo ritolto a' Greci quasi tutta l'Italia, e gran parte di queste nostre province, ritennero questi medesimi nomi di Ducati: onde poi sopra tutti gli altri s'avanzaron il Ducato di Benevento, quello di Spoleti e l'altro del Friuli, come diremo più ampiamente nel libro seguente di questa Istoria.

Ma non durò guari in Italia l'imperio de' Greci, nè Longino potè molto lodarsi di questa nuova forma, che le diede; poichè questa minuta divisione delle province in tante parti, ed in più Ducati rendè più facile la ruina d'Italia, e con più celerità diede occasione a' Longobardi d'occuparla, imperocchè Narsete fortemente sdegnato contra l'Imperadore, per essergli stato tolto il governo di quella provincia, che con la sua virtù e col suo valore aveva acquistata; e non essendo bastato a Sofia di richiamarlo, che ella vi volle anche aggiungere parole piene d'ingiuria e di scherno, dicendogli che l'avrebbe fatto tornar a filare con gli altri Eunuchi e femmine del suo palazzo, questo Capitano portò tanto innanzi la sua collera, che mal potendo celar anche con parole il suo acerbo dispetto, [435] rispose, ch'egli all'incontro l'avrebbe ordita una tela, che nè ella, nè suo marito avrebbon potuto districarla; ed avendo licenziato il suo esercito, da Roma, ove egli era, portossi in Napoli, da dove cominciò a trattar con Albino suo grand'amico, Re de' Longobardi, ch'allora regnava nella Pannonia, e tanto operò, finchè lo persuase di venire co' suoi Longobardi ad occupare Italia. Ma poi che per la venuta dei Longobardi in Italia, le cose di quella presero altra forma; e siccome in essa s'introdusse nuova politia e nuove leggi, così ancora queste nostre province furono in altra maniera divise, e prendendo nuovi nomi sotto altri Dinasti si videro disposte ed amministrate; ed in un medesimo tempo sottoposte alla dominazione non pur d'un sol Principe, ma di varie Nazioni, di Greci e di Longobardi, e talor anche di Saraceni; sarà utile cosa per la novità del soggetto, e per la grandezza e verità degli avvenimenti, che dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questo secolo, nel seguente libro partitamente se ne ragioni.

CAPITOLO VI. Dell'esterior politia ecclesiastica.

La Chiesa ancorchè sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio, Principi religiosi, i quali quasi terminaron di distruggere l'Idolatria nell'Imperio romano, si vedesse, per quel che riguarda questa parte, in istato florido e tranquillo; nulladimeno fu combattuta da tante e sì varie eresie, che nè li numerosi e sì frequenti Concili, nè le molte costituzioni degl'Imperadori pubblicate [436] contra gli eretici, bastaron per darle pace. La religione pagana, se bene sotto gl'Imperadori cristiani, imitando i sudditi l'esempio de' loro Sovrani, si fosse veduta in grandissima declinazione, nientedimeno, non essendosi reputato colla forza estinguerla affatto, anzi avendo gl'Imperadori suddetti per lungo tempo tollerato i templi de' Gentili, molte superstizioni pagane, ed il culto degli Dei[846], era quella da' più professata, ancorchè il numero de' Cristiani era molto maggiore di quello de' Pagani. Ma sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio il Culto Gentile era quasi ridotto a nulla in tutte le città dell'Imperio: solamente ne' castelli, in Pagis, ed in Campagna era l'esercizio di quella religione mantenuto. Da questo venne il nome de' Pagani, che s'incontra spesso nel Codice di Teodosio[847], per significar gl'Idolatri: nome che lor era allora dato comunemente dal Popolo cristiano, in vece di quello di Gentili. Gl'Imperadori Teodosio il Giovane, e Valentiniano III, avviliron poi i Pagani in guisa, che vietando d'ammettergli alla milizia, ovvero ad altro Uficio, gli ridussero a segno, che l'istesso Imperador Teodosio mette in dubbio, se a' suoi tempi ve ne fosse rimaso pur uno: Paganos qui supersunt, quamquam jam nullos esse credamus[848]. In fine gli condanna e gli proscrive; ed ordina, che se pur vi erano ancor rimasi lor tempj o cappelle, siano distrutte e convertite in chiese[849].

[437]

Ma con tutti gli sforzi di quest'Imperadori, restarono in Campagna, in Pagis, più antichi tempj, nei quali il culto degli Dei era sostenuto; e per maggiore tempo vi si mantenne, come quelli, che sono gli ultimi a deporre l'antiche usanze e costumi; tanto che nella nostra Campagna pur si narra, che S. Benedetto, a' tempi del Re Totila, abbattesse una reliquia di Gentilità ancor ivi rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'ergesse una chiesa. Restava ancor un'infinità di Nazioni barbare nelle tenebre dell'Idolatria; ma soprattutto assai più in questi tempi perturbavano la Chiesa le scorrerie de' Barbari ed i nuovi dominj stabiliti nell'Imperio da' Principi stranieri: questi o non in tutto spogliati del Paganesimo, ovvero per la maggior parte Arriani, tutta la sconvolsero e malmenarono; e se la Italia e queste nostre province non sofferirono sì strane rivoluzioni, tutto si dee alla pietà e moderazione del Re Teodorico, il quale, ancorchè Arriano, lasciò in pace le nostre Chiese; e siccome non variò la politia dello Stato civile e temporale, così ancora volle mantenere in Italia l'istessa forma e politia dello Stato ecclesiastico e spirituale.

Lo stesso avvenne, ma per altra cagione, alla Gallia, mercè della conversione del famoso Clodoveo Re de' Franzesi, il quale nell'anno 496 ricevette la religione cristiana tutta pura e limpida, non già contaminata dalla pestilente eresia d'Arrio. Non ebbero prima di Reccaredo questa fortuna le Spagne: non l'Affrica manomessa da' Vandali: non la Germania soggiogata dagli Alemanni, e da altre più inculte e barbare Nazioni; non la Brettagna invasa da' Sassoni; non finalmente tutte l'altre province dell'Imperio d'Occidente. Maggiori revoluzioni e disordini si videro nelle [438] province d'Oriente. Gli Unni sotto il loro famoso Re Attila, gli Alani, i Gepidi, gli Ostrogoti, ed ultimamente i Saraceni posero in iscompiglio non meno lo stato dell'Imperio, che della Chiesa.

A tutti questi mali s'aggiunse l'ambizione de' Vescovi delle sedi maggiori, e l'abuso della potestà degl'Imperadori d'Oriente, i quali ridussero il Sacerdozio in tale stato, che negli ultimi tempi ad arbitrio del Principe sottomisero interamente la religione. Queste furono le cagioni di quella variazione, che nello Stato ecclesiastico osserveremo dalla morte di Valentiniano III, fin all'Imperio di Giustiniano. Vedremo, come quasi depressi e posti a terra tre Patriarcati, l'Alessandrino, l'Antiocheno e quello di Gerusalemme, fossero surti quello di Roma in Occidente, l'altro di Costantinopoli in Oriente, le cui Chiese discordanti fra loro, cagionaron una implacabil ed ostinata divisione fra' Latini e' Greci: e come quel di Costantinopoli, non essendo la di lui ambizione da termine o confine alcuno circoscritta, tentasse eziandio invadere il Patriarcato di Roma, e queste nostre province, ancorchè come suburbicarie a quello di Roma s'appartenessero.

§. I.  Del Patriarca d'Occidente.

Il Pontefice romano, che in questi tempi non meno da' Greci che da' Latini cominciò a chiamarsi Patriarca, ragionevolmente ottenne il primo luogo fra tutti i Patriarchi, così per esser fondata la sua sede in Roma, città un tempo Capo del Mondo; come anche per esser egli successor di S. Pietro, che fu Capo degli Appostoli. Nella sua persona s'uniron perciò [439] le prerogative di Primate sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico, appartenendo a lui, come Capo di tutte le Chiese aver delle medesime cura e pensiero, invigilare, ch'in quelle la fede fosse conservata pura ed illibata, e la disciplina conforme a' canoni, e che questi fossero esattamente osservati[850]. L'ordinaria sua potestà, siccome s'è veduto nel precedente libro, non si stendeva oltre alle province suburbicarie, cioè a quelle, che ubbidivano al Vicario di Roma, fra le quali eran tutte le quattro nostre province, onde ora si compone il Regno; ed in questi limiti s'è veduto essersi contenuta fin al tempo di Valentiniano.

In decorso di tempo, perchè nella sua persona andavan anche unite le prerogative di Primate, fu cosa molto facile di stenderla sopra l'altre province. Per ragion del Primato s'apparteneva anche a lui averne cura e pensiero: quindi cominciò in alcune province, dove credette esservene bisogno, a mandarvi suoi Vicarj. I primi che s'istituirono, furon quelli, che mandò nell'Illirico: Tessaglia, ch'era Capo della diocesi di Macedonia, nella quale il suo Vescovo esercitava le ragioni Esarcali, da poi che riconobbe i Vicarj mandati dal Pontefice romano, si vide sottoposta al Patriarca di Roma, il quale per mezzo de' medesimi, non pur le ragioni di Primate, ma anche le patriarcali vi esercitava; e così avvenne ancora, oltre alla Macedonia, nell'altre province dell'Illirico. Col correr poi degli anni non solo all'autorità sua patriarcale sottopose l'intera Italia, ma anche le Gallie e le Spagne; ond'è che non solo da' Latini, ma da' Greci medesimi degli ultimi tempi era reputato il romano Pontefice [440] Patriarca di tutto l'Occidente; siccome all'incontro volevano, che quel di Costantinopoli si riputasse Patriarca di tutto l'Oriente. S'aggiunse ancora, che a molte province e Nazioni, che si riducevan alla fede della religion cattolica, erano pronti e solleciti i Pontefici romani a mandarvi Prelati per governarle, ed in questa maniera al loro Patriarcato le soggettavano: siccome accadde alla Bulgaria, la quale ridotta che fu alla fede di Cristo, tosto le si diede un Arcivescovo; onde nacquero le tante contese per questa provincia col Patriarca di Costantinopoli, che a se pretendeva aggiudicarla. In cotal guisa tratto tratto i Pontefici romani estesero i confini del loro Patriarcato per tutt'Occidente; ond'avvenne (non senza però gravissimi contrasti) che s'arrogaron essi la potestà di ordinare i Vescovi per tutto l'Occidente, ed in conseguenza l'abbattere e mettere a terra le ragioni di tutti i Metropolitani. Di vantaggio trassero a se l'ordinazioni de' Metropolitani stessi. Così quando prima l'Arcivescovo di Milano, ch'era l'Esarca di tutto il Vicariato d'Italia, era ordinato da' soli Vescovi d'Italia, come si legge appresso Teodorito[851] dell'ordinazione di S. Ambrogio, in processo di tempo i romani Pontefici alla loro ordinazione vollero, che si ricercasse ancora il loro consenso, come rapporta S. Gregorio nelle sue Epistole[852]. Trassero a se ancora tutte le ragioni de' Metropolitani intorno all'ordinazioni per la concessione del Pallio, che lor mandavane; poichè per quello si dava da' Sommi Pontefici piena potestà a' Metropolitani d'ordinare i Vescovi della provincia; onde ne seguiva, che a' medesimi insieme col Pallio [441] si concedeva tal potestà: quindi fu per nuovo diritto interdetto a' Metropolitani di poter esercitare tutte le funzioni Vescovili, se non prima ricevevano il Pallio; e fu introdotto ancora di dover prestare al Papa il giuramento della fedeltà, che da lui ricercavasi. Fu ancora in progresso di tempo stabilito, che l'appellazioni de' giudicj, che da' Metropolitani erano proferiti intorno alle controversie, che occorrevano per l'elezioni, si devolvessero al Pontefice romano: che se gli elettori fossero negligenti, ovver l'eletto non fosse idoneo, che l'elezione si devolvesse al Papa: che di lui solo fosse il diritto d'ammettere le cessioni de' Vescovati, e di determinare le traslazioni e le Coadjutorie colla futura successione: e finalmente che a lui s'appartenesse la confermazione dell'elezioni di tutti i Vescovi delle province.

Ma tutte queste intraprese, che si videro sopra le altre province d'Occidente, non portarono variazione alcuna in queste nostre, onde ora si compone il Regno; poichè essendo quelle suburbicarie, e su le quali il Papa fin da principio esercitò sempre le sue ragioni patriarcali, furono come prima a lui sottoposte; nè perciò si tolse ragione alcuna a' Metropolitani, poichè non ve n'erano; nè intorno all'ordinazioni dei Vescovi si variò la disciplina de' precedenti secoli. Non ancora le nostre Chiese erano innalzate ad esser metropoli; nè anche per la concession del Pallio, a' loro Vescovi eran concedute, come fu fatto da poi, le ragioni de' Metropolitani: nè fin a questo tempo erano state invase dal Patriarca di Costantinopoli; poichè ciò che si narra di Pietro Vescovo di Bari[853], che nell'anno [442] 530 sotto il Ponteficato di Felice IV avesse dal Patriarca di Costantinopoli ricevuto il titolo di Arcivescovo, e l'autorità di Metropolitano, con facoltà di poter consecrare dodici Vescovi per la sua provincia di Puglia, non dee a quell'anno riportarsi, quando queste province non erano state ancora dai Greci invase, ed erano sotto la dominazione d'Atalarico Re de' Goti, ma ne' tempi seguenti, quando sotto gl'Imperadori d'Oriente essendo rimasa parte della Puglia e Calabria, della Lucania e Bruzio, e molte altre città marittime dell'altre province, i Patriarchi di Costantinopoli, col favore degl'Imperadori, s'usurparono in quelle le ragioni patriarcali, come diremo ne' seguenti libri.

§. II.  Del Patriarca d'Oriente.

Se grandi furono l'intraprese del Patriarca di Roma sopra tutte le province d'Occidente, maggiori e più audaci senza dubbio furon quelle del Patriarca di Costantinopoli in Oriente: egli non solamente sottopose al suo Patriarcato le tre diocesi Autocefale, l'Asiana, quella di Ponto, e la Tracia; ma col correr degli anni, quasi estinse i tre celebri Patriarcati d'Oriente, l'Alessandrino, l'Antiocheno e l'ultimo di Gerusalemme. Nè contenta la sua ambizione di questi confini, invase anche molte province d'Occidente, nè perdonò a queste nostre, che per tutte le ragioni al Patriarcato di Roma s'appartenevano.

Da quali bassi e tenui principj avesse il Patriarcato di Costantinopoli cominciamento, si vide nel precedente libro. Il Vescovo di Bizanzio prima non era, che un semplice suffraganeo del Vescovo d'Eraclea, [443] il quale presiedeva come Esarca nella Tracia[854]. Sopra tutti erano in Oriente celebri ed eminenti due Patriarcati, l'Alessandrino e l'Antiocheno. Quello di Alessandria teneva il secondo luogo dopo il Patriarca di Roma, forse perchè Alessandria era riputata dopo Roma la seconda città del Mondo: l'altro d'Antiochia teneva il terzo luogo, ragguardevole ancora per la memoria, che serbava d'avervi S. Pietro tenuta la sua prima Cattedra. Così le tre parti del Mondo tre Chiese parimente riconobbero superiori sopra tutte le altre: l'Occidente quella di Roma, l'Oriente quella di Antiochia, ed il Mezzogiorno quella d'Alessandria. Non è però, che sopra tutta Europa esercitasse la sua potestà patriarcale quel di Roma, ovvero quello d'Antiochia per tutta l'Asia, e l'altro d'Alessandria in tutta l'Affrica: ciascuno, come s'è veduto nel secondo libro, non estendeva la sua potestà, che nella diocesi a se sottoposta: l'altre ubbidivano agli Esarchi proprj: e molti altri luoghi ebbero ancora i loro Vescovi Autocefali, cioè a niun sottoposti. Tali furon in Oriente i Vescovi di Cartagine e di Cipro. Tali furon un tempo nell'Occidente i Vescovi della Gallia, della Spagna, della Germania e dell'altre più remote regioni. Le Chiese de' Barbari certamente non furon soggette ad alcun Patriarca, ma si governavano da' loro proprj Vescovi. Così le Chiese d'Etiopia, della Persia, dell'Indie e dell'altre regioni, ch'eran fuori del romano Imperio, da' loro proprj Sacerdoti venivano governate.

Vide ancora l'Oriente un altro Patriarca, e fu quello di Gerusalemme. Se si riguarda la disposizione [444] dell'Imperio, non meno, che il Vescovo di Bizanzio, meritava tal prerogativa il Vescovo di Gerusalemme; e siccome quegli era suffraganeo al Metropolitano di Eraclea nella Tracia, così questi era suffraganeo al Vescovo di Cesarea, metropoli della Palestina: ma forse con più ragione si diedero gli onori di Patriarca al Vescovo di Gerusalemme: fin da' tempi degli Appostoli fu riputato un gran pregio il sedere in questa Cattedra posta nella città santa, dove il nostro Redentore instituì la sua Chiesa, e dalla quale il Vangelo per tutte l'altre parti del Mondo fu disseminato; dove l'Autor della vita conversò fra noi, ove di mille sanguinosi rivi lasciò asperso il terreno:

Dove morì, dove sepolto fue,

Dove poi rivestì le membra sue.

Ma se altrove in ben mille esempj si vide, come la politia della Chiesa secondasse quella dell'Imperio, e come al suo variare mutasse ancor ella forma e disposizione, certamente per niun altro convincesi più fortemente questa verità, che per l'ingrandimento del Patriarcato di Costantinopoli. Da che Costantino il Grande rendè cotanto illustre e magnifica quella città, che la fece sede dell'Imperio d'Oriente, con impegno di renderla uguale a Roma, e che fosse riputata dopo quella la seconda città del Mondo; cominciò il suo Vescovo anch'egli ad estollere il capo, ed a scuotere il giogo del proprio Metropolitano. Per essere stata riputata Costantinopoli un'altra Roma, ecco che nel Concilio costantinopolitano[855] vengon al suo Vescovo conceduti i primi onori dopo quella, eo quod sit nova Roma. Così quando prima, dopo il romano, [445] i primi onori erano del Patriarca d'Alessandria, sottentra ora quello di Costantinopoli ad occupare il suo luogo. Egli è vero, come ben pruova Dupino[856], che i soli onori furon a lui dal Concilio conceduti, non già veruna patriarcal giurisdizione sopra le tre diocesi autocefale: ma tanto bastò, che collo specioso pretesto di questi onori, cominciasse egli le sue intraprese; non passò guari, che invase la Tracia, ed esercitando ivi le ragioni esarcali, si rendè Esarca di quella diocesi, ed oscurò le ragioni del Vescovo di Eraclea.

Dopo essersi stabilito nella Tracia, lo spinse la sua ambizione a dilatar più oltre i suoi confini: invade le vicine diocesi, cioè l'Asia e Ponto, ed in fine al suo Patriarcato le sottopone. Non in un tratto le sorprende, ma di tempo in tempo col favor de' Concilj, e più degl'Imperadori. S. Giovan Crisostomo più di tutti gli altri Vescovi di Costantinopoli aprì la strada d'interamente occuparle: in fine venne ad appropriarsi non solo la potestà d'ordinar egli i Metropolitani dell'Asia e di Ponto, ma ottenne legge dall'Imperadore, che niuno senza autorità del Patriarca di Costantinopoli potesse ordinarsi Vescovo; onde appoggiato su questa legge, si fece lecito poi ordinare anche i semplici Vescovi. Ecco come i Patriarchi di Costantinopoli occuparono l'Asia e Ponto; ciò che poi, per render più ferme le loro conquiste, si fecion confermare dal Concilio di Calcedonia e dagli editti degl'Imperadori[857]. S'opposero a tanto ingrandimento i Pontefici romani: Lione il Santo glie le contrastò, il simile fecero i suoi successori, e sopra tutti Gelasio[858], [446] che tenne la Cattedra di Roma dall'anno 492 sino all'anno 496. Ma tutti i loro sforzi riusciron vani, poichè tenendo i Patriarchi di Costantinopoli tutto il favor degl'Imperadori, fu loro sempre non meno confermato il secondo grado d'onore dopo il Patriarca di Roma, che la giurisdizione in Ponto, nell'Asia e nella Tracia. L'Imperador Basilisco in un suo editto rapportato da Evagrio[859] glie le rattificò: l'Imperador Zenone fece l'istesso per una sua costituzione, ch'ancor si legge nel nostro Codice[860]; e finalmente il nostro Giustiniano con sua Novella[861], secondando quel che da' canoni del Concilio di Calcedonia era stato statuito, comandò il medesimo. Ciò che poi fu abbracciato dal consenso della Chiesa Universale; poichè essendo stati inseriti i canoni de' Concilj costantinopolitano e calcedonense ne' Codici de' canoni delle Chiese, fu ne' seguenti secoli tenuto per costante, il Patriarca di Costantinopoli tener il secondo grado di onore, e la giurisdizione sopra tutte le tre quelle diocesi.

Ecco come questo Patriarca si lasciò indietro gli altri tre, ch'erano in Oriente: quelle tre sedi non pure per lo di lui ingrandimento e per le frequenti scorrerie de' Barbari, che invasero le loro diocesi, ma assai più per le sedizioni e contrasti, che sovente insorsero fra loro intorn'all'elezioni, e intorno a' dogmi ed alla disciplina, perderon il loro antico lustro e splendore; e da allora innanzi con quest'ordine si cominciaron a numerare le sedi patriarcali: la romana: la costantinopolitana: l'alessandrina: l'antiochena: e la [447] gerosolimitana. Quest'ordine tenne il Concilio di Costantinopoli celebrato nell'anno 536. Questo medesimo tenne Giustiniano nel Codice e nelle sue Novelle, e tennero tutti gli altri Scrittori non meno greci, che latini. Non ancora però il nome di Patriarca erasi ristretto solamente a questi cinque: alcune volte soleva ancor darsi ad insigni Metropolitani: così nel sopraccitato Concilio di Costantinopoli si diede anche ad Epifanio Vescovo di Tiro; e Giustiniano così nel[862] Codice, come nelle[863] Novelle dà generalmente questo nome agli Esarchi, ch'avevan il governo di qualche diocesi: non molto da poi però in Oriente questo nome si restrinse a que' soli cinque.

Ma in Occidente si continuò come prima a darsi ad altri Vescovi e Metropolitani. In Italia il nostro Re Atalarico, appresso Cassiodoro[864], chiamò i Vescovi d'Italia Patriarchi, ed il romano Pontefice loro Capo, lo chiamò per tal riguardo Vescovo de' Patriarchi. Da Paolo Varnefrido[865] i Vescovi d Aquileja e di Grado sono anche nominati Patriarchi. In Francia questo nome fu anche dato a' più celebri Metropolitani, ed a' Primati. Gregorio di Tours[866] chiamò Nicezio, Patriarca di Lione. Il Concilio di Mascon celebrato nell'anno 583 chiamò Prisco Vescovo di quella città anche Patriarca[867]. Desiderio di Cahors appellò ancora Sulpizio Vescovo di Bourges Patriarca: ed Inemaro di Rems non distingue i Patriarchi da' Primati[868]. Così [448] ancora nell'Affrica il primo Vescovo de' Vandali assunse il nome di Patriarca, ciò che non senza riso fu inteso da' Vescovi cattolici; ed in decorso di tempo presso a quelle Nazioni, che si riducevan alla fede di Cristo, il primo Vescovo ch'era loro dato, fu detto Patriarca. Ridotta la Bulgaria alla nostra fede, l'Arcivescovo, che se le diede, ed i suoi successori presero il nome di Patriarca. Simili Patriarchi hanno ora i Cristiani d'Oriente[869], dove, toltone quelli, che propriamente si dicono Greci, i quali ritengon tuttavia i quattro Patriarchi, il costantinopolitano, l'alessandrino, l'antiocheno e 'l gerosolimitano, ancorchè i Pontefici romani soglian essi parimente creargli titolari: quante Sette vi sono, altrettanti Patriarchi si contano; così i Giacobiti hanno il lor Patriarca: hannolo i Maroniti, e gli uni e gli altri prendon il nome di Patriarca d'Antiochia. I Cophti hanno ancora il Patriarca, che si fa chiamare Alessandrino, e tien la sua sede in Alessandria. Gli Abissini hanno il loro, che regge tutta l'Etiopia, ancorchè al Patriarca de' Cophti sia in qualche maniera soggetto. I Giorgiani hanno un Arcivescovo Autocefalo a niun sottoposto. Gli Armeni hanno due generali Patriarchi: il primo risiede in Arad, città dell'Armenia; l'altro in Cis, città di Caramania.

Abbiam veduto quanto s'innalzasse il Patriarca di Costantinopoli sopra gli altri Patriarchi d'Oriente, e quanto stendesse i confini del suo Patriarcato in questo secolo, fin all'Imperio di Giustino. Ne' due secoli seguenti lo vedremo fatto assai più grande, volare sopra altre province e Nazioni; poichè non contenta la [449] sua ambizione di questi confini, ne' tempi di Lione Isaurico lo vedremo occupare l'Illirico, Epiro, Acaja e la Macedonia: lo vedrem ancora soggettarsi al suo Patriarcato la Sicilia e molte Chiese di queste nostre province, e contendere in fine col Pontefice romano per la Bulgaria e per le altre regioni.

§. III.  Politia ecclesiastica di queste nostre province sotto i Goti e sotto i Greci, fin a' tempi di Giustino II.

Teodorico e gli altri Re ostrogoti suoi successori, ancorchè arriani, lasciarono, come s'è detto, le nostre Chiese in pace;, e quella medesima politia che trovarono, fu da lor mantenuta inviolata ed intatta. Il Pontefice romano vi fu mantenuto, ed in queste nostre province, come suburbicarie, esercitava, come prima, l'autorità sua patriarcale, anzi era riconosciuto come Patriarca insieme e Metropolitano; poichè infin a questi tempi le nostre metropoli, in quanto alla politia ecclesiastica, non ebbero Arcivescovo o Metropolitano alcuno: nelle città, come prima, erano semplici Vescovi, riconoscenti il Pontefice romano, come lor Metropolitano: quindi Atalarico[870], che a' Vescovi soleva dar anche il nome di Patriarca, chiamollo Vescovo de' Patriarchi. E se in alcune città d'Italia, nel Regno de' Goti e de' Longobardi ancora, i quali furono parimente arriani, si videro in una stessa città due Cattedre occupate da due Vescovi, l'uno cattolico, l'altro arriano; in queste nostre province, le quali si mantennero sempre salde, e non furon mai contaminate [450] dagli errori d'Arrio, i Vescovi professaron tutti la fede di Nicea, e serbaron le lor Chiese pure ed illibate, e mantennero gli antichi dogmi e quella disciplina, che serbava la romana Chiesa, loro maestra e condottiera. I Vescovi governavan le lor Chiese col comun consiglio del Presbiterio. Non si ravvisava in quelle altra Gerarchia, se non di Preti, Diaconi, Sottodiaconi, Acoliti, Esorcisti, Lettori ed Ostiarj.

I Vescovi eran ancora detti dal Clero e dal Popolo, e ordinati dal Papa, come prima, ancorchè il favor de' Principi vi cominciasse ad avere la sua parte: Grozio[871] portò opinione, che i Re goti, o arriani o cattolici che fossero, semper Episcoporum electiones in sua potestate habuere, e rapporta essersi anche ciò osservato da Giovanni Garzia: ma da' nostri Re goti non si vide sopra ciò essersi usata altra potestà, se non quella, ch'esercitarono gl'Imperadori, così d'Occidente, come d'Oriente. Essi, come custodi e protettori della Chiesa, e come quelli, che reputavan appartener loro anche il governo e l'esterior politia della medesima, credettero esser della lor potestà ed incumbenza di regolare con loro leggi l'elezioni, proibire l'ambizioni, dar riparo a' disordini e tumulti sediziosi, e sovente prevenirgli; riparar gli sconcerti, che allo spesso accadevan per le fazioni delle parti, e far decidere le controversie, che per queste elezioni solevano sorgere; ma l'elezione al Clero ed al Popolo la lasciavano, siccome l'ordinazione a' Vescovi provinciali, ovvero al Metropolitano. Odoacre Re degli Eruli, più immediato successore di Teodorico in Italia alle ragioni degli Imperadori d'Occidente, nell'elezione del [451] Vescovo di Roma e degli altri d'Italia, vi volle avere la medesima parte: Basilio suo Prefetto Pretorio vi invigilò sempre, anche, come e' diceva, per ammonizione del Pontefice Simplicio, il quale gl'incaricò, che, morendo, niuna elezione si facesse senza il suo consiglio e guida[872].

Ad esempio di quel, che fece l'Imperador Onorio nello scisma della Chiesa di Roma fra Bonifacio ed Eulalio, si osserva che Teodorico usasse della medesima autorità per l'altro insorto ne' suoi tempi in Roma fra Lorenzo e Simmaco. Per la morte accaduta nel fine dell'anno 498 di Papa Anastasio, pretendevano ambedue essere innalzati su quella sede: Simmaco Diacono di quella Chiesa fu da maggior numero eletto ed ordinato: ma Festo Senator di Roma, che avea promesso all'Imperador Anastasio di far eleggere un Papa, che sarebbe stato ubbidiente a' suoi desideri, fece eleggere ed ordinare Lorenzo. I due partiti portarons'in Ravenna a ritrovare il Re Teodorico, il quale giudicò, che dovesse rimaner Vescovo di Roma colui, il quale fosse stato eletto il primo, ed avesse avuto il maggior numero de' suffragi: Simmaco avea sopra Lorenzo ambedue questi vantaggi; onde fu confermato nel possesso di quella sede, e nel primo anno del suo Ponteficato tenne un Concilio, dove furon di nuovo fatti alcuni canoni per impedir nell'avvenire le competenze in simili elezioni. Quelli che s'eran opposti all'ordinazione di Simmaco, vedendolo lor mal grado in possesso, fecero tutti i loro sforzi, perchè ne fosse scacciato; gli attribuiron perciò molti delitti, sollevaron una gran parte del Popolo e del Senato [452] contro di esso, e domandaron al Re Teodorico un Visitatore, cui delegasse la conoscenza di queste accuse: Teodorico nominò Pietro, Vescovo di Altino, il quale precipitosamente, e contra il diritto, spogliò incontanente il Papa dell'amministrazione della sua diocesi e di tutte le facoltà della Chiesa: questa azione sì precipitosa eccitò in Roma gravi sconcerti, e perniziosi tumulti; Teodorico per acquetargli fece tosto nell'anno 501 convocare un Concilio in Roma, al quale invitò tutti i Vescovi d'Italia[873]. V'andarono quasi tutti i Vescovi della nostra Campagna, quel di Capua, di Napoli, di Nola, di Cuma, di Miseno, di Pozzuoli, di Sorrento, di Stabia, di Venafro, di Sessa, d'Alife, d'Avellino, ed alcuni altri dell'altre città di questa provincia. Dal Sannio vi si portarono i Vescovi di Benevento, d'Isernia, di Bojano, d'Atina, di Chieti, di Amiterno ed altri.

Da queste due province, come più a Roma vicine, ve ne andaron moltissimi: dall'altre due, come dalla Puglia e Calabria, e dalla Lucania e Bruzio, come più da Roma lontane, e più a' Greci vicine, ve ne andaron molto pochi. Vi vennero ancora i Vescovi di Emilia, di Liguria e di Venezia, i quali, passando per Ravenna, parlaron a Teodorico in favor di Simmaco; ed essendo giunti in Roma, senza volere imprendere ad esaminare l'accuse proposte contra Simmaco, lo dichiararono, innanzi al Popolo, innocente ed assoluto; e s'adoperaron in guisa col Re Teodorico, che si contentò di quella sentenza; ed il Popolo col Senato, ch'erano molto irritati contro al Papa, si placarono [453] e lo riconobbero per vero Pontefice. Restarono tuttavia alcuni mal contenti, che produssero contra quello Sinodo una scrittura; ma Ennodio Vescovo di Pavia vi fece la risposta, la quale fu approvata in un altro Concilio tenuto in Roma nell'anno 503, nel quale la sentenza del primo Sinodo fu confermata. Le calunnie inventate contra Simmaco passaron fino in Oriente, e l'Imperador Anastasio, ch'era separato dalla comunione della Chiesa romana, glie le rinfacciò; Simmaco con una scrittura apologetica si giustificò assai bene; il quale, mal grado de' suoi nemici, dimorò pacifico possessor di quella sede fin all'anno 514, che fu quello della sua morte.

Fu in questi tempi riputato così proprio de' Principi di regolare queste elezioni, per evitar gli ambimenti e le sedizioni, che Atalarico mosso da' precedenti scismi, accaduti in Roma per l'elezione de' loro Vescovi, volendo dare una norma nell'avvenire, affinchè non accadessero consimili disordini, imitando gli Imperadori Lione ed Antemio, fece un rigoroso editto, che dirizzò a Gio. II, romano Pontefice, il quale nell'anno 532 era succeduto a Bonifacio su la sede di Roma, con cui regolò l'elezioni non solamente dei Pontefici romani, ma anche di tutti i Metropolitani e Vescovi, imponendo gravissime pene a coloro, i quali per ambizione, o per denaro aspirassero ad occupar le sedi, dichiarandogli sacrileghi ed infami, e che oltre alla restituzion del denaro, ed altre gravi ammende, da impiegarsi alla reparazione delle fabbriche delle Chiese, ed a' Ministri di quelle, sarebbono stati severamente puniti da' suoi Giudici, e le lor elezioni, come simoniache, avute per nulle ed invalide: diede con questo editto altre providenze per evitare [454] l'altercazioni e litigi sull'elezioni, le quali riportate al suo palazzo da' Popoli, egli n'avrebbe tosto presa cura, e dato provedimento, dichiarando, che ciò che egli stabiliva per questo suo editto, s'appartenesse non solo per l'elezione del Vescovo di Roma, sed etiam ad universos Patriarchas, atque Metropolitanas Ecclesias. Fu questo editto istromentato per Cassiodoro[874], il quale ancorchè cattolico, e nelle cose ecclesiastiche versatissimo, tanto che oggi vien annoverato fra li non inferiori Scrittori della Chiesa, e da alcuni riputato per Santo, forse perchè morì monaco Cassinese[875], non ebbe alcun riparo di non solamente istrumentarlo, ma consigliarlo ancora, come assai opportuno, al suo Principe; nè fu riputato, secondo le massime di questo secolo, estranio e lontano dalla sua real potestà. Fu dirizzato a Papa Giovanni II, che lo ricevè con molto rispetto e stima, nè se ne dolse; anzi se è vero esser sua quell'epistola, che leggiamo fra le leggi del Codice[876], scritta all'Imperador Giustiniano, dove tanto commenda il suo studio intorno alla disciplina ecclesiastica (poichè Ottomano[877], ed altri[878] ne dubitano, ancorchè venga difesa da Fachineo[879]), si vede che questo Pontefice non contrastò mai a' Principi quella potestà, che s'attribuivano sopra la disciplina della Chiesa. E di vantaggio Atalarico lo mandò ancora a Salvanzio[880], che si trovava allora Prefetto della città di Roma, acciocchè dovesse senza frapporvi dimora pubblicarlo al Senato e Popolo [455] romano; anzi perchè di ciò ne rimanesse perpetua memoria ne' futuri secoli, ordinogli, che lo facesse scolpire nelle tavole di marmo, le quali dovesse egli porre avanti l'atrio di S. Pietro Appostolo per pubblica testimonianza[881].

Vollero i Re goti, come successori degl'Imperadori d'Occidente, mantener tutte quelle prerogative, che costoro avevan esercitate intorno all'esterior politia ecclesiastica, delle quali ne rendono testimonianza le tante loro costituzioni, registrate nell'ultimo libro del Codice di Teodosio. Così appartenendo ad essi lo stabilire i gradi, dentro a' quali potevan contraersi le nozze[882], vietare i matrimonj ne' gradi più prossimi, dispensargli per mezzo di loro rescritti[883], ed avere la conoscenza delle cause matrimoniali, non dee parer cosa nuova, se tra le formole dettate da Cassiodoro[884], si legga ancora quella de' nostri Re goti, formata per le dispense, che solevan concedere nei gradi proibiti dalle leggi. Così ancora, imitando ciò che fecero gl'Imperadori d'Occidente e d'Oriente di non permettere assolutamente e senza lor consenso ai loro sudditi di ascriversi alle chiese o monasteri, di che ne restano molti vestigi nel Codice Teodosiano: fu de' Goti ancora, come scrive Grozio[885], non minus laudanda cautio, quod subditorum suorum neminem permisere se Ecclesiis, aut Monasteriis mancipare, suo impermissu.

[456]

La medesima politia intorno a ciò fu ritenuta in queste nostre province, quando da' Goti passarono sotto gl'Imperadori d'Oriente, e molto più sotto l'Imperio di Giustiniano. Gl'Imperadori d'Oriente calcaron ancora le medesime pedate; e dell'Imperador Marciano, che in ciò fu il più moderato di tutti, siccome scrisse Facondo[886], Vescovo d'Ermiana in Affrica, si leggono molti editti appartenenti all'esterior politia della Chiesa. L'Imperador Lione, imitato da poi da Atalarico, proibì ancora a' Vescovi l'elezione per ambizione e per simonia; ed oltre alla pena della degradazione imposta dal Concilio di Calcedonia, v'aggiunse egli quella dell'infamia; ed Antemio fece il medesimo[887]. Ma sopra tutti gli altri Imperadori d'Oriente, Giustiniano fu quegli, che della disciplina ecclesiastica prese maggior cura e pensiero: donde nacque, che gli ultimi Imperadori d'Oriente, non sapendo tener poi in ciò regola nè misura, s'avanzaron tant'innanzi, che finalmente sottoposero interamente il Sacerdozio all'autorità del Principe. Le sue Novelle per la maggior parte sono ripiene di tanti editti sopra la disciplina della Chiesa, che vien perciò egli arrolato nel numero degli Autori ecclesiastici: egli più leggi stabilì intorno all'ordinazion de' Vescovi, della loro età, de' requisiti, che debbon aver coloro per esser eletti e promossi al Vescovado, della loro residenza, della loro nozione e privilegi, ed infinite altre cose a quelli appartenenti. Regolò le convocazioni de' Sinodi e de' Concilj, e loro prescrisse il tempo. Diede varj provedimenti intorno a' costumi e condotta de' Preti, Diaconi, e Sottodiaconi, [457] delle loro esenzioni e cariche personali. Fece molti editti riguardanti la degradazione de' Cherici, ed intorno alla regolarità e professione de' Monaci. Diede con sue leggi maggior forza e vigore a' canoni che furono stabiliti in varj Concilj, imponendo a' Metropolitani, a' Vescovi, ed a tutti gli Ecclesiastici l'osservanza di essi; aggiungendo gravi pene a coloro, che a quelli contravvenissero, d'esser deposti e degradati dal lor Ordine; e moltissimi altri editti sopra le cose ecclesiastiche stabilì, che possono vedersi nelle sue Novelle, e nel suo Codice.

Appartenevasi ancora all'economia del Principe impedire a' Vescovi l'abuso delle chiavi. Così quando essi s'abusavano delle scomuniche, tosto lor s'opponevano; e Giustiniano stesso con sua legge[888] proibì a' Vescovi le scomuniche, se prima la cagione non fosse giustificata: e ne' Basilici ancor si vede con particolar legge[889] proibito a' Vescovi di scomunicar senza giusta cagione, e quando non concorrano i requisiti da' canoni prescritti. Quindi avvenne, che i Principi ne' loro Reami, che in Europa stabilirono dopo la decadenza dell'Imperio romano, vi vollero mantenere questo diritto, come praticano gli Spagnuoli ed i Franzesi, e come ancora veggiamo tuttodì in questo nostro Reame; di che altrove ci sarà data occasione d'un più lungo discorso. Nè in questi tempi furono queste leggi reputate come eccedenti la potestà imperiale; anzi furon queste di Giustiniano comunemente ricevute non men in Oriente, che in Occidente, come ne rendon testimonianza Gio: Scolastico Patriarca di Costantinopoli, S. Gregorio M.[890], Inemaro,[891], ed altri: e se non [458] è apocrifa la sua epistola, che si legge nel nostro Codice[892], di sì fatta cura e pensiero, ch'egli mostrò verso l'ecclesiastica disciplina, n'ebbe per commendatore, e panegirista l'istesso Giovanni, romano Pontefice.

Le medesime pedate furon calcate da Giustino suo successore, sotto l'Imperio del quale ora veggiamo queste nostre province. Per la qual cosa non fu insin a questo tempo (per ciò che s'attiene a questa parte) variata la politia ecclesiastica di queste nostre province, ma da' Goti e da' Greci fu ritenuta la medesima, che si vide ne' secoli precedenti sotto i successori di Costantino, fin a Valentiniano III, Imperador d'Occidente.

§. IV.  De' Monaci.

Cominciarono però in questo secolo le nostre province a sentir qualche mutazione per riguardo del monachismo, che di tali tempi ebbe nelle medesime la perfezione e lo stabilimento. Come si vide nel precedente libro, non ancora fino a' tempi di Valentiniano, eransi in queste nostre parti stabiliti i Solitarj, o Cenobiti: ma ecco, ch'essendosi l'Ordine monastico perfezionato in Oriente, tanto per le leggi degl'Imperadori, quanto da' varj trattati ascetici, e divenuto sopra tutti gli Ordini quello di S. Basilio celebre e numeroso, che in due nostre province più a' Greci vicine, cioè nella Puglia e Calabria, nella Lucania e Bruzj, comincian a fondarsi, in alcune città delle medesime, monasteri di quell'Ordine, che Basiliani furon appellati.

[459]

Nelle due altre, quanto più a' Greci lontane, tanto più a Roma vicine, cioè nella Campagna, e nel Sannio, vedi stabilito il monachismo per molte regole, ma sopra tutte per quella di S. Benedetto, il cui Ordine fu sì avventuroso, che stabilito nella nostra Campagna, si sparse in poco tempo non solo per l'Italia, ma eziandio per la Francia e per l'Inghilterra.

S. Benedetto nacque in Norcia città della diocesi di Spoleto verso l'anno 480. Fu condotto giovane in Roma a studiare[893], ma fastidito delle cose del secolo, si ritirò in Subiaco, 40 miglia da Roma distante, e si chiuse in una grotta, ove dimorò per lo spazio di tre anni, senza che alcuno ne avesse notizia, toltone Romano, Monaco, il quale gli somministrava dal suo vicino monastero il mangiare: essendo stato poi conosciuto, i Monaci d'un monastero vicino, per la morte del loro Superiore, l'elessero Abate; ma i loro costumi non confacendosi con quelli di Benedetto, egli si ritirò di nuovo nella solitudine, dove visitato da molte persone, vi fabbricò dodeci monasteri, de' quali l'Abate della Noce rapporta i nomi, e i luoghi dove furon fondati[894]. Di là passò nell'anno 529 nella nostra Campagna[895], e fermossi nel monte, che da Casino, antica Colonia de' Romani, la qual è nella sua costa, prende il nome, lontano da Subiaco intorno a 50 miglia, e da Roma 70. Quivi giunto, abbatte una reliquia di Gentilità, ch'era in quell'angolo ancor rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'erge un tempio, che dedicò a' SS. Martino, e Giovanni. I suoi [460] prodigiosi fatti ivi adoperati, e la santità della sua vita, tiraron in quel luogo della gente, e molti sotto la sua regola ivi rimasero. Si rendè vie più famoso per l'opinione e stima, che s'acquistò presso a Totila Re d'Italia, e presso a molti Nobili romani; crebbe perciò il numero de' suoi Monaci, e vi s'arrolavan i personaggi più insigni; ond'egli stese la sua regola, e gettò gli stabili fondamenti di un grand'Ordine.

La divozione de' Popoli, e la fama della sua santità tirò ancora la pietà di molti Nobili ad arricchirlo di poderi e di facoltà: Tertullio Patrizio romano, vivendo ancor S. Benedetto, gli donò tutto quel tratto di territorio, ch'è d'intorno al monastero Cassinese[896]; onde Zaccheria in suo Diploma disse esser quel monastero edificato in solo Tertulli[897]: donogli ancora molte altre possessioni che e' teneva in Sicilia; e Gordonio, padre di S. Gregorio M., gli donò una sua villa, che possedeva ne' contorni d'Aquino. Così tratto tratto, non ancor morto S. Benedetto, cominciò questo monastero a rendersi numeroso ed illustre per la qualità de' suoi Monaci, e ad arricchirsi per le tante donazioni, che alla giornata gli si facevano. La sua fama non potè contenersi nella sola Campagna, si mandavan anche Monaci di sperimentata probità e dottrina a fondar nell'altre nostre province altri monasteri. Cassiodoro, uno de' più illustri personaggi di questo secolo, nell'età di 70 anni, ritiratosi dalla Corte, si fece Monaco, e tratto dalla fama di S. Benedetto, ch'ancor viveva, volle ne' Bruzj, e propriamente in Squillace suo natìo paese, fondarvi un monastero, che secondo [461] pruova il P. Garezio[898], e rapporta Duppino[899], lo pose sotto la regola di S. Benedetto, nella quale egli viveva: e venuto poi a governarlo, menò in quello venticinque anni, che fu il resto di sua vita essendovi morto vecchissimo d'età di più di 95 anni, verso l'anno 565 di nostra salute, onde Bacon di Verulamio[900] lo fa quasi che centenario.

Questo è il monastero Vivariese, ovvero Castellese, di cui tratta ben a lungo il P. Garezio, Monaco Benedettino della Congregazione di S. Mauro[901], fondato da Cassiodoro, di cui ne fu Abate, non molto lungi da Squillace a piè del monte volgarmente chiamato Moscio, ovvero Castellese da una villa di tal nome quivi vicina, le cui radici vengono bagnate dal fiume Pelena, oggi detto di Squillace. Fu nomato Vivariese, perchè Cassiodoro, mentre occupava i primi onori nella Corte de' Re goti, sovente soleva andar a diporto a Squillace sua patria, ed in quella villa per la comodità ed abbondanza dell'acque di quel fiume, che irrigava le radici del monte, fece costruire molti vivai[902]. Avendo da poi per la caduta de' Goti abbandonata la Corte, rendutosi Monaco, quivi ritirossi, e costrusse in quel luogo, ove aveva i suoi vivai e poderi, questo monastero, dove compose la maggior parte delle sue opere, e nel quale ancora ebbe per compagno Dionigi il Piccolo[903]. Lo arricchì delle sue possessioni, e d'una biblioteca; e lo rendè illustre [462] e numeroso per molti Monaci; facendo anche nella sommità di quel monte costruire molte celle per coloro, i quali dalla vita monastica volevan passare all'eremitica, e da Cenobiti rendersi Anacoreti e Solitari[904]. Prima di morire lasciò ivi per Abati, Calcedonio e Geronzio, l'uno perchè reggesse gli Eremiti, che nella sommità del monte castellese eransi ritirati, l'altro i Cenobiti del monastero Vivariese. Il P. Garezio[905] rapporta ancora, che dopo la sua morte, per molti anni fu ritenuto da' Monaci Benedettini: ma che poi vi sottentrarono in lor luogo i Basiliani, che lungamente il tennero, insino che per le susseguenti irruzioni de' Saracini, non fosse stato disfatto e ruinato. Così non pur nel vicino Sannio e nella Puglia cominciarono in questi tempi a fondarsi monasteri di quest'Ordine, ma anche nelle province più remote e lontane.

Nell'ultimo anno di sua vita mandò S. Benedetto Placido suo discepolo in Sicilia a fondarvi de' monasteri del suo Ordine, dove colle donazioni di Tertullo e devozione di que' Popoli, fu propagato per tutta quell'isola. Altre missioni in questi medesimi tempi si fecero nella Francia, dove S. Mauro, Fausto, e suoi compagni vi fecero meravigliosi progressi. Morì S. Benedetto secondo Lione ostiense ed altri, nell'anno 543, ovvero, secondo alcuni altri, nell'anno 547, non essendo ancor appurato presso agli Scrittori il preciso giorno ed anno della sua morte, di che l'Abate della Noce[906], come d'un punto d'istoria molto importante, tanto s'affatica e si travaglia; ma per la di [463] lui morte crebbero e s'avanzarono più tosto le fortune al suo Ordine: imperocchè da poi assai più moltiplicaronsi i monasteri, e si stese non pur in Italia, Sicilia, e nella Francia, ma ancora nell'Inghilterra, e nell'altre più lontane province dell'Europa.

In cotal guisa queste nostre due province, la Campagna, ed il Sannio, videro in maggior numero i monasteri di quest'Ordine, i quali nell'altre due province, come più remote, furon più radi; ma ben all'incontro più numerosi quelli fondati sotto la regola di S. Basilio; la Puglia e la Calabria, il Bruzio e la Lucania, e le città marittime della Campagna, come Napoli, Gaeta, Amalfi, ed alcune altre, che per la maggior parte lungo tempo dimorarono sotto gl'Imperadori d'Oriente, come più a' Greci vicine, e coi quali aveano assai più frequenti commerci, ricevettero con maggiore prontezza i loro istituti; ed in Oriente, essendo la regola di S. Basilio assai celebre e rinomata, quindi avvenne, che tutti, o la più parte dei monasteri, che vi si fondavano, sotto quell'Ordine erano istituiti. In Napoli S. Agnello fu il primo, per quanto si sa, che vi stabilisse un monastero, cominciato prima da S. Gaudioso, di cui egli ne fu Abate. Alcuni[907] credettero, che S. Agnello seguitasse la regola di S. Benedetto; ma il P. Caracciolo[908] pruova assai chiaro che fu Monaco Basiliano, il quale trovando, che S. Gaudioso, quando si ricovrò in Napoli, dove morì l'anno 453 avanti che fosse nato S. Benedetto, v'avea eretto un monastero, egli vi stabilì la regola di S. Basilio: Ordine che in que' tempi erasi renduto assai celebre [464] e rinomato. Nè quello passò sotto la regola di S. Benedetto, se non ne' tempi posteriori, morto Agnello, dopo l'anno 590, quando i Benedettini cominciaron ad essere più considerati, e si renderon più famosi. Molto tempo da poi ne' secoli men a noi remoti, verso l'anno 1517, fu abitato da' Canonici Regolari della Congregazione del Salvatore[909], siccome oggi giorno vi dimorano. E così in questo sesto secolo, come ne' secoli seguenti si videro in Napoli molti di questi monasteri sotto la regola di S. Basilio, come il monasterio Gazarese nella piaggia di mare: de' SS. Nicandro, e Marciano: di S. Sebastiano: de' SS. Basilio, ed Anastasio nella regione Amelia: di S. Demetrio nella regione Albina: di S. Spirito, ovvero Spiridione: di S. Gregorio Armeno nella regione Nostriana di S. Maria di Agnone: di S. Samona: de' SS. Quirico, e Giulitta, ed altri: ed in Napoli, ed altrove[910].

Ecco come in queste nostre province fossero stati introdotti i monasteri. I primi, che vi comparvero, furono sotto la regola di S. Basilio, e di S. Benedetto; e quindi, essendosi già introdotte le Comunità di donzelle, le quali facevan voto di virginità, e dopo certo tempo ricevevano con solennità il velo, si videro parimente i monasteri di donne sotto la regola di S. Benedetto, ch'ebbero ancora per loro condottiera Scolastica di lui sorella; e sotto quella di S. Basilio, che sono i più antichi, che ravvisiamo in queste nostre province. Così presso di noi fu stabilito l'Ordine monastico, il quale però in questi tempi non avea fatti que' maravigliosi progressi, che si sentiranno in appresso. Nè gli Abati, e' Monaci erano stati ancora [465] sottratti dalla giurisdizione de' Vescovi, nè lor conceduti que' tanti privilegi da' Pontefici romani, i quali per avergli a se devoti e ligi, da poi lor concedettono. Si rendè perciò il monte Casino uno dei due più celebri santuarj, ch'ebbero in quest'età le nostre province, ove concorrevano i peregrini da tutte le parti del Mondo. Un altro in questi medesimi tempi era surto in Puglia nel monte Gargano per l'apparizione di S. Michele, che narrasi accaduta in quella grotta a tempo di Papa Gelasio, mentre la sede di Siponto era occupata dal Vescovo Lorenzo. Santuarj, che nel regno de' Longobardi e de' Normanni si renderono così chiari e rinomati, che per la loro miracolosa fama, tiraron a se non pur i peregrini dalle più remote parti del Mondo, ma anche i maggiori Re e Monarchi d'Europa, ed i più potenti Principi della terra.

§. V.  Regolamenti ecclesiastici, e nuove Collezioni.

I regolamenti ecclesiastici si videro in questi tempi, non men intorno a' dogmi, che alla disciplina, assai più ampj e numerosi. Coll'occasione d'essersi convocati più Sinodi e Concilj, si stabiliron in conseguenza moltissimi canoni. Si cominciò a stabilirne anche di quelli, che s'appartenevano alla potestà de' Principi. I gradi di parentela, che prima si regolavano secondo le leggi civili, furon anche regolati da' canoni, e le proibizioni delle nozze furono stese a' cugini, ed ai figliuoli de' cugini. Teodosio M. avea prima proibite le nozze fra' cugini, il che confermaron Arcadio ed [466] Onorio suoi figliuoli, come attesta S. Ambrosio[911]: Giustiniano poi le permise[912], onde Triboniano volendo inserir nel suo Codice la legge di Teodosio[913], la smozzicò sconciamente per non farla contraddire a ciò, che Giustiniano avea su ciò variato[914]. I canoni ora le proibiscono, non pur fra' cugini, come avea fatto Teodosio, ma anche fra' figliuoli di quelli; ed introdusser poi un nuovo modo di computare i gradi che Cujacio[915] stima non esser più antico di S. Gregorio M. e del Papa Zaccheria. Non s'erano ancora intesi regolamenti intorno alle facoltà delle Chiese, ma essendo in questi tempi cresciute e malmenate dagli Ecclesiastici, si cominciò a far de' canoni per impedirne il dissipamento e l'alienazioni. Era della potestà de' Principi il proibir l'opere servili nel dì di domenica, e gl'Imperadori ne stavano in possesso, come si vede dalle leggi di Lione e d'Antemio[916]: ed ora si vede sopra di ciò essersene anche fatti canoni. Il dichiarar le Chiese per asili[917] s'apparteneva agli stessi Imperadori, come se ne leggono molte costituzioni nel Codice di Teodosio: ma ora questo diritto vien anche dichiarato da' canoni. Ne furon eziandio stabiliti molti su l'usure e divorzj, e sopra altre materie, la cui providenza e regolamento s'apparteneva, ed era della potestà ed imperio de' Principi. Quindi si vide il lor numero crescere in immenso; onde sursero altri Codici e nuove Compilazioni.

[467]

Nel precedente libro s'è veduto, che sin a' tempi di Valentiniano III, così la Chiesa occidentale, come l'orientale non conobbero altri regolamenti, che quelli che furono raunati nel Codice de' Canoni della Chiesa Universale, compilato per Stefano, Vescovo d'Efeso. Ma da poi nel primo anno dell'Imperio di Giustiniano nel 527 uscì fuori la Collezione di Dionigi il Piccolo. Questi fu un Monaco scita abitante in Roma, e fu il primo che introdusse l'uso di numerar gli anni dalla nascita di Cristo S. N. come noi facciamo ancora[918]; poichè prima si computavano, o nella maniera dell'antica Roma per li Consoli, o per li primi stabilimenti de' Principi greci successori d'Alessandro: ovvero per li tempi de' Martiri, che sofferirono il martirio sotto Diocleziano: ed in Ispagna per l'Era d'Augusto Imperadore, che precede 38 anni alla nascita di Cristo. Egli fu amicissimo di Cassiodoro, dal quale fu ricercato, che istruisse nelle discipline, e particolarmente nella filosofia i suoi Monaci nel monastero Vivariese[919]: lesse quivi insieme con Cassiodoro la dialettica, e più anni dimorò suo compagno in quel magisterio. Gli encomj, che da Cassiodoro gli vengon dati, si leggono ancora nelle sue opere[920]. Egli arricchì la Chiesa latina di molte traduzioni fedeli dell'opere de' Greci; ed a richiesta di Stefano Vescovo di Salona[921] in Dalmazia tradusse in latino la raccolta de' canoni greci più fedelmente, che non era la traduzione antica latina, della quale [468] si servivano gli occidentali: a questa aggiunse tutto ciò che v'era nel Codice greco, cioè i 50 canoni appostolici, i canoni del Concilio di Calcedonia, di Sardica, di Cartagine, e d'altri Concilj d'Affrica.

Aggiunse parimente l'epistole decretali di Siricio Papa, che morì l'anno 398 (argomento, che l'epistole, che si rapportano prima di Siricio sieno apocrife). Si chiamavano lettere decretali quelle, che i Pontefici scrivevano sopra le consultazioni de' Vescovi per decidere i punti di disciplina, e le quali si mettevano fra' canoni. Così i Greci mettevano fra i canoni le tre lettere di S. Basilio ad Anfilochio, ed alcune altre de' più famosi Vescovi delle sedi maggiori[922]. A queste poi, dopo la morte di Dionigi, furon aggiunti i decreti di Gregorio II, compresi in 17 capitoli, come fu osservato da Pietro de Marca Arcivescovo di Parigi[923]. Quel che reca maraviglia si è, che benchè il Codice greco, di cui si servì Dionigi, finisse nel Concilio costantinopolitano I, al quale eransi poi aggiunti discontinuatamente i canoni del Concilio calcedonense, come afferma il medesimo Dionigi nella prefazione a Stefano Vescovo di Salona, tuttavia avendovi dovuto aggiunger tanto del suo, come i canoni sardicensi ed affricani, non fa niuna menzione del Concilio efesino, o de' suoi canoni fatti nell'anno 431, quando questi canoni si trovano nel Codice greco dato in luce da Justello nell'anno 1610 onde si rifiuta l'opinione di coloro, che stimano, che Giustiniano nella Novella 131 fatta nell'anno 451 avesse confermato, e data forza di legge al Codice [469] de' canoni compilato da Dionigi; poichè quivi Giustiniano conferma anche i canoni fatti nel Concilio efesino, ivi: Sancimus vicem legum obtinere sanctas Ecclesiasticas regulas, ec. in Ephesina prima, in qua Nestorius est damnatus ec. Doujat[924] però dice, che Dionigi non ne fece menzione, perchè quel Concilio non stabilì canoni attenenti alla disciplina, ma solamente canoni riguardanti l'esecuzione della condanna di Nestorio, e suoi aderenti.

Questa Collezione di Dionigi, in Occidente ed in queste nostre province ebbe tutta l'autorità, e tutto il vigore[925]; e da Niccolò I. R. P.[926] vien chiamata per eccellenza Codex Canonum, e dal diritto canonico Corpus Canonum[927]. E ne' tempi seguenti ebbe tanta forza, che nell'anno 787 data in dono da Adriano I. a Carlo M.[928], questo Principe comandò a' Vescovi di Francia, che invigilassero all'osservanza dei canoni in quella racchiusi; e comprese que' decreti nel suo Capitolare d'Aix la Chapelle, che fece comporre nell'anno 789 secondo che narra Justello[929].

Intorno al medesimo tempo nell'anno 547 Fulgenzio Ferrando Diacono di Cartagine fece un'altra raccolta di canoni[930], ma con diverso ordine, più tosto citandogli, che rapportandogli, e sotto ciascun capo raccolse i canoni di diversi Concilj, della quale fa menzione Graziano nel suo decreto[931].

Il Cardinal Baronio[932] stima, che circa questi medesimi [470] tempi sieno state fatte le Collezioni di Martino di Braga, e di Cresconio. Altri credono[933] che quella di Martino fosse fatta intorno all'anno 572, e l'altra di Cresconio circa l'anno 670. Martino, di nazione Unghero, e Monaco Benedettino, fu Vescovo di Braga in Portogallo. Fece la sua raccolta per uso delle Chiese di Spagna, traducendo i Sinodi greci, ed aggiungendovi altri canoni di Concilj latini, e spezialmente dei toletani: questa Collezione però fuori delle Spagne non ha avuto uso nè autorità, se non quanto avesse servito per illustrazione[934].

Cresconio Vescovo d'Affrica compose la sua Collezione di canoni, della quale ci resta un compendio, il cui titolo, secondo un MS. che rapporta il Baronio, era questo: Concordia Canonum a Cresconio Africano Episcopo digesta sub capitibus trecentis. E perchè ivi fassi anche menzione d'un poema in versi esametri composto dal medesimo Cresconio per celebrar le guerre e le vittorie riportate da Giovanni Patricio contra i Saraceni d'Affrica, fa conto il Baronio, che egli vivesse intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore.

Giovanni Scolastico, che, mandato Eutichio in esilio, fu innalzato al Patriarcato di Costantinopoli da Giustiniano Imperadore[935], e visse anche dopo lui, fu il primo, che in Oriente avesse fatta Raccolta, dove si unissero insieme i canoni colle leggi, spezialmente le Novelle di Giustiniano; la qual spezie di libro fu [471] chiamata poi Nomocanone da' Scrittori seguenti: e benchè questa Collezione divisa in cinquanta titoli, da principio ebbe qualch'uso; nondimeno Teodoro Balsamone nel supplimento osserva, che a tempo suo, cioè nella fine dal secolo duodecimo, non aveva alcuna stima, come quella ch'era stata adombrata dal Nomocanone di Fozio, più utile e più abbondante[936].

Queste furono le Collezioni de' canoni, che dopo il Codice de' canoni della Chiesa universale sursero ne' seguenti tempi infin all'Imperio di Giustino, successor di Giustiniano[937]: le quali non avevan forza di legge, se non quando dagl'Imperadori e Principi era lor data. La Chiesa non avea peranche in questi tempi acquistata giurisdizione perfetta, sì che potesse far valere i suoi regolamenti, come leggi, ed obbligare i Fedeli con temporal costringimento all'osservanza de' medesimi, o punire i trasgressori con pene temporali: obbligavan solamente per la forza della religione le loro anime; e le pene e gastighi erano spirituali, di censure, penitenze, e deposizioni. I Principi per mezzo delle loro costituzioni lor davan forza di legge, obbligando i sudditi ad osservargli con temporale costringimento, come il manifestano in Oriente le Novelle di Giustiniano, la Collezione di Giovanni Scolastico, i Nomocanoni di Fozio e di Balsamone; ed in Occidente, nella Francia i capitolari di Carlo M. in Ispagna le leggi di que' Re, per le quali a' canoni stabiliti ne' Concilj tenuti in Toledo, o altrove, [472] davan tutta la forza ed autorità; ed in Italia i tanti editti di Teodorico e d'Atalarico, che appresso Cassiodoro si leggono.

§. VI.  Della conoscenza nelle cause.

Lo Stato ecclesiastico, durante la dominazione dei Goti in queste nostre province, non acquistò maggior conoscenza, o nozione nelle cause, di quella ch'ebbe ne' precedenti secoli sotto i successori di Costantino infino all'Imperio di Valentiniano III. Era ancor ristretto nella conoscenza degli affari della fede e della religione, di cui giudicava per forma di politia; nella correzione de' costumi, di cui conosceva per via di censure; e sopra le differenze insorte fra' Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio e d'amichevole composizione. Non ancora avea acquistata giurisdizione perfetta, nè avea foro o territorio, nè i suoi Giudici eran divenuti Magistrati. Teodorico e gli altri Re suoi successori lo contennero ne' suoi limiti, nè la di lui conoscenza trapassò i confini del suo potere spirituale, toltone la conoscenza in quelle tre sole occorrenze già ricordate; in tutto il resto gli Ecclesiastici osservavano le leggi civili, e come membri della società civile ubbidivano, come tutti gli altri, a' Magistrati secolari, così ne' giudicj criminali, come civili, dai quali eran giudicati e puniti. L'accuse si riportavan al Principe, perchè o egli le giudicasse, o delegasse ad altri la loro cognizione, e sovente per li loro delitti eran mandati in esilio, e deposti dalle loro cariche. Si è veduto, come il Popolo romano, l'accuse che inventò contra Simmaco, le portò fin a Ravenna al Re Teodorico, perchè prendesse a giudicarlo, dimandandogli [473] un Visitatore, siccome gli fu dato, perchè lo sentenziasse; non altrimente di ciò, che fecero i Vescovi d'Italia contra Damaso, i quali ricorsero agl'Imperadori Graziano e Valentiniano, pregandogli che prendessero a giudicare quel Papa da loro accusato. Non recava maraviglia in questi tempi, mandarsi dal Re i Vescovi, come loro sudditi, ed il Papa stesso in varie parti, ove portava il bisogno, e chiamargli a lor posta, nel che sempre erano pronti ed ubbidientissimi. Papa Giovanni I. fu mandato dal Re Teodorico fino in Costantinopoli per ottener dall'Imperador Giustino I. la revocazione d'un suo editto, col quale esprimeva, che le Chiese degli Arriani si fossero date a' Cattolici: e non avendo avuta questa imbasciata quel successo da Teodorico sperato, imputandosi alla sospetta fede di Giovanni, e poca buona condotta da lui usata, quando egli era di ritorno per Italia, lo fece arrestare in Ravenna, dove morì il dì 27 di marzo dell'anno 526. E Teodato mandò Papa Agapito a Costantinopoli per trattar con Giustiniano la pace cotanto da lui bramata.

Il Re Atalarico stabilì con suo editto istromentato da Cassiodoro[938], che quelli, i quali per simonia ed ambizione erano stati eletti, fosser accusati avanti i suoi Giudici e puniti severamente, stabilendo premj agli accusatori, con dar loro la terza parte di ciò, che venissero condennati, ed il rimanente da doversi impiegare alle fabbriche delle Chiese, e per sovvenimento de' loro Ministri.

Intorno alle loro cause civili fu serbata a' Magistrati secolari la medesima giurisdizione che prima avevano; [474] dovevan innanzi a loro istituire i giudicj, proponere le loro azioni, e citati dar malleveria judicio sisti. Solamente il Re Atalarico favorì in ciò la Chiesa romana, approvando una consuetudine, che s'era introdotta nel Clero di quella, di doversi prima i suoi Preti convenire, o accusare avanti il loro Vescovo. I Magistrati secolari, che in Roma da quel Principe erano stati destinati ad amministrar giustizia, secondo ciò che praticavasi in tutte l'altre province, ad istanza del suo creditore, costrinsero un Diacono di quella Chiesa a soddisfar il debito; e lo strinsero con tanta acerbità, che lo diedero in mano del medesimo creditore a custodirlo. Un altro Prete della medesima Chiesa per leggiere cagioni accusato, lo trattarono assai aspramente e con molti strazi. Il Clero di Roma con flebili lamenti e preghiere, ricorse al Re Atalarico, esponendogli, che nella lor Chiesa, per lunga consuetudine, affinchè i loro Preti intrigati nelle liti del Foro, e tra' negozj del secolo, non si distogliessero dal culto divino, erasi introdotto, che avanti il loro Vescovo dovessero convenirsi: e che ciò non ostante, da' suoi Magistrati erano stati un lor Prete e un Diacono acerbamente, e con molte contumelie trattati; pregavano per tanto la clemenza di quel Principe a darvi opportuno provedimento. Il Re alle loro preci rispose, che per la riverenza ed onore, che si doveva a quella sede appostolica[939], d'allora innanzi stabiliva, che se alcuno avea da convenire qualche Prete del Clero romano in qualsivoglia causa, dovesse prima ricorrere al giudicio del Vescovo di quella sede, il quale dovesse, [475] o egli conoscere more suae sanctitatis de' meriti della causa, ovvero delegarla, acquitatis studio terminandam; ma se l'attore o l'accusatore usando di questa riverenza, si vedesse deluso e differito nelle sue dimande, o quelle disprezzate; tunc ad saecularia fora jurgaturus occurrat. All'incontro, se pretermesso questo suo comandamento, ricorrerà alla prima a' Tribunali secolari, gl'impone pena di dieci libbre d'oro, da doversi da' suoi Tesorieri immantenente riscuotere, e per le mani del Vescovo dispensarsi a' poveri, e di vantaggio cadesse dalla causa, e con tal doppia pena fosse punito. Ma non tralasciò Atalarico nell'istesso tempo d'ammonirgli, che vivessero, come si conveniva al loro stato, dicendogli: Magnum scelus est crimen admittere, quos nec conversationem decet habere saecularem; professio vestra vita coelestis est. Nolite ad mortalium vota humilia, et errores descendere. Mundani coerceantur humano jure, vos sanctis moribus obedite.

Ecco come in questi tempi in tutte l'altre Chiese, de' Magistrati secolari era la conoscenza e giurisdizione delle cause, così civili come criminali degli Ecclesiastici, erano sottoposti a' loro giudicj ed ammende: nè perchè al solo Clero di Roma, per riverenza di quella sede, volle Atalarico usar questa indulgenza, fu perciò al suo Vescovo, o pure a quelli, a' quali egli delegava le cause, data per giudicarle giurisdizione alcuna; ma solo, che dovessero terminarle more suae sanctitatis, et aequitatis studio, in forma d'arbitrio e di caritatevole composizione, non già in forma di giudicio e di giustizia contenziosa.

Giustiniano adunque fu il primo, che cominciò ad accrescere la conoscenza de' Vescovi nelle cause degli [476] Ecclesiastici, e diede a quelli privilegio di non piatire avanti Giudici laici. Questo Principe, siccom'egli era pietoso e religioso, così accrebbe la conoscenza dei Vescovi, ordinando per le sue Novelle[940], che nelle azioni civili i Monaci ed i Cherici sarebbero convenuti in prima innanzi al Vescovo, il quale deciderebbe le loro differenze prontamente, senza processi e senza alcun rumore o strepito di giudicio; a condizione però, che se una delle parti dichiarasse fra dieci giorni di non volere acquetarsi al suo giudicio, il Magistrato ordinario prendesse cognizione della causa, non per forma d'appellazione, come alcuni credettero, e come in ciò superiore al Vescovo, ma tutto di nuovo: e se giudicava come aveva arbitrato il Vescovo, non v'era appellazione da lui: ma se altrimente, si dava in questo caso luogo all'appellazione. E quanto alle cause criminali, era permesso d'indirizzarsi contro il Cherico, o innanzi al Vescovo, ovvero al Giudice ordinario, salvo ne' delitti ecclesiastici, come d'eresia, simonia, inobbedienza al Vescovo, ed ogn'altro concernente la loro qualità, la cui conoscenza era attribuita al solo Vescovo: come altresì delle differenze concernenti alla religione e alla politia ecclesiastica, anche contro a' laici. Stabilì ancora, che se nelle cause criminali il Cherico fosse condennato dal Giudice laico, la sua sentenza non potesse eseguirsi, nè il Prete degradarsi, senza l'approvazione del Vescovo; che se egli non lo volesse fare, era necessario di ricorrere all'Imperadore. Ed in quanto a' Vescovi, diede loro particolarmente questo privilegio di non piatire per niente innanzi a' Magistrati laici, il qual privilegio diede [477] ancora alle religiose per la Novella 79 che gl'Interpreti hanno malamente steso a' religiosi. E questo regolamento di Giustiniano, contenuto nella Novella 123, è quasi interamente reiterato dalle costituzioni dell'Imperador Costantino III figliuolo d'Eraclio, e di Alessio Comneno, rapportate per Balsamone nel titolo sesto del suo Nomocanone. Ecco come per privilegio del Principe si cominciò ad ingrandire la conoscenza de' Vescovi: non è però, ch'allora acquistassero giustizia perfetta, che il diritto chiama giurisdizione, sopra i Preti, non avendo di que' tempi territorio, cioè Jus terrendi, nè preciso costringimento. Per la qual cosa non potevano di lor autorità imprigionare le persone ecclesiastiche, nè avevan carceri: nè potevano imporre pene afflittive di corpo, d'esilio e molto meno di mutilazion di membra o di morte, anche nei più gravi delitti; nè condennare all'ammende pecuniarie.

Le pene, che usavano erano deposizioni, o sospensioni degli Ordini, digiuni e penitenze: e questa forma di disciplina continuossi per tutto l'ottavo secolo: ciò che ottimamente notò Gregorio III, in quella bella epistola, che dirizzò a Lione Isaurico[941], dove fa vedere quanto sia grande la differenza, fra le pene dell'Imperio e della Chiesa: gl'Imperadori condannano a morte, imprigionano, mandano i rei in esilio e rilegano: non così i Pontefici: Sed ubi, come sono le sue parole, peccarit quis, et confessus fuerit, suspendii, vel amputationis capitis loco, Evangelium, et Crucem ejus cervicibus circumponunt, eumque tamquam [478] in carcerem, in secretaria, sacrorumque vasorum aeraria conjiciunt, in Ecclesiae Diaconia, et in Catecumena ablegant, ac visceribus corum jejunium, oculisque vigilias, et laudationem ori ejus indicunt. Cumque probe castigarint, probeque fame afflixerint, tum pretiosum illi Domini Corpus impartiunt, et Sancto illum Sanguine potant: et cum illum vas electionis restituerint, ac immunem peccati, sic ad Deum, purum insontemque transmittunt. Vides, Imperator, Ecclesiarum, Impertorumque discrimen, etc.

Avevan però gli Ecclesiastici in questi tempi cominciato ad usurparsi la potestà di bruciare i libri degli Eretici, perchè nell'anno 443 il Pontefice Lione il Santo bruciò in Roma molti libri de' Manichei, quando prima la censura solamente apparteneva alla Chiesa, ma la proibizione, o bruciamento al Principe[942], di che altrove ci tornerà occasione di più lungamente ragionare.

§. VII.  Beni temporali.

Non al pari della conoscenza nelle cause, fu l'ingrandimento de' beni temporali nelle nostre Chiese: fu questo di gran lunga a quello superiore. I Principi intorno agli acquisti, che tuttavia facevano, non molto vi badavano, e non solo poca cura si presero d'impedire gli eccessivi, come fecero Teodosio M. e gli altri Imperadori suoi successori, ma anch'essi vi contribuirono con donazioni e privilegi[943]. Quando prima gli acquisti facevansi dalle sole Chiese, ora cominciando in queste nostre province a fondarvisi dei [479] monasteri, ancor essi ne tiravano la lor parte, e molti buoni presagi ne diedero, fin da' loro natali, i monasteri di S. Benedetto.

S'aprirono ancora nuovi altri fonti, donde ne scaturiva maggior ricchezza: sursero in questi tempi i santuari, e allargossi grandemente la venerazione delle reliquie de' Santi. I tanti miracoli, che si predicavano, l'apparizioni angeliche, le particolari devozioni a' Santi, e l'esortazioni de' Monaci, tiravano le genti per la loro devozione ad offerire a' loro monasteri ampie ricchezze. Fu riputato ancora in questi tempi il donare, o lasciare per testamento alle Chiese, essere un fortissimo remedio per ottener la remissione de peccati. Salviano[944] che fiorì nell'Imperio d'Anastasio, esortava a molti pietosi, che soccorressero le loro anime ultima rerum suarum oblatione. Quindi sovente leggiamo nelle donazioni fatte alle Chiese quella clausola; pro redemptione animarum, etc.

Si stabilì ancora un nuovo fondo assai più stabile di quel di prima, donde se ne ritraevano buoni emolumenti: le decime che ne' tre primi secoli erano libere e volontarie; e nel quarto e quinto secolo, per la tepidezza de' Fedeli in darle, erano avvalorate dai sermoni de' PP. e dalle loro esortazioni, perchè non le tralasciassero; in questo sesto secolo divennero debite e necessarie[945]. Vedendo, che niente allora giovavano le prediche e l'esortazioni, fu bisogno ricorrere ad aiuti più forti e vigorosi; onde si pensò a stabilirle per via di precetti e di canoni. Così molti [480] Concilj d'Occidente, e più decretali de' romani Pontefici fecero passare in legge l'uso di pagarle. Per queste ed altre vie, le ricchezze delle Chiese cominciaron ad essere assai più ampie e considerabili, ed a posseder esse particolari patrimonj. La Chiesa di Roma sopra tutte l'altre si rende ricchissima, tanto che narra Paolo Varnefrido[946], ch'avendo Trasimondo Re de' Vandali in Affrica mandato in esilio 220 Vescovi, Simmaco, che allor sedeva nella Cattedra di Roma, fece a tutti somministrare ciò, che lor bisognava per sostentarsi. Nè si pensò solo a' modi di acquistar le ricchezze, ma anche a' modi di conservarle; poichè colle ricchezze essendo congiunto il rilasciamento della disciplina e de' costumi, quelle appropriandosi gli Ecclesiastici, come facoltà proprie, dove prima non eran considerate, se non come patrimonio de' poveri, venivan in conseguenza mal impiegate e peggio distribuite; onde più Concilj (quando che prima non erasi per anche fatto alcun regolamento sopra questa materia) si mossero a stabilire un gran numero di canoni, proibendo l'alienazioni, regolando il modo di distribuirle, e badando sopra tutto alla loro conservazione e sicurezza. Egli è però ancora vero, che non perciò i Principi lasciarono di stabilir leggi intorn'a' beni ecclesiastici, regolando gli acquisti, e tal ora anche le maniere di distribuirgli e vietar gli abusi: e Giustiniano ci accerta d'aver egli di suo diritto stabilite molte leggi intorno a' medesimi[947].

La divisione de' frutti di questi beni in quattro parti, una all'Amministratore o Beneficiato, l'altra alla [481] Chiesa, la terza a' Poveri, e la quarta a' Cherici, che s'attribuisce a Papa Simplicio, il qual fu eletto nell'anno 468, non fu in questi tempi sempre costante, nè la medesima per tutte le province d'Occidente. In Francia nel Concilio I d'Orleans[948], ragunato l'anno 511, s'assegna la metà al Vescovo, e l'altra metà al Clero. In Ispagna, dal Concilio I di Braga[949] tenuta nell'anno 563, la divisione dell'oblazioni si riserva ai Cherici tutti in comune. Ma da poi nel Concilio IV di Toledo, convocato sotto il Re Sisenando nell'anno 633, fu stabilito, che i Vescovi avessero la terza parte delle rendite[950]. Così, come assai approposito notò Graziano[951], secondo la diversità de' luoghi, e consuetudine delle regioni, al Vescovo era riservata, in alcune la terza, in altre la quarta parte: nè tali divisioni furono sempre, e da per tutto invariabili e perpetue.

Grande che fosse stato in questo sesto secolo l'accrescimento de' beni temporali delle nostre Chiese e de' monasteri, a riguardo però degli altri immensi ed eccessivi acquisti, che poi si videro nel Regno dei Longobardi e de' Normanni, era comportabile, nè molta alterazione recossi perciò allo Stato civile: maggiore lo ravviseremo sotto i Longobardi, il Regno de' quali saremo ora per narrare.

[482]

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI
NEL TOMO PRIMO

Introduzione pag. 1
 
LIBRO PRIMO. 23
 
Cap. I. Delle condizioni delle città d'Italia 29
Cap. II. Delle condizioni delle province dell'Imperio 36
Cap. III. Della disposizione dell'Imperio sotto Augusto 41
Cap. IV. Della disposizione e politia di queste regioni, che oggi compongono il Regno di Napoli, e della condizione delle loro città 44
§. I. Di Napoli oggi capo e metropoli del Regno 48
§. II. Napoli non fu Repubblica affatto libera ed independente da Romani 57
[483]
§. III. Delle altre città illustri poste in queste regioni 66
§. IV. Scrittori illustri 68
Cap. V. Della disposizione d'Italia, e di queste nostre province sotto Adriano, infin a' tempi di Costantino il Grande 70
Cap. VI. Delle leggi 72
Cap. VII. De' Giureconsulti, e loro libri 75
Cap. VIII. Delle costituzioni de' Principi 88
Cap. IX. De' Codici Papiriano, Gregoriano ed Ermogeniano 95
Cap. X. Delle Accademie 99
§. I. Dell'Accademia di Roma in Occidente 99
§. II. Dell'Accademia di Berito in Oriente 105
Cap. XI. Della politia ecclesiastica de' tre primi secoli 113
§. I. Politia ecclesiastica de' tre primi secoli in Oriente 123
§. II. Politia ecclesiastica in Occidente, ed in queste nostre regioni 131
§. III. Napoli, siccome tutte l'altre città di questo Regno, erano universalmente gentili 139
§. IV. Gerarchia ecclesiastica, e Sinodi 144
§. V. De' Regolamenti ecclesiastici 146
§. VI. Della conoscenza nelle cause 148
§. VII. Elezione de' Ministri 150
§. VIII. Beni temporali 152
[484]
 
LIBRO SECONDO. 155
 
Cap. I. Disposizione dell'Imperio sotto Costantino Magno 159
Cap. II. Degli Ufficiali dell'Imperio 166
Cap. III. Degli Ufficiali, a' quali era commesso il governo delle nostre province 170
§. I. Della Campagna, e suoi Consolari 171
§. II. Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori 186
§. III. Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori 190
§. IV. Del Sannio, e suoi Presidi 197
Cap. IV. Prima invasione de' Vestrogoti a' tempi d'Onorio 198
§. I. Non furono queste Province ad altri cedute o donate 205
Cap. V. Delle nuove leggi, e nuova giurisprudenza sotto Costantino, e suoi successori 219
Cap. VI. De' Giureconsulti, e loro libri; e dell'Accademia di Roma 227
§. I. Dell'Accademia di Costantinopoli 237
Cap. VII. Delle costituzioni de' Principi, onde formossi il Codice Teodosiano 239
§. I. Dell'uso e autorità di questo Codice nell'Occidente, ed in queste nostre province 244
[485]
Cap. VIII. Dell'esterior politia ecclesiastica, dai tempi dell'Imperador Costantino M, infino a Valentiniano III 250
§. I. Dei Monaci 273
§. II. Prime collezioni di canoni 281
§. III. Della conoscenza nelle cause 288
§. IV. Beni temporali 299
 
LIBRO TERZO. 309
 
Cap. I. De' Goti occidentali, e delle loro leggi 312
§. I. Del Codice d'Alarico 318
§. II. Traslazione della sede regia de' Vestrogoti da Tolosa di Francia, in Toledo nelle Spagne 321
§. III. Del nuovo Codice delle leggi de' Vestrogoti 324
Cap. II. De' Goti orientali, e loro Editti 331
§. I. Di Teodorico ostrogoto, Re d'Italia 337
§. II. Leggi romane ritenute da Teodorico in Italia, e suoi editti conformi alle medesime 349
§. III. La medesima politia, e Magistrati ritenuti da Teodorico in Italia 352
§. IV. La medesima disposizione delle province ritenuta in Italia dal Re Teodorico 357
Della Campagna, e suoi Consolari 358
Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori 364
[486]
Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori 365
Del Sannio e suoi Presidi 368
§. V. I medesimi Codici ritenuti, e le medesime condizioni delle persone e de' retaggi 369
§. VI. Insigni virtù di Teodorico, e sua morte 372
§. VII. Di Atalarico Re d'Italia 380
Cap. III. Di Giustiniano Imperadore, e sue leggi 382
§. I. Del primo Codice di Giustiniano 383
§. II. Delle Pandette ed Instituzioni 385
§. III. Del secondo Codice di Giustiniano di repetita prelezione 391
§. IV. Delle Novelle di Giustiniano 398
§. V. Dell'uso ed autorità di questi libri in Italia, ed in queste nostre province 403
Cap. IV. Espedizione di Giustiniano contra Teodato Re d'Italia, successor d'Atalarico 406
§. I. Di Vitige, Ildibaldo ed Erarico, Re d'Italia 416
§. II. Di Totila Re d'Italia 417
§. III. Di Teja ultimo Re de' Goti in Italia 423
Cap. V. Di Giustino II. Imperadore; e della nuova politia introdotta in Italia, ed in queste nostre province da Longino suo I. Esarca 432
[487]
Cap. VI. Dell'esterior politia ecclesiastica 435
§. I. Del Patriarca d'Occidente 438
§. II. Del Patriarca d'Oriente 442
§. III. Politia ecclesiastica di queste nostre province sotto i Goti e sotto i Greci, sin a' tempi di Giustiniano II 449
§. IV. De' Monaci 458
§. V. Regolamenti ecclesiastici, e nuove Collezioni 465
§. VI. Della conoscenza nelle cause 472
§. VII. Beni temporali 478

NOTE:

1.  Arthur. Duck, De Usu, et Auth. Jur. Civ. Rom. in Dominiis Principum Christianorum.

2.  Ciron. Observat. Jur. Can. lib. 5.

3.  Alteserra Rerum Aquitan. lib. 3.

4.  Ciron. lib. 5. Observ. Jur. Can. c. 6 e 7.

5.  Arthur. lib. 2. c. 5. num. 43.

6.  Doujat. Hist. Jur. Civ.

7.  Erm. Coringio De Orig. Jur. Gernian.

8.  Georg. Pasquio, De Novis Invent.

9.  Struv. Hist. Jur. Germ. cap 6.

10.  V. Struvio in Proleg. ad Hist. Jur. §. 28.

11.  Franc. Crass. in Libello de Orig. Jur. Mediol.

12.  Molin. in Comment. ad Consuet. Par. part. 1. tit. 1. n. 91. et n. 96.

13.  Cardin. de Luca De Servit. Disc. 1. De Judiciis Disc. 35. De Regularib. Disc. 161. in Miscellaneis. et alibi saepe.

14.  Franc. de Andreys Disp. An. Fratres in Feuda nostri Regn. succed. ec.

15.  

Tu regere Imperio Populos, Romane, memento:

Hae tibi erunt artes etc.

Virg. Aeneid. lib. 6. v. 851.

..... victorque volentes

Per populos dat Jura.

Virg. Georg. lib. 4. v. 561.

16.  Bodin. de Republ. lib. I. c. 2. Scipion. Ammirat. ne' suoi Opusc. Disc. 8.

17.  Bodin. de Republ. lib. 2. c. 2. Lipsius, Admiranda Urbis Romae lib. 1. c. 3. in fine.

18.  Cyprian. lib. de Idolor. vanit. Minutius Felix in Dialog. Octavius. Arnobius Adver. Gentes tib. 7. Hieronym. in Com. ad c. 2. Dan. Lact. lib. Divin. Instit. cap. 18. Augustin. de Civit. Dei lib, 4. c. 4. etc.

19.  In Panegyr. Julian. Cos.

20.  Lib. 2. contra Symmach.

21.  Zonaras ad Canon. et Constitut. Apostol. lib. 7. c. 27.

22.  August. lib. 5. cap. 12. et 15. de Civit. Dei.

23.  Lib. 5. Cod. Greg. tit. de Nupt.

24.  Siculus Flaccus de condit. agror. in princ.

25.  Justin. lib. 1. Instit. de pat. pot. §. jus autem lib. r.

26.  Sigon. de Antiq. Jure Civium Rom. cap. 6.

27.  Bodin. de Rep. lib. 2. cap. 2.

28.  Afflict. in prooem. Constit. Regni, Vin. lib. 1. Instit. tit. 1.

29.  Agell. lib. 16. noct. att. cap. 13. in fin.

30.  Suet. cap. 46. in August. P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. cap. 6. sect. 1.

31.  Palestrina.

32.  Exulibus impune degere licet Neapoli, Praeneste, Tibure; item aliis in Urbibus, quibus hoc Jure foedus intercedit cum Romanis. Polyb. Lib. 6.

33.  Castelluccio.

34.  Sessula.

35.  Cajazzo.

36.  Mola di Gaeta.

37.  Tranquil. in Aug. cap. 47.

38.  L. Roma, D. Ad Municipalem, L. 6. D. de Excusat. tut.

39.  Flac. de condit. agr. Alteserra Rerum Aquit. lib. 3 cap. 1.

40.  Ulpian in l. ager. D. de verb. oblig.

41.  Alteserra rer. Aquit. lib. 3. cap. 1.

42.  Dio. lib. 41.

43.  Alteser. loc. cit.

44.  Plin. lib. 3. c. 3.

45.  Pausanias in Achaicis.

46.  L. Roma, D. Ad Mun.

47.  L. in orbe 17. D. de statu hom.

48.  August. l. 5. de Civit. Dei c. 17. et in Ps. 58.

49.  

Fecisti patriam diversis gentibus unam.

Profuit injustis, te dominante, capi.

Dumque offers victis proprii consortia Juris,

Urbem fecisti, quod prius orbis erat.

Rutil. Lib. 1. Itiner.

50.  Justinian, in l. unic. C. de jure. Quirit. tol.

51.  L. unic. C. de usucap. et sublata differentia rer. mancipi, et nec mancipi.

52.  August. loc. cit.

53.  Salvian. l. 5. de gubernat.

54.  Orosius l. 7. c. 28. Isidor. in Chron. Aera 447.

55.  Plin. l. 3. c. 5. Camil. Pellegr. in Campania disc. I. n. 7.

56.  Rocca di Mondragone.

57.  Buxento, nella Lucania, è l'istesso, che Petelia; e l'Holstenio dice che sia Policastro. Vedasi Binghamo Orig. eccl. Vol. 3 pag. 528. Furono due Petelie, una ne Bruzj, della quale fa menzione Livio Decad. 3. lib. 3 cap 21. L'altra nella Lucania di cui favella Strabone Rer. Geogr. lib. 6.

58.  Policastro.

59.  Saticula, Colonia del Sannio, della quale non vi è ora vestigio.

60.  Plin. lib. 3 e. 5.

61.  Camil Pelleg. Camp. disc. 1 n. 7.

62.  Lupia, la Rocca, Valentia, Binona, Tempsa, Malvito, Besidia, Bisignano, Namerto, Martorano, Locri, Girace, Petelia, Policastro, Ruscia, Rossano, Turio, Terranova.

63.  Sigon. de antiq. jur. Ital. l. 2 c. 4.

64.  Gruter. Inscriptiones antiquae totius orbis romani, pag. 463.

65.  Gruter. p. 490.

66.  Gruter. pag. 411.

67.  Cic. pro Corn. Balbo.

68.  Livio chiama i Lucerini bonos, ac fideles sosios.

69.  Polyb. lib. 6.

70.  Sigon. de antiq. jure Italiae.

71.  Tutino dell'orig. de' seggi, c. 7.

72.  Lib. 1. praccidan. in Petron. Arbitr. cap. 2.

73.  Tacit. 15. Annal. 33.

74.  Ant. Aug. dial. 6 p. 156.

75.  Tutino, dell'orig. de' seggi, cap. 7.

76.  P. Lasena del Ginnasio napoletano.

77.  Strabo Geogr. lib 5.

78.  Varro l. 4. de ling. lat. c. 15. Jos. Scalig. in Var. de ling. lat. eod. loc. num. 23.

79.  Spart. in vita Adrian. Apud Neapolim Demarchus.

80.  Pietro Lasena del Ginnasio Neap. c. 4. p. 74.

81.  Summonte lib. 1. c. 6.

82.  Cicer. pro Corn. Balbo.

83.  Polyb. lib. 6.

84.  Pietro Lasena, c. 3. dell'ant. Gin. Nap.

85.  Liv. lib. 35. c. 14.

86.  Camill. Pell. in Camp. disc. 4 n. 15.

87.  Liv. lib. 36.

88.  Camill. Pell. loc. cit.

89.  Liv. lib. 23. P. Carac de Sacr. Eccl. Neapol. monum. c. 6. sect. 1.

90.  Liv. lib. 29.

91.  Suet. lib. 3. c. 4.

92.  P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 6. sect. 1.

93.  Vellejo lib. 1. hist. parlando di Napoli e di Cuma; utriusque urbis eximia semper in Romanos fides facit eas nobilitate, atque amoenitate sua dignissimas.

94.  Appian. Alessandr. delle guer. di Mitrid. Livio lib. 33. c. 45. Sueton. lib. 3. cap. 37. Strab. lib. 12. Tacit. An. lib. 4. et lib. 12. Dio. lib. 54. Vellejo lib. 2. Plinio ep. 24. lib. 8. et ep. 93. lib. 10. Plin. histor. lib. 4 c. 6. Diod. Sicul. lib. 5 Giustino lib. 33. Plut. in vita Flam.

95.  Strab. in fin. libror. Geogr.

96.  Livio lib. 35.

97.  Cicero lib. 5. in Verrem.

98.  Valer. Max. lib. 7. c. 3. Cicero lib. 1. de offic.

99.  Strabo Geogr. lib. 4.

100.  Cicer. in Orat. de Prov. Consular.

101.  Camil. Pellegr. in Camp. dis. 4. n. 15.

102.  Cicer. ad Atticum lib. 10. epist. 11.

103.  Plutarc. in Pomp.

104.  Vellejus lib. 2.

105.  Suet. in Tiberio c. 4.

106.  Virg. 4. Georg. in fine. Silv. Italic. lib. 12.

107.  Franc. de Pietri lib. 1. c. 5 istor. Napol.

108.  P. Lasena Giu. Nap. c. 6. p. 104.

109.  Carac. de Sacr. Eccl. Neap. mon. cap. 10.

110.  Fulv. Ursin. de Nummis.

111.  Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. cap. 6. sect. 1.

112.  Camil. Peregr. Castig. in Falc. Benev. A. 1140.

113.  Gruter. inscript. tot. orbis, fol. 366 et fol. 374.

114.  Camil. Per. in Castig. ad Falc. Benev. Ad an. 1140.

115.  Alex. Teles. l. 2. c. 12. et 6.

116.  Fest. V. Praefecturae.

117.  Seneca de Benef. L. 7. c. 4.

118.  Cod. Th. tit. de Rep. et de Locat. Fund. juris emph. et Reip.

119.  Suet. l. 2. c. 92. Strab. l. 5. Dio. l. 52.

120.  Camill. Pelleg. in Cam. disc. 4. nu. 15.

121.  Gregor. l. 8. ep. 53. indit. 3.

122.  Fior. l. 1. c. 16.

123.  Scevola, et Africano nella l. 3. e l. 9. tit. 4. D. lib. 13. Ulpiano l. 9. tit. 2. D. 45. Giuliano, e Papin. nella l. 17. et l. 50. tit. 1. D. lib. 46.

124.  Scevola in l. qui Romae D. de verb. oblig. §. Callimachus.

125.  L. haeredes mei D. Ad S. C. Trebell.

126.  Freccia de subfeud.

127.  Ciatlant. del Sannio, lib. 3. c. 5.

128.  Spartian. in vita Adrian. Appian. Alessand. nel lib. 1. delle guerre civili.

129.  Camil. Pell. in Camp. disc. 1. num. 8.

130.  Spartian. loc. cit. Quatuor. Consulares per omnem Italiam Judices constituit.

131.  Leges Regiae in ordinem ex eorum fragmentis redactae, notisque ex parte illustratae sunt a Paulo Manutio, A. Aug. Francisco Modio, Fulvio Ursino, Lipsio, Rosino, Foresto, ac Balduino.

132.  L. 2. D. de orig. jur. princ.

133.  Dionis. Alicarnas. l. 5. Plutar. in Valer. Liv. l. 3. et 10.

134.  Aristot. lib. 1. Rethoric. ad Theodoct. cap. 4. Legum ferendarum scientiae, terrarum peregrinationes sunt utiles, exinde enim gentium instituta, legesque licet cognoscere. Emund. Meril. obs. l. 2. cap. 10.

135.  Di questi due grandi Legislatori diffusamente trattò Diodoro Siciliano nella sua Biblioteca Istorica, l. 12.

136.  Gunrad. Rittershus. in Com. ad 11. LL. tab. c. I.

137.  Ritter. l. c.

138.  Liv. l. 3.

139.  Cic. l. 1. de Oratore

140.  §. lex. Inst. de jur. nat. gent. et. civ. Bodin. l. 1. de Repub. c. 10.

141.  L. 2. §. iisdem temporibus, D. de orig. jur.

142.  §. Senatusconsultum Instit. cit. tit.

143.  §. Praetorum instit. tit. perpet. et temp. act. Budeus. in lib. 2. D. de statu hom. Rosin. l. 8. antiq. c. 5.

144.  L. si quis 10. C de condit. in deb.

145.  Jac. Gotofr. in prolog. ad Cod. Theod. cap. I.

146.  L. 2. D. de orig. jur.

147.  Georg. Pasq. de nov. inventis.

148.  Cic. lib. de orat. Viglius in Praefat.

149.  Cicer. loc. cit.

150.  Loiseau Des Ordres, cap 8. num. 24.

151.  Revard. de auth. Prud. cap. 14. et 15.

152.  L. 2. D. de orig. jur.

153.  L. 2. D. de orig. jur. in fin.

154.  Loyseau des Ordres c. 8. n. 27.

155.  Justin. in Instit. lib. 2. tit. 25.

156.  Spartian. in vita Adrian.

157.  Lamprid. in Alexand. Sever.

158.  L. cum virum 16. C. de fideicomm.

159.  L. casus majoris, C. de testam. l. 3. C. cod. tit.

160.  Agell. l. 1. noct. attic. c. 22. Bud. Annot. in Pand. l. 1 de just.

161.  Valla Eleg. l. 3.

162.  Bud. Annot. in PP. l. 1 de just. et jur.

163.  Justin. in Instit. lib. 1. tit. 1: §. Responsa.

164.  Cont. 1. success. 12. Doujat Hist. jur. civ.

165.  Emud. Merill. lib. 1. obs. cap. 5. et 6.

166.  L. singularia D. de reb. credit. l. qui negotia, D. mandat. et ibi Cujac. Vinc. qu. illustr. lib. 1. cap. 40.

167.  L. 2. D. de orig. jur.

168.  L. un. Cod. Th. de Resp. prud. Jacob. Got. loc. cit.

169.  Rittershus. Comm. in 12. Tab. cap. 5.

170.  Agell. lib. 20. cap. 1.

171.  Rivall. lib. 2. hist. jur. civ. Oldendorp. lib. var. lect. ad jur. civ. interp. Forsterus lib. 1. histor. J. C. Rom. cap. 22. Balduin, Comm. ad 12. Tab. II. Cont. lib. 2. subsec. lect. Rosin. Antiq. Rom. lib. 8. cap. 6. Pighius, lib. 3. Annal. S. P. Q. R. Turneb. in Adversar. lib. 13. cap. 26 et seqq.

172.  Bris. de Formul. A. Aug. de Legib.

173.  Dio. lib. 53.

174.  Suet. in Tiber. c. 30.

175.  Appian. Alex, in proëm hist.

176.  Dio. lib. 53.

177.  Juven. Satyr. 10.

178.  Loyseau des Seigneuries, cap. 2 num. 6. Vedi Bodin. lib. I de Rep. c. 8.

179.  Loyseau loc. cit.

180.  L. ult. C. Th. Qui boni cedere, etc. L. ult. de off. Judic. lib. 1 de his qui ad min. lib. 5. et 8. de fide test.

181.  L. 3. D. de hist. qui in test. Del.

182.  L. 1. §. 1. D. de Const. Princ. lib. ult. C. de Leg.

183.  L. 3. C. Th. de decur. et silent. lib 36. de ann. et trib. lib 52. de haereticis.

184.  C. Th. de Mandatis Principum.

185.  L. 1. D. de Const. Princ.

186.  Instit. lib. 1 tit. 2. §. sed et quod Principi.

187.  Arthur. Duck. lib. 1. c. 3. n. 9. et 10.

188.  Jacob. Got. prolegom. ad C. Th. c. 1 Angel. Polit. ep. 9 lib. 5. ad Jacobum Modestum.

189.  Jacobus Labittus in Indice legum.

190.  Jac. Got. in Prolegom ad C. Th. c. 1.

191.  Jacob. Got. lib. c.

192.  Ermog. lib. 2. D. de statu hom.

193.  Got. lib. c.

194.  August. lib. 2. ad Pollentium, de Adulterio, cap. 8.

195.  Freher. parerg. 9.

196.  Got. in prolog. c. 3.

197.  L. 7. C. de incest. nupt.

198.  Sueton. in Crassitio Grammatico.

199.  Bud. in annot. ad Pan. lib. 1. de Just. et Jur.

200.  L. 2. D. de or. Jur.

201.  Cit. lib. 2. D. de orig. Jur.

202.  Suet. in Augusto.

203.  Jacob. Gottofr. in C. Th. lib. 1. de Medic.

204.  Dio. in Juliano. Lampr. in Alex. Sev. Capitolin. in Pertinace.

205.  Simmac. lib. 1. epist. 15.

206.  Lampr. in Alexand. Severo.

207.  Loyseau des Ordres, cap. 8.

208.  Ulpian. l. cum filius, D. de reb. cred.

209.  Ulpian. in l. longius, §. ult. D. de Judic.

210.  Modestinus l. Titio, D. Ad Municip.

211.  Alteser. Rer. Aquitan. lib. 3. cap. 5.

212.  Philostr. lib. 7. de vit. Apollo. c. 17.

213.  Dio Chrysost. orat. 87. Altes. loc. cit.

214.  August. lib. 6. Conf. c. 8.

215.  Erric. Altissiodor. lib. 1. Vit. S. Germ.

Incitus his animis, talique cupidine raptus,

Qua caput est orbis terrarum maxima Roma

Tendit iter, Latii nodos addiscere Juris,

Et didicit, palmamque brevi tulit ille laboris.

216.  Constant. in vit. S. German. cap. 1.

217.  Rutil. Numat. lib. 1. Itin.

Facundus juvenis, Gallorum nuper ab arvis

Missus Romani discere Jura fori.

218.  Sidon. lib. 1. epist. 6.

219.  Claudian. in panegyr. 3. Stiliconis.

220.  Simmac. l. 8. epist. 68.

221.  C. Th. l. 1. C. de stud. liberal. urb. Romae.

222.  Cassiodor. l. 1. var. ep. 39.

223.  Cassiod. l. 4. c. 6.

224.  Cassiod. l. 9. c. 21.

225.  Savaro in Sidon. l. 1. ep. 6.

226.  Giustiniano ricuperata per Narsete l'Italia, ristabilì anche l'Accademia di Roma, comandando che fossero pagati i salarj a' Professori, siccome facevasi a' tempi di Teodorico. Leggasi la sua Prammatica al Cap. 22. che vedesi impressa dopo le di lui Novelle, dove si fa menzione de' Grammatici, Oratori, Siedici e Giurisperiti, che insegnavano alla Gioventù.

227.  L. 1. C. qui aetat. vel profess. se excus. lib. 10.

228.  Gregor. Thaumat. in paneg. ad Orig. Socrat. l. 4. c. 22. Alteser. rer. Aquitan. lib. 3. c 5.

229.  Vetus Orbis descriptio, n. 17. §. 3.

230.  Nonn. l. 41. Dionys. v. 174.

231.  Eunap. in vit. Pro pag. 150.

232.  Zacch. Scholast. de Opif. Mund.

233.  Liban. orat. 26. Apolog. p. 225. et ep. 329 et 550. ad Anatol.

234.  Agat. l. 2. hist.

235.  Justin. in prooem. Dig.

236.  Justin. in Constit. ad Antecessores, §. 7.

237.  L. 2. C. de Incolis.

238.  Agat. lib. 2.

239.  Petr. de Vin. l. 3. epist. 10.

240.  Georg. Pasq. de nov. inventis.

241.  Card. de Luca Conflict. legis, et rat.

242.  Suet. in Jul. cap. 24. Cicer. lib. 1. de Orat.

243.  Joh. Stob. serm. 41.

244.  Livio l. 1.

245.  Arist. lib. 3. Polit.

246.  Georg. Pasq. c. 5. de var. fortun. doct. Jur. §. 3. Adam. Rupert. in Com. ad Pomp. c. 6.

247.  Baco de Augum. scient. lib. 1.

248.  Novel. 6. Can. duo sunt 96. dist. can. Quoniam, dist. 10. et can. Principes caus. 23. quaest. 5.

249.  Dio lib. 54. Anast. Germon. lib. 1. de Sacr. immun. cap. 9. num. 3.

250.  Cic. de Divin.

251.  Virgil. l. 3. vers. 80.

252.  Grot. de imperio summ. potestat. cap. 2. num. 4.

253.  Novell. 42. Inst.

254.  Loyseau des Seign. cap. 15. n. 4.

255.  Can. 41. §. Item cum David, caus. 2. q. 7.

256.  Dupin. de Antiq. Eccl. disc. diss. 7.

257.  Bern. ep. 42.

258.  Chrysost. ad epist. Paul. ad. Rom. 13.

259.  Gregor. lib. 2. ep. 94.

260.  Loyseau loc. cit. n. 10.

261.  Augustin. ad c. 21. Joan. Richerius par. 3. axiom. 30. in apologia pro Jo. Gersonio.

262.  1. Reg. 8. vers. 7.

263.  Loyseau l. c. n. 13.

264.  Loyseau l. c. n. 16.

265.  2. Paralipomen. 26 Grot. cap. 2. de imp. summ. potest. num. 5. V. Bovadilla Polit. l. 2. c. 17. e 18.

266.  Bern. l. 2. de Consid. c. 1.

267.  Hieron. in epist. ad Titum.

268.  Pet. de Marc. de Patriarch. Juxta receptum ab omnibus Theologis axioma, Monarchicum Ecclesiae Regimen Aristocratico temperari.

269.  Grot. de Imp. summ. potest. c. 11. n. 5.

270.  Hieronym. epist. 85.

271.  Eusebio.

272.  Grot. l. c.

273.  Conc. Chalcedonense actione 11.

274.  Grot. loc. cit.

275.  Hieronym. epist. 85.

276.  S. Epiph. haeres. 75.

277.  Dupin. de antiq. Eccl. disc. dissert. 1 §. 8.

278.  Hieron. in cap. 2 Isaiae. Et nos habemus Senatum nostrum coctum Presbyterorum.

279.  S. Basil. epist. 319.

280.  Ciprian. epist. 10 lib. 1 epist. 7 lib. 2 epist. 2. lib. 4 epist. 10 l. 3 epist. 10 l. 4.

281.  Vedi Claud. Fontejo in Dissert. de Antiq. Jur. Presbyt. in reg. Eccl. c. 7, 9.

282.  Caesar de Bello Gallic. l. 6.

283.  Ammian. Marcell. lib. 28 hist. cap. 5.

284.  Grot. l. c. c. 11. n. 8.

285.  P. Carac. de Sac. Neapol. Eccl. Mon. cap. 3. sect. 4.

286.  Juven. histor. Tar. l. 8 c. 1 et lib. ult. c. 1.

287.  Summont, lib. 1 c. 1.

288.  Beatil. ist. di Bari l. 1.

289.  Carac. de Sacram. Eccles. Mon. cap. 3 sect. 3.

290.  Suet. in Claud. cap. 36 Judaeos impulsore Christo assidue tumultuantes, Roma expulit.

291.  Ottato, Ruffino, S. Agostin. Grot. de Imp. sum. pot. c. 11 n. 5.

292.  Salmas. in apparatu ad libros de primatu Papae: de quo admiratur Grotius defendere sententiam a toto orbe destitutam. Grot. ep. 53.

293.  Irenaeus l. 4. c. 1. Tertullian. de praescript. Cyprian. de Unit. Eccl. Arnob. adv. gentes. Lact. l. 4. c. 1. Cajus, Dionysius, Corinthius, ed altri riferiti da Leone Allacci de Eccl. Occident. et Orient. consen. lib. 1. cap. 2. num. 7.

294.  Ovven. l. 1. epigr. 8.

295.  Min. Fel. Tertull. Apol. cap. 7, 8, 9. Orig. Cont. Cels. c. 6. pag. 293. Voss. in com. ad epist. Plin. ad Trajan. de Christian. persec.

296.  Voss. l. c.

297.  Sueton. in Neron. c. 16. Tacit. An. 15.

298.  P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. mon. c. 2 sect. 2, 5.

299.  Delle Memorie de' Martiri, e del concorso del Popolo alle loro Tombe, onde si rendesser poi que' luoghi abitati, parlando Crisostomo ne' Comm. (Sal. 115 Tom. 5.) dice: Contemplare Civitates ad Martyrum Sepulchra concurrentes, et Populos eorum amore inflammatos. Leggasi la dotta Epistola, che Valesio scrisse sopra questo soggetto, la quale va dietro l'Istoria Ecclesiastica di Eusebio Cesariense; e quanto dottamente trattonne Giuseppe Binghamo (Orig. Eccl. l. 8. c. 1. §. 8 et 9.).

300.  Camil. Per. in Falcon. Benev. p. 179.

301.  Macrob. Saturnal. l. 1 c. 18. Tutin. dell'Orig. de' Seggi, c. 19.

302.  Strabone (Rer. Geog. l. 7.) parlando di un Tempio d'Apollo posto presso alla Marina nel littorale Ambracio pure lo chiamò così, Actii (quasi litoralem diceres) Apollinis Templum.

303.  Baron. Annot, ad Mart. 15. Maji. P. Lasena Ginn. Napol. cap. 6 pag. 104.

304.  Tutin. dell'origine de' Seggi, cap. 4.

305.  Simmac. ep. 27. lib. 8.

306.  Cam. Pellegr. nella Camp. in fin.

307.  Chioccar. de Episc. Neapol. in Severo.

308.  Discorso del P. Fr. Girolamo Maria di S. Anna Carm. Scal. Dell'ant. Cattol. Relig. e Nobiltà di Nap.

309.  Grot. de imp. sum. pot. c. 11. n. 8.

310.  Act. cap. 15.

311.  Von Mastric. de or. et pr. Jur. Can. cap. 1. Doujat. histor. jur. can. par. 1. cap. 1.

312.  L. sodales 4. D. de Colleg. V Desider. Herald. observat. et emend. lib. c. 42. Salmas. observat. ad Jus Attic. et Rom. cap. 4.

313.  Doujat, hist. du Droit Canonique. part. 1. cap. 1.

314.  Dupin. de ant. Eccl. disc. dissert. 1.

315.  Dupin. de antiq. Eccl. disc. diss. 1.

316.  Act. 14. v. 23. 2. ad Corinth. 8. vers. 19.

317.  Can. sacrorum dist. 63. can. quanto, can. nosce. ead. dist.

318.  Ciron. in cap. 1. de restitut. spoliate. Marca de Concord. lib. 8. c. 2. §. 2.

319.  Cyprian. ep. 33.

320.  Tertull. Nam nemo compellitur, sed sponte confert. Dupin ad Cens. in Bibl. t. 6. in fin. c. 3. §. 13

321.  Si leggono sotto il tit. de offic. Rect. Provin. nel Cod. Teodos.

322.  Pagi dissert. de Consulib. pag. 79.

323.  Euseb. lib. 8. cap. 17. Vales. ibidem.

324.  Jacob. Guther. de off. domus Aug. lib. 1. cap. 45.

325.  Jacob. Guther. de off. domus. August. c. 6.

326.  Petr. de Marca de Patriar. Constant. inst. Dupin de antiq. eccl. disc. disser. 2. §. 8. l. 9. C. Th. 9. de Legatis, lib. 3. C. Th. de equor. coulat. Balsamo in Cap. 9. Concil. Chalcedon.

327.  Paol. Diac Ist. Long. lib. 2. cap. 11.

328.  Pellegr. nella Campania.

329.  P. de Marca De Concor. l. 1. cap. 3. n. 12.

330.  Cam. Peregr. diss. 2. de Finib. Duc. Benev.

331.  Jacob. Guther. de Off. domus Aug. lib. 2. cap. 1.

332.  Plin. in Paneg.

333.  Guther. loc. cit. cap. 2. de Off. dom. Aug.

334.  Guth. loc. cit. c. 3.

335.  Codin. de Off. aul. Const. Got. in Notit. PP. t. 6. C. Th. Guth. de Off. dom. Aug. lib. 2. cap. 1, 2, 3, 4.

336.  Petr. de Marca de Patriar. Const. instit.

337.  Jacob. Got. in Notitia, tom. 6. C. Theod.

338.  L. 5. C. de off. Rect. Provinc. Revard. Collect. 3, 10 Got. l. unic. C. Th. de om. act. impetr.

339.  Cod. Th. tit. de Off. Rect. Prov.

340.  L. 8. G. Th. de accus.

341.  Guther. de Off. domus Aug. lib. 1, cap. 5, 6, 7, 8.

342.  Zeno in l. 1. C. ut omn. Jud. tam. civil.

343.  L. 13. C. Th. de accusation.

344.  Paolo Diac. lib. 5. cap. 11.

345.  Lib. 1. de Cens. l. 1. de petit. et delat.

346.  Pagi in disser. de Consulib. pag. 145.

347.  Got. in Notitia Dign. tom. 6. C. Theod.

348.  L. 4 C. Th. de divers. rescript.

349.  L. et si 4. C. contr. ius. ec.

350.  Cap. de caetero 5. extr. de sentent.

351.  Got. in Prosopogr. verb. Lollianus, tom. 6 C. Th.

352.  Firmic. in praefat. operis l. 8, c. 15.

353.  Ammian. Marcellin. l. 16, pag. 72. in gest. An. 356.

354.  Ath. in Apol. ad Costant. pag. 526.

355.  Gotofr. in Prosopogr. tom. 6. C. Theod.

356.  L. 25. C. Th. de Appellat.

357.  L. 7. C. Th. de appell.

358.  Symmac. Ep. 53. l. 10. Divo Juliano moderante Remp. cum Lupus Consulari jure Campaniae praesidens, Terracinensium contemplaretur angustias.

359.  Cam. Pell. in Camp.

360.  Idatius in Fastis.

361.  Zosim. lib. 3. p. 733. Sozomeno l. 6. c. 6.

362.  Filostorg. l. 8.

363.  Gothofr. prolog. C. Th. c. 8.

364.  Pagi dissert. de Consulib. pag. 259.

365.  Am. Marcell. lib. 27. pag. 370.

366.  Gothofr. in Prosopograph. C. Th. tom. 6.

367.  L. 24. C. Th. de Curs. pub.

368.  L. 68. C. Th. de Decurionib.

369.  L. 5. C. Th. ad S. C. Claudian.

370.  Got. in d. l. 5.

371.  L. 71. C. Th. de Decurionib.

372.  Got. prolegom. C. Th. c. 8.

373.  Got. in Prosop. C. Th. t. 6.

374.  L. 14. C. Th. de Extraord.

375.  Got. in Prosopogr.

376.  L. 1. C. Th. de Colleg.

377.  L. 1. C. Th. de Indulg. debit.

378.  Athanas. Epist. ad Solitarios.

379.  Paul. Diac. l. 2. c. 11.

380.  Si legge presso l'Ughelli Ital. Sacr. de Episc. Venus.

381.  Sym. lib. 10. ep. 5. etc. 53.

382.  Gut. de offic. dom. Aug. lib. 1. c. 8.

383.  L. 1. C. Th. Quibus equor. us.

384.  Got. in Chronol. C. Th. pag. 76.

385.  Aug. lib. 18. de Civit. Dei. cap. ult.

386.  L. 158. C. Th. de Decurion.

387.  L. 7. C. Theod. de indulg. debit.

388.  Vengono rapportate da Mazza de Reb. Saler.

389.  L. 1. C. Th. de Relat. l. 1. C Th. de Appel.

390.  L. 3. C. Th. de Decur.

391.  L. 15. de Decur. lib. 10.

392.  L. 1. C. Th. ad l. Corn. de Falso.

393.  L. 1. C. Th. de Filiis milit. appar.

394.  L. 2. C. Th. de Epis.

395.  Baron. ad A. 319. num. 10.

396.  Ammian. Marcell. lib. 27. pag. 360.

397.  L. 2. C. Theod. de officio Rector. Prov.

398.  L. 25. C. Theod. de Cursu publico.

399.  L. 5. C. Th. de contr. empt.

400.  L. 35. C. Th. de oper. public.

401.  Got. in Proleg. Cod. Theod. cap. 8.

402.  C. Theod. tit. de Usuris.

403.  L. 27. C. Theod. de indulg. debit.

404.  L. 1. C. Theod. Quib. equ. usus.

405.  L. 7. C. Th. de Indulg. debit.

406.  Prudent. l. 2. adv. Simmac. Claud. de Bello Getico.

407.  Claud. l. de vict. Stilic.

408.  Jornand. cap. 30.

409.  Paul Aemil. de reb. Franc. l. 1.

410.  L. 7. C. Th. de Indul. debit.

411.  L. 6. C. Th. de testam.

412.  Pagi Dissert. de Consulib. pag. 282.

413.  Afflict. in Constit. in praelud. q. 2. num. 2. et qu. 20. num. 1.

414.  Tappia de jur. Regni lib. 1. de legib. lib. 2. num 6. Ponte de potest. proreg. tit. 11. n. 25.

415.  Frec. de Subfeud. lib. 1. pag. 53.

416.  Marca lib. 3. c. 18 et lib. 6 c. 6 §. 5. Schelstrat. antiq. illust. part. 2 diss. 3 c. 8.

417.  Grat. distint. 96 cap. Constantinus 14.

418.  D. Antonin. Archiep. Florent. 1. part. hist. 8 cap. 1.

419.  Nicol. de Cusa. Concord. Cathol. 3.

420.  Marca l. 3 c. 12 n. 3 de Concor. Sacer. et Imp.

421.  Gratian. dist. 96. c. Constantinus 14.

422.  Balsam. in Photii Nomocan. tit. 9 cap. 8.

423.  Cap. futuram 12. qu. 1 c. fundamenta, de elect. in 6. Leo IX. Epist. 1 ad Michael.

424.  P. Damian. discep. Sinod. Blastar. Synop. Jur. Can. C. de Bulgar. Cypr. et Iber.

425.  Burfat. in fin. 1. volum. cons.

426.  Alberic. in l. 1. C de off. Praefect. urb.

427.  V. Zosimum. l. 2 et Anonymum Sirmondi.

428.  L. un C. Th. de his, qui veniam aetat.

429.  L. 2 C. eod. tit.

430.  Zosim. l. 2.

431.  Got. in Chronol. C. Th. A. 324.

432.  Euseb. lib. 4. de vita Constant. c. 61 et 62.

433.  Teodoret. lib. 1. Hist. cap. 32. Sozom. lib. 2. cap. 34. Socrat. lib. 1. cap. 39. Fozio Cod. 127.

434.  Ambros. Serm. de obitu Theodos. Hieron. in Chronic. Conc. Arimin. apud. Sozom. lib. 4. cap. 18.

435.  Arnal. Ars cogitand. part. cap.

436.  Emanuel Schelstrat. Antiq. illustr. part. 2. dissert. 3. c. 6.

437.  August. lib. de haeresib. c. 48.

438.  L. 4. C. Th. de Episc.

439.  Socrat. l. 5. c. Sozom. l. 7. c. 4

440.  Ambr. in Orat. fun. Valent.

441.  Torq. Tasso canto 12. ott. 75. G. L.

442.  Gregor. in Orat. in baptis.

443.  Ambros. in Serm. de Sanct. et alibi.

444.  L. unic. C. Th. si quis eam cujus tut.

445.  C. Th. de falsa moneta.

446.  Auct. vitae Costant. l. 3. cap. 46 e 17.

447.  L. 5. C. Th. de Navicul. L. 1. de praed Navicul. L. 4. de infirm. his, quae sub Tyran.

448.  P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. mon. cap. 3. sect. 4.

449.  Tutin. dell'Orig. de' Seggi, c. 2.

450.  P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. monum. c. 21. sect. 5. et 6.

451.  Idem Aut. l. c. sect. 2. et 3.

452.  Am. Marcel. l. 16 c. 21. p. 205.

453.  Got. in Prolegom. C. Th. c. 12.

454.  L. 1. C. Th. de emendat. serv.

455.  L. ult. C. Th. de his, qui a non Domino.

456.  L. 7. C. Th. de Sponsalib.

457.  L. un. C. Th. de infir. poen. coelib.

458.  L. 3. ad S. C. Claudian. L. un. de commis. rescin.

459.  L. 1. C. Th. de rapt. virg.

460.  Nazar. in Panegir. Porfir. carm. 6.

461.  L. 1. C. Th. de Feriis.

462.  L. un. C. Th. de manum. in. Eccles.

463.  L. 4. C. Th. de Episc.

464.  L. 3. C. de Episc. et Cler.

465.  Sozomen. l. 6. c. 7 et 21.

466.  Tomasin. dissert. in Conc. praefat. 1. nu. 5. Gio. Filesaco tract. de sacr. epis. auth. c. 7 §. 7 et tract. de idolatr. politic. c. 9.

467.  L. un. C. Th. de domin. rei, quae poscit. L. 3. C. Th. de contr. empt. Toto tit. C. Th. ad S. C. Claudian. et de longa consuet.

468.  L. 10, C. Th. de operib. publ. l. 5. C. Th. de sepulch. viol.

469.  Nazar. in Orat. paneg.

470.  Isidor. lib. Origin. 5. cap. 1

471.  Prosp. Aquit. l. prior. Chron.

472.  Am. Marcell. l. 16. c. 2. pag. 205.

473.  L. un. C. Th. de dominio rei quae.

474.  L. 3. C. Theod. contr. empt.

475.  Liban. orat. 10 p. 267. in fun. Jul.

476.  Michel di Mont. ne' suoi Saggi, l. 2. c. 18.

477.  Amm. Marcell. l. 30.

478.  Mamertin. in grat. act. pro Consulatu.

479.  Fot. homil. 7. in servum Centurionis, quem Dominus sanavit.

480.  L. 1. C. Advocat. diver. judic.

481.  Ammian. Marcell. lib. 3. pag. 451.

482.  L. 2. et 3. C. de Legib.

483.  L. 7. C. de precib. Imp. offerend. L. pen. C. si contra jus.

484.  Euseb. hist. Eccl. lib. 5. Hieron. init. Chron.

485.  Jo. Bap. de Gazalup. de S. Severino in tract. de modo stud. in utroque jure, qui subjectus est Vocabulario juris. p. 254.

486.  L. unic. C. Theod. de Profess. qui in urbe Constant.

487.  L. 2. §. quae omnia, C. de vet. jur. enucl. et in Prooemio.

488.  Novell. 1. Teod.

489.  Eunap. in vita Aedisii, pag. 72.

490.  Cit. Novella 1.

491.  Cit. Novella 1.

492.  Gotofr. in Prolegom. c. 2.

493.  L. 2. 3 et 9. C. Th. de Malefic. et Mathem.

494.  L. 1. 4. 5. 6. C. Th. de his, qui seq. relig.

495.  Rittershus. in jure Justinian. in prooem. c. 3. n. 12. Got. in Prolegom.

496.  Novel. 13.

497.  Nov. 10. de confirmand. his, quae administr.

498.  Doujat. hist. jur. civ.

499.  Gherard. Von Mastrich. hist. jur. pontif. num. 46.

500.  Aug. l. 2. ad Pollent.

501.  Marca l. 6. de Conc. c. 1. Lupo can. 4. Nic. part. 1. Schelstrat. antiq. illustr. part. 1. diss. 1. c. 3. art. 1. Leo Allat. de Eccl. Occid. et Orient. conses. lib. 1. c. 2.

502.  Dupin de antiq. Eccl. discipl. diss. 1. §. 6.

503.  Orig. Eccles. lib. 9. cap. 1. §. 5. e 6.

504.  Dupino de Antiq. Eccles. discipl. diss. 1.

505.  Di Arles.

506.  Dupino l. c.

507.  Di Bourges.

508.  Di Bourdeaux.

509.  Alteser. rer. Aquitan. l. 4. c. 4.

510.  P. de Marca, de Conc. lib. 1. c. 3. n. 12.

511.  Sirmond. de Suburb. Region l. 1. c. 7.

512.  Schel. Antiq. illustr. par. 1. dis. 2. c. 3. Leo Allat. de Occid. et Orient. cons. l. 1. c. 9.

513.  Dupin loc. cit.

514.  Gothofr. Topogr. pag. 420. Cod. Th. tom. 6.

515.  Dupin. l. c. pag. 39.

516.  Dupin. de Antiq. Eccl. disc. diss. 1. pag. 10.

517.  Sirmond. de Eccl. suburb. l. 2. c. 7.

518.  Dupin. l. cit. p. 40.

519.  P. Caracc. de Sacr. Neap. Eccl. monum. de Severo Ep.

520.  Di Capua Epist. 13. lib. 4. et Ep. 26. l. 8. Di Napoli Epist. 40. l. 8. et Epist. 15. l. 2. Di Cuma Epist. 9. l. 2. Di Miseno Epist. 25. lib. 7. Di Apruzzi Epist. 13. lib. 10.

521.  Apruzzi del cui Vescovo parla S. Gregorio M. in questa Epist. 13. Lib. 10., è lo stesso che Teramo, da' Latini chiamato Interamnia. Luca Olstenio nelle Note alla Geografia di Carlo da S. Paolo, in Piceno Suburbicario, §. Interamnia, dice così: Interamnia, Aprutium jam olim dicta, cui Opportunum Episcopum constituendum scribit Gregorius M. Lib. 10. Ep. 13. In veteri MS. Arnobii apud. Card. Barbarinum Abruptiensis. Ecclesia vocatur; sed nomen illud a Praegutiis detortum existimo.

522.  Leo Ep. 16. ad Ep. Sicil. Greg. Ep. 13. l. 5.

523.  Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 4. sect. 4.

524.  V. Fleury Costum. de' Cris. cap. 41.

525.  Della differenza fra gli Asceti, e Monaci, sono da vedersi Valesio (1), e Binghamo L. 7. c. 1. §. 2. e 3. (1) Not. in Euseb. l. 2. c. 7.

526.  L. 20. C. Th. de Episc. et Cler. Got. in Parat. in C. Th. l. 1. de Monach.

527.  Pallad. ad Laudum. Et Romae, et in Campania, et in iis, quae sunt circa eas, partibus.

528.  P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 2. sect. 5.

529.  Eunap. ed altri, che possono vedersi, fra gli altri, presso Amaja l. 26. C. de Decurion. l. 10.

530.  L. 26. C. de Decurion. lib. 10. tit. 31.

531.  Eunap. Aedes. p. 78. Chrysost. or. 17. ad Pop. Teodor. l. 5. c. 19. Zosim. l. 5. p. 800. Liban. orat. Ambr. Epist. 29.

532.  L. 12. C. Th. de Monach. Got.

533.  Filon. in Euseb. de Praepar. Evan. Loyseau des Ordres.

534.  Lib. 7. c. 2. §. 12.

535.  Pol. Virg. l. 6.

536.  Loyseau des Ord.

537.  Duar. de Ministr. et Benefic. l. 1. c. 21.

538.  Bingh. l. 7. c. 2. §. 9.

539.  Onofr. Panvin. Adnot. in Platin vit. Gelasii.

540.  Ospinian. de Orig. Monach. l. 3. cap. 6.

541.  L. c. §. 9.

542.  Ospin. de Orig. Monach.

543.  Crescell. Collectanea de Orig. et fundat. Ord. Monast.

544.  Albert. Archieraticon, p. 601.

545.  Lindan. Panopl. l. 4 c. 75.

546.  Gratian. caus. 16. qu. 1. post. cap. 39.

547.  Chioccar. de Epis. Neap. in Sancto Severo.

548.  Ughell de Epis. Neap. tom. 6 pag. 49.

549.  P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. de S. Gaudioso.

550.  Ugh. l. c. p. 61. e 93.

551.  Franc. Turrian. lib. singulari adver. Magdebur. Centur.

552.  Guilielm. Bevereg. Cod. Can. Eccles. primit. vindicatus.

553.  Baron. ad A. 32. §. 27. Bellarm. de script. Eccles. in Clemen. Perron. in Replic. ad Reg. Brittan. c. 24.

554.  Baron. ad an. 302. Pagi ad 304. n. 12. S. Aug. contra Petilian. c. 16.

555.  Ciron. 4 obs. 5.

556.  P. Carac. de Sacr. Eccles. Neapol. mon. cap. 2. sect. 3.

557.  Thomas. de vet. Eccl. disc. part. 2. lib. 1. cap. 9 num. 10.

558.  Marca l. 3 de Concord. c. 3.

559.  Doujat. hist. du Droit Canon. part. 1. c. 6.

560.  Conc. Chalced. can. 1.

561.  Doujat. loc. cit. cap. 8.

562.  Doujat. loc. cit. cap. 8.

563.  Euseb. in vita Constant. lib. 3. c. 18.

564.  Epist. Synodica. Socrat. 5. hist. Eccl. 8.

565.  Justell. in Praefat. ad Cod. Can. Eccl. Africanae.

566.  Cap. cum non ab homine, Extr. de judic.

567.  Chrisost. 1. Timot. 33 tit. 17. Lactant. l. 5 c. 13. Cassiod. l. 2 epist. 27. Bernar. ser. 66 in Cautic.

568.  Chrisost. de Consid. l. 1.

569.  Can. Principes 2. qu. 5 Can. inter 33 qu. 2.

570.  Can. Regum 23. qu. 5.

571.  Lucae 12. Apost. ad Roman. 13. Irenaeus l. 5 c. 20. Origen. epist. ad Rom.

572.  Chrisost. Homil. 23 in epist. ad Rom. Ambros. in Luc. l. 4 c. 5. Augustin. in Joan. tract. 6. Gelas. epist. 8.

573.  Theodoret. lib. 2 c. 9.

574.  L. 2. C. Th. Quorum appel.

575.  Dupin. diss. ult. §. ult.

576.  L. 33 et 37. C. Th. de Ep. et Cler. L. si quis, C. de Episc. audient. Novel. Valent. III tit. 12. de Episc. judic.

577.  L. omnes 33. C. de Episc. et Cler.

578.  L. 3. Extrav. de Episc. judic.

579.  C. continua 5. 11. qu. 1.

580.  Anselm. l. 3 e. 109.

581.  Dupin. dis. ult. §. ult.

582.  L. pupillus, §. territorium, D. de verbor. signifi.

583.  Gio. Galli qu. 103. 245 et 275. Le Maître tract. de Appel. c. 5. Loyseau des Sign. c. 15.

584.  Cap. Episcopus de offic. ord. in 6.

585.  Le Maître de Appel. c. 5.

586.  Volater. L. 22.

587.  C. 1. de dolo, et contum. cap. licet, de poenis, c. irrefragab. §. ult. de offic. ordin.

588.  Loyseau loc. cit.

589.  L. aliud est fraus, §. inter poenam, de verb. signif. L. 1. si qu. jus dicenti non obtem. et tot. lit. de mod. mult.

590.  L. 1 C. Th. de Episcop. judic.

591.  Capitul. Caroli M. l. 6 c. 281.

592.  Selden. in uxor Hebraea l. 3 cap. 18 p. 564 et de Syned. l. 1 c. 10 p. 318.

593.  Inn. c. novit. 13 de Judic.

594.  Grat. 11. qu. 1 c. 35, 36, 37.

595.  Loyseau des Sign. c. 15.

596.  Got. t. 6 in fin. C. th. l. 1. de Episc. Judic.

597.  L. 3 de Episc. Judic.

598.  Nov. Valent. de Episc. Judic.

599.  L. 7. C. de Epis. audient.

600.  Basil. c. 247.

601.  Gregor. Niss in vita Greg. Neocaesar. Ambros. Ep. 24 et l. 2 offic. c. 24. August in Psal. 128 et l. de Oper. Monac. c. 20 et homil. de poenit. 50. c. 12 et Ep. ad Procul donatistam Ep. 147 Socrat. lib. 7 c. 36. Nicef. l. 14 c. 39.

602.  Nov. 12. Valent.

603.  L. cum Clericis, l. omnes 33. C. de Epis. et Cler.

604.  Loyseau des Sign. c. 15.

605.  Ammir. ne' suoi Opusc. disc. 7.

606.  L. 2. D. de Colleg. l. 1. C. de Judaeis l. 8. C. de. haered. instit.

607.  V. Rittershus. Com. in l. 12. tab. de Colleg. jur. c. 8.

608.  l. 20 de reb. dub.

609.  L. 4. C. Th. de Episc. et Cler. l. 1. C. Just de SS. Eccl.

610.  Euseb. lib. 10. c. 1. Socrates l. 1. Sozomenus, Eutrop. et alii.

611.  Auth. vitae Constant. lib. 2, cap. 20.

612.  Chrisost. in Matth. hom. 26.

613.  L. 20. C. Th. de Episc. et Cl.

614.  L. 21. C. eod. tit.

615.  L. 27. C. Th. de Episc. et Cl. Sozom. l. 7. cap. 16.

616.  L. 28. C. Th. eod. tit.

617.  Marcian. Novell. de testam. Cl. ult.

618.  Got. l. 28. C. Th. eod. tit.

619.  Ambros. libel. ad rer. relat. Symach.

620.  Hier. Ep. 2. ad Nepot. de vit. Cler.

621.  Pet. Greg. de Repub. lib. 13. cap. 16. Polid. Virg. lib. 13. hist. Anglic.

622.  Jo. Fab. ad l. quoties, C. de rei vind.

623.  Pap. l. 1. Rapsod. an. 7. art. 3.

624.  Petr. Belluca in Specul. Princ. tit. 14.

625.  Narbon. l. 35. Gl. 5. n. 30. tit. 3. l. 1. nov. recompil. Molina de contr. tit. 2. d. 140. lib. 2 t. 8.

626.  Gaill. lib. 2. observ. 32. n. 5. Chopin. de doman. Franch. l. 2. tit. 14. Christin. t. 1. decis. 201.

627.  Brant. 1. hist. der. Reform. 1. p. 25. Ant. Matth. manud. ad jus Can. l. 2. tit 1. Bodin. de Rep. l. 5. c. 2.

628.  Bossius de poenis num. 45. Signorol. de Homedeis cons. 21. Statut. Civit. Mediol. nov. compil. tit. de poen. colleg.

629.  Costit. Regn. de Reb. stab. Eccl. non alienand.

630.  Goldasto Collect. Const. Imp. t. 2. Edit. Francf. an. 1713. p. 79.

631.  Lunig. tom. 2. del Codice Diplomatico d'Italia, p. 882.

632.  Grot. in Proleg. in hist. Got.

633.  Grot. in Prolegom. pag. 13.

634.  Paulus Aemil. de reb. Franc. lib. 1.

635.  Paul. Aemil. loc. cit.

636.  Greg. L. 2. hist. Franc. cap. 7.

637.  Jornand. de reb. Getic. cap. 24.

638.  Altes, Rer. Aquit. lib. 5 cap. 12.

639.  Jornand. de reb. Getic. cap. 41. Paul. Aemil. loc. cit.

640.  Altes. loc. cit. cap. 13.

641.  Sidon. lib. 1. Ep. 2.

642.  Claud. l. 2. ad Rufin.

643.  Oros. l. 7. c. 29.

644.  Arthur. Duck de usu, et auth. jur. civ. L. 2. c. 6. num. 14.

645.  Goldast. Const. Imp. tom. 3.

646.  Sidon. carm. 7.

647.  Carm. de Narbon.

648.  Grot. in Proleg. hist. Got.

649.  Isid. in Chron. Aera 504.

650.  Sidon. lib. 8. Epist. 3.

651.  Sidon. l. 3. c. 1.

652.  Sidon. lib. 2. Ep. 1.

653.  Salvian. lib. 5. de Guber Dei.

654.  Oros. lib. 7. cap. 28.

655.  Isid. in Chronic. Aera 447.

656.  Baron. Ann. tom. 5. A. 468. n. 11.

657.  Gregor. Tur. hist. Franc. lib. 2. cap. 23.

658.  Ciron. obs. jur. can. l. 5. c. 1.

659.  Altes. rer. Aquit. lib. 5. cap. 15.

660.  Ciron. l. 5. c. 1.

661.  Savaro in l. 2. Sid. Ep. 1.

662.  Grot. in Nomencl. in hist. Got.

663.  Cassiod. l. 3. var. c. 1.

664.  Got. in Prolegom. C. Th. c. 5. n. 6.

665.  Got. in Proleg. C. Th. c. 3.

666.  Gothof. in Prolog. C. Th. c. 5.

667.  Altes. rer. Aquit. l. 3. c. 7.

668.  Sigebert. de Eccles. Scrip. c. 70. Anianus vir spectabilis, jubente Alarico R. volumen unum de legibus Theodosii Imp. edidit.

669.  Got. in Proleg. c. 5

670.  Loiseau des Ordres.

671.  Altes loc. cit. Cironio l. 5 obs. jur. can. c. 2. Gothofr. in Proleg. c. 5.

672.  Decian. in Apolog. adver. Alciat. lib. 2 cap. 7.

673.  Arthur. Duck l. 2 c. 6 n. 14.

674.  Got. in Proleg. c. 5.

675.  Savaro sup. Sidon l. 2. Ep. 1.

676.  Ivo Carnot. Ep. 112 quod ex legib. Theod, laudat, id habet ex interpretat. ad Paul. 5. sent. 11.

677.  Gratian. 2 qu. 6 c. id ex interpretat. in 5 Paul. sent. tit. de cau. et poenis appellat. §. 1.

678.  Got. in Proleg. c. 6.

679.  Goldast. com. 1. Const. Imp. rapporta le querele di Teodorico Re d'Italia contra Clodoveo, trattandolo da usurpatore e tiranno, perchè senza giusta causa avesse mosso le armi contro Alarico.

680.  Greg. Tur. l. 2 hist. Franc. cap. 3.

681.  Grot. in Proleg. hist. Got.

682.  Isidor. Era 592. Grot. in Prolegom. hist. Got.

683.  Isidor. Era 606.

684.  Isidor. in Chron. Era 608.

685.  Ciron. l. 5 obser. jur. can. c. 2.

686.  Altes. rer. Aquit. l. 3 c. 11. Got. in Proleg. C. Th. c. 7.

687.  Leg. Visig. lib. 2 tit. 1 c. 9.

688.  Gonzal. in c. super specula, de privil. nu. 2.

689.  Cod. LL. Visig. lib. 2 tit. 1 c. 10. Got. in Proleg. Ced. Th. c. 7.

690.  Got. loc. cit.

691.  Cod. LL. Visig. l. 5 tit. 5 c. 9 l. 1. C. Th. de usuris Cod. LL. Visig. lib. 3 tit. 1 c. 1 l. un. C. Th. de nupt.

692.  LL. Visig. l. 4. c. 11.

693.  Cujac. de Feud. l. a. tit. 11.

694.  Arthur. Duck l. 2 c. 6 n. 15.

695.  Grot. in Proleg. hist. Got. Postquam è Saracenorum manu recuperari partes Hispaniae coepere, resuscitatae a Veremundo, Aldelfunso, Ferdinando, ut Rodovicus nos docet, Gothicae leges: quarum Corpus Forum Judicum, et olim, et nunc, dicitur fons verus Hispanici juris.

696.  Covar. l. 1 var. resol. c. 14 n. 5. Arthur. Duck loc. cit. n. 16.

697.  Cujac. loc. cit.

698.  Piteus ad Edoard. in Ep. praeposita ad Edictum Theodorici in oper. Cassiod.

699.  Grot. in Proleg. hist. Got. p. 51.

700.  Arthur. Duck de usu et aut. jur. civ. cap. 6 num. 14.

701.  Jornand. hist. Got. c. 48. Grot. in Proleg. hist. Got.

702.  Grot. in Proleg. hist. Got.

703.  Jornand. loc. cit.

704.  Jornand. de reb. Get.

705.  Pagi Dissert. de Consulib. p. 288.

706.  Jornand. de reb. Get. Augustulum filium ejus de Regno pulsum, in Lucullano Campaniae Castello exilii poena damnavit.

707.  V. Pagi in Proleg. de Consulib. nu. 40.

708.  Jornand. de reb. Get.

709.  Jornand. de reb. Get. Zenonisq. Imperatoris consulto privatum habitum, suaeque gentis vestitum deponens, insigne regii amictus, quasi jam Gothorum, Romanorumque regnator, adsumit.

710.  Ennodii Panegyricus, apud Cassiod.

711.  Proc. l. 1. hist. Got.

712.  Agatia l. 1.

713.  Pagi dissert. de Consulib.

714.  Cassiod. l. I. Ep. I p. 300.

715.  Pragm. Sanctio Justin. post Nov. cap. 1 et 2.

716.  Jornand. de reb. Gotic.

717.  Cassiod. l. 3. c. 43 et l. 1. c. 27.

718.  Got. in Proleg. ex Gelasii PP. Ep. in decreto Ivonis part. 1. c. 18. ad Theodoricum.

719.  Alies. Rer. Aquit. l. 3. c. 14. ex decreto Gratiani can. certum 12 dist. 10.

720.  Got. in Proleg. c. 3.

721.  Cassiod. lib. 1. Ep. 1.

722.  Edict. Theod. in operib. Cassiod.

723.  Cassiod. l. 2. var. Ep. 13.

724.  Cassiod. lib. 7. cap. 3.

725.  Grot. in Prolegom. ad hist. Gothor.

726.  Cassiod. lib. 6. cap. 7. Cap. 7.

727.  Clenardi Epistolae ad Arnoldum Streyterium, et ad Jacobum Latomum A. 1541. Geogr. Pasquius de Nov. inv. de varia fortun. Doct. Juris.

728.  V. Afflict. in Praelud. ad Constit. Regn. Phil. Comin. Koppin. de Demanio Franciae.

729.  Pet. Pantinus de Diguit. Goth. Aulae.

730.  Gro. in Proleg. ad hist. Gothor.

731.  Cassiod. l. 3 c. 27.

732.  Cass. l. 4 c. 10.

733.  L. un. Li nullas ex Vicanis pro alien. vican. deb. ten. l. 11.

734.  Novell. 52 et 154.

735.  Cass. l. 4 c. 5.

736.  Petrus Bertius in Vita Boëtii.

737.  Cas. l. 4 c. 50.

738.  Procop. l. 1 hist. Got.

739.  Cas. l. 6 c. 24.

740.  Cas. l. 2 c. 26.

741.  Cas. l. 6 c. 23.

742.  Cas. l. 6 c. 26.

743.  Cas. Var. l. 11 c. 37 et l. 12 c. 1 et 3.

744.  Cas. l. 2 c. 26.

745.  Cas. lib. 5 c. 7 et 31.

746.  Cas. l. 2 cap. 37.

747.  Cas. l. 12 c. 14.

748.  Cas. l. 1 c. 3.

749.  Cas. l. 12 c. 15.

750.  P. Garetius in vita Cassiod.

751.  Cas. l. 3 c. 8.

752.  Cas. l. 3 c. 48.

753.  Juret. id. est, Correctoris.

754.  Cas. l. 11 c. 39 et l. 12 c. 12, 14 et 15.

755.  Cas. l. 4 c. 5.

756.  Cas. l. 8 c. 33.

757.  Cas. l. 12 c. 15.

758.  Cas. l. 3 c. 13.

759.  P. Garet.

760.  Cas. l. II c. 36.

761.  Cas. l. 5 c. 27.

762.  Loyseau des Seign. c.

763.  Cod. de Agric. et cens. l. 11 Comnan. in Com. jur. civ. lib. 2 lit. C.

764.  Leon. Ostiens. in Cronic. Cassiu. Glossator. in notis c. 6 num. 532.

765.  Got. in Cod. Theod. L. 8 tit. de curs pub. et angar. l. 4.

766.  Loyseau loc. cit.

767.  Salvian. l. 5 de gubern. Dei.

768.  Soc. lib. 4 cap. 53.

769.  Grot. in Proleg. ad hist. Goth.

770.  Cas. lib. 8 cap. 14.

771.  Grot. loc. cit.

772.  Cas. lib. 9 cap. 15.

773.  Grot. in Prolegom. ad hist. Goth.

774.  Procop. hist. Goth.

775.  P. Garet. in vita Cas. part. 1. §. 12.

776.  Salvian. loc. cit.

777.  Grot. loc. cit.

778.  Cas. l. 8 c. 1, 2, 3.

779.  Cas. l. 8 c. 3.

780.  Pagi diss. hyp. de Consulib. p. 300.

781.  L. 1. C. de vet. jur. enucl.

782.  L. 2. C. de vet. jur. enucl.

783.  V. Ant. August. in libel. de nominib. propriis Pandect. Florent. c. de Pandect. nom. et gener.

784.  Crispinus in serie PP. in princ.

785.  Barbos. ad rubr. D. Solut. matr. num. 2.

786.  Rainald. Corsus. 1 indagat. jur. 1.

787.  Ber. Walther. in Miscell. obs. lib. 2 cap. 5.

788.  Alciat. lib. 1 dis. punct.

789.  Doujat in hist. jur. civ. in fin.

790.  L. tanta, C. de vet. jur. concl.

791.  Auctor Chronici Alex. apud Pagi in Dissert. Hypatica de Consulib. pag. 301. His Coss. Justinianeus Codex renovatus est, adjunctis novis, post priorem Codicem, Constitutionibus, jussusque est, antiquato priore, suam obtinere vim, sive auctoritatem IV. Kal. Jun. Indict. XII.

792.  Cod. de emendat. C. Justin. et secunda edit.

793.  L. 6 C. de bon. quae lib.

794.  V. Emund. Meril. in decis. Justin.

795.  Balduin. in Justiniano pag. 497.

796.  Rittersus in Jure Justin. in prooëm. c. 1. n. 4.

797.  Fr. Raguel. I. Comment. ad Constitut. et decis. Justin.

798.  Emund. Meril. ad 50 dec. Just.

799.  Balduin. in Justin. pag. 497.

800.  Ritters. loc. cit.

801.  V. Card. de Luca de servit. disc. 1.

802.  Goth. ad tit. de nov. Cod. faciendo in princ.

803.  Godelino de jur. novis. c. 10 in fin.

804.  Leotar. de usur. qu. 6 n. 28.

805.  Ant. Augustin. in Parat. ad Nov.

806.  Ritters. in prooëm. c. 4 n. 1.

807.  Procop. lib. 1 de Bello Persico. Saidas in dictione Tribonianus.

808.  Doujat. hist. jur. civ. Rittersus. in jur. Justin.

809.  Rittersus. in Jure Justin. c. 1 num. 18 in prooemio.

810.  Rittersus. in Jure Justin. in prooem. c. 1 num. 18 c. 1 n. 10, 11, 12.

811.  Cujac. l. 8 obs. cap. ult. Doujat hist. jur. civil.

812.  Balduini Justin. pag. 553.

813.  Ant. August. in Parat. Nov. 90. Ritters. in prooem. c. 4 n. 9.

814.  Georg. Ritters. in Appendice ad Jus Justin. patris.

815.  Pragm. Justin. post. Novel.

816.  Procop. de bello Got. Cassiod. l. 10 c. 1, 2, 3.

817.  Jornand. de reb. Get.

818.  Cass. l. 10 c. 3. Princeps vester etiam Ecclesiasticis est literis eruditus.

819.  Jornand. de reb. Get.

820.  Procop. l. 1. de bell. Got.

821.  P. Garet. in vita Cassiod. pag. 1.

822.  Procop. de bell. Got. At illum non dedecet repetere terram, quam constat fuisse eius, quod ipsi commissum est, Imperii.

823.  Curt. l. 4.

824.  Tac. Annal. l. 15.

825.  Avent. l. 4. Annal. Bojor.

826.  Procop. l. 2. de bello Got.

827.  Goldast. t. 1. Const. Imp.

828.  Cas. l. 10. c. 31, 32, 33, 34, 35.

829.  Goldast. Const. Imp. tom. Iº.

830.  Cas. l. 10 c. 33.

831.  Di Ildibaldo presso Goldast. t. 1. Const. Imp. si leggono alcuni Editti.

832.  Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

833.  Presso Goldast. tom. 1. Const. Imp. si leggono molte Orazioni di Totila.

834.  Salvian. l. 7. de guber. Dei.

835.  Agath. l. 1. histor.

836.  Cas. lib. 9. cap. 21.

837.  Forner. in Cass. lib. 10. var. cap. 7.

838.  Pragm. Justin. post. Nov.

839.  Anastas. Bibliot. Paul. Diacon.

840.  Theophilus Abbas. Justiniani praeceptor extat apud Photium.

841.  Giphanius. Contius. Alemannus in notis ad Procopium.

842.  Nicol. Aleman. ad Procop. pag. 28.

843.  Marquard. Freher. in Chronologia Exarc. Raven. apud Leunclavium.

844.  Sigon. de R. Ital. l. 1.

845.  Biond. hist. l. 8 decad. ult. Jo. Sleidan. de quatuor Sum. Imp. l. 2.

846.  L. 10 C. Th. de Pagan. l. 1 et 2 C. Th. de Malefic.

847.  L. 18 C. Th. de Episc. L. 46 C. de Haeret. Gentiles, quos vulgo Paganos appellant. S Aug. lib. 2. Retract. 43. Deorum falsorum, mutorumque cultores, quos usitato nomine Paganos appellamus. V. Goth. in Notis ad tit. C. Th. de Paganis.

848.  L. 22 C. Th. de Paganis.

849.  L. 21, 25, 25 C. Th. de Pagan.

850.  Dupin. de vet. Eccl. discip. dissert. 2.

851.  Theodorit. l. 4 hist. c. 7.

852.  Greg. l. 2. E. 31.

853.  Ughel. de Ep. Bar. Beatillo hist. di Bari, p. 9.

854.  Gelsa. Epist. 1.

855.  Conc. Constantin. cap. 3.

856.  Dupin. loc. cit. dissert. 1.

857.  Liberat. in Breviar. c. 13.

858.  Gelas. Epist. 4 et Ep. 13 ad Episcopos.

859.  Evagr. l. 3 c. 3.

860.  L. decernimus 16 C. de Sacros. Eccl.

861.  Nov. 131. c. 1.

862.  Cod. l. 1 tit. 3 c. 47 et tit. 46 c. 34.

863.  Nov. 3 c. 2. Nov. 6 c. 3. Epilog. Nov. 7 et 123 c. 22, 23.

864.  Cas. l. 9 c. 15.

865.  Paul. Warnefr. l. 3 c. 7 et l. 6 c. 11 et l. 4 c. 10.

866.  Greg. Turon. l. 3 hist. c. 20.

867.  Tom. 5 Concil. col. 980.

868.  Hinemar. in lib. Capit. 55 c. 17.

869.  Dupin. loc. cit. disser. 1.

870.  Cas. l. 9 c. 15.

871.  Grot. in Proleg. ad hist. Got.

872.  Conc. Roman. sub Symmac. c. bene 1 dist. 96.

873.  Paul. Warnefrid. Zonaras. Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

874.  Cas. l. 9 c. 15.

875.  P. Garet. in vita Cassiod.

876.  L. inter claras, Cod. de summa Trinit. et fid. cath.

877.  Hot. 1 obs. 7 c. 2.

878.  V. Alciat. l. 5 part. c. 25. Cujac. obs. 32 c. 26.

879.  Fachin. controv. l. 8 c. 1.

880.  Cas. l. 9 c. 16.

881.  Leges olim in atriis Ecclesiae locabantur. Cujac. l. 1 Feud. tit. 17. Juret. ad Cassiod. l. 9 c. 16.

882.  L. 3 l. 16 C. Th. de incest. nupt. Ambr. Epist. 65 ad Patern. l. 8 l. si quis, C. de incestis nupt. l. in celebrandis, C. de nupt.

883.  L. 1 C. si nuptiae ex rescripto petantur. V. Launojo iu. in Tract. Regia in matrimon. potestas part. 3 art. 1.

884.  Cas. l. 7 c. 46.

885.  Grot. in Prolog. ad hist. Got.

886.  Facund. l. 12. c. 3.

887.  Jacob. Got. in Cod. Th. t. 6 Anthem. l. si quemquam. C. de Episc. et Clericis.

888.  Nov. 223.

889.  Basil. lib. 30. C. de Episcopis et Clericis.

890.  Greg. lib. 2. Epist. 54.

891.  Hinemar. opusc. cap. 17.

892.  L. inter claras, C. de Summa Trinit. ef Fid. Cath.

893.  S. Greg. in vita S. Benedicti.

894.  Ab. de Nuce in not. ad vit. S. Benedicti.

895.  V. Camil. Pellegr. in Serie Ab. Cass. in princ.

896.  Leo Ost. in Chron. l. 1. c. I.

897.  Ab. de Nuce ad Chr. Cass. loc. cit.

898.  P. Garet. in disser. de vita Monast. Cassiod.

899.  Dupin. in biblioth. t. 5. seculo 6.

900.  Baco hist. vitae, et mortis, p. 534.

901.  P. Garet. in vita Cass. par. 2. §. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12.

902.  Cass. lib. 12. var. ep. 15.

903.  Cass. I. Divin. lect. c. 29. S. Greg. ad Jo. Episc. Scyllaceum, ep. 33. l. 7. Regist. indict. 1.

904.  Cass. l. Divin. lect. c. 32.

905.  Garet. loc. cit. §. 12.

906.  Ab. de Nuce p. 92.

907.  Bzov. in hist. Trithem.

908.  Carac. Monum. Sacr. Neap. de S. Agnello Abbate. Ughell. de Episc. Neap. tom. 6. p. 75.

909.  Ugh. loc. cit. p. 80.

910.  P. Carac. loc cit. Ugh. loc. cit.

911.  S. Amb. Ep. 66. ad Paternum.

912.  §. duorum, Inst. de Nuptiis.

913.  L. si quis 5. C. de Incest. Nuptiis.

914.  L. in celebrandis. C. de Nuptiis.

915.  Cujac. tit. decretal. de consanguin. et affin.

916.  L. ult. C. de Feriis.

917.  V. P. Sarp. de jure Asylor.

918.  Doujat hist. du Droit. Can. par. 1. cap. 17.

919.  P. Garet. in vita Cas. par. 2. §. 20 et 21.

920.  Cass. lib. Div. lect. cap. 22.

921.  Cas. loc. cit. Doujat hist. du Droit. Can. par. 1. c. 17.

922.  Fleury in Inst. Jur Can. in princ.

923.  P. de Marca de Concord. lib. 5. cap. 3.

924.  V. Dou. loc. cit. n. 2. et part. 1. cap. 7. num. 4.

925.  Cass. lib. Div. lect. cap. 22.

926.  Can. 1. dist. 19.

927.  In Inscr. cap. 3. de praebend.

928.  Sirmond. tom. 2. Conc. Gall. ad A. 787.

929.  V. Justel. in praef. ad Cod. Eccl. Un.

930.  Don. hist. du Droit Can. par. 1. cap. 22.

931.  Grat. Can. sacror. 34. dist. 63.

932.  Baron. ad An. 527. num. 76.

933.  Donjat loc. cit. num. 2. et 3.

934.  V. Ant. August. par. 2. epitom. jur. Pontific. cap. 15. et in Grat. Dialog. 10, 11 et 12.

935.  V. Nic. Alemannum ad hist. racan. Procopii. Justel. loc. cit.

936.  V. Franc. Florent. de Orig. jur. Can. par. 3. §. 3. Justel. loc. cit. P. de Marca de Concord. lib. 3. cap. 3. §. 8.

937.  V. Fleury in Instit. Jur. Can.

938.  Cass. lib. 9 cap. 15.

939.  Cass. lib. 8 cap. 24 considerantes Apostolicae Sedis honorem.

940.  Nov. 83 et 123.

941.  Gregor. II. Epist. 13 ad Leon. Isaur. Richer in Apol. Jo. Gerson. par. 3 ax 36.

942.  Feuret. l. 8 c. 2 n. 7.

943.  Cas. l. 12 c. 13.

944.  Salvian. l. 2 et sequ. adver. avarit. Ant. Matth. manud. ad jus Can. l. 2 tit. 2.

945.  Fr. de Roye Instit. Canon. lib. 2 de decim.

946.  Paul. lib. 15 sub. Anast.

947.  P. de Marca de Concor. Sac. et Imp. l. 2 c. 11 n. 3.

948.  Cap. 16.

949.  Cap. 21.

950.  Can. Constitutum 62 caus. 16 qu. 1.

951.  Grat. post can. possessiones ead. caus. et qu.

Nota del Trascrittore

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