The Project Gutenberg eBook of Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata

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Title: Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata

Author: Antonio Ranieri

Release date: June 15, 2015 [eBook #49219]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GINEVRA, O, L'ORFANA DELLA NUNZIATA ***

GINEVRA

o

L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


... prendeva cura d'ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla propria sua conservazione... — Carte 46.

GINEVRA

O

L'ORFANA DELLA NUNZIATA,

DI

ANTONIO RANIERI.

TERZA EDIZIONE

Ordinata e corretta dall'Autore.

Nunc demum redit animus.

Tac. Agr. III.

TORINO. MILANO.
CASA EDITRICE GUIGONI.
MDCCCLXII.


Proprietà Letteraria di

Maurizio Guigoni.



INDICE


[9]

NOTIZIA INTORNO ALLA GINEVRA.

Non si appartiene a me di giudicare questo libro. Il supremo giudice de' libri, è il tempo. Un libro può essere tre cose: una cosa nulla, una cosa rea, una cosa buona. Il tempo risponde con un immediato silenzio alla prima; con un meno immediato alla seconda; con una più o meno continua riproduzione alla terza. E il suo giudizio è inappellabile.

Nondimeno, poichè fu sì fitto e sì lungo il silenzio in cui ci profondarono i nostri confederati tiranni, da potersi veramente affermare, che solamente pochissimi, non modo aliorum, sed etiam [10] nostri, superstites sumus, parmi indispensabile che il nuovo lettore non ignori la storia del libro ch'ora gli viene innanzi.

Fra il 1830 e il 1831, esule ancora imberbe, capitai in Londra, o, più tosto, mi capitò in Londra alle mani un aureo lavoro d'un altro esule, assai più riguardevole e provetto di me, il conte Giovanni Arrivabene: nel quale egli mostrava partitamente tutto quanto quella gran nazione ha trovato, in fatto di pubblica beneficenza, per lenire, se non guarire del tutto, quelle grandi piaghe che le sue medesime instituzioni le hanno aperte nel fianco.

Alcuna volta, il cortesissimo autore, più di frequente, il suo giudizioso volume, mi fu guida e scorta nelle mie corse per quegli ospizi. Ed allettato da sì generosa mente a sì generosi studi, li perseverai per quasi tutta Europa, e preparai e dischiusi l'animo a quei grandi dolori, ed a quelle più grandi consolazioni, che l'uomo attinge, respettivamente, dallo spettacolo de' mali de' suoi fratelli più poveri, e da quello delle nobilissime fatiche e de' quasi divini sforzi di coloro che si consacrano a medicarli.

Surse finalmente per me il grande νόστιμον ἤμαρ, il gran dì del ritorno.

Mia madre (quel solo tesoro d'inesausta gioia e d'implacato dolore, secondo che il Fato lo concede [11] o lo ritoglie al mortale) non era più. Essa aveva indarno chiamato a nome il figliuolo nell'ora suprema, che l'era battuta ancora in fiore. E quel bisogno di effondersi e di amare, che, secondo l'antica sapienza, dove non ascenda o discenda, si sparge a' lati e si versa su i fratelli, mi rimenò a' più poveri di essi, negli ospizi... negli ospizi di Napoli, che s'informavano inemendabilmente dal prete e dal Borbone.

Io vidi, e studiai, l'ospizio de' Trovatelli, che quivi si domanda, della Nunziata: e scrissi le carte che seguiranno. E ch'io dicessi la verità, lo mostrarono le prigioni ove fui tratto, e dove, a quei tempi, la verità s'espiava.

Ve n'era, nel libro, per la Polizia e per l'Interno: benchè assai meno di quel che all'una ed all'altro non fosse dovuto.

Francesco Saverio Delcarretto e Niccolò Santangelo, ministri, l'uno dell'una, l'altro dell'altro, vanitosi amendue, e nemicissimi fra loro (nè dirò più di due morti), si presero amendue di bella gara; prima, di opprimermi; poi, di rappresentare, l'uno, più furbo, lo scagionato, quasi morso solo l'altro; l'altro, più corrivo, l'inesorabile, quasi morso lui solo: e, dopo aver domandato, prima, amendue di conserto, isole ed esilii; poi, il più furbo, una pena rosata, il più corrivo, il manicomio; Ferdinando secondo, furbissimo fra i tre, [12] mi mandò, dove solo non potevo più nuocere, a casa.

Ma le furie governative furono niente a quelle dei preti; dei quali, ritorcendo un motto famoso, si può affermare francamente, che, ovunque sia un'ignobile causa a sostenere, quivi sei certissimo di doverteli trovare fra i piedi.

Un Angelo Antonio Scotti, nel suo cupo fondo, ateo de' più schifosi, e, palesemente, autore d'un catechismo governativo, onde Gladstone trasse l'invidioso vero, che il governo borbonico era la negazione di Dio, s'industriava, dalla cattedra e dal pergamo, di fare, del sognato dritto divino de' principi, una nuova e odierna maniera di antropomorfismo.

Questo prete cortese, ch'era come il Gran Lama di tutta l'innumerabile gesuiteria EXTRA MUROS, per mostrarsi di parte, corse, co' suoi molti neófiti, tutte le librerie della città, bruciando il libro ovunque ne trovava copie. Poscia, in un suo conventicolo dai Banchi Nuovi, sentenziò solennemente, ch'era bene di bruciare il libro, ma che, assai migliore e più meritorio, sarebbe stato di bruciare l'autore a dirittura.

Ed, in attendendo di potermi applicare i nuovi sperati roghi di carbon fossile (ch'è la più viva aspirazione di questa genía), mi denunziò nella Rivista gesuitica la Scienza e la Fede (nobile madre [13] della Civiltà Cattolica) come riunitore d'Italia e, di conseguenza, bestemmiatore di Dio; appunto in proposito di un libro, nel quale, per mezzo della purificazione della creatura, io m'era più ferventemente studiato di sollevare tutti i miei pensieri al Creatore!

Ma, qualunque fosse stata l'imperfezione mia e del mio libricciuolo, la Gran Fonte di ogni bene non lasciò senza premio la nobiltà o l'innocenza dell'intenzione. L'onnipotenza dell'opinione pubblica, ch'è la più bella e più immediata derivazione dell'onnipotenza divina, dileguò vittoriosamente tutti que' tetri ed infernali fantasmi.

E fatto che fu il sereno intorno, seguì quel miracolo consueto, contra il quale si rompe ogni dì qualunque più duro scetticismo. Che, come Dio sa servirsi insino delle stesse perverse passioni degli uomini, e, in somma, insino del male, per asseguire il bene; così, prima, l'amministrazione accagionata, per iscagionar se e rovesciare sopra me il carico di mentitore, poi, le susseguenti, per mostrare se ottime e le precedenti pessime, vennero, di mano in mano, alleggerendo quelle ineffabili miserie. In tanto che, scorsi molti anni, quibus iuvenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos, PER SILENTIUM, venimus; un dì (correva, credo, il cinquantotto) camminando penseroso per la via della Nunziata, [14] ed avendo la mente rivolta assai lontano dalle care ombre della mia giovinezza (fra le quali la Ginevra fu la carissima); un bravo architetto, il cavalier Fazzini, mi chiamò, per nome, dal vestibolo dell'ospizio, ch'era tutto in restauro. E mostrandomi un esemplare del libro, ch'aveva alle mani (e che, a un tratto, mi sembrò come una cara larva che tornasse a salutarmi di là donde mai non si torna!), m'invitò di venir dentro, e di riscontrare se tutto era stato attuato secondo l'intendimento del volume perseguitato!

Distrutta la prima nitida e correttissima edizione, la cupidità ne partorì una seconda, che il pericolo rendette grossolana e scorretta, e che il desiderio e la persecuzione consumarono di corto.

Ora compie il ventunesim'anno che qualche esemplare strappato n'è pagato una cosa matta. E l'ottenere quello sopra il quale è seguíta questa terza edizione, è stato un miracolo dell'amicizia.

Torino a dì 1 di gennaio MDCCCLXII.

ANTONIO RANIERI.

[15]

GINEVRA

O

L'ORFANA DELLA NUNZIATA.

MANOSCRITTO PUBBLICATO

DA

ANTONIO RANIERI.

Volume Primo.

Bene et ille, quisquis fuit (ambigitur enim de auctore), quum quaereretur ab illo, quo tanta diligentia artis spectaret, ad paucissimos perventurae: Satis sunt, inquit, mihi pauci, satis est unus, satis est nullus.

Sen. Epist. VII.


[17]

L'AUTORE DEDICA QUESTE CARTE
SCRITTE NON PER ODIO MA PER CARITÀ DE' FRATELLI
ALLA MEMORIA DEL SUO IMMORTALE MAESTRO
GIACOMO LEOPARDI.


[19]

AL LETTORE.

L'autore dichiara che, come non ha inteso di ritrarre in questo libro i costumi della Nunziata in particolare, ma, tolta quindi l'occasione, quelli di tutta la città di Napoli in generale, così non ha inteso nè anche di ritrarvi nessun uomo in atto, ma molte nature d'uomini in idea. E però, di chiunque fosse, cui paresse di raffigurarsi in qualcuno de' ritratti che quivi s'incontrano, egli direbbe, a uso di Fedro: Stulte nudabit animi conscientiam.

[21]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE PRIMA.

Verti me ad alia, et vidi calumnias quae sub sole geruntur, et lacrymas innocentium, et neminem consolatorem; nec posse resistere eorum violentiae, cunctorum auxilio destitutos.

Et laudavi magis mortuos quam viventes.

Et feliciorem utroque judicavi eum qui necdum natus est, nec vidit mala quae sub sole fiunt.

Ecclesiastes. iv. 1. 2. 3.

Mi volsi altrove, e vidi le oppressioni che si commettono sotto il sole, e le lacrime degl'innocenti, e nessuno che li consoli; nè potere questi, abbandonati d'ogni umano soccorso, resistere alla violenza dei loro oppressori.

E giudicai più felici i morti che i vivi.

E più felice degli uni e degli altri giudicai colui che ancora non nacque, e mai non vide i mali che seguono sotto il sole.

L'Ecclesiaste. iv. 1. 2. 3.

[23]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE PRIMA.

LETTERA DI GINEVRA AL PADRE PENITENZIERE DON...

Io ho bisogno, padre mio venerabile, che voi non ignoriate nulla dell'essere mio. Sento alla fine che Iddio, fatto pietoso alle mie spaventevoli calamità, è vicino a liberarmene, chiamandomi alla sua pace. Padre mio adorabile, fate che io non mi rappresenti al suo cospetto senza la vostra assoluzione. Il cospetto di Dio è tanto [24] terribile! io sono tanto debole ed infelice! tremo tutta... non mi reggo... Padre mio, come potrò sostenerne lo sguardo?

Ma già vaneggiavo. Voi mi dite sempre che l'anima mia, non questo corpo fragile e macerato, dovrà fra poco comparire al cospetto di Dio. L'anima passata per la tempera della morte, sanata e fortificata dalla vostra assoluzione, trasparente innanzi all'occhio del suo Creatore, sarà sciolta da ogni infermità umana.

Padre mio, io già credo tutto quello che voi mi dite. Ma com'è possibile che una povera donna, quale io sono, senza ingegno, senza lettere, possa comprendere uno stato così diverso dal presente? Io non ve lo nego, padre mio: per quanto io mi sforzi, sempre mi rappresento Iddio come un uomo, maestoso, tremendo, divino ancora quanto la mia fantasia può immaginarlo: ma sempre come un uomo. Concepirlo in ispirito e sciolto dalle forme umane, io non posso. Così dell'anima mia non so immaginare uno stato che non somigli il presente. Se ora tremo, se ora piango, o più tosto vorrei piangere e non posso... tutto questo sparirà... ed io allora che sarò?... proverò dolore o gioia?... Ah! purchè io non senta dolore, della gioia non mi curo. Ma se anche nell'altra vita si soffrisse!... O Dio... se anche nell'altra vita si soffre, io ti domando il mio totale annullamento... o se questa è bestemmia, e tu dà fine al mio dolore. Tu sei infinitamente buono: potrai consentire che la tua creatura soffra in eterno?...

Padre mio, questi estremi giorni della mia vita si annegano in un mare troppo tempestoso e troppo buio di dubbi e di spaventi.

Perdonate la confusione delle mie parole. Voi mi [25] avete imposto di scrivervi filo per filo la mia vita, perchè in voce io non so seguitarne l'ordine e confondo me e voi stesso. Ed io, anche scrivendo, comincio già dal principio a confondermi. Ma voglio farmi la maggior forza ch'io posso. Spero che Iddio mi concederà tanta lena... tanta mente. Ah padre! s'io giungo al termine, e voi non mi assolvete, chi altro assolverete sulla terra?

[27]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE PRIMA.

I.

Io non so nel seno di qual donna, nè per saziare le voglie di qual uomo, io fui concepita. Non so chi, levatami dal sacro fonte, mi battezzò nel nome di Ginevra. Non conobbi mai colei che mi nutrì col suo latte, nè mi sovviene di nessun volto umano che abbia sorriso alla mia infanzia.

[28]

La mia prima memoria è l'aver rotto la tenera fronte allo spigolo d'una tavola di marmo, ch'era nel mezzo d'un lugubre corridoio della Casa della Nunziata. Questo mi avvenne per un calcio che mi scagliò una di quelle furie che quivi si chiamano nutrici, della quale mi si è dileguata ogni sembianza. Questa memoria è come un lampo, che mi traluce talvolta alla fantasia e sparisce. Poi tutto è buio: e solo mi sovviene ch'io piangeva molto, abbandonata quasi ignuda sul freddo pavimento, ch'io bagnava delle mie lacrime: ma le cause del mio dolore mi sono fuggite.

Il primo avvenimento, onde mi è possibile di cominciare il racconto di questa mia povera vita, è il seguente.

Era uno di quei giorni cupi e piovosi, nei quali la natura sembra piangere insieme con noi delle sciagure alle quali ella medesima ci ha abbandonati. Io povera bimba, gittata al solito per terra fra le centinaia di mie coetanee, morta del freddo ed estenuata dalla mancanza di nutrimento, era fra questa vita e l'altra, in uno di quei momenti di assenza totale di sensazioni, che si provano nei primi giorni in cui la propria coscienza comincia a riconoscersi ed a contare, per così dire, una storia di se stessa. Una nutrice, e di costei ho presentissimo il laido e sozzo viso, appressandosi a me, mi sollevò di peso per il sinistro braccio, di sì mala maniera, che mi slogò la spalluccia. In vano tenterei di esprimere con parole la fierezza del dolore ch'io ebbi. Le mie strida acutissime avrebbero riscosso il carnefice. Ma la donna parve non avvertirle, e sempre nella medesima attitudine mi portò, o più tosto strascinò, in una specie di tenebroso parlatorio.

Quivi, sopra molti rozzi scanni che l'ingombravano, [29] erano assai bambini di ambo i sessi, in varie positure, e tutte penosissime. Alcuni avevano le mani e i piedi così stretti e chiusi nelle fasce, che il sangue, come poscia ho capito, più non circolando, regurgitava alla testa. Però mostravano il viso tutto livido ed annerito, ed erano prossimi a rendere lo spirito. Altri erano sciolti e scalzi; anzi tanto sciolti, e tanto scalzi, che nel cuore dell'inverno altro non avevano indosso che una sorta di grembiule, dal quale parevano, ma non erano, coperti. Giravano per la squallida sala alcune figure come di contadine, brutte, le più, come la mala ventura. Queste davano di piglio a vicenda, chi a questo, chi a quell'altro bambino. Lo tastavano tutto, gli squarciavano la bocca, gli storcevano le palpebre, venendolo considerando come ogni altra merce. Molti ne rifiutavano con quel garbo che potete immaginare. Qualcuno che andava loro a grado, lo toglievano in braccio e portavano via senza più. Solamente un vecchio bianco e calvo, che, con larghi occhiali sul naso e con un grosso libro innanzi, sedeva a una tavola in un canto della sala, mentre la donna portava via il bambino, notava non so che in quel libro.

Arrivata nel mezzo della sala, l'arpia che mi aveva ghermita aprì l'artiglio e mi lasciò cadere sopra uno scanno. Io fui presa e ripresa, per quel medesimo braccio ch'io aveva slogato, non so quante volte da non so quante persone. Fui stazzonata, sgualcita, pesta in tutte le forme possibili. L'eccesso del dolore mi aveva renduta in apparenza tranquillissima, togliendomi interamente la forza di piangere. Alla fine una donna di mezzana età, ch'avea un occhio cieco, e l'altro così orrido e spaventato, che pareva una lammia, dopo avermi straziata in mille guise, e postemi le mani in bocca [30] e altrove, come si fa dei cavalli, visto che io nè pure fiatava, disse alle nutrici in quel suo rozzo linguaggio:

Questa bimba mi conviene. Io non posso patire i fanciulli che piangono. Dall'aurora si vede il buon giorno. Io voglio farmene un aiuto alle mie fatiche, ed ho bisogno ch'ella sia d'indole quieta ed obbediente. Che tempo ha ella?

Quattro anni nei cinque, le fu risposto.

Or bene, la prendo, disse la donna.

Allora il vecchio scrisse nel libro, e la donna me ne portò in braccio sulla via.

II.

Io era stata fino a quel momento come impietrita dal dolore. Quando, per la prima volta della mia vita, mi vidi sulla via all'aria aperta, allora finalmente cominciai a comprendere il senso della scena avvenuta, la quale fino a quel momento io aveva stupidamente guardata senza intendere.

Chi può esprimere l'impressione di dolore che mi causò il vedermi fuori del luogo, dove fino a quel momento io aveva creduto che si chiudesse l'universo! Quella poca luce, che ancora tramandava il sole a traverso le tenebre che lo circondavano, mi ruppe come un ghiaccio che mi si era addensato intorno agli occhi, ed io cominciai a versare lacrime tanto disperate, quanto mai non furono le infinite altre che poscia sparsi per le più terribili sciagure della mia vita.

La donna intanto, senza punto scrollarsi, e solo un [31] poco infastidita del mio pianto, mi pose in una maniera di cesta, ch'era sul dosso d'un asino macro e sparuto, ch'ella aveva lasciato alla cantonata a mano ritta, propriamente dove è quella grande immagine della Vergine Annunziata. Quivi, assicuratami con alcune corde che mi segavano tutta la persona e m'impedivano di cangiare di sito, montò sul basto ch'era medesimamente indosso all'asino dietro della cesta, e dato a quello d'una gran mazza nei lombi, c'inviammo in questa forma per la via di san Pietro ad Aram.

Intanto io poveretta, fra l'incredibile dolore che avevo alla spalla, lo spavento di vedermi strascinare via da una brutta figura ignota, e l'acqua e il vento che mi battevano sul viso, mi pensava, nella mia infantile fantasia, di andare a qualcosa di peggio che la morte: onde il mio piangere era sterminato. Eravamo giunti al Carmine, e già svoltati per la via della Marina che conduce a Portici, quando la strega parve di avvertire un istante lo stato mio moribondo e la spalla che io, quanto la mia età e la tortura in cui era lo consentivano, mi sforzava di accennarle. Fermato l'asino, parve ch'ella si accingesse a scendere, forse per disciogliermi ed aiutarmi. In quel momento medesimo veniva di giù a tutta furia uno di quei calessi che fanno ancora fede qui della durante barbarie. Il quale, urtato l'asino mentre che la donna ne scendeva, quello, la donna e la cesta dove io era, gittò malamente per terra e tirò via. Potete giudicare voi, o padre, s'io ne fossi pesta e malconcia. La donna si leva furibonda, rialza l'asino, e con infami bestemmie accusando me del sinistro seguíto, mi scioglie un momento, non per sollevarmi, ma per finirmi a furia di battiture; poi mi legò tanto stretta, quanto le bastò la rabbia, e seguitò il suo cammino.

[32]

Sono pochi dì, una povera suora di questo convento, che l'atrocità de' suoi genitori ha sforzata a seppellire qui la sua giovanezza, mi diceva che il deliquio era il più gran dono della natura. Quando il dolore, ella diceva, oltrepassando le forze umane, ucciderebbe, la natura ci soccorre col deliquio, e ci sospende un momento la vita per conservarcela.

Ma questo estremo conforto del dolore mi è conceduto assai di rado. Io sono facile a svenirmi; ma lo svenimento, togliendomi tutte le facoltà con le quali potrei resistere al dolore, non mi toglie la conoscenza e il senso di esso. Resto immobile e muta come un sasso; ma vedo e odo tutto quello che mi avviene intorno, ed assaporo a sorso a sorso tutto l'orrore della morte senza ottenerla. Così mi ricordo di aver letto d'un moribondo, che prima di chiudere gli occhi alle tenebre dell'eternità, vedeva volteggiargli intorno l'avvoltoio, il quale, come è natura di quell'animale, attendeva ch'egli spirasse per divorargli le viscere.

Insino da quella tenerissima età, io ebbi il primo esempio di questo mio sinistro naturale. Perchè, seguitando la donna il suo spietato cammino verso il ponte della Maddalena, e piovendomi e ventandomi e fulminandomi nel viso, perchè s'era il cielo così sdegnato che mai non fu rovescio d'acqua simile a quello, io non poteva più nè muovermi nè piangere, e posso dire ch'io non era più viva; e pure non perdetti mai il conoscimento.

Giunti che fummo al ponte della Maddalena, una gran mano di stradieri, gabellieri, birri, grascini ed altre spie, ci furono tutti addosso. Alcuni diedero di piglio alla donna, e la venivano tastando e ricercando per tutta la persona. Altri si spinsero addosso all'asino. [33] frugando nelle bisacce, che gli pendevano da ambo i fianchi, e di sotto il basto, e per entro un fascio di paglia che gli era in groppa. Un brutto ceffo fra costoro, con lunghi mustacchi e barbe interminabili, e con uno di questi sigari in bocca, accostatosi alla cesta dov'era io meschinella, la sciolse dall'asino e la pose a terra. Vedendo ch'io era assicurata alla cesta con infiniti giri di corda, fu infastidito di sciogliermi. Ma non voleva lasciare intentata quella poca di paglia sopra la quale io giaceva. Però, impugnata una sorta di bacchetta di ferro puntuta e molto somigliante a un lungo stile, cominciò a ficcarla da tutte le parti in quella paglia, non senza rischio di passarmi fuor fuora, nè senza ferirmi nel petto che n'ho ancora il margine. E intanto che m'era sopra, pure fumando e dimenando quel sigaro alla sgherresca, mi cadevano quale sul viso e quale altrove, ch'ero tutta ignuda, molti minuzzoli della paglia del sigaro ancora ardenti, e mi bruciavano or qua or là queste misere carni.

La donna non rifinava di gridare fortissimo, ch'ella non entrava nella città, ma ne usciva per tornare a Sant'Anastasia dov'ella abitava. Allora uno di quei manigoldi che l'erano addosso, cavandole una pollastra della tasca:

Oh! perfida maliarda, gridò, non isquittire più. Tu devi essere impiccata per la gola, perchè ci hai la peste qui dentro. Or non sapevi tu ch'e' v'è la peste a Nola e che le galline ve l'hanno appiccata? e che però le si debbon tutte lasciare ai sergenti della corte? Ora non ci tornerai a Sant'Anastasia.

Alla vista della pollastra, tutta quella canaglia fu speditissima a strascinare l'asino, la donna e la cesta in [34] una stanza terrena perfettamente buia, dove era il maggior puzzo che si possa immaginare, perchè serviva di privato a quei mascalzoni. Stemmo colà dentro tutto quel giorno e la notte seguente, piangendo e schiamazzando la donna in un modo assai pietoso. Poco prima che spuntasse il nuovo giorno, venuta come una maniera di muta al proposto e ad alcuni di quei masnadieri, il nuovo ufficiale ci lasciò andare alla nostra ventura.

III.

Io, come potete immaginare, aveva perduti affatto i sentimenti, e mi risentii soltanto sulla via di Portici, parte per effetto del sole che, innalzatosi dal Vesuvio, mi feriva vivissimamente gli occhi, e parte per un poco di pane bigio, masticato prima da lei, che la donna m'introdusse in bocca a tutta forza.

Giunti al posto che domandasi lo Sperone, svoltammo a mano manca, e camminato un pezzo avanti, arrivammo a uno squallido villaggio domandato la Madonna dell'Arco. Quivi, mentre che passavamo, venivano alcune donne, conoscenti forse della mia novella madre, e si affacciavano alla cesta per vedere la fanciulla della Nunziata. Mi consideravano un poco come si considera un uccello strano o altro nuovo animale; poi partivano con un viso dov'era scolpita l'indifferenza e la salvatichezza.

Indi pervenimmo presso a Sant'Anastasia. L'asino si fermò da se all'usciolino d'un tugurio tutto affumicato, d'un sudiciume e d'una miseria che non si può descrivere. [35] Volti a caso gli occhi a sinistra, vidi un altissimo ed ombroso pino, la cui vista, non so perchè, mi causò un'impressione di malinconia profondissima. La donna smontò dell'asino, con una rozza chiave aperse l'usciolino, dietro al quale un gatto ed un grosso cane da pagliaio si lagnavano della lunga fame: ed entratasene dentro, tosto l'asino l'entrò appresso.

Tav. I.
... un altissimo ed ombroso pino, la cui vista, non so perchè, mi causò un'impressione di malinconia profondissima. — Carte 35.

Il tugurio era così fatto. L'usciolino gli serviva a un tempo di finestra, perchè non altronde passava quel poco di luce che l'illuminava. A mano sinistra era gran copia di strame sparso per terra. Nel mezzo del muro era un pozzo aperto, e più in là una mangiatoia, dove ruminavano due macri buoi, che mostravano essere la ricchezza della casa. Sullo strame si voltolava e fregava un maiale di maravigliosa grossezza, che grugnì forte al nostro entrare. A mano dritta presso all'uscio era un acquaio, ed appresso un focolare con un cammino nerissimo. Nel fondo usciva dal muro un muricciuolo, dove era un pagliaccio: e questo era il letto della padrona.

La donna tolse il basto all'asino, che se n'andò alla mangiatoia accanto ai buoi. Poi mi sciolse e sollevò dalla cesta; ed ammucchiato un poco di strame sotto il parapetto del pozzo, fra l'asino ed il maiale, quivi riponendomi, m'accennò minacciosamente ch'io stessi cheta. Di poi tratti fuori i buoi con l'aratro, m'inchiavò dentro al buio con quattro de' sei quadrupedi coabitanti con lei, ed andò via.

[36]

IV.

Padre mio amoroso, io non imprendo a raccontarvi quello ch'io soffersi in quell'infame borgo tutto l'inverno e tutta la seguente state. I miei patimenti furono inauditi, e s'io li raccontassi, sarebbero incredibili. Ah padre mio! così divisa, come mi sento, da ogni cosa terrena, così vicina, quale sono, al sepolcro, a quel porto che tanto sospirai, pure s'io mi rivolgo a contemplare l'oceano di dolore dal quale approdo, non posso fare che non mi prenda un'infinita pietà di me medesima, e ch'io non versi un torrente di lacrime. Ah padre! se un lampo di piacere balenò nella vita, si dileguò per sempre; e se traluce un istante al pensiero, non è più piacere: ma la memoria del dolore, è dolore sempre.

Come io guarissi della spalluccia slogata e della ferita nel petto, non mi rammento. Ma certo la sola natura n'ebbe il merito. Io passava i giorni e le notti scalza e presso che ignuda fra la più mortale umidità, e sentivo quasi sempre quel senso di smania inenarrabile, che poscia intesi essere la febbre. Un tozzo di nerissimo pane inzuppato nell'acqua era tutto il mio nutrimento; quello squallido tugurio era tutto lo spazio ove mi era conceduto di estendere i miei mal fermi passi; quel poco di strame tutto il mio letto; e le più barbare e spietate percosse erano il solo avvenimento che veniva a rompere l'orribile uniformità della mia giornata. O Dio pietoso! se nella tua ineffabile bontà hai impresso nel cuore di ogni animale un instinto d'amore per il suo simile, come puoi consentire che la creatura umana odii tanto la creatura umana?

[37]

La donna vedendomi malandata e quasi vicina a morire, e per la inferma età ancora incapace di poterle essere utile di nulla, cominciò a pentirsi fieramente della sua risoluzione. S'ella mi dava un bandolo d'una matassa per isvilupparla, io lo smarriva e più inviluppava la matassa. S'ella mi dava a tenere l'asino per la cavezza, quello o me la strappava di mano, o, s'io teneva forte, mi gittava per terra e mi strascinava. S'ella mi comandava la sera di destarla la dimane innanzi giorno, io, giusto quando dovevo destarla, m'addormentava: e se di notte era picchiato all'uscio alla sprovvista, la donna, che non voleva levarsi dal caldo pagliaccio, mandava me, ch'ero nuda sullo strame, acciocch'io lo aprissi; ed io, con le mie tenere mani, non bastava a dischiavarlo. Tutte queste o simili colpe erano punite con pugni, con calci, con ceffate; con l'afferrarmi pei capelli e gittarmi a furia sullo strame, o, tenendomi forte per quelli, percuotermi la tempia al muro, e rialzarmi talvolta il viso in su a tutta forza per battermi, quasi togliendo la mira, su gli occhi, e lasciarmi per più giorni come cieca.

V.

In tanta disperazione d'ogni umano soccorso, trovai qualche sentimento di compassione e di benevolenza, in fine, di quello che troppo malamente chiamasi umanità, in qualcuno degli animali che vivevano con noi. Tutte le volte ch'io rimaneva chiusa al buio, il gatto, con que' suoi occhi lucenti rompendo quasi le tenebre, veniva a adagiarsi sullo strame allato a me, e, come [38] tenendomi compagnia, mi comunicava un poco del suo calore. Il maiale veniva spesso come a fiutarmi ed a riscaldarmi col suo grifo in atto più tosto benigno, e senza mai farmi un male al mondo. Ma quello che mi concepì un'amicizia di cui nessun uomo non è capace, fu il cane. Questo mi stava sempre accanto, se non se quanto la crudele donna a furia di vergate lo menava alla campagna. E sempre che m'era accanto, tutta mi veniva leccando e carezzando, e vedendomi, io credo, così ignuda e prossima a morire del freddo, cercava, quanto più poteva, di riscaldarmi col suo alito. Questo, tutte le volte che la rea femmina mi si stringeva addosso per istraziarmi, tentava ogni via di difendermi, baiandole contro, afferrandola per la gonna e talora perfino accennando di volerla mordere.

Durante la state, io soffocava dal caldo umido e dall'abbominevole sito di quel tugurio. Quando la donna, di fitto meriggio, tornava e m'apriva, s'ella andava attorno per sue faccenduzze, io, appena gli occhi, stati lungo tempo al buio, potevano sostenere la luce, mi conduceva chetamente sotto quel pino. Quivi all'aria aperta la respirazione mi diveniva più libera. L'ombra del pino e un venticello, che spira sempre a quell'ora dal mare e quasi sente l'alga, mi rinfrescavano il viso e tutta la persona, ch'io aveva arsa e divorata dagl'insetti che brulicavano nello strame. È cosa maravigliosa come in un istante io mi annegava nella più profonda dimenticanza de' mali miei e di me stessa: come la quiete universale, la contemplazione della natura tutta in pace con se medesima e il tenue stridore delle cicale ch'erano fra i rami del pino, m'inducevano la più dolce malinconia ed alla fine il più dolce sonno, ch'io abbia mai delibato nella mia vita. Allora io sognava [39] felicità di paradiso, beatitudini ineffabili, quali sola la fantasia de' bambini può sognare, perchè quella dei giovanetti è già troppo inferma dal dolore. Questi sogni erano rotti dai gridi e dalle percosse della donna, che voleva ch'io stessi dentro a guardare le sue masserizie; perchè il cane era a guardare un vicino pagliaio.

Io aveva una così infinita necessità di prendere qualche volta questo sollievo, ch'ero rassegnata e ferma nel mio fanciullesco cuore di sopportarne con costanza la pena consueta: e sempre che potevo, me n'andavo al pino. Il cane, pare incredibile, avvistosi del tutto, sempre che il fatto si rinnovava, abbandonava il pagliaio e si poneva in agguato. Appena scorgeva la donna di lontano, ratto correva a me, e, prendendomi dolcemente il piccolo braccio con la bocca, m'aiutava a condurmi prestamente dentro, e mi riponeva sullo strame; poi, come un baleno, era di nuovo al pagliaio.

VI.

Un giorno, era del mese di ottobre, venne alla strega una donna, a un di presso della medesima età di lei, ma assai male in arnese, tutta lacera e scalza, con un pannaccio in capo, e tale, in sostanza, che me ne parve vedere il ritratto, quando, svolgendo un libro di viaggi, vidi le figure di certe donne dei selvaggi che abitano presso alle sorgenti del fiume Colombia, nelle estremità settentrionali dell'America. Io non so quali magiche parole le bisbigliasse costei all'orecchio, che la mia strega, dopo avere come fermato una specie di contratto, accostandosi a me e ghermendomi alla peggio, [40] me le diede, così ignuda con un piccolo cencio indosso, dicendo:

Badate ve', se in questo mezzo ella morisse, fate che il curato della pieve di Resina ve ne dia il contrassegno. Io non voglio avere a inzeppar la bocca a' birri con qualche danaro de' miei, per la morte di cotesta cagna, che Iddio o il diavolo se la pigli presto; che son proprio stucca di udirla piangere. Che se non fosse stato un voto per una grazia che mi fece Maria Vergine Annunziata di far morire una mia vicina, che m'ammaliava tutto con gli occhi, io non mi sarei mai messo questo fistolo addosso.

Quello che a voi nuoce, comare mia, a me giova, rispose l'altra. Io ho bisogno d'una bimba che pianga e guaisca dì e notte; e questa mi pare il caso mio. Per questo mese, adunque, voi ne starete franca. Avete il pegno per la sicurezza della restituzione; e quando ve la riporterò, ve ne darò la ricompensa promessa. Ora state con Dio.

E così dicendo, s'inviò per un solitario ed intricato sentiero, quando portandomi in braccio, e quando strascinandomi per la mano. Riuscimmo a San Giorgio a Cremano. Quindi ci conducemmo a Portici; e poscia a Resina. Ivi la donna, svoltata per un viottolo che riusciva nella strada maestra, aperse l'uscio d'un tugurio simile a quello di Sant'Anastasia, salvo che somigliava meglio una caverna, e che non v'era animale di sorta alcuna, altro che noi due. Qui l'egualità era più esatta, perchè la donna ed io dormivamo entrambe sulla paglia, ch'era la sola suppellettile della casa. Era già notte quando vi pervenimmo; onde s'andò subito a letto. La dimane alla prima luce, la donna si levò, mi tolse in [41] braccio, aperse e richiuse l'uscio della sua casa, e venne sulla strada maestra.

Quivi, adagiatasi sopra un rottame di colonna antica, e scoperte alcune luride piaghe ch'aveva nelle gambe e sul collo, e distesa me sopra i suoi ginocchi, cominciò a domandare pietosamente la vita per Dio ai passeggieri. Quando la via era deserta, ella si riposava e prendeva fiato dal continuo lamentarsi. Appena appariva o una vettura, o una brigata di villeggianti, che in quel mese sono frequenti in quei luoghi amenissimi, cominciava a rammaricarsi ed a piangere sì pietosamente, che avrebbe mosso a compassione ogni cuore più duro.

Io passava, come voi potete immaginare, tutta la mia giornata a piangere non per finto ma per verissimo dolore e per verissima mancanza d'ogni umana necessità. Però, senza saperlo nè volerlo, secondavo maravigliosamente gli sforzi scenici della donna. Pure avveniva talvolta che la stanchezza causata dal lungo pianto m'abbatteva in modo, ch'io m'addormentava in quel duro letargo che solo gl'infelici conoscono. Allora se un qualcuno compariva, la donna mi destava a furia di pizzichi e di schiaffi, e mi ammoniva ch'io dovessi piangere. E se il passeggiere seguitava la sua via senza muoversi a pietà di noi, quando quegli s'era bastantemente allontanato, la donna con graffi, con pugni e con calci mi puniva della durezza del passeggiere, dicendo che se io avessi pianto più forte, quegli si sarebbe commosso. Ed allora, appena le appariva alcun altro di lontano, prima che quegli s'appressasse, ella mi lacerava e mi straziava in tal guisa, che mi era impossibile di non dare alla fine uno sfogo di disperatissime lacrime al mio dolore, in modo ch'io mi trovava nel [42] forte del mio pianto all'appressarsi di quello. In questo mezzo la donna cominciava anch'ella a lamentarsi; e non v'è dubbio che riusciva più facile di scrollarlo.

Così passammo tutto il mese d'ottobre e i primi dì di novembre. Poi, essendo la villeggiatura finita, e quei luoghi divenuti assai solitari, un giorno la donna s'incamminò con meco verso Sant'Anastasia, mi restituì alla sua comare, e datole un compenso in danari per il nolo della mia persona, e ripreso il suo pegno, ne andò con Dio a rappresentare sola la parte di mendicante o d'altro più degno personaggio. Ed io, campata appena dai suoi artigli, solo Iddio sa con quanti sospiri e con quanti gemiti preparai l'anima agli usati strazi che mi attendevano a Sant'Anastasia.

VII.

Ricondotta a Sant'Anastasia, quivi ritrovai e la primiera carità negli animali che domandiamo bruti, massime nel cane, che non trovava luogo dalla consolazione d'avermi rinvenuta; e la primiera ferocia nella donna, che già cominciava a farmi menare la solita vita; quando giunse il suo marito. Questi, per la povertà che regna nei dintorni di Napoli, era ito in Basilicata al taglio d'un gran bosco; dove era stato presso che un anno. Era circa la mezza notte quando la strega ne udì il fischio. Scese lentissimamente del pagliaccio, dicendo:

Ora torna col malanno.

Poi aperse l'uscio, donde entrò dentro una brutta figuraccia di brigante, in abito di pecoraio, qual era, [43] con una grande scure in ispalla e un gran coltellaccio al fianco.

Ci sei tornato alla fine, disse la donna.

Quegli non rispose una sillaba. Lasciò la scure e il coltellaccio in un canto, si spogliò la pelle di montone ch'aveva indosso, e gittatosi sul pagliaccio, s'addormentò profondamente. Lo stesso fece la donna allato a lui.

Il dì seguente al primo crepuscolo, destosi il marito e postosi indosso la pelle, venne a' buoi per trargli fuori. La sua maraviglia fu grande quando col piede urtando il mio corpicciuolo, ch'era sulla paglia, si fu accorto di me. Volto alla moglie, disse:

Donna, che vuol dir questo?

L'è una bimba della Nunziata, disse la donna, ch'io aveva tolta per un voto fatto a Maria Nunziata, ed anche per mia compagnia e per mio aiuto, quando la sarà fatta grandicella.

Ah maladetta sia tu e la mamma che ti portò nel ventre, gridò quegli in capo alla donna. Or non sapevi tu che noi non s'ha da vivere noi, che tu mi porti i figliuoli d'altrui da nutrire? Va all'inferno, brutta guercia di stregaccia, che da ch'io son teco, non m'ebbi altro bene da te se non che tu non mi partoristi alcun figliuolo, così ammalazzata e incancherita come tu sei; e tu mi cacci i putti della Nunziata in casa?...

Poscia, datile due grandi sgrugnoni, bravando e minacciando, soggiunse:

Or fa ch'io non la trovi a casa stasera.

E tirati i buoi per la cavezza, ne andò nella sua malora.

La donna, com'è il costume di questi selvaggi, si vendicò sopra me, più debole di lei, de' due sgrugnoni [44] ch'ella aveva avuti dal più forte. Questa è la scala mirabile dei compensi che regna nell'ordine universale. M'afferrò, mi percosse, mi calpestò, gridando con fiera voce che per causa mia ne aveva toccate dal marito. Di poi, imbastato l'asino, mi vi legò sopra alla peggio: e tiratolo fuori, e chiuso l'usciolino, si sedette sul basto, e s'incamminò per la via onde, dieci mesi prima o circa, eravamo venuti.

VIII.

Io non vi racconterò tutto quello ch'io soffersi durante il viaggio, e nella visita che s'ebbe al Ponte, che fu anche più rigorosa della prima. Allo Sperone ci apparve il cane, il quale in sull'alba era andato via col padrone. Io non so come si facesse quella povera bestia a sapere che noi si partiva, nè a fuggirsene dal padrone per raggiungerci. Ma mi rammento che quando io lo vidi, tutto ansante, con la bocca aperta, con la lingua di fuori, venire verso noi come per dimandar ragione alla strega del dove ella strascinava l'infelice creatura ch'egli aveva preso a proteggere, io provai un sentimento di gratitudine e di affezione così vivo e così doloroso a un tempo, che anche ora mi torna nella fantasia come uno dei più strani fantasmi della mia vita.

Entrati nella città, pervenimmo in fine alla casa della Nunziata, sotto quella medesima immagine della Vergine di questo nome, dove la donna aveva lasciato l'asino quando venne la prima volta per prendermi. Anche ora fermò quivi l'asino, e smontatone, mi sciolse con [45] più garbo del solito, o che la certezza di non vedermi più ammollisse un poco l'animo benchè salvatico, o che la trattenesse l'aspetto della gente ch'era sulla via, e di certi vecchi custodi, che siedono sempre in cerchio presso alla porta della Casa, e guardano, con ammirabile impassibilità, il continuo ritorno della scena che leggerete.

Nella muraglia ch'è fra l'immagine e la porta, ha una buca d'un mezzo braccio di diametro, io credo. A questa dalla parte di dentro è aggiustata una di queste ruote di ferro che s'usano ne' conventi, la quale cede leggermente a qualunque spinta le sia data di fuori, ed agevolmente si gira. Dalla parte di fuori, sopra questa buca è una lapida di marmo con questa scritta mezzo barbara:

O PADRE E MADRE CHE QUI NE GETTATE
ALLE VOSTRE LIMOSINE SIAMO RACCOMANDATE.

È legge antica di quell'ospizio che non possa essere rifiutato un fanciullo, qualunque siesi l'età sua, purchè quella buca non sia incapace al suo corpicciuolo. Questa legge, come voi intendete, ha messo a repentaglio la vita di molti bambini. Ed allora messe in pericolo la mia. Perchè la donna, pentitissima del fatto suo ed avidissima di levarmisi dinanzi, girata con la sinistra mano la ruota e con la destra tenendomi forte per la vita, mi cominciò a ficcare il capo e poi le spalle dentro della buca e spingeva forte: ma quella non era capace.

Quando il cane si fu accorto che mi perdeva per sempre, divenne furioso. Si scagliò addosso alla donna, mordendola rabbiosamente e cercando ogni via di strapparmele [46] di mano. Ma più il cane mordeva, e più la donna raddoppiava le spinte per cacciarmi dentro. Ecco tutta la plebaglia ch'era in sulla via, gridare verso il cane che mordeva la cristiana, ed assalirlo con una pioggia di sassi e di bastonate. Io udii il cane lamentarsi miserabilmente, e parvemi che allora allora rendesse lo spirito. La donna, liberata dal cane, mi diede una terribile spinta, per la quale mi sentii stringere la gola e stillare il cervello. La ruota si rivolse in un attimo, ed io mi trovai agonizzante sulle ginocchia d'una religiosa.

IX.

Ritornatomi nella mente l'ordine de' miei pensieri, sospeso dalla pressione ch'io aveva sofferta al cervello, diedi le più amare lacrime al cane, perchè udii, o mi parve almeno, che il popolo sulla via, strascinandolo, gridasse sollazzevolmente: È morto. Dal dì ch'egli mi aveva posto amore, io aveva provato per la prima volta della mia vita il dolcissimo sentimento della compagnia. Poichè una creatura vivente, un abitatore, come me, di questa lacrimevole valle, mi amava, prendeva cura di ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla propria sua conservazione, io non poteva chiamarmi più nè sola nè infelice nell'universo.

Tav. II.
... prendeva cura d'ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla propria sua conservazione... — Carte 46.

Quando sentii d'averlo perduto, il sentimento spaventevole della solitudine m'occupò tutto il cuore, e mi lasciò di ghiaccio. La vista di quei chiusi e tetri corridoi, dove ignara di tutto l'essere mio e di me [47] stessa, io aveva bevuto il primo sorso alla tazza amara della vita, la memoria dell'inedia, del freddo e delle prime lacrime, onde mi era stato rivelato il mio essere, e quel non so che di profondamente lugubre, ch'è sempre proprio di tutte le grandi comunità, mi gettarono nella più disperata tristezza. Allora non mi tornava più alla mente lo strame, o il tugurio, o l'umidità, o il buio, o le spietate percosse di quella strega, ma le ore tepide e serene del pino, e l'aura odorata e fresca, e l'ineffabile dolcezza de' miei sonni meridiani. O padre, come presto impara l'uomo a fabbricare la propria infelicità!

La monaca che mi aveva raccolta dalla buca, mi condusse per mano adagio adagio per molti corridoi, dove io camminava quasi brancolando, sentendomi ad ogni passo mancare. Giungemmo finalmente a un corridoio largo assai e di sterminata lunghezza, che udii chiamare, la sala grande. Oh Dio pietoso! qual aria, o più tosto quale peste, si respirava là dentro. Ogni volta che la necessità della natura mi costringeva ad inghiottire di quell'aria, io sentiva scendermi per la gola e per il petto non so che di acre e di velenoso, che mi parea ch'andasse dritto al cuore per uccidermi; e sentivo come approssimarsi la morte, e mi gocciolava dalla fronte un sudore gelato. Ma a poco a poco il senso vi si ausò. Riavutami appena, volsi gli occhi intorno, e vidi da ambo i lati non so quante centinaia di meschini e squallidi letticciuoli, coperti tutti d'un pannicello giallo di canape grossa. Sopra ognuno di questi era una donna con tre bambini, brutti per lo più e malaticci, perchè i belli li prende quasi tutti la gente di fuori, chi per divozione, chi per l'utile fine della donna di Sant'Anastasia e chi per altro. Le donne [48] rotolavano i bambini su pe' lettucci o su per le spalle e le cosce loro, a guisa di pallottole: e le più, in luogo di farli poppare, inforcavano loro la bocca con le dita per non udirli piangere. Assai altre donne giravano per la sala, con bambini un poco più grandicelli; chi ne strascinava due, chi tre per la mano, di così mala grazia, che ancora mi fa sdegno a pensarlo. Qualcuna si portava un bimbo in braccio, e lo baciava con tenerezza materna; perchè non è nuovo il caso che qualche infelice donzella, dopo avere nascosto in quella buca il tenero frutto d'alcun suo errore, corra poscia, spinta dalla miseria o dall'amore infinito di madre, a presentarsi alla Casa come nutrice, e conscia ella sola del suo mistero, porga al fanciullino quel latte medesimo che già la natura gli aveva destinato. Oh! forse quel fanciullino sente su quel seno una pace, che mai nel seno di nessun'altra donna non avrebbe sentita!

X.

Nell'ultimo fondo di questa immensa sala era un letto meno iniquo degli altri. Presso a quello sedeva una monaca di aspetto più tosto dignitoso e grave: ma le traspariva non so che di acerbo e di crudele dagli occhi. A costei, che udii chiamare la monaca di guardia, mi consegnò l'altra monaca di meno austera presenza, che mi aveva raccolta d'in sulla ruota.

Era cosa troppo naturale, che nel mio viso fossero scolpiti i segni degli orrendi e lunghi patimenti dai quali venivo, e delle angosce mortali che avevano accompagnata la mia entrata nella buca. La monaca di [49] guardia mi considerò un momento con un volto arido, che faceva fede della lunga familiarità ch'ella aveva con simile sorta di scene. Poscia disse, in un modo freddissimo e come si fa della cosa più indifferente del mondo:

Questa bimba ha patito assai. Andiamo a farla marchiare.

Così dicendo, mi menò per corridoi altri molti, meno grandi, dove io vidi le cose stesse che avevo viste nel grandissimo, se non che lo squallore ed il puzzo sempre crescevano. Riuscimmo ad una sala, in fondo alla quale un sacerdote di larga e panciuta corporatura ed alquanto losco degli occhi, era seduto sopra una sedia d'appoggio; e gli era dinanzi una gran tavola. Accanto a lui da un lato della tavola si vedeva in piedi un uomo secco ed alto con immensi occhiali; ed avea la destra ferma al manico di una specie di torchio da bollare, ch'era sulla detta tavola. Con la sinistra reggeva una stringa di seta, e pendeva dallo sguardo del sacerdote. Dall'altro lato della tavola era seduto un giovane di capello rossiccio. Questi aveva innanzi un leggío con un gran libro aperto. Col braccio appoggiato sul libro, e con la penna in mano, pendeva anch'egli dallo sguardo del prete. Intorno erano molte monache ed altre donne con molti bambini in braccio. Per cenni del prete ognuna di quelle donne accostava successivamente un bambino al torchio, quell'uomo gli avvolgeva la stringa al collo, che a un tratto parea che volesse impiccarlo per la gola: tagliava la stringa a giusta misura del collo, ne chiudeva i due capi in due pezzetti di piombo, e messo il piombo fra i due bolli del torchio, dava una stretta al torchio per cui il bambino faceva una strana contorsione, pronunziando [50] ad alta voce una lettera ed un numero; il giovane rossiccio scriveva nel libro, ed eccoti il bambino, com'essi dicevano, marchiato.

XI.

È inutile ch'io dica che convenne che anch'io soggiacessi al cimento del torchio. Io v'era già soggiaciuta il dì, credo, del mio nascimento, quando fui la prima volta gittata nella buca. E quando la donna di Sant'Anastasia mi tolse, mi pendeva dal collo la marca degli esposti. Ma il cane fra le sue carezze, o ch'egli stimasse, e non errava, che quella stringa mi dovesse far male, o per un suo instinto di natura, me la venne adagino adagino frangendo coi denti, e finalmente me la portò via. Per questo la donna non aveva potuto riconsegnarmi senza più alla porta, e l'era stato mestieri di passarmi nuovamente per il buco.

Mentre quell'uomo mi avvolgeva la stringa al collo, una di quelle donne si accostò alla mia monaca, che m'era dappresso, e mostrandole un piccolissimo bambino che le boccheggiava sulle braccia, disse:

La guardi, suora Amalia. Eran due gemelli. L'uno è morto stanotte in ruota (e voleva dire, prima che, sorta l'aurora, fosse dalla sala terrena, in cui mette la buca, portato nei corridoi superiori); l'altro, ch'è questo, ora sta morendo.

E tutto questo diceva con una cera, se non lieta, certo poco lontana dalla letizia!

Io levai gli occhi, e vidi un piccolo mostro, il cui aspetto mi fece tanto male alla fantasia, e tante volte, in tutto il tempo della mia vita, mi tornò quell'immagine come a guizzare innanzi agli occhi, ch'io poscia [51] ho sempre compreso con quanta ragione si proibisca alle donne universalmente, e in particolare alle incinte, di guardare qualunque animale sia generato con membra fuor dell'uso della natura.

Poscia ch'io fui marchiata, la monaca mi condusse a baciar la mano al padre rettore, che così chiamavano il sacerdote che ho dianzi descritto. Questi, quand'io gli ebbi baciata la mano, me l'aggiustò sulla mia povera testina, che mi doleva quanto è mai possibile, e stringendomela forte, e poi dandomi due o tre amorosi scappellotti, che, nello stato in cui ero, mi parvero tre colpi di mazzuola, mi disse:

Brava la mia bambina, brava. Pensate a farvi onore e ad amare Iddio.

Poi rivoltosi alla monaca:

Suora Amalia, disse, fatela confessare assai spesso.

E turbandosi nel volto come di cosa gravissima e quasi irrimediabile:

Buon Dio! soggiunse, buon Dio!... quanto tempo sarà che la non si confessa! Io credo al certo che la sarà ben entrata nel peccato mortale. Fatela subito subito confessare, suora Amalia. Ve lo raccomando tanto tanto. Che facciamo, eh! senza l'essenziale?...

Suora Amalia lo confortò, promettendogli la pronta mia confessione; e mi condusse via da quella sala.

Padre mio, io ho stimato sempre la confessione una cosa utile e santa: almeno di grandissima medicina all'anima inferma del credente che si confessa, quando egli si abbatta a un angelo di consolazione, quale voi siete. Ma io aveva sei anni appena; ed aveva tratto la vita che avete letta. Qual mai peccato avevo potuto commettere? Che potevo intendere di confessione? E qual commercio poteva mai essere fra me ed il cielo, [52] entrandone mediatore un uomo? Bene fra il mio cuore ed il divino Verbo fu sempre, e in quella età e prima e dopo, un commercio. Ma questo era di tanto spirituale e divina natura, e si allontanava tanto da ogni altro sentimento umano, che sarebbe stato impossibile che v'entrasse di mezzo un altro uomo, e che ad altri fosse in modo alcuno umano o con umane parole significato.

La religiosa, in fatti, per altri corridoi mi condusse in una cappellina, dove molte bambine e donzelle s'andavano a inginocchiare all'inginocchiatoio d'un confessionale, e si confessavano. Alla mia volta mi confessai anch'io; cioè, furono pronunziate fra me ed una cupa voce, che per un finestrello fatto a foggia di gelosia moveva da un uomo che io non vedeva, alcune inintelligibili parole, fra le quali distinsi solo non so che di colpe dei genitori punite nei figliuoli. Dopo le quali, levatami dall'inginocchiatoio, venni dal lato d'avanti, e baciata la mano al confessore, senz'alzargli, come mi aveva ammonito la monaca, gli occhi sul viso, novamente fui condotta da colei nella sala grande.

XII.

Poscia che fummo nella sala grande, suora Amalia mi condusse ad uno di quei letticciuoli, sul quale era laidamente sdraiata una di quelle donnacce con tre bambini al petto, e le disse:

Caterina, questa bimba è consegnata a voi. Prendetene cura.

E lasciatami presso al letticello, ne andò al suo posto in fondo al corridoio.

In tal modo io rimasi quinta dormitrice o più tosto [53] abitatrice di quel lettuccio, perchè altrove non mi era presso che mai conceduto di tramutarmi: e quando la nutrice andava al refettorio delle balie o altrove, mi ammoniva con terribili minacce ch'io non mi movessi di dove ero. A mezzodì e la sera la donna mi dava un piccolo piattello dove era una poca di pappa di pane bruno cotto nell'acqua pura; e la sera alle ventiquattro un piattellino ancora più piccino della medesima vivanda. Quello era il mio pranzo e questo la mia cena. Ebbi una sorta di cencio di tela di canape grossa turchiniccia; ed era il mio vestimento. Passavo i lunghi giorni senza far nulla; e la notte non potevo dormire, perchè proprio non v'era posto per me sopra il lettuccio; nè fu una sola quella notte che o da me stessa, per essere in sull'estrema sponda, o per un qualche calcio della balia, io cadeva per terra, e mi era assai meno penoso di rimanermi sola colà, che di rimontare sul letto, dove non sarei potuta entrare, e, potendo, mi sarei esposta a un nuovo calcio.

Giorno e notte si udiva rimbombare nelle immense volte della sala una specie di rauco muggito, che ad ora ad ora cresceva tanto, che pareva che le volte allora allora si aprissero e dessero la via al fragorio ed al tuono d'una gran tempesta. Queste eran le balie che cullavano i bambini, dimenando con tanta furia le culle in su gli arcioni, che alla fine quei miserelli, storcendo gli occhi e tutti allividendo nel viso, erano compresi d'una sorta di apoplessia al cervello, che le balie interpretavano per sonno. Nè contente a ciò, finchè gli occhi di quei meschini non si fossero interamente chiusi a quel violento letargo, intonavano, o più tosto intronavano loro negli orecchi una maniera di goffissima canzona a canto fermo, che, per somiglianza forse delle [54] nenie sepolcrali degli antichi, chiamano chi nanna e chi nonna; ed accrescevano lo spaventoso tumulto.

L'aspetto della continua mortalità che regna in quelle sale percoteva incredibilmente la mia infantile immaginativa. Troppo lungamente bisogna vivere all'uomo, perch'egli si avvezzi allo stupendo fenomeno di vedersi disteso dinanzi il suo simile, che poco prima viveva e ragionava con lui, e un momento di poi più non si muove e non risponde; e pure nulla in lui è cangiato! Io udiva dire dalle balie e dall'altra gente del luogo, che tremila bambini in circa sono gittati nella buca in un anno; e nell'ospizio intero non sono mai più di settecento i viventi fra grandi e piccoli. Immaginate, o padre, quanti bambini mi dovevano ora agonizzare, ora morire accanto: e quanti piccoli cadaveri, e talvolta anche grandicelli, dovevano di giorno e di notte passarmi dinanzi; di giorno, a una luce così fosca e sinistra, che quasi non pareva più quella del sole; e di notte, a quella anche più sinistra delle poche lampade che a grandi distanze illuminavano malinconicamente quella sala.

Laonde mi sovviene che, non potendo nè notte nè giorno riposare, per lo stridore delle balie e lo spavento della morte, che pareva non restasse mai di girare intorno intorno con la sua falce, morendo del freddo in quel gran vano di quella sala, avendo i nervi turbati dalla vigilia, dall'inedia e dall'aria pestilenziale che quivi si respirava, nè potendo, in alcuna operazione o materiale o mentale, spendere quella virtù attiva che il Creatore ha posto in tutto l'essere nostro per la propria nostra conservazione e che, quando non abbia dove rivolgersi, si rivolge contro a noi stessi e ci uccide, mi sovviene ch'io fui assalita da una smania. [55] da un fastidio di me stessa, da un tedio così intenso della luce, del sentire e di qualunque cosa, in fine, rappresenta la vita, che le mie parole non possono mai bastare ad esprimere. Stetti sei mesi come una piccola energumena; troncandomi spesso a brano a brano le carni: e più d'una volta le balie giudicarono, nelle loro grossolane menti, ch'io avessi addosso il mal della rabbia, e andavano considerando come ciò fosse potuto essere, e se convenisse, per loro salute, di soffocarmi così di nascoso. E solo il vedermi non abborrire, anzi ardentissimamente desiderare, un boccaletto di acqua fresca, le ratteneva dal recare ad atto la loro crudeltà. Alla fine perdetti le forze, e mi avvezzai alla necessità di quella vita, come il galeotto si avvezza al remo ed alla catena, e gl'Italiani chiusi nel carcere detto durissimo, alle tenebre, al digiuno perfetto di pane e d'acqua, ad avere mani piedi e stomaco sempre stretti fra grossi cerchi di ferro e ad essere regolarmente flagellati[1].

XIII.

Così valicai due altri anni, dei venticinque ove mi sono strascinata. Venticinque anni! Se ora mi rivolgo un istante a considerarli, paiono un lampo, com'è un lampo il pensiero che li percorre. Oh Dio! ma a passarli fu un'eternità di dolore!

Un giorno, in sull'aurora, io fui bruscamente destata da una monaca, la quale mi disse ch'io mi fossi [56] presto vestita e condotta nel parlatorio, che v'era gente di fuori che mi voleva. E volte le spalle, andò via. Io non sapeva immaginarmi qual ente umano fuori la Casa della Madonna potesse volermi. Più volentieri avrei creduto che mi volesse un cane, s'io non avessi con questi orecchi udito agonizzare e morire quel mio primo e solo amico; che certo, s'egli fosse vissuto, ben mille volte sarebbe tornato a quell'ospizio a domandarmi; ma gli uomini lo avrebbero cacciato col bastone.

A un tratto mi balenò al pensiero la strega di Sant'Anastasia, e ch'ella non fosse tornata per me, ora ch'era meno impossibile ch'io resistessi alle fatiche alle quali ella mi destinava. E fu un momento ancora, in cui la mia mente delirò fra i sogni di arcani genitori, d'una tenera madre che venisse una volta a svelarmi il suo seno materno ed a farmene uno scudo contro le atrocità degli uomini. E già cacciandomi indosso la vesticciuola, e correndo al parlatorio, mi rompeva dagli occhi un torrente di calde lacrime di speranza e di gratitudine...

Quando giunsi al parlatorio, vidi la monaca che s'intratteneva con tre figure, che, appena io comparvi, mi cacciarono gli occhi addosso molto curiosamente. Erano due uomini, e una donna. La donna era vestita d'un abito di romagnuolo ovvero pelone bruno, accollato; era calzata di calze e di scarpe assai ruvide; aveva un fazzoletto bianco, sudicio, al collo; ed in testa una pezzuola di cotone bianco ripiegata ad angolo, della quale due becchi le si annodavano sotto il mento in tal modo che buona parte del viso n'era coperta, e gli altri due combacianti l'uno con l'altro le penzolavano dall'occipizio. Costei era goffamente appoggiata al braccio d'un giovane macro e lungo. Questi aveva la testa [57] incredibilmente piccola, con un viso bronzino, con un nasuccio e due occhiolini in fronte, nei quali si leggevano in istrano accordo l'effeminatezza, la ferocia e la codardia. Era tutto vestito a nero, benchè non portasse bruno, ed avea la cravatta e i guanti bianchi, e di sopra la giubba aveva un vestone così lungo che quasi toccava la terra, con un cappellino puntuto in mano ed un bastone così grosso e lungo che appena lo bastava a reggere, ed era assai ridicolo a riguardare. Dietro a questa coppia un poco, era in atto fra brusco e rimesso un altro uomo, dal cui volto veniva fuori il più lungo naso ch'io abbia mai veduto. Aveva indosso un vestone del panno medesimo onde era l'abito della donna, un paio di stivalacci ai piedi, un grosso bastone in mano, e per gagliofferia aveva tuttavia il cappello in testa. Volendo parere di tutto fare, non faceva nulla, e pendeva dagli sguardi della donna e del suo bracciere.

Veramente bellina! esclamò la donna appena mi vide. Di questa età la volevo, e di questa bellezza. Quanto è carina?

E prendendomi per la mano e carezzandomi:

Povera bambina mia! Vieni, vieni alla mamma tua.

Diceva con grandi apparenze di tenerezza. E volta al bracciere:

Che ne dite, don Gaetano, può essere più aggraziata?

Perfettamente, rispose don Gaetano. Non può essere più aggraziata.

Perfettamente, ripetette quell'altro di dietro.

Allora la donna volta alla religiosa:

Zia mia, le disse, io me la voglio condurre meco or ora. E voglio che sia sempre mia, povera la mia bimba! poverina!

[58]

Ed afferrando le cesoie che pendevano dal cinto della monaca:

Permettete, le disse, tagliandomi il nastro ov'era impiombato il marchio che mi pendeva alla gola; e, fattasi a un finestrone ingraticolato di ferro, lo gittò sulla via per un vano della grata, aggiungendo:

Voglio togliermi ogni futura tentazione.

Di poi la monaca, ammonito don Gaetano e l'altr'uomo di rimanersi nel parlatorio, seguíta dalla sola donna, che già mi menava per mano come cosa sua, ci condusse di qua e di là nell'ospizio, baciando la mano a questa e a quella monaca, ed al padre rettore, ed a non so quale principe o duca o marchese, appo il quale era la somma delle cose; e finalmente ci condusse in una stanza remota, dove, in uno degl'infiniti volumi in foglio ch'erano in tanti scaffali intorno intorno alla stanza, fu scritto il dì e l'ora della mia consegna alla signora donna Maria Antonia Volpe, nata Fiore, moglie legittima di don Gennaro Volpe, capocuoco nella cucina del principe di san Marcello. Di poi ritornammo al parlatorio: ed avendo donna Maria Antonia, don Gaetano e don Gennaro preso amorevolmente commiato dalla religiosa, me ne menarono via con loro.

XIV.

La vista delle tre figure incognite dianzi descritte, la certezza che non si trattava di madre veruna che il grido della natura spingesse a soccorrere la sua figliuola, e la certezza, ancora più crudele, di mutare la terza volta il mio stato, del che nulla v'ha al mondo di più malinconico, mi ghiacciarono su gli occhi le calde lacrime ch'io versava quando entrai nel parlatorio. Non [59] v'ha luogo sulla terra sì tetro, sì abbominevole, al quale l'uomo non s'avvezzi alla fine in tal modo, che lo staccarsene non gli sia causa di lutto. E però quegli uomini, ai quali Iddio ha commesse le sorti delle sue creature, non le traggano dallo stato in cui le misere si trovano, senza avere in animo di migliorarlo; perchè questo è come strappare una scheggia di dardo, che fosse incarnita in un lato del corpo e più non dolesse, e, ficcandola nella carne viva dell'altro lato, aprirvi una nuova piaga che sanguinerà gran tempo.

Quando la donna prese la mia mano con la sua per condurmi via, mi parve che quella mano di gelo m'afferrasse anche il cuore e me lo stringesse a tutta forza. Padre mio, che momenti! Quale supplizio, quale agonia, quale morte può somigliare quei momenti, in cui una misera fanciulla, che compie appena i sette anni, si vede strappare da quelle sembianze che se non le furono amorevoli, almeno l'erano usate e note, e da gente brutta ed ignota strascinare in brutti ed ignoti luoghi. Io non sapeva ancora che mai fosse la morte, e pure, come ardentemente, come sinceramente desiderai di morire!

Usciti che fummo dalla porta dell'ospizio, pigliammo la via a mano manca, ed io rividi per la terza volta della mia vita l'immagine della santissima Annunziata. Oh come mi occorse soccorrevole la sua presenza ch'io adorava in quell'immagine! Avevo udito sempre dire ch'ella pregava in cielo per gl'innocenti che mancavano d'ogni soccorso. Pensai ch'ella era la sola mia madre, quando quella che mi portò nel suo seno mi aveva gittata via da se come si gitta un verme velenoso: e che anche da lei ora mi portavano via. Tutti questi pensieri affollatimisi in un istante alla mente, mi ruppero [60] di nuovo ogn'intoppo alle lacrime, ed io cominciai a piangere amaramente senza nessuna speranza di conforto: ma mi sforzavo di nascondere il pianto, perchè ero già pervenuta a comprendere quanto gli uomini s'infastidiscano e furiosamente si sdegnino del pianto degl'infelici. E coprendomi gli occhi col dorso della mano, e inghiottendo le infinite lacrime che quindi mi sgorgavano, guardando per l'apertura delle dita quell'immagine:

Madre mia, esclamai nel mio infantile pensiero, unica madre che mi avanzi, tu pure mi scacci da te!... E se non mi scacci, come consenti che altri mi strappi dalle tue braccia... O v'ha una forza nel cielo, a cui tu stessa sei impotente a resistere?... Tu mi raccogliesti dalla morte, alla quale, senza te, mi destinava forse colei che mi concepì nel suo seno. Tu mi salvasti dalla scellerata megera di Sant'Anastasia. Ora perchè mi rimandi a nuovi supplizi? Viemmi almeno in sogno, e dimmi quale colpa io mi portai con me dal nascimento, e dimmi con quali penitenze potrò giungere un dì ad espiarla, sì ch'io cessi d'essere tanto infelice. Madre mia adorata, se tu sei o giungi invisibile per tutto, non ti scompagnare da me. Séguimi nella nuova via di dolore alla quale tu stessa ora mi abbandoni.

E qui gli occhi mi si offuscavano in modo ch'io non vedeva più nulla, e mutavo ciecamente i passi senza vedere ove mettessi il piede, ch'io non osava di fermare, per la paura, che m'era divenuto instinto, di non fare motto alcuno da me e che non mi fosse comandato.

Parve che donna Maria Antonia avesse lasciata nel parlatorio tutta l'amorevolezza che l'era nata nel cuore per me al primo vedermi. Appena fu ella uscita dall'ospizio, la sua cera si compose naturalmente al brusco [61] ed al crudele. Vidi che aveva il bianco degli occhi sparso d'un giallo insanguinato, segno quasi certo di animo feroce; il naso un cotal poco tronco, ed il mento sporto in fuori più assai che non si avviene a femminile sembianza. Era tutta butterata, e dal suo volto tutto insieme spirava non so che di assai sinistro.

Svoltammo per la via della Maddalena, e continuammo per la via Capuana: giungemmo alla piazza di santa Caterina detta a Formello; indi pigliammo la gran via o piazza, che prende il nome dalla famosa chiesa di San Giovanni a Carbonara, e percorsa presso che tutta la via, pervenimmo ad una casa rimpetto la chiesa. Innanzi all'uscio di questa casa si fermò donna Maria Antonia e don Gaetano. Don Gennaro era insino colà venuto sempre dietro, come un fante della sua stessa moglie: anche perchè si andava di tanto in tanto fermando a fare il mercato ora di qualche rimasuglio di pesciuoli che vedeva dinanzi ad alcun pescatore, ora d'uno scampolino di frutte vizze che un fruttaiuolo gli offeriva a prezzo vilissimo. Ma quando fummo giunti all'uscio della casa, don Gennaro ci entrò innanzi, e salendo il primo per le scale, ch'erano buie, intrigate e strettissime, ci fece trovare aperto l'uscio di scala quando noi fummo saliti.

Io montai quasi carpone le scale, strascinata per una mano dalla donna, che conoscendone il laberinto, saliva franca e spedita; mentre io poverina, dando di capo ora in questo ora in quel muro, fui costretta ad aiutarmi a tentoni non solo coi piedi ma ancora con la sola mano che mi rimaneva libera. Arrivammo finalmente a un settimo piano, ed io tutta trafelata, già quasi veniva meno dalla fatica.

[62]

XV.

La casa di don Gennaro Volpe, capocuoco del principe di San Marcello, era composta di due stanze e d'una cucinuzza. La prima delle due stanze, ch'era quella ove s'entrava dall'uscio di scala, era mediocremente grandicella; e v'erano tre rozzi letti, uno più tosto larghetto, gli altri due piccini. Da questa si passava nella seconda stanza, che era assai bene angusta. Quivi era un letto di sterminata grandezza, ch'era il talamo di donna Mariantonia; e accantogli era un lettino piccoletto. Appresso veniva la cucina, ch'era strettissima, tutta ingombera di ruvidi vasi di terra da riporre acqua, col pozzo, col lavatoio, con l'acquaio e col focolare, ed accanto al focolare un puzzolentissimo cesso, secondo il savio costume di questa città. Quivi vicino al cesso era un piccolo pagliericcio per terra, la cui federa, ch'era d'accia grossissima, serbava ancora i segni d'essere stata un dì sottana di donna Mariantonia.

Costei, rivoltami per la prima volta la parola da che s'era partiti dall'ospizio, disse:

Ecco Ginevrina, quivi dormirai tu; e m'additò il sacconcello. Ora viemmi a spazzare le stanze.

Così dicendo rientrò nella sua stanza, dove don Gennaro si accommiatò da lei e da don Gaetano; perchè, com'egli diceva, era ben tardi, e gli conveniva andare in mercato a provvedere da desinare al suo padrone.

Donna Mariantonia restò sola in istanza con don Gaetano, ed io mi accorsi che fra don Gaetano e lei era la più perfetta dimestichezza. Ma, bench'io fossi bambina, il mio stupore fu grande, quando vidi che don Gaetano spogliandosi [63] il suo vestone e la giubba ed altri suoi arnesi, si sdraiò sul lettuccio accosto al letto nuziale, e che compresi ch'egli dormiva quivi.

Adunque, padre mio, don Gennaro era un cuoco; donna Mariantonia era sua moglie, chiamata da' suoi vicini, la coca; don Gaetano era uno studente di Catanzaro venuto con la pensione paterna di sei ducati il mese a studiare a Napoli in diritto a fine di tirarsi su per procuratore, e stava a dozzina in casa il cuoco, anzi nella propria stanza dove quegli dormiva con la moglie, a pochissimo prezzo, per il gran bene che donna Mariantonia gli voleva in grazia delle sue buone qualità. Donna Mariantonia faceva exprofesso il mestiere di tenere a dozzina studenti; e sette altri studenti, che a quell'ora erano fuori a studio, abitavano nella prima stanza, dormendo, com'è il costume di simile condizione di gente, tre nel letto più grande, e due in ognuno de' due letticciuoli piccini.

Donna Mariantonia e don Gennaro, per non ispendere danari in una fante che servisse tanta gente, avevano divisato di prendersi una fanciulla della Madonna e adoperarla ai più faticosi e vili servigi della casa; avevano desiderato che la fanciulla fosse di età tenera per poterla meglio educare alla loro sferza; ed era stato consentimento di destino che la scelta cadesse sopra di me.

Ora eccomi divenuta serva di otto studenti, d'un cuoco e d'una bagascia di sua moglie, che avendo in sul sangue dei miserabili messo da parte alcun danaruzzo, voleva fare la pulita. Qui termina la mia infanzia, e comincia la mia adolescenza, e un nuovo ordine, forse assai più orrendo che il primo, di stenti e di sventure.

Presa la granata, io non sapeva da qual camera cominciarmi [64] a spazzare, nè verso qual parte ammonticellare l'immondezza; onde, per chiarirmene, dissi:

Ditemi, donna Mariantò...

A questa sillaba la donna mi si caccia addosso come una furia, e dandomi un rovinoso ceffone:

Che cos'è, mi disse, questa donna Mariantonia... brutta bestia di bastardaccia... Così si parla alla padrona, eh? O credi tu ch'io sia qualche lazzara o figliuola di lazzara, quale sei tu, che tu mi chiami per nome?...

E vedendomi così brancolare un momento, dopo il ceffone:

To', guarda brutta sciancata! Sì davvero ch'io ho fatta la bella scelta!... brutta fetente...

E mi diede un secondo ceffone, dal quale mi convenne stramazzare.

Io feci un grande sforzo per rilevarmi, nè piansi, perchè non v'era più lacrime. Ma traendo un profondo sospiro dal petto già troppo presto stanco di soffrire:

Ora mi dica ella medesima come le ho a dire, risposi, ed io così le dirò.

Voltati! disse la donna alquanto più rimessa: padrona, signora... coteste le son cose che nè anche si domandano.

Io le diedi di signora; e così ebbi ordine di farmi dalla cucina, e continuando per le due camere, spazzassi ben bene anche le quattordici scale, e i quattordici pianerottoli, e la piccola corte giù all'uscio da via, e cacciassi e ammucchiassi l'immondizia sulla strada; acciocchè il signorino e i signorini (erano il cuoco e gli studenti), tornando a desinare, trovassero tutto netto e pulito.

Poscia ch'io ebbi eseguito l'ordine della signora, ella [65] mi disse che l'acqua che s'attingeva dal pozzo era troppo sudicia, che però era mestieri ch'io andassi per essa alla vicina fonte Capuana, accosto, come sapete, all'antico Castel Capuano. E mostrandomi due secchioni ch'erano presso al pozzo in cucina:

Togli quei due secchioni, mi disse, e vanne con essi alla fonte a empirli d'acqua; e tornando li verserai in quella prima conca; e così adagino adagino, riandando e ritornando, ne compirai tutt'e tre quelle conche; che non meno d'acqua ci bisogna qui per tanti che siamo. Io sono nata pulita e pulita voglio morire. Starei sempre nell'acqua come i pesci.

Ciascuna delle tre enormi conche o vasi di terra ch'ella mi aveva mostrati, conteneva, come ne feci l'esperienza, circa a sette di quei secchioni, di maniera che, come intendete, mi conveniva andare almeno dieci volte il dì alla fonte, e dieci volte rivenirne coi secchioni pieni e portarli entrambi al settimo piano. Mi avviai la prima volta, e forse perchè la Madonna mi prestò le forze, potetti i due secchioni voti fino alla fonte. Ma quando gli ebbi riempiti, io mi accorsi che a grandissima fatica ne potevo uno. Allora tutta smarrita e tolta di me, cominciai a percuotermi le guancie e la fronte ed a stracciarmi i capelli, considerando lo strazio che avrebbe fatto di me donna Mariantonia, s'io le fossi tornata con una sola secchia.

Erano di qua e di là dalla fonte sei grandi ricettacoli d'acqua, tre da una parte e tre dall'altra, lunghesso il parapetto dei quali erano assai donne a lavare. Io, percorse ch'io l'ebbi tutte con lo sguardo, tolsi di mira quella che mi parve aver cera più umana, ed accostatamele, le significai, piangendo, il caso mio, pregandola per se mai aveva qualche piccola figliuola, per l'amore [66] che portava a santa Caterina, la cui chiesa era colà rimpetto, di volermi aiutare per quella sola volta a portare una di quelle secchie fino a una casa presso alla chiesa di San Giovanni a Carbonara; che così mi avrebbe salvata dai più crudeli tormenti, ed il Signore gliene avrebbe riprovveduto in cielo.

Oh Dio! com'è feroce l'uomo! Questa donna, che pareva umanissima fra tutte le altre, mi si volse con un piglio così disumano, che a un tratto io temetti di peggio e m'arretrai:

To', non volevo far altro!, mi rispose. Odi malizia per non faticare.

E levando incredibilmente la voce, talchè trasse sopra di me gli sguardi di tutta la gente:

Fatica, fatica, mi gridava in capo quanto n'avea nella gola. Come fate presto ad assuefarvi a non volere far nulla. Grande scioperatucciaccia che tu déi essere.

In un istante fu un gran cerchio di minuta gente intorno a noi, corsa come a un caso gravissimo. S'io non mi morii dalla vergogna, certo non fu cosa naturale, ma ordinamento del cielo, che mi serbava a maggiori sciagure. Tutti, come sapete che si costuma qui in simili casi, ci vollero giudicare. Chi diede ragione alla donna e chi a me, bench'io non profferissi sillaba in mia difesa e stessi come una trasognata; ma nessuno s'offerì d'aiutarmi in quello scambio. Solo un farinaiólo, grasso e grosso, con una immensa pancia ed un enorme naso, accorso anch'egli d'una botteguccia ch'era colà presso, ebbe qualche pietà di me, e portando una delle due secchie nella sua botteghetta, tutta mi venne riconfortando, dicendo ch'io fossi andata pure felice con una sola, e, lasciata quella a casa, [67] fossi tornata per l'altra, ch'egli me l'avrebbe custodita sicuramente.

Così me n'andai con un secchione, che appena potevo con ambo le braccia, non senza essere spettacolo a molti lazzaroni sfaccendati per un gran tratto della via Carbonara.

Io non so come feci a reggere quel peso per le scale. Ad ogni scalino ero costretta di fermarmi, e prendere un poco di fiato per rimontare l'altro. Giunta al penultimo pianerottolo, vidi donna Mariantonia, che fattasi in capo della scala, cominciava a garrirmi della mia tardanza:

Credevo che ti fossi annegata nella fonte, brutta carogna...

Eterno Dio! Qual fulmine, quale Vesuvio scoppiò mai con tanta tempesta, con quanta si precipitò colei per la scala, tosto che s'avvide ch'io tornava con sola una secchia. Senza darmi il tempo di aprire solamente le labbra, ella mi assalì con tanti pugni alle tempie, con tanti calci sul petto e sullo stomaco e con sì nefande bestemmie, ch'io caddi per terra come morta.

XVI.

Quando mi risentii, mi trovai donna Mariantonia addosso che mi cacciava due sudici cenci bagnati nell'aceto, uno nelle nari e l'altro nella bocca; non che le importasse punto della vita mia, ma perchè, s'io fossi morta, non le sarebbe più avanzato nessuno, onde avere qualche novella del suo perduto secchione. Non ricuperai così bene la virtù de' sensi ch'io non mi rimanessi come stupefatta. Donna Mariantonia, fuori di se e balbettante dal dolore, e pure chiamando ad [68] ogni poco la secchia, così com'ell'era scinta e scapigliata, mi strascinò sulla via. Quivi ai pugni ed ai calci mischiava talora alcuna carezza, reprimendo con memorabile sforzo il suo furore, per il desiderio che la stringeva di recuperare l'arnese smarrito. Così ebbi io un attimo di tempo per dirle che l'avevo lasciato alla bottega del farinaiólo ch'era in sulla piazza di santa Caterina. Don Gaetano, intanto, fattosi alla finestra e vista la disperazione di colei che sola volgeva la chiave del suo cuore, anch'egli, a uso Catanzaro, scese in farsetto sulla via con un berrettino bianco a cocuzzolo in testa. E udito il caso e profferto il suo braccio a donna Mariantonia, che con l'altra mano mi teneva forte perch'io la menassi dov'io diceva, c'inviammo tutti verso la piazza di santa Caterina, non senza avere appresso un codazzo di lazzaroni accorsi ai tronchi gridi ed allo smarrito volto di donna Mariantonia.

Essendo già quasi il mezzodì, il buon farinaiólo era ito a desinare a un'osteria fuori la porta Capuana, ed aveva lasciata sua moglie a guardia della bottega e del secchione. Arrivati che fummo in sulla piazza, donna Mariantonia vide da se la botteguccia, e torreggiarvi entro l'immensa corporatura della padrona; e dietrole, fra molti sacchi di farina e bugnole di crusca, il suo amato secchione. Onde, studiato quanto potette il passo, cominciò, in atto fra brusco ed allegro, a domandare a colei il suo secchione.

Si sdegnò a simili modi l'altera venditrice di farina, e parendole che donna Mariantonia, quasi sospettando della sua interezza, avesse voluto farle scorno nella venerabile presenza degli onesti lazzaroni che ci seguitavano, quasi tutti amici o conoscenti antichi della [69] casa sua, se le levò incontro, e ripiegando le braccia, ed appoggiando il dorso delle mani nei fianchi:

E che credevi tu, le disse levando altissimo la voce, ch'io fossi una qualche mariola come tu sei, che sei sempre richiesta a corte per le masserizie che tu vai rubando a tuoi studenti? O credi tu di farmi paura con cotesto studente calabrese che t'è al fianco; che se lo vede il mio marito, te lo scortica vivo vivo...

E con mirabile agilità di lingua continuava a proverbiarli entrambi.

A me mariola... A me studente calabrese, santo diavolo... risposero, quasi a un tempo stesso, donna Mariantonia e don Gaetano. E il proverbiare la donna a vicenda, e l'azzuffarsi tutti tre insieme, e l'essere don Gaetano cacciato per terra senza berrettino e tutto lacero e rabbuffato, fu tutt'uno. Le donne, rimaste padrone del campo, si ghermirono come due uccelli di rapina. Si stracciarono i capelli a ciocche, si graffiarono i visi, si troncarono a furia di morsi le carni, ed entrambe al punto medesimo toltisi i pettini d'argento dal capo, si sforzavano scambievolmente, con ogni estrema prova, di ficcarsene gli aguzzi denti nella gola. Tutti gli sforzi dei lazzaroni ch'erano intorno, per separarle, furono indarno. Alla fine uno di costoro corse al corpo di guardia del commessariato di polizia del quartiere a chiamare il feroce, che sapete che così si domandano qui i birri e qualunque servente della famiglia. Giunse il feroce, ed è mirabile a pensare come in un subito il suo venerando aspetto sedò la battaglia. In meno che non lo dico, ci trovammo tutti nel cospetto del commessario sul commessariato, donna Mariantonia, la farinaióla, don Gaetano, un viluppo di lazzaroni stati testimoni del fatto seguito, la secchia ed io. [70] Il commessario non ebbe bisogno d'imporci silenzio; perchè fra tanta moltitudine non si udiva più uno zitto. Poscia ch'ebbe interrogato il feroce del fatto, disse una gran villania alle due donne, ma una grandissima a don Gaetano, aggravandolo, non so perchè, di tutta la colpa, e dandogli ripetutamente dello studente, come se gli avesse dato del ladro e del ruffiano. Di poi comandò che la Mariantonia, così la chiamava, avesse ripreso il suo secchione, e tutti si fossero tornati con Dio alle case loro: ma prima si fossero abbracciati e baciati nella sua presenza, per dimostrare di non aver più rancore veruno: altrimenti li avrebbe tutti ritenuti. Onde vi fu un grande abbracciarsi e un gran baciare, massime fra le due donne ancora tutte insanguinate; con un sordo fremito di tenerezza e d'approvazione dei presenti lazzaroni: ed usciti dal commessariato, e consegnatami la secchia a strascinare, ce ne tornammo tutti in santa pace alle nostre case.

XVII.

Pare che l'aspetto del commessario avesse intenerito di molto il cuore di donna Mariantonia, e mansuefatto i suoi costumi. Mentre si tornava a casa, ella non si vendicò sopra di me degli aspri colpi, di cui sentiva dolersi per tutta la persona; ma si contentò solamente di avvertirmi che da indi innanzi, poichè io non era buona da portare due de' secchioni in una volta, ne avrei portato un solo; ma sarei tornata non dieci ma sì venti volte il dì alla fontana, dieci la mattina e dieci la sera.

S'arrivò a casa, dove s'erano già ridotti gli altri sette signorini ovvero studenti; e facevano un grandissimo [71] baccano per le due stanze. Si tiravano sul muso l'un l'altro alcuni sudicissimi libri ch'erano presso che tutti per terra, e formavano la biblioteca di queste future speranze della patria. Si ghermivano per il naso, si strappavano le camice, si bisticciavano e proverbiavano insieme con le più villane vituperazioni; e se non ch'io vidi donna Mariantonia sorridere a quelle loro svenevolezze, io avrei creduto ch'eglino s'abbaruffassero da dovero.

Le figure di costoro non potranno mai più escirmi dalla memoria. Due di essi erano nipoti, l'uno cugino l'altro germano, di don Gaetano; e tanto gli somigliavano entrambi con quel loro filo di voce e quella loro cadenza calabrese, che li avresti creduti tutti e tre gemelli. Ma tirandosi su per architetti e non per dottori come don Gaetano, avevano barbe e mustacchi lunghissimi. Due erano di Bari, d'assai provetta gioventù, di piccola ma larghissima complessione, con grassissimi e sbiavati visi, dove non si vedeva il segno solo d'un peluzzo; e vestivano entrambi da abate. Gli altri tre erano tre fratelli Aquilani, dei quali il viso era interamente sepolto in una foltissima selva di peli. Costoro, con quei pochissimi danaruzzi al mese che potevano cavare dalla loro famiglia, vestivano così attillatamente, che al primo vederli, s'indovinava ch'erano provinciali.

Poco di poi il nostro arrivo, rimastisi un poco dal fare il chiasso, s'affollarono tutti intorno a donna Mariantonia e a don Gaetano, domandandoli della causa del loro esser ito fuori a quell'ora e in quel vestimento, e dei lividori che apparivano spessissimi sul viso e sulla fronte di entrambi.

Quando ebbero inteso il caso, mi considerarono un [72] istante. Poscia, applaudito all'egregio fatto di donna Mariantonia, ed avvertitala del loro indomito appetito di desinare, cavarono fuori chi sigaro e chi pipa, e fumando e pipando, cominciarono ad affumicare in tal modo tutta la casa, ch'io poverella, che non ero ancora fatta a quest'ultimo benefizio della civiltà moderna, ritrattami in cucina e gittatami sul pagliericcio, mi sentiva girare il capo e ad ogni momento venir meno.

Mentre, dopo una tanto travagliosa mattinata, mi giacevo così tra viva e morta sul pagliericcio, fui riscossa da donna Mariantonia, che mi disse:

Ginevrina, per istamane don Peppino, mostrandomi uno de' due abati, mi fa il piacere di accompagnarti egli proprio a prenderci il desinare al palazzo. Via, spacciati.

Per palazzo s'intendeva la cucina del palazzo San Marcello. Mi consegnò una maniera di portavivande, o, per meglio dire, una sorta di secchio o di vaso di latta con lungo manico, strascinando il quale io mi messi a seguitare don Peppino.

Il palazzo San Marcello era a Chiaia. L'abate, solo per l'acuta fame che lo pungeva, s'era indotto ad accompagnarmi, considerando che se no, Dio sa quando si sarebbe desinato. Onde studiava il passo in un modo non troppo credibile. Io, non potendogli tener dietro, lo perdevo ad ora ad ora di vista. Allora egli tornava indietro a furia, e dandomi qualche strappata pei capelli e chiamandomi figliuola di mala femmina, cercava di farmi, com'egli diceva, spoltronire.

Giunti alla cucina del principe di San Marcello, trovammo don Gennaro in farsetto, con un gran grembiule innanzi, e con un berretto bianco a cocuzzolo in testa. Io, a quel titolo di capocuoco, aveva immaginato dovergli [73] trovare intorno una gran mano di cuochi, a cui egli imperasse. Ma in vece non vidi nè anche un solo guattero, e vidi don Gennaro che ministrava tutto da se. Ora aggiungeva carboni nei fornelli, ora versava acqua bollente da un paiuolo in una pentola, ora lavava e governava d'ogni maniera orciuoli nappi e stoviglie. Costui, fatte sue amorevolezze a don Peppino, non mancò, appena mi vide, di comandarmi nei più vili ministeri della cucina. Ma poichè don Peppino gli faceva gran ressa, scoperse un gran numero di cazzarole, tegami, padelle, pentolini ed altri arnesi, e da tutti o tagliando col coltello o pigliando col cucchiaio, toglieva uno scampolino e lo poneva nel vaso ch'io aveva portato. E quando l'ebbe ben pieno, ci accommiatò con infinito giubilo di don Peppino, che fra gli odori di quei fumanti manicaretti, era già quasi divenuto deliro.

Tornati a casa, trovammo una sudicia mensa apparecchiata nella stanza degli studenti. Donna Mariantonia dichiarò che per quel primo giorno, atteso anche il trambusto seguíto, aveva avuta la pazienza di sostenere essa quella fatica: ma ch'io avvertissi bene per l'innanzi, che quella era cosa non da sua pari e che spettava di farla alla serva. La tovaglia era così ruvida e sporca, che faceva stomaco. Tovagliuoli o scodelle o tondini o bicchieri, non ve n'era punto. Solo in mezzo era un largo piatto ed un grosso orciuolo, entrambi di rozzissima creta. Intorno intorno erano le forchette e i cucchiai di ferro rugginoso. A un canto della mensa era il secchione pieno dell'acqua ch'io aveva attinta alla fontana; dal canto opposto era un gran fiasco di vino, che donna Mariantonia per quella sola mattina s'era degnata d'andare a comperare da se medesima al prossimo vinaio, o come noi diciamo, cantina, ai Gradini [74] de' Santi Apostoli. Agli altri due canti erano due grandissimi pani assai bruni, ed un altro simile era sur una seggiola allato al posto dove già sedeva donna Mariantonia.

Ecco s'andò a tavola. Io ebbi ordine di servire tutto ad un tempo, o per meglio dire, di riversare la vivanda dal portavivande nel piatto. Questa, come avete inteso, oltre alle salse ed ai condimenti che la rendevano odorosa e squisita, era una rarissima mescolanza di forse una quindicina di elementi diversi, quanti erano gli scamuzzoli che don Gennaro aveva pianamente ritagliati alle altrettante vivande preparate per il principe.

Erano, come già sapete, otto studenti, ai quali già da lunga pezza le mascelle sonavano; sì che donna Mariantonia fu nona fra cotanta fame. Oh s'io avessi uno stile che non resistesse di continuo al concetto della mente! se le mie parole potessero parlare mai altro che amarezza e dolore! come vi descriverei l'amore, la tenerezza che traboccò dagli occhi e da tutto il viso degli studenti, appena si videro innanzi quello strano pasticcio. Tutti gli occhi furono volti in un istante verso donna Mariantonia, che, tolta la forchetta ed inforcato il primo pezzo di carne, diede come il segno a tutta la mandria fortunata, che, ognuno stendendo la sua forchetta, ridussero, in meno assai che non lo dico, i due grandi pani e quella vivanda presso che all'ultima estremità. Allora donna Mariantonia, visto l'imminente pericolo, pure aiutandosi con la destra e coi denti quanto poteva, con la sinistra fece cenno che si fermassero alquanto, e mettendo fuori alcune sorde parole, rotte e smozzicate dal boccone che divorava, li ammonì di lasciare qualcosa, se volevano che la sera vi [75] fosse da cena. A questo gli studenti, lasciato, non senza qualche malinconia, l'estremo avanzo della vivanda, si gittarono sopra il terzo pane ch'era sulla seggiola, e sul fiasco del vino, che passò intorno intorno, di bocca in bocca, con ineffabile celerità. Poscia nettaronsi tutti leggiadramente il grifo alla tovaglia ch'era sulla tavola. Alla fine vollero rinfrescarsi con una poca d'acqua pura di fonte; e ciascuno togliendo a vicenda l'orciuolo, lo tuffava nella secchia con tutta la sudicia mano, che quivi lavava, e bevuto, lo passava a un altro che faceva il medesimo.

Così con infinita allegria si terminò il desinare, senza che nessuno avesse pensato a gittare un tozzo di pane a me, ch'ero digiuna dal giorno innanzi.

XVIII.

Poscia che il desinare fu finito, gli studenti ricominciarono a fumare disperatamente. Donna Mariantonia corse a serrare in un armadio, ch'era dietro il suo letto, il rimasuglio della vivanda, e qualche cantuccio di pane, che, per una specie di grandiosità da studenti, era avanzato allo scempio universale. Poi m'impose di sparecchiare, e di governare tutti gli arnesi da tavola; e solo dopo ch'io mi fui per altra lunga pezza arrabattata, e ch'ella mi sentì assai prossima a morire di stento, mi concedette alcuno di quei cantucci, molto argomentando intorno alla salubrità del pane e dimostrando con evidenti ragioni che nulla ci ha al mondo di più nutritivo; massime pe' giovanetti.

Di poi mi comandò ch'io ricominciassi i miei viaggi alla fonte, dove mi convenne tornare diciannove altre volte; sì ch'era notte buia, ed io mi ravvolgeva ancora [76] con la secchia per la lugubre via Carbonara. Battevano le due ore di notte ai Santi Apostoli, quando io venni con l'ultima secchia dalla fontana. I due abati e il fedelissimo don Gaetano erano già a casa. Donna Mariantonia si veniva a quando a quando stringendo al seno quella testina di cetriolino, in un'attitudine, della quale, la Dio mercè, io non era allora capace a comprendere tutta la svenevolezza; altrimenti io credo che mi sarebbe venuto a recere dal fastidio. Ella mi comandò di mettere subito la tavola, ch'era ora di cena. Quando fu apparecchiato, volle imbandire da se quel residuo di vivanda, quasi temendo ch'io non ne portassi via alcun briciolo con gli occhi. Fu chiamato a cena. Donna Mariantonia ammonì don Gaetano e i due abati, che, cenando essi, lasciassero pur da cena agli altri cinque signorini, ch'erano fuori; ed avrebbero cenato tardi al loro ritorno a casa. In fine, questa parola cena rimbombava per tutta la casa, come se si fosse trattato della più lauta imbandigione.

Quando la signora e i tre signorini furono a tavola, la signora mi chiamò e mi bisbigliò all'orecchio, in tal modo che tutti udirono, ch'io votassi una certa specie di vasi, ch'erano per le stanze. Ve n'era due grandissimi nella stanza degli studenti, ch'era la medesima dove si cenava, ed uno meno grande nella camera nuziale. Questi tre grandi arnesi, che si tenevano dì e notte in camera con infinita offensione delle nari, bastavano ad ogni uso.

Io che, forse non ultima delle mie sventure, mi portai dal nascimento un instinto indomabile di nettezza, ed un odorato così fine e così sensitivo, che come un grato odore tutto mi rallegra e consola di beate speranze, così un odore malvagio mi accresce incredibilmente [77] il fascio della vita, levai gli occhi al cielo, come per dirgli ch'era troppo. Poi rammentandomi quante volte li avevo inutilmente levati, li ritornai a terra, e fatto rocca del cuore, ubbidii ai comandamenti della padrona.

Quando si fu cenato, donna Mariantonia disse ch'io sparecchiassi. Poscia, non senza gravi minacce, m'ingiunse di aspettare desta il signorino ed i signorini nella camera degli studenti; nè ardissi passare per la sua stanza per andarmi sul sacconcello, se non dopo l'arrivo di tutti. Di poi, chiuso quell'estremo avanzo di mangiare in un cassettone, ch'era quivi, ne consegnò la chiave a don Peppino; e fatta, così transitoriamente, la considerazione che alle fanciulle non si conveniva dar da cena la sera senza nuocere non mediocremente alla loro salute, se n'andò a letto. Don Gaetano, sbadigliando, disse che v'andava ancora egli, perchè aveva sonno; don Peppino e l'altro abate si coricarono nel loro lettuccio, riponendo la chiave del cassettone sotto il loro guanciale; ed io rimasi alla fioca e vacillante luce d'un piccolo lumettino da notte, che donna Mariantonia aveva lasciato acceso in un poco d'olio galleggiante sull'acqua in un bicchiere.

XIX.

Era fitto inverno. Tutto taceva: se non che i due abati ad ora ad ora russavano. Io non poteva chiudere le palpebre, parte per la paura degli strazi della donna se non fossi stata pronta ad aprir l'uscio a don Gennaro ed agli altri cinque studenti ch'eran fuori, e parte per la naturale vigilia ch'è sempre causata dall'inedia e dal turbamento de' nervi. L'immaginativa mi s'accese. [78] Parvemi che il gran segreto della vita mortale mi fosse aperto per la prima volta; nè mai in questa più provetta età mi accadde di avere una così viva rivelazione delle condizioni dell'essere. Quel giorno, tutti gli altri scorsi, e la vita intera mi parve un fantasma, un sogno, un incubo doloroso, ma accompagnato dalla tremenda realità della veglia. Mi parve che, a traverso il guizzo di quella lampada, mi trasparisse come per lampi un ordine infinito di nuove ed ineffabili sciagure, le quali, pure essendo dolore e pianto, si trasformavano in non so che d'umano; ed ecco larve, spettri, sembianze ora note ora ignote, trasformarsi da belle in orrende, e ingrandirsi, e impiccolirsi, e sparire, e ritornare. Oh padre! qual notte! Quale ignoto e spaventoso mondo abitano in quelle ore gl'infelici! Alla fine, erano, credo, le sette ore della notte, quando giunsero i tre Aquilani, che, presa la chiave di sotto il guanciale degli abati, aperto il cassettone, trangugiato quel pochissimo di residuo cibo e fumato a posta loro, entrarono nel letto più grande e si furono presto addormentati. Poco di poi tornarono i due congiunti di don Gaetano, e dietro a loro don Gennaro, che a quell'ora terminava d'imbandire da cena al suo padrone. I due giovani si lamentarono un cotal poco sommessamente a don Gennaro del saccheggiato piatto, dove non rimanevano più nè anche i segni dell'antica vivanda. Don Gennaro promise loro che gliene avrebbe rifatto il dì seguente; e così queglino chetandosi si raccolsero nel terzo lettuccio, e don Gennaro entrò con placido animo nella sua camera. Io passai di là per ridurmi in cucina sul sacconcello, e passando vidi don Gaetano e donna Mariantonia, ciascuno al suo posto, che fingevano d'essere sepolti nel più profondo sonno, [79] e don Gennaro, che piamente spogliandosi i suoi panni, si preparava ad entrare accanto alla sua pudica consorte.

XX.

Un raggio di dolorosa luce ed un crudo brivido di freddo mi destarono la dimane dal breve letargo che mi aveva oppressa sul sacconcello. Quale fu il primo giorno, tali furono tutti gli altri dei quattro anni ch'io passai in casa di donna Mariantonia. Un uomo grandissimo disse che ogni giorno, rispetto al precedente, somiglia ad un racconto narrato due volte: e disse vero per una parte non numerosa del genere umano. Ma se la madre di quel grande uomo lo avesse abbandonato nella buca de' reietti, io credo ch'egli avrebbe tolta altronde l'immagine, e il dì che segue a un altro avrebbe paragonato più tosto alla ripetizione del parossismo d'una febbre acuta e dolorosa.

Io non mi rammento di altri avvenimenti che mutassero l'uguaglianza di quei giorni, se non ch'io era spesso malata. Ma poi insensibilmente la malattia mi divenne abito, anzi seconda natura. La mia vita divenne uno sforzo continuo; e m'avvezzai a reggermi in piedi, a camminare e ad affaticarmi in ogni più strapazzata maniera, quando più mi prostravano a terra il languore e le febbri causatemi dallo stento e dai patimenti infiniti che sopportavo. Pure, essendo tutto il mio vestito quel cencio col quale venni via dall'ospizio, non ostante che la mia complessione fosse assai cresciuta, e non giudicando donna Mariantonia che alle fanciulle si convenisse andare altrimenti che scalze, avveniva talvolta che dal freddo mi gelavano i piedi e in [80] tal guisa mi si fendevano, che il camminare mi diveniva assolutamente impossibile. Allora io giaceva per qualche dì come morta sul pagliericcio, non senza infinite bestemmie e mali trattamenti e battiture di donna Mariantonia, ch'era costretta a disertarsi, pagando un grano il dì a un'altra fanciulla, che faceva per quei giorni, ma meno percossa di me e meno faticosamente, le veci mie.

XXI.

Era del mille ottocento ventuno. Io era giunta all'undecimo anno dell'età mia, e divenuta alquanto altetta della persona, se non che, sotto la sferza del dolore, venivo assai tenue e minuta. Pure non potettero gli stenti miei sterilire tanto la natura, che qualche segno di giovinezza non cominciasse già a spuntare in sul mio seno. Oh giorni! Oh momenti eternamente ineffabili d'affanno, di dolcezza e di speranza! Era di marzo. A un tratto mi si mutò la scena del mondo. Fin allora io m'era sentita lentamente mancare, e tutto intorno a me m'era sembrato che lentamente mancasse. La distruzione, la morte, il nulla mi era apparso la meta finale a cui tendesse ogni cosa creata, e l'assenza del dolore mi era sembrato il desiderio più grande che potesse nascere nel cuore dell'uomo. A un tratto mi parve che l'universo moribondo rinascesse. Una vita, una forza nuova ed incognita e più che umana, mi parve che penetrasse nel seno d'ogni cosa e di me stessa. I cenci che appena mi coprivano, cascavano in pezzi come prima; come prima io nè mangiava, nè dormiva, nè riposava, e d'ogni altra cosa più necessaria alla vita sostenevo inopia come prima. E nondimeno ogni giorno, [81] ogni ora, ogni fiato dell'aura vitale, in cui nuotava allora qualunque cosa terrena, mi rendeva assai maggiore di me stessa e d'ogni angoscia e d'ogni stento: e pareva che m'infondesse una nuova anima, tutta diversa da quella di prima già spenta; e mi pareva che con questa io trionferei l'universo sulle ali del vento. Il fine al quale io era stata creata non mi parve più nè l'assenza del dolore, nè il riposo, nè la morte; ma la vita, il movimento, il piacere, la felicità, il paradiso. A questo paradiso, a questa beatitudine sovrumana ed ignota ed incommensurabile ed infinita io mi slanciava da un istante all'altro fra i voli della mia fantasia. Ma l'infinito non poteva capire nell'essere mio ch'era finito! Alla fine, dall'altezza di tutti i cieli io precipitava come nel più basso baratro della terra, e la perdita di quel paradiso mi ritornava alla disperazione. E già quasi il prestigio dispariva. Ma quella disperazione non era più freddo desiderio di morte, ma calda, ardente, smaniosa ansietà di piacere, dalla quale riscoppiava ad ora ad ora la speranza.

Un giorno, era il mezzodì, e il cielo era di una così viva serenità, e l'aere così tepido e odorato, che quasi parea che la natura si guardasse in seno a se stessa, come compiacendosi d'essere tanto bella. Io andava con la secchia alla fontana. Quando fui presso al palazzo Santo Buono, levando gli occhi a caso, vidi un vecchio curvo e canuto, che con la destra si appoggiava a una lunga canna e con la sinistra al braccio d'un giovinetto, che alla sembianza, ed all'amore col quale lo guidava, mostrava d'essergli figliuolo. Se la fantasia non m'inganna ancora, io non immaginai mai angelo del paradiso tanto bello, quanto era quel garzonetto. Era bianco fino al pallore, avea gli occhi d'un vivo cilestro, [82] i quali egli volgeva languidamente, come affaticato e stanco da un lungo soffrire, e molti biondi capelli e alquanto crespi gli scendevano morbidamente sugli omeri. Oh padre! Chiunque dice che la povertà avvilisce; chiunque ne rivolge gli occhi schivo come da cosa paurosa e brutta, io vorrei che avesse veduta quella coppia. Quale nobiltà, quale riposo nel sembiante del vecchio; quale affetto, quale innocenza negli occhi del giovinetto! Qual mai decoro traspariva dai cenci medesimi che li ricoprivano! S'indovinava, ma non si udiva, ch'essi domandavano la vita per Dio. E quando io ebbi un poco coltivato lo spirito, e ch'io lessi di Omero e di Belisario ciechi e mendichi che un garzoncello guidava per mano, mai, per entro il prestigio dell'antichità e della favola, non seppi immaginare due più nobili figure.

Quand'io levai gli occhi al garzonetto, riscontrai i suoi, che mi sembrarono come da lunga pezza fissi sopra di me. Oh padre! Io non credo al fascino: ma certo l'onnipotenza d'uno sguardo sarà sempre il più inesplicabile de' misteri. Io vidi o mi parve vedere in quegli occhi un sentimento di compassione per lo stato mio; e credetti a un tratto che fra me e lui altro sentimento non fosse scoppiato se non la simpatia della sventura. Ma mi corse un lungo brivido per le membra e per l'ossa: e questo brivido, che pur era amarezza e dolore, mi sembrava piacere. Quello fu il primo istante in cui questa parola non fu più senza senso per me. Oh gran Dio! Quanti e quanto nuovi sentimenti mi si successero con la rapidità del fulmine nel più profondo dell'anima. Quella che mi parve alla prima una dolce riconoscenza alla pietà ch'egli mi aveva, si trasformò magicamente in un tenero sentimento di compassione [83] per lui. Mi apparve (chi il crederia?) più infelice di me! mi sembrò ch'egli avesse bisogno di me, e ch'io fossi fatta per consolarlo. In che modo io avessi potuto consolarlo, non sapevo vedere! Pure mi pareva, che avvicinandomi a lui, stringendomelo forte forte al seno, e colmandolo di mille miei baci, che così io lo avrei consolato. Alla fine mi tremarono le ginocchia, mi sentii come mancare, poi ruppi in un dirottissimo pianto, e mi parve che s'egli avesse sostenuta e stretta me sul suo seno, e mi avesse ricolma di suoi teneri baci, che solo su quel seno io avrei trovato quella pace, alla quale avevo indarno sospirato dal dì che fui conscia di me stessa.

XXII.

Riavutami un istante dal mio strano turbamento, e rasciuttemi le lacrime col lembo della mia vesticciuola, il garzoncello ed il vegliardo entrarono lentamente nel palazzo Santo Buono. Il giovinetto si rivolse più volte per vedermi; e quando fu per isvoltare il peristilio della corte, affisse gli occhi sopra di me così pietosamente, che parve che il cuore gli si spezzasse.

Un istante appresso disparve; e con lui sparì il prestigio dell'ora, del sole, della stagione e dell'universa natura; ed io mi feci fredda come il ghiaccio.

Il dì seguente, quando, in sulla più bell'ora della mattina, io cominciai le mie gite alla fontana, sentii sciogliermi le ginocchia appena rividi l'aria aperta. Sudavo e gelavo a un tempo, e mi palpitava il cuore in un modo così concitato, che pareva che allora allora mi si schiantasse. Ma non mai, non mai, in tutte le dieci volte ch'io ritornai alla fonte, mi fu conceduta la cara [84] vista, in cui io aveva risposto tutto il mio bene, tutta la mia speranza. Quando rivenni l'ultima volta dalla fonte, entrai, senza quasi avvedermene e come un automato, nel palazzo Santo Buono, se forse mi fosse dato di vedere il giovinetto. Ma il portinaio, ch'io non aveva veduto, mi fece accorta di se con un fiero calcio, gridandomi in capo che non si conveniva alla scalza e stracciata canaglia d'entrare ne' palagi de' principi.

Erano già dieci giorni ch'io non vedeva più nè il vecchio nè il giovinetto. Prima ch'io lo vedessi, era un gran tempo ch'io aveva perduta la consuetudine di piangere. Ma dal dì che lo vidi, m'era stato nuovamente conceduto questo divino benefizio, e mai non tornavo dalla fontana e non vedevo il palazzo Santo Buono, ch'io non fossi costretta a farmi adagio adagio dietro la cantonata di Santa Sofia, e quivi sotto una bella immagine della Vergine ch'era affissa nel muro, versare, fra spessissimi singhiozzi, un torrente di calde lacrime; chiamando l'ignoto giovanetto, se non col nome che aveva, con quello almeno che gli aveva dato il mio cuore, di vita mia, di anima mia, di mia sola speranza, di mio angelo, di mio universo, e raccomandandomi alla Vergine, che almeno un'altra sola volta me lo mostrasse. Seppi di poi che quell'immagine era un capolavoro di Raffaello, involato nell'anno novantanove dalla casa di un medico valorosissimo, che dal popolaccio del suo rione, al quale egli aveva per lunghi anni prestato i soccorsi dell'arte sua senza ricompensa veruna, fu a colpi di pugnali e di mazze trucidato e sfracellato, e il tronco corpo gittato dalla finestra.

L'undecimo dì, era verso le ventitrè ore, io tornava con la secchia dalla fontana, allorchè presso la medesima cantonata di Santa Sofia riconobbi subito all'angelico [85] viso il garzonetto, che senza il vecchio m'attendeva. Appena mi vide, l'angeletto mi s'appressò, e, sollevandomi dal peso importabile della secchia, mi pigliò dolcemente per la mano, e mi condusse in un solitario viottolo, ch'era accanto a quella cara immagine. La quale riguardando e pure credendola sola autrice di tanto mio bene, quali lacrime d'ineffabile dolcezza e di riconoscenza mi piovvero dagli occhi, e quante!... Appena ci fummo sottratti alla vista degli uomini, l'angelo mio mi strinse al suo seno palpitante, e con le sue calde labbra inghiottendo le lacrime ch'io versava a torrenti; era più alto di me e mi baciò sulla fronte. Poi curvato il collo tutto bello di giovinezza, m'afferrò con le sue labbra le mie e mi vi stampò un bacio di memoria immortale. O Creatore del Tutto! Allora dovevi chiamarmi alla tua pace... ma forse temesti che anche nel paradiso io ti avrei ridomandata la terra.

Dimmi, anima mia, come ti chiami?... mi domandò l'angeletto. Ginevra, io risposi singhiozzando.

E intanto, carezzata e stretta e ribaciata da lui, io, fuori di me e senza sapere che fosse, cominciai, mischiando stranamente alle lacrime un sorriso di tenerezza, cominciai a stringermelo al seno ed a baciarlo anch'io... ed a ribaciarlo.

Quando ci fummo riposati lungamente l'uno sul seno dell'altro, ove il cuore taceva, il mio angeletto, sollevatomi leggerissimamente il capo con ambo le mani, mi disse:

Amore mio, quanto mai sei bella! Com'è mai possibile che il cielo abbia potuto condannare alla sventura una sua abitatrice, quale tu sembri negli atti, nel volto e in tutta la tua angelica persona. Tu mi sembri uno di quei fantasmi che mi si sono talvolta rappresentati [86] alla mente, quando standomi col mio babbo le lunghe ore in qualche tempio, mi è stata dalla divina parola promessa la beatitudine dei cieli, tutta accompagnata dalle incantevoli forme delle anime eternamente beate. O mio solo bene, mia sola speranza, quanto apparisce strano ed inesplicabile il contrasto ch'è fra gli squallidi cenci che ti ricuoprono e la tua tenera e trasparente carnagione, ed il tuo viso bianco e rosato a un tempo, e quegli occhi neri e quelle nerissime chiome che ti si smaltano sugli omeri. O fanciulla del paradiso, fa ch'io non ignori chi sei; che il cuore già mi dice, che come nelle mie membra mal coperte e brutte di povertà e di dolore, scorre un sangue nobile e gentile, che così nobile e gentile debb'essere quello che ti trasparisce dalle membra e dal volto.

O gran Dio! come io precipitai dal paradiso nell'inferno a quella inchiesta! Io grondai tutta, m'annegai in un pelago di confusione, e desiderai veracemente che la terra s'aprisse per inghiottirmi. I quattro anni che avevo valicati in casa il cuoco mi avevano fatta pur troppo accorta che gli uomini credono, che l'essere in sul primo vagito gittata dalla miseria o dalla paura nella buca de' reietti, sia un'infamia che debba perpetuamente, sino alla morte e dopo la morte, pesare sul capo della vittima.

In fine Iddio mi concesse tanta forza, ch'io non mi morii, ma giunsi a dirgli:

Amore... dimmi prima chi tu sei... e poi ti dirò delle mie sventure.

Ed essendomi io tutta arrossita nel viso:

Ginevrina adorata, mi disse, tenendomi sempre le sue mani sulle tempie e sulle guance, e così sostenendo un poco levato verso di se il volto che naturalmente [87] per vergogna mi s'inchinava, tutto quello che vuoi ti dirò. Io non sono più io dal dì che ti vidi. Angelo mio, mi pare che se il mio babbo mi avesse data una sorella, che così io l'amerei, come ora ti amo. Babbo era il più famoso chimico che siesi conosciuto qui: dico era, perchè si può dire ch'egli già più non vive. Alcuni venerabili vegliardi, tutti poveri come noi siamo, che sempre vengono a visitarlo, dicono fra loro sommessamente, ch'egli fu il primo ad introdurre lo studio di quella scienza in questo ch'essi chiamano estremo canto dell'universo civile. Costoro dicono pure ch'egli doveva morire ventidue anni fa sul patibolo, dove morì un suo più che fratello, che non mi ricorda il nome, che aveva il primo formato qui un orto di piante rare e medicinali, come quello ch'è ora in Foria, e gli fu divelto a furia dal popolo, come malefico effetto d'incantesimo diabolico: dove morirono, finalmente, tanti grandi uomini così nelle armi come in tante altre o arti o scienze, che non so nominare: e dicono, che, per lunghi anni, mai più quest'infelice contrada non sarà bella d'uomini somiglianti, perchè dal sangue, essi soggiungono, può rinascere sangue; ma non ingegno, nè sapere, nè grandezza altra verace. Mio padre scampò quella morte, perchè un generale di certi popoli barbari, con la forza dei quali si commettevano qui tutte quelle atrocità, fu meno barbaro de' nostri medesimi cittadini, e, dimandatolo esso, come per farne uno scempio maggiore, lo mandò in esilio. Babbo andò ramingo in Francia, dove fu sforzato di accettare un tozzo di pane il dì dal forestiere: e mi racconta sempre che nessuno assenzio è amaro quanto quel pane. Otto anni di poi mi racconta che tornò qui con una moglie francese, dalla quale ebbe me: ma la mia nascita costò la [88] vita a mia madre, e fu la prima mia sventura. Poi ebbe un impieguccio, col quale sosteneva sottilmente la sua vita. Sett'anni fa lo perse, e poco di poi in non so quale sperimento chimico acciecò. Così fummo ridotti all'estrema mendicità in cui ora ci troviamo. Il dì che seguitò a quello in cui gli occhi miei si scontrarono ne' tuoi, babbo infermò, ed è ancora infermo in un tugurio che abitiamo dalla croce al Sacramento. Rotto e stanco dall'età, dall'inedia e dal morbo, giace sopra un misero letticciuolo come un tronco inerte. Gli occhi, quel solo spiracolo dell'anima e della vita, sono già spenti. Io moribondo pongo le mani sul suo cuore per sentire se palpita, appresso l'orecchio alla sua bocca per udire se respira. Parmi talvolta di nulla sentire, di nulla udire, e gitto un grido disperato, piango la sua morte, e mi sento morire io stesso. Poi mi rilevo, lo guardo, mi viene dalla sua vista lo spavento del cadavere, mi riappresso agonizzante, gli ripongo la mano sul cuore, che risponde languidissimamente al tremito di essa. Allora ritorno col mio volto sul suo pallido volto, lo bagno delle mie lacrime, lo riscaldo col mio fiato anelante; poi rimango tramortito sopra lui. Questa è la vita che meno. Ma, oh Dio, Ginevra, è già un'ora che noi siamo abbracciati, che l'anime nostre sono confuse insieme, anzi sono una sola. Lo spavento di trovare mio padre estinto mi divide, come con una scure, da te. Dio mio! che separazione! che nuovi movimenti io sento nel mio cuore! Come m'è divenuta cara la vita dal momento che ti vidi! come mi pare di conoscerti, d'essere stato sempre al fianco tuo, dal primo giorno ch'ebbi la coscienza di me stesso. Ginevrina mia, credimi: mi pare che fino a questo momento io sia andato ansante, anelo in cerca di qualcosa, ed [89] ora mi pare che questa cosa io l'abbia trovata e che sei tu e che fossi tu ab eterno. Stringimi, stringimi forte al tuo seno...

Ed io forte forte lo stringeva...

Stringimi questa mano, che ad ogni tua stretta io sento passarmi nel cuore una beatitudine sovrumana...

Ed io la stringeva, ed erano entrambe di ghiaccio!

Tornami a baciare, Ginevra...

Ed io gl'infiggeva sul petto, sulle labbra, sul volto, sugli occhi e su quei celesti capelli io non so quante migliaia di baci... ed egli snodando le mie nere chiome, le accostava alle sue labbra come cosa sua, e con un sentimento, che non si può dire con parole, di beatitudine e di disperazione insieme, le baciava e poi tornava a baciare.

Seguitava ad esprimere quanto poteva lo stato dell'anima sua, ed io pendeva fra attonita e palpitante dal suo labbro, perchè ogni sua parola m'era una rivelazione di quello che io sentiva nel profondissimo dell'anima mia, e non bastava ad esprimere. Alla fine, diradicandosi da me come una quercia dal suolo dov'ella è fitta da più secoli, rivolse gli occhi al cielo quasi accusandolo di tanto dolore, trasse un sospiro disperato; e facendosi la più tremenda forza, mi respinse convulsivamente da se, perchè altra via di staccarci non v'era, raccomandandomi che il dimane, in sul mezzo dì, io l'avessi atteso sotto l'immagine... e si allontanò da me soffermandosi ad ogn'istante, come strascinato a un tempo da due avverse possanze, dalla magia della mia presenza e dall'immagine del padre moribondo. Un momento di poi, fra il crepuscolo di quell'ora, io vidi sparire l'incantato fantasma dietro la curvatura del vicoletto; ed appoggiata al muro medesimo dov'egli mi [90] aveva lasciata, rimasi come un cadavere in piedi, finchè battette l'ora all'oriuolo di San Giovanni, e m'avvertì dello scempio che mi attendeva a casa donna Mariantonia.

XXIII.

Ritornai lenta e penserosa sulla gran via Carbonara, non felice, non infelice, ma annullata dalla folla de' nuovi pensieri e de' nuovi sentimenti che mi aveva destato la stupenda visione che mi era apparsa. Io andava a casa come si va al patibolo, e s'io avessi potuto sperare un momentaneo ricovero da qualunque più inospito mortale, mai più non vi sarei tornata. Ma la solitudine e la notte mi spaventavano: onde io, tutta rassegnata a morire sotto i colpi della mia padrona, e parendomi assai felice sorte quella di morire per una causa così cara, salsi le scale non più pensando a quello che mi sarebbe convenuto soffrire fino al seguente dì, ma al già troppo sospirato momento di rivedere l'amor mio.

Un avvenimento assai improvviso sopraggiunse a liberare me, ed a turbare l'annosa pace di donna Mariantonia.

Era il dì ventiquattro di marzo. La vigilia di questo giorno è memorabile a Napoli; perchè vide entrare nella città gli Austriaci, ai quali ondeggiava su gli elmi una selva d'incruente mortelle. A quei giorni io mi trovai spesso fra le archibusate nella via Carbonara, e, come fu sempre il costume qui, vidi dal più abbietto popolaccio vilipendere quanto v'era di uomini più gentili ed onesti e venerabili. Senza sapere per anche che fosse al mondo coraggio o paura, io, benchè non ancora fuori di puerizia, non aveva mai temuto per me; [91] che gl'infelici, anche bambini, mai non temono di morire. Bene mi si rizzarono più volte le chiome quando pensai all'amato garzonetto, benchè ancora non l'avessi stretto a questo seno. Quando giunsi a casa, trovai innanzi all'uscio di scala un birro, gente della quale era allora gran difetto: però supplivano obbedientemente i soldati austriaci; e di questi ve n'era tre col birro. Costui era venuto per gli otto studenti, da parte del nuovo commessario del quartiere, che li voleva allora allora tutti otto nel suo cospetto. Ma di costoro solo i due abati e don Gaetano erano a casa. Onde donna Mariantonia, tutta smarrita nel volto, pregava il birro con parole e con gesti e con toccamenti eloquentissimi e tutti accomodati a spetrare il cuore di tal maniera d'uomini, dicendo, che i più di coloro non erano a casa e sarebbero tornati assai tardi, però le concedesse sola una notte, e la mattina li avrebbe ella stessa accompagnati tutti in sul commessariato a levata di sole. E:

Via, bello figliuolo, gli diceva sorridendogli così un poco sotto lo sperticato naso, ch'egli pareva a quando a quando prostendere come l'elefante la sua proboscide, fammelo questo piacere di non mi mettere a quest'ora tutta la casa a soqquadro; fammelo per cotesto caro musino...

Ed accoccò tale un bacio sulle luride labbra di quello schifoso manigoldo, ch'io ancora sudo a pensarlo.

Il birro più che mai allungò il naso, nè trovò più nel suo cuore l'usata ferocità. Onde, facendo occhiolino a donna Mariantonia, così a quella maniera sgherresca, e pure volendo conservare il decoro della sua dignità, le disse:

Donna Mariantonia, vossignoria li condurrà tutti e otto in commessariato domattina alle quattordici ore, o io verrò qui per essi alle quindici.

[92]

E volgendole amabilmente il tergo, e pure sogguardandola come per averne maggiore speranza al bel desiderio che gli era surto nel cuore, ne andò con Dio; e i tre Austriaci, stati fino allora immobili come tre pezzi di masso, rivolgendosi e movendo dietro a lui con esemplare rassegnazione, diedero finalmente qualche segno d'essere animali.

Dopo la costoro partita, donna Mariantonia, che probabilmente aveva indovinata la causa della chiamata, fu inconsolabile. Non ebbe nè il tempo nè la mente di pensare a me; ed il mio fallo, che in qualunque altro tempo sarebbe stato capitale, quella sera passò perfettamente inosservato.

XXIV.

Tutta la notte non fu potuto dormire, perchè donna Mariantonia e don Gennaro, presedendo nell'assemblea degli studenti, discorsero e disputarono le ragioni della richiesta. Fu unanime sentenza che il nuovo governo volesse rimandare ai babbi tutti gli studenti provinciali ch'erano nella città, e l'afflizione fu grandissima ed universale. Pianse donna Mariantonia, pianse don Gennaro; e questo s'intende. Furono bagnate le selvose guance de' tre giovani aquilani e de' due nipoti di don Gaetano; e furono umidi gli occhi (chi il crederebbe?) de' due pingui abati pugliesi. Ma rimasero secchi i due occhiolini che giravano nell'angusta fronte di don Gaetano, che, come vigliacco, non versò mai una lacrima.

La mattina seguente scendemmo tutti processionalmente le scale, e donna Mariantonia, chiudendosi dietro l'uscio, che serrava a saliscendi, l'inchiavò e si nascose la chiave nel petto. Quando fummo nella via, m'intimò [93] di aspettarla quivi sull'uscio, ed essa ne andò con don Gennaro, don Gaetano e gli altri sette studenti alla volta del commessariato.

Erano avanti l'uscio da via, che non era de' suntuosi, tre piccoli scalini, sopra il primo dei quali io mi sedetti; stracca e stordita dalla veglia della notte e dal desiderio, caro e tremendo a un tempo, di rivedere il giovinetto. Già, da che s'era involato dagli occhi miei, gl'istanti m'erano sembrati secoli. Senz'avvedermene, io aveva sempre gli orecchi intesi a contare i tocchi dell'oriuolo di San Giovanni. L'oriuolo batteva l'ore ad ogni quarto; e mai non ne udiva il suono ch'io non rimanessi attonita e disperata della sua spietata lentezza.

Mi condussi finalmente alle sedici ore, e mi parve per la prima volta d'intendere l'eternità, che insino allora era stata per me una parola vota di senso. Le convulsioni che mi ha sempre causato l'aspettare, divennero una specie di manía. Guardavo verso il canto di Santa Sofia; già vedevo, già toccavo il garzonetto... O padre! non è poesia, ma è prosa, ma è tutta verità, s'io vi dico che più volte strinsi le braccia dietro a quel fantasma, e altrettante mi tornai al petto con esse. Entrai nella piccola corte, per l'instinto ch'ebbi sempre di nascondere quanto potevo il mio dolore: e perchè quel dolore onde allora mi struggevo, mi pareva una cosa così gentile, così cara, così sacra, che nessun mortale non mi pareva degno di contemplarlo. Quivi cominciai a fare un disonesto strazio de' miei capelli, cominciai a battermi le guance, a percuotermi questo infausto seno, nido di così tenace e doloroso affetto, a stracciarmi ed a troncarmi quanto potevo con le unghie e coi denti tutte le mie tenerissime e bianche [94] carni, ed a fare, in fine, quasi presaga dell'avvenire, ogni mio potere per distruggere in sul loro spuntare queste che poi furono chiamate bellezze, e causarono la mia totale perdizione.

Più dell'aspettare mi disperava il pensiero che quella mia gentucciaccia sarebbe tornata a casa giusto circa il mezzodì; e dovendo, come avevo inteso la notte essere inevitabile, sgomberare della città tutto quel viluppo di studianti, donna Mariantonia non mi avrebbe già mandata per l'acqua alla fonte, ma tenuta a casa perch'io l'aiutassi in quel trambusto. Ed allora come avrei più veduto il mio amore?... In un momento s'oscurò il cielo, e cominciarono lampi spessissimi, che parvero trasfondere io non so che d'elettrico e di ardente nel mio sangue che già bolliva.

Ora come verrà?... cominciai a dire, cessando di percuotermi e congiungendo le mani in sul mio grembo. E se la pioggia lo bagna? e se un lampo lo abbarbaglia? e se un fulmine l'incenerisce?...

Questi pensieri annullarono la mia ragione già traviata. Uscii sulla piazza, e m'incamminai su per la via dell'Orticello, seguitando la mia invisibile stella. Pervenni alla porta che domandasi di San Gennaro, e quivi si terminava per me il mondo conosciuto. Quando m'affacciai alla piazza detta delle Pigne, che allora mi parve immensa, infinita, io ne presi quella impressione, io credo, che prese Vasco di Gama dal Capo di Buona Speranza. Entrai in un caffè ch'era a sinistra della porta sul rialto che serve di sentiero, dimandando per dove s'andava alla Croce al Sacramento. Quivi era una gran mano di giovani scioperati, chi con sigaro e chi con pipa, tutti sdraiati laidamente sopra seggiole e canapè, ch'erano intorno intorno e in mezzo, con un [95] ginocchio sull'altro, disputando di teatri e di farse, d'istrioni e di saltatori, come della cosa pubblica più grave e più importante alla salute di tutta Italia. V'era la padrona assisa al banco; la quale io domandai della via. Quella me l'insegnava più tosto benignamente. Ma io non so perchè, tutti quelli scioperati ch'erano quivi, cominciarono a sbeffare me e lei, e intorno al mio essere tutta lacera e scalza e molle ed aver gli occhi pregni di lacrime, chi diceva una scempiataggine e chi un'altra; e ne ridevan tutti come di cosa assai sollazzevole. Ed alcuni che m'erano più da presso, mi davano, così per modo di celia, di piccoli calci nei fianchi con la punta de' loro stivali, e cominciarono leggermente l'uno a rimandarmi all'altro come una pallottola, e poi ne facevano le grasse risate. Io poverina, tutta confusa e rossa nel viso per la vergogna, non ebbi più spazio nè vigore d'imparare la via, nè la padrona che per non dispiacere ai signorini rideva anch'essa d'insegnarmela. Onde Dio solo sa come giunsi, fra gl'indegnissimi scherni di quella canaglia, a trarmi fuori del caffè, non ostante che piovesse dirottissimamente. Cominciai a camminare verso la diritta della porta, sullo sterrato che va lungo le antiche mura della città. La pioggia infuriava, e dagli antichi terrapieni si vedevano rovinare giù dai vani de' merli infiniti fiumi d'acqua. M'abbattei in un villano, il quale si menava innanzi un asino, che a furia di vergate non poteva fare che camminasse più che tanto. M'arrischiai di domandargli la strada; e questi fu più cortese ch'io non mi pensava. Levando il dorso della mano, mi mostrò a dito poco lungi una via che saliva alla prossima collina, dicendomi:

In fondo a quella è la Croce al Sacramento.

[96]

Era la pioggia divenuta uno spaventoso diluvio. Non si vedeva quasi più nulla. Rovinava dalla via de' Vergini un torrente, che qui chiamano lava, o più tosto un rapidissimo fiume, che correva precipitosamente con mille gorghi e rigiri per l'ampissima strada. In mezzo a quella era una sorta di ponte di legno, sostenuto da gravi ruote e da pesantissime catene, sotto il quale quel torrente passava; ed era data una via a chi da una parte della strada volesse passare a un'altra. Io mi trovai quasi in capo a questo ponte, ch'era il solo oggetto ch'io vedeva con qualche certezza. Nella direzione medesima del ponte vedevo, a traverso le onde che piombavano dal cielo, la via Saponara, in fondo alla quale io già m'immaginava che avrei trovato il mio solo bene. Vidi una canuta e stanca vecchierella, sopra cui batteva la pioggia e il vento in tal modo, che pareva dovesse annichilarla; e pure non s'abbandonò d'animo, e salì il ponte, che le acque già quasi parevano sommergere, e giunse dall'altra sponda a salvamento. Mi feci cuore, o più tosto un dio, di cui allora mi era sconosciuto il nome ma non la fatale possanza, mi strascinò già cieca com'ero divenuta degli occhi e della mente, e salsi il ponte. Il quale giusto in quell'istante fu coperto e rovesciato e strascinato via dalla crescente e impetuosissima piena dell'onde, e si sommerse, e mi sommersi anch'io, e l'onde si chiusero sul mio capo.

XXV.

Quando mi destai, mi trovai nella bottega d'un sellaio rimpetto l'Orto Botanico. Ero tutta livida e pesta ed affranta per la persona, e mi grondava a larga vena [97] il sangue dalla tempia medesima che nel cominciare della mia infanzia avevo rotta a uno spigolo d'un marmo nella Casa della Nunziata. Io mi sentiva tutta indolenzita, e con la sinistra mano asciugavo stupidamente il sangue che mi veniva giù dalla tempia su gli occhi e nella bocca, e sbadigliando come dopo un lungo sonno, guardavo in viso coloro che m'erano intorno, senza ancora riconoscere me stessa nè rammentarmi del caso seguíto.

Era già quasi notte quando, ripresa in massima parte la virtù dei sentimenti, compresi tutto l'orrore dello stato mio. Il dolore della ferita al capo e di tutte le membra lacere e sanguinose, non mi parve più cosa sopportabile. Il braccio destro non potevo più muoverlo solamente; e solo dal vederlo e dal male non dicibile che vi sentivo, m'accorgevo di averlo ancora. Mi guardavo tutta e mi pareva un sogno. Mi pareva di vivere così in ispirito; ma che nessuna facoltà corporale rispondesse più alla mia volontà nè agli usati uffizi della vita. Oh padre mio! com'è terribile il sentimento di sentirsi vivo, e di non aver più nè gambe per camminare, nè braccia per operare, nè voce per parlare. Desiderai un'altra volta di morire: ma abituata, così com'ero da gran tempo, a non isperare più nessun bene, non badai molto a sperare il bene sommo dei mortali, la morte.

Intanto s'affollava gran popolo innanzi la bottega per vedere la giovinetta che, com'essi dicevano, la lava s'aveva pigliata; e il sellaio e la sua donna già temevano gravemente pe' loro arnesi, e già si pentivano del sentimento di compassione che li aveva sospinti a raccettarmi nella loro bottega. Tutti domandavano, e tutti rispondevano a un tempo; tutti narravano il caso mio [98] senza saperlo, e tutti l'udivano senza ascoltarlo; ed era un bisbiglio ed una confusione incredibile. Pure di mezzo un tal frastuono io ricavai, che il ponte, portato dalle acque a gran furia, s'era rincontrato nell'altro ponte ch'era più innanzi e s'era fermo: che il mio corpo era più volte comparso e sparito sulla superficie delle onde; e che finalmente s'era intoppato nel ponte rovesciato, ma già la foga dell'acque ne lo levava; che tutti guardavano e compativano al fiero accidente, ma nessuno non si scrollava; e che allora un lazzarone, o che facesse meno stima della sua vita che tutti gli altri riguardanti, o che, quel che torna lo stesso, avesse l'animo più alto e generoso, si slanciò fra le onde, ed afferratami per un piede, me ne trasse fuori com'un cadavere.

Il lazzarone era quivi, e tutti lo mostravano a dito; ed egli se ne stava modesto quanto poteva nell'aureola di gloria che lo circondava, e con un viso in cui era dipinta una cotal grossolana bontà, che considerandola, e pure rammentando ch'egli era un lazzarone, lasciava intendere che gli uomini sono più infelici che malvagi; e che, se riescono malvagi, è sola colpa di quegli scempi o di quegli scellerati che non sanno o non vogliono educarli.

Intanto la calca cresceva; e la donna del sellaio, sentendo l'imminente pericolo, s'appigliò ad un partito che me la fece, sempre che poscia ripensai a lei, tenere per donna di molta discrezione. Volta al mio salvatore, gli disse:

Tu vedi in che stremo della vita è questa ragazza. O che non vai tu dal commessario a dargli avviso del seguíto?... Chi sia quest'infelice non è via alcuna di saperlo, ch'ella non può parlare: e il caso mi par bene da partecipare alla corte.

[99]

Il lazzarone andò, e poco di poi venne un birro ed uno scrivano con tre Tedeschi a prendere per iscritto il seguíto. Per fortuna il birro era di corto passato dal quartiere di Vicaria a quello di Foria, e conosceva donna Mariantonia, la quale, come albergatrice di studenti, aveva continua pratica con quella qualità di gente; e per conseguenza conosceva anche me e mi riconobbe. Onde fattosi far largo dai Tedeschi col calcio degli archibusi, mi pose sopra un biroccino menato a mano dal lazzarone, e conducendo me, il lazzarone, il sellaio e la sua donna al corpo di guardia del commessariato del quartiere di Vicaria, ci consegnò ad altri birri e scrivani e Tedeschi ch'eran quivi e s'andò con Dio. Questi ci sostennero tutti, mi portarono su e mi riportarono giù non so quante volte, interrogarono ed esaminarono minutissimamente il sellaio, la sellaia ed il lazzarone, fecero una sorta di processo addosso a tutti e tre, e poi costrinsero il lazzarone a pagare il nolo del biroccino, ed il sellaio a pagare le spese delle loro processure. Onde mi rammento che queglino andarono via maledicendo l'ora che mi avevano salva e raccolta dalla morte, giurando che mai più per l'avvenire non avrebbero soccorso un moribondo.

XXVI.

Io rimasi giù nel corpo di guardia come un cadavere, sopra le tavole dove si sdraiano la notte i soldati. In sulle tre ore di notte, io credo, un birro venne per me con un facchino, dal quale fui menata a braccia, dietro esso birro, a casa donna Mariantonia. Quivi trovai un nuovo mondo.

Era in tutta la casa uno scompiglio incredibile. Gli [100] studianti avevano avuto ordine espresso dal commessario di partire fra le ventiquattro ore dalla città e tornare ai loro paterni focolari; nel silenzio della solitudine avrebbero potuto meglio che fra gli svagamenti della città, intendere a qualunque più nobile e più nuova disciplina. Gli antichi boschi ond'erano folte le labbra e le guance dei tre giovani aquilani e dei due nipoti di don Gaetano, erano stati crudelmente abbattuti da un barbiere, che il commessario aveva loro apparecchiato a tal fine nel suo cospetto. Donna Mariantonia era disperata. Tutti i suoi preghi e tutti i suoi scongiuri al commessario, tutti i suoi lezi e tutte le sue carezze agli altri sopracciò ed ai sergenti della famiglia, erano stati indarno. Aiutava come un automato gli studenti a fare le loro valige; ma stava come smemorata e senza comprendere nè quello che udiva, nè quello che vedeva.

Quando mi vide così moribonda, non fece nessun atto di maraviglia: e quando ebbe inteso come il caso era passato, disse che saria stato meglio che la lava m'avesse pigliata da vero; l'avrebbe sollevata dal peso del mio mantenimento, che diveniva importabile per lei ora che non l'era più conceduto di tenere a dozzina studenti. Mi fece gittare sul pagliericcio e visto il sangue che io grondava dalla tempia, disse non so che triviale dettato, che voleva significare, che se io era così malconcia, questo non era nè più nè meno del merito mio. Il birro e il facchino le domandarono la mancia; ma furono in vece accommiatati con le male parole; e s'udirono per lunga pezza i loro vocioni per le scale, perchè il facchino voleva qualcosa per il suo viaggio che il birro non gli volle dare.

[101]

XXVII.

Il dì seguente in sull'aurora tutti gli studenti partirono, chi da un lato e chi dall'altro. Quando don Gaetano disse addio a donna Mariantonia, costei si sfogò con un sospiro che parve che le svellesse il cuore. Certo l'era svelta quella sola rendituzza, con la quale l'era sembrato potersi innalzare sopra la sua condizione; ed il dover ritornare pura moglie di cuoco, senza aver più in casa il signorino di Catanzaro per bracciere e gli altri signorini per ospiti (benchè in tutti paresse sempre conoscere i segni dell'antica zappa), l'era troppo insopportabile dolore. La casa rimase deserta. Don Gennaro sentenziò che bisognava subito riallogarla, non essendone da lui solo sopportabile la pigione. Andò fuori; e un momento di poi venne gente, con la quale donna Mariantonia ebbe presto conchiuso il negozio.

Intanto io giaceva sul pagliericcio, senza potere nè parlare nè muovermi, ma vedendo e intendendo tutto e perfettamente conscia della grandezza del mio male. Non isperavo più ben nessuno, perchè sentendo di non poter vivere, sentivo ancora di non poter mai più rivedere il mio angeletto, nè sapere nè anche, prima di morire, se il suo babbo fosse mancato, e in quale stato egli si fosse rimasto. Donna Mariantonia in tutto quel giorno non mi porse cibo, non mi fasciò la ferita, nè mi soccorse in guisa veruna, nè pure un solo istante si volse a guardarmi per conoscere se io era spirata. Solamente l'udivo talvolta lamentarsi con cupa amarezza, di non aver avuto bastante riguardo all'incostanza delle cose umane quando mi tagliò e gittò via così facilmente il segno della Nunziata, ed ora eccole il mio [102] peso, non punto leggero, sulle spalle. Ed io credo fermamente ch'ella non senza ragione mi lasciasse la ferita aperta, sperando ch'io dovessi morire svenata; e sono anche certissima che mi avrebbe ammazzata, se non avesse temuto d'esserne richiesta a corte e punita con la forca. Io le costava forse un grano di pane il dì, che monta a tre carlini il mese; e ho udito dire che ier l'altro un ciabattino, nella via della Taverna Penta presso a Toledo, abbia dato del succhiello nelle reni a un suo amico, che non gli potè rendere incontanente la metà d'un grano che gli doveva. Ma così profondata nel pelago della morte, io non morii, perchè la natura pare tanto più gelosissima della sua vittima, quanto più grande è il dolore al quale l'ha ab eterno destinata.

Il dimane era il dì dello sgombero. Donna Mariantonia e don Gennaro, per non ispender nulla nel trasporto della loro robicciuola, la trasportarono adagino adagino da se stessi. Alla fine, quando non v'ebbe più altro in casa, mi presero a braccia con quella pietà ch'era tutta loro, e strascinandosi il sacconcello dietro alla peggio, mi portarono in una bottega o casolare terreno nella via di Pontenuovo, ch'era rimpetto all'uscio nostro; il quale casolare, per cittadino, poco differiva da quello di Sant'Anastasia: e quivi, posto in un canto il sacconcello, mi v'ebbero tosto gittata sopra.

Il sangue era ristagnato da se; io cominciava a ritornare; ma sarei morta di fame, ultimo partito al quale s'era appigliata donna Mariantonia per levarmisi dinanzi; che richiestane a tutte l'ore, mai non mi porgeva alcun nutrimento. Io credo che, se bene ancora fanciulla, io l'avrei volentieri appagata del suo desiderio, e non avrei più nè domandato, nè preso cibo quando [103] mi fosse stato porto, per cessare una volta i miei patimenti. La qual cosa io aveva più volte tentata prima di vedere quel garzoncello: nè mai m'era stato possibile di venirne a capo; perchè allora le mie braccia giovavano a donna Mariantonia. Ma dopo ch'io ebbi sperata, anzi gustata, tanta felicità sulla terra, quanta fu quella di riposare il mio stanco capo sul seno di quell'angelo di bellezza e d'amore, la morte cominciò a farmi un orribile spavento. Però cominciai a domandar del pane, che donna Mariantonia mai non mi dava. Ma io lo ridomandava con maggiore istanza quando una nostra vicina veniva a visitarci, e mi lamentavo, contra il mio solito, più pietosamente ch'io poteva; e così era forza alla donna di concedermi un tozzo di pane, se non voleva essere tenuta quello ch'ella era. Così sostentavo amaramente la mia vita, che più tosto che da quel tozzo di pane, ch'io conquistava ben di rado, m'era sostenuta dal vivo fuoco della speranza, che mi correva e nutriva tutte le vene, di rivedere l'adorato garzonetto.

Chi vi può dire, o padre, le bestemmie, gli scongiuri, la disperazione di quella coppia, ch'io non fossi morta, come pareva che fosse dovuto seguire? Chi vi può dire quanti parlamenti si tennero la notte, quanti partiti, e tutti crudelissimi e spaventevoli per me, furono proposti? Quante volte nelle ore in cui tutti gli altri mortali si ristoravano col sonno dalle fatiche e dai dolori del giorno, io fui spietatamente percossa e stretta alla gola; e nessuna via, pure ch'ella desse speranza di non apparire, fu lasciata intentata per finirmi. Io già lessi che in Inghilterra, dove non si permette lo sparo dei cadaveri, è una setta di scherani, che vivono vendendo ai cerusichi per loro esperimenti [104] i cadaveri di quei forestieri che possono pervenire ad ammazzare. Costoro, montando addosso alla loro vittima, premendole mortalmente i ginocchi sullo stomaco e ponendo le loro labbra sulle labbra di lei, ne succhiano, per così dire, lentamente il fuggente spirito; ed è fama che nel cadavere nessun segno di morte violenta non resta impresso. Io credo ch'io non sarei più da gran tempo, se don Gennaro e donna Mariantonia avessero conosciuto questo modo di morte.

E nondimeno tutti gli sforzi loro furono indarno. La ferita cominciava a rimarginarsi; io cominciava a poter dare volta sul pagliericcio e giacere un poco su i fianchi; e la mia guarigione non pareva troppo lontana. All'ultimo, una notte don Gennaro e donna Mariantonia non rifinirono mai di bisbigliare, ma così adagio, ch'io non ne potetti intendere nè anche una sola sillaba. La mattina seguente donna Mariantonia mi si mostrava tanto amorevole, che mi parve un portento novissimo. Mi fu larga non di pane solo, ma ancora d'un poco di zuppa che fece bollire con qualche fronda d'alloro. Mi lisciò, mi carezzò; mi ravviò e rannodò i capelli per la prima volta dal dì che mi tolse; e la sera, essendo venuta la vicina a veglia, mi diede in presenza di lei un assai affettuoso bacio. Io era fuori di me, e non mi sapevo risolvere della strana visione che mi appariva. A notte profonda don Gennaro tornò con un gran fiasco in mano. Sufolato qualche parola all'orecchio della moglie, si appressarono entrambi al mio sacconcello, e dicendomi amorosamente che mi volevano condurre a una cenetta che avevano a casa certi loro amici, e sollevandomi molto dolcemente dal saccone, donna Mariantonia mi si pose a portare in braccio, ch'io non avrei mai creduto che mi potesse. Don Gennaro [105] con la sinistra mano sosteneva il diritto gomito della moglie, sul quale io pesava di tutta la mia persona, e con la destra portava il fiasco. Sarebbe stata quella notte un gran lume di luna, se le nubi non l'avessero oscurata. Mi portarono per alcuni viottoli ch'io non riconobbi bene, sempre carezzandomi e baciandomi con infinito affetto. Finalmente, fermatisi di botto, la luna trasparì un momento dalle nubi ed io mi trovai presso alla buca della Nunziata. Quivi, spogliarmi nuda, versarmi sulla testa tutto quel fiasco, ch'era pieno d'olio, ficcarmi a forze giunte nel buco, e darmi un fiero calcio che, sdrucciolando, mi fe trovare nella ruota che rapidamente girò, fu un punto solo[2].

[109]

GINEVRA
O
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE SECONDA.

Euntes autem discite quid est: Misericordiam volo, non sacrificium.

Math. ix. 13.

Per ultimo, imparate che significhi: Voglio carità, non oblazioni.

Matt. ix. 13.

[111]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE SECONDA.

XXVIII.

L'ospizio della Nunziata è diviso in due parti. Delle quali l'una, quella sola ch'io conosceva, levandosi in due alti ordini di piani, dà sopra tre ampissime vie; e tutta ad immense volte ed a sale smisurate, pare sia stata edificata per abituro di Fingal e de' suoi compagni, [112] e che veramente vi mormori per entro il suono dell'età che furono. L'altra, tutta quasi interna e tenebrosa, sembra deputata più tosto alle bestie che alle creature umane, ed ha distinto il suo fondo in forse cento angusti, umidissimi e quasi diruti covili.

Dei tremila bambini in circa che sono gettati ogni anno nella buca, duemila e cinquecento muoiono, la più parte di fame. Gli altri cinquecento vanno scemando nel modo che segue.

I maschi, come più acconci a pascere, con la fatica delle loro misere braccia, l'accidiosa ingordigia della gente minuta, sono quasi tutti presi, come già fui io dalla donna di Santa Anastasia e da donna Mariantonia, avanti di giungere all'età de' sette anni. Ai quali coloro che hanno non so se la ventura o la sventura di pervenire, sono mandati al grande albergo dei poveri, ch'è in sull'entrare della città a chi viene d'Europa, detto più comunemente e forse più ragionevolmente dal basso e dall'alto volgo, il serraglio, come se chiudesse o varie condizioni di peregrine belve, o gli eunuchi e le donne del soldano. Ma delle femmine si fa migliore governo.

Queste, se non s'imbattano in alcuna stregona che le conduca a rendere lo spirito altrove, pervenute ai sette anni, sono condotte, come tante anime semplicette, innanzi al supremo moderatore dell'ospizio, che suol essere, il più, qualche sterminato baccalare di nobiltà. Il quale, novello Minosse, consideratele un istante, secondo che gli vanno o no a sangue, le manda a libito, e senza che nessuna abbia potuto peccare più o meno d'un'altra, chi nel primo ordine delle smisurate sale fra le elette, che per instituto non possono oltrepassare le cento, e chi nei covili fra le reprobe, che non sono mai più di dugento cinquanta.

[113]

Padre mio adorato, le cose nuove avrebbero bisogno di nuovi vocaboli ad essere descritte. Ma se, non per anche giunta a' sei anni, l'essere a viva forza intromessa in quella maladetta buca messe così fieramente a ripentaglio la mia vita, considerate, ora che avevo già valichi gli undici anni, in quale compassionevole stato io apparissi alla religiosa ch'era di guardia alla ruota, dopo che que' due carnefici ebbero recato ad effetto il loro nefario trovato.

La religiosa, che per la insolita resistenza incontrata dal troppo grave peso, girò violentemente la ruota, al primo vedermi si tirò un passo indietro inorridita. Io sembrava più tosto un mucchio di ossa sfracellate e di carne franta e sanguinosa, che una creatura vivente. Non sentivo più di me, e tutta quasi vinta d'ogni sentimento, contemplavo stupida, e come per un sogno febbrile, la piccola cameretta assai somigliante a un sepolcro, la pallida lucerna che la illuminava, e il viso spaventato della religiosa, che il pallore del lume rendeva più funesto.

La monaca, ritornata dal suo stupore, tolta la lucerna d'in sul muricciuolo dov'era, l'appressò al mio volto; e veduto ch'io aveva gli occhi vivi e spalancati, mi dimandò, fra benigna e ritrosa, del mio essere, e quale assassino mi avesse ridotta in quello stato. Io non potetti rispondere, ma versai lacrime. Alle quali fatta misericordiosa la monaca, mi fu pia d'alcun soccorso, quanto il luogo e l'ora lo consentiva; e tratto il guancialetto ch'era sulla seggiola ov'ella sedeva, e postolo in terra, e sparsovi accanto un pannicello lino ch'era sopra un'altra seggiola, mi prese alla più gran fatica del mondo fra le sue braccia, e mi posò per terra sul pannicello, che quasi le mancava la lena. E non [114] curandosi d'essersi tutta insudiciata le vestimenta, senza mai lasciare di reggermi il capo con la sua mano sinistra, con la destra mi venne, con alcun asciugatoio e con la medesima sua pezzuola bianca, rasciugando e tergendo non solo il sangue che mi veniva a gran furia dal naso e dalla ferita al capo riapertasi, ma ancora l'osceno olio ond'io tutta spiacevolmente grondava. Poscia, adagiatomi dolcemente il capo sul guancialetto, quasi vergognando ch'io fossi da chiunque altra che da lei veduta ignuda, si tolse il velo dalla testa e me ne ricoperse; e con amorevolezza quasi materna confortandomi ad attenderla qualche momento di tempo, acceso un moccolino di cera alla lucerna, si trasse l'uscio dietro e disparve.

Poco di poi, riapertosi l'uscio, entrò un'altra figura di religiosa, di viso più severo che la prima; la quale soffermatasi alcun istante a riguardarmi, ed ecco giungere l'altra e serrare l'uscio. E fattesi entrambe sopra me, cominciarono a ragionare insieme alcune parole ch'io non intesi, e che mi parvero manifestamente non essere italiane. Dopo le quali, tornato ad aprire l'uscio, mi sollevarono alla meglio, con tutto il guancialetto, il pannicello e il velo, la prima per il capo ponendo le braccia di sotto il guancialetto e con le mani afferrando due becchi del pannicello, e l'altra per i piedi, cui aveva avvolto il pannicello dall'altra parte, e mi trasportarono in una cameretta a mezza scala, dov'era un lettuccio che si vedeva acconciato pur dianzi in fretta. In sul quale posatami, e soprastate alcun poco entrambe per raccogliere il fiato, la religiosa ch'era venuta in aiuto della prima ritornò giù a guardia della ruota, e l'altra mi si sedette allato, tutta piena d'affettuosa pazienza, non ristando mai di nettarmi, di carezzarmi [115] e di fare ogni opera per ristagnarmi il sangue, finchè penò a farsi giorno.

XXIX.

Quando il sole si fu levato, la religiosa venuta in aiuto di quella che m'era stata sì clemente, divulgò il caso mio per tutto l'ospizio, e ne fu fatto il romor grande. Non vi fu nessuno che appartenesse alla Casa, o vi avesse in qual si fosse modo la più lontana attenenza, che, pignendo l'uscio della stanzetta in cui ero, non facesse capolino per vedermi. Monache, preti, balie, ufficiali, custodi, mastruscieri, cuochi, guatteri, facchini, nessuno mancò, finchè, sopravvenuto il mezzodì, comparve il sopracciò in sui passati per ruota, come colà si domandano i miei consorti; il quale, consideratami un istante ridendo, disse alla monaca:

Suora Geltrude, il duca è arrivato, e, avendo udito il ridicoloso avvenimento, domanda voi e cotesto bertuccino. Fate di spacciarvi.

La monaca, senza scrollarsi punto alla disonestà di quello scempiato, anzi senza pure accennare di averla intesa, composto a maggiore gravità il suo viso, nel quale s'accordavano amabilmente il serio, il nobile e l'affettuoso, gli rispose:

Direte al signor duca, che questa povera fanciulla è appena un'ora che comincia a sentirsi ed a poter profferire alcuna sillaba, ed è oltracciò tutta livida e rotta e pesta e impedita delle membra, e se non morta, non viva; e che però, s'ei gli fosse a grado di vederla per dare ordine che le sia soccorso in tempo, potrebbe scendere quaggiù, e farebbe assai umanamente.

[116]

Il sopracciò, rimastosi dal suo svenevole motteggiare, ci volse le spalle senza più! Nè già il duca venne: anzi ci fu inaspettatamente recato, che, dopo alcuni minuti, era andato via dalla parte della chiesa, per assai più gravi bisogne. Suora Geltrude volle poter avere, di suo, un cerusico o un medico o un qualche cavatore di sangue; nè potette, perchè le leggi di quella comunità non consentono che, per nessuno, quantunque insolito, accidente, si domandi altri dottori che i deputati a quella: e tutte le sue pratiche e le sue preghiere ed i suoi sforzi acciocchè si mandasse per alcuni di cotali dottori deputati, senza torne, poi ch'ei non v'era, la licenza dal duca, furono meno che indarno.

E nondimeno, Iddio, che non sentiva ancora voto quel calice ch'egli mi aveva, forse per mia salute, destinato, mi volle ancora a questa volta salva: e col suo dito, che meno non saria bastato, mi ridiede la lena e la favella per raccontare, quanto potetti brevemente, la mia lacrimevole istoria alla religiosa, che confondendo le sue lacrime alle mie, mi giurò di non abbandonarmi.

Quel dì e l'altro appresso, che il duca al tutto non venne all'ospizio, non essendosi per nessun altro disposto di quel che avesse a farsi di me, nè preso provvedimento veruno di medico o di medicine, suora Geltrude primieramente mi stropicciò tutta con diverse maniere di essenze e di spezierie d'un odore soavissimo. Poscia, strappando e tagliando e cucendo suoi abiti e suoi pani lini, non solo mi fece assai fasciature per istringermi la ferita al capo, che di continuo sanguinava, ma ancora mi creò, come improvviso, due camice e due sottane, e una vestetta a foggia di tonacella. [117] e mi diede due paia di calze di refe bianco delle sue, e per una sua donnicciuola mandò a comperarmi un paio di scarpette nuove alla misura del piede mio. Onde io, che, alla mia memoria, non avevo mai veduto tanto bene, ed a cui, da che donna Mariantonia s'ebbe tolte per se certe vecchie ciabatte con le quali ero venuta via dall'ospizio, un paio di scarpe era apparso sempre una lontanissima e incommensurabile felicità, ora, vedendomi preparare un così ricco fornimento, giudicai che fosse giunto il termine de' mali miei, e che finalmente dalle tane delle belve io fossi venuta ad abitare fra gli uomini.

A questo pensiero disparvero tutti i miei dolori. Incontanente ebbi la forza di levarmi a sedere sul letto, di sorridere, di stringermi più e più volte al seno la cara madre che avevo ritrovata dove credetti ritrovare la morte... ma nell'abbracciarla, scopertami involontariamente alcun poco, e sforzata a contemplare il mio misero corpicciuolo, che dai crudi strazi sì lungamente sofferti non mi si vedeva se non l'ossa e la pelle, ebbi orrore di me stessa, e parendomi di non poter vivere, allora appunto che la vita mi cominciava a parere sopportabile, mi ristrinsi di nuovo nel letto lacrimando.

XXX.

Tutto quel dì non mi fu possibile di prendere nutrimento veruno senza recerlo immantinente, benchè io, per appagare suora Geltrude che se n'accorava, mi sforzassi assaissimo del contrario. La notte seguente peggiorai considerabilmente, e non fu un solo quel momento che parve alla mia affettuosa vegliatrice, e da [118] me medesima, ch'io trapassassi. Allora ella accostava la sua bocca alla mia, non per raccogliere il mio spirito fuggente, ma come per infondermi col suo fiato un poco della sua vita in vece della mia che già svaniva. Oh padre! quando seppi qualche lettera, e che lessi e rilessi mille volte Renato, fra l'estasi inenarrabile in cui quel libretto rapisce, quando Amelia si fu renduta suora della Carità, la vestii sempre delle forme e dello sguardo più che angelico di suora Geltrude.

Il terzo dì si attese fino alle due pomeridiane, allorchè fu udito giù per la corte un gran roteare di carrozza, e un grande scalpitare di cavalli, e un frustare interminato. Suora Geltrude si fece al finestrello della mia cameretta, il quale rispondeva sulla corte, ch'era delle ampissime: e vide ch'era il cocchiere di sua eccellenza (così quivi dicono al duca), che, per acconciarsi all'ombra, stringeva e rivolgeva indietro una bella muta di quattro britanni destrieri. Incontanente si udì, presso alla cameretta ov'io giaceva, una voce alta e imperiosa. Ed era sua eccellenza in persona che montava le scale. Suora Geltrude non gli diede il tempo di sparire; e uscita subito della cameretta, e fattasegli animosamente incontro, non so che gli disse, nè so che n'ebbe; ma se non le fu possibile d'indurlo ad entrare nella cameretta, lo indusse almeno a permettere che finalmente si mandasse per il cerusico.

Non vorrei che voi credeste che, non già il cerusico, che non fu potuto avere per essere in quei dì andato a Salerno, ma il medico, che fu domandato in quello scambio, fosse venuto quel dì medesimo. Anzi venne soltanto alle due pomeridiane del dì seguente, ch'era il quarto da che il fiero accidente m'era intervenuto. Battevano, dunque, le diciannove ore quando [119] l'uscio della cameretta, spalancato furiosamente da un usciere, vomitò dentro un'onda di giovani sconosciuti; i quali tutti, all'abito, alla cera ed al portamento, rammentavano don Gaetano. Quando costoro furono tutti dentro, non altrimenti che sogliono i soldati nei loro esercizi, fecero ale di se, lasciando per mezzo di essi libera l'entrata a un esimio barbassoro di provetta età e di rigogliosa sembianza, che, con passo solenne, appoggiandosi a un bastone o più tosto a una lunga mazza, incurvava affettatamente il dosso, non perchè tale fosse l'abitudine della sua persona, ma come oppresso dal gravissimo pondo della sua scienza. Come per consuetudine, e senza più quasi avvertirlo, alternava i suoi sguardi quando alle svariate ragioni di ciondoli che gli pendevano dal sinistro petto della giubba, dei quali pareva che tutto si venisse pascendo, e quando a coloro nei quali s'abbatteva. E veduto che da poter ammirare il suo smisurato sapere non era quivi se non io e suora Geltrude, già cortesemente levatasi in piedi al suo entrare, del suffragio delle quali stimo che poco si curasse, inacerbì il viso sì considerabilmente, che quel conforto che l'infermo sente all'appressarsi del medico, sola medicina talvolta del male e dei rimedi, tornò in maggiore spavento.

Postosi a sedere e incavalcato l'un ginocchio sull'altro, que' suoi novizi mediconzolini gli fecero siepe intorno. Ed egli non guardando nè me nè suora Geltrude nè i mediconzoli, ma, per enfiatura, i muri e il cielo della stanza, domandò, non si vedendo a chi e come uomo che ha l'animo assai di lungi da quel che dice, quale fosse il male mio. Suora Geltrude, rimessasi a sedere, gli venne narrando con eloquentissima brevità il caso succedutomi, non tacendogli, com'io avessi già prima [120] il capo ferito, e come per ben quattro dì non fossi stata soccorsa per modo veruno. Le quali ultime cose ella non potette dire altrimenti che a fatica grandissima, perchè il barbassoro, alla novella dell'olio e della buca, cominciò a sghignazzare strepitosamente, quasi invitando que' suoi studenti a fare altrettanto. I quali sbellicandosi alla volta loro delle risa, furono cagione che assai guardie e custodi e serventi che si baloccavano scioperati per le scale e per la corte, e che insino i cocchieri, i famigli, i donzelli, i mazzieri e gli altri straordinari del duca, per l'appunto allora allora arrivato, traessero tutti al portentoso romore.

Costoro, sbatacchiato violentemente l'uscio della stanzetta, che s'era rinchiuso dietro al medico, chi potette capire nella stanzetta, entrò, e chi no, sporse il capo dentro a più potere; di modo che furono innumerabili le teste, che qual ritta e quale curvata, ci furono vedute riempiere tutto il vano di quell'usciuolo. Del quale accidente il medico, non che darsene alcun fastidio, fu anzi il più contento uomo del mondo. E poichè per quella volta la fortuna non gli aveva posto davanti un auditorio più scelto, risolse d'aversi quello, qualunque si fosse, che poteva. Laonde, ritornato assai grave e circonspetto nel viso, slungò un cotal poco più il ginocchio di sotto, e battendo della mazza in terra, rivoltosi a me, senza però guardarmi troppo fisamente, mi disse ad alta voce:

Andiamo, via: che ti senti?

Io poverina, scema più che mai di forze per la dieta di quattro dì, già prossima a soffocare dall'aria mortalmente rarefatta di quella cameruzza, e, nel tempo stesso, fieramente sdegnata degl'increscevoli portamenti del medico e della sua scempiata domanda, stetti un momento [121] sopra di me, quasi risoluta di non rispondere. E nondimeno già, per adolescente qual ero, assai ben avvezza a dissimulare gl'insulti della bassa e della mezzana canaglia, gli risposi che mi sentivo vinta dai patimenti e quasi moribonda; con voce così tenue e così fioca, ch'io credo certissimamente ch'egli non aveva intese le mie parole, quando si volse alla nobile udienza, e facendosi dai principii della medicina, disse cose nuove ed incredibili, e parlò parole sesquipedali. E discendendo da Ippocrate insino a Hanneman, fermò, più tosto in greco che in italiano, la diágnosi del mio male, e concluse che l'acetato di morfina, ministrato nella dose di un trilionesimo di grano, era medicina certissima alle mie infermità.

Dopo la quale conclusione, confermata con innumerabili nomi francesi, inglesi e tedeschi, tutti non facilmente pronunziabili, i quali nondimeno, per il fato singolarissimo d'Italia, riuscivano assai solenni e sonori a quella plebe, rizzatosi in piedi, senza degnare tanto basso da salutare, non dico me, ma suora Geltrude, ci volse rapidamente il tergo, e scomparve in meno che non lo dico, seguitandolo la sua fiorente scuola, e tutto il restante di quella prestantissima ragunanza.

L'usciolino si richiuse sopra di loro: e noi ci rimanemmo libere da un così disonesto frastuono, ma assai più incerte di quel che fosse da fare, e col capo assai più scempio e svanito, che mai prima non s'era state.

XXXI.

La natura e le cure più che materne di suora Geltrude mi furono vero medico e vera medicina. Appena, [122] partita che fu quella marmaglia, l'aria della stanzetta si fu alquanto rinnovata, e che la respirazione cominciò a divenirmi più leggera, nè la mestizia di suora Geltrude, nè la mia mortale debolezza, non bastarono a rattenere il riso, che surse spontaneo sulle labbra di entrambe. Suora Geltrude, pigliato animo del mio sorridere, mi recò incontanente una tazzetta di brodo, ch'io mi sforzai di bere, e che bevvi. Nè avendone ancora ai miei dì assaggiato gocciolo, dopo poco tempo che l'ebbi bevuto, sentii corrermi non so che di mirabilmente vitale per le vene e per l'ossa, ch'io non aveva mai più sentito. Adagio adagio potetti di nuovo sollevarmi a sedere nel letto, di nuovo la ferita risaldò; e per non ve l'allungare, dopo una settimana di questa cura fui in istato di levarmi.

Era l'aprile, e il sole, tutto pregno di vita e di speranza, percoteva risplendentissimo su quel mio benchè assai misero finestrello. Suora Geltrude, tutta lieta e serena di cogliere l'ultimo frutto delle sue angeliche cure, fatta recare una conca ripiena d'acqua limpidissima e tepida, mi tolse la camicia che avevo, ch'era anzi sudicetta che no, ed appressata la conca al lettuccio, e fattami discendere in quella, mi venne tutta lavando con una delicatissima spugna intrisa d'un fine sapone di rosa. E rasciuttami bene la persona con un asciugatoio nitidissimo, mi sciolse e ravviò, e lasciò stare sciolti in forma di zazzerina, i miei foltissimi capelli, i quali, acciocchè il mio capo capisse meglio nella buca, donna Mariantonia aveva ristretti e rannodati, non senza un'infinita fatica; perchè avendomeli ella stessa poco dianzi tagliati per venderseli, erano assai ben corti. Poscia m'aiutò a mettere una camicia di bucato, un paio di calze, e, per la prima volta della mia vita, le [123] scarpe, e mi vestì di sua mano una sottana e la vesticciuola. All'ultimo, cavatesi della tasca due belle pezzuole scempie di seta, m'appuntò l'una al collo con uno spilletto d'acciaio vermiglio, e dell'altra mi fasciò assai morbidamente la fronte, ove la margine della ferita era ancora un cotal poco livida e sanguigna.

Quando suora Geltrude m'ebbe così caramente vestita, prese leggerissimamente il mio capo con ambe le sue mani, e rialzatolo un pocolino, mi baciò nella bocca e nella fronte. Ed a me, che, oltre alla consolazione di vedermi così abbigliata, imparavo per la prima volta a conoscere i non dicibili piaceri della nettezza, mi pareva sensibilmente di avere lasciato in quella conca, nella quale ero primamente discesa dal letto, il grave fascio de' mali miei.

Suora Geltrude, presami per la mano, e condottami fuori della cameretta, e fattami soavemente montare sull'altro pianerottolo delle scale, per corridoi e viottoli molti mi fece riuscire in una bellissima loggia, avanzo degli antichi giardini nominati della Duchesca; che tutta ancora adorna e maestosa d'un bel colonnato dorico, così come veramente era, così pareva una cosa reale. Quivi, per entro il colonnato, interrotta dal quale è sempre più maravigliosa una prospettiva, forse perchè ogni bellezza, se da alcun velo apparisce tramezzata, viene più sovrumana, si vedeva il Vesuvio, che, quasi pegno di pace alla terra ed al mare, facea grembo di se alle onde placide e turchinissime del golfo; e mandando dalla bocca un gitto di fummo sottilissimo e leggero, pareva in lontananza, non già il più orribile dei vulcani, ma un vaso ove ardesse l'odorato profumo onde tutta oliva l'aria che ne circondava. Quindi accompagnando dell'occhio il dolcissimo declivio del monte, [124] l'incontrava il colle di Camaldoli, come un piccolo altarino, sul quale gli uomini della contrada venissero ad offerire umili sacrifici al gran dio del fuoco, acciocchè fosse più tardo a vomitare l'inferno sulle città e sulla campagna. Apparivano finalmente le montagne di Stabia, di Castellamare e di Sorrento, ben cerulee e bene spiccate dal cilestro dell'orrizzonte, e tutte terminate a frastaglio ed a lineette greche: e Capri, all'ultimo, quindi visibilmente divelta da un'antichissima rovina.

O Padre, quanto è mai vero, che tutte le maraviglie non sono nella natura, ma in noi. Io, che, dal primo dì che fui menata via da quell'ospizio, aveva e da Sant'Anastasia e dalla via Carbonara, e, più che altronde, dalle altissime finestre di donna Mariantonia, contemplate mille e poi mille volte quelle eterne bellezze, e mi erano sembrate o insipide o nulle, ne presi quel dì una cosa così grande e stupenda e più che umana impressione, che sempre che poscia me ne rammentai, ed ancora ora che vergo qui queste carte, sono interrotta dalle più cocentissime lacrime.

Il delirio in cui quella scena mi rapì, l'ora tepida e tranquilla, quel senso ineffabile di dolcissima malinconia causato sempre dalla convalescenza, e quel, direi quasi, soave tremito delle ginocchia ch'ella porta sempre con seco, onde mi parea d'essere tanto leggera che il mio piede non toccasse più la terra, mi fecero credere fuori di questo mondo in un altro meno reo e meno infelice, ove mi fosse conceduto alla fine di ricongiungermi per sempre al mio adorato garzonetto, che in quel punto mi parve mio ab eterno, e mi parve che senza lui io non fossi tutta, ma fossi la metà di me stessa. E sentendomi per le guance le tenere mani di [125] suora Geltrude, e stupida guardandola nel volto, e parendomi ch'ella fosse un angelo di quel paradiso nel quale io mi sentiva novellamente salita, già quasi le confidava il caro segreto del mio cuore, quel solo che ancora non le avevo aperto... allorchè venne un usciere del duca a dimandarci.

XXXII.

La stridula voce dell'usciere, e l'agitata perplessità del viso di suora Geltrude, mi ruppero, a guisa d'una bolla d'acqua, la cara visione che m'era apparsa. Suora Geltrude non rispose sillaba, ma, senza mai lasciare di guidarmi per mano, s'incamminò tacitamente appresso a quello.

Per corridoi e scale moltissime pervenimmo a un'immensa sala, dove, presso d'un uscio grandissimo, ma perfettamente chiuso, erano altri assai uscieri messi a nero, ritti in piedi, con le braccia ripiegate sullo stomaco, e, quel che non è facile ai Napoletani, tutti taciturni. Quivi giunte, l'usciere cui eravamo venute dietro, ci fe cenno del viso e della mano di fermarci, quasi fosse dentro da quell'uscio la dea Cerere d'Eleusi, de' cui misteri rompere l'augusto silenzio fosse troppo grave peccato. Poscia, aperto, pianamente e il meno che gli fu possibile, l'imposta destra di quell'uscio, e ficcatosi di traverso nella sottile apertura come un'anguilla, se la trasse subitamente dietro, quasi avesse temuta la profanazione del tempio. Riuscito poco di poi, ci accennò con la mano che si fosse atteso un tantinetto. Rientrò, riuscì, tornò ad entrare e tornò a riuscire non so quante decine di volte, accennandoci sempre [126] misteriosamente che si dovesse attendere. Nè v'era sedia o panca veruna dove poter sedere, ed io già mi sentiva tutta venir meno. Onde suora Geltrude, non ne potendo ella stessa più dalla noia, volse le spalle a quel servidorame, risoluta, che che ne dovesse seguire, d'andarsi con Dio.

Non eravamo appena mosse, che quell'usciere ci corse dietro, bisbigliando nell'orecchio a suora Geltrude, che oramai sua eccellenza il duca già ci sapeva colà, e che bisognava attendere a ogni modo. E mentre suora Geltrude gli poneva in considerazione che le religiose non si tengono ad aspettare le ore intere agli usci nè pure dalle grandissime maestà, e ch'ella era ben ferma di partirsi, ed ecco sua eccellenza, quasi avesse inteso il susurro e la causa di esso, dare una furiosa strappata di campanello. L'usciere non ci consigliò più ma c'impose di rimanere; e, levando le berze assai ridicolosamente, in meno che non balena, entrò, riuscì, aprì ambo le imposte dell'uscio, e ci chiamò dentro.

Allora apparvero i penetrali di Priamo, o più tosto apparve un'altra ampia sala, e sua eccellenza con un gran latoclavo, con infiniti nastri, ricami e ciondoli rappresentanti o pianeti e costellazioni celesti, o animali terrestri, o cose altre pellegrine. Sua eccellenza era presso al muro destro della sala, che con un leggiadro spazzolino di piume spolverava la cornice d'un gran quadro di Raffaello, e, per conseguente, si trovò alquanto rivolto verso di noi, quando l'usciere ci mise dentro. Ma noi non avevamo appena avuto il tempo d'inchinarci, quando sua eccellenza, dilatatasi e rigonfiatasi un istante verso di noi, per tema forse che noi non perdessimo alcun micolino di ciò che gli ornava la parte sinistra del petto, senza credere convenevole di rispondere [127] al nostro inchino, ci volse in un attimo il suo pingue groppone.

Era nel fondo della sala una gran tavola tonda ricoperta d'un bel drappo verde, ed accanto a quella sopra una gran sedia d'appoggio era sdraiato un giovane di forse venticinque anni, tutto vestito da cavalleggiere pollacco, con un morione o caschetto quadrangolare in testa, da un lato del quale sorgeva un superbo pennacchio bianco di penne di colomba, che pareva simbolo a un tempo di pace, d'innocenza e di snellezza. Gli scendevano insino al petto due neri e lunghissimi mustacchi alla cinese: i quali mentre si carezzava e palpava e allungava con la sinistra, con la destra impugnava o più tosto palleggiava e percoteva a quando a quando in terra un'immensa scimitarra, che, non già nuda, ma nascosa in un largo fodero d'acciaio, urtandosi in quello ad ogni scossa, pareva fremere della sua ignobile prigionia. Ed alle percosse ed al fremito della scimitarra rispondendo i colpi degli stivali e dei risonanti sproni contro la terra e contro le spranghe di sotto della tavola, ne veniva tutto insieme un cotale strepito o rimbombio di guerra, che l'eco della capace volta fedelmente ripeteva. Dall'altra parte della tavola, era un uomo di mezzana età, con assai libri e carte innanzi a se sulla tavola, e una seggiola molto modesta di dietro, ma era levato in piè, si vede perchè sua eccellenza s'era levata. In conclusione, questi era il segretario del duca, e l'altro il figliuolo, al quale il duca, quando ci volse così amabilmente il tergo, disse ridendo, ma sforzandosi di reprimere il riso per conservare il decoro ducale:

Buchino, ecco quella ragazza di cui si rise tanto pochi dì sono con la duchessa e con la duchessina.

[128]

Uh! Uh! Uh! Uh!

Cominciò a grugnire del riso il duchino, pure guardandomi con certi occhi fra sciocchi e pazzi, e pure affaticando della sciabla e degli sproni il pavimento e la tavola.

Uh! Uh! Uh!... ma come è possibile!...

Seguitava spalancando sghangheratamente la bocca, digrignando i denti, ritirando in dentro il labbro di sopra, e sporgendo in fuori quel di sotto e il mento: moda di ridere che poscia intesi avere il duchino apparato dai droghieri inglesi, quando nei teatri e nei giardini d'Italia vanno faccendo beffe degl'Italiani, che li tollerano.

Poscia che lo sghignazzío del duchino si fu alcun poco chetato, il duca passando dietro la seggiola del figliuolo, andò ad assidersi alla gran sedia curule ch'era dietro la tavola, nel mezzo, fra il duchino e il segretario. Quando sua eccellenza si fu seduta, tossi, sornacchiò e sputò un gran farfallone in su un bel tappeto turco di velluto cangiante ch'era disteso sul pavimento sotto la tavola. Poscia, senza mai degnare d'uno sguardo nè suora Geltrude nè molto meno me, volto al segretario, disse:

Don Cristofano, vedete se il numero delle alunne dell'opera è compito.

Don Cristofano squadernò un gran libro; e veduto non so che in quello, e richiusolo, piegò le braccia e si volse al duca in quella attitudine, io credo, che lo schiavo romano si rivolgeva al suo padrone, dicendo:

Eccellenza sì, è compito.

Dunque non ho che farvi, disse il duca, a suora Geltrude, avendo sempre gli occhi raccolti in giù sulla tavola. È mestieri ch'ella vada in convento. Nè troppo [129] me ne duole, a dirvela fuor de' denti; perchè di simile sorta canagliaccia non vorrei in alunnato.

Suora Geltrude volle umilmente rispondere al duca. Ma sua eccellenza non aveva appena terminato di profferire l'ultima sillaba, quando tutti gli uscieri, che avevamo veduti di fuori, i quali, entrati nella sala appresso a noi, ci si erano di qua e di là schierati intorno, divenuti tutti banditori:

Uscite, Uscite:

Gridarono con una voce così orrendamente strepitosa, ch'io credo che ne tremasse Vicaria e Porta Capuana, e che tutte le madri stringessero al petto i loro figliuoli. E datoci subito di piglio al lembo dei vestiti, e condotteci fuori poco meno che per forza, ci serrarono l'uscio addosso che ancora quel gran tuono muggiva.

XXXIII.

Convento si domandano colà quelle tane di cui poco innanzi vi toccai. Alle quali per volermi menare senz'altra formalità, non ci si era appena riserrato dietro quel grande uscio, che in un canto di quella prima sala vedemmo aprirsi un usciolino ch'io non aveva scorto dianzi, e due uscieri di quelli che ci avevano cacciate fuori, ci furono sopra come due veltri. Uno di questi due era quel medesimo ch'era venuto in prima a chiamarci nella loggia; e faceva con quell'altro assai cenni e sogghigni. Ed io che non aveva per anche imparato che gl'infelici appaiono sempre ridicoli alla gente, mi guardava stupefatta per tutta la persona, se mai avessi nulla indosso che fosse cosa da far ridere.

Intanto, se bene, come intendete, non al tutto selvaggia [130] di quell'ospizio, nondimeno io ignorava compiutamente gli andari che quivi si tenevano per le fanciulle di età già provetta: e però non mi sapevo ancora risolvere della fiera disperazione che scoppiò nel viso di suora Geltrude dopo le ultime parole del duca. Ma quando que' due uscieri, per interminabile immensità d'andirivieni, c'ebbero condotte in una lontana stanza, tutta intorno intorno scaffali di grossissimi volumi, la quale io riconobbi essere quella stessa dove in uno di quegli scartabelli era stata registrata la mia consegna alla coppia Volpe, io fui ben chiarita del tutto. Perchè alla tavola ch'era nel mezzo della stanza sedeva quel medesimo sopracciò sui passati per ruota, ch'era venuto primieramente a domandarci ed a sbeffarmi il primo dì che, nella cameretta a mezzo le scale, suora Geltrude era tutta intesa a richiamarmi dalla morte alla vita. Il quale, poi che gli uscieri gli ebbero notificata la sentenza del duca, fece di me quello strazio che si conveniva alla sua viltà, ridendo anche di suora Geltrude, alla quale, dopo infiniti altri amarissimi motteggi, finalmente, smascellandosi delle risa:

In fè di presso ch'io nol dissi! soggiunse; voi v'eravate presupposta che per abbigliarla così da nuova sposina, che il duca volesse rimettere della sua giustissima austerità. Ma come san Dionigi nè san Martino non v'impetrarono tanto lume di grazia da farvi accorgere che simile rifiuto di plebaglia non istava bene in alunnato?

Suora Geltrude gli diede del manigoldo e del facchino; e reprimendo a crudissima forza, per non crescerne gioia a quel furfante, le calde lacrime che già le rompevano dagli occhi, gl'impose, come la padrona al suo domestico, di recare al duca, che quando non [131] le fosse presto riparato l'infame torto che se le faceva, acconciandomi fra le alunne, ch'ella intendeva d'aver dimandata la sua licenza e di restituirsi al suo monastero di Regina Coeli, donde si era creduta chiamata a meno ingiurie, ed a vivere fra gente meno discortese e meno salvatica. Nè le villanissime parole, che ne seguitarono contro a me meschinella, del sopracciò e degli uscieri, nè l'incredibile turbamento di suora Geltrude, che già più non bastava a rattenere il pianto, potettero impedire ch'io non raccogliessi da tutto quel dialogo, che suora Geltrude era una delle bennate e gentili religiose francesi, invitate dall'ospizio a reggere e ad educare un centinaio di sue fanciulle nominate alunne dell'opera, le quali, per avere avuti più propizi i santi, non erano state balestrate nelle fiere gole ov'io n'andava; che il numero di queste alunne non era fatalmente di cento, ma si allargava o restringeva a beneplacito del duca; che negli undici dì ch'io era stata come in bilico della vita in quella stanzetta, suora Geltrude aveva fatto ogni estrema opera d'avermi seco fra le alunne; e che, dopo averne avute mille promesse e mille riscontri da tutti gli ufficiali dell'ospizio e dal duca stesso, finalmente i suoi pietosi sforzi erano riusciti al felice fine che avete letto.

Poscia che suora Geltrude ebbe ridotto al silenzio quel mio carnefice, discostatasi un tantino da me, come se volesse fare a poco a poco quello che non era bastante a fare tutto insieme, ed asciugatisi gli occhi con la sua pezzuola bianca in modo, quanto era possibile, ch'io non me ne avvedessi, rivoltasi a me:

Addio, angeletta mia, mi disse con una soprabbondanza di tenerezza che ancora mi sforza al pianto, addio. Tu non meritavi di nascere dalla miseria o dalla [132] colpa, o almeno meritavi di nascere fra un popolo meno barbaro o meno reo. Ma non t'avvilire. Io t'annunzio dolore e pianto e spietata morte su questa terra. Ma Iddio, quell'Iddio al quale non mi è nè pure conceduto d'indirizzarti con quella vivissima fede che m'infiamma, certo non t'inspirò un'anima celeste se non perchè dovevi adornare il cielo del tuo martirio. Segui dunque il tuo alto destino, e levando la mente a Dio calpesta e copri dell'orrore stesso delle tue miserie quegli scellerati che te n'hanno coperta.

Al fine di queste parole suora Geltrude tremando disparve. Io rimasi instupidita guardando l'ultimo lembo del velo di lei che svolazzò dietro l'uscio, e il sopracciò ch'era seduto, e i due uscieri ch'erano in piedi, e me stessa in una spera che m'era di rimpetto. Nè credetti di perdere suora Geltrude per sempre. Nè voi crediate, o Padre (concedetemi la trista superiorità del dolore), che, quando alcuna grande sventura sopravvenga, che l'uomo ne comprenda a un tratto la immensità. Se così fosse, pochi sventurati vivrebbero; e si vede, per l'opposto, che pochissimi muoiono. Ma fra tanta stupidità non potetti fare a meno di non ammirare quanto mai sia grandissima la malvagità degli uomini; che quello sciagurato godeva tanto del mio supplizio, senza che io lo avessi pur mai veduto, o gli avessi mai fatto, o gli potessi mai fare alcun male al mondo!

XXXIV.

Io non trovo più parole che bastino ad esprimere la grandezza de' miei dolori; e nondimeno mi resta a dire assai. E poichè nulla di ciò che mi viene alla penna [133] può agguagliare la disperazione che mi vinse, quando, ritornata un poco in me stessa, mi cominciai ad accorgere d'aver perduta suora Geltrude, me ne passerò in silenzio.

Il sopracciò, senza mai cessare di pigliarsi giuoco di me, trasandò insino a domandarmi delle mie condizioni con parole tanto immodeste, che io, ch'ero l'innocenza stessa, non le compresi. Di poi scrisse in uno di quegli scartafacci il dì e l'ora della mia, com'egli diceva, passata per ruota, e della mia entrata nel convento. Finalmente mi consegnò in anima e corpo a' due uscieri che mi menassero a marchiare, e quindi mi menassero al convento. Costoro, impostomi di camminar loro innanzi, e messami per un lungo e tenebroso corridoio, quando credettero di non poter essere veduti da nessuno, cominciarono a brancicarmi protervamente, a darmi scappellotti e pizzichi ed a gioire della mia disperata confusione.

Io povera infelice, se bene non intendessi tutta l'infamia di questi modi, pure mi parvero cosa troppo disonesta. Nè sapendo che altro mi fare, cominciai a mettere le più acute grida che mai, ed a piangere dirottamente. Allora quegli assassini, battendomi quanto poterono menar le mani, cominciarono a gridar forte che s'io non voleva andare in convento con le buone, vi sarei andata con le cattive; e che sì, ch'essi avrebbero mandato per i soldati ch'eran giù di guardia, e che gli ordini di sua eccellenza si volevano eseguire a ogni modo. E tirandomi violentemente per le maniche e per il lembo della vesticciuola, come se io non fossi voluta andare da me e facessi loro resistenza, destarono una grande indegnazione del fatto mio in tre o quattro ufficiali del luogo, che essendo tratti ai miei gridi, lodarono assai il buon zelo de' due uscieri.

[134]

Mi strascinarono finalmente in quella medesima sala dov'io era stata un'altra volta marchiata quando fui ricacciata nella buca dalla donna di Santa Anastasia. Quivi mi apparvero le cose medesime che già mi vennero vedute altra volta. Monache arcigne, balie sguaiate, e il grosso rettore, e quei da' maschi occhiali che bollava, e quel giovanaccio di pelo rossigno che scriveva; e mai non mi sarebbe parso che fossero passati quattro lunghissimi anni. Gli uomini e le cose spesso si cangiano in un istante, e spesso ancora durano un gran pezzo nel medesimo stato: ed anche ciò è incostanza!

Gli uscieri baciarono religiosamente la mano al padre rettore; e mentre io me gli accostava anch'io asciugandomi gli occhi con una mano, e l'altra distendendo a quella del rettore, gli uscieri mi diedero un forte spintone, quasi che io mi fossi mostrata ritrosa di baciargliene. Poscia gli dissero ch'io era quella fanciulla del fatto dell'olio, che sua eccellenza mandava in convento. Del che poi che tutti ebbero preso il solito sollazzo, gli uscieri mi fecero appressare al torchio, dove mi tolsero con molta grazia la pezzuola scempia di seta, che suora Geltrude mi aveva appuntata al collo. Al quale, poscia ch'io ebbi la consueta stratta di corda, i due uscieri, obbliando di rendermi la mia pezzuola, fra gli scherni e i motteggi universali mi condussero via dalla sala nelle scale. E quindi uscimmo nella corte.

XXXV.

S'egli è lecito alcuna volta paragonare le cose piccole alle grandi, se mai nel lungo tempo che siete dimorato in Roma, dopo aver passeggiate piazza del Popolo [135] e piazza di San Pietro, vi sia venuto posto il piede a caso in alcuna delle bocche del ghetto, e ne abbiate un istante considerati i miserabili e puzzolentissimi tuguri, quella impressione che voi ne avete presa, quella presi io allora delle prime chiostre di quel singolare convento, quando dalle sale e dalle logge che vi ho descritte mi vidi giunta, in fondo alla corte, sulla fiera entrata di quello. L'uscio era a caso aperto; e in sulla soglia non mi parve vedere nè uomini nè donne, ma tre nuovissimi animali, tutti a squame verdastre, con un becco uncinato, con gli occhi tondi e rossi, col mento aguzzo e ricurvo che quasi si congiungeva col becco, e con gli artigli neri levati in su quasi per isforzo, ma tendenti verso la terra come a loro sede naturale. Questi animali ivi chiamano monache; nè di monache hanno altro che un sudicio cencio bianco in capo, accollato alla gola con un funicello, a uso cane; e il resto del corpo era coperto di un altro cencio, vario di colore in ciascuna, non già appuntato in modo umano, ma gittato su alla peggio, non altrimenti che si vede talvolta nei pubblici ridotti alcuna scimmia, ritta in sui piedi deretani, andare attorno coperta d'uno straccio, e procacciare la ventura del suo maestro. A questa sorta d'animali, che al primo vedermi, digrignarono gli arsicci e rari denti, non so se arrabbiando o ridendo un cotal riso d'inferno, mi consegnarono gli uscieri da parte di sua eccellenza, e menando via le gambe, si rivolsero più volte a salutarmi per istrazio.

Mi fu nota, finalmente, alla voce, l'umanità, non altrimenti conoscibile, di questi tre animali. Perchè l'una di esse che m'era più da presso, maravigliando la lindura del mio vestimento, ne parlò alcuna gioiante parola alle compagne. Un'altra, che aveva ferma la mano [136] all'uscio, lo lasciò. Quello si riserrò da se, ch'era a saliscendi; ed io, che venivo dalla luce viva della corte, non potetti veder più lume in quell'oscuro laberinto. Camminavo, intanto, percuotendo ora qua ora là la fronte, perchè le monache, già ristucche e frementi del mio brancolare, mi spingevano oltre con le mani. L'occhio non tardò ad assuefarsi a quella tenebría; e quando io ebbi ben veduto dove la fortuna mi aveva precipitata, compresi quanto è mai infinito il mare della sventura, e quanto ne avanza ancora di sconosciuto a chiunque più si crede di averlo in tutta la sua immensità navigato.

Io non vidi nè sala nè camera nè andito alcuno di figura regolare, ma una maniera di fossi in forma di trapezi, in solo alcuni dei quali, non altrimenti che in fondo alle catacombe, veniva da qualche spiracolo della volta un raggio di luce pallida e sinistra. La quale, intromettendosi per i vani dei più tosto fori, che usci onde quei fossi comunicavano fra loro, non bastava già a fare che in quelli che non avevano nessuno spiracolo ci si vedesse, ma bastava solamente a scoprirne tutto l'orrore. Lo smalto, o più tosto lo spazzo, di queste tombe era quasi tutto tenero e smosso dall'umido, ed in più luoghi sfondato dall'antichità, e l'intonico assai ben grossolano delle mura e delle basse volte era d'un certo colore livido e nericcio, e tutto grommato e impastricciato d'una muffa, che, non dico nulla dell'odore, ma al solo vederla, causava uno svenimento. Per i canti e per le mura di queste tombe erano certe meschine assi o tavole, quale poggiata sopra due piccoli trespoli di legno appena asciato, e quale da una parte poggiata sopra uno di questi trespoli, e dall'altra fitta in una specie di fosserella operata nel traverso del muro. Sopra [137] ciascuna di queste tavole era o un poco di paglia coperta con un pannaccio di canape grossissima, o un sacconcello. Sopra la paglia o il sacconcello giaceva, il più, qualche giovinetta della mia età, quasi immobile per debolezza: talmente che, al primo vedere tutte queste cose insieme, io le presi per altrettante piccole bare, sopra ognuna delle quali fosse distesa una giovinetta morta. Le tre arpie mi spinsero nell'ultima e nella più tetra di queste tombe, e quivi mi lasciarono con altre quindici o venti mie semivive coetanee.

Io era ancora come insensata fra una tanta e così orribile novità, nè nulla per anche non ci sapeva raccapezzare. Mentre, rannicchiata in un cantuccio della muraglia, contemplavo lo sbadigliare e il prosternarsi doloroso di quelle miserabili, e udivo il pietoso lamento di alcune, che giacevano senza quasi più poter dare volta, e le sommesse ma disperate voci di quelle che potendosi appena tener ritte, andavano errando per quel sepolcro, la più brutta delle tre arpie, quella propriamente che s'era allegrata del mio vestimento, ritornò. Quelle fra le giovinette giacenti che ebbero la forza di levarsi, si levarono almeno a sedere sul letto, quelle che vagavano, si fermarono, ed io mi accorsi che costei era come la reina di quell'eterno pianto. Ella recava nella mano sinistra un pezzo non troppo grande d'un pane vecchio e nerissimo, quale io non l'aveva mai veduto nè nel tugurio di Santa Anastasia, nè in casa di donna Mariantonia: tanto che a un tratto io l'ebbi preso per un ciottolo ch'ella avesse tolto per sue bisogne. E porgendo a me quel tozzo con la sinistra, e profondando a più potere la destra in una certa tasca a vangaiuola ch'ella aveva in sul fianco, ne trasse una moneta di rame di cinque grani, e me la porse ancora dicendo:

[138]

Tè, questo ti concede la Madonna. Il resto che ti facesse mestieri, te lo procaccerai con la fatica delle tue mani, se già tu non fossi, come il tuo volto me n'ha ben l'aria, una qualche grande scioperata.

Dettomi ciò, scomparve.

Ed io, che per quella cotale stupida vivacità, causata talvolta del soverchio turbamento de' nervi, non era ancora tanto oppressa che, come sempre segue allo schiavo, avessi perduta insino la facoltà di ragionare, mi maravigliai forte d'una così importabile scarsezza. Perchè suora Geltrude mi aveva raccontato, che, a malgrado di tutte le antichissime ladronerie, per le quali quell'ospizio, edificato cinque secoli fa da alcuni ricchi cavalieri napoletani, che fra i pericoli d'una fiera guerra se ne botarono a Maria Vergine Annunziata, e di mano in mano riccamente dotato dalla munificenza di molti principi e di molti pontefici, fallì di così enorme somma che appena il sacrifizio di quarantamila ducati l'anno di rendita bastò a soddisfare i creditori, nondimeno ancora conserva l'entrata di sessantaquattromila ducati l'anno.

XXXVI.

Non essendo sedia nè scanno alcuno da sedere in quelle grotte, ed io non avendo più la forza di reggermi in piedi, mi sedetti per terra in quel cantoncello dov'ero. Poscia, sentendomi mancare ogni lena, lasciai cadermi di mano il pane e la moneta; e qualche minuto appresso ruppi in un così dirottissimo pianto, che quasi i singhiozzi mi soffocavano. Così mi sfogai alla fine per più di tre ore a piangere, non guardando più in viso a nessuno, nascondendo quanto potevo le mie lacrime, e [139] non accusando più nè il cielo nè la terra nè gli uomini de' mali miei, perchè avevo imparato ch'era tutto inutile.

Quando fui bene stracca di piangere, velai così un poco gli occhi di un certo sopore che non si poteva dire propriamente sonno, ma più tosto una oppressione e uno sfinimento di cuore. Alla fine anche da questo sopore mi sciolsi, e potetti, bene sfogata e bene desta, considerare a mio bell'agio tutto l'orrore dello stato mio.

Erano oramai le ventiquattro, e già da meglio che un'ora non si vedeva più lume nel luogo ove io era. E pure tardò di molto ancora a venire una di quelle tre streghe, ma non già la reina, con una lucernuzza di terra in mano con solo un lume già mezzo morto. Venuta in fondo della bolgia, levò lo scarno braccio che pareva una negromantessa nel solenne esercizio dell'arte sua, e la posò in sur una specie di mensola di legno che sporgeva del muro ov'era stata confitta. Di poi tornava indietro, e in andandosene, mi guardò un momento e fece sceda di me verso le mie compagne, che avevo fatto sgabello del sinistro braccio al mio capo stanco. E senza pure far segno d'avvertire com'era piaciuta la sua sceda, s'andò con Dio.

Al fioco lume di quella lucernuzza io vedeva gli occhi delle mie compagne tutti spalancati e fissi su quel tozzo che m'era da presso. Ed il famelico luccicare di quegli occhi mi messe nel cuore tanta pietà del fatto loro, che al tutto dimentica di me stessa, raccolsi il tozzo di terra, e levando a gran fatica il mio destro braccio, volontieri ne feci loro servigio. In un baleno il tozzo volò di mano in mano e di bocca in bocca; e più d'una si rammaricò gravemente di qualche arrabbiato morso avuto nella mischia su le mani o sul mento. Alla fine una più ardita fra loro, avvicinandosi a me, mi disse, quasi all'orecchio, ma in modo che le altre compagne udirono:

[140]

Poichè sei tanto generosa, che non ci regali tu quella moneta ch'è in terra? Certo per oggi la t'è inutile, perchè di nutrimento nè, come veggo, hai bisogno, nè potresti ormai procacciartene, ch'è già notte. Così stasera darai la buona ventura a noi, che prima al sommo Iddio e poi a te ne renderemo grazie infinite; e dimane con una simile che tu n'avrai, potrai cavarti ogni tua voglia.

Io che all'aspetto dell'altrui miseria non pensai mai alla mia propria, di subito gliene diedi. Ma io non vidi mai mastini allora sciolti uscire addosso al poverello con quel furore e con quella tempesta, che quasi tutte quelle sciagurate, insino quelle che per fiacchezza erano giaciute tutto il dì su i lettucci, precipitarono addosso a colei che aveva già tolta la moneta. I gridi, i pugni, i calci, lo stracciarsi a ciocca a ciocca i capelli, il tirarsi contro a vicende i trespoli e le tavole dei letticciuoli, e il rompersi tutte a sangue, furono cose non più udite o vedute. Finalmente comparvero le tre maliarde, e con voce ch'io non avrei mai creduto che ne avessero tanta nella gola, minacciarono pene sterminatissime se quel tafferuglio non si chetava. E chetatosi il tafferuglio, e inteso il fatto come stava, la reina strappò la moneta a quella prima cui io l'aveva data, e, volgendo le spalle con le altre due sue vecchiarde, se l'appropriò come cosa a lei debita per legge.

XXXVII.

Io rimasi immobile in quel mio canto mentre durò quella nuova commedia. Ma non sorrisi, perchè non ne avevo la forza, e perchè in tutto lo spettacolo, il ridicolo [141] era di gran lunga vinto dall'osceno e dall'atroce. Intanto era già notte ferma, ed alcune delle più malconce fra quelle dolorose, già si andavano posando in su i letticelli, dico a due a due e insino a tre a tre per letticello; mezzo spogliandosi quei cenci ch'avevano indosso e mezzo no, e ricoprendosi malamente con qualche altro straccio. Ed io, che avrei mille volte tolto di giacermi tutta la notte in terra più tosto che di contaminarmi di tutte le brutture onde quei lettucciacci parevano ed erano veramente ripieni, nondimeno, non ne potendo più dalla fiera umidità di quello smalto e del muro ov'ero appoggiata, che quasi tutto grondava gocciole freddissime, feci una gran prova di levarmi in piedi, e d'accostarmi a un letticciuolo che m'era più da presso, nel quale mi parve che ci dovesse poter esser luogo per me non vedendovi su che una sola di quelle tribolate. Balzò colei dal lettuccio, come se la tarantola l'avesse morsa, e balzando, mise un tale spaventevole grido e così storse gli occhi e così aprì le fauci, che quando lessi d'Aletto, del cui fischio spaurì tutta Italia, prestai sempre a questa furia il gesto e la sembianza di colei.

Accorsero al terribile segno le tre fattucchiere, alle quali quella loro ancella del grido fece palese ch'io voleva coricarmi nei loro letti senza pagare. Allora la graziosa badessa, come sforzandosi d'inchinare al benigno quella sua cera ferina:

Povera la mia ragazza, mi disse; tu non sai ancora bene le nostre costumanze. Sappi, dunque, che la Madonna non somministra letto nè altro, ma, come già mi pareva di averti detto, quindici once di pane e cinque grani il giorno; e tu hai già avuto tutto per oggi; e vedi che non è poco; e si può dire che non ti spettava, [142] che quando ci sei venuta era valico di molto il mezzodì: ma io non ho mai avuto il mal dello stitico. Il pane, ch'era del buono, credo l'avrai già mangiato, che non se ne vede orlicciuzzo di residuo. E se dei cinque ottimi grani ch'io t'ho annoverati, tu ne hai voluto far limosina, per rimedio forse dell'anima tua e de' tuoi parenti, tu ben facesti, nè io te ne saprei dare altro che lode. Ma per istanotte tu non ti ci coricherai. Perchè il posto del letto costa tre grani per notte; e tu al certo non li hai. O li avresti per disgrazia?... ed allora ti ci potresti coricare.

Io non li ho, rispos'io con un fremito di sì ferale rabbia, ch'io non avrei mai creduto che tanta me ne potesse scoppiare dal cuore, che fu pure albergo perenne di umanità e di dolcezza. E guardandomi come forsennata le mani e le dita e l'ugne, tutte convulsivamente rattratte, se mai bastassero a fendermi il petto e squarciarmi le viscere e porre una volta in terra queste membra, e pure vedendo che non bastavano, con ambo i pugni stretti mi percossi disperatamente la fronte, di sorte che la pezzuola di seta, di cui quell'angelo di suora Geltrude me l'aveva fasciata, si sollevò e cadde in terra, ancora annodata a tondo come un piccolo turbante. Immantinente la raccolse la badessa, e sciogliendola e gualcendola e poi sciorinandola verso la lucerna:

Or vedi, mi disse, e' ci saria pure il modo che tu non passassi una così fiera notte, com'è quella che ti s'apparecchia. Questa pezzuola come già tu déi conoscere, vale meno che nulla, e se tu la vedi tesa avanti il lume, vedrai come ride tutta. E nondimeno io, per fartene servigio, la torrei pe' cinque grani; e ti migliorerei di tre grani, perchè veramente la non vale più di due. E pure mi peggiorerei di tre grani per non vederti morire [143] stanotte su la nuda terra. Tu poi dei cinque grani ne daresti tre a me, che con le mie suore do a nolo questi letti, per non vedervi patire; e Dio sa se ce ne disertiamo: dormiresti accanto a questa mia ancella, che ora mi ha chiamata, e, per giunta, ti rimarresti ricca degli altri due grani.

E mentre mi diceva queste parole con assai ungimento, e come se non avesse avvertita la mia orribile disperazione, stendeva la mano quasi per porgermi il fazzoletto, e come veramente pentita della troppo larga profferta. Io, già tutta indolenzita la persona per la mortale umidità di quel suolo, già stracca e rifinita dal digiuno, e più dalle orrende afflizioni della giornata, non potendo più tenere il capo levato, che già la tomba e le streghe e la lucerna cominciavano a vacillarmi e rotearmi intorno, ebbi appena la forza di spingere un tal sì fuori della bocca, che la strega stette un momento sopra di se, incerta della mia deliberazione. Poi, vedendo ch'io, già barcollando, cercava il tettuccio a tentoni, quella sua fida ancella, sostenendomi alcun poco il fianco, mi v'accompagnò; e mi vi compose su alla meglio così come stavo, senza spogliarmi, ed ella medesima mi vi s'appiattò allato. Le vecchiarde disparvero col fazzoletto, non si ricordando, come il dì seguente me n'addiedi, di darmi i due grani. Ed io, guardando fiso il moribondo lume della lucerna, perchè non mi avanzava nè pure la forza di distorne gli occhi addolorati, li chiusi finalmente al morire di quello, come s'io mi morissi anch'io; e chiudendoli mi parve che, da che avevo veduta l'ultima volta suora Geltrude, io avessi camminati dieci lunghi anni di sciagure.

[144]

XXXVIII.

Non fu sonno quello ch'io dormii, ma una certa sonnolenza o litargia di relassamento. E quale sonnolenza! Il volgo ha sempre sulle labbra mille dettati e proverbii, che accennano di felicità sognate da infelici. Ma io credo e so per esperienza che lo sventurato sogna sventure; e che il fato, insieme col vero bene, gli dinega anche il finto.

L'ora ch'io giacqui risupina su quel duro paglione, io non sognai già gli accidenti della giornata, come il più delle volte interviene. Ma non è in questo vero mondo che ci è dintorno, o in quell'altro che ha vita solo nella fantasia degli uomini, nessuna o cosa o ombra, o brutta o terribile, ch'io non sognassi quella notte. Cadaveri, becchini, feretri, mortori, sepolture, scheletri che mi minacciavano, e, volendo io gridare, m'imponevano silenzio accostando l'ossa del dito al cavo del teschio, assassini coi pugnali nudi che m'erano sopra e già mi sgozzavano, l'oceano furibondo in una notte caliginosa ed io sola sur un battello e intorno a me mare e cielo da per tutto. Mi fu veduta alla fine una larva squallidissima, ed avea le sembianze della massima fra le tre maliarde. Mi s'appressava lenta e minacciosa da prima, ma quando mi fu vicino, aprì la bocca per mordermi. Gli occhi si fecero fuoco e le uscirono della fronte, ed ella ingigantendo, toccò la volta col capo che ripercosso tornò sul mio. Ed io volli gridare e non potevo, e mi destai; e mi trovai sulla fronte il pugno della fida ancella che mi dormiva a fianco.

Tu non ci lascerai dormire persona stanotte, mi disse [145] l'ancella, con cotesto tuo sordo gemito; che m'hai già rotto il capo. E se vuoi piangere, piangi il giorno, e la notte farai bene a farci dormire.

E levandosi a sedere sul letto, io non so donde si togliesse quegli arnesi: ch'io le vidi, a una sola percossa di fucile, trarre il fuoco della pietra, e accenderne l'esca e il zolfino, ed all'ultimo un piccolo moccolino, che appiccò così com'era acceso all'estremità del trespolo che le sporgeva da capo, e vi ripose accanto gli altri arnesi. Come più tosto ci si potè vedere, mi fece un gran cipiglio adirato, e sollevando quello straccio che le serviva di coltre, vi si asciugò il pugno bagnato del freddissimo sudore onde tutta la fronte mi gocciolava. Di poi scese nuda del letto, e grattandosi, anzi graffiandosi per tutta la persona in un certo modo assai sconcio e plebeo, si gittò in dosso quello straccio; e tolto di sotto il letto, ove, si vede, lo aveva preparato, un bicchieruolo di vetro tutto rotto agli orli, nel cui fondo aveva qualche gocciolo d'olio, andò a rifornire ed a riaccendere la lucerna.

Poscia che il mortifero incubo o la villana percossa della donna m'ebbero destata, io non potetti più chiudere le palpebre. L'ancella mi si ricoricò allato tuttavia borbottando; e il suo borbottío, e il passeggiare che facevano la grotta e i letti topi grossissimi, piattoloni e lucertole verminare, e lo scrosciare dell'acqua che veniva giù a furia dalle grondaie prossime al finestrucolo di quella prigione per una gran pioggia che s'era messa, mi tennero desta tutto il rimanente della notte.

Non andò guari che un raggio di luce si fu messo per quel foro ingraticolato di ferro, e cominciò a farmi la rete sul lettuccio. Questo raggio di luce non m'arrecò speranza e salute, come il dì dinanzi; ma disperazione [146] e languore di morte. Versai qualche altra lacrima, ma presto mi racchetai per debolezza estrema. Fino che non vidi la luce del dì, non avendo tocco nulla di cibo da trentasei ore, sentii qualche stimolo di fame. Ma il primo raggio che mi ferì gli occhi, m'estinse quello stimolo, e non mi conoscendo più la forza di alzare un solo dito, nè avendo nessuna cagione di sperare la mia liberazione, mi risolsi di morirmi di fame. Ed avendo non una volta udito dire, che chi si muore o di sua mano o per qualunque altra operazione della sua propria volontà, cade fra le bocche di Lucifero per giudizio inesorabile di Dio, che non consente che l'uomo repugni all'ordinamento di Lui quando per suoi imperscrutabili fini destina alcun mortale a una lunga agonia su questa terra; ne prendevo un grande spavento. E nondimeno, acquetandomi nella mia assoluta impossibilità di poter vivere in quelle eterne tenebre, fra quelle anime già in vita dannate, mi parve finalmente che niente di peggio io avrei potuto mai trovare nel vero inferno. E parte, non troppo buona loica, ignorando che non si può volere e pentere al tempo stesso, mi confortavo di poter ottenere già prima di morire il perdono da Dio della mia morte. E raccolte tutte le forze dell'anima mia nel profondo di me stessa, e volta la mente a Dio, lo pregai con ferventi preci a rivolgere un istante sopra di me il suo divino sguardo, ed a considerare se non gli paresse che il calice della mia passione fosse già consumato. E perdonando con intensa volontà a chiunque mi avesse fatto male sulla terra, ed a' miei ignoti genitori, ed alle balie, ed alla donna di Sant'Anastasia, ed a donna Mariantonia, ed al duca; di tutti i sentimenti amari ch'io conservava nel cuore contro agli uomini feci olocausto a Dio in redenzione di quel peccato nel quale avevo a cadere. E pregandolo, [147] alla fine, ad aver misericordia dell'anima mia, ed a riguardare con giusti occhi quella mia operazione, compostami con gravosa pena sul letticciuolo, tutta mi disposi ad attendervi la morte, che non mi pareva troppo lontana, tanto mi sentivo esausta e rifinita.

XXXIX.

In questo mezzo l'ancella, levatasi, andò a letto per letto gridando in capo a quelle malarrivate, che si levassero. Ma in capo a me gridò indarno. Io a gran fatica la udii, e per nulla non mi curai della sua intimazione.

Erano, credo, le quindici ore, quando sopravvenne la badessa con le due suore del dì dinanzi, ed altre suore assai; e tutte, ai vaghi lineamenti dei loro volti, pareva che si rendessero l'aria l'une all'altre maravigliosamente. Mi si posero tutte a considerare; e veduto ch'io m'incamminava a gran passi per quella via che tutti dobbiamo correre ultimamente, non si diedero più nessun pensiero del fatto mio. Ma cavata di molta stoppa dalle loro profondissime tasche, l'andarono distribuendo a molte fra quella giovanaglia, acciocchè la filassero e ne facessero parecchie paia di lunghe e grosse calze. E la badessa, incorandole al nobile lavorío:

Orsù, giovani valorose, diceva; così oggimai conviene che voi vi spoltroniate. Questa bella stoppa, acciocchè voi sappiate, è di alcune egregie donne di Caserta, e me l'hanno recata acciocchè io ne faccia fare di belle e di morbide calze, chi ai mariti e chi ai fratelli, che stanno espiando nelle pubbliche galere qualche lieve colpa di gioventù, come d'essersi gittati alla strada o cose altre. Voi già sapete ch'io ve ne pagava un grano [148] il paio di fattura; ma ora ve ne pagherò solamente un tornese: e Dio sa s'è troppo! che di ciò che vi do pei lavorii, mai non ne ricolgo la metà. E mai nessuno non si pentì tanto del fatto suo, quanto io d'essermi messa in questo ginepraio. Ma i fatti son maschi e le parole femmine, dice il proverbio. Ed io, come femmina, non so far altro che parole; e sempre mi lascio vincere dal mio buon naturale.

Dopo una sì eloquente diceria, ch'ella profferì con tal enfasi, ch'io, temendo d'esserne io il subbietto, mi riscossi palpitando, la badessa andò via con l'altre suore. Le elette fra quelle giovani donne si messero all'affannoso mestiere, che, a lavorar tutto l'anno, prometteva loro un sei grani di guadagno; e l'altre se ne stettero, chi a dondolarsi immodestamente su i lettucci, chi a vagare con le mani spenzolate per la chiostra, chi a cantarellare goffamente, che il cervello me ne scoppiava fuori della fronte, e chi a rampicarsi, con ogni più strano argomento, sulla muraglia, per tentare, afferrandosi all'ingraticolato del finestrello, di veder qualche viso d'uomo di fuori.

Io era in quella prima età, in cui tutto, insino la sventura, insino la morte, è poesia. Allora l'uomo, ignaro della fatale tenacità onde la natura, provvedendo alla conservazione delle specie, inchioda l'animale nella vita, immagina che il torsela sia cosa facile. Forse è questo un benigno risguardo della Provvidenza. Perchè, come egli avviene che l'uomo più agevolmente sopporti quei mali da cui crede di potersi sciogliere a suo libito, e sia poi impazientissimo di quelli ai quali si crede inevitabilmente soggetto, così in quel primo mare di dolore in cui affatichiamo in sull'uscire della puerizia, l'inganno che ci tiene tutti, di poterne uscire a riva sempre [149] che la tempesta infierisca troppo, ci mena, come per un sogno, di giorno in giorno, e quasi ci addormenta in seno all'onde. Sopravviene poi l'età del disinganno di tutto, anche del potersi torre così agevolmente la vita. Ma ci trova già da lungo tempo battuti e fatti alla scuola del dolore; e già accomodati, quel che ci parve impossibile nelle prime lezioni, a sopportare e ad esercitare il tristo e difficile mestiere della vita.

Battette il mezzodì all'oriuolo dell'ospizio, ed apparvero nella cameraccia due di quelle oscene suore, se già non vi paia ch'io troppo contamini questo nome; ma non la badessa, nè quell'altre due sue fedeli segretarie. L'una portava con ambo le mani una larga e fumante pentolaccia, con entro qualcosa che gittava intorno intorno un grande odore. L'altra portava un monte di scodelle di creta rozzissima, e sulla scodella ch'era in cima del monte erano molti cucchiai di piombo. L'una e l'altra posarono in terra la pentola e le scodelle. Quella delle scodelle tolse la scodella ch'era in cima e la pose anche in terra accanto al monte delle altre, e cavatisi di tasca assai pezzi di quel buon pane della sera dinanzi, ne distribuì uno per testa a tutte quelle tapine. Allora queste, in meno assai che non lo dico, quale levandosi del letticciuolo e quale deponendo in qualche cantuccio la rocca col pennecchio o la calza, togliendo ognuna una scodella e un cucchiaio si assisero in terra a cerchio intorno alla pignatta, con le gambe incrocicchiate sotto le cosce, perchè altrimenti non sarebbero potuto capir tutte intorno a un'olla sola; nè in altra guisa, che vediamo talvolta, in qualche stampa di costumi orientali, stare i Turchi a quel loro strano desco, se non che quivi, in luogo di tappeti e di piumacci, v'era quello smalto umido e sfondato.

[150]

Questo fatto dell'acchiocciolarsi tutte a tondo fu operato con rara speditezza. Le due maestre si accovacciarono nel modo stesso alle due estremità del diametro; e profondando elleno le prime il cucchiaio in quel capace pentolone, diedero le mosse a quei barberi, che di poco avevan mestieri a giungere al palio.

Forse avete veduto, padre mio, fra i vostri villerecci diporti, se talvolta la contadinella in sul mezzodì, con un catino di crusca sotto il braccio, s'avvia dalla casetta nel giardino, gridando, ti ti, ti ti; che tutti i polli le corrono appresso a stormo, e come più tosto ella ha posato in terra il catino, tutti sono intorno intorno a quello, e non vi capendo entro tutte le loro testoline, i più piccini ficcano il loro picciol collo di sotto quello dei più altetti, e se taluno leva il capolino per raccogliere lo spirito o per ingozzare il beccato, ed ecco un altro, che non aveva potuto rompere l'ordinanza, porre immantinente il capo donde quello l'ha tolto. Questa immagine mi rendette quel ghiotto e saporito desinare. Eran ceci soffritti nell'olio, e me ne veniva alle nari un così aguzzo e appetitivo odore, ch'io non so com'io abbia a fare a discacciare la vergogna o a trovare le parole per dirvi che quell'odore mi vinse.

Di subito mi ricorsero al pensiero tutti i diavoli e tutti i martorii dell'inferno, e così come pur dianzi mi erano sembrati nulli a quelli che mi s'apparecchiavano sulla terra, così allora mi parvero troppo più insopportabili. Nessun oratore, nessun dialettico seppe mai trovare tanti sillogismi per persuadere ad altri l'assunto suo, quanti ne trovò in un baleno la mente mia per persuadermi ch'io dovessi continuare a vivere, e per conseguente, mangiare di quella vivanda. Incontanente [151] mi ritrovai la forza di levarmi a sedere sul letto, e per insino di scenderne, e tenermi ritta, e camminare; e facendomi dal posto dove quelle così esquisitamente mangiavano, dissi con quel filo di voce che m'avanzava:

O sorelle, darestene un cucchiaio anche a me, acciocchè io non mi muoia al tutto di fame?

Perchè no, rispose quella che pareva la più benigna fra le due suore. Se tu hai, non dic'altro, un altro solo grano in tasca, tu ne potrai torre una buona satolla.

Come, soggiuns'io, non è cotesto il nutrimento comune di tutte le mie compagne?

Povera la mia bimba, ella mi rispose con amara e velenosa ironia. Io non so se tu non intenda, o se veramente tu non voglia intendere, quello che hai già bastantemente udito. La madonna non dà nè ceci, nè olio, nè letto, ma quindici once di pane il dì, e cinque grani. Il pane gli è questo, (e ne cavò della tasca, che n'era piena, un tozzo simile a quello del dì davanti). Dei cinque grani, tre ne vengono a noi per il letto, se già tu non volessi dormire in terra stanotte. Restano due, che non bastano, perchè questa vivanda costa tre grani per testa. Abbimi dunque per iscusata, ed eccoti i due grani che t'avanzano.

O come! dissi io, respingendo con un poco di sdegno la mano ch'ella già mi stendeva per darmi i due grani; o chi dà l'altro grano il dì all'altre fanciulle?... Quegli lo darà anche a me.

Senti! disse la suora. All'altre fanciulle lo danno le loro mani. O non vedi tu com'esse hanno lavorata la calza e filata la stoppa tutta la mattina, tanto che la carne s'è loro spiccata dall'ugna? Tu sai solamente levarti [152] a ora di desinare, e trarre all'odore. Ma se tu guardi un poco più in là, tu t'accorgerai che questi ceci, chi non se l'è faticati, non li mangia.

Io mi volsi dov'ella m'additò, e vidi in su certi lettucci in fondo della spelonca non poche di quelle cattivelle, e, il più, le fanciulle; delle quali, perchè m'erano alle spalle quand'io giaceva sul letto, non m'era punto avvisata che non avessero fatto cerchio alla pignatta. Queste, non altrimenti che il cane rode l'osso, si rodevano quell'orribile pane, e pure guatando di traverso alla pignatta ed al fummo che ne usciva, e col capo all'insù quasi bevendo col naso l'odore ch'ella gittava, mi messero nel cuore una gran pietà del fatto loro, benchè io cominciassi ad averne una non minore di me medesima. E non irricordevole in quel punto de' due grani non rendutimi la sera innanzi da quella loro badessa:

Or bè, le dissi; due grani avete già; e due ne ha la badessa di miei, che non me li rendette iersera, ed ecco un grano più dei tre che voi dite. E lasciatemi, per pietà, torre un boccone di questi ceci, ch'io non mi muoia. Ed abbiatevi anche il pane; ch'io non avrei la forza di masticarne nè d'inghiottirne un solo boccone, tanto mi dolgono i denti e le gengive, e tanto ho arida e risecca la gola.

O Vergine Maria, rispose la strega adirata. Quanto mai è lungo e noioso il noviziatico di questa fanciulla; e com'è perfidiosa e linguacciuta. Sì signora, si ritennero i due grani per la lucerna che v'avete goduta iersera e stanotte; e costa due grani per testa la settimana. E se tu l'hai tu il capo di zucca, che ti possa far lume la notte, noi non l'abbiamo già noi. A tempo di carestia pan veccioso, disse il proverbio. Se tu hai [153] fame, e tu mangiati questo pane, ch'è buono. E non mi rompere più il capo.

E così detto, e gittatomi quel tozzo nel viso, si rimesse alla danza del cucchiaio, visto che, perchè ella non l'avesse menata mentre aveva parole con me, non però era stata punto intermessa dall'altre.

Allora l'altra buona suora, che l'era al dirimpetto, non ignara, io credo, della pezzuola della sera innanzi:

Ascoltate, suora Rachele, le disse. Voi siete umanissima fra tutte le suore, e so che assai v'incresce di questa povera fanciulla, comunque, per ben educarla, vi sforziate di parere brusca nel viso. Ma udite. Insino ch'ella non possa togliere a lavorare alla volta sua, ella vi darà quella sua tonacella di merino di Francia; e poichè la benigna stagione lo consente, si rimarrà con sola quella sottana che ha di sotto, che veggo ch'è assai recipiente. Io voglio aver detto insino ch'ella ne avrà per un mese di buon desinare. Che ne dite, eh!; sarebb'egli troppo a pagargliene tre carlini?... E se la tonacella non vale tanto, voglio più tosto avervi a rifar di mio. Ma, a dirvela, non mi regge più il cuore di vederla languire a quel modo.

Suora Rachele faceva le lustre di balenare come se la tonacella fosse valuta assai meno dei trenta grani. Ma io, spogliandomela senza più, gliene diedi, e mi rimasi in gonnelletta, che quasi a un tratto ebbi scorno di me stessa. E vedendomi parte del seno ignudo, mi ristrinsi ed appuntai con frettolosa e tremante mano la camicia al collo, come seppi il meglio, con quello spilletto d'acciaio che a fatica avevo recuperato dagli uscieri, quando mi spuntarono la pezzuola, che poi non mi rendettero. Suora Rachele piegò studiosamente la tonacella, e ripiegata se la messe in seno. Ed io, ingegnandomi [154] anch'io di accoccolarmi in quel foltissimo cerchio, soddisfeci di qualche cucchiaiata di ceci all'imperiosa necessità della natura.

XL.

Ma già sono io stessa troppo sazia di andarmi ravvolgendo fra tante e sì inaudite meschinità. Le quali s'io mi sono potuta risolvere a raccontarvi tutte così com'elle furono, io spero che prima Iddio e poscia voi, o padre, me ne avrete qualche conto nel ponderare la giusta espiazione delle mie colpe. Non è piccolo rinnegamento di se, nè piccolo trionfo sopra l'orgoglio concreato dell'uomo, il raccontare tutta la verità d'una vita oscura e tribolata. Perchè gli uomini, e leggendo e scrivendo, cercano il nobile e il maraviglioso, in fine, il poetico, ed abborrono sopra ogni cosa il prosaico; cioè, cercano l'ideale e il fantastico, in fine, il falso, ed abborrono sopra ogni cosa il vero. Questo annullerà sempre ogni utilità delle vite e delle memorie che altri scriverà di se stesso. Perchè la vita è il vero, e il vero è prosa; e di Giovanni Iacopi ve ne fu un solo.

Per non moltiplicare in più parole, vi dirò brevemente che quelle vecchiarde, non già, come loro malamente è detto monache, perchè non hanno fatta professione alcuna, ma in sostanza converse ovvero oblate, sono, per così dire, il rifiuto di molte generazioni d'uomini e di cose. Sono il rifiuto de' loro genitori, perchè sono anch'esse degli esposti; sono il rifiuto di tutta quella canaglia, uomini e donne che vanno a torsi i bambini alla Nunziata per tutte le ragioni che già vi dissi; sono il rifiuto della Nunziata medesima, che le [155] caccia nelle sue più fiere spelonche; e ultimamente sono il rifiuto di tutti i vecchi o giovani che per voto vengono a menarsi a moglie qualche fanciulla di quel convento. E così di rifiuto in rifiuto, pervenute a una età assai ben provetta, si offeriscono a Dio, che non sappiamo in quanto grado abbia la loro offerta, ma senza professare, e non desiderando nessun'altra cosa al mondo tanto, quanto l'occasione, qualunque ella sia, di cavarsi quella pezzuola di testa.

Tali essendo quelle suore, per vivere con un poco meno di disagio, s'industriano sottilissimamente di fare alcun negoziuccio; nè avendo alle mani altra merce, che il mangiare o il dormire o il vederci delle fanciulle, trafficano, come meglio loro vien fatto, la lucerna, i paglioni e la minestra.

Pigliano, oltracciò, a lavorare, di calze o d'altro, da chi possono, e in vece di lavorar esse, fanno lavorare le fanciulle; cui quel pochettino che danno di fattura lo pagano in olio o in paglia o in ceci, o per meglio dire, fingono di pagarlo così ed in effetto non lo pagano. Perchè ritenendo, in conto di quel nonnulla che somministrano giornalmente, i cinque grani per testa che l'ospizio paga a tutte le abitatrici di quella chiostra, si può dire francamente che nè pure quei cinque grani li spendono tutti. Esse poi dalla gente di fuori riscuotono per la fattura quel ch'ella veramente vale, e se ne avvantaggiano di non poco.

Spesso non v'è da lavorare per tutte. Allora le mercatantesse danno da lavorare alle più svelte, e l'altre per quel grano il dì che non hanno da dar loro beccare di più, rodono quel tozzo, e si struggono, anzi si svengono di voglia alla vista e all'odore della fatale minestra, cui le arpie non consentono loro di approssimarsi.

[156]

Esercitano, in oltre, un'altra specie di onesto commercio: ed è il seguente. V'è alcuni santocci, che per ogni menomo accidente, per ogni più lieve malattia o qualunque vogliuzza si ficcano in capo di cavarsi, di subito si botano alla Beata Vergine, che se o quell'accidente si risolva nel modo che loro torna il meglio, o guariscano di quella malattia, o si cavino quella vogliuzza, di sposarsi una sua figliuola; che con questo bello e troppo poco osservato nome siamo noi altre esposte domandate. E come piuttosto, o quell'accidente è risoluto in loro pro, o sono risanati di quella malattia, o è loro venuto fatto di cavarsi quella vogliuzza, ecco traggono all'entrata di quella chiostra, e si raccomandano alle suore di scegliere loro la più bella fanciulla. Le suore patteggiano e vendono la futura bellezza delle costoro mogli; e in quello scambio, per serbarsi le meno brutte a migliore ventura, menano loro per l'ordinario le più orrende.

Io non so se dirvi o tacervi, che poco di poi il mio felicissimo arrivo, un dì io vedeva quelle suore entrare e riuscire non so quante volte dalla grotta ove io era, menandone sempre con loro qualcuna delle mie compagne, e poi tornando con quella, rimenarne via un'altra. E mentre piena di maraviglia non mi sapevo risolvere di quella novità, ed ecco la badessa in persona che con piglio meno arcigno del solito, mi prende per la mano e mi conduce presso all'entrata. Quivi era un brutto vecchiardo, piccolo, scrignuto e mal fatto, con un naso lungo un braccio, con due stecchi di gambe, e con un giubboncello assai ben sudicio indosso, e tutto orlato d'un nastro bianco, per segno del voto, com'è qui il costume. Per non allungarvela, questi era uno di quei cotali, e, dispregiato da molte, mostrandosi a [157] vicenda di non facile contentatura, molte egli stesso ne dispregiò delle non brutte; ed alla fine, o per la mia nudità che me lo facesse pietoso, o ch'io avessi la sventura di sembrargli bella, scelse me, avvicinandomisi protervamente, e volendomi già accarezzare come sua moglie. Io mi messi a gridare come se il diavolo m'avesse brancata, e la badessa mi teneva forte ghermita: e credo che m'avrebbe senz'altro sacrificata, se quell'opera di sposare quel ceffo si fosse potuta condurre senza l'intesa di tutto l'ospizio e del duca stesso. Ultimamente a malissima pena me ne sciolsi, e fuggendo alle mie compagne, e raccontando loro il caso, ebbi da loro, che quegli era un lordo vecchio che s'era botato di sposarsi una di noi, se mai, sudo a dirlo, fosse guerito d'una cavernosa fistola ch'avea non so dove.

XLI.

Mi pare quasi inutile di dirvi, che non sapendo io lavorar nulla da principio, ne anche far la calza o filare, e poscia che l'imparai, spesso a bello studio non essendomi dato lavoro da quelle streghe, nè trovandomi io altro modo di soddisfare a quel grano di più il giorno, ch'era mestieri per aver la minestra, nè dandomi il cuore, così cagionevole com'ero, di rosicchiarmi quel vituperevole tozzo; che, quando il mese della tonacella fu finito, io mi lasciai scroccare in simigliante guisa quel misero spillo d'acciaio, e quel paio di calze ch'avevo; rimanendone a gambe e piedi nudi, e ultimamente quel paio di scarpette, in iscambio delle quali, per non lasciarmi al tutto scalza, fui provveduta d'un paio di zoccoli assai ben vecchi. Nè fu una sola quella settimana [158] o quel mese, ch'io dovetti per filo, a malgrado dell'orrore che ne avevo, contentarmi di quel nefando tozzo di pane. Mi pare inutile ancora di dirvi che suora Geltrude, come poscia riseppi, quel dì medesimo ch'io fui strascinata in quelle grotte, mi aveva mandato per la sua donnicciuola l'altro paio di calze, l'altra sottana, l'altra camicia, e di più di ciò che già mi aveva donato, due moccichini di refe; e tutto mi fu rapito dalle suore, se non che, in quello scambio e in nome di suora Geltrude, mi fu recata una camicia, non veramente quella donatami da lei, ma un'altra di tela più grossa e già assai ben logora; e che non avendo ottenuta la licenza chiesta al duca (il quale, acciocchè dalla partita di lei non rimanesse offesa la sua ducale maestà nella opinione degli ufficiali dell'ospizio, bravandola in pubblico e mitigandola in privato, la riteneva), non lasciava passare mai nè mese nè settimana, ch'ella non mi mandasse qualche soccorso in roba o in danari, ch'era tutto rubato dalle suore.

Questa vita strascinai io per ben undici mesi, morendomi ora di caldo, ora di freddo e sempre di fame; non vedendo anima nata, fuorchè le orride vecchiarde, e le cattivelle e malcondotte giovanette; ed essendo, solo i dì di festa, menata, come pecora insieme con tutta la mandria, in certe paurose buche, donde per fittissime gelosie si udiva la messa nella magnifica chiesa dell'Annunziata. Quella chiesa, udiva dire io, che per instinto naturale ebbi sempre un'ardentissima cupidità di sapere, bruciò nell'anno mille settecento cinquantasette, e dal sessanta all'ottantadue fu rifatta, con assai lode, dal Vanvitelli. Quarantaquattro grandi e belle colonne corintie di marmo bianco facevano un vivo contrasto ai miseri occhi miei con quelle tetre spelonche alle quali erano [159] assuefatti. Ma il contrasto più grande era fra i visi di uomini e di donne ch'io vedeva nella chiesa, e quelli ch'ero solita di vedere. Quelli e quegli altri non mi pareva possibile che appartenessero alla medesima specie. E non potendo dubitare che quelli che m'erano da presso non fossero stati visi di femmine, quegli altri ch'io vedeva nella chiesa mi parevano visi d'angeli; e di tutti io m'innamorava come di qualcosa di superiore a me. Ah padre! dove troverò io le parole per esprimervi la gioia, il dolore, la speranza, la disperazione ch'io provai un dì, che vi scorsi suora Geltrude?...

Ell'era appoggiata ginocchioni a uno scanno innanzi all'immagine di Maria Vergine, e pareva profondata in una preghiera ferventissima. A un tratto sollevò gli occhi al cielo tutti rilucenti di speranza; poi gl'inchinò serenati, come se la sua preghiera fosse stata esaudita. Ed, inchinandoli, li sostenne mollemente qualche istante sulle gelosie che me le nascondevano, come se m'avesse cercata. Poi li ritornò alla cara immagine, in cui li tenea fissi quand'io la scorsi.

Ah padre! e non è favola; v'ha qualcosa al mondo ch'è più sublime dell'amore. Il piacere di beneficare, la gratitudine d'essere stato beneficato; ah! questi due soli sentimenti rammentano l'origine divina dell'uomo, e rendono la somiglianza del suo Fattore! E però, credo, sdegnano di albergare questa terra e solo nel cielo si può sperare di ritrovarli.

XLII.

I rei e lordi costumi di quelle bolgie erano stati ab antico cagione, che, per legge immutabile dell'ospizio, [160] le maestre e le discepole di esse non potessero avere commercio di sorte alcuna col resto della comunità! Questa legge io imparai ben presto, per avere, insino dai primi dì, chiesto indarno per grazia alla badessa di vedere una volta sola suora Geltrude. Laonde, quando la rividi, e vidi gli occhi suoi soffermarsi sulle gelosie che me le celavano, m'indovinai tutto il desiderio che l'era rimasto di me, dopo il materno amore che m'avea posto.

Quando la messa finì, la nostra aguzzina, se mi consentite il nuovo vocabolo, c'impose a tutte di tornar via. Io mandai l'ultimo sguardo a suora Geltrude, che, all'ite missa est, levò di nuovo l'occhio alle gelosie, e li rabbassò all'immagine; e il loro girarsi mi parve l'iride della speranza.

Ritornando alle spelonche io tremava tutta, e le gambe negavano il loro ministero. Mi soffermava a ogn'istante, levando il mento in su a guisa d'orba, cercando, come sciogliendomi da un sogno, l'immagine di suora Geltrude che ancora mi tremolava negli occhi. Ma un ceffone dell'aguzzina mi distolse con la sua realtà da tutte le mie immaginazioni: perchè io m'era dimenticata di dirvi, che, nella scuola ov'io era, gli ammaestramenti o qualunque sorta di ammonizioni, per instituto, non si davano con la parola o con la voce, ma o con pugni, calci, schiaffi, sgrugnoni e simiglianti, o veramente con certi scurisci o ferze che le suore avevano sempre in pronto accomodati a quell'opera, per maggiore utilità delle scolare.

Era il dì delle ceneri dell'anno ventidue, quando io ebbi quella celeste visione, che tale veramente m'apparve. Durante tutta la state io aveva sofferto un tal caldo, un tal sito, un tal soffocamento in quegli antri, [161] e, per quanto mi sforzassi di tenermi netta e di pagare col solo nutrimento che m'avanzava un poco d'acqua fresca, che non se ne poteva mai avere, io era stata infetta e morsa da tante maniere di luridi e fastidiosissimi insetti, che, a raccontarvi il tutto, mi parrebbe quasi di destarvi troppo sozzi pensieri, e d'abusare troppo dell'amorevole pazienza che m'avete promessa. E non una volta mi sovrastò la morte da certe impetuosissime correnti di sangue. Sopraggiunse l'inverno, e mi trovò senza calze, con quei zoccoli e quella sottana e la camicia; cose tutte che mi sarebbero state medesimamente arraffate, se, a tormele, io non ne fossi rimasta nuda nata. E indozzando e marcendo ogni dì più in quelle più tosto cisterne che abitazioni a uso umano, mi sottentrò un'altra sorte di soffocamenti di spietatissimi catarri e di scese alla testa spaventevoli. Verso la fine del gennaio mi era soprappresa una specie di paralisia o di tremito per tutta la persona, per il quale a grande stento potevo soccorrere alle più urgenti necessità della vita: e spesso avevo così impedita la mano destra, che quel tozzo di pane ero necessitata di accostarlo alla bocca con la sinistra. Finalmente, tra la gioia e il dolore, io mi fui così violentemente scossa e rimescolata alla vista di suora Geltrude, che, conducendomi a stento in quel mio purgatorio, mi assalì una fierissima febbre.

Io stetti ventuno giorno in un quasi continuo delirio; nè conservo memoria veruna di quello ch'io facessi o dicessi, o che altri facesse di me. Solo mi rammento che tutte quelle ridicole a un tempo e spaventose favole, delle quali un'educazione plebea suole riempiere la misera testa dei fanciulli, tutte, non già più come favole, ma come veri e materiali tormenti, mi [162] fecero assaggiare l'inferno sulla terra durante tutto quel lunghissimo delirio. Lascio stare i diavoli con le ali di vispistrelli, con le zanne di cinghiali, con la coda, con le corna, coi piedi d'avvoltoio, con le branche di sparviere, con gli uncini fra le branche, che chi m'artigliava e fendeva il petto, chi m'uncinava per la gola, chi m'arroncigliava le chiome, che ora si nascondevano tutti sotto il letto, ora ne riuscivano gittando fuoco dalla bocca e dalle corna. Ma io mi credetti veramente più volte in inferno, ora passeggiando, ora nuotando, ora giacendo in un oceano di fuoco; e vidi Lucifero così orrendamente brutto, come mai immaginazione seppe immaginarlo, che mi dannava eternamente a quel fuoco, e che mi mostrava per mio padre un diavolo, per mia madre una diavolessa, e per miei fratelli molti diavolettini. E quel fuoco io non lo vedeva solo e toccava, ma lo sentiva, e n'era atrocissimamente cotta e bruciata.

E questa era l'ardentissima febbre, che non m'uccise, io non so perchè; ma dopo il ventunesimo dì di estuazione e di bollimento più che infernale, io me ne rimasi libera, ma con una stupefazione nel cerebro che parecchi dì mi tenne stordita. Poi cessò anche lo stordimento, e, quel che forse vi parrà strano, o padre, allora fui veramente infelice. Allora compresi la grandezza del male che aveva avuto, e la nullità delle forze che mi avanzavano per sopportare la mia miseria, e l'impossibilita di racquistarle. Allora compresi d'essere rimasta per soprappiù sulla terra, e quanto m'era sembrato dolce la convalescenza fra le carezze e i baci di suora Geltrude, tanto mi sembrò allora, e la tenni poi sempre, la più terribile delle malattie.

[163]

XLIII.

Io giaceva come un tronco sul lettuccio; e mi pareva impossibile di vivere e impossibile di morire. Le lacrime, alle quali io non fui mai troppo facile, e che aveva sempre invocate come il più dolce dono della natura, mi scorrevano, di continuo e non mai interrotte, dagli occhi, senza ch'io pure me n'avvedessi, come un risolvimento e una dissoluzione in cui pareva che si volesse svanire quel fiato di vita che m'era rimasto. La speranza mi morì nel seno. La vita, la morte, lo stare dentro quelle caverne, lo starne fuori, tutto quello ch'io aveva mai veduto o pensato, e l'universo intero, mi parve un gran mistero di dolore. Qualunque immagine mi s'affacciava alla mente, anche di quelle che avevano avuto insino allora maggior possanza di consolarmi, m'era anzi un nuovo stimolo a spremermi più umore dalle due fontane che mi s'erano aperte nella fronte. E l'immagine stessa di suora Geltrude, se talvolta m'appariva, pareva anch'essa sciogliersi tutta in lacrime, e dirmi con voce, che ancora mi risuona mestamente nel cuore, ch'io non isperassi altro sulla terra che pianto.

Era la mattina del lunedì ventitrè di marzo, quando, verso le quattordici ore, io vidi entrare due di quelle streghe nella mia spelonca, che portavano ciascuna per l'uno de' manichi un grossissimo tegame pieno insino all'orlo di calcina stemperata nell'acqua. Appresso a quelle due n'entrò una terza con tre lunghe canne in mano, alla punta delle quali era legato per traverso [164] con un rogo una specie di sferra o piccola granata. E posto il tegame in terra, e tolta ciascuna di esse uno di quei leggiadri pennelli, tuffandoli a vicenda nella calcina, cominciarono a scialbarne le muraglie, dico quanto era possibile, essendone caduto quasi tutto l'intonico e rimastone scoperto l'arricciato. Ed abborracciata alla peggio quell'opera, si riportarono il tegame e le granate nell'altre camere, per fare il somigliante.

Allora cominciò fra quelle giovani un zufolamento che presto divenne un improntissimo cicalío. Dal quale, comunque confitta in quel fondo di quel lettaccio, e più prossima al mondo di là che a questo, io intesi essere usanza antichissima, che il dì dell'annunziazione di Nostra Donna, che cade il venticinque di quel mese, quelle chiostre, a studio, per il sozzo e nefando squallore che vi si lascia regnare, celate tutto l'anno a qualunque occhio mortale, abbiano ad essere passeggiate, e come giuridicamente visitate, da certi baccalari del magistrato, anzi da tutta la città e il regno e il mondo intero, che ha diritto, per quel solo giorno, di penetrarvi: e farsi annualmente, due giorni innanzi, quei tumultuari apparati, acciocchè lo scandalo, non tanto dei baccalari, gente cui stringono ben altre cure che quelle di noi altri figliuoli della Madonna, ma del pubblico, ne divenga alcun poco minore.

Il dì seguente comparvero altre suore a rassettare altre cosucce, se bene la gran semplicità di quelle spelonche desse loro assai poca briga. Finalmente all'alba del mercoledì, ch'era il dì della solennità, io fui assalita da due di quelle stregone, che, afferrandomi pe' capelli, mi diedero alcune tratte delle buone, e ravviluppati com'erano dalla lunga malattia, cominciarono a [165] svilupparmeli con quegli osceni unghioni ed a strigarmeli con certe come stregghie, non da cavalli ma da cammelli, ed a ravviarmeli alla peggio con una sorta di forconi a più rebbi, che parea che volessero fendermi il cranio. Io tapinella non aveva nè pure la forza di lamentarmi nè di chiamare l'aiuto divino in tanta mia necessità. Ma quando mi rammento in che sorta di mortale debolezza io era rovinata, e come ad ogni scossa il cervello pareva che mi si schiantasse dalla sua radica, io stordisco a pensare com'io non mi morii fra quella nuova specie di flagellazione. Verso le dodici ore entrarono altre converse con certi grossi pannacci di tela bruna rozzissima, che, come udii dire, era tessuta in alcune di quelle medesime grotte a conto di esse suore per il traffico di cui v'ho toccato di sopra. Questi furono tutti distesi su per quei letticciuoli, a fine di nasconderne l'obbrobriosa sordidezza; ingiungendo, con le più atroci minacce, a me ed alle molte altre infermicce di cui quel luogo abbondava, di non dare pur volta nel letto durante tutto quel dì, e di non contaminare menomamente la prodigiosa lindura di quelle coltri, che si doveano consegnare, così nuove com'erano, ai loro padroni di fuori, che le avevano date a tessere alla badessa. Di poi, acciocchè facesse un poco men buio in quel sepolcro, fu spalancata l'invetriata di quel finestrello, ch'era tutta di piccoli vetri d'un certo colore bianco come il fummo del catrame. Ed essendo la giornata ventosissima, e il mio letticcio assai da presso a quel finestrello, cominciò l'aria a sollevarmi di dosso quella tela ed a scoprirmi tutta, ed a percuotermi l'addolorata fronte, che parevano colpi di maglio, ed a farmi patire sulla terra il tormento [166] riservato nell'inferno ai traditori della patria, agghiacciandomi le lacrime su gli occhi.

Alle tredici ore io vidi, con mio grande stupore, entrare quattro di questi birri in forma pubblica, ch'ora con vocabolo di Francia, trovatrice esimia di nomi onesti a cose turpi, si domandano gendarmi. Costoro si ordinarono in forma quadrata, quasi nel mezzo del camerone, ma poco discosto all'uscio che gli serviva d'entrata. Poco di poi n'entrò un quinto, che si piantò in mezzo al vano dell'uscio; ed io udii dire da quelle mie compagne, che altrettanti, e in simil guisa, n'erano stati ordinati nelle altre spelonche. Finalmente alle ore tredici e mezzo furono rotti gli argini al gran fiume, che, strosciando, si precipitò violentemente in quelle cateratte; ed allora io vidi un novissimo spettacolo.

Come s'intoppa il Tevere, quando è più gonfio e vorticoso, nei cunei che gli oppongono ponte Sant'Angelo o ponte Sisto, che l'onda infrangendosi un istante in sull'acuta punta, si fende in due e ripiglia di qua e di là più rapido il suo corso; così l'onda della plebe, che aveva già allagato tutto l'ospizio, infrangendosi in quel gendarme quinto che formava un cuneo coi primi due di quel quadrato, si precipitò poscia con maggior furia dall'uno e dall'altro lato di quello. Il camerone ov'io giaceva era l'ultimo, e lo scopo di quell'ordinanza era che la gente, come in simili casi si costuma, entrasse dal lato destro del gendarme, e, rigirando intorno agli altri quattro, riuscisse dal sinistro. Ma la troppa foga del popolo, o la poca destrezza del gendarme, ruppe l'ordine posto; e fu un bel vedere. Il camerone, in meno che non balena, fu allagato della più infame plebaglia, che facendo una grandissima calca, e pigiandosi e dandosi di petto l'un l'altro, e gorgogliando, [167] e strillando, e confondendosi, e rimescolandosi tutta insieme, pareva un mare concitato da un vento strepitosissimo. I gendarmi si disordinarono, e cacciandosi come lupi fra una gran mandra di pecore, cominciarono coi pugni, e coi calci degli schioppetti, a voler rompere la calca.

Io non vidi mai un simile scompiglio, nè udii mai un fracasso cotale. Chi fuggiva, chi cadeva, chi si sveniva, chi urlava. Nè fu un solo colui che, cadendomi addosso nel garbuglio, mi presse sì forte, che a fatica non mi munse quel resto di fiato che m'avanzava. Ma i gendarmi seppero così bene menare le mani, che, rotta finalmente la calca alla più gran fatica del mondo, respinsero tutta quella canaglia nel camerone di fuori.

Sedato in questo modo quel guazzabuglio, e rimasto il mio camerone di nuovo voto di gente, io mi pensava che per quel dì non se ne facesse altro del popolare passeggio. Perchè, avendo veduta conciare la gente in quel modo così leggiadro, stimavo che almeno i nove decimi di essa si fossero dovuti andare con Dio alle loro case ed ai loro letti a curarsi chi della gamba, chi del braccio e chi del capo ammaccato o ferito. Ma io conosceva troppo male la plebe. I gendarmi a mala pena s'erano rimessi nella loro ordinanza, che io vidi quei medesimi che pur dianzi erano stati i più tartassati, cominciare, non più come tumido fiume che si trabocchi, ma come un ruscello che corra placido per il suo canale, a rivenirsene soavemente dentro dalla parte sinistra del gendarme, con un viso così sereno e lieto e ubbidiente, che parevano proprio un popolo di figliuoli, di cui quei gendarmi fossero i padri, che l'avessero così un cotal poco paternamente e amorosamente ammoniti col calcio di quei loro schioppetti.

[168]

Presto la folla divenne di nuovo grandissima; ma meno confusa e meno strepitante; anzi tutta contenta, e tranquillissima; se non che di tutto ciò che vedeva, e massimamente di noi altre malate, e delle nostre strane sembianze, che s'informavano dal morbo e dalla fame, facevano un grasso ridere, e un gran motteggiare, e un festeggiare compagnevole. Rigiravasi intanto in se stessa la festivissima turba, e cominciava a partirsi dalla parte sinistra del gendarme; ma dalla destra più e più moltiplicava la pressa; e con la pressa moltiplicava ancora un'ilarità, un'allegria tale, che pareva proprio che la miseria e la servitù fossero per quella gente un letto di rose, sulle quali mollemente s'addormentasse.

Per tre ore, io credo, s'era già continuata la nostra berlina, quando i gendarmi ricominciarono uno strano giuoco. Disordinatisi di nuovo, due si piantarono l'uno rimpetto all'altro sotto l'architrave dell'uscio, e inclinando per il traverso dell'uscio le canne e le baionette de' loro moschetti, non fecero più passare persona. Gli altri tre si rivolsero sulla loro sinistra; e facendosi insino a presso il mio lettuccio, ch'era sotto il finestrello, schieratisi in ordinanza, cominciarono con molta leggiadria a cacciare il popolo indietro, quando col calcio o con la canna degli schioppi, e quando con la baionetta; guardando nondimeno assai bene di non ferire troppo gravemente alcuno, nè far loro altro male al mondo che, così per puro accidente, rompere qualche tempia o cavare qualche occhio. Per questo soave modo penarono poco a far rinculare tutta quella marmaglia in fondo in fondo della sala, dove, voltato il tergo, fecero il restante con quello, stringendo e stivando uomini e donne in tal modo, che, non l'affermerei, ma pare che di molto assai pericolasse la modestia.

[169]

XLIV.

Già tutto era chetato, e già non si udiva più uno zitto nella sala, quando i due gendarmi ch'aveano attraversati gli schioppi all'uscio, li dirizzarono. Ecco entra una figura, della quale io non aveva ancora veduta la somigliante, e che a un tratto mi fece un'impressione fra ridicola e spaventosa. Io vidi un vecchio altissimo, ma di assai verde e pettoruta vecchiezza, avere in sul capo non già i capelli a uso umano, ma una foltissima chioma da leone, tutta irsuta e riccia, che avendo la sua dirizzatura dal mezzo della fronte, gli si sciorinava, sempre più crespa e rilevata, per gli omeri, per le braccia, per le mani insino ad oltre i ginocchi, dove si disperdeva nella sua medesima ampiezza. Questa chioma era d'un certo colore scialbo, e pioveva intorno intorno un nembo bianchissimo, tanto, ch'io, che non ancora avevo notizia dell'amido, lo presi per di farina. Trionfava di quel portentoso capellizio un rigoglioso e sperticato nasone, la cui maestà annullava l'effetto pittoresco delle guance solide e paffute, del mento tronfio e rotondo a un tempo, e della gran pappagorgia che gli pendeva al di sotto del mento, come i bargigli al gallo o la giogaia al bue. E ultimamente di sotto alla pappagorgia eran sospese in forma di collare due come ampie liste o facciuole di tela bianca, tutte ben distese e incartate. Lo seguitava immediate un'altra figura tutta medesimamente abbigliata, e del naso e delle guancie e del mento e della pappagorgia così simile alla prima, che a un tratto avresti detto ch'eran gemelli; ma l'età, la complessione e la statura, che nel secondo erano [170] mezzane, tosto ti chiarivano ch'essi erano, come erano veramente, padre e figliuolo. Terzo fra cotanta nasevolissima nasaggine era un nasoncello (che veramente il naso solo appariva dal bel principio) d'un non già uomo ma omicciuolo, anzi più tosto nano o albino o samoiedo: e quanto d'età, e di statura, e di complessione si diversificava il primo dal secondo, tanto il secondo si diversificava da costui, ch'era, e par maraviglia a dire, il figlio del figliuolo di quel primo. Quando lessi la storia romana, così m'immaginai che i Potizii o i Pinarii procedessero all'ara d'Ercole, come quella nuova gerarchia procedevano in quel camerone.

S'avanzavano lentamente, non guardando nulla di ciò che si parava loro dinanzi, nè le mura, nè i letti, nè pure lo smalto, che talora, incespicando, li faceva avvertiti di se per la sua diseguaglianza. Ma tenevano gli occhi raccolti, o più tosto spensierati in un certo modo strano e non dicibile, e che credo che sia proprio di cotesti sentenziatori di ladri, di falsari, di micidiali e d'ogni sorta parricidi. In conclusione, padre mio, il genitore era un certo presidente di non so qual altissimo magistrato; ed i figliuoli due giudici del magistrato medesimo, eletti a quell'ufficio per favore di esso genitore, ch'essendo un barbassoro di gran possanza, aveva fatta della sua casa una grand'arca di giudici. Ed ora, per una special fiducia che quel magistrato aveva, o mostrava d'avere, in quella schiatta, padre, figliuolo e nepote venivano quivi come fiscali.

Quarto, ma a ineguale distanza da questi tre, entrò finalmente il duca, addobbato in quel modo che si addiceva a un tal quartiato, ed appresso a lui il duchino, abbigliato al solito, con una giovane tutta in gala a braccio, che credo fosse la duchessina: ed accosto accosto [171] alla duchessina due altri di quegli incruenti pollacchi: i quali, vezzeggiando ora la duchessina, piena anch'essa di lezi e di moine, ed ora i loro propri mustacchi, ridevano con lei e col duchino dei tre messeri che procedevano dinanzi, e, se Dio m'aiuti, anche del duca genitore.

I tre baccalari presero la via del finestrello, e quando il primo vi fu da presso, quasi la sua testa superava il parapetto di quello ch'era altissimo. Allora il duchino, a quella sua foggia inglese, che mi parve d'averlo visto pur ieri, cominciò a sganasciare delle risa con la duchessina e coi due apparenti pollacchi, bisbigliando loro pianamente, ma, non sì ch'io non l'udissi, che se non fosse stato il padre, che a lui sarebbe bastato il cuore, spiccandosi d'un salto sul capo del terzo giudice (ch'era primo verso di lui che veniva dietro), montare su quello del secondo e insino sulla gran capelliera del presidente, e, mostratosi al popolo dal finestrello, ricalare di parrucca in parrucca per la medesima scala. La duchessina e i pollacchi già crepavano della voglia del ridere, tutti ammirando i graziosi e leggiadri sali del duchino. Ma il primo baccalare, già pervenuto al finestrello, si volse a quello benchè sordo scroscio del duchino, e queglino si sforzarono di reprimere quanto poterono la loro troppo vivida gaiezza.

Durante tutti gli undici mesi ch'io era dimorata in quel purgatorio, avevo sempre udito dire che in quel solenne dì, a quella solenne visitazione, era mestieri di piangere e di lamentarsi, chi fra quelle tribolate avesse avuto a far querela d'alcun torto. Veramente io aveva perduto insino quel modello che par che la natura ci scolpisca a tutti nel cuore; nè sapeva più indovinarmi che cosa fosse il torto al mondo, e che cosa [172] il diritto. Perchè l'uomo, quando perviene a toccare l'ultimo fondo della servitù, non solo perde il senso intimo di ciò che gli altri uomini gli debbono come uomo, ma si conduce insino a credere ch'egli si debba tutto di ragione a colui che gli comanda.

Avendomi, dunque, l'immensità stessa della mia miseria condotta in tali termini, ch'io non trovava più di che querelarmi, ero ancora trattenuta dall'inutile piagnisteo ch'io aveva veduto fare alle mie compagne, senza che quei fiscali volgessero pure gli occhi. E nondimeno l'aspetto del duca e del duchino mi rammentò la grandezza delle oppressioni che si commettono sotto il sole, e sgorgandomi naturalmente dagli occhi un poco più lacrime che per l'ordinario, come più tosto il presidente, pervenuto al finestrello, si volse per tornar via, ruppi involontariamente in un disperato lamento prostendendo, senza quasi avvedermene, ambo le mani. E un fiero ascesso venutomi infra gli altri per isfogo della febbre sul dorso della mano destra, per essermi stato fortemente premuto in quel trambusto del popolo, rimasto in gran parte scoperto delle rozze fasciuole con che me l'avevan legato e tutto esulcerato, quasi mostrava nudo i nervi e l'osso, e gocciolava un sangue nero grumoso, che a me medesima faceva ribrezzo.

Io non vi dirò già che il presidente si volse al mio doloroso lamento, o alla mia piaga, perchè veramente non si volse per questo. Ma, acciocchè la mia narrazione vi sia chiara, è mestieri ch'io vi narri prima quello ch'io seppi dappoi.

Una figliuola del presidente era stata allevata nel monastero di Regina Coeli, ed amava tanto suora Geltrude, che non aveva alcun bene se non quanto la vedeva. Questa figliuola era amatissima dalla sua madre, e parmi [173] inutile di dirvi, che pregata da suora Geltrude, di disporre il suo padre in mio favore, ella si raccomandò alla mamma acciocchè l'aiutasse a quell'opera di pietà; ed entrambe insieme tanto vennero più l'un dì che l'altro supplicando e scongiurando il presidente, che, bench'egli fosse uomo di natura superbissimo e rotto, pure finalmente promise loro, che il dì dell'Annunziazione avrebbe interceduto per me appresso il duca, acciocchè da quelle mortali caverne io fossi, almeno come malata, trasferita nell'infermeria dell'alunnato.

Io non ho nessun dubbio che il presidente aveva già dimenticata la sua promessa; tanto mi parve scarico ed astratto mentre passeggiava quelle grotte. Ma riscosso dal mio lamento, che per verità era assai differente da quello delle altre, mi guardò un istante con viso più tosto umano, dico quanto è possibile a un presidente, e mi domandò della mia condizione. E cominciandogli io dal profondo delle mie viscere, e interrotta da un angoscioso affanno, a parlare alcune fioche parole, com'io era stata esposta appena nata, e come consegnata due volte a gente strania e feroce, e come da un ribaldo cuoco ricacciata e fracassata nella buca, egli rompendomi la parola in bocca:

Abbiamo capito, mi disse. E volto al duca, che già soffermatosi, ricordevole forse della sua crudeltà, mi guardava con un certo piglio fra noiato e spregiante:

Duca, gli disse, non vi parrebb'egli, per avventura, che questa giovane stesse meglio nell'infermeria dell'alunnato?

Allora vid'io quanto è mai sterminatissima la viltà degli uomini. Perchè, acciocchè voi sappiate, quel baccalare del presidente era persona assai potente nella corte, per assai ragioni che saria lungo a dirvi, ed era tale che [174] troppo mal comportava coloro che osavano non fare della sua voglia la loro. E il duca, ch'aveva fatto di me quello strazio che sapete, e che, per una sua naturale malvagità, aveva come messo l'onor suo in fare che io non uscissi mai da quelle prigioni, percosso prima dall'improvvisa proposta, tacque alcun istante, e subito di poi raccolto l'animo, con viso lietissimo s'accostò a lisciarmi ed a carezzarmi; e rispondendo pieno di urbanità e d'amorevolezza al presidente, che quella era troppo piccola cosa, e che dovea spenderlo in cose maggiori, chiamò di presente que' due medesimi uscieri che mi avevano condotta colà, e ordinò loro, con grande ammirazione di tutti, ch'io fossi quel dì medesimo tramutata da quivi nell'infermeria dell'alunnato.

XLV.

Come più tosto il duca ebbe dato quell'ordine, il presidente con la sua discendenza se n'andarono a loro bell'agio, e il duca con la sua, in vista piano e riverente. I gendarmi si rimossero nella loro ordinanza di prima. E il popolaccio ricominciò il suo verso per quei cameroni, baloccandosi e dondolandosela di qua e di là, se non ch'io vidi assai cerchiolini e capannelle intorno a più d'una donna che, quando fu fatto far largo ai barbassori, si fu svenuta nella pressa.

Io non vidi mai a nessuna figliuoletta di signor grande fare da' suoi cortigiani più vezzi e lusinghe e blandimenti tutti misti a un tempo d'osservanza e d'ossequio, che non ne furono fatti a me da quei due medesimi uscieri i quali, undici mesi innanzi, mi avevano trattata nel modo che vi narrai. Essi mi domandarono [175] reverentemente s'io mi fossi potuta levare e andarmene co' miei piedi all'infermeria dell'alunnato, o se fosse loro convenuto di torre a nolo una bussola o una qualche barella, e così trasportarmi a mio maggior agio. E senz'aspettare la mia risposta:

Ecco, disse l'uno di loro, io me ne vo difilato a suora Geltrude, che so che attende ansiosamente il seguíto. E, per la Vergine Maria, n'avremo una buona delle mance.

Ed avviandosi, l'altro, già, a quella parola, dimentico di tutto l'ossequio che s'era promesso d'avermi, gli corse dietro quasi fuori di se, dicendo:

Bada, per Gesù Nazareno!, che tu non m'abbia a peggiorare d'un solo tornese nel farmi la mia parte; ch'io ti giuro, per la Madonna santissima ch'è oggi (e si levò e si rimise in quanto lampa un certo cappello alla rabbinica ch'aveva in testa) ch'io ti sforacchierò il fégato.

L'altro, pure dandola a gambe, diceva voltando un cotal poco il capo:

Ti par egli, Angelo! Per san Gennaro protettore, per la santissima Trinità, per la passione di quel Cristo (mostrando un rozzo crocifisso di legno ch'era in fondo della sala, e levandosi di capo il cappello così di lampo come l'altro avea fatto), sta pur sicuro.

Ma l'altro non istette già sicuro per nulla, e gli tenne dietro di volo, e mi sparvero entrambi dietro l'uscio. Ed io, benchè tutta stordita di tante mie e così strane avventure, andai considerando la stoltezza di quella superstiziosa canaglia, che ad ogni piè sospinto chiamano le cose più sacrosante di Dio a testimoni delle loro miserabili ribalderie.

Io non aveva ancora avuto il tempo di raccogliere [176] i miei confusi pensieri, quando riapparvero i due uscieri seguitati da due facchini, che portavano sulle spalle una barella, sulla quale era una piccola materassa con sopravi un coltrone di color bigio. Postala in terra, i due facchini mi sollevarono dal lettuccio involta in quello stesso panno di tela che avevo sopra, perchè videro che di quello straccio, ch'era di sotto, domandato in quelle chiostre lenzuolo, non v'era un pezzo che tenesse.

Io credo per certissimo ch'io sarei morta dal dolore, se la troppo più che umana consolazione di dovermi vedere fra poco fuori di quelle tombe, non m'avesse renduta insensibile a qualunque martirio. Sopraggiunsero una ventina di quelle streghe, che, rialzato per un lembo il coltrone con che già i facchini m'avevano coperta, mi strapparono, a tutta furia e senza aver riguardo allo stato mio, il panno di tela in cui ero rimasta involta, che mi parve, tutta fignoli e schianze com'ero divenuta, che la pelle mi s'aprisse e schiantasse. Ed io, rimastami sotto il coltrone con un cencio di camicia mezzo appiccato alle carni e mezzo sanguinosamente spiccato, e in quanto al corpo moribonda, pure volsi il pensiero a Dio, e lo benedissi per quella volta de' miei dolori, e benedissi le streghe, gli uscieri, i facchini; e chiunque mi avesse cacciato uno stile per mezzo il petto, l'avrei benedetto ancora, purchè egli, se non me viva, almeno il mio morto corpo avesse finalmente portato via da quell'inferno.

Oh Dio onnipotente! Qual ebrietà d'allegrezza mi causò lo scricchiolare di quella barella, quando i due facchini la sollevarono e se la inforcarono sopra le spalle! Così, chiudendo gli occhi, e volendomi anticipare d'un istante il piacere di non veder più quelle mura e quelle streghe e quella plebaglia che mi s'era affollata [177] tutta intorno; quando nella corte mi sentii non so che di rosso sulle palpebre, li riapersi cercando la viva luce del cielo, e tosto per impotenza li richiusi; ma non gemetti d'averla ritrovata.

XLVI.

Riapersi gli occhi in quelli di suora Geltrude, che mi attendeva all'entrata dell'alunnato. Quand'ella mi vide, fece involontariamente un certo atto di dolorosa maraviglia, dal quale mi parve intendere ch'ella prendesse dello stato mio un orrore assai più grande, che già non prese quella prima notte che mi raccolse moribonda d'in sulla ruota. Riavutasi prestamente dalla sua maraviglia, ella corse a baciarmi e ad abbracciarmi, ed io sentii come se un ferro aspro e tagliente m'avesse stritolato il cuore, e versai un altro fiume di lacrime da questi occhi, che, dopo tanto piangere, io giudicava seccati in sempiterno. Se dunque quel che si chiama male è dolore e ci sforza alle lacrime, e quel che si chiama bene anche è dolore ed anche ci sforza alle lacrime, chi fu mai il primo stolto che inventò la parola piacere sulla terra?

L'alunnato prende tutto il primo piano del magnifico edifizio del quale vi ragionai. In compagnia di suora Geltrude, che mai non distaccò la mano dalla mia, io fui condotta dalla prima e superba sala in una seconda a destra, e quindi, per assai altre, nell'ultima, ch'era l'infermeria. Questa era assai ben allegra e spaziosa; non però tanto, che non vi si potesse godere dentro quella specie di raccoglimento, quel non so che di confortativo e casalingo, tanto difficile a trovarsi in questa [178] città, vaga, come sapete, assai più della via di Toledo, di cui anche il nome è servaggio, che degl'inestimabili e liberi e schietti piaceri domestici. Quivi in poco d'ora io potetti obbliare compiutamente il convento; e mi parve d'essere stata, come per miracolo, trasportata dagli angeli del Signore, non in un'altra città, non in un'altra parte della terra, ma in un altro pianeta.

Appena i facchini ebbero posta in terra la barella, suora Geltrude e un'altra monaca, ch'era già nella stanza e che mi parve la medesima che già quella nefaria notte l'aveva aiutata allo stesso ufficio, mi sollevarono sulle loro braccia, e mi riposero sopra un canapè, così com'ero rinvolta in quel coltrone. I facchini, passata la materassa dalla barella sopra un lettino, furono pagati ed accommiatati; e suora Geltrude con la sua compagna, che le dicevano suora Giustina, aiutate ancora da altre suore che ministravano intorno, mi tolsero soavemente quel cencio di quella camicia ch'avevo indosso e lo mandarono ad abbruciare. E nettomi, quanto lo stato mio lo consentiva, il molto fastidio che avevo per la persona, mi ravviarono e rannodarono dolcemente i capelli, e mi vi misero su una cuffia che m'incresparono mollemente con due piccole benderelle. E finalmente fasciatemi con fasciature di lino le posteme onde mi marciva in più luoghi la persona, massime quella piaga orribile che minacciava di rodermi la mano, mi misero indosso una camicia lina di bucato, e m'assettarono in un molto ragionevole lettino, dove sopra due coltrici di lana erano le lenzuola line bianchissime, e due guanciali con le federe medesimamente line, e una bella coltre di dobletto. Una conversa, ch'era anche francese, mi recò spacciatamente una tazza di buon [179] brodo; e durante tutto quel dì io ne fui, ad ogni ora, ristorata di una tazza.

In quel mezzo suora Geltrude aveva provveduto che per una conversa fosse domandata licenza al duca di poter mandare per un cerusico. E non appena la conversa era partita con l'imbasciata, che s'imbattè con uno di quegli uscieri, il quale mandato appostatamente dal duca, veniva a pregare per parte di lui suora Geltrude, che, per qualunque cosa concernesse me, egli intendeva di trasfondere in lei ogni sua autorità, e che avea comandato a tutti gli ufficiali di obbedirle in ciò come a un altro se stesso. Suora Geltrude sorrise il riso che i generosi sorridono alla viltà dei vili. Pure, rendute urbanamente le convenevoli grazie al duca, pregò l'usciere d'andare per il cerusico. L'usciere non ebbe mestieri di molti prieghi a correre di volo; e poco di poi ci fu significato l'arrivo del cerusico.

Questi, la Dio mercè, era una persona di senno; e mai non m'uscirà della mente la sua amorevole presenza. Era un uomo di forse cinquant'anni, di vista corta e caliginosa, ma di quella caligine che annunzia l'ingegno e il lungo studio; era di Monteleone, e gli dicevano Niccolò, e per semplicità di costume parlava quel suo dialetto nativo non ingiocondo sulle sue labbra, ove sonava cordialità e fiducia di se stesso. E sedendomisi accanto al letto, e con quella sua grossa e buona voce, e con un sorriso che pareva la probità stessa, confortandomi a stare di buona voglia, non m'aveva ancora slegata la piaga, ed a me già pareva ch'ella cominciasse a guarire. La sciolse, la medicò e la rilegò con un garbo e una pianezza ch'era tutta sua, ed in pochi giorni m'ebbe risanata, anzi ridonata la mano, anzi tutta me stessa, che tornai liscia e lustra, come [180] la serpe che si rinnuova a primavera. L'ultima volta ch'egli venne, suora Geltrude volle dargli della sua immensa gratitudine qualche lieve pegno, ch'egli, come pagato dall'ospizio, rifiutò con una naturalezza, che mostrava il nessuno sforzo che quel rifiuto gli costava. Quest'uomo vive ancora, perchè, per entro la gelosia di questa mia misera celletta, lo vidi pochi dì sono ch'entrava tutto pio nella chiesa. O onore della specie umana, anzi, più che uomo, angelo di consolazione! Io ti vidi, e non potetti caderti ginocchioni ai piedi, ed abbracciare le tua ginocchia, e bagnarle delle mie lacrime, e adorarti come la virtù stessa, come la più certa rivelazione del tuo divino Fattore!

XLVII.

Nell'alunnato non si viveva splendidamente; ma certo la vita, benchè non iscema della sua naturale mestizia, diveniva almeno una cosa portabile. Delle cose necessarie a quella non vi si mancava di nessuna; ed a chi dal seno della natura s'avesse portata un'indole benigna, non mancava nè anche un qualche modo di compierne lo spaventevole vuoto. Ma per me, che v'avevo trovata quella madre, ch'era stata il sospiro della mia infanzia, la vita ch'io quivi menava, non m'era solo una cosa portabile, ma un sogno lungo e beato, anzi una beatitudine sovrumana, in seno alla quale lungamente m'addormentai.

Quivi da tutte le giovani, che, come vi dissi, sono poco più di cento, si lavora assai bene d'ogni più esquisito lavoro femminile, come tessere tele e tappeti finissimi, ricamare dilicatamente, intrecciar seta con oro [181] e altre cose somiglianti; e dieci monache francesi sono le maestre e le reggitrici. Tutto il profitto che si raccoglie da questi lavori va in pro della comunità. Ma la comunità stessa veste e nutrisce discretamente le fanciulle, e procura assai convenevolmente la loro buona educazione. V'è la sala per la scuola, v'è la cappella per orare, v'è il refettorio per mangiare; e tutto è recipiente. E poichè nulla in Napoli, nè anche le cose meno imperfette, non possono mancare di qualche aristocrazia, cioè, di qualche ingiustizia, v'è finalmente, a sinistra della più gran sala, una stanza ch'è la bellissima fra tutte, volta all'arco del sole, con due spaziose finestre, tutte a belle lastre di cristallo quadrate, che rispondono sull'ampissima via della Nunziata, e non meno anzi più confortevole e casereccia dell'infermeria. In questa lavoravano e dormivano un quattro o cinque delle più destre ed abili fanciulle, e delle più amate da suora Geltrude, che, fra le dieci monache francesi, era la più anziana dell'ospizio: e vi dormiva ella medesima, come le altre nove dormivano sparse per le altre sale attendendo all'immediata cura del grosso delle fanciulle.

È superfluo ch'io vi dica, che quando io fui tutta risanata e netta, e, quanto portava la mia complessione naturalmente assai poca e minuta, tornata assai ben ritondetta della persona, che suora Geltrude mi trasferì dall'infermeria a convivere seco in quella sua allegrissima stanza. Erano allora tre le giovanette che quivi coabitavano con lei, perchè, di quattro, una s'era di corto maritata; onde io fui quarta fra una così amorosa camerata.

Ora io vorrei avere imparato un poco lo stile, per potervi descrivere con qualche evidenza la felicità dei [182] lunghi giorni ch'io trassi al fianco di suora Geltrude, e la buona anzi la scelta educazione ch'io n'ebbi. Nè dal dì ch'io confusi i miei giorni co' suoi vi fu più scusa per me, s'io non divenni quel che vi può essere di meno imperfetto fra le donne.

Io, come più cagionevole e, per il difetto della mia vita passata, più bisognosa dell'occhio vigile della maestra, ebbi licenza di porre il mio lettino accanto proprio a quello di suora Geltrude; e questo lettino era in tutto assai più bellino di quello che avevo nell'infermeria. Ebbi quattro paia di calze di refe e due paia di scarpe di schiena di vitellino; ebbi quattro camice, due sottane, una buona veste di merino d'Inghilterra, un bustino di dobletta con istecche d'osso di balena, due moccichini e due pezzuole scempie per il collo, di refe, due sciugatoi e due sciugamani di tela, un pettine fitto di bossolo da ripulire i capelli, uno grave di corno da ravviarli e uno anche di corno, ma nero, da reggerli, e insino due belli legacci da calze con l'elastico. Ricca di così nuovi e belli arredi, ebbi ultimamente un piccolo cassettone da riporveli dentro, e questo collocai fra il letto di suora Geltrude e il mio.

Chi vi può esprimere, padre mio, il conforto, il contento ch'io sentiva di vedermi una volta in quel che si chiama casa, al coperto dall'umidità, dal freddo, dai nembi, dalle procelle tutte a cui ero stata sempre esposta, di sentirmi una volta netta e vestita, dopo essermi sentita, da ch'ebbi memoria di me, sempre nuda e scinta e scalza, e sempre, per quant'io l'abbominassi, fra lo squallore e il sudiciume. O padre, odo dire che i ricchi e i grandi provano fra le delizie e gli svagamenti del mondo una certa asciugaggine di tedio, che ne conduce più d'uno al suicidio. Certo anch'io ho sentito [183] talvolta quanto è insufficiente la misera tazza della vita all'insaziabile sete di felicità che la natura ci soffia a tutti nel petto. E nondimeno, se a quei grandi annoiati fosse potuta assegnare per medecina il trarre un sei mesi la vita ch'io aveva tratta per tredici anni, forse che, tornati ai loro palagi ed alle loro coltri, non s'ucciderebbero.

Il cibo ch'io prendeva al refettorio in compagnia di tutte l'altre fanciulle consisteva in un buon pane di mediocre bianchezza, e, di cotto, una minestra e un lesso, tre soli dì della settimana; e gli altri quattro dì, qualcuna di queste minestre che si domandano di macro, ed uova non meno di due per testa; e le frutte non mancavano mai. La sera si merendava, più tosto che cenare, d'un'altra minestrina; e quasi ogni dì s'asciolveva il mattino di qualcuna di queste briose focacce che qui chiamano pizze, dalle quali, come di cosa gravissima, io costantemente m'asteneva.

S'io mi dovessi rammentare del desiderio di prendere qualcosa ancora, che, alla fine del desinare o della cena, mi pareva leggere talvolta negli occhi delle meglio complesse fra quelle giovani, io dovrei dire che questo cibo non era troppo copioso. Ma finalmente nè anche era troppo scarso; e per me, in particolare, o ch'io fossi di quelle che non hanno necessità di troppo largo nutrimento, o che fossi avvezza, e in casa donna Maria Antonia e nel convento e da per tutto, a reggermi tutte le ventiquattr'ore con un tozzo di pane risecco, riusciva più che abbondantissimo. E nondimeno non era mai evitabile, poichè le monache desinavano e cenavano in disparte da noi a mensa più fornita, che suora Geltrude, fingendo d'aver desiderio di cenare un poco più raccolta nella sua propria stanza, non si facesse recare [184] quivi la sua cena, ed allargandola d'alcun'altra vivandetta di suo, non costringesse, con soavissimi e irresistibili modi, noi tutte quattro a mangiarla seco.

XLVIII.

Le tre mie più strette e più fidate compagne si chiamavano, l'una Chiara, l'altra Eugenia e l'altra Clementina. La Chiara era una giovane di forse vent'anni, non bella, ma graziosissima, tutta colma e rotonda, sempre vermiglia nel viso, con certi capelli e certi occhi nerissimi, o lavorava o andava o desinava, tutto dì lieta e serena e festivissima, come se i genii del riso le fossero stati sempre intorno e le avessero adombrata la trista scena dell'universo. L'Eugenia era bionda e bella, aveva gli occhi cilestri, pallidi e naturalmente umidetti, che spesso non sapevi se il sole vi brillasse dentro troppo vivo o s'ella versasse una lacrima; se anche intermetteva il suo lavoro, immobile sempre e penserosa sulla sua seggiola; e nel bianchissimo viso velata sempre d'una nube di malinconia, ma così trasparente, che nulla non nascondeva delle più riposte cose dell'anima. La Clementina non era così mesta come l'Eugenia, nè così allegra come la Chiara, ma ora s'attristava delle luttuose condizioni della vita, ora desiderava con tanto ardore di consolarsi, che scambiando alla fine il desiderio con la cosa desiderata, si consolava veramente; e d'indole mezzana fra l'una e l'altra, era come l'interprete fra quelle due anime che mai non si sarebbero intese senza lei.

Io non so quale fosse l'indole mia, perchè il conoscere se stesso è il più difficile, anzi l'impossibile nella [185] vita. Ma questo so per certo, ch'io intendeva tutti e tre quei cuori e da tutti e tre era intesa; ch'io le amai tutte tre come più che sorelle, e come più che sorella ne fui riamata. Già da gran tempo non v'era più segreti fra loro tre. Fra pochi dì non vi fu più segreti fra me e loro; nè già ve n'era da gran tempo fra noi quattro e suora Geltrude. O quale beatitudine! qual sodalizio era quello, e come vivamente adombrava sulla terra quel celeste al quale tutti sospiriamo! Qual rinnegamento di se medesimo! quanta virtù! Ed eravamo una suora di Regina Coeli, e quattro trovatelle!

Da quello che già v'ho narrato de' casi miei; da quello che ancora m'avanza a narrarvi, voi non mi dovreste credere troppo credula alla virtù. E pure io la venero, io l'adoro, nè la credo già un vano nome, ma una cosa esistente e reale. Essa non gode d'abitare le reggie nè i palagi dei grandi, dove è uccisa dalla ricchezza e dal potere; non gode d'abitare i troppo squallidi tuguri della plebe, dove è uccisa dagli stenti e dalla fame; ma gode d'abitare ed abita veramente fra le condizioni medie, dove solo può trovarsi il retto, e che dovrebb'essere quella squadra a cui dovrebbono ridursi tutte le oscene proporzioni onde il mondo è sì brutto. Questo tentò Gesù Cristo per via della carità, gridando tutti fratelli. Questo tentò la sana filosofia di tutti i secoli, sposandosi alla religione, e conculcando la grandezza e sollevando la povertà. E nondimeno il mondo fu sempre, ed è, e sarà forse in sempiterno, composto di grandissimi e di piccolissimi, cioè, di uomini viziosi. Ogni grandissimo lascerà presupporre cento mila piccolissimi, e sarà un vizio moltiplicato per cento mila.

L'uomo è quello che fu la sua educazione. La virtù [186] che regnava fra noi quattro, sarebbe regnata anche fra le altre cento, se non vi fosse stata nell'alunnato la piccola aristocrazia della stanza di suora Geltrude. La virtù di queste cento e quattro, sarebbe regnata anche fra le dugento cinquanta che morivano di fame di freddo e di vizio in quelle caverne, e sarebbero state trecento cinquantaquattro. La virtù di queste trecento cinquantaquattro, sarebbe regnata fra le altre migliaia che muoiono tutto dì in culla per mancanza di un seno che gli allatti; ed il mondo sarebbe più popolato e meno vizioso.

La terra basta a nutrire assai più uomini, che non sono i seicento milioni che ora la calpestano. Ma se fosse mai possibile ad un uomo solo d'appropriarsela veramente tutta, quell'uomo solo vivrebbe, e i seicento milioni morrebbero tutti di fame. Di veramente infelici, di veramente mancanti delle cose necessarie alla vita, potrebbe non esserne nè anche un solo sulla terra. Ma posto che non si potesse, la società degli uomini basta a soccorrere troppo più infelici che non sono in effetto quelli che hanno bisogno d'essere soccorsi. Ma se, o nessuno non le si fa efficace interprete del bisogno di questi infelici, o quello ch'essa dà per soccorrerli, s'investe ad altro, la colpa non è nè della Provvidenza, nè del Caso, nè del Fato, nè della Natura, nè di comunque voglia chiamarsi il mistero delle cose; ma degli uomini stessi.

[189]

GINEVRA

O

L'ORFANA DELLA NUNZIATA.

MANOSCRITTO PUBBLICATO

DA

ANTONIO RANIERI.

Volume Secondo.

Bene et ille, quisquis fuit (ambigitur enim de auctore), quum quaereretur ab illo, quo tanta diligentia artis spectaret, ad paucissimos perventurae: Satis sunt, inquit, mihi pauci, satis est unus, satis est nullus.

Sen. Epist. VII.

[191]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE TERZA.

De ligno autem scientiae boni et mali ne comedas; in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris.

Gen. ii. 17.

Dell'albero della scienza del bene e del male non mangiare; perchè in qualunque dì ne avrai mangiato, morrai.

Gen. ii. 17.

[193]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE TERZA.

XLIX.

Io non so s'io sia stata troppo folle a voler filosofare, così poca cosa qual sono. Ma io ho l'immaginativa ardentissima, e spesso un pensiero me ne rampolla mille altri nella mente; sì che, scrivendo così come la penna gitta, corro assai di lunge dalla mia via, e riesco [194] correndo dove non mi ero proposta di pervenire. E se ciò vi pare, come a me pare veramente, troppo grave colpa, e troppo disconvenevole allo scopo di questo racconto, io voglio essermene pentita, e ne imploro il vostro perdono.

E tornando colà donde m'ero, senza avvedermene, partita, dico che, da ch'io uscii dall'infermeria, tre mesi non erano ancora compiti, ed io era già assai innanzi nel lavoro d'ogni opera di ricami e di drapperia. La mia maestra, e, più di lei, le tre mie amiche, in mezzo alle quali io sedeva tutto il dì e gran parte della notte, erano sempre intorno a me, chi a insegnarmi una cosa e chi un'altra. E poi che l'invidia non aveva potuto penetrare la soglia di quella stanza, era fra loro a chi potesse più presto e più destramente farmi accorta dei più riposti segreti dell'arte. Ed essendo elleno valentissime chi in una cosa e chi in un'altra, ciascuna in quella in che più valeva, si affaticava di rendermi pari a se; di sorte ch'io posso dire, senza tema di troppo presumere, che fra non molto io valsi quel che ciascuna di loro in ciascuna delle tre arti in che esse più valevano.

La mattina, più o meno prima del desinare, secondo le stagioni, eravamo chiamate a scuola; e s'andava tutte nella sala che vi dissi. Quivi erano molte panche intorno e molte seggiole in mezzo, e ad una sedia d'appoggio, in fondo della sala, sotto la finestra, ch'era dell'alte, e con una tavola dinanzi, si vedeva assiso un sacerdote di grossa e larga complessione. Questi, senza mai levarsi di quella sedia, in tre susseguenti mezz'ore insegnava tre varie discipline a tre varietà d'ordini in che tutte le giovani erano divise. Insegnava leggere e scrivere, insegnava gramatica, ed insegnava [195] il galateo di monsignor della Casa. La sua voce, ardita e sonora nella prima lezione, diveniva assai ben fioca nella seconda, e nella terza diveniva al tutto inintelligibile.

Io, non per gli ammaestramenti di costui, ma per una specie di mutuo insegnamento, nel quale suora Geltrude ci faceva di continuo esercitare fra noi quattro alla sua presenza, divenni prestamente maestra nella prima disciplina: e col medesimo metodo spingendomi assai ben oltre nell'altre due, mi accorsi che se quel buon prete era pervenuto co' suoi molti anni di studio a leggere correntemente; della gramatica e del galateo e di qualunque cosa finalmente leggesse, non ne comprendeva un solo iota. Seppi dappoi che questi era stato institutore del duchino, e lo aveva addottrinato in ogni sorta di scienze, e che poscia che il duchino, per inclinazione irresistibile, si fu dato alle cose dell'armi, il duca, per riconoscenza della pellegrina instituzione data al figliuolo, e, ad una, per non dovergli dare più una pensione di suo, l'aveva fatto eleggere a maestro delle alunne con cinquanta ducati il mese.

Il mercoledì e il sabato, mezz'ora prima di quel buon prete, veniva un uomo, cui dicevano il maestro di lingua francese. Quando io udii questo, prima di vederlo, domandai se forse egli fosse un francese, e mi dissero che non era. Tosto cominciai a maravigliarmi ch'essendo nell'alunnato, anzi convivendo con noi, anzi essendo nostre maestre, dieci monache francesi, delle quali più d'una erano tenute ed erano veramente assai ben instrutte anche nella loro patria letteratura, che si chiamasse di fuori un non francese ad ammaestrarci in quella lingua. Ma quand'io fui la prima volta chiamata alla lezione di lui, e che gli levai gli occhi [196] sul viso, io fui al tutto stupefatta di vedere quell'uomo medesimo da quei grossi occhiali, che già due volte, alla mia memoria, m'aveva marchiata nella sala del rettore. In somma, questi era fratello del rettore, per favore del quale, oltre al suo impiego di marchiatore, aveva avuto soprappiù il magisterio della lingua francese nell'alunnato. Nè però sapeva più francese di quel che il prete sapesse gramatica o galateo.

Educata fra la plebe, io credeva quel che la plebe crede, cioè che nella scienza sia la felicità; e però la cupidità di sapere era sterminata. Misera! nè ora lo crederei! nè sapeva come nella comune infelicità degli uomini nulla v'ha di meno infelice che una fortunata ignoranza! Certamente la scienza strappa qualche fulmine dalle mani della natura nemica ai suoi medesimi figliuoli; ed in ciò giova a tutta la famiglia umana. Ma i suoi sacerdoti sono essi stessi le vittime che s'immolano sui suoi altari, che si bruciano nel suo eterno fuoco, e trovando il male al mondo dove gl'ignoranti trovano il bene, il dolore dove gl'ignoranti trovano il piacere, la nullità dell'uomo dove gl'ignoranti trovano la grandezza, in fine il trionfo della natura sull'uomo dove gl'ignoranti trovano il trionfo dell'uomo sulla natura, rivelano con le loro miserie il maraviglioso mistero di Prometeo, inchiodato per comando di Giove sul Caucaso, e divorato le viscere da un avvoltoio, per aver dato agli uomini il fuoco della scienza.

Cupidissima, dunque, di sapere, io cominciai ad affliggermi gravemente quando m'avvidi dell'ignoranza de' due miei maestri. Non ch'io non facessi assai frutto con le tre mie amiche, ch'erano in sostanza i miei veri maestri, ma perchè mi pareva che alla fin fine io non potessi mai sapere più di esse medesime che mi [197] addottrinavano, e la mia ambizione si spingeva assai più oltre. Quanto mai ero sciocca! Io non aveva ancora imparato che per chi ha fior d'ingegno il maestro è cosa inutilissima; e che si può imparare da se almeno tanto, quanto già basta a rendere infelice! Ma io ebbi un più efficace aiuto.

Suora Geltrude non lavorava di sua mano, ma sopravvedeva solamente i nostri lavori. La sua giornata e grandissima parte della notte la consumava a leggere, quando assisa accanto i nostri medesimi telai, e quando in un suo ben piccolo gabinetto, ch'era immediatamente appresso alla nostra stanza, ed aveva anch'esso una finestretta che rispondeva nella via della Nunziata. Questo era pieno di libri e di carte insino al palco; e sempre ch'ella ne usciva, l'inchiavava accuratamente, e ne portava seco la chiave. Ed io che la vedeva passare la sua vita ravviluppata fra i libri, nel più profondo del mio cuore non osava già dolermi di lei, che non avrei avuta tanta mostruosità di forza, ma mi doleva incredibilmente del mio destino, che mi aveva appresentata a lei in forma tanto meschina, ch'ella non degnasse a porgermi anche in ciò quella mano soccorrevole ch'ella m'aveva porta in tutto il resto, e ritirarmi ella almeno, poichè quei due maestri non erano da tanto, dalla mia, com'io mi pensava, infelicissima ignoranza.

Ma quella mia più che madre, ve lo dirò con le parole medesime ch'ella usava dappoi nel raccontarmelo, aveva veduto che il mio ingegnuolo somigliava quei fertilissimi ma sodi e intatti terreni della Luisiana, abili a portare ogni frutto più dolce, ma pieni di sterpi e di spine, perchè mai la mano dell'uomo non li aveva esercitati. E lasciando a' due miei maestri ed alle tre [198] mie amiche la fatica di rompere la prima volta il seno a questa terra, e dissodarla, e disveglierla; quando le parve tempo di spargervi i semi di quei frutti, ch'ella ne attendeva alla loro stagione, si accinse finalmente ella stessa alla bell'opera, che tale pare sempre la scienza a' suoi martiri; e cominciò ad essere la mia prima maestra.

L.

Suora Geltrude era nata d'un'illustre famiglia di Lione, dove era stata diligentissimamente educata. Ebbe la sventura di perdere nell'infanzia la sua madre; e però fu sempre pietosissima a noi che nè anche avevamo conosciuta la nostra, nè anche ne avevamo delibate le prime carezze, e i primi baci. Suo padre l'ebbe condotta giovinetta in Parigi; ed era di quelli che amavano il viver libero, non il vivere senza legge. Tanto bastò che entrambi fossero strascinati sulla piazza della Rivoluzione, ed ella tenuta coi pugnali nudi a occhi aperti e per le chiome a capo rialzato, acciocchè vedesse cadere dall'alto del patibolo il capo mozzo del padre. Mentre il carnefice tagliò il laccio, mentre la mannaia discese, il padre le inviò l'ultimo sguardo e le disse, addio: il capo, cadutole ai piedi, ruzzolando pronunziò la prima sillaba del nome di lei, e le sue chiome, ch'erano bionde, in un istante divennero canute fra le mani degli altri carnefici che gliele tenevano afferrate. Abbandonata a se stessa, stette in forse di voler morire. Ma un vecchio barba di lei la raccolse dalla morte, e la condusse pericolando in Napoli, dove il barba si ricongiunse in Dio al fratello, ed ella, nel monistero di Regina Coeli, [199] si velò per sempre quegli occhi che avevano potuto vedere cosa tanto nefanda.

Tale era suora Geltrude. Pietosa alle mie sventure, m'aveva posto amore di madre, e m'aveva dalla miseria più estrema condotta a un vivere umano e discreto. Pietosa alla mia ignoranza, mi esercitò efficacemente nell'idioma francese e nell'italiano, che sonava rotondo sulle sue labbra come s'ella fosse nata di qua dalle chiuse dell'Alpi. E quando mi vide pratica di queste due chiavi dell'umano sapere, pietosa finalmente ai mali in che sarei potuta incorrere, se, concedendo al fato, ella m'avesse lasciato sola su questa terra, come colei ch'era troppo conoscente del mondo, delle sue tristizie e delle sue enormità, risolse, quella cognizione di esso ch'io non poteva acquistare col commercio, e ch'era pur sola bussola in così buio oceano, di farmela acquistare con la continua lezione degli scritti degli uomini grandi.

Erano corsi forse quindici mesi dal dì ch'io le viveva al fianco nell'alunnato, e un giorno ella prese a parlarmi così:

Tu credi, giovanetta inesperta, che l'andare i lunghi anni alle scuole e l'avere molti maestri, sia il cammino che conduce al sapere. E però, non essendoti accaduto, e per essere donna e per essere nelle condizioni che tu sei, di poter avere nè l'uno nè l'altro, credi di non poter mai più sapere nulla, e ne prendi una grandissima malinconia. Ma tu sei errata; sappi, o figliuola, che per l'ordinario le più grandi scuole e i più rinomati maestri sono come le scuole e i maestri che tu hai veduti qua dentro; e sappi che le medesime cagioni che hanno questi, hanno ancora quelli di sedere in sulla scranna magistrale. Io non ti dirò già che non si può [200] sapere nulla al mondo: perchè questa grande e sola verità non è pane da poter masticare co' tuoi denti, nè da potere smaltire col tuo stomaco. Ma se tu vuoi conoscere le più eloquenti orazioni degli uomini sulla gran quantità ignota chiamata universo, e sulle altre più piccole che si contengono in esso, e, per adattarmi al tuo linguaggio, se tu vuoi sapere, tu non devi nè andare a scuola nè frequentare maestri. Cerca, se mai ti vien fatto una volta nella vita, di penetrare in una di queste grandi camere tutte a scaffali di libri, che si chiamano biblioteche. Quivi passa la tua vita a leggere dal primo insino all'ultimo volume che vi troverai. Poi raccogliti in te stessa, e pensa a tutto quello che t'hanno ragionato quei libri; e, pensando, abbi per fermo che non v'è libro al mondo tanto sublime che non contenga di molti errori, nè così meschino, che non contenga una qualche verità. Ed allora, fra tutte queste cose che avrai letto, vedrai alcune attenenze, poi alcune altre che non avevi vedute prima, e poi alcune altre ancora. Persevera nel tuo raccoglimento, e vedi quante più puoi di queste attenenze, e vedi, direi quasi, le sottoattenenze che queste attenenze medesime hanno fra loro. E così di sottoattenenze in sottoattenenze perverrai a pochissime attenenze primitive, cioè a pochissimi principii oltra i quali non potrai più procedere con l'intelletto; e crederai che quelli sieno il vero sapere, e sopra quelli reggerai la tua vita.

LI.

Poscia che suora Geltrude m'ebbe ragionato questo con un'aria di viso più grave del consueto, io che la [201] mirai fisamente mentre ch'ella parlò, abbassai gli occhi cogitabonda; nè troppo mi sapeva risolvere, nè di quello ch'io le dovessi rispondere, nè di quello che le sue medesime parole mi volessero significare. Ma ella levandosi, mi prese dolcemente per mano, e condottami all'uno dei due grandi cassettoni ch'ella aveva dietro il suo letto nel fondo della stanza, e tirando fuori una dopo l'altre le tre cassette ch'erano collocate in quello, me le mostrò tutte piene di libri elegantemente legati, e mi disse:

Or vedi; due altri cassettoni de' così fatti sono a Regina Coeli, e fra pochi dì saranno qui accanto a questi: e tutti i libri che sono in questi e in quelli voglio che sieno come cosa tua, anzi sono tuoi. Nè però sono ancora quella camera di cui pur dianzi ti toccai; ma per un cominciamento, ti serviranno. Prenderai qual s'è l'una di queste opere: ma di questo ti fo accorta, che tu non ne prenda mai una nuova, se prima non avrai assoluta e terminata di leggere e d'intendere il meglio che ti sarà possibile quella che avrai presa. Se in ciò io ti cogliessi in fallo una sola volta, le cassette sarebbero immantinente e per sempre chiuse, e la tua lezione finita. Ora togli qual più t'aggrada.

Io, divenuta tutta cocente e rossa nel viso, tolsi a caso un assai grosso e bel volume in forma ottava; e mentre lo toglieva, battette l'ora del mio lavoro femminile. Ed io, riposto il volume fra un guanciale e l'altro del mio letto, poichè suora Geltrude si fu seduta accanto a' telai con un suo libro, mi messi all'opera con le mie amiche.

Queste non m'ebbero già invidia che suora Geltrude m'avesse di tanto privilegiata. Ma la Chiara e la Clementina sorrisero un cotal riso amichevole, e si maravigliarono [202] ch'io volessi porre il cuore negli studi, che da quelle cose in su ch'elle medesime mi avevano insegnato, erano loro, sempre che vi s'erano niente accostate, riusciti d'indomabile noia. E sola l'Eugenia, contemplandomi con quegli occhi misteriosi, e sospendendo per pochi istanti l'ago (che ricamava), mi disse:

Quanto vorrei esservi compagna nelle vostre letture, o Ginevrina! Ma quel poco di lena che ho nel petto a gran fatica mi basta a questo lavoro.

E trasse un sospiro dal profondissimo del petto, che pareva che il cuore le si svellesse. Ed io che mi struggeva della voglia di divorare quel volume, come avviene a chi ha l'animo tutto vinto da un solo pensiero, che non gli avanza luogo per nessun altro, non diedi per quella volta troppo retta alla sua mestizia, nè al suo doloroso sospiro. Il che, per quello che poscia seguì, mi fu causa di molte lacrime.

Battette l'ora della scuola, ed io v'andai per abito e per necessità, senza intender sillaba di quello che il maestro diceva. Battette l'ora del desinare, ed io ebbi fra l'appetito universale una inappetenza che non aveva avuta mai più ai giorni miei. Era di giugno, e si desinava alle quindici ore, ed alle sedici si poteva andare a letto e rimanervi insino alle ventun'ora. Battette finalmente l'ora di meriggiare, e sopravvennero quegli invocati silenzi, nei quali la mia mente più sciolta e più pellegrina, soleva, finito lo studio delle due lingue, abbandonare questo mondo, del quale già mi pareva aver saputo bastantemente; e spaziarsi in un altro ch'ella si andava fabbricando di dì in dì, tutto assai più accomodato alle umane necessità, tutto bene, in fine, e dove il male, del quale io non sapeva vedere la necessità, non fosse un elemento necessario. Quel giorno io sperai [203] più. Sperai che cominciasse un'era novella per me; e che tutti quei libri, dei quali suora Geltrude m'aveva conceduta la lettura, mi dovessero insegnare a trovare realmente in questo mondo tutto quel bene, o tutto quel meno male, ch'io andava cercando immaginariamente in quell'altro.

Già, ritrattesi nella stanza comune, e adagiatesi sui loro letti, le mie tre compagne dormivano. E suora Geltrude, aperto l'usciuolo del gabinetto dov'erano quei libri ch'ella non aveva giudicato convenevole d'accomunarmi, vi s'era messa a leggere sopra una sedia d'appoggio che v'aveva. Io mi distesi vestita sul letto coi guanciali e con la testa dappiedi; perchè, essendo per antica costumanza del luogo, socchiuse a quell'ora le imposte di entrambe le finestre, quivi soltanto, per mia gran ventura, veniva obbliquamente qualche raggio di luce da quella fra le due finestre che m'era più a rincontro del letto.

Apersi finalmente il frontespizio di quel libro. Era una geografia. Era scritta in un corrente stile italiano da un Italiano, del quale non mi viene fatto di rammentarmi il nome. Precedeva all'opera un trattatello, ch'aveva per titolo cosmografia o descrizione dell'universo. E si assegnava per ragione di esso, il non potersi intendere che cosa fosse la parte se non s'intendeva che cosa fosse il tutto, e quali attenenze v'erano fra questa parte e questo tutto. Lessi dalle sedici alle ventun'ora, e dalle ventun'ora a un'ora di notte, che ricamai, andai rugumando quello che avevo letto in quelle cinque ore. Lessi l'ora della ricreazione, innanzi la cena, dall'un'ora alle due, e mentre cenai andai rugumando quel ch'avevo letto in quell'ora. Andai a letto come trasognata, e nè pure pensai ad addormentarmi. Ma [204] adagiatami alla meglio col capo dappiè come il giorno, lessi tutta la notte al debole e vacillante lume d'una lampada pensile, che pendendo dal palco nel giusto mezzo della stanza, m'era assai più vicina dappiedi del letto che da capo. Il dì seguente feci medesimamente, e poi l'altro, e poi l'altro; e se talvolta la notte, sforzata dalla necessità della natura, velavo alcun poco gli occhi, il libro che adagio adagio mi s'inchinava sul seno, quasi leggermente premendomelo, mi ridestava; ed io, rimorsa da un amaro pentimento, mi riponeva con assai più fervore alla lettura.

Gli uomini colti sono convenuti fra loro di annoverare fra le specie della pazzia il regno continuo ed assoluto di un'idea o d'un pensiero qualunque sopra tutte le altre idee e tutti gli altri pensieri; e questa sorta di pazzia domandano comunemente monomania. Ma io non so qual troppa differenza, almeno in quanto alla stranezza individuale che ne conseguita, possa essere fra il trionfo d'una sola idea sopra tutte, o il trionfo di più d'una: lasciando stare, che mai questa idea trionfante non può essere, secondo natura, veramente una. Per questo verso, se non si voglia domandar pazzia il trionfo delle idee di stato sopra tutte le altre nel cervello del Machiavelli, nè il trionfo delle idee del bello pittoresco sopra tutte le altre nel cervello di Michelangelo, e fare come il volgo, che nel suo linguaggio fa filosofo sinonimo di pazzo, sarebbe mestieri avere più carità a coloro cui si dice monomani, e non annoverarli fra i matti; ma i più di essi fra la parte più sensitiva e più eletta del genere umano. Nè vi ragionai questo per anticiparmi una difesa, ora che mi tocca di dirvi che da quel mio leggere interminato io fui chiamata monomana per tutto l'ospizio; ma perchè [205] veramente a quei dì io fui sotto l'indomabile sferza delle idee astronomiche e geografiche; nè a mensa, o a letto, o andando, o sedendo, o ricamando, o anche parlando, ma come un automato, di quanto m'occorreva di dover dire, io pensava e vedeva altro che sole, terra, luna, pianeti, stelle, comete, poli, equatore, eclittica, oceano, antipodi, Italia, Marco Polo, Cristofano Colombo ed Americo Vespucci.

Ed io stessa mi credetti d'ammattirne. Nè però n'ammattii. Ma poscia ch'io ebbi avuto il tempo di smaltire quelle idee, ed appropriarmele in tanto ch'elle divennero come essenzialmente parte dell'essere mio intellettuale, bene estimai essere stata veramente pazza insino allora, com'è la massima parte del genere umano.

LII.

Io aveva creduto insino allora che la terra fosse una grandissima pianura, la quale grandissima pianura avesse Napoli per centro, e per ultimo confine avesse l'orizzonte ch'io era pervenuta a scorgere di sotto il pino di Sant'Anastasia, o dalle finestre di donna Mariantonia. Baia, Sorrento ed Avellino mi erano sonate distanze sterminatissime. E un dì, che con un fardelletto sotto il braccio seguivo don Gaetano ch'andava in Vicaria, e che questi, per mostrare a uno studente suo amico il sito memorabile di quel che gli era stato narrato da un altro studente di non so quali valentie di guerra, che sempre gli tonava dalla bocca cannoni e bombe, salse su gli scalini di San Piero a Maiella, e mostrò i gioghi di Maiella, ch'egli diceva di veder quindi, io salsi anch'io quegli scalini, e guardando quei gioghi credetti [206] aver veduto il finimondo. Avevo creduto che il cielo fosse una mezza sfera di cristallo, in cui fossero appiccate le stelle, la luna e il sole, il quale avviatosi per un arco quando più piccolo e quando più grande di quella mezza sfera, s'andasse a riposare la sera dietro il colle di San Martino, e il dì seguente innanzi l'alba per dietro Capri e Castellamare si riconducesse a risalire il dorso del Vesuvio e ricorrere l'usato cammino.

Quel trattatello mi dimostrò con chiare e irrefragabili ragioni, che la terra è un globo della circonferenza di novemila leghe; che si gira intorno a se stessa nel tempo di ventiquattro ore, con una velocità appresso a poco seicento volte maggiore di quella d'una palla di cannone, e fa il giorno e la notte; che si gira nel tempo di un anno intorno a un altro globo, ch'è il sole, che n'è distante trentaquattro milioni e cinquecento mila leghe, e ch'è della circonferenza di un milione e ventotto mila volte maggiore di essa; e girandovisi non nella medesima direzione nella quale si gira intorno a se stessa, ma alquanto obbliquamente, fa la diversità delle stagioni. Mi dimostrò, che questo sole è immoto rispetto alla terra, ma si gira intorno a se stesso nel tempo di venticinque giorni e dodici ore. Mi dimostrò, che la luna è una terra quarantanove volte minore di questa, dalla quale è distante ottantasei mila leghe; che si gira intorno a se stessa e intorno a questa nello spazio di ventisette giorni e otto ore; e variamente illuminata dal sole per la varia interposizione di questa, fa i quattro quarteroni che veggiamo. Mi dimostrò, che intorno a questo sole si girano undici altre terre delle quali alcune sono più grandi assai di essa; e una chiamata Giove è mille quattrocento settanta volte più grande di essa, ed ha quattro lune intorno; e un'altra chiamata [207] Urano ne ha sei; e una chiamata Saturno ne ha sette. Mi dimostrò, che tutte le molte migliaia di stelle lucide che si veggono a occhio nudo, delle quali le più vicine al sole ne sono distanti almeno centomila volte più ch'esso non è a noi e tutti i molti milioni che si veggono solamente col telescopio, sono altrettanti soli più o meno grandi, centri ancora essi di più o meno terre. Mi dimostrò, che tutte quelle innumerabili piazzette biancheggianti che la notte veggiamo sparse qua e là nel cielo, e si chiamano stelle nebulose, o solo nebulose, sono certi sterminatissimi raunamenti d'innumerabili soli, tutti fra loro non meno distanti che sia questo nostro sole dalle stelle lucide, con le quali e con tutte quelle altre milioni di milioni che, quasi immenso fiume di latte, si vedono la notte serpeggiare a onde tutto il convesso del cielo da mezzodì a settentrione e si chiamano galassia o via lattea, forma ancor esso una nebulosa: e che, come tutti i soli di tutte le nebulose hanno una certa corrispondenza di movimenti fra loro, così hanno una certa corrispondenza di movimenti fra loro tutte le nebulose. E mi dimostrò, finalmente, che come ogni nebulosa ha un movimento che corrisponde a quelli di tutte le altre nebulose, così forse tutto il raunamento di tutte le nebulose che noi conosciamo ha qualche corrispondenza di movimenti con altre milioni di milioni di raunamenti di nebulose che noi nè conosciamo, nè possiamo conoscere.

Così si concludeva il trattatello, aureo ancora di assai altre verità, comunissime oggi ai sapienti, ma o tremende o incredibili agl'idioti, quale era stata io insino a quel punto. Se il mio intelletto non fu annullato da un così subito e così incommensurabile rivolgimento d'idee, io ne lo tenni sempre assai virile. Ma se la mente non [208] fu impari a comprender tanto, non fu già pari il mio corpicino, che ne intristì fieramente come se ancora o il vestito o il nutrimento gli fosse mancato. Io era ad ora ad ora di là dalla nostra nebulosa e da quelle che noi conosciamo, in quelle ignote, e ne ammucchiava milioni di raunamenti incontro ad altri milioni; e sperava di poter giungere a comprendere almeno in un modo suppositivo un principio, un sito, un confine; nè sapeva per anche che tutti i tempi, e tutti i luoghi, e tutti gli spazi esistenti e immaginari sono idee relative a quei pochi corpi che noi conosciamo, paragonati gli uni con gli altri, ma che nell'universo preso tutto insieme non v'è nè tempo, nè luogo, nè spazio, ma v'è l'infinito, che l'uomo è stato fatalmente condannato a riconoscere senza comprendere.

Giunto a quell'infinito, che la mente non ebbe più seno a comprendere, mi rivolsi in dietro, e ricaddi sulla terra, che allora mi apparve un punto. Ma una tanta caduta non potette impedirmi di considerare la stoltezza dell'uomo, che crede che questo universo sia fabbricato per se, e ch'egli ne sia l'unico abitatore, e l'unica intelligenza; e che il sole sia fatto per dargli il giorno, la luna per illuminargli le notti, e le stelle per abbellirgli quelle che la luna non sorge ad illuminargli. Ma se la terra è un globo, che con tanti altri globi si gira intorno a un altro globo, che con infinite altre migliaia di globi si corrisponde co' movimenti d'infinite altre migliaia, e forse, anzi senza forse, milioni di raunamenti di globi; perchè il fenomeno della vita e dell'intelligenza sarebbe solo di questo globo? O perchè solo questo globo conterrebbe la massima delle intelligenze fra tutti gli altri milioni di milioni di globi; e questa massima intelligenza sarebbe posta in un animale pieno [209] di miserabili necessità, che un'aura o calda o fredda annichilisce?

LIII.

Io aveva creduto insino allora, che la terra e il genere umano fossero Napoli e i Napoletani; che gli ordini più sublimi di questo genere umano fossero quei feroci della fonte Capuana e dell'orto Botanico, e quei gendarmi del convento; e che la meta finale a cui questo genere umano intendesse, fossero certi saporitissimi desinari, e certe appetitivissime cenette, che, con eloquenza senza pari al mondo, que' miei eruditissimi studenti ragionavano sempre fra loro solersi dalla gente scelta fare qui alle lune estive, ponendo le tavole o in una bella contrada marina detta Santa Lucia, o in un'altra spiaggia deliziosissima detta Posilipo.

Il restante di quel libro mi dimostrò, che Napoli era un punto di una piccola contrada detta Italia; che quest'Italia era un punto d'un'altra piccola contrada detta Europa; e che questa Europa era un punto fra l'immensità degli altri sterminati continenti, e dello sterminatissimo oceano che la circonda. Mi dimostrò che i Napoletani erano al genere umano meno di quello che una sporticciuola di pesciolini è a tutti i pesci dell'oceano. Mi dimostrò che quegli ordini che io aveva creduti soli al mondo di fatto e di bontà, erano un aborto nè pure menomamente considerabile nella lunghezza de' tempi e nella infinità e bontà degli ordini con che il genere umano si è retto e si regge. E mi dimostrò ultimamente che la meta finale del genere umano, non erano, o certo non dovevano essere, i desinari e [210] le cene di Posilipo e di Santa Lucia, ma la minore infelicità, e il maggior perfezionamento morale di tutti gli uomini.

Così si concludeva quel libro, o almeno così io me lo conclusi. E questa terra, che m'era apparsa un punto alla fine del primo trattatello, m'apparve immensa, interminata, alla fine del rimanente del libro. I tempi delle sue memorie, che mi erano spariti nell'infinito, m'apparvero della più profonda e remotissima antichità. E dal mio letticciuolo, anzi dall'Europa, dal vecchio mondo mi lanciai di volo per l'Atlantico sul nuovo, e vidi la metà del genere umano sgozzata e interamente distrutta da qualche rimasuglio, di cui una piccola parte dell'altra metà, detta Europei, s'è voluta sgravare. E torcendo lo sguardo disdegnosa da tanta immanità, seguitai il mio volo per l'immensità del Pacifico, e fermai l'occhio sopra un piccolo paradiso che vi sorgeva, e si chiamava Otaiti, e quivi vid'io approdare una fiera nave, e portarvi nel suo grembo necessità, colpe e sciagure ignote. E involandomi da così disonesta fortuna, m'apparvero i lidi orientali dell'Asia, e vidi la cuna delle prime memorie della civiltà, anzi del globo, e un impero d'incredibile vastità che in vano innalza un muro di mille e mille leghe contra le umane belve erranti dell'Orsa, che due volte lo straziano e lo fanno schiavo; e vidi un altro impero, che già empì la terra del suo suono, cui non fu arme o sostegno alla fatale rovina il doppio corno della luna. E mentre seguo sull'Africa la traccia della sua rovina, rivedo stupefatta quel rimasuglio d'Europei, che, non contento d'avere distrutta la metà del genere umano, chiamandoli non uomini ma scimmie parlanti, compra con l'oro rubato a quelli l'altro terzo degli uomini che avanzavano, e se ne serve e gli ammazza come [211] bestie, solo perchè il colore di questo terzo degli uomini è diverso da quello di esso rimasuglio. Volgo lo sguardo inorridita dalla riapparsa schiavitù, ch'io credetti che Gesù Cristo avesse abolita dalla terra, e ritorno all'Europa, e la veggo tutta lieta aggravarsi vilmente in sullo scempio della più piccola ma più bella sua parte, per bassa voluttà di vendetta d'essere già tutta poco fa stata una delle provincie di questa sua piccola parte. Quivi, al suono delle catene e del dolore, riconobbi la mia patria, e discesi dal mio immenso volo, e, discendendo, vidi anche quivi il vicino fastidire il vicino povero e le fortune afflitte, ed il migliore gemere sempre. E rimasi stupefatta che questa razza caucasea, sola dotata dalla natura del dono d'arrossire, non arrossisse di tanta sua infamia.

LIV.

Quella geografia non era una scarna noverazione di paesi e di città, ma era una descrizione, anzi una storia ordinata e sugosa della figurazione materiale di tutto il globo in generale, e delle varie contrade in particolare; una storia delle varie razze del genere umano, de' vari popoli di ciascuna di esse, delle varie trasmigrazioni, de' vari reggimenti e de' vari costumi di questi popoli nei vari tempi; di modo che, come per via di magico incantesimo, io mangiava, dormiva, parlava, passeggiava, viveva, in fine, con qual si fosse il popolo antico o moderno del quale leggeva la descrizione. Ora volavo alla corsa dietro un ignoto amante nelle più belle foreste americane, e poi gli spiravo nel seno, ed egli mi seppelliva alla bocca d'una spelonca, e poi in [212] sull'aurora veniva sul mio sepolcro, e v'attendeva il sole genuflesso, e l'adorava, e ne invocava un raggio di luce che penetrasse insino alla mia salma gelata. Ora, colà in riva al Bosforo, fra i profumi e le gemme orientali, nuotavo con le spose di mio marito in più camere di marmo piene insino al mio seno d'acqua tepida e odorata; e contemplandomi tutta, e poi contemplando a parte a parte le mie ignude rivali, o inorgoglivo della mia bellezza o mi sdegnavo della loro, e sempre le odiavo quanto si può più odiare. Ora, nella petrosa Arabia, assisa su un cammello e tutta carica di gomme odorate, seguivo fra il mare del deserto il mio svelto e barbuto marito che guidava l'armento, e, fissi gli occhi in quel cielo trasparente, o ne noveravo quasi ad una ad una le innumerabili stelle, o contemplavo i misteri della luna, all'armonia celeste d'un mestissimo canto che il mio sposo le inviava; e quel canto era tanto più che umano, che solo poscia ne trovai la versione nei canti del Leopardi. Ora nell'India saltavo sul rogo acceso al mio spento marito, e n'abbracciavo la fredda spoglia, e più tosto che perdere la barbarica lode, m'incenerivo viva fra le fiamme. Ora appiedi del Caucaso mi strappavo spietatamente la destra mammella, e saltavo sul feroce destriero, e sguainata la spada, correvo i campi fulminando, e verginella osavo combattere gli uomini. Ed ora in Roma, non più verginella ma donna, al padre mio condannato a perire di fame, porgevo di cupa notte il mio seno lattante fra i cancelli del carcere, e lo nutrivo lungamente del mio latte, e il popolo, stupido prima dell'occulto e poscia del palese miracolo, mi concedeva la cara vita ch'io ne implorava.

Erano, io credo, cinquanta dì ch'io aveva quel libro fra le mani; e mai non me ne poteva distaccare. Lo [213] lessi e rilessi e tornai a leggere non so quante volte; corsi non so quante volte il mondo antico e l'odierno; e quante più cose potetti, dedussi e figurai col mio pensiero dalle premesse di quel libro. Ma tutto è finito ed ha un termine nel mondo; ed anche il numero delle premesse contenute in quel libro e il numero delle conseguenze ch'io potetti ricavarne, fu finito ed ebbe un termine. Mi risolsi alla fine di renderlo a suora Geltrude; e persuasa, ch'io aveva piantato il piede sulla base dello scibile umano, e che qualunque altro libro io avessi letto non poteva altro essere che un corollario del già letto, lo rendetti un dì fra lieta e pensierosa a suora Geltrude, dicendole non so che (tanto ero astratta che non me ne rammento), dond'ella comprese, bench'io ignorassi allora i termini propri, o più tosto indovinò, ch'io m'attendeva e desiderava libri di storie e di viaggi. E ritogliendo il libro, e riaprendo e tirando fuori la cassetta del cassettone, e riponendo il libro nel voto onde fu tolto, benignamente sorridendo mi disse:

Tu non prenderai già altro libro che quello che per fortuna di sito seguita immediate a questo.

E togliendo due bei volumi quasi della forma medesima di quell'altro, porgendomeli mi disse:

Impara, o figliuola, che alla mente umana bisogna aggiugner piombo, non ali.

Ed accommiatandomi, si ritirò in quel suo gabinetto.

LV.

Era dopo pranzo quand'io fui posseditrice di quel libro. M'adagiai sul lettino nel modo consueto; e riposto [214] il secondo volume fra un guanciale e l'altro, apersi il primo. Era la bibbia. Era volgarizzata da non mi rammento chi, in uno stile puro, semplice e grave a un tempo. O quanto mi giovò allora di già conoscere l'Asia, di già conoscere la terra d'Eden! Quanto mi giovò di già conoscere l'Arabia, la Siria, la Palestina e l'Egitto! o Tabor, o Giordano, o Asfaltide, come mi tornò grato e misterioso il vostro già noto nome!

Io aveva creduto insino allora, che l'essere cristiano consistesse nel toccare della mano destra la fronte, lo stomaco ed ambo le spalle con la velocità del fulmine, pronunziando tre nomi, dei quali nessuno non m'aveva insegnato il mistero; nel pronunziare malamente e per sola forza d'abito alcune parole in una lingua ignota; nell'assistere i dì di festa ad alcuni movimenti e ad alcune altre parole in lingua medesimamente ignota che un uomo vestito altrimenti che me diceva in un luogo, il quale non mi s'era mai fatto intendere che cosa veramente significasse; ed a cadere ginocchioni in terra, e darmi di forti picchiate nel petto, quando vedeva che gli altri facevano il somigliante. Avevo creduto che l'essere cristiano consistesse nel raccomandarsi così vagamente, non già solo a un comune signore del cielo e della terra, del quale mai non m'era stato convenevolmente parlato, ma insieme con lui e senza troppo esatta distinzione, a infiniti nomi così di uomini come di donne, ch'io m'era avvezza a considerare quasi altrettante signorie celesti, tutte presso che come quel primo signore onnipossenti. Nè io aveva veduto intorno a me sorgere alcun disparere, che tosto l'uno non si botasse a un santo e l'altro a un altro, aggiungendo insino le minaccie, quasi che quei santi, non altrimenti che gli déi d'Omero, dovessero battagliare fra loro sulle nubi per [215] appagare ciascuno la voglia del suo terrestre cliente. Nè da quegli atti estrinsechi o da quei nomi in fuori, i quali nulla non avevano che fare col mio intelletto, io avrei mai accolto nella mia mente pure un solo pensiero di religione, se guardando intorno a me, e sentendo tutto potentissimo e me nulla, io non mi fossi naturalmente atterrata davanti a una tanta potenza, prestandole, come ad uomo, le mie passioni, e implorandone la pietà nel mio dolore; e se il nome di Maria, che tutti dicevano madre di quest'uomo dio, nè alcuno me ne insegnava il mistero, e della quale tutti mi domandavano ancora figliuola, non mi fosse sonato sempre qualche cosa di materno e di soccorrevole. Nè questo mio atterrarmi era di tenerezza o di pietà, ma di paura. Nè ultimamente fu una sola quella volta, che sentendomi innocentissima e infelicissima a un tempo, io mi volsi ed al figliuolo ed alla madre ed a tutti gli altri nomi di paradiso ch'io aveva mai udito nominare, e che, come di chi m'avesse data contro un'ingiustissima sentenza, io stoltamente li accusai tutti delle mie terribili sventure. E:

Se voi siete onnipossenti, io diceva nel mio rustico senso, e se io non sono rea, come voi dovete sapere, di colpa veruna, qualunque sieno i vostri imperscrutabili fini, qual mestieri avevate del mio dolore? Non potevate intendere ai vostri fini così col mio piacere, come col mio dolore? E se io sono incolpabile, perchè per intendere ai vostri fini avete voluto scegliere per purissima vostra elezione più tosto la via del mio dolore, ch'io non meritava, che quella del mio piacere, ch'io meritava?

Così innalzava io al cielo i miei cupi lamenti, nè mi pareva d'esser empia per ciò.

[216]

Quel libro, insino dal terzo capitoletto, mi spiegò il mistero del dolore, del male, in fine, sulla terra, che m'era stato fino a quel punto inesplicabile. Me lo spiegò, per verità, con un altro mistero; perchè io non potetti comprendere perchè il fallo di un altro che me si fosse dovuto trasfondere per tante migliaia di secoli e di generazioni insino a me, che forse non l'avrei commesso. Ma già quel piccolo trattatello di cosmografia m'aveva mostrato che tutto era mistero nell'universo; e poichè la mente umana non è infinita, e che di mistero in mistero pure l'è forza di fermarsi alla fine in uno, io non solo perchè già per religione era anticipatamente risoluta d'acquetarmi in quello, ma anche per ragione alla fine mi v'acquetai. E sentendomi tanto più infervorata di correre il cammino della scienza per il quale m'ero messa, quanto ne divenivo più mesta, giudicai che forse quel mistero significava essere inevitabile alla natura umana di stendere volonterosa la mano a quel pomo che chiude in se il seme della sventura.

Persuasa, dunque, del trasfondersi e tradursi della colpa da padre in figliuolo, io corsi tutto il vecchio testamento, e mi fu vista la terra, accolto il seme del male nel suo seno fecondo, divenire ogni dì più pregna di colpe e di dolore, e partorire alla fine un orrendo mostro, la schiavitù del genere umano. E questa visione m'aperse il cuore ad accogliere l'altro mistero del Creatore misericordioso alla sua creatura, che s'incarna in quella perchè egli solo, onnipotente nel suo dolore, poteva bastare al tanto ch'egli stesso domandava a liberare il genere umano, e Maria partorì, e Cristo uccise la schiavitù sulla terra, e chi tenta di risuscitarla, fa contra Cristo.

Così lessi il nuovo testamento; e seguendo Gesù, [217] salsi il monte, e pendetti dalla sua bocca, ed egli disse:

Gli antichi v'hanno insegnato che non dovete uccidere. Io v'insegno che chi s'adira solo contro il fratello, è reo.

Gli antichi v'hanno insegnato che non dovete spergiurare. Io v'insegno che non dovete nè pure solo giurare; ma dire: è, non è.

Gli antichi v'hanno insegnato che dovete amare gli amici e odiare i nemici. Io v'insegno che dovete amare i vostri nemici; perchè siete tutti fratelli e figliuoli di un solo padre.

Gli antichi v'hanno insegnato che occhio per occhio, e dente per dente. Io v'insegno che se il vostro fratello v'ha ferito da un fianco, che voi gli mostriate l'altro ignudo. Perchè se voi non perdonate al fratello, Iddio non perdonerà a voi.

Gli antichi v'hanno insegnato che dovete far la limosina. Io v'insegno che dovete farla di nascosto, che la vostra sinistra non sappia quel che la destra diede.

Gli antichi v'hanno insegnato che dovete orare, e digiunare. Io v'insegno che dovete orare in segreto e brevemente, e digiunare in modo che tutti vi stimino satolli: se no, imiterete i pagani.

Gli antichi v'hanno insegnato a saper sopportare la povertà. Io v'insegno che chi ha amore alle ricchezze non può averlo a Dio, perchè mal si servono due padroni.

Ed io sentii non solo per fede, ma per ragione ancora, che queste parole non sonavano tutto umano, che questa morale aveva qualche cosa della perfezione del cielo, e simboleggiava che la natura umana s'era sposata alla divina.

[218]

LVI.

Io non poteva saziarmi di quel libro, il quale io, che già aveva imparato che bibbia vuol dire libro, estimai non immeritamente nominato così per eccellenza. Quivi è prosa, poesia, grandezza, piccolezza, cielo, terra, tutto: nè v'ha, credo, condizione di vita sotto il sole che non trovi in quel libro l'idea onde togliere l'esempio del suo perfezionamento o della sua consolazione. Lo tenni, io credo, due mesi fra le mani; e quando mi sentii cristiana, lo rendetti alla fine, non senza lacrime, a suora Geltrude, quasi mi fosse convenuto separarmi dal mio più amoroso amico.

Il terzo libro ch'io n'ebbi fu la Divina Commedia di Dante Alighieri. Lo stupore ch'io presi da questo libro fu più grande di quello ch'io aveva preso dalla bibbia. Perchè se in quella apparisce alcun che di più che umano, non reca maraviglia, quando v'è dentro l'afflato di Dio. Ma quel che apparisce di più che umano nel poema di Dante, che non era inspirato, è cosa inesplicabile, perchè al tutto fuor dell'ordine della natura. Io lo lessi da capo a piedi, e l'intesi tutto, salvo alcuni accennamenti ai fatti dei suoi tempi, che intesi poco di poi, appena seppi alcun poco la storia. E mi maravigliai quando udii dire che quel poema era le più volte inintelligibile. Vero è ch'io ebbi la fortuna che la prima copia che mi venne alle mani era senza comenti nè chiose di sorte alcuna. Perchè qualunque volta, dappoi, vedutane alcun'altra di altra edizione, abbassai gli occhi a caso al comento di sotto, quel medesimo che avevo compreso, mi parve non comprenderlo [219] più; e così intesi la ragione di quella volgare e stolta fama, che il più gran poema del mondo sia oscuro.

Senza comenti e senza argute spiegazioni di allegorie cui egli mai non pensò, io vidi quel grandissimo fra gli uomini, annoiato de' loro vizi e della vita pratica in generale, volersi ritrarre all'altezza della virtù e della vita speculativa, ed esserne impedito da un malvagio pervertimento in cui la curia romana aveva condotto il mondo: ed egli più forte e della curia romana e del mondo, non potendo condursi praticamente a quell'altezza, condurvisi speculativamente per mezzo del poema, e con quello tentare di ricondurre il mondo alla sua norma. Io lo vidi imprendere quel gran viaggio per il mondo speculativo, e nell'Inferno biasimare il vizio e punirlo, nel Purgatorio lodare la virtù, quanto se ne può sperare dagli uomini, ed affinarla, nel Paradiso mostrarla in tutto il suo splendore e pura da tutta l'infermità umana, e premiarla. Io lo vidi, finalmente, per la nuova via ch'egli s'aveva spianata, poichè l'antica via era ormai distorta e contaminata, pervenire a ricongiungersi in quel punto dove la sete immortale del bene si spense, e il suo desiderio si fermò come ruota mossa da due forze contrarie ed eguali.

Io rendetti Dante a suora Geltrude e n'ebbi le rime di Francesco Petrarca, e vidi per prova che tutti quei fantasmi fuggitivi, tutte quelle immaginazioni vaghe e malinconiche, tutto quanto, in fine, il nostro cuore sente di più secreto, la nostra fantasia vede di più vaniente, tutto (quel ch'io mai non avrei presupposto per innanzi) era possibile a dire. E v'è tale sentimento riposto, v'è tale laberinto del mio cuore, dove io non sarei mai penetrata, se una sua parola non me ne avesse data a un tempo la rivelazione e il filo.

[220]

N'ebbi Omero volgarizzato da un grande ellenista e gran poeta ad una, e cominciai a conoscere l'antichità, e mi maravigliai che insino in quei tempi ch'io credeva felici, quel vecchio padre nominasse l'uomo il più infelice degli animali.

N'ebbi un libro in quattro volumi, di cui non mi ricorda l'autore, che parlava a lungo delle cose asiatiche, e vi trovai che un filosofo cinese, vivuto non so quante decine di secoli innanzi Cristo, aveva detto che l'uomo era il più infelice degli animali, per essere il più corrotto.

Quivi trovai che nell'India i Bracmani, cioè una setta di filosofi adoratori d'un Dio unico ed eterno, ch'essi chiamavano Brama, e dal quale credevano dato il loro libro sacro detto Veidam, si astenevano dalla carne degli animali che servono l'uomo, e per fare che anche il volgo se ne astenesse, messero in voga la dottrina della trasmigrazione delle anime degli uomini nei corpi di animali d'altra specie. E mi parve che il mondo sia stato assai più virtuoso, o per meglio dire, assai meno perverso in altri tempi ch'ora non è. E andai considerando l'atrocissima stoltezza dell'uomo, che crede che tutti gli animali che vivono sulla terra sieno fatti o per servirlo nei suoi bisogni, o per nutrirlo delle loro carni come loro sovrano; e spesso per l'uno e per l'altro. E va tronfio, e gli affatica, e li maltratta, e gli crucia, e gli sgozza, e gli squarta, e gli scortica, come loro re. Ma s'egli è re de' polli, dei maiali, degli agnelli e dei giovenchi, perchè sono più deboli di lui, o tali egli li ha saputi rendere, non è già re delle tigri, de' leoni, de' coccodrilli e degli boa, perchè non è re chi non è più forte. Ma o re o non re, non è cosa onesta l'ammazzare chi t'è stato lungamente [221] compagno nella vita, e co' suoi lunghi sudori te n'ha alleviato il fascio, e col suo sangue te l'ha salvata. E il non onesto, cioè il male, non mai, nè per quantunque gravissima ragione, va permesso. E voi, o legislatori della terra, sentite di sopportare un delitto che rende infame il suo autore, quando non porgete l'orecchio alla testimonianza de' beccai, o di quegli scellerati a cui regge il cuore d'immergere un coltello nel petto al più nobile, al più generoso degli animali, al vecchio e cagionevole cavallo, che nei vigorosi giorni di gioventù rizzò gli orecchi alla tromba di guerra, combattette per voi che sedevate a mensa tranquilla, e poi che sentì voto l'arcione, tutto grondante di sudore e di sangue, versò amare lacrime di tenerezza e di dolore sull'eroe che fu spento combattendo per la patria, e ne lambì e ne baciò le sanguinanti ferite.

E non m'astenni a questi pensieri di versare una lacrima sul primo amico della mia infanzia, su quel cane generoso e costante, che morì presso a quella buca per non abbandonarmi.

E così io fluttuava in un gran mare di cose e di pensieri, e leggeva tuttavia, e mai mai non era sazia.

LVII.

Ma vi novererò io tutti i libri che andai leggendo? Corsero quattro lunghi anni dal dì che suora Geltrude mi diede il primo libro, e mi parvero un lampo. Io posso dire che non v'è buon libro italiano o francese, ch'io non corressi anzi non istudiassi in quegli anni; e studiandolo, l'animo mio non s'informasse da esso. Ora, leggendo cose di scienze naturali, mi pareva che quello [222] fosse unico e vero sapere. Ora, leggendo cose astratte e intellettuali, mi pareva che della natura delle cose a noi non fosse possibile di saper nulla, e le scienze naturali mi parevano più tosto una storia di fantasmi e d'apparizioni diverse, che un ordinamento di fatti; e le scienze intellettuali mi parevano la sola verità che fosse al mondo, perchè avevano il fondamento loro non nella natura delle cose, che ci è ignota, ma nelle deduzioni del nostro intelletto, delle quali potevamo conoscere tutta l'indole e tutti gli elementi; e perchè per mezzo di esse si poteva almeno pervenire a quella conclusione, che gli elementi dei fantasmi e delle apparizioni delle scienze naturali ci sono compiutamente sconosciuti. Ora, leggendo le vite degli uomini illustri di Plutarco, traslatate in francese dal d'Amiot, l'uomo mi pareva più che uomo, anzi la più bella cosa fra le cose create. Ora, leggendo non so che volgarizzamento delle vite de' Cesari di Svetonio, l'uomo mi pareva l'animale più nefario, anzi la più mostruosa fra tutte le cose create, o da poter creare nei più strani delirii della nostra fantasia. E sempre e in tutte le cose diversa oggi da quello ch'ero stata ieri, cominciai in processo di tempo e insensibilmente, quel che mai non mi sarei presupposta alle mie prime lezioni, a non avere più fede nè in quello che leggevo, nè nelle deduzioni ch'io vi veniva facendo sopra.

E nondimeno, fra tanto ondeggiare e tanto cozzarsi di pensieri e di opinioni contraddittorie, quella nube che mi s'era condensata intorno alla mente ed all'animo in sul mio primo mettermi per il gran mare della lettura, cominciò a poco a poco a dileguarsi. Dico almeno in proporzione ch'io cominciai a toglier fede a quello che leggevo. Perchè, insino che tutto quello che leggevo [223] mi sembrò vero, ad ogni menoma contraddizione io era smarrita. E non potendo intendere come due veri potessero contraddirsi fra loro, davo la colpa a me di non aver bene inteso, e mi profondavo in una cupa meditazione, dove più andavo al fondo, e più mi si faceva buio. Ma quando cominciai ad avere un poco più fede nel mio intelletto, ed un poco meno in quel che leggevo, le contraddizioni anche più grandi nelle quali m'imbattevo non mi mettevano più tanta sollecitudine; e spesso anzi mi movevano a riso sulla vanità del sentenziare umano.

Poscia che quella nube mi si fu dileguata, io confesso che la mia vita cominciò a divenire quel che si dice comunemente una vita felice, e quel che a me piace di nominare più tosto una vita sopportabile. Io non abbondava, ma non mancava di nessuna delle cose necessarie alla vita materiale. E poichè, per legge inemendabile della natura umana, ai bisogni materiali soddisfatti sottentrano sempre i bisogni della mente e del cuore, a questi soddisfacevano in gran parte il ricamo, le mie tre compagne, i libri e suora Geltrude. Nè per la buona educazione e per il bene tutto insieme delle fanciulle, anzi di tutti i giovani universalmente, si può immaginare nulla di più savio, che quello che suora Geltrude mi diceva essere comunissimo in Francia, voglio dire, di non lasciar mai loro il tempo non dico solo d'annoiarsi, ma nè pure di guardare un momento solo in viso la vita. Essa è troppo pericoloso specchio a chi vi si mette dentro a rimirarsi. E più è viva la luce che brilla negli occhi che vi si mirano, più la riflessione di quello specchio li offende. L'animo che non trova più negli oggetti estrinsechi nè dove fermarsi, nè dove esercitare, e direi quasi disfogare, quella virtù operativa [224] che il suo Creatore gli ha impressa, si ferma in se stesso, ed in se stesso la disfoga, e rivolge contra se quelle forze che il Creatore gli aveva date per domare la natura.

Nè però era compiuto tutto il gran vuoto del mio cuore. E spesso i fantasmi fugaci della prima età, e le speranze, o più tosto le immaginazioni di una felicità ignota e sovrumana, della quale io non sapeva rendere a me stessa nè il modo nè la forma, non mancavano di affacciarmisi alla fantasia, massime nei dì di primavera. Ma la fredda persuasione in cui ero precipitata, che tutto ciò che più si desidera al mondo o è impossibile a conseguire, o non è quale appare, o conseguíto non giova, uccideva subito quelle immaginazioni, e dissipava quei fantasmi. E ricredutami dell'impossibile, se non mi appagai del possibile, almeno mi v'acquetai; e cominciai a poter patire la vita.

LVIII.

Erano i primi dì dell'agosto dell'anno milleottocentoventisei, quando la Chiara fu impalmata da quel giovane di pelo rossiccio che registrava i nomi dei fanciulli che erano marchiati. Questo giovane, con quei quattrinelli che poteva raggranellare alla meglio, aveva compero un cavalletto calabrese, di questi che non direi già corrono, ma anzi volano, anzi saettano. S'aveva compero ancora uno di questi calessetti triangolari senza molle, che paiono seggiolini volanti. E appena aveva finito di scrivere all'ospizio, correva alla casa sua, ch'era quivi vicino, e rifocillatosi prestamente con qualche merenduzza, e sceso sulla via, attaccato da se stesso quel suo cavallino, che aveva allogato colà presso in una stalletta, [225] montava il calessetto, e se ne andava snello snello ora a questo ora a quel contorno della città. Quivi menando il suo ronzino ora al trotto, ora all'ambio, ora al galoppo, sfidava quanti calessetti di quella fatta gli venivano scontrati. E quando era vincitore, tornava lieto, e rasciutta e governata la bestiuola, se n'andava tutto pettoruto al caffè al canto di Porta Nolana, ed entrando col cappello così un poco di traverso sul capo, faceva del bravo, e raccontava la sua ventura a certi ragazzoni che quivi la sera si riducevano a veglia. E quando era perdente, o teneva quatto quatto le vie più solitarie, o si riduceva in sul primo fare della sera alla sua casetta; e quivi sbuffato e pianto a suo bell'agio, ne andava a letto tutto svogliato e maninconoso.

Avvenne un dì che, essendosi sfidato in sulla via di Melito con chi non aveva meno voglia di lui di fiaccarsi il collo, se lo fiaccò veramente. Perchè la bestiuola, cacciata a tutta furia e troppo più che le sue forze finalmente non comportavano, guadagnò in prima la mano, e poi sfrenatasi e messasi in salti, si rivolse al calessetto e quello ribaltò; e il valente cocchiere si ruppe il capo e le braccia e le coscie, e s'altro aveva che fosse da rompere, se lo ruppe. Ricolto a gran pena da un fosso dov'era caduto, e trasportato per morto alla sua casetta, quando si fu risentito, tutto pieno il capo delle idee dell'ospizio, non fu tardo a botarsi alla Vergine Annunziata, che se risanava, senza voler più sapere di cavalli nè di calessi, avrebbe menata in isposa una sua figliuola. E risanato, nè già che non rimanesse un poco sciancato e monco dal lato destro e impedito al tutto del braccio sinistro, girò tutto l'ospizio, e restò preso dagli occhi ridenti della Chiara; la quale, così com'è il più delle fanciulle, rise prima della mellonaggine [226] che appariva nel volto del giovane, e quando dalle costui svenevolezze s'accorse che quella mellonaggine poteva riuscire a matrimonio, fece le mostre d'aver sorriso alla molta venustà di lui.

Così seguirono le sponsalizie, e così la Chiara ci abbandonò; lietissima d'abbandonarci, come era stata lietissima di vivere con noi; lietissima del matrimonio, come era stata lietissima del pulcellaggio; e lietissima della casetta del giovane, com'era stata lietissima della stanza di suora Geltrude. O indole beatissima! E pur v'è alcun mortale, cui la natura fu di tanto cortese, che messe nel suo cuore una fonte inesausta di stupida letizia, che versa il suo denso umore sopra le cose più laide, e ne attuffa in quello la laidezza. E forse non era nè anche questo: e la Chiara, che non era, com'ella mi aveva detto, mai uscita dall'ospizio, si partiva tutta lieta dal porto, dove forse un giorno sarebbe tornata tutta mesta e stanca e rotta da un lungo e tempestoso viaggio!

Ma qual si fosse la causa di tanta diversità di desiderii, io che non da un solo ma da mille viaggi e da mille orribilissime tempeste mi sentiva al fianco di suora Geltrude ridotta nel più dolce e tranquillo porto che mai pellegrino sciagurato osò desiderare dalle onde delle sue sciagure, il solo fugace pensiero di staccarmi un solo istante da lei mi faceva fremere.

Quell'anno, io non so per influsso di quali stelle maligne, le pubbliche calamità d'ogni genere furono tante e tali, che quasi non vi fu nessuno che non si botasse a qualche santo. E molti si botarono alla Vergine d'impalmare una sua figliuola; e, quel che non s'era mai visto negli scorsi anni, l'ospizio tutto, e l'alunnato massimamente, era divenuto una sorta di pubblico passeggio, [227] dove venivano tutti questi botati a scegliersi la mogliera. Il che era gran noia a suora Geltrude, e in ispecie a me, che me le raccomandai con le lacrime agli occhi, tanto ribrezzo io prendeva dello sguardare di quelli sconosciuti, che quando alcuno ne capitasse, di nascondermi nel suo gabinetto, o almeno farmi destramente ombra di se e del suo manto, ch'io non fossi increscevolmente considerata; massimamente ch'era cosa inutilissima, essendo io fermissimamente risoluta di vivermi al fianco suo, ed al fianco suo consacrare ancora io a Dio la mia verginità! E quando ci venne l'olimpico giovane che impalmò la Chiara, io seppi così bene nascondermegli, che, la Dio mercè, que' suoi occhi spaventati non si scontrarono ne' miei, che non già per vederlo, ma per meglio nasconderseli, gli furono tuttora sopra. Nè però potetti fuggire il mio destino, che mi riservava inevitabilmente una noia di questa qualità. Perchè, lasciamo stare che più d'uno di quei che ci vennero, ai quali io non potetti tanto celarmi che non ne fossi veduta, mi domandarono in isposa, ma un dì mi seguì qualcosa di meno aspettato.

Il giovane che aveva sposata la Chiara non rifiniva mai di parlare della dolcezza del matrimonio in generale, e della virtù e delle grazie della sua moglie in particolare. Il che non mi reca maraviglia, perchè la Chiara era veramente graziosissima; e della sua virtù non è mestieri ch'io vi dica oltre, quando vi ho detto ch'era vivuta assai anni al fianco di suora Geltrude. E parlando con questo e con quello di questa sua gran felicità che aveva trovata nel matrimonio, e di questa sua gran fortuna d'aver trovata una sì onesta e bella e ben costumata giovane di moglie, infra gli altri coi quali si confidò di tanta sua ventura, fu quel cotale marchiatore [228] a un tempo e maestro che già vi dissi. E tutte le volte che il torchio non lavorava, e che il registro era chiuso, era un gran parlare fra questi due della buona ed austera educazione, e disinvolta a un tempo, che suora Geltrude sapeva dare alle fanciulle, massime a quelle cui voleva il meglio; e il buon maestro a sfogarsi col giovane, che se anche a lui venisse fatto di potersi imbattere in una giovane bella e ben parlante, chi sarebbe stato meglio di lui; e che, in quel fondo gli pareva, o egli s'ingannava forte, d'essere un uomo come un altro, e cose altre somiglianti, che dicono gli uomini già assai ben oltre nell'età, quando si risolvono di dare il cervello a rimpedulare.

Acceso dunque costui, prima dalle parole, forse inconsiderate, del giovane, e poscia assai più dalla sua propria fantasia, come quegli che di poca levatura aveva mestieri, cominciò a non trovar più luogo dal gran caldo che aveva di farsi sposo. E poi che l'Eugenia, la Clementina ed io, non già per bisogno che se n'avesse, che loro la voce, e me la voce e i libri di suora Geltrude, avevano menate assai di lungi, ma per non acquistarci più invidia di quella che il troppo bene che suora Geltrude ci voleva non ci aveva già acquistata, non ci astenevamo mai di venire con tutte le altre giovani allo lezioni di ambo quei nostri maestri: costui cominciò a porci l'occhio addosso, ed a guardarci ed a riguardarci per entro quei suoi cristalli, ch'era una cosa, per dirvi il vero, troppo ridicola; e a non ridergli sul grugno, ci costava uno sforzo grandissimo.

Finalmente un dì che l'Eugenia era a letto, il che, come a cagionevole e infermiccia ch'ell'era, assai spesso le seguiva, e che la Clementina le teneva compagnia, io, cui già per il mio continuato leggere dava tutto [229] l'alunnato gli epiteti di dottoressa, di filosofessa e somiglianti, non volli mancare d'andare alle consuete lezioni, perchè non lasciavo passare nessuna occasione di poter moderare con la mia molta modestia e umiltà il mio involontario essere da più di loro, ch'è quello, come sapete, che non si perdona mai al mondo. E lasciando, non senza gran malinconia, la mia inferma amica, mi misi ad andare in branco con tutta quella turba femminile, parlando ora a questa ed ora a quella il più amorevolmente ch'io poteva, e non avendo mai per contraccambio delle mie amorevolezze altro che villani tratti, e scempi ed amari motteggi.

Pervenute alla sala della scuola, ci mettemmo tutte a sedere; ed io dove la folta era più spessa, per non essere noiata dagli sguardi curiosi del maestro di francese. Venne da prima il prete, e perorò la sua triforme diceria. Di poi venne l'altro, ed entrando cominciò a guardare nel posto dove solevamo sedere le mie due amiche ed io. E non vedendoci, cominciò, già prima di sedere in cattedra, a dimenare il capo di qua e di là, che pareva una cutrettola. E poi ch'alla fine, per quanto io tentassi di nascondere il mio capo fra quelli dell'altre, m'ebbe scorto, mi fece un sospiroso sorriso, che proprio, padre mio, mi mancò la forza di non ridere, e risi; e quel milenso, s'io non m'ingannai, prese più baldanza del mio riso. E vedendomi senza le due mie amiche, nè volendo perdere una così destra occasione di parlarmi, nè sapendo come meglio si fare a farmi accostare un poco più a lui, mi chiamò a recitare non so che di francese, ch'io sapeva benissimo e ch'egli non sapeva. Cominciando io, se bene un cotal poco fastidita di tanta noia, a recitare quel ch'ei volle, ed ecco il buon uomo che dice di non udirmi troppo [230] bene. Io levai più la voce; ma fu tutt'uno. Egli si ostinò a dire ch'egli non m'udiva, e mi consigliò, in un certo modo che a me convenne seguitare il suo consiglio, di andarmi a sedere un poco più presso a lui.

Quand'io fui dov'egli volle, ed ebbi recitato quel ch'ei volle, l'oriuolo battè le sedici ore, e la lezione fu finita. Tutte le giovani si levarono per andarsene; e mentre io mi levava anch'io, quel fastidioso mi disse:

Ginevrina, io avrei qualche cosa a dire a suora Geltrude: ed ora non potrei venir dentro, ch'è tardi. Recherestele voi quel ch'io vi dicessi? Ed allora piacciavi rimanervi qui un pochettino con meco.

Quand'io l'udii parlare così, divenni tutta gelata; e non sapendo come disdirmi di voler rimanere, e pur non volendo, gli dissi, così fra confusa e noiata:

Perdoni, signore; ma io non potrei davvero. Una mia amica è forte malata a letto, e m'attende; e dovrei già esserle al fianco.

E mentre egli disse ed io risposi, tutte le giovani ebbero bene e meglio il tempo di sgomberare dalla sala; ed egli, ottenuto di fatto ciò ch'ei voleva, seguitandomi ch'io già moveva per andarmene, anzi avanzandomi come per impedirmi il cammino, toltisi gli occhiali ed appressatami a una spanna gli occhi agli occhi, cominciò, con certi denti di fuori che parevan bischeri, a dirmi non so che, a chiamarmi non so che altro, e ch'egli spasimava, e che aveva perso meco il suo francese, e che i miei occhi e la mia bocca e il mio naso lo avevano condotto in non so che termini. E per non ve l'allungare, cominciò a dire tante e sì stolte e sì sazievoli e sì rincrescevoli e sì proterve e sì insopportabili svenevolezze, ch'io finalmente, non sapendo più nè che mi dire nè che mi fare con un uomo che mi [231] pareva uscito del senno, colto bene il mio tempo, mi sciolsi alla più gran fatica del mondo da lui, e di corsa ricoverai tutta affannosa e trafelata nella mia stanza.

LIX.

Per un mio natural pudore, e per un abbominio fierissimo ch'io ebbi sempre al pettegoleggiare, non dissi nulla di quel che mi era seguíto nè alle mie due amiche, nè a suora Geltrude. Ma talora la troppa prudenza giova; talora nuoce. E forse io avrei fatto il meglio a non nascondere nulla a suora Geltrude.

Il maestro mi concepì quell'odio che sa concepire un vecchio amatore ributtato. E, prima d'ogni altra cosa, visto ch'ebbe il marito della Chiara, gli disse ch'io era una malvagia pettegola, e che avendo cerco di parlarmi, così come per domandarmi delle condizioni della Chiara, ma in effetto per conoscere, egli ch'era assai ben furbo nel fatto delle donne, che sorta d'indole fosse la mia, e s'io non fossi indegna della sua mano, ch'era rimaso scandalezzato, ch'io avessi tolto giusto quell'occasione di dirgli un gran male della Chiara, e che in somma io era una mala lingua, e che se mai v'era niuna rea femmina al mondo, io era quella. Nè contento a ciò, disse al rettore suo fratello, che nell'alunnato v'era troppa libertà, per non dire troppa licenza, di costume, e che le ragazze, tanta era l'intemperanza loro, s'arrischiavano insino a civettare coi maestri, e che, fra tutte l'altre, una certa Ginevrina, ch'era soprappiù la favorita di suora Geltrude, gli sedeva sempre assai più da presso ch'egli non avrebbe voluto, ed ora gli sogghignava, ora gli pestava il piede, e il più delle volte, quand'egli aveva finito [232] di dettare, e l'altre s'uscivan tutte della sala, ella faceva la restía ad andarsene, parandosi in sull'uscio a dargli noia con ogni sorta di lezi e di moine. E finalmente, ricerca studiosamente l'amicizia di quel prete che insegnava anch'egli le alunne, e ch'era tenuto ed era veramente, come vi dissi, creatura del duca, tante e sì destre calunnie gli seppe comporre contro a me ed a suora Geltrude, che tutto lo dispose di doverne ragionare al duca come di cosa gravissima e incomportabile.

Intanto, alla seguente lezione di francese, io non v'andai; ma continuando ad essere inferma l'Eugenia, feci di rimanermi io presso al suo letto, e che la Clementina v'andasse. E il maestro, vedendola fresca e bella ed allegra, perchè quel dì ella aveva trovato nel suo cuore non so che ragioni di consolarsi della vita, e sapendola per delle mie più strette amiche, si pensò che s'egli avesse potuto avere l'amor di lei e sposarla, di farmi un gran dispiacere. Onde, fatte tutte quelle scempiataggini che già aveva fatto meco per parlarmi, e parlatole, se non la conquistò del tutto, certo con quel fascino di quella parola matrimonio la scrollò sì forte ch'ella ritornò a noi pensierosa; e non ci si fu prima seduta accanto, che ci raccontò l'avventura, e ci dimandò il parer nostro.

L'Eugenia non rispose, perchè era assai rifinita di forze quel dì; e solo le sorrise così un poco dolcemente, ma senza aver punto la cera di deriderla. Ma io, senza nè pure troppo considerare perchè io mi dicessi così, di subito, come per naturale incitamento che sentii dentro di me, le lodai smisuratamente il partito che se l'era offerto, e la confortai efficacemente a non lasciarselo uscir di mano. Nè ella ebbe già mestieri di troppi conforti. [233] Anzi, discacciata da se ogni passata malinconia, si dispose del tutto a volersi fare sposa di don Ignazio, che così si domandava il maestro. E trovato il modo di fargli intendere com'ella era contenta d'essere sua, don Ignazio la giurò spacciatamente, promettendole, qualunque volta la vedeva, cose grandissime delle sue valentíe in queste opere delle donne, e delle sue gran ricchezze e gran palagi, e dei gran teatri dove l'avrebbe condotta, e cose altre grandissime; e che l'avrebbe menata più presto che fosse stato possibile. Laonde la Clementina, credulissima, come noi donne siamo, a tutte le spavalderie di quel rimbambito, messi dall'un de' lati tutti i pensieri e le passioni tenere e verginali, cominciò, già prima di maritarsi, a farla da donna maritata, non volgendosi più nè a me nè alla candida Eugenia con quell'affetto che soleva, anzi assordandoci tuttodì di vani cicalecci di future gravidanze e di futuri figliuoli, e fra una parola e l'altra frammettendo sempre quella di marito, ch'è quella rete con cui ogni più laido e sozzo e goffo e vecchio e scrignuto uomo può pigliare ogni più bella e fresca e leggiadra e ben nata e ben parlante e ben costumata giovane sia al mondo. Alla fine per sua ventura e nostra, don Ignazio la menò; ed io lo vidi che non poteva più stare nella pelle dall'allegrezza d'aver trovata una bella giovane che lo volesse per marito, e d'avermi fatto, com'egli si pensava, dispiacere.

Così, di quattro svisceratissime amiche che s'era, che pareva che non si potessero trovare in tutta la terra le somiglianti, e che mai più non si dovesse essere divise; la Chiara ci abbandonò con una spensieratezza che le toglieva insino il sentimento d'essere colpevole di poco amore verso di noi; la Clementina ci abbandonò con un sillogismo che le dimostrò che non eravamo noi quella [234] cosa che le si conveniva amare sulla terra; e rimanemmo l'Eugenia ed io, delle quali l'una era moribonda di corpo, e l'altra, dopo tanto dolore e tanta infausta luce di verità, era già morta di spirito.

LX.

Come il sole, in un bel dì d'inverno, limpido e purissimo in sul mezzodì, cominciando a calare, già quasi si pone sul volto un tenue velo, e più s'avvalla e più sembra annebbiarsi, sì che finalmente pare che pianga egli stesso il suo tramonto, e poi giunge un punto in cui tramonta nell'oceano; così i limpidi e purissimi occhi dell'Eugenia tramontarono nell'eternità. Assisa notte e dì accanto al suo letticciuolo, io li mirava ogni dì, ogni ora, ogn'istante, e mi parean sempre quelli. E pure ogni dì, ogni ora, ogn'istante quegli occhi si velavano, s'annebbiavano, e poi piangevano essi stessi il loro spengersi; e poi finalmente giunse un punto in cui si spensero.

Io non so io stessa di ch'ella morì, nè saprei dirlo altrui. Ma quando lessi, in un libro inglese, d'una giovane morta of broken heart, di cuore rotto, mi parve che l'Eugenia di quello morisse. Nel volgere di quattro anni e tre mesi ch'io le vissi accanto, ella morì un poco ogni dì, e mai più non mi sarà possibile di mirare così da presso il confine impercettibile che divide la vita dalla morte. Ella non potette mai nè leggere nè scrivere, nè tessere nè ricamare, altro che stancandosi ed affaticandosi gravemente; e ad ogni riga letta, ad ogni fil di refe passato, era tutta rifinita, e traeva il fiato rotto come se non potesse più la vita. [235] Sospirava sempre, e tutto l'annoiava; piangeva sempre, e non sapeva perchè: ed io credo che così com'ella era inconsolabile della vita nell'ospizio de' reietti, così sarebbe stata sul Palatino nella magione dei Cesari. Tutte le angeliche cure di suora Geltrude, la quale non permise mai che dalla sua stanza ella fosse tramutata nell'infermeria, tutto l'amore sviscerato ch'io l'ebbi, non le versarono nel cuore una sola stilla di consolazione. La religione stessa, che pur v'era intensissima, non bastò a raddolcire quel cuore amareggiato, inondato da un mare di dolore: e se vi lasciava un solco, era il solco che lascia un vascello, quantunque grandissimo, nell'oceano.

Suora Geltrude, cui dopo la raccomandazione del barbassoro, il duca aveva in sostanza conceduta una piena potestà di operare quel ch'ella volesse intorno alle alunne, anzi intorno all'ospizio tutto insieme, non mancò d'interrogare tutti i più savi medici della città. Gli uni risposero ch'era tisico e attaccaticcio, gli altri ch'era tisico e che non s'attaccava, altri ch'era atrofia irrimediabile, altri ch'era un'ipocondria assai facile a guarire. Ma nè suora Geltrude, nè io rimovemmo il letto di lei o i nostri da quella stanza; e la natura, non consapevole delle varie opinioni di quei gran maestri, perseverò infaticabilmente il suo spietato ed invincibile lavoro.

La notte del dì ventitre di ottobre suora Geltrude leggeva chiusa nel suo gabinetto, ed io vegliava l'Eugenia, come avevo fatto quasi tutte le notti di quel mese: e parte leggevo, parte, quand'ella poteva metter fuori qualche tenue parola, l'ascoltavo con intensa attenzione, e mi studiavo di risponderle affettuosamente, ma non tanto che un troppo fervido ritorno d'affetto [236] in lei non avesse potuto, commovendola troppo, dar la pinta a quell'ultimo respiro di vita che le alitava ancora nel petto. Ella era solita quasi ogni cinque o sei minuti di mandare qualche lieve sospiro e dirmi qualche parola, non del suo male, ma così universalmente, della noia della vita. Io leggeva da capo del suo letto, proprio, si può dire, con l'orecchio mio sinistro accosto alla sua bocca, essendo ella inclinata alcun poco sul suo fianco destro, per lasciare più libero il palpitare del suo cuore, ch'era da più dì un cotal poco accelerato. E solo talvolta ne lo discostavo, così naturalmente e senza quasi avvedermene, di qualche dito, inclinando il libro e dietro a quello il capo verso la lampada, che pendendo nel mezzo della camera, s'io teneva il capo e il libro troppo levato, non mi vi riverberava i suoi raggi.

Erano le otto ore di notte, ed ella mi disse che il lume di quella lampada l'offendeva troppo più che il solito, e che proprio l'era un sentimento amaro, e non poteva patirlo, e che volgersi dall'altra parte nè pure poteva, non potendo giacere sul suo cuore che le palpitava assai concitato. Ed ella stessa mi pregò, che mutandomi un tantino di dove io era, avessi interposto il mio capo fra gli occhi suoi e il lume; e così feci: ma discostai un poco più l'orecchio dalla sua bocca.

Io leggeva il Fiore del deserto del Leopardi, e m'era alquanto profondata in una meditazione malinconica della noverca natura, e della incomprensibile nullità dell'uomo, e della sua grandezza ancora più incomprensibile; e quando mi risentii da quella specie di sonno, mi sovvenne ch'era forse un quarto d'ora che o l'Eugenia non aveva sospirato, o io non l'aveva udita. Senza quasi muovermi dond'io era, mi volsi così un [237] poco, ed accostai il mio orecchio sinistro alla sua bocca, e mi parve che non respirasse. Subito le diedi un bacio sulla sua sinistra guancia ch'era inclinata. Ah padre! chi non ha ancora baciato un cadavere credendolo persona viva, non si attenti d'immaginare quel ch'io sentii.

Io aveva letto in vari libri varie descrizioni di morti seguíte. Quella notte seppi per prova che le cose sono nell'esistenza assai diverse da quelle che appaiono nelle descrizioni. Le descrizioni sono sempre poesia, e i fatti sono sempre prosa; e chi da quelle si argomenta di desiderare o d'abbominare questi, va assai di lungi dal vero.

L'impressione che mi fece sulle labbra e sul viso la particolare specie di freddo ond'era compreso quel cadavere, mi causò uno sfinimento. Io rimasi collata sopra lui non so quanto tempo; ma so che quando mi risentii, il lume a cui leggeva suora Geltrude traspariva ancora dalle fessure dell'usciuolo del suo gabinetto, e ch'io mi trovai di nuovo sola, e di nuovo mi sentiva quel medesimo freddo, ed anche maggiore, ed anche più spaventevole, sulle labbra e sul viso, nè mi veniva la forza di levarmi. Finalmente serrando sforzatamente gli occhi, e coi due pugni stretti pigiando forte sulla sponda, mi spiccai come d'un salto da quel funesto letto; e passatogli dappiedi, volgendo come impaurita il viso dall'altra parte, mi condussi all'usciuolo di suora Geltrude, e lo spinsi furiosamente, e fui dentro, e, gittatomele al collo, la baciai mille volte, e la bagnai delle mie lacrime. Ed ella m'intese; e per quella notte non venne fuori a coricarsi, nè sofferse ch'io v'andassi.

La mattina seguente suora Geltrude non uscì già [238] nella stanza, perchè dopo l'inenarrabile sua sventura di Parigi, ella, d'altra parte coraggiosissima e vittoriosa d'ogni opinione pregiudicata, aveva come un orrore dei cadaveri. Ma dal suo gabinetto ordinò assai cose; acciocchè la spoglia dell'Eugenia fosse onoratamente seppellita. Alle ore ventitrè del dì seguente l'Eugenia fu levata dalla sua stanza, e condotta convenevolmente nella chiesa, e quivi esposta insino alle ventiquattro dell'altro dì, che tornò per sempre alla terra.

Quando fu levata dalla stanza io ebbi un desiderio irrefrenabile di contemplare per l'ultima volta quelle amatissime forme. Suora Geltrude mi ammonì di non farlo. Ma io non potetti contenermi, e al tacito scalpitare dei confrati apersi un pochetto l'usciolino, e vidi, mentre la sollevavano nella bara, tremolare quel viso di movimento non suo; ed al primo vederlo ritrassi il capo inorridita.

La morte strappa l'uomo dalle mani di lui stesso, e lo gitta fra gli artigli della natura, che si precipita sulla sua vittima e la disforma in un baleno. O voi che siete condannati a rimanervi sulla terra senza la persona che vi fu cara, non v'inducete a mirarla in quegli istanti ch'ella si trattiene ancora quivi, e non è più. La nuova immagine sformata e brutta di morte vi turberà per sempre nella mente quella che già v'era tutta bella e scintillante del lume della vita; ch'è pure la sola cosa che può sopravvivere di lei.

LXI.

Perduta così l'Eugenia, e di quella tanto affettuosa e rara camerata rimasta soltanto suora Geltrude ed io, [239] questa restrinse in me sola tutto quell'amore ch'era diviso fra quattro, e non ebbe più ben nessuno, se non quanto o mi giovava in alcuna cosa, o almeno m'era da presso. Vedendomi sempre mesta e pensierosa della perduta compagna, e di quell'ultima notte, faceva ogni opera di disviarmi da quei tetri fantasmi. E poich'io aveva esausti tutti i libri ch'ella aveva già fatti miei, si cavò un giorno dal seno la licenza dei libri che le censure ecclesiastiche vietano di leggere, la quale per mezzo del barbassoro ella m'aveva impetrata dal pontefice romano. E fattomene un dono, che, per verità, a malgrado della mia malinconia, mi fece palpitare d'allegrezza, mi condusse nel suo gabinetto, e mi fece padrona di quell'avanzo di libri. Fra i quali io mi cacciai come ingorda voratrice, e leggeva tutta notte e tutto dì accanto a lei. Ella nè anche, come sempre era solita, m'ammoniva di andare a rilento; ed io consumai un lungo inverno che mi parve un soffio. Nè contenta a ciò, come più tosto spirò la prim'aura di primavera, prendeva spessissimo di suo una carrettella a nolo, ed ora mi conduceva a Pozzuoli, ora a Baia, ora a Linterno, ora a Cuma, ora a Ercolano, ora a Pompei. Appena sopraggiunse la state, mi conduceva presso che ogni dì sulle piagge odorose di Posilipo e di Mergellina, a bagnarmi ed a specchiarmi in quelle onde purissime e carezzevoli; ed io, tranquilla oramai da tutte parti, m'annegai finalmente in un mare di felicità non meno puro nè meno carezzevole di quelle onde.

E nondimeno, come in me sola si restrinse tutto quell'amore di suora Geltrude ch'era già diviso in quattro, così in me sola ancora s'aggravò tutto il fascio di quell'invidia che già eravamo quattro a sostenere. Tutta l'aristocrazia dell'alunnato si ridusse in me sola; [240] e tutto il popolo di quelle giovani cominciò a desiderare apertamente la mia rovina.

Passò la state ancora, e sopravvenne l'autunno; e lasciate le nostre gite a Mergellina, ricominciammo le nostre visite ai vestigi di quella memoria che solo, benchè molto e molto compassionevolmente se ne affatichino ne' loro scritti, non ci è stata potuta togliere dai forestieri.

Il dì due di novembre, non potrà mai uscirmi dalla memoria, era quel dì in cui sapete quale strazio si fa degli avanzi dei trapassati in questa singolarissima città. Si diserrano i sepolcri, si disotterrano i morti, si riappiccano le ossa rotte e i teschi staccati dal loro troncone, si vestono chi da dottore e chi da giudice, chi da leggiadra giovane e chi da vecchia, si scrive il nome ch'ebbero o che si suppone ch'abbiano avuto in vita, s'illuminano le sotterranee volte, e si rompe l'argine a un mare di popolo, che va per via di diporto guardando questo e quello scheletro, e leggendo i nomi, e se alcun nome è noto, rammenta i suoi buoni o rei costumi o quali parve che fossero al rammentatore, e o ne piange o ne ride o passa indifferente, ma sempre gitta monete al sagrestano. La commemorazione de' morti non era il pensiero che più giovava a suora Geltrude; e vedeva anche me già dal dì dinanzi pensierosa e trista: onde si risolse di passare quel dì alla campagna.

A levata di sole si partì, e, dopo forse tre ore di viaggio, giungemmo a Pompei, ch'era ben la quarta volta che vi venivamo. Quivi ci avvolgemmo gran tempo fra le vote vie e le vote case, già note, e prima di rientrare nel cocchio per tornare a desinare alla Torre dell'Annunziata, donde eravamo dianzi passate, suora Geltrude, uscita dalla città nel sobborgo detto dei sepolcri, [241] volse a mano dritta, e mi disse che desiderava passeggiare un pochetto nella vigna contigua, e salire di là sulle mura della città, che si poteva, e contemplarla un altro istante tutta insieme. Così facemmo; e camminando sole, faceva un gran freddo, dal quale mi parve che suora Geltrude prendesse un'impressione di ribrezzo che mai non aveva presa: ma ne accagionai la novità della stagione. Gli alberi tutti ignudi ci rammentavano gli scheletri che fuggivamo; e il suono lontano delle campane sonate a distesa nelle città che circondano il Vesuvio, nelle cui cavità parea lontanamente rimbombare, misto a un certo sordo scoppiettío che facevano i nostri piedi calpestando tutte le foglie cadute e risecche, ond'era pieno lo spazzo, ci rammentava che tutto perisce quaggiù, e che l'uomo male si sdegna d'essere mortale. Salimmo finalmente sul muro; e quando ci apparve tutta la parte diseppellita di Pompei, e il freddo crebbe, e suora Geltrude, quasi abbrividando, si copriva con la pezzuola le labbra e parte del naso, io non so, ma mi parve che la stagione della vita fosse già passata, che col mancare dell'anno si mancasse tutti, che fosse giunta la stagione della morte, che la morte ci fosse intorno ovunque si ricoverasse, e che ogni fatica di fuggirla fosse vana.

Discendendo dal muro suora Geltrude s'appoggiò con la sua mano sinistra sulla mia spalla destra più che per l'ordinario, e volgendosi un istante alla sua destra come per mandare un altro sguardo a Pompei, rivolgendosi mi disse:

Come mi giova d'appoggiarmi sopra di te, o Ginevrina. Oramai poco mi potrebbe nuocere di morire, perchè ho un seno sul quale spirare. Ch'io credo che nel non averlo sia tutto lo spavento della morte.

[242]

Ella non aveva ancora finite queste parole, ch'io diedi in un dirotto pianto, e non che reggere lei, non poteva più reggere me stessa. Le dissi che quella era la prima parola non amorevole che avevo udito dalla sua bocca, di aver potuto pronunziare ch'io le potessi sopravvivere un istante. Ella sorrise mestamente, e mi disse ch'io era assai giovane ancora nelle cose della vita; ma che ella sperava di non partirsi così presto.

Risalimmo nella carrettella, che ci condusse alla Torre dell'Annunziata, dove scendemmo a un albergo per desinare. Quivi, per ridurci in un'ultima stanzetta, si dovè passare per una gran tavolata d'Inglesi di questi che si chiamano dandys, che noi diremo zerbini, i quali, benchè meno immodestamente che non avrebbero fatto i Francesi, fecero alquanto beffe dell'abito monacale di suora Geltrude e del mio, che poco differiva. Povera gente! Ella non sapeva di beffare chi non ignorava le cause laide e infami e servili, a un tempo, del loro scisma, e come se un loro re non avesse voluto farsi sposo mentre era altrui marito, bacerebbero anch'essi i piedi di Gregorio! Ma s'eglino ci beffarono, noi li disprezzammo; e senza nè pure guardarli, passamm'oltre.

Ridotte nella stanzetta, suora Geltrude tolse solo un brodo senza più; e questo mi crebbe malinconia. Quando quella tavolata fu sgombera, pagato il nostro scotto, ci rimettemmo in viaggio; e poi che i giorni correvano velocissimi verso il loro giro più angusto, eravamo appena al Ponte, e già un'ora di notte batteva. Io aveva la mano sinistra di suora Geltrude sempre stretta nella mia destra, e quando fummo al Carmine la sentii fatta assai gelida. E guardandola nel viso alla luce dei fanali e delle lucerne del Mercato, mi parve come s'ella intirizzasse dal freddo. Nè la stagione mi pareva così rigida. [243] Onde tutta me la stringevo al petto, e le domandavo che ella avesse. Ma ella rispondeva sempre che nulla, finchè, giunte all'ospizio, la misi nel letto con la febbre.

Ora qui manca possa alla memoria e all'intelletto di raccontarvi quel che seguì; e s'io avessi dritta la penna in mano per trent'anni, e per trent'anni la possa mancherebbe. Un'ora di poi coricata suora Geltrude delirò, e delirò per ventuno dì; e delirò sempre di Francia, di rivolgimenti, di mannaie, di sommersioni, di carnefici e di capi mozzati, e di nuovi nomi di patiboli e di morti. Le altre suore francesi ricorsero a tutt'i medici italiani o stranieri ch'erano in Napoli, i quali tutti definirono diversamente l'indole della febbre. Fu tenuto dai più sommi fra costoro un gran consulto, e le furono ordinati assai rimedi, che tutti furono adoperati. Io dalla prima sera insino al ventunesimo dì non me le discostai un solo dito dal letto, senza ch'ella mai più mi riconoscesse. E in sull'alba del dì ventitre di novembre, cessatole un istante il delirio, ella mi guardò, mi riconobbe, mi sorrise; e inclinato il capo sul mio seno, quivi, come aveva presentito, spirò l'ultimo fiato.

Tav. III.
... e inclinato il capo sul mio seno, quivi, come aveva presentito, spirò l'ultimo fiato. — Carte 243.

[247]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE QUARTA.

Et tu, domine exercituum, probator iusti, qui vides renes et cor, videam, quaeso, ultionem tuam ex eis; tibi enim revelavi causam meam.

Jerem. cap. xx.

E tu, o Dio degli eserciti, provatore del giusto, che vedi le viscere e il cuore, fa ch'io vegga la tua vendetta di loro, perchè in te rimisi la causa mia.

Gerem. xx. 12.

[249]

GINEVRA
o
L'ORFANA DELLA NUNZIATA.


PARTE QUARTA.

LXII.

Appena io m'accorsi che suora Geltrude non era più, le rialzai il capo dal mio seno e spalancai disperatamente gli occhi miei ne' suoi. Ahi! ma quegli occhi erano ancora aperti e non mi guardavano più! Ahi Dio mio! ma come potetti apparirti degna d'un dolore così sterminato!

[250]

Suora Geltrude non morì allora, non è morta, nè morrà mai per me finchè non morrò ancora io. La sua voce, che sola conobbe le vie del mio cuore, mi vi risuona sempre viva e vera; e viva e vera e lampante la sua cara immagine m'è sempre dinanzi, e ora mi siede accanto, ora mi cammina allato, ora mi si stringe al seno, ora mi ragiona del gran bene che mi vuole.

La compagnia che sempre mi tenne dappoi ed ancora mi tiene suora Geltrude, mi fu cagione d'intendere donde venne nelle menti, cui la religione non la rivelò, la prima idea dell'immortalità dell'anima. Perchè così viva e vera ed amorosa ancora e perduta di me qual io la vedo e odo ed ascolto, che altro potrei credere se non quel che veramente credo, cioè, che così com'ella mi amò e mi fu sempre da presso in vita, così ora, dopo morta, il suo spirito ancora non m'abbandoni?

Quella voce e quella immagine m'imposero e mi diedero la forza di svellermi da quel cadavere che non era più lei. Ed appena sveltamene, io riparai nel gabinetto, tediata del sole che non nasceva quel dì per la mia madre.

Quivi non versai già una sola lacrima; ma mi sedetti sopra una sedia d'appoggio che v'era; e con gli occhi asciutti di disperazione, guardai lungamente intorno a me; e qualunque cosa vedevo, la toglievo in mano e la contemplavo lungamente come insensata. Ora prendevo un libro, ora il calamaio, ora la penna, e pensavo ch'erano cose state già toccate lungamente da lei. Ora prendevo un velo, ora un soggólo, ora una pezzuola, e pensavo ch'erano cose state lungamente in sulla sua persona, e le accostava alle mie nari per sentire se odorassero ancora di lei, e poi le accostava alle [251] mie labbra aridissime, e le baciava, ma così rabbiosamente, se mai può dirsi rabbioso il bacio, e senza tenerezza, ma come per una vendetta del destino. E togliendo spessissimo una piccola sperina ch'era sul tavolino, mi vi specchiavo dentro, contemplando, così come stolida, ora i miei capelli tutti scarmigliati per la lunga negligenza, ora il mio volto pallido e smunto per la lunga inedia, ora il livido ch'era di sotto a' miei occhi per la lunga vigilia. Finalmente mi cessò questa specie di stupida convulsione, ed io stetti più ore su quella sedia, immobile e senza pensieri come una statua.

Dopo più ore, ch'io stetti come una statua, il sole, che tramontava, allungò i suoi pallidi raggi nel gabinetto, e mi ferì gli occhi. E quasi destatami da un grave sonno, pendeva da un appiccagnolo di rimpetto a me un piccolo oriuolo da tasca che suora Geltrude aveva sempre al collo e ch'io aveva carico la sera dinanzi, ch'ella viveva ancora; ed io vidi ch'erano le ventidue e mezzo, e mi parve udire nella stanza appresso un gran calpestio e un gran susurro. Ah padre, quell'istante mi ruppe veramente il sonno o più tosto la stupidità che m'aveva aggravata, e compresi che il cadavere era levato. Mi rizzai furiosa per uscire. Ma quella cara immagine mi ritenne, e mi minacciò di sparirmi per sempre s'io rimirava anche un istante quel che non era più lei; ed io ricaddi sulla sedia, e finalmente piansi. Ma quel pianto non mi sollevò, e fu il più disperato pianto della mia vita.

Quando fui bene stanca, ma non già sazia, di piangere, caddi in una fievolezza mortale, che cominciò a rammentarmi quei giorni, ch'io credetti troppo facilmente che non tornassero mai più, dico quei lunghi [252] giorni ch'io non vissi al fianco di suora Geltrude. Io cominciai a sentirmi infelice, non più di quella infelicità comune a tutti gli uomini, ch'è la condizione anzi la conseguenza dell'essere, ed alla quale gli anni, le sciagure e gli studi se non ci accordano almeno ci avvezzano; ma di quella infelicità che par sempre nuova, che non è di tutti, che non è condizione o conseguenza dell'essere, ma è solo di alcuni come martiri, destinati a colmare con l'immensità del loro dolore il gran vuoto della misura che la natura dimanda a tutta la specie umana. Dopo tante letture e tanto pensare, avevo immaginato che le mie opinioni intorno agli uomini ed alle cose dovessero moderare sensibilmente l'amarezza delle sventure. Ma mi accorsi troppo bene del mio inganno. E vidi per prova che le deduzioni della filosofia valgono a consolare delle lievi sventure; ma incontro alle grandi tacciono; o se non tacciono, le aumentano. Perchè il savio, ch'ha la giustizia nel cuore, sente non solo il danno ma l'ingiustizia di esso, e se ne sdegna; ed anche quello sdegno è dolore.

E mentre io d'infelicità in infelicità, e di sdegno in isdegno, m'era condotta con la fantasia alle più remote e incognite regioni del dolore, se nel mondo del dolore v'ha nulla ancora di remoto e d'incognito, mi riscosse dalle mie terribili immaginazioni non già, come il più delle volte incontra, un rumore o una voce volgare, ma un alto e profondissimo silenzio ch'io m'accorsi che mi regnava intorno. Qualche istante di poi battè la mezza notte, ch'io credeva che fosse compieta; e cominciò sensibilmente a turbarmisi il discorso della mente: nè in vero sapevo più s'io era in sogno o desta, che nove ore m'erano apparse qualche minuto.

Mi levai senza troppo intendere per che fare, ed appressai [253] l'orecchio al buco della serratura dell'usciuolo, e tutto era silenzio nella stanza contigua; nè pure vi s'udiva quel non so che di leggermente sospiroso e lamentevole che sempre accompagna il sonno degli uomini, quasi si lagnassero de' mali del dì passato o del vegnente: e compresi che nella stanza non vi dormiva persona. Volsi finalmente, per uscire, la gruccia della serratura a colpo ch'era sull'uscio; e sentii ch'era stato, senza ch'io me n'avvedessi, serrato a chiave di fuori. Mi tornai sulla sedia dove il sole mi sorprese ancora più stolida del dì davanti.

LXIII.

Poco di poi la levata del sole, l'usciuolo fu aperto da que' due uscieri del duca che già sei anni prima m'avevano accompagnata a registrare nel libro de' passati per ruota, a marchiare e poi al convento, ed io maravigliai grandemente l'immortalità dei carnefici. Costoro erano seguíti da un uomo macro e lungo, con un giubbone di seta e un panciotto a falde pendenti, e i calzoni corti insino al ginocchio, e le calze di seta e le scarpe con grandi fibbie d'argento, e tutto nero come una piattola, salvo la goletta con le sue facciuole ch'era bianca, e con una gran parrucca tutta piena d'amido e coduta, nobile somiglianza che l'uomo volle avere al quadrupede. Ed era tale in fine, qual io non avrei mai creduto di dover vedere effettivamente nessun uomo, e quali appresso a poco m'erano apparse certe figurine ch'io aveva viste altra volta, rappresentanti i cortigiani di Luigi decimoquinto di Francia, quando, incanutendosegli e guastando la chioma troppo frescamente, gli [254] comparvero, ultimo esempio di schiavitù, in quella foggia, che assai ben celava la disonestà del capo reale; e tutta Europa e insino America fu coverta di parrucche e di code. A costui seguitavano due altre figure poco differenti da lui, e suora Giustina all'ultimo, in atto assai mesto e dimesso, e come dolente di quello che seguiva; alla quale s'accompagnava un giovane di forse trent'anni, che, solo a vederlo, lo avresti detto avvocato, sì luccicanti occhiali aveva agli occhi, tanto ciarlava, così spiccava le parole e così disonestamente gesteggiava con le mani.

Questi, adunque, era un avvocato, e propriamente l'avvocato salariato a vettura dal duca, e quell'altro un notaio, e quegli altri due, due testimoni. I quali tutti, per ordine del duca, venivano in visita ad apporre i suggelli ed a fare inventari e cose altre delle masserizie state di suora Geltrude, come devolute di legge all'ospizio. E venivano in compagnia di suora Giustina, che, per diritto d'anzianità, era succeduta di fatto a suora Geltrude in quella specie di precedenza nell'alunnato; ma non si trovava d'essere nè tanto benivogliente di me, nè stata nel convento di Regina Coeli educatrice della figliuola del barbassoro.

Quand'io intesi la causa di quella comparsa, non mi calse troppo dell'altre masserizie, che pure avrei desiderate di serbare tutta la vita come si serbano le memorie carissime; ma dei libri non potevo sostenere solamente il pensiero che mi fossero rubati. E sapevo troppo bene che, già assai prima d'infermare, suora Geltrude n'aveva distesa tutta di sua mano una scritta di queste che chiamano testamenti olografi, nel quale dichiarava formalmente che, salvo quel che di legge ricadeva al suo proprio convento di Regina Coeli, il restante [255] e particolarmente i libri, non voleva averli lasciati ad altri che a me. Onde tutta accesa d'uno sdegno che il lungo digiuno rendeva più acerbo, significai a quegli avvoltoi di corte, che suora Geltrude aveva fatta erede me della sua robicciuola, e che del resto poco montava, ma dei libri non volevo lasciar toccare un solo a persona del mondo.

Il notaio fu il primo a sorridere, aggrottando le ciglia in un certo modo, come chi in difesa del forte, fa beffe del debole che troppo presume del suo buon diritto. E invitandomi, fra grave ridente e cortese, ad uscire del gabinetto, e cominciando ad aprire il cassetto della tavola che quivi era, e gli armadi, e ogni altra cosa, frugò e rovistò per tutto, mentre quelle due sue anime dannate notavano quel ch'egli dettava; e finalmente venne fuori il testamento, che il notaio lesse ad alta voce ridendo. L'avvocato, o che così veramente credesse, o che tale fosse l'accordo già innanzi preso, dichiarò che quello era caso da duca; ed essendo già assai ben tardi, gli uscieri corsero a chiamarlo, ed egli venne col codazzo di due segretari, che mi parve che non gli si fosse torto un capello in testa dal dì che la vidi la prima volta, tanto somigliava se stesso.

E poichè il duca fu venuto, tutti gli fecer piazza, ed ei passando ed inclinando il capo in qua e in là, come chi è avvezzo ad essere sempre salutato, s'assise alla sedia d'appoggio nel gabinetto, e in sedendo, gittato così un certo sospiro di soddisfazione di se medesimo, disse:

Signori miei, eccomi qua.

L'avvocato e il notaio gli sedettero incontro sopra due seggiole ch'erano nel gabinetto. Io, che non era mai voluta uscire a malgrado dei replicati inviti del notaio, [256] rimasi confitta in uno de' due estremi cantucci del gabinetto, suora Giustina s'assise quasi sotto l'architrave dell'uscio a un'altra seggiola che si fece portare, e i due segretari, i due testimoni e i due uscieri s'acconciarono come poterono.

L'avvocato, sputato ch'ebbe e nettosi il muso e tutto il volto con una pezzuola bianca assai ben sudicia, distendendo e levando su il braccio destro, e poi, aperta la mano, e congiunto l'indice al pollice, cominciò:

Veneratissimo signor duca governatore, signora badessa, signor notaio, e signori testimoni, e voi tutti signori e signore.

E qui si fece dai principii della scienza delle leggi, e parlò della repubblica di Platone; e quindi discendendo al dritto romano, citò le dodici tavole e gli euremi e i responsi dei giureconsulti, e addusse le pandette, il codice, e le novelle; e fra un mare di latinità divenendo all'età media, allegò Francesco d'Accorso, Cuiacio e Gottifredo; e pervenuto al codice francese, recò le sentenze del Portalis, del Merlin e del Sirey, e concluse: primieramente, che quel testamento era nullo di dritto e di fatto; secondariamente, che la comunità di Regina Coeli non aveva nulla che pretendere dall'ospizio in sull'eredità di suora Geltrude; e in terzo luogo, che le masserizie, i libri e qualunque cosa fosse stata della defunta, s'apparteneva di legge alla Madonna.

Laonde il duca, che già prima d'una cotanto eloquente diceria, era persuaso che così era come l'avvocato diceva, si levò sentenziando che il tutto s'intendeva devoluto alla Madonna; e dato ordine che tutte l'altre masserizie fossero vendute per conto di lei, comandò che i libri fossero stati il dì seguente trasferiti nella sua biblioteca, [257] che n'avrebbe egli tenuta ragione all'ospizio. E tornando via coi segretari, rivoltosi un istante, chiamò a se suora Giustina, e le disse non so che assai pianamente, e quella rispondendogli non so che altro, egli replicò imperiosamente così doversi fare com'egli aveva ordinato. Di poi, continuando il suo cammino, disparve fra un grande strisciare di piedi che faceva egli stesso e che gli era fatto ancora intorno da' due segretari e dagli uscieri. L'avvocato gli corse dietro strisciando anch'egli come un rettile, volendo così somigliare quell'animale all'andatura, come lo somigliava al battere della lingua. Il notaio, fatto prestamente trasportare dalla stanza nel gabinetto e quivi ammonticchiare alla peggio i due cassettoni, il letto, la biancheria e qualunque altra cosa v'era che si fosse appartenuta a suora Geltrude, n'inchiavò l'uscio, e lo sigillò col suo sigillo: e conclusi e raccolti i suoi atti e le sue scritture, fatta riverenza a suora Giustina, n'andò anch'egli con Dio. E così fu ordinato e solennizzato legalmente un furto, non per grandezza ma per qualità, il più infame che sia stato mai commesso sotto il sole.

LXIV.

Io rimasi con suora Giustina nella stanza stata insino allora di suora Geltrude e mia, e guardando intorno, non vidi più il mio letto, nè il mio cassettone, nè verun altro degli arnesi miei. Ma, mentre guardavo, vidi entrare due serventi che portavano il letto e le altre masserizie di suora Giustina, la quale mi disse con assai gravità:

Ginevrina, al duca è parso assai inconveniente che [258] voi foste a dormire voi sola qui meco, e dice d'averlo consentito a suora Geltrude, buona memoria, per non turbarle gli estremi giorni della vecchiezza contrariandola in questo suo capriccio. Però sono stata costretta a porvi nel posto che vi spetta, dove sarete subito condotta.

E volta ai due serventi, accennò loro di condurmi al mio posto.

Io, abbassando gli occhi senza guardarla, mi messi a seguitare i serventi, che conducendomi per tutto il grandissimo camerone, quando furono presso all'uscio, si rivolsero e mi mostrarono l'ultimo letto, e s'andarono con Dio. Io m'accostai al letto, e riconobbi la mia biancheria e il mio cassettone, ma il letto era stato cambiato. Tirai fuori le cassette del cassettone; e vidi che mi mancava i tre quarti della mia robicciuola, acciocchè, come mi disse la mia vicina di letto non punto richiestane da me, non si vedesse più lo scandalo di una sola fra loro tanto meglio di tutte l'altre parata e addobbata.

Quel camerone era similissimo a quell'altro che gli è giusto di sopra, all'altro piano, e che si chiama la sala grande; la quale, se vi rammenta, io aveva abitata in compagnia delle balie quando fui rimessa nella buca dalla donna di Santa Anastasia. Era larghissimo ed era altissimo, e nondimeno la sua larghezza e la sua altezza erano un nulla alla sua sterminata lunghezza. Tutta l'aria e tutta la luce gli veniva da due smisuratissimi finestroni ch'erano alle due estremità della sua lunghezza; dei quali l'uno dava nella via della Nunziata, e l'altro, ch'era volto a tramontana, nella via dell'Egiziaca, parallela alla via della Nunziata; e sapete quanto queste due vie sono distanti fra [259] loro. Erano tutti a piccoli vetri assai sudici; le invetriate quasi mai non s'aprivano, e di luce non entrava quasi nulla. In vece di luce entrava aria notte e dì, ed appena spirava un'aura, tutte le coltri dei nostri lettini parevano vele di bastimenti, e restavamo tutte scoperte. E se qualche diavolo zoppo avesse alcuna notte sollevato il palco di quel camerone a qualche novello don Cleofas, i costui occhi avrebbero vedute assai delle forme non dispregevoli. Il grand'uscio di sala era prossimo al finestrone che rispondeva sulla via dell'Egiziaca, ed il mio letto, ch'era presso all'uscio, godeva a un tempo del vento di tramontana dalla parte del finestrone, e del vento di maestro dalla parte dell'uscio.

Così fui trattata io ventiquattr'ore dopo che suora Geltrude m'era spirata nel seno; e così fui consolata del più terribile dolore ch'io avessi a' giorni miei. Senza suora Geltrude, senza la mia stanza, senza la mia robicciuola, mia propria da più anni, e, quel che più di qualunque altra cosa m'era intollerabile, senza i miei libri. Lacrime non ebbi luogo di versarne, perchè la morte di suora Geltrude mi destò nel cuore un odio implacabile contro lo scellerato ordinamento delle cose di questo mondo, ch'io andava chiamando fortuna e fato e destino; e l'amarezza, anzi il furore di questo sentimento uccisero nel mio cuore ogni avanzo di quel non so che di tenero che solo vale a risolvere in lacrime la durezza del dolore. Tutto dì ravvolta fra quella plebe ancora invidiosa, se non più della mia fortuna, certo del mio essere da più di loro, io lavorava di malissima voglia, e le molte ore ch'ero avezza di passare nella beatitudine della lettura, le passavo assisa sul mio letticciuolo, morta del freddo, guardando i vetri del finestrone, e le mie mani, e i miei piedi; e non potendomi [260] per nulla ancora persuadere che nel mondo si potesse cangiare di tanto in così poco.

Godevano, intanto, del mio atroce supplizio tutte le cento giovani dell'alunnato, alle quali io non aveva fatto nessun male; anzi bene a moltissime, che nelle loro occorrenze mi avevano richiesta della mia intercessione appresso suora Geltrude. Godeva quel bietolone del maestro di lingua francese, che il mio innocentissimo rifiuto aveva offeso. Godeva il prete, che m'avea posto un odio immortale come a rea d'aver conosciuta la sua madornale ignoranza. Ed anche il duca, da molti riscontri che n'ebbi, s'abbassava a godere, per essere stato costretto, sei anni innanzi, per paura che quel barbassoro di corte, da lui vilissimamente adulato, non s'adontasse della sua pertinacia, a farmi quel bene ch'egli non aveva volontà di farmi. E questo è il mondo, e così gli uomini si consolano di quel male altrui che a loro non fa nessun bene.

LXV.

Così passai l'inverno, il più crudo e sconsolato di cui io abbia memoria, e venne l'aprile, o più tosto io lessi nel calendario ch'era venuto. Perchè qual primavera poteva penetrare in quelle volte, o nel mio cuore divenuto un sasso?

Un dì s'era a desinare nel refettorio, dov'era una finestra che rispondeva nella corte. Io sedeva assai ben prossima a questa finestra, le cui vetrate erano entrambe aperte, per essere a quei dì la stagione tiepidissima. All'improvviso fu udito un grandissimo tafferuglio nella corte, vocioni d'uomini, strida acutissime di femmine e [261] un certo romore come di proietti gittati per ogni verso. Per il che, levatesi assai di quelle giovani ed io con l'altre, fu corso alla finestra, alla quale una delle prime a farsi fui io, per l'impeto naturale dell'indole mia, e perchè v'ero più da presso. Come più tosto ebbi sporto il capo fuori, vidi, con mia grande ammirazione, quasi tutte le furie del convento aver fatta come una specie di sortita nella corte, e fra urli spaventevoli avere assaltato il duca, mentre era per montare in carrozza, chi con seggiole, chi con trespoli e chi con predelle, chi con tegami, chi con pani, e le più con zoccoli di legno grandissimi che avevano ai piedi; e i donzelli e gli altri straordinari del duca fare ogni loro estrema prova per difenderlo, ed essere nondimeno conciati assai male; ed esso duca, tutto pesto e rotto, essere senza pettine carminato in tal guisa, ch'era una pietà a vederlo. Ma io non mi fui appena affacciata, ch'io ebbi, per così dire, a sostenere tutto l'alunnato addosso. Perchè la stessa curiosità, passione furiosissima delle donne, che aveva spinto me ad affacciarmi, spinse anche le altre tutte a precipitarsi sopra di me per guardare nella corte. Ed essendo a caso sulla finestra un monte di piattelli tutti brodolosi ancora della nostra vivanda, i quali, affacciandomi, io aveva ben posto mente di non rovesciare, pure lo spingere e il calcare e il pigiare di quella frotta fu tale, che finalmente io non mi potei tener più sui miei gomiti, ed accasciandomi sotto l'enorme peso, i piattelli si rovesciarono, e la più parte, tombolando dalla finestra giù nella corte, vennero a cadere ed a rompersi propriamente, che pare un miracolo a dirlo, sul parrucchino del duca, che tutto imbrodolato si volse verso su e ne giurò memorabile vendetta.

[262]

Alla fine venne una mano di gendarmi, che a furia di colpi di baionette respinsero, non senza sangue, nel convento quel popolo di furibonde, e il duca, ficcato finalmente, come potette il meglio, il suo capo nello sportello della carrozza, ebbe di buone spinte in sul groppone dai suoi donzelli, che, cacciatolo dentro, chiusero lo sportello. Il cocchiere toccò i cavalli e la carrozza disparve; e noi, dal soverchio reprimerci, già quasi divenute splenetiche, tornammo a mensa alle nostre frutte, non senza dare finalmente, in compagnia delle nostre medesime maestre, un qualche sfogo di riso alle nostre oppresse milze.

LXVI.

Come più tosto fu potuto dar fine alle trionfanti risa, ciascuna di noi cominciò a temere nel suo segreto la vendetta del duca. L'essere io stata la prima a sporgere il capo fuori la finestra, e l'essere stata lo strumento passivo di rovesciare il monte di quei piattelli, porse occasione a tutte le cento giovani di convertire in rovina di me sola ciò che ciascuna temeva per se; e il pensiero dell'interesse comune passando come una corrente elettrica d'uno in un altro capo, non indugiarono a giurarmi tutte sul viso ch'io sola aveva rovesciati, anzi aveva voluto rovesciare, i piattelli in sul parrucchino del duca, e che da me sola era giusto che se ne portasse la pena convenevole. Tutte le testimonianze di verità ch'io invocai, tutte le mie protestazioni furono indarno. In meno che non lo dico andò per tutto l'ospizio il grido, che la favorita di suora Geltrude, non ignara della cospirazione del convento, [263] udito il tumulto, era corsa prima dell'altre alla finestra per precipitare in testa al duca tutto un monte di piatti ch'era quivi a caso, e tentare d'accopparlo, in vendetta del giusto divieto di lui ch'ella non seguitasse, anche dopo la morte della sua protettrice, ad essere la privilegiata, anzi la reina, dell'alunnato. Qual mai calunnia fu più somigliante al vero? Qual modo ebbi più io di mostrare l'innocenza mia, se suora Giustina medesima mi giudicò colpevole?

In breve il convento e l'alunnato furono intorniati di gendarmi. Si passò la notte come in una città assediata, e la mattina di buon'ora udimmo battere il tamburo nella corte, ed erano altri gendarmi che venivano in ordinanza. Alle dodici ore vennero quei due uscieri del duca con sei gendarmi, e mi domandarono a suora Giustina. Costei, comunque mi credesse rea, nè mi volesse troppo bene, fu smarrita della domanda, e rispose che io era affidata alla sua onestà, e ch'ella non poteva consegnarmi così a un tratto nelle mani di sei soldati. Aggiunse che avrebbe parlato ella al duca e cose altre; alle quali gli uscieri rispondendo parole assai villane, ordinarono ai gendarmi di pormi le mani addosso. Allora io mi volsi loro come invasata da mille demonia, e, per l'orrore d'essere toccata da gente di polizia, che più tosto mi sarei fatta toccare dal carnefice, mi levai su, e visto che suora Giustina m'era troppo debole aiuto, mi messi volontariamente fra i gendarmi. Quindi, perchè io mi credeva d'essere condotta in carcere, domandai che mi fosse data qualche mia robicciuola, che gli uscieri, incorati ancora dalle voci di tutte le alunne che mi gridavano rea, mi vietarono di prendere; e, così com'ero per casa e senza nulla in testa, fui condotta nella corte, dove trovai ventinove altre fra vecchie [264] e giovani di quelle furie del convento assai più ignude di me. E spinta con loro, anzi stipata in una delle sei carrettelle da nolo ch'erano nella corte medesima, fummo tutte, accompagnate da assai gendarmi a cavallo, e dagli scherni e dalle fischiate del più vile popolazzo, menate per il Borgo di Sant'Antonio al Serraglio.

LXVII.

Quando fummo pervenute sulla piazza del Serraglio, i gendarmi a furie di piattonate sbaragliarono quella gran folla di lazzaroni che ci aveva seguitate. Di poi, fatte fermare le carrettelle innanzi alla magnifica scala di marmo a due ordini onde si monta all'ampio vestibolo di quell'immenso edifizio, e fatteci scendere dalle carrettelle, ci consegnarono capo per capo ad altri assai gendarmi a piedi che ci attendevano colà presso. I quali, fatto ale di se, ci mossero per coppie in mezzo a loro, e salendo su per l'ordine destro della scala, e giunti nel grande adito, dov'erano tre grandi entrate, una al dirimpetto, e l'altre due a' due lati, entrarono per quella a mano ritta e ci menarono in un grandissimo e lunghissimo corridoio. Quivi ci fecero fare alto, avvertiti dai serventi dell'Albergo, che il governatore non era ancora venuto.

Era quel corridoio una specie di pubblico ritrovo d'ogni sorta di persone. Quivi eran uomini, quivi eran donne, d'ogni sorta condizioni, quivi erano Inglesi e Tedeschi a dovizia che traevano a pagare religiosamente il debito che ha ogni forestiero di vedere, o di poter dire d'aver veduto, quell'ospizio. E poichè era già andata per tutto la voce che noi eravamo le trenta più [265] riottose fra le figliuole della Nunziata che avevano preso a zoccolate ed a piattellate in sul viso e in sul parrucchino il nostro duca governatore, tutta quella gente, che senza noi sarebbe entrata e uscita spacciatamente, ciascuno pe' fatti suoi, ci si fermava e faceva calca intorno per vederci e considerarci. E ci consideravan tutti, massime gl'Inglesi, con una maraviglia e uno stupore così grande, che ben si pareva quanto gli uomini anche più liberi sono fatti per essere schiavi; che sempre par loro una gran cosa strana, che l'oppresso pigli un tratto a panate, o a tegamate, o a quel che meglio gli è alle mani, il suo oppressore.

In questa gogna s'ebbe io non so se dire la stoltezza o la barbarie di tenerci per cinque lunghe ore, dalle tredici alle diciotto, allorchè ci fu recato che, questo gran governatore che s'aspettava, era finalmente giunto per una sua scala segreta. Tosto fummo condotte dal corridoio nella sua sala dove, in vece d'un qualche gran baccalare, com'io m'era presupposta, trovammo un'abbietta e volgarissima figura, un sudicio e stizzosissimo vecchio, un pretto lazzarone vestito, ed anche malamente, con un certo logoro e rattoppato giubbone di questi che s'usavano a' bei dì de' nostri arcavoli. Costui, con un fragorosissimo vocione da Masaniello, con un dialetto purissimo di Lavinaio[3], aprendo una gran bocca, ed arrabbiando e facendo la bava, che non si sapeva qual diavolo il toccasse, ci disse ex abrupto la più gran villania che mai nessun reo mascalzone dicesse a nessuna più vituperata sgualdrinella di Mercato, dicendo così sozze e sconce parole, che, a me almeno, [266] che non ero mai stata a simili scuole, o riuscivano al tutto ignote, o m'insegnavano quello che ignoravo. E minacciandoci il capestro, la mitera e il fuoco, e mordendosi le mani per il gran furore in cui era montato, alla fine levando su a tutta furia una gran mazza ch'avea in mano, come per volerci rompere a tutte il capo e l'ossa, fu trattenuto e fatto quasi a viva forza sedere da due zerbini tutti azzimati, figliuolo e segretario suo, che gli erano intorno; i quali tutti molli dalla fatica di tenerlo, e parte sogghignando, fecero cenno ai serventi ed ai gendarmi di condurci via. E così fu fatto.

LXVIII.

Dopo così nobili ricevute, per le quali non ci si disdisse di aspettare cinque ore in quello stato, fummo, per il medesimo corridoio, ricondotte nel grande adito onde eravamo entrate da prima, e quindi introdotte nell'entrata di rimpetto a quella onde uscivamo. Quivi era una gran sala, ove fu picchiato a un uscio che dava in un corridoio simile a quello di là, ove eravamo state si gran pezzo alla berlina. Ed apertosi l'uscio, apparvero certe bruttissime suore, poco dissimili, di forma e d'abito, a quelle del nostro convento, delle quali vi era più d'una presenzialmente fra noi. A queste fummo dai serventi e dai gendarmi consegnate a coppia per coppia; e non appena il caporale ebbe profferito il numero quindici, che l'uscio si riserrò, e noi rimanemmo dentro, che parve un sogno.

Le suore facendoci, in su quelle prime, un certo viso arcigno e spaventato, ci condussero dal corridoio in un'altra sala non troppo ben grande, dove era una vecchia [267] francese che tutte chiamavano madama. Costei, da principio appaltatrice e poscia, per aver fatti assai ben ricamare non so quali arredi di corte, direttrice delle fanciulle dell'Albergo, con cento buoni ducati al mese, ci considerò un momento così tutte insieme, senza troppo fermare gli occhi sopra nessuna. Di poi, com'è il costume di Francia, motteggiate alquanto e noi e il duca, domandò a quelle suore che cosa avesse a farsi di noi. Le più vecchie e stizzose fra quelle dissero che noi non c'eravamo venute ad albergo, ma sì veramente a correzione; e che però ci si volea allogare in qualche canto appartato, e tener segregate al tutto dal consorzio dell'altre fanciulle, che ne potevamo corrompere l'innocenza. Ma le più giovani, e per questo medesimo meno ree, si opposero al crudo partito, ed allegando che quella legge del segregare era per quelle fanciulle che non s'erano portato intatto il loro fiore, e però non da applicare a noi ch'eravamo tutte pulzelle, posero, che ci si conveniva lasciar vivere in compagnia di tutte l'altre. E si vinse: e madama sentenziò cianciando, che potevamo andarne libere e sciolte con le altre giovani, ed acconciarci in sui lettini ch'avanzavano voti.

Io credo che voi sappiate che questo straordinario edifizio, cominciato, d'ordine di Carlo terzo, a rizzare dal Fuga, doveva avere un terzo di miglio di lunghezza, quattro vastissime corti, e una chiesa a cinque immense navate, e in mezzo l'altare che da tutte si potesse vedere il sacrifizio. Ma, come sempre segue nelle monarchie, che con la partenza o con la morte di ciascun principe parte o muore quel poco di bene che il popolo ne aspettava, e solo rimane quello ch'è loro connaturale, il servire, come più tosto Carlo andò a regnare in [268] Ispagna, l'opera pendette dismessa ed interrotta, e la metà solo ne rimase in piedi. Questa metà non basta a ricettare tutti i tremila giovani e le settecento fanciulle che per l'ordinario vi sono ricoverati. Laonde, benchè ai giovani s'entri per dove entrammo in prima noi per attendere il governatore, ed alle giovani donne per l'entrata opposta, nondimeno queste non hanno che solo la metà di due ordini di piani de' sei ond'è superbo l'edifizio, e tutto il rimanente è occupato da quelli.

Ristrette, dunque, in così anguste prigioni, quelle meschine giovani si può dire che non hanno luogo nè per dormire nè per lavorare. I telai e tutti gl'istrumenti dell'arti che vi s'esercitano, sono sparsi qua e là per quei corridoi che dovrebbero servire di solo passaggio; e fanno un ingombero e una confusione non più veduta. Nè ci si vede a lavorare, che la luce vi viene a pigione per certi finestroni ferrati distanti fra loro un buon migliaio di palmi. Nelle sale ove si dovrebbe lavorare, in vece vi si dorme, e vi sono i letti così fondi, che meglio sarebbe a unirli tutti e dormirvi su stipate alla foggia groenlandese. Questi letti, che potrebbero dirsi incoati, consistono in un muricciuolo a foggia di sedile che corre intorno intorno al muro, e sopra questo ciascuna appoggia la notte due piccole assicelle, sostenute dappiedi da un piccolo trespolo anche di legno, e sopra quelle adatta un sacconcello con entro un poco di paglia, e un lenzuolo che Dio vel dica, e, secondo la stagione, una coperta di lana o di tela grossissima; e quivi s'adagia e dorme, rotta dalla fatica e dalla fame; che tutto dì e fieramente vi si lavora, e una minestra con un lieve vestigio di lardo a mezzodì, e una la sera, e non molto pane, sono il nutrimento ordinario. Vero è che due dì la settimana vi s'ode ragionare di carne, [269] che poi a mensa a mala pena n'è alcun sospetto. E queste erano le cagioni vere per le quali madama era sorda, inesorabile a chiunque più la scongiurava di lasciargli vedere quelle sale e que' corridoi, e non la temenza che la pudicizia delle giovanette ne potesse essere offesa, che dalla gente educata non poteva.

Menate da una di quelle suore in una sala meno ingombera dell'altre, quivi ci allogammo alla meglio le mie compagne ed io; e cominciammo a condurvi la vita che ho detta dianzi, a me inusitata e durissima, ma a quelle fra le mie compagne della Nunziata, che non erano delle suore, assai più portabile di quella che menavano nel convento.

LXIX.

Le finestre di quella sala, tutte ingraticolate di ferro, rispondevano sull'ampissima pianta della chiesa dalle cinque navi, che mai non fu terminata. Ora si vedono solo i vestigi delle mura già cominciate a innalzare, e nella piazza che vi rimane in mezzo a scoperto vanno i bambini ed anche i giovani dell'ospizio a baloccarsi un poco i dì di festa, ed a prendere, chi in un modo e chi in un altro, alcun breve ristoro alle crude fatiche durate in tutta la settimana. All'ora medesima che quelli si ricreano giù, le donzelle sogliono farsi alle finestre, e sporgendo, come possono meglio, il capo fra le ferrate, precipitarsi fuori di se medesime e andar cercando, fra quei giovanetti, le misteriose larve della loro fantasia.

Non per cercare veruna larva, ma per inghiottire una qualche boccata d'aria incorrotta, e dare una fuga più [270] rapida ai miei sospiri, io mi faceva talora a quelle finestre. Un dì, era la Pentecoste, e tutte le giovani, raffazzonate alla meglio, ebbero licenza, come era solito nelle grandi solennità, di potere, scortate da assai serventi dell'ospizio, andare il dopo pranzo a spasso nel vicino Orto Botanico. Io parte era e parte, più di quello ch'era, mi finsi malata, per il desiderio infinito ch'avevo di vedermi un qualche istante sola, che diventa una furiosa necessità in chi è sforzato di vivere sempre in branco come le pecore, e per l'odio implacabile che ebbi sempre a quelle maniere di berlina; che mai alla vita mia non misi con le mie compagne il capo fuori della Nunziata o dell'Albergo de' Poveri, ch'io, comunque gli occhi miei non si schiodassero mai dalla terra, non sentissi susurrarmi intorno i nomi di bastarde e di serragliuole. E veramente Iddio, nella sua infinita pietà, potea scagliare una saetta di misericordia ed incenerirmi l'istante stesso ch'io bevvi il primo cielo.

Io mi rimasi, adunque, sola in quella mia gran sala ove dormivo, e volti gli occhi al cielo, e benedetto di quell'istante che mi concedeva, cominciai da prima, tutta libera e sciolta, a piangere ed a sospirare come più mi piacque. E sentendomi un poco più scarica dell'angoscia che tutto dì mi strozzava, mi feci alla finestra, e ficcando, come potevo, il capo nei vani di quegli spietatissimi ferri, guardavo, quando dall'un lato e quando dall'altro, il cielo ch'era purissimo quel dì, e più e più sospiravo; e quella serenità e quell'aura vitale addolcirono le mie lacrime per modo, ch'io, non sapendo io stessa perchè, cominciai a piangere, non più di dolore, ma di tenerezza e, direi quasi, di piacere. Stanca alla fine di tener il capo levato a riguardare il cielo, l'inclinai spensieratamente verso la terra, e, fra le migliaia di giovani che quivi si sollazzavano, fermai [271] gli occhi a caso sopra uno che, in disparte dagli altri e sdraiato sur un sedile di pietra viva, avea del braccio sinistro fatto sgabello al capo, ed ora avea gli occhi fissi nel cielo, ora come per lassitudine li chiudeva. E dopo un istante di stupore, come chi sentendosi sciogliere da un lungo sonno, apre gli occhi negli occhi della cara persona che ne lo sciolse, riconobbi in quel bellissimo giovane il mio garzonetto di santa Sofia.

LXX.

L'ultimo pensiero ch'io ebbi di lui fu quel dì che, levatami di quella cameretta da mezza scala, suora Geltrude mi condusse all'aperto in quella loggia ond'io imparai la prima volta, che perchè gli uomini sieno quaggiù così vili e traditori, non però il cielo nasconde loro, come dovrebbe, le sue bellezze: delle quali, ultima sua ingiustizia, sorride così allo scellerato come all'innocente. Poi l'amore e ogni altro sentimento giovanile naufragò nell'orribile oceano delle mie sventure; e quando cominciai a vivere al fianco di suora Geltrude, i suoi ammaestramenti e le mie letture m'indussero pensieri al tutto canuti. E se talvolta mi si affacciavano alla mente i desiderii della prima età, erano come un battello che fende l'onda tranquilla d'un lago, la quale fra un istante ritorna alla sua usata tranquillità.

Quand'io riconobbi quel giovane a' suoi crespi e biondi capelli, a' suoi occhi, a tutte le sue nobili e malinconiche sembianze, io sentii in tutta me stessa un turbamento d'una natura insolita, che non somigliava nessuno dei mille e mille di cui tutta la vita mia era una crudele e incredibile storia. Egli non mi vide, e la sala fu quasi in quel momento stesso inondata da un pelago di quelle giovani. L'aria cominciò a imbrunire, [272] le finestre si chiusero; ed io tornai agli uffici della vita consueta, gelate le mani e il volto, tremante, palpitante, ma certissima che in breve sarei tornata al mio tristo ed ordinario riposo.

Sonò l'ora della cena, ed io, giudicando quel turbamento dover esser causato in gran parte dall'inedia, n'andai più volonterosa che mai al refettorio, per pigliare alcun ristoro da quella minestra, che benchè rea e poco appetitiva, la necessità della natura mi faceva mattina e sera trangugiare senza troppo ribrezzo. Ma quando fui a mensa, e la minestra venne, io avrei bevuto più tosto il veleno che solo una cucchiaiata di quella; e così debole e tremante come v'era venuta, così me ne tornai nella mia sala, che proprio le ginocchia e le braccia non mi reggevano ad assettarmi il letto, che ogni sera bisognava ricostruirlo, perchè la mattina, per isgomberare un poco l'angustia delle sale, assi, trespoli e paglioni, tutto s'acconciava di traverso sul muricciuolo.

Quando fui a letto, di dormire fu niente. Era maggio, ed ogni maniera d'insetti formicolavano in quelle sale; ed io, benchè avessi agevolmente impetrato da madama di non cacciarmi indosso certe gonnelle d'un fiero capecchio ed altri non dissimili arnesi che lo splendido ospizio somministra altrui, e benchè avessi presa gran cura che il pagliericcio fosse nuovo, non però potevo con tutta la mia superstiziosa nettezza fuggire il sudiciume universale, ch'è inutile ogni nettezza a chi vive nel brago fra i porci. Io era sempre in battaglia con le brutture e con gl'insetti, senza nulla potere contro la vittoriosa corruzione; e senza giovare nulla a me, davo da ridere di molto all'universale. Ma satolla, se non di pane, certo di dolore, di fatica e di fievolezza, [273] non m'era ancora seguíto la notte nè di non dormire, nè d'accorgermi pure di alcun insetto. Quella notte io n'ebbi o mi parve averne addosso i milioni, dando ora di qua ora di là le più smaniose volte, e non trovando mai luogo: ad ogni ora sospirando, perchè ad ogni ora mi parve di affogare dall'oppressione; ed invocando ad ogni ora la luce, che mi pareva tanto lontana, che quasi estimavo impossibile di mai più rivederla.

L'immagine di quel bel giovane, che tutte le volte che mi veniva fatto di velare un cotal poco gli occhi, tornava come a viva forza a svelarmeli, e la troppo nuova stranezza del sempre crescente turbamento ch'io sentiva in me, cominciarono ad indurmi nell'animo alcun sospetto ch'io non fossi, a mio malgrado, infetta d'un sentimento ch'io non aveva nè la volontà nè il coraggio di confessare a me stessa. Ma l'orgoglio in che io era salita di me medesima dopo il mio tanto studiare, dopo l'essere stata, per così dire, iniziata da suora Geltrude nei più alti misteri della società degli uomini, e del mondo, fulminò, annullò in sul nascere quel sospetto; perchè io mi teneva troppo da più che da poter essere vinta da un sentimento d'amore, troppo da più che da poter mai allogare l'amor mio in chi di molto non mi fosse superiore: nè l'essermi superiore mi parea già cosa facile, perchè avvezza sempre a vivere fra gente sciocca, scellerata e vigliacca, io non concedeva fra me stessa a nessuno nè il mio ingegno, nè la nobiltà del mio sentire, nè quelle congiunture che mi avevano levata tanto al di sopra di me stessa. E nè pure volevo conceder tanto al mio garzoncello mendico.

Sonò finalmente la sveglia e riapparve la luce, ed io mi precipitai dal letto come si precipitò dall'apparecchiato rogo colui che, condannato alle fiamme, sentì [274] gridarsi grazia intorno; e racconcio il letto nella solita guisa, mi messi, sperandone l'usata quiete, al lavorío. Ma la mano negava l'ufficio consueto, ed io era ad ogni istante da me stessa soprappresa, che fissi gli occhi nella parete che m'era al dirimpetto, vi dipingeva con essi ora i capelli, ora la fronte, ora tutto il capo appoggiato sul gomito, di quel mio giovane. A mezzodì presi tre sole delle cucchiaiate della minestra, la sera non ne assaggiai gocciolo; l'angoscia, il tremore, il palpito, lo stupore mi s'andarono sempre crescendo; lavorare non potetti mai in tutto quel dì; la notte vegnente la passai due cotanti più fiera ed affannosa dell'altra: e dopo una lunga ma vana resistenza, prima al fatto e poi al riconoscimento di esso, mi accorsi alla fine, e mi palesai a me stessa, ch'io era disperatamente innamorata, perduta, impazzata di quel mio primo amore, e che nè allora ne mai, v'avrebbe avuto più luogo la ragione.

LXXI.

Io aveva udito dire a suora Geltrude, che, non altrimenti che chi è morso da un cane rabbioso, ha sempre un punto in cui, o tagliando o bruciando, può troncare il corso al feroce veleno, che se serpe una volta nel sangue, ogni speranza di salute è indarno; che così, bevuto il veleno d'amore negli occhi di alcun giovane periglioso, una fanciulla ha sempre un qualche istante da spegnere quel veleno in sullo scoppio: ma che s'ella lascia fuggire quell'istante, e il veleno le s'innesta un tratto, ogni altro argomento è vano, e l'è forza soggiacere alla fatale possanza. Nell'alba funesta in cui io mi [275] sentii vinta da una possanza tanto più forte di me, io imparai per la prima volta che suora Geltrude poteva talora non aver inteso tutto l'incomprensibile vero delle varietà, anzi delle contraddizioni, de' cuori umani. Che certo quel veleno stesso, che così sempre mi gioverà nominarlo, che molte altre fanciulle e suora Geltrude medesima, alla mia età, avrebbe trovato in lei e l'istante e la forza di spegnere, ebbe, dopo un breve conflitto, piena e sanguinosa vittoria di me; e sa Iddio solo s'io volli combatterlo, e s'io lo combattetti veramente di tutta mia possa.

Io non vi toccherò i luoghi topici di primo amore riacceso, di segni d'antica fiamma e somiglianti, perchè non ha luogo veruno la topica nell'incomprensibile tremenda cecità ond'io fui vinta, guasta, corrotta, ammaliata; acciocchè morta di corpo e morta per questo mondo, morissi anche di spirito e morissi anche per il mondo di là; se già la vostra santa assoluzione non mi ridoni la grazia di poter rivivere nel mio Creatore. Solo vi dirò, che per essermi a me stessa chiarita vinta, non cessai mai di combattere. Non mi feci mai più a quelle finestre, non mirai mai più nè pure quel cielo onde avevo inchinati sì infelicemente gli occhi sul giovane fatale; e quelle sembianze mi si accendevano ogni dì, ogni ora, ogni istante più vive nella rovente fantasia. Mi cavavo ad ogn'istante dal seno un carissimo e mai sempre da me adorato e baciato e lacrimato ritratto di suora Geltrude, ne invocavo in tutti i momenti l'ombra adorata: e quell'ombra, che pur insino allora non m'aveva abbandonata, allora fuggiva ostinatamente da me come fastidita di una mia sì grande e si inaspettata mutazione. Mi volsi a Gesù, e ne implorai genuflessa l'aiuto in tanta mia occorrenza; e Gesù non degnò d'esaudire la mia preghiera.

[276]

Tutte le suore, e madama, e universalmente tutte le settecento giovani donne dell'Albergo, delle quali io era stata insino a quel punto la maraviglia e l'edificazione, cominciarono, vedendomi divenuta sì pigra e stordita, a fare continue beffe di me ed a darmi gli epiteti più villani e vituperosi. L'una minaccia incalzava l'altra di pormi in disparte in una scura prigione per pena debita alla mia quanto più insolita tanto più notata e importabile sciaguraggine. Ed io, che m'ero insino a quel momento pasciuta d'un fierissimo disprezzo per chiunque m'era d'intorno e per l'universo intero, e vendica così in gran parte del mio destino, ora vedendomi avuta a vile e dispregiata dalla prima insino all'ultima dolorosa femminetta dell'ospizio, non solo non ne prendevo lo sdegno che avrei dovuto e la forza di sollevarmi contro a me stessa e vincere una così nuova vergogna, ma al tutto dimentica di me, quasi come a cosa meritata, mi vi conformavo.

Finalmente, per recarvi le molte parole ad una, il giovane non s'era per anche accorto di me, ed io n'era già fuori del senno.

LXXII.

Veniva a fare le lustre d'insegnar leggere alle più provette fra quelle giovani un prete calabrese di forse cinquant'anni, ma di soda e robusta complessione, e domandavasi don Serafino; nè di serafico aveva altro che il nome. Il quale, per essersi nutrito e riparato gran tempo in casa non so qual eccelso barbassoro della reggia, aveva avuto non so che carico nell'ospizio, e per la ragione detta dianzi temuto e però amato e venerato [277] dal governatore, n'era stato, novello don Ignazio, eletto a maestro delle fanciulle, non ad altra cagione, se non se acciocchè gliene venisse a crescere il salario. Costui, quantunque rozzo ed ignorantissimo, non era però tanto insensato, che non sentisse una gran noia di farsi ogni dì ripetere l'abbiccì da quelle milense: e nondimeno, per il bene della scarsella, comunque a malincuore, vi s'adattava. Un dì, abbattutosi a caso a ragionar meco, era rimasto stupefatto di aver trovata colà dentro chi sapesse tanto più di lui: che di ciò gli fu troppo agevole d'avvedersi. Egli dunque, o per alleviarsi la cotidiana noia che l'attendeva, com'io credetti veramente, o per non so qual altro disegno m'avesse fatto addosso, quasi ogni dì non cercava che me, non ragionava che con me, e della lezione e di tutte l'altre fanciulle faceva come di cose che per verun modo non gli appartenessero.

Essendosi per tanto costui, quasi a mio malgrado, dimesticato alquanto meco, non potette essere che non si accorgesse del mio repentino e inesplicabile cangiamento; e che, com'è sempre la mente umana vaga e curiosissima degli altrui segreti, non cercasse ogni via di strapparmi dal cuore il segreto ch'io gli nascondeva. Ed essendo furbissimo e maravigliosamente pratico delle cose di questo mondo, non istette guari ad accorgersi che il male mio era amore. Della qual cosa non si fu appena accorto, che un dì, coltami in disparte da ogni altra, mi disse:

Ginevrina, io credo che perch'io sia corvo, e additò il suo vestito nero, voi crediate che sia mio mestiere di andare disvelando gli amori altrui, o veramente m'abbiate per degli scopatori, ch'io abbia a scandalezzare che una bella giovane, quale voi siete, siesi condotta [278] ad amare. Ma se Dio v'aiuti, io sono d'ossa e di carne come voi: ed amai anch'io furiosamente nella mia età più fresca; e se ora non amo più, non però non m'incresce insino all'anima di chi ama, e non farei ogni opera di soccorrergli. E però, se voi amate, nè già sarete ardita di negarlo a chi calpesta da tanto prima che voi questa terra, e se non siete matta, che vogliate infelicissimamente morire potendo vivere felicissima, palesatemi colui che amate, e lasciate a me la cura del rimanente.

A queste parole, all'aria franca e sicura ond'egli le pronunziò, a quel non so che d'imperioso e d'affidante a un tempo ch'è sempre nella sembianza di chi è più vecchio di noi quando s'inchina a parlarci umanamente, mi sentii scoperta già prima di aprire la bocca, e nulla più non seppi tacergli. Ed egli, che teneva inchiodati gli occhi suoi ne' miei, come più tosto ebbe udito del giovane, li schiodò con mirabile celerità, e li raccolse in giù qualche momento, aggrottando le ciglia in un certo modo che tutto il sangue, senza ch'io sapessi perchè, mi si gelò nelle vene. Di poi, ritornandoli tutti umani e soccorrevoli ne' miei:

Sia lodato il sommo Iddio, mi disse, con un'enfasi tutta religiosa, che mi concede, con nessun mio danno, di poter fare una vera opera di pietà; che così gli uomini di senno intendono la pietà; e così l'intendeva Gesù Cristo. Addio Ginevrina, stai di buona voglia, e non volere, per soverchio di fanciullaggine, sciupare una tanta bellezza; ch'io ti annunzio che fra qualche dì sarai la più lieta donna che mai nascesse.

Era, quando questo colloquio seguì, il dì ventuno di giugno; e quale mi fosse la notte che gli seguitò, sarà più facile a voi l'immaginarlo, che a me il potervelo [279] dire. All'usato martello della mia furibonda passione, s'aggiunse quest'altro, che ora mi pareva d'aver fatto il meglio del mondo, ed ora il peggio, d'essermi fidata del prete. E mischiandosi alla disperazione la speranza, ne surse una terza maniera d'angoscia, della quale io non conobbi mai il più infernale flagello.

Il dì seguente il prete, ch'era usato di venire ogni dì, non ci venne, con non poca maraviglia di tutte: e la mia agonia se n'accrebbe. Finalmente l'altro dì, ch'era per l'appunto la vigilia della solennità del Precursore, riapparve don Serafino, tutto lieto nel viso che pareva la pasqua stessa; e raccontata all'altre giovani una sua favola del non essere venuto il dì davanti, ci fece un poco ridire l'alfabeto. Di poi, preso il suo cappello e trovato con incredibile destrezza il modo di cogliermi un istante in disparte:

Ginevrina, mi disse con la rapidità che l'occasione imponeva, se dimane, quando l'altre giovani vanno a spasso, tu ti saprai rimanere a letto come inferma, che pur troppo sei, io ti porrò nelle braccia il tuo Paolo.

E disparve che poco mancò che non fosse udito.

Ne' brevi e quasi convulsivi istanti ch'io aveva ragionato, era già otto anni, col garzonetto, ne aveva avuto tutta l'infelice storia della sua famiglia e non il suo proprio nome. Il che sempre che poscia mi tornò alla memoria, o che così fosse veramente, o che amore nobiliti tutto nella persona amata, mi parve esempio rarissimo di modestia e di gentilezza d'animo; che come agli stolti nulla viene sì rapido sulla lingua quanto il parlare di se stessi, così nulla viene più tardi agli assennati.

Quando udii il prete pronunziare quel nome, io mi composi in meno che non balena la più rosata novella, [280] e vidi proprio con gli occhi miei don Serafino che, ai miei contrassegni ed alla storia della famiglia, domandava del giovane tutti gli ufficiali dell'ospizio, e cercava e investigava, e finalmente, come per miracolo, ritrovatolo, ne aveva nome, casato, famiglia, istoria, tutto, e narratogli i casi miei, ed ecco il giovane gettarsi a' suoi piedi e scongiurarlo di soccorrere alla sua disperata passione, e don Serafino intenerirsi e sollevarlo e lacrimare di tenerezza; e promettergli che il dì di san Giovanni lo farebbe il più felice uomo che nascesse.

E con quest'aurea novella perduto quell'ultimo fiato di senno, o, per parlare con più esattezza, quei lucidi intervalli che m'avanzavano, diedi l'ultima perfezione alla mia pazzia.

LXXIII.

Varcato, adunque, l'ultimo termine che divide il senno dalla pazzia, mi finsi il dì vegnente malata, il che, per l'estrema pallidezza in che s'era cambiato il vivo colore del mio viso, mi fu di leggieri creduto. Alle ventidue le giovani andarono a spasso, madama n'andò altrove; e di tanta turba non rimanemmo che una vecchia custode in una cameretta ch'avea presso all'entrata, ed io a un piano e a non so quante sale e corridoi di distanza da lei.

Io non era più nè in quella sala, nè in terra, nè in cielo, ma aveva già valichi milioni di milioni di universi, e ne valicava ancora altri milioni, quando il prete m'apparì, tutto rosso nel viso e quasi come brillo. Ed essendomi io levata furiosa nel letto, e sporto il capo di traverso come per vedere chi entrava dietro [281] lui, ed ecco il prete porsi il dito dal mento al labbro, ed accennarmi con gran serietà di tacere. Io, tacendo, pure sporgeva il capo per vedere entrar Paolo, e vidi in vece la vecchia custode. Il prete, che come seppi dappoi, tastava polsi, ordinava ricette ed era tenuto gran fisico in quell'ospizio, sedutomisi dappresso, e toccomi il polso:

Per mia fe, disse a voce alta, sempre accennandomi con l'occhio di star cheta a' suoi detti, voi mi fate chiamare come se infermaste a morte, ed io vi trovo più sana di me. Per Iddio sommo! chi s'impaccia con voi altre, non ne puole aver bene. Via via, ho inteso. Voi volete annaffiarvi il gorgozzule con qualche rimedio a uso rinfresco.

E volto alla vecchia:

Suora Rebecca, le disse, andrete giù in farmacia e faretele fare una limonea delle buone con entro mezz'oncia di cremore di tartaro.

E poichè già la vecchiarda moveva:

Aspettate, le disse, che mi possiate prima far uscire; che sono atteso (e nominò una gran principessa) da forse un paio d'ore.

E levandosi, sempre accennandomi di non fare motto, andò via con la vecchia.

Io rimasi stupida, e stupida in breve lo rividi venire a me più acceso ancora di prima ed afferrarmi improvvisamente la mano, e baciarla più e più volte, e dirmi:

Ora ecco: Paolo è là nel mio quartiere che t'attende per disbramarsi una sete d'ott'anni: e ti manda questi baci anticipati.

E stato un istante sopra di se:

Ginevrina, m'aggiunse, ora è il tempo di mostrare se [282] sei l'altera allieva di suora Geltrude o una vile serragliuola. La vecchia è già in farmacia, e la stolta vide uscire prima me; ma poi, com'io già sapeva essere sua sciocca usanza, s'è tirato l'uscio dietro che chiude a saliscendi, ma non l'ha inchiavato con la chiave grossa, che le pesa soverchio di portarsela addosso. Io, data una volta, e rifattomi all'uscio, mettendo un mio grimaldello nel serrame, ho alzato il saliscendi; ed eccomi di nuovo a te. Levati su e seguimi, che mai non fu sì solitario il vestibolo; e sai che la farmacia è sotto la scala di fuori. Ma spácciati, che la vecchia non torni.

Io non badai a rispondergli, ma mi levai su, e cacciatimi in furia i miei panni indosso, mi messi a seguitarlo.

Per uomo di oltre a cinquant'anni, don Serafino menava assai leggermente le gambe. In meno che non lo dico si fu usciti da quelle chiostre; e passato il vestibolo, entrati per un corridoio tenebrosissimo dall'altra banda, e montati per una strettissima scala a chioccia, pervenimmo a un usciolino, che il prete aperse speditamente, e messami dentro e riserratolo, e dato una subita volta per le due stanzette di che si componeva questo suo quartiere:

Poffar Iddio! esclamò; l'insofferente Paolo c'è venuto incontro per l'altro corridoio; ma io l'ho bell'e giunto.

E riaperto e riserrato l'uscio a chiave, mi lasciò chiusa là dentro e disparve.

Ora io non v'intratterrò più, o padre, delle meditazioni e de' soliloquii che mi causarono da quel dì le continue e strane rivolte della mia fortuna. La vita, o almeno la mia vita, somiglia quel nuotatore che mosso dall'estrema sponda d'un faro, tutto librato e leggero [283] sull'onde, fa lente e riposate le sue volte e quasi può noverarle; ma poi sopravviene la stanchezza ed il fiato ingrossa, e le volte sono più rapide ed affannose ed innumerabili, finchè, a vista dell'altra sponda, guarda per l'ultima volta il cielo e cade in fondo all'abisso.

Ma a comprendere quanto fosse la miseria mia, vi basterà il conoscere che batterono le ventiquattro, e poi l'un'ora, e poi le due, e poi le tre, e poi le quattro, e poi la mezza notte, ed io brancolava a tentoni per quelle due stanze, ed il prete non veniva. E benchè io mi dimorassi colà al tutto fuori del senno, e come briaca mi cacciassi qua e là quasi per afferrare il giovane che mi fuggisse, pure ad ora ad ora ero come tocca e quasi destata da un certo oscuro ma assai sinistro e spaventoso presentimento: e quando mi balenava nella mente il pensiero di non essere stata ritrovata nell'ospizio al ritorno delle mie compagne, io sentiva non so che di molto nuovo nell'essere mio e nella mia vita, sentiva, benchè confusamente e come per sonno, ch'io aveva oltrepassato un certo punto da cui non era più possibile di tornare indietro, e che ormai la colpa e la vergogna entravano a parte delle mie sciagure, insino allora così involontarie e immeritate.

Era passata, io credo, di non poco la mezza notte, quand'io udii voltare la chiave dell'uscio ed entrare alcuno, ma non si vedeva chi. Morta d'incertezza e di paura in un canto della prima stanza, la prima, la sola parola che mi venne sulle labbra, fu: Paolo. Ma nessuno mi rispose, ed io udii il calpestio nell'altra stanza, e subito vidi luce, e don Serafino accendere con uno di questi lumettini accensibili una lucerna d'ottone. Ma non pronunziava sillaba, ed era come perplesso di quello che avesse a farsi o a dire.

[284]

Io stava in quel canto assai più perplessa di lui, anzi morta non d'una ma di mille paure. Ma finalmente, fattomi un poco di cuore, e paratomegli sotto l'uscio della sua stanza:

E il mio Paolo?... gli dissi.

Allora egli, posata la lucerna sur un cassettone ch'aveva accosto al suo letto, e come risolutosi nel suo pensiero, mi s'appressò, e presami per la mano, e tutto tremante, ma non già di paura:

Ginevrina, mi disse, il tuo Paolo è fuori di se dal dolore di dover prolungare d'una notte ancora la sua e la tua felicità. Ma egli ti vuol far sua, non un istante, ma sempre, e vuole fuggirti dall'ospizio, e, con un po di danari ch'io gli ho dato, condurti in Francia, dov'egli col suo mestiere, ch'è valente tipografo, ti renderà cara ed agevole la vita. Ma noi ci siamo indugiati troppo oggi, ed egli, temendo non fosse scoperto, aprendo quest'uscio con un'altra chiave ch'io gli aveva lasciata, s'è tornato all'ospizio; ove non ha voluto mancare stanotte, ch'è già troppo pericolo che vi manchi tu, e n'è già piena, si può dire, la città. Tu dunque starai qui meco acquattata stanotte, che sono spie da per tutto per iscoprirti; e però mi è convenuto tornarci all'ora mia che son solito. E doman da sera, quando questo volgo si sarà renduto certo che tu non ci sei, ed io ti condurrò in luogo libero, dove ti stringerai al seno mille e mille volte il tuo Paolo, ed egli te, e sarai fuori per sempre da questo carcere e da queste sventure.

E sempre più crescendo il suo tremore, con un viso fra pallido e ardente, e con la mano gelata:

Or vieni, mi disse, a riposarti un istante su questo mio letticciuolo.

Ed inclinando il capo, mi baciò, quasi succhiando, la guancia.

[285]

LXXIV.

La follia in cui ero venuta non mi tolse di conoscere che il prete poneva insidie al mio onore. Ma che tutti quei suoi racconti fossero altrettante ree favole fabbricate sul solo vero che quel mio giovane, ignaro affatto del prete e di me, si chiamava Paolo, questo fu quello che, nuova de' preti, io non fui tanta a comprendere.

Certa, adunque, che la notte seguente io avrei trionfato del prete, degli ospizi tutti e del mondo intero, io non diedi in quegli eccessi in cui io avrei indubitatamente dato, se tutta la mente del prete, che fra poco vi dichiarerò, mi fosse stata insino da quel punto palese. Ma scioltami a viva forza da lui, che poco mi resistette:

Orbè, gli dissi, don Serafino, questa è la virtù? questa è la fede? Questa è la nobiltà de' sentimenti che predicavate? Io mi trovo nella condizione che sapete per voler essere sposa di Paolo. Nè nessun altro al mondo m'avrà altro che morta.

E dette queste parole, mi raccolsi in un canto della camera, fermissima, se il prete perseverasse la sua prova, di mettere le maggiori strida che potevo, e d'attentare a' suoi o ancora a' miei giorni per qualunque modo mi fosse più alla mano.

Il prete, benchè al brutto e spaventato viso che fece, si vedesse ch'avea convertito in furore la sua gran rabbia, non s'ardì di porsi ad un assalto scoperto, massimamente, io credo, per la paura che io mettessi qualche grido. Ma come uomo prudentissimo e destrissimo nell'arte [286] del nuocere, ristretto e nascosto nel più profondo del suo petto il reo appetito che aveva di me, e la non meno rea cupidità di vendetta che gli era nata a' miei rifiuti:

Ginevrina mia, mi disse sorridendo, tutto sciolto e quasi libero d'ogni passione; come ben si vede che tu esci pur ora della Nunziata e del Serraglio. Tu ne venisti nel mondo tutta avvezza e fatta ai modi ipocriti e goffi di simile sorta di luogacci. Ma sappi che, la Dio mercè, il mondo non è tutto Nunziata e Serraglio, ed abbi meno paura di una carezza o d'un bacio di padre, quale io mi ti sono giurato.

E così dicendo, presa l'una delle tre materasse che aveva sul letto, e portatala sopra un canapè nell'altra stanza:

Or ecco, aggiunse rifacendo il suo letto, spero che andandomene io a dormire nell'altra stanza, che questo letto ti parrà abbastanza casto riposo.

E tiratosi l'uscio dietro, se n'andò a dormire nell'altra stanza.

Io non m'andai già a letto, ma rimasi tutta notte ferma in piedi in quel canto, senza avere nè pure la forza di sedermi, e in uno stato di convulsione continua.

Il dì seguente il prete, levatosi e fatto capolino all'uscio della stanza ov'io era, vedendo ch'io era stata in piè tutta notte, sorrise così alcun poco come alla mia innocenza. Poscia, raccomandatomi di star cheta, s'io non volessi essere la rovina mia e sua, e, quel che più montava, del mio Paolo, serrò l'uscio da scala e andò via. Al mezzodì ritornò e mi chiuse in un armadio ch'aveva nascosto nel muro, e m'ammonì di non fiatare, che birri e gendarmi correvano in traccia mia [287] per tutto l'ospizio. I quali non istetter guari a picchiare anche all'uscio del prete, ma solo così per la forma; e sapendolo amicissimo al governatore e ad altra gente di corte, si contentarono di dargli del reverendo a piena bocca e di baciargli con gran rispetto la mano; e s'andarono con Dio. Poco di poi il prete mi scarcerò dall'armadio, e riuscito, in breve tornò, arrecandomi egli stesso un poco di cibo come potette il meglio, acciocchè nessuno non se ne addesse, e più che di cibo, che io quasi non toccai punto, pascendomi di mille altre favole intorno al mio dovermi trovar con Paolo la sera e fuggirne in Francia con lui. Ma egli non desinò già meco, e di nuovo disparve.

Giunse finalmente questa aspettatissima sera, e venne il prete in sulla mezza notte, e porgendomi un bel vestito da marinaio, mi ammonì, tutto pieno di modestia, che, a meglio nascondere la mia fuga, bisognava lasciare l'abito mio femminile, e vestirmi quell'altro; e per discrezione richiuso l'uscio della stanza, si messe ad attendere nell'altra ch'io mi fossi travestita. Il che io non l'ebbi appena avvertito d'avere fatto, che, presami per la mano, mi condusse via dalla sua casetta per iscale e corridoi tenebrosi e strani, e su pe' rottami della fabbrica intermessa uscimmo a una via deserta che pareva campagna, e quindi per mille viottoli e mille rigiri riuscimmo alla via Carbonara, che il gran buio ch'era quella notte non mi tolse di conoscere, e finalmente ai gradini de' Santi Apostoli ci appressammo a un uscio, ove il prete picchiando e l'uscio s'aperse.

Quivi, saliti pochi e rotti scalini, io non ebbi il tempo nè di stupire nè di tremare di vedermi in uno di questi ricettacoli di gente di mal affare, non già fra le braccia di Paolo, ma fra quelle del prete, che, furibondo [288] ormai della più spietata libidine, assaltatami come orso famelico, e stracciatimi violentemente gli abiti di dosso, e tutta strettami a se coll'un braccio, si cavò con l'altro un pugnale dal seno, e punzecchiandomi con quello la gola, tanto che il sangue veniva giù a goccioli:

Ti colsi finalmente nella mia rete, esclamava mordendosi le labbra, ti colsi, o vil femminetta, che ardisti negare il tuo fiore a me, che sfiorai più vergini che non ho capelli canuti in questo mio capo. Stolta! e tutte più belle di te. Nè credere di parermi bella, ma non voglio che tu sii la sola ch'io abbia desiderato in vano.

E tenendomi tuttavia il pugnale nella gola, e punzecchiando ognora più forte, io credo che già quasi m'avrebbe scannata, se avesse creduto così bene potersi saziare la sua sete nel mio cadavere, come nel mio corpo vivo.

Quegli atti e quelle parole mi rendettero quel senno ch'io aveva perduto da troppo più tempo che non mi sarebbe bisognato. E inteso il tutto, nè mi sentendo più la vil fanticella di donna Mariantonia, nè vedendo altra via di salute che il non isperarne alcuna, di subito mi risolsi di vendere cara la vita mia. Onde, fatto uno sforzo disperato, e sciogliendomi furiosamente dalle braccia del prete, gli menai, quasi allo stesso tratto, due pugni, quanto potetti più fieri, in quel visaccio. Ed afferratagli con ambe le mie la mano in che egli aveva il pugnale, che già mi menava per la gola, aggravandomi di tutta la persona, come per uccidere me e lui di un sol colpo, diedi una così violenta strappata, che, non so io stessa come, ma il pugnale fu mio. Il quale stretto fortissimo nella destra, mentre, senza dargli un sol attimo di tempo, me gli scagliavo addosso [289] furibonda per ferirlo, ecco mi sento afferrare di dietro e stramazzare in terra da due più robuste braccia, ed, al fosco lume d'una lucerna che quivi era, veggo sopra di me il più brutto e disonesto scherano che mai si possa sognare, con una gran barba folta e nera nel viso, e un naso aquilino che gli scendea sulla bocca, e gli occhi guerci, che messo anch'egli mano a un coltello e strappandomi il mio, mi si cacciò come ginocchioni addosso, premendomi mortalmente il petto e le poppe, ed accennandomi, e pungendomi col coltello, acciocchè io mi chetassi. E poich'io non mi chetava, anzi metteva le più spaventose strida che mai, sopravvenne una vecchia, ch'io non so donde s'uscisse, che mi cacciò, con maravigliosa destrezza e celerità, cenci e capecchio in bocca e per la gola, ch'io allora allora n'affogava. I piedi soli m'avanzavano liberi; coi quali a calci disperatissimi io mi difendeva ancora dal prete, che mi s'avventava addosso sempre più cupido e villano. Ma finalmente comparve un altro assassino, assai più robusto e bieco del primo, che afferratami per i due piedi e tenendomeli conficcati in terra con quelle sue mani di ferro, volto al prete, gli disse freddamente:

Ora vostra riverenza può fare a suo grand'agio.

LXXV.

Poichè il prete ebbe attutata in quel mio morto corpo la sua rabbia bestiale, nè la terra s'apri, nè io invocai mai più l'aiuto celeste in nessun'altra delle mie sventure. All'orribile ritorno de' miei sentimenti, che l'ultime parole di quell'assassino m'avevano al tutto vinti, io vidi e lui e l'altro che tenendomi sempre inchiodata [290] in terra, pendevano a capo rilevato dalla bocca del prete; il quale, tutta rassettandosi la persona, ragionava loro assai tranquillamente, che a voler avere mercede e sicurezza intera, bisognava che m'uccidessero senz'altro. E quelli pur dubitando alcun poco, non già per pietà, ma per paura, non si sapendo in che modo potersi liberare del mio cadavere ch'altri non lo scoprisse, il prete ridendo della loro semplicità, diceva:

O come? non avete voi quella cantina qui sotto, ch'è proprio il fatto nostro? Sapete come n'è tenero e smosso lo spazzo. Vi scaveremo una fossicella della sua misura, che vedete ch'è piccolina, io intonerò sommessamente il vade in pace; e l'anima sua e le nostre ne saran tutte salve.

E così sia:

Risposero ad una voce i due sicarii, e levando su i coltelli, ed ecco atterrato l'usciuolo da via, e la stanza piena di birri e di gendarmi, e il prete, gli assassini e la vecchia ammanettati, ed io troppo tardi liberata, e tutti condotti al corpo di guardia del commessariato del quartiere di Vicaria.

Dai minacci e dagli scherni dei birri intesi, che madama, appena tornata all'ospizio e non trovatami, ne aveva data notizia al governatore, e questo al commessario di polizia del quartiere di Foria; e costui, esaminata la vecchia custode, ed avutone come il prete mi aveva visitato poco dianzi la mia fuga, essendo uomo assai pratico di somiglianti rigiri, aveva avuto sospetto che il fatto stesse come stava veramente, e non solo aveva operato che si fosse cerco nella casa del prete, ma ancora che tutti i suoi andamenti fossero stati per qualche dì vigilati; che i feroci del commessariato di Foria, come quelli che il prete s'aveva al tutto obbligati, [291] non avevano cercato molto diligentemente nella sua casa; ma che pure vedendolo per tutto un dì andare e venire non so quante volte da quell'abitacolo dai Santi Apostoli, non avevano potuto mancare di farne partecipi i loro fratelli del quartiere di Vicaria; i quali, ponendo la notte uno di loro che spiasse e origliasse a quell'usciuolo, avuto finalmente avviso da costui che il prete era dentro con la giovane travestita, e che vi s'udiva grida e percosse, erano tratti con la rapidità ch'avete letta.

Pervenuti che fummo al commessariato, ci messero tutti giù nel corpo di guardia, dove il prete domandò tosto da scrivere a non so qual barbassoro, al solo nome del quale quelle spie cominciarono ad avere un gran rispetto al prete, a' due suoi cagnotti ed alla ruffiana, e, salvo me, non maltrattarono più nessuno. Fu portato da scrivere al prete, che, incorando que' suoi bravi e motteggiando i birri, scrisse un gran foglio con una serenità e una sicurezza del fatto suo che ancora mi reca stupore. I feroci, non so se per gratificarselo o per vendicarsi sopra di me de' suoi motteggi, mi dissero con mal piglio, che mi conveniva montar su dal capo squadra (com'essi dicevano al loro decurio) che mi voleva. Io montai su con loro; e que' ribaldi cominciarono per le scale a trafficarmi villanamente. E quando fui su, il capo squadra, vedutami in quel mio vestito da marinaio, e tutta lacera e insanguinata, cominciò a fare le grasse risate, ed a dirmi i maggiori vituperi che mai intorno alle cagioni del mio travestimento e del sangue, e brancicatami alla volta sua, così più tosto per modo di correzione che per altro, m'impose di non mutarmi di dietro ad una certa panca dove i feroci m'avevano ridotta a furia di picchiate, ed egli si [292] pose a sedere con loro accosto a un gran braciere dov'era acceso un gran fuoco di puzzolentissimi carboni.

Abbenchè io fossi assai impedita del mio discorso, che ad averlo intero io credo che ne sarei morta allora allora, nondimeno io udii quella notte quanto mai è possibile alla più corrotta e sfrenata fantasia d'immaginare di più vile, e d'abbietto, e di lordo, e di crudele, e d'incredibilmente bestiale nella natura umana. Quella nefaria canaglia non ragionò tutta notte, che di frusta, di mitera, di gogna, di boia, di capi mozzati e di colli strangolati. E quando questa materia mancava al loro sollazzo, ed essi parlavano di postriboli e di meretrici, con parole di non mai nè pure immaginabile oscenità, che parevano fabbricate nell'inferno. E spesso interrompevano quelle parole, scagliandosi or l'uno or l'altro verso di me, a chi poteva più infamemente stazzonarmi: sì ch'io posso dire che per diciannove anni ch'io fui nutrita ed allevata fra la più scellerata plebaglia di questo reame, non imparai il milionesimo del male ch'io fui a mio malgrado costretta d'imparare in una sola notte che dimorai fra le mani di quella che si chiama giustizia.

La mattina seguente il commessario non era ancora arrivato, e già era venuto per il prete quel gran barbassoro di cui v'ho toccato. Un momento di poi giunse il commessario, che, fatte le liete accoglienze al barbassoro, gli diede subito a guarentigia, o, come qui si dice, per consegnato, il prete, i cagnotti e la ruffiana; i quali tutti, sogghignando verso di me, n'andarono alle loro ordinarie faccende. Ed io poverina, condotta dinanzi al commessario tutta vergognosa e tremante, e desiderosissima che la terra m'avesse prima inghiottita, poscia ch'egli, con un brutto cipiglio spaventato, m'ebbe, con grossissima e fiera voce, detto:

[293]

Che il diavolo vi branchi tutte, brutte troiacce di serragliuole, che nè anche i preti ci lasciate stare.

Diede ordine, che ammanettata e ben chiusa in una bussola, m'avessero condotta a casa non so qual alto ufficiale di polizia, che non mi ricordo proprio il nome di quel carico, la qual casa era ivi non molto discosta, perchè gli pareva che a costui si fosse appartenuto il sentenziarmi.

LXXVI.

Sempre, dunque, travestita di quello strappato e sanguinoso abito da marinaio, senza che mai nessuno di que' feroci, nè anche il commessario, ai quali tutti io me n'era pietosamente raccomandata, mi volessero fare la carità di procacciarmi una gonna qualunque, io fui chiusa in una bussola, e da molti feroci e gendarmi accompagnata a casa quel barbassoro. Quivi, fermata la bussola nella corte, mi fecero salire ben cinque piani, e fummo nella colui sala. S'aspettò, io credo, un'ora, bestemmiando gendarmi e feroci, che poi quando ci fu imposto d'essere alla presenza di sua signoria, gli si prostrarono quasi ai piedi, come i Tibetani al loro gran Lama.

Era costui un uomo altissimo e grassissimo, con una pancia che pareva il panteon di Agrippa. Il naso non era dei grandi, ma aveva le guance d'una così disonesta rotondità, che parevano essere due parti di tutt'altro membro che il viso: avea la fronte larga e corta, e i capelli inamidati, tutti ravviati con gran cura verso di dietro; e la sua testa tutta insieme pareva più tosto un grandissimo cocomero che un capo umano. Avea le [294] mani appoggiate sulla pancia, che girando a tondo per tutta la persona, non dava loro altro posto da giacere: ed aprendo la più sgangherata bocca ch'io vedessi mai, con certi piccioli, neri, rotti e rarissimi denti, con una voce e un dialetto della Ruga Catalana[4]:

Vedete com'è bella! vedete com'è bella! esclamò proverbiandomi rivolto a quei feroci; vedete come m'è venuta bella innanzi, con que' crini rabbuffati, e quegli abiti d'arlecchino tinti in rosso! Mi vorreste insegnare a me simili sorta di bagasce? Ora vedete mo com'è bella! Mettetela in mezzo agli sbirri e menatela alla prefettura! Alla prefettura in mezzo agli sbirri!

E così continuava a gridare come uomo ebbro o deliro, non guardando più nessuno, ma volgendosi intorno intorno come un energumeno, e mettendo ormai fuori non più parole intelligibili, ma certi urli confusi, fra i quali si distinguevano solo le voci: sbirri e prefettura. Finalmente i feroci, guatatisi così un poco fra loro, e visto ch'essi medesimi erano quegli sbirri in mezzo ai quali il furente baccalare aveva loro ingiunto di pormi, mi condussero via che ancora per le scale e nella corte s'udiva di lontano quel bocione, che rimbombava tuttavia: prefettura e sbirri.

Richiusa nella bussola e condotta alla prefettura, quivi fui messa, alla presenza di tutta Napoli, in una di queste carceri, come ora si direbbe, provvisorie, e consegnata vita per vita al carceriere. Quivi era un giovane onesto e biondo, di assai trista sembianza e tutto a bruno; il quale era sì stanco e addolorato, che [295] non pose al tutto mente a me quando ci entrai, nè pareva che avesse posto mente a due male femmine che gli civettavano dappresso. Queste, appena mi videro in quell'acconciatura, mi giudicarono una loro onesta compagna, e cominciarono a parlarmi assai compagnevolmente delle cause che le avevano condotte a trovarsi nella mia conversazione. Poco di poi sopraggiunse, accompagnato dal carceriere, un uomo di mezzana statura ed assai male in arnese, di viso assai umile e rimesso, e lasciato dal carceriere, si raccolse quivi in un canto come un povero carcerato. Donde, levati gli occhi verso noi tutti, ma in ispezialtà verso quel giovane, cominciò a raccontarci una sua favola della ragione del suo essere in prigione, ed a domandarci con assai disinvoltura di quella per la quale v'eravamo noi, dicendo il peggior male di tutti gli ufficiali grandi e piccoli della polizia, ed invitandoci a fare il somigliante, con tanto maggior pericolo che altri desse nella pania, quanto egli diceva il vero. Ma le male femmine nè pure intendendo quel ch'egli gracchiava, per risposta gli domandavano se gli facesse mestiere di loro; e il giovane o non badava a udirlo, o udendolo, gli sorrideva di pietà. Nè a me, avvezza a vivere nelle pubbliche comunità, dove le spie abbondano, poteva essere occulta l'arte assai grossolana di quel provocante delatore; e parte avevo ancora io la mente altrove, e non che di rispondergli, non mi curai più d'udirlo.

Sette ore fui tenuta in quel carcere col giovane a bruno, la spia e le due meretrici. Erano, credo, le ventidue, quando venne per me il carceriere e mi condusse su al primo piano in una stanzetta a volta, dov'erano assai ufficiali, tutti per lo più giovanotti azzimati e attillatuzzi, con certi baffini ch'erano una grazia, e [296] che mostravano in istrano innesto come il pelo può talora essere indizio di effeminatezza. Costoro, tutta venutami considerando, già mi guardavano con occhi cupidissimi e investigatori d'ogni mia più deplorabile miseria, quando, sbatacchiato un grand'uscio ch'ivi era, venne fuori quel furioso della mattina, il quale, avvedutosi che quei giovani mi consideravano un poco attentamente, disse loro la più gran villania che mai fosse detta a nessun discolo; e di me, dopo che m'ebbe carica di assai epiteti che la mia modestia non mi consente di ripetere, diede ordine che fossi rimessa fra gli sbirri, e ricondotta nella presenza del governatore al Serraglio.

LXXVII.

Erano, credo, le ventitrè, quando pervenuti in sulla piazza del Serraglio, la bussola a un tratto si fermò. Non sapendo che fosse, vinsi la terribile vergogna ch'avevo di mostrare il mio volto alla luce del dì, e, fatto uno sforzo quasi involontario, apersi lo sportello. Vidi un mare di popolo sulla piazza che s'affollava intorno a non so che ch'era in terra all'ultima estremità dell'edifizio; e per quanto ne richiedessi que' miei feroci, non ne potetti avere una risposta. Solo dalle voci tronche di chi m'andava e veniva accanto, intesi che si trattava d'un avvenimento luttuoso; e pure sporgendo il capo fuori, vidi poco di poi sollevare sur una barella un cadavere non più conoscibile, tanto era sanguinoso e sfracellato, che cadavere al certo pareva, se non che dopo che la barella fu progredita di pochi passi, io vidi ch'era persona vivente che si strappava a gran furia le fasciature ond'era tutta coperta. Finalmente la [297] barella fu portata dentro la grande entrata dell'ospizio, e il popolo a poco a poco si diradò, e la bussola all'ultimo mosse.

I birri fecero montare la bussola insino al vestibolo, e quindi entrare nel corridoio a destra, dove era il governatore. Ma la confusione, i gridi, le piattonate de' gendarmi erano tali, che non si potè rompere per verun modo la calca. Alla fine i birri, consultatisi prima fra loro e poscia con alcuni serventi dell'ospizio che potettero venir loro a mano, mi fecero riportare fuori nel vestibolo, e quindi, sempre in bussola, nell'altra entrata di rimpetto, dove fattosi aprire da quella vecchia custode, e fattami uscire della bussola, mi condussero su al secondo piano nel cospetto di madama, a cui esposero il tutto, aggiungendole, che, nella presente confusione, non potevano altro che consegnarmi a lei, e domandandogliene il contrassegno.

Quando madama mi vide così travestita e così concia, mi disse la più obbrobriosa villania che fosse mai detta a nessuna dolorosa bagascia, e senza volermi pure udire una sola sillaba, comandò ch'io fossi menata nel carcere delle mal vissute; e quivi menata da due di quei miei stessi feroci, fui consegnata alla carceriera, che al volto ed al vestimento, rammentava la badessa del convento della Nunziata.

Io credo che alla prefettura fosse creduto ch'io desinerei poi la sera all'ospizio ed all'ospizio ch'io avessi desinato la mattina alla prefettura; perchè nè nell'un luogo nè nell'altro mi fu punto recato di cibo. Intanto io era digiuna insino dal mezzodì quasi del dì davanti; onde non riapparendo altrimenti per quella notte la mia carceriera, nè pure a rifornire una lucernuzza di terra che m'aveva lasciata e che fu presto spenta, io, [298] tutta sbattuta e stanca e rotta e oscurata nella mia mente da tante e sì incredibili e nuove sciagure, m'adagiai sur un sacconcello che quivi era, e mi messi a dormire, non già di sonno, ma d'una certa cupa stupefazione di cerebro, ch'è sempre conseguenza e medicina a un tempo de' mali estremi, che strascinerebbero, senza quella, infallibilmente al suicidio.

La mattina seguente, insino a poco innanzi il mezzodì, la carceriera nè pure comparve, ed io credetti senza più ch'io fossi stata condannata a perire sepolta viva, come le antiche vestali. Ma io non m'era appena rassegnata con tutta pace a questo pensiero, che la carceriera aprì l'uscio, e m'ingiunse di venire alla presenza di madama. Io le dissi, con voce a fatica intelligibile, ch'erano due dì ch'io non mangiava, e che se non mi desse alcun piccolo conforto di cibo, nulla potrebb'essere del venire a madama. La carceriera, strettasi un poco nelle spalle come di cosa che niente le calesse, all'ultimo andò per un poco di cibo, e tornò con un piattellino dell'usata minestra, ch'io bevetti assai bramosamente; e poco di poi ebbi la forza di levarmi dal saccone, e condurmi insino a dove madama mi voleva.

Per mia somma e inaspettata ventura, madama m'attendeva tutta sola in un suo assai remoto gabinetto, dove appena la carceriera m'ebbe scorta, ebbe ordine di farsi con Dio. Quivi madama, con un viso un poco meno disumano del dì davante, mi domandò tutto il vero del fatto della mia fuga e del prete, promettendomi, s'io non le nascondessi nulla, d'aiutarmi quant'era in lei. Alle quali parole io rompendo in un dirottissimo pianto, me le gettai ginocchioni ai piedi, ed abbracciando le sue ginocchia, le narrai filo per filo e segno [299] per segno tutta la verità dell'accaduto, senza scusare me o aggravare altrui un punto solo oltra il giusto.

Certo io credo che sia invitta volontà di Dio, che il vero trovi per se la via di pervenire al cuore degli uomini; i quali, se lo rigettano o lo soffocano, non è mai in loro buona coscienza. E se non fosse così, qual sarebbe mai l'innocente che non lasciasse assai presto il capo sotto la scure dei calunniatori? Finito l'infame racconto, io non lasciava le sue ginocchia, e tuttavia me le raccomandava. E levando su gli occhi che avevo insino allora tenuti confitti in terra per vergogna, vidi, quel che mai non avrei creduto, che madama aveva versata qualche lacrima. La speranza ch'io ne presi me ne cavò un altro fiume dagli occhi; e madama sollevandomi:

Datevi pace, mi disse, Ginevrina, e serbate ad altro le vostre lacrime. Datevi pace di quel male cui non acconsentiste; che solo nell'acconsentire è la colpa e il disonore. Il resto è opinione pregiudicata degli uomini, e non vi renderà mai nè meno bella, nè meno cara, nè meno stimabile a chi non sia indegno di conoscervi.

Quand'io l'udii parlarmi così, mi parve per un istante udire la voce di suora Geltrude. Tutta riconfortata, e piangendo non più per disperazione, ma, se non per tenerezza, certo per un sentimento assai affine a quella, la scongiurai di farmi arrecare una qualche vesticciuola, acciocchè io mi vedessi un'altra volta nell'abito del mio sesso, e mi levassi finalmente dinanzi agli occhi l'oscenità di quel travestimento. Madama, senza chiamar persona, aveva in quel gabinetto medesimo di che rivestirmi tutta; e me ne fece subito copia. Ed io strappatimi e fatti per la gran rabbia in pezzi quegli scellerati cenci, mi vestii gli abiti dell'ospizio con lo stesso contento, che una novella regina il suo manto reale.

[300]

Quando mi vide un poco meno irrequieta, madama mi fece portar da desinare dalla sua propria cucina, e volle che ai molti travagli sofferti io prendessi un qualche ristoro un poco più ragionevole della solita minestra. E tenutami in molti ragionamenti della pazienza ch'è mestieri opporre alle tribolazioni onde Iddio visita forse quegli stessi che un dì saranno suoi eletti e sederanno alla sua destra; e poscia stata un momento sopra di se, come dubitando se le convenisse parlare o tacere, finalmente mi disse:

Ginevrina, voi siete destinata ad avere un terribile dolore, al quale tutti quelli che avete avuti insino a questo dì sono un nulla. E poichè, appena passato il limitare di questo uscio, lo trovereste sulle labbra di chiunque vi si parasse davanti, spero che sulle mie vi riuscirà meno atroce.

Alle quali parole divenuta io tutta bianca nel viso, e gelata le mani e i piedi e le labbra, ella sostenendomi ch'io già mi veniva meno, ma pure risolutasi che il mio peggiore fosse ch'ella tacesse:

Raccogliete, mi disse, tutte le vostre forze, o Ginevrina, e sappiate che il vostro Paolo, ignaro al tutto che voi foste mai stata in questo ospizio, per tedio della vita oramai non è più.

Lo spavento e l'orrore ch'io presi da principio di questa nuova mi ridiedero, chi il crederebbe, gli spiriti già quasi smarriti alle prime parole di madama, e le dissi:

Deh, per pietà, ditemi il tutto.

E n'ebbi che Paolo, alla morte del padre ridotto dall'estrema miseria in quell'ospizio, e dopo sette anni di patimenti, quali solo noi altri bastardi e serragliuoli possiamo intendere, noiato dalla fame, dal freddo e, quello che agli [301] animi generosi è più ancora insopportabile della fame e del freddo, dal vedersi infallibilmente preporre, insino nell'esercizio e negli avanzamenti dell'arte sua, i più inetti e goffi, solo in premio della loro disonestà, s'era precipitato giù dal sesto piano dell'edifizio, con sì ferma risoluzione di morire, che raccolto ancora vivo e fasciatogli lo sfracellato corpo dai cerusichi dell'ospizio, egli più e più volte s'aveva, con quel poco spirito che gli avanzava, strappate furiosamente tutte le fasciature, e dopo aver detto, che, se fosse voluto vivere, non avrebbe tolta la fatica di gittarsi di così alto, aveva finalmente trionfato di questa vita morendo.

LXXVIII.

Così si sciolse questo episodio della breve tragedia della mia vita. Io mi svenni, mi riebbi, mi tornai a svenire e mi tornai a riavere, mi stracciai i capelli e il viso, mi picchiai il petto e il seno, gridai, stupii, piansi e bestemmiai a posta mia. E quando ebbi ben fatto tutto ciò, ritornata in me stessa, vidi che nè Paolo, nè l'onore che il prete m'aveva tolto, era risuscitato. Tediata della figura umana, impetrai da madama che m'avesse lasciata insino a sera in quel gabinetto; e quando madama fu partita, ricominciato il mio verso del piangere e del picchiare, le quattro mura di quello rappresentarono la parte che la natura prende alle nostre sventure.

La sera, a ora d'andare a letto, madama venne per me, e mi disse:

Ginevrina, le leggi dell'ospizio non mi consentirebbero di porvi a dormire ed a lavorare con le altre fanciulle, [302] che o sono, o sono tenute pulcelle. Ma l'innocenza del vostro cuore fa forza al mio; ed io ho disposto che voi siate ricevuta fra le prime compagne, al vostro proprio letto, come se nulla fosse stato della fuga.

E visto ch'io era disperatamente vergognosa degli scherni delle mie compagne:

Di scherni o di motteggi, mi disse, non accade che vi mettiate pensiero. Io ho dato ordini rigidissimi intorno a ciò; nè ho lasciata indietro cura veruna acciocchè la novella si spandesse per l'ospizio in un modo poco meno che onorevole per voi.

Detto ciò, mi condusse quasi per mano nella mia sala, al mio posto, nell'ora appunto che le giovani se n'andavano a letto. Ma ella non era appena fuori dell'uscio, ch'io ebbi per ricevuta uno scroscio di risa universale.

Per un savio ordinamento delle cose, le gravi sventure ci rendono insensibili alle piccole, e le reali alle immaginarie. Qualunque altra sera della vita mia io mi sarei morta di vergogna a quello sghignazzío. Ma quella sera io non ne feci più caso che aveva fatto dei quattro muri del gabinetto stati testimoni del mio racconto e delle mie querele; e raccoltami come potetti nel mio lettuccio, l'allagai tutta la notte delle mie lacrime.

Il dì seguente, poco prima del desinare, fui fatta domandare da madama, che m'attendeva in quel medesimo gabinetto del dì davanti. Quivi era un ufficiale di corte con un suo scrivano, ch'era venuto a prendere la mia deposizione per iscritto. Io, interrogatane solennemente da lui, non senza rossore gli dissi il vero. Ma l'ufficiale non dettava mai allo scrivano quel ch'io gli diceva, e solo m'interrompeva di quando in quando, esclamando non poter l'opera stare com'io la contava. Allora io, fra noiata e sdegnosa, gli dissi con parole [303] assai risolute, che io non aveva altra deposizione a fare, e che scrivesse quella o nessuna: ed egli cominciò, tutto svogliato, a dettare allo scrivano parole che sonavano ben altro di quello che io gli aveva detto e ripetuto più volte. Madama ed io gli dicemmo mille volte che egli non dettava il narratogli; mille volte egli racconciò la sua frase; e mille volte ne uscì un sentimento o non verace o inintelligibile. Finalmente egli si levò, gridando con un viso marmoreo, che il suo sacro ministero non gli permetteva di alterare il vero per cicalare di donne: e, voltoci il tergo, andò via minacciando.

Dopo pochi dì, non so qual tribunale dichiarò me consenziente al prete, e il prete, i due cagnotti e la ruffiana incolpabili; e come tale don Serafino ritornò alle sue ordinarie lezioni, che, come richiesto a corte, era stato costretto a intermettere. E benchè io me gl'involassi sempre come al più velenoso e mortale serpente, nondimeno mai il demonio non me gli parò davanti, ch'egli sottocchi non sogghignasse.

LXXIX.

In questo mezzo, quelle fra noi altre della Nunziata, che appartenevano alla setta delle suore, s'erano aiutate di questo loro straordinario gastigo a non so qual alto magistrato, allegando che le antiche consuetudini della casa della Nunziata vietavano che mai niuna donzella, passata una volta per quella sacra buca, potesse, per qualunque pretesto o cagione, essere trasferita da quell'ospizio in un altro. Io non so come facessero ad aversi un avvocato di questi che strascinano le altrui querele ai piedi di tutte le dominazioni terrestri e celesti; [304] e finalmente, dopo tre mesi in circa che dimoravamo nel Serraglio, fu mestieri al duca di richiamarci alla Nunziata. Non era ancora valico un mese dal fatto del prete, e un dì venne per noi un ufficiale della Nunziata, con assai uscieri e serventi.

Io fui contentissima di questa novità, perchè l'aspetto de' luoghi ove s'è patito di quelle sventure che non sono belle nè pure dal lido onde ogni tempesta è gradevole, diventa esso medesimo un continuo dolore. Il pensiero di non vedere il prete era la sola letizia che mi potesse avanzare; e rendute, ma non senza lacrime, grazie a madama della protezione materna che m'aveva avuta a quegli ultimi dì, montai meno trista che per l'ordinario in una di quelle solite carrettelle.

Nell'approssimarmi alla Nunziata, fui assalita da un pensiero molesto, non forse il duca, per l'odio speciale che mi portava, avesse ordinato ch'io n'andassi con le altre ventinove nel convento. Ma mi confortava il sapere ch'io sarei il primo esempio d'una giovane tramutata dall'alunnato nel convento, essendo ciò assolutamente vietato dall'instituto del luogo. In effetti non fummo appena smontate dalle carrettelle nella corte, che un usciere, avvicinandosi a me, e domandatami s'io era la Ginevra, al mio primo dir di sì, m'ingiunse di seguitarlo, e mi condusse nell'alunnato.

Quivi suora Giustina, o fosse par una particolare umanità del suo cuore, o che il tempo soglia essere vera spia dell'innocenza, mi accolse come s'accoglie chi torna tutto rotto ed affranto da una pena immeritata, cui lo condusse, non già la colpa, ma la calunnia. Mi fece ridare il mio antico letto, molti degli abiti e degli arnesi statimi tolti come soverchi quando il letto mi fu mutato dalla stanza di suora Geltrude nella gran [305] sala, e benchè non potesse altrove che in quella, mi fece assegnare un posto che non era de' peggiori. Io le diedi per grazie quello che solo m'avanzava, le mie lacrime; e come prima mi fui acconciata nel canto che mi toccò, mi tolsi con impeto senza pari quei pannacci del Serraglio, e mi messi un abito di mussolo bianco, che mi trasse nuove lacrime, per la rimembranza di suora Geltrude che me l'aveva donato.

Così cominciava io a vivermi nell'alunnato, tutta riconfortata di sentirmi come tornata a casa, massime che essendone tutte quelle ventinove cicale ite nella loro malora nel convento, nè essendovi, come già vi dissi, fra il convento e l'alunnato commercio di sorte alcuna, nulla quivi era trapelato delle mie avventure del Serraglio. Ond'io cominciava a godermi l'antica stima di tutte quelle giovani, scema dell'antica invidia, che non ci aveva più luogo, ed a malgrado di tutte le infinite, e quasi non narrabili, sventure che mi erano occorse insino a quel dì, cominciava a provare una certa pace, quale chi, ancorchè diserta e sbattuta dall'onde, pure alla fine si sente nel porto; quando a un tratto me ne trovai le mille miglia lontana, nella più fiera burrasca della mia vita.

A tanti dì del mese io m'accorsi d'una interruzione inaspettata ch'era in me in quel che regolarmente s'appartiene a chi non è incinta; ed ancorchè ne prendessi una impressione terribile, pure v'ha tale sventura così abbominosa, che quanto più ci è dappresso, anzi addosso del tutto, tanto più ce ne stimiamo lontani. Abbenchè già tutta tremante e convulsa e mezza morta, io mi persuasi che quella interruzione fosse causata dalla vita miserabile e stentata ch'avevo tratta al Serraglio, e dalla mancanza del nutrimento; e mi confortava [306] il sovvenirmi che anche in sul bel principio nel convento m'era seguita alcuna delle siffatte novità. Ma l'un giorno incalzava l'altro, e scorse una settimana, e due, e tre, e quattro, e fu compiuto finalmente il secondo mese, senza che Iddio volgesse gli occhi alla sua innocente creatura.

Quando non mi fu più possibile di dubitare del mio incredibile caso, ebbi la prima e sola volta della vita mia una continuazione di furore per più dì, tanto più terribile, quanto io, tutta chiusa in me stessa, in null'altra cosa al mondo che in me stessa non potevo disfogarlo. Ed è mestieri ch'io vi confessi ch'io volli morire, non più di quella vaga e puerile e indótta volontà che già n'aveva avuta a casa il cuoco e nel convento, ma saputamente e d'una volontà ferma e discorsa con tutti i sillogismi della dialettica, che mi mostrarono per mio minor male la morte; e tale, in fine, che se, procacciatomi un coltello e strettomelo al cuore, non ebbi la forza di vibrare, quella fu viltà e ribrezzo di natura, o più tosto temenza di maggiore vergogna, e non già conseguenza della mia fede; nè Iddio me ne deve avere alcun merito.

Intanto io era spesso veduta percuotermi la fronte come invasata da un pensiero disperato; spesso prendere la rincorsa per rompermi le tempie nelle ferrate de' finestroni, ed arrestarmi a un tratto come trattenuta dalla forza medesima che m'aveva spinta. Anche correndo incontro alla morte, io non poteva fare di non sopravvivermi un qualche istante nella mia fantasia; e il pensiero che nel mio cadavere, del quale io era già gelosissima, sarebbe stata scoperta la causa del mio suicidio, e che per morte non potevo già fuggire vergogna, troncava il volo al mio feroce desiderio.

[307]

Essendo la dolcezza e la pace dell'indole mia divenuta per sette anni in esempio, anzi in proverbio, di tutto l'alunnato, come sarebbe stato possibile che tutto l'alunnato, e suora Giustina in ispezialtà, non si fosse avveduta d'una mia sì nuova e sì grave mutazione? Suora Giustina ebbe sospetto che fosse quello che era, e cominciò a spiare e considerare tutte le mie faccenduzze, e tutti i miei movimenti, e tutta me stessa. Correva il quinto mese del mio supplizio, e il reprimere gli sforzi del recere ond'ero di quando in quando assalita, e l'andar curva per celare la disonestà del mio ventre, cominciava ad essere indarno, quando un dì suora Giustina, trattami in disparte, mi disse:

Ginevrina, voi m'eravate apparsa finora un fiero peccato della fortuna. Ma sono pochi dì che mi avete costretta di mutar parere. Oramai le vostre sventure m'appaiono quello che sono, le conseguenze inevitabili della vostra inconsiderazione. E la mia coscienza, nè il mio onore, non mi consentono più di francheggiare il vizio apertamente. Io fui tutta ghiaccio iersera quando il duca, fattami chiamare a se, per vari riscontri avuti, mi fece certa di quello ch'io già sospettava del fatto vostro, e che, per mio rossore, avrei dovuto conoscere e prima e meglio di lui. Egli mi rammentò ch'era il primo scandalo di simil fatta che seguiva nell'alunnato, e il tutto per la sua colpevole indulgenza a suora Geltrude; e che, non sapeva per qual vago presentimento del vero, egli aveva preso sempre di voi una sinistra impressione. M'ingiunse alla fine di tramutarvi, il meno scandalosamente che si potesse, di qua nelle sale delle pericolate, nè a voi, ne' termini in cui vi siete condotta, può piacer altro, io credo.

Dove mai troverò più le parole per esprimervi la vergogna, [308] la confusione, i delirii di rossore, ai quali io fui in preda ad ogni ora in questi mostruosi dì della vita mia! Ad ogni parola di suora Giustina io mi sentiva come sepolta sotto le Alpi o i Pirenei; e pure, così sepolta, ebbi la forza di gettarmi a' piedi suoi, e dirle il tutto, e col fulmine invincibile del vero romperle il duro smalto del cuore, e sforzarla alle lacrime. E nondimeno le sue lacrime non mi giovarono, perchè mai le lacrime non vinsero la necessità.

Era quella silenziosa e mistica ora meridiana che già altra volta io consacrai alla religione delle lettere, e tutte quasi le mie compagne dormivano, o davano vista di dormire, quando io, fatto un piccolo fardelletto delle mie più indispensabili masserizie, guidata da suora Giustina, m'involai da quella sala, sicura di mai più non poterla rivedere. Il mio letto era presso all'uscio della stanza ch'io già aveva abitata sette anni in compagnia di suora Geltrude, della Chiara, dell'Eugenia e della Clementina. Un istante prima di muovere il piede, non potetti trattenermi di spingere quell'uscio e guardare dentro. V'era solo il letto di suora Giustina, e nulla più che rammentasse o suora Geltrude, o me, o alcuna delle altre tre giovani. Ma le mura, e il cielo, e le finestre, e l'usciolino del gabinetto eran sempre quelli, e un raggio d'una delle finestre socchiuse dava dappiè del letto di suora Giustina, proprio come di quei dì medesimi aveva dato per più anni sul letto mio, e rischiarati que' miei tanto sudati volumi! Ond'io, versate l'ultime lacrime di vera tenerezza delle quali ho memoria:

Addio, dissi quasi fuori di me, o primo e ultimo albergo della mia innocenza e de' miei piaceri. Chi mi ti tolse? Sette anni che ti fui sposa non t'aveano fatto [309] mio? Questi tuoi muri non olezzano i miei fiati verginali? Perchè non volesti tu accogliere il mio spirito fuggente? Ahi! se quand'egli in breve, puro ed immaculato, quale riposò gran tempo nel tuo grembo, fuggirà da questo corpo che la matrigna natura ha fatto soggetto alla violenza ed alla sozzura umana, se allora gli sarà prescritto dal fato d'aggirarsi alcun altro tempo su questo scellerato pianeta, ancora del tuo grembo, che tu non gli potrai più negare, egli farà asilo alla sua ignuda peregrinazione.

LXXX.

Le sale delle pericolate sono meno spaventose delle grotte che si domandano convento; ma vi si mena la stessa vita. Ivi non è nulla a comune, ma ciascuna pericolata ha le sue quindici once di pane e i suoi cinque grani il dì; e le converse che le reggono, un dì per avventura pericolate anch'esse, vi fanno il solito traffico de' letti, de' lumi, de' lavori e dell'altre cose. Ma la licenza e la lordura de' costumi v'è maggiore, perchè nella via del vizio solo il primo passo è disagevole.

Laonde io non era appena pervenuta nella prima sala, non era appena ritornata dalla ubbriachezza della mia vergogna, che già tutte le quarantadue pericolate ch'allora conversavano colà, mi furono tutte intorno, e una mi dimandava di chi ero gravida, un'altra di quanti mesi, un'altra di altro. E parlavan tutte con una voce così risoluta e sicura, mi guardavano con un viso così schietto e franco, e, direi quasi, casto d'ogni timidezza o pudore femminile, che, se non che ben si pareva [310] tutto insieme, e nella più parte al ventre, ch'eran femmine, più tosto che fra le donzelle della santa Casa della Nunziata, io mi sarei creduta nel caffè al canto di Porta a San Gennaro, fra un viluppo de' più sfrontati fra quei giovanastri.

Oh Dio! come è insopportabile supplizio a un cuore onesto, di sentirsi fra gente disonesta, che in buona coscienza ti creda sua pari. E come io non sarei paruta tale a quelle giovani, tutte naturalmente proclivi a lussuria, s'io portava in me una testimonianza così viva e irrefragabile d'aver mal fatto con un uomo? Raccontare il vero sarebbe stato indarno; perchè nessuna favoletta da vecchiarella sarebbe stata mai meno creduta di quel mio vero. Ond'io, disperata del fatto, dell'opinione, del passato, del presente, dell'avvenire e di tutto l'universo mondo, come più tosto suora Giustina m'ebbe lasciata, mi raccolsi nel cantoncello ove m'avevano allogata, e giurai, che che ne dovesse seguire, di non guardare in viso a nessuna, nè a nessuna parlare, o, domandata, rispondere. Così mi giacqui assai tempo, mezza tra viva e morta, non avendo la forza di disprezzare, nè vivendo, nè morendo, l'opinione degli uomini, cosa in se stessa così essenzialmente disprezzabile.

Correva, intanto, il più crudo e nevoso inverno del quale io abbia memoria alla vita mia, voglio dire l'inverno del trenta; ed io moriva di fame e di freddo in quelle lugubri ghiacciaie, e le naturali angosce della gravidanza mi divennero finalmente una specie di prolungata agonia. Dalla quale se pure avevo tregua di qualche istante, la mostruosa novità de' miei pensieri, che sottentravano inevitabilmente ai dolori materiali, m'era essa medesima in luogo di mille agonie. Io sentiva muovermi il bambino nel seno; e questo primo [311] lampo del sentirsi madre ha un non so che di così involontariamente e, direi quasi, elettricamente allegro, che in su quel principio non v'ha nè può avervi luogo alcuno la riflessione. Ma s'egli è vero, nè v'ha nulla di più vero al mondo, che il dolore è tanto più grande quanto sopravviene più prossimo al piacere, immaginate voi, o padre, che orrendo spasimo mi era a pensare, che quel bambino era figliuolo di don Serafino. Se i dolori che la natura ha frammessi necessariamente al suo corso sono talvolta così insopportabili, immaginate che debbano mai essere quelli che sono al tutto fuori dell'ordine suo, o che, per meglio dire, all'essere dolori aggiungono l'essere mostruosi. E nondimeno nè pure qui s'arrestavano i mali miei.

Gli uomini in tutti i loro studi, in tutte le loro letture, in tutte le loro peregrinazioni, non cercano mai quello che per se stesso è notabile o utile a sapere, ma per l'ordinario quello che per una causa qualunque sembra acconcio ad irritare la loro curiosità. Per soddisfare a questa passione, vivissima ed irresistibile nei più, che sono gli sciocchi, e mal collocata e ridicola sempre nelle cose in che si esercita, che non hanno mai attenenza veruna a chi da essa è posseduto, tutti coloro, napoletani o non, che traevano all'ospizio per visitarlo, la prima parte che desideravano vederne erano quelle nostre sale, e le prime abitatrici, noi altre pericolate. Una schiera di giraffe, di orangutanghi, di cinocefali, di fenici, o di qualunque altro più raro animale sia nella natura o nei sogni degli uomini, avrebbe tirata a se meno e con meno furia la gente. Nè bastava l'essere espressamente vietato dal duca che le nostre sale e noi fossimo mostrate a persona. Qualunque più spilorcio giudeo vi fosse venuto, trovava la forza di [312] metter mano alla scarsella, e cacciare qualche piccolo nelle mani di quella ingordissima canaglia di serventi che ci erano a guardia, e non passava mai dì che non ci fossero addosso d'ogni maniera giovanastri, o, quel ch'era ancora peggio, vecchiardi mal vissuti e importuni.

Com'è possibile ch'io possa mai dirvi con parole il furore nel quale io veniva quando comparivano di queste torme di scioperati, che donzellandosi per la sala dov'io era, mi cacciavano certi occhiacci di bue addosso, e sogghignavano, e si pestavano i piedi a vicenda, affisandosi in sul mio ventre? Io configgeva gli occhi in terra, e talvolta mi voltava verso il muro, e spesso mi copriva il viso e tutta la persona con la rozza coltre del mio lettino, e piangeva e mi struggeva. Ma era tutto niente, e l'ozio spietato di chi veniva, e l'ingordigia insaziabile de' serventi, e la civetteria di quelle medesime pericolate, bramosissime tutte di ritornare pericolanti, rinnovavano ad ogni ora il mio supplizio.

LXXXI.

Veniva spesso, quasi guida delle più strane fra quelle caterve, un avvenente e bellissimo giovane, ch'era napoletano e pur non pareva, così dolce e malinconica era la sua sembianza, e così placido e rimesso il suo parlare. Questi guidava, il più, Tedeschi o Russi, e sembrava quasi con l'umanità de' suoi sguardi compensare l'inamabile durezza di quelle geníe. Nè mai, dal primo dì che vi venne, non vi ritornò, che vi ritornava spessissimo, che non m'affisasse in modo assai diverso dall'altra gente, e così compassionevole, che quasi [313] mai non distaccava gli occhi da me senza versare una qualche lacrima. Ed essendovi in una delle sale nelle quali dimoravamo, e propriamente in quella ove dimorava io, una bella vergine di Anna de Rosa, giovane dipintrice del seicento, uccisa nel fiore dell'età dal marito per rabbia di gelosia, questo giovane seppe così ben pregare il duca e qualunque altro ufficiale dell'ospizio a cui s'apparteneva di dargliene la permissione, che finalmente ottenne di poter essere ammesso a copiare quell'immagine ogni dì dalle sedici alle diciotto ore. Laonde un dì, con grande stupore di tutte quelle giovani, e mio massimamente, ce lo vedemmo comparire armato di sue tavolozze e suoi pennelli, e all'ultimo d'un suo palchetto portatile, ed accompagnato da un usciere, che notificò l'ordine del duca alle nostre suore. Ed egli, assettato davanti all'immagine quel suo palchetto, che rispondeva quasi per l'appunto in sul mio lettino, si messe, tutto umile e tutto modesto, al suo lavoro.

Da principio io fui e scandalezzata e disperata, non tanto di quella concessione del duca, che mi pareva novissima, ma ancora del mio nemico destino, per cui mi pareva che mi riuscissero a male anche le congiunture più fortuite: che, nelle condizioni in cui ero, que' due occhi scrutatori a perpendicolo del mio letto mi promettevano di crescere di non poco lo strazio mio. Nè il giovane si asteneva già, quasi nessun'altra giovane vi fosse stata in quella sala, di alternare i suoi sguardi solamente all'immagine ed a me. E, in tutto quanto gli era possibile, al volto, alle parole, che, non mai risposto, pure talvolta mi moveva, ed alle lacrime che talora parea che suo malgrado gli cadessero, mostrando che gl'increscesse inestimabilmente di me, l'un [314] dì più che l'altro si studiava di darmi a divedere, ch'egli si era preso per me d'un amore ardentissimo.

Quand'io mi fui renduta certa dell'intendimento del mio pittore, se mi fosse stato possibile di ridere, avrei riso. Chiusa mai sempre in me, e dimorando in questa terra solo perchè non mi veniva fatto di partirne, io era come un sasso a qualunque impressione non venisse di dentro me stessa; nè della virtù e dell'affetto che appariva nel volto del giovane io presi un'impressione più grande di quella ch'avevo presa del vizio e dell'indifferenza che appariva nel volto delle pericolate.

Giunse finalmente il termine estremo del mio supplizio, e una notte del marzo mi presero le più fiere doglie che mai si prendessero a nessuna partoriente. Stetti tre dì fra la vita e la morte, intanto che al terzo dì la levatrice, ch'era venuta a ricogliere il parto, pronunziò ch'io sarei morta sopra partorire, la creatura ed io. La quarta notte feci un bambino che mi somigliava, e quasi coi suoi gemiti invocava il mio aiuto, e parea dirmi: o mamma, mi facesti alle pene da cui tu ritorni. E nel volgere de' suoi occhietti pur balenava un lume sinistro e calabrese, e rammentava don Serafino.

Io non l'ebbi appena fatto, che cominciai a guardarlo immobile come una colonna. Una mano onnipotente mi spingeva a baciarlo ed a stringermelo al seno come figliuolo, ed una mano onnipotente me ne tratteneva ed allontanava come dal nefando figliuolo di don Serafino. Mai due forze non furono onnipotenti ed eguali, come erano in me l'amor materno che mi strascinava, e l'odio al mio carnefice che m'arrestava; e da due onnipotenze discordi ne uscì il nulla. Il mio bambino, il sangue [315] mio, ne fu portato dolorando a menare la vita ch'io aveva menata per vent'anni, ed io non ebbi nè pure la forza di desiderargli altro.

E nondimeno, quando l'innocente creaturina fu disparita, e ch'io ne udii morire i lamenti in lontananza, l'equilibrio di quelle forze si ruppe, ed obbliato al tutto don Serafino, i miei scorni e i miei rancori, io non sentii più se non ch'era madre, e che mi strascinavano via quel frutto ch'io aveva portato nove mesi nel mio ventre. Piansi e lamentai, e, com'una di queste pazze malinconiche, ridomandai lungamente a chiunque mi si parava dinanzi, il mio bambino. Ma forse per mia ventura queste mie nuove lacrime furono indarno; e le leggi del luogo non consentivano che i bambini delle pericolate fossero allevati da esse medesime, ma ordinavano severamente che fossero considerati come gettati nella buca, e mandati indistintamente in quelle medesime grandi sale, su quei medesimi lettucci, a quelle medesime balie, ond'io aveva succhiato quello scarso ed amaro latte che pure bastò a tirarmi su per questo fatale pellegrinaggio che m'attendeva.

LXXXII.

Il pittore, come intendete, non fu ammesso nella mia sala nè nei quattro dì ch'io fui partoriente, nè nei molti che durò il mio puerperio. Il suo palchetto rimase immobile dov'era, e la sua copia rimase interrotta accanto il bellissimo originale: non però interrotta di tanto, che il volto non fosse quasi al tutto terminato. E poichè m'era al dirimpetto, quindi, in presso che trenta dì che non potei levarmi, pascetti gli occhi miei, [316] satolli oggimai e sdegnati d'ogni altro oggetto terreno.

Per verità, lasciando dall'un de' lati la venerazione e l'affetto che risvegliano sempre nel nostro cuore i fantasmi di quella religione che succhiammo dal seno e dalle labbra delle nostre nutrici, io non seppi mai trovare in tutta l'antichità, e nella storia di tutte le umane fantasie sognate a consolazione delle nostre sventure, un ente più amoroso e più soccorrevole della Madonna, Vergine e madre a un tempo, ella sembra creata ad accogliere nel concetto che abbiamo di lei quanto si può immaginare di più candido e puro e innocente, da un lato, e di più tenero ed affettuoso e misericordioso, dall'altro. Divina e umana, ella sembra creata a congiungere, e congiunge veramente, ne' pensieri del credente, il cielo e la terra, ed entra naturalmente mediatrice e interceditrice fra l'uomo e Dio. A tante rosate fantasie, che mi rilucevano e odoravano nella mente, si aggiungeva la bellezza, compagna inseparabile e sovrumana d'ogni pensiero che ci leva al cielo; nè mai la Vergine m'apparve sotto forme più belle di quelle, sotto le quali l'aveva espressa quella giovane dipintrice. Ed io a fantasticare, se forse il secolo in cui ella visse fosse stato meno reo di questo e più nutritore di pensieri verginei, e s'ella veramente era vergine ancora, e non contaminata dall'afflato di nessun uomo, quando accolse nella mente un concetto così verginale, o se lavorò di memoria e d'immaginativa, e seppe rapirsi da se stessa nei dì più intatti e puri dell'età sua, in quei dì che fuggiti che sono, mai più, mai più non ritornano. E qui pensavo della bellezza di lei stessa, e della bestialità atrocissima del marito, che ruppe un corpo ed un pensiero sì bello. Nè potevo impedirmi di pensare [317] talvolta del giovane che aveva scelta sì bella cosa a ritrarre, e che sì bella l'aveva ritratta. E facendomi un poco dall'altra sponda del letto, contemplavo l'originale, e poi contemplavo la copia, e più e più la contemplavo, e più mi pareva che di poco fosse meno bella di quello. In fine, insensibilmente e senza quasi ch'io me n'avvedessi, il solo aspetto di quell'immagine mi trasse al tutto dal sozzo baratro delle idee scellerate e schifose in che ero vivuta da dieci mesi, e mi sollevò a poco a poco come in un aere più puro, a un'altezza incommensurabile dalla bassezza in cui ero rovinata, fra pensieri meno terreni e quasi celesti, che mi ridiedero la forza, ch'è sola bussola di questo oceano senza lidi che si chiama vita, io dico la forza di non disperare.

Io non posso negare a me stessa, che, di verginità in verginità, io perveniva ad ogni ora coi miei pensieri al giovane pittore, così come per incidenza, o più tosto come per quel fatto di quella copia, ma, in somma, io perveniva ad ogni ora a lui. Per non avere bambini a petto, o frammettermi più di cose che mi potessero rammentare i sentimenti mostruosi d'amore o d'odio implacabile che il primo e solo aspetto di quel mio figliuolino m'aveva destato, io trovai modo, non senza un mortale discapito della mia sanità, di far quello contra cui in vano scrissero e perorarono tutti i fisici della terra, e che tutte le nostre dame fanno e forse faranno in sempiterno, voglio dire, di sforzare e sviare la natura, e mi mandai, come volgarmente si dice, il latte addietro. E fingendo che per una mia naturale infermità io non fossi tanta ad allattare verun bambino, non solo io mi liberai da quella importabile noia, ma ancora, scioltami al tutto e quasi come distaccatami da tutto il laido della mia vita passata, ch'ogni laidezza è [318] come morbo violento nella vita di chi ha il cuore retto, e quasi non parendomi più d'essere la Ginevra contaminata del Serraglio e delle pericolate, ma la pura e intatta e peregrina allieva di suora Geltrude, ritornai al mio stato, come i moderni direbbero, normale, e non pensai più che della mia immensa infinita superiorità a tutta la canaglia che mi circondava, della mia vergine, e del mio umile, discreto ed affettuoso pittore.

Questi, quand'io mi fui levata, riammesso nella sala per finire la sua pittura, mi si venne ogni dì mostrando più umano ed amoroso in tanto, ch'io non ebbi più verun luogo di dubitare, che, vistami da principio casualmente e per brevi momenti in quelle sue accompagnature, la copia di quella Vergine non fosse stato il pretesto ch'egli aveva tolto per avere cagione di vedermi e di parlarmi a maggior agio. E tante, e sì dolci, e sì penetrevoli parole mi veniva l'un dì più che l'altro movendo, che alla fine mi fu impossibile, io non dico di non corrispondere alla passione ch'egli mi mostrava, ma di non entrare talvolta in alcun ragionamento con lui.

Cominciammo a parlare di cose indifferentissime, di pitture, di proporzioni e di belle arti, e, come sempre avviene, ciascuno de' due mischiava, per un naturale instinto, la sua propria storia alla storia della pittura, e le proprie sventure a quella di Anna de Rosa. E poichè, se nel convento e nell'alunnato il mandare a marito una giovane era considerata cosa utile e pietosa a un tempo, fra le pericolate poi era considerata come una specie di necessità, un dì, o fosse caso, o che le suore medesime, alla cui custodia io era affidata, per le anzidette ragioni se ne adoperassero, rimanemmo al tutto soli nella stanza il giovane pittore sul suo palchetto, [319] ed io adagiata sulla sponda del mio lettino, che avevo fissi involontariamente gli occhi ora in lui ora nell'immagine. Ed entrati ambidue, con voce più tremante del solito, nei soliti ragionari, io non so come si divenne a parlare del bello domandato ideale, e se esso fosse o potesse essere al mondo, e quali ne fossero gli attributi metafisici, e cose altre di questa fatta. Alle quali parole quel giovane, tutto tintosi in volto d'un bellissimo ardire, discendendo rapidamente dal palco, e cavandosi dal petto una miniatura in cui io appariva, come per magia, rapita a me stessa:

Deh, in nome di quell'Iddio che ti fece, mi disse quasi lacrimando, o angelo celeste, lascia la metafisica, e vedi qui nella tua adoratissima immagine come il Sommo Artista volle o che il bello non fosse più detto ideale, o, quello ch'io più tosto crederei, che tu non fossi detta mortale, ma un'immortale idea della sua mente.

E così dicendo, mi s'inginocchiò quasi adorandomi, e mi baciò così affettuosamente e pure così leggermente la mano, che parea che, come a cosa divina, le sue labbra non osassero d'appressarsele.

Vedi, mi dicea continuando a' suoi detti, vedi, o divina idea del tuo Fattore, com'egli m'ha fatto degno di rapirgli la più bella favilla che gli brillava nel pensiero, e d'accenderne la mia mente ed il mio cuore, e sotto il mio pennello informarla delle tue forme. E se ti parrà ch'io, lontano da te nelle mie luttuose vigilie, abbia potuto esprimere così viva la sua idea senza che egli reggesse la mia mano, e tu allora dirai ch'egli non ti destinò mia sposa ab eterno.

Io era donna, o padre, nè le mie molte lezioni, nè le mie crudeli sventure, non erano potute pervenire a disnaturarmi. Ero ne' venti anni, primavera nell'altre [320] della vita, in me per avventura autunno, di tanto il dolore n'aveva divorata la via. Nè v'è stagione più pericolosa a donna, parte perchè, uccisi dalla tempesta tutti i fiori e le piante, la vita comincia a parerle e ad esserle veramente deserto, ed ella sente mancare la lena, già in ogni età nulla nel suo sesso, di reggersi sola in quel deserto, parte perchè la bellezza già quasi la fugge, ed ella, quanto più da prima n'era inseguita, tanto più furiosamente si pone da ultimo a inseguirla. Per la prima volta della mia vita io sentii l'innebriante piacere d'essere chiamata bella, e quanto più io era, non dico persuasa, che mai tal persuasione non entra in cuore a una donna, ma insospettita che l'eccesso de' mali avesse illanguidita la mia bellezza, tanto più l'udire che ciò non fosse, mi scendeva nell'anima come celeste e irresistibile armonia. Io non so che gli balbettai, nè so che altro egli m'aggiunse, se non che mi rammenta che pur mele e nettare celeste mi parea tutto che gli scorrea dalle labbra. Alla fine fu udito venir gente, ed io, annegata in un mare di dolcissima confusione, lo sollevai soavemente, fra tanta dolcezza afflitta di un solo amaro, ch'egli non fosse stato ardito di cogliermi un bacio.

LXXXIII.

V'è tale età e tali condizioni, nelle quali il giusto e naturale desiderio, anzi bisogno, ch'ogni donna ha d'andarne a marito, diventa una passione dominante. Ma se, in quella età e in quelle condizioni medesime, una donna, per vere o false deduzioni, giunge a persuadersi, che sempre vi giunge, che non il desiderio solo e il [321] bisogno della mente e del cuore, ma la ragione e l'utilità sua materiale, e quello, in fine, che si domanda saviezza, l'inducono a quel partito, allora quella passione diventa furore irrefrenabile, e ne conseguitano quegli effetti per i quali si veggono tutto dì le più leggiadre e ricche e ben parlanti donzelle sacrificarsi agli uomini più poveri e rozzi e ignoranti e dispregevoli della terra.

Da quel colloquio in su, la Grecia non vanta nessun dialettico che mi si potesse agguagliare, per la moltiplicità e l'acume dei ragionamenti ch'io feci per pervenire a concludere, che quel partito mi conveniva. Certo le cagioni ch'io aveva di liberarmi una volta da quell'ospizio erano tali, che anche ora, che per verità non posso astenermi dal sorridere di quella mia logica, nondimeno m'è forza confessare che non potevano non parermi, anzi ancora mi paiono, irresistibili. Ed anche ora io non posso maledire le nuove sventure, quantunque immense, in che quei ragionamenti mi condussero, poichè, all'ultimo, per loro io compio la mia giornata in questa cella, ai vostri piedi, più tosto che in quelle nefandissime bolge, assai più che qui lontana dal perdono di Dio.

Io considerava, per tanto, che dopo la mia infelice avventura, il solo luogo abitabile dell'ospizio, io dico l'alunnato, m'era stato chiuso per sempre; che insino a ch'io avessi renduto lo spirito, io mi sarei veduta in quelle orribili sale, mal vestita, peggio nutrita, morta o di caldo o di freddo e sempre d'aria pestilenziale, e, quel che mi pareva più d'ogni altra cosa insopportabile, sempre fra le più ree e zotiche e sfrontate femminacce di questo mondo; che, a lasciare dall'un de' lati tutti gl'ineffabili patimenti che mi sarebbe convenuto sopportare [322] forse per quaranta o cinquanta altri anni, questo medesimo mio spirito io non l'avrei potuto rendere a Dio purificato delle mie colpe, convivendo così inestimabile tempo fra gli esempi cotidiani d'ogni più laido e vituperevole vizio; e che, finalmente, non il desiderio d'andarne a marito, non amore che m'occupasse il cuore per il giovane o per il secolo, non solo la mia ragione nè pure, ma se un resto di virtù m'avanzava ancora fra tante ribalderie in cui ero vivuta insino allora, quella mi consigliava, anzi m'ingiungeva, di fuggire l'infamia di quel luogo.

Mentre io era tutta in questi pensieri, fra i molti altri fuggitivi colloquii ch'io ebbi col mio pittore, intesi come egli divisava di condurmi a Roma, come a sedia naturale dell'artista. E la speranza di dimenticare, sotto un altro cielo e fra un altro orizzonte, le miserabili tribolazioni che mi avevano accompagnata qui insino dal nascimento, e quel, direi quasi, instinto naturale che ci conduce a fuggire i luoghi delle nostre sventure ed a credere, in un certo modo vago e per questo medesimo amabile ed aurato, che mutando luogo si muti fortuna, mi vennero vie più scaldando del mio nuovo desiderio il mio già caldo petto. Si aggiunsero le maraviglie che io aveva lette di quella prodigiosa città, e la mia antica brama di sapere e di vedere; ed io da pregata e sollecitata ch'ero da principio, venni finalmente in tanta smania di partirmi dall'ospizio e di Napoli con quel mio giovane, che ogni volta che lo vedevo, quasi me gli sarei gittata ai piedi e adoratolo come un angelo, acciocchè mi avesse involata da tanti mali, e condotta a tanti beni, sulle ali dell'amor suo.

Era il dì ultimo d'aprile, ch'io non so per qual mia stella sempre di primavera, quando le forze sovrabbondano, [323] e ogni cosa difficile par lieve, e si desidera quel che non può essere, m'è incontrato di dovermi risolvere di qualche partito estremo. Venne il pittore, al quale non era possibile di poter menare più per le lunghe il suo lavoro, e per sorte le giovani facevano non so qual carità insieme in un'altra sala, ad onore di santa Caterina da Siena. Ond'egli, coltami come potette più destramente in disparte:

Ginevrina, mi disse tutto acceso nel volto, un gran signore russo che si conosce, o, come io più inclino a credere, per celare la nativa barbarie finge di conoscersi, dell'arti belle, parte stanotte per Roma, e vuol condurmi seco. Questa goffa e delirante genía si risolve pazzamente da un istante all'altro nelle cose più gravi della vita, non che di partire di Napoli per Roma; ed io appena iersera in sulla mezza notte ebbi sentore e ordine a un tempo di quel che m'avessi a fare. Sono tre anni ch'io cavo la vita mia dal lavoro ch'egli mi dà, e quest'immagine (mostrando la copia) è sua; e non seguitarlo saria la mia certa rovina. Ma e come lasciarti? o come sposarti in sì brev'ora? Io ho per fermo che non se ne sarebbe fuori in tre mesi, tanto queste suore e questi ufficiali tutti e questo sazievole di duca sono gavillosi e maligni. Della misera dote, e forse come a pericolata non ti si apparterrebbe, non mi voglio curare, che, la Dio mercè, ci ho di che nutrirti. Ma per solo Iddio, non vuogli uccidere te e me d'un colpo, e fuggi una volta da questa schifosa poveraglia e da quest'aere velenoso, e vieni meco a spirare fiati più liberi e più puri, che si può troppo bene.

La voce fuga, che dal dì di san Giovanni m'era divenuto il più nefando suono che potesse percuotermi l'orecchio, mi gelò tutta in su quel principio, e liberatami [324] violentemente dal giovane che m'avea presa e baciata col solito affetto la mano, m'arretrai inorridita. Ma io non ebbi appena uditi gli altri suoni di fiati liberi e puri, che gittando un profondissimo sospiro, quasi come già respirassi quei fiati, ne mandai fuori con quello tutto l'orrore concepito. Il giovane, come se avesse inteso che cosa quel mio sospiro significasse, s'accostò a me più acceso e più ardito di prima, e mi rapì un cocente bacio dalle labbra:

Deh, lascia, dicendo, ch'io m'inghiotta il secondo tuo sospiro, e coll'odore del tuo fiato mi compensi il veleno che qui si respira.

LXXXIV.

Io non so s'io sia troppo donna, ma questo pare a me, che quando non trabocchi in istoltizia, il più bel dono che Dio abbia fatto all'uomo, dopo il pensiero, sia l'ardimento. Quel bacio mi vinse; e mi tolse la forza, non che di resistere, ma di ragionare.

O, come si potrebbe?... io dissi, appoggiandomi sulla sponda del letto, che già quasi mi venivo meno dal più dolce tremore che mai mi ricercasse le membra.

Di questo non ti metter pensiero, mi rispose, ch'io già provvidi al tutto. Già il vecchio portinaio di giù, e già la conversa ch'è a guardia dell'uscio da scala, sono corrotti e indettati. Costei, sull'imbrunire, fingerà d'andare giù in cucina per sue faccenduzze, e lascerà l'uscio aperto che non rugghi al tuo uscirti. Tu, al baccano che fanno in su quell'ora queste ciacche, cogli un istante ed esci e vola per le scale ed entra nel casotto del portinaio. E quivi sarò io per salvarti da tanta miseria, [325] e alle due ore saremo alla barriera del Serraglio. Domani ci batterà le ventiquattro l'oriuolo di Laterano, e quivi diman l'altro ti farò mia sposa.

Io non ebbi spazio di dirgli altro, che già più d'una giovane entrava; ma, come per renderlo certo ch'io era sua, tirata a me la sua mano con la quale egli aveva ripresa la mia, me la strinsi forte forte al seno già traboccante di tenerezza, e vi gocciolai su involontariamente uno scottante ruscelletto di lacrime.

Il giovane rimontò sul palchetto, e sciolta destramente la tela della sua copia, l'avvolse in giro e ne fece un viluppo. E smontato del palco, e disfattolo, mandò per un facchino che gliene portasse; e dando vista di nulla curarsi del fatto mio, s'andò tutto modesto con Dio. Io appoggiai la fronte sulla mia destra, e mi raccolsi un altro istante ne' miei pensieri. Poi, stanca di null'altro più che di pensare, la ritolsi, borbottandomi fra i denti:

Il dado è tratto.

E, il più occultamente che seppi, mi venni assettando con quei cenci che mi erano avanzati a tante rapine, sì che appena mi trovai tanto indosso da non mostrare ignude le mie carni.

Era già l'ora che volge il desiderio a chiunque l'ebbe più vivo di abbandonare la patria, e già un brivido funesto mi correva a quando a quando le vene; ed il suono mesto e lontano della campana de' santi Apostoli pareva annunziarmi nuove sventure, e dirmi quasi e ripetermi distesamente, dove vai infelice, a chi ti fidi; e quel sentimento inesplicabile che ci fa amare gli uomini e i luoghi che più ci sono nemici e da cui a fiero stento fuggiamo, se il pensiero di non vederli mai più ci traversa per un istante la mente, mi sforzarono alle lacrime, e mi disciolsero le ginocchia allora appunto che [326] io aveva bisogno di raccogliere in me tutte le mie forze per fuggirmi. E così, tutta stemperata in sudore e in pianto, e irrequieta e tremante, ma non però irresoluta, io feci tre volte di levarmi da un piccolo scanno in cui sedevo, e tre volte ricaddi a sedere. Battettero alla fine le ventiquattro e mezzo, ed il chiasso ed il frastuono che facevano quelle lorde era sterminato, nè ad entrare o ad uscire mille volte dall'uscio di scala, ch'era nella sala appresso a quella ove eravamo, si poteva essere in verun modo sentita: ed io ch'era a veduta di quell'uscio, vidi la conversa indettata aprirlo e uscire, e in uscendo lasciarlo socchiuso; e tentai la quarta volta di levarmi, e la quarta volta fu niente.

Io sedeva ancora nella mia viltà, e risoluta d'andare, la potenza mancava, quando la conversa, stata un cotal poco fuori, tornò di repente e mi lanciò uno sguardo furibondo, e, fattasi, come potette più disinvolta, verso me, mi diede sommessamente della vigliacca e tornò via. Questa parola mi ridonò la lena smarrita. Mi levai, e n'andai dritto all'uscio, che potea vedermi tutto il mondo; e pure nessuno non mi vide. Varcai l'uscio, e scesi le scale così lentamente che potea scontrarmi tutto il mondo; e pure nessuno non mi scontrò. Entrai nel casotto del portinaio, dove m'attendeva palpitante il mio Cammillo (che così gli era detto), che per una porticciuola segreta mi condusse fuori all'aere aperto. Ivi, afferratomi con ambe le mani il capo e baciatolo due volte e rilevatolo verso il cielo ch'era purissimo e stellato:

O sposa mia, mi disse, bevi di quest'aura e di questo cielo, e per quelli eterni fuochi giura di mai più non abbandonarmi.

[327]

LXXXV.

Il primo sorso dell'aura fresca e odorosa di primavera ch'io inghiottii, e il primo bacio di Cammillo, mi cancellarono, come per miracolo, dalla mente tutti i pensieri, e insino la memoria, dell'ospizio. Quel dolce e carezzevole cielo mi parve il mio tetto naturale, e Cammillo, sul cui braccio mi fui tosto appoggiata, il mio antico compagno. O vane menti de' mortali, com'è vero che un'aura vi muta!

Noi venimmo a piedi insino alla piazzetta di san Piero ad Aram, dove entrammo in una carrettella che ci attendeva. Questa saettò per la Marina e per Santa Lucia, e, in meno che non è credibile, ci trovammo a Chiaia in sulla piazza di San Pasquale. Quivi scendemmo a un magnifico albergo, dove Cammillo, condottami in una stanzetta terrena, nella quale aveva raccolte tutte le sue valigie e fagotti ed altri arnesi da viaggio, e tiratosi l'uscio dietro, mi diede mille baci: ma pure, facendosi una gran violenza, si sciolse da me ed io da lui, perchè l'ora stringeva. E fattami rivestire in furia abiti più recipienti, quindi mi condusse al piano nobile in una gran sala, dov'era apparecchiata la più ricca mensa ch'io potessi mai immaginare. Quivi erano assai altri artisti, e il Russo con la sua moglie, e signori altri grandissimi napoletani e forestieri, nè di signore era difetto. Ai quali tutti, ed al Russo specialmente, mi presentò come sua moglie. Questi aveva una barba folta e lunga, con un certo berretto senza falda in testa, che pareva uno di questi papassi greci, e con una smisuratissima pipa in bocca, del cui fumo annebbiava leggiadramente [328] la mensa, la sala, i signori e le signore tutte che v'erano. Gli occhi gli si riscontravano l'un l'altro angolarmente, aveva il naso camoscio, e il colore del viso era gialleggiante, e tutto insieme rammentava i mogolli. Era, o per meglio dire, si sforzava di essere tutto amabile e cortese; nè sapeva sforzarsi di tanto, che, per entro la larva accattata dalla Francia, non trasparissero in istrano accordo la goffaggine e la ferocia nativa. E nondimeno signoreggiava tutta quella brigata, ed è ineffabile la viltà con la quale i più alti barbassori napoletani gli parlavano, non s'intende perchè, come a loro maggiore.

Il Russo mi s'appressò con un viso che parea un lupo affamato, tanto ch'io m'arretrai d'un passo, quasi temendo un pubblico assalto. Ma egli non volea dirmi, e non mi disse, che tre o quattro amabilità da studente francese, ed ecco il siniscalco e gli altri suoi schiavi ci messero a tavola, e fu mangiato saporitamente, e le lusinghe e le piacenterie dei nobili napoletani crescevano ad ogni nuova imbandigione.

Terminato il convito, il Russo, che, come intesi, aveva già spedito la sera innanzi le sue mule col grosso del carriaggio e con ventiquattro schiavi, ordinò che si mandasse tosto pei cavalli, ch'egli voleva allora allora partire in sulle poste. Quei signori napoletani e quelle signore s'accommiatarono con assai riverenze, quasi come pregando Iddio che prestamente questo regno, anzi Italia tutta, divenisse una provincia russa, acciocchè potessero passare più spesso di così deliziose serate; e poco di poi s'udì giù per la corte un gran suono di campanelle.

Ecco, ritornati nella nostra stanzetta terrena, facemmo portare i nostri arnesi nella corte. Quivi era una carrozza, [329] una carrettella ed un carretto. Cammillo e il siniscalco fecero acconciare la nostra robicciuola sulla carrettella, e dodici schiavi, che parevano le più sime pecore ch'io abbia mai viste, usciti delle stalle ove dormivano, acconciarono quel che rimaneva del carriaggio del loro signore sul carretto. Poco stante scese giù il Russo con la mogliera e con la pipa, che figliuoli non avea altrimenti; ed entrati essa coppia nella carrozza, Cammillo, il siniscalco, il segretario ed io nella carrettella, e i dodici schiavi montati sul carretto, ed assettatisi, anzi sdraiatisi a uso bestie, sulle casse, sui bauli e sulle ceste, di che l'avevan ben carico, facemmo partita ad un gran suono di fruste e di campanelle, fra i più servili ossequii del locandiere e di tutta quella sua infame canaglia[5].

LXXXVI.

Il segretario era un Francese di forse cinquant'anni, assai cortese e ben parlante, che le enormità della rivoluzione avevano condotto a quella sventura. Laonde tutte le preghiere di Cammillo non erano valute ad ottenerne ch'egli sedesse accanto a me nell'altro posto di fondo. Al lurco siniscalco Cammillo non istimò di dover fare troppe cerimonie, e mi si sedette accanto, e [330] tutto il tempo che fu buio, mi venne di continuo stringendo col suo braccio sinistro la destra parte del mio seno al suo cuore.

Pervenimmo, in meno che non lo dico, alla barriera del Serraglio, ed una mano di stradieri e di birri ci fu addosso di repente. Ma il siniscalco non ebbe loro appena mostro il passaporto del suo signore, e detto che noi e quegli altri dodici eravamo della famiglia, e data loro una buona mancia, che, placatisi tutti come agnelli, ci mandarono, senza più, a buon viaggio. Io sporsi un istante il capo fuori, e diedi l'ultime lacrime al mio povero Paolo, alla sola cara memoria della mia prima età, e maledissi quel vero serraglio di scellerate fiere e di divorate vittime, e i cavalcanti spronarono, ed io vidi, con ineffabile gioia, dileguarsi nel buio della notte il funesto giallore della sua facciata.

Si corse a tutta furia insino ad Aversa; e quivi mentre si mutavano i cavalli, io sporgeva anche il capo fuori per vedere l'aspetto della città: ma indarno, ch'era fitta notte. Domandai Cammillo e il Francese s'essa conservava qualche sembianza dell'origine sua normanna. Ma l'uno e l'altro ne ignoravano insino l'origine, e mi convenne passarmene assai leggermente.

S'arrivò a Capua, dove non è così facile d'entrare in pace, com'è in guerra. Ma dopo tre ore che ci arrovellammo alle porte, fu alla fine rotto il profondo sonno di quei guerrieri, e fu andato per le chiavi che dormivano sotto il guanciale del capitano, e fummo dentro che albeggiava. Ed io, che già fantasticavo dell'antica Capua, e delle sue glorie, e della morte che v'apparve un dì cosa tanto gentile, e che ben sapevo che le vestigie erano quivi a un miglio, maledissi la Russia tutta e la sua barbarie, per cui quell'infuriato correva fulminando [331] le poste, per trovarsi in Roma, come intendemmo dal segretario, all'ultima sera d'una saltatrice.

Pervenimmo a Sant'Agata, e quindi al Garigliano, all'antico Liri, e non mi saziai di contemplare com'egli ancora morde le sponde taciturno. Fuggimmo di Mola, dell'antico Formio, ed io mirava estatica la collina a destra, ove Cicerone porse il collo a' sicarii di Antonio. Vidi Gaeta a sinistra, e mi sparì ch'ancora mi sonava nella memoria:

Ed ancor tu d'Enea fida nutrice:

che solo all'ombra adorata del Caro io debbo un tanto bene, di conoscere, se non è bestemmia a chi non sa latino, la divinità di Virgilio.

Varcammo ed Itri e Fondi, dove io vidi la via Appia ancora integra, e quelle mura che, già prima che Roma fosse, guardavano il cielo. Poscia Iddio ebbe pietà di noi: e la carrozza del Russo, dopo infiniti lanci, urtò in un gran petrone e si disfece. E poichè nessuno pericolò, benedetto Iddio, ci riducemmo tutti a piedi a Terracina.

LXXXVII.

Io non so per qual maledizione del cielo questo regno o è, o almeno appare, la più inospita e selvaggia fra le contrade che si domandano civili. Certo fra le tante contraddizioni della natura umana ch'io lessi o vidi o intesi, mai nessuna non m'apparve tanto inesplicabile. Qualunque più raro esempio o di bellezza, o d'ingegno, o di sapere, o d'umanità, o di coraggio, [332] tutto quivi e fu abbondevolmente, ed ancora è. E nondimeno, a guardarlo tutto insieme, diresti che non v'è popolo nè più brutto, nè più sciocco, nè più ignorante, nè più inumano, nè più vile. Forse era vera la sentenza d'un ingegno assai spiritoso, che diceva, essere qui due popoli così l'uno dall'altro distinto, che niuna cosa fu mai tanto da un'altra; e l'uno avea il naso del pulcinella, e rappresentava quanto poteva essere di più abbietto e vile e abbominevole nella natura umana, e l'altro aveva il naso italiano, e rappresentava quanto poteva, non che essere, ma immaginarsi di più nobile e generoso e santo. Forse tutto è compenso nella natura, e quello che manca qui all'universale è più intenso negl'individui, che, simili ad altrettanti corpi gravi gittati qua e là in una gran massa liquida, affondano di loro proprio peso, e se una gran tempesta non li ritorna su, restano occulti in sempiterno. E forse, alla fine, la lunga servitù somiglia quel terreno sterile dove non ogni pianta alligna; ma quella che v'alligna, leva e distende più ardita le sue braccia al cielo, e con tanta e sì vigorosa vita che ha in se, pur sembra che indarno contrasti alla vittoriosa morte del deserto che l'è intorno.

Sul dorso d'un'albeggiante ed allegra montagna, che discende arditamente al mare ed ivi quasi s'affaccia e specchia, è una città più albeggiante ancora di quella montagna, ed anch'essa a quella abbracciata, discende e lava il piede nel mare. Ansure la chiamarono gli antichi, e noi Terracina; e sulla cima più eretta ancora grandeggiano le rovine d'un palagio di Teoderico, onde il Goto contemplava gran parte di quell'Italia stata già un dì il lontanissimo sospiro della sua giovanezza; e contemplava il mare, che ora riposando placido nel suo [333] letto, ora muggendo e battendo furiosamente la montagna, rappresentava la vita del guerriero di ventura.

Era placido il mare quel dì, e il cielo appena rotto da qualche nube che pendeva amicamente su quel palagio, e noi pervenimmo a una piccola porta che congiunge il monte al mare, e si chiama goffamente Portello. Quivi vid'io l'ultima cosa oscena, una brutta spia, mal vestito, peggio calzato, che appena poteva la vita, tanto era sciancato e monco, con due occhi piccoli e scellerati nella fronte, che pareva la volpe stessa, e uno di que' nasi da pulcinella che dissi, e un cappello dieci volte più grande e più alto che non gli si diceva al capo. Ed un bambino, vero suo figliuolo per laidezza, gli piangeva dietro per fame; ed egli, mentre, che con orrendi calci e nefandissime bestemmie, da farne tremare il monte, e col pugno della destra, lo scacciava da se malmenando, stendeva come un animale salvatico la sinistra zampa a noi, e domandava con fiera voce i passaporti, e diceva a tutti uno per uno, guardandoci da quegli occhi cavi:

Tu chi sei? e chi sei tu?

Con una certa aria così infame da provocare il più santo anacoreta di Tebaide a un omicidio. Dio onnipotente! esclamai io, fa che sulla porta almeno di questa contrada sia un meno scortese portinaio! Il siniscalco gl'inzeppò la mano del passaporto e di molte grosse monete di cinque grani, ed egli cessò tosto d'agognare abbaiando, e si racquetò come cane che morde il pasto.

Così varcammo il fatale sogliare, e fummo in su quel del papa, e uno sbarbatello di soldato, che in vero non somigliava per nulla i soldati di Mario nè quei di Silla, ma almeno umano e cortese, ci salutò da prima urbanamente, e poi ci domandò, con più dolci suoni, il passaporto, [334] e lo lesse attentamente e domandò s'io era della famiglia, e, contrassegnatolo, lo ci rese e ci concedette il passo, e noi eravamo già andati di molto, quando il coticone di siniscalco gli usò, non richiesto, cortesia. Nè d'una sì subita mutazione si maravigli altro che la gente grossa, che non vede qual era quel punto ch'io aveva passato.

Quindi fummo a Terracina, ed entrammo a un lieto albergo, ch'è sulla sponda propria del Tirreno, che mai non m'era apparso tanto bello. Quivi giunse poco di poi il cocchio franto, e il sole si coricò nel mare, che non vidi mai il più incantevole tramonto, e s'andò a cena; e dopo cena Cammillo ed io ci riducemmo in una sola stanza, in un sol letto, dov'egli colse di me, ed io di lui, l'ultimo premio d'amore.

LXXXVIII.

Appena s'imbiancava l'aurora, e il russo comperò di presente un'assai bella carrozza, che l'oste, che ne soleva far continuo mercato, avea fatta venire di Napoli per mandarla a Roma. Incontanente vi si lanciò dentro, e noi nella carrettella, e gli schiavi sul carretto, e fu cacciato a tutta briglia i cavalli, che la saltatrice quella sera appunto spiccava l'ultimo suo salto a Tordinona.

Valicammo, come il baleno, la bella Linea Pia (venticinque miglia come il primo viale della Villa Reale di Napoli), che Pio Sesto, d'immortale memoria, rifrenando la sfrenata palude, fece spianare sull'antica via Appia. Di qua e di là correva lentamente, anzi stagnava, la placida laguna: e il suo stagnare e il fulminare dei nostri cavalli, parea che mi rappresentassero alla fantasia [335] il vivo contrasto fra la mia vita passata e la presente. Oh! come io mi sentiva leggera su questa terra, e trionfatrice dell'universo! Oh come eran rapidi tutti e vivi e sfolgoranti i miei pensieri e le mie speranze! Oh padre, quanto mai v'è di corporeo in tutto quello che pare più etereo e più spirituale nell'uomo!

Di speranza in isperanza, e di pensiero in pensiero, fui tosto stanca di vagare, e l'egualità del prospetto tosto m'ebbe profondata in me stessa. Ripensai il fine, che sempre tale ci pare l'ultimo avvenimento che c'è incontrato, a cui era riuscita la vita mia, e mi parve, se non un piacere innebriante, certo una conversazione assai dolce. Non accogliendo più nell'animo nessun dubbio di non essere moglie di Cammillo, mi parve che il matrimonio fosse il solo stato naturale dell'uomo. Tutta scarica e serena nella mia mente, io non sentiva più in me quella strana mistura d'oppressione in un tempo e d'impeto tormentoso all'ignoto, ond'ero stata travagliata dal primo dì che mi sentii donna, e che in un bacio del mio garzoncello di Santa Sofia attinsi il primo sorso alla tazza misteriosa della vita. Tutto mi pareva piano, tutto sopportabile, nè il conoscere che Cammillo non mi valeva per l'ingegno, mi afflisse tanto, quanto avrei per avventura presupposto. Era un bel giovane, ed avea un braccio vigoroso per sostenermi, e per lui io non mi sentiva più sola sulla terra: e della mia superiorità assai agevolmente mi consolavo.

Intanto, stancata a vicenda di profondarmi in me medesima, mi versai di nuovo fuori di me, e la scena mi parve di nuovo mutata. Tutto ciò che mi circondava mi parve che inspirasse non più servitù, ma comando. Io non vidi più monti arcigni o soprastarmi sul collo, e quasi minacciarmi s'io ardissi levare il capo e credermi [336] libera; o tarpare crudamente le ali ai miei sguardi, ch'io desiderai sempre di spingere quanto più potetti lontano nell'infinito dell'orizzonte. Io spinsi il volo degli occhi miei di là delle curve lontanissime e maestose che mi ricamavano a dolcissimi tratti l'orizzonte, e mi pareva che l'universo intero fosse mio. Gli alberi, i cavalli, gli animali tutti s'ingigantivano di mano in mano, e sembravano prenunziarmi che la natura si preparava come a uno sforzo per mostrarsi maggiore di se stessa. Ah padre, ma quand'io imparai a conoscere l'uomo romano, il vero discendente di Cesare, il carrettiere; che più? quand'io imparai a conoscere il mendicante romano, che, nel domandarti la vita per Dio, non s'avviliva, ma pareva ancora comandare, e dirti, tu fosti mio schiavo un dì; allora conobbi la più bella cosa creata, e conobbi che se Iddio n'aveva mandato il germe nel Lazio, aveva voluto che il Lazio comandasse all'universo; e conobbi che il divino decreto, ch'ora sembra mozzo e interrotto, avrà forse un dì, nella resurrezione d'Italia, il suo ultimo e fatale adempimento.

Tav. IV.
... che il Lazio comandasse all'universo; e conobbi che il divino decreto, ch'ora sembra mozzo e interrotto, avrà forse un dì, nella resurrezione d'Italia, il suo ultimo e fatale adempimento. — Carte 336.

LXXXIX.

Io vidi da Albano il sole che si tuffava misteriosamente nell'onde, e vidi sciami infiniti di gracchianti uccelli quasi accompagnarlo nella sua caduta. Ed io, sorvolando con loro mille e mille anni, già quasi ne prendeva i buoni o rei augurii della vita mia. Poi si corse furiando sul deserto lastricato, fra cento file di tronchi acquedotti e mille rovine di sepolcri: ed io diceva: O tempo, tu dovevi perdonare alle tombe! E mancava poco alle ventiquattro, quando fummo in sulla piazza di san Giovanni in Laterano.

[337]

Io levai gli occhi a sinistra, e vidi la facciata della basilica. O nomi sonori, che varcherete mille secoli, ed ancora affaticherete gli orecchi dell'universo invidioso, quanto più grandi di voi paiono quelle grandezze che significate, allo stupido pellegrino che s'inurba! O Costantino, o Silvestro, quanto mi tornarono grate nella memoria insino le vostre favole!

Valicammo una lunga via, in fondo alla quale era il Colosseo; poi m'imbattei nella colonna Traiana; e quindi uscimmo a Piazza di Spagna.

Quivi scendemmo a un grande albergo, dove l'albergatore, che la facea da cavaliere col suo servidorame o con altri più modesti viaggiatori che uscivano o entravano all'albergo, porse la servile mano allo sportello del Russo; e quegli e la moglie balzaron giù come due matti, e senza mutar abiti, nè montar pure le scale per vedere l'appartamento da abitare, rientrati in una carrozza da nolo dell'albergatore, e ordinato al siniscalco che fosse loro portato da merendare nel palco a Tordinona, si scapolarono come invasati, gridando al balordo cocchiere, che menasse a tutta furia que' suoi balordissimi cavalloni.

Partita quella coppia, il segretario s'inviò al teatro di mala voglia, come quegli a cui sarebbe troppo più convenuto letto che saltatori o strioni: ma quivi l'arco dell'esilio lo balestrava. Il siniscalco s'andò per le sue faccende nelle cucine; gli schiavi nelle stalle a sdraiarsi sullo strame; e Cammillo ed io, più felici di tutti, ci ricoverammo in una modesta stanzetta che ci fu assegnata, in un modesto lettino, caro segretario, e quella notte e cento e cento altre, de' nostri piaceri.

La mattina seguente fummo a far riverenza ai due signori russi, che trovammo un poco meno invasati del [338] dì davanti nella loro frenesia; non però che consentissero di ragionar d'altro che della saltatrice. E il principe in persona (ch'egli era un principe), levatosi da sedere, cominciò a volerci far vedere materialmente come proprio la sua eroina moveva i piedi: ed alzava le zampe, e col suo fischio s'accompagnava, e pareva uno di questi orsi che danzano qui talvolta per la città al suono rusticale d'una sampogna. E noi facemmo una gran prova di frenare il riso, e, lodata la disinvoltura ond'egli imitava la sua dea, ci accommiatammo e n'andammo a spasso.

Così cominciai a vivere i giorni più placidi della mia vita; almeno, i più secondo natura. Io era già fuori di tutte le illusioni della nuova età, e nondimeno conservava ancora tanta vivacità nella fantasia e nel cuore, quanta mi bastava a godere. Quando Cammillo usciva pe' suoi lavori, o era dentro a lavorare, io leggeva; ch'egli non mi lasciava mai mancare di libri. E quando era scapolo, giravamo per Roma e pe' contorni, e mille anni e mille volumi non mi basterebbero a dire il millesimo de' piaceri, delle consolazioni, de' rapimenti di sovrumana felicità in ch'io n'andava, contemplando tante e sì ineffabili e sempiterne bellezze. La sera ci riducevamo di buon'ora nella nostra stanzetta, dove venivano spesso a veglia il segretario ed il siniscalco; e l'uno co' suoi racconti di Francia mi tornava dolcemente la memoria di suora Geltrude; l'altro mi sollazzava parlando della schiavitù come della cosa più dolce e più desiderabile della terra, e che non era nessun uomo più felice di lui, e che un dì il suo padrone, o fosse più brillo o più amoroso del solito, gli aveva profferta la libertà, ch'egli aveva ricusata come il più funesto de' doni.

Di tanto mi stimai io felice, e questa fu l'ultima delle mie illusioni.

[339]

XC.

Io aveva più volte rammentato a Cammillo, che mi pareva tempo ch'egli mi sposasse legittimamente. Nè potevo mai terminare la frase, ch'egli non m'interrompesse, esclamando:

Sì, angelo mio, nessun'altra cosa io desidero tanto al mondo.

Ma con la medesima celerità soggiungeva una qualche ragione che con suo dolore gl'impediva di farlo di presente; ora che bisognava condur l'opera assai destramente, non il curato domandasse alcun contrassegno dell'essere mio; ora ch'era pasqua di ceppo; ora che correva la quaresima; ora che aspettava che fosse mutato il curato della Trinità de' Monti, ch'era la nostra pieve; ora che doveva venirne un novello ambasciatore napoletano, del quale egli era un gran favorito, ed avrebbe potuto fare a fidanza. E mi diceva queste cose con un'aria di viso così franca e dolce ed affettuosa a un tempo, ch'egli non aveva ancora finito di dire, ed io era già amaramente pentita d'avergli fatto oltraggio sospettando.

Così mi lasciai io levare in barca un lungo anno, ignara e nuova della scelleratezza umana così com'era il primo dì che venne per me la donna di Sant'Anastasia. Nè già mi giovarono nè le mie eterne letture, nè la mia propria lunga e dolorosissima e non comune esperienza, nè l'aver sentite sulla gola le punte de' pugnali del prete e de' suoi sicari. Non v'è al mondo propria o aliena esperienza che basti, e troppo nuove vie trovano gli uomini e la fortuna per ingannarci. E pure [340] che l'arte non manchi, così come ogni rocca o debole o forte è espugnabile, così io credo che sia tanto facile d'ingannare il più astuto vecchiardo, quanto il più candido fanciullino.

Intanto io ebbi troppo luogo di notare, ch'ebbero una gran ragione gli antichi, i quali, benchè non illuminati dalla vera religione, a volere che gli affetti fossero incorruttibili ed immortali, li presupposero figliuoli, non di questo corpo fragile e caduco, ma di un'anima, come volevano che quelli fossero, incorruttibile ed immortale. Io cominciai ad accorgermi che in quanto concerneva quel che poteva essere di corporeo fra Cammillo e me, egli non prendeva di me, e, forse, io non prendeva più di lui, la primiera impressione. Ma quel primo affetto ch'io gli aveva posto, forse un poco più ardente che non si sarebbe richiesto a chi tanto era stata già battuta dalla fortuna, s'era convertito in una consuetudine d'amicizia tenerissima, di necessità più che dolce, che quasi mi pareva una cosa più cara ed intemerata ed immortale di quel medesimo primo ardore; e così credetti che fosse stato in lui.

M'ero incinta, in vero, due volte, e due m'ero sconciata in due fanciulli maschi; e la Provvidenza, ch'aveva permesso ch'io conducessi a buon fine il frutto della più scellerata violenza che fosse stata mai fatta, non mi consentì a questa volta ch'io mi vedessi sorridere un figliuoletto dell'amor mio; o forse non ignara del fatto che m'attendeva, degnò d'essere a me ed al fanciulletto pietosa.

Di queste due sconciature io presi un'amarezza non mediocre, non solo perchè, non avendo mai avuta la consolazione di dir madre ad alcuna, avrei bramata almeno quella d'udirmelo dire, ma ancora perchè m'accorsi [341] che Cammillo se n'era, benchè si sforzasse di celarmelo, sdegnato, per quel non so quale orgoglio che menano gli uomini, d'aver avuto figliuoli. Ma finalmente mi confortai di buona speranza: e sentendo che l'amore ch'io gli aveva, e che immaginavo ch'egli m'avesse, bastava a consolarmi di questa amarezza, e giudicando, al solito, dalle mie impressioni le sue, credetti che fosse bastato a consolarne anche lui, e non me ne diedi più pensiero.

XCI.

Costumava il Russo di passare gran parte della bella stagione a un'amenissima villa ch'aveva tolta in fitto, posta proprio in sul lago di Nemi, donde godeva la veduta più incantata che l'immaginativa dell'Ariosto potè mai aver concetta. Quivi conduceva spesso anche noi; ed allora io aveva una gran compassione alla pazzia degli uomini ricchi, che potendo vivere nel paradiso della campagna, consumano il più della vita fra il putrido e pestilenziale fango delle città. Era il maggio, e il Russo non fu veduto più mettere il muso fuori della sua villa, per un gran giocatore che egli era venuto malato di Pietroburgo, col quale egli si dilettava di giocare dì e notte; che sapete che questi barbari giocano il sangue, e non ha guari giocavano la libertà e si rendevano schiavi volontari di chi vinceva loro la partita. Ma non ci ritenne già seco, perchè Cammillo, proprio a quei dì, gli copiava l'Aurora del Guercino nella villa Ludovisi, dopo averne ottenuto a grandissimo stento la permissione: perchè tutta questa marmaglia di barbari [342] o di bottegai forestieri, che quali uccelli di mal augurio, ogni inverno invadono a stormo l'Italia, non si contentano di vedere i monumenti della nostra superiorità a loro, se per rabbia barbarica non rompono statue, non graffiano pitture, non rubano, come si conviene a vecchi ladroni, i codici delle biblioteche; e non so chi di casa Ludovisi aveva santamente ordinato, quello che dovrebbe ordinare ogni signore o governo italiano, che quelle bellezze non si mostrassero che a chi provava o d'essere italiano, o di non odiare, se non l'Italia, cosa impossibile al forestiero, almeno le creanze.

Era per tanto presso che un mese che il Russo non era più in città, quando un dì Cammillo mi tornò a casa un poco più maninconoso ed astratto del solito. E domandandolo io della ragione, egli, stato un poco sopra di se, alla fine mi disse, che, quand'era uscito di casa a buon'ora, aveva scontrato un gaglioffo di Russo che veniva di Nemi, dal quale aveva inteso che il principe, che Dio gli avesse dato il mal dì e il mal anno, mulinava nella sua malora nuovi viaggi, anzi divisava di correre a rompicollo in Russia, e ch'egli oggimai, stracco di seguitare un matto, non aveva messo tempo in mezzo d'andare a Nemi a dichiarargliene, e che essendone il Tartaro montato in bestia, egli v'era montato più di lui, e gli aveva detto ch'egli non era schiavo della sua gleba; e che gli aveva allora allora chiesta licenza; e la copia dell'Aurora, già quasi finita, l'avrebbe consegnata all'albergatore che gliene mandasse in villa; ma che intanto gli conveniva uscire incontanente dell'albergo, ed aveva già preso in fitto un bel quartierino da Sant'Andrea della Valle, assai ben recipiente, e fornito d'ogni maniera di suppellettile: e che il pane [343] non ci sarebbe mancato: che, la Dio mercè, in due anni ch'egli era dimorato in Roma, s'aveva acquistato di buoni e d'utili amici; nè v'era solo i Russi al mondo che sapessero far la debita stima del suo pennello.

A queste parole, dettemi con un'aria di verità che ancora mi fa stupore a pensare, io, che ne avrei dovuta sentire l'impertinenza, m'infiammai anzi d'un verissimo sdegno contro il non consapevole Russo. Poscia fui la prima a far fagotto della poca robicciuola ch'avevamo, con la quale entrati in una carrettella da nolo, tirammo via difilati a Sant'Andrea della Valle. Quivi fermato a un usciuolo ch'era proprio sulla piazza, chiamammo un facchino ch'era alla cantonata, e caricatogli il dosso delle nostre valige, e pagato il nolo al cocchiere, montammo su a un terzo piano, dove Cammillo, cavatasi una grossa chiave di tasca, aperse un uscio, e messami dentro una mediocre stanzetta, e fatta scaricare la roba, ne pagò il viaggio al facchino e gli chiuse l'uscio dietro.

Appresso a quella era un'altra stanzetta con un letto grande, ed assettatevi le nostre masserizie, Cammillo uscì, e poco di poi ritornò con una di quelle vive statue di Giunone, che in Roma domandano minenti, ancora acconce, se non fosse il cherico, a partorire quegli antichi fulmini di guerra. Questa, già prima che Cammillo parlasse, mi gettò, con quei grandi e veramente italiani occhi che hanno, uno sguardo come di superiorità; e tosto mi disse:

Voi mi piacete, ci resto:

Come s'ella fosse stata la padrona ed io la fante che fossi convenuta piacerle. Così intesi ch'ella era una donna che Cammillo m'aveva condotta acciocchè mi [344] ministrasse ne' miei bisogni, una serva in fine; e già da gran tempo avvezza a' modi inflessibili di quel popolo, che solo fra tutti i popoli antichi e moderni non si è curvato innanzi alla sua sventura, non che sdegnarmene, me l'avrei anzi abbracciata e baciata.

Acconci, dunque, quivi nel modo che vi ho detto, Cammillo per un grosso mese non mi fiatò solamente del Russo. Ben mi parlava spessissimo di lavori ch'egli divisava d'imprendere, d'uno studio che voleva porre, d'un quartiere che gli era stato promesso nel palazzo Farnese (che ricadde alla corona di Napoli, ed ora vi stanzia l'ambasceria): ed all'ultimo un dì mi venne con una bella bozza rappresentante il popolo napoletano che strappava e calpestava l'infame editto, col quale Pietro di Toledo, di scellerata memoria, tentava di metter su nel regno il nefandissimo tribunale dell'inquisizione, e dicendomi:

Vedi qui Cesare Mormile; e qui nobili e popolani che si chiaman fratelli, e giurano il patto dell'unione contro il comune tiranno.

Concluse che ne voleva fare un quadro storico. E mi diceva:

Che ti pare, angelo mio? tu m'accusi di vendere sempre il mio pennello agli oppressori. O non ti par egli bello di consacrarlo una volta agli oppressi?

E mi guardava negli occhi, e pareva gioire della mia gioia, che l'esser donna e reietta non mi tolse di versare un fiume di tenerissime lacrime, qualunque volta lessi sulle tele, o sulle carte immortali della storia, qualunque protesta del genere umano contro quegli empi che lo vogliono loro schiavo.

[345]

XCII.

Era quella stagione in cui è indarno all'uomo l'essersi renduto certo che l'umana speranza è indarno; in cui egli si pente d'essersi rassegnato al dolore, e crede d'aver errato nel suo giudizio, e scambiando il desiderio con la cosa desiderata, osa ricredersi e rivolere la felicità. E non la trovando nella sua conversazione, dà a quella la colpa del suo dolore, e spera che, mutandola, sarà felice. E più quella gli pare immutabile, e più egli se n'adira, e più agogna e fa ogni estrema prova di mutarla, e la muta. E dopo averla mutata, ritrova non la sperata felicità, ma un dolore più grande.

Una notte Cammillo non trovò luogo dalla smania, e carezzandolo io assai più del consueto, e rammentandogli quello che veramente era, che ormai io era incinta la terza volta di lui, e che sperava, s'egli mi giurasse alla fine sull'altare quella fede già tante volte in tante guise giuratami, che Iddio ci sarebbe pio del suo perdono, e ci vedremmo barcollare sulle ginocchia e per casa un piccolo Cammilletto, egli, dopo aver fatto come una gran prova di baciarmi con labbra aridissime di noia, mi respingeva tutto tremante da se, dandomi l'amore per ispiegazione di quel tremito, che pareva tutt'altro che amoroso.

Io attesi sempre a consolarlo insino all'aurora, che non mi giunse mai tanto invocata. Mi levai ed apersi la finestra, donde si scorgeva una striscia del Campidoglio e dell'Esquilie, ed all'aria contaminata dal chiuso e dalla lucerna della notte, sottentrò un fiato d'aura [346] odorosa di primavera, d'aura odorosa ancora d'immortalità, e tale, in fine, quale solo in Roma si respira. Apersi l'altra finestra, che poichè la stanza faceva canto, non rispondeva sulla piazza, e vidi il sole che si levava da monte Mario, e poggiando a perpendicolo della cupola di San Pietro, sembrava come averla in protezione, e quasi godere d'indorarla de' suoi raggi. Ond'io, già innebriata di tante maraviglie, che pur si scorgevano da uno de' più gretti angoli di Roma, dissi:

Deh vieni, Cammillo, vieni a vedere se in tutto il suo eterno giro il sole rischiarò mai cosa più bella di quella cupola: vedi s'egli non n'è consapevole, e non la contempla come il padre la sua figliuola prediletta.

Ma Cammillo mi guardò come chi ha in odio il sole, e non mi rispose; ma, tratto un gran sospiro di noia, si levò come furioso, e si vestiva dicendo con una certa aria risoluta:

Già t'intesi, Ginevra. Tu già la cominci con le tue visioni poetiche, che voglion dire, al solito, che essendo un bel giorno, tu t'annoi di stare a casa, e vuoi essere condotta a spasso. Or sia con Dio, e véstiti; che per voi altre donne lo stare a casa è come sedere in sulla bragia.

A villanie cotanto immeritate io sentii come stagnarmi sul cuore quelle aure allegre che aveva bevute, e divenir dolore. E mi sentii di repente come un fortore negli occhi, che mi espresse poche lacrime, ma amarissime. Ma spesso l'uomo perdona per generosità, spesso per amore, e più spesso per bisogno che ha di non credere tanto reo colui da cui dipende la vita sua, per non disperarsi della vita. Io gli perdonai per queste cose tutte insieme, e rasciuttemi le lacrime, mi risolsi, comunque egli pensasse del fatto mio, di farmi condurre, [347] o, per meglio dire, di condurlo a spasso, sperando che quelle aure fresche e placidissime di quel beato mattino dovessero poter calmare il turbamento che mi pareva che fosse ne' suoi nervi, e quasi annaffiare l'aridità di quella sua noia.

Mi vestii, dunque, spacciatamente una mia veste bianca, e mi velai il capo d'un velo ancora bianco, quasi presaga che il giorno che mi sorgeva era giorno di sacrifizio. S'andò fuori, e Cammillo, per Piazza Madama e per Ripetta, mi condusse nella Piazza del Popolo. Quivi, contemplato fra i palpiti più inesplicabili l'antichissimo obelisco che già Augusto dedicò al sole, e poscia fissi un cotal poco gli occhi, che contra il suo consueto aveva da più dì tutti chiazzati di sangue, sulla vetta del Pincio, li fermò finalmente come a fatica sopra di me, senza che gli venisse fatto di raddolcirli, e chiamò a viva forza sulle labbra un sorriso, che non vi venne; e:

Vogliamo uscirci della porta, e passeggiare lungo il Tevere?

Mi disse, tornando di subito gli occhi all'alto del colle, quasi non bastassero a sostenere i miei, che fisamente lo consideravo. Io, che non ho memoria d'avergli mai disdetto il menomo de' suoi desiderii, dissi subito di sì, e c'inviammo verso la porta.

Uscendo dalla porta del Popolo si trova la via Flaminia, ch'è ora la via di Firenze; e questa, a un miglio forse da Roma, taglia il Tevere con l'antico ponte Milvio, ora volgarmente Molle. A sinistra di questa via scorre il bruno fiume, fra mille gorghi e rigiri; nè mai vidi niuna cosa terrena così vivamente rappresentarmi a un tempo la vita e l'eternità. Torbido sempre ed agitato, e quasi ritornando di continuo in se medesimo, rappresenta la vana ed inutile agitazione dei mortali; [348] e fra tanta agitazione e tanto ritornare in se stesso, pure corre di continuo al mare e mai non s'arresta, e pure rappresenta l'immortalità. Fra la via e il fiume è alcuni rialti tutti piantati a vigne, che pur lasciano in sull'estrema ripa un fresco ed erboso prato, che dà la via insino al ponte a molti buoi e bufali che per l'ordinario vi traggono a pascolare, ed a qualche Italiano che quivi viene a nascondersi dall'insopportabile dolore che gli è il corvo roteante intorno alla colonna Traiana.

Tav. V.
... ed era il prato silenzioso e deserto, e non s'udiva un fiato, se non che il fiume mormorava e qualche bufalo... — Carte 348.

Quivi ci conducemmo noi per un viottolo a sinistra della porta; ed era il prato silenzioso e deserto, e non s'udiva un fiato, se non che il fiume mormorava, e qualche bufalo che pasceva, o giacendo a muso in su parea quasi contemplare stupido la natura, a quando a quando muggiva. Eravamo, io credo, tanto allontanati dalla città, quanto rimaneva a pervenire al ponte, allorchè Cammillo, al quale ingrossandosegli convulsivamente il fiato, io dissi baciandolo:

Cálmati, angeletto mio, non mi far morire.

Fattosi negli occhi come chi è uscito del senno, mi traboccò d'un calcio nel fiume.

XCIII.

Io non fui appena traboccata nel fiume, che per la mia propria gravità, e per le spire del gorgo fra il quale venni a cadere, toccai l'ultimo fondo. Quivi era un alto e denso limaccio, che nel tonfo mi fu insino all'anche. Io diedi per istinto assai calci per levarmi su, ma il piede batteva nel tenero, e ad ogni calcio mi sommergevo più e più nell'orribile mota, e bevevo del fiume [349] che già n'affogavo. Alla fine due gorghi mi si confusero e rigirarono sul capo in tal guisa, che dall'urto delle due spire ne nacque una terza per il verso contrario, la quale, furiosamente circuendomi, mi ritrasse su in quanto balena. Io tornai a vedere il sole ed a spirare l'aria; ma tutto era niente. Più io m'aiutava con le mani e coi piedi, e più, com'era ignara al tutto del nuoto, la corrente, i gorghi, l'acqua stessa e le mie scosse mi ritornavano spietatamente nel fondo; ed alla fine, stanca e mortalmente affannosa, mi rassegnai alla morte, e mi gettai, senza più muovermi, sull'onde, acciocchè m'ingoiassero. Ma quelle onde, che avevano così spietatamente negato di sostenermi mentr'io m'affaticai di salvarmi, quando mi vi gettai sopra per morire, cominciarono a sostenermi.

Io fui strascinata e convolta, forse per un quarto di miglio, dalla corrente ch'era assai rapida quel dì, allorchè s'affacciò dalla ripa un guardiano di que' bufali, e mi vide: e saltando ove la ripa era più umile e smottata, abbassò a traverso il fiume una lunga pertica forcuta, di cui era armato, e mi gridò d'afferrarmivi. L'atto eroico e la risoluzione di quel suo grido mi diedero la forza di stendere ambe le mani e d'afferrare quella pertica, ed egli mi trasse a riva e mi sollevò come una piuma. E vedendo ch'io già affogava, mi strinse con la sinistra mano i due piedi e mi capovolse, e stretta la destra, mi diede di forti pugni nelle reni, ond'io rigettai gran parte dell'acqua ch'avevo bevuta; e, rivoltami in su come se nulla fosse, mi posò semiviva sull'erba.

Io non fui questa volta tanto felice da perdere il conoscimento. Anzi assaporai a sorso a sorso, non altrimenti che l'amaro fango del fiume, tutto l'orrore dell'inumanità [350] di Cammillo; ma una contrazione convulsiva di tutti i miei nervi m'impediva di muovermi e di parlare. Stetti lunga pezza contemplando, come per sogno, il contrasto misterioso ch'era quel dì fra la placida e serena natura, che pareva annunziare pace, fraternità ed amore, e l'atrocità dell'uomo, pure figliuolo di quella stessa natura.

Il mandriano, vedendo ch'io, al suo credere, non risensava, lasciatami un istante, saltò nella prossima vigna, donde tornò con una sua donna; ed aiutato da questa, mi ricoverarono in una loro rustica capannetta. Nè potendomi io muovere nè parlare, benchè avessi riavuto presso che tutto il mio discorso, andò l'uomo pei carabinieri, che sono come qui i gendarmi, e tornato con una mano di questi e con una bussola, ne fui menata in quella al Governo.

Quivi, alla fine, tratto un medico e fattomi cavar sangue, racquistai il movimento e la favella; e interrogata dell'avvenimento, giurai ch'io passeggiava sola, com'era mio costume, per quella sponda, e che mi era venuto messo il piede in fallo, ed ero precipitata nel fiume, donde quel buon mandriano m'aveva salvata. Questi, che con la sua donna ed altra gente accorsa alla novità, m'era ancora dappresso, testificò, nella sua innocenza, che quando s'era accorto di me, non aveva veduto orma d'uomo che fuggisse, nè nessun'altra cosa che desse sospetto che il caso mio fosse stato altro che fortuito. E dopo ch'io, in premio dell'avermi salva, gli ebbi data la sola cosa che m'avanzava, l'anello col quale il traditore aveva mille volte promesso d'impalmarmi, e ch'ebbi mostrato un gran desiderio di ridurmi a casa per rivestirmi di panni più asciutti, gli ufficiali del Governo romano, che non sono dei sottili, ci lasciarono andar tutti alla nostra ventura.

[351]

Battevano le ventitrè, quand'io giunsi all'uscio da via della mia casa, e m'imbattei nella mia minente che ne usciva; la quale, al solo vedermi, s'arretrò d'un passo, come a un fantasma pauroso: e quando m'ebbe corsa dell'occhio, e m'ebbe veduta così scinta e molle e scarmigliata e pallida del pallore della morte, s'arretrò d'un altro passo. Ma poi ch'io la chiamai a nome, che l'era detto Nanna:

O come, mi diss'ella, persuasa alla fine ch'io non era una visione, non siete voi partita altrimenti?...

Ristretteci insieme nella piccola corte, io le confidai tutto quanto m'era seguíto, ch'io l'aveva conosciuta per donna da ciò. E tosto n'ebbi, che Cammillo, dopo avermi traboccata nel fiume, era venuto in gran furia a casa, e trovatala quivi, l'aveva come garrita del suo essere venuta tardi; perocchè egli allora allora partiva con un principe russo, e gli era convenuto accompagnarmi di persona all'albergo in Piazza di Spagna, mentre, s'ella veniva prima, m'avrebbe mandata con lei; e fatti incontanente suoi gruppi e valige, era montato su all'altro piano a dar la chiave alla padrona delle stanze, ed a pagargliene i giorni dispari; e, data licenza ad essa Nanna, cui mostrandosi tutto infuriato, aveva impedito che venisse a darmi il buon viaggio all'albergo, s'era dileguato come il fulmine in una carrettella da nolo.

Allora fui io chiarita del tutto e percossi per l'ultima volta la mia fronte. Così come ero intirizzita e prossima a rendere lo spirito, m'afferrai al collo della Nanna, e la scongiurai di venir meco all'albergo in Piazza di Spagna. Era già notte quando giungemmo proprio sulla fonte ch'è nel mezzo di quella piazza, detta dal volgo la Barcaccia, da una barca di marmo che ne forma la [352] pila. Quivi io, così com'ero lassa e rifinita, quasi mi veniva meno al solo pensiero di rivedere quell'albergo e quegli albergatori nello stato in cui ero, e mi raccomandai alla mia Nanna di montar ella su, e cercare del vero. Nanna andò, seppe e ritornò; e mi disse che, in sulle quindici ore, il principe con la moglie e con la sua gente, e Cammillo con una principessa russa, erano tutti partiti in sulle poste per Pietroburgo; che costei, giovane, ricca e bella, era venuta poco fa di Napoli e s'era trattenuta il più del tempo nella villeggiatura del principe; che quivi, visto Cammillo, n'era divenuta sì persa, che gli s'era profferta, s'egli non fosse maritato, di sposarlo; e che Cammillo l'aveva sposata incontanente, nè aveva dubitato di predicare a chiunque sapesse del fatto mio, ch'io non era già sua moglie, ma una vile bastarda di concubina che per dappocaggine egli aveva sostenuta insino allora, e della quale gli era troppo facile di sbrigarsi.

XCIV.

Io ebbi per l'ultima volta la volontà di morire, e credo che oggimai non mi sarebbe fallita la lena. Mi scagliai, con quella forza che m'avanzava, per precipitarmi nella fonte, ed avendomi la Nanna trattenuta per un braccio, feci ogni prova di spezzarmi la tempia sulla coda d'uno di quei delfini di marmo. Ma la Nanna era troppo più vigorosa di me, ed afferratami con ambe le sue robustissime braccia, mi ritrasse a viva forza dalla fonte, e mi costrinse a sedermi sul primo scalino della Trinità dei Monti.

Quivi cominciò, con quanta dolcezza le fu possibile, [353] a raumiliarmi, ed abbracciatami e strettami al suo seno e datimi io non so quanti baci, che, ancorchè dati da una donna, hanno pur sempre il potere di mitigare la sovrabbondanza del dolore, mi offerse la sua casetta per quella notte, e quivi si sarebbe consultato di quel che s'avesse a fare.

La donna abitava alle Quattro Fontane, e quivi mi menò a grande stento, sostenendomi quasi sempre in sulle braccia. Entrammo in un'ampia corte, e quindi, per un uscio di cui la Nanna aveva la chiave, in una stanzetta terrena, dove non mancava niente di quello che si appartiene a persona povera, ma non indigente. Quivi la donna, confortatami d'un poco di cibo e di alcuni suoi panni più ruvidi de' miei, ma più asciutti, e fattami parte del suo letto, acciocchè io vi prendessi riposo ed allora e sempre, mi domandò, quasi indovina del vero, s'io fossi moglie del pittore. Io, che non seppi mai essere nè amica nè confidente a metà, le dissi, fra molte lacrime e molti sospiri, il tutto; ed ella non se ne sgomentò altrimenti, anzi, quando le dissi all'ultimo della mia gravidanza, allora finalmente mi giurò ogni cosa più santa, che non mi avrebbe abbandonata.

Io mi stetti più dì rinchiusa in quella stanzetta, insino che la Nanna, ch'andava fuori per le comuni bisogne, mi riportò che si cicalava del fatto mio. Quando il cicalío fu finito, cominciai verso sera, in compagnia della mia minente, e vestita dei suoi abiti, a passeggiare un poco per quei luoghi sacri e solitari di Roma, che sono e saranno la più cara memoria che io porterò meco nel sepolcro. E già, senza il figliuolo che mi si chiudeva nel ventre, e senza ch'io avessi temuto d'essere troppo a carico a quella mia povera [354] donna, io non avrei desiderato nessun'altra cosa al mondo, e mi sarei vivuta e morta appresso a lei. Ma il ventre ingrossava ogni dì, e più d'una vicina, com'è il costume di simili donnicciuole, traeva e spiava; ed il cielo, che m'aveva già punita di due aborti, non si sarebbe appagato se non m'avesse punita anche del secondo figliuolo, e, dopo avermi fatto vedere gli occhi e udire i guai del figliuolo di don Serafino, non mi avesse condannata a nutrire del mio seno e porre amore di madre al figliuolo di Cammillo.

La Nanna mi veniva l'un dì più che l'altro scaltrendo, che a Roma non era nulla che fosse veramente vietato; ma nulla non si poteva fare a scoperto, e v'era bisogno d'assai destrezza; che a partorire così pubblicamente, non potendomi troppo confidare nella legittimità del mio figliuolo, io avrei messa me al rischio d'esser mandata fra le donne disoneste a San Michele, e il mio bambino fra i bastardi, che vedeva che al solo pensiero io ne montava in tutte le furie. Ma quand'ella vedeva che il suo necessario scaltrirmi m'era causa di troppo cocente afflizione, concludeva sempre abbracciandomi e baciandomi, e dicendomi, che stessi pure di buona voglia, che sarebbe stato suo il pensiero di salvare me e il figliuoletto. E così per sette mesi trovai io fra l'ultima plebe romana il più onesto e generoso e disinteressato soccorso che mai nessun poeta figurò nelle sue fantasie; che veramente a chi ha conosciuti gli uomini pare cosa impossibile; e se talvolta segue, è di quei veri che hanno faccia di menzogna.

Io aveva già valico l'ottavo mese, nè poteva più nascondermi, e mi struggeva, e mi moriva, quando la Nanna un dì mi destò innanzi l'aurora, e mi disse:

Sora Ginevrina, vestitevi, e usciamo insieme, che vi [355] condurrò dove potrete partorire ignota al mondo intero, e, se fosse possibile, a voi stessa.

Io non messi tempo in mezzo a vestirmi, e, fatto un fardellino di quella biancheria che si potè, c'inviammo in sull'aurora verso la Basilica di Santa Maria Maggiore. Quindi tirammo dritto per Sant'Eusebio, e passando pe' trofei di Mario, come si dice, che se non eran quivi, pure troppo m'è dolce il rammentarli, per fuggire più presto che si poteva la città, ne uscimmo per Porta Maggiore. Quivi girammo a dritta, e per molte ora vie, ora viottoli, tutti di più che dicibile bellezza, ci conducemmo, benchè lentissimamente, per le condizioni in cui io era, in su una delle più incantate di quelle colline che sono a cavaliere de' due laghi d'Albano e di Nemi, ove tutto quell'incanto si specchia. Quivi sono foreste ed ombre e solitudini sovrumane, che sembrano sfidare e Turno e Lavinia, e tutte le più remote memorie laziali. Quivi sono antri eterni, ignoti non che agli uomini, al sole. Quivi sono silenzi fidatissimi, dove è dato all'infelice di chiamare la matrigna natura a render quasi ragione della sua incomprensibile ingiustizia.

Era nel fianco d'un vivo ed arcigno balzo una maniera di grotticella, della quale imprunava per traverso la metà della bocca una forcata di spini, e l'altra metà l'era come spiraglio del poco dì che vinceva l'eterna notte di quelle selve. Tirò a se la minente quella forcata, ch'era movibile e pure non pareva, e mi mise dentro la grotticella, dove io rimasi stupida a vedere mille segni d'abitazione umana e presente, benchè nessuno per allora vi fosse. Quivi erano intorno intorno petroni di vivo masso, che parevano quasi muricciuoli o sedili tagliati dalla mano più tosto dell'uomo che [356] della natura. Per terra assai strame, e sui muricciuoli due sacconcelli. Brocche e mezzine con acqua non mancavano, ed alcun piattello ed alcun tegame, e legna, e pane, e qualunque altra cosuccia, in fine, è necessaria alla vita umana.

Or che vi pare, sora Ginevrina? mi disse la minente quando ebbe richiusa la forcatella. Vedete che la Provvidenza non abbandona mai gl'innocenti che si confidano in lei. Qui da diciotto anni vive ignota, salvo che a me, a tutti gli uomini, ma notissima a Dio, una santa, alla quale io debbo la vita mia presente e quella immortale che spero di vivere alla destra del Padre Eterno. Io inseguiva per questi latibuli un mio amante traditore, che fui tradita anch'io, al quale io aveva giurato da romana di nascondere questo spillone nel cuore (e m'additò quello stiletto o punteruolo d'argento con che le antichissime romane traversavano, e le minenti ancora oggi traversano, l'intrecciatura de' loro capelli). Trassi furibonda quelle spine, che qui proprio mi pensai di dover cogliere lo scellerato; e in quella vece trovai quest'angelo.

E in così dire baciò la mano a una solitaria, di austera ma bellissima presenza, ch'entrava, e le cadde innanzi ginocchioni; ed io, a malgrado di tutte le mie lezioni filosofiche, le caddi ginocchioni anch'io, che dove parla il cuore, la filosofia tace. La solitaria ci sollevò entrambe, e c'invitò a sedere sui muricciuoli che ho detto. Ed allora la mia angelica minente, con un'eloquenza di cui io non aveva ancora, non che l'esempio, il pensiero, con una passione, con una vivezza ed evidenza d'immagini da indormirne Demostene, da scrollare, non dico una pia solitaria, ma una rupe, le fece il racconto di tutte le mie sventure, e le rappresentò [357] il mio caso presente, e pianse lacrime cocentissime, e piansi anch'io, e pianse finalmente la solitaria, che ci si promise parata ad ogni nostra necessità.

La minente partì, promettendomi di tornare fra pochi dì, ma per allora non voleva mostrare alle vicine che anch'ella a un tratto mancasse insieme con me: ed io mi rimasi con la solitaria, che cominciò ad abbracciarmi e baciarmi come madre la sua figliuola.

XCV.

Dopo una settimana la minente tornò, ed io, quel dì stesso, aiutata da lei, e dalla solitaria, mi sgravai d'un bel fanciulletto. Questo, cui la solitaria battezzò nel nome di Antipatro, io nutrii sei mesi del mio latte, e mentre cominciava a sorridermi ed a chiamarmi mamma balbettando, le convulsioni me l'uccisero in una notte; e la solitaria ed io gli scavammo con le nostre mani la tomba sulla bocca di una spelonca quivi appresso. Ed io, poscia che col mio proprio pugno l'ebbi coperto di terra insino al collo, il viso e gli occhiolini mezzo aperti giurai, che, prima di coprirli, gli avrei lavati l'ultima volta con le mie lacrime, e gittata per terra carpone, piansi loro sopra dal mezzodì insino a sera, finchè l'ebbe coperti prima la notte che la terra.

Questo fu l'ultimo colpo con che l'Eterno mi separò dalla terra, forse acciocchè io avessi più pronte e leggere l'ali del desiderio al cielo, a cui da quel dì mi volsi unicamente, considerando oggimai queste membra, e l'universo tutto, come il più gravoso impedimento a questa mia sola speranza.

[358]

XCVI.

Intanto la solitaria, come sempre segue ai cuori ritirati dagli uomini non per poco ma per troppo affetto, mi pose un amore tale, che non si può dire con parole umane. Ella vedeva per gli occhi miei, udiva per le mie orecchie, parlava per la mia bocca, e, come s'io fossi stata sua figliuola, o fossi convivuta seco insino dal mio nascimento, viveva tutta in me, anzi in tanto viveva, in quanto viveva io.

Come più tosto io ebbi perduto il figliuoletto, la minente venne per me per volermi ricondurre nella sua casetta. Ma la solitaria si gettò ai piedi di entrambe, e ci giurò fra molte lacrime, alle quali non era troppo facile, che dopo l'amore che mi aveva posto, dopo la dolcissima usanza ch'aveva preso meco, ella non era più bastante a sostenere quella solitudine, che per diciotto anni aveva riguardata come il più gran bene de' mortali; e il portarmele via era come portarle via il cuore e la vita. E tanto pregò e tanto pianse, che la minente s'andò, benchè dolorosa, con Dio, e, lasciatami quivi, si contentava di tornare di quando in quando a visitarci.

Ma io non era la minente; ed era impossibile che alla lunga ella potesse continuare a farla meco da inspirata e da santa. Onde, domandatane incessantemente da me nelle lunghe ore di tranquillità che passavamo insieme, dopo aver molto dubitato, e molto considerate le forze della mia mente, alla fine un giorno prese a dirmi così.

Io sono figliuola unica del principe di Monsanese: [359] bevvi le prime aure in Torino, ed il mio vero nome è Teodelinda. Mia madre morì ch'io aveva appena diciasette anni, e tutti mi gridarono, convento, convento, dome solo porto della mia virtù in pericolo.

Fatta di terra sensibile, io m'era innamorata del mio maestro di musica, ch'era un giovane bello e sventurato; nè a mio parere, v'è cosa più irresistibile al cuore d'una donzella ben nata, che l'impressione della sventura in un volto avvenente e giovanile. Mi pareva ad ogni ora ch'egli mancasse di tutto quello di cui io abbondava; non mi curai più de' miei abiti e de' miei conviti, perchè vedevo lui assai male in arnese, e supponevo peggio del suo nutrimento; e parendomi da principio che il non amarlo fosse crudeltà, mi condussi alla fine a non aver bene se non quanto lo vedeva, ed a struggermi ed a consumarmi per lui. Mio padre non tardò ad avvedersene, e scacciò da se l'innocentissimo giovane. Questi morì di miseria e di malinconia; ed io, data la più sanguinosa repulsa a un brutto ceffo di mio cugino che voleva sposarmi per la dote, colsi io stessa volonterosa l'occasione portami dalla morte di mia madre, e mi chiusi in un monastero.

Mio padre era non solo religioso, ma superstizioso, e insino dalla mia infanzia m'aveva parlate di continuo parole ascetiche e contemplative. E più d'una monaca, pagata, come poscia riseppi, dal mio scellerato cugino, ch'aveva eletta questa seconda via di pigliarsi il mio, mi sonava incessantemente agli orecchi la vanità e l'amarezza del mondo, la pace del chiostro e le bellezze eterne del paradiso. Ond'io, ch'avea il cuore afflitto e l'immaginazione ardente, e cui pareva ad ora ad ora che il mio primo amore contemplasse dal cielo tutte le mie azioni e tutti i miei pensieri, e dovesse gioire del mio [360] sacrifizio, vinta ancora dalle prime impressioni prese dalle parole di mio padre, e dalle continue esortazioni delle monache, mi rendetti nel convento medesimo professa.

Stetti quivi tredici anni negli esercizi più austeri di pietà, insino che mio padre, infermando a morte, impetrò dall'arcivescovo il permesso di rivedermi un istante. Fui condotta a lui in un cocchio ben chiuso, e lo trovai moribondo. Egli mi strinse l'ultima volta al seno, e con la forza che gli avanzava cavò di sotto il suo guanciale una borsa con entro tre mila marenghini d'oro, e me la diede, dicendo, che se il mio cugino ereditava di tutte le mie sostanze, almeno m'avessi avuta quella somma per una necessità straordinaria. Io gli baciai piangendo la mano e il viso, e strascinata al convento, quivi il dì seguente mi fu annunziata la sua morte.

Io gettai quell'oro nel fondo d'un cassettone, e piansi sei altri anni quelle colpe che non avevo mai commesse; e mi trovai annoiata di piangere allora giusto che il pianto solo m'avanzava.

Trentasei anni! fiera età per la donna! Io lanciai un terribile sguardo indietro, e vidi che la gioventù era partita, e ch'io non aveva goduto una sola delle tante dolcezze che la mia stessa inesperienza mi faceva supporre che fossero veramente nel mondo. Presi un odio mortale per tutto quello che avevo più amato insino allora, per il mio velo, per le monache tutte, per quelle mura nefande che mi vietavano insino il sereno del dì; e se non fossi stata ben ferma ne' miei principii, avrei preso orrore insino della religione stessa, che produceva frutti così amari. Alla fine quell'oro stesso che aveva indotto alcune monache a bendarmi la fronte, le indusse a sbendarmela, ed io, avuto il modo di fuggirmi, [361] mi ricoverai in Firenze con un giovane fratello d'una delle monache, ch'ella, forse non senza cagione, m'aveva profferto a guida.

Questi aveva trent'anni, ed era scultore, ed era l'uomo più bello e virile e robusto che mai immaginazione di femmina potesse sognare. Ond'io, a cui un dì parea mill'anni a bere di questa coppa, di cui trovai il fondo sì amaro, non fui appena pervenuta al primo albergo, che mi sbramai con lui quella sete naturale che nei chiostri diventa furore.

Quel giovane veniva in Roma, dove mi condusse come sua moglie, e dove si giovò di me finchè io conservai qualche bellezza, e che non gli venne a mano nessuna più giovane e più bella di me. Ed io, tutta lieta e contenta e trionfante della mia stessa sozzura, ritornava col pensiero a' miei dì passati, e paragonandoli coi presenti, faceva amaramente beffe del mio primo amore, del convento, della verginità, e di tutti quegli affetti, in fine, che m'apparivano allora morbosi, per i quali quello che v'è di divino nell'uomo vince quel che v'è di bruto e di ferino.

Ma come più tosto il mio Lorenzo, che così gli dicevano, si fu stracco di me, che fu dopo un anno, accontatosi con la figliuola di un oste, che gli soleva giacere nuda a modello, e ch'era bellissima, e rubatimi mille marenghini, si fuggì verso Napoli con la donzella, e mi lasciò sola, non già invendicata; perchè, fra Terracina e Fondi, quei ladroni che qui si domandano briganti si fecero esecutori della divina giustizia, e ucciso lui e rubato l'oro, uccisero in fine anche la donzella, dopo averla infamemente violata.

Ma io che poteva fare in tanta derelizione? Qual dio o qual demonio mi restava ad invocare? Ripresi gli [362] abiti miei monacali, e mi nascosi in seno mille marenghini che m'avanzavano, e corsi furiosa tutta la campagna per trovare un sicario che m'uccidesse il traditore. Poi un dì a Genzano seppi che i briganti m'avevano vendicata, e venni in questa selva, in questa grotta, per nascondere all'universo intero l'infamia della mia morte, e strinsi uno stiletto ch'avevo, e me lo appuntai sul cuore.

Ma in questi silenzi l'uomo è troppo vicino a Dio, e s'anche medita, non può compiere il delitto. Dal più profondo del mio cuore sentii sorgere una forza che mi trattenne, una voce che mi gridò, che quest'antro poteva nascondermi agli uomini, ma non a Dio. A Dio, dunque, al solo confidente che m'avanzava, rivolsi la mente e il cuore, e caddi ginocchioni, e piansi la mia molta stoltezza, e giurai di mai più, insino ch'egli non mi richiamasse dalla terra, non abbandonare questa grotta, nella quale aveva degnato la prima volta d'illuminarmi.

Così mi rimasi già diciott'anni, e tessetti con le mie mani quella forcatella di spine, e ne incoronai questa mia grotta, quasi simbolo di quella corona di che, da Cristo in giù, fu incoronato ogni giusto. Nascosi in questa terra i mille marenghini, e non mi bisogna che un paolo il dì, onde ne consumai appena il quinto, e vedi che n'ho per te e per me insino alla morte di entrambe. Ogni settimana una volta mi conduco ora a Frascati, ora ad Albano, ora a Marino, ora a Faióla, ora a Tivoli, ora a Palestrina, ora altrove, a procacciarmi le cose necessarie alla vita. Tutti mi chiamano la santa; ed io di questa sola menzogna, alla quale mi sforza la necessità stessa della mia vita contemplativa, ho a dimandar perdono a Dio, che ad Albano dico di [363] venire da Tivoli, a Palestrina da Roma, ed altrove d'altronde, e salvo la nostra minente, cui io con le parole che Iddio m'inspirò conservai l'innocenza, ella a me col silenzio la pace, nessun altro mortale scoperse insino ad ora i miei vestigi; che gli uomini rare volte si curano di chi veramente non si cura di loro.

XCVII.

Così narrava la solitaria, ed io pendeva dal suo volto, e tornava a spiare della sua vita, ed ella a narrare di nuovo, ed io nuovamente ad ascoltare.

Io mi vestii da monaca anch'io, ed ebbi pronuba la solitaria alle mie nozze con l'eterno sposo. Gli offersi non più il mio fiore di verginità, che non potevo, ma il mio cuore, ch'era purissimo, non sull'altare di San Pietro o di Santa Maria Maggiore, ma sopra un petrone di quella grotta; ed egli, che nascendo, non fece grazia di se a Roma, ma a Giudea, forse non ebbe a sdegno, anzi ebbe più caro, il mio sacrifizio.

O come erano dolci l'erbucce e il pane che mangiavamo, condite dell'altro cibo celeste di cui notte e dì ci nutrivamo! O come era tutto amore e gioia in quella grotta! O come gli animali stessi salvatichi, consapevoli che noi non avevamo bisogno delle loro misere carni per nutrirci, venivano, come placidi ed amorosi amici, a visitarci ed a lambirci, e m'interpretavano vivamente una gran parte dei miracoli raccontati nelle vite de' padri.

O Teodolinda! o ultima amica delle mie sventure, dove sei, chi mi ti tolse? e perchè, se ancora vivi, non vieni a chiudere questi occhi moribondi, che non rifuggono [364] ancora dalla luce del dì, perchè non ti hanno ancora ritrovata?

I giorni ch'io menai in quella grotta furono come un simbolo di quel fine a cui presto o tardi va a riuscire ogni vita umana, e del quale, prima i deserti della Tebaide e della Palestina, e poi l'universo coperto di monasteri, furono come una viva rappresentanza. L'uomo, cui la morte non interrompa a mezzo il suo corso, presto o tardi si conduce a non aver più nulla a dividere con gli altri uomini, a riuscire loro tanto esterno o strano, quanto esterni e strani essi riescono a lui. Ed allora quale minore infelicità che fuggire le moltitudini ed il secolo, e ritrarsi alla solitudine? Ritrarsi alla solitudine per non essere interamente solo, perchè quivi, se non ti parlano gli uomini, che già più non ti parlavano, ti parla in vece Dio con la voce de' venti, e tutto quello che ti circonda è Dio.

Io vissi tre anni in quella grotta, senza mai uscirne altro che per pochi passi; nè so perchè gli uomini, nell'immaginare il paradiso, immaginarono un concorso e non una solitudine. L'aquile e le rose dell'eterna luce, e tutti i giri eterni, non estinsero il desiderio di Dante, che s'appuntò solo in quel fulgido amore che illumina e muove il sole e l'altre stelle. In quel fulgore, in quell'amore m'appuntava anch'io dal cavo di quella grotta, e dimentica oramai ch'io fossi ancora sulla terra, e che Teodelinda fosse cosa terrena, pregustai la beatitudine del paradiso.

[365]

XCVIII.

Io vi dirò prima ciò che seppi dappoi, acciocchè non vi sia oscuro l'ultimo avvenimento che m'avanza a narrarvi.

Un brigante di Sonnino aveva guerreggiato quarant'anni con l'esercito romano, e n'era stato sempre vittorioso. Il santo padre gli aveva assai volte profferto generosamente cinquanta colonnati il mese, ed egli si levasse dalla strada; ma il brigante non era stato contento, perchè dicea che la strada gli era un'entrata assai più grossa. E nondimeno un dì, non fu già vinto, ma colto in un agguato, e cento carabinieri e mille soldati aveano ancora paura mentre lo trascinavano ammanettato a Castel Sant'Angelo. Ma quegli una notte, fatto delle sue lenzuola una lunga corda, si calò, novello Benvenuto, dal torrione, e disarmata per istrazio la sentinella del muro, fece, dopo averla schiaffeggiata, una lenta e minacciosa partenza.

Il dì seguente andò tutta Roma in iscompiglio, e si mosse l'esercito e l'armata; ed essendo andato il grido ch'egli si fosse recuperato nella foresta ove noi eravamo, ed eccola inondata da molte migliaia di soldati. Questi, o fosse zelo o paura, s'avvolsero più e più dì per quante latebre e recessi v'aveva più reconditi; ed alla fine un viluppo di carabinieri, schieratisi in ordinanza di guerra, sollevarono tremando la forcatella della nostra grotta, e divennero il coraggio stesso, quando in vece del terribile ladrone, trovarono due pie ed innocenti religiose, ed un cervo tutto domestico, ch'esse educavano e nutrivano delle loro mani.

[366]

Dov'è il brigante?... ci domandaron tutti con fiera voce. E poichè noi, tutte smarrite nel volto e nella favella, rispondevamo come chi sogna d'essere all'inferno, ed ecco andar sossopra quant'era d'uso umano nella grotta, e per valentía ucciso il cervo.

Frugarono da per tutto quei bellicosi, e visto in un cantoncello il terreno smosso, s'ebbero l'oro, e saltavano d'allegrezza; e non dubitando più che noi non fossimo due segretarie del ladro, ci condussero a Castel Sant'Angelo ammanettate.

Quivi un grosso carabiniere volea esaminarci coi tormenti, e già le nostre protestazioni e le nostre lacrime erano tutte indarno. Ma e il ladrone fu quel dì medesimo saputo a Frosinone, e noi, col testimonio ancora della fidata minente, ci demmo in fine a conoscere per quelle ch'eravamo, Teodelinda in tutto, ed io da Cammillo in su, che ben mi guardai di profferir solo il nome di Nunziata.

Allora l'ambasciatore di sua maestà sarda e l'ambasciatore di sua maestà siciliana, tennero fra loro un congresso, e distesero un protocollo; e, come per modo di confiscazione, divisi fra loro i marenghini amichevolmente per metà, e noi dichiarate vagabonde, ci fecero condurre entrambe fra i carabinieri a Civitavecchia, dove Teodelinda fu fatta entrare a buona guardia in una feluca carica di doghe che n'andava a Genova, ed io in una carica di carboni a guardia della ciurma. Dalla quale non fui appena esposta sulla marina napoletana, che una mano di birri mi condussero, come orfana e povera, a questo convento.

[367]

LETTERA DEL SIGNOR DI BLUMENFIELD ALL'EDITORE.

Per una congiuntura non troppo comune m'è venuto alle mani il manoscritto che v'includo, il quale mi pare degno d'essere pubblicato, perchè potrebbe contribuire in qualche modo a rivolgere la mente degli uomini, massime de' potenti, alla oscure tribolazioni dei poverelli.

Permettetemi di non essere dell'opinione del vostro maggior poeta:

Che l'animo di quel ch'ode non posa,

Nè ferma fede per esempio ch'aia

La sua radice incognita e nascosa,

Nè per altro argomento che non paia.

Anzi, col rispetto debito a un tanto uomo, io credo che se l'animo di colui che ode non si ferma alle sventure dei poveri, bisogna ch'egli sia assai scellerato, e sia indegno di compatire alle sventure de' poveri e de' non poveri.

Guardate un re caduto dal trono. S'egli è ucciso, cessa la disputa, perchè la morte annulla tutto, ed è comune a tutti, e tutti agguaglia; nè può essere oggetto di paragone. Se non è ucciso, pigliate qualunque meno infelice della gente minuta, e vi parrà che il re caduto è felicissimo a petto a quello. Ora io domando, perchè tutta la compassione, tutti gli affetti de' cuori ben nati, tutte le lacrime degli uomini e delle donne, [368] debbono essere concesse al re caduto, e non a colui che nacque miserabile, cioè al meno infelice e non al più. O anche la compassione è schiava?

Ma lasciamo questa questione. Io credo che se i poveri non si corrompessero nelle loro sventure, e sapessero serbare un animo grande, e descrivere i mali loro, l'ultimo dei mendicanti potrebbe aggiungere qualche articolo sconosciuto alla storia delle sventure umane.

Io ho voltato in tedesco questo manoscritto, ed ho in animo di pubblicarlo al mio ritorno a Berlino, dove riuscirà più originale che qui, per le descrizioni che vi si trovano di alcuni vostri costumi nazionali, molto diversi dai nostri, e, perdonatemi, molto strani.

Non per tanto, ho voluto farvi dono del manoscritto originale, perchè mi piacerebbe che lo pubblicaste così com'egli fu scritto dall'infelice donzella di cui contiene la vita; e perchè vi assicuro che mi sono assai affezionato alla memoria di questa misera Ginevra, e vorrei che le sue sventure fossero conosciute da tutto il mondo.

Come mi sia pervenuto alle mani il manoscritto, lo potete vedere dalla copia del preambolo che ho scritto per la mia versione. State sano. Di Firenze a dì 1 di ottobre MCCCXXXV.

[369]

PREAMBOLO DEL SIGNOR DI BLUMENFIELD ALLA SUA VERSIONE: TRADOTTO DAL TEDESCO.

Durante la mia breve dimora in Napoli, passeggiavo un giorno su per il ponte della Sanità, e volgevo lentamente gli occhi di qua e di là, contemplando la lunga collina, che, diramandosi da monti lontani, va a terminare nella vetta, più tosto arcigna, di San Martino. Guardando in giù da sinistra, fermai l'occhio sul convento di San Gennaro detto dei Poveri, la cui facciata sembra a un tratto come se combaciasse col monte e il convento fosse incavato in quello. Questa immagine mi rammentò le catacombe ch'ivi sono, e ch'io, quando molto giovanetto venni in quella città con mia madre, ch'era al seguito di Maria Carolina d'Austria, aveva più tosto vedute che considerate: in quell'età, in cui tutto, anche un sepolcro, ride al nostro sguardo. Poi, seguíta la morte di mia madre e i sanguinosi rivolgimenti di quel miserabile paese, degno certamente di una sorte migliore, perchè nessuna nazione è degna d'essere infelice, la mia buona o rea fortuna mi menò assai di lungi. E vidi molte cose, e fra queste alcune grandissime: ed alcune dalle quali s'impara a vivere, per virtù magica del pensiero, in altre età con altri popoli. Dai quali ritornando a questi moderni, e pure avendo in [370] su gli occhi gli avanzi giganteschi della rovina di quelli, pare per un istante che ti si sveli il mistero dell'essere universale, e come qualunque cosa più grande non dura. Ed allora l'uomo si lamenta meno che le ridenti promesse della prima età sieno seguite da uno sconsolato lutto.

Mi ricorse al pensiero la memoria delle catacombe di San Sebastiano a Roma, e mille altre fantasie somiglianti, che mi profondarono in una malinconica contemplazione di quello che non è più; e scendendo per lo sghembo ch'è a sinistra del ponte, m'avviai verso il convento.

Giunto a un lungo vestibolo o adito di esso, un vecchio alto e sparuto, tutto vestito di panno turchino, con un mantello anche turchino indosso, mi disse:

Signore, vuol ella vedere le catacombe?

Io gli risposi di sì.

Avviatevi dunque nella chiesa, mi disse; e disparve in uno degli usciolini che davano nel vestibolo. Io, camminando verso la porta della chiesa, guardava da un lato e dall'altro, e vidi due altissime muraglie che parevano appartenere ad uno o a più conventi di religiose, con le grate di legno ai finestrucoli, e con tutto l'apparato delle sepolture dei vivi. Giunsi alla chiesa, nella quale appena entrato, dovetti riuscire, per un orribile lezzo di cadaveri che mi offese le narici; ed andai considerando la stoltezza di questo costume di seppellire i morti in città, massime nei climi meridionali, dove la corruzione è sì subita e sì pestifera; e quante contagioni e quante pesti sursero da quelle sepolture, e sorgeranno ancora, se il disinganno di coloro, ai quali la fortuna pose in mano il freno di quelle [371] contrade, non soccorra al bisogno![6] Bene sta che, dopo la morte, gli avanzi dell'uomo riposino in terra benedetta. Ma uno spruzzo d'acqua e qualche santa parola, possono rendere benedetta ogni terra.

Giunse quel vecchio con un lungo torchio di pece in mano, e lo seguitava un altr'uomo poco più giovane. Questi aveva un vestito bigio ed un berretto anche bigio in testa, e per un fil di ferro reggeva una grossa lampana accesa. Il vecchio, dicendo:

La venga di qua:

Aprì con una grossa chiave un cancello di legno a mano manca della chiesa, dove entrato, l'altro gli entrò appresso, ed io dopo entrambi. Mi ritrovai in una sorta di chiesuola. A sinistra vidi un piccolo altare assai rozzo, dedicato a Gesù deposto dalla croce. Rimpetto dove eravamo entrati, era un altro uscio, dal quale non so s'io debba dire si usciva o s'entrava in una stretta piazzetta, alla quale sovrastava a perpendicolo la montagna. In questa si vedevano le bocche di tre grandi grotte o spelonche, per la prima delle quali, dopo che il vecchio ebbe acceso il torchio alla lampana, ci mettemmo camminando. C'insinuammo tanto in quella, che la luce del dì ci abbandonò del tutto. Al pallido lume del torchio e della lampana, io vedeva di qua e di là infinite nicchie o buche, tutte incavate, come la grotta, nel monte, e parea chiaro ch'erano sepolcri. In molti luoghi della parete, e di alcuni coperchi trasversali, non interamente rotti, dei sepolcri, si vedevano quando pitture cristiane e quando pagane: e spesso sopra un intonico [372] si vedeva un altro, e nel primo erano figure pagane, e nel secondo cristiane.

Giungemmo a una chiesetta col suo altare e la sua sedia vescovile lavorata nel masso. Volgemmo a mano ritta, dove trovammo assai grotte e corridoi, tutti scarpellati a buche. In mezzo a questi era un altro tempietto. Questo si vedeva essere stato un dì dedicato a riti oscenissimi, che la fede novella annullò.

L'uomo ch'avea la lampana lasciò andare un razzo, che montò su a una altezza inestimabile, finchè si spense senza mai fermarsi. Quasi mi pareva non essere più sotterra, se non che l'ora del giorno, ch'era il mezzodì, ed il buio ch'ivi era, me ne avvertivano. Ma i due vegliardi mi dissero che il cielo del tempietto saliva tanto nell'altezza del monte, che mai nessun razzo non era potuto pervenirvi acceso. Quivi, oltre quelli ond'era stato già sgombero, erano infiniti ossami e teschi umani, tutti mescolati a un cenere nericcio. È tradizione che quel gran baratro abbia avuta un dì un'apertura alla superficie del monte, e che da quell'apertura fossero mandati giù a migliaia i cadaveri umani nei tempi delle varie pestilenze onde fu afflitta quella città. L'aria di quelle tombe è sì morta, che ancora, dopo più secoli, non si è al tutto volatilizzato il carbonio che avanzò dalla putrefazione della carne! In molte parti del pavimento sul quale camminavamo, si vedeano fori o spiragli che rivelavano esservi stato sotto un altro ordine di corridoi simile a quello che percorrevamo, ora interamente colmo d'ossa e di teschi.

Ritornammo indietro; e prima che s'uscisse alla luce del dì, per un uscio ed alcuni scalini tagliati nella rupe, fummo all'ordine superiore de' corridoi, ch'era già [373] terzo, ora è secondo. Quivi si vede una basilica intera cavata nel macigno. Nel mezzo due colonne egizie, che sono un masso continuo con lo stesso monte, distinguono le navate. Indi si passa in un immenso corridoio, e da questo in altri e poi in altri, in alcuni dei quali si vede il principio di molte vie sotterranee, le quali è fama che riuscissero in lontane città: ma ora sono tutte richiuse e colme da rottami di fabbriche stativi gittati, nel processo dei secoli, per gli antichi spiracoli onde ricevevano qualche raggio di luce.

In questi corridoi non solo sono nicchie di qua e di là, ma ancora, a piccole distanze, sono come tante cappelline, anche piene intorno intorno di sepolcri. Ancora in queste si vedono dipinture ora cristiane ed ora gentili, e mi ricordo che allato a un san Pietro v'è alcuni adoratori di Venere di ambo i sessi, che vengono all'ara della dea a offerirle e ghirlande di rose ed altri segni vie meno dubbi della loro divozione.

Tornando indietro, riuscimmo per un nuovo sentiero a un tempietto disotterrato di corto, dove è la stessa mistione di cristiano e di gentile. Ed avvicinandoci alla luce, questa si rifletteva in sì strane guise pe' vari intoppi che le si opponevano, che io desiderai d'essere pittore per ritrarle tutte. Ma quando, appressandomi, la luce divenne troppo viva, allora mi accorsi ch'io aveva interamente dimenticato il mondo e me stesso in quell'ora che avevo passato sotterra. Sentii come è amaro il ritorno della vita a coloro che l'hanno un istante dimenticata; e mi parve comprendere perchè così spesso il ritorno del sole sull'orizzonte mi sforzi, per qualche istante, alle lacrime. Mi parve dalle stanze dei morti arrivare a quelle de' vivi, e non me ne rallegrai, quando, uscito del tempietto, mi ritrovai sulla piazzetta, alla [374] bocca dell'ultima delle tre spelonche che dinanzi mi erano apparse.

A diritta dell'entrata di questa spelonca era una lapida greca trovata novellamente nel tempietto. Questa annunziava di aver chiuso il corpo d'una giovane morta di quattordici anni e tre giorni. Ed io cominciai a fantasticare: Oh! chi sa quanto era bella questa giovane! Oh! chi sa quanti desiderii, quante speranze ricoperse questo sasso! E così fantasticando, rientrai con quei due vecchi nella chiesicciuola.

Quegli che avea la lampana, la spense ed andò via. Ed io guardando da quel lato rimpetto l'altare, dove non avevo volti gli occhi la prima volta, in vece di un muro, come immaginavo, vidi uno squallido cancello di legno, donde si vedeva una lunga fuga di stanze sotterranee. Queste erano tutte ingombere di terra dall'un lato e dall'altro, sì che appena vi rimaneva un viottolo che le segava tutte per mezzo. La terra si alzava di qua e di là come in tanti monticelli. Domandai il vecchio ch'era rimasto, che ciò fosse. Mi rispose, ch'era il cimitero del convento.

Uno di quei monticelli pareva essere stato smosso di fresco. Mi venne curiosità di domandare chi vi fosse stata seppellita.

Tav. VI.
... sono appena tre dì che vi è stata seppellita la più bella creatura che la natura abbia mai formata. — Carte 374.

Oh Dio! mi rispose il vecchio, percotendosi la fronte con la mano, sono appena tre dì che vi è stata seppellita la più bella creatura che la natura abbia mai formata. Oh signore se voi sapeste... E quasi si affacciavano le lacrime su quegli occhi spenti, nei quali pareva esserne stata secca per sempre la fonte.

Furono molte le parole da una parte e da altra. Alla fine, fra molti sospiri e molte reticenze del vecchio, intesi che quella terra ricopriva le reliquie d'una bella [375] giovane, di cui la vita misera e tempestosissima era stata scritta da se medesima per confidarla a un confessore, e che il manoscritto, trovato nella cella della giovane, era posseduto da quel vegliardo. Entrai in una infinita curiosità di leggerlo, e ne offersi al vecchio tal somma, alla quale quel miserabile non seppe resistere; e mi diede il manoscritto, benchè se ne staccasse con gran dolore, e lo bagnasse alla fine delle sue lacrime nel consegnarmelo.

Lo lessi, e mi parve che fosse degno di essere conosciuto dagli uomini; che non sogliono essere tardi a piangere sulla sorte dello sventurato, quando la morte di quello gli ha tolti da ogni pericolo di doverlo soccorrere.

[377]

AVVERTIMENTO INTORNO A QUESTA TERZA EDIZIONE.

Questa terza edizione ha sei tavole; i cui disegni sono di altrettanti de' più chiari artisti d'Italia. Costoro hanno voluto farne grazioso dono; e si hanno eletta e partita così la gentile fatica; il pino e il casolare di Santa Anastasia, il Carrillo; la buca della Nunziata e il cane, il Palizzi; la morte di suora Geltrude, il Pagliano; la campagna da Albano a Roma, il Vertunni; il Tevere da porta del Popolo a Ponte Milvio, il Celentano; le catacombe di Napoli, il Morelli.

[379]

INDICE.

Notizia intorno alla Ginevra Carte 9.
Volume primo 15.
Al Lettore 19.
Parte prima 21.
Lettera di Ginevra 27.
I. 27.
II. 30.
III. 34.
Tavola prima. 35.
IV. 36.
V. 37.
VI. 39.
VII. 42.
VIII. 44.
IX. 46.
Tavola seconda. 46.
X. 48.
XI. 50.
XII. 52.
[380]
XIII. 55.
XIV. 58.
XV. 62.
XVI. 67.
XVII. 70.
XVIII. 75.
XIX. 77.
XX. 79.
XXI. 80.
XXII. 83.
XXIII. 90.
XXIV. 92.
XXV. 96.
XXVI. 99.
XXVII. 101.
Parte seconda. 109.
XXVIII. 111.
XXIX. 115.
XXX. 117.
XXXI. 121.
XXXII. 125.
XXXIII. 129.
XXXIV. 132.
XXXV. 134.
XXXVI. 138.
XXXVII. 140.
XXXVIII. 144.
XXXIX. 147.
XL. 154.
[381]
XLI. 157.
XLII. 159.
XLIII. 163.
XLIV. 169.
XLV. 174.
XLVI. 177.
XLVII. 180.
XLVIII. 184.
Volume secondo. 189.
Parte terza. 191.
XLIX. 193.
L. 198.
LI. 200.
LII. 205.
LIII. 209.
LIV. 211.
LV. 213.
LVI. 218.
LVII. 221.
LVIII. 224.
LIX. 231.
LX. 234.
LXI. 238.
Tavola terza. 243.
Parte quarta. 247.
LXII. 250.
LXIII. 253.
LXIV. 257.
LXV. 260.
[382]
LXVI. 262.
LXVII. 264.
LXVIII. 266.
LXIX. 269.
LXX. 271.
LXXI. 274.
LXXII. 276.
LXXIII. 280.
LXXIV. 285.
LXXV. 289.
LXXVI. 293.
LXXVII. 296.
LXXVIII. 301.
LXXIX. 303.
LXXX. 309.
LXXXI. 312.
LXXXII. 315.
LXXXIII. 320.
LXXXIV. 324.
LXXXV. 327.
LXXXVI. 329.
LXXXVII. 331.
LXXXVIII. 334.
Tavola quarta. 336.
LXXXIX. 336.
XC. 339.
XCI. 341.
XCII. 345.
Tavola quinta. 348.
[383]
XCIII. 348.
XCIV. 352.
XCV. 357.
XCVI. 358.
XCVII. 363.
XCVIII. 366.
Lettera del signor di Blumenfield all'Editore. 367.
Preambolo del medesimo. 369.
Tavola sesta. 374.
Avvertimento intorno a questa terza edizione. 377.

FINE.


NOTE:

1.  Codice de' delitti e delle trasgressioni politiche. Edizione ufficiale. Venezia. Per Giovan Pietro Pinelli, stampatore Imperiale Regio. 1815. Articoli 20 e 27. NOTA DELL'ED.

2.  Un somigliante caso, d'una giovinetta di poco più tempo che Ginevra, seguì l'anno trentaquattro. NOTA DELL'ED.

3.  Contrada di Napoli abitata dal più vile popolazzo. NOTA DELL'ED.

4.  Contrada di Napoli della medesima qualità del Lavinaio. NOTA DELL'ED.

5.  L'uso di condurre seco gli schiavi a centinaia, e di farli dormire per le stalle, per le cantine e per le scale, è comunissimo fra i signori russi. Ma viaggiando fuori di Russia, solo in Germania s'ardiscono a farlo, che altrove ne toccherebbero le fischiate. I soli trentasei che questo Russo della Ginevra conduceva, erano forse come un drappello scelto, del quale non aveva patito di far senza. NOTA DELL'ED.

6.  Quando questo preambolo fu scritto, non era stato ancora provveduto in Napoli, che i morti fossero seppelliti fuori della città. NOTA DELL'ED.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.