The Project Gutenberg eBook of L'arte di far debiti

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Title: L'arte di far debiti

Author: Antonio Ghislanzoni

Release date: October 13, 2014 [eBook #47102]
Most recently updated: July 26, 2016

Language: Italian

Credits: Produced by Giovanni Fini, Carlo Traverso, Progetto Manuzio
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ARTE DI FAR DEBITI ***


NOTE DEL TRASCRITTORE:


—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.

—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dellʼopera originale. Lʼimmagine è posta in pubblico dominio.

A. GHISLANZONI.


LʼARTE DI FAR DEBITI

DI

ROBOAMO PUFFISTA

COGLI ULTIMI COMMENTI

DI

ZEFFIRINO BINDOLO

MILANO

EMILIO QUADRIO, EDITORE

1881


[1]

rag

RAGIONE DELLʼOPERA

Io, Roboamo Puffista, barone senza stemma, cavaliere di tutte le industrie, gran croce dellʼordine dei Nullatenenti, dottore di scienza occulta, nato a Londra, battezzato a Parigi, educato a Costantinopoli, assente da tutte le città del globo e inquilino perpetuo della ignota dimora;

Trovandomi oggimai ridotto allʼestremo passo della vita, e sapendo per certi dati di dover tirare lʼultimo fiato innanzi alla scadenza delle mie ottocento ventiquattro cambiali girovaghe, firmate per la massima parte con nomi di fantasia;[2] Non possedendo, pel momento, altri fondi per soddisfare a miei impegni cambiarii che quattro marche da giuoco e dodici bottoni del mio quondam cappotto da guarnazionale;

E volendo, dʼaltra, parte, chiudere gli occhi senza rimorsi, e lasciare, in mancanza di altri capitali, un nome onorato e benedetto, sicchè la maggioranza della umanità mi protegga, dopo morte, dalla malevolenza e dalla calunnia dei miei vili creditori, i quali, come risulta dalle recenti statistiche della popolazione del globo, non cessano di rappresentare una minoranza impercettibile:

Ho risoluto, come risolvo, di tramandare ai posteri un breve opuscolo che si intitola lʼArte di far Debiti, già ideato a Parigi nei miei primi ozii di Clichy, abbozzato a Milano durante la mia involontaria permanenza in un piccolo appartamento della via di SantʼAntonio, e ridotto a purgata[3] lezione in questi ultimi giorni di domicilio coatto impostomi dalla malattia.

Questo opuscolo è la sintesi di tutta la mia vita, il riepilogo di tutte la mie grandi esperienze; è un immenso patrimonio che io trasmetto alla umanità tutta intera—Quandʼanche i miei creditori (gente di dura cervice!) non volessero, o fingessero di non riconoscere lʼimportanza del mio libro,—io mi tengo certo che la parte meno pregiudicata dal mio sistema economico gli farà buon viso.

Io muoio in unʼepoca di grande progresso—io scomparisco, dal mondo mentre è già prossima la maturità dei tempi, in cui lʼuniverso non rappresenterà che una immensa gabbia di... debitori.

La sentenza è paradossale—ma io tengo per fermo che fra una diecina dʼanni, la specie dei creditori avrà cessato di esistere, e al mondo non vi saranno che debitori.

[4]

Una chiaroveggenza divina irradia lo spirito dei morenti—io leggo nellʼavvenire... io prevedo la grande epoca del deluto universale.

Sulle piazze si erigono delle cataste.... Da quelle cataste..... sporgono dei volti umani... dei ceffi raggrinzati e defformi... dei nasi cogli occhiali... delle bocche immani da usurai che digrignano i denti...

Sapete cosa sono quelle cataste?—sono a milioni di migliaia le cambiali in protesto del genere umano—sono cartelle del debito pubblico, cartelle di prestiti municipali, azioni di strade di ferro e di canali—libri mastri di caffettieri e di sarti—note di brugnoni e di modiste...

Qualcuno ha messo il fuoco a quelle cataste.., Vedete le orribili fiamme! udite le strida feroci!...

Copritevi gli ocelli! turatevi gli orecchi!—è il credito che brucia—sono gli ultimi creditori che spariscono dalla faccia del mondo...

[5]

Frattanto—in attesa che i tempi maturino—vediamo, o puffisti fratelli, di scongiurare, per quanto è da noi, le calamità presenti.

Questo libricciuolo, che ben a ragione potrebbe intitolarsi il libro dʼoro, in quanto esso insegni a cavar il prezioso minerale da quella silice dura che è il credito moderno, incontrerà senza dubbio lʼuniversale favore e raccomanderà il mio nome alla perpetua riconoscenza dei posteri.

Dopo ciò lettori puffisti, non mi resta che ad invocare il genio del puff e pregarlo acciò vi tenga sempre nella sua santa custodia.

Roboamo Puffista.


[7]

c1

CAPITOLO PRIMO.

Massime generali.

Per intenderci senza spreco di parole, innanzi tutto convien adottare un vocabolo pel quale si rappresenti con esattezza matematica quel personaggio singolarmente favorito dalla natura e completato dalla scienza e dalla pratica sociale, che si propone di passare lietamente la vita a spese del credito pubblico e privato.

Il mio cognome può servire a tal uopo. Lʼuomo che intende vivere per il debito, che si sente chiamato a questa sublime missione di rigenerare lʼumanità col sistema delle imposte involontarie, si chiami dunque puffista. Accordando il nome di puffisti[8] a questa grande e nobile specialità della razza umana che fra poco avrà cessato di essere una specialità per divenire una imponente maggioranza, io sono certo di raccomandare me stesso ad una fama imperitura!

Ho emesso, senza avvedermene, un grandioso concetto, che esige una pronta spiegazione per farsi comprendere agli intelletti meno arguti. Ho detto che il puffista è chiamato a rigenerare lʼumanità col sistema delle imposte involontarie.

Non è mestieri che io vi faccia notare quanto sia orribile, assurda, contraria agli intendimenti della natura quella legge che obbliga lʼuomo a pagare il diritto dellʼesistenza coi più vili metalli, collʼoro, collʼargento, col rame coniato.

Lʼuomo!.... questo re del creato, questa nobile personificazione della intelligenza, fatto ad immagine e similitudine del creatore—questo padrone di tutta la natura animata ed inanimata—questo Dio della terra e dellʼOceano—eccolo ridotto, per una vicenda di false ed abusate teorie, a doversi privare di tutte le cose più necessarie alla esistenza, a dover perire dal[9] freddo e dallʼinedia per mancanza di pochi baiocchi!—La società è oggimai organizzata di tal guisa che al libero abitatore del globo non è più permesso di staccare un pomo da un albero, di cogliere una spica di frumento, di succhiare un grappolo dʼuva se prima non abbia trovato qualche spicciolo in fondo del suo portamonete!—A tale noi siamo giunti—povera razza umana!—che nel centro più popoloso del globo, a Londra, a Parigi, laddove concorrono tutti i prodotti dellʼuniverso, laddove fanno mostra dalle vetrine tutte le squisitezze e le ghiottornie della sapienza culinaria, un uomo—un re della creazione che non abbia due soldi nel taschino del gilet, è costretto a morir di fame... o a rischiare la galera—rubando!

Morire... o rubare! Tale è lʼorribile dilemma che la esosa politica della società impone inesorabilmente a questo animale fatto ad imagine e similitudine di Dio, ridotto a non avere moneta spicciola!

Morire o rubare!—No, perdio!—abbiamo gridato noi.—Giuraddio! mi rispondete voi col fremito di una coscienza indignata:—Nè morire, nè rubare!—Un temperamento[10] ci deve essere—se non cʼè, bisogna trovarlo—chè in verità, se non ci fosse modo di eludere il tremendo dilemma, sarebbe ad invocarsi il diluvio universale o la pioggia sulfurea per cui ebbero a perire Sodoma e Gomorra.

Via! respiri la umanità desolata!... Non provochiamo la collera di Dio colle bestemmie della disperazione! Il temperamento fu trovato—fu trovato da secoli—e questa provvidenziale invenzione noi la dobbiamo ai... puffisti.

Io non voglio morire—io non voglio rubare—ha detto il primo puffista—io ho diritto di vivere—e le leggi non hanno diritto di condannarmi perchè io mi prevalgo del mio diritto.—Dunque?...

Dunque... si viva col debito!—od anche col credito—che è lo stesso.[1]

Ma i puffisti si ingannarono! mi grida qualcuno—perocchè tutti sappiamo che le leggi condannano i debitori, nè più nè meno dei ladri; chè se il debito può prolungare di qualche tempo lʼimpunità, non riesce però a sottrarci completamente agli inumani rigori della legge![2]

Questa osservazione non può partire—scusatemi!—che[11] da un puffista di terza classe—da un puffista esordiente—da un puffista che non ha ancora studiato la grandʼarte.—Un vero puffista vi risponde che queste pene del Codice detto civile non rappresentano che uno spauracchio od un pericolo più immaginario che reale pei poveri pesciolini di acqua dolce. Noi grossi pesci di alto mare, noi sfidiamo la gracile reticella ordita di rattoppi, noi squarciamo le maglie e passiamo oltre... puffando!

Ritenete questa massima: in prigione per debiti non vanno che pochi imbecilli i quali si posero in carriera senza conoscere i primi rudimenti dellʼarte.

Ma di ciò sarà discorso più tardi e non ci mancheranno, a sostegno delle nostre teorie, esempli notevolissimi.


[12]

c2

CAPITOLO II.

Delle disposizioni naturali del Puffista.

Non è poeta chi vuole, e così non può riuscire puffista chi non abbia sortito delle disposizioni naturali convenienti allʼalta missione.

Con questa sentenza non intendo disanimare i meno favoriti della natura. Quando si dice poeta o puffista, si vogliono designare i tipi elevati delle due specie—noi sappiamo che collo studio e colla pratica molti individui dolati di mediocre talento riescono a fare dei buoni versi ed anche dei debiti di qualche rilievo.

Ma per divenire puffista di prima classe, puffista di alta società, puffista mondiale, si richiedono delle doti non comuni, e noi brevemente le accenneremo.

Il puffista di prima classe esce ordinariamente da una famiglia agiata. Se questa famiglia, oltre ad essere agiata, è anche[13] onesta, tanto meglio per lui. La buona riputazione dei parenti potrà agevolargli il successo delle prime intraprese puffistiche.

Una certa avvenenza personale può riuscire vantaggiosa. Giova la statura elevata quando si colleghi ad una certa rotondità di forme. Gli uomini lunghi e macilenti ispirano ordinariamente meno fiducia che non i tarchiati e pienotti. Il vero puffista deve aver sortito dalla natura quella impronta di distinzione che non ha tipo fisso, ma che può, aiutata dallʼartifizio, soccorrere di fallaci apparenze i caratteri più viziati e più ignobili.

Requisito indispensabile è la poca trasparenza della epidermide. Vi hanno dei momenti nella vita, per il puffista come per lʼuomo di Stato, dei momenti nei quali un rossore importuno delle guancie, un menomo turbamento della fronte può compromettere tutto un piano finanziario abilmente immaginato e tradire i più ingegnosi divisamenti. I muscoli della faccia vogliono esser tenaci, tali da poter reagire contro le interne commozioni dellʼanimo, sieno pur queste il sussulto della gioia o il brivido qualche volta inevitabile della paura.[14] Per finirla collʼaccenno delle doti fisiche, diremo che lingua sciolta, corpo elastico e gambe snelle rappresentano altrettante condizioni favorevoli per lʼindividuo che intende avventurarsi alla grande carriera.

Quanto alle doti dello spirito non è mestieri avvertire che senza un ricco corredo di intelligenza non è lecito aspirare a meta sublime—sebbene, come vedremo più innanzi, in un puffista di seconda e terza classe, alla deficienza dello spirito possa supplire un acutissimo istinto di furberia.

Il grande puffista, il puffista di primo ordine, devʼessere ad un tempo grande matematico e grande poeta.—Il genio poetico deve ispirargli i sublimi concetti, il genio matematico deve fornirgli i mezzi strategici per tradurli in atto e condurli a buon fine.

È un istinto di divinazione quello che ispira e conduce i predestinati nel campo tante volte esplorato e non mai abbastanza mietuto del credito senza base—è un istinto di divinazione quello che ci addita le fonti vitali dove a noi sarà permesso di abbeverarci e di inebbriarci dellʼaltrui,[15] senza pericolo e senza rimorso. La poesia fiuta da lontano il bosco degli agrumi; noi accorriamo con gioia, noi stendiamo la mano a cogliere il frutto. Una volta che il limone sia in nostra mano, la matematica ci suggerirà i meccanismi per ispremerne il maggior sugo possibile.

(Che i miei creditori superstiti non si offendano se io li ho paragonati a dei limoni. Dopo lʼananasso ed il cedro, non vegeta sulla superficie della terra un più nobile frutto!)

Il genio poetico non può bastare da solo a creare il perfetto puffista—ove a questo non soccorra il talento matematico, si avranno delle concezioni sublimi, degli intendimenti elevatissimi, non mai dei risultati sicuri. La biografia di molti poeti è là per attestare ciò che io asserisco. Omero non sarebbe morto di fame se alla grandiosità delle sue concezioni puffistiche avesse accoppiato il talento più positivo e la pazienza di realizzarle! Dante, il divino Dante, con tutta la sua buona volontà di puffare il mondo, non riuscì che un mediocrissimo puffista, perchè altero, disdegnoso, impaziente, non seppe mai realizzare[16] sul terreno finanziario le proprie ispirazioni. Dante, per difetto di senso pratico, non seppe cavare un quattrino nemmeno dagli uomini del suo partito—e fa compassione il pensare come quella mente immaginosa non abbia trovato altro modo per vendicarsi dei Guelfi che quello di relegarli ancora viventi nelle bolgie dellʼinferno.—Oh quanto più solenni, e più tremende, e più meritevoli di fama sarebbero riuscite le vendette del divino poeta, se oltre ad aver anatemizzati i proprii avversari politici cogli irosi suoi carmi, li avesse anche... puffati!...

Ma questo talento del puffare per unʼidea elevata, del puffare per ispirto di parte, del puffare ad onore ed incremento delle lettere, a benefizio della politica e delle arti, a maggior gloria della patria, nellʼinteresse della libertà, della democrazia, per la redenzione di tutto il genere umano—rendiamo giustizia al secolo—questo talento è proprio dellʼepoca nostra. I poeti, i pensatori dellʼantichità, sotto questo aspetto, impallidiscono al nostro confronto!—Rari, nei secoli trascorsi appariscono gli uomini, nei quali si riunissero in uguale[17] misura queste due doti, lo spirito creatore e il talento del calcolo.—Oggigiorno la fantasia e la speculazione si sono dati la mano; oggidì nessuno può esser grande nella letteratura e nelle arti, che non congiunga ad una vivace e forte immaginazione anche il genio più positivo delle matematiche. Epperò sono rari i poeti e i letterati, che non sieno al tempo istesso abilissimi puffisti. E dove per poeti si intendano anche quegli spiriti ardenti che esalano il loro patriottissimo in declamazioni o in flebili elegie, mentre calcolano sulla dabbennaggine dei credenti per ridurli alla condizione di creditori, si vedrà la ragione per cui lʼarte del puffare abbia raggiunto ai tempi nostri così prodigioso sviluppo.

Per finirla colle doti morali del puffista, eccovi in abbozzo il suo ritratto psicologico.—Mente immaginosa e guardinga; fecondità di concezioni e prudenza di fatti; arditezza somma e somma cautela—tenacità di propositi e disinvoltura di mezzi. La frenologia non ha mancato di esaminare diversi cranii di individui vissuti nelle più alte regioni del puff—in tutti questi cranii si notarono prodigiosamente sviluppati gli[18] organi della acquisività, della immaginazione, del calcolo, e perfino—ciò che recherà meraviglia—gli organi della prodigalità e della filantropia.

Che il puffista sia prodigo... della roba altrui, è cosa naturalissima—noi dimostreremo più tardi con esempii desunti dalla cronaca contemporanea, come, senza elidersi o contraddirsi, possano svilupparsi nel medesimo individuo e agire di pieno consenso i due organi della acquisività e della filantropia.—Il puffista, in rapporto alla società, è una pompa che aspira le acque stagnanti per projettarle sui campi insterili a produrvi la vegetazione.

Non accennerò alle disposizioni naturali che ordinariamente si riscontrano nei puffisti di seconda e di terza classe.—Tenete per fermo questa massima che: tutti gli individui forniti di ragione possono qual più qual meno puffare il loro prossimo. Tutto sta a non prendere errore nella designazione della vittima, e a persistere con tutte le pratiche suggerite dallʼarte perchè questa dia tosto o tardi il suo prodotto.


[19]

c3

CAPITOLO III.

La vittima.

Cosa si intende per vittima nel linguaggio puffistisco?

La vittima è quellʼente individuale o collettivo destinato a rappresentare, in un contratto puffistico, la parte passiva, quella parte che più tardi gli accorderà il nobile titolo di creditore.

Tutto gli individui della specie umana possono in date circostanze divenir vittima di un contratto puffistico—ad eccezione di quei nullatenenti che non danno veruna promessa di tenere in un avvenire prossimo o lontano.

Il grande puffista, il puffista di prima classe non può umiliare il suo vasto talento alla designazione di una vittima individuale. Il puffista di prima classe non può esercitare il suo genio che sopra una vittima collettiva. Il mondo è tutto per lui. Egli non ha bisogno di studiare la società e le persone che lo circondano—egli segna i[20] suoi piani sulla carta geografica—egli invade i territorii, le provincie, le città. Egli sa che dappertutto cʼè pastura pei suoi denti. Simile allʼavoltoio si lascia cadere a piombo dalle regioni nuvolose—il suo istinto gli dice che la terra è popolata di pecore—e che dove ci sono pecore, cʼè lana da tondere, ci sono costolette da friggere.—La vittima del puffista di prima classe non può essere che un ente collettivo!

Non a caso vi ho detto che questo avoltoio si lascia cadere a piombo delle regioni nuvolose. Quando un puffista di prima classe incomincia ad esercitare la sua missione in una città, è assai difficile che alcuno sappia dire da qual porta egli vi sia entrato, e in qual giorno vi abbia preso dimora.—È un russo, è un lord inglese, è un ex-pari di Francia, è un segretario del Bey di Tunisi, è un cavaliere della Guadaluppa... Donde viene? a che viene? Non importa si sappia. Gli è appunto sullʼincognito, sul misterioso, che deve basarsi il grande edifizio.... Vedete quei volti estatici e balordi? quelle bocche spalancate? quegli occhi ebeti di meraviglia? Sono le[21] vittime in germoglio.—Aspettate! fra una settimana... fra un mese... voi mi darete le nuove del vostro incognito!

Perchè vi formiate un concetto del puffista di prima classe, perchè vediate di un solo tratto comʼegli possa riuscire a mistificare in un giorno una intera popolazione; voglio rammentarvi una storiella avvenuta a Como or fanno quarantʼanni circa—una storia di cui molti non avranno perduto il sovvenire, coloro in specie che ebbero la fortuna di rappresentare in quella occasione la parte di vittime.

Nel settembre dellʼanno 1836, verso lʼora di mezzodì, un elegante giovinetto bizzarramente vestito usciva dallʼalbergo dellʼAngelo col portamento di un nobile e brioso puledro che fiuti la carriera per slanciarvisi di galoppo—era alto, di struttura quasi atletica, di viso rubicondo; e il bruno dei suoi capelli, il fuoco dello sguardo, la pienezza delle gote, la rotondità della sua corporatura porgevano il tipo di un meridionale puro sangue. Ma era convenuto che quel signore eccentricamente abbigliato di un soprabito a scacchi verde-pavonazzo dovesse chiamarsi lʼinglese—e il nostro[22] puffista (affrettiamoci a designarlo col suo titolo più competente) si lasciava chiamar inglese col miglior garbo del mondo.

A quellʼepoca tutti gli inglesi erano ritenuti milionari come più tardi lo furono i russi. Oggigiorno queste due razze hanno alquanto perduto del loro credito proverbiale—e un puffista che sappia il suo conto non oserebbe in Italia avventurarsi ad una impresa gagliarda senza assumere il titolo di indiano o di brasiliano.

Il nostro puffista si trattenne alcuni minuti sulla porta dellʼalbergo ad esplorare la piazza... di Como. A quellʼora molti cittadini e villeggianti accorrevano verso il porto—era imminente lʼarrivo del battello a vapore.—Lʼinglese non era uomo da compromettere con degli indugi la riuscita delle sue concezioni strategiche.—Egli adocchia a poca distanza dallʼalbergo una carretta di melaranci—muove diffilato a quellʼindirizzo—e cerca colle sue maniere di attirarsi dʼintorno la folla dei curiosi, in cattivo italiano si fa ad interrogare il fruttivendolo:—quanto per pomo giallo?—Cinque soldi lʼuno, milord!—Quanto per dozzina?—Due svanziche, signor milord!—Quanto[23] per tutti... pomi gialli? Saranno venti dozzine circa... per fare una sola parola... trattandosi di servire milord... sarei disposto a venderli tutti per un marengo...!

La folla dei curiosi va sempre ingrossando... e intorno a milord si forma una corona di occhi spalancati, di bocche aperte che stillano meraviglia.

Presto, il colpo di grazia, milord—il salto degli uomini, la tripla carambola,... e siamo vincitori!—Il nostro puffista, dopo una breve pausa che raddoppia lʼattenzione dei circostanti, con voce montata di due toni e collʼaccento più inglese domanda al fruttivendolo: «e quanti per tutti palli oranzi con piccola carretta...?

—Milord...?

—Dico... quanto domandare... per tutta carretta... con tutti palli oranzi di dentro...?

Il fruttivendolo esita un poco—egli non sa risolversi a vendere la carriuola che è la sua bottega, il magazzeno mobile delle sue merci.

Ma alla fine incoraggiato dagli astanti che gli accennavano collʼocchio di non lasciarsi sfuggire la buona occasione, e comprendendo che lʼinglese è disposto a comperare[24] la carretta pel doppio del suo valore—con voce fioca e tremante profferisce la domanda: centocinquanta svanziche per cedere tutto!

Lʼinglese non replica. Egli accenna al fruttivendolo di seguirlo colla carretta—attraversa la città—sale per le contrade più popolate, fin oltre la porta delle due torri, e venuto al largo del sobborgo, incomincia a lanciare i melaranci in questa e in quella direzione, dimostrando la più matta gioia nel vedere uno stuolo di ragazzi e di adulti i quali si accapigliano e ruzzolano nel fango per contendersi i frutti—Lʼinglese frattanto calcolava mentalmente: «questi frutti io me li farò pagare più tardi dalle vittime al prezzo approssimativo di duemila franchi cadauno!

Alla sera, tutta la città di Como, tutte le ville del Lario narravano la eccentricità dispendiosa del giovane milord, il quale, dopo aver pagato al fruttivendolo le centocinquanta svanziche patuite, gli aveva anche lasciato la carretta.

Dopo quellʼavvenimento, milord per circa una settimana si rese invisibile.—Egli stette chiuso nel suo piccolo appartamento[25] allʼalbergo dellʼAngelo, non dʼaltro occupato che di mandare in giro a tutti i villeggianti del lago le sue carte di visita, che portavano il nome di Lord Boldegrits—Tutta la alta aristocrazia del lago, tutte le donne, tutte le fanciulle sospiravano il momento di vedere e di conoscere personalmente quel ricco figlio di Albione che aveva destato tanto rumore colle sue prodigalità.

Ma lord Boldegrits, prima di mietere nel gran campo delle vittime, voleva assicurarsi il successo con un prologo più completo. Dopo una settimana di reclusione volontaria, il nostro puffista discende inaspettatamente sul porto, sceglie collʼocchio un battello, vi si slancia colla snellezza di un cerbiatto, e ai barcajuoli che sorpresi e beati attendono i suoi cenni, ordina di vogare verso una spiaggia deserta.

—Milord... preferirebbe...?

—Luogo... qualunque... dove bagnarsi... avete capito?

I due barcajuoli invidiati, danno di mano ai remi e vogano con impeto miracoloso.

Approdati ad un spiaggia deserta, milord balza dalla barca, si spoglia rapidamente,[26] si tuffa nelle acque e guizza come un luccio per oltre mezzʼora.

Finito il bagno, eccolo sulla riva tutto grondante e assiderato—Goddem...! non portato lingeria per seccarmi!... qui morir di umido... di ghiaccio...!

I barcajuoli si guardano lʼun lʼaltro—non sanno suggerire alcun espediente—non osano offrire le loro camicie di tela grossolana per asciugare le membra del nobile milionario.

Ma lʼinglese si batte la fronte come un uomo colpito da una improvvisa ispirazione: e volgendosi ai barcajuoli: «quanto costare questa barca... se io voglio comperare...?

Dopo aver scambiato col compagno alcuni gesti insignificanti, uno dei barcajuoli risponde: «trattandosi di far piacere a milord, noi saremmo disposti a cedere la nostra barca per mille svanziche.»

—Ebbene! io prendo la barca!... a patto che la tiriate fuori dellʼacqua... e bruciate subito grande incendio per asciugami....

I due barcajuoli, sbalorditi da quella proposta, esitano alquanto ad obbedire—ma dietro insistenza del lord, che già manovra di pugni e minaccia di voler bozzare risolutamente[27] per ridurli al suo volere, essi tirano in secco la navicella, spezzano i remi ed il timone, affastellano gli attrezzi combustibili, e finalmente risolvono di dare il fuoco alla catasta. Mezzʼora dopo, immensi globi di fumo si elevano dalla spiaggia—la barca prende fuoco crepitando, e lʼinglese, tutto nudo, si abbrustolisce dinanzi a quellʼincendio, e applaudendosi del suo trovato, già enumera le vittime che dovranno pagargli la spese.

Questo secondo stratagemma infiammò di entusiasmo tutti i villeggianti—di là ad una settimana, Lord Boldegrits era lʼargomento di tutte le conversazioni, il lion della società più aristocratica, lʼidolo delle signore. Per un sorriso, per una stretta di mano di Lord Boldegrits, i più doviziosi ed orgogliosi proprietari delle ville comensi si sarebbero rovinati.

Inneggiate al glorioso puffista!—vedetelo signore di unʼintera provincia—divenuto arbitro dei milioni altrui per il tenue sacrifizio di mille e centocinquanta svanziche?—E voi, eterni incorreggibili allocchi della classe più elevata e, a dir vostro, più intelligente, accorrete in massa[28] a deporre i volontari tributi a questo idolo abbagliante.—I banchieri di Lord Boldegrits sono in ritardo—presto!—offritegli una bagatella di trentamila lire tanto chʼegli non rimanga, Lord Boldegrits, in diffetto di spiccioli!—Lord Boldegrits ha perduto una somma enorme sulla parola—a voi, buoni figli di S. Ambrogio!... prima che passino le ventiquattro ore pensate a fornirgli lʼoccorrente—per adempiere aʼ suoi impegni dʼonore.... Lord Boldegrits vi rimetterà una cambiale pagabile dappertutto a vista dʼorbo—e frattanto somministrerà degli a conti segreti a vostra moglie... ed anche, se più vi piace, sposerà vostra figlia nel prossimo mese che non ha mai da venire....

Come sia finita la storia di Lord Boldegrits è assai facile immaginarlo a qualunque sia mediocremente dotato di spirito puffustico.—Lord Boldegvits, dopo la villeggiatura fu condotto a Milano fra le ovazioni e le feste deʼ suoi ospiti milionarii—egli rimase nella città di S. Ambrogio fino allo sparire del dicembre—e la sera di Santo Stefano, dppo essersi accapparrato collʼultimo puff un palco di prima fila per[29] assistere alla solenne inaugurazione del teatro alla Scala, parti durante il secondo atto dellʼopera... per regioni inesplorabili.—Due mesi dopo si diceva in Milano che Lord Boldegrits aveva puffato ai suoi numerosi ammiratori la somma complessiva di lire duecentomila.—Non sʼè ancora detto sʼegli abbia fino ad ora pagati gli interessi del cospicuo capitale.

Io vi ho dato un esempio di vittima collettiva; vi ho dimostrato come la efficienza del puffista di prima categoria possa esercitarsi contemporaneamente sopra molti individui, e conquistare delle città, delle intere provincie con poche mosse strategiche.

I puffisti di seconda e terza classe debbono andare più cauti nelle loro operazioni. Concesso ai primi di attaccare contemporaneamente quattro o cinque individui; ma al momento decisivo, al punto culminante della lotta, io li consiglio a voler imitare il ben riuscito stratagemma di quellʼultimo Orazio, il quale, rimasto solo a combattere i tre avversarii Curiazii, trovò modo, lʼuno dellʼaltro discostando, di vincerli tutti.

Il puffista di terza classe, quello che è chiamato a rappresentare il partito moderato[30] della specie, non deve mirare che ad un solo individuo, e in quello concentrare tutte le facoltà della sua mente, a quello dirigere tutti gli sforzi della sua volontà. Ai timidi, ai prudenti, che si tengono paghi dei piccoli trionfi, noi daremo alcune norme infallibili per la buona scelta della vittima, indicando al tempo stesso le maniere più acconcie dʼimpadronirsene e di cavarne il miglior vantaggio possibile.

Abbiamo detto più sopra che ogni individuo della specie umana, il quale non appartenga alla categoria dei nullatenti, può divenire una vittima del puff!

A tale proposito io vi esporrò delle massime generali, che a taluni, ai meno versati nella gran scienza, sembreranno paradossi.

Lʼavaro più facilmente si lascia puffare che non il prodigo—lʼoblio di questo principio produce ordinariamente dei crudeli disinganni negli inesperti e mal consigliati puffisti!

Il fenomeno si spiega facilmente.—Al prodigo avviene di raro di trovarsi in possesso di denaro superfluo—e quando ciò gli avvenga, egli non è mai padrone dei[31] proprii tesori, in quanto i suoi istinti liberali lo traggano a permutarli inconsideratamente in gozzoviglie e diletti.—Voi non avete tempo di scoprire le sue ricchezze, dʼideare il vostro piano di attacco, che già il prodigo si trova allʼasciutto, in neccessità di dover puffare anzichè in condizione da essere puffato!

Il caso contrario si verifica nellʼavaro. Questi i suoi tesori accumula ed accarezza—nel contemplare le proprie dovizie, nel moltiplicarle, è riposto il segreto della sua felicità. Quando voi vi accingete a scavare in codesta miniera, avete per voi la certezza chʼessa racchiude dellʼoro. Questo è un dato positivo sul quale potete contare. Che importa se lo scrigno è serrato a doppio chiavistello, se lʼoro è sprofondato in una bolgia di ferro?—Quel medesimo istinto di cupidigia pel quale fu indotto lʼavaro ad ammassare, a seppellire tante dovizie, quel medesimo istinto vi fornirà la chiave per aprire lo scrigno di lui. Fatevi avaro collʼavaro, e i suoi tesori vi apparterranno.—Vi narrerò, a tale proposito, una breve storiella. Essa varrà meglio di qualsivoglia argomento a dimostrarvi quanto ci sia di vero nella sentenza da me esposta.

[32]

Nellʼanno 1849 io mi trovava a Parigi, dove esercitavo sopra amplissimo campo la mia grande arte.

In sul finire di marzo, venne a trovarmi un antico collega di università, un puffista di terza categoria, ma dotato, per le piccole guerriglie, di un acume infallibile e di una tenacità di propositi degna di maggiori fortune.—Quel povero amico mi si presentò allʼHôtel des étrangers, dovʼero alloggiato, in abito alquanto dimesso; mi narrò dʼaver consumato dietro una sottana un patrimonio di ottomila franchi guadagnato a Lion colle sue piccole industrie (puffistiche).—Mi chiese cinque lire, promettendomi la restituzione per una delle... domeniche... prossime.—Ordinai al garzone dellʼHôtel di versare nelle mani dellʼamico quellʼatomo di moneta spicciola—e poi—stringendogli la mano,—gli domandai con quali intenzioni si fosse recato a Parigi.

—Per continuare il mio piccolo commercio, rispose quegli sorridendo.

—Già... cʼintendiamo...! il commercio dei piccoli puff! E tu briccone hai voluto incominciare da me...

[33]

—Dal mio primo maestro... dallʼuomo, a cui debbo quelle prime nozioni....

—Con quegli abiti indosso, con quel redingot cascante e sbottonato, con quegli scarponi da montanaro, a Parigi non riuscirai a nulla. Io ti ho detto più volte che il primo anello della interminabile catena dei puff vuol essere battuto nella bottega di un sarto... Pensa dunque ad abbigliarti un poʼ meglio... ovvero... senti, briccone! pensiamo un poco...! voglio fare anchʼio qualche piccolo sacrifizio per un fratello.... Gli abiti non mi costano nulla; i tailleurs delle loro maestà gli imperatori dʼAstria e del gran Mogol mi hanno fornito la guardaroba a prezzo... di affezione.—Vuoi tu approfittare di un abito completo da soirée che ha implorato questa mattina gli onori della mia anticamera...?

—Unʼabito da soirée!—rispose con una smorfia sardonica il mio piccolo puffista—ma ti pare?... questi non sono istromenti da par mio... Io lavoro assai meglio col mio rèdingot sdruscito e i miei grossi scarponi!

Io mi sentii umiliato da quella risposta, e da quel fare derisorio—e collo sguardo sollecitavo una spiegazione.

[34]

—Tu devi sapere,—rispose lʼamico indovinando la mia curiosità—tu devi sapere che io ho già trovato a Parigi la mia vittima—intendiamoci—la mia piccola vittima!—un vecchio usuraio romagnolo, il quale, dopo aver servito per ventidue anni il governo del papa in qualità di secondino, e poi in qualità di custode delle carceri ad Ancona, essendo riuscito a metter assieme coʼ suoi risparmii un capitale di circa quattordicimila lire, è venuto a Parigi tutto solo onde intraprendere qualche speculazione sicura. Tu non puoi immaginare quando taccagno e sordido colui sia. Da circa ventʼanni porta in capo un cilindro rossiccio chʼegli dice aver ereditato da suo zio—la sua marsina è rasa come il mento dʼun canonico, sudicia e cascante come una vecchia ragnatela piovuta dal camino.—Non puoi credere quanto io fossi desolato lʼaltro ieri nel dovermi presentare a lui con questo rèdingot che ai tuoi occhi apparisce cosi modesto! Quante storie ho dovuto contargli... quante favole, perchè il mio lusso non lʼadombrasse! Memore delle tue lezioni, io so che il segreto del mio successo deve consistere nel gareggiare[35] di pitoccheria, di sordidezza con quello sporco animale!

Mio bravo e degno scolaro!... Ma sentiamo cosa hai fatto... e cosa intendi fare?

—Lʼaltro giorno, per esempio, lʼho invitato a pranzo...

—Cattivo principio!... Un avaro profitta volentieri dei pranzi altrui, ma al tempo stesso concepisce il massimo disprezzo per chi usa la cortesia di invitarlo.... Per ogni boccone chʼegli inghiotte, non può che ripetere in cuor suo: questo imbecille mi fa le spese della giornata... si può essere più bestia?... dar da mangiare ad un altro!

—Io sapeva che il mio romagnolo avrebbe avuto questo pensiero.... Ma io aveva preparato il mio piano... io mi era preposto di regalargli un tal pranzo, che egli, quel miserabile taccagno, avesse a rimanere sorpreso deʼmiei talenti economici!

—Briccone!... Sentiamo... un poco...

—Lo condussi ad un piccolo restaurant nella contrada della Fontaine Moliere—un restaurant molto celebre a Parigi dove si pranza per sedici soldi.... Tu certo non conosci quel luogo....

—Ci sono stato qualche volta... nei giorni più secchi... ma non me ne sovvengo...—Il[36] mio romagnolo cominciò a far le meraviglie che in una città quale Parigi si potesse per la modica somma di sedici soldi avere un pranzo di due piatti, minestra, piccolo giardinetto, un bicchiere di vino od una bottiglia di birra, e pane a discrezione... Sopratutto egli rimase colpito del pane a discrezione!...—Vedi, io gli diceva mettendomi a tavola, quando mi permetto uno di questi pranzi di lusso, non dimentico mai di indossare il mio grande rèdingot da quattordici saccoccie? Io non esco mai dal restaurant senza portar meco una provvigione di pane che mi basti per tutta la settimana. Di tal modo questo pranzo, che rappresenta un valore nominativo di sedici soldi, non viene a costarmi che sedici centesimi!—Il mio romagnolo, in udirmi, spalancò una bocca da ippopotamo... Da quella foce bavosa io vidi colare ad un tempo la sorpresa e lʼammirazione. Più tardi, mangiando, si venne a ragionare dei varii restaurants di Parigi, ove si danno pranzi al massimo buon mercato—promisi di condurlo il giorno seguente in una gargotte dove al prezzo di sedici soldi avremmo mangiato lautamente tutti e due.[37] A tale annunzio il mio uomo divenne pallido dalla commozione—mi stese la mano come non aveva mai fatto, e col pianto sugli occhi, come chi violentemente reagisca contro la propria natura:—buon amico, mi disse, voi permetterete... non vorrete farmi il torto... domani... cosi alla buona... insomma io vi invito... a pranzo al restaurant... che ora avete nominato... a patto... come voi dicevate... che la spesa non oltrepassi gli otto soldi... per bocca!... »

Il racconto del mio piccolo puffista mi destava il più vivo interesse. Non avrei mai immaginato che a Parigi esistessero delle gargottes cotanto economiche da fornire un pranzo per otto soldi. Io già cominciava a comprendere il piano strategico del mio povero allievo; ma pure, ondʼessere informato di tutto, lo pregai di continuare la sua storia.

«Per dirtela in brevi parole—proseguì lʼamico—allʼindomani, verso le ore quattro, io mi recai in compagnia del mio splendido anfitrione nella gargotte du Chat-gris in via dei Mathurins.—Scendemmo una diecina di gradini—ci trovammo in una camera oscura, tutta ingombra di piccoli[38] tavoli che attendevano dei commensali.—Su quei tavoli erano schierate delle catinelle ricolme di pane affettato—quel pane non aveva colore—ciascuna fetta rappresentava una specialità del prodotto.—Noi sedemmo ad uno dei tavoli collʼaria di due epuloni decaduti—Il mio romagnolo mi faceva notare che la sala era più che decente, che dalle casseruole lontane esalava un profumo squisito, che infine tutto era pel meglio nel migliore dei restaurants possibili.

«Frattanto entravano degli altri commensali.—Il padrone della gargotte andava in giro a complimentare i suoi clienti, distinguendo di una particolare attenzione alcuni individui della specie più vorace, i quali, a giudicarne dallo sguardo, minacciavano dʼinghiottire per antipasto i cucchiari e le forchette di stagno.—Quando tutti i posti furono occupati, il direttore dello stabilimento diede lʼannunzio del pasto.—Unʼenorme caldaia di brodo fu portata nel mezzo della sala; gli abituati della gargotte accorsero intorno a quella colle loro zuppiere, e una donna di circa sessantanni, montata sovra una seggiola, diede principio alla solenne distribuzione del[39] brodo.—Questa distribuzione si operava con un sistema tuttʼaffatto parigino.—La grande prètresse della cerimonia tuffava nella caldaia una lunga canna da clistero, e dopo averla riempita di quellʼonda senza, nome, la schizzava, a discrezione degli affamati, nelle ampie scodelle che stavano in giro.—Il mio romagnolo si levò in piedi come gli altri—io balzai dietro lui, e, raccolta la nostra porzione di liquido, tornammo a sedere presso la tavola per ruminare tranquillamente e a tutto piacere la nostra zuppa. Dopo quel pasto, venne servita una frittura di color tetro, bituminosa e salata, una frittura alla quale i più nobili visceri di tutto il regno animalesco avevano portato il loro tributo.—Quella frittura era abbondantissima—ragione per cui il mio romagnolo la trovò eccellente!

«Durante quel pasto, cominciarono le intimità, le confidenze reciproche. Lʼamico mi pose al fatto dei suoi piccoli segreti che in parte io già conosceva, si fece a discutere meco i suoi piani, mi chiese dei consigli.... Era il varco a cui io lo attendeva.... Un uomo che domanda consigli sul modo dʼimpiegare i suoi capitali... è una[40] vittima che si offre spontanea, è un piccione che vuoi essere spiumato ad ogni costo.

«—II consiglio chʼio vi posso dare—gli risposi trangugiando un morsello di frittura che forse il giorno innanzi era un turacciolo di bottiglia—il consiglio che io vi posso dare è quello di non accingervi in questo dannato paese a veruna speculazione, quando non siate ben certo che al termine di un mese ogni vostro quattrino debba moltiplicarsi nelle proporzioni che che ora sto per descrivervi.

«Ciò detto, io mi levai di tasca un portafogli, e colla matita gli dimostrai a tutto rigore di cifre qualmente da un sol quattrino si possa, in sedici giorni ricavare lʼinteresse di 325 lire, e in un mese di oltre un milione, a patto che il prodotto di questo prodotto vada ogni giorno raddoppiando.

«Il mio uomo era stordito dalla logica dei miei calcoli—egli fissava le cifre collʼocchio del basilisco—il suo collo si era allungato di due spanne. Malgrado la fiera tensione di tutte le membra, di tutti i sensi, il mio romagnolo non sapeva capacitarsi.

«Io dovetti spiegargli il mio sistema col denaro alla mano.

[41]

«Vedete, gli dissi, questo è un centesimo: se nel termine di 24 ore voi riuscite a raddoppiarlo, domani questo rappresenterà necessariamente il valore di due. Or bene, come avete raddoppiato lʼuno, colla medesima facilità, voi otterrete che per lʼindomani si raddoppi anche il due—eccovi quattro centesimi, che il dì seguente diverranno otto, poi sedici, poi trentadue, poi sessantaquattro, e via via....

«Provatevi a tirare innanzi con questo metodo, e al termine di due anni, il vostro quattrino avrà prodotto una tal cifra di milioni da imbarazzare tutti i calcoli umani.

«Io non posso descriverti lʼeffetto di questo mio piano... puffistico!

«Ti basti sapere che il mio romagnolo, dopo aver pagato quel lauto pranzo di otto soldi per cadauno, volle anche costringermi ad accettare un caffè da cinque centesimi. Quellʼuomo è mio!.... Non mi lascia più.... Ieri mattina è venuto a svegliarmi alle ore cinque.... Ha voluto mostrarmi una parte deʼ suoi capitali—un portafoglio contenente dodici mila franchi in biglietti di banca, e una cinta di cuoio imbottita di napoleoni doppi....

[42]

«Due giorni ancora... e se il diavolo non ci mette la coda... la vittima farà spontaneamente la rassegna dei suoi beni nelle mani del tuo umile ed indegno scolaro... del tuo piccolo puffista!...»

Questa istoria dellʼamico mi diverti infinitamente, ed io non ho cessato mai di applaudire a me stesso dʼaver contribuito in quel giorno, col mio obolo da cinque franchi, ad agevolargli la riuscita di quellʼameno colpo puffistico. Due settimane dopo, il mio piccolo allievo era divenuto socio e amministratore del romagnolo taccagno—il quale, dopo avergli confidato tutto il suo patrimonio, lo aveva spinto a partire per le Antille onde intraprendervi con sollecitudine la coltivazione del cafè-sucrè. Il mio piccolo allievo era riuscito a persuadere la sua vittima, che mettendo i semi del caffè comune ad ammollirsi per ventiquattro ore in una infusione di melassa, questi semi avrebbero prodotto un caffè perfettamente raddolcito e tale da potersi servire senza zucchero.

Il romagnolo sta ancora attendendo i dispacci che gli annunzino dalle Antille i primi risultati di questa grandiosa non meno che immaginosa speculazione!


[43]

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CAPITOLO IV.

La corda sensibile.

Tutto sta a trovare la corda sensibile. Il puff è come lʼamore.—Volete farvi amare da una donna?—Convien toccare e solleticare la sua corda sensibile.—Il medesimo processo si tiene per spremere lʼoro da una vittima.

Lʼaneddoto che più sopra ho riferito spiega in parte il meraviglioso segreto. La corda sensibile del vecchio romagnolo era lʼavarizia, e il mio piccolo allievo, fingendosi avaro a sua volta, raggiunse il suo nobile intento.

Studiate attentamente le tendenze e le passioni della vostra vittima, e innanzi tutto abbiate sempre in mente che la vanità costituisce il principale elemento del carattere umano.—Da questa verità fisiologica emerge necessariamente che lʼadulazione vuol riputarsi uno degli ausiliari più efficaci e[44] potenti per bene iniziare e condurre a buon fine una operazione puffistica.

A Firenze, anni sono, io piantai uno splendido puff ad un ricco banchiere, il quale aveva la debolezza di credersi poeta. Nulla più detestabile deʼ suoi versi. Egli si piccava di improvvisare sonetti a rime obbligate, e una volta lanciato nella carriera, non vi era più modo di arrestarlo. Quellʼuomo era il terrore dei circoli—quandʼegli apriva lo scartafaccio per leggere le sue interminabili pappolate—quandʼegli, annunziandosi invasato dallʼestro, domandava enfaticamente delle rime, il vuoto si faceva intorno a lui e gli sfortunati chʼerano costretti ad ascoltarlo, si contorcevano sulle seggiole come i gatti a temporale imminente.—Orbene: io mi ebbi il coraggio di rimanere parecchie notti da solo a solo con lui a proporgli dei temi e delle rime e ad ascoltare le sue narcotiche stramberie. Quellʼuomo in brevissimo tempo prese ad adorarmi. Quandʼegli declamava i suoi versi, io spalancava certi occhiacci da mettere il brivido ai morti; io mi asciugava la fronte ad ogni tratto, io piangeva, sospirava, io balzava tratto tratto dalla seggiola e mi faceva a percorrere la[45] sala come un invasato. Una volta questa commedia durò dalle sei della sera fino alle quattro del mattino. Il banchiere era spossato dalla lunga declamazione: dal mio canto io insisteva perchè mi compiacesse di un ultimo sonetto.—No! non è possibile... La mia vena è inaridita... le muse mi abbandonano...! rispondeva il banchiere fissando le rime con occhio torbido e sonnolento.—Come mai? questa sera vi siete stancato di buonʼora, gli dissi levando di tasca lʼorologio: si è appena finito di pranzare...!—Sono le quattro del mattino! rispose il banchiere ingenuamente, dopo aver consultato il suo cilindro dʼoro sfavillante di brillanti.—Le quattro del mattino! gridai io, balzando in piedi colla espressione del più vivo disappunto—possibile!... ma io sono dunque rovinato!... Ah! banchiere... il cuore me lo diceva che un giorno o lʼaltro, in grazia dei vostri versi, avrei commesso qualche storditaggine!... Figuratevi che si tratta...—Ebbene: si tratta?... domanda ansiosamente il mio uomo spaventato dal mio atteggiamento—si tratta?—Via! non vi allarmate, signor poeta! soggiungo io con voce più calma—il piacere che mi hanno[46] dato i vostri versi, le emozioni di questa dolce e troppo breve serata valgon bene il sacrifizio di diecimila franchi.... Cosa sono finalmente, per un mio pari diecimila franchi?.... Una bagatella,... una inezia.... Dʼaltronde non è detto che siano perduti...—Ma signore... se credete che io possa...—Non vi incomodate, banchiere... non datevi pena per questo incidente.... Si trattava di un amico... voi sapete... di quel Lord Midletton, al quale due sere sono ho prestato una piccola somma sul giuoco.... Non ho mai conosciuto un giuocatore più sfortunato di Lord Midletton... tanto è vero che in poche settimane di soggiorno a Firenze egli si è dissestato.... Orbene, questa notte alle undici agli doveva partire per Londra e si era contenuto che io mi recassi da lui per ritirare la mia piccola somma. Vi confesso che in questo momento quel denaro non mi avrebbe dato incomodo.... Il mio corrispondente di Bruxelles è in ritardo... ed è questa la prima volta che, per favorire un amico, mi accade di trovarmi in imbarazzo.... Ma è probabile, anzi probabilissimo che lord Midletton abbia incaricato qualcuno di trasmettermi la somma.... Domattina farò delle indagini, e[47] nel caso...—E nel caso che queste indagini riuscissero a nulla, soggiunse la mia vittima collʼaccento solenne del banchiere danaroso, io voglio ben sperare che non dimenticherete esistere a Firenze un poeta eccezionale, nel cui scrigno vi è sempre un fondo di cinquecentomila franchi per far onore agli impegni della banca e per favorire qualche amico.—Spero che non ci sia questo bisogno, risposi, ma nel caso che lord Midletton mi avesse dimenticato io mi guarderò bene dal ricorrere ad altri che a voi. Ma badate che io sono più esigente di quello che voi forse immaginate. Io non mi ridurrò mai ad accettare il vostro grazioso prestito se con quello non mi accordate il favore che più volte vi ho dimandato, di pubblicare per le stampe il vostro immortale poema sulla Trasmigrazione delle anime, che io ritengo la più meravigliosa opera uscita dal cervello umano.

Il banchiere sorrise come un ebete, e stendendomi la mano, con voce soffocata dalla beatitudine mi disse:—non mi tentate... non fatemi violenza... non imponete dei patti impossibili.... Io posso bene affidare qualche miliajo di lire ad un galantuomo pari vostro—ma[48] gettare le mie perle nel fango?—via! questo sarebbe troppo! Non vi sono che due uomini nellʼetà presente che possano comprendere la mia Trasmigrazione—questi due uomini siamo io e voi!

Allʼindomani verso le quattro, scrissi una lettera al banchiere per fargli capire che io era assai ben disposto ad accogliere i dieci mila franchi a titolo di prestito, ma al tempo stesso io insistevo per la pubblicazione del poema.

Il banchiere mi inviò tosto i dieci mila franchi in tanti biglietti della banca francese e con quelli il manoscritto della Trasmigrazione che egli mi dedicava collʼepigrafe: allʼuno dei due.

Io chiusi la Trasmigrazione delle anime nella valigia, e dopo ventiquattro ore trasmigrai corpo ed anima per regioni ignote.

Troppo lungo sarebbe il narrarvi i grandi e molteplici risultati che io ottenni solleticando la corda sensibile di diversi individui.—Gli esempi che ho riferiti in questo e nel capitolo precedente, aʼ miei lettori perspicaci, dimostreranno lʼimportanza e lʼefficacia del mio metodo.


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CAPITOLO V.

Dellʼordine del puff.

La prima vittima del puffista che vuol slanciarsi nella brillante carriera senza incontrare ostacoli, senza incorrere nei lacci che insidiano ordinariamente i primi passi di tutte le carriere umane, vuol essere il sarto.

Una volta che siate riuscito a puffare un sarto, una volta che abbiate indossato, senza pagarlo, un abito completo da gentiluomo alla moda, eccovi padrone del campo, eccovi sollevato di un tratto nelle più alte e fortunose regioni del puff.

Io prevedo le vostre objezioni.—Voi mi direte che il vestiario non basta—ci vogliono, a completarlo, degli accessorj che il sarto non può fornire—le lingerie, la scarpe, il cappello....

Objezioni da principiante!—È forse detto che a puffare il calzolajo ed il fabbricatore di cappelli si richiegga un sistema particolare,[50] che non sia quello da usarsi col sarto?[3]

Vi è un Dio per i puffisti.—Io credo anzi che nello stabilire le grandi e immutabili leggi dellʼordine universale, Iddio abbia più che altro pensato alle vaste e molteplici complicazioni che nel seno della umanità dovevono insorgere a causa del puff.

Eppure questo Dio, nel creare gli uomini a sua imagine e similitudine, ha fatto una eccezione pel sarto, e si è compiaciuto, nella sua infinita bontà e sapienza, di dare a questa prima, indispensabile vittima del puffista, degli istinti particolari di caponaggine.

Vi parrà un paradosso la definizione che io sto per darvi:—il sarto è un animale creato da Dio per lasciarsi puffare daʼ suoi proprii abiti.[4]

Ah! voi credete dunque che il sarto vi faccia credito pei vostri begli occhi, pei vostri baffi inannelati e profumati? Vi ingannate a partito. Se il sarto non ardisce presentarvi il conto, se il sarto non vi importuna, non vi molesta per ottenere il pagamento, tutto ciò proviene dalla grande stima, dal grande rispetto che egli professa per gli abiti che aveste da lui. Più questi[51] abiti saranno ricchi e costosi, e più imporranno al vostro sarto.—Voi non lo avete pagato, non lo pagherete mai—che importa?—Il sarto vedendovi passare col paletot che egli stesso vi ha fornito, non potrà a meno di levarsi il cappello e di inchinarsi fino a terra. Come gli sta bene quel paletot! pensa egli—un paletot da quattrocento franchi...! queste robe non le portano che i grandi signori.... Anche lui senza dubbio è un grande signore!

Cosi ragiona il vostro sarto.—Il giorno in cui le maniche del vostro paletot comincieranno a spiumarsi, il giorno in cui i vostri pantaloni avran perduto la primitiva freschezza—tenetevi ben in guardia! Il sarto a sua volta comincierà a diffidare, e per poco che voi non lo abbiate prevenuto, egli sarebbe ben capace di presentarvi la nota!—Non permettete mai che le cose giungano a tale estremo. Quando il sarto ha cessato di sorridervi dolcemente, quando neʼ suoi inchini si palesa qualche stento, quando i suoi occhi sembrano accusare di sbieco lo sdencio delle vostre stoffe, non vi resta tempo da perdere.—Bisogna andargli incontro, bisogna sorprenderlo, commettergli[52] delle nuove vesti che importino la doppia, la tripla somma di quelle che indossate. Il giorno in cui vi avrà rivestito, il sarto vi ridonerà la sua stima e non avrete più nulla a temere da lui.

Colpita la prima vittima, le altre cadono da sè ai vostri piedi. Un uomo elegantemente e riccamente vestito diviene pufffista senza volerlo—egli non ha più bisogno di organizzare i suoi puff; egli li trova belli e fatti ad ogni passo del suo cammino, nella sua anticamera, a fianco del letto.

Puffato il sarto, puffato il calzolajo, puffato il cappellaio, puffata la guantaia, convien darsi premura di puffare un orefice, il quale fornisca a prezzo di puff una bella catena dʼoro per lʼorologio, quattro o cinque anelli e tutti quei ninnoli che figurano cosi bene sul gilet di un puffista come su quello di uno strappadenti. Lʼorefice sarà più duro degli altri—conviene abordarlo con qualche cautela e combatterlo collʼastuzia. Non sarà male che prima di passare a ciò che, in linguaggio puffistico, si chiama la consumazione dellʼatto, procacciate di conciliarvelo frequentando il suo negozio in qualità di dilettante. Un pò di erudizione[53] in materia di pietre preziose potrà assai favorirvi nel puffare un orefice.

Eccovi completo—oramai, per procedere nella grande carriera, non vi resta che a procacciarvi un alloggio—il quale alloggio dovrà essere quindi innanzi il punto centrale delle vostre operazioni—il roccolo di quelle infinite varietà di merli che Dio ha creato a bella posta per farsi spiumare dal puffista.

Intendete fissare dimora per alcun tempo in una città?—In tal caso vi consiglio ad uscire dallʼalbergo per prendere in affitto un grandioso appartamento. Badate però che lʼalbergo rappresenta il transito più sicuro per giungere ad un appartamento sulle ali del puff. Quanto più ingente sarà il puff che voi saprete piantare nellʼalbergo, tanto più facile vi riuscirà lʼimpossessarvi del primo piano di un palazzo senza compromettere la vostra dignità di puffista.—Voi avete quanto si domanda perchè un albergatore si lasci puffare da voi. Non dimenticate gli accessorii, che sono quattro o cinque valigie nuove, piene o vuote non importa, ma tali che col loro peso facciano bestemmiare i facchini della[54] ferrovia e i mozzi dellʼalbergo. Se le valigie, per un capriccio del caso, sono piene di mattoni, non obliate di chiuderle con una ventina di lucchetti. Oltre alle valigie è necessario che nel vostro equipaggio figurino dei forzierini misteriosi, quattro o cinque ombrelli legati a fascio, due o tre bastoni dal pomo brillante; alle quali cose potreste anche aggiungere, per maggior effetto, un pappagallo ed un piccolo pincio. Non sarà male se appena entrato nelle stanze dellʼalbergo, vi darete premura di sciogliere due o tre borse da viaggio, per lasciare in mostra sul tavolo qualcuno dei vostri oggetti di toletta.—Io mi ricordo che a Milano, allʼalbergo della Ville, una volta mi accadde di produrre una sensazione incredibile, poichè i camerieri, annunziando al padrone il mio arrivo, gli avevano detto che da una borsa da viaggio io aveva cavati fuori quattordici, tra spazzole, spazzoletti e spazzolini.—Possa quel buono ed onestissimo albergatore della Ville serbare eterna memoria delle mie quattordici spazzole, come io, nel regno dei beati ove sarò fra poco, non scorderò mai che gli sono tuttavia debitore di tremila ottantotto[55] lire e venticinque centesimi.—In ogni modo, entrando in un albergo (ed è inutile avvertire che questo albergo deve essere necessariamente il più rinomato della città) conviene che il puffista spari il suo gran colpo.—Questo gran colpo potrebbe consistere nella straordinaria larghezza delle mancie distribuite al bromista ed agli scaricatori delle valigie—o meglio ancora (ma questo stratagemma non può riuscire che ad un puffista di altissima levatura) nellʼordinare al padrone istesso dellʼalbergo di rimunerare col proprio denaro le persone che vi hanno servito. Neʼ miei tempi migliori, mi accadde una volta, scendendo alla stazione di Firenze, di trovarmi faccia a faccia con un mascalzone il quale ebbe la temerità di ricordarmi un miserabile puff di duecento cinquanta lire che io gli avevo piantato sei anni prima. Io non teneva nel mio portamonete che la nota dei miei puff—figuratevi qual imbarazzo, e quale pericolo! Quel mascalzone mi avea abordato con famigliarità cosi plebea, che io non poteva esimermi dal pagarlo, a meno di subire una pubblica vergogna e di screditarmi al cospetto dellʼuniverso.—Ridotto a mal[56] passo, feci avvicinare quattro vetture da piazza, una per me, lʼaltra pel mio pappagallo, la terza per un mio domestico negro, la quarta per i miei dodici bauli, E fatto salire nella mia carrozza il vile aggressore, ordinai che il convoglio si dirigesse allʼalbergo della Luna. Al rumore delle quattro carrozze, tutti i camerieri uscirono in massa nel cortile, e il padrone, venuto fuori cogli altri, si sprofondava nellʼinchinarmi. Io diedi agio a tutti quanti di ebetizzarsi completamente alla vista delle mie dodici valigie, del mio pappagallo e dello schiavo nero—poi, quando tempo mi parve, abordai il padrone con piglio risoluto, e parlandogli in quella lingua cosmopolita che è sempre di massimo effetto:—monsieur, gli dissi, oreste vous un poco di monneta piccola? Quanto le abbisogna, signore? due... tre franchi?... comandi!—Mi abbisogna moneta piccola... tanto come cinquecento franchi... in tanti piccoli pezzi di napollion dʼoro!—Lʼalbergatore numerò ancora una volta i miei bauli, diede una occhiata al mio pappagallo ed al mio negro, e quando ricorse al cassetto del banco e venne a me per portarmi i venticinque marenghi—adesso[57] a te bon omo!—dissi al birbone che mi stava a lato per rinfacciarmi il mio puffa te duecento franchi e cinquanta per tua bona familia che mi aver salvata la vita, e non dir niente a persone se non voler bastonar.

Lʼassassino vedendo quellʼoro, spiccò due salti dalla consolazione e corse via che pareva invasato. Dopo ciò, pagai lautamente i bromisti e salii col corteggio delle mie valigie, agli appartamenti superiori. In quel momento un organetto era venuto a fermarsi sotto le finestre dellʼalbergo. Mi affacciai ai balcone, e gettando un marengo nel piattello del suonatore—io vi prego dʼaller vous en!... gli gridai dallʼalto,—domani si tornar, altro donar!....

Quel povero suonatore, che forse nella giornata non avea raccolto un quattrino, si fece allora a ringraziarmi con tali parole e tali gesti, che la gente si agglomerò nella via—e, chi è? chi non è? donde è venuto?—in meno di quattro ore io divenni il soggetto di tutte le conversazioni di Firenze. Quel marengo gettato al suonatore mi valse la gloria di avere, in due mesi, piantato nella futura capitale del Regno[58] un puff di quarantacinque mila lire pochi centesimi.


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CAPITOLO VI.

Del prestito.

Ma lʼarte di scegliersi lʼappartamento difficilmente si insegna. È unʼarte di ispirazione, è uno di quegli istinti ammirabili, che il supremo creatore dellʼuniverso ha concesso ai pochi chiamati.

E qui mi conviene avvertire il piccolo puffista, il puffista di secondo e di terzo ordine, che lʼappartamento, quando non non richiegga una spesa straordinaria (nel qual caso solamente è permesso puffarlo), vuoi essere qualche volta pagato scrupolosamente.—Pagare lʼaffitto di casa con puntualità e sollecitudine, è misura finanziaria della massima importanza per chi vuoi puffare con sicurezza di causa. Con tale misura conquisterete un eccellente alleato per le vostre imprese puffistiche—questo alleato sarà il vostro padrone di casa, a cui si unirà validamente il vostro portinajo,[59] se saprete conciliarvelo con delle mancie generose....

Ma ecco qualcuno sorge a dire: come si si fa quando non si hanno denari, a sostenere queste grandi spese di impianto? Come si pagano i viaggi? il trasporto dei bagagli? gli affitti? le mancie?

Sicuro che del denaro, o poco o molto, bisogna farne circolare; e quandʼuno non ne ha di proprio, deve necessariamente procacciarsene attingendo alla borsa degli altri.

Un puffista che si rispetta non deve trovarsi mai in condizione da non poter far fronte ai pericoli della sua professione. Bisogna che egli abbia sempre nelle tasche il denaro di semenza e il denaro di partenza—o in altri termini: il denaro di ingresso e il denaro di recesso. Non è mestieri che io spieghi il senso di questa rime agli arguti miei lettori.

Come si fa per aver denaro? Ai puffista non si offre altra risorsa che quella di chiederne a prestito.

Guardiamo intorno—esploriamo le fisonomie, studiando i caratteri, calcoliamo le probabilità.

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Innanzi tutto, prima di chiedere un prestito, è necessario aver stabilita la certezza che la persona, alla quale siete per ricorrere, possegga la somma.—Domandare dieci mila franchi a chi appena ne possiede mille è la massima delle stoltezze.

Bisogna che la persona alla quale avete intenzione di batter cassa, non possa mai dire con verità: mi spiace tanto, ma non sono in grado di servirvi! Pur troppo (la società è tanto corrotta!) questa risposta vien profferita alcune volte da individui, che potrebbero dare il doppio ed il triplo della somma che loro viene richiesta!

Dopo questo precetto, che ha da formare la base della vostra operazione finanziaria, io vi consiglio di attenervi scrupolosamente alle poche massime generali che qui sotto vi trascrivo.

Astenetevi sempre dal domandare denaro per lettera quando possiate chiederlo a viva voce. Cʼè uno stolto proverbio che dice: la carta non vìen rossa—imbecilli! forse che la faccia di un puffista può cambiar colore più presto che la carta? E vi è forse ragione perchè un puffista abbia ad arrossire nel chiedere dellʼoro ad un suo confratello?—Fosse[61] argento, fosse rame, fosse la vile moneta che si getta allʼaccattone! ma lʼoro!....

E poi: qual maggior prova di amicizia e di stima si può dare ad un uomo che quella, di domandargli in prestito parecchie miliaja di lire?[5]—Non è lo stesso che dirgli: tu sei ricco, tu sei grande, tu sei potente, tu sei generoso?—Chi avrebbe ragione di arrossire sarebbe il miserabile che non potesse corrispondere degnamente a questa grande prova di fiducia che voi gli avrete accordata—o il vigliacco che non potendo favorirvi, mendicasse delle scuse, o tentasse eludere il vostro nobile disegno colle scappatoje o colle menzogne![6]

In linguaggio puffistico, questa operazione finanziaria del chiedere a prestito si chiama stoccata. Sublime parola, che oltre a rappresentare precisamente la idea, rivela anche il modo di tradurla in fatto!

Non si può essere grandi puffisti senza essere ad un tempo grandi stoccatori!

Potete voi concepire un colpo di stocco ben aggiustato e micidiale, se questo non sia stato preceduto da lunga meditazione ed eseguilo con coraggio e risolutezza?

[62]

Di tal modo si debbono compiere le stoccate puffistiche.

Stabilita la vittima, convien fissare il momento ed il luogo—e una volta premeditato il piano di attacco, slanciarsi come il falco sul pulcino.

In generale, le stoccate puffistiche, meglio che nelle mattutine, riescono nelle ore pomeridiane, dopo il pranzo, e dopo la digestione. Un uomo che ha ben pranzato e che ha ben digerito versa ordinariamente in una crisi di buon umore, e si riduce facilmente, pel benessere che prova egli stesso, a favorire quello degli altri.

Lanciato il vostro colpo, badate bene che la vittima non si parta da voi collo stocco nelle viscere. Convien ghermirla strettamente, impedirle qualunque movimento, o per lo meno inseguirla fino a tanto che essa non abbia versato il suo contingente di sangue metallico. Una volta che la vittima sia fuggita collo stocco nelle viscere, vi tornerà assai difficile il ghermirla nuovamente. Guai allo stoccatore puffista se il primo colpo gli va fallito!

Le stoccate per sorpresa riescono meglio delle altre, ed io potrei fornirvi, di ciò numerose[63] prove dedotte dalla mia stessa esperienza. Ma per chiudere umoristicamente questo capitolo, vi narrerò di una ingegnosissima stoccata di sorpresa compiuta in Marsiglia da un puffista di quarta classe, il quale peʼ suoi talenti avrebbe potuto aspirare ai primissimi ranghi dellʼordine se lʼindolenza del suo carattere non avesse paralizzate in lui le altissime doti dello spirito.

Lʼarguto puffista si chiamava Napoleone S... e viveva, come si suoi dire, alla giornata, stoccando gli amici e i non amici, i conoscenti e i non conoscenti. Per oltre quarantʼanni egli aveva condotta questa beatissima vita di levarsi ogni mattina senza sapere come avrebbe pranzato e dove avrebbe dormito alla sera. I suoi puff non si erano mai elevati oltre le strette necessità della vita; egli puffava a centellini, puffava a moneta spicciola, e non era meno grande per questo.

Un giorno Napoleone passeggiava sul ponte di Marsiglia a poca distanza da un caffè ove bazzicavano ordinariamente i suoi connazionali. Napoleone era italiano. Lʼora si faceva tarda; nel caffè non cʼerano persone[64] sulle quali il nostro puffista potesse vibrare con effetto la sua stoccata quotidiana!

Che si fa? Lʼappetito si aguzza e con esso anche lʼingegno puffistico.

Ecco un signore sbarcato recentemente da un battello a vapore. Napoleone lo vede per la prima volta, non sa chi sia, nè da qual parte egli venga. Non importa. È un signore riccamente vestito, un signore che, stoccato con garbo, darà necessariamente il suo spruzzo.

Napoleone si fa innanzi, aborda risolutamente la sua vittima, e toccando leggermente il cappello, lo apostrofa con fuoco:

—La senta un poʼ, caro signore: si tratta di una scommessa, della quale bramerei che ella si degnasse farsi arbitro. Se qualcuno... io per esempio... avesse bisogno al momento di un miliardo in numerario; crede lei che sarebbe possibile, raccogliendo tutto il denaro dei banchieri di Marsiglia, mettere insieme questa somma?

—Io... crederei, risponde lʼaltro con un certo sussiego; crederei che per raccogliere una somma così rilevante ci vorrebbero per lo meno cinque o sei giornate e forsʼanche...

[65]

—Ebbene: diffalchiamo...! diffalchiamo pure! Se non si trattasse che di cinquecento milioni di franchi?..

—Anche cinquecento milioni di franchi in numerario sarebbe un poʼ difficile trovarli...

—E se uno avesse bisogno di cento milioni?

—Cento milioni... a dir vero...

—Ma via! restringiamo la cosa ai minimi termini... Se non si trattasse che di soli cinque franchi... crede lei che sarebbe difficile... trovare chi li sborsasse prontamente e...?

—Cinque franchi! esclama il forastiero con ingenua meraviglia; ma qual è il miserabile che non possegga cinque franchi? e qualʼè il disgraziato che non troverebbe cinque franchi...?

—Ah! lei mi consola! lei mi risuscita, da morte a vita! esclama a sua volta il puffista mutando registro di voce. Io mi trovo appunto nel caso di aver bisogno cinque franchi per pranzare questʼoggi, e poichè lei è così bene disposto a favorirmeli, profitterò volentieri della sua offerta e le sarò infinitamente obbligato.

Il forastiero, vedendosi preso alle strette,[66] e ammirando dʼaltra parte lʼarguzia dello stratagemma, portò la mano al taschino del gilet, e trattone un bel marengo fiammante, lo lasciò cadere nelle mani dellʼarguto puffista.

Da quel momento Napoleone S... divenne il compagno indivisibile del forestiero, finchè questi si trattenne in Marsiglia; e più volte questi due individui così stranamente collegati da un azzardo puffistico, furono veduti pranzare assieme allʼHotel des Empereurs. Inutile avvertire che il mio Napoleone non fece mai torto al suo nobile carattere di puffista, assumendo, neanche in minima parte la spesa del pranzo!


c7

CAPITOLO VII.

Dei Creditori.

Quel poeta che lasciò scritto:

Non è credibile
Quanto è terribile
La vista orribile
Dʼun creditor

doveva appartenere, nella gerarchia del regno puffistico, allʼinfima classe.

[67]

È vero—la vista di un creditore non è molto aggradevole—val meglio vedere una bella figura di donna, ed anche, per chi si diletta di uniformi, un ussero di Piacenza. Ma il grande puffista, il puffista di prima classe non può mai sgomentarsi dellʼincontro dì un creditore, e in ogni modo, quandʼanche un tale incontro avesse a cagionargli qualche leggiero turbamento, egli saprebbe dissimularlo in tal guisa da non rimanere compromesso.

Fra un creditore ed un debitore che si veggono, la situazione del primo è mille volte più grave e sconfortante di quella del secondo.

Se fosse dato di penetrare in fondo al cuore dellʼuno e dellʼaltro, vi si leggerebbero due voti affatto opposti, ma non ugualmente terribili.

Il creditore, alla vista del suo debitore, è necessariamente assalito da un atroce dubbio:—chi sa se costui potrà pagarmi!

Il debitore, al contrario, pienamente consapevole dei propri mezzi e dei propri intendimenti, può dire con piena sicurezza:—io non pagherò mai!

Ora, chi oserà sostenere che la situazione[68] del primo non sia mille volte più tormentosa che quella del secondo?

Ciò premesso, vediamo brevemente come debba comportarsi un abile puffista a riguardo del suo creditore.

È inutile avvertire che questo ultimo, rappresentando la parte dellʼindividuo compromesso, è costretto usare tutte le cautele, tutte le arti per non compromettersi davantaggio.

Egli non ignora che, per ottenere e facilitare il pagamento, non gli conviene irritare, nè pregiudicare in veruna guisa il suo debitore.—Un abile puffista non deve mai obliare questa circostanza favorevole.

Appoggiato ad una tale considerazione, io ho sempre preferito il sistema di trattare il creditore colle maniere più brusche, ricorrendo anche alle minaccie in caso di reazione troppo viva.—Quanto minori, da parte del creditore, le speranze di risarcirsi, tanto più mansueto e più cortese egli suole mostrarsi, nella paura che, ricorrendo a dei mezzi troppo energici, il debitore si vendichi col non pagarlo.

Lʼuomo che ha un credito da riscuotere somiglia in qualche modo ad un innamorato.[69] Egli ha bisogno dʼilludersi; egli ha bisogno di credere che tosto o tardi incasserà il suo denaro. Non avviene forse lo stesso ad un uomo perdutamente invaghito di qualche beltà capricciosa ed altera? Più questa si mostra sprezzante e crudele, più lʼaltro diventa umile e servile. Che sarebbe di lui, se quella donna sʼirritasse a tal punto, da togliergli il conforto di vederla, di parlarle qualche volta, e di potersi illudere per una mezza promessa o per un mezzo sorriso?

Ai piccoli puffisti, più che ai modi burberi e minacciosi, riescono le facezie e le piccole sorprese.

Anni sono, quando a Milano faceva furore il caffè San Carlo, diretto dallʼincomparabile Beruto, fra gli altri puffisti, che frequentavano il grandioso stabilimento, ci era un tal Mezzocapo, giovane elegantissimo e già consideratissimo, malgrado la sua età ancora fresca, nel grande regno del Puff!—Era già un anno che il signor Beruto teneva aperti i suoi libri di credito a quel bravo e giustamente celeberrimo puffista.

Un bel giorno, il grande e generoso caffettiere,[70] rivedendo le sue addizioni, si accorge che la somma dovutagli dal Mezzocapo è divenuta eccedente, ed ecco il signor Beruto spicca la sua nota, ed il nostro avventuroso puffista si trova in mano una lettera che lo invita al pagamento.—Il giovine non si turba per questo—lancia unʼocchiata altrettanto sicura che sdegnosa alla cifra totale del suo debito—e volto al padrone del caffè un sorrisetto di protezione, gli dice nel tono più affabile: «Aspettate un istante..., io aveva già pensato a voi.... a momenti ritorno.» Ciò detto, il mio puffista esce dalla bottega, rimane assente per alcuni minuti, e rientrando poco dopo, si accosta nuovamente al Beruto con un piccolo involto nelle mani.—Oh! non cʼera premura! esclama il padrone del caffè, supponendo bonariamente che lʼaltra gli portasse il denaro.—No! no! risponde il Mezzacapo—a me piace che le cose procedano regolarmente... Io ho bisogno che lei continui a tener nota del mio consumo per un altro anno; ma siccome vedo che la nota è già lunga, e che lei potrebbe aver bisogno di penne, così gliene ho procacciato io una piccola scatoletta... Eccole![71] Sono cento penne in acciajo... della prima qualità... Io credo che le basteranno... in caso diverso mi farò un dovere di portargliene delle altre!»—Lʼargutissimo proprietario del caffè San Carlo fu disarmato da questa facezia, e riaperse le sue partite di credito al puffista fino al giorno in cui questi ebbe ad emigrare da Milano per cause... non politiche.

Sono rarissimi i casi di creditori i quali abbiano avuto la sfrontatezza di aggredire i loro debitori in luogi pubblici e di suscitare, colla loro brutalità, degli inutili scandali. Pure anche il più abile dei puffisti può incorrere un tale pericolo.

In tali casi non vi è che un solo mezzo per salvarsi—opporre sfrontatezza a sfrontatezza, minaccie a minaccie, scandalo a scandalo.

Nellʼanno 1848, allorquando, rientrati gli austriaci, Milano era soggetta agli immani rigori dello stato di assedio, un tal Mauro usurajo si avvisò un bel giorno di aggredire villanamente sotto il Coperchio deʼ Figini un amico e discepolo mio distintissimo, certo Angelo Soderini, grande fabbricatore di puff e di cinti meccanici.

[72]

—Ah! vi trovo finalmente... Ora non mi scapperete!... grida lʼusurajo affrontando villanamente la sua vittima.

—Zitto!... vi prego... parlate sotto voce! mormora il Soderini con accento supplichevole.

Ma vedendo che lʼaltro non era disposto a smettere il tono di minaccia, e che cʼera pericolo dʼuna brutta scena, il Soderini, pigliando risolutamente il sopravvento e levando a sua volta la voce: «Io vi dico, signore, di ritrattare le brutte parole che avete pronunziate, gli grida—vergogna! insultare al capo dello Stato!... parlar male del nostro augustissimo e clementissimo Imperatore!... del nostro caro ed amato Francesco Giuseppe...»

—Cosa cʼentra lʼImperatore? Cosa cʼentra il governo? Chi si è mai sognato di parlare di politica?... Io vi dico di pagarmi...

—Ed io vi dico di finirla! riprende il Soderini rinforzando la sua voce di tre gradi—ah! voi siete uno di quelli che vorrebbero ancora i Piemontesi!... voi volete la repubblica!... Io vi dico che se non la finite di parlar male del governo...

Il tristo usurajo, non riuscendo a soperchiare[73] la voce del suo debitore, e vedendo dʼaltra parte che si avvicinavano due poliziotti, i quali avrebbero potuto arrestarlo come un ribelle, non trovò miglior partito che quello di darsela a gambe, nè mai più da quel giorno egli osò ritentare la barbara prova di esigere i suoi crediti col sistema degli scandali e delle pubbliche minaccie.

Uno dei migliori mezzi per ammansare la belva (e in linguaggio puffistico chiamasi belva il creditore dal giorno in cui questi concepisce lʼassurda idea di farsi pagare) è quello di rincarire la somma del di lui credito, allettandolo colle attrattive di una grossa commissione o sorprendendolo colla richiesta di un maggior prestito.

Mi spiego.—Il vostro creditore viene a farvi una visita—voi lo incontrate per via. Neʼ suoi sguardi, nel tono della sua voce, nellʼesitanza del suo contegno, voi leggete il feroce proposito di presentarvi una nota o di domandarvi un rimborso. Non dategli tempo di avvicinarsi—non permettete chʼegli profferisca una parola—prima chʼegli si metta in posizione di vibrare il terribile colpo, slanciatevi su lui,[74] afferratelo a due mani per la gola, e sbalorditelo con un colpo di testa.

È un sarto?—bravo; ben venuto! vi aspettava... ero sul punto di recarmi da voi! ho bisogno di un paletot, di un soprabito, di tre o quattro pantaloni di capriccio, di una mezza dozzina di gilet... posso io contare sulla vostra sollecitudine?... e poi cʼè un mio amico... un barone... un marchese... un milionario... che vorrei raccomandarvi. Badate che gli è buon pagatore... ma talvolta, come tutti i grandi signori, fa attendere un poco il denaro... Noi altri non si mette mano alla borsa per delle inezie—dunque: siamo intesi!... patti chiari... amicizia lunga... e frattanto portatemi le stoffe e servitemi a dovere!

Questo modo di sorprendere il creditore è di un effetto immancabile.

Se si tratta di un creditore che vi abbia prestato denaro, voi non avete a far altro che domandargli una somma tre volte più grande di quella che gli dovete.—Le persone che prestano il loro denaro ad un puffista, sono quasi sempre di una ingenuità adorabile!

Vi narrerò un fatterello che forse potrà[75] sembrarvi incredibile. Io doveva, nei primordi della mia carriera puffistica, la miserabile somma di lire duemila ad un dabben usurajo di droghiere, al quale avevo rilasciata una cambiale.

Quattro o cinque giorni prima della scadenza, il buon uomo si recò a trovarmi una mattina colla intenzione di ricordarmi il mio impegno.

—Voi giungete a proposito! mi affrettai a dirgli con voce desolata,—io stava per recarmi da voi onde pregarvi di un piccolo favore. Fra cinque o sei giorni io debbo pagare duemila franchi per una cambiale da me accettata or faranno due mesi in favore di qualcuno... di cui non mi ricordo il nome. Io so di dovere questa somma... ho notato sul mio portafogli lʼepoca della scadenza, ma per quanto io vi abbia pensato, non sono riuscito a sovvenirmi della persona che mi ha dato quel denaro..». Orbene, in seguito ad una grave perdita di giuoco, io mi trovo sprovveduto pel momento.... e vi assicuro che se io non potessi soddisfare al mio impegno per lʼepoca fissa, ne morirei di vergogna!... Figuratevi!... Disonorarmi!... perdere il credito per una[76] miseria di duemila franchi—un par mio!—un cavaliere di onore!... Alle spiccie: potete voi prestarmi cinque o sei mila lire da restituirvi fra una ventina di giorni?

—Ma la cambiale di cui parlate è forse quella che io tengo in mano... e che avete accettato in mio favore or saranno sei mesi...

—Dite davvero?... Possibile!... Ah!... voi mi date la vita!... Ed io che credeva... Ma sicuro!... Vedete se io sono uno smemorato... Siete voi... proprio voi... che mi ha fatto avere quelle due mila lire saranno appunto sei mesi... Non potete credere come io mi senta sollevato da questa notizia!...

Così parlando mi gettai nelle braccia del mio droghiere, e lo baciai in fronte più volte come fosse il mio angelo salvatore.

Dopo molte parole da una parte e dallʼaltra, insistendo io nel chiedergli il nuovo prestito di cinquemila franchi, egli mi usci fuori con questa ingenua domanda: «ma e la cambiale che scade il giorno quindici, siete voi disposto a pagarla»?

—Se sono disposto!—credete voi che se non avessi intenzione di pagarla, ricorrerei alla vostra gentilezza per la somma[77] in questione?... Ma è appunto per far onore alla mia firma, per mostrarmi, quale fui sempre, uomo leale ed esatto, che ora chieggo questo piccolo prestito di cinque mila franchi.

Il dabben uomo, credendo scorgere in questo tratto una prova irrefragabile della mia onestà e puntualità commerciale, non si fece altro pregare ad accordarmi il favore richiesto.

In quel giorno stesso io ebbi dal droghiere lʼintera somma, della quale una parte mi servì poi a pagare la cambiale che egli venne a presentarmi dopo cinque giorni, e lʼaltra parte mi servì di base ad un grande piano puffistico, del quale sarebbe troppo lungo il parlare.

Io chiuderò questo capitolo riportando tre versi, che un puffista assennato deve sempre aver presenti ogni qualvolta gli venga sporta una nota da pagare o chiesta la restituzione di un capitale tolto a prestito:

A pagar non sii corrente,
Potrìa nascer lʼaccidente
Che finissi col pagar niente.

Sono versi un poʼ volgari, ed anzi lʼultima cresce di un piede.

[78]

Questo piede che cresce, potreste allʼoccasione regalarlo alle natiche dei vostri creditori.—A giudizio di molti pratici, questo è ancora il miglior modo per sbarazzarsi della vile genia!


c2

CAPITOLO ULTIMO.

Ciò che abbiamo stampato fin qui, è opera di Roboamo Puffista, di quel grande e insuperabile piantatore di puff, che ha lasciato nelle più vaste e popolose metropoli di Europa unʼorma incancellabile del suo passaggio.—Lʼesistenza di questʼuomo insigne fu pari a quella di certi serpenti che, a dire dei naturalisti, dappertutto ove strisciano abbruciano lʼerbe.

È doloroso che questo filosofo profondo non abbia potuto compiere il suo libro, rapito, comʼegli fu, da morte immatura nellʼospedale dei Frati Fate-bene-fratelli.

[79]

Lʼultime parole chʼegli ebbe a profferire al termine di unʼagonia dolce e serena, come suol essere quella degli uomini giusti che hanno impiegato degnamente la loro esistenza o che sono certi di lasciare una indelebile ricordanza alla posterità, furono le due strofe che qui riportiamo:

Vissi puffando il prossimo;
Ora, a morir vicino,
Vorrei puffar le esequie
Al prete ed al becchino:

Genio del puff assistimi!
Che dʼogni impresa mia
Questa è la più difficile,
Puffar la sagrestia!

Con questi versi sul labbro, moriva Roboamo Puffista. Come ognun vede, fino agli ultimi istanti della vita, questʼuomo ammirabile si mantenne fedele alla santa causa del puff!

Egli fu sepolto senza pompa, nel silenzio della notte. I suoi correligionarii non seppero della sua morte che quando non erano più in tempo a prestargli i dovuti onori. Se i fratelli fossero stati avvertiti in tempo[80] debito—noi avremmo veduto quanto vi ha di meglio in Milano, nellʼalta aristocrazia del blasone, del commercio, dellʼindustria, delle scienze, delle lettere e delle arti, accompagnare allʼultima dimora il confratello.....puffista!

Povero Roboamo! che i creditori ti siano leggieri!

FINE.

[81]

not

NOTE

DI

ZEFFIRINO BINDOLO.

[1] Nel più ingenuo paese che prosperi in Europa sotto il sole della civiltà, gli ottusi che leggono senza comprendere sono in numero sterminato. Quando apparve per la prima volta nel poco ammirabile paese lʼopuscoletto di Roboamo Puffista, i volghi letterati urlarono allo scandalo, e il clamore della indignazione esplose così impetuoso e brutale, che i venditori girovaghi di stampati, atterriti dalle invettive, riportarono allʼeditore le copie dello incriminato volumetto protestando di non voler più oltre prestarsi allo spaccio della merce abbominevole. Allarmarsi per un titolo, condannare un libro prima di leggerlo e riprovarlo[82] senza averlo compreso, son casi che avvengono ogni giorno, laddove lʼintelligenza umana, evirata dai gesuiti e dai pedanti, è inevitabilmente condotta ad incaponire. Benedetta la Francia! benedetta la nazione dello spirito e della tolleranza, dove si possono scrivere e pubblicare dei libri intitolati: Lʼarte di rendersi antipatico, Lʼarte di ingannare il prossimo, Lʼarte di rubare, ecc, ecc. senza incorrere la scomunica dei citrulli. Nellʼopuscoletto di Roboamo Puffista, che è da capo a fondo una satirica ironia, diretta a smascherare la frode, si contengono delle osservazioni le quali importerebbero un più serio sviluppo. Vi siete mai chiesti se il debito sia un crimine, o in quali casi lo sia, e come avvenga che nellʼordine delle moderne istituzioni, la condizione inesorabilmente imposta a tutti gli enti individuali e collettivi, è quella di doversi indebitare? Avete mai considerato che il debito, nellʼabominevole condizione creata dalla società a milliaja e milliaja di individui diseredati, rappresenta lʼunica valvola di salvezza fra la disperazione e il delitto?

Credete voi che il puffista, se questa valvola si chiudesse, non si darebbe al ladroneggio, forsʼanco allʼassasinio? Allorquando i governi ed i popoli ignoravano la grandʼarte di reggersi sul debito, non avvenivano più frequenti le invasioni, le guerre di conquista brutalmente[83] coronate dalla rapina e del saccheggio? Provatevi un poco, o citrulli, a procedere su questa via di considerazioni; vedrete allora, capirete forse, ciò che in altri paesi meno gaglioffi fu capito da un pezzo, che lʼironia e la satira vestite delle apparenze più frivole, sono le lanterne magiche dalle quali si sprigiona la luce più atta a porre in evidenza le verità meno apparenti o meno esplorate.

[2] Evidentemente, lʼopuscolo dellʼottimo Roboamo fu scritto in quellʼepoca barbara, quando ancora esisteva, a frenare la baldanza del puffismo invadente, lo spauracchio dellʼarresto personale. Noi dobbiamo a Napoleone III, imperatore dei francesi, lʼiniziativa della provvida riforma che emancipò i debitori dalle antiche tirannidi del codice commerciale. Quando le nuove franchigie vennero proclamate in Francia, lʼonorevole corpo accademico dei reclusi di Clichy improvisò una splendida luminaria. La Bastiglia dei debitori era demolita, e il santo diritto del libero puff affermato allʼumanità. La costituzione del secondo impero era basata sul puff; fino a quando Napoleone III tenne le redini dello Stato, i puffisti ottennero protezioni, favori, privilegi. Via! Non disconosciamo i benefizii resi da quel potente sovrano alla causa dei diseredati! Sulla base del monumento che[84] fra poco vedremo erigersi in Milano alla memoria di Lui, proporrei che si scolpisse lʼepigrafe:

A
NAPOLEONE III
I PUFFISTI RICONOSCENTI.

[3] Quandʼio faceva il mio corso di studi allʼuniversità di Pavia, un puffista quasi imberbe, che ebbe poi a segnalarsi in Europa colle sue grandiose strategie, esordiva nella carriera con una saporitissima burla, della quale si parla ancora oggidì con ammirazione sotto i portici dellʼAteneo torinese. Al nostro giovane eroe, testè laureato nelle matematiche, occorreva, per ripatriare decorosamente, un pajo di stivali. Gli mancavano pochi spiccioli per procacciarsi quel lusso di calzatura, una miseria!—dodici.... quattordici lire. Che si fa? Si fa così: sentite questa che è proprio bellina!—Si va da un calzolajo, gli si ordina un bel pajo di stivali, a patto chʼei debba recarveli al domicilio, il tal giorno, alla talʼora. Poi, si entra in unʼaltra bottega e ad un altro calzolajo si replica la commissione. Al primo si dice: sarò in casa ad attenderti alle dieci; allʼaltro si ingiunge di venire alle dodici. Il[85] giorno stabilito, allo scoccar delle dieci, arriva cogli stivali il primo calzolajo. Lo studente li calza, encomia la fattura, si mostra pienamente soddisfatto; ma poi, levandosi in piedi e contrafacendo le grinze di un addolorato—vedi sʼio fui bestia! esclama battendosi la fronte: quando mi feci prendere la misura, ho scordato di dirti che qui, sul piede sinistro, ho una maledetta ingrossatura... Senti, figliuolo mio, se tu riportassi via lo stivale e lo tenessi in forma sino a domani... non ti pare..?—La servo subito, risponda il dabben Crispino; si metta a sedere, dia qua...! Dallʼaltro piede non soffre? —Niente affatto! la calzatura mi va come un guanto.—Tanto meglio! E il buon uomo se ne va collo stivale sinistro sotto il braccio, promettendo di riportarlo lʼindomani allʼistessʼora. A mezzodì arriva lʼaltro calzolajo. Da parte dello studente le stesse grinze, le stesse contorsioni nel provarsi gli stivali; ma questa volta la ingrossatura non è, come poco dianzi, al piede sinistro; lo stivale che vuol essere allargato è quello che corrisponde al piede destro. Sta bene! Lo terrò in forma fino a domani, e verrò a riportarglielo allʼora che crede.—Alle dieci: ti pare?—Alle dieci! Viene il domani. I due calzolaj allʼora fissata salgono le scale che conducono al domicilio dello studente e si arrestano entrambi dinanzi[86] alla stessa porta, ciascuno col suo stivale sotto braccio.

—Chi cercano? domanda la signora della casa, presentandosi—lo studente B..., rispondono ad una voce i due calzolaj.—Partito jeri sera per Cremona.—Diamine! Io doveva portargli questo stivale...—E anchʼio...!—I due Crispini spalancano tanto dʼocchi.—Quando tornerà il signor B...?—Dio sa quando! forse mai, rispondo la signora; ha compiuto i suoi studii, ha ottenuto la laurea, non occorre chʼegli torni.

—Ma io....!—Ma io!—esclamano allʼunissono le due vittime, sollevando lo stivale. Non ha lasciato il destro?—Non ha lasciato il sinistro?...—Io ne so nulla, dice la signora, che ha già indovinata la strana burletta perpetrata dal suo arguto inquilino; ciò che io so, è chʼegli è partito con un bel pajo di stivaletti nuovi, così nitidi e lucenti che abbagliavano a vederli.—Finalmente anche, i due malcapitati calzolaj compresero ciò che era forza comprendere.

—Col mio stivale destro..., disse lʼuno.

—Col mio stivale sinistro..., soggiunse lʼaltro.

—Si può ancora formare il pajo.

—Verissimo... Non ci resta che ad accoppiarli... È quello appunto che ha fatto il nostro birbo committente.—I due calzolaj eran stati[87] minchionati così bene, che passato il primo bruciore, risero insieme più volte della mala ventura loro occorsa.


Quantunque assai noto, perchè più recente, merita di passare ai posteri il brillante episodio puffistico dal quale ebbe origine il motto: el gha gamba bonna; motto che a Milano suol ripetersi ogni volta che sia in gioco la strategia di qualche matricolato furbacchione. Anche in questo caso la vittima fu un calzolajo. Un giovanotto decentemente vestito entra in una bottega sulla corsia del Broletto e domanda un pajo di stivaletti.—Veda un poco se questi gli vanno! disse il padrone di bottega.—Lʼaltro, si prova a calzarli, si leva dal sedile, divincola il piede, fa qualche passo... ottimamente! non cʼè che dire.—Dʼun tratto balza nella bottega, uno sconosciuto, si slancia contro il giovane dagli stivaletti, gli applica alla guancia un sonorissimo schiaffo, e via di corsa.—Aspetta che ti acconcio io per le feste! grida lo schiaffeggiato, uscendo furioso dalla bottega e dandosi ad inseguire lo sconosciuto. Il calzolajo ed i fattorini accorrono in sulla porta per vedere come la vada a finire.—I due fanno a chi più corre, e allo svolto di una contrada scompariscono.—Lo raggiungerà! lo raggiungerà![88] esclama il dabben calzolajo; quel briccone corre lesto, ma anche lʼaltro è di buona gamba!—Infatti i due sozii corsero tanto e con lena siffatta, che nessuno ebbe più nuova di loro nè degli stivaletti elegantissimi che lʼun dʼessi si era procacciati con quellʼaudace stratagemma.

[4] Se la parca inesorabile non avesse troncato innanzi tempo il filo deʼ suoi giorni e delle sue opere immortali, lʼautore del presente opuscolo avrebbe indubbiamente dettato degli stupendi precetti ai puffisti sulla maniera di redigere il loro epistolario. Si vuole unʼarte finissima, si vuole una rettorica speciale per intrattenere coi creditori una profittevole corrispondenza epistolare, per rispondere alle lettere, talvolta volgari e atrocemente irritanti che ordinariamente accompagnano le note dei fornitori insubordinati. Si tratta di ammansare una belva. Con poche linee di scritto, contrapposto ad una grossolana intimazione di salumiere o di macellajo, si riesce talvolta ad ottenere che un libro mastro, già saturo di addizioni illiquidabili, si riapra per un credito illimitato. Questo genere di eloquenza non si insegna nelle scuole, non trova esempi nei trattati; è lʼeloquenza del genio puffistico. In certi[89] casi, si tratta semplicemente di indirizzarsi al cuore e di commuovere; talvolta convien ostentare meraviglia e disdegno, opporre alla minaccia il risentimento, allʼarroganza lʼinsulto. Gli argomenti derivati dallʼidealismo umanitario, rilevati dalle più assurde astruserie, dalle più stravaganti insensatezze, è ben raro che falliscano allo scopo. Nullameno, io sono dʼavviso, che a meno di aver raggiunta la più alta meta cui possa aspirare, un puffista di prima classe, il sistema epistolare da preferirsi sia quello che si indirizza al sentimento, che mira ad ispirare una simpatica e generosa commozione. Con tal metodo il mio giovane amico D. B. ottenne, durante la sua dimora a L..., dei risultati ammirabili. Trascriverò, ad esempio del genere, la breve lettera da lui indirizzata ad un salsamentario, il quale aveva osato alla fine dʼanno mandargli una nota di lire trecento:

«Pregiatissimo Signore,

«Al capezzale della mia povera vecchia madre morente, ho ricevuto la vostra lettera, che mi ricorda un sacro dovere. Appena avrò un poʼ di testa... per esaminare... per confrontare... ecc. ecc... appena la santa donna, che mi vuol sempre vicino, sarà uscita di pericolo, io[90] correrò da voi per regolare le partite. Frattanto, credete ai sensi ecc.»

Vostro devotissimo

D. B.

Una lettera quasi identica spedì a quella medesima epoca il nostro puffista esordiente agli altri suoi creditori. Questi non osarono rinnovare le istanze, e attesero con animo tranquillo. Ma un bel giorno, lʼamico D. B. abbandonò insalutato hospite la città dove avea vissuto lautamente per un anno; probabilmente la povera santa vecchia era guarita, ma i creditori non ebbero motivo di rallegrarsene.


Prima di ricorrere alla rettorica esacerbante delle insolenze, un abile e prudente puffista deve aver esaurite tutte le pratiche ammollienti. Lʼimpressione più istantanea e più naturale che deve prodursi nellʼanimo cavalieresco di un puffista al vedersi dinanzi la nota impertinente di un creditore, è quella di un olimpico stupore. Un personaggio alto locato, che si atteggia da principe, da barone, da marchese, che si fa chiamare sua eccellenza il sig. commendatore ecc. ecc., non può a meno, di atteggiarsi a meraviglia al vedere che un miserabile[91] subalterno osa importunarlo per una inezia. Mille, duemille, ventimille lire, non rappresentano infatti, per un principe russo, per un ammiraglio peruviano, altrettante cifre impercettibili? Qual vʼè somma tanto ingente che passando pel lambicco aritmetico di un debitore insolvibile, non si pareggi ad uno zero?

Tiens! Tiens! esclamava un francese puffista (sono famosi!) ogni, volta che un creditore commetteva lʼirriverenza di presentargli una nota. E quel monosillabo, profferito con accento di sorpresa, saldava la partita.

Ordinariamente, nel rispondere alle sollecitazioni dei fornitori più impertinenti, i grandi puffisti si appigliano al seguente formulario:

«Pregiatissimo Signore,

«Ho lʼonore di informarvi che la nota da Voi speditami in data... ecc. ecc. lʼho trasmessa oggi stesso al mio amministratore, perchè più sollecitamente che per lui si possa, come di ragione, provveda al pareggio. Tanto; per vostra norma, e mi dico

«Barone di Puffardara ecc. ecc.»

Naturalmente, il creditore si consola e lascia passare una quindicina di giorni prima di ripetere lʼattacco. La risposta che i baroni di[92] Puffardara sogliono contrapporre alla seconda richiesta, è scritta su per giù in questi termini:

«Con mia somma meraviglia vengo ad apprendere dalla S. V. che il mio amministratore non ha finora provveduto a mettersi in regola con voi. Mi piace attribuire ad un obblìo questa irregolarità di condotta del mio uomo dʼaffari, anzichè sospettare in lui una negligenza colpevole. Questa sera lo farò chiamare nel mio gabinetto, e in ogni caso, gli ricorderò i suoi doveri. Aggradisca ecc. ecc.»

Ecco unʼaltra dilazione spontanea, ottenuta con quattro linee di scritto. È raro il caso che un barone di Puffardara debba replicare ad una terza lettera della vittima. Quando ciò avviene, la frase dellʼesordio è sempre questa: «Ho dato al mio amministratore una buona lavata di testa per la sua colpevole trascuranza ed ho minacciato di licenziarlo se entro la settimana ecc. ecc.» Entro la settimana, il barone si licenzia dalla città nelle ore mestissime del crepuscolo—abbandonando ai numerosi clienti la cura di amministrare i suoi puff a tutto loro agio.


Le frasi ad effetto, che intontiscono chi legge, rare volte falliscono allʼintento. Recherò un[93] solo esempio. Anni sono, quando io conduceva a Milano la vita sbrigliata dello scapolo, un giovane poeta e romanziere, dotato di molto accume puffistico mi pregò lo presentassi ad un sarto acciò questi gli fornisse un abbigliamento completo da pagarsi in rate mensili. Gli abiti in men di tre giorni furono allestiti e consegnati, ma i mesi trascorsero, trascorse lʼanno, e il poeta romanziere, assorto nella sue divine fantasticherie, sdruscì le stoffe prima di averle pagate. Naturalmente, il sarto gli scrive. Il poeta, che per caso è anche gentiluomo, risponde, e siccome la cortesia delle risposte non è mai avvalorata di qualche spicciolo, lʼepistolario si prolunga per parecchi mesi. Un giorno il dabben sarto si reca da me. Veda un poco, mi dice, che razza di istorie mi vien contando quel signor poeta da Lei raccomandato! Così parlando, mi presenta una lettera. Nelle prime linee, lʼamico faceva le sue scuse, parlava di gravi e urgenti impegni pei quali aveva dovuto sprovvedersi di ogni suo avere, chiedeva nuove proroghe al pagamento. Ciò che aveva colpito il sarto—ed io pure, lo confesso, ne rimasi colpito—era la chiusa della lettera—«Io vi ho esposti, concludeva lʼamico poeta, con schiettezza da galantuomo le tristi condizioni nelle quali verso attualmente; ma se questo non bastasse ad impetrarmi grazia,[94] se fosse intento vostro di continuare a vessarmi con visite e con scritti impertinenti, allora sarò costretto a rammentavi che voi siete sarto, e che, una volta accettata la missione di sarto, avete lʼobbligo di vestire lʼumanità.» Non vi par questo uno di quei motti sublimi di insensatezza che sfidano la dialettica più ardita, che ottundono il cervello più arguto? Io mi dichiarai incapace di confutare lʼamico, e il povero sarto non osò per alcun tempo riprendere i suoi attacchi contro un uomo sì fortemente trincierato negli argomenti del diritto naturale.

[5] Chieder denaro a prestito a mezzo di lettera non è tattica da puffista distinto, a meno che la domanda non sia stata preceduta da abili strategie, le quali escludano ogni probabilità di un risultato negativo. Un celebre artista da teatro, del quale sopprimo il nome, mi narrò a tale proposito una graziosa storiella che amo qui riferire ad edificazione di chi intende iniziarsi alla grandʼarte.—Ero giunto da pochi giorni a Milano (ripeto testualmente le parole dellʼamico) per dar principio ai concerti della mia nuova opera destinata alla Scala. Un bel mattino, mentre stavo abbigliandomi, sento bussare allʼuscio della mia camera.—Chi e là?—Era un garzonetto con una lettera alla mano.[95] Getto gli occhi sulla soprascritta—diamine! son caratteri noti!... i caratteri del mio quondam amico X. Diamine! Che vorrà dire?—È dʼuopo sapere che con questo signor X, letterato e giornalista di qualche fama, io mʼera due anni prima bisticciato a cagione di non so quali sue polemiche. Dʼallora in poi era cessata ogni nostra relazione; non ci eravamo più veduti, non ci eravamo più scritti. Comprenderai la mia sorpresa al ricevere una sua lettera.

Ecco di che si trattava:

«Mio caro D.....,

«Oggi ricorre lʼanniversario della mia nascita, è il giorno delle ricordanze soavi, il giorno delle dolci espansioni. Voglio, allʼora del pranzo, avere intorno alla mia mensa tutte le persone a me care. Ho invitato i parenti e gli amici—nessuno mancherà. Orbene: Che vuoi? Questa mattina appunto mi venne detto che tu eri a Milano. Ho provato una stretta al cuore. E il primo pensiero che mi sovvenne fu questo: anchʼegli... una volta... era deʼ nostri!... Non ho saputo resistere... Ho preso la penna e ti ho scritto..; Via! Ti stendo la mano... Confesso dʼaver avuto dei torti... Forse qualche torto... vi fu anche da parte tua... Ma dunque? Sʼha[96] proprio da troncare una vecchia amicizia...! Qua la mano, mio buon Peppo; prometti che oggi alle quattro (alle quattro precise, bada bene—poichè i risi alla veneziana, che ti piacciono tanto, non mancheranno) tu sarai qui, seduto alla mia tavola al posto dʼonore... al fianco mio, al fianco di mia moglie, in mezzo ad una corona di amici che brinderanno alla nostra riconciliazione. Tu verrai... tu sarai dei nostri, non è vero?—Due soli motti al fattorino—ed io conterò questo fra i più lieti anniversarii della mia vita.

«Col cuore, proprio col cuore:

«Tuo affez. X.»

Una strana commozione si impossessò di me al leggere quello scritto—tu sai come Dio mi ha fatto—ho proprio sentito una lacrima scorrermi sulle guancie.—Il mio buon... X! Ma presto!... chʼegli non soffra... nellʼincertezza!—Detti mano alla penna e vergai di fretta la risposta:

«Mio caro X....,

«Ma... figurati!... toccava a me...! tutti i torti eran miei... ti domando mille scuse... Non dubitare... Alle quattro sarò da te... Ah! sʼio[97] sapessi di qual modo attestarti la mia gioja, la mia riconoscenza!.. Chiedi, domanda... Io sono ancora lʼamico di una volta!... Oggi... a tavola discorreremo... Non dubitare... sarò esatto... Hai pensato anche ai risi...! Bravo amicone! A ben vederci, fra poche ore... Intanto quattro baci grossi... grossi... di quelli che vanno in fondo dellʼanima dal

«Tutto tuo G. B.»

Consegnai la risposta al fattorino, che partì come una freccia. Ero proprio contento. Saltellavo per la stanza come avessi guadagnata un terno al lotto—e già avevo divisato di spendere una trentina di lire per un bel mazzo di fiori da inviare alla signora, quando il fattorino mi comparve di nuovo nella stanza e mi porse unʼaltra lettera dellʼamico:

«Mio amatissimo G. B.,

Non puoi immaginare qual festa abbiamo fatto, mia moglie ed io, al leggere la tua amabile risposta! Sempre pari a te stesso!... Una gran mente e un gran cuore!—Vuoi subito una prova della fede che noi riponiamo nella tua schiettezza e nella tua generosità? Tu mi scrivi laconicamente: chiedi, domanda... Ed io, senza esitare un istante, chiedo... domando. Puoi tu farmi avere, dentro oggi, prima delle[98] quattro, un biglietto da lire cinquecento? Tu lo puoi, senza dubbio, e quindi me li spedirai subito a mezzo del fattorino... Dopo questo, a rivederci alle quattro. Ti prepariamo una ovazione.

«Il tutto tuo, ecc.»

Tutto caldo, comʼero, di entusiastica commozione, chiusi, senzʼaltro riflettere, in un involto la piccola somma e la inviai allʼamico. Poi, alle quattro, mi recai, come avevo promesso, a pranzare da lui. Dio! quali feste! quale accoglienza da parte di tutti! Fui collocato al posto dʼonore. Fui colmato di amorevolezze. Alla frutta, cominciarono i brindisi e le declamazioni. Ma al momento, in cui lʼallegria generale, fomentata dallo sciampagna, toccava il colmo, una cupa tristezza si aggravò sul mio spirito, il sorriso si dileguò dal mio labbro, divenni mutolo ed imbronciato. Non riuscivo di cavarmi dalla mente questa idea fissa: Questo pranzo eccellente, questi vini squisitissimi, sei tu, o minchione, che li ha pagati—e forse lʼamico si burla di te nel segreto del cuore, e ride della tua dabbenaggine!

Ed ecco di qual maniera, un grande ed esperto puffista può, anche a mezzo dellʼepistolario, spostare le banconote a suo vantaggio ed a gloria dellʼarte.

[99]

[6] Nellʼanno 1850 io accompagnava in qualità di segretario, un celebre violoncellista che percorreva la Francia dando dei concerti. Nella piccola città di C... le cose erano andate alla peggio. Allʼalbergo, ove da oltre un mese eravamo alloggiati e nutriti lautamente, vi era già un grosso conto a nostro carico. Lʼultimo concerto, sul quale si era fatto assegnamento per soddisfare al nostro debito, aveva fruttato a mala pena una diecina di scudi. Allʼindomani, il mio violoncellista entra nella camera dove io stava abbigliandomi, e mi dice: «Caro segretario, conviene prendere una risoluzione! Per partire decorosamente da questa città ci occorrono cinquecento lire allʼincirca—bisogna trovarle. Tu sai che il signor Roux, pel quale ebbi una lettera commendatizia, mi accolse con molto affetto e mi tiene in gran conto; sono andato più volte da lui, e siccome egli è buon dilettante di musica e amantissimo dei classici, abbiamo suonato insieme i duetti di Beethoven. Il signor Roux, per quanto dicono, è assai ricco. Animo dunque! Prendi una penna. Scrivigli a mio nome una bella lettera, esponigli schiettamente la nostra situazione, e domandagli a prestito la somma che ci occorre.—Ma io...—Non pensare! la lettera, naturalmente la firmerò io.» Non posi di mezzo altre osservazioni, scrissi,[100] e la lettera fu spedita a mezzo di un garzone dellʼalbergo. Di lì a unʼora, mentre si faceva colazione nel salottino, un domestico in livrea venne a portare la risposta. Il signor Roux con frasi oltremodo cortesi ed amabili si scusava di non poter pel momento, malgrado il suo vivo desiderio di favorire un artista tanto valente, prestargli la piccola somma. E soggiungeva, tanto da ammorbidire il rifiuto: «Se fosse lʼepoca del raccolto dei bozzoli, quando il denaro affluisce nelle casse dei possidenti, vi assicuro che non esiterei un istante a compiacervi, e sarei lietissimo di potervi dare anche più di quanto richiedete.» II mio violoncellista punto sconcertato da quella lettura, stette alcun tempo silenzioso cogli occhi affissati sul foglio. Poi, colla maggior calma del mondo: «Sai tu dirmi in qual mese dellʼanno si raccolgono i bozzoli?—Credo, ai primi di giugno.—Siamo ora... agli ultimi di marzo... soggiunse pacatamente lʼamico.... Non importa! Lʼalbergatore vorrà ben fidarsi della parola del signor Roux. Prendi subito la penna, e scrivi al signor Roux che noi attenderemo i suoi comodi.» Confesso che nel vergare questa seconda lettera io aveva le vertigini nel cervello. Che fare? Nella mia qualità di segretario, mi era forza di piegare il capo.—Scrissi ciò che lʼamico dettava, e la lettera fu[101] consegnata al domestico. Non starò a narrare per filo e per segno di qual maniera io riuscii a distaccarmi da quellʼuomo singolare, che stampò in ogni provincia dellʼEuropa delle orme incancellabili di genio.

Egli rimase allʼalbergo di C... in attesa delle lire cinquecento, e verso la metà di giugno io ricevetti a Lione una sua lettera dove mi annunziava che lʼinfame Roux, mancando alla data promessa, non gli aveva ancora pagate le cinquecento lire, e chʼegli contava trascinare quel vile dinanzi ai tribunali, mettendo a suo carico gli interessi e domandando il risarcimento dei danni materiali e morali a lui derivati dal mancato pagamento. Più tardi mi venne riferito che il signor Roux, per liberarsi da quella noja pagò le cinquecento lire e a proprie spese provvide a che il celebre suonatore di duetti classici partisse per Marsiglia.

FINE DELLE NOTE.


[103]

TUTTI LADRI

COMMEDIA IN TRE ATTI.

[105]

per

AVVERTIMENTO DELLʼAUTORE.


A nessun capocomico (giova sperarlo) verrà mai lʼaudace pensiero di far rappresentare in teatro la presente commedia. Sarebbe un fiasco da far inorridire lʼEuropa.

Per impedire un simile attentato, ho moltipliplicato i personaggi, e interrompendo lo svolgimento drammatico con monologhi e dialoghi ad arte prolissi ho profittato di parecchi episodii superflui per sbizzarirmi nella dimostrazione di una tesi che i più indulgenti chiameranno nefanda.

Tutti Ladri!!!Ma tu parli da burla? domanderà qualche amico.—Mille[106] volte perdono! io parlo del miglior senno—Tutti ladri.

Nella tua commedia, vorrai dire.

Nella grande commedia della società umanarispondo io, senza punto esitare. E tu, mio ottimo amico, dovrai naturalmente soggiungere: lapidiamolo!

Lapidiamolo!ecco signori capocomici, quale sarebbe il verdetto del pubblico, se mai dovesse, per un vostro esiziale abberramento, rappresentarsi la mia commedia davanti e quel consesso di ipocriti che chiamasi il pubblico.

Che volete? la parola mi è sfuggita, nè mi indurrei per tutto lʼoro del mondo a cancellarla.

Il pubblico sarà davvero, come suoi chiamarsi un ente rispettabilissimo e moralissimo; ma esso, mi ebbe sempre lʼaria di un don Basilio, o per dirla più schietta, dʼun gesuita, anzichè di un libero pensatore e di uno schietto galantuomo.

Ciò si deve in buona parte alla pessima educazione che egli ricevette pel corso di più secoli dagli autori drammatici e dai critici dellʼarte.

Allorquando, anni sono fu data a Trieste[107] lʼopera Gli Avventurieri (e la presente commedia è in parte desunta da un mio libretto che porta un tal titolo), i giornalisti di colà, fedelissimi interpreti della pubblica opinione, levarono sì alte grida per la immoralità della catastrofe, che io feci giuramento di non recarmi giammai in quella città per paura di esservi arrestato come un manutengolo di ladri.—Quale orrore!Un libretto dʼopera, dove il protagonista, dopo aver commesso parecchi furti, riesce ad imbarcarsi sur un legno mercantile colla probabilità di approdare in Africa sano e salvo col suo grosso bottino! Ciò è contrario a tutte le leggi della morale: non è vero?Ed ecco il delitto del librettista.

In teatro ci vuol ben altro.In teatro, le duecento signore che a lato dei becchi mariti assistono alla commedia, vogliono che lʼadulterio sia punito dalla separazione, dallʼinfamia, o meglio, da una palla di piombo.I duecento o trecento ladri arricchiti che assisi nei palchi e nelle sedie fisse si arricciano i mustacchi col guanto, impietrirebbero di raccapriccio se un meschino tagliaborse del palco scenico non[108] cadesse regolarmente allʼultimo atto nelle mani della regia Procura. Si vuole ad ogni costo che nel mondo della luna (parlo del palco scenico) avvenga il contrario di ciò che ordinariamente si verifica nel mondo reale.

Tiriamo dunque innanzi....

Tiriamo innanzi?—signori no?—Per mio conto, ne arrossirei. Il teatro appartiene ai mistificatori—chi vuoi fare della ipocrisia, sa dove trovare degli ipocriti sempre disposti ad applaudire.

Se qualcuno venisse a dirmi: opera il bene e rifuggi dal male, perocchè o tosto o tardi la virtù trionfa e il vizio è punito; gli risponderei a bruciapelo: tu sei un impudente che mentisci sapendo di mentire. Orbene: questa gaglioffa e codarda menzogna la si vuoi ripetuta ogni sera dal proscenio, sotto comminatoria, per chi ardisce emanciparsi, di sentirsi fischiato e insultato come un pervertitore del pubblico.

Pensi ognuno come vuole; quanto a me, sono e sarò sempre dʼopinione che il vero, il solo vero è morale; e fermo in questa massima, non vorrò mai prestarmi[109] alla sporca e ridicola ciurmeria che da secoli si vien perpetrando sulle scene teatrali.

La presente commedia è dunque un atto di ribellione contro il sistema. Tutti i miei ladri (ne prevengo la questura) qui passeggeranno impuniti, e la sola azione veramente onesta che vedrem compiersi nel corso dei tre atti, sarà premiata... colla prigionia.

Fischieranno i lettori, come indubbiamente fischierebbe la massa dei ladri se vedesse riprodursi in teatro questo intreccio di ruberie?—È ciò chʼio probabilmente non saprò mai. Ma se alcuno avesse la sfrontatezza di venirmi a dire sulla faccia: la tua tesi è una menzogna e la tua commedia è uno scandalo; mi terrei certo di non coglier in fallo rispondendogli: e tu sei uno di quelli che han letto il mio volume senza pagarlo, e mʼhai rubato una lira.

A. G.

[111]


per

PERSONAGGI


Marco Dubois, albergatore. È un uomo di buona pasta, di circa sessantanni.

Giacinto, suo figlio, bel ragazzo, di circa ventidue anni. Carattere ingenuo; abbigliamenti e modi da provinciale facoltoso.

Tommaso, ricco affittajuolo, fratello di Marco.

Clementina, figlia di Tommaso.—Beltà campagnuola; indole onesta.

Roberto, Cavaliere di industria.—Età, dai quarantacinque ai cinquantanni. Bellezza logorata, molta vigoria di corpo; eleganza di acconciatura e di abbigliamento, molta disinvoltura di maniere. Parla con affettazione, ostentando una giovialità che è tutta nelle parole e nella epidermide. Ingegno robusto, malizia profonda; vero e sentito disprezzo della umanità.

Frontino, altro cavaliere di industria, meno audace di Roberto e alquanto irresoluto. Costituzione gracile, temperamento linfatico. Briccone per caso, nato ad esser complice, non mai iniziatore.

Deianira, avventuriera da città capitale, che ha tutte le apparenze della gran dama. Veste con eleganza alquanto caricata—è giovane, è bella, audacissima.

Armellina, altra avventuriera, meno intraprendente, che vive di riflesso.

Cavillo, avvocato.

Un sergente di città.—Soldati.—Un cocchiere.—Un garzone da osteria.—Un guattero.—Viaggiatori.—Famigli di Marco—Signori e Dame di Parigi.

[112]

Lʼazione si svolge a Çette, città marittima della Francia nellʼatto primo e terzo; nel secondo a Parigi.

Vestiario dellʼepoca attuale.

[113]

a1

ATTO PRIMO.

SCENA I.

La scena rappresenta un cortile da albergo. Nel mezzo, la porta maggiore; ai due lati le porte che mettono nelle sale.

Giacinto, Marco, Camerieri,
più tardi, alcuni forestieri in abito da viaggio
.

Marco (a Giacinto ed ai camerieri) Spicciatevi!... Mezzogiorno è suonato; a momenti avremo una invasione di forestieri.

Giac. (allʼorecchio di Marco) Credi tu che lo zio arriverà con questa corsa?

Marco—Non ne dubito; e la tua amabile cugina sarà con lui. Si parlerà del vostro matrimonio, e, ciò che più preme, Tommaso[114] mi rimborserà il denaro che ho speso per lui... Non dimenticarti che il calessino lʼho pagato trenta marenghi...

Giac.—Ti inganni, papà!... Quel pagamento lʼho fatto io, e so di aver contate al fabbricatore Dubourg trecento sessanta lire in argento...

Marco—Imbecille!

Giac.—Papà?...

Marco—Oh, che? temeresti di perdere lʼappetito o di malarti di itterizia, se tuo padre in questo affare guadagnasse una dozzina di napoleoni dʼoro?...

Giac.—Io pensava che se lo zio venisse a sapere... se lo zio parlasse col Dubourg...

Marco—Tuo zio non saprà nulla... Quellʼasino di Dubourg è fallito da due mesi e ha preso il largo per la California...

Giac.—In tal caso, non ho più nulla che dire...

Marco—Quel calesse val bene quaranta marenghi—mi hai capito?

(Entrano in scena alcuni forestieri giunti colla ferrovia).

Un Forest.—Ehi! padrone!... locandiere! vi sono camere in libertà?

Un Altro—Dovʼè la sala da pranzo?

[115]

Marco—Signori... per di qua!... entrino pure!... Vi sono camere per tutti.

(I forestieri entrano nelle sale).

Un Bromista—(ad un forestiere) Ehi! quel signore!... Se ne va senza pagare la vettura?...

For.—(Maledetto!—sperava sfuggirgli tra la folla!) (al cocchiere, bruscamente) Diamine! Mʼhai preso per un ladro? Eccoti cinque lire!... Spicciati a darmi il resto!...

(Il cocchiere gli conta le monete sulla mano, trattenendogli cinquanta centesimi al di sopra della tariffa e si allontana rapidamente).

For.—(contando) Cinquanta centesimi di meno! Son ladri questi cocchieri! Non importa! Mi sono liberato di un vecchio scudo svizzero che non ha corso... (entra nella locanda).

SCENA II.

Tommaso. Clementina, indi Roberto e Frontino che si trattengono in fondo al cortile.

Marco (correndo ad abbracciare Tommaso e Clementina) Fratello! nipote! evviva!

[116]

Tomm.—Ebbene: qua un abbraccio! come va la salute?

Giac.—(a Clementina) Come sta, signora Clementina?

Clem. (inchinandosi timidamente) Signore... ho lʼonore... ho il piacere...

Marco—Via! Che razza di maniere! quale sussiego! abbraccia tua cugina! E tu (volgendosi a Tommaso) consegna la tua borsa al garzone....

Tomm.—(ritirando la borsa) Adagio? Ci è della roba morta qui dentro, mi capisci? Quando si viene alla fiera, si è provveduti.... E.... poi.... lo sai bene, abbiamo dei conti da regolare fra noi.

Marco—Ah! vuoi parlare del calessino!... Abbiamo incontrato il tuo genio...? Sei contento...?

Tomm.—Contentissimo....

Marco—Solido... comodo: elegante... e a buon patto... (alzando la voce) Con cinquanta marenghi, somma tonda, ti netti la coscienza...

Tomm.—Cinquanta marenghi! poca roba!... (Li aspetterai un bel pezzo).

Marco—(facendo lʼatto di togliergli il sacco dalle mani) Consegna a me i tuoi[117] tesori... o piuttosto, vieni tu stesso a deporti nel mio gabinetto; così lasceremo un poʼ soli questi due ragazzi... che forse prenderanno coraggio...

Tomm.—(a Clementina) Attendimi qui... Tuo cugino ti terrà compagnia per pochi istanti....

(Tommaso e Marco entrano insieme nelle sale—Roberto e Frontino si avanzano).

SCENA III.

Clementina, Giacinto.

Giac.—Dunque.... Clementina.... voi sapete.... che nostro padre.... cioè nostro zio.... cioè.... voleva dire.... A che ora siete partiti da Montpellier?

Clem.—Col convoglio delle undici e cinque!

Giac.—Che bestia!... Le son domande? Poichè siete arrivati a mezzogiorno.... Voi dovete esser stanca del viaggio.

Clem.—Eh! niente affatto...! Al contrario.... il viaggio è tanto breve...!

Giac.—Sicuramente! Un viaggio di unʼora non può stancare.... (da sè, imbarazzato) Quanto tardano a tornare...!

[118]

Clem. (da sè) E non dice una parola del nostro matrimonio! A quanto pare, signor Giacinto, voi non vi aspettavate la nostra visita.

Giac.—Oh! che mai dite? già da tre giorni abbiamo apparecchiato le camere....

Clem.—Mio padre vi aveva dunque scritto di quel suo... progetto?....

Giac.—Certamente! Dei progetti ve ne hanno parecchi, ed io spero, anzi non dubito, che qualche cosa si combinerà....

SCENA IV.

Marco, Tommaso e detti.

Marco—Non si perda altro tempo! Mentre là dentro si prepara il pranzo, faremo insieme una passeggiata sulla fiera.

Tomm.—Andiamo!

Marco (offrendo il braccio a Clementina) Qua...! il tuo braccio, figliuola! Pur questa volta bisogna che ti contenti del vecchio papà. Giacinto resterà qui a sorvegliare la locanda.

Clem. (a Giacinto) A rivederci, signor cugino!

[119]

Giac. (a Clementina) A rivederci?

Marco—Fra unʼora saremo di ritorno.

(Giacinto entra nelle sale).

Tomm. (a Marco, dopo essersi incontrato in Roberto e Frontino) Tu credi dunque che la mia borsa...?

Marco—Fuori di Giacinto nessuno ha la chiave del mio gabinetto, e quel ragazzo ha un odorato sì fino pei birboni e pei ladri....

Tomm.—Basta! poichè tu mi sei garante... Andiamo Clementina!....

(escono).

SCENA V.

Roberto, Frontino, indi un cameriere.

Rob.—Frontino! non farmi lʼasino! Hai tu letto mai nelle istorie che qualcuno abbia compiuto delle imprese utili e grandi a stomaco digiuno? (battendo sulla tavola col bastone e gridando a tutta voce) Olà! famigli! garzoni! guatteri! bestie! In che mondo siamo? (sottovoce) Senti, Frontino, come la mia bella voce da baritono si è fatta rantolosa!... Gran segno[120] di appetito!... Saresti tu abbastanza compiacente, qualora io ti invitassi a far meco un buon pranzo, da accettare senza obiezioni di sorta?....

Front.—Un buon pranzo! si fa presto a....

Rob. (interrompendolo) Silenzio, bestione! Ecco il cameriere....

Cam.—Hanno chiamato, signori?

Rob.—Dieci volte per lo meno.

Cam.—In che possiamo obbedirla?

Front.—Per mio conto... io direi....

Rob.—Avanzati, subalterno! Tu mʼhai un viso che promette.... Sentiamo un poʼ cosa sapresti offrirci per stimolare il nostro appetito! Rifletti bene che siamo arrivati a Montpellier collʼultimo convoglio, e naturalmente, prima di metterci in viaggio, abbiamo consumato una eccellente colazione allʼalbergo della Corona dʼOro.... Vero figliuolo del mezzogiorno, tu già comprendi che se a noi piace di rimetterci a tavola, lo facciamo al solo scopo di procurarci un mezzo innocentissimo di distrazione, che non sia quello di sfidare in sulla piazza gli spintoni dei villani e le pedate dei cavalli.... Aggiungi pure che, nella nostra qualità di individui[121] privilegiati, noi comprendiamo i doveri della nostra posizione, che son quelli di favorire il commercio, consumando, in fatto di comestibili, quanto il nostro stomaco può comportare di più squisito e quindi di più costoso. Lode alla provvidenza, i nostri apparecchi organici a ciò destinati rispondono alle alte e generose espansioni dei nostri appetiti.—Mi hai tu compreso, o amabilissimo figlio del popolo?

Cam.—Signore: non credo esagerare affermandole che in questo albergo vi è tutto che può desiderare un forastiero della vostra condizione.... Ella potrà trovar qui ciò che si ha di meglio nelle più rinomate trattorie della centrale.

Rob.—Sentiamo!

Cam.—Vuol funghi? Trifole? Ragoste? Un pasticcio di Strasburgo?....

Rob.—A te, Frontino! Interpreta i miei desideri—ed emana sollecitamente i tuoi ordini a questo bravo garzone!

Front.—Ma... io?....

Rob.—Coraggio, nobile amico!

Front.—Ebbene: un mezzo pollo dʼIndia... o qualche altra inezia... tanto da snodare[122] i denti.... Ho sempre inteso dire che lʼappetito viene mangiando....

Rob.—A meraviglia... (al garzone) Tu hai capito... Vattene... fa di sbrigarti... e bada di servirci in una sala riservata! Prendi (gli dà una moneta) e se farai le cose a dovere....

Cam. (da sè) Due franchi! Ecco dei signori rispettabili!

Front. (al garzone) Dunque... vuoi servirci?

Cam.—(esitando) Vado e ritorno...! (da sè riponendo la moneta nelle tasche) Sarei minchione se gettassi questo danaro nella cassetta delle mancie!

(esce).

Front. (a Roberto, sul davanti della scena) Vedo che sei stanco di respirare allʼaperto... Noi ci perderemo....

Rob.—Ecco una ipotesi di cattivo gusto.... Io mi arresto al concreto e ti dico solennemente che... noi pranzeremo.

Front.—Sì... ma al momento di pagare....

Rob.—Pagheremo...!

Front. (col massimo stupore) Tu possiedi del denaro...!

Rob.—I miei ultimi spiccioli li ho immolati[123] a quel bravo garzone.... Quante volte dovrò ripeterlo che gli uomini di genio, i grandi speculatori, sono quelli che vivono col denaro degli altri...?

Front.—silenzio!

Rob. (volgendosi) Una dama!...

Front.—Una gran dama!...

Rob.—Possibile!... La nostra Deianira!....

SCENA VI.

Deianira. Armellina.

Deian. (scendendo da un brougham) Vieni, Armellina!... (al cocchiere) Tornerai fra unʼora colla carrozza... Frattanto faremo colazione in questa locanda....

Arm. (al cocchiere) Hai capito?... La signora baronessa ti ha ordinato di tornare fra unʼora.... (il veicolo parte).

Rob.—Baronessa! caspita!... è salita..... (inchinandosi con affettazione) Servo umilissimo della signora baronessa...!

Deian.—Roberto!!....

Fron.—Ai vostri ordini, signora baronessa....

[124]

Deian.—Fortunatissima del felice incontro....

Rob.—Qual buon vento vi ha portato alla fiera di Çette?...

Deian.—Un vento favorevolissimo senza dubbio. Allorquando quei due pianeti luminosi che si chiamano Roberto De-Foy e Deianira De-Cristen vengono ad incontrarsi e ad urtarsi...

Rob.—La terra risente una scossa... gli abissi si spalancano, e lʼumanità imbecillita straluna gli occhi in attesa di un grande miracolo...

Deian.—Ed è appunto un miracolo che ora sul momento convien operare... (sospirando) Roberto!... La tua fedele e appassionata Deianira è... al verde...!

Rob.—Bisogna metterla al giallo, non è vero?

Deian.—Sei un mostro di intelligenza!... Disponi fin dʼora di tutti i miei talenti di donna—e tu sai che io ne ho di molti.

Rob.—Senza quelli che andrai acquistando colla pratica. Ma, fine alle chiacchere—è tempo di agire...!—Deianira, ami tu i luigi dʼoro?...

[125]

Deian.—(scherzando).

Di quellʼamor che è palpito
Dellʼuniverso intero....

Ma dove trovarne?...

Rob.—Non occorre andar lontano.—Un compiacentissimo convoglio di ferrovia ne ha scaricati in buon numero....

Deian.—E sono?...

Rob. (accennando il gabinetto) Là...

Deian.—Vicinissimi...

Rob.—Non quanto basta per dirli nostri. La chiave del gabinetto è in potere di un vile tiranno.....

Deian. E questo tiranno...?

Rob.—È il figlio del padrone della locanda....

Deian.—Dammi lʼuomo nelle mani, e in mezzʼora io ti darò la chiave...

Rob.—Sublime! (abbracciandola) E qualʼaltra missione ha sulla terra, la donna fuor quella di svolgere a suo beneplacito le chiavi dei cuori... e delle serrature?

Deian.—Zitto! Ecco lʼuomo della chiave! (dopo aver lanciato a Giacinto unʼocchiata rapidissima) Un merlo di buona specie!... Secondatemi!

[126]

SCENA VII.

Giacinto e detti.

Giac.—Signori: il pranzo è servito (vedendo Deianira) Oh! la bella dama!... Io veniva....

Rob.—Avanzati, Frontino...! Poichè la nostra eccellentissima padrona lo permette....

Deian.—Un momento!... aspettate! (volgendosi a Giacinto con civetteria) Vieni qua, gentil garzone!... tu sei dunque?....

Giac.—Il figlio del padrone, per obbedirla!... (da sè) Una baronessa!....

Deian.—II tuo aspetto geniale, i tuoi bei modi, mi ispirano fiducia. Ascoltami bene (cavando di tasca un portafoglio). In questo portafoglio si contengono circa ventimila franchi... Una inezia! Ma vorrei fossero riposti in luogo sicuro....

Giac.—Li porterò, se credete, nel gabinetto di mio padre....

Deian.—(facendo lʼatto di consegnare il portafoglio a Giacinto e guardandolo con espressione) Basta! Mi fido di te...[127] La tua fisonomia non può ingannare (sottovoce) Tre volte merlo!....

Giac.—Oh, troppo buona, sig. baronessa....!

Deian.—Ecco! (trattenendosi) Ma no... aspetta.... Se qualcun altro volesse incaricarsi... (accennando a Roberto) se il mio segretario....

Rob. (avvicinandosi) Comandi, baronessa!

Deian. (a Giacinto stringendogli la mano) Avresti qualche garzone fidato da mandare con lui?

Giac. (forte) Ehi, di là! Giovanni! (esce un cameriere) Accompagna questo signore nel gabinetto di mio padre.

Deian. (consegnando a Roberto il portafoglio) Bada che questa piccola somma sia posta in luogo sicuro....

Rob.—Non la dubiti, baronessa!

Front.—La signora baronessa, non ha ordini per me?

Deian. (fingendo impazientarsi) Che noja lʼaver dei domestici! Andate, andate tutti!

Giac. (inchinandosi per partire) Signora baronessa....

Deian. (con espressione) Te ne vai?.... Se io ti pregassi di rimanere?....

(Roberto, Frontino e il cameriere entrano nellʼalbergo).

[128]

SCENA VIII.

Gacinto—Deianira.

Giac. (tornando presso Deianira) Che avete...?

Deian. (appoggiandosi al braccio di Giacinto) Nulla...! un capogiro... una leggiera indisposizione a cui vado soggetta....

Giac.—Venite, baronessa...! entriamo nelle sale...!

Deian.—No...! no!... Lʼaria aperta mi farà bene.... Ecco! mi sento già meglio.... Va pure...! Tu hai da fare nella locanda... e sarebbe indiscrezione lo intrattenerti....

Giac.—Ma... io...

Deian.—Ti chiamerò se mi occorrerà qualche servigio—il tuo nome?...

Giac.—Giacinto...

Deian.—Giacinto! Uno di quei nomi che non si obliano.... Va pure...! richiamerò se abbisogna...

Giac. (scostandosi) Come aggrada alla signora baronessa....

[129]

Deian.—Aspetta...! Qualche volta delle singolari fantasie attraversano il nostro cervellino di donna.... Saresti abbastanza amabile da soddisfare ad un mio capriccio... ad una mia curiosità innocentissima?... (riprendendolo a braccio con famigliare civetteria) Non si tratta che di rispondere a questa semplice domanda: sei tu innamorato?...

Giac. (ingenuamente) Perchè?...

Deian.—Tu mi interroghi in luogo di rispondere—ma il tuo rossore... la tua esitanza mi dicono più che non amerei sapere... Tu sei fidanzato, non è vero?...

Giac.—Infatti... mio padre... mio zio... la cugina...

Deian. (bruscamente) Va... dunque!...

Giac. (da sè, guardandola sorpreso) Sembra sdegnata!...

Deian. (levando dalla borsa un biglietto) Quando ti recherai a Parigi pel tuo viaggio da nozze, non mi sarà discaro il rivederti... Non verresti volentieri a Parigi?

Giac.—Ah! baronessa!... Parigi è il mio sogno... Parigi!... Io non invidio altra fortuna al mondo fuor quella di poter[130] vivere nella grande capitale...! (In questo punto, una carrozza si arresta al di là del cancello. Roberto si avanza col cameriere, mentre Frontino e Armellina si accostano alla carrozza deponendovi un sacco da viaggio).

Deian.—La mia carrozza...!

SCENA IX.

Roberto—Frontino—Armellina
un Cameriere e detti.

Cam. (a Giacinto) Ecco la chiave del gabinetto (si inchina e parte).

Rob. (inchinandosi) Gli ordini della signora baronessa vennero eseguiti... Ed ora, se la signora baronessa volesse permetterci di pranzare....

Deian.—Certamente... (collʼaria di chi muta improvvisamente di pensiero) Ma poichè quel scimunito di cocchiere ha anticipato la sua venuta—io credo che una breve scarozzata nei dintorni della città non mi farà male... Pocʼanzi ho[131] avuto un assalto della solita emicrania (volgendosi a Giacinto) Se il nostro amabilissimo signor Giacinto volesse darmi il braccio... fino alla carrozza....

Giac. (offrendole il braccio) Di tutto cuore, signora baronessa....

Deian.—Vieni, Armellina!

Front.—E noi... altri?....

Deian. (scherzosa) Voi altri pranzate pure, poichè avete tanta premura.

Rob.—No! no! ci fate torto, baronessa...! (a Giacinto) Si sospenda il servizio del pranzo fino al nostro ritorno...!

Giac.—Sta bene....

Deian.—Torneremo fra mezzʼora—non è vero?...

Rob. (aprendo gli sportelli della carrozza) Signora baronessa!...

Deian. (staccandosi da Giacinto per salire nella vettura) Questa notte dormiremo qui... Vorrei che nella mia stanza mi aspettasse uno di quei bei fiori, pieni di fraganza, che si chiamano giacinti....

(sale nella carrozza dove tosto vanno a collocarsi Roberto, Frontino e Armellina).

Rob.—A rivederla, signor Giacinto!

[132]

Front.—Servo umilissimo del signor Giacinto!

Giac. (inchinandosi e salutando mentre la la carrozza si allontana) Felice ritorno, signor Giacinto.... cioè.... voleva dire... imbecille!

SCENA X.

Giacinto, che sarà rimasto alcun tempo presso il cancello come impietrito guardando verso la strada.

Quali occhiate!... quali parole!... Ed io, bestia... impietrito... mutolo... incapace... di ideare un complimento...! Ecco ciò che può chiamarsi una donna.—E dicono che certi tipi non si trovano che sulle fotografie e nei romanzi!—Una parigina! Ora comprendo come a Parigi si commettono tanti delitti per amore...! E stassera verrà ad alloggiare nellʼalbergo...! E mi ha pregato di collocare un giacinto nella sua stanza...! Ho inteso dire... e credo anche di aver letto che queste[133] dame di alto rango hanno certi capricci... Ma no! Sarebbe troppo...! Non ho avuto il coraggio di profferirle una galanteria.—Ah! siamo pure imbecilli... noi altri della provincia!—Non ardirei toccarle una mano. E perchè? Alla fine, io sono giovane... un bel giovane, tutti lo dicono; e qui a Beaucarie ho già veduto molte ragazze spasimare peʼ miei begli occhi... Ma qui non è il caso di spasimi... Con queste parigine bisogna andar per le corte... Se bevessi dellʼassenzio! È un liquore che esalta... che infonde coraggio... Poi... questa sera... vado nella sua stanza da letto... depongo il candeliere sulla tavola da notte... e se ella mi guarda, come faceva poco dianzi, col bianco dellʼocchio—se mi fa capire con quel suo garbo assassino che le abbisogna... un giacinto—eccomi! le grido, cadendole alle ginocchia—se questo può bastarvi prendetelo.... laceratelo.... calpestatelo.... fatene lʼuso che vi piace—ma non dimenticate, o baronessa, non dimenticate...—Che cosa?... No! Due bicchierini di assenzio non basteranno... nè berrò tre... quattro.... tutta una fiaschetta... Voglio[134] farmi onore... altrimenti ella sarebbe ben capace di cantarmi quella vecchia aria di Vaudeville:

Col nome di Giacinto
Tʼhan battezzato invano,
Ognuno per istinto
Ti chiama tulipano!

(cantarellando)

Giacinto... bel Giacinto
Sei proprio un tulipano!

SCENA XI.

Marco, Tommaso, Clementina.
e detti.

Marco (a Clementina)—Lo senti? Senti come canta?... Il merlo è innamorato.

Giac. (volgendosi) Oh!... Ben tornati!

Tomm. (a Marco) Lasciamoli qui ad intendersela fra loro... Noi vecchi pensiamo agli affari....

Marco (a Tommaso) Eh via!... Cʼè tempo... Non sarebbe meglio andare a tavola?

[135]

Tomm. Amerei si aggiustassero i nostri conti....

Marco Che furia!... Li aggiusteremo a pancia piena....

Tomm. No... no... fratello; gli affari avanti tutto... Andiamo...!

(Lo trascina nellʼalbergo).

SCENA XII.

Giacinto, Clementina.

Clem. (timidamente in atto di allontanarsi) Se vi disturbo, cugino....

Giac. (imbarazzato) Oh! al contrario, signora cugina....

Clem. Perchè avete cessato di cantare?...

Giac. Ah!... Voi mi avete udito? (osservando Clementina e parlando fra sè) Qual differenza collʼaltra!

Clem. Sapete, cugino, chʼio vado pazza per la musica!... Tralascerei di pranzare per poter andare allʼopera!... (fra sè) Come mi guarda!

Giac. Davvero! (fra sè, osservandola) Vedi[136] che maniera di abbigliamento! Le nostre ragazze di provincia mancano affatto di gusto!

Clem. (fra sè) Ma perchè mi guarda in quel modo?....

Marco (di dentro) Giacinto!... Giacinto!...

Tomm. Al ladro!... Al ladro!...

Giac. Quali grida!...

Clem. Ah! Gesummaria!... (correndo verso suo padre che entra con Marco) Papà! papà! cosʼè accaduto?

SCENA XIII.

Marco, Tommaso e detti
Garzoni dʼosteria, forestieri, guatteri
.

Tomm. (gridando) Al ladro!... Al ladro!...

Clem. Insomma! si può sapere?...

Tomm. La, mia borsa da viaggio!... Cinque milla franchi perduti!...

Tutti. Cinquemila franchi!!!

Tomm. (fra sè) Non erano che mille!... ma... tanto fa... mio fratello ha garantito per la somma totale....

[137]

Marco (venendo in mezzo a tutti) Giacinto!... disgraziato!

Giac. Papà...!

Marco Rispondi, imbecille! La chiave del gabinetto è uscita o non è uscita dalle tue mani?

Giac. Ma io... la baronessa... il segretario... il portafogli...

Marco (investendolo) Ah!... Miserabile! Ah! ladro!....

Clem. (interponendosi) Fermatevi!... calmatevi!...

Giac. Oh! vedi un poʼ che invece di pigliarsela con quelli che hanno rubato....

Forestiero.—È dunque vero?... Che fate qui? Il ladro non può essere lontano!... convien far presto!... Con vostro permesso, io corro ad avvertire i carabinieri...!

Tomm. (al forestiero) Grazie! obbligatissimo!... (il forestiero esce per la porta che dà sulla via). E noi... vediamo di tenere la testa a segno... (a Marco) Infine non si tratta che di seimila franchi... Me ne duole per te... che hai garantito... ma in ogni modo ci accomoderemo.

Marco—Seimila!... (senti, come crescono!...)

[138]

Tomm.—Siamo o non siamo fratelli? (volgendosi a Giacinto e a Clementina) Questi poveri ragazzi hanno il viso bianco come un panno lavato!... Vieni, Marco!... Te lo ripeto: fra noi ci intenderemo... (a voce alta) Tutti conoscono la tua probità; tutti sanno che quando ti fai mallevadore di una somma a te confidata, si può in ogni caso contarci sopra, si trattasse di millioni! (entrano nello studio).

SCENA XIV.

Un Garzone, un Guattero e un Piccolo.

Il Garzone. (correndo) Quel signore che pranzava nel salottino?...

Il Guattero.—È uscito per andar in cerca dei carabinieri....

Garz.—Vale a dire... ha profittato del parapiglia per svignarsela senza pagare il conto....

Il Piccolo. (in disparte, dopo aver ascoltato) Quandʼè così, posso in tutta coscienza vuotare il quintino che quel signore[139] mi avea ordinato (beve, ed entra nelle sale).

Garz.—Seimila franchi—che ne dici?...

Guatt.—Un bel colpo!...

Garz.—Seimila franchi non fanno la fortuna di un uomo.

Guatt.—È vero.—Se si trattasse di ventimila...!

Garz.—Poco ancora....

Guatt.—Ecco!... centomila! non ti pare? è una somma rotonda che farebbe al caso nostro...

Garz. (allontanandosi) Centomila!... A poterla far franca... una volta tanto!...

(entra nelle sale zuffolando).

Guatt.—Oh, certo! tutto sta a poterla far franca!... Ma io, lo confesso, mi accontenterei di assai meno... Non sono aristocratico... io... (entra nella locanda).

SCENA XV.

Un Sergente e due carabinieri.

Sergente—Tenete dʼocchio quanti escono dalle sale. Non fate caso degli abiti o delle apparenze—sopratutto non dimenticate[140] questo assioma di polizia pratica: che lʼuomo nasce ladro e che gli istinti naturali sono più forti in lui di ogni principio... acquisito dalla educazione o imposto dal terrore della legge. Non vi disarmi rispetto di età, di sesso, di condizione sociale o di riputazione illibata. La persona sulla quale porrete le mani potrà essere innocentissima del reato che costituisce pel momento lʼoggetto delle vostre indagini, ma in ogni modo lʼarrestato sarà un deliquente. Non vi inganni quella che suol chiamarsi la calma serena di una coscienza incolpevole. Diffidate sempre. I più impassibili sono dʼordinario coloro che si tengono certi di poter eludere la giustizia e uscir netti dalla procedura per mancanza di prove. Se mai vi accadesse, dietro una assoluta evidenza di incolpabilità, di dover rilasciare qualcheduno sul quale abbiate già poste le mani o le manette, fategli, come dʼobbligo, le vostre scuse; ma a fior di labbro, ondʼegli abbia a capire che la vostra deferenza è momentanea, ed esclusivamente relativa allʼincidente da cui fu motivato lʼarresto. Badate di esprimergli[141] con un arguto sorrisetto: «se oggi non hai rubato, non sei però men ladro degli altri, e bada che qualche giorno ci ricadrai nelle ugne per davvero!» Tali avvertimenti non sempre si perdono infruttosi. Poichè gli uomini son ladri, facciamo chʼessi rubino il meno possibile. Tale è lʼalta missione che Dio ci ha affidato. Ed ora, ciascuno ai suo posto!

(Il sergente entra nelle sale, e i carabinieri si appostano in fazione alle due porte del cortile).

FINE DELLʼATTO PRIMO.

[142]

a2

ATTO SECONDO.

SCENA I.

Appartamento sotterraneo in Parigi.—Nessuna porta visibile.—Scala a chiocciola che comunica collʼappartamento superiore.—A destra, sovra un rialzo, un tavolo con tappeto verde e grande seggiola a bracciuoli.—In faccia al tavolo, più basso, doppia fila di sedie.—Sulla parete di fondo, un cartello colla iscrizione: ALTA SCUOLA DI COMMERCIO E DI INDUSTRIA.—Ai due lati, piccoli cartelli colle epigrafi: Emancipazione dal lavoro!—Guerra al capitale... altrui!...

Roberto indi Frontino.

Rob. (guardando verso la soffitta) Ecco il segnale! (va in fondo alla scena, preme un bottone di ferro che sporge dalla parete; la soffitta si apre dal lato che comunica colla sala) Esattissimo, questo Frontino!

[143]

Front. (che sarà sceso dalla scala dopo aver rinchiusa la porticela) Eccomi! (tirando lʼorologio dal taschino del gilet) Le quattro e due minuti.

Rob.—Come andò la giornata?

Front.—A meraviglia!... (mostrando lʼorologio) Non ti sei accorto del nuovo acquisto?...

Rob. (osservando lʼorologio) Stupendo! E lʼhai avuto?...

Front.—Dalla mia destrezza....

Rob.—Il tempo non è denaro, ma questo misuratore del tempo può valere da trecento a quattrocento lire... Te ne faccio dono.

Front.—Tante grazie!...

Rob.—È venuta gente alla Agenzia?...

Front.—Nè troppa nè poca. Fra gli altri, un giovanetto della provincia per chiedere lʼindirizzo della baronessa De-Cristen, al mondo Deianira.

Rob.—Lʼhai riconosciuto?

Front.—Il viso non mi era nuovo....

Rob.—Ebbene: senza averlo veduto, io ti dirò chi è. Quello era il figlio dellʼalbergatore di Çette, dove abbiamo operato lo scorso mese....

[144]

Front.—Verissimo... Ora mi sovvengo...! proprio lui in persona....

Rob.—E gli hai dato lʼindirizzo di... madama la baronessa?

Front.—Dopo averlo fatto tornare quattro volte, e dietro una tassa di lire quaranta.

Rob.—Deianira saprà cavargli ben altro—A proposito: il sarto?

Front.—II sarto ha portato il magnifico abito da monsignore che gli hai ordinato... Il temerario ha avuto lʼardire di domandarmi un a conto....

Rob.—Era il caso di saldare.

Front.—È ciò che ho fatto. Ho riflettuto che quel ladro, partendo a mani vuote, avrebbe potuto adombrarsi... della ordinazione bizzarra che gli abbiamo fatta... e tirarne delle conseguenze poco omogenee.

Rob.—Riflessione giustissima.—Del resto, non temete, Frontino!.—La casa che noi abbiamo scelta a teatro delle nostre grandi strategie commerciali, non potrebbʼessere più acconcia e più sicura. Chi lʼha fatta costruire devʼesser stato uno strategico di prima forza. LʼAgenzia e[145]Ufficio di indizii del piano terreno sono più che sufficienti a tutelare lʼAlta Scuola di Commercio stabilita nel grembo della gran madre. Tutte le religioni delle umanità han sempre dovuto, al loro nascere, rifugiarsi nelle catacombe.—Ciò che importa è di star sul chi vive, onde lʼocchio della vigile non oltrepassi mai quella barriera (addita la porticella attigua alla scala).

Front. (rabbrividisce).

Rob.—Ancora delle paure?...

Front.—È da molto che non consulti.... lʼamico?

Rob.—Il codice?... Oramai lo so a mente.

Front.—Hai tu mai riflettuto che la nostra ultima tratta di Çette, unitamente a quella che andremo a stendere fra unʼora, ci verrebbe scontata alla banca delle Assise in quattordici anni di lavori forzati...?

Rob.—Ragione per cui bisogna assolutamente che i nostri titoli si scontino altrove.

Front.—Eppure: la è una brutta prospettiva, quattordici anni di lavori forzati!

Rob.—Converrai meco che quella dei lavori[146] forzati a vita è una prospettiva assai meno lusinghiera...

Front.—Ne convengo...

Rob.—Orbene: ad eccezione dei pochissimi a cui le ladrerie del bisavolo o del padre han procacciato una rendita sufficiente a campare la vita, tutti gli individui della famiglia umana non rappresentano che altrettanti condannati al lavoro perpetuo. Frontino: vuoi tu smettere di fare il ladro? Entra nella galera degli uomini onesti: lavora dieci ore al giorno, e crepa inosservato e disprezzato sotto il tuo abito da fatica.

Front.—Anche disprezzato...! e tu credi?...

Rob.—La società non accorda la sua stima al lavoratore, se non il giorno in cui questi collʼopera sua abbia adunato tal patrimonio da poter dire: io non ho più bisogno di lavorare per vivere.—Orbene: credi tu che questa stima non sia comunemente accordata anche a quelli che, dopo aver guizzato parecchi anni fra gli uscieri ed i birri, ed aver scroccate ai procuratori delle assolutorie molto equivoche, si adagiano trionfalmente sovra un bel trono di banconote, guardando di[147] alto in basso quelle milliaja di imbecilli che sudano per morire di fame?—Non vi è per la società che una sola classe di uomini disprezzabili—quelli che non hanno denaro. Il giorno in cui tu, mio povero Frontino, uscissi nella strada cogli abiti logori e le scarpe corrose per muovere al ricupero della tua patente di uomo onesto, i ricchi ed i poveri, i superbi e i cortesi, quanti infine ti occorreranno per via, si tireranno in disparte, lanciandoti una occhiata di disprezzo e quasi di abbonimento.—Alla miseria non vʼè alcuno che perdoni. Però ti consoli il pensiero, che allorquando ti avverrà di dover attraversare una piazza sovra un sudicio carretto, colle mani legate, in mezzo a due rappresentanti della tirannide; tutti gli onesti esclameranno una parola di compassione pel povero catturato, e qualcuno ti getterà una moneta mormorando: peccato! lasciarsi prendere!...

Front. (abbracciando Roberto) Mi fai piangere di tenerezza....

Rob. (cavandogli lʼorologio dai taschini del gilet) Rasciugagli occhi... e andiamo[148] a pranzo!—questa notte il tuo genio ed il mio saranno messi ad una gran prova....

Front.—Mi farò onore, te lo prometto!

Rob.—Sai dirmi che ora abbiamo?

Front. (si tocca e non trova, lʼorologio) Diamine!

Rob. (riconsegnandogli lʼorologio) Prendi...! A tutto rigore di diritto, sarebbe mio—ma voglio incoraggiarti—te lo dono una seconda volta!

Front. (con entusiasmo, prendendo lʼorologio) Ammirabile!

(salgono insieme per la scaletta).

SCENA II

Gran sala splendidamente illuminata.—Quattro porte laterali.—Altre due nel fondo.—In una delle sale attigue si vede un pianoforte.—In altra sala un tavolino da giuoco.

Armellina e Giacinto.

Arm. (introducendo Giacinto) Entrate, signore!

Giac.—Grazie! (fra sè, guardandosi intorno) Che splendide sale!....

[149]

Arm. (da sè, osservando Giacinto) Questa figura non mi è nuova!...

Giac. (fra sè) Quanto lusso!... (timidamente in atto di andarsene) Quasi... quasi...

Arm.—Voi venite?...

Giac.—Da Çette... una oscura città della provincia...

Arm. (tra sè) Ah! mi sovvengo di questo gaglioffo!—(a Giacinto) Mio caro signore, non arrivate in buon punto...! La contessa... cioè volevo dire... la baronessa...

Giac.—Se non mʼinganno voi eravate a Çette in compagnia della signora baronessa allʼapertura della fiera?...

Arm. (da se) Quale imbarazzo!... (a Giacinto) Perdonate! vado ad annunziarvi alla mia nobile padrona.

(esce dalla porta a sinistra).

SCENA III.

Giacinto solo.

Non so più in che mondo io mi sia!... Quanta luce!... Quanti fiori!... Cʼè da restarne abbagliati!... Sento che non avrò[150] la forza di articolare due monosillabi... È meglio che me ne vada...! (fa per andarsene, poi si ferma) Vergogna, Giacinto! Manomettere il denaro di tuo padre... fuggir di casa... venir a Parigi in cerca di una donna... e adesso che lʼhai trovata, adesso che stai per vederla, fuggir via come un imbecille!... Ma cosa hanno dunque, queste diavolesse, che più le desiderate... più tremate di vederle!... (depone il cappello su una seggiola) Eccola!... Sento il fruscio del suo abito di seta!... Come mi batte il cuore...!

SCENA IV.

Armellina, Deianira, Giacinto.

Deian. (entra in abito alla Pompadour—parla ad Armellina senza volgersi a Giacinto) Brava! e tu introduci e vieni ad annunziarmi dei visitatori senza informarti dal loro nome e dei loro titoli!

Arm.—Al vederlo mi è sembrato di conoscerlo... e voi pure baronessa...

[151]

Deian. (volgendosi a Giacinto) Vediamo dunque!... Va pure, Armellina!

(Armellina esce).

SCENA V.

Giacinto, Deianira.

Giac.—Signora baronessa....

Deian. (inchinandosi) Signore...! Mi sembra infatti....

Giac.—Come?... Non mi conoscete più?...

Deian.—Perdonate!... (guardandolo fissamente con civetteria).

Giac.—Io sono Giacinto... quel giovane di Çette... il figlio dellʼalbergatore....

Deian. (con trasporto) Voi!... saria dunque possibile?....

Giac.—Non mi avevate detto?... non vi aveva promesso?...

Deian.—Di venire a Parigi pel vostro viaggio da nozze? Hai dunque preso moglie, scellerato!

Giac.—No...! non ancora! non sono così bestia... come sembro....

[152]

Deian. (con trasporto) Giacinto!...

Giac.—Vi sovvenite dei mio nome! mi riconoscete?

Deian. (come sopra) Se ti riconosco! Ingrato...! non ti ho sempre portato nel mio cuore?...

Giac.—Ah!... Baronessa!... Non posso credere....

Deian. (con affettazione) Tu non sai dunque cosa sia il cuore di una donna!... Tutti così, questi ingrati! Ignorano o fingono ignorare che nel nostro povero cuore tutto passa, tutto si cancella... tranne la prima impressiome di un volto... di una voce... di uno sguardo...

Giac.—Ah! baronessa...!

Deian. (prendendogli la mano) Continuerai tu sempre ad umiliarmi... con questo fatuo titolo?

Giac. (tra sè) Signora... perdonate... Noi altri di laggiù siamo tanti... come si suol dire... minchioni... Si vorrebbe parlare!... si vorrebbe fare... ma poi manca la voce, mancano le forze... Desiderava tanto di vedervi...! e adesso... vedete!... mi tremano le gambe... e tutto il resto... Basta...! a poco, a poco prenderò coraggio... Se[153] sapeste come mi fanno bene le vostre parole... Se sapeste cosa ho fatto per rivedervi!... Il desiderio di venire a Parigi assorbiva tutti i miei pensieri... Ma—che volete?—si hanno dei genitori—o questi sono sempre un poʼ stitici, quando si tratta di metter fuori quattrini... Ho dovuto...—vedete a che spinge lʼamore! ho dovuto, per aver del denaro...

Voci Interne—Vogliamo passare!...

Una voce più forte—Ho già fatto la strada dieci volte!...

Deian. (interrompendo Giacinto) Scusate...! Che diavolo di baccano là fuori?...

Giac. (tra sè) Maledetti gli importuni!... Proprio adesso che la mia lingua cominciava a snodarsi...

SCENA VI.

Armellina e detti.

Arm. (accorrendo e parlando sottovoce a Deianira) Signora!... Un gran pericolo!... Cinque creditori ad un tratto!... La sarta, la modista, il calzolaio...

[154]

Deian.—Mandali via colle buone!

Arm.—Impossibile!... Hanno giurato che se non vedono... mi capite... faranno un chiasso del diavolo....

Una voce—Entriamo! è tempo di finirla!

Deian. (imbarazzata) Qual contrattempo:

Giac.—Che è stato?...

Deian. (appoggiandosi al braccio di Giacinto e fingendosi estremamente impaurita) Mio Dio!...

Giac.—Signora, che avete?... Ho inteso degli schiamazzi là fuori... Se si trattasse di somministrar quattro pugni... vi assicuro che noi altri della provincia... sappiamo tirarci dʼaffare per bene.

Deian.—Ah!... Giacinto.... Io sono perduta!...

Giac.—Perduta?... Ma dunque...!

Deian.—Pare siano venuti espressamente a questʼora per farmi arrossire davanti al solo uomo... che io....

Giac.—Arrossire!... ma di che? Via! parlate, baronessa! vi ripeto che se si tratta, di somministrare dei pugni...!

Deian. (abbracciandolo) Cuore ingenuo e sublime!...

Giac.—Forse dei temerarii che pretendono... al vostro amore!

[155]

Deian.—Non insisterebbero tanto... Tutte il mondo che mi avvicina sa che io mi son fatta inaccessibile... dacchè lʼanno scorso... in una certa città in riva al mare... in un certo cortiletto da albergo tutto pieno di fiori.... ho veduto... ho scambiato delle parole con un certo.... Animo! Non vuoi proprio aiutarmi a trovare questo bel nome?... (gli getta al collo le braccia, Giacinto si permette di esalare un sospiro, torcendo gli occhi verso la soffitta.—Al difuori si rinnovano le grida.—Armellina, dietro le spalle di Giacinto, accenna a Deianira che è tempo di parlar chiaro).

Giac. (impazientito dalle grida) Ma... insomma... è tempo di farla finita! (esce con Armellina).

Deian.—No! fermati... tesoro!... (gli tien dietro fingendo di volerlo trattenere; poi torna sul davanti della scena, si guarda nello specchio, riordina colla mano alcuni nodi, quindi si accosta in punta di piedi alla porta donde sono usciti Armellina e Giacinto).

Deian.—Benedetto! è la provvidenza che lo ha mandato... Lo schiammazzo cessa...[156] Non si odono che parole di ringraziamento... Se ne vanno!... sono partiti...! (correndo incontro a Giacinto) Ci sei dunque riuscito?... Se tu sapessi...! Vedi a che siamo esposte, noi, povere donne, quando siamo sole, quando non si vuoi transigere collʼonoratezza... col decoro... Vieni, Giacinto!... Dallʼapparato che tu vedi, avrai già capito che questa sera dò nelle mie sale una piccola festa in costume... Voglio metterti un bel abito alla Luigi decimoterzo!... Quale sorpresa pei miei amici...! Ti presenterò sotto il titolo di barone... e di mio cugino... In società è molto facile far la parte di barone; ma saprai tu rappresentarla per bene, la parte di cugino?....

Giac. (confuso) Li ho mandati in pace con due biglietti da cinquecento....

Deian. (con civetteria) Fra cugini non è di buon genere parlar di affari... Converrà che io ti insegni a rappresentare la tua parte. Vieni! faremo delle prove là dentro!... (entrano insieme negli appartamenti a destra).

[157]

SCENA VII.

Armellina, quattro domestici, signori e signore, un fanciullo.

Arm. (introducendo gli invitati) Entrino pure! La signora baronessa verrà a momenti!

(gli invitati si disperdono nelle sale; i domestici si collocano agli ingressi dei gabinetti).

Un Fanciullo (ad uno degli invitati) Vedi, papà, i bei lampadarii... le magnifiche dorature!....

Il Padre—Modera il tuo entusiasmo—e ficcati bene in mente questa massima: che all'ammirare ogni cosa si passa per imbecilli.

Fanc.—Terrò calcolo del tuo avviso.

Padre—Ed ora, va! gira... passeggia... divertiti come puoi!... E quando si aprirà il buffet... non dimenticarti di tua madre e delle tue piccole sorelline che sono rimaste in casa ad attenderti. Riempiti[158] quanto più puoi le tasche di ciambelle e di confetture....

Fanc.—Oh!... lascia fare...! Anche la mamma me lʼha raccomandato....

Padre—Segui sempre i consigli di quella santa donna e di chi ti vuoi bene—te ne troverai contento!

(si allontanano—altri invitati sì portano sul davanti della scena).

SCENA VIII.

Signori e signore, Frontino in disparte.

Una Signora—È strano che la baronessa non si faccia vedere....

Un Signore (alla signora) Si vuole che un suo ricco parente di Bruxelles giungesse improvvisamente stassera... per saldare—relata refero—certe partite....

Signora—Che la baronessa sia dissestata?....

Signore—Certo... le voci che corrono... sul di lei conto....

Signora (accennando a due invitati che passeggiano a poca distanza) Chi sono quei due decorati della legion dʼonore?

[159]

Signore—II primo... quello dal volto bruno... coi favoriti allʼamericana... è nientemeno che il cavaliere Dumonsail, il celebre inventore della macchina per fare le addizioni.—Intendiamoci.—Si vuole che il vero inventore fosse un povero maestro di calligrafia, dotato di molto ingegno, ma povero affatto di mezzi pecuniarii.—Al buon uomo, per tradurre in fatto la sua invenzione, abbisognava la mano di un abile meccanico.—Va dal Dumonsail, che a quellʼepoca era un mediocrissimo operaio in ferro bianco—gli svela il suo segreto, gli commette di costruire la mecchina—e questi un bel giorno presenta alla Esposizione il suo piccolo congegno, ottiene il brevetto di invenzione, e in meno di quattro anni diventa millionario.

Signora—Ma, bravo!... Ci vuol dellʼingegno e del coraggio a far di questi colpi!... Ah! Ah!

Signore—Voi ridete?...

Signora—Chi non riderebbe, pensando a quellʼimbecille di calligrafo? E quellʼaltro signore?

Signore—Il signor Chezmoi—un usuraio[160] che da trentʼanni presta al cento per cinque....

Signora—Di ragione... sarà ricchissimo....

Signore—Circa dieci millioni di patrimonio....

Signora—Non credeva di trovare nelle sale della baronessa De-Cristen una società cosi eletta (si allontanano).

Front. (avanzandosi tra una folla di invitati) È vano scommettere! perdereste...! Nessuno meglio di me conosce la vita o i miracoli di questi amabilissimi e splendidissimi signori. Rosamunda Rosalez De-Cristen dei Cid baronessa di Baltimora e dʼAlcazar è spagnuola di origine come i suoi titoli ne fanno fede. Al cadere della dinastia borbonica, i di lei beni vennero confiscati—ciò è positivo... ciò è reale... ciò è incontrastabile—ma è positivissimo, realissimo, incontrastabilissimo che ella ha avuto lʼaccortezza di far passare in tempo utile alla banca di Francia un gruzzoletto di dieci millioni....

Tutti—Dieci millioni....

Signore (sottovoce) Bombe... e cannoni!....

Un Altro (sottovoce vicino) Dieci millioni... assicurati sulla banca del Puff!...

[161]

Il Vicino—Questi dettagli non mi interessano.—La baronessa dà dei buoni pranzi, delle cene magnifiche, delle splendide feste—strilleranno i puffati; frattanto da noi si gode!....

SCENA IX

Deianira, Giacinto, Armellina
e detti.

Front.—Ma eccola!... ecco la Dea dellʼoro e della bellezza!... (Tutti si inchinano.—Deianira si avanza a braccio di Giacinto vestito in costume alla Luigi XIII).

Deian.—Signore... signori... perdonate se mi sono fatta aspettare... Ho lʼonore di presentarvi il barone Alonso Del-Cid, mio cugino, venuto espressamente da Bruxelles per prender parte alla mia piccola festa (tutti si inchinano a Giacinto).

—Ho lʼonore...

—Ho il piacere...

[162]

Un Signore (al vicino sottovoce) Questi cugini!...

Lʼaltro (sottovoce) Questi baroni!...

Giac. (ai molti che gli si fanno dʼattorno) Cugino... barone... Del-Cid... da Bruxelles... troppe grazie!...

Deian. (con disinvoltura) Ed ora, smettiamo il sussiego!... Frontino... monsieur Frontin... impareggiabile organizzatore e direttore delle feste—mi pare che la società sia completa... Noi attendiamo un vostro segno per slanciarci nei vortici del ballo o per immergerci voluttuosamente in un bagno di melodie....

Front.—Prima di tutto, un poʼ di musica... non è vero?... Se il signor Gallinini vuoi mettersi al pianoforte....

Gallinini—Eccomi!... Non mi farò pregare... Ardo dal desiderio di offrire a queste darne e a questi signori una primizia—voglio dire una breve romanza senza parole che io improvvisai la scorsa notte in riva della Senna... al pallido chiarore della luna... fra il gorgoglio delle acque... e lo stormire delle fronde....

Pront. (interrompendolo) Da bravo!... la si metta al pianoforte, signor Gallinini...!

[163]

Deian.—E noi, mettiamoci a sedere... ed ascoltiamo... Il signor Gallinini non può darci che della musica di paradiso.

Un Signore—Gallinini!... al cognome devʼessere italiano... (Gallinini preludia sul pianoforte) Deliziosa!... Alle prime battute si vedono le stelle, la luna, le fronde, le acque della Senna...

Un Signore (al vicino accennando a Giacinto) Mi pare che quel barone debba avere del positivo... nel portafogli... Se lo invitassimo a giuocare!

Altro—Ci pensava anchʼio... (a Giacinto). Se il signor barone Del-Cid, col buon permesso della amabilissima signora baronessa, volesse fare quattro colpi al lʼecarté....

Deian. (sottovoce a Giacinto) Non permetto...!

Giac. (al signore che lʼha invitato a giuocare) la signora baronessa non permette....

Deian. (ai signori). Un cugino che non rivedo da otto anni...! Signori!... comprenderete....

Signore—Naturalissimo...! Mille perdoni, baronessa (sottovoce al compare allontanandosi) Fra tanta gente troveremo il nostro merlo anche stassera!

[164]

Deian. (a Giacinto) No! non voglio che tu giuochi... Quei signori ti spiumerebbero... Ed io ti voglio tutto per me, mio bel piccione!

Giac.—Piccione...! Ne avete, voi altre parigine, delle parole per muovere il sangue...!

(Giacinto e Deianira si allontanano a braccio—la musica finisce—grandi applausi).

SCENA X.

Alcuni Signori.

Io—Che ne dici di questa melodia?

IIo—Bella... ma non nuova—il signor Gallinini lʼha rubata a Berlioz...

IIIo—In tal caso, Berlioz lʼha rubata a Rossini.... Ciò che abbiamo udito è un frammento netto e schietto della Donna del lago.

IVo—II cui pensiero fu spiccato di pianta dalla Nina pazza di Paesiello...

[165]

Vo—II quale probabilmente lʼavrà rubato a Lulli od a Gluch—Sono ladri, questi maestri!...

(cominciano le danze interne).

—Il ballo è cominciato! entriamo nelle sale!

SCENA XI.

Frontino e Deianira.

Front. (arrivando con Deianira sul davanti della scena e parlando a bassa voce) Fra poco egli sarà qui... Ha promesso di venire al punto di mezzanotte...

Deian.—In abito da prete?...

Front.—Tu andrai ad incontrarlo nellʼanticamera... lo introdurrai—sarà un colpo da stordire!... Oh!... ma ecco... Armellina.... Certamente ella viene ad annunziarci la visita di monsignore!

SCENA XII.

Armellina, Signore, Signori e detti.

Arm. (affannata) Baronessa... dame... signori...

[166]

Deian.—Che è stato?

Arm.—Cose da non credere!... Figuratevi....

Front.—Insomma?...

Arm.—Figuratevi che un prete... un monsignore... si è presentato nellʼanticamera e domanda di entrare...

Tutti—Un prete! un monsignore!

Deian.—In verità... una tal visita mi parrebbe per lo meno singolare a questʼora...

Un Signore—Sicuro...! convien sapere il nome.

Un Altro—Potrebʼessere qualche gabbamondo...

Un Altro—Qualche ladro, dico io...

Deian.—Io non conosco altri, reverendi fuori del rispettabile e angelico direttore dellʼospizio dei bambini lattanti di Montpeilier... quel monsignor Duvaneuil...

Arm.—Monsignor Duvaneuil... per lo appunto... Mi pare che egli abbia profferito un tal nome.

Deian.—Possibile!—Signore, signori, col vostro permesso, io vado a ricevere quel santo uomo. (si allontana).

Front.—Monsignor Duvaneuil...! (ai circostanti) lo scorso estate... a Monpellier...[167] quel venerabile prelato era il confessore della baronessa...

Giac. (da sè) Voglio ben sperare che questa sera... prima di confessarsi... basta! non verrei che questo santo guastasse i fatti miei...!

SCENA XIII.

Roberto in abito da Monsignore

Deianira e detti.

Deian. (inchinandosi a Roberto) Avanzatevi, monsignore...! Il pensiero di carità che vi guidò fra noi, verrà apprezzato come lo merita da tutti i miei conoscenti ed amici...

Un Signore—Che aspetto venerando!...

Una Donna—Quanta dolcezza... nel suo viso...! (tutti si inchinano—alcuni baciano la mano a Roberto che si schermisce).

Rob.—No!... non permetto, fratelli amatassimi... Vi prego di perdonare se interrompo[168] per un istante i vostri onesti ricreamenti... Non rimarrò che pochi minuti; quindi voi riprendete le vostre danze, che forse... anzi non ne dubito... vi riusciranno a mille doppi più gradite, come lo saranno anche in un altro luogo (stralunando gli occhi e guardando al cielo)... in quel luogo ove ogni allegrezza è benedetta quando sia feconda di carità; charitas in letitias, come dice il salmista.

Deian.—Parlate... esponete senza esitazione il motivo della vostra visita... Qui vi hanno dei cuori fatti per comprendervi.

Rob.—Mentre voi, o amabili e belle damine, mentre voi, gentili e costumati cavalieri, qui, nelle sale calde, illuminate, olezzanti di profumi, tra i fiori e le musiche, lecitamente e onestamente, licito oblectamento come direbbe lʼangelico, passate la notte divertendovi; laggiù, nellʼOspizio che la carità dei fedeli mi ha affidato, piangono cento e cento bambini, ammalati, sofferenti, mal riparati dai geli e scarsamente nudriti... (volgendosi a Deianira) La signora, baronessa,[169] altra delle pie e forse la più benemerita delle patronesse dellʼOspizio, non ignora qual largo margine ivi ancora sia aperto alla carità dei cristiani... Le annate sono cattive, i raccolti scarseggiano, e pare che per un insigne miracolo del grande fattore, col diminuirsi degli altri prodotti, vada sempre aumentando la popolazione—fruges deficiunt, coetera tamen intumescunt... Tutto vi dirò in una parola: i miei lattanti hanno fame... (con enfasi). E qui vi saranno delle madri... e qui vi saranno dei padri... e chi non è madre, chi non è padre, da un giorno allʼaltro... che dico...? da unʼora allʼaltra può divenirlo... Ubi caro ibi caries come dice il già citato dottore (sensazione). Ma io già comprendo dalla viva commozione dei vostri volti che ogni mia parola, ogni mia preghiera diverrebbe superflua. Erubescit, sapientia mea in conspectum charitatis, esclamerò anchʼio col Da Compostella; e sporgendovi la bisaccia dellʼorfano, mentre andrò raccogliendo a benefizio di tanti e tanti miserelli lʼobolo della pietà e del sacrifizio, ripeterò col già citato dottore: qui mihi dat, sibi non[170] abstulit, et qui sibi abstulit vitam aeternam possidebit...!

(va in giro col bossolo).

Un Sign.—Eccovi cento lire; ma amerei che ad eccitamento degli altri facoltosi, il mio nome colla cifra della oblazione venisse stampato in qualche periodico della capitale.

(consegna a Roberto il denaro e la sua carta da visita).

Una Dama (spogliandosi deʼsuoi adornamenti) Eccovi i miei braccialetti... le mie perle... tutti i miei gioielli più preziosi....

Un Sign. (al suo vicino sottovoce) Pietre false pel valore di trenta soldi....

Rob. (che va in giro raccogliendo le oblazioni) Date! date pure! che Dio vi benedica!

Un Sign.—Manderò una bella somma al vostro ospizio fra poche settimane.

Rob.—Il signore tiene conto delle buone intenzioni, ma lʼAngelico dice: intentio placet, pecunia verum tangitur et ponderatur. E il Signore è un galantuomo che a suo tempo dà il cento per uno.

Un Usuraio—II cento per uno! ecco un individuo col quale farei volentieri degli[171] affari se volesse onorarmi della sua clientela. Prendete! (gettando nella borsa due soldi incartocciati) in via di esperimento....

Rob. (a Giacinto) E lei... Bel cavaliere?

Giac. (mette mano al portafoglio).

Deian. (trattenendolo) No... fermati, cugino!... Preferisco che tu sottoscriva come già ho fatto io, una donazione annua di lire cinquecento....

SCENA XIV.

Armellina, un commissario di polizia in abito borghese, e detti.

Arm.—Entri pure signor comissario!... Ella troverà qui una società elettissima.

Deian. (vedendo il comiss.) Che è stato?....

Tutti.—Un comissario di polizia!....

Comissario. (avanzandosi e sbottonando il soprabito per mostrare le insegne della sua carica) Signori... e signore... non si incomodino... ciascuno rimanga al suo posto... Dispiacentissimo di dover disturbare[172] per un istante una si bella ed elegante società, adempirò al mio mandato con quella discrezione e quella prudenza che sono tradizionali negli alti impiegati della polizia francese.

Sign.—Entrare in una casa di oneste persone.

Altri.—Dopo mezza notte...!

Altro.—In casa di una signora!... di una dama per ogni titolo rispettabile...!

Altro.—Ciò è inaudito!

Comiss.—Loro signori comprendono benissimo che io non sono che una mano... un braccio... un istrumento qualunque dellʼautorità.—Orbene: lʼautorità venne poco dianzi informata che nella festa da ballo dellʼillustre baronessa De-Cristen (si inchina a Deianira), questa sera, profittando della confusione e degli equivoci mai sempre occasionati dalla troppa affluenza, verranno ad intrudersi, e probabilmente già si sono intrusi, due ladri e barattieri della peggior specie, che infino ad ora sfuggirono alle nostre ricerche, I conotati fisici di questi due pregiudicati sono abbastanza impressi nella mia mente, perchè il compito di riconoscerli[173] mi riesca assai facile.—Le porte sono guardate dai miei uomini di fiducia, onde non è a supporre che qualcuno tenti di evadere prima che la perquisizione sia esaurita....

Front.—Questa è una indignità!

Deian. (sottovoce) Impudente...!

Comiss. (sottovoce) Ecco uno dei due...!

Deian. (al comìssario) lo comprendo, o rispettabile esecutore della legge, che ogni atto di opposizione tornerebbe vano... A suo tempo presenterò le mie proteste al Ministero; al momento, chino il capo allʼintegro rappresentante dellʼordine pubblico. Fermamente convinta che questa. violazione del mio domicilio sia occasionata da un equivoco, e che nessuno deʼ miei invitati sia persona sulla cui onestà e dignità morale possa cadere alcun dubbio, io mi presterò di buon grado ad agevolare il vostro compito onde si abbrevii per noi tutti una situazione oltremodo penosa e starei per dire umiliante. Solamente ardisco sperare che la signoria vostra, prima di procedere alle misure che le pajono indispensabili, vorrà permettere (accennando a Roberto, che con[174] faccia compunta e le braccie conserte al petto si tiene in disparte); vorrà, permettere a questo santo ministro di Dio, di compiere la sua opera di carità, terminando di raccogliere le oblazioni di queste dame e di questi signori a benefizio dei poveri bimbi lattanti....

Comiss. (con rispetto) Monsignore... sarebbe dunque...?

Rob.—Uno dei più grandi peccatori ai cospetto di Dio, a cui queste pie e devote persone hanno voluto affidare i tesori della loro carità perchè sieno versati come rugiada benefica sugli orfanelli affidati alla mia custodia (scuotendo il bossolo e facendo suonare le monete). La voce che esce da questo bossolo è il gemito, la preghiera, la benedizione di mille cuori innocenti... Se qualcun altro—se lei, egregio signore—vorrà aggiungere il suo obolo... alla copiosa messe qui raccolta....

Comiss. (deponendo una moneta nel bossolo) Prendete... e perdonate... se nella mia qualità di impiegato governativo non posso offrire di più.

Rob.—Grazie! permettete che io esclami[175] collʼEvangelista; Et nunc dimitte servum tuum in pace, quia mirabilia fecit Dominus!—Signore... signori... la mia missione è compiuta...! Se ho ben compreso (accennando al commissario) questo integerrimo non meno che caritatevole rappresentante dellʼautorità secolare deve compiere in questa sala una delicata ma forse necessaria formalità. Persuaso che la mia presenza potrebbe incagliare il regolare andamento della procedura, io bramarei, col buon permesso dellʼegregio signor comissario, di ritirarmi e tornare ai miei uffici.

Comiss.—Mi farò un onore di accompagnarla io stesso fino allʼanticamera....

Rob.—Troppe grazie!... obbligatissimo! (volgendosi ai circostanti) Benedictio Dei patris... (sottovoce a Deianira) Prudenza e discrezione! (forte) super vos et super filios vestros per omnia sæcula sæculorum! (esce col comissario).

Un Sign. (al vicino) Qui cʼè del bujo....

Deian. (sottovoce a Frontino) In ogni caso, non comprometterci...!

Front.—Se potessi svignarmela...!

Comiss. (tornando in scena con due guardie[176] e indirizzandosi a Frontino) Signore, voi siete in arresto!....

Front.—Ma... io!... qui certo vi è un equivoco!

Comiss.—Meno ciarle! (ad una guardia) Assicuratevi di lui! (volgendosi ai circostanti) La signora baronessa vorrà bene introdurmi neʼ suoi appartamenti, onde io veda se per avventura vi si nasconda qualche persona sospetta. Quanto agli altri la consegna è levata; chi vuoi uscire è padrone.

(Deianira e il comissario escono dalla porta a sinistra. Frontino rimane nel fondo della scena, custodito da una guardia di polizia).

Giac. (da sè) Non so... se a me convenga seguirla....

Un Sign. (ad una signora) Dammi il braccio, Fifina...! Usciamo prima che avvenga di peggio. (esce colla signora).

Un Altro—Sarebbe imprudenza il rimanere più a lungo... Nella confusione, spero pescare un cappello nuovo che quadri alla mia testa.

(Tutti escono.—Alcuni si inchinano a Giacinto incaricandolo di porgere[177] i loro saluti e ringraziamenti alla baronessa.—Altri se ne vanno senza dir parola.—Mentre Giacinto si avvia per entrare nelle stanze di Deianira, due domestici si incontrano nel fondo della sala. Lʼuno porta una guantiera con parecchi bicchieri colmi di vino).

Un Domestico (arrestando quegli che porta la guantiera) Permetti che io mi inumidisca le labbra!

(beve due bicchieri).

Lʼaltro (consegnando allʼaltro la guantiera e bevendo a sua volta) Da buoni colleghi!

(si allontanano).

Comiss. (uscendo dagli appartamenti di Deianira) Tutti partiti!... Quale risveglio di coscienza dinanzi alla mia ciarpa tricolore! (a Giacinto) Il di lei nome?

Giac.—Giacinto Dubois... per servirla....

Comiss. (che avrà scritto il nome sovra il suo portafoglio) Domani, prima di mezzogiorno, ella avrà la compiacenza di presentarsi allʼuffizio di polizia del primo circondario per subire un interrgatorio. Credo dovere di gentiluomo lʼavvertirla, che la signora baronessa è caduta in deliquio[178] nelle sue stanze... (a Frontino) Ed ella, signor Frontino Grossac, favorisca di seguirci!

(Frontino esce atterrito fra le guardie. Il comissario lo segue).

Giac.—Che razza di scene in questa Parigi...! Ma la baronessa è caduta in deliquio... Corriamo a soccorrerla... Purchè duri lo svenimento, avrò forse il coraggio di dirle... di tentare....

Deian. (presentandosi) II comissario?....

Giac.—Tutti partiti.—Ma voi?... Mi avevano detto... avevo quasi sperato....

Deian. (cadendo nelle braccia di Giacinto) Ah!...

Giac.—Un altro svenimento!... Quale fortuna!....

(fa sedere Deianira sovra una seggiola e cade alle sue ginocchia).

FINE DELLʼATTO SECONDO.

[179]

a3

ATTO TERZO.

SCENA I.

Cortile di albergo come nellʼatto primo.

Tommaso, Cavillo.
(entrando dalla destra).

Tomm.—E voi sareste tanto scortese da intentarmi un processo?

Cav.—Ve lʼho detto e ve lo ripeto.

Tomm.—Sarebbe un vero ricatto.

Cav.—Sarebbe la cosa più giusta del mondo, ovverosia la più legale, giuridicamente parlando. Che diamine, signor Tommaso? non era io forse il procuratore generale di quella buonʼanima di vostro fratello... che Dio lʼabbia in gloria?... Ora, le carte che sono ancora in[180] mia mano parlano chiaro... Il signor Marco possedeva allʼepoca della sua morte un capitale di L. 10000 in contanti, un albergo bene avviato, e il valore nominale di L. 13500 in poderi censiti or sono due anni. Nel suo testamento egli dichiarò erede universale il figlio Giacinto. Quel pazzo ha preferito buttarsi alla vita di avventuriere anzichè restarsene tranquillamente a casa sua a mangiare un pane sicuro... Voi avete profittato dellʼassenza del nipote per prendere le redini dellʼalbergo, e si vuole che abbiate ipotecati varii poderi... che appartengono allʼassente di ignota dimora... Voi comprenderete che la coscienza, il sentimento della giustizia e della onestà mi impongono di agire....

Tomm.—Voi volete perdermi?....

Cav.—Al contrario... Se le mie intenzioni fossero ostili, a questʼora il processo sarebbe già incoato, e il vostro nome, la vostra riputazione di onestʼuomo avrebbero già subito qualche scalfitura.—Ho creduto bene di prevenirvi... di mettervi in guardia, e ho sempre atteso come attendo in questo punto, una vostra parola[181] per gettare alle fiamme i miei scartafacci, e per ridonarvi, con una buona stretta di mano, la mia stima e la mia amicizia.

Tomm.—Ah! la vostra stima! la vostra amicizia! E chi vi ha detto, signor Cavillo, che io ci tenga molto alla vostra stima ed alla vostra amicizia?

Cav.—Signor Tommaso... cogli avvocati non si scherza!....

Tomm.—Signor arruffacause, mi si tolga dai piedi...!

Cav.—Se questa è la vostra ultima parola, a rivederci in tribunale!....

(fa per andarsene).

Tomm. (fra sè) È inutile!... Non cʼè che una via per uscirne!... (richiamandolo) Signor Cavillo!....

Cav. (ritornando) Mʼavete chiamato?....

Tomm.—Perdonate!... Ho un maledetto carattere....

Cav.—Il mio, allʼincontro, è il carattere più dolce, più elastico che si possa ideare.

Tomm.—Vediamo di intenderci, se è possibile....

Cav. (da sè) Lʼha capita! (a Tommaso) Sempre dispostissimo alle transazioni...!

[182]

Tomm.—Alle corte!... Se io deponessi fiduciariamente nelle vostre mani qualche cosa... come a dire... cinquecento franchi... a patto di procrastinare....

Cav.—Voi parlate dʼoro... Se aveste cominciato su questo tono, a questʼora saressimo dʼaccordo....

Tomm.—Allora... siamo intesi... Contate sulla mia parola....

Cav.—Preferirei contare le monete.

Tomm.—Fra mezzʼora... verrò io stesso al vostro studio col denaro. E voi... desisterete da ogni querela...?

Cav.Vivere e lasciar vivere—ecco la mia divisa. Comunque avvenga, non farò un passo prima di avervi prevenuto.

Tomm. (da sè) Unʼaltra stoccata! (forte) Obbligatissimo!....

Cav.—Servo umilissimo! Per vostra norma, io rimarrò nel mio studio fin verso le quattro. (esce).

Tomm.—Son ladri... questi avvocati!....

(entra nellʼosteria).

[183]

SCENA II.

Roberto in abito da donna, Deianira in abito da uomo.

Deian.—Quale imprudenza! Entrare nellʼalbergo ove pochi mesi sono abbiamo operato... dove qualcuno potrebbe riconoscerci!

Rob.—Fidati di me. Uno strategico che conosce la sua arte preferisce sempre di dar battaglia nelle località già esplorate. Sotto questo travestimento, sfido io chi potrebbe riconoscerci!...

Deian.—Se Giacinto fosse qui... se mi vedesse...

Rob.—Ah! Ah!... Credi tu chʼio non abbia calcolata una tale eventualità? Ebbene: quel tuo Giacinto, in caso di pericolo, potrà divenire il nostro migliore alleato, il nostro salvatore.

Deian.—Egli!... mi fai trasecolare...

Rob.—Ti ama, ed è un imbecille—ecco[184] due considerazioni che dovrebbero rassicurarti.

Deian.—Ad ogni modo... non bramo di incontrarmi con lui... Roberto... comincio ad avere dei rimorsi.

Rob.—Ho veduto dei cuori meno sensibili del tuo intenerirsi sulla miseranda fine di un cappone, dopo averlo divorato.

Deian—Ma... i miei calcoli non possono sbagliare. Giacinto dieci giorni or sono era ancora a Bruselles alla casa di salute....

Rob.—Ne saresti per avventura innamorata?... Hai bisogno di mutar aria, Deianira... Infatti, questa nostra vecchia Europa infracidisce a vista dʼocchio. Il sistema monarchico costituzionale può corrompere anche le nature più forti... Io stesso comincio a muovermi con disagio in questa melma. Entriamo nella locanda!—mettiamoci in regola coi nostri appetiti più volgari; quindi, fra unʼora, ci imbarcheremo sul Telemaco per salpare ai liberi paesi dellʼAmerica.

Deian.—Eppure... questa cara Francia... questa bella Europa mi piacevano tanto!

Rob.—Non dubitare... Se laggiù faremo[185] fortuna, fra dieci o dodici anni torneremo in patria. Quando si posseggono dei milioni, si può anche adagiarsi nei paesi corrotti dal despotismo.

(entrano nella locanda)

SCENA III.

Clementina.

(Uscendo dalla locanda, si incontra con Roberto e Deianira e si inchina) Dei forastieri!... Eppure il convoglio non è ancor giunto!... Come sono lunghe queste giornate!... Tutte le mattine mi alzo colla speranza chʼegli abbia a tornare, e tutte le sere mi corico collʼamarezza del disinganno... (traendo una lettera) Eppure, nella sua ultima lettera... Vediamo (leggendo) «Fra pochi giorni, mercè il denaro che mi hai spedito, io verrò ad abbracciarti, o mio buon angelo. La convalescenza fu lunga, ma sento dʼaver quasi ricuperate le forze, se pur non mi illude lʼardente desiderio di rivederti,[186] di abbracciarti, di esprimerti a voce la mia gratitudine... e qualche altra cosa...» Qualche altra cosa...!... Che vorrà dire!... Ah! queste parole mi ravvivano il cuore!....

SCENA IV.

Giacinto, Clementina.

Giac. (osservando) Una donna... una bella fanciulla....

Clem.—Qualcuno... (volgendosi) Giacinto!....

Giac.—Clementina! (abbracciandola con spigliatezza) La mia bella... la mia cara... la mia adorata cuginetta....

Clem.—Quai modi!... Se mio padre... se mio zio....

Giac. Io ti adoro... io....

(lʼabbraccia nuovamente)

Clem. (sciogliendosi dalle braccia di Giacinto) Dio! mi fai paura... Corro da mia padre a recargli la buona notizia...

Giac. (trattenendola) Va bene...! Dagli in[187] anticipazione un bacio per mio conto—dagli questo!

(la bacia sul collo, Clementina mette un grido e corre nella locanda).

SCENA V.

Giacinto.

Povera fanciulla! sempre buona, sempre timida, una vera figliuola della provincia! Tre mesi fa, ero anchʼio un bamboccio come lei.—Ma ora... dopo le istruzioni... dopo la pratica che ho fatto con quella vipera parigina!... Ah! Deianira...! tu mi hai scorticato per bene, ma ora posso dire di essere un uomo!....

SCENA VI.

Tommaso, Clementina, Giacinto.

Tomm.—È dunque vero!... Mio nipote!... Giacinto...!

[188]

Giac. (abbracciando Tommas) Caro zio...!

Clem. (osservando) Ha imparato ad abbracciare con una forza...!

Tomm.—Ah! era ben tempo che tu ritornassi...! Se tu sapessi... quante crisi... quanti sacrifizii—non è vero, Clementina?—per assestare le tue faccende...! Dopo la disgrazia... che tu sai, siamo accorsi qui, Clementina ed io—abbiamo abbandonata la nostra casa in balìa di un fattore... e tu sai quanto sien ladri i fattori!... Non importa, dicevo a Clementina—corriamo a Çette!—vediamo di salvare quanto si può delle sostanze di quel scavezza... di quel caro ragazzo... Ti abbiamo scritto—nessuna risposta... Più tardi sapemmo della tua malattìa... Il mio primo pensiero—non è vero, Clementina?—fu di volare a Bruxelles per recarti qualche soccorso—ma non eravamo ben certi... non sapevamo—non è vero, Clementina?—non sapevamo se realmente ti trovassi colà... Qualcuno voleva farci credere che tu avessi seguito in America... quella caro... quella carovana... tu mi capisci... Basta! Teniamo aperto lʼalbergo, ho detto io—vediamo[189] di non pregiudicare lʼavviamento... Conveniva spendere da cinque a sei mila lire in riparazioni—non è vero, Clementina?—Quel briccone di Cavillo... pretendeva immischiarsene... Bada, veh!... non è uomo da fidarsene...! si vuole anzi che le molte posate, che i molti effetti preziosi spariti dallʼalbergo alla morte del tuo povero padre, abbiano finito nelle sue mani... Non si è trovata una sola posata dʼargento nei forzieri; ed io ho dovuto far venire da Montpellier quelle poche che io possedevo, tanto da supplire ai bisogni... È pur la brutta cosa il morire!—le ore che passano fra lʼagonia e le esequie di un galantuomo, rappresentano, anche nelle case più oneste, unʼorgia di ladri....

Giac.—Ripareremo a tutto—voi mi consiglierete... mi aiuterete....

Tomm.—Troverai i registri in ordine. Posso dirti fin dʼora che con dieci o dodici mille lire le nostre partite saranno pareggiate... Tuo padre mi doveva ancora ottomila lire per la garanzia di quel sacchetto—te ne sovvieni, Giacinto?... Ora, scontando le seicento chʼei mi aveva anticipato... pel calessino!

[190]

Giac. (a Clementina) Clementina! io muojo di fame!... Vuoi tenermi compagnia mentre farò colazione...?

Clem.—Volentieri, cugino!....

Tomm.—Bravi!... Andate là!... (a Giacinto) disponi come fossi in casa tua.... Io esco per un momento; vado a regolare alcuni conti, e torno subito. (Giacinto a braccio di Clementina entra nella locanda). Converrà che io mi metta dʼaccordo con quel ladro di avvocato... (cava il portafoglio) Non è il caso di lesinare... (dopo aver contate le banconote) Sta bene! Ho promesso cinquecento lire; ma a buon conto, qui ve ne hanno due mille.

(ripone con fretta il portafoglio, ma questo gli scivola dalle vesti e cade al suolo. Esce).

SCENA VII.

Frontino, cogli abiti sdrusciti, pallido, estenuato.

Front. (avanzandosi guardingo) I ciottoli colmi di monete che si esibiscono allo[191] sguardo dalle vetrine dei banchieri, e le esalazioni delle vivande che dalle finestre si avventano allʼolfatto dei passanti—ecco le due cose più immorali chʼio mi conosca. Dal giorno in cui venni rimandato dal carcere per insufficienza di prove, ho sempre resistito alle seduzioni dellʼoro; ma ogniqualvolta mi avvenga di urtare a stomaco digiuno in una corrente dʼaria che abbia baciato una casseruola, i miei propositi di onestà vengono meno.—Perchè sono entrato in questo cortile di albergo?... Per un buffo di fumo impregnato di essenze aromatiche, le quali mi ridestarono nelle papille nervee la reminiscenza di una eccellente colazione—(pausa) Ed ora, che si fa?... Virtù teologali, assistetemi!... Il buono, il santo catechista del carcere mi ha detto nel congedarmi: col lavoro e colla fiducia in Dio tu riuscirai a procacciarti, ciò che la colpa non dà mai, una esistenza agiata e tranquilla—(pausa) Lavorerò!... Qual sarà il mio mestiere? Mi addatterò a fare il lustrascarpe—ma chi mi dona cinque lire onde io mi proveda di uno sgabello e di una spazzola? Piuttosto che[192] rubare... via!... anderò per la città a raccogliere le spazzatura—ma chi mi presta cinque soldi onde io comperi una scopa?... E innanzi tutto, dopo quarantotto ore di digiuno, chi mi dà a credito un pane perchè io mi rimetta in corpo un poʼ di rigore? (vede il portafoglio) Un portafoglio!... (raccogliendolo) Il catechista non mi ha ingannato;—la provvidenza viene in soccorso dellʼuomo onesto!... No! io non scioglierò questo involto... Il denaro potrebbe tentarmi... Depositerò il portafoglio al municipio, e a norma di legge mi verrà sborsato il compenso che mi si addice.

(fa per uscire).

SCENA VIII.

Tommaso, Frontino.

Tomm. (pallido e ansante) Prima di uscire ho contato le monete... (guardando per terra) Non posso averlo perduto che qui....

Front. (avanzandosi) Signore...!

[193]

Tomm.—Chi è là?....

Front.—Voi sembrate affannato... voi cercate qualche oggetto smarrito....

Tomm.—Avresti per caso trovato in questo cortile...?

Front.—Che cosa?

Tomm.—Un portafoglio di bulgaro... contenente....

Front.—Non so cosa contenga, perchè mi ripugnava lʼaprirlo, ma il portafoglio è in mia mano... e vi si legge il nome di....

Tomm.—Tommaso Dubois....

Front.—Per lo appunto...! Eccovi ciò che avete smarrito.

(consegna il portafoglio).

Tomm. (da sè aprendo il portafoglio) Questo pezzente è ben capace di avermi sottratto il denaro... (dopo aver contate le banconote) Duemila... Tutto è in regola—respiro!.... (a Frontino) Lʼonestà si trova sempre nei figli del popolo. Grazie, signore!

(fa per andarsene).

Front.—Perdonate!... non sono un signore... Al contrario... non mi offenderei... se accordandomi tutto, o in parte almeno, il compenso che in simili casi promette la legge....

[194]

Tomm.—Non avevate detto di ignorare quali valori si contenessero qui dentro?

Front.—In fede dʼonestʼuomo, vi giuro che lo ignoro tuttavia.

Tomm.—Ebbene: me ne duole per te; ma nel mio portafoglio non vi erano che delle lettere insignificanti.—In ogni modo, la tua nobile azione vuoi essere compensata (dandogli una moneta) Tieni!... Non sprecarla in bagordi! (esce).

Front. (osservando la moneta) Un soldo!... La provvidenza è generosa! (volgendosi ad un garzone che attraversa il cortile) Garzone! Vorresti darti lʼincomodo di portarmi un pane da un soldo?...

Garz.—Questa non è una bottega da fornaio... Beve, il signore?

Front.—Ho fame....

Garz. —Desidera del vino....

Front.—Al mattino preferisco lʼacqua....

Garz. Là, presso la stalla... cʼè una fontana.

(si allontana).

Front. (cadendo sopra un banco di pietra in fondo alla scena) In carcere si stava meglio!

[195]

SCENA IX.

Deianira, sempre in abito virile, Giacinto indi Roberto in abito da donna, Clementina, Frontino in disparte.

Deian. (a Giacinto con famigliarità) Tu dunque non mi serbi rancore?...

Giac.—No, Deianira; le tue lezioni mi costarono un poʼ caro, ma desse mi gioveranno per tutta laʼvita. Prima di conoscerti, ero uno zotico, un imbecille, qualche cosa di mezzo fra lʼuomo e la bestia. Da te ho imparato, ciò che la famiglia e la scuola non insegnano mai, lʼarte di saper vivere....

Deian.—Le donne della mia specie sono piccole università ambulanti create dalla natura. Alla nostra scuola si diventa giganti o si muore.—Giacinto, ora puoi prender moglie senza pericolo....

Rob. (a Clementina) Sì... lʼho conosciuto a Parigi... Era intimo di mio figlio... Buon ragazzo... un poʼ sventato... un po[196]ʼ largo di cuore... del resto una pasta eccellente....

Clem.—Mi consolate. Credete voi chʼegli diverrà un buon marito?....

Rob.—Questo dipenderà da voi, mia carina. Tutti i mariti sono buoni, quando la moglie abbia il talento di renderli ciechi.

SCENA X.

Un sergente, due carabinieri e detti.

Serg. (avanzandosi) Il padrone della locanda?....

Giac.—Son io.

Rob. (a Deianira) Niente paura!

Serg.—Avete forastieri in alloggio?

Giac. (additando Deianira e Roberto) Questo signore che a momenti si imbarcherà con sua madre per lʼAmerica.

Serg. (a Deianira) Favorisca il suo passaporto.

Deian.—Eccolo!....

Serg.—Vostra madre?

[197]

Rob. (inchinandosi) Per servirla.

Serg. (da sè, osservando Deianira e Roberto) Costui è troppo giovane... questʼaltra è troppo vecchia (forte, rendendo a Deianira il passaporto) Signore, la prego a perdonarmi... ella è libera di andarsene ove le aggrada....

Deian.—Si parta! Siamo già in ritardo (baciando Giacinto) Addio, compagno delle mie follie!—(a Clementina) Amatelo! egli nʼè degno... Voi sarete felici....

Rob. (a Clementina) Al patto... mi intendete....

Deian.—Vieni, mamma!

(dà il braccio a Roberto e partono insieme).

Front. (scorgendo Roberto e Deianira) Che vedo!....

Serg. (volgendosi) Chi è colui?....

Giac.—Non saprei—qualche mendicante....

Serg. (ad una guardia) Non lasciatelo uscire. (a Giacinto) Con vostro permesso, vo a dare una occhiata allʼinterno.

(entra nellʼalbergo).

[198]

SCENA XI.

Tommaso ansante, e detti.

Tomm.—Ah.! siete qui...! Clementina...! va!... disponi...! A momenti verrà da noi lʼavvocato Cavillo... Lʼho invitato a far colazione (dandole una chiave) Metti in tavola le posate dʼargento e tutto il mio ricco servizio di porcellane....

Clem.—Tu... dici?....

Tomm.—Che hai? perchè tremi: sarebbe accaduta qualche disgrazia?

Clem. (gettandosi ai piedi di Tommaso) Gli è che quelle posate....

Giac.—Clementina...! Tu piangi!

Tomm.—Mi avrebbero rubata quella poca grazia di Dio?....

Clem.—No... padre!... perdono! Io credeva che trattandosi di lui....

Tomm. (con ira) Sciagurata!... Vuoi tu dunque parlare...?

Giac. (trattenendo Tommaso) Calmatevi!....[199] Sentiamo! (con dolcezza a Clementina) Che è dunque avvenuto di quelle posate?

Clem.—Sapendo che eri malato, che avevi bisogno di denaro... ho creduto far opera buona portandole al Monte....

Giac. (con trasporto) Tu... Clementina...!

Tomm.—Ah! lad....

Giac. (abbracciandola) Angelo mio, sarebbe vero...? E il denaro che mi hai mandato...?

Clem.—Era appunto il ricavo netto... di quelle posate....

Giac.—Nobile cuore!... anima generosa e sublime...!

Tomm. Ah! la... scia che io pure... mi congratuli, che io pure....

SCENA XII.

Sergente e detti.

Serg.—Nessuno! (alle guardie, additando Frontino) Fate avvicinare quellʼuomo! (a Frontino) Il tuo nome?....

Front.—Frontino Grossac....

Serg.—Le tue carte?....

[200]

Front.—Eccole!....

Serg.—Pregiudicato! (a Frontino) Che facevate qui?

Front.—Attendeva....

Serg. (a Tommaso ed agli altri) Cʼè qui alcuno che conosca questʼuomo?

(tutti tacciono).

Front. (additando Tommaso) Quel signore può dire... può attestare....

Tomm.—Ah! mi sovvengo!... poco fa gli ho fatto lʼelemosina di un soldo (sottovoce al sergente) Mi pare una schiuma!

Serg. (a Frontino) Favorite di seguirci!

(Frontino viene preso in mezzo dalle guardie).

Front.—Quel Signore (accennando a Tommaso) potrebbe soggiungere che poco dianzi ho dato una prova solenne della mia onestà, rendendogli un portafoglio....

Serg.—Se ciò è vero, avete compiuto il vostro dovere....

Tomm.—Bravo!

Serg.—La vostra buona azione la troverete un giorno registrata nei libri di Dio.—Al momento, io debbo arrestarvi per delitto di mendicità e di vagabondaggio.

(Il sergente saluta).

[201]

Front. (uscendo fra le guardie) Non si può divenire onesti con un soldo di capitale.

Tomm. (a Giacinto) Figliuoli: prendete esempìo...—Tu Clementina principalmente....

Voci di fuori.—Molla! Molla!

SCENA ULTIMA.

Cavillo e detti.

Cav. (osservando) Qualche ladro di basso rango che non merita lʼonore della mia difesa....

Voci (come sopra) Molla! Molla!

Giac.—Che voglion dire quelle grida?....

Cav. (avanzandosi) Un ladro condotto in prigione. La coscienza pubblica si ribella sempre contro gli esecutori della legge. E in verità, i ladri arrestati fanno proprio compassione, quando si paragoni la loro sorte miseranda....

Tomm. (abbracciando Cavillo) A quella dei galantuomini nostri pari—non è vero, avvocato?—(dominando la piccola comitiva) Guardiamoci... dalle guardie di pubblica sicurezza!

FINE DELLA COMMEDIA.


[203]

vol

VOLERE È POTERE.

NOVELLA.

[205]

Un tal Stucchi Tommaso
Dei päesel di Arona
Avea letto per caso
Un libro del Lessona,
Dove, con molti esempi,
Dei vecchi e nuovi tempi,
Chiaro si fa vedere
Che volere è potere.

—«Volere!... è presto fatto....
Se tanto il voler giova,
Converrebbe esser matto
Per non tentar la prova....
Io non domando onori....
Non titoli o favori,
Di gloria io non mi picco,
[206]Ma... voglio farmi ricco.

Or più non mi imbarazza
La scelta del mestiere,
Apro uno studio in piazza,
Mi intitolo banchiere;
Se ad iniziar la Banca.
Il capital mi manca,
Poichè basta volerlo,
Sò come posso averlo.

Ciò detto, il buon Tommaso
Si recò da un notaro,
Franco gli espose il caso,
Gli domandò il denaro;
Ma quei, con faccia bieca:
«Che mi dà in ipoteca?
—Nulla—Nulla!... ho capito
Non posso!... affar finito.»

—Non può?... Lei mi canzona!
Tal scusa più non va:
Non ha letto il Lessona?
Lo voglia e lo potrà.
Lʼaltro lo guarda in viso
Con cinico sorriso,
E per uscir di imbroglio,
Conclude: ebben, non voglio!

Ricorse lʼindomani
Agli amici, ai parenti;
[207]Nʼebbe discorsi vani,
Promesse, complimenti,
Consigli che mordevano,
Sorrisi che parevano
Dirgli: qui tutto avrete
Fuor quello che volete.

E sorse un dubbio in lui:
«Che della vita al gioco
Anche il volere altrui
Debba contare un poco?
Dalle prove che ho fatto
Parrebbe... Eh! via!... son matto!
Che colpa ci ha il Lessona
Sʼio son nato ad Arona?

—Nei piccoli paesi
Piccole le risorse....
Qui gli uomini scortesi,
Qui stitiche le borse;
E poi, nemo propheta
In patria
—è storia vieta;
Per ritentar le prove
Convien chʼio vada altrove.»

Solo, a piedi, di notte,
Partì senza un quattrino,
E colle scarpe rotte
Un giorno entrò in Torino
Sclamando: «qui ho voluto
[208]Venire, ed ho potuto;
Volendolo, mi pare,
Ora potrò mangiare.»

Infatti, appena scorta
Lʼinsegna di un trattore,
Maso varcò la porta
Con passo da signore;
Sedette, fu servito,
E sazio lʼappetito,
Pensò: volevo un pranzo,
Lʼottenni, e nʼho dʼavanzo.

Ma quando il cameriere
Venne a portargli il conto,
Gli parve che al volere
Fosse il poter men pronto—
Il garzonetto attese
Alquanto, e poi gli chiese:
Vuol altro?—Ora, mio caro,
Vorrei...—Cosa?—Il denaro.

—Denaro!—Certamente....
Tu sai che le parole
Oggi non valgon niente,
E per pagar ci vuole
Denaro; or, come averlo
Potrei senza volerlo?....
—Mi paghi, faccia presto!
Voglio il denar per questo!

[209]Ed ecco, mentre dura
La strana discussione,
Due guardie di questura
Si avanzan col padrone
—Sentiamo!... cosʼè stato?....
Tommaso in tuon pacato
Risponde: «del diverbio
Fu origine un... proverbio.»

«Tutto si può, volendo,
Lo dice il testo, ed io
Agli altri esempi intendo
Unir lʼesempio mio—
Venir volli a Torino
E feci a piè il cammino,
Qui volli entrar, entrai;
Volli pranzar, pranzai.»

—Ed ora?—Or non avendo
Denaro... è naturale....
Chʼio voglia...—Intendo! intendo
Ci segua!... Al Criminale
Verrà stanotte a cena;
La casa è tutta piena
Di gente che ha voluto
E mai non ha potuto.

In carcere il tapino
Fu trattenuto un mese;
Quindi, lasciò Torino,
[210]Tornò nel suo päese,
Dove il volere altrui
Fu tanto avverso a lui,
Che, stanco di soffrire,
Gridò: voglio morire!

Ai gridi disperati
Fortuna non è sorda;
Tra ferri e cenci usati
Trovò un chiodo e una corda;
Confisse a un muro il chiodo,
Fece alla corda un nodo,
Pose nel cappio il collo,
E diè lʼestremo crollo.

Così dal mondo è uscito
Il povero Tommaso;
E forse egli è partito
Convinto e persuaso
Che quandʼun, per disfarsi
Dai guai, vuole appiccarsi,
Non sempre, ma però
Qualche volta lo può.


[211]

INDICE


Parte IaLʼarte di far debiti.
Ragione dellʼopera Pag. 1
Cap. I. Massime generali » 7
» II. Delle disposizioni naturali del puffista » 12
» III. La Vittima » 19
» IV. La corda sensibile » 43
» V. Dellʼordine del puff » 49
» VI. Del prestito » 58
» VII. Dei Creditori » 66
» Ultimo » 78
Note di Zeffirino Bindolo » 81
 
Parte IIaTutti ladri (commedia).
Avvertimento dellʼautore Pag. 105
Personaggi » 111
Atto primo » 113
Atto secondo » 142
Atto terzo » 179
 
Parte IIIaVolere è potere (novella).
Volere è potere Pag. 205