The Project Gutenberg eBook of Natalìa ed altri racconti

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Title: Natalìa ed altri racconti

Author: Enrico Castelnuovo

Release date: July 19, 2015 [eBook #49485]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NATALÌA ED ALTRI RACCONTI ***

NATALÌA.


Enrico Castelnuovo

Natalìa

ED ALTRI RACCONTI

NATALÌA. — DUE FUNERALI. — ALLA “TRAVIATA„. — IL SIGNOR ANTENORE. — I CAVALIERI DELL'IMMACOLATA. — IL DOTTORE “DREAMS„. — ASSOLTO. — ALLO STABILIMENTO IDROTERAPICO. — NELLA NEBBIA. — LA LETTERA. — LE CONFIDENZE DEL DIRETTORE. — COSCIENZE AGITATE. — NELLE VACANZE DI SUA ECCELLENZA. — JOLIE. — L'ISOLA FORTUNATA. — EPILOGO.

MILANO
Fratelli Treves, Editori
1899.


PROPRIETÀ LETTERARIA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, non escluso il Regno di Svezia e di Norvegia.

Tip. Fratelli Treves.



INDICE


[1]

NATALÌA

I.

In quella calda giornata di maggio, Ernesto Landi faceva un po' di siesta dopo colazione quando sentì picchiar forte all'uscio.

— Chi è? — egli borbottò fra la veglia e il sonno.

— Sono io. Si può entrare?

— Un momento, — rispose Landi levandosi a sedere. — Un momento. Aspettami di là.

Egli aveva riconosciuto la voce di Lidia, la moglie di suo nipote Fìdoli, nella cui casa egli abitava da alcuni anni.

— Spicciati, — ripetè dal di fuori la voce piena d'orgasmo.

— Un momento. Ci sono disgrazie?

— Or ora ti dirò.

— Valentina?

— È a scuola.

— Lo so.... Temevo le fosse accaduto qualcosa.

— No, grazie al cielo, non si tratta di lei.... Ma se vengo a disturbarti così, avrò le mie ragioni.... Sei a letto che ti chiudi a chiave?

[2]

— Fa conto ch'io fossi a letto.... Ero svestito.... Non cascherà il mondo se aspetti un minuto.

I minuti della toilette di suo zio parevano sempre lunghi alla Lidia; quel giorno le parvero eterni, bench'egli si affrettasse assai più del solito.

— In nome di Dio, — ella disse allorch'egli si mostrò sulla soglia, in veste da camera, terminando di farsi il nodo della cravatta.

Era un uomo verso la sessantina, di persona ancora svelta ed elegante, di lineamenti regolari, ma con gli occhi pesti, con la pelle del viso alquanto floscia e aggrinzita, segni infallibili di abitudini dissipate. Del rimanente, come accade a molti libertini, Ernesto Landi riusciva simpatico, oltre che per l'aspetto piacevole, anche pei modi bonari e per una certa facile arguzia.

Egli stava per protestare contro le impazienze della nipote, ma la fisonomia stravolta di lei lo dissuase dalle recriminazioni. Domandò invece: — Che cos'è successo?

Lidia gli porse una lettera, intimandogli: — Leggi.

Ernesto Landi si avvicinò alla finestra, sollevò alquanto le stecche delle persiane per far entrare più luce nella stanza, e guardò con la lente la soprascritta, di cui, sulle prime, non parve riconoscere la calligrafia.

— È una lettera diretta a tuo marito, — egli disse senza decidersi a levarla dalla busta. — Signor avvocato Carlo Fìdoli.-Sue mani.

— Sì, la busta non l'ho aperta io. L'ho trovata [3] aperta.... E pure quei caratteri dovrebbero esserti familiari....

Ernesto fissò con maggiore attenzione la soprascritta. — Ah! — egli fece. E slanciò a Lidia un'occhiata interrogativa.

Questa vide che lo zio aveva capito, e nel timore ch'egli potesse voler trattenersi la lettera, gliela strappò vivamente di mano.

— Sicuro, è di Natalìa, della tua cara Natalìa.... E ora, per risparmiarti la fatica, te ne darò lettura io stessa.

Tirò fuori dalla sopraccarta il biglietto profumato, lo spiegò e lesse con voce vibrante di collera: “Carlo mio. — Siamo quasi in porto. Morini non accetta il trasloco. L'ho persuaso che sarebbe una bestialità il lasciarsi sbalestrare in fondo all'Italia per una misera promozione che gli verrà anche restando qui, sol che abbia un po' di pazienza. Adesso bisogna ottenere che a Roma non si ostinino. Il Presidente del Tribunale con cui ho parlato e ch'è contentissimo di aver presso di sè un giudice del valore di Morini mi disse che qualche volta al Ministero stentano a tornar sulle decisioni prese. Egli a ogni modo ci appoggerà. Fa tu il resto in questa settimana che vai a Roma, tu che conosci tanti pezzi grossi della politica e della burocrazia. Anche mio marito, senza scherzi, te ne sarebbe riconoscente. Egli non sospetta di nulla, figúrati. La sua Natalìa, e non si va più in là.... Checchè vedesse, non crederebbe.... Da Roma scrivimi. E fammi saper quando torni.... Passeremo ancora insieme molte di quelle ore deliziose nel nostro nido.... [4] Ti rammenti, amore?... Un tenero abbraccio dalla tua Natalìa.„

La Lidia che aveva, leggendo, sottolineato ogni frase, cacciò in tasca il foglio sgualcito, e piantatasi dinanzi allo zio, esclamò ironicamente: — Almeno c'è il merito della chiarezza.

Confuso, turbato, Ernesto Landi balbettò: — Io casco dalle nuvole.

— Oh, — ella ribattè in tono sarcastico. — Spero bene che non avrai creduto alla virtù di Natalìa.... Ci vuole il povero Morini per crederci.... Tu poi meno di qualunque altro avevi diritto di farti illusioni.... Ci sono qualità ereditarie.

— Via, Lidia, lascia in pace i morti.

Ma la giovine signora continuò tra seria ed ironica: — Cerco anzi di attenuare la responsabilità della tua protetta.... Aveva la corruzione nel sangue.... Tu sei stato generoso.... Hai pagato largamente il debito che avevi verso la madre, procurando di riabilitar la figliuola.... Le hai assegnato una dote.... L'hai sposata a un galantuomo.... L'hai introdotta in case di galantuomini, in casa nostra, per esempio, ove ha portato il suo alito vizioso, ove ci ha rubato la pace....

— Chi poteva immaginarselo?

— Io, — disse Lidia, — io dovevo immaginarmelo pensando da quali origini ella veniva, guardando quella sua bellezza procace e superba. Invece, sciocca, ci ho dormito su.... Mi son limitata a trattarla con un certo sussiego, a respinger l'intimità ch'ella mi offriva.... Non era donna con cui potessi stringermi in lega.... [5] Le ho sentito attribuire persino tre amanti in una volta.

— Esagerazioni! — interruppe Landi.

— Se ne spiattellavano i nomi e i cognomi, — riprese la nipote. — Ma questo, confesso la mia viltà, mentre mi raffermava nel proponimento di tenerla a una rispettosa distanza, mi rassicurava sotto un altro aspetto. Dicevo a me stessa: I tre amanti le daranno da fare a bastanza.... Come se la donna che ne ha tre non possa averne quattro, cinque, una dozzina!... Solo negli ultimi tempi non ero tranquilla.... A ogni modo, se il caso non mi faceva cader tra le mani questa lettera....

— Fu proprio il caso? — domandò lo zio.

— Sì; mezz'ora fa sono andata in studio di Carlo per cercarvi una polizza da pagare che doveva essere sulla sua scrivania.... Trovai la polizza, e lì accanto, senza dubbio dimenticata, la lettera ch'è di questa mattina perchè c'è scritto a piedi martedì, e di cui ho subito indovinato la provenienza dalla calligrafia e da quell'orribile profumo.... Potevo non leggerla, ma non è permesso esigere da nessuno l'abnegazione dei santi.

— E ora che mediti? Uno scandalo?

— Se sarà necessario, — rispose Lidia. — Dipende da te.

— Da me?

— Da te, e da lei, s'intende.... Ma tu sei l'unica persona che possa aver autorità sulla Morini.

— No, no, non lo credere, — disse lo zio smarrito, sgomento.

[6]

— Ti deve tutto, — insistè Lidia con energia. — La sua posizione, la sua agiatezza.... tutto insomma.... Vorrei vederla risponder di no a un tuo ultimatum.

— Non è vero, Lidia.... Io non ho il diritto d'imporle alcun ultimatum.

— Te ne lavi le mani? — proruppe la signora Fìdoli accendendosi in volto. — Preferisci ch'io scriva al marito?

— No, Lidia, non è possibile che tu pensi a questo.

— Se ci penso!

— Insomma, che cosa mi domandi?

Lidia, ch'era stata ritta fino allora, sedette e ripigliò con più calma: — Ti domando d'andar senza indugio da Natalìa e di dirle che come ha persuaso Morini a non accettare il trasloco, lo persuada subito ad accettarlo.... e che le pratiche da lei fatte per ottener la revoca delle disposizioni ministeriali ella deve rifarle perchè quelle disposizioni siano mantenute.... A me occorre la certezza piena, assoluta che fra due, fra tre settimane ella sarà lontana di qui.... A questi patti vendo il mio silenzio, e le do la mia parola d'onore che fuori di te e di Carlo nessuno saprà nulla di ciò ch'è successo.... Se rifiuta, se tentenna, mi servirò delle armi ch'ella mi ha fornito.

Evidentemente la parte di ambasciatore e la natura dell'ambasciata pesavano oltre a ogni credere a Ernesto Landi, ed egli rinnovò il tentativo di esimersi. — Riflettici, Lidia, può essere un passo falso, o almeno un passo inutile.... Non è facile indurre una persona a disdirsi in [7] un giorno.... Come spiegherebbe questo cambiamento di fronte?... D'altra parte, qual è il tuo scopo? Quello di staccar tuo marito da Natalìa.... E non ci arrivi ugualmente avvertendo Carlo che hai scoperto la tresca e che non sei disposta a tollerarla?... Egli sarebbe ben forzato a romper la relazione per evitare guai maggiori.

— Egli mentirebbe, — replicò Lidia con enfasi. — Mentirebbe come voi uomini mentite tutti in queste occasioni.... Giurerebbe di aver troncato i rapporti con la sua ganza e li manterrebbe ancora.... Solo avrebbe imparato ad esser più cauto.... Ma come?... C'è il mezzo di liberarsi da quella triste femmina, e me lo lascerò sfuggire?... No, zio, ho un sentimento troppo alto dei miei doveri e dei miei diritti per non voler sradicare il male dalla radice.... Ancora una volta, accetti o non accetti l'incarico?... Hai paura?

Landi respinse l'insinuazione. — Ah paura, poi. — In fatti era stato sempre debole con le donne; non era mai stato un codardo.... Giovanissimo, aveva preso parte alla campagna del 1859; più tardi aveva avuto un paio di duelli che ricordava volentieri; l'accusa di pusillanimità era quella ch'egli tollerava meno. — Paura?... E di che dovrei averne?

La signora Fìdoli approfittò di questo momento per insistere. — Quand'è così, non hai più una scusa al mondo.... Vedi, zio, io metto nelle tue mani la nostra sorte.... Se riesci, questo non sarà stato che un temporale passeggero. Ti giuro che farò di tutto per perdonare [8] a Carlo, per riconquistarmi il suo amore, e tu avrai intorno a te una famiglia riconoscente che ti vorrà sempre bene, come te ne ha voluto finora.... Perchè non ti puoi lagnare di noi, zio.... Io non faccio che il mio dovere; sposando Carlo, sono diventata tua nipote e ho l'obbligo di fare per te quello che mio marito, così occupato, non può. A ogni modo, anch'egli mi raccomanda continuamente di badare che non ti manchi nulla. E la piccola Valentina non ti chiama nonno, non ti considera veramente come il suo nonno?... L'hai voluto tu, sai; io non avrei permesso ch'ella invecchiasse uno zio ancora elegante ed arzillo....

E Lidia prendeva la mano dello zio Ernesto, e sorrideva in mezzo alle lacrime, e spiegava tutti quei tesori d'eloquenza che la donna trova in sè stessa quando lascia parlare il suo cuore. Ell'aveva toccato il punto debole; suo zio era un egoista buono (per quanto le due parole possano star insieme), un egoista che aveva bisogno d'esser cinto di cure, e, sebbene incapace di grandi sacrifizi, e sollecito sopratutto dei propri agi, s'affezionava facilmente a quelli che gli stavano vicino. I bambini gli piacevano, intendo dire i bambini degli altri, appunto perchè i sacrifizi ch'essi domandano sono continui ma piccoli e perchè si può sbarazzarsene quando si vuole. Così egli amava scherzare con la Valentina, amava prendersela in collo, e sentir fra i peli della sua barba le piccole dita di lei, e partecipare ai suoi giuochi, e stuzzicare le sue rabbiette infantili.... salvo a riconsegnarla alla madre s'ella diventava troppo molesta. Anche [9] quel nomignolo di nonno gli vellicava dolcemente l'orecchio; lo avrebbe gradito assai meno se fosse stato nonno davvero. Ormai tutto il suo studio era questo: conciliar la libertà dello scapolo coi vantaggi della famiglia. E ove avrebbe potuto meglio raggiunger l'intento? Qui era in casa ed era fuori di casa, in un quartierino avente ingresso e scala comune, ma a cui si accedeva dal pianerottolo per una porta separata; c'era poi fra le due abitazioni una comunicazione interna che Landi teneva aperta per comodo suo, tant'era sicuro che nessuno dei Fìdoli, nemmeno la Valentina, sarebbe venuto nelle sue stanze senza farsi annunziare. — È un uscio che si apre da una parte sola, — notava scherzando la Lidia. — Noi non abbiamo segreti. Da noi puoi venire quando ti piace. — Ed egli pranzava dai nipoti due volte per settimana, il giovedì e la domenica, e avrebbe potuto pranzarvi più spesso sol che avesse desiderato. — A colazione e a desinare la tua posata c'è sempre, — diceva la Lidia con la solita cordialità. In fine Landi si ricordava che, durante una sua malattia, Lidia aveva passato lunghe ore al suo capezzale, attenta, discreta, silenziosa per lo più, ma pronta a rispondergli, ad alzar verso di lui il suo viso buono, illuminato da un onesto sorriso.

Anche i Morini gli avevano offerto di tenerlo presso di sè; e Natalìa che gli era cresciuta sotto gli occhi aveva insistito perch'egli desse la preferenza a loro. — La nostra casa è più tranquilla, — ella ripeteva. — Noi non abbiamo bambini.

[10]

Ma no; indipendentemente dal torto che avrebbe fatto ai suoi nipoti, egli non poteva accettare l'offerta. Già da tempo, e prima ancora ch'ella si maritasse, la Natalìa lo turbava per quella sua strana rassomiglianza con la madre, per quelle sue grazie feline, per quel sottile alito di corruzione (l'aveva ben detto la Lidia) ch'emanava da tutta la sua persona. Ora che la giunonica bellezza di lei sfolgorava nella florida maturità dei trentacinqu'anni, e in lei, più seducente ancora, più raffinata, pareva rivivere la madre morta, ora Ernesto provava in presenza di quella donna una inquietudine, un malessere inesplicabili. Ond'egli non le faceva visite frequenti, e cercava di non trovarla sola; cosa che del resto gli riusciva facile, perchè o ell'era con suo marito, un buon diavolo, innamorato fin sopra gli occhi, o aveva alle costole qualcheduno dei tanti cicisbei, ch'ella teneva a bada con arte sopraffina senza lasciar capire a quali accordasse la sua preferenza, benchè non vi fosse al mondo nessuno, da Morini in fuori, che la credesse femmina da appagarsi d'innocenti civetterie.

Oggi, però, non c'era rimedio. Se Landi doveva assumersi l'ingrato ufficio impostogli dalla nipote, era necessario ch'egli parlasse a tu per tu con Natalìa; e questo non era l'ultimo motivo delle sue riluttanze. D'altra parte Lidia insisteva tanto, si mostrava così risoluta a fare un colpo di testa se lo zio le negava il suo aiuto, ch'egli finì col piegare il capo.

— Basta, basta, Lidia.... Che vuoi che ti dica? Tenterò.

[11]

— Sia ringraziato il cielo.... Non potevo proprio persuadermi che tu fossi diventato cattivo.

— Ma bada che tentare non è tutt'uno con riuscire....

— In questo caso dev'esser tutt'uno.... Per impudente, per audace che sia la Morini, è impossibile ch'ella non senta la gravità della situazione, e non afferri la tavola di salvezza che l'è offerta.... E non faccia troppo assegnamento sulla credulità di suo marito.... Anche ai mariti creduli e buoni può cascar la benda, e allora non si sa mai....

— Ella vorrà indietro la sua lettera, — soggiunse Ernesto.

— L'avrà la sua lettera, quando sarà arrivata laggiù.

— E se mettesse per condizione d'averla subito?

— Non gliela darei, — protestò Lidia. — Per ora ella si contenti ch'io non ne faccia uso.... E giuro che s'ella mi si leva dai piedi non ne faccio uso.... Ella non ha il diritto di dubitare della mia parola; io ho quello di dubitar della sua.... Ah, non voglio mica esser giocata....

— Faremo fiasco, — ripeteva lo zio, mezzo pentito di aver accondisceso.

— No.... ti do tempo tutta la giornata.... Andrai subito?

— Vedremo.... Bisogna ch'io scelga il momento.... Se non è sola, è inutile.

— Le farai dire che ti preme.

— E se c'è Morini?

— Quello lì fino alle cinque è in ufficio.... È un impiegato modello.... E che marito prezioso [12] per Natalìa!.... Ma bada a me, se vai subito è meglio.... È quasi il tocco.... Ancora non sarà uscita, e non avrà visite.... Se ritardi....

Lo zio sorrise. — Permetterai ch'io finisca di vestirmi....

— Hai ragione.... Ti lascio.... E se puoi farmi avere un biglietto di qui a un'ora, di qui a due ore....

Landi si ribellò a questa imposizione. — Non cambiarmi le carte in mano.... Dianzi mi accordavi tutta la giornata, e adesso vorresti che mi spicciassi in un paio d'ore....

— Non voglio.... Desidero, spero.... Tu pure, se hai una buona notizia, avrai fretta a comunicarmela.... Pranzi con noi?... Sono sola con Valentina....

— Grazie.... Ho un mezzo impegno....

— Fa quel che credi.... La tua posata c'è.... A ogni modo, stasera non vado a letto se non t'ho visto.... E hai capito!... nessun equivoco, nessun malinteso.... Aut aut. Non lasciarti gingillar dalle chiacchiere, non accettare nessun mezzo termine.... Pensa che ce ne va della pace, dell'avvenire di una famiglia, che, in fin dei conti, è la tua famiglia; pensa a ciò che potrebbe accadere anche a colei se rifiutasse.... Perchè non t'illuda la calma con cui ti parlo.... Sarei inesorabile.... Guai se noi donne oneste non ci difendiamo!

Strinse la lettera fra le dita nervose, e s'avviò con una mossa altera del capo. Sempre compito cavaliere, Ernesto Landi le aperse l'uscio.

Dopo quindici o venti minuti che le parvero secoli, Lidia, appoggiata al davanzale della finestra [13] della sua camera, dietro le persiane abbassate, udì chiudersi la porta di strada. Spinse adagio adagio le imposte e guardò per lo spiraglio. Era suo zio, in vestito elegante da mattina, con un fiore all'occhiello e una canna di bambù tra le mani. Veduto per di dietro, pareva piuttosto un giovinotto in via di conquiste che un uomo serio e maturo incaricato d'una missione delicatissima. Lidia lo segui con lo sguardo fin ch'egli ebbe svoltato l'angolo della strada; poi si ritrasse dalla finestra e s'abbandonò singhiozzando sul canapè. Nella naturale reazione che succede a un periodo d'orgasmo, nel presentimento che lo zio Ernesto non avrebbe saputo difender la causa affidatagli, tutta la sua energia era venuta meno ad un tratto. No, per lei non c'era più felicità, non c'era più pace, non c'era nemmeno il piacere crudele della vendetta, perchè mai, mai ell'avrebbe avuto il coraggio di valersi della lettera accusatrice. Poteva ella mettere a fronte due uomini, uno dei quali era suo marito, suo marito che, pur troppo, ell'amava? Poteva suscitare uno scandalo che avrebbe colpito lei e la sua Valentina?... D'altra parte, nella migliore delle ipotesi, in quella cioè che Natalìa si desse per vinta e accettasse i patti che l'erano offerti, ella, la Lidia, non era ugualmente una moglie tradita? Tradita, e chi sa da quanto tempo!

[14]

II.

L'immagine di Natalìa si associava nell'animo di Lidia ai primi ricordi della sua giovinezza, quand'ella veniva a Venezia con la famiglia nella stagione dei bagni, e sulla terrazza del Lido, insieme alla madre, che pareva una sorella più matura, vedeva ogni giorno questa ragazza bruna, alta, snella, dagli occhi e dalle ciglia nerissime, dalla voce musicale e sonora, dal riso argentino, dal vestito elegante e chiassoso, cinta sempre da uno sciame d'adoratori. La vedeva sulla terrazza, e sulla spiaggia, e nell'acqua, nuotatrice intrepida, offrente al bacio dell'onda il turgido petto di cui la maglia attillata disegnava i contorni, gareggiante di velocità e di resistenza coi più provetti, così da sembrare talvolta, tanto si spingeva lontano, un punto perduto nello spazio. Indi la madre, inquieta, affacciandosi alla ringhiera agitava le braccia e gridava: Natalìa! Natalìa! Natalìa Maggianico, quest'era il nome che i conoscenti di Lidia pronunciavano innanzi a lei con qualche reticenza, con qualche tentennatina di capo, facendo intendere, con la debita discrezione, che non erano, nè lei nè la madre, signore della buona società. Anzi i puritani aggiungevano che ormai al Lido si trovava di tutto. Ah, più tardi, fatta esperta della vita e vedendo in che cosa consisteva la buona società, e che angioli [15] di purezza e di virtù fossero gli uomini e le donne che vi appartenevano, com'ell'aveva riso di questa frase stupida e pretenziosa! Allora però n'era rimasta colpita, e deplorava sinceramente che non si potesse andare al Lido senza incontrarvi le due Maggianico. Nè al Lido soltanto, da per tutto le incontrava; per la strada, in gondola, sui vaporetti, la domenica in chiesa San Marco, la sera in Piazza al Florian. La madre declinava, più rapidamente forse che non comportasse l'età, ma Natalìa era ogni anno più bella, simile a una pianta che ogni anno estende i suoi rami e si carica di nuovi fiori. E sempre, sempre c'era una corona di giovani intorno a lei; e ovunque ella movesse il piede o sostasse c'era qualcheduno che si voltava per guardarla, qualcheduno che la segnava a dito, accompagnando il gesto con un'esclamazione ammirativa. Intorno alla Lidia non veniva nessuno; nessuno si fermava sul suo passaggio; nessuno chiedeva al vicino: — Chi è?

È vero ch'ella sentiva ripeter sovente: — A quella Maggianico tutti fanno la corte, ma nessuno la sposa.

Magra consolazione! A lei nessuno faceva la corte, e nessuno la sposava.... Così nel suo animo, pur buono e gentile, covava un sordo rancore contro la bellezza sfacciata di Natalìa e contro il mondo vigliacco che le si prostrava ai piedi. E, nondimeno, il suo fascino Natalìa l'esercitava anche su lei, su lei non conosciuta e non curata, ed ella ci pensava involontariamente, e involontariamente la cercava in mezzo alla folla e tendeva l'orecchio se altri la nominava. [16] A poco a poco, mettendo insieme varie frasi côlte qua e là, ell'aveva saputo che, per ora, la ragazza non era che una civetta; le colpe grosse erano della madre, la quale aveva fatto una vitaccia da maritata e da vedova, e continuava a portare in trionfo la sua relazione con Ernesto Landi.... Di questo signor Landi s'era parlato spesso davanti a Lidia deplorando che un uomo così piacente d'aspetto, così garbato di modi, un uomo che avrebbe potuto aspirare a qualsiasi partito, si fosse lasciato succhiare il sangue e smunger la borsa da un vampiro come la Clara Maggianico. A tale proposito però c'era stato un giorno un signore, lugubre come il vecchio Silva, il quale aveva soggiunto: — Meno male che ne avrà per poco.... La Clara Maggianico è spedita dai medici. — E il signore, uno di quelli che s'ingrassano a raccontar disgrazie, s'era diffuso a descriver tre o quattro malattie incurabili da cui la povera donna era affetta e che le avrebbero concesso al più cinque o sei mesi di vita. Dopo questa rivelazione il malanimo di Lidia verso la Maggianico fu temperato da un senso di pietà dolorosa. Era sul finire della stagione; tra una settimana Lidia avrebbe lasciato Venezia per non tornarvi che nell'estate ventura; e nell'estate ventura ella non avrebbe più rivisto quella madre e quella figliuola ch'erano certo leggere e corrotte, ma che andavano sempre insieme e senza dubbio si volevano bene; avrebbe rivisto forse la sola Natalìa, vestita di nero, ella che amava i colori sfoggiati, dimessa e contrita, ella nelle cui pupille sfavillava la gioia, sulle cui labbra fioriva [17] il sorriso.... Ma prevedeva ella il lutto imminente? Conosceva la madre il proprio destino? In Piazza, gli occhi di Lidia si fissarono quella sera, non ostili ma tristi, sulle due donne; e le parve di scorgere un'ombra sul volto bellissimo di Natalìa, una trepida ansietà che si rivelava in certe contrazioni dei muscoli, in certi sguardi furtivi;.... ma sul volto della madre ella lesse la morte.... Era così smunta quella faccia, era così livida nella bianca luce delle lampade ad arco voltaico; era diffusa una tale stanchezza invincibile su tutta la persona!... La signora Clara si sforzava di parlare e di ridere, specialmente nei momenti in cui ella sorprendeva gli occhi di Natalìa fissi nei suoi, ma di tanto in tanto la testa le si piegava sul petto, come se il sonno fosse per coglierla....

Anche il giorno appresso Lidia vide le Maggianico. Le incontrò in Merceria dell'Orologio, la signora Clara trascinantesi a stento appoggiata al braccio di Natalìa. Fu l'ultima volta. Ella partì di lì a poco per la sua Verona, e non seppe nulla delle due donne fino all'inverno successivo, quando una mattina, nello sfogliar la Gazzetta di Venezia a cui suo padre era abbonato, vi lesse queste righe: “Cronaca rosa. Il nostro amico, dottor Vittorio Morini, aggiunto giudiziario, si è promesso sposo a una delle più belle e più eleganti signorine della nostra città, molto ammirata dai frequentatori del nostro Lido, la signorina Natalìa Maggianico. Congratulazioni ed auguri.„ Era una notizia ben diversa da quella che Lidia s'aspettava di trovare nella rubrica dello stato civile. Ahi, l'altro annunzio, [18] l'annunzio funebre non si fece attendere un pezzo, e due settimane dopo, aprendo lo stesso giornale, le caddero sott'occhio, nella lista dei morti, queste parole asciutte asciutte: “Clara Maggianico, d'anni 49, vedova, civile.„ Funerali e nozze! Anche nella sua sventura era una privilegiata della fortuna la Natalìa Maggianico, se, proprio nell'ore in cui la sua famiglia si sfasciava, una nuova famiglia le apriva le braccia, se il lutto della figliuola era temperato dalle gioie della fidanzata!... Indi Lidia sentiva raccendersi nell'animo l'avversione contro la splendida ragazza; e tanto più s'inaspriva verso di lei quanto più era disposta all'indulgenza verso la signora Clara che aveva ormai espiati i suoi falli, che forse s'era purificata nell'amor materno, che certo durante gli strazi degli ultimi mesi non aveva pensato ad altro che ad assicurar l'avvenire di Natalìa, che aveva certo lei stessa, al suo letto di morte, combinato il matrimonio. Ma la felicità di Natalìa irritava Lidia, la offendeva come un'ingiustizia, come una smentita a quella legge dei meriti e dei compensi che suo padre, essenzialmente ottimista, aveva l'abitudine di predicarle, condensando le sue teorie in pochi aforismi: — Semina il bene e raccoglierai il bene.Via recta, via certa.Chi fa il proprio dovere non ha mai a pentirsene. — Massime sacrosante.... Ciò nondimeno, ella che, a quanto assicuravano, possedeva tutte le virtù teologali, rischiava di marcire in casa, mentre quella fraschetta della Maggianico aveva già trovato il suo bravo marito.

[19]

Senonchè, quell'anno stesso, in primavera, la Lidia fu fidanzata con l'avvocato Carlo Fìdoli di Venezia; ch'era venuto alle Assise veronesi, quale difensore in un processo lungo e clamoroso, e aveva una lettera d'introduzione per la famiglia Polidossi. S'invaghì egli realmente della ragazza, o pensò soltanto a conchiudere un buon affare? Fatto si è ch'egli chiese la mano di Lidia e che la sua offerta fu gradita. Aveva trentacinqu'anni, e godeva già la riputazione d'uno fra i migliori avvocati del foro veneto, specie nelle cause penali; buon parlatore, d'aspetto simpatico, non sprovvisto di mezzi di fortuna, poteva aspirare benissimo alle centocinquantamila lire che la Polidossi portava a titolo di dote. Lidia gli si affezionò sinceramente, profondamente, come ogni giovine casalinga, non avvezza alle galanterie, s'affeziona al primo uomo che dica d'amarla; e quando ella tornò nell'estate a Venezia, oltre che pei bagni, per visitare i parenti del futuro marito e veder la casa che doveva esser la sua, il nuovo sentimento l'aveva trasfigurata. — Non par più quella la Lidia Polidossi, — ella sentiva susurrare intorno a sè. — Quest'anno è proprio carina. — Fu allora ch'ella conobbe Ernesto Landi, lo zio materno di Carlo, un bell'uomo tra i quaranta e i cinquanta, accurato nel vestire, disinvolto nei modi, superficiale di cultura e d'ingegno, ma di conversazione piacevole, come di chi ha visto cose e persone diverse e dai facili successi del mondo acquistò una tal quale sicurezza di sè. Egli entrò subito nelle buone grazie della nuova nipote, fors'anco per quella curiosità [20] mista di simpatia che i libertini non affatto volgari destano alle donne di più illibati costumi. Nè la relazione con la Clara Maggianico, relazione che solo la morte aveva troncata, gli nuoceva ormai agli occhi di Lidia. Le pareva cavalleresca quella fedeltà serbata all'amante, trovava bella e generosa la condotta di lui verso Natalìa, della quale Ernesto Landi rendeva possibile il matrimonio con un dono di trentamila lire ch'egli si obbligava di farle il giorno delle nozze. In casa Fìdoli questa liberalità era approvata a bocca stretta, ma Landi era, in complesso, ben voluto da tutti, e la madre di Carlo aveva per lui la tenerezza piena d'indulgenza delle sorelle maggiori verso i fratelli scapestrati. — Sicuro, Ernesto ha le sue debolezze, — ella diceva tentennando la testa, — ma è sempre stato un gran mago. — Il marito le faceva eco. — Un gran mago. — Il più riservato ne' suoi giudizi era Carlo; forse i due uomini avevano indole troppo diversa per andar d'accordo.

In quell'estate Lidia ebbe rare occasioni d'imbattersi nella Natalìa Maggianico, ch'era in lutto e non andava la sera al Caffè, e non andava di giorno al Lido nelle ore del maggior concorso. La incontrò qualche volta per la strada, con una signora attempata, una zia, e con un giovine di mezzana statura, dai baffetti castani, che le dissero essere il fidanzato. Il vestito nero la dimagrava; dava maggior risalto ai suoi occhi bruni, alla sua carnagione bianca, mostrava sotto un nuovo aspetto la sua bellezza superba. Ma Lidia Polidossi era felice; nel suo animo gentile non c'era più posto nè per l'invidia, [21] nè pel livore, ed ella manifestò ripetutamente al suo fidanzato la sua ammirazione per le doti fisiche di Natalìa. Egli sorrideva: — È tal quale sua madre quand'era giovine.... Se sarà tal quale anche pel resto, il povero Morini dovrà recitare il confiteor.

— O perchè non potrebb'essere una buona moglie?

Carlo Fìdoli si stringeva nelle spalle. — Tutto può essere a questo mondo.

I due matrimoni furono celebrati in fin d'autunno a brevissimo intervallo l'uno dall'altro. Allorchè però, dopo il viaggio di nozze, Lidia venne a stabilirsi a Venezia, i Morini non c'erano più. L'aggiunto giudiziario era stato nominato Pretore in un piccolo paesetto del Veneto. Natalìa faceva di tanto in tanto una corsa a Venezia, e le sue conoscenti dicevano ch'ella metteva in moto cielo e terra per ottenere un trasloco. Fosse merito suo, o fosse un fortunato concorso di circostanze, certo si è che il trasloco venne accordato di lì a non molto tempo, appunto a Venezia, e fu allora che Ernesto Landi desiderò presentare la coppia Morini alla sorella, al cognato, ai nipoti. Che motivo ci poteva essere di rifiutare? Nondimeno in casa arricciarono il naso alla proposta, e Carlo parve più renitente degli altri. — Che ghiribizzo è saltato allo zio Ernesto?... Que' suoi protetti non avevano nessun bisogno di conoscerci e noi non avevamo nessun bisogno di conoscer loro. — Fu proprio Lidia a dare il tracollo alla bilancia. — E perchè vorresti risponder di no? La Clara Maggianico è morta già da tre anni; Natalìa è [22] sposata ad un galantuomo che ha una posizione onorevole, e quando avranno detto di lei ch'è un po' civetta avranno detto tutto.... C'è di peggio? — No, in coscienza, pel momento non si poteva dire di più. — Ebbene, — ripigliò di trionfo la Lidia, — se vogliamo aiutarla a restare una donna onesta, non principiamo noi a metterla al bando!... Già non occorre mica far lega insieme.

Accolta in casa Fìdoli, Natalìa Morini aveva subito mostrato una grandissima propensione per Lidia, le aveva ripetuto il gran bene che lo zio diceva di lei, aveva voluto a ogni costo che si dessero del tu. Ma il tu non basta a creare l'intimità, e intimità schietta fra le due donne non ce ne poteva essere e non ce ne fu, nemmeno nei primi tempi quando sul conto di Natalìa si mormorava solo a bassa voce. — Sei troppo bella, — diceva celiando la Lidia alla Morini se questa le proponeva di prender palco insieme a teatro, o di andare insieme a una festa, a una conferenza, a un concerto; — sei troppo bella, e mi faresti far troppo cattiva figura. — In fondo non era che una scusa; il vero si è ch'erano agli antipodi di gusti e d'idee; la Natalìa avida di piaceri e di lusinghe, sempre abbigliata all'ultima moda, insofferente della solitudine, arguta e vivace bensì, ma d'uno spirito alquanto volgare che, per dar la propria misura, aveva bisogno dell'eccitamento dei crocchi romorosi; la Lidia schiva d'ogni apparenza, semplice e quasi dimessa nel vestito, facile a intimidirsi, ad ammutolirsi in mezzo alla gente, amante della sua quiete, della sua casa, dei libri [23] pochi e buoni che le tenevano compagnia nel suo salottino. Intanto era nata Valentina, ed ella era stata assorbita dalle cure dolci e minuziose della maternità. Natalìa la tacciava di esagerazione. — Non ti s'incontra più in nessun posto. Anch'io amerei i miei figliuoli, se ne avessi, sfido io.... Ma non per questo farei divorzio da' miei simili.

Un duplice e gravissimo lutto che colpì Lidia quando la bimba non aveva che un anno, la morte dei suoceri a poche settimane d'intervallo, contribuì a suggellar questo divorzio dal mondo che la Natalìa Morini le rimproverava. Allora appunto Lidia insistette perchè lo zio Ernesto venisse ad abitare con loro nella casa diventata ormai troppo grande per una famiglia di tre sole persone, e Landi, impressionabile per sua natura e turbatissimo dalla morte della sorella e del cognato, accettò l'offerta come un avviamento a una vita più tranquilla, più consentanea all'incalzar dell'età. In quell'occasione Lidia ebbe una visita da Natalìa che le disse: — Anche a noi era parso che tuo zio Ernesto non dovesse più viver solo e avevamo messo un paio di stanze a sua disposizione; ma egli ha preferito venir da voi altri. Siete suoi parenti prossimi, avete un appartamento migliore del nostro; non ci rimane che chinar la testa.

C'era un fondo di acrimonia nelle parole di Natalìa, e infatti pei Morini sarebbe stato un terno al lotto il poter alleggerirsi d'una parte della pigione. Già da tempo si buccinava ch'essi spendessero oltre ai loro mezzi e che Madama fosse indebitata con la sarta e con la modista.

[24]

— Qualcheduno pagherà, — diceva la gente. I più benevoli affermavano che di tratto in tratto lo sbilancio fosse colmato da Landi, in omaggio alla memoria della signora Clara. Evidentemente Natalìa scemava in riputazione ogni giorno, e il marito era un fenomeno di tolleranza e di cecità. Non era nè uno sciocco nè un farabutto; era ipnotizzato dalla moglie; credeva tutto quello ch'ella voleva fargli credere, e si sarebbe gettato nel fuoco per compiacerla.

L'avvocato Fìdoli (adesso Lidia pensava che fosse stata una finzione) aveva sempre ostentato di tener in poco conto la coppia Morini. — Lui, come giudice, è passabile, ma fuori del suo tribunale è un cretino; lei aspira a coglier gli allori materni. È meglio andar via via allentando la relazione.

— Per quello che ci si vede ormai con Natalìa, — rispondeva Lidia.

E in vero si vedevano pochissimo, diradando, per mutuo e tacito accordo, le loro visite, salutandosi fuggevolmente quando s'incontravano per la strada. Però una mattina che Lidia era con la figliuola, Natalìa la fermò per ammirare e baciare la bimba, invidiando l'amica che possedeva un tesoro simile. E soggiunse: — Portamela, portamela.... Fino alle due mi trovi sola.... Usciremo in quel mio simulacro di giardino.... Sai, abbiamo un pezzetto di terra con due alberi e pochi fiori.... Vieni, vieni.... Dio mio, come ti fai preziosa!... Par che non ti degni, tu moglie d'un luminare del fòro, di venire in casa d'un povero travet.

[25]

Lidia si consultò con Carlo che le disse: — Per una volta tanto, non sarà una disgrazia.

Natalìa fu amabilissima e si conquistò subito il cuore di Valentina, facendola correre pel piccolo giardino, mostrandole un nido di rondini, regalandola di frutta e di dolci.

— Quando torneremo dalla bella signora? — chiedeva ogni momento Valentina alla madre.

Ella trovò mille pretesti per non tornare; se ne sentivan dir tante di quella Natalìa ch'era proprio meglio starne lontano. Lo stesso zio Ernesto la difendeva debolmente: — Benedetta figliuola!... Ha buonissime qualità, ma è troppo leggera.

Perciò Lidia fu alquanto maravigliata che, nell'inverno successivo, Carlo volesse invitare i Morini a una serata musicale ch'egli dava in onore di due suoi clienti francesi, di passaggio per Venezia.

— Noi non andiamo alle serate dei Morini, — osservò Lidia. — Perchè devono venir essi alle nostre?

— Noi non andiamo da loro, ma essi c'invitano, — ribattè pronto l'avvocato. — Dobbiamo invitarli anche noi.... Forse non verranno.

— Verranno, verranno.

— Poco male, tanto più ch'essi conoscono già i miei forestieri.... E poi si tratta d'una cosa eccezionale. Noi non abbiamo l'abitudine di ricever la sera.

Conformemente alle previsioni di Lidia, i Morini accettarono l'invito e Natalìa fu la regina della festa. Bisognava vederli quegli uomini come la divoravano con gli occhi, come pendevano [26] dalle sue labbra! E i vecchi non si sdilinquivano meno dei giovani. Perfino il Procuratore Generale, un magistrato grave, solenne, con tanto di pancia, perfin lui le faceva la ruota attorno e non badava nè alla padrona di casa, nè all'altre signore, nè ai due o tre virtuosi che si alternavano al pianoforte. In quanto ai Parigini, essi non trovavano parole per esprimere la loro ammirazione. Anche il francese scorretto della Morini acquistava per essi un garbo speciale su quella bella bocca ridente. Carlo Fìdoli era il più guardingo; nondimeno parve una volta alla Lidia ch'egli e Natalìa si sorridessero furtivamente, ed ella n'ebbe una stretta al cuore. Non poteva ella certo lottar contro Natalìa se a colei veniva in mente di rubarle il marito. Ell'era una buona moglie, una buona madre, una buona massaia; sapeva di non esser ripulsiva d'aspetto, di non mancare d'ingegno e di cultura. Ma o che bastan forse questi pregi a una donna? È vero, ell'aveva sempre creduto che Carlo fosse così assorto nelle sue cause, ne' suoi processi penali da non aver tempo da perdere in galanterie; ma se si fosse ingannata? Se fosse stato anch'egli su per giù come gli altri?

Pur ella non osò discorrergli del delicato argomento nè quella sera, nè poi. Lo sapeva poco tollerante delle osservazioni, temeva un rabbuffo, temeva di far peggio. Ora, ora si pentiva di non aver parlato prima, quando forse il male non era irreparabile.... E intanto ella pensava con sgomento alla spiegazione che avrebbe avuto con Carlo al suo ritorno da Roma, pensava [27] alla lettera che avrebbe dovuto scrivergli domani o dopo domani, non foss'altro che per dargli notizie di Valentina. Ed egli pure le avrebbe scritto; le scriveva sempre quando le sue assenze si protraevano qualche giorno, le scriveva nella sua calligrafia nitida, uguale, da uomo d'affari che bada al positivo, e anche di lontano s'occupa della casa, dei figliuoli, dello studio. Aspettate con viva impazienza, quelle lettere lasciavano sempre delusa la Lidia che avrebbe voluto trovarvi un po' più di calore, un po' più d'entusiasmo.... Ah, il calore, l'entusiasmo, egli li avrebbe messi nell'epistole che dirigeva a Natalìa!... E forse in questo momento, fatto accorto del biglietto dimenticato, o dal treno, o dal restaurant di Bologna egli le mandava una riga in fretta per comunicarle le sue inquietudini, per rinnovarle le sue proteste.

Di nuovo la Lidia cavò di tasca il foglio rivelatore, di nuovo lo scorse con occhi molli di lacrime. Passeremo ancora insieme molte di quelle ore deliziose nel nostro nido.... Ti rammenti, amore? Queste frasi la ferivano come stilettate. A lei Carlo diceva: — Ogni cosa, ha la sua stagione.... L'amore è pei giovani.... è per le coppie novelle. Due sposi come noi devono appagarsi di un'affezione calma, tranquilla, non soggetta alle tempeste. — Ipocrita! Con Natalìa egli s'era dimenticato di non esser più giovine. Con Natalìa egli le cercava le tempeste. Ah, in verità, ora dipendeva da lei, da Lidia, che fossero tempeste ond'egli avesse a ricordarsi per un bel pezzo.... Ma che ingiustizie!... Una donna fa sempre il suo dovere, tutto il suo dovere: dà [28] tutta sè stessa ad un uomo, non per un'ora, non per un giorno ma per la vita intera; e quell'uomo la tradisce per una femmina svergognata che non ha onore, che non ha pudore, che non ha nessuna delle qualità continuamente magnificate dal mondo burlone, che mancherà di fede all'amante di oggi come ha mancato di fede a quello di jeri, come ha mancato di fede al marito.... E la gente che indovina o che sa si contenta di ridere e non bolla col ferro rovente gl'iniqui! Ci son dunque due morali a questo mondo? Una che s'insegna, l'altra che si pratica?

Il pensiero di Lidia volò a Valentina, così candida, così ingenua, alla piccola Valentina che sarebbe anch'ella travolta in questa gora di menzogna e di fango.... Assalita da un desiderio veemente, imperioso di rivederla, di averla accanto a sè in quegl'istanti angosciosi, ella sonò per la cameriera. — Che nessuno vada oggi a prender la Valentina.... Andrò io.

III.

Vi andò prima che la scuola finisse e fece chiamar la figliuola. Gliela portò la direttrice in persona, piena di deferenza verso i Fìdoli la cui clientela giovava al suo Istituto, la pregò di accomodarsi, le offerse insistentemente un caffè, una bibita in ghiaccio. Aveva sempre qualche cosa di prelibato per le visitatrici di maggior conto; alle altre offriva un bicchier d'acqua fresca. Ma Lidia non volle sedere, non volle [29] accettar nulla; sarebbe venuta un giorno con più agio; oggi aveva i minuti contati.

Quando fu sola con Valentina, la baciò e ribaciò sulle gote, sulla bocca, sugli occhi. — Cara, cara, cara.

Valentina, una fanciulla intelligente, di sette anni compiuti, la guardava attonita. — Mamma, cos'hai?

— Io?... Nulla.

— Hai pianto?

Lidia arrossì. — Che idee!... Perchè avrei dovuto piangere?

— Non so.

La bimba stette un momento soprappensiero; poi chiese: — Il babbo è partito?

— Sì.... È partito, — disse Lidia.

O che Valentina credeva ch'ell'avesse pianto per questo?

— Ho promesso di scrivergli, — annunziò con gravità la bimba. — Stasera....

— No stasera, — interruppe la madre. — L'hai salutato questa mattina.

— Domani sera allora.

— Domani sera, — ripetè Lidia macchinalmente. Le parole le bruciavano le labbra. E mutò discorso. — Vuoi che andiamo ai Giardini?

Aveva necessità di respirar l'aria libera, di non chiudersi così presto in casa coi pensieri affannosi che la travagliavano. Già prima di sera lo zio Landi non sarebbe venuto a riferirle l'esito dei suoi negoziati con la Morini. E in ogni modo, fin che Valentina era alzata, non si poteva discorrere con libertà.

[30]

Alla proposta della mamma, Valentina rispose subito di sì. Ma di lì a un momento soggiunse: — Non ho il cerchio.

— Non importa.

La fanciulla fece una smorfia disgustata. — Oh.... senza il cerchio!...

— Ebbene, — riprese la madre ansiosa di contentarla, — in Merceria prenderemo un cerchio nuovo.

Valentina battè palma a palma. — Sì, sì, mamma.... E più grande di quello che ho.

— Più grande.

— Grande come quello della Bertocci.

— Ma io non lo conosco.

— Guarda.... È alto così, — disse Valentina. E si portò la mano a livello della spalla.

— Troppo alto, — notò Lidia.

— Se tu vedessi come corre bene!

— Insomma lo sceglierai tu.

Fecero l'importante acquisto nell'antica bottega del Ponte dei Baretteri che fornì di balocchi tante generazioni di bimbi, e Valentina si portò in trionfo il suo cerchio ch'ell'aveva l'illusione di credere ancora più grande di quello della Bertocci, benchè in realtà fosse più piccolo.

— E ora, — disse Lidia, — si passa sotto le Procuratìe e si va a prendere il vaporino.

— Se si traversava la Piazza, provavo il cerchio.

— No, c'è troppo sole.

Valentina non replicò; la sua attenzione era ormai rivolta a tutt'altro.

— Mamma, mamma, — ella disse trattenendo [31] la Lidia per la falda del vestito, — sai chi c'è in quella bottega?

Era una bottega di gioielliere, appunto sotto le Procuratìe Vecchie, presso il Caffè Quadri.

— Chi? — ripetè la madre côlta da un incomprensibile sgomento. E con un moto istintivo afferrò il braccio di Valentina.

La fanciulla tentò svincolarsi. — Lasciami, lasciami. È il nonno con la bella signora.... Li saluto.

Ma la mano di Lidia chiuse come in una morsa d'acciaio il braccio della figliuola, e bruscamente la trascinò fuori delle Procuratìe, in mezzo alla Piazza.

— No, non devi salutar nessuno, — intimò Lidia con voce dura, imperiosa.

Anch'ella li aveva visti, dietro la vetrina del gioielliere, lo zio Ernesto e la Natalìa Morini, li aveva visti curvi sul banco, intenti a esaminare i gingilli che il negoziante sciorinava sotto i loro occhi, li aveva visti e aveva sentito rimescolarsi il sangue nelle vene. Come? Nel giorno stesso in cui la sua ignobile tresca era scoperta, in cui pendeva sul suo capo l'onta d'una rivelazione, quella donna impudente osava mostrarsi in Piazza San Marco, da un gioielliere, ed Ernesto Landi, il parente a cui Lidia aveva affidato la propria causa, Ernesto Landi osava condurvela, osava offrirle forse un braccialetto, un anello, un fermaglio, un monile? Così egli prendeva le parti della nipote offesa, tradita!... O che femmina era mai quella? Che strana potenza si sprigionava da lei perchè gli uomini tutti, anche i vecchi, immemori [32] della loro dignità, dovessero caderle ai piedi?

Intanto Valentina che, a quei modi insoliti della madre, era rimasta senza fiato e senza parola, passato il primo momento di stupore, si mise a piangere.

— Mamma cattiva! — ella singhiozzò toccandosi il braccio dolente della stretta brutale.

Lidia si chinò a baciarla. — T'ho fatto male, caro tesoro?... Non è niente.... Perdona.... È che non volevo.... Tu non puoi capire adesso.... Cammina, cammina, andiamo al vaporetto.

Aveva ripreso per mano la figliuola, e procedeva innanzi spedita, guardandosi attorno inquieta come se un gran pericolo la minacciasse.

Impacciata dal cerchio che si tirava dietro, Valentina la seguiva a fatica, piagnucolando.

— Dàllo a me il cerchio, — ordinò la madre.

La voce di lei s'era fatta dura, imperiosa un'altra volta.

La bimba ubbidì, ma continuava a lamentarsi sommessamente.

Traversarono in un lampo la Piazza, uscirono dall'angolo delle Procuratìe Nuove, svoltarono per la Calle Vallaresso. Il vaporino, diretto ai Giardini, approdava al pontile in capo alla calle.

— Lesta, lesta, — disse Lidia.

Arrivarono trafelate quando il battello era lì lì per partire. Allora Lidia prese Valentina sulle ginocchia, le rasciugò con la pezzuola gli occhi lacrimosi, le rasciugò le tempie, le guancie molli di sudore, le ravviò i capelli scompigliati e il fisciù di traverso, la coperse di carezze.

A poco a poco Valentina si rinfrancava, sorrideva [33] in mezzo alle lacrime. E fattasi ardita chiese: — Perchè non mi hai permesso di salutare il nonno?

Lidia si rannuvolò, mise la mano sulla bocca della figliuola. — Non tornar da capo.

— Perchè? — ripigliò la fanciulla con l'ostinazione propria della sua età.

— Il nonno non era solo, — rispose brevemente la madre.

— Era con la bella signora.

— Appunto, — ribattè Lidia decisa a finirla. — Una volta per sempre.... Non voglio che tu saluti la signora Natalìa.

— Perchè? — tornò a domandare la Valentina.

— Insomma ho le mie ragioni, e basta.... I bimbi non devono saper tutto, — replicò Lidia in modo da troncare le discussioni.

La fisonomia della Lidia, su cui la corsa affannosa di poco prima aveva diffuso un'animazione artificiale, s'era irrigidita in un'espressione di profonda tristezza. E anche il visetto di Valentina si allungò di nuovo; ne' suoi occhi limpidi passò l'ombra delle cose ignorate ed incomprensibili, onde viene all'infanzia come un vago presentimento dei dolori futuri.

I Giardini in quell'ora erano spopolati; pure s'aggiravano qua e là altre mamme con altri fanciulli; altre sedevano al rezzo delle piante che il Maggio rivestiva di fiori. Lidia sedette su una panca di pietra sotto uno dei tigli del viale di mezzo, mentre Valentina faceva correre il cerchio per lo stradone.

La madre l'animava col gesto. — Corri, corri.

Povera piccina! Chi sa quel che le frullava [34] nel capo, chi sa che effetto le avevano prodotto gli umori bisbetici della sua mamma! Lidia era stata aspra con lei; ma come si fa? Poteva ella concederle di avvicinarsi a Natalìa? O poteva parlarle di quella femmina in modo diverso? No, no, checchè accadesse, fra la Morini e Valentina nulla vi doveva esser di comune, mai più. Lidia non si pentiva dunque del linguaggio tenuto con la figliuola; si pentiva piuttosto d'aver precipitato il suo giudizio sullo zio Ernesto. Certo era enorme che in quel giorno Natalìa osasse andar da un gioielliere, ed era singolare che Landi ve l'accompagnasse; ma perchè non aspettare le sue spiegazioni per condannarlo?... Forse, d'indole spendereccia com'egli era, aveva tentato d'attenuar con un dono il colpo che le portava; forse (son donne che vendono tutto) ell'aveva messo a prezzo la sua acquiescenza ai patti che l'erano imposti.

La quiete del luogo, il verde degli alberi, il tenue stormir delle foglie esercitavano su Lidia la loro influenza benefica; un po' di calma scendeva nel suo animo agitato, vi faceva rinascer la speranza che la rovina della sua felicità non fosse ancora assoluta ed irreparabile.... Che la Natalìa partisse; ecco il gran punto. Se partiva, al resto ci sarebbe stato rimedio.... Quella di Carlo non poteva essere che una crisi momentanea. Un uomo serio e positivo come lui non poteva lasciarsi travolgere dalle passioni. Ci voleva quella civetta, ci voleva quella sirena per trascinarlo fuori della via retta ov'egli, se non per virtù, per riguardo del mondo aveva sempre camminato. Nel desiderio, nel bisogno [35] di trovar un'attenuante alla colpa di suo marito, Lidia si esagerava la bellezza, il fascino irresistibile di Natalìa. Era stata una fatalità che questa femmina bella e corrotta gli fosse capitata fra i piedi. Poich'egli non cercava le donne, non aveva tempo per loro; egli non frequentava i teatri, non frequentava i salotti; senza dubbio era venuta lei a cercarlo.... Non era poi così facile che ne venisse un'altra, ugualmente bella e astuta e viziosa.

Lidia guardò l'orologio. Erano quasi le sei, era ora d'andarsene. Quantunque lo zio Ernesto non si fosse impegnato a portarle una risposta prima di sera, ella pensava che s'egli la risposta l'aveva già avuta, ed era favorevole, si sarebbe affrettato a recargliela. Ella lo avrebbe capito a volo, anche senza insospettir Valentina con le chiacchiere, e in quanto ai particolari avrebbe aspettato ad averli più tardi. Così Lidia si crucciava adesso d'essere uscita, ed era impaziente di tornare a casa.

Richiamò la figliuola e prese il primo vaporetto che partiva nella direzione del Canalazzo; sarebbe scesa alla stazione di Sant'Angelo ch'era per lei la più comoda. Il vapore, quasi vuoto in principio, si riempì a mano a mano durante la corsa; anzi a Calle Vallaresso s'imbarcarono alcuni conoscenti coi quali convenne pure scambiar strette di mano e saluti: una signora Spedara, piccola, inframmettente, che domandò almeno cinque volte: — È sempre stata bene, signora Fìdoli? —, un'altra con la figliuola, condiscepola di Valentina, che attaccò subito l'argomento delle troppe lezioni; un amico di Carlo [36] che tanto per dir qualche cosa chiese a Lidia ciò che sapeva perfettamente: — L'avvocato è già partito per Roma?

A Lidia non parve vero di scendere a Sant'Angelo e di liberarsi dai seccatori.

Salendo le scale di casa sua ella interrogò la cameriera. — C'è lo zio?

— Nossignora.

— E non è mica stato in questo frattempo?

— Nossignora: da quando è uscito verso il tocco non s'è più visto.

— E non è venuto nessun altro?... Non è venuto niente?

— È arrivato un pacco postale multato.... Pare che ci sia dentro una lettera.

— Ah, della mamma, — disse subito Lidia. Era una fissazione della sua mamma quella di metter le lettere nei pacchi postali. Ogni anno si dovevan pagare per causa sua parecchie di queste multe.

— Il fattorino ripasserà domani a riscuotere il danaro, — soggiunse la cameriera. — Intanto ha lasciato il pacco.

— Dov'è?

— In salotto da pranzo.... È una scatola di fiori.

Valentina, ch'era stata con tanto d'orecchi tesi sperando che il pacco della nonna contenesse un regalo per lei, al sentir che si trattava di fiori fece una spallucciata e tirò per la manica l'Erminia, la cameriera, affinchè ammirasse il nuovo cerchio.

— Va, va con l'Erminia, — ordinò Lidia alla figliuola. — Va a lavarti le mani, a mutarti il [37] vestito. — Indi, a una muta interrogazione della donna di servizio, rispose: — Io non ho bisogno di nulla.... Ah sì.... porta di là il mio cappello. Se lo levò di testa e glielo diede.

— Venga, signorina, mi farà vedere il cerchio, — disse la cameriera. — Com'è grande!

— È più grande di quello della Bertocci, — affermò Valentina con aria convinta, lasciandosi condur via dall'Erminia.

Lidia entrò in salotto da pranzo ove dalla scatola semiaperta usciva un acuto profumo di rose. Erano belle le rose, di tutte le specie e di tutte le tinte; ma tra pel viaggio, tra per le manomissioni degl'impiegati postali, erano anche, a eccezione di poche, avvizzite e sfogliate. In mezzo ai petali sparsi, in mezzo agli steli infranti la lettera incriminata odorava essa pur come un flore. Lidia ne ruppe la busta. — “Fin da domenica siamo a San Vigilio, sul nostro Garda, — scriveva la madre, — ove fa meno caldo che a Verona e ove abbiamo trovato una magnifica fioritura di rose. Ti spedisco le più belle; ma in quale stato ti arriveranno?... Che peccato che non siate qui a coglierle, tu e Valentina! Come siamo soli, e con che impazienza contiamo i mesi, le settimane, i giorni che mancano al settembre quando finalmente verrete! Circa al venir noi per i bagni, non ci vedo chiaro. Il tuo papà si move sempre meno volentieri, dice che la vita di Venezia l'estate lo affatica.... Oh Lidia mia, che brutta cosa invecchiare!... Ma non metterti in apprensione; finora, anche invecchiando, il tuo babbo ed io stiamo bene.... Quello che temo non possa [38] durare fino al settembre è il povero Lampo, l'antico e vispo compagno delle tue passeggiate.... Ha dato un crollo negli ultimi mesi! Si trascina a stento, ha la tosse, è pieno d'acciacchi; forse sarebbe opera di carità l'accorciargli le pene, ma non ce ne sentiamo il coraggio; vogliamo ch'egli muoia della sua buona morte.... Abbiamo ragione, non è vero?... Povera bestia! Come ti ricorda! Basta dirgli: dov'è Lidia? perch'egli si scuota, alzi il muso e dimeni la coda e risponda con un mugolìo sommesso che par quasi significare: Perchè mi lusingate invano?... È una giornata senza sole, e forse per questo la mia lettera ha un'intonazione grigia.... Smettiamo.

“Il babbo abbraccia teneramente te e Valentina. Io vi mando mille e mille baci. Salutami tuo marito, scrivi presto e credimi

la tua aff.ma mamma.„

Gli occhi di Lidia s'erano empiti di lacrime. Sui sentimenti confusi destati in lei dal dramma domestico in cui minacciavano di naufragare la sua felicità e la sua pace, sul dolore, sulla gelosia, sulla collera, s'innestavano altri sentimenti pieni di paurosa ansietà e d'ineffabile malinconia. Ella correva col pensiero ai suoi vecchi così soli, così abbandonati, con la fronte già curva, coi capelli già bianchi, trascinanti il piede lungo i sentieri del bel giardino invano rifiorente per loro, o, nel vespero silenzioso, affacciati al parapetto del terrazzo che dava sul lago, mentre qualche vela sfiorava la superficie increspata dell'acqua e il vapore da Peschiera o da Riva lasciava dietro di sè una striscia [39] sottile di fumo, e il sole scendeva laggiù verso Desenzano. Nè, per quanto facesse, Lidia riusciva a scacciar da sè l'immagine del povero Lampo quale la lettera glielo aveva dipinto; affranto, malato, decrepito, uscente dal suo torpore solo in udire il nome di lei. Temo non possa durare fino al settembre — le scriveva la madre; e l'idea di non vederlo più, di non accarezzarlo ancora una volta la crucciava come un rimorso. Ma, nella eccitazione de' suoi nervi, prima che di questo, ella si chiamava in colpa d'aver lasciato la casa paterna, e sciocche e colpevoli chiamava tutte le fanciulle che un vano miraggio d'amore o un più vano desiderio di novità strappa al nido domestico, ov'è sbocciata la loro anima, ove non è cosa che non sia in intima comunione di spirito con loro.

Alla voce di Valentina che rideva nell'altra stanza con la cameriera, Lidia si scosse, si rasciugò in fretta gli occhi, dispose con le sue mani in una coppa di cristallo le rose meglio conservate, e la coppa posò delicatamente, perchè l'acqua non traboccasse dagli orli, sulla tavola apparecchiata.

Valentina irruppe nel salotto da pranzo. — Oh le belle rose!... Son quelle che ha mandate la nonna?

— Sì.

— Ma ce ne son dell'altre nella scatola.... E anche qui sul tavolino.

— Non vedi che sono tutte sfogliate?... Anzi di' all'Erminia che venga a prender la scatola.

— Or ora. Ma le foglie le raccolgo io. Voglio far l'acqua di rose.

[40]

Lidia si strinse nelle spalle. — Bada alle spine.

L'avvertimento era opportuno ma giunse tardi, perchè Valentina s'era già punta un dito e strillava, più che pel dolore, per la vista del sangue.

La madre accorse. — Te l'avevo detto!... Che bimba!... Non istà mai ferma.... Dio!... Anche questa ci voleva oggi!

Ed esaminava la piccola ferita, e succhiava il sangue, e diceva a Valentina carezzandola: — Non è nulla, non è nulla. Sii buona.

In fatti Valentina non tardò a rasserenarsi e a sorridere in mezzo alle lacrime. — Scrivi alla nonna che un'altra volta cavi le spine prima.

— Oh sciocchina! — fece Lidia baciando la figliuola. E le chiese: — Hai fame?

— Tanta.

Lidia sonò il campanello e ordinò all'Erminia di sollecitare la cuoca.

— Appunto, — disse la cameriera, — la cuoca voleva sapere se c'è a pranzo il signor Ernesto.... Io veramente avevo apparecchiato solo per due....

— Andrà bene così, — rispose la signora. — Credo che mio zio non venga. Venendo si contenterà di quello che c'è.... Una posata è subito messa.... Intanto, appena è pronto, portate in tavola.

Che sforzo fu per Lidia quel giorno trangugiar qualche boccone, mentre pareva che il cibo le si fermasse nella gola, e lo stomaco non volesse riceverlo! Se per un momento, ai Giardini, ell'aveva potuto considerar le cose sotto un aspetto men fosco, se nonostante la leggerezza di suo zio, nonostante l'impudenza della Morini, [41] ell'aveva potuto sperare che l'ultimatum spedito alla sua rivale non fosse inefficace, ora rinfacciava a sè medesima la propria ingenua credulità. Non c'era dubbio, Natalìa avrebbe raggirato quel minchione di Ernesto Landi, studiandosi di disarmarlo con le moine, con le promesse vaghe.... o chi sa forse, con l'audacia di chi brucia i suoi vascelli, avrebbe sfidato l'onta e il pericolo della delazione, avrebbe fatto dire a lei, a Lidia, alla moglie legittima, che si servisse pur della lettera, se ne aveva il coraggio.... Ma era chiaro.... lo zio non tornava perchè non aveva una risposta soddisfacente da dare; anch'egli, come tutti i pusillanimi, non cercava che di guadagnar tempo.

Valentina, a cui la gita ai Giardini aveva aguzzato l'appetito, mangiò la minestra e il lesso senza badar troppo alla cera scura di sua madre, ma quando fu al terzo piatto cominciò a piantarle in viso i suoi occhi interrogatori, a esser vinta dall'inquietudine di lei, a far i capriccetti propri ai bambini che son scontenti e non sanno dire il perchè. Poveri bimbi! Noi li accusiamo di esser bisbetici senza ragione, e dimentichiamo che spesso i capricci dei piccoli non sono che l'espressione visibile del malumore dei grandi.

— Sii buona, Valentina, — supplicava Lidia, — sii buona.

Valentina avrebbe voluto esser buona, ma non poteva. Si sentiva avvolta di nuovo dalla grande tristezza che l'era piombata addosso improvvisamente due o tre ore addietro, in Piazza San Marco, e che poi l'aria libera, il moto, la [42] felice spensieratezza dell'età avevano in parte dissipata. Sentiva che c'era qualcosa d'insolito intorno a lei, qualcosa che le si nascondeva, sentiva che la sua casa, che la sua mamma non erano quelle di jeri; associava nella mente il babbo lontano, il nonno, la bella signora, e non capiva, e non osava domandare, paurosa d'un altro rabbuffo. Lente, silenziose le colavano le lacrime giù per le gote.

— Non piangere, tesoro, — disse Lidia, — non piangere.

L'Erminia che serviva la frutta si chinò sulla fanciulla. — Cos'ha? Era tanto allegra prima.

— Niente non ha, — replicò Lidia. — Lasciala stare.... Piuttosto, alza quella tenda, apri meglio quella finestra.

Un raggio di sole, rinfrangendosi sulla vetrata, rigò d'una striscia luminosa la tovaglia bianca, sprigionò un breve scintillìo dalle boccie e dai bicchieri, lambì le rose che si sfogliavano.

— Oh! — fece Valentina mettendosi la mano davanti agli occhi.

Ma il sole era scomparso. Lidia guardava le rose che alla tepida carezza parevano essersi ravvivate un istante, aver dato un profumo più intenso, come l'anima dell'anima loro. E dietro le rose avvizzite rivide ancora una volta il suo lago, la sua villa, i suoi genitori, il suo cane decrepito e moribondo.... Oh perchè, perchè non era laggiù?

Si alzò bruscamente da tavola e propose a Valentina di salire insieme in terrazza per annaffiare le piante.

— Ci vieni, davvero?

[43]

— Sì, ci vengo.

Era di solito un ufficio affidato all'Erminia; in quell'ora Valentina aveva l'abitudine di mostrare i suoi quaderni alla mamma, e di fare i suoi piccoli còmpiti sotto la direzione di lei. Oggi delle lezioni non ce n'erano, e mamma e figliuola s'inerpicarono per le due scale erte, buie e anguste che conducevano alla terrazza.

— Se capita lo zio, — disse Lidia alla cameriera, prima di salire, — chiamami subito.

— Sissignora.

Nè la terrazza era spaziosa, nè le piante eran molte; un trenta o quaranta vasi al più, guastati in parte dalle irruzioni frequenti dei gatti del vicinato. Non ci volle quindi un gran tempo ad annaffiarli, ma Lidia, quand'ebbe finito, anzichè scendere si affacciò al parapetto da cui l'occhio, libero per tre lati, spaziava in un ampio orizzonte spingendosi fino alla linea vaporosa dell'Alpi. Dalla massa dei tetti accavallantisi gli uni sugli altri emergevano le punte aguzze dei campanili e le cupole rigonfie delle chiese; i fili del telegrafo correvano paralleli nell'aria come le righe d'un libro di musica; le rondini a stormi ora lambivano i comignoli delle case ora si sprofondavano nell'azzurro, cantando; nella mite luce crepuscolare si smorzavano tutti i colori e tutti i contorni.

Montata sopra una panca di legno, accanto alla madre che le aveva passato un braccio attorno alla vita, Valentina domandava: — Che campanile è quello? Quella che chiesa è?

Non sempre Lidia era in grado di rispondere all'interrogazione, e allora la bimba brontolava [44] infastidita: — Non sai niente. — Ma la sua curiosità non scemava per questo, ed ella tornava ad appuntare il dito qua e là. — Dimmi, che cos'è?

— Smetti, non vedi ch'è quasi buio?

Scendeva a poco a poco la sera; in cielo brillavano le prime stelle. Un lume apparve a una finestra d'una casa lontana lontana; si dileguò, riapparve, svanì.

— Chi sta in quella casa? — chiese Valentina.

— Scioccherella, come vuoi ch'io sappia?

— Perchè non sai?

Perchè, perchè, — disse Lidia mettendo una mano sulle labbra della fanciulla.

— Ma sì, perchè?

— Zitto! — intimò la madre. E pensava a tutti i segreti che quelle case, ormai formanti una sola ombra confusa, gelosamente chiudevano, pensava ai lutti, alle gioie, alle colpe, alle speranze, agli amori che si celavano dietro le imposte chiuse, dietro i muri impenetrabili. Ricordava l'allusione di Natalìa al nostro nido.... Ah, dov'era il loro nido? In che parte della città? Forse in un angolo remoto, forse nel centro, a due passi da lei, a due passi da Valentina.... Povera Valentina! Lidia le posò la destra sul capo, come a proteggerla.

— Mamma, — ripigliò la bimba. — Le rondini sono andate a letto?

— Sì, cara.

— E dove hanno il loro letto le rondini?

— Sotto le cornici, sotto le gronde, al coperto.... Vuoi che andiamo anche noi al coperto?... Tira un po' d'aria....

[45]

— Si sta meglio con l'aria.

— Ts! — fece Lidia, che aveva sentito un suono di passi sulla scaletta. E si voltò vivamente. — Chi è?

Era l'Erminia, con un lume in mano.

— C'è qualcuno giù? C'è lo zio? — domandò Lidia con ansietà.

— Nossignora, — rispose la cameriera. — Ma sulla scala non ci si vede più, e son venuta col lume pel caso che desiderassero scendere.

— Hai fatto bene.... Scendiamo.

Valentina non oppose che una piccola resistenza. Era stanca, aveva sonno, benchè protestasse di non averne e di voler tener compagnia alla sua mamma. Anch'ella doveva aspettare il nonno e sgridarlo perchè non era stato a pranzo con loro.

Ma quando fu abbasso, si addormentò davvero sopra un divano e la misero a letto quasi senza ch'ella se ne accorgesse.

— Età beata! — pensò Lidia, deponendo un bacio sui rosei labbretti socchiusi.

Lasciò aperto l'uscio della camera, e si ridusse nel suo salottino da lavoro ch'era attiguo a quella. All'Erminia diede ordini assoluti, precisi. — Non sono in casa per nessuno.... tranne per lo zio, s'intende....

— E lo riceve qui?

Lidia accennò affermativamente col capo.

— Il tè lo porto alle dieci?

— Chiamerò io, — disse la signora. — Va pure.

[46]

IV.

Si provò a lavorare ed a leggere, e non vi riuscì. L'ago era troppo grave peso alla sua mano; i caratteri stampati le si confondevano negli occhi, non lasciavano nessuna impressione nella sua mente. Ogni tanto balzava in sussulto, tendendo l'orecchio. Le pareva che avessero aperto la porta di strada, le pareva che qualcuno salisse.... Nulla.... Lo zio non veniva.

Alle dieci e mezzo ella sonò il campanello.

— Porta da fare il tè, — ordinò alla cameriera. — E poi va a dormire.

— Non aspettava il signor Ernesto?

— L'aspetterò sola.

— Ma io.... — principiò l'Erminia.

Lidia l'interruppe. — Non perdiamoci in chiacchiere. Porta questo tè.

Tornando col vassoio, l'Erminia, o per sollecitudine, o per curiosità, domandò di poter rimanere alzata fin che rimaneva la signora.

— No, — replicò questa. — Non voglio.... Non so neppur io a che ora andrò a letto.... E forse ti chiamerò domattina più presto del solito.... Va, va.

— Devo spegnere il gaz?... Il signor Ernesto ha il suo lume abbasso.

— Spegni il gaz della scala, — rispose la padrona, — e lascia accesa una fiamma nel salotto d'ingresso.

[47]

— E quella chi la spegnerà? — chiese l'Erminia.

Lidia si strinse nelle spalle. — Io stessa.... O il signor Ernesto.... in caso disperato resterà accesa tutta la notte.... La gran disgrazia!... Va, va.

L'Erminia uscì a malincuore, additando la teiera e dicendo: — L'acqua è calda.

Dopo qualche minuto d'attesa, Lidia si alzò e, adagio adagio, spalancò tutti gli usci fino al salotto d'ingresso; tanto da evitare il pericolo che Landi arrivasse inavvertito e sgattaiolasse nelle sue camere. Presa ch'ebbe questa precauzione, ella bevette successivamente due tazze di tè che dovevano aiutarla a vegliare, magari fino a giorno fatto. Già ell'era certa che se si fosse coricata senza veder lo zio Ernesto non avrebbe trovato un istante di requie. In ogni modo, non la turbava il dubbio che lo zio non venisse prima di giorno. Egli aveva troppa cura della sua salute da passare l'intera nottata fuori di casa.

Di ben altra natura eran dunque le inquietudini che la travagliavano. Come si sarebbe regolata domani? Ecco il problema. A che partito si sarebbe appigliata in seguito a una risposta sfavorevole o ambigua? Si sarebbe valsa davvero delle sue armi? Avrebbe avuto il coraggio d'andar sino in fondo? Un'idea, sì, prendeva a grado a grado forma e contorni nella sua mente; nè a quell'idea erano state estranee le parole rivolte poc'anzi alla cameriera: forse ti chiamerò domattina prima del solito; ed ella dibatteva per la centesima volta il pro e il contro [48] del suo disegno quando (era da poco sonata la mezzanotte) udì qualcuno fermarsi alla porta di strada e introdur la chiave nella serratura. — Finalmente!... — ella esclamò. E corse incontro allo zio.

— Finalmente! — ripetè, aprendo con impeto la porta che dava sulla scala e avanzandosi sul pianerottolo.

Ernesto Landi, che saliva col lume in mano, fece un passo indietro e dovè abbrancarsi alla ringhiera.

— Chi è?... Sei tu, Lidia?... Che modi!... Quasi ruzzolavo.... Ti credevo a letto.

— Come? Non eravamo intesi che l'avrei aspettato?

— Sì, ma avendo tardato tanto....

— Poco male.... Non ho sonno.... Su, via, spicciati ora.

Landi era lì immobile, tenendo in una mano il lume e la mazza, appoggiandosi con l'altra alla ringhiera. Non si decideva a far gli ultimi scalini; parlamentava dal basso.

— Dicevo che forse si sarebbe discorso con più agio domani.

Lidia protestò in tono reciso. — Subito voglio sapere. Acconsente a partire, colei?... Acconsente?

— Dio santo!... Le cose bisogna pigliarle con calma.

— Spiegati allora! — riprese Lidia frenandosi a stento. E soggiunse con aria sarcastica: — Devo venir, a offrirti il braccio perchè tu salga?

— Salgo, salgo, — brontolò lo zio Ernesto, [49] quando vide che non c'era speranza di rimandare il colloquio.

— Puoi spegnere il lume, — disse la nipote. — C'è il gaz in sala.

Lo precedette nel salottino, gli additò una sedia, e facendogli segno di attendere diede una capatina in camera da letto per assicurarsi che Valentina dormiva. Rientrata in salotto, ne chiuse tutti gli usci, sedette di fronte allo zio e gli piantò gli occhi in faccia. — Dunque?

Egli ritorse il viso istintivamente, e cominciò esitante: — Prima di tutto ti chiedo scusa di non esser venuto prima.

Ella ebbe un moto d'impazienza. — Tira via.... Parla di lei.... parla della signora.

— Ecco, — balbettò Ernesto Landi; ed evitava sempre di guardar sua nipote, — ecco, Natalìa è dolentissima....

— Oh.... zio....

— Dolentissima, — ripetè questi. — Riconosce che le apparenze la condannano....

— Zio.... tu vaneggi, — interruppe Lidia. — Le apparenze? E la lettera?

— Sì, sì, non c'è dubbio.... la lettera è stata una leggerezza.... Ma di serio non c'è stato niente....

— E le ore deliziose?... E il nido?... Mi credete una bambina, mi credete una stupida, tu e la tua Natalìa?

Landi si contorceva sulla sedia come uno studente impreparato dinanzi alla commissione esaminatrice.

— Senti, Lidia.... a ogni modo, ella ti promette per quanto ha di più sacro, ti dà la sua parola [50] d'onore che troncherà ogni rapporto con tuo marito.

— La parola d'onore di Natalìa! — esclamò la moglie ingannata, battendo palma a palma. — A che gioco giochiamo?... Non ti ricordi più qual era il mio ultimatum?... Non le hai imposto, in nome mio, di accettare il trasloco, di abbandonar Venezia per sempre, entro una, entro due settimane?... Ah Madama rifiuta di andarsene?... Non è vero, rifiuta?

— Non rifiuta, in massima.... tutt'altro.... Crede impossibile di andarsene ora.... Che figura farebbe fare a suo marito presso il Ministero?... Nondimeno potrei ritentare se avessi....

— Che cosa?

Lo zio Ernesto esitò un momento, poi slanciò la bomba.

— Se avessi la lettera?

— Sei pazzo?

— Persuaditene, Lidia, — seguitò Landi. — Natalìa è donna da prendersi con le buone.... Le minaccie la inaspriscono.... Rivolgendosi al suo cuore, che non è cattivo, te lo giuro, restituendole quella lettera malaugurata....

— Zio, zio, — proruppe Lidia, — sei tu che mi fai queste proposte?... Tu che avevi assunto l'incarico di difendere la mia causa?... E non ti vergogni?... Ma sì che ti vergogni.... Si capisce che vorresti nasconderti.... Non hai ancora avuto il coraggio di fissarmi in viso.... Fissami in viso, per Dio.

E così dicendo gli si avvicinò, gli pose le mani sulle spalle, lo scosse con forza, lo costrinse ad alzare gli occhi.

[51]

— Andiamo, Lidia.... cos'hai stasera? — borbottava Landi, non riuscendo a capacitarsi come la sua dolce e mansueta nipote si fosse trasformata in una virago.

— Hai addosso il suo profumo di cocotte! — ella soggiunse arricciando il naso, e fiutando le dita contaminate.

E intanto scrutava attenta e severa quella fisonomia di vecchio libertino, quei solchi profondi, quelle carni floscie, quella tinta terrea, quella bocca sensuale ov'erano forse le traccie di lascivie recenti, e ne provava un ribrezzo, una nausea invincibile. La visione disgustosa, associandosi nella sua mente all'episodio dello zio e di Natalìa curvi insieme sul banco del gioielliere, n'evocava una più laida, più ripugnante, che pur troppo chiariva tutto, spiegava a Lidia il perchè Ernesto Landi fosse ormai l'alleato della sua nemica.

Ella lasciò ricader le braccia inerti sulle ginocchia e non trovò altre parole che queste:

— E pensare che potrebb'esser tua figlia!

Ma Landi, nel suo turbamento, diede alla frase una portata che Lidia non si sognava di darle.

— No, Lidia, no, non devi dir questo.... Lo sai che non è mia figlia.... Lo sai che aveva tre anni quand'ho conosciuta sua madre.... No, Lidia, no....

Anzichè ammansarsi per la difesa non chiesta da un'imputazione che ell'era le mille miglia lontana dal fare, ella sentì crescere in sè lo schifo e la collera. In che casa, fra che gente viveva se certe sozzure vi si potevano immaginare [52] e discutere? E poi quella strana apologia non conteneva forse una confessione?

— Esci! — ella intimò, di nessuna cosa tanto sollecita come di por termine a questo colloquio che pure ella stessa aveva voluto.

Egli non capiva, credeva che sua nipote sospettasse ancora, e biascicava sbigottito, confuso: — Ti giuro che non è mia figlia.... Te ne darò le prove.

— E chi te le domanda? — ella replicò impetuosamente, moderando a fatica gli scatti della sua voce. — Sei tu, con la tua fantasia corrotta e viziosa, che mi attribuisci idee dalle quali rifuggo.... Non è tua figlia, nulla vieta che sia la tua amante; ecco ciò che tu intendi.... E non ti pare che basti perch'io ti scacci?

— Ma ascolta.... ma non precipitare i tuoi giudizi.... Tu supponi quello che non è....

Lidia seguitò beffarda: — Era un braccialetto che le regalavi oggi?

Landi chinò il capo fulminato. — Chi t'ha detto?

— Io t'ho visto.... vi ho visti.... Eravate in Piazza, sotto le Procuratìe e speravate passar inosservati! — esclamò Lidia. E ripetè con un gesto imperioso: — Esci!

Il vecchio (tale era adesso veramente all'aspetto) si avviò barcollando. Giunto sulla soglia, si voltò ancora supplichevole, contrito: — Sarai più calma domani, non è vero?

E poich'ella non apriva bocca, non batteva palpebra, egli riprese: — Non farai mica un colpo di testa?... Non farai nessun passo prima d'avermi consultato?

[53]

— Consultar te! — ella rispose. — Farò quello che la mia dignità mi suggerisce. Vattene!

— Lidia! Lidia!

Egli esitava; ella stessa gli aperse l'uscio e stette rigida, immobile finchè non ebbe sentito chiudersi la porta della scala. Allora traversò in punta di piedi la camera da letto debolmente rischiarata da un lume appeso al soffitto e ove Valentina dormiva tranquilla, entrò nel gabinetto da toilette, e tuffò nella catinella il viso e le mani e s'asperse d'acqua di Colonia per liberarsi dall'acre profumo di muschio, dal profumo ignobile di cocotte che Landi aveva portato con sè e aveva comunicato a lei. Indi, tornata nel salottino, spalancò la finestra, s'affacciò al davanzale, aspirò a pieni polmoni l'aria della notte. Ahi, non era quella l'aria pura ond'ell'aveva bisogno. Una donna come Natalìa era più che sufficiente ad appestare un'intera città. Che femmina, Dio, che femmina!

No, Lidia non poteva rimanere un giorno di più nella città in cui Natalìa abitava, non poteva rimanere nella famiglia su cui Natalìa esercitava le sue perfide arti di seduzione. Sarebbe partita la mattina con la sua figliuola, per il suo Garda, per la villa ove i suoi genitori invecchiavano soli.

Sì, sarebbe partita.... ma prima....

Aperse la scrivania, prese un foglietto di carta e vi tracciò alcune linee con mano convulsa.

“Signore. — La lettera che le inchiudo non era destinata nè a Lei nè a me; però quand'Ella vedrà da chi fu scritta ed a chi, si persuaderà che abbiamo, Ella ed io, il diritto di conoscerla.... „

[54]

Qui s'arrestò, incapace di continuare. Aveva ella misurato le conseguenze dell'opera propria? Era certa che quelle conseguenze sarebbero ricadute soltanto sulla moglie infedele? Se Morini, in uno di quei lampi d'energia cieca e selvaggia con cui i deboli credono riscattare l'abituale pusillanimità, se Morini avesse provocato Carlo? Se si fossero battuti? Se Carlo fosse rimasto ferito, se fosse rimasto ucciso?...

E nell'ipotesi opposta, se il marito pacifico e imbelle si fosse contentato di scrollar le spalle? Se si fosse quetato alle carezze, alle lusinghe della sua Messalina? O peggio ancora, se la lettera non gli fosse neppur pervenuta, intercettata chi sa con quali sotterfugi da Natalìa?

Così la denunzia sarebbe stata o fatale o ridicola; ignobile sempre.

Ma d'altra parte, doveva Lidia lasciar trionfare impunemente i colpevoli? Non far del male a chi ne faceva tanto a lei?

No, i suoi scrupoli erano vani e puerili; checchè avvenisse poi, ell'avrebbe compiuto la sua vendetta. E in questo caso vendetta voleva dire giustizia.

Riafferrò la penna; alla rivelazione documentata dal biglietto di Natalìa meditò di aggiungerne una seconda, quella della tresca con Ernesto Landi, pregustò la gioia feroce di armare il nipote contro lo zio, lo zio e il nipote contro Natalìa, e Vittorio Morini contro tutti e tre.

Senonchè, sul punto di riprender la lettera interrotta, la nube di fuoco che le abbarbagliava gli occhi si sciolse; una forza occulta le paralizzò di nuovo la mano; la sbigottì di nuovo il [55] pensiero delle rovine e delle vergogne che potevano derivare da un suo passo imprudente.

Tre volte sedette al tavolino, tre volte si alzò scoraggiata; indi, come chi abbia molte faccende da sbrigare e lasci per ultimo la più molesta, disse: — Scriverò domattina, — e s'accinse intanto a preparare il suo piccolo bagaglio.

Andava, veniva con passo svelto e leggero da una stanza all'altra, apriva i cassettoni fragranti di spigo e gli armadi da lei tenuti in ordine con la intelligente sollecitudine di buona massaia, stendeva la mano sicura agli oggetti di biancheria e di vestiario che voleva portar seco e che sarebbero bastati a lei e a Valentina per un paio di settimane. Avrebbe ordinato a suo tempo che le spedissero il rimanente.

Poich'ella non considerava il ritorno che come un'eventualità molto dubbia e lontana. Troppo l'avevano offesa. Troppe bassezze ella vedeva intorno a sè.

Ah, il grido del cuore che l'avrebbe richiamata, perdonante ed amante, alla casa maritale, quel grido ella non se l'aspettava da Carlo. Orgoglioso, freddo, positivo qual era, egli non si sarebbe piegato a chieder mercè del suo fallo, avrebbe difeso la sua causa con artifizi di leguleio, avrebbe invocato l'aiuto dei suoceri per sopire uno scandalo nocivo alla riputazione della famiglia, avrebbe versato fiumi d'eloquenza per dimostrare la necessità di non funestar Valentina con lo spettacolo di questo dissidio domestico.... Ipocrita, ipocrita! Quasi non fosse lui che lo creava il dissidio!

Ma ell'avrebbe resistito.... oh, si sarebbero [56] persuasi ch'ella non era una donna debole.... avrebbe opposto alle minaccie ed alle lusinghe la coscienza del suo buon diritto, le sue ragioni sacrosante di moglie e di madre.... Possibile che i Tribunali (se i Tribunali dovevano immischiarsene) si pronunziassero contro di lei? Possibile che i suoi genitori le dessero torto?

Poveri vecchi! Non così, non così essi desideravano la visita della loro figliuola. Nell'età in cui la pace è bene supremo ella irrompeva come un turbine nella loro quieta esistenza. Eppure, che altro rifugio poteva ella cercare?

Erano le due dopo mezzanotte; mancavano circa sette ore alla corsa, e Lidia pensò di sdraiarsi sul letto non per attendere il sonno che non sarebbe venuto, ma per dare un po' di riposo alle membra prima di mettersi in viaggio. Non si cacciò nemmeno sotto le coperte, si coricò mezzo vestita, ravvolta in uno sciallo. Dal letticciuolo vicino saliva a lei il respiro lieve di Valentina, salivano dalla strada suoni di passi e di voci; un ubbriaco che doveva esser fermo sul ponte urlava di quando in quando Ah l'amore, l'amoreÈ UN DARDO; alla luce fioca e tremolante della lampada i mobili e le tappezzerie pigliavano forme strane e confuse. A momenti ella credeva di sognare, di aver sognato, e se ne stava con occhi sbarrati, con orecchi intenti verso quelle immagini e quei rumori di cui non sapeva se fossero veri o se vivessero soltanto nella sua fantasia. Ma presto si ridestava in lei la coscienza della realtà, e, come se mille punte le si configgessero a un tratto nel cuore, ella riprovava le angosce dell'amore [57] deluso, le smanie della gelosia, gli stimoli della vendetta, lo sgomento dell'incerto avvenire. E riandava il passato quando in quella camera, la sua camera nuziale, ell'era entrata giovine sposa, e Valentina non c'era, e Carlo dormiva al suo fianco. Rammentava il tempo in cui Valentina doveva arrivare, attesa con tanta ansietà, il tempo in cui era arrivata, accolta con tanto giubilo. Ora tutto era finito; mai più forse sarebbe entrata in quella camera, mai più avrebbe posato in quel letto.

Alle cinque Lidia era in piedi, e non tardò molto a chiamare la cameriera.

— Vado a San Vigilio con Valentina, — ella disse.

L'Erminia fece un gesto di maraviglia.... — Parte.... così?

— Alle 8.45. Vado a trovar mia madre.... Tirerai fuori la valigia e il sacco da viaggio.... Vi riporrai la roba che ho già preparata.

— Non ha dormito, la signora, stanotte? — chiese l'Erminia.

— Ho dormito poco.... Perchè?

— Perchè si vede.... È assai pallida....

— Non importa.... Dormirò in treno.

— E — seguitò la ragazza — non istà mica male?

— No, sto benissimo; — rispose Lidia con qualche sforzo.

L'Erminia domandò ancora: — E.... scusi se sono indiscreta.... resterà assente un pezzo?

— Non so.... Forse molto, forse poco.... Scriverò da San Vigilio.... Spicciati, fa questo bagaglio.

[58]

— Non vuol che la pettini prima?... Non vuol che svegli la signorina?

— Oh per la signorina c'è tempo.... la sveglierò io.... In quanto al pettinarmi, tant'è sbrigarsi addirittura.... Ma presto, mi raccomando.

E sedette nell'abbigliatoio, davanti allo specchio, sciogliendo i capelli folti, ondulati, d'un bel castano scuro e lucente ch'erano stati il suo orgoglio.

— Presto, presto.

— Ma se non ha pazienza — diceva l'Erminia — le strappo i capelli.... E sarebbe peccato.

Lidia tentennò la testa e un sorriso amaro le sfiorò le labbra. Quei capelli bruni che le scendevano giù in doppia lista lungo le guancie livide e smunte le facevano l'effetto d'una triste cornice a un'immagine ancora più triste. Vide, in un'apparizione fuggevole, la chioma nera di Natalìa profusa sulle spalle opime e sul seno procace; vide in mezzo a quell'onda fluente i grandi occhi pieni di lampi e le rosee labbra piene di fascini, e sentì la vanità della lotta.

— Presto, presto.

Si appuntò da sè le ultime forcine e licenziò la cameriera. — Attendi al bagaglio, e disponi perchè sia pronto il caffè e latte.... E che verso le otto ci sia una gondola alla riva.

Lidia guardò l'orologio e stette un momento perplessa. Doveva chiamar Valentina, o, piuttosto, mentre la bimba dormiva ancora, doveva passar nel salotto da lavoro e finir la lettera per Vittorio Morini? Finir la lettera? Era dunque decisa? Avrebbe dunque rimesso a Morini il biglietto di Natalìa? Era decisa?

[59]

Non avrebbe potuto dirlo; pur s'avviava al salotto, traversando la camera da letto. In quella Valentina si mosse, stirò le piccole braccia, girò intorno le pupille assonnate. — Chi è?... Mamma, mamma!

— Son io, tesoro; — disse Lidia correndo a baciarla.

— Che ore sono?... È ora d'andar a scuola?

— Oh per la scuola sarebbe presto, — rispose la madre. — Sono soltanto le sei e mezzo. Ma non si va a scuola oggi.

Valentina, ch'era una bimba studiosa, aggrottò le ciglia. — O perchè?

— Perchè, — soggiunse Lidia cercando di dare un'intonazione allegra alla sua voce, — perchè invece di andare a scuola si va insieme a fare una visita ai nonni, a San Vigilio.... Come? Stai lì ingrugnata? Non sei contenta d'andare dai nonni?

— Non m'hai detto nulla iersera; — notò Valentina con aria d'importanza.

— O che si deve dir tutto a madamigella? Era una sorpresa che ti preparavo.... Su, su, alzati.

Lidia spalancò le imposte ch'erano socchiuse, e la luce del mattino invase la stanza.

— È una giornata splendida.... Avremo un viaggio delizioso.... E come sarà bello il lago!

Lo sa il babbo che andiamo dai nonni? — domandò Valentina.

— Lo saprà.

— Ma quando si torna a Venezia?

— Oh che bimba cattiva!... Anzichè aver piacere d'andar dai nonni pensa già al ritorno.

[60]

Ma la fanciulla piagnucolava. — Come farò per gli esami?

— Non ti confondere per gli esami.... Accomoderemo tutto. Su intanto....

E Lidia, impaziente, strappò via le coperte della figliuola.

— Oh mamma! — protestò questa come offesa nel suo pudore, tirando a sè un lembo del lenzuolo per coprire il corpicino seminudo.

— Alzati, dunque; — ripigliò Lidia.

— Mi alzerò sola.... Non mi guardare.

Era l'ambizione di Valentina di lavarsi e vestirsi tutta quanta da sè, senz'aiuti.... Per spogliarsi la sera, era un altro affare. Allora ordinariamente cascava dal sonno.

— Non ti guardo, no, non ti tocco.

Grave, taciturna, chiusa nella camicia da notte ch'ella si teneva stretta sul petto, trascinando i piedini scalzi nelle pantofole troppo grandi, Valentina passò nel camerino da bagno. No, quel viaggio improvviso non la persuadeva. Da ieri in poi accadevano cose ch'ella non capiva, che le si volevano nascondere.... E non erano cose liete.... Bastava veder la sua mamma.

Nuda, sotto la doccia, Valentina piangeva, e le sue lacrime si mescevano all'acqua che le pioveva dall'alto sulla nuca e sul dorso.

E di nuovo Lidia s'avviava al suo salottino da lavoro quando l'Erminia, ch'entrava in camera coi vestiti spolverati della padroncina, l'avvertì che c'era fuori suo zio e che desiderava parlarle.

Lidia s'imporporò in viso. Non l'aveva ella messo alla porta? Come osava ripresentarsele?

[61]

— Non ho tempo; — ella rispose. — Digli che non ho tempo.... che sto per partire....

— Appunto per questo, — replicò l'Erminia. — È rimasto così male sentendo che parte.

— Fa la mia ambasciata e risparmia i commenti; — intimò la signora.

L'Erminia ubbidì, ma non tardò a ricomparire.

— Scusi.... io non ne ho colpa.... il signor Ernesto ha insistito tanto.... La prega, la supplica di riceverlo per un minuto.... Non so che cosa abbia.... So che fa pietà.... Pare invecchiato di diec'anni da ieri.

— Insomma.... — principiò Lidia. Ma si pentì a mezzo. Non poteva far licenziar dalla cameriera, quasi fosse un intruso, lo zio di suo marito, lo zio Ernesto, quegli che la servitù vedeva continuamente andar e venire come uno di casa. — Dov'è? — ella chiese.

— È in sala.

— Ebbene, accompagnalo nello studio del padrone.... già fino alle nove non c'è nessuno.... e che mi aspetti.... Tu poi torna subito di qua e bada a Valentina.... Non le dire che c'è lo zio, non voglio che si trovino insieme.... Ricordatene.

Ed ecco che Lidia era ancora davanti al suo tavolino, decisa a non abboccarsi con lo zio Ernesto senz'aver prima preso una risoluzione irrevocabile circa alla lettera di Natalìa. Annunziare il fatto compiuto era il miglior modo di troncare un colloquio che le ripugnava.

Spiegazzata, sgualcita, la lettera di Natalìa era sotto i suoi occhi, accanto a quella incominciata per Morini. “Signore. La lettera che le inchiudo non era destinata nè a Lei nè a me, ecc., ecc.

[62]

Ora ella s'accorgeva che le righe scritte non avevano bisogno di nessuna illustrazione, e che non vi mancava se non la sua firma. Perchè esitava? Perchè a rilegger le sue parole, pur così semplici, così vere, e in apparenza così calme, ella provava un amaro disgusto di sè, sentiva una voce intima della coscienza che le ripeteva: È male, è male?

E il tempo stringeva, e Valentina poteva da un momento all'altro irrompere nella stanza, tempestarla di domande, chiederle s'ella scriveva al babbo. Non le aveva già chiesto se il babbo sapeva della loro partenza?

Valentina aveva ragione; il babbo doveva sapere. Cedendo a un'ispirazione subitanea, Lidia stracciò in minutissimi pezzi il foglio ove aveva tracciato le linee accusatrici, prese un cartoncino da corrispondenza e vi scrisse con rapidità febbrile:

“Carlo. — Hai dimenticato nel tuo studio un biglietto che compromette qualcheduno. Te lo spedisco, avvertendoti ch'era aperto e l'ho letto.

“Vado con Valentina sul Garda, dai miei genitori. Addio.„

Con la fretta angosciosa di chi non vuol lasciar adito al pentimento, chiuse entro una busta il cartoncino insieme col biglietto di Natalìa, vi applicò il francobollo, vi fece la soprascritta:

Al signor Commendatore

Avvocato Carlo Fìdoli

Albergo Milano

Roma.

[63]

Indi, senza frapporre indugi, cacciando in seno la lettera che avrebbe impostata ella stessa alla stazione, corse nello studio di suo marito.

Ernesto Landi che sedeva accasciato si alzò in piedi. — Lidia.... non vuoi ascoltarmi?

— È inutile.... Parto.

— È proprio vero?... Parti con Valentina?

— S'intende.

— Ma non per.... molto?

Ella tacque.

— Lidia, Lidia, — insistè lo zio. — Non distruggere una famiglia.

— Sono io che la distruggo?

— Lo so, i torti non son tuoi.... Ma non conviene esagerare.... Tante cose si accomodano, tante cose più gravi di questa.

— Non son venuta qui per discutere, — interruppe Lidia. — Ormai quel ch'è fatto è fatto.

— Hai spedita la lettera? — chiese trepidante lo zio, credendo di dover interpretare così la frase sibillina.

— È come se l'avessi spedita; — ella replicò brevemente.

— Dunque non l'hai spedita? Dunque c'è ancora tempo?

— La getterò io con le mie mani nella cassetta postale, — dichiarò Lidia.

Poi, stanca di questa commedia, tirò fuori la lettera e la mise sotto gli occhi di Landi. — Eccola.

Vedendone la soprascritta egli rimase perplesso, e rivolse alla nipote uno sguardo ansioso. Non era uno sbaglio? Il biglietto di Natalìa?

[64]

— È qui dentro; — disse Lidia, rispondendo alla muta interrogazione. E soggiunse: — Sono stata vile.

La fisionomia d'Ernesto Landi s'illuminò di riconoscenza. — Sei un angelo! — egli esclamò. E fece atto di chinarsi per baciarle il lembo della veste.

Ella si ritrasse sdegnosa e respinse la lode.

— Sono vile, vile.... Siamo tutti vili, io, mio marito, tu.

Come se Ernesto Landi volesse provar luminosamente che, almeno per quanto si riferiva a lui, la sentenza era giusta, egli biascicò esitante: — E non mi hai mica nominato?

Lidia atteggiò le labbra a un sorriso sarcastico. — Oh no.... È una faccenda che regolerete fra voi due.... Già quella signora ha posto per tutti.... E adesso, caro zio, non abbiamo altro da dirci.

Umile, insinuante, egli arrischiò una preghiera: — Non mi permetterai di abbracciar Valentina?

— No, — ella rispose in tuono secco, reciso. — Anzi non voglio che tu la incontri.

Lo fece passare per l'antistudio, gli aperse la porta che dava sul pianerottolo e fronteggiava quella del suo quartierino particolare.

Egli uscì a testa bassa, sgomentato dalla voce dura, dal gesto imperioso di Lidia.

— Arrivederci, — egli balbettò. — E se ho errato, perdonami.

— Addio, — diss'ella, tirando l'uscio dietro a sè.

Sentiva d'esser stata senza pietà, ma c'era in lei una reazione contro la debolezza di prima. [65] Dopo aver rinunciato a vendicarsi dei due veri colpevoli, ella infieriva contro quegli il cui delitto era forse men grave. Tale è spesso la giustizia del mondo.

················

La gondola che doveva portare alla stazione Lidia e la figliuola era sul punto di staccarsi dalla riva.

— No che il nonno non dorme. Perchè mi avevi detto che dorme?... — gridò a un tratto Valentina, scotendo forte il braccio della madre. — È là il nonno, alla finestra della sua camera, e ci saluta e mi manda dei baci.... Buondì, nonno, buondì.

E rossa, animata in viso, la bimba ricambiava con la mano i baci che Ernesto Landi continuava a mandarle. Quindi, con un moto d'impazienza: — Mamma, guarda in su, dunque.... Saluta anche tu.

Lidia non potè a meno di alzare gli occhi e di fare un cenno col capo.

— Buondì, nonno; — seguitava a gridar Valentina, mentre la gondola s'allontanava, e dalla riva piovevano i buon viaggio, signora, buon viaggio, signorina, della servitù. — Buondì, nonno.... Vieni a trovarci a San Vigilio, vieni col babbo....

— Basta, ora, Valentina.... Chetati; — ammonì Lidia.

— Povero nonno!... Resta così solo.... E quant'è commosso!... Pare che pianga.... Non può nemmeno parlare.... Ecco, adesso sventola il fazzoletto.... Buondì, nonno!

[66]

E Valentina agitava ella pure il suo fazzolettino bianco di batista, ove Lidia aveva ricamato un bel V.

La gondola svoltò in un altro canale, la casa disparve.

— Mamma, — chiese Valentina, — che cosa ti ha fatto il nonno che sei in collera con lui?

Lidia non rispose, tirò a sè la figliuola e se la strinse al petto singhiozzando.

— Mamma, mamma, — proruppe angosciosamente la fanciulla, — cos'hai? Cos'è avvenuto da ieri in qua?

— Niente, caro tesoro.... Nuvole che passano.

La barca usciva nel Canalazzo, entrava nel sole. Lidia si rasciugò gli occhi, li fissò nella luce, li fissò, pieni di tenerezza, in Valentina. Ridiscendeva a poco a poco la calma nel suo cuore sbattuto dalle tempeste, vi ritornavano la speranza e la fede. Chi sa? Forse tutto non era perduto; forse la mano innocente di Valentina poteva riedificare ciò che la mano impura di Natalìa aveva infranto.

[67]

DUE FUNERALI

Ero da due giorni a Milano per una mia faccenda e mi disponevo a ripartire la sera quando mi giunse questo telegramma da Venezia:

Preghiamovi caldamente rappresentare domani nostro Istituto funerali commendatore Baggi. Spendete circa 100 lire in una corona.

Il dispaccio era firmato dal Presidente della Banca Adriatica, persona amicissima mia, ed era spedito evidentemente in nome di tutto il Consiglio d'amministrazione. Anche con la Banca ero in qualche rapporto e sapevo che, parecchi anni addietro, in momenti difficili, l'appoggio del commendatore Baggi le era stato prezioso. Non potevo quindi rispondere con un rifiuto, sebbene, in quanto a me, non avessi mai visto il defunto.

Ordinai la corona, comperai un cappello a cilindro e un paio di guanti neri, e la mattina dopo, alle 9 precise, ero in via Brera, N. 48, dove il commendatore occupava un elegante quartierino del primo piano.

Il carro funebre di prima classe era fermo davanti alla porta, attraendo lo sguardo dei [68] passanti invano allontanati da due uscieri municipali in gran tenuta; lungo il muro andavano via via schierandosi le varie rappresentanze con le loro bandiere; altra gente era raccolta nell'androne e nel cortile; gli amici, i conoscenti, le persone di maggior riguardo erano pregati di salire. Due giovinotti in lutto strettissimo, due nipoti, l'uno grasso e l'altro magro, tutti e due con un viso da eredi, facevano con grande compitezza gli onori di casa. Allorchè mi presentai ad essi, ringraziarono con effusione me e la Banca delle dimostrazioni di simpatia fatte al caro estinto e mi pregarono di tener uno dei cordoni. Balbettai le condoglianze di rigore, insieme con le solite domande insulse sul genere, sulla durata della malattia, ecc., ecc.

— Ma! — rispose il nipote grasso con un sospiro. — Il povero zio aveva avuto l'influenza in gennaio e non s'era mai rimesso.... Però usciva, attendeva agli affari. Alla fine di marzo i medici scopersero un'angina pectoris, e in tre settimane.......

— A sessant'anni appena! — notò un signore calvo che si rasciugava i sudori.

— È una gran perdita per la piazza! — soggiunse un altro.

— Un colpo d'occhio, uno spirito d'iniziativa! — disse un terzo.

I nipoti, chiamati dai loro uffici, uscirono dalla stanza nella quale s'erano raccolti a poco a poco tutti i pezzi grossi della finanza milanese. Sentivo intorno a me come un odor di milioni. E sentivo anche discorrere a bassa voce dei corsi della rendita, del riporto fine corrente, [69] dei cambi, dell'aggio dell'oro, dell'Assemblea della Banca Generale e del Credito Mobiliare, della politica finanziaria del Ministero, e via via. Del morto non si discorreva più. Doveva esser vero quel che mi era stato detto; che, com'egli non aveva una famiglia sua, così non aveva amici intimi; aveva, in gioventù, atteso a' suoi piaceri; aveva atteso nella maturità alle sue speculazioni; corretto, ossequente alla legge, osservantissimo dei suoi impegni, ma in complesso un fior d'egoista.

Si udì un bisbiglio di preci nell'andito, un bagliore di faci passò attraverso il vano dell'uscio aperto; poi tutta la gente ch'era pigiata nel salotto si mosse e cominciò la discesa giù per la scala. Fu un gran sollievo il trovarsi all'aria aperta.

Il nipote grasso che aveva preso a volermi bene oltre a' miei meriti, mi accompagnò fino al carro; un impiegato delle pompe funebri mi assegnò il mio posto alla destra del feretro, e dopo qualche minuto speso per ordinare il corteggio ci mettemmo in cammino preceduti dalla banda civica che suonava la marcia del Don Sebastiano.

A tenere i cordoni eravamo in dieci. Io non conoscevo nè gli altri quattro ch'erano dalla mia parte, nè i cinque ch'erano dalla parte opposta; non conoscevo il morto, non conoscevo quasi nessuno di quelli che formavano la lunga processione. Poichè era lunga davvero, più di quello che non mi fossi immaginato, e le finestre delle case davanti a cui passavamo erano piene di curiosi, e di là dalle due file di servi [70] e di fattorini che portavano le torcie accese si vedeva la folla assiepata sui marciapiedi.

L'ufficio funebre venne celebrato nella Prepositurale di San Marco; dopo di che il convoglio, molto assottigliato, si avviò al cimitero.

Ed ecco che passando per il Corso Garibaldi, vediamo dinanzi alla chiesa di San Simpliciano un altro corteggio che stava per muoversi anch'esso, ma che ci lasciò il passo con la deferenza che i funerali di terza classe devono a quelli di prima. Un carro dimesso tirato da un cavallo unico ed umile, e guidato da un cocchiere non umile per sè ma vergognoso di condurre al Camposanto un così povero morto. Sul feretro una sola, piccola ghirlanda di fiori freschi, misero riscontro al lusso di corone che coprivano il feretro illustre.

Un fattorino della Banca Nazionale che mi camminava a fianco si voltò verso un compagno e disse: — L'è il povero Bertizzoni.

L'altro accennò affermativamente col capo.

Rimasi colpito da quel nome di Bertizzoni e non potei a meno di chiedere: — Bertizzoni? Era uno qui di Milano?

— Stava qui da anni annorum.... Ma non era mica nato a Milano.... Tò, adesso che ci penso mi pare che fosse nato a Venezia.... Il signore lo conosceva?

Anzichè rispondere feci una nuova domanda. — Era vecchio?

— Sulla cinquantina.

— E il nome di battesimo?...

— Oh un nome stravagante, Licurgo.

— Licurgo?

[71]

— Già.

— Era impiegato?

— Adesso era nella casa Gondrand.

— La casa di spedizioni?

— Appunto.

— E lascia famiglia?

— La vedova e un figliuolo, un bravo ragazzo ch'è alla Cooperativa.

Per quanto la conversazione fosse fatta piano, essa non poteva passare inosservata ai vicini. E un signore grande e grosso che doveva essere un personaggio d'importanza e che teneva uno dei cordoni davanti a me slanciò ripetutamente un'occhiata al fattorino come per ammonirlo a tacere. Compresi anch'io la sconvenienza di quel dialogo in quel momento, in quel luogo, e non aggiunsi altre interrogazioni.

Del resto, non avevo più dubbio alcuno. Una coincidenza di nome e cognome, e d'un nome così fuor del comune, era impossibile. Licurgo Bertizzoni era certo il mio antico condiscepolo, figliuolo di quel maestro elementare, Agenore Bertizzoni, che aveva la passione dei nomi greci. Un fratello di Licurgo si chiamava Socrate, una sorella Cassandra, un'altra Aspasia. Era una famiglia che contrastava il desinare con la cena, e doveva ricorrere a mille espedienti per tirare innanzi; il maestro Agenore la sera copiava musica, e la sua consorte, la signora Palmira, si occupava di combinar matrimonî. Buona gente però, e gente allegra, ospitale. Con Licurgo eravamo coetanei, avevamo percorso insieme le scuole reali e la nostra amicizia era durata alcuni anni dopo la scuola. Tra il 1855 [72] e il 1858 o io andavo a prenderlo la sera o egli veniva a prender me per uscire insieme; anzi più spesso andavo io da lui per merito delle sorelle vispe, floride, belloccie. Non giurerei di non avere abbozzato con la Cassandra un romanzo che finì con poca mia gloria, perch'ella sposò, non rammento se nel 56 o nel 57, un uomo maturo, impiegato alla Contabilità, e che fu tosto traslocato a Pavia. Chi sa dove sarà andata a finire? Sullo scorcio del 1858 le disgrazie caddero come gragnuola secca su quella casa di galantuomini, e successe una gran dispersione. Prima morì la signora Palmira, poi il maestro Agenore; l'Aspasia, in seguito a un disinganno amoroso, volle a tutti i costi entrare in un monastero; Socrate s'imbarcò su un bastimento mercantile comandato da un capitano dalmato ch'era suo lontano parente; Licurgo, rimasto solo, campava la vita facendo lo scribacchino presso uno spedizioniere e ingrossando il magro stipendio con qualche debituccio. Gli piacevano le donne e aveva, relativamente alle sue forze, le mani bucate. Nel 1859 egli fece quello ch'io non potei fare; emigrò in Piemonte e si arruolò volontario. Ci scambiammo una mezza dozzina di lettere prima che cominciasse la guerra. A campagna finita egli mi riscrisse da Torino ove aveva un'occupazione provvisoria in attesa degli avvenimenti che non potevano tardare e che lo avrebbero ricondotto a Venezia. Nel 1860 riprese le armi. In dicembre mi mandò sue notizie da Napoli. Aveva lasciato il servizio e si proponeva di stabilirsi in quella città fino a un'altra guerra che cacciasse definitivamente [73] gli Austriaci di là dall'Alpi. A Venezia non sarebbe tornato che con le nostre truppe. Non ci aveva più nessuno di famiglia; l'Aspasia, dopo la sua vestizione, era come morta per lui; io ero un carissimo amico, mi avrebbe rivisto con tanto piacere; ma ero un giovinotto; potevo ben andare a cercarlo. Il bello si è ch'egli non mi dava nemmeno il suo indirizzo. Così la mia risposta non dev'essergli pervenuta. Ed egli non scrisse più e passarono gli anni senza che mi fosse dato saper nulla sul conto suo. Nella vita entrano ogni giorno nuove relazioni, nuovi interessi, nuovi affetti; altri legami si allentano, altre immagini si scolorano e a grado a grado svaniscono. Non dirò che questo accadesse in me dell'immagine di Licurgo Bertizzoni, ma è certo ch'io pensavo a lui sempre meno. Ci ripensai nel 1866, quando le sorti d'Italia s'agitarono nuovamente nel formidabile quadrilatero e nelle valli del Trentino. Bertizzoni era uomo capace d'essersi rimesso in ispalla il suo bravo fucile e d'aver intrapreso, magari da soldato semplice, questa terza campagna. Io avevo un bel dire che sacrosanti doveri domestici m'impedivano di fare altrettanto; lo ammiravo e lo invidiavo. Lo so; egli era un ingegno appena mediocre; non aveva mai avuto passione per lo studio; era un po' leggero di carattere; ma che importa? Nell'ora del bisogno egli era sempre pronto a dare il suo sangue alla patria; mentre altri avevano in serbo delle ottime scuse per non rischiare la pelle. Nel periodo angoscioso corso fra il 24 giugno e l'armistizio, leggendo avidamente i giornali che ci [74] arrivavano di nascosto d'oltre Po e d'oltre Mincio, io speravo e temevo ad un tempo d'incontrarvi il nome di Licurgo Bertizzoni. Speravo di vederlo citato per qualche atto di valore; temevo di trovarlo nella lista dei volontari morti a Custoza, a Bezzecca, a Monte Suello. Nulla. Egli non cercava nè la gloria nè la notorietà, e il silenzio compiacente si stendeva sopra di lui. Allorchè la liberazione del Veneto dal giogo straniero fu cosa sicura, io dissi: — Scommetto che adesso vedremo quel caposcarico di Bertizzoni, scommetto che uno di questi giorni mi capita una sua lettera. — Ma non capitò niente, e quando nell'ottobre e nel novembre 1866 mezza Italia si riversò sulle nostre lagune, Licurgo Bertizzoni non venne. Ne chiesi conto a molti Veneti, militari e non militari, rimpatrianti dopo lunghi anni d'esilio. Parecchi lo avevano conosciuto, nessuno era in grado di darmene notizie recenti. Non doveva aver partecipato all'ultima guerra. Nel gennaio dell'anno seguente fui costretto ad assentarmi per tre settimane. Reduce a Venezia, trovai sulla mia scrivania, insieme con altre carte, il biglietto da visita di Licurgo Bertizzoni con queste parole in lapis: Lascio i miei affettuosi saluti, dolente di non aver potuto abbracciare il vecchio amico. Riparto fra due giorni. Non ho domicilio stabile. Viaggio per conto di case inglesi. Forse tornerò presto, oppure scriverò.

I due giorni erano passati da un pezzo. Inutile cercare di Bertizzoni a Venezia. Nè egli aveva lasciato indicazioni sufficienti perchè si potesse cercarlo altrove. Diceva che forse sarebbe [75] tornato presto o che avrebbe scritto. Tant'era aspettare.

Ma non tornò, non mandò una riga. Dov'era? Che faceva? Ancora una volta, nel 1870, se la memoria non mi tradisce, qualcheduno mi portò i suoi saluti da Messina dov'era di passaggio per affari, piuttosto male in arnese. Gli è che quei benedetti affari non andavano bene; non era contento del proprio stato.... Aveva in vista un impiego governativo.

E poi, dal 1870 fino adesso, vale a dire per ventidue anni, Licurgo Bertizzoni non s'era fatto vivo in nessuna maniera, e l'amico della mia adolescenza era disceso a poco a poco nella penombra discreta ove si aggirano tacitamente le memorie lontane. Ed ecco che oggi, d'improvviso, il suo nome risonava alle mie orecchie con un accento di commiserazione, ed egli, il camerata di scuola, il compagno delle prime scappatelle, egli stesso, ahi nascosto per sempre agli occhi degli uomini, forniva l'ultimo pellegrinaggio seguendomi alla distanza di forse duecento metri, mentr'io, in ossequio a una delle solite commedie sociali, rendevo gli estremi onori ad un morto che non avevo neppur conosciuto di vista.

Oh immensa malinconia delle cose! — Era qui da anni annorum, — aveva detto il fattorino della Banca. E io in questo frattempo avevo fatto certo una diecina di gite a Milano senza che mai mi passasse per la mente d'informarmi se Bertizzoni ci fosse.... senza ch'egli mai sapesse ch'io ero venuto, o, sapendolo, si curasse di vedermi. Forse ci eravamo incontrati per la [76] strada, ci eravamo urtati col gomito senza ravvisarci.... Ma c'è di peggio.... Con la sicurezza ch'egli fosse a Milano credo che l'avrei cercato; ma se il giorno prima m'avessero avvertito ch'egli abitava a Monza, temo che non mi sarei spinto fin lì.... Mi sarebbero sorti mille dubbi. — Forse non è in paese e faccio il viaggio per nulla.... Forse lo secco.... Forse non si ricorda più.... sarà tanto cambiato....

Ora invece mi sembrava di vivere in quei tempi remoti. Rivedevo la povera casa a San Simeone Profeta, con le sue imposte sgangherate, col suo tralcio di vite che s'arrampicava lungo il muro, tra due finestre; rivedevo il maestro Agenore, tranquillo e sereno in mezzo ai suoi debiti; rivedevo la signora Palmira, piccola, asciutta, loquace, sempre in faccende; e la Cassandra co' suoi occhioni neri, col suo busto da trasteverina; e l'Aspasia bianca, rosea, con un'aria civettuola che non lasciava certo presagire in lei la vocazione pel chiostro; rivedevo Socrate, il più maleducato della famiglia, ma non privo di spirito naturale. Ma sopratutto rivedevo lui, Licurgo, bello, grande, forte, spensierato, un po' vanitoso pe' suoi facili trionfi col bel sesso.... E mi pareva di averlo dinanzi nel giorno della sua partenza clandestina pel confine svizzero, insieme ad altri giovani ch'emigravano con lui. Egli, nella baldanza de' suoi vent'anni, pronosticava il suo ritorno trionfale entro sei mesi....

Da quel giorno del gennaio 1859 era trascorso un terzo di secolo, e io non l'avevo più visto. Chi sa dopo quante peripezie, dopo quanti dolori [77] e quante miserie egli arrivava oggi nel porto ove tutti dobbiamo arrivare!...

Pieno di queste immagini e di questi pensieri io avevo continuato a camminare macchinalmente accanto al carro funebre del commendator Baggi, e, senz'accorgermi, ero giunto al Cimitero Monumentale. Il carro si arrestò, si fece un gran silenzio. Un signore in occhiali, che seppi essere un assessore del Municipio, tirò fuori dalla tasca del soprabito un foglio di carta e lesse con voce monotona un breve discorso; un secondo borbottò alcune parole in nome della Camera di Commercio; un terzo portò alla bara il saluto del Consiglio d'amministrazione della Rete Adriatica; un quarto pianse per conto della Banca Generale. Io coglievo appena qualche frase staccata; la mia mente era altrove, il mio sguardo seguiva lontano l'umile convoglio del povero Bertizzoni che si dirigeva lentamente dalla parte opposta del Camposanto. Sentii corrermi due lacrime giù per le gote. Di tutti quelli che avevano accompagnato all'ultima dimora il commendator Baggi ero il solo che piangesse, ciò che costrinse i due nipoti ed eredi a portarsi, per pudore, il fazzoletto agli occhi.

E i due nipoti ed eredi mi strinsero vigorosamente la mano. — Grazie, grazie, signor.... E grazie a tutti i preposti della Banca....

La gente si disperse; si trattenevano ancora i soli parenti sino alla collocazione del feretro nella tomba di famiglia. Qualcheduno mi offerse ricondurmi in città in carrozza; io preferii d'andare a piedi, preferii d'esser solo.

[78]

M'avviai lungo il viale fiancheggiato da platani. Un fiacre che veniva anch'esso dal cimitero mi passò rasente. Ebbi una visione. Al finestrino di quel fiacre s'affacciò un giovinetto vestito a bruno, pallido, dalla faccia scomposta, ma bello, ma vigoroso. Era il ritratto preciso di Licurgo Bertizzoni, quale io me lo ricordavo a diciotto o diciannove anni. Vedendosi fissato, egli si voltò verso un amico o un congiunto ch'era con lui nella vettura. Dopo il primo sbalordimento, indovinai che quello doveva essere il figlio del povero Licurgo, il ragazzo impiegato alla Cooperativa. Ebbi un istante l'idea di chiamarlo.... A che pro? Per dirgli che un terzo di secolo addietro ero amico intimo di suo padre, e che poi me lo ero quasi interamente dimenticato?

[79]

ALLA “TRAVIATA„

Facevo una di quelle visite di convenienza che si fanno nel giorno in cui la signora riceve, il che vuol dire che, per quanto la signora sia spiritosa e garbata, una noia ineffabile è come disciolta nell'aria e la conversazione tira innanzi vuota, scucita, insipida, fra persone che si conoscono appena e che starebbero benissimo anche tutta la vita senza vedersi e senza parlarsi.

S'era discorso del freddo; d'una veglia in casa X....; del matrimonio della contessina Y....; dei five o' clock teas della marchesa Z....; della malattia repentina e incurabile della signora K.... E dopo aver passato in rassegna varie altre lettere dell'alfabeto s'era venuti a trattar l'importante argomento dei teatri. Un orrore, una desolazione! La Fenice chiusa; un'operetta al Goldoni; un'operetta al Malibran; al Rossini una Traviata impossibile.

L'avvocatino Sironi, una tra le giovani speranze del foro, fece una smorfia. — Al Rossini non ci va un cane. Chi può andare ormai a sentir la Traviata?

[80]

L'avvocatino, si sa, non capisce e non gusta che la musica dell'avvenire.

Comunque sia, alla sua frase interrogativa nessuno rispose, neppur io al quale il giovinotto pareva essersi rivolto di preferenza. Non è poi necessario di rispondere a tutte le interrogazioni.

Però di lì a cinque minuti, uscendo dal salotto con la coscienza tranquilla d'un debitore che ha pagato una cambiale, il mio pensiero corse a un tempo lontano lontano quando nello stesso teatro, ove ora, secondo l'avvocatino Sironi, non andava nessuno, la Traviata, caduta l'anno addietro sulle scene della Fenice per cui era stata scritta, risorgeva splendidamente dalle sue ceneri e attirava ogni sera una folla entusiasta.

Tra quella folla c'ero anch'io, ragazzo di quindici o sedici anni, abbonato per la prima volta a uno spettacolo d'opera, e pieno di fervore religioso pel mio abbonamento. Non so quante rappresentazioni della Traviata si dessero nella stagione; so che a tutte io assistevo ritto in platea dall'alzarsi al cader del sipario; so che tutte le sere Violetta godeva, soffriva, moriva sotto a' miei occhi senza ch'io mi stancassi di vederla godere, soffrire, morire.

E mentre bevevo come un liquore prelibato le facili, soavi melodie diffuse a larga mano nello spartito, coltivavo, insieme con parecchi altri abbonati, una passione ideale, purissima per la cantante giovine e leggiadra che trasfondeva il suo ingegno e l'anima sua nel personaggio della protagonista. Nè ciò basta. Fosse [81] effetto dell'età o fosse effetto dell'opera, sentivo nascere in me una disposizione amorosa, che chiamerei generica, e guardando (senza canocchiale, perchè non lo possedevo) in giro nei palchi avevo slanci segreti di tenerezza verso tutte le signore zitelle o maritate che vedevo pendere intente dal dramma e dalla musica. E m'inebbriavo all'idea della colpa riscattata dai patimenti, e sognavo per mio conto le lunghe veglie al letto di qualche bella peccatrice ammalata di tisi.... che però sarebbe guarita e che io avrei redenta co' miei baci.

In quel tempo appunto avevo il nobile proponimento di redimere una suonatrice ambulante di chitarra, e, nelle sere che non c'era teatro, la seguivo ai caffè e alle birrerie. Era grande? Era piccola? Era bionda? Era bruna?... Ma.... Non me ne ricordo. Mi ricordo che aveva nome Angelina e che le regalai, en pure perte, un fazzoletto di batista. Se non la redensi, non ho contribuito certo ad allontanarla dal sentiero della virtù.

Queste cose io ruminavo dopo la mia visita, e vi mescevo i soliti vani rimpianti del passato. O chi ci ridona le fresche impressioni dell'adolescenza? le speranze baldanzose, infinite? le ingenuità adorabili? le birichinate innocenti?

Una curiosità mi prese. Ecco, io dicevo, due parole gettate lì a caso, sono bastate a risvegliar nel mio spirito cento reminiscenze sopite. Non potrebbe, per un istante, il vecchio uomo rivivere in parte tornando sul luogo, riudendo le armonie che lo avevano affascinato, riassistendo al dramma che lo aveva commosso?

[82]

Tuttavia esitavo. Un'altra voce soggiungeva dentro di me: Perchè apparecchiarsi una delusione? Non si rivede impunemente, dopo un intervallo di alcuni lustri, ciò che si è molto amato. — Tentennai a lungo fra il sì e il no. Alla fine il sì prevalse, e a costo d'incorrere nella disapprovazione dell'avvocatino Sironi se veniva a saperlo, mi diressi, un po' tardi, al teatro Rossini. Lo chiamavano di San Benedetto, ai tempi della mia famosa Traviata; ma l'atrio, la sala, la scena erano su per giù anche allora quello che sono adesso.

M'accorsi subito che il teatro, pur non essendo riboccante di gente, era tutt'altro che vuoto; solo ch'io non conoscevo quasi nessuno di coloro che c'erano. Il mio avvocatino avrebbe certo esclamato storcendo la bocca aristocratica: — Non avevo ragione io di affermare che ormai non si va più alla Traviata? Dio, che pubblico!

Come già notai, era tardi. Violetta aveva finito da un pezzo di folleggiar di gioia in gioia; aveva, in seguito alle istanze del barbaro padre di Alfredo, troncato bruscamente il suo idillio e beveva a larghi sorsi il suo calice amaro.

Ecco; dopo le zingarelle (ahi, quali zingarelle! ce n'era una alta come un campanile); dopo i mattadori; dopo l'infelice Alfredo tradito dall'amore e dalla intonazione; la povera Violetta, a braccio del suo tiranno, veniva alla festa mascherata in casa di Flora. Brillava, la casa, per quella deficienza di mobilio ch'è la caratteristica dei melodrammi e per quella mancanza di pareti laterali che rende altrettanto agevole [83] il passaggio di cose e persone quanto incomprensibili le confidenze segrete e l'emozioni galanti. Appunto attraverso questi muri squarciati i servi portarono un tavolino, un tappeto verde, due candele e quattro sedie. E cominciò la scena del gioco in cui la musica esprime con rara efficacia il sarcasmo doloroso di Alfredo e l'angoscia di Violetta. — Pietà gran Dio, Pietà gran Dio, di me — cantava Violetta con un accento giusto, con una vocina simpatica; ma lui, disgraziato, aveva perduto la bussola e faceva d'ogni erba fascio.

Seguì il colloquio rapido, nervoso, fra i due amanti; lo strepitoso irrompere degli invitati; l'insulto supremo di Alfredo; il deliquio della donna oltraggiata; la sfida dei rivali; l'apparizione subitanea del signor Giorgio Germont, non si sa se disceso dal soffitto o emerso dal pavimento. Indi quel concertato finale di antico stampo, onde i solisti ed i cori si avanzano tutti in massa e paiono stiparsi contro il muro e volerlo abbattere con le loro grida.

Convenzione ridicola, non c'è che dire, ma chi bandirà la convenzione dal teatro sarà bravo.

A ogni modo, l'ultimo atto, specialmente se si consideri che l'opera fu scritta nel 54, è d'una modernità maravigliosa. Non sfoggio di virtuosità, non lusso di messa in scena; nient'altro che il dramma umano e casalingo dell'amore, della malattia, della morte.

Fin dalle prime note del soave preludio avevo dimenticato gl'interpreti per abbandonarmi al fascino della musica. E di mano in mano che [84] la catastrofe si appressava, l'anima mia, come accordandosi con la musica, si sentiva avvolgere da una malinconia profonda, ineffabile. E sorgeva in me una folla tumultuosa d'impressioni, di pensieri, che non erano però le impressioni, i pensieri ch'ero venuto a cercare. Ero simile a un viaggiatore che ha sbagliato il treno. Credendo di prendere una corsa che mi riconducesse verso la mia giovinezza, ne avevo presa una che mi portava a gran velocità.... dalla parte opposta.... Dio, com'ero vecchio! Al paragone l'opera era una bambina. Certo le sue grinze le ha anch'essa, ma non langue ancora la vita che il grande artista le ha infuso; io, io sono vecchio.

È vero, sino allora non ci avevo badato. Non mi sembrava di aver l'età di Matusalemme; non avvertivo nessun accasciamento nel mio corpo e nel mio spirito; non sfuggivo la compagnia delle signore e continuavo a preferir quelle giovani e leggiadre.... Ma quella sera, ah quella sera una mano brutale mi strappò la benda dagli occhi.

Io pensavo: — Quando quell'altra Violetta mi inebbriava del suo canto, questa che va oggi tossicchiando sul palcoscenico non era nata. Non era nato questo Alfredo e neppure il padre di lui, dalla parrucca grigia e dalla barba posticcia. Non eran nate le poco avvenenti zingarelle della festa di Flora, nè i mattadori, nè il visconte, nè il barone, nè il dottore, nè la cameriera, nè, tranne rare eccezioni, i cosidetti professori d'orchestra. Che se poi mi voltavo dalla parte del pubblico arrivavo, su per giù, [85] alle identiche conclusioni. Non che mancassero in teatro persone della mia età o di età superiore alla mia; ma erano una piccola minoranza. Due terzi almeno degli spettatori appartenevano alla generazione successiva; erano, nei giorni della mia adolescenza, un popolo di fantasimi accalcantisi in silenzio nel vestibolo della vita. Fantasimi quei giovinotti sdraiati sulle poltroncine; fantasimi quelle ragazze che i babbi non avrebbero accompagnate alla Signora delle Camelie ma accompagnavano alla Traviata perchè la musica copre tutto col suo velo pudico; fantasimi quelle Traviate autentiche che sporgevano il viso imbellettato da un palchetto di terza fila.... Dov'erano coloro che avevano, trentasette o trentott'anni or sono, palpitato, applaudito con me? Quegli uomini, quelle donne le cui pupille s'erano inumidite con le mie, i cui cuori avevano battuto all'unissono col mio cuore? Quanti ne aveva dispersi la fortuna, quanti ne aveva falciati la morte? E se pure, per caso, uno se ne trovava quella sera in teatro sentiva forse ciò ch'io sentivo?

Mi pareva d'essere il superstite d'un mondo defunto, mi pareva che tutti gli occhi dovessero piantarmisi addosso come sull'esemplare abbastanza ben conservato d'una razza scomparsa.

Per liberarmi da quest'incubo uscii dalla sala prima che l'opera finisse, e l'aria rigida della notte invernale dissipò le ombre, ristabilì l'equilibrio del mio spirito. Ero stato punito del mio tentativo di riafferrare, sia pure per un istante, la gioventù; ma non ero uno spettro, ero un [86] uomo in carne ed ossa, ero ancora un vivo tra i vivi, avevo ancora, per poco o per molto, il mio posto, avevo ancora, piccolo o grande, il mio còmpito.

No, la gioventù non si riafferra; ma c'è qualche parte di noi che può restar giovine sempre finchè coltiviamo in noi stessi con tenera sollecitudine la pianta gentile della simpatia, la fiamma purissima dell'entusiasmo, finchè teniamo alto lo sguardo inseguendo amorosamente le visioni consolatrici del bello.

E mentre io ricuperavo così il senso della realtà mi si levava dinanzi la figura austera e luminosa del maestro insigne che da oltre a mezzo secolo sparge nel mondo le inspirate armonie. Lui non fiaccano gli anni, non distraggono i rumori della folla, non rode il tarlo della vanità e dell'invidia; a lui parlano due sole voci nel cuore: l'arte e la patria. Possa a lungo vibrar nelle sue mani l'arpa potente che raccolse i gemiti dei salci babilonesi e il murmure delle foreste d'Etiopia, che prestò le sue note allo strazio di Rigoletto, ai singhiozzi di Violetta, ai furori di Otello, al cinismo di Falstaff!

[87]

IL SIGNOR ANTENORE

I.

S'intese nell'anticamera un suono di passi e un brontolìo di voci; poi la Barbara, cuoca e donna di governo del cavalier Demetrio Bibbiana consigliere d'appello in quiescenza, aperse l'uscio e disse: — C'è il signor Antenore.

— Avanti, avanti.... O che bisogno ha di farsi annunziare? — gridò il signor Demetrio girandosi sulla seggiola coi movimenti tardi e gravi che gli erano consentiti dalla sua corpulenza. Era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni, rubicondo, sbarbato, con occhietti piccoli e grigi, con l'aria mansueta d'un buono e pingue gatto soriano che fa le fusa accanto alla stufa.

L'altro commensale posò sulla tavola un bicchiere non ancora votato del tutto e si forbì in fretta la bocca col tovagliuolo.

— Avanti, avanti, — ripetè il padrone di casa. — Antenore arriva troppo tardi per pranzare con noi, ma stapperemo una bottiglia in suo onore.

E fece un segno alla Barbara.

[88]

Il signor Antenore entrò. Lungo, magro, allampanato, aveva la cera giallastra dei temperamenti biliosi, l'espressione sospettosa, malevola degli nomini a cui la vita fu dura e che non portarono nascendo un corredo di bontà sufficiente da perdonare la fortuna degli altri. Indossava una redingote nera, lucida pel troppo uso, specie al bavero e ai gomiti; la cravatta, pur nera, era sfilacciata ed unticcia, e i polsini che spuntavano fuor delle maniche lasciavano desiderare un candore più immacolato.

— Il signor Antenore Santelli.... il commendator Giorgio Fustini; — disse il consigliere a modo di presentazione. E soggiunse: — Ma già dovreste conoscervi.... Compagni di liceo, diamine.

Fustini e Santelli si squadrarono dal capo alle piante senza che si sprigionasse fra loro la minima corrente di simpatia.

— Eh, — notò il commendatore, rivolgendosi al signor Demetrio, — io ero stato avvertito da te, e adesso, se frugo nella memoria, qualche cosa mi sembra di ricordarmi....

Il signor Antenore, toccando appena la mano che Fustini aveva la degnazione di stendergli, tentennò il capo: — Io invece non ricordo niente.

Non era mai d'umore piacevole il signor Antenore; quella sera era più ispido del consueto. La presenza di un estraneo in casa dell'amico Bibbiana gli dava ai nervi, tanto più che n'era necessariamente disturbata la sua solita partita a scacchi.

Il cavaliere, conciliante per sua natura, cercava di smussare gli angoli. — Capisco.... Son [89] passati quarant'anni, e in quarant'anni si ha tempo di dimenticare.... È curioso però come certe scene, certi incidenti della nostra infanzia ci si riaffaccino da un punto all'altro alla mente nei loro più minuti particolari.... A me par di veder Fustini ritto dinanzi alla lavagna il giorno che il povero Mongia, il professore di matematica, ebbe sulla cattedra il suo primo insulto apopletico.

Santelli si strinse nelle spalle. — Non dovevo essere a scuola in quel giorno.

— Se ci fosse stato si rammenterebbe, — affermò il commendatore Fustini. — Che scompiglio nella classe!... E fu un'impressione penosa per tutti, anche per me.... quantunque non potessi a meno di pensare (si è egoisti da ragazzi) che risparmiavo una ramanzina, perchè, lo confesso, non sapevo un'acca della lezione.

L'amabile Santelli si picchiò col dito la fronte. — Aspetti un momento. Era lei quel piccolino della prima fila che pel resto se la cavava alla meno peggio ma in matematica non ne azzeccava una?

Con una condiscendenza veramente ammirabile in un personaggio suo pari, Fustini si mise a ridere. — Ero io.

— Anche senza la matematica — disse il signor Demetrio — Fustini ha saputo farsi la sua strada nel mondo.... Consigliere di Cassazione alla Corte di Torino.... Che carriera!

— Oh, — fece il commendatore con affettata modestia. — Ce ne son tanti.... E se tu avessi avuto pazienza....

— No, no.... tu hai la stoffa di primo presidente.... [90] Io m'ero accorto che non andavo più in là di consigliere d'appello e mi son fatto liquidare la mia pensione per non aver altri sopraccapi....

— Già, — interpose il signor Antenore; — fuor che quelli di riscuotere il foglio pagatoriale e di tagliar due volte all'anno i coupons della rendita.... Perchè se tu non avessi le tue brave cartelle di rendita, con la sola pensione non potresti mica far il signore.

— Oh Dio, — replicò il cavaliere quasi scusandosi, — qualche cosa la mia famiglia possedeva.... io ho potuto metter da parte qualche risparmio.... non grandi somme però.... non da far il signore.

— Quando si nasce con la camicia — brontolò Santelli che masticava veleno. E soggiunse con amarezza: — Se ti fossi trovato ne' miei panni!...

Sempre pieno d'indulgenza verso l'amico sgarbato, Bibbiana fu pronto ad assentire. — Verissimo. Se mi fossi trovato ne' tuoi panni dei risparmi non ne avrei fatti sicuramente.

— Mentre voi della borghesia grassa — ripigliò il signor Antenore con crescente acrimonia — andavate a oziare e a divertirvi per quattr'anni all'Università di dove sareste usciti col vostro diploma, io, dopo la morte di mio padre, dovevo interrompere il Liceo e accettare un impiego d'ordine alle Poste, tanto per guadagnarmi da vivere.... chè se no la mia buona matrigna mi cacciava fuori di casa.... Impiegato io! col mio carattere indipendente!... Io che non ho mai potuto soffrire le cartaccie degli uffici e la morgue [91] della burocrazia!... Mi par quasi impossibile d'aver resistito per trentacinque anni a una vita simile.... sbalestrato da un capo all'altro d'Italia, con dei superiori pedanti, imbecilli che avrebbero tirato a cimento i Santi del Paradiso.... Viene il giorno che la corda si strappa, e col mio ultimo capo uffizio mi son voluto sfogare.... Non gli ho detto la centesima parte di quello che si meritava; nondimeno egli ha steso il suo rapporto, e io fui invitato a far valere i miei diritti alla pensione.... Non era già una pensione di consiglier d'appello la mia; son centoquarantadue lire al mese e venti centesimi.... E io non ho campi al sole, e io non ho coupons da incassare.

Il commendatore Fustini abbozzò un gesto cortese di condoglianza, tanto più doveroso in quanto che egli era venuto per realizzare un'eredità.

— Ma per me, — proseguì il signor Antenore con un sogghigno sarcastico, — per me, vivo meglio adesso.... Non ho nessuno che mi comandi, posso dir corna del Governo e di questo p.... sistema che fa crac da tutte le parti come un mobile vecchio.

Bibbiana era avvezzo a queste sfuriate, ma il commendatore se ne risentì nella sua duplice qualità d'alto funzionario e d'uomo di principî conservativi.

— Eh caro signore, — egli replicò con sussiego, — si fa presto a gridare contro il sistema. Vorrei vederli all'opera i riformatori.

— Qualunque cosa è preferibile a questo regime di capitalisti, di travet e di militari, — urlò [92] il signor Antenore versandosi un altro bicchiere di vino.

— Oh, oh.... il socialismo allora?... Tutti col nostro numero d'ordine, tutti agli stipendi dello Stato.... Il mondo un'immensa caserma....

— Ma che caserma, ma che numero d'ordine?... Ognuno dev'esser libero di far quello che gli pare e piace.

— E il codice dove lo mette?

— Il codice è l'alleato dei furfanti di grosso calibro. Lo getto nel fuoco.

— Bravo!... È l'anarchia che lei vuole.

— Paroloni da spaventare i gonzi....

Il pacifico signor Demetrio, che non s'era mai occupato di questioni sociali e aveva l'abitudine di non interloquire durante le feroci requisitorie dell'amico, assisteva con inquietudine all'inasprirsi della discussione e s'arrabbiava in cuor suo con Fustini, il quale non capiva che il partito più savio era quello di lasciar che Santelli si quetasse da sè.... Naturalmente, questa non era una cosa da poter dire al commendatore perchè l'altro sarebbe andato in bestia peggio; quindi Bibbiana si limitava a insinuare di tratto in tratto qualche monosillabo inoffensivo per calmare i due contendenti. Se non che, dalle due parti gli chiudevano la bocca con uno sprezzante: — Taci tu.

In buon punto la Barbara cacciò la testa fra i battenti dell'uscio e chiese al padrone: — Il caffè dove lo prendono?

Il consigliere rispose con un'altra domanda. — È acceso in salotto?

— Sissignore.

[93]

— Allora passeremo di là, — disse Bibbiana parendogli che il mutar di stanza dovesse dare un altro indirizzo alla conversazione.

Puntellandosi con le mani sulla tavola si alzò in due tempi e ripetè agli ospiti: — Passiamo di là, passiamo di là.

II.

Il salotto, benchè vi fossero dei mobili di pregio, era un po' freddo e triste come di casa ove manchi la signora. Una lampada smerigliata pendeva dal rosone del soffitto, un moderatore di porcellana posato sulla mensola del caminetto fra le due finestre rischiarava più direttamente un tavolino portante una scacchiera coi pezzi già a posto. La parete di fronte era adorna del ritratto del signor Demetrio, in mezza figura, a olio, con la croce di cavaliere all'occhiello. Sotto il ritratto un canapè e dinanzi al canapè una tavola ove la Barbara aveva deposto il servizio da caffè, il portaliquori e una scatola di sigari d'Avana.

— Si sciala oggi, — borbottò il signor Antenore accettando un bicchierino di cognac.

— Tutto improvvisato, — rispose Bibbiana. — Ero mille miglia lontano dal creder che Fustini fosse qui quando me lo son visto comparir dinanzi verso le 6 che il riso era già nella pentola.... Per fortuna la Barbara ha questo di buono che non si confonde e ci apparecchiò un pranzetto tollerabile.

[94]

— Altro che tollerabile! — esclamò enfaticamente il commendatore. — Non si mangia così neppur dal Presidente della nostra Corte.

— Ti contenti di poco, — disse il signor Demetrio. E continuò rivolto a quell'orso di Santelli: — Se non fosse stato troppo tardi t'avrei mandato un biglietto per pregarti di tenerci compagnia.

— Grazie, non sarei venuto, — rispose il signor Antenore sempre tutto angoli e punte. — Io vengo la domenica e basta.

— È una fissazione come un'altra, — riprese il consigliere. — Me ne appello a Fustini. Siamo soli tutti e due, ma io ho casa piantata e Santelli deve andare all'osteria. O che male ci sarebbe s'egli si degnasse di desinare con me.... non dico tutti i giorni.... ma tre o quattro volte per settimana?... Non ho ragione?

— Senza dubbio, — replicò a denti stretti il commendator Fustini. In fondo egli non capiva come si potesse augurarsi un simile commensale.

— L'indipendenza, mio caro, — disse Santelli, — l'indipendenza non c'è oro che la paghi.... Del resto, non son qui tutte le sere a giocare a scacchi?

— Ah, giocate a scacchi tutte le sere? — domandò il consigliere di Cassazione.

— Sì, è una mia debolezza, — disse il signor Demetrio. — Abbiamo un conto corrente con Santelli.... Facciamo un centinaio di partite al mese. Egli ne vince novanta....

— Davvero?

— A vincer Demetrio non c'è un gran merito, — osservò il signor Antenore.

[95]

— Tu conosci il gioco? — chiese Bibbiana a Fustini.

— Sì, mi diletto anch'io ogni tanto.... al nostro Circolo.... V'è un Circolo scacchistico a Torino.

— Bravo.... dovresti far un paio di partite con Antenore....

— Volentieri.

Santelli depose un mozzicone di sigaro nel raccattacenere. — Per me non ho difficoltà.... E di quanto si gioca?

— Ma.... di nulla.... Dell'onore.... Agli scacchi per solito.... Che sistema avete voi altri?

— Noi giochiamo d'un franco la partita, — spiegò il signor Demetrio. — Ho voluto io.... Trovo che quando c'è una piccola posta si mette più attenzione.

— Vada pure pel franco.

Lieto di aver dato a' suoi ospiti un'occupazione che li distoglieva dalla politica e dalla sociologia, Bibbiana spinse verso il tavolino da gioco una sedia a bracciuoli e vi si accomodò beatamente. — Io assisterò alla giostra.

Il signor Antenore si accostò alla scacchiera, prese un pedone bianco e un pedone nero, e intrecciate le braccia dietro il dorso li passò da una mano all'altra, poi presentando i pugni chiusi al suo competitore disse: — Scelga.... Chi ha il bianco ha il tratto.... Ha scelto il nero.... Ho il tratto io.

E attaccò subito. Fustini stava sulle difese cercando il punto debole dell'avversario. In fatti, di lì a poco guadagnò un pezzo e non tardò molto a dar scacco matto.

[96]

La seconda partita fu più brillante della prima ed ebbe lo stesso esito.

— Hai difeso male il gambitto, — disse il signor Demetrio a Santelli che senza profferir parola ma livido di bile guardava il suo re imprigionato.

— Ah fammi un po' il piacere, — gridò Antenore, a cui non pareva vero di poter prendersela con qualcheduno.... Sei proprio in caso di dar lezioni, tu, con quella sapienza....

— E pure, — ripetè Bibbiana con calma, — io sostengo che se si difende quel gambitto in un'altra maniera si deve vincere.

— Vincere, tu? — esclamò il signor Antenore con l'accento della massima incredulità.

— Forse anch'io, — rispose il consigliere alquanto piccato.

— Qua la scacchiera.... Vediamo il miracolo.

In un momento Bibbiana e Santelli s'erano scambiati di posto. Quest'ultimo si consolava delle busse ricevute pensando a quelle che riceverebbe fra poco il suo dilettissimo Demetrio. Scacco matto in quindici mosse, in venti al più, — egli diceva fregandosi le mani.

Pareva diventato l'amicone del commendator Fustini col quale s'era bisticciato fino a poco innanzi.

— Lo schiacci quel pretenzioso, lo polverizzi.

— Allora comincio io e faccio l'apertura di prima, — disse Fustini a Bibbiana.

— Già.

— La dobbiamo veder bella, la dobbiamo veder bella, — canterellava il signor Antenore. Da un pezzo non era stato così ilare.

[97]

Fustini gli fece segno di tacere. Era un giocatore serio, meticoloso, che non voleva esser distratto. E apparteneva anche alla categoria dei giocatori taciturni; tutt'al più, quando si trovava in qualche impiccio aveva l'abitudine di borbottare: — Vengo, vengo, vengo.

E con sua grande maraviglia, adesso, misurandosi con Bibbiana, egli ebbe replicatamente l'occasione di dover servirsi del suo intercalare. O com'era possibile che Demetrio si lasciasse battere da Santelli se non c'era neanche confronto tra i due?

Ma il più stupito era il signor Antenore. Demetrio teneva testa al commendatore? Demetrio rischiava proprio di vincere?

— Vengo, vengo, vengo, — disse un'altra volta Fustini; dopo di che, sentendosi spacciato, abbandonò la partita.

— Eh via, che il commendatore deve aver fatto apposta, — esclamò Santelli.

Fustini protestò con vivacità. — Nemmen per sogno.

— Sarà stato un caso, — notò modestamente Bibbiana.

Il signor Antenore sogghignò con aria sprezzante. — Grazie della concessione. Che cosa vuoi che sia stato?

— L'ho detto io, mi pare, — rispose secco secco il consigliere, mentre rimetteva i pezzi a posto per offrir la rivincita. E intanto gli si arrossavano gli orecchi, segno infallibile, per chi lo conosceva, che anche a lui, uomo calmo e flemmatico, cominciava a scappar la pazienza.... Ah, perchè da cinqu'anni gli piaceva di perder [98] quasi ogni sera giocando con Antenore, doveva esser condannato a perder sempre, a perder con tutti quanti?... Nossignori, questa legge egli non era disposto a subirla e Santelli aveva avuto un gran torto a provocarlo co' suoi sarcasmi.

— Tocca a te, — disse Fustini.

— Son qua.

Cauti, guardinghi, i due campioni pesavano ogni mossa, risoluti a non darsi quartiere. Pur volendo far l'indifferente, Fustini era rimasto mortificato della sconfitta e anelava di ripararvi; Bibbiana, dal canto suo, trovandosi a fronte un competitore degno di lui, sentiva ridestarsi la sua vecchia passione pegli scacchi e ci teneva a mostrar la sua valentìa. Nella stanza regnava un gran silenzio; solo di tratto in tratto un pezzo preso dall'uno o dall'altro dei giocatori andava a cader con un suono legnoso nella scatola che raccoglieva le vittime della battaglia. Smessi i suoi commenti beffardi, con gli occhi inchiodati sulla scacchiera, con le labbra serrate come di chi reprime a forza un gemito o una imprecazione, il signor Antenore seguiva le vicende dell'accanito duello. Non c'era dubbio, anche la seconda prova sarebbe riuscita favorevole a Bibbiana. Egli era indiscutibilmente superiore all'avversario, era più audace negli attacchi, più pronto nelle difese, più accorto nelle insidie. Ma donde gli era capitata questa scienza? O, piuttosto, perchè, in cinqu'anni, non l'aveva sfoggiata con lui, con Antenore? E mentre Santelli rivolgeva fra sè questi pensieri, la verità si faceva strada nel suo animo, lo riempiva di livore e di fiele.

[99]

— Vengo, vengo, vengo, — masticò fra i denti il commendator Fustini. E soggiunse dopo una breve pausa: — Non c'è rimedio; ho il matto alla terza mossa. — Si alzò da sedere e stendendo cavallerescamente la mano al vincitore disse: — Ti faccio le mie congratulazioni. Non sfigureresti in un torneo.

— Hai voglia di ridere, — rispose il signor Demetrio. — Avevo una buona serata, ecco tutto....

In quella gli apparve la fisonomia stravolta di Antenore Santelli, e imporporandosi in viso come un fanciullo colto in fallo balbettò: — Ogni tanto ho di questi lucidi intervalli.... È un fenomeno.... Ordinariamente gioco malissimo.... Anche adesso, se continuassimo....

— No, no, son già le undici e mezzo e se tardo un poco rischio di trovar chiuso il portone dell'albergo.... A proposito, ti devo due lire....

— E io ne devo due a Lei, — disse il signor Antenore tirando fuori sgarbatamente un borsellino unto e bisunto.

— Ebbene, — rispose Fustini; — le paghi per conto mio all'amico Demetrio.... Così saremo pari e patta.

— Ma sì, ma sì.... non c'è fretta, — protestò il cavaliere dopo aver sonato il campanello per chiamar la Barbara. — E poi se torni domani sera è sicuro che me le riguadagni quelle due lire.... Pranzi con me anche domani, non è vero?

— Non so.... Avrei un mezzo impegno.

— Mettiti in libertà.

— Grazie.... Vedremo.... Ti manderò un biglietto entro la giornata....

[100]

— Guai per te s'è un rifiuto.... E Antenore, per una volta tanto, farà uno strappo ai suoi principî, — continuò Bibbiana. — Ci terrà compagnia.

— Impossibile, — dichiarò in tuono reciso l'uomo selvatico.

— Eh via....

— Speriamo che si persuaderà, — disse, sorridendo, il commendatore, mentre si faceva aiutar dalla Barbara a infilarsi il soprabito. — Buona notte dunque, Demetrio.... E grazie di nuovo della tua ospitalità.... Lei resta?

Questa domanda era indirizzata a Santelli che rispose pronto: — Sì, ho da parlare a Bibbiana.

— In tal caso, buona notte anche a Lei.

— Buona notte.

Fustini uscì, ben contento di non dover fare un tratto di strada a fianco di quell'orso.

III.

Solo con l'orso rimase invece il signor Demetrio, rimase con la coscienza d'essere in dolo, di meritarsi, almeno in parte, i rimproveri che l'altro non gli avrebbe certo risparmiati.

Pure, dissimulando alla meglio la sua confusione, si avvicinò bonariamente ad Antenore. — Hai da parlarmi?

— Sì, ma prima pago un debito.

E gettò con mala grazia due franchi d'argento sul tavolino.

[101]

— Lascia stare....

— Ah, — proruppe Santelli inviperito, — vorresti regalarmi anche questi?... Per poi dire all'illustrissimo signor commendatore Fustini che me li hai condonati per carità?

— Io! — esclamò Bibbiana.

— Tu.... tu.... come stasera.

— Io.... stasera.... ho detto....?

— Hai lasciato capire.... ch'è lo stesso, — ribattè Santelli schizzando veleno da tutti i pori, — hai lasciato capire che con la scusa degli scacchi, e fingendo di giocar male, mi davi da guadagnar una o due lire al giorno.... per i miei minuti piaceri.... per i sigari forse....

— Ma no.... ti giuro....

— E hai la faccia di negare.... Sono cinque anni che m'infliggi quest'umiliazione.... cinque anni che mi ferisci in quello che ho di più caro, in quello che ho di più sacro.... nel mio orgoglio, nella mia dignità.... E io, bestia, non ho sospettato di nulla.... ho creduto in buona fede che tu volessi impratichirti negli scacchi.... ho aderito al tuo desiderio di giocar d'interesse.... se no non ci trovavi gusto.... l'ho agevolata io la tua parte di filantropo....

— Ma se non è vero, — seguitava a protestare il signor Demetrio.

L'altro non gli dava retta.

— Come ho potuto io, col mio carattere, consentire a guadagnar sempre....?

— No, — interrompeva Bibbiana, — lo sai bene che neppur questo è vero.... che anch'io vincevo qualche volta....

— Una volta su dieci, — ribattè Santelli. — L'hai [102] confessato tu a quel tuo dilettissimo commendatore. Oggi invece, con un giocatore di prima forza, non hai fatto che vincere....

— Due partite.... sono accidenti che nascono.... che non provano nulla.... Vedrai domani sera....

Il signor Antenore scoppiò in un riso secco, nervoso, che pareva un singulto. — Ah naturalmente domani sera perderai.... e m'inviti ad assistere alla commedia.... Non son così grullo.... È finita la commedia.... Mai più metterò il piede dentro di queste porte....

— Andiamo, Antenore....

— Mai più, fin che non potrò rimborsarti dell'elemosina che m'hai fatta.... Cinqu'anni giusti.... sessanta mesi.... Non è mica un conto troppo difficile.... sessanta mesi con poche interruzioni.... a quaranta lire in media per ogni mese.... duemila quattrocento lire....

— Tu sei pazzo, Antenore.... tu sragioni.... Hai bisogno di ricuperare la tua calma.... di dormirci su....

— Me ne vado, sì, — ripigliava l'energumeno, — ma non mica a dormire.... Vado come un ministro del Regno d'Italia a studiar l'economie che posso fare sul mio bilancio per pagare i miei debiti.... Lo capisci che non voglio esserti debitore, che non voglio concederti la soddisfazione di avvilirmi, di calpestarmi?... Tutti così.... voi altri ricchi.... Non vi basta papparvi le vostre rendite.... acquistate con quel bel merito;... volete di quando in quando darvi il lusso della generosità, della munificenza, per ribadir meglio le catene ai piedi dei poveri diavoli.... Vigliacchi, vigliacchi!...

[103]

E uscì, slanciando questo insulto come un saluto.

— Antenore! — gli gridò dietro Bibbiana con voce soffocata. — Antenore!... È troppo....

Diede uno strappo al campanello e si lasciò cader sulla poltrona.

La Barbara, accorsa alla scampanellata, lo trovò che ansava, rosso scalmanato in viso, con gli occhi fuori dell'orbita.

— Misericordia!... Cos'ha?.. Credevo che chiamasse per far lume al signor Antenore.... Ma quello è corso giù per le scale al buio.... Cos'ha, cavaliere?... Cos'è stato!... Un tiro di quel figuro?... Non l'ho mai potuto soffrire.... Beva qui un gocciolo di Marsala....

Il signor Demetrio la respinse con la mano. — Ne ho bevuto anche troppo del vino stasera.... Va meglio.... È passato....

— Ma cos'era?... Cosa si sentiva?

— Niente.... È passato.... Andrò a letto.... Dev'esser tardi.

— È mezzanotte.... Non si sbrigavano più.... Dica la verità.... S'è preso una bile col signor Antenore?

— Sì, — rispose Bibbiana che aveva necessità di sfogarsi. — Ma ho avuto torto anch'io.... L'ho provocato....

La Barbara scrollò le spalle. — Provocarlo, Lei?... Lei che ha sempre avuto una pazienza da santo?... Lei che ha sempre cercato di fargli del bene?

— Far del bene!... — disse il signor Demetrio. — Non è mica facile.... A volte si crede di far del bene e si fa del male.

[104]

— O piuttosto, — corresse la Barbara, — c'è della gente che non sa dove stia di casa la gratitudine.

— Questo non importa.... Non si fa il bene perchè ci ringrazino.... Gli è che bisogna saper regolarsi secondo le persone.

— Sarà, — mormorò la Barbara che non capiva certe sottigliezze. — Ma con un serpente come il signor Antenore non si riuscirà a nulla.

— Superbo sì, — ripigliò Bibbiana, parte favellando a sè stesso, parte rivolgendosi alla sua interlocutrice, — superbo fin da ragazzo.... A scuola dov'era uno dei primi lo chiamavano il Lucifero.... E dopo ne ha avute delle peripezie.... ne ha sofferte delle mortificazioni.... ha visto navigar col vento in poppa tanti che valevano meno di lui.... insomma se gli si è peggiorato il carattere non è colpa sua.... Così astioso una volta non era.... E anche l'orgoglio gli è cresciuto con le disgrazie.... Vi ricordate quand'è arrivato qui?... Aveva abbandonato l'impiego, non gli avevano ancora liquidata la pensione.... non so come vivesse.... E pure non ci fu verso di fargli accettar del danaro nè in dono, nè a prestito.... Gli avevo proposto di tener la mia piccola amministrazione.... Non ha voluto.... Lo avevo pregato di venir a desinare ogni giorno con me, ch'ero solo e avrei avuto piacere di far quattro chiacchiere a tavola.... È stato molto se ha accondisceso a venir la domenica.... E intanto, anche con la pensione liquidata, stentava a tirare innanzi, si lagnava di mille privazioni. Non era più giovine neppur lui.... soffriva d'acciacchi.... Non aveva i mezzi da curarsi.... Ed [105] eravamo alle solite.... A qualunque offerta che gli si facesse montava sulle furie.... Finalmente mi era parso d'aver trovato.... Egli amava il gioco degli scacchi.... lo amavo anch'io. — Giochiamo, — gli dissi, — ma giochiamo di qualche cosa.... Se non c'è l'interesse non ci metto attenzione.... Regoleremo i conti ogni mese. — Te Deum laudamus.... Questa volta egli non rispose di no....

— E intascava un bel gruzzolo, — interruppe la Barbara.

— Oh.... miserie....

— Con tutta la sua boria si degnava....

— Erano denari di buona presa.

— Ma lei faceva apposta?

Bibbiana abbassò la voce come se si vergognasse di confessare. — In principio forse.... Dopo m'ero avvezzo....

— E vuole che il signor Antenore non se ne fosse accorto? — esclamò la donna col suo naturale buon senso.

Il cavaliere negò energicamente. — No, no.... Oggi soltanto, per causa di quel benedetto Fustini....

— Del signore ch'era qui a pranzo?

— Appunto.... C'era la scacchiera pronta.... S'è messo a giocar con Antenore e lo ha vinto.... È un giocatore che sa il fatto suo.... Poi con lo stesso Fustini mi son provato io.... Antenore mi punzecchiava, mi beffeggiava, parteggiava pel mio avversario.... Io ho perduto la pazienza, ho perduto la testa, non mi son più ricordato che se Antenore era rimasto inferiore a Fustini dovevo a maggior ragione rimaner inferiore io....

[106]

— E ha guadagnato la partita?

— Due ne ho guadagnate.

— Bravo!

— No.... Quando ho alzato gli occhi verso Antenore e ho visto che ormai egli aveva capito tutto, mi son vergognato come se avessi commesso la più triste azione del mondo.

— Oh caro Lei, — protestò la Barbara, — lasci che i cattivi si vergognino....

— Spesso si è cattivi senza volerlo, — ribattè il signor Demetrio tentennando il capo. — Non dovevo stasera, non dovevo....

La Barbara lo interruppe. — Scusi.... Io sono un'ignorante, ma se mi permettesse di dir la mia opinione....

Bibbiana la incoraggiò con un gesto.

— Ecco, — rispose la Barbara, — può essere che stasera ell'abbia avuto un momento di distrazione, e ammetto che il signor Antenore.... dato che prima ignorasse, che già io stento a persuadermene.... ammetto insomma che debba esser rimasto un po' male.... Ma, con tutto questo, s'io fossi stata nei panni di quel figuro, sa quel che avrei fatto?

— Sentiamo.

— Le avrei gettato le braccia al collo dicendole: — Grazie.

— Oh bella! Nel giorno in cui lo umiliavo davanti a un estraneo?

— Che importa? Era il giorno in cui veniva a scoprire un'azione generosa ch'era durata cinqu'anni.... le par poco? Quanti ce ne sono che si sarebbero torturato il cervello per aiutare un tanghero che non voleva essere aiutato, [107] ma voleva lagnarsi sempre?... Quanti avrebbero avuto pazienza per cinqu'anni?... E dell'umiliazione in fin dei conti ne ha la colpa lui, e se la merita.... Sicuro, chè non è lecito aver quella boria, e chi è nel bisogno non deve aver riguardi a domandare soccorso a un amico nè deve costringerlo a usar dei sotterfugi per fargli del bene.

— Oh, in questo siamo d'accordo, — disse con enfasi Bibbiana. Dopo la feroce requisitoria di Santelli che gli aveva scompigliato le idee e lo aveva empito di scrupoli e di rimorsi, la morale semplice e casalinga della sua donna di servizio gli rinfrancava alquanto lo spirito. Egli non era dunque il vile e malvagio uomo che Antenore lo accusava di essere?

— Basta, — egli soggiunse alzandosi in piedi, — accendetemi la candela, ch'è ora d'andare a letto.

Pur la brusca rottura con Antenore non gli dava pace, e passando accanto al tavolino rovesciò con la mano i pezzi ch'erano rimasti ritti sulla scacchiera.

— Maledetti scacchi!... Mi costate un amico.

— Uhm! — borbottò la Barbara. — Se son quelli gli amici! Meglio perderli che trovarli.

— No, no.... Un compagno di scuola.... È un vero dolore.... Io non dovevo....

— Oh, torna da capo! — saltò su con petulanza la Barbara, inanimita dal buon successo che avevano avuto prima le sue considerazioni. — E allora torno da capo anch'io a dire che mi farei sbattezzare se il signor Antenore non aveva mangiato la foglia già da gran tempo.

[108]

— Impossibile!... Un superbo di quella risma!

— Oh, — conchiuse la filosofessa della cucina, mostrando più acume d'un consigliere d'appello in pensione, — ne ho conosciuti ancora dei superbi che sinchè potevano far finta di non accorgersi dei benefizi accettavano tutto.... Non vogliono obblighi di riconoscenza, ecco quel che non vogliono.... Ciò che pesa a costoro non è ricevere, è restituire.

E dopo aver pronunziato questa sentenza degna d'uno dei savi della Grecia, la Barbara consegnò al padrone la candela accesa. Senonchè, proprio in quell'istante, ella vide luccicar dell'argento sul tavolino. A lei luccicavano gli occhi. — O che si dimentica il danaro?

— Che danaro?

— Questi due franchi....

Bibbiana fece un passo indietro. — Il danaro lasciato da Antenore.... Non lo voglio io.... Verrà a riprenderselo....

— E se non viene?

— Se non viene, tenetevelo voi.

— Meno male, — disse la Barbara. — Intanto lo metto in tasca.

[109]

I CAVALIERI DELL'IMMACOLATA

I.

Era un'americana, arcimilionaria, bellissima, originalissima. Si chiamava M.rs Edith Simpson, e già da qualche anno abitava Firenze in compagnia della madre. Il marito, poichè c'era un marito, ve l'aveva accompagnata lui stesso, le aveva preso in affitto una palazzina sui Viali e una villa a Fiesole; poi, affidandola alla suocera, aveva ritraversato l'Oceano e non s'era più fatto vedere. Le scriveva però regolarmente una volta al mese, ed ella una volta al mese scriveva a lui; e le due lettere, oltre che all'espansioni conjugali, servivano l'una a rimettere, l'altra a dichiarare di aver ricevuto un chèque di mille sterline. Dodici di questi chèques all'anno formano una discreta sommetta; tuttavia l'ottimo M.r Simpson stimava opportuno di arrotondarla, e, tanto per Natale quanto per la festa di sua moglie, faceva una rimessa supplementare di altre cinquecento sterline, una bazzecola. In fin dei conti, vista la fortuna del suo sposo, M.rs Simpson avrebbe potuto esigere anche di più, ma ell'era una persona ragionevole e si contentava. [110] Già non doveva pensare che a sè. Sua madre, benchè fosse una povera diavola al paragone (aveva circa venticinquemila franchi di rendita), contribuiva alle spese domestiche e si vestiva co' suoi danari. M.rs, o, piuttosto, donna Mariquita Swallow, nata Serenado y Fuentes, subiva, come tutti gli altri, il fascino della figliuola, ma era un tipo affatto diverso. Intanto M.rs Simpson era, intus et in cute, un'americana del Nord, una anglosassone; la madre, originaria del Guatemala, poteva dirsi una spagnuola, e degli spagnuoli aveva il formalismo pomposo, il culto dei titoli, il fervore cattolico.... che però non le aveva impedito di sposare un protestante. Dio buono! Quando il defunto M.r George Swallow era arrivato al Guatemala con una missione diplomatica degli Stati Uniti, egli era un così bell'uomo che la señorita Serenado non aveva potuto resistergli e gli aveva concesso la sua mano, nella speranza di ricondurlo più tardi in grembo alla Chiesa. Speranza vana. Non solo M.r Swallow non aveva voluto saperne di convertirsi, ma aveva fatto protestante anche la figliuola.

Comunque sia, donna Mariquita andava orgogliosa della sua fede, della sua patria e del suo nome di ragazza, tanto più sonoro del nome di Swallow, e se non tradiva questi suoi sentimenti era un po' per riguardo dell'Edith, un po' per la difficoltà ch'ella provava nella conversazione. Infatti, abitando gli Stati Uniti, ell'aveva disimparato lo spagnuolo senz'apprender bene l'inglese, e abitando ora in Italia, minacciava di disimparare l'inglese senz'apprender, nè bene [111] nè male, l'italiano. Anche in questo differente affatto dalla figlia ch'era un secondo cardinal Mezzofanti e possedeva una facilità straordinaria per tutte le lingue.

Benchè donna Mariquita avesse una vera adorazione per la sua Edith, e questa, a suo modo, volesse bene alla madre, le due signore godevano di una reciproca indipendenza. Ricevute, che ben s'intende, da per tutto, facevano qualche visita insieme, andavano insieme a qualche ritrovo elegante; ma, in complesso, la giornata dell'una non somigliava a quella dell'altra.

La madre viveva in un certo piede d'intimità con due o tre famiglie della parte più conservatrice dell'aristocrazia fiorentina, s'era ascritta a un paio d'associazioni cattoliche, frequentava con assiduità le funzioni di chiesa. Con tutto ciò non le sarebbe dispiaciuto aver dei galanti, e, poichè serbava le traccie della passata bellezza a malgrado de' suoi quarantacinque anni, avrebbe anche potuto averne se non fosse stata noiosetta per sua natura e non avesse voluto rimanere entro i confini delle affezioni platoniche.

Spirito autoritario per eccellenza, M.rs Simpson non s'era legata con nessuna signora della cittadinanza o della colonia forestiera, e compariva nei salotti altrui solo quel tanto che basta per non romperla affatto con la società. A lei occorreva di poter comandare a bacchetta, d'aver un manipolo di vassalli che pendessero dalle sue labbra, che ubbidissero a ogni suo cenno, che seguissero ogni suo passo. Ora, quando una giovine bella, ricca, elegantissima, mostra gradire gli omaggi, si può figurarsi se le manchino [112] gli spasimanti. Non mancarono dunque a M.rs Simpson, che appena spuntata sull'orizzonte fiorentino si vide ai piedi tutta la jeunesse dorée del paese. Senonchè, anche in questo caso fu applicabile il vecchio adagio: Molti i chiamati, pochi gli eletti. L'Edith non respingeva nessuno; erano i candidati medesimi che si ritiravano. Troppe qualità eran richieste per rimanere nella corte di M.rs Simpson, e, prima di tutte, un assoluto disinteresse, un'assoluta rinunzia a ogni aspirazione audace. La signora non era prude, non si scandalizzava delle ardenti dichiarazioni che anzi ell'accoglieva come un tributo dovutole, non s'inalberava per qualche facezia a doppio senso, non lesinava i sorrisi, le strette di mano, le dimostrazioni insomma d'una familiarità affettuosa; ma faceva ben presto capire ch'era vano sperar nulla di più. Chi non si persuadeva di ciò era messo pulitamente alla porta. E sì che parecchi avevan tentato il colpo: degli appassionati, dei romantici, dei brutali, di quelli che giuocano subito l'ultima carta e che uno schiaffo di donna non impaura. Avevano fatto fiasco tutti, avevano creato intorno a M.rs Simpson una leggenda di inespugnabilità, simile a quella che correva intorno a certe rocche medioevali. I belli spiriti fiorentini la dicevano l'immacolata.

Naturalmente, alla prospettiva sconfortante, molti adoratori si perdevano d'animo, chiedevano a sè stessi se M.rs Simpson non desse pochino a fronte di quello che domandava. Altri, pur rassegnati al grave sacrifizio, si arrestavano dinanzi ad altre difficoltà. O non erano [113] disposti ad abbandonare ogni loro occupazione, o non avevano la fibra abbastanza elastica, l'umore abbastanza docile, il borsellino abbastanza guarnito da poter menar la vita scioperata a cui li condannava la capricciosissima Dea. Quelli che rimanevano al loro posto dopo una così laboriosa opera di selezione potevano ben dirsi a prova di bomba.

Così, non tenendo conto della squadra volante or più, or meno numerosa, formata sempre di elementi variabilissimi, lo Stato Maggiore di M.rs Simpson si componeva di sette o otto individui, di cui cinque regolari, a ferma illimitata, e due o tre volontari, tenuti, s'intende, in una posizione subalterna dagli altri. Solo ai cinque regolari spettava l'appellativo di cavalieri dell'immacolata, dato loro da quelli stessi che avevano conferito il diploma di purità alla bella americana. Erano i nobili avanzi dei primi vagheggini; avevano resistito alle delusioni, resistito alle fatiche, abdicato alla propria personalità, mutata la loro rivalità feroce in un'alleanza intima e sospettosa. Tre avevano un titolo: il marchese Gino Ciriè, il conte Alessandro Galassi Cerda, il barone Eligio de' Passeri; il quarto e il quinto, Federico Pescina e Ugo Lucignano, appartenevano a due ricche famiglie borghesi. A eccezione dell'ultimo, luogotenente d'artiglieria che aveva lasciato il servizio per poter dedicarsi interamente alla dama, erano giovinotti eleganti, sportsmen che si godevano la vita e non avevano mai avuto occupazione stabile. Pure, in origine, non eran stupidi. Ciriè aveva avuto una certa passione per le arti, aveva [114] plasmato nella creta delle figurine ch'eran piaciute; Galassi era stato un buon dilettante di musica; Pescina aveva scritto una commediola recitata con plauso in un salotto; Lucignano era uscito con buoni punti dall'Accademia e godeva riputazione di valente ufficiale; de' Passeri, in mancanza di meglio, era uno schermitore famoso. Ora s'era verificato il singolare fenomeno che M.rs Edith Simpson, donna d'ingegno pronto e vivace, aveva in breve tempo incretinito i suoi fidi seguaci. Il processo d'imbecillimento era durato dai due ai tre mesi. Gli antichi commilitoni di Lucignano assicuravano, a titolo di onore, che per lui ci fossero voluti novantanove giorni. Adesso i cinque erano ridotti allo stesso livello, e avevano finito con l'assomigliarsi nei modi e un poco anche nell'aspetto. In presenza di M.rs Simpson erano dell'umore di lei, accigliati talvolta s'ell'aveva i nervi tesi, gioviali più spesso, perch'ell'era ordinariamente gioviale. Avevano i suoi gusti, le sue opinioni, le sue simpatie e le sue antipatie; e di queste e di quelli si facevano risoluti campioni in qualunque crocchio, di fronte a qualunque contradditore. Ma per lo più evitavano con gli estranei ogni contatto non necessario. Onorati d'un incarico della dama, slanciati in giro chi di qua chi di là o per fissarle un palco a teatro, o per associarla a un giornale, o per raccomandare al gabinetto di Vieusseux di mandarle presto certi libri, o per commetter dei dolci da Doney, o per verificare se un dato cavallo avesse la coda lunga o corta, o per qualsiasi grave motivo consimile, percorrevano la città come aiutanti [115] di campo che portano gli ordini d'un generale in un giorno di battaglia; poi si davano appuntamento in qualche posto per tornarsene in compagnia dall'Edith e riferirle l'esito dei loro uffici. Una delle caratteristiche dei cavalieri dell'immacolata era quella di tenersi d'occhio a vicenda quanto più fosse possibile. Almeno ognuno voleva saper sempre dove fossero gli altri. A nessuno era lecito di aver segreti con la corporazione, sotto pena d'esser chiamato traditore. Già, anche fuori di casa, se pur non erano tutti uniti, eran soli di rado. Li si vedeva a due, a tre, camminar concentrati, parlar sommessi con l'aria di cospiratori. Parlavano di lei, senza nominarla, che non ce n'era bisogno. — Quel vestito le sta a pennello. — La nuova tappezzeria del suo boudoir non fa l'effetto che si credeva. I drappelloni son troppo pesanti. — Delle sue ultime fotografie la meglio riuscita è quella in costume d'amazzone. — Ella ha pienamente ragione di non andar per la prima dalla contessa Spingardi. Se la contessa vuol fare la relazione, cominci lei. — Domani non abbiamo il lawn tennis perch'ella deve far visite con sua madre. — Quel contino Negretti finirà col darle noia. Che cosa spera quello scimunito?... Se non siamo riusciti noi!

Sempre intesi a sorvegliare attentamente i corteggiatori importuni di M.rs Simpson, a difendere contro le insidie quella rigida virtù femminile che non avevano, oimè, potuto far capitolare, i cavalieri dell'immacolata erigevano intorno a lei una barriera non facilmente superabile. Onde, benchè M.rs Simpson non accettasse [116] imposizioni circa al numero e alla qualità de' suoi conoscenti e fosse gentile con quanti le erano presentati, e li invitasse a' suoi pranzi, alle sue cavalcate, alle sue partite di lawn tennis, la situazione dei novizi si aggravava per l'ostilità dei terribili cinque. Non erano mai scortesie manifeste, che M.rs Simpson non avrebbe tollerate e che avrebbero potuto aver conseguenze spiacevoli; erano i piccoli e sottili artifizi con cui un gruppo di persone strette in lega fra loro fa provare agli estranei un senso d'isolamento e di malessere. Talora, se si trattava di giovani di primo pelo, impressionabili, nervosi, si ricorreva ai consigli, alle ammonizioni paterne. E uno dei cinque prendeva a braccetto il povero diavolo e lo assicurava che già era inutile, che M.rs Simpson era fatta di ghiaccio e che dell'amore non voleva saperne, che forse nessuno, essendone informato in tempo, avrebbe consentito a dedicare a lei tutto sè stesso; ma che l'abitudine è una seconda natura, e chi s'era lasciato ribadir questa catena al piede non era più buono di liberarsene.... A caso vergine però bisognava pensarci su due volte. M.rs Simpson era un portento di bellezza, di grazia, di spirito, era un'amica impareggiabile.... Se però uno non si contentava dell'amicizia, e a una certa età è cosa dura il dover contentarsene, era meglio, per la propria quiete, rivolgersi altrove.

Ora, la paternale poteva avere effetti diversi. O il galante si lasciava persuadere e batteva pacificamente in ritirata, e il trionfo dei cinque era completo; o dichiarava di volersi appagare [117] dell'amicizia di M.rs Simpson come se ne appagavano gli altri e supplicava d'essere ammesso nella pia confraternita. In tal caso i cavalieri dell'immacolata si riunivano in conferenza segreta, e per solito deliberavano, come minor male, di far buon viso al neofita. Ed ecco la ragione per cui intorno ai cinque s'aggiravano sempre due o tre volontari. È un fatto però che, fossero troppo pesanti le fatiche, o troppo tenui i compensi, o troppo molesta la vigilanza degli anziani, nessun volontario passava all'ufficio di regolare. Dopo sei o sette mesi al più succedeva la diserzione.

C'era infine una terza e più temibile eventualità, quella cioè che il giovinotto non porgesse ascolto ai savi suggerimenti, e, per mettere in cattiva vista a M.rs Simpson i suoi cerberi, le riferisse la predica che gli si era fatta. Allora sì l'Americana sentiva salirsi la senapa al naso. Chiamava al proprio cospetto il troppo zelante cavaliere e lo strapazzava senza misericordia. O che diritto avevano, lui e i compagni, di catechizzar le persone che la frequentavano? Pretendevano forse di averla in tutela? Non sapevano ch'ella non doveva render conto dei fatti suoi a nessuno di loro, ch'era padrona, padronissima d'esser di ghiaccio o di lava ardente, padrona, padronissima di sfatar la leggenda e di pigliarsi un amante se così le piaceva? In quanto a loro, se ci trovavano a ridire, erano liberi come l'aria; ella non avrebbe mosso una paglia per trattenerli. E intanto guai a lui, guai ai suoi quattro amici se usavano uno sgarbo all'individuo che aveva la disgrazia di [118] non incontrar i loro gusti; guai se provocavano uno scandalo!

Queste ramanzine ricorrenti che, date a uno, dovevano servire per cinque, mettevano lo scompiglio nel sodalizio. Quid agendum? Se l'Edith parlasse sul serio? Se si pigliasse realmente un amante? Ah quello sarebbe stato veramente un casus belli, perché dopo un tiro simile la dignità non avrebbe più permesso di rimanere in carica. E già si agitava l'idea e si discutevano i termini d'una dimissione in massa. Ma ognuno dei cinque guardava all'avvenire con un arcano sgomento. Che cosa avrebbe fatto della propria vita quando gli fossero state chiuse le porte della palazzina Simpson?

Tempeste in un bicchier d'acqua. M.rs Simpson non si pigliava un amante; il temerario che aveva mirato tant'alto non durava molto a disperare della vittoria e a levar l'inutile assedio.

Solo che, al chiudersi d'uno di questi incidenti, i cinque dovevano essere preparati a tribolazioni d'altra natura, perché l'Edith diventava per qualche settimana più nervosa, più capricciosa, più esigente. Non era mai una sinecura quella di cavalieri dell'immacolata; figuriamoci nei periodi di crisi! Ora veniva a Mistress Simpson la frenesia dell'equitazione. Ed eccola in sella da mattina a sera tirandosi dietro i suoi vassalli, saltando fossi e siepi e costringendo i disgraziati a fare altrettanto. Ora l'amazzone si trasformava in auriga. E salita a cassetta d'uno stage a quattro cavalli vi stipava [119] la sua corte, e giù a precipizio pei Viali e pel Lungarno a rischio di ribaltare il legno e di arrotare i passanti che fischiavano e urlavano con tutta la forza dei loro polmoni. O, con una mattina indiavolata, s'impuntava a voler andar a piedi a colazione alla sua Villa di Fiesole, e ordinava perentoriamente al manipolo de' suoi fidi d'accompagnarla. O lì per lì, di punto in bianco, si metteva in capo di organizzare una recita, un concerto, e non intendeva che le si parlasse di ostacoli, e non voleva saperne d'indugi. Dal momento ch'ella non dava limiti per la spesa, quali difficoltà ci potevano essere? O, in fine, ell'era assalita da una pietà subitanea pei malati, pegli indigenti, e intraprendeva un pellegrinaggio pei quartieri più miseri, ed entrava nei tuguri, e si fermava al letto degli infermi, e distribuiva coperte e biancheria ai vecchi e alle donne, balocchi e dolci ai bambini, danaro a tutti. La sua bellezza ed il suo sorriso illuminavano le povere case come un raggio di sole. Ma quelli del corteo brontolavano. — Qui si rischia di buscarsi qualche malanno. — Come se non si potessero mandare i soccorsi col servitore!

Di tratto in tratto, i cavalieri dell'immacolata, tra il serio ed il faceto, ricorrevano all'interposizione amichevole di donna Mariquita. Non aveva modo di calmar l'attività febbrile di Mistress Simpson? Non credeva anche lei che un po' di quiete le farebbe bene?... Donna Mariquita che, per conto suo, era una persona posata, trovava ragionevoli queste rimostranze, ma ella s'era fatta una legge di non immischiarsi nelle [120] cose della figliuola, e non intendeva uscire dalla sua neutralità. Quindi, con un sorrisetto ironico, ringraziando gli zelanti amici della loro sollecitudine, li assicurava che la salute di M.rs Simpson non aveva nulla a temere dall'eccesso delle fatiche. In America, da ragazza, ne aveva fatte ben altre. E anche a Livorno, quell'estate ai bagni, non si ricordavano? Quando aveva vinto la scommessa di nuotar per cinque ore di fila, senza mai riposarsi? Loro la seguivano in barca e s'erano risentiti, qual più qual meno, dello strapazzo. Ella invece non aveva avuto neppure un dolor di capo.

Le stesse cose, se uno dei cinque arrischiava una parola con lui, diceva il dottor Brunini, il vecchio medico arzillo che M.rs Simpson onorava della sua benevolenza e invitava sovente a desinare. — È d'acciaio. — E soggiungeva con malizia: — Moderar la sua foga? Impossibile.... Quell'esuberanza di vita, di forza, bisogna che in qualche modo s'impieghi. Le altre donne hanno altri diversivi; lei no.... Parliamoci chiaro. Il marito è in America.... Loro la rispettano....

— Pur troppo.

— Intendono che sia rispettata?

— Sfido io.

— Già.... Del resto, se una donna vuole, non bastano gli occhi d'Argo a custodirla.... Ma è proprio lei che non vuole.... Bizzarrie umane.... Sic rebus stantibus, — conchiudeva il dottore, — credano a me, il meglio è di lasciarle far la ginnastica.

[121]

II.

Non era passato molto tempo dacchè il dottor Brunini aveva tenuto uno di questi discorsetti agrodolci quando un dopo pranzo, presenti donna Mariquita, i cinque cavalieri, due volontari e tre o quattro persone di minor conto, l'Edith slanciò con l'aria più naturale del mondo una notizia sbalorditiva. — Fra otto o dieci giorni sarà qui mio marito.

Era il crepuscolo e non si poteva vedere il gioco delle fisonomie. L'emozione dei cinque fu rivelata soltanto da un leggero acciottolìo delle chicchere da cui i valorosi giovinotti stavano sorseggiando il caffè. Successero degli oh e degli ah di sorpresa.

— Sì, — ripigliò M.rs Simpson, — sbarcherà domani a Liverpool.

Dopo un breve silenzio, qualcheduno insinuò timidamente:

— M.r Simpson si tratterrà certo un pezzo a Firenze?

— Non credo, — rispose la bella Americana. — Qui non ha affari.... In Europa starà sei mesi.

Quella sera i cinque si ritirarono più presto del solito, ma fin quasi al mattino (per fortuna era una limpida notte d'aprile) non fecero che girar su e giù per la città accompagnandosi a casa a vicenda e senza trovar mai la forza di staccarsi. Erano esterrefatti. Il marito! Sicuro, [122] si sapeva che c'era, che aveva nome Morris, che si scambiava dodici o tredici lettere all'anno con la moglie; ma poichè accompagnandola la prima volta a Firenze era stato forse tre giorni e nessuno l'aveva conosciuto, poich'ella non ne parlava che a lunghi intervalli, per incidenza, nel modo in cui si parla d'un amico e nulla più, poichè effettivamente i due coniugi non si vedevano da tanto tempo, era permesso supporre che fosse avvenuta tra loro una di quelle tacite separazioni, che la ricchezza facilita, e che, pur salvando le apparenze e non disturbando i tribunali, lasciano la reciproca libertà. Non c'è dubbio, fino a un certo punto la visita di M.r Simpson era conciliabile con quest'ipotesi. Un amico può visitare un'amica. Se però egli aveva altre mire? Se, forte de' suoi diritti, voleva tentare un ravvicinamento? Se riusciva?... La situazione di cavalieri dell'immacolata, che anche nello stato presente delle cose eccitava la vena satirica dei maligni, minacciava di diventare intollerabile con un marito nell'esercizio delle sue funzioni.... E non c'era mica niente da fare.... Al padrone di casa, al legittimo consorte non si poteva mica usar degli sgarbi, dar dei suggerimenti di prudenza e di astinenza.... Oh Dio, se l'Edith stessa avesse invocato il soccorso de' suoi campioni non sarebbe stato lecito esitare.... quantunque, via, si rischiasse di mettersi in un bell'imbroglio.

M.rs Simpson non aveva la più remota idea di chieder soccorso. Invece, nella settimana, ella si servì ripetutamente de' suoi fidi per iscopi pacifici, facendosi aiutar da loro nel mettere in [123] assetto le tre stanze della palazzina ch'ella destinava a Morris. Lo chiamava Morris tout court. I cinque, assistiti dai volontari, mostravano la solita docilità. Sorvegliavano l'opera dei tappezzieri, seguivano l'Edith nei negozi di Firenze, la consigliavano negli acquisti.... Ciriè, specialmente, col suo buon gusto artistico, era un ausiliario prezioso, e l'Edith non gli lesinava gli elogi.

Egli, d'indole ottimista, consolava gli amici ch'erano sempre molto abbattuti. Se M.rs Simpson avesse voluto accogliere suo marito.... come un marito, gli avrebbe fatto allestire le stanze vicine alle sue; non lo avrebbe collocato all'angolo opposto dell'appartamento.... Vedrete che non accadranno guai.

Gli altri tentennavano la testa. Sarà.... Ma come persuaderne la gente?

Uno dei volontari non resistette alla paura del ridicolo e con un pretesto abbandonò il campo.

Il giorno dell'arrivo di M.r Simpson, l'Edith dispensò il suo seguito dall'accompagnarla alla stazione. Invitava però tutti quanti la sera a bevere il tè da lei.

E quella sera la palazzina era inusatamente affollata. C'era il console degli Stati Uniti con la sua signora e un paio di famiglie americane dimoranti a Firenze; c'erano due compagni di viaggio di M.r Simpson, americani pur essi. In quanto a lui, a M.r Simpson, era un uomo sui trentacinqu'anni, alto, tarchiato, di fisonomia volgaruccia, colorito in viso, senza baffi, col pizzo e i capelli rossicci. Un yankee puro sangue. [124] E da yankee genuino non parlava e non capiva che la sua lingua, convinto che con essa si poteva girare il mondo. Ora, dei cinque, il solo Federico Pescina aveva studiato l'inglese, ma da quando s'era messo agli ordini dell'Edith lo aveva disimparato, perch'ella discorreva sempre italiano e perchè non lasciava ai suoi cavalieri nemmeno il tempo di leggere un libro. Comunque sia, toccò a lui il compito di rappresentare la corporazione dinanzi a M.r Simpson, ed egli non durò piccola fatica a intendere e a farsi intendere. M.r Simpson trattò con grande cordialità Pescina e i colleghi, strinse a tutti ripetutamente e vigorosamente la mano, accompagnando l'atto con parole gentili e con risatine franche e spontanee. Dopo i convenevoli, i cinque si tirarono in disparte. Pescina fu assalito di domande.

— Che cosa ha detto?

— Oh sì.... Fin che non si fa l'orecchio....

— Non hai capito nulla?

— Sì, ho capito che ci ringrazia dell'amicizia dimostrata a sua moglie.

— E tu?

— Io ho tentato di rispondere che per noi è un onore....

— Già, già.... E poi?...

— E poi non so.... Ha una pronuncia....

— Ma perchè ride?

— Oh bella.... Perchè è di buon umore.

— Non ha educazione.... Guarda com'è vestito.... Valeva la pena che indossassimo il frac.

— Zitto.... È qui M.rs Simpson.

— Si cospira? — ella disse scherzosa.

[125]

Le cupe fisonomie dei cavalieri si rischiararono, il crocchio si aperse per accoglierla.

L'Edith sorrise. — Non posso. — E soggiunse in francese: — J'ai charge d'âmes, ce soir.

Con un leggero inchino s'allontanò, seguìta da un coro di esclamazioni ammirative.

— È adorabile.

— È un angelo.

— È una Dea.

— Non c'è un uomo che la meriti.

— Come ha potuto prendersi quel marito?

Gino Ciriè ebbe di nuovo uno slancio di roseo ottimismo. — Giurerei che fra loro non c'è stato niente, non c'è niente e non ci sarà mai niente.

— Uhm! — fece Galassi Gerda.

— Non giurare, — ammonì prudentemente Lucignano.

Ciriè insisteva. — Via, che quello non è il contegno di due sposi giovani che si rivedono dopo cinque o sei anni.

Quest'era vero. Tra M.r e M.rs Simpson nessuna smorfia, nessuno sguardo furtivo, nessuna parolina segreta. E in lei non si scorgeva ombra d'emozione, di turbamento, d'inquietudine. Tranquilla e sicura ella passava fra gl'invitati girando intorno i grandi occhi sereni, aprendo spesso alla celia la bella bocca ridente, scotendo ogni tanto con una leggiadra mossa del capo i riccioli d'oro che le ombravano la fronte purissima. La madre faceva con lei un singolare contrasto. Seduta un po' sdegnosa in un angolo, donna Mariquita pareva offesa ne' suoi nervi delicati dall'aspetto volgare, dal vestire inelegante, dalle risate sonore del genero; pareva trovarsi [126] a disagio fra quelle Americane ch'ella aveva trascurate per frequentare i crocchi aristocratici fiorentini, e pensava con desiderio alle contesse e marchese che l'accoglievano nei loro storici palazzoni, che la iniziavano ai loro sodalizi, e il cui zelo cattolico infiammava di simpatia il suo vecchio sangue spagnuolo. In mancanza di meglio, ella si sentiva attratta più del solito verso gli adoratori della sua figliola, che almeno erano gentiluomini, e avevano le mani bianche e sottili di chi non lavora e i modi raffinati della società. Non erano mai stati eccessivamente compiti con lei, non l'avevano tenuta nel conto ch'ella meritava; ma donna Mariquita era la prima a riconoscere che chi avvicinava l'Edith doveva perder la testa. Perciò mostrandosi quella sera disposta a perdonare i peccatucci dei cinque, ella li incoraggiava a sedersele accanto e discorreva loro con inusata affabilità. Essi sorbivano con pazienza le sue tiritere, nella speranza di scavar terreno poi, d'esser illuminati sui veri rapporti dei due coniugi, sulla durata probabile del soggiorno di M.r Simpson, eccetera, eccetera. Donna Mariquita però era molto riservata e discreta, e tutto quello che i suoi interlocutori poterono sapere si fu che M.r Simpson sarebbe rimasto intanto a Firenze una sola settimana, salvo a ritornarvi più tardi, dopo un giro sul continente.

— Un giro d'affari?

— Credo, — rispose a bocca stretta la Spagnuola che non parlava volentieri degli affari di suo genero e preferiva rammentare il suo viaggio di nozze in Europa col defunto M.r Swallow, [127] incaricato, affermava lei, d'una missione confidenziale dal Presidente della Repubblica. Nientemeno.

La riunione si sciolse a mezzanotte e i cavalieri dell'immacolata dovettero naturalmente accommiatarsi anch'essi. L'Edith disse loro che li aspettava il domani a colazione, e M.r Simpson, presa l'imbeccata dalla moglie, confermò l'invito. — O yes, — egli ripeteva, — very glad.... very glad indeed. — E giù strette di mano da slogare un braccio.

Per un'ora e più i nostri cinque campioni si aggirarono con occhi intenti, con orecchie tese nei pressi della palazzina. Ma dalla palazzina avvolta nel silenzio e nelle tenebre non partiva nessun segno rivelatore.

E nulla si scoperse il domani, e nulla nei giorni seguenti. L'Edith faceva gli onori di casa a suo marito come ogni signora bene educata deve farli ad un ospite; verso i suoi cavalieri non aveva mutato modi e contegno.

— Tu però, — dicevano i colleghi a Federico Pescina, — tu che sai l'inglese, dovresti capire in quali acque si navighi.

— Ma che capire!... Intanto son fuori di esercizio.... E poi è una benedetta lingua in cui tutti quanti si danno del voi.

— Curioso.

— Sicuro. You, sempre you, anche nell'espansioni della luna di miele.

— Lei lo chiama Morris?

— Sì, e lui la chiama Edith.

— Se non avete altre prove! — saltava su, infastidito, Gino Ciriè.

[128]

Invece de' Passeri, d'ordinario taciturno, esprimeva i dubbi più dolorosi. — Gli ha sorriso. — Gli ha posato una mano sulla spalla. — Gli ha parlato piano. — È preoccupata. — È distratta....

— Oh finiscila, corvo dalle male nuove!

Del resto, benchè si sforzassero a dissimulare, la presenza di M.r Simpson era come un incubo per tutti i cinque cavalieri dell'immacolata. Alla fine della settimana egli partì, e.... l'incubo rimase. Il marito lontano continuava a proiettare la sua ombra sull'allegra palazzina. Già si sapeva ch'egli sarebbe tornato; non era toccato un mobile, non era rimosso un ninnolo dalle sue tre stanze gaie, eleganti, civettuole.... che parevano aspettarlo. E anch'ella, anche l'Edith, lo aspettava. All'arrivo di Morris si doveva fare, in gran compagnia, una gita a Vallombrosa.

A poco a poco nell'animo mite e mansueto dei cinque si sviluppava il mal germe dell'odio contro l'impudente che poteva vantare e forse esercitare dei diritti sulla bellissima donna. In principio s'erano limitati a giudicarlo volgare; ora, almanaccandoci su, credevano scoprire in lui ogni nefanda bruttura. Doveva essere violento, ipocrita, ignorante, venale; doveva essersi arricchito con la frode e con l'inganno.

— Come lo provocherei volentieri — borbottava de' Passeri — se non temessi d'insudiciar la mia lama nella trippa di quel negoziante di porci!

Poichè, cerca di qua, cerca di là, de' Passeri aveva avuto informazioni sicure. Una parte della immensa fortuna di M.r Simpson era investita in uno dei grandi ammazzatoi di Chicago.

[129]

Trascorse un mese durante il quale non accadde niente di notevole. L'Edith conduceva su per giù la solita vita, disponeva secondo il solito del tempo e dell'opera de' suoi vassalli. E pur non era più la medesima cosa. Ella comandava senza energia; essi ubbidivano senza slancio. I cavalieri si ostinavano a trovar cambiata la dama; la dama trovava cambiati i cavalieri.

— Che cere da funerale! — ella esclamava talvolta impazientita.

Un giorno s'ebbero due sintomi gravi. Galassi Cerda e Lucignano, arrivando alla palazzina verso le undici per riferire intorno a un incarico avuto la sera prima, s'imbatterono nel dottor Brunini che ne usciva e chiamava il suo legno, fermo all'ombra dall'altra parte del viale. Ora, il dottor Brunini veniva spesso a pranzo da M.rs Simpson, veniva spesso la sera a prendere il tè, ma nel corso della giornata non veniva mai per la ragione semplicissima che la sua cliente non aveva mai bisogno di lui. Onde fu scusabile l'emozione dei due giovinotti. — Dottore, lei qui?... Forse che M.rs Simpson è incomodata?

— Perchè dovrebb'essere incomodata? — replicò Brunini. — Non lo sanno che in questa casa io son medico onorario?... Passavo pel viale, e mi son trattenuto cinque minuti.

Salì nella carrozza che si era avvicinata, e soggiunse con l'aria paterna e scherzevole a cui gli dava diritto l'età: — Quanti conti bisogna rendere a questi ragazzi!

Le spiegazioni del dottore tranquillarono pel momento Lucignano e Galassi Cerda; ma quando [130] nell'assistere alla colazione dell'Edith la videro contentarsi di una tazza di consommé e di un'ala di pollo, lei che aveva così buon appetito, furono ripresi da un'acuta inquietudine che non tardarono a comunicare ai compagni.

Da allora in poi l'Edith fu scrutata attentamente, ansiosamente. E si giungeva a conclusioni non liete.

— Brunini può dir quello che vuole... Ella non istà bene.

— È pallida.

— Si stanca presto.

— Ha sospeso le passeggiate a cavallo.

— Ci nasconde qualche cosa.

Nessuno osava manifestar tutto il suo pensiero, nessuno osava alludere esplicitamente alla catastrofe temuta. Solo de' Passeri emise una volta un grido tragico che fece correre un brivido nelle vene de' suoi uditori. — Siamo traditi!

E col bastoncino che aveva in mano tirò un colpo a fondo contro un nemico invisibile.

E non c'era mica modo di chiarire la verità. Chi avesse interrogato l'Edith sulla sua salute avrebbe corso il rischio d'esser conciato pel dì delle feste; donna Mariquita, dopo la partenza del genero, aveva più da fare che mai con le sue contesse e marchese dell'aristocrazia clericale e non si mostrava che alla sfuggita; la cameriera di M.rs Simpson era inglese ed era muta come una tomba; al dottor Brunini non valeva la pena di rivolgersi, perchè quello poteva sempre trincerarsi dietro il segreto professionale.

Insomma quei poveri cavalieri dell'immacolata [131] menavano una vita impossibile. Eligio de' Passeri, il più bilioso, dichiarò di aver perduto sei chilogrammi di peso. Ciò indusse anche gli altri a consultar la bilancia, e, fosse combinazione o no, tutti notarono, in maggiori o minori proporzioni, lo stesso fenomeno.

III.

Ed ecco che a crescer le loro amarezze ricompariva M.r Simpson. Lo trovarono una sera sdraiato su una poltrona del salotto di sua moglie, con le due lunghe gambe gettate, una di qua una di là, sui braccioli. Si ricompose, si alzò, strinse la destra ai carissimi amici. — How do you do?... Very glad to see you.... Very glad indeed.

L'Edith spiegò che suo marito era giunto col diretto dell'Alta Italia senza farsi precedere nè da lettere nè da telegrammi. Ella lo credeva ancora a Parigi. M.r Simpson pareva compiacersi seco medesimo dell'aver avuto l'idea di questa improvvisata; rideva, si fregava le mani, dava mille segni di contentezza. Se la sua giovialità romorosa aveva sin dalla prima volta dato ai nervi degli adoratori dell'Edith, figuriamoci adesso!

Peggio poi quando l'indomani si seppe che M.r Simpson era venuto a prender sua moglie per condurla a Aix-les-Bains, ov'egli doveva fare una cura ordinatagli dai medici di Londra [132] per guarire da certi disturbi di stomaco. O che ghiribizzo gli saltava in capo? Non poteva farla da sè la sua cura? Era una sconvenienza il portar via, sia pur per poche settimane, da Firenze l'Edith che vi si era acclimatata benissimo, che non se n'era mossa in cinqu'anni se non per andar parte dell'estate a Livorno e parte dell'autunno a Fiesole, che aveva bisogno della sua indipendenza e sarebbe morta di noia in uno di quei grandi stabilimenti ove regnano sovrani il sussiego e il pettegolezzo.

Senonchè, de' Passeri, guidato dal suo temperamento pessimista, non credeva ai disturbi di stomaco di M.r Simpson. — M.r Simpson sta meglio di noi, — egli diceva. — I suoi disturbi di stomaco sono un pretesto.... I medici di Londra non gli hanno consigliato nessuna cura.... Quest'affare di Aix-les-Bains è un affare losco... Io ci vedo lo zampino di quel caro dottor Brunini che, del resto, è stato anche ieri a visitarla. È lui che la manda laggiù, e s'ella ci va, vuol dire che ha le sue ragioni.... Noi siamo la gran buona gente a lasciarci abbindolare così.

Scosso nella sua fede, ma più calmo degli altri, Gino Ciriè cercava di risollevare il morale dei confratelli. — Non giudichiamo prematuramente.... Forse sono apprensioni vane.... A ogni modo in certe faccende i sotterfugi durano poco.... Quand'ella tornerà da Aix-les-Bains avremo i dati necessari per formarci un criterio esatto della situazione.

— E intanto — ruggiva de' Passeri — quel tanghero, quell'animale se la terrà per un mese con sè!

[133]

Senza dubbio quest'era una cosa orribile, ma come impedirla?

Il giorno della partenza un seguito numeroso accompagnò i coniugi Simpson fino alla stazione. I cavalieri dell'immacolata si distinguevano subito per l'aria lugubre e solenne con cui invigilavano alla consegna del bagaglio, accomodavano con le loro mani sulla reticella del coupé riservato le borse e gli scialli della dama, esaminavano i serramenti degli sportelli. L'Edith, splendida di bellezza nella sua toilette da viaggio, era cortese con tutti, espansiva coi suoi fidi. Raccomandava a de' Passeri e a Lucignano di tenere in esercizio i suoi due cavalli da sella; a Pescina di riportar al Gabinetto Vieusseux alcuni libri e di fargliene spedire degli altri a Aix-les-Bains; a Ciriè di sollecitare l'esecuzione d'una copia da Andrea del Sarto da lei ordinata a un pittore; a Galassi Cerda di commetter per suo conto le ultime composizioni musicali di Sgambati; a un volontario di recluta recente, che s'occupava di floricoltura, dava l'incarico di sorvegliare le rose della sua villa di Fiesole. Circa allo scrivere, non assumeva nessun impegno; in quanto a lei sarebbe stata ben contenta di vedere i caratteri degli amici i quali avrebbero avuto sue notizie per mezzo di sua madre che rimaneva a Firenze. Già per la fine di luglio o pei primi d'agosto anch'ella si proponeva d'esser in Toscana per la solita bagnatura a Livorno.

— Per la linea di Bologna si parte — gridava il capo-conduttore.

M.r Simpson si staccò dal Console degli Stati [134] Uniti e da un gruppo di compatrioti con cui conversava e venne a stringer la mano agli spasimanti di sua moglie: — Good by, good by and many thanks.

L'Edith, ormai salita in vettura, porse ancora una volta la destra da baciare ai membri della corporazione e ripetè: — Arrivederci, arrivederci; — poi scambiò un nuovo good by con la madre.

Proprio all'ultimo momento, da una delle sale d'aspetto, sbucò un fattorino, portando a M.rs Simpson un magnifico mazzo di fiori offertole dai cinque cavalieri e dal volontario. Era così grande che per introdurlo nel coupé bisognò riaprir lo sportello nonostante le rimostranze del capo-stazione che aveva dato il segnale della partenza.

I Simpson ebbero appena il tempo di ringraziare; il treno si mosse e scomparve. Ritti sotto la tettoia e come trasognati, gli adoratori dell'Edith seguitarono a sventolare il fazzoletto sinchè donna Mariquita Serenado y Fuentes, accostandosi al più titolato di loro, il conte Galassi Cerda, gli chiese di accompagnarla alla sua carrozza.

— Ecco quello che ci resta, — borbottarono i compagni.

Lanzini, il volontario, un giovinetto di primo pelo, pianse; i veterani, se pur non piangevano, erano in peggior stato di lui. Per loro M.rs Simpson non era soltanto l'oggetto d'un culto fervente e devoto; era anche un'abitudine della vita, e le abitudini, ohimè! sono più difficili a sradicarsi delle passioni. Essere avvezzi ad [135] andar tre, quattro volte al giorno alla palazzina sui Viali, e non poterci andare che di tanto in tanto a cercarvi donna Mariquita che per solito non era in casa; essere avvezzi a seguir da per tutto l'Edith, a contemplarla estatici, a pender dalle sue labbra, a mendicare i suoi ordini, e non vederla più e non udir più la sua voce, e avere il vago presentimento che quando pur ella tornasse le cose non tornerebbero come prima, era tale supplizio da render degni di commiserazione quelli che v'erano condannati. Ci sono ben altri dolori nel mondo, si sa; c'è la lotta per l'esistenza, c'è la miseria, c'è la fame, c'è il freddo; e questi guai non toccavano i cavalieri dell'immacolata; ma, alla fin dei conti, la misura del dolore è data da ciò che si soffre.

In principio fu meno male. Avevano tutti da eseguire una commissione per M.rs Simpson e si può immaginarsi quanto zelo mettessero nell'adempimento del loro ufficio e con che minuziosa esattezza ne rendessero conto per iscritto alla dama. E poichè la lontananza infonde coraggio, tutti versarono nelle loro lettere la piena dell'animo esulcerato. Dissero delle loro giornate senza scopo, delle loro notti insonni, del loro pensiero sempre rivolto ad un punto, dipinsero con vivi colori la loro trepida attesa, ripeterono infine le ardenti dichiarazioni che sugl'inizi della loro carriera avevano infruttuosamente deposto ai piedi dell'Edith. Ella non se n'era offesa allora e non se ne offenderebbe adesso.... e suo marito non sapeva l'italiano.

Però i cavalieri dell'immacolata si guardarono bene dal comunicarsi a vicenda il contenuto [136] delle loro epistole, e questo riserbo turbò la loro intimità. Ognuno, memore di quello che aveva scritto, andò almanaccando su quello che potevano aver scritto i colleghi; ognuno, sperando che l'Edith rispondesse di preferenza a lui, si rodeva all'idea che il privilegiato potess'essere un altro.

L'Edith non rispose a nessuno, e si limitò a incaricar sua madre di dire agli amici che aveva ricevuto le loro lettere e che li ringraziava. Donna Mariquita era parca di notizie. La sua figliuola godeva ottima salute; Morris ritraeva molto giovamento dalla sua cura; Aix-les-Bains era animatissima e c'erano parecchie famiglie inglesi e americane con cui i Simpson avevano fatto relazione. Del ritorno non si parlava.

Il silenzio serbato sopra un argomento così capitale suggerì ai cinque un disegno temerario che fu gravemente discusso in uno dei loro conciliaboli.

— Se uno di noi andasse a Aix-les-Bains?

— Uno?... E chi?...

— Si potrebbe sorteggiare il nome....

— No, no. Piuttosto andar tutti.

— In cinque?

— A Aix-les-Bains c'è posto.

— E se siamo accolti male?

— Pazienza. Bisogna uscire dall'incertezza.

Nondimeno si deliberò di soprassedere per pochi giorni. Ella non era assente che da tre settimane, ed era meglio aspettar che si compisse il mese.

La discussione venne ripresa a suo tempo.

Si va? — Non si va? — Quando si va?

[137]

Fu deciso d'andare, avvisando prima donna Mariquita, ma senza fiatar con Lanzini, il volontario.

— A proposito, — chiese Pescina, — chi di voi l'ha visto ieri, Lanzini?

— Io no, — risposero in coro gl'interrogati.

Lanzini era scomparso.

Quando i cavalieri si recarono da donna Mariquita a esporle il loro divisamento, ella li ascoltò con un sorrisetto enigmatico; poi disse: — Cari amici, ho piacere di poter risparmiare almeno a voi la spesa del viaggio.

— Come?

— Sì.... I Simpson sono partiti l'altra sera per la Scozia. Ho ricevuto or ora una lettera dall'Edith che vi nomina tutti quanti e v'invia mille saluti.

— Possibile?

— È stata una risoluzione presa lì per lì.

— Ma.... non torna?

— Oh tornerà.... tornerà.... più tardi.... Mi duole di quel povero Lanzini.... Non lo sapevate?.. Voleva anch'egli fare una improvvisata alla mia figliuola e dev'essersi messo in ferrovia ieri mattina all'alba.... Forse sarà già a Aix-les-Bains.... Ma loro ormai avranno passato la Manica.... Basta, informerò l'Edith delle vostre buone intenzioni. Ella ve ne sarà riconoscentissima.

Fu un colpo di fulmine pei cavalieri dell'immacolata. Partita per la Scozia? In quel modo? Senza mandare una riga?... Dopo la devozione ch'essi le avevano dimostrata? Dopo il disinteresse con cui l'avevano servita?... Restava bensì il dubbio che l'Edith subisse una specie di coercizione [138] da suo marito, ma chi la conosceva stentava a credere ch'ella fosse una vittima.

I cavalieri erano poi furibondi contro Lanzini, il volontario. Cercare così alla chetichella di raggiunger per suo conto M.rs Simpson! Cercar di soppiantare quelli che avevano tanti più diritti di lui!... Era una petulanza che meritava una lezione coi fiocchi.

— La lezione gliel'amministrerò io! — gridava de' Passeri.

— Oh per quel paino non c'è bisogno d'una delle prime lame di Firenze.... Chiunque di noi è buono.

— Pur che non le sia corso dietro fino in Iscozia....

— Dove li ha i quattrini?... È figlio di famiglia.

E invero s'ebbe prestissimo la notizia che Lanzini era reduce dalla sua disgraziata spedizione, ch'era a letto con una febbre reumatica presa in viaggio, e che ne avrebbe avuto per un mese. Constatati debitamente il ritorno e la malattia, e assodato che il giovinotto non aveva vista M.rs Simpson, i cinque abbandonarono pel momento i loro propositi vendicativi. Avrebbero invigilato la condotta di quel signorino, ecco tutto. E lo visitarono con tenera sollecitudine. — Che informazioni aveva assunte ad Aix-les-Bains? — Che cosa aveva sentito dire circa ai rapporti dei coniugi Simpson?

— Ma!... Pare che fossero rapporti ottimi.

I cavalieri fremevano. De' Passeri ripetè con voce cupa il suo grido fatidico: — Siamo traditi.

L'Edith aveva lasciato Firenze ai primi di giugno. In settembre donna Mariquita annunziò [139] che andava a raggiungere i Simpson in Iscozia; forse suo genero sarebbe partito per Nuova York; ella contava d'essere in Toscana con la figliuola per la fine di ottobre.

Successe un nuovo periodo d'aspettativa affannosa. Verrà? Quando? In che condizioni fisiche e morali? Che contegno si dovrà tenere verso di lei dopo questi mesi ch'ell'ha passati col marito? Sarà possibile di mostrarle la stessa deferenza, d'aver la stessa abnegazione? Come rassegnarsi a esser cavalieri d'una immacolata che forse non era più immacolata?

I nostri valorosi campioni si logoravano il cervello nello studio di questi gravi problemi quando una mattina capitò a ciascuno di loro una lettera da Londra, con la soprascritta di calligrafia di M.rs Simpson.

Erano poche righe con cui l'Edith annunziava che aveva risoluto di andar per qualche tempo in America, e che stava per imbarcarsi in compagnia di suo marito e di sua madre. Ella si sarebbe ricordata sempre degli amici, sperava che gli amici si sarebbero ricordati di lei. Si riprometteva di rivederli fra non molto, giacchè era suo proponimento di tornare entro l'anno venturo in Italia, e perciò non dava la disdetta nè alla sua casa di Firenze nè alla sua villa di Fiesole. Inviava coi suoi saluti quelli di Morris e di donna Mariquita.

I cinque corsero subito in traccia gli uni degli altri, con gli occhi fuori dell'orbita, con la lettera in mano.

— Tant'era che spedisse una circolare a stampa! — essi esclamarono in coro dopo aver [140] notato che le cinque epistole erano uguali in tutto, persino nelle virgole.

Eppure questa identità di trattamento contribuì a tenere unita anche in quello scorcio d'autunno, anche nella prima parte dell'inverno, la benemerita corporazione. Triste autunno e triste inverno. In società, a teatro, al passeggio, ovunque i cavalieri dell'immacolata si sforzassero di cercare una distrazione, essi erravano in mezzo alla folla taciturni, meditabondi, e non avevano pace fin che non si trovavano insieme a sfogare il comune dolore, a lagnarsi dell'offesa comune.

Non li si canzonava apertamente, perchè li si sapeva sospettosi, irritabili, dispostissimi a mandare i padrini a chiunque li punzecchiasse; si rideva alle loro spalle. In un salotto qualcheduno li chiamò i vedovi, e l'epiteto fece fortuna e corse su tutte le bocche. Un altro li rassomigliò agli azionisti d'una società anonima fallita.

— Diciamo in moratoria, — insinuò uno spirito conciliante.

— Sia pure. È l'anticamera del fallimento.

Il fallimento fu dichiarato agli ultimi di gennaio allorchè la posta recò ai cavalieri dell'immacolata, entro una busta col bollo di Nuova York, un lucido ed elegante cartoncino con queste semplici parole litografate in inglese: M.r e M.rs Simpson hanno l'onore di partecipare la nascita del loro figlio Percy. — 10 Gennaio 189....

I cinque ebbero ancora la forza di numerare i mesi sulla punta delle dita. Il conto tornava. M.r Simpson era arrivato a Firenze nell'aprile.

[141]

IL DOTTORE “DREAMS„

Erano in otto o dieci infervorati a discorrere di spiritismo, quali con la cieca fede di apostoli, quali negando o ridendo o stringendosi nelle spalle. A un tratto, un signore di mezza età, che sino allora aveva taciuto, un forestiero presentato quella sera nel crocchio sotto il nome d'ingegnere Belliati, prese la parola per chiedere:

— Qualcheduno di loro ha conosciuto il dottor Dreams?

— No. Chi era? Un inglese?

— Inglese o americano.... forse, — rispose l'ingegnere. — Parlava correttamente e speditamente tutte le lingue, compresa la nostra.... E forse non era nè americano, nè inglese.... E forse quel Dreams non era che un pseudonimo.

Dreams.... sogni, — disse uno che voleva far sapere che capiva l'inglese.

Fioccarono le domande.

— Chi era?

— Vive ancora?

— Dove?

— Era un magnetizzatore?

[142]

— O un ipnotizzatore?

— O un medium?

— Un po' di pazienza, — pregò l'ingegnere Belliati. — Se vive? Lo ignoro. Cinqu'anni fa lo incontrai a Parigi.... Poi non n'ebbi più notizia.... E non mi stupisce che qui nessuno lo abbia conosciuto perchè in Italia fu due volte sole, da semplice tourist.... Che cos'era? In fondo ignoro anche questo. Il suo biglietto da visita portava il titolo di dottore.... Dottore in legge? In medicina? In matematica? Chi lo sa?... Non era neanche uno spiritista nel senso ordinario della parola. L'ho sentito io burlarsi dei medium, protestar contro le puerilità dei tavolini giranti e scriventi, degli schiaffi e dei calci somministrati all'oscuro, delle voci misteriose, delle apparizioni grottesche, di tutto insomma quell'insieme di fenomeni che, se fossero presi sul serio, ripiomberebbero il mondo nelle tenebre del medio evo.... Eppure..., eppure il dottor Dreams era un grande ipnotizzatore e un grande evocatore. Due suoi esperimenti sono addirittura maravigliosi.

— Ella vi ha assistito?

— Ho assistito ad uno. Dell'altro ebbi la testimonianza di una persona che ne fu protagonista e che vi ha rimesso la salute e la vita.

— Oh diavolo!... Bisogna tenersi alla larga da questo dottore.

— Racconti, racconti.

— Principierò dall'esperimento a cui ho assistito io.... un esperimento di suggestione, d'ipnotismo.

Tutti tesero gli orecchi.

[143]

— Era a Ginevra, una sera, in un salotto pieno d'uomini e di signore della miglior società. Il dottore Dreams, cedendo alle sollecitazioni della padrona di casa, aveva fatto alcuni giuochi di prestigio bellissimi. Ma era evidente che da lui si voleva qualche cosa di diverso, qualche cosa che meglio rispondesse alla fama di taumaturgo da cui egli era stato preceduto.... Alla padrona di casa si aggiunsero le altre signore. — Via, non sia scompiacente.... una piccola suggestione, una trasmissione di pensiero, una divinazione.... Lei può, se vuole. — Il dottore si schermiva. Era stanco. Doveva andare all'albergo.... Io credo che per mezzanotte egli avesse un appuntamento galante.... Oh sì, quelle benedette femmine s'erano impuntigliate, e mentr'egli insisteva per accommiatarsi, una di esse gli prese di mano il cappello e lo passò ad un'amica perchè lo nascondesse. Visto che non c'era rimedio, il dottore Dreams finse di acconciarsi di buona grazia all'inevitabile e disse con un sorriso: — Vogliono aver la cortesia di seder tutti quanti in semicerchio davanti a me? — Mentre i presenti ubbidivano, già domati da una volontà superiore, non osando nemmeno chiedere di che specie fosse il saggio che il dottore si accingeva a dare, egli si rivolse a me che gli ero vicino e mi sussurrò con voce aspra: — Si pentiranno. Io li smaschererò tutti.... Io imporrò a tutti di svelare con un gesto, con una parola, con una frase quello ch'è in questo momento il loro pensiero più intimo. — E soggiunse: — Lei resti pure da questa parte. Ho piacere che vi sia un testimonio freddo e [144] imparziale di ciò che sta per succedere. — Erano dunque disposti in semicerchio, uomini e donne, nell'immobilità forzata di chi posa davanti al fotografo; solo che qualche signora si ravviava macchinalmente le pieghe del vestito, qualche uomo si arricciava la punta dei baffi. Il dottor Dreams non disse nulla; si rizzò con tutta la persona (era già ritto prima, ma la sua persona sembrò allungarsi e irrigidirsi) e il suo sguardo cominciò a girar lentamente sui seduti, da destra a sinistra. Due volte girò, e gli occhi neri e profondi, ch'io vedevo riflessi in uno specchio appeso alla parete opposta, mandavano strani bagliori. Due volte girò, e uno strano malessere e un'inquietudine affannosa si dipinsero sulle fisonomie degli astanti, e un bisbiglio, come di gemiti repressi, come di preghiere soffocate, si diffuse per la sala. — No, — volevano dire quei gemiti, — non ci domandate questo. — Il dottore, impassibile, sorrideva. Non dimenticherò mai quel sorriso.... Dopo una pausa di pochi secondi, come per pregustare il suo crudele trionfo, lo sguardo del dottor Dreams si abbassò una terza volta, una terza volta girò da destra a sinistra, e l'indice proteso, girando anch'esso, additava di mano in mano la vittima. Un ultimo tentativo di resistenza apparve su quelle faccie contratte e scomposte; un ultimo gemito risonò doloroso, poi dalle labbra invano riluttanti uscirono le parole fatali. Fu prima una signora sui trent'anni, molto scollata, molto elegante, che si trasse dal seno un biglietto e lo baciò e ribaciò, sospirando: — Caro amor mio. — Seguì un signore dalle fedine bianche, dall'aria [145] diplomatica che borbottò rabbiosamente: — Hanno osato di preferir quell'asino a me. — Seppi il giorno dopo che si trattava di un'elezione accademica e che l'asino era il nostro ospite. Venne terza una matrona assai decorosa, la quale disse: — Bisogna deciderlo a far testamento. — L'individuo che si voleva persuadere a far testamento (mi si raccontò l'indomani) era il cognato della matrona. Una sposa che le sedeva allato pronunziò con terrore una frase sibillina: — Se Carlo potesse immaginarselo! — Carlo era il marito. Una vecchia tinta e aggrinzita, con un collare di diamanti che le scintillava sul petto floscio, ebbe un grido dell'anima: — Sì, ti pagherò le cambiali, farò quello che vuoi, pur che tu non mi abbandoni. — Un banchiere si rivolse anch'egli a un interlocutore invisibile. — Lasciati far la corte dal ministro. Ciò mi servirà a ottenere la preferenza in quell'emissione. — Ma una delle uscite più sbalorditive fu quella di un pastore evangelico, tenuto in gran conto pel fervore della sua pietà e per la purezza de' suoi costumi. — Susanna, noi viviamo nel peccato, il Signore ci punirà. — Certo che non tutti, parlando, tradivano un segreto colpevole. Una madre giovine evocò la cuna del suo bambino. — Il mio angelo dorme. Non vedo l'ora d'essergli accanto. — Due fidanzati profferirono con tenerezza infinita due nomi; egli il nome di lei, ella il nome di lui. E vi fu anche la nota comica, data dal padrone di casa, un personaggio goffo e melenso. — Che seccatura questi ricevimenti!... — In complesso però che cumulo di bassezze, di ridicolaggini, di [146] vergogne! Che spiraglio aperto nel cuore umano, che colpo terribile assestato ai partigiani della sincerità ad ogni costo! Ma, secondo me, una delle cose più caratteristiche della serata fu questa. Le parole che via via si sprigionavano dalla bocca di quelli ipnotizzati colpivano per lo più qualcheduno dei presenti. C'erano mariti che raccoglievano dalle mogli stesse la confessione dell'adulterio, c'erano mogli fatte sicure dell'infedeltà dei mariti; c'erano cavalieri d'industria a cui si gettava in faccia l'accusa degli amori venali, e altri a cui si rivelava d'improvviso un'insidia domestica; e altri a cui, di dove meno potevano attendersela, era slanciata un'ingiuria. Eppur, sulle prime, nessuno parve accorgersi delle offese, nessuno rivelò le provocazioni; più che per quello che avevano udito erano tutti turbati, sgomenti per quello che avevano detto, per le nudità morali che avevano lasciato vedere. Lo scandalo scoppiò il giorno dopo. E insieme con lo scandalo vi fu un'esplosione di collera contro il dottore Dreams che forse avrebbe dovuto pagar caro il tiro che aveva fatto.... Ma il dottore Dreams era partito fin dalla mattina.

A questo punto l'ingegnere Belliati tracannò un bicchier d'acqua, e molti manifestarono il desiderio di commentare la sua narrazione, di chiedergli degli schiarimenti, di discuter con lui la natura dell'avvenimento singolare ond'egli affermava d'esser stato testimonio.

— Aspettino, — egli disse, — aspettino di sentire il secondo fatto, che, s'io non m'inganno, è molto più inesplicabile del primo. Poichè, a [147] rigore, noi possiamo ammettere l'esistenza d'individui dotati d'una forza magnetica eccezionale che disarmi la volontà, che paralizzi momentaneamente quei freni per mezzo dei quali l'uomo governa i proprii istinti. A ciò s'era limitata quella sera, a Ginevra, l'azione del dottore Dreams. Probabilmente egli non sapeva quello che i suoi pazienti avrebbero detto. Sapeva che uno il quale non sia più in grado di sindacar sè medesimo dirà a voce alta molte cose che non vorrebbe dire nemmeno a voce bassa.... Quello che il nostro intelletto non sa concepire è la virtù di evocare gli esseri scomparsi....

— Perchè? Perchè? — interruppe uno spiritista fanatico. — È questo appunto il vanto maggiore della nostra scienza.

— Scienza?, — borbottò l'ingegnere tentennando il capo. — O non piuttosto negazione della scienza?... Del resto, io mi son espresso male.... Nel fatto a cui alludo non c'è stata una vera evocazione di morti. C'è stato di più.

Un uh d'incredulità accolse l'audace paradosso.

— Giudicheranno loro, — riprese Belliati. — Il fatto accadde a Bruxelles, e anche allora il dottor Dreams deve, come sempre, aver agito a malincuore.... Conoscendo le sue facoltà straordinarie, egli teme di abusarne. Sa che, spesso, dove tocca schiaccia. In quell'occasione gli schiacciati furono due uomini già sul limitare della vecchiaia ma ancor sani e robusti, due personaggi d'alto affare, che per la comodità del racconto lo distinguerò con due nomi, poco importa se reali o no, il senatore Giulio Charron, [148] il consigliere di cassazione Edoardo Mareuil. Sembra che questi signori avessero dato pulitamente del ciarlatano al dottore. Egli li pregò di non metterlo al punto di provar loro quanto s'ingannavano. Essi lo sfidarono. Presenterò loro qualcheduno, — egli disse con calma. — Un morto? — Sì e no. — Come? — Vedranno.... A ogni modo i presentati saranno due. — E quando? — Oggi, domani, a loro scelta. — Nelle tenebre della notte? — Oh no, di pieno giorno. — E dove? — Dove credono; nel mio albergo, a casa d'uno di loro, per la strada. — Il senatore e il consigliere non vollero mostrarsi pusillanimi e risposero: — Sia per domani, al suo albergo, alle due pomeridiane. — Siamo intesi. — Puntuali al convegno, il Charron e il Mareuil furono introdotti da un cameriere dell'albergo in un elegante salotto ove il dottor Dreams li accolse con grande cortesia. Quel salotto i due visitatori lo conoscevano; c'erano stati altre volte a salutarvi dei forestieri e non vi trovarono nulla di mutato, nulla che potesse servire alle arti di ciurmatore. Ed ecco che, appena v'ebbero preso posto, videro entrare per l'uscio di mezzo, non introdotti da anima viva, due giovinetti imberbi, ai quali non darò adesso alcun nome. Mi limiterò a dire che l'uno era biondo e l'altro bruno. Potevano avere vent'anni al più, erano tutti e due di bella presenza, avevano l'aspetto di due studenti. Non c'era in essi nulla di strano, fuor che nel vestito che pareva tagliato sopra un figurino antico. Strinsero la mano al dottore, chinarono la testa agli estranei, e a un cenno del Dreams sedettero, il biondo [149] di fronte al Charron, il bruno di fronte al Mareuil. I due vecchi erano già profondamente turbati, pallidissimi in viso. Chi erano quei giovinetti, l'uno dei quali, il biondo, destava una vaga, lontana reminiscenza nell'animo del Charron, l'altro, il bruno, produceva un effetto consimile nel Mareuil? Chi erano? E perchè il dottor Dreams non li presentava? Il senatore e il consigliere di cassazione si voltarono verso il dottore per chiederglielo, ma non ebbero il coraggio di formular la domanda. Egli era ritto in mezzo alla stanza, con le braccia incrociate sul petto, con lo sguardo fisso e dominatore; era il muto padrone di quegli spiriti e di quelle coscienze. Egli non voleva che pel momento i quattro uomini si dicessero il loro nome, e non se lo dissero; voleva che parlassero fra loro, e parlarono. Parlarono quasi sempre a due a due, il Charron col giovine biondo, il Mareuil col giovine bruno. Parlarono d'ogni argomento: di religione, di filosofia, di letteratura, di politica, d'arte, avendo, di tratto in tratto, qualche slancio di simpatia vicendevole, ma in fondo non riuscendo ad intendersi nè in politica, nè in arte, nè in letteratura, nè in religione, nè in filosofia. Ed era un dissidio più grave di quello che la differenza di circa mezzo secolo d'età non bastasse a spiegare. Poichè, quando si tratta di contemporanei, i vecchi esercitano un'influenza sui giovani, i giovani sui vecchi. Qui invece era il dissidio fra uomini di tempi diversi, come sarebbe se uno morto verso il 1848 fosse rievocato improvvisamente dalla tomba e chiamato a discutere nel 1898. A un certo [150] punto il dottore disse: — E perchè non si scambiano i loro biglietti da visita? — Quelli ubbidirono. — Oh! — fecero i giovani con un gesto di maraviglia, dando un'occhiata ai biglietti dei loro interlocutori. Ma i due vecchi sentirono drizzarsi i capelli in testa, sentirono gelarsi il sangue nelle vene, mentre stringevano fra le dita tremanti i due cartoncini, ingialliti agli orli. Su quello del giovine biondo era scritto: — Giulio Charron, dell'Università di Gand. — Tali erano i biglietti del senatore quand'era studente. Su quello del giovine bruno si leggeva: — Edoardo Gastone Mareuil. — Edoardo Gastone! Il Mareuil era effettivamente Edoardo Gastone, ma da una quarantina d'anni non si faceva chiamar che Edoardo. Con le pupille fuori dell'orbita, con la voce rauca dall'emozione, il senatore ed il consigliere gridarono: — Qui si usurpano i nostri nomi. — Il dottore accennò con la mano: — Calma, calma, signori. Non precipitino i giudizi. — E rivoltosi agli studenti: — Tocca a loro, — soggiunse, — di provare che non hanno usurpato nulla. — Indi, ai due vecchi contraffatti, sbigottiti, il giovine biondo e il giovine bruno favellarono della casa paterna, della famiglia lieta e numerosa, ricordarono atti, gesti, parole di cari defunti, ricordarono i chiassi dell'infanzia, le scappate dell'adolescenza, le birichinate della scuola, ricordarono i primi dolori e i primi amori; tutto ciò insomma che nessun estraneo poteva sapere, ch'essi medesimi, i vecchi, avevano in gran parte dimenticato, e che oggi, per virtù di quella evocazione portentosa, riprendeva forma e rilievo [151] nella loro memoria. Ma come? Ma come? Chi erano quei giovani? Erano loro stessi in un passato remoto? Erano loro stessi, e non s'erano riconosciuti, e, discutendo, non avevano avuto un'opinione comune?... Quale assurdità! Può l'individuo sdoppiarsi? Può, avanzando nella vita, lasciar dietro di sè un altro individuo che un giorno gli si riaffacci dinanzi?... E se non erano loro stessi, chi erano quei due giovani che sapevano tutto?... Con crescente terrore il Charron e il Mareuil fissavano i due esseri misteriosi.... sul petto del biondo brillava uno spillo d'ametista, dall'orologio del bruno pendeva un ciondolo d'oro in cui erano incastonate due piccole perle. Ma il Charron aveva portato quello spillo; ma il Mareuil aveva portato quel ciondolo; poi lo spillo era stato perduto al giuoco, il ciondolo era stato smarrito.... Era troppo.... Lenta lenta una nebbia si calò sugli occhi dei due vecchi; e in quella nebbia essi vedevano a poco a poco dileguarsi l'apparizione. S'allontanavano i giovani con un'espressione d'infinita malinconia. Pareva ch'essi dicessero: — Eravamo belli e forti, eravamo pieni di baldanza e di fede, e siamo diventati così! — Allorchè il senatore e il consigliere si risentirono, essi stringevano ancora fra le mani i biglietti da visita.... Quei biglietti non erano stampati in nessuna litografia della città; i due studenti, come non erano stati visti entrar nell'albergo, così non erano stati visti uscire. Nessuno li incontrò mai più, nessuno n'ebbe notizia. Il dottor Dreams lasciò Bruxelles nello stesso giorno. Il senatore Charron, precipitato di colpo nella [152] decrepitezza e nell'imbecillimento, vegeta, credo, tuttora in una villa presso Liegi. Il consigliere Mareuil, più gagliardo, più energico, fece ogni tentativo possibile per chiarir la strana avventura ch'egli narrava a tutti e narrò anche a me. Viaggiò, cercò inutilmente il dottor Dreams. Alla fine quel pensiero assiduo, tormentoso, sconvolse la sua ragione, e, dopo alcuni mesi passati in una casa di salute, morì.

L'ingegnere Belliati si alzò in piedi. Quelli che lo avevano ascoltato con attenzione intensa chiesero ansiosamente:

— E il dottore, il dottore?

— L'ho detto prima. Non se ne sa nuova. Si sarà cambiato nome. Sarà tornato in Inghilterra, in America.... Sarà morto.... I taumaturghi non son mica immortali.... Buona notte, signori.

— Come? Se ne va?

— Sì. Chiedo licenza.... Ho qualche lettera da scrivere.

Non ci fu modo di trattenerlo.

— Che sia possibile?, — chiese qualcheduno alludendo alle cose narrate dall'ingegnere.

— E se fosse tutto un parto della sua fantasia?

— Chi è poi questo signore?... Chi ce lo ha presentato?

— Ce lo ha presentato Ugo Vertioli, che se ne andò subito con la scusa di una seduta.

Quella notte il crocchio non si sciolse che verso le due.

La sera dopo si domandò a Ugo Vertioli:

— Dov'è il tuo amico?

— Quale amico?... Ah, l'ingegnere Belliati.... [153] Fu chiamato da un telegramma a Bologna.... Del resto, non è mio amico.... Ci siamo conosciuti in viaggio.

— Sai ch'egli ci empì la testa di storie meravigliose?

— Davvero?

— Sì.... E dice con gran serietà delle cose incredibili.

Uno borbottò:

— Già partito!... Ha le abitudini del dottor Dreams.

— E se fosse lui stesso il dottor Dreams?, — soggiunse un altro.

Si protestò vivamente. Quel nome faceva una singolare impressione a tutti.

— Ma insomma, — domandò Vertioli, — che cosa c'entra il dottor Dreams? Chi è?

— Come? L'ingegner Belliati non te ne ha mai parlato?

— Mai.

Allora il più eloquente della compagnia s'accinse a ripetere il racconto fantastico dell'ingegnere.

— Volete saper la mia opinione?, — disse alla fine Vertioli. — Io giurerei ch'è una storia inventata di sana pianta da Belliati, il quale ha voluto ridere alle vostre spalle.

[154]

ASSOLTO

I.

La gran giornata, la giornata attesa e temuta, era giunta. Da quasi un anno durava il processo, un processo d'amministratori di Banche; da tre mesi i nove imputati erano in berlina dinanzi al giurì, dinanzi alla Corte, dinanzi a una folla curiosa, petulante, irrequieta. La lettura dell'atto d'accusa aveva assorbito due intere sedute; poi c'erano stati gl'interrogatori lunghi e minuziosi degli accusati; poi le deposizioni di oltre a cento testimoni; poi i rapporti dei periti. Finalmente eran cominciate le arringhe; arringhe della Procura del Re, della parte civile, degli avvocati difensori, repliche, controrepliche, ecc. Un fiume di parole aveva inondato l'aula delle Assise, aveva travolto le deboli barriere dietro a cui si riparava il senso comune di quelli che dovevano pronunciare il verdetto. Le questioni più semplici erano andate via via ingarbugliandosi, le responsabilità più manifeste apparivano dubbie, il sofisma trionfava.

E quale mutamento nell'opinione pubblica! L'opinione pubblica, si può dire, aveva imposto [155] gli arresti; in omaggio a lei s'era negata la libertà provvisoria ai presunti colpevoli; era un coro d'imprecazioni contro questi malfattori in guanti gialli che s'erano arricchiti a spese dei gonzi, che, col loro lusso inverecondo, avevano insultato alla miseria del povero. Dieci, quindici anni di galera non bastavano, in quello scoppio dell'ira popolare, a saldar tanti misfatti. Ma, dei nove complici, colui ch'era segno alle maggiori contumelie, colui che si sarebbe voluto veder colpito con maggior rigore, era il cavalier Michele Albissola, l'uomo che, giovine ancora, era riuscito a imporsi al paese, l'uomo indispensabile, consigliere del Comune, della Provincia, della Camera di Commercio, preconizzato deputato alle prossime elezioni, l'anima infine del grande Istituto di credito la cui caduta aveva portato la rovina di centinaia e centinaia di famiglie. Lo si attaccava con la violenza medesima con cui lo si era esaltato. Il nome onorevole, reso caro all'Italia da tre generazioni di patrioti, la bella presenza, l'ingegno vivace, l'energia indomita, la parola facile e persuasiva, l'ospitalità signorile, tutte insomma le qualità naturali o acquisite che lo avevano aiutato a salire cospiravano ad aizzargli contro gli animi. Senza di quelle, egli non avrebbe potuto nascondere per tanto tempo i suoi fini tortuosi. Che più? Anzichè disarmare, esacerbava le collere il pensiero della moglie giovine, avvenente, virtuosa; dei tre bambini, tre amori, citati a modello d'eleganza e di grazia. Tutto la fortuna aveva dato a quell'uomo, e di tutto egli si era servito per ingannare. Era ben tempo ch'egli [156] pagasse. Il santo e legittimo sdegno che infiamma i buoni contro i perversi e il basso livore che rode i cuori piccini s'univano per gridar la croce addosso a Michele Albissola, per invocar sul suo capo una punizione esemplare.

Ma anche prima del dibattimento, durante il lungo periodo dell'istruttoria, questi furori erano sbolliti. Non che la scoperta di fatti ignorati fosse venuta a toglier gravità alle imputazioni precedenti. I fatti rimanevano tali e quali, ammessi in parte dall'Albissola e da' suoi compagni, e ce n'era più del bisogno per imprimer sul fronte degli accusati il marchio di amministratori cinicamente infedeli. Ma nuovi e maggiori scandali avevano nel frattempo afflitto l'Italia, e un'idea, prima timida e dubitosa, poi risoluta ed audace, s'era fatta strada nelle coscienze: l'idea che in ogni processo, oltre a coloro che la legge traeva dietro la sbarra, ci fossero altri rei misteriosi, invisibili, che il giudice non osava, non sapeva, non poteva forse colpire; che vi fosse nell'ambiente, nei costumi, nell'ora, qualcosa di viziato e corrotto in cui si smarrivano le responsabilità personali. Il patrocinatore dell'Albissola, l'avvocato e deputato Ferruccio Maggesi, una delle illustrazioni del foro italiano, aveva capito subito quale, nel momento critico che si attraversava, fosse la linea di condotta più savia, quale il più savio linguaggio da tenere ai giurati. E valendosi della sua autorità aveva fatto accettare il suo criterio direttivo ai colleghi, onde le varie difese, anzichè rivolte a distruggersi a vicenda come [157] avviene sovente, parvero converger tutte ad un fine. Una frase sfuggita a uno del giurì dopo lo splendido discorso del Maggesi lasciò intraveder le disposizioni d'animo dei dodici cittadini ch'erano arbitri del processo. — È un gran mondo di canaglie, — disse quel rispettabile salumaio. — O si fa un repulisti generale, o è inutile prendersela con dei disgraziati che non son peggiori degli altri.

Nonostante questa indiscrezione, ancora l'ultimo giorno del dibattimento i pareri sull'esito erano molto divisi.

— Li condannano.

— Io dico che li assolvono.

— Albissola no sicuramente.

— Anche Albissola.

— S'è lui che teneva tutti i fili in mano?

— Non importa.... Scommettiamo.

— Assolto? Albissola? È impossibile....

— Eh lo so.... A dirlo undici mesi fa c'era da farsi lapidare.... Basta, di qui a poco si vedrà chi ha ragione.

Quando il campanello annunziò che i giurati stavano per rientrare nell'aula gli orologi suonavano le dieci.

II.

Già da più ore Virginia Albissola aspettava il verdetto che doveva decider della sorte di suo marito. Alle sei, dopo che suo cognato era venuto a dirle che secondo ogni probabilità le cose avrebbero tirato in lungo, ell'aveva, come [158] il solito, mandato a Michele il desinare in prigione; indi, cedendo alle istanze di sua madre e d'un'amica d'infanzia che le tenevano compagnia, s'era indotta a sedere a tavola, ma non aveva preso che poche cucchiaiate di brodo. Adesso era ancora nel salotto da pranzo con la faccia tra le mani, coi gomiti sulla tavola sparecchiata; immobile quasi, se, ogni tanto, la sua persona non avesse come vibrato per un fremito che le correva tutte le membra.

La madre e l'amica avevano tentato più volte di scuoterla, d'intavolare una conversazione purchessia; visti riuscire inutili i loro sforzi, tacevano anch'esse, scambiandosi, di tratto in tratto, un'occhiata, o sfogliando macchinalmente una gazzetta, o regolando il lume a carcel che andava soggetto ad ecclissi parziali.

Adagio adagio un uscio s'aperse e la Luisa, la cameriera, spinse la testa fra i due battenti.

La signora Virginia balzò in sussulto, pallidissima:

— Che c'è?... È venuto qualcuno?... Gustavo?

Gustavo era il cognato che si trovava alle Assise.

— Nossignora; — rispose la cameriera. — È Carlino che s'è svegliato e vuole alzarsi a tutti i costi.

— Provo io a chetarlo, se credi; — disse, alzandosi in piedi, la signora Clara, la madre, ch'era una donna sulla sessantina, assai vegeta e fresca.

— No, no; — dichiarò risolutamente la Virginia. — Vado io stessa. Mi farà bene movermi un poco.

[159]

E s'avviò con passo fermo.

— Quel Carlino è così nervoso; — riprese la signora Clara, rivolgendosi alla Bianca Dorelli, l'amica della Virginia, moglie d'un impiegato di assicurazioni.

— Come somiglia al suo babbo! — osservò la Bianca.

— Non pei nervi, però; — ribattè l'altra. — Da questo lato tiene piuttosto dalla mamma.... Oh pel resto sì.... Pel fisico, per l'intelligenza, pel carattere....

— È un ragazzo precoce.... Perchè non ha che ott'anni e mezzo, mi pare.

— Appunto.... Saranno presto dieci anni dacchè la Virginia s'è sposata.... Ma!.... Quanta ragione aveva il mio povero Luigi di non veder di buon occhio questo matrimonio!

— È stata la Virginia?

— È stata proprio lei a volerlo.... Io l'ho secondata, e me ne pento.

— Fammi indovino e ti farò profeta; — disse la Dorelli.

— Ella n'era innamorata perdutamente; — continuò la signora Clara, abbassando la voce. — E anch'io, lo confesso, subivo il fascino di quel giovine di bell'aspetto, pieno di facondia, d'ingegno, d'attività.... Inoltre un nome rispettabile, una buona condizione economica.... Dio mio, con la difficoltà che c'è in questi tempi a maritar le figliuole!

— Cara signora, non deve aver rimorsi.... Tutti invidiavano la Virginia.... E dopo il matrimonio più ancora di prima....

La signora Clara tentennò la testa.

[160]

— In quanto a me, non ho tardato molto ad accorgermi dello sproposito commesso.... Gli affari di mio genero navigavano col vento in poppa, la Virginia poteva levarsi qualunque capriccio, ma.... zitto.... È qui che viene.

La Virginia si lasciò cader sul divano.

— Quel Carlino mi fa disperare.... Figuratevi che pretendeva ch'io lo mandassi col servitore alla Corte d'Assise! Già sapete che scena ha fatto oggi perchè Gustavo non lo ha preso con sè.... Ora, a furia di suppliche, l'ho indotto a rimanere a letto mezzo vestito con la promessa che se giunge il suo babbo lo chiamo subito, e che, in ogni caso, vado a portargli le notizie, e se mai dormisse, lo sveglio.

— Un bambino di ott'anni e mezzo, pare impossibile! — esclamò la signora Clara con tenerezza di nonna. — Lui ha capito tutto, lui ha seguito tutto il processo....

— Ha un'adorazione pel suo papà; — notò la Dorelli.

— Anzi non vuol bene ad altri; — disse la Virginia con una intonazione amara.

— Che idee!

— È positivo; — seguitò l'Albissola con lo stesso accento. — Già il suo papà lo secondava in tutto.... La fatica che ho durato in quest'anno per moderarlo!... Non deve veder l'ora di liberarsi dalla mia tirannia.

Ripiombò per poco nel suo mutismo; quindi, scattando di nuovo, proruppe:

— E non si sa nulla.... Non capita nessuno, nè mio cognato, nè Dorelli, nè Malerotti, nè Dal Torso.... nessuno.

[161]

— È meglio che aspettino sino all'ultimo; — replicò la signora Dorelli. — Speriamo che i giurati non ci faranno rimanere in pene tutta la notte.

— Oh Dio, Dio, che supplizio! — gemette la Virginia.

La signora Clara posò una mano sulla spalla della figliuola:

— Pazienza!

— Oh mamma, — rispose la Virginia, — tu non puoi accusarmi di non averne avuta, di non averne della pazienza.... Ma è un anno che soffro tutti i martirii.... è un anno che vedo il nostro nome vituperato, che non posso uscir di casa senza che mi segnino a dito, un anno che, tranne con te, con la Bianca e con qualche altra amica, devo misurar le mie parole, i miei gesti, le mie lacrime, i miei sorrisi.... Persino davanti i miei figliuoli sono costretta a pesare ogni frase.... persino in loro.... almeno in Carlino.... mi sembra d'aver dei giudici che mi leggano in cuore....

— Via, son sogni tuoi....

— Oh, quest'è il meno.... Il terribile è la macchia sul nostro onore.... Oh povero papà mio, come hai fatto bene a morire!... Se ti fosse toccata un'umiliazione simile!

Singhiozzando, la Virginia abbandonò la testa sul petto.

— Ecco una delle sue crisi adesso; — disse la madre. E prendeva sulla mensola la bottiglia dell'acqua di Melissa.

— Su, Virginia, — diceva intanto la Bianca Dorelli, — non ti smarrire d'animo vicino al [162] porto.... Ho il presentimento che tutto finirà bene.... Mi assicurava Vittorio che anche i più ostili sono stati scossi dall'arringa di Maggesi.

— Oh, gli avvocati! — borbottò l'Albissola.

— E quando te lo avranno assolto come ne ho fede, — ripigliò la Dorelli senza badare all'interruzione, — non ci sarà più da discorrer di macchie sull'onore.

— Tu credi? — domandò la Virginia, rialzando il viso con una strana espressione negli occhi.

Ma non soggiunse altro.

Invece, rivoltasi alla madre che le si avvicinava per porgerle il calmante:

— No, grazie, — le disse, — è passato.

III.

Una violenta scampanellata, uno sbatacchiar d'usci, un rumore di passi. Erano le dieci e pochi minuti.

— Signora Albissola! Signora Virginia! Assolto! Assolti tutti! — urlò dal di fuori Vittorio Dorelli che veniva trafelato dalla Corte d'Assise.

La Virginia, pallidissima, si slanciò nell'andito e gli tese ambe le mani. — È proprio vero?... Assolto?

— Diamine! Ho sentito coi miei orecchi. E ho voluto essere il primo a dar la notizia!... Avevo giù la mia bicicletta, e via come un fulmine, a rischio di farmi mettere in contravvenzione.

— Grazie....

[163]

— Suo cognato, — proseguì Dorelli reggendo la signora Virginia ed entrando con lei in salotto da pranzo, — Dal Torso, Malerotti e tanti altri amici son rimasti ad attendere il signor Michele.

— Ma non è libero?

— Sì ch'è libero.... Però c'è qualche piccola formalità, qualche carta da sottoscrivere.... Sarà qui fra un quarto d'ora, fra venti minuti.

E Dorelli continuava rispondendo a sua moglie e alla signora Clara che lo tempestavano di domande: — Assolti tutti nove. Non l'ho detto?... Se c'era gente nell'aula?... Altro che gente.... Una folla.... E quanti applausi!

— Hanno applaudito?

— Con entusiasmo.... Non mi meraviglierei se facessero una dimostrazione sotto le finestre....

— No, — gridò con una specie di terrore la Virginia Albissola. — No, per carità, nessuna dimostrazione.... Me la ricordo quella dell'anno passato....

— Ma questa scancellerebbe la memoria di quella.

— No, Dorelli, no, — riprese la Virginia giungendo le mani in atto supplichevole. — Procuri che ci lascino tranquilli....

— Da me non dipende, — rispose Dorelli alquanto confuso. — Già è tardi.... credo che non faranno niente.

— Oh la pace, la pace.... Non chiedo altro al Signore.

— Egli ti esaudirà, spero, — disse la signora Clara. — Intanto t'ha esaudita rendendoti tuo marito.... Su, su, Virginia; Michele non può [164] tardare.... Prepàrati a riceverlo con un viso allegro.... E voi altri, — soggiunse indirizzandosi alla servitù che la gran notizia aveva richiamata in salotto, — voialtri non istate qui incantati.... Lesti. Voi, Giovanni, apparecchiate la tavola.... E voi, cuoca, in cucina.... Il padrone avrà bisogno di qualche cosa.... Del brodo ce n'è?... Sì.... E c'è poi tanta roba avanzata da oggi.... Avrai fame anche tu. Virginia....

— Oh, io no....

— Se non hai preso quasi nulla in tutta la giornata? — osservò la Bianca Dorelli.

— È inutile, non posso....

— Ti proverai.

— Ehi, Luisa, — ripigliò la signora Clara, — la camera, di là, è pronta?

— Sissignora.

— Ah! — esclamò la Virginia. — Ci siamo dimenticati di Carlino.... Gli avevo promesso di avvertirlo....

— Forse dorme.... Lo sveglierà il suo papà.... Già Michele vorrà vederli tutti e tre i suoi bambini. La Olga e Giorgetto saranno con gli angioli.

La cameriera fece un segno affermativo col capo.

— In ogni modo, — le ordinò la signora Clara, — salite piano un momento e sappiateci dire se Carlino si muove.

La Virginia guardava con riconoscenza sua madre che la liberava dalle cure di padrona di casa; guardava con ammirazione quella donnetta di circa sessant'anni, che nonostante i molti dolori sofferti (aveva perduto in gioventù [165] due figliuoli e recentemente un marito adorato) conservava intatta la serenità dell'umore e la vigoria della fibra. Ella, la Virginia, si sentiva così vecchia, così stanca, così accasciata!

La signora Clara accostò la mano all'orecchio e si mise in ascolto.

— Che c'è? — dissero a una voce la Virginia e i Dorelli. — Son qui?

— No, è disopra.... È Carlino.... Sicuro è Carlino che strepita.... Eccolo che fa la scala in due salti.

E il bimbo si precipitò nel salotto in maniche di camicia, con la faccia accesa, coi capelli arruffati, con le scarpe slacciate, coi calzoncini cascanti.

La Luisa si sfiatava a urlargli dietro: — Ma aspetti.... Ma prenda la roba.

Carlino non le badava neppure, e gridava: — Il babbo, dov'è il mio babbo?... Voglio il babbo, io....

La mamma, la nonna, la signora Dorelli gli furono attorno per quietarlo. — Viene il babbo, or ora.... Sì, bambino, è libero.... Viene con lo zio Gustavo.

— Mi ha sentita sul pianerottolo, — spiegò la cameriera che aveva sul braccio una parte degli indumenti del ragazzo. — È balzato dal letto.... Ha voluto sapere.... La fatica che ho durato a fargli infilar i calzoni!...

— Cattiva mamma, cattiva, — borbottò Carlino, e un lampo d'ira gli passò negli occhi fieri e bellissimi. — M'avevi promesso di avvisarmi subito.... Cattiva!

— Zitto là, — intimò la signora Clara, chiudendogli [166] con una mano la bocca, mentre con l'altra gli ravviava i capelli bruni, folti e ricciuti.

Intanto la Virginia e la Bianca, aiutate dalla Luisa, gli passavano la giacchetta, gli allacciavano i calzoni e le scarpe.

La signora Clara sorrise. — Tutti al servizio di questo gran personaggio.

Seguendo una sua idea fissa, Carlino lasciava fare, divenuto ormai mansueto, almeno nelle apparenze. Però quando la sua toilette fu compiuta si svincolò bruscamente, e col suo piglio imperioso: — Luisa, — disse, — vammi a prendere tosto il cappello.

Fu una meraviglia generale. Il cappello? Perchè?

— Voglio uscire. Voglio andare incontro al babbo.... Luisa, ubbidisci!

— Ts, ts, ts, — fece la nonna. — Guarda chi comanda.... Un ometto alto così!

— Il cappello! Il cappello! — strillava Carlino, pestando i piedi. — Se no, vado a capo scoperto.... E vado anche solo.... Ma già il signor Vittorio mi accompagna, non è vero?

— Io?

La Virginia intervenne. — Non gli dia retta, Dorelli.

E prese il figliuolo per un braccio. — Insomma, Carlino, che scenate fai?

— Voglio andare incontro al babbo, — ripeteva Carlino, liberandosi. — E non ho bisogno di nessuno. La so la strada delle Assise....

— Se il babbo è qui a momenti.... — cominciò la signora Clara.

In quella, Giovanni, il domestico, annunziò:

[167]

— S'è fermata una carrozza alla porta.... È certo il padrone.... Corro giù....

— Scendiamo tutti.... Vedi, Carlino, come presto....

La signora Clara credeva di parlare al nipote.... Ma il nipote non c'era. Era sgattaiolato fuor dell'uscio, aveva fatto in un lampo le scale, e tendeva già al babbo le piccole braccia. — Papà mio, papà mio!

IV.

Michele Albissola salì portando in collo Carlino che gli si era avviticchiato e non voleva lasciarlo. Soltanto quando fu in salotto, il bimbo consentì a esser deposto per terra. Allora Michele ribaciò la moglie e la suocera, ringraziando quest'ultima d'aver lasciato la campagna per far compagnia alla Virginia in quei giorni critici; strinse cordialmente la mano alla signora Dorelli e ringraziò lei pure dell'amicizia dimostratagli; poi si rivolse con affabilità alla Luisa, a Giovanni, alla cuoca che gli presentavano i loro omaggi. — Grazie, grazie.... Siete sfuggiti alle riduzioni d'organico voi altri.... E la Maria — (era la cuoca) — ha avuto una promozione? E che ce n'è del nostro maestoso Giuseppe?

— È a Torino, dai conti Soana, — disse la cuoca.

— Cospetto! Una casa aristocratica.... E li sapete fare quei pasticcini che faceva lui?

— M'ingegno.

[168]

— Brava. Intanto domani vi metto alla prova. Avremo a pranzo il mio avvocato, l'onorevole Maggesi.... E insieme con lui tutti questi signori che vedete qui.

Erano, oltre a quelli di casa, i coniugi Dorelli, Malerotti, Dal Torso e un quarto, l'ingegnere Verganti, ch'era stato anch'egli fra gli accompagnatori di Albissola.

Qualcheduno cercò schermirsi.

— Oh, non accetto scuse, — ribattè Michele. — Ho proprio bisogno di passar un pajo d'ore con le persone che mi si son mantenute fedeli nei tempi tristi.... E sarà un gran piacere anche per la Virginia.... Non è vero?

Il vero era che l'idea di questo banchetto contrastava al programma di economia, di riserbo che la Virginia Albissola avrebbe voluto far adottare a suo marito. Tuttavia, interrogata così a bruciapelo, davanti agl'invitati, alcuni dei quali le erano carissimi, ella dovette dissimulare il suo pensiero. E balbettò: — Sì, certo.... un gran piacere.... per gli amici.... in confidenza.... Pur che l'avvocato Maggesi, che conosco poco, non ci metta in soggezione.

— Lui? — esclamò Michele. — Quando ha svestito la toga è l'uomo più alla mano di questo mondo.... Piacevole, allegro, ricco d'aneddoti.... me ne appello a Gustavo che s'è trovato spesso con lui.

— Sì, sì, — disse Gustavo Albissola, — non ha alcun sussiego.

— E dobbiamo pur usargli qualche cortesia, — soggiunse il cavaliere. — Dopo quello splendore di difesa!

[169]

La Virginia chinò il capo rassegnata. Nè gli altri insistettero nelle loro obbiezioni.

— Dunque siamo intesi, — ripigliò Albissola. — Domani alle sette, l'ora di una volta.

— Sta bene. E adesso buona notte....

— Che fretta avete?... La tavola è apparecchiata. Volete bere un bicchiere di vino con me?

— No, grazie.

Tutti sentivano la convenienza di ritirarsi, di lasciar Michele solo con la famiglia.

E s'accommiatarono in massa, con nuovi baci, e strette di mano, e congratulazioni.

— Oh, eccoci in libertà, — esclamò Michele quando gli ospiti furono usciti. — Una gran bella cosa essere in casa propria.... dopo un anno....

— Adesso metteranno in prigione quei cattivi, — disse Carlino che non s'era mai staccato dal suo papà.

— Quali cattivi? — chiese ridendo il cavaliere.

— Quelli che ti hanno fatto del male....

— Zitto, zitto.... che non son discorsi da bimbi, questi.... A proposito, e la Olga e Giorgetto dormono?

— Son rimasti alzati fino alle otto, — rispose la Virginia. — Ma cascavano dal sonno.... Non vai a vederli?

— Or ora.... dopo lo spuntino....

La signora Clara si mosse per andar a sollecitare la cuoca, ma intanto Giovanni entrò con la zuppiera fumante.

— Oh, prendiamo i nostri posti, i soliti posti — disse Albissola spiegando il tovagliuolo. — Qua, [170] Carlino.... Virginia, qua.... Là, Gustavo.... E lei, mamma, non siede?

— Si, sì, sediamo tutti.... Ma io ho pranzato.

— E anch'io, diamine! E con grande appetito.

La Virginia fece un segno di maraviglia.

— In primo luogo, — soggiunse Michele, — dalla piega che la faccenda aveva preso, io mi tenevo sicuro dell'esito. E poi, lo confesso, ho sempre mangiato di gusto, persino nel grosso della burrasca.

— Ha uno stomaco di ferro, — osservò Gustavo, natura subalterna, avvezzo ad ammirare per ogni lato il fratello maggiore.

— Per questo sì. Digerirei i sassi.... Virginia, una tazza di brodo?... Un sorso di vino?

La signora Clara si unì al genero per indur la figliuola ad accettar qualche cosa. — Sei quasi a digiuno.... Ti farà male.... Sforzati....

— Non posso.

— Quella creatura vive d'aria, — osservò la madre.

— Infatti è pallidissima, — disse il marito.

— Sono stanca.... Passerà.

— È l'orgasmo di questi giorni, — ripigliò la signora Clara. — Anche Carlino lo troverai giù di cera.... Anche lui è nervoso.

— Oh, io adesso sto benissimo, — saltò su il fanciullo. — E se mi dai un altro dito di quel Bordeaux...?

— Con l'acqua, mi raccomando.

Michele si voltò verso la moglie. — La cantina sarà quasi vuota?

— Siamo alle ultime bottiglie.

— La riforniremo....

[171]

— Oh, non c'è furia!... Non avremo mica corte bandita, spero....

E la voce della Virginia tremava.

— Corte bandita!.. No certo.... Ma non per questo ci chiuderemo in un eremo a far penitenza.... Sii sincera, t'è dispiaciuto ch'io abbia invitato per domani gli amici?...

— No, non dico questo.... Ma è per la massima.... Non possiamo scialar come prima.

Albissola si strinse nelle spalle. — Non s'è mai scialato.... Si spendeva in relazione alla nostra rendita, alla nostra posizione sociale.... Se poi è capitata una crisi, pazienza!... Ora, naturalmente, non siamo più quelli d'una volta.... Ma torneremo.... oh se torneremo!... Post fata resurgunt... Non son uomo da accontentarmi d'un posto subalterno, io.... Lo so bene che c'è della gente che vorrebbe vedermi umiliato, avvilito, che a questo patto m'accorderebbe forse il suo patrocinio.... Poveri sciocchi! Avranno un bell'aspettare.... Se non ho perduto la mia salute, la mia energia, il mio buonumore in questi dodici mesi, si figurino se mi lascio abbattere ora che son padrone di me, nel pieno possesso di tutte le mie forze e di tutta la mia intelligenza.... Ma non aver paura, Virginia.... Si può esser audaci e prudenti nel medesimo tempo, e tu non avrai più da passare quello che hai passato.... Via, via, non malinconie oggi.... E non bisticciamoci la prima sera che stiamo insieme dopo tante tribolazioni.

Alzandosi in piedi, Michele sfiorò con una carezza la guancia della moglie che arrossì e ritrasse il viso istintivamente. Egli sorrise. Indi, voltatosi verso Carlino che ormai stentava a [172] tener aperti gli occhi, soggiunse: — Adesso poi, Carlino, va a letto.

Il fanciullo uscì dal suo dormiveglia con un sobbalzo. — Ma io non ho sonno.

— Carlino va a letto con il suo babbo.... — seguitò Albissola.

— Allora sì, allora sì, — gridò il figliuolo battendo le mani.

— Cioè, — corresse il padre, — il suo babbo l'accompagna, lo aiuta a svestirsi, lo mette sotto le coperte.... Così do un bacio a Giorgetto e alla Olga, senza svegliarli....

— Io ti mostrerò domani quelle carte, — disse Gustavo al fratello.

— No, tu vieni con me dai bimbi.... Dopo, andremo insieme nello studio....

— Ma, Michele! — esclamò la Virginia. — Va piuttosto a riposare.

— Eh, con Gustavo ci spicciamo in meno di mezz'ora.

— La tua camera è pronta.

— E qual'è la mia camera?

— Oh bella! La tua camera è.... la tua camera.... Di là....

E la Virginia indicò l'uscio a sinistra.

— Ma non l'occupava la mamma?

— L'occupavo, — rispose la signora Clara, — perchè la Virginia non fosse sola nell'appartamento.... Tu sei tornato e io risalgo al secondo piano.

Il cavaliere protestò vivamente. — Nemmen per sogno.... Fin che ci fa l'onore di restar con noi non voglio che si scomodi. Per questa sera domanderò ospitalità a mia moglie.

[173]

— Oh Michele! — disse la Virginia mal dissimulando la sua ripugnanza a secondare il desiderio di suo marito. — Ormai è preparato tutto; ormai la roba della mamma è stata portata su.... Dovrei far metter sossopra di nuovo ogni cosa.... a quest'ora.... E anche per la mamma sarebbe un disagio.... Non è vero?

— Per me, veramente, dormir su o giù sarebbe lo stesso; — rispose la signora Clara. — Ma non hai bisogno di dar nessun ordine.... Io vado nella camera al secondo piano.... e Michele farà quello che gli piacerà meglio.

— La senti? — soggiunse Albissola. — Siamo intesi allora?

— Ma no.... Giacchè la tua camera è disponibile.... E la mia è così piccola!...

Michele si mise a ridere.

— Ci si stava pure una volta!

Egli aveva un capriccio, e i capricci si aguzzano con le ripulse. Tirò in disparte la Virginia, le cinse amorevolmente la vita, e sussurrò:

— Sei stanca, sei nervosa.... Non m'attendere alzata.... Va intanto a coricarti.... Io verrò più tardi, verrò in punta di piedi.

Non le lasciò tempo di replicare e si voltò verso Carlino che s'era abbandonato sopra una sedia, con la testa rovesciata sulla spalliera.

Gustavo, che s'era chinato sul nipotino, disse piano:

— Dorme.

— Non lo svegliate; — ammonì la nonna. — Prendetelo in collo com'è.... Vengo su anch'io.

Mentre Michele prendeva il bimbo fra le sue [174] braccia robuste, la Virginia slanciava un'occhiata supplichevole a sua madre.

La signora Clara le si avvicinò e la baciò teneramente sulle due guancie:

— Felice notte, tesoro mio.

— Resta ancora! — implorò la figliuola.

— Ts! — fece la signora Clara posandole una mano sulla bocca. E, a mezza voce, con accento grave e solenne, soggiunse: — Sei sua moglie e devi essere una buona moglie.

— Mamma! — chiamò Michele. — Viene?

— Eccomi.

— Felice notte, Virginia.

— Arrivederci, Virginia.

Gustavo precedeva con una candela accesa.

V.

La Virginia aveva licenziato la Luisa, e sola nella sua camera, seduta davanti allo specchio, faceva la sua toilette da notte. Due volte s'era alzata per dare il chiavistello all'uscio, due volte s'era rimessa a sedere senza porre ad effetto il suo proponimento. Aveva sempre nell'orecchio le parole di sua madre: — Sei sua moglie e devi essere una buona moglie.

Credeva di sognare. Già da quasi tre anni, dalla nascita di Giorgetto, una separazione di fatto era avvenuta tra lei e suo marito. Era avvenuta quietamente, tacitamente, senza spiegazioni reciproche. Michele era rimasto nella camera occupata durante il puerperio di lei, ecco [175] tutto. E ora, dopo quel ch'era successo, egli le ridomandava l'ospitalità, e sua madre, anzichè difenderla, non sapeva dirle se non questo: — Sei sua moglie e devi essere una buona moglie.

Macchinalmente ella riappuntava alla meglio i lunghi capelli castani che l'erano caduti, sciolti, giù per le spalle, e guardava distratta la sua immagine nello specchio. Com'era pallida e smunta, come anche il suo sorriso (si sforzava di sorridere) era impregnato di tristezza! Non aveva che trentadue anni, ma l'ultimo aveva contato per dieci, e oggi ella ne mostrava quaranta.

Rivolò col pensiero al passato, quand'era fanciulla, e cento vagheggini le svolazzavano intorno, attratti dalla vivacità del suo spirito non meno che dalla leggiadria del suo volto. Il mondo le pareva così bello allora, le pareva così ricco di promesse l'avvenire. Poi s'era sposata, con un uomo scelto, voluto da lei, nonostante le obbiezioni di suo padre, a cui Michele Albissola non andava a genio. Ella invece non trovava il più piccolo neo nel suo preferito. Lui piacente d'aspetto, lui figlio e nipote di patrioti, lui esuberante di vita, d'ingegno, d'attività. Fu sua, fu per qualche tempo pienamente felice. Non a lungo però. Le prime nubi del suo matrimonio erano state nuvolette di gelosia. Michele si distraeva.... Oh come le sarebbe stato facile pagarlo di ugual moneta! Ella sdegnò questa forma di vendetta. Amava sempre suo marito, e un fondo ereditario d'onestà la salvava dai capricci passeggeri. Vi furono lacrime e singhiozzi, vi furono scene coniugali a cui tennero [176] dietro i pentimenti e le paci. Quindi, o Michele Albissola salvasse meglio le apparenze, o in lei fosse minore la suscettività, o le cure materne l'assorbissero tutta, fatto si è che queste ragioni di dissidio andarono attenuandosi. Subentrarono altre, e sotto certi rispetti, assai più gravi inquietudini. Michele s'era slanciato a corpo morto negli affari; in breve era divenuto ricco e influente. Ambizioso per sua natura, egli, appena i mezzi cresciuti glielo permisero, portò addirittura una rivoluzione nella casa già modesta e tranquilla. Riammobigliato a nuovo il quartiere, aumentate le relazioni, sostituiti i banchetti e le veglie ufficiali ai desinari in famiglia e ai ricevimenti di pochi amici. E palco a teatro, e carrozza e cavalli, e toilettes sfarzose per la moglie, e vestiti eleganti pei bimbi che dovevano essere i primi dovunque andassero. Ella predicava contro l'eccesso delle spese, contro la smania di ricevere e di cacciarsi da per tutto; raccomandava l'economia, la previdenza, necessarie specialmente quando vi son figliuoli. Erano parole al vento. Suo marito le rispondeva che sapeva fare i suoi conti e proporzionare le spese ai guadagni, e che, del resto, metteva da parte ogni anno alcune migliaia di lire. Fors'era vero, ma ciò non bastava a quetare le apprensioni di lei. Ella rimuginava sempre nella mente una frase sfuggita a suo padre. — Le fortune accumulate troppo presto mi fanno venire la pelle d'oca. — Era stato un logorarsi continuo. Ogni successo finanziario di suo marito era per lei, anzichè una gioia, un dolore. A qual prezzo era ottenuto? Avvezza a [177] mettere in cima a ogni cosa la probità, ella non reggeva all'idea che l'uomo ond'ella portava il nome potesse arricchire con mezzi illeciti. Con l'intelligenza aguzzata dal sospetto ne studiava gli atti, i gesti, le parole, lo scopriva leggero, privo di scrupoli negli affari, amabilmente cinico. E l'amore se ne andava come un liquido che svapora, e ne prendeva il posto una freddezza invincibile, una ripugnanza crescente verso colui che l'era stato sì caro. A sviarla per poco da questi pensieri era sopraggiunto un gran lutto domestico. Il suo babbo era morto dopo una settimana di malattia. Non erano trascorsi sei mesi, ella non s'era rimessa dal colpo tremendo quando cominciò a sentir discorrere di crisi, dei ribassi di valori, di fallimenti. Ogni giorno vedeva Michele più preoccupato, più chiuso in sè stesso. Ella, nonostante il raffreddamento dei loro rapporti, avrebbe voluto strappargli qualche confidenza, esser richiesta di consiglio, d'aiuto. Egli le rispondeva, sorridendo, che le donne non s'intendono d'affari. S'ella si dichiarava pronta a rinunziare a questa cosa od a quella, se proponeva di ridur le spese, egli scrollava le spalle. Erano inezie. Si sarebbero risparmiate poche migliaia di lire e si sarebbe perduto il credito. E diceva che non c'era da sgomentarsi, che il ciclone sarebbe passato. Lottava, lottava con un'energia alla quale sua moglie non poteva negare un tributo d'ammirazione. Invano. La catastrofe scoppiò terribile, quale la Virginia, nell'ore di maggior pessimismo, non si sarebbe aspettata. Più assai che una catastrofe economica era una catastrofe [178] morale. Non la minacciava la miseria, perchè la sua dote era salva; la minacciava molto di peggio, la minacciava il disonore. Michele Albissola e altri pezzi grossi del mondo della finanza, amministratori d'un potente Istituto di credito, erano imputati di abusi, di malversazioni, di violazioni di Statuto, di complicità con ragionieri e cassieri, e venivano tutti arrestati e tradotti dinanzi alle Assise. Sulle prime la Virginia aveva sperato che l'arresto fosse un errore, che il processo, se si faceva, provasse luminosamente la falsità delle imputazioni. Nelle sue visite al marito, in carcere, sotto gli occhi d'estranei, ella sentiva che sarebbe uscita consolata se Michele le avesse detto con alterezza: — Sono innocente! — Non glielo diceva, non osava dirglielo; esprimeva bensì, appena seppe che la causa era deferita ai giurati, una fiducia grande d'essere assolto. Non capiva, con tutto il suo ingegno, che, condannato e innocente, sua moglie gli avrebbe reso il suo affetto e la sua stima; assolto e colpevole, ella si sarebbe ancor più alienata da lui.

E quel dibattimento, quel dibattimento interminabile, che supplizio era stato per la Virginia! E la difesa, la splendida difesa di Maggesi, il suo commensale di domani, che umiliazione anche quella! Il grande avvocato non era riuscito a scalzare il solido edifizio dell'accusa; aveva tirato in campo l'ambiente, le tentazioni, le malattie del secolo, tutte le scuse dei cuori pervertiti e delle coscienze corrotte.... E i giurati, forse corrotti e pervertiti essi pure, avevano assolto....

[179]

A questo punto un vivo rossore si diffuse sul viso pallido della Virginia. — Avresti preferito che l'avessero condannato? — le chiedeva, in tuono di rimprovero, una voce interna. Ed ella rammentava che in quei mesi di atroce martirio c'erano stati momenti in cui, con freddo egoismo, ella s'era acconciata all'idea della condanna di Michele, della temporanea disparizione di lui dalla famiglia, e non solo senza terrore ma quasi con una compiacenza segreta s'era vista sola al governo della casa, sola all'educazione de' suoi tre bimbi. Avrebbe preso un quartierino ristretto, modesto, avrebbe tenuto una o due persone di servizio al più, sarebbe vissuta lontana dai chiassi, lontana dalla società. La Olga e Giorgetto, così piccini ancora, sarebbero cresciuti a modo suo, e lo stesso Carlino avrebbe finito col subire la sua influenza.... Come aveva cacciato da sè questi tristi pensieri, come s'era vergognata di averli avuti!... E negli ultimi giorni, come aveva invocato a qualunque costo quell'assoluzione che pur le pareva priva d'ogni valore morale!

Ebbene, Michele era libero; e quando Dorelli era venuto ad annunziarle il verdetto, una gran gioia le aveva inondata l'anima, un impulso spontaneo l'aveva spinta incontro al suo sposo, al padre de' suoi figliuoli. Perchè quella gioia era passata così presto? Perchè quel risveglio d'affezione era durato così poco? Perchè la riassaliva un vago sgomento della vita che stava per ricominciare con l'unico uomo ch'ell'avesse amato? Perchè la minacciata intimità coniugale le destava una ripulsione invincibile? Perchè [180] l'ammonizione materna: devi essere una buona moglie, le sonava come un'amara ironia?

Una buona moglie! Non bastava per esser tale ch'ella non disgiungesse la sua sorte da quella del marito, che fosse risoluta ad affrontare con lui le prove che il destino poteva ancora serbarle, a offrirgli i suoi consigli se li chiedeva, il suo danaro se ne aveva bisogno; non bastava che avesse perdonato e dimenticato? Era proprio necessario che consentisse a esser uno stromento di piacere, che immolasse rassegnata il suo pudore e la sua dignità?

Ma se la sua bellezza era tramontata, se la sua gioventù era sfiorita (e lo specchio glielo diceva senza cerimonie) che cosa Michele trovava in lei d'attraente?... Le labbra della Virginia si contrassero come per una nausea profonda, ed ella si coperse la faccia con le mani. Quel che trovava?... Trovava una donna.... dopo un anno.... e prima di poter trovarne altre più belle e più giovani.... Domani egli non avrebbe avuto che l'imbarazzo della scelta.... Per lei dunque era sufficiente difendersi sino a domani.

E di nuovo fece un movimento per chiudere a chiave l'uscio della sua camera, e di nuovo ricadde sulla sedia, paralizzata, convulsa. Aveva ella il diritto, ella, la moglie, di fornire una scusa al libertinaggio di suo marito? Respingendolo, mortificandolo oggi con una di quelle ferite all'amor proprio e alla vanità che sono le più difficili a cicatrizzare, non rinunciava ella forse a esercitar ogni azione benefica sopra di lui, non [181] iniziava in famiglia un periodo di rancori, di bizze, di dispetti reciproci? E il dissidio crescente fra i genitori che conseguenze avrebbe avuto per la prole? Già Carlino, con la sua intelligenza precoce, aveva notato da tempo la freddezza esistente fra suo padre e sua madre, e, doloroso a dirsi, ma vero, teneva pel babbo! Chi assicurava la Virginia che, più tardi, non accadesse lo stesso anche della Olga e di Giorgetto, e che, se succedeva uno strappo fra lei e Michele, ella non si vedesse schierati contro tutti e tre i suoi figliuoli?

Ella trasalì sentendo nell'anticamera un suono di passi guardinghi e di voci sommesse. Era Michele che parlava col fratello. Si cacciò sotto le coperte, spense il lume, e premendo sul guanciale gli occhi e la bocca divorò le sue lacrime.

[182]

ALLO STABILIMENTO IDROTERAPICO

Per via.

— Ah lei va al nostro stabilimento di....? — mi disse un cittadino del capoluogo vedendomi montare in carrozza.

— Appunto.

— Cura ordinata dal medico?

— No. Me la sono ordinata da me. Penso che di questa stagione un po' d'acqua fresca non nuoce.

Il mio interlocutore fece una smorfia come a dire: — Che gusti! — poi soggiunse: — È la prima volta?

— La primissima.

— Ed è solo?

— Come vede.

— Ma lassù troverà qualche conoscente?

— Eh, forse sì e forse no.

— Buona fortuna allora, — conchiuse l'ottimo signore salutandomi con la mano e avvolgendomi in uno sguardo pieno di commiserazione.

Son venuto a sapere più tardi che gli abitanti della regione, pur andando orgogliosi di quella fonte d'acqua viva e purissima che porta loro [183] ogni anno parecchie centinaia di ospiti, guardano questi ospiti con mal celato sospetto. Essi non sanno intendere come mai delle persone a modo che possono viver libere a casa loro vadano a chiudersi per tre o quattro settimane in una specie di carcere, ove tutto si regola a suon di campanello, in base a norme fisse, ove occorre alzarsi alle cinque del mattino e mettersi a letto alle dieci della sera, ove una mancanza alla disciplina vi espone ai rabbuffi del direttore, e, in caso di recidiva, persino allo sfratto. Onde chi si accinge alla cura per suggerimento del medico dev'essere un malato grave; chi vi si assoggetta per suo capriccio dev'essere un matto.... Matti effettivi, o matti dilettanti, ecco la conclusione a cui la gente pratica arriva. E, per natural conseguenza, lo stabilimento idroterapico di.... non sarebbe che una succursale del manicomio.

Intanto la vettura ha percorso un buon tratto di strada nè brutta nè bella, e il cocchiere mi assicura che fra un quarto d'ora saremo alla meta.

— Ehi, ehi, cocchiere, di dove vengono questi originali?

— Vengono proprio dallo stabilimento. Hanno fatto la doccia e adesso fanno la reazione.

Tipi curiosi in verità. Pallidi, torvi, a testa bassa, soli per lo più e taciturni anche se sono in due, scendono a passi concitati giù per la china e paiono assorti in così gravi pensieri che nessun fatto esteriore giunge a turbarli. Anche a me balena un istante l'idea: Che sian matti?

[184]

L'arrivo.

La strada che saliva a zig zag intorno al monte si spiana ad un tratto. Eccoci giunti. Il rotabile corre sopra un piazzale alla cui destra sorgono tre corpi di fabbrica a uno e a due piani, alla cui sinistra verdeggia un viale di platani. Sotto il viale uomini e signore passeggiano o seggono in crocchio. Mi sembra udir pronunziato il mio nome, mi sembra che qualcuno agiti le braccia verso di me in segno di saluto. Ma il veicolo tira innanzi e non s'arresta che dinanzi a una porta ove il proprietario dello stabilimento accorre sollecito ed ossequioso, mi aiuta a scendere, mi dice di lasciar a lui la cura dei bagagli e m'affida a una vispa servetta.

Seguo la mia guida su per una piccola scala di legno, assumo da lei qualche informazione essenziale, ed entro nella stanza che mi è destinata. Proprio una cella, coi muri bianchi e il pavimento di legno, col letto di ferro, un tavolino zoppo, un cassettone piccolissimo, uno specchio chiazzato di macchie, un lavamano, un canterale, un cappellinaio, e due o tre sedie malferme. Lagnarsi è impossibile. Non c'è di meglio. Uno degli usci dà nell'andito, l'altro metterebbe in comunicazione con la camera attigua, ma è chiuso a chiave.

— È occupata quella camera? — io domando.

— Sissignore.

— E non resta libera per adesso?

[185]

— Ah nossignore. Il forestiero è qui da poco.

— E da questa parte?

— Da questa parte non c'è nulla. Il signore ha la fortuna d'aver la camera in angolo.

Meno male; sarò spiato da una parte sola. Poichè attraverso le pareti sottilissime d'uno di questi alberghi non ci sono segreti, e l'orecchio meno acuto sorprende ogni suono intimo e fuggevole. Il vicino entra, il vicino esce, il vicino apre un cassetto, il vicino si lava la faccia, si soffia il naso, si raschia la gola, sospira, il vicino.... Basta, non approfondiamo le indagini.

— Comanda altro? — chiede la rustica Colombina.

— Nient'altro. Buon giorno, cara.

Dopo un po' di toilette mi accingo a discendere, e nel dar un'ultima occhiata all'ingiro m'accorgo d'una tabella appesa accanto al letto, come un'immagine sacra. Una tabella, del resto, molto pratica e savia, ove sono indicati l'orario della cura e quello dei pasti, i prezzi giornalieri della camera, del vitto e gli accessori, tra cui la visita medica obbligatoria all'arrivo. Sommato tutto quanto, è un conto salato. Pazienza!

L'amico.

Oh gioia insperata! Quelle due braccia che s'agitavano festosamente al mio arrivo appartenevano ad un amico, ad un carissimo amico. Chi è? Non lo so, almeno fin ch'egli non me lo abbia detto; so ch'egli aspettava con impazienza [186] ch'io uscissi di camera, so che mi corre incontro e che mi esprime il suo piacere infinito di vedermi.

— Grazie, grazie.... Ma con chi ho l'onore....?

— Come? Non mi ravvisa?

— Ecco.... la fisonomia mi è nota.... Ma il nome.... al momento....

— Già, in città ci si urta coi gomiti migliaia di volte senz'aver l'occasione di parlar insieme.

E l'espansivo uomo m'informa del suo nome e cognome, della sua professione, del suo domicilio, delle sue condizioni domestiche, eccetera, eccetera.... M'incontra quasi ogni mattina nella tale strada, presso il tal ponte; egli va al suo ufficio, io probabilmente andrò alla mia scuola;.... perchè egli sa benissimo ch'io occupo una cattedra al nostro Istituto superiore.... anzi il nipote d'un cugino di suo cognato, anni addietro, era stato mio studente.... E come parlava di me!... Tutti, del resto, ne parlano bene.... Io sono una di quelle persone (così dice almeno il mio affabile interlocutore) sul conto delle quali non c'è alcun disparere.... Perciò egli era tanto lieto di mettersi a mia disposizione.... Ero nuovo del sito?

— Ma.... sì....

Egli invece ci veniva già da due anni, per sua moglie.... me l'avrebbe fatta conoscere.... e aveva ormai pratica dei luoghi, relazione intima con le persone.... A proposito, non avevo ancora visto il dottore dello stabilimento?... Era laggiù poco prima insieme col bagnajuolo.... Ah, eccolo....

Il dottore si presenta da sè; è un bell'uomo, [187] di modi schietti, simpatici. Atteggia il labbro a un risolino scorgendo il mio compagno che si profonde in saluti ed inchini, e dice con una certa benevolenza ironica: — Il signor Peretti è il nostro factotum.

Il signor Peretti ringrazia; poi, côlto da una subitanea inspirazione, si rivolge a me, e soggiunge: — Vado a vedere che posto le han dato a tavola.

E fila via come una saetta.

— Bell'originale! — dico io, — seguendolo con lo sguardo.

— Un buon diavolo, — risponde il medico, — di quelli che hanno la mania di prestar servigi a tutti.

— Un seccatore, però.

— In fondo è innocuo.... Non abbia paura.... Lei è l'ultimo arrivato, e aspettiamo ancora tanta gente....

— Ah.... capisco.

Il signor Peretti ritorna dalla sua missione diplomatica, e mi annunzia misteriosamente che il mio posto è di fronte alla porta laterale a sinistra vicino alla famiglia Cirieri di Asti. Egli avrebbe voluto farmi collocare accanto a lui, ma gli spostamenti son sempre difficili, promuovono delle lagnanze, delle discussioni.... A meno che non intervenga il dottore....

— No, per carità, — esclamo spaventato. — Nessun privilegio. È sempre meglio assoggettarsi alla sorte comune.

— Ho dato anche un'occhiata al menu, — ripiglia il signor Peretti. — Abbiamo pasta di cappellini col pomodoro.... E per secondo piatto....

[188]

Ma l'arrivo d'un landau frena sul labbro del signor Peretti questa importantissima confidenza. — I Martinoni! — egli grida con entusiasmo. E agitando il cappello si slancia verso la carrozza.

Il dottore passa confidenzialmente il suo braccio sotto il mio. — Ella ha perduto l'amico.

Din, din, din. È il primo annunzio del pranzo. Alla seconda scampanellata andremo a tavola.

Il pranzo.

Per abbracciar con un colpo d'occhio la posizione non c'è quanto l'ora dei pasti che raccoglie nell'ampia sala da pranzo, senza differenza di condizione sociale, di sesso, di età, tutti gli ospiti dello Stabilimento. Certo che per chi sia avvezzo alla mensa casalinga è, in principio, una gran confusione. Fra il correre affannoso dei camerieri, l'acciottolìo delle stoviglie, il tintinnare delle posate, il gorgogliare di tante voci diverse, alte, fioche, gravi, acute, che si confondono in un suono simile a quello che fa il mare lontano, ci si sente presi da una specie di vertigine, e si osa appena alzare gli occhi dal piatto e guardare la doppia fila dei commensali seduti intorno alla lunga tavola a ferro di cavallo che s'allunga e s'accorcia secondo il bisogno. Però questa impressione quasi di sgomento non dura un pezzo, e dopo poche cucchiaiate di minestra si è come usciti di minorità.

— Che ne dice di questa minestra? — mi [189] domanda uno de' miei vicini Cirieri, quello che pare il capo della famiglia. — Ed è sempre così.... O sa di fumo o non sa di niente.

Ma un signore dirimpetto che seppi poi essere un negoziante di oggetti di cautchouc è molto meno calmo.

— Una porcheria, una vera porcheria.... Una cucina da cani.... Sentirà poi a cena.... Sentirà....

E lo schizzinoso uomo tronca la frase con un gesto d'orrore.

Il bello si è che con un'intonazione più o meno tragica, più o meno feroce lo stesso discorso si fa da un capo all'altro della tavola. Gli arrabbiati, gl'idrofobi addirittura sono quelli che a casa loro pranzano molto peggio, e che appunto per questo vogliono lasciar credere di aver il palato esercitato a tutte le delicatezze gastronomiche; ma anche le persone per bene a cui l'educazione vieta certe escandescenze, anche le persone serie che in condizioni ordinarie s'accorgono appena di quello che mangiano, qui diventano d'una suscettibilità estrema e fanno eco ai citrulli. Le lagnanze principiate alla minestra si ripetono al lesso, si esacerbano al secondo piatto e si mantengono inalterate al dolce e alle frutta.

Son giuste? Ecco, a dirle ingiuste affatto si avrebbe torto. Il proprietario dello stabilimento somiglia a quei direttori di Collegi-convitti che danno poco da mangiare ai ragazzi per risparmiar loro le indigestioni. Anch'egli, il proprietario, ubbidisce a un alto concetto igienico. Non deve, non può, non vuole paralizzar con una cucina succulenta gli effetti benefici della cura. [190] Eppoi se ne appella al medico. Non è forse lui che proibisce le droghe, il formaggio, gli eccitanti di qualunque specie?

Il dottore risponde di sì. Tuttavia, preso a tu per tu, egli non osa affermare che per la salute dei curanti sia necessario che la minestra sappia di bruciato, che la bistecca non si lasci tagliare, che il dolce sia crudo e le frutta siano acide.

C'è piuttosto un argomento psicologico da addurre a favore dello statu quo. In uno stabilimento di questa natura il lagnarsi della cucina è cosa di prammatica, è un modo di passare il tempo. Se lo stesso Brillat-Savarin approntasse di sua mano le salse più ghiotte, tanto e tanto si sentirebbe ogni giorno un coro di maledizioni. Ciò posto, val meglio non darsi troppi pensieri e cercare nell'economia dell'azienda un compenso alle critiche acerbe dei signori bagnanti.

Comunque sia, il pranzo è finito, e mettendomi accanto alla porta mi vedo sfilar dinanzi la lunga schiera dei commensali. È una folla variopinta e diversa. Signore eleganti che nel vestito, nello sguardo, nell'andatura rivelano il desiderio e l'abitudine di piacere; donne di casa che non fanno nessuna concessione alla società, e dopo aver subìto per forza il supplizio della mensa comune si tirano in un canto insieme con la famiglia; uomini serii, emaciati, venuti per la cura e non altro che per la cura, ogni momento alla ricerca d'un consulto medico; zerbinotti allegri in traccia di distrazioni; bimbi malaticci e bimbi fiorenti; insomma una lanterna magica nella quale con un po' di pazienza [191] spiccheranno alcune figure caratteristiche. Per oggi bisogna contentarsi delle linee generali. Passa anche il mio amico e mi saluta, ma è in compagnia dei Martinoni e deve rimandare a più tardi l'onore di presentarmi a sua moglie. Il dottore aveva ragione; l'amico è meno pericoloso di quello che si sarebbe creduto. Ho invece la grata sorpresa di trovar qualche vecchio conoscente che, a tavola, non avevo ravvisato; scambio qualche stretta di mano, qualche parola, faccio in buona compagnia una passeggiata di mezz'ora sino a un punto da cui si gode una bellissima vista. Il senso pauroso d'isolamento da cui ero stato colto all'arrivo va attenuandosi a grado a grado.

Nell'ingranaggio.

E fino dal secondo giorno son preso nell'ingranaggio. Ho ricevuto all'alba la visita del dottore, sono stato, per pura formalità, interrogato, auscultato e palpato, e poichè sembra ch'io abbia i visceri sani sono promosso ai corsi superiori senza bisogno di passar pei corsi preparatori. Mi spiego. I novizi non vengono ammessi immediatamente agli onori della doccia; devono prima pigliarsi in santa pace l'impacco, la spugnatura e che so io.... Ai provetti la doccia, la tinozza, la piscina. Partecipo anch'io ai sacri riti. Mi alzo per tempissimo, bevo un bicchier d'acqua fresca alla fonte, cammino su e giù a passo di bersagliere davanti allo Stabilimento per la cosidetta preazione in attesa della [192] campana che chiami i fedeli a raccolta e del campanello che annunzi con due squilli il turno del secondo gruppo a cui appartengo. Giunto l'istante fatale, mi chiudo nel camerino, mi riduco nelle condizioni d'una statua greca, meno la bellezza, ed entro nel misterioso recinto ove il pontefice massimo circondato dai minori officianti, ritto sopra una piattaforma, con la destra su un manubrio mi dà alcuni ordini secchi, precisi, e quando io son collocato nella posizione voluta con la faccia rivolta al muro e con le due mani su una spranga d'ottone, mi scarica addosso le sue artiglierie acquee accompagnando l'atto feroce con altri comandi e suggerimenti laconici. — Bassa la testa. — Fregarsi il petto e le gambe. — Voltarsi. — Ancora. — Basta. Ed eccomi avviluppato in un bianco lenzuolo, ricondotto nel mio camerino, fregato e strigliato come un asino, aiutato a vestirmi in gran furia, e slanciato fuori a somiglianza d'un proiettile che deve compire la sua parabola.... Su per sentieri erti e sassosi, giù per la strada postale o per viottoli angusti fra campi e prati senza indugiarmi nè a guardare una prospettiva, nè a raccogliere un fiore sinchè le membra intirizzite non siano invase da un tepore benefico. Allora, sicuro dell'avvenuta reazione, penso con più calma al ritorno e allo spuntino che m'aspetta, due ova e una tazza di latte. Non è propriamente un pasto in comune; la tavola è apparecchiata dalle sette alle otto; pur di non lasciar passare questo limite si viene quando si vuole. I ritardatari stanno a digiuno fino al tocco. Ma già, nel termine prescritto [193] vengono tutti. Vengono alla spicciolata, ansanti, trafelati dalla corsa, le signore in abiti dimessi, per lo più coi capelli chiusi in una rete. I discorsi che si sentono sono pieni di varietà. — Ha fatto una buona reazione? — Fa due o tre doccie al giorno? — Ah due sole.... La terza è troppo molesta. — A me no davvero.... Quando si è in ballo bisogna ballare. — S'intende, ma con una certa moderazione. — No, no, o la cura sul serio, o niente.

Perchè anche quassù, come da per tutto, abbiamo i fanatici e gli scettici. I primi con la loro aria solenne, compunta, sacerdotale, non ammettono scherzi, non aprono la bocca che per esaltare i miracoli dell'idroterapia. Sono per solito i veterani dello Stabilimento, vi capitano da cinque, da dieci, da quindici anni, e citano sè stessi come esempi parlanti dell'efficacia della cura, che, del resto, essi seguono anche a domicilio, senza interruzione. A sentirli discorrere non si riesce a figurarseli che in istato adamitico, sotto la doccia. E l'immagine non è mica sempre attraente. Gli scettici, che il cielo li benedica, sono affabili, disinvolti, e ridono volentieri del culto, dei sacerdoti e dei fedeli. In quanto a loro, son qui perchè di luglio preferiscono il monte al piano, l'acqua fresca all'acqua calda.

Senonchè il tipo originale per eccellenza è un certo conte Ortigli (lo chiamo così) il quale essendo, in fatto di cure, più ancora che scettico, miscredente, si sottopone a tutte quante a vicenda.

— Caro signore, — egli mi dice un giorno [194] fra una doccia e l'altra, dandomi un colpettino sulla spalla, — questa delle cure è una camicia di Nesso. Una volta che la si è indossata non la si depone più. Naturalmente la prima cura fa male. Se ne tenta una seconda. La seconda forse mitiga le conseguenze della prima ma produce essa pure i suoi effetti sinistri, ond'è indispensabile provarne una terza e poi una quarta e una quinta, fin che, scusi la parola, si crepa. Io andavo soggetto a un po' di calore alla pelle; il medico mi ordina i bagni salsi e mi spedisce a Venezia. Anzichè guarire divento un mascherone e rimango tale per cinque o sei mesi. Consulto un nuovo Esculapio. — Vada nel prossimo giugno a Levico a far la cura arsenicale. — Vado; in principio mi scuoio; dopo sto meglio e sembro ristabilito nel mio incomodo. Ma mi rovino gli intestini al segno che l'anno appresso il dottore mi manda nientemeno che a Carlsbad. Un luogo amenissimo. Migliaia e migliaia di persone che per quattro settimane consecutive si purgano. Oh gl'intestini son ripuliti per bene, non c'è che dire, ma a cura finita stento a reggermi in piedi e son bianco e sottile come un fantasma. — Bisogna rintonarsi in montagna, — sentenzia il mio archiatro. E io salgo a Saint-Moritz, trovo in agosto due gradi sopra zero, mi sforzo a far delle passeggiate di parecchi chilometri e ripiglio lena e colore. Ma ci guadagno una bronchite fastidiosa e insistente. — Roba da nulla, — dichiarano i medici (ne ho interrogati tre), — roba da nulla; i polmoni sono in istato perfetto; non c'è che un'eccessiva sensibilità alla [195] cute, e a questa si rimedia con l'idroterapia. Ed eccomi qui, caro signore, eccomi qui con un principio di dolori artritici....

— Eh via....

— Non ischerzo. Sento delle fitte alle giunture e prevedo che quest'inverno sarò inchiodato a letto e che nell'estate ventura andrò ad Abano o a Monsummano a sudare tra i vapori come un dannato e a ravvoltarmi nel fango come un maiale....

— Ma allora.... — incominciai.

— Perdoni se la pianto così, — interruppe il conte. — A momenti suona la campana, io ho il primo turno, e devo far quindici minuti di preazione. Arrivederla.

Soddisfazioni morali, piccole noie, arrivi, partenze.

C'è da inorgoglire. Un'eco della mia fama letteraria è giunta fino quassù. Credo abbia contribuito a ciò lo zelo del mio carissimo amico Peretti, il quale, sebbene abbia frenato gli slanci del suo cuore espansivo, mi dimostra una considerazione superiore a' miei meriti. È certo che si sa ch'io sono quello che scrive. Il proprietario mi fa degli inchini profondi sperando un articolo di elogio; qualche signora spinge la degnazione fino a volere ch'io le sia presentato. In complesso mi sembra che nessuno abbia letto i miei libri, ma, viceversa, tutte desiderano di leggerli, e pensano al modo di procurarseli. L'idea luminosa che il modo [196] più semplice di procurarsi un libro sia quello di comperarlo non entra quasi mai nel cervello degl'Italiani. Le signore specialmente, così pronte a gettare il danaro in fronzoli vani e gingilli inutili, diventano, a questo proposito, modelli di economia domestica. — Un libro? Che cosa se ne fa dopo averlo letto? — Una delle mie ammiratrici mi domanda il titolo del mio ultimo romanzo. Glielo dico. — Ah, ella esclama, quanto pagherei ad averlo! — Sarei tentato di risponderle che le basterebbe pagar quattro lire, ma taccio per prudenza. La signora resta un poco soprappensiero, poi soggiunge: — Al mio ritorno pregherò mio fratello di farselo prestare dal Club. Al Club lo avranno? — Ma! — replico io in tuono dubitativo.

Nessuno mi leva dalla mente che la signora mi giudica un somaro perchè non le offro io stesso un esemplare del romanzo con le sue due righe di dedica. Un'altra ha trovato una maniera singolarissima di lusingare il mio amor proprio. Convien notare ch'ella si è portata seco un marmocchio di undici mesi, slattato appena, il quale non fa la doccia, ma la fa fare, tepida, a chi lo prende in collo senza le debite precauzioni. Or bene, questa mamma fortunata tiene, me presente, al suo bambino dei lunghi sproloqui per eccitarlo a diventare una brava persona come me, a scrivere, quando sarà grande, dei libri come li scrivo io. E si capisce ch'ella non dubita nemmeno ch'egli li scriverà molto meglio, tanta è l'intelligenza ch'egli spiega alla sua tenera età, tanto il criterio ch'egli dimostra in ogni atto della sua vita. Del rimanente, [197] questo è il più piccolo ma non il più nocivo tra i fanciulli che si trovano nello Stabilimento. I più nocivi sono quelli tra gli otto e i dodici anni, sia che strepitino e s'accapiglino insieme, sia che si caccino fra le gambe degli adulti, sia che si esercitino nella divina arte di Euterpe (maniera difficile per dire la musica) sedendo due o tre ore di fila al pianoforte della sala, o portando nei boschetti del giardino i loro strumenti insidiosi, flauto, violino, clarinetto, eccetera, eccetera. Vittor Hugo augurava a' suoi cari di non veder mai

..... la ruche sans abeilles

La maison sans enfants!

Pensiero alto e gentile. Pur che le api restino nell'alveare e i fanciulli nella casa.

— E pettegolezzi, e galanterie, e scandali non ce ne sono?... mi chiederà qualcheduno. Di scandali non so; certo che i pettegolezzi e le galanterie non mancano. E qui, con questa vita tutta preazioni, docce e reazioni, i pettegolezzi e le galanterie sono un piacevole diversivo. Ma che sugo c'è a rammentarli? Chi non se li immagina? Non son sempre le medesime cose? Le tali e tali guardano in cagnesco le tali altre o per gelosia di bellezza, o per gelosia di toilette, o per bizze e dispetto dei figliuoli, o per un saluto freddo, o per un biglietto da visita non ricambiato subito, o per la naturale e insanabile antipatia di classe; la signora X va troppo spesso col signor Z, la signora K si dilegua dopo cena col signor Y, la signora Tre Stelle [198] in assenza del marito si fa custodire da un cugino che non è cugino, il dotto e grave professore Asterisco dell'Università di.... sospira ai piedi della elegantissima marchesa W che si ride di lui; le due coppie A e B hanno eseguito d'accordo uno dei movimenti della quadriglia: changez de dame et de place. E così all'infinito. Tutte le cronache dei luoghi di cura si rassomigliano.

E si rassomigliano anche per la grande importanza data a ogni arrivo e ad ogni partenza. Chi si aspetta oggi? O, meglio ancora, chi verrà inaspettato? E allo spuntare d'un landau i curiosi sporgono il capo dalla finestra o scendono nel piazzale. — Chi è? Chi è? — Non manca mai qualche signor Peretti a saperlo addirittura o a correr subito ad informarsene.

Le partenze ordinariamente si conoscono uno o più giorni prima e basta la notizia per promuovere mille lamentazioni finte o sincere. — Come? — Vogliono (o vuol) già partire? — Così presto! — Che peccato!

Poi la mattina compare la carrozza vuota coi non focosi bucefali. Camerieri e bagnaiuoli ronzano intorno per le mancie; il capo della famiglia (s'è una famiglia che se ne va) invigila perchè sien messi a posto i bauli, gli scialli, le cappelliere, gli ombrelli, donne e fanciulli scendono alla spicciolata, in abito da viaggio, con aria contrita, scambiano con gli amici baci e strette di mano. — Presto, presto, — dice il marito e babbo, guardando l'orologio. — Su, su. — Ci siamo? — Sì, pronti.... Il cocchiere monta [199] a cassetto, scuote le briglie sul collo ai cavalli, e via. — Buon viaggio, buon viaggio. Arrivederci.... — Si agitano i cappelli, si sventolano i fazzoletti fin che il veicolo abbia svoltata la strada.

Un individuo che parta solo fa meno chiasso. Ecco, oggi per esempio, ci ha lasciato tacitamente il conte Ortigli, il quale, essendo misantropo per sua natura, non aveva destate molte simpatie. Io, per altro, non posso lagnarmene perch'egli mi trattò sempre con rara cordialità e mi diede oggi stesso una prova della sua deferenza. — Ha il mio indirizzo? egli mi chiese nell'accommiatarsi. Mi farà un vero piacere scrivendomi a suo tempo se nell'estate prossima va ad Abano od a Monsummano. Dove andrà Lei andrò io.

— Grazie, — replicai. — Ma io non vorrei andare in nessuno di questi due posti.

— Preferisce Battaglia?

— Nemmeno.

— Oh scusi! — egli riprese infastidito. — Crede forse ch'io ci vada per elezione? Crede che di mio gusto sarei venuto qui, che sarei andato a Levico, a Carlsbad, a St. Moritz? Si ricordi la mia teoria. Le cure sono come le ciliegie. Una tira l'altra. Dura lex, sed lex. Dopo la cura dell'acqua fredda, l'artrite, dopo l'artrite, la cura termale. Si rassegni....

Era inutile combattere quest'idea fissa. Mi contentai di ridere.

— Riderà bene chi riderà l'ultimo, — soggiunse il conte a modo di conclusione, mentre la timonella s'allontanava.

[200]

— Crepi l'astrologo! — dissi fra me. — Tuttavia, non lo nego, l'accento solenne di Ortigli mi fece una certa impressione. Se i suoi pronostici si avverassero?... Eh, in tal caso, vi spedirei nell'agosto prossimo una corrispondenza da Monsummano o da Battaglia o da Abano.

[201]

NELLA NEBBIA

Nell'ottobre 1882 — cominciò l'architetto Marino Sala — essendo a Parigi in tre amici, l'ingegnere Giorgio Bussoli, il povero Battista de Giacomi, il pittore, ed io, ci venne il ghiribizzo di dare una capatina a Londra. Ci si andava, come suol dirsi, con la testa nel sacco; senza conoscere affatto la città, senz'avere una lettera di raccomandazione, senza sapere una parola d'inglese. Ma erano giovani, e pei giovani le difficoltà non esistono.

Senonchè, appena giunti nella grande metropoli, quasi in omaggio al proverbio paese che vai, usanza che trovi, ci si cacciò addosso un potentissimo spleen. A Parigi avevamo lasciato un bel sole; arrivavamo a Londra con la nebbia; a Parigi, bene o male, ci facevamo intendere; a Londra, tranne con un cameriere dell'albergo che balbettava un po' di francese, ci conveniva aiutarci a forza di mimica. E accadeva una cosa singolare. De Giacomi, che, ignorando anche il francese, a Parigi non s'impicciava in nulla e si rimetteva interamente a noi, [202] a Londra era d'un'estrema loquacità, e se aveva qualche informazione da chiedere, fermava la prima persona che gli si parasse davanti e le rivolgeva il discorso in pretto veneziano. Quest'era il lato comico della situazione; perchè, naturalmente, l'interrogato restava con la bocca aperta, e Bussoli ed io ridevamo facendo andar in bestia l'amico, il quale si sfogava a dir vituperi a quella gente barbara che non capiva il dialetto di Carlo Goldoni e di Giacinto Gallina. Povero de Giacomi! Fuori della sua arte egli era una specie di sordo-muto; ma la sua arte come la sapeva! E che nome si sarebbe fatto se fosse vissuto più a lungo!

Basta; una sera noi c'eravamo allontanati molto imprudentemente dal nostro albergo, fidandoci, per ritrovar poi il cammino, in una certa abilità di orientazione che Giorgio Bussoli aveva mostrato di possedere a Parigi. Camminavamo senza uno scopo, seguendo l'invito del rumore decrescente, cosicchè, partiti da una via piena di moto e di frastuono, giungemmo in pochi minuti ad un'altra che, per Londra, poteva dirsi deserta e silenziosa; non percorsa dai trams nel mezzo, non affollata dai pedoni sui marciapiedi. Tuttavia della gente ce n'era, e bastava che ci fermassimo davanti alla vetrina di un negozio per ricevere degli spintoni da qualche passante affrettato. — In malora! — borbottava de Giacomi. — In malora! — Ma nessuno si risentiva dell'offesa. Solo una volta una donna la quale non ci aveva nemmeno toccati, cogliendo a volo l'esclamazione vivace del pittore, girò il capo e stette un momento a [203] guardarci tra curiosa e benevola. Poscia ripigliò la sua via; sostò di nuovo pochi secondi alla svolta d'una strada; di nuovo ci guardò, e disparve.

Giorgio Bussoli, sempre pronto ad ingalluzzirsi, fece atto di voler seguirla; ma de Giacomi e io lo trattenemmo pel braccio. O che diventava matto? Non sapeva quanta prudenza fosse necessaria a Londra nell'articolo femmine? Non si ricordava di forestieri svaligiati e peggio per esser corsi dietro a qualche sirena lusingatrice? E poi di che cosa s'era invaghito? L'aveva vista bene in faccia quella donna? Che altro poteva dire di lei se non ch'ell'era alta e sottile da parere un manico di granata?

Bussoli s'arrese alle nostre ragioni, sospirando con aria patetica: — In che razza di paese siamo capitati!

La nebbia s'era fatta più densa; non c'era proprio sugo ad andare a zonzo per la città e io proposi di tornarcene addirittura all'albergo.... se si trovava la strada.

— Facilissimo, — rispose Bussoli con la sua sicumera. — Intanto front'indietro.

Su questo non c'era nulla a ridire, e per i primi cento metri si camminò d'amore e d'accordo. I guai cominciarono sotto una réclame colossale affissa all'altezza d'un primo piano alla svolta d'una strada e illuminata da un riflettore a gaz. Giorgio Bussoli sosteneva che bisognava girare di là, che su quella réclame egli aveva prima fermato la sua attenzione come sopra un faro, e ch'era tanto sicuro che quella fosse la direzione giusta quant'era sicuro [204] di esistere. Noi avevamo i nostri riveriti dubbii; a noi pareva che si dovesse girar dalla parte opposta, ma Bussoli insisteva, rammentava i suoi trionfi di Parigi, ci permetteva di dargli del piavolo se entro dieci minuti egli non ci conduceva alla porta dell'albergo. E noi, benchè riluttanti, finimmo col seguirlo, ma prima che fosse trascorsa la metà del termine da lui stabilito egli fu costretto a riconoscere che aveva sbagliato e ad accettare in silenzio la qualifica di piavolo superlativo datagli da Battista de Giacomi.

Eravamo in una via mal selciata, senza botteghe, scarsamente rischiarata da pochi lampioni a gaz che mettevano come tante chiazze giallastre nella nebbia umida e fitta. Nessun veicolo l'attraversava; pochi pedoni strisciavano come ombre rasente i muri.

— E adesso? — disse de Giacomi tirando giù quattro moccoli.

— Adesso, — io risposi, — si domanda.

— Sì; e in che lingua?

— Come si potrà.... Grazie a Dio, lì c'è un policeman.

Rigido, spettrale, con le mani intrecciate dietro la schiena, l'uomo era a pochi passi da noi, sbucato non si sa di dove. Alla nostra richiesta egli fece segno ripetutamente che non capiva. Allora io strappai un foglietto bianco dal mio taccuino, e scrissi il nome del nostro albergo.

Ma proprio nel punto in cui stavo per mettere la carta sotto gli occhi dell'agente della legge, un rumore indiavolato si levò da un vicolo [205] laterale, una megera furibonda irruppe nella strada e rivolse un pressante appello al policeman che la seguì, piantandoci in asso.

Varda che fiol d'un can! — urlò de Giacomi.

In quella, dietro le nostre spalle, una voce armoniosa, sebbene alquanto velata, articolò, con un pronunziatissimo accento veneto, un cortese saluto: — Buona sera.

Ci voltammo stupiti. Era una donna alta e magra, certo la stessa che avevamo vista un quarto d'ora innanzi.

— Buona sera, — ella ripetè. E aggiunse in tuono interrogativo: — Veneziani? — Indi, leggendoci in faccia la risposta, sospirò: — Son veneziana anca mi.

Sola a quell'ora nelle vie di Londra, ella non lasciava dubbio sul vero esser suo. Ma ogni scrupolo tacque di fronte alla dolce sorpresa di sentire il dialetto nativo, alla simpatia che ravvicina i compatrioti in paese straniero, alla sicurezza d'aver alfine un'indicazione precisa che ci avrebbe rimessi sul buon cammino.

Rinfrancata dalle nostre accoglienze, la donna ci si pose al fianco e ci offerse di accompagnarci sino alla porta del nostro albergo. Non era mica molto lontano; nella strada ov'ella ci aveva incontrati prima dovevamo voltare a destra anzichè a sinistra.

— Era quello che dicevamo noi! — esclamammo in coro de Giacomo ed io.

Giorgio Bussoli non pareva troppo persuaso, e ci confessò più tardi che per un istante egli concepì qualche sospetto sulla buona fede della [206] nostra guida, e fu tentato di ripeterci la lezione di prudenza che poc'anzi avevamo data a lui.

Io intanto esaminavo da presso la nostra concittadina. Era pallida, macilenta; giovine forse ancora, ma invecchiata dagli strapazzi; forse bella un tempo, ora non avente altro di bello che i grandi occhi bruni e i lucidi capelli castani abbondanti così da tenere sollevato sul cocuzzolo il cappellino di paglia nera che aveva l'aria di contar parecchie campagne. Indossava un abito di lana color marrone, e su quello un soprabito scuro stretto alla vita; con una mano s'appoggiava all'ombrello chiuso, con l'altra teneva sollevate alquanto, per non inzaccherarle, le falde del vestito, mostrando il piede piccolo e le scarpine sfondate. Allorch'ella parlava un sorriso malinconico errava sulla sua bocca, e sul suo labbro superiore appariva un solco, come d'una cicatrice. E in quel punto le mancava un dente incisivo, uno solo; chi sa in che rissa, in che orgia, per effetto di che colpo brutale ella lo aveva perduto!

Il più infatuato a discorrerle e a farla discorrere era de Giacomi. Finalmente gli risonava all'orecchio il suo vero dialetto; il nostro era adulterato, diluito nelle leziosaggini della lingua; non eravamo due veneziani autentici Giorgio Bussoli ed io; questa ragazza invece, nonostante il suo lungo soggiorno a Londra, conservava gl'idiotismi, le inflessioni del popolo, e al nostro pittore, nato di popolo, si allargava il cuore a sentirla.

Ella, però, alle interrogazioni rispondeva con un certo riserbo, cavandosela talora con frasi [207] vaghe, come persona a cui pesa di riandar la sua vita. Aveva lasciato Venezia da oltre quindici anni, da circa dieci era a Londra; ma in forza di quali eventi v'era capitata, per quale necessità di cose vi aveva fissato la sua dimora? Sollecitata a raccontar la sua storia, ella si stringeva nelle spalle.

Xe inutile, no i me credaria.... Combinazion. E nemmeno il suo cognome volle dirci; ci disse solo il nome che portava a Venezia, Zanze; a Londra la chiamavano Kitty. Ma, le chiese uno di noi, non aveva parenti a Venezia, non aveva nessuno? Col capo ella fece segno di no.... Tutti morti? Con uno sforzo visibile ella rispose che forse viveva ancora un suo fratello che viaggiava per mare.... Forse?... Non ne sapeva nulla di preciso? Non si scrivevano mai?... No.... Lu va per la so strada, mi vado per la mia — ella dichiarò, con una sua filosofia rassegnata.

Pur non aveva il cuore affatto indurito, e al ricordo della sua città natale si esaltava, si commoveva, gli orli delle sue palpebre s'inumidivano. Abitava in Cannaregio, faceva la perlera (l'infilatrice di perle). Le aveva sempre dinanzi agli occhi quelle fondamente piene di sole: San Girolamo, la Sensa, la Madonna dell'Orto. Quante volte le aveva corse e ricorse con le sue compagne, ridendo, cantando, facendo sonar le pianelle sugli scalini dei ponti! Quante volte nelle sere affannose d'estate s'era seduta sopra una riva a godersi il fresco e succhiar le fette d'anguria (cocomero) mentre i ragazzi si tuffavano a gara nel vicino canale!... [208] Ah Venezia, Venezia!... Ella non poteva affacciarsi a quel Tamigi torbido e limaccioso senza volar con la mente alla sua laguna limpida come un cristallo e quieta come un olio, al Molo, alla Riva degli Schiavoni, alle Zattere, al Lido.... Avevano costruito un grande stabilimento di bagni a Santa Elisabetta di Lido, non è vero?... Ell'andava a San Nicoletto, ogni lunedì di settembre.... Le belle merende che aveva fatto colà, sotto il platano!... C'era ancora quel gran platano, c'era?... Perchè aveva sentito dire che tante cose erano mutate.... Già fin dai suoi tempi stavano lavorando intorno a una strada nuova, dove c'era la Calle dell'Oca.... E anche a San Moisè volevano aprire una via larga?... Ma la Piazza non la toccheranno mica?... Quella non si tocca.... Guai!

La Zanze mise un sospiro.... Le pareva che sarebbe morta contenta se, per un giorno, fosse potuta tornare nella sua Venezia.

Noi la interrogammo. Perchè non ci tornava? Non era poi un viaggio da spaventare.

Ella tentennò la testa. — No, no.

— Scommetto, — riprese de Giacomi supponendo che la maggior difficoltà venisse dalla spesa, — che duecento lire bastano, e ce ne avanza.

E poichè aveva le mani bucate per sè e per gli altri soggiunse: — Ecco, qui siamo in tre, e fino a duecento lire in tre ci si arriva.... Io per la mia parte son pronto; de' miei amici non dubito....

Giorgio Bussoli gli diede un pizzicotto per avvertirlo che forse egli aveva torto di non [209] dubitare; ma prima che noi manifestassimo in modo più esplicito il nostro parere sull'atto di munificenza a cui eravamo invitati, la Zanze troncò la discussione: — Grazie, tosi, — e ci associava tutti e tre nei suoi ringraziamenti; — xe inutile; no posso....

Una nube s'era calata sulla sua fronte; una risoluzione dolorosa, inflessibile si leggeva nella sua fisonomia.

Ebbene, insisteva de Giacomi, s'ella non poteva adesso, avrebbe potuto più tardi; egli le avrebbe lasciato il suo indirizzo; ella gli avrebbe scritto, e per quello che le fosse occorso egli le rinnovava l'offerta.... anche in nome de' suoi amici.

Quel de Giacomi voleva a ogni costo comprometter gli amici. Ma ora si trattava d'un'offerta vaga, lontana, e Bussoli ed io non esitammo a dire: — Sì, sì.

Grazie, no posso, — ripeteva la Zanze. E non le si cavava altro di bocca.

Camminava silenziosa, appoggiandosi all'ombrello, trascinando un po' la gamba sinistra. Io pensavo, guardandola: — Quanti anni avrà questa donna? Ne mostra quaranta, ma non deve averli. Ne avrà trentaquattro o trentacinque. Ne avrà avuti una ventina quando ha lasciato Venezia. Noi, allora, eravamo adolescenti, nell'età in cui l'anima si schiude e i sensi si svegliano e la bellezza femminile è come la rivelazione d'un mondo nuovo. Certo l'avremo incontrata più e più volte sul nostro cammino questa giovinetta alta, snella, dai folti capelli castani, dai grandi occhi neri; l'avremo incontrata, [210] l'avremo urtata col gomito, avremo sentito rimescolarcisi il sangue al fuggitivo contatto; l'avremo forse seguita per qualche passo, ci saremo tirati addosso i suoi frizzi.... Ma ora la donna stanca, perduta, sbalestrata di là dai monti e dai mari, logora dall'inedia e dai vizi, non ci evoca dinanzi nessuna delle antiche visioni; noi non la riconosciamo; ella non riconosce in noi i timidi adolescenti d'un tempo. Strano fenomeno la vita! Ognuno di noi è veramente un solo individuo che percorre l'intervallo tra la culla e la tomba, o siamo formati di tante esistenze che un filo congiunge ma che molte più cose dividono?

Noi sboccammo in una strada assai ampia, ove, appunto per cagion dell'ampiezza, la nebbia sembrava acquistare maggior densità e consistenza. Le case dall'altra parte si discernevano appena in una massa confusa, lungo la quale correva, a una certa altezza, una linea più chiara, d'un chiarore scialbo, fumoso. Erano i candelabri allineati sul marciapiede. Carrozze, omnibus, tram, procedevano lenti e guardinghi nel mezzo, avvertendo i passanti col tintinnio dei campanelli e con lo squillo delle cornette.

L'identica domanda venne sulle labbra di tutti e tre. — Dove siamo?

De Giacomi aggiunse per suo conto una sfilata d'improperi contro il clima di quel p.... paese, e si tirò su fino agli orecchi il bavero del soprabito.

La risposta della Zanze non si fece attendere. Eravamo a una cinquantina di metri dal nostro albergo, e non si doveva neanche traversar la [211] strada per arrivarci. — Ecco, — ella disse, alzando l'ombrello e segnando un punto luminoso nella direzione del marciapiede.

A due passi dal portone da cui usciva un omnibus pieno di viaggiatori e carico dì bauli, ella si fermò per prender commiato.

Profondendoci in ringraziamenti, noi mettemmo contemporaneamente la mano alla borsa. E Giorgio Bussoli, assalito dallo scrupolo di lasciar partire così una femmina galante per brutta e matura che fosse, invitò la Zanze a salir con noi, a bevere insieme una bottiglia di birra.

La donna sorrise. — In sto albergo? Un bel scandalo che daressi!

E nemmeno del danaro ella voleva saperne. Alla lunga consentì ad accettar solo pochi scellini e disse quasi scusandosene: — Se no porto gnente, le xe de queste....

Fece con l'ombrello il segno di percuotere. Indi, scrollando il capo: — Bona note, tosi, deghe un baso per mi a la mia Venezia.

Si dileguò nella nebbia e non l'abbiamo rivista mai più.

[212]

LA LETTERA

I.

Il professore Attilio Cernieri, glottologo insigne, senatore del Regno, commendatore di più ordini, membro effettivo dei Lincei, socio corrispondente d'un'infinità di Accademie italiane e straniere, s'era fatto aprire dal servo Pomponio due casse di libri giuntigli la sera prima da Padova a piccola velocità. Erano, quei libri, il residuo della biblioteca ch'egli era andato via via formandosi appunto a Padova, quando, una ventina d'anni addietro, apparteneva a quell'Ateneo come assistente al professore di lettere neolatine. Dopo d'allora egli aveva molto viaggiato per iscopi scientifici, era stato chiamato successivamente all'Istituto degli studi superiori di Firenze e all'Università di Napoli, fin che il Ministro lo aveva voluto a Roma, alla Sapienza, creandogli una cattedra apposita, e accordandogli un soprassoldo.

Per qualche tempo, durante le varie peregrinazioni del professore, la biblioteca, fatta incassare e depositata presso un collega, era rimasta a Padova. Poi Cernieri ne aveva richiamato una [213] parte quand'era a Firenze, un'altra parte quando era a Napoli; venuto adesso a Roma con l'intendimento di fissarvi stabile dimora, aveva deciso di ritirar le due ultime casse. In fondo, quei libri non erano punto necessari ad un uomo che oltre ad aver rifornito d'opere recenti la biblioteca propria, aveva a sua disposizione tutte le biblioteche pubbliche e private della capitale. Siamo in un secolo in cui ogni cosa procede a vapore, anche la scienza; la verità dell'oggi può essere una bugia domani, e un volume rischia d'invecchiar sotto i torchi.

Solo non era ancora invecchiata, dopo dieci anni, la celebre monografia nella quale il nostro Cernieri aveva, con poderosi argomenti, rivendicato alla famiglia finnica un gruppo di radici credute d'origine celtica. Il libro, piccolo di mole ma denso di pensiero, era stato tradotto in tutte le lingue, e la geniale scoperta aveva posto il nostro professore sul vertice della piramide scientifica (sono parole di un discepolo entusiasta) accanto al principe dei glottologi viventi, il famoso Löwenstein dell'Università di Upsala. Siccome però sul vertice d'una piramide ci si sta male in due, il Cernieri e il Löwenstein avevano dato in principio l'interessante spettacolo di due lottatori che tentano di cacciarsi abbasso a vicenda, finchè convinti dell'inanità dei loro sforzi, s'erano decisi a mutar la rivalità in alleanza. I due dotti uomini erano sempre due lottatori, ma invece di lottar fra loro lottavano con gli altri.... se mai c'era l'impertinente che osasse alzar troppo la cresta e volesse collocarsi anche lui sul vertice di quella famosa [214] piramide. Chi poi fosse disceso nell'animo di ognuno dei due chers confrères, come si chiamavano scrivendosi, vi avrebbe forse trovato una stima molto mediocre per l'alleato. Il Löwenstein credeva poco alle radici finniche del Cernieri; il Cernieri credeva ancor meno alla rivoluzione portata dal Löwenstein nello studio delle lingue indopersiche.

Ma lasciando stare Löwenstein nella sua lontana Norvegia, noi dobbiamo aggiungere qualche tocco al ritratto del nostro illustre compatriota. E cominciando dall'età, diremo che al momento in cui il servo Pomponio apriva dinanzi a lui le due casse di libri il professore non contava che quarantasei anni, ma pareva già vecchio. Era un po' curvo della persona, aveva fronte ampia solcata da rughe precoci, piccoli occhi miopi nascosti sotto le lenti, ordinariamente socchiusi come d'un micio assopito, capelli scarsi e grigi, barba ispida, negletta e quasi bianca. In gioventù Cernieri si radeva da sè, ma dopo che gli era accaduto più d'una volta, nella sua distrazione, di radersi da una parte sola e di presentarsi così bene acconciato alla scolaresca, egli aveva stimato miglior consiglio di lasciar crescere quella sua appendice in pienissima libertà, salvo ad andar dal parrucchiere quando fosse proprio impossibile di fare altrimenti. Del resto, la distrazione del professore era ormai proverbiale e se ne citavano esempi ancor più caratteristici. Non gli era successo un giorno di perder la corsa ostinandosi a cercar per tutta la stazione di Bologna una valigia che aveva in mano?

[215]

I distratti sogliono aver l'umore gioviale, ma il nostro glottologo era un'eccezione alla regola. Da gran tempo le sue labbra non conoscevano altro che il sorriso scientifico, quel sorriso fatto di superiorità e di commiserazione con cui un uomo dotto accoglie la notizia delle cantonate prese da un carissimo collega. In società, se non poteva esimersi dall'andarvi, si teneva volentieri in disparte, sfuggendo la conversazione delle signore alle quali non sapeva che cosa dire, e che, già, non avrebbero saputo che cosa dire a lui.... sebbene, almeno fino a cinque o sei anni addietro, con la scarsezza di mariti che c'è a questo mondo, più d'una madre gli avesse gettato gli occhi addosso come su un partito conveniente per le figliuole. Anzi per un pezzo la contessa Pastori l'aveva tempestato d'inviti a pranzo, sperando di fargli sposare la sua secondogenita che aveva i denti guasti e gli occhi scerpellini e non trovava un cane che la volesse. Invero la ragazza, opportunamente ammaestrata, accoglieva il professore con singolare deferenza, gli preparava di sua mano una squisita marmellata di pesche e mostrava d'interessarsi assai alle radici finniche. Ma Cernieri non morse all'amo, si schermì dagl'inviti, diradò le sue visite e non si lasciò più vedere in casa Pastori fin che non seppe che la contessina era fidanzata a un negoziante di baccalà che conciliava il culto dei salumi con la venerazione pei titoli nobiliari. Indi, reso accorto dall'esperienza, divenne più orso di prima, più di prima inaccessibile a qualsiasi idea galante. Ogni uomo ha nel libro della sua vita una pagina intima [216] che la donna segna di note dolorose o gioconde; pel professore Attilio Cernieri quella pagina era rimasta bianca.... Così dicevano i suoi conoscenti, così avrebbe detto egli stesso se lo avessero interrogato. E lo avrebbe detto in buonissima fede.... Assorto come era nelle sue ricerche dimenticava le cose vicine; o perchè doveva ricordar le lontane?

II.

— Misericordia! — esclamò Pomponio che aveva cominciato a tirar fuori i libri dalle casse. — Misericordia! Quanta polvere!

E soggiunse: — Creda a me, sarebbe meglio che mi lasciasse portar tutto quanto di là e sbrigar da me questa fattura.

Ma il professore si oppose risolutamente. Voleva che l'operazione si compisse nel suo studio, alla sua presenza; voleva, dopo una spolveratina sommaria, riporre i libri egli stesso in uno scaffale pronto a riceverli.

E Pomponio, rassegnato, seguitò a tirar fuori i volumi, a sbatterli alla meglio e a consegnarli al commendatore che, dopo averne guardato il titolo, li metteva a posto. Le tignuole giravano per la stanza, la polvere si spargeva nell'aria, si posava sui mobili, penetrava nei pori, costringeva padrone e servitore a raschiarsi ogni momento la gola e a starnutire.

— Qui poi c'è anche una tela di ragno, — notò Pomponio sollevando un grosso in-folio. [217] Era un atlante del mondo antico, di Teodoro Menke, stampato a Gotha da Justus Perthes. Ora accadde che mentre il servo lo palleggiava, un piccolo rettangolo di carta ingiallita uscì pian piano dal mezzo di due pagine e andò a cadere sul pavimento.

— To', che roba è? — disse Pomponio. — Pare una lettera.

E, deposto l'atlante, si chinò per raccattarla.

Ma il professore l'aveva prevenuto e come inebetito girava e rigirava la lettera fra le mani. Poich'era effettivamente una lettera, ed era una lettera sua, chiusa ancora, col francobollo attaccato, con l'indirizzo scritto di suo pugno, nella sua calligrafia grave, pesante, di uomo nato per esser cavaliere di molti ordini e socio di molte accademie. Del resto, una calligrafia chiara, tale da dar la sicurezza che la lettera sarebbe giunta a destinazione.... se fosse stata impostata.

Alla gentile signorina

Maria Lisa Altavilla

Firenze

Via dei Servi, 25 — 1.º piano.

Quel nome balzato così d'improvviso agli occhi del professore Attilio Cernieri lo riconduceva a vent'anni indietro, faceva uscir dalle nebbie dell'oblio l'immagine d'una giovinetta un po' magra, un po' gracile, ma con una rara espressione di dolcezza nella bella fisonomia intelligente. Per lei, per lei sola il suo cuore aveva battuto una volta; per lei sola egli aveva [218] un giorno, un'ora pensato alla possibilità di prender moglie.... E poi?...

Il servo Pomponio, che aveva il vizio di esser curioso, s'era avvicinato in punta di piedi al professore, e borbottava: — Come mai si sia cacciata in quel libro?...

Cernieri si scosse, e bruscamente: — Che cosa fate qui?... Andatevene.

— Non devo continuare?

— No, per ora, no.... Andate.

— Le occorre nulla?

— Nulla.... In caso vi chiamerò.

Pomponio si ritirò a malincuore. Avrebbe pur voluto sapere che razza di lettera fosse quella che turbava così il suo padrone.

Rimasto solo, il professore sedette sulla sua poltrona e aperse con dita tremanti la busta che Maria Lisa Altavilla non avrebbe aperta mai più. Ecco ciò ch'egli aveva scritto da Padova il 15 ottobre 1875:

Cara signorina,

“Ho ricevuto stamane il tristissimo annunzio e non voglio tardare ad assicurarla della parte che prendo al suo giusto dolore.

Già nel luglio scorso, quand'ebbi l'onore di trovarmi spesso a Venezia con suo padre e con Lei, io ero testimonio delle sue trepidazioni per quella preziosa e insidiata esistenza. Si ricorda di quella passeggiata, per me indimenticabile, lungo il mare? Avevamo visitato prima San Lazzaro ove il suo babbo s'era compiaciuto di porger così benevolo ascolto alle mie spiegazioni [219] circa alla mummia conservata nel museo di quei Padri Mechitaristi; quindi, fattici tragittare a Sant'Elisabetta del Lido, ci eravamo recati al nuovo Stabilimento di bagni. Il professore, un po' stanco, si fermò nella sala in compagnia dell'ingegnere Livorni. Noi scendemmo sulla spiaggia. La giornata era mite; il sole, nascosto spesso fra i nuvoli, non dava noia, ed Ella tenne chiuso quasi sempre il suo ombrellino di seta rossa. Le piccole onde venivano a morire ai nostri piedi che lasciavano l'orma sulla sabbia umida. Ella, intanto, mi diceva come, da un anno e più, la salute del suo papà fosse profondamente scossa, come i vari medici consultati avessero suggerito a caso ora questa cura ora quella senza che nessuna potesse arrestare il deperimento che la spaventava. Mi diceva altresì con che tenera sollecitudine quel suo diletto si sforzasse a nasconderle ciò che soffriva, egli che non le aveva mai nascosto nulla. Di confidenza in confidenza, Ella passò a discorrermi della loro vita intima e casalinga, dell'accordo pieno dei loro sentimenti e dei loro pensieri, del loro affetto reciproco suggellato dalla sventura, perchè di una numerosa famiglia, erano rimasti loro due soli nel mondo. Vinta dalla commozione, Ella tacque: i suoi occhi erano pieni di lacrime. Quali parole mi salirono allora sul labbro? Non certo tutte quelle che avevo nel cuore. Sono assai timido per mia natura; ho, lo confesso, un grande sgomento di ciò che può distrarmi da' miei studi, togliermi alle mie abitudini. Ma so di averle pur fatto intendere quanta simpatia mi attirasse [220] a Lei, signorina; so di averle detto ch'Ella poteva fare assegnamento sopra di me in qualunque occasione. Grazie, Ella sussurrò dolcemente. E la sua mano tremò nella mia. Poi Ella mi pregò che ritornassimo sui nostri passi. Non parlammo nel ritorno; ma mi pareva che le nostre anime fossero tanto vicine! Di lì a un pajo di giorni Ella lasciò Venezia senza che ci si presentasse più l'opportunità di trovarci a tu per tu.

Adesso, signorina, la maggiore delle disgrazie l'ha colpita; adesso è giunto per lei il momento di mettere alla prova i suoi amici. Sarei voluto venire io stesso a Firenze, ma devo partir fra poche ore per Londra affine di assistere al Congresso degli Orientalisti che s'apre in quella metropoli il 19 corrente. Dall'Inghilterra potrei forse intraprendere un lungo lungo viaggio fuori d'Europa; ma dipenderà da Lei ch'io lo intraprenda o no. Una sua parola avrebbe la virtù di ricondurmi in Italia. A ogni modo io sarò a Londra per tutto l'ottobre, e la prego di farmi aver colà una sua riga ferma in posta. Pensi che sono anch'io, e da molto più tempo di Lei, solo affatto nel mondo.

Mi creda sempre

Suo aff.mo

Attilio Cernieri.

[221]

III.

Due volte il professore rilesse le quattro pagine di questa lettera, sforzandosi di richiamare alla sua memoria il giorno, l'ora, il luogo in cui l'aveva scritta, cercando di spiegare a sè medesimo, come potesse averne dimenticato l'impostazione, come il silenzio di Maria Lisa Altavilla non avesse fatto nascer nel suo animo nessun sospetto, come non avesse avuto l'idea di riscrivere, d'informarsi.

Ecco, egli ricordava. L'avviso mortuario gli era arrivato la mattina mentr'egli stava facendo il bagaglio, e il suo pensiero era corso subito alla povera giovinetta che aveva conosciuto tre mesi addietro a Venezia e che gli aveva destato una così viva simpatia. Indi per tutto il giorno aveva agitato il quesito se dovesse mandarle soltanto le sue condoglianze o se dovesse dirle qualche cosa di più, qualche cosa di meglio rispondente ai sentimenti ch'Ella gli aveva inspirati e a cui forse ella partecipava.... Non era una ragazza delle solite, la Maria Lisa. Pareva nata per essere la compagna d'un uomo di studi. Non aveva fatto da segretario al padre, non poteva far da segretario a lui? Imparar due o tre lingue per aiutarlo, prender note per suo conto, metter in pulito i suoi lavori, correggergli le bozze di stampa, e quand'egli partiva per un Congresso, per una missione scientifica preparargli i bauli, accompagnarlo alla stazione, [222] anche accompagnarlo in viaggio qualche volta, sollevandolo dalla briga di prendere i biglietti, di trattare cogli albergatori, di discutere coi fiaccherai, eccetera, eccetera? Visto sotto questa luce, il matrimonio non gli era apparso più un abisso senza fondo, ma un porto tranquillo ove riposarsi dopo le tempeste. E, la sera, unitamente a parecchie altre lettere, aveva scritta anche quella per la Maria Lisa. Aveva scritto con un'espansione, con un abbandono di cui s'era meravigliato allora, come si meravigliava adesso, ma, questo pure si ricordava, provando, nello scrivere, una dolcezza inusata.

Era nella cameretta del suo quartierino di Padova; sulla tavola ardeva un lume a petrolio; dinanzi a lui era spalancato l'Atlante del Menke, alla pagina che portava l'intestazione Aegyptus ante Cambysii tempus. Quella carta egli l'aveva consultata nel rispondere al suo amico Morrison dell'Università di Edimburgo che insisteva per visitare insieme le rovine di Tebe nell'Alto Egitto. Ed egli, lasciando sospesa la sua decisione fin dopo il Congresso, aveva, nell'ipotesi del viaggio, corretto e ampliato l'itinerario, comprendendovi Itithia, Apollinopolis e Syene.

E, ancora, il professor Cernieri si ricordava. La sua padrona di casa era venuta a picchiare all'uscio e a dirgli che la carrozza era pronta e ch'ella vi aveva fatto mettere le valigie, il plaid e l'ombrello. In fretta egli aveva chiuso e riposto nello scaffale l'Atlante, in fretta s'era cacciato in tasca le lettere a cui aveva applicato già il francobollo, in fretta aveva disceso la scala ed era salito in vettura. Ma per quale [223] strana combinazione una delle lettere fosse andata a finire dentro l'Atlante; per quale negligenza, nel gettare in buca le altre, in numero di cinque o sei, egli non si fosse accorto che ne mancava una, quella che doveva essere la più importante per lui, ecco l'enigma che il dotto professore non avrebbe risolto mai.

Egli poteva giurare che nemmeno per un secondo gli era balenata l'idea di non aver impostata la lettera. Anzi, per parecchi giorni, adesso se ne rammentava, era rimasto come sbalordito della propria temerità. Perchè non ci aveva pensato su? Perchè, con una di quelle parole che non si riprendono, s'era messo al rischio di sacrificare il massimo dei beni, l'indipendenza? Perchè aveva giocato il suo avvenire sopra una carta? Era un galantuomo; data una risposta favorevole della Maria Lisa Altavilla, non gli era lecito tirarsi indietro.... Se poi ella rispondeva di no, egli s'era procurato uno scacco inutile. Dio buono, che furia aveva avuta? C'era da scommettere che, anche di lì a uno, a due, a tre anni, la ragazza, non bellissima e senza un soldo di dote, sarebbe stata libera; e intanto a lui si sarebbe certo presentata l'opportunità di vederla, di conoscerla meglio, di pesar meglio il pro e il contro.... Così a Londra, nella prima settimana, mentre gli crescevano le tentazioni del viaggio in Oriente col Morrison e con un giovine docente di Heidelberg che si era loro offerto a compagno, egli era stato inquieto, nervoso, trepidante a ogni distribuzione di posta e non sapendo più che cosa desiderare o temere. Quindi di mano in mano che il tempo [224] passava e ch'egli, relatore intorno a due temi, era assorbito dai lavori del Congresso e attratto nell'orbita degl'illustri eruditi salutanti in lui un futuro luminare della scienza, l'immagine della povera orfana andava gradatamente scolorandosi, e una timida, segreta speranza gli si faceva strada nel cuore: quella di ricuperar la propria libertà pel silenzio continuato di Maria Lisa, senza patir l'umiliazione di un aperto rifiuto. Egli avrebbe potuto dir sempre che il suo dovere l'aveva fatto; non era colpa sua se le sue offerte non erano state accolte.

E un giorno, uno dei primissimi giorni di novembre, egli pure, come Giulio Cesare, aveva esclamato: Alea jacta est. Aveva traversato di volo l'Europa centrale e l'Italia fino a Brindisi, e insieme al Morrison e al dottore di Heidelberg s'era imbarcato su un vapore della Peninsulare per Alessandria. Due anni era vissuto fuori d'Europa, ora nell'Alto Egitto, ora nell'Abissinia, studiando i geroglifici e le rovine, inviando preziose monografie alle principali Riviste del mondo. E Riviste, e giornali, e lettere di scienziati, e voti di accademie gli giungevano dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania; gli giungeva anche da Padova qualche epistola spropositata della sua padrona di casa. Da Firenze, dalla Maria Lisa Altavilla, nulla.

Del resto, al suo ritorno in patria, egli l'aveva quasi interamente dimenticata. Non eran trascorsi che due anni, ma quei due anni per lui valevano due secoli, e i fatti anteriori si perdevano a' suoi occhi in una lontananza vaga e nebulosa. Onde quando gli dissero che, tre mesi [225] addietro, la Maria Lisa aveva sposato un pretore residente in un paesello della Sicilia, egli non se ne commosse più che tanto. Aveva ben altro pel capo. Aveva da vagliare le diverse offerte pervenutegli dal Ministero; aveva da scrivere per la Edimburgh Review un articolo sulle antichità assire; aveva infine da maturare il tema gravissimo di quelle radici finniche o celtiche per amor delle quali egli era ormai risoluto a dedicarsi interamente alla glottologia lasciando da parte ogni altra ricerca. La Maria Lisa Altavilla era così piccola, così piccola al paragone, e il matrimonio sarebbe stato tale un impiccio! Solo qualche tempo dopo, sul punto d'accettar la cattedra di Firenze, gli era capitato uno scrupolo. Se, per un trasloco del marito, quella donna fosse di nuovo in Toscana? Se s'incontrassero? Che contegno dovrebb'egli tenere con lei? Far l'indifferente, o fingere di non riconoscerla, o rinfacciarle il modo inurbano in cui ella lo aveva trattato?

Ahimè, il professore fu tolto assai presto da queste angustie. La Maria Lisa Altavilla? La figliola del cavaliere Giuseppe? Quella che aveva sposato il pretore Carlucci? Poveretta! Era morta laggiù in Sicilia, d'una febbre di malaria, in capo a dieci mesi di matrimonio.

Morta! Certo, nell'udir la notizia, Attilio Cernieri aveva provato un senso di pietà e di rammarico. Morta così giovine, quella che avrebbe potuto esser sua moglie! Dunque oggi egli sarebbe vedovo, avrebbe la casa in lutto, sarebbe come un naufrago della vita? Ah, quand'era così, meglio, mille volte meglio che la Maria [226] Lisa non gli avesse risposto. Meglio per lui non aver preso delle abitudini che gli sarebbe stato forza troncare, meglio non essersi avvezzato ad aver una femmina al fianco.... Quelli che ci si avvezzano dicono ch'è tanto difficile farne senza!...

Insomma Cernieri non aveva tardato a confortarsi.... E poi.... e poi il tempo aveva compiuto l'opera sua, stendendo un velo densissimo su quel fuggevole episodio, coprendo d'oblio persino il nome di Maria Lisa Altavilla. Adesso la vecchia lettera trovata fra le pagine del vecchio Atlante rievocava le cose scomparse. Innanzi all'uomo maturo, invecchiato negli studi, indurito nell'egoismo, sorgeva per incanto un ricordo della giovinezza, lo investiva violento come fiamma che divampa, come raffica che si leva improvvisa. Stringendo nelle mani il povero foglio ingiallito, egli rivedeva la dolce figura di Maria Lisa; la vedeva pallida e mesta; pareva ch'ella gli dicesse: — Perchè nell'ora dell'afflizione non m'hai mandato una parola, un saluto? Gl'indifferenti compiansero al mio dolore; tu, che m'avevi lasciato creder d'amarmi, tu sei rimasto muto, insensibile. E t'ho atteso, sai, t'ho invocato.... Ahi misera chi si fida in un uomo!

Questo pareva a Cernieri che la Maria Lisa dicesse, ed egli pensava ch'ella aveva portato con sè nella tomba l'acerbo giudizio, che non avrebbe udite le sue discolpe, nè conosciuta la verità.... È pur triste dover fermar la mente sull'idea dell'irrevocabile, dover crucciarsi di torti che non si possono riparare, di malintesi che non si possono togliere.

[227]

Ma la lettera che il grave professore seguitava a tener spiegata davanti a sè non lo avvertiva soltanto che Maria Lisa era morta reputandolo peggiore di quello ch'egli non fosse; essa gli ricordava, quasi per irriderlo, che nella sua vita c'era stato un minuto di poesia, d'abbandono, d'amore, e che quel minuto era rimasto infecondo. Mai più, mai più egli avrebbe trovato un minuto simile; mai più il suo cuore avrebbe palpitato per una donna; mai più dalla sua penna sarebbe sgorgata una prosa, che a noi può sembrar fredda e convenzionale, ma che a lui sembrava riboccante di calore e d'affetto.

Ed egli chiedeva a sè stesso: — Se la lettera fosse partita? Se fosse arrivata alla sua destinazione? Se Maria Lisa avesse risposto: — Intendo ciò che tu accenni, ti ringrazio, ti amo, consento a esser tua. Vieni. —? Certo egli non avrebbe, almeno allora, intrapreso il suo gran viaggio fuori d'Europa; non avrebbe percorso l'Egitto e l'Assiria, nè decifrato i geroglifici, nè interpretato il linguaggio delle rovine; forse gli sarebbero sopraggiunti i figliuoli; forse le cure domestiche avrebbero inceppata la sua attività; la sua fama sarebbe stata ritardata, non sarebbero piovuti così abbondanti sul suo capo gli onori e sul suo petto le decorazioni; forse egli non avrebbe fatta la sua luminosa scoperta intorno alle radici finniche; forse altri occuperebbe oggi il suo posto sul vertice della piramide scientifica, accanto al celebre Löwenstein dell'Università di Upsala.

Sì, tutto ciò sarebbe potuto accadere, e un uomo come il professore Attilio Cernieri doveva [228] rallegrarsi che ciò non fosse accaduto.... E pure.... e pure un dubbio insistente, affannoso gl'impediva di quietar l'animo in questa consolante filosofia. Non sarebbe stato meglio sacrificar un poco di gloria per aver un poco d'amore?

Il professor Cernieri non ebbe il coraggio di lacerare, di distrugger la lettera; la ripose nella scrivania, richiamò il servo Pomponio e gli ordinò di ripigliare il lavoro interrotto. Ma la sera, nel suo studio, lo vinse di nuovo la tentazione di riveder que' suoi caratteri di vent'anni addietro, e ormai non passa giorno, si può dire, ch'egli non tiri fuori dalla busta il piccolo foglio sgualcito e non lo scorra con l'occhio. Indi ne guarda la sopraccarta, ne guarda il francobollo su cui la posta non impresse alcun segno, e ripete fra sè la domanda: — Se la lettera fosse partita?

[229]

LE CONFIDENZE DEL DIRETTORE

— Ebbene — disse la signora Rosa, una donnetta svelta ed arzilla nonostante i suoi cinquantacinqu'anni; — se gli altri non si muovono, verrà la Tilde a fare una passeggiata con me.

La Tilde, ch'era una zitellona piatta davanti e di dietro, spalancò una bocca immensa con troppe gengive e troppo pochi denti, e avvicinandosi con passo saltellante a' suoi rispettabili genitori, rispose:

— Volentieri, se il babbo e la mamma non hanno nulla in contrario.

— Va pure, tesoro — disse il signor Nestore Ariani, impiegato al registro e bollo.

— Va pure, viscere — soggiunse la signora Veronica. — Noi restiamo a far quattro chiacchiere col signor direttore.

— Quello lì, dopo il pranzo, è come inchiodato sulla seggiola — notò la signora Rosa.

Post prandium stabis — sentenziò il cavalier Flaminio Flaminî, direttore del Collegio-convitto omonimo in una città dell'Alta Italia.

[230]

— E noi gli teniamo compagnia — riprese il signor Nestore con la sua vocina da musico. — Col signor direttore c'è sempre da imparare.

Il cavalier Flaminî chinò dignitosamente il capo. — Bontà loro.

Scambiati i saluti, la signora Rosa e la Tilde si allontanarono. Il direttore e i due Ariani, marito e moglie, rimasero sotto la pergola, seduti intorno a una tavola rustica.

— Ma! — sospirò la signora Veronica seguendo con lo sguardo la figliuola, fin che la ebbe persa di vista.

Erano in un albergo di campagna, Al grappolo d'uva. Ivi il cavalier Flaminî (era quello il terz'anno) veniva l'autunno con la sua metà a riposarsi delle fatiche scolastiche, occupava le stanze migliori, e assumeva verso gli altri forestieri un'aria di benevolo patrocinio. Quell'autunno egli raccoglieva sotto le sue grandi ali gli Ariani, che, raggranellati due soldi, s'eran voluti dare il lusso d'un po' di villeggiatura e alloggiavano insieme con la Tilde in uno stanzone a tetto, diviso in due da una parete mobile e impregnato d'un acuto odore di mele cotogne.

Poich'ebbe slanciato il suo ma sibillino, la signora Veronica si voltò risolutamente verso il direttore, e, ripigliando un discorso interrotto, esclamò con un accento in cui c'erano lo stupore, l'ammirazione, l'invidia: — Tutt'e sei le ha maritate?

— Sissignora, tutt'e sei — replicò di trionfo il cavalier Flaminî.

[231]

— Senza dote?

— Senza un centesimo.

— Ma come ha fatto, santo Iddio, come ha fatto? — gridarono in coro i due conjugi.

Il signor direttore si levò gli occhiali e li posò sulla tavola. Ora questo levarsi gli occhiali era pel signor direttore un gran segno. Armato di quelle lenti, egli aveva anche più sussiego che non convenisse al suo grado; parlava breve, solenne, per aforismi; privo di lenti, egli discuteva bonario e loquace, perfin troppo loquace, a quanto diceva la signora Rosa, la quale, delle due edizioni in cui suo marito si presentava al pubblico, quella di lusso e la popolare, preferiva la prima.

Adesso la signora Rosa non c'era, e il cavaliere poteva sbizzarrirsi a sua posta. Non solo egli si levò gli occhiali, ma ordinò che gli portassero un litro di quel buono e tre bicchieri. Poi, stropicciandosi le mani: — Come ho fatto?... Ecco qua..... Quando alla nascita della mia terza figliuola dovetti convincermi che mia moglie aveva la viziatura organica di non partorire che femmine, io sentii la necessità di prendere una risoluzione eroica. Ma quale? — Abstinentia — mi risponderanno loro. Eh sicuro, ma son cose più presto dette che fatte. Niente abstinentia dunque.... Invece....

Dopo aver versato del vino a sè e a' suoi compagni, il signor direttore si portò l'indice della mano destra alla fronte per rilevare l'importanza dell'idea peregrina germinata dal suo cervello, e soggiunse: — Invece ho pensato a una restauratio ab imis fundamentis.

[232]

Gli Ariani ascoltavano con raccoglimento devoto, messi in maggior soggezione da quelle frasi latine che il signor Nestore capiva poco e che la signora Veronica non capiva affatto. Anzi ella rifletteva malinconicamente che se per maritare le figliuole ci voleva il latino, la sua Tilde sarebbe rimasta zitella tutta la vita.

— In quei tempi — ripigliò Flaminî — io davo lezioni private de omnibus rebus; mia moglie teneva una scuola elementare femminile con insegnamento di francese. Si tirava innanzi alla meno peggio, perchè la Rosina, non faccio per lodarla, era una donnetta che sapeva il suo conto e poteva dar dei punti a molte maestre di grado superiore. Ma quelle gravidanze erano una calamità, e più d'una mamma che avrebbe voluto inscrivere da noi le sue bambine arricciava il naso a veder la circonferenza della direttrice. E poi, delle bambine ne avevamo più del bisogno in casa. Insomma, al terzo puerperio, io dissi alla Rosa: “La nostra scuola si chiude.„ — E vedendola sbarrar gli occhi stupefatta, soggiunsi pronto: — “Per riaprirsi cambiando sesso.... Ih, ih, ih!... Il sesso noi non possiamo cambiarcelo, ma la scuola sì.... Era femmina e diventa maschio....„ La Rosina seguitava a fissarmi con gli occhi stralunati. Senza dubbio ella credeva che mi desse volta il cervello. Ma io le spiegai le ragioni per le quali intendevo trasformare la nostra scuoletta femminile in un Collegio-convitto per ragazzi. La Rosa sollevò mille obbiezioni: e che non si deve lasciar il certo per l'incerto, e che l'impresa richiedeva grandi mezzi, e che avremmo fatto [233] un buco nell'acqua, eccetera, eccetera. Io però avevo in serbo l'argomento decisivo. — “Col Collegio-convitto maschile, noi, a suo tempo, sposeremo le tre figliuole che abbiamo già e quelle che, con l'aiuto della Provvidenza, ci capiteranno più tardi.... Sicuro; il Collegio-convitto sarà un vivajo di generi.... Ih, ih, ih!„ — Fu per mia moglie una rivelazione. Ella non si diede per vinta subito, ma io m'accorsi ormai che parlavo ad una convertita. E m'accorsi anche ch'ero da un momento all'altro cresciuto di riputazione nell'animo della Rosa; finalmente ella doveva riconoscere di non aver sposato un maestrucolo buono soltanto a insegnar le conjugazioni dei verbi.

Queste parole di colore oscuro potevano far credere che in illo tempore la Rosa non fosse la moglie docile ed ossequente ch'era stata poi. Comunque sia, il fine principale del signor direttore era quello d'imprimere un concetto sempre più alto del proprio valore nella mente dei conjugi Ariani. E poichè essi tacevano intontiti, egli li provocò con domande dirette: — Che cosa par loro della mia idea, eh?... Non fu una trovata di genio?... Dicano, dicano la loro opinione.

Confusi dinanzi a tanta grandezza, gli Ariani si limitavano a sorridere d'un sorriso ebete.

— Nei primordî — ricominciò il cavalier Flaminî — fu un osso duro da rodere. Il Convitto si aperse con sei allievi, e tra loro e i dieci o dodici esterni non si coprivano le spese. Convenne anzi far qualche debito, tanto più che la Rosa continuava a partorir femmine e che mi [234] era nata la quarta figliuola, la Paolina.... Un altro si sarebbe perduto d'animo, io no.... Avevo ormai le mie viste sopra uno de' sei convittori, un ragazzo di buona famiglia, che avrebbe potuto essere un partito eccellente per la mia primogenita, la Luisa....

— Possibile? Così presto? — interruppe la signora Veronica.

— Chi non semina non raccoglie — ribattè il signor direttore. E tracannato un secondo bicchiere di vino, riprese: — Dunque non solo non battei in ritirata, ma coraggiosamente appigionai un locale più bello e più ampio, allargai le basi del Collegio, aggiunsi nuovi insegnamenti.... e corsi pareggiati, e corsi preparatori a scuole navali, militari, commerciali, e via via. Un'insegna poi che occupava mezza facciata, con le sue belle lettere fiammanti d'oro su fondo turchino:

COLLEGIO-CONVITTO FLAMINI

sotto il patrocinio della Camera di Commercio ecc. ecc. ecc.

Ce n'era per nove righe!... Insomma a poco a poco i convittori salirono a quindici, a venti, a trenta, a cinquanta, a cento, e gli esterni crebbero in proporzione. Non mancavano gl'invidiosi.... figuriamoci!... Sparlavano di me e del mio Collegio; e ch'io ero venale e ignorante, sissignori, questo dicevano, e che i professori non valevano un'acca, e che li pagavo male, e che tenevo a stecchetto i convittori.... come se [235] non avessi dovuto preservarli dalle indigestioni.... e che la mia era una fabbrica d'asini.... come se non si fabbricassero asini in tutte le scuole.... Io mi stringevo nelle spalle.... Avevo ben altro pel capo.... Le figliuole avevano raggiunto la mezza dozzina, e volendo assicurar loro sei mariti occorreva darsi le mani attorno. Grazie al cielo, la Rosa era entrata perfettamente nelle mie idee e mi ajutava con tutta l'anima.... Dei fiaschi erano inevitabili, e guai a essere esclusivi, guai a impuntarsi su pochi nomi.... Si getta l'amo cento volte per pigliare un pesce. Noi avevamo circa venti candidati in pectore, tre in media per ogni figliuola, i grandi per le grandi, i piccoli per le piccole.... A questi venti, con le debite cautele per non dar troppo nell'occhio, si usavano attenzioni particolari; di quando in quando un invito alla tavola di famiglia, una uscita straordinaria, una carezza, un elogio, e, al caso, una parolina nell'orecchio dei professori in limine degli esami. Che se uno di loro cadeva indisposto, mia moglie gli teneva un'oretta di compagnia, gli somministrava di sua mano le medicine, il thè di camomilla, le tazze di brodo ristretto, eccetera, eccetera. E nelle lezioni di ballo a cui partecipavano le mie ragazze quei venti erano i cavalieri preferiti, anche se ballavano meno bene degli altri. Ma il meglio era nell'autunno, in villeggiatura. Sempre conducevamo con noi, verso un supplemento di retta che ben s'intende, un certo numero di convittori; le famiglie ce li lasciavano o perchè si rinfrancassero in qualche materia, o perchè potessero godersi un po' [236] d'aria campestre senz'abbandonare affatto il Collegio.... Allora era una vita patriarcale.... un'ora o un'oretta e mezzo di studio sotto di me o sotto un professore che ci tiravamo dietro; pel resto erano scarrozzate, e gite sul somaro, e giochi innocenti diretti da mia moglie, che, per fortuna, non aveva più la malinconia delle gravidanze.... Basta, in quella stagione le bimbe e i convittori si trattavano come fratelli e sorelle. Rischi seri non ce n'erano, coi piccoli per un conto, coi grandi per un altro, chè già erano sempre in parecchi e si sorvegliavano a vicenda.... Però è da scommettere che, se quei ragazzi avessero avuto l'età necessaria e fossero stati padroni di sè, si sarebbe combinato un pajo di matrimoni ogni autunno. La Paolina sopratutto faceva furori. Una volta erano in cinque a starle attaccati alle gonnelle. Ma ella aveva sett'anni e il maggiore de' suoi spasimanti ne aveva dodici!... Eh, poveri noi se non ci fossimo agguerriti contro le illusioni! Era un lavoro di Penelope, un continuo fare e disfare. I diciotto o venti candidati rimanevano invariati come cifra complessiva, ma mutavano continuamente nelle loro unità. Oggi uno era richiamato a casa per motivi domestici; domani un secondo non pagava la retta e conveniva licenziarlo; un terzo rivelava un pessimo carattere; in un quarto si scoprivano i germi d'una malattia ereditaria. Pazienza! Da bravi generali, la Rosina ed io colmavamo i vuoti con le nuove reclute. Il guajo grosso era questo: che l'educazione del Convitto, anche per quelli che seguivano i corsi preparatorî, non durava eterna.... [237] Sarebbe stata una faccenda diversa se avessi potuto aprir dei corsi superiori, dei corsi universitari.... chè già avrebbero imparato da me quello che imparano nei grandi istituti pubblici.... Ma in questo benedetto paese, dopo tanti sacrifizî per conquistare la libertà, non è mai lecito di far quello che si vuole. Così a quindici, sedici, diciassett'anni al più i ragazzi avevano compito i loro studi nel mio Collegio. Avevo un bel dire, nel giorno in cui essi si accommiatavano, avevo un bel dire: — Questa è sempre la vostra casa, dovete rammentarvene, dovete tornarci spesso, chè sarete accolti come figliuoli. — Quanti ne tornavano poi, o, pur tornandovi, quanti non si fermavano alla prima visita? Quanti di quelli ch'eran lontani scrivevano più d'una lettera di cerimonia?... Eh, cari signori miei, chi non è parato ai disinganni, non si consacri all'educazione della gioventù.

Fatta questa riflessione profonda, il cavalier Flaminî offerse nuovamente da bere al signor Nestore e alla signora Veronica, e poich'essi lo pregarono di dispensarli, votò da solo la boccia di vino che, mezza colma ancora, gli stava dinanzi; ciò che rese più varia e più colorita, sebbene meno limpida, la sua eloquenza.

In principio prevalse la nota patetica. — Pur troppo molti di quelli che avevano avuto le maggiori cure da me e da mia moglie, che avevano mangiato i nostri migliori bocconi, che avevano figurato in prima lista fra i nostri generi possibili, non si degnarono nemmeno, [238] una volta usciti di Collegio, di darci segno di vita. Peggio, peggio assai; alcuni dissero roba da chiodi dell'Istituto, degl'insegnanti, della Rosina, di me; ci accusarono di aver teso loro delle trappole, ci misero in canzonatura.... Disgraziati!... Per me chi sparla della scuola ove fu allevato è tutt'uno con chi percuote il seno che lo nutrì. Latte per latte, qual è il più necessario?

Lasciando insoluto il problema, il signor direttore continuò:

— Per fortuna un manipolo di veterani ci restava fedele.... Ne tenevamo a pensione due o tre che frequentavano l'Università cittadina; altri, ch'erano del paese, seguitavano a bazzicarci in casa la sera per giuocare al bigliardo o per fare un po' di musica.... Una dozzina in tutti, compreso un paio di professori del Collegio, che, in mancanza di meglio, potevano entrar in candidatura matrimoniale anch'essi.... Di tratto in tratto, quand'eravamo a tu per tu la Rosina ed io, si tirava fuori il registro delle figliuole, perchè c'era un registro scritto dalla prima all'ultima riga di pugno di mia moglie. Ella n'era tanto gelosa; e guai se sapesse ch'io ne parlo qui!... Ma spero bene che non mi tradiranno.... Siamo fra amici.... Sì, c'era un registro. Ognuna delle sei ragazze aveva una specie di conto, intestato al suo nome in bel carattere rotondo: Luisa, per esempio. Sotto la intestazione, nella colonna a sinistra i nomi e i cognomi dei giovinetti che ci parevano poter convenirle, con la data dell'iscrizione; nella colonna a destra, allorchè per un motivo qualunque si [239] doveva rinunziare a uno dei candidati, si scriveva a fronte del suo nome e cognome un'unica parolina: Annullato.... Dunque con la Rosa si tirava fuori il registro, e lo si sfogliava, così per curiosità, ripassando nella memoria quegli annullati.... Quanti erano!... A guardarli mi si stringeva il cuore come se fossi in un cimitero.... Anche adesso....

E veramente il cavalier Flaminî aveva gli occhietti lustri, non si sa se per la commozione o pel vino. Egli vi passò su il fazzoletto, e riprese:

— La Rosa, più positiva di me, diceva: “O non hai pensato in che imbroglio saremmo se dovessimo contentarli tutti?„ Quest'era Vangelo; ma che colpa ne ho io se mi son sempre considerato il padre de' miei allievi?

Il signor direttore andava divagando; citava nomi, citava date, raccontava aneddoti che non avevano nulla a che fare con l'argomento; onde la signora Veronica si permise di rimetterlo in carreggiata. — Capisco; però l'essenziale si è che lei le sue ragazze le ha accasate tutt'e sei.

— Oh questo sì. — rispose il cavaliere rasserenandosi in viso; — e per merito della mia idea, per merito del Convitto.... La Luisa, la prima, è in Toscana e ha sposato un ex-convittore che ha campagne sue e mi manda del vinetto che vorrei aver qui; due ne ho a Milano, l'Ernestina e l'Amalia; i mariti sono in commercio; quello dell'Ernestina ha un deposito di vermut e altri liquori, in via Monforte 15.... roba scelta e prezzi di favore.... un bravo figliuolo, [240] che in Collegio aveva una gran disposizione per la chimica.... anzi glielo raccomando se avessero da far provviste. La Maria abita a Torino; oh! quella è stata fortunatissima. Mio genero Ettore Giorgi è nipote del proprietario della ditta Fratelli Giorgi del fu Angelo, Fabbrica d'olî medicinali, in piazza dello Statuto N. 4.... Quando Ettorino era da noi, la sua casa ci forniva l'olio di ricino per il Convitto.... un olio che è un nettare.... La Bianca è lontana, pur troppo.... laggiù a Napoli, ove il suo sposo ha un posto in una redazione di giornale.... una testolina vulcanica, fin da piccolo; appassionato per la politica.... non mi meraviglierei di vederlo col tempo alla Camera dei deputati.... La sola ch'è rimasta con me è la Paolina.... Non per lagnarmi, ma con tanti aspiranti che ella aveva avuto, speravo che trovasse meglio.... Basta, questo mio genero.... del rimanente un ottimo giovine.... non aveva impiego, e l'ho nominato io professore nel mio Collegio; insegna la letteratura e la bicicletta; conduce a spasso i convittori.... adesso è con loro in una gita sui laghi.... Già io non ho maschi: prevedo che lascierò a lui la direzione dell'Istituto.... Una volta le cose avviate, non ci son difficoltà, e anche la croce di cavaliere, se il ministro non mi manca di parola, mio genero l'avrà più presto che non l'abbia avuta io.... Così va il mondo....

— E nipotini ne ha? — chiese il signor Nestore.

Il signor direttore allargò le braccia. — Crescite et multiplicamini.... Ho dieci nipotine.... È [241] la viziatura materna.... Nella mia famiglia non nascono che femmine.... Per fortuna che c'è sempre il Collegio.

— Beato lei! — esclamarono i conjugi Ariani. Ma nella loro fisonomia appariva un profondo sconforto. Il metodo del signor direttore non aveva applicazione pratica per essi. Nè il Collegio-convitto Flaminî, nè alcun altro Convitto del mondo poteva ormai fabbricare un marito per la loro Tilde.

Anche sulla fronte del cavaliere s'era stesa una nube. Egli aveva la vaga coscienza d'aver parlato troppo, e guardava con aria di rimprovero la boccia vuota, come se avesse colpa lei d'esser stata bevuta.

A un tratto la signora Veronica tese l'orecchio e disse: — Mi par di sentire la voce della signora Rosa.

Il signor direttore arrossì, raccolse in fretta gli occhiali e se li accomodò sul naso, sforzandosi di riassumere l'aspetto grave e cattedratico che piaceva a sua moglie.

[242]

COSCIENZE AGITATE

I.

Posto sul pendio d'un'amena collina che monti più alti difendono dai venti di settentrione, ricco d'acque sorgive che abbeverano tutto l'anno le belle praterie circostanti, il paese di Sant'Angelo dei Pastori godeva sino a poco tempo addietro la fama invidiabile d'esser uno dei luoghi d'Italia ove le malattie sono più rare ed è minore la mortalità. Non è quindi da maravigliarsi che il vecchio albergo ed il nuovo fossero ogni autunno pieni di forestieri e che vi si fabbricassero ville e chalets a cui non mancavano mai gl'inquilini.

Nè Sant'Angelo dei Pastori si vantava soltanto del suo clima, della sua posizione, delle sue acque e della sua salubrità; esso andava superbo altresì del suo segretario municipale, signor Geronimi, che sostituiva il sindaco sempre assente, del suo parroco don Prospero, affabile, gioviale, gran giuocatore di bocce, e del suo farmacista Saverio Dorini, detto il Mago.

Anzi, per esser sinceri, il signor Dorini era tenuto anche in maggior conto del segretario [243] e del parroco. La sua farmacia all'insegna del Leone e della Giraffa alla quale la gente veniva a provvedersi di medicinali da quindici, da venti miglia di distanza, era considerata una gloria locale. E quella farmacia non poteva scindersi dalla persona del suo proprietario e conduttore, che l'aveva portata a così alta riputazione con la sua opera sagace e indefessa.

I confratelli invidiosi schizzavano veleno contro il signor Saverio, mettevano in canzonatura il suo soprabito scuro che gli scendeva fino alle calcagna ed era chiuso fino al collo, le sue scarpe di panno, il suo berretto di velluto col fiocco di seta, la sua faccia macilenta e legnosa ove brillavano due occhietti che parevano fatti col succhiello; e, quasi ciò non bastasse, malignavano sulla sua aria di mistero, sulla sua vita solitaria, sul suo gatto Masaniello dal pelo nerissimo, dagli occhi lucenti come due monete d'oro, gettavano sospetti sulla sincerità dei suoi prodotti farmaceutici, cercavano nuocergli presso i contadini ignoranti chiamandolo il Mago. E l'epiteto aveva fatto fortuna; ma, volutogli dare dai rivali con un significato ingiurioso, era rimasto aggiunto al suo nome come un titolo nobiliare per merito de' suoi compaesani. Un mago sì, un mago benefico che aveva saputo arricchire giovando agli altri, che non si concedeva riposo nè di giorno nè di notte, e che attendendo quasi solo ai suoi negozi non aveva mai commesso una svista.

Del loro affetto per questa fenice dei farmacisti, gli abitanti di Sant'Angelo dei Pastori diedero una prova solenne tre anni or sono, [244] quand'egli, ridotto in fin di vita da una fiera malattia, superò insperatamente la prova. Vi fu allora persino chi propose di erigergli addirittura un piccolo ricordo marmoreo, come fece la Repubblica di Venezia al doge Francesco Morosini, adhuc viventi. L'idea fu abbandonata per desiderio espresso del modesto signor Dorini che ne aveva avuto sentore, ma intanto s'era potuta raccogliere in cinque giorni la somma di undici lire e venticinque centesimi, erogate subito in opere di pubblica beneficenza.

II.

È però un caso singolare. Appunto da circa tre anni, le cose di Sant'Angelo dei Pastori non vanno più come una volta. Il paese, sfido io, non ha mutato nè situazione, nè clima, e le sue acque continuano a scorrere limpide, pure, abbondanti; il signor Geronimi è sempre il factotum del Comune, gli stessi due medici si dividono la clientela, don Prospero regge sempre la parrocchia, il signor Saverio Dorini, detto il Mago, siede sempre dietro il banco della sua farmacia sulla cui insegna dipinta a nuovo il fiero leone dalla lunga criniera e la mite giraffa dal lunghissimo collo seguitano a guardarsi in patetico. E, fino a ieri, il gatto Masaniello, tacito e grave, compiva le solite evoluzioni fra i boccali e sugli orli delle scansie, o si accosciava sulla soglia in atteggiamento di Sfinge.

Ma il signor Geronimi, uomo versato negli [245] studi statistici, ha notato un piccolo aumento nella media della mortalità a Sant'Angelo dei Pastori, e questo fatto unito ad un altro che cade sotto gli occhi di tutti desta le sue ansietà patriottiche. L'altro fatto è questo: il farmacista ed il parroco hanno cambiato umore e abitudini. Sarà discutibile se abbiano cambiato in meglio od in peggio; il cambiamento è sicuro. Il signor Dorini, il quale prima d'ammalarsi non andava in chiesa che nelle feste solenni, adesso mostra uno straordinario fervor religioso e si confessa ogni mese. Bisogna dire però che la fede non gli dia la pace dell'animo, perchè è turbato, inquieto, come se un pensiero molesto lo crucci. Nè passa più due o tre ore ogni notte chiuso nel suo laboratorio con l'unica compagnia del suo gatto; lo si vede invece, in quell'ore, girar solo nell'orto, con la testa china sul petto e le mani dietro la schiena, lasciando che Masaniello, privo delle usate occupazioni, si dedichi sfacciatamente al libertinaggio, corra sui tetti, penetri nelle case altrui e spaventi le oneste famiglie col miagolio petulante e il luccicar delle gialle pupille. Don Prospero, dal canto suo, già così gaio e socievole, sfugge le allegre brigate, gioca di rado alle boccie, ed è sovente nervoso e irascibile, sopratutto dopo i suoi colloqui spirituali con l'amico Saverio. E sì che per un ministro del Signore non dovrebb'esser piccola soddisfazione l'aver ricondotto all'ovile una pecorella smarrita.

Povero don Prospero! Non vorremmo calunniare un degno ecclesiastico, ma abbiamo forti [246] ragioni per credere ch'egli dica spesso in cuor suo: — Benedetto uomo quel Saverio! Dal momento ch'egli era giunto sulla soglia del Paradiso, che ghiribizzo gli è saltato di far frontindietro e di rimanere in questo brutto mondacccio ove rischia di compromettere di nuovo la salute dell'anima sua?

Ah, il giorno della confessione di Saverio Dorini (della prima) era stato un dì memorabile pel parroco di Sant'Angelo dei Pastori. Con zelo d'apostolo egli era accorso al letto del moribondo, con mansuetudine di santo ne aveva ascoltato le rivelazioni inattese, con gaudio di sincero credente ne aveva accolto il pentimento e gli aveva concessa l'assoluzione. Quindi ai curiosi che affollati intorno alla farmacia tentavano strappargli qualche indiscrezione egli s'era contentato di dire: — Fa una gran bella morte.... Una morte da vero cristiano.

— Non poteva essere altrimenti, — qualcheduno aveva soggiunto. — Dopo una così bella vita!

Senza rispondere, don Prospero s'era ritirato frettolosamente in canonica, ove alla serva Cesira che lo tempestava di domande aveva ripetuto l'identica dichiarazione: — Fa una gran bella morte.

Ma la sera, tornando dal Mago, l'aveva trovato in condizioni molto migliori; la mattina il medico era venuto in persona ad annunziargli, che, secondo lui, il signor Saverio era fuori di pericolo.

— Diamine, diamine! — aveva borbottato fra i denti il buon prete.

[247]

III.

Tutti i particolari di quella confessione erano stampati in caratteri indelebili nella memoria di don Prospero a cominciar dalla fuga precipitosa del gatto Masaniello che, sguisciando dalla camera del malato in un accesso di folle terrore, gli si era impigliato nella tonaca e fra le gambe. C'erano momenti in cui egli sarebbe stato in grado di ripetere parola per parola le cose dettegli dal farmacista, e di aggiungervi l'esclamazioni che la sorpresa gli aveva strappato dal labbro, le interruzioni, l'esortazioni che aveva fatto. Gli bastava chiuder gli occhi per rievocare la scena.

Ecco, dopo liberatosi la coscienza di alcuni peccatucci minori, il signor Saverio si alzava faticosamente sul gomito, e tirando un sospirone principiava: — Ella sa, caro don Prospero, di quanta stima io godessi come farmacista....

A cui egli, il sacerdote: — Stima meritatissima, figliuolo. Ma non conviene esaltarsi.

— Eh si tratta di ben altro che di esaltarsi.... Se su cento medicinali esistenti nel mio laboratorio ce n'eran dieci di genuini è già molto.... L'olio di ricino, la cassia in canna, la polpa di tamarindo, non dico.... Ma il resto! Pillole, acque minerali....

Qui a don Prospero era scappata una frase [248] di cui egli si pentiva amaramente, come di quella che tradiva una preoccupazione affatto personale: — Anche le acque minerali!

Don Prospero faceva ogni estate la cura delle acque di San Pellegrino.

— Le acque minerali sopratutto, — continuava l'infermo.... Però in modo da non recar danno alla salute....

— Meno male.... Avanti, avanti, figliuolo.

— Ah, da questo lato non ho rimorsi.... Delle disgrazie non ne son successe per causa mia.... Forse col mio sistema se ne sono evitate.... Si ricorda, don Prospero, quel giovine tedesco che anni sono, mentr'io ero fuori di paese, era riuscito a procurarsi dal mio garzone una fortissima dose di laudano ch'egli ingoiò tutta d'un colpo credendo di morire? Invece egli se la cavò con una dormita di ventiquattr'ore.... Mi son sempre servito di sostanze innocue.... Per i medicamenti liquidi, dell'acqua del mio pozzo, ch'è la migliore del paese.... Avevo un buon assortimento di bottiglie, di etichette, di tappi e facevo da me tutto il lavoro.... Per esempio da una bottiglia d'acqua di Vichy ne venivano tre.... Per le polveri, per le pillole, c'era la farina finissima, la gomma arabica....

A questo punto il signor Saverio s'era sentito mancar le forze e aveva lasciato ricader la testa sul capezzale.

— Basta, figliuolo, basta, — aveva detto don Prospero. — Non vi affaticate, non vi agitate.... Senza dubbio il peccato è grande. Avete ingannato la buona fede del pubblico.... vi siete arricchito illecitamente.

[249]

— Ho fatto molte carità, — sussurrò il farmacista con un filo di voce.

— Non sono carità buone quelle che si fanno coi danari carpiti agli altri.... A ogni modo, voi riconoscete il vostro torto?.

Il malato accennò di sì col capo.

— La misericordia di Dio è infinita e non manca mai a chi si pente con sincerità ed effusione di cuore. Vi pentite, figliuolo?

— Sì, sì.

Docile, ubbidiente, il signor Saverio, col poco fiato che gli rimaneva, compì il suo atto di contrizione, ripetè con fervore le preghiere recitate dal sacerdote, promise, se il cielo gli accordava ancora qualche anno di vita (non lo sperava, ma al Signore nulla è impossibile) promise di condurre d'allora innanzi la farmacia secondo le norme della più rigorosa onestà, di frequentare le funzioni di chiesa, di osservare il magro e i digiuni, di ristaurare a sue spese il campanile e di andare nel settembre in pellegrinaggio alla Madonna di Monte Balestro. Tutte cose che spiegavano l'affermazione enfatica di don Prospero: — Fa una gran bella morte.

IV.

Appena guarito, il signor Saverio Dorini portò al parroco un acconto della somma necessaria pei lavori del campanile, vi aggiunse un'offerta per i poveri, e s'intrattenne lungamente di soggetti religiosi, mostrando tutto lo zelo d'un neofita.

[250]

— Bravo, bravo, figliuolo, — diceva don Prospero. — Mi avete dato una delle maggiori consolazioni della mia vita.... Ma intendiamoci, veh.... Voi dovete mantenere il vostro impegno circa alla farmacia.... Non più sotterfugi, non più falsificazioni.... Prodotti genuini, e nient'altro.

— Si figuri, don Prospero.... E poi non verrò da lei ogni mese?.... Non le racconterò tutto.... in confessione?

— Anche fuori di confessione.... quando volete.... nel mio orto, a tu per tu, con un buon bicchiere di vino davanti.

— No, no, son temi delicati.... E mi raccomando, per carità.... Di quello che ha saputo....

— Mi meraviglio! — interruppe don Prospero, scandalizzato del dubbio ingiurioso.

Pei primi tempi le cose andarono a gonfie vele, e il farmacista ebbe persino l'eroismo di distruggere con le sue mani alcuni vecchi medicinali adulterati per non cedere alla tentazione di rimetterli in vendita.

— È proprio un sant'uomo, — pensò don Prospero il giorno in cui ricevette questa confidenza sbalorditiva.

Era anche l'opinione delle donnicciuole del paese, le quali, quando videro il Mago accompagnarsi a loro per andare a piedi, secondo il voto ch'egli aveva fatto, in pellegrinaggio alla Madonna di Monte Balestro, ruppero in esclamazioni ammirative e vollero una per una baciargli il lembo del vestito.

Naturalmente, fra gli spiriti forti, vi furono scrollatine di spalle e allusioni sarcastiche. E [251] ch'erano ostentazioni bell'e buone, e che i farmacisti devono attendere al loro mestiere e non fare i collitorti, e che certo il signor Saverio aveva dei gran peccati sull'anima se provava il bisogno di bazzicare tanto in chiesa.

E c'erano gl'indiscreti che tastavano il parroco. — Ah, don Prospero, chi sa che orrori avrà sentito da quel signor Saverio! Se potesse parlare!

— Zitti là, scomunicati! Quel Saverio è un sant'uomo.

Don Prospero diceva così, forse convinto, forse no.

E presto il sant'uomo cominciò a dargli non poche tribolazioni.

Veniva al confessionale, s'accusava di parziali ricadute negli antichi errori. Rispettava i medicamenti solidi; gli accadeva talvolta, per distrazione, di allungare i liquidi.

— In nome di Dio benedetto! — esclamava il sacerdote. — Non torniamo da capo.

— Che vuole? Con tutte quelle bottiglie, quelle etichette, quei tappi che mi son rimasti in magazzino, con quel pozzo eccellente che ho sotto le mani, è uno scongiuro....

— E voi distruggete le vostre bottiglie, le vostre etichette, i vostri tappi.... Avete pur fatto qualcosa di simile in passato.

— Delle scatole di pillole, delle cartoline di polveri son presto distrutte.... Ma quella roba voluminosa....

— Vendetela quella roba.... o regalatela.

— Oh sì.... Sarebbe il modo di svegliare i sospetti.

[252]

— Chiudete il pozzo allora.

— E per gli usi domestici?

— C'è tanta acqua in paese.

— No, don Prospero, le giuro che d'ora in poi starò in guardia. M'imponga che penitenza crede, ma mi assolva per oggi.... Vedrà, vedrà.

Don Prospero si lasciava commovere, imponeva la penitenza e rimandava assolto il peccatore.

Una volta però egli fu irremovibile. Il Mago aveva avuto l'impudenza di proporgli una specie di compromesso. Avrebbe limitate le sue manipolazioni a certe acque, astenendosi scrupolosamente dal toccar le altre.... quelle di San Pellegrino, per esempio.

L'onesto sacerdote scattò. — Ma questo è un ricatto. E avete il coraggio di tenermi un discorso di questa specie, in confessione? Profanatore! Via, via subito.

E poichè il signor Saverio s'indugiava, biascicava delle scuse, don Prospero lo piantò in asso.

La lezione servì, e successe un periodo nel quale il nostro farmacista non sgarrò d'un punto.

— Nessuna miscela, nessuna sofisticazione? — chiedeva il parroco.

— Nessuna.

— Proprio?

— Che il Signore mi punisca qui all'istante se dico una bugia.

— Bravo, amico mio. Perseverate.

Ma una mattina, dopo che nella settimana [253] c'erano stati due funerali in paese, Dorini si presentò turbatissimo al suo confessore. — Caro don Prospero, io ho una gran paura che volendo far il bene noi facciamo il male.

— Cosa c'è? Che fisime son queste? Spiegatevi.

— Ha visto di quei poveri Giorgetti e Silanda?

— Son morti, pur troppo.... Me ne dispiace perch'erano due buoni diavoli, due padri di famiglia.... Meno male che avevano qualche po' di terra e i figliuoli non restan nella miseria.... Insomma, pulvis sumus.

— Ebbene, avevano l'identica malattia e son stati curati con gl'identici rimedi, arsenico e noce vomica, che quattr'anni fa si son somministrati al gastaldo del conte Ferro e a Gigi Bonai, il maniscalco, i quali son guariti tutti e due e adesso stanno meglio di noi.

— Oh bella, si sa, con la stessa malattia, con la stessa cura chi guarisce e chi no.

— Sissignore; però, quattr'anni fa, quei veleni, perchè sono veleni, uscivano in ben altra forma dalla mia farmacia. Un bambino avrebbe potuto prenderne qualunque dose senz'accorgersene. Ora sono genuini, e ammazzano.

— Ammazzano, ammazzano? I medici sapranno il loro mestiere.

— Sarà: per me son convinto che s'io non cambiavo sistema quei due disgraziati campavano.

— Che vorreste concludere?

— Niente. Lei fa il suo dovere a ordinarmi quello che mi ordina, io faccio il mio a ubbidirle. [254] Ma roviniamo il paese. Anche iersera, in farmacia, il segretario Geronimi e il dottor Cianchi dicevano che la salute pubblica è peggiorata, che i forestieri cominciano ad essere in sospetto e che da due autunni si notano delle diserzioni.

V.

Don Prospero rimase con questa spina nel cuore. Gli pareva assurdo, gli pareva immorale il pensare che la maggior lealtà d'un farmacista dovesse aver per effetto un peggioramento nella salute pubblica; tuttavia, se in qualche punto Dorini avesse ragione, se l'abuso dei rimedi fosse fatale e se il render innocui questi rimedi fosse un correttivo della mala tendenza dei medici a esagerare nelle ricette? Un gran problema. A ogni modo, poteva egli permettere, tollerare le frodi? Al penitente che si accusava d'ingannare la propria clientela poteva egli dire — Continuate? — Poteva cader nell'agguato che forse Dorini gli tendeva, e, con le sue compiacenze, legittimar dei guadagni illeciti?

E il guaio si era che quel furbo del Mago non si lasciava sfuggir una sillaba sull'argomento fuori di confessione, e imponeva quindi a don Prospero il più scrupoloso segreto, sotto pena di sacrilegio.

Si tirava avanti così. Con l'usata regolarità Saverio Dorini veniva a fare il suo atto di contrizione ed era rimandato ora assolto ora no, perchè se il farmacista aveva abbandonato le [255] falsificazioni su larga scala, ricascava ogni tanto nelle piccole. Comunque sia, egli accettava con mansuetudine le penitenze che gli erano inflitte, ma di tratto in tratto tornava volentieri sulla sua teoria di medicinali semplificati, e citava casi, anche recenti, di malati gravi ch'eran guariti prendendo poco più che dell'acqua fresca o della farina schietta mentre credevano di prendere o l'antipirina, o il calomelano, o l'aconito, o qualche pasticcio simile.

Un giorno don Prospero commise un'insigne debolezza.

— Sentite un po', caro Saverio. Con quelle che chiamate semplificazioni voi otterrete una gran riduzione sul costo....

— Oh Dio, non dico di no.

— E vendete ai prezzi degli altri?

— È necessario, per non rovinare il mestiere.

— Ecco, se tutto quello che risparmiate, fino all'ultimo soldo, lo deste ai poveri, chi sa ch'io non fossi più corrivo?

Ma Dorini protestò. Del danaro in carità ne spendeva già molto; non poteva esporsi al rischio di passare per dissipatore e di perdere il credito di cui ogni industriale ha bisogno.

Il rifiuto del farmacista fu una fortuna per don Prospero che s'era accorto immediatamente di aver messo il piede in fallo e sarebbe stato in un bell'impiccio se il Mago avesse accondisceso a stringere il contratto. Anzi, riflettendoci, egli temette d'esser caduto in peccato mortale pel solo fatto della proposta.

E a pranzo non toccò quasi cibo, tanto aveva la coscienza angustiata.

[256]

La serva Cesira, che da un pezzo lo vedeva così diverso da quello d'un tempo, uscì allora in queste gravi parole:

— Lo so io che cosa c'è di guasto in paese.

— Eh? — fece il parroco.

— C'è il diavolo, — affermò la donna con serietà imperturbabile.

Don Prospero trasalì. Era figlio di contadini, e nonostante il suo naturale buon senso non era mai riuscito a liberarsi interamente dai pregiudizi ereditari.

Pur volle fare il disinvolto. — Sciocchezze!

— C'è il diavolo, — ripetè la serva. — E son parecchi anni che c'è.

— Finiamola! — disse don Prospero nella vaga apprensione di sentir accusar il suo penitente Dorini. E soggiunse ironico: — Son parecchi anni che c'è, e aspettate adesso ad avvisarmene?

Con l'ostinazione delle sue pari, la femmina riprese: — Finchè il Mago se lo teneva con sè la notte, fin che lavoravano insieme, non dava disturbo a nessuno, e forse la farmacia andava meglio. Ora il Mago è rientrato in grazia di Dio e quello si sbizzarrisce a spese dei cristiani.

Il parroco era in preda a un indistinto malessere. Quello? chi era quello? Chi era il misterioso collaboratore di Dorini?

— Alle corte, spiegatevi. Chi è questo signor diavolo?

— Come non se lo immagina? È il gatto Masaniello che anche questa notte è venuto nel nostro orto a rubare una gallina.

Don Prospero avrebbe voluto ridere, ma non [257] poteva. Senza dubbio erano minchionerie; nondimeno egli si ricordava di certe storie udite nell'infanzia, secondo le quali il demonio non isdegnava di vestir la forma di qualche animale domestico per sorprendere la buona fede delle famiglie.

— Provi a esorcizzarlo, — suggerì la Cesira.

— Un gatto?

La serva si meravigliò dell'obbiezione. Nel suo villaggio, da bimba, ell'aveva visto esorcizzare una capra.

— Basta, — disse don Prospero, alzandosi in piedi. — Tronchiamo questo discorso. — La Cesira uscì proferendo minaccie incomprensibili.

Dopo una notte insonne, don Prospero prese una risoluzione energica e partì all'alba pel capoluogo ove chiese ed ottenne un'udienza dal vescovo della diocesi. Allorchè, ventiquattr'ore più tardi, egli rientrava in canonica meditando su gli aurei consigli del venerabile prelato, gli si affacciò sulla soglia la Cesira, nell'atteggiamento di Giuditta reduce dal campo nemico. Anch'ella aveva ucciso il suo Oloferne, e ne teneva la spoglia esanime, sospesa.... per la coda.

— Masaniello! — esclamò il parroco.

— Gli ho teso un laccio e l'ho strozzato, — disse la donna con magniloquente brevità.

Indi, gettando la fredda salma lungi da sè, fornì ulteriori schiarimenti. — Voleva mordermi, ma io con un segno di croce e una tiratina di spago l'ho ridotto all'impotenza.... E son più convinta che mai ch'era il diavolo.... Vedrà, vedrà se adesso tutto quanto non si rimette a posto.

[258]

La Cesira era così sfolgorante d'orgoglio per l'azione eroica compiuta (aveva strozzato il diavolo, nientemeno!), si mostrava così sicura dei risultati finali della sua magnanima impresa che don Prospero rimase senza parola. Non osò nè lodarla nè rimproverarla; le invidiò la sua fede; si sforzò di credere che l'eccidio del gatto Masaniello, bestia scontrosa e antipatica, potesse, secondo la frase della serva, rimetter tutto quanto a posto. Monsignor vescovo, forbito oratore, gli aveva ben detto, pur dianzi, che le vie della Provvidenza sono imperscrutabili.

Ma la Cesira, che non comprendeva il riserbo del suo padrone, raccolse da terra la sua vittima e si ritirò sdegnosamente in cucina, borbottando: — Oh, gli uomini!

[259]

NELLE VACANZE DI SUA ECCELLENZA

Sua Eccellenza l'onorevole Tito Cervara, sfuggendo per miracolo alla vigilanza dei subalterni ossequiosi, degli amici zelanti, dei sollecitatori molesti, s'era fatto condurre in vettura chiusa di piazza al principio del viale d'ippocastani, fuori d'una delle porte della cittadina universitaria ove trent'anni addietro egli aveva compito i suoi studi e ove adesso era andato a passare i due ultimi giorni delle sue vacanze ministeriali. Vacanze così per dire, giacchè in meno di tre settimane Sua Eccellenza aveva dovuto pronunziare un paio di discorsi politici, assistere a sette banchetti e rispondere ad altrettanti brindisi, accordare ventiquattro colloqui, intervenire a sei cerimonie inaugurali, accettare dieci presidenze onorarie, promettere duecentocinquanta chilometri di ferrovia, trenta croci di cavaliere, nove ufficialati e cinque commende. Forse il pensiero di questi impegni assunti troppo leggermente gli toglieva di gustare, com'egli aveva sperato, la passeggiata solitaria lungo il bel viale pieno per lui di tanti ricordi della giovinezza.

[260]

Quante volte, nelle limpide mattine d'estate, all'avvicinarsi degli esami, egli era venuto qui insieme con uno o due condiscepoli a ripassare i suoi quaderni; quante volte c'era tornato al crepuscolo in compagnia degli amici ilari e rumorosi, cantando gaie canzoni, recitando poesie, disturbando colle grida e col chiasso i pacifici borghesi usciti a prendere il fresco a piedi o in carrozza! E anche nella quiete silenziosa delle sere senza luna egli aveva sovente percorso quel viale a fianco di qualche facile bellezza che nè chiedeva nè offriva perennità d'affetto, ma in quello sbocciar della vita lo attirava col fascino e con le insidie dell'eterno femminino.

Erano passati trent'anni da allora; gl'ippocastani erano sempre gli stessi; trent'autunni li avevano sfrondati, trenta primavere li avevano rivestiti di nuove foglie senza scemar vigore alla loro robusta vecchiezza; ma quelli che trent'anni addietro s'eran riposati alla loro ombra, avevano inciso le proprie iniziali sul loro tronco, avevano raccolto il frutto selvatico caduto dai loro rami, dov'erano adesso?.. L'antico studente diventato ministro poteva ben ripetere col personaggio della Sonnambula

Cari luoghi, io vi trovai,

Ma quei dì non trovo più.

Due carri di fieno tirati da buoi procedevano lentamente verso la città; in senso opposto venivano una timonella e due biciclette, una delle quali, non avendo altra strada libera, invase il [261] sentiero dei pedoni e rasentò le gambe di Sua Eccellenza, che piegò istintivamente a sinistra, verso una panca di pietra ove stava seduto un uomo di età matura con un giornale in mano. L'uomo, d'aspetto civile, indossava un vestito di lana color pepe e sale, aveva un cappello a cencio sotto cui spuntavano i riccioli d'una chioma brizzolata, e teneva stretto fra le ginocchia un ombrellone blù, da parroco di campagna. Al movimento fatto da Cervara per scansarsi dalla bicicletta, egli alzò gli occhi, si turbò, e, come seccato dell'incontro, tornò a sprofondarsi nel suo giornale.

Ma anche gli occhi del Ministro s'eran fissati sul lettore solitario, ne avevano in un lampo scrutato la fisonomia e correndo a ritroso del tempo avevano rievocato l'immagine d'un giovine di ventidue o ventitrè anni, bello della persona, mediocre d'ingegno, gentile d'animo, ardito, entusiasta, un misto di poeta e di sognatore.

E dalla bocca, quasi inconsapevole, di Sua Eccellenza uscì un nome: — Varesio!

Ecco, quantunque gl'intrighi della politica, la caccia agli onori, l'abitudine del potere non avessero interamente guastato il cuore a Tito Cervara, è da scommettere che, in condizioni ordinarie, egli, pure imbattendosi in Varesio, non avrebbe fatto un passo verso il vecchio camerata, il quale mostrava in modo manifesto di voler schivarlo. Sarebbe accaduto a lui quello che, pur troppo, accade in generale a noi tutti, allorchè queste larve d'un passato remoto sorgono d'improvviso in mezzo alla nostra vita [262] febbrile e spesso affaccendata in minuzie. Pensando alla seduta ove siamo attesi, al caffè che siamo avvezzi a sorseggiare, alla visita che ci siamo impegnati a fare in quell'ora, noi siamo lieti se ci riesce di sgattaiolar via inavvertiti, o di cavarcela con un cenno del capo o un buon dì frettoloso.

Ma Sua Eccellenza era in speciali disposizioni d'animo; il suo camerata gli appariva in un momento nel quale tutto l'esser suo era attirato da una forza irresistibile verso la giovinezza, verso gli anni di bagordi e di studi, e nella sua bella voce baritonale c'era un calore comunicativo quand'egli si fermò sui due piedi e ripetè il nome pronunziato pur dianzi: — Varesio!

Poichè ormai non c'era più scampo, costui si levò da sedere, rosso, confuso e si portò la mano al cappello.

— Bando alle cerimonie, — disse Cervara arrestandogli il braccio. — Mi riconosci?

— Sfido io a non conoscere il signor Ministro, — balbettò Varesio.

— Per amor del cielo, lascia stare il signore e il Ministro. Qui non sono che Cervara, Tito Cervara, il tuo condiscepolo d'Università.... Via, dammi un bacio.

L'altro, sebben riluttante, cedette; quindi, abbozzato un sorriso, esclamò: — Quanti anni!

— È meglio non contarli.

Però Varesio fece un calcolo mentale e soggiunse: — Sicuro, dacchè abbiamo preso la laurea insieme ne son corsi trenta.

— Ci siamo visti ancora.

[263]

— Sì, a Milano dopo la guerra.

— Indossavi la camicia rossa, avevi combattuto valorosamente, e come t'ho invidiato in quei giorni, io ch'ero dovuto rimanere a casa!... Circostanze....

— È sempre un quarto di secolo che non ci si vede, o almeno che non ci si parla, — osservò Varesio.

— Giuro ch'io non t'ho visto.

— È naturale; gli uomini illustri non vedono gli uomini oscuri, ma questi possono veder quelli.

— Smetti l'ironia. Perchè non mi hai cercato?

— Scusa, — replicò Varesio, — in ogni caso eri tu che dovevi cercar me.

Cervara fece un gesto di meraviglia. Non era abituato a sentirsi parlare con tanta libertà.

— S'intende, — continuò l'amico. — Tu fosti presto un personaggio d'alto affare; cercandoti, avrei fatto credere che volevo implorar grazie e favori.

— Sempre orgoglioso, — notò il Ministro. — Ciò non toglie che tu abbia ragione; dovevo cercarti io.... Cosa vuoi? Non è che non si ricordi; gli è che noi uomini politici siamo trascinati in una baraonda. A ogni modo, ti dò la mia parola d'onore ch'io ignoravo che tu fossi stabilito qui.... Da studente avevi la tua cameretta, come me, e nelle vacanze andavi in famiglia.

— Sì, — rispose Varesio, — andavo in campagna.... a una trentina di chilometri.... Siamo rustica progenie.... Quando son rimasto solo, [264] ho venduto quel po' di terra che avevo e mi son fatto cittadino.

— Sei solo?

— Solo.

— Non hai preso moglie?

— Son vedovo.

— Da un pezzo?

— Da quindici anni.

— Oh poveretto!... E figliuoli?

— Ne avevo due, e son morti bambini.

Varesio scosse la testa e disse al Ministro che lo commiserava: — Vedi bene, non vivo, sopravvivo.... Basta.... E tu sei sempre scapolo?

— Sì, e me ne pento.

— Avresti tempo ancora.

— Ah nemmen per idea.... È troppo tardi.

— Non c'è dubbio, se si trattasse di sposare una giovinetta, — principiò Varesio. Ma s'interruppe per guardar in alto; stette pochi secondi col braccio teso, col dorso della mano vôlto all'insù, e soggiunse: — Piove.... Non hai ombrello?

— Io no.

— Vieni sotto il mio.... Alla barriera troverai un fiacre.

— Ma io ce l'ho il fiacre.... L'ho lasciato appunto laggiù, alla barriera.

— Hai un fiacre come un semplice borghese?

— Sì, e grazie al cielo il cocchiere non mi ha conosciuto.

— Allora t'accompagno fin là.

Varesio aperse un ombrellone grande così da poter riparare un'intera famiglia, e disse con una risata che pareva l'eco di giorni lontani:

[265]

— Questo baldacchino non s'immaginava di dover protegger dall'acqua un Ministro del Regno d'Italia.

— Ma neppur noi, — riprese Cervara, — ci immaginavamo venti minuti fa di trovarci qui, proprio qui, ove si veniva la mattina con le litografie del diritto romano e la sera con le crestaie della città.

S'avviarono a braccetto, sotto la pioggia, ravvicinati un istante da quella visione del passato che colmava l'abisso ond'erano divisi i loro destini.

Infervorato a discorrere, il Ministro non si accorgeva nè dell'avanzarsi d'una vettura sullo stradone, nè dei segni che gli faceva il cocchiere.

Se ne accorse Varesio e ne avvertì il compagno: — Bada, fa dei segni a te.

— Chi?

— Quel fiaccheraio.... È il tuo?

— È vero, è il mio. Gli avevo ordinato d'aspettarmi.

Il legno si fermò, e il cocchiere, scendendo da cassetta disse a Cervara che, vista la pioggia, aveva creduto opportuno di venirgli incontro.

— Avete fatto bene, — disse Sua Eccellenza. E rivoltosi a Varesio: — Ora t'offro io l'ospitalità nella mia vettura. Dove vai?

— Non vado. Resto.

— Con questo diluvio?

— Sotto gli alberi si è sempre riparati a bastanza.... E poi è un acquazzone che passa.... Quando sarà cessato, andrò a casa.

[266]

— Insomma, t'accompagno io a casa. Dà il tuo indirizzo.... su, su.

Ma Varesio si schermiva ancora. — Sto al capo opposto della città.

— Ragione di più, — ribattè il Ministro. E con amichevole violenza forzò Varesio a montare.

Il vetturale fece un gesto per chiedere: Dove? Sua Eccellenza accennò a Varesio.

— Domandate al signore.

L'interrogato si decise a indicare il nome di una strada, scusandosi che fosse proprio agli antipodi.

— Gran che! — esclamò il Ministro. — Non siamo nè a Londra, nè a Parigi. — Il cocchiere montò in serpe e sferzò il cavallo.

Alla barriera vi fu una sosta. Una guardia daziaria si accostò allo sportello. — Niente di da....?

Ma non finì la parola, tale fu lo sgomento che lo colse trovandosi faccia a faccia con Sua Eccellenza.

Ritto sotto la pioggia, con la mano destra al berrétto in atto di saluto militare: — Avanti, avanti, — disse al fiaccheraio. E nello stesso tempo gli slanciava un'occhiata fulminea. O non poteva avvisarlo, quell'imbecille?

— Addio incognito, — notò, scherzando, Varesio.

Indispettito, il Ministro si rincantucciò nell'angolo del fiacre.

Ma lì veniva a cercarlo, attraverso il vetro circolare del finestrino centrale, lo sguardo inquieto del cocchiere che non aveva ancora capito qual personaggio avesse in carrozza. Era, [267] sia detto a sua scusa, un vecchio misantropo che si mescolava poco ai suoi colleghi, e non frequentava le bettole e non leggeva i giornali.

— E ora questo balordo che si volta ogni momento ci farà ribaltare, — borbottò Cervara.

— Speriamo di no.

— Speriamolo, — ripetè laconicamente il Ministro. E riprese: — Ah, se non dovessi partir domani per Roma vorrei che andassimo un giorno insieme in tutti quei posti ove andavamo da studenti, al Caffè Narciso, per esempio. C'è sempre?

— Ha cambiato nome. È Caffè Caprera.

— Ecco perchè non mi raccapezzavo. E l'osteria Al doppio litro, fuori di Porta Merlata, c'è?

— C'è.

— Continua ad attirar gli studenti?

— Meno d'una volta, ma ci vanno.

— Ti ricordi delle cene che si facevano in compagnia allegra? Ti ricordi che tavolate? Pagherei tanto a sapere come han finito quei commensali, maschi e femmine.... Tu li hai presenti tutti?

— Non tutti. Parecchi.

— Racconta, racconta.

— Alcuni son morti. Francini a Bezzecca, nel 66....

— Sì, poveretto.... Che bel giovine era!

— E buono. Anche Degalli e Rispolo e Marcucci....

— Aspetta. Degalli era un piccolo, biondo?...

— Appunto.

— Aveva il padre magistrato?

— Sì.... Era entrato nella magistratura anche [268] lui, e morì pretore in Sardegna.... Roba vecchia ormai!

— E gli altri due che hai nominato? Rispolo e Marcucci, mi pare.... È curioso, non riesco a farmeli venire in mente.

— Come? Nemmeno Rispolo, il nostro baritono, che ci assordava con quel suo: Sì vendetta, tremenda vendetta?

— Ah, quello era?... Quello con due grandi baffi che molti di noi gl'invidiavano? L'immagine della salute e della forza?... Morto?

— Dopo aver fatto cento mestieri: il cantante, l'impiegato, l'agente teatrale, il faccendiere.... Anzi, in seguito ad affari un po' loschi, era dovuto emigrare agli Stati Uniti, ove lasciò la pelle in uno scontro ferroviario, tre o quattr'anni or sono.

— Che fine tragica!... E Marcucci, chi era Marcucci?

— Un romantico magro, allampanato, che quando aveva bevuto un bicchiere di troppo piangeva a calde lacrime, e parlava in francese, e voleva abbracciar tutti.... Non diventava una fiera che se gli toccavano la sua Luisa.... A proposito, la Luisa era una delle ragazze che qualche volta venivano a cena con noi.... Era molto bellina; alta, snella, coi riccioli bruni.... Lavorava di guanti, pel negozio Gragno, sotto i portici.

— Sì, sì.... Ne ho una reminiscenza confusa....

— Ebbene; Marcucci, non riuscendo a liberarsene, la sposò.... Poi si son divisi, si son riuniti, si son tornati a dividere, e finalmente son morti a due mesi d'intervallo.

[269]

— Dio, che cimitero! — interruppe Cervara. — Passiamo ai vivi.

— Oh, — ripigliò Varesio, — non credere che ci sia molto da dire.... Intanto, da te in fuori, nessuno è salito in auge.

— Per carità, tira via.... Son di quei gusti che si pagano salati.

Varesio continuò. — Staglieno e Vischi fanno gli avvocati a Milano, Ludovisio è sostituto procuratore generale in Romagna.

— Passerà presto in cassazione, — notò il Ministro. — Credo che il decreto sia già sottoposto alla firma di Sua Maestà.

— Ecco che sul conto di questo sei più informato di me, — osservò l'amico. — E Fedrighi che tempesta mezzo mondo con domande di sussidi, è impossibile che non t'abbia mai preso di mira.

— Figurati. Ricevevo una sua lettera ogni quindici giorni. A Roma un anno fa ho dovuto metterlo alla porta. Egli se ne vendicò con un libello inserito in una gazzettaccia di provincia.... Quel Fedrighi chi avrebbe creduto che fosse disceso così basso?... Se c'era uno a cui fosse lecito pronosticare un avvenire brillante, era lui.... Aveva una facoltà d'assimilazione maravigliosa.

— Sono i suoi vizi che l'hanno ridotto a quel punto.

Varesio menzionò altri condiscepoli che a lui pure erano sfuggiti di vista e dei quali ignorava che cosa facessero e dove fossero. Ma dietro a questi s'agitava, assai più numerosa, nella memoria sua e in quella di Cervara, una turba [270] anonima; fantasmi vaporosi che per un istante accennavano a emerger nella luce, a pigliar forma e colore, e che ripiombavano poi nelle tenebre.

— Ah! — pensava il Ministro. — È pur triste la vita! Si è passata insieme la giovinezza ricca di entusiasmi e di fede, affratellati nella più dolce e gaja intimità, seduti sullo stesso banco alla scuola, alla stessa tavola alla trattoria; si è partecipato alle stesse solennità, battendo le palme nel medesimo applauso, alzando le voci nel medesimo grido; ed ecco che, appena il portone universitario si è chiuso l'ultima volta dietro di noi, è come se un turbine c'investa e disperda. Pochi anni bastano a renderci o nemici, o estranei, o, peggio ancora, ignoti gli uni agli altri; ignoti così che il labbro non riesce nemmeno a formare il nome di molti fra i camerati d'un tempo.... E che cosa si sa anche di quelli di cui pur si trovan le traccie?

A questo punto Sua Eccellenza dovette riconoscere ch'egli ne sapeva pochissimo di Varesio, il quale, tranne che del suo matrimonio e della sua vedovanza, non aveva finora detto nulla dei fatti suoi.

E rivolgendoglisi con sollecitudine non ostentata,

— Lasciamo in pace gli altri — disse. — Narrami di te.... Ho sentito le tue disgrazie domestiche, ma pel rimanente come va? Di che ti occupi? Eserciti l'avvocatura?

— Sono inscritto nell'album, ma non esercito. Tutt'al più dò dei consulti gratis ai poveri [271] diavoli che non sarebbero in grado di pagar la specifica.

— Sei ricco dunque.... o almeno agiato?

— Ho una piccola rendita sufficiente ai miei bisogni.... O che c'è?

La carrozza s'era fermata per un intoppo. Varesio sporse la testa fuori del finestrino, e Cervara, istintivamente, fece lo stesso dalla sua parte.

Due o tre giovinotti che uscivano da una bottega di liquorista esclamarono: — Oh, il Ministro!

Cervara si tirò indietro rapidamente, ma già l'esclamazione era stata intesa, e molti curiosi s'avvicinavano alla vettura e s'alzavano in punta di piedi per veder dentro. Non pioveva quasi più; un raggio di sole uscente dai nuvoli metteva una nota allegra sugli ombrelli lucidi e sulle pozze d'acqua della strada.

— Il Ministro in compagnia dell'avvocato Varesio! — disse qualcheduno con accento di meraviglia.

Altri si toccarono rispettosamente il cappello. Un ministro! Non si sa mai.

Sua Eccellenza era sulle spine. — Non si potrebbe prendere una via traversa?

— Credo che qui sia difficile voltarsi — rispose Varesio. E urlò al fiaccheraio: — Si va o non si va?

— Or ora — disse questi più confuso che mai dopo che aveva saputo di portare un'Eccellenza. — Appena quel baroccio là si sarà avanzato di pochi metri passeremo anche noi.... Ecco.... finalmente....

Menò una buona frustata al cavallo e sguisciò [272] tra il baroccio e il marciapiede. Indi, con un coraggio che gli cresceva di mano in mano che andava allontanandosi, diede dei somari e dei tangheri ai barocciai che non s'erano affrettati a lasciargli posto.

Varesio intanto seguiva il suo pensiero. — Vorrei sentire i commenti che fanno quei bellimbusti per averci visti insieme.

— Non lo si sa in paese ch'eravamo condiscepoli?

— Lo saprà forse uno su cento.

Senza voler confessarlo a sè stesso, il Ministro cominciava a trovarsi a disagio. Temeva di aver mancato della circospezione necessaria a un uomo politico, insistendo per far montare Varesio nella sua vettura. In fin dei conti, chi era adesso Varesio? Che gente frequentava? Che posizione aveva?

E cedendo alla sua curiosità inquieta, Cervara ripigliò:

— Sicchè, dopo aver preso parte alla guerra d'indipendenza, non hai più voluto ingerirti nella vita pubblica?

Varesio atteggiò il labbro a un sorrisetto enigmatico.

— Cioè.... cioè.... Sono stato persino candidato alla deputazione.

— Davvero?... Quando?

— Oh.... in illo tempore.... Ero.... sono anche adesso del resto.... Presidente della Società dei Reduci, dell'Associazione democratica Giuseppe Garibaldi, della Dante Alighieri, del Circolo Istria e Trentino (che fu poi sciolto dal Governo) e nell'elezioni del 1874 gli avanzati mi contrapposero [273] al deputato governativo uscente.... Fu un bel fiasco.

— Non hai più ritentato la prova?

— No; alle elezioni successive anche il nostro partito si divise in due; la maggioranza appoggiò un candidato che non era nè carne nè pesce e che riuscì....

— Sei radicale, tu, sei intransigente — notò Cervara con un'ilarità forzata.

— Radicale? Intransigente?... Ho le mie idee, sbagliate forse.... le idee che avevo da giovine.... che avevamo tutti allora.... Ah, l'Italia che sognavamo era molto più bella di quella che ci avete data.

Il Ministro allargò le braccia. — I sogni, caro mio, son sempre più belli della realtà.... Guai a esigere troppo!

— Guai anche a contentarsi di troppo poco! — ribattè pronto Varesio. — Ma se ci mettessimo a discutere non la finiremmo più.... Già, secondo i vari Prefetti nella nostra Provincia, io sono una testa esaltata.

— Sei in attrito coi Prefetti? — chiese Cervara. E si agitava sul sedile come persona che ha fatto una cattiva digestione.

— Son loro che s'adombrano peggio dei cavalli — rispose Varesio. — Questo qui meno male, ma i suoi predecessori!... Ce n'era uno che mi mandava a chiamare ogni momento per avvertirmi ch'ero io responsabile dell'ordine pubblico.... Stupido!... Nel 1875, quando l'Imperatore d'Austria fu a Venezia, io ebbi il divieto d'andarvi.... Ero guardato a vista.... Una specie di domicilio coatto.... Che miserie!

[274]

Parve a Sua Eccellenza che i doveri dell'ufficio gl'imponessero di prender le difese dei funzionari malmenati così.

— Eh, non lo nego, i Prefetti peccano qualche volta per eccesso di zelo.... Ma bisogna mettersi nei loro panni.... Se succedono inconvenienti, son loro i capri espiatorii.... Con questo però sei in buoni termini, mi dicevi....

— Non sono in termini nè buoni nè cattivi.... dicevo soltanto ch'è meno noioso.... In fondo, credo che abbia sul conto mio l'opinione che avevano gli altri.... Interrogalo....

Cervara fece una spallucciata. Importava molto interrogarlo ormai!

Come se gli leggesse nell'anima, Varesio soggiunse:

— Guarda che disgrazie possono capitare a un Ministro del Regno d'Italia!... Di aver nella sua carrozza un individuo ch'è in mala vista delle autorità.... Non le consultate, al Ministero, le informazioni segrete?

— Canzonatore! — disse Cervara, tanto per dir qualche cosa.

— Il curioso si è — seguitò l'altro — che non sono in odore di santità nemmeno presso il mio partito. I giovani mi considerano un oggetto da museo, buono da portare in processione nei giorni di parata, quando si aduna un comizio, quando si appende una corona alla statua di Garibaldi, salvo a rimetterlo in vetrina a cerimonia finita.... Consolati che oggi non ti sei compromesso tu solo; mi son compromesso anch'io; i miei rivali mi accuseranno di aver patteggiato col potere e si serviranno dell'accusa [275] per cercar di prendere il mio posto.... Si accomodino!... Il posto presto o tardi è necessario lasciarlo.... Resta sempre il fatto che sono un reduce autentico, io.... E nelle miserie e nelle bassezze presenti quest'è un gran conforto.

La voce di Varesio s'era animata; i suoi occhi lampeggiavano come se vi si riflettesse d'improvviso la luce dell'epiche pugne a cui egli aveva partecipato.

Il Ministro, nel quale non s'era interamente irrugginita la molla del patriottismo, gli strinse la mano in silenzio. Ma subito dopo, essendo la carrozza sboccata su un ponte, uscì in un oh lungo e giocondo, e disse:

— È il ponte di San Matteo questo?

— Sì.

Non largo ma gonfiato dalla pioggia, il fiume aveva in quel punto un aspetto assai pittoresco. Da una parte le vecchie case diroccate scendevano a piombo nell'acqua, proiettandovi mobili ombre che la corrente pareva voler trascinare con sè; dall'altra la sponda digradava con leggero pendìo, e sul greto ove cresceva tra i sassi qualche tisico arbusto le lavandaie tendevano le funi per asciugarvi i panni bagnati. Tendevano le funi e cantavano, e le loro voci squillanti si mescevano alla voce cupa del fiume che incalzava rapido e inquieto, biancheggiando qua e là d'una spuma sottile come una trina e perdendosi lontano tra i pioppi ed i salici. Il sole, vittorioso, rischiarava la scena.

— Qui nulla è cambiato dai nostri tempi — disse Cervara. E, di nuovo, la gaia visione del [276] passato aveva dissipato le ombre dalla sua fronte.

L'amico sorrise. — Son cambiate le lavandaie.

— Che non ce ne sia neanche una di quelle che ci erano allora?

— Laggiù no. Non lo vedi? Son tutte giovani.

Subito dopo il ponte, Varesio si sporse dal finestrino e chiamò il fiaccheraio.

— Sarebbe la prima strada a destra, ma puoi fermarti qui. — E voltandosi verso il Ministro:

— Ora scendo. È inutile che ti faccia venir più in là.

— Non eravamo intesi che ti avrei accompagnato fino a casa?

— Se pioveva.... Non piove.... E poi se avessi una casa mia, se potessi dirti di salirvi almeno per un minuto, sarebbe un'altra faccenda.... Ma non ho casa, non ho che una camera ammobigliata.... Sono tornato scapolo.... Ferma, fiaccheraio, ferma.

— Sei irremovibile?

— Sì, abbi pazienza.

— Allora chi sa quando ci si rivede, perchè io parto domani e ho impegni per stasera e per domattina.... All'albergo non mi troveresti solo.

— E sarei un pesce fuor d'acqua.... No, no, salutiamoci adesso.

Si baciarono sulle due guancie; indi Varesio saltò giù dal fiacre, fece ancora un cenno d'addio con la mano, e s'allontanò frettoloso.

— Se vieni a Roma.... se t'occorre qualcosa — gli gridò dietro il Ministro. E pensava, egli avvezzo a vivere in mezzo ai sollecitatori: — Non [277] m'ha chiesto nulla. E nemmen io gli ho offerto nulla. Che potevo offrirgli?

— Dove desidera Sua Eccellenza?

Era il cocchiere che, immobile e a capo scoperto davanti allo sportello, attendeva gli ordini.

Cervara si scosse. — Alla Croce di Savoia. Per la via più breve.

Quella sera a teatro il commendatore Prefetto, visitando il Ministro nel suo palco, fece una discreta allusione all'incontro di lui con Varesio.

— Siamo stati all'Università insieme — spiegò Sua Eccellenza.

— Oh un onest'uomo — soggiunse il Prefetto. — Un po' esaltato.... Alla testa di tutte le dimostrazioni....

— Proprio io non sapevo niente di tutto ciò — disse Cervara ridendo.

— Me l'immaginavo.... Del resto, lo ripeto, un onest'uomo.

Ma la sera stessa un corrispondente di giornali, compreso dell'alta dignità del suo ufficio, telegrafava a Roma e a Parigi:

Il Ministro Cervara ebbe oggi intimi colloqui con l'avvocato Varesio, presidente della Società dei reduci e del Circolo Istria e Trentino. La cosa fece molta impressione avvalorando la voce già corsa sulla evoluzione politica del Gabinetto.

Ne venne di conseguenza che, appena giunto alla capitale, Cervara ebbe un'amorevole tiratina d'orecchi dal Presidente del Consiglio.

— Sì, sì, sono bazzecole, e il corrispondente è un asino che vuol darsi importanza.... Ma noi dobbiamo andar coi piedi di piombo.... Son troppi [278] quelli che aspirano a raccogliere la nostra successione.... E, vede, fin che si tratta di prometter ferrovie, decorazioni, sussidi, eccetera, poco male.... Son ferri del mestiere; se si può si mantiene; se no, si ha sempre la scappatoia di dire che gli eventi sono mutati.... L'essenziale è non sbilanciarsi con gli avversari....

Più rude assai fu il collega del Tesoro. — Io ho bisogno che la Rendita aumenti e lei co' suoi colloqui intimi me la fa ribassare.

[279]

JOLIE

I.

— Eccomi, — disse il dottore Cadeo, avvicinandosi all'ufficiale sanitario che gli sussurrò qualche parola all'orecchio.

Il dottore fece un segno affermativo col capo e soggiunse a voce bassa ma percettibile: — Anzi è quello che desidero.

Indi riprese il suo posto dietro la poltrona ove Clara Falerno sedeva, col busto alquanto proteso in avanti, con le mani scarne piantate sulle ginocchia a guisa d'artigli, pallida come uno spettro, misteriosa come una sfinge.

Da una settimana Clara Falerno non si moveva da quella camera. Per cinque giorni e cinque notti, senza chiuder mai occhio, senza prender nulla fuor che il necessario per non morire d'inanizione, ell'aveva vegliato la sua piccola e leggiadrissima Olga, malata di difterite; successa poi la catastrofe al mattino del sesto giorno, non c'era stato verso di toglierla di là.

Avevano un bel ripeterle su tutti i toni ch'ella doveva pensare agli altri suoi figliuoli, che doveva pensare al marito lontano, alla madre [280] vecchia; ella replicava con una calma che metteva spavento che gli altri suoi figliuoli stavano bene, erano dalla nonna, giuocavano forse, ridevano, che suo marito e sua madre non avevano bisogno di lei.... Nessuno aveva bisogno di lei, tranne la sua Olga.

E Clara, vietando agli estranei di toccar la piccina, l'aveva col solo aiuto della Silvia, la cameriera, lavata, vestita, adorna come per una festa, composta nella cassa di zinco, con le manine in croce, coi lunghi capelli biondi fluenti sul petto.

Nè il pianto, il pianto che lenisce le angosce supreme, aveva bagnato il suo ciglio, nè un gemito era salito al suo labbro nell'ora terribile dei funerali. Solo la si era vista accostare rapidamente la destra al cuore, come se dentro di lei qualche cosa si fosse spezzata. Mentre la cameriera singhiozzava con la testa appoggiata al muro, ella, la madre, ritta ed immobile, seguiva con lo sguardo la bara portata via di contrabbando nel silenzio pauroso della notte. Passava la bara per le stanze vuote, rischiarate appena qua e là da un mozzicone di candela, impregnate dall'odore acuto delle disinfezioni; scendeva le scale deserte, era caricata in silenzio sulla barca nera, si dileguava nel canale tenebroso. Nessuno era venuto a salutare la fanciulla che partiva per l'ultimo viaggio, nessuna delle compagne di giochi deponeva un fiore sul feretro....

Fin da quando si era saputo che la Olga aveva la difterite, la casa Falerno era stata posta al bando. I conoscenti, gli amici, pur compiangendo [281] sinceramente la bella bambina e la madre che l'adorava, si limitavano a mandare a prender notizie alla porta di strada, ordinando al domestico di non salire. Altri le notizie le facevano chiedere alla signora Pino, la nonna della piccola inferma, e i più solleciti e più curiosi cercavano di parlar con la vecchia signora e di aver da lei maggiori particolari.

Ma nemmen la signora Pino aveva varcato la soglia dei Falerno dopo il primo giorno della malattia. Nel consegnarle i due fratellini dell'Olga, Clara le aveva detto: — Va, va, custodiscili, salvali, e non venir qui, e non passar per questa strada, fin ch'io non ti chiami.

E respingendo brutalmente i bimbi che volevano un bacio: — No, no, — ell'aveva soggiunto. — Con la nonna subito, con la nonna.

Insieme con Clara, oltre a due persone di servizio, non era rimasto che il cognato. Ci era rimasto di malavoglia, per riguardo del mondo, giacchè fra le molte paure del signor Giovanni Falerno, giudice al tribunale civile e correzionale, c'era anche quella dell'opinione pubblica; e l'opinione pubblica l'avrebbe condannato senza pietà, s'egli, che viveva in famiglia, se la fosse svignata proprio in quell'occasione. Però, in ossequio al sequestro fiduciario posto dal Municipio, il signor Giovanni, durante la malattia della nipote, non aveva mai messo piede nelle camere di Clara, e aveva passato il tempo a far suffumigi e lavacri antisettici. Anzi egli esalava un tal puzzo d'acido fenico che una mattina il presidente gli aveva detto: — Caro Falerno, lei appesta il Tribunale. Le accordo io [282] una licenza straordinaria, e se occorrerà le manderò da lavorare a casa.

Morta la bimba, il dottore Cadeo, pensoso più ch'altro dello stato di Clara, era ricorso al degno magistrato come al parente più vicino di cui si potesse disporre.

— Si muova anche lei.... Mi aiuti a scuoter quella povera signora.... Eserciti la sua influenza.... La persuada a coricarsi.

Il giudice aveva sollevato degli scrupoli di legalità.

— Come si fa?... Quelle camere sono ancora sotto sequestro. Se ci vado e poi esco di casa, manco a un impegno morale.... D'altra parte, non posso mica restar prigioniero.... Ho già trascurato troppo l'ufficio.... Senza dire del pericolo.... non per me.... ma per le molte persone con cui mi trovo in contatto.

Il dottore s'era impazientito. — Eh, non tiri fuori questi cavilli.... La responsabilità verso il Municipio l'assumo io.... E, in quanto al rimanente, le prometto di disinfettarla per modo che nessun microbo avrà il coraggio di appiccicarsele addosso.

Messo alle strette, il signor Giovanni aveva finito col lasciarsi rimorchiare, e stando alle calcagna del medico dava qualche capatina da sua cognata. Ma volendo pur sfogarsi con qualcheduno se la prendeva in cuor suo col fratello lontano.

— Quando si abbraccia una carriera che costringe a peregrinazioni continue, si rinunzia al matrimonio. Non è lecito aver moglie e figliuoli per far poi a scaricabarile e gettarne la cura [283] sulle spalle ai parenti.... Perchè, non dico, sarà certo un gran colpo per mio fratello il ricevere allo Zanzibar la notizia della morte della sua bambina; ma intanto lui comanda la sua corvetta, lui vede nuovi paesi, ha mille distrazioni, non compirà il suo giro che fra un anno o due, e al ritorno, dopo tanto tempo, il peggio sarà passato.... Le maggiori tribolazioni le hanno quelli che sono sul posto, e che, via, avrebbero diritto alla loro quiete.... Sicuro, anche Cadeo, povero diavolo, da sette giorni trascura la sua clientela per esser qui a tutte le ore.... Ma Cadeo è medico e tra gli uffici della sua professione c'è pur quello di sacrificarsi in casi eccezionali.... E poi i medici hanno l'abitudine di vivere in mezzo alle disgrazie; hanno l'autorità, hanno il linguaggio adattato alle circostanze.... bellissime cose ch'io non ho.... nemmeno con mia cognata.

E, invero, Clara Falerno, donna di spirito, moglie d'un uomo pieno di fuoco, d'energia, di coraggio, non aveva mai mostrato un'eccessiva deferenza pel cognato pusillanime ed egoista, nè s'era mai rivolta a lui per consiglio, durante le frequenti assenze di suo marito. Piuttosto, alquanto sarcastica per sua natura, ella si divertiva spesso a farlo bersaglio de' suoi motti pungenti.

Ora Clara non badava nè a lui, nè a Cadeo. Di fronte alle loro esortazioni e alle loro preghiere, ella s'irrigidiva in una resistenza che solo la forza brutale avrebbe potuto vincere; e il medico prudente esitava ad usare la forza.

— Verrò da me.... più tardi, — ella diceva [284] aggrappandosi stretta ai bracciali della poltrona e parlando di preferenza al dottore. — Lo so, non c'è più niente, non posso far niente, ma mi trovo bene qui.... E prendo anche di tratto in tratto una tazza di brodo.... Domandi alla Silvia, dottore.... Non abbia paura ch'io mi ammali.

E sul volto emaciato appariva l'ombra d'un sorriso. Ah, che male faceva quel sorriso a vederlo!

Il giudice tirava Cadeo per la falda del vestito.

— Ha inteso? Dice che verrà da sè. È meglio aver pazienza ed andarsene.... Non si fa che inasprirla.

Ma Clara non aveva mantenuto la sua promessa, e poche ore dopo il funerale, il medico era tornato alla carica.

— Senta, signora Clara, presto capiteranno quelli dell'uffizio d'igiene.... Sa.... Nei casi di malattie contagiose, gli oggetti, le masserizie che hanno appartenuto alle persone colpite dal morbo devono esser disinfettati o distrutti.... Bisognerà sgombrare questa camera....

— E perchè non potranno incominciare in presenza mia? — interruppe Clara.

— Come? — esclamò Cadeo. — Strapperanno le tende, porteranno via i mobili, ed ella vorrebbe esser presente?

Ella alzò la faccia sparuta e disse lenta e grave, sottolineando ogni parola:

— Iersera hanno portato via qualche cosa di più prezioso dei mobili, e io ero presente, e sono stata forte.

— Tanto forte.... troppo forte, — ribattè il [285] dottore. — Non la voglio così.... Voglio vederla piangere.

Con una logica inesorabile, Clara rispose:

— Se non piango in questa camera...!

E le sue pupille vitree guardavano intente il lettino vuoto.

Ma la frase ch'ell'aveva pronunciata fu pel medico come un raggio improvviso di luce. Se non piango in questa camera! Ella stessa invocava dunque le lacrime e sentiva che fuori di là, le sarebbe stato ancor più difficile spargerne! Ed egli (oh, il fine psicologo!) egli che una crisi di lacrime reputava necessaria, indispensabile alla ragione, alla vita della sua cliente, egli insisteva per allontanarla!

II.

Autorizzato dalle parole del dottore, l'ufficiale sanitario sollevò la pesante portiera di drappo, dietro alla quale, in un angolo della stanza, erano raccolti i giocattoli della bambina.

Clara trasalì; le sue dita ceree, affilate parvero affondarsi nelle carni attraverso la stoffa del vestito.

Cadeo rimase impassibile. Ma il signor Giovanni ch'era in fondo alla camera, sgattaiolò silenziosamente. O perchè lo avevano chiamato? Che ci faceva lì? A lui certe cose stringevano il cuore.

Uno dopo l'altro, con un'ostentazione crudele i giocattoli passavano dalle mani dell'ufficiale [286] sanitario in quelle d'un inserviente che li riponeva in un sacco di tela incatramata. A Clara nulla sfuggiva.

Ecco il cerchio che l'Olga (erano appena otto giorni dall'ultima volta) si divertiva a far correre lungo i viali del Giardino Pubblico. Correva il cerchio saltellando sulla ghiaia minuta, e la fanciulla, più vaga e leggera d'una farfalla, correva e saltellava con esso. La seguiva a breve distanza la madre, e la gente guardava con simpatia quella madre ancor giovine e bella, quella bimba vispa, fresca e gentile....

Ecco la palla di gomma che co' suoi sbalzi capricciosi aveva rovesciato tanti ninnoli, rotto tanti vetri, colpito o sfiorato tante teste, provocato tante lotte incruenti fra l'Olga e i fratelli minori.... Da qualche tempo però la palla era scema dell'antica baldanza, non brillava de' suoi colori vivaci, non aveva la sua irrequietezza febbrile e nervosa; e Olga sollecitava sempre la mamma a comprargliene una di nuova. — Te la comprerò, caro tesoro.

Ecco la linda cucinetta, ecco i piattini di stagno ove Olga apparecchiava e serviva i pasti frugali a Jolie.... poca farina impastata con l'acqua....

Ed ecco Jolie....

Un lieve fremito scosse le membra di Clara allorch'ella vide Jolie; le sue palpebre vibrarono, i suoi denti stridettero.

Le pareva ieri. Suo marito doveva partir la sera per Roma affine di conferire col Ministro prima d'imbarcarsi alla Spezia. Ella era uscita con lui e con l'Olga. Erano entrati in una [287] bottega di giocattoli, avevano preso una scatola di cubi per Mario, una mezza dozzina di soldatini infrangibili per Giorgetto che mostrava istinti belligeri; all'Olga avevano lasciato scegliere una bambola di suo gusto. Ed ella, fra varie, aveva scelto questa, e l'aveva battezzata subito per Jolie, ch'era il nome d'un'altra già posseduta da lei e finita tragicamente nell'autunno, in campagna, sotto le ruote d'un carro. Co' suoi capelli di stoppa, il suo nasino schiacciato, il suo sorriso stupido, la nuova Jolie non era il tipo della bellezza greca; pur non mancava di pregi; poteva star ritta, seduta, in ginocchio, moveva gli occhi, diceva, premendole una molla nel ventre, mamma e papà; inspirava insomma quella fiducia che sogliono inspirar le persone sane di corpo e sane anche, se non raffinate, intellettualmente.

— La terrai con cura? La conserverai sin ch'io torni? — aveva chiesto il babbo all'Olga.

E l'Olga aveva promesso di sì.

A Clara, che rammentava la vita breve delle puppattole precedenti, la promessa era sembrata assai temeraria; pure era un fatto che, in otto mesi Jolie non aveva sofferto troppe avarie. Una piccola echimosi alla testa per una caduta accidentale, una slogatura ad un braccio, una paralisi all'articolazione d'una gamba, una frattura interna che rendeva tardo e difficile il funzionamento della molla, quest'era tutto. Jolie non si reggeva più nè in piedi, nè seduta, nè in ginocchio, Jolie non moveva più gli occhi, non diceva più che in modo confuso mamma e papà; ma del resto Jolie godeva [288] buona salute e manteneva inalterato il sorriso ch'è indizio d'umore sereno e pacifico.

Olga l'amava con passione. La mattina il suo primo pensiero era quello di domandarle se aveva dormito bene: poi c'era la toilette che si rinnovava più volte nella giornata, giacchè Jolie possedeva un ricco corredo estivo e invernale; poi la colazione, le visite, il desinare, la cena; infine, la sera, l'Olga non si coricava se non aveva spogliata e messa a letto la bambola coprendola di panni gravi o leggeri a seconda della stagione. Nella mente della fanciulla Jolie doveva essere associata alle gioie e ai dispiaceri della famiglia; portava gli auguri nei dì onomastici e natalizi, si rallegrava del parto felice della gattina di casa, si doleva del mal di denti della cameriera, univa i propri saluti a quelli che l'Olga inviava al babbo.... E se il babbo, nelle sue lettere, dimenticava di corrispondere all'atto cortese, l'Olga se ne risentiva come di offesa fatta a sè stessa e cercava di consolarne la sua favorita.

Che più? Durante la sua malattia, nei brevi intervalli tra due accessi di febbre, l'Olga voleva Jolie sul suo letto, le parlava con la sua voce fioca, le chiedeva scusa se non s'occupava di lei come il solito, le prometteva di risarcirla, dopo guarita, della sua forzata trascuranza. E qualche ora prima di morire, scotendosi un istante dal suo sopore letargico, ell'aveva balbettato: — Jolie ha freddo.

Tutto ciò ricordava la madre mentre Jolie spariva nell'ampio sacco, insieme al cerchio, alla palla di gomma, ai piattini di stagno; ricordava [289] tutto ciò e le pareva che dal fondo del sacco la chiamassero: — Mamma! — e le pareva di riudir le parole: — Jolie ha freddo.

Ella si voltò verso Cadeo quasi per interceder grazia. — Dottore, anche la bambola?...

— È necessario, cara signora.

Clara si coperse il viso con le mani. — Dio mio, Dio mio!

E pure, a poco a poco, il suo dolore muto, concentrato, pietrificato si rammolliva, si scioglieva in un'immensa pietà di sè stessa e degli altri.... del marito, dei figliuoli, della madre, della casa.... la casa ove Olga non c'era più.

Ancora il suo ciglio era asciutto, ma ella sentiva le lacrime salire, come la terra sente l'acque profonde cercanti un'uscita. Salivano le lacrime, le facevano gruppo alla gola, s'annunciavano con un singulto spasmodico, prorompevano infine calde, impetuose, abbondanti.

— Signora Clara, — sussurrò con dolcezza il dottore Cadeo.

Ella non rispose; gli prese la mano e gliela strinse forte.

— È persuasa adesso di venire? — egli continuò.

Docilmente ella si lasciò condur via dal medico e dalla Silvia.

— E dov'è andato a ficcarsi il signor Giovanni? — non potè a meno di domandare il dottore.

— Il signor Giovanni? — disse la cameriera. — Credo stia facendo dei suffumigi.

— Coniglio!

[290]

L'ISOLA FORTUNATA (FANTASIA)

I.

Ora, nella bella isola, gemma dell'Oceano, un dì avvenne questo. Quanti, o nella città popolosa sorgente ad anfiteatro sul mare, o nei villaggi e nei casolari dispersi per la campagna, vegliavano accanto a un infermo, videro, miracolo nuovo, le piaghe richiudersi, la febbre svanire, le forze riprendere, e sulle guancie terree, da cui parevano fuggire il sangue e la vita, tornar via via i rosei colori della salute. In pochi giorni i malati più gravi lasciavano il loro letto di dolore; un'arcana virtù benefica della natura strappava alla morte coloro che la scienza s'era dichiarata impotente a salvare.

Nè fu una breve sosta nel corso ordinario delle leggi che governano il mondo; non solo gli ultimi guariti non ricadevano, ma nessun altro ammalava, nessun altro moriva. Era quindi ben giusto che, trascorse più settimane dal dì memorabile in cui s'era prima manifestato il prodigio, fossero rese alla Divinità solenni azioni di grazie.

[291]

Non l'angusto ricinto d'un tempio che non sarebbe bastato alla folla degli accorrenti, ma un'immensa spianata, che con leggero declivio ascendeva dal mare sino alle falde d'un colle, raccolse, al compier del terzo mese, l'intera popolazione esultante. Presiedevano i consoli: musici e poeti erano sacerdoti del nobilissimo rito in cui nè colò dagli altari sangue di vittime, nè salì dai turiboli fumo d'incenso; ma da liberi petti salivano i canti e da mani innocenti si spargevano i fiori.

Senonchè, la parte più toccante della cerimonia era la sfilata di quelli che tre mesi addietro si consideravano irremissibilmente perduti e che la sorte benigna aveva restituito all'umano consorzio. Aprivano la marcia i bambini che di lontano, da posti speciali ed eminenti, le madri covavano con occhi pieni di lacrime. Poverette! Ricordavano gli spasimi atroci durati per giorni che sembravano secoli; le veglie affannose presso le cune spiando ogni moto dei cari visi emaciati, invocando una parola, un sorriso dalle labbra immobili, esangui; ricordavano, oimè, il gesto sfiduciato del medico che aveva esaurito tutti gli espedienti dell'arte sua; ricordavano la pietà crudele degli amici, dei congiunti, favellanti di calma, di rassegnazione ai voleri di Dio. Vane ciancie di mentecatti! Può una madre rassegnarsi ai voleri d'un Dio che le strappi dal petto la sua creatura? Ora che hai stornato il colpo tremendo, ora le madri t'adorano, Dio di bontà e di clemenza! E voi, fanciulli, su cui la morte aveva steso le nere ali, e che oggi fissate gli occhi baldanzosi nel sole, sciogliete inni al [292] Signore, offritegli il profumo delle vostre anime immacolate!

Così dicevano le madri, e i bambini vestiti di bianco cantavano sfogliando rose lungo la via.

Dopo di loro veniva il manipolo degli adulti, uomini e donne, atteggiati a una gioia più composta e severa. Come rami divelti che scendono il corso d'un fiume essi s'eran sentiti portare verso la foce ignota e paurosa, avevano letto la propria sentenza nelle faccie contraffatte dei loro cari, e adesso, in mezzo alla festa comune, fra i plausi e i sorrisi che li accompagnavano, la lugubre visione si riaffacciava di tratto in tratto ai loro occhi, faceva correre un brivido nelle loro vene. Pur le loro voci gravi si mescevano al coro delle voci infantili e si spandevano piene e sonore nell'aria.

Ma il canto dell'ultimo drappello, il drappello dei vecchi, era appena un murmure sommesso. Il miracolo li aveva, sì, arrestati sull'orlo della tomba, ma non aveva ridato loro l'energia della gioventù. Ben piccola parte dell'antico vigore era tornata nelle loro membra infiacchite; di poco s'erano drizzate le loro persone curve; di poco s'era avvantaggiata la tardità dei loro movimenti. Ed essi procedevano a passi cauti e misurati, tenendosi per mano, ora chinando le pupille al suolo, ora girandole attonite. Invero molti parevano riafferrarsi cupidi alla vita e goderne con soddisfazione puramente animale; ma sulla fronte di alcuni si leggevano altri pensieri. Forse già assuefatti all'idea della tomba si dolevano del riposo negato dopo tanti travagli; forse li vinceva il segreto terrore d'una [293] vecchiezza lunga e fredda come le notti del polo; forse li assaliva il rimpianto delle persone dilette, trapassate anni addietro, quando l'isola non era sottratta alla legge universale della morte. Oh perchè non attendere, anime care? Se voi foste ancora del mondo, quanto più dolce sarebbe il mondo ai superstiti!

Tuttavia, le faccie più scure dovevano illuminarsi almeno un istante nel contagio dell'entusiasmo, del delirio che invadeva la folla. E il delirio, e l'entusiasmo si manifestavano con maggior veemenza al passaggio dei fanciulli e al passaggio dei vecchi, come se l'istinto del popolo volesse associare ne' suoi trasporti d'affetto queste due debolezze.

Giunto al sommo della spianata ove s'ergeva, addossato alla collina verde e fiorita, il palco dei consoli, il coro delle voci cessò; il corteggio si dispose in semicerchio: i vecchi nel mezzo, proprio di fronte alla loggia, a destra gli adulti, a sinistra i bambini. L'immenso padiglione del cielo azzurro si spiegava sul capo delle moltitudini, il sole fra nuvole d'oro calava dietro le alture, una tepida brezza strappava atomi odorosi alle piante e increspava la superficie del mare stendentesi in giro a perdita d'occhio; dal folto dei boschetti uscivano concenti invisibili.

Anche i concenti tacquero a un tratto, e per qualche secondo non si udì che il fremito represso della folla aspettante, simile al fruscìo d'un campo di spighe agitate dal vento; poi l'anziano dei consoli pronunziò un breve saluto e invitò uno che gli sedeva a fianco a parlare. Era questi un uomo nella pienezza della virilità; [294] bello come un Dio, portava il marchio del genio sull'ampia, nobile fronte e negli occhi glauchi e profondi di cui non si sarebbe potuto dire se più luce ricevevano dal di fuori o più ne spargevano intorno a sè. Il Poeta; non altrimenti lo chiamavano da anni; egli la voce, egli la coscienza dell'Isola, ne aveva eternato le mille bellezze, ne aveva cantato le albe di rosa e i tramonti di fuoco, aveva, piccolo Virgilio sconosciuto al mondo, nobilitato col ritmo armonioso i lavori del suolo e le fatiche del mare, aveva dato fiori alle cune e alle tombe.

Oggi egli sciolse un inno alla vita e alla salute. Alla vita ch'è luce, ch'è amore; alla salute ch'è forza, ch'è gioia e felice equilibrio del corpo e dello spirito. Evocò con parola fatidica le maraviglie dell'avvenire, paragonò la tarda e vana esperienza delle generazioni fuggitive con quella che si sarebbe d'ora innanzi accumulata sugli uomini, liberi dall'incubo della malattia e della morte. Pensate, egli disse, pensate quali prodigi potranno compiersi in un paese ove insieme coi nuovi savi, insieme coi nuovi genî rimarranno gli antichi, ove non sarà muta nessuna voce, non sarà spenta nessuna fiaccola del passato. E conchiuse che poichè i Numi favorivano così gli abitatori dell'isola, all'isola stessa si dovesse mutare il nome e chiamarla l'Isola fortunata.

Un'immensa acclamazione mostrò come il Poeta si fosse reso interprete del sentimento comune, e da migliaia e migliaia di petti irruppe un grido formidabile: — Sì, sì, l'Isola fortunata!

[295]

Allora, dalla schiera dei fanciulli appartenenti al cortèo, uscì, alta e diritta come uno stelo, una bambina, vaga angioletta dal dolce viso ridente, dai riccioli biondi che le cingevan le tempie d'una gloria di sole. Corse sulle labbra un nome: Risorta.

L'appellavano così da tre mesi, da quando la madre, credutala estinta, stava per tagliarle una ciocca di capelli, ed ella, piuttosto risuscitata che guarita, sollevò le palpebre e disse con accento ineffabile: — Mamma.

Non sconcertata dagli applausi, si avviava ella adesso, svelta e graziosa, al palco dei consoli, reggendo con le piccole mani una corona d'alloro che l'Isola destinava al Poeta. Egli scese a incontrarla, e piegata verso di lei la maestosa persona lasciò che le mani delicate gli posassero il serto sul capo. Solo in quel momento un leggero tremito agitò le membra gentili della fanciulla, e un vivo incarnato le si diffuse sulle guancie pallide, e gli occhi limpidi si chinarono quasi abbagliati dal fulgore di quegli altri occhi che li scrutavano. Anch'egli, il Poeta, era in preda a uno strano turbamento. Nella bambina d'oggi egli indovinava la donna di domani, e la donna gli sembrava più bella, più affascinante di tutte quelle ch'erano apparse fino allora sul suo cammino.

— Quanti anni hai? — egli chiese.

— Sette.

Egli la congedò con un bacio paterno.

Risorta si mosse per tornar dai compagni che l'attendevano; ma dopo pochi passi si voltò indietro e sorrise. Con la precocità femminile ella [296] sapeva bene che il suo sguardo avrebbe trovato per via lo sguardo del Poeta.

— Ha trent'anni meno di me! — egli sospirava. Pur lo soccorse un altro pensiero: — Che cosa sono trent'anni per una vita che non ha limiti?... Mi raggiungerà.

Finita la cerimonia, la folla giuliva si disperse all'ombra discreta del crepuscolo, e chi si ritirò alle sue case, e chi errò tra i boschetti di mirti e d'aranci, e chi scese sul lido a raccoglier conchiglie, e chi salì al prossimo poggio del Belvedere, che nelle notti d'estate era il ritrovo preferito della popolazione. Intanto s'erano accesi fuochi su tutte le alture, e il navigante che passava lontano vedeva sorger da un punto del mare come un vapore luminoso che andava via via fondendosi con l'azzurro del firmamento.

II.

E, per un buon tratto di tempo, i dissidenti, se c'erano, non osarono alzare la voce. Si trattava d'eredi scornati, di mogli e mariti già ben disposti a una prossima vedovanza, di generi e nuore che avevano creduto imminente la dipartita della suocera da questa valle di lacrime, di emuli a cui aveva sorriso l'idea della scomparsa d'un antagonista pericoloso, di subalterni che s'erano tenuti sicuri di occupare in breve il posto d'un superiore infermo o decrepito. Era un po' duro dover rassegnarsi adesso allo statu quo.... Ma era altrettanto difficile manifestare in modo troppo aperto i propri sentimenti.

[297]

Del resto, ad alcuni interessi offesi dal nuovo stato di cose s'era provveduto con lodevole sollecitudine. Lo stipendio ai custodi del cimitero era mantenuto nella sua integrità. Non dovevano accoglierne i visitatori, mostrare ai posteri remoti il monumento più eloquente del passato? Ai membri della rispettabile corporazione dei becchini si assegnò una pensione per un certo numero d'anni, e così pure si fece in favore di quanti altri traevano il loro sostentamento dagli uffici prestati ai defunti. Vi fu un principio d'agitazione tra i medici e i farmacisti, e non mancarono le proposte di concedere anche ad essi un'indennità; ma prevalse il savio consiglio di soprassedere. In fin dei conti, non era detto che non avesse ad esservi più bisogno di farmacisti e di medici; e, a ogni modo, l'istruzione ond'essi erano forniti doveva metterli in grado di rendersi utili in mille guise e di guadagnarsi da vivere. E in fatti a pochi di loro occorse mutar professione. Se pegli uomini (non pegli animali inferiori) era abolita la morte, se non si sviluppavano più malattie gravi, rimanevano tuttavia molte piccole indisposizioni, vere o sognate, per le quali si richiedevano consulti e ricette, giacchè non era vinta l'irrequietezza propria della natura umana, e, non essendovi motivi seri di angustia, i motivi lievi bastavano a tener agitati gli animi. Era soprattutto, in uomini e donne, una febbre, una smania di voler prolungare la giovinezza, uno sgomento di ogni sintomo che accennasse al declinar delle forze, all'ottundersi delle sensazioni, e il medico affilava le armi per frenar [298] l'azione corroditrice del tempo, e lo speziale vegliava sulle sue storte per distillarne le essenze vitali. Non è a credersi la quantità degli elisir che con nomi diversi erano offerti all'avidità insaziata del pubblico. L'ultimo doveva esser sempre l'infallibile, conservatore miracoloso di tutte le facoltà del corpo e dello spirito. Ma c'era il guaio che, non temendosi più della morte, si usava e abusava dei veleni ai quali era tolta la virtù di uccidere, non quella di nuocere; onde i frequenti disturbi gastrici, e l'emicranie, e gli squilibri psichici, e le malinconie profonde, ostinate, e talora una strana impazienza di mutar soggiorno e abitudini. Però i medici esitavano a suggerir questo rimedio che poteva esser peggiore del male. Sulle prime, gli scienziati dell'Isola s'erano divisi in due campi circa alla soluzione di un grave problema. Gli uni, appartenenti alla scuola sperimentale, sostenevano che l'immunità contro la morte derivasse da virtù particolari del luogo e valesse soltanto per quelli che vi abitavano, e fin che vi abitavano; gli altri, capitanati dal presidente dell'Accademia di filosofia aprioristica, pur consentendo nell'attribuire alla terra ed all'aria meriti speciali, affermavano il privilegio dell'immortalità esser concesso a tutti i nati dell'Isola, dovunque pur esulassero. Corsero fiumi d'eloquenza in favore delle due tesi contraddittorie, e i dotti si scagliarono a vicenda le garbate contumelie che sono la salsa piccante delle loro polemiche. Comunque sia, il presidente dell'Accademia aprioristica mostrò nel modo più luminoso d'esser convinto delle sue idee, e, seguendo una volta [299] tanto il metodo sperimentale, s'imbarcò sopra una nave diretta a un porto lontano del continente. Non appena arrivato, fu ripreso da un'antica malattia cardiaca, di cui, nella coscienza della propria invulnerabilità, non si curò più che tanto. E così, ripetendo non pereo, passò agli eterni riposi.

Allora non ci fu più dubbio quale delle due tesi fosse la giusta; restava solo a vedersi fin dove si estendesse quella che avrebbe potuto chiamarsi la zona di salute. E in breve l'esperienza dimostrò ch'essa non oltrepassava un raggio di circa sei miglia tutto intorno all'Isola; entro questi confini non solo non allignavano i germi mortiferi, e l'abituale placidezza del mare e la qualità della spiaggia nè irta di scogli nè sparsa d'insidie escludevano la possibilità di naufragi, ma gli stessi casi fortuiti si risolvevano in nulla. Se per lo sfasciarsi d'una barca, o per altro accidente, un uomo, pur non sapendo nuotare, cadeva in acqua, l'acqua medesima lo riportava illeso alla riva. Di là dalle sei miglia la natura riprendeva i suoi diritti. Onde l'allontanarsi troppo dall'Isola era singolare atto d'audacia, e chi a ciò s'induceva o per ragion di negozi, o per vaghezza di novità, o per la giovanile baldanza che fa correre incontro ai pericoli, era accompagnato alla partenza dai trepidi voti della madre, della sposa, dei figli, e salutato al ritorno come guerriero reduce dal campo di battaglia.

Intanto era corsa sui venti la fama dell'Isola fortunata, e vi affluivano i pellegrini da remote contrade. Venivano i sani per meglio goder [300] della vita, venivano i malati per ricuperar la salute, quali col proposito di fermarvi addirittura la loro dimora, quali per tastare il terreno, per verificar da sè stessi l'incredibil prodigio.

Accolti festosamente in principio, destarono poi, di mano in mano che l'immigrazione cresceva, inquietudini e timori. I profeti di sventura ammonivano: “Badate! Quest'invasione forestiera finirà col soverchiarci, con lo sconvolgere le nostre abitudini, col corrompere i nostri costumi, coll'alterare la nostra lingua. Provvedete prima che sia troppo tardi„.

Perplessi, esitanti, i consoli riunirono gli anziani e i savi dell'Isola, e fra questi il Poeta, sposatosi da poco con la sedicenne Risorta. Disse il Poeta: “O che vorremmo chiuderci in un gretto egoismo? E se gli Dei hanno estirpato dal nostro suolo la pianta malefica della morte, rifiuteremmo agli stranieri di fruire d'una così grande benedizione? Sì certo; un'era nuova è cominciata per noi; dobbiamo mostrarcene degni, dobbiamo accettare i mutamenti inevitabili, e veder di trarne profitto. Apriamo le braccia ai fratelli che accorrono ai nostri lidi, offriamo un campo propizio alla loro operosità, scendiamo con essi in nobile gara per tutto ciò ch'è buono, alto e gentile. Sia veramente la nostra Isola un faro che illumina e attrae; irradii da sè uno splendore che sia conforto e promessa ai derelitti del mondo!„

Chi applaudì, chi mormorò, chi tentennò il capo dubbioso; ma a far prevalere l'opinione del Poeta potè, più della sua parola eloquente, l'osservazione semplice e bonaria d'un umile [301] cittadino: “E con che mezzi li respingeremmo, gli stranieri?„

Quest'era la verità. I miti e patriarcali abitanti, alieni dalle risse e dal sangue, non sarebbero stati in grado, neppur volendo, di custodire l'integrità della loro Isola. Se parte degl'immigranti arrivavano alla spicciolata su leggieri navigli, altri vi giungevano in massa, col sorriso sul labbro ma con la spada al fianco, come offrenti a scelta la pace o la guerra.

E fu pace. I coloni giuravano ubbidienza alle leggi, rispetto alle donne, partecipazione ai tributi; avendone in cambio dono di terreni da coltivare o da fabbricarvi e libertà piena di esercitare le loro industrie e di adorare Iddio a loro modo. Senonchè, la pace ufficiale non impediva le contese private, che, un tempo sì rare nell'Isola, divenivano a mano a mano più frequenti ed acerbe. Ma quantunque un selvaggio furore armasse le destre (che gli stranieri avevano appreso l'uso dell'armi anche agl'indigeni) e le punte affilate cercassero i cuori, nessun colpo riusciva mortale. Il sangue si stagnava, le piaghe rimarginavano; gli avversari, stupiti di vivere, si separavano con occhi lampeggianti d'un odio infinito come l'eternità. Ogni tanto accadeva una cosa tragica. Con un tacito accordo, due nemici irreconciliabili staccavano in silenzio una barca dal lido, e a forza di remi e di vele si spingevano lontano nel mare, oltre la zona privilegiata.... Talora ritornava uno solo dei due; talora non ritornava nessuno; sballottata dai flutti la barca vuota veniva a investir sulla spiaggia.

[302]

III.

Mezzo secolo era trascorso dal giorno memorabile del solenne rendimento di grazie agli Dei, e l'Isola non pareva più quella. La città s'era estesa lungo il lido e sul dorso della collina, altri villaggi s'erano aggiunti agli antichi, e nelle valli appartate e sulle cime solitarie giungeva il fremito della vita. Benchè non vi fosse ormai angolo di terra, per quanto sterile e ingrata, che non sentisse l'aratro, e i pescatori, sfidando il pericolo, solcassero una larga tratta di mare, l'agricoltura e la pesca non erano più l'uniche fonti da cui la popolazione traesse il sostentamento. La necessità aveva aguzzato gli ingegni e fatto fiorire l'industrie e i commerci; la materia prima si trasformava in cento opifici; da cento cantieri uscivano navi superbe che alimentavan gli scambi; e, come se non bastasse il lavoro alla luce del sole, uomini, donne, fanciulli, armati di picconi, scendevano nelle misteriose profondità della terra per strapparne i tesori.

Pur l'Isola aveva perduto la sua poesia e la sua gentilezza; le native virtù della popolazione erano scomparse con lo sparir della morte; ogni vincolo era allentato; ogni affetto illanguidito; perfino l'amor materno, libero dall'ansie che lo fanno trepidar sulle cune, era diventato arido e freddo.

E leggi e costumi avevano subito un'alterazione [303] profonda, poichè l'accumularsi delle generazioni non permetteva di lasciar sussistere gli antichi rapporti giuridici e modificava radicalmente tutti i criteri morali.

Così, non venendo la morte a sciogliere la dipendenza dei figli dai genitori, era, a una certa età, imposta l'abdicazione di questi in favore di quelli; cedevano la potestà, cedevano gli averi, restavano, ospiti tollerati, nella famiglia.

Pei matrimoni s'era ricorso a un altro espediente, e visto che la prospettiva di stare insieme sino alla fine del mondo metteva una grande inquietudine in corpo a mogli e a mariti, il patto nuziale aveva assunto carattere temporaneo; le unioni si contraevano per un quarto di secolo, salvo a rinnovarle di mutuo accordo, come le Società anonime. Purtroppo nemmen ciò bastava ad appagare le impazienze penetrate nel sangue, e là ove un giorno era sacro il rispetto del talamo succedevano scandali a scandali. Anche la più bella coppia dell'Isola s'era divisa dopo vent'anni; la splendida Risorta, nel pieno fulgore della sua giovinezza, aveva abbandonato il declinante Poeta. Ed egli, ferito nel suo amore, deluso ne' suoi ideali, viveva ormai solo e sdegnoso sulla vetta erma d'un colle dicendo al cielo e al mare lontano i canti che gli uomini non intendevano più.

Ma grave sopra ogni problema incombeva sull'Isola il problema economico. Le ricchezze, frutto della raddoppiata attività, s'erano concentrate in mano di pochi e non davano la felicità nemmeno a quei pochi, travagliati perpetuamente dalla cura gelosa di conservarle e dalla [304] cupidigia febbrile di accrescerle: gli altri, pur faticando l'intera giornata, campavano a stento. Indi furti, rapine e sommosse; indi piene di gente rissosa le strade, piene di prigionieri le carceri. E le angustie dell'oggi erano un nulla in paragone ai terrori del domani. Quest'Isola, ove non moriva nessuno e ov'erano continue le nascite, come sarebbe bastata a capire, a nutrire i suoi abitanti? Ecco il pensiero che occupava assiduo le menti, ecco la domanda che saliva senza tregua alle labbra. Nè il quesito era agitato con la calma di chi considera in modo obbiettivo un avvenire che non lo tocca; qui i casi dell'avvenire toccavano tutti; qui tutti dovevano chiedere a sè medesimi ciò che, in un tempo non molto lontano, sarebbe accaduto di loro. Nelle piazze, nei privati ritrovi, nei Consigli dei governanti si discutevano strane, stupefacenti proposte. D'impedire l'immigrazione non si parlava più; era cosa fatta. Il provvedimento da cui gl'indigeni avevano rifuggito era stato preso dagli stessi immigranti contro gl'immigranti nuovi; solo in via eccezionale ed assoggettandosi a gravissimi balzelli era ormai permesso di fissar la propria dimora nell'Isola; le invasioni si respingevano a mano armata e si respingevano con fortuna; perchè fra le molte trasformazioni dell'Isola era notevole questa: che vi si erano sviluppate le virtù militari e un piccolo esercito custodiva la costa e un piccolo naviglio vigilava gli approdi. Ma ben altro occorreva per arrestare l'addensarsi minaccioso della popolazione. E chi invocava leggi che frenassero i matrimoni, e chi pretendeva [305] fissare il numero massimo dei figliuoli per ogni famiglia; e chi suggeriva la soppressione dei bimbi illegittimi gettandoli in mare là ove il mare veramente ingoiava la sua preda, e chi voleva, pei delinquenti, sostituito l'esilio al carcere, e chi l'esilio chiedeva per quanti o dall'età o dalle condizioni fisiche fossero resi inetti al lavoro. Triste a dirsi, il feroce proposito non era balenato prima alla mente di uomini sciolti da ogni legame domestico; anzi i primi a manifestarlo, i più caldi a sostenerlo erano quelli che, quand'esso fosse stato accolto, avrebbero visto disertata la casa da congiunti un tempo carissimi. “Perchè,„ dicevano aspramente costoro, “perchè devono i pochi faticar per i molti? Perchè il frutto de' nostri sudori, già scarso a noi, alle mogli, alla prole, deve andar diviso coi bisavoli e coi trisavoli?„ E le donne, pur sì pietose, aizzavano i mariti, e i bimbi erano educati a guardar con occhio ostile le lunghe, squallide schiere dei vecchi gialli, magri, stecchiti, sfilanti silenziosamente per le vie, o immobili al sole, le mani scarne intrecciate sul pomo dei nodosi bastoni, le pupille fisse nello spazio in atto di muta interrogazione. Pareva dicessero: “Che giova vivere?„

Nondimeno, solo pochissimi osavan morire. Anticipando volontari l'esilio che pendeva sul capo di tutti, quei pochissimi sparivano nella notte, senza che neppur le famiglie si curassero di sapere ove erano andati. Ma i più si ribellavano contro il destino che li minacciava. Benchè la terra natale fosse loro divenuta nemica, si tenevano stretti alla terra natale; benchè la vita [306] fosse sì dura, s'aggrappavano disperatamente alla vita.

E, appunto in quel cinquantesimo anno, quando l'Isola fortunata avrebbe dovuto celebrare il suo giubileo; ed era invece maggiore la eccitazione degli animi, maggiore il fermento contro i parassiti, alcuni tra gli anziani si volsero supplichevoli per aiuto al Poeta, come a colui che forse poteva stornar la procella. “Non questo„, egli rispose sconfidato. “Sono un superstite come voi, sopravvivo alla mia gloria, sopravvivo al mio genio. Una cosa posso e devo: dividere la vostra sorte„.

E seguì gli amici, ahi quanto diverso anch'egli da quello d'un tempo! Egli s'avvicinava al novantesimo anno; era entrato nel grigio crepuscolo che, ai limiti estremi di quella che noi chiamiamo vecchiezza, avvolgeva nell'Isola uomini e donne. La bella, ampia fronte, già eretta verso le stelle, si piegava oggi come sotto un peso invisibile; nei lunghi capelli inanellati, nella lunga barba fluente brillavano con nitore metallico numerosi fili d'argento, un'ombra di malinconia appannava gli occhi sfavillanti e profondi, e in tutta la persona era un'aria di stanchezza, un languore diffuso che contrastava con l'antica baldanza.

Tuttavia, per combattere l'ultima lotta, egli trovò ancora una volta gli accenti che scuotono e trascinano con una forza che nessun ragionamento non ha. A che ripetere le sue parole? Divise dal suono, dal gesto, dal ritmo, sarebbero come fiori avvizziti, pallida immagine di ciò che furono. I coetanei bevevano avidamente [307] l'ineffabile armonia che li richiamava agli anni felici; i giovani, invano riluttanti, subivano il fascino d'un'arte primitiva ed ingenua. Molte ciglia che ignoravan le lacrime s'inumidirono, molti cuori induriti furono vinti da un impeto di tenerezza, e nella universale commozione la legge, ormai pronta, che decretava gli esigli fu lacerata.

Ma il Poeta sentiva che il suo trionfo era effimero. Gli risonavano nell'orecchio due frasi mormorate dietro di lui nella folla, senza passione, senz'astio, con una tristezza pacata che ne raddoppiava il significato: “Ciò che non si è fatto oggi dovrà farsi domani„. “Costui parla come quando sì moriva„.

Meditando le gravi parole, egli ritornava al suo eremo. “Rimani con noi„, gli avevan detto gli amici. Egli non aveva voluto. Non solo desiderava evitare ogni possibile incontro con la sua bella infedele; ma troppo gli stringeva il cuore il mutato aspetto della città ch'egli ricordava tranquilla e gioconda in riva al suo mare, impregnata di fragranze e circonfusa di luce. Ora le case, non bastevoli alla popolazione sempre crescente, salivano ad altezze vertiginose; il fumo delle officine velava i raggi del sole e l'azzurro del cielo; le strade immerse nell'ombra erano intronate dal frastuono dei carri, dallo scalpitìo delle bestie, dalle grida irose degli uomini; scomparsi i giardini che un tempo cingevano le abitazioni private; scomparsi i viali, i boschetti già brulicanti d'una folla gaia e felice; appena qua e là un esile arbusto protendeva i rami stecchiti dal muro di [308] qualche buio cortile, in atto di naufrago che implori disperatamente soccorso.

All'aperto, all'aperto! Sulla cima aerea ove ancora battagliavano liberi i venti, e lo sguardo spaziava nell'orizzonte, e gli uccelli, improvvidi del domani e paghi di lor vita breve, passavano a stormi cantando.

Il Poeta era già fuori dell'abitato quando una donna velata gli sbarrò il cammino.

— O mio Poeta, — ella esclamò, sollevando il velo, — mi riconosci?

Egli fece un passo indietro. — Risorta!

— Sì, sono Risorta, la tua Risorta. Ero laggiù tra quelli che ti ascoltavano estatici, volevo uscir dalla folla, gettarmi a' tuoi piedi, e non n'ebbi il coraggio.... Troppo t'offesi.... Potrai tu perdonarmi?

A un gesto affermativo di lui ella gli cinse il collo con le candide braccia, e gli sussurrò piano e soave:

— Ti amo ancora; vuoi riavermi a compagna?

Egli si svincolò dolcemente; avvolse d'uno sguardo pieno d'indulgenza e di tenerezza la donna non più giovine ma sempre bellissima, le sorprese negli occhi la fiamma divoratrice della voluttà, e rispose: — Non oggi, più tardi.

Risorta chinò il capo sospirando. — Ah, tu non mi ami.

Il Poeta posò sulla spalla di lei la mano diafana e bianca, e, con quella sua voce che scolpiva il pensiero, rispose: — Tutte le cose che amai nella mia giovinezza, io le amo, o Risorta; le amo d'un amore più alto, più raffinato, più puro....

[309]

— Anche la donna?

— Anche la donna.

— Anche quella che fu la tua sposa?

— Anche lei.

— E in tal caso, perchè non mi vuoi?

— Non oggi, — egli ripetè. — Più tardi.

— Quando?

— Non so.... Forse tra poco.

Egli riprese il suo cammino, ella non osò trattenerlo.

IV.

Egli riprese il suo cammino e cercò pace lontano dagli uomini. Ma anche nel suo romitaggio lo seguiva la tristezza delle cose vedute, lo tormentavano i foschi presagi dell'avvenire. Fino a quando sarebb'egli potuto rimanere lassù? Già le falde del colle erano coperte dai tuguri degli operai lavoranti in una vicina miniera; e simile a un mostro che spinge innanzi i suoi tentacoli, il villaggio saliva, saliva su per la china, abbattendo gli alberi per farne legna, usurpando il verde dei prati. Nei silenzi della notte il Poeta, tendendo l'orecchio, udiva un romore sordo e confuso, come di voci sommesse, come di passi striscianti; e, aguzzando gli occhi, mirava verso la valle una fila di piccoli punti luminosi moventisi con la gravità sinistra di un corteo funebre. Erano le squadre dei minatori che s'avviavano, con le loro lanterne accese, a dare il cambio ai compagni. Per dodici ore sarebbero scomparsi nella muta voragine; [310] insaccati in luride vesti, si sarebbero trascinati carponi nelle gallerie basse, umide, anguste, avrebbero respirato vapori mefitici, avrebbero col martello e il piccone aperto nel seno della terra nuove insanabili ferite, ahi, ben diverse da quelle che v'apre alla superficie l'aratro, e che le rugiade aspergono e il sole rimargina.

Una infinita pietà vinceva il cuor del Poeta al pensiero dei miseri condannati a sì aspre torture; lo vinceva un vano desiderio di soccorrerli e consolarli. Ma i petti di quegli infelici erano chiusi alla simpatia; perfino i fanciulli parevano aver succhiato l'odio col latte. Chiamati non rispondevano, accarezzati fuggivano. Non c'era un lampo di tenerezza nei loro sguardi, non canti, non sorrisi sulle loro labbra.

E il Poeta rievocava i bambini de' suoi tempi, dei tempi in cui si moriva. Li rivedeva con la fantasia, vispi e giocondi tra le farfalle ed i fiori; fiori viventi anch'essi e farfalle; sentiva le loro voci argentine, le loro risate squillanti, sentiva il tepore umido dei loro baci.... Se ne ricordava anche di morti, con la bionda testina sprofondata tra i pallidi giacinti che le madri avevan reciso per loro, con le bianche manine intrecciate, con un'espressione sì calma e serena da dar l'illusione del sonno. Beati, beati quei morti in confronto dei vivi, che, lividi spettri, gli si aggiravano intorno!

Allora egli comprendeva qual dono funesto avessero i Numi fatto all'Isola sua sottraendone gli abitanti alla legge universale della morte. Allora egli meditava sull'inanità del suo genio che non l'aveva reso più veggente dei suoi compaesani, [311] che anzi gli aveva suggerita l'amara ironia di ribattezzar l'Isola col nome di fortunata.

Come le condizioni andassero sempre aggravandosene glielo dicevano gli amici venienti di tratto in tratto a lui per consiglio. Dopo la salutare resipiscenza dovuta alla sua parola eloquente si erano inaspriti di nuovo i livori, eran tornati a galla gli efferati propositi. Ispidi tribuni correvano le piazze rinfocolando l'ire appena sopite. — Stolti — essi urlavano — che vi siete lasciati abbindolare dalle frasi altosonanti d'un retore! Non vedete un pericolo in ogni giorno, in ogni ora che passa così? Non vedete crescere a mano a mano questa schiera di gente che poco o nulla produce e si fa nutrire da noi? Non capite che, se tardate a schiacciarla, essa vi schiaccierà col solo suo peso? Rompete gl'indugi, compite l'opera risanatrice prima che sia troppo tardi, nè badate a coloro i quali, per intimidirvi, vi pronosticano che subirete domani la condanna che oggi infliggete agli altri. Sfollando l'Isola, rendendovi tollerabile la vita, voi vi assicurate molti anni di tranquillità, permettete lo studio, agevolate forse la soluzione pacifica dei problemi affannosi che ci tormentano.

Questi discorsi riferivano gli amici al Poeta, e ne pigliavano argomento per sollecitare il suo appoggio ai segreti loro disegni. Non avevano essi, per confessione degli stessi avversari, la forza del numero? Le loro file non erano ingrossate tacitamente da tutti quelli che leggi inique spogliavano degli averi, dell'autorità, degli [312] uffici, non per provata inettitudine, ma per dare il posto agli ultimi arrivati? Fine dunque alle paure codarde; nessuna provocazione per ora, nessun dispregio superbo di quel grande alleato ch'era il tempo; ma l'atteggiamento virile, ma la preparazione tenace di chi è risoluto a difendersi. Voleva il Poeta, nel dì della lotta, essere il duce de' suoi?

— La lotta ch'io potevo combattere — egli rispose — la ho combattuta; la combatterei ancora se mi restasse la benchè minima speranza di vincere; ma non accadrà mai ch'io partecipi a una guerra civile. Come non sentite che il trionfo sarebbe assai più doloroso della disfatta? Sarà atto sacrilego lo strappare i vecchi dalla terra che li vide nascere; ma se noi riuscissimo a cacciar dall'Isola i giovani, pensate?... Un cimitero sarebbe men triste.

— Sicchè tu rifiuti?

— Rifiuto.

— E speri clemenza dagli avversari comuni?

— Nè la spero, nè l'accetterei.... Il vostro destino sarà il mio, ecco quello ch'io posso promettervi.

Pronunciate tali parole con l'accento di chi ha preso una decisione incrollabile, il Poeta licenziò i suoi belligeri amici che s'allontanarono commiserandolo. “È un ideologo impenitente. Lasciamolo sognare„.

Più solo, più abbandonato che mai egli rimase sulla sua rupe. Talvolta egli chiedeva a sè medesimo perchè si ostinasse a vivere, perchè non seguisse l'esempio di altri coetanei suoi ch'erano spariti in silenzio. O forse la sua anima [313] vibrava sempre all'unissono con l'anima delle cose e non sapeva rinunciare alle visioni incantatrici del bello, e trovava in esse un compenso a tutti i disinganni, a tutti i dolori? O, memore dell'ultime parole scambiate con Risorta, sperava ch'ella tornasse a cercarlo?

Frattanto gli avvenimenti precipitavano, e un seguito di cattivi raccolti dava il tracollo alla bilancia. Stanchi di sofferenze che la morte non veniva a troncare, gli abitanti dell'Isola si sollevarono in preda a un cieco furore, a una cieca smania di distruzione. In ogni uomo si svegliava la belva. Nelle menti annebbiate, nei cuori induriti sornuotava un'unica idea: che si era in troppi, che, a qualunque costo, bisognava far largo intorno a sè. Era come in una folla minacciata d'asfissia quando ciascuno urta, spinge, calpesta, schiaccia, stritola senza misericordia il vicino. E come nella folla si smarrisce il lume della ragione e par si cerchi il modo di render la catastrofe più irreparabile, così succedeva a quei disgraziati isolani. Si devastavano i campi già scarsi di messi, si saccheggiavano i fondaci, si atterravano gli opifici. Non si lavorava, non si produceva. Al regime patriarcale d'un tempo era successa una selvaggia anarchia. Spezzati i vincoli della disciplina, infranti i legami del sangue, muta la voce dell'affetto, spenta la dolcezza delle memorie. Orde selvaggie si scagliavano l'une sull'altre; le più forti mettevano in catene le più deboli; le trascinavano a bordo di barche preparate a riceverle, le spedivano sotto buona custodia in qualche isola deserta, su qualche scoglio perduto nel mare. Dalla [314] spiaggia, una turba briaca salutava con urli di gioia la partenza dei lugubri navigli; li seguiva cogli occhi nel loro cammino, li vedeva dileguarsi nell'orizzonte. Entro tre o quattro giorni i navigli tornavano sbarazzati del loro carico doloroso, riportando solo i feroci aguzzini, cinicamente narranti le proprie gesta. Più tragica di tutte, una storia correva di bocca in bocca, aveva la virtù di far fremere e rabbrividire chi l'ascoltava. In una notte buia, a poca distanza dal lido, entro la zona ove non allignava la morte, i prigionieri s'eran ribellati, avevano tentato soverchiare i guardiani. Ma, domata senza difficoltà la sommossa, i riottosi erano stati gettati spietatamente nel mare, e tratti al fondo dal peso della palla di piombo che si trascinavano dietro. Una strana agitazione del mare nel punto ov'essi erano sommersi, un continuo formarsi e sciogliersi di bolle nei momenti in cui l'acqua d'intorno era più quieta lasciava supporre che l'abisso li tenesse ancor vivi, vivi chi sa fino a quando, dannati chi sa a che atroce martirio.... Nessuna barca osava passare di là; quel punto si mostrava a dito di lontano come il punto maledetto.

Il Poeta ebbe piuttosto il presentimento che la notizia dei nuovi orrori che funestavano la sua Isola, e già lo rimordeva il pensiero di non esser co' suoi fratelli in quei supremi frangenti. Ma una notte egli vide tal cosa che troncò le sue esitazioni. Gonfia come una tumida vela, una gran nuvola rossa copriva il cielo dalla parte ove sorgeva la città, e ora prendeva una tinta più viva, più intensa, quasi vi affluisse [315] un'ondata di sangue, ora, scolorandosi a un tratto, si costellava di faville innumerevoli che s'intrecciavano e ricadevano a guisa dei mille getti d'un'enorme fontana luminosa. Non era un'aurora boreale; non era alcun altro fenomeno della natura; era la città che bruciava, forse per mano dei propri figli. A tanto strazio il destino serbava l'Isola fortunata!

Per l'ultima volta (egli sapeva bene ch'era per l'ultima volta) il Poeta disse addio alla capanna ch'era stata la muta confidente delle sue pene, e s'avviò a bassa fronte dove lo chiamava quella luce sinistra. Ma non aveva fatto cento passi che, alla svolta d'un sentiero, gli si levò incontro un'ombra tutta bianca.

— Arresta. Ove vai?

Egli trasalì.

— Ancora tu, Risorta?

— Io stessa.... Oggi non puoi, non devi respingermi.

— Ma che cosa desideri?

— Fuggire, fuggire insieme.... La città è in fiamme.... L'Isola è tutta quanta una bolgia infernale.

— Ebbene, Risorta, salvati tu.... Nasconditi nella mia capanna fin che il turbine infuria.... Io sono un uomo.... io non ho il diritto di abbandonare oggi quelli che mi furono cari, quelli che in altri tempi credettero in me.... Lascia ch'io mi mescoli a loro, ch'io tenti ridurli a più miti consigli.

— Fanciullo!... Ma tu non sai, tu non immagini!...

E con le pupille dilatate dal terrore, Risorta [316] narrò al suo Poeta le scene ond'era stata testimone, gli dipinse l'abbrutimento della popolazione, gli tolse ogni speranza di farsi ascoltare, di farsi intendere da quella massa confusa che non aveva nulla di umano.... Vistolo turbato dalle sue parole, ella ripetè, fissandogli in volto i grandi occhi affascinatori:

— Fuggiamo, fuggiamo!

Egli atteggiò le labbra a un amaro sorriso.

— Tu vuoi vivere, tu vuoi amare, e cerchi me per compagno!

— Voglio morire! — ella proruppe con enfasi. — E per questo ti cerco!... Sono stanca, o mio Poeta, ho vuotato sino alla feccia il calice dell'amore, e una sola dolcezza me n'è rimasta, la memoria degli anni trascorsi al tuo fianco.

Si coperse il viso con le mani e borbottò fra i denti: — Dopo non ebbi che miserie e vergogne.

Una folata d'aria calda li involse, la nuvola rossa s'allargava sul loro capo.

— Fuggiamo, fuggiamo! — insistè affannosamente Risorta. E disse com'ell'avesse tutto approntato per questa fuga, come un leggero canotto li attendesse in un'insenatura della spiaggia, come in quel canotto sarebbero montati loro due soli, e sarebbero andati lontano lontano, di là dalla linea fatale.

— Vieni dunque.... vieni!... Di là c'è la liberazione, c'è la morte.... Di qua c'è l'inferno, c'è la follìa.

Egli non si oppose più; la seguì. Lasciarono da parte il villaggio, disertato da' suoi abitanti; la miniera, muta come una [317] tomba; scesero nella valle, salirono un altro monte che si calava quasi a piombo sul mare. Risorta disse:

— Laggiù in fondo è la nostra barca!

— E come arriveremo laggiù? — chiese il Poeta.

— Fidati di me. Ti reggerò nei passi difficili.... Avevi il piede così sicuro una volta.

— Oh, una volta! — egli sospirò.

— Triste privilegio ci han concesso gli Dei, — soggiunse Risorta. — Non la vita soltanto; la giovinezza bisognava rendere eterna.

— No, — egli rispose. — Nemmeno l'eternità della giovinezza ci avrebbe dato la forza di tollerare l'eternità della vita.

Ella tacque, studiando con l'occhio la via da tenere.

— Di qua, — ella disse finalmente. — Dammi la mano.

Senz'aprir bocca, illuminati dal bagliore purpureo del cielo, si avventurarono per la china precipitosa. Quando furono al basso spuntava già l'alba.

La barca era nascosta fra un gruppo d'arbusti che bagnavano i rami nell'acqua. Risorta vi entrò con un salto e aiutò il Poeta ad entrarvi.

— Siedi al timone. Io prenderò i remi.

Ella puntò uno dei remi sul fondo e si spinse al largo.

— Il mare si ritira. Non abbiamo che da seguir la corrente.

— Come sei agile sempre e robusta! — notò il Poeta con accento d'invidia. — Ti lagni che [318] la giovinezza finisca; vedi che per te essa non è ancora finita.

— Oh, s'è finita! — ribattè energicamente Risorta.

Dalla spiaggia veniva un acre odore d'arsiccio, veniva, or più or meno intenso, un rumore confuso, simile al rombo di temporale lontano. Dietro il fumo che strisciava greve sull'acqua, i contorni dell'Isola si discernevano appena; nel biancheggiar dell'aurora che faceva impallidire le fiamme l'incendio aveva perduto la sua imponente grandiosità; tutto quanto assumeva il color della cenere.

— Voga, voga — supplicava il Poeta, anelante alla luce.

Seduta di fronte a lui ella vogava nè frettolosa troppo nè lenta, con vece alterna protendendo innanzi il busto e arrovesciandolo indietro nel ritmico abbassarsi ed alzarsi dei remi; libera nell'ampia, candidissima tunica, la bella persona s'atteggiava a suprema armonia; nella sana fatica i vivi occhi brinavano, le guancie si tingevano d'un roseo incarnato.

Ed ecco il sole disperder la nebbia ed il fumo; ecco apparir nitido il cielo e limpido il mare. E sul mare erravano altre barche, cariche d'altri fuggiaschi, dibattentisi, urlanti, gesticolanti a guisa di forsennati. Ma un'idea sembrava esser ben chiara, ben ferma nelle menti ottenebrate e sconvolte; quella di resistere alla corrente che li avrebbe portati più in là di dove volevano andare. Una unica barca non resisteva; svelta, rapida, diritta, essa guizzava sull'onde come uno strale che sa la sua meta.

[319]

Poichè quell'unica barca non ebbe intorno a sè e sopra di sè che il mare ed il cielo, e l'Isola non fu che una nuvola grigia sull'orizzonte, il Poeta disse:

— Fermati, Risorta. Sento che basta. Avvicinati. Ho freddo.

Ella ritirò dall'acqua i remi stillanti e si accostò a lui che l'aveva chiamata.

— Come sei gelato, come sei pallido! — ella esclamò prendendogli le mani.

— Le mie pupille si velano, il sole si offusca ai miei sguardi. Ma te vedo ancora, o Risorta.... Più presso, più presso.

Ora ella gli si era inginocchiata ai piedi, ed egli ravvolgeva le ceree dita sottili nei biondi capelli di lei.

— Sei pur bella. Risorta.

Ella scosse la testa, e i biondi capelli si sciolsero, ricaddero in massa giù per le spalle.

— Ricordi?

Tutto egli ricordava: gli anni dell'attesa, gli anni dell'amore, gli anni dell'abbandono; ricordava le grazie ineffabili della bambina, le seduzioni irresistibili della donna, le carezze inebbrianti, le parole soavi; e poi.... e poi l'addio secco e crudele.... Ma ell'era tornata, e questo pensiero toglieva ogni acerbità alla memoria dell'abbandono e del tradimento.

— Il primo giorno che ti ho vista, — sussurrò il Poeta come in un soffio, — era un giorno di gioia e ho cantato la vita; oggi vorrei cantare la morte, la morte buona e pietosa.... È dolce morire così.

Ancora una volta i suoi polmoni aspirarono [320] l'aria salubre, ancora una volta i suoi occhi cercarono fermar le immagini fuggitive; indi la testa gli ripiombò inerte sul petto.

— Poeta mio! — gridò Risorta gettandoglisi addosso e avvincendolo delle sue braccia.

Nei movimenti incomposti il leggero canotto piegò tutto da un lato; i due corpi stretti insieme precipitarono nel mare e disparvero.

[321]

I.

Il professore Corrado Bertalia, senatore del Regno, celebre per la sua opera Il Comune italiano e l'Ansa germanica, stava dando l'ultima pulitura al discorso, in francese, ch'egli doveva tener fra pochi giorni al Congresso storico internazionale di Stoccolma, quale delegato d'una delle nostre maggiori Università. Una delle finestre dello studio, volta a levante, aveva le persiane abbassate; l'altra, che si apriva a settentrione, era spalancata, e lasciava entrar nella stanza la fulgida luce della bella giornata di giugno. Da un giardino sottoposto salivano fragranze di fiori e canti d'uccelli; di là dal giardino che, pur non appartenendo alla casa, lo cingeva per due lati, veniva, smorzato alquanto, il rumore della strada percorsa da carrozze e da carri.

Un vispo fanciullo di circa dieci anni irruppe nello studio senza cerimonie.

— Buon giorno, babbo..

Il professore alzò il viso dalle sue carte, si tolse dagli occhi le lenti e con un sorriso incoraggiante [322] chiamò a sè il figliuolo e gli stampò due baci sulle gote.

— Oh, Gino. Vai a scuola? Non è più presto del solito?

— Sì, ma aspetto la mamma che si metteva il cappello.

— Esce la mamma?

— Deve far qualche spesa.

Gino, secondo il solito, cominciò a toccare i libri sparsi sulla tavola e a guardar curiosamente i frontispizi.

— Quieto, bimbo, quieto.

— Sai, papà, voglio che tu mi porti da Stoccolma una bell'opera illustrata.

— Ma! — rispose il senatore. — Vedremo quel che ci sarà.... Perchè se non ci fossero che opere svedesi.... Lo capisci tu lo svedese?

Il fanciullo si mise a ridere. — Io no.... E tu?

— Io? Pochino, pochino.

— Oh, — ripigliò con aria d'importanza lo studente di prima ginnasiale, — se fosse il francese!... Me lo insegna così bene la mamma.... E anche il latino intendo....

— Diamine! — esclamò il padre. — Rosa, rosæ.

— Nossignore, — protestò Gino offeso nel suo amor proprio. — Traduco Cornelio Nipote.

— Nientemeno?... E dimmi, — soggiunse Bertalia in tuono carezzevole, — saremo poi esonerati dagli esami?

— Non c'è dubbio. Ho le medie di tutti i bimestri superiori all'otto.

— Bravo il mio bimbo! — disse il professore accostando la sua guancia a quella del ragazzo.

[323]

A veder quelle due teste che si toccavano s'era colpiti dalla rassomiglianza ch'esisteva fra loro. Avevano tutti e due, padre e figliuolo, fronte spaziosa, occhi bruni, incavati, profondi, naso aquilino, tinta olivastra, bocca un po' grande, mento largo e massiccio. Persino i capelli si rassomigliavano, benchè quelli di Corrado Bertalia fossero radi e bianchi e quelli di Gino folti e castani; si somigliavano nella lucentezza metallica, nella piega leggermente ondulata. Certo a pochi genitori accade di stampar nella prole una così vigorosa impronta della loro paternità com'era accaduto al professore Bertalia con quell'unico rampollo, natogli quand'egli scendeva già la parabola della vita.

L'uscio si aperse e una donna comparve sulla soglia. Indossava una toilette da mattina, semplice ed elegante, abito di mussola bianca punteggiato di rosso, cappello di paglia di Firenze guarnito di rose e mughetti; teneva in mano un piccolo ombrellino di seta celeste chiara con frangie e pizzi. Le larghe maniche lasciavano veder il polso sottile e il principio del braccio nudo, d'un candore latteo; la bionda capigliatura opulenta era raccolta in treccie dietro la nuca; solo qualche ricciolo indocile ombreggiava la fronte. Sotto il lungo arco delle sopracciglia splendevano due pupille azzurre ora spiranti un'infinita dolcezza, ora solcate da lampi d'orgoglio e da fremiti di rivolta. Alta, snella, flessuosa, quella donna era veramente un fiore di giovinezza e di leggiadria; si stentava già a persuadersi (poich'ella non mostrava i suoi trent'anni) che fosse madre di Gino; tanto più [324] difficile era crederla moglie d'un uomo che rasentava i sessanta.

— Buon giorno, Corrado, — ella disse avanzandosi di alcuni passi.

Come avveniva sempre quando sua moglie gli si presentava in un abbigliamento troppo giovanile, una nube velò per un istante la fisonomia severa ma aperta del senatore; pure egli non fece alcuna osservazione e ricambiò il saluto con l'usata cordialità.

— Buon giorno, Lucilla. Sei mattiniera, oggi.

— Vado dalla mia sarta. Voglio che cambi una guarnizione al mio vestito di stasera.

— Il gran da fare che danno le toilettes a voialtre donne!

— Le toilettes hanno un'importanza che gli uomini non capiscono.... Per noi sono il campo ove si esercita il nostro gusto artistico.

— Oh, non discuto. Credo però che alla festa di stasera non ci sarà lusso.

— Perchè?

— Perchè la stagione non è propizia alle feste e molte signore sono in campagna.

— Vedrai che ne mancheranno pochissime.... Alcune ritornano apposta.... non foss'altro che per la curiosità di conoscere questa sposina americana che il contino Filiberti porta in famiglia.

— Per me ci rinunzierei volentieri.

— Anch'io. Ma come si fa?... I Filiberti sono stati sempre tanto cortesi con noi.

— Sì, sì.... Ormai sono rassegnato.

— E persisti a voler partire domattina alle dieci e mezza?

[325]

— È necessario.

— Avrai ben poco tempo da dormire.

— A me basta poco.... Per le quattro saremo a casa; e cinqu'ore buone di letto le avrò.

— Mamma, — disse Gino, — se non ti spicci....

— Andate, andate, figliuoli, — soggiunse Bertalia, — e che il Signore vi accompagni.

In quella si picchiò all'uscio. Era la cameriera che portava su un vassoio la posta della mattina.

— Nulla per me? — chiese la signora, mentre la cameriera consegnava lettere e giornali al padrone.

— Nulla.

— Arrivederci, dunque.... Eccomi, Gino.

— Un momento, — gridò Bertalia. — C è una partecipazione mortuaria diretta al Senatore Prof. Corrado Bertalia e consorte.... Di chi sarà?

Il silenzio che seguì a queste parole fece balzar d'inquietudine il cuore di Lucilla.

— Ebbene? — ella domandò avvicinandosi vivamente a suo marito e guardando il foglio listato di nero ch'egli teneva aperto fra le mani.

Il foglio non conteneva che poche righe:

La madre Caterina Frangipane vedova Bagnasco annunzia con l'animo straziato la morte, ieri avvenuta, del suo unico figlio

RICCARDO

CAPITANO D'ARTIGLIERIA.

Napoli, 10 giugno 189....

I funerali, ecc., ecc.

[326]

Gli occhi dei due coniugi s'incontrarono.

— Quel Bagnasco che veniva da noi si chiamava Riccardo? — chiese Bertalia con voce sorda.

Lucilla chinò la testa in segno affermativo e disse in un soffio:

— Povero giovine! Povera madre!

— È quello che mi regalava...? — principiò Gino. Ma un cenno di suo padre lo fece tacere.

— Era adesso di guarnigione a Napoli? — continuò il professore.

— Sì.... Credo almeno, — ella balbettò sotto la tortura di quell'interrogatorio.

— Gino fa tardi, — notò Corrado Bertalia senza staccar gli occhi da sua moglie. — Del resto potrebbe andar solo questa mattina come sempre.

— No, no, lo accompagno io, — replicò Lucilla impaziente d'esser fuori dal cospetto di suo marito.

Abbassò il velo sulla faccia bianca d'un pallore mortale, raccolse tutte le sue forze ed uscì.

II.

E di nuovo il professore era solo nel suo studio. Ma i suoi occhi non correvano più sulle pagine del suo manoscritto; erano fissi, immobili, come assorti in una dolorosa visione interiore.

Perchè aveva sposato Lucilla? Come mai nell'età in cui l'uomo deve credersi al sicuro dalle [327] tempeste, s'era innamorato pazzamente d'una fanciulla che poteva esser sua figlia?

Certo ch'egli le sue scuse le aveva. E non soltanto le scuse banali dell'amore ch'è cieco, della ragione ch'è disarmata dinanzi alla bellezza e alla grazia; ma scuse d'un ordine più elevato, di quelle che permettono di prendere in iscambio i nostri capricci e le nostre passioni per sentimenti generosi e magnanimi.

Lucilla, egli l'aveva conosciuta da bambina in su; se l'era vista crescere sotto gli occhi, buona, avvenente, giudiziosa, e quando la morte prematura dei genitori l'aveva lasciata povera e sola, egli aveva creduto di poter offrirle, in cambio del tesoro de' suoi vent'anni ch'ella gli portava in dono, una posizione quasi signorile, un nome già illustre, un affetto profondo e tenace. E con che riconoscenza ell'aveva accettato l'offerta! E che moglie adorabile ell'era stata nel primo periodo del suo matrimonio! E che madre sollecita del piccolo Gino! E come aveva saputo conciliare questi suoi uffici di madre e di moglie coi doveri della società ov'ell'era festeggiata, acclamata, e ove l'attraeva il desiderio legittimo di brillare fra mille!... Tempi felici!

La corteggiavano, sì; (poteva forse essere altrimenti?) ma ella, ingenuamente lieta degli omaggi che le si rendevano, aveva un'arte sopraffina per tener nei giusti limiti i suoi adoratori; frenava gli arditi col suo contegno decoroso e un po' altero, sconcertava i timidi con la sua tranquilla ironia.

Bertalia aveva per lei la compiacenza che i [328] mariti vecchi devono avere per le spose giovani se vogliono conservarsene l'affetto; mostrava un'assoluta fiducia nella sua saviezza e nella sua rettitudine, si asteneva da ogni sindacato importuno sulle visite che faceva e che riceveva, l'accompagnava senza mormorare alle veglie e ai teatri, benchè queste lunghe serate fuori di casa contraddicessero alle sue vecchie abitudini di studioso. L'affidar sua moglie alla cura di amici comuni, come facevano altri mariti anche meno maturi, anche meno occupati di lui, non gli pareva conveniente, e non pareva conveniente nemmeno a Lucilla.

Fu appunto ad un ballo, fu dai conti Filiberti che i Bertalia ebbero la presentazione di Riccardo Bagnasco. Aveva trent'anni, era stato appena promosso capitano, ed era un ufficiale colto, intelligente, modesto, laborioso, onde il professore, maravigliato di trovarlo tanto dissimile dai soliti damerini, con o senza uniforme, lo prese subito in simpatia. Entrato così in grazia di tutti e due i conjugi, il capitano fu ammesso nell'intimità della famiglia e non tardò a conquistarsi il cuore di Gino, ch'egli regalava di chicche e di giocattoli, e a cui raccontava cento storielle piacevoli. Fatto si è che l'assiduità di Bagnasco intorno alla Bertalia diede presto nell'occhio e alimentò le chiacchiere degli sfaccendati. Per un pezzo il senatore o non se ne accorse, o non vi badò; poi, messo sull'avviso, suggerì amichevolmente a sua moglie di stare in guardia. Non ch'egli dubitasse, ma non voleva che dubitassero gli altri e che si malignasse sul loro conto.

[329]

Ella rispose, un po' seccamente, che i modi del capitano erano correttissimi, che non vedeva una ragione al mondo per trattarlo con minor dimestichezza dell'usato, ch'ell'era sicura di sè, ch'era impossibile chiuder la bocca ai cattivi e ai balordi, e che si meravigliava come un uomo del valore di suo marito raccogliesse sì perfide insinuazioni.

Pel momento la cosa non ebbe seguito, ma di lì ad alcuni mesi il professore ricevette una lettera anonima che aggravava le accuse.

Egli portò a Lucilla la lettera vile e la bruciò al suo cospetto, dicendo che sdegnava servirsi delle indicazioni contenute in essa; ma che non si sarebbe più addormentato in una cieca fiducia, e che se avesse scoperto di esser ingannato si sarebbe presa una sola vendetta; quella di dar lo sfratto alla moglie colpevole e di separarla dal figliuolo che non poteva avere per educatrice una donna dimentica de' suoi doveri.

La minaccia che colpiva Lucilla nel suo punto più vulnerabile, la tenerezza materna, fiaccò la sua nativa alterigia e rattenne in tempo le parole acerbe che le salivano al labbro e di cui non era agevole misurare le conseguenze. Mordendo il freno, ella si limitò a protestare contro i sospetti ingiuriosi di suo marito e contro il sistema inquisitorio che si voleva introdurre in casa.

Comunque sia, le visite del capitano Bagnasco si diradarono e non andò molto ch'egli fu destinato a una nuova residenza. Bertalia applicò in quell'occasione il noto adagio: a nemico che [330] fugge ponti d'oro, e accolse urbanamente l'ufficiale venuto a prender congedo.

Ed ora eran trascorsi cinqu'anni e il tempo aveva ristabilito l'accordo, almeno apparente, fra i conjugi. Ma nel cuore di Bertalia l'antica ferita non era così ben rimarginata da non farsi sentire di tratto in tratto, e lo riassaliva a intervalli un bisogno tormentoso di rivangare il passato, di mutar in certezza, dolce o amara che fosse, la sorda inquietudine che lo logorava. E più volte aveva pensato al modo di approfondire le sue ricerche, sia provocando Lucilla, sia sorprendendola in un istante di debolezza, sia invigilando sulle lettere ch'ella scriveva e che riceveva, perchè talora gli sorgeva anche il dubbio che vi fosse una corrispondenza epistolare tra lei e Riccardo Bagnasco.

Per fortuna, molte ragioni, le une più, le altre meno onorevoli, lo avevano arrestato sulla china pericolosa. Erano le occupazioni scientifiche, era l'orgoglio d'una natura leale ripugnante dai sotterfugi, era il timore di saper troppo e lo sgomento del poi, era in fine la coscienza dell'errore grave, irrimediabile da lui commesso il giorno in cui s'era lasciato vincere da una passione senile.

Oggi quell'annunzio di morte, che pur doveva essere ed era una grande liberazione, svegliava in Corrado Bertalia la malsana curiosità. E il contegno di Lucilla rinfocolava gli antichi sospetti. No, il turbamento di lei non era quello, così naturale, che commove qualunque animo ben fatto alla notizia inattesa della perdita d'un amico. Troppo evidente era in lei la cura di [331] pesare ogni parola, di reprimere ogni moto che potesse tradirla. Povero giovine! Povera madre! Ella non aveva trovato altro da dire per l'uomo che durante quindici mesi era stato frequentatore assiduo della sua casa, per l'uomo ch'ella vedeva ai balli, ai teatri, ai concerti, al passeggio, ovunque ell'andasse. Non aveva trovato altro da dire, ma tutta la sua energia non era bastata a far sì che le sue guancie non si scolorassero d'improvviso e le sue mani non cercassero istintivamente un appoggio.

Una cosa pareva indubitata. Lucilla era stata côlta di sorpresa dall'annunzio di quella morte, ciò che dava motivo di credere che non vi fosse scambio di lettere tra lei e Bagnasco. Se no, possibile ch'ella ignorasse la sua malattia? Sciocchezze!... Forse egli era morto in seguito a un male di pochi giorni, in seguito a un accidente.... La partecipazione lasciava adito a qualunque ipotesi. E in fine, fosse pur troncata ora la relazione, era ciò sufficiente a distruggere il passato?

E il senatore ripeteva in cuor suo il ragionamento di prima. Dato che Bagnasco fosse stato soltanto un amico, Lucilla non avrebbe cercato di nascondere la sua commozione, avrebbe insistito per chiedere informazioni più particolareggiate, per mandare qualche segno di simpatia alla madre derelitta.... Ma sopra tutto ell'avrebbe dichiarato di non voler intervenire quella sera alla festa dei Filiberti.

Se non che, nel suo sforzo d'essere equo, Bertalia diceva a sè stesso che, anche in caso di piena e assoluta innocenza, sua moglie sapeva [332] d'esser nelle condizioni d'una donna sospettata e che chi è sospettato non è mai sicuro della via da tenere. Egli pure quella mattina aveva sbagliato tattica; i suoi sguardi corrucciati, le sue domande insidiose non erano atte certamente a inspirar confidenza.... Del resto, dinanzi a Gino, ogni spiegazione era impossibile; più tardi forse, quando Lucilla fosse tornata, quando Gino non ci fosse....

Un sorriso triste e sfiduciato passò sul volto di Corrado Bertalia; mai più, mai più egli avrebbe strappato la verità dalla bocca di Lucilla.

Se invece?...

Come se lo spingesse una molla egli scattò dalla seggiola e uscì dallo studio. La cameriera che finiva di spolverare i mobili nella stanza vicina gli disse:

— È ancora fuori la signora.

— Non importa, — egli rispose arrossendo come un fanciullo. — Cerco un libro che deve esser di là.

Entrò nel salottino ove sua moglie passava la maggior parte della giornata lavorando, suonando, leggendo. Ivi ella riceveva i suoi intimi, ivi, più d'una volta, il professore aveva trovato Riccardo Bagnasco. E la stanzetta serbava, visibili, i ricordi di lui. Fra varie fotografie che si spiegavano come a ventaglio da un portaritratti di peluche appeso alla parete, c'era anche quella del capitano, in divisa, con scrittovi un nome e una data: Riccardo Bagnasco — 19 aprile 1890. In un palchettino accanto al pianoforte verticale, quasi a farlo apposta, [333] balzava prima all'occhio, tra altri quaderni di musica, una sonata di Beethoven ch'egli preferiva. Di fronte, nello scaffale di noce, spiccavano, per l'elegantissime legature, alcuni volumi ch'egli, il capitano, aveva regalato a Lucilla, edizioni splendidamente illustrate d'autori celebri italiani e stranieri.

Corrado Bertalia prese a caso uno di quei volumi. Era il Faust di Goethe. Certo, egli pensava sfogliandolo, i loro sguardi sono corsi insieme su queste pagine, forse le loro teste chine sul libro si sono toccate, e il loro alito s'è confuso, e la sottile ebbrezza dell'amore li ha involti.... Ma oggi il libro non ridice ciò che udì e ciò che vide.

Il professore lo rimise a posto e sedette sconfidato davanti alla scrivania di Lucilla, con gli occhi ostinatamente fissi sopra una cartella dalla coperta di cuoio nero e dal monogramma d'argento ch'era posata appunto sul piano inclinato della scrivania. Dopo qualche esitazione egli l'aperse; era vuota. Ma i fogli di carta sugante che v'erano inseriti portavano i segni di caratteri impressi, segni confusi, intrecciantisi, sovrapponentisi, tra i quali si sarebbe smarrito il paleografo più consumato. Una cosa sola essi provavano: che quei fogli avevano assorbito l'inchiostro di molte lettere e sapevano il segreto di Lucilla: lo sapevano e lo custodivano.

Bertalia chiuse dispettosamente la cartella e rise della propria ingenuità. Che raccoglieva egli dal suo spionaggio? Indizi, pallidi indizi, nessuna prova.... Le prove, se c'erano, si trovavano in quei cassetti chiusi, la cui serratura [334] avrebbe ceduto a un piccolo sforzo.... Ma era possibile che egli scendesse sì basso?

Vergognandosi dell'ignobile tentazione, egli abbandonò la stanza come un ladro che teme di esser côlto sul fatto. Era tempo, perchè proprio allora una forte scampanellata annunziava l'arrivo della padrona di casa.

III.

Non molto dopo la cameriera venne ad avvertirlo che la colazione era pronta.

Nel salotto da pranzo lo aspettava una sorpresa. Gino gli corse incontro.

— Babbo, ci sono anch'io.

Lucilla, pallida ma composta, s'era già messa a tavola. S'era mutato vestito; indossava un abito grigio.

Il professore guardò alternativamente la moglie e il figliuolo.

— Come? C'è vacanza?

— No, — rispose Gino, — ma sono esonerato dagli esami, e il direttore mi ha messo in libertà. Siamo agli sgoccioli e non si fa più nulla.

Bertalia si morse il labbro. Senza dubbio era stata lei, era stata sua moglie a voler che Gino rimanesse a casa. Ella temeva di trovarsi a tu per tu col marito, e finch'egli partisse pel suo Congresso, si serviva del fanciullo come d'una difesa.

Lucilla ruppe il silenzio.

— Gino non ha detto tutto.

[335]

— Che c'è ancora?

— C'è ch'egli avrà il primo premio, — soggiunse la madre con la sua bella voce grave di contralto.

Nei grandi occhi azzurri di lei tremolava una lacrima.

Piangeva ella di tenerezza pei successi scolastici del suo figliuolo, o piangeva per l'altro?

Tirò a sè Gino e lo baciò sui capelli. Egli le gettò le braccia al collo.

— Vieni qua, Gino, — ordinò il senatore, geloso di quelle dimostrazioni d'affetto. — Dà un bacio anche a me.... Così.... E non insuperbire, mi raccomando.

— No, babbo, non c'è pericolo.... Dunque me lo porti il libro illustrato da Stoccolma?

— Da qualche posto un libro te lo porterò senza fallo.... Siedi, adesso, e mangia.... O che il premio ti ha tolto l'appetito?

Quasi l'interrogazione fosse rivolta a lei, Lucilla che guardava immobile dalla parte della finestra si scosse e ingoiò faticosamente una cucchiaiata di brodo.

— Sei stata dalla sarta? — chiese Bertalia ripigliando, quasi senza volerlo, quasi senz'accorgersene, la sua parte di giudice istruttore.

Ella accennò col capo di no.

— Come? E la nuova guarnizione?

— Ho pensato che non è indispensabile.... Quella che c'è può bastare.

Dunque ell'era risoluta, o, piuttosto, era rassegnata ad andar dai Filiberti, benchè la sua fisonomia mostrasse chiaro lo sforzo ch'ella faceva.

La cameriera servì le frutta, poi uscì.

[336]

Il professore, inesorabile, tornò alla carica.

— Non hai avuto nessun particolare?

Lucilla trasalì.

— Particolare di che?

— Circa a quella notizia di stamattina?

— Da chi potevo averne? — ella replicò con accento di dolorosa maraviglia.

— Forse i Filiberti sapranno....

— Sapranno quello che sappiamo noi.

— Questa sera sentiremo, — borbottò il marito. E s'interruppe per passare il piatto delle fragole a Gino. — O che non ti piacciono più le fragole?

— Sì che mi piacciono. E ne ho prese.

— Dieci ne hai prese. Le ho contate.

— Oh babbo, che cosa guardi?

— Se non ha voglia non si può costringerlo, — insinuò Lucilla.

— Perchè non deve aver voglia? Sta poco bene forse?

Il fanciullo s'affrettò a rispondere:

— No, babbo.... Sto benissimo. Ma non ho fame.

— Nessuno ha fame oggi, — brontolò Corrado Bertalia, scrollando le spalle infastidito. E invero non aveva fame nemmeno lui, benchè affettasse di averne e si empisse macchinalmente la bocca.

Dopo una breve pausa egli disse:

— Bisognerà spedire i biglietti da visita alla madre. Mi darai il tuo.

— Te lo darò.

Ella depose sulla tavola la salvietta, e si alzò, rigida e bianca, come una bella statua.

— Vado a preparare le tue valigie, — ell'annunziò al marito.

[337]

Gino, che le si era aggrappato alle vesti, soggiunse:

— Anch'io, anch'io vengo ad aiutarti a far le valigie di papà.... Buondì, papà, arrivederci.

Com'erano d'accordo, madre e figliuolo, com'erano impazienti di restar soli loro due, senza testimoni! Parevano due complici.

Tenendo per mano il fanciullo, la giovine signora era già presso all'uscio, quando Bertalia chiamò con accento imperioso:

— Lucilla!

Ella si voltò tutta d'un pezzo, suffusa d'un lieve rossore la guancia marmorea. Anche Gino s'era voltato, e i suoi occhi interrogavano il babbo con trepida ansietà, tanto lo aveva stupito la insolita asprezza della voce paterna.

Sentì Bertalia il muto rimprovero, la muta preghiera che c'erano nello sguardo di Gino? O fu altro il pensiero che lo disarmò? Certo si è che mutando tuono egli disse:

— Non dimenticare di metter nella valigia le decorazioni. Sai dove sono?

— Sì, nel primo cassetto a destra.

— Appunto.... All'estero non si può farne senza.

Di lì a un momento il professore richiudeva con forza dietro di sè l'uscio dello studio, ridendo d'un suo riso nervoso ed esclamando sarcasticamente: — Le decorazioni! le decorazioni!

Il bel marito di pasta frolla ch'egli era! E la bella figura ch'egli faceva verso sua moglie! Dopo aver trovato l'accento solenne che doveva preludere Dio sa a che gran scena drammatica [338] egli finiva con quella commedia delle decorazioni!

Ma, riflettendoci, la gran scena drammatica, se fosse successa, a che cosa sarebbe approdata? Alla confessione da parte di Lucilla? Al perdono da parte di lui? O a una rottura violenta, irrimediabile che avrebbe distrutto per sempre la famiglia?

La confessione? O che bisogno ne aveva egli ormai se la tattica troppo ingegnosa di Lucilla si ritorceva contro di lei? Una donna che ha la coscienza netta non agisce così; provoca lei stessa le spiegazioni che devono troncare gli equivoci, non ricorre agli espedienti che li alimentano. Sì, certo, egli avrebbe potuto abbattere con un soffio il castello incantato in cui ella si rifugiava, avrebbe potuto costringerla a un colloquio a quattr'occhi. E s'ella gli si fosse umiliata dinanzi, se pentita del suo fallo avesse implorato misericordia in nome dei primi anni della loro unione, in nome della morte che aveva fulminato il suo seduttore, in nome della vita che fioriva sulle guancie di Gino, oh allora forse egli l'avrebbe riaccolta, perdonante ed amante, fra le sue braccia.... Ma ella non era donna da umiliarsi; o non si sarebbe lasciata strappare una sillaba, o tirata per i capelli avrebbe assunto un'aria di sfida portando in trionfo la sua colpa. E in tal caso che altro restava al marito oltraggiato se non porre ad effetto l'antica minaccia e scacciarla?

Sciocco che non s'accorgeva d'avere in pugno la sua vendetta, facile, piana, offerta da una di quelle coincidenze provvidenziali che farebbero [339] credere all'intervento d'una giustizia superiore e riparatrice! Egli l'aveva in pugno e voleva assaporarla tutta, quella sera, dai Filiberti. Là ov'ella aveva conosciuto colui, in una festa che le avrebbe richiamato alla mente ogni circostanza del primo incontro, là ell'avrebbe espiato. Che potenza di dissimulazione le sarebbe occorsa per celare il suo turbamento, per atteggiar le labbra al sorriso, per discorrer delle mille inezie ond'è fatta la conversazione dei salotti, per appoggiarsi al braccio di damerini indifferenti ed uggiosi, per lasciarsi trascinare nel turbinìo delle danze!... E non v'ha dubbio, fra i tanti sguardi che, al solito, si sarebbero conversi in lei, ve ne sarebbero stati di malignamente curiosi e indiscreti, poichè i vecchi frequentatori di casa Filiberti non potevano non aver indovinata la tresca.... Sono i mariti che non indovinano nulla!... No, l'orgogliosa Lucilla non avrebbe curvato la fronte sotto quegli sguardi, non avrebbe dato ad alcuno il vanto di ridere della sua debolezza; ma s'ell'aveva veramente amato quell'uomo, che strazio doveva essere il suo! Saperlo morto, vederlo con gli occhi dell'anima immobile, stecchito dentro una bara, ed esser lì nelle sale gaie e luminose ove anch'egli era passato florido di giovinezza e riboccante di vita, che strazio, che strazio!

Pareva talora a Bertalia che il castigo fosse fin troppo crudele; ma il pensiero ch'egli non lo aveva nè meditato nè preparato imponeva silenzio ai suoi scrupoli. E, del rimanente, non era giusto ch'egli facesse soffrire Lucilla se soffriva tanto per cagione di lei? Non era giusto?

[340]

— Sì, — rispondeva la sua passione di marito offeso; — no, — rispondeva la sua coscienza di filosofo.

Nella difficoltà di conciliare le due risposte, egli tentò di rimettersi al lavoro. Finì di correggere il suo discorso, scrisse un paio di lettere, riesaminò i temi del Congresso alla cui discussione si proponeva di partecipare, prese alcune note nel suo taccuino. Ma non aveva nè lucidezza di mente, nè forza d'applicazione; non poteva star tranquillo sulla sedia cinque minuti. Ebbene, sarebbe uscito per impostar le sue lettere: avrebbe fatto quattro passi, respirato un po' d'aria libera.

In quella entrò Gino, non gaio e baldanzoso come la mattina, ma con la serietà d'un ragazzo precoce.

Il professore si sforzò di sorridere:

— Che desidera Vossignoria?

— La mamma mi ha incaricato di portarti questo biglietto da visita.

Bertalia si ricordò:

— Ah, va bene.... No, non andartene. Aspetta un momento.

Il fanciullo rimase, fermo, in mezzo alla stanza guardando dalla parte dell'uscio.

Corrado Bertalia intanto univa il proprio biglietto a quello di sua moglie, li metteva tutti e due entro una busta e scriveva un indirizzo:

Gentile Signora

Caterina Frangipane vedova Bagnasco.

Napoli, ecc., ecc.

[341]

Scrivendo, egli chiese a Gino:

— Le mie valigie son fatte?

— Sì, ma sono ancora aperte. Anzi la mamma domanda se porti via qualche libro.

— Quelli che porto ci saranno nella borsa da viaggio.... A ogni modo si può chiudere all'ultimo momento.... Aspetta. Pare che il terreno ti bruci sotto i piedi.... Dove vai?

— Vado di là.... nell'anticamera della mamma.

— Dov'è la mamma?

— È nella sua camera.

— È indisposta?

— No, ma era molto stanca e s'è buttata sul letto per riposare.

— In tal caso, se dorme, tu non le fai compagnia.... Puoi venir fuori con me, invece.

Il fanciullo accennò timidamente col capo di no.

— No? Perchè no?

— Ho promesso alla mamma, — soggiunse Gino, e gli luccicavano gli occhi, — di restar lì fin ch'ella dorme.

— Ma è assurdo.... Chi dorme non ha bisogno d'altro che di non essere disturbato.

— Appunto.... E io sto nell'anticamera perchè nessuno la disturbi.

— Di questo s'incarica la cameriera.... Glielo diremo.... Vieni, vieni.

— Abbi pazienza, babbo, lasciami a casa, — supplicò Gino. — Se la mamma si sveglia e non mi trova....

— La gran disgrazia!... Saprà che sei uscito col tuo papà e che torni presto.

— Ma ho promesso, — replicò il figliuolo piagnucolando.

[342]

Il professore aggrottò le ciglia:

— Va, allora.

Gino esitava tra il desiderio di andarsene davvero e il timore d'aver disgustato suo padre.

Bertalia ripetè l'ordine accompagnandolo con un gesto imperioso:

— Va dalla mamma.

IV.

Sceso dal tram fuori d'una delle porte della città, Corrado Bertalia passeggiava già da due ore all'ombra dei tigli sorgenti in doppio filare lungo il bellissimo viale, e i pochi che lo avevano visto e riconosciuto s'erano ben guardati dal disturbarlo, tanto egli pareva assorto in gravi meditazioni.

— Penserà al discorso di Stoccolma, — diceva qualcuno.

— O dibatterà fra sè un punto controverso di storia. Si sa che la storia è un continuo fare e disfare.

A nessuno veniva in mente ch'egli fosse angustiato da' suoi casi domestici. Undici o dodici anni addietro il suo matrimonio era stato discusso, commentato, censurato anche; più tardi eran corse delle chiacchiere circa alla supposta relazione di Lucilla col capitano Bagnasco e i maligni avevano detto: — Il professore doveva aspettarselo. — Ma eran cose vecchie. Ben altri scandali eran successi poi nella buona società, ben altri fatterelli di cronaca avevan [343] divertito la piazza. Chi si occupava ormai delle galanterie della signora Bertalia con l'ufficiale lontano e dimenticato? Ella seguitava ad essere una donnina in voga, e il tempo cresceva, anzichè diminuire, le grazie della sua persona, cresceva, anzichè diminuire, lo squilibrio fra lei e il marito; ma ora la sua condotta era irreprensibile, e per quanto si stesse in vedetta, non si riusciva a scoprirle nessun nuovo amante.... In complesso, Bertalia era giudicato un uomo degno d'invidia. Era celebre, era ricco, aveva una moglie, certo più rispettabile, nonostante il fallo presunto, di molte men belle e men giovani, aveva un figliuolo indubbiamente suo (bastava guardarlo) che gli empiva d'allegrezza la casa; o che poteva dunque mancargli?

E, in verità, quella mattina mentr'egli ritoccava il suo discorso, e pregustava le accoglienze lusinghiere di Stoccolma, e scherzava amorevolmente con Gino, egli era ben lungi dal commiserare la propria sorte. L'apparir di Lucilla, nel pieno fulgore della sua fresca bellezza, aveva bensì ridestate in lui le inquietudini del passato, le trepidazioni dell'avvenire; ma non per questo egli avrebbe osato dirsi infelice.

E adesso, all'intervallo di poche ore, non la felicità soltanto ma la pace domestica gli pareva irrevocabilmente distrutta. Strana ironia del destino! La catastrofe (tale sembrava alla fantasia eccitata di Corrado Bertalia) avveniva cinque anni dopo che Bagnasco era partito, avveniva oggi appunto che Bagnasco era morto! Un piccolo foglio listato di nero aveva una potenza [344] dissolvitrice che l'uomo, vivo e presente, non aveva avuto!

Non una parola acerba era corsa fra il professore e Lucilla; eppure egli sentiva che s'era levata fra loro una barriera improvvisa, e che di minuto in minuto quella barriera si faceva più alta ed impenetrabile. E, per peggio, il suo Gino adorato, la sua gioia, la sua speranza, il suo orgoglio, non esitava a parteggiare per la madre, e già gli si leggeva in volto la muta condanna del rigore paterno. Chi sa che cosa Lucilla gli aveva detto, chi sa che confidenze monche, bugiarde gli aveva fatto! Nel segreto della sua camera ov'ella non dormiva no, ma piangeva il suo drudo, forse, dinanzi al figliuolo, ella s'atteggiava a vittima, ella chiamava spietato il marito che la costringeva ad ornarsi per una festa il giorno in cui era giunto l'annunzio di morte d'un amico buono, disinteressato, fedele. E che armi aveva egli, Bertalia, contro queste perfidie femminine? Poteva egli dire a Gino: — Tua madre mente. Colui non era un amico, era uno di quelli che portano la rovina nelle famiglie!... — E se Gino chiedeva: — In qual modo?

Ah Lucilla, Lucilla! Non le bastava il resto; anche alienargli l'animo del figliuolo ella voleva, voleva far di lui, del suo sposo, un estraneo nella casa! La nuova offesa era maggior dell'antica e la donna che gliela infliggeva non meritava nessuna pietà.

Ingannato dal sole sempre alto sull'orizzonte in quella luminosa giornata di giugno, Corrado Bertalia seguitava a camminare, senza curarsi [345] dell'ora. I rintocchi d'un orologio lo scossero. Uno, due, tre.... egli contò fino a sei.... Erano effettivamente le sei, ed egli non aveva tempo da perdere se doveva pranzare, e chiuder le valigie, e abbigliarsi, e aspettar che sua moglie fosse abbigliata pel ballo dei Filiberti, ove non sarebbe stato conveniente andar troppo tardi, tanto più non potendoci rimanere sino alla fine.

Nel rifar frettolosamente la via percorsa egli pensava: — Tre o quattr'ore sole ci tratterremo alla festa, ma come le parranno lunghe!... E poi?... E poi la carrozza chiusa ci riporterà a casa nella pallida luce dell'alba; muti ed ostili, contraffatti dalla stanchezza, dal dolore, dall'odio; ci ritireremo nelle nostre camere ai due angoli dell'appartamento; forse domattina non la vedrò, forse non la vedrò che al mio ritorno dal Congresso.... E come la vedrò allora? Domata, contrita, anelante a riconquistare il suo posto nel mio affetto e nella mia stima? O sfinge silenziosa, grave di pericoli e di minacce? O aperta ribelle, impaziente di vendicarsi alla sua volta dell'oltraggio sofferto?... E Gino?

Ma un altro quesito s'affacciava alla mente del professore. Se la ribellione cominciasse subito? Se quella sera stessa Lucilla gli dichiarasse: — La tua imposizione è iniqua. Io non vengo dai Filiberti? — S'acconcierebbe egli al rifiuto? O inizierebbe, alla vigilia del suo viaggio, una lotta di cui non si sapeva come sarebbe andata a finire? E una volta successo lo scandalo, che si sarebbe detto di chi l'aveva provocato? Come? Le collere di questo marito [346] ci mettono cinqu'anni a maturare e scoppiano solo quando il nemico sparisce?

Così, a qualunque partito egli fosse per appigliarsi, il futuro si presentava a Bertalia sotto una luce fosca e paurosa; e nemmeno gli riusciva quetar l'animo agitato nel pensiero dei suoi studi, delle nuove ricerche alle quali aveva posto mano, delle aggiunte meditate alla grande opera, suo monumento imperituro di gloria. Gli erano cari gli studi, cari i silenzi della sua cameretta; ma era pur dolce sollevar di tratto in tratto lo sguardo dai volumi polverosi e fissarlo in due volti diletti, e tralasciare di discorrer coi morti per ragionare e scherzare coi vivi. Mai, mai gli era bastata la scienza arida e sola; un caldo alito di simpatia percorreva da cima a fondo tutti i suoi scritti, e nessuno storico sapeva meglio di lui, dai freddi documenti del passato, sprigionar le lacrime delle cose. Ed egli ben rammentava le tesi d'umanità, di giustizia, di tolleranza che aveva sostenuto ne' suoi libri, rammentava le argomentazioni, le prove faticosamente raccolte, ingegnosamente coordinate a dimostrar l'inanità della vendetta per gl'individui e pei popoli....

Giunto alla barriera, il senatore Bertalia, anzichè risalire sul tram ove in quell'ora gli sarebbe stato difficile evitar incontri noiosi, prese a piedi una scorciatoia che per vie quasi deserte l'avrebbe condotto, in circa venti minuti, a pochi passi dalla sua abitazione. Una di quelle strade, lunga, diritta, era, pressochè per intero, chiusa fra muri di giardini. Sorgevano di là dai muri e si slanciavano in alto le cime degli [347] alberi illuminate dal sole volgente all'occaso; non s'udiva voce d'uomo, ma stormire di fronde e bisbigliare di nidi; scendeva dai rami, saliva da invisibili aiuole un'acuta fragranza d'acacie e di rose. In fondo, alla cantonata, una cassetta postale di color verde cupo spiccava sull'intonaco bianco del muro.

Bertalia portò la mano istintivamente alla tasca del soprabito; non aveva ancora impostato le lettere. Le gettò qui, nella buca, e quando gli passò fra le dita il bigliettino per la signora Frangipane vedova Bagnasco, scappò detto anche a lui, come la mattina a Lucilla: — Povera madre!

Svoltato l'angolo, la gran pace conventuale cessò, e il professore si trovò in mezzo al brulichìo della gente e al frastuono delle carrozze e dei tram. Due o tre persone lo salutarono; egli, senza voltarsi, senza rallentare il passo, rispose toccandosi il cappello e fu presto alla porta di casa.... Che ore penose gli si preparavano, e come avrebbe voluto esser già in ferrovia, di là dalle Alpi!

Lucilla e Gino l'aspettavano in salotto da pranzo; la minestra era ormai scodellata.

— La minestra sarà fredda, — disse Lucilla. — Ma era tardi....

Egli guardò l'orologio:

— È vero, ha fatto tardi. — E soggiunse: — Meglio fredda che calda, in questa stagione.

Lucilla si alzò, prese per mano il figliuolo e si avvicinò a suo marito.

— Gino deve domandarti perdono della sua ostinazione d'oggi. La colpevole sono stata io.... [348] L'avevo pregato di restar nell'anticamera fin ch'io riposavo un'oretta.... Se avessi previsto che desideravi condurlo teco....

— Non importa, — interruppe Bertalia. — Esser fedeli alla consegna è una buona qualità.

— Gli perdoni, dunque?

— Ma sì, ma sì.

— Gino, dà un bacio al babbo.

Il fanciullo ubbidì, ma tornò subito presso alla sua mamma.

— Siedi, siedi al tuo posto, — ella disse.

Anch'ella sedette a tavola spiegando macchinalmente il tovagliolo sulle ginocchia.

Allora Bertalia fissò in viso sua moglie. Già a colazione ella gli era parsa mutata; adesso egli stentava a riconoscerla nel pallore cereo delle gote, nella ruga profonda che tra ciglio e ciglio le solcava la fronte, nella contrazione delle labbra esangui, nella dolorosa immobilità dello sguardo. Era quella la sua Lucilla, la splendida Lucilla? Era quella la donna ch'era entrata la mattina nel suo studio raggiante di bellezza e di gioventù? Si sarebbe giurato che non dieci ore ma dieci anni di più pesassero sul capo di lei e che il suo fulgido meriggio precipitasse in un fosco tramonto....

— Se fossi morto io, — chiedeva Bertalia a sè stesso, — sarebb'ella affranta così?

E benchè non si facesse troppe illusioni sulla risposta, egli era stupito di sentir nel suo cuore più compassione che ira.

Anche ora, come a colazione, ella toccava appena le vivande. Vedendosi osservata, si scusò:

[349]

— Ho una leggera emicrania.

Cercava ella un pretesto per non andare dai Filiberti?... Ma no, in tal caso, non avrebbe detto leggera.

A ogni modo, il professore dimandò:

— Per che ora è l'invito?

Ell'ebbe una vibrazione impercettibile dei nervi della bocca, e disse brevemente senza batter palpebra:

— Per le dieci.

Dunque ella nè si ribellava, nè implorava grazia. Nè altera, nè umile, i suoi occhi che avevano pianto, esprimevano un'assoluta padronanza di sè, una volontà rassegnata a tutto subire pur di evitare i contrasti.... Ma gli occhi di Gino, umidi e tristi, si volgevano al padre con lo stesso muto rimprovero con cui gli si erano rivolti poche ore addietro.

Indi, per una strana inversione di parti, sembrò a Corrado Bertalia di esser lui l'accusato dinanzi a' suoi giudici e abbassò istintivamente lo sguardo.

Dopo un breve silenzio egli balzò dalla seggiola.

— Senti, Lucilla, ci tieni proprio ad andare a quel ballo?

Le guancie smorte di lei si tinsero d'un lieve incarnato. Ma sulle prime ella temette d'un'insidia.

— Io?... No.... M'è indifferente....

— Perchè, — continuò il professore, — in quanto a me preferirei di prendere il diretto di questa sera alle undici.

— Vuoi partire questa sera? — chiese Lucilla, [350] ancora incerta sul significato della repentina risoluzione di suo marito.

— Guadagno circa dodici ore, — egli rispose, — e passo più volentieri la notte in ferrovia, dove dormo benissimo, che in una festa da ballo ove mi trascino come un'anima in pena.

La sua voce calma, la sua fisonomia grave ma composta dissipò le inquietudini di Lucilla. A poco a poco la invadeva un sentimento di tenerezza, di riconoscenza verso l'uomo che aveva misericordia di lei e che rinunziava al piacere della vendetta per risparmiarle un atroce supplizio.

Le venne uno scrupolo.

— E i Filiberti?

— Oh, si manda un biglietto.... C'è da scrivere?

Quand'ebbe l'occorrente, il professore avvicinò il tavolino alla finestra, poichè già imbruniva, e scrisse leggendo a voce alta:

Egregio amico,

Un telegramma ricevuto....„

Qui egli stette un istante con la penna sospesa fra le dita.

— È una bugia, ma di quelle che non fanno male a nessuno.... Bada però, Gino, non imitare il cattivo esempio.... Per fortuna, alla tua età non ci sono bugie necessarie....

Chiusa questa parentesi, Bertalia ripigliò senz'altra interruzione:

“Un telegramma ora ricevuto mi costringe a partire stasera. Dobbiamo quindi, mia moglie ed io, privarci del piacere d'intervenire alla vostra festa. Vogliate scusarcene anche con la [351] signora contessa e con gli sposi che Lucilla visiterà uno di questi giorni e ai quali io presenterò i miei omaggi fra un paio di settimane, al mio ritorno da Stoccolma.

“Accogliete, eccetera, eccetera....„

— Va bene così? — egli soggiunse mentre faceva l'indirizzo. — Il biglietto lo ricapiterà il portinajo, e nello stesso tempo ordinerà la carrozza per le dieci e mezza.... Pare impossibile, ma sono quasi le nove.

Lucilla prese la mano di suo marito e la portò rapidamente alle labbra.

················

Le valigie furono terminate nella fioca luce del crepuscolo. Gino aiutava la sua mamma e co' suoi occhi giovani distingueva perfettamente gli oggetti e leggeva pressochè al buio i frontespizi dei libri. Pareva vi fosse un tacito accordo di non accendere il lume.

Affacciato alla finestra, Bertalia aspirava per tutti i pori la gran pace della notte estiva. Un raggio di luna entrava obliquamente nella stanza.

All'ora prefissa vennero a dire che la carrozza era pronta.

Il professore non volle che lo accompagnassero alla stazione.

— Tu, Lucilla, devi andar subito a letto, e in quanto a Gino, non si capisce perchè sia ancora alzato.... Forse perch'è in vacanza.

Gino saltò al collo di suo padre.

— No, ma perchè volevo star con te fino all'ultimo.

Era tornato affettuoso, espansivo, carezzevole.

Lucilla consegnava il bagaglio alle persone [352] di servizio. — Due valigie, una borsa, una cappelliera, un plaid, un portaombrelli.

Corrado Bertalia depose il dolce pondo del suo figliuolo e si voltò verso sua moglie che era ritta dinanzi a lui, con le mani tese.

Egli la tirò a sè e la baciò in fronte.

— Arrivederci, Lucilla.

— Buon viaggio, — ella balbettò frenando a fatica i singhiozzi. — Scrivimi presto.... E.... grazie.....

— Zitto! — fece egli sciogliendosi dall'amplesso, e mettendosi il dito alla bocca.

Gli addii si rinnovarono sul pianerottolo.

— Buon viaggio, buon viaggio.

— Arrivederci.

— Scrivi domani.

— Scrivete anche voi. La prima lettera ferma in posta a Monaco.

— Sì, e mandaci i giornali.

— Molti giornali illustrati, — gridò Gino dalla ringhiera. — E portami un bel libro.

La carrozza infilò il portone e uscì nella strada. Alzando il capo, Bertalia vide alla finestra moversi due ombre e due fazzoletti bianchi agitarsi. Anch'egli agitò per un istante il suo fazzoletto, poi se lo portò agli occhi ch'eran molli di lacrime.

— Non ho perduto Gino, — egli diceva in cuor suo. — Ma lei?... Che cosa può esser ella per me fuor che una seconda figliuola?

[353]

INDICE

Natalìa Pag. 1
Due funerali 67
Alla „Traviata„ 79
Il signor Antenore 87
I cavalieri dell'Immacolata 109
Il dottore „Dreams„ 141
Assolto 154
Allo stabilimento idroterapico 182
Nella nebbia 201
La lettera 212
Le confidenze del direttore 229
Coscienze agitate 242
Nelle vacanze di Sua Eccellenza 259
Jolie 279
L'Isola fortunata (fantasia) 290
Epilogo 321

DEL MEDESIMO AUTORE:

Alla finestra. 4.ª edizione L. 3 50
La Contessina 3 —
Dal primo piano alla soffitta. 2.ª edizione 3 50
Due convinzioni. 2.ª edizione 4 —
Lauretta. 3.ª edizione 3 50
Nella lotta. 2.ª edizione 3 —
Reminiscenze e fantasie 1 —
Sorrisi e lagrime. 3.ª edizione 3 50
Filippo Bussini juniore 1 —
Prima di partire 1 —
In balìa del vento 1 —
L'onorevole Paolo Leonforte. 3.ª edizione 1 —

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (pendio/pendìo, matrimoni/matrimonî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.