The Project Gutenberg eBook of Annali d'Italia, vol. 2

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Title: Annali d'Italia, vol. 2

Author: Lodovico Antonio Muratori

Release date: August 27, 2013 [eBook #43575]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANNALI D'ITALIA, VOL. 2 ***

ANNALI

D'ITALIA

2


Copertina

ANNALI
D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750


COMPILATI

DA L. ANTONIO MURATORI

E

CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

Quinta Edizione Veneta


VOLUME SECONDO


VENEZIA

DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.

1844


INDICE


ANNALI D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500

[9]

   
Anno di Cristo CCCXLI. Indizione XIV.
Giulio papa 5.
Costanzo e
Costante imperadori 5.

Consoli

Antonio Marcellino e Petronio Probino.

Un'iscrizione che si legge nella mia Raccolta [Thes. Novus Inscript., pag. 377.], quando pur sia indubitata reliquia dell'antichità, ci assicura dei nomi di questi consoli, in addietro ignoti. Aurelio Celsino dal dì 25 di febbraio cominciò ad esercitare la prefettura di Roma. Sul fine di giugno diede Costanzo Augusto una legge in Lauriaco [L. 31, de Decurion., Cod. Theodos.], creduto dal Gotofredo luogo della Batavia, ma che più verisimilmente fu il Lauriaco, luogo insigne e colonia de' Romani, posta alle parti superiori del Danubio. Era questo principe divenuto signor delle Gallie, e colà dovette accorrere [Idacius, in Fastis.], perchè i Franchi, passato il Reno, metteano a sacco le vicine contrade romane. Abbiamo da san Girolamo [Hieron., in Chron.] che seguirono [10] fra que' Barbari e le armate di Costante varii combattimenti, ma senza dichiararsi la fortuna per alcuna delle parti. Libanio [Liban., Orat. III.], descrivendo a lungo i costumi e il genio de' Franchi d'allora, li dipinge per gente turbolenta ed inquieta, a cui il riposo riusciva un supplizio. Solamente nell'anno seguente ebbe fine questa guerra. Tanto il medesimo san Girolamo che Idacio mettono sotto il presente anno spaventosi tremuoti che fecero traballare moltissime città dell'Oriente. Tennero in quest'anno gli ariani un conciliabolo in Antiochia, per alterare i decreti sacrosanti del concilio niceno. Appena terminata fu la sacrilega loro assemblea, che il tremuoto cominciò a scuotere orribilmente la misera città, siccome attestano Socrate [Socrates, Histor., lib. 2, cap. 11.] e Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 3, cap. 6.], e quasi per un anno si andarono sentendo varie altre scosse. Non parla Teofane [Theophanes, in Chronogr.] se non di tre giorni, ne' quali probabilmente quella città fu in maggior pericolo. Lo stesso autore nota che circa questi tempi Costanzo Augusto cinse di forti mura e fortificò in altre guise Amida, città della Mesopotamia, [11] situata presso il fiume Tigri, acciocchè servisse di antemurale contro ai Persiani. Ammiano [Ammianus, Histor., lib. 18, cap. 9.], scrittore di maggior credito, all'incontro, scrive che molto prima d'ora, cioè vivente ancora il padre, Costanzo Cesare con torri e mura fece divenir quel luogo un'importante fortezza, di cui sempre più crebbe la popolazione e la fama ne' tempi susseguenti. Durava tuttavia la guerra coi Persiani, ovvero, se Socrate [Socrat., Histor., lib. 2, cap. 25.] non s'inganna, essa ebbe principio in questi medesimi tempi; ma quali azioni militari si facessero, non è pervenuto a nostra notizia. Già abbiam detto che Costantino il Grande con varii editti e in altre guise si studiò di abolir le superstizioni del paganesimo, distrusse moltissimi templi de' gentili, vietò gli empii loro sagrifizii: il che vien confermato da Socrate [Idem, ibid., lib. 1, cap. 8.], da Teodoreto [Theodoret., in Histor. Eccl.], da Teofane [Theoph., Chronogr.] e da altri. Ma lo svellere dal cuore di tanta gente gli antichi errori e riti, difficil cosa riusciva nella pratica. Costante Augusto nell'anno presente, siccome principe di massime cattoliche e di zelo cristiano, per eseguire eziandio ciò che il padre gli avea premurosamente raccomandato, pubblicò una legge, con cui, confermando gli editti paterni [L. 2, de Paganis., Cod. Theod.], sotto rigorose pene abolisce i sagrifizii de' pagani, e per conseguenza ancora il culto degl'idoli. Siffatti editti, e l'esempio de' principi seguaci della legge di Cristo, furono quegli arieti che diedero un gran tracollo al gentilesimo, con ridurlo a poco a poco all'ultima rovina. Ma se ad occhio veniva meno la falsa religion de' pagani, per cura massimamente dell'Augusto Costante, andavano ben crescendo in questi tempi le forze dell'arianismo in Oriente con discapito della Chiesa cattolica, per la protezion che avea preso di quella fazione l'Augusto Costanzo. Le insigni [12] sedie episcopali di Alessandria, Antiochia e Costantinopoli vennero in questi tempi occupate da' vescovi ariani [Socrat., lib. 5, cap. 7. Theoph. Cedr.]: e tutte le chiese d'essa città di Costantinopoli caddero in poter de' medesimi eretici. Ma intorno a ciò è da consultare la storia ecclesiastica. Grande solennità nel presente anno fu fatta in Antiochia per la dedicazione di questa magnifica cattedrale, cominciata da Costantino il Grande, e compiuta solamente ora per cura del suddetto imperadore Costanzo.


   
Anno di Cristo CCCXLII. Indizione XV.
Giulio papa 6.
Costanzo e
Costante imperadori 6.

Consoli

Flavio Giulio Costanzo Augusto per la terza volta e Flavio Giulio Costante Augusto per la seconda.

Ad Aurelio Celsino nella prefettura di Roma succedette in quest'anno nelle calende d'aprile Mavorzio Lolliano [ Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], il cui impiego durò sino al dì 14 di luglio, con avere per successore Acone (ossia Aconio) Catulino (ossia Catullino) Filomazio (o pur Filoniano). All'anno presente riferisce il Gotofredo [ Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] un editto [ L. 3, de Paganis, Cod. eod. Theod.] di Costante Augusto, dato nel dì primo di novembre, e indirizzato al medesimo Catullino prefetto di Roma, in cui ordina che, quantunque s'abbia da abolire affatto la superstizione pagana, pure non si demoliscano i templi situati fuori di Roma, per non levare al popolo romano i divertimenti dei giuochi circensi e combattimenti che aveano presa la origine da que' medesimi templi. Nè già paresse per questo raffreddato punto lo zelo di questo principe in favore del cristianesimo, perchè egli non altro volle che conservar le mura e le fabbriche materiali di que' templi, ma con obbligo [13] di sbarbicar tutto quel che sapeva di superstizione gentilesca, come idoli, altari e sagrifizii. Fors'anche non dispiaceva ad alcuni accorti cristiani che restassero in piedi que' superbi edifizii, per convertirli un dì in onore del vero Dio. Ma che in tanti altri luoghi venissero abbattuti i templi de' gentili, Giulio Firmico [Julius Firmicus, de error. prof. Rel.], che circa questi tempi fioriva e scrisse i suoi libri, ce ne assicura. Fino al presente anno sostennero i Franchi la guerra nelle Gallie contra dell'Augusto Costante [ Hieronymus, in Chron. Idacius, in Fastis. Socrates, lib. 2, cap. 13. Theoph., in Chron.]. Tali percosse nondimeno dovettero riportare dall'armi romane, che finalmente si ridussero a chiedere pace. Un trattato di amicizia e lega conchiuso con Costante li fece ripassare il Reno. Libanio [ Liban., Orat. III.] con oratoria magniloquenza lasciò scritto che il solo terrore del nome di Costante obbligò que' popoli barbari ad implorare un accordo, senza dire che fossero domati coll'armi, come scrissero tanti altri. Aggiugne ch'essi Franchi riceverono dalla mano di Costante i loro principi, e stettero poi quieti per qualche tempo. Occorse nell'anno presente in Costantinopoli più d'una sedizione fra i cattolici ed ariani [ Socrates, lib. 2, cap. 13. Sozomenus, Hist. Eccl. Idacius, in Fastis. Hieronym., in Chron.], da che Costanzo Augusto, sposata affatto la fazione degli ultimi, mandò ordine che fosse da quella cattedra cacciato Paolo vescovo cattolico, per introdurvi Macedonio ariano. Crebbe un dì a tal segno l'impazienza e il furor della plebe cattolica, che andarono ad incendiar la casa di Ermogene generale dell'armi, a cui era venuto l'ordine dell'imperadore di eseguir la deposizione del vescovo cattolico; e messe le mani addosso al medesimo Ermogene, lo strascinarono per la città, e lo uccisero. Costanzo, che allora si trovava ad Antiochia, udita cotal novità, tosto per le poste volò a Costantinopoli: cacciò Paolo e gastigò il popolo, [14] con privarlo della metà del grano, che per istituzione di Costantino gli era somministrato gratis ogni anno; cioè di ottanta mila moggia o misure ridusse il dono a sole quaranta mila.


   
Anno di Cristo CCCXLIII. Indizione I.
Giulio papa 7.
Costanzo e
Costante imperadori 7.

Consoli

Marco Mecio Memmio Furio Baburio Ceciliano Procolo e Romolo.

Questa gran filza di cognomi data al primo console, cioè a Procolo, si truova in un'iscrizione creduta spettante a lui, e rapportata dal Panvinio e Grutero. Non Balburio, come essi hanno, ma Baburio viene appellato nelle schede di Ciriaco, che riferisce lo stesso marmo. Il secondo console dal suddetto Panvinio, che cita un'iscrizione, vien chiamato Flavio Pisidio Romolo. Vopisco, nella Vita d'Aureliano [Vopiscus, in Aurel.], ci rappresenta questo Procolo per uomo abbondante, non so se più di ricchezze o di vanità, scrivendo essersi poco fa veduto il consolato di Furio Procolo solennizzato con tale sfoggio nel circo, che non già premii, ma patrimonii interi parve che fossero donati ai vincitori nella corsa de' cavalli. Ci fan conoscere tali parole in che tempo Vopisco fiorisse e scrivesse. Nella prefettura di Roma continuò ancora per quest'anno Aconio Catullino. Dappoichè la pace stabilita coi Franchi rimise la calma in tutte le Gallie, Costante Augusto, il quale si truovava in Bologna di Picardia nel gennaio dell'anno presente [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.], volle farsi vedere anche ai popoli della Bretagna, e passò nel furore del verno colà con tutta felicità. Se prestiam fede a Libanio [Liban., Orat. III.], guerra non v'era che il chiamasse di là dal mare, ma solo timor di guerra; e da Ammiano [15] Marcellino [Ammianus, lib. 20, cap. 1.] si ha abbastanza per credere che i Barbari di quella grand'isola avessero fatta almen qualche scorreria nel paese de' Romani. Per altro, che non succedessero battaglie e vittorie in quelle parti, si può argomentare dal suddetto Libanio, giacchè egli di niuna fa menzione. Truovansi nulladimeno alcune medaglie, dove egli è appellato [Mediob., in Numismat. Imperator.] debellatore e trionfatore delle nazioni barbare, le quali, se non sono parti della sola bugiarda adulazione, possono indicare qualche vantaggio delle sue armi in quelle contrade ancora. Oltre di che, Giulio Firmico [Julius Firmicus, de error. profan. Rel.], parlando ai due Augusti, dice, che dopo aver essi abbattuti i templi de' gentili nell'anno 341, Dio avea prosperate le lor armi; che aveano vinti i nemici, dilatato l'imperio; che i Britanni, all'improvviso comparir dell'imperadore, s'erano intimoriti. Truovasi poi esso Augusto nel dì 30 di giugno ritornato a Treveri, dove è data una sua legge. Ci fanno poi altre leggi vedere Costanzo Augusto in Antiochia, in Cizico, in Jerapoli, tutte città dell'Asia, imperocchè non gli lasciava godere riposo la guerra sempre viva coi Persiani. Osserviamo ancora in una delle sue leggi [L. 35, de Decur., Cod. Theod.] ch'egli chiamò a militare in quest'anno i figliuoli dei veterani, purchè giunti all'età di sedici anni, per bisogno certamente di quella guerra. Non so io dire quale credenza si meriti Teofane [Theoph., in Chronogr.], allorchè scrive che circa questi tempi Costanzo, dopo aver vinti gli Assirii, cioè i Persiani suddetti, trionfò. Niuno de' più antichi e vicini storici a lui attribuisce alcuna memorabil vittoria di que' popoli, e molto meno un vero trionfo. Abbiamo inoltre dal medesimo Teofane che la città di Salamina nell'isola di Cipri per un fierissimo tremuoto restò la maggior parte smantellata; [16] siccome ancora circa questi tempi ebbe principio la persecuzione mossa da Sapore re di Persia contra de' cristiani abitanti ne' paesi di suo dominio.


   
Anno di Cristo CCCXLIV. Indizione II.
Giulio papa 8.
Costanzo e
Costante imperadori 8.

Consoli

Leonzio e Sallustio.

Nel dì 11 d'aprile ad Acone, ossia Aconio, Catullino succedette nella prefettura di Roma Quinto Rustico. Nulla di considerabile ci somministra per questo anno la storia, se non che truoviamo una legge [L. 3, de excusat. artific.], con cui Costanzo Augusto concede delle esenzioni ai professori di meccanica, architettura e ai livellatori delle acque. Il genio edificatorio veramente non mancò a questo imperadore, ed egli lasciò molte suntuose fabbriche da lui fatte in Costantinopoli, Antiochia ed altri luoghi. Ma se egli coll'una mano innalzava materiali edifizii nel suo dominio, coll'altra incautamente si studiava di atterrare e distruggere la dottrina e Chiesa cattolica, lasciandosi aggirare a lor talento dai seguaci dello eresiarca Ario. Però in questi tempi smisuratamente prevalse in Oriente la lor fazione: laddove Costante Augusto in Occidente, con dichiararsi protettore dei dogmi del concilio niceno, divenne scudo della Chiesa cattolica. Se in Oriente si tenevano conciliaboli contra la fede nicena, in Occidente ancora si formavano concilii per sostenerla. Ma intorno a ciò mi rimetto alla storia ecclesiastica. Intanto era flagellato da Dio l'imperador Costanzo col tarlo della guerra persiana; e benchè Teofane [Theoph., in Chronogr.] ancora sotto quest'anno racconti che vennero alle mani le due armate romana e persiana, e che gran numero di que' Barbari lasciò la vita sul campo; pure, poco o nulla [17] servirono questi pretesi vantaggi, perchè più che mai vigorosi i Persiani continuarono a fare il ballo sulle terre romane, senza che mai riuscisse ai Romani di cavalcare sul paese nemico. Abbiamo poi da san Girolamo [Hieronymus, in Chronico.] e dal suddetto Teofane che nell'anno presente Neocesarea, città la più riguardevol del Ponto, fu interamente rovesciata a terra da un orrendo tremuoto colla morte della maggior parte del popolo, essendosi solamente salvata la cattedrale fabbricata da san Gregorio Taumaturgo colla casa episcopale, dove esso vescovo e chiunque ivi si trovò rimasero esenti da quello eccidio.


   
Anno di Cristo CCCXLV. Indizione III.
Giulio papa 9.
Costanzo e
Costante imperadori 9.

Consoli

Amanzio ed Albino.

Secondo il Catalogo del Cuspiniano e del Bucherio, nel dì 5 di luglio Probino fu creato prefetto di Roma. Una legge [L. 7, de petition., Cod. Theod.] di Costante Augusto, data nel dì 15 maggio, ci fa vedere questo imperador ritornato dalla Bretagna a Treveri. Però non so se sussista l'aver creduto il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs et de l'Histoire Ecclesiastique.] ch'esso Augusto verso il fine del medesimo mese fosse in Milano, dove invitò lo sbattuto santo Atanasio, per patrocinarlo contra la prepotenza degli ariani. Certamente cominciò verso questi tempi il cattolico Augusto a tempestar con lettere il fratello Costanzo, acciocchè si tenesse un concilio valevole a metter fine a tante turbolenze della Chiesa. Ma non si arrivò a questo se non nell'anno 347, siccome allora accenneremo. Da una legge del Codice Teodosiano [L. 5, de exactionib., Cod. Theod.] apprendiamo [18] che l'Augusto Costanzo, nel dì 12 di maggio del presente anno, si trovava in Nisibi città della Mesopotamia, e, senza fallo, per accudire alla guerra coi Persiani. Abbiamo poi da san Girolamo [Hieron., in Chronico.] e da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che in quest'anno ancora i tremuoti cagionarono nuove rovine in varie città. Fra le altre la marittima di Epidamno ossia di Durazzo, città della Dalmazia, restò quasi affatto abissata. Anche in Roma per tre giorni sì gagliarde furono le scosse, che si paventò l'universal caduta delle fabbriche. Nella Campania dodici città andarono per terra; e l'isola, o, vogliam dire, la città di Rodi, fieramente anch'essa risentì la medesima sciagura. Se crediamo alla Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinum.], Costanzo Augusto cominciò in quest'anno la fabbrica delle sue terme in Costantinopoli; ma intorno a ciò è da vedere il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byz.], che rapporta altre notizie spettanti a quell'insigne edifizio.


   
Anno di Cristo CCCXLVI. Indizione IV.
Giulio papa 10.
Costanzo e
Costante imperadori 10.

Consoli

Flavio Giulio Costanzo Augusto per la quarta volta e Flavio Giulio Costante Augusto per la terza.

Perchè non si dovettero speditamente accordare i due Augusti intorno al prendere insieme il consolato, o pure a notificarlo, noi troviamo che nel Catalogo del Bucherio e in un concilio di Colonia per li primi mesi dell'anno presente non si contavano i consoli nuovi; perciò l'anno veniva indicato colla formola di dopo il consolato di Amanzio ed Albino. Nella prefettura di Roma stette [19] Probino sino al dì 26 di dicembre dell'anno presente [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], ed allora in quella carica succedette Placido. Noi ricaviamo dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] spettanti a quest'anno che Costante Augusto era in Cesena nel dì 23 di maggio, e in Milano nel dì 21 di giugno. Dall'Italia dovette egli passare in Macedonia, perchè abbiamo una legge di lui data in Tessalonica nel dì 6 di dicembre. Per conto dell'Augusto Costanzo, egli non altrove comparisce che in Costantinopoli, dove confermò o pur concedette molte esenzioni agli ecclesiastici. All'anno presente riferisce san Girolamo [Hieron., in Chron.] la fabbrica del porto di Seleucia, città famosa della Soria, poche miglia distante da Antiochia, capitale dell'Oriente. Anche Giuliano [Julian., Orat. I.] e Libanio [Liban., Orat. III.] parlano di questa impresa, che riuscì d'incredibile spesa al pubblico, perchè per formare quel porto non già alla sboccatura del fiume Oronte, come talun suppone, ma bensì alla stessa Seleucia, convenne tagliar molti scogli e un pezzo di montagna, che impedivano l'accesso alle navi, e rendevano pericolosa e poco utile una specie di porto che quivi anche antecedentemente era. Perchè la corte dell'imperador Costanzo per lo più soggiornava in Antiochia, di incredibil comodo e ricchezza riuscì dipoi a quella città il vicino porto di Seleucia. Teofane [Theophanes, Chronogr.] aggiugne che Costanzo con altre fabbriche ampliò ed adornò la stessa città di Seleucia; ed inoltre abbellì la città di Antarado nella Fenicia, la quale prese allora il nome di Costanza. Mentre poi esso Augusto Costanzo impiegava in questa maniera i suoi pensieri e i tesori, cavati dalle viscere dei sudditi, dietro alle fabbriche, il re di Persia Sapore non lasciava in ozio la forza delle sue armi; e però, secondochè scrive il suddetto Teofane, nell'anno [20] presente si portò per la seconda volta all'assedio della città di Nisibi nella Mesopotamia. Vi stette sotto settantotto giorni, e, non ostante tutti i suoi sforzi, fu in fine obbligato a vergognosamente levare il campo e ritirarsi. Nella Cronica di san Girolamo un tale assedio vien riferito all'anno seguente. Ma cotanto hanno gli antichi moltiplicato il numero degli assedii di Nisibi con discordia fra loro, che non si sa che credere. Verisimilmente un solo assedio fin qui fu fatto, cioè se sussiste il già accennato all'anno 338, un altro non sarà da aggiugnere all'anno presente. Parleremo, andando innanzi, d'altri assedii di quella città. Pare che in quest'anno accadesse una sedizione in Costantinopoli, per cui quel governatore Alessandro restò ferito, e se ne fuggì ad Eraclea. Tornossene ben egli fra poco al suo impiego, ma poco stette ad esser deposto da Costanzo, con succedergli in quel governo Limenio. Libanio [Liban., in ejus vita.] quegli è che ci ha conservata questa notizia, e che sparla forte d'esso Limenio, perchè il buon sofista fu cacciato da Costantinopoli d'ordine suo.


   
Anno di Cristo CCCXLVII. Indizione V.
Giulio papa 11.
Costanzo e
Costante imperadori 11.

Consoli

Rufino ed Eusebio.

Abbiamo dal Catalogo di Cuspiniano, ossia del Bucherio, che nel dì 12 di giugno dell'anno presente Placido lasciò la prefettura di Roma, e in suo luogo subentrò Ulpio Limenio, il quale nello stesso tempo esercitava la carica di prefetto del pretorio nell'Italia. Più che mai truovandosi sconcertata la Chiesa di Dio in Oriente per la prepotenza degli ariani, a' quali l'ingannato Costanzo Augusto prestava ogni possibil favore, e vedendosi di qua e di là comparire in Italia i vescovi banditi, per implorar soccorso [21] dal romano pontefice Giulio e dal cattolico imperador Costante: finalmente in quest'anno si sperò il rimedio a tanti disordini. Non meno il pontefice che Costante picchiarono tanto, che l'Augusto Costanzo acconsentì che si tenesse un solenne concilio [Labbe, Collection Concilior.] di vescovi, al giudizio e parere de' quali fosse rimessa la cura di queste piaghe. Ottenne Costante che fosse eletta per luogo del concilio Serdica, chiamata anche Sardica, città di sua giurisdizione, e non già, come pensò il cardinal Baronio [Baron., in Annalib. Eccl.], di quella di Costanzo, perchè capitale della Dacia novella, la quale nelle divisioni era toccata a Costante. Quivi dunque fu celebrato un riguardevolissimo concilio, dove tanto pel dogma cattolico, quanto per la disciplina ecclesiastica, furono fatti bei regolamenti, e fra le altre cose confermato il gius delle appellazioni alla sede apostolica, e proferita sentenza in favore di santo Atanasio e d'altri vescovi cattolici; ma con poco frutto, perchè Costanzo, ammaliato dagli ariani, in breve guastò tutto, e più che mai continuarono le divisioni e gli sconcerti. Due sole leggi spettanti ad esso Costanzo cel fanno vedere nel marzo in Ancira di Galazia, e nel maggio in Jerapoli della Soria. Di Costante Augusto nulla si sa sotto l'anno presente, se non che probabilmente egli dimorò nelle Gallie, dove santo Atanasio fu a ritrovarlo, prima di passare al concilio di Serdica.


   
Anno di Cristo CCCXLVIII. Indizione VI.
Giulio papa 12.
Costanzo e
Costante imperadori 12.

Consoli

Flavio Filippo e Flavio Salio o Salia.

Perchè s'era introdotto il costume che cadauno de' due Augusti eleggesse il suo console, si può perciò conghietturare che questo Filippo console orientale [22] fosse quel medesimo che nel Codice Teodosiano e in altri monumenti delle antichità si truova prefetto del pretorio d'Oriente, uomo crudele e partigiano spasimato degli ariani, come s'ha da san Girolamo [Hieron., in Chronico.]: del che ricevette egli il gastigo da Dio anche nella vita presente, siccome vedremo. Era quest'anno il millesimo centesimo dalla fondazione di Roma, e s'aspettavano i Romani quelle feste che in altri tempi furono fatte dal paganesimo per celebrare un tal anno. Niuna cura di ciò si prese il cristianissimo Costante Augusto, nemico delle superstizioni: del che si duole Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.], con farci anche conoscere che il millesimo di Roma era stato nell'anno di Cristo 248 solennizzato sotto Filippo Augusto. Per lo contrario, esso imperadore, veggendo che non venivano ristabiliti nelle lor chiese santo Atanasio e gli altri vescovi cattolici, dichiarati innocenti nel concilio di Serdica [Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 28. Socrat., Histor., lib. 2, cap. 21.], prese talmente a cuore gl'interessi della Chiesa cattolica, che risentitamente sopra ciò scrisse al fratello Costanzo, con giugnere a minacciare di romperla con lui per questo. Un linguaggio sì fatto mise il cervello a partito a Costanzo, il quale perciò parte nel presente e parte nel seguente anno consentì al ritorno di que' vescovi alle lor chiese. Per quanto si può ricavare da santo Atanasio [Athan., in Apolog.], esso imperadore Costante venne a Milano nell'anno corrente, e l'Augusto Costanzo fu in Edessa di Mesopotamia. San Girolamo [Hieron., in Chron.] e Idazio [Idacius, in Fastis.] riferiscono sotto quest'anno la battaglia formidabile succeduta fra i Romani e Persiani presso Singara nella suddetta Mesopotamia. Ma il Gotofredo e i padri Arduino e Pagi han creduto che questa appartenga piuttosto all'anno 345, perchè Giuliano [23] Apostata [Julian., Orat. I.] lasciò scritto che sei anni dopo d'essa battaglia saltò su il tiranno Magnenzio; e questi senza fallo cominciò le sue scene nell'anno 350. All'incontro il Petavio, Arrigo Valesio e il Tillemont, appoggiati al testo espresso de' suddetti due storici, han rapportato quell'avvenimento all'anno presente, e creduto qualche fallo nel testo dell'orazion di Giuliano. A me ancora sembra più verisimile l'ultima opinione, perchè Libanio [Liban., Orat. III.] ne parlò in maniera circa l'anno 349, che fece intendere quel combattimento come azione accaduta di fresco, e non già alcuni anni prima, e combattimento ultimo, che ne suppone degli altri antecedenti. Lo stesso Gotofredo [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] riconobbe per recitata nell'anno 349 quella orazione di Libanio in lode dei due Augusti Costanzo e Costante, di modo che nel testo di Giuliano si può credere scappato per negligenza de' copisti un sexto in vece di tertio.

Il fatto, in poche parole, fu così. Dopo il secondo assedio di Nisibi dovette seguir qualche tregua fra i Romani e i Persiani; ma gli ultimi, poco curanti delle promesse e de' giuramenti [Liban., Orat. III.], si andarono disponendo per far nuovi sforzi, e questi divamparono dipoi in questo anno. O sia che Costanzo non volesse o pure che non potesse impedire i passi di così possente armata, col mezzo di tre ponti gittati sul fiume Tigri entrarono i Persiani nella Mesopotamia, e vennero sino ad un luogo vicino a Singara, città di quelle contrade, nel bollore della state. V'era in persona lo stesso re Sapore. Costanzo, a cui non erano ignoti i preparamenti de' nemici, s'affrettò anche egli ad unir gente da tutte le parti, ed essendo poi marciato con tutto il suo sforzo contra d'essi, andò ad accamparsi poche miglia lungi da loro. Stettero le due armate per qualche tempo senza far [24] nulla, quando i Romani impazientatisi un giorno, dopo essere stati in ordinanza di battaglia fin passato il mezzodì, si mossero, senza poter essere ritenuti da Costanzo Augusto, per assalire il campo nemico. Contuttochè fosse già sera, cominciarono inferociti il combattimento, nè la notte potè ritenerli dal menare le mani. Ruppero le prime schiere nemiche; forzarono ancora alcuni loro trincieramenti con molta strage d'essi Persiani; fecero gran bottino; ed ebbero fin prigione il principe primogenito del re Sapore, che fu poi barbaramente ucciso, se pure, come vuol Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.], egli non lasciò la vita nel bollore della battaglia. Era la notte, tempo poco proprio per combattere, e però Costanzo a furia chiamava alla ritirata le sue genti; ma ebbe un bel dire, un bel gridare. Perchè verisimilmente i suoi sapevano che più innanzi si trovava qualche fiumicello o canale vegnente dal Tigri, siccome morti dalla sete, seguitarono i fuggitivi Persiani, ed arrivati all'acqua, ad altro non attesero che ad abbeverarsi. Allora gli arcieri persiani postati in quel sito un tal nembo di saette scaricarono contro degli affollati Romani, che molti vi perirono, e chi potè, ben in fretta se ne tornò indietro. Aveano questi ultimi, per attestato di Festo [Idem, ibidem.], accese varie fiaccole che servirono mirabilmente ai nemici per meglio bersagliargli. Giuliano, avendo preso in quella orazione [Julian., Orat. I.] a tessere le lodi dell'Augusto Costanzo, non parla che di pochi Romani restati in quel conflitto. Libanio [Liban., Orat. III.] slarga un po' più la bocca. Per lo contrario, Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 18, cap. 5.], anch'egli vivente allora, e che volea poco bene a Costanzo, scrive che grande strage fu ivi fatta delle soldatesche romane: il che si può anche dedurre da Rufo Festo. Altro non dice [25] Eutropio [Eutrop., in Brev.], se non che i Romani per loro caparbietà si lasciarono togliere di mano una sicura vittoria; e le di lui parole furono copiate da san Girolamo [Hieron., in Chron.]. Tutti poi gli storici van d'accordo in dire che il re Sapore prese la fuga; nè mai si credette in salvo, finchè non ebbe passato il fiume Tigri. Giuliano pretende che anche prima della zuffa quel valoroso re, al solo mirar da lungi la poderosa armata de' Romani, battesse la ritirata, e lasciasse il comando al figliuolo, che poi miseramente morì. Del pari è certo che non tardarono i Persiani a levar il campo nel giorno seguente, e a ritirarsi precipitosamente di là dal Tigri, con rompere tosto i ponti per paura di essere inseguiti dai creduti vincitori Romani. Sicchè, se essi Romani non poterono cantar la vittoria, nè pure i loro nemici ebbero campo di attribuirla a sè stessi. E san Girolamo nota che di nove battaglie succedute durante la guerra suddetta coi Persiani, questa fu la più riguardevole e sanguinosa; ed essa almen per allora fece svanire i boriosi disegni del re nemico, il quale, senza aver presa città o fortezza alcuna, malconcio si ridusse al suo paese.


   
Anno di Cristo CCCXLIX. Indizione VII.
Giulio papa 13.
Costanzo e
Costante imperadori 13.

Consoli

Ulpio Limenio e Acone ossia Aconio Catulino Filomazio o Filoniano.

Dal Catalogo de' prefetti di Roma, pubblicato dal Cuspiniano e dal Bucherio [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], abbiamo che il console Limenio seguitò ad essere prefetto di Roma e prefetto del pretorio sino al dì 8 di aprile. Restarono vacanti queste due dignità, senza che se ne sappia il perchè, sino al dì 18 di maggio, in cui tutte e due [26] furono conferite ad Ermogene. Dall'Apologia di sant'Atanasio [Athan., in Apolog.] si può ricavare che Costante Augusto ne' primi mesi di quest'anno soggiornasse nelle Gallie; perchè il santo vescovo, chiamato da lui, si portò colà prima di passare ad Alessandria, giacchè finalmente di consenso dell'imperadore Costanzo egli ricuperò in quest'anno la sedia sua. Truovasi poi Costante in Sirmio della Pannonia nel dì 27 di maggio, ciò apparendo da una sua legge. Libanio [Liban., Orat. III.] anche egli attesta che questo principe nell'anno presente visitò le città d'essa Pannonia. Quanto all'Augusto Costanzo, apprendiamo dalle leggi del Codice Teodosiano ch'egli nel principio d'aprile soggiornava in Antiochia, e da Emesa scrisse a sant'Atanasio per sollecitarlo a tornarsene in Oriente. Alcune leggi da lui date in quest'anno ci fan conoscere la premura di lui per reclutar le milizie sue, e per ben disciplinarle. Imperciocchè i Persiani, con tutte le percosse patite nell'anno precedente, non rallentavano punto le disposizioni per seguitar le guerra, divenuta oramai una perniciosa cancrena de' Romani in quelle parti; imperciocchè anno non passò, durante il regno di Costanzo, in cui egli fosse esente dalle minaccie ed incursioni di quella nemica e potente nazione, ora con vantaggio, ed ora con isvantaggio delle sue genti. Intorno a che convien osservare due diverse figure che fecero i due pagani Giuliano Apostata [Julian., Orat. I et II.] e Libanio [Liban., Orat. III.]. Finchè visse Costanzo, l'eloquenza loro trovò dei luoghi topici per esaltare il di lui valore e la sua condotta in fare e sostenere quella guerra. Ma da che egli compiè la carriera de' suoi giorni, amendue se ne fecero beffe, e formarono di lui un ben diverso ritratto. All'udir questi due adulatori, Costanzo più volte gittò dei ponti sul fiume Tigri, [27] e passò anche sulle terre nemiche, tal terrore spargendo ne' Persiani, che non osavano di lasciarsi vedere per difendersi dai saccheggi. Passava egli il verno in Antiochia, e nella state era in campagna contro i nemici, i quali si stimavano felici se potevano fuggire e nascondersi dal valore di questo augusto eroe. Che se riuscì talvolta a coloro di riportar qualche vantaggio sopra i Romani, fu solamente per mezzo d'imboscate, e col mancare alle tregue. Passato poi all'altra vita esso Costanzo, mutò linguaggio il sofista Libanio, con dire che a lui non mancavano già buone milizie per vincere i Persiani, ma bensì un cuore di principe e una testa di capitano. Alla primavera comparivano i nemici per assediar qualche fortezza, e Costanzo aspettava la state per uscire in campagna; ed usciva, non già per andar contra di loro con tutto il suo magnifico apparato, ma per fuggir con diligenza, informandosi studiosamente a tal fine de' lor movimenti per ischivarli; di maniera che terminava ordinariamente la campagna in tornarsene i Persiani alle lor case pieni di spoglie dei miseri abitanti della Mesopotamia: dopo di che Costanzo si lasciava vedere per le città e luoghi saccheggiati, quasichè la venuta sua avesse messo lo spavento in cuore ai nemici, e fattili ritirare. In somma ci rappresentano Costanzo per un vile coniglio; e pur troppo, se si ha da parlare schietto, contuttochè, siccome abbiam veduto, san Girolamo [Hieron., in Chron.] parli di nove combattimenti seguiti in tutto il corso di questa guerra fra i Romani e i Persiani; pure ogni storico [Ammianus. Socrates. Festus. Eutropius et alii.] in fine confessa che l'armi di Costanzo non cantarono mai vittoria alcuna, anzi ebbero sempre delle busse; e che i Persiani presero e saccheggiarono or questa, or quella città, fecero gran copia di prigioni; e quantunque d'essi ancora fosse talvolta fatta strage, secondo le vicende giornaliere [28] della guerra, pure senza paragone fu il danno patito dalle armate e terre romane. Ed ecco in succinto un'idea della lunghissima guerra di Costanzo coi Persiani, guerra infelice per lui, perchè principe sprovveduto di coraggio e saper militare, e perchè egli aveva ancora dei non lievi peccati che meritavano poco l'assistenza di Dio per felicitarlo in questa vita. Abbiamo da Teofane [Theophan., in Chronogr.] che un fiero tremuoto diroccò in quest'anno la maggior parte della città di Berito nella Fenicia, il che fu cagione che molti di que' pagani ricorressero alla chiesa e chiedessero il battesimo. Ma costoro dipoi, separatisi dai cristiani, fecero una assemblea, dove praticavano le cerimonie imparate da essi, vivendo nel rimanente da pagani.


   
Anno di Cristo CCCL. Indizione VIII.
Giulio papa 14.
Costanzo imperadore 14.

Consoli

Sergio e Nigriniano.

Ad Ermogene nella prefettura di Roma succedette nel dì 27 di febbraio [Bucher., in Catalogo.] Tiberio Fabio Tiziano. Funestissimi furono gli avvenimenti e le rivoluzioni di quest'anno specialmente per la sventurata morte di Costanzo Augusto. Truovavasi egli nelle Gallie, e perchè regnava la pace fra tutti i popoli, il familiare suo divertimento consisteva nella caccia, dietro alla quale era perduto: il che dicono alcuni fatto per tenersi con questo esercizio sempre disposto per le occorrenze e fatiche della guerra. Non badò egli che nel suo stesso seno nudriva de' più fieri nemici. Magno Magnenzio (così il miriamo nominato nei marmi e nelle medaglie), capitano allora di una o due compagnie delle guardie, prevalendosi della disattenzione del principe, quegli fu [Idacius, in Fast. Zosimus, lib. 2, cap. 42. Zonar., in Eutrop. Aurelius Victor. Socrat. et alii.] [29] che nella città di Autun tramò una congiura contra la vita di lui, con tirar nel suo partito Marcellino, presidente della camera angustale, Cresto ed altri uffiziali della milizia. Venuto il dì destinato a fare scoppiar la mina, cioè il dì 18 di gennaio, come s'ha da Idazio e dalla Cronica Alessandrina, Marcellino (se pur non fu lo stesso Magnenzio), col pretesto di solennizzare il giorno natalizio di un suo figliuolo, invitò l'uffizialità ad un lauto convito, e massimamente Magnenzio. Dopo aver costoro ben rallegrato il cuore, e fatto durare il banchetto sino ad una parte della notte, Magnenzio alzatosi, e ritiratosi in una camera, quivi si vestì della porpora imperiale, e poi tornò a farsi vedere in quell'abito ai convitati. Una parte d'essi già congiurata l'acclamò Augusto; gli altri per le parole e promesse dell'usurpatore si lasciarono anche essi condurre a riconoscerlo tale. Presa poi la cassa del principe, coll'impiego di quel danaro seppe Magnenzio guadagnar le milizie quivi acquartierate e il popolo di Autun, e qualche cavalleria venuta di fresco dall'Illirico. Proclamato che fu imperadore l'indegno Magnenzio, non differì punto d'inviar gente per levar la vita all'Augusto Costante, con far anche tener serrate le porte della città, affinchè niuno uscendo gli recasse l'avviso della nata ribellione, e lasciando solamente l'adito a chi voleva entrarvi. Secondo Zonara, fu ucciso il misero Costante verso il fiume Rodano, dove, ritrovato a dormire stanco per le fatiche della caccia, da questo passò ad un più lungo sonno. Ma convengono i più antichi storici [Zosimus. Idacius. Hieron. Aurel. Victor.] in dire ch'egli, non ostante la precauzion presa dal tiranno, fu immediatamente avvertito della succeduta novità; e però, deposti gli abiti e le insegne imperiali, fuggì con isperanza di salvarsi in Ispagna. Ma avendogli tenuto dietro Gaisone con alquanti cavalieri scelti per ordine di Magnenzio, il raggiunse ad Elena, castello [30] vicino ai monti Pirenei, a cui Costantino il Grande suo padre avea dato questo nome in onor della madre, e quivi il trucidò. Presero di qui motivo alcuni d'inventar una favola, narrata poi da Zonara [Zonaras, in Annal.] come una verità, cioè che dagli strologhi fu predetto a Costantino suo padre che questo figliuolo morrebbe in seno dell'avola, cioè di sant'Elena. Morta ella prima di Costante, fu derisa la predizione suddetta, che poi in altra maniera si verificò, con essere egli stato svenato nel suddetto castello in età di soli trent'anni.

Come è il costume, dopo la morte di questo sventurato principe, chi ne fece elogi, e chi mille iniquità raccontò o, per dir meglio, inventò della sua persona. Si può ben credere che i partigiani di Magnenzio non lasciarono via alcuna per iscreditar lui, e nello stesso tempo scusare, se era possibile, la rivolta detestabile del tiranno. E perchè egli fu principe zelante della religione cristiana, non è da stupire se gli scrittori pagani [Athanasius, in Apolog. Optatus, lib. 3.], cioè Eutropio, Aurelio Vittore e il velenoso Zosimo, l'infamarono a tutto potere, attribuendogli gran copia di vizii. E Zonara poi, prestando fede a Zosimo, denigrò anch'egli non poco la di lui memoria. Sopra gli altri esso Zosimo il descrive per un cane verso de' suoi sudditi, trattandoli con inaudita crudeltà, ed aggravandoli con eccessive imposte, e tenendo al suo servigio dei Barbari, ai quali permetteva l'usare ogni sorta di violenza. Il tacciano ancora d'una sfrenata libidine, e fin della più abbominevole, di una sordida avarizia, e di avere sprezzato le persone militari. Sopra tutto dicono ch'egli sommamente pregiudicò a sè stesso colla cattiva scelta dei governatori delle provincie, vendendo le cariche, e che specialmente i perversi suoi ministri gli tirarono addosso l'odio di ognuno; di modo che divenne insopportabile il suo governo. Può darsi che [31] parte di tanti vizii non fosse sognata, ma più verisimilmente ancora si dee credere che con alcune verità sieno mescolate molte calunnie. Certamente gli autori cristiani [Victor, in Epitome. Victor, de Caesarib. Eutrop., in Breviar.] parlano con lode di questo principe, gran difensore della religione cattolica contro gli ariani e donatisti, propagatore del Cristianesimo, e che non cessava di esercitar la sua liberalità verso i sacri templi. Confessano gli stessi pagani [Aurelius Victor. Eutropius.] che gran pruove diede egli del suo valore in varie congiunture, e che era assai temuto dai popoli della Germania. Libanio [Liban., Orat. III.] poi, nell'orazione recitata nell'anno precedente, di lui vivente fa un bell'elogio, rappresentandolo come principe attivo, vigilante, sobrio, e nemico, non solamente degli eccessi del vino e delle femmine, ma anche dei teatri e d'altri simili divertimenti. Pare, in somma, che buona parte de' disordini nascesse non da lui, perchè la poca sanità sua, per essere gottoso di mani e di piedi, non gli permetteva di far molto, ma bensì da' suoi cattivi ministri. Comunque sia, non dovettero mancar dei reati di Costante nel tribunale di Dio; e grande soprattutto ne sarebbe stato uno, se fosse vero, cioè che ingiustamente e a tradimento egli avesse procurata la morte del suo maggior fratello Costantino: del che parlammo di sopra. Non si sa ch'egli lasciasse dopo di sè figliuoli. E nè pur ebbe moglie. Avea ben egli contratti gli sponsali con Olimpiade figliuola di Ablavio, primo ministro di suo padre, ma di tenera età, e per la di lui morte violenta non si effettuarono le nozze. Questa giovinetta fu poi data da Costanzo in moglie ad Arsace re dell'Armenia, che se ne compiacque assaissimo, come di un insigne favore, siccome attesta Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 20, cap. 11.]. Ma a sant'Atanasio [Athanasius, in Epistol. ad Solitar.] parve uno strano [32] mancamento di rispetto al fratello l'aver Costanzo Augusto maritata con un Barbaro chi era stata considerata qual moglie dell'imperador Costante.

Restò dunque l'usurpatore Magnenzio padrone delle Gallie, alle quali tennero dietro le Spagne e la Bretagna; ed essendosi egli affrettato a spedir truppe, regali e larghe promesse in Italia [Julian., Orat. I. Zosimus, lib. 2, cap. 43.], trasse ancor queste provincie colla Sicilia e coll'altre isole, ed anche l'Africa alla sua divozione. Ch'egli, dopo aver ucciso Costante, scrivesse a nome di lui varie lettere agli uffiziali lontani, che o per lo merito loro, o per l'amore a Costanzo potessero disapprovar l'assunzione suo al trono, e che per istrada li facesse uccidere, lo scrive Zonara [Zonar., in Annal.], ma con poca verisimiglianza. Certo è bensì che Magnenzio, considerando il bisogno ch'egli aveva di buone braccia per sostenersi nell'usurpata signoria, conferì dipoi, cioè nell'anno seguente, il titolo di Cesare a Decenzio, che, secondo il giovane Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], era suo parente, o pure suo fratello, come vuol l'altro Vittore [Idem, de Caesarib.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Questi si trova nelle monete [Mediobarbus, Numismat. Imper.] appellato Magno Decenzio. Similmente diede dipoi il nome di Cesare a Desiderio suo fratello, di cui si trova ancora qualche medaglia, se di legittimo conio, non so. Era Magnenzio [Julian., Orat. I.] originario dalla Germania, nato da Magno, uno forse di coloro che furono trasportati da' paesi germanici ad abitar nelle Gallie. Però Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] il fa nato nelle medesime Gallie. Ma Giuliano Apostata chiaramente scrive che costui fu condotto prigioniero dalla Germania nelle Gallie a' tempi di Costantino il Grande, ed, ottenuta la libertà, si diede alla milizia, dove fece di [33] molte prodezze. Alto di statura, robusto di corpo, avea studiato lettere, e si dilettava molto di leggere, nè gli mancava eloquenza e forza nel discorso. Secondo Zonara [Zonaras, in Annal.], egli comandava allora ad alcune milizie appellate Gioviane ed Erculie, che si suppongono guardie del corpo formate da Diocleziano e Massimiano Augusti. Filostorgio [Philostorgius, lib. 3, cap. 26.] pretende ch'egli fosse pagano; ma le medaglie cel rappresentano cristiano, forse di solo nome, e di coloro, senza fallo, ne' quali l'ambizione sconciamente prevale alla religione. Chiunque degli antichi [Julian. Libanius. Zosimus et alii.] parla de' costumi di lui, cel dipinge per uomo d'insopportabil avarizia e crudeltà, e che tutte le sue azioni spiravano quella barbarie e salvatichezza ch'egli portò dalla nascita. Fiero nelle prosperità, timido e vile nelle avversità, dotato nondimeno [Aurelius Victor, in Epitome.] di tale accortezza, che sapea comparire un bravo allorchè più tremava. Sant'Atanasio [Athanasius, in Apolog.], il quale, per esperienza, sapeva qual fosse il merito di costui, non ebbe difficoltà di scrivere che egli era un empio verso Dio, spergiuro, infedele agli amici, amico degli stregoni ed incantatori, e finalmente una bestia crudele, un diavolo. Non indegno certamente di questi titoli comparve chi contra tutte le leggi della religione e della natura aveva assassinato il proprio principe, e toltogli imperio e vita. Dovette ben tentare Magnenzio ancora di stendere le griffe alle provincie dell'Illirico, anch'esse in addietro sottoposte al dominio dell'ucciso Costante; ma gli andò fallito il colpo.

Trovavasi nella Pannonia generale della fanteria Vetranione [Chron. Alexandrinum.], uomo originario della Mesia superiore, invecchiato nel mestier della guerra, cristiano di professione, come eziandio si deduce dalle [34] medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imper.]. All'udire Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.], questi era persona di brutal barbarie, corrispondente alla vil sua nascita, che nè pur sapea leggere, che pareva uno stolido, ed era in fine un pessimo uomo. Ben diversamente parla di lui Giuliano l'Apostata [Julian., Orat. I.], mostrando stima delle di lui qualità; ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.] ne fa un elogio, con descriverlo vecchio, fortunato nell'armi, che si faceva amare da tutti per la sua civiltà ed umore allegro, per la sua probità e pel suo vivere all'antica, ancorchè nulla avesse studiato, e cominciasse solamente in questi tempi ad imparar di leggere e scrivere. Vetranione adunque, intesa ch'ebbe la morte dell'Augusto Costante, e trovata sì bella occasione, si fece acclamare Augusto dalla sua armata, ed occupò tutte le dipendenze dell'Illirico, cioè la Pannonia, le Mesie, la Grecia, la Macedonia ed ogni altra parte di quelle contrade; e ciò nel primo giorno di marzo, come s'ha dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.], e non già di maggio, come per errore si legge nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.]. Se abbiamo qui a prestar fede a Filostorgio [Philostorg., Histor., lib. 3, cap. 22.]; non di suo capriccio Vetranione prese la porpora, ma per consiglio di Costantina Augusta, sorella di Costanzo Augusto e vedova di Annibaliano, già re del Ponto, la quale, temendo che Magnenzio non s'impadronisse anche dell'Illirico, con questo ripiego volle parare il colpo. Aggiugne quello storico che si andò ancora di concerto con esso Costanzo, e che egli mandò il diadema a Vetranione. Teofane [Theophan., in Chronogr.] del pari lasciò scritta la risoluzion suddetta di Costantina, per opporre questo Augusto, creatura sua, al tiranno Magnenzio; e lo stesso vien accennato [35] da Giuliano [Julian., Orat. I.]. Scrive inoltre Zonara [Zonaras, in Annalibus.] che Vetranione mandò a chiedere soccorso di gente e danaro a Costanzo, da cui, per testimonianza di Giuliano, venne fornito di tutto, giacchè Vetranione protestava di voler tenere esso Costanzo per suo imperadore, con far egli non altra figura che quella di suo luogotenente. Dal che veniamo ad intendere, perchè, avendo anche Magnenzio inviato a lui dei deputati per tirarlo nel suo partito, tuttavia Vetranione preferì sempre l'alleanza di Costanzo, e si dichiarò contra del tiranno Magnenzio.

Vegniamo alla terza scena. Avea ben Roma accettato per suo signore il suddetto Magnenzio; ma Flavio Popilio Nepoziano, già stato console nell'anno 336, per essere figliuolo d'Eutropia sorella del gran Costantino, trovò d'avere dal canto suo più diritto al dominio di Roma, che il barbaro traditore Magnenzio; e però [Zosimus, lib. 2, cap. 43. Idacius. Aurel. Victor. Eutrop.], unita una gran frotta di giovani scapestrati, ladri e gladiatori, e presa la porpora nel dì 3 di giugno, venne alla volta di Roma. Uscito con sue genti contra di lui Aniceto, o sia Anicio, prefetto del pretorio di Magnenzio, tardò poco a tornarsene indietro sconfitto, e fece serrar le porte di Roma. Per forza, al dire d'Aurelio Vittore, Nepoziano v'entrò dipoi, e gran sangue sparse, verisimilmente di chi sosteneva la fazion di Magnenzio. Ma che? non passò un mese, che quel Marcellino, da cui si può dire che Magnenzio avea in certa guisa ricevuto l'imperio, e che era divenuto sopraintendente a tutta la di lui corte, spedito con grandi forze da esso Magnenzio, venne ad affrontarsi coi Romani [Idacius, in Fastis.]. Abbiamo da san Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], che per tradimento di un Eraclida senatore rimasero sconfitti i Romani, ed ucciso Nepoziano, la cui testa sopra una picca [36] fu dipoi portata per Roma. A questa vittoria tenne dietro un gran macello di chiunque s'era dichiarato parziale di Nepoziano. Sfogò Marcellino inoltre la rabbia sua contra di qualunque persona che avesse attinenza per via di donne alla famiglia imperiale, e vi perì fra l'altre la stessa Eutropia madre di Nepoziano e zia dell'Augusto Costanzo. Anche Temistio fa menzione [Temisthius, Orat. III.] delle crudeltà usate da Magnenzio contra del senato e popolo di Roma; queste nondimeno si veggono attribuite da Giuliano [Julian., Orat. II.] ai ministri di lui, cioè, per quanto si può credere, al suddetto Marcellino. Santo Atanasio [Athan., in Apolog.] parla anch'egli di tali carnificine, siccome altresì nella sua Storia Socrate [Socrat., lib. 1, cap. 32.], con asserire che molti senatori vi perderono la vita, e con supporre che Magnenzio in persona venisse a Roma: del che non resta alcun altro segnale nelle antiche storie. Abbiamo bensì da Giuliano [Julian., Orat. I.] ch'egli fece morir molti uffiziali della propria armata, ed obbligò con un eccesso di tirannia i popoli a pagare al suo fisco la metà dei lor beni sotto pena della vita (il che se non s'intende della metà delle rendite, io non so credere vero e nè pur possibile). Diede anche licenza agli schiavi di denunciare i lor padroni, e sforzò altri a comperar le terre del principato, con altre iniquità che non sono espressamente dichiarate dagli scrittori d'allora. E tutto per ammassar danaro e milizie, sotto pretesto di voler muover guerra ai Barbari, ma in effetto per farla contra di Costanzo.

Mentre in queste rivoluzioni di cose si trovava involto l'Occidente, non era meno in tempesta l'Oriente. Imperocchè in quest'anno, di nuovo ritornò Sapore re della Persia [Idacius, in Fastis. Socrates, Histor. Eccl., lib. 2, cap. 26. Chron. Alexandrinum. Zonaras, in Annalib. Julian., Orat. II.] ad assediar Nisibi [37] nella Mesopotamia, dopo aver dato un gran guasto a que' paesi e presi ancora varii castelli. Non oso io decidere se questo sia il secondo o pure il terzo assedio di quella città, come fu d'avviso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]; il quale scrive che Lucilliano, suocero di Gioviano, che fu poi imperadore, era comandante allora di Nisibi, e fece una maravigliosa difesa. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 8.], parlando d'esso Lucilliano, e della sua bravura in difendere quella città, chiaramente riferisce quell'assedio, non al presente anno, ma bensì all'anno 360, siccome allora vedremo. Può essere che Zosimo s'ingannasse scambiando i tempi, come il Petavio avvertì [Petav., in Notis ad Julianum.]. Quanto al presente, l'abbiamo descritto da Giuliano [Julian., Orat. II.], da Teodoreto [Theodoret., Histor., lib. 2, cap. 26. Chron. Alexandrinum.], da Zonara [Zonaras, in Annalib.] e da altri, i quali ci fan vedere i mirabili sforzi de' Persiani per espugnar quella fortezza. Giacchè a nulla servivano gli assalti, gli arieti e le mine, ricorse Sapore al ripiego di levar l'acqua ai cittadini, con voltare altrove il fiume Migdonio che passava per mezzo alla città. Ma pozzi e fontane non mancarono al bisogno di quegli abitanti. Quindi si studiò Sapore d'inondar con quel fiume la città; ma essendo alto il piano d'essa, altro non fecero le acque che allagarla d'intorno. Se con delle macchine poste sopra navi fu fatta guerra alle mura, vi si trovarono anche valorosi difensori che vano renderono ogni sforzo nemico. L'ultima e più formidabile pruova per vincere l'ostinata città, fu quella di trattener l'acque del fiume alla maggior possibile altezza, e poi di lasciarle precipitar addosso alle mura. In fatti ne restò abbattuta una parte, ed allora i Persiani alzarono un grido, come se già si vedessero padroni di Nisibi. Ma affacciatisi [38] dipoi alla breccia per entrarvi, vi trovarono una resistenza sì forte, che furono obbligati a ritirarsi, avendo anche il cielo combattuto con pioggia e fulmini in favore de' difensori. Concordano gli storici cristiani che l'assistenza e le preghiere del santo vescovo della città suddetta, Jacopo, quelle furono che ottennero da Dio la preservazione di Nisibi tanto ora, quanto ne' precedenti assedii, sicchè non cadesse in man dei Persiani. Rifecero i Nisibini un muro interiore, e contuttochè Sapore continuasse pertinacemente anche un mese l'assedio, pure altro non ne riportò che la perdita d'assaissime migliaia d'uomini e cavalli, e di moltissimi elefanti, per tal maniera che scornato dopo quattro mesi si vide sforzato a levar il campo, e a ritornarsene al suo paese, dove sfogò la sua rabbia contro molti de' suoi uffiziali, imputando a lor difetto l'infelice riuscita di quell'impresa, secondo l'uso dei tiranni d'Oriente, presso i quali ogni perdita si attribuisce a colpa de' generali, e si punisce la sfortuna come un grave delitto. Restò con ciò abbassata non poco la superbia e fierezza del re persiano, nel cui regno entrati intanto i Massageti, fecero vendetta anch'essi dei danni recati al paese cristiano.

Durante questo celebre assedio s'era trattenuto l'Augusto Costanzo in Edessa e in Antiochia senza osare di comparir in campo contra dell'innumerabil esercito de' Persiani; e poichè intese la loro ritirata, tutto lieto rivolse più che mai i pensieri agli affari dell'Occidente, non parendo probabile ch'egli partisse prima di quell'assedio dalla Soria, come ha l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.]. Aveva egli in questo tempo raunata quanta gente atta all'armi egli potè raccogliere dai suoi Stati, ed allestita anche una formidabil flotta di navi, che dall'adulatore Giuliano [Julian., Orat. I.] vien chiamata superiore a quella di Serse. L'intenzione sua [39] era di procedere con tutto queste forze contra del tiranno Magnenzio; ed affinchè i nemici persiani non si prevalessero della sua lontananza, provvide tutte le fortezze di frontiera di buone guarnigioni, di macchine e di viveri; e poi si mosse dalla Soria alla volta di Costantinopoli. Aveva più d'una volta Magnenzio spediti suoi deputati ad esso Costanzo, per trattare un qualche accordo, affin di assicurare e legittimare l'usurpazion sua: e di ciò parla anche sant'Atanasio [Athanasius, Apolog.]. Ma Costanzo, che si credeva avere dalla sua Vetranione, divenuto imperadore dell'Illirico, e, per conseguente, giudicava il suo partito superiore di forze a quello del tiranno, niun ascolto avea dato finora a sì fatte proposizioni. Restò egli dipoi ben sorpreso o stordito, allorchè gli giunse l'avviso che Vetranione e Magnenzio aveano fatta pace fra loro. Più ancora crebbe l'apprensione e l'affanno suo, quando arrivò ad Eraclea della Tracia [Petrus Patricius, de Legat. Tom. I Histor. Byzant.], perchè ivi se gli presentarono gli ambasciadori di amendue, cioè Rufino prefetto del pretorio, Marcellino già da noi veduto il braccio diritto di Magnenzio, e general delle sue armi, insieme con due altri primarii uffiziali, cioè Nuneco e Massimo. Esposero costoro che Magnenzio e Vetranione erano pronti a riconoscere Costanzo per Augusto primario, purchè egli volesse lasciar loro godere il medesimo titolo, cercando di persuaderglielo con ricordare gl'incerti avvenimenti delle guerre. Magnenzio inoltre, per assodar meglio l'amicizia, proponeva di torre per moglie Costanza, o pur Costantina, sorella del medesimo Costanzo, esibendo nello stesso tempo a Costanzo una sua figliuola per moglie: segno che egli era vedovo allora. Trovossi ben imbrogliato Costanzo, nè sapea qual risoluzion prendere, se non che Zonara [Zonaras, in Annal.] scrive essergli apparuto in sogno Costantino [40] suo padre, che presentargli Costante, gli ordinò di vendicarne la morte, e gli promise la vittoria. Vera o falsa che sia tal diceria, certo è intanto che Costanzo rigettò ogni proposizion di Magnenzio; ma forse trattò più dolcemente con quei di Vetranione.

Quindi coraggiosamente marciò innanzi, ed arrivò sino a Serdica, capitale della Dacia novella [Julian., Orat. II.]. Turbossi veramente Vetranione all'improvvisa venuta di Costanzo: ma non lasciò di andare ad incontrarlo con un corpo vigoroso d'armata, maggiore ancora di quella di Costanzo: il che si crede che inducesse Costanzo a trattar amichevolmente con lui, e dopo avergli confermato il titolo d'Augusto, ed unite le sue colle di lui milizie, si diede a trattar seco delle maniere di opprimere Magnenzio. Un dì poi alla presenza di tutte le lor truppe salirono amendue sopra un palco, e Costanzo, come più privilegiato per la preminenza della sua nascita, fece [Zosimus, lib. 2, cap. 44.] una arringa in latino a quell'esercito, ricordando ad ognuno la liberalità loro usata da Costantino suo padre, e il giuramento da essi prestato di dare assistenza ai di lui figliuoli, e pregando ognuno di mostrar la fedeltà e l'amore dovuto, per vendicar la morte di suo fratello Costante, e per non lasciar impunito l'indegno usurpatore Magnenzio. Finì con dire che egli non dimandava se non quello che gli conveniva di ragione, essendo di dovere che l'eredità di un fratello pervenisse all'altro. Stava ben la lingua in bocca a Costanzo, e però tra il suo bel dire, e l'aver dalla sua tutto il suo esercito, con aver anche guadagnato con regali segretamente molti dell'armata di Vetranione, ancorchè nulla specificatamente proferisse contra d'esso Vetranione, tuttavia quelle milizie all'improvviso con alte grida si lasciarono intendere di non volere se non Costanzo per imperadore [Socrat., lib. 2, cap. 28. Zonar., in Annal.], [41] che a lui solo servirebbono, per lui solo spenderebbono sangue e vita. Accortosi allora troppo tardi il vecchio Vetranione della rete, in cui era caduto, altro scampo non ebbe che di gittarsi ai piedi dell'Augusto, e di deporre la porpora e il diadema. Costanzo, senza lasciarsi vincere in cortesia, l'abbracciò, chiamollo suo padre, e gli diede volentieri la mano a scendere dal trono. Succedette questo fatto nel dì 25 di dicembre dell'anno presente, e non già del seguente, come ha Idazio [Idacius, in Fastis.]; imperciocchè la Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinum.] ed anche Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.] non danno più di dieci mesi d'imperio a Vetranione. Che in Naisso, città della Dacia novella, si trovasse allora Costanzo, l'abbiamo da san Girolamo [Hieron., in Chron.], ma Socrate e Sozomeno dicono in Sirmio. Dan qui nelle trombe Giuliano [Julian., Orat. I.] e Temistio [Themistius, Orat. III.], esaltando con lodi magnifiche Costanzo, per essersi egli con tanta animosità, eloquenza e destrezza sbrigato di questo competitore, ed aver con sì poca fatica guadagnate tante e sì fertili provincie, piene di popoli bellicosi, ed insieme un'armata di venti mila cavalli, e d'una copiosissima fanteria. Quello che indubitatamente ognun riconoscerà per lodevole in Costanzo è il trattamento ch'egli fece al deposto Vetranione. Gli avrebbono fra poco tempo i tiranni sotto qualche pretesto tolta la vita, acciocchè non potesse risorgere. Ma Costanzo [Chron. Alex. Philostorg. Zosimus. Julianus et alii.], senza permettere che gli fosse fatto alcun torto, il tenne seco a tavola, poscia il mandò ad abitare in Prusa di Bitinia, con ordine che gli fosse fatto un trattamento onorevole ed anche delizioso. Quivi, secondo Zonara [Zonar., in Annal.], egli tranquillamente campò anche sei anni, esercitandosi in [42] opere di cristiana pietà e in limosine ai poveri, con trovar più dolce quella vita, siccome libera dalle spine dei gran governi. Sovente ancora [Socrat., lib. 2, cap. 28.] scrisse a Costanzo, ringraziandolo del bene fattogli, con liberar la sua vecchiaia dalle inquietudini del principato, ed esortandolo ad abbracciar anch'egli un eguale stato di felicità. Il testo di Socrate pare che dica ciò scritto da Costanzo a Vetranione; ma han creduto il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] e il Fleury [Fleury, Hist. Eccl., lib. 13.] che colla mutazion sola d'una parola più naturale sia il primo senso, e al loro parere par giusto l'attenersi.


   
Anno di Cristo CCCLI. Indizione IX.
Giulio papa 15.
Costanzo imperadore 15.

Dopo il consolato di Sergio e Negriniano.

Così è notato in tutti i Fasti, perchè nei paesi dipendenti da Costanzo Augusto non furono riconosciuti i consoli che Magnenzio elesse per quest'anno in Roma. Per altro abbiamo la testimonianza dell'Anonimo [Cuspinianus. Bucherius.] Autore de' prefetti di Roma che Magnenzio e Gaisone (lo stesso che tolse di vita Costante Augusto) furono consoli in Roma nell'anno presente. Un frammento nondimeno d'antica iscrizione, da me dato alla luce [Thes. Novus Inscript., pag. 380.], parla di Magnenzio e Decenzio consoli, e parrebbe che appartenesse a questo anno. Quanto alla prefettura di Roma, v'ebbe più volte cangiamento di ministri nell'anno corrente [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.]. Fabio Tiziano la tenne per i due primi mesi. Nel primo dì di marzo a lui succedette Aurelio Celsino. Nel dì 12 di maggio Celio Probato, al quale nel dì 7 di giugno fu sostituito Clodia Adelfio; e nel dì 18 di dicembre surrogato gli fu Valerio Procolo. Fra gli [43] altri Adelfio fu sospettato di nudrir pensieri pregiudiziali contra di Magnenzio, come s'ha da Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 16, cap. 6.]. Passò l'Augusto Costanzo il verno in Sirmio della Pannonia, dove andò facendo le necessarie disposizioni per procedere ostilmente al primo addolcirsi della stagione contra del tiranno Magnenzio. Ma eccoti novelle che il re Sapore di Persia [Philost., lib. 3, cap. 23. Zonar., in Annal.] con formidabile armata minacciava di nuovo la Mesopotamia, e corse anche voce che entratovi dopo fieri saccheggi fosse ritornato indietro. Conobbe allora Costanzo di non poter solo accudire a due diverse guerre, e che per acquistar l'Occidente, correva pericolo di perder l'Oriente; e però venne alla risoluzione di eleggersi un collega, il quale mentr'egli guerreggiava nell'una parte, avesse l'occhio alla difesa dell'altra. Niuna prole maschile fin qui gli aveva dato Iddio, e nè pur gliene diede dipoi. Rivolse dunque il guardo a Gallo suo cugino, figliuolo di Giulio Costanzo, cioè di un fratello del gran Costantino. Avea Gallo col fratello suo Giuliano, che fu poi Apostata, quasi miracolosamente scappata la morte nell'anno 337, allorchè Costante Augusto fece quell'orrido macello di tanti suoi parenti, e fra gli altri del padre d'esso Gallo. Tornato poi in sè stesso, non solo lasciò di perseguitare i due giovanetti cugini [Julian., in Epist. ad Athen.], ma ebbe cura di farli signorilmente educare, con restituire a Gallo buona parte de' beni paterni e a Giuliano quei della madre, tenendoli nondimeno amendue come in una specie d'esilio in varii luoghi, e specialmente in una terra della Cappadocia. L'occasione suddetta portò che gli affari di Costanzo abbisognassero d'un braccio fedele per costodir l'Oriente dai continuati insulti de' Persiani. Costanzo adunque, chiamato a sè Gallo, gli conferì il titolo e la dignità di Cesare nel dì 15 di [44] marzo [Idacius, in Fast. Zonar., in Annal. Socrat., Hist., lib. 2, cap. 28.], e nel medesimo tempo volle ch'egli sposasse sua sorella, chiamata da alcuni Costanza, ma che, per attestato di Ammiano, fu veramente Costantina, vedova del già re Annibaliano. Poscia il mandò alla difesa dell'Oriente, dandogli per generale dell'armi Lucilliano. Benchè Gallo prendesse allora il nome di Costanzo, o per onorare il benefattore Augusto, o pure per ricreare suo padre Giulio Costanzo, nientedimeno gli scrittori continuarono a chiamarlo Gallo, per non confondere il nome di lui con quello del regnante imperadore. Il Gotofredo [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.] fu di parere che Gallo assumesse il nome non di Costanzo, ma di Costante, citando in prova di ciò Idazio [Idacius, in Fastis.] e l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexand.], ma il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con più fondamento sostenne la precedente opinione; e pur troppo si trovano nelle memorie antiche sovente confusi e cambiati questi nomi per la loro vicinità, o per le abbreviature. Dovrebbono servire a decidere questa per altro poco importante quistione le medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imper.] rapportate da varii autori col CONSTANTIVS GALLVS, se noi fossimo certi della loro legittimità. In passando esso Gallo per Nicomedia [Liban., Orat. XII.], visitò Giuliano suo fratello, ivi dimorante sotto la disciplina di Eusebio vescovo ariano di quella città.

Solamente in quest'anno fu, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 45.] e di Zonara [Zonaras, in Annalib.], che il tiranno Magnenzio, trovandosi in Milano, diede il titolo di Cesare a Decenzio suo fratello, inviandolo poscia alla difesa delle Gallie, che in questi tempi più che mai rimasero esposte alla rabbia ed avidità dei Franchi, Sassoni, Alemanni ed altri popoli della Germania. [45] Libanio [Liban., Orat. XII.] non ebbe difficoltà di scrivere che Costanzo Augusto, considerando più la ragion di stato, fiera turbatrice del riposo de' popoli, che ogni altro riguardo; e pensando solo a vincere, senza mettersi pensiero, se legittimi o no fossero i mezzi, quegli fu che mosse con sue lettere e con danaro i Barbari a far guerra a Magnenzio nelle Gallie, per facilitare maggiormente a sè stesso la maniera di atterrarlo. Di simili esempli volesse Dio che le susseguenti età, ed anche la nostra, non ne avessero mai veduto, ed insieme deploratane l'iniquità. Certo è che que' Barbari recarono incredibili danni alle Gallie, posero a sacco molte ricche città, e scorrendo dappertutto senza trovare resistenza alcuna, talmente fissarono ivi il piede, che solamente si poterono far isloggiare di là ai tempi di Giuliano Cesare, siccome diremo. Le tante estorsioni di Magnenzio, accennate di sopra, per adunare il nerbo quasi principal delle guerre, cioè il danaro e le diligenze da lui fin qui usate, aveano servito a metter insieme una sì sterminata copia d'armati non solo suoi sudditi, ma anche Sassoni, Franchi e di altre nazioni germaniche [Julian., Orat. I.], prese al suo soldo, che pareva con tante forze atto ad annientare l'Augusto Costanzo, e ad assorbire il rimanente dell'imperio. Per maggiormente ancora animar le sue genti, promise loro la libertà dei saccheggi. In questo mentre Costanzo, stando nella Pannonia, niun movimento faceva; mostrava anzi paura, con disegno di tirare il nimico nel paese piano d'essa Pannonia, perchè, quantunque inferiore di fanteria, sperava di far meglio giuocare la sua cavalleria, superiore di numero a quella di Magnenzio [Zosimus, lib. 2, cap. 45 e 46. Zon., in Ann.]. In fatti dalla Italia pel Norico s'inoltrò la possente armata del tiranno alla volta della Pannonia, e mandò innanzi a sfidare Costanzo, [46] con dire che nelle campagne larghe di Sciscia al fiume Savo verrebbe a trovarlo, per chiarire chi sapesse più bravamente menar le mani. E perciocchè intese che Costanzo avea spedite innanzi alcune schiere per contrastargli qualche passo, in un'imboscata che loro tese, le mise a filo di spada. Or mentre egli insuperbito per questo primo vantaggio si andava disponendo per passare il Savo, ecco giugnere Filippo, uno de' primi uffiziali della corte di Costanzo, perchè prefetto del pretorio, e personaggio di sperimentata prudenza, spedito dall'Augusto padrone in apparenza, secondo la opinione d'alcuni, per trattare di pace, ma in sostanza per iscoprire le forze e i disegni di Magnenzio, e studiarsi di mettere sedizione nella di lui armata. Diedegli udienza Magnenzio alla presenza di tutte le sue milizie, e seppe ben valersi l'accorto ambasciatore dell'occasione, mostrando di parlare al solo tiranno, per fare un'aringa anche alle ascoltatrici truppe di lui, con rappresentare come cosa vergognosa a gente romana il portar l'armi contra d'altri Romani, e massimamente contra de' figliuoli del gran Costantino, principe, a cui tutti aveano tante obbligazioni. Aggiunse, che se Magnenzio volea cedere a Costanzo l'Italia, consentirebbe Costanzo a lui la signoria delle Gallie; sotto il qual nome sembra verisimile che fosse compresa anche la Spagna e Bretagna. Zosimo e Zonara furono d'avviso che Costanzo veramente desiderasse la pace, per ischivare lo spargimento inevitabile del sangue di tanti popoli. Fece tal impressione nel cuore degli ascoltanti il discorso di Filippo, che durò fatica Magnenzio a far intendere la sua risposta, consistente in dire ch'egli di buon cuore accettava la proposizion di pace, ma che gli bisognava un po' di tempo per maturarne le condizioni. Con tale scappata rimise lo affare al giorno seguente, nel quale aringò la sua armata, e tanto disse dei mancamenti ed eccessi dell'estinto Costante, [47] che smorzò in cuore dei più d'essi la inclinazione alla pace.

Tosto dunque fatto prendere l'armi, andò per passare il Savo in vicinanza di Sciscia; ma gli fu all'incontro la guarnigione di quella città, che diede una fiera percossa alle di lui genti, parte precipitandole nel fiume, e parte trucidandole colle spade. Allora Magnenzio, vedendo tanto scompiglio de' suoi, cacciata la punta dell'asta sua in terra, fece segno con la mano alle milizie di Costanzo, di voler parlare di pace; e ne parlò in fatti, mostrando di passare unicamente per trattarne con Costanzo; di modo che o i soldati di Costanzo, o Costanzo medesimo ch'era vicino, fecero cessar la battaglia, e permisero il passo a Magnenzio. Tale è il racconto di Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 48.], in cui nondimeno apparisce poca verisimiglianza. Quel che è certo, valicato ch'ebbe Magnenzio il Savo, stese il poderoso esercito suo nelle pianure poste tra il Savo e il Dravo, bramando intanto Costanzo di ridurlo a Cibala, per dargli battaglia in quel luogo, dove Costantino suo padre, ventisette anni prima, aveva sconfitto Licinio. Era appunto in Cibala Costanzo, e quivi teneva mirabilmente afforzato il suo campo, quando Tiziano, senator romano, creduto il medesimo che vedemmo poco fa prefetto di Roma, spedito da Magnenzio, venne a parlargli. Disse costui un'infinità d'insolenze contro la memoria del gran Costantino e de' suoi figliuoli, conchiudendo in fine che se a Costanzo era cara la vita, dimettesse l'imperio. Non altro gli rispose Costanzo, se non che rimetteva la sua causa alla giustizia di Dio, sperando che essa combatterebbe in suo favore, e vendicherebbe la morte indegna del fratello. Permise ancora a Tiziano di andarsene salvo, ancorchè i suoi cortigiani fossero in affanno, perchè Filippo, già inviato a Magnenzio, non era per anche tornato indietro dal campo, e nuova di lui non [48] si sapeva. Accadde poscia che Silvano, il quale comandava un corpo di cavalleria di Magnenzio, con tutti i suoi disertando, passò ai servigi di Costanzo: azione, che quanto recò di giubilo all'esercito d'esso Costanzo, altrettanto di affanno portò a Magnenzio, il quale, per paura che altri imitassero quell'esempio [Zosim., lib. 2, cap. 49. Zonar., in Annal.], si affrettò per venire alla decision della lite con qualche combattimento. Assalì Sciscia, e, presala d'assalto, la desertò. Dopo aver dato il sacco al paese posto fra il Dravo e il Savo, piombò addosso alla città di Sirmio, capitale del paese, credendosi di entrarvi senza contrasto. Trovò che i cittadini e il presidio militare aveano sangue nelle vene e cuore in petto; e però, lasciata quell'impresa, rivolse i passi e l'armi contro la città di Mursa, situata alla riva del fiume Dravo, dove ora è il ponte di Essec; e poichè la trovò ben munita, e costò caro alle di lui genti un furioso assalto, per cui sperava di prenderla, si mise ad assediarla. Allora fu che Costanzo, per non lasciar cadere quella città in man del nemico, mosse il suo campo a quella volta. Avvisato nel cammino che Magnenzio gli avea tesa un'imboscata, ebbe maniera di far tagliare a pezzi quella nemica brigata.

Furono dunque a vista le due possenti armate, vogliose amendue di menar le mani, e nel dì 28 di settembre si schierarono per venire a battaglia. Stettero in ordinanza la maggior parte del dì, senza che alcuna d'esse cominciasse la danza: nel qual mentre, se vogliam credere a Zonara [Zonar., in Annal. Idacius, in Fastis.], Magnenzio, per consiglio d'una maga, fece un orrido sagrificio d'una fanciulla. Finalmente, accostandosi la sera, cominciò il terribil fatto d'armi, le cui particolarità, secondo il solito, son raccontate diversamente dagli scrittori. Giuliano [Julian., Orat. II.] pretende che la vittoria non tardasse a dichiararsi in [49] favor di Costanzo, con rimanere rovesciato il corpo di battaglia di Magnenzio dall'ala sinistra; e dalla cavalleria d'esso Costanzo; e che Magnenzio non tardò a prendere la fuga; ma che le sue genti rimesse in ordinanza continuarono a far testa, animate dal coraggio de' loro uffiziali. Zosimo [Zosim., lib. 2, cap. 49.] e Zonara [Zonar., in Annalib.], per lo contrario, scrivono che il combattimento restò dubbioso fino alla nera notte, quando le genti di Costanzo, fatto uno sforzo, misero finalmente in rotta i nemici, buona parte de' quali o restò fredda sul campo, o andò a bere la morte nel fiume Dravo. Presi furono gli alloggiamenti dei vinti, che andarono a sacco; e Magnenzio, allorchè vide disperato il caso, e d'aver anche corso pericolo d'essere preso, come scrive Eutropio [Eutrop., in Breviar.], deposti gli abiti imperiali, e travestito si diede alla fuga, lasciando indietro il suo cavallo ben addobbato, acciocchè si credesse ucciso il padrone, e niuno gli tenesse dietro. Abbiamo da Sulpicio Severo [Sulpitius Severus, Hist., lib. 2.] che l'Augusto Costanzo nel tempo della zuffa stette aspettandone l'esito nella chiesa de' Martiri di Mursa. Certo egli non fu mai in concetto di gran guerriero, ed allora dovette raccomandarsi ben di cuore a Dio, ed implorar l'intercessione de' santi. Fu questa una delle più fiere e sanguinose battaglie che da gran tempo avesse veduta l'Europa, e vi perirono assaissimi uffiziali di raro valore dall'una parte e dall'altra, uno de' quali specialmente è rammemorato da Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 52.], cioè Menelao capitano degli arcieri, il quale con tal forza e disinvoltura nel medesimo tempo scagliava tre freccie, che colpiva tre diverse persone. Con una d'esse avendo egli mortalmente ferito Romolo, generale dell'armata magnenziana, questi non volle desistere dal combattimento, finchè non ebbe tolta la vita al feritore, con lasciarvi appresso [50] anch'egli la sua. Nuova più non si seppe di Marcellino, altro generale d'esso Magnenzio, e gran promotore della di lui ribellione; e però fu creduto ch'egli perisse nel Dravo. La mattina seguente [Zonar., in Annalib.] Costanzo Augusto si portò a mirare da un'eminenza il campo della battaglia; ed osservato il funesto spettacolo della innumerabil gente tanto sua che nemica estinta, non potè contener le lagrime, considerando come l'imperio romano fosse rimasto privo di sì gran copia di bravi uffiziali e forti soldati, che sarebbono stati il terror de' Barbari e il sostegno delle provincie romane. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] anch'egli nota che di sommo pregiudizio all'imperio riuscì la perdita di sì valorose milizie. Non sembra poi credibile il dirsi da Zonara che Costanzo di ottanta mila combattenti, ch'egli avea, ne perdè trenta mila; e Magnenzio di trentasei mila ne lasciò sul campo ventiquattro mila. Vi sarà dell'error nel suo testo. Ordinò dunque Costanzo che si desse tosto sepoltura a tutti i cadaveri senza distinzion d'amici e di nemici, e che si curassero i feriti dell'una e dell'altra parte. Pubblicò ancora il perdono per chiunque avesse portate l'armi contra di lui, ed avuta parte nella morte del fratello Costante. Intanto il fuggitivo Magnenzio [Zosimus, lib. 2, cap. 53.] ebbe la fortuna per ora di scappare il meritato gastigo, e di salvarsi, con ripassar l'Alpi, tornandosene nelle Gallie, giacchè non si fidava de' Romani e degl'Italiani, a' quali sapeva d'essere in odio. Nè Costanzo si sentì voglia di fargli tener dietro, nè di proceder oltre, perchè trovò anche l'armata sua troppo affaticata ed infievolita di forze [Julian., Orat. II.]. La flotta sua, che s'era lasciata vedere sulle coste dell'Italia in questi medesimi tempi, senza aver operato cosa alcuna degna di memoria, solamente servì ad imbarcar molti che fuggivano la crudeltà di [51] Magnenzio, e fra essi non pochi senatori e principali di Roma.


   
Anno di Cristo CCCLII. Indizione X.
Liberio papa 1.
Costanzo imperadore 16.

Consoli

Flavio Costanzo Augusto per la quinta volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare.

Tali furono i consoli nell'Oriente e nell'Illirico, cioè nelle provincie dipendenti da Costanzo imperadore; imperciocchè per conto di Roma, e dell'Italia e delle provincie oltramontane, tuttavia ubbidienti all'usurpatore Magnenzio, abbiamo dal Catalogo de' Prefetti di Roma [Cuspinianus. Bucherius.] che furono consoli Decenzio (cioè il fratello del tiranno) e Paolo. Fece fine in quest'anno ai suoi giorni il romano pontefice san Giulio, dopo avere con incredibil fermezza e zelo sostenuta la religione cattolica contro la prepotenza degli ariani [Chronic. Damasi. Baronius, Annal. Eccl. Pagius, Crit. Baron.]. Accadde il beato passaggio di lui nel dì 12 d'aprile, e poscia nel dì 21 di giugno, Liberio in sua vece fu posto nella sedia di san Pietro. Tornò Valerio Procolo ad essere prefetto di Roma, e a lui poscia nel dì 9 di settembre in quell'uffizio succedette Settimio Mnasea, che lo tenne sino al dì 26 del medesimo mese, in cui ebbe per successore Nerazio Cereale. Passò l'Augusto Costanzo il verno nella Pannonia, allestendo intanto le maggiori forze possibili per calare nella prossima primavera in Italia. Magnenzio, che già prevedeva il colpo, ossia ch'egli non si fosse ritirato nelle Gallie nell'anno prossimo addietro, o che tornasse da esse Gallie in Italia, si andò a postare ad Aquileia, per quivi impedir la calata de' nemici [Julian., Orat. I et II.]. Quivi, credendosi egli più che sicuro, attendeva a [52] solazzarsi; quando Costanzo, venuta la prima buona stagione, mise in marcia l'esercito suo; e la prima sua impresa fu quella d'impadronirsi senza gran fatica d'un castello situato sull'Alpi Giulie, creduto da Magnenzio inespugnabile per la numerosa guarnigione ch'egli avea qui collocata. Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 31, cap. 11.] sembra attribuire la facilità di questa conquista ad un conte Atto, il quale si lasciò prendere da quel presidio, e seppe poi con doni e promesse tirarlo alla divozion di Costanzo. Per questo colpo veggendo Magnenzio sconcertate le sue misure, si ritirò da Aquileia, lasciando all'armi di Costanzo libera l'entrata in Italia. Di quello che dipoi avvenne in queste contrade poco si sa. Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] in due parole accenna che Magnenzio verso Pavia diede delle percosse alle milizie di Costanzo, mentre disordinatamente l'inseguivano: il che nondimeno a nulla servì per impedire i progressi dell'armi di Costanzo, le quali in fine il ridussero ad abbandonar l'Italia. Per quanto s'ha da Zonara [Zonaras, in Annal.], contribuì non poco a farlo ritirar nelle Gallie l'averlo abbandonato molte delle sue soldatesche, per darsi a Costanzo colle fortezze raccomandate alla lor custodia. Non lasciò per questo il tiranno d'inviare un senatore, e poi dei vescovi a Costanzo, cercando pure, se poteva, d'intavolar qualche trattato di pace, con esibirsi infino di sottomettersi, purchè gli restasse qualche onorevol grado nella milizia. Costanzo senz'altra risposta rimandò indietro quegli inviati.

In somma non passarono molti mesi che Costanzo Augusto divenne pacifico padrone di Roma e dell'Italia tutta. Una legge da lui pubblicata [L. 5, de infirmandis bis, quae sub Tyrann. Cod. Theodos.] per cassare gli atti del tiranno, se pur la data non è [53] guasta, cel fa vedere in Milano nel dì 3 di novembre dell'anno presente. E il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] osservò che se Nerazio Cereale, che dicemmo creato prefetto di Roma, è quel medesimo che si sa essere precedentemente stato uffiziale della corte di Costanzo, veniamo ad intendere che anche nel dì 26 di settembre Costanzo signoreggiava in Roma, perchè egli inviò colà un nuovo prefetto, cioè il medesimo Cereale. Ricavasi poi da Giuliano [Julian., Orat. I.] che Costanzo spedì la sua armata navale dall'Egitto e dall'Italia, per ridurre alla sua ubbidienza Cartagine e l'Africa: il che gli venne fatto. Veleggiarono similmente altre navi a prendere il possesso della Sicilia; ed avendo fatto passar la flotta in Ispagna, que' popoli sino ai monti Pirenei l'accettarono per loro signore. Ma questi felici avvenimenti appartengono piuttosto all'anno seguente. Accudiva in questi tempi Gallo Cesare al governo dell'Oriente, quando, per testimonianza di Zonara [Zonar., in Annal.], Magnenzio spedì colà un suo sicario per assassinarlo, e dar con ciò apprensione di novità a Costanzo. Sovvertì costui alcune persone militari; ma, scoperta la trama, ognun la pagò colla vita. Ma forse non v'era bisogno d'immaginar costui inviato da Magnenzio, perchè sì malamente, come vedremo, reggeva Gallo que' popoli, che da maravigliarsi non sarebbe se nella stessa Soria si fosse maneggiata qualche congiura per torgli la vita. A questi tempi vien riferita da san Girolamo [Hieron., in Chron.] e da Teofane [Theophanes, in Chronogr.] una solevazion de' Giudei nella Palestina. Prese l'armi, uccisero di notte le guarnigioni romane; poi sfogarono la rabbia loro contra de' Samaritani con fieri saccheggi, e con giugnere infino, se Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] non falla, a dare il titolo di re ad un certo Patrizio. Ebbero ben presto a [54] pentirsene. Marciò colà da Antiochia Galle Cesare; ne mise a fil di spada molte migliaia, senza nè pur perdonare ai fanciulli; e diede in preda alle fiamme alcune loro castella e città, e fra l'altre Tiberiade, Diospoli e Diocesarea. L'ultima soprattutto fu spianata dai fondamenti, perchè ivi era nata la ribellione. Varie leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] del Codice Teodosiano ci fan vedere l'imperadore Costanzo nei primi sei mesi, ed anche nel dicembre dell'anno presente, in Sirmio e Sabaria della Pannonia; ma si può ben temere che non tutte quelle date sieno giuste.


   
Anno di Cristo CCCLIII. Indizione XI.
Liberio papa 2.
Costanzo imperadore 17.

Consoli

Flavio Costanzo Augusto per la sesta volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare per la seconda.

Continuò ad esercitar la prefettura di Roma Nerazio Cereale sino al dì 8 di dicembre, nel qual giorno ebbe per successore Memmio Vitrasio Orfito. L'anno fu questo in cui l'Augusto Costanzo giunse a terminar felicemente la guerra contra del tiranno Magnenzio. S'era, siccome dicemmo, ritirato costui nelle Gallie, dove attese a premunirsi il meglio che potè, giacchè prevedeva che le forze di Costanzo erano per cadere addosso di lui anche in quelle parti. Giuliano [Julian., Orat. I.] ci assicura ch'egli maggiormente si screditò per le tante estorsioni e crudeltà che allora commise per unir danari, di modo che abbondavano i desiderosi della di lui rovina. Abbiamo da Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 15, cap. 6.] che la città di Treveri chiuse le porte a Decenzio Cesare di lui fratello, ed elesse per suo difensore un certo Pemenio, che poi nell'anno 335 ne pagò il fio. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 53.] ancora scrive che avvenne in questi [55] tempi l'irruzione de' Barbari della Germania nelle Gallie, procurata sotto mano con regali dal medesimo Costanzo Augusto. Ma quello che probabilmente ridusse a mal termine gli affari di Magnenzio fu l'andare i soldati ed uffiziali suoi disertando, con passare al servigio del nemico imperadore. Perciò, impoverito di forze, impedir non potè il passaggio delle Alpi all'armata di Costanzo, riducendosi solamente a contrastarle i progressi al luogo di monte Seleuco nell'Alpi Cozzie, posto nel Delfinato d'oggidì fra Die e Gap. Quivi battaglia seguì fra i due nemici eserciti; e ne andò sconfitto quel di Magnenzio. Perciò il tiranno, salvatosi a Lione con poca gente di seguito, si trovò presto in istato di disperazione; perchè, avvedutosi che i suoi soldati lo aveano come bloccato in casa, con pensiero di darlo vivo in mano di Costanzo, uscì per ricordar ad essi il loro dovere nel dì 15 d'agosto, come ha Socrate [Socrates, in Histor. Eccles.]. Ma udito [Sozom. Zonaras. Zosimus et alii.] che gridavano tutti: Viva Costanzo Augusto, rientrato nel palazzo, e trasportato da rabbia e furore, uccise la propria sua madre, ferì gravemente Desiderio Cesare suo fratello; svenò ancora, o pure ferì chi gli capitò davanti de' suoi cortigiani, ed in fine [Aurelius Victor, in Epitome.] colla punta della spada rivolta al suo petto, correndo contro al muro, tal ferita si diede, che col sangue uscì anche l'empia di lui anima, esentando in tal guisa sè stesso dai tormenti che poteva aspettarsi, cadendo in mano di Costanzo, ma non già da quei della divina giustizia per le tante iniquità da lui commesse. Decenzio Cesare suo fratello, che chiamato veniva in aiuto di lui, arrivato alla città di Sens [Idacius, in Fastis. Hieron., in Chronic. Eutrop., in Brev. Zosimus, lib. 2, cap. 53.], dove intese il fine di Magnenzio, anche egli, con istrozzar sè stesso, terminò i suoi giorni nel dì 18 d'agosto. Zonara [Zonaras, in Annalib.], che fa solamente ferito [56] Desiderio Cesare, altro di lui fratello, quando v'ha chi il vuole ammazzato dal medesimo Magnenzio, scrive che guarito esso dalle ferite, andò poscia a rendersi all'Augusto Costanzo, senza poi dire cosa ne divenisse. Ed ecco il fine del tiranno Magnenzio, per la cui morte niuna fatica durò più Costanzo ad aver l'ubbidienza di tutte le Gallie e Spagne, e della Bretagna, e videsi, per conseguente, tutto l'antico vasto imperio romano ridotto sotto il comando di lui solo.

Abbiamo nel Codice Teodosiano leggi [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] che ci fan vedere questo imperadore in Ravenna nel dì 21 di luglio, in Lione nel dì 6 di settembre, e in Arles nel dì 5 di novembre. Certo è ch'egli passò nelle Gallie per rallegrare i suoi occhi in mirar sì grandi conquiste, ma non già per recar allegrezze a' popoli di quelle contrade. Giuliano Cesare [Julian., Orat. II.], nell'orazione seconda fatta in onore d'esso Costanzo, esalta molto la di lui clemenza verso coloro ancora che s'erano mostrati più appassionati in favor di Magnenzio; ma è da credere che la sua penna prendesse unicamente consiglio dall'adulazione. Comincia qui a comparire in aiuto nostro la storia di Ammiano Marcellino, scrittore contemporaneo, cioè il libro decimoquarto coi susseguenti, giacchè il tempo ci ha rubato gli altri tredici precedenti. Ora egli scrive [Ammianus Marcellinus, lib. 14, cap. 5.] che pervenuto Costanzo ad Arles sul fin di settembre, o sul principio di ottobre, quivi passò anche il verno. E che nel dì 8 d'esso ottobre solennizzò i tricennali del suo imperio cesareo con singolare magnificenza di divertimenti teatrali e di giuochi circensi: il che fatto, s'applicò a contaminar la felicità ed allegrezza della vittoria, con divenir più fiero e superbo, come Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 54.] lasciò scritto, e con mettersi a far rigorosa giustizia degli amici e parziali dell'estinto tiranno. Il [57] peggio fu che da ogni banda saltarono su accusatori e calunniatori, a' quali si prestava facilmente credenza, perchè piacevano; e tanto addosso ai colpevoli (se pur colpa era l'aver dovuto ubbidire ad un tiranno) quanto agl'innocenti si scaricò l'ira di Costanzo e l'avidità del fisco, levando a non pochi di loro e roba e vita, e condannando altri all'esilio. Ammiano ci lasciò un lagrimevol racconto di tali crudeltà, delle quali spezialmente fu ministro un Paolo Spagnuolo, notaio di corte, spedito anche nella Bretagna, per far quivi buona caccia: azioni tutte di grave discredito alla riputazion di Costanzo, il quale sì malamente pagava i benefizii a lui compartiti da Dio. Ai primi mesi di quest'anno pare che appartengano le nozze d'esso imperadore con Eusebia, figliuola d'un console di Tessalonica, lodata dagli antichi scrittori [Aurelius Victor, in Epitome. Julian., Orat. III. Ammianus, lib. 21. Zosimus, lib. 3, cap. 1.] per la sua beltà, ma più per la saviezza e regolatezza de' suoi costumi, e per la letteratura superiore all'uso del suo sesso; ma non esente però da difetti, siccome vedremo. Era Costanzo da qualche tempo vedovo, senza aver potuto ricavar prole da più d'uno antecedente matrimonio; e quantunque egli amasse non poco questa nuova compagna, nè pur col tempo da essa riportò alcuno de' sospirati frutti. Due fratelli ancora aveva essa Eusebia, cioè Eusebio ed Idacio, che furono poi consoli, avendo ella principalmente fatta servire l'autorità sua per esaltare i suoi parenti e gli amici della sua famiglia. Vero è che Ammiano parla della di lei prudenza; ma non seppe ella guardarsi dal fasto e dalla superbia, maligni ed ordinarii compagni delle umane grandezze. Intorno a ciò abbiamo un caso narrato da Suida [Suidas, in Lexico, ad verbum Leontius.]. Tenevano i vescovi ariani d'Oriente un concilio in una città, dove anche soggiornava l'Augusta Eusebia; e portatisi ad inchinarla, furono da essa ricevuti con [58] gran contegno ed altura. Il solo Leonzio, vescovo di Tripoli in Lidia, ariano anche esso, e di testa non meno alta che quella dell'imperadrice, si astenne dal visitarla. Fumò per la collera Eusebia; ma tuttavia si contenne o contentossi di fargli ricordare il suo dovere, offerendosi ancora di dargli una somma di danaro e di fargli fabbricare una chiesa. Leonzio le fece rispondere che v'andrebbe ogni qual volta ella fosse disposta a riceverlo col rispetto dovuto ad un vescovo, cioè a venirgli incontro, e ad inchinarsi per prendere la sua benedizione; altrimenti egli non intendeva di voler avvilire la dignità episcopale. A tale risposta smaniò l'altera principessa, proruppe in indecenti minaccie, e corse in fatti al marito, dolendosi come di un grave affronto, ed attizzandolo alla vendetta. Costanzo più saggio di lei, dopo aver lodato la generosa libertà del vescovo, consigliò l'adirata signora ad attendere ai grandi affari della sua toletta. Ma se questo prelato ariano volle correggere il fasto dell'imperadrice con un maggiore dal canto suo, non si può già lodare; perchè lo spirito del cristianesimo ha da essere spirato d'umiltà, e i saggi sanno accordar insieme questa virtù col sostenere nello stesso tempo il decoro dovuto alla lor dignità. Abbiamo poi da Ammiano [Ammian., lib. 14 et seq.] che, non ostante così prosperosi successi dell'armi di Costanzo Augusto, le Gallie non goderono in questi tempi pace, perchè infestate dalle scorrerie delle nazioni germaniche, e dai soldati di Magnenzio o cassati o pertinaci nella primiera ribellione. In Roma ancora si provarono sedizioni per la penuria del vino, o pure per i mali effetti dell'abbondanza e dell'ozio. Un bel ritratto fa qui Ammiano del lusso e dei corrotti costumi de' Romani d'allora, confessando nulladimeno che quella gran città era tuttavia in venerazione presso d'ognuno. L'Oriente anch'esso fieramente restò turbato dalle incursioni degli [59] Isauri, che si stesero per varie provincie, dando il sacco dappertutto; e nel medesimo tempo i Saraceni infestarono non poco la Mesopotamia. Finalmente, se son giusti i conti del Gotofredo, appartiene a quest'anno un'importante legge [L. 4, Placutt. De Paganis Cod. Theod.] dell'Augusto Costanzo, indirizzata a Tauro prefetto del pretorio d'Italia, con cui fu ordinato che per tutte le città e in ogni luogo d'Italia si chiudessero i templi dei gentili, e fossero vietati i sacrifizii ai falsi dii; e ciò sotto pena della vita e del confisco di tutti i beni. A questa legge pare che avesse riguardo Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 3, cap. 16.], allorchè anch'egli accenna l'imperial comandamento di chiudere i templi del paganesimo. E perciocchè il tiranno Magnenzio, condiscendendo alle istanze de' gentili, avea permesso loro il far de' sacrifizii in tempo di notte, Costanzo con altra legge [L. 5, de Paganis. Cod. eodem.] cassò quella licenza: il che non bastò già ad estinguere le inveterate superstizioni, trovandosi anche da lì innanzi dei sagrifizii notturni fatti al dio Mitra, cioè al sole, come consta da alcune iscrizioni che si leggono nella mia Raccolta [Thes. Novus Inscript. Class. Cons.] ed altrove.


   
Anno di Cristo CCCLIV. Indizione XII.
Liberio papa 3.
Costanzo imperadore 18.

Consoli

Flavio Costanzo Augusto per la settima volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare per la terza.

Continuò anche per quest'anno ad esercitar la prefettura di Roma Memmio Vetrasio Orfito, siccome consta dal Catalogo antichissimo pubblicato dal Cuspiniano e poi dal Bucherio, che in questo anno viene a noi meno, convenendo cercar altronde i successori in essa dignità. Dopo avere l'Augusto Costanzo passato il verno in Arles, città allora delle primarie delle Gallie, avvicinandosi [60] la primavera, passò a Valenza [Ammianus, lib. 14, cap. 10.], con animo di portar la guerra addosso a Gundomado e Vadomario fratelli, re degli Alamanni, per vendicar le frequenti incursioni fatte da loro nel paese romano. La massa delle milizie si faceva a Sciallon sopra la Sona; ma perchè i tempi cattivi impedivano il trasporto de' viveri, l'esercito che ne penuriava, si ammutinò, e bisognò inviar colà Eusebio mastro di camera che, guadagnati con danaro i principali, quietò il tumulto. Misesi finalmente in marcia quell'armata collo stesso Augusto, e dopo molti disagi pervenuta al Reno al disopra di Basilea, quivi tentò di gittar un ponte sul fiume. Per le freccie, che diluviavano dalla ripa opposta, si trovò quasi impossibile; ma avendo persona, pratica del paese e ben regalata, scoperto un buon guado, per di là passarono tutti nel territorio nemico, ed avrebbono potuto lasciare una funesta memoria agli Alamanni, se qualche uffiziale dell'esercito imperiale, ma di essa nazione, non avesse pietosamente avvertiti i re nemici del pericolo in cui si trovavano, e per cui spedirono tosto ambasciatori ad umiliarsi e chiedere pace. Non durò fatica l'uffizialità a consentire, forse perchè sapevano essere Costanzo fortunato nelle guerre civili, molto sventurato nelle altre. Fu dunque conchiusa la pace, con accettar l'esibizione fatta dagli Alamanni di somministrare all'imperadore delle truppe ausiliarie. Dovette poi Costanzo fare un giro per l'Italia, [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] trovandosi leggi da lui date in Milano, Cesena e Ravenna, con tornare in fine a Milano, dove, per attestato di Ammiano, egli si trattenne per tutto il verno seguente.

Correva già gran tempo ch'esso Augusto era disgustato di Gallo Cesare suo cugino, a cui già vedemmo appoggiato il governo dell'Oriente; e ciò a cagione de' suoi mali portamenti. Non aveva questo principe più di ventiquattro anni, [61] allorchè fu promosso alla dignità cesarea da Costanzo. Il trovarsi egli portato improvvisamente sì alto dalla bassa fortuna, in cui era vivuto per l'addietro; l'aver per moglie una sorella dell'imperadore; l'essere suo cugino, e il godere un'autorità quasi sovrana in tante belle provincie, gli mandò tosto dei fumi alla testa, accresciuti da qualche buon successo dell'armi sue contra de' nemici dell'imperio, e dagli adulatori e panegiristi, fra' quali si conta anche Libanio sofista. A renderlo anche più cattivo e crudele contribuì non poco Costantina sua moglie, che portava il titolo d'Augusta, donna piena d'orgoglio, che Ammiano [Ammianus, lib. 14, cap. 1.], forse con eccesso di passione, arrivò a chiamare una Megera; la quale in vece di addolcirlo, lo andava incitando continuamente ai processi e alle morti, non mancando mai pretesti per opprimere anche le persone più illustri ed innocenti. Professava Gallo, è vero, la religione cristiana [Sozomenus, Hist., lib. 4, cap. 19. Chrysostomus, in Gen., et alii.], e per cura sua seguì in Antiochia la traslazione del corpo del celebre martire s. Babila; ma non men di Costanzo Augusto favoriva anch'egli e fomentava l'arianismo: perlochè Filostorgio [Philostorgius, lib. 3, cap. 27.] ariano parla assai bene di lui. Ma convengono gli storici tutti d'allora che non lieve era la sua crudeltà ed ingiustizia; e infin lo stesso Giuliano [Julian., Epist. ad Athen.] suo fratello, contuttochè si sforzi di scusar le di lui azioni, e di rigettarne la colpa addosso a Costanzo Augusto, pure confessa ch'egli fu d'umore selvatico e fiero, e non fatto per regnare. Ma lo storico Ammiano senza briglia scorre nelle accuse di questo principe, dipingendolo per uomo di testa leggiera, pieno sempre di sospetti, credulo ad ogni calunnia, e però portato a spargere il sangue ancora degl'innocenti, non che dei veri colpevoli. Faceva egli [62] uno studio particolare col mezzo di assaissime spie per saper quello che si diceva di lui anche nelle case private; e per chiarirsene meglio cominciò ad usare di andar la notte travestito per le osterie e botteghe. Ma non durò molto questa sua viltà, perchè essendo le strade in Antiochia illuminate da molte lumiere la notte, in guisa che quasi vi compariva al chiarezza del giorno (il che si praticava allora anche in altre città), egli fu più di una volta riconosciuto, nè più si attentò ad esporsi a maggiori pericoli. Ma non gli mancavano relatori di quanto si diceva, o pur si fingeva che si dicesse; e ad ognuno si dava benigno ascolto, e poi senza processi, e senza dar le difese, facilmente si procedeva alle condanne. Perchè Libanio sofista [Liban., in Vita.] gli era assai caro (verisimilmente per le sue adulazioni) la scappò netta un giorno. Da chi gli voleva male fu subornato un uomo iniquo ad accusarlo di sortilegi contro la persona dello stesso Gallo. Ma Gallo freddamente gli rispose che andasse a produr tali accuse davanti ai giudici ordinarii; e con ciò si sciolse in fumo la meditata trama. Accaddero dipoi varii disordini in Antiochia per la carestia del grano. Perchè a cagion d'essa i magistrati non poterono soddisfare alla di lui premura per una festa, ne fece morir alcuni, ed altri cacciò nelle carceri: il che accrebbe il male. Andossene egli a Jerapoli, senza provvedere al bisogno del popolo, con aver solamente dato per risposta che Teofilo governatore della Soria avea gli ordini opportuni. Lasciò in tal guisa esposto quel ministro al furor della plebe, la quale, vedendo sempre più incarire i viveri, un dì gli pose le mani addosso, e dopo averlo barbaramente ucciso, strascinò il di lui cadavero per le strade.

Erano riferiti a Costanzo Augusto tutti questi ed altri disordini ch'io tralascio; e però a poco a poco cominciò a ritirare di sotto al comando di Gallo le [63] milizie di quelle parti. Poscia, in occasione [Ammianus, lib. 13, cap. 7.] che mancò di vita Talassio prefetto del pretorio d'Oriente, mandò colà Domiziano ad esercitar quell'autorevole impiego, riconoscendosi da ciò che gli imperadori, nel dare allora i governi ai Cesari, si riserbavano l'elezione almen delle cariche principali. Seco portò Domiziano un ordine segreto d'indurre con bella maniera e tutta dolcezza Gallo a dare una scorsa in Italia. Ma siccome costui era un uomaccio ruvido ed incivile, arrivato ad Antiochia, passò davanti al palazzo del principe, senza curarsi di usare con lui atto alcuno di rispetto, e portatosi all'abitazion consueta dei prefetti del pretorio, quivi si fermò per qualche tempo senza uscirne, con allegar degl'incomodi di sanità, ma intanto raccogliendo tutto il male che si diceva di Gallo, per avvisarne l'imperadore. Chiamato poi da esso Cesare, andò in fine a visitarlo, e fra le altre cose sgarbatamente gli disse, esservi ordine di Costanzo ch'esso principe andasse in Italia; perchè, altrimenti facendo, comanderebbe che gli fossero trattenuti i salari e le provvisioni solite a somministrarsi a lui e alla sua famiglia: e, ciò detto, dispettosamente se ne andò. Gallo, giacchè Domiziano, benchè invitato altre volle, non si lasciò più vedere, montato in collera, mandò parte delle sue guardie a rinserrarlo in casa [Sozom., Hist., lib. 4, cap. 2. Epiphan. Scholast. Theoph., in Chronogr.]; e perciocchè Monzio, ossia, come altri lo appellarono, Magno questore, parlò a quelle guardie, con dir loro che quando pur volevano far simili violenze a un sì riguardevole uffiziale dell'imperadore, dovevano prima abbattere le statue dell'Augusto Costanzo, cioè venire alla ribellione: Gallo Cesare, di ciò avvertito, andò sì fattamente in furia, che spinse le guardie addosso al questore, il quale insieme col prefetto Domiziano fu in breve messo a pezzi, e i lor corpi gittati nel fiume. [64] A questi sconcerti ne tennero dietro degli altri, che tutti riferiti a Costanzo imperadore, il misero in grande agitazione, e tanto più, perchè saltò su il timore che Gallo fosse dietro a far delle novità, e meditasse di usurpare l'imperio. Questo timore agevolmente in cuore di lui nato, perchè principe naturalmente sospettoso, poscia fu avvalorato [Ammian., lib 14, cap. 8, et lib. 15.] da Dinamio e Picenzio, iniqui suoi cortigiani, e da Lampadio prefetto del pretorio, uomo sommamente ambizioso, e dagli eunuchi di corte, che gran credito aveano presso il regnante. Socrate [Socrates, Hist., lib. 2, cap. 34.] fu d'avviso che ben fondati fossero i sospetti di Costanzo, ed Ammiano inclinò anch'egli a credere dei perniciosi disegni in Gallo. Giuliano [Julian., Epist. ad Athen.] di lui fratello, e Zosimo pretendono tutto ciò falso. La gelosia di Stato ne' principi, massimamente deboli, è un mantice che di continuo loro ispira le più violente risoluzioni; e così ora avvenne, con prendere Costanzo la determinazione di levare al cugino Gallo, non solamente la porpora, ma anche la vita.

La maniera da lui tenuta, per compiere tal disegno, fu la seguente. Chiamò prima in Italia Ursicino, generale delle armi in Oriente [Ammianus, lib. 14, cap. 9 et seq.], per paura ch'egli non si unisse con Gallo, o facesse altra novità in quelle parti. Venuto ch'egli fu, Costanzo spedì a Gallo una lettera, tutta profumata di espressioni amorevoli, pregandolo di venire a trovarlo in Italia, per consultar seco intorno ai bisogni presenti, e massimamente intorno ai Persiani, che minacciavano un'irruzione nelle provincie romane. Nello stesso tempo fece sapere a Costantina sua sorella, che se voleva dargli una gran consolazione, venisse anch'ella alla corte. Attesta Filostorgio [Philostorgius, lib. 4, cap. 1.] che questa chiamata pose in somma apprensione tanto [65] Gallo che la moglie: tuttavia fu creduto che andando Costantina innanzi, saprebbe essa ammollir l'ira del fratello ed ottener grazia pel marito. Però ella si mise in viaggio, e Gallo le tenne dietro. Ma giunta Costantina nella Bitinia al luogo di Cene, quivi assalita da maligna febbre, terminò il corso del suo vivere, e il corpo suo fu portato dipoi a Roma, e seppellito nella chiesa di sant'Agnese, già da lei fabbricata. Allora Gallo si vide come perduto; e, se Ammiano dice il vero, pensò ad usurpar l'imperio; ma non ne trovò i mezzi, perchè odiato dai più, e perchè Costanzo gli avea tagliate le penne, con levargli le milizie. Incoraggito poi dagli adulatori, arrivò a Costantinopoli, dove si fermò a vedere i giuochi circensi, benchè sollecitato dalle lettere di Costanzo che l'aspettava a braccia aperte, e mandato aveva intanto uffiziali per vegliare sopra le di lui azioni, sotto pretesto di servirlo nel viaggio. Lasciò Gallo in Andrinopoli buona parte della sua famiglia, e con pochi de' suoi giunse a Petovione, oggidì Petau, vicino al fiume Dravo, dove poco stette ad arrivar anche Barbazione conte de' domestici, ossia capitan delle guardie, che molte calunnie avea prima inventato contra di lui [Ammianus. Philostorg.], e non tardò a spogliarlo della porpora e di tutti gli altri ornamenti principeschi, assicurandolo poi con più giuramenti a nome di Costanzo, che niun altro male gli accaderebbe. Ma il misero fu condotto di poi alla fortezza di Fianone sulle coste della Dalmazia, ossia dell'Istria, vicino a Pola, dove a Crispo, figliuolo del gran Costantino, negli anni addietro era stata tolta la vita, e dove Gallo fu sequestrato sotto buona guardia. Credesi che veramente l'Augusto Costanzo avesse intenzione di non far di peggio al deposto cugino; ma tanto picchiarono Eusebio e gli altri eunuchi di corte, che mutò massima. Fu inviato lo stesso Eusebio con Pentado segretario, per esaminarlo intorno alla morte di Domiziano [66] e d'altri, secondochè si ha da Ammiano: il che è da contrapporre a Giuliano [Julian., Epist. ad Atheniens.] e Libanio [Liban., Orat. XII.], che il dicono condennato senza ascoltarlo. Rispedì poi Costanzo lo stesso Pentado ad eseguir la sentenza di morte fulminata contra di Gallo; e quantunque Filostorgio [Philostorg., Histor., lib. 4, cap. 1.] e Zonara [Zonar., in Annal.] scrivano ch'egli pentito inviò un ordine in contrario, questo, per frode degli eunuchi, non arrivò a tempo, e Gallo ebbe mozzata la testa. Cattivo fine fecero poi coloro che maggiormente colle lor bugie aveano contribuito alla di lui morte, come Barbazione, Scudilone ed altri. Scaricossi ancora lo sdegno di Costanzo, principe implacabile, come avviene a chiunque è di picciolo cuore, sopra gli uccisori di Domiziano e di Monzio: giacchè trovandosi esso Augusto solo possessore del romano imperio, diviso per tanto tempo addietro fra più imperatori e cesari [Ammianus, lib. 15, cap. 1 et 2.], andava ogni dì più crescendo la di lui crudeltà ed orgoglio. Fatto anche venir dalla Cappadocia Giuliano, fratello dell'estinto Gallo, poco mancò che a lui pure non levasse la vita per le suggestioni degli adulatori di corte; ma interpostasi in favore di lui l'Augusta Eusebia, fu mandato a Como, e poscia ottenne di poter passare ad Atene, per continuar lo studio delle lettere che era il suo favorito.

Abbiamo da Ammiano che in questo anno, per avere alcuni popoli dell'Alemagna fatte più incursioni nelle terre romane verso il lago di Costanza, Costanzo Augusto nella state mosse l'armata contra di loro, e fermatosi nel paese di Coira, inviò innanzi Arbezione, che sulle prime ebbe delle busse, ma poscia in un secondo combattimento sconfisse i nemici: perlochè Costanzo tutto glorioso ed allegro se ne tornò a Milano, dove passò ancora il verno seguente. A [67] quest'anno appartiene pur anche la ribellion [Aurel. Victor, in Epit. Zonaras, in Annalib. Ammianus, lib. 15, cap. 5.] di Silvano, nobile e valoroso capitano franzese, quel medesimo che, abbandonato il tiranno Magnenzio prima della battaglia di Mursa, era passato ai servigi dell'Augusto Costanzo, e creato dipoi generale di fanteria, fu inviato nelle Gallie per reprimere i barbari germanici, che mettevano a sacco e fuoco quelle contrade. Che che dicano di lui Giuliano [Julian., Orat. II.] e Mamertino [Mamertinus, in Panegyr. Jul.], si crede che Silvano procedesse da uomo prode ed onorato in far guerra contra de' Barbari. Ma non gli mancavano emuli e nemici alla corte, i quali procurarono la di lui rovina. Dinamio, uno dei bassi cortigiani, per quanto si disse, fu il fabbricator della trama. Impetrò egli lettere commendatizie da Silvano a varii personaggi di corte, e poi ritenuta la sottoscrizione, e scancellate con pennello le altre lettere della pergamena, vi scrisse ciò che volle, cioè delle preghiere in gergo ad essi suoi amici, per essere aiutato a salire dove la fortuna il chiamava. Portate dall'iniquo Dinamio tali lettere a Lampadio prefetto del pretorio, che poi si sospettò complice della frode, passarono sotto gli occhi di Costanzo; e tosto saltò fuori l'ordine della carcerazione delle persone alle quali erano indirizzati que' fogli. Fu ancora spedito nelle Gallie Apodemo, per far venire Silvano alla corte; ma costui prima di avvisarlo, si predè ad occupare i di lui beni, e a tormentare alcuni dei di lui dipendenti. Ciò diede impulso a Silvano di non volersi arrischiare al viaggio d'Italia, essendo egli assai persuaso che in questi tempi l'essere accusato e condennato era facilmente lo stesso; e però non sapendo qual partito prendere, si ridusse a farsi proclamare Augusto dalle milizie di suo comando. Troppo sventuratamente per lui, perchè in questo mentre essendosi [68] scoperte le furberie di Dinamio alla corte, e per conseguente la di lui innocenza, se avesse tardato a far quel gran passo, era in salvo l'onore e la vita sua. Giunto a Milano l'avviso della di lui ribellione, ne sguazzarono i suoi emuli, al vedere fortunatamente verificati i lor falsi rapporti; e Costanzo Augusto inviò tosto nelle Gallie Ursicino conte, il quale a dirittura si portò a Colonia; e fingendo d'essere colà andato per unirsi con Silvano, entrò seco facilmente in confidenza finchè sotto mano guadagnati alcuni soldati, il fece un dì tagliare a pezzi, dopo soli ventotto giorni dell'usurpato imperio. Aspra giustizia fu dipoi fatta di alcuni complici di Silvano. Contuttociò si mostrò questa volta sì discreto Costanzo [Aurel. Victor, in Epitome.], probabilmente perchè capì essere stato precipitato l'infelice in quella risoluzione non da mala volontà, ma da un giusto timore, che presto desistè dal perseguitare i di lui amici [Ammian., lib. 15. Jul., Orat. I et II.], anzi volle che fossero conservati tutti i di lui beni ad un suo figliuolo, lasciato dianzi in corte per ostaggio della sua fede. Vi ha chi mette all'anno seguente il fatto di Silvano. Io, tenendo dietro a s. Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], ne ho parlato in questo, giacchè egli sotto lo stesso anno riferisce le tragedie di Gallo e di Silvano.


   
Anno di Cristo CCCLV. Indizione XIII.
Liberio papa 4.
Costanzo imperadore 19.

Consoli

Flavio Arbezione e Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano.

Col favore d'alcune iscrizioni da me rapportate altrove [Thesaur. Novus Inscript., p. 380.], sembrano a me sufficientemente provati i nomi di questi consoli. Lolliano si trova ancora col nome di Mavorzio. Continuò per alcuni mesi dell'anno presente nella prefettura [69] di Roma Memmio Vitrasio Orfito, ed ebbe poi per successore Leonzio, personaggio assai lodato da Ammiano. Per quanto si raccoglie dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.], l'Augusto Costanzo per lo più soggiornò in Milano nell'anno corrente, nè andò a Roma o a Sirmio, come per errore si legge in due date. Fu appunto in essa città di Milano tenuto in quest'anno un famoso conciliabolo, a cui intervenne lo stesso imperadore, spasimato fautor degli ariani: il perchè prevalse il loro partito. Quivi fu deposto sant'Atanasio [Sever. Sulpicius, lib. II. Baron., Annal. Eccl.]; e perchè papa Liberio con altri vescovi ricusò di sottoscrivere gli iniqui decreti, d'ordine di Costanzo fu mandato in esilio. Venne anche forzato il clero romano ad eleggere un altro pontefice, che fu Felice; essendosi poi disputato fra gli eruditi, se questi fosse vero o non vero papa. Tolto di vita Silvano, l'unico generale di cui rispetto e paura aveano in addietro i Barbari della Germania, parve che si aprisse la porta al loro furore, per iscorrere liberamente per le provincie gallicane, e portar la desolazione dappertutto [Ammian., lib. 15, cap. 8.]. Attesta Sozimo [Zosimus, lib. 3, cap. II.] che i Franchi, Alamanni e Sassoni presero e devastarono quaranta città poste lungo il Reno, e, fatto un immenso bottino, condussero in ischiavitù una infinità di persone. Nello stesso tempo anche i Quadi e Sarmati, dandosi probabilmente mano con gli altri Barbari, mettevano a sacco la Pannonia e Mesia superiore, senza trovar chi loro facesse resistenza. Del pari i Persiani non lasciavano quieta la Mesopotamia. Costanzo intanto se ne stava da lungi osservando questi malori, nè provvedeva al bisogno. Pieno sempre di diffidenze e timori, non osava di passar nelle Gallie, dove maggiore era il bisogno; e nè pur vi spediva generali, paventando l'esempio di Silvano. Mentre [70] vacillava, senza appigliarsi a risoluzione alcuna, l'imperadrice Eusebia, donna di singolar prudenza, ancorchè conoscesse il sospettoso genio dell'Augusto consorte, massimamente verso de' parenti, pure con sì bel garbo gli seppe dipingere la persona di Giuliano di lui cugino, e fratello dell'estinto Gallo Cesare (chiamandolo giovane d'ingegno semplice, che metteva tutto il suo piacere ne' soli studi delle lettere, usando perciò il mantello da filosofo, e poco comparendo pratico degli affari politici), che bel bello indusse Costanzo a richiamarlo da Atene in Italia, e poscia a conferirgli il titolo di Cesare.

Scoperta dai cortigiani questa intenzione dell'imperadore, e temendo di veder calare la loro autorità e possanza, non dimenticarono [Ammianus, lib. 15, cap. 8.] di far quanta opposizione poterono; con rappresentargli i pericoli ai quali si esponeva, massimamente innalzando un fratello di Gallo, e tanto più perchè egli non avea bisogno di compagni per governar tutto l'imperio. Ma più di loro si trovarono possenti le persuasive dell'Augusta Eusebia, di modo che raunate le milizie tutte in Milano [Idacius, in Fastis. Socrates, Hist., lib. 2, cap. 27. Hier., in Chronico.], e salito Costanzo sul trono, dichiarò Cesare il suddetto suo cugino Flavio Claudio Giuliano, gli diede la porpora cesarea e destinollo al governo delle Gallie, per far testa a tanti barbari scatenati contra di quelle contrade. Straordinarie in tal congiuntura furono le acclamazioni e il giubilo de' soldati, ed orribile lo strepito de' loro scudi battuti sopra il ginocchio: chè questo era il segno consueto dell'allegrezze: laddove il battere colle lance gli scudi, segno era di sdegno e dolore. Trovavasi allora il novello Cesare in età di venticinque anni, picciolo di statura, ma spiritoso ed agile, di volto nondimeno poco avvenente; al che contribuiva ancora l'aver egli voluto ritener la barba mal pettinata e [71] rabbuffata [Aurelius Vict., in Epitome. Julian., in Misopogon.], che affettavano i filosofi di quel tempo, benchè avesse deposto il mantello filosofico. Ma qui non finirono gli onori da Costanzo compartiti a Giuliano. A lui diede ancora in moglie Elena sua sorella, e poscia nel dì primo di dicembre [Ammian., lib. 15, cap. 9.] l'incamminò alla volta delle Gallie, accompagnandolo fino ad un luogo posto fra Lomello e Ticino, o vogliam dire Pavia. Appena giunto a Torino intese Giuliano la funesta nuova che l'insigne città di Colonia, assediata dai Barbari, era finalmente caduta in loro mani, spogliata e diroccata dal loro furore: nuova che il rattristò forte, quasi cattivo augurio ai suoi passi. Nè si dee tacere che il geloso Costanzo si studiò per quanto potè di ristrignere l'autorità del cognato e cugino Cesare, per paura ch'egli se ne abusasse, come avea fatto il suo fratello Gallo. Sotto specie d'onore gli mutò tutta la famiglia; gli diede guardie scelte da sè, con ordini segreti ad ognuno di vegliare sopra i di lui andamenti; gli prescrisse infino la tavola [Julian., in Epist. ad Athen. Ammian., lib. 15, cap. 5. Zosimus, lib. 3, cap. 2.], come se si fosse trattato di un figlio che si mettesse in collegio. Deputò per generale dell'armi Marcello; in man di esso e non di Giuliano doveva essere tutto il comando, con ordine espresso che Giuliano nulla potesse donare ai soldati, e nè pure per la sua promozione, come si stilò sempre in addietro. Tante precauzioni del sospettoso Augusto dove andassero a terminare, lo scorgeremo dopo qualche tempo. Intanto Giuliano Cesare passate le Alpi prima che finisse l'anno arrivò a Vienna del Delfinato, ivi accolto con gran festa da tutto il popolo; ed allora fu, se merita fede Ammiano, che una vecchia cieca di quella città gridò, essere venuto chi ristabilirebbe un dì i templi de' falsi dii. Malcontento nondimeno fece Giuliano quel viaggio, perchè [72] Costanzo non gli avea dato seco se non trecento sessanta soldati [Zosimus, lib. 3, cap. 2. Libanius, Orat. ad Julian. Julian., in Epist. ad Athen.]; quando le Gallie si trovavano in un estremo bisogno di forze militari, per resistere alla gran possanza e crudeltà delle nazioni barbariche, alle quali il Reno non serviva più di confine. Nè mancò gente maligna, per attestato di Socrate [Socrat., Histor., tom. 3, cap. 1.], che giudicò averlo Costanzo Augusto inviato colà apposta per farlo perire, soperchiato dai Barbari: il che niun colore ha di verisimiglianza. La di lui nobile promozione, e l'illustre maritaggio smentiscono abbastanza tal voce, e facilmente apparisce, aver solamente paventato Costanzo che questo giovane alzato tant'alto, potesse un dì rivoltarsi contra del benefattore, come in fatti dopo qualche tempo avvenne. Quanto ad Eusebia Augusta, priva di figliuoli, considerando ella Giuliano per successore del marito, cercò per tutte le vie di sempre più affezionarselo con proteggerlo, e perchè conosceva il di lui genio ai libri, gli donò anche una bella libreria, che forse fu a lui non men cara che i ricevuti onori.


   
Anno di Cristo CCCLVI. Indizione XIV.
Liberio papa 5.
Costanzo imperadore 20.

Consoli

Flavio Costanzo Augusto per l'ottava volta e Flavio Claudio Giuliano Cesare.

Leonzio, prefetto di Roma, continuò ancora per quest'anno in quel riguardevole impiego, senza che apparisca se alcuno gli succedesse dopo il mese d'ottobre, in cui si vede una legge [L. 13, de Episcop. Cod. Theodos.] a lui indrizzata da Costanzo Augusto. In Milano si fermò per tutto il verno esso imperadore, e qualche apparenza v'ha ch'egli desse, venuta la primavera, una scorsa nella Pannonia, perchè si sa che chiamò a Sirmio il celebre vescovo [73] Osio [Athanasius, ad Solitar.], ritenendolo ivi come in esilio. Ma egli si truova poi anche in Milano nel suddetto ottobre, dove confermò, colla legge poco fa accennata, i privilegi della Chiesa romana. In questi tempi ancora affascinato più che mai dai vescovi ariani esso imperadore fece un'orribil persecuzione al santo vescovo d'Alessandria Atanasio, il quale fu forzato a fuggire e a nascondersi, con essersi intruso Giorgio ariano nella di lui sedia. Mandò ancora in esilio il celebre vescovo di Poitiers sant'Ilario con altri vescovi cattolici, benchè nel medesimo tempo mostrasse grande ardore in favor della religione cristiana, e pubblicasse editti contra chiunque sacrificava agl'idoli. Per quel che riguarda Giuliano Cesare, egli soggiornò per tutto il verno in Vienna, dove per la prima volta procedette console [Ammianus, lib. 16, cap. 1.], ed attese a raccogliere quante milizie potè, e a far preparamenti [Liban., Orat. IX et XII.] per uscire in campagna contro de' Barbari nemici, i quali, più fieri che mai, seguitavano a dare il sacco alle contrade gallicane. Assediarono essi appunto verso questi tempi la città di Autun, la quale, ancorchè poco fortificata, fu bravamente difesa dai soldati veterani che vi erano di presidio. Le diedero i nemici un dì la scalata, e furono rispinti con loro gran danno. A quella città pervenne Giuliano verso il fine di giugno, perchè gli antichi non solevano mettersi in campagna se non dopo il solstizio di state. Di là passò ad Auxerre, e poscia a Troia, e nel cammino si vide attorniato dai Barbari con forze superiori alle sue, ma gli riuscì di dissiparli con grande loro perdita. A Reims, dove i due generali Marcello ed Ursicino aveano avuto ordine di far la massa di tutte le milizie, si mise Giuliano alla testa dell'armata, e marciò dipoi verso l'Alsazia contra degli Alamanni, i quali, ancorchè avessero presa Argentina, Vormazia, Magonza [74] ed altri luoghi di quel tratto, amavano piuttosto di abitare alla campagna, che di star chiusi nelle città [Liban., Orat. XII.]. Un corpo d'essi che assalì la di lui retroguardia, fu disfatto: dopo la qual picciola vittoria [Ammianus, lib. 16, cap. 3.], giacchè non compariva più ostacolo veruno, rivolse i passi verso la città di Colonia, ed, entratovi, attese a ristabilire quell'abbattuta città. Colla promessa ancora di un tanto di danaro per cadauna testa che i suoi portassero de' nemici, animò ciascuno a far con calore la guerra. Mentre quivi egli dimorava, vedendo i re dei Franchi che i Romani aveano alzata forte la fronte, proposero e conchiusero con Giuliano una tregua, che in questi tempi fu creduta molto utile ai di lui affari. Così è a noi descritta da Ammiano la prima campagna di Giuliano, che sembra stata gloriosa per lui, e pure, scrivendo egli stesso agli Ateniesi [Julian., Epist. ad Atheniens.], confessa che assai male procederono le cose sue in questo primo anno. Libanio [Liban., Orat. IX et XII.] aggiugne aver egli avuto da soffrir molto per la contrarietà de' suoi assistenti, i quali, in vece di secondare i di lui buoni disegni, parevano stargli al fianco solamente per contrariarli, a tenore degli ordini segreti che tenevano dal geloso Costanzo Augusto, quasichè tutta la sua autorità avesse da consistere in solamente lasciarsi vedere per quei paesi, ma senza far nulla: il qual dire ha cera di un'esagerazione maligna di quel sofista pagano. Parla Giuliano [Julian., Orat. III in fine.] dell'andata di Eusebia Augusta a Roma, mentre il consorte Costanzo facea guerra agli Alamanni con aver passato il Reno, e del grande onore a lei fatto dal senato e popolo romano, e dei donativi d'essa ai capi delle tribù e centurioni di esso popolo. Può essere che questo suo viaggio accadesse nell'anno presente. Ma noi nulla altro sappiamo della guerra suddetta contro gli Alamanni.


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Anno di Cristo CCCLVII. Indizione XV.
Liberio papa 6.
Costanzo imperadore 21.

Consoli

Flavio Costanzo Augusto per la nona volta e Flavio Claudio Giuliano Cesare per la seconda.

Anche per la seconda volta Memmio Vitrasio Orfito esercitò in quest'anno la carica di prefetto di Roma, come s'ha da Ammiano e dal Codice Teodosiano. Le leggi di esso Codice [Gothofred., in Chron. Cod. Theod.] attestano essere soggiornato l'Augusto Costanzo in Milano nei primi mesi dell'anno presente. Giunta poi la primavera, voglioso di vedere l'augusta città di Roma, dove, secondo tutte le apparenze, non s'era mai portato per l'addietro, verso colà si inviò nel mese di aprile, conducendo seco Elena maritata già con Giuliano. Per attestato d'Idazio [Idacius, in Fastis. Hieron., in Chron.] v'entrò nel dì 28 di esso mese con somma magnificenza ed aria di trionfante. Per questo suo trionfo gli dà Ammiano [Ammianus, lib. 16, cap. 10.] la burla, perchè nè egli nè i suoi capitani vittoria alcuna aveano mai riportato de' nemici dell'imperio, nè egli aveva aggiunto un palmo di terreno al paese romano, nè mai era intervenuto a verun combattimento; che se avea abbattuto Magnenzio, non solevano i principi romani trionfare de' proprii sudditi ribelli. Vedesi appresso descritta da esso istorico quella splendidissima funzione coll'incontro del senato, e dei vari ordini dell'immenso popolo romano, coll'accompagnamento delle schiere militari, e fra le incessanti acclamazioni della plebe e strepiti di innumerabili suoni di gioia. Poscia con vari giuochi e spettacoli rallegrò egli il popolo romano e di mano in mano andò visitando le tante rarità e magnifiche fabbriche di quella regina delle città, le quali non aveano fin qui provata la distruggitrice [76] fierezza delle nazioni barbare. Attesta Ammiano ch'egli alla vista di sì belle e grandiose opere dei precedenti Augusti e cittadini, non capiva in sè stesso per lo stupore, giugnendo in fine a dire che per le altre città la fama era bugiarda, perchè troppo ne dicea; ma che non men bugiarda era essa per Roma, perchè ne dicea troppo poco. Siccome altrove accennammo, al suo corteggio si trovava sempre Ormisda, fratello del re di Persia, che tanti anni prima s'era rifugiato sotto l'ombra di Costantino il Grande. Non incresca al lettore, s'io ricordo di nuovo, che interrogato questo saggio straniero da esso Augusto intorno alle grandezze di Roma qual cosa gli fosse più data negli occhi rispose: Che nulla più gli era piaciuto quanto d'aver imparato che anche in Roma si moriva. In questa occasione fu che molte città, e particolarmente Costantinopoli, inviarono delle pesanti corone d'oro in dono all'Augusto Costanzo, secondochè s'ha da Temistio sofista [Themistius, Orat. III et VI.], il quale avea preparato per questa congiuntura un'orazione in lode di esso imperadore, ma senza poterla recitare, perchè restò interrotto il disegno da una malattia sopraggiuntagli nel suo viaggio. Ci resta tuttavia quella orazione, siccome un'altra ch'egli recitò in Costantinopoli a gloria del medesimo Augusto.

Osservato ch'ebbe Costanzo tante insigni memorie di magnificenza, lasciate in Roma dagli antecessori suoi, non volle essere da men di loro. Pertanto ordinò [Ammianus, lib. 17, cap. 4.] che si facesse venir dall'Egitto un superbissimo obelisco (guglia ora lo chiamano) da collocarsi nel Circo Massimo, per adempiere nello stesso tempo il disegno di Costantino suo padre, che lo avea fatto condurre da Heliopoli sino ad Alessandria, senza poi compiere l'impresa per cagion della morte. Ammiano fa qui una lezione intorno agli obelischi, e racconta il trasporto a Roma di quella [77] mirabil mole, la stessa che poi l'animo grande di papa Sisto V fece di nuovo innalzare nella piazza del Vaticano. Il Lindenbrogio [Lindenbrogius, in Not. ad Ammian.], che suppone trasportato non a Roma antica, ma alla nuova, cioè a Costantinopoli questo stupendo obelisco, citando l'iscrizione che si trova in un altro esistente in essa città di Costantinopoli, prese un granchio, chiaramente parlando Ammiano, che il suddetto sopra una smisurata nave fu pel Tevere introdotto in Roma. Degno è qui di memoria il glorioso zelo delle dame romane [Theodoret., Histor., lib. 2, cap. 14.], per impetrar la liberazione di papa Liberio, relegato per quasi due anni a Berea. Si presentarono esse animosamente all'imperadore, per pregarlo di rimettere in libertà il loro pastore; e perchè egli rispose che avendo elle Felice, non mancava pastore al popolo romano, ne mostrarono esse dell'orrore. Fu cagione un tal ricorso, che Costanzo pensasse a richiamar l'esiliato pontefice, ma sedotto dai consiglieri ariani, tanto fece, che lo indusse poi a comperar la grazia con discapito non lieve della sua riputazione, siccome accennerò all'anno seguente. Abbiamo ancora da sant'Ambrosio [Ambrosius contra Sym. Epist. XII.] che Costanzo o prima di giugnere a Roma, o giunto che vi fu, fece levar dal senato la statua della Vittoria, adorata tuttavia dai pagani: il che quanto fece risplendere la di lui cristiana delicatezza, altrettanto diede motivo di mormorazione e collera a chi tuttavia professava il culto degl'idoli, e massimamente al senato, giacchè tutti i senatori d'allora, o almeno la maggior parte erano idolatri. Pensava poi e desiderava esso Augusto di fermarsi più lungamente in quella maestosa e deliziosa città [Ammian., lib. 16, cap. 10.], quando gli vennero nuove che gli Svevi facevano delle scorrerie nella Rezia; i Quadi nella Valeria o sia nella Pannonia, e i Sarmati nella Mesia superiore. [78] Per tal cagione, dopo la dimora di soli trenta giorni, si partì di colà e tornossene a Milano. Convien credere che cessassero i torbidi della Rezia, perchè non si sa che Costanzo alcun movimento facesse per quelle parti. Le leggi [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.] bensì del Codice Teodosiano, ed Ammiano [Ammianus, lib. 16, cap. 10.] ci assicurano che forse verso il fine dell'anno, per via di Trento, egli passò nella Pannonia [Sozomenus, lib. 4, cap. 14.], andando a Sirmio, dove si trattenne poi per tutto il seguente verno [Philostorgius, lib. 4, cap. 3.]. Visitò le frontiere verso i Quadi e Sarmati, e da quelle barbare nazioni ricevette quante belle parole di pace ed amicizia egli voleva, ma pochi fatti, siccome vedremo. Non piaceva certo a Costanzo il faticoso e pericoloso mestier della guerra, e però si studiava di acconciar le cose come poteva il meglio colle buone, guardandosi di venire a rottura.

Passiamo ora nelle Gallie, dove Giuliano Cesare si trattenne durante il verno nella città di Sens, con ritener poche truppe presso di sè, e distribuire il resto in altri paesi [Ammian., lib. 6, cap. 4.], perchè il paese si trovava disfatto dai Barbari. Non tardarono le spie a ragguagliare i nemici dello stato presente di Giuliano; e però volarono nel cuor del verno ad assediarlo in quella città [Julian., Epist. ad Atheniens.]. Così bravamente si difese egli con quel poco di guarnigione che ivi stava di guardia, che da lì a un mese que' Barbari levarono il campo e se ne andarono. Quello che specialmente disgustò Giuliano, fu che Marcello generale delle armi, acquartierato in quelle vicinanze, niun pensiero si diede per soccorrere la città assediata e lui posto in sì grave pericolo. Ne fece perciò amare doglianze Giuliano alla corte, e non le fece indarno, perchè Costanzo, mentre soggiornava in Milano nella primavera, [79] richiamò esso Marcello, e toltogli il comando dell'armi, come a persona inetta per quell'impiego, il mandò a riposare a Serdica patria sua. Alla deposizion di costui contribuì l'essere stato spedito alla corte da Giuliano, Euterio suo eunuco, uomo di vaglia, che fece ben valere le ragioni del suo padrone contro le informazioni dell'altro. Di questa occasione [Zosim., lib. 3, cap. 2.] si servì l'imperadrice Eusebia per ottenere dall'Augusto consorte, che Giuliano avesse il comando dell'armi, senza dipendere dal pedante. Per suo tenente generale, e generale della cavalleria [Julian., Epist. ad Atheniens. Libanius, Orat. XII.], gli fu poi inviato Severo, uomo pratico del mestier militare, e discreto, a cui non rincresceva di ubbidire agli ordini di esso principe. A questi tempi riferisce Ammiano [Ammian., lib. 16, cap. 8.] i rigorosi processi, formati per ordine di Costanzo contra chi ricorreva ai maghi, strologhi e indovini, per sapere il significato de' sogni o de' fortuiti incontri degli animali, o pure facea de' sortilegi per guarire da qualche male. Il che ci fa intendere sempre più la debolezza di Costanzo, che pien di sospetti, tutte queste inezie, per altro ridicole, ed insieme viziose e condannabili, interpretava sempre come tendenti contro la vita propria, ed insieme ci rappresenta la stoltizia, riferita anche da altri, degli antichi Gentili, prodigiosamente attaccati a simili superstizioni ed augurii. Per questo fu pubblicata nell'anno seguente da esso imperadore una rigorosissima legge contro simili impostori, riguardandoli come rei di lesa maestà. Inviò poscia Costanzo dall'Italia verso l'Elvezia in soccorso di Giuliano Cesare Arbezione, con titolo di generale della fanteria [Idem, ibid., cap. 11.], dandogli seco venticinquemila combattenti, con intenzione di cacciar da quelle contrade gli Alamanni, i quali continuamente le infestavano. Era [80] costui un bravo solenne, ma solamente di parole, e non già di fatti [Liban., Orat. XII.]; e si trovò poi che non perdonava alle calunnie, per abbassar la gloria di Giuliano. Giunse egli colle sue genti sino alle vicinanze di quella città, che oggidì porta il nome di Basilea, ma senza fare impresa alcuna meritevol di lode in quelle parti. Riuscì intanto circa questi tempi ai Leti, popolo germanico, di giugnere con una scorreria fin sotto la città di Lione, che andò a pericolo d'essere occupata e bruciata, come era il loro disegno; ma felicemente quel popolo si difese, e il solo territorio andò a sacco. Giuliano armò i passi per dove costoro doveano ritornare, e ne fece tagliar a pezzi la maggior parte. Il resto passò in vicinanza del campo di Arbezione, che non volle che si facesse guardia alcuna, e pure scrisse dipoi alla corte contra di alcuni uffiziali, mal veduti da lui, incolpandoli di non aver guardati i posti, e li fece cassare. Uno di essi fu Valentiniano, che poi divenne imperadore.

Venuta la state, Giuliano colle sue milizie si mise in campagna. Avea egli arrolata quanta gente potè, e perchè ebbe la fortuna di trovar delle armi in un vecchio magazzino, ne fece buon uso [Zosimus, lib. 3, cap. 3. Ammianus, lib. 16, cap. 11. Libanius, Orat. XII.]. Marciò alla volta del Reno, e trovò che i Barbari parte s'erano afforzati in vari siti di qua dal fiume con diversi trincieramenti d'alberi tagliati, e parte accampati nelle isole di quel fiume, quivi si riputavano sicuri. Avendo inviato a dimandar delle barche ad Arbezione, nulla potè ottenere. Non per questo lasciò d'andare innanzi, e trovate l'acque basse, fece transitar in alcune di quelle isole alquanti de' suoi soldati, che diedero la mala pasqua a que' Barbari ivi sorpresi, e si impadronirono delle lor barche, con valersene poi ad assalir le altre isole, in guisa che ne snidarono tutti i nemici, con ridurli a salvarsi di là dal [81] fiume. Allora Giuliano attese a formarsi un buon asilo, fortificando Saverna, luogo dell'Alsazia, e provvedendola di viveri per un anno. Per lo contrario Arbezione, coll'aver tentato di gittare un ponte di barche sul Reno, mosse i Barbari a scagliarsi contra di lui. Tanti alberi tagliati mandarono essi giù pel fiume [Liban., Orat. XII.], che ruppero il ponte, uccisero moltissimi Romani, e gl'inseguirono fin presso a Basilea. Contento di questa bella impresa Arbezione, ossia Barbazione, mandò le sue genti a' quartieri d'inverno. Non così operò Giuliano Cesare [Ammianus, lib. 16, cap. 12.]. Cnodomario re degli Alamanni, informato dalle spie che questo principe non avea seco più di tredicimila persone, gli spedì per uno, o pure per più suoi deputati, lettera, con cui imperiosamente gli comandava di levarsi da quelle terre, perchè a lui cedute da Costanzo Augusto mentre Magnenzio viveva, e fece anche veder le lettere di esso imperadore. Giuliano mostrando di credere che quel messo fosse inviato per ispia, il ritenne fin dopo la battaglia, di cui ora parlerò, e poi gli diede la libertà. Non veggendo Cnodomario nè risposta nè messo, volle venir in persona ad abboccarsi alla testa della sua armata con Giuliano. Dicono che egli seco menasse trentacinque mila armati, e fra Saverna ed Argentina attaccò un fatto d'armi, in tempo che era matura la messe, cioè probabilmente dopo la metà di luglio. Stette dubbioso un pezzo l'esito del combattimento, descritto minutamente da Ammiano [Idem, ib.]. La cavalleria romana andò quasi in rotta; la fanteria tenne sì forte, che infine sbaragliata la nemica, e sconfitti gli Alamanni diedero alle gambe. Strage non poca di loro fu fatta, e forse più di essi ne assorbì il fiume [Idem, ib. Liban., Orat. XII.]. Chi dice sei, chi ottomila di loro vi perì. È guasto il testo di [82] Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 3.], che parla di sessantamila nemici estinti. Dalla parte de' Romani alcune sole centinaia rimasero sul campo. Ma quello che rendè più gloriosa la vittoria di Giuliano [Jul., in Epist. ad Athen.] fu la presa del medesimo re Cnodomario, colto fuggitivo in un bosco, che fu poi presentato a Giuliano alla vista di tutto l'esercito, ben trattato da lui, e fra pochi giorni inviato prigioniere all'imperador Costanzo. Noi troviamo esaltata forte dagli scrittori pagani [Ammian. Marcellin. Aurel. Vict. Liban. Eutrop. Mamert.] questa felice giornata di Giuliano, ed essa veramente liberò tutte le Gallie dal peso delle nazioni germaniche che si ritirarono di là dal Reno. La vittoriosa armata in quel bollore di allegrezza proclamò Giuliano Augusto; ma egli represse le loro voci, e diede poi tutto l'onore di tale impresa a Costanzo, il quale in fatti si pavoneggiò di essa vittoria, come se in persona fosse intervenuto a quel conflitto; ciò apparendo da un editto, accennato da Temistio [Temist., Orat. IV.] e da Aurelio Vittore. Per profittar poi della vittoria, Giuliano, formato un ponte sul Reno a Magonza, passò di là, e diede il guasto al paese nemico, finchè le nevi obbligarono le sue soldatesche a cercar quartiere. Ebbe inoltre cura di fortificare di là dal Reno il castello di Trajano, creduto oggidì quello di Cromburgo, distante circa dieci miglia da Francoforte: azioni tutte che empierono di spavento gli Alamanni, avvezzi da gran tempo solamente a vincere e a saccheggiare gli altrui paesi. Perlochè più volte spedirono inviati per dimandar pace, con ottener in fine non più che una tregua di dieci mesi. Andò poscia Giuliano a passare il verno a Parigi, luogo, il cui nome comincia ad udirsi solamente in questi tempi, e che consisteva allora in un castello posto nel recinto dell'isola della Senna.


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Anno di Cristo CCCLVIII. Indizione I.
Liberio papa 7.
Costanzo imperadore 22.

Consoli

Daziano e Nerazio Cereale.

Nel grado di prefetto di Roma continuò Memmio Vitrasio Orfito anche per quest'anno. Seguitò ancora l'imperador Costanzo a trattenersi nella Pannonia, ciò apparendo da varie sue leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] pubblicate in Sirmio e Mursa, fallata essendo la data di due, come fatte in Milano. Trattenevasi egli in quelle parti, perchè durava la guerra coi Quadi e Sarmati. Costoro nel verno col favore del ghiaccio fecero non poche scorrerie nella Pannonia e Mesia superiore. Nello stesso tempo i Giutunghi, popoli della Alamagna, infestarono la Rezia; ma spedito di poi contra di essi Barbazione [Ammian., lib. 17, cap. 6.], gli riuscì per questa volta di dar loro una rotta, cioè una buona lezione, per portar più rispetto da lì innanzi alle terre de' Romani. Ora l'Augusto Costanzo sul principio di aprile [Idem, ibid., cap. 12.], ansioso di vendicarsi delle insolenze de' medesimi Barbari, dopo aver gittato un ponte sul Danubio, passò colla sua armata ai lor danni; ed essendosi eglino arrischiati ad affrontarsi con lui, conobbero a loro spese quanto ben fossero affilate le spade romane. Questa lor perdita e il guasto del loro paese li consigliò a spedire ambasciatori per aver pace, con esibire ancora di sottomettersi. Costanzo si contentò di obbligarli solamente a rendere i prigioni e a dar degli ostaggi, poscia se ne tornò di nuovo nella Pannonia. E perciocchè abbiam detto altrove, cioè all'anno 334, che i Sarmati erano stati cacciati dal proprio paese dai loro schiavi appellati Limiganti, Costanzo, pregato di volerli rimettere in casa, ne prese l'assunto, e con essi portò la guerra addosso [84] a quella canaglia. Vennero in gran copia i Limiganti a trovar l'imperadore, con far vista di volersi sottomettere, ma con disegno di fare un brutto scherzo ai Romani se li trovavano poco guardinghi. Per loro disgrazia i Romani vegliavano, e al primo cenno che fecero coloro di dar di piglio alle armi, li prevennero con tagliarli tutti a pezzi, giacchè niun d'essi volle dimandar la vita. Ora dappoichè ebbero sofferto un fier sacco delle loro campagne, nè potevano più resistere a quel flagello, si ridussero i Limiganti a cedere il paese agli antichi loro padroni, e a ritirarsi in un più lontano [Aurel. Victor, de Caesarib.]. Il che fatto, Costanzo ebbe la gloria di dare per re ai Sarmati un principe della lor nazione, per nome Zizais, e di rimetterli in possesso dei lor antichi beni, dopo ventiquattro anni di esilio. Per questa felice impresa a Costanzo fu dato il titolo di Sarmatico dopo il suo ritorno a Sirmio, nella qual città egli soggiornò poi nel verno seguente. Ma non si dee omettere un altro fatto spettante al medesimo Augusto [Ammian., lib. 16, cap. 9.]. Avea nell'anno precedente Musoniano, prefetto del pretorio di Oriente, mossa parola di pace con Tansapore general de' Persiani, il quale veramente ne scrisse al re Sapore suo padrone, ma con termini che mostravano l'imperador romano, se non bisognoso e supplicante, almeno assai voglioso di pacificarsi con lui [Idem, lib. 17, cap. 5.]. Perchè Sapore si trovava alla estremità del suo regno in guerra con alcuni suoi nemici, le lettere tardarono a giugnergli, o pure egli tardò a rispondere, finchè ebbe terminati quegli affari. Allora egli spedì per suo ambasciatore a Costanzo Augusto uno de' suoi ministri, per nome Narsete, con diversi regali, e con una lettera riferita da Ammiano, carica di que' bei titoli che tuttavia usano i vani e superbi Turchi, ed altri monarchi dell'Asia, cioè re dei regi, parente delle stelle, fratello del sole e della [85] luna. Era essa lettera involta in bianca tela di seta: rito anche oggidì praticato nelle corti orientali; e con essa il re persiano parlava alto, richiedendo la restituzion d'immensi paesi stati una volta della nazion persiana, riducendosi nondimeno a contentarsi dell'Armenia e Mesopotamia. Scrive Idazio [Idacius, in Fastis.] che questa ambasceria passò per Costantinopoli nel dì 23 di febbraio dell'anno presente, e si portò a Sirmio a trovar lo imperadore. Anche Temistio [Temisthius, Orat. IV.] la vide prima passar per Antiochia. Costanzo, senza voler entrare in negoziato alcuno, rimandò l'ambasciatore con solamente rispondere che sua intenzione era più che mai di conservare interamente lo imperio, e che darebbe mano alla pace, purchè ne fossero onorevoli e non vergognose le condizioni. Poscia anch'egli inviò per suoi ambasciatori a Sapore con lettere e regali tre scelte persone [Ammianus, lib. 17, cap. 5.], cioè Prospero conte, Spettato, uno dei suoi segretari, parente di Libanio, che ne parla in varie sue lettere, ed Eustazio filosofo, discepolo di Jamblico, di cui parla Eunapio [Eunap., Vit. Sophist., cap. 3.] con molta lode, o, per dir meglio, con troppa adulazione. Nulla di pace fu conchiuso, avvegnachè Costanzo dopo qualche tempo spedisse altri ambasciadori al Persiano: cioè Lucilliano conte e Valente, che vedremo a suo tempo ribello all'imperio; il perchè continuò la rottura, nè andrà molto che la vedremo passare in guerra viva. L'anno fu questo, in cui papa Liberio ottenne da Costanzo Augusto d'essere richiamato dall'esilio, ma con pregiudizio del suo onore, perchè si lasciò indurre alla condannazione di sant'Atanasio, per non condiscendere alla quale s'era esposto in addietro con eroico coraggio a tanti patimenti. Venne egli in quest'anno alla corte di Costanzo, esistente in Sirmio; [86] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che solamente nell'anno seguente egli ritornasse a Roma, dove ripigliò il pontificato coll'esclusione di Felice già posto sulla sedia papale in luogo suo, e cacciato fuor di Roma all'arrivo di Liberio: intorno a che è da vedere la storia ecclesiastica. Terribile avvenimento ancora dell'anno presente fu il tremuoto che nel mese d'agosto si fece sentire spaventosamente in Oriente, ed è mentovato e compianto da più scrittori [Idacius. Ammianus. Hieronym., in Chronico. Socrates, Sozomenus et alii.] di que' secoli. Nicomedia, città della Bitinia, una delle più popolate dell'imperio romano, che Diocleziano cotanto amò ed abbellì, bramando di farne un'altra Roma, in un momento fu rovesciata a terra, con perir ivi, se Libanio [Liban., Orat. VIII.] non esagera di troppo quella gran calamità, quasi tutti gli abitanti. Ammiano ci lasciò un lagrimevol ritratto delle sue rovine. Si stese quell'orrenda scossa della terra per le contrade dell'Asia, del Ponte e della Macedonia, con iscrivere Idazio, che ben centocinquanta città ne provarono gran danno.

Per conto di Giuliano Cesare, egli durante il verno, dimorando in Parigi, attese a regolar le imposte solite delle Gallie con tale esattezza, che senza metterne delle nuove, ricavò il danaro occorrente per continuar la guerra in quest'anno [Ammianus, lib. 16, cap. 8.]. Le mire sue, giacchè durava la tregua con gli Alamanni, tendevano contra dei popoli Franchi, divisi in varie popolazioni l'una indipendente dall'altra, e governata da' suoi principi o re, de' quali non sappiamo il nome. Venuto dunque il tempo proprio, uscì in campagna, e rivolse l'armi sue verso i Franchi Salii, abitanti fra la Schelda e la Mosa, dove ora è Breda ed Anversa. Arrivato a Tongres, trovò ivi i deputati di quella gente che erano inviati a Parigi, per parlare con lui, ed ascoltò le lor preghiere di [87] lasciarli, come amici, nelle terre dove abitavano. Con belle parole li licenziò, ed entrato dipoi nel loro paese, obbligò quella gente a rendersi. Passò di là contra de' Franchi Camavi, i quali arrischiatisi a far fronte, rimasero in una zuffa sconfitti, e buona parte prigionieri. Di questi popoli soggiogati non pochi ne arrolò, ed accrebbe il suo esercito. Quindi avendo trovati sulla ripa della Mosa tre forti smantellati dai Barbari, immediatamente ordinò che si rimettessero in piedi con buone fortificazioni, e li fornì di viveri. A questo fine, ed anche per sussidio dell'armata, fece venir gran copia di grani dalla Bretagna. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 5.], storico pagano, che scrive delle maraviglie di queste spedizioni del suo Giuliano, racconta ch'egli a tal effetto fece fabbricare ottocento piccioli legni; i quali poi, salendo pel Reno (cosa non praticata in addietro per l'opposizione o padronanza de' Barbari) portarono la provvisione opportuna all'esercito e alle fortezze di quel tratto. Ma forse questo fatto appartiene all'anno seguente. Dovette intanto spirar la tregua con gli Alamanni, e perchè Giuliano non volle aspettare [Ammianus, lib. 17, cap. 10.] ch'essi tentassero cosa alcuna contro il paese romano, e conosceva il vantaggio di far la guerra in casa de' nemici: gittato un ponte sul Reno, passò nelle terre alamanniche coll'esercito suo. Si disponeva a far gran cose, se il suo generale Severo (non si sa bene il perchè), dianzi sì ardito, non fosse divenuto pauroso ed alieno da ogni rischio di battaglia. Ciò non ostante, Suomario, uno dei re alamanni, intimorito per questa visita, venne in persona a dimandar pace a Giuliano. L'ottenne con patto di rendere tutti gli schiavi romani, e di somministrar vettovaglie alle occorrenze. Colle condizioni medesime accordò Giuliano la pace ad Ortario, altro re o principe dell'Alamagna. Fatto dipoi con diligenza mirabile raccogliere il nome di tutti i Romani già menati in ischiavitù da [88] que' Barbari, volle rigorosamente la restituzione di chiunque non era mancato di vita, e ne vide ritornare ben venti mila alle lor case. Con tali imprese terminò Giuliano la campagna dell'anno presente, e poi condusse l'armata a' quartieri d'inverno.


   
Anno di Cristo CCCLIX. Indizione II.
Liberio papa 8.
Costanzo imperadore 23.

Consoli

Flavio Eusebio e Flavio Hypazio.

Erano questi consoli amendue fratelli di Eusebia Augusta, moglie di Costanzo imperadore, la quale non lasciò indietro diligenza alcuna per esaltare i suoi parenti. Sono amendue lodati da Ammiano [Ammianus, lib. 29.]; ma sotto Valente imperadore, benchè innocenti, patirono delle gravi disgrazie. Memmio Vitrasio Orfito si trova nel dì 25 di marzo di quest'anno tuttavia prefetto di Roma [Gothof., Chron. Cod. Theod.]. Giunio Basso gli succedette; ma il rapì la morte nel dì 23 d'agosto [Baronius, ad an. 358.], dopo aver ricevuto il sacro battesimo. In quella dignità, esercitata per qualche tempo con titolo di viceprefetto da Artemio, entrò dipoi Tertullo. Giacchè Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 18, cap. 1.] dà principio a quest'anno con raccontar le imprese di Giuliano Cesare, seguitandolo anch'io, dico ch'egli, dopo avere nel tempo del verno avuta gran cura di rimettere in piedi, e fornire di vettovaglie varie città sul Reno, già rovinate dai Barbari, uscì al consueto tempo da' quartieri coll'esercito, disegnando di passar di là dal Reno, e di far guerra a quegli Alamanni che tuttavia restavano nemici. Non volle gittar ponte su quel fiume a Magonza, per non disgustar Suomario re o principe amico, e negli altri siti trovò le opposte ripe ben guardate dalle milizie nemiche. Fatti nondimeno una notte passar in barche tacitamente [89] trecento de' più valorosi suoi soldati, questi presero posto di là dal fiume, misero in fuga quelle guardie, e diedero campo all'armata romana di formare il ponte, e di passare il Reno: il che fatto, si stesero i saccheggi per tutte quelle parti. Macriano ed Ariobaudo, re o principi d'esso paese, altro scampo non ebbero che di umiliarsi, ed ottenuta licenza si presentarono supplichevoli a Giuliano. Venne ancora a trovarlo Vadomario, padrone del paese, dove oggidì è Spira, il quale già vedemmo divenuto amico dei Romani, ma per aver insolentemente voluto da Giuliano il figlio suo [Eunap., in Excerpt. de Legat. Tom. I Hist. Byz.] lasciato per ostaggio, senza neppure restituire i prigioni promessi, era caduto in disgrazia di lui. Fu con cortesia accolto, e si può credere che soddisfacesse agli obblighi suoi. Ma non impetrò già perdono per altri principi di quelle contrade, come per Urio, Ursicino e Vestralpo, esigendo Giuliano che essi o venissero, o mandassero ambasciatori con plenipotenze. In fatti costoro, dopo d'aver tollerato il guasto del loro paese, spedirono deputati, a' quali fu conceduta la pace, con obbligo di rendere i prigioni. Non altro di più si sa di questa terza campagna di Giuliano, il quale poi si ridusse alle stanze del verno.

Soggiornava tuttavia ne' primi mesi di quest'anno in Sirmio di Pannonia l'Augusto Costanzo, quando gli fu portata una lettera [Ammianus, lib. 18, cap. 3.] pazzamente scritta a Barbazione, generale della fanteria, da sua moglie, la quale perchè uno sciame d'api si era fermato ed annidato in sua casa, secondo la folle credenza degli auguri d'allora, figurò che il marito, dopo la morte di Costanzo, diverrebbe imperadore, raccomandandosi perciò che non abbandonasse lei per isposare Eusebia Augusta. Bastò questo perchè Costanzo facesse levar la vita ad amendue, e fossero tormentate varie persone innocenti, come complici del fatto. Ed ecco i perniciosi [90] effetti dei superstiziosi cacciatori dell'avvenire. In quei medesimi tempi [Ammianus, lib. 18, cap. 11.] giunse avviso alla corte augusta che i Limiganti, cacciati nell'anno precedente dalla Sarmazia, partendosi dal paese, dove già si ritirarono, si accostavano al Danubio, parendo disposti a passarlo coll'occasione del ghiaccio. Costanzo sul principio della primavera per tal novità andò ad accamparsi colle truppe lungo quel fiume, nella Valeria, provincia della Pannonia, e mandò per sapere che pensiero bolliva in capo a que' Barbari. La risposta fu, che troppo scomodo trovavano il paese dove s'erano rifugiati, pregando perciò l'imperadore di voler prenderli per sudditi, con dar loro qualche sito nell'imperio, e di permettere che venissero ai di lui piedi. Piacque e Costanzo la lor proposizione e li ricevette ad Aciminco, creduto oggidì un borgo vicino a Petervaradino. Era egli salito sopra un luogo eminente per ascoltar le loro preghiere, le quali poco corrispondevano all'aria dei loro volti e alla positura rigida delle lor teste; e mentre si preparava per parlare ad essi, ecco un loro capo gridar marha, marha, segno di battaglia fra loro. Ebbe la fortuna Costanzo di salvarsi, posto a cavallo da alcuno dei suoi cortigiani. Fecero a tutta prima le guardie colle lor vite argine al furor di que' perfidi, da quali fu presa la sedia imperiale coll'aureo cuscino. Intanto l'armata romana, dato di piglio alle armi, furiosamente volò contra de' Barbari, e a niun d'essi lasciò la vita. S'effettuarono, poi in quest'anno le minacce di Sapore re della Persia contra de' Romani [Idem, ibid., cap. 5.], avendolo spezialmente confermato a questa guerra un Antonino, già mercatante ricchissimo della Mesopotamia, ma poscia fallito, che si ricoverò nella Persia, e ben accolto alla corte di Sapore, gli diede un minuto ragguaglio delle fortezze e guarnigioni, in una parola, di [91] tutte le forze e debolezze dell'imperio romano. Fatto dunque un potente armamento, si mise alla testa d'un esercito, composto almeno di centomila combattenti, assistito anche dai re d'Albania e de' Chioniti. A tale avviso la corte dell'imperador Costanzo gran bisbiglio fece; e gli eunuchi, che vi comandavano le feste, seppero far richiamare dalla Soria Ursicino, uffiziale di gran valore e sperienza nella guerra, per dare il comando dell'armi d'Oriente a Sabiniano, uomo vecchio e poltrone di prima riga, ma ricco. Fu poi rimandato indietro Ursicino, con titolo bensì di generale della fanteria, ma con restare la principal autorità del comando nel suddetto Sabiniano. Passato il Tigri, entrò il re persiano nella Mesopotamia, e per consiglio del traditore Antonino pensava di tirar diritto all'Eufrate, e passando in Soria, di dare il sacco a quel ricco paese, con isperanza ancora d'impadronirsene. Ursicino ai primi movimenti del re nemico mandò ordine per la Mesopotamia, che i popoli si ritirassero ne' luoghi forti coi lor viveri, e che si desse il fuoco alle biade già mature, per levare ogni sussistenza all'armata persiana. Fece parimente fortificar le ripe dell'Eufrate, e guernirle d'armati: provvisioni che fecero mutar disegno a Sapore, e determinarlo a portarsi all'assedio della città d'Amida. Ammiano Marcellino, che diffusamente racconta questi fatti, vi si trovò in persona, e suo malgrado si vide chiuso in quella città. Grande fu la difesa di Amida fatta da quella guarnigione; pure dopo due mesi e mezzo d'ostinato assedio, in essa entrarono per forza i Persiani. Furono impiccati i principali degli uffiziali romani, e gli abitanti condotti tutti in ischiavitù, a riserva di chi potè salvarsi con la fuga, come fortunatamente riuscì ancora al suddetto Ammiano. Costò nondimeno ben caro al re persiano un tale acquisto, perchè vi restarono morti circa trentamila de' suoi; la qual perdita unita alla stagione avanzata indusse Sapore a ritirarsi [92] a' quartieri del verno nel regno suo. Nulla fece Sabiniano, il generale primario, per soccorrere Amida, ed Ursicino non avendo mai potuto ottenere alcun braccio da lui, fu costretto a veder cadere quella città senza maniera di soccorrerla. Se n'andò egli poscia alla corte dell'Augusto Costanzo, dove se gli formò addosso un gran processo per quella perdita. Finì poi la faccenda, che Ursicino ebbe per grazia il potersi ritirare a casa sua, con essere poi dato il posto di generale della fanteria ad un Agilone di nazion germanica [Ammianus, lib. 19, cap. 11.]. A cagione di tali disgrazie, Costanzo dalla Mesia passò a Costantinopoli, per accudir più da vicino alle piaghe dell'Oriente, e per reclutare le sue milizie, ben persuaso che il Persiano continuerebbe con più vigore la guerra nell'anno vegnente. Per attestato del suddetto Ammiano, inviò egli nel presente, Paolo, suo segretario e principal ministro della sua crudeltà, a Scitopoli nella Palestina, a fare una rigorosa inquisizione di chi, tanto nella Soria che nell'Egitto, avesse consultati gli oracoli de' pagani, o commesse altre superstizioni ed augurii per indagar l'avvenire. Moltissimi, ed anche de' primarii, processati per questo, a diritto o torto vi perderono la vita o ne' tormenti o per mano del boja; ed altri con pene pecuniare o coll'esilio schivarono la morte. Per colpa anche [Labbe, Concil. General. Baronius, Annal. Eccl.] del medesimo Costanzo il numeroso consilio di vescovi, tenuto in questo anno a Rimini, dopo aver condannati gli errori d'Ario, e confermata la dottrina de' Padri Niceni, andò a terminare in un lagrimevol conciliabolo, con trionfar ivi la fazione e prepotenza degli Ariani: conciliabolo che fu poi detestato da tutta la Chiesa di Dio.


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Anno di Cristo CCCLX. Indizione III.
Liberio papa 9.
Costanzo imperadore 24.

Consoli

Costanzo Augusto per la decima volta, e Flavio Claudio Giuliano Cesare per la terza.

Prefetto di Roma in parte di questo anno continuò ad essere Tertullo, di professione pagano, che nell'anno precedente corse pericolo della vita in una sedizion del popolo affamato, perchè i venti contrarii non lasciavano venir le navi solite a portare i grani. L'anno presente fu quello in cui si sconciò fieramente la competente armonia, durata fin qui tra l'imperadore Costanzo e Giuliano Cesare, tuttochè anche in addietro, per testimonianza d'Ammiano [Ammianus, lib. 17, cap. 11.], nella corte d'esso Costanzo abbondassero coloro che screditavano a tutto potere Giuliano, e mettevano in ridicolo ogni azione di lui, non mai nominandolo se non con parole di disprezzo. Avea esso Giuliano passato il verno in Parigi [Idem, lib. 15, cap. 1.], quando gli giunse l'avviso che gli Scotti e Pitti, popoli barbari della Bretagna, facevano delle scorrerie nelle provincie romane di quella grand'isola. Spedì egli colà con un corpo di soldatesche Lupicino generale, uomo valoroso, ma crudele ed avaro, e così borioso, che Giuliano ebbe ben cara questa occasione di allontanarselo dai fianchi. Partì costui sul fine del verno da Bologna di Picardia, ed arrivò felicemente a Londra. Altro di più non sappiamo della sua spedizione. Ma eccoti arrivar nelle Gallie Decenzio, uno de' segretarii di Costanzo, con lettere ed ordini indirizzati a Lupicino (era questi andato già in Bretagna) e a Gintonio primo scudiere [Julian., Epist. ad Atheniens.] di condurre in Levante gli Eruli, i Batavi, i Petulanti ed i Celti, con trecento altri [94] scelti dalle truppe di Giuliano. Era fatta istanza di tal gente pel bisogno pressante della guerra persiana; ma credesi che vi entrasse ancora un'invidia segretamente portata da esso Augusto al plauso e buon concetto che s'andava Giuliano acquistando coll'armi nelle Gallie. Intanto ad esso Giuliano unicamente fu scritto di eseguir certi ordini dati a Lupicino. Noi qui non abbiamo se non istorici pagani [Zosimus, lib. 3, cap. 10. Libanius, Orat. X. Ammianus, lib. 20, cap. 4.] che parlano di questo fatto, e può dubitarsi della lor fede. A udir costoro, procedette onoratamente Giuliano in tal congiuntura, col mostrarsi prontissimo all'ubbidienza, ancorchè sommamente se ne affliggesse, perchè così veniva a restare spogliato del miglior nerbo della sua armata, per modo che non solamente niuna impresa poteva egli più tentare, ma restavano anche le Gallie esposte alla violenza de' Barbari transrenani. Rappresentò ben egli a Decenzio il pericolo del paese, e la difficoltà di menar in Oriente que' soldati che s'erano arrolati, o pure come ausilarii militavano con patto di non passar le Alpi; ma Decenzio non aveva autorità di mutar gli ordini imperiali; e però scelti i migliori soldati, senza risparmiare nè pur le guardie del medesimo Giuliano, intimò a tutti la marcia. Giuliano [Julian., Epist. ad Atheniens.] anch'egli volle che abbandonassero i quartieri, e fossero lesti al viaggio. Ma si cominciarono ad udir pianti, grida e querele di quella gente; si sparsero biglietti pieni di lamenti contra di Costanzo e in favor di Giuliano, quasichè si volesse condurli alla morte, facendoli pattare a sì rimoti paesi. Giuliano, per facilitar la loro andata, ordinò che potessero condur seco le loro famiglie, nè volea che transitassero per Parigi, dove egli dimorava, affinchè non succedesse sconcerto alcuno. Ma Decenzio fu di altro parere. Vennero a Parigi, e quanto quel popolo gli scongiurava di non andare, [95] affinchè il paese non rimanesse esposto alla crudeltà dei Barbari, altrettanto i soldati mostravano desiderio di restarvi. Tenne Giuliano alla sua tavola i più cospicui uffiziali, usando con loro ogni cortesia, e facendo ad essi ogni più larga esibizione, in guisa tale che tra queste dolci parole e l'abborrimento a lasciar quel paese, se ne ritornarono tutti molto pensosi ed afflitti al loro quartiere.

Ma non terminò la giornata, che i soldati già commossi dai biglietti, si ammutinarono, e, prese l'armi, andarono ad assediar il palazzo dove era Giuliano, e con alte grida cominciarono a proclamarlo imperadore Augusto, e che voleano vederlo [Zosim. l. 3, c. 11. Julian., Epist. ad Athen. Ammianus, lib. 20, cap. 4. Libanius, Orat. XII.]. Fece Giuliano serrar le porte, e i soldati costanti stettero ivi sino alla mattina seguente, in cui rotte le porte, l'obbligarono ad uscirne, ed allora rinforzarono le acclamazioni, dichiarandolo Augusto. Mostrò Giuliano colle parole e coi fatti quanta resistenza potè; ma perchè i soldati minacciarono di torgli la vita se non si rendeva, forzato fu in fine di acconsentire. Allora posto sopra uno scudo, fu alzato da terra, e fatto vedere ad ognuno. Occorreva un diadema per coronarlo, ed egli protestò di non averne. Si pensò a prendere una fascia giojellata della toletta della moglie; ma non parve buon augurio il ricorrere ad un ornamento donnesco. Fu proposto di pigliare una redine ricamata di cavallo, acciocchè servisse almeno all'apparenza; ma stimò la cosa vergognosa; finchè un uffizial moro, cavatasi di dosso una collana d'oro giojellata, l'esibì, e con questa applicatagli al capo comparve in certa maniera coronato. Il che fatto, egli promise ai soldati cinque nummi d'oro e una libbra d'argento per testa. Nella lettera scritta agli Ateniesi, Giuliano protesta e giura per tutti gli dii (a molti pagani dovea costar poco un tal giuramento) [96] ch'egli nulla sapeva della risoluzion presa dai soldati, e nulla operò per indurli a tale atto, e ch'egli fece quanto fu in sua mano per sottrarsi alla lor volontà; ma che dopo aver acconsentito, benchè per forza, non era più sicura la sua vita, se avesse voluto retrocedere. Ne creda il lettore quel che vuole. Ammiano scrive [Ammianus, lib. 20, cap. 5.] che nella notte precedente, mentre Giuliano ondeggiava, invocando i suoi dii, per sapere se dovea cedere al voler dei soldati, gli comparve un'ombra, qual si dipingeva il genio del popolo romano, che gli disse d'essere più volte venuto alla sua porta per entrare, e far lui salire in alto; ma che se fosse rigettato anche questa volta, se ne partirebbe ben mal contento; avvisandolo nondimeno che non istarebbe gran tempo con esso lui. Comunque sia di questa o inventata o pazzamente creduta fantastica visione, ci assicura Eunapio [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5.] che Giuliano in quella stessa notte, avendo seco un pontefice gentile, ch'egli segretamente avea fatto venir dalla Grecia, fece con lui certe cose, delle quali eglino soli ebbero conoscenza, potendosi non senza fondamento sospettare che fossero sacrifizii, o incantamenti di magia, per cercar l'avvenire, de' quali è certo che si dilettò forte l'empio ed ingannato Giuliano. Ritiratosi poi egli nel palazzo, parve pieno di inquietudine e malinconia; e perchè corse nel giorno seguente voce ch'egli era stato ucciso (scrivendo in fatti Libanio [Liban., Orat. XII.], essere stato guadagnato un eunuco, suo aiutante o mastro di camera, per fare il colpo), i soldati volarono al palazzo, e vollero vederlo, con far susseguentemente istanza che fossero uccisi gli amici di Costanzo, i quali s'erano opposti alla di lui promozione. Ma Giuliano protestò che nol sofferirebbe giammai, e donò anche la vita all'eunuco suddetto. Perchè ad una parte di quelle [97] milizie che già erano partite arrivò dietro la nuova dell'esaltazione di Giuliano, se ne ritornarono anch'esse a Parigi, dove esso novello Augusto, raunata tutta l'armata, fece un'arringa, lodando il lor coraggio, e protestando che non darebbe mai le cariche alle raccomandazioni, ma solamente al merito: il che piacque di molto a chi l'ascoltò.

E tale fu la maniera con cui Giuliano salì alla dignità imperiale, verisimilmente nel marzo od aprile di questo anno. Certamente gli storici gentili [Liban. Ammian. Zosimus.], partigiani spasimati di questo apostata imperadore, cel rappresentano portato per forza al trono, e senza sua precedente brama o contezza. Ma gli scrittori cristiani [Gregorius Nazianzen., Orat. II. Philostorgius, lib. 4, cap. 5. Theodoret., in Histor. Eccl. Sozom., in Hist. Eccl. Zonaras, in Annal.] furono d'opinion diversa, e condannarono la di lui ribellione ed ingratitudine verso Costanzo, sospettandola o credendola figliuola della di lui ambizione. Ora, dappoichè Decenzio ebbe veduta questa scena, non tardò a ritornarsene alla corte di Costanzo. Fiorenzo prefetto del pretorio delle Gallie, che s'era ritirato apposta a Vienna, perchè prevedeva dei torbidi, anch'egli s'affrettò ad uscir dalle Gallie. Ebbe Giuliano tanta moderazione, che gli mandò dietro tutta la sua famiglia, con provvederla ancora del comodo delle poste. Vi restava il solo Lupicino, creduto capace d'imbrogliar le carte. Ma Giuliano, assai accorto, spedì un uffiziale a Bologna di Picardia, affinchè non passasse persona in Bretagna a portargli le nuove; ed intanto con sue premurose lettere il chiamò di là, e, ritornato che fu, il ritenne prigione. Non tardò poscia a spedire Euterio suo maggiordomo, e Pentado mastro degli uffizii, all'Augusto Costanzo con lettera, in cui rappresentava la violenza a lui fatta, pregandolo di consentirvi, e promettendo d'ubbidire come prima agli ordini [98] suoi, d'inviargli alcune milizie, di accettar dalle sue mani un prefetto del pretorio, con riserbarsi l'elezione degli altri uffiziali. Leggesi questa lettera presso Ammiano [Ammian., lib. 20, cap. 8.]. Fece anche scriverne un'altra dall'armata di tenor poco diverso [Julian., Epist. ad Athen.]. Il bello fu che agli ambasciatori suoi, se non falla Ammiano, diede un'altra segreta lettera, indirizzata al medesimo Costanzo, piena di sentimenti ingiuriosi e mordaci, che lo stesso storico confessa indecenti, e tali da non essere rivelati al pubblico. Zonara [Zonar., in Annal.] veramente rapporta più tardi, cioè dappoichè seguì aperta rottura fra Costanzo e lui, questa lettera; ma Ammiano ha il vantaggio sopra di lui d'essere scrittore contemporaneo ed adoratore dello stesso Giuliano. Andarono gli ambasciatori, passando con difficoltà, e con assai ritardi per l'Italia e per l'Illirico; e finalmente arrivati in Asia, trovarono l'imperadore Costanzo in Cesarea di Cappadocia. Era già stato prevenuto l'arrivo loro da Decenzio, Fiorenzo ed altri fuggiti dalle Gallie. Costanzo ammise quei legati all'udienza, si mostrò alterato stranamente contra di Giuliano, nè più li volle ascoltare. Tuttavia, contenendo la collera sua, e consigliato dai savii, fece sapere colla spedizione di Leonas questore a Giuliano di non poter approvare il fatto, e che s'egli voleva provvedere alla salute propria e dei suoi amici, si contentasse del titolo di Cesare, e di ricevere gli uffiziali che gli verrebbero spediti, cioè Nebridio eletto prefetto del pretorio delle Gallie, e Felice mastro degli uffizii. Arrivato Leonas a Parigi, fu ben accolto [Liban., Orat. XII.], ed esposti gli ordini di Costanzo, Giuliano si mostrò pronto ad ubbidire, purchè l'esercito v'acconsentisse [Zonar., in Annalib.]. Leonas non volle rimessa la decision dell'affare a tante [99] teste, per paura d'essere tagliato a pezzi. Accettò bensì Giuliano per uffiziale Nebridio, ma rifiutò tutti gli altri, con rimandar poscia Leonas a Costanzo, e dargli, secondo Zonara, la lettera suddetta ben fornita di querele ed ingiurie contro il medesimo Augusto. Andarono poi innanzi e indietro altre ambascerie, ma senza che alcun dei due retrocedesse un passo: con che rotta affatto restò fra di loro l'armonia, e crebbe l'odio e lo spirito della vendetta.

Sì preso dalla rabbia per questo tradimento del beneficato Giuliano si trovò l'Augusto Costanzo, che pose infino in consulta, s'egli dovesse lasciar la guerra strepitosa de' Persiani per volgere l'armi contra del cugino. La vinse il parere de' saggi, che gli consigliarono di continuar la dimora in Oriente: altrimenti non la sola Mesopotamia, ma anche la Soria correvano rischio di cader nelle mani del re Sapore. Esso re appunto, venuta la stagione del guerreggiare, uscì in campagna nell'anno presente ancora con grandi forze [Ammian., lib. 20, cap. 6.]. Caddero i primi suoi fulmini sopra la città di Singara nella Mesopotamia, la quale fece per qualche dì gagliarda difesa; ma soccombendo essa in fine alla nemica potenza, furono tutti i suoi abitanti col presidio condotti in una misera schiavitù, e la città restò smantellata. Di là Sapore passò addosso alla città di Bezabde, appellata anche Fenice, città forte alle rive del fiume Tigri, custodita da tre legioni romane. Dopo alcuni giorni d'assedio il vescovo della città si portò al campo persiano per procurar la liberazione o la salute del suo popolo. Parlò ai venti, e la città da lì a qualche tempo fu presa a forza d'armi. Chi de' cittadini scappò al furor delle sciable, andò a penare schiavo nelle contrade persiane. Con questa felicità camminavano gli affari di Sapore: ed ancorchè l'imperadore Costanzo, dimorante in Costantinopoli, udisse tanti suoi progressi, sembrava [100] più applicato a rovinar la Chiesa cattolica, che a difendere i proprii Stati. Quando Dio volle, passò pur egli in Asia, e giunse a Cesarea di Cappadocia, dove poco fa dicemmo che gli capitarono le disgustose nuove della ribellione di Giuliano. Fece maneggi per tener saldo nella fedeltà verso l'imperio Arsace re dell'Armenia, il qual veramente con tutte le minaccie di Sapore corrispose alle speranze de' Romani. Passò dipoi Costanzo a Melitene, città della picciola Armenia, per unir ivi tutta la sua armata, e questa non fu all'ordine che dopo l'equinozio dell'autunno. Se un così timido e negligente generale d'armi fosse capace di grandi imprese, e di far paura ai Persiani, ognun sel vede. Marciò egli alla perfine, e, passando per Amida, non potè mirarne le rovine senza un tributo di lagrime. Si credette di poter ricuperare Bezabde, e l'assediò; ma sopravvenendo le pioggie e la cattiva stagione, fu costretto a levare il campo, e a ritirarsi coll'esercito ad Antiochia, dove si fermò per tutto il verno. In questo mentre [Ammianus, lib. 20, cap. 10.] il novello imperador Giuliano, a fin di tenere in esercizio le sue truppe, passò all'improvviso il Reno, per quanto si crede, verso Cleves, e diede addosso ai Franchi cognominati Attuarii, che avevano in altri tempi colle loro scorrerie inquietata la vicina Gallia. Durò poca fatica a vincerli. Perchè umilmente chiesero pace, loro la diede; e poi, dopo aver visitate sin verso Basilea le fortezze poste sulla riva del Reno, per Besanzone passò a svernare in Vienna del Delfinato. Morì circa questi tempi Flavia Giulia Elena Augusta sua moglie, e sorella dell'imperador Costanzo [Goltzius Tristanus.]: chi disse di parto, chi perchè cacciata dal palazzo [Ammianus, lib. 21, cap. 1. Zonar., in Annalib.]: e non mancò chi parlò di veleno, come s'ha, per attestato del Valesio, da una orazion [101] manuscritta di Libanio. Fioriva in questi tempi l'insigne vescovo di Poitiers nelle Gallie sant'Ilario, che per la religion cattolica tanto soffrì e tanto scrisse.


   
Anno di Cristo CCCLXI. Indizione IV.
Liberio papa 10.
Giuliano imperadore 1.

Consoli

Flavio Tauro e Flavio Fiorenzo.

Il secondo console, cioè Fiorenzo, quel medesimo è che vedemmo prefetto del pretorio delle Gallie, e fuggito di là dopo la ribellion di Giuliano, da cui poscia fu condannato a morte; ma egli si nascose, tanto che venissero tempi migliori. Tauro era anche prefetto del pretorio d'Italia, e, per ben servire a Costanzo, aveva oppresso i cattolici nel concilio di Rimini. Permise Iddio che anch'egli fosse dipoi condannato all'esilio da Giuliano, tuttochè nulla avesse operato contra di lui. Tertullo in questo anno ancora si truova prefetto di Roma. In luogo suo fu poi creato Massimo, dappoichè Giuliano divenne padron di tutto. Passò esso Giuliano Augusto, siccome già accennai, il verno in Vienna [Ammianus, lib. 21, cap. 3.], dove sul principio di marzo gli giunse avviso che gli Alamanni sudditi del re o principe Vadomario verso Basilea aveano fatto delle scorrerie nel paese romano della Rezia. Spedì egli Libinone conte con una brigata di soldati per mettere al dovere que' Barbari; ma essi misero lui a morte, avendo egli disordinatamente voluto venir alle mani con loro. Fama corse che Vadomario, uomo furbo, trattando con Giuliano, gli dava i titoli d'Augusto e di dio [Liban., Orat. V et XII. Julian., Epist. ad Atheniens.]; menava poi segreti trattati con Costanzo imperadore, e da lui avea ricevuti ordini d'infestare il medesimo Giuliano; dicendosi di più ch'erano state intercette lettere comprovanti tal fatto. Vero o falso che [102] ciò fosse, Giuliano se ne prevalse per uno de' suoi pretesti di far guerra a Costanzo. Intanto diede commissione a Filagrio suo segretario, che poi fu conte d'Oriente, di attrappolar, se poteva, Vadomario, con cui continuava l'apparenza della pace; ed in fatti gli riuscì di farlo prigione in un convito. Altro male non gli avvenne, se non che Giuliano il relegò nelle Spagne, di dove uscito nei tempi susseguenti, fu creato duca della Fenicia. Passò poi lo stesso Giuliano di là dal Reno per gastigar coloro che aveano ucciso Libinone; ma non ebbe molto a faticare, perchè tutti dimandarono pace, o pure la confermarono, con che restarono quiete quelle contrade. Ma questi non erano i gran pensieri di Giuliano. Giacchè durava la nimicizia insorta fra lui e Costanzo, andava egli da gran tempo ruminando qual partito convenisse prendere, cioè di venire a guerra aperta, o pur d'intavolare qualche accordo con lui anche con proprio svantaggio. Ma perchè conosceva non essere Costanzo principe da potersi fidare della di lui parola, antepose la risoluzion di passare all'armi contra di lui. E tanto più si animò a questa impresa, perchè, essendo egli perduto nell'arte d'indovinare [Ammianus, lib. 20, cap. 1. Liban., Orat. XII.] o per augurii o per negromanzia, s'immaginò che Costanzo avesse da mancar di vita in questo anno, e nel mese di novembre. San Gregorio Nazianzeno scrive [Gregor. Nazianzen., Orat. III.], non essere da stupire s'egli previde la morte d'esso imperadore, perchè avea guadagnato uno dei di lui cortigiani per avvelenarlo; e per questa fidanza s'incamminò dipoi coll'armi verso Levante. Osservò ancora Sozomeno [Sozom., lib. 5 Hist., cap. 1.] la follia di Giuliano in prestar fede ai suoi auguri e indovini, perchè egli non previde punto la propria morte, nè il funesto fine della sua impresa contro i Persiani. Ammiano il vuole scusar su questo, con [103] dire ch'egli riguardava, non come cose certe, ma solamente come conghietture le predizioni de' suoi indovini: scusa familiare ad altri che s'immergono nell'arte empia e vanissima di voler conoscere l'avvenire.

La risoluzion presa da Giuliano di sguainar la spada contra di Costanzo imperadore ognun può scorgere quanta occasion desse a tutti i saggi di mormorare di lui, trattandosi di volgere l'armi contra di un cugino che l'avea colmato di benefizii, valendosi dell'autorità a lui conferita per ispogliare ed abbattere il medesimo suo benefattore. Cresceva anche l'iniquità ed ingratitudine sua, perchè Costanzo non si movea punto contra di lui, e trovavasi allora in angustie per la svantaggiosa guerra che avea coi Persiani. Si studiò lo stesso Giuliano di parare questa odiosità con varie scuse e pretesti, essendosi spezialmente studiato di giustificar la sua condotta presso le città della Grecia, come apparisce dalla lunga sua lettera, o sia dal manifesto scritto agli Ateniesi [Julian., Epistol. ad Atheniens.], che si legge stampata. Il bello è ch'egli pretendeva di essere stato o consigliato o pure obbligato dai suoi dii a ribellarsi; e Zosimo scrive [Zosimus, lib. 3, cap. 9.] che una deità, apparendogli in sogno, l'animò all'impresa, senza badare ch'egli covava in cuore un interno iniquo dio, cioè l'ambizione, da cui era più che da altro spronato a tanta sconoscenza verso chi l'avea tanto beneficato. Anche i suoi soldati e partigiani dicevano promesso a lui da essi dii un felice successo: il che quanto si verificasse, si vedrà a suo tempo. Intanto fece egli quanti preparamenti mai seppe di gente e danaro per marciare verso l'Oriente. L'amore, ch'egli s'era guadagnato fra i popoli delle Gallie, indusse molti ad offerirgli spontaneamente ori ed argenti per isperanza di ricavarne buon frutto a suo tempo; nè si trovò più difficoltà ne' soldati per uscir dalle [104] Gallie, e passar l'Alpi, facendo egli credere alla sua armata di non cercar altro per ora che d'impossessarsi dell'Illirico sino alla Dacia novella, per prendere poi altre misure o di accordo o di guerra. Nebridio, mandato già per prefetto del pretorio nelle Gallie da Costanzo, il solo fu [Ammianus, lib. 21, cap. 5.] che protestò di non poter impegnarsi contra dello stesso Costanzo Augusto, e corse rischio d'essere messo in brani dai soldati, se Giuliano non l'avesse coperto col suo manto, e datagli poi licenza di ritirarsi in Toscana. Da Libanio [Liban., Orat. XII.] vien chiamato esso Nebridio un mezzo uomo. Se vuol dire per avventura un codardo, da quando in qua merita nome di codardo la fedeltà verso il principe suo? Se non si trattasse di un nobile romano, si crederebbe che egli parlasse di un eunuco. Fece Giuliano una promozion d'uffiziali, creando generale della sua cavalleria Nevitta, Dagalaifo capitan delle guardie, Mamertino tesoriere, quello stesso che poi compose il panegirico di Giuliano, e distribuendo ad altri varie cariche militari e civili. Lasciò Sallustio per prefetto del pretorio nelle Gallie, e finalmente mise in moto l'esercito suo, diviso in varii corpi, parte inviandone per l'Italia, e parte per la Rezia, per far credere che fossero più che non erano le forze sue, quando non più di ventitrè mila persone, se non s'inganna Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 10.], egli conduceva seco. Con gran diligenza marciarono; ed ordine v'era di trovarsi tutti a Sirmio. Era allora tempo di state. Arrivato che fu Giuliano dove il Danubio comincia ad essere navigabile, trovata ivi fortunatamente gran copia di barchette, con tre mila soldati s'imbarcò, e andò a prendere terra in tempo di notte a Bononia, nove miglia lungi da Sirmio, capitale della Pannonia. Di là spedì Dagalaifo con una brigata di soldati, a mettere le mani addosso a Lucilliano [105] conte, generale d'armi di Costanzo nell'Illirico, il quale per sua negligenza niun sentore pare che avesse avuto de' frettolosi movimenti di Giuliano. Coltolo a letto, il menarono via, e presentarono ad esso Giuliano: dopo di che a dirittura egli marciò a Sirmio, dove fu con gran pompa e festa accolto da quel numeroso popolo: cosa che gli fece sperar facile la conquista di tutto l'Illirico. E così in fatti avvenne, perchè senza adoperar lancia o spada in poco tempo tutto l'Illirico, la Macedonia e la Grecia il riconobbero per loro signore [Ammianus, lib. 21, cap 10. Libanius, Orat. XII.]. Creò egli allora governatore della seconda Pannonia Aurelio Vittore, quel medesimo che ci lasciò un compendio delle Vite dei Cesari. Venuto già era l'autunno, e Giuliano si ridusse a Naisso nella Dacia novella, o nella Mesia, dove, secondo le apparenze, si fermò sino alla morte di Costanzo, applicandosi intanto ad ingrossar la sua armata e a munir le fortezze, con disegno poi di entrar nella Tracia, e far maggiori progressi.

Quello che può parere strano, si è che non sappiamo avere Giuliano inviato altro corpo di milizie in Italia, se non quel tenue che, passando per Aquileia, andò a congiugnersi seco a Sirmio: e pure certa cosa è che Roma e l'Italia tutta, quasi con universale concordia, abbandonò Costanzo, e si mise sotto la signoria di Giuliano. Convien credere che questi popoli fossero ben malcontenti del governo d'esso Costanzo e del suo arianismo, credendo essi tuttavia cristiano e cattolico Giuliano; e che si prevalessero di questo leggier vento per sottrarsi dal di lui dominio. Si aggiunse ancora un panico terrore, perchè si sparse voce [Ammianus, lib. 21, cap. 9.] che Giuliano calava in Italia con un diluvio di gente: laonde ognun si affrettò a rendergli ubbidienza. Tale dovette essere in Roma stessa la commozione e paura, che Tauro e Fiorenzo [106] consoli scapparono, non so se di là, o da altro luogo, dove stessero allora, e passarono per le poste verso l'Oriente, parendo loro disperato il caso, e paventando lo sdegno di Giuliano, il quale poi, per testimonianza di Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 10.], mandò ordine che, mettendo il loro nome negli atti pubblici, si aggiugnesse consoli fuggitivi o fuggiti. In mezzo poi ai pensieri della guerra non dimenticava Giuliano quei del governo civile, scrivendo Ammiano ch'egli si occupava ad ascoltar e decidere le liti de' particolari, a riformar gli abusi: notando nondimeno esso istorico, ch'egli talvolta commetteva delle ingiustizie per correggere quelle degli altri. Mamertino [Mamertinus, in Panegy.] si stende qui all'uso de' panegiristi nelle lodi di lui, dicendo ch'egli mise in buon ordine e stato le città tutte dell'Illirico, della Grecia, Macedonia, Epiro e Dalmazia. Carestia di grani si provava in Roma. Fu inviato colà da Giuliano per prefetto di quella città Massimo, il quale, contuttochè permesso non fosse all'Africa di mandar frumenti colà, pure seppe trovar maniera di provvedere al bisogno, e di prevenire i pericolosi tumulti, ai quali fu sottoposto il suo predecessore Tertullo. Diedesi poi meglio a conoscere in tal occasione la vanità e l'ingratitudine di Giuliano [Ammian., lib. 21, cap. 10.], perchè già scorgendo tolta affatto la speranza di riconciliarsi con Costanzo Augusto, scrisse contra di lui al senato romano una invettiva piena di mordacità, con esagerar tutti i vizii e difetti di lui: il che parve sì improprio agli stessi senatori, che, al leggersi nella loro assemblea quella satira, non poterono contenersi dal gridare ad una voce che il pregavano di portar più rispetto e riverenza a chi l'avea creato Cesare e beneficato cotanto. Lo stesso Ammiano, tuttochè adoratore, non che parziale di lui, non potè di meno di non condannare una sì ingiuriosa [107] scrittura, e tanto più perchè, non contento egli di sfogarsi contra di Costanzo, addentò anche la memoria di Costantino il Grande, proverbiandolo come novatore e perturbatore delle antiche leggi, e perchè avesse innalzate persone barbare sino al consolato: sciocca accusa, come Ammiano confessa, perchè lo stesso Giuliano poco stette a crear console Nevitta, Goto di nazione, e persona selvatica, anzi crudele; laddove Costantino non promosse se non persone di raro merito e di gran riputazione e virtù [Ammianus, lib. 21, cap. 11.]. Avvenne intanto un affare che avrebbe potuto imbrogliar non poco le misure di Giuliano, se non fosse intervenuta la morte di Costanzo Augusto. Due legioni e una compagnia di arcieri, che già servivano a Costanzo, trovate da Giuliano in Sirmio, perchè d'esse egli non si fidava, prese la risoluzione d'inviarle nelle Gallie; e queste andarono. Ma giunte ad Aquileia, ricca città, e forte non meno pel sito che per le buone mura, e trovata la plebe tuttavia divota al nome di Costanzo Augusto, che si sollevò all'arrivo loro, quivi fermarono il piede, e si afforzarono contra di Giuliano. Perchè questo fatto potea tirarsi dietro delle brutte conseguenze, Giuliano mandò ordini a Giovino general della cavalleria, che era in marcia verso la Pannonia, di accorrere colà, e convenne formarne l'assedio, che fu lungamente sostenuto con bravura e spargimento di sangue. Nè finiva sì presto quell'impegno, se non veniva la nuova della morte di Costanzo, per cui que' soldati in fine capitolarono la resa, lasciando esposto allo sdegno di Giuliano il promotore di quella sedizione Nigrino tribuno, che fu bruciato vivo, ed alcuni pochi altri, ai quali fu reciso il capo.

Tempo è oramai di parlare dell'Augusto Costanzo, che noi lasciammo a' quartieri d'inverno in Antiochia. Le applicazioni sue tutte erano in preparamenti di [108] guerra, e in far masse di milizie per opporsi ai sempre nemici Persiani. Ma non era così occupato da' pensieri guerrieri, che non ne nudrisse ancora de' mansueti e geniali [Ammianus, lib. 21, cap. 6.]. Gli avea tolta la morte poco dianzi Eusebia Augusta sua moglie, donna che non l'avea mai arricchito di prole, e che (siccome spacciò la fama) per aver voluto prendere un medicamento, creduto atto a farla concepire, abbreviò a sè stessa la vita [Zonar. Cedrenus. Chrysost., Hom. 15 ad Philipp.]. Voce ancora corse [Ammianus, lib. 16.] ch'essa con una bevanda data ad Elena sua cognata, allorchè questa fu per maritarsi con Giuliano Cesare, la conciasse in maniera che abortisse ad ogni gravidanza. Le dicerie del volgo son facili in tal sorta di accuse. Ora Costanzo, per desiderio di lasciar dopo di sè qualche figliuolanza [Du-Cange, Hist. Byz.], prese in questi tempi per moglie Massimo Faustina, della cui famiglia nulla dicono le storie. Solamente si sa ch'egli morendo la lasciò gravida, ed esserne nata una figliuola, appellata Flavia Massimo Costanza. Questa poi prese per marito Graziano, che vedremo a suo tempo imperadore. Forse non si figurava Costanzo che Giuliano si avesse a muovere dalle Gallie, e però non prese le convenevoli precauzioni per munire l'Italia e l'Illirico contra dei di lui tentativi. Provvide bensì all'Africa [Ammianus, lib. 21, cap. 7.], con inviare colà Gaudenzio suo segretario, il quale, andando d'accordo con Crezione conte, dispose così ben le cose, che durante la vita d'esso Augusto da niuno restò turbata la quiete di quelle provincie. S'udivano intanto le grandiose disposizioni di Sapore re della Persia per tornare ostilmente ad invadere la Mesopotamia. Il perchè Costanzo si procacciò con diversi regali l'assistenza e il favore dei re confinanti co' Persiani, e massimamente di Arsace re dell'Armenia. Poscia, allorchè vennero nuove che pareva [109] imminente il passaggio dei Persiani nella Mesopotamia, circa il mese di maggio uscì anch'egli in campagna, e passato di là dall'Eufrate, andò a fermarsi in Edessa, con inviare nello stesso tempo i suoi generali Arbezione ed Agilone alle rive del Tigri, ma con espresso ordine di non azzardare una battaglia. Stettero ivi le soldatesche romane gran tempo, aspettando il nemico, senza mai vederlo comparire; ed intanto giunse a Costanzo la dolorosa novella che il ribelle Giuliano s'era già impadronito dell'Illirico. Facile è l'immaginare che turbazione ed affanno gli recassero i passi dell'odiato cugino. Ma nel dì seguente ricevette il grato avviso che il re Sapore, o sia perchè da' suoi indovini gli furono predette disgrazie se s'inoltrava, o pure perchè gli diedero apprensione le forze de' Romani, se n'era tornato addietro. Allora fu che Costanzo, tenendosi come liberato dalla molestia de' Persiani, lasciate solamente le guarnigioni opportune nelle città e fortezze della Mesopotamia, se ne tornò indietro con disegno di procedere armato contra di Giuliano, giacchè si teneva sicura la vittoria, combattendo con quell'ingrato. Partecipata all'esercito questa sua intenzione, tutti ne fecero festa, e si animarono al viaggio. Partissi egli da Antiochia nell'autunno avanzato; ma arrivato a Tarso nella Cilicia, fu preso da una picciola febbre, per cui non desistè dal cammino. Si trovò poi forzato dal male, che andò crescendo, a posare in Mopsuerene, luogo situato ai confini della Cilicia plesso il monte Tauro [Hieronymus, in Chronico. Idacius in Fastis. Chronicon Alexandr. Theophan., in Chronogr.], dove nel dì 5 di dicembre (Ammiano scrive nel dì 3) in età di circa quarantacinque anni diede fine al suo vivere, con essersi detto che Giuliano l'avesse fatto avvelenare.

Lasciò questo principe dopo di sè una assai svantaggiosa memoria. Certamente a lui non mancavano delle belle qualità, come l'essere indurato alle fatiche e a [110] dormir poco, se il bisogno lo richiedeva [Ammianus. Aurel. Victor, de Caesaribus.]. Negli esercizii militari niuno gli andava innanzi, e quanto fu moderatissimo sempre nel mangiare e bere, altrettanto si guardò dal lusso e dai piaceri illeciti, in guisa tale che nè pur chi gli voleva male arrivò mai ad accusarlo di avere contravvenuto alle leggi della castità. Ornato delle belle lettere, sapea far discorsi sensati e gravi. Chi prese a lodarlo vivente (il che fecero Giuliano e Temistio [Themist., Orat. I et II. Julian., Orat. I et II.]), cel rappresenta moderato in tutte le passioni, e specialmente padrone della sua collera, con soffrir le ingiurie senza farne vendetta. E certo sensibili segni di clemenza diede talvolta [Eutrop., in Breviar.] sino a perdonare con facilità alle città che aveano fatta sollevazione: laonde da molti per questa sua indulgenza era amato non poco. Fece ancora risplendere il suo zelo contra dell'idolatria, e di sopra accennammo le rigorose sue leggi contro di essa. Ristaurò pur anche o di nuovo edificò molte chiese in Oriente, e le arricchì; e gran rispetto conservò sempre verso i vescovi, facendoli mangiare alla sua tavola, e ricevendo da loro con umiltà la benedizione. Tali erano i pregi di Costanzo in poche parole. Ammiano [Ammianus, lib. 21, cap. 16.] più a lungo ne lasciò descritto quel poco o molto ch'egli aveva di buono. Ma, voltando carta, troviamo che contrappesavano ben più i di lui difetti. Gran disgrazia è l'aver principi deboli di testa, e che si figurano nondimeno di aver testa superiore in intendimento a quella di ognuno. A Costanzo ne era toccata una di questo tenore. Peggio poi se il principe non ama e non soffre se non chi il loda, e solamente si compiace degli adulatori, disprezzando o rigettando chi osa dirgli la verità, e non sa lodare i difetti, nè far plauso alle azioni viziose o mal fatte. Costanzo era appunto un di questi [Julian., Orat. VII. Liban., Orat. XI.], pieno di una [111] vanità ridicola, per cui voleva, a guisa dei tiranni dell'Oriente, essere appellato Signore di tutta la terra [Athanasius, de Syn.]; e si fece alzar archi trionfali nelle Gallie e nella Pannonia per aver vinto dei Romani ribelli: gloria abborrita da tutti i saggi imperadori; pavoneggiandosi ancora delle vittorie riportate da' suoi generali [Ammianus, lib. 16, c. 6, et lib. 21, cap. 16.], come se in persona fosse egli intervenuto alle battaglie. Nè la sua clemenza andò molto innanzi, perchè spietato comparve contro chiunque o tentò o fu sospettato di tentare contro la di lui corona. Non si può poscia abbastanza esprimere che predominio avessero nella corte di lui gli adulatori, e quanta fosse la prepotenza de' suoi eunuchi, i quali, abusandosi della tenuità del di lui intendimento, e della timidità del suo cuore, l'ingannavano continuamente, ed arrivarono in certa guisa a far essi da imperadori di fatto, con lasciarne a lui il solo nome, perchè nulla operava, nulla determinava senza il lor consiglio, nè pur osando di far cosa che venisse da lor disapprovata. Di qua poi venne la vendita delle cariche e della giustizia, e l'elezion degl'indegni ministri e governatori con immenso danno dei popoli. Non venne anche un peggior male, cioè un gravissimo sconcerto alla Chiesa di Dio; perchè quella vile, ma superba canaglia, guadagnata dagli ariani, il portò a sposar gli empii loro insegnamenti, e a perseguitare i vescovi della Chiesa cattolica, e ad abbattere per quanto potè la dottrina della vera Chiesa di Dio. Però nella storia ecclesiastica noi il troviamo dipinto (e ben sel meritava) con dei neri colori, spezialmente da santo Ilario e da Lucifero vescovo di Cagliari, come principe o tiranno, che contra le leggi del Vangelo si arrogò l'autorità di far dipendente da' suoi voleri la religione santa di Cristo, e volle esser arbitro delle controversie della fede che Dio ha riserbato al giudizio dei sacri suoi pastori. Lo stesso Ammiano, ancorchè gentile, il [112] condannò per questa sua prepotenza. Imbevuto egli così degli errori dell'arianismo, in essi durò poi sino alla morte, senza mai prendere il sacro battesimo, fuorchè negli ultimi dì di sua vita [Athanasius, de Syn. Socrat., lib. 2, cap. 47. Philostorg., lib. 6, c. 6.], nei quali fu battezzato da Euzoio vescovo ariano. Ma finiamola di parlar di un regnante cattivo, per passare ad un peggiore, che, provveduto da Dio di molte belle doti personali, avrebbe potuto far bella figura fra gl'imperadori de' Romani, ma per la sua empietà si screditò affatto presso de' Cristiani, che tuttavia rammentano con orrore il di lui nome. Parlo di Giuliano, che già aveva usurpato il titolo d'Imperadore Augusto, e si trovava nell'Illirico allorchè gli giunse la gratissima nuova della morte di Costanzo Augusto. Riserbando io di favellare più precisamente di lui all'anno seguente, solamente ora dirò ch'egli, veggendo tolto ogni ostacolo alla sua grandezza, marciò a dirittura a Costantinopoli nel dì 11 di dicembre [Mamert., in Panegyr. Ammianus, lib. 22, cap. 1. Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandr.], dove fu ben accolto, e fatto portar colà il cadavere del defunto cugino Augusto, gli fece dar sepoltura colla pompa consueta degl'imperatori nella chiesa degli Apostoli, intervenendo egli stesso alla sacra funzione come cristiano in apparenza, ancorchè qual fosse internamente, staremo poco a vederlo.


   
Anno di Cristo CCCLXII. Indizione V.
Liberio papa 11.
Giuliano imperadore 2.

Consoli

Mamertino e Nevitta.

Fu alzato Nevitta alla dignità consolare, perchè uomo di molto credito nel mestiere delle armi, e perchè di lui si fidava molto Giuliano, dopo averlo creato generale della cavalleria. Essendo costui barbaro di nazione, e probabilmente Goto, di costumi crudeli, ebbe motivo [113] Ammiano Marcellino [Ammian., lib. 21, c. 11 et 12.] di riflettere, come accennammo di sopra, alla malignità di Giuliano, il quale poco prima avea tacciato Costantino di aver conferito il consolato a personaggi barbari, quando egli poco appresso fece lo stesso. Quanto a Mamertino primo console, Giuliano lo avea dianzi creato prefetto del pretorio dell'Illirico. Essendo egli uomo eloquente, compose e recitò nel dì primo di quest'anno, cioè nell'entrar console, un panegirico in lode di Giuliano, componimento salvato dalle ingiurie del tempo, e giunto sino ai dì nostri. Ma prima di raccontar le azioni spettanti a Giuliano nell'anno presente, non dispiacerà ai lettori di conoscere prima chi fosse questo novello Augusto. Altrove dicemmo che Flavio Claudio Giuliano avea avuto per padre Giulio Costanzo, fratello del gran Costantino, e per fratello Gallo Cesare, da noi veduto ucciso da Costanzo imperadore. Nacque in Costantinopoli [Julian., Epist. LI.] nell'anno 331. Allorchè mancò di vita Costantino il Grande nell'anno 337, e fu ucciso suo padre con altri parenti d'esso Augusto per ordine di Costanzo, anche Giuliano corse rischio di perdere la vita [Idem, in Misopog.]. Il salvò la sua tenera età. In Macello, luogo della Cappadocia, in Costantinopoli, e poscia in Nicomedia s'applicò allo studio delle lettere, avendo per maestro Eusebio vescovo di quella città [Socrates, Hist., lib. 3, c. 1.], famoso capo dell'arianesimo. Essendogli toccato per aio un eunuco, uomo di gran senno, chiamato Mardonio, questi per tempo gli diede buoni documenti di moderazione, di sprezzo dei divertimenti, e di fare resistenza alle passioni. Fu provveduto sempre di eccellenti maestri, ma cristiani, da Costanzo; e siccome a lui non mancava la felicità del talento, così fece non lieve profitto nelle scienze, e massimamente nell'eloquenza. Ma questa felicità d'ingegno [114] consisteva piuttosto in una prontezza d'intendere e in una vivacità di esprimere i suoi sentimenti, e non già in una soda penetrazione e riflessione sopra le cose, essendo superficiale la forza della sua mente, e portata sempre alle novità la di lui inclinazione. Già si osservò che di nuovo fu in pericolo la di lui vita, allorchè quella di Gallo Cesare suo fratello mancò. Il sottrasse a quel rischio Eusebia Augusta, la di cui protezione servì ancora a farlo promuovere alla dignità di Cesare e al governo delle Gallie; dal che poi nacque la di lui ribellione contra del benefattore Costanzo.

Ma la più obbrobriosa delle azioni di Giuliano è quella che riguarda la sua religione. Era egli, non men che il fratello, stato allevato in quella di Gesù Cristo sotto varii precettori cristiani; la professava egli, e con varie opere di pietà si dava a conoscere (ed era in fatti allora) persuaso della verità e santità della medesima [Julian., Epist. LI.]. Confessa egli stesso che sino all'età di vent'anni stette saldo in essa religione; anzi, per togliere a Costanzo i sospetti ch'egli aspirasse in guisa alcuna all'imperio, si arrolò nella milizia ecclesiastica, e col fratello Gallo esercitò nel clero l'uffizio di lettore. Ma siccome egli era un cervello leggero e fantastico, insensibilmente si lasciò portare al paganesimo. Ordine espresso avea dato Costanzo [Socrates, Histor., lib. 3, cap. 1. Libanius, Orat. V et XII.] ch'egli non praticasse con Libanio sofista, letterato di gran credito allora per la sua eloquenza, ma gentile, per timore che noi sovvertissero le di lui ciance. Giuliano tanto più s'accese di voglia di leggere e di studiar segretamente le di lui opere, che servirono non poco ad infettarlo: tanta era la stima ch'egli professava a quel sofista. La scuola principale nondimeno della sua apostasia ed impietà fu l'essersi egli dato a praticar con gl'indovini, strologhi, maghi [115] ed altri impostori, che gli fecero sperar la cognizion dell'avvenire: con che maggiormente se gli ammaliò e riempiè il capo d'illusioni, di oracoli, e della potenza dei falsi dii, con terminar poi i suoi studii in un'aperta empietà e somma prosunzione. Libanio stesso [Liban., Orat. X.] non ebbe difficoltà di confessare ch'egli era visitato dagli dii, da loro sapeva quanto si faceva sopra la terra: il che chiaramente ci fa comprendere le illusioni della magia. Per maestri di così sacrileghe arti e dottrine ebbe spezialmente Giuliano [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5. Socrat., Hist., lib. 3, cap. 1. Liban., Orat. V.] Massimo Efesio, mago di professione, Eusebio discepolo di Edesio, un Jamblico diverso dal pitagorico, ed altri simili ciurmatori, più tosto che filosofi, i quali colle empie loro istruzioni il trassero in fine ad abbandonare il Cristianesimo, e ad abbracciare il culto degl'idoli. Ma come mai potè passare uomo intendente della santità della religion cristiana e della sua celeste morale all'aperta sciocchezza dell'idolatria, e a credere e a dare alle creature e a sorde statue di numi ossia di demonii il culto ed incenso dovuto al solo vero Dio? In poche parole ne dirò il perchè. Da che la religion cristiana luminosa comparve sul candelliere con tanta raccomandazione di verità, i filosofi, pagani, non sapendo come difendere tanta deformità dell'idolatria, ricorsero al ripiego di sostenere che sotto le più ridicole favole ed azioni vergognose dei lor creduti dii si nascondeva qualche mistero o verità o teologica, o istorica, o morale; e riconoscendo non esservi che un Dio, dicevano poi che nelle differenti deità si adorava quel medesimo Dio, cioè qualche suo attributo, rappresentato dai poeti sotto il velo di molte favole. In somma inorpellavano tanto la detestabil empietà e superstizione del paganesimo, ne predicavano l'antichità, ne esaltavano l'ampiezza, che la testa leggiera di Giuliano (per [116] tale la riguardò anche Ammiano [Ammianus, lib. 16.]) vi precipitò dentro [Theodoret., Hist., lib. 3, c. 1. Gregorius Nazianz., Orat. III.]. E forse la spinta maggiore venne dal promettergli que' ciarlatani di pervenire per tal via al romano imperio. Dopo questo salto si studiava ben Giuliano di coprir la sua apostasia e idolatria nel suo cuore; finchè visse Costanzo Augusto, professava nell'esteriore il Cristianesimo, e poi la notte faceva dei sacrifizii a Mercurio, senza mettersi pensiero s'egli tradiva Dio e la propria coscienza. Ma chi sapeva ben esaminar le di lui azioni, i ragionamenti e quel suo spirito volubile, inquieto, buffone, sprezzante, giungeva a scorgere ch'egli non era cristiano, o pur era un mal cristiano, e che si allevava in lui un fiero mostro all'imperio romano. San Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che il conobbe e praticò in Atene, ce ne lasciò un vivo ritratto, per cui predisse quello che in fatti poi fu. Aggiungasi ora che Giuliano, dopo essersi applicato alla filosofia di que' tempi, affettò da lì innanzi di comparir filosofo non solamente in molte azioni, ma con prender anche l'abito proprio de' filosofi, cioè il mantello, e nudrire le barba: tutto per acquistarsi credito con tale apparenza presso chi solo misura gli uomini dal portamento esterno. La sua sobrietà era grande [Ammianus, lib. 16. Julian., in Misopog. Libanius, Orat. X et XII.]; poco sonno prendeva, e questo sopra un tappeto e una pelle. De' piaceri e divertimenti del teatro, del circo, de' combattimenti nulla si dilettava; in una parola, da che fu creato Cesare, con questa severità di costumi molta riputazione s'acquistò nelle Gallie, col ministrar buona giustizia, con frenar le insolenze e l'avidità delle arpie, cioè dei pubblici uffiziali, che con taglie ed avanie cercavano di accrescere le calamità de' popoli, e di empiere la propria borsa.

[117] Ritornando ora al corso della storia, convien ripetere che nel dicembre del precedente anno, mentre esso Giuliano soggiornava in Naisso città della Dacia (Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 1.] scrive nella Tracia), gli giunse l'avviso della morte di Costanzo, avviso il più grato che mai gli potesse avvenire. Secondo Ammiano [Ammian., lib. 22, cap. 2.], fecero a lui credere gli ambasciatori che Costanzo, prima di spirar l'anima, l'avea dichiarato suo successore: il che non par vero, quando sussista che l'apostasia di Giuliano fosse a lui già nota. San Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. XXI.] aggiugne essere stata fama che Costanzo sul fin della vita si pentisse di tre cose: cioè di avere sparso il sangue de' suoi parenti, di aver conferita a Giuliano la dignità di Cesare e di aver cagionato tante turbolenze nella Chiesa di Dio. Quando pur si accettasse per vero che Costanzo, giacchè non potea togliere a Giuliano la successione, gliel'avesse lasciata, ciò sarebbe stato per procacciare il di lui favore a Faustina Augusta sua moglie, la quale restava gravida, e partorì dipoi una femmina. Tutto lieto, siccome già dicemmo, passò Giuliano a Costantinopoli, dove qualche poco ancora fece la figura di cristiano, e poscia, per attestato di Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 1.] e di Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 5.], cavatasi la maschera, apertamente professò l'idolatria. Anzi non aveva aspettato fino a questo tempo, perchè Libanio [Liban., Orat. XII.] e il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. III.] attestano che, appena giunto nell'Illirico, avea ordinato che si aprissero i templi de' pagani, e che si sacrificasse agl'idoli [Julian., Epist. ad Atheniens.]; nè tardarono punto gli Ateniesi a valersi di questo sacrilego indulto. Che allegrezza per questa metamorfosi provassero i gentili, che orrore e dispiacere i cristiani, [118] non occorre ch'io lo dica. Corsero a gara i deputati delle città e provincie a riconoscere il nuovo sovrano [Julian., in Misopog. Eunap., Vit. Sophist.], portandogli delle corone d'oro; e gli Armeni ed altri re dell'Oriente, fuorchè il persiano, e fin gl'Indiani tributarongli dei regali. Anche dagli stessi Goti gli furono spediti ambasciatori per rinnovare i precedenti trattati; ma Giuliano fu vicino a romperla con loro, perchè non volea legge da que' Barbari, nè lasciarsi far paura, com'era avvenuto sotto il precedente Augusto. Quindi si diede a riformar la corte imperiale per risparmiare le spese, cassando una prodigiosa quantità di cuochi, barbieri ed altri simili, ed anche più riguardevoli uffiziali, che mangiavano a tradimento il pane del principe. Specialmente mandò a spasso tutti coloro che aveano servito a Costanzo, non distinguendo i buoni dai cattivi [Liban., Orat. X.], e sostituendo degli altri a suo talento. Ancorchè Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 4.] pretenda che la maggior parte di costoro fosse piena di vizii, e s'ingrassasse a forza d'iniquità e di rubamenti, con dire fra le altre cose che avendo Giuliano dimandato un barbiere per farsi tosare, se gliene presentò uno sì magnificamente vestito, che Giuliano gridò [Zonaras, in Annal.]: L'ordine mio è stato che si chiamasse un barbiere, e non già un senatore: contuttociò lo stesso Ammiano condanna sì rigorosa riforma da lui fatta, con ridurre tanta gente in una misera povertà. Libanio [Liban., Orat. X.] all'incontro il loda forte per questo, aggiugnendo ch'egli ristrinse al numero di mille e settecento coloro che si chiamavano agentes in rebus, ufficiali del fisco, poco diversi, o pure gli stessi che i curiosi e frumentarii, cioè ispettori ed esattori che si mandavano per le provincie. Dianzi si contavano dieci mila di costoro.

Qui nondimeno non si fermò Giuliano. [119] Eresse un tribunal di giustizia, affinchè quivi si ascoltassero le molte querele de' particolari contro gli uffiziali del defunto Costanzo. Capo ne fu Sallustio Secondo, dichiarato prefetto del pretorio d'Oriente, a cui furono aggiunti Mamertino e Nevitta, consoli di quest'anno, Arbezione ed Agilone [Ammianus, lib. 22, cap. 3.]. Costoro, iti a Calcedonia, cominciarono a processar chiunque non godea la grazia di Giuliano, principalmente chi gli era in disgrazia. Palladio, già mastro degli uffizii (splendida dignità della corte), fu relegato in Bretagna; Tauro, già prefetto del pretorio, a Vercelli, benchè non sel meritasse; Fiorenzo, anch'esso mastro degli uffizii, in un'isola della Dalmazia. L'altro Fiorenzo già prefetto del pretorio delle Gallie, che aveva irritato forte Giuliano, se ne fuggì colla moglie, e nascoso stette finchè visse Giuliano, perchè contra di lui fulminata fu la sentenza di morte. D'altri cospicui uffiziali processati e condannati chi all'esilio, chi a perdere il capo, parla Ammiano; e perchè non solo a' colpevoli, ma anche a molti innocenti si stesero le condannagioni, Giuliano si tirò dietro le maledizioni, non che le mormorazioni de' suoi parziali, e molto più di chi era nemico, per sì fatte crudeltà. Con tal occasione si può dire che cominciò la persecuzione di Giuliano contra de' cristiani, perchè tutti i cortigiani professanti la legge santa di Cristo furono da lui cacciati fuori del palazzo. Dalle lettere del medesimo Giuliano [Julian., Epist. XXXVIII.] risulta, aver esso invitato alla sua corte Massimo filosofo, quello stesso che poco fa dicemmo essergli stato maestro di magia [Liban., Orat. XII.], e dell'arte empia ed ingannatoria di cercar l'avvenire. Allorchè seguì l'arrivo di costui alla corte [Ammianus, lib. 22, cap. 7.], Giuliano era nel senato, e, dimenticata la propria dignità, corse ad incontrar l'impostore, come se fosse stato qualche re, [120] o divinità, abbracciandolo e baciandolo: azione lodata da Libanio, ma ritrovata assai impropria da Ammiano. Questa sua eccessiva degnazione verso le barbe de' filosofi cagion fu che altri di tal professione [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Eunapius, Vit. Sophist., cap. 5. Socrates, lib. 3, cap. 1.] a folla accorsero da varie parti alla corte; alcuni anche vi furono chiamati. Di carezze e belle parole certamente si mostrò liberale con esso loro il filosofo imperadore: di tanto in tanto teneva ancora alcun di essi alla sua tavola, e beveva alla lor salute: pavoneggiavasi inoltre, nell'uscir di palazzo, di esser corteggiato da essi; ma in fine i più di loro lasciava colle mani piene di mosche, e laddove erano coloro venuti lusingandosi di far gran fortuna, si trovavano poi costretti, per non morir di fame, a ritornarsene delusi ai lor paesi, maledicendo non so dire se più la furberia ed avarizia di Giuliano, o pure la stolta loro credulità. Ci lasciò san Giovanni Grisostomo [Chrysostomus, in Gent.] una descrizion della corte d'esso Giuliano, tale che fa orrore. Imperocchè, appena si seppe ristabilita da lui l'idolatria, e come egli era perduto dietro allo studio dell'avvenire, che da ogni banda fioccarono colà maghi, incantatori, auguri, indovini, e simil razza di gente, alcuni dei quali di pezzenti divenivano appresso non solo sacerdoti, ma pontefici del gentilesimo. Con costoro si tratteneva Giuliano, poco curando i generali e magistrati; e qualora usciva in pubblico, il seguitava un infame corteggio di tali ciurmatori; nè vi mancava quello di molte femmine che professavano le medesime empie arti ed illusioni, uscite da' bordelli e d'altri luoghi, dove vendevano le inique loro mercatanzie. In testimonio di questa verità il Grisostomo chiama moltissimi tuttavia allora viventi, e ben pratici della corte dell'apostata Augusto. E il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che fioriva [121] nell'istesso tempo, ci assicura che si vedeva Giuliano mangiare pubblicamente e divertirsi con quelle infami donne, coprendo quest'obbrobrio col pretesto ch'esse servivano alle cerimonie dei suoi sagrifizii e misteri.

E tale era la vita di questo imperatore, il quale nientedimeno non ometteva di applicarsi ai pubblici affari, come consta da molte sue leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]; ed era frequente al senato, dove spezialmente campeggiava la di lui vanità nel recitar delle arringhe ed orazioni, e nel decidere le liti. Volendo poi esercitare la gratitudine verso di Costantinopoli patria sua, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 11.], vi costituì un senato simile a quel di Roma. Ma sapendosi che anche prima d'ora un senato v'era in quella gran città, vorrà egli dire che gli concedè i privilegii medesimi e lo stesso decoro che godeva il senato di Roma. Vi fabbricò eziandio un porto che difendesse dal vento australe le navi, ed anche un portico che guidava ad esso porto, della figura del sigma greco, che si solea allora scrivere come il C de' Latini. Formò ancora [Julian., Epist. LVIII. Themistius, Orat. IV.] sopra il portico regale una biblioteca, dove ripose quanti libri egli possedeva. Studiossi ancora di condurre da Alessandria colà un obelisco: cosa già meditata dall'imperador Costanzo, ma nè pure da lui eseguita dipoi per la sua morte. Di questo parla egli in una epistola da me data alla luce [Anecdota Graeca, pag. 325.]. Bella azione dovette poi parere quella di Giuliano [Ammian., lib. 22, cap. 5.], allorchè liberò dell'esilio tutti i vescovi già banditi da Costanzo ariano, uno de' quali fu santo Atanasio, benchè poi nel seguente anno per ordine del medesimo Giuliano di nuovo ne fosse cacciato. Ma infin lo stesso Ammiano, e poi Sozomeno [Sozomen., lib. 5 Hist., cap. 5. Chron. Alexandr. Chrysost., Orat. II in Babyl.] ed altri chiaramente riconobbero aver ciò fatto [122] il malizioso Augusto, non già per alcun buon cuore verso i pastori del popolo cristiano, ma affinchè, trovandosi eglino liberi, si continuassero come prima le civili discordie tra loro, cioè tra' cattolici, ariani, donatisti, macedoniani ed eunomiani; e la plebe interessata in quelle contese non pensasse a far tumulti e sedizioni contra del regnante: il che fu ancora avvertito da sant'Agostino in riguardo ad essi donatisti. Dieci mesi pretende Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 11.] che Giuliano si fermasse in Costantinopoli. Dovea dire quasi otto; imperciocchè le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] cel rappresentano in quella città forse per tutto maggio. Di là poi mosse per passare in Antiochia con disegno di far pentire i Persiani di tanti danni recati al romano imperio. Per qualche tempo si fermò nella Bitinia; e massimamente in Nicomedia, città sì grandiosa ne' tempi addietro, e diroccata dal terribil tremuoto dell'anno 358: il che cavò le lagrime dagli occhi di Giuliano, e dalla sua borsa molto danaro per riparar quelle rovine. Una sua legge abbiamo quivi data nel luglio del presente anno. Per viaggio visitò quanti templi famosi la gentilità avea riaperti in quelle parti, sagrificando dappertutto con gioia immensa de' pagani e dolor de' cristiani. Non finì il luglio che giunse ad Antiochia, ricevuto con acclamazioni indicibili da quel popolo, e molte leggi si veggono date da lui nei susseguenti mesi in quella città [Ammian., lib. 22, cap. 10.]. Quivi si applicò ad ascoltar le querele dei particolari, e a decidere le loro liti con giuste bilancio, e senza guardar in faccia a chi che sia, nè qual fosse la di lui religione. Confessa nondimeno Ammiano ch'egli camminava in ciò con troppa fretta, e che, conoscendo poi la leggerezza del suo ingegno e l'impetuosità della sua collera, raccomandava ai suoi assessori di frenarlo, per non fallare. Un [123] dì si presentò a' suoi piedi Teodoto, uno de' primi cittadini di Jerapoli, ma tremando, perchè sapeva d'essere in disgrazia di lui. Giuliano il ricevette con volto cortese, e gli disse [Ammian., lib. 22, cap. 14.] che se ne ritornasse a casa senza paura, affidato dalla clemenza di un principe che solamente bramava di sminuire il numero de' suoi nemici con farseli amici. Belle parole, quand'anche in Antiochia fece continuar i processi e le condanne contra di molti, da' quali si pretendeva offeso. Ed in essa città ancora si diede più che mai a perseguitare i cristiani, per l'odio che portava alla lor religione, e per rabbia, sapendo di essere detestato da essi, essendovi stati alcuni che a visiera calata lo aveano rimproverato per la sua apostasia ed empietà. Fin sotto il precedente anno già dicemmo aver gli dato principio a sfogar questo suo mal animo contra d'essi cristiani, cacciando dalla sua corte chiunque abborriva di adorare i suoi falsi dii, uno de' quali specialmente fu celebre [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], cioè san Cesario, fratello di san Gregorio Nazianzeno, e medico suo, che generosamente abbandonò il posto per non abbandonar la fede di Gesù Cristo. Escluse dipoi dalla milizia tutti i cristiani; ordinò che niuna carica si desse, se non agli amatori degl'idoli; proibì ai Cristiani l'insegnare ed imparar le scienze e le belle lettere. E quantunque non osasse pubblicamente di levar la vita a chi seguitava la legge di Cristo, perchè infinito era il lor numero, ed egli paventava delle sollevazioni: pure in segreto gran copia ne fece uccidere, e sotto di lui la Chiesa contò moltissimi gloriosi martiri [Idem, Orat. III. Theodor., lib. 3. Hist., cap. 11 et seq.], senza poter nè pure raccogliere il numero di tutti. Mise anche in opera tutte le arti, lusinghe e premii per sovvertire i medesimi cristiani; e pur troppo non pochi ne trovò che si lasciarono [124] vincere da così dolci batterie. Ma intorno a ciò rimetto io il lettore agli Annali Ecclesiastici del Baronio [Baron., in Annalib. Eccl.], e sopra tutto al Tillemont [Tillemont, Mémoires pour l'Histoire Ecclesiastiq.], che egregiamente ha trattato questo argomento, siccome ancora al Fleury nella sua Storia Ecclesiastica [Fleury, Hist. Eccl.].


   
Anno di Cristo CCCLXIII. Indizione VI.
Liberio papa 12.
Gioviano imperadore 1.

Consoli

Flavio Claudio Giuliano Augusto per la quarta volta e Secondo Sallustio.

Era questo Sallustio console anche prefetto del pretorio delle Gallie, e diverso da un altro Sallustio prefetto del pretorio d'Oriente, siccome può vedersi presso il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad annum 362, n. 32.]. Lucio Turcio Secondo Aproniano Asterio, uno de' senatori che da Roma furono inviati a Giuliano, fu creato prefetto di Roma in questo anno, ed è sommamente lodato da Ammiano [Ammian., lib. 26, cap. 3.] pel buon governo che fece col mantenervi l'abbondanza de' viveri e la pace, e col perseguitar severamente gli incantatori e malefici che il paganesimo produceva in gran copia. Volle Giuliano onorato il suo consolato da un panegirico di Libanio sofista, e questo l'abbiam tuttavia. Varii segni diede in questi tempi Iddio dello sdegno suo con molte calamità inviate all'imperio romano, le quali avrebbono potuto avvertir Giuliano della sua empietà, s'egli fosse stato capace di correzione [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Chrysostom., in Gent. Sozomenus, lib. 6 Hist., cap. 2.]. Frequenti furono i tremuoti che afflissero molte città. Nicomedia stessa che, per ordine di Giuliano, cominciava a risorgere, tornò di nuovo alle primiere rovine. Nicea in gran parte andò per terra; e Costantinopoli corse [125] rischio di un eguale esterminio. Libanio [Liban., Orat. XII.] è testimonio che ne patirono forte le città della Palestina e della Libia, e traballarono le più grandi della Sicilia e tutte quelle della Grecia. Si bruciò in Roma il tempio d'Apollo, e nell'ottobre antecedente era del pari rimasto divorato dalle fiamme l'altro insigne tempio d'Apollo esistente in Dafne, luogo posto in vicinanza d'Antiochia [Ammian., lib. 22, cap. 13.]. Trovavasi allora in essa città Giuliano; e perchè sospettò che il fuoco fosse stato attaccato dai cristiani per l'odio che professavano contra di lui, fece far molti processi, tormentar molte persone, e chiudere la chiesa maggiore. Anche Alessandria in Egitto restò fieramente inondata e danneggiata dal mare a dismisura gonfiato. A questi mali si aggiunse una orribil carestia che afflisse tutto il romano imperio, e fu seguitata dalla peste: malori che fecero perire una gran quantità di persone. Entrò la fame con Giuliano in Antiochia, o pur crebbe a cagion della numerosa sua corte [Julian., in Misopog. Libanius, Orat. XII.]. Il popolo smaniava, e portò i suoi lamenti ad esso imperadore, con accusare i ricchi, come cagione del caro de' viveri, tenendo chiusi i loro granai. A questo disordine si credette di rimediare col suo gran senno Giuliano, tassando il prezzo di essi viveri assai bassamente. Ne seguì appunto un effetto tutto contrario a' suoi disegni, perchè laddove prima si scarseggiava solamente di grano, venne anche a mancare l'olio, il vino ed altre specie di commestibili, non potendo i mercatanti vendere a quel basso prezzo la vettovaglia senza rovinarsi. Questa imprudenza di Giuliano vien condannata fin da Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 14.] e da Libanio [Liban., in Vita sua.] suoi panegiristi.

Ma il popolo d'Antiochia, che, oltre all'essere naturalmente inclinato alla [126] satira e alle pasquinate, si trovava per la fame assai malcontento di Giuliano [Zosimus, lib. 3, cap. 11.], e maggiormente ancora perchè, troppo avvezzo agli spettacoli pubblici, osservò che Giuliano gli abborriva, e di alcun d'essi non li regalò: quel popolo, dissi, ne fece quella vendetta che potè, dileggiandolo pubblicamente con dei motti pungenti, e deridendolo con dei versi satirici [Julian., in Misopog.]. Specialmente mettevano in burla la di lui piccola statura, benchè marciasse con passi da gigante, e la sua lunga barba, per cui somigliava un caprone, e con cui si poteano far delle funi. Gli davano il titolo di macellaio per tante bestie ch'egli svenava ne' suoi empii sagrifizii. Similmente il beffavano per la vanità di portar egli colle proprie mani i vasi ed altre cose sacre, facendo piuttosto la funzion di sagrificatore che di principe. Si può ben credere che molti cristiani, dei quali era senza paragone più che di pagani piena Antiochia, ebbero parte con imprudenza a questi scherni dell'apostata Augusto. Al vedersi Giuliano sì sconciamente messo in commedia [Socrates, lib. 3 Hist., cap. 17. Sozomenus, lib. 4 Hist., cap. 19.], smaniava ben per la collera, e minacciava pene e scempii a quell'indiscreto popolo; ma perchè la positura de' suoi affari non gli permetteva di venir per ora a verun pubblico gastigo, la vendetta che ne fece, fu di comporre coll'aiuto di Libanio una invettiva [Gregorius Nazianz., Orat. IV.] satirica contro il popolo d'Antiochia, intitolata Misopogon, cioè Nemico della barba, carica di velenose ironie, spacciando que' cittadini per gente interessata, data al lusso, alla crapola, vana, e perduta unicamente dietro a' teatri e alle bagattelle. Pubblicò egli solamente nel gennaio di quest'anno essa satira, applaudita non poco dai parziali pagani, ma derisa prima e dopo la morte di lui dai cristiani. Il peggio fu ch'essa ad altro non servì [Ammianus, lib. 22, cap. 14.] che ad aguzzar [127] maggiormente le lingue di quel popolo contro di lui. In questi tempi evidente fu, celeste e degno di grande attenzione, un miracolo operato dalla mano di Dio. Avea conceduto Giuliano, per far dispetto ai cristiani, che i Giudei potessero rimettere in piedi il loro tempio di Gerusalemme. Corsero da tutte le parti costoro con immense oblazioni d'oro per eseguire la disegnata fabbrica. Demolirono le reliquie dell'antico tempio per farne un nuovo, venendo essi a verificar sempre più la predicazione di Gesù Cristo [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 15. Gregorius Nazianz., Orat. IV. Socrates, l. 3 Hist., c. 20.]. Ma dacchè ebbero ben cavato per cominciare i fondamenti, ecco un tremuoto che rovinò tutte le cave e case vicine colla morte d'assaissime persone, e specialmente di moltissimi di quegli operai. Non rallentarono per questo i Giudei il lavoro; ma, nel più bel del cavare, sboccò da più lati de' fondamenti, e più di una volta, un fuoco che abbruciò gran numero di persone; e beato chi ebbe tempo da fuggire. In somma questi ed altri flagelli, riconosciuti per prodigiosi fin dagli stessi Giudei, fecero cessar l'impresa, e recarono insigne gloria alle parole del Salvatore e alla santa sua religione. E non già i soli scrittori cristiani di questo e del seguente secolo, come il Nazianzeno, sant'Ambrosio [Ambros., Epistol. ad Theod.], il Grisostomo [Chrysostomus, in Judaeos.], Socrate, e Sozomeno, ed altri attestarono la verità del miracolo, ma anche lo stesso Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 1.] gentile ne fa fede con iscrivere: Metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis aliquoties operantibus inaccessum.

Le applicazioni maggiori dell'Augusto Giuliano erano state fin qui intorno i preparamenti della guerra ch'egli meditava di fare a Sapore re di Persia, per vendicare, diceva egli, i tanti oltraggi e danni recati all'imperio romano da' Persiani [128] sotto Costanzo, ma più per avidità di gloria, figurandosi non da meno d'altri Augusti predecessori che aveano portate l'armi e il terrore nel cuor della Persia. Ed ancorchè Sapore, sentendo il turbine minaccioso, dimandasse con sua lettera di potergli spedire degli ambasciatori per trattar di pace, con offerir anche delle condizioni vantaggiose [Liban., Orat. X.], Giuliano stracciò la lettera, nè volle ascoltarlo. Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 19.] pretende che gli ambasciatori vennero, ma non riportarono altra risposta, se non che verrebbe l'imperatore a trattare in persona con quel re senza bisogno d'ambasciatori. Ammassato dunque un fioritissimo e potente esercito, senza voler aiuto da molte nazioni orientali che s'erano esibite ausiliarie, a riserva d'un corpo di Goti, mosse Giuliano da Antiochia nel dì 5 di marzo [Ammianus, lib. 23, cap. 2.]. Ai nobili antiocheni che lo accompagnarono un pezzo, e gli augurarono un buon viaggio, e un felice e trionfal ritorno, con pregarlo di venir più placato e clemente verso di loro, aspramente rispose che nol vedrebbono più, perchè volea passare il verno in Tarso della Cilicia. Ve lo passò, ma diversamente da quello ch'egli credeva. Il viaggio del guerriero Augusto e della sua armata, e il passaggio dell'Eufrate, si trovano descritti dal medesimo Giuliano [Julian., Epist. XXVII.], da Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 2.] e da Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 12.]. Giunto ch'egli fu a Carres, lasciò uno staccamento di circa venti mila persone sotto il comando di Procopio e del conte Sebastiano, acciocchè custodissero le frontiere della Mesopotamia, con iscrivere nel medesimo tempo ad Arsace re dell'Armenia in termini ingiuriosi, perchè era cristiano, e comandandogli boriosamente di venire ad unire le sue forze colle sue. Non mancò Sozomeno [Sozom., lib. 6 Histor., cap. 1.] di rilevar la vanità di Giuliano in quella [129] lettera, e il di lui veleno contro di Costanzo Augusto: lettera che, perduta in addietro, ho io poi data alla luce [Anecdota Graeca.]. Intanto una flotta di settecento barche e di quattrocento altre da carico scendeva per l'Eufrate, e venne ad unirsi all'armata di terra. Ammiano ne fa molto maggiore il numero. Prese allora Giuliano il cammino a seconda di quel fiume, e dopo aver passato il fiume Abora, e fatto rompere il ponte, affinchè i soldati conoscessero che conveniva menar le mani, e non fuggire, gl'incoraggì poi col donare a cadaun soldato centotrenta nummi d'argento [Zosim., lib. 3. cap. 13.]. I suoi principali comandanti dell'armata erano Nevitta, Arinteo, Ormisda fratello bandito del re Sapore, Dagalaifo, Vittore e Secondino. Ascendeva questo corpo d'armata a sessantacinque mila persone, gente scelta, e con esso entrò Giuliano nel paese persiano dalla parte dell'Assiria, come dice Ammiano; e trovato quel territorio fertile e ricco, lasciò metterlo tutto a sacco; e ciò senza consigliarsi colla prudenza, perchè si privò de' foraggi e viveri che gli avrebbono potuto servir nel ritorno. Ammiano [Ammianus, lib. 24, cap. 1.], che si trovava in quella spedizione, oltre a Libanio [Liban., Orat. XII.] e Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 17.], descrive minutamente il continuato viaggio di Giuliano, a cui niuno si trovava che facesse resistenza. Prese alcune castella, e specialmente la città di Bersabora, una delle maggiori di quelle contrade, e poscia a forza d'armi Maozamalca, altra gran città. Non era egli lungi da Ctesifonte, capitale allora della Persia, quando arditamente fece passare il fiume Tigri all'armata sua in faccia ai nemici che ne difendevano la ripa opposta, e andarono ben presto in rotta. Vero è avere Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 21.] scritto che Giuliano imprese l'assedio di Ctesifonte, dove era chiuso lo stesso re Sapore; ma dagli autori contemporanei, cioè da Ammiano, Libanio [130] e s. Gregorio Nazianzeno, altro non sappiamo se non ch'egli fece dar il guasto ai contorni d'essa città, e che Sapore si trovava lungi di là, intento a metter insieme una poderosa armata per resistere ai Romani. Non lasciò egli di spedir altri deputati a Giuliano per dimandar pace; e questi s'indirizzarono ad Ormisda, fratello d'esso re, il quale militava in favor di Giuliano. Ne parlò Ormisda; ma Giuliano, senza volerne intender parola, gli ordinò di licenziar tosto que' messi, e di coprire il motivo della lor venuta per timore che le lusinghe della pace non ismorzassero l'ardor delle truppe. Giacchè riconobbe pericoloso l'assediar Ctesifonte, non che difficile l'impadronirsene, determinò Giuliano di tornarsene addietro alla lunga del Tigri [Joan. Malala, Chron. Rufus Fest., in Brev.]. Ma lasciatosi sovvertire da un furbo disertore persiano, al dispetto de' consigli d'Ormisda si allontanò da quel fiume, e prese a passare per mezzo al paese insperanzito ancora di trovar Sapore e di dargli battaglia. Fece prendere ai soldati dei viveri per venti giorni, ed affinchè la flotta, da cui ritirò le milizie, non cadesse in man dei nemici, a riserva di alquante barche, tutta la bruciò. Dio, che voleva alfin liberare la terra da questo nemico del nome cristiano, e che tanto confidava ne' falsi dii, permise ch'egli si accecasse in questa forma, appigliandosi ad una risoluzion tale, che da Ammiano e de altri altamente vien condannata.

Si mise in marcia l'armata romana, ma piena di mormorazioni, nel dì 16 di giugno: ed ecco comparir Sapore con quante forze potè, non per decidere la sorte con una giornata campale, ma solamente per infestare e pizzicar da ogni lato i Romani, sperando specialmente di affamarli, perchè preventivamente avea desolato il paese per dove aveano da passare [Ammianus, lib. 25, cap. 1 et seq. Rufus Festus, in Brev. Aurelius Victor, in Epitome.]. Così appunto avvenne. D'uopo fu lo star quasi sempre in armi; frequenti [131] furono le scaramuccie; mancarono in fine i viveri, e foraggio non si trovava: però i lamenti e la costernazione si diffusero per tutto l'esercito. Venne il dì 20 di giugno, in cui più arditi che mai giunsero in grosso numero e in varii corpi i Persiani ad assalire i Romani che erano in marcia, molestandoli qua e là, e massimamente alla coda. Giuliano, all'intendere il gran rumore e la strage che faceva de' suoi il nimico, senza far caso del trovarsi allora senza usbergo, anzi affatto disarmato, dato di piglio ad uno scudo, volò ad incoraggire i suoi. Ma mentre egli dà la caccia ai nemici [Ammianus, lib. 25, cap. 3.], un'asta lanciata da un cavaliere gli volò addosso, e trapassategli le coste, penetrò sino alle viscere. Caduto da cavallo, fu immediatamente portato sopra uno scudo in luogo sicuro; si mise mano ai medicamenti; tale nondimeno era la ferita, che nella notte seguente si trovò disperata la sua salute. Dimandò egli che luogo era quello. Gli fu risposto Frigia. Allora Giuliano si tenne spedito, perchè dicono essergli stato gran tempo innanzi predetto che morrebbe nella Frigia. Di simili predizioni altri esempli ci somministra la storia, con apparenza che sieno state inventate dopo il fatto dai gentili, per accreditar le pazze loro superstizioni. In somma Giuliano in quella stessa notte terminò i suoi giorni in età di circa trentadue anni. Tale è il racconto che fa della morte di Giuliano lo storico Ammiano, il quale si trovava in quella stessa armata, ed aggiugne essersi nel conflitto d'esso giorno fatto gran macello dei Persiani, finchè la notte diede fine alla pugna, e che restarono sul campo morti cinquanta dei loro satrapi. Io non la finirei sì presto, se volessi qui riferir la varietà dei racconti che abbiamo intorno alle circostanze della morte di questo apostata imperadore. Scrive Teodoreto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 20.] ch'egli, preso colla mano del suo sangue, [132] lo gittò in aria dicendo: L'hai vinta, Galileo. Così soleva egli chiamare il Signor nostro Gesù Cristo. Altrettanto abbiamo da Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 4, cap. 2.]. Secondo Filostorgio [Philostorg., lib. 6, cap. 15.], egli bestemmiò il sole, suo gran dio, e tutti gli altri dii, trattandoli da traditori. Quanto al cavaliere che colla lancia (altri [Zonaras, in Annalib. Chronicon Alexandrin.] dicono con un dardo, ed altri colla spada) diede il colpo mortale a Giuliano, mai non si potè sapere chi fosse. Libanio sofista pagano [Liban., Orat. XII.], spacciato adorator di questa apostata, il solo è che ne fa autore un cristiano, giacchè egli dice aver prima d'allora i cristiani tramate altre insidie contro la vita di lui; e che il re persiano, per quante diligenze facesse, e per quante ricompense promettesse, non potè trovare alcun de' suoi che si vantasse d'aver fatto quel colpo. Ma il medesimo Libanio altrove [Idem, Orat. XI.] tien un altro parere, attribuendo ciò ad un Aquemenide, cioè ad un Persiano. Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che si trovò anche egli in quella spedizione, Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.] ed Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] scrivono che la ferita venne dalla mano d'un cavalier nemico, che gli gittò l'asta in fuggire, com'era l'uso de' Persiani. Ammiano e Zosimo, se un cristiano fosse stato l'uccisore, siccome pagani, verisimilmente non l'avrebbono taciuto. Il primo d'essi solamente scrive essere corsa voce, che un Romano l'avesse mortalmente ferito. Qualunque nondimeno fosse un tal cavaliere, certo egli fu esecutore e ministro della volontà e giustizia di Dio, nel cui tribunale era acceso il processo della nera apostasia di Giuliano, e peroravano le lagrime e preghiere de' santi contra di questo persecutore del popolo e della religion de' cristiani. Però essi cristiani attribuirono alla onnipossente mano di [133] Dio la di lui caduta [Joannes Malala, in Chron. Alexand.], e il rappresentarono dipoi come trafitto con una lancia da san Mercurio martire. Fu portato il corpo dell'estinto Giuliano a Tarso di Cilicia [Gregor. Nazianzen., Orat. IV.], dove accompagnato da commedianti e buffoni (che tale era l'uso dei gentili) ebbe un'assai vile sepoltura, e per accidente fu posto vicino a quello di Massimino II Augusto, cioè di un altro fiero nemico della religion cristiana. Non si potrebbe abbastanza dire con che gioia dai popoli cristiani, con che dolore dai pagani fosse intesa la morte di questo empio imperadore. Libanio [Liban., in Vita sua. Idem, Orat. XI et XII.] confessa che fu vicino a darsi la morte a questo avviso; ma volle sopravvivere, per poterne far l'orazione funebre, ed in fatti la compose dipoi con impiegar la sua adulatoria eloquenza a dare risalto alle apparenti di lui virtù, e a caricarlo di lodi eccessive. Ma nè pur fra i cristiani mancò chi con migliore pennello lasciò dipinti i vizii e le iniquità di Giuliano; e questi fu san Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], il quale con soda facondia compose due celebri orazioni contra di lui, e ci lasciò un ritratto più somigliante al vero di quel che fecero i gentili.

Questo avvenimento poi, quanto men pensato, tanto più dovette recar di confusione non solo al medesimo Giuliano ferito, ma ancora al paganesimo tutto. Sforzaronsi ben Ammiano [Ammian., lib. 23, cap. 2.] e Libanio [Liban., de Templ.] per far credere che gli aruspici indovini e maghi, de' quali cotanto abbondava, e sì forte si fidava il superstizioso Augusto, osservarono più presagii della di lui vicina morte; ma il fatto grida in contrario. Certo è che Giuliano, badando a quegl'impostori, si prometteva gloriose vittorie, ed aveva già spedito Memorio presidente della Cilicia, perchè gli preparasse buon quartiere in Tarso, [134] dov'egli pensava di svernare. Si sa inoltre che egli avea minacciato un fiero scempio ai cristiani, tornato che fosse glorioso per la sognata vittoria de' Persiani. Fuor di dubbio è ancora che Giuliano [Ammian., lib. 22, cap. 12.] prima di uscire in campagna, e per tutto il viaggio, fece innumerabili sagrifizii, tanto per aver favorevoli gli insensati suoi dii, quanto per cercar nelle viscere delle vittime la cognizion dell'avvenire. Lo stesso Ammiano [Idem, ibid.] confessa ch'egli alle volte in un sol sacrifizio faceva scannar centinaia di buoi, ed innumerabili greggi d'altre bestie, e bianchi uccelli, cercati per mare e per terra, di modo che quasi non passava giorno, in cui colle carni di tanti animali uccisi non solamente s'ingrassassero i falsi suoi sacerdoti, ma ne sguazzassero ancora tutti i suoi soldati: spesa indicibile, condannata fin da quel medesimo storico gentile. Così nel celebre tempio di Carres dedicato alla Luna, per quanto narra Teodoreto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 21.], chiusosi Giuliano un giorno durante la suddetta spedizione, non si seppe cosa ivi facesse, se non che uscito, mise le guardie a quel luogo, con ordine di non lasciarvi entrar persona sino al suo ritorno. Venuta poi la nuova di sua morte, fu aperto il tempio, e vi si trovò una donna impiccata col ventre aperto, per qualche incantesimo fatto da Giuliano, o pure per cercar nelle di lei viscere quel che gli dovea succedere nella guerra co' Persiani. Che impostore solenne dovette mai essere il primo che fece credere, e trovò poi tanti che stoltamente credettero potersi nelle viscere degli animali scoprir l'avvenire de' fatti degli uomini e degli accidenti della vita! Che han che fare i fegati e polmoni delle bestie, sagrificate a caso, colle azioni umane, onde si potesse leggere quivi, come in un libro, le cifre di quel che dovea accadere? L'evento poi fece pur conoscere quante [135] fossero in ciò le illusioni di Giuliano, quanto vana la di lui fidanza ne' suoi idoli. Allorchè egli si credea vicino al colmo della gloria, e nel tempo stesso, come osservò il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che tutto il paganesimo immolava vittime per lui: eccolo steso a terra dalla destra di Dio, e andare in un fascio le sue glorie, e seco tutte le speranze de' gentili, i quali già si figuravano di dover calpestare la Croce, e rendere idolatra di nuovo il romano imperio. Perchè erano bene incamminate le lettere in questi tempi, si possono rammentare sotto il breve regno di Giuliano varii scrittori che registrarono le azioni di lui, come Ammiano Marcellino, Eunapio, Temistio e Libanio, celebri sofisti pagani. Abbiamo ancora alcuni libri del medesimo Giuliano pieni di satire e di buffonerie. Non resta più quello ch'egli scrisse contro la religione cristiana, ma bensì ne abbiamo la confutazione fatta da san Cirillo vescovo d'Alessandria. Altri sofisti e filosofi fiorirono allora, de' quali si son perdute le opere, e fu in credito ancora Oribasio medico, di cui si son conservati varii libri. Ma se i gentili coltivavano allora le lettere, non men di loro vi si applicarono i cristiani, fra' quali specialmente gran nome e venerazione venne ai santi Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, Cesario, Ilario e ad altri, dei quali parla la storia ecclesiastica e letteraria.

Trovavasi l'armata romana per l'imprudente condotta di Giuliano in grandissime angustie, perchè in un paese incognito e difficile; priva di vettovaglie, e senza sapere onde condurne; sminuita di molto per li patimenti e per le battaglie; attorniata tuttavia e continuamente infestata dall'armi persiane. A questi malanni si aggiunse l'inaspettata morte dell'imperadore: il perchè tutto era confusione ed affanno. Sì fiera contingenza obbligò gli uffiziali di esso esercito a [136] provvedersi di un capo senza perdere tempo; e perciò nel dì seguente, giorno 27 di giugno, concordemente elessero imperador Gioviano [Eutropius, in Breviar. Hieronymus, in Chronic.], ch'era allora capitan della guardia appellata de' domestici, personaggio di gran riputazione nella corte, e per la sua dolcezza, onoratezza e prudenza amato e stimato da ognuno [Aurelius Victor, in Epitome. Ammianus, lib. 25, cap. 7.]. Era stato suo padre Varroniano conte, nativo di Singidono città della Mesia, che aveva esercitata la stessa carica nella guardia de' domestici, e poi s'era ritirato per godere il resto dei suoi giorni in riposo [Themist., Orat. V.]. Anche il credito del padre contribuì non poco alla esaltazione del figliuolo. Secondo i conti di Eutropio, nacque Gioviano circa l'anno 331, e nelle medaglie [Du-Cange, Hist. Byz. Mediobarbus, Numism. Imper.] il troviamo chiamato Flavio Claudio Gioviano. Ci vorrebbe far credere Ammiano [Ammian., lib. 25, cap. 7.] che quasi accidentale fosse la di lui elezione, e molti se ne mostrassero malcontenti; e vorrà dire i pagani. Sparla ancora dei di lui costumi. Altrettanto fa Eunapio [Eunap., Vit. Sophist.]. Erano amendue gentili. Ma Zosimo [Zosimus, lib. 3 Hist., cap. 30.], che pur era anch'egli pagano, e Teodoreto [Theod., lib. 4 Hist., cap. 1.] lo attestano eletto di comune consentimento; e ciò vien confermato da Eutropio che si trovò in quell'armata. Cristiano di professione era Gioviano; e ricavasi da Socrate [Socrates, lib. 3 Hist., cap. 22.], che avendo l'apostata Giuliano intimato agli uffiziali di rinunziare alla religion cristiana, o pur ai lor impegni, Gioviano allora tribuno scelse l'ultimo partito. Ma perchè egli era uomo sperimentato nella milizia, gli conservò il suo posto. E di questo suo attaccamento una pruova gloriosa [137] diede egli appena creato imperadore [Rufin., Hist., lib. 3. Socrates. Sozomen. Theodoret.]. Imperocchè, senza temere la possanza de' generali e il capriccio dei soldati, protestò d'essere cristiano, e di non poter comandare ad un'armata, che avendo appresa da Giuliano l'empietà, ed essendo abbandonata da Dio, altro non dovea aspettarsi che l'ultimo eccidio. Al che risposero ad alta voce i soldati, con dichiararsi cristiani, perchè parte tali erano, e gli altri elessero di farsi. Quello che dipoi succedesse per conto della guerra co' Persiani, benchè spettante al presente anno, pure chieggo licenza di riferirlo al seguente.


   
Anno di Cristo CCCLXIV. Indizione VII.
Liberio papa 13.
Valentiniano e
Valente imperadori 1.

Consoli

Flavio Claudio Gioviano Augusto e Flavio Varroniano nobilissimo fanciullo.

Ebbe Gioviano Augusto per moglie Caritone, figliuola di Lucilliano generale rinomato in questi tempi, che gli partorì una figlia ed un figliuolo, nomato Varroniano, in età allora, per quanto si può raccogliere da Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.], di circa un anno. Conferì Gioviano a questo suo rampollo il titolo di nobilissimo fanciullo, e il volle console seco per l'anno presente; ma perchè coi vagiti e colla ripugnanza mostrò di non voler essere condotto nella sedia curale, i superstiziosi pagani presero ciò per un presagio di disgrazie. Tornando ora alle avventure dell'anno precedente, da che Gioviano fu proclamato Augusto, cominciò a pensare ai mezzi di salvare l'armata dall'evidente rischio di perire affatto o per le armi de' Persiani, o per la mancanza de' viveri [Ammian., lib. 25, cap. 5. Liban., in Vita sua.]. Intanto un alfiere [138] romano, tra cui e Gioviano erano passati dei disgusti, desertò, e portò al re Sapore la nuova della morte di Giuliano; che essendo eletto in luogo di lui un imperadore dappoco, era venuto il tempo di subissare i Romani. Animato da tali avvisi il Persiano, per tre giorni con tutte le sue forze inseguì la marcia del nemico esercito, non senza strage di molti Romani, ma sempre con perdita maggiore dal canto suo. Arrivò nel primo dì di luglio l'afflitta armata romana alla città di Dura, non lungi dal Tigri, e si stentò forte a tener in dovere le ammutinate milizie, che faceano istanza di passar tosto quel rapido fiume, benchè senza ponte, e prive affatto di barche, perchè la fame li pungeva, e toccava ai poveri cavalli uccisi di servir loro di pane. In questo miserabile stato, e in pericolo di restar tutti preda dei nemici, come si può conghietturare, mosso Iddio in riguardo del piissimo imperadore a pietà [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Theodoret., lib. 4, cap. 2. Socrates. Sozomenus.], fece che il re persiano spontaneamente inviò persone a Gioviano Augusto per trattar di pace [Ammianus, lib. 25, cap. 7.]. A tale spedizione si credè spinto Sapore dalla notizia d'essere stati in ogni scaramuccia e fatto d'armi perditori i suoi soldati, dal timore di peggio, e dal desiderio di liberare il suo paese da un sì poderoso nemico. Riconobbe lo stesso Ammiano, benchè nemico di Gioviano, per un favor particolare di Dio, una tale spedizione e dimanda, quando le apparenze tutte erano che Sapore potea finir la guerra colla total rovina dell'esercito romano. Trattossi dunque di pace nello spazio di quattro giorni; e perchè i Romani si trovavano in troppo svantaggio, e si udiva che Procopio, parente del defunto Giuliano, macchinava ribellione, fu astretto l'Augusto Gioviano a comperar dai nemici una pace vergognosa bensì per l'imperio romano, [139] ma necessaria [Eutrop., in Breviar.]. Gli convenne dunque restituire a' Persiani cinque provincie picciole con alcune castella che essi aveano già ceduto ai Romani sotto Diocleziano, ed inoltre abbandonar loro le città di Nisibi e di Singara, con ritirarne prima gli abitanti. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 31.] aggiugne che anche buona parte dell'Armenia passò allora in poter de' Persiani, ma ciò accadde in altro tempo. Non lasciarono gli scrittori pagani, cioè Ammiano, Eutropio e Zosimo, di processar Gioviano imperadore, quasichè con questo trattato di pace egli facesse perdere il credito al romano imperio, il cui chimerico dio Termine si gloriavano una volta i Romani che non rinculcava giammai. E pure abbiamo veduto che Adriano, Aureliano e Diocleziano abbandonarono ai Barbari varie provincie che già erano dell'imperio. Oltre di che, non si doveva a Gioviano attribuir questo infelice successo, ma bensì alla imprudenza e temerità di Giuliano, per aver fatta bruciar la flotta necessaria, e poscia impegnata l'armata romana così innanzi nel paese nemico, fatto altresì devastare da lui, senza aver punto di comunicazione col proprio, e senza prendere buone misure per l'importante sussistenza e provvisione de' viveri. In tali strettezze il consiglio si prende non dall'amore della gloria, nè dalla propria volontà, ma bensì dalla necessità e dall'arbitrio di chi gode il vantaggio. Che se da Eutropio [Eutrop., in Breviar.] è biasimato Gioviano, perchè dopo essere giunto in salvo non ruppe il trattato: di questa infame politica non si servono i principi veramente cristiani che rispettano Dio più della propria utilità, nè adoperano mai il giuramento per ingannare altrui, sapendo quando Iddio, chiamato in testimonio de' patti, abborrisca e gastighi gli spergiuri.

[140] Stabilita la pace e dati gli ostaggi, quietamente, ma con gran fatica e perdita di molte persone annegate, o morte di fame [Ammianus, lib. 25, cap. 8.], passò l'armata romana di là dal Tigri, e le convenne far tuttavia viaggio per sei giorni, senza trovar neppur acqua non che cibo, supplendo al bisogno l'erbe e la carne de' cammelli uccisi. Arrivati finalmente al castello d'Ur, trovarono ivi qualche rinfresco, finchè giunsero in siti da potersi ben satollare. Allora Gioviano Augusto spedì in Italia, nell'Illirico e nelle Gallie uffiziali a portar la nuova della sua esaltazione, distribuì i governi e le cariche. Giunto poi che fu a Nisibi, volle eseguita la capitolazione, consegnando a' Persiani quella ricca e popolata città, con trasportarne altrove gli abitanti: scena lagrimevole descritta da Ammiano [Idem, ibidem.] e da Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 33.], e più pateticamente dal Grisostomo [Chrysost., in Gentiles.], in guisa che intenerisce i lettori. Nel mese di ottobre finalmente pervenne ad Antiochia, il cui popolo, da che intese la morte dell'apostata Giuliano, avea fatta gran festa, gridando dappertutto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 22.]: Dio l'ha vinta, e Gesù Cristo con lui: con passar poi a dileggiare l'estinto odiato principe, e Massimo filosofo, e tutta l'altra ciurma degli incantatori e indovini che l'aveano burlato con tante loro promesse. Applicossi tosto il novello imperadore a ristabilire la pace della religione cristiana. Se vogliam credere a Temistio [Themistius, Orat. V.], egli permise ad ognuno la libertà di osservar quella che più gli piacesse, nè ai pagani vietò l'uso dei loro templi e sagrifizii. Altramente ne parla Socrate [Socrat., lib. 3 Histor., cap. 25.], con dire che d'ordine suo furono chiusi di nuovo i templi degl'idoli. Quel che è più, lo stesso Libanio [Libanius, Orat. XII.] [141] sofista, sì caro a Giuliano, confessa che dopo la morte di lui ognun poteva a man salva parlare contra de' falsi dii, e che i templi de' gentili restavano serrati e andavano in rovina; e che i sacerdoti filosofi e sofisti pagani erano maltrattati, derisi e imprigionati. Libanio anch'egli corse gran pericolo della vita [Liban., in Vita sua.], perchè non cessava di piangere e lodar Giuliano; ma il buon Gioviano non gli volle mai fare un reato di questo suo pazzo impegno. Furono dunque dal piissimo Augusto restituiti tutti i privilegii alle chiese, al clero, alle vergini e vedove sacre, e richiamati dall'esilio i vescovi cattolici, molti de' quali erano stati banditi dal perfido Giuliano, e massimamente l'insigne vescovo d'Alessandria sant'Atanasio [Gregor. Nazianz., Orat. XXI. Theodoret. Socrates.]. Andò egli a trovar Gioviano in Antiochia, e la sua presenza assaissimo giovò per preservare il di lui cuore dalle suggestioni degli ariani, de' macedoniani e degli altri eretici o scismatici di questi tempi. Ma che? Mentre il buon principe s'affatica per la tranquillità della Chiesa e per la pubblica felicità, ecco un'improvvisa morte troncar il filo di sua vita, e far abortire tutti i di lui gloriosi disegni. S'affrettava egli per venire in Occidente affin di mettere riparo alle sedizioni e rivolte che si temevano. Ed in fatti essendo egli pervenuto a Tiana nella Cappadocia, gli giunse avviso che Lucilliano suocero suo, creato ultimamente, o pure confermato generale dell'armi nell'Illirico [Ammian., lib. 25, cap. 10. Zosimus, lib. 3, cap. 35.], essendo passato nelle Gallie, quivi dai soldati batavi ammutinati era stato privato di vita. Valentiniano tribuno, ch'era seco, ebbe la fortuna di salvarsi, destinato da Dio per divenir imperadore fra pochi mesi. Di peggio non accadde nelle Gallie; e quei popoli spedirono poco dipoi deputati ad umiliar la loro ubbidienza a Gioviano. Trovossi l'Augusto principe [142] in Ancira, capitale della Galazia, nel primo giorno del presente anno, e quivi con solennità celebrò il consolato da lui preso col suo picciolo figliuolo Varroniano. Per tal congiuntura il sofista Temistio compose un'orazione che resta tuttavia. Ancorchè i rigori del verno dovessero persuadere a Gioviano il fermarsi in Ancira, tale nondimeno era la di lui premura per arrivare a Costantinopoli [Socrates, lib. 3, cap. 26. Zosimus, lib. 3, cap. 35. Sozom., lib. 6, cap. 6.], che non si potè trattenere dal continuare il viaggio. Ma pervenuto a Dadastana nei confini della Galazia e Bitinia, dove se gli presentò Temistio con altri senatori a lui spediti da Costantinopoli, nella notte del dì 16 venendo il 17 di febbraio, sorpreso da un maligno accidente, fu nella seguente mattina ritrovato morto, dopo aver regnato solamente sette mesi e venti giorni, in età, secondo Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.], di trentatrè anni. Varie furono le dicerie intorno alla cagion di sì funesto caso. Chi l'attribuì all'aver egli dormito in una camera poco dianzi imbiancata colla calce; chi all'odore del carbone acceso in esso per riscaldarla; altri ad un eccesso di mangiare fatto nel dì innanzi [Sozom. Orosius. Hieronym. et alii.]. Il Grisostomo [Chrysostom., Homil. XXV in Philipp.] ed altri parlano di veleno, o ch'egli fosse strangolato dalle guardie; e pare che Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.] stesso non si allontani da sì fatto sospetto. Fu poi portato a Costantinopoli il di lui corpo, ed onorevolmente seppellito nella chiesa degli Apostoli. Caritone Augusta sua moglie, che vivente non l'avea potuto vedere imperadore, lo accolse morto nel venirgli incontro a Costantinopoli. Si trova poi essa tuttavia viva nell'anno di Cristo 380 insieme col figliuolo Varroniano [Zonar., in Annalib. Cedrenus, Histor.], a cui nondimeno era stato cavato un occhio, [143] affinchè non osasse un dì pretendere all'imperio, vivendo egli nondimeno sempre in timore di qualche peggior trattamento che venisse consigliato dall'iniqua politica del mondo.

Stettero gli uffiziali dell'armata romana dopo la morte di Gioviano per nove o dieci giorni senza principe, consultando sempre chi fosse degno di sì eccelsa dignità. Varii furono i candidati; ma in fine i voti concordi andarono a cadere in Valentiniano, per opera specialmente di Sallustio Secondo, prefetto del pretorio d'Oriente, e d'Arinteo e Dagalaifo generali delle armi [Ammianus, lib. 26, cap. 1, et lib. 30, cap. 7.]. Per patria sua riconosceva Flavio Valentiniano (che così egli è nominato nelle iscrizioni e medaglie) Cibala città della Pannonia; per padre Graziano, il quale nato di famiglia ignobile, ma dotato d'una gran forza, per varii gradi della milizia era giunto ad essere conte dell'Africa. E quantunque sotto Costanzo Augusto, mentr'egli era comandante dell'armi nella Bretagna, fosse spogliato de' suoi beni, siccome incolpato d'aver accolto in sua casa Magnenzio poco prima della di lui ribellione: non però di meno fu egli sempre in grande stima tra le persone militari, e il credito suo giovò al figliuolo per salire sul trono. Anche Valentiniano, nato circa l'anno di Cristo 321, per la via dell'armi fece il noviziato della sua fortuna, mostrando in varie occasioni non men coraggio che perizia dell'arte militare [Zosimus, lib. 3, cap. 36.]. Per una calunnia del general Barbazione, Costanzo Augusto il cassò nell'anno 357, levandogli un corpo di cavalleria, a cui nelle Gallie comandava in grado di tribuno. Sotto Giuliano esercitò la carica di tribuno d'una compagnia delle guardie d'esso Augusto, nel cui servigio gli occorse un glorioso accidente che fece molto parlare di lui [Zosim., lib. 4, cap. 2. Sozomenus, lib. 4, cap. 6. Theodoret., lib. 3, cap. 12.]. Trovandosi esso Giuliano in Antiochia, ed entrando in un [144] tempio degl'idoli, un di que' sacerdoti che spargeva dell'acqua sopra chi l'accompagnava come per purificarlo (rito antichissimo santificato nella religion cristiana) con una goccia toccò la veste di Valentiniano. Era questi di profession cristiano, e però sembrandogli d'essere contaminato per quell'acqua spruzzata dalle mani di un idolatra, il quale forse anche caricò la mano appunto perchè sapea che egli era cristiano, gli disse una mano d'ingiurie; e v'ha chi crede che gli desse un pugno, o pure che si tagliasse quel pezzo dell'abito, dov'era caduta l'acqua. Fu osservato da Massimo filosofo pagano, che ne informò tosto Giuliano. Irritato l'apostata Augusto per tale sprezzo del rituale gentilesco, ordinò a Valentiniano di sagrificare agl'idoli, o pure di dimenticare la carica. Generosamente elesse egli la perdita di tutto piuttosto che di mancare alla fede verso Dio, il qual poi per tanta fedeltà il ricompensò sulla terra, e più dovette farlo in cielo [Orosius, lib. 7, cap. 32. Sozomenus. Theodor. Philost.]. I più degli antichi tengono che Giuliano il cacciasse in esilio; ma questo non è certo. Di sopra accennammo che Valentiniano sotto l'Augusto Gioviano accompagnò nelle Gallie il generale Lucilliano, e per buona ventura scappò dalle mani de' Batavi, allorchè nella città di Rems tolsero la vita ad esso Lucilliano. Essendo egli poi venuto a trovar Gioviano in Oriente, creato capitano della seconda compagnia delle guardie, restò in Ancira con ordine di tener dietro all'imperadore dopo qualche tempo. Ma venuto a morte Gioviano, ed essendosi accordati i principali dell'esercito ad eleggere lui per Augusto, giunsero i deputati ad Ancira con questa lieta nuova, facendogli istanza che s'affrettasse a raggiungere l'armata, la quale con impazienza l'aspettava in Nicea, capitale in questi tempi della Bitinia (ma senza pregiudizio di Nicomedia), dove era seguita la di lui elezione.

[145] Arrivò Valentiniano nel dì 24 di febbraio a Nicea, ma nel dì seguente non volle farsi vedere in pubblico, se è vero ciò che scrive Ammiano [Ammian., lib. 26. cap. 1.], perchè nel dì 25 di febbraio di quest'anno correva il bissesto, e per una ridicola superstizione doveano i Romani d'allora crederlo giorno di cattivo augurio. Ora nel dì 26, essendo schierato l'esercito romano fuor di Nicea, montò Valentiniano sopra un palco alla vista di tutti, e con incessanti acclamazioni fu dichiarato Augusto, vestito della porpora ed ornato col diadema. Fece egli cenno di voler parlare; ma i soldati, senza lasciarlo dire, rinforzarono le grida, con esigere ch'egli in quel punto dichiarasse un collega nell'imperio, non volendo più restar senza capo, se l'imperatore per disavventura mancasse di vita. Parevano anche disposti a violentarlo, ma egli senza punto lasciarsi intimidire, allorchè potè farsi intendere, intrepidamente disse [Ammianus, lib. 26, cap. 2. Sozomen. Theodoret. Philostorg.], che dianzi dipendeva da essi il creare lui imperadore; ma da che aveano creato lui tale, a lui toccava il pensare a quel che più conveniva al pubblico bene; non ricusar già egli di prendere un collega, ma che un affare di tanta importanza esigeva matura considerazione: e così cessò il tumulto. Ci vien dipinto Valentiniano Augusto da Aurelio Vittore [Aurel. Victor., in Epitome.] per uomo di bell'aspetto, nel cui portamento ed operare compariva la gravità ed un ingegno svegliato, inclinante alla severità e alla collera. Poco parlava, ma quel poco bene e con proprietà, ancorchè, se vogliam credere a Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 36.], egli non avesse studiato lettere, e nè pur sapesse bene il greco, come pare che si ricavi da Temistio [Themistius, Orat. VI.]. Si osservò sempre in lui un abborrimento ai vizii e alla avarizia. Pratico dell'arte militare degli antichi, andava [146] studiando nuove armi da offesa e difesa. Dilettavasi di lavorare statue di terra; e nella guerra compariva sperto in valersi de' luoghi, de' tempi e di ogni menoma occasione per cavarne profitto. In somma tante doti in lui concorrevano, che s'egli avesse tenuto in sua corte uomini professori di onoratezza al pari di lui, e che gli avessero detta la verità, in vece di altri infedeli da lui presi, credendoli di buona legge, avrebbe potuto gareggiare coi più accreditati regnanti. Certo è che, nel mediocre impiego ch'egli esercitava, non dovea immaginare un sì glorioso ascendente, o almeno non dovette far brighe per ottener l'imperio, trovandosi allora lontano dall'armata; anzi Vittore sembra dire ch'egli fece anche della difficoltà ad accettarlo. Comunque sia, alzato al trono, egli riconobbe dalla mano di Dio l'esaltazione sua e gliene mostrò da lì innanzi la sua gratitudine, con proteggere la Chiesa e dottrina cattolica [Sozom., lib. 6, c. 12. Socrat., lib. 4. cap. 1.], e con tener basso il paganesimo: intorno a che molte sue leggi abbiamo, non però di molto peso, perchè egli, sto per dire, non volea che la religione sconciasse la politica sua. Le stesse sue azioni dipoi mostrarono che non erano assai radicati in suo cuore i documenti del Vangelo. Ora egli non tardò ad impiegar le sue applicazioni per togliere gli abusi introdotti ne' tempi addietro, come consta da molte sue leggi [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.] di questo medesimo anno, a noi conservate nel Codice Teodosiano, le quali ci fanno nello stesso tempo conoscere il progresso del suo viaggio da Nicea a Costantinopoli, e di là sino a Milano.

In Costantinopoli appunto volle Valentiniano soddisfare alle premure dell'esercito, con eleggersi un collega [Ammianus, lib. 26, cap. 4.]. Se n'era trattato in un gran consiglio tenuto in Nicea, dove niuno osò di scoprire il suo interno, a riserva di Dagalaifo, il quale animosamente gli disse [147] che se egli amava la propria famiglia, non gli mancava un fratello; ma se il pubblico bene, cercasse il migliore. Dichiarossi appunto Valentiniano in favor del fratello, cioè di Flavio Valente, nel dì 28 marzo [Idacius, in Chronic. Chronicon Alexandr.], e gli diede la porpora e il diadema in un luogo lontano dalla città sette miglia, e perciò appellato Hebdomon. Era anch'egli cristiano, e, secondo Teodoreto [Theodor., lib. 4, cap. 11.], seguitava allora i dogmi del Concilio Niceno, ma col tempo divenne persecutore del cattolicismo, con lasciarsi sovvertir dagli Ariani, dei quali comparve sempre gran protettore. Fu applaudita allora, almeno in apparenza, da tutti l'elezion di Valente, come utile all'imperio; ed in fatti la concordia, che passò da lì innanzi fra i due fratelli nel governo, parve cosa mirabile, e giovò non poco al pubblico. E di vero meritò non poca lode Valente per aver sempre conservata una fedel dipendenza dal fratello maggiore, nulla di rilevante operando senza consultarlo, ed ubbidendo ai cenni, come avrebbe fatto un suddito col principe suo. Scrive Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 1.] che nel viaggio da Nicea a Costantinopoli Valentiniano si ammalò. Ammiano [Ammian., lib. 16, cap. 4.], più autentico scrittore, racconta che dopo la promozione suddetta amendue gli Augusti fratelli furono presi da gagliarde febbri: il che fece lor sospettare originata la lor malattia da qualche fattucchieria lor fatta dagli amici del defunto Giuliano. Perciò fu data incumbenza ad Orsacio maestro degli ufficii, o sia maggiordomo, uomo crudo, e a Giuvenco questore, di esaminar questo affare. Nulla si scoprì; e contuttochè fossero denunziate molte persone illustri, pure la destrezza di Sallustio Secondo, prefetto del pretorio, tagliò le gambe a tutti i processi. Per altro erano i due principi assai portati ad odiare chiunque avea goduto della grazia ed [148] amicizia di Giuliano; e però non la poterono scappare nell'anno seguente Massimo e Prisco filosofi, che più degli altri erano stati confidenti dell'Apostata, e riguardati di mal occhio anche dal popolo. Prisco fu rimandato alla Grecia, come innocente [Eunap., Vit. Sophist. cap. 5.]; Massimo condannato alla prigionia, finchè avesse pagato una grossa pena pecuniaria. Avendo amendue gli Augusti ricuperata la sanità e le applicazioni ad affari più importanti, fecero poco dappoi cessar quel rumore e i processi suddetti.

Venuta la primavera, si misero essi in viaggio alla volta dell'Occidente, e sul fine d'aprile apparisce da una lor legge [L. 5, de re militar., Cod. Theod.], che erano in Andrinopoli. Di là passati a Filippopoli, a Serdica, e finalmente a Naisso della Dacia nuova; quivi nel castello di Mediana, lontana da Naisso tre miglia, divisero fra loro il governo dell'imperio [Ammianus, lib. 16, cap. 5.]. Valentiniano ritenne per sè l'Italia, l'Illirico, le Gallie, le Spagne, la Bretagna e l'Africa. A Valente cedette le provincie dell'Asia tutta, coll'Egitto e colla Tracia. Partirono anche fra loro le milizie e gli uffiziali, con avere Valentiniano voluto al suo servigio Dagalaifo generale dalla cavalleria, Giovino general delle milizie delle Gallie. Equizio ch'ebbe poi il comando dell'armata dell'Illirico, Mamertino prefetto del pretorio dell'Illirico, dell'Italia ed Africa, e Germaniano prefetto del pretorio delle Gallie. Con gran vigore e credito di molta giustizia avea Lucio Turcio Aproniano esercitata la carica di prefetto di Roma. Egli ebbe in quest'anno per successore Cajo Cejonio Rufio Volusiano, che poco dovette godere di tal dignità, perchè molte leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] ci fan vedere prefetto di Roma Lucio Aurelio Avianio Simmaco, pagano di credenza, e padre di quel Simmaco, parimente pagano, che [149] riuscì celebre per varie cariche e per la letteratura, di cui ci restan le lettere. Se noi ascoltiamo Ammiano [Ammianus, lib. 26, cap. 5.], in questi tempi l'imperio romano si trovava da più parti infestato dai Barbari: il che accrebbe i motivi a Valentiniano di non differir la elezione del collega. Cioè nella Gallia e nella Rezia le scorrerie degli Alamanni recavano frequenti danni. Dai Sarmati e Quadi era infestata la Pannonia: la Bretagna dai Sassoni, Pitti ed Atacotti, popoli bellicosi di quella grand'isola. Nè da somiglianti mali andava esente l'Africa, perchè varie nazioni more di tanto in tanto correvano a darle il sacco. I Persiani poi dal canto loro aveano mossa guerra ad Arsace re dell'Armenia, con pretesto di poterlo fare in vigor della pace stabilita con Gioviano, ma ingiustamente, come scrive Ammiano. A cagion di tali turbolenze si affrettò Valentiniano di venire a Milano, per istar vicino e pronto per accorrere dove maggior fosse il bisogno. Chi vuole apprendere i buoni regolamenti fatti da lui in quest'anno, non ha che leggere nel Codice Teodosiano varie sue leggi spettanti a questi tempi. Non piacquero già ai popoli cattolici due di esse. Coll'una [Lib. 7, de Maleficis, Cod. Theod.] proibì ai pagani solamente i lor sacrifizii notturni, ma non già quei del giorno; ed altronde si sa che la sua politica, tuttochè certamente egli fosse buon cattolico, e favorisse la vera Chiesa, il portò a lasciare ad ognuno la libertà della coscienza, e a non inquietar veruno per cagion di religione [Sozom., lib. 6, cap. 21. Socrates, lib. 4, cap. 1.]. Per questa indifferenza fu egli processato dal cardinale Baronio. Coll'altra legge [L. 17, de Episcopis, Cod. Theodos.] proibì ai vescovi di ricevere nel clero le persone ricche, sì perchè non si pregiudicasse al bisogno del pubblico per gli magistrati, e perchè i lor beni non colassero nelle chiese. Solamente [150] permise a quei che poteano essere decurioni (erano questi, per così dire, il senato d'ogni città) di farsi chierici, con sostituire qualche lor parente, a cui lasciassero i lor beni, o pure con cedere al pubblico essi beni. Ma forse questa legge, fatta per la provincia Bizacena dell'Africa, fu un regolamento particolare, nè si stese a tutto l'imperio.


   
Anno di Cristo CCCLXV. Indizione VIII.
Liberio papa 14.
Valentiniano e
Valente imperadori 2.

Consoli

Flavio Valentiniano e Flavio Valente Augusti.

Siccome si ricava dalle leggi del Codice Teodosiano, la prefettura di Roma per gli cinque primi mesi fu appoggiata a Simmaco, e dopo lui a Volusiano, de' quali si è parlato di sopra. Per buona parte dell'anno presente si fermò l'Augusto Valentiniano in Milano; e ch'egli facesse una scorsa per varie città d'Italia, si scorge da alcune sue leggi [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theod.] date in Sinigaglia, Fano, Verona, Aquileia e Liceria, che non può essere quella del regno di Napoli, e forse fu Luzzara, terra del Mantovano, ossia del Guastallese. Nelle date nondimeno di quelle leggi si osserva qualche sbaglio [Ammian., lib. 26, cap. 5.]. Passò dipoi Valentiniano nelle Gallie, e andò a posare in Parigi; veggendosi ancora qualche legge data in quel luogo, che a poco a poco crescendo di abitatori nel sito fuori dell'isola della Senna, divenne poi famosissima città. I movimenti degli Alamanni quei furono che trassero l'imperador nelle Gallie. Imperocchè que' popoli avendo spediti i lor deputati di buon'ora alla corte per rallegrarsi con Valentiniano, in vece [151] di riportare a casa dei regali suntuosi, com'era il costume, non ne ebbero che pochi e di poco prezzo. Furono anche trattati con asprezza da Orsacio, maggiordomo dell'imperadore, a cui fumava presto il commino. Il perchè disgustati, per vedersi poco apprezzati da quell'Augusto, rifiutarono quei doni, e poi furiosamente cercarono di vendicarsene addosso agl'innocenti loro confinanti della Gallia, e fecero leghe con altre nazioni barbare, istigandole tutte ai danni dell'imperio romano. Comandò Valentiniano che il generale Dagalaifo marciasse coll'armata contra di essi Alamanni; ma questi li ritrovò già ritirati di là del Reno. Era vicino il primo dì di novembre, quando ad esso Augusto arrivò la dispiacevol nuova che Procopio s'era ribellato in Levante contra del fratello Valente, con impadronirsi di Costantinopoli. Per timore che costui non volgesse le armi verso l'Illirico, che era di sua giurisdizione, spedì Valentiniano colà Equizio, creato general delle milizie di quel paese, con buon numero di truppe, ed egli stesso facea già i conti di tenergli dietro; ma non meno i suoi consiglieri che i legati di varie città galliche il trattennero, con rappresentargli il pericolo, a cui restavano esposte le Gallie; e con fargli conoscere che Procopio era nimico di lui e del fratello, ma che gli Alamanni erano nemici di tutto l'imperio romano. Perciò si fermò, e solamente andò a Rems. Ed affinchè non penetrasse nell'Africa il turbine mosso in Oriente, spedì colà Neoterio, che fu poi console nell'anno di Cristo 390, ed altri uffiziali, raccomandando loro che ben vegliassero alla quiete di quelle contrade. Molte leggi abbiamo pubblicate da esso Augusto in quest'anno, e registrate nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.], colle quali proibì il condannare alcun cristiano a fare da gladiatore; siccome ancora l'esigere danaro dalle provincie per regalare chi [152] portava le nuove di qualche vittoria, o dei consoli novelli. Parimente levò i privilegii de' particolari, volendo che ognun portasse il suo peso ne' pubblici aggravii. Inventò ancora i difensori delle città, acciocchè proteggessero il popolo contro la prepotenza de' grandi, e decidessero anche le lor liti di poco momento. Questa istituzione fatta per bene del pubblico durò poi gran tempo, e cagion fu che anche gli ecclesiastici ottenessero dagli Augusti dei difensori per assistere ai lor interessi ne' tribunali.

Per conto di Valente imperadore, sul principio dell'anno presente egli procedè console in Costantinopoli, e venuta la primavera passò nell'Asia, perchè facendo i Persiani guerra viva all'Armenia, le apparenze erano che volessero rompere la pace già stabilita da Gioviano, ed assalir le terre del romano imperio. I fatti mostrarono che tale non era la loro intenzione. Ancorchè Socrate [Socrat., lib. 4, cap. 2.] scriva che Valente giunse ad Antiochia, pure abbiamo da Ammiano [Ammianus, lib. 26, cap. 7.] che s'incamminò bensì a quella volta, ma poi si fermò a Cesarea di Cappadocia, dove cominciò a farsi conoscere parziale assai caldo degli Ariani, e persecutor dei Cattolici. Mentre egli dimorava in quelle parti, un fierissimo tremuoto nel dì 21 di luglio, secondo Ammiano ed Idazio [Idacius, in Chron.], oppure nel dì 21 d'agosto, come ha la Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.], si fece sentire per tutto l'Oriente. San Girolamo [Hieronymus, in Chronic.] scrive per tutto il mondo; il che ha ciera d'iperbole, tuttochè anche Teofane [Theophan., in Chronogr.] coi termini stessi ne parli. Amendue lo riferiscono all'anno seguente, quando pure non fosse cosa diversa. In Alessandria il mare sì stranamente si gonfiò, che portò le navi sopra le case e mura più alte (ancor questa possiam contarla [153] per una iperbole), e poscia con pari reflusso retrocedendo lasciò quei legni in secco. Accorsero quei cittadini (i quali doveano pure essere stati tutti annegati, se vera fosse la prima parte) per dare il sacco alle merci; ma ritornando indietro l'acqua, tutti li colse ed annegò. Gran danno è scritto ancora che patirono l'isole di Sicilia e Creta. Soggiornava tuttavia in Cappadocia Valente [Ammianus, lib. 36, cap. 7.], quando arrivò per le poste Sofronio, uno de' suoi segretarii, che poi fu creato prefetto di Costantinopoli, portandogli la funesta nuova della sollevazione e ribellion di Procopio. Era costui d'una famiglia illustre della Cilicia, e parente dell'apostata Giuliano [Idem ib., cap. 6.], uomo d'umor melanconico, e riconosciuto prima d'ora per cervello capace di far delle novità. Già il vedemmo lasciato da esso Giuliano nella Mesopotamia con Sebastiano generale al comando di un'armata di trenta mila persone, mentre esso Giuliano marciava coll'altro maggior esercito contro i Persiani. Ebbe poi da Gioviano Augusto l'incumbenza di condurre il corpo dell'estinto Giuliano alla sepoltura di Tarso. Fu creduto (e lo racconta Ammiano) che nel tempio di Carres segretamente Giuliano gli avesse donata una veste di porpora, con dirgli di vestirsene e di farsi proclamar imperadore, in caso che accadesse la morte sua. Aggiunsero altri che Giuliano negli ultimi disperati momenti di sua vita il dichiarasse suo successore; il che si niega da Ammiano. Ma per quel che riguarda la porpora, Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 4.] racconta che Procopio, dappoichè fu eletto Gioviano Augusto, andò a presentargliela, e nello stesso tempo il pregò di lasciarlo ritirare colla sua famiglia a Cesarea di Cappadocia, per menar ivi una vita privata, ed attendere all'agricoltura, perchè in quelle parti vi possedea molti stabili. Vero o falso che fosse l'affare di [154] quella porpora, si dee ben credere sparsa voce ch'egli avesse aspirato all'imperio, e però si appigliò al partito della ritirata. Ma nè pur credendosi sicuro in Cappadocia, passò di poi nella Taurica Chersoneso, oggidì la Crimea; e conoscendo fra poco tempo che non era da fidarsi di que' Barbari infedeli, e trovandosi anche in necessità, venne a nascondersi in una villa vicina a Calcedone in casa d'un amico suo, nominato Stratego. Di là passava talvolta travestito a Costantinopoli; e raccogliendo quanto si diceva dell'avarizia di Valente Augusto, e della crudeltà di Petronio suocero di esso imperadore, s'avvide che il popolo era mal soddisfatto del presente governo, e questo essere il tempo di tentare un gran giuoco, giacchè non sapea più lungamente sofferire quel suo infelice stato di vita. Gli accrebbe ancora l'animo la lontananza di Valente; e però passato in Costantinopoli, e guadagnato un eunuco assai ricco [Ammianus, lib. 26, cap. 7. Zosimus, lib. 4, cap. 4. Themist., Orat. VII.], si diede a conoscere ad alcuni soldati suoi vecchi amici, ed animosamente si fece proclamare imperadore Augusto. Niun forse giammai sì temerariamente cominciò una sì grande e pari impresa, perchè senza gente, senza denaro e senza altre disposizioni, per andare innanzi e sostenersi. Eppur si vide costui secondato dalla fortuna, perchè a forza di artifizii, di bugie, di promesse, e di far venir di qua e di là persone che asserivano morto Valentiniano, ed incamminati rinforzi di gente in aiuto suo, egli giunse a tirare nel suo partito [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5.] un'incredibil quantità di soldati, o disertori, o tratti dalla plebe, in maniera tale, che i primarii dell'imperio dubitavano già che egli potesse prevalere a Valente. Uno degli artifizii suoi ancora fu, che avendo trovato in Costantinopoli Faustina Augusta, vedova dell'imperador Costanzo, con [155] una sua figliuola di età di cinque anni [Ammian., lib. 26, cap. 7.], vantandosi suo parente, la facea venir seco in lettiga ai combattimenti, e mostrava ai soldati quella fanciulletta, per isvegliar in loro la cara memoria di Costanzo Augusto.

Non solamente venne Costantinopoli in poter di Procopio, ma anche la Tracia tutta, e gli riuscì ancora di occupar Calcedone e Nicea, ed in fine tutta la Bitinia, e di guadagnare con mirabil destrezza un corpo di milizie che era stato spedito contra di lui. Valente imperadore, siccome principe allevato sempre nell'ozio e nella pace, e di poco cuore, a tali avvisi, accresciuti anche dalla fama, restò sì sbigottito, che già gli passava per mente di deporre la porpora. Pure animato da' suoi, inviò Vadomario, già re degli Alamanni, all'assedio di Nicea. Ma Rumitalca, che la difendeva per Procopio, con una sortita il fece ritirar più che in fretta. Portossi lo stesso Valente all'assedio di Calcedone, dove non riportò se non delle fischiate e degli scherni ingiuriosi da quei difensori, e fu anch'egli costretto a battere la ritirata. Accadde poi un caso curioso. Essendosi Arinteo, uno de' bravi generali di Valente, incontrato in una brigata nemica, comandata da Iperechio, in vece di assalirla con l'armi, con quel possesso ch'egli usava ne' tempi addietro con quei soldati desertori, loro comandò di condurgli legato il lor capitano, e fu ubbidito. Quel nondimeno che sconcertò non poco gli affari di Valente, fu che essendosi ritirato Sereniano suo uffiziale nella città di Cizico colla cassa di guerra, con cui dovea pagar le armate imperiali, un grosso corpo di gente di Procopio quivi il colse, ed, espugnata la città, si impadronì di tutto quel tesoro. Fece inoltre esso Procopio votar la casa di Arbezione, già uno de' generali d'armata sotto Costanzo, che non si era voluto presentare a lui, colla scusa della vecchiaia e degli acciacchi suoi. Valsero [156] un tesoro tutti que' preziosi suoi mobili. Diede poscia Procopio in proconsole all'Ellesponto Ormisda, figliuolo di quell'Ormisda che già vedemmo fratello di Sapore re di Persia, e rifugiato presso i Romani. Intanto arrivò il verno, ed altro più per allora non seppe far Procopio [Themist., Orat. VII.], che caricar d'imposte i popoli, e lasciar la briglia alla già coperta sua malignità e fierezza, per cui cominciò a calar ne' sudditi l'avversione a Valente, e si svegliò l'odio contra dell'iniquo usurpatore. Sembra ancora ch'egli pubblicasse qualche editto pregiudiziale ai filosofi, avvegnachè anch'esso pretendesse d'essere un gran filosofo. In segno di ciò portava un'assai bella barba, in cui consisteva tutta la di lui filosofia.


   
Anno di Cristo CCCLXVI. Indizione IX.
Damaso papa 1.
Valentiniano e
Valente imperadori 3.

Consoli

Graziano, nobilissimo fanciullo e Dagalaifo.

Amendue questi consoli appartengono all'Occidente. Sembra che Pretestato fosse prefetto di Roma. Il Panvinio ci dà Lampadio, e poscia Juvenzio; ed in fatti la prefettura di Juvenzio vien confermata da Ammiano. Accadde [Pagius, Crit. Baron.] nel dì 24 di settembre dell'anno presente la morte di Liberio papa, il quale nei torbidi della religione non avea fatto comparire quel petto, per cui sono stati sì commendati tanti altri suoi antecessori e successori. Si venne all'elezione di un novello pontefice, ma questa non succedè senza un lagrimevole scisma [Baron., Annal. Eccl. Fleury, Hist. Eccl. Tillemont, Mémoires de l'Hist. Eccl.], avendo una parte eletto Damaso diacono della Chiesa romana, personaggio dignissimo; ed un'altra Ursino, appellato da altri, contro la fede de' manuscritti, Ursicino, diacono [157] anch'esso della medesima chiesa. Per questa divisione in gravissimi sconcerti si trovò involta Roma, e ne seguirono ferite ed ammazzamenti non pochi, tanto dell'una che dell'altra arrabbiata fazione, e fino nelle chiese sacrosante. Chi ne attribuì la colpa a Damaso, e chi ad Ursino; ma in fine riconosciuta la buona causa e l'innocenza di Damaso, la quale si vide allora esposta a non poche calunnie dei suoi avversarii, restò egli pacifico possessore della sedia di s. Pietro, e governò da lì innanzi con gran plauso la Chiesa di Dio. Celebri sono in questo proposito le parole e riflessioni di Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 27, cap. 8.], scrittore pagano, e però nulla mischiato in quelle sanguinose fazioni. Racconta egli che per questa maledetta gara in un sol giorno nella sacra basilica di Sicinio si contarono fin cento trentasette cadaveri; nè Juvenzio, prefetto di Roma, fu con tutta la sua autorità bastante a reprimere la matta inviperita plebe, anzi convenne a lui stesso di ritirarsi fuori della città nei borghi, per non restar vittima del loro furore. Scrive dunque Ammiano: Quanto a me, considerando il fasto mondano, con cui vive chi possiede in Roma quella dignità, non mi maraviglio punto, se chi la sospira, non perdoni a sforzo ed arte alcuna per ottenerla. Perocchè ottenuta che l'hanno, son certi di arricchirsi assaissimo mercè delle oblazioni delle divote matrone romane, e che se n'anderanno in carrozza per Roma a lor talento, magnificamente vestiti, e terranno buona tavola, anzi faranno conviti sì suntuosi, che si lasceranno indietro quei dei re ed imperadori. E non s'avveggono che potrebbono essere felici, se senza servirsi del pretesto della grandezza e magnificenza di Roma, per iscusar questi loro eccessi, volessero riformar il loro vivere, seguitando l'esempio di alcuni vescovi delle provincie, i quali colla saggia frugalità nel mangiare e bere coll'andar poveramente vestiti, e con gli occhi dimessi e rivolti alla terra, rendono [158] venerabile e grata non meno all'eterno Dio, che ai veri suoi adoratori, la purità de' lor costumi, e la modestia del loro portamento. Così Ammiano. Noi, secondo l'usanza, se miriamo eccessi ne' pastori della Chiesa e vizii nel popolo, subito caviam fuori i primi secoli della religion cristiana, come lo specchio di quel che si dovrebbe fare oggidì; e certo è che grandi esempi di virtù s'incontrano in que' tempi; ma nè pur mancavano allora i vizii e i mali dei nostri dì, e le opere di Eusebio Cesariense, e dei santi Gregorio Nazianzeno, Giovanni Grisostomo e Girolamo, per tacer d'altri, ci assicurano non essere stati sì fortunati i lor tempi, che facciano vergogna ai nostri. L'ambizione è mal vecchio; e dove son ricchezze sempre sono tentazioni. Lo stesso romano pontificato già era divenuto un maestoso oggetto dei desiderii mondani; ed è altresì famoso ciò che s. Girolamo [S. Hieron., Epist. LXI.] racconta di Pretestato, uno de' più nobili romani, che fu proconsole, e circa questi tempi prefetto di Roma, e morì poi console disegnato. Essendo egli pagano, papa Damaso l'andava esortando ad abbracciare la religione cristiana: ed egli allora ridendo rispose: Fatemi vescovo di Roma, ch'io tosto mi farò cristiano.

Continuò Valentiniano Augusto in questo anno ancora il soggiorno nelle Gallie, dimorando per lo più nella città di Rems, dove si veggono date alcune leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], per opporsi, occorrendo, ai non mai quieti Alamanni. Sul fine dell'anno precedente avea quella gente [Ammian., lib. 27, cap. 1.], senza essere ritenuta dal verno, fatta un'irruzione nel paese romano. Cariettone e Severiano conti, che guardavano quei confini, colla gente di lor comando cavalcarono contra di essi, e vennero alle mani. Andò a finir la zuffa colla morte di que' due conti e di altri Romani, colla fuga del resto, e colla perdita della [159] bandiera degli Eruli e Batavi, portata poi da que' Barbari come in trionfo a casa loro. Con rabbia e dolore inteso che ebbe tal fatto Valentiniano, diede ordine a Giovino, generale della cavalleria, di marciare contra de' nemici, probabilmente nella primavera dell'anno presente. Giunto questi fra Tullo e Metz, all'improvviso piombò addosso al maggior corpo di que' Barbari e gran macello ne fece. Trovò dipoi un altro corpo d'essi che dopo il sacco stava a darsi bel tempo, e a questi ancora fece provare il taglio delle spade romane. Vi restava il terzo corpo d'essi Alamanni verso Sciallon. Fu a visitarli Giovino, e li trovò coll'armi in pronto per far testa. Venuta dunque l'aurora, messe le sue schiere in ordinanza di battaglia, fece dar fiato alle trombe. Durò per tutto il giorno l'ostinato combattimento colla rotta in fine de' Barbari, dei quali restarono sul campo sei mila, e quattro mila se ne andarono feriti. De' Romani si contarono mille e dugento morti, e dugento soli feriti: il qual ultimo numero par ben poco. Preso il re di quella gente nel dare il sacco al campo loro, fu fatto impiccare senza saputa del generale, da un tribuno, il quale corse pericolo di perdere la testa per questa sua prosunzione. Abbiam tutto questo da Ammiano, la cui autorità val più che quella di Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 9.], diversamente parlante di questi fatti, con dire che Valentiniano stesso in persona diede battaglia agli Alamanni, e che finì la zuffa con suo svantaggio. Avendo cercato per colpa di chi, trovò rea di tal mancamento la legione de' Batavi, cioè degli Olandesi, che, siccome dicemmo, aveano lasciata in man de' nemici l'insegna. Il perchè alla vista di tutto l'esercito ordinò che i Batavi fossero spogliati delle armi e come tanti schiavi dispersi per le altre legioni. S'inginocchiarono tutti chiedendo misericordia, pregando che non volesse caricar di tanto obbrobrio quella gente e l'armata tutta; e tanto [160] dissero, promettendo d'emendare il fallo, che ottennero il perdono. Il che fatto, tornò Valentiniano ad assalire i nemici con tal bravura, che un'infinita moltitudine d'essi vi restò tagliata a pezzi, e pochi poterono portar l'avviso di tanta perdita al loro paese. Vero sarà ciò che riguarda i Batavi, ma non già l'essere intervenuto a que' fatti d'armi lo stesso imperadore. Anche Idazio [Idacius, in Fastis.] di questa vittoria riportata contra degli Alamanni lasciò memoria.

In Oriente all'aprirsi della buona stagione si mise in campagna Valente Augusto, per procedere contra del tiranno Procopio [Ammianus, lib. 26, c. 9.]; e perchè conobbe quanto potesse in tal congiuntura giovare ai propri interessi Arbezione, vecchio generale, conosciuto ed amato dalle milizie, fattolo chiamare, a lui diede il comando dell'armata. Ottima risoluzione che produsse tosto buon frutto. Era Arbezione irritato forte contra di Procopio pel sacco dato alla sua casa; e non tralasciò diligenza alcuna per ben servire a Valente. Tirò egli al suo partito Gomeario, uno dei generali di Procopio. Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 8.] scrive che ciò avvenne in una battaglia, in cui mancò poco che a Valente non toccasse la rotta per valore del giovane Ormisda persiano, da noi veduto di sopra uffizial di Procopio. Ammiano nulla ha di questa battaglia, parlando solamente di quella che ora son per narrare. Cioè passato Valente sino a Nacolia, città della Frigia, quivi trovò Procopio, e con lui venne alle mani. Dubbioso fu un pezzo l'esito della pugna, finchè Agilone tedesco, uno de' generali di Procopio, all'improvviso colle sue squadre passò alla parte di Valente. Per questo inaspettato colpo atterrito Procopio prese la fuga; ma in fuggendo da due suoi capitani, Fiorendo e Barcalba, tradito, fu preso e legato; e questi il menarono nel seguente giorno a Valente, che immantinente gli fece mozzare il capo. Il [161] premio che ebbero i due suddetti capitani del fatto tradimento, fu d'essere per ordine di Valente anch'essi uccisi. E tal fine ebbe il tiranno Procopio, la cui morte vien riferita da Idazio [Idacius, in Fastis.] al dì 27 di maggio dell'anno presente. Prima della di lui caduta, Equizio, generale dell'armata di Valentiniano nell'Illirico, vedendo ridotto lo sforzo della guerra nell'Asia [Ammianus, lib. 26, c. 10.], era entrato colle sue genti nella Tracia, con imprendere l'assedio di Filippopoli; ma ritrovò quella città più dura di quel che pensava. Non si volle mai rendere il nemico presidio finchè non vide co' proprii occhi la testa di Procopio [Idem, lib. 27, c. 2.], che Valente inviava al fratello Valentiniano. A questi difensori toccò poscia la disgrazia di provar la crudeltà d'esso Valente. Osserva Ammiano che il capo del suddetto Procopio fu presentato a Valentiniano, mentre se ne tornava a Parigi il general Giovino, glorioso per le vittorie di sopra narrate; e però vegniamo a conoscere che le di lui fortunate imprese contro degli Alamanni appartengono anch'esse al maggio dell'anno presente. Era senza figliuoli l'Augusto Valente [Chronicon Alexandrin.]; uno gliene partorì nel dì 18 o 21 di gennaio di questo anno Domenica sua moglie: il che fu preso per buon presagio di que' felici avvenimenti che appresso si videro. Nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.] stampato egli è detto figliuolo di Valentiniano; ma, siccome osservò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], ne' manoscritti è chiamato figliuol di Valente. E così fu in fatti, ciò ricavandosi da un'orazione di Temistio [Themistius, Orat. IX.]. Gli fu posto il nome di Valentiniano juniore, ed abbiamo da Socrate [Socrates, lib. 4, c. 26.] e da Sozomeno [Sozom., lib. 6, c. 16.] ch'egli per soprannome venne poi chiamato Galata, perchè nato nella Galazia, a distinzione [162] dell'altro Valentiniano juniore, figlio del vecchio Valentiniano. Ci comparirà poi questo figliuol di Valente console nell'anno 369, ma di corta vita, perchè in uno dei seguenti anni egli diede fine a' suoi giorni. Oltre a ciò, convien rammentare le conseguenze della ribellion di Procopio. All'udire Temistio [Themistius, Orat. VII.] nell'elogio di Valente Augusto, grande fu la di lui moderazione dopo la vittoria, perchè punì solamente i principali autori della cospirazione; con sole parole castigò altri che senza fatica s'erano sottomessi al tiranno; e nulla perdè della di lui grazia chi per forza gli aveva prestata ubbidienza. Non così parlano Ammiano [Ammian., lib. 4, c. 8.] e Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 8.], da' quali abbiamo una lugubre descrizione delle crudeltà usate da Valente o collo scuri, o coi confischi, o con gli esilii verso le persone nobili che si trovarono involte nella ribellione, e parecchie ancora innocenti, perchè, per non poter di meno, aveano aderito all'usurpatore. Ma forse quelle penne pagane ingrandirono più del dovere il rigor di Valente, avendo noi un altro scrittore della lor setta, cioè Libanio [Liban., in Vita sua.], il quale, scrivendo la propria vita, e però lungi di voler quivi incensar Valente, attesta non aver egli fatto morir gli amici di Procopio, ed essersi contenuta in molta moderazione la sua giustizia.


   
Anno di Cristo CCCLXVII. Indizione X.
Damaso papa 2.
Valentiniano e
Valente imperadori 4.
Graziano imperadore 1.

Consoli

Lupicino e Giovino.

Abbiam veduto di sopra Giovino generale di Valentiniano Augusto nella Gallia. Ebbe questi l'onore del consolato in ricompensa delle vittorie riportate contra [163] degli Alamanni. Era Lupicino anch'egli generale di Valente Augusto in Oriente, e con avergli condotto a tempo un soccorso numeroso di truppe, ebbe gran parte ad atterrare il tiranno Procopio, perlochè si guadagnò la trabea consolare. Libanio [Liban., in Vita sua.] ne parla con lode, e Teodoreto [Theodor., Vit. Patr.], con esaltare la di lui pietà e virtù, ci fa intendere ch'egli dovette essere cristiano. Ricavasi poi da Ammiano e dal Codice Teodosiano che la prefettura di Roma fu per alcuni mesi dell'anno presente esercitata da Juvenzio, e poi da Vettio Agorio Pretestato, di cui s'è parlato di sopra. Servono poi le suddette leggi a dimostrare la continuata permanenza di Valentiniano Augusto nelle Gallie. L'ordinario suo soggiorno era in Rems; perchè, quantunque fossero cessate le insolenze degli Alamanni, e fors'anche fosse succeduta qualche pace con loro, pure conveniva tener sempre l'occhio alle barbare nazioni, troppo volonterose di bottinar ne' paesi altrui. Trovavasi egli nella state in Amiens [Ammianus, lib. 27, cap. 6.], quando gli sopravvenne una pericolosa malattia, che crebbe a segno di far disperare della di lui vita il che diede occasione a molti segreti imbrogli per eleggere, in mancanza di lui, un novello Augusto. Furono in predicamento per questo due personaggi, amendue temuti per la loro indole sanguinaria, cioè Rustico Giuliano e Severo generale della fanteria. Dopo lungo combattimento col male si riebbe l'Augusto Valentiniano [Zosimus, lib. 4, cap. 12.]; ed allora i suoi fedeli cortigiani, riflettendo al pericolo in cui egli s'era trovato, non durarono fatica a persuadergli la necessità di eleggersi un collega e successor nell'imperio. Venuto dunque il dì 24 d'agosto [Idacius, in Fastis. Hieronymus, in Chron. Socrates, lib. 4, cap. 11.], e fatto raunar l'esercito fuori d'Amiens, salito Valentiniano sopra un palco, presentò ai soldati il suo figliuolo Flavio Graziano, a lui partorito [164] da Valeria Severa sua prima moglie, tuttavia vivente; e con una maestosa allocuzione espose la risoluzione presa di dichiararlo suo collega ed imperadore Augusto; sopra di che dimandò la loro approvazione. S'udirono allora incessanti viva, e le trombe e il battere degli scudi collo strepito loro maggiormente attestarono il giubilo universale delle milizie. Era allora Graziano in età di otto anni e di qualche mese [Idacius, in Fastis. Chronicon Alexand.], perchè nato prima che il padre fosse Augusto, cioè nell'aprile o nel maggio dell'anno di Cristo 359, benchè Ammiano il dica adulto jam proximum; di grazioso aspetto, d'ottimi costumi e buona inclinazione, talmente che prometteva assaissimo per l'avvenire. Molti nondimeno si maravigliarono come il padre, in vece di crearlo Cesare, ad imitazion di tanti altri suoi predecessori, il volesse in un subito Augusto. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] pretende ciò fatto per impulso della suocera e della suddetta sua moglie Severa.

E qui convien riferire una strana e biasimevol azione di Valentiniano, imbrogliata nondimeno dal disparere degli storici, tanto in riguardo al tempo che alle circostanze. Certa cosa è che, vivente ancora la medesima Severa madre di Graziano, riconosciuta da ognuno per sua legittima moglie, fu sposata da lui Giustina, la qual poi divenne madre di Valentiniano II imperadore. Essendo azion tale contraria alle leggi degli stessi gentili, non che della cristiana religione, diedesi luogo alle dicerie delle persone; e Socrate [Socrat., lib. 4, cap. 31.], fra gli altri, una ce ne fa sapere che sembra ben mischiata con delle favole. Padre di Giustina era stato un Giusto, governatore del Piceno, il quale, per aver divulgato un suo ridicolo sogno in cui gli pareva d'aver partorita una porpora imperiale, fu fatto morire dal sempre sospettoso Costanzo Augusto. Sua figlia Giustina [165] cresciuta in età ebbe la fortuna di entrar in corte di Severa Augusta moglie di Valentiniano, ed arrivò a tal confidenza con lei, che seco si lavava al bagno. Severa, in osservar la rara beltà di questa fanciulla, se ne innamorò sempre più; ma sconsigliatamente avendone lodata la bellezza al marito, cagion fu che egli s'invogliasse di sposarla. A questo fine pubblicò una legge, che fosse lecito il poter aver due mogli nello stesso tempo, e poi la sposò; avendo poco prima creato Augusto il figlio di Severa Graziano, e per conseguente in quest'anno. Ma giusta ragion ci è da credere, come ha insegnato il celebre vescovo di Meaux [Bossuet, Des Variations.], favoloso un tal racconto, che fu poi preso per cosa vera da Giordano [Jordan., de Regn. Success.], Paolo Diacono [Paulus Diaconus, in Contin. Eutr.] e Malala [Joannes Malala, in Chron.]. Se Valentiniano avesse fatta una legge sì contraria all'uso dei gentili, e molto più de' cristiani, Ammiano e Zosimo non avrebbon lasciata nella penna cotal novità per iscreditarla. E Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 43.] chiaramente scrive essere stata Giustina dianzi moglie di Magnenzio tiranno, e però non quale essa ci vien dipinta da Socrate. Pertanto è piuttosto da credere che Valentiniano, o per qualche fallo di Severa, o pure per suggestion della propria passione, ripudiasse Severa, e sposasse dipoi Giustina: il che non era vietato dalle leggi del paganesimo, benchè contrarie a quelle del Vangelo. Di questo abbiamo un barlume nella Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.] e in quella di Malala [Joannes Malala, in Chron.], dove scrivono che per l'ingiusta compra di un podere fatta da Marina o Mariana Augusta (così chiamano quegli autori Severa), Valentiniano la bandì, e che poi Graziano suo figliuolo, dopo la morte del padre, la richiamò dall'esilio. A quest'anno ancora appartengono alcuni [166] fatti d'esso Valentiniano, per relazion di Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 7.]. Cioè, che egli s'era ben fatto forza ne' primi anni del suo governo per reprimere il suo natural aspro e fiero, ma che in questo cominciò a lasciargli la briglia, con far morire in Milano a fuoco lento Diocle conte e Diodoro altro uffiziale con tre sergenti, e, per quanto sembra indebitamente, perchè i Milanesi li riguardarono da lì innanzi come martiri, e chiamavano il luogo della lor sepoltura agl'Innocenti. D'altre sue azioni crudeli fa menzione il suddetto Ammiano. Abbiamo parimente da lui che Magonza, un dì che i cristiani facevano festa, fu all'improvviso occupata e saccheggiata da Randone, uno de' principi alamanni. All'incontro, i Romani fecero assassinar Viticabo re di quella nazione, figlio del fu re Vadomiro, per mano di un di lui familiare. Scrive inoltre quello storico che i Pitti e gli Scotti, entrati nella Bretagna romana, vi aveano commesso dei gravi disordini, e minacciavano di peggio. Fu spedito colà Teodosio conte, padre di Teodosio che fu imperadore, il quale con tal prudenza e valore si condusse in essa guerra, che non solamente ripulsò i Barbari, ma loro eziandio tolse una provincia, che restò da lì innanzi aggiunta alle terre dell'imperio romano. Succedette nella stessa Bretagna una ribellione di certo Valentiniano o pure Valentino, che cercò di farsi imperadore [Zosimus, lib. 4, cap. 12.]. Fu preso dal conte Teodosio, e pagò la pena dovuta al suo misfatto. Dalla parte ancora de' Franchi e Sassoni fu fatta una irruzione nel paese romano della Gallia. Pare che lo stesso Teodosio quegli fosse che per mare e per terra gli sbaragliò.

Veniamo ora a Valente Augusto. Pareva che dopo la caduta del tiranno Procopio avesse in Oriente da rifiorir la pace; ma non tardarono ad imbrogliarsi gli affari coi Goti, abitanti allora [167] di là del Danubio, verso dove quel gran fiume sbocca nel mar Nero [Ammian., lib. 27, cap. 5. Zosimus, lib. 4, cap 10.]. Aveano essi Goti inviato un soccorso di tre mila combattenti al suddetto Procopio, e costoro, udendolo ucciso, se ne tornavano addietro verso il loro paese, ma lentamente, perdendosi in dare il sacco a quel dei Romani. Avendo Valente inviato con diligenza un buon numero di milizie contro di coloro, gli riuscì di coglierli, e di obbligarli quasi tutti a deporre l'armi e a rendersi prigionieri. Li fece poi egli distribuire per varie terre lungo il Danubio, ma senza obbligarli alla carcere. Era in que' tempi Atanarico il più possente tra i principi goti, quegli stesso che avea provveduto di quella gente Procopio, ancorchè durasse la pace fra il romano imperio e i Goti: uomo certamente di gran coraggio, e di non minor senno ed eloquenza [Themist., Orat. X. Eunap., de Legat.], il quale fra i suoi non usava il titolo di re, ma bensì quello di giudice. Udita ch'egli ebbe la prigionia de' suddetti suoi soldati, mandò a Valente per riaverli, allegando per iscusa d'avergli inviati ad un imperador de' Romani, e facendo veder le lettere di Procopio. All'incontro Valente spedì Vittore general della cavalleria ad esso Atanarico a dolersi dell'assistenza da lui data ad un ribello d'esso imperio. Le scuse da lui addotte non furono accettate, e però Valente determinò di fargli guerra, consigliato anche a ciò da Valentiniano Augusto, per quanto pretende Ammiano. La riputazione in cui erano allora i Goti, perchè usati a vincere i vicini, e a non mostrar paura, siccome gente fiera; e l'esser eglino collegati con altre nazioni barbare della Sarmazia e Tartaria, faceva apprendere per pericoloso l'impegno di tal guerra non solamente ai privati, ma anche allo stesso Valente. Il [168] perchè, non avendo egli fin qui preso il sacro battesimo [Theodoret., lib. 4, cap. 12.], volle in tal congiuntura premunirsi con esso, e si fece battezzare; ma, per disavventura sua e della Chiesa cattolica, da Eudossio vescovo di Costantinopoli, capo degli ariani, il quale si fece prima promettere ch'egli costantemente terrebbe l'empia dottrina della sua setta. Così fu. Da lì innanzi Valente, gran protettore dell'arianismo, persecutore del cattolicismo più che prima si mostrò. Dopo il ritorno di Vittore inviato ai Goti s'intese che Atanarico facea de' gagliardi preparamenti da guerra; ma Valente non perdè tempo ad uscire in campagna, e da Marcianopoli, capitale della Mesia inferiore, nella primavera si portò al Danubio [Ammianus, lib. 27, cap. 5. Themistius, Orat. X.], e, gittato quivi un ponte, passò coll'armata addosso al paese nemico. Senza trovare per tutta la state resistenza alcuna, essendo fuggiti quegli abitanti alle loro aspre montagne, altro non fece l'esercito cesareo che dare il guasto al paese, e prendere chi non fu presto a fuggire. Venuto poi l'autunno, se ne tornò indietro l'esercito a prendere i quartieri d'inverno; e che Valente lo passasse nella suddetta città di Marcianopoli, si raccoglie da alcune leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Fa Ammiano [Ammianus, lib. 27, cap. 9.] anche menzione di varie scorrerie fatte circa questi tempi dagl'Isauri nella Panfilia e Cilicia. Loro si volle opporre Musonio vicario dell'Asia, ma con tutti i suoi tagliato fu a pezzi. Miglior sorte ebbero i paesani ed altre milizie romane, alle quali venne fatto di costrignere quei masnadieri a chieder pace: dopo di che per alcuni anni cessarono i lor ladronecci. Mancò in quest'anno di vita santo Ilario, celebre scrittore della Chiesa di Dio, e vescovo di Poitiers.


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Anno di Cristo CCCLXVIII. Indizione XI.
Damaso papa 3.
Valentiniano e
Valente imperadori 5.
Graziano imperadore 2.

Consoli

Flavio Valentiniano Augusto per la seconda volta e Flavio Valente Augusto per la seconda.

Vettio Agorio Pretestato, per quanto apparisce da una legge del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], esercitava tuttavia nel gennaio del presente anno la prefettura di Roma. A lui succedette in quella dignità, come costa da altre leggi, Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio. Era questi della famiglia Anicia, la più potente, la più nobile che si avesse allora la città di Roma, divisa in più rami, ed esaltata da tutti gli antichi scrittori, ma maggiormente gloriosa per aver essa dato il primo senatore alla religion cristiana, quando tanti altri conservarono anche dipoi il paganesimo. Intorno alla nobiltà e a tanti personaggi illustri di questa casa, si può vedere il Reinesio [Reines., Inscription. Antiq.], e spezialmente il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Emper.], che diffusamente ne tratta all'anno presente, in parlando di esso Olibrio e di Sesto Petronio Probo, a cui fu appoggiata la prefettura del pretorio in questi medesimi tempi. Scrive questo Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 11.], essere stato Probo conosciuto per tutto l'imperio romano a cagion della sua chiara nobiltà, possanza e ricchezze, perchè egli possedea delle gran tenute di beni per tutte le provincie romane. Leggonsi moltissime leggi pubblicate da Valentiniano Augusto nel presente anno, e rapportate nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theod.]. Con una di esse egli restituì ai cherici cattolici della provincia proconsolare [170] dell'Africa i privilegii loro già tolti dallo apostata Giuliano. Con un'altra egli ordinò che in cadauno de' quattordici rioni di Roma si mantenesse un medico per servigio de' poveri. Riformò ancora varii abusi degli avvocati nelle cause civili, comandando loro di non ingiuriare alcuno, di non tirare in lungo le liti, e di non far patti per la ricompensa delle lor fatiche. Pel tempo del verno era soggiornato Valentiniano in Treveri, facendo intanto le disposizioni opportune per continuar la guerra contra degli Alamanni. Alla stagione solita d'uscirne in campagna, avendo chiamato all'armata Sebastiano conte [Ammian., lib. 27, cap. 10.], insieme col figliuolo Graziano e coi generali Giovino e Severo, passò egli il Reno senza opposizione di alcuno; e spedì poi varii distaccamenti delle sue truppe a dare il guasto ai seminati e alle case de' nemici. Per quanto s'inoltrassero i Romani, resistenza non si trovò, fuorchè ad un luogo appellato Solicinio, creduto da alcuni nel ducato ora di Wirtemberg. S'era ritirato un grosso corpo di Alamanni sopra una montagna, e si sudò non poco a sloggiarli di là colla morte di molti degli aggressori. Pare che in fine quei popoli chiedessero ed impetrassero pace dall'imperadore. Il che fatto, se ne tornò egli a Treveri, come trionfante, non per aver vinti gli Alamanni, ma per aver desolate le lor campagne, ricavandosi da Ausonio [Auson., in Mos.] che in tal congiuntura Valentiniano celebrò de' giuochi trionfali, e diede de' solazzi al popolo.

Poche faccende ebbe in quest'anno Valente Augusto, tuttochè fosse viva la guerra di lui coi Goti. Le leggi del Codice Teodosiano cel fanno vedere in Marcianopoli; nè Ammiano accenna di lui impresa alcuna militare che si creda appartenere a quest'anno. Perchè il Danubio fu oltre misura grosso, non si potè passare. Temistio sofista [Themist., Orat. VIII.], cioè oratore, [171] nella suddetta città recitò un panegirico, tuttavia esistente, in lode di lui. Giacchè quivi si legge che un principe orientale avendo abbandonato gli Stati del padre, Stati di molta ampiezza, era venuto a servire sotto Valente: giustamente si conghiettura che Temistio disegnasse con tali parole il figliuolo di Arsace re dell'Armenia, appellato Para, il quale in fatti dopo le disavventure di suo padre ricorse alla protezion di Valente. Parla appunto Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 12.] circa questi tempi degli affari dell'Armenia. Pretendeva Sapore re di Persia che, in vigore del trattato di pace conchiuso con Gioviano Augusto, non potessero i Romani, in caso di guerra, prestar aiuto all'Armenia. Però da lì innanzi, parte colla forza e parte colle insidie, si studiò d'impadronirsi di quel regno, con ricorrere in fine al tradimento. Invitato ad un convito Arsace re d'essa Armenia, fece prenderlo, cavargli gli occhi, e il privò in fine di vita. Ciò fatto, non gli fu difficile di rendersi padrone d'essa Armenia, con darne il governo a Cilace ed Artabano, due nazionali di quel paese. Erasi ritirata la regina Olimpiade con Para suo figliuolo in una fortezza chiamata Artagerasta, dove fu assediata dai due governatori del regno, co' quali passando d'intelligenza, un dì ebbe maniera di far tagliare a pezzi i Persiani ch'erano in quel presidio. Posto Para in libertà, ricorse allora al patrocinio di Valente Augusto, e per qualche tempo si fermò in Neocesarea del Ponto, finchè assistito, per ordine segreto d'esso Valente, da Terenzio conte, ebbe la fortuna (probabilmente nell'anno seguente) di rientrar nell'Armenia, e di possederla, ma senza titolo di re, perchè Valente non volle conferirglielo, per non dar occasione a Sapore di pretendere rotto il suddetto trattato di pace. In tale stato era intorno a questi tempi l'Armenia. La città di Nicea, per attestato di [172] Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], restò in quest'anno totalmente atterrata da un orrendo tremuoto.


   
Anno di Cristo CCCLXIX. Indizione XII.
Damaso papa 4.
Valentiniano e
Valente imperadori 6.
Graziano imperadore 3.

Consoli

Flavio Valentiniano, nobilissimo fanciullo, e Vittore.

Resta ora deciso fra gli eruditi che questo Valentiniano console non fu già il figliuolo di Valentiniano Augusto, e molto meno Giulio Felice Valentiniano, come pensò il Panvinio [Panvin., in Fast.], ma bensì il figliuolo di Valente Augusto, soprannominato Galata, di età di tre anni, perchè a lui nato, come vedemmo, nell'anno 366. Per opinione d'alcuni, il secondo console Vittore lo stesso fu che Sesto Aurelio Vittore, di cui abbiamo una storia romana; ma avendo osservato il Gotofredo [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che questo console Vittore fu cristiano, ciò ricavandosi dalle lettere de' santi Basilio e Gregorio Nazianzeno, e da Teodoreto, cotal qualità non conviene allo storico che si scuopre gentile. Continuò Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio nella prefettura di Roma. Valentiniano Augusto nell'anno presente, come costa da varie sue leggi, si trovava in Treveri, Brisacco, ed altri luoghi verso il Reno [Ammian., lib. 28, c. 2.]. Le sue maggiori applicazioni consisterono in far fabbricare per tutto il lungo d'esso fiume, cominciando dalle Rezie sino all'Oceano, torri, castella e fortezze in gran copia, in siti proprii, affinchè servissero di freno alle nazioni barbare, le quali troppo spesso e troppo volentieri venivano a far delle scorrerie e a bottinare nel paese romano. Ma perchè volle azzardarsi ad alzare di là dal [173] Reno una di queste fortezze nel monte Piri, gli Alamanni pretendendo ciò contrario ai patti della pace, giacchè non trovavano giustizia, nè volevano desistere da questa fabbrica i Romani, tutti un dì li misero a fil di spada, e non ne scappò alcuno, fuorchè Siagrio, segretario dell'imperadore, che ne portò la dolorosa nuova alla corte, e n'ebbe in ricompensa la perdita dell'uffizio. Ma questi col tempo risalì in posto, ed arrivò ad essere console, siccome vedremo. Furono in questi tempi le Gallie afflitte da gran copia d'assassini da strada, che non perdonavano alla vita delle persone; e fra gli altri fu colto da loro ed ucciso Costanziano, soprintendente alla scuderia imperiale, e fratello di Giustina Augusta moglie di Valentiniano [Ammian., lib. 28, c. 1.]. Abbiamo poi sotto il presente anno una lugubre descrizione delle giustizie, anzi delle crudeltà fatte in Roma da Massimino prefetto dell'annona, con permissione dell'Augusto Valentiniano, principe pur troppo privo di clemenza ed inclinato al rigore. Be parlano ancora Suida [Suidas.], Zonara [Zonar., in Annal.] e la Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrin.]. Si fecero dunque in Roma de' fieri processi contra di molti nobili dell'uno e dell'altro sesso, per veri o per pretesi delitti di veleni, di adulterii e di mala amministrazione, e simili, con essere stati tormentati in tal congiuntura e condannati a morte varii di que' nobili, e forse giustamente i più, ma certo con troppo rigorosa giustizia. Pare che queste terribili inquisizioni continuassero molto tempo dipoi, e che non sia scorretto il testo di san Girolamo [Hieron., in Chron.], il quale ne parla all'anno 371, perchè anche Ammiano, in favellarne, rammenta Ampelio prefetto di Roma, il qual veramente in esso anno esercitò quella carica.

[174] In poche parole racconta Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 5.] le imprese di Valente, con dire ch'egli verso la state, passato il Danubio, fece guerra ai Grutingi e Gotunni, nazione bellicosa fra i Goti. Osò ben Atanarico, il più potente de' principi di quella nazione, di far fronte ai progressi dell'armi romane; ma allorchè si venne ad un combattimento, toccò a lui di voltare le spalle: il perchè non indugiò a spedir deputati per pregar Valente di dargli la pace. Vittore ed Arinteo, generali, l'uno della cavalleria e l'altro della fanteria, spediti a trattarne, non poterono mai indurre Atanarico a passare di qua dal Danubio, allegando egli un giuramento fatto di non toccar mai il terreno de' Romani. Perciò in mezzo a quel fiume, dove egli venne in nave, fu d'uopo che anche Valente in un'altra si conducesse per istabilire i patti della concordia [Zosim., lib. 4, c. 11.]. Dopo di che Valente si restituì a Costantinopoli. Temistio [Themistius, Orat. X.] parla di questo abboccamento vantaggiosamente per la parte dell'imperadore, come dovea fare un panegirista. Verisimilmente questa pace quella fu che diede motivo ad esso Augusto di restituire al popolo di Costantinopoli un combattimento, o sia giuoco pubblico, che già era stato abolito [Idacius, in Chronico.]. E se fosse vero ch'egli rendesse ai pagani la libertà dei sagrifizii, come lasciò scritto Cedreno [Cedren., Histor.], avrebbe egli mal riconosciuta l'assistenza prestatagli da Dio fin quella guerra. Certamente anche Teofane [Theophan., Chronogr.] racconta ch'egli concedette licenza ai gentili di fare i loro sagrifizii e le feste lor proprie; e quell'agon restituito, ed accennato da san Girolamo ed Idacio, forse è un indicio di questo.


[175]

   
Anno di Cristo CCCLXX. Indizione XIII.
Damaso papa 5.
Valentiniano e
Valente imperadori 7.
Graziano imperadore 4.

Consoli

Flavio Valentiniano Augusto per la terza volta, e Flavio Valente Augusto per la terza.

Per qualche mese ancora dell'anno presente Olibrio sostenne la carica di prefetto di Roma, come s'ha dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Una d'esse ci rappresenta Principio in quella stessa dignità nel dì 29 d'aprile. Se ne può dubitare, dacchè Ammiano [Ammianus, lib. 28, cap. 4.], dopo d'aver parlato dei buoni e cattivi costumi d'Olibrio, immediatamente viene a quelli di Ampelio, come successore di lui in quella carica. Chi poi amasse di mirare un ritratto della nobiltà e plebe romana di questi tempi, non ha che da leggere quanto il suddetto Ammiano (con penna più d'un poco satirica) lasciò scritto, dopo aver favellato dei due sopra nominati prefetti. Il lusso, l'ignoranza, il fasto, l'effemminatezza, il dilettarsi di buffoni e adulatori, il darsi al giuoco e ad altri non pochi vizii, si veggono ivi descritti. Così la dappocaggine ed oziosità della plebe, l'essere spasimati dietro agli spettacoli, ed altri loro ridicoli difetti truovansi dipinti in quello storico, senza ch'io mi creda in obbligo di rapportar qua tutto il suo pungente racconto. Abbiamo molte leggi di Valentiniano Augusto [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] date nell'anno presente quasi tutte in Treveri. Con esse spezialmente egli diede buon sesto agli studii delle lettere di Roma, prescrivendo buoni regolamenti per gli scolari che da varie parti concorrevano a quelle scuole, e non men per li medici che per gli avvocati. Famosa è poi [176] una costituzione sua [L. 20, de Episc. Cod. Theodos.] indirizzata a papa Damaso, in cui proibisce ai cherici e monaci l'introdursi nelle case delle vedove e pupille, e il poter ricevere da esse o per donazione, o per testamento, o per legato, o fideicommesso, stabili o altri beni sotto pretesto di religione, cassando con ciò ogni contraria disposizione. Non si vietava già con questa legge il donare alle chiese; ma non so come si fece poi essa valere per escludere generalmente tutte le persone ecclesiastiche dalle donazioni pie, in maniera che poi fu d'uopo che Marziano Augusto nel secolo susseguente abolisse questo divieto, e lasciasse in libertà la pietà de' fedeli per poter donare ai luoghi sacri. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast. ad hunc annum.] fu di parere che lo stesso Damaso papa fosse quegli che procurasse questa legge per reprimere l'avarizia degli ecclesiastici romani, giunta oramai all'eccesso: cotanto andavano essi a caccia della roba altrui sotto titolo di divozione e in profitto proprio. Di questo abuso in più d'un luogo fa menzione san Girolamo [Hieron., Epist. II ad Nepotian.], dolendosi non già della legge, ma bensì che il clero se la fosse meritata, con fare mercatanzia della religione. E il santo arcivescovo Ambrosio [Ambros., advers. relat. Symmach., et Epist. XII.] nè pur egli si lamenta di tal divieto, perchè è più da desiderare che la Chiesa abbondi di virtù che di roba. Solamente a lui pareva strano l'essere permesso il donare ai ministri de' templi de' gentili quel che si voleva, e vietato poi il fare lo stesso per quei della Chiesa.

Dai sassoni corsari furono in questo anno maltrattati i paesi marittimi delle Gallie, arrivando essi all'improvviso per mare addosso ai popoli di quelle contrade [Ammianus, lib. 28, cap. 5.], e bottinando dappertutto. Contra di costoro fu da Valentiniano spedito Severo generale della fanteria, che li mise in tal disordine e paura, [177] che dimandarono pace, e di potersene tornar colle vite in salvo alle lor case. Si conchiuse il trattato; ma nell'andarsene que' Barbari, Severo fece tendere ad essi un'imboscata, e tagliarli tutti a pezzi, con pericolo nondimeno che i suoi restassero sconfitti, senza alcun riguardo ai giuramenti e alla fede pubblica, la quale, secondo la legge cristiana, dev'essere osservata anche verso gli eretici e Turchi, e verso qualsivoglia altro nemico. Pensando poi Valentiniano alle maniere di reprimere la superbia ed insolenza degli Alamanni e del re loro Macriano, che sì spesso portavano il malanno alle frontiere romane, segretamente mosse i Borgognoni, popoli confinanti alla Lamagna, e che si vantavano di trarre la loro origine dai Romani, a muovere l'armi contra d'essi, giacchè con essi aveano spesso liti a cagion de' confini e delle saline. Vennero costoro sino alle ripe del Reno con un fioritissimo esercito. San Girolamo [Hieron., in Chronic.] scrisse che ascendeva il lor numero ad ottanta mila persone. Avea loro promesso Valentiniano di passare anch'egli il Reno, per secondar colle sue forze le loro. Non mantenne poi la parola, e perciò se ne tornarono essi indietro mal soddisfatti, dopo aver ucciso tutti i prigioni da lor fatti. Già era stato creato generale della cavalleria Teodosio, che già vedemmo vittorioso nella Bretagna, e che fu padre di Teodosio Augusto. Si servì questo valoroso uffiziale di tal congiuntura per dare addosso agli Alamanni, i quali, per paura d'essi Borgognoni, s'erano sparsi per le Rezie, cioè pel paese romano. Molti ne uccise, che vollero far testa. Tutti gli altri ch'egli fece prigioni, per ordine di Valentiniano, furono mandati in Italia, e sparsi ne' paesi contigui al Po, dove, assegnate loro delle buone terre da coltivare, divennero poi fedeli sudditi del romano imperio. A questi pochi fatti aggiunge Ammiano [Ammianus, lib. 28, cap. 6.] una lunga descrizione [178] dei mali cagionati da Romano conte nella provincia della Libia Tripolitana dell'Africa, e cominciati molto prima dell'anno presente, senza che que' popoli potessero mai ottener giustizia e riparo dalla corte imperiale: tante cabale seppe adoprar quel malvagio uffiziale. Nulla di riguardevole operò in quest'anno Valente Augusto in Oriente; tuttochè egli passasse a Nicomedia con pensiero di far guerra ai Persiani, ma con ispendere il tempo in soli preparamenti. Le leggi del Codice Teodosiano attestano che egli fu a Jerapoli, creduta dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] città della Frigia, e, secondo Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 13.], arrivò anche ad Antiochia; ma ciò convien più tosto agli anni seguenti. Le maggiori sue applicazioni sembra che fossero quelle di perseguitare i cattolici [Socrates, Hist., lib. 4, cap. 14 et seq.], de' quali ne fece morir non pochi, e di esaltar la setta ariana. A questo anno riferisce il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.] la morte di Eusebio, vescovo di Cesarea di Cappadocia, celebre per la sua storia ecclesiastica e per altri libri che restano tuttavia di lui, ma con aver lasciato agli eruditi una gran disputa intorno alla di lui credenza, cioè s'egli tenesse coi cattolici o pur cogli ariani. Successore di lui fu poi in quella chiesa san Basilio il grande, uno dei più insigni scrittori e pastori della Chiesa cattolica.


   
Anno di Cristo CCCLXXI. Indizione XIV.
Damaso papa 6.
Valentiniano e
Valente imperadori 8.
Graziano imperadore 5.

Consoli

Flavio Graziano Augusto per la seconda volta, e Sesto Anicio Petronio Probo.

Il secondo console Probo quel medesimo è che di sopra vedemmo il principal mobile della casa Anicia, riguardevole [179] personaggio per le tante dignità da lui sostenute, e per le esorbitanti sue ricchezze. Esercitava egli nello stesso tempo la carica di prefetto del pretorio dell'Italia, come consta dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.], le quali ancora ci assicurano che in quest'anno la prefettura di Roma seguitò ad essere amministrata da Ampelio. Sono esse date la maggior parte in Treveri, ed alcune in Contionaco, forse luogo vicino a quella stessa città. Alcune delle medesime giusto motivo somministrano al cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] di biasimar questo imperadore, principe più politico che cattolico. Imperocchè in una d'esse, indirizzata al senato romano, egli permise le illusioni degli aruspici gentili, e gli altri esercizii di religione permessi dalle leggi antiche, purchè non vi si mischiasse la magia. Confermò ancora ai pontefici pagani i lor privilegii, concedendo ad essi l'onor medesimo che godevano i conti. In quest'anno ancora Ammiano [Ammianus, lib. 29, cap. 3.] ci vien raccontando una mano di crudeltà usate da Massimino, inumano suo uffiziale, e dallo stesso Valentiniano Augusto, le quali ci fan sempre più conoscere che egli, benchè professasse la religione di Cristo, poco ne doveva studiare i santi insegnamenti. Ardeva tuttavia questo imperadore di voglia di abbattere il sopra mentovato Macriano re degli Alamanni,, che gli stava molto sul cuore. Colla forza delle sue armi non si credeva egli da tanto di poterlo opprimere. Si rivolse alle insidie. Passò all'improvviso nell'autunno il Reno con un buon corpo di milizie, sulla speranza datagli dalle spie, che potrebbe sorprendere il nemico re, senza aver seco nè tende, nè grosso bagaglio. Seco andarono i due generali Severo e Teodosio. Contuttochè ordini rigorosi fossero dati ai soldati di non saccheggiar nè bruciar case, acciocchè non ne seguisse dello strepito, egli non [180] fu ubbidito. Le grida delle persone giunsero agli orecchi delle guardie di Macriano, le quali, sospettando quel che era, postolo incontanente in una carretta, il sottrassero all'imminente pericolo. Se ne tornò indietro Valentiano molto malcontento, dopo aver dato il fuoco ad un tratto del paese nemico. Agli Alamanni appellati Bucinobanti, che abitavano di là dal Reno in faccia a Magonza, diede appresso per re Fraomario della lor nazione; ma perchè questi trovò desolato il paese per la suddetta scorreria de' Romani, amò meglio d'essere inviato nella Bretagna per tribuno del reggimento de' suoi nazionali che in quella isola erano al servigio dell'imperio.

Avea Valente Augusto passato il verno a Costantinopoli. Venuta la primavera, di nuovo si mise in viaggio per andare ad Antiochia, ma senza che chiaro apparisca ch'egli vi arrivasse in questo anno, per quanto pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Una legge sua data nel dì 13 luglio cel fa vedere in Ancira, capitale della Galazia. Socrate [Socr., lib. 4 Hist., cap. 14.] e Teofane [Theoph., in Chronogr.] suppongono ch'egli veramente nel presente anno pervenisse in Soria, e ad Antiochia almen verso il fine dell'anno, e quivi poi si fermasse nel susseguente verno. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap 13.] anch'egli scrive che, messosi Valente in viaggio, lentamente lo continuò per dar sesto di mano in mano ai pubblici affari e bisogni delle città per dove passava; e che, giunto ad Antiochia, attese più che mai ai preparamenti per la meditata guerra di Persia. Non lasciò egli di stabilire nel medesimo tempo dovunque potè il suo caro arianismo, e di sfogare l'empio suo zelo contro dei difensori della verità cattolica. Era in questi tempi Sapore re della Persia parte colla forza e parte colle insidie intento ad occupare affatto il regno dell'Armenia: del che s'è parlato [181] di sopra. Vedemmo che Para, figlio del già tradito re Arsace, era ricorso all'imperador Valente per aiuto. Ma Valente [Ammianus, lib. 27, c. 12.], che non amava d'essere il primo a rompere i trattati, andava temporeggiando, e solamente ordinò ad Arinteo suo generale di portarsi ai confini dell'Armenia, per mettere in apprensione con tale apparenza i Persiani. Cilace ed Artabano erano stati in addietro le due potenti braccia di Para per guardare gli Stati dalla violenza persiana. Sapore, che li teneva per traditori della sua corona, voleva togliere all'Armenia il loro antemurale: con lusinghe ed offerte, segretamente fatte all'incauto Para, l'indusse a mandargli le loro teste. Dopo questo crudele sproposito sarebbe perita l'Armenia, se l'arrivo di Arinteo coll'esercito romano in quelle vicinanze non avesse trattenuti i Persiani dall'ingoiarla. Spedì Sapore ambasciatori a Valente, per dolersi di que' movimenti, pretendendo infranta la pace. Valente sostenne il suo punto, e li rimandò mal soddisfatti. Si mischiò ancora negli affari dell'Isauria, disputata fra due cugini [Themist., Orat. XI.]; e consentì che quel paese si partisse tra loro: il che accrebbe le doglianze dei Persiani. Però dall'un canto e dall'altro si accingeva ognuno a venire ad un'aperta rottura. Circa questi tempi il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] sospetta che, trovandosi Valente in Cesarea di Cappadocia, gli fosse rapito dalla morte l'unigenito suo figlio, che già vedemmo appellato Valentiniano Juniore, e soprannominato Galata: del che s'ha memoria nella vita di san Basilio, vescovo chiarissimo di quella città. Tal morte di lui è certa, ma non già il tempo in cui essa accadde. Per un gastigo di Dio interpretata fu dai cattolici questa perdita fatta da Valente, siccome persecutore della vera Chiesa.


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Anno di Cristo CCCLXXII. Indizione XV.
Damaso papa 7.
Valentiniano e
Valente imperadori 9.
Graziano imperadore 6.

Consoli

Domizio Modesto ed Arinteo.

Amendue questi consoli erano uffiziali di Valente Augusto in Oriente. Nelle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] si trova tuttavia prefetto di Roma Ampelio sul principio di marzo dell'anno presente, e sembra che egli continuasse anche per tutto il maggio. Trovasi poi in una legge, data in Nassonaco nel dì 22 d'agosto, prefetto d'essa città un Bapone. Non è certa la prefettura romana di costui, siccome personaggio di cui non resta altra memoria. Pretende il Panvinio che ad Ampelio succedesse Claudio in quest'anno; ma ciò avvenne più tardi. Nulla abbiamo di particolare di Valentiniano Augusto intorno a questi tempi, se non che egli dimorò molto tempo in Treveri e in Nassonaco, che si crede luogo delle Gallie. All'anno presente riferisce il Gotofredo l'irruzione de' Quadi e Marcomanni in Italia, accennata da Ammiano [Ammian., lib. 29, cap. 6.], scrivendo egli aver essi assediata Aquileia, e spianato Oderzo. Ma uno dei difetti della storia d'Ammiano, oltre l'esser venuta a noi con molte lacune, è quello di non notare per lo più i tempi precisi delle imprese, di modo che possiam ben essere sicuri dei fatti, ma non già assegnarne con certezza gli anni; e verisimilmente accadde più tardi il movimento di quei Barbari contro l'Italia. Forse sul fine del precedente anno era giunto Valente Augusto ad Antiochia, ed è almen certo che nella primavera del presente egli dimorava in essa città, e si truova anche in Seleucia, città poche miglia distante di là. Quali imprese militari egli [183] facesse, non si può ben discernere. Quando appartenga a quest'anno ciò che vien riferito da Temistio [Themistius, Orat. XI.] nel di lui Panegirico, recitato nell'anno seguente, egli fece un giro per la Mesopotamia con arrivar sino al Tigri, dando gli ordini opportuni per le fortificazioni dei luoghi esposti ai Persiani, e conciliandosi l'affetto dei Barbari che non erano loro suggetti, ed insieme animando gli Armeni a tener forte contra de' comuni nemici. Non obbliava egli intanto di far guerra ai vescovi e personaggi cattolici [Socrates, lib. 4, cap. 17. Theophan., Chronogr.], togliendo loro le chiese, e facendo altri mali descritti nella storia ecclesiastica. Ma neppur egli godè molta tranquillità, perchè circa questi tempi furono fatte varie cospirazioni contro la di lui vita, le quali nondimeno rimasero scoperte e punite. Di una fa menzione Ammiano, con dire che un certo Sallustio, uffiziale delle sue guardie, avea formato il disegno di ucciderlo, mentr'egli dormiva al fresco in un bosco. Ma Dio sa a qual anno s'abbia da riferir questo attentato. Abbondano certamente le tenebre nella storia civile per i tempi presenti, ed è anche imbrogliata la storia della Chiesa per quel che concerne la cronologia.


   
Anno di Cristo CCCLXXIII. Indizione I.
Damaso papa 8.
Valentiniano e
Valente imperadori 10.
Graziano imperadore 7.

Consoli

Flavio Valentiniano Augusto per la quarta volta e Flavio Valente Augusto per la quarta.

Non Claudio, come scrisse il Panvinio, ma Caio Ceionio Rufio Volusiano, come risulta dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Prosop. Cod. Theodos.], sostenne in quest'anno la prefettura di Roma. L'aveva egli goduta [184] anche nell'anno 364. Presero nell'anno presente la trabea consolare i due Augusti, perchè si celebravano i decennali del loro imperio. Abbiamo da Simmaco [Symmachus, lib. 10, cap. 26.] che, in occasione di tal festa, il senato romano fece un considerabil regalo di danaro non solamente a Valentiniano, ma anche a Valente, tuttochè questi non comandasse a Roma. Parimente ci resta un panegirico di Temistio sofista [Themistius, Orat. XI.] in lode di esso Valente, recitato, secondo tutte le apparenze, non già in Costantinopoli, ma bensì in Antiochia, dove per questi tempi fece esso Augusto lunga dimora. Per testimonianza delle leggi spettanti all'anno presente, Valentiniano si truova in Treveri nel mese di aprile, e nel seguente giugno in Milano, dove si scorge ch'egli fece dimora almen sino al novembre, senza apparire alcuna delle azioni sue. A lui nondimeno non mancarono le applicazioni, perchè forse nel precedente anno s'era formata in Africa la sollevazion di Fermo, e questa gli dava non poco da pensare. Era costui [Ammian., lib. 29, cap. 5.] figliuolo di Nabal, polente principe fra i Mori, ed avea molti fratelli. Perchè uno di essi appellato Zamma si era molto introdotto nella confidenza di Romano conte, governatore di quelle provincie, Fermo segretamente il fece ammazzare. Caricato per questo da Romano di varie accuse alla corte di Valentiniano, e vedendo egli in pessimo stato e pericolo i proprii affari, prese il partito della disperazione, con ribellarsi, e sollevar varie nazioni di que' Mori, gente già disgustata per la strabocchevol avarizia degli uffiziali romani [Aurelius Victor, in Epitome. Augustinus, contr. Parmen., lib. 1, cap. 10.]. Preso il titolo di re e il diadema, aspra guerra fece nella Mauritania e in altre provincie ai Romani, con impadronirsi di varie città, e rallegrare i seguaci suoi col sacco di quelle contrade. Questo incendio obbligò [185] Valentiniano Augusto a spedire in Africa un buon corpo di milizie, alle quali diede per generale Teodosio conte, il più valoroso e prudente uffiziale di guerra ch'egli avesse in questi tempi. L'arrivo e la riputazione di Teodosio, sostenuta dalle forze seco menate, bastò per consigliar Fermo ad implorar il perdono, ma non osò già di comparir davanti al generale cesareo, se non dappoichè questi ebbe ripigliate varie città, e date due rotte alle genti di lui. Allora, dicendo daddovero, spedì alcuni vescovi a trattar di sommessione e grazia, e con esso loro, acciocchè restassero per ostaggi, varii parenti suoi. Fu egli dipoi ammesso da Teodosio all'udienza, ottenne il perdono e la libertà, e restituì i prigioni. Continuò poscia Teodosio il suo viaggio contra dei ribelli, e s'impadronì della ricca città di Cesarea, creduta da molti l'Algeri moderno; ma non tardò ad accorgersi dalla mala fede di Fermo, perchè lo spergiuro tornò all'armi, e diede più che mai da fare ai Romani. Seguirono perciò varii e dubbiosi combattimenti, ma per lo più favorevoli a Teodosio, il quale continuò la guerra nell'anno seguente, e forse anche nell'altro appresso; finchè, vedendosi ormai Fermo in rischio di cader vivo nelle mani di Teodosio, da sè stesso, con lo strangolarsi, si liberò dai soprastanti pericoli, e colla sua morte tornò la tranquillità in quelle provincie. Ammiano diffusamente descrive tal guerra e i fatti del suddetto generale Teodosio.

In questi tempi (se pur è possibile il registrare agli anni precisi gli avvenimenti d'allora) Valente Augusto, come poco fa accennai, dimorava in Soria, e specialmente nella capital d'essa, cioè in Antiochia. Seppe egli [Ammian., lib. 29, cap. 1.] che Sapore re di Persia finalmente era in moto con possente armata per passare nella Mesopotamia romana, e però contra di lui spedì Marciano conte e Vadomario già re di una parte dell'Alemagna, con [186] ordine nondimeno di stare all'erta, e di non cominciar essi le ostilità, se non forzati, affinchè non a sè, ma ai Persiani si attribuisse la rottura della pace. Appena conobbe il barbaro re tali essere le forze romane, che giuoco troppo pericoloso era il venire ad una battaglia campale, si contentò di consumar la campagna con varie scaramuccie solamente, ora vantaggiose ed ora infelici, tanto che, giunto l'autunno, e conchiusa una tregua, amendue le armate si ritirarono ai quartieri del verno. Scrive Ammiano che Sapore se ne tornò a Ctesifonte, e Valente imperadore ad Antiochia, dove poi succedette la scena di Teodoro, di cui parleremo all'anno seguente. Ma non lascio io di dubitare, se al presente appartenga il detto di sopra, perciocchè abbiamo due leggi del medesimo Valente [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], date nel dicembre di quest'anno in Costantinopoli, che non si accordano col racconto di Ammiano, il qual pure, siccome storico contemporaneo, non dovrebbe in tal circostanza fallare. Secondo i conti del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 373.], terminò la sua gloriosa vita in quest'anno santo Atanasio arcivescovo d'Alessandria, uno de' più insigni scrittori e campioni della fede cattolica, per cui sofferì tante traversie, chiamato da Dio a ricevere il premio delle sue virtù e fatiche. A quest'anno ancora verisimilmente appartiene un'irruzione fatta dai Goti della Tracia, di cui s'ha un barlume presso Ammiano [Ammianus, lib. 30, c. 2.], e ne parla ancora Teodoreto [Theodoretus, lib. 4, cap. 31 et seq.]. Valente, che si trovava impegnato con tutte le sue armi contra dei Persiani, inviò lettere all'Augusto Valentiniano, pregandolo di volerlo soccorrere con un corpo delle sue soldatesche dalla parte dell'Illirico. Se dice il vero Teofane [Theophan., in Chronogr.], la risposta di Valentiniano fu di non potere in coscienza aiutare un fratello che faceva nello stesso tempo [187] guerra a Dio, cioè che perseguitava i cattolici, esaltando continuamente la fazion degli ariani. Ma non è molto sicura in questi tempi la cronologia di Teofane, e forse Valentiniano non si diede mai a conoscere si zelante della vera religione.


   
Anno di Cristo CCLXXIV. Indiz. II.
Damaso papa 9.
Valentiniano e
Valente imperadori 11.
Graziano imperadore 8.

Consoli

Flavio Graziano Augusto per la terza volta ed Equizio.

Il Relando [Reland., Fast. Consul.], appoggiato ad una delle inscrizioni del Gudio, chiama il secondo console Caio Equizio Valente. Già s'è detto che non si può far sicuro fondamento sulle memorie antiche del Gudio; e dacchè osserviamo che l'ordinario stile in nominar i consoli era quello di notar l'ultimo lor cognome o soprannome; qualora tali fossero stati i nomi di questo console, pare che non Equizio, ma Valente dovesse comparir la di lui appellazione ne' Fasti. Fu in questo anno prefetto di Roma Euprassio, e dopo lui Claudio. Una legge del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], data nel dì 5 di febbraio dell'anno presente, ci fa veder tuttavia Valentiniano Augusto in Milano, dove si dovette fermare nel verno. Se ne ritornò dipoi, venuta la primavera, nelle Gallie; s'incontrano alcune sue leggi date in Treveri ne' mesi di maggio e giugno. Dopo aver lungamente descritto Ammiano [Ammianus, lib. 28, c. 1.] le rigorose, anzi crudeli giustizie fatte in Roma da Massimino vicario di Roma, tali certo che screditano il regno di Valentiniano Augusto, egli parla di altre fatte da Simplicio, succeduto a lui nel vicariato di quella gran città, e non men di lui sanguinario. [188] Nobili non pochi dell'uno e dell'altro sesso, o furono tormentati o esiliati o privati di vita. Se tutti con ragione, se ne può dubitare. A me non piace di rattristar qui i lettori con sì funesti ritratti; ma non vo' già tacere che questi, per così dire, illustri carnefici di Valentiniano, cioè Massimino Simplicio e Doriferiano dopo la morte di esso Augusto pagarono anch'essi il fio della lor crudeltà. Volle in quest'anno esso imperadore tentar di nuovo la fortuna delle sue armi contra degli Alamanni, e, passato il Reno coll'armata, lasciò che le soldatesche sue si facessero onore col saccheggiare un buon tratto del paese nemico. Poi si diede a fabbricare una fortezza in vicinanza di quella che oggidì chiamiamo Basilea. Quivi stando, ricevette da Probo, prefetto del pretorio dell'Illirico, l'avviso che i Quadi, fatta una fiera scorreria in quelle parti, davano anche da temere di peggio, ogni qualvolta non fosse spedito a lui opportunamente soccorso di gente. Il motivo, per cui que' popoli uscirono ai danni delle terre romane, fu il seguente. Già dicemmo le premure di Valentiniano, acciocchè a tutte le frontiere verso i Barbari si fabbricassero delle fortezze [Ammianus, lib. 29, cap. 6.]. Equizio console di quest'anno e generale delle milizie nell'Illirico, secondo l'uso dei più potenti, ne piantò una di là dal Danubio nel paese de' Quadi. Ne fece doglianza quel popolo, e si fermò il lavoro. N'ebbe avviso Marcellino, già divenuto prefetto del pretorio delle Gallie, uomo sempre portato all'alterigia e alla crudeltà, ed ottenne da Valentiniano che si spedisse colà Marcelliano suo figliuolo, con ordine e facoltà di compiere quel forte. Questo Marcelliano è chiamato Celestio da Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 16.], forse perchè portò anche questo nome. Venuto dunque costui, ripigliò arditamente quella fabbrica, senza far caso alcuno delle pretensioni e querele dei Quadi. Per [189] questo il re loro Gabinio si portò in persona a trovar Marcelliano, e modestamente il pregò di desistere dal lavoro, con rappresentargli le sue ragioni. Lo accolse Marcelliano con civiltà, si mostrò inclinato ad esaudirlo, il tenne anche seco a tavola; ma dopo il convito, mentre egli voleva tornarsene a casa, il fece assassinare, e torgli la vita: tradimento infame e troppo indegno del nome romano, le cui conseguenze funeste tardarono poco a vedersi.

Per tal ingiuria ed enorme prepotenza sommamente irritati i Quadi, trassero in lega i Sarmati, stomacati tutti dell'iniquo procedere de' Romani; e, passato il Danubio, vennero a farne vendetta con dare il sacco e guasto ad un gran tratto dell'Illirico. Poche erano allora nella Pannonia e nella Mesia le guarnigioni e forze dei Romani, perchè Valentiniano avea fatto passare in Africa alcune legioni [Ammian., lib. 29, cap. 6.] che ivi prima stanziavano: perciò niun ritegno trovarono al lor furore que' Barbari. Passò in così pericolosa congiuntura per la Pannonia la figliuola del fu imperadore Costanzo, che in una medaglia (se pure è fattura legittima) si vede appellata Flavia Massima Costanza [Mediobarbus, Numism. Imperat.]. Andava ella verso le Gallie per unirsi in matrimonio con Graziano Augusto figliuolo di Valentiniano. Poco vi mancò che questa principessa non fosse colta un dì da que' Barbari in una villa chiamata Pistrense. Messala governator della provincia ebbe la fortuna di trafugarla e di ridurla salva in Sirmio. Crebbe poi cotanto la possanza de' Quadi, che Probo prefetto del pretorio dell'Illirico, trovandosi in essa città di Sirmio, fu in procinto di abbandonarla. Ma avendo ripigliato il coraggio, e fatto quel preparamento che potè per difendersi, i Quadi non la toccarono, intenti, più che ad altro, a perseguitare Equizio, creduto da essi autore della morte di Gabinio loro re. In fatti diedero una rotta a due legioni [190] romane comandate da lui, e stesero i lor saccheggi per buona parte della Pannonia. Vollero nello stesso tempo i Sarmati fare il medesimo giuoco nella Mesia superiore, ma quivi ritrovarono un forte ostacolo in Teodosio juniore, figlio di quel Teodosio generale, che già vedemmo inviato in Africa per la ribellione di Fermo. Con titolo di duca governava allora esso Teodosio juniore quella provincia, e benchè giovinetto di prima barba, e provveduto di poche truppe [Themist., Orat. XIV. Zosimus, lib. 4, c. 16.], pure parte con astuzie militari e parte con arditi combattimenti, e con riportarne vittoria, così ben si maneggiò, che que' Barbari giudicarono meglio di trattar di pace: ottenuta la quale, scornati se ne ritornarono al loro paese. Portati gli avvisi di questa guerra dalle lettere di Probo a Valentiniano Augusto, siccome poco fa accennai, non se ne fidò egli, e spedì colà Paterniano suo segretario per chiarirsene meglio [Ammian., lib. 30, c. 3.]. Essendo poi questi ritornato con più cattive nuove, allora Valentiniano tutto impazienza volea cavalcare alla volta dell'Illirico; ma i suoi ufficiali tanto dissero, con rappresentargli la stagion troppo avanzata, e il pericolo che Macriano re degli Alamanni, trovando sguernita di truppe la Gallia, potrebbe far dei malanni, che rimise alla primavera seguente il suo viaggio. Fu dunque presa la risoluzion di proporre la pace ad esso Macriano, con invitarlo a comparire alle rive del Reno. Venne egli in fatti pieno di albagia al vedersi ricercato di accordo, come s'egli avesse da dar la legge ai Romani. Comparve anche Valentiniano al congresso in barca con un magnifico seguito; ed in fine si stabilì fra loro la desiderata concordia. Mantenne poi Macriano fedelmente l'amicizia coi Romani; ma avendo dopo qualche tempo voluto entrar nel paese dei Franchi, e dargli disordinatamente il sacco, questa insolenza [191] gli costò ben caro, perchè, colto in un'imboscata da Mellobaude, chiamato re bellicoso di quella nazione da Ammiano, quivi lasciò la vita. Credesi oggidì che nell'anno presente accadesse in mirabil forma l'elezione [Hieronymus, in Chron.] di santo Ambrosio arcivescovo di Milano, alla cui consacrazione consentì volentieri Valentiniano che si era restituito a Treveri: intorno al qual fatto si può consultare la storia ecclesiastica.

Ne' primi mesi di quest'anno, ed anche nel maggio, noi troviam tuttavia Valente Augusto in Antiochia [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], dove stato era durante il verno il suo soggiorno. Quivi fu scoperta una congiura tramata contra di lui. Alcuni pagani, e specialmente certi filosofi, dati allora alla magia e ad altre arti o imposture per iscoprir l'avvenire [Zosimus, lib. 4, c. 13. Ammianus, lib. 21, cap. 1 et seq.], si avvisarono di cercar con sacrilega curiosità chi avesse da succedere nell'imperio ad esso Valente, giacchè tolto gli avea la morte l'unico suo figliuolo. Zonara [Zonar., in Annalib.] descrive la forma del sortilegio fatto da essi, da cui si raccolsero queste tre lettere TH, E ed O. Cercando coloro a chi potesse convenir tal predizione, niuno cadde loro in mente più a proposito di un Teodoro, ch'era in questi tempi secondo notaio, o sia segretario di Valente, giovane di bell'aspetto, letterato prudente, nobilmente nato nelle Gallie, e soprattutto pagano: il che servì a quei tali di stimolo a maggiormente crederlo destinato dai falsi dii al trono. Gliene parlarono, gliel fecero credere; ed egli invanitosi cominciò a tener delle combriccole per questo co' suoi aderenti; e poi, siccome fu provato, furono fatti dei tentativi contro la vita di Valente. Ma scopertosi l'affare, e ricavata la verità del fatto, un seminario fu questo di terribili processi e condanne, non solamente di chi avea tenuta [192] mano, ma ancora di molti innocenti, perchè Valente non si sapea saziare di perseguitare e punire chiunque ancora era sospettato di attendere alla negromanzia e ai mezzi d'indovinar le cose future. Teodoro fu strangolato, o pure gli fu mozzato il capo. Degli altri uccisi abbiamo una lunga lista presso Ammiano e Zosimo, e fra questi si contarono dei primi uffiziali della corte [Liban., in Vita sua. Socrates, lib. 4, cap. 19. Sozomenus, lib. 6, c. 35.]. Altri furono banditi, e massimamente Eusebio ed Ipazio, già stati consoli nell'anno 359, e cognati del fu Costanzo Augusto, i quali da lì a poco tempo furono richiamati con onore. Scaricossi ancora lo sdegno implacabile di Valente contro de' filosofi gentili d'allora, siccome persone tutte in concetto di attendere alla magia e principali autori di quella cospirazione. Ebbe fra gli altri tagliata la testa Massimo [Eunap., in Vit. Sophist., c. 3.] il più rinomato di tutti, che tanta figura avea fatto a' tempi di Giuliano Apostata discepolo suo. Libanio sofista [Liban., in Vita sua.], benchè anch'egli attaccato alla negromanzia, la scappò netta, perchè nulla si potè provare contra di lui. Ed allora fu che si fece una gran perquisizione dei libri che trattavano di magia e d'incanti, di sortilegii e di strologia giudiciaria: perchè non si può dire quanto ubbriachi allora fossero i gentili di sì fatte sacrileghe imposture. Gran copia d'essi fu pubblicamente bruciata nella piazza d'Antiochia, e questo fu l'unico bene della rigorosa giustizia, o, per dir meglio, della crudeltà inaudita che Valente esercitò in tal occasione. Crudeltà, dico, la qual anche più detestabil sarebbe stata, se fosse vero ciò che scrivono Socrate e Sozomeno, cioè che egli fece morir molte persone, perchè portavano il nome di Teodoro, Teodosio, Teodulo, Teodoto e simili; ma se ne può dubitare. Certo è che Dio preservò il giovine Teodosio, da noi veduto duca della Mesia, avendolo [193] riserbato in vita per farne un'insigne imperadore, siccome a suo tempo vedremo. Nè già finì in quest'anno la carneficina suddetta, perchè durò il resto della vita di Valente. Ed ecco quanti mali può produrre (e n'abbiam veduto tanti altri esempli) la prosunzion degli uomini in voler indagare l'avvenire, paese riserbato alla cognizione del solo Dio. A queste tragiche scene un'altra ne aggiunse Valente Augusto. Tutte le apparenze sono che Para re dell'Armenia, dacchè implorò il patrocinio di esso imperadore contro de' Persiani, osservasse una fedeltà onorata verso di lui. Terenzio duca allora, per quanto sembra, difensor dell'Armenia, con più lettere lo andò screditando presso del medesimo Augusto [Ammian., lib. 30, cap. 1.], rappresentandolo per inumano verso de' suoi sudditi, e vicino ad accordarsi coi Persiani. Valente perciò il chiamò a Tarso città della Cilicia, dove, dopo di essersi fermato non poco tempo senza ottener licenza di passare alla corte, venne scoprendo i mali uffizii fatti contra di lui, e che si meditava di mettere in Armenia un altro re. Bastò questo, perchè egli con trecento de' suoi che l'aveano accompagnato se ne fuggisse, ed ebbe la fortuna di ritirarsi, al dispetto di chi il seguitò, salvo nei proprii Stati. Non lasciò egli per questo di star fedele verso i Romani; ma Valente, che non sel potea persuadere, diede segreta incumbenza a Traiano conte, comandante dell'armi romane in Armenia, di sbrigarsi di lui in qualche maniera. In fatti Traiano tanto seppe adescare l'incauto re con finte lusinghe, che il trasse un di seco a pranzo. Sul più bello del convito entrò un sicario che gli tolse la vita: assassinio infame commesso contro le leggi dell'ospitalità venerate dai Barbari stessi, e simile all'altro che abbiam veduto di sopra, di Gabinio re dei Quadi: tanto era decaduta la virtù nei petti romani.


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Anno di Cristo CCCLXXV. Indizione III.
Damaso papa 10.
Valente imperadore 12.
Graziano imperadore 9.
Valentiniano juniore imp. 1.

Dopo il consolato di Graziano Augusto per la terza volta e di Equizio.

Con questa formola si trova ne' fasti e nelle storie segnato l'anno presente, perchè niun fu disegnato per empiere la sedia curule, e vestir la trabea consolare. San Girolamo [Hieronymus, in Chronicon.] attribuisce la cagion di tale ommissione alla irruzion de' Sarmati nella Pannonia, quasichè le guerre dell'imperio romano impedissero la creazion de' consoli. Sembra ben più probabile che non passasse buona intelligenza fra i due fratelli Augusti nella nomina d'essi consoli, con iscorrere poi l'anno senza dichiararne alcuno. Probabilmente Euprassio continuò anche in quest'anno nella prefettura di Roma. La stanza di Valentiniano Augusto per tutto il verno dell'anno corrente fu in Treveri, dove anche troviamo una sua legge [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.], data nel dì 9 di aprile. Lasciato poscia alla guardia delle Gallie Graziano Augusto suo figliuolo, egli ne' seguenti mesi eseguì la risoluzione presa di portarsi nell'Illirico per reprimere l'insolenza dei Quadi e Sarmati, che tuttavia malmenavano le contrade romane. Oltre ad un buon esercito, menò seco Giustina Augusta sua moglie e Valentiniano juniore, suo minor figliuolo, da essa a lui partorito, il quale si crede che fosse allora in età di quattro o cinque anni [Ammian., lib. 30, cap. 5.]. Per la strada se gli presentarono i deputati de' Sarmati per trattar di pace. Valentiniano li rimandò, con dire che giunto egli al Danubio, allora se ne palerebbe. Arrivato a Carnunto, città che vien creduta il luogo del moderno Haimburg, trenta miglia in circa di sotto da Vienna d'Austria, quivi [195] fermata la corte, si applicò alle disposizioni militari convenevoli per dare la mala pasqua ai Barbari suddetti; ma senza fare alcuna ricerca dell'assassinio fatto a Gabinio re de' Quadi. Mostrossi solamente voglioso di abbattere Probo prefetto del pretorio, il quale, se s'ha da credere ad Ammiano gentile, cioè ad un nemico dei cristiani, avea commesso di grandi estorsioni ed ingiustizie, per far colar l'oro nella borsa del principe, e sostener sè stesso in quell'illustre carica. E certamente fu creduto che se Valentiniano non si fosse affrettato a morire, non mancava la rovina di Probo. Durante il tempo di tre mesi che questo imperadore dimorò in Carnunto, egli fece tagliar la testa a Faustino, nipote di Giuvenzio prefetto del pretorio delle Gallie, accusato di aver ucciso un asino per far dei sortilegii; ed inoltre perchè avendogli per burla un certo Negrino dimandato di essere fatto segretario di corte, ridendo avea risposto: Fammi imperatore, se vuoi quest'uffizio. Per questa burla Faustino, Negrino ed altri perderono la vita; e di questo passo camminava la giustizia sotto Valentiniano, che non voleva essere da meno di Valente suo fratello.

Venuto il settembre, spinse egli innanzi Merobaude e Sebastiano conte con diverse brigate di armati addosso a' Quadi [Ammian., lib. 30, c. 5 et seq.]; ed egli stesso in persona col resto dell'armata passò dipoi il Danubio, e fece dare il sacco e il fuoco ad un buon tratto del nemico paese, essendosi ritirati alle montagne quei popoli. Senza far altra bravura che questa, se ne ritornò poi indietro, e dopo essersi fermato in Acinco per qualche tempo, si rimise in cammino alla volta di Sabaria con animo di svernare in quella città. Arrivato che fu alla volta di Bregizione, comparvero colà i deputati dei Quadi per chiedere perdono e pace. Furono ammessi all'udienza; e perchè si voleano scusare con pretendere fatte da persone particolari senza [196] assenso del comune le insolenze passate, a Valentiniano si accese la bile, di maniera che fremendo rimproverò forte a quella nazione, come ingrata, i benefizii ricevuti dai Romani. Calmossi dipoi, ma all'improvviso cominciò a vomitar sangue, e il prese un sudore mortale. Portato a letto, non si trovò se non tardi un cerusico che gli aprisse la vena; fatto anche il salasso, non ne uscì neppure una goccia. Sicchè di lì a poche ore terminò il corso di sua vita [Idacius, in Fastis. Hieronymus, in Chronic. Socrat., lib. 4, cap. 31.] nel dì 17 di novembre, in età d'anni cinquantacinque, e dodici d'imperio. Ammiano fa qui un compendio delle qualità buone e cattive di questo imperatore [Ammianus. Victor. Ansonius. Symmachus. Zosim. et alii.]. Altri ancora commendarono la di lui gravità, la castità, la perizia militare, il coraggio, la vigilanza per dar le cariche a persone degne, e castigar i dilitti, con altre belle doti, per le quali fu creduto ch'egli avrebbe potuto uguagliar la gloria di Traiano e di Aureliano, se egli non avesse avuto il contrappeso di varii difetti. Il principale fu l'eccessivo suo rigore, che passò ad essere crudeltà, e talvolta involse non meno i rei che gl'innocenti. Ne abbiamo accennato alcuni esempli, ed Ausonio stesso, in parlando a Graziano Augusto di lui figlio, confessa che sotto suo padre la corte era tutta piena di terrore, e in volto de' magistrati si leggeva una continua inquietudine e tristezza. Questo suo genio sanguinario bastante ben è a far parere un nulla tutte le altre sue virtù. Padri amorevoli e clementi, e non implacabili aguzzini o carnefici de' popoli, han da essere i principi che tendono alla vera gloria, e fan conto del Vangelo. Vi si aggiunse ancora l'avarizia; perchè sebben sui principii si guardò dall'aggiungere nuovi aggravii ai suoi sudditi, col tempo poi mutò registro, e, per attestato di Ammiano [Ammianus, lib. 30, cap. 8.] e di [197] Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 3.], egli si acquistò l'odio d'ognuno per le eccessive imposte, che faceva anche esigere con tutto rigore, e si studiava per tutte le vie anche indecenti di ricavare ed accumulare danaro. Fu osservato che nello spazio di trenta anni addietro erano cresciute al doppio le gravezze dei sudditi del romano imperio. Sicchè, ben pesato il tutto, benchè sant'Ambrosio, Aurelio Vittore, Sozomeno ed altri esaltino la persona e il governo di Valentiniano, tuttavia nelle bilance di Dio e degli uomini non avrà mai credito un principe cristiano a cui manchi la clemenza e la carità verso de' suoi popoli. Fu poi portato il di lui corpo imbalsamato a Costantinopoli, per essere seppellito appresso gli altri Augusti cristiani.

Dacchè cessò di vivere questo imperadore, apprension non poca vi fu che qualche sedizione potesse insorgere nell'armata, e che taluno macchinasse di occupar il trono cesareo. Però Merobaude, uno dei primi generali, trovata maniera di allontanar Sebastiano conte, tenne consiglio con gli altri primarii uffiziali, e fu risoluto di proclamare Augusto Flavio Valentiniano juniore, secondogenito del defunto imperadore [Zosimus, lib. 4, c. 19. Ammianus, lib. 30, cap. 10.]. Era troppo lontano Graziano imperadore, suo fratello maggiore, perchè dimorante allora in Treveri, per poter impedire le novità temute; e sapendo gli uffiziali qual fosse la di lui bontà e rettitudine, si avvisarono di poter innalzare questo principe, stante il pericolo presente, senza incorrere nella di lui disgrazia, per aver ciò osato prima di ricercarne il di lui consenso. E così fu. Certamente Graziano se l'ebbe a male, e non men di lui Valente suo zio; ma non tardarono amendue ad approvar questo fatto; Valente, per non poter di meno, e Graziano per la sua buona indole e virtù, per cui non lasciò mai, finchè visse, di far conoscere il suo buon cuore verso di esso [198] fratello. Trovavasi il fanciullo Valentiniano allora, siccome accennammo, in età di circa cinque anni, lungi dall'armata ben cento miglia. Furono spediti corrieri a chiamarlo, e venuto che fu ad Acinco nella Pannonia con Giustina Augusta sua madre, il dichiararono Imperadore Augusto nel dì 22 di novembre. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 19.] e Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] attribuiscono la di lui promozione principalmente a Merobaude e ad Equizio generali; il primo di essi storici, siccome ancora Eunapio [Eunap., Legat. Tom. I Hist. Byz.], lasciarono scritto che i due fratelli divisero fra loro l'Occidente, con aver Graziano ritenuta per sè la Gallia, la Spagna e la Bretagna, con assegnar al fratello l'Illirico, l'Italia e l'Africa. Ma questa divisione si tiene piuttosto fatta dopo l'anno di Cristo 379; ed il Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] osservò che stante l'essere Valentiniano II in età pupillare, e però incapace di reggere, Graziano Augusto continuò ancora da qui innanzi il governo di tutto l'Occidente. Abbiamo inoltre dalla Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.] ch'esso Graziano, dopo la morte del padre, richiamò alla corte Severa sua madre già esiliata da Valentiniano seniore, che utilmente si servì dipoi co' suoi consigli. Parimente in questi tempi, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 18.], si fecero sentire degli orrendi tremuoti, che specialmente danneggiarono l'isola di Creta, la Morea e tutta la Grecia, a riserva dell'Attica. Per conto di Valente Augusto, le leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] ci assicurano essersi egli trattenuto in Antiochia sino al principio di giugno, e vi si truova anche nel dì 5 di dicembre. Andarono innanzi indietro [Ammianus, lib. 30, cap. 1.] varie ambasciate di esso Augusto e di Sapore re di Persia per intavolar la [199] pace; ma in fine nulla si conchiuse, e durò tuttavia la guerra aperta fra loro: laonde ognun di essi seguitò a far preparamenti per farsi giustizia coll'armi.


   
Anno di Cristo CCCLXXVI. Indizione IV.
Damaso papa 11.
Valente imperadore 13.
Graziano imperadore 10.
Valentiniano II imperadore 2.

Consoli

Flavio Valente Augusto per la quarta volta e Flavio Valentiniano juniore Augusto.

Portò opinione il Panvinio [Panvin., in Fast.] che la prefettura di Roma fosse in quest'anno esercitata da Euprassio, e poi da Probiano. Il Codice teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], a cui si dee più fede, ci mostra ornati di quella dignità Rufino, e poi Gracco, il qual ultimo, per attestato di san Girolamo [Hieron., Epist. 7 ad Laetam. Prudentius, in Symmac.], bruciò e rovesciò gran copia d'idoli in Roma stessa, e professò dipoi la religione cristiana. In età di circa diecisette anni era Graziano Augusto allorchè l'imperador Valentiniano suo padre terminò il corso del suo vivere. Giovane ben fatto di corpo, ma più d'animo, perchè dotato d'un eccellente naturale, come confessano gli stessi storici pagani [Ammian., lib. 27. cap. 6. Victor, in Epitome. Themistius, Or. XV.]. Di buon'ora fu istruito nelle belle lettere, con aver per maestro un insigne letterato, cioè Ausonio, al quale, anche dopo aver ricevuta la porpora imperiale, professò sempre un particolar rispetto, e conferì varie cariche, alzandolo sino al consolato. Parlano gli autori d'allora [Rufinus, Hist., lib. 2, cap. 13. Ausonius, in Panegyric.] della moderazione nel cibo e nella bevanda di questo principe, della sua rigorosa castità, affabilità, e soprattutto della sua bontà e pietà [200] cristiana, per cui meritò gli elogii di santo Ambrosio e di Ausonio. Della sua delicatezza in questo proposito diede egli sui principii una luminosa pruova, col ricusar l'abito e il titolo di pontefice massimo [Zosimus, lib. 4, cap. 36.] che gli portarono i pagani. In somma arrivò a dire Ammiano, tuttochè storico gentile e poco amico dei cristiani, essersi unite in Graziano tante e sì belle doti, che avrebbe potuto aspirare alla gloria de' più rinomati Augusti, se breve non fosse stata la sua vita, e non avesse avuto ai fianchi de' ministri cattivi, da' quali non potè guardarsi la sua non per anche matura prudenza, e l'età sua troppo giovanile, per cui, dandosi ai divertimenti, lasciava lor fare quanto volevano. Una delle sue prime azioni fu quella di ascoltar le querele universali de' popoli, e massimamente del senato romano contro i ministri della crudeltà di suo padre [Ammianus, lib. 28, cap. 1.]. Erano questi Massimino, allora prefetto del pretorio delle Gallie, Simplicio e Doriferiano. Processati costoro, provarono anche essi, ma colpevoli, il supplizio che a tanti anche innocenti aveano fatto provare. E perciocchè il senato romano dovette far doglianze per tanti dell'ordine suo o uccisi o calpestati in maniere indebite da Valentiniano, in lor favore spedì Graziano un editto, che con gioia fu letto dal celebre Simmaco [Symmachus, lib. 10, epist. 2.], uno allora de' senatori. Siccome riportò plauso da ognuno la morte data a quei crudeli ministri, così fu detestata l'altra di Teodosio conte, governatore allora dell'Africa. Aveva questo valente uffiziale estinta già in quelle provincie la ribellion di Fermo [Orosius, lib. 7, cap. 33.], restituita la pace a tutto il paese, e continuava con gran saviezza il suo governo in quelle parti. Ma gl'invidiosi, gramigna che specialmente alligna in alcune corti, mirando con gelosia il di lui merito, seppero così [201] ben dipingerlo al giovinetto incauto Graziano, come persona pericolosa e capace di far delle novità, che andò in Africa l'ordine di levargli la vita, e questo venne eseguito. Fu di parere Socrate [Socrates, lib. 4 Hist., cap. 15.] che, ad istigazion di Valente Augusto, per cagione del nome di Teodosio da lui odiato, siccome dicemmo di sopra, a questo bravo generale fossero abbreviati i giorni del vivere. Valente non comandava nell'Africa, e pare che neppur passasse grande armonia fra lui e il nipote Graziano, oltre all'osservarsi già scorsi due anni dopo la di sopra accennata congiura di Teodoro. Comunque sia, dappoichè il giovane Teodosio suo figlio arrivò ad essere imperadore, il senato romano onorò con delle statue la memoria di esso suo padre, il quale, giacchè ricevette il battesimo prima di morire per ottener la remission dei peccati, è da credere che più gloriosamente fosse coronato in cielo. La di lui disgrazia intanto si tirò dietro quella del suddetto Teodosio suo figliuolo, il quale fu obbligato a dimettere il governo della Mesia, di cui era duca, e a ritirarsi in Ispagna patria sua. Nulladimeno non andò molto che Graziano, aperti gli occhi, e pentito, il richiamò per alzarlo all'imperio.

Probabilmente fu in quest'anno che Valente Augusto, seguitando a dimorare in Antiochia (non si sa per qual motivo), inviò il filosofo Temistio [Themist., Orat. XIII.] a Graziano suo nipote, abitante allora in Treveri nelle Gallie. Passò questo pagano filosofo per Roma, dove nel senato stesso egli pronunciò un'orazione sua, che contien lodi ancora di esso Graziano, rappresentando la di lui bontà e liberalità, e l'aver egli come annientati gli esattori crudeli delle imposte. Sappiamo infatti da Ausonio [Auson., in Panegyr.] che questo benigno Augusto avea rimesso ai popoli i debiti trascorsi, e fatta abbruciare ogni carta [202] dei medesimi con sua singolar gloria e benedizion della gente. In questi tempi cominciò a farsi nominare la fiera nazion degli Unni, Tartari abitanti verso la palude Meotide, oggidì il mar di Zabacca, che tanti guai, siccome vedremo, recarono di poi alle contrade dell'Europa. Di essi, cioè de' loro barbari costumi e paesi, parlano a lungo Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 2.], Giordano [Jordan., de Reb. Get., cap. 37.] ed altri antichi scrittori [Zosimus, lib. 4, cap. 20. Sozomenus, Agathius el alii.]. Costoro, invogliati di miglior abitazione, mossero prima la guerra agli Alani, abitanti lungo il fiume Tanai, e li soggiogarono. Poscia rivolsero le armi contra degli Ostrogoti con tal felicità, che Ermenirico re di essi Goti, e poscia il di lui successore vi perderono la vita. Il terrore di gente sì inumana, che non dava quartiere ad alcuno, si sparse per tutti que' paesi, e cagion fu che quanti Goti poterono salvarsi, non men Visigoti che Ostrogoti, crederono meglio di abbandonar le loro terre, e di ritirarsi buona parte di essi verso quelle dell'imperio romano; e non avendo potuto fermarsi nella Podolia, s'inoltrarono sino alla Moldavia. Di là spedirono deputati a Valente Augusto, pregandolo di volerli ricevere ne' suoi Stati, promettendo di servir nelle armate romane, e di vivere da fedeli suoi sudditi. Ulfila, vescovo loro, ch'era, o pur divenne poscia ariano, come vuol Sozomeno [Sozom., lib. 6 Histor., cap. 37.], fu il capo dell'ambasceria. Questi insegnò poi le lettere ai Goti, tradusse in lingua loro le divine Scritture, e trasse alla religion cristiana quei che fin qui aveano professata l'idolatria. Gran dibattimento fu nel consiglio di Valente, se si doveva ammettere o no questa foresteria negli Stati dell'imperio [Eunap., de Legat. Tom. I Histor. Byzant.]. Prese l'affermativa, parte perchè si figurò Valente di superiorizzare colle lor forze i suoi nipoti, e parte [203] perchè parve gran vantaggio il poter con questi Barbari provveder di reclute le armate romane; e forse non era male, purchè fossero state ben eseguite le precauzioni prese per dare loro ricetto. Cioè che si facessero prima passar di qua dal Danubio i lor figliuoli, i quali si trasportassero in Asia per servire di ostaggi della fedeltà de' padri; che ognun di essi Goti prima di passare avesse da consegnar l'armi in mano degli uffiziali romani. Quest'ultimo ordine fu per disattenzione ed iniquità di essi uffiziali malamente eseguito. Credesi che ne passassero in questi tempi circa ducento mila colle lor mogli e figliuoli [Idacius, in Fastis.], e questi si sparsero per la Tracia e lungo il Danubio. Altre nazioni gotiche [Zosim., lib. 4, cap. 20. Orosius. Hieronymus, in Chronic.], le quali restavano di là da quel fiume, veduto sì buon accoglimento fatto da Valente ai lor nazionali, spedirono anche esse per ottener la medesima grazia, ma n'ebbero la negativa, perchè troppo pericoloso si conobbe l'ammetterne di più. Tuttavia questo esempio produsse delle brutte conseguenze, perchè innumerabili altri Goti da lì a qualche tempo anch'essi passarono di qua dal Danubio al dispetto de' Romani, e con esso loro si unirono anche i Taifali, popolo infame per le sue impurità, di modo che si vide inondata in breve la Tracia colle vicine provincie da un'immensa folla di Barbari, amici di quattro giorni, e poi nemici perpetui, e distruggitori del romano imperio. Cominceremo a chiarircene nell'anno seguente.


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Anno di Cristo CCCLXXVII. Indizione V.
Damaso papa 12.
Valente imperadore 14.
Graziano imperadore 11.
Valentiniano II imperad. 3.

Consoli

Flavio Graziano Augusto per la quarta volta e Merobaude.

Per qualche tempo dell'anno presente continuò ad essere prefetto di Roma Gracco [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], ed ebbe poi per successore Probiano. Abbiamo veduto di sopra come una prodigiosa quantità di Goti avea ottenuta per sua stanza la Tracia e il lungo del Danubio. Necessaria cosa sarebbe anche stata che si fosse provveduto al loro bisogno di abitazione e di vitto [Ammianus, lib. 31, cap. 4.]. Mancò tal provvisione per la colpa di Lupicino conte della Tracia e di Massimo duca di quelle parti, i quali facevano mercatanzia di quella povera gente, obbligandola a comperar caro i viveri, e a vendersi schiavi per ottener del pane. Ecco dunque condotti alla disperazione i Goti [Hieronymus, in Chronic.], i quali, altro ripiego non conoscendo alla fame che di ricorrere all'armi, cominciarono a poco a poco ad ammutinarsi. Accortosene Lupicino, ritirò dalle ripe del Danubio le guarnigioni per costringerli colla forza a passar più oltre nel paese. Arrivò con essi a Marcianopoli nella Mesia, e quivi invitò seco a pranzo Fritigerno ed Alavivo capi dei medesimi, ma senza voler che alcun altro de' Goti entrasse nella città; e perchè alcuni v'entrarono, li fece uccidere. I Goti, anch'essi infuriati per questo, ammazzarono alquanti soldati romani. Fritigerno ebbe l'accortezza di salvarsi, col fingere di portarsi a pacificare i suoi. Si venne per questo alle mani fra i Goti e i Romani fuori di Marcianopoli, e gli ultimi ebbero una gran rotta. I Goti allora colle armi dei vinti [205] molto più vennero a farsi forti. In questo tempo una infinità d'altri Goti, ch'erano di là dal Danubio, senza aver potuto ottener la licenza di passar nel paese romano, trovate sguernite le rive del fiume, e però niun ostacolo ai loro passi, se ne vennero di qua, e andarono poscia ad unirsi con Fritigerno. Altri Goti che stanziavano in Andrinopoli fecero lo stesso, e con loro eziandio si unirono assaissimi altri Goti che erano schiavi; sicchè, divenuta formidabile l'armata de' medesimi, si mise a dare il sacco alla Tracia, e si vide infine a crescere ogni dì più il loro numero colla giunta di moltissimi Romani ridotti alla disperazione per la gravezza delle imposte. Dimorava tuttavia in Antiochia Valente Augusto, e ricevute queste amare nuove, e premendogli più i serpenti che egli s'era tirati in seno, che ogni altro affare, spedì Vittore suo generale al re di Persia Sapore, per conchiudere seco la pace. Fu essa in fatti conchiusa: non ne sappiam le condizioni; si può ben credere che furono svantaggiose per chi dovette comperarla.

Intanto Valente premurose lettere inviò al nipote Graziano Augusto, pregandolo di soccorso in così scabrosa congiuntura. Non mancò Graziano [Ammian., lib. 31, cap. 7.] di mettere in viaggio un buon corpo di gente sotto il comando di Ricomere capitan delle guardie, e di Frigerido duca. Ma per la strada molti di queste brigate desertando se ne tornarono alle lor case, e fu creduto per ordine segreto di Merobaude generale di esso Graziano, per paura che, sprovvedute le Gallie dell'occorrente milizia, i Germani, passato il Reno facessero qualche irruzione. Frigerido anch'egli, preso da vera o da falsa malattia, si fermò per istrada. Il solo Ricomere, colle truppe che gli restavano, arrivò ad unirsi con Profuturo e Traiano, generali spediti da Valente con alcune legioni nella Tracia per accudire ai bisogni. [206] Tenuto consiglio di guerra, determinaro questi uffiziali di andar osservando e stringendo i Goti, per dar loro alla coda, qualora andassero mutando il campo. Ma i Goti non erano di parere di lasciarsi divorare a poco a poco; e però, spediti qua e là avvisi ai loro nazionali, che tutti corsero ad attrupparsi e formarono un'armata prodigiosa, di lunga mano superiore alla romana, altra risoluzione non vollero prendere, che quella di una giornata campale. A questa in fatti si venne un dì nel luogo detto ai Salici fra Tomi e Salmuride nella picciola Tartaria. Durò la fiera battaglia dal mattino sino alla sera, senza dichiararsi la vittoria per alcuna delle parti; ma perchè i Romani erano troppo inferiori di numero ai Barbari, ogni lor perdita fu più sensibile che quella de' nemici. San Girolamo [Hieron., in Chron.] all'anno seguente, ed Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 33.], con iscrivere che i Romani rimasero sconfitti dai Goti, forse vollero indicare questo sanguinoso fatto d'armi. Non istimarono bene i generali romani di tentare ulteriormente la fortuna, e giacchè si avvicinava il verno, si ritirarono a' quartieri in Marcianopoli. Ingrossati poscia i Goti coll'arrivo di molti Unni ed Alani, corsi anch'essi all'odore della preda, non si potè più loro impedire che non facessero continue scorrerie e saccheggi per la Tracia. Osò Farnobio, uno de' lor capi, con gran seguito di Taifali di tener dietro a Frigerido generale di Graziano; ma questi camminando con gran circospenzione, allorchè se la vide bella, verso Berea gli assalì, e gli sconfisse colla morte dello stesso Farnobio. Non ne restava un di costoro vivo, se non avessero implorato il perdono, e si fossero renduti prigioneri. Frigerido mandò poi costoro in Italia a coltivar le terre poste fra Modena, Reggio e Parma. Con queste calamità ebbe fine l'anno presente.


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Anno di Cristo CCCLXXVIII. Indiz. VI.
Damaso papa 13.
Graziano imperadore 12.
Valentiniano II imperad. 4.

Consoli

Flavio Valente Augusto per la sesta volta e Flavio Valentiniano juniore Augusto per la seconda.

Giacchè niuna memoria ci resta di chi esercitasse nell'anno presente la prefettura di Roma, sia a noi lecito il conghietturare che in essa continuasse Probiano. Le leggi del Codice teodosiano [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.] ci fan conoscere Graziano Augusto tuttavia dimorante in Treveri nel dì 22 d'aprile di quest'anno. Poco però dovette stare a mettersi in marcia colle sue milizie per soccorrere Valente Augusto suo zio, addosso al quale facevano allora da padroni i Goti. Avvisati preventivamente gli Alamanni cognominati Lenziani [Ammian., lib. 31, cap. 10.], abitanti presso le Rezie, da un lor nazionale, militante nelle guardie di esso Augusto, della spedizion che si preparava verso l'Illirico, rotta la pace, neppur aspettarono la divisata partenza delle milizie romane, per far un'irruzione di qua dal Reno. Ciò fu loro ben facile nel mese di febbraio, per aver trovato il ponte formato dai ghiacci di quel fiume. Ma furono respinti dalle guarnigioni poste in que' siti. Avviatesi poi le soldatesche di Graziano alla volta del Levante, ecco di nuovo con forze di lunga mano maggiori comparir gli stessi Alamanni di qua dal Reno, e mettersi a saccheggiar le terre romane con terrore di tutto quel paese. Fece Graziano allora retrocedere dall'impreso viaggio le sue milizie, ed unitele colle altre rimaste nelle Gallie, spedì contro dei nemici quell'armata sotto il comando di Nannieno prudente suo generale, e di Mellobaude re o sia principe [208] valoroso de' Franchi, il quale non isdegnava di servire allora nella corte cesarea in grado di capitan delle guardie, nè altro sospirava che di venire ad un fatto d'armi. Vi si venne infatti, essendosi affrontati i due nemici eserciti ad Argentaria, creduta oggidì la città di Colmar nell'Alsazia. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 33.] pretende (e par seco d'accordo Ammiano) che lo stesso Graziano v'intervenisse in persona, confidato nella potenza di Gesù Cristo, siccome buon principe cattolico ch'egli era. Sulle prime i Romani piegarono, sopraffatti dall'esorbitante numero de' nemici; ma poi, ripigliato coraggio, talmente menarono le mani, che gli Alamanni andarono in rotta, restandone trenta mila morti sul campo, se s'ha da credere alla Cronica di san Girolamo [Hieronymus, in Chronic.], a Cassiodoro [Cassiodorus, in Fast.] suo copiatore e al giovine Vittore [Aurelius Vict., in Epitome.]. Ma l'ordinario costume degli storici e de' vincitori si è di accrescere il pregio delle vittorie. Ammiano solamente scrive essersi creduto che non più di cinque mila di coloro si salvassero colla fuga, e che vi restò morto lo stesso Priario re di quella gente. Non bastò a Graziano questo felice successo; ma, passato all'improvviso il Reno colla sua armata, entrò nel paese nemico con intenzione di distruggere un popolo che non sapea mantener la fede, ed inquietava sì sovente il territorio romano. Altro scampo non trovarono quegli abitanti, che di ritirarsi ai siti più rapidi e scoscesi delle loro montagne colle proprie famiglie. Furono anche ivi perseguitati e bloccati, tanto che si trovarono costretti ad arrendersi ed arrolarsi ne' reggimenti romani, col non aver più osato que' Barbari durante l'assenza di Graziano di far alcun altro moto o tentativo. Io so che san Girolamo, a cui tenne dietro Cassiodoro, mettono questo fatto all'anno precedente, seguitati in ciò [209] dal Gotofredo [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theod.], e dal Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Ma chi ben riflette a quanto di tali battaglie e vittorie narra Ammiano, e massimamente al vedere ch'esse accaddero poco prima che Graziano s'inviasse verso l'Illirico (il che egli eseguì nell'anno presente) troverà più fondati i conti dell'Hermant [Hermant, Vie de Saint Basil.] e del Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], che ne parlano sotto quest'anno. Fa qui Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 10.], benchè scrittor gentile, un elogio di Graziano con dire che sembra incredibile la prestezza con cui egli, assistito da Dio, fece questa impresa, giovine di primo pelo, di indole buona, eloquente, moderato, bellicoso e clemente; e che avrebbe potuto pareggiar la gloria dei più rinomati Augusti, se non avesse trascurato, come anche attesta Vittore [Aurelius Victor, in Epit.], il pubblico governo, perdendosi ne' serragli a tirar di arco alle bestie e che questo era il suo più favorito sollazzo. Continuò poscia Graziano il suo viaggio coll'esercito alla volta della Pannonia, per soccorrere Valente, a cui già aveva inviato Sebastiano conte per comandare la fanteria. Avendo egli tolto a Frigerido il comando dell'armi dell'Illirico per darlo a Mauro conte, creduto più animoso, se n'ebbe poscia a pentire, perchè costui in una battaglia coi Goti, data al passo de' Suchi, n'ebbe la peggio. Arrivò Graziano a Sirmio, e di là passato sino al luogo appellato Castra Martis, spedì Riomere suo generale all'Augusto zio, per avvisarlo del suo arrivo e pregarlo che lo aspettasse.

Quanto ad esso Valente, stette egli fermo in Antiochia ne' primi mesi dell'anno corrente, attendendo la primavera per muoversi, ancorchè gli venissero frequenti corrieri con avviso che i Goti desolavano tutta la Tracia [Zosimus, lib. 4, cap. 21.] e scorrevano sino alla Macedonia e Tessaglia, con essere giunte alcune loro masnade [210] infin sotto Costantinopoli, ed averne saccheggiati i borghi. Dopo aver egli spedita innanzi la cavalleria de' Saraceni, che bravamente fece sloggiare i nemici dai contorni di quella regale città [Eunap., de Legat.], anch'egli arrivò là nel dì 30 di maggio dell'anno presente [Idacius, in Fastis.]. Fu mal veduto dal popolo [Socrat., lib. 4, cap. 31.], che alla sua soverchia tardanza attribuiva i tanti danni e mali inferiti dai Barbari a quella provincia. Giunsero que' cittadini ne' giuochi del circo con una specie di ammutinamento a chiedergli delle armi, con esibirsi di andar eglino a combattere co' nemici. Se l'ebbe forte a male Valente. Levato il comando della fanteria a Trajano conte cattolico, lo diede al poco fa memorato conte Sebastiano, disponendo tutto la giustizia di Dio per punire il principe ariano e questo generale manicheo, amendue stati finora fieri persecutori di chi professava il cattolicismo. Per consiglio appunto di esso Sebastiano venne Valente dipoi all'infelice battaglia, di cui ragioneremo fra poco; e ciò contro il parere di Vittore generale cattolico, e di Arinteo altro suo generale. Poco si fermò Valente in Costantinopoli, e ne uscì nel dì 11 di giugno, minacciando fiera vendetta, se poteva ritornare, delle ingiurie che quel popolo gli avea dette o fatte in questa e in altre occasioni. Nel passare davanti alla cella di un santo romito, appellato Isacco [Sozom., lib. 4. cap. 40. Theodoret., lib. 4, c. 41. Theophan., Chronogr. Zonar., in Annalib.], questi il fermò con predirgli un funesto successo nella guerra contra de' Barbari, dacchè egli era in disgrazia di Dio, ai cui servi aveva fatta tanta guerra finora. Valente il fece imprigionare ordinando che fosse ben custodito sino al suo ritorno. Passò dipoi a Melantiade, luogo distante da Costantinopoli circa venti miglia, e di là inviò Sebastiano conte con un corpo scelto di gente a dar la caccia a' Goti. Riuscì infatti [211] a questo generale di sconfiggere alcune loro brigate, e di torre ad essi un grandissimo bottino; e, se crediamo a Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 23.], il suo parere fu di risparmiar la battaglia, e di andar pizzicando i Barbari in quella forma. Non volle ascoltarlo Valente, infatuato della speranza di una vittoria che non potea mancare alla bravura del poderoso suo esercito, e con tal idea passò ad Andrinopoli, dove arrivò anche Ricomere coll'ambasciata di Graziano. Era di sentimento il general Vittore, che si aspettasse la unione dell'Augusto nipote: lo desiderava anche Valente; ma gli adulatori, e fra gli altri lo stesso Sebastiano, mutate già le sue massime, sostennero non doversi permettere che Graziano entrasse a parte della vittoria. In somma fu risoluta la battaglia, e, benchè giugnesse una deputazion di Fritigerno, di cui era capo un prete ariano, per proporre qualche convenzione ed accordo, si rimandò senza farne caso.

Era il dì 9 d'agosto, giorno in cui Valente credendo di raccogliere una gloriosa vittoria, da' suoi peccati fu condotto alla perdizione. Avendo egli lasciato il bagaglio dell'armata presso di Andrinopoli con buona scorta [Idacius, in Fastis. Socrates, lib. 4, cap. 28. Ammianus, lib. 31, cap. 12.], e mandato il tesoro nella città, sul far del giorno s'inviò in traccia de' nemici. Dopo otto o pur dodici miglia di cammino, sul bollente mezzogiorno arrivò l'imperiale armata a scoprire il campo de' Barbari, cinto all'intorno dal numeroso loro carriaggio; e si diedero i capitani a formar le schiere. Lo astuto Fritigerno volendo guadagnar tempo, perchè Alateo e Safrace suoi capitani con un buon corpo di gente, che si aspettava, non eran giunti peranche, spedì ambasciatori a Valente per pregarlo di pace. La risposta fu, che se Fritigerno mandasse per ostaggi dei principali della sua nazione, si darebbe orecchio. Innanzi e indietro [212] andarono le parole, e intanto l'esercito romano in armi pel caldo e per la sete languiva. Mandò Fritigerno a dire che in persona sarebbe egli venuto a trattare, purchè se gli dessero de' buoni ostaggi. Ricomere spontaneamente si esibì di andarvi, e in fatti era già incamminato verso il campo nemico, quando Bacuro, capitano degli arcieri, senza aspettar gli ordini de' comandanti, attaccò la mischia; e poco stettero ad essere alle mani tutte le due armate. Terribile e sanguinoso fu il conflitto, di cui si legge la descrizione in Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 13. Socrates, lib. 4, cap. 36. Sozom., lib. 6, cap. 40. Liban., in Vita sua.]. A me basterà di dire che o venisse il difetto dal poco buon ordine de' Romani, come vuol taluno, trovandosi la cavalleria troppo lontana, o pure dal non aver essa cavalleria fatto il suo dovere con sostener la fanteria: certo è che l'armata romana restò intieramente sconfitta con sì fatta perdita, che almeno due terzi di essa vi perirono; e, dopo la battaglia di Canne, altra simil perdita non avea mai sofferto l'imperio romano. Fra gli altri primi offiziali che vi lasciarono la vita, si contarono Trajano, Sebastiano conte, Valeriano contestabile, Equizio mastro del palazzo, e trentacinque tribuni. Ma ciò che maggiormente rendè memorabile così funesta giornata fu l'infelice morte del medesimo imperadore Valente, che in due maniere vien raccontata. Vogliono alcuni [Hieron., in Chron. Victor, in Epit. Ammian., l. 31, c. 14.] che malamente ferito restasse morto nel campo della battaglia, e che spogliato poi dai Barbari senza conoscere il corpo suo, e confuso con gli altri, non se ne avesse più contezza. Gli altri (e questi sono i più) tengono [Rufinus, Zosimus, Orosius, Socrates, Sozomen. et alii.] ch'egli ferito cercò di salvarsi, ma non potendo reggersi a cavallo, e sorpreso anche dalla notte, si rifugiò in una casa contadinesca, alla quale sopraggiunti i Barbari attaccarono il fuoco, ed egli con gli altri del suo seguito [213] restò quivi bruciato. Un solo giovane, che ebbe la sorte di salvarsi con uscire per una finestra, per quanto portò la fama, questi fu che raccontò poi questo lagrimevol esempio della vanità delle umane grandezze; e quella certo di Valente Augusto con un soffio venne meno, con restar egli privo anche dell'onore della sepoltura. La morte sua, succeduta nell'anno cinquantesimo della sua età, fu dipoi dai cattolici riguardata come un giusto castigo della mano di Dio per le persecuzioni da lui fatte al cattolicismo affin di promuovere l'arianesimo; e gli stessi pagani, ancorchè non molestati per le loro superstizioni, non che i cristiani, la tennero per un pagamento da lui meritato per le tante crudeltà commesse. Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 1.], raccontando vari presagi della rovina di Valente, confessa avere avuto in uso il popolo d'Antiochia di dire: Che sia bruciato vivo Valente. Vien poi il medesimo storico rammentando tanto il buono che il cattivo di questo imperadore. Soprattutto fra i suoi pregi conta il non aver egli mai accresciuto le gabelle e gli aggravii del pubblico, ed essere stato rigoroso esattor della giustizia; nemico de' ladri e dei giudici che si lasciavano sovvertir dai doni: liberale e splendido per le fabbriche da lui fatte in varie città. Altre sue lodi si truovano in una orazion di Temistio [Themist., Or. XI.]. Ma, voltando carta, Ammiano sembra distruggere quanto ha detto di buono, con rappresentar Valente insaziabile nel radunar danaro; solito a deputar giudici onorati per le cause criminali, ma con volerne poi riserbate le decisioni all'arbitrio suo; selvatico, collerico e troppo inclinato a spargere il sangue de' sudditi col familiar suo pretesto di essere offesa o sprezzata la principesca sua maestà. Di più non ne dico, bastando sapere che non fu punto compianta la morte di lui: il che suol essere la pietra del paragone del merito o demerito dei regnanti.

[214] Terminata la sanguinosa battaglia coll'eccidio de' Romani, nel dì seguente i vittoriosi Goti, ben informati che in Andrinopoli erano ricoverati i tesori e i principali uffiziali della corte, volarono ad assediar quella città [Ammian., lib. 3, cap. 15. Socrat., l. 4, cap. 1.]. Ma, privi affatto di attrezzi militari, e non pratici della maniera di formar assedii, diedero ben dei feroci assalti, ma con loro gran perdita furono respinti, in guisa tale, che scorgendo l'impossibilità di quell'impresa, se ne partirono. Andarono poscia a mettere il campo in vicinanza della città di Perinto, ma senza osare di assalir quella città, intenti unicamente al saccheggio di quel fertile paese, con ammazzare o fare schiavi quanti infelici contadini cadevano nelle loro mani [Idacius, in Fastis.]. Di là facevano varie scorrerie sino a Costantinopoli; ma dalla cavalleria de' Saraceni, che era alla guardia di quella città, riportarono varie percosse; e però giudicarono meglio di spendere altrove il tempo e i passi. Diedersi dunque pel restante di quest'anno a scorrere e saccheggiare per la Tracia, Mesia e Tartaria minore senza trovare in luogo alcuno opposizione. Troppo erano sbigottiti, troppo avviliti i Romani. Ebbe perciò a dire uno dei principali Goti [Chrysost., ad Viduam.], che si maravigliava molto dell'imprudenza di essi Romani, perchè non solamente negavano di ceder loro quelle provincie, ma speravano ancora di vincere, quando poi si lasciavano scannare come tante pecore; e che quanto a lui era già stanco per non aver fatto altro che ucciderne. Parimente Eunapio [Eunap., de Legat.] attesta che in quei tempi, siccome i Goti tremavano all'udire il nome degli Unni, altrettanto facevano i Romani udendo il nome dei Goti: a tale stato avea la empietà e la imprudenza di Valente e dei suoi cattivi ministri ridotto il romano imperio in quelle parti. Nè già si fermò nella Tracia e nei [215] vicini paesi la rabbia ed avidità di quei Barbari; passò nell'Illirico stendendo coloro i saccheggi sino ai confini dell'Italia. Di questa favorevol congiuntura si prevalsero anche gli Alani i Quadi e Sarmati per venire di qua dal Danubio, e devastar quanto paese poterono: il flagello di tanti Barbari durò poi più anni coll'esterminio delle misere provincie romane. S. Girolamo [Hieron., in Epitaph. Nepotian., ad Heliod.] circa l'anno di Cristo 396 fece un lagrimevol ritratto di tante disavventure, con dire che correano già venti anni, dacchè i Goti, Sarmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali e Marcomanni continuavano a saccheggiare e guastare la Scizia romana, la Tracia, la Macedonia, la Dardania, la Dacia, la Tessalia, l'Acaia, i due Epiri, la Dalmazia, e le due Pannonie. Si vedevano uccisi o condotti in ischiavitù fino i vescovi, non che gli altri del popolo; svergognate le nobili matrone e le sacre vergini, uccisi i preti e gli altri ministri dei santi altari; smantellate o divenute stalle di cavalli le chiese, e conculcate le sacre reliquie. In una parola, tutto era pieno di gemiti e grida, ed altro dappertutto non si vedeva se non un orrido aspetto di morte, andando in rovina l'imperio romano, ancorchè neppure per tante percosse della mano di Dio la superbia degli uomini si potesse piegare. Altrove attesta il medesimo santo [Idem, in Sophon., cap. 1.], che l'Illirico composto di varie provincie, la Tracia e la Dalmazia sua patria, erano restate paesi incolti, senza abitatori, senza bestie, e divenuti boschi e spinai. Altrettanto va deplorando i mali di allora s. Gregorio Nazianzeno [Gregorius Nazianzen., Orat. XIV.]. Era in pericolo di partecipar di somiglianti sciagure anche l'Asia [Ammianus, lib. 31, cap. 16. Zosimus, l. 4, c. 26.], dove si trovava dianzi gran copia di Goti, i quali, all'udire i fortunati avvenimenti dei lor nazionali in Europa, già cominciavano a macchinar sedizioni [216] nelle città d'Oriente. Ma, accortosene Giulio generale dell'armi in quelle parti, seppe così accortamente dar gli ordini opportuni a diverse di quelle città, che un determinato giorno li fece tutti tagliare a pezzi. Con questo racconto termina Ammiano Marcellino la sua storia, siccome ancora s. Girolamo la sua cronica, continuata dipoi da Prospero Aquitano.

Scappato per sua buona ventura dall'infausta battaglia di Andrinopoli Vittore generale di Valente, con quella poca cavalleria che restò illesa, traversò la Macedonia, ed arrivò a trovar Graziano Augusto, il quale, udite le triste nuove della suddetta battaglia e della morte dell'Augusto suo zio, se n'era tornato a Sirmio. Perchè ci abbandona qui Ammiano, cominciamo a penuriar di notizie, e niun preciso lume abbiamo di quello che operasse di poi esso Augusto. V'ha chi pretende [Pagius, Crit. Baron.] ch'egli tosto passasse a Costantinopoli, per prendere il possesso degli stati che in Oriente godeva l'estinto Valente; ma di ciò niun vestigio s'incontra altrove, e noi il troveremo anche nel gennaio del seguente anno in Sirmio [Gothofr.]. Quel che è certo, giacchè Valente non lasciò dopo di sè alcun figlio maschio, ma solamente due figliuole, appellate Carosa ed Anastasia, Graziano pacificamente venne riconosciuto per lor sovrano dalle provincie orientali, e massimamente dal popolo di Costantinopoli. Ma ritrovando egli sì sconvolti gli affari della Tracia e dell'Illirico a cagion del diluvio di tanti Barbari, e Barbari insuperbiti per la riportata gran vittoria, allora fu che richiamò alla corte Teodosio il giovane, il quale, dopo la morte indebitamente data a Teodosio suo padre governatore dell'Africa, si era ritirato ad una vita privata ed occulta nella Spagna sua patria. Conosceva Graziano il valore, la prudenza e le altre virtù di questo uffiziale, e che potea promettersi un buon servigio [217] da lui in sì scabrose contingenze, e però venuto ch'egli fu, gli diede il comando di una parte della sua armata. Se si ha da credere a Teodoreto [Theodor., lib. 5, cap. 5.] non perdè punto di tempo il generale Teodosio a marciare contra dei Barbari, cioè, per quanto pare, dei Sarmati, e diede loro una considerabile rotta, obbligando quei che sopravanzarono al filo delle spade [Pacatus, in Panegyr.] a salvarsi di là dal Danubio. Ne portò egli la nuova a Graziano, il quale a tutta prima durò fatica a crederla, finchè gli fu confermata da più persone la verità di quel fatto. Gran merito si fece presso di lui Teodosio con questa prima azione.


   
Anno di Cristo CCCLXXIX. Indizione VII.
Damaso papa 14.
Graziano imperadore 13
Valentiniano II imperad. 5.
Teodosio imperadore 1.

Consoli

Decimo Magno Ausonio e Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio.

Ausonio, primo di questi due consoli, celebre scrittore dei presenti tempi, quel medesimo è che, nato nelle Gallie in Bordeaux di mediocre famiglia, avea avuto l'onore di essere maestro di Graziano Augusto. La gratitudine di questo principe, arrivato che fu al governo degli stati, non si restrinse solamente a farlo prefetto del pretorio delle Gallie; il volle anche rimunerare colla più cospicua dignità dell'imperio, creandolo console nell'anno presente. Si disputa tuttavia, se egli fosse cristiano o pagano [Scalig. Cave, Tillemont et alii.]. Alcuni suoi versi (se pure sono tutti di lui) cel rappresentano professore della fede di Cristo; il complesso nondimeno di tanti altri suoi versi pieni di paganesimo, e di sordide impurità, porge sospetto giusto ch'egli fosse un gentile. Certamente s'egli fu cristiano, dovette esser tale più di [218] nome che di fatti: tanto que' suoi poemi svergognano la professione di sì santa religione. L'altro console, cioè Olibrio, quello stesso è che abbiam veduto in addietro prefetto di Roma. Nell'anno presente, se non son fallati i testi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], essa prefettura fu appoggiata ad Ipazio. Passò l'Augusto Graziano il verno in Sirmio, e quivi riflettendo al miserabil sistema dei tempi correnti per la inondazione di tante nazioni barbariche nell'Illirico e nella Tracia, con essere nello stesso tempo minacciate anche le Gallie dagli Svevi ed Alamanni; conoscendo inoltre che non era possibile a lui solo il sostenere in tali circostanze il peso dell'occidentale e insieme dell'orientale imperio, trovandosi il fratello Valentiniano in età puerile, e che bisogno ci era di un braccio forte per rimediare ai presenti disordini e ai maggiori pericoli dell'avvenire, determinò di scegliere un collega nell'imperio [Themistius, Orat. XIV.]. Si fermarono i suoi sguardi e riflessi (giacchè trovar non dovette alcuno dei suoi parenti atto a sì gran soma) sopra Teodosio il giovane, da lui poco fa alzato al grado di generale, personaggio che negli anni addietro, ed ultimamente ancora, si era segnalato in varie imprese militari. Però chiamatolo a Sirmio nel dì 19 (Socrate scrive nel dì 16) di gennaio dell'anno presente, ancorchè trovasse in lui della ripugnanza non finta, il dichiarò imperadore Augusto [Pacatus, in Panegyr. Idacius, in Chronic. Zos. lib. 4, cap. 24. Chronicon Alexandrin. Prosper., in Chronic.], con approvazione e plauso di chiunque non penuriava di giudizio. Era Teodosio nato in Ispagna in Cauca città della Galizia, e non già in Italica patria di Traiano, come scrisse Marcellino conte; e quantunque non manchino scrittori che il fanno discendente da esso Traiano [Socrates, Hist. Eccl. Victor, in Epitome. Claudian. et alii.], pure gran pericolo vi ha che figlia dell'adulazione fosse la voce di [219] una tal parentela. Certo è bensì che nei pregi egli somigliò non poco a quel rinomato Augusto, e non già ne' vizii. Ebbe per padre, siccome dicemmo, quel Teodosio conte, valoroso generale, che per ordine dello sconsigliato Graziano Augusto fu ucciso in Africa. Onorio vien malamente appellato suo padre da Vittore [Victor, in Epitome.], il quale dà il nome di Termanzia alla di lui madre. Intorno a vari suoi fratelli e parenti hanno disputato gli eruditi [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], ma io non vo' fermare i lettori in sì spinose ricerche. Credesi che Teodosio, allorchè fu alzato al trono, si trovasse nel più bel fiore della sua età, cioè di circa trentatrè anni. Aveva per moglie Elia Flacilla, nominata per lo più dagli scrittori greci [Du-Cange, Hist. Byzant.] Placilla, ed anche Placidia, da alcuni creduta figliuola di quell'Antonio che vedremo console nell'anno 382. Delle rare qualità e virtù di questo novello Augusto, per le quali si meritò il nome di grande, ragioneremo altrove. Per ora basterà il dire ch'egli aveva ereditato dai suoi maggiori l'amore della religion cristiana, tuttochè per anche non avesse ricevuto il sacro battesimo, secondo l'uso od abuso di molti d'allora; ma che poco tarderemo a vederlo entrato pienamente nella greggia di Cristo, con divenir poi da lì innanzi il più luminoso de' suoi pregi la pietà e l'amor della vera religione.

Fu dunque di nuovo partito il romano imperio. Graziano ritenne per sè l'Italia, l'Africa, la Spagna, la Gallia e la Bretagna. Vuol Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 19.] che esso Graziano assegnasse a Valentiniano II suo fratello minore le due prime provincie coll'Illirico, e taluno pensa ciò fatto nell'anno presente; ma Graziano, attesa la tenera età di esso Valentiniano, almen come tutore, continuò anche da lì innanzi a comandare in tutte le suddette provincie di sua porzione. A Teodosio toccò Costantinopoli colla Tracia, e tutte le [220] Provincie dell'Oriente colle quali solea andar unito l'Egitto: Sozomeno [Sozom., Histor. Eccl., lib. 7, cap. 14.] vi aggiugne anche l'Illirico: per la qual asserzione gli vien data una mentita dal Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], perchè di ciò non parlano gli altri storici; e molto più perchè ci son pruove che Valentiniano iuniore signoreggiò in esso Illirico. Ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 380.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] eruditamente ha dimostrato che l'Illirico fu in questi tempi diviso in occidentale ed orientale. Nel primo si contavano le due Pannonie, i due Norici e la Dalmazia. Nell'altro la Dacia, la Macedonia, i due Epiri, la Tessalia, l'Acaia e l'isola di Creta. Restò in potere di Graziano l'occidentale, e l'altro pervenne a Teodosio. Dopo avere in questa guisa regolati i pubblici affari, Graziano si mise in viaggio per ritornar nelle Gallie. Le leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] del Codice Teodosiano cel fanno vedere in Aquileia sul principio di luglio, sul fine in Milano. Professava questo principe una particolar amicizia e confidenza con sant'Ambrosio arcivescovo dell'ultima città suddetta; e per le istanze di lui questo insigne pastore scrisse i suoi libri della Fede. All'incontro per le premure di sant'Ambrosio si può ben credere che esso Augusto pubblicasse in Milano nel dì 3 di agosto una legge [L. 5, de Haeret. Cod. Theodos.] riguardante gli eretici. Aveva egli nell'anno precedente, mentre dimorava in Sirmio, con suo editto permessa la libertà a tutte le sette degli eretici [Suidas, verbo Gratianus. Socrates, l. 5, cap. 2 et 4. Sozomenus, lib. 7, cap. 1.] a riserva degli Eunomiani, Manichei e Fotiniani, accomodandosi alla necessità de' tempi e per guadagnarsi gli animi degli Orientali, gente avvezza alle novità e alle eresie. Ora colla legge suddetta emanata in Milano egli proibì a tutti gli eretici di predicare i lor falsi dogmi, e di tener delle assemblee, e di [221] ribattezzare: il che massimamente si usava dai Donatisti. Se non prima, certamente dimorando Graziano in Milano, gli dovettero giugnere avvisi che gli Svevi e gli Alamanni faceano de' fieri movimenti, e già erano passati di qua dal Reno ai danni delle Gallie. Prese egli dunque il cammino frettolosamente per la Rezia alla volta di Treveri [Auson., in Panegyr.], dove una sua legge cel rappresenta già arrivato nel dì 14 di settembre. Abbiamo ben da Sozomeno [Sozom., ib., cap. 4.] che l'armi sue ripulsarono i Barbari della Germania, giunto ch'egli fu colà; ma non parlandone Ausonio nel suo panegirico, si può giustamente dubitar di tali imprese. Non può già restar dubbio intorno al tempo in cui esso Ausonio recitò il suo panegirico in rendimento di grazie a questo Augusto pel consolato suo, essendo ciò avvenuto dappoichè lo stesso Graziano si fu restituito a Treveri, e però non nel principio dell'anno presente, ma almen dopo l'agosto, e più probabilmente verso il fin di quest'anno. Nè si dee tralasciare che san Prospero, nella sua cronica [Prosper, in Chron.] intorno a questi tempi comincia a farci udire il nome de' popoli longobardi, conosciuti nondimeno fino ai suoi tempi da Cornelio Tacito; e questi son quegli stessi che due secoli dopo vennero a recar tanti affanni all'Italia. Scrive egli che questa nazione uscita dalle estremità dell'Oceano o della Scandinavia, cercando miglior nido, sotto la condotta di Ibor e Aione lor capi, vennero verso la Germania, e mossa guerra ai Vandali, li vinsero, piantandosi, come si può credere, nel loro paese.

Restò l'Augusto Teodosio, dopo la partenza di Graziano, nell'Illirico, attorniato bensì dagli splendori dell'eccelsa novella sua dignità, ma insieme in una immensa confusione di cose. Piene tutte le contrade dell'Illirico e della Tracia di [222] Barbari [Themist., Orat. XVI. Zosim., lib. 4, cap. 25.] orgogliosi, che in niun luogo trovavano resistenza; i popoli o trucidati, o avviliti dal terrore, o fatti schiavi; egli senza armata valevole a far fronte, e que' pochi combattenti romani che vi restavano chiusi nelle città e castella, senza osar di muovere un passo contra di quella gente fiera e vincitrice. Contuttociò Teodosio animosamente si applicò alla cura di tante piaghe, dichiarando suoi generali Ricomere e Majorano che con fedeltà e bravura secondarono le sue disposizioni. Venuto a Tessalonica ossia a Salonichi, nel giugno di quest'anno quivi ricevette gli omaggi di molte città che gli spedirono i lor deputati. Temistio sofista [Idem, Orat XIV.] specialmente fu uno degl'inviati dal senato e popolo di Costantinopoli, che non dimenticò di procurar privilegi e vantaggi per i senatori di quella regal città. Attese Teodosio in Tessalonica ad unir quanta gente potè atta alle armi, prendendo coloro ancora che lavoravano alle miniere, come avvezzi ad una vita dura e faticosa. Tutti gli addestrò in breve all'arte e disciplina militare, e restituì il coraggio a chi lo avea perduto. Poscia allorchè si vide assai forte, uscì in campagna, e cominciò a dar la caccia alle nazioni barbare. Prosperose furono in più incontri le armi di lui. Idacio [Idacius, in Fastis.] e Prospero [Prosper, in Chronic.] scrivono aver egli riportate molte vittorie de' Goti, Alani ed Unni, e che nel dì 17 di novembre le liete nuove ne furono portate a Costantinopoli [Sozom., lib. 4, cap. 25.]. Non ci resta scrittore che più precisa memoria di que' fatti ci somministri, fuorchè Zosimo [Zosim., ibid.], il quale parla di un solo di essi, molto vantaggioso ai Romani. Modare, nato di regal sangue in Tartaria, essendo passato al servigio de' Romani, tal credito si era acquistato colle sue azioni guerriere, che pervenne al grado di generale. Essendo egli andato un dì colle [223] truppe di suo comando a portarsi sopra una collina, fu avvertito dalle spie che un grossissimo corpo di Barbari era venuto ad accamparsi al piede di quella collina, e che tutti stavano a tavola in gozzoviglia, tracannando i vini rubati. Li lasciò egli ben bene aborracchiare e prendere sonno; ed allora coi suoi quietamente calò, e diede loro addosso. Tutti a man salva gli uccise, e dipoi prese le donne e i fanciulli con quattromila carrette, sulle quali in vece di letto posavano ed erano condotte in volta le loro famiglie. Dalle lettere di san Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Epist. CXXXV et seq.] par che si possa ricavare che il suddetto general Modare fosse cristiano e cattolico. Tra questi fortunati combattimenti, e l'aver Teodosio tratte alcune altre brigate di que' Barbari a chieder pace e a dargli ostaggi [Sozom., lib. 7, cap. 4.], o pure ad arrolarsi nell'esercito suo (che di questo ripiego si servì egli ancora per maggiormente sminuire il numero de' nemici) cangiarono faccia gli affari, e non passò il presente anno, che la Tracia respirò, e si vide tutta o quasi tutta libera dal peso di que' crudi masnadieri.


   
Anno di Cristo CCCLXXX. Indizione VIII.
Damaso papa 15.
Graziano imperadore 14.
Valentiniano II, imperad. 6.
Teodosio imperadore 2.

Consoli

Flavio Graziano Augusto per la quinta volta, e Flavio Teodosio Augusto.

Le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] ci danno prefetto di Roma nell'anno presente Paolino. Che questi non fosse quel Paolino, il quale fu poi vescovo santo di Nola, come si diede a credere il cardinal Baronio, forse sufficientemente l'ho io provato altrove [Anecdot. Latin., Tom. I, Disser. X.]. Passò Graziano Augusto il verno di quest'anno in Treveri, [224] e dopo il dì 13 di febbraio sen venne in Italia, trovandosi egli in Aquileia nel dì 14 di marzo, e in Milano nel dì 24 e 27 d'aprile. Il motivo di questo viaggio abbiamo ragion di credere che fosse la malattia mortale, da cui fu sorpreso Teodosio Augusto, mentre soggiornava in Tessalonica nei primi mesi dell'anno presente, secondochè si ricava da Sozomeno [Sozom., lib. 7, c. 4.], a cui in questo proposito pare dovuta più fede che a Socrate [Socrat., l. 5, cap. 6.], il quale cel rappresenta caduto infermo negli ultimi mesi. Benchè questo buon principe col cuore e colle opere si fosse mostrato fin qui cristiano, pure non avea per anche preso il sacro battesimo. Il pericolo che gli sovrastò per quel malore, servì a lui di stimolo per non differir maggiormente di chiedere, e con ansietà, il lavacro della regenerazione, affin di ottenere il perdono de' suoi peccati. Per buona fortuna di lui e della Chiesa cattolica si trovò vescovo di Tessalonica in questi tempi sant'Ascolio ossia Acolio, prelato di eminenti virtù. Anche per gl'interessi temporali grande obbligo a lui professava la sua città; imperciocchè, per attestato di sant'Ambrosio [Ambr., Epist. XXI et XXII.], nel tempo che tutto l'Illirico era inondato e desolato dai Barbari, egli non solamente preservò Tessalonica dai loro insulti, ma li cacciò ancora dalla Macedonia, non già colla forza delle armi, ma unicamente colle sue preghiere a Dio, da cui inviata la peste nel barbarico esercito, obbligò quella fiera gente a fuggirsene e a liberar il paese. Chiamato da Teodosio il santo vescovo, volle prima esso Augusto saper da lui qual fede egli professasse, e qual fosse la vera in mezzo a tante sette che tutte professavano la legge di Gesù Cristo. Il buon prelato gli disse di seguitar la dottrina insegnata dagli Apostoli, professata dalla Chiesa romana, capo di tutte, e stabilita nel concilio di Nicea, con asserirgli inoltre che [225] tutte le provincie dell'Illirico, anzi dell'intero Occidente, non altra fede tenevano che questa appellata la cattolica; al contrario delle province orientali divise in più sette. Allora il saggio Augusto protestò con allegria di voler dare il suo nome alla Chiesa cattolica; e però secondo i riti e la dottrina della medesima Chiesa ricevette il sacro battesimo, nè tardò a farlo conoscere all'imperio romano. Cioè, come si può conghietturare, ad istanza d'esso sant'Acolio, pubblicò in Tessalonica nel dì 28 di febbraio una celebre legge [L. 1, cunctos Popul. De Fide Catholica, Cod. Theodos.], con cui ordinò che tutti i popoli a lui ubbidienti dovessero seguitar la fede che la Chiesa romana avea ricevuto da san Pietro, ed era insegnata allora da papa Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria, con intimare l'infamia ed altre pene a chi la rigettasse, e con proibir le conventicole di qualsivoglia setta ereticale. Questo nobil editto riguardante nondimeno i soli eretici, e non già i pagani, seguitato poi da altre azioni di questo glorioso e piissimo Augusto, e dalla benedizione di Dio, produsse col tempo mirabili frutti per la pura religione di Cristo, siccome consta dalla storia ecclesiastica.

Ora le nuove della pericolosa malattia di esso Teodosio, la quale probabilmente fu lunga, fecero muovere dalle Gallie l'Augusto Graziano, temendo egli, che se in congiunture di tanto scompiglio fosse mancato di vita il collega, ne avrebbono trionfato i Barbari, e avrebbe potuto insorgere qualche tiranno in Oriente. Perchè dovettero poi di mano in mano venir nuove migliori della di lui salute, perciò si andò egli fermando in Italia; e noi il troviamo anche sul fine di giugno in Aquileja. Buona apparenza ancora c'è ch'egli passasse a Sirmio verso il principio di settembre, per abboccarsi con Teodosio, e conferir seco intorno ai presenti bisogni; perchè nel concilio d'Aquileia, tenuto nell'anno seguente, si legge ch'egli, [226] stando in Sirmio, avea dati gli ordini per quella sacra assemblea. Scrivendo poi san Prospero [Prosper, in Chron.], che mentre Teodosio si trovava infermo in Tessalonica, Graziano giudicò bene di far pace coi Goti; questo, se è vero, ci fan intendere la grave apprensione d'esso Augusto che fosse per mancare quel buon principe: laonde egli cercò di rimediare il meglio che potè alle perniciose conseguenze che per sì gran perdita si poteano temere. Idazio [Idacius, in Fastis.] scrive che Graziano riportò qualche vittoria nell'anno presente, ma senza dire se nell'Illirico, oppure nelle Gallie. Parla ancora d'altre conseguite da Teodosio, e con lui si accordano Marcellino conte [Marcellinus Comes, in Chronico.], Filostorgio [Philostorgius, lib. 9, c. 19.] e il Nazianzeno, ma senza che apparisca circostanza alcuna di sì favorevoli avvenimenti. Per lo contrario Zosimo, scrittore pagano [Zosimus, lib. 4, c. 31.], che per l'odio suo verso di Teodosio distruttore del gentilesimo, si studia di avvelenar, per quanto può, tutte le di lui azioni, racconta, che entrato l'esercito dei Goti nella Macedonia, Teodosio marciò contra di loro con quelle forze che potè adunare. Ma una notte i Goti, segretamente secondati dai lor disertori che si erano arrolati fra i Romani, passato il fiume, penetrarono nel campo dei Cristiani e a dirittura andarono dove era maggior copia di fuochi, immaginando che quivi fosse il quartiere dell'imperadore. Ebbe tempo Teodosio di montar a cavallo e di salvarsi. Fecero i suoi gagliarda resistenza ai Barbari con una strage grande d'essi, ma soperchiati in fine dall'esorbitante numero de' nemici, quivi lasciarono le lor vite. In questa occasione Zosimo fa il pedante addosso a Teodosio, tacciandolo di poca avvertenza per aver ammessi tanti Barbari nelle armate romane, pretendendo che costoro fossero segretamente congiurati per rivoltarsi, [227] allorchè si trovassero assai cresciuti di numero. Vero è che, accortosi Teodosio di questo pericolo, prese lo spediente di inviarne una gran parte di guarnigione in Egitto sotto il comando di Ormisda, che altrove vedemmo figliuolo di un Sapore re di Persia. Ma costoro, non volendo alcun freno di disciplina, viveano a discrezione, prendendo i viveri senza pagare; s'intendevano con gli altri Goti nemici; e colle loro insolenze guastavano tutto l'ordine delle armate romane. Aggiunge finalmente Zosimo, aver Teodosio con gran rigore esatti i pubblici tributi, con ridurre in camicia molti de' suoi sudditi, di maniera che non si udivano che lamenti dappertutto, augurandosi molti d'essere piuttosto sotto i Barbari, che vivere nelle terre romane. Così quel nemico del nome cristiano. Ma può dubitarsi della verità di questi fatti, giacchè il dirsi da lui, che dopo quella notturna vittoria i Barbari divennero padroni della Macedonia e Tessalia, resta smentito dall'autentica testimonianza di sant'Ambrosio [Ambr., Ep. XXII.], che scrive avere il santo vescovo Acolio più volte difeso colle sue preghiere a Dio da coloro la città di Tessalonica. Ed in essa città le leggi del Codice Teodosiano ci assicurano che Teodosio soggiornò per la maggior parte dell'anno presente. Venuto poi il novembre, egli passò a Costantinopoli, dove dice Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] per irrisione, ch'egli entrò come trionfante, quasi che avesse riportato delle vittorie e non delle busse; e che poi si diede alle delizie. Opponsi alle dicerie di costui il giovine Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.], il qual si crede vivuto in questi medesimi tempi, scrivendo egli tutto il contrario. L'elogio ch'ei fa di Teodosio, lo vedremo a suo tempo. E già abbiam detto che altri storici attribuiscono a Teodosio delle vittorie in questo medesimo anno.

Entrò il buon imperadore in Costantinopoli [228] nel dì 24 di novembre (dovendosi leggere così nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.]), dove fu ricevuto con gran festa. Una delle sue prime gloriose azioni fu di levar tutte le chiese agli Ariani, e di consegnarle a san Gregorio Nazianzeno [Gregorius Nazianz., Carm. 1. Marcellin., in Chronico.], che governava allora il corpo dei cattolici di quella metropoli, finchè fosse eletto un vescovo della vera credenza. Lo stesso Augusto in persona gli diede il possesso di quella cattedrale, occupata per quarant'anni dalla setta ariana; e ciò seguì senza tumulto alcuno, e con gran gioia di tutti i cattolici. Varie leggi pubblicate nell'anno presente da questo saggio e pio imperadore, si veggono registrate nel Codice Teodosiano. In una di esse proibì ai giudici le azioni criminali ne' quaranta giorni della quaresima. Con un'altra intimò delle pene alle donne che si rimaritavano entro il termine dello scorruccio, ridotto allora ad un anno, applicando i lor beni agli eredi naturali, e non al fisco. Altre sue leggi dichiararono che chiunque avrà ottenuto dalla camera imperiale beni caduchi, e rimasti senza possessori legittimi, debba comparire colla spia ossia col denunziatore, da cui sia venuta la scoperta, che que' beni fossero caduchi, per provarne la verità. Se l'avviso era falso, s'intimava la pena capitale. Nè già lasciava Teodosio di odiar le spie, come professione troppo odiosa e turbatrice della pubblica quiete: il perchè volle che simili denunziatori, se per tre volte avessero dati simili avvisi, fossero puniti coll'ultimo supplizio. Ad impedire ancora le accuse di lesa maestà, portate da alcuni anche contra persone innocenti per profittar del confisco de' beni, decretò che questi tali non potessero mai ottener somiglianti beni. Prendeva in addietro il fisco tutte le sostanze dei banditi e relegati. Teodosio volle che loro si lasciasse [229] la metà di essi beni, da essere compartita co' figliuoli. I beni poi de' condannati a morte (se pure non v'ha sbaglio in un'altra legge) volle che restassero intieramente ai lor figli o nipoti. Con altro editto comandò che non si potesse dar sentenza contra degli accusatori, se non si costituivano prigioni anch'essi. Nella qual congiuntura prescrisse de' buoni regolamenti in favore dei prigionieri, acciocchè non fossero maltrattati dai guardiani delle carceri, o detenuti più del dovere in quelle miserie. Per conto di chi avesse trovato un tesoro, vuole che tutto appartenga all'inventore, se l'ha scoperto nel proprio fondo. Ma se nel fondo altrui: un quarto ne vada al padrone del luogo. Altre sue leggi io tralascio, tutte tendenti al pubblico bene. Circa questi tempi pare che mancasse di vita Sapore re di Persia, quel medesimo che tanto da fare avea dato in addietro ai Romani [Agath., lib 4.]. A lui succedette Artaserse suo fratello, o piuttosto suo figliuolo, come si ha da Eutichio [Eutych., in Histor.].


   
Anno di Cristo CCCLXXXI. Indiz. IX.
Damaso papa 16.
Graziano imperadore 15.
Valentiniano II imperad. 7.
Teodosio imperadore 3.

Consoli

Flavio Siagrio e Flavio Eucherio.

Abbiamo da Temistio che Eucherio, console fu zio paterno di Teodosio Augusto. Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 2.] parla del medesimo, e sembra chiamarlo zio dell'imperatore Arcadio, e per conseguente fratello, e non zio del medesimo Teodosio. Ma Temistio parla chiaro, e Zosimo vorrà dire gran zio. Dello varie dignità sostenute da Siagrio primo console, è da vedere il Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. La prefettura di Roma nelle [230] leggi del Codice Teodosiano si trova amministrata da Valeriano. Per quanto poi si raccoglie dalle date di alcune di esse leggi, le quali è da dubitare se tutte sieno giuste, Graziano Augusto sul fine di marzo era in Milano, sul principio di maggio in Aquileia, verso il fin di settembre in Treveri, e in Aquileia sul fine dell'anno. Questi salti dalle Gallie in Italia e dall'Italia nelle Gallie non paiono molto verisimili. Confermò egli con suo rescritto [L. 6, de indulgent. crimin. Cod. Theod.] ad Antidio, vicario di Roma, il lodevol uso introdotto da Valentiniano suo padre di far grazia ai rei per la solennità della Pasqua, ma con eccettuare i colpevoli di enormi delitti pregiudiciali alla quiete del pubblico. Uno de' motivi probabilmente, per i quali Graziano con Valentiniano suo fratello si portò ad Aquileja fu un riguardevol concilio tenuto ivi nel settembre di quest'anno, essendo vescovo di quella città san Valeriano, uno de' più insigni prelati dell'Occidente. V'intervenne ancora sant'Ambrosio vescovo di Milano, con farvi la prima figura. Trovavasi intanto Teodosio Augusto in Costantinopoli in molte angustie, perchè un nuvolo di Goti era ritornato nella Tracia. Avendo egli fatto nell'anno addietro istanza di soccorsi all'imperadore Graziano, questi gl'inviò un corpo di gente [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] sotto il comando di Bautone e di Arbogaste, di nazione Franchi, uffiziali, militanti al di lui servigio, amendue chiamati da Zosimo disinteressati, valorosi e ben pratici del mestier della guerra. Ma di Arbogaste vedremo a suo tempo un gran tradimento. Arrivati che furono essi nella Macedonia, se non falla esso Zosimo, i Goti giudicarono meglio di ritirarsi di là, e di ritornarsene nella misera Tracia, per rodere quel poco che vi restava di bene. Perchè trovarono sì smunto quel paese, nè poteano metter piede nelle città e castella forti, cominciarono in fine a trattar di pace: del che [231] parleremo all'anno seguente. Già vedemmo negli anni addietro, chi fosse Atanarico re de' Goti, il quale piuttosto veniva appellato giudice di quella nazione, uomo superbo, che nell'anno 369 per far pace con Valente Augusto l'obbligò a portarsi in mezzo al Danubio, col pretesto di un giuramento da lui fatto di non mettere mai piede nelle terre dei Romani. Da che piombò sopra i Goti il gran flagello degli Unni, ebbe quel Barbaro il sapere o la fortuna di conservare i suoi Stati, o almen parte di essi sino al precedente anno, in cui finalmente restò detronizzato, e costretto a cercar altro cielo [Marcellinus, in Chronic.]. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 34.] pretende che egli fosse cacciato da Fritigerno, Aleteo e Safrace, capi della stessa nazione, che danzavano di qua dal Danubio sulle provincie romane. Nel racconto di Zosimo v'ha delle frottole, dando egli il nome di Alamanni a questi capi, facendoli venir dalla Germania verso la Pannonia, ed abbattere prima di ogni altra impresa Atanarico, perchè il videro costante nella pace fatta con Teodosio: cose tutte prive di sussistenza. Quel solo che abbiam di certo, si è che questo principe barbaro, spinto da qualche fiero temporale, pensò a rifugiarsi sotto le ali di Teodosio, senza far caso del giuramento poco fa accennato [Socrat., lib. 5, cap. 10.], e di sottomettere a lui sè stesso e i suoi Stati. Temistio, filosofo ed oratore, che nei primi mesi di questo anno recitò nel palazzo di Costantinopoli alla presenza di Teodosio la sua orazione XV, con esaltare le virtù di esso Augusto, adduce [Themist., Orat. XV.] appunto la venuta di questo barbaro fiero e superbo a mettersi senz'armi e senza condizioni in mano di Teodosio, per pruova del gran concetto di bontà e fedeltà in cui era esso imperadore.

Venne dunque Atanarico a [232] Costantinopoli [Zosim., lib. 4, c. 34.], e vi entrò nel dì 11 di gennaio [Idacius, in Fastis.], incontrato dallo stesso Teodosio fuori della città, ed accolto con tutte le dimostrazioni di stima e di amicizia. Ma probabilmente gli affanni da lui patiti il fecero da lì a poco cadere infermo, di modo che nel dì 25 di esso mese terminò i suoi giorni di morte naturale, come s'ha vari autori [Marcellinus, in Chron. Orosius, lib. 7, c. 34.], e non già violenta, come ha il testo di Prospero [Prosper, in Chronic.], che dee essere corrotto, dovendosi quivi leggere occidit colla seconda breve, in vece di occiditur. Se altrimenti fosse stato, Zosimo, sì facile a sparlare di Teodosio, non avrebbe certamente lasciato nella penna un tal fatto, cioè trascurata questa occasione per morderlo. Anzi da lui abbiamo ch'esso Augusto fece seppellire quel barbaro re con tal magnificenza, che ne restarono ammirati tutti i Goti del suo seguito, e crebbe in loro l'affezione e stima verso di un sì amorevol regnante con riuscir fedelissimi da lì innanzi nel suo servigio. Fa poi menzione il suddetto Zosimo [Zosimus, ut supra.] di una vittoria riportata da Teodosio contro gli Sciti e Carpadoci, barbari settentrionali, ch'erano corsi anch'essi di qua dal Danubio, al vedere sì fortunati ed arricchiti i Goti. Rimasero essi sconfitti in una battaglia da Teodosio, ed obbligati a ripassare il fiume. Di più non ne sappiamo; siccome nè pure di alcun'altra militare impresa d'esso imperadore spettante all'anno presente, si truova vestigio nelle antiche istorie. Ma s'egli nulla di più operò contra de' Barbari assassini del romano imperio, somma gloria almeno conseguì colla protezion della vera Chiesa e col suo zelo per estirpar l'eresie. Ardente era il suo desiderio di mettere una volta fine, se mai era possibile, a tante dissensioni intorno ai dogmi della religion cristiana, cioè di estinguire tutte le eresie che laceravano [233] allora specialmente le provincie di Oriente [Socrates, lib. 5, c. 8. Theodor., lib. 5, cap. 7. Labbe Concil.]. Il perchè raunò dalle contrade di sua giurisdizione in Costantinopoli un concilio di centocinquanta vescovi, i quali nel maggio di quest'anno confermarono la dottrina del concilio Niceno, stabilirono la divinità dello Spirito Santo, ed accordarono al vescovo di Costantinopoli un privilegio di preminenza. Non fu esso concilio a tutta prima riguardato come generale; tale bensì tenuto fu, dacchè Damaso papa e i vescovi di Occidente l'ebbero confermato. Eletto fu circa questi tempi vescovo di Costantinopoli san Gregorio Nazianzeno, uno dei più illustri scrittori della Chiesa di Dio; ma poco tenne quella sedia per la gara ed invidia di molti altri vescovi; imperciocchè, veggendosi egli mal veduto da essi e da una parte del popolo, ottenuto il congedo dall'imperadore, si ritirò nella Cappadocia patria sua. Non fu men gloriosa per Teodosio una legge [L. 6, de Haeret., Cod. Theod.] da lui pubblicata prima del suddetto concilio del dì 10 di gennaio, con cui proibì a qualunque setta d'eretici, e particolarmente ai Fotiniani, Ariani ed Eunomiani, il tenere alcuna assemblea nella città; ed inoltre comandò loro di consegnare ai vescovi cattolici tutte le chiese da essi occupate. L'incumbenza di eseguir questo editto fu data a Sapore, uno de' più illustri generali di Teodosio [Theod., lib. 5, cap. 2.], il quale fedelmente soddisfece alla pia intenzione del principe con gioia indicibile di tutti i cattolici; nè mancarono i vescovi d'Occidente di rendere per tanto suo zelo pubbliche azioni di grazie a Teodosio nei loro concilii. Con altra legge data nel dì 2 di maggio il piissimo imperadore levò la cittadinanza romana, e il poter far testamento a chi dei cristiani fosse divenuto pagano, intimando la stessa pena alle varie sette de' Manichei. Volle dipoi vietata agli Eunomiani ed Ariani il [234] fabbricar nuove chiese entro e fuori della città. In somma si vede spedito da Dio questo piissimo imperadore per restituire il suo lustro al cattolicismo in Oriente; ed ancorchè non cessassero per questo gli eretici di diverse sette in quelle parti, perchè i saggi imperadori non amavano, di convertir col terror della mannaie alla vera fede i traviati; pure quanto venne esaltata la Chiesa cattolica, altrettanto calò l'albagia e potenza delle diverse eresie.


   
Anno di Cristo CCCLXXXII. Indizione X.
Damaso papa 17.
Graziano imperadore 16.
Valentiniano II, imperad. 8.
Teodosio imperadore 4.

Consoli

Antonio ed Afranio Siagrio.

Antonio, primo console orientale, vien fondatamente creduto, dal padre Pagi, e da altri, padre di Flacilla, ossia Placilla, moglie di Teodosio Augusto. Quanto a Siagrio, console occidentale, egli è riputato personaggio diverso da Siagrio, stato console nell'anno precedente, perchè nei più dei Fasti antichi e nelle leggi si vede enunziato console, senza esprimere per la seconda volta. Dal padre Sirmondo e dal Gotofredo fu con buone ragioni creduto quell'Afranio Siagrio console, di cui in più di un'epistola parla Sidonio Apollinare: perciò col Relando ho anch'io tenuto che gli si possa dare il nome di Afranio. In due luoghi del Codice Teodosiano comparisce Severo prefetto di Roma, se pur non vi ha errore, perchè in altre leggi di questo medesimo anno Severo (se pure è lo stesso) si truova nominato prefetto del pretorio. Per la maggior parte dell'anno presente, siccome si ricava dalle date di varie leggi [Gothofr., Chronolog. Cod. Theodos.], Graziano Augusto dimorò in Italia, ora in Milano, ed ora in Brescia, Verona e Padova. Una d'esse leggi cel fa vedere in Viminacio, città [235] della Mesia sul Danubio, di là da Belgrado nel dì 5 di luglio. Ma trovandosi nel dì 20 di giugno in Padova, non si può facilmente immaginar questo salto in un paese di tanta distanza. Però par giusta la conghiettura del Gotofredo, ch'essa legge fosse non già data, ma solamente pubblicata in Viminacio. Ora il soggiorno d'esso Graziano in Italia abbastanza compruova, che quantunque si creda assegnata essa Italia coll'Africa e coll'Illirico occidentale a Valentiniano II suo fratello, pure Graziano seguitava, a cagion della di lui tenera età, a ritenerne il governo. Fra le leggi spettanti a questo anno di esso Augusto Graziano, una ne abbiamo, con cui ordina a Severo prefetto di fare una rivista de' poveri che fioccavano alla ricca e limosiniera città di Roma, con separare i robusti ed atti a lavorare, e di dar questi per ischiavi, se sono di condizion servile, a chi gli ha scoperti, oppure, se liberi, di obbligargli al lavoro delle campagne. Anche nel codice di Giustiniano si truovano leggi per rimediare a questi truffatori delle limosine destinate ai veri ed inabili poveri. S. Ambrosio [Ambrosius, lib. 2, c. 6 de Officiis.] si duole anch'egli di questo abuso, e forse da lui venne il consiglio per provvedervi. Almeno è probabile che ad istanza sua Graziano con un'altra legge ordinasse [L. si vendicari 13, de poenis Cod. Theodos.], che quando i delinquenti fossero condannati a morte o ad altre severe pene, si aspettasse trenta giorni ad eseguirle. Dovea essere succeduto che qualche innocente avesse patita la morte, e che dopo alcun tempo si fosse scoperta la di lui innocenza. Ma quell'azione di Graziano, che fece più strepito nell'anno presente, fu l'ordine da lui dato, che si levasse dalla sala del senato romano la statua e l'altare della Vittoria, sopra il quale si facevano i giuramenti, ed i pagani soleano offerire dei sagrifizii. Inoltre fece occupar dal fisco tutte le rendite destinate al mantenimento di quei sacrifizii e dei pontefici [236] gentili [Ambr., Epist. XI et XII.]: abolì ancora ogni privilegio conceduto dai predecessori a tutti i ministri degl'idoli, per la gola dei quali anche alcuni Cristiani deboli aveano rinunziato alla lor fede per farsi pagani. Fin qui le vergini vestali di rito gentile aveano pacificamente esercitato in Roma il loro mestiere. Graziano non le cassò già, ma tolse loro tutti i privilegi e le esenzioni, e comandò che si applicassero al fisco tutti gli stabili che per testamento fossero lasciati a quelle false vergini ed anche ai templi e ministri degl'idoli. Gran rumore e lamenti ne fecero i senatori, buona parte tuttavia pagani; e però Simmaco, celebre personaggio ed uno di essi, fu delegato in compagnia di altri, per portare a Graziano a nome del corpo del senato un memoriale pieno di doglianze per questo cotanto loro dispiacevole editto. Ma i senatori cristiani, che non erano pochi, fecero una protesta in contrario, ch'essi non acconsentivano alle istanze dei pagani, e formarono un'altra supplica in contrario, dichiarando che non interverrebbono più al senato, qualora vi si rimettesse quell'obbrobrio. Inviato quest'altro memoriale da papa Damaso a sant'Ambrosio, cagion fu che Graziano stesse saldo nel suo proposito, nè volesse dar orecchio al ricorso de' gentili. A ciò dovette anche contribuire la pia eloquenza di esso sant'Ambrosio, che godeva una singolar confidenza presso di questo imperadore. Qui nondimeno non finì la faccenda, siccome vedremo.

Durante tutto quest'anno si fermò l'Augusto Teodosio in Costantinopoli, dove pubblicò varie leggi [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.]. Con una di esse regolò il vario vestire dei senatori e degli altri ministri della giustizia, senza obbligare essi senatori a portar la toga, se non nel senato e davanti ai magistrati, allorchè vi comparissero per proprie loro liti. Confermò con un'altra le pene intimate contra dei Manichei, accrescendo queste per altre classi di eretici, [237] poco da noi conosciuti. Pubblicò ancora dei regolamenti, acciocchè le case dei privati in Costantinopoli potessero partecipar dell'acqua, introdotta in quella città dieci anni prima da Valente Augusto con un sontuoso acquidotto [Socrat., lib. 4, c. 8.]. Fu in questo anno che riuscì all'imperador Teodosio di estinguere il fiero incendio della guerra dei Goti, non già colla forza, ma colla prudenza e coi maneggi. Cioè fece lor proporre condizioni di pace dal generale Saturnino [Temist., Orat. XVI.], e queste accettate da essi, nel dì 3 di ottobre, per attestato di Idazio [Idacius, in Fastis.] vennero i capi dei Goti col re loro (forse Fritigerno) a sottomettersi con tutta la nazione a Teodosio, e a giurar fedeltà al romano imperio [Marcell. Comes, in Chronico.]. Loro perciò furono assegnate terre da coltivare nella Tracia e nella Mesia, con facoltà di possederle come sue proprie, e senza pagar tributo. Molti di essi Barbari furono arrolati nelle armate cesaree, e tutti ottennero la cittadinanza di Roma. I politici che da lì a molti anni videro i mali effetti di questa pace, fecero i dottori sulla condotta di Teodosio, biasimandola a più non posso come pericolosa e pregiudiziale all'imperio. Tali furono Idazio [Idacius, in Chronico.], Sinesio [Synesius, de Regn.], e principalmente Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 33.]. Ma per ben giudicare delle risoluzioni dei principi ed anche dei privati, convien mettersi sul punto medesimo in cui furono prese; e si troverà bene spesso che non vi mancò prudenza allora e buon consiglio, benchè l'avvenire non corrispondesse alle speranze. Siccome osserva Temistio [Themistius, ut supra.], che si trovava allora sul fatto, difficilissimo era in questi tempi, anzi pericoloso il volere snidar tanti Barbari, penetrati nel cuor dell'imperio. L'esempio fresco di Valente ognun l'avea davanti gli occhi. Nella Tracia e negli altri [238] circonvicini paesi s'erano perduti i loro abitori: bene era il ripopolarli. Divenendo quei Goti sudditi dell'imperio, se ne poteva sperare buon uso, e forza, e fedeltà come in tanti altri simili casi era avvenuto. La necessità in fine è una dura maestra, obbligando a far ciò che la prudenza ricuserebbe. Se poi coll'andar degli anni amari frutti produsse questo aggiustamento, disgrazia fu dei successori, ma non già stolidità di Teodosio, come con temeraria penna scrisse Zosimo pagano. Quel solo che sarebbe stato da desiderare, era che tanta copia di Barbari fosse stata dispersa per le moltissime provincie romane, senza lasciarla unita nella Tracia e nelle contrade adiacenti; ma è da credere che i Goti, gente anch'essa accorta, non volesse lasciarsi sbandare per paura di essere un dì sagrificati tutti con facilità ad arbitrio dei Romani.


   
Anno di Cristo CCCLXXXIII. Indiz. XI.
Damaso papa 18.
Valentiniano II imp. 9.
Teodosio imperadore 5.
Arcadio imperadore 1.

Consoli

Flavio Merobaude per la seconda volta, e Flavio Saturnino.

Questo nome di Flavio che dopo Costantino il Grande cominciò ad esser cotanto in uso anche fra i generali ed altri nobili, si può credere che fosse loro conceduto per grazia, e a titolo di onore dagli Augusti, i quali se ne pregiavano molto. Abbiamo da Temistio [Themist., Orat. XVI.] che Teodosio, perchè in quest'anno si aveano a celebrare i quinquennali del suo imperio, secondo il rito dovea procedere console: passo su cui il padre Pagi fondò il suo sistema, molte volte nondimeno fallace, de' quinquennali, decennali, ec. Ma per premiar Saturnino suo generale, benemerito della pace stabilita coi Goti, conferì a lui il consolato, siccome ancora [239] Graziano promosse alla stessa dignità Merobaude altro suo generale. Di grandi obbligazioni aveva il suddetto Temistio al medesimo Saturnino, e però in tal occasione, cioè probabilmente ne' primi giorni del suo consolato, recitò un'orazione in ringraziamento a Teodosio presente, e in lode non men di esso Augusto che dello stesso Saturnino e de' primi uffiziali della corte. Vi parla ancora di Arcadio primogenito di Teodosio, ma con apparenza ch'egli finora non fosse decorato del titolo di Augusto. In questo anno nondimeno [Idacius, in Chronico. Marcellin., in Chronic. Prosper., in Chronic. Chronicon Alexand.] e nel dì 16 oppure 18 di gennaio, Teodosio dichiarò Imperadore Augusto suo figliuolo, cioè Flavio Arcadio, il quale potea esser allora in età di sei anni. È stato osservato che Temistio si adoperò forte per ottener l'educazione di questo principe e nella suddetta orazione sestadecima sembra che ne fosse anche intenzionato da Teodosio. Ma essendo Temistio filosofo di profession pagana, non si attentò già il cattolico saggio imperadore di dare un sì pericoloso maestro al fanciullo Augusto, e però scelse per aio di lui Arsenio, personaggio di somma pietà ed abilità, come consta dalla sua vita [Coteler., Monum. Graec. Tom. II.]. Chi fosse nell'anno presente prefetto di Roma, a noi resta tuttavia ignoto. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con varie conghietture ne ha fatta diligente ricerca, ma senza poter fissar il piede. Certamente fu un personaggio di vaglia, come vedremmo fra poco. Essendo nell'anno seguente succeduto Simmaco in questa dignità ad Avenzio, non è improbabile che questi la esercitasse nel presente. Anche per tutto quest'anno l'Augusto Teodosio continuò il suo soggiorno in Costantinopoli; e perchè incessanti erano le sue premure per la pace ed union della Chiesa lacerata da tante eresie, e soprattutto dagli Ariani in Oriente, intimò ancora in quest'anno un gran [240] concilio in Costantinopoli, che tenuto fu nel mese di giugno, e dietro al quale pubblicò dipoi in questo medesimo anno varie costituzioni [Cod. Theod., lib. 16. Tit. 5, de Haeretic.] contra di tutte le sette degli eretici, vietando loro sotto varie pene il raunarsi, il girar per le città e per la campagna, il crear sacerdoti, e far qualunque atto in pubblico, o privato, che potesse pregiudicar alla religione cattolica. Leggonsi tali editti nel Codice Teodosiano. Si godeva intanto una mirabil pace ne' paesi sottoposti ad esso Augusto, dappoichè si erano quietati i Goti, e ne godeva anche lo stesso imperadore Teodosio, quando gli giunsero le funestissime nuove della tragedia di Graziano Augusto, della quale io passo ora a descriverne le particolarità.

Le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] ci mostrano dove questo imperadore dimorò per i primi sei mesi dell'anno presente, cioè ora in Milano, ed ora in Verona e Padova, con pubblicar varii editti. In uno di essi rivocò tutti i privilegii dei particolari, come di troppo pregiudizio al corpo, di cui son membri. Con un altro diede ordini rigorosi per la estirpazione de' ladri, de' quali, Simmaco in più sue lettere si lagna, dicendo essere cresciuto cotanto il lor numero ne' contorni di Roma, ch'egli non osava più di passare alle sue terre di campagna. Rinnovò le pene contro degli apostati, e intimò la pena del taglione contro gli accusatori provati calunniosi. Ordinò parimente che non si dovessero attendere gli ordini portati dai tribuni, segretarii, e conti, come ricevuti dalla bocca del principe, ma che dovesse solamente ubbidire agli scritti e sottoscritti da lui; legge difficile in pratica, e suggetta a varie eccezioni. Ricavasi da Simmaco [Symmachus, in Retat.] che una terribil carestia si provò in Roma nell'anno presente; e racconta egli con dispiacere come un atto di grande inumanità l'essere stati allora cacciati di Roma i non cittadini. [241] A questo proposito v'ha chi produce quanto scrive sant'Ambrosio [Ambros., lib 3 de Off., cap. 7.]. Cioè che fatta la proposizione dal popolo romano di mandar fuori essi forestieri, il prefetto di Roma d'allora, che era un venerabil vecchio, fece raunar tutti i nobili e facoltosi della città e tenne loro un ragionamento così sensato e patetico, per impedire quell'atto di crudeltà, che tutti si indussero ad una volontaria contribuzion di denaro con cui si mantenne l'abbondanza, e si fece sussistere ancora chi non era cittadino di Roma. Ma paiono ben diverse le carestie e i fatti di Simmaco e quei di sant'Ambrosio; nè finora si è potuto accertare chi fosse quel saggio vecchio prefetto di Roma. Racconta il santo arcivescovo altrove [Idem, Relat. Symmach.], che mentre era afflitta Roma dalla fame accennata da Simmaco, nelle Gallie, nella Pannonia, Rezia e Liguria si godeva una felice abbondanza di viveri.

Ma una calamità, senza paragone più deplorabile di questa, saltò fuori nell'anno presente, la quale si tirò dietro la desolazione d'assaissimo paese, e le lagrime d'infiniti popoli; e questa fu la ribellione di Massimo. Costui, nominato nelle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperator.] ed iscrizioni Magno Massimo, ed anche in un'iscrizione e presso Sulpicio Severo, Magno Clemente Massimo, non bene si sa onde traesse l'origine. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] il fa Spagnuolo di nazione, col qual supposto si accorda l'essersi egli vantato di aver qualche parentela con Teodosio Augusto nativo di Spagna. Altri l'hanno spacciato per Britanno di patria. Ma siccome osservò l'Usserio [Usserius, de Britan. Eccl.], Pacato [Pacatus, in Panegyr. Theodos.], scrittore contemporaneo, afferma bensì che trovandosi egli nella Bretagna, accese questo fuoco, ma che esule e forestiero egli dimorava in quell'isola, e fuggito dal suo paese; nè si sapeva chi fosse suo padre, ed avea [242] servito in vilissimo uffizio di famiglio nella casa di Teodosio molto prima della di lui esaltazione al trono. Zosimo pretende che costui cresciuto di posto accompagnasse in varie spedizioni militari il medesimo Teodosio; e che stando nella Bretagna, non potesse digerire di non aver potuto fin qui conseguir per sè dignità alcuna riguardevole, quando Teodosio era giunto ad essere imperadore. Osservata dipoi l'avversione di quelle milizie a Graziano, perchè questi facea più conto degli Alani e d'altri soldati barbari e stranieri arrolati nelle sue armate [Zosim., lib. 4, cap. 33. Victor, in Epitome.], che de' Romani, seppe così ben fomentare questo lor odio, che nell'anno presente gl'indusse a ribellarsi e a dichiarar lui imperadore, con dargli la porpora e il diadema. Per altro abbiamo da Sulpizio Severo [Sulpic. Sever., Vit. S. Martini, cap. 23.] e da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 34.], ch'egli fu come forzato in una spedizione da quelle soldatesche ad accettar suo malgrado il titolo e manto imperiale; ed egli stesso protestò di poi a san Martino, che non la sua volontà, ma l'altrui violenza lo avea condotto a questo impegno. Inoltre vien egli dipinto da esso Sulpizio Severo per uomo di genio feroce, ma senza apparire che egli fosse crudele; anzi egli si gloriava di non aver fatto morire alcuno de' suoi nemici, fuorchè nelle battaglie. Orosio poi cel descrive per uomo valoroso, dabbene e meritevole dell'imperio, se non l'avesse conseguito colla perfidia, mancando al giuramento di fedeltà ch'egli avea fatto al suo legittimo principe. Non mancano scrittori [Gregor. Turonensis, lib. 1, cap. 43.] che credono cominciata prima di questo anno la di lui ribellione, con aggiugnere ch'egli dipoi riportò delle vittorie contra de' Pitti e Scotti; ma oltre all'asserzione di s. Prospero [Prosper, in Chronic.], concorre la ragione a persuaderci che solamente nell'anno presente [243] egli si rivoltasse, perchè Graziano Augusto, che si tratteneva in Italia nel mese di giugno di quest'anno, al primo sentore di questa pericolosa novità, volò nelle Gallie; nè tornava il conto a Massimo di perdere il tempo a cercar dei nemici stranieri quando i suoi interessi esigevano ch'egli pensasse all'offeso Graziano, il quale più di tutti gli doveva importare.

Siccome Massimo era uomo attivo, non perdè punto di tempo a tirar dalla sua quanti soldati romani si trovavano nella Bretagna; ed, aggiuntavi molta gioventù scapestrata di quelle parti, ne formò una buona armata. Sapendo poi che Graziano dimorava in questi tempi in Italia, pensò tosto che sarebbe anche agevole l'impadronirsi delle Gallie. Imbarcate dunque le sue milizie, speditamente con esse arrivò alla sboccatura del fiume Reno [Zosim., lib. 4, c. 35.]; sollevò con bugie, lusinghe e promesse l'una dietro l'altra alcune di quelle provincie [Gildas, de excidio Britan.]; e poscia si diede a segreti maneggi, per guadagnar ancora le guarnigioni e milizie del paese; e in parte gli venne fatto. Socrate [Socrates, l. 5, cap. 11.] e Sozomeno [Sozom, lib. 7, c. 13.] pretendono che Graziano fosse in questi tempi occupato in far guerra agli Alamanni; del che niun altro vestigio abbiamo. Fuor di dubbio è ch'egli non tardò a prendere il cammino verso le Gallie, dove non trovò già d'essere stato prevenuto dal tiranno. Ammassate dunque le milizie che gli restavano fedeli, e dato il comando della sua armata a Merobaude [Zosimus, lib. 4, cap. 35. Victor, in Epitome. Pacatus, in Panegyr. Prosper, in Chronic.], con avere ai fianchi Balione, uffiziale di sperimentato valore e fedeltà, andò a presentar la battaglia a Massimo. S. Prospero scrive che il conflitto seguì in vicinanza di Parigi; ma Zosimo non parla se non di scaramucce fatte per lo spazio di cinque giorni. Fosse nondimeno o non fosse giornata campale, convengono [244] gli storici in dire che Graziano si trovò tradito. La cavalleria de' Mori ed altri corpi di sua gente, abbandonatolo, si gettarono nel partito contrario. S. Prospero pretende che Merobaude, suo generale e console, fosse nel presente anno il traditore. Ma il cardinale Baronio [Baron., Annal. Eccl.], il Valesio [Valesius, Rer. Franc., lib. 2.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Emper.] fondatamente tengono che sia guasto qui il testo della sua Cronica, sapendo noi da Pacato panegirista [Pacatus, in Panegyr.], ch'esso Merobaude combattè bravamente per Graziano, e che Massimo, per l'odio che gli portava, il ridusse a darsi da sè stesso la morte. Immaginò il Valesio che in vece di Merobaude avesse scritto san Prospero [Prosper, in Chronic.] Mellobaude, cioè quel re de' Franchi, che vedemmo servire di capitan delle guardie a Graziano. Potrebbe essere; ma questa in fine non è che una conghiettura. Certamente il fellone che tolse la vita all'infelice imperador Graziano, fu uno dei suoi principali uffiziali che governava le provincie della Gallia, ed era uffizial di guerra, come si ricava da sant'Ambrogio [Ambros., in Psalm. 61, num. 23 et seq.]. Però questi sembra essere stato Andragazio generale della cavalleria di esso Graziano. Imperocchè, trovandosi Graziano derelitto dai suoi, con trecento soli cavalli se ne fuggì a Lione con disegno di ricoverarsi in Italia. Da Zosimo [Zosimus, cap. 35.] abbiamo che gli fu spedito dietro con una mano di scelti cavalli esso Andragazio, il quale seguitandolo sino alla Mesia superiore, e raggiuntolo nel passare il ponte di Singiduno, gli levò la vita. Ma s'ingannò senza fallo Zosimo, confondendo Lugduno con Singiduno. Gli altri storici [Prosper, in Chronic., Rufinus, Marcellin.] attestano che Graziano fu ucciso in Lione. E sant'Ambrogio, autore più di tutti informato di questi affari, siccome accaduti quasi sotto i suoi [245] occhi, racconta essere stato invitato Graziano ad un convito dall'uffizial traditore, rivestito della porpora, e poi privato di vita dopo la tavola, verisimilmente nel passare il ponte di quella città. Se poi questi fosse Andragazio, o altro perfido uffiziale, non abbiam bastanti lumi per accertarlo. Nè in confronto dell'autorità di sant'Ambrosio meritano fede Socrate [Socrates, lib. 5, c. 11.] e Sozomeno [Sozom., lib. 7, c. 13.], là dove scrivono che Andragazio arrivato a Lione, ed entrato in una lettiga, fece credere a Graziano ch'egli conduceva seco l'imperadrice Leta; e però essendo andato ad incontrarla Graziano, Andragazio, saltato fuori da essa lettiga, il fece prendere e da lì a poco gli diede la morte.

Il giorno, in cui accadde questa tragedia, fu il 25 di agosto, come abbiamo da Marcellino conte [Marcellinus, in Chronic.]: o pur di luglio, come taluno ha creduto; nel qual tempo l'infelice Augusto era giunto all'età di venticinque anni. Aveva egli sposata in prime nozze Costanza figliuola postuma di Costanzo Augusto. Pare che si ricavi da s. Ambrosio [Ambros., de Fid., lib. 1, cap. 20.], ch'essa gli partorisse qualche figliuolo; ma per testimonianza di Teodoreto, se pur ne ebbe, niun di essi era vivente alla di lui morte. Perchè mancò di vita questa principessa, si rimaritò Graziano non molto prima di queste sciagure con Leta, alla qual poi, rimasta vedova, siccome ancora a Passamena di lei madre, fece Teodosio un assegno decoroso per vivere da pari loro. Zosimo [Zosimus, lib. 5, c. 39.] parla delle copiose lor limosine ai poveri di Roma, allorchè Alarico nell'anno di Cristo 408 tenne assediata quella città. Abbiamo anche dal medesimo storico [Idem, l. 4, c. 36.], che avendo esso Graziano sul principio del suo governo ricusato il titolo e la veste di pontefice massimo, portatagli dai pagani, uno dei loro sacerdoti disse: Se il principe non vuol [246] esser chiamato pontefice, in breve egli sarà fatto pontefice massimo; alludendo forse alla sua morte, accaduta sul ponte di Lione, siccome accennai. Ma questo sarà un motto arguto, inventato solamente e nato dopo il fatto per accreditar la superstizion gentilesca; e Zosimo poi è un Etnico che ciò scrive. Che dolore provasse per la morte di questo amabil principe cristiano il santo arcivescovo di Milano Ambrosio, suo grande amico e confidente, non si può abbastanza esprimere. In più luoghi delle sue opere tocca egli con tenerezza questo punto; andò anche per le istanze di Valentiniano II, imperatore [Ambr., in Ps. 61 et Epist. XXIV.], a trovar Massimo, affin di ottenere le ceneri dell'ucciso Augusto. Intanto Massimo si protestava sempre innocente della morte di lui, e diceva di non aver dato l'ordine di sua morte, mostrando di piangere quando udiva rammentare il di lui nome. Ma qual fosse la di lui sincerità, diedelo ben a divedere, perchè a sant'Ambrosio negò le di lui ceneri, per paura, diceva egli, che quella traslazione non rinnovasse il dolore dei soldati. Della bontà fors'anche eccessiva di esso principe esaltata da Rufino nella sua storia [Rufinus, lib. 2, c. 13.], e di altri suoi bei pregi mentovati da sant'Ambrogio, io non parlerò di vantaggio. Ma non si dee già tacere che dopo la di lui morte non mancò gente, la quale lacerò la memoria di questo buon principe, con imputargli infino dei reati contro la virtù della pudicizia, quando noi siamo assicurati da esso sant'Ambrosio, esser egli stato puro non men di animo che di corpo, nè aver mai conosciuta altra donna che le congiunte con lui in matrimonio. Peggio, per testimonianza di Fozio, parlò di lui Filostorgio [Philostorg., lib. 10, c. 5.], spacciando varie calunnie, e massimamente col paragonarlo a Nerone. Ma non è da maravigliarsi, se questo scrittore ariano, o sia eunomiano sparli [247] di un imperadore che con tanto zelo professava il cattolicismo, e tenne in freno, per quanto potè, l'arianismo. Se in questi tempi, o pure più tardi, Massimo obbligasse Merobaude console ad uccidersi e facesse strangolare il conte Balione, amendue perchè stati fedeli a Graziano, nol saprei dire. Certo è che Pacato [Pacat., in Panegyr.] lasciò memoria della lor morte; Ambrosio [Ambr., Epist. XXIV.] fece un rimprovero a Massimo, per aver privato di vita esso Balione. Noi troviamo nell'anno 384 [L. 43, de Appellat. Cod. Theodos.] un Merobaude duca di Egitto: forse fu figliuolo del console suddetto. Una iscrizione recata dal Fabretti [Fabretus, Inscript., pag. 576.], che ci fa veder Merobaude console per la terza volta con Teodosio Augusto nell'anno 388, non sembra che possa mai sussistere, perchè con esso Augusto fu console allora Cinegio.

La morte di Graziano Augusto quella fu che maggiormente facilitò a Massimo tiranno il tirar tutte le Gallie alla sua divozione. Già vedemmo che le provincie della Bretagna gli prestavano ubbidienza. Perchè le Spagne usavano di riconoscere per lor signore chi dominava nelle Gallie, però anch'esse vennero in potere di Massimo. Verisimilmente non differì egli di crear Cesare, e poi Augusto, Flavio Vittore suo figliuolo, di cui si veggono iscrizioni e medaglie. Abitava da molto tempo in Milano Valentiniano II Augusto, fratello minore di Graziano, di età in questi tempi di dodici in tredici anni. Siccome in addietro egli era stato incapace di governo, così Graziano aveva anche regolati gli affari dell'Italia; e perchè nè pur ora si stendevano le sue forze a poter reggere popoli, l'imperadrice Giustina sua madre prese in parte le redini, dappoichè s'intese la peripezia di Graziano; e Teodosio Augusto dipoi ebbe anch'egli [Orosius, l. 7, c. 35.] qualche [248] mano nel governo degli Stati dipendenti da esso Valentiniano. Restò sulle prime così sbalordita Giustina per gl'incredibili e rapidi progressi di Massimo, che paventò di perdere anche l'Italia. Avvegnachè si fosse scoperta ariana di credenza, e per conseguente nemica del cattolico arcivescovo sant'Ambrosio, pure conoscendo quanto in sì pericoloso stato di cose potesse giovare a lei e al figliuolo l'autorità, il credito e la prudenza di questo insigne prelato, fattolo chiamare, gli mise in mano il giovanetto principe, e ardentemente gliel raccomandò. Ambrosio il ricevette, ed abbracciò. Quindi si diedero a consultare i mezzi per frenare quel minaccioso torrente. Il primo passo fu quello d'implorare i soccorsi dell'imperadore Teodosio, il quale, per attestato di Pacato [Pacatus, in Panegyr.], avea guerra, e riportava delle vittorie nell'estremità dell'Oriente, senza che si sappia contra di chi, se per avventura non furono i Saraceni, che lo stesso panegirista dice vinti da lui. Non mancò Teodosio, secondo l'asserzion di Temistio [Themist., Orat. XVIII.], di far subito un gran preparamento, per vendicar la morte di Graziano, e salvare dagl'insulti del tiranno il pupillo Augusto Valentiniano. Anche in Italia si dovettero allestir quante milizie si potè. Alla seguente primavera, essendo troppo inoltrata la stagione di quest'anno, Teodosio era per muoversi. Non so io dire, se questo armamento quel fosse che fece desistere Massimo dal procedere innanzi contra del giovane Valentiniano, e in vece di guerra promuovere proposizioni di pace; o pure se Probo, prefetto del pretorio, già fuggito dalle Gallie, e divenuto primo ministro della corte di Valentiniano, e sant'Ambrosio, e gli altri consiglieri di esso imperadore, trovandosi senza forze, giudicassero meglio di ricorrer essi ai maneggi di pace. Temistio [Idem, ibid.] fu di parere che l'apprensione dell'armi di Teodosio [249] portasse Massimo ad anteporre la pace alla guerra; e Rufino [Rufinus, lib. 2, c. 15.] anch'egli attesta essere stato Massimo il primo a proporre essa pace, ma con pensiero di non mantenerla (verisimilmente per assodarsi intanto negli usurpati dominii), e che Valentiniano atterrito dalla potenza di questo nemico, accettò di buon grado il proposto partito, con pensiero anch'egli di romperlo subito che si trovasse in forze. Noi all'incontro sappiamo che dalla parte di esso Valentiniano fu deputato sant'Ambrosio per passar nelle Gallie affin di maneggiare qualche concordia [Ambros., Epist. XXIV.]. Andò l'intrepido arcivescovo, e trovò a Magonza Vittore conte, il quale veniva spedito da Massimo per trattare dello stesso negozio in Italia. Introdotto nel consiglio udì la pretensione di Massimo, cioè che Valentiniano come più giovane doveva venire in persona a trovarlo, con sicurezza di ogni amorevole accoglimento. Ambrosio lo scusò col rigore del verno durante il quale non poteva un fanciullo colla madre vedova passare i freddi e pericoli delle Alpi; e neppur s'impegnò di farli venire, con dire di non aver egli commessione alcuna di questo, ma solamente di trattar la pace. Gli convenne aspettar buona parte del verno, finchè tornasse Vittore colle risposte d'Italia; nel qual tempo non volle comunicar nei sacri misteri con esso Massimo [Paulin., in Vita S. Ambrosii.], dicendo ch'egli era tenuto a far prima pubblica penitenza del sangue sparso del suo principe, e principe innocente. Lo stesso fece a tutta prima anche san Martino vescovo di Tours, [Sulpicius Sever., in Vita S. Martini, c. 23.] ma poi si ridusse a comunicar seco, probabilmente perchè gli fece credere il tiranno di non aver avuta parte nella morte di Graziano.


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Anno di Cristo CCCLXXXIV. Indiz. XII.
Damaso papa 19.
Valentiniano II imperad. 10.
Teodosio imperadore 6.
Arcadio imperadore 2.

Consoli

Flavio Ricomere e Clearco.

Ricomere, primo nella dignità consolare, è quel medesimo valente generale, che da Graziano Augusto era stato spedito in aiuto a Teodosio, e si trova anche appellato Ricimere. L'altro console Clearco era forse nell'anno presente anche prefetto della città di Costantinopoli [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Simmaco, celebre personaggio, si trova prefetto di Roma in quest'anno. Di tal sua dignità egli parla in alcune sue lettere. Egli anche fu che in questo anno inviò Agostino, poi santo vescovo, per maestro di retorica a Milano. Nel dì 11 di dicembre terminò i giorni del viver suo Damaso pontefice romano [Prosper, in Chronic.], riferito poi nel catalogo de' santi a cagion delle sue opere gloriose, massimamente concernenti la difesa della dottrina della Chiesa cattolica. Pochi giorni stette a succedergli nella cattedra di san Pietro, Siricio, di nazione romano. Così il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], contro l'autorità del cardinal Baronio e del padre Papebrochio, i quali differiscono all'anno seguente la elezion di Siricio. Del loro parere sono anch'io, per quel che dirò all'anno stesso. Già abbiam veduto che Clearco fu in quest'anno prefetto di Costantinopoli, parendo che la data di una legge di Teodosio lo intitoli così; ma non possiamo fidarci di quella data, da che abbiamo indizii che Temistio [Themist., Orat. XVII et XVIII.], famoso filosofo pagano ed oratore di questi tempi, fu promosso a quella carica nell'anno presente, e recitò di poi un'orazione in lode di Teodosio. Il non dir egli parola [251] della nascita di Onorio, secondogenito di esso Augusto, nè dell'ambasciata dei Persiani fa abbastanza conoscere che quel panegirico fu recitato prima del settembre di quest'anno. Imperciocchè Flacilla, o sia Placilla Augusta, nel dì 9 di settembre partorì all'Augusto consorte Flavio Onorio [Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandrin. Socrat., lib. 5, cap. 12.], nato nella porpora, come diceano i Greci, perchè venuto alla luce dappoichè il padre era imperadore, laddove Arcadio primogenito, e già dichiarato Augusto, nella privata fortuna del padre era stato partorito. Ad esso Onorio fu immantinente conferito il titolo di nobilissimo. Già il defunto Artaserse re della Persia avea avuto per successore il suo figliuolo Sapore III. Abbiamo da Idazio [Idacius, ib.] ch'egli nell'anno presente inviò una solenne ambasciata a Teodosio Augusto per trattar di pace fra i due imperii. Pacato [Pacatus, in Panegyr.] ne parla anche egli, con indicare i presenti da lui inviati in tale occasione a Costantinopoli, cioè di perle, stoffe di seta, ed animali propri per tirare il cocchio trionfale, e verisimilmente elefanti domesticati. Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 34.] e il giovane Vittore [Victor, in Epit.] scrivono che Teodosio strinse, mercè di un trattato di pace, buona amicizia coi Persiani; ma non è ben certo se questa pace ora succedesse, o se fosse piuttosto una tregua, perchè vedremo nell'anno 389 un'altra ambasceria de' Persiani per questo effetto; e per altro conto restano in molta oscurità gli affari de' Romani con quella nazione. Certo è che guerra non fu gran tempo dappoi fra le suddette due potenze.

Vegniamo ora a Massimo tiranno. Tanto si trattenne nella di lui corte santo Ambrosio, e tal fu la sua destrezza, che finalmente conchiuse la pace fra lui e Valentiniano Augusto. Per quel che apparisce [252] dalle conseguenze, consiste il massiccio della capitolazione in questi due punti: cioè Valentiniano riconosceva Massimo per legittimo imperador delle Gallie, Spagne e Bretagna, e vicendevolmente Massimo accordava che Valentiniano resterebbe pacifico possessore e signore dell'Italia, dell'Illirico occidentale e dell'Africa. Pretese esso Massimo col tempo di essere stato burlato con varie promesse, che poi furono senza effetto, da Ambrosio e da Bautone conte, compagno, secondo le apparenze, di quella ambasciata: ma il santo arcivescovo sostenne poscia di nulla avergli promesso, e discolpò ancora Bautone. Nel ritornarsene egli a Milano, trovò a Valenza del Delfinato altri ambasciatori spediti a Massimo per iscusar Valentiniano, se non potea passar nelle Gallie, come il borioso tiranno tuttavia pretendeva. Poco nondimeno teneva per questa pace sicuro sè stesso Massimo, ogni qualvolta anche Teodosio dal canto suo non acconsentisse. Però, per testimonianza di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 37.], spedì altri suoi ambasciatori ad esso Teodosio, nè trovò in lui gran difficoltà ad approvar quell'accordo e a permettere che l'immagine del tiranno si mettesse con quelle degli altri due Augusti. Anzi dovendo partire Cinegio pel governo dell'Africa, Teodosio gli diede ordine di portare colà l'immagine del medesimo per farla vedere a que' popoli in segno della contratta amicizia. Ma se crediamo ad esso Zosimo, anch'egli si accomodò a questa concordia in apparenza, meditando nello stesso tempo di fargli guerra subito che gliel permettessero i propri interessi, o piuttosto che gliene desse occasione il perfido usurpatore, siccome in fatti avvenne. In questa maniera Massimo giunse a restar pacifico padrone di tanti Stati. Ci ha conservata sant'Ambrosio [Ambr., Epist. XXIV.] la memoria di un altro fatto, senza apparire se spettante a questo o pure all'anno seguente. Certamente [253] esso accadde dopo la conchiusion della pace suddetta. Cioè gli Alamanni Giutunghi vennero a bottinar nella Rezia, perchè seppero ch'era stata regalata da Dio di un buon raccolto. Bautone conte, poco fa da noi mentovato, ebbe maniera di muovere contra di loro gli Unni e gli Alani, i quali entrati nel paese di essi Alamanni, vi diedero un gran sacco sino ai confini delle Gallie. Gravi doglianze fece per questa irruzione Massimo, perchè l'apprese suscitata da Valentiniano, per nuocere anche a lui in guisa che esso Valentiniano, affine di togliere i pretesti di qualche rottura, a forza di danaro fece tornar que' Barbari alle lor case.

Da una lettera di Simmaco [Symmach., lib. 10, epist. 61.] parimente ricaviamo che nell'Illirico accadde guerra contra de' Sarmati, i quali doveano aver passato il Danubio per saccheggiare il paese romano. Quel generale, sotto il cui comando era o la Pannonia, o la Mesia superiore, diede a coloro una tal rotta, che moltissimi ne uccise, ed altri fatti prigioni inviò a Roma: perlochè meritò un grand'elogio da Valentiniano. Noi troviamo questo giovinetto imperadore nell'anno presente quasi sempre in Milano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], a riserva di una scorsa da lui fatta ad Aquileia. Aveva egli disegnato console per l'anno prossimo Vettio Agorio Pretestato, celebre personaggio allora, ma pagano, e che esercitava ora la carica di prefetto del pretorio d'Italia, di cui si veggono vari elogi presso gli scrittori gentili, e nelle antiche iscrizioni. Ma prima ch'egli arrivasse a vestir la trabea consolare la morte il rapì con incredibil doglia del senato e popolo romano. Ne parla molto Simmaco nelle sue lettere, ed anche san Girolamo che si trovava allora in Roma. Perchè costui aveva impetrato da Valentiniano un decreto poco favorevole ai Cristiani, ciò fece coraggio a Simmaco prefetto di Roma, e agli altri senatori romani della fazion pagana ed idolatrica, [254] senza saputa, o almeno senza consenso de' senatori cristiani, di fare un tentativo maggiore, cioè di formare un decreto, per chiedere a Valentiniano Augusto che fosse rimesso nella sala del senato l'altare della Vittoria, già tolto per ordine di Graziano Augusto. Ne formò la supplica ossia la relazione Simmaco, adducendo quante ragioni (ben tutte frivole) egli seppe trovare; e questa fu spedita alla corte con forte speranza, che trattandosi di un regnante sì giovane, e però non atto a discernere la falsità di quei motivi, il negozio verrebbe fatto. Penetrata questa notizia all'orecchio di santo Ambrosio [Ambros., in Symmachum, et alii.], con tutta sollecitudine stese egli una contrasupplica, in cui sì forti ragioni intrepidamente espose del non doversi accordare quella infame dimanda, che Valentiniano stette saldo in sostener l'operato dall'Augusto suo fratello, sicchè andarono falliti i disegni del paganesimo. Fu di poi ampiamente confutata dal santo arcivescovo la relazione di Simmaco, e noi tuttavia abbiamo questi pezzi fra le opere di esso Simmaco e di sant'Ambrosio. Immemorabile era l'uso che i nuovi consoli facessero dei regali agli amici e ad altre assaissime persone, e che i questori e pretori solennizzassero la loro entrata in quei posti con dei giuochi pubblici, nel che conveniva impiegare gran copia d'oro. La vanità di molti aveva anche introdotti altri intollerabili abusi e spese eccessive, colle quali stoltamente si venivano ad impoverir le persone nobili, per comperar del fumo. Simmaco ne promosse la riforma, e la ottenne da Valentiniano; e pur egli, per attestato di Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium.], due mila libbre d'oro di peso impiegò per la pretura di un suo figliuolo. Teodosio anch'esso in quest'anno pubblicò una prammatica per lo stesso fine, siccome fece altre leggi in favore della religione cristiana, che si possono leggere nel Codice Teodosiano. [255] Crede in oltre il Gotofredo che a questi tempi appartenga una di lui legge, con cui proibisce il matrimonio fra i cugini germani sotto rigorose pene.


   
Anno di Cristo CCCLXXXV. Indiz. XIII.
Siricio papa 1.
Valentiniano II imperad. 11.
Teodosio imperadore 7.
Arcadio imperadore 3.

Consoli

Flavio Arcadio Augusto, e Bautone.

Abbiam già veduto che questo Bautone conte, uomo di gran valore e fedeltà, era uno de' generali di Valentiniano juniore Augusto, e però fu console per l'Occidente. Agostino, maestro in questi tempi di retorica in Milano, recitò nelle calende di gennaio un panegirico che non è giunto ai dì nostri, in onore di lui esistente in quella città, dove tuttavia era la corte. Chi fosse in quest'anno prefetto di Roma, non si è potuto chiarire in addietro. Raccogliesi dalle lettere di Simmaco [Symmachus, lib. 10, epist. 25, 36, 47.] ch'egli disgustato per molti affanni da lui patiti nell'esercizio di questa dignità nell'anno antecedente, fece istanze alla corte per esserne scaricato; ma senza apparire s'egli fosse esaudito. Tuttavia tengo io per fermo che in luogo suo venisse surrogato per l'anno presente Severo Piniano. Che questo nobilissimo romano fosse prefetto di Roma, ne ho addotto le pruove altrove [Anecdot. Latin. Tom. I, Dissert. VI, et inter opera s. Paulini Edit. Veronens.], cioè le parole di Palladio e di Eraclide. E che la di lui prefettura cadesse appunto in quest'anno, chiaramente si raccoglie da una lettera di Valentiniano Augusto, indirizzata a lui nel dì 23 di febbraio dell'anno corrente, riferita dal Cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad hunc annum.], in cui si rallegra per la elezione di Siricio papa, accaduta poco tempo prima. M'induco [256] medesimamente a credere, in vigor di essa lettera che Siricio papa fosse eletto (non senza contraddizione del tuttavia vivente Ursino, o sia Ursicino, che avea fatta guerra anche a papa Damaso) non già, come vuole il padre Pagi, nel dì 22 di dicembre dell'anno precedente, ma bensì nel gennaio del presente, come tenne il suddetto cardinal Baronio. Non vo' io trattener qui i lettori coll'esaminar le ragioni del Pagi. A me solo basterà di dire che l'epitaffio di papa Siricio, su cui egli fonda tutto il suo raziocinio, non è certo se sia fattura di quei tempi. Noi possiam con ragione tenerlo per composto da qualche miserabil poeta de' tempi susseguenti, giacchè esso è un componimento di versi mancanti di prosodia. Ne' tempi correnti fiorivano mirabilmente in Roma le lettere, nè si può mai credere che ad un sì ignorante poeta fosse data la commissione di ornar il sepolcro di un romano pontefice con versi che gridano misericordia.

Per la maggior parte di quest'anno noi troviamo, siccome poco fa accennai, Valentiniano Augusto colla sua corte in Milano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], dove son date alquante sue leggi. Altre ve n'ha pubblicate in Aquileia, e forse una in Verona. Teodosio Augusto, per quanto risulta dalle leggi di lui, sembra non essersi punto mosso da Costantinopoli. Diede questo buon imperadore nei tempi correnti una pruova luminosa della sua singolar bontà. Aveano varie persone tenuto delle assemblee contra di lui, producendo varii augurii, sogni ed altri creduti indovinamenti dell'avvenire [Liban., Orat. XIV. Themist., Orat. XIX.]. Scoperto l'affare, ad un rigoroso processo si diede subito principio, non solamente contro i delinquenti, ma contro quelli ancora che aveano saputo e non rivelato il fatto. Sotto altri imperadori nè pur uno d'essi avrebbe scappata la morte. Così non fu sotto il [257] cattolico Teodosio. Sulle prime egli dichiarò di non voler mischiato in tal processo chiunque reo solamente era di non aver rivelato i manipolatori della congiura, o per aver parlato poco rispettosamente di lui. Pubblicò dipoi nell'anno 393 una legge, con cui proibiva il procedere giudizialmente contro chiunque avesse sparlato del principe. Continuarono i processi contra de' veri congiurati; e perchè pareva che il buon Augusto ne fosse scontento, uno de' magistrati un dì gli disse, che la principal cura degli uffiziali della giustizia doveva esser quella di assicurar la vita del principe: Sì, rispose egli, ma più ancora vorrei che aveste cura della mia riputazione. La sentenza di morte fu pronunziata contra di costoro, ma allorchè i carnefici erano sul punto di eseguirla, si spiccò dal palazzo una voce che si sparse immediatamente per tutta la città, che l'imperadore faceva lor grazia. E così fu. Non solamente donò egli loro la vita, ma anche la libertà di dimorare in quel paese che più loro piacesse; e volle che Arcadio Augusto suo figlio anch'egli segnasse la grazia, per avvezzarlo di buon'ora agli atti di clemenza. Temistio aggiugne che a questo perdono consentì sopra gli altri l'imperadrice Flacilla ossia Placilla, con cui egli soleva consigliarsi in affari di tal natura. Ma Iddio appunto nell'anno presente chiamò a sè questa piissima Augusta, le cui rare doti e virtù, e specialmente la pietà, e un continuo zelo per la religion cattolica, si veggono esaltate non men dagli scrittori cristiani, cioè da s. Gregorio Nisseno [Gregor. Nyssenus, in funer. Plac.], da s. Ambrosio, da Teodoreto, e Sozomeno [Ambros. Theodor. Sozomenus. Themistius.], ma ancora dal pagano Temistio. Meritò ella, in una parola, che la chiesa greca la registrasse nel catalogo de' santi. Figliuoli di essa e di Teodosio furono Arcadio allora Augusto, ed Onorio che col tempo fu anch'egli imperadore. Una lor figlia, appellata Pulcheria mancò di vita circa [258] questi tempi, e se ne vede l'orazion funebre fra le opere del suddetto Nisseno.

Viveva in questi medesimi tempi un'altra imperadrice, ma di professione e costumi affatto contrarii, e questa era Giustina madre del giovanetto Valentiniano Augusto. Dopo la morte del vecchio Valentiniano suo consorte, cavatasi la maschera, ella si scoprì ariana; e, dimorando col figliuolo in Milano, città il cui popolo era tutto zelante per la dottrina e chiesa cattolica, si mise in testa di voler pure promuover ivi gl'interessi dell'empia sua setta. Per essere il figliuolo di età immatura, grande era la di lei autorità, e suo gran consigliere le stava sempre ai fianchi Ausenzio [Ambros., Epist. XX.], che s'intitolava vescovo, venuto già dalla picciola Tartaria, dopo aver ivi commesso di gravissime iniquità. Voleva pure costui in quella città una chiesa per servigio dei suoi pochi ariani, consistenti in alcuni uffiziali di corte, e in quei non molti Goti che militavano nelle guardie; ma ritrovò contrario a' suoi disegni l'arcivescovo Ambrosio, la cui costanza episcopale non si lasciava intimorire neppur dalle minacce de' più crudeli supplizii [Ambros., in Psalm. 36.]. Questi gli fece fronte, ed insieme il popolo tutto, pronto a perdere piuttosto la vita, che a dar luogo alla eresia. Si seppe già risoluto in corte che fosse ceduta agli ariani la basilica Porziana, oggidì chiamata di s. Vittore, ch'era allora fuori della città, e che il santo arcivescovo per questo era stato chiamato. Il popolo anch'esso corse a furia colà; e perchè un uffizial di corte mandato con dei soldati per dissiparli vi trovò del duro, fu pregato lo stesso Ambrosio di pacificar quel rumore, con promessa di non dimandar la suddetta basilica. Ma nel dì seguente, giorno 4 di aprile, vennero uffiziali a chiedergli la basilica nuova, da lui fabbricata entro la città, appellata oggidì di san Nazario. Le risposte del santo furono magnanime e risolute, di non poter dare ciò ch'era [259] di Dio, e su cui l'imperadore non aveva autorità. Ne' giorni santi seguenti si rinforzò la persecuzione, per occupar pure una delle basiliche; ma il santo arcivescovo e il popolo resisterono fino al giovedì santo, in cui cessò quella tempesta, senza che si spargesse il sangue di alcuno. Di più non rapporto io, perchè s'ha da prendere questo bel pezzo dalla storia ecclesiastica e dalla vita dell'incomparabile arcivescovo sant'Ambrosio, la cui saviezza, coraggio e zelo in tal congiuntura son tuttavia da ammirare [Paulin., in Vit. Sancti Ambros.]. Dopo questo inutile sforzo non cessò l'infuriata Giustina di tendergli insidie e di procurarne l'esilio; ma Iddio anche miracolosamente difese sempre il suo buon servo, non essendo già cessata in quest'anno la guerra contra di lui e della fede cattolica.


   
Anno di Cristo CCCLXXXVI. Indiz. XIV.
Siricio papa 2.
Valentiniano II imperad. 12.
Teodosio imperadore 8.
Arcadio imperadore 4.

Consoli

Flavio Onorio Nobilissimo fanciullo, ed Evodio.

Le leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] ci fan vedere nel dì 11 di giugno prefetto di Roma Sallustio, e poscia di nuovo nel dì 6 luglio in quella dignità Piniano sopra da noi mentovato, e possessor di essa anche nell'anno precedente. Seguitò in questo anno Valentiniano Augusto a dimorare in Milano, e Teodosio Augusto per lo più stette in Costantinopoli. Quanto al primo di questi regnanti, altro non ci suggerisce la storia intorno alle azioni di lui per conto dell'anno presente, se non che egli inviò ordine al suddetto Sallustio prefetto di Roma di rifabbricare la basilica di san Paolo nella via che conduce ad Ostia; ciò apparendo da una sua lettera pubblicata [260] dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad hunc Annum.]. Ma l'Augusta Giustina sua madre non tralasciava intanto di abusarsi del di lui nome ed autorità per esaltare la fazion degli ariani suoi favoriti, e distruggere, se fosse stato possibile, la cattolica chiesa di Dio. Ottenne ella dunque che l'Augusto giovane suo figliuolo formasse un'empia legge in favor degli ariani [Rufinus, lib. 2, cap. 15 et 16. Theodoret., lib. 5, cap. 3. Ambrosius, Epist. XXXI. Gaudentius, in Sermon.]. Benevolo, segretario, oppure notaio o archivista della corte incaricato di stenderla, amò piuttosto di rinunziar la sua carica e ritirarsi ad una vita privata, che di contaminar la sua penna con quel sacrilego editto. L'iniquo vescovo degli ariani Ausenzio quegli poi fu che lo compose. Nel dì 21 di gennaio di quest'anno si vide pubblicata quella legge, con cui si concedeva un'intiera libertà agli ariani di tener le loro assemblee dovunque volessero, con rigorose pene contra dei cattolici che a ciò si opponessero. In vigore di tal proclama andarono ordini a cadauna delle città di rilasciare ad essi eretici almeno una chiesa, con pena della testa a chi resistesse. Fu perciò intimato in Milano a santo Ambrosio di cedere agli ariani la basilica Porziana coi vasi sacri. Con petto forte il santo arcivescovo ricusò di ubbidire. Per questa ripugnanza un tribuno gli portò l'ordine di uscir dalla città, ed egli costantemente protestò di non poter abbandonar quel gregge che Dio avea raccomandato alla sua custodia. Vennero minacce di farlo morire, ed egli nulla più desiderava che di sofferire il martirio. Minore non era lo zelo del popolo suo, il quale per paura che il sacro pastore se n'andasse, o per amore o per forza, corse alla basilica suddetta, e per più giorni e notti stette ivi dentro in guardia. Colà inviò la corte una man di soldati per impedire alla gente di entrarvi; ma eglino stessi s'accordavano coi cattolici. [261] Fu allora che sant'Ambrosio, affinchè non si annojasse il buon popolo in quella specie di prigionia, introdusse l'uso di cantar inni, salmi ed antifone, come già si usava nelle chiese d'Oriente: tanto che anch'esso influì dipoi alla conversione di sant'Agostino. D'ordine dell'imperadore fu intimato a sant'Ambrosio di comparire a palazzo per disputar della fede con Ausenzio davanti ai giudici da eleggersi dall'una e dall'altra parte. Ma Ambrosio con lettera a Valentiniano fece intendere i giusti motivi suoi di non ubbidire. In somma i cattolici conservarono la basilica, e il santo Arcivescovo a dispetto d'altre calunnie ed insidie a lui tese dalla furibonda imperadrice ariana, stette saldo [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], e con lui si unirono dipoi anche i miracoli nella scoperta de' sacri corpi de' santi Gervasio e Protasio, che accrebbero la confusion degli ariani, e fecero cessar la persecuzione di Giustina. Chi di più ne desidera, dee far ricorso alla storia ecclesiastica [Rufinus. l. 2, cap. 16. Theodor., l. 5, c. 14.]. Il bello fu che Massimo il tiranno, udita questa persecuzion de' cattolici, se ne prevalse, per guadagnarsi l'aura di principe zelante della vera religione, con iscrivere a Valentiniano, ed esortarlo a desistere dal far guerra alla Chiesa vera di Dio, e di seguitar la fede de' suoi maggiori; e v'ha chi aggiugne di avergli anche minacciata guerra per questo.

Nell'anno presente ebbe l'imperadore Teodosio guerra coi popoli Grutongi, cioè con una nazion barbarica sconosciuta dianzi, e venuta a dare il sacco alla Tracia, senza dubbio dalla Tartaria. Ma probabilmente non erano se non alcuna di quelle tribù di Goti, delle quali Ammiano molto prima di questi tempi fece menzione. Zosimo parla di una irruzione qualche anno prima. Ma si può giustamente attener qui all'asserzione di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.], corroborata [262] da Idacio [Idacius, in Chron.] e da Claudiano [Claudianus, in Consul. IV Honorii.], attribuendola ognun d'essi all'anno presente. Vuole esso Zosimo [Zosimus, l. 4, cap. 38.] che la gloria di avere sconfitti questi Barbari sia tutta dovuta a Promoto generale di Teodosio, il quale, stando alla guardia delle rive del Danubio, e vedendo sì gran gente invogliata di passar quel fiume, tese loro una trappola, inviando spie doppie, cioè persone pratiche della loro lingua, che si vantarono di far loro prendere il general romano con tutti i suoi a man salva. Da questa lusinghevol promessa allettati i Barbari, imbarcarono una notte in gran copia di piccoli legni la più robusta gioventù con un altro corpo che tenea dietro ai primi, e in tempo di notte si misero a valicare il Danubio. Promoto che avea preparata una flotta numerosa di navi più grosse, fattala scendere, si mise nella concertata notte con esse alla riva opposta, aspettando i nemici. Vennero, ed egli con furore gli assalì. Parte di coloro perdè la vita nell'acqua, parte provò il taglio delle spade, e fra questi perì Odoteo re o principe loro. I più restarono prigioni e specialmente i rimasti nell'altra riva, addosso i quali passò dipoi l'armata dei Romani con prenderli quasi tutti, e le lor mogli, fanciulli e bagaglie. Certo è che Teodosio col figliuolo Arcadio si trovò in persona a questa guerra. Zosimo almen confessa che egli era poco lungi di là, nè è da credere che si facesse tal impresa senza saputa ed ordine suo. Promoto gli presentò poi quella gran moltitudine di prigioni e di spoglie; ma Teodosio non solamente li fece tutti mettere in libertà, ma anche dispensò loro non pochi regali, acciocchè si arrolassero fra le sue milizie, siccome in fatti avvenne. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Fastis.] che i due Augusti entrarono trionfanti in Costantinopoli per tal vittoria nel dì 12 di ottobre. Tal [263] conto poi fece di questi Teodosio [Zosimus, lib. 4, cap. 40.], che essendo una parte d'essi di quartiere a Tomi della picciola Tartaria, ed avendo voluto far delle insolenze in quella città, perlocchè Geronzio comandante ivi delle milizie romane li mise tutti a fil di spada: vi mancò poco che invece di ricompensa non levasse la vita ad esso Geronzio. La salvò egli con donar tutti i suoi beni agli eunuchi di corte, la potenza de' quali era anche allora esorbitante. Ma il racconto è di Zosimo, cioè di un nemico di tutti i principi cristiani. A questo anno ancora pare che s'abbiano a riferir le seconde nozze di Teodosio Augusto con Galla figliuola di Valentiniano I imperadore e di Giustina, e per conseguenza sorella di Valentiniano juniore [Idacius, in Fastis.], giacchè ne parlano circa questi tempi Filostorgio [Philostorg., lib. 10, cap. 7.] e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.]. Zosimo rapporta questo maritaggio all'anno seguente, e forse anche più tardi. Fu dipoi Galla la madre di Galla Placidia, principessa, di cui avremo da parlar non poco nel decorso della presente storia. Potrebbe essere che avvenisse ancora in quest'anno ciò che racconta Libanio [Liban., in Vit. sua.] (giacchè non sussiste, come pensò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], ch'egli fosse morto alcuni anni prima), cioè che uno dei primi senatori, senza sapersi se di Costantinopoli o di Antiochia, prestando fede ai sogni che gli promettevano le maggiori grandezze, e contando questi suoi delirii a diverse persone, fu processato, e con lui diversi degli ascoltatori, fra' quali poco vi mancò che lo stesso Libanio non fosse compreso. Ma per la bontà di Teodosio non andò innanzi il rigore della giustizia. Pochi furono i tormentati, due solamente gli esiliati, e niuno vi perdè la vita.


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Anno di Cristo CCCLXXXVII. Indiz. XV.
Siricio papa 3.
Valentiniano II imperad. 13.
Teodosio imperadore 9.
Arcadio imperadore 5.

Consoli

Flavio Valentiniano Augusto per la terza volta, ed Eutropio.

Il prefetto di Roma anche per tutto il corrente anno si può credere che fosse Piniano, giacchè nel codice Teodosiano abbiamo una legge a lui indirizzata nel gennaio. Furono per attestato di Marcellino conte [Marcellin. Comes.] e d'Idazio [Idacius, in Fastis.] celebrati in Costantinopoli nel dì 16 d'esso gennaio i quinquennali di Arcadio Augusto con gran magnificenza e giuochi pubblici; e secondo Libiano pare che tal festa desse occasione ad una sedizion fiera che si svegliò nella città d'Antiochia. Perchè occorrevano gravi spese, allorchè si celebravano somiglianti feste, massimamente per regalar le milizie, Teodosio intimò una gravosa imposta ai popoli del suo dominio, e per cagion d'essa inferocito quello di Antiochia si alzò a rumore. Gran disputa è stata fra gli eruditi intorno all'anno di questa sollevazione che fece grande strepito in Oriente, perchè gli stessi antichi si truovano discorsi fra loro nell'assegnarne il tempo. Teodoreto e Sozomeno sembrano riferirla ad alcuni anni appresso; ed altri prima, ed altri dopo la guerra di Massimo tiranno, di cui parleremo. Però il cardinal Baronio, il Petavio e il Valesio la mettono nell'anno 388 seguente; ma il Gotofredo, il Pagi e il Tillemont, fondati specialmente sull'autorità di Libanio [Liban., Orat. XXIII.] testimonio oculare di questa turbolenza, la tengono succeduta nell'anno presente. Non tratterrò io i lettori con sì fatte liti, e, non volendo discordare dagli ultimi, ne fo menzione in quest'anno, con dire che [265] leggendosi in Antiochia l'editto di quella contribuzione, la quale se fu per cavar moneta da celebrare i quinquennali suddetti, si doveva intimare molto prima del gennaio dell'anno presente, parve essa così eccessiva, che fu accolta con lamenti e lagrime da quel popolo. Passò la feccia di quella plebe dalle querele ad un tumulto, ed ingrossatosi a poco a poco il loro numero colla giunta d'altri malcontenti, la prima scarica del loro furore fu addosso ad un bagno pubblico. Tentarono di poi questi sediziosi di sfogare la loro rabbia contra del governatore; ma questo fu difeso dalle guardie; sicchè tutta la matta lor furia si volse alle statue di Teodosio, di Flacilla Augusta, dei due lor figliuoli Arcadio ed Onorio, e di Teodosio padre del medesimo imperadore [Zosim., l. 4, c. 41. Sozomen., l. 7, c. 23. Theod. Chrysostom.]. Con delle funi le rovesciarono a terra, le spezzarono, le strascinarono per la città con grida e scherni quanti mai seppero. Attaccarono anche il fuoco ad una casa de' principali della città, ed avrebbono fatto altrettanto ad altre, se non fossero giunti gli arcieri del governatore, i quali col solo ferire un paio di que' fanatici, misero il terrore negli altri, di maniera che in breve si calmò tutto quel popolare tumulto. Furono ben presi e fatti giustiziar dal governatore i primari autori della sedizione, e infino i loro innocenti figliuoli; ma perciocchè in casi tali facilmente non riputati colpevoli tutti gli abitanti d'una città, gli uni per aver fatto il male, e gli altri per non essersi opposti, si sparse un'incredibile costernazione fra tutti que' cittadini, aspettando essi ad ogni momento (e ne corse anche la fama) che arrivassero le milizie imperiali a dare il sacco alla città, e ad empierla di sangue. Perciò si vide in poco tempo spopolata quella capitale, fuggendo chi alle città vicine, chi alla campagna, chi alle montagne colle loro mogli e figliuoli, e con quel meglio che poteano portar seco. San Giovanni Grisostomo, [266] quel mirabile sacro orator della Grecia, che si trovò presente a scena sì dolorosa, in più luoghi delle sue omelie fa un patetico ritratto del miserabile stato in cui si trovò allora Antiochia: dal che nondimeno seppe Iddio ricavare buon frutto, perchè quell'emendazion di vizii e costumi ch'esso santo con tutte le sue esortazioni e minaccie non poteva ottenere, l'ottenne il terror dell'umana giustizia in questa sì deplorabile congiuntura. Tutto fu allora compunzione e divozione; cessarono i teatri, gli spettacoli, le danze, le ubbriachezze; ognun correva alla chiesa, alle prediche; ognun si rivolse alle preghiere, affinchè Iddio ispirasse al cuor del regnante la clemenza.

Se vogliam credere a Libanio [Liban., Orat. XIV.] e a Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 41.], fu deputato dalla città esso Libanio, e un Illario, persone di gran credito, per portarsi alla corte ad implorar la misericordia del principe. Ma abbiamo un testimonio di maggior autorità, cioè il suddetto Grisostomo, il quale in varie sue omelie ci assicura essere bensì stati deputati alcuni della città per sì fatta spedizione, ma che uditosi dipoi ch'essi per alcuni accidenti s'erano fermati per istrada, Flaviano vescovo d'Antiochia, uomo di rara santità, benchè vecchio, benchè in malo stato di sanità, e in stagion rigida, tuttavia prese l'assunto di passare in Costantinopoli, per disarmare, s'era possibile, l'ira di Teodosio. Si accordan gli antichi scrittori, cioè i santi Ambrosio e Grisostomo, Vittore, Teodoreto, Sozomeno, Libanio e Zosimo, in dire che essendo suggetto Teodosio ne' primi empiti della collera a prendere delle risoluzioni violente, ebbe in animo e minacciò di voler rovinare Antiochia dai fondamenti, e levar la vita ad un gran numero di quegli abitanti, irritato soprattutto dall'ingratitudine d'essi, perchè più che ad altra città, aveva egli compartito più benefizii e favori ad essa. Ma siccome i principi ed uomini saggi non mai eseguiscono [267] i primi consigli della bollente collera, ma dan luogo a più mature riflessioni; così egli senza precipitar ne' gastighi, ordinò che si levassero al popolo d'Antiochia tutt'i privilegi, tutti i luoghi de' lor cari divertimenti, e massimamente il titolo di metropoli [Theodor., l. 5, c. 19. Libanius, Orat. XV. Chrysost., Hom. 17.], con sottometterla a Laodicea; e poscia spedì colà due suoi uffiziali, cioè Ellebico generale dell'armi in Oriente, e Cesario suo maggiordomo, per processare chiunque si trovasse colpevole. Le prigioni si trovarono ben tosto piene, pronunziate le condanne, preparate le mannaie. Ma eccoti venire alla città i santi romiti di que' contorni, e massimamente san Macedonio il più illustre degli altri, i quali uniti coi sacerdoti di essa città (un d'essi era allora il Grisostomo) animosamente si affacciarono ai giudici, ricordando loro l'ira di Dio, e protestando come sconvenevol azione ad un principe, il volere estinguere le immagini vive di Dio a cagione di molte immagini e statue, che si sarebbero fra poco ristabilite. Tanto in somma dissero, che fermarono l'esecuzion delle condanne con indurre i giudici ad informar prima di tutto l'imperadore, ed aspettarne dei nuovi ordini. Cesario stesso passò per le poste con tutta diligenza alla corte, e diede le notizie occorrenti. Ma intanto il venerabil aspetto, le lagrime e le ragioni del vescovo san Flaviano avevano fatto breccia nel cuore di Teodosio, cuore non di macigno, ma inclinato alla clemenza, in guisa che non parlava più che di perdono. L'ultima mano la diede Cesario colla sua venuta, fiancheggiato ancora dalle umilissime lettere scritte ad esso imperadore da san Macedonio e dagli altri santi romiti, e dalla città di Seleucia, a' quali si aggiunse anche il senato e popolo implorando tutti misericordia. Concedette infatti Teodosio un intero perdono alla città d'Antiochia, la ristabilì negli antichi suoi privilegi e diritti, e cassò tutte le condanne con immortal sua gloria ed [268] inesplicabil allegrezza di quel popolo, compiuta poi all'arrivo del santo lor vescovo Flaviano.

Ma questo rumore dell'Oriente, che si suppone accaduto nel presente anno, un nulla fu rispetto all'altro che indubitatamente in questi tempi accadde in Occidente. Imperocchè cominciarono a traspirare delle cattive intenzioni in Massimo tiranno, di rompere la pace con Valentiniano Augusto, e d'invadere l'Italia. Forse per ispiare i di lui andamenti fu risoluto nel consiglio d'esso Augusto di rispedire al tiranno quel medesimo arcivescovo Ambrosio che vedemmo nell'anno precedente così perseguitato dalla medesima corte, perchè il credito, l'eloquenza e l'onoratezza sua non avevano pari. Non si ritirò il santo pastore da questa impresa, e il suo viaggio si dee credere impreso dopo la pasqua dell'anno presente, accaduta nel dì 25 di aprile; perciocchè in quel santo giorno egli conferì il battesimo ad Agostino, poi santo, vescovo e dottor della Chiesa; e non già nell'anno seguente, come han creduto molti, ma nel presente, come han provato varii eruditi, ed ho anch'io confermato altrove [Anecdot. Latin. Tom. I, Dissert. 15.]. Passò dunque sant'Ambrosio a Treveri, mostrando di non aver altra commessione che quella di domandare il corpo dell'ucciso Graziano Augusto [Ambr., Epist. XXIV.]: il che sarebbe un pegno della buona armonia che dovea continuar fra loro. Trovò Massimo dei pretesti per non rilasciargli quel corpo, ossia le di lui ossa. E perchè egli pretese che Ambrosio e Bautone l'avessero ingannato, con avergli promesso molto e nulla attenuto, sant'Ambrosio discolpò sè stesso e il compagno. Ma vedendo che nulla restava da sperare, domandò ed ottenne il suo congedo; e dacchè fu in luogo libero, spedì innanzi a Valentiniano una lettera, con cui il ragguagliava di quanto era succeduto, conchiudendo che l'esortava di star ben in guardia contra di un uomo, [269] il quale sotto le apparenze della pace si preparava alla guerra. Non s'ingannò sant'Ambrosio. Abbiamo da Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 42.] che Valentiniano, in questa incertezza di cose, spedì un'altra ambasciata a Massimo, per chiarirsi pure se si poteva delle di lui intenzioni; e l'ambasciatore fu Donnino, uomo soriano, di sua gran confidenza e di non minor lealtà. Tali carezze, così bei regali a lui fece Massimo, che il buon uomo si figurò non esserci persona sì amica di Valentiniano come quel tiranno. Anzi avendogli Massimo esibito un corpo delle sue soldatesche, affinchè servissero a Valentiano contra de' Barbari che minacciavano la Pannonia, il mal accorto Donnino, le accettò, e con esse se ne ritornò in Italia. Bel servigio ch'egli fece a Massimo, perchè il tiranno che dianzi conosceva quanto fosse difficile e pericoloso il mettersi a passar con un'arma a le strade e i passi stretti dell'Alpi, dopo aver in questa maniera addormentato Donnino, e mandata innanzi una buona scorta delle sue genti, a tutto un tempo gli tenne dietro col grosso dell'esercito suo, e con tal segretezza, che si vide calato in Italia, prima che giugnesse avviso della mossa delle sue armi. Se sussiste la data di una legge del codice Teodosiano [L. 4, de Principib. agent. Cod. Theodos.], Valentiniano Augusto era tuttavia in Milano nel dì 8 di settembre dell'anno corrente. Zosimo cel rappresenta in Aquileia, allorchè inviò Donnino nelle Gallie.

Ora un sì inaspettato turbine dell'armi del tiranno e la poca forza delle proprie, colla giunta della voce precorsa, che le mire di Massimo principalmente tendevano a prendere vivo Valentiniano, fecero pensare unicamente il giovane Augusto alla fuga [Sozom., l. 7, c. 14. Socrat., l. 5, cap. 11. Theodor., lib. 5, cap. 14.]. Pertanto imbarcatosi in una nave coll'imperadrice Giustina sua madre, che più che mai cominciò a provare il flagello di Dio per li suoi [270] peccati, e con Probo prefetto del pretorio, fece vela per l'Adriatico alla volta di Tessalonica; dove giunto, di là spedì a Teodosio Augusto la serie delle sue disavventure con implorar l'assistenza del di lui braccio in così grave bisogno. Abbiamo da Teodoreto, avergli Teodosio risposto non essere da stupire dello stato infelice dei di lui affari e dei prosperosi del tiranno, da che Valentiniano avea impugnata la vera fede, e il tiranno l'avea protetta. Per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 43.] e di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.], venne poi esso Teodosio in persona a fare una visita al cognato Augusto e alla suocera, e s'impegnò di adoperar tutte le sue forze per ristabilirli ne' loro stati, sì per la gratitudine ch'egli professava a Graziano suo benefattore, come per essere marito di Galla, sorella di esso Valentiniano. Scrive lo stesso Zosimo che Galla venne colla madre a Tessalonica, e che ora solamente Teodosio, preso dalla di lei bellezza, la ricercò ed ottenne per moglie dalla madre. Ma Marcellino conte e Filostorgio scrivono, essersi effettuate tali nozze nell'anno precedente. Ordinò ancora Teodosio, che fosse fatto un trattamento onorevole all'Augusto cognato e a tutta la sua corte. Tenuto poscia consiglio, fu presa la risoluzione di spedire ambasciatori a Massimo, prima di venire all'armi, per esortarlo a restituir gli stati occupati a Valentiniano, e per minacciar guerra in caso di rifiuto, giacchè l'imminente verno non permetteva di far per ora di più. Sozomeno e Socrate scrivono, all'incontro, che preventivamente Massimo inviò ambasciatori a Teodosio, per giustificare (cosa impossibile) le novelle sue usurpazioni contro la fede dei trattati. Certo è che nè Massimo si sentì voglia di lasciar la preda addentata, nè Teodosio di fare un menomo accordo con lui. E qui ci vien meno la storia, tacendo essa quanto operasse il tiranno, dacchè coll'esercito suo calò in Italia ed obbligò Valentiniano alla fuga. [271] Abbiam nondimeno bastevol fondamento di credere, anzi chiare pruove ch'egli si impadronisse di Roma e dell'Italia tutta, e che infin l'Africa solita a prestare ubbidienza a quel principe che comandava in Roma, anch'essa ai di lui voleri senza contrasto si sottomettesse. Sant'Ambrosio [Ambros., Epist. XXXIX. Class. I. edit. noviss.] in una lettera a Faustino dopo l'anno 388, scrive che venendo esso Faustino a Milano, potè vedere Claterna, posta di là da Bologna, e poi Bologna stessa, Modena, Reggio, Brescello e Piacenza, città con assai castella dianzi floridissime, ma divenute nobili cadaveri, perchè mezzo diroccate allora, e prive quasi affatto di abitatori. Con ragionevol conghiettura il cardinal Baronio stimò che la desolazion di queste città e terre sia da attribuire alla fierezza di Massimo, o perchè i popoli facessero resistenza al di lui arrivo, o perchè i cittadini con abbandonarle e ritirarsi alle montagne, gli fecero conoscere di non voler lui per padrone. Del che abbiamo anche un barlume nel panegirico di Teodosio, rammentando Pacato [Pacatus, in Panegyr., cap. 24.] le mortali piaghe (alta vulnera) che il tiranno avea fatto all'Italia. Che venissero alla di lui divozion Bologna e Verona, s'ha dalle iscrizioni [Malvasia, Marm. Felsin. Thesaur. Insc., pag. 465.] a lui poste in quelle città. E che anche Roma al giogo di lui si sottomettesse, chiaramente apparisce da sant'Ambrosio [Ambros., Epist. LXI. Class. I.], là dove scrive a Teodosio Augusto sul fine dell'anno seguente, che Massimo tiranno, avendo ne' mesi addietro inteso come in Roma era stata bruciata una sinagoga degli Ebrei, avea spedito colà un editto, affinchè fosse rifatta. Quum audisset Romae Synagogam incensam, Edictum Romam miserat, quasi vindex disciplinae publicae. Aggiungasi a ciò l'aver Simmaco, senatore di Roma e letterato celebre, ma pagano, composto un [272] nuovo panegirico in lode di Massimo [Socrates, l. 5, cap. 14.], e recitatolo alla di lui presenza, probabilmente nell'anno seguente, e forse in Aquileja. Per questa infedeltà e arditezza fu egli poi processato come reo di lesa maestà dai ministri di Teodosio, oppur di Valentiniano; e se non si salvava in una chiesa de' Cristiani, correa pericolo della sua testa. Veggonsi inoltre delle iscrizioni comprovanti il dominio di Massimo in Roma. Dicendo poi Pacato [Pacatus in Panegyr., c. 38.] che l'Africa restò esausta di danari per le contribuzioni ad essa imposte dal tiranno, abbastanza intendiamo che colà ancora si stese la di lui signoria. Aquileia intanto, città forte, dovette resistere a Massimo, e possiam conghietturare che assediata da lui si sostenesse fino all'anno seguente.


   
Anno di Cristo CCCLXXXVIII. Indiz. I.
Siricio papa 4.
Valentiniano II imperad. 14.
Teodosio imperadore 10.
Arcadio imperadore 6.

Consoli

Flavio Teodosio Augusto per la seconda volta, e Cinegio.

Questi furono i consoli dell'Oriente; imperciocchè per conto dell'Italia e delle altre provincie sottoposte a Massimo tiranno, sembra infallibile che altri consoli furono eletti. Trovasi presso il Fabretti [Fabrettus, Inscript., p. 270.] un'iscrizione esistente in Roma, e posta nel dì 17 di gennaio CONS. MAGNO MAXIMO AVGVSTO. Sicchè lo stesso Massimo prese il consolato in Occidente per l'anno presente. Un'altra iscrizione [Thesaurus Novus Inscription., p. 393.], da me rapportata, secondo le apparenze pare che sia da riferire al medesimo tiranno; e su tal rapporto essa fu in onore di lui alzata da Fabio Tiziano console ordinario e prefetto di [273] Roma. Questi possiam dubitare che procedesse console non già nell'anno precedente, dappoichè Roma venne in poter di Massimo, ma bensì nel presente in compagnia d'esso tiranno, e ch'egli nello stesso tempo esercitasse la carica di prefetto di Roma. Quanto a Cinegio, console orientale e prefetto del pretorio nel medesimo tempo in Oriente, abbiamo da Idazio [Idacius, in Fastis.] ch'egli non più di due mesi e mezzo godè di questa illustre dignità perchè rapito dalla morte. E merita ben questo insigne personaggio cristiano che qui si faccia menzione del suo zelo contro l'idolatria. L'inviò Teodosio Augusto in Egitto, secondo Zosimo, nell'anno in cui seguì il trattato di pace fra lui, Valentiniano e Massimo tiranno, cioè nel 384, benchè non manchino dispute intorno a questo punto di cronologia, come si può vedere presso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. Ebbe ordine Cinegio dal piissimo Augusto di abbattere per quanto potesse il paganesimo, vietando i sagrifizii e tutte le superstizioni dei gentili e chiudendo i loro templi. Confessa il suddetto Zosimo pagano [Zosimus, lib. 4, cap 37.], che egli eseguì mirabilmente tal commissione, e, per quanto sembra, non solo nell'Egitto, ma per tutte le provincie, dove si stendeva la sua giurisdizione. Imperciocchè abbiamo da Idazio [Idacius, in Fastis.], ch'egli scorrendo per esse, le liberò dalla corruttela de' secoli precedenti, e penetrò sino nell'Egitto con ispezzar gl'idoli della gentilità. Perciò in gran credito era Cinegio, specialmente in Costantinopoli, di maniera tale che, essendo egli venuto a morte in essa città, col pianto universale di quel popolo fu condotto alla sepoltura nella basilica degli Apostoli nel dì 19 di marzo dell'anno presente, e nel seguente fu poi trasportato in Ispagna da Acanzia sua moglie, perchè verisimilmente era spagnuolo di nascita. Noi abbiamo un'orazione di Libanio solista, intitolata [274] dei Templi, e data alla luce da Jacopo Gotofredo, senza ben apparire in qual anno quel gentile oratore la componesse. In essa si lamenta egli che persone vestite di nero (e vorrà dire i monaci) ne rovesciavano le statue e gli altari, e ne demolivano anche i tetti e le mura tanto nelle città che nei villaggi, ancorchè leggi non vi fossero del principe che autorizzassero questa licenza. Vuol perciò persuadere a Teodosio che non permetta un sì fatto abuso, quasi che il culto degli idoli fosse legittimo, e da tollerarsi da un regnante cristiano. Ma Libanio non avrà recitata quell'orazione al piissimo Teodosio, e questi certo, per quanto abbiam veduto di Cinegio, non era disposto a consolar le premure dei gentili, e maggiormente di ciò verremo accertati andando innanzi.

Attese con gran diligenza l'Augusto Teodosio nel verno di quest'anno a fare i preparamenti per la guerra risoluta contra di Massimo tiranno. Prese al suo servizio non pochi Barbari, come Goti, Unni ed Alani, e con ciò venne l'armata sua ad essere composta di varie nazioni, ma con essersi poi provata, secondo la testimonianza di Pacato [Pacatus, in Panegyr.], verso di Teodosio una mirabil ubbidienza e fedeltà di tutti quei Barbari, senza che ne seguissero tumulti, saccheggi, ed altri somiglianti disordini contro la militar disciplina. Siccome fra poco dirò, Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 46.], differentemente parla di questo. Promoto fu creato generale della cavalleria, e Timasio della fanteria. Filostorgio [Philost., lib. 10, cap 8.] nomina anche fra i di lui generali Abrogaste e Ricimere, uffiziali già veterani nella milizia. Al defunto Cinegio succedette nella carica di prefetto del pretorio d'Oriente Taziano, personaggio di singolar valore e perizia nel mestier della guerra, il quale, se non falla Zosimo, si trovava allora in Aquileia, e fu chiamato di là a Costantinopoli: segno che allora non dovea per [275] anche quella città essere caduta in mano di Massimo. Ma la principale speranza di vincere in questa contesa, la riponeva il cattolico imperador Teodosio nell'assistenza di Dio, amatore e protettore del giusto, e nelle orazioni dei suoi buoni servi. Uno di essi principalmente fu Giovanni [Pallad., in Laus, cap. 43. Rufinus, lib. 2, cap. 32. Theod., lib. 5, cap. 24.] solitario celebre di Licopoli, che era in concetto di gran santità, e a cui per li suoi messi fece il buon Augusto ricorso per intendere la volontà di Dio. Con ispirito profetico questo santo anacoreta gli diede sicurezza della vittoria: il che accrebbe in Teodosio il coraggio, senza più mettersi in apprensione del pericolo a cui si esponeva. In effetto, procedeva egli contra di un nemico che avrebbe potuto fargli dubitare del buon successo delle sue armi stante la superiorità delle forze, perchè veramente Massimo si trovava con un maggior nerbo di milizie, e milizie valorose. Stava inoltre aspettando, per così dire, in casa propria gli sforzi di Teodosio con abbondante provvision d'armi e di viveri, dopo aver presa Aquileja ed Emona, e con aver Andragazio suo bravo generale fatto fortificar tutti i passi e luoghi delle Alpi Giulie, per le quali dall'Illirico s'entra nella Italia. Ma a chi Dio vuol male non basta gente nè armatura alcuna. Massimo seco portava il reato della morte del suo sovrano, dell'usurpazione degli stati altrui, e dell'avere, contro la fede dei giuramenti, rotta la pace stabilita con Valentiniano. Aggiungasi che le lagrime dei popoli delle Gallie peroravano continuamente contro di lui nel tribunale di Dio. Chi bramasse di raccogliere quante estorsioni e tirannie avesse esercitato in quelle parti questo mal uomo, non ha che da leggere il panegirico composto da Pacato [Pacatus, in Panegyr., cap. 25 et seq.] in onore di Teodosio. Con insoffribili imposte, con immense confiscazioni aveva egli spolpate quelle provincie; a moltissimi, ed anche del sesso debole, [276] avea tolta la vita; tutto ivi era terrore, tutto gemiti e mestizia. Era anch'egli ricorso ad un santo profeta [Sulpic. Sever., Vit. S. Martini, cap. 23.], cioè al celebre vescovo di Tours, Martino, per saper quanto si potesse promettere della disegnata impresa d'Italia. Ma il santo prelato gli predisse, che se pure intenzion sua era di assalire Valentiniano, il vincerebbe; ma anch'egli da lì a non molto resterebbe vinto. Prestò fede Massimo alla prima parte; forse in suo cuore si rise dell'altra.

Dopo aver dunque l'Augusto Teodosio dato buon sesto agli affari d'Oriente, e pubblicate ne' primi sei mesi varie leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], specialmente contro gli eretici, mentre dimorava in Tessalonica e Stubi, città della Macedonia, dove stava adunando la sua armata; e dopo aver anche lasciato al governo di Costantinopoli e di Arcadio Augusto suo figliuolo, che non aveva allora più di undici anni, un consiglio di scelti ministri, era per muoversi verso l'Italia [Zosimus, lib. 3, cap. 45.], quando si scoprì aver Massimo subornato, colla promessa di grossi regali, alquanti di que' Barbari che militavano nell'esercito di esso Teodosio, acciocchè il tradissero. Sparsasi tal voce, coloro, a' quali rimordeva la coscienza, presa la fuga, corsero ad intanarsi nelle paludi e ne' boschi della Macedonia. Si andò pertanto alla caccia di costoro, e la maggior parte di essi restò colta ed uccisa, o perì per gli stenti. Seguita a narrare il medesimo Zosimo che Teodosio spedì per mare con una buona flotta l'Augusta Giustina col figlio Valentiniano e colla figlia, senza dire qual fosse, alla volta di Roma, persuadendosi che il popolo romano, siccome d'animo contrario, loro farebbe un buon accoglimento. Ma di questo fatto si può dubitare, perchè probabilmente Valentiniano tenne dietro a Teodosio; e Massimo aveva una gran flotta in mare, condotta da Andragazio generale. Similmente [277] si può mettere in dubbio l'aggiugnersi da esso Zosimo, che anche dopo la morte di Massimo, Giustina continuò ad assistere co' suoi consigli al figliuolo Augusto. Imperocchè, per attestato di Rufino [Rufinus, lib. 2, cap. 17.], autore di questi tempi, essa finì i suoi giorni probabilmente nell'anno presente; e Prospero Tirone [Tiro Prosper., in Chronic.] mette la sua morte prima di aver veduto il figliuolo ristabilito sul trono, avendo voluto Iddio punita anche in vita con tante peripezie l'empietà di questa imperadrice ariana, dopo la persecuzione da lei fatta alla Chiesa cattolica. Un colpo ancora della mano di Dio fu creduto che Massimo staccasse da sè la possente sua flotta, condotta dal suddetto Andragazio, la quale avrebbe potuto recargli aiuto, o almeno servirgli di scampo, occorrendo il bisogno di fuggire. Dopo Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 46.], scrive Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 35.], che non sapendosi qual via volesse tener Teodosio, e parendo più probabile quella del mare, da che egli faceva il suo armamento in Tessalonica, Andragazio fu spedito a custodire il mare, per dove egli poteva passare, con disegno fors'anche di sorprenderlo, prima che si movesse. Ora l'imperador Teodosio, dacchè ebbe messa in marcia l'armata sua, divisa in tre corpi, per dar più terrore al nemico, con somma diligenza continuò il cammino, sperando di arrivare all'improvviso addosso alle genti di Massimo, giacchè si sapeva aver egli inoltrato un grosso distaccamento sino al fiume Savo ed alla città di Siscia [Pacatus, in Panegyr.]. Inaspettatamente arrivò colà l'esercito Teodosiano, e benchè si trovasse stanca la cavalleria pel lungo viaggio, pure diede di sproni e passò co' cavalli a nuoto il fiume. Il giugnere su la opposta riva, e lo sbaragliare il nemico, lo stesso fu. Moltissimi di essi perirono svenati, altri nel fiume trovarono la lor morte.

[278] Un'altra armata di Massimo s'era postata a Petovione sopra il fiume Dravo sotto il comando di Marcellino di lui fratello. Non tardò Teodosio a portarsi colà, e a dar la seconda battaglia, la quale fu qualche tempo dubbiosa, ma in fine terminata presto colla rotta e strage di quei di Massimo. Una parte nondimeno de' vinti, calate le bandiere, messasi ginocchioni, dimandò quartiere. Teodosio non solamente loro perdonò, ma gli aggregò tutti al vittorioso esercito suo, il quale continuato il viaggio arrivò ad Emona, città dianzi occupata dopo un lungo assedio da Massimo. O sia che ivi il tiranno non avesse lasciata guarnigione bastante a difenderla, o che si unisse coi cittadini, racconta Pacato, che tutti quegli abitanti con incredibil festa spalancate le porte, andarono magnificamente ad incontrar Teodosio e a dargli le chiavi della città. Fra gli altri vantaggi che il corso di queste vittorie recò a Teodosio, due furono i principali, cioè l'uno di poter passare le aspre Alpi Giulie, senza trovar opposizione; l'altro, che scarseggiando egli, anzi mancando di vettovaglia per sostener la sua armata, vennero alle mani sue varii magazzini preparati dal nemico per uso proprio, permettendo Iddio che in pro di Teodosio tornasse ciò che servir dovea contro di lui. Intanto Massimo pieno di confusione, e come impazzito al mirar così brutti principii, non sapea qual consiglio prendere; e perchè la vergogna il riteneva dal fuggire, andò a chiudersi da sè stesso in Aquileia, come s'egli avesse pensato non già a difendere la propria vita, ma a prepararsi al gastigo de' gravi suoi peccati, coll'imprigionarsi in quella città [Orosius, lib. 7, cap. 45.]. Con delle marcie sforzate, e con parte della sua armata arrivò improvvisamente alle mura di quella città Teodosio, e ne formò l'assedio, ma assedio di corta durata [Pacatus, in Panegyr.]. Imperocchè o sia, come lasciò scritto [279] Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 46.], che con pochi combattenti si fosse ivi ristretto Massimo (il che non par molto credibile), o che con qualche vigoroso assalto, o altro mezzo umano superasse quelle mura: fuor di dubbio è che da lì a non molto vi entrò l'armata di Teodosio, e furono messe le mani addosso al tiranno [Philost., l. 20, cap. 8. Prosper, in Chronico. Marcellin. Comes, in Chronico.]. Spogliato Massimo di tutti gli ornamenti imperiali, tratto fu colle mani legate davanti a Teodosio, che il rimproverò forte per la sua tirannia, e principalmente per la voce da lui sparsa di aver usurpato l'imperio con intelligenza e consentimento del medesimo Teodosio: il che Massimo confessò di aver finto, per tirar le milizie nel suo partito. Desideravano, anzi si aspettavano tutti che Teodosio pria di farlo morire, il suggettasse ai più orridi tormenti; ma egli altra pena non gli decretò, se non il taglio della testa: la qual sentenza ebbe l'esecuzione tre miglia fuori d'Aquileia, nel dì 28 di luglio dell'anno presente, come vuole Idazio [Idacius, in Fastis.], o piuttosto, secondo Socrate [Socrat., l. 5, cap. 14.], nel dì 27 agosto.

Alla morte del tiranno tenne dietro immediatamente il ritorno di tutte le città dell'Italia, delle Gallie e dell'altre usurpate provincie, all'ubbidienza di Teodosio e di Valentiniano. Restava in esse Gallie Vittore figliuolo di Massimo in età fanciullesca, che già dicemmo dichiarato Augusto dal padre [Victor, in Epitome. Idac., in Fastis. Zosim., lib. 4, cap 47.]. Fu spedito colà da Teodosio con tutta diligenza il generale Arbogaste, che lo spogliò del diadema e della vita. Andragazio generale di Massimo, che si trovava in questi tempi colla sua flotta nel mare Jonio, e che, secondo l'asserzione di Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 45.], sembra aver avuta, probabilmente dall'armata navale di Teodosio, una rotta, [280] udita ch'ebbe la nuova del meritato fine di Massimo, giacchè non isperava perdono per esser stato l'uccisor di Graziano, [Claud., in Consul. IV Honorii.] e datosi in preda alla disperazione, si precipitò in mare, per risparmiare ad altri la briga di farlo morire. Così colla morte di costui e dei due suddetti illegittimi Augusti terminò questa gran tragedia. Imperciocchè per conto degli altri tutti, essi trovarono non un rigoroso giudice, ma un amorevol padre in Teodosio, con aver egli conceduto il perdono a tutti, senza volere spargimento di sangue, e senza permettere prigionie, esilii e confische, lasciando con ciò un memorabile esempio di clemenza, dove altri ne avrebbono lasciato uno di crudeltà sotto nome di giustizia. E questa forse fu l'azione la più gloriosa di quante mai facesse questo insigne imperadore, e che sarebbe a desiderare impressa nella mente e nel cuore di tutti i regnanti cristiani in somiglianti funeste occasioni. Quel solo che fece Teodosio, fu di cassare con due editti [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], l'uno del dì 22 di settembre in Aquileia, e l'altro del dì 10 di ottobre in Milano, tutti gli atti di Massimo e le elezioni da lui fatte di ministri ed uffiziali, riducendo le cose al loro primiero stato. Ma non lasciò di richiamar dall'esilio le figlie di Massimo, e fece anche dar dei danari alla madre tuttavia vivente del suddetto tiranno. Quello oltre a ciò che parve più mirabile e degno d'encomio in questo regnante fu l'onoratezza [Ambros., Epist. LXI, Class. I.], con cui egli procedette verso di Valentiniano juniore, da cui narrano alcuni degli scrittori antichi [Zosimus, lib. 4, cap. 47.], ch'egli fu accompagnato nelle imprese suddette. Avrebbe potuto altro principe di coscienza larga pretender paesi di conquista i ritolti da lui a Massimo, o almeno appropriarsene una parte per compenso delle spese fatte nella guerra. Teodosio, siccome principe magnanimo, tutto volle [281] restituito al cognato Valentiniano, solamente riserbandosi parte del governo d'essi stati, finchè Valentiniano si trovasse in età abile a governar da sè stesso. Abbiamo poi da Socrate [Socrat., l. 5, cap. 13.] e da Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 13.], che mentre esso Teodosio stava occupato nella suddetta guerra contra di Massimo, si sparse in Costantinopoli una falsa voce ch'egli era rimasto sconfitto, e già si trovava vicino a cader nelle mani del nemico. Gli ariani allora che covavano in lor cuore non poca amarezza contra di lui per le chiese lor tolte e date ai cattolici, attaccarono il fuoco alla casa di Nettario, vescovo cattolico di quella città, la qual tutta restò consumata. Vennero poi nuove felici di Teodosio e gli eretici malfattori ebbero ricorso alla clemenza di Arcadio Augusto, il quale non solamente ad essi niun nocumento fece, ma impetrò loro ancora il perdono dal padre. Pare che l'Augusto Teodosio si fermasse in Milano per tutto il verno seguente.


   
Anno di Cristo CCCLXXXIX. Indiz. II.
Siricio papa 5.
Valentiniano II imperad. 15.
Teodosio imperadore 11.
Arcadio imperadore 7.

Consoli

Flavio Timasio e Flavio Promoto.

Già vedemmo generali dell'armata di Teodosio Timasio e Promoto; essi, in ricompensa del loro buono servigio, ottennero la dignità consolare in questo anno. Dalle leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] si ricava che Albino esercitò la prefettura di Roma. Le medesime ancora ci fan vedere Teodosio e Valentiniano Augusti per tutto maggio in Milano. Con una d'esse, data nel dì 23 di gennaio, Teodosio dichiarò di voler ben accettare le eredità e i legati a lui lasciati in testamenti solenni, ma non già se in [282] semplici codicilli o in lettere, o in dichiarazioni di fideicommissarii, volendo che lasciti tali pervenissero agli eredi. Questo atto di disinteresse e generosità del principe, siccome quello che precludeva l'adito a molti, i quali, come si può sospettare, cercavano di acquistarsi la grazia del regnante, procurandogli con delle falsità la roba altrui, vien sommamente commendato da Simmaco [Symmachus, lib. 2, Epist. XIII.]. Proibì ancora esso Augusto agli eretici eunomiani il far testamento, volendo che i lor beni pervenissero al fisco. Sembra che o sul fine del precedente anno, o sul principio di questo un nuovo tentativo facessero i non mai quieti senatori romani della fazion gentile presso l'Augusto Teodosio, per ottener la permissione che si rimettesse nel senato l'altare della Vittoria. Verisimilmente Simmaco, siccome primo fra essi, ne fu promotore, com'era stato in addietro. Si sa che questo eloquente personaggio fece e recitò circa questi tempi un panegirico in lode di Teodosio [Symmachus, ibid. et Epist. XXXI. Prosper., lib. 4, cap. 38. Socr., lib. 5, cap. 14.], dove destramente ancora lasciò intendere il desiderio del ristabilimento di quella superstizione. Ma sant'Ambrosio, a cui non furono ignote sì fatte mene del paganesimo, parlò forte a Teodosio di questo affare, in guisa che il tenne saldo nella negativa. Anzi, perchè Simmaco era in norma, come reo di lesa maestà, per aver fatto nell'anno addietro un altro ben diverso panegirico in lode di Massimo tiranno, e vi si aggiunse questa nuova sua temerità, Teodosio spedì ordine di spogliarlo d'ogni sua dignità, e di mandarlo in esilio cento miglia lungi da Roma. Allora fu che Simmaco, per timore di peggio, scappò in una chiesa dei Cristiani. Si adoperarono poi molti per impetrargli il perdono; e perchè Teodosio non mai tanto era disposto a far grazia, che quando pareva più in collera, non solamente gli perdonò, ma [283] l'ebbe anche caro da lì innanzi, e vedremo in breve che il promosse fino al consolato: il perchè esso Simmaco in più lettere esalta così benigno e buon regnante. Verso il fine di maggio volle Teodosio passare a Roma, per vedere quell'inclita città e farsi vedere dal popolo romano [Idacius, in Fastis.]. Seco menò il picciolo suo figlio Onorio ed insieme con lui Valentiniano Augusto. L'entrata sua in Roma fu nel dì 13 di giugno, e seguì colla magnificenza di un trionfo, ancorchè i vecchi romani non usassero mai di trionfare dopo le vittorie riportate nelle guerre civili. Perchè Rufino [Rufin., lib. 11, cap. 17.] scrive aver egli fatto il suo ingresso in quella dominante con un illustre trionfo, senza nominar Valentiniano; e perchè Pacato [Pacatus, in Panegyr.] parla solamente nel suo panegirico ad esso Teodosio, il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che il solo Teodosio trionfasse, nè in ciò avesse parte alcuna Valentiniano. Ma il tacere di quegli scrittori non è già un argomento bastante, per asserire escluso da quell'onore Valentiniano; e tanto meno da che abbiano la chiara testimonianza di Socrate [Socrat., lib. 5, cap. 14.] e Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 14.], che amendue essi Augusti trionfarono. Azione troppo sconvenevole al buon Teodosio sarebbe stata il non voler compagno in quell'onore l'imperador, collega ed imperadore, più particolar signore di Roma che lo stesso Teodosio. Altrimenti converrebbe credere che non sussistesse il dirsi da Zosimo, aver Teodosio restituito Valentiniano in possesso dei suoi stati: il che niuno negherà; e le leggi concordemente da essi pubblicate in Roma stessa assai pruovano che amendue andavano concordi nell'autorità e nel dominio. Abbiamo da Idazio che in tal congiuntura Teodosio rallegrò il popolo romano con un congiario, cioè con un [284] ricco donativo. Ed allora fu che Latino Pacato Drepanio o sia Drepanio Pacato, nato nelle Gallie, recitò nel senato quel suo panegirico in onore di Teodosio, che è giunto fino ai giorni nostri.

A questi tempi attribuisce Prudenzio nel suo poema [Prudentius, in Symmachum.] la conversione di moltissimi pagani, tanto dell'ordine senatorio ed equestre, quanto del popolo romano, alla religion di Cristo. Certo è che Roma anche prima era piena di cristiani, e fra essi gran copia si contava di senatori: ma specialmente la nobiltà continuava nell'attaccamento all'idolatria. L'esempio dell'imperator Teodosio, il suo zelo, le sue esortazioni furono ora un'efficace predica a quelle reliquie del gentilesimo per abbracciar la fede di Gesù Cristo; di maniera che da lì innanzi si videro molte principali case di Roma adorare il Crocifisso, abbandonati i templi degl'idoli, e frequentate le chiese dei Cristiani, con gloria immortale di Teodosio; il che si ricava ancora da san Girolamo [Hieron., Epist. V, et in Juvinianum.], autore di questi tempi, che descrive come affatto abbattuto il paganesimo in Roma, ancorchè non lasciassero molti di persistere ostinatamente nell'antica superstizione. Attese ancora lo zelante Augusto a purgare quella gran città da varii disordini ed abusi. Uno particolarmente vien osservato da Socrate [Socrates, lib. 5, cap. 18.] e dall'autore della Miscella [Miscell., lib. 8.]. Nel sito de' pubblici forni e mulini v'era gran quantità di case, divenute ricettacolo di ladri e di femmine di mala vita, che attrappolavano con facilità la gente concorrente per necessità colà, ritenendo inoltre come prigioni specialmente i forestieri, per farli voltar le macine poste sotterra, senza che se ne accorgesse il pubblico, e vendendo poi le cattive donne la loro mercatanzia. Informato di questa infamia Teodosio, vi provvide in buona forma. Trovò parimente un detestabil abuso nella [285] condanna delle donne convinte di adulterio. La pena destinata al loro fallo era quella di far crescere i lor dilitti, perchè venivano relegate nei pubblici postriboli. Teodosio fece diroccar quelle case, e pubblicò altre pene contra delle adultere. Inoltre per le istanze di papa Siricio, che aveva scoperto in Roma una gran quantità di eretici manichei, ordinò che fossero cacciati tutti costoro fuori della città, pubblicando gravissime pene contra di loro. Diminuì parimente il numero delle ferie, acciocchè il corso della giustizia non patisse pregiudizio. In somma gran bene, per quanto potè, fece a quella città con riportarne la benedizione di tutti. Verso il principio poi di settembre si rimise in viaggio per tornarsene a Milano. Le leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] cel fanno vedere nel dì 3 di esso mese in Valenza (nome scorretto), poscia nel foro di Flaminio, città una volta confinante a Foligno, e sul fine di novembre in Milano, dove soggiornò dipoi nel verno seguente, ed ordinò che i vescovi e chierici eretici fossero cacciati dalle città e dai borghi. Ricavasi da Gregorio Turonese [Gregor. Turonensis, l. 2, c. 9.] che circa questi tempi i popoli franchi avevano fatta qualche irruzion nelle Gallie. Probabilmente per cagion de' loro movimenti o passati o temuti, giudicò Teodosio necessaria in quelle parti la persona di Valentiniano Augusto. Ha perciò creduto taluno che questo principe passasse colà negli ultimi mesi dell'anno presente; ma di ciò possiam dubitare; anzi neppur sappiamo s'egli vi andasse nell'anno seguente. Generale dell'armi era in que' tempi nelle Gallie Arbogaste. Socrate [Socr., l. 5, c. 18. Miscella, I, 13.] scrive che Teodosio partendosi da Roma, ivi lasciò Valentiniano. Circa questi tempi racconta san Prospero [Prosper, in Chron.] che i Longobardi, i quali cominciavano ad acquistarsi nome presso i Romani, essendo mancati di vita i [286] loro duci, crearono il primo re della lor nazione, cioè Agelmondo figliuolo d'Ajone.


   
Anno di Cristo CCCXC. Indizione III.
Siricio papa 6.
Valentiniano II imper. 16.
Teodosio imperadore 12.
Arcadio imperadore 8.

Consoli

Flavio Valentiniano Augusto per la quarta volta, e Neoterio.

Continuò ancora per l'anno presente Albino ad essere prefetto di Roma, ciò apparendo dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] promulgate da Valentiniano Augusto. Dove dimorasse questo principe, e cosa egli operasse non ce ne dà lume alcuno la storia antica. Noi veggiamo che Teodosio Augusto governava in questi tempi come dispoticamente l'Italia, pubblicando nondimeno le leggi a nome ancora di esso Valentiniano. Consta poi dalle suddette leggi che Teodosio si fermò in Milano sino al principio di luglio. Il troviamo poi in Verona sul fine di agosto e sul principio di settembre, e di nuovo in Milano nel dì 26 di novembre, con aver passato anche il verno susseguente in essa città. Con una delle sue leggi si studiò egli di estirpare da Roma la infamia di quel peccato di carnalità che è contrario all'ordine della natura, imponendo la pena di essere bruciato vivo a chi ne fosse convinto. Con un'altra [L. 1 de Monach. Cod. Theodos.] data in Verona ordinò che i monaci dovessero starsene ritirati nelle solitudini, e non più capitar nelle città, acciocchè eseguissero in tal maniera la lor professione, che è di vivere fuori del secolo e nel silenzio. Furono i giudici che lo indussero a far questa legge, perchè quei buoni servi del Signore venivano nelle città per intercedere il perdono ai condannati alle pene, ed impedivano l'esercizio della giustizia sì necessaria al buon [287] governo, con esser giunto l'uso della lor compassione ed intercessione ad alcuni disordini ed abusi, con levare per forza essi condannati dalle mani de' giustizieri. Ma Teodosio, conosciuto poi meglio il soverchio rigore di questo editto, nell'anno 392 lo ritrattò, concedendo ad essi monaci la libertà di entrar nelle città, allorchè intervenissero motivi di necessità, o di carità del prossimo. Pubblicò egli ancora un editto nel dì 21 di giugno intorno alle diaconesse; ordinando che non venissero ammesse a quel grado, se non quelle che fossero giunte all'età di sessant'anni. Avendo esse dei figliuoli, non potevano lasciare i lor beni nè alle chiese, nè agli ecclesiastici nè ai poveri. Ancor questa legge fu poscia rivocata da lui.

Un funesto avvenimento dell'anno presente diede molto da discorrere e sarà sempre memorabile ne' secoli avvenire. Trovavasi in Tessalonica Boterico comandante dell'armi di Teodosio nell'Illirico [Sozom., l. 5, c. 17. Theodor., l. 5, c. 17. Rufinus, l. 2, c. 18.]. Perchè egli fece mettere in prigione un pubblico auriga ossia cocchiere, reo d'enorme delitto, il popolo di quella città, nel dì che si facea nel circo una solenne corsa di cavalli, dimandò con istanza la liberazione di costui, e, non avendola potuta ottenere, sì furiosamente si sollevò, che a colpi di pietre uccise quel primario uffiziale: e Teodoreto aggiunge che più d'uno de' cesarei ministri vi perì. Giunta a Milano la nuova di tal misfatto, Teodosio altamente sdegnato ne determinò un esemplare gastigo. Teneva allora un concilio numeroso di vescovi sant'Ambrosio in essa città di Milano contro gli errori dell'eresiarca Gioviniano, e per altri bisogni della Chiesa. Si mossero quei santi vescovi, e più degli altri Ambrosio, per placar l'ira del principe, il quale vinto dalle loro ragioni e preghiere si piegò alla misericordia [Paulin., Vit. Sancti Ambros.]. Ma lasciatosi poi svolgere dagli uffiziali [288] della corte, e massimamente da Rufino suo maggiordomo, mandò segretamente l'ordine del gastigo, senza che sant'Ambrosio lo penetrasse. Non s'accordano gli scrittori in raccontar quella tragica scena. Rufino pretende che raunato il popolo nel circo, i soldati ne fecero un fiero scempio. Paolino, nella vita di sant'Ambrosio, scrive che per tre ore si fece strage degli abitanti di quella città. Teodoreto e Sozomeno con poco divario ne parlano. Chi fa giungere il numero dei morti a sette mila persone [Miscell., l. 13.]. Teofane [Theoph. 2 in Chronogr.] e Zonara [Zonar., in Annal.], aprendo troppo la bocca, dicono quindici mila. Quel che è certo, fece orrore ad ognuno un castigo sì indiscreto, sì ingiusto, perchè vi perì gran quantità di passeggieri e forestieri e d'altre persone innocenti. Allorchè si seppe in Milano questa orrida ed inaudita carneficina ed inumanità, sant'Ambrosio e i vescovi adunati nel concilio la riguardarono con gemiti e sospiri come un delitto enormissimo. Ritiratosi in villa il santo arcivescovo, allorchè Teodosio tornò da non so qual viaggio, gli scrisse una lettera [Ambros., ep. LXI, Class. I.] piena di modestia e d'amore, ma insieme con forza ed autorità, rappresentandogli il commesso gravissimo eccesso, esortandolo a farne pubblica penitenza coll'esempio di Davide, e protestando che senza di questa esso Ambrosio non offerirebbe il divino sacrifizio, se Teodosio avesse intenzione di assistervi. Non dovette far breccia questa lettera nel cuore del per altro piissimo Augusto, scrivendo Paolino [Paul., Vit. Sancti Ambros.] e Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 17.], che arrivato esso imperadore a Milano, e volendo, secondo il suo solito, andare alla chiesa, trovò sant'Ambrosio sul limitar della porta, che con ecclesiastica libertà gli ricordò il grave suo reato, e il pubblico scandalo dato con tanta crudeltà al popolo cristiano, e che [289] così macchiato del sangue di tanti innocenti, non gli era lecito di entrare nel tempio di Dio. E perchè Teodosio rispose che anche Davidde avea peccato, prese la parola Ambrosio con dire: Giacchè, signore, avete imitato Davidde peccante, imitatelo anche penitente. Tale impressione fecero queste parole nel cuor di Teodosio, che si arrendè, accettò la pubblica penitenza, come era allora in uso nella Chiesa di Dio; pubblicamente pianse il suo peccato, pregando il popolo per lui; e finalmente riconciliato con Dio, ed assoluto dalla scomunica, fu ammesso ai divini uffizii [Rufin., l. 3, c. 18. Sozomenus, l. 7, c. 25. Augustinus, de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26.]. A questo fatto aggiugne Teodoreto altre particolarità, che non c'è obbligo di crederle, perchè non s'accordano col racconto d'altri. Quel ch'è fuor di dubbio, non si può abbastanza ammirar la generosa libertà del santo arcivescovo nell'opporsi al delinquente imperadore, e l'eroica umiliazione dell'imperadore stesso. Gloriosa fu la prima, più gloriosa anche l'altra, di maniera che sant'Agostino [August., ibidem.], Paolino [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], Rufino [Rufinus, lib. 3, cap. 18.], Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 25.], Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 17.], Facondo Ermianense [Facundus, lib. 12, cap. 5.], Incmaro ed altri antichi e moderni scrittori, non si saziano di esaltare perciò l'incomparabile pietà di questi due illustri personaggi, e di proporre per esempio ai regnanti cristiani e ai sacri pastori la magnifica azione dell'uno e dell'altro.

Eppure s'è trovato a dì nostri un Crouzas protestante, il quale nella novella sua logica, gran rumore ha fatto contro l'arditezza, anzi contro la temerità di questo santo arcivescovo, per aver egli osato impedire l'ingresso nel sacro tempio al maggior di tutti i monarchi. Dovea certo delirare costui, allorchè fece una sì indecente scappata contra di uno [290] dei più insigni vescovi della Chiesa di Dio, e trovò sconvenevole ciò che ogni altra persona, provveduta di senno e conoscente della forza della religion cristiana, giudicò allora e sempre giudicherà sommamente lodevole. Lasciano forse i re e monarchi d'essere degni e bisognosi di correzione, e di cader anche nelle scomuniche, allorchè prorompono in enormi misfatti, con iscandalo universale dei loro sudditi? Quel solo che debbono in casi tali attendere i ministri di Dio, si è di ben consigliarsi colla prudenza, per non contravvenire ai suoi dettami, cioè, come lo stesso sant'Ambrosio osservò [Ambros., in Psalm. 37.], di non far temerariamente degli affronti ai principi per delitti lievi o meritevoli di compatimento; ma per i grandi peccati un vescovo può e dee, come ambasciatore di Dio coll'esempio di Natan e d'altri santi uomini, avvertirli de' loro eccessi, e ricordar loro l'obbligo di farne penitenza. Ed appunto in que' tempi la penitenza pubblica fra i Cristiani era in gran vigore. Similmente ha il prudente prelato da riflettere, se principi tali sieno o no capaci di correzione, affinchè essa correzione, in vece di guarirli, non li renda peggiori, ed essi non aggiungano qualche nuovo grave delitto ai precedenti; poichè in tal caso altro non occorre che pregar Dio che gli emendi e conduca al pentimento. Ora se l'enorme fallo dell'Augusto Teodosio meritasse correzione dal prelato, a cui come cristiano era soggetto anche quel principe coronato, ognun sel vede. E per isperarne buon frutto, non mancarono punto i lumi della prudenza. Nulla dico del gran credito, in cui era anche presso di Teodosio sant'Ambrosio per la nobiltà de' suoi natali, per l'eminente sacro suo grado, e più per la straordinaria sua virtù e pietà. Basta solamente riflettere che sant'Ambrosio assai conosceva qual buon fondo di massime cristiane, di clemenza e di timor di Dio si trovasse nel cuor di Teodosio, e [291] che per conseguente non s'aveano da temere stravaganze da sì saggio e sì ben costumato principe, ma bensì da sperar quella emendazione e penitenza ch'egli in fatti gloriosamente accettò e fece. Abbiamo dallo stesso arcivescovo [Ambros., Orat. de obitu Theodosii.] che da lì innanzi non passò giorno, in cui il piissimo Teodosio non si ricordasse e dolesse del gravissimo errore da lui commesso nella strage suddetta del popolo di Tessalonica: tanta era la di lui conoscenza dei doveri del principe, e principe cristiano [Theodor., l. 5, c. 17.]. Formò ancora una legge che le sentenze di morte non si dovessero eseguire se non trenta giorni dopo la lor pubblicazione. È stato creduto che di lui non di Graziano Augusto sia una simil legge da noi rammentata all'anno 382, ma il padre Pagi lo nega. Però da sregolata testa viene la trabocchevol censura fatta da Crouzas contra di una delle più gloriose azioni di sant'Ambrosio: azione per cui gli si professò sempre obbligato, finchè visse Teodosio, ed accrebbe verso di lui il suo amore. Finiamo l'anno presente con dire che per attestato di Marcellino conte [Marcellinus Comes, in Chron.] un obelisco magnifico fu alzato nel circo di Costantinopoli [Du-Cange, Hist. Byzant.] siccome ancora una colonna davanti al tempio di santa Sofia, su cui fu posta la statua di Teodosio tutta di argento, pesante settemila e quattrocento libbre. Questa poi, secondo Zonara [Zonar., in Annal.], fu levata di là da Giustiniano nell'anno diecisettesimo del suo regno, non per mal animo verso Teodosio, ma per amore a quel metallo. Aggiunge lo stesso Marcellino conte che fra Arcadio Augusto e Galla imperadrice sua matrigna insorsero in quest'anno dei dissapori, per i quali essa uscì, oppur fu cacciata di palazzo. Il natural buono e pacifico di Arcadio non lascia credere molto verisimilmente un tal fatto.


[292]

   
Anno di Cristo CCCXCI. Indizione IV.
Siricio papa 7.
Valentiniano II imperad. 17.
Teodosio imperadore 13.
Arcadio imperadore 9.

Consoli

Taziano e Quinto Aurelio Simmaco.

Taziano, e non già Tiziano, fu il console orientale di quest'anno, Taziano, dico, il quale nel medesimo tempo esercitava la carica di prefetto del pretorio in Oriente. Simmaco quello stesso è di cui si è parlato più volte di sopra, già prefetto di Roma, gran promotore del paganesimo, e celebre fra i letterati per le sue lettere e per la sua eloquenza alquanto selvatica. Dalle leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] del codice Teodosiano risulta che nel febbraio del presente anno era tuttavia prefetto di Roma Albino. Trovasi poi nel dì 14 di luglio ornato di quel titolo Alipio, il quale in una iscrizione rapportata dal Grutero [Gruter., pag. 286.], si vede nominato Faltonio Probo Alipio. Abbiamo leggi date col nome d'amendue gl'imperadori in Milano nel mese di marzo, poscia altre date ne' susseguenti mesi in Concordia, Vicenza ed Aquileia. Pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che la pubblicata in Concordia, città d'Italia, sia da riferire a Valentiniano juniore, il quale per conseguente dovea essere tuttavia in Italia, senza essere passato nelle Gallie, per osservarsi la medesima indirizzata a Flaviano prefetto del pretorio d'Italia e dell'Illirico, giurisdizione d'esso Valentiniano. Noi potremmo tenere per certa cotal opinione, se fosse indubitato che Teodosio non si mischiasse per questi tempi nel governo ancora dell'Italia; del che pure ci dà indizio la sua lunga permanenza in Milano. Noi, per altro, niuna notizia abbiamo delle particolari azioni di Valentiniano spettanti a questo anno, [293] se non che le leggi suddette paiono indicare ch'egli stette in Italia finchè vi dimorò Teodosio, giacchè abbiamo la suddetta legge data in Aquileja nel dì 14 di luglio, che deve appartenere a lui, poichè un'altra data in Costantinopoli nel dì 18 d'esso mese (la quale si dee riferire a Teodosio) ci fa veder questo Augusto già uscito d'Italia, e pervenuto colà. Ma o la data d'essa ultima legge è fallata, o pur fallò Socrate in iscrivendo [Socrates, lib. 5, cap. 18.] che Teodosio entrò col figlio suo Onorio in Costantinopoli solamente nel dì 10 di novembre dell'anno presente. Racconta Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 48.], essersi esso Teodosio nel suo ritorno fermato in Tessalonica, capitale della Tessalia e d'altre provincie, perchè trovò quelle contrade maltrattate dai Barbari sbandati nelle precedenti guerre, i quali, ricovrandosi ne' boschi e nelle paludi, e prevalendosi della lontananza di Teodosio, commettevano continuamente saccheggi ed assassinii. Andò arditamente in persona (se pur è credibile) lo stesso Augusto a spiare dove era il ricovero di quei masnadieri; e, trovatolo, mosse a quella volta i soldati, per man de' quali si fece un gran macello di que' ribaldi. Generale di tale spedizione fu specialmente Promoto, che in questa medesima occasione lasciò la vita in un'imboscata a lui tesa dai Barbari. Pretende Zosimo che Rufino mastro degli uffizii, ossia maggiordomo di Teodosio, già molto potente nella corte, per particolari suoi disgusti il facesse ammazzare, tenendo segreta intelligenza co' Barbari. Ma parlando Claudiano di questa morte ne' suoi poemi contro di Rufino, senza attribuirgli un sì fatto tradimento, si può dubitare dell'asserzion di Zosimo. Secondo il medesimo Claudiano [Claud., Panegyr. Stilic., et in Rufin., lib. 1.], Stilicone vendicò poi la morte di Promoto suo amico con perseguitare i Bastarni uccisori del [294] medesimo, e ridurli insieme coi Goti, Unni ed altri Barbari che infestavano la Tracia, in una stretta valle, dove tutti gli avrebbe potuti tagliare a pezzi, se il traditor Rufino non avesse condotto Teodosio a far pace con essi.

L'anno fu questo in cui principalmente i due cattolici Augusti, fecero risplendere il loro zelo in favore della religion cristiana e della vera Chiesa di Dio. Abbiamo tre loro editti [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], pubblicati contro degli eretici ed apostati; e similmente due altri contra degli ostinati pagani, vietando loro, sotto varie pene, ogni culto degl'idoli, ogni sagrifizio, e l'entrar negli antichi templi del gentilesimo, per adorarvi i falsi dii. Ma particolarmente stese Teodosio questi divieti e pene all'Egitto, per le istanze di Teofilo zelantissimo vescovo di Alessandria. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], all'anno 389 scrive che il gran tempio di Serapide, anticamente eretto in quella città, fu allora abbattuto, e l'opinione di lui fu seguitata dal cardinal Baronio, dal Petavio e dal Tillemont. Ma il Gotofredo e il padre Pagi (forse con più ragione) ne riferiscono la demolizione all'anno presente, in vigor delle suddette leggi. Ammiano Marcellino [Ammian., Marcell., l. 22.] parla di quel tempio, come di una maraviglia del mondo, ed alcuni pretesero [Theod., lib. 5, cap. 22.] che fosse il più grande e bello che esistesse sopra la terra. Una particolar descrizione ce ne lasciò Rufino storico di questi tempi, tale rappresentandone la magnificenza e ricchezza, che sembra ben fondato il giudizio di chi ne fece il grande elogio. Incredibil era il concorso dei divoti pagani a questo santuario della loro superstizione, e di qui ancora veniva grande utilità e vantaggio alla stessa città di Alessandria. Socrate [Socrates, l. 5, cap. 16.], Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 15.], Rufino [Rufinus, lib. 3.], [295] Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 22.] ed altri, raccontano a lungo l'occasione, in cui quel nido famoso del gentilesimo fu diroccato. Me ne sbrigherò io in poche parole. Avendo il buon vescovo Teofilo ottenuto da Teodosio un cadente tempio di Bacco per farne una chiesa, vi scoprì delle grotte piene di ridicolose ed infami superstizioni dei gentili, che fors'anche servivano all'impudicizia e alle ladrerie dei sacerdoti pagani. Perchè fece condurre per la città queste obbrobriose reliquie, i pagani, massimamente filosofi, scoppiarono in una sollevazione contro dei cristiani; ne ferirono e ne uccisero molti; e dipoi si afforzarono nel tempio, poco fa mentovato, di Serapide, da cui sboccando di tanto in tanto, recavano gravi danni al popolo cristiano. Informato di questa turbolenza Teodosio, siccome principe clemente, non volle già gastigar le persone secondo il loro demerito, ma solamente che fossero loro tolti tutti i templi, perchè occasioni più volte ad essi di sedizioni. Essendo fuggiti i pagani per paura del gastigo, allora Teofilo fece demolire quel superbo edifizio. Poscia tutti i busti di Serapide sparsi per la città, e l'altre statue degli dii bugiardi, ed ogni altro tempio de' gentili furono atterrati; nè solamente in Alessandria, ma anche in altre città dell'Egitto e dell'Asia, con trionfar la Croce, ed annientarsi sempre più l'imperio dell'idolatria e dei demonii.


   
Anno di Cristo CCCXCII. Indizione V.
Siricio papa 8.
Teodosio imperadore 14.
Arcadio imperadore 10.

Consoli

Flavio Arcadio Augusto per la seconda volta, e Rufino.

Orientali furono amendue i consoli. Il secondo, cioè Rufino, è quel mal uomo che andava crescendo di autorità e potenza [296] nella corte di Teodosio Augusto. Videsi in questo anno una nuova deplorabil tragedia nella persona di Valentiniano II Augusto. Era giunto questo principe all'età di vent'anni, e dopo la partenza di Teodosio dall'Italia avendo ripigliato il governo totale dei suoi stati, se n'era passato nella Gallia per vegliare agli andamenti de' Barbari e dar buon sesto a quegli affari. Noi abbiamo le mirabili qualità e belle doti di questo giovane principe, a noi descritte con pennello maestro da sant'Ambrosio [Ambros., Oration. de obitu Valentiniani.], cioè da quel sacro eloquentissimo pastore, che amava e teneva lui come in luogo di figlio, e da lui ancora teneramente era amato. Dacchè mancò di vita Giustina sua madre, seguace dell'arianesimo, e dacchè egli cominciò a conversare col cattolico imperador Teodosio, si assodò egli maggiormente nella vera fede e dottrina, e crebbe sempre più nella divozion verso Dio, e nella correzione dei suoi giovanili difetti. Dianzi si dilettava dei giuochi del circo, e dei combattimenti delle fiere [Philostorg., l. 11, cap. 1.]: rinunziò a tutti questi spassi. Dava negli occhi di ognuno la sua amorevolezza, la sua modestia, e la cura gelosa della purità, tuttochè non fosse ammogliato; tenendo egli in servitù il suo corpo e i suoi sensi, più che non facevano i padroni i loro schiavi. Non si può dire quanto foss'egli inclinato alla clemenza, quanto alieno dal caricar di nuove imposte i suoi popoli, quanto abborrisse gli accusatori [Sozom., l. 7, c. 22.]. Soprattutto professava amor per la giustizia, applicato agli affari, e protettor dichiarato della religion cattolica; e siccome egli amava grandemente i suoi sudditi, così dai sudditi suoi era universalmente amato e riverito [Orosius, l. 7, c. 35.]. Mentr'egli dunque dimorava nelle Gallie in Vienna del Delfinato, lungi dai consigli di sant'Ambrosio, s'avvisarono i senatori romani [297] della fazion pagana, che questo fosse il tempo propizio per rinnovar le batterie affin di ottener il ristabilimento del sacrilegio altare della Vittoria, ma ritrovarono un principe, a cui premeva più di piacere a Dio che agli uomini, e ne riportarono la negativa. Per attestato di sant'Ambrosio [Ambr., Epist. LXII, Class. I.], poco tempo prima della sua morte accadde questo illustre segnale del suo attaccamento alla religione di Cristo. Insorsero intanto rumori di guerra dalla parte dei Barbari, che essendo alle mani fra loro, minacciavano anche l'Alpi, per le quali è divisa l'Italia dall'Illirico. Mosso da questi sospetti sant'Ambrosio [Ambr., in Oration. de obitu Valentiniani.] avea risoluto di passar nelle Gallie, per trattarne con Valentiniano; ma inteso poi che lo stesso Augusto pensava di passar egli in Italia, non si mosse. Allorchè Valentiniano seppe avere il santo arcivescovo mutata risoluzione, gli spedì uno dei suoi uffiziali, di quei che erano chiamati silenziarii, per pregarlo di non omettere diligenza per venirlo a trovare, stante il suo desiderio di ricevere dalle mani di lui il sacro battesimo (perchè non era se non catecumeno), sì grande era l'amore e la stima sua verso quell'insigne prelato. Dopo avere scritto e spedito a sant'Ambrosio, tale era la di lui impazienza di vederlo, che due dì dopo dimandava se era ancor giunto. E ciò avvenne nell'ultimo giorno di sua vita, come s'egli avesse un chiaro presentimento della disavventura che gli accadde.

Conviene ora avvertire che dappoichè l'Augusto Valentiniano fu ito nelle Gallie, per far ivi da padrone, ritrovò un uffiziale che si mise a fare il padrone sopra di lui. Questi era Arbogaste, conte, generale dell'armi in quelle provincie, lo stesso che avea tolto di vita Vittore figlio di Massimo tiranno, e rimesse le Gallie alla ubbidienza d'esso Valentiniano. Costui non si sa bene, se fosse di nazione Franco od Alamanno, nè se nato [298] nelle Gallie, concordando nondimeno i più [Zosim., lib. 4, cap. 53. Philostorg. Claud. et alii.] in riguardarlo di nascita, o almen di origine, Barbaro, e in dire che gran credito si era acquistato colla sua bravura e perizia nell'arte militare, ed anche nel disinteresse. Più a lui che al principe si mostravano attaccati ed ubbidienti i soldati. Suida [Suidas verbo Arbogastes.] anch'egli ne lasciò un elogio tratto da Eunapio e da Zosimo, autori, che per essere pagani, volentieri lodarono Arbogaste della loro setta. Ma Socrate [Socrat., l. 5, c. 25.], Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 35.] e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronic.] cel dipingono qual era in fatti, cioè uomo ruvido, altero, barbaro e capace di ogni misfatto. Tal predominio prese egli nella corte [Sozom., l. 7, c. 22.], che Valentiniano tardò poco a vedersi divenuto un imperadore di stucco. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 8.] cita qui uno storico più degno degli altri di fede, perchè probabilmente vivuto nelle Gallie, e in questi tempi, appellato Sulpicio Alessandro; il quale attesta aver Arbogaste tenuto Valentiniano come prigione in Vienna, a guisa di un privato; aver date le cariche militari non ai Romani, ma bensì ai barbari Franchi, e le civili a persone unicamente dipendenti da lui; aver egli ridotta a tal suggezione la corte, che niuno degli uffiziali osava di far cosa ordinatagli da Valentiniano in voce o in iscritto, senza che questa fosse prima approvata da Arbogaste [Zosim., lib. 4, cap. 53.]. Ora trovandosi l'infelice giovane Augusto in sì duro crogiuolo, altamente se ne lagnava e andava scrivendo lettere a Teodosio Augusto, con avvisarlo degli strapazzi a lui fatti, e con iscongiurarlo di venire in diligenza a liberarlo: se no, ch'egli verrebbe a trovarlo. Una di queste lettere spedita senza precauzione dovette [299] essere intercetta da Arbogaste, e scoprirgli il cuore e i desiderii del principe. Penetrato dipoi ch'egli meditava di far il viaggio d'Italia, allora fu che per paura di vedersi più efficacemente accusato presso di Teodosio, concepì il nero disegno di torgli la vita. Certamente santo Ambrosio accenna che il disegno di Valentiniano di venire in Italia cagion fu della sua rovina. Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 53.] e Filostorgio [Philostorg., lib. 11, cap. 1.] due altre particolarità aggiungono, che si dovettero spacciare dipoi, senza saper noi se vere o false. Cioè che un dì Valentiniano, non potendo più sofferire la schiavitù in cui si trovava, assiso sul trono fece chiamare Arbogaste, e guatatolo con torva occhiata gli presentò una polizza, portante che il privava della carica di generale. Gli rispose con fiera altura costui che quella carica non gliel'aveva egli data, nè togliere gliela poteva; e stracciata la carta e gittatala per terra, se ne andò. O allora, o in altra occasione accadde ancora, secondo Filostorgio, che Valentiniano per parole offensive dettegli da Arbogaste, sì fattamente s'accese di collera, che volle dar di mano alla spada di una guardia per ucciderlo. La guardia il trattenne; e benchè egli dipoi cercasse di addolcir questo trasporto, con dire che per l'impazienza di vedersi così maltrattato e vilipeso, aveva voluto uccidere sè stesso, pure Arbogaste n'ebbe assai per conoscere di qual animo fosse il principe verso di lui.

Non fu dunque da lì innanzi un segreto questa dissensione tra Valentiniano ed Arbogaste [Ambros., Oration. de obitu Valentiniani.]. E perchè questi ne dava la colpa ad alcune persone innocenti di corte, quasi che ascendessero il fuoco, Valentiniano si protestava pronto di eleggere piuttosto la morte, che a sofferir di vederle in pericolo per sua cagione. Nè già mancò chi s'interpose per riconciliarli insieme, e vi si accomodava [300] con sincerità il giovane Augusto. Anzi fra gli altri motivi di chiamar santo Ambrosio nelle Gallie, vi era ancor quello di voler lui per mallevadore della progettata concordia. E lo stesso santo arcivescovo acerbamente si afflisse dipoi [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], per aver tardato ad andare, perchè avendo anche Arbogaste molta stima di lui, avrebbe sperato di acconciar quegli affari, e di risparmiare all'infelice principe il colpo che l'atterrò, mentre esso Ambrosio era in cammino. Ma finiamola con dire che Arbogaste, fors'anche per aver intesa la venuta di un prelato di tanto credito, natagli apprensione, che tal maneggio fosse per suo danno, s'affrettò a levar la vita a questo amabil Augusto. Venuto il dì 15 di maggio dell'anno presente, secondo la chiara testimonianza di sant'Epifanio [Epiphan., de Mensuris, num. 20.], Zosimo e Filostorgio dicono che egli, mentre si divertiva sulla riva del Rodano, fu ucciso da Arbogaste, o pure dai di lui sicarii. Ma la corrente degli scrittori, cioè Orosio, esso Epifanio, Marcellino conte, Socrate ed altri, scrivono che egli fu una notte strangolato per ordine di Arbogaste; e per far poi credere che egli da sè stesso si fosse per disperazione levata la vita, la mattina si trovò appeso il di lui corpo ad un trave. San Prospero, Rufino e Sozomeno pare che prestassero fede a questa ingiuriosa voce, la quale è distrutta dall'autorità di sant'Ambrosio, con aver egli sostenuto nell'orazion funebre di esso principe, da lui poscia recitata in Milano, che, stante la premura mostrata d'essere battezzato, l'anima di lui era in salvo. Di questo così esecrando misfatto niun processo fu fatto dipoi per la prepotenza di Arbogaste. Procurò egli bensì, per abbagliar la gente, di comparir doglioso della sua morte, di fargli un solenne funerale nel dì seguente della pentecoste, e di permettere che il suo corpo fosse trasportato a Milano. Confessa [301] sant'Ambrosio [Ambros., Orat. de obitu Valentiniani.] che i gemiti e le lagrime dei popoli in tal congiuntura furono incessanti, parendo a cadauno d'aver perduto piuttosto il lor padre che un imperadore, e che fino i Barbari, e chi parea dianzi suo nemico, non poterono risparmiare il pianto all'udire il miserabil fine di sì buon principe. Giusta e Grata di lui sorelle, o sia che accompagnassero il di lui corpo, o pure che si trovassero in Milano, non potevano darsi pace per sì gran perdita; ed, assistendo alla sepoltura, che dopo due mesi gli fu data in quella città presso il corpo di Graziano Augusto, ascoltarono quei motivi di consolazione, che seppe loro somministrare nell'orazione funebre il santo arcivescovo di Milano.

Si può credere che dopo l'orrida suddetta tragedia il perfido generale Arbogaste avrebbe volentieri occupato il trono imperiale: ma o perchè non volle con questo salto dichiararsi colpevole della morte del suo sovrano, oppure, perchè essendo di nascita barbaro, giudicò pericoloso il prendere lo scettro dei Romani [Philost., l. 11, c. 2. Orosius, l. 7, c. 35.]: certo è ch'egli scelse persona che portasse il nome d'imperadore, e ne lasciasse a lui tutta l'autorità. Gran confidenza passava tra lui ed Eugenio, uomo che di maestro di grammatica e di retorica, s'era alzato al grado di segretario o d'archivista nella corte di Valentiniano [Socrates, l. 5, cap. 25. Zos., l. 4, c. 54.]. Se di lui parla Simmaco in due sue lettere [Symmach., l. 2, ep. LX et LXI.], dove gli dà il titolo di chiarissimo, potrebbe essere stato anche più eminente il di lui grado: e Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 2.] sembra dire che fu maggiordomo. Era amicissimo del general Ricomere, ma più di Arbogaste, e però opinion fu che fra lui ed esso Arbogaste si formasse il concerto della morte di Valentiniano, avendogli l'indegno conte promesso di crearlo imperadore. Così fu fatto. Arbogaste imboccò [302] le milizie, acciocchè il volessero e dichiarassero Augusto; e però Eugenio salì sul trono, nè tardarono le provincie della Gallia a riconoscerlo per loro signore. Quanto all'Italia abbiam pruove nell'anno seguente, che anch'essa venne alla di lui ubbidienza. Ma per conto dell'Africa e dell'Illirico, non v'ha apparenza che accettassero la signoria del tiranno, tuttochè costui avesse in animo, anzi sperasse gagliardamente l'acquisto di tutto l'imperio romano [Sozom., l. 7, c. 22.], perchè i pagani cominciarono ad empiergli la testa di vane promesse di vincere Teodosio, tripudiando essi al vedere che Arbogaste, adoratore anch'egli de' falsi dii, si dava a conoscere arbitro degli affari sotto il nuovo tiranno. Portata intanto a Costantinopoli la nuova dell'assassinio di Valentiniano; ne provò Teodosio una somma afflizione ed inquietudine [Zosimus, l. 4, cap. 55.], e Gallia Augusta, sorella dell'ucciso principe, coi suoi pianti e lamenti mise sossopra quella real corte [Rufinus, l. 2, cap. 31.]. Andava il saggio principe ondeggiando fra i pensieri di pace e di guerra, quando gli arrivò un'ambasceria spedita da Eugenio per intendere s'egli il voleva o no per collega nell'imperio. Il capo di tal deputazione era un Rufino ateniese, accompagnato da alcuni vescovi della Gallia, i quali ebbero tanta sfrontatezza di difendere come innocente Arbogaste davanti ad esso Augusto. Dopo la dimora di qualche tempo furono essi rispediti, non si sa con quale risposta; ma ben si sa con ricchi regali, e probabilmente senza quel frutto che desideravano. Già vedemmo che Rufino fu console nell'anno presente, e come egli aveva fatto levar di vita il valoroso generale Promoto. Vi restava Taziano prefetto del pretorio d'Oriente, personaggio che gli faceva ombra, non men che Procolo di lui figliuolo, prefetto della città di Costantinopoli. Si accinse Rufino ad atterrarli amendue, e gli riuscì il disegno. Secondo [303] le apparenze fece saltar fuori contra di loro delle accuse di avanie e rubamenti da lor tutti ne' loro uffizii. Fu spogliato Taziano della dignità di prefetto del pretorio, e in questa ebbe per successore lo stesso Rufino, cominciandosi a veder leggi di Teodosio date sul fine d'agosto, e indirizzate a lui con questo titolo. Procolo figlio d'esso Taziano sul principio della tempesta se ne era fuggito, nè si sapea dove fosse. Lasciossi infinocchiar cotanto suo padre dalle promesse di Rufino, che il fece venire; ma continuò il processo contra di loro in maniera tale che esso Taziano fu relegato nel suo paese, e condannato a morte il figliuolo. La sentenza contra dell'ultimo fu eseguita nel dì 6 di decembre [Chronicon Alexandrinum.]; perchè Teodosio spedì ben l'ordine della grazia, ma colui che lo portava, passando d'intelligenza con Rufino, andò sì lentamente che non arrivò a tempo di farla valere. Furono per ordine di Teodosio cassati molti atti di Taziano e di Procolo; quantunque Claudiano [Claud., in Rufin., lib. 1.] da lì a qualche anno mettesse fra i reati dell'iniquissimo Rufino questa persecuzione fatta a Taziano e a suo figlio, pure assai fondamento s'ha per credere che i lor vizi fossero meritevoli delle suddette condanne [Rufinus, l. 10, c. 2.]. Certamente Taziano (checchè in sua lode ne dica Zosimo storico gentile) gran persecutor dei Cattolici, era stato sotto Valente Augusto; e sant'Asterio [Asterius, Homil. in fest. Kal.] riguardò la di lui peripezia per un gastigo di Dio. In quest'anno il piissimo imperador Teodosio pubblicò una nuova celebre costituzione [L. 12, de Paganis, Cod. Theod.] contra tutte le superstizioni del paganesimo, vietando con rigorose pene ogni culto degl'idoli, ogni sacrifizio ed ogni impostura dell'aruspicina. Altre leggi di lui spettanti all'anno presente abbiamo, o contro gli eretici, o per sollievo dei popoli, o per tener in [304] disciplina i soldati, o per estirpare i ladri, con altri regolamenti tutti degni di lode.


   
Anno di Cristo CCCXCIII. Indizione VI.
Siricio papa 9.
Teodosio imperadore 15.
Arcadio imperadore 11.
Onorio imperadore 1.

Consoli

Flavio Teodosio Augusto per la terza volta, e Abondanzio.

Questi furono i consoli dell'Oriente, perciocchè per conto dell'Occidente Eugenio tiranno prese il consolato, e ne abbiamo i riscontri in qualche iscrizione; una avendone rapportata anch'io [Thesaur. novus Inscript., p. 394.]. Solo procedette console Eugenio, per lasciar l'altro luogo all'Augusto Teodosio, che non gli avea per anche dichiarata la guerra. A chi fosse in quest'anno appoggiata la prefettura di Roma, a noi resta ignoto. Sulpicio Alessandro storico, conosciuto dal solo Gregorio Turonense, e da lui citato [Gregor. Turonensis, l. 2, c. 8.], racconta che passava qualche nemicizia fra Arbogaste generale dell'armi del tiranno Eugenio, e Junnone e Marcomiro principi della nazion dei Franchi. Per vindicarsi di loro, Arbogaste passò colla sua armata a Colonia e poi nel furore del verno dell'anno presente valicato il Reno, andò a dare il guasto al paese d'essi Franchi, nè vi trovò opposizione alcuna, essendo fuggiti gli abitanti. Paolino nella vita di sant'Ambrosio [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.] scrive aver egli fatta guerra ai Franchi, benchè fosse anche egli della lor nazione, e dacchè ebbe sconfitto molti di essi, aver poi stabilita pace col resto di loro. Anche il suddetto Sulpicio storico attesta che Eugenio tiranno con tutte le sue forze si lasciò vedere sul Reno, per rinnovar la pace e la lega antica coi re dei Franchi e degli Alamanni. Aspettavasi ormai Eugenio la guerra dalla parte di [305] Teodosio: e però in quest'anno attese ad ingrossar la sua armata, non solamente con truppe romane, ma ancora con arrolar quanti Franchi ed Alamanni vollero militar sotto le sue bandiere. Arbogaste era il general comandante di tutti. Già l'Italia ubbidiva ad Eugenio, e i pagani, accortisi del loro vantaggio, al vedere esso Arbogaste pagano arbitro dell'imperio, e lo stesso Eugenio poco buon cristiano, corsero a dimandargli il ristabilimento dell'altare della Vittoria, e la restituzione delle rendite tolte ai loro templi e sacerdoti. Veramente Eugenio, per attestato di sant'Ambrosio [Ambros., Epist. LXI, Class. I.] e di Paolino [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], diede loro più di una negativa; tante nondimeno furono le lor batterie, che infine permise quanto chiedevano per l'altare della Vittoria; ma per conto dell'entrate in vece di renderle ai templi, le dispensò ad Arbogaste, a Flaviano prefetto del pretorio, e ad altri nobili romani, ma romani gentili. Venuta poi la primavera sen venne il tiranno con tutto il suo sforzo in Italia per osservare gli andamenti del temuto Teodosio. Sul principio dell'usurpazione sua egli avea scritto a sant'Ambrosio per tirar dalla sua un prelato di tanta conseguenza e stima. Sant'Ambrosio non gli diede risposta; solamente poi gli scrisse per raccomandargli varie persone, e, udendosi poi imminente la di lui calata in Italia, si ritirò da Milano a Bologna, indi a Faenza, e finalmente a Firenze per non comunicare con chi alla tirannia avea congiunta la protezione del paganesimo. Da Firenze poi scrisse a lui una lettera piena di generosità e prudenza per giustificar la sua ritirata.

Teodosio Augusto in questo mentre faceva tutte le necessarie disposizioni per procedere contra del tiranno, senza però trascurare di far del bene al pubblico. Le leggi da lui pubblicate in quest'anno [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.] tutte si veggono date in Costantinopoli. [306] Con alcune d'esse promosse la militar disciplina levando varii abusi, e soprattutto ordinando che i soldati non potessero pretendere nè dimandare a chi gli alloggiava nè legna, nè olio, nè materazzi, nè di farsi pagare in denaro i naturali loro dovuti. Allorchè i regnanti del mondo si preparavano a far guerra, uso loro ordinariamente è di mettere delle nuove imposte addosso ai miseri popoli. L'ottimo imperadore Teodosio, che cercava nelle imprese la benedizione di Dio, lungi dal voler imporre nuovi aggravi ai suoi sudditi in occasion di questo armamento contra di Eugenio, con sua legge nel dì 12 di giugno, abolì ancora un aggravio dianzi imposto dal decaduto Taziano, e fece restituire tutti que' beni che quell'uffiziale indebitamente avea confiscato a varie persone, o esiliate, o fatte morire: sopra di che il cardinal Baronio lasciò scritte varie eccellenti riflessioni. Ma ciò che incomparabilmente diede a conoscere l'impareggiabil bontà di questo imperatore, fu la celebre legge [L. unica, Si quis Imperatori maledixerit, Cod. Theodos.] emanata nel dì 9 d'agosto. In altri tempi sotto gli Augusti pagani delitto capitale fu riputato lo sparlare del principe, e il diffamare il suo nome con parole insolenti ed oltraggiose. Il buon Teodosio ordina con quell'editto ai giudici, che niuno di questi tali mormoratori sia suggetto alla pena ordinaria portata dalle leggi, aggiungendo quelle belle parole: Perchè se la lor maldicenza proviene da leggerezza indiscreta, noi dobbiamo sprezzarla; se da cieca pazzia, abbiamo da averne compassione, e se poi da cattiva volontà, a noi conviene il perdonar. Pertanto solamente ordina che sia riferito a lui quanto ne dicessero le persone per esaminare se occorresse farne ricerca, esigendo la prudenza che non si trascurino certe insolenze che tendessero a sedizioni e a turbar la quiete dello Stato. [307] L'anno fu questo, in cui Teodosio [Philost., l. 11, c. 1. Sozomenus, l. 8, c. 24. Claud. Marcellin. Comes, in Chronico.] dichiarò Augusto il suo secondogenito Flavio Onorio, ch'era in età di dieci anni. Si è disputato fra gli eruditi, se tal dichiarazione accadesse nel gennaio, oppure nel novembre dell'anno presente, nè si è potuto finora adeguatamente decidere la quistione [Chron. Alexandrinum.]. Fu medesimamente nel presente anno dato compimento in Costantinopoli ad un'insigne piazza, che portò in nome di Teodosio: intorno a che è da vedere quanto lasciò scritto nella sua Costantinopoli cristiana il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byzant.]. In essa città anche nel seguente anno fu alzata una statua di Teodosio a cavallo sopra la colonna di Tauro istoriata, e tale statua si pretende che fosse d'argento.


   
Anno di Cristo CCCXCIV. Indiz. VII.
Siricio papa 10.
Teodosio imperadore 16.
Arcadio imperadore 12.
Onorio imperadore 2.

Consoli

Flavio Arcadio Augusto per la terza volta, e Flavio Onorio Augusto per la seconda.

Non più era un segreto la guerra fra Teodosio e il tiranno Eugenio, avendo cadaun dalla sua parte fatto dei mirabili preparamenti per questa danza. I gentili, dopo aver trovato così facile alle lor preghiere l'usurpatore [Rufin., lib. 2, cap. 33.], e cominciato spezialmente in Roma a far gli empi lor sagrifizii, quegli erano che più degli altri l'animavano ai combattimenti, perchè cercando nelle viscere delle lor vittime, vi trovavano a misura dei lor desiderii certa la vittoria di Eugenio. Sopra gli altri Flaviano prefetto del pretorio (poichè per conto del prefetto di Roma noi non sappiamo chi fosse nel presente anno), che [308] si attribuiva una gran perizia nel folle mestier dell'aruspicina [Sozom., lib. 7, cap. 22.], spacciava per immancabile la rovina di Teodosio. Queste vane speranze, o, per dir meglio, sicurezze, date ad Eugenio, non servirono poco per incoraggirlo a portarsi non già a conseguir vittorie, ma a ricevere il gastigo dovuto alle sue iniquità. E, per testimonianza di s. Agostino [August., de Civitat. Dei, lib. 5, cap. 26.], avendo occupato l'Alpi Giulie, per le quali dall'Illirico si viene in Italia, e fatte ivi molte fortificazioni, fu osservato che furono ivi poste alcune statue d'oro, o indorate, di Giove armato di fulmini, e consecrate con varie superstizioni contra di Teodosio. Teodoreto [Teodor., lib. 5, cap. 24.] anch'egli notò che l'immagine di Ercole si mirava nella principal insegna di Eugenio: cotanto il doveano aver ammaliato le vane promesse dei gentili. Ma ben diverso fu in questa sì importante congiuntura il contegno di Teodosio. Certamente non trascurò egli i mezzi umani per ottenere un felice esito alla meditata impresa, perchè, oltre alle milizie romane, si procacciò un gran rinforzo di soldatesche ausiliarie, venute dall'Armenia, Iberia ed Arabia [Claud., de Consult. III Honor. Socrates, Sozomenus.]. Moltissimi Barbari ancora abitanti di là del Danubio corsero volontieri al suo soldo per isperanza di far buon bottino. Giordano storico scrive [Jordan., de Reb. Getic., cap. 28.] che venti mila Goti si unirono al di lui esercito. Il solo Gildone, conte, governatore dell'Africa, non ostante gli ordini a lui spediti da Teodosio, trovò delle scuse per non venire; e neppur volle inviare un fantaccino o una nave, riserbandosi di seguitar poi chi restasse vincitore; politica che fu col tempo annoverata fra i suoi reati. Con sì forte armamento si potea promettere buona messe d'allori l'Augusto Teodosio: tuttavia le sue più ferme speranze erano risposte nell'aiuto e nella protezione del Dio degli eserciti, e nella giustizia della sua causa. [309] Aveva egli per tempo inviate persone a consultar s. Giovanni, solitario dell'Egitto, mentovato di sopra, personaggio tenuto, con ragione, in concetto di profeta del Signore [Rufinus, lib. 2, c. 32. Sozomenus, Theodor.]. Mandò a dirgli quell'uomo santo, che quella guerra gli costerebbe assai sangue, ma ch'egli ne uscirebbe vittorioso, con altre predizioni che si verificarono coi fatti. Oltre a ciò, per attestato di Rufino, si andò sempre il piissimo Augusto preparando a questa impresa con digiuni, orazioni e penitenze, e con frequentare i sepolcri de' martiri e degli apostoli, affin di ottenere, per intercessione dei santi, l'assistenza del braccio di Dio nei pericoli, ai quali andava ad esporsi.

Venuta dunque la primavera, mise egli in marcia la potente sua armata alla volta d'Italia, e mentre anch'egli era in procinto di tenerle dietro [Zosim., lib. 4.], Galla Augusta sua moglie nello sgravarsi d'un figlio che morì, anch'essa finì di vivere. Lasciò in Costantinopoli i suoi due figli Arcadio ed Onorio Augusti sotto la direzione di Rufino prefetto del pretorio, come costa da Claudiano, autore più autentico qui che Zosimo e Marcellino conte, i quali scrivono aver egli condotto seco il fanciullo Onorio. Una sua legge cel fa vedere in Andrinopoli nel dì 15 di giugno. L'esercito suo con gran diligenza marciava innanzi. Essendo morto ne' mesi addietro Ricomero, a cui Teodosio pensava di darne il comando, elesse dipoi in suo luogo Timasio per generale delle milizie romane, e seco unì Stilicone, persona assai accreditata, di cui avremo a parlare non poco nel proseguimento della storia. Generali delle soldatesche ausiliarie e barbariche erano Gaina, Saule e Bacuro, nativi dell'Armenia, ma uffiziali di gran valore e sperienza nell'arte militare. Con tal sollecitudine l'imperiale armata continuò il cammino, che contro l'espettazione d'ognuno si vide giunta all'Alpi Giulie; e il giugnervi, e forzar que' passi, benchè tanto premuniti per ordine di [310] Eugenio, fu una cosa stessa. Quel Giove che quivi stava con tanti fulmini pronto ad incenerir l'armi temerarie dei Cristiani, si trovò un tronco insensato contra di un principe che veniva assistito dal vero Dio [August., de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26. Rufin., lib. 2, cap. 33.]. Se ne fuggirono tutti quei superstiziosi pagani che aveano fatto credere all'incauto Eugenio tante maraviglie dalla parte dei lor falsi dii. Flaviano prefetto del pretorio svergognato allora in mirar così fallita l'arte sua d'aruspice, e d'avere ingannato colle sue ciarle il tiranno, secondo quel che scrive Rufino, conobbe di meritare la morte: parole che han fatto conghietturare ch'egli o si uccidesse da sè stesso, o disperatamente combattendo cercasse di finir la vita fra le spade nemiche, non volendo sopravvivere a tanta vergogna. Se questo non è certo, almen sappiamo [Paulin., Vit. s. Ambros.] che costui ed Arbogaste, pagano anch'esso, nel partirsi da Milano, aveano minacciato, tornati che fossero colla vittoria, di far diventare una stalla da cavalli la chiesa cattedrale di Milano, e di costringere gli ecclesiastici a militare; e ciò perchè il clero in Milano non voleva comunicar ne' divini uffizii col tiranno Eugenio, nè ricevere obblazioni da lui, perchè il teneva per iscomunicato, o per la morte di Valentiniano juniore, o pel favore da lui dato all'idolatria.

Al calare dalle montagne trovò l'Augusto Teodosio la pianura tutta coperta dalla fanteria e cavalleria d'Eugenio [Sozom., lib. 7, cap. 24. Claudian., de Consul. IV. Honorii.], non avendo costui, oppure il suo generale, voluto dividere le sue forze, per non cader nell'errore che portò seco la rovina di Massimo tiranno. Pertanto si venne ad una battaglia presso il fiume Freddo [Socrat., lib. 5, c. 28.], probabilmente nel contado di Gorizia. Ebbe Teodosio l'avvertenza di dar la vanguardia alle milizie barbariche ed ausiliarie, sì per loro onore, come anche per riserbar a sè stesso il corpo di battaglia [311] composto di truppe romane, giacchè la perdita di quei Barbari era anche una specie di vittoria pel romano imperio. Ma costoro, benchè con gran coraggio e forza menassero le mani, non poterono star saldi davanti al valore di Arbogaste; in guisa che di essi fu fatta grande strage, e il resto si salvò colla fuga: il che fu permesso da Dio, non già per dare a Teodosio, come osserva Rufino [Rufinus, lib. 3, cap. 33.], questa mortificazione, ma affinchè non si dicesse essere stati i Barbari coloro che l'aveano fatto vincere. Teodosio, mirando da una collina questo brutto aspetto dell'oste sua, prostrato a terra alla presenza d'ognuno, implorò l'aiuto di Dio, difensor delle buone cause. Animati da questa speranza i suoi uffiziali, non tardarono più a dar di sproni ai cavalli colle loro schiere, e di entrar nella sanguinosa mischia, rovesciando le squadre e gli squadroni opposti, e coprendo di nemici svenati la campagna. Fece delle maraviglie in questo conflitto Bacuro, ma si espose talmente, che vi lasciò la vita. Per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 57.], la sera divise il menar delle mani. Ma il dirsi da lui, che durante il fatto d'armi avvenne un'ecclissi del sole con tale oscurità, che parea di notte, non si sa credere vero dagli eruditi, quando sussista il racconto di Socrate [Socrates, lib. 5, cap. 25.], che la battaglia suddetta accadesse nel dì 6 di settembre, poichè, secondo i calcoli astronomici niun'ecclissi occorse allora. Grande fu la perdita dal canto di Eugenio, ma senza comparazion maggiore quella di Teodosio [Theod., lib. 5, c. 24. Orosius, l. 7, c. 37.]; e però nel consiglio di guerra, tenuto nella notte, il parere dei generali fu di ritirarsi nel dì seguente, per riparar con delle nuove leve di gente il danno sofferto. Non era di questo sentimento il buon imperadore, perchè non sapea levarsi di cuore la confidenza già messa in Dio: laonde prese tempo a risolvere nel giorno seguente. Entrato poi in un [312] oratorio trovato in quelle montagne, senza prendere cibo o riposo, quivi inginocchiato sulla terra nuda spese molte ore della notte ad implorare il soccorso di Gesù Cristo. Sul far del giorno addormentatosi suo malgrado, gli apparvero due persone vestite di bianco, le quali dissero d'essere i santi Apostoli Giovanni evangelista e Filippo, che l'assicurarono della vittoria. Fatto poi giorno, avendo anche un soldato avuta una simil visione, si sparse immantinente questa nuova pel campo, e passò all'orecchio di Teodosio, il quale propalò allora ciò che a lui stesso era accaduto in sogno: il che mirabilmente incoraggì la sua armata.

Prese dunque l'armi, ed ordinate le schiere, calò coll'esercito suo dalla montagna per assalire il campo nemico, quando si osservò che un grosso corpo di nemici, spedito da Eugenio e da Arbogaste, aveva occupato dei siti al di dietro per dargli alle spalle, quando fosse alle mani con gli altri. Il primo favore del cielo fu che il conte Arbitrione, comandante di quell'imboscata, co' suoi prese il partito di Teodosio, liberando lui dal pericolo ed accrescendo le forze della di lui armata. Secondo Sozomeno, era già cominciata la battaglia, quando quel generale mandò ad offrirsegli, e fu accettato con vantaggiose condizioni. Teodosio a piedi si mise alla testa delle sue schiere, ed attaccò il terribil conflitto. Apparve allora visibilmente il braccio di Dio in favor dell'ottimo Augusto; perciocchè all'improvviso si levò un furiosissimo vento, che direttamente soffiava in faccia ai soldati di Eugenio con tal impeto e tal polvere negli occhi, che non sapeano dove si fossero, non poteano tener gli scudi, e le lor frecce andavano tutte a voto: laddove poco o nulla d'incomodo provando l'armata di Teodosio per quella furiosa tempesta, i lor dardi e saette felicemente colpivano tutte nei corpi dei nemici. Di questo miracoloso avvenimento non è permesso di dubitare ad alcuno, dacchè ne siamo accertati da [313] tanti autentici scrittori, i quali ne aveano parlato con più e più soldati di quei che si trovarono in quella terribil giornata, cioè dai santi Ambrosio [Ambros., in Psalm. 36.] ed Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26.], da Rufino, Paolo Orosio, Paolino, Socrate, Sozomeno e Teodoreto. Quel che è più, abbiam lo stesso confermato da Claudiano [Claud., in Consul. IV Honorii.], celebre poeta, e poeta pagano di questi tempi, che in lodando Onorio Augusto, attesta con alcuni bei versi il medesimo prodigio, attribuendo poi ridicolosamente al destino d'esso Onorio, fanciullo allora di dieci o undici anni, ciò che era dovuto alla fede e pietà di Teodosio suo padre. Ma Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 43.] più di Claudiano fece qui comparire il suo cuor pagano, perchè non solamente tacque l'evidente miracolo che diede la vittoria a Teodosio, ma eziandio sminuì a tutto suo potere la dignità della stessa vittoria, con dire, che persuaso Eugenio d'essere restato vincitore nella passata battaglia, si perdè a regalar i soldati e a far una buona cena, dopo la quale si diedero saporitamente tutti a dormire. Teodosio sull'alba piombò loro addosso e trovatili addormentati, ne fece macello; di questo passo arrivò anche al padiglion di Eugenio, il quale in fuggendo fu preso. Così quello scrittore pagano, è sempre rivolto a screditare i principi cristiani e le loro azioni. Ma noi, seguendo tanti altri sopraccitati storici, abbiamo, che sopraffatti i soldati d'esso Eugenio da quell'improvviso temporale, conoscendo che Dio combatteva contra di loro, parte si raccomandarono alle gambe, e parte, calate le insegne, e chiedendo ginocchioni il perdono, l'ottennero da Teodosio [Theod., lib. 5, cap. 28.] con patto che gli menassero prontamente preso il tiranno. Volarono essi al luogo dove Eugenio stava attendendo l'esito del conflitto; ed egli credendo che portassero la grato nuova della vittoria, dimandò tosto [314] se gli conducevano legato Teodosio, come avea loro ordinato di fare. Restò ben confuso e sbalordito al risponder essi, che non menavano già Teodosio a lui, ma bensì venivano per menar lui a Teodosio, perchè così comandava il padrone dell'universo. Condotto costui ai piedi del vittorioso Augusto, e rimproverato da esso per le commesse iniquità e per la vana sua confidenza nel suo Ercole, mentre voleva pure pregarlo di lasciargli la vita, gliela levarono i soldati, spiccandogli la testa dal busto, che portata dipoi sopra una picca pel campo, servì a ridurre molti dei suoi, tuttavia pertinaci, ad implorare il perdono. Arbogaste, cagion di tutti questi mali, non osando sperare grazia alcuna, si rifugiò nelle più scoscese balze di quei monti, credendosi di potere schivare il gastigo di Dio; ma risaputo che veniva cercato dappertutto, per non cader nelle mani dello sdegnato Augusto, due giorni dopo la battaglia col suo proprio stocco si levò la vita.

E tale fu il fine di questi scellerati, affrettato con prodigii dalla stessa giustizia di Dio, e ben dovuto a traditori del loro sovrano, che colla loro usurpazione tanti incomodi e danni aveano recato al romano imperio. Teodosio Augusto, senza punto insuperbire per sì segnalata vittoria, perchè tutta la riconosceva da Iddio misericordioso verso di lui, e il suo maggior piacere in averla conseguita era quello di veder confuso il paganesimo, e tante predizioni e speranze precedenti de' gentili; si studiò di esercitar anch'egli da lì innanzi la misericordia dal canto suo verso dei vinti. Non solamente si stese il suo perdono a chiunque avea prese l'armi contra di lui [August., de Civit. Dei, lib. 5, c. 16. Orosius, lib. 7, cap. 35.], ma eziandio fece partecipe della sua grazia i figliuoli d'Eugenio e di Arbogaste, che s'erano ritirati in chiesa, benchè pagani, valendosi egli di tal occasione per far loro abbracciare la religion cristiana. In vece di privarli [315] dei loro beni, diede loro anche delle cariche e dignità onorevoli, e gli amò con affetto veramente cristiano. Ad un figlio parimente di Flaviano, non ostante il demerito del padre, lasciò parte de' suoi beni [Symmachus, lib. 4, epist. VII.]: e poscia Onorio Augusto interamente il ristabilì negli onori. Era intanto ritornato sant'Ambrosio a Milano, tenendo per fermo che Teodosio uscirebbe di quella guerra colla vittoria. A lui appunto scrisse [Ambros., Epist. LXI. Class. I.] tosto il buon Augusto, acciocchè si rendesse pubbliche grazie a Dio di questo felice successo. E perciocchè molti in Milano per paura del gastigo erano scappati nelle chiese, il santo arcivescovo [Paul., Vit. s. Ambros.] non solamente in lor favore scrisse lettere a Teodosio, ma impaziente di ottener loro il perdono, si portò in persona ad Aquileia ad intercedere per loro. Non gli fu difficile l'ottenerlo, e il piissimo Augusto gli s'inginocchiò davanti, com'è credibile, per dimandargli la sua benedizione, secondo il rito d'allora, protestando di riconoscere il fortunato fine di guerra sì pericolosa dai meriti e dalle orazioni di sì santo prelato. Da Aquileia passò dipoi l'Augusto Teodosio a Milano, giungendo colà un giorno solo dopo l'arrivo di sant'Ambrosio. Quivi si diede a mettere in buon sesto i pubblici e i privati affari, perchè, per attestato di Rufino, cominciava a declinare la sua sanità, ed egli stesso già prevedeva di dover in breve dar fine a' suoi giorni. Per questo chiamò in fretta da Costantinopoli Onorio suo secondogenito. Paolino scrive [Idem., ib.] ch'egli fece venire a Milano i figliuoli, e che ricevuti nella chiesa, li consegnò a quell'insigne prelato; dal che ha argomentato il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], che anche Arcadio Augusto venisse a Milano, e sembra ciò detto da qualche altro autore. Può essere che Placida sua figliuola accompagnasse il [316] fratello Onorio; comunque sia, questa pretesa venuta di Arcadio non è ben fondata. Rufino storico e Claudiano parlano in contrario. Fuor di dubbio è bensì che arrivato a Milano il figlio Onorio (già dichiarato imperadore due anni prima) [Zosimus, lib. 4, cap. 34.], Teodosio a lui diede per sua porzion di dominio l'Italia, le Gallie, le Spagne, la Bretagna, tutta l'Africa e l'Illirico occidentale. Deputò ancora per tutore di lui Stilicone generale dell'armi. Abbiamo parimente da Zosimo ch'egli fece venire a Milano que' senatori romani che tuttavia restavano attaccati all'idolatria, esortandoli tutti a non più rifiutare la vera religion di Gesù Cristo, e protestando di non voler più permettere le gravi spese che il pubblico facea per gli empii sacrifizi del gentilesimo. Ebbe un bel dire, scrivendo il pagano Zosimo che niuno ne restò convertito; ma intanto cessarono i sagrifizii, andarono in disuso le cerimonie del gentilesimo, e furono scacciati i sacerdoti e le sacerdotesse degli idoli. Zosimo attribuisce a ciò il miserabile stato, in cui ai suoi dì era ridotto il romano imperio, scioccamente persuaso che solamente da suoi falsi dii si potesse tenere in piedi sì gran macchina, anzi durare per sempre.


   
Anno di Cristo CCCXCV. Indiz. VIII.
Siricio papa 11.
Arcadio imperad. 13 ed 1.
Onorio imperadore 3 e 1.

Consoli

Anicio Ermogeniano Olibrio e Anicio Probino.

Erano fratelli questi due consoli, amendue occidentali, amendue della nobilissima e potente famiglia Anicia. Da Claudiano [Claud., de Consulatu Olybrii.] si ricava che avendo il senato romano fatta una deputazione ad Aquileia per inchinare e riconoscere in suo signore il vittorioso Teodosio, il [317] pregò allora di disegnar consoli per quest'anno i due suddetti fratelli. Ci fan le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] vedere più di un prefetto di Roma nell'anno presente, cioè Basilio, poscia Andromaco, e finalmente Fiorentino. Funestissimi furono i primi giorni di quest'anno a tutto l'imperio romano, perchè gravemente s'infermò quell'Augusto che l'avea rimesso nello splendore e nella maestà primiera. Un'idropisia cagionatagli dalle fatiche della guerra contro d'Eugenio, avendolo già preso, il venne conducendo al fine della sua vita. Giacchè egli avea disposto degli stati in favor dei figliuoli, unicamente pensò al bene dei suoi popoli, comandando ad essi suoi figli di confermare il perdono, da lui dato ai ribelli, e di darlo a chi non lo avesse anche ricevuto; e similmente di abolire un'imposta pubblica [Ambros., de obitu Theodosii. Socrates, Sozomenus, et alii.]. Ordini che furono dipoi puntualmente eseguiti. Mancò egli di vita, per quanto si crede, nel dì 17 di gennaio, in età di poco più di cinquant'anni; e sant'Ambrosio, nel solenne funerale fattogli quaranta giorni appresso, recitò, alle presenza d'Onorio Augusto e dell'esercito, la sua funebre orazione, in cui espresse la sua ferma credenza, che un sì pio e sì buono imperadore fosse volato a ricevere in cielo la ricompensa delle sue opere e delle tante sue virtù, senza però lasciar di pregare per lui, acciocchè Dio il ricevesse nel perfetto riposo de' santi. Fu poi portato il di lui corpo imbalsamato a Costantinopoli, dove nel mese di novembre [Chron. Alexandr. Marcellin. Comes, in Chron.] gli venne data sepoltura nel mausoleo degl'imperadori cristiani nella basilica degli Apostoli. Noi certo abbiam potuto dalle cose fin qui dette abbastanza comprendere che insigne personaggio, che glorioso imperadore fosse Teodosio, e che ben giusto motivo ebbero i secoli [318] susseguenti di dargli il titolo di grande: tante furono le sue belle doti, tale il complesso delle sue virtù. Gli elogi che di lui si trovano presso i santi Padri [Ambros., Augustin., Paulinus Nolanus, Synesius, Rufin., Orosius, Theodor. et alii.] e storici cristiani d'allora, empirebbono più carte; ma la di lui maggior gloria risulta dalla confessione stessa degli scrittori pagani di quei tempi, i quali, quantunque poco amore portassero a questo cristianissimo Augusto, tutti nondimeno andarono d'accordo in riconoscere in lui un principe mirabile ed ornato d'incomparabili qualità. E questi furono specialmente Temistio, Libanio, Pacato, Aurelio Vittore il giovane, Simmaco e Nazario. Il solo Zosimo, nato per dir solamente male de' regnanti cristiani, il men che può accenna i di lui pregi, e gli appone ancora dei difetti che si trovano poi smentiti da tanti altri autori e dalla sperienza stessa.

Potrà bastare al lettore ch'io riferisca qui ciò che in compendio lasciò scritto di esso Teodosio il giovane Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] storico pagano. Fu, dice egli, Teodosio, sì per gli costumi, che per la corporatura, somigliante a Traiano, siccome apparisce dagli scritti de' vecchi e dalle pitture. Miravasi in lui la stessa capigliatura, il medesimo volto, se non che pel pelo levato dalle guance, e nella grandezza degli occhi, v'era qualche diversità; e forse non si mira tanta grazia e bel colore nella di lui faccia, nè ugual maestà nel suo andare. Ma per conto della penetrazione e vivacità della mente in nulla cedeva egli all'altro, nè si truova detta cosa di quello che a questo ancora non convenga. Nell'animo suo come in suo trono abitava la clemenza e la misericordia, come se fosse persona privata; praticava egli con tutti, distinguendosi pel solo abito dagli altri; con civiltà accoglieva ognuno, ma specialmente gli uomini dabbene. Gli davano forte nel genio le persone che andavano alla buona e senza [319] doppiezza: ed egli stimava assaissimo i letterati, purchè al loro sapere corrispondesse la bontà della vita. La grandezza sua non gli fece mai punto obbliare chi era stato ben veduto da lui nella vita privata; a questi dava cariche, danari, e compartiva altre grazie; ma riponeva la sua gratitudine più verso coloro che nelle sue disavventure gli aveano prestato aiuto. Se nel buono egli pareggiò Traiano, non l'imitò già nelle qualità cattive. Detestava egli le di lui ubbriachezze ed impudicizie, con aver sempre custodita gelosamente la castità e una sobrietà continua. Proibì ancora con una legge l'eccesso delle cantatrici e d'altre impudiche persone ai conviti; e tanto era il suo amore per la continenza, che fu il primo a vietar i matrimonii fra cugini germani. Soprattutto abborriva la vanità ed ambizione di Traiano in muovere delle guerre per avidità di guadagnarsi un trionfo e la gloria di conquistatore. Ancorchè egli fosse principe prode nel mestiere dell'armi, non cercò mai di guerreggiare, e solamente entrò in quelle guerre che trovò già svegliate, o che non si poterono schivare. Certo è ch'egli mediocramente sapeva di lettere; ma non lasciava per questo di cercar con premura d'intendere le gesta de' precedenti Augusti e personaggi famosi lodando poi le ben fatte, e detestando la superbia, la crudeltà, e massimamente la perfidia ed ingratitudine dei cattivi e dei nemici della libertà. Essendo suggetto alla collera, prendeva facilmente fuoco sulle prime contra delle azione biasimevoli, e prorompeva anche in ordini rigorosi; ma con egual facilità si lasciava piegare da lì a poco, ritrattava il già ordinato, pel suo buon naturale praticando ciò che un filosofo aveva insegnato ad Augusto, cioè che qualor si sentiva adirato ed era per venire a qualche aspra risoluzione, recitasse prima ad una ad una le lettere dell'alfabeto greco, per dar tempo di sfumare alla collera. Quel che più di [320] raro si osservò in questo gran principe, fu l'essere cresciuta sempre più la sua bontà, umiltà ed amorevolezza, quanto più crebbe la sua potenza, e molto più dopo le vittorie sue nelle guerre civili: laddove in altri si era veduto crescere il fasto, l'orgoglio ed anche la crudeltà. Le diligenze sue grandi sempre furono per mantenere l'abbondanza de' viveri: la sua liberalità e bontà, incredibile, con giugner egli infino a restituir di sua borsa ai particolari grosse somme d'oro e di argento loro tolte e consumate dai tiranni: e nel rendere i beni indebitamente occupati, non li dava già, come usarono anche i principi buoni, disfatti e nudi, ma li voleva rimessi nel loro essere di prima. In casa sua poi e nel suo particolare fu osservato aver egli rispettato sempre un suo zio paterno (probabilmente Eucherio), come se fosse suo padre; aver tenuti i figliuoli d'un suo fratello (cioè d'Onorio) e di una sua sorella, come se fossero suoi figli proprii, con praticar lo stesso amore verso cadauno de' suoi parenti. Nella sua tavola compariva la pulizia e la giovialità, ma non mai il lusso; sempre fu veduto d'accordo colle mogli; sempre compiacente verso de' figliuoli. Con gravità ed insieme con affabilità parlava a ciascuno, serbando nondimeno la misura convenevole, secondo il grado maggiore o minore delle persone.

Tale è il ritratto che ci lasciò di questo insigne Augusto Aurelio Vittore il giovane. Ma nulla dice questo istorico pagano della primaria virtù di Teodosio, cioè della pietà cristiana, per cui sempre fu e sempre sarà benedetta la sua memoria nella Chiesa di Dio. Da questo buon fondo procedette l'abborrimento suo ad ogni azione peccaminosa, la sua divozion verso Dio, l'eroica sua umiliazione davanti ai ministri dell'Altissimo, e il continuo suo zelo per estirpar le eresie e le pertinaci reliquie del gentilesimo. Se non gli riuscì di far tutto, perchè egli, siccome principe saggio, niuno [321] volea violentare in materia di religione: certamente mise tai fondamenti, che a poco a poco l'eresia ed ogni superstizione pagana andarono mancando. Moltissimi furono i templi dei gentili ch'egli fece distruggere; per ordine suo le chiese occupate dagli eretici tornarono in poter dei cattolici; ed egli stesso ne fabbricò delle nuove. Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronic.] parla di questo, siccome ancora della città di Teodosiopoli da lui edificata. Anche Libanio [Libanius, Oration. de Templ.] fa menzione delle città da lui fortificate, e di diverse altre fabbriche, per assicurar le contrade romane dagli sforzi delle genti barbare. Ma non avrebbe fine sì presto il ragionamento, se volessimo riandar ad una ad una tutte le belle prerogative di questo glorioso imperadore. Ragion vuole nondimeno che si ricordi al lettore un pregio che suole accompagnare il regno di quei monarchi, a' quali si dà il titolo di grandi. Cioè che a' suoi tempi mirabilmente fiorirono anche i letterati, non men fra i Cristiani che fra i pagani. Per conto degli ultimi in molto credito furono Quinto Aurelio Simmaco oratore, senatore, console e spasimato gentile, di cui restano le lettere; Rufo Festa Avieno; Temistio filosofo ed oratore; Eunapio, che ci lasciò le vite de' sofisti; Pappo e Teone matematici; Libanio sofista; e forse Vegezio, per tacer d'altri. Fu nondimeno più gloriosa la Chiesa di Dio per tanti scrittori che l'adornarono in questi tempi, cioè per san Basilio e san Gregorio Nisseno fratelli; san Gregorio Nazianzeno e san Cesario fratelli; sant'Ambrosio; santo Epifanio; sant'Efrem; sant'Anfilocchio; s. Filastrio, e tanti altri, de' quali parla la storia ecclesiastica e letteraria, oltre ad altri che prolungarono la lor vita anche sotto i figliuoli di Teodosio.

Questi figliuoli furono, come già s'è veduto, Arcadio ed Onorio, amendue prima d'ora creati imperadori Augusti, il primo dell'Oriente, l'altro dell'Occidente. [322] Ed ereditarono ben essi gli stati, ma non già il valore, l'ingegno e l'attività del padre. Quanto ad Arcadio, non mancò in vero Teodosio di provvederlo di buoni maestri; ma questi non ebbero la possanza di dargli ciò che la natura gli avea negato. Ch'egli fosse di un natural dolce, buono e pacifico, alieno dalla crudeltà, e competentemente zelante per la fede cattolica, si può argomentar dalle azioni sue; ma, per testimonianza di Filostorgio [Philost., lib. 11, cap. 3.], egli era malfatto di corpo, di picciola statura, d'una complession dilicata, con occhi melensi; e la sua bontà andava all'eccesso, di maniera che per la dappocaggine ed inabilità sua si lasciava signoreggiar da altri [Zosimus, lib. 5, cap. 14.], e la sua gran bontà veniva proverbiata da molti come stupidità, anzi stolidezza. Perciò Rufino, prefetto del pretorio, era divenuto in quella corte l'arbitro di tutto, e a man salva commetteva quante iniquità gli cadevano in mente. Per conto poi d'Onorio, neppur egli superava in abilità il fratello. Si sa che la continenza, virtù quanto rara nei principi, tanto più commendabile in essi, fu in lui eminente, siccome ancora la purità della fede [Orosius, lib. 7, cap. 37.] e l'amore della Chiesa cattolica, buon successore essendo egli stato in questo della pietà paterna. Ma neppur egli era gran testa, e neppur in cuor di lui seme alcun si ravvisava di valor guerriero. Procopio [Procop., de Bello Vandalic., l. 1, c. 2.] cel dipigne per principe non cattivo, ma insieme neghittoso, senza spirito, e fatto apposta per lasciar perire l'imperio d'Occidente a' giorni suoi. Per questa sua debolezza, e massimamente per la sua fanciullesca età, aveva egli bisogno di chi il sostenesse nel governo; e chi fu scelto per questo impiego, cioè Stilicone, non si doveva mettere gran pena per insegnargli a comandare, perchè a lui premeva di continuare il comando, sotto nome d'un così debole [323] Augusto, il più lungamente si potesse. Sicchè in Occidente si potea dire che Stilicone era imperadore di fatto, e Rufino in Oriente poco meno dell'altro. Ma non durò molto la fortuna di Rufino, ed in questo medesimo primo anno dell'imperio d'Arcadio noi andiamo a mirar quel gran colosso in precipizio.

Bastevolmente si ricava da Claudiano [Claud., in Rufin.], aver la Guascogna, provincia delle Gallie, prodotto questo mostro d'ambizione. Grande e robusto di corpo, vivace di spirito, e gran parlatore, ci vien egli dipinto da Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 3.]. Simmaco [Symmachus, lib. 3, epist. 81 et seq.] suo amico, parlando di lui mentre era vivo, loda il di lui pronto ingegno, l'eloquenza e la leggiadria nel burlare. Morto poi che fu egli, Simmaco tenne ben un linguaggio diverso. Claudiano cel fa vedere il più scellerato uomo del mondo, pieno di ambizione, avarizia, perfidia e crudeltà. Eunapio, Zosimo, Suida, s. Girolamo ed altri attestano la di lui insaziabile avarizia e l'esorbitante ambizione. Teodosio Augusto, benchè signore di buon discernimento, pure a guisa di tanti altri principi, a' quali piacciono forte i cervelli pronti, e gl'indoratori delle parole [Zosim., lib. 5, c. 1.], fu preso dalla vivacità e dal bel parlare di costui; e però l'ammise alla sua maggior confidenza, l'alzò agli onori più cospicui, cioè fino a farlo console, e poi prefetto del pretorio, e finalmente primario ministro di suo figliuolo Arcadio Augusto. Per altro egli era cristiano, e forse questa qualità il rendè più odioso agli scrittori pagani, che ne dissero quanto male poterono dopo la di lui caduta. Abbiamo da Zosimo [Zosim., ibidem.] e da Suida [Suidas, Verbo Rufinus.] che tanto Stilicone in Occidente quanto Rufino in Oriente andavano d'accordo in vendere la giustizia e le cariche, e rovinar le più ricche famiglie, per profittar delle loro spoglie; ma erano poi discordi [324] fra loro, perchè gareggiavano insieme nell'ambizion del comando; e Stilicone particolarmente pretendeva di dover governare non men l'Occidente che l'Oriente, allegando la disposizion fatta dall'Augusto Teodosio. Il principio della rovina di Rufino fu il seguente: Avea Stilicone ottenuta in moglie Serena, figliuola di Onorio, fratello del gran Teodosio. Pensò Rufino a fare un passo più alto con proporre ad Arcadio Augusto in moglie una sua figliuola: che non fu poi preteso ch'egli per tal via meditasse di arrivare al trono. Traspirò il suo disegno, e cagion fu che s'aumentasse nel popolo l'avversione alla di lui insolenza e superbia, che ogni dì più prendea vigore. Fu interrotto questo maneggio per aver dovuto Rufino fare un viaggio ad Antiochia affin di soddisfare alle querele di Eucherio, zio o grande zio di Arcadio contra di Luciano governator dell'Oriente. Era questo Luciano figlio di Fiorenzo, già prefetto del pretorio delle Gallie: era creatura del medesimo Rufino, a cui per ottenere quel posto, avea ceduto molte sue terre; e il suo governo veniva lodato da tutti. Non d'altro era colpevole presso d'Eucherio, che per aver ricusato di far per lui una cosa ingiustamente dimandata. L'iniquo Rufino, più pensando ad aggiustar Eucherio che ad ogni altro riguardo, arrivato ad Antiochia, fece prendere Luciano, e batterlo in maniera, che sotto i colpi l'infelice lasciò la vita: crudeltà, per cui restò irritato forte quel popolo; e Rufino, se volle placarlo, diede ordine che si fabbricasse in quella città un portico, il qual poi riuscì il più vago edifizio di quella città.

Intanto Eutropio eunuco di corte, la cui potenza andremo vedendo crescere oltre misura, profittando della lontananza di Rufino, invaghì l'Augusto Arcadio di Eudosia creduta da alcuni figlia di uno dei figliuoli di Promoto, da noi veduto generale di Teodosio, ma da Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 5.] asserita figliuola del conte Bautone [325] Franco di nazione, e celebre generale nei tempi addietro. Allorchè Rufino, tornato a Costantinopoli, si credea che il preparamento fatto per le nozze di Arcadio fosse per sua figliuola, eccoti all'improvviso sposata da lui essa Eudosia nel dì 27 di aprile di quest'anno [Chron. Alexandr.]. Questa donna Cristiana e cattolica al certo, ma superba e fiera, noi la vedremo giungere col tempo a far da padrona non solamente sopra i sudditi, ma anche sopra il marito. E quindi poi vennero molte vergognose ingiustizie da lei commesse, fra le quali la più atroce è da dire la persecuzione da lei mossa contro il più bel lume della Grecia, cioè contro di s. Giovanni Grisostomo, che l'avea pur dinanzi lodata come madre delle chiese, nudrice de' monaci e sostegno de' poveri. Decaduto dunque Rufino dalle concepute sue speranze, e temendo dall'un canto l'ascendente dell'eunuco Eutropio, e dall'altro l'armi di Stilicone suo avversario, fu comunemente creduto [Orosius, lib. 7, cap. 37. Claud., in Rufin.] ch'egli movesse gli Unni e i Goti a prendere l'armi contra del romano imperio, avvisandosi di potere in quella turbolenza far meglio i fatti propri, ed occupar anche il soglio imperiale. Non sarebbe impossibile che i suoi malevoli avessero accresciuti dipoi i suoi reati, con ispacciar lui autore di questa pretesa tela, cagione, per quanto fu detto, della sua total rovina. Comunque sia, mossi gli Unni, fecero un'irruzione nell'Armenia, e diedero il sacco a varie Provincie d'Oriente [Socrat., lib. 6, cap. 1. Sozom., lib. 8, c. 1.], con ispandere il terrore sino alla Palestina, dove dimorava allora s. Girolamo [Hier., Epis. III.]. Nello stesso tempo i Goti, esistenti nella Tracia e nelle vicine provincie di qua dal Danubio, sotto il comando di vari lor capi, uno dei quali ero Alarico, di cui avremo a favellar non poco, con intelligenza di Rufino [Marcell. Comes, in Chron. Zosim., lib. 5, cap. 5.], si scatenarono contra le provincie romane [326] dell'Europa, saccheggiando la Tracia, la Mesia, la Pannonia. Di là entrarono nella Macedonia e nella Grecia, depredando tutto, giacchè (se pur fu vero) avea Rufino date segrete commissioni ad Antioco e Geronzio, suoi confidenti e governatori di quelle parti, di non far loro ostacolo alcuno. Arrivarono poi le loro scorrerie sino alle porte di Costantinopoli; ed allora fu che Rufino uscì dalla città vestito alla gotica, sotto pretesto di andare a trattar di pace, e fu ben accolto da essi; il che accrebbe i sospetti del progettato tradimento.

Giunti questi funesti avvisi nelle Gallie, Stilicone, dopo aver confermata la pace coi Franchi ed Alamanni, coll'apparenza vistosa d'andare in soccorso d'Arcadio, ma con pensiero in fatti di abbattere Rufino, si mosse verso l'Illirico [Claud., in Rufin.], menando seco la maggior parte delle milizie che si trovavano nelle Gallie e nell'Italia, cioè quelle ancora che aveano seguitato Teodosio ed Eugenio nelle precedenti guerre. Avvertiti i Barbari [Rufin., lib. 2.] di tante armi volte contra di loro, si unirono tutti nella Tessalia, e Stilicone giunto in quelle parti, tali forze avea, che avrebbe potuto desertarli [Claud., de Laudib. Stilicon.]; ma eccoli venirgli un ordine di Arcadio, procurato do Rufino, di rimandargli tutta l'armata che avea servito a Teodosio suo padre. Ubbidì Stilicone, e gliela inviò insieme colla metà del tesoro di Teodosio. Ne costituì generale Gaina, di nazione Goto, e con lui segretamente manipolò la rovina dell'odiato Rufino, del qual disegno era complice e promotore anche l'eunuco Eutropio. Arrivò questa armata al luogo di Hebdomon fuori di Costantinopoli [Philostor., lib. 11, c. 5. Marcellin. Comes, in Chron. Zosim. Claudian.], e colà si portò per vederla l'Augusto Arcadio. Seco ero Rufino pomposamente vestito, il quale già avea fatto de' maneggi segreti con vari uffiziali per [327] farsi proclamar Augusto. Vero o non vero che ciò fosse, fuor di dubbio è che quei soldati, dopo aver inchinato Arcadio, attorniarono Rufino, e sotto gli occhi del medesimo Augusto (e però non senza vitupero) il tagliarono a pezzi nel dì 27 di novembre [Chron. Alexandr.]. La sua testa conficcata sopra di una picca fu portata a spasso per Costantinopoli. Allora saltarono fuori infinite accuse contra di lui; furono confiscati i suoi beni, e fatta festa dappertutto per la di lui sciagura. Sua moglie e una figliuola rifugiatesi in chiesa, ebbero dipoi la permissione di ritirarsi a Gerusalemme, dove terminarono in pace i lor giorni. Claudiano compose dipoi due suoi poemi contra di questo ambizioso ministro, degno certamente di quel fine, purchè sussistano i reati a lui apposti, e massimamente se fu vero che da lui procedesse la funestissima mossa dei Barbari. Sappiamo appunto che i Goti, non avendo più opposizione alcuna, portarono la desolazion per tutta la Grecia, distruggendo soprattutto le reliquie del paganesimo [Eunap., de Vitis Sophistarum. Phil. Zosim. Claudian.], giacchè eglino professavano la religion di Cristo, ma contaminata dagli errori dell'arianismo. Veggonsi poi nel Codice Teodosiano varie leggi pubblicate in quest'anno contra degli eretici e de' pagani da Arcadio, il qual sempre soggiornò in Costantinopoli [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Altre ancora ne abbiamo spettanti all'imperadore Onorio, tutte scritte in Milano, a riserva d'una che ha la data di Brescia. Confermò egli tutti i privilegi alle Chiese cattoliche, sollevò la Campania, da un gran tributo; e con una costituzion generale accordò il perdono a chiunque avea preso l'armi in favore del tiranno Eugenio, e principalmente a Flaviano il giovane, figlio dell'altro che fu prefetto del pretorio, e partigiano spasimato di quell'usurpatore. L'anno è questo in cui santo [328] Agostino fu ordinato vescovo d'Ippona [Prosper, in Chron. Cassiodorus, in Chronico.], oggidì Bona in Africa.


   
Anno di Cristo CCCXCVI. Indizione IX.
Siricio papa 12.
Arcadio imperad. 14 e 2.
Onorio imperadore 4 e 2.

Consoli

Flavio Arcadio Augusto per la quarta volta, e Flavio Onorio Augusto per la terza.

Se Onorio Augusto dimorante in Milano prese il terzo consolato con quella solennità che Claudiano [Claud., de Consul. IV Honor.] descrive nel quarto suo, un mirabil concorso di gente da Roma e dalle provincie d'Occidente dovette vedersi in quella città nel primo di gennaio, e una straordinaria pompa. Continuò ancora per quest'anno Fiorentino ad esercitar la carica di prefetto di Roma, del che ci accertano le leggi del codice Teodosiano. Merita ben poi d'essere osservato ciò che scrive Simmaco [Symmachus, lib. 4, epist. 61.] (verisimilmente in quest'anno): cioè che un console surrogato, o sia sostituito, mentre nel giorno natalizio di Roma, o sia nel dì 21 di aprile, con gran pompa era condotto in essa Roma sopra un carro trionfale, ne cadde, e si ruppe una gamba: accidente che dai superstiziosi Romani fu preso per presagio di disgrazie in avvenire. Per tanti anni addietro non si trova menzione o vestigio di consoli sostituiti, che cotanto furono in uso sotto gl'imperadori pagani, se non che nelle Iscrizioni talun comparisce console ordinario: indizio che non erano cessati i sostituiti. E noi sappiamo di certo che san Paolino vescovo di Nola era stato console surrogato alcuni anni prima d'ora, come credo di aver dimostrato altrove [Anecdot. Latin., Dissert. IX ad s. Paulin.]. Nell'anno presente, per attestato dell'altro Paolino [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], che scrisse la vita di santo [329] Ambrosio, accadde, che mentre interveniva il popolo ad un magnifico combattimento di fiere mandate dall'Africa per celebrare il consolato di Onorio Augusto Stilicone conte, ad istanza di Eusebio prefetto del pretorio d'Italia, spedì dei soldati a prendere un certo Cresconio, reo di gravi delitti, che s'era ritirato in chiesa, ed avea abbracciato il sacro altare. Godevano anche allora le chiese il privilegio dell'immunità. Sant'Ambrosio che li si trovava in quel tempo con alcuni pochi ecclesiastici, cercò ben di difenderlo, ma non potè; del che sommamente egli s'afflisse, e pianse non poco davanti al medesimo altare. Ritornati poi che furono all'anfiteatro gli uffiziali che aveano condotto via Cresconio, e postati al luogo loro, avvenne che alcuni liompardi sbucati nella platea, con un salto arrivarono sopra le sbarre, e lasciarono malamente graffiati e feriti que' medesimi uffiziali: il che osservato da Stilicone, cagion fu che egli, fatta penitenza del fallo, soddisfacesse al santo arcivescovo, nè gastigasse dipoi il delinquente.

Era ben riuscito a questo generale di atterrar nell'anno precedente il suo emulo Rufino, figurandosi forse di poter mettere le mani anche nel governo dell'orientale imperio a tenore delle sue pretensioni. Ma insorse nella corte d'Arcadio un competitore anche più potente dell'altro, cioè l'eunuco Eutropio, che tosto fece argine ai disegni di Stilicone. Intanto i masnadieri goti seguitavano a devastare la Grecia. Ancorchè questa fosse della giurisdizion di Arcadio, non lasciò Stilicone di voler passare con assai forze sopra una flotta di navi, che approdò nel Peloponneso, o sia nella Morea. Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 7.] scrive ciò fatto nell'anno precedente, ma, secondo Claudiano, ciò sembra avvenuto nel presente; e forse non sussiste ch'egli si fosse ritirato da quelle contrade. Gran copia di que' Barbari furono in vari incontri tagliati [330] a pezzi, ed avrebbe Stilicone potuto farli perir tutti, se non si fosse perduto nelle delizie e nei divertimenti di buffoni e di donne poco oneste, concedendo nel medesimo tempo man larga ai suoi soldati di radere quelle poche sostanze che i Barbari aveano lasciate indietro. Grande ombra intanto e gelosia prese la corte di Costantinopoli di questi andamenti di Stilicone, e più ne prese Eutropio, siccome ben conoscente degli ambiziosi disegni di questo generale, e però si pensò quivi al riparo. S'erano ritirati i Goti nell'Epiro, e lo distruggevano. Arcadio, per consiglio de' suoi, maneggiò e conchiuse con loro un trattato di pace, ed accettò da lì a non molto Alarico per generale dell'armi sue: con che cessò la paura del barbarico potere. Un passo più forte fece dipoi (non so dir se in questo, o nell'anno seguente) con dichiarare Stilicone perturbatore delle giurisdizioni altrui, e nemico pubblico e con occupar tutti i beni, cioè le terre ed il palazzo ch'egli godeva in Oriente. Sicchè Stilicone altro non avendo fatto che aumentare alla Grecia i malanni cagionati dai Goti, fu obbligato a ritornarsene in Italia. Tali atti per conseguente introdussero della diffidenza e del mal animo fra i due fratelli Augusti, benchè il maggior fuoco consistesse nel vicendevol odio dei due principali ministri e favoriti, cioè di Stilicone e di Eutropio. Claudiano [Claud., de Laud. Stiliconis.] lascia intendere che si giocò dipoi ancora d'occulte insidie contro la vita di Stilicone, e per corrompere i generali di Onorio, essendosi intercette lettere che scoprirono gl'intrighi segreti. Intanto uno de' principali studi dell'eunuco Eutropio era quello di levarsi d'attorno le persone di credito, e chiunque potea fargli ombra, ed intorbidar la felicità del suo comando [Idem, in Eutropium, lib. 1.]. Forse circa questi tempi egli trovò le maniere per far cacciare in esilio Timasio, valoroso general dell'armate, ed Abondanzio già [331] stato console [Zosim., lib. 5, cap. 11.], con inventar cabale e false accuse, e trovar persone infami che tenevano mano a tutte le sue iniquità. Sotto un principe debole possono tutto i ministri cattivi. Molte leggi abbiamo dei due Augusti in quest'anno [Gothofred., Chron. Cod. Theod.], la maggior parte nondimeno di Arcadio, date in Costantinopoli. Alcune d'esse contro degli eretici, altre perchè non sia fatto aggravio ai giudici, altre perchè i magistrati spediscano prontamente le cause criminali, acciocchè non marciscano nelle prigioni i poveri carcerati.


   
Anno di Cristo CCCXCVII. Indiz. X.
Siricio papa 13.
Arcadio imperad. 15 e 3.
Onorio imperadore 5 e 3.

Consoli

Flavio Cesario e Nonio Attico.

Console per l'Oriente fu Cesario. Viene appellato dal padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] prefetto della città di Costantinopoli; ma chiaramente risulta dalle leggi del codice Teodosiano, ch'egli era prefetto del pretorio d'Oriente. Perchè in Roma una iscrizione si trova, dedicata alla madre degli dii da Clodio Ermogeniano Cesario, uomo chiarissimo, il Reinesio [Reines., Ep. LXIX.] si avvisò che tali fossero i nomi di questo console; nel che fu seguitato dal Relando [Reland., in Fast.]. Ma Cesario console di questo anno dimorava in Oriente, e nulla avea che fare in Roma, e conseguentemente non si può dire spettante a lui quel marmo. Attico fu console per l'Occidente. Quali ho io posto i nomi di questi consoli, tali si trovano in due iscrizioni da me date alla luce [Thes. novus Inscript., pag. 394.]. Gran perdita fece nell'anno presente la Chiesa di Dio e di Milano per la morte dell'incomparabil arcivescovo di quella città, cioè di santo Ambrosio, accaduta nel dì 4 d'aprile, in [332] cui correva allora il sabato santo. Le sue rare virtù, gloriose azioni e miracoli, si leggono nella di lui vita, scritta da Paolino suo diacono [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], dall'Herman e dal Tillemont. V'ha chi riferisce all'anno seguente la di lui morte: ma le ragioni addotte dal padre Pagi, sufficienti sono a stabilirla nel presente. Seguitava l'Augusto Onorio a tener la sua corte in essa città di Milano, come consta da varie sue leggi [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] di quest'anno pubblicate ivi, contandosene una sola data in Padova nel mese di settembre. Noi troviamo in esse stabiliti i privilegi e le esenzioni delle persone ecclesiastiche, e nominatamente del romano pontefice; saggi regolamenti per la quiete e maestà della città di Roma; e per mantenere in essa l'abbondanza del grano. Insorse in quest'anno un pericoloso turbine contra di esso Augusto nell'Africa. Il grado di conte e generale delle milizie di quelle provincie era da molto tempo esercitato da Gildone, personaggio africano, e fratello di quel medesimo Fermo che noi vedemmo ribellato all'imperio l'anno 375. Perchè egli aveva ben servito ai Romani contra d'esso suo fratello, fu promosso agli onori, ed arrivò ad ottenere l'importantissimo comando suddetto. Ma costui, se non falla Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronic.], era pagano, e certamente i suoi costumi tale il davano a divedere. Secondo Claudiano [Claud., de Bello Gildonis.], l'avarizia, la crudeltà e la lussuria più stomacosa, tuttochè egli si trovasse in età avanzata, davano negli occhi di ognuno, e faceano gemere que' popoli che per dieci o dodici anni ebbero sulle spalle questo cattivo uffiziale. Sant'Agostino [August., Ep. LXXXVII. et in Joh. Homil. V.] attesta anche egli che le di lui scelleraggini erano famose dappertutto. A compierle vi mancava la perfidia ed infedeltà verso il sovrano, ed egli a questo anche pervenne. [333] Allorchè seguì la ribellione di Eugenio, già dicemmo che Teodosio Augusto con tutti gli ordini a lui inviati di venire in soccorso suo, non fu punto ubbidito, perchè il malvagio uomo avea risoluto di aspettare la decision della guerra, per seguitar poi chi restava vittorioso. Ebbe la fortuna che Teodosio sopravvisse poco, perchè certo ne avrebbe ricevuto da lui il meritato castigo.

Ora costui, dopo la morte di esso Teodosio, durante qualche tempo riconobbe per suo signore Onorio Augusto, alla cui giurisdizione apparteneva l'Africa tutta. Quindi cominciò delle novità. Eutropio, padrone della corte di Arcadio, e nemico di Stilicone, non cessava [Claud., in Eutrop. Zosim., lib. 5, cap. 11.] di attizzar il fuoco fra i due fratelli Augusti, e conoscendo che arnese cattivo fosse Gildone, si diede a lusingarlo con sì buon successo, che il trasse ad abbandonare Onorio, e a sottomettere l'Africa ad Arcadio [Orosius, lib. 7, cap. 36.]. Fu nondimeno creduto che le mire di Gildone tendessero a rendersi signore assoluto delle provincie africane, senza dipendere da alcuno dei fratelli Augusti: cosa da lui riputata facile, stante la poco buona intelligenza che passava fra loro; oltre di che, li riputava egli come due fanciulli, da non prendersi punto soggezione di essi. Non prese già costui il titolo di re, come avea fatto Fermo suo fratello; ma non perciò lasciava di farla da re colle opere [Claud., de Bello Gildonis.], e teneva in piedi una possente armata di fanti e cavalli, mantenuta ed arricchita colle spoglie de' più facoltosi di quelle contrade. Da' suoi fedeli avvertito Onorio di tali andamenti del perfido Gildone, spedì al senato di Roma le memorie e pruove dei di lui delitti [Symmachus, lib. 4, epist. 4.], per le quali fu egli dichiarato nemico [334] pubblico, e pubblicata la guerra contro di lui. Ma Gildone l'avea già cominciata contro la stessa Roma col non permettere che vi si conducesse grano per mare: cosa che accrebbe la carestia in quella gran città, tribolata dalla fame per altre precedenti disgrazie. Convenne dunque ricorrere al rimedio di formare una flotta ricca di molte vele, per menarne dalla Francia e dalla Spagna. In questo medesimo tempo Stilicone [Claud., in Eutrop.] si applicò con tutta diligenza a fare i preparamenti opportuni di gente, navi e danari per liberar l'Africa da questo tiranno. Il senato romano intanto non mancò d'inviar ambasciatori ad Arcadio, per pregarlo di lasciar l'Africa a chi ne era legittimo padrone, e di non mischiarsi nella protezion di Gildone, procurando insieme di rimettere la buona armonia fra lui e l'Augusto suo fratello. Per la maggior parte di quest'anno si fermò esso Arcadio in Costantinopoli, e solamente nella state andò a villeggiare ad Ancira capitale della Gallizia [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.]. Molte leggi di lui si veggono contro chi entrasse per danaro nelle cariche della corte; editto che non si sa intendere come uscisse, quando vi dominava Eutropio, accusato da Claudiano, da Zosimo e da altri per venditore de' governi e degl'impieghi. Decretò la pena della vita contro i pubblicani ch'esigessero più delle tasse prefisse alle pubbliche imposte. Volle ancora che per riparar le strade, i ponti, gli acquidotti e le mura delle città, si servissero i governatori dei materiali di diversi templi di gentili ch'erano stati demoliti: con che la distruzione dell'idolatria anche per questo conto tornò in utilità del pubblico.


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Anno di Cristo CCCXCVIII. Indiz. XI.
Anastasio papa 1.
Arcadio imperadore 16 e 4.
Onorio imperadore 6 e 4.

Consoli

Flavio Onorio Augusto per la quarta volta, e Flavio Eutichiano.

L'imperadore Onorio procedette console in Milano per la quarta volta. Flavio Eutichiano (che così si trova egli nominato in una inscrizione [Thesaur. novus Inscrip., pag. 194.]) fece la solennità del suo consolato in Costantinopoli, siccome console orientale. Era nel medesimo tempo prefetto del pretorio di Oriente, perchè non sussiste, come fu d'avviso il Tillemont, che quella prefettura fosse allora appoggiata a Cesario [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Le leggi di Arcadio Augusto pertinenti all'anno presente quasi tutte son date in Costantinopoli, una in Nicea di Bitinia ed un'altra in Minizo della Galizia. Ordinò esso Augusto che fosse lecito ai Giudei di prendere i loro patriarchi per arbitrii nelle lor liti civili, e che i giudici dovessero eseguire i laudi proferiti da essi: il che con altra legge promulgata in quest'anno fu medesimamente conceduto ai vescovi della Chiesa cattolica. Contra degli eretici eunomiani e montanisti uscirono rigorosissime pene, ed altre ancora contro gli uffiziali militari che permettevano ai soldati di pascolare i lor cavalli nelle praterie dei particolari. Ma più delle altre leggi strepito fece una data nel dì 27 di luglio, di cui parla anche Socrate [Socrat., l. 6, cap. 5.], come procurata e voluta da Eutropio, ministro onnipotente nella corte di Arcadio. In questo anno fu essa pubblicata, e non già nel 396, come stimò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], citando Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 7.], perchè tanto questo storico, quanto Socrate attestano che non molto dappoi [336] la vendetta di Dio cadde sopra il medesimo Eutropio. Questa legge fu che a niuno ricercato dalla giustizia fosse lecito il rifugiarsi nelle chiese, e che questi tali avessero da estrarsi di là per forza, e dovessero anche più severamente essere puniti per sì fatto ricorso. Troppi nemici si andava ogni dì facendo colla sua prepotenza ed avidità l'iniquo Eutropio, ed egli non voleva che alcuno fosse salvo dalle sue mani. È sembrato e sembra a molte savie persone, essere cosa ingiusta che le chiese di Dio servano di asilo e protezione ai malfattori che turbano la quiete del pubblico, ma giusta, per lo contrario, che sieno il rifugio dei miserabili. Certamente pare che non possa neppur piacere a Dio l'impunità dei gravi misfatti con malizia commessi, perchè troppo incomodo e danno proviene ai comuni dal sofferire nel loro seno certe erbe cattive, e si dee aver più carità ad un popolo intero che ad un particolare scellerato. E quando pur anche sia convenevole ammettere un asilo per cadauna città e terra, di cui godano varii delinquenti, non si dovrebbe permettere tanta moltiplicità d'altri asili, quanta è dappertutto la copia delle chiese e degli oratorii. Permise Iddio che non istesse molto lo stesso Eutropio a provar egli stesso l'ingiustizia di questa esorbitante legge; e ciò avvenne nel seguente anno. Varie appendici ancora conteneva il medesimo editto, e fra le altre cose era proibito ai debitori di qualunque fatta il godere della immunità de' sacri luoghi; e qualora gli ecclesiastici alla prima chiamata non li consegnavano alle mani della giustizia, erano costretti gli economi delle chiese a pagar quei debiti col danaro delle chiese medesime. Ma perchè questo ed altri capi della legge suddetta oltrepassavano le misure del giusto, della carità e del decoro della casa di Dio, fu poi da altre susseguenti riformata e corretta.

Noi lasciammo Stilicone conte, e generalissimo dell'Augusto Onorio, tutto [337] affaccendato nell'armamento per procedere contra di Gildone conte, usurpatore dell'Africa; quando la fortuna gli presentò un buon regalo [Zosim., lib. 5, cap. 11. Orosius, lib. 7, cap. 36. Claud., de Laud. Stilic.]. Avea Gildone un fratello, appellato Masceldel o Mascezel, di professione cristiano, il quale, tra perchè vide in pericolo più volte la vita sua per le barbarie del fratello, e perchè non volle aver parte alla ribellione da lui meditata, se ne fuggì in Italia alla corte imperiale. Restarono due suoi figliuoli in Africa uffiziali di milizie; Gildone per vendetta amendue li fece uccidere: il che fu una lettera di maggiore raccomandazione per Mascezel appresso di Stilicone. Destinato questo Africano per capitan generale dell'armata allestita contra di suo fratello, fece vela con una possente flotta da Pisa, non ancor venuta la primavera di quest'anno. Abbiamo da Orosio che in passando Mascezel in vicinanza dell'isola della Capraia, dove, abitava allora un gran numero di santi romiti, si fece sbarcare colà, e siccome egli ero cristiano, così tanto fece colle sue preghiere, che indusse alcuni di que' buoni servi di Dio ad andar seco in quella spedizione. La lor compagnia, le preghiere, i digiuni, ch'egli con lor faceva, e il cantar egli de' salmi con essi, furono quell'armi, nelle quali egli maggiormente ripose la speranza della vittoria. Sbarcò l'esercito romano nell'Africa, e si accampò nella Numidia fra Tebaste e Metredera; ma poco tardò ad accorgersi della sua debolezza in confronto di quello che dalle molte nazioni africane aveva ammassato Gildone [Claud., de Laud. Stiliconis.]. Scrivono ch'egli menò in campo settanta mila combattenti, con deridere per conseguente il poco numero de' Romani, e con vantarsi di farli tutti calpestare dalla sua cavalleria [Paulin., Vit. s. Ambros.]. In fatti Mascezel, ben pesate le strabocchevoli forze nemiche, ad altro [338] non pensava che a ritirarsi, quando una notte, per attestato di Paolino nella vita di san Ambrosio, gli apparve in sogno questo santo arcivescovo con un bastone in mano. Si gittò a' suoi piedi Mascezel, ed il santo col bastone tre volte picchiò in terra dicendo: Qui, qui, qui, e disparve. Prese da tal visione il generale gran fidanza della vittoria in quel medesimo sito, e fra tre dì; e però stette saldo. Dopo aver dunque passata la notte precedente al terzo giorno [Orosius, lib. 7, cap. 36. Marcell. Comes, in Chronic.] in pregar Dio e salmeggiare, ed essersi munito col sacramento celeste, fatto giorno, mise in armi le sue genti per ben ricevere i nemici che si appressavano. Forse era sul fine di marzo. Alle prime schiere di Gildone, nelle quali s'incontrò, parlò di pace; ma perchè da uno degl'alfieri avversarii gli fu riposto con insolenza, gli diede un colpo di spada nel braccio, per cui la di lui bandiera si abbassò. Coloro che erano più addietro, mirando quel segno, ed avvisandosi che i primi si fossero renduti, calarono anche essi a gara le loro insegne, a si arrenderono a Mascezel. Probabilmente erano milizie romane costoro. I Barbari, veggendosi così abbandonati dai primi, presi dalla paura, dopo qualche leggiero combattimento, voltarono tutti le spalle [Claud., de Laud. Stiliconis.]. Ebbe Gildone tempo da fuggire in una nave, ma sorpreso da burrasca, fu suo malgrado spinto al porto vicino ad Ippona, dove gli vennero messe le mani addosso. Esposto agli scherni del popolo, fu poi cacciato in prigione, dove fra pochi giorni si trovò strangolato, per quanto si disse, di propria mano, senza che suo fratello Mascezel, ch'era lungi di là, venisse a sapere il gastigo datogli da Dio, se non dopo il fatto [Idacius, in Chron.]. In questa miracolosa maniera si dissipò quel temporale, e tornò l'Africa alla quieta primiera. [339] Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 12.] in due parole scrive che Gildone rimasto in una campale giornata sconfitto dal fratello, per non cadere in mano di lui, s'impiccò per la gola. Ma Paolo Orosio, che pochi anni dopo fu in Africa, ed informossi ben del fatto, e Paolino scrittore contemporaneo della vita di sant'Ambrosio, e Marcellino conte, ci assicurano che la faccenda passò come abbiam detto, sicchè in Roma nello stesso tempo fu portata la nuova dello sbarco de' nemici, e della presa di Gildone. I beni di costui, ch'erano immensi, e di assaissimi complici suoi, rimasero preda del fisco. La moglie e la sorella di lui si ritirarono a Costantinopoli, dove Salvina di lui figlia era maritata con un cugino germano di Arcadio Augusto, chiamato Nebridio. Queste donne si veggono lodate dipoi da san Girolamo [Hieron., in Epist.] e da Palladio [Pallad., in Dialog.] per la loro pietà. Tornossene Mascezel vittorioso a Milano, dove fu accolto con assai carezze, e caricato di speranze da Stilicone. Ma o sia ch'egli pretendesse troppo, e che Stilicone, uomo tutto di mondo, nulla volesse dargli, abbiamo da Zosimo che Stilicone se ne sbrigò in una barbarica forma; perchè un dì cavalcando in sua compagnia con altri molti, Mascezel, nel passare sopra il ponte di un fiume, egli fu, per ordine di Stilicone, rovesciato nell'acqua, dove miseramente perì. Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 36.] aggiugne essersi egli insuperbito forte dopo la vittoria suddetta, e che più non curando la compagnia dei servi del Signore, osò anche violare il rispetto dovuto alle chiese, con estrarne per forza persone colà rifugiate, probabilmente complici di Gildone, ed aver egli perciò irritata la giustizia di Dio. Ma non lasciò per questo di dar negli occhi di ognuno la perfidia ed ingratitudine di Stilicone.

Sempre più intento questo ministro, [340] siccome arbitro della corte di Onorio, a stabilir la propria fortuna e possanza, non era ancor giunto esso Augusto all'età di quattordici anni [Claud., de Laudib. Stilicon. Zosim., lib. 5, cap. 12.], quando gli fece prender per moglie Naria figliuola sua, e di Serena cugina del medesimo Onorio, ancorchè neppur essa fosse in età nubile. Allorchè fu portata a Milano la nuova della disfatta di Gildone, si facevano tuttavia le allegrezze per tali nozze, nozze celebrate da Claudiano con un poema, e colla predizione di molti re che ne doveano nascere. Ma Claudiano era poeta, e non profeta: del che meglio si accorgeremo andando innanzi. Nel dì 26 di novembre dell'anno presente [Anast., Bibliothec. Baronius, Pagius, Papebrochius, etc.] terminò Siricio romano pontefice la sua gloriosa vita, con avere meritato per le sue molte virtù d'essere annoverato fra i santi. Della durazion del suo pontificato già parlammo di sopra in riferir la sua elezione. Ebbe per successore nella sedia di san Pietro Anastasio di nazione Romano. Non abbiamo lumi sufficienti dalla storia per intendere meglio ciò che circa questi tempi Claudiano [Claud., de Laudib. Stilicon.] accenna delle azioni di Onorio Augusto e di Stilicone suocero suo, dicendo ch'erano occupati a ricevere le sommissioni degli Alamanni, Svevi e Sicambri. V'ha una legge [L. Quoniam de Censitor. Cod. Theodos.] di questo imperadore, data nel dì 5 d'aprile dell'anno seguente, dove si parla di Barbari di diverse nazioni passati ad abitar nel paese romano. Questi tali venivano chiamati nelle Gallie Leti; e le terre che loro si davano da coltivare portavano il nome di letiche, con obbligo imposto ad essi di servire, occorrendo, nell'armate dell'imperadore, e per conseguente erano specie di benefizii o feudi. Gran dubbio ho io che i Liti o Lidi più volte nominati nei Capitolari di Carlo Magno, e che, secondo le prove da me addotte altrove [Antiquit. Italic. Tom. I, Dissert. XV.], non erano [341] servi, ma uomini liberi, potessero essere gli stessi che Leti di questi tempi, avendo potuto durare il lor nome sino al secolo nono. Essendo mancato di vita nel settembre del precedente anno Nettario arcivescovo di Costantinopoli [Marcellinus Comes, in Chronic. Socrati, lib. 6, cap. 2.], san Giovanni Grisostomo fu nel dì 26 di febbraio dell'anno presente posto in quella cattedra con applauso di tutto il popolo. Questa fu una delle più lodevoli azioni che mai si facesse Eutropio, da noi veduto direttor supremo della corte di Arcadio Augusto. Imperciocchè egli fu quegli che fece venir da Antiochia questo santo e mirabil ingegno, e procurò che in lui cadesse l'elezione per l'arcivescovato di Costantinopoli. Felice sarebbe stato costui [Chrysost., Orat. in Eutrop.] se avesse saputo profittare dell'amicizia di questo incomparabile dottor della Chiesa di Dio, il quale non mancò di fargli conoscere la vanità delle speranze umane, fondate sopra illustri dignità e sopra molte ricchezze; ma egli, ubbriaco della sua grandezza e cieco nella fortuna presente, si dovette ridere di lui, con giungere poi nel seguente anno a disingannarsi, ma senza che punto gli giovasse un tal disinganno. Teofane [Theoph., in Chronogr.] osserva che Libanio sofista pagano, interrogato prima di morire, chi dovesse a lui succedere nella scuola, rispose: Io direi Giovanni (appellato dipoi Grisostomo) se non ce l'avessero rubato i Cristiani; tanto era fin d'allora stimato il suo ingegno, prezzata la sua eloquenza.


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Anno di Cristo CCCXCIX. Indizione XII.
Anastasio papa 2.
Arcadio imperadore 17 e 5.
Onorio imperadore 7 e 5.

Consoli

Eutropio e Flavio Mallio Teodoro.

Questo Teodoro, console cristiano per l'Occidente, è celebre per le lodi a lui date da Claudiano nel suo Panegirico [Claud., de Consul. Theod.], in occasione di questo consolato, aveva anche sant'Agostino a lui dedicato nell'anno 386 il suo libro della Vita beata. Fra lui e Simmaco senatore passava stretta amicizia. Dopo aver egli sostenuto varie illustri cariche, e specialmente quella di prefetto del pretorio d'Italia, giunse nell'anno presente al colmo degli onori, perchè fatto degno della trabea consolare. Eutropio, console per l'Oriente, quel medesimo eunuco è di cui tante volte abbiam parlato, già divenuto maggiordomo ed arbitro della corte dell'imperadore Arcadio, la cui ambizione non mai paga, per attestato di Filostorgio [Philostorg., lib. 11, cap. 4.] e di Claudiano [Claud., in Eutrop., lib. 2.], portò quell'Augusto a dargli anche il titolo di patrizio e di padre dell'imperadore, e finalmente a disegnarlo consolo per l'anno presente. Al dir di Claudiano, Stilicone non permise che questo mezzo uomo fosse riconosciuto per console nell'Occidente. Perciò si trovano inscrizioni, dove il solo Teodoro è nominato console. Una legge dell'imperadore Onorio nel Codice Teodosiano [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.] ci fa vedere in quest'anno prefetto di Roma Flaviano. Le altre leggi del medesimo Augusto cel rappresentano ora in Milano, ed ora in Ravenna, Brescia, Verona, Padova ed Altino. In esse veggiamo ordinato [L. 4, de itiner. munien. Cod. Theodos.], che pel risarcimento delle pubbliche strade ognun sia tenuto a concorrere, non volendo che [343] alcuno, e neppure gli uffiziali della corte, e neppur le terre proprie dello stesso principe godessero per questo riguardo esenzione alcuna. Cagione eziandio di gravissimi lamenti nella Gallia erano le protezioni dei grandi, e i privilegi e le esenzioni concedute a non pochi, i quali perciò non pagavano i tributi, vegnendo con ciò le persone deboli ad essere aggravate tanto per la parte de' paesi pubblici a loro spettante, quanto per quella che non pagavano le persone forti: disordine non ignoto ad altri paesi e ad altri tempi. Con suo editto [L. 26, omni amoto de Annona et Tribut. Cod. Theodos.] ordinò Onorio che niuno per questo conto potesse allegar esenzioni, e che qualsivoglia suddito fosse astretto al pagamento di tutte le pubbliche imposte a rata de' suoi beni. Ma questa legge in pratica si trovò simile alle tele de' ragni che fermano i piccioli insetti, ma non già i grossi augelli; e col tempo fece perdere le Gallie al romano imperio. Confermò per lo contrario l'Augusto Onorio i lor privilegii alle chiese, e pubblicò nuovi ordini contro l'esecrabil setta dei Manichei. Altre leggi ancora abbiamo tanto di esso Onorio, quanto di Arcadio suo fratello intorno ai pagani. In una Arcadio ordina che si demoliscano i templi de' gentili che si trovino alla campagna, acciocchè si levi il nido, alla superstizione [Vide lib. 16, tit. 10, Cod. Theod.]. Opinione d'uomini dotti è stata che il nome di pagani fosse dato agl'idolatri, appunto perchè, non potendo esercitar nella città i lor sacrifizii e riti superstiziosi, si riducessero a farli alla campagna. Con altra legge Onorio Augusto proibisce i sacrifizii e i riti profani, ma non vuol che si distruggano gli ornamenti delle pubbliche fabbriche. Poscia permette ai pagani le adunanze, conviti ed allegrie loro solite, purchè non intervenga sacrifizio nè superstizione alcuna già condannata. Per altro abbiamo da Idacio [Idacius, in Fast.], da Prospero [344] Tirone [Prosper Tiro, in Chron.] e da sant'Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 8, cap. 33.], che in questi medesimi tempi si fece un grande abbattimento di templi de' gentili, intorno a che molto hanno detto il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. A me basta di averne dato un cenno.

Godè ben l'Occidente per l'anno presente un'invidiabil pace, ma non già l'Oriente, dove Gaina, goto ed ariano, mosse delle gravi tempeste. Costui, che era stato il principal arnese per abbattere Rufino ed innalzar Eutropio, ancorchè fosse ricompensato col grado di generale della fanteria e cavalleria, pure da smoderata ambizione invasato, riputava troppo inferiore al suo merito un tal guiderdone [Zosimus, lib. 5, cap. 13.]. Soprattutto mirava egli con isdegno ed invidia Eutropio, nel cui seno colavano tanti onori e tante ricchezze, e però concepì il disegno di atterrar quest'altro idolo maestoso della corte [Socrat., lib. 6, cap. 6. Sozom., lib. 8, cap. 4.], per desiderio ed anche speranza di fondare sopra la di lui rovina l'accrescimento della propria autorità e fortuna. Ad effettuar questo disegno gli si presentò un efficace strumento, cioè Tribigildo conte, goto anch'esso di nazione, parente suo, che comandava allora ad un corpo di Ostrogoti nella Frigia, ed era disgustato con Eutropio. Con costui segretamente s'intese Gaina per quello che si avea da fare; e fu ben servito. Appena ritornato Tribigildo nella Frigia, uniti i suoi Goti, e cominciata la ribellione, si diede a saccheggiar quel paese con tal crudeltà, che fin le donne e i fanciulli non erano salvi dalle loro spade, empiendo con ciò di terrore tutta l'Asia romana. Pare, secondo Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 17.], che questo temporale avesse principio nell'autunno del precedente anno, perchè Gaina non potea sofferire che [345] l'odiato Eutropio fosse anche stato disegnato console. Ma Claudiano [Claud., in Eutrop.] lasciò scritto essere stata la primavera il tempo, in cui esso Tribigildo alzò bandiera contra dell'Augusto Arcadio. Indarno Eutropio impiegò regali per quetare l'orgoglioso ribello. Veduto fallito questo ripiego, spedì poi Leone suo confidente con un corpo di milizie contra del ribello, ordinando nello stesso tempo a Gaina di custodir la Tracia e il mare, acciocchè a Tribigildo non nascesse voglia di voltarsi a Costantinopoli. V'ha chi pretende [Philostorg., lib. 5, cap. 8.] che lo stesso Gaina invitasse Tribigildo a venire, e che se costui veniva, la città di Costantinopoli col nemico in seno era spedita. Non osò tanto il ribello, ed amò piuttosto di volgersi a dare il sacco alla Pisidia. Intanto ebbe ordine Gaina di passar in Asia colle milizie. Passò, ma invece di procedere contra del palese nemico segreto suo amico, spedì Leone alla difesa della Panfilia. Per tutti i mestieri era buono questo Leone, fuorchè per quello della guerra, e però all'accorto Tribigildo che finse di fuggire, e l'addormentò, non riuscì poi difficile il tornargli improvvisamente addosso, e a mettere in rotta tulle le di lui brigate. Nel fuggire esso Leone s'intricò in una palude, ed ivi lasciò la vita: colpo che maggiormente accrebbe la paura, per non dir la costernazione nella corte d'Arcadio. Lo stesso iniquo Gaina non cessava di dipingere il male più grande di quel ch'era, arrivando insino a suggerire che altro rimedio non restava che di guadagnar colle buone Tribigildo, accordandogli le sue dimande, la principal delle quali era che gli si desse in mano Eutropio, come cagion di tutti i mali. Di qui scrive Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 17.] che venisse il precipizio di quel potente ministro.

Furono altri di parere che da altra mano fosse dato il crollo [Chrysost., in Psalm. 44, et in Eutrop. Philostorg., lib. 11, cap. 8.]. Indubitata [346] cosa è che Eutropio per la sua insoffribil boria, per l'insaziabil avidità, e perchè menava pel naso come un bufalo il debole imperadore, s'era tirato addosso l'odio e l'ira d'ognuno. Dio, che voleva in fine pagarlo per tanti torti da lui fatti alle chiese e ad ogni sorta di persone, permise che il forsennato superbo perdesse anche il rispetto ad Eudossia imperadrice, maltrattandola di parole, e giugnendo fino a minacciare di cacciarla di corte. Eudossia, donna risentita, e a questo affronto bollente di collera, corse tosto a prendere le due sue figliuole, cioè Flacilla nata nell'anno 397, e Pulcheria nata nel gennaio dell'anno presente [Marcellin. Comes, in Chronic. Chron. Alexandr.], e con esse andò a gittarsi a' piedi di Arcadio Augusto, domandando con alte grida e lagrime giustizia. A questo assalto Arcadio una volta si ricordò ch'egli era il principe. O sia che questo solo motivo il mettesse in collera contro di Eutropio, o che vi si aggiugnesse il desiderio di placare il ribello Tribigildo, massimamente in tempo che s'intese la morte di Sapore re di Persia ucciso dai suoi sudditi, e che veniva minacciata guerra da Isdegarde suo successore al romano imperio: fuor di dubbio è che fatto immantinente chiamar Eutropio, lo spogliò di tutte le sue cariche, e di tutti gli immensi beni malamente da lui acquistati, e il cacciò di palazzo [Chrysost., Orat. in Eutrop. et in Psalm. 44. Zosimus, lib. 5, cap. 18. Sozomenus, Claudian.]. Grande scena fu quella: sparì in un momento la grandezza immaginaria di questo castrone, e tanti suoi adoratori e adulatori l'abbandonarono, divenendo anche i più d'essi suoi schernitori e nemici. In istato sì abbietto mirandosi allora il non più baldanzoso Eutropio, e temendo del furore e dell'odio universale del popolo, altro scampo non seppe trovare che di rifugiarsi nella chiesa, e di correre ad abbracciare l'altare: avendo permesso Iddio che costui, dopo aver nell'anno [347] addietro pubblicata la legge che vietava ai luoghi sacri di servire di asilo ai miserabili, riconoscesse il suo fallo, col bisogno di salvarsi in uno di que' medesimi templi. Intanto ognuno gridava contra di lui nelle piazze e nei teatri, e nella corte gli stessi soldati ad alta voce dimandavano la di lui morte; Gaina anch'egli facea premura, acciocchè costui fosse bandito o punito con pena più convenevole a tanti suoi misfatti. Però Arcadio inviò una mano di soldati per estrarlo di chiesa. Loro animosamente s'oppose il santo arcivescovo Giovanni Grisostomo, in maniera che coloro irritati presero lo stesso sacro pastore, e il menarono con grande insolenza a palazzo, dove tanto perorò, che Arcadio restò non solamente persuaso di doversi permettere quell'asilo ad Eutropio, ma eziandio colle lagrime e con vive ragioni studiò di ammollir lo sdegno dei soldati inviperiti contra di lui [Chrysost. Zosimus. Suidas, in Lexico.]. Pochi giorni nondimeno passarono che Eutropio uscito di chiesa per fuggire, o trattone per forza, o ceduto con patto che fosse salva la di lui vita, fu relegato nell'isola di Cipri, ed ordinato che si levasse il suo nome dai Fasti consolari e dalle leggi, si abbattessero le sue statue, e si abolisse ogni altra sua memoria. Abbiamo una legge di Arcadio [L. 12, de Poenis, Cod. Theodos.], data nel dì 17 di gennaio dell'anno presente, dove si legge la di lui condanna: il che fece credere al Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] e al padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], che questa scena accadesse prima di quel giorno in questo medesimo anno. Ma, siccome osservò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], troppo forti ragioni abbiamo per giudicar fallata quella data quanto al mese, specialmente perchè Eudossia avendo partorita Pulcheria nel dì 19 di gennaio, non avrebbe potuto presentarla al marito Augusto, come vuol Filostorgio. Per conseguente sembra più [348] verisimile che la di lui caduta s'abbia da riferire ad alcuni mesi dappoi, e forse dopo l'agosto. Non si sa quanto tempo durasse la relegazione di Eutropio in Cipri. Abbiamo bensì da Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 18.] e da Filostorgio [Philost., lib. 11, cap. 6.], aver fatto tante istanze Gaina contra di lui, e suscitati accusatori, che in fine fu ricondotto da Cipri a Costantinopoli, e processato. Finalmente con uno di que' ripieghi che i politici san trovare per non mantenere i giuramenti, cioè dicendo che la promessa di salvargli la vita era solamente per Costantinopoli, il mandarono a Calcedone, dove gli fu mozzato il capo. Ed ecco qual fu il fine di un Eutropio eunuco, e già schiavo di Arenteo, giunto dal più basso e vile stato alla maggior grandezza, da un'estrema povertà ad incredibili ricchezze e ad una straordinaria potenza. Di rado le gran fortune, che non han la base sulla virtù, vanno esenti da somiglianti gravi peripezie.


   
Anno di Cristo CD. Indizione XIII.
Anastasio papa 3.
Arcadio imperadore 18 e 6.
Onorio imperadore 8 e 6.

Consoli

Flavio Stilicone ed Aureliano.

Chi fosse Stilicone console occidentale [Claud., de laud. Stiliconis, et in IV Consul. Honor.], non ha bisogno il lettore ch'io gliel ricordi. Quanto ad Aureliano console orientale, egli era prefetto del pretorio d'Oriente nell'anno precedente. Ho io altrove [Thesaur. Novus Inscript., pag. 394.] rapportata una iscrizione posta a Lucio Mario Massimo Perpetuo Aureliano console, immaginando che potesse parlarsi quivi di questo Aureliano. Meglio esaminandola ora, ritrovo che non può convenire a lui, essendo iscrizione spettante a Roma pagana, senza nondimeno [349] sapere qual altro sito le si possa assegnare ne' Fasti consolari. Veggasi nulladimeno all'anno 223. Continuò Flaviano ad esercitar la prefettura di Roma. Poche leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] di Arcadio Augusto si trovano sotto quest'anno, perchè egli ebbe altro da pensare in casa sua, siccome fra poco diremo: molte sì di Onorio imperadore, date le più in Milano, e l'altre in Ravenna, Altino, Brescia ed Aquileia, ma non senza qualche errore e confusione. Aspra è ben quella [L. 12, de Veter., Cod. Theodos.] emanata nel dì 30 di gennaio, in cui ordina che sieno arrolati nella milizia i Leti, Gentili, Alamanni e Sarmati, ed altri non avanzati in età, non troppo piccioli, non infermi, e i figliuoli de' veterani e i licenziati dalla milizia prima del tempo, e i passati dalla milizia al clero e all'impiego di seppellire i morti, pretendendo che questi non per motivo di religione, ma per poltroneria abbiano abbandonate l'armi. La ragione di questo rigoroso ordine ce la somministra la storia [Jordan., de Reb. Getic., c. 29.]. Abbiam fatta qualche menzione di sopra di Alarico, principe fra le nazioni dei Goti, non della famiglia Amala, ch'era la più nobile di tutte, ma di quella de' Balti (nome in lor lingua significante ardito), e nato verso le bocche del Danubio. Non era già costui pagano, come cel rappresenta il pagano poeta Claudiano [Claud., de IV Consulatu Honor.], perchè, per attestato di Orosio [Orosius, lib. 7, c. 37.] e di sant'Agostino, egli professava la religion cristiana, ma contaminata dal fermento ariano, come la maggior parte de' Goti praticava da molti anni addietro. Uomo feroce, e del mestier della guerra intendentissimo, il quale pieno di spiriti ambiziosi, anche molti anni prima di venir a gastigare i peccati dei Romani, si vantava che nulla egli crederebbe mai di aver fatto o vinto, se non prendeva la stessa città di Roma. Ciò si raccoglie da un poema di [350] Claudiano [Claud., de Bello Getico.], composto molto prima ch'egli eseguisse questo suo disegno; e lo attesta anche Prudenzio [Prudentius, in Symmach.], parendo eziandio ch'egli tenesse d'esserne stato accertato da qualche oracolo. Nell'anno 396, siccome dicemmo, Arcadio per quetare i Goti che aveano fatta una terribile irruzione nella Grecia sotto il comando di esso Alarico, lo avea creato generale delle milizie nell'Illirico orientale; ed egli perciò abitava in quelle parti, cioè o nella Dacia, o nella Mesia inferiore, o pur nella Grecia e Macedonia. Giordano istorico [Jordan., ut supra.] pretende che rincrescendo a que' Goti, chiamati dipoi Visigoti, che sparsi per la Tracia e per l'Illirico dipendevano dallo stesso Alarico, di starsene oziosi, ed apprendendo per cosa pericolosa alla lor nazione lo impoltronirsi, crearono circa questi tempi per loro re il medesimo Alarico. Il disegno d'essi era di conquistar qualche regno, perchè loro parea una disgrazia lo starsene ne' paesi altrui mal veduti, e con pochissime comodità, quasi servi de' Romani. Chiaramente scrivono san Prospero [Prosper., in Chronico.] e il suddetto Giordano, che nel consolato di Stilicone e di Aureliano i Goti sotto il comando di Alarico e di Radagaiso entrarono nell'Italia. Che mali facessero (e certamente far ne dovettero) in queste parti, la storia nol dice. Abbiamo dal Natale VIII recitato da san Paolino vescovo di Nola [Paulin. Nolanus, Natal. VIII.] nel gennaio dell'anno seguente, che gran rumore faceva in Italia la guerra dei Goti, e che n'era sbigottito ognuno. Credesi ancora che dessero il guasto al territorio di Aquileia, e non apparisce che o spontaneamente o per forza ritornassero per ora indietro. Non sussiste già il dirsi dal suddetto Giordano che in questa prima visita i Goti andarono ad assediar Ravenna, dove s'era ritirato l'imperadore Onorio; [351] perchè siamo assicurati dalle leggi del Codice Teodosiano, che Onorio nel verno venturo e per tutto l'anno seguente si fermò in Milano.

Neppure ad Arcadio Augusto mancarono guai in Oriente durante questo anno. Pareva che dopo essere rimasta libera la di lui corte da quel mal arnese d'Eutropio, avessero da prendere miglior piega gli affari: ma si trattava di un imperadore buono da nulla, e intanto la caduta di Eutropio servì all'imperadrice Eudossia, tenuta bassa fin qui dal prepotente eunuco per innalzarsi, e sotto l'ombra di aiutar nel governo l'imbrogliato consorte [Zosim., lib. 5, cap. 23.], per tirare a sè quasi tutta l'autorità del comando. Donna superba e stizzosa; donna che voleva partire coi ministri ed uffiziali iniqui il profitta delle loro ingiustizie; donna infine che sapea dominar sopra il marito, ma ch'era anch'essa dominata da una man di dame e da una frotta d'eunuchi, che gareggiavano insieme a chi potea far peggio per arricchirsi, con vendere le grazie, con usurpare i beni altrui, e commettere tali iniquità, che le mormorazioni e i pubblici lamenti erano divenuti uno sfogo incessante de' popoli afflitti. Per attestato della Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrinum.], solamente nel dì 9 di gennaio dell'anno presente a lei fu dato dal marito il titolo di Augusta. Ed essa poi nel dì 3 di aprile partorì la terza figliuola, a cui fu posto il nome di Arcadia. Da una lettera di Onorio Augusto si ricava che questa ambiziosa donna mandò la sua immagine per le provincie, come soleano fare i novelli Augusti: del che si dolse esso Onorio, come di una novità che avea dato da mormorare a tutti. A questi mali provenienti dalla debolezza del regnante se ne aggiunsero de' più strepitosi per la perfidia di Gaina, che eletto generale dell'armi romane, per difesa del romano imperio, altro non [352] facea che segretamente macchinarne la rovina, conservando nel medesimo tempo le apparenze della fedeltà e zelo nel pubblico bene, e pensando che non si accorgesse la corte delle sue intenzioni e furberie. Pertanto egli maneggiò un accomodamento fra Tribigildo ed Arcadio: il che fatto, sì l'uno che l'altro colle loro armate s'inviarono alla volta di Costantinopoli, saccheggiando d'accordo il paese per dove passavano. Tribigildo voltò a sinistra, andando a Lampsaco nell'Ellesponto, e Gaina a dirittura passò a Calcedone in faccia di Costantinopoli, dove cominciò a scoprire i suoi perversi disegni. Per li movimenti di questi due barbari uffiziali si trovava in un gran labirinto Arcadio e il suo consiglio, perchè scorgevano il mal animo di Gaina, ed armata non v'era da potergli opporre. Spedì esso Augusto persone per dimandare a Gaina che pensieri erano i suoi [Socrates, lib. 6, c. 6.]. Rispose costui di voler nelle mani i tre principali ministri della corte, cioè Aureliano console di quest'anno, Saturnino stato console nell'anno 383, e Giovanni segretario il più confidente che si avesse Arcadio. Ci fa qui intendere il maligno Zosimo [Zos., lib. 5, cap. 18.] che dovea passare anche gran confidenza fra questo Giovanni e l'imperadrice Eudossia, perchè i più credeano che egli, e non già Arcadio, fosse padre di Teodosio II, principe che vedremo venire alla luce nell'anno seguente. Secondo Socrate, Gaina dimandò per ostaggi i suddetti ministri, mostrando probabilmente di non fidarsi dell'imperadore. Ma Zosimo con più ragione pretende che li volle per farli morire, perchè dovea loro attribuire i disordini presenti, o i mali uffizii fatti contra di lui. Tale era lo spavento di quel consiglio d'Arcadio, che s'indusse a sagrificare quegli onorati personaggi alla brutalità di Gaina; ed essi generosamente si esposero ad ogni rischio [353] per la salute pubblica. Vuol Zosimo che la consegna di questi ministri si facesse dappoichè seguì l'abbocamento di Arcadio con Gaina. Socrate e Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 4.] la mettono prima. Certo è che san Giovanni Grisostomo [Chrysost., Tom. 5, Hom. LXXII.], siccome apparisce da una sua omilia, fece quanto potè per salvare almeno la vita a così illustri ministri; e in fatti Gaina volle ben che provassero l'orror della morte con farli condurre al patibolo; ma mentre il carnefice avea alzato il braccio per troncar loro il capo, fu fermato da un ordine d'esso Gaina, il quale si contentò di mandarli in esilio nell'Epiro; ma questi nel viaggio o per danari, o per altra loro industria, ebbero la sorte di fuggire, e di comparir poi a Costantinopoli contro l'espettazione d'ognuno.

O prima o dopo di questo tragico avvenimento, il tiranno Gaina più che mai insolentendo, fece istanza che Arcadio Augusto, se gli premeva d'aver pace, passasse a Calcedone per trattarne a bocca con lui. D'uopo fu il povero imperadore inghiottisse ancora questo boccone e andasse a trovarlo. Nell'insigne chiesa di Santa Eufemia presso a quella città si abboccarono insieme, e vicendevolmente giurata buona amicizia tra loro, si convenne che Gaina deporrebbe l'armi, e tanto egli che Tribigildo andrebbono a Costantinopoli. Secondo Socrate [Socrat., lib. 6, cap. 6.], allora fu, e non prima come dicemmo di sopra, che Gaina fu dichiarato generale della fanteria e cavalleria romana, oltre al comando suo sopra un gran corpo de' Goti a lui ubbidienti. Di Tribigildo altro di più non sappiamo, se non per relazion di Filostorgio [Philostor., lib. 11, cap. 8.] ch'egli passato nella Tracia da lì a poco tempo perì. Quanto a Gaina non ebbe difficoltà di passare a Costantinopoli, orgoglioso per aver data la legge al regnante, ed ivi colla medesima altura pretese che si desse una chiesa ai [354] suoi Goti ariani [Theod., lib. 5, cap. 32.]; ma l'arcivescovo san Giovanni, imitando la costanza di santo Ambrosio, talmente gli fece fronte, che restarono vani tutti i di lui sforzi. Pare che tutti questi sconcerti succedessero nel mese di maggio. Ma poco durò la pace fatta con chi era di cuor doppio, e non istudiava se non cabale ed inganni. Perchè in Modena il nome di Gaino è in uso per dinotare i furbi ed ingannatori sotto la parola, ho io talvolta sospettato che da quel furfante Goto fosse proceduto questo titolo; ma sempre mi è paruto più probabile ch'esso venga da Gano, famoso ne' romanzi per le sue ribalderie, e finto ai tempi di Carlo Magno. Ora il malvagio Gaina generale dell'armi andò a poco a poco empiendo la città di Costantinopoli de' suoi Goti, e mandando fuori quanti più potè di soldati romani, ed anche delle guardie del palazzo sotto varii pretesti [Socrat., Sozomenus, Philost., ut sup.]. Era il suo disegno di mettere a sacco in una notte le botteghe degli orefici oppur dei banchieri, e di attaccare il fuoco al palazzo imperiale. Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 18.] scrive ch'egli mirava ad impadronirsi della città e ad usurpare il trono. Se ne avvidero quegli artisti, e stettero ben in guardia. Per conto del palazzo, andarono bensì per più notti i suoi satelliti per incendiarlo; ma sempre vi trovarono una buona guardia di soldati, benchè non ve ne dovesse essere, con aver poi tenuto per fermo il popolo che quei fossero soldati fatti comparire da Dio per difesa del piissimo imperadore Arcadio. Se ne volle chiarire lo stesso Gaina, e trovò che tale era la verità, con immaginarsi poi che Arcadio avesse fatto venire segretamente delle milizie per valersene contra di lui, le quali stessero durante il giorno nascose.

Fu cagion l'apprensione conceputa per questo fatto, che il misleale Gaina si ritirasse fuori di Costantinopoli nel dì 10 di luglio, allegando qualche indisposizione [355] di corpo e bisogno di riposo, con fermarsi circa sette miglia lungi dalla città. Aveva egli lasciato in Costantinopoli la maggior parte de' suoi Goti con ordine di prender l'armi contra de' cittadini a un determinato tempo, di cui preventivamente doveano dare a lui un segnale, affin di accorrere anch'egli con altra gente a rinforzarli. Ma o sia, come vuol Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 19.], ch'egli scoprisse il disegno col venire prima del segno, oppure, come fu scritto da Socrate e da Sozomeno, che i Goti, volendo asportar fuori della città una quantità d'armi, le guardie delle porte si opponessero, perlochè restarono uccisi: certo è che il popolo di Costantinopoli si levò a rumore, e, dato di piglio all'armi, sbarrarono le strade; e giacchè Arcadio nel dì 12 di luglio dichiarò nemico pubblico Gaina [Chronic. Alexandr. Marcellinus Comes, in Chron. Socrates, Sozom.], tutti si diedero a mettere a fil di spada quanti Goti s'incontravano. Gaina, non avendo potuto entrare, fu forzato a ritirarsi. Il resto de' Goti, non tagliati a pezzi, e consistente in sette mila persone, si rifugiò in una chiesa, e quivi si afforzò. Ma il popolo, scopertone il tetto, e di là precipitando travi accesi contra di loro, gli estinse tutti, ed insieme bruciò la chiesa: il che dai Cristiani più pii, se crediamo a Zosimo, fu riputato fatto peccaminoso. Con ciò rimase libera e quieta la città, ma non finirono le scene per questo. Gaina da nemico aperto cominciò a far quanto male potè alla Tracia, senza che alcuno uscisse di Costantinopoli per opporsegli, o per trattare d'accordo: tanto facea paura ad ognuno il di lui umore barbarico, il solo san Giovanni Grisostomo andò animosamente a trovarlo [Theod., lib. 5, cap. 32.], e ne fu bene accolto contro l'espettazione d'ognuno. Ciò ch'egli operasse, nol sappiamo, se non che Zosimo scrive aver Gaina dopo la total desolazione di quelle campagne (giacchè non potea entrare [356] nelle città, tutte ben difese dagli abitanti) rivolto i passi verso il Chersoneso, con disegno di passar lo stretto, e continuare i saccheggi nell'Asia [Zosim., lib. 5, cap. 20 et seq.]. Ma eletto generale della flotta imperiale Fravita, Goto bensì di nazione e pagano, ma uomo di onore, ed applaudito per molte cariche sostenute in addietro, andò per opporsi ai tentativi del non mai stanco Gaina. Ed allorchè costui, dopo aver fatto tumultuariamente fabbricar molte rozze navi da trasporto, si volle arrischiare a valicar lo stretto, gli fu addosso Fravita colle sue navi ben corredate, e gli diede una sì fiera percossa, aiutato anche dal vento, che molte migliaia di Goti perirono in mare. Disperato per questa gran perdita Gaina, voltò cammino con quella gente che gli restava, per tornarsene nella Tracia; e perchè Fravita non volle azzardarsi a perseguitarlo, gli fu fatto un reato per questo. Ma dovette saper ben egli difendere sè stesso, e ce ne accorgeremo all'anno seguente, in cui il vedremo alzato alla dignità di console. Fuggendo poi Gaina, se dee valere l'asserzion di Socrate [Socrat., lib. 6, cap. 6.] e di Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 4.], fu inseguito dalle soldatesche romane, sconfitto ed ucciso. Ma Zosimo racconta ch'egli arrivò a passare il Danubio con quei pochi Goti che potè salvare, sperando di menare il resto di sua vita nel paese che era una volta dei Goti. Ulda, o Uldino, re degli Unni, padrone allora di quella contrada, non amando di avere in casa sua un sì pericoloso arnese, gli si voltò contro, ed uccisolo, mandò poi per regalo la di lui testa ad Arcadio. Dalla Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandr.] abbiamo che nel dì 3 di gennaio dell'anno seguente essa testa fu portata in trionfo per Costantinopoli. Tal fine ebbe questa tragedia, e tal ricompensa la strabocchevole ambizione di quel furfante di Gaina.


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Anno di Cristo CDI. Indizione XIV.
Innocenzo papa 1.
Arcadio imperad. 19 e 7.
Onorio imperad. 9 e 7.

Consoli

Vincenzo e Fravita.

Il primo, cioè Vincenzo, console occidentale, era stato in addietro prefetto del pretorio delle Gallie, e si trova commendato assaissimo per le sue virtù da Sulpicio Severo [Sulp. Sever., Dial. 1, cap. 27.], autore di questi tempi. Fravita console orientale è quel medesimo che abbiamo veduto di sopra vittorioso della flotta di Gaina, e che fedelmente seguitò a servire ad Arcadio Augusto. Prefetto di Roma abbiamo per l'anno presente Andromaco. Ora noi siam giunti al principio del secolo quinto dell'era cristiana, secolo che ci somministra funeste rivoluzioni di cose, specialmente in Italia, diverse troppo da quelle che fin qui abbiamo accennato. Inclinava già alla vecchiaia il romano imperio, e, a guisa de' corpi umani, avea, coll'andare degli anni contratte varie infermità, che finalmente il condussero all'estrema miseria. Tanta vastità di dominio, che si stendeva per tutta l'Italia, Gallia e Spagna, per i vasti paesi dell'Illirico e della Grecia e Tracia, e per assaissime provincie dell'Asia e per l'Egitto, e per tutte le coste dell'Africa bagnate dal Mediterraneo, colla maggior parte ancora della gran Bretagna, tratto immenso di terre, delle quali oggidì si formano tanti diversi regni e principati: grandezza, dissi, di mole sì vasta s'era mirabilmente sostenuta finora per le forze sì di terra che di mare, che stavano pronte sempre alla difesa, e per la saggia condotta di alcuni valorosi imperadori. Certamente, siccome s'è veduto, non mancarono già nei precedenti anni guerre straniere di somma importanza, fiere irruzioni di Barbari, e tiranni insorti nel cuore del medesimo imperio; ma il valore de' Romani, [358] la fedeltà dei popoli e la militar disciplina mantenuta tuttavia in vigore, seppero dissipar cotante procelle, e conservare non men le provincie che la dignità del romano imperio. Contuttociò fu d'avviso Diocleziano che un sol capo a tanta estension di dominio bastar non potesse; e però introdusse la pluralità degli Augusti e dei Cesari, immaginando che queste diverse teste procedendo con unione d'animi (cosa difficilissima fra gli ambiziosi mortali) avesse da tener più saldo e difeso l'imperio, benchè diviso fra essi, volendo principalmente che le leggi fatte da un imperadore portassero in fronte anche il nome degli altri Augusti, affinchè un solo paresse il cuore e la mente di tutti nel pubblico governo. Per questa ragione, secondo l'introdotto costume, Teodosio il grande, per quanto ci ha mostrato la storia, con dividere fra i suoi due figliuoli, cioè Arcadio ed Onorio Augusti la sua monarchia, avea creduto di maggiormente assicurar la sussistenza di questo gran colosso.

Ma per disavventura del pubblico, a riserva della bontà del cuore e dei costumi, null'altro possedeano questi due principi di quel che si richiede a chi dee reggere popoli; e in fatti erano essi nati per lasciarsi governar da altri. Miravano poi cresciuti dappertutto gli abusi; malcontenti i sudditi per le soverchie gravezze; sminuite le milizie romane; le flotte trascurate. Il peggio nondimeno consisteva nella baldanza de' popoli settentrionali, a soggiogare i quali non era mai giunta la potenza romana. Costoro da gran tempo non ad altro più pensavano che ad atterrar questa potenza. Nati sotto climi poco favoriti dalla natura, e poveri ne' lor paesi, guatavano continuamente con occhio invidioso le felici romane provincie, ed erano vogliosi di conquistarle, non già per aggiugnerle alle antiche lor signorie, ma per passar dai lor tugurii ad abitar nelle case agiate, e sotto il piacevol cielo de' popoli meridionali. Questo bel disegno non potè loro [359] riuscire nei tempi addietro, perchè, ripulsati o sbaragliati, qui lasciarono la vita, o furono costretti a ritornarsene alle lor gelate abitazioni. Il secolo, in cui entriamo, quel fu in cui parve che si scatenasse tutto il settentrione contra del romano imperio, con giugnere in fine a smembrarlo, anzi ad annientarlo in Occidente. Si può ben credere che non poco influisse in queste disavventure dell'imperio occidentale l'aver Valente e Teodosio Augusti (così portando la necessità dei loro interessi) lasciati annidar tanti Goti ed altre barbare nazioni nella Tracia e in altre provincie dell'Illirico. Assaissimo nocque del pari l'avere gl'imperadori da gran tempo in addietro cominciato a servirsi ne' loro eserciti di truppe barbariche e di generali eziandio di quelle nazioni. Perciocchè que' Barbari, adocchiata la fertilità e felicità di queste provincie, ed impratichiti del paese e della forza o debolezza de' regnanti, non lasciavano di animare la lor gente a cangiar cielo, e a venire a stabilirsi in queste più fortunate contrade. Già abbiam veduto in Italia Alarico re de' Goti con Radagaiso, e con un potente esercito, ma senza sapere s'egli per tutto quest'anno continuasse a divorar le sostanze degli Italiani, o pur se fosse obbligato dalle armi romane a retrocedere. Certa cosa è che Onorio Augusto pacificamente se ne stette in Milano, dove si veggono pubblicate alcune leggi [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.]; e quando non sia errore nella data d'una in Altino, città florida allora della Venezia, par bene che i progressi di que' Barbari non dovessero esser molti, e che anzi i medesimi se ne fossero tornati addietro.

Tra l'altre cose [L. 3, de indulg. debit., Cod. Theodos.] l'imperadore Onorio condonò ai popoli i debiti ch'essi aveano coll'erario cesareo fino all'anno 386; sospese l'esazione degli altri da esso anno 386 sino all'anno 395, ordinando solamente che si pagassero senza dilazione i debiti contratti dopo esso anno [360] 395. Comandò ancora che si continuasse il risarcimento delle mura di Roma, con aggiungervi delle nuove fortificazioni, perchè dei brutti nuvoli erano per l'aria. Venne a morte nel dì 14 di dicembre, dell'anno presente Anastasio papa, che viene onorato col titolo di santo negli antichi cataloghi [Anastas. Bibliothec. Baronius, Papebroch. Pagius.], dovendosi nondimeno osservare che tal denominazione non significava già in que' tempi rigorosamente quello che oggidì la Chiesa intende colla canonizzazione de' buoni servi di Dio, fatta con tanti esami delle virtù e de' miracoli loro. Davasi allora il titolo di santo anche ai vescovi viventi, come tuttavia ancora si dà ai romani pontefici. E però noi troviamo appellati santi tutti i papi de' primi secoli, così i vescovi di Milano, Ravenna, Aquileia, Verona, ec., ma senza che questo titolo sia una concludente pruova di tal santità, che uguagli la decretata negli ultimi secoli in canonizzare i servi del Signore. Secondo i conti del padre Pagi, a' quali mi attengo anch'io senza voler entrare in disputa di sì fatta cronologia, nel dì 21 d'esso mese fu creato papa Innocenzo, primo di questo nome. Nulladimeno s. Prospero [Prosper, in Chron.] e Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] riferiscono all'anno seguente la di lui elezione. Abbiamo dal medesimo Marcellino che nel dì 11 di aprile Eudossia Augusta partorì in Costantinopoli ad Arcadio imperadore un figlio maschio, a cui fu posto il nome di Teodosio, secondo di questo nome. Socrate [Socrates, lib. 6, cap. 6.] e l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] il dicono nato nel dì 10 di esso mese: divario di poca conseguenza, e probabilmente originato dall'essere egli venuto alla luce in tempo di notte. V'ha ancora chi il pretende nato nel mese di gennaio. Incredibile fu la gioia della corte e del popolo a Costantinopoli, e se ne spedì la lieta nuova a tutte le città, [361] con aggiugnervi grazie e con dispensar danari. Pubblicò Arcadio una legge nel dì 19 di gennaio dell'anno presente [L. 17, de honor. proscr., Cod. Theodos.], con cui proibì il dimandare al principe i beni confiscati finchè non fossero passati due anni dopo il confisco, volendo esso Augusto quel tempo per poter moderare la severità delle sentenze emanate contra dei colpevoli, e rendere ad essi, se gliene veniva il talento, ciò che il rigore della giustizia loro avea tolto. Buona calma intanto si continuò a godere nell'imperio orientale.


   
Anno di Cristo CDII. Indizione XV.
Innocenzo papa 2.
Arcadio imperad. 20 e 8.
Onorio imperadore 10 e 8.
Teodosio II imperadore 1.

Consoli

Flavio Arcadio Augusto per la quinta volta, e Flavio Onorio Augusto per la quinta.

Chi fosse in quest'anno prefetto di Roma non apparisce dalle antiche memorie. Trovasi nondimeno una iscrizione [Gruter., Inscription., pag. 165.] posta in Roma ai due Augusti da Flavio Macrobio Longiniano prefetto di Roma, che sembra appartenere a questi tempi, e perciò indicare chi esercitasse la prefettura suddetta. Per attestato della Cronica Alessandrina e di Socrate storico, nel dì 10 di gennaio dell'anno presente l'infante Teodosio II fu creato Augusto da Arcadio imperadore suo padre. O sia che Alarico re dei Goti fosse dianzi partito dall'Italia, e ci tornasse nell'anno presente, oppure ch'egli continuasse qui il suo soggiorno anche nell'anno addietro: certa cosa è che in questi tempi, dopo aver preso varie città e terre oltre il Po [Claud., de Bello Getic., et de Consul. IV. Honor.], si spinse nel cuore di quella che oggidì si chiama Lombardia, con un formidabil esercito de' suoi Goti, senza che apparisca [362] più congiunto con esso lui Radagaiso re degli Unni. Erasi l'imperadore Onorio ritirato non meno per precauzione, che per essere più vicino ai bisogni dello Stato, nella città di Ravenna, città allora per la sua situazione fortissima, perchè circondata dal Po e da profonde paludi; e città che divenne da lì innanzi per alcuni anni la sede e reggia degli Augusti. Ma i felici avanzamenti dei Barbari avevano talmente costernati gli animi degli Italiani, che, per attestato di Claudiano, autore contemporaneo, i benestanti ad altro non pensavano che a ritirarsi colle lor cose più preziose in Sicilia, oppure in Corsica e Sardegna. Per questo medesimo spavento, quasichè Ravenna non fosse creduta bastante asilo, Onorio Augusto se ne partì, con incamminarsi verso la Gallia. Ma Stilicone tanto perorò, che fece fermar la corte in Asti, città allora della Liguria, che doveva essere ben forte, dacchè s'indusse l'intimorito Onorio a lasciarvisi serrar dentro, in caso che Alarico vi avesse posto l'assedio. Prima di questo fiero turbine aveano i movimenti de' Barbari data occasione ai popoli della Rezia (parte de' quali oggidì sono i Grigioni) di sollevarsi, laonde fu costretto Stilicone ad inviar colà alcune legioni romane per tenerli in freno o ricondurli all'ubbidienza. E il trovarsi appunto quelle truppe occupate fuori di Italia, avea accresciuto l'animo ad Alarico per più insolentire, e per continuar i progressi dell'armi sue. Merita qui certo lode la risoluzion presa in questi pericolosi frangenti da Stilicone. Sul principio dell'anno, e nel cuor del verno, con poco seguito egli passò il lago di Como, e per mezzo delle nevi e de' ghiacci s'inoltrò fino nella Rezia. L'arrivo di sì famoso generale, e poscia le minacce accompagnate da amorevoli persuasioni, non solamente calmarono la rivolta dei Reti, ma gl'indussero ancora ad unirsi colle milizie romane per la salvezza dell'imperadore e dell'Italia. Aveva inoltre Stilicone richiamate alcune legioni che [363] lungo il Reno stanziavano, ed una infino dalla Bretagna; e fu mirabile il vedere che i feroci popoli transrenani, tuttochè osservassero sguerniti di presidii i confini romani, pure si stettero quieti in quella occasione, nè inferirono molestia alcuna alle provincie dell'imperio.

Unita che ebbe Stilicone una poderosa armata, la mise in marcia verso l'Italia, ed egli, precedendola con alcuni squadroni di cavalleria, arditamente valicò a nuoto i fiumi, passò per mezzo ai nemici, ed inaspettato pervenne ad Asti con incredibil consolazione dell'imperadore Onorio, quivi rinchiuso, e di tutta la sua corte. Giunsero dipoi le legioni e truppe ausiliarie raccolte, e fu conchiuso di dar battaglia al nemico. Aveva Alarico baldanzosamente passato il Po, con arrivare ad un fiume chiamato Urba, che vien creduto il Borbo d'oggidì, e che passa non lungi da Asti. Immaginò per ciò Claudiano che avendo gli oracoli predetto ch'esso Alarico giugnerebbe ad Urbem, cioè a Roma, si verificasse il vaticinio con restar egli deluso, dacchè arrivò a questo fiumicello. Militava nell'esercito di Stilicone una grossa mano di Alani, gente barbara e sospetta in quella congiuntura. Il condottier di costoro, appellato Saule (non so se con vero nome) da Paolo Orosio, e chiamato uomo pagano, quegli fu che consigliò di attaccar la zuffa nel santo giorno di Pasqua, perchè in essa i Goti, ch'erano cristiani, benchè macchiati dell'eresia ariana, sarebbono colti alla sprovvista: consiglio detestato allora dai buoni cattolici, e massimamente dal suddetto Orosio. Claudiano all'incontro attribuisce tal risoluzione a Stilicone stesso, personaggio che in altre occasioni si scoprì poco buon cristiano, e favorì molto i pagani, fra' quali è da contare lo stesso poeta Claudiano. Comunque sia, cominciò il conflitto, e i Goti, prese l'armi, sì fattamente caricarono sopra la vanguardia degli Alani, che ne uccisero il capo, e rovesciarono il resto. Allora la cavalleria [364] romana s'inoltrò, e la fanteria anch'essa menò le mani. Durò lungo tempo il contrasto con ispargimento di gran sangue dall'una parte e dall'altra; ma finalmente furono costretti i Goti alla ritirata e alla fuga, con lasciar in poter de' Romani il loro bagaglio, consistente in immense ricchezze, e con restarvi prigionieri i figliuoli dello stesso Alarico colle nuore, e liberata gran copia di Cristiani, fatti in addietro schiavi da quei Barbari. Il luogo della battaglia fu presso Pollenza, ossia Potenza, città allora situata vicino al fiume Tanaro, di cui oggidì neppure appariscono le vestigia nel Monferrato. Il cardinal Baronio, il Petavio, il Tillemont ed altri rapportano questa vittoria all'anno 403; il Sigonio e il padre Pagi al presente; Prospero e Cassiodoro chiaramente l'asseriscono accaduta nel consolato V di Arcadio e di Onorio, Augusti, cioè in questo anno. Più grave ancora è la discordia degli storici in raccontare quel fatto d'armi; perciocchè Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic.], che corrottamente vien chiamato Giornande, e Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] scrivono che in questo conflitto non già i Romani, ma i Goti restarono vittoriosi. Giordano prende ivi degli altri abbagli. Per noi basta il vederci assicurati da Claudiano [Claud., de Bello Getic.], da san Prudenzio [Prud., lib. 2 contra Symmach.] e da Prospero [Prosper, in Chronico.], autori contemporanei, e di lunga mano più degni di fede, che furono messi in rotta i Goti. Paolo Orosio, allorchè scrive di questo fatto d'armi, riprovato da lui a cagione del giorno santo, aggiugne che in breve il giudizio di Dio dimostrò, et quid favor ejus posset, et quid ultio exigeret. Pugnantes vicimus, victores victi sumus. Quando non si voglia credere che i Romani vinsero bensì presso Pollenza, ma che nella ritirata di Alarico ebbero qualche grave percossa (del che [365] niuno degli antichi fa parola), quell'in breve si dovrà stendere fino all'anno 410, in cui Dio permise i funestissimi progressi di que' medesimi Barbari, siccome, andando innanzi, vedremo. Terminata la battaglia, Alarico, restando tuttavia un grosso esercito al suo comando, non si fidò di retrocedere, per paura di essere colto al passaggio dei fiumi, e però si gittò sull'Apennino, parendo disposto di marciare da quella parte verso la sospirata Roma. Nol permise l'accorto Stilicone, perchè fattegli fare proposizioni d'accordo, si convenne con dargli speranza di ricuperare i figliuoli e le nuore, ch'egli si avvierebbe pacificamente fuori d'Italia per la Venezia. Colà pertanto s'incamminò, ma dacchè ebbe passato il Po, ossia ch'egli si pentisse della convenzione fatta, o che Stilicone gli mancasse di parola, perchè più non temeva che il Barbaro ripassasse quel fiume reale, si venne di nuovo alle mani, e il conflitto terminò colla peggio de' Goti. Non so se fu allora, o pure dipoi, che Stilicone seppe guadagnar con regali una parte di essi, e loro fece prendere l'armi contra degli altri; laonde nelle vicinanze di Verona seguì qualche sanguinoso combattimento, che ridusse Alarico alla disperazione. E poco mancò ch'egli non restasse preso; ma il colpo fallì per la troppa fretta degli Alani, ausiliarii dei Romani. Fermossi il Barbaro nell'Alpi, cercando se avesse potuto condurre il resto dell'armata sua nella Rezia e nella Gallia; ma Stilicone, preveduto il di lui pensiero, vi prese riparo. Intanto per le malattie seguitò maggiormente ad infievolirsi l'esercito di Alarico, e per la fame a sbandarsi le squadre intere, di modo che infine fu egli forzato a mettersi in salvo colla fuga, lasciando in pace l'Italia. Fu questa volta ancora incolpato Stilicone di avere sconsigliatamente lasciato fuggire Alarico; ma è ben facile in casi tali il formar dei giudizii ingiusti, per chi giudica in lontananza di tempo e senza essere sul fatto.


[366]

   
Anno di Cristo CDIII. Indizione I.
Innocenzo papa 3.
Arcadio imperadore 21 e 9.
Onorio imperadore 11 e 9.
Teodosio II imperadore 2.

Consoli

Teodosio Augusto e Flavio Rumorido.

Uscito da sì gravi pericoli Onorio Augusto, si era restituito a Ravenna, nella qual città si veggono date molte leggi di lui, tutte spettanti a quest'anno, e che comprovano appartenere all'anno precedente il fatto d'armi di Pollenza. Perciocchè alcune di esse compariscono scritte in Ravenna nel febbraio, marzo e maggio, nei quali mesi Onorio certamente non fu in Ravenna, ma bensì in Asti, allorchè Alarico portò la guerra nella Liguria, e fu sconfitto. Incresceva ai Romani questa residenza dell'imperadore, avvezzi ad aver sotto gli occhi il principe e lo splendore della sua corte, senza l'incomodo di far viaggi lunghi per trovarlo. Perciò gli spedirono una solenne ambasceria, pregandolo di consolare col suo ritorno a Roma i lor desiderii, e di andare a ricevere il trionfo che gli aveano preparato. E perciocchè intesero che i Milanesi aveano fatta una simile deputazione, per tirar esso Augusto alla loro città, si raccoglie da una lettera di Simmaco, che nel mese di giugno determinarono di spedirgli degli altri ambasciatori colla stessa richiesta. Di questa congiuntura si servirono alcuni senatori tuttavia pagani per chiedere ad Onorio la licenza di celebrare i giuochi secolari. San Prudenzio, valente poeta cristiano, fioriva allora in Ispagna sua patria. Prese egli a scrivere contro la relazione di Simmaco prefetto di Roma, composta già nell'anno 384, per rimettere in piedi l'ara della Vittoria, e confutata in que' tempi da Sant'Ambrosio; e può parere strano come Prudenzio ne parli, come se Simmaco avesse allora presentata quella supplica ad Onorio. Ora Prudenzio [367] con parole chiare attesta la vittoria riportata da' Romani presso Pollenza colla rotta di Alarico, ed indirizza quell'apologia ad Onorio Augusto, che tuttavia dimorava in Ravenna, pregando di non permettere più le superstizioni dei pagani, e specialmente di proibire i sanguinosi spettacoli de' gladiatori, contrari alla legge di Cristo, e già vietati da Costantino il grande. Può servire ancora il medesimo poema assai lungo ed erudito di san Prudenzio a farci intendere seguita la suddetta battaglia di Pollenza nell'anno antecedente, e non già nel presente. Ora l'Augusto Onorio prese, prima che terminasse l'anno, la risoluzion di passare a Roma, per ivi celebrare i decennali del suo imperio dopo la morte del padre: al qual fine fu disegnato console per l'anno seguente. Descrive Claudiano [Claud., de IV Consulatu Honor.] il suo viaggio per l'Umbria, e la magnifica solennità con cui egli entrò in Roma, avendo al suo lato nel cocchio il suocero Stilicone, con immenso giubilo del popolo romano. Partorì nell'anno presente [Chron. Alexandr. Marcell. Comes, in Chronico.] a dì 10 o 11 di febbraio Eudossia Augusta ad Arcadio imperadore la quarta figliuola, a cui fu posto il nome di Marina. Furono poi grandi rumori in Costantinopoli per la prepotenza di questa imperadrice. Divenuta padrona del marito e dell'Oriente, perchè disgustata di san Giovanni Grisostomo, impareggiabile e zelantissimo vescovo di quella gran città, pontò cotanto, che il fece deporre e mandare in esilio; dal che seguirono perniciosi tumulti. Ne fa menzione anche Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 23.], e taglia i panni addosso ai monaci d'allora, mischiati in quei torbidi, con dire ch'essi avendo già tirata in lor dominio una gran quantità di beni, e col pretesto di sovvenir con quelle rendite i poveri, aveano, per così dire, ridotto ognuno alla povertà; iperbole che scredita [368] il di lui racconto; ma che non lascia di farci intendere, come i monaci, appena nati nel secolo precedente, s'erano moltiplicati per le ville, e non trascuravano il mestier di far sua la roba altrui.


   
Anno di Cristo CDIV. Indizione II.
Innocenzo papa 4.
Arcadio imperadore 22 e 10.
Onorio imperadore 12 e 10.
Teodosio II imperadore 3.

Consoli

Onorio Augusto per la sesta volta, e Aristeneto.

Tutta fu in festa la città di Roma pel consolato e per i decennali dell'Augusto Onorio, che furono celebrati con suntuosi spettacoli. Ma non già coi giuochi secolari, nè colle zuffe de' gladiatori, come avrebbono desiderato que' Romani che tuttavia stavano ostinati nel gentilesimo. Il cardinal Baronio, che di tal permissione aveva accusato Onorio Augusto, vien giustamente ripreso dal Pagi. Ma nè il Pagi nè Jacopo Gotofredo ebbero già buon fondamento di credere e chiamare ingannato il Baronio, allorchè scrisse all'anno 325 che Costantino il grande, con una legge data in Berito, aveva proibito per tutto l'imperio romano i giuochi sanguinosi de' gladiatori. Siccome io altrove ho dimostrato [Thesaur. Novus Inscription., pag. 179.], non può negarsi quell'universale divieto di Costantino. Ma era sì radicato l'abuso, n'erano si incapricciati i popoli, che dopo la morte di quell'invitto imperadore tornarono, malgrado de' suoi successori, a praticarlo, con estorquere eziandio la permissione di essi da alcuni Augusti. Ma in fine, per attestato di Teodoreto [Teodor., Hist., lib. 5, cap. 24.], Onorio con sua legge vietò ed abolì per sempre quell'abbominevole spettacolo che costava tanto sangue e tante vite d'uomini per dare un divertimento al pazzo popolo. In quest'anno [369] poi Onorio pubblicò una legge [L. 16, tit. 8. Cod. Theod.], in cui, se crediamo al padre Pagi suddetto, Judaeos et Samaritanos omni militia privavit. Ma non credo io tale il senso di quella legge, quando pure il Pagi l'intenda per la vera milizia. Proibisce ivi l'imperadore ai Giudei, l'aver luogo nella milizia, cioè negli uffizii di coloro che agenti degli affari del principe erano nominati, perchè il nome di milizia abbracciava tutti gli uffizii della corte. Bollivano tuttavia in Oriente le persecuzioni contra di san Giovanni Grisostomo, quel mirabil oratore della Grecia cristiana, e tanto papa Innocenzo I, quanto l'imperadore Onorio si affaticarono in aiuto di lui. Ma era gran tempo che non passava buona armonia tra esso Onorio ed Arcadio Augusto di lui fratello; e però inutili furono le loro raccomandazioni. Per altro sì quel santo patriarca, quanto Teofilo patriarca di Alessandria, a lui opposto, riconobbero in tal congiuntura l'autorità primaria del romano pontefice, al quale il primo si appellò, e l'altro inviò per questa discordia i suoi legati. Fermossi in Roma l'imperadore Onorio parecchi mesi. Prima che terminasse l'anno, è più che verisimile ch'egli si restituisse a Ravenna, perchè quivi si trovano date alcune sue leggi nel principio di febbraio del susseguente anno. I motivi che l'indussero a ritirarsi colà, è da credere che fossero i preparamenti che si udivano farsi dai Barbari per una nuova irruzione in Italia. Alarico sembrava quieto, perchè guadagnato da Stilicone; ma Radagaiso, condottiere, ossia re degli Unni, ossia de' Goti, Scita, cioè Tartaro di nazione, forse mal soddisfatto del disonore inferito ai popoli settentrionali nella rotta data dai Romani ad esso Alarico, pensò a farne vendetta. Più probabilmente ancora, secondochè era [370] allora in uso dei Barbari, anch'egli divorava co' desiderii la città di Roma. In essa città, a lor credere, erano le montagne d'oro, ivi stavano raunate da più secoli le ricchezze della terra. Perciò costui mise insieme una formidabil armata, composta di Unni, Goti, Sarmati e di altre nazioni situate di là dal Danubio. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 37.] e Marcellino [Marcellinus Comes, in Chron.] la fanno ascendere a più di dugento mila combattenti; Zosimo storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26.] fino a quattrocento mila: numero verisimilmente eccessivo. Probabile è che in questo medesimo anno costui si appressasse all'Italia, e forse ancora v'entrò, per quanto pare che accenni Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.]. Grande spavento, fiera costernazione si sparse per tutta l'Italia. Pertanto l'Augusto Onorio, veggendo imminente quest'altra tempesta, giudicò più sicuro il soggiorno di Ravenna, città pel suo sito fortissima, e maggiormente ancora per esser più alla portata di dar gli ordini e di provvedere ai bisogni. Mancò di vita in quest'anno Eudossia imperadrice, moglie di Arcadio Augusto, chiamata al tribunale di Dio a rendere conto, qual nuova Erodiade, della fiera persecuzione ch'ella avea mossa contro il santo ed incomparabil patriarca di Costantinopoli Giovanni Grisostomo. Il Breviario Romano, che nelle lezioni di questo santo mette la morte d'essa Augusta quattro dì dopo quella del Grisostomo nell'anno di Cristo 407, merita in quel sito di essere corretto. Sì Zosimo [Zosim., ibid., cap. 28] che Sozomeno, Filostorgio ed altri scrittori riferiscono a quest'anno una fiera irruzion degl'Isauri per quasi tutte le provincie romane dell'Oriente. Il generale Arbazacio, spedito contro di costoro, ne fece gran macello, ma, vinto dai loro regali, non proseguì l'impresa.


[371]

   
Anno di Cristo CDV. Indizione III.
Innocenzo papa 5.
Arcadio imperad. 23 e 11.
Onorio imperadore 13 e 11.
Teodosio II imperadore 4.

Consoli

Flavio Stilicone per la seconda volta ed Antemio.

Stando l'imperadore Onorio in Ravenna, pubblicò editti [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] rigorosi contra de' Donatisti, più pertinaci ed insolenti che mai in Africa, comandando l'unione fra essi ed i cattolici: rimedio che riuscì poi salutevole per quella cristianità. Era entrato, o pure entrò in quest'anno Radagaiso in Italia con quel diluvio di Barbari che ho detto di sopra, con saccheggi e crudeltà inudite, scorrendo dappertutto senza opposizione alcuna. L'imperadore Onorio andò raunando quante soldatesche potè; prese ancora al suo soldo molte squadre di Goti, Alani ed Unni, condotti da Uldino e Saro lor capitani. Ma Stilicone maestro di guerra non volle già avventurarsi a battaglia o resistenza alcuna in campagna aperta. Andò solamente costeggiando i movimenti di sì sterminata oste, finchè la medesima si diede a valicar l'Apennino con pensiero di continuare il cammino alla volta di Roma, città che piena di spavento si tenne ancora come perduta. E in Roma appunto questa terribil congiuntura diede motivo ai pagani, che tuttavia ivi restavano, di attribuire tutti questi mali alla religion cristiana, e all'avere abbandonato gli antichi dii, e di prorompere perciò in orride bestemmie, con proporre eziandio di rimettere in piedi gli empii lor sagrifizii e riti. Anzi costoro in lor cuore si rallegravano, perchè Radagaiso, pagano anch'egli, avesse da venire a visitarli, sperando con ciò di veder risorgere la tanto depressa loro superstizione. Ma non era ancora giunto il tempo che Dio avea destinato di [372] punire Roma, capitale del romano imperio bensì, ma anche di tutti i vizii, e in cui per anche l'idolatria ostinatamente si nascondea, e la superbia apertamente regnava. Secondochè osservarono Paolo Orosio e sant'Agostino, colla venuta di Alarico, e poi di Radagaiso, Dio mostrò in lontananza a quella città il gastigo acciocchè si emendasse e facesse penitenza; ma indarno lo mostrò. Nè volle permettere che questo re pagano giugnesse a punire i Romani, perchè la sua crudeltà avrebbe potuto portarvi un universale eccidio, e ridurla in una massa di pietre. Fu infatti, secondo tutte le apparenze, miracoloso il fine di questa tragedia, per cui la costernazione s'era sparsa per tutta l'Italia. Appena Radagaiso fu giunto di là dell'Apennino, che Stilicone colle truppe romane ed ausiliarie cominciò a tagliargli le strade, a togliergli il soccorso dei viveri, ed a ristringerlo. Il ridusse la mano di Dio nelle montagne di Fiesole presso Firenze, e quella innumerabil moltitudine di Barbari si vide serrata fra quelle angustie ed oppressa dalla fame, e con perdere il coraggio e il consiglio, si diede per vinta. Attesta il suddetto Orosio che non vi fu bisogno di metter mano alle spade e di venire a battaglia, e che i Romani mangiando e bevendo e giocando terminarono questa guerra. Radagaiso senza saputa de' suoi tentò di salvarsi solo colla fuga, ma caduto in mano de' Romani, fu da lì a poco levato di vita. Restò schiava la maggior parte dei suoi, che a guisa di vili pecore erano sì per poco venduti, che con uno scudo d'oro se ne comperava un branco. E questo fine ebbero i passi e le minaccie di quest'altro re barbaro con ammirazione di tutti. Ma ben diversamente Zosimo, storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26.] greco de' medesimi tempi, racconta quel fatto. Se a lui crediamo, Stilicone, con poderoso esercito di trenta legioni romane e colle truppe ausiliarie, all'improvviso assalì que' Barbari, e passò a fil di [373] spada l'immensa lor moltitudine, a riserva di pochi che rimasero schiavi: del che egli riportò le lodi ed acclamazioni di tutta l'Italia.

Si dee anche aggiugnere una particolarità degna di memoria, che Paolino, scrittore contemporaneo della vita di sant'Ambrosio, ci ha conservata [Paulin., Vit. S. Ambros.]. Aveva il santo arcivescovo promesso di visitar spesso i Fiorentini suoi cari. Ora nel tempo che Radagaiso (son parole da me volgarizzate di Paolino) assediava la stessa città di Firenze, trovandosi quei cittadini come disperati, il santo prelato (che nell'anno 397 avea terminati i suoi giorni) apparve in sogno ad uno di essi, e gli promise nel dì seguente la liberazione: cosa che da lui riferita ai cittadini, li riempiè di coraggio. In fatti nel giorno appresso, arrivato che fu Stilicone, allora conte, coll'esercito suo, si riportò vittoria de' nemici. Questa notizia l'ho io avuta da Pansofia piissima donna. Tali parole suppliranno a quanto manca nel racconto di Paolo Orosio. Fa menzione eziandio sant'Agostino [S. August., lib. 5 de Civit. Dei, cap. 23.] di quel gran fatto, con iscrivere che Radagaiso in un sol giorno con tanta prestezza fu sconfitto, che senz'essere non dirò morto, ma neppur ferito uno de' Romani, restò il di lui esercito, che era di più di centomila persone, abbattuto, ed egli poco dopo preso co' figliuoli e tagliato a pezzi. Dice ancora in uno de' suoi sermoni [Idem, Serm. 29 in Lucam.], che Radagaiso fu vinto coll'aiuto di Dio in maravigliosa maniera. Prospero [Prosper, in Chron.] notò che il grande esercito di Radagaiso era diviso in tre parti, e però più facile riuscì il superarlo. Non ci maraviglieremmo di questa diversità di relazioni, se non fossimo anche oggidì avvezzi a udir delle battaglie descritte con troppo gran divario da chi le riferisce. Vien rapportata dal cardinal Baronio, dal Petativo, dal Gotofredo e da altri non pochi questa [374] insigne vittoria all'anno susseguente 406, nel quale veramente Marcellino conte istorico la mette. Ma, secondochè osservarono il Sigonio e il Pagi, si ha essa da riferire all'anno presente, in cui vien raccontata da Prospero nella sua Cronaca e da Isidoro in quella de' Goti. E di questa verità ci assicura san Paolino vescovo di Nola, che recitando a dì 14 di gennaio dell'anno 406 il suo poema XIII in onore di san Felice, che io diedi alla luce [Anecdot. Latin. Tom. I.], scrive, restituita la pace, e sconfitti i Goti che già vicini minacciavano Roma stessa. Ecco le sue parole:

Candida pax laetum grata vice temporis annum

Post hyemes actas tranquillo lamine ducit, ec.

Aggiugne che i santi aveano impetrata da Dio la conservazione dell'imperio romano.

Instantesque Getas ipsis jam faucibus Urbis.

Pellere, et exitium, seu vincula vertere in ipsos,

Qui minitabantur romanis ultima regnis.

Finalmente che s'era in ciò mirata la potenza di Cristo:

.... mactatis pariter cum Rege profano

Hostibus.

Dalle quali parole, conformi ancora a quelle di Prospero nella Cronica, intendiamo non sussistere l'asserzion di Orosio che ci rappresentò seguita quella vittoria senza verun combattimento e senza strage de' Barbari. Il Sigonio [Sigonius, de Regno Occident., lib. 10.] saggiamente immaginò che la battaglia seguisse sotto Fiorenza, e che, ritiratosi Radagaiso con gli avanzi dell'esercito nei monti di Fiesole, fosse poi dalla fame forzato a rendersi. Fiorivano specialmente in questi tempi san Girolamo in Palestina, sant'Agostino in Africa, san Prudenzio poeta in Ispagna, e san Giovanni Grisostomo esiliato nell'Armenia, oltre ad altri santi e scrittori. Ma era infestata la Chiesa di Dio dai Donatisti eretici nell'Africa, [375] e da Pelagio e Celestio e da Vigilanzio, altri eretici in Italia e nelle Gallie.


   
Anno di Cristo CDVI. Indizione IV.
Innocenzo papa 6.
Arcadio imperad. 24 e 12.
Onorio imperad. 14 e 12.
Teodosio II imperadore 5.

Consoli

Arcadio Augusto per la sesta volta ed Anicio Probo.

Per la memorabil vittoria riportata contra dei Goti fu innalzato in quest'anno un arco trionfale in Roma con istatue agl'imperadori allora viventi, cioè ad Arcadio, Onorio e Teodosio II, figliuolo d'esso Arcadio, siccome si raccoglie da un'iscrizione presso il Grutero [Gruter., pag. 287, n. 1.], la quale, quantunque mancante, pare nondimeno che riguardi il tempo di quella felice avventura. A Stilicone ancora in riconoscimento del valore fu innalzata una statua di rame ed argento nella stessa città dal popolo romano, per cura di Flavio Pisidio Romolo prefetto di Roma. Ne rapporta il suddetto Grutero l'iscrizione [Idem, pag. 412, n. 4.]. Seguitò intanto l'imperadore Onorio a soggiornare in Ravenna, e quivi pubblicò una legge riferita nel Codice Teodosiano [L. 8, cod. Theod. tit. 11, lib. 10.], in cui ordinava a Longiniano prefetto del pretorio di esaminare se i commissari inviati ne' cinque anni addietro per le provincie, affine di regolar le pubbliche imposte, aveano soddisfatto al loro dovere; e di gastigare, se erano stati negligenti, e molto più se avessero fatte delle estorsioni ai popoli. Convien poi dire che non fossero cessati i pubblici timori e malanni, perchè in questo anno medesimo a nome di tutti tre gli Augusti uscì fuori un editto nel mese di aprile, col quale comandavano di prendere l'armi per amore della patria, non solamente alle persone libere atte alle [376] medesime, ma eziandio agli schiavi, ai quali vien promessa la libertà se si arroleranno, giacchè alla sola gente libera era tuttavia permessa la milizia. Nella legge seguente ancora si promette un buon soldo a chiunque verrà ad arrolarsi. Queste leggi han fatto credere al Baronio e al Gotofredo che tante premure di Onorio per aumentare le armate procedessero dall'irruzione di Radagaiso, la cui guerra perciò essi riferiscono al presente anno. Ma altre cagioni mossero Onorio Augusto a procurar l'accrescimento delle sue truppe. Per attestato di Zosimo storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26 et seq.], Stilicone, prima eziandio che Radagaiso entrasse in Italia, menava delle trame segrete con Alarico re de' Goti, che s'era ritirato verso il Danubio per essere fiancheggiato da lui, giacchè nudriva il disegno di assalire l'Illirico e levarlo ad Arcadio, tra il quale ed Onorio suo fratello sempre furonvi gare e gelosie, e non mai buona amicizia. Durava tuttavia questo trattato di Stilicone, dappoichè terminata fu la scena di Radagaiso. Oltre a ciò, in questo medesimo anno bolliva un gran moto ne' Vandali, Svevi ed Alani, e s'udiva preparato da loro un potentissimo esercito, con timore che questo nuovo torrente venisse a scaricarsi anch'esso sopra la misera Italia. Ma avendo i suddetti Barbari presente la mala fortuna di Alarico e di Radagaiso in queste contrade, rivolsero la rabbia loro contro le Gallie, e passati dal Danubio al Reno, opponendosi indarno i Franchi al loro passaggio, entrarono in quelle provincie, e quivi fissarono il piede. Nè loro fu difficile, perchè Stilicone, come dicemmo, per l'antecedente guerra d'Italia, avea ritirate tutte quelle legioni, che la saviezza de' Romani teneva sempre ai confini tra la Gallia e la Germania. Testimonii di questa invasione fatta dai Barbari nelle Gallie in quest'anno, abbiamo Prospero Tirone, Paolo Orosio e Cassiodoro. Però, senza ricorrere alla guerra di Radagaiso, la storia ci somministra [377] assai lumi per intendere onde nascesse il bisogno di nuove e maggiori forze ad Onorio a fine di rimediare, per quanto si poteva, ai disordini ed alle rovine del vacillante imperio. Se crediamo ad un antico scrittore citato da Adriano Valesio [Valesius, Hist. Franc., lib. 2, cap. 9.], Godigisclo re de' Vandali fu assalito nel suo viaggio alla volta delle Gallie dai Franchi, popoli allora della Germania, e nel combattimento lasciò la vita con circa venti mila de' suoi. Accorsi poscia gli Alani, salvarono il resto di quella gente; ed uniti poscia insieme, al dispetto de' Franchi, passarono il Reno, e sul fine di quest'anno entrarono nelle Gallie. Gunderico allora divenne re dei Vandali. Certo è, per attestato ancora di san Girolamo [Hieron., in Epist. ad Ageroch.], che costoro presero dipoi e distrussero Magonza, metropoli allora della Germania prima, e dopo lungo assedio s'impadronirono di Vormazia, e la spianarono. Ridussero eziandio in loro potere Argentina, Rems, Amiens, Arras ed altre città di quella provincia. E di qui ebbe principio una catena d'altre maggiori disavventure del romano imperio, siccome andremo vedendo.


   
Anno di Cristo CDVII. Indiz. V.
Innocenzo papa 7.
Arcadio imperadore 25 e 13.
Onorio imperadore 15 e 13.
Teodosio II imperadore 6.

Consoli

Onorio Augusto per la settima volta, e Teodosio Augusto per la seconda.

Una legge del Codice Teodosiano ci avvisa essere stato prefetto di Roma in quest'anno Epifanio. Zosimo storico [Zosimus, lib. 6, cap. 2.] quegli è che narra, come Stilicone con istrana politica, in vece di pensare a reprimere i Barbari entrati nelle Gallie, facea de' gran preparamenti in quest'anno per assalire e torre ad Arcadio Augusto l'Illirico, ch'egli meditava di unire [378] all'imperio occidentale di Onorio. Se l'intendeva egli segretamente con Alarico, e costui doveva anch'esso accorrere colle sue forze alla meditata impresa. Ma rimase sturbato l'affare, perchè corse voce che Alarico avea terminato con la vita ogni pensiero di guerra: e gran tempo ci volle per accertarsi della sussistenza di tal nuova, che in fine si scoprì falsa. Accadde inoltre che vennero avvisi ad Onorio come s'era sollevato l'esercito romano nella Bretagna, con avere eletto imperadore Marco, il quale in breve restò ucciso, e poscia Graziano, anche esso da lì a pochi mesi estinto; e finalmente Costantino, il quale tuttochè fosse persona di niun merito, pure perchè portava quel glorioso nome, fu creduto a proposito per sostenere quell'eccelsa dignità. O sia che l'esercito britannico giudicasse necessario un Augusto presente in quelle parti, e in tempi tanto disastrosi per l'entrata dei Barbari nelle Gallie, che minacciavano anche la stessa Bretagna, senza speranza di soccorso dalla parte di Roma; oppure che niuna paura e soggezione si mettessero di Onorio, imperadore lontano e dappoco; giunsero coloro a questa risoluzione, che fece sventare i disegni di Stilicone contra l'imperio orientale di Arcadio. Nè si fermò nella Bretagna sola questo temporale. Il tiranno Costantino, raunate quante navi e forze potè delle milizie romane e della gioventù della Bretagna, passò nelle Gallie, prese la città di Bologna, tirò a sè le truppe romane, ch'erano sparse per esse Gallie, e stese il suo dominio fino alle Alpi che dividono l'Italia dalla Gallia. Probabilmente faceva egli valere per pretesto della sua venuta la necessità di opporsi ai Barbari; ma intanto egli ad altro non pensava che ad assoggettarsi le Gallie stesse, lasciando che i Barbari proseguissero le stragi, i saccheggi e le conquiste nella Belgica e nell'Aquitania, provincie allora le più belle e ricche di quelle parti.

Mosso da sì funesti avvisi Onorio [379] imperadore, si trasferì da Ravenna a Roma, per trattar ivi col suocero Stilicone dei mezzi opportuni a fin di reprimere il tiranno, ed arrestar i progressi de' Barbari. Se nondimeno vogliam qui fidarsi del mentovato Zosimo, Onorio molto prima era giunto a Roma, dove ricevette le nuove de' rumori della Bretagna e Gallia, richiamato a sè Stilicone, il quale in Ravenna stava preparando l'armata navale colla mira di passar nell'Illirico. Non credette Stilicone utile a' suoi interessi disegni, tuttochè fosse maestro dell'una e dell'altra milizia, o sia generalissimo dell'imperadore, d'assumer egli quell'impresa. Fu perciò risoluto di spedire nella Gallia Saro [Zosimus, lib. 6, cap. 2.], ch'era bensì Barbaro e Goto di nascita, ma uomo di gran valore, e che fedelmente in addietro avea servito nelle armate romane. Giunto costui nelle Gallie con quelle truppe che potè condur seco, si azzuffò con Giustino (chiamato Giustiniano da Zosimo) generale di Costantino tiranno; l'uccise, e con esso lui la maggior parte delle soldatesche ch'egli conduceva. Essendo venuto Nevigaste, altro generale di Costantino, a trovarlo per trattar di pace, Saro la fece da barbaro, perchè gli levò, contro la fede datagli, la vita. Erasi ritirato Costantino in Valenza, città ora del Delfinato. Saro quivi l'assediò; ma dopo sette giorni, udito che venivano a trovarlo due altri generali di Costantino, cioè Ebominco di nazione Franco, e Geronzio oriondo della Bretagna, con forze di lunga mano superiori alle sue, sciolse l'assedio con ritirarsi verso l'Italia. Ebbe anche fatica a salvarsi, perchè inseguito dai nemici; e al passaggio dell'Alpi gli convenne cedere tutto il bottino fatto in quella guerra ai Bacaudi, rustici che erano da gran tempo sollevati contra gli esattori dei tributi romani. Di questo buon successo si prevalse Costantino per ben munire i passi che dall'Italia conducono nelle Gallie. Non si sa se prima o dopo quest'impresa Costantino [380] volgesse le sue armi contra dei Barbari entrati nelle Gallie suddette. Attesta Zosimo ch'egli diede loro una gran rotta, e che se gli avesse perseguitati, non ne restava alcuno in vita, e però essi ebbero tempo di rimettersi, e coll'unione d'altri Barbari tornarono ad esser forti al pari di Costantino. Ma Zosimo s'inganna in iscrivendo che Costantino mise presidii al Reno, acciocchè costoro non avessero libera l'entrata nelle Gallie, essendo certo che già v'erano entrati, e non ne uscirono per questo. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 40.] notò che Costantino si lasciò più volte ingannare dai Barbari con dei falsi accordi, perlochè riuscì piuttosto nocivo che utile all'imperio. Spedì egli poscia due volte Costante suo figliuolo, che dianzi era monaco, in Ispagna, dove fece prigionieri i parenti di Teodosio il Grande padre del medesimo Onorio Augusto e trasse dalla sua gli eserciti romani che erano in quelle parti. Ma disgustato Geronzio suo generale, accrebbe i guai, perchè si rivoltò contra di lui, e se l'intese coi Barbari, con essere dipoi cagione che molti popoli delle Gallie e della Bretagna si ribellarono all'imperio romano, e si misero in libertà, senza ubbidir più nè ad Onorio nè a Costantino. Ho recitato in un fiato tutti questi avvenimenti sotto il presente anno, quantunque alcuni d'essi appartengano anche ai susseguenti. Onorio in questo mentre dimorando in Roma non era tanto occupato dai pensieri della guerra che non pensasse al rimedio dei disordini della Chiesa. Però pubblicò varie leggi che si leggono nel Codice Teodosiano, contro i pagani e contro gli eretici donatisti, manichei, frigiani e priscillianisti. Mancò di vita a dì 14 di settembre in quest'anno quel grande ornamento della Grecia, ed incomparabile sacro oratore della Chiesa di Dio, san Giovanni Grisostomo, essendo morto dopo tanti travagli nell'esilio, dove la persecuzion de' suoi emuli l'aveva spinto.


[381]

   
Anno di Cristo CDVIII. Indiz. VI.
Innocenzo papa 8.
Onorio imperadore 16 e 14.
Teodosio imperadore 7 e 1.

Consoli

Anicio Basso e Flavio Filippo.

Noi troviamo in una legge del Codice Teodosiano prefetto di Roma nel presente anno Ilario. Zosimo [Zos., lib. 5, c. 41.] parla di Pompeiano, come prefetto d'essa città in questi tempi. Diede fine a' suoi giorni Arcadio imperadore d'Oriente nel dì primo di maggio di questo anno, per attestato di Socrate [Socrates, lib. 6, cap. 23.] e d'altri storici. Da alcuni nondimeno è differita la sua morte fino al settembre. Ma non veggendosi legge alcuna di lui, che passi oltre l'aprile, più probabile si rende la prima opinione. Era egli in età d'anni trentuno, e però universale fu la credenza de' Cristiani che Dio troncasse così presto il filo della sua vita, in pena dell'ingiusta persecuzione fatta ad uno dei più insigni padri della Chiesa cattolica, cioè a san Giovanni Grisostomo. Le dissensioni passate fra lui e l'imperadore Onorio suo fratello in addietro gli fecero temere che non fosse ben sicuro nella succession dell'imperio l'unico suo figliuolo ed erede Teodosio II, alcuni anni prima dichiarato imperadore, perchè fanciullo che appena aveva compiuto l'anno ottavo di sua vita. Prese dunque una risoluzion, che parve strana a molti, ma che col tempo riuscì utilissima, cioè di raccomandarlo nel suo testamento alla protezion d'Isdegarde re di Persia, pagano, con pregarlo di assumere la tutela del figliuolo. Trovò Isdegarde, principe di grande animo, per quanto narra Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 1, cap. 2.], degna di tutta la sua corrispondenza la confidenza a lui mostrata da Arcadio; e però non mancò di sostenere gl'interessi del giovinetto Augusto, [382] con far sapere la sua mente e protezione all'imperadore Onorio: il che bastò a farlo stare in dovere da lì innanzi. Inviò ancora a Costantinopoli, per aio di Teodosio, Antemio, personaggio egregio pel sapere e per i costumi, e mantenne da lì innanzi una buona pace col greco imperio, non senza vantaggio della cristiana religione, che sulle prime per tal via s'introdusse e dilatò nella Persia. Ma da lì a pochi anni Isdegarde, ad istigazione de' magi, mosse una fiera persecuzione ai medesimi Cristiani del suo paese, con riportarne in tal congiuntura assaissimi di essi la corona del martirio. Era già passata al paese de' più Maria imperadrice, moglie di Onorio imperadore [Theoph., in Hist. ad Ann. Alexandr. 406.], e figliuola di Stilicone e di Serena, nata da Onorio fratello di Teodosio il Grande. Se si ha da prestar fede a Zosimo [Zosim., lib. 6, cap. 28.], Onorio desiderò d'aver per moglie Termanzia, altra figliuola di esso Stilicone e di Serena. Pareva che non acconsentisse a tali nozze Stilicone; ma Serena fece premura per effettuarle, quantunque la fanciulla per la sua puerile età non fosse atta al matrimonio; ed in fatti si celebrarono le nozze, senza che noi sappiamo se v'intervenisse dispensa alcuna per parte d'Innocenzo papa. Verisimilmente ancor qui Stilicone attese a fare il suo giuoco. Avea data la prima figliuola sì tenera d'età ad Onorio, che non giunse mai a toccarla, ed ella si morì vergine. Lo stesso fu fatto di quest'altra, sperando forse Stilicone che accadendo la morte di Onorio senza figliuoli, Eucherio suo figliuolo potesse succedergli nell'imperio. Nè Zosimo tacque una voce che allora correa, cioè aver Serena, per mezzo d'una strega, concio in maniera Onorio, che non fosse abile alle funzioni matrimoniali. Anche Filostorgio [Philostorg., lib. 12, cap. 2.] storico riferisce questa non so se vera o falsa diceria.

In questi giorni, per testimonianza [383] del suddetto Zosimo, Alarico re o sia condottiere de' Goti, con grosso esercito passò dalla Pannonia nel Norico, ed arrivò fino ad Emona, città poco distante da Giulio Carnico. Di là inviò legati ad Onorio Augusto, soggiornante allora in Ravenna, a titolo di crediti da lui pretesi, con essersi fermato nell'Epiro a requisizione di esso Stilicone, allorchè segretamente meditavano di muover guerra ad Arcadio per occupare l'Illirico. Richiedeva eziandio che gli fossero pagate le spese occorse nel venire a condurre l'esercito sino nel Norico. Stilicone, lasciati i legati in Ravenna, volò a Roma per trattare coll'imperadore e col senato di questa dimanda, che probabilmente fu accompagnata dalle minacce. La maggior parte de' senatori inclinava alla guerra contro il Barbaro, come partito più glorioso. Stilicone con pochi sosteneva quel della pace, e cavò fuori le lettere di Onorio, per le quali appariva essersi Alarico d'ordine di lui trattenuto nell'Epiro per far la guerra ad Arcadio, la quale non s'era poi intrapresa per ordini in contrario venuti dallo stesso Onorio. Il senato, mostrandosi persuaso di queste ragioni, ma più per timore di Stilicone, gli accordò, per aver pace, il pagamento di quattro mila libbre d'oro, non so se di peso o pure di 84 denari d'oro l'una [Zosim., lib. 5, cap. 29.]: nè vi fu se non Lampadio, nobil senatore, che altamente disse: Questa non è una pace, ma un patto di servitù per noi. Dopo le quali libere parole si ritirò in chiesa, apprendendo l'ira di Stilicone. E di qui ebbe principio la disavventura e caduta del medesimo Stilicone, avendo tutti declamato contra di lui, come fautore de' Barbari in pregiudizio dell'imperio. Determinò Onorio di poi di passar a Ravenna, per dar la mostra all'esercito ivi preparato. Stilicone, a cui non doveano essere ignoti i lamenti de' Romani, e i mali uffizii che faceano contra di lui, si studiò d'impedire quel viaggio, avendo insino fatto [384] svegliare un tumulto in Ravenna da Saro, capitano de' Barbari che erano al soldo de' Romani, per intimidire Onorio. Ma non per questo ristette l'imperadore, e sen venne fino a Bologna. Quivi nacque fra lui e Stilicone una controversia. Già era venuta la nuova della morte seguita dell'imperadore Arcadio, e Stilicone disegnava di passar in persona a Costantinopoli per dare assetto agli affari del fanciullo Teodosio Augusto. Anche Onorio si lasciò intendere d'aver disegnato il medesimo viaggio per procurar la sicurezza del nipote. Stilicone impontò; e mostrata la necessità che vi era della presenza d'Onorio in Italia per provvedere ai bisogni della Gallia occupata da Costantino e per tenere d'occhio il barbaro ed infido Alarico vicino all'Italia con sì copioso esercito, tanto disse, che Onorio depose quel pensiero, ed egli s'allestì per prendere il cammino alla volta dell'Oriente.

Ma passato che fu Onorio da Bologna a Pavia, non si vide che Stilicone eseguisse punto quello che avea promesso. Questo servì a' suoi emuli per maggiormente screditarlo presso l'imperadore con aggiugnere, per lo contrario, che se Stilicone passava in Oriente, era per levar di vita il fanciullo Augusto, e mettere la corona dell'imperio orientale in capo ad Eucherio suo figliuolo. Fra gli altri Olimpio [Zosim., lib. 6, cap. 32.], uno degli uffiziali palatini, quegli fu che principalmente, durante il viaggio d'Onorio a Pavia, venne creduto che non d'altro gli parlasse che de' cattivi disegni di Stilicone, non senza ingratitudine verso di lui che l'avea cotanto esaltato nella corte. Lo narra anche Olimpiodoro storico presso di Fozio [Olympiod., apud Photium, pag. 180.]. Giunto che fu Onorio in Pavia, si fece vedere all'esercito ivi preparato per passare contra Costantino tiranno nelle Gallie. Ma eccoli sollevarsi quelle milizie, istigate, se è vero ciò che ne riferisce Zosimo, dal suddetto Olimpio, con [385] tagliare furiosamente a pezzi tutti gli uffiziali o di corte o della milizia, creduti partigiani o complici di Stilicone. Fra questi furono Limenio, già prefetto del pretorio nella Gallia; Cariobaude dianzi generale dell'armata in essa Gallia, che s'erano salvati dalle mani del tiranno Costantino [Sozom., lib. 9, cap. 4. Orosius, lib. 7, cap. 38.]; Vincenzo generale della cavalleria, e Salvio conte della scuola dei domestici; ed altri non pochi magistrati, senza perdonare neppure a Longiniano prefetto del pretorio d'Italia. Durò gran fatica Onorio a frenare il pazzo e crudel moto di costoro, e si trovò egli stesso in grave pericolo. All'avviso di questa sedizione spaventato Stilicone, che trovavasi allora in Bologna, non sapeva a qual risoluzione appigliarsi. Saro, capitano di que' Barbari [Zosim., lib. 5, c. 34. Philostorg., lib. 12, c. 3.] che militavano al soldo dell'imperadore, una notte uccise tutti gli Unni che stavano alla guardia di lui, in maniera che egli stimò bene di scapparsene a Ravenna. Olimpio intanto avendo guadagnato affatto l'animo d'Onorio Augusto, l'indusse a scrivere allo esercito di Ravenna, che si assicurassero della persona di Stilicone. Il che inteso da lui, si ritirò la notte in chiesa. Fatto giorno, i soldati entrati in essa chiesa, alla presenza del vescovo con giuramento attestarono, altro ordine non essere stato loro dato, che di metterlo sotto buona guardia, salva la di lui vita. Ma uscito che fu della franchigia, l'uffiziale che aveva esibito il primo ordine, ne sfoderò un altro di ammazzarlo a cagione dei suoi misfatti. Si misero in procinto i Barbari e famigliari suoi di liberarlo; ma egli avendo comandato loro di desistere, coraggiosamente si lasciò uccidere da Eracliano, che da lì a non molto fu ricompensato colla prefettura dell'Africa. E tal fine ebbe a dì 25 d'agosto Stilicone, per tanti anni arbitro dell'imperio e degli eserciti romani, e glorioso per le vittorie da lui riportate. Mille delitti gli furono apposti dopo morte. I più rilevanti [386] erano che egli con ambiziosi disegni aspirasse all'imperio d'Oriente, ed anche d'Occidente, o per sè o per suo figliuolo, meditando perciò e manipolando la morte degli Augusti; e che trattenesse in danno dell'imperio romano segrete amicizie e trame con Alarico e con gli altri Barbari a fine di profittarne per le sue segrete mire. Noi sappiamo che quantunque cristiano (almeno in apparenza) egli era odiato da' Cristiani, forse perchè favoriva non poco i pagani. Fu creduto che lo stesso Eucherio suo figliuolo professasse tutte le loro superstizioni, con aver anche promesso, se giugneva all'imperio, di riaprire i lor templi. Per questo probabilmente Zosimo ed Olimpiodoro, storici pagani, assai favorevolmente parlano di lui, e sparlano forte di Olimpio, uomo cattolico, che tanto si adoperò per la sua rovina. Tuttavia Rutilio [Rutilius, in Itiner., lib. 1.], poeta anch'esso pagano di que' tempi, anch'egli si mostra persuaso delle cabale e dei disegni ambiziosi di Stilicone. Ma egli è ben facile che fra tanti delitti a lui apposti, più d'uno se ne contasse che non avea sussistenza. E certamente allorchè s'ode Paolo Orosio, Marcellino conte, Prospero ed altri scrittori attribuire a lui la chiamata de' Vandali, Alani e Svevi, per invadere le Gallie, non par facile d'accordo questa partita coll'altre che si contano de' disegni della sua ambizione in favore del figliuolo. Se si fosse lasciato luogo a Stilicone di far le sue difese, avrebbe forse giustificato molte sue azioni, che al volgo pareano malfatte e condotte dalla malizia, ma poterono essere necessità per bene dello Stato. E tanti uffiziali insigni trucidati in Pavia, si può egli credere che tutti fossero colpevoli e degni di morte? Per altro non è da maravigliarsi se Onorio Augusto si lasciasse indurre a decretar la morte di un suocero che l'avea fin allora mantenuto sul trono contra tanti sforzi de' Barbari. Egli era un buon principe, ma non di grande [387] animo. È una pensione di questi tali l'essere o il diventar facilmente sospettosi e crudeli. Si aggiunse inoltre la grave spinta che gli diedero gli emuli e nimici di Stilicone, i quali mai non mancano a chi siede in alto, e per lungo tempo vi siede.

Dopo la morte di Stilicone furono confiscati tutti i suoi beni, e quegli ancora de' suoi creduti partigiani, uccisi nella sedizion di Pavia, o pure fuggiti e banditi. Egli, dichiarato nemico pubblico e traditore; atterrate tutte le statue, e cancellate tutte le memorie di lui. Termanzia, sua figliuola, già sposata ad Onorio Augusto, fu rimandata vergine a casa, e consegnata a Serena sua madre. Se crediamo alla Cronica d'Alessandria [Chronicon Alexandrinum.], questa infelice fanciulla finì anch'ella di vivere nell'anno 415. Furono inoltre levati via dai lidi e dai porti le guardie che Stilicone vi tenea, perchè impedivano il commercio, con aggiugnere ancor questo agli altri suoi delitti, pretendendosi ciò fatto, affinchè niuno degli Orientali potesse sbarcare in Italia. Si raccolgono tali notizie dalle leggi pubblicate in quest'anno e riferite nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Ed altre ivi pure si leggono contro i pagani e donatisti d'Africa, i quali pretendeano fatte da Stilicone, e non già dall'imperadore Onorio, alcune leggi contra di loro. Escluse egli dal palazzo chiunque non era cattolico e non seguitava la religione del principe. E per cattivarsi l'animo de' popoli, abolì un'imposta di grano e di danaro, che dianzi si pagava per i terreni. Olimpio, autore della rovina di Stilicone, creato dipoi maggiordomo della corte cesarea, seppe ben profittarne, con rendersi egli padrone dello spirito di Onorio, e regolar da lì innanzi tutti i negozii del principe, e dispensar le cariche ai suoi partigiani. Scrive Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 35.] che per ordine suo furono carcerati varii familiari del morto Stilicone, e fra gli altri Deuterio [388] mastro di camera dell'imperadore, e Pietro tribuno della scuola de' notai. Messi ai tormenti, perchè rivelassero se Stilicone avesse affettato l'imperio, niuno si trovò che somministrasse lumi di questo preteso tradimento. Inoltre fu deputato Eliocrate, fiscale in Roma, per unire al fisco i beni di tutti coloro che avessero ottenuto dei magistrati al tempo di Stilicone. Tutto in somma era in confusione e tempesta. E a questi malanni s'aggiunse che i soldati romani, per pescare anche essi nel torbido della repubblica, dovunque trovarono nelle città mogli e figliuoli de' Barbari collegati e al soldo dell'imperio, gli uccisero, e saccheggiarono i loro beni: il che fu cagione che irritati quei Barbari, più di trentamila d'essi andarono ad unirsi con Alarico.

Seguitava tuttavia a stare esso Alarico alle porte d'Italia, osservando le tragedie romane, senza nondimeno voler guerra coll'imperadore, e senza violar la tregua stabilita vivente Stilicone. Inviò ambasciatori ad Onorio, esibendo la pace, purchè gli fosse pagata una gran somma di danaro. Non è ben certo se gli fosse sborsata la già promessa quand'era vivo Stilicone. Sembra nondimeno che Olimpiodoro presso Fozio [Photius, pag. 181.] asserisca già seguito quel pagamento. Esibì ancora Alarico di dare ostaggi ad Onorio per la continuazion della pace, e di ritirarsi poi dal Norico nella Pannonia. Nulla volle farne l'imperadore, e rimandò carichi di sole parole i legati. Vien egli qui accusato da Zosimo storico [Zosim., lib. 5, cap. 36.], perchè con qualche sborso di danaro non istudiasse di differir la guerra per mettersi in miglior stato di difesa; e se pur voleva la guerra, perchè non fu sollecito ad unir le legioni romane, con formare un esercito capace di contrastar gli avanzamenti di Alarico. Il biasima ancora, perchè non desse il comando dell'armata a Saro, bravo capitan de' Barbari, [389] e già provato, come di sopra dicemmo; ed in sua vece eleggesse per condottiere della cavalleria Turpillione, e della fanteria Varane (forse quello stesso che fu dipoi console nell'anno 410), e Vigilanzio dei domestici, ossia delle guardie del corpo, personaggi fatti apposta per accrescere l'ardire ai Barbari, e il terrore ai Romani. Ma Onorio non si dovette fidare di Saro, perchè barbaro e pagano. Forse troppo si fidò di Olimpio, divenuto suo favorito, ne' consigli del quale aveva egli riposta la sua speranza. Ora Alarico, preso il pretesto di vedersi negate le paghe, e per vendetta ancora di Stilicone, per quanto scrive Olimpiodoro, cominciò la guerra. E perchè meditava di gran cose, ordinò con sue lettere ad Ataulfo, fratello di sua moglie, che dalla Pannonia menasse quanti Unni e Goti potesse. Poi, senza aspettarlo, diede la marcia alla sua armata, ridendosi dei praparamenti di Onorio. Si lasciò indietro Aquileia, Concordia ed Altino, e, senza trovare opposizione alcuna, passò il Po a Cremona, e per Bologna venne a Rimini, e di là pel Piceno alla volta di Roma, saccheggiando quante terre e castella trovò per via. Poco mancò che non cadesse nelle mani dei suoi Eucherio figliuolo di Stilicone, nel mentre che per ordine di Onorio era condotto a Roma da Arsacio e Terenzio eunuchi. Dopo la morte del padre era questi fuggito a Roma, e protetto dai Barbari collegati ed amici di Stilicone, si nascose e salvò in una chiesa. Scoperto infine, ne fu per forza tratto, e probabilmente per riverenza alla franchigia gli fu promessa la vita. Forse fu di poi condotto a Ravenna, dove dimorava l'imperadore, il quale non si sa perchè in questi torbidi il rimandò a Roma, dove o per comandamento di lui, o perchè s'appressavano colà le genti di Alarico, ebbe un fine eguale a quello del padre.

Giunse Alarico sotto Roma, e la strinse d'assedio. Allora fu che nel senato si sollevarono sospetti contra di Serena già moglie di Stilicone, quasichè ad istigazione [390] sua i Barbari fossero venuti contro ad essa città. E bastarono tali sospetti al senato per decretar la morte di questa infelice, probabilmente innocente di simile attentato. Ad un tale decreto consentì anche Placida sorella dell'imperadore, ancorchè Serena fosse sua parente dal lato di padre. La sentenza fu eseguita, e Zosimo pagano [Zosim., lib. 5, cap. 40.] si figurò costei punita dagli dii della gentilità per aver tolta a Rea madre degli dii una collana di gran valore; ma ella potea ben avere senza questo falso misfatto degli altri delitti, per i quali Iddio volle gastigarla quaggiù. Si credevano i Romani che tolta di mezzo Serena, dovessero i Barbari andarsene con Dio. Ma si chiarirono ben presto dei loro vani supposti. Più che mai Alarico seguitò ad angustiare la città, e ad affamarla con impedire l'introduzion dei viveri sì pel fiume, come per terra, e crebbe talmente la fame, che si tirò dietro una fiera mortalità di popolo. Allora il senato determinò di spedir deputati a trattare d'accordo col generale degli assedianti, perchè erano tuttavia in dubbio se si trovasse ivi Alarico in persona. Data questa incumbenza a Basilio, già presidente della Spagna, spagnuolo di nascita, e a Giovanni, già preposto de' notai palatini [Chronicon Alexandrinum.], presentatisi costoro ad Alarico, proposero la concordia; e per sostenere il decoro, si lasciarono scappare una bravata, con dire che il popolo romano era anche pronto per una battaglia. Alarico sogghignando rispose: Anche il fieno folto si taglia più facilmente che il raro: colle quali parole mise a riso tutti gli astanti. Proruppe poscia il Barbaro in dimande degne di un par suo, cioè che non leverebbe mai l'assedio, se non gli davano tutto l'oro e l'argento e le suppellettili preziose della città, e la libertà di tutti gli schiavi barbari. Ma e che resterebbe a noi? rispose uno dei legati. Le vite, replicò il superbo Alarico. Qui fu chiesta dai legati la licenza di tornar nella città [391] per trattare con gli assediati, i quali inteso che quivi era Alarico, e che faceva dimande cotanto esorbitanti, si videro disperati. Accadde, che venuti o chiamati apposta in Roma alcuni della Toscana, riferirono d'essersi salvata dai pericoli la città di Narni coll'avere sacrificato agli dii del gentilesimo. Non vi volle di più, perchè alcuni dei senatori tuttavia pagani proponessero come cosa necessaria alla liberazion di Roma quegli empii sagrifizii. Il fatto vien narrato da Sozomeno [Socrat., lib. 9, cap. 6.] ed anche da Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 41.], che vi aggiugne una particolarità, unicamente fabbricata dal suo cuore maligno, perchè pagano: cioè, che Innocenzo papa, consultato sopra di ciò, serrasse gli occhi, e li lasciasse fare. Ma il fatto grida in contrario: poichè, per attestato dello stesso Zosimo, niuno de' tanti senatori cristiani volle intervenire a così abbominevol azione: anzi pare che in effetto desistessero per questo dal farla, e verisimilmente perchè il pontefice vi si oppose. Ma quand'anche avessero sagrificato, come sembra supporre Sozomeno, s'accorsero in breve della vanità di quest'empio rifugio. E nota il medesimo Sozomeno che i più giudiziosi riguardavano questa guerra e calamità per un giusto gastigo di Dio, che voleva punire i tanti peccati di Roma immersa nell'ozio e nel lusso, e tanti ostinati tuttavia nelle superstizioni del paganesimo. Lo stesso Alarico dicea di esser mosso da una voce interna che gli andava dicendo di affrettarsi per l'espugnazion di Roma. Finalmente convenne rimandare ambasciatori ad Alarico, e capitolare che i Romani gli pagassero cinquemila libbre d'oro, trentamila d'argento, quattromila giubbe di seta, tremila pelli tinte in grana, e tremila libbre di pepe. Ma perchè l'erario [392] era esausto, nè i particolari potevano supplire così in un subito allo sborso di tanto oro ed argento, si mise mano ai templi de' gentili, con asportarne le statue d'oro e d'argento, e tutti gli ornamenti preziosi delle altre: il che viene detestato da Zosimo gentile, e specialmente per la statua della Fortezza, a cagione della cui perdita i pagani credettero che dovessero succedere infinite traversie da lì innanzi a Roma. Pagato il danaro, furono spediti all'imperatore Onorio legati, pregandolo di consentire alla pace, anzi alla lega con Alarico: al qual fine aveva anche il Barbaro voluto per ostaggi molti figliuoli de' nobili romani. Furono da lì innanzi lasciati entrare i viveri in Roma, e l'esercito nemico si ritirò, col quale s'andarono ad unire circa quarantamila schiavi barbari, che di giorno in giorno fuggivano di Roma.

Intanto il tiranno Costantino avea fissata la residenza sua in Arles, e veggendo gli affari dell'imperadore Onorio in pessimo stato [Orosius, lib. 7, cap. 40.], dichiarò Augusto suo figliuolo Costante, a cui dianzi avea conferito il titolo di Cesare [Sozom., lib. 9, cap. 11.]. Inoltre giudicò bene d'inviar ad Onorio un'ambasceria, che giunta a Ravenna, gli dimandò perdono a nome di Costantino [Zosimus, lib. 5, cap. 43.], con allegare per iscusa la violenza a lui fatta dall'esercito. Onorio, perchè non potea di meno, e sulla speranza di salvare la vita a Vereniano e Didimio suoi parenti, condotti prigionieri di Spagna a Costantino, con trovarsi poi burlato perchè questi già erano stati trucidati, non solamente fece vista di accettare la scusa, ma gl'inviò ancora la porpora imperatoria, riconoscendolo per collega nell'imperio. Probabilmente ciò avvenne nell'anno presente.


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Anno di Cristo CDIX. Indizione VII.
Innocenzo papa 9.
Onorio imperad. 17 e 15.
Teodosio II imperad. 8 e 2.

Consoli

Onorio Augusto per l'ottava volta, e Teodosio Augusto per la terza.

Bonosiano vien chiamato il prefetto di Roma dell'anno corrente in una legge del Codice Teodosiano. Quanto si è di sopra narrato della morte di Stilicone e dell'assedio di Roma vien riferito dal cardinal Baronio, da Jacopo Gotofredo e da altri nell'anno presente. E sembra certo difficile che essendo stato ucciso Stilicone verso il fine del precedente agosto, Alarico, che ne dovette ricevere l'avviso stando fuori d'Italia, potesse far tanto viaggio, operar tante cose ne' quattro mesi che restavano di quell'anno. Contuttociò chiaramente narrando Zosimo istorico [Zosimus, lib. 5, cap. 42.], che dopo tali avvenimenti Onorio entrò console per l'ottava volta, e Teodosio II Augusto per la terza; il che accadde nel principio di quest'anno; più sicuro è l'appoggiarsi a lui scrittore contemporaneo, come ha fatto il padre Pagi, che ai moderni. E tanto più perchè, per attestato del suddetto Zosimo, essendo stati inviati dai Romani, dopo la liberazion della città, ambasciatori a Ravenna, Onorio Augusto nel licenziarli levò a Teodoro la dignità di prefetto del pretorio, e la conferì a Ceciliano, uno di essi legati. Ora nel Codice Teodosiano si trovano due leggi date in Ravenna nel gennaio del presente anno, ed indirizzate a Teodoro prefetto tuttavia del pretorio, al quale poi si vide sostituito nel medesimo grado Ceciliano suddetto, con essere a lui indirizzate altre leggi date nello stesso gennaio [Cod. Theod., lib. 9, III 3, lib. 7.]. Una specialmente è degna d'essere avvertita perchè testimonio dell'insigne carità d'Onorio, ordinando egli sotto gravi pene, che ogni domenica i [394] giudici facciano la visita dei carcerati, per sapere se sieno ben trattati; e che ai poveri sia somministrato il vitto; e che sopra ciò vegli lo zelo dei vescovi. S'era anche introdotta dai due Valentiniani ed altri imperadori cristiani la piissima consuetudine di liberar tutti i prigioni in onore del santo giorno di Pasqua, a riserva dei rei di enormi delitti. (Veggasi il codice Teodosiano de Indulgentia Criminum). Il qual rito si osserva tuttavia in assaissimi luoghi della cristianità, e massimamente in Modena. Furono dunque nel principio di quest'anno inviati dal senato romano ambasciatori ad Onorio Augusto, Ceciliano Attalo e Massimiano, per pregarlo di approvar la pace, di cui s'era trattato con Alarico. Uomo timido, e però irresoluto, era l'imperadore. Non volle dar ostaggi nè acconsentir a varii capi della capitolazione. Zosimo ne incolpa Olimpio che imbrogliava tutto. Furono rimandati senza conclusione alcuna; Ceciliano creato prefetto del pretorio, Attalo, sopraintendente al fisco. Ma per difesa di Roma Onorio spedì a quella volta seimila bravi Dalmatini sotto il comando di Valente. Parve a questo condottiero vergognosa cosa il guidar quegli armati per vie disusate, come di nascosto; ma quando meno sel pensava, li condusse in bocca ad Alarico, il quale gli aspettava, e tutti li fece prigionieri, a riserva di un centinaio, e dello stesso Valente, ch'ebbero la fortuna di salvarsi. Attalo fiscale giunto a Roma, avendo osservato che Eliocrate con troppa piacevolezza si portava nel cercare i partigiani di Stilicone, e in confiscare i lor beni, il mandò a Ravenna, dove per questo gran delitto corse pericolo di perdere la vita, se non si rifugiava in una chiesa. Massimiano, il terzo dei suddetti ambasciatori, caduto nel ritornare a Roma in mano de' Barbari, fu ricuperato da Mariniano suo padre con trentamila pezze d'oro.

Cresceva intanto la confusion nel senato e popolo romano tra per le irresolutezze [395] dell'imperadore, e per aver tuttavia vicino a sè Alarico minaccioso, e con forze da eseguir le minacce. Però inviarono ad Onorio altri ambasciatori, tra i quali fu lo stesso Innocenzo papa; ed Alarico diede lor buona scorta, affinchè andassero sicuri. Dispose Dio in questa maniera le cose per sottrarre il buon pontefice alla terribil tragedia che dipoi succedette in Roma, perciocchè egli si fermò da lì innanzi in Ravenna coll'imperadore. Calò intanto in Italia Ataulfo cognato di Alarico, conducendo una mediocre armata. Onorio fatti raunar quanti soldati potè, gl'inviò a contrastargli il passo; e si venne anche ad un fatto di armi, in cui circa mille cinquecento Goti restarono sul campo, e solamente diciassette Romani, se pure è da credere. Il rimanente de' Barbari passò e andò ad unirsi con Alarico [Zosimus, lib. 5, cap. 48.]. E fino a questa ora Olimpio avea comandato a bacchetta nella corte d'Onorio. Seppero gli eunuchi tanto intronar le orecchie di esso imperadore, rappresentandogli questo primo ministro come origine di tutti i presenti malanni, che lo indussero a deporlo. Sotto un principe di testa debole, quando nascono torbidi, nulla è più facile che il veder di simili scene. Olimpio temendo di peggio, scappò in Dalmazia. Tornato, non so quando, a Roma, e ristabilito in qualche uffizio, Costanzo cognato dell'imperadore, secondochè narra Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 180.], dopo avergli fatto tagliar le orecchie, il fece anche uscir di vita a forza di bastonate, incolpandolo di tanti disordini per cagion di lui occorsi all'imperio romano. Giovio, probabilmente pagano di cuore, in suo luogo occupò il ministero. Era prefetto del pretorio; ebbe anche il titolo di patrizio. Attalo fu allora creato prefetto di Roma; e seguirono altre mutazioni nella corte di questo buon Augusto, che tutte per la debolezza del suo governo tornarono in suo pregiudizio. E perciocchè per le segrete istigazioni [396] del suddetto Giovio, ammutinati in Ravenna i soldati, più non vollero per lor capitani Turpillione e Vigilanzio, nè a palazzo Terenzio ed Arsacio mastri di camera, Onorio li cacciò in esilio, e i due primi furono uccisi nel viaggio. Fu costituito generale delle truppe romane esistenti nella Pannonia, Norico, Rezia e Dalmazia, Generido, Barbaro bensì, ma persona di gran valore e disinteressato. Costui, perchè era pagano, e per una legge d'Onorio, era vietato ai pagani ogni carica militare, non volle assumere il comando; e con ciò obbligò l'imperadore ad abolir quella, con lasciare a tutti la libertà della religione, e l'abilità alle dignità e alla milizia. Egregiamente da lì innanzi Generido corrispose all'espettazione che si avea della sua fedeltà e valore, con aver ben difese e conservate le provincie a lui confidate. Altre leggi diede in quest'anno Onorio, nelle quali specialmente provvide con piissima sapienza, che non fossero oppressi gli accusati, che non venissero maltrattati i carcerati. Meritano ben d'essere lette quelle leggi nel Codice Teodosiano. Inoltre ordinò che fossero cacciati da Roma e dalle altre città tutti i professori della strologia giudiciaria, appellati allora matematici, che al dispetto di altre precedenti leggi seguitavano ad esercitare la lor fallacissima arte.

Ad istanza di Giovio, primo ministro di Onorio, secondochè scrive Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 48.], o pure papa Innocenzo, come vuol Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 7.], Alarico venne fino a Rimini per trattare di pace. Richiedeva questo Barbaro che l'imperadore gli pagasse ogni anno una certa somma d'oro e di grano per mantener le sue genti; che il dichiarasse generale dell'una e dell'altra milizia; che per abitazione delle sue soldatesche gli assegnasse le due Venezie, il Norico e la Dalmazia. Ma l'imperadore non senza ragione troppo abborriva l'avere per generale, e soggiornante nel cuor d'Italia [397] un barbaro, un infedele, qual era Alarico. Però scrisse a Giovio, il quale era andato a Rimini per questo trattato, che per lo danaro e grano si accorderebbe, ma che non poteva patire di dar carica alcuna a costui. Giovio ebbe l'imprudenza di far leggere in pubblico la lettera dell'imperadore: cosa che alterò forte il Barbaro, di maniera che infuriato si mosse subito per ritornare contra di Roma. Ma pentito nel viaggio mandò varii vescovi ad Onorio per indurlo pure alla pace, con far proporre condizioni più moderate, contentandosi di stare nel Norico, e di una discreta paga e contribuzione di grano. Neppur questo ebbe effetto, perchè Giovio, per levarsi di dosso il sospetto ch'egli se l'intendesse con Alarico, tornato che fu a Ravenna, giurò egli e fece giurare (se prudentemente, nol so) ad Onorio e a tutta la sua corte, di non far mai pace alcuna con Alarico; e perciò inutili riuscirono tutte le proposizioni di accomodamento. Maggiormente dunque indispettito Alarico, tornò coll'esercito sotto Roma, minacciando al senato e al popolo l'ultimo eccidio, se non si accordavano con esso lui contra di Onorio, principe, a cui pareva che nulla premesse la salute di quella gran città. Resisterono un pezzo i Romani, ma poichè Alarico si fu impadronito di Porto, senza più lasciar entrare viveri in Roma, affamati furono costretti ad accordarsi [Zosimus, lib. 6, cap. 6. Sozomenus, lib. 9, cap. 8.]. L'accordo fu che Attalo prefetto della città, ed amico de' pagani, venne dichiarato imperadore, siccome persona amata dai Goti, perchè battezzata da Sigesario, vescovo della lor nazione e setta. Veggonsi presso il Mezzabarba [Mediob., Numismat. Imperat.] le medaglie battute in suo onore, dove è chiamato Prisco Attalo. Non tardò costui a creare Lampadio prefetto del pretorio, e Marciano prefetto della città. Dichiarò ancora Alarico generale delle sue armate, e Ataulfo conte della cavalleria domestica. Entrato [398] colla porpora in senato, diede un bel saggio della sua vanità con una diceria piena di arroganza, in cui si vantava di voler sottomettere tutto il mondo. Quindi unitamente con Alarico mosse l'esercito contra di Onorio Augusto, che seguitava a dimorare in Ravenna. E senza voler badare ad Alarico che lo consigliava d'inviare in Africa un buon corpo di truppe per levare il comando di quelle provincie ad Eracliano, gli bastò di spedire colà un certo Costantino con pochi soldati, scioccamente lusingandosi che al comparire delle sue lettere, tanto Eracliano, quanto l'esercito d'Africa abbasserebbono la testa, e seguirebbono il partito suo.

Giunta che fu l'armata di Attalo e di Alarico a Rimini, Onorio pieno di spavento inviò per suo legato colà Giovio, suo primo ministro, per trattare di concordia, con esibire ad Attalo di accettarlo suo compagno nell'imperio, ma costui, gonfio per la sua dignità, pretese che Onorio si eleggesse un'isola, per menar ivi da privato il resto dei suoi giorni. Il peggio fu che lo stesso Giovio (se pure non fu occulto artifizio) s'accordò con Attalo per deprimere Onorio, giugnendo infino a proporre di tagliar qualche membro all'infelice Augusto. E tali erano gli uffiziali che quel buon principe eleggeva, e a' quali commetteva i più importanti affari dello Stato. Andò più volte innanzi e indietro Giovio, e finalmente restò presso d'Attalo, che il dichiarò patrizio, facendo costui nello stesso tempo credere ad Onorio che per suo bene operava così. S'era già preparato Onorio per ritirarsi presso il nipote Teodosio, quando all'improvviso gli venne un soccorso di quattromila soldati dall'Oriente, che il rincorò e svegliò in guisa, che fidata ad essi la guardia di Ravenna, quivi determinò di star saldo fino ad intendere l'esito degli affari dell'Africa. Già tutto era in pronto per istrignere Ravenna con vigoroso assedio; ma rimase sturbato da altri avvenimenti il disegno. Alarico non [399] ristette di operar colla forza, che le città dell'Emilia e della Liguria accettassero Attalo per imperadore. La sola Bologna fece resistenza e soffrì l'assedio. Quello che maggiormente disgustò Alarico, fu la nuova venuta dall'Africa, che Eracliano, conte, cioè governatore di quelle contrade, avea fatto trucidare Costantino colà inviato a nome di Attalo, e poste guarnigioni in tutte le città marittime, non lasciava più andar grani ed altri viveri alla volta di Roma: il che cagionò fra poco una fiera carestia e fame nel numeroso popolo di essa città. Concepì perciò Alarico un grave sdegno contra di Attalo, che aveva voluto operar di sua testa in negozio di tanto rilievo. Si aggiunsero i mali uffizii che presso di lui continuamente faceva Giovio per abbattere questo imperador di teatro, e forse con buon fine per facilitar la pace con Onorio, levando di mezzo costui che non serviva se non d'impedimento. Perciò Alarico, per quanto scrive Zosimo, fuori di Rimini il depose, con ispogliarlo del diadema e della porpora, e ridurlo a vita privata con Ampelio suo figliuolo. Il ritenne nondimeno presso di sè, per impetrargli il perdono, se seguiva la pace con Onorio, di cui pare che si trattasse seriamente fra l'imperadore ed Alarico. Fu poi un'altra volta esaltato, e da lì a non molto deposto questo efimero Augusto.

Occorse eziandio che Saro, altre volte nominato di sopra, condottiere di trecento bellicosi Barbari, il quale non s'era in que' torbidi dichiarato nè per Onorio nè per Alarico [Sozom., lib. 9, cap. 9.], ma non avea cara la lor concordia per suoi particolari fini, all'improvviso assalì le soldatesche condotte da Ataulfo cognato di Alarico, o pur le guardie del medesimo Alarico, e molte ne tagliò a pezzi; dopo di che andò ad abbracciare il partito di Onorio. Se volessimo qui prestar fede a Filostorgio [Philostor., lib. 12 Hist.], gli diede anche una rotta; ma [400] questo non s'accorda con gli altri storici d'allora. Fece nascere il fatto di Saro dei gravi sospetti in cuore di Alarico, dubitando egli che sotto il color della pace, che si trattava sempre e mai non si conchiudeva, gli fossero tese insidie. E però fumando di rabbia, se ne tornò sotto Roma, e di nuovo l'assediò. Si sostennero i Romani contra le di lui armi; ma non già contro la fame, la quale crebbe a tal segno, che migliaia di persone ne perirono, e si trovarono madri che levarono la vita ai figliuoli per salvare con quel cibo la propria. Ma finalmente bisognò soccombere. Alarico vittorioso entrò di notte nella città, in quella città, che per tanti secoli, non vinta da alcuno, avea data la legge a sì gran parte del mondo. Il Sigonio, il cardinal Baronio, il Gotofredo, il Tillemont ed altri furono di parere che questa orrida tragedia succedesse nell'anno 410. Ma il padre Pagi con vari argomenti pruova che nel presente anno a dì 24 d'agosto Roma venne nelle mani dei Barbari, e sant'Isidoro chiaramente mette questo fatto sotto l'era 447, che corrisponde all'anno corrente. Prospero Tirone ne parla sotto il consolato di Varane, che fu nell'anno seguente. Se nondimeno si verificasse che Tertullo disegnato console da Attalo in questo anno, nel principio poi del susseguente avesse assunto il consolato in Roma, converrebbe mutar opinione. Cassiodoro in fatti e Vittorio mettono consoli all'anno 410 Tertullo e Varane. Orosio chiama questo Tertullo console di apparenza, e pare che neghi ch'egli poi giugnesse mai ad esercitare il consolato. Strana cosa è intanto, che resti dubbioso il tempo di sì gran tragedia. Non si può senza lagrime rammentare la crudeltà esercitata dai Goti in questa occasione. Per tre giorni diedero il sacco a quante ricchezze e mobili preziosi Roma avea lungamente raunato in sè colle spoglie e coi tributi di tanti popoli. Furono tormentati senza compassione alcuna i nobili e benestanti, [401] perchè rivelassero i tesori creduti nascosi. Non si perdonò all'onore delle matrone e delle vergini, e neppur delle consecrate a Dio. Furono anche mietute a migliaia entro e fuori di Roma le vite del popolo in tal copia, che non v'era gente bastante a dar loro sepoltura. Restò inoltre ridotta in cenere dalle fiamme buona parte di essa città. Ma Iddio in punire con sì terribil flagello le reliquie ostinate del paganesimo in Roma, e la superbia e tanti vizii di quella città, fece nondimeno conoscere la sua misericordia e potenza agli stessi gentili. Perciocchè i Goti erano cristiani, benchè professori dell'eresia di Ario; ed Alarico loro ordinò di rispettare nel saccheggio i luoghi sacri, e specialmente le basiliche de' santi apostoli Pietro e Paolo: comando che fu religiosamente osservato da que' Barbari, e ne profittarono gli stessi pagani che colà si rifugiarono, con aver anche i Barbari portato rispetto ai sacri vasi delle basiliche suddette. Ma sopra ciò è da vedere l'insigne opera di sant'Agostino De Civitate Dei, scritta dopo la presa di Roma, per difendere la religione di Cristo dalle bestemmie vomitate in tal congiuntura dai gentili, quasichè all'avere aboliti gl'idoli e introdotta la legge sacrosanta di Gesù Cristo si dovessero attribuire tante calamità che in que' tempi diluviarono sopra Roma e sopra l'imperio romano. Pretende parimente il celebre monsignor Bossuet, vescovo di Meaux [Bossuet, Expos. de l'Apocal.], che si compiessero in questa rovina di Roma le profezie di san Giovanni nell'Apocalisse, avendo Iddio voluto dare con ciò l'ultimo colpo all'idolatria, e vendicare il sangue di tanti santi svenati dalla crudeltà de' pagani.

A tanti malanni se ne aggiunsero in questo anno altri fuora d'Italia, perciocchè gli Alani, Vandali e Svevi entrarono di settembre, ossia di ottobre, nell'Illirico, per attestato di Prospero [Prosper, in Chronic.] e [402] d'Idacio [Idacius, in Chronic.] storici, empiendo quelle provincie di stragi e saccheggi. E giacchè troppo era lacerato in Italia ed impotente a fare resistenza l'imperio romano, si scatenarono tutte le altre nazioni barbare, e penetrando anche esse nelle Gallie, devastarono le provincie di Lione, di Narbona, di Aquitania e d'altri paesi. San Girolamo in una sua lettera [Hieron., Epist. ad Ageruchiam.] nomina i Quadi, Vandali, Sarmati, gli Alani, i Gepidi, gli Eruli, i Sassoni, i Borgognoni, gli Alamanni e gli Unni. Parte ancora di questi Barbari, essendo aperti i passi de' Pirenei, tenne dietro ai Vandali, allorchè marciarono in Ispagna, e con esso loro si unì a conquistare e distruggere quelle provincie. Ossia poi che i Vandali fossero i più, o che le altre nazioni barbariche si suggettassero ai re vandali, noi troviamo varii autori che sotto il nome di Vandali comprendono tutti i Barbari che s'impadronirono della Spagna. Ritorniamo a Roma. Dopo avere i Barbari per tre giorni saccheggiata l'infelice città, e commesse in essa tutte le crudeltà possibili (non si sa il perchè, ma forse mossi da Dio), ne uscirono, e se ne andarono nella loro malora. Così lasciò scritto Paolo Orosio [Orosius, lib. 2, cap. 19.]. Se a Marcellino conte prestiam fede [Marcell. Comes, in Chron. apud Sirmondum.], dopo sei dì seguì la loro ritirata. E Socrate aggiugne che ciò accadde per paura dei soccorsi che Teodosio II Augusto inviava ad Onorio suo zio: del che nondimeno niun vestigio si trova presso gli altri autori. Alarico che, secondo Zosimo, molto tempo prima tenea sotto buona guardia Placidia sorella d'Onorio, seco la condusse in forma onesta e decente al suo grado, forse fin d'allora con pensiero di darla per moglie ad Ataulfo suo cognato, siccome poscia seguì. Passò il barbarico esercito pieno di ricchezze per le provincie della Campania, Lucania e dei Bruzii, con commettere anch'ivi tutte le [403] più orrende inumanità. Sappiamo da santo Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 1, cap. 10.] che la città di Nola vi fu devastata, e fatto prigione san Paolino vescovo di quella, che non avea voluto fuggire. Continuò Alarico il viaggio fino a Reggio di Calabria con pensiero di passare in Sicilia, e di là in Africa, sperando di facilmente impadronirsi di quel paese. Ma Dio, che per gli occulti suoi giudizii s'era servito di questo barbaro per gastigare i peccati de' Romani, non istette molto a metter fine alle sue crudeltà. Si fermò costui non poco all'assedio di Reggio, ed essendosi imbarcata una parte della sua armata per passare in Sicilia, fiera tempesta sopravvenuta li fece perir tutti su gli occhi dello stesso re barbaro. E così terminò quest'anno sì funesto e vergognoso al nome romano. Ma io non vo' lasciar di aggiugnere qui una notizia degna della curiosità di tutti, di cui siam debitori ad Olimpiodoro storico greco e pagano di quei tempi, giacchè Fozio [Olympiod., apud Photium, pag. 198.] ci ha conservati alcuni pezzi o estratti della di lui storia, da cui si raccoglie qual fosse anche allora lo stato della gran città di Roma. Scrive egli adunque che in cadauno dei grandi palagi di essa città si trovava tutto ciò che ogni mediocre città può avere, cioè ippodromo per la corsa de' cavalli, piazza, tempio, fontane e vari bagni. Il perchè Olimpiodoro compose per essa un verso, così tradotto in latino:

Est urbs una domus: mille urbes continent una urbs.

Aggiugne che le terme pubbliche, ossia i bagni, erano di straordinaria grandezza, fra le quali quelle di Antonino aveano millesecento sedili di marmo pulito, e quelle di Diocleziano quasi il doppio. Che le mura di Roma, secondo le misure prese da Ammone geometra, allorchè i Goti la prima volta l'assediarono, giravano lo spazio di ventun miglia. Scrive eziandio che molte famiglie romane aveano di rendita annua de' loro beni quattro [404] milioni d'oro, senza il frumento, vino, ed altri naturali che avrebbono dato un terzo della suddetta somma d'oro, se si fossero venduti. Altre famiglie aveano un milione e mezzo, ed altre un milione di rendita. Che Probo figliuolo di Alipio nella pretura ai tempi di Giovanni tiranno (cioè l'anno di Cristo 424) spese un milione e dugentomila nummi d'oro (erano questi, per quanto credo, soldi d'oro, presso a poco corrispondenti al nostro scudo, ossia ducato, ossia fiorino d'oro). E che Simmaco oratore, il qual era contato fra i senatori di mediocre patrimonio, mentre Simmaco suo figliuolo esercitò la pretura (il che seguì prima che Roma fosse presa da Alarico), avea speso due milioni d'oro per la sua solenne entrata. E che dipoi Massimo, uno de' più ricchi e felici, per la pretura del figliuolo, aveva speso quattro milioni d'oro; perciocchè i pretori per sette giorni davano al popolo un grandioso divertimento di giuochi e spettacoli. Ma finalmente Dio venne a visitare il lusso dei Romani; e il peggio è che neppur dopo sì grave gastigo si emendarono dei lor vizii e peccati.


   
Anno di Cristo CDX. Indizione VIII.
Innocenzo papa 10.
Onorio imperadore 18 e 16.
Teodosio II imperad. 9 e 3.

Consoli

Flavio Varane e Tertullo.

In quest'anno ancora si può credere che continuasse nella prefettura di Roma Bonosiano, perchè ornato di questa dignità il troviamo anche nell'anno seguente. Ma durante il gran temporale finora descritto che mai faceva l'imperadore Onorio? Se ne stava in Ravenna senza impugnare spada, senza muoversi da sedere; nè si sa ch'egli unisse esercito o facesse altri maneggi per opporsi ai Barbari, quasi che non vi fosse legione alcuna de' Romani. In tempi tali c'era bisogno d'un valoroso e saggio imperadore; che [405] non sarebbono succeduti tanti disordini. Tale certo non si può dire che fosse Onorio. Anzi Cedreno [Cedren, Hist. tom. I, pag. 336.] e Zonara [Zonaras, in Annal. tom. 1, pag. 40.], storici greci, a' quali precedette Procopio [Procop., de Bello Vandal., lib. 1, cap. 2.], cel rappresentano per uno stolido, raccontando inoltre, che portatagli da un uomo tutto affannato la nuova che Roma era stata presa dai Goti, egli battendo le mani con ischiamazzo rispose: Come può esser questo, se Roma poco fa era qui? Intendeva egli di una gallina che gli era molto cara, a cui avea posto il nome di Roma. Eh signore, ripigliò allora il messo sospirando, io non parlo di un uccello, parlo della città di Roma. Verisimilmente questa fu una finzione de' Greci che sempre hanno portata antipatia ai Latini. Tuttavia non senza fondamento fu screditata dai Greci la persona di Onorio. Grande era la pietà di questo principe, grande il suo amore per la religione cattolica. Abbiamo anche delle bellissime leggi pubblicate da lui. Ma questo non basta per sostenere il peso di un vasto imperio, e per ben governare e difendere i suoi popoli. Ci vuol anche mente e coraggio; e di queste due qualità non era assai provveduto Onorio, e per questo lo sprezzarono tanto i Barbari quanto i suoi proprii sudditi, i quali proruppero in tante ribellioni. Sarebbe egli stato un buon monaco, e per disavventura sua ed altrui fu un cattivo imperadore. Venuto intanto a sua notizia che gli Africani s'erano portati con tutta fedeltà, ricusando di sottomettersi ad Attalo imperadore immaginario, in ricompensa del buon servigio rimise a quei popoli tutto quel che dovevano all'erario cesareo fino all'Indizione V, cioè fino all'anno 408. La lettera [Cod. Theodos. tom. 4, pag. 199.] è indirizzata a Macrobio proconsole d'Africa, che forse potrebbe essere stato l'autore dei Saturnali. E perciocchè i donatisti, eretici in quelle parti, per le disgrazie che opprimevano l'imperio romano, si erano [406] dati più che mai ad insolentire, egli con rigorose nuove leggi represse la loro baldanza; e di più, ad istanza dei vescovi cattolici d'Africa, tutti ansiosi della pace fra que' Cristiani, ordinò che si facesse una pubblica e solenne conferenza fra essi cattolici e i donatisti, con inviare a tal fine colà Marcellino tribuno e notaio, acciocchè vi assistesse in suo nome. Fu in fatti tenuta questa celebre conferenza nell'anno seguente.

In questo tempo il barbaro re Alarico, dopo aver consumato del tempo nell'assedio della città di Reggio in Calabria, fu colpito da Dio con una morte subitanea. Sant'Isidoro [Isidorus, in Histor. Goth. apud Labbeum] ciò riferisce all'anno 448 dell'era spagnuola, che corrisponde al presente dell'era nostra. Il seppellirono i suoi nell'alveo del fiume Baseno, avendone prima fatte ritirar le acque per altro alveo scavato apposta dagli schiavi, e fattele poscia ritornar nel primo. Ed acciocchè niuno ne sapesse il sito, uccisero tutti quei miseri schiavi. Molte ricchezze inchiusero nel suo sepolcro, e ciò secondo il costume de' Barbari; e presero quella precauzione, affinchè la cupidigia di quel tesoro e l'odio dei Romani non concorressero a violarne il sepolcro. In luogo di Alarico fu riconosciuto per re dai Goti Ataulfo di lui cognato. Dove poi si stesse, e che operasse in questo e nell'anno appresso questo novello re dei Barbari, è assai scuro nella storia. Giordano storico scrive [Jord., de Rebus Getic., cap. 31.] ch'egli tornò di nuovo a Roma, e a guisa delle locuste ne corrose quello che vi era rimasto di buono, e che nella stessa forma spogliò l'Italia delle private ricchezze, senza che Onorio gli potesse resistere. Aggiugne che da Roma condusse via Placidia sorella di esso imperadore, e giunto al Foro di Livio, ossia a Forlì (l'autore della Miscella scrive al Foro di Cornelio, cioè ad Imola), quivi la prese per moglie, dopo di che divenne [407] amico di Onorio, e sostenne i di lui interessi. Ma di questo secondo spoglio di Roma non ne parlando alcuno degli scrittori contemporanei o vicini, difficilmente si può qui prestar fede a Giordano, che fu più di un secolo lontano da questi fatti. Vacilla eziandio la sua autorità nell'asserire seguito allora il matrimonio di Ataulfo con Placidia, essendovi altri scrittori che lo asseriscono celebrato ben più tardi. Ben credibile è il resto del racconto di Giordano. Certamente passò Ataulfo per l'Italia andando verso la Gallia; e perchè conduceva un esercito di gente brutale, sfrenata e masnadiera, non è da maravigliare se dovunque passarono lasciarono funesta memoria della loro rapacità e violenza. Sembra nondimeno ch'egli non valicasse l'Alpi se non nell'anno seguente. Per conto poi del suo buon animo verso d'Onorio, non se ne ha a dubitare per quel che vedremo. Era Ataulfo di cuore più generoso e meglio composto che il fiero Alarico. Cominciò di buon'ora ad aspirar alle nozze con Galla Placidia; e questa saggia principessa gli dovette ben far conoscere che senza l'approvazione dell'imperador suo fratello ella non consentirebbe giammai a prenderlo per marito, ed essere perciò necessario che si studiasse di camminar con buona armonia verso di lui. Perciò la storia non racconta mali trattamenti fatti da Ataulfo al dominio dell'imperio romano, perchè egli non ne dovette fare. Aveva, come dicemmo, Costantino tiranno della Gallia ricercata ed ottenuta l'amicizia di Onorio Augusto, ed era anche stato riconosciuto Augusto da lui, perchè gli fece credere di voler passare in Italia per liberarlo dal furore dei Barbari. In quest'anno in fatti egli calò in Italia [Olympiod. apud Photium, pag. 182. Sozom., lib. 9, cap. 12.] con molte forze: per l'Alpi Cozzie verso Susa, e giunse fino a Verona; e già si preparava per passare il Po e venire a Ravenna per trattare con Onorio, quando un accidente gli fece mutar pensiero. Dappoichè [408] Giovio primo ministro d'Onorio si ritirò da lui per seguitare il partito di Attalo, succedette nel suo grado Eusebio mastro di camera dello stesso imperadore. Durò poco la sua fortuna perchè un dì Allovico generale delle truppe cesaree il fece sì fieramente bastonare, che il misero sotto a quei colpi lasciò la vita. Questa indegnità, cioè questo nuovo esempio, accrebbe il poco concetto, in cui era Onorio, al vedere ch'egli non ne fece risentimento alcuno. Tuttavia ne impresse ben viva in suo cuore la memoria. Fu dipoi scoperto, o almen fatto credere a lui in occasione della calata in Italia di Costantino tiranno, che questo generale se l'intendeva seco, meditando amendue di levare al vero imperadore quel poco che gli restava in Italia. Allora fu che Onorio si svegliò, nè passò molto, che cavalcando a spasso per la città, mentre Allovico, secondo il costume, gli andava innanzi, diede ordine che costui fosse ucciso, e l'ordine fu ben tosto eseguito. Scese allora da cavallo Onorio, e inginocchiatosi pubblicamente rendè grazie a Dio, perchè lo avesse liberato da un insidiator manifesto. Udita ch'ebbe Costantino la morte di costui, di galoppo se ne tornò indietro, e ripassate l'Alpi, si ridusse di nuovo ad Arles, verificando con questa fuga le reità addossate ad Allovico.


   
Anno di Cristo CDXI. Indizione IX.
Innocenzo papa 11.
Onorio imperadore 19 e 17.
Teodosio II imper. 10 e 4.

Console

Teodosio Augusto per la quarta volta senza collega.

Per quest'anno ancora continuò Bonosiano ad esercitar la carica di prefetto di Roma, ciò apparendo dalle leggi del Codice Teodosiano. Credevasi Costantino tiranno di avere stabilito il suo dominio anche in Ispagna, allorchè inviò colà Costante suo figliuolo, dichiarato poscia da [409] lui Augusto. Ma avvenne che Geronzio, il più bravo de' generali ch'egli avesse, uomo per altro perfido e cattivo, rivoltò contra di lui l'armi nella medesima Spagna, e tirati nel suo sentimento quanti soldati romani si trovarono in quelle parti, creò col consenso loro imperadore un certo Massimo, che Olimpiodoro chiama suo figliuolo [Olympiodorus, apud Photium.], ma da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.], autore più degno di fede, perchè spagnuolo ed allora vivente, non vien riconosciuto per tale. Frigerido storico presso Gregorio Turonese [Gregor. Turon., Hist., lib. 2, cap. 8.], il chiama uno de' clienti di Geronzio: il che s'accorda con Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 13.] là dove scrive che costui era familiare di Geronzio, uomo per altro di bassa nascita e senza ambizione, che allora militava nelle guardie del corpo dell'imperadore. Pare eziandio che supponga dichiarato Augusto questo Massimo solamente, dappoichè Geronzio giunto nella Gallia ebbe atterrato Costante. Comunque sia, certo è che Geronzio, lasciato questo fantasma in Tarragona, giacchè quella provincia restava illesa dai Barbari, co' quali, secondo Olimpiodoro, egli avea fatto un trattato di pace; e raunate quante milizie romane potè, ed aggiunte ancora molte dei Barbari che erano nella Gallia, si mosse contra di Costante e di Costantino con isperanza di sottoporre le Gallie al suo imperadore. Giunto pertanto a Vienna del Delfinato, trovò ch'era ivi alla difesa Costante figliuolo del tiranno. Ebbe la maniera di aver la città, e di far tagliare la testa al difensore. Dopo di che si rivolse contra del di lui padre Costantino, il quale s'era rinserrato e fortificato in Arles. Sozomeno scrive che appena fu udita da esso Costantino la ribellion di Geronzio e di Massimo, che spedì di là del Reno Edobico suo capitano a chieder soccorso ai Franchi e agli Alemanni, e con questa speranza [410] s'accinse a sostener bravamente l'assedio posto da Geronzio a quella città.

Erano in tale stato gli affari della Gallia, quando Iddio, che mortifica e vivifica, accordò alla pietà d'Onorio Augusto ciò che mancava a questo buon principe, con provvederlo di un braccio gagliardo ed atto a sostenere il vacillante imperio, voglio dire di un nuovo generale d'armata. Questi fu Costanzo, personaggio non barbaro, ma suddito de' Romani, nato nell'Illirico, come asserisce Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Phothium, pag. 183 et 193.], in Panese o sia Naisso, città della Dacia novella. Lo avea la natura formato degno di comandare ad altri, grande di corpo, con fronte larga, occhi grandi e vivaci, i quali chinandosi sul collo del cavallo, egli movea di qua e di là con velocità per osservare tutto quel che passava. All'aspetto era talmente serio, che sembrava melanconico e scuro; ma nella mensa e nei conviti si facea conoscere assai gaio ed ameno, e scherzava egregiamente fin coi buffoni. Valoroso di sua persona e con senno capace di trattar grandi affari e di comandare un'armata; fra gli altri suoi costumi, niente era avido dell'oro; virtù nulladimeno, di cui parve che si dimenticasse, dappoichè arrivò al non più oltre della fortuna. Aveva egli da giovinetto servito negli eserciti romani a' tempi di Teodosio il Grande, e per varii gradi era giunto ad avere il titolo di conte, allorchè Onorio l'elesse per generale dell'armata che dovea passare in Francia contro al tiranno Costantino. Per compagno e luogotenente gli fu dato Ulfila, il cui nome ci fa abbastanza intendere, ch'egli era o Goto o pure Unno di nazione. E siccome osservò Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.], la condotta di questo uffiziale, cioè di Costanzo, fece conoscere quanto più utile era all'imperio l'aver de' generali romani che dei barbari, come s'era lungamente praticato in [411] addietro. Passò nella Gallia, e alla comparsa sua nelle vicinanze d'Arles, città allora assediata da Geronzio, tra l'essersi risvegliato nell'esercito romano di esso Geronzio l'amore e la venerazione verso il legittimo lor signore ed imperadore, e mercè del credito, e probabilmente dei segreti maneggi di Costanzo, i soldati di Geronzio, per altro mal soddisfatti del suo imperioso e severo procedere, per la maggior parte l'abbandonarono, e vennero sotto le bandiere del medesimo Costanzo conte. Non perdè tempo Geronzio a scappare, e con pochi si ritirò in Ispagna. Ma quivi i soldati spagnuoli, conceputo dello sprezzo per lui a cagion di questa fuga, determinarono di ammazzarlo. In fatti l'assediarono una notte in casa sua, ma bravamente si difese coll'aiuto de' suoi servi sino alla mattina, in cui fuggendo avrebbe forse anch'egli potuto salvare la vita, ma per amore di Nonnechia sua moglie nol fece. Toltagli poi ogni speranza di salute, perchè i soldati aveano attaccato il fuoco alla casa, ucciso prima un Alano suo servo fedele, e la moglie, che istantemente il pregarono di non lasciarli in vita, poscia con un pugnale ch'egli si spinse nel cuore, finì anch'egli di vivere: se pure, come Onorio racconta, non furono i soldati che risparmiarono a lui la fatica di uccidersi. Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 13.], che racconta questo fatto, loda la moglie di costui, come donna d'animo virile, perchè cristiana, aggiugnendo ch'ella ebbe un fine degno della sua religione, con aver per quel suo coraggio lasciata una sempiterna memoria di sè stessa ai posteri; senza badare che presso i gentili erano ben in pregio simili bravure, ma secondo la religion di Cristo un tal furore non si può scusar da peccato. La caduta di Geronzio si tirò dietro quella del suo imperadore Massimo, che, abbandonato da' soldati della Gallia, fu spogliato della porpora e degradato, con essergli nondimeno donata la vita, perchè essendo uomo umile e modesto, [412] parve che non si avesse più da temere di lui. Olimpiodoro all'incontro narra che costui dopo la morte di Geronzio se ne fuggì presso i barbari suoi collegati. Questo avenne solamente l'anno seguente, secondochè narra s. Prospero nella sua Cronica. Truovasi poi, per attestato di Prospero Tirone (o sia d'altro autore), che circa l'anno 419 Massimo colla forza si fece signore delle Spagne, e che nel 422 preso, fu trionfalmente condotto a Ravenna e mostrato al popolo nei tricennali d'Onorio Augusto. Marcellino conte, e Giordano storici scrivono lo stesso. Perciò Adriano Valesio e il Pagi sono stati d'avviso che il medesimo Massimo rinnovasse la ribellione in Ispagna, e che in fine si rifugiasse tra i Barbari: opinione che si rende quasi certissima dalle parole d'Orosio, là dove scrive, prima di dar fine alla sua Cronica, parlando del deposto Massimo: Costui di presente bandito vive mendico fra i Barbari in Ispagna. Qualche partito di malcontenti dovette di nuovo mettere in teatro questo imperadore da scena, ma ebbe corta durata. Nel Codice Teodosiano [Cod. Theod., lib. 15, tit. 14.] esistono varii editti di Onorio contra di costui.

Ma non può già sussistere il dirsi da Prospero suddetto che questo prese la signoria delle Spagne. Di qualche provincia sì, ma non già di tutte quelle provincie. Già vedemmo che v'erano entrati i Vandali, Alani e Svevi, e questi in buona parte della Spagna seguitavano a signoreggiare, cioè ad esercitare quanti atti poteano di crudeltà. Idacio, vescovo in Ispagna circa questi medesimi tempi, ci lasciò autentica memoria delle barbariche loro azioni; perciocchè fecero strage de' popoli, e saccheggiarono quante città e castella non ebbero forze da resistere alle lor armi. A questi mali tenne dietro una spaventosa carestia, per cui si trovarono madri sì disumanate che uccisero la lor prole per cibarsene. Succedette anche la peste che desolò le intere [413] popolazioni. Anche Olimpiodoro, presso Fozio, fa menzione dell'orrenda fame che afflisse la Spagna. E non erano già minori in quel tempo i peccati degli Spagnuoli di quei dei Galli e degl'Italiani, per cavare dalla mano di Dio i flagelli. Basta leggere Salviano nei suoi libri del governo di Dio. Contuttociò non fu pigra la misericordia dell'Altissimo a recar sollievo alle tribulazioni della provincia ispana, coll'ispirare in quest'anno pensieri di pace a que' Barbari. Conoscendo essi in fine ch'era meglio il darsi alla coltura delle campagne che vivere di rapina, si accordarono con que' pochi abitanti del paese, a' quali era riuscito di salvarsi dalle loro spade e dal furor della fame [Isidorus, in Chron. Goth.]. I Vandali, re de' quali era Gonderico, e gli Svevi con Ermerico re loro, occuparono la Galizia, in cui si comprendeva allora la Castiglia vecchia; gli Alani presero la Lusitania, oggidì il Portogallo, e la provincia di Cartagena, ed altri Vandali, chiamati Silengi, la Betica, dove è Siviglia: essendosi poi creduto che l'Andaluzia d'oggidì prendesse il nome da costoro, e sia corrotto quel nome da Vandalicia. Sicchè la Spagna tarragonese è da credere che tuttavia stesse salda nella divozione e fedeltà verso il romano imperio. In questi tempi ancora non andarono esenti da gravi flagelli l'Egitto, la Palestina, la Soria e la Fenicia per le incursioni de' Saraceni, o sia degli Arabi, attestandolo san Girolamo [Hieronymus, in Epist. ad Marcellio.]. Dopo avere il generale d'Onorio, Costanzo conte, nelle Gallie sbrigato l'affare di Geronzio, si pose anch'egli all'assedio di Arles, entro la qual città era tuttavia inchiuso il tiranno Costantino. Costui per la speranza de' soccorsi che aspettava dai popoli oltrarenani, si sostenne per ben quattro mesi; quando eccoti in fatti avvicinarsi questo soccorso condotto da Edobico generale d'esso Costantino, e con tali forze, che fu in pensiero il generale d'Onorio di ritirarsi [414] in Italia. La necessità il costrinse a fermarsi, perchè Edobico era giunto non molto lungi, e potea troppo incomodarlo nella ritirata. Prese dunque risoluzione di venire ad una giornata campale, e passato il Rodano, accortamente si postò colla fanteria per ricevere in fronte i nemici, e comandò che Ulfila, altro generale, si mettesse colla cavalleria in un'imboscata, per assalirli alla coda. Così fu fatto, e lo stratagemma con tanta felicità riuscì, che l'esercito nemico atterrito si mise in fuga, con restarne assaissimi estinti sul campo, e molt'altri, impetrato quartiere, rimasero prigionieri. Edobico, generale di queste truppe, mercè delle buone gambe del suo cavallo si mise in salvo, e ricoverossi in casa di certo Ecdicio, obbligato a lui per molti benefizii, e però creduto suo ottimo amico. La ricompensa che n'ebbe, fu di perder ivi la testa, che fu da Ecdicio portata ai generali d'Onorio per la speranza di un gran premio. Questi il ringraziarono molto, ed avendo egli poi voluto fermarsi nel campo, gli fu detto all'orecchio che l'armata romana non sentiva piacere di conversare con persona solita a trattar sì bene gli ospiti suoi amici.

Dopo questa vittoria rinforzato maggiormente l'assedio, Costantino veggendosi perduto, deposte le insegne imperiali, si ritirò in chiesa, e si fece ordinar prete dal vescovo di quella città, avvisandosi con questo ripiego di salvare la vita. Gli assediati allora capitolarono la resa, ed ottennero il perdono. Costantino e Giuliano suo figlio tolti di chiesa furono inviati con buona scorta all'imperadore a Ravenna, ma non vi giunsero, perchè Onorio ricordevole che Costantino avea tempo fa tolta la vita agl'innocenti parenti d'esso Augusto [Friger., apud Gregor. Turonens., lib. 2, cap. 8. Hist. Franc.], mandò ordine, giunti che furono al Mincio, che venissero decapitati, senza farsi scrupolo che da' suoi generali fosse loro stata [415] promessa con giuramento la sicurezza della vita, allorchè si renderono gli Arelatensi. Le teste di costoro, se crediamo ad Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 183 et 186.], furono portate a Cartagine, ed ivi esposte al pubblico sopra un palo, dove, dic'egli, erano ancor quelle di Massimo ed Eugenio tiranni, uccisi al tempo di Teodosio. Ma non sarebbe gran cosa che quel testo fosse scorretto, e che s'avesse a leggere Roma o altra città. Pareva che dopo la vittoria suddetta avesse da rimettersi la pace nelle Gallie; ed appunto lasciò scritto Sozomeno che tutte quelle provincie ritornarono all'ubbidienza d'Onorio Augusto, e furono da lì innanzi governate dagli uffiziali di lui. Ma, per quanto andremo vedendo, seguitarono a signoreggiar nelle Gallie molti Barbari ed alcuni tiranni. Sappiamo inoltre da Frigerido storico, citato da Gregorio Turonense, che durante lo stesso assedio d'Arles, venne nuova a Costanzo generale d'Onorio dalla Gallia occidentale, come Giovino, personaggio nobilissimo di que' paesi, aveva assunto il titolo di Augusto e gli ornamenti imperiali, e marciava con un poderoso esercito di Borgognoni, Alamanni, Franchi ed Alani, per soccorrere gli assediati; il che diede motivo a Costanzo di accordare un'onesta capitolazione ai cittadini d'Arles, acciocchè gli aprissero le porte. Non so poi dire se in questo, o pure nel seguente anno accadesse ciò che narra il suddetto Frigerido, cioè, che Decimo Rustico e molti nobili della provincia d'Auvergne, seguaci di esso Giovino tiranno, furono presi dai generali d'Onorio, e crudelmente fatti morire. Presso il Mezzabarba esistono medaglie battute col nome di questo nuovo tiranno [Mediob., Numismat. Imperat.]. Onorio imperadore intanto seguitava a stare in Ravenna, ed in quest'anno fece solennizzare in Roma l'anno ventesimo del suo imperio.


[416]

   
Anno di Cristo CDXII. Indizione X.
Innocenzo papa 12.
Onorio imperadore 20 e 18.
Teodosio II imperad. 11 e 5.

Consoli

Onorio Augusto per la nona volta, e Teodosio Augusto per la quinta.

Palmato si truova in una legge del Codice Teodosiano prefetto di Roma per questi tempi. Cosa operasse Ataulfo re de' Goti e successor di Alarico nell'anno addietro, restando in Italia, niuno degli antichi storici l'ha registrato. Solamente Giordano, siccome dicemmo, scrive [Jordan., de Rebus Getic., cap. 31.] che saccheggiò l'Italia, e s'accordò con Onorio; ma per varii capi non sussiste il suo racconto. Si può non senza fondamento credere che il trattenessero dall'inferocire le insinuazioni di Galla Placidia sua prigioniera, alle cui nozze costui aspirava, e a qualche trattato di accomodamento con Onorio imperadore. Ma non essendo questo riuscito, Ataulfo, o per paura d'essere colto in mezzo, se Costanzo generale d'Onorio fosse tornato coll'esercito in Italia, o piuttosto perchè invitato da Giovino tiranno, oppure con disegno di seco unirsi, determinò di passar nelle Gallie. Attalo era con lui, cioè quel medesimo che sotto Alarico due volte comparve imperadore, ed altrettante fu deposto. Costui, siccome gran faccendiere, proposta l'unione con Giovino, gli dava ad intendere che coi suoi maneggi gli bastava l'animo di farlo padrone almeno della metà delle Gallie. In effetto colà s'inviò Ataulfo [Prosper, in Chron.], e passate senza opposizione alcuna le Alpi, andò a saccheggiar il resto di quello che gli altri Barbari per avventura aveano lasciato alle provincie galliche. Attalo si portò a trattar con Giovino, credendosi di far gran cose [Olymp., apud Photium, pag. 183.], ma scoprì che costui non avea gradito l'arrivo di Ataulfo [417] nelle Gallie, e d'esser egli poco accetto per aver consigliata ad Ataulfo quella risoluzione. Perciò nacquero tosto dissapori fra Giovino ed Ataulfo. Erasi partito da Onorio il barbaro Saro, uom valoroso, altre volte di sopra nominato, per isdegno, a cagione di non avere l'imperadore gastigato chi avea ucciso Belleride, familiare d'esso Saro. Costui con circa venti persone meditava di passare al servizio di Giovino. Lo seppe Ataulfo suo nimico, e con diecimila de' suoi Goti il raggiunse in cammino. Fatta Saro una gagliarda difesa, in fine fu preso vivo, e poco dopo tolta gli fu la vita. Crebbe maggiormente il mal animo di Ataulfo contra di Giovino, perchè, pretendendo il re barbaro di divenir suo collega nell'imperio, Giovino all'incontro in vece di lui dichiarò Augusto Sebastiano suo fratello. Adoperossi inoltre per guastare l'union di costoro Dardano prefetto del pretorio delle Gallie, e personaggio lodato assaissimo dai santi Agostino e Girolamo, ma dipinto da Apollinar Sidonio per uomo carico di vizii, che non s'era voluto sottomettere a Giovino. Pertanto di più non vi volle perchè Ataulfo, irritato da un tale sprezzo, mandasse ad offerir la pace ad Onorio, con promettergli le teste di que' tiranni, e la restituzione di Placidia, esigendo solamente in contraccambio non so quale quantità di vettovaglie. Tornati i suoi ambasciatori con gli articoli della concordia accettati e giurati da Onorio, Ataulfo s'accinse dal suo canto all'esecuzione delle promesse. Gli cadde fra poco nelle mani Sebastiano, e ne inviò la testa a Ravenna. Ritirossi Giovino a Valenza, città allora assai forte, nel Delfinato d'oggidì, la quale assediata da Ataulfo, restò in fine presa per forza. Fu consegnato Giovino a Dardano, acciocchè l'inviasse ad Onorio; ma Dardano per maggior sicurezza gli tolse la vita in Narbona. La testa ancora di costui fu mandata all'imperadore, e poi (se crediamo ad Olimpiodoro) spedita a Cartagine con quelli di Sebastiano. [418] Idacio [Idacius, in Chron.] pretende che costoro fossero presi dai generali d'Onorio, probabilmente perchè s'erano uniti anch'essi con Ataulfo alla distruzion dei tiranni. Ho io poi raccontata tutta in un fiato sotto il presente anno la tragedia di costoro; ma forse la lor caduta e morte si dee differire all'anno susseguente, in cui la riferiscono le Croniche attribuite a Prospero Tirone. Ma non si può già ricavar questo con sicurezza da quella d'Idacio, come pretende il Pagi.

Leggonsi nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] molte leggi date in quest'anno da Onorio imperadore, tutte in Ravenna, dove egli soggiornava. Era seguita nell'anno precedente in Africa la famosa conferenza tra i cattolici e donatisti colla decisione di Marcellino tribuno, assistente alla medesima di ordine di Onorio, in favore de' primi. Gli ostinati donatisti non si vollero per questo rendere, anzi maggiormente infuriarono, e seguitarono a commettere degli omicidii: il che obbligò l'imperadore a pubblicare in quest'anno delle leggi più che mai rigorose contra di loro. Ordinò che fossero tolte loro le chiese, e date ai cattolici; che i laici della lor setta fossero puniti con pene pecuniarie; che non potessero far adunanze. Con altre leggi poi concedette molte esenzioni ai beni degli ecclesiastici, e determinò che le accuse contra le persone de' medesimi fossero giudicate dai vescovi alla presenza di molti testimonii. E perchè dall'Africa venivano frequenti doglianze delle avanie e concussioni che vi commettevano gli uffiziali cesarei, deputati tanto a raccogliere i tributi quanto a far pagare i debiti degli anni addietro, e a cercare i desertori e vagabondi, Onorio con saggi editti si studiò di rimediare a sì fatti disordini. Premeva ancora a questo piissimo principe che si rimettesse in vigore la tanto afflitta città di Roma; e però diede varii privilegi ai corporati, cioè alla società di coloro che [419] conducevano colà grani ed altri viveri, acciocchè non penuriasse il popolo di vettovaglia. Roma in fatti dopo le calamità sofferte dai Goti non istette molto a ripopolarsi, di maniera che Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 40.] pochi anni dopo scrivendo la sua storia, attestò, per relazione degli stessi Romani, che non si conosceva più il danno inferito a quell'augusta città dai Barbari, a riserva di qualche luogo già devastato dalle fiamme. Ed Albino prefetto di Roma nell'anno 414 (secondochè narra Olimpiodoro) [Olympiod., apud Photium, pag. 188.] scrisse che non bastava al popolo d'essa città la porzione del grano pubblico assegnatogli dalla pia liberalità dell'imperadore: tanto era cresciuta la moltitudine degli abitanti.


   
Anno di Cristo CDXIII. Indizione XI.
Innocenzo papa 13.
Onorio imperad. 21 e 19.
Teodosio II imperad. 12 e 6.

Consoli

Lucio ed Eracliano.

Eracliano, quel medesimo che di sua mano uccise già Stilicone, e per guiderdone ebbe da Onorio Augusto il governo dell'Africa col titolo di conte, fu creato dal medesimo imperadore console di quest'anno, in compagnia di Lucio, avendo voluto Onorio premiare il merito ch'egli s'era acquistato in isventare negli anni addietro i disegni del falso imperadore Attalo, con impedirgli l'entrata nell'Africa. Ma costui, persona di scellerati costumi, dei quali ci lasciò una orrida dipintura san Girolamo [Hieron., Epist. VIII ad Demetriad.], senza sapersi se in lui fosse maggiore la superbia o la crudeltà, l'avarizia o la gola, gonfiatosi maggiormente per quest'onore, e mosso non meno dagli esempi dei tiranni della Gallia, che dalla poca stima del regnante Onorio: anche egli si sottrasse [420] dalla di lui ubbidienza; e meditò non solo di farsi padrone dell'Africa [Orosius, lib. 7, cap. 42.], ma eziandio di levar la corona di testa al suo benefattore Augusto. Congiurossi pertanto con Sabino, suo domestico e consigliere, uomo accortissimo, capace di eseguir de' grandi attentati, e di seguito non minore in Africa, con dargli per moglie una sua figliuola, affine di più strettamente invischiarlo ne' suoi interessi. Trattenne costui per qualche tempo con vari pretesti la spedizion de' grani a Roma, pensando di valersi delle navi pel disegno da lui conceputo. In quest'anno poi unita una gran flotta con quanti armati potè, spiegò le vele verso Roma, non già coll'apparenza di andare a prendere il possesso del consolato, ma colla chiara disposizione di farsene padrone. Paolo Orosio scrive essere allora corsa fama ch'egli seco menasse tremila e dugento navi: numero che eccede la credenza nostra, perchè, siccome il medesimo autore osserva, neppure Serse, e nemmeno Alessandro od altro monarca giunse mai a formare una flotta sì strepitosa. All'incontro Marcellino conte [Marcell., in Chronico.] più discretamente narra che costui venne con settecento navi, e tremila soldati, numero nondimeno di gente che dee parere anch'esso troppo scarso per chi meditava sì grande impresa. Giunto Eracliano ai lidi dell'Italia, se gli fece incontro Marino conte, uffiziale di Onorio, con quante truppe potè, e gli mise tale spavento, che giudicò meglio di darsi alla fuga, e se ne tornò con una sola nave in Africa. Ma se vogliam credere allo storico Idacio [Idacius, in Chron., apud Sirmondum.], seguì tra Eracliano e Marino un fatto d'armi ad Otricoli, dove restarono morte cinquantamila persone sul campo: racconto spropositato; perchè se ciò sussistesse, converrebbe supporre venute alle mani almen centomila persone in tal occasione: il che non può mai accordarsi colle circostanze d'allora. [421] Nulladimeno può ben Idacio farci conghietturare che Eracliano conducesse in Italia più di tremila persone, e che solamente fuggisse perchè la peggio gli toccò in qualche conflitto. Giunto costui in Africa sconfitto e screditato, non tardarono a tenergli dietro ordini pressanti dell'imperadore di ucciderlo dovunque si trovasse. E colto in fatti nel tempio della Memoria, fu quivi trucidato. Onorio Augusto a' dì cinque di luglio del presente anno scrisse ai popoli dell'Africa, con dichiarare Eracliano nemico pubblico, condannando lui e i suoi complici a perdere la testa, col confisco di tutti i loro beni [L. 15, tit. 14, Cod. Theod.]. E con altra legge del dì tre d'agosto, indirizzata ad Adriano prefetto del pretorio, ordinò che si abolisse il nome ed ogni memoria di lui. Donò eziandio, secondochè s'ha da Olimpiodoro, tutti i di lui beni a Costanzo conte, suo generale, che se ne servì per le spese del suo consolato nell'anno seguente, ma senza essersi trovati que' monti d'oro che la fama decantava. Sabino, genero d'Eracliano, fuggito a Costantinopoli, fu preso e dato in mano agli ufficiali d'Onorio, e probabilmente si seppe così ben difendere, che n'ebbe solamente la pena dell'esilio.

Intanto nelle Gallie si sconciò presto la buona intelligenza che passò nell'anno addietro fra il suddetto Costanzo conte e Ataulfo re de' Goti. S'era obbligato questo re di restituire Placidia all'imperadore suo fratello; e Costanzo, che desiderava e sperava di ottenerla in moglie, ne andava facendo varie istanze [Olympiod., apud Photium, pag. 185.]. Ma Ataulfo, che aspirava anch'egli alle medesime nozze, non cessava di tergiversare, allegando che Onorio non gli avea consegnato il grano già accordato nella capitolazione; e che, ottenuto questo, la renderebbe. Restati dunque amareggiati gli amici, Ataulfo voltò le sue armi contro di Narbona, e se ne impadronì [422] nel tempo della vendemmia [Idacius, in Chron.]. Per attestato di san Girolamo [Hieron., Epist. XI ad Ageruch.], fu presa anche Tolosa, e il Tillemont sospetta che da Ataulfo. Ma molto prima pare scritta la lettera del santo vecchio, dove conta con tante altre sciagure della Gallia ancor questa. Certo è bensì (e ne fa testimonianza Olimpiodoro) che Ataulfo tentò di sorprendere con inganno la città di Marsiglia; ma non gli venne fatto per la vigilanza e bravura di Bonifazio conte, che coll'armi gli si oppose, con obbligarlo alla fuga, e regalarlo ancora di una ferita. Questo Bonifazio conte verisimilmente è quello stesso ch'ebbe dipoi il governo dell'Africa, e s'incontra nelle lettere di sant'Agostino. Sappiamo ancora da Prospero Tirane [Prosper Tiro, in Chron.] che l'Aquitania in questo anno venne in potere de' Goti; e da Paolino penitente [Paul. Poenit., in Eucharist.], che la città di Bordeaux ricevette come amico Ataulfo; ma non andò molto che provò miseramente la crudeltà di que' Barbari, con rimanerne tutta incendiata. Così in questi tempi ebbe principio nella Gallia meridionale il regno de' Goti, di modo che quelle provincie per alcuni secoli dipoi portarono il nome di Gotia. Similmente nella parte settentrionale della Gallia presso il Reno i Borgognoni sotto il re loro Guntario, o Gondecario, stabilirono il loro regno. Erano costoro popoli della Germania: divennero in breve cristiani, e si domesticarono sì fattamente, che i Romani di que' paesi volentieri se ne stavano sotto il loro governo. La Borgogna d'oggidì è una picciola parte di quel regno, perchè costoro a poco a poco stesero il loro dominio fino a Lione, al Delfinato, e ad altre città di que' contorni, come avvertì il Valesio [Hadrian. Valesius Notit. Galliar.]. Dappoichè Marino conte ebbe nel presente anno sì valorosamente ripulsato da' contorni di Roma il ribello Eracliano, in [423] ricompensa del merito ch'egli s'era acquistato, fu spedito dall'imperadore Onorio in Africa con ampia autorità di punire e confiscare. Costui barbaramente si prevalse del suo potere, colla morte non solo di molti delinquenti, ma anche di non pochi innocenti, perchè con troppa facilità porgea l'orecchio a chiunque portava accuse in segreto. Grande strepito soprattutto fece in quelle parti l'aver egli tolta la vita a Marcellino tribuno e notaio, cioè a quel medesimo che aveva assistito alla celebre conferenza tra i cattolici e donatisti, uomo di rara virtù e di santa vita. Creduto parziale dei cattolici, trovarono maniera gli eretici di farlo credere reo di non so qual delitto al suddetto Marino, il quale senz'altro gli fece mettere le mani addosso ed imprigionarlo. Udita questa nuova, santo Agostino [August., Epist. CLXI, olim CCLIX.] scrisse caldamente a Ceciliano governatore allora dell'Africa, con raccomandargli l'innocente Marcellino, e n'ebbe per risposta che si studierebbe di salvarlo. Ma nel dì 13 di settembre Marino gli fece tagliar la testa in Cartagine. Per aver egli incontrata la morte per odio ed istigazione degli eretici, il cardinal Baronio l'inserì qual martire nel Martirologio romano a dì 6 d'aprile. Per le premure d'esso Marcellino, sant'Agostino scrisse la bell'opera della Città di Dio, e la dedicò al medesimo. Tante doglianze per questa iniquità di Marino fecero dipoi i cattolici africani [Orosius, lib. 7, cap. 42.], che Onorio Augusto il richiamò in Italia, e di tutte le cariche lo spogliò. Poscia nell'anno seguente con suo editto [Cod. Theod., lib. 55, de Haeretic.] confermò tutti gli atti seguiti sotto la sua assistenza fra i cattolici e donatisti. Appartiene ancora a quest'anno una legge di Onorio, in cui per quattro anni esentò le provincie d'Italia da varie imposte, mosso, come si può credere, da' saccheggi che avea patito il paese pel passaggio dei Barbari.


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Anno di Cristo CDXIV. Indiz. XII.
Innocenzo papa 14.
Onorio imperad. 22 e 20.
Teodosio II imper. 13 e 7.

Consoli

Flavio Costanzo e Flavio Costante.

Se non v'ha errore nelle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], la prefettura di Roma fu nell'anno presente esercitata da Eutichiano, poscia da Albino, poscia da Epifanio. Di Albino prefetto di Roma fa anche Olimpiodoro menzione. Costanzo conte, generale d'Onorio Augusto, entrò console quest'anno in Occidente; e Costante, generale di Teodosio Augusto in Oriente, fu l'altro. Secondo Olimpiodoro, sembra che Costanzo venuto a Ravenna, quivi nel primo dì dell'anno assumesse gli abiti consolari. Poscia, così richiedendo i bisogni dell'imperio, se ne tornò nella Gallia, dove fece nuove istanze ad Ataulfo re de' Goti, perchè restituisse Galla Placidia. Ma Ataulfo sfoderava ogni dì nuove scuse e pretesti per non renderla. Finalmente coll'interposizione di un buon sensale, appellato Candidiano, riuscì ad Ataulfo d'indurre quella principessa a riceverlo per consorte. A tal fine, per quanto scrive Filostorgio [Philost., lib. 7, cap. 4.], egli ripudiò la prima moglie, che era Sarmata di nazione. Racconta Giordano storico che seguirono le nozze in Forlì (quando non avesse cambiato Frejus di Provenza in Forlì d'Italia), oppure in Imola. Certamente è un errore, perchè Ataulfo non la sposò prima dell'anno presente, nè era per questi tempi in Italia. Quel che più importa, Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, p. 184.] più autentico storico, perchè contemporaneo, attesta celebrate quelle nozze nella Gallia nella città di Narbona, correndo il gennaio del presente anno. Altrettanto abbiamo da Idacio [Idacius, in Chronic. apud Sirmond.]. Seguì [425] dunque con tutta magnificenza quel nobile sposalizio in casa di un certo Ingenio, primario cittadino di Narbona, e fu dato il primo luogo a Placidia che vi comparve in abito da reina. Ataulfo vestito anch'egli alla romana fece suntuosi doni alla principessa, e fra gli altri fu singolar quello di cinquanta paggi, ciascun dei quali portava nell'una mano un bacile pieno d'oro, e nell'altra un altro simile ripieno di pietre preziose d'inestimabile valore. Al ladro è facile pulire la sposa. Furono quei regali ricchezze tutte asportate dai Goti dal sacco di Roma. Cantossi in tal funzione secondo l'usanza l'epitalamio, ed il primo ad intonarlo fu Attalo, che d'imperadore de' Romani era divenuto cortigiano dei re goti. Terminò poi la solennità con giuochi, grande allegrezza e tripudio di quanti Romani e Barbari si trovarono allora in Narbona. Leggesi presso Jacopo Spon [Spon, Miscell. erudit. Antiq., p. 157.] una iscrizione di sant'Egidio nella Linguadoca, posta ad Ataulfo Flavio potentissimo re, ec., e alla Cesarea Placidia anima sua, ec. Ma è da stupire che un uomo dotto come Spon, ed anche il celebre Du-Cange, ricevessero per monumento legittimo dell'antichità una iscrizione sì affettata e ridicola, e che combatte ancora contro la storia d'allora. Non c'è apparenza alcuna che Onorio imperadore acconsentisse a tali nozze; perciocchè in questo medesimo anno, secondo la Cronica di s. Prospero, per consiglio dei Goti e colle loro spalle Attalo ripigliò nella Gallia la porpora, e la fece da imperadore al dispetto d'esso Onorio; ma con una assai trista figura, perchè non avea nè potere, nè danari, nè soldati, e con sì bell'aspetto di signoria non era che un servo dei Goti. Paolino penitente, di cui resta un poema eucaristico, ricco cittadino di Bordeaux, e nipote del famoso Ausonio, scrive che da questo immaginario imperadore ottenne la carica di conte della tesoreria segreta; tesoreria per confessione di lui fallita, [426] e di nome solo. A quest'anno nel Codice di Giustiniano è riferita una legge di Onorio imperadore [L. 2, de his qui ad Eccl. confugiunt. Cod. Justinian.], in cui stabilisce l'immunità delle chiese, ordinando che non si possa levare dai sacri templi chi colà si rifugia, ed intimando la pena di lesa maestà a chi contravvenisse. Forse quella legge appartiene all'anno 409, in cui Giovio fu prefetto del pretorio in Italia. Altri editti del medesimo Augusto spettanti all'anno presente esistono nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], specialmente per sollevare da tanti aggravii e dalle iniquità de' pubblici uffiziali i popoli dell'Africa. Perchè non era facile a quella gente il portar le loro doglianze alla corte, a cagione del mare, perciò i ministri della giustizia e del fisco a man salva vi faceano non poche estorsioni ed avanie: al che il buon Augusto andò provvedendo il meglio che potè. In Costantinopoli mancò di vita Antioco persiano, che fin allora con grande lode era stato curatore del giovine Teodosio Augusto a nome d'Isdegarde re della Persia. Allora Teodosio dichiarò Augusta Pulcheria sua sorella, giovane piissima, e dotata d'insigni virtù, che saggiamente aiutò da lì innanzi il fratello nel governo dell'imperio, e dedicò a Dio la sua virginità. Delle sue mirabili qualità e virtù è da leggere Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 1.].

Nella Gallia mal sofferì Costanzo conte, generale d'Onorio, il maritaggio di Galla Placidia con Ataulfo, perchè a quelle nozze anch'egli da gran tempo aspirava. Ma non potendo di più, attese a liberare dal barbaro re e da' suoi Goti quanto paese egli potè. Impedì che non potessero aver navi nè commercio coi paesi forestieri, ed intanto con segreti trattati procurò di spignere Ataulfo in Ispagna, facendogli sperare colà a nome dell'imperadore la cession di qualche provincia per sua residenza. Nè mancava [427] già Galla Placidia di consigliar al marito la pace con suo fratello, di manierachè Ataulfo prese la risoluzione di passar in Ispagna, con pensiero di quivi combattere contro i Vandali, Alani e Svevi in favore d'Onorio Augusto. Scrive Paolo Orosio [Orosius, l. 7, c. 43.], autore che in questi tempi compilava la sua istoria ad istanza di sant'Agostino, che Costanzo dimorando in Arles, scacciò Ataulfo da Narbona, e il costrinse a ritirarsi in Ispagna: parole che sembrano indicare usata la forza dell'armi per isloggiarlo di là. Ma probabilmente il solo avergli difficultati i viveri e le speranze a lui date, furono le cagioni principali di mutar quartiere. Narra inoltre lo stesso Orosio di avere inteso da san Girolamo, che un cittadino di Narbona, persona riguardevole ed amicissimo dello stesso Ataulfo, raccontava che questo re sulle prime altro non meditava che di annientare l'imperio romano e di stabilire il gotico; ma che dipoi avendo conosciuto che la sfrenata barbarie della sua nazione non voleva nè briglia nè leggi, siccome personaggio d'animo e d'ingegno grande, determinò di acquistar più gloria con adoperar le forze della sua gente per rimettere in auge ed accrescere lo stesso romano imperio, e con divenire ristorator del medesimo, giacchè non avea potuto esserne distruttore. Per questo non volle più guerra co' Romani, e trattò coll'imperadore Onorio di pace; al che contribuivano non poco le esortazioni di Placidia, principessa provveduta d'ingegno, e creduta di pietà non volgare. Il perchè abbiamo abbastanza per intendere che Ataulfo spontaneamente, piuttostochè per forza d'armi, elesse di trasferirsi in Ispagna. Che poi Costanzo conte in altre maniere attendesse al bene dell'imperio, si può raccogliere da un'iscrizione d'Albenga da me data alla luce [Thesaur. Novus Inscript., pag. 697, n. 3.]. Si ricava da essa che Costanzo ristorò e fortificò di mura una città (verisimilmente Albenga [428] stessa) con porte, piazza e porto. Nè può questo applicarsi a Costanzo Augusto figliuolo di Costantino il Grande; ma sì bene a Costanzo conte di cui abbiam finora favellato, avendo egli ritolta parte della Gallia a vari tiranni.


   
Anno di Cristo CDXV. Indizione XIII.
Innocenzo papa 15.
Onorio imperad. 23 e 21.
Teodosio II imp. 14 e 8.

Consoli

Onorio Augusto per la decima volta e Teodosio Augusto per la sesta.

Abbiamo dalle leggi del Codice Teodosiano prefetto in Roma in quest'anno Gracco. Passato che fu Ataulfo re de' Goti in Ispagna, s'impadronì di Barcellona, ed ivi poi stabilì la sua residenza [Olimpiod., apud Photium, pag. 187.]. Gli partorì in quella città Galla Placidia un figliuolo, a cui fu posto il nome di Teodosio: del che sommamente si rallegrò esso Ataulfo, e prese più amore alla repubblica romana. Ma all'allegrezza succedette da lì a non molto la tristezza, essendo mancato di vita questo loro germoglio, che con gran duolo de' genitori fu seppellito entro una cassa d'argento in una delle chiese di Barcellona. Ma peggio avvenne poco appresso, perchè lo stesso Ataulfo fu anch'egli tolto dal mondo, mentre nella scuderia visitava, secondo il costume, i suoi cavalli da un suo domestico, appellato Dubbio. Costui, perchè il suo vecchio padrone, re di una parte de' Goti, era stato ammazzato da Ataulfo, non gliela perdonò mai più, finchè ne fece nella forma suddetta la vendetta. Giordano [Jordan., de Rebus Getic., c. 31.] chiama il di lui uccisore Vernulfo, aggiugnendo, che costui irritato, perchè il re metteva in burla la sua corta statura, gli cacciò la spada nella pancia. E se a tale storico prestiam fede, già Ataulfo s'era inoltrato nella Spagna, ed avea cominciato a combattere [429] coi Vandali ed Alani in favore dell'imperio romano. Filostorgio [Philost., lib. 12. c. 4.] attribuisce la di lui morte a varie crudeltà da lui commesse in collera. Prima di morire, Ataulfo raccomandò a suo fratello, di cui non sappiamo il nome, che restituisse all'imperadore Onorio la sorella Placidia, e procurasse, in qualunque modo che potesse, di stabilir pace e lega coll'imperio romano. Si figurava egli che questo suo fratello gli avesse a succedere nel regno; ma s'ingannò. Singerico, fratello di quel Saro che disopra vedemmo trucidato per ordine dello stesso Ataulfo, non in vigore della legge o della parentela, ma colla violenza fu creato re [Olymp., apud Photium, pag. 187.]. Nè tardò costui a far la vendetta del fratello, perchè strappati dalle braccia di Sigesaro vescovo (non so se dei Goti stessi, oppure di Barcellona) i figliuoli di Ataulfo, a lui nati dal primo matrimonio, crudelmente li fece ammazzare. Oltre a ciò, in onta del re defunto fece camminar la stessa regina Placidia a piedi davanti al suo cavallo, mischiata con altri prigionieri per lo spazio di dodici miglia. Ma questo Barbaro in capo a sette dì fu anche egli scannato, ed ebbe per successore Vallia. Ambrosio Morales [Morales, Hist. Hisp. lib. 2.], e dopo lui il Baronio [Baron., Annal. Eccl.] rappresentano un epitafio posto al re Ataulfo in Barcellona, dove si dice seppellito con sei figliuoli, uccisi dalla sua gente. Eccolo di nuovo.

Bellipotens valida natvs de gente gothorvm.

Hic cvm sex natis rex ataulphe jaces.

Avsvs es hispanas primus descendere in oras

Qvem comitabantvr millia mvlta virum.

Gens tva tvnc natos, et invidiosa peremit.

Qvem post amplexa est barcino magna gemens.

Se antica, o de' secoli susseguenti, sia quest'iscrizione, alcuno ha dubitato, e ne dubito più d'essi anch'io, parendo che non convenga assai colla storia quel terzo esametro verso:

Avsvs es hispanas primus descendere in oras

[430] Ma certo egli fu il primo de' re Goti che fissassero la sua residenza in Ispagna. Potrebbe ben servire ad assicurarci che fosse composto allora esso epitafio l'autorità di Flavio Destro, storico di que' tempi, perch'egli scrive che era fattura sua. Ma oggidì è conchiuso fra i letterati, tinti alquanto di critica, e liberi dalle passioni spagnuole, che la storia pubblicata sotto nome di Flavio Destro, e commentata dal Bivario, è una solenne impostura di questi ultimi tempi, e ne sappiamo anche l'autore, o gli autori, che con altre simili merci hanno sporcata la storia e il martirologio della Spagna e del Portogallo. Secondo la Cronica Alessandrina, giunse a Costantinopoli la nuova della morte d'Ataulfo nel dì 24 di settembre dell'anno presente, e se ne fece festa.

In quest'anno Onorio Augusto pubblicò una legge [L. 20, tit. 10, lib. 16. Cod. Theod.] severissima contra dei pagani, con istenderla non solamente per tutta l'Africa, ma per tutto ancora il romano imperio. In essa comandò egli che dovessero uscir di Cartagine e da tutte le città metropolitane i sacerdoti del paganesimo. Unì al fisco tutti i loro luoghi sacri e le entrate che da loro dianzi s'impiegavano in sagrifizii e conviti, a riserva di quanto era già stato donato alle chiese de' Cristiani. Si era in altre leggi mostrato questo imperadore assai favorevole ai Giudei. Anche nel presente anno loro concedette il poter tenere schiavi cristiani [Lib. 16, tit. 9, l. 3. Cod. Theodos.], purchè loro lasciassero la libertà della religione, nè li seducessero. Editto disdicevole ad un imperador cristiano, e concessione riprovata molto prima da Costantino il Grande. E perciocchè essi Giudei gli rappresentarono che parecchi della loro setta abbracciavano la fede cristiana, non con animo vero, ma solamente per ischivar le pene de' lor delitti e i tributi imposti ai Giudei, Onorio permise a costoro di ripigliare la lor setta, credendo egli che non tornasse il [431] conto neppure alla religion cristiana l'aver in seno questi finti cristiani. Sono ben diverse in questo proposito le leggi de' nostri tempi. All'incontro Teodosio Augusto con altri editti represse l'insolenza d'essi Giudei. E sappiamo dalla Cronica Alessandrina che nel presente anno terminò i suoi giorni Termanzia figliuola di Stilicone, e moglie d'Onorio imperadore, ma ripudiata da lui. Succedettero ancora in quest'anno dei fieri tumulti nella città d'Alessandria, per i quali di colà furono scacciati i Giudei. Socrate storico [Socrates, lib. 7, c. 15 Hist. Eccl.] incolpa forte di tali scandali Cirillo vescovo di quella città, e i monaci di Nitria; ma sopra ciò è da vedere il cardinale Baronio.


   
Anno di Cristo CDXVI. Indizione XIV.
Innocenzo papa 16.
Onorio imperad. 24 e 22.
Teodosio II imperad. 15 e 9.

Consoli

Teodosio Augusto per la settima volta, e Giunio Quarto Palladio.

Probiano prefetto di Roma nel presente anno si mira nelle leggi del Codice Teodosiano. Aveano i Goti nella Spagna eletto Vallia per loro re, con intenzione ch'egli facesse la guerra contro ai Romani. Ed egli in fatti s'accinse all'impresa, e meditando di far delle conquiste ne' paesi dell'Africa [Orosius, lib. 7, cap. 43.], fece imbarcare un numeroso corpo de' suoi Goti, bene armati, per farli passare colà. Ma Iddio permise che costoro assaliti da fiera burrasca con tutte le navi perissero dodici miglia lungi dallo stretto di Gibilterra. Questo sinistro avvenimento, e il ricordarsi Vallia come miseramente fosse terminata un'altra simile spedizione, allorchè Alarico volea passare in Sicilia, gli mise il cervello a partito, e determinò di cercar piuttosto la pace dall'imperadore Onorio, con promettergli la restituzione di Galla Placidia, ed obbligar la nazione de' Goti [432] a far guerra in favore dell'imperio romano agli altri Barbari che aveano fissato il piede in Ispagna, cioè ai Vandali, Alani e Svevi. Cosa curiosa, e, per quanto osservò Paolo Orosio, quasi incredibile avvenne, cioè che anche gli altri re barbari, che non erano d'accordo coi Goti, esibirono lo stesso ad Onorio, con fargli sapere: Strignete pure, o Augusto, la pace con tutti, e da tutti ricevete gli ostaggi; che noi, senza che vi moviate, combatteremo insieme. Nostre saranno le morti, per voi sarà la vittoria; e un immortal guadagno verrà alla romana repubblica, se noi pugnando l'un contra l'altro tutti periremo. Onorio accettò l'esibizione di Vallia, e, secondochè scrive Filostorgio [Philost., lib. 12, cap. 4.], concedette ai Goti una parte della Gallia, cioè la seconda Aquitania, o sia la Guascogna, con terreni da coltivare. Ma questa concessione più fondatamente si dee riferire all'anno 418. Giordano storico [Jordan., cap. 32, de Reb. Getic.] non so qual fede meriti qui, perchè confonde molti punti di storia; tuttavia ascoltiamolo, allorchè narra che Costante conte, generale dell'imperadore, con un fiorito esercito si mosse contra di esso re Vallia, con disegno di ricuperar Placidia o colle buone o colle brusche; ma che essendogli venuto incontro il re Goto con un'armata non inferiore, seguirono varie ambascerie, per le quali finalmente si conchiuse la pace. Onorio mandò a Vallia una gran quantità di frumento già promesso, e non mai dato ad Ataulfo, cioè, per attestato di Olimpiodoro [Olimpiodorus, apud Photium, pag. 190.], seicentomila misure. Ed allora il Goto rimise Galla Placidia con tutta onorevolezza in mano di Eupiuzio Magistriano, uffiziale cesareo, spedito a lui per la pace, il quale la ricondusse o la rimandò al fratello Augusto. Poscia esso ne attese a mantener la parola data ad Onorio, con far la guerra valorosamente agli altri Barbari usurpatori della Spagna. Bisogna che fra i patti [433] della pace tra l'imperadore e i Goti, uno ancora se ne contasse, cioè che i Goti abbandonassero Attalo imperador da commedia di que' tempi, oppure che il consegnassero nelle mani d'esso Onorio. Da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.] sappiamo che costui passò coi Goti in Ispagna, e di là si partì, probabilmente perchè scorgendo i maneggi di pace coll'imperadore, sospettò di restar vittima dell'accordo. Si pose dunque in nave, ma nel mare fu preso, e condotto a Costanzo generale cesareo, al quale era stato conferito il titolo di patrizio; e questi ordinò che fosse condotto a Ravenna. Gli fece Onorio solamente tagliar la mano destra, oppure, come vuol Filostorgio [Philost., lib. 12, cap. 5.], non altro che il pollice e l'indice della destra, acciocchè non potesse più scrivere. Anzi questo autore attesta essere stato costui consegnato dai Goti stessi all'imperadore; ed è verisimile, con patto segreto di salvargli la vita. Secondo lui, solamente nell'anno seguente gli furono tagliate le dita. Prospero [Prosper, in Chron.] riferisce all'anno precedente la presa d'Attalo; ma nella Cronica Alessandrina abbiamo che nel dì 28 di giugno e nel dì 6 di luglio del presente anno furono fatte feste e giuochi pubblici in Costantinopoli per la presa d'Attalo. Potrebbe essere che l'arrivo di costui a Ravenna accadesse nel fine di questo o nel principio del susseguente anno. Erano poi succeduti, duranti le guerre e i passaggi de' Barbari, nel romano imperio dei disordini incredibili contra le leggi; ed è probabile che i giudici ed uffiziali imperiali ne profittassero con formare de' fieri processi contro chiunque vi avea contravvenuto. Ma l'imperadore Onorio con una legge [L. 14, tit. 14, lib. 15. Cod. Theodos.], indirizzata a Costanzo conte e patrizio, abolì tutti i reati di chiunque avesse in quei tempi sì sconcertati rapito ed occupato l'altrui, riserbando solamente ai padroni [434] di ricuperare il suo, se tale poteano provarlo. Bolliva intanto l'eresia di Pelagio e Celestio, specialmente in Africa, dove s'erano raunati i vescovi ne' concilii di Cartagine e di Milevi, oggidì Mela, in occasion di costoro che si studiavano di seminar dappertutto il loro veleno. Innocenzo papa, scrivendo in quest'anno ai padri d'essi concilii, condannò le opinioni di costoro, e ne scomunicò gli autori: il che gli accrebbe gloria in tutta la Chiesa di Dio.


   
Anno di Cristo CDXVII. Indizione XV.
Zosimo papa 1.
Onorio imperad. 25 e 23.
Teodosio II imperad. 16 e 10.

Consoli

Onorio Augusto per l'undecima volta, e Flavio Costanzo per la seconda.

Aveva l'imperadore Onorio già conferito a Costanzo conte suo generale lo splendido titolo di Patrizio, e volendo maggiormente premiare in quest'anno il suo fedele servigio, oltre all'averlo creato console per la seconda volta, e presolo per collega nel consolato suo undecimo, gli avea destinata per moglie Galla Placidia sua sorella. A tali nozze non inchinava punto Placidia, per quanto scrive Olimpiodoro [Olympiod., apud Photium, pag. 191.], autore di questi tempi, e non si sa se per superbia, o per qual altro motivo. Onorio, o dubitando o sapendo che dai consigli dei familiari e servitori di questa principessa procedeva la di lei avversione e renitenza a questo matrimonio, se la prese contra loro. Ma finalmente la volle vincer egli, e nel dì primo di gennaio, in cui amendue faceano la solennità dell'ingresso nel consolato, presala per mano, la forzò a darla a Costanzo; ed ella, benchè di mala voglia, il prese per marito. Si celebrarono tali nozze con gran pompa e splendidezza. Partorì poi Placidia a Costanzo, probabilmente prima che terminasse l'anno, una figliuola ch'ebbe il [435] nome di Giusta Grata Onoria. D'essa è fatta menzione in un'iscrizione rapportata già dal Grutero [Gruter., Inscription., pag. 1048, n. 1.], e poscia da me più corretta nel mio Tesoro nuovo. Volle eziandio in quest'anno l'Augusto Onorio consolare colla sua presenza i Romani. La Cronica di Prospero [Prosper, in Chron. apud Labbeum.] rende testimonianza ch'egli trionfalmente entrò in quella città, e che davanti al suo cocchio fece marciare a piedi Attalo, già immaginario imperadore. Filostorgio aggiugne che esso Augusto giunto colà, al mirare la città tornata così popolata, se ne rallegrò assaissimo, e colla mano e colla voce fece animo e plauso a chi riedificava le case e i palagi rovinati dai Barbari. Poscia essendo salito sul tribunale, volle che Attalo salisse anch'egli fino al secondo gradino, acciocchè tutto il popolo s'accertasse co' suoi occhi della di lui depressione. Dopo di che fattegli tagliar le due dita, con cui si scrive, il mandò in esilio nell'isola di Lipara, vicina alla Sicilia, con ordine di somministrargli tutto il bisognevole pel suo sostentamento. Se ciò fosse un atto di sua clemenza, o pure un concerto fatto coi Goti, allorchè gliel diedero in mano, è tuttavia oscuro. Poco si dovette fermare in Roma Onorio; perciocchè nel gennaio, maggio e dicembre, stando in Ravenna, dove certo egli si restituì dopo la visita fatta ai Romani, abbiamo leggi da lui pubblicate e inserite nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.]. Fra esse una provvede all'annona di Roma. Un'altra vieta sotto pena di morte il comperare per ischiavo un uomo libero, e il turbare nel possesso della libertà i manomessi. In un'altra vuole che le terre incolte sieno esenti dagli aggravii. A dì 12 del mese di marzo, siccome pruova il Pagi, mancò di vita Innocenzo I papa, pontefice di gloriosa memoria per le sue virtù e pel suo zelo nella custodia della religione cattolica e della disciplina ecclesiastica. Ebbe per [436] successore Zosimo, pontefice non assai avveduto, come il suo predecessore, perchè si lasciò sulle prime sorprendere dalle finte suppliche di Pelagio e Celestio eretici, ch'egli buonamente credette innocenti. Ma nel seguente anno, conosciute meglio queste volpi, proferì la sentenza condannatoria de' loro errori. Seguitava intanto nelle Spagne Vallia re de' Goti, dappoichè ebbe conclusa la pace con Onorio, a guerreggiare contra degli altri Barbari, occupatori di quelle provincie. Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirmondum.] scrive, e dopo lui santo Isidoro [Isid., in Hist. Goth. apud Labbeum.], ch'egli fece di coloro grande strage. Tutti i Vandali, chiamati Silingi, che si aveano fabbricato un buon nido nella provincia della Betica, dove è Siviglia, dal filo delle sciable gotiche rimasero estinti. Gli Alani, dianzi sì potenti, furono anch'eglino disfatti dai Goti, ed ucciso il re loro Atace Quei che restarono in vita, si sottoposero a Gunderico re de' Vandali, che regnava nella Galizia, con rimanere abolito il nome del regno loro. È testimonio ancora di queste vittorie Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 43.], il quale nell'anno presente diede fine alla sua storia, scritta da lui in Ispagna, e dedicata a sant'Agostino. Ma forse buona parte di queste prodezze fatte dai Goti si dee riferire al susseguente anno.


   
Anno di Cristo CDXVIII. Indizione I.
Bonifacio I papa 1.
Onorio imperad. 26 e 24.
Teodosio II imperad. 17 e 11.

Consoli

Onorio Augusto per la dodicesima volta, e Teodosio Augusto per l'ottava.

Ricuperate ch'ebbe Vallia molte Provincie della Spagna dalle mani dei Barbari, sembra assai verisimile che le cedesse agli uffiziali dell'imperadore Onorio; perciocchè, secondochè scrive [437] Idacio [Idacius, in Chronic. Prosper, in Chronic.], fu esso Vallia richiamato da Costanzo patrizio nelle Gallie, e d'ordine dell'imperadore quivi assegnata a lui e alla sua nazione, per abitarvi, la seconda Aquitania, dove è Bordeaux, con alcuni paesi circonvicini, cioè da Tolosa fino all'Oceano. Allora la Linguadoca cominciò ad essere appellata Gotia. Giordano storico [Jordan., cap. 33 de Rebus Getic.] chiaramente scrive che Vallia consegnò ai ministri dell'imperadore le provincie conquistate, e venne ad abitare a Tolosa. Ma poco egli godè di questi suoi vantaggi, perchè venne rapito dalla morte nel presente anno, con essere a lui succeduto nel regno gotico Teodorico, o sia Teoderico. Nella Cronica di Prospero questi avvenimenti son riferiti al susseguente anno. Nel presente Zosimo papa fulminò, siccome accennai, la sentenza contro gli errori di Pelagio e di Celestio, e dipoi fece istanza ad Onorio Augusto, dimorante in Ravenna, acciocchè per ordine suo costoro coi lor seguaci fossero cacciati da Roma e dall'altre città, e riconosciuti per eretici. Dobbiamo alla diligenza del cardinal Baronio l'editto allora pubblicato dall'imperadore, e indirizzato a Palladio prefetto del pretorio d'Italia. In vigore di questo anche gli altri prefetti del pretorio, cioè Agricola della Gallia e Monasio dell'Oriente, ordinarono le medesime pene contra quegli eresiarchi. Nel qual tempo anche i vescovi africani in un concilio plenario, inerendo alla sentenza della sede apostolica, concordemente condannarono i suddetti eretici. Terminò il corso di sua vita in quest'anno a dì 26 di dicembre il medesimo Zosimo papa, e dopo due giorni di sede vacante fu eletto nella chiesa di Marcello dalla miglior parte del clero, alla presenza di nove vescovi, per suo successore Bonifazio, vecchio prete romano, figliuolo di Giocondo, ma non senza tumulto e scisma. Imperciocchè un'altra parte del clero e del popolo, stando Eulalio arcidiacono nella chiesa [438] lateranense, quivi l'elessero papa: dal che seguirono molti sconcerti nell'anno appresso. Al presente appartiene ciò che narra Prospero Tirone [Prosper, in Chronic. apud Labb.], o sia qualche altro Prospero, cioè che Faramondo cominciò a regnare sopra i Franchi. Questo è, per quanto dicono, il primo re di quella nazione a noi noto, ma esso sta appoggiato all'autorità di uno scrittore non abbastanza autentico. Nè Gregorio Turonese, nè Fredegario conobbero alcun re de' Franchi di questo nome. Ammiano [Ammian., lib. 16.] sotto l'anno 556 fa menzione dei re de' Franchi, ma senza dire qual nome avessero. Contuttociò è stato creduto dagli eruditi francesi sufficiente questa notizia, per cominciare da questo Faramondo il catalogo di essi re franchi; e tanto più perchè fa menzione di lui anche l'autore de Gestis Francorum, il quale si crede che vivesse circa l'anno di Cristo 700. Ma quell'autore racconta sul principio tante favole della venuta de' Franchi da Troja, e dà per avolo a Faramondo Priamo, e per padre Marcomiro, che non fa punto di credito all'asserzione sua intorno a Faramondo. Potrebbe anch'essere che nella Cronichetta di quel Prospero fosse stata incastrata ed aggiunta ne' secoli susseguenti la notizia d'esso Faramondo, da chi prese per buona moneta le favole inventate dell'origine de' Franchi. In fatti manca essa in qualche testo. Quello che è certo, questa bellicosa nazione, conosciuta anche ne' precedenti due secoli, signoreggiava allora quel paese che è di là dal Reno nella Germania, cominciando da Magonza fino all'Oceano, collimando, per quanto si crede, colla Sassonia e Svevia. Ermoldo Nigello [Ermold. Nigellus, lib. 4, in Rer. Italicar., p. 2, tom. 2.], il cui poema composto a' tempi di Lodovico Pio Augusto, fu da me pubblicato, scrive, essere stata a' suoi dì opinione che i Franchi tirassero la loro origine dalla Dania, o sia [439] dal mar Baltico. Sopra di che è da leggere un'erudita dissertazione del celebre Leibnizio.


   
Anno di Cristo CDXIX. Indizione II.
Bonifacio I papa 2.
Onorio imperadore 27 e 25.
Teodosio II imp. 18 e 12.

Consoli

Monasio e Plenta.

Era insorto scisma, siccome di sopra accennai, nella Chiesa romana per l'elezione dei due competitori Bonifacio ed Eulalio. Quasi tutto il clero e popolo aderiva a Bonifacio; ma Eulalio avea dalla sua Simmaco prefetto di Roma, il quale avendo scritto in suo favore a Ravenna, fu cagione che l'imperadore gli ordinasse con un rescritto cacciar Bonifacio dalla città, e di confermare Eulalio. Mandò anche Onorio a Roma Afrodisio vicario, tribuno, per tener il popolo a freno. Simmaco allora spedì alla chiesa di san Paolo fuori di Roma, dove s'era ritirato Bonifacio, a chiamarlo, per comunicargli l'ordine imperiale. Il messo fu maltrattato dal popolo che stava per Bonifacio. Onde Simmaco sdegnato per questo affronto, pubblicò tosto il comandamento dell'imperadore in favore d Eulalio, e mise le guardie alle porte della città, affinchè Bonifacio non entrasse, con dare susseguentemente avviso all'imperadore dell'operato, e con dipingere Bonifacio come uomo turbolento e sedizioso. Perciò Eulalio liberamente passò alla basilica Vaticana, e quivi alla papale celebrò la messa. Ma informato meglio l'imperadore dagli elettori di Bonifacio, chiamò amendue le parti a Ravenna, e per procedere saviamente, adunò un concilio di vescovi che ne giudicassero. Tuttavia perchè il negozio andò più a lungo di quel che si credeva, e sopravvenne la Pasqua, l'imperadore, per consiglio dei vescovi raunati nel concilio, mandò Achilleo, vescovo di Spoleti, a Roma per le funzioni di que' santi giorni, con ordinare a [440] Bonifacio e ad Eulalio, che niun d'essi si accostasse a Roma, finattantochè non fosse decisa la lor controversia. Chiamò ancora molti altri vescovi più lontani, acciocchè fosse in ordine un concilio più numeroso del primo, da tenersi a Spoleti. Anche Placidia scrisse per questo ad Aurelio vescovo di Cartagine. Ma Eulalio, per la sua superbia, sprezzati gli ordini imperiali, prima del vescovo di Spoleti volò a Roma di bel mezzogiorno, accolto dai suoi parziali con festa, ma non senza un gran tumulto, perchè se gli oppose la parte che teneva per Bonifacio, e in tal mischia molti furono maltrattati e feriti. Allora Simmaco, che dal cardinal Baronio vien tassato per sospetto e parziale in tal controversia, ma che nel progresso non si diede a conoscere per tale, immediatamente notificò tutto il succeduto all'imperadore Onorio ed a Costanzo di lui cognato, i quali adirati per tale insolenza, rescrissero tosto a Simmaco, che cacciasse Eulalio, e il confinasse nel territorio di Capoa, con riconoscere Bonifacio per legittimo papa. Eseguì Simmaco puntualmente l'ordine, e replicò alla corte con biasimare la temerità di Eulalio. E da lui stesso sappiamo che Bonifacio fu ricevuto con sommo giubilo e concordia di tutto il popolo. Tutto questo affare apparisce dalle lettere di Simmaco [Symmachus, in Auctuar. Epist.], e dai rescritti imperiali, rapportati dal cardinal Baronio. Poscia Eulalio per misericordia fu creato vescovo di Nepi, per quanto scrive Anastasio, ossia l'antichissimo autore del Pontificale romano. E mancò poi di vita un anno dopo la morte di papa Bonifacio.

In quest'anno a dì 2 di luglio Galla Placidia, moglie di Costanzo conte e patrizio, gli partorì in Ravenna un figliuolo, a cui fu posto il nome di Flavio Placido Valentiniano, che poscia divenne imperadore [Olympiod., apud Photium, pag. 192.]. Credono alcuni che Placidio, e non Placido, fosse chiamato dal nome della madre. Se non è fallato il [441] testo di Apollinare Sidonio nel panegirico di Avito, ivi egli è chiamato Placido. Onorio suo zio, per le gagliarde istanze della sorella, gli diede da lì a non molto il titolo di nobilissimo, ch'era il primo grado d'onore per chi era destinato all'imperio. Avvenne in questo medesimo anno che i Barbari occupatori di alcune provincie della Spagna, dacchè non erano più infestati dai Goti, vennero alle mani fra loro [Idacius, in Chron. apud Sirmond.]. Gli Svevi, che aveano per loro re Emerico, soccombendo, furono assediati dai Vandali, dei quali era allora re Gunderico, ne' monti Nervasi, che son creduti quei della Biscaglia. Racconta eziandio Prospero Tirone [Prosper, in Chron. apud Labb.], che nell'anno presente Massimo per forza ottenne il dominio delle Spagne, cioè quel medesimo che da Geronzio negli anni addietro fu creato imperadore, e fuggì poi ramingo e screditato appresso i Barbari dimoranti in Ispagna. Ma l'autor d'essa Cronica di troppo apre la bocca, certo essendo che parte della Spagna riconosceva allora per suo signore Onorio Augusto, ed un'altra parte era in potere de' Vandali e Svevi. Può esser che costui in qualche angolo di que' paesi facesse questa nuova scena. Tuttochè poi più fulmini si fossero scagliati contra l'eresia di Pelagio, questa più che mai ostinata resisteva e si dilatava. E specialmente verso questi tempi insorse in difesa d'essa Giuliano vescovo di Eclano, città vicina allora a Benevento, la cui sedia fu poi trasferita a Frigento. L'infaticabil santo Agostino contra di costui e contra di tutta la setta seguitò a comporre varii libri; e i vescovi africani raunati nel concilio di Cartagine soddisfecero alle parti del loro zelo in condannarla ed estirparla. A questo medesimo fine Onorio imperadore, probabilmente mosso dal romano pontefice, unì la sua autorità, con inviare a dì 9 giugno di questo anno ad Aurelio vescovo di Cartagine la costituzione da lui pubblicata nel precedente [442] anno contra di Pelagio e Celestio. Abbiamo ancora un editto [Sirmond., Append. al Cod. Theodos.], con cui il medesimo imperadore slargò fino a quaranta passi fuori della chiesa l'asilo, ossia l'immunità, per chi si ricoverava nei luoghi sacri. E perciocchè talvolta accadeva che delle persone innocenti o perseguitate da' prepotenti, erano imprigionate, con torsi loro i mezzi di potersi difendere, il piissimo imperadore ordinò nel medesimo editto che i vescovi avrebbono un'intera libertà di visitar le prigioni, per informarsi non meno del trattamento che si faceva a' poveri carcerati, che de' loro affari, per sollecitar poscia i giudici in loro favore. Sarebbe da desiderare che questa legge, rapportata dal Sirmondo, e simile ad un'altra del medesimo Augusto dell'anno 409, non fosse abolita, o che la pietà de' principi in altra maniera provvedesse al bisogno dei carcerati, con ricordarsi delle regole importantissime della carità cristiana.


   
Anno di Cristo CDXX. Indizione III.
Bonifacio I papa 3.
Onorio imperadore 28 e 26.
Teodosio II imp. 19 e 13.

Consoli

Teodosio Augusto per la nona volta, e Flavio Costanzo per la terza.

Erano, come dissi, assediati gli Svevi nei monti Nervasi della Spagna dai Vandali. Probabilmente costoro mandarono per aver soccorso da Asterio conte delle Spagne; perciocchè Idacio racconta [Idacius, in Chronico apud Sirmond.] che i Vandali, all'udire che si avvicinava con grandi forze questo uffiziale dell'imperadore, levarono tosto l'assedio, ed abbandonata la Galizia, s'inviarono verso la provincie della Betica, con avere nel passaggio per Braga commessi alcuni omicidii. Dovea forse la Betica essere allora scarsa di presidii, e però se ne impadronirono. In Costantinopoli, secondo [443] che riferisce la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.], Teodosio Augusto era già pervenuto ad età competente per ammogliarsi. Pulcheria Augusta sua sorella, donna di gran senno, cercò dappertutto moglie che fosse degna di sì gran principe; e udito ch'egli non curava nè ricchezze nè nobiltà, premendogli solamente le virtù e la bellezza, gliene scelse finalmente una di suo genio; e questa fu Atenaide, figliuola di Eraclito filosofo, giovane di rara beltà, e addottrinata in molte scienze. A lei il padre in morendo avea lasciato solamente cento nummi in sua parte, con dire che a lei bastava per dote il sapere accompagnato dalla bellezza; e tutto il resto della sua eredità pervenne a due maschi, parimente suoi figliuoli. Mancato di vita il padre, Atenaide pretendendosi indebitamente, perchè senza sua colpa, diseredata ed aggravata, dimandò ai fratelli la sua legittima; e la risposta fu che eglino la cacciarono di casa. Ricoverossi ella per questo presso d'una sua zia materna, la quale seco la menò a Costantinopoli, per chiedere giustizia all'imperadore, e presentolla prima d'ogni altra cosa all'Augusta Pulcheria, implorando la di lei protezione. Pulcheria, adocchiato il graziosissimo aspetto di questa giovane, ed inteso ch'era vergine, e vergine dotata di gran prudenza e di molta letteratura, la fece restare in corte. Raccontò poi questa avventura a Teodosio suo fratello, senza tacere le singolari prerogative di corpo e d'animo che si univano in questa donzella. Di più non vi volle perchè Teodosio s'invogliasse di vederla. Fattala dunque di concerto venire nella camera di Pulcheria, il giovane imperadore in compagnia di Paolino suo compagno ed amico, che fu poi maestro degli uffizii, ossia maggiordomo maggiore, stando dietro ad una portiera la guatò ben bene, e in guisa tale, che straordinariamente gli piacque, e massimamente perchè Paolino proruppe in atti di ammirazione. Questa è quella ch'io cerco, disse allora Teodosio [444] in suo cuore; ed indottala ad abbracciar le religion cristiana, perchè era nata ed allevata nel paganesimo, la prese poi nell'anno seguente a dì 7 di giugno per moglie, avendole fatto mettere nel battesimo il nome d'Eudocia. Onorio Augusto in quest'anno a dì 8 di maggio in Ravenna fece una costituzione, indirizzata a Palladio prefetto del pretorio [L. 3, lib. 9, tit. 25. Cod. Theod.], per rinnovar le leggi già fatte contra chi rapisse vergini consacrate a Dio, o in altra guisa insidiasse o pregiudicasse alla lor castità. Nella stessa legge presso il Sirmondo [Sirmondus, Append. ad Cod. Theod.] vien proibito agli ecclesiastici di tenere in casa persona di differente sesso, a riserva della madre, delle sorelle e figliuole, e della moglie, tenuta prima del sacerdozio. Giunto san Girolamo, celebre dottor della Chiesa, all'età di novanta anni, diede fine nel presente alla sua vita ed alle sue penitenze e gran fatiche in pro della Chiesa cattolica.


   
Anno di Cristo CDXXI. Indizione IV.
Bonifacio I papa 4.
Onorio imperad. 29 e 27.
Teodosio II imp. 20 e 14.
Costanzo imperadore 1.

Consoli

Eustazio e Agricola.

Non si quietò mai Galla Placidia, finchè non gli riuscì d'indurre il fratello Onorio Augusto a prendere per suo collega nell'imperio Costanzo di lei marito. Però tali e tante furono le batterie ed istanze sue, che in quest'anno Onorio il dichiarò Augusto a dì 8 di febbraio, per quanto s'ha da Teofane [Theoph., in Chron.]. L'autore della Storia Miscella scrive [Histor. Miscell., lib. 14, tom. 1 Rer. Italic.] che Onorio conoscendo essere appoggiata la propria difesa tanto in guerra che in pace al [445] valore e all'ingegno di Costanzo suo cognato, incitato anche dall'approvazione di tutti, il prese per suo collega. Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 195.], all'incontro, scrittore di quei tempi, asserisce che Onorio contra sua voglia il creò Augusto. Ma avendo i Greci sentita male questa elezione, può sospettarsi che il greco scrittore parlasse del medesimo tenore. Con tal congiuntura anche Galla Placidia di lui moglie ebbe il titolo e gli onori d'Augusta. Certo è che l'imperadore d'Oriente Teodosio, il quale probabilmente venendo a mancare Onorio senza figliuoli, sperava un dì riunire al suo l'imperio d'Occidente, disapprovò questa promozione; e però non volle ammettere il messo che gliene portò la nuova. Parimente attesta Filostorgio [Philostorg., lib. 12. Hist. Eccl.] che essendo state mandate, secondo il rito d'allora le immagini di Costanzo Augusto a Costantinopoli, Teodosio non le volle ricevere, e che per questo affronto Costanzo si preparava per muovergli guerra, quando Iddio il chiamò a sè dopo sei mesi e venticinque giorni di imperio, cioè a dì 2 di settembre dell'anno presente. Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 195.] pretende che per l'afflizione di vedersi rifiutato in Oriente, e pentito d'essere stato alzato a grado sì sublime, perchè non poteva aver come prima i suoi divertimenti, egli cadesse malato. Ma Costanzo, uomo d'animo grande, non era sì meschino di senno e di cuore, da ammalarsi per questo. Una doglia di costa il portò all'altro mondo. Fama fu che in sogno udì dirsi: I sei son terminati, e il settimo incomincia: parole poscia interpretate dei mesi del suo imperio. Aggiugne il suddetto storico, che dopo la morte di Costanzo, molti vennero da tutte le parti a Ravenna a chiedere giustizia, pretendendosi spogliati indebitamente da lui de' loro beni, senza poterla nondimeno ottenere a cagione della troppa bontà, anzi della soverchia familiarità che [446] passava tra Onorio e Placidia Augusta sua sorella, motivi che affogarono e renderono inutili tutte le doglianze di costoro. Ma se non merita fede questo istorico pagano, allorchè dopo aver fatto sì bell'elogio di Costanzo, cel vuole dipignere per uomo di debolissimo cuore; molto men la merita allorchè soggiugne, che, rimasta vedova Placidia, le mostrò tanto affetto l'Augusto Onorio, con baciarla anche spesso in volto, che corse sospetto d'una scandalosa amicizia fra loro. Queste senza dubbio son ciarle di uno scrittore gentile, nemico de' regnanti cristiani, o ciarle dei Greci, sempre mal affetti ai Latini. La virtù che maggiormente risplendè in Onorio, fu la pietà; e non ne era priva la stessa Galla Placidia.

Il Browero [Browerus, Annal. Trever., lib. 5, num. 34] rapporta un epitafio, che per attestato di lui si conserva in Treveri nella basilica di san Paolino, posto a Flavio Costanzo, uomo consolare, conte, e generale dell'una e dell'altra milizia, patrizio, e due volte console. Ma questa iscrizione, quando sia legittima, potè ben essere fatta vivente Costanzo, ma non già servire a lui di memoria sepolcrale. Costanzo tre volte era stato console, e, quel che è più, Augusto. Negli epitafii degl'imperadori non si soleano mettere le dignità sostenute prima di arrivare all'imperio. Nè Costanzo terminò la vita in Treveri. Racconta Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 194.] che mentre esso Costanzo regnava con Onorio, venne a Ravenna un certo Libanio, mago ed incantatore solenne, che professava di poter far cose grandi contro ai Barbari senza adoperar armi e soldati; e diede anche un saggio di queste promesse. Pervenutone l'avviso a Placidia Augusta, mossa ella o da zelo di religione da paura di costui, minacciò fino di separarsi dal marito Costanzo, se non levava questo mal uomo dal mondo: il che fu fatto. Dobbiamo al cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 420.] l'editto indirizzato in questo [447] anno, e non già nel precedente, da esso Costanzo Augusto a Volusiano prefetto di Roma, con ordine di cacciar via da essa città Celestio, il pestifero collega di Pelagio, con tutti i suoi seguaci. Attesta eziandio s. Prospero [Prosper, lib. 3, cap. 38, de Praedict.], che ai tempi di Costanzo e dell'Augusta Placidia, per cura di Orso tribuno, fu atterrato in Cartagine il tempio della dea celeste, sotto il qual nome disputano tuttavia gli eruditi, qual falsa divinità fosse onorata dai Pagani, potendosi nondimeno credere con Apuleio che fosse Giunone. Era quell'idolo e tempio il più famoso dell'Africa. Aurelio vescovo di Cartagine lo avea mutato in una chiesa; ma i gentili spargevano dappertutto, che quivi infallibilmente avea da risorgere la loro superstizione; laonde, per togliere ad essi così vana speranza, il tempio fu interamente demolito. Salviano [Salvianus, lib. 8, de Gubern.] attesta che neppur molti de' Cristiani più riguardevoli dell'Africa sapeano trattenersi dall'adorare la celeste dea del loro paese. Leggesi ancora nel Codice Teodosiano una legge pubblicata in quest'anno da Onorio e Costanzo Augusti, in cui è ordinato che se un marito ripudia la moglie per qualche grave delitto, provato ne' pubblici tribunali, guadagni la di lei dote, e ripigli la donazione a lei fatta, e possa dipoi passare ad altre nozze. Lo stesso vien conceduto alle mogli provanti il delitto del marito, ma senza potersi rimaritare, se non dopo cinque anni. Fu stabilito con più ragione dalla Chiesa in vari tempi, e specialmente nel concilio di Trento, una diversa pratica: sopra di che si può vedere il trattato del Juenin de Sacramentis. In quest'anno Claudio Rutilio Numaziano, personaggio di gran merito e nobilità, ma pagano, ch'era stato prefetto di Roma, tornando nella Gallia sua patria, compose il suo Itinerario, opera degna di grande stima. Giunto a Piombino, narra che gli venne la nuova, come a Volusiano, suo singolare amico, era stata [448] conferita la prefettura di Roma, la qual cade nel presente anno, secondochè si ricava dal soprammentovato editto contro dei Pelagiani.


   
Anno di Cristo CDXXII. Indizione V.
Celestino papa 1.
Onorio imperadore 30 e 28.
Teodosio II imperad. 21 e 15.

Consoli

Onorio Augusto per la tredicesima volta, e Teodosio Augusto per la decima.

Solennizzò Onorio imperadore in Ravenna l'anno trentesimo del suo imperio. Abbiamo da Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico ap. Sirmondum.] che l'allegria di quella festa fu accresciuta dall'essere stati condotti a Ravenna incatenati Massimo e Giovino presi in Ispagna, i quali dappoichè ebbero servito di spettacolo al popolo, dati in mano alla giustizia riceverono colla morte il premio della lor ribellione. Massimo è quel medesimo che nell'anno 411 fu creato imperadore da Geronzio nella Spagna, e fuggito dipoi fra i Barbari, tornò nell'anno 419 in iscena, coll'occupar la signoria di qualche provincia della Spagna, e dovette poi essere preso dai Romani. Giovino è probabile che fosse il generale di questo chimerico imperadore. Ma queste allegrie furono troppo contrappesate da altri malanni che accaddero al romano imperio. Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] notò che nel presente anno fu spedito un esercito in Ispagna contra de' Vandali, che si erano impossessati della Betica. Generale di quest'armata fu Castino; e sappiamo da Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirm.] ch'egli menava seco un poderoso rinforzo di Goti ausiliarii. Assalì egli i Vandali, gli assediò, e li ridusse talmente alle strette, che già pensavano ad arrendersi. Ma l'imprudente generale avendo voluto cimentarsi ad un fatto di [449] armi con gente disperata, fu rotto da essi Vandali, perchè ingannato dai disleali Goti, e si ridusse fuggitivo a Tarragona. Prospero Tirone fuor di sito racconta che ventimila Romani nella battaglia coi Vandali in Ispagna restarono morti sul campo. Un altro inescusabil fallo commise il superbo Castino; perciocchè, secondo l'altra Cronica di Prospero [Prosper, in Chronic. apud Labb.], ingiuriosamente ricusò di aver per compagno nell'impresa suddetta Bonifacio conte, persona di sommo credito e sperienza nell'arte della guerra: il che fu cagione che Bonifacio indispettito passasse poco appresso in Africa, dove comandava alla milizia, e vi suscitasse quei malanni che fra poco vedremo. Forse la spedizione contro i Vandali, se Castino si fosse servito dell'aiuto di questo valoroso campione, sarebbe succeduta diversamente. Onorio Augusto pubblicò in quest'anno una legge per mettere freno alle ingiustizie de' creditori, con proibir loro di cedere essi crediti a persone potenti, vietando ancora ogni azione contro i padroni per debiti fatti dai servi e fattori. Inoltre con altra legge regolò le imposte che pagavano i terreni nell'Africa proconsolare, e nella Bisacena, dopo aver fatto visitare da persone di molta probità le terre di quei paesi capaci o incapaci di tali aggravii. Ancorchè Prospero e Marcellino, seguitati dal cardinale Baronio, differiscano all'anno seguente la morte di Bonifacio papa primo di questo nome, pure il padre Pagi [Pag., Crit. Baron.] pretende ch'egli mancasse di vita nel presente a dì 4 di settembre. E con ragione, perchè tutti gli antichi cataloghi de' romani pontefici gli danno anni tre, mesi otto e giorni sette di pontificato; e contando questi dal dì 29 di dicembre dell'anno 418, in cui fu intronizzato, cade la sua morte nel settembre del presente. Nel libro pontificale d'Anastasio in vece di otto mesi è scritto [450] quattro mesi, che sembrano presi dal tempo in cui, ripudiato Eulalio, fu confermata ossia riconosciuta legittima la di lui elezione dal concilio dei vescovi e da Onorio imperadore. In suo luogo a dì 10 di settembre fu eletto Celestino, figliuolo di Prisco. Seguì nel presente anno tra Teodosio II Augusto e il re di Persia la pace, ossia una tregua di cento anni. E ad esso imperadore Eudocia Augusta partorì una figliuola, a cui fu posto il nome di Eudossia.


   
Anno di Cristo CDXXIII. Indizione VI.
Celestino papa 2.
Teodosio II imperad. 22 e 16.

Consoli

Asclepiodoto e Flavio Avito Mariniano.

Olimpiodoro, che poco fa ci rappresentò contra ogni verisimile un tale affetto fra Onorio imperadore e la sorella Placidia Augusta, che si mormorava di loro, ci vien ora dicendo [Olymp. apud Photium, p. 195.] che non istette molto a convertirsi quell'amore in odio. Imperciocchè Placidia badava troppo ai consigli d'Elpidia sua balia, e di Leonteo suo mastro di casa, e vi era in Ravenna una fazione che teneva per lei, composta dei Goti servitori dianzi di Ataulfo suo primo marito, e di altri già aderenti a Costanzo marito in seconde nozze: e però bene spesso seguivano sedizioni e ferite in Ravenna fra quei della sua parte e quei dell'imperador suo fratello. Andò tanto innanzi questa discordia, che Onorio cacciò via Placidia co' suoi figliuoli, ed ella si imbarcò per rifuggirsi in Costantinopoli presso l'imperador Teodosio suo nipote. Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] e l'autore della Miscella [Miscell. Tom. I Rer. Italic.] scrivono ch'essa insieme con Onorio e Valentiniano suoi figliuoli fu mandata dal fratello in Oriente per sospetto ch'essa invitasse i nemici contra di lui. S'ha da scrivere nel testo di [451] Cassiodoro e della Miscella Onoria (e non già Onorio) figliuola nata da lei prima di Valentiniano. Prospero Tirone [Prosper, in Chron. apud Labb.] è di parere che Placidia fosse esiliata dal fratello, perchè gli tendeva delle insidie. Il volgo si prende facilmente l'autorità d'interpretare i segreti dei principi, e spaccia le sue immaginazioni per buona moneta. Certo è che Placidia fu cacciata, e se ne andò co' figliuoli a Costantinopoli, dove fu amorevolmente accolta. Olimpiodoro attesta che il solo Bonifacio conte le fu fedele, e dall'Africa, ov'era o governatore o general delle milizie, per quanto potè le andò mandando aiuto di danari, e fece dipoi ogni possibile sforzo perchè essa e il figliuolo ricuperassero l'imperio. Ma poco tempo goderono gli emuli di Placidia del loro trionfo, perchè in questo medesimo anno nel dì 15 agosto Onorio imperadore pagò l'inevitabil tributo dei mortali, con essere mancato di vita per male d'idropisia in Ravenna. Principe che nella pietà non fu inferiore a Teodosio il Grande suo padre, ma principe dappoco, che in tanti torbidi dell'imperio, e insulti a lui fatti, mai non cinse spada, nè una volta sola comparve in campo, benchè nel fiore della gioventù, e nato di un padre così guerriero. Perciò la debolezza del suo governo diede animo ai Barbari di calpestare e lacerare l'imperio romano, a' suoi medesimi cortigiani di sprezzarlo, e a' suoi uffiziali di ribellarsi contra di lui; e tanto più perchè egli non sapeva scegliere buoni ministri, e si lasciava aggirare or da questo or da quello. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 423.] fa la di lui apologia, dicendo ch'egli colla pietà e colle orazioni vinse tanti tiranni e nemici; ed essere meglio che un imperadore sia dotato di religione che valoroso nell'armi. Egli è certo da desiderare che tutti gl'imperadori e principi cattolici sieno eccellenti nella pietà. Tuttavia, quando arrivano sconvolgimenti interni e ribellioni negli stati, [452] sono ben proprie dei pontefici e prelati le orazioni a Dio; ma un principe dovrebbe fare di più, essendo allora gran disavventura per i sudditi l'avere chi loro comanda, timido e debole di consiglio. E se l'imperio romano patisse sotto il governo d'Onorio, l'abbiam già veduto. In somma alcuni si fan religiosi che starebbono meglio principi; e alcuni principi ci sono che starebbono meglio monaci. Certo Roma, non mai presa se non sotto di lui e saccheggiata dai Barbari, lasciò una gran macchia alla fama di questo per altro buon principe ed imperadore piissimo. Teofane e l'autore della Miscella dicono ch'egli morì in Roma, e fu seppellito in un mausoleo presso il corpo di san Pietro; ma per quel che concerne il luogo di sua morte non meritano fede. Idacio e Prospero Tirone l'asseriscono defunto in Ravenna, nè si può credere altrimenti, perchè vi son leggi pubblicate da lui in quella città a dì 9 d'agosto, ed essendo egli morto sei giorni dopo, in sì poco tempo non è verisimile ch'egli idropico si facesse portare a Roma. Fra le suddette leggi si trova un insigne regolamento da osservarsi ne' processi criminali, indirizzato ai pretori, ai tribuni del popolo e al senato di Roma.

Non avendo questo imperadore lasciata dopo di sè prole alcuna, rimase l'imperio d'Occidente per ora senza principe. Fu spedito tosto l'avviso a Costantinopoli della morte d'Onorio [Socrat., Hist. Eccl., lib. 8, cap. 23.], e Teodosio la tenne per qualche tempo occulta al popolo, finchè avesse spedito un corpo di truppa a Salona, città della Dalmazia, acciocchè fosse pronto, caso che succedesse novità alcuna in queste parti che non s'accordasse colle idee del medesimo Teodosio. Divulgata in fine la nuova d'essa morte, se ne fece duolo, per testimonianza di Teofane [Theoph., in Chron.], in Costantinopoli per sette giorni, con tener chiuse le botteghe e le porte ancora della città. Ma [453] mentre vanno innanzi e indietro lettere alla corte dell'imperadore greco, un certo Giovanni, primicerio dei notai, circa il fine di quest'anno, si fece proclamare imperadore in Ravenna. Contribuì, credo io, a questa scena il timore ch'ebbero i popoli italiani di cadere sotto il dominio de' Greci Augusti troppo lontani. Perchè poi nell'anno precedente una legge d'Onorio si vede indirizzata a Giovanni prefetto del pretorio d'Italia, perciò il cardinale Baronio si figurò che fosse il medesimo che prendesse nel presente le redini dell'imperio di Occidente. Ma Socrate e Teofane non gli danno altro titolo che di primicerio de' cancellieri dell'imperadore. Leggesi presso il Mezzabarba la di lui medaglia, non saprei dire se legittima; ed è degno di osservazione ciò che di lui scrisse Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 3.], e dipoi Suida [Suidas, in verbo Johannes.]; cioè ch'egli era dotato non men di clemenza che di rara prudenza, e premurosamente batteva le vie della virtù, con aggiugnere che questi tenne il principato con molta moderazione, nè diede orecchio alle spie, nè ingiustamente fece uccidere alcuno; neppure impose aggravii, nè tolse per forza i suoi beni a chi che fosse. Dal suddetto Procopio egli è nominato solamente persona militare. Spedì Giovanni i suoi ambasciatori a Teodosio con umili parole a pregarlo di volergli confermare la dignità imperiale; ma Teodosio li fece mettere in prigione, e, secondo Filostorgio, li cacciò in esilio, e quindi si diede a preparar la forza per deporre questo usurpator dell'imperio. Da una costituzione di Valentiniano III Augusto apparisce [L. 47, lib. 16, tit. 1, Cod. Theodos.] che Giovanni, per guadagnarsi l'affetto dei gentili, cominciò ad annullare i privilegi conceduti dagli altri imperadori alle chiese e agli ecclesiastici, con rimettere le cause loro al foro de' laici. Renato Profuturo Frigerido, storico di quei tempi, a noi solamente noto per la diligenza di [454] Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2. cap. 8, Hist. Franch.], che ne rapporta alcuni passi, racconta che gli ambasciatori di Giovanni tiranno, sprezzati da Teodosio Augusto, se ne ritornarono in Italia, rilasciati dalla prigione (se pur sussiste che fossero carcerati), e gli riferirono in qual disposizione fosse Teodosio verso di lui. Allora Giovanni spedì nella Pannonia con una gran somma d'oro Aezio suo maggiordomo a ricercare l'aiuto degli Unni, siccome persona conoscente ed amica de' medesimi, perchè tempo fa era stato ostaggio presso di loro, con ordinargli che subito che l'armi di Teodosio fossero entrate in Italia, quei Barbari venissero contra d'esso alla schiena, ed egli gli assalirebbe di fronte. Celebre noi vedremo divenir nella storia questo Aezio, e sappiamo da esso Frigerido ch'egli ebbe per padre Gaudenzio di nazione scita, ossia tartaro, uno dei primi del suo paese, il quale venuto al servigio degl'imperadori, cominciò la sua milizia nelle guardie del corpo, e salito fino al grado di generale della cavalleria, fu poi ucciso nella Gallia dai suoi soldati. La madre fu italiana, nobile e ricca. Aezio lor figliuolo militò prima fra' soldati del pretorio; per tre anni dimorò ostaggio presso d'Alarico; poi presso gli Unni divenne genero di Carpilione; e finalmente di conte delle guardie del corpo giunse ad essere maggiordomo del tiranno Giovanni. Era costui di mezzana statura, ma di bella presenza, d'animo allegro, forte di corpo, bravo a cavallo, perito in saettare e maneggiar la lancia, egualmente accorto nell'arti della guerra e della pace. A questi pregi s'aggiugneva l'esser egli affatto disinteressato, e il non lasciarsi smuovere dal sentiero della virtù, mostrandosi sempre paziente nelle ingiurie, amante della fatica, intrepido nei pericoli, e avvezzo a sofferir la fame, la sete e le vigilie. Tale è il suo ritratto a noi lasciato da Frigerido. Andando innanzi vedremo [455] se le opere corrispondano a così bei colori. Noi troviamo che i Francesi parlarono bene di Aezio, ma non così gli Italiani. In quest'anno il santo pontefice Celestino cacciò d'Italia l'eresiarca Celestio e i pelagiani suoi seguaci, fra i quali Giuliano indegno vescovo di Eclano, che ritiratosi nella Cilicia presso Teodoro vescovo Mopsuesteno, personaggio anch'esso infetto d'opinioni ereticali, scrisse poi contra sant'Agostino in favor di Pelagio. Teodoreto, celebre scrittor della Chiesa, fu creato nel presente anno vescovo di Ciro, città della Siria. Eudocia, moglie di Teodosio imperadore, solamente in questo anno cominciò a godere il titolo d'Augusta. E Teodosio Augusto pubblicò varie leggi contra de' pagani e Giudei che si leggono nel Codice ch'egli stesso fece dipoi compilare.


   
Anno di Cristo CDXXIV. Indizione VII.
Celestino papa 3.
Teodosio II imper. 23 e 17.

Consoli

Castino e Vittore.

Castino, che procedette console nell'anno presente, è quel medesimo che di sopra vedemmo rotto dai Vandali nella Betica. Onorio Augusto nell'anno precedente lo avea disegnato console pel presente; ed egli senza scrupolo esercitò il consolato sotto il tiranno Giovanni, se pure lo stesso Giovanni quegli non fu che gli compartì questo onore, in ricompensa d'aver serrati gli occhi alla sua assunzione all'imperio, e non fattogli contrasto alcuno, ancorchè egli fosse generale delle milizie romane. Certamente Prospero scrive [Prosper, in Chron. apud Labb.] che Giovanni occupò, per quanto si credette, l'imperio a cagione della connivenza di Castino. E restano leggi di Teodosio, date in questo anno, con ivi memorarsi il solo Vittore console: segno che Teodosio era in collera contro di Castino, nè il volea riconoscere per console. Dal medesimo Prospero [456] storico sappiamo ancora che Giovanni tiranno suddetto fece in questo anno una spedizione in Africa, lusingandosi di poter tirar quelle provincie sotto il suo dominio. Ma Bonifazio conte, che quivi comandava, e che proteggeva gli affari di Placidia e di Valentiniano suo figliuolo, tal opposizione gli fece, che andò a monte tutto il di lui disegno. Intanto Teodosio Augusto, messa insieme una poderosa armata, la spedì a Tessalonica, ossia a Salonichi, insieme con Placidia sua zia, ch'egli allora solamente riconobbe per Augusta, e con Valentiniano di lei figliuolo, ch'era in età di cinque anni, a cui parimente diede il titolo di nobilissimo. Generali di quest'armata furono dichiarati Ardaburio [Olympiodorus, apud Photium, p. 198.], che dianzi nella guerra contro i Persiani avea fatto delle insigni prodezze, e con esso lui Aspare suo figliuolo. Fu loro aggiunto ancora Candidiano, che in progresso di tempo creato conte si scoprì gran fautore di Nestorio eretico. Giunti che furono costoro a Salonichi, quivi, per attestato di Olimpiodoro e di Procopio [Procop., lib. 1, cap. 3, de Bell. Vand.], conferì Teodosio al cugino Valentiniano il nome e la dignità di Cesare, avendo a tal fine inviato colà Elione maestro degli uffizii, ossia suo maestro di casa. E fin d'allora, per quanto scrive Marcellino conte [Marcell., in Chronico.], fu decretato il matrimonio d'esso Valentiniano con Eudossia figliuola di Teodosio. Divisa poi l'armata, Ardaburio colla fanteria posta nelle navi fece vela alla volta di Ravenna; ma infelicemente, perchè una fortuna di mare sconvolse tutta la flotta, ed egli, secondochè scrive Filostorgio [Philost., Hist. Eccl. lib. 12, cap. 13.], con due galere portato al lido, fu preso dalle genti del tiranno, e condotto prigione a Ravenna. Forse ancora la tempesta il colse nel venire da Salonichi per l'Adriatico, e il trasportò verso Ravenna, perchè, siccome dirò più abbasso, anche Placidia Augusta corse [457] in quella navigazione gran pericolo per fortuna di mare, e ne attribuì la liberazione a san Giovanni Evangelista, a cui si votò. Aspare all'incontro figliuolo di Ardaburio, colla cavalleria passò per la Pannonia e pel resto dell'Illirico, ed arrivato a Salona città della Dalmazia, la prese per forza. Quindi con tanta sollecitudine continuò il viaggio con Placidia e Valentiniano, che arrivato all'improvviso sopra Aquileia, città allora una delle più grandi ed illustri dell'Italia, se ne impadronì. Ma giunta colà la nuova della disgrazia e prigionia di Ardaburio, tanto Aspare che Placidia, per attestato di Olimpiodoro, rimasero costernati e tutti pieni d'affanno; se non che da lì a qualche tempo arrivato Candidiano, glorioso per l'acquisto di varie città, li rallegrò, e fece ritornar loro in petto il coraggio.


   
Anno di Cristo CDXXV. Indizione VIII.
Celestino papa 4.
Teodosio II imper. 24 e 18.
Valentiniano III imperad. 1.

Consoli

Teodosio Augusto per l'undecima volta e Valentiniano Cesare.

Una legge del Codice Teodosiano ci fa vedere in quest'anno Fausto prefetto di Roma. Quanto era avvenuto di sinistro ad Ardaburio, generale di Teodosio Augusto, avea messo in grande agitazione l'animo d'esso imperadore, sì perchè avea male incominciata l'impresa, sì perchè temeva che il tiranno Giovanni facesse qualche brutto giuoco ad Ardaburio: di maniera che egli determinò di passare in persona in Italia contra del medesimo tiranno, il quale, per attestato d'una iscrizione da me data alla luce [Thesaur. novus Inscript., pag. 403.], si vede che avea preso il consolato probabilmente nell'anno presente. Socrate [Socrates, Hist. Eccl., lib. 7, cap. 23.] ci è testimonio che esso Augusto venne fino a Salonichi; ma ivi fu colto da una malattia che l'obbligò in fine a [458] ritornarsene a Costantinopoli. Seguita a scrivere Socrate che Aspare generale di esso Augusto, considerando dall'un canto la prigionia del padre, e sapendo dall'altro che era in marcia una possente armata di Barbari, condotta da Aezio in aiuto del tiranno, non sapea qual partito prendere. Ma che prevalsero presso Dio le preghiere di Teodosio principe piissimo; imperciocchè un angelo in forma di pastore condusse Aspare, ch'era alla testa d'un buon corpo di gente, per una palude vicina a Ravenna, per la quale non si sa che alcuno mai passasse. Arrivò questa truppa fino alle porte di Ravenna, che si trovarono aperte, ed entrata fece prigione il tiranno Giovanni. Portata poi questa felice nuova a Teodosio, mentre stava col popolo nel circo per vedere la corsa dei cavalli, il pio Augusto si rivolse al popolo con dire: Lasciamo un poco questi spettacoli, e andiamo alla chiesa a ringraziar Dio, la cui destra ha atterrato il tiranno. Tutti abbandonarono il circo, e salmeggiando tennero dietro all'imperadore fino alla chiesa, dove si fermarono tutto quel dì, impiegandolo in rendimento di grazie all'Altissimo. Ma Filostorgio [Philostorg., Hist. Eccl., lib. 12, cap. 13.] storico, di credenza ariano ed eunomiano, in questa avventura non riconobbe miracolo alcuno, narrando nella seguente maniera la presa del tiranno. Dappoichè venne alle sue mani Ardaburio, il trattò con molta civiltà e cortesia, lusingandosi di tirarlo nel suo partito; e probabilmente l'astuto prigioniere fece vista di volersi accordare con lui. Fu dunque data ad Ardaburio la città per carcere; laonde ebbe tutta la comodità che volle per trattar coi capitani del tiranno, e per ascoltar varie loro doglianze, ed anzi per iscoprire in loro inclinazione a tradirlo. Se ne prevalse egli, e disposte le cose, fece con lettere segretamente intendere ad Aspare suo figliuolo che venisse prontamente, perchè teneva la [459] vittoria in pugno. Aspare non perdè tempo, e giunto colla cavalleria a Ravenna, per quanto si può giudicare, nell'aprile dell'anno presente, dopo una breve zuffa fece prigione il tiranno per tradimento dei medesimi di lui uffiziali. Anche Marcellino conte lasciò scritto che Giovanni piuttosto per inganno di Ardaburio e di Aspare, che per loro bravura, precipitò.

Fu condotto fra le catene Giovanni ad Aquileia, dove s'era fermata Placidia col figliuolo Valentiniano; e quivi dopo essergli stata troncata la mano destra, lasciò anche la testa sopra un patibolo. Idazio [Idacius., in Chron. apud Sirmond.] scrive ch'egli fu ucciso in Ravenna, ma più fede merita Filostorgio che dà la sua morte in Aquileia, siccome scrittore più informato di que' fatti. E tanto più perchè Procopio [Procop., lib. 1, cap. 3 de Bell. Vand.] attesta il medesimo, con giugnere che Giovanni fu menato nel circo di Aquileia sopra un asinello, e dopo molti strapazzi e dileggi a lui fatti dagli istrioni, fu ucciso. Pagò la misera città di Ravenna in tal occasione anch'ella il fio dell'amore ed aderenza che avea mostrato al tiranno, perchè l'esercito vincitore crudelmente la saccheggiò, siccome abbiamo da Prospero Tirone [Prosper, in Chronico apud Labb.] e dall'autore della Storia Miscella [Hist. Miscell., lib. 14.]. Stando tuttavia Valentiniano Cesare in Aquileia, pubblicò a dì 17 di luglio una legge contra dei manichei, eretici e scismatici, che si trovavano allora nella città di Roma, dove bisogna supporre che durassero tuttavia alcuni seguaci d'Eulalio, i quali non voleano riconoscere per vero papa Celestino. È indrizzata quella legge a Fausto prefetto di Roma [L. 62 et seq. lib. 16, tit. 5, Cod. Theodos.]: il che ci fa intendere che già quella città avea riconosciuto per suo signore Valentiniano dopo la morte di Giovanni tiranno. Con due altre leggi, parimente date nel presente agosto, esso Valentiniano, col consenso, come si può credere, dell'Augusto [460] Teodosio, intimò varie pene contro gli eretici e scismatici, esistenti nell'Africa ed in ogni altra città del romano imperio. Egli è da credere che le premure del santo pontefice Celestino e di santo Agostino impetrassero tali rescritti in favore della dottrina ed unità della Chiesa cattolica. Ci è parimente una legge [L. 47, tit. 2, ibid.] data in Aquileia dal medesimo a' dì 7 di ottobre, in cui esso Cesare conferma tutti i privilegi conceduti dagli antecessori alle chiese, che Giovanni tiranno s'era dianzi studiato di annientare. Intanto Aezio, forse nulla sapendo di quanto era accaduto in Ravenna, con un esercito di sessantamila Unni, tre dì dopo la morte di Giovanni tiranno pervenne presso ad Aquileia, e, secondochè narra Filostorgio [Philost., lib. 2, cap. 14.], venne alle mani coll'esercito di Aspare, e nel conflitto rimasero morti non pochi dall'una e dall'altra parte. Ma inteso poi che Giovanni perduto avea imperio e vita, intavolò un trattato di pace o di lega con Placidia e Valentiniano, da' quali ricevette la dignità di conte. Quindi gli riuscì, mercè dello sborso di buona somma d'oro, d'indurre i Barbari a ritornarsene pacificamente alle loro case: il che fu puntualmente eseguito con essersi dati ostaggi dall'una e dall'altra parte. E qui termina la sua storia Filostorgio, di nazione cappadoce, uomo dotto, ma fiero eretico eunomiano, che si meritò il titolo d'ateista, e degno che Fozio chiamasse la di lui fatica piuttosto un encomio degli eretici che una storia. Anche Prospero nella sua Cronica [Prosper, in Chron. apud Labb.] notò che fu perdonato ad Aezio, perchè per cura di lui gli Unni, chiamati dal tiranno Giovanni, se ne ritornarono al loro paese. Ma Castino console di quest'anno fu cacciato in esilio, perchè si credea ch'egli avesse tenuto mano a Giovanni nell'usurpare l'imperio. Fra le epistole di sant'Agostino [In Appendice tom. 2, Operum s. Augustini.] una se ne [461] legge a lui scritta da Bonifazio conte nell'Africa, in cui gli fa sapere che s'era rifugiato presso di lui Castino già console, quel medesimo che negli anni addietro avea mostrato sì mal animo e sprezzo contra d'esso Bonifazio; ma che egli pago dell'umilazion di costui, pensò dipoi ad aiutarlo. Gli risponde sant'Agostino che Castino con giuramento avea protestato di essere innocente delle colpe a lui apposte, e il raccomanda alla clemenza di Bonifazio. Ma queste lettere, benchè antichissime, troppo diverse dallo stile di sant'Agostino, son ripudiate dai critici, e specialmente dai padri benedettini di san Mauro. Il Sigonio [Sigonius, de imper. Occident.], fidatosi delle medesime, scrisse che Castino, mossa poi guerra in Africa, fu rotto in una battaglia da Bonifacio conte, e costretto a fuggirsene. Ma di questo conflitto nulla parlano gli scrittori di quei tempi.

Venne dipoi Placidia con Valentiniano Cesare a Ravenna, e di là passò a Roma, dove da lì a non molto arrivò anche Elione maestro e patrizio, spedito dall'imperador Teodosio [Olympiodorus, apud Photium, pag. 198.], che portò a Valentiniano la veste imperatoria, e il dichiarò Augusto sotto la tutela di Galla Placidia Augusta sua madre. Egli non avea allora che sette anni. Qui diede fine alla sua storia anche Olimpiodoro scrittor pagano, di cui restano solamente alcuni pezzi, a noi conservati nella sua Biblioteca da Fozio. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] scrive che in Ravenna succedette la dichiarazione di Valentiniano, terzo fra gl'imperadori di questo nome. Ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 425.] sostiene ch'egli s'ingannò, asserendo Filostorgio, Olimpiodoro, Prospero e Idazio, che questa solennità si fece in Roma. Poteva egli aggiugnere anche la testimonianza di Teofane [Theophanes, in Chronogr.], che scrive portata la porpora imperiale a Valentiniano dimorante in quella augusta città. [462] Non è però che non possa restar qualche dubbio su questo. Perciochè esso Pagi ha ben letto nella versione latina di Filostorgio, che in Roma Valentiniano ricevette la dignità imperiale; ma nel testo greco di quest'autore non v'ha menzione di Roma. E il testo d'Olimpiodoro non è chiaro, potendosi interpretare così: Ucciso poi che fu il tiranno Giovanni, Placidia col figliuolo Cesare passò a Ravenna. Ed Elione maestro e patrizio, che avea occupata Roma, col concorso colà di tutti ornò colla veste imperiale Valentiniano che avea solamente sette anni. Ed oltre a Marcellino conte, anche Giordano storico [Jordan., de Reg. Success.] del secolo susseguente asserisce che tal funzione fu fatta in Ravenna; e lo stesso si ha da Freculfo nella sua Cronica [Frecul., in Chron.]. Sappiam per altro di certo che Valentiniano, prima che terminasse il presente anno, passò a Roma; e dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr. ad hunc ann.] abbiamo che il giorno della sua assunzione all'imperio fu il dì 23 d'ottobre del presente anno. Che se fosse certa la data di una legge sopra mentovata nel Codice Teodosiano [L. ultima, lib. 6, tit. de Episc.] con queste note: VIII Idus Octobris Aquilejae D. N. Teodosio XI et Valentiniano Caesare Coss.; cioè in quest'anno, molto più probabile sarebbe che in Ravenna fosse stata a lui portata la veste imperatoria, perchè in sì poco tempo forse egli non avrebbe potuto fare il viaggio da Aquileia a Roma. Merita qui d'essere rammentata una legge [L. 3. lib. 14, tit. 9, Cod. Theodos.] in quest'anno pubblicata da Teodosio Augusto, in cui ristaurò e ridusse in miglior forma le scuole pubbliche di Costantinopoli, con vietare che niuno potesse leggere in esse, se non era prima approvato per idoneo, e che non si potesse insegnare in altre scuole che nelle capitoline, cioè in luogo fabbricato da Costantino il grande ad imitazione del Campidoglio di Roma, perchè servisse [463] a tale affetto. Deputò in tali scuole tre oratori e dieci grammatici latini; cinque sofisti e dieci grammatici greci; un filosofo e due legisti. Le università dei nostri tempi si scorgono ben più considerabili di quelle d'allora. Da lì a poco con altra legge [L. 3, lib. tit. 21, Cod. Theodos.] esso imperadore dichiarò conti del primo ordine Elladio e Siriano grammatici greci, Teofilo grammatico latino, Martino e Massimo sofisti, e Leonzio legista, ordinando che da lì innanzi que' lettori che avessero faticato lo spazio di venti anni continui nella lettura, per premio avessero il medesimo onore. Così fanno i saggi principi che sanno la vera via della gloria, e cercano soprattutto il bene de' lor sudditi. Con un'altra legge esso Teodosio Augusto proibì i giuochi teatrali circensi nei giorni festivi de' Cristiani. Idazio [Idacius, in Chron. apud Sirmond.] sotto questo anno nota che i Vandali saccheggiarono Majorica e Minorica. Poscia spianarono dai fondamenti Cartagena e Siviglia, commettendo altri orridi disordini per la Spagna. Ma soggiugnendo egli che invasero anche la Mauritania provincia dell'Africa, si può dubitare che più tardi succedessero tante loro insolenze; e massimamente raccontando egli all'anno 427, che Gunderico re dei Vandali prese Siviglia.


   
Anno di Cristo CDXXVI. Indizione IX.
Celestino papa 5.
Teodosio II imperad. 25 e 19.
Valentiniano III imperad. 2.

Consoli

Teodosio Augusto per la dodicesima volta e Valentiniano Augusto per la seconda.

Dalle leggi del Codice Teodosiano apparisce che Albino fu prefetto di Roma, e che nel gennaio del presente anno Valentiniano Augusto dimorò in Roma, dove indrizzò tre editti al senato romano, [464] ed uno [L. 14, lib. 6, tit. 2, Cod. Theodos.] al suddetto Albino prefetto della città. Da uno di essi veniamo a conoscere che il senato di Roma sì per cattivarsi il nuovo sovrano, come ancora per solennizzare la poco fa compartita a lui dignità imperiale, gli avea promesso un dono gratuito. Ma Valentiniano anch'egli compatendo lo stato della città, che avea patito non poco anche ultimamente sotto Giovanni tiranno, gli fa remissione di parte di questo dono promesso, e l'altra parte vuol che s'impieghi in benefizio di Roma stessa: il che dovette essere ricevuto con plauso grande dal popolo. L'ordine di questa sua munificenza fu letto in senato da Teodosio primicerio de' notai. Poscia con Placidia Augusta sua madre se ne tornò a Ravenna, e quivi era nel principio di marzo, allorchè inviò un suo editto a Basso prefetto del pretorio. Con altre leggi egli diede favore a que' Giudei che abbracciassero la fede cattolica, ed intimò varie pene agli apostati d'essa religione santissima. Pose dunque Galla Placidia Augusta col figliuolo Valentiniano imperadore, che era tuttavia fanciullo, la sua sedia in Ravenna, con tener essa le redini del governo. Ma qui bisogna udire Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.] che un brutto ritratto ci lasciò non meno di essa Augusta che di suo figliuolo. Scrive egli adunque che Placidia nudrì Valentiniano nell'effemminatezza e nei piaceri: dal che avvenne ch'egli fin dalla fanciullezza contrasse tutti i vizii. Dilettavasi della conversazione degli stregoni e de' professori della strologia giudiciaria. E quantunque egli poi prendesse moglie oltremodo bella, pure menava una vita scandalosissima, perdendosi nell'amore delle mogli altrui. Furono poi cagione questi vizii che andarono alla peggio gl'interessi dell'imperio romano, perchè egli non solamente nulla riacquistò del perduto, ma perdette anche l'Africa e poi la vita. Non è sì [465] facilmente da prestar fede in questo a Procopio, scrittore greco, e però disposto a dir male de' regnanti latini; e certamente la perdita dell'Africa, siccome vedremo, non si può attribuire a Valentiniano, ch'era allora fanciullo, ma sì bene a sua madre, a cui mancò l'accortezza per difendersi dagl'inganni de' cattivi. Avevano, per quanto scrive Prospero [Prosper, in Chronico apud Labb.], i Goti nell'anno precedente rotta la pace ai Romani, prevalendosi anch'eglino delle turbolenze insorte in Italia per cagione del tiranno Giovanni. Perciò con gran forza intrapresero l'assedio di Arles, nobil città della Gallia. Ma sentendo che si accostava Aezio generale di Valentiniano con una poderosa armata, non senza loro danno batterono la ritirata. Non è ben chiaro se Aezio data la battaglia facesse a forza d'armi sloggiare quegli assedianti. Pare bensì che Prospero Tirone [Prosper Tiro apud eumdem.] riferisca al presente anno questa liberazione di Arles. E sant'Isidoro [Isidorus, in Chronic. Goth.] nota, che Teodorico re de' medesimi Goti, prima dell'assedio di Arles, avea preso varie città de' Romani confinanti all'Aquitania, assegnata a quella nazione per loro stanza. In questi pericolosi tempi di Arles, Patroclo vescovo di quella città restò tagliato a pezzi da un certo tribuno barbaro; e Prospero, che narra il fatto sotto il presente anno, aggiugne che si credette commessa questa scelleraggine per segreto comandamento di Felice generale di Valentiniano, al quale attribuiva eziandio la morte data a Tito Diacono, uomo santo in Roma, mentr'egli distribuiva le limosine ai poveri. Viene nondimeno accusato questo Patroclo vescovo da Prospero Tirone, d'aver con infame mercato venduti i sacerdozii, iniquità non per anche introdotta nella chiesa. Egli ebbe per successore Onorato abbate Lirinense, uomo di santa vita. Teodosio piissimo Augusto in quest'anno pubblicò una legge contra de' pagani, [466] con proibire sotto pena di morte i lor sagrifizii, e con ordinare che il restante de' loro templi fosse atterrato, o pure convertito in uso della religione cristiana.


   
Anno di Cristo CDXXVII. Indizione X.
Celestino papa 6.
Teodosio II imperad. 26 e 20.
Valentiniano III imperad. 3.

Consoli

Jerio ed Ardaburio.

Insolentivano ogni dì più i Vandali nella Spagna, perchè non v'era armata di Romani, che li tenesse in freno. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron. apud. Sirmondum.], che in quest'anno Gunderico re loro, avendo presa Siviglia, e gonfiatosi per così prosperi avvenimenti, stese le mani contro la chiesa cattedrale di quella città, volendola verisimilmente spogliare de' suoi tesori, ma per giusto giudizio di Dio terminò la vita indemoniato. Gli succedette Gaiserico, ossia Giserico o Genserico, suo fratello, il quale, per quanto alcuni assicurano, era dianzi cattolico, e passò poi all'eresia degli ariani. All'incontro Teoderico re de' Goti, dappoichè fu ributtato dall'assedio sopra narrato di Arles, veggendo che l'esercito romano era poderoso, e di aver che fare con Aezio valentissimo generale di Valentiniano, diede mano ad un trattato di pace coi Romani, di cui fa menzione Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Aviti.], e che forse fu conchiusa nell'anno presente. Fra le capitolazioni d'essa pace abbiam motivo da credere che Teoderico s'impegnasse di muovere le armi contra de' Vandali che malmenavano la Spagna. Perciocchè Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic, cap. 32.] scrive che Vallia re de' Goti (doveva scrivere Teoderico) intendendo come i Vandali, usciti dai confini della Gallizia, mettevano a sacco le Provincie della Spagna, allorchè Jerio ed Ardaburio erano consoli, cioè in questo anno, contra dei medesimi mosse l'esercito [467] suo. Racconta ancora Marcellino conte [Marcell., in Chron. apud Sirmond.] che in questi tempi la Pannonia, occupata per cinquanta anni addietro dagli Unni, fu ricuperata dai Romani. Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 32.] anch'egli attesta che sotto il medesimo consolato furono gli Unni cacciati fuori della Pannonia dai Romani e dai Goti. Col nome di Goti intende egli i Goti che fra poco vedremo chiamati Ostrogoti, ossia Goti orientali, a differenza degli altri che in questi tempi sotto il re Teoderico regnavano nella Aquitania, e son riconosciuti dagli antichi col nome di Visigoti, ossia di Goti occidentali. Ma niuno di questi autori accenna dove passassero gli Unni, dappoichè ebbero abbandonata la Pannonia, se non che li vedremo fra poco comparire ai danni dell'imperio d'Occidente. Due dei più valenti generali d'armate dell'imperio suddetto, che non aveano pari, erano in questi tempi Aezio e Bonifacio conte. Di Aezio s'è parlato di sopra, ed ora solamente convien aggiugnere che egli talmente s'acquistò non tanto il perdono, quanto anche la grazia di Placidia Augusta, ch'essa cominciò tosto a servirsi del di lui braccio e consiglio, con averlo inviato nella Gallia contra dei Goti. Egli, fatta la pace con quei Barbari, se ne dovette tornare alla corte dimorante in Ravenna, dove ordì un tradimento che fece perdere l'Africa all'imperador Valentiniano. Bonifacio conte, per quanto scrive Olimpiodoro [Olympiod. apud Photium.], era un eroe che talora con poche e talora con molte truppe avea combattuto coi Barbari nell'Africa con aver anche cacciato da quelle provincie varie loro nazioni. Fra suoi bei pregi si contava l'amore della giustizia, ed era uomo temperante, e sprezzator del danaro. Ma specialmente sant'Agostino, tra cui ed esso Bonifacio passava una singolar domestichezza, ne parla con vari elogi nelle sue lettere. Egli era stato, siccome vedemmo, sempre fedele a Galla [468] Placidia e al figliuolo Valentiniano; loro anche avea prestato soccorso di danaro, dappoichè dovettero ritirarsi in Oriente; e finalmente avea sostenuta l'Africa nella lor divozione contra gli sforzi di Giovanni tiranno. Morto costui, e dichiarato Augusto Valentiniano, abbiamo da una lettera del suddetto santo [August., Epist. CCXX, n. 4.] ch'egli fu chiamato alla corte, e da Placidia, che gli si protestava tanto obbligata, non solamente gli fu o dato o confermato il governo dell'Africa, ma conferite ancora altre dignità. Tuttavia, per quanto scrive Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], vennero accolte le prosperità di Bonifacio conte con assai invidia da Aezio, il quale andò celando il suo mal talento sotto l'apparente velo d'una stretta amicizia.

Ma dacchè Bonifacio fu passato in Africa, Aezio, che stava agli orecchi dell'imperadrice, cominciò a sparlare di lui, e a far credere alla stessa Augusta che l'ambizioso Bonifacio meditava di farsi signore dell'Africa, e di sottrarla all'imperio di Valentiniano. E la maniera facile di chiarirsene (diss'egli) l'abbiamo in pronto. Basta scrivergli che venga in Italia: che egli non ubbidirà nè verrà. Cadde nel laccio l'incauta principessa, e si appigliò al suo parere. Aezio intanto avea scritto confidentemente a Bonifacio, che la madre dell'imperatore tramava delle insidie contra di lui, e manipolava la di lui rovina: del che si sarebbe accorto, se senza motivo alcuno egli fosse richiamato in Italia. Altro non ci volle che questo, perchè Bonifazio troppo credulo, allorchè giunsero gli ordini imperiali di venire in Italia, rispondesse a chi li portò, di non poter ubbidire, senza dir parola di quanto gli aveva significato Aezio. Allora Placidia tenne Aezio per ministro fedelissimo, e sospettò dei tradimenti nell'altro. Intanto Bonifacio, nè osando di andare a Roma, nè sperando dopo questa disubbidienza di salvarsi, chiamò [469] a consulta i suoi pensieri per trovar qualche scampo in sì brutto frangente; e non vedendo altro ripiego, precipitò in una risoluzione che riuscì poi funestissima a lui e all'imperio romano. Cioè spedì in Ispagna i suoi migliori amici, acciocchè trattassero con Genserico re de' Vandali una lega, e lo impegnassero a passar colle sue forze in Africa per difesa d'esso Bonifacio, con partire fra loro quelle provincie. Così fu fatto, e i Vandali a man baciate accettarono la proposizion della lega, e la giurarono. Sotto quest'anno Teofane [Theoph., in Chronogr.] riferisce due insigni vittorie riportate contro de' Persiani, i quali dopo la morte d'Isdegarde re loro, essendogli succeduto Vararane di lui figliuolo, aveano mossa la guerra all'imperio romano d'Oriente. Ardaburio fu generale di Teodosio, e segnalossi in varie imprese. Ma il padre Pagi pretende che tali vittorie appartengano all'anno di Cristo 420. La Cronica Alessandrina ne parla all'anno 421. E Marcellino conte aggiugne che nel 422 seguì la pace coi Persiani. Socrate [Socrat., lib. 7, cap. 18.], autore contemporaneo, quegli è che più diffusamente narra una tal guerra, senza specificarne il tempo. Ma allorchè scrive che centomila Saraceni per timor de' Romani si affogarono nell'Eufrate, ha più del romanzo che della storia. Per queste fortunate prodezze furono recitati vari panegirici in onore dì Teodosio Augusto, e la stessa Atenaide, ossia Eudocia, sua moglie, compose in lode di lui un poema. Intanto Galla Placidia Augusta, persuasa che Bonifacio conte governatore dell'Africa non si potesse se non colla forza mettere in dovere, per testimonianza di san Prospero [Prosper, in Chron. apud Labb.], dichiaratolo nemico pubblico, spedì colà un'armata per mare, di cui erano capitani Mavorzio, Gallione (ossia Galbione) e Sinoce. Fu assediato Bonifacio, non si sa in qual città; ma non durò molto lo assedio: perchè i due primi capitani furono [470] uccisi da Sinoce a tradimento, e costui poscia accordatosi con Bonifacio, essendosi scoperta da lì a poco la sua perfidia, d'ordine di esso Bonifacio fu anch'egli levato dal mondo. Abbiamo da una lettera scritta in questi tempi da santo Agostino [August., Epist. CCXX.] al medesimo Bonifacio, che i Barbari africani, animati da questo sconvolgimento di cose, fecero guerra alle provincie romane dell'Africa stessa, uccidendo, saccheggiando, devastando dovunque arrivavano, senza che Bonifacio, che pur avrebbe potuto reprimerli colle forze che avea, se ne mettesse pensiero, perchè pensava più alla difesa propria che all'offesa altrui. Se ne lagna il santo vescovo, e da lui sappiamo ancora che Bonifacio era passato alle seconde nozze con una ricchissima donna, ariana di professione, ma che per isposarlo aveva abbracciata la religion cattolica: e che, ciò non ostante, gli ariani aveano una gran possanza in casa d'esso Bonifacio. Anzi correa voce ch'egli, non contento della moglie, tenesse presso di sè alcune concubine.


   
Anno di Cristo CDXXVIII. Indizione XI.
Celestino papa 7.
Teodosio II imper. 27 e 21.
Valentiniano III imperad. 4.

Consoli

Flavio Felice e Tauro.

Una iscrizione da me data alla luce [Thesaur. Novus Inscript., p. 403.] fa conoscere che il primo console era appellato Flavio Costanzo Felice. Vedesi continuata la guerra in Africa contra di Bonifacio conte. Generale dell'armata cesarea era Segisvalto, per quanto scrive Prospero [Prosper, in Chron. apud Labb.], goto di nazione, ariano di credenza, ma senza che si sappia ciò ch'egli operasse. Nasce qui un gruppo difficile di cronologia intorno al passaggio de' Vandali in Africa, colà invitati nella sua disperazione da esso Bonifacio [471] conte. Nell'anno precedente il sopra mentovato Prospero notò questo avvenimento; altrettanto scrisse Cassiodoro [Cassiod., in Chron.]; e furono in ciò seguitati dal Sigonio. La Cronica Alessandrina, il cardinal Baronio ed altri scrissero che in quest'anno avvenne la trasmigrazione di quei Barbari nell'Africa. Ma il padre Pagi sostiene che solamente nell'anno 429 susseguente succedette la lor mossa; perciocchè Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirmond.] nella Cronica nell'anno 2444 di Abramo, che comincia nel primo di ottobre del presente anno, lasciò scritto che Genserico re de' Vandali, abbandonata la Spagna, passò in Africa nel mese di maggio, il quale viene a cadere nell'anno susseguente. Anche sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Vandal.] attesta che Genserico nell'era 467 succedette a Gunderico re de' Vandali, e fece il passaggio nell'Africa. Quell'anno corrisponde al 429 dell'epoca volgare. Finalmente varie leggi si leggono di Valentiniano Augusto, indirizzate prima del maggio dell'anno susseguente a Celere proconsole dell'Africa, nelle quali non apparisce vestigio alcuno delle calamità dell'Africa. Ma può ben restar qualche dubbio intorno a questa cronologia, confessando il Pagi molti altri falli d'Idacio, o per colpa sua, o per difetto de' copisti. Nè le allegate leggi bastano a decidere questo punto, perciocchè da che furono entrati i Vandali, conquistarono sol poca parte dell'Africa. E siccome nella legge trentesima terza de Susceptoribus, data nell'anno 430, si parla delle provincie Proconsolare e Bisacena dell'Africa, senza che si dica parola della guerra dei Vandali, i quai pure lo stesso Pagi concede passati nell'Africa nel 429; così nulla si può dedurre dalle leggi date in esso anno 429 da Valentiniano. Comunque sia, mi fo io lecito di rammentar qui il funestissimo ingresso di que' Barbari nelle provincie africane, alle quali erano stati iniquamente invitati da Bonifacio [472] conte. Genserico re loro, per quanto abbiam da Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], fu principe di gran prodezza nell'armi, e di mirabile diligenza nelle sue azioni. E, secondochè scrive Giordano storico [Jordan., cap. 33, de Reb. Get.], era di statura mezzana, zoppo per una caduta dal suo cavallo, cupo nei suoi pensieri, di poche parole, sprezzatore della lussuria, inclinato all'ira, avido di conquiste, sollecito al maggior segno in muovere le sue genti, ed accorto per seminar dissensioni e promuover odii, dove gli tornava il conto. Signoreggiava costui insieme colla nazione nella Betica, ed era padron di Siviglia [Idacius, in Chronic.]. Nel mentre che egli si disponeva alla partenza verso l'Africa, intese che Ermigario Svevo metteva a sacco le vicine provincie, e senza perdere tempo mossosi contra di lui, il raggiunse nella Lusitania non lungi da Merida, dove uccise non pochi dei di lui seguaci, ed Ermigario stesso fuggendo si annegò nel fiume Ana. Dopo questa vittoria Genserico, che avea raunata gran quantità di navi, per lo stretto di Gibilterra traghettò la sua gente nell'Africa, e sulle prime s'impadronì della Mauritania. Era l'Africa, per attestato di Salviano [Salvian., lib. 7 de Gubern.], il più ricco paese che s'avesse l'imperio romano, perchè fin a questi tempi era stato esente dai malanni, che a cagion dei Barbari settentrionali aveano sofferto l'Italia, la Gallia e la Spagna. Ma non andò molto che divenne il teatro della povertà e delle miserie per l'ingresso de' Vandali. Nè solamente Genserico seco trasse i suoi nazionali, ma con esso lui s'unirono assaissimi Alani, Goti, ed altri di altre barbare nazioni, come racconta Possidio scrittore contemporaneo [Possid., in Vita sancti Augustini, cap. 28.], tutti isperanziti d'inestimabil bottino, di maniera che riuscì formidabile la sua armata, e a lui facile il far quei progressi che diremo. In quest'anno [473] Prospero [Prosper, in Chron.] e Cassiodoro [Cassiodorus, in Chronic.] scrivono che quella parte della Gallia ch'è vicina al Reno, dov'erano passati, e s'erano annidati i Franchi, fu colla strage di molti di loro ricuperata al romano imperio per la bravura d'Aezio. E Teodosio piissimo imperadore pubblicò in questo medesimo anno un insigne editto [L. 65, lib. 16, tit. 8, Codic. Theodos.] contra di tutti gli eretici, nominandoli ad uno ad uno. Ma per disgrazia della Chiesa cattolica Nestorio nello stesso tempo fu creato vescovo di Costantinopoli, e cominciò tosto a propalare le perverse opinioni sue.


   
Anno di Cristo CDXXIX. Indiz. XII.
Celestino papa 8.
Teodosio II imper. 28 e 22.
Valentiniano III imperad. 5.

Consoli

Fiorenzo e Dionisio.

O sia che i Vandali passassero solamente nel maggio del presente anno in Africa, come con buone ragioni pretende il padre Pagi, oppure nel precedente, certo è che crebbero le calamità in quelle parti, e massimamente nelle due Mauritanie, sopra le quali si caricò sulle prime il loro furore. Possidio [Possid., in Vita S. Augustini.] è un buon testimonio delle immense crudeltà da loro commesse. Saccheggi, incendii, stragi dappertutto, senza perdonare nè a sesso, nè ad età, nè a persone religiose, nè ai sacri templi. Fa parimente Vittor Vitense [Vict. Vitensis, Praet. lib. 1, de Persec. Vandal.] una lagrimevol menzione de' tanti mali prodotti dalla barbarie di que' tempi in quelle floride provincie. Salviano [Salvian., de Gubern., lib. 7.] anch'egli, non già vescovo, ma prete di Marsilia, raccontando la terribile scena dell'irruzione de Vandali nell'Africa, riconosce in ciò i giusti giudizii di Dio per punire gli enormi peccati dei popoli [474] africani, inumani, impudici, dati all'ubbriachezza, alle frodi, alla perfidia, alla idolatria e ad ogni altro vizio, di maniera che meno malvagi erano i Barbari di que' tempi in lor paragone. La nazione gotica (dic'egli) è perfida, ma pudica. Gli Alani sono impudichi, ma men perfidi. I Franchi son bugiardi, ma amanti dell'ospitalità. I Sassoni fieri per la lor crudeltà, ma per la lor castità venerandi; perciocchè tutte queste nazioni hanno qualche male particolare, ma hanno eziandio qualche cosa di bene. Negli Africani non si sa trovar se non del male. Ora qui è da ascoltare Procopio, il quale vien dicendo [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 3.] che molti amici di Bonifacio in Roma, considerati i costumi di lui per l'addietro incorrotti, non sapeano nè capire nè credere ch'egli per cupidigia di regnare si fosse ribellato al suo sovrano. Ne parlarono a Placidia Augusta, e per ordine di lei passarono a Cartagine per discoprire il netto della cosa. Bonifacio fece lor vedere le lettere d'Aezio, persuaso dalle quali aveva pensato non a venire in Italia, ma a cercar di salvarsi comunque avesse potuto. Con queste notizie se ne tornarono i suoi amici a Ravenna, e il riferirono a Placidia, la quale rimase stupefatta a così impensato avviso; ma non pensò di farne risentimento nè vendetta contra di Aezio, perchè egli avea le armi in mano, era vittorioso, e l'imperio romano indebolito non potea far senza di un sì valoroso capitano. Altro dunque non fece, se non rivelare anch'essa agli amici suddetti di Bonifacio la trama ordita da Aezio, e pregarli che inducessero Bonifacio a ritornarsene sul buon cammino, e a non permettere che l'imperio romano fosse maltrattato e lacerato dai Barbari, impegnando con giuramento la sua parola di rimetterlo in sua grazia. Andarono essi, e tanto dissero e fecero, che Bonifacio si pentì delle risoluzioni già prese e ripigliò la fedeltà verso il suo legittimo [475] signore, ma troppo tardi, siccome vedremo. Se queste cose succedessero nel presente o nel susseguente anno non è ben chiaro. Due belle leggi fra l'altre di Valentiniano Augusto appartengono a quest'anno. Nella prima [L. digna vox, Cod. Justinian. de Legib.], indirizzata a Volusiano prefetto del pretorio dice: Essere un parlare conveniente alla maestà del regnante, allorchè professa d'essere anch'egli legato dalle leggi, e che dall'autorità del diritto dipende l'autorità principesca. Essere in fatti cosa più grande dell'imperio, il sottomettere il principato alle leggi. E perciò egli notifica a tutti col presente editto quel tanto che non vuole sia lecito neppure a sè stesso. Nell'altra legge [L. 68, lib. II, tit. 30 Cod. Theodos.], indirizzata a Celere proconsole dell'Africa, protesta che, salva la riverenza dovuta alla sua maestà, egli non isdegna di litigar coi privati nel medesimo foro, e di essere giudicato colle stesse leggi. Tali editti fecero e fan tuttavia sommo onore a Valentiniano; ma egli col tempo se ne dimenticò, e gli costò la vita. Sebbene tai leggi son da attribuire a qualche suo saggio ministro, e non già a lui, che era tuttavia di tenera età.


   
Anno di Cristo CDXXX. Indizione XIII.
Celestino papa 9.
Teodosio II imp. 29 e 23.
Valentiniano III imperad. 6.

Consoli

Teodosio Augusto per la tredicesima volta e Valentiniano Augusto per la terza.

Dappoichè furono passati in Africa i Vandali, pare, secondo sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Svevor.], che gli Svevi sotto il re loro Ermerico, non avendo più ostacolo, s'impadronissero della Gallizia. Ma non l'ebbero tutta, e seguì ancora un accordo co' popoli di quella parte, che non si lasciò mettere il [476] giogo. Perciocchè scrive Idacio [Idacius, in Chronic.] sotto il presente anno, che essendo entrati gli Svevi nelle parti di mezzo della Gallizia, e mettendole a sacco, la plebe, che s'era ritirata nelle castella più forti, fece strage di una parte di essi, ed un'altra parte rimase prigioniera nelle lor mani, di modo che quei Barbari furono costretti a stabilir la pace con gli abitanti, sì se vollero riavere i lor prigioni. Racconta inoltre lo stesso Idacio che nelle Gallie venne fatto ad Aezio di trucidare un corpo di Goti, che ostilmente erano venuti fin presso ad Arles, con far prigione Arnolfo capo di essi. Aveano ben costoro pace coi Romani, ma non sapeano astenersi dal bottinare sopra i confinanti, quando se la vedeano bella. E colla medesima fortuna sconfisse i Giutunghi e Nori, ma senza dire in qual parte. Per quanto abbiam veduto altrove, e s'ha da Ammiano Marcellino [Ammian. Marcellin., lib. 17, c. 6.], erano i Giutunghi popoli dell'Alemagna. Desippo storico dice [Dexippus, in Eclog. Legat.] che i Giutunghi erano popoli della Scitia ossia Tartaria, forse perch'erano venuti di là. Certamente stavano non lungi dalla Rezia ai tempi di sant'Ambrosio, che ne parla in una sua lettera [Ambros., Epist. XXVIII, Class. I.]. I Nori si dee credere che fossero i popoli del Norico, che in questi tempi si ribellarono. E chiaramente lo attesta Apollinare Sidonio [Sidonius, in Panegyr. Aviti.] nel panegirico di Avito imperadore, con aggiugnere che Aezio in tali guerre nulla operò senza la compagnia di Avito, persona allora privata. E perciocchè Felice, di cui si è fatta menzione di sopra, generale delle armate di Valentiniano, fu innalzato alla dignità di patrizio, Aezio gli succedette nel generalato, per testimonianza di san Prospero [Prosper, in Chron.]. Già dicemmo pentito Bonifacio conte in Africa d'aver preso l'armi contra del suo sovrano, e di aver chiamato colà i Vandali dalla Spagna. A indurlo alla pace e [477] riconciliazione con Galla Placidia Augusta, probabilmente fu inviato in Africa Dario conte, di cui parla sant'Agostino in una sua lettera al medesimo [August., Epist. CCXXIX et CCXXX.]. E Dario stesso, in iscrivendo al santo vescovo, dice che se non ha estinto, ha almen differito i danni della guerra. Sappiamo inoltre che in questi tempi Segisvolto, generale di Valentiniano in essa Africa, mandò da Cartagine ad Ippona a sant'Agostino [August., Collat. cum maxim. num. 1.] Massimino vescovo ariano, per conferire con esso lui; il che ci fa argomentare che questo generale comandava tanto in Cartagine che in Ippona. E questo non si può intendere accaduto se non dopo la pace fatta con Bonifacio, che signoreggiava in quelle contrade, nè era stato vinto dall'armi dell'imperadore.

Tornato dunque in sè stesso Bonifacio e bramando di rimediare al male fatto, per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], si studiò d'indurre i Vandali a ritornarsene in Ispagna, con adoperare quante preghiere potè, e promettendo loro magnifiche ricompense. Ma un pazzo gitta un sasso nel pozzo, e cento savii nol possono cavare. Si risero in fatti di lui que' Barbari, parendo loro di essere burlati; e in fine dalle dolci si venne alle brusche, con essere seguito un fatto d'armi, nel quale restò sconfitto l'infelice Bonifazio. Si ritirò egli in Ippone Regio ossia Ippona, oggidì Bona città marittima e fortissima della Numidia, dove era vescovo santo Agostino suo singolare amico [Possidius, Vita S. Augustin., cap. 28.]. Colà ancora si rifugiarono come in luogo sicuro molti altri vescovi. Perciò i Vandali col re loro Genserico verso il fine di maggio, o sul principio di giugno del presente anno, passarono all'assedio di quella città, che sostenne lunghissimo tempo gli assalti e il furore di que' Barbari. Ed appunto nel terzo mese di quell'assedio infermatosi il gran lume dell'Africa e della Chiesa di Dio, cioè il suddetto sant'Agostino, [478] diede fine ai suoi giorni nel dì 28 d'agosto di questo anno, e non già del precedente, come scrisse Marcellino conte, raccogliendosi la verità dell'anno da san Prospero [Prosper, in Chron. Notis, Histor. Pelagian., lib. 2, c. 9.] e dalle lettere di Capreolo vescovo di Cartagine al concilio efesino, e da Liberato diacono nel suo Breviario. Finirono ancora di vivere in quest'anno Aurelio insigne vescovo di Cartagine, ed Alipio vescovo di Tagaste, primate della Numidia, celebre amico di sant'Agostino. Il vedere quei santi prelati le incredibili calamità delle lor contrade, e senza rimedio, non v'ha dubbio che dovette influire nella lor malattia e morte; e sant'Agostino fra gli altri in quel frangente pregava Dio, che o liberasse la città dai Barbari o se altra era la sua sovrana volontà, desse fortezza ai suoi servi, per uniformarsi al divino volere, oppure che levasse lui da questo secolo. Un gran fuoco s'era intanto acceso in Oriente per l'eresia di Nestorio, empio vescovo di Costantinopoli. Cirillo santo e zelante vescovo alessandrino quegli fu che più degli altri imbracciò lo scudo in difesa della Chiesa e della sentenza cattolica. Ma tanto egli quanto Nestorio ricorsero alla Sede apostolica romana, maestra di tutte le chiese. Perciò Celestino, pontefice di gran pietà e valore, raunò un concilio di vescovi in Roma, ed in esso condannò gli errori di Nestorio. Sopra ciò è da vedere gli Annali Ecclesiastici del cardinal Baronio e la Critica del padre Pagi. Nulladimeno perchè Nestorio era pertinace, nè gli mancava gente che il favoriva, e fra gli altri si contava Teodoreto celebre vescovo e scrittore di que' tempi, il piissimo imperador Teodosio intimò un concilio universale da tenersi nell'anno susseguente in Efeso, per mettere fine a tali controversie ed orrori. In questo medesimo anno, secondochè abbiamo da Prospero [Prosper, in Chron.], da Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico.] e da [479] Idacio [Idacius, in Chronico.], in un tumulto di soldati eccitato in Ravenna fu ucciso Felice generale dianzi dell'imperadore, ed allora patrizio, e con esso lui Padusia sua moglie e Grunito diacono. L'iniquo Aezio, tante volte disopra nominato, fu l'autore di tali omicidii, secondo Prospero, per avere, diceva egli, presentito che costoro gli tendevano insidie. Ma questa insolenza tanto più dovette irritar l'animo di Placidia contra di lui, e gli effetti se ne videro dipoi.


   
Anno di Cristo CDXXXI. Indizione XIV.
Celestino papa 10.
Teodosio II imper. 30 e 24.
Valentiniano III imperad. 7.

Consoli

Basso e Flavio Antioco.

Quasi quattordici mesi durò l'assedio d'Ippona; e benchè il re Genserico avesse così ben chiuso il porto e il lido, che non vi poteano entrar soccorsi; e quantunque facesse ogni sforzo per ridurla o colla forza o con qualche capitolazione alla resa, i difensori tennero forte, e delusero la di lui bravura e speranza, talmente che stanchi e ridotti senza viveri que' Barbari, dopo esservi stati sotto per sì lungo tratto di mesi, nel maggio dell'anno presente, levato l'assedio, si ritirarono. Non così tosto fu alla larga Bonifacio conte, che si diede a ragunar quante milizie romane potè [Procop., de Bell. Vandal. lib. 1, cap. 5.]; e perchè era già sbarcato a Cartagine un gran rinforzo di soldatesche, inviato non meno da Valentiniano che da Teodosio Augusti, egli mise insieme un poderoso esercito, con cui credette di poter azzardare una nuova battaglia coi Vandali. Per generale delle sue truppe avea spedito Teodosio Aspare figliuolo di Ardaburio, nominato disopra. Si combattè coraggiosamente con ostinatezza dall'una e dall'altra parte; ma in fine toccò la peggio a [480] Bonifacio e ad Aspare. Grande strage fu fatta dei Romani, e i generali si salvarono colla fuga. Aspare se ne tornò a Costantinopoli, e Bonifacio fece vela verso l'Italia. Idacio vescovo [Idacius, in Chron.] pare che differisca il ritorno a Roma di Bonifacio sino all'anno susseguente. Racconta egli bensì sotto il presente, che avendo gli Svevi di nuovo rotta la pace coi popoli della Gallizia, e saccheggiando dovunque arrivavano, egli fu spedito per implorare soccorso da Aezio, il quale nella Gallia faceva guerra coi Franchi. In Africa i cittadini d'Ippona, dappoichè ebbero intesa la rotta data dai Vandali all'armata di Bonifacio, abbandonarono la lor città, non volendo esporsi a sostenere un nuovo assedio. Il perchè trovatala vota i Vandali, v'entrarono, ed attaccatovi il fuoco, la desertarono, con essersi nondimeno miracolosamente salvata la libreria di sant'Agostino [Possid., in Vit. S. August., cap. 28.]. Fu celebrato in quest'anno sul fine di giugno e nel susseguente luglio, il terzo concilio universale nella città d'Efeso, e v'intervennero circa dugento vescovi. Papa Celestino, per servire di scorta e lume ai Padri che colà si aveano a raunare, precedentemente tenne in questo anno un altro concilio in Roma, e poscia spedì ad Efeso sul principio di maggio per suoi legati Arcadio e Projetto vescovi, e Filippo prete colle istruzioni necessarie. Nè contento di ciò, diede le sue veci a Cirillo vescovo di Alessandria, acciocchè presedesse in nome suo a quella sacra raunanza [Concil. Ephesio., Action. 1.]. In essa furono condannate le eresie di Nestorio, ed egli stesso deposto, e mandato in esilio, e in luogo suo fu eletto vescovo di Costantinopoli Massimiano. Diede fine in quest'anno a dì 22 di giugno alla sua santa vita Paolino vescovo di Nola, le cui virtù il fecero degno d'essere registrato fra i santi, e le cui opere sì di prosa che di verso si leggono stampate nella Biblioteca de' Padri, e più pienamente si veggono [481] unite nell'edizione che ne fu fatta nell'anno 1756 in Verona. E in quest'anno racconta Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.], che mancò di vita Flacilla figliuola di Teodosio Augusto. C'è luogo di sospettare, che in vece di figliuola Marcellino scrivesse sorella, sapendo noi che Arcadio imperadore padre di Teodosio II, fra le altre figliuole una ne lasciò dopo di sè appellata Flacilla, e non raccontando alcuno degli antichi storici che a Teodosio II nascesse altra figliuola se non Eudossia. Diede Valentiniano III imperadore nel presente anno un ordine a Flaviano prefetto del pretorio [L. 37, lib. 11, tit. 1 Cod. Theodos.], proibendo qualunque esenzione dai carichi ordinarii e straordinarii a qualsivoglia persona, con esentare solamente i beni suoi patrimoniali; perchè, come egli dice, le rendite di questi si impiegano spessissimo in sollievo delle pubbliche necessità; impiego sommamente lodevole in un principe che ama i suoi popoli. Quanto a Teodosio imperadore d'Oriente, ci fa sapere il suddetto Marcellino, che il popolo di Costantinopoli per carestia di pane gli tirò de' sassi nell'andar egli ai granai del pubblico. Diede fuori il medesimo Teodosio in quest'anno una legge [L. 4 et 5, de his, qui ad Eccl. Cod. cod.], in occasione che molti schiavi armati si erano rifugiati in chiesa, e n'era perciò nato un gran tumulto; proibendo da lì innanzi il poter levare per forza, pena la vita, alcuno dalle chiese e dai recinti di esse, compresi i cortili, portici e case dei religiosi, che ad esse servivano: con ordinare ancora che chi portasse armi in chiesa, perdesse la franchigia; ed egli stesso fu il primo a darne l'esempio. Trovasi intiera questa legge negli atti del concilio efesino.


[482]

   
Anno di Cristo CDXXXII. Indizione XV.
Sisto III papa 1.
Teodosio II imperad. 31 e 25.
Valentiniano III imperad. 8.

Consoli

Flavio Aezio e Valerio.

Aezio, che fu console nel presente anno, era quel medesimo che abbiam veduto di sopra esercitare la carica di generale delle armate cesaree in Occidente. L'altro console Valerio godea varie dignità nella corte dell'imperadore d'Oriente. A dì 19 di luglio di questo anno diede compimento ai suoi giorni Celestino papa, come pretende il Pagi [Pagius, Crit. Baron.], pontefice santo, pontefice glorioso per molte sue azioni, e spezialmente pel suo zelo contra de' pelagiani, semipelagiani e nestoriani, e per avere mandato in Iscozia oppure in Irlanda Palladio, che fu apostolo e primo vescovo di que' popoli barbari. Ebbe per successore nella cattedra di san Pietro Sisto III, di patria romano, il quale non tardò a procurare, per quanto gli fu possibile, la pace nelle chiese d'Oriente, divise a cagion di Nestorio. Nel che parimente si adoperò con vigore il piissimo imperadore Teodosio, tanto che ne riuscì una tollerabil concordia. Avea ben Galla Placidia Augusta, per non poter di meno, appagata l'ambizione d'Aezio suo generale, con dichiararlo console nell'anno presente; ma non per questo cessava in cuore di lei l'odio conceputo pel tradimento fatto a Bonifacio conte, e per l'uccisione di Felice patrizio, e probabilmente per altre di lui insolenze ed iniquità. Noi già vedemmo, seguendo l'autorità di Procopio, che Bonifacio, poco dopo la rotta datagli dai Vandali, se ne era ritornato in Italia. Ma ossia che quella giornata campale succedesse nel presente anno, oppure che Procopio affrettasse di troppo il di lui ritorno, tanto san Prospero [Prosper, in Chronico.] quanto [483] Marcellino [Marcell. Comes, in Chron.] scrivono ch'egli solamente in quest'anno dall'Africa venne a Roma, e di là alla corte che dimorava in Ravenna. Secondo Marcellino, egli fu chiamato dalla stessa Placidia Augusta per contrapporlo all'arrogante Aezio, il quale in questi medesimi tempi, per quanto abbiamo da Idacio [Idacius, in Chronico.], guerreggiava nella Gallia; e dopo aver data una rotta ai Franchi, i quali erano venuti di qua dal Reno, fece pace con loro. Era in questi tempi Clodione re de' Franchi, ed avea per figliuolo Meroveo, il quale amicatosi molto con Aezio, coll'aiuto di lui succedette col tempo al padre. Lo stesso vescovo Idacio, ch'era venuto a trovare Aezio per aver dei soccorsi contro gli Svevi, altro non impetrò, se non che fu spedito con lui Censorio per legato ad essi Svevi, che infestavano la Gallizia, per farli desistere da quelle violenze. Tornato adunque Bonifacio a Ravenna, non solamente fu rimesso in grazia di Valentiniano Augusto e di Placidia, ma dichiarato ancora generale dell'una e dell'altra milizia. Presso il Mezzabarba [Mediob., Numismat. Imper.] si vede in una medaglia di Valentiniano Augusto nominato Bonifacio. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.] ci ha conservata la notizia che Aezio all'udire richiamato alla corte Bonifacio e conferito a lui il generalato, con restarne egli privato, per precauzione si ritirò in siti fortificati, immaginandosi che Bonifacio suo nemico cercherebbe di far vendetta contra di lui. Nè s'ingannò. Dopo pochi mesi Bonifacio con molte forze fu a cercarlo, e trovatolo (non dicono gli storici in qual luogo) gli diede battaglia, e lo sconfisse bensì, ma perchè erano venuti questi emuli stessi nel conflitto alle mani insieme, Aezio che, secondo Marcellino [Marcell., in Chronico.], avea preparato il dì innanzi un dardo ossia un'asta più lunga, il ferì gravemente con restar egli [484] illeso. Fra pochi giorni, come vuole san Prospero, oppur dopo tre mesi, come lasciò scritto il suddetto Marcellino, Bonifacio di quella ferita si morì, lasciando Pelagia sua moglie molto ricca, e con indizio ch'egli cristianamente perdonasse ad Aezio, perchè esortò la stessa moglie a non maritarsi con altro uomo che con esso Aezio. Sebastiano conte, genero di Bonifacio, persona di gran credito, in suo luogo fu creato generale. Ora Aezio, trovandosi spennato e privo d'ogni autorità, si ritirò nelle sue terre, non so se nella Gallia, o nell'Italia; e quivi se ne stava ben in guardia. Ma avendo tentato un dì i suoi nemici con una improvvisa scorreria di sorprenderlo, egli non veggendosi quivi sicuro, se ne fuggì in Dalmazia, e di là nelle Pannonie, dove trovò il suo scampo presso gli Unni suoi antichi amici. In quest'anno Valentiniano Augusto con una sua costituzione [L. 3, lib. 4, tit. 23 Cod. Theodos.], indirizzata a Flaviano prefetto del pretorio, confermò i privilegi ai decurioni e silenziarii del palazzo, ch'erano guardie del corpo suo, per quanto crede il Gotofredo, ma che fors'anche son da dire una specie di milizia che stava nelle provincie, perchè dopo aver militato il dovuto tempo, loro è conceduto di venire alla corte, ancorchè non chiamati dal principe.


   
Anno di Cristo CDXXXIII. Indizione I.
Sisto III papa 2.
Teodosio II imp. 32 e 26.
Valentiniano III imperad. 9.

Consoli

Teodosio Augusto per la quattordicesima volta e Petronio Massimo.

Massimo, che fu console in quest'anno, era uno de' senatori romani più ricchi e potenti. Gran confidenza passava tra Valentiniano Augusto e lui. Egli dipoi tirannicamente occupò l'imperio, siccome vedremo. Il padre Sirmondo [Sirmondus, in Not. ad Sidon. epist. 11 et 13; et Append. Du-Cange in Dissert. de Numism.] rapporta [485] una medaglia, in cui da una parte si legge VALENTINIANVS P. F. AVG., e dall'altra PETRONIVS MAXIMVS V. C. CONS. In quest'anno Giovanni vescovo d'Antiochia che fin qui avea sostenuto il partito di Nestorio eretico, rinunziò al medesimo, per opera specialmente di Sisto romano pontefice. Ma non perciò s'ebbe una pace intera nelle chiese d'Oriente, restando tuttavia alcuni vescovi contrarii a Cirillo vescovo d'Alessandria, i quali eziandio appellarono alla santa sede romana, riconoscendo quel privilegio di cui era fin dai primi tempi in possesso la Chiesa romana. Fioriva in questi giorni nella Gallia Giovanni Cassiano, celebre autore delle Collazioni, ossia delle Conferenze de' padri, ma creduto infetto di opinioni semipelagiane: contra del quale prese la penna san Prospero d'Aquitania. Fioriva ancora in Egitto sant'Isidoro monaco ed abate di Pelusio. Abbiamo da Socrate [Socrat., Hist. Eccl., lib. 7, cap. 39.], dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr. ad hunc ann.] e da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], che nel presente anno seguì in Costantinopoli un fierissimo incendio, con restar divorata dalle fiamme una gran parte della città settentrionale colle terre appellate Achillee, e che durò quel fuoco per tre dì. Il cardinale Baronio attribuisce questo incendio, e la rotta data in Africa, all'aver Teodosio Augusto proceduto troppo mansuetamente contra di Nestorio, e all'averlo favorito molti nobili di Costantinopoli. Ma si fa torto a quel pio imperadore e al popolo di Costantinopoli che fu contra Nestorio, per nulla dire del concilio che lo condannò. Noi facciam troppo facilmente gl'interpreti della mente di Dio, il quale non ha bisogno di consigliarsi colle nostre povere teste, se vuol permettere le prosperità ai cattivi, nemici suoi, e mandar tribolazioni ai buoni, suoi amici. Già vedemmo che Aezio aveva spedito Castorio ambasciatore insieme con Idacio vescovo, autore della Cronica, agli Svevi che infestavano [486] la parte della Gallizia sottoposta al romano imperio. Narra il medesimo Idacio [Idacius, in Chron.] che Castorio portò le risposte alla corte imperiale di Ravenna; e che Ermerico re di essi Svevi finalmente rinnovò la pace co' popoli della Gallizia, mediante l'interposizione de' vescovi, con essergli stati dati perciò ostaggi: ma che Sinfosio vescovo mandato da lui per affari a Ravenna, se ne tornò indietro colle mani vote. Erasi, per quanto abbiam detto, rifugiato Aezio nella Pannonia presso gli Unni, che quivi signoreggiavano; e pel credito che avea con que' Barbari, cominciò un gran trattato, per muoverli contro l'Italia. Rugila era allora il re di quella nazione. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronico.] chiaramente attesta che Aezio, ottenuto da esso re un poderoso esercito, s'incamminava verso queste contrade: il che udito da Valentiniano Augusto, che si trovava senza sufficienti forze da opporgli, chiamò in suo aiuto i Goti, a mio credere, quelli che dominavano nell'Aquitania. Ma l'intenzione dell'astuto Aezio era, non già di portar la guerra in Italia, ma di far paura a Valentiniano, affine di obbligarlo a rimetterlo in sua grazia, e nelle dignità che gli erano state levate. Ed in fatti, per attestato di san Prospero [Prosper, in Chron.], valendosi dell'amicizia e del soccorso di costoro, ottenne quanto volle da Valentiniano e da Placidia, i quali giudicarono meglio di cedere, benchè poco onorevolmente, all'impertinenza di costui, che di tirarsi addosso una guerra pericolosa. Ed ecco dove era giunta la maestà del nome romano. Anche Idacio scrive sotto quest'anno, che Aezio fu dichiarato generale dell'una e dell'altra milizia, e poco dopo ottenne anche la dignità di patrizio, come parimente attesta l'autore della Miscella [Histor. Miscell. lib. 14.]. Circa questi tempi, come credette il Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn, lib. 2.], ma forse [487] molto prima, Galla Placidia Augusta terminò in Ravenna l'insigne e nobilissima basilica di san Giovanni evangelista, fabbricata vicino alla porta che si chiamava Arx Meduli. Allorchè essa venne col figliuolo Valentiniano da Salonichi verso Salona, o verso Aquileia, nell'anno 424, corse un gran pericolo per una fiera burrasca di mare; ed essendosi votata a san Giovanni evangelista, attribuì all'intercessione di lui presso Dio l'aver salvata la vita. Però, giunta a Ravenna, si diede a fabbricare in onore di Dio sotto il nome di questo santo Apostolo un tempio magnifico, che tuttavia esiste. Se ne può veder la descrizione nello Spicilegio della chiesa di Ravenna da me dato alla luce [Rer. Italicar. Scriptor. tom. I, part. 2.], ma non esente da qualche favola nata nel progresso de' tempi. Quivi si leggeva la seguente iscrizione, di cui anche fa menzione Agnello storico di Ravenna [Agnellus, in Vitis Episcopor. Ravenn. tom. 2, p. 1, Rer. Italic.], che fiorì circa l'anno 830.

SANCTO AC BEATISSIMO APOSTOLO
IOHANNI EVANGELISTAE
GALLA PLACIDIA AVGVSTA
CVM FILIO SVO
PLACIDO VALENTINIANO AVGVSTO ET FILIA
SVA IVSTA GRATA HONORIA
AVGVSTA LIBERATIONIS PERICVL.
MARIS VOTVM SOLVIT.

Di qui abbiamo che anche Giusta Grata Honoria, sorella di Valentiniano, ebbe il titolo di Augusta; e questo ancora apparisce da una medaglia rapportata dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], dal Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byzantin.] e dal Mezzabarba [Mediobarb., Numism. Imperator.], in cui si legge: D. N. IVST. GRAT. HONORIA. P. F. AVG. E nel rovescio: SALVS REIPVBLICAE COM. OB. Tornerà occasion di parlare in breve di questa principessa che lasciò dopo di sè un brutto nome. Il Rossi aggiugne [488] che in esso tempio alla destra nell'arco del volto erano formate col musaico le immagini di Costantino, Teodosio I, Arcadio, ed Onorio Augusti; e alla sinistra, di Valentiniano III, Graziano e Costanzo Augusti, e di Graziano nipote e di Giovanni nipote: i quali due ultimi sono a noi ignoti nella famiglia di Teodosio il Grande. Eranvi ancora più basso le immagini di Teodosio II imperadore, e di Eudocia sua moglie, siccome ancor quelle di Arcadio imperadore, e di Eudossia sua moglie. Ma presso l'antichissimo Agnello, e nello Spicilegio suddetto, non troviamo questa sì precisa descrizione, a noi conservata dal suddetto Girolamo Rossi.


   
Anno di Cristo CDXXXIV. Indizione II.
Sisto III papa 3.
Teodosio II imperad. 33 e 27.
Valentiniano III imperad. 10.

Consoli

Ariovindo ed Aspare.

Dacchè Aezio si vide forte per la ricuperata dignità di generale, colla giunta ancora dell'altra più riguardevole di patrizio, non tardò a vendicarsi come potè contro i parenti del defunto Bonifacio conte. Però in quest'anno, secondo la testimonianza d'Idacio [Idacius, in Chronic.], Sebastiano genero di esso Bonifacio, e succeduto a lui nel generalato, per opera d'Aezio fu mandato in esilio, o pure per timore di lui elesse l'esilio, e fuggitivo si ricoverò alla corte di Costantinopoli. Sappiamo ancora da san Prospero [S. Prosper, de promiss., cap. 6.] che Aspare console occidentale, per quanto crede il padre Pagi (ma fors'anche orientale, non apparendo ch'egli passasse dal servigio di Teodosio Augusto a quello di Valentiniano imperadore), Aspare, dico, fu inviato a Cartagine, senza che se ne sappia il motivo, se non che durava in quelle parti tuttavia la guerra coi Vandali. [489] Secondo Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronic.], in quest'anno finì di vivere Rugila re degli Unni, con cui i Romani aveano confermata la pace, ed ebbe per successore Bleda ed Attila fratelli. Questo Rugila è chiamato Roa da Giordano storico, e Roila da Teodoreto [Theod., Hist. Eccl., lib. 5, cap. 37.], il quale aggiugne che costui avea saccheggiata la Tracia, e minacciato l'assedio alla stessa città di Costantinopoli, e di volerla schiantare da' fondamenti. Non tarderà molto a venire in iscena Attila suo successore. Teodosio Augusto in quest'anno, per quanto potè, sovvenne al bisogno dei poveri di Costantinopoli in tempo di carestia, con applicare secento undici libbre d'oro del suo erario per comperar grani in loro sovvenimento [L. 3, da frument. Urb. Constantinop. Cod. Theod.], ordinando che fossero condannati gli uffiziali nel doppio di tutto quello che avessero ritenuto di questa somma. Comandò eziandio con altra legge [L. unica de bonis Cleric. Cod. Theod.] che i beni dei chierici e monaci, che mancassero di vita senza testamento, fossero applicati alle chiese, alle quali erano ascritti; e non già ai parenti o al fisco, siccome dianzi si facea. Accadde ancora che Melania giovane, donna di santa vita, e monaca non claustrale, abitante allora in Gerusalemme, fu chiamata a Costantinopoli da Volusiano suo zio paterno, prefetto di Roma, che per affari era stato inviato alla corte d'Oriente. Venne la piissima donna, e tanto seppe dire insieme con Procle insigne vescovo di Costantinopoli, che Volusiano stato fin allora gentile, si convertì alla religione di Cristo: e fu cosa maravigliosa ch'egli infermo, subito dopo avere ricevuta la grazia del battesimo, morì. Ma in Ravenna accadde un fallo vituperoso per quella corte. Grata Giusta Onoria Augusta, sorella di Valentiniano imperadore, siccome poco fa vedemmo, non per anche maritata, si stava [490] in corte colla madre e col fratello, ma senza quella buona guardia, di cui abbisognano le fanciulle. Perciò ella ebbe comodità di troppo dimesticarsi con Eugenio suo procuratore, e ne restò gravida. Marcellino conte istorico [Marcell. Comes, in Chron.] quegli è che notò questo brutto avvenimento, con aggiugnere ch'essa Onoria fu inviata alla corte di Teodosio Augusto. Qui si dimanda qual sia stata la prudenza di que' regnanti in tener sì poca guardia alle principesse fanciulle, e quale in aver preso il ripiego di scacciare la mal accorta principessa. In vece di occultar questo fallo, par quasi che si studiassero di divulgarlo dappertutto. In questi tempi fiorì in Provenza Vincenzo Lerinense, autore dell'Aureo Commonitorio contro le eresie, ma creduto per qualche tempo fautore degli errori de' semipelagiani. San Prospero scrisse contra di lui.


   
Anno di Cristo CDXXXV. Indizione III.
Sisto III papa 4.
Teodosio II imp. 34 e 28.
Valentiniano III imper. 11.

Consoli

Teodosio Augusto per la quindicesima volta e Valentiniano Augusto per la quarta.

Teodosio imperadore, zelante custode della dottrina della Chiesa, perchè tuttavia bolliva in Oriente una fiera discordia per cagione del condannato e deposto Nestorio, in quest'anno fece proibire la lettura dei di lui libri [Pagius, Critic. Baron.], con ordinare eziandio che fossero bruciati. Furono inoltre esiliati non pochi vescovi, che ostinatamente o non volevano condannar quell'eretico, o ricusavano di aver comunione con Cirillo vescovo d'Alessandria, cioè col primo mobile di tutti gli atti contra di Nestorio. Intanto Aezio generale di Valentiniano, secondochè abbiamo da san Prospero [Prosper, in Chronic.], era passato [491] nelle Gallie per mettere in dovere i Borgognoni, cioè que' Barbari, che già stabiliti nel paese, onde poi venne il nome della Borgogna, ed in altri circonvicini paesi, infestavano le provincie romane. Idacio [Idacius, in Chron.] scrive che costoro si ribellarono, con indizio ch'essi signoreggiavano bensì in quelle contrade, ma con riconoscere l'imperador d'Occidente per loro sovrano. Riuscì a quel valoroso generale di dar loro una rotta tale, che Gundicario re de' medesimi fu obbligato a supplicare per ottener la pace, che gli venne accordata da Aezio. Fa menzione di questa vittoria anche Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Aviti.], con dire che i Borgognoni s'erano scatenati contro la provincia belgica; e che Avito, il qual poscia fu imperadore, anche questa volta fu compagno di Aezio nello sconfiggerli. Abbiamo parimente dal sopraddetto Prospero, siccome ancora da Cassiodoro [Cassiod., in Chronic.], che nel febbraio del presente anno in Africa nella città d'Ippona fu conchiusa la pace fra l'imperador Valentiniano e Genserico re de' Vandali, con avere il primo ceduta all'altro una porzione dell'Africa. Sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Vandal.] attesta che Genserico in quella occasione si obbligò con forti giuramenti di non molestar in avvenire le provincie romane. Questa pace, che l'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 14.] chiama piuttosto necessaria che utile, fu maneggiata e condotta a fine da Trigezio uffiziale di Valentiniano. E d'essa fa menzione ancora Procopio [Procop., lib. 1, cap. 4, de Bell. Vand.], con lodare la prudenza di Genserico, il quale, senza lasciarsi gonfiare dalle passate prosperità, pensando che, se continuava la guerra, poteva voltar faccia la fortuna, giudicò più spediente di assicurar colla pace le conquiste già fatte. Aggiugne Procopio che Genserico si obbligò di pagar ogni anno tributo a Valentiniano Augusto, e che per, sicurezza de' patti, mandò [492] per ostaggio a Ravenna Unnerico suo figliuolo. Certo è che restò in poter dell'imperadore Cartagine; qual parte toccasse a Genserico, lo vedremo più abbasso. Era fuggito a Costantinopoli Sebastiano conte, e genero già di Bonifacio patrizio, siccome è detto di sopra. Bisogna che la persecuzion d'Aezio patrizio il raggiugnesse fino colà; perciocchè sotto quest'anno racconta Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] ch'egli fuggì dalla città Augusta, e che poi in Africa fu ucciso. Ma egli non andò a dirittura in Africa, e la sua morte appartiene ad altro tempo, siccome vedremo più abbasso. Sembra bensì doversi riferire a quest'anno ciò che narra Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.], cioè che nella Gallia ulteriore succedette una ribellione, di cui fu capo un certo Tibatone, con essersi levati que' popoli dalla ubbidienza del romano imperio. Avvenne di più, che in mezzo a quelle turbolenze quasi tutti i servi, o, vogliam dire, gli schiavi, sottrattisi all'ubbidienza de' lor padroni, in Bagaudam conspiravere. Colle quali parole vuol dire che costoro si gittarono nella fazione de' Bagaudi. Così erano chiamati nella Gallia le migliaia di contadini e di altre persone che per cagione del mal governo degli uffiziali dell'imperadore s'erano ribellati molti anni prima, e dopo essersi fatti fuori nelle castella e rocche, viveano di ladronecci e rapine. Veggasi il Du-Cange [Du-Cange, in Glossar. Latinit. ad vocem Bagauda.]. Con costoro dunque s'attrupparono anche in gran parte i servi di quelle contrade, per vivere col mestiere infame degli altri. Scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Occident. lib. 12.] che Valentiniano Augusto si portò in quest'anno a Roma per solennizzarvi l'anno decimo del suo imperio: il che fu fatto con gran magnificenza di giuochi e spettacoli. Onde s'abbia egli tratto questo viaggio dell'imperadore, non l'ho fin qui rinvenuto.


[493]

   
Anno di Cristo CDXXXVI. Indiz. IV.
Sisto III papa 5.
Teodosio II imp. 35 e 29.
Valentiniano III imper. 12.

Consoli

Flavio Artemio Isidoro e Flavio Senatore.

Amendue questi consoli furono creati in Oriente da Teodosio Augusto. Senatore si trova ancora chiamato Patrizio in una lettera di Teodoreto [Theod., Epist. XLIII.] e negli atti del concilio calcedonense. Gli ho io dato il nome di Flavio, perchè così ha un'iscrizione da me prodotta nella mia Raccolta [Thesaur. Novus Inscript. Class. Consulum.]. Durava la pace tra i Romani e i Goti appellati Visigoti, che signoreggiavano nella Gallia le provincie dell'Aquitania e Settimania. Ma Teodorico re d'essi Goti, non contento de' confini del suo regno, cercò in questi tempi di dilatarlo alle spese de' vicini. Però uscito in campagna, secondochè attesta s. Prospero [Prosper, in Chronic.], s'impadronì della maggior parte delle città confinanti, e pose l'assedio a Narbona. Fecero lungamente una gagliarda difesa i soldati romani coi cittadini, ma per la mancanza de' viveri erano vicini a cadere nelle mani del re barbaro, quando Aezio generale dell'imperadore, che si trovava allora nelle Gallie, spedì in loro aiuto Litorio conte con un grosso corpo di milizie. Questi avendo fatto prendere a cadauno de' cavalieri in groppa due moggia di grano, minori di gran lunga allora, che quei d'oggidì, spinse coraggiosamente innanzi, e gli riuscì d'entrare nella città, con provvederla abbondantemente di vettovaglia. Allora i Goti, ossia che seguisse un combattimento, in cui ebbero la peggio, oppure che vedessero cessata affatto la speranza di conquistar quella piazza, e massimamente dopo un sì poderoso rinforzo di viveri e di gente, ritiratisi in fuga, abbandonarono [494] l'assedio. Idacio [Idacius, in Chron.] anch'egli scrive (ma sotto l'anno seguente) che i Goti cominciarono ad assediar Narbona; e poscia sul fin di esso anno 436, o pure nel susseguente 437, seguita a dire che Narbona fu liberata dall'assedio de' Goti per valore di Aezio generale della milizia cesarea: il che fa vedere che non è sempre sicura la cronologia d'Idacio. Sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Gothor.] aggiugne che Teoderico fu messo in fuga da Litorio capitano della milizia romana, il quale menava in suo aiuto gli Unni. A quest'anno ancora, o al seguente, s'ha da riferire una scossa grande data al regno de' Borgognoni nelle Gallie. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronic.] lasciò scritto che si accese una terribil guerra tra i Romani e i Borgognoni, e che essendo venuti ad una giornata campale, Aezio generale de' Romani riportò un'insigne vittoria colla morte di Gundicario re di quei Barbari, la nazion de' quali ivi perì quasi tutta. S. Prospero aggiugne che in quest'impresa gli Unni furono collegati dei Romani, anzi a lor stessi attribuisce questa gran vittoria. E che in questo fatto d'armi intervenisse lo stesso Attila re degli Unni, si raccoglie da Paolo Diacono nelle vite de' vescovi di Metz [Paulus Diacon., in Vitis Episcopor. Metens.], dove narra che Attila, dopo avere atterrato Gundicario re de' Borgognoni, si diede a saccheggiar tutte le contrade delle Gallie. Ma convien ben confessare che la storia di questi tempi resta assai scura e mancante di notizie, non sapendo noi dove allora avessero la lor sede gli Unni, i quali di sopra vedemmo cacciati dalle Pannonie; nè come Attila entrasse nelle Gallie, e ne uscisse poco appresso; nè perchè, se era in lega con Aezio, si mettesse poi a devastar esse Gallie. Aggiungasi che Idacio [Idacius, in Chron.] imbroglia la cronologia, perchè sembra rapportar piuttosto questo fatto all'anno seguente, se è vero ciò che [495] pretende il padre Pagi, cioè che il suo anno d'Abramo 2453 cominci il primo dì d'ottobre dell'anno nostro 436, perciocchè Idacio sotto quell'anno, dopo la liberazion di Narbona, scrive che furono uccisi circa ventimila Borgognoni. Bisogna ancora supporre che gli Svevi nella Gallicia inquietassero i popoli romani, giacchè il medesimo Idacio sotto lo stesso anno racconta che furono spediti per ambasciatori a quella barbara nazione Censorio e Fretimondo per commissione, come si può credere, di Aezio. Per altro non sussiste ciò che racconta Prospero Tirone, cioè che perisse quasi tutta la nazion dei Borgognoni, perchè oltre al vederla tuttavia durare, all'anno 456 troveremo anche i re loro, per attestato di Giordano storico. Abbiamo poi da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che Teodosio in quest'anno andò a Cizico, città della Misia, per mare; e dopo aver fatti a quella città molti benefizii, se ne tornò a Costantinopoli. Da un rescritto ancora, che vien rapportato dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], intendiamo che nel presente anno da esso piissimo Augusto fu relegato in Oasi, luogo di solitudine nell'Egitto, l'empio Nestorio; perchè avendolo prima confinato in un monistero di Antiochia, non lasciava di seminar le sue eresie. Però non si sa vedere quali bilancie adoperasse il cardinal annalista, là dove accusa quel pio imperadore di una peccaminosa indulgenza verso quell'eresiarca. Sbalzato di qua e di là questo mal uomo, e più che mai ostinato nei suoi errori, finì di vivere e d'infettare la Chiesa nel presente anno. Evagrio, Teodoro Lettore, Cedreno e Niceforo scrivono che gli si putrefece la persona tutta, e gli si empiè di vermini la lingua; ma non c'è obbligazione di prestar fede a questo racconto.


[496]

   
Anno di Cristo CDXXXVII. Indizione V.
Sisto III papa 6.
Teodosio II imper. 36 e 30.
Valentiniano III imper. 13.

Consoli

Aezio per la seconda volta e Sigisboldo.

Vedemmo di sopra all'anno 430 Segisvoldo generale dell'armata di Valentiniano in Africa. Egli è quello stesso che nei Fasti del presente anno si truova console, essendo lo stesso nome Sigisboldo e Segisvoldo. Ascese dipoi questo personaggio anche alla dignità di patrizio, facendone fede Costanzo prete nella vita di san Germano vescovo autissiodorense, ossia di Auxerre nella Gallia. In questi tempi, per attestato di san Prospero [Prosper, in Chronico.], non contento Genserico di aver tolto in Africa tanto paese all'imperio romano, si diede ancora a perseguitar i Cattolici, con pensiero di far ricevere a quegli abitanti l'eresia ariana, ch'egli colla nazione vandalica professava. L'odio suo principalmente si scaricò sopra i vescovi cattolici, i quali, senza lasciarsi atterrire dalle minacce e dai fatti di quel Barbaro, sostennero coraggiosamente la vera religione. Fra essi i più riguardevoli furono Possidio vescovo di Calama, Novato di Sitifa e Severiano di non so qual sedia, a' quali furono tolte le basiliche, e dato il bando dalle città. Nelle Gallie poi, siccome lasciò scritto il suddetto san Prospero, in quest'anno Aezio fece guerra ai Goti, avendo per suoi collegati gli Unni che tuttavia stanziavano in quelle parti. E sotto questo medesimo anno ci fa sapere Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronico.] che fu preso Tibatone con gli altri capi della ribellione svegliata nella Gallia ulteriore, parte dei quali tagliata fu a pezzi; e che questa vittoria servì ancora a dileguar le insolenze dei Bagaudi sopra descritti. Avea Valentiniano, quando anche era fanciullo, siccome è detto di sopra, contratti gli [497] sponsali con Licinia Eudossia figliuola di Teodosio II, imperador d'Oriente, quand'anche essa era di tenera età. Ora giunto il tempo di effettuare il matrimonio, Valentiniano si mosse da Roma per mare alla volta di Costantinopoli. Socrate, scrittor di quei tempi, osserva [Socrat., Hist. Eccl., lib. 7, cap. 44.] che erano disposte le cose, e convenuto tra Teodosio e Valentiniano, che le nozze si avessero a fare nei confini dell'uno e dell'altro imperio, e che perciò era stata eletta Tessalonica, ossia Salonichi. Ma Valentiniano con sue lettere fece sapere a Teodosio che non volea permettere tanto incomodo, e che a questo fine egli andrebbe in persona a Costantinopoli. Laonde, dopo avere guernito i più importanti luoghi del suo imperio di buone guarnigioni, passò a quella regal città, dove seguirono le splendide nozze di questi principi. Ma strana cosa è che Socrate riferisce un sì rilevante avvenimento sotto il consolato d'Isidoro e Senatore, cioè nell'anno precedente: laddove Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] e san Prospero [Prosper, in Chron.] lo raccontano sotto l'anno presente. E l'autore di essa Cronica Alessandrina scrive che quella suntuosa funzione seguì nel dì 29 d'ottobre. Più sicuro è l'attenersi a tanti autori tutti concordi, che al solo Socrate, al cui testo può essere stato aggiunto da qualche ignorante dei secoli susseguenti quel consolato. Si partì poi Valentiniano colla moglie Augusta da Costantinopoli; ma perchè non si arrischiò di continuare il viaggio per mare in tempo di verno, fermossi colla corte in Tessalonica fino alla nuova stagione. Ma non si dee tacere una particolarità assai rilevante. Solito era presso i Romani, e dura tuttavia il costume, che i mariti prendano non solamente la moglie, ma anche la dote pingue, per quanto [498] si può. Il contrario succedette in queste nozze. Bisognò che Placidia Augusta e il figliuolo Augusto, se vollero conchiudere questo matrimonio, cedessero all'imperador Teodosio la parte dell'Illirico spettante all'imperio d'Occidente. Ne dobbiam la notizia a Giordano storico [Jordan., de Success. Regnorum.]. E Cassiodoro [Cassiod., lib. 11, epist. 11.] ancora lasciò scritto, che Placidia si procurò una nuora colla perdita dell'Illirico, e che il matrimonio del regnante divenne una division dolorosa per le provincie. Finalmente è da osservare che Valentiniano ed Eudossia erano parenti in terzo grado, e pure niuno degli scrittori notò che per celebrar quelle nozze fosse presa dispensa alcuna.


   
Anno di Cristo CDXXXVIII. Indizione VI.
Sisto III papa 7.
Teodosio II imperad. 37 e 31.
Valentiniano III imperad. 14.

Consoli

Teodosio Augusto per la sedicesima volta, e Anicio Acilio Glabrione Fausto.

I nomi del secondo console, non conosciuti in addietro, risultano da una iscrizione da me data alla luce [Thes. Novus Inscript., pag. 404.]. S'era creduto in passato per fallo dei copisti, che Teodosio Augusto nell'anno 435 avesse pubblicato il Codice, chiamato dal suo nome Teodosiano; ma Jacopo Gotofredo [Gothofred., in Prolegomen. ad Cod. Theodos.] mise in chiaro, che solamente nel presente anno seguì questa pubblicazione. In fatti si truovano in esso Codice leggi date anche nel 436 e 437. La legge, con cui fu confermato esso Codice da Teodosio, si vede indirizzata a Fiorenzo, che era prefetto del pretorio dell'Oriente in quest'anno, e non già nel 435. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronic.] anch'egli sotto quest'anno riferisce l'edizion d'esso Codice. Questa [499] nobil fatica e raccolta di leggi imperiali fece grande onore a Teodosio imperatore, essendo stato ricevuto esso Codice, non solo nell'Oriente, ma anche nell'Occidente per l'Italia, Francia e Spagna, e fin presso i Barbari, che s'erano piantati in queste provincie. Questo credito gli avvenne, perchè dianzi la giurisprudenza avea delle leggi contrarie fra loro, e molte d'esse occulte, e sparse qua e là con innumerabili consulti e risposte, di maniera che i giudici e legisti faceano alto e basso, e decideano con sommo arbitrio le cause, mancando loro un intero libro delle costituzioni de' principi. In questo anno pure esso imperador Teodosio lasciò andare Eudocia Augusta sua moglie a Gerusalemme a sciogliere un voto fatto a Dio [Socrat., Hist. Eccl., lib. 7, cap. 46.], se potevano maritar la figliuola, siccome poi loro venne fatto. Anche santa Melania la giovane, allorchè fu in Costantinopoli, avea esortata l'imperadrice alla visita di que' luoghi santi; ed essa Melania, trovandosi poi in Gerusalemme, andò incontro all'imperadrice, e ne ricevette molti onori. Fanno menzione ancora di questa andata Teofane [Theoph., in Chronogr.], e l'autore della Miscella [Hist. Miscella, lib. 14.] ed Evagrio [Evagr., lib. 1, cap. 20.], e tutti concordano ch'ella ornò di ricchissimi doni le chiese, non solamente di Gerusalemme, ma anche di tutte le città per dove ella passò nell'andare e tornare. Aggiugne di più Evagrio, ch'essa rifece le mura della santa città, e quivi edificò varii monasteri, lasciando dappertutto fama di piissima principessa. Ma Evagrio confonde con quest'andata l'altra, che seguì dopo alcuni anni, e della quale parleremo più abbasso. Accadde ancora in quest'anno, che predicando Proclo vescovo di Costantinopoli le lodi di san Giovanni Grisostomo suo antecessore [Socrat., lib. 7, cap. 44.], il popolo alzò le voci, domandando che il suo corpo fosse riportato in [500] quella città, dove era stato pastore [Baron., Annal. Eccl.]. Però Teodosio, udito le premure di Proclo e del popolo, puntualmente ne eseguì la traslazione con gran solennità, e con chieder egli perdono, e pregare per gli suoi genitori che aveano perseguitato cotanto un così insigne e santo prelato. E nel presente anno abbiamo da Evagrio [Evagr., lib. 1, cap. 16. Niceph., lib. 14, c. 45.], che furono ancora trasportate le sacre ossa dell'incomparabil santo martire Ignazio dal cimitero fuori d'Antiochia entro la città nel tempio appellato Ticheo. Intanto venuta la primavera, Valentiniano Augusto colla real consorte, per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], partitosi da Salonichi, felicemente si restituì a Ravenna. Duravano tuttavia varii moti di guerra nella Gallia, dove i Goti erano in armi. San Prospero [Prosper, in Chronic.] nota sotto quest'anno che contra di quei Barbari fu combattuto con felicità; ed Idacio [Idacius, in Chron.] ci fa sapere che riuscì ad Aezio, generale dell'armata imperiale, di tagliar a pezzi ottomila d'essi Goti. Aggiugne il medesimo autore che gli Svevi, dai quali era infestata una parte del popolo della Gallicia, si ridussero a riconfermar la pace. Gravemente s'infermò in questi tempi Ermerico re de' medesimi Svevi, e però dichiarò re suo figliuolo Rechila, il quale appresso Singilio fiume della Betica con un corpo di gente diede battaglia ad Andevoto e lo sconfisse, con restare sua preda un grossissimo valsente d'oro e d'argento. Il Sigonio [Sigonius, lib. 12, de Occident. Imper.], a cui mancavano molti aiuti per la storia, che son venuti alla luce dipoi, narra in quest'anno, ma fuor di sito, che i Goti in Ispagna sconfissero Rechila re degli Svevi, e gli tolsero il tesoro. Anzi Rechila fu nell'anno presente vincitore, e quell'Andevoto era capitano dell'esercito romano, perciocchè sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Svevor.] scrive che [501] Rechila con una gran parte dell'esercito fece giornata con Andevoto duce della milizia romana, che gli era venuto incontro con gran forza, e presso Singilio fiume della Betica il mise in rotta, con venire alle sue mani il tesoro del medesimo. S'era poi formata nell'anno antecedente, per attestato di Prospero [Prosper, in Chron.], una compagnia di corsari di mare, composta di disertori barbari, cioè Vandali, Goti e Svevi; e costoro nel presente diedero il guasto a molte isole del Mediterraneo, e spezialmente alla Sicilia. Ma abbiamo sotto quest'anno da Marcellino conte [Marcell., in Chron.], che Cotradi, uno de' capi di questi corsari, con assaissimi suoi seguaci fu preso ed ucciso. Fioriva in questi tempi Valeria Faltonia Proba, moglie di Adelfio proconsole, donna di felice ingegno e scienziata, che compose i Centoni di Virgilio. Ad imitazione di essa anche Eudocia moglie di Teodosio Augusto formò i Centoni d'Omero. Fiorivano ancora san Cirillo vescovo d'Alessandria, e Teodoreto vescovo di Ciro, eccellenti scrittori della Chiesa di Dio.


   
Anno di Cristo CDXXXIX. Indizione VII.
Sisto III papa 8.
Teodosio II imperad. 38 e 32.
Valentiniano III imperad. 15.

Consoli

Teodosio Augusto per la decimasettima volta e Festo.

Dopo avere impiegati molti mesi l'Augusta Eudocia nella visita de' santi luoghi di Gerusalemme, sen venne ad Antiochia, dove quel popolo, secondochè scritte Evagrio [Evagr., Hist., lib. 1, cap. 20.], in memoria sua le innalzò una statua di bronzo, lavorata con molto artifizio. Ed essa poi, in ricompensa di questo onore, fu cagione che Teodosio suo consorte fece una considerabil giunta a quella città, con ampliare il muro sino alla porta che guida al borgo [502] di Dafne. Ma, secondo la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], Eudocia andò ad Antiochia nel suo secondo viaggio ai luoghi santi, siccome vedremo all'anno 448. Finalmente, come narra Marcellino [Marcellin., in Chron.], essa si restituì a Costantinopoli con portar seco le reliquie di santo Stefano protomartire, che furono poste nella basilica di san Lorenzo. Pativasi poi da gran tempo una grave carestia in Oriente, ed attribuendone il piissimo imperador Teodosio la cagione ai Giudei, ai Samaritani, agli eretici, e massimamente ai gentili, i quali, ad onta di tanti editti, seguitavano in segreto a sagrificare ai loro falsi dii, pubblicò in quest'anno un severissimo editto contra dei medesimi, quale si legge fra le di lui Novelle [Novell. Theodos. tit. 3, tom. 6 Cod. Theod.]. Altri editti pubblicati dallo stesso imperadore sopra varie materie in quest'anno si possono vedere fra le stesse Novelle. Sappiamo ancora dalla Cronica Alessandrina che esso imperadore fece in questi tempi le mura alla città di Costantinopoli per tutta la parte che guarda il mare. Ma di Valentiniano Augusto non s'ha memoria alcuna in quest'anno. Egli probabilmente si dava bel tempo in Ravenna, città che nel presente, o nel susseguente anno, come sospetta il padre Bacchini nelle sue annotazioni alle vite de' vescovi ravennati di Agnello [Agnell., Vit. Episcopor. Ravennat. tom. 2, part. 1, Rer. Italicar.], autore del secolo nono, meritò d'avere per suo vescovo san Pier Grisologo, celebre scrittore della Chiesa di Dio, e probabilmente primo arcivescovo di Ravenna, la cui elezione, secondochè s'ha dallo stesso Agnello, fu miracolosa. Nè è da stupire, se dimorando Galla Placidia e Valentiniano III Augusti in Ravenna, volendo essi condecorar quella chiesa, ottennero dal romano pontefice ch'essa fosse eretta in arcivescovato, e che si smembrassero dalla metropoli di Milano molte chiese, per [503] sottoporle al metropolitano di Ravenna. Già dissi che nella concordia seguita in Africa tra il suddetto Augusto Valentiniano e Genserico re dei Vandali, fu dato in ostaggio Unnerico figliuolo del re barbaro all'imperadore per la sicurezza dei patti. Da lì innanzi si studiò l'astuto Genserico di mostrare una tenera amicizia e un totale attaccamento a Valentiniano, tanto che, per attestato di Procopio [Procop., lib. 1, cap. 4.], gli venne fatto di riavere il figliuolo in libertà, e di vederselo restituito in Africa. Allora fu che l'empio e disleale, mettendosi sotto ai piedi la parola data e i giuramenti, all'improvviso si spinse coll'esercito sotto Cartagine, metropoli dell'Africa, sottoposta da tanti secoli all'imperio romano, e l'occupò. Idacio [Idacius, in Chronico.] scrive che ciò seguì con frode; colle quali parole non si sa s'egli intenda l'avere con finta pace ed amicizia tradito Valentiniano, o pure, come veramente s'ha da san Prospero [Prosper, in Chron.], l'avere con qualche inganno trovata la maniera d'impadronirsi di quella insigne città. Secondo Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico.], seguì tal presa nel dì 23 d'ottobre del presente anno; secondo Idacio, nel dì 19 d'esso mese, ma dell'anno precedente, se è vero, come vuole il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], che Idacio si serva dell'era d'Abramo, il cui anno cominci nelle calende d'ottobre. Meglio è attenersi a san Prospero e a Marcellino su questo punto, e tanto più perchè s'incontrano tal falli di cronologia nella Cronica d'Idacio, sia per difetto suo o dei copisti, che non si può francamente valere della di lui autorità per istabilire con sicurezza i tempi. Fu la misera città di Cartagine posta a sacco, per testimonianza di san Prospero; tormentati i cittadini perchè rivelassero le ricchezze che aveano e che non aveano; spogliate le chiese, e date ai preti ariani, con altre [504] orride crudeltà, specialmente contro i nobili e contro la religione cattolica. Salviano prete di Marsiglia, e zelantissimo scrittore di questi tempi, là dove narra [Salvianus, de vero judic., lib. 7.] la perdita di quella gran città, descrive ancora il precedente suo stato, con dire ch'essa per lo splendore e per la dignità gareggiava con Roma, e poteva appellarsi un'altra Roma, perchè quivi si contavano tutti i magistrati ed uffizii, coi quali in tutto il mondo si reggono i popoli; quivi era scuola dell'arti liberali, raro ornamento allora di una città; quivi la filosofia, le lingue, i costumi s'insegnavano; quivi stava una buona guarnigion di soldati coi loro uffiziali, e il governatore dell'Africa, proconsole bensì di nome, ma console quanto alla potenza. Appresso soggiugne che Cartagine era piena di popolo, ma più d'iniquità; abbondante di ricchezze, ma più di vizii, e massimamente di disonestà, ubbriachezze, bestemmie, ladronecci, oppressioni di poveri, idolatrie, odio contra de' monaci servi di Dio, e d'altre malvagità ch'io tralascio. Il perchè Salviano attribuisce a manifesto gastigo di Dio le calamità che si rovesciarono su quella città. Di là fu cacciato il vescovo con assaissimi del suo clero, per quanto s'ha da Vittore Vitense [Victor Vitensis, de persecutione Vandal., l. 1.], e l'eresia ariana professata dai Vandali maggiormente si dilatò per l'Africa.

A così funesta disavventura del romano imperio, un'altra se ne aggiunse nelle Gallie. Durava tuttavia in quelle parti la pace tra i Romani e Teodorico re dei Goti, o vogliam dire Visigoti. Littorio conte, che dopo Aezio facea la prima figura nelle armate dell'imperadore, invogliato di superar la gloria d'esso Aezio, ruppe questa pace, e fatto inoltrar l'esercito, determinò di dar battaglia a' Goti, con aver in suo aiuto gli Unni. Costui si fidava assai dei professori della strologia giudiciaria e delle risposte dei [505] demonii, siccome abbiamo dai santi Prospero [Prosper, in Chronico.] ed Isidoro [Isidorus, in Chron.]; laonde imbarcato dalle lor false promesse, attaccò la zuffa, con far sulle prime tal macello di que' Barbari, che gli parea di tenere in suo pugno la vittoria. Ma rimasto lui accidentalmente prigioniero d'essi, l'armata sua non fece altro progresso, e dovette sonare a raccolta. Abbiamo ancor qui la testimonianza di Salviano [Salvianus, de Provident. Dei, lib. 7.], che descrive la superbia e la temerità di esso Littorio. Imperocchè i Goti informati delle forze che costui conduceva, bramando la pace, aveano spediti per tempo vescovi a chiederla; ma Littorio ricusò e sprezzò ogni accomodamento. Teoderico, all'incontro, benchè ariano, mettendo la sua speranza in Dio, prima di combattere, prese il cilicio, si diede alle orazioni col suo popolo, e poi uscì alla battaglia; laddove Littorio, fidandosi de' suoi indovini e della forza degli Unni, i quali fecero un mondo di mali dovunque passarono, entrò in campo, ma con rimaner prigioniero. Fu egli condotto legato fra le derisioni della plebe gotica in Tolosa, città, in cui egli si era figurato di entrar vincitore in quel medesimo giorno, e in cui poscia miseramente stette gran tempo fra i ceppi. Cassiodoro ancora, santo Isidoro e Idacio fanno menzione di questa sconfitta de' Romani; ma l'ultimo d'essi storici discordando da Salviano, scrive che Littorio, preso dai Goti, fu da lì a pochi giorni ucciso. Merita ben più fede Salviano che in que' tempi vivea nelle Gallie. Ma non passò molto che vedendo Teoderico dall'un canto tuttavia assai poderose le forze de' Romani; e considerando dall'altro Aezio generale di Valentiniano, che non era bene l'azzardare una nuova battaglia, si trattò e conchiuse la pace fra essi Goti e Romani, avendola specialmente chiesta con più umiltà di prima i Goti. Apollinare [506] Sidonio [Sidonius, in Panegyr. Aviti.] attribuisce l'onore di questa pace ad Avito, ch'era allora prefetto del pretorio delle Gallie, e divenne poi imperadore. Viene attestata questa medesima pace da san Prospero, da santo Isidoro, da Idacio e da Salviano. E se noi vogliamo prestar fede a Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 34.], essa fu fatta sul campo; perchè dopo aver combattuto, senza che alcuno cedesse, conoscendo cadauna delle parti la forza dell'altra, si trattò di accordo, e questo conchiuso, ognuno si ritirò. Aggiugne lo stesso Giordano che per quella pace s'acquistò gran credito Attila re degli Unni; colle quali parole il sembra supporre intervenuto a quel fatto di armi, il che non so se sussista. Narra eziandio san Prospero [Prosper, in Chron.] sotto questo anno, che Giuliano, famoso partigiano dell'eresiarca Pelagio, rincrescendogli d'avere perduto il vescovato di Eclano, tentò furbescamente di rimettersi in grazia di Sisto III papa, con fingersi ravveduto de' suoi errori. Ma scoperta la frode da Leone diacono, che fu poi nel seguente anno creato papa, fu rigettato da Sisto con plauso di tutti i cattolici. Inoltre abbiamo da Idacio [Idacius, in Chronico.] che in questi tempi riuscì a Rechila re dei Svevi nella Spagna, d'impadronirsi della città di Emerita, oggidì Merida nell'Estremadura. Di Valentiniano Augusto neppur sotto questo anno ci si presenta memoria alcuna, quando non si volesse dire ch'egli in questi tempi facesse fabbricare in Roma la confessione di san Paolo [Baron., Annal. Eccl.], cioè l'ornamento dell'altare sovrapposto al suo sacro corpo. Pesò esso dugento libbre d'argento: ma molto di più, a mio credere, avranno testi migliori. Fece ancora esso Augusto, secondochè sta scritto in una lettera di papa Adriano, un'immagine d'oro, con dodici porte, e il Salvatore, ornata di gemme preziose, ch'egli, in [507] adempimento di un suo voto, ordinò che fosse posta sopra la confessione di san Pietro apostolo. Inoltre alle preghiere di papa Sisto III [Anastasius, in Sixto III.] fece una tribuna d'argento nella Basilica Costantiniana, pesante libre seimila e secento dieci, che fu poi rapita dai Barbari. Si ha bensì in quest'anno illustre memoria di Teodosio Augusto, non solamente per le cose già dette, ma ancora per varie leggi da lui pubblicate, che si leggono fra le sue Novelle [Codex Theod. in Append.]. Particolarmente in una di esse egli provvide alle prepotenze di chi con mendicati colori faceva prendere dalla giustizia il possesso de' beni de' poveri. In un'altra ancora raffrenò i calunniatori de' vescovi, proibendo ai cherici e monaci il venire a Costantinopoli senza le dimissorie del proprio vescovo. Socrate, Sozomeno e Teodoreto, storici greci, fiorirono in questi tempi.


   
Anno di Cristo CDXL. Indizione VIII.
Leone papa 1.
Teodosio II imperad. 39 e 33.
Valentiniano III imper. 16.

Consoli

Valentiniano Augusto per la quinta volta ed Anatolio.

Nel dì 11 d'agosto, per quanto pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron. ad hunc ann.], diede fine ai suoi giorni Sisto III, romano pontefice, il quale fabbricò in Roma la basilica di santa Maria Maggiore, ed arricchì d'altri ornamenti preziosi le chiese di Roma: sopra che è da vedere Anastasio bibliotecario [Anastasius, in Sixto III.], ossia l'autore antichissimo delle Vite de' papi. Stette la sede vacante, per attestato di san Prospero [Prosper, in Chron.], quaranta giorni, perchè Leone diacono, personaggio di gran credito, era ito in Francia per amicare insieme Aezio, generale di Valentiniano Augusto, con Albino, mandato [508] nella Gallia colla dignità di prefetto del pretorio. Senza di lui il clero e popolo non volle passare ad elezione alcuna, e però gli spedirono con pregarlo di sollecitare il suo ritorno. Appena giunto, sopra di lui si unirono i voti de' sacri elettori, ed egli fu creato papa a dì 22 di settembre, secondo il padre Pagi. Questi è san Leone il grande, di patria romano, piuttosto che toscano: papa glorioso per le sue virtù e memorabili azioni. Intanto Genserico re de' Vandali, dopo avere occupata quasi tutta l'Africa, più che mai seguitò a sfogare il suo odio, non solamente contro i vescovi e il clero cattolico di quelle contrade [Victor Vitensis, de persec. Vandal., lib. 1.], ma ancora contra de' nobili di Cartagine, per timore che non si sollevassero contra di lui. Però moltissimi ne spogliò de' beni, e cacciatili in esilio, li costrinse a mendicare il pane nelle provincie del romano imperio: pensione dura, che toccò parimente a non pochi vescovi e ad assaissimi ecclesiastici. Si possono leggere le crudeltà di costui presso Vittore Vitense. Anche Teodoreto ne fa menzione in varie sue lettere. Nè contento Genserico di aver occupato sì vasto e ricco paese, cominciò ancora a meditar voli più grandi. E perciocchè per mala ventura aveano imparato i Vandali il valersi delle navi, in quest'anno esso re loro passò con una flotta in Sicilia, dove, per testimonianza d'Idacio [Idacius, in Chron.], diede il sacco a non poche parti di quell'isola, ed assediò lungamente Palermo, ma nol potè avere. Cassiodoro [Cassiod., lib. 1, epist. 4.] in una delle sue lettere notò che l'avolo suo, nomato anch'esso Cassiodoro, personaggio di dignità illustre, difese la Sicilia e la Calabria dall'invasione dei Vandali. Il motivo per cui Genserico si ritirò dalla Sicilia, e tornò frettolosamente a Cartagine, fu, secondo san Prospero [Prosper, in Chron.], perch'egli ebbe nuova che Sebastiano conte, di cui parlammo di sopra [509] all'anno 434 e 435, era passato dalla Spagna in Africa. Considerò il re barbaro che sarebbe stato troppo pericoloso per sè e per gli suoi, se durante la sua assenza dall'Africa, un uomo di tanto credito nell'arte della guerra, e già stato generale dell'armi romane, si fosse messo in testa di ricuperar Cartagine. Ma (soggiugne Prospero) Sebastiano andato in Africa, in vece di farla da nimico, si dichiarò amico de' Vandali, sperando fortuna e vantaggi presso di loro: cosa che non gli riuscì, anzi gli costò la vita.

Qui con san Prospero non s'accorda Idacio [Idacius, in Chron.] nel tempo; perciocchè scrive all'anno 444, che essendo Sebastiano fuggito a Costantinopoli, scoperto che macchinava cose contra lo stato, gli fu detto all'orecchio che se ne andasse. Ed egli si rifugiò presso Teoderico re de' Goti, e da nemico entrò in Barcellona, cercando, per quanto potè, d'impadronirsene. Sembra che quella città ubbidisse allora al romano imperadore, e che Sebastiano, mal soddisfatto di Valentiniano, ostilmente v'entrasse. Noi abbiam già veduto disopra che, per attestato di Marcellino, nell'anno 435 egli scappò da Costantinopoli. Che andasse nelle Gallie, mettendosi sotto la protezion dei Goti, e passasse dipoi in Ispagna, cioè nella Catalogna, l'abbiamo da san Prospero e da Idacio. Nota questo ultimo storico all'anno 445 susseguente, che Sebastiano fu costretto a fuggire da Barcellona, con rifugiarsi in Africa presso i Vandali. Finalmente il medesimo Idacio all'anno 450 scrive che Sebastiano esiliato e ramingo essendosi ricoverato in Africa, e messosi sotto la proiezione di Genserico, poco tempo dopo il suo arrivo fu, per ordine di esso re, svenato. Notizie disordinate, perchè s'egli nel 445 passò in Africa, e poco dipoi gli fu levata la vita, come si può differir la sua morte fino al 450? Cagione di tutti questi brutti salti di Sebastiano, uomo di alto affare e di gran prodezza, fu la persecuzione che andò continuando contro [510] di lui Aezio generale di Valentiniano Augusto, e suo implacabile nemico. Ma Genserico non si fidò punto di Sebastiano, sospettando fraudolenta la sua venuta; e però, preso pretesto ch'egli fosse cattolico, gli propose che per assicurar maggiormente l'alleanza e fedeltà giurata, abbracciasse la setta ariana. Ma egli, costantissimo nella vera religione, amò piuttosto di gloriosamente morire sostenendola, che di guadagnarsi l'amicizia del re barbaro con abbandonarla. Vittore Vitense [Victor Vitensis, de persecut. Vandal., lib. 1.] è quegli che a lungo narra questo fatto. Come poi san Prospero racconti sotto il presente anno il passaggio di Sebastiano in Africa, e s'egli o Idacio abbia fallato ne' tempi, non si può ben decidere; ma certo nel racconto d'Idacio si scuopre della contraddizione. In quest'anno Teodosio Augusto, per animar la gente alla coltivazion delle terre, ordinò che fossero esenti dai pubblici carichi tutte quelle persone industriose che guadagnassero nelle alluvioni, o nel diseccar le paludi [Novell. 19, in Append., tom. 6. Cod. Theod.]. Con altro editto [Novell. 20, ibidem.] del medesimo Augusto fu fatto sapere ai popoli, che essendosi inteso come Genserico, nemico del romano imperio, era uscito con una riguardevol flotta fuori del porto di Cartagine, senza sapersi su qual paese egli dovesse piombare, contuttochè si sperasse che presto arriverebbe Aezio coll'esercito, e benchè Sigismondo (forse Sigisvoldo) generale delle milizie, avesse fatto le possibili disposizioni per la difesa delle coste: tuttavia si dava la licenza dell'armi a tutti, per potersi opporre al tiranno, dovunque egli comparisse. Andò poi il Barbaro contro la Sicilia, siccome abbiam veduto. In un'altra legge [Novell. 21, ibidem.] ordina che tutti i beni del cesareo fisco, passati in mano altrui, ancorchè ecclesiastici, sieno suggetti ai pubblici carichi e tributi. Tralascio altre sue leggi. [511] In questi tempi fiorì san Petronio vescovo di Bologna, registrato da Gennadio [Gennadius, cap. 41, de Scriptor. Eccles.] fra gli scrittori ecclesiastici. Adone [Ado, in Chron. Ætat. 6.] il chiama figliuolo di Petronio prefetto del pretorio; e certo si sa da una lettera di sant'Eucherio [Eucher., de contempt. mundi.], suo contemporaneo, ch'esso santo dalla pienissima sede della potestà mondana era passato alla cattedra episcopal di Bologna. Però non è improbabile che anch'egli avesse goduta la dignità medesima di prefetto del pretorio.


   
Anno di Cristo CDXLI. Indizione IX.
Leone papa 2.
Teodosio II imper. 40 e 34.
Valentiniano III imper. 17.

Console

Ciro solo.

Questo Ciro fu console in Oriente, nè si sa perchè in Occidente non fosse creato console alcuno per quest'anno. Era Ciro, per attestato di Suida [Suidas, in Lexico, verb. Cyrus.], da Pano città dell'Egitto, pagano di professione, e per la perizia in far versi entrò forte in grazia d'Eudocia imperadrice, giacchè anche essa si dilettava forte di far la poetessa. Con sì alta protezione salì egli ai gradi di general d'armata, di prefetto del pretorio d'Oriente, di prefetto della città di Costantinopoli, di console e di patrizio. Decaduta poi Eudocia, anch'egli cadde, ed abbracciata la religion di Cristo fu creato vescovo, come diremo. Ne parla anche Evagrio nella sua storia. Avendo veduto Teodosio che Genserico coll'invadere la Sicilia, minacciava ancora l'imperio orientale, e saputo che avea preso il titolo di re, determinò in quest'anno di portare contra di lui la guerra in Africa. San Prospero [Prosper, in Chron.] ci fa sapere che egli mise insieme una gran flotta, e la spinse in Sicilia. Erano duci dell'armata [512] Ariovindo, Anassila e Germano. Ma costoro, ossia che apprendessero il ritorno di Genserico in Sicilia, o per ragione che si addurrà fra poco, non finirono mai di muoversi verso l'Africa; e però passò il presente anno senza operazione alcuna contra de' Vandali, e solamente con aggravio grande della Sicilia. Ma Teofane [Theoph., in Chronic.] riferisce questo fatto all'anno 449, con aggiugnere che la flotta imperiale consisteva in mille e cento navi: dal che atterrito Genserico, mandò ambasciatori a trattar di pace. Intanto esso re barbaro, sempre più temendo che i popoli cattolici dell'Africa si rivoltassero, maggiormente divenne crudele, e perseguitò massimamente i vescovi e il clero; ed assaissimi in tal occasione soffrirono il martirio, siccome abbiamo da sant'Isidoro [Isidorus, in Chronico Vandal.]. In quest'anno ancora, per attestato d'Idacio [Idacius, in Chron.], venne a morte Ermerico re degli Svevi in Ispagna, dopo essere stato infermo per sette anni. Egli avea già dichiarato re e successore suo nell'anno 438 Rechila suo figliuolo, il quale in questo medesimo anno stese di molto le sue conquiste, perchè s'impadronì di Siviglia e delle provincie della Betica e di Cartagena. Aggiugne esso storico che inviato Asturio duce dell'una e dell'altra milizia (per quanto si può credere da Aezio generale dell'imperadore) nel territorio di Taragona in Ispagna, quivi disfece una gran moltitudine di Bacaudi, cioè di contadini e d'altri, che ribellatisi ai magistrati padroni, viveano di ladronecci ed assassinii. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.] è poi testimonio che in questi dì Aezio suddetto, dopo aver pacificate le turbolenze della Gallia, se ne tornò in Italia, probabilmente richiamato per unirsi con l'armata di Teodosio contra di Genserico. Ma in questi tempi anche l'imperio greco patì delle disgrazie, come lasciò scritto [513] Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.]. Imperocchè ad un medesimo tempo si mossero i Persiani, i Saraceni, i Zanni, gl'Isauri e gli Unni, chi da una parte e chi dall'altra, e devastarono molte contrade de' cristiani sottoposte all'imperio suddetto. Teodosio Augusto spedì contra di costoro Anatolio, dianzi console, ed Aspare, suoi generali, la bravura de' quali mise freno a que' Barbari, e gl'indusse a far tregua per un anno. Ma in questa non dovettero entrare gli Unni, perchè seguita a dire lo stesso istorico, che costoro con grandi forze entrarono nell'Illirico, e diedero l'ultimo eccidio a Naisso, a Singiduno e a moltissime altre terre di quelle romane provincie. Racconta egli finalmente, e lo scrisse ancora l'autore della Cronica Alessandrina [Chronicum Alexandrinum ad hunc. ann.], come cosa notabile, che in quest'anno Giovanni, di nazione Vandalo, generale dell'imperadore, fu ucciso in Tracia, per frode di Arnegisclo, ossia Arnegisco, generale della Dacia, oppur della Tracia, che restò poi morto in una battaglia contro gli Unni, siccome vedremo all'anno 447. Parimente Teofane [Theoph., in Chronograph.] racconta questo fatto, ma fuor di sito, cioè all'anno 38 di Teodosio Augusto. E più precisamente impariamo da lui che questo Giovanni, per soprannome Vandalo, avea cominciato in Roma a far da tiranno contra di Valentiniano Augusto. Ma che inviati da Teodosio Augusto Aspare ed Artaburio suoi generali, costui fu sconfitto in una battaglia; ed essendosi egli sotto la lor parola dato in lor mano, fu condotto a Teodosio, e procurato che venisse provveduto di qualche posto. Ma Crisafio eunuco, allora potentissimo nella corte, con inganno il fece levar di vita: la quale iniquità Dio permise che da lì a poco restasse punita. Essendo succeduta nel 449, o piuttosto nel 450, la caduta di Crisafio, si scorge a qual tempo Teofane riferisca la morte di questo Vandalo: cosa che non può stare, perchè Arnegisco [514] fu ucciso nell'anno 447. Strano è che in Roma succedesse la sollevazion di costui, e ch'egli fosse poi atterrato in un conflitto dai generali di Teodosio, e che gli antichi non abbiano messo meglio in chiaro questo notabil fatto. Pubblicò in questi tempi esso Augusto una legge [L. viris spectabil. Cod. Justinian. de Privil. Scholar.], in cui proibì ai conti delle scuole militari di battere e degradare gli uffiziali subalterni. Con altre leggi dichiarò che a niuno dei difensori delle città fosse permesso il depor la sua carica senza la licenza dell'imperadore; e che non si potesse opporre la prescrizione quando si trattava degli aggravii e delle imposte del pubblico.


   
Anno di Cristo CDXLII. Indizione X.
Leone papa 3.
Teodosio II imper. 41 e 35.
Valentiniano III imper. 18.

Consoli

Dioscoro ed Eudossio.

Il primo console si truova chiamato Flavio Dioscoro in un'iscrizione riferita da me altrove [Thesaur. Novus Inscript., pag. 406.]. Più volte finora si è parlato degli Unni, barbari settentrionali, che abitavano nella Scitia, che oggidì appelliamo Tartaria. Un grosso corpo di essi era entrato nelle Gallie, collegati coi Romani. Ma il nerbo di quella nazione barbarica tuttavia si fermava nelle sue fredde contrade, e costoro avevano già cominciato a maltrattare i paesi dell'imperio orientale. Secondo il padre Pagi, in quest'anno fecero di peggio, se pure si ha da mettere sotto l'anno presente, e non piuttosto nell'antecedente, questa loro irruzione. Per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], nel precedente anno Bleda ed Attila, re d'essi Unni e d'altri popoli della Tartaria, saccheggiarono l'Illirico e la Tracia. Ma più chiaramente parla di [515] questa turbolenza l'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib 14.], con dire che Attila re degli Unni, uomo forte e superbo, mentre signoreggiava insieme con Bleda suo fratello, entrò nell'Illirico e nella Tracia, con dare crudelmente il guasto a que' paesi, ed impadronirsi di tutte quelle città e castella, a riserva di Adrianopoli e di Eraclea. Perciò fu richiamato indietro l'esercito che era ito in Sicilia con intenzioni di far la guerra in Africa contra di Genserico. Non ci è disdetto il sospettare che lo stesso Genserico stuzzicasse gli Unni a muoversi contra dell'imperadore greco, per liberare sè stesso dai pericoli che gli soprastavano. Vedremo in breve i maneggi segreti che passavano fra questi Barbari, benchè divisi fra loro da tanto paese. Giordano storico [Jordan., de Regnor. success.], seguitato qui dal Sigonio, lasciò scritto anche egli che Attila unito coi Gepidi, dei quali era in que' tempi re Arderico, e coi Goti e Valani, e con altre diverse nazioni, e coi re loro, diede il sacco a tutto l'Illirico, alla Tracia, all'una e altra Mesia, e alla Scitia, cioè alla Tartaria minore; e che avendo Teodosio spinto con quante forze potè Arnegistio, ossia Arnegisco, suo generale, per arrestar questo torrente, si venne ad un fatto d'armi con gli Unni presso Marcianopoli, principale città della Mesia, così appellata da Marciana sorella di Traiano imperadore, ed in esso il generale cesareo lasciò la vita. Ma questa battaglia e la morte di Arnegisco succedette alcuni anni dopo, cioè nel 447, per quanto scrive Marcellino conte. Di questa irruzione degli Unni parlano ancora Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] e la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr., ad hunc ann.]. Il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] crede che nell'anno precedente seguisse una battaglia fra l'armata di Teodosio ed Attila re degli Unni, presso la Chersoneso, ossia penisola della Tracia, [516] e che nel presente seguisse la pace fra loro. Rapporta egli le parole di Prisco retorico [Priscus, in Excerpt. Legation.], prese dagli estratti delle legazioni, stampati nel primo tomo della Bizantina. Ma non si raccoglie sicuramente da Prisco, autore per altro di quei tempi, e che ebbe mano in que' medesimi scabrosi affari, l'anno di quella pace, potendo essere che la medesima fosse trattata e conchiusa solamente dopo la battaglia che dicemmo data da Arnegisclo nell'anno 447, perchè di questa sola parlano gli antichi storici. Però d'essa mi serbo il farne menzione allora. Sotto il presente anno sì Idacio [Idacius, in Chronic.] che Marcellino [Marcell. Comes, in Chronico.] scrivono che si vide in cielo un'insigne cometa, e che le tenne dietro la peste, la qual si diffuse per tutto il mondo. Intanto Genserico re de' Vandali in Africa, non contento di esercitare la sua crudeltà contra di que' popoli, e soprattutto contra dei cattolici, colla sua intollerabil superbia, originata dai fortunati successi dell'armi sue, venne anche in odio ai primarii uffiziali della sua corte ed armata. San Prospero [Prosper, in Chron.] è quegli che racconta il fatto. Però alcuni di essi macchinarono una congiura contra di lui; ma scoperti, pagarono dopo gravi tormenti colla vita il fio della mal condotta impresa. E perciocchè il re crudele sospettò di moltissimi altri, anch'essi li levò dal mondo, di maniera che venne ad indebolirsi più per questo domestico accidente, che se fosse stato sconfitto in guerra. Probabilmente di qui avvenne che Genserico diede orecchio ai trattati di pace, alla quale era portato anche Valentiniano Augusto, il quale non poteva di meno, al mirare addosso all'imperio d'Oriente quel gran diluvio di barbari Unni, d'esserne soperchiato anch'egli nelle parti sue. Fu conchiusa essa pace, e restò, in vigor d'essa, all'imperador d'Occidente qualche provincia in Africa; ma qual fosse, nol so io [517] dire. Cominciò in questi tempi, siccome osservò il padre Pagi, l'eresia d'Eutiche, ossia Eutichete, in Oriente. E Teodosio Augusto pubblicò un editto [Novell. II, 2, tom. 6 Append. Cod. Theod.] per mettere freno alle frodi e concussioni che facevano i suoi ministri nel prendere la quarta de' beni che i curiali lasciavano dopo di sè, da applicarsi al fisco, ordinando che tutta l'eredità passasse ne' figliuoli, nipoti, pronipoti, e nel padre, avolo e bisavolo maschi, con altre riserve e provvisioni. E Valentiniano Augusto con sua legge [Novell. 34, ibid.] data in Ravenna ampliò i privilegi de' causidici; e con un'altra restituì ai conti del sacro e privato erario la facoltà di condannare i giudici, che dianzi era stata loro levata, per mettere briglia all'avarizia de' palatini. È noto che questa legge è data in Spoleti a dì 27 di settembre: il che ci può far conghietturare che Valentiniano nel presente anno andasse a Roma.


   
Anno di Cristo CDXLIII. Indizione XI.
Leone papa 4.
Teodosio II imp. 42 e 36.
Valentiniano III imperad. 19.

Consoli

Petronio Massimo per la seconda volta e Paterno, o piuttosto Paterio.

Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.] pretende che Paterio, e non già Paterno, sia il console di questo anno. Il Relando [Reland., in Fastis.] preferisce Paterno. Ma facile è che il nome non tanto usuale di Paterio dagl'ignoranti copisti sia stato mutato in Paterno; e le ragioni del Pagi sembrano più gagliarde. In quest'anno abbiamo, per testimonianza di Marcellino [Marcell. Comes, in Chron.] conte, essere caduta tanta neve, che durò sei mesi sopra la terra, e per cagione dello smoderato freddo perirono migliaia d'animali. Egli aggiugne che Teodosio imperadore tornò dalla [518] spedizione d'Asia a Costantinopoli. Altrettanto abbiamo dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.]. Ma contra chi fosse tale spedizione, niuno lo scrive. Certo non fu contra gli Unni, perchè questi per allora non passarono in Asia. Nel presente anno, per attestato di san Prospero [Prosper, in Chron.], riuscì alla vigilanza di san Leone papa di scoprire in Roma stessa una gran ciurma di Manichei nascosti, i quali furono da lui obbligati a rivelare tutta l'empietà delle loro dottrine, e i lor libri consegnati al fuoco. Giovò a tutto il cattolicismo questa scoperta, perchè si venne a sapere in quali provincie e città dimorassero segretamente i lor falsi vescovi e preti, di modo che sì in Occidente che in Oriente provvidero i vescovi all'infezione che andavano seminando. E san Leone sopra ciò scrisse delle istruzioni a tutti. In Ispagna, per relazione di Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.], gli Alani, re o capo de' quali era Sambida, partirono fra loro le ville abbandonate dai popoli della città di Valenza. E da Idacio [Idacius, in Chron.] sappiamo che, in luogo di Asturio generale dell'armata imperiale di Spagna, fu mandato dall'imperador Valentiniano Merobaude, persona nobile, e che per lo studio dell'eloquenza, e specialmente pel suo buon gusto nell'arte, poteasi paragonar con gli antichi, e per questi suoi meriti fu onorato di molte statue. Appena egli ebbe posto il piede in Ispagna, che mise freno all'insolenze de' Bacaudi, rustici ribelli, come di sopra accennai, che infestavano Aracillo città della Cantabria, oggidì Biscaia. Ma questo valentuomo poco durò in quell'impiego, perchè per invidia d'alcuni fu richiamato d'ordine di Valentiniano Augusto a Roma. Nel presente anno esso Augusto pubblicò una legge [Novell. 22, tom. 6 Cod. Theod.], con cui vieta il poter procedere contra dei poveri africani, che, spogliati di tutto, s'erano [519] fuggiti in Italia, per obbligarli a pagare i debiti e le sigurtà da lor fatte. Altre leggi si sono emanate da lui in quest'anno, e due specialmente date in Roma nella piazza di Traiano: il che ci fa intendere ch'esso imperadore fu in quest'anno sul principio di marzo a consolare il popolo romano colla sua presenza. Nell'agosto poi susseguente egli si truova in Ravenna. Accadde in questi tempi, come osservano il cardinal Baronio ed il Pagi, che l'insigne scrittore e vescovo di Ciro, Teodoreto, creduto fautore degli errori di Nestorio, fu per ordine di Teodosio Augusto sequestrato nella sua diocesi.


   
Anno di Cristo CDXLIV. Indizione XII.
Leone papa 5.
Teodosio II imper. 43 e 37.
Valentiniano III imperad. 20.

Consoli

Teodosio Augusto per la diciottesima volta ed Albino.

Regnavano nella Scitia, ossia Tartaria, i due fratelli Bleda ed Attila, siccome è detto di sopra; e Bleda pare che avesse più popoli sottoposti che il fratello Attila. Ma potendo più nel cuor d'Attila l'ambizione che la ragione, e perchè egli non amava di aver compagno nel trono, fraudolentemente uccise Bleda, per quanto narra san Prospero, nel presente anno [Prosper, in Chronic.], e dopo lui Cassiodoro [Cassiod., in Chronic.], con forzar tutte quelle popolazioni a rendere ubbidienza a sè stesso. Lo attesta anche Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 35.], con aggiugnere che questo re crudele mise insieme un'immensa armata, per desiderio di soggiogare i Romani e Visigoti; e correa voce che in questo terribil esercito si contassero cinquecento mila persone: numero probabilmente ingrandito dal timore di allora. Ciò può farci sospettare che Attila non fosse mai passato nella Gallia, come [520] parve di sopra che supponesse lo storico suddetto. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] riferisce all'anno seguente la morte di Bleda. Attesta ancora questo scrittore che morì nell'anno presente, in età di quarantacinque anni, Arcadia, figliuola d'Arcadio imperadore, e sorella di Teodosio Augusto, la quale, seguendo le pie esortazioni di Pulcheria Augusta sua sorella, conservò la verginità fino alla morte. Ella godeva il titolo di nobilissima, e fabbricò in Costantinopoli le terme appellate Arcadiane. Gennadio [Gennad., de Script. Eccl.], in iscrivendo che Attico, vescovo di Costantinopoli, indirizzò un libro della fede e verginità alle regine figliuole d'Arcadio imperadore, vi comprende ancora questa principessa, molto lodata per la sua pietà e per altre virtù. Finì ancora di vivere nel presente anno san Cirillo, celebre vescovo d'Alessandria, e scrittore insigne della Chiesa di Dio, al cui zelo principalmente si dee l'abbattimento di Nestorio e della sua eresia. Era contra di lui esacerbato Teodoreto, famoso vescovo di Ciro, e dopo la di lui morte ne sparlò non poco; ma le virtù di Cirillo sono sopra le appassionate dicerie di Teodoreto. Sotto questo anno mette l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexand.] la discordia nata fra Teodosio Augusto ed Eudocia sua moglie. Ma perchè il padre Pagi pretende ciò accaduto anche più tardi, ne parleremo più abbasso. Certo la cronologia si truova ben imbrogliata in questi tempi. San Leone papa seguitò nel presente anno a scoprire tutte le ribalderie de' manichei in Roma, e pubblicò il processo fatto contra di loro. Essendo poi stato in luogo di san Cirillo eletto vescovo di Alessandria Dioscoro, egli non tardò a spedire un'ambasceria al romano pontefice. Costui era creduto uomo di rara pietà, e certamente fu nemico di Nestorio; ma non tardò a scoprirsi sotto la pelle di agnello un lupo. Veggonsi in quest'anno [521] alcune leggi di Teodosio e Valentiniano [Append. tom. 6, Cod. Theodos.] che riguardano le esenzioni e i tributi da pagarsi.


   
Anno di Cristo CDXLV. Indizione XIII.
Leone papa 6.
Teodosio II imper. 44 e 38.
Valentiniano III imperad. 21.

Consoli

Valentiniano Augusto per la sesta volta e Nomo, ossia Nonio.

In una iscrizione da me pubblicata nell'appendice, tom. IV della mia Raccolta, il secondo console si vede appellato Abinio. Avvenne in Costantinopoli in quest'anno, per testimonianza di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], che, svegliatosi nel circo un tumulto e una rissa popolare, quivi restarono non pochi privi di vita. Forse ancora appartiene a questi tempi ciò che narra Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronic.], cioè che i barbari Alani, ai quali Aezio patrizio avea assegnate delle terre nella Gallia ulteriore da dividersi con gli abitatori di quelle contrade, trovando della resistenza negli antichi padroni d'esse terre, misero mano all'armi, e s'impadronirono di tutto per forza. Aggiugne ancora che la Sabaudia, oggidì la Savoia, fu assegnata a quei Borgognoni ch'erano rimasti in vita dopo l'eccidio del loro regno (accennato di sopra) da dividersi con quei paesani. Questa è la prima certa notizia che s'abbia del nome della Sabaudia; perchè non sappiam di sicuro che Ammiano Marcellino [Ammianus Marcell., lib. 15, cap. 11.] ne parli, essendo scorretto il suo testo, ed avendovi per conghiettura riposto Adriano Valesio il suddetto nome. Abbiamo parimente da Idacio [Idacius, in Chron.] che in Astorga città della Gallicia furono scoperti varii manichei, e ne fu fatto processo, il quale da esso Idacio e da Turibio vescovi fu inviato ad Antonino [522] vescovo di Merida. Ed ecco il frutto delle istruzioni che in questi medesimi tempi furono mandate da san Leone papa a tutte le provincie cattoliche. Aggiugne esso Idacio che i Vandali all'improvviso sbarcarono in Gallicia, e ne asportarono assaissime di quelle famiglie. Cominciò in quest'anno Dioscoro, vescovo d'Alessandria, uomo violento, a perseguitar i parenti di san Cirillo, fomentato in ciò da Nomo console: sopra di che son da vedere il cardinal Baronio e il padre Pagi. Non bastò al vigilantissimo papa san Leone di scoprire in Roma i manichei, e di far palesi a tutti le loro empie e ridicole opinioni: si servì ancora del braccio secolare per metterli in dovere, con avere ottenuto da Valentiniano Augusto un editto [Cod. Theod. Append. tom. 6. Novell., lib. 2, tit. 2.], in cui ordina che costoro sieno cacciati dalla milizia e dalle città, che restino esclusi dalle successioni, con altre pene che quivi si possono leggere. E perciocchè Ilario, vescovo di Arles, si attribuiva troppa autorità sopra i vescovi della Gallia, san Leone ottenne dal medesimo Augusto un altro rescritto [Ibid., tit. 24.], indirizzato ad Aezio generale, nel quale fu provveduto ai diritti del sommo pontefice. Sopra questa controversia abbiamo una dissertazione del Quesnel nell'edizione delle opere di san Leone. Per altro si smorzò presto questo fuoco, ed Ilario fu ed è tuttavia riconosciuto per uomo santo. Diede egli fine ai suoi giorni nell'anno 449. È degno d'osservazione un editto [Ibid., tit. 23.], indirizzato in quest'anno da Valentiniano Augusto ad Albino prefetto del pretorio, da cui apparisce che i Numidi e i Mori Sitifensi avevano inviati i loro ambasciatori ad esso imperadore, acciocchè fossero regolati i tributi dovuti al fisco: il che fu fatto. Quivi ancora si vede nominata Costantina, città della Numidia, alla cui plebe, non meno che ai curiali, si conservano i privilegii. Di più, è [523] ivi ordinato che chiunque nelle provincie africane pertinenti all'imperadore vorrà appellarsi, l'appellazione andrà al prefetto di Roma. Ed erano tuttavia al governo di quelle provincie un duce, un consolare e un presidente con altri ufficiali. Per tanto di qui intendiamo che almeno una parte della Numidia e le due Mauritanie e qualche altra provincia dell'Africa restavano tuttavia sotto il dominio di Valentiniano imperador d'Occidente. A tali notizie si aggiunga ciò che Vittore Vitense scrive, dicendo che Genserico partì le conquiste da lui fatte in Africa col suo esercito. Prese per sè la provincia Bizacena, l'Abaritana, la Getulia e parte della Numidia; e divise all'esercito la provincia Zeugitana, ossia la Proconsolare, dove era Cartagine; e che le altre provincie devastate rimasero in potere dell'imperadore. Da essa legge, e da altre ch'io tralascio, noi ricaviamo che ne' mesi di maggio, giugno e luglio Valentiniano soggiornava in Roma. La cronologia di Teofane [Theoph., in Chronogr.] è in questi tempi imbrogliata. E però non so se appartenga al presente anno ciò ch'egli narra di Antioco patrizio e balio dell'imperador Teodosio, il quale per la smoderata sua superbia fu degradato da esso Augusto, e forzato a farsi cherico, con restar anche confiscato il suo palagio. E perchè costui era eunuco, uscì un editto che niuno di tal razza, assai numerosa allora in Oriente, potesse da lì innanzi salire alla dignità di patrizio.


   
Anno di Cristo CDXLVI. Indizione XIV.
Leone papa 7.
Teodosio II imper. 45 e 39.
Valentiniano III imperad. 22.

Consoli

Flavio Aezio per la terza volta e Quinto Aurelio Simmaco.

Per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], in quest'anno fu gravemente afflitta la città di Costantinopoli dalla fame, e a [524] questo malore tenne dietro la peste. Attaccatosi anche il fuoco al tempio maggiore di essa città, tutto andò in preda delle fiamme. Abbiamo inoltre da Idacio [Idacius, in Chron.], che mandato in Ispagna Vito generale dell'armata cesarea, costui con un rinforzo ancora di Goti andò a fare il bravo nella provincia di Cartagine e nella Betica, figurandosi di poter ricuperare dalle mani degli Svevi quelle contrade. Ma sopraggiunto con le sue forze Rechila re d'essi Svevi, il coraggioso condottier de' Romani si raccomandò alle gambe: il che fu cagione che gli stessi Svevi diedero un terribil guasto a quel paese. Intanto i popoli della Bretagna erano fieramente infestati, non solo dai Pitti, gente barbara venuta ne' precedenti secoli in quella parte della gran Bretagna che oggidì appelliamo Scozia, ma eziandio dagli Scoti, anch'essi barbara gente, che s'erano anticamente impadroniti dell'Ibernia, oggidì Irlanda, e che diedero poscia il nome alla Scozia, dappoichè n'ebbero cacciati i Pitti. Abbiamo da Beda [Beda, Histor. lib. 1, cap. 13.] e dall'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 14.] che i Britanni in quest'anno mandarono, per cagione di questa calamità, una lettera piena di lagrime e di guai ad Aezio generalissimo di Valentiniano e console la terza volta, scongiurandolo d'inviar loro soccorsi, perchè non poteano tener saldo contra la forza di quei Barbari veramente crudeli. Scrisse san Girolamo [Hieron., lib. 2 contra Jovinian.] di aver veduto nella Gallia, quando era giovane, alcuni degli Scoti, gente britannica, i quali mangiavano carne umana. E che costoro, benchè trovassero alla campagna gregge di porci, buoi e pecore, pur solamente si dilettavano di tagliar le natiche ai pastori e le mammelle alle donne, tenendo questo pel miglior boccone delle lor tavole. Aezio compatì i Britanni, ma non potè dar loro aiuto alcuno, perchè era necessitato a tener di vista Attila re [525] degli Unni, che andava rodendo varie provincie, con prendere e desolare città e castella. Questa narrazione, autenticata da Beda, ci fa intendere che Attila seguitava tuttavia a tener in apprensione tanto l'imperio orientale quanto l'occidente, con far delle scorrerie e rovinar città nelle provincie romane. Forse anche a questi tempi, e non già, come pretende il padre Pagi, è da attribuire l'invasione e la pace degli Unni, ch'egli rapporta all'anno 441 e 442.

Questo ferocissimo re Attila, di professione idolatra, signoreggiando ad immensi popoli, era talmente salito in credito di crudeltà e potenza, che facea paura all'Europa tutta. Prisco istorico, che, per testimonianza di Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 34.], fu inviato a lui ambasciatore da Teodosio Augusto, lasciò scritto: che avendo egli passato nel suo viaggio la Tisia, la Tibisia e la Dricca (forse il Tibisco e la Drava), arrivò a quel luogo, dove Fidicola, il più bravo dei Goti, fu ucciso per inganno dei Sarmati. Poco lungi trovò un borgo, in cui era il re Attila, borgo a guisa di una città vastissima colle mura di legnami così ben commessi, che non si scopriva la lor commessura. V'erano vaste sale, camere e portici con pulizia disposti, e nel mezzo un ampio cortile che dava assai a conoscere essere quello un palazzo regale. E tale era l'abitazion barbarica d'Attila, ch'egli preferiva a tutte le città da lui prese. Descrivendo poi la persona d'Attila, aggiugne che spirava superbia il suo passeggiare, girando egli di qua e di là gli occhi, acciocchè dal movimento stesso del corpo apparisse la sua possanza. Era vago di guerreggiare, ma procedeva con riguardo ne' combattimenti; a chi il supplicava, compariva indulgente; e il trovava favorevole chiunque si arrendeva a lui sulla sua parola: di statura bassa, con petto largo, testa grande, occhi piccioli, poca barba, capelli mezzo canuti, naso schiacciato, di colore [526] scuro: uomo, secondo il suo naturale, di sommo ardire, ma accresciuto dall'essergli stata portata da un bifolco una spada, trovata per accidente, ch'egli si figurò essere la spada di Marte. Per altro certa cosa è che gli Unni, presso i Latini Hunni, furono popoli della Scitia, cioè della Tartaria, la quale si stende per un immenso tratto dell'Asia settentrionale. Chunni sono ancora chiamati dagli antichi, perchè pronunziavano con asprezza l'aspirazione. Ammiano Marcellino [Ammian., lib. 31, cap. 2.], descrivendo i movimenti di costoro circa l'anno di Cristo 375, ce li rappresenta tali, quali appunto anche oggidì sono i Tartari confinanti colla Russia; gente fiera, avvezza a vivere sotto le tende e al nudo cielo, e a sofferire il sole e la pioggia e la neve, servendosi di rado di tetto alcuno, vivendo, come le bestie, di radici d'erbe e di carne mezzo cruda. Senza abitazione fissa passavano da un luogo all'altro, e combattevano su cavalli brutti, ma veloci, non mai con ischiere ordinate, ma tumultuariamente, fuggendo, tornando, secondochè se la vedeano bella. Il loro vestito era di pelli d'animali; e perchè non nascesse loro la barba, si abbrustolavano le guance con ferri infocati, di modo che parevano piuttosto bestie da due piedi, o fantocci di legno fatti con un'accetta, che uomini. Fin dove arrivasse allora il dominio di Attila, nol possiam discernere. Probabile è che avesse già stese le stabili sue conquiste fino al Danubio, con passar anche di qua, e che possedesse, se non tutta, almeno in parte la Sarmazia, oggidì Polonia, e la Dacia antica, cioè quella che è oggidì Transilvania, con altri paesi. Si sa ancora da Prisco che Attila avea assediata e presa la città di Sirmio vicina a Tauruno, oggidì Belgrado. Però, come già avvertì il Bonfinio [Bonfinius, Rer. Hungar., decad. 1, lib. 3.], e come si ricava dall'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 14.], da san Prospero [Prosper, in Chron.] [527] e da Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 34.], gli Unni signoreggiavano anche nella Pannonia. Già abbiam detto che costoro erano colle scorrerie penetrati di qua dal Danubio con devastare la Mesia e la Tracia. Ed appunto Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.], dopo aver narrato la morte di Bleda, ucciso dal fratello Attila, al susseguente anno scrive che l'Oriente patì una terribil rovina, perchè non meno di settanta città furono date a sacco e devastate dagli Unni, non avendo potuto Teodosio Augusto impetrare soccorso alcuno dall'imperador d'Occidente. Diede in quest'anno Valentiniano Augusto due leggi [Cod. Theod., tom. 6, in Append.] in Roma, colle quali prescrive buone regole, affinchè sieno valide le ultime volontà delle persone.


   
Anno di Cristo CDXLVII. Indizione XV.
Leone papa 8.
Teodosio II imper. 46 e 40.
Valentiniano III imper. 23.

Consoli

Gallipio, ossia Alipio, ed Ardaburio.

Fu quest'anno funesto per la città di Costantinopoli, perchè, secondochè attesta Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], con cui si accorda la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], sì terribili tremuoti si fecero in essa sentire, che caddero in gran parte le mura di quell'augusta città con cinquantasette torri. Si stese sopra altre città lo stesso flagello, a cui tenne dietro la carestia e un pestilente odore dell'aria colla morte di molte migliaia d'uomini e di giumenti. Nicefero [Nicephorus, lib. 14, cap. 46.] più diffusamente racconta i lagrimevoli effetti di questi tremuoti, che durarono, sentendosi di tanto in tanto le loro scosse, per sei mesi, e fecero poi gran rovina nella Bitinia, nelle due Frigie, nell'Ellesponto, in Antiochia [528] e in altre contrade d'Oriente, di modo che il popolo di Costantinopoli coll'imperadore, temendo sempre d'essere seppelliti sotto le case traballanti, uscirono alla campagna. A questa domestica calamità s'aggiunse l'esterna, perchè, segue a dire il suddetto Marcellino, che il re Attila con passi nimici venne fino alle Termopile, passata la Tessaglia; e che Arnegisco generale d'armata nella Dacia Ripense per l'imperador Teodosio, combattendo bravamente contra l'esercito d'Attila, dopo aver fatta grande strage de' nemici, rimase anch'egli ucciso sul campo. Nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] si vede registrato il fatto medesimo, se non che Arnegisco vien chiamato generale di armata nella Tracia, ed egli probabilmente difendeva l'una e l'altra provincia. Ivi è scritto di più, che in quest'anno fu ricuperata Marcianopoli città della Mesia presso il Ponto Eusino, ossia mar Nero. Sotto quest'anno narra Idacio [Idacius, in Chron.] che furono portati in Ispagna gli scritti di san Leone papa contra dei Priscillianisti eretici, e sopra ciò esiste una sua lettera a Turibio vescovo d'Astorga. Scrisse eziandio il santo pontefice a Gennaro, vescovo d'Aquileia, e a Settimio, vescovo d'Altino, contro i Pelagiani, che in quella provincia alzavano la testa. Ma intorno a ciò son da vedere gli Annali del cardinal Baronio, la Storia pelagiana del cardinal Noris, e il Pagi sopra gli Annali di esso Baronio. Per testimonianza di Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.], cominciò a regnare in quest'anno sopra i Franchi, popoli della Germania, Meroveo, essendo mancato di vita Clodione, il quale, per attestato di Prisco [In Excerpt. Legation., tom. 1 Histor. Byzantin.] retorico, fu veramente padre di esso Meroveo. E da questo principe discese la linea merovingia dei re di Francia, ch'ebbe poi fine a' tempi del re Pippino. [529] In quest'anno ancora, secondo l'opinione del padre Pagi [Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.], terminò i suoi giorni san Procolo patriarca di Costantinopoli, ed ebbe per successore san Flaviano. Narra Niceforo Callisto [Nicephorus, lib. 14, cap. 47 Histor. Eccl.] che Crisafio eunuco, dai cui cenni era allora aggirata la corte di Teodosio imperadore, pretendeva che Flaviano mandasse un regalo ad esso Augusto per l'elezione e consecrazione fatta di lui. Flaviano gl'inviò dei pani benedetti, ma non già oro, come sperava l'eunuco. E quindi nacque l'odio di esso Crisafio contra di Flaviano, e il desiderio di farlo deporre. Ma perciocchè non gli sarebbe mai venuto fatto, finchè Pulcheria Augusta, sorella di Teodosio imperadore, continuava nell'autorità grande che ella godeva in corte e presso il fratello, pensò prima a levar di mezzo questo ostacolo, e perciò si unì con Eudocia moglie dell'imperadore, e la indusse a fare il possibile per iscavalcar la cognata. S'era già allignata l'invidia in cuor d'Eudocia al mirar essa Pulcheria, che stava così innanzi nella grazia dell'imperadore, e il governava, per così dire, coi suoi consigli. Maggiormente ancora si alterò l'animo suo per una burla fatta da essa Pulcheria, donna savissima, al fratello Augusto. La racconta Cedreno [Cedien., in Histor.]. Era solito Teodosio a sottoscrivere le carte e i memoriali che gli erano presentati dai ministri, troppo buonamente, senza leggerli. Volendo la saggia principessa farlo ravvedere di questa negligenza, lasciò correre un memoriale, in cui, sotto certo pretesto, il pregava di venderle per serva l'imperadrice Eudocia sua moglie. Secondo il costume, lo sottoscrisse Teodosio senza leggerlo. Eudocia dipoi, venuta in camera di Pulcheria, fu ritenuta da essa; e benchè l'imperador la chiamasse, per alcun poco ricusò di liberarla, adducendo d'averla comperata. Fu una burla fatta a buon fine; ma i principi non [530] son gente che facilmente soffra d'essere beffata. Però Eudocia, probabilmente valendosi di questa congiuntura, e certo delle spinte che le dava Crisafio, tanto fece, tanto disse, che smosse contra della cognata il marito Augusto, con persuadergli di farla diaconessa. Egli ne dimandò il parere al patriarca Flaviano, e questi segretamente ne avvisò Pulcheria; nè di più ci volle, perchè la buona principessa da sè stessa si ritirasse dalla città, e si mettesse a far vita privata e tranquilla. Allora Eudocia, con prendere le redini, si mise a governar l'imperio ed anche l'imperadore; ed oltre a ciò, irritò il di lui animo contra di Flaviano, perchè avesse rivelato il segreto. Di qui poi venne un fiero insulto alla religione cattolica, e una frotta di gravissimi malanni contra dello stesso Teodosio, per esser egli rimasto privo dei consigli della saggia e piissima Pulcheria. Valentiniano Augusto nell'anno presente pubblicò un editto [Cod. Theod. in Append. tom. 6.], indirizzato ad Albino prefetto del pretorio e patrizio, contro i rompitori de' sepolcri: del qual delitto apertamente dicono che erano allora accusati gli ecclesiastici, i quali, condotti da uno sregolato zelo contra le memorie de' pagani, si prendevano la libertà, senza che ne fosse inteso il sovrano, di atterrare i loro sepolcri. Contra di essi, ancorchè fossero vescovi, è intimata la pena dell'esilio. Con altra legge esso imperadore si mostrò favorevole ai liberti, de' quali era ben grande il numero, con ordinare che da' figliuoli od eredi di chi gli avea manomessi non potessero essere richiamati alla schiavitù; e che avendo essi liberti dei figliuoli, ad essi pervenisse l'intera eredità del padre. E morendo senza figliuoli, un terzo di beni si avesse da consegnare ai figliuoli o pure ai nipoti di chi loro avea data la libertà. E perciocchè molti mercatanti faceano i lor traffichi senza entrar nelle città per ischivar le dogane, con altra legge proibì questa loro usanza.


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Anno di Cristo CDXLVIII. Indizione I.
Leone papa 9.
Teodosio II imp. 47 e 41.
Valentiniano III imper. 24.

Consoli

Flavio Zenone e Rufio Pretestato Postumiano.

Postumiano, console occidentale, fu figliuolo di Flavio Avito Mariniano, che era anch'egli salito alla dignità del consolato nell'anno di Cristo 423, come si ha da una iscrizione del Grutero [Gruter., Inscript., pag. 464, num. 8.]. Zenone console orientale, per attestato di Damascio, nella Vita d'Isidoro presso Fozio, era tuttavia pagano, e si studiò di abolire la religion cristiana, ma con una morte violenta Dio tagliò la strada ai suoi disegni. Bisogna che costui avesse gran potere e credito, perchè Prisco istorico [Priscus, de Legationib., tom. I Hist. Byz.] nota aver Teodosio avuta paura che Zenone gli usurpasse l'imperio. E sappiamo ancora che fu generale di armata, e comandava a tutte le milizie dell'Oriente. Succedette in quest'anno un altro avvenimento famoso nella corte dell'imperadore d'Oriente, che viene narrato dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], da Teofane [Theoph., in Chron.] e dagli altri autori greci. Paolino, maggiordomo e favorito di Teodosio Augusto, godeva ancora non poco della grazia dell'imperadrice Eudocia, siccome quegli che influì non poco ad alzarla dal basso suo stato al trono imperiale. Si trovava egli in letto per male di un piede, allorchè un pover'uomo presentò all'imperador Teodosio, come cosa rara, un pomo di straordinaria grandezza, nato nella Frigia. Teodosio gli fece subito donare centocinquanta scudi d'oro, e mandò il pomo in dono all'Augusta moglie Eudocia, ed ella il mandò a donare a Paolino, il quale, nulla sapendo onde [532] l'imperadrice l'avesse avuto, lo spedì come cosa rarissima per regalo all'imperadore, a cui fu presentato mentre usciva di chiesa. Teodosio non sì tosto fu al palazzo, che chiese conto del pomo dalla moglie. Ella rispose di averlo mangiato. Di nuovo la interrogò, se lo avesse mangiato, oppure inviato a qualche persona; ed ella con giuramento replicò che lo avea mangiato. Questa menzogna mise certi sospetti in capo a Teodosio, di modo che ne seguì separazione e divorzio fra di loro; e fu cagione ch'esso Augusto, conceputo mal animo contro di Paolino, da lì a qualche tempo il fece ammazzare. Eudocia da questo colpo vedendo offesa pubblicamente la riputazione sua, perchè venne a palesarsi ad ognuno che per cagione di lei era incontrata ad esso Paolino quella disavventura, dimandò licenza all'imperadore di poter passare alla visita dei luoghi santi di Gerusalemme, e la ottenne. Allora fu ch'essa passò per Antiochia, secondochè abbiamo dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], e non già nell'anno 439, come ha Evagrio, dove ricevette di grandi onori. Di là poi si trasferì a Gerusalemme, e quivi si trattenne sino al fine della vita, con aver allora rifatte le mura tutte, e compartiti altri benefizii a quella santa città.

Strano è che nella Cronica Alessandrina suddetta venga riferito un tal fatto sotto l'anno di Cristo 444, quando si è veduto che dopo l'assunzione di Flaviano alla sedia patriarcale, accaduta nel presente anno, Eudocia fu esaltata più che mai per la ritirata di Pulcheria Augusta. Ma finalmente il continuatore di essa Cronica, che si crede vivuto sotto l'imperadore Eraclio, potè sbagliare nei conti. Più strano può parere, come nella Cronica di Marcellino conte, più vicino a que' tempi, si truovi scritto molto più indietro, cioè all'anno 440 [Marcell. Comes, in Chron.], che Paolino maestro degli uffizii, per ordine di Teodosio Augusto, fu ucciso in Cesarea [533] di Cappadocia. Poscia all'anno 444 narra lo stesso Marcellino, che Saturnino conte della guardia domestica di Teodosio, mandato apposta da esso Augusto, uccise Severo prete e Giovanni diacono, ministri dell'imperadrice Eudocia in Gerusalemme. Eudocia, irritata per questo fatto, fece tagliare a pezzi il medesimo Saturnino; laonde, per comandamento del marito Augusto, essa venne spogliata di tutti i reali ministri, ed in tale stato rimase dipoi fino alla morte nella suddetta città. Son certamente fuori di sito questi fatti. Teofane [Theoph., in Chronogr.] e Niceforo Callisto [Niceph., lib. 14, cap. 47.] più accuratamente gli scrivono succeduti dappoichè Eudocia si trasferì a Gerusalemme, e però tali omicidii dovettero seguire nell'anno seguente. Certo è bensì che avendo in quest'anno Flaviano patriarca di Costantinopoli congregato un concilio, in esso condannò l'eresiarca Eutichete: sopra che son da vedere gli Annali del cardinal Baronio e del padre Pagi. Allora Crisafio eunuco, potentissimo nella corte di Teodosio, e partigiano di quell'eretico, tanto più si accese di sdegno contro del santo vescovo, e ne giurò la rovina. Teodosio Augusto pubblicò bene in quest'anno un editto contro i fautori di Nestorio; ma non prese una buona guardia contro i nascenti errori dell'altro eretico. A questo anno riferisce il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] la caduta di Ciro panopolita, che abbiam veduto di sopra console, e che fu eziandio prefetto del pretorio e prefetto della città di Costantinopoli, e patrizio, uomo di gran prudenza e maneggi. Era questi, perchè amante della poesia, carissimo all'imperadrice Eudocia, poetessa anch'essa. Ma dappoichè ella cadde dalla grazia del marito Augusto, e si fu ritirata a Gerusalemme, succedette la rovina ancora di questo personaggio, il quale, secondo molti scrittori, fu creato dipoi vescovo di [534] Smirna, o piuttosto, siccome accuratamente pruova il padre Pagi, fu vescovo di Cotieo città della Frigia. Si appoggia esso Pagi all'autorità di Suida [Suidas, in Lexico, verb. Cyrus.], per rapportare al presente anno la depressione di Ciro. Ma Teofane [Theoph., in Chronogr.] e Niceforo Callisto [Nicephorus, Hist. lib. 14, cap. 46.] fanno menzione di questo fatto due anni prima della elezione di san Flaviano, e tre prima della ritirata di Eudocia Augusta. Nulladimeno, soggiungendo Niceforo ch'egli cadde dopo il tremuoto dell'anno precedente, pare che in quest'anno seguisse il suo precipizio. E fu perchè avendo egli rifabbricato in parte le mura atterrate di Costantinopoli, il popolo gli fece plauso nel circo con gridare: Costantino fece, e Ciro rinnovò. V'era presente l'imperadore, e se l'ebbe a male; perciò, trovato il pretesto che costui era gentile, o se l'intendeva coi gentili, il degradò, e gli confiscò i beni. Se ne fuggì egli in chiesa, ed allora fu ordinato cherico, e poi, per compassione che n'ebbe Teodosio, fu creato vescovo, come ho detto, di Cotieo. In quest'anno (è Marcellino conte che lo narra) dall'India fu mandata in dono all'imperadore Teodosio una tigre domata; ed essendo bruciato il portico fabbricato di marmo di Troade in Costantinopoli colle due torri delle porte, Antioco prefetto del pretorio rimise tutto nello stato di prima. Aggiunge ancora quello storico che, essendo venuti gli ambasciatori di Attila a richiedere il danaro pattuito, furono licenziati con isprezzo. Nell'agosto del presente anno diede fine ai suoi giorni, secondo Idacio [Idacius, in Chronico.], Rechila re degli Svevi in Merida, città della Lusitania, e morì pagano. Ebbe per successore nel regno Rechiario suo figliuolo, cattolico di religione, quantunque all'innalzamento suo provasse qualche opposizione dai suoi. Appena egli si vide fermo sul trono, che si mise a saccheggiar [535] le provincie romane vicine [Isidorus, in Chronico Svevor.]. Valentiniano Augusto in quest'anno confermò con suo decreto [Cod. Theod. Append. tom. 6, tit. 13.], inviato ad Albino prefetto del pretorio, le leggi novelle di Teodosio imperadore d'Oriente, suocero suo, ma chiamato da lui padre per riverenza.


   
Anno di Cristo CDXLIX. Indizione II.
Leone papa 10.
Teodosio II imper. 48 e 42.
Valentiniano III imper. 25.

Consoli

Flavio Asturio e Flavio Protogene.

Il primo fu console occidentale. Dal Relando [Reland., in Fastis.] è chiamato Asterio; ma verisimilmente s'ingannò. Il cognome assai noto d'Asterio fu cagione, per quanto mi figuro, che gl'ignoranti copisti scrivessero Asterio invece di Asturio. Venne fatto in quest'anno al soprammentovato Crisafio eunuco, mercè la sua onnipotenza in corte di Teodosio Augusto, di abbattere san Flaviano patriarca di Costantinopoli. Unissi costui con Dioscoro patriarca d'Alessandria, uomo violento ed empio, che proteggeva a spada tratta l'eretico archimandrita Eutichete; ed avendo persuasa all'imperadore la necessità di un concilio, Efeso fu la città destinata per tenerlo quivi. Si tenne, e il sommo pontefice Leone vi mandò i suoi legati, i quali indarno strepitarono e protestarono di nullità al vedere che in essa adunanza fu assoluto Eutichete, scomunicato, deposto e cacciato in esilio san Flaviano, dove finì i suoi giorni dopo pochi mesi, non si sa se per morte naturale, o pure violenta. Non so come Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico.] attribuisce tali disordini alla violenza di Dioscoro e di Saturnino eunuco. Se Crisafio non avea anche il nome di Saturnino, questo è un errore. Era ben Crisafio soprannominato Zamma; ma [536] non c'è apparenza che portasse il nome di Saturnino. Di questo avvenimento tratta a lungo il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], e dopo di lui il Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Non così tosto udì san Leone tante iniquità, che, raunato un concilio in Roma, riprovò il falso concilio d'Efeso, e dichiarò nulli tutti i suoi atti. Mancò di vita in quest'anno Marina sorella di Teodosio imperadore, secondochè s'ha da Marcellino conte. Essa è spropositatamente chiamata nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.] moglie di Valentiniano Augusto. Era nata nell'anno 403; non ebbe mai, nè volle avere marito, avendo consacrata a Dio la sua verginità. Aggiugne esso Marcellino che parimente in quest'anno finirono di vivere Ariovindo, ch'era stato generale d'armi di Teodosio, console nell'anno 434, e patrizio; e similmente Tauro, che fu console nell'anno 428, ed era salito anch'egli alla dignità di patrizio. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron.] che nel presente anno Rechiario re degli Svevi in Ispagna avendo incominciato il suo regno col prendere in moglie una figliuola di Teodoro, ossia di Teoderico, re de' Visigoti nella Gallia, nel mese di febbraio andò a saccheggiar la Guascogna. Aggiugne che un certo Basilio, avendo adunati molti Bacaudi, che noi possiamo chiamare assassini, mise a filo di spada i cristiani nella chiesa di Triassone, città della provincia tarraconense, oggidì Tarazzona nell'Aragona; e che vi restò morto anche Leone vescovo di essa città. Portossi nel mese di luglio il re suddetto Rechiario a visitare il re Teoderico suo suocero; e nel ritorno insieme col poco fa mentovato Basilio diede il saccheggio al territorio di Cesaraugusta, oggidì Saragozza. Impadronissi ancora con inganno della città d'Ilerda, oggidì Lerida, e menò di gran gente in ischiavitù. Per attestato di sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Svevor.], i Visigoti della [537] Gallia prestarono aiuto a costui a commettere sì fatte iniquità, tuttochè non vi fosse guerra dichiarata coi Romani. Chi badasse a Teofane [Theoph. in Chronogr.], circa questi tempi Attila re degli Unni spinse le sue armi nella Tracia, prese e spianò varie città, e stese il suo dominio sino all'uno e all'altro mare, cioè al Pontico, e a quel di Gallipoli e Sesto. Fu spedito un esercito contra di lui; ma conosciuto quello del re barbaro troppo superiore di forze, fu costretto l'imperador Teodosio a promettergli ogni anno un tributo di danari, purchè egli si ritirasse dal paese romano: il che seguì. Aggiugne che poco dopo accadde la morte di esso imperadore. Sappiam di certo che solamente nell'anno susseguente Teodosio Augusto compiè la carriera de' suoi giorni. Ma certo la cronologia di Teofane è qui, come in altri siti ancora, zoppicante; ed alcuni anni prima si dee ammettere l'irruzione degli Unni, ossia de' Tartari, e di Attila re d'essi, nell'imperio d'Oriente. Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 442, num. 2.], siccome dicemmo di sopra, fondato sulla autorità di Marcellino conte, crede che nell'anno 441 cotesti Barbari cominciassero quel brutto giuoco contro le provincie romane orientali, e che nel seguente si conchiudesse la pace; narrando Prisco istorico che si venne dopo la battaglia del Chersoneso, svantaggiosa ai Romani, ad un aggiustamento. Ma forse questa battaglia non è se non quella dell'anno 447, in cui restò morto Arnegisco generale di Teodosio Augusto.

Comunque sia, non increscerà ai lettori l'intendere qui in poche parole ciò che con molte lo stesso Prisco retorico [Priscus, inter Excerpta Legat., tom. 1 Hist. Byz.], autore di que' tempi, lasciò scritto intorno agli Unni, ma senza aver egli distinti gli anni delle loro imprese. Con sue lettere richiese Attila all'imperadore Teodosio i disertori e i tributi, perciocchè v'era un'antecedente convenzion di pagare [538] a que' Barbari annualmente secento libbre d'oro. Tutto ricusò l'imperadore; ed Attila allora entrò nelle provincie romane, con venir devastando tutto fino a Raziaria, città grande della Mesia di qua dal Danubio. Verso il Chersoneso della Tracia si fece un fatto d'armi con isvantaggio de' Greci, dopo il quale, per paura di peggio, Teodosio stabilì la pace con obbligarsi di rendere gli Unni disertori, di pagare sei mila libbre d'oro per gli stipendii decorsi, e due mila e cento annualmente in avvenire a titolo di tributo. Per mettere insieme la somma di tanto oro si fecero avanie incredibili ai popoli. E qui nota Prisco che i tesori dell'imperador e dei privati si consumavano in ispettacoli, giuochi e piaceri; nè si mantenevano più, come in addietro si faceva, i corpi d'armata in difesa dell'imperio, nè v'era più disciplina militare, e però ogni nazion barbara insultava e faceva tremare in que' tempi la romana. I soli abitanti di Asimo, città della Tracia, tennero forte un pezzo, senza voler rendere i disertori, e con far grande strage di que' Barbari. Fatta la pace, Attila per suoi ambasciatori domandò gli Unni fuggiti nelle terre dell'imperio; e poi ne spedì degli altri, trovando pretesti di nuove ambascerie, per arricchire i suoi cari, giacchè tutti sempre se ne tornavano indietro carichi di doni, che la paura facea loro offerire. Uno di questi ambasciatori per nome Edicone, guadagnato con grandi promesse da Crisafio eunuco, assunse il carico di uccidere Attila; ma scoperta la trama, Attila inviò a farne un gran risentimento con Teodosio Augusto, trattandolo da suo servo, giacchè gli pagava tributo, e da traditore, perchè gli aveva insidiata la vita. Nè Prisco racconta che sotto d'esso Teodosio altra guerra fosse fatta da Attila all'imperio d'Oriente. Il perchè vo io sospettando che solamente nel 446, dopo la morte di Bleda suo fratello, Attila desse principio all'invasion delle provincie romane, certo essendo, per testimonianza di Beda, ch'egli allora [539] portava la desolazione per la Mesia, Tracia e Ponto; e che nel seguente anno 447 seguisse la battaglia, in cui restò ucciso Arnegisco generale di Teodosio, nelle vicinanze del Chersoneso della Tracia. Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 2, cap. 4.] racconta in un fiato varie loro scorrerie, nella prima delle quali saccheggiarono molte città, e condussero via cento e venti mila cristiani in ischiavitù. Probabilmente in quest'anno, piuttostochè nel seguente, Teodosio Augusto inviò Massimino, uno de' suoi primi uffiziali, per ambasciatore ad Attila, tuttavia minaccioso, perchè non gli erano restituiti i disertori. Seco andò per compagno il suddetto Prisco retorico, il quale dipoi descrisse quel viaggio con altri avvenimenti del tempo suo. È da dolersi che siasi perduta la sua storia, citata anche da Giordano storico, non essendone a noi pervenuti che pochi estratti, che nel Trattato delle legazioni, stampato nel primo tomo della Bizantina, si leggono. Ora scrive egli che, andando a trovar Attila, passarono per Serdica e Naisso città della Mesia, e di là passarono il Danubio: il che ci fa intendere che quel re barbaro possedeva allora almeno una parte dell'antica Dacia, ossia Transilvania, e signoreggiava in quelle provincie che oggidì chiamiamo Vallachia e Moldavia. Il trovarono in una villa, in tempo che egli, benchè avesse molte mogli, pure prese ancora per moglie una sua stessa figliuola, appellata Esca, permettendo ciò le leggi di quella barbara nazione, costume che non può comparire se non bestiale a chi è allevato nella legge santa e pura di Cristo. Trovarono che nel medesimo tempo erano giunti alla corte d'Attila tre ambasciatori di Valentiniano Augusto, cioè Romolo conte, Promoto generale del Norico, e Romano colonnello nella milizia romana. Erano costoro spediti per placare Attila, che pretendeva di avere in sua mano Silvano, scalco maggiore di questo imperadore, o pure alcuni vasi d'oro asportati dopo la presa [540] che Attila aveva fatta di Sirmio, e dati in pegno per denari ricevuti da esso Silvano. Insomma scorgiamo che Attila faceva palpitare il cuore ad amendue gl'imperadori d'Oriente e d'Occidente, e trattava come da superiore con loro. Nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] è scritto sotto il seguente anno, che quando costui era in procinto di muovere loro guerra, spediva messi che intonavano all'uno e all'altro queste parole: L'imperadore, signor mio e signor vostro, per mezzo mio vi fa sapere che gli prepariate un palagio, o in Costantinopoli, o in Roma. Aggiugne Prisco che Attila era solito ad uscir di casa per ascoltar le liti dei popoli, e le decideva tosto, senza valersi de' nostri eterni processi. Furono invitati gli ambasciatori a desinar con Attila. Si trovò la tavola imbandita d'ogni sorta di cibi e vini. Erano d'argento i piatti per gli convitati, ma Attila si serviva di una tagliere di legno. Beveano i commensali in tazze d'oro e d'argento; Attila in un bicchiere di legno. Gli altri mangiavano di ogni sorta di vivande; egli solamente del lesso. Così il suo vestire era triviale, e laddove gli altri nobili sciti portavano oro, gemme e pietre preziose nelle loro spade, nelle briglie de' cavalli, nelle scarpe, egli nulla di questo voleva, ed amava di comparir simile a' soldati ordinarii. Si fecero di molti brindisi; vi furono canti e buffonerie, che diedero agli ascoltatori motivo di smascellarsi per le risa gran pezzo; ma Attila sempre col medesimo volto e con una eguale serietà vedeva, ascoltava tutto. Furono a cena con Reccam, una delle mogli più care del tiranno; e questa usò loro di molte finezze. Esibirono poscia i doni mandati al Barbaro da Teodosio Augusto; ne riceverono degli altri da portare a Costantinopoli, massimamente delle pelli rare; ed in fine, dopo aver trattato degli affari, se ne tornarono alla corte augusta. È curiosa tutta quella descrizione, e non se ne maraviglierà chi ha veduto ai nostri [541] giorni prendere la barbara Russia costumi civili. E perciocchè ivi è detto che già Eudocia Augusta avea fatto ammazzare Saturnillo, che vedemmo di sopra appellato Saturnino conte, e succeduto quel fatto, dappoichè essa imperadrice, disgustata col marito, s'era ritirata a Gerusalemme: intendiamo di qui che questa ambasciata appartiene all'anno presente, oppure al susseguente. Era in Ravenna Valentiniano Augusto nel dì 17 di giugno, ed allora pubblicò una legge indirizzata a Firmino prefetto del pretorio d'Italia [Cod. Theodos. in Append. tom. 7, tit. 8.], in cui stabilì che, da lì innanzi, avesse da valere la prescrizione di trent'anni in qualunque causa e lite, credendo ciò utile e necessario alla quiete de' popoli. Tuttavia si tratteneva in quella città Valentiniano nel dì 11 di settembre, come consta da un'altra sua legge [Ibidem, tit. 14.], data ad Opilione maestro degli uffizii ossia maggiordomo della corte imperiale.


   
Anno di Cristo CDL. Indizione III.
Leone papa 11.
Valentiniano III imper. 26.
Marciano imperadore 1.

Consoli

Valentiniano Augusto per la settima volta e Gennadio Avieno.

Questo Avieno console occidentale vien descritto da Apollinare Sidonio [Sidon., lib. 1, cap. 9.] per uno de' più ricchi, più nobili e più savii senatori di Roma; e da qui a due anni andò con san Leone per ambasciatore ad Attila. In quest'anno Valentiniano insieme con Eudossia sua moglie e Galla Placidia sua madre andò specialmente per divozione a Roma, affin di visitare i sepolcri de' santi Apostoli. Si servì di questa occasione lo zelantissimo pontefice san Leone per implorare il di lor patrocinio, dopo aver loro rappresentata colle [542] lagrime l'iniquità del conciliabolo d'Efeso con tanto discapito della vera dottrina della Chiesa, e deplorata la morte di san Flaviano, impetrò lettere di tutti e tre essi Augusti a Teodosio imperadore e a Pulcheria Augusta, che dopo la caduta della cognata Eudocia era tornata in palazzo, con raccomandar loro la causa della Chiesa. Scrisse l'indefesso pontefice anch'egli per questo fine a Pulcheria Augusta. La risposta di Teodosio imperadore a Valentiniano si trovò molto asciutta, perchè egli avea troppi seduttori intorno. Mandò inoltre san Leone quattro legati a Costantinopoli per chiarirsi se Anatolio, novello patriarca eletto di quella città, aderisse alla buona o falsa dottrina. Ma Iddio non abbandonò la causa della Chiesa. Succedette in questi tempi la caduta di Crisafio eunuco, il promotore di tutti quelli e d'altri disordini. Teodosio il degradò, gli confiscò quanto avea, e bandito il relegò in un'isola. Prisco istorico [Priscus, inter Excerpta Legat., tom. I Hist. Byz.] ne attribuisce la cagione alle informazioni sinistre di lui, che Marcellino ambasciatore spedito ad Attila rapportò nel suo ritorno. Niceforo Callisto [Nicephorus, lib. 14, cap. 49.] e Zonara [Zonaras, lib. 13 Annal.] pretendono che Teodosio, conoscendo d'essere stato ingannato da costui, e detestando l'empietà commessa contro di san Flaviano, ravveduto il precipitasse abbasso. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] racconta bensì che per ordine di Pulcheria fu ucciso (il che seguì dopo la morte di Teodosio): ma nulla dice per impulso di chi succedesse la di lui rovina. È nondimeno probabile che Pulcheria trovasse la maniera di liberar la corte da questo cattivissimo mobile. Ad una tal risoluzione poco dipoi sopravvisse Teodosio II imperadore. Se s'ha da prestar fede a Niceforo Callisto, egli caduto da cavallo, mentr'era a caccia, si slogò una vertebra della spinal midolla, e [543] di quella percossa fra alquanti dì se ne morì. Altri, secondo Zonara, attribuirono la sua morte a mal naturale, e questa accadde, per quanto si raccoglie da Teodoro lettore [Theodorus Lector, lib. 12 Hist. Eccl. in fine, et lib. 1 in princ.], a dì 28 di luglio; e non già per ferita presa nella caduta del cavallo, ma perchè nella caccia cadde in un fiume, di modo che nella notte seguente passò all'altra vita. In questo principe, come è l'ordinario degli uomini, e massimamente de' principi, molto si trovò da lodare, molto ancora da biasimare. Secondo l'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 14.], fu Teodosio sì sapiente, che nel discorso familiare pareva perito di tutte l'arti e scienze. Paziente era nel freddo e nel caldo; la sua pietà non fu mediocre; digiunava spesso, massimamente il mercordì e venerdì, e il suo palazzo sembrava un monistero; perciocchè egli, levandosi la mattina per tempo, recitava colle principesse sue sorelle le lodi di Dio, e senza libro le divine Scritture. Fece una biblioteca, con raunare spezialmente gli espositori delle Scritture medesime. Esercitava la filosofia coi fatti, vincendo la tristezza, la libidine e l'ira, e desiderando di non far mai vendetta: il che se sia vero, si può raccogliere da quanto finora s'è detto di lui. Talmente in lui radicata era la clemenza, che, in vece di condannare alla morte i vivi, bramava di poter richiamare in vita i morti; e qualor taluno veniva condotto al patibolo, non giugneva alla porta della città, che per ordine dell'imperadore era richiamato indietro. Venendo poi le guerre, la prima cosa in lui era il ricorrere a Dio, e colle orazioni superava i nemici. Zonara [Zonar., lib. 13 Annal.] aggiugne ch'egli fu molto letterato e versato nelle matematiche, e specialmente nell'astronomia. Osservossi ancora in lui molta destrezza in cavalcare, saettare, dipingere e far figure di rilievo. Questi sono gli elogi di Teodosio il minore. [544] Voltando poi carta, si truova che egli valeva poco pel governo de' popoli. Se non cadde in più spropositi, ne è dovuto il merito all'assistenza di Pulcheria sua sorella, donna di gran pietà e saviezza, che co' suoi consigli l'andava movendo e frenando. Secondochè lasciò scritto Suida, perchè era imbelle e dato alla dappocaggine, gli convenne comperar dai Barbari la pace vergognosamente col danaro, invece di procurarla valorosamente coll'armi; e di qua vennero molti altri malanni al pubblico. Allevato sotto gli eunuchi, cresciuto anche in età, dai lor cenni dipendeva; e costoro l'aggiravano a lor talento, laonde quante azioni e novità inescusabili egli commise, tutte provennero dalla lor prepotenza. Prima fu onnipotente presso di lui Antioco, poscia Amanzio, e finalmente Crisafio. L'avarizia di que' castroni fu cagione che si vendevano i posti anche militari; e quel che è peggio, la giustizia. In somma costoro, con fargli paura e trattarlo da fanciullo, e trattenerlo in alcune arti che ho mentovato di sopra, e principalmente adescandolo alla caccia, faceano essi alto e basso con danno e mormorazione inutile de' sudditi. Niceforo scrive ch'egli prima di morire conobbe i falli commessi, e si ravvide, con deporre Crisafio e rimproverar la moglie Eudocia; ma egli scredita questo racconto con alcuni errori di cronologia. La Cronica di Prospero Tirone dell'edizion del Canisio ci ha conservata una particolarità, non avvertita da altri, cioè che il corpo di Teodosio fu portato a Roma, e seppellito nella basilica vaticana in un mausoleo [Prosper Tiro, in Chron.]. Dopo aver narrata quell'autore la di lui morte nel presente anno, dice poi nel susseguente: Theodosius cum magna pompa a Placidia et Leone, et omni senatu deductus, et in mausoleo ad Apostolum Petrum depositus est.

Tenne Pulcheria Augusta per qualche tempo nascosa la morte del fratello, e fatto intanto chiamare a sè Marciano, uomo [545] valoroso e sperto negli affari della guerra, di età avanzata, ed abile a governar l'imperio, gli disse d'aver fatta scelta di lui per dichiararlo imperadore e marito suo, ma senza pregiudizio della sua verginità, ch'ella avea consacrata a Dio. Accettata l'offerta, fu chiamato il patriarca Anatolio, convocato il senato, e fatta la proposizione, fu non tanto da essi, quanto ancora dall'esercito e dagli altri ordini acclamato imperadore Marciano. Per quanto abbiamo da Teodoro lettore [Theodor. Lector, lib. 1 Hist. Eccl.], era egli oriondo dall'Illirico; ma Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 1 Hist. Eccl.] merita più fede, perchè cita Prisco istorico di que' tempi, allorchè il fa nativo della Tracia. Da semplice soldato cominciò la sua fortuna; ed allorchè andava a farsi arrolare, trovato un soldato ucciso per istrada, fermossi per compassione a fine di farlo sotterrare; ma colto dalla giustizia di Filippopoli, e sospettato egli stesso autore dell'omicidio, corse pericolo della vita. Dio all'improvviso fece scoprire il reo, e Marciano si salvò. Aveva nome il soldato ucciso Augusto, ed essendo stato accettato Marciano in suo luogo, fu poi creduto questo un preludio all'imperio. Narra Teofane [Theoph., in Chron.], che trovandosi egli in Sidema città della Licia, cadde infermo, e fu ricoverato in lor casa da Giulio (Niceforo il chiama Giuliano) e Taziano fratelli, che ebbero amorevol cura di lui. Guarito che fu, e condottolo un giorno a caccia, messisi a dormire il dopo pranzo, osservarono i fratelli che un'aquila andava svolazzando sopra l'addormentato Marciano, e gli faceva ombra coll'ali; e perciò, tenendo ch'egli avesse a diventar imperadore, svegliato che fu, gli domandarono che grazia potevano sperare da lui, se fosse arrivato al trono imperiale. Stupito egli della domanda, non sapea che rispondere; ma replicate le istanze, loro promise di farli senatori. Il licenziarono dipoi con donargli dugento scudi e pregarlo [546] di ricordarsi di loro, quando avesse mutata fortuna. E nol dimenticò già egli, perchè, verificatosi l'augurio, dichiarò Taziano prefetto della città di Costantinopoli, Giulio, ossia Giuliano, prefetto della Libia, o piuttosto, come vuol Niceforo, della Licia. Giunse Marciano ad essere domestico, cioè guardia, o pur segretario di Aspare generale dell'armata di Teodosio, e con esso lui ito in Africa, rimase prigioniere, oltre ad assaissimi altri, nella rotta che Genserico re dei Vandali diede all'esercito d'Aspare e di Bonifacio. Procopio [Procop., lib. 1, cap. 4 de Bell. Vand.] è quello che narra un caso molto simile al precedente, e forse lo stesso trasportato dall'Africa in Licia. Osservò Genserico, che mentre Marciano dormiva sulla terra, un'aquila sopravvolando il difendeva dai raggi del sole. Volle parlar seco, e riconoscer chi era; ed obbligatolo con giuramento di non far mai guerra ai Vandali, s'egli crescesse in fortuna, gli diede la libertà. In fatti, finchè egli visse, non turbò la quiete di quei Barbari. Era Marciano, per attestato di Cedreno [Cedren., in Hist.], persona venerabil d'aspetto, di santi costumi, magnanimo, senza interesse, temperante, compassionevole verso chi fallava, per altro ignorante nelle lettere e scienze. Somma, secondo Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 1.], fu la di lui giustizia verso i sudditi, ed era temuto, ancorchè non fosse solito a punire. Ma spezialmente risplendeva egli per la sua pietà verso Dio, e per l'amore della cattolica religione, siccome fece tosto conoscere. Non tardò, dico, egli a richiamar tutti gli esiliati; e Valentiniano Augusto, informato delle rare di lui qualità, concorse anch'egli a riconoscerlo per imperadore. L'indegno eunuco Crisafio fu dato da Pulcheria imperadrice in mano a Giordano, al cui padre era stata levata la vita dall'iniquo eunuco, e gli fu renduta la pariglia. Sappiamo ancora da Teodoro lettore [Theod. Lector, lib. 1 Hist. Eccl.] che [547] Marciano Augusto immediatamente corresse e levò con una legge l'introdotto abuso di comperar con danaro e doni i magistrati. Pubblicò eziandio prontamente un editto [L. ult. de Apostat. Cod. Justin.] contro i chierici e monaci che sostenessero gli errori di Nestorio e d'Eutichete. Scrisse non men egli che la moglie Augusta Pulcheria a san Leone papa amorevoli lettere, accertandolo della lor premura per la dottrina della Chiesa, e proponendo, la convocazione di un concilio generale, per rimediare ai disordini precedenti. Intanto venne a morte in Roma Galla Placidia Augusta, madre di Valentiniano III imperadore. Secondo san Prospero [Prosper, in Chron.], con cui s'accorda Agnello [Agnel., Vit. Episcop. Ravennat., tom. 2 Rer. Ital.], scrittore del secolo nono, mancò essa di vita a' dì 27 di novembre. Fu donna di non volgar pietà e prudenza, e meritò le lodi degli antichi. Era fama in Ravenna, per quanto scrisse Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 3.], e innanzi a lui il suddetto Agnello, che fosse seppellita in quella città, e che ne esistesse il sepolcro. Se ciò è, il suo corpo sarà stato trasferito a Ravenna. Idacio [Idacius, in Chron.] mette nell'anno seguente la di lei morte, ma sarà per colpa de' copisti. Nell'anno presente Valentiniano Augusto con una sua legge [In Cod. Theodos. Append., tit. 7.] mise in briglia la crudeltà e l'avarizia degli esattori del fisco, i quali, col pretesto di cercare e riscuotere i debiti del popolo, scorrevano per le provincie, commettendo mille disordini ed avanie. Donò eziandio al popolo il restante del debito scorso fino alla prima indizione.


[548]

   
Anno di Cristo CDLI. Indizione IV.
Leone papa 12.
Valentiniano III imper. 27.
Marciano imperadore 2.

Consoli

Flavio Marciano Augusto e Flavio Adelfio.

Celebre fu l'anno presente per l'ultimo crollo che si diede all'eresia di Eutichete, per cura specialmente di san Leone papa e de' piissimi imperadori d'Oriente Marciano e Pulcheria. A questo fine sant'Eusebio arcivescovo di Milano tenne prima un concilio provinciale ad istanza del pontefice romano; nel quale intervenne ancora san Massimo vescovo di Torino, scrittore rinomato per le sue Omelie che sono alla luce. Tennesi poi nella città di Calcedone, correndo l'ottobre, un concilio, che è il quarto fra i generali, e il più numeroso di tutti, perchè, oltre ai legati della Sede apostolica romana, v'intervennero circa secento vescovi. Intorno a questa insigne raunanza son da vedere il cardinale Baronio e il padre Pagi ed altri autori ecclesiastici. Fu ivi concordemente condannata la falsa dottrina d'Eutichete, e deposto e mandato in esilio l'empio Dioscoro patriarca di Alessandria, il quale solamente tre anni o poco più sopravvisse alla sua caduta. Quivi ancora fu determinato che dopo il romano pontefice, il primo luogo d'onore fosse dato al patriarca di Costantinopoli: il che fu poi disapprovato da san Leone papa, qual novità contraria ai privilegi delle chiese alessandrina ed antiochena. Famosissimo ancora fu l'anno presente per la guerra d'Attila re degli Unni nelle Gallie. Se ne stava costui nella Dacia, e forse anche nella Pannonia, ossia Ungheria, turgido per la sua potenza, e voglioso di segnalarsi con qualche grande impresa, e gli se ne presentarono le occasioni. Può essere che quand'anche era sul fin della vita Teodosio II Augusto egli desse principio a quelle fiere tempeste [549] che poscia in quest'anno fecero tanto strepito, e portarono un incredibile scompiglio alle stesse Gallie; ma certo sotto il nuovo imperadore Marciano si mirano chiari i movimenti di questo barbaro re. Il primo incentivo che ebbe Attila di turbar la pace del romano imperio venne da Giusta Grata Onoria, sorella di Valentiniano III Augusto. Già vedemmo all'anno 434 che questa sconsigliata principessa in età di circa diecisette anni s'era lasciata sovvertire con perdere il fiore dell'onestà: pel qual fallo dalla madre e dal fratello era stata inviata alla corte di Costantinopoli, dove seguitò a dimorare fino a questi tempi, ma rinchiusa in qualche luogo. Dappoichè fu succeduta la morte dell'imperador Teodosio, se non prima, macchinando essa la maniera di ricuperare la libertà, e di trovar anche marito, s'avvisò di fare ricorso ad Attila, con esibirsegli per moglie, e dargli a divedere che per mezzo di tali nozze egli acquisterebbe diritto a parte dell'imperio, parendo eziandio che gli supponesse lasciata a lei questa parte da Costanzo Augusto suo padre. Non dispiacque la proposizione al barbaro re, il quale, se fosse vero ciò che Giordano istorico [Jordan., de Regnor. success.] scrive, molto prima ne aveva avuto altri impulsi dalla medesima Onoria. Imperciocchè, dice egli, fin quando questa principessa vergine stava nella corte del fratello in Ravenna, spedito segretamente un suo famiglio ad Attila, lo invitò a venire in Italia per averlo in marito; ma non essendole riuscito il disegno, sfogò poi la sua libidine con Eugenio suo procuratore. Tuttavia poco par verisimile che Onoria allora pensasse ad accasarsi con quel re sì terribile; e non apparisce che Attila nelle sue dissensioni coll'imperio orientale ed occidentale mettesse mai fuori la pretensione d'Onoria. In questi tempi sì, cioè nell'anno precedente, è fuor di dubbio che la sfrenata principessa il mosse, e lo racconta lo stesso [550] Giordano altrove [Jordan., cap. 43 de Reb. Getic.]; ma principalmente l'abbiamo da Prisco istorico [Priscus, Legat., pag. 39, tom. I Histor. Byz.] contemporaneo, secondo il quale, appena fu portata ad Attila la nuova, che dopo la morte di Teodosio era succeduto Marciano nel governo dell'imperio d'Oriente, che spedì a Valentiniano imperador d'Occidente a dimandargli Onoria, siccome quella che s'era impegnata di pigliarlo per consorte. Mandò ancora a Costantinopoli a richiedere i tributi. Dall'una e dall'altra corte furono rimandati indietro i messi senza nulla farne. La risposta di Valentiniano fu che non gli si potea dare Onoria, perchè era maritata con altra persona; e che l'imperio non si dovea ad Onoria, perchè agli uomini, e non alle donne, tocca il governo. Per altro, essendosi dubitato se fosse vero ciò che Attila diceva dell'esibizion d'Onoria, esso Attila, per attestato di Prisco [Idem, ibid., pag. 49.], fece per mezzo de' suoi ambasciatori vedere a Valentiniano l'anello che Onoria medesima gli aveva inviato. Similmente Marciano Augusto diede per risposta che non si sentiva voglia di pagar tributi, nè si credeva in obbligo di confermare le promesse fatte da Teodosio. Se Attila voleva star quieto, se gli manderebbono dei regali; e minacciando egli guerra, non avrebbe trovato i Romani a dormire. Attila finalmente determinò di volgersi contro l'Occidente, e di combattere non solo con gl'Italiani per ottenere Onoria in moglie, sperando di grandi ricchezze in dote, ma eziandio coi Goti delle Gallie, per dar gusto a Genserico re de' Vandali in Africa.

Per intendere quest'ultimo passo convien ascoltare Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 36.], il quale racconta che avendo Teoderico re de' Goti occidentali, chiamati Visigoti, data ad Unnerico figliuolo di Genserico una sua figliuola per moglie, Genserico, [551] uomo crudele anche verso la sua stessa prole, per semplice sospetto che la nuora gli avesse preparato il veleno, le fece tagliar le orecchie e il naso, e così malconcia la rimandò a suo padre. Avuta poi contezza del gran preparamento di guerra che faceva Attila, Genserico gli inviò una gran quantità di regali, con pregarlo di volgere le armi contra il re de' Visigoti, giacchè temeva che Teoderico meditasse di far vendetta dell'affronto fatto a lui e alla figliuola. Si aggiunse finalmente ad Attila un terzo incentivo per portare la guerra in Occidente. E fu, per relazione di Prisco [Priscus, pag. 40.] istorico, che essendo morto Clodione re dei Franchi, popoli allora della Germania, Meroveo, l'uno de' due suoi figliuoli, benchè il più giovane, coll'aiuto di Aezio patrizio, generale dell'armi di Valentiniano Augusto, occupò il regno. Il primogenito (il cui nome non si sa), astretto a ritirarsi, ebbe ricorso ad Attila, con implorare soccorso da lui. Aggiugne Prisco di aver veduto Meroveo assai giovanetto, spedito a Roma da Clodione suo padre, e che la capigliatura sua era bionda e sparsa giù per le spalle. Aezio l'aveva adottato per suo figliuolo, e, dopo avergli fatto dei gran regali, l'avea inviato a Roma, acciocchè stabilisse amicizia e lega con Valentiniano Augusto. Però ancor questo fu uno dei motivi, per li quali Attila elesse di guerreggiar piuttosto in Occidente che in Oriente. L'astuto Barbaro, prima di muoversi, inviò legati a Valentiniano Augusto con lettera piena di titoli e d'espressioni della più fina amicizia, per seminar zizanie fra l'imperadore e Teoderico re dei Visigoti, esponendo che la voleva solamente contra d'essi Visigoti, e non già contra il romano imperio. E nello stesso tempo scrisse a Teoderico, esortandolo a ritirarsi dalla lega coi Romani, e ricordandogli i torti e le guerre da lor fatte alla nazione de' Goti. Ma Valentiniano, conosciuta la furberia d'Attila, immantinente spedì ambasciatori a [552] Teoderico, esortandolo a strignersi seco in lega contro il nemico di tutto il mondo, la cui superbia era omai giunta al sommo; e sì buon effetto ebbero le sue esortazioni, che Teoderico e tutta la sua nazione animosamente ed allegramente assunsero di opporsi coll'armi al minaccioso tiranno, e per questo si preparò ed unì tutta la possanza di essi Visigoti coll'esercito romano, condottiere di cui era il valoroso Aezio patrizio. Non s'è forse mai veduto sì gran diluvio d'armati in Europa, come fu in questa occasione. Fu creduto che Attila conducesse seco settecentomila guerrieri [Histor. Miscell., lib. 15.]. Non farei sigurtà che la fama e la paura non avessero contribuito ad accrescere la per altro sterminata moltitudine d'uomini e di cavalli che Attila seco trasse a quell'impresa. Imperciocchè, oltre ai suoi Unni, ch'erano, per così dire, innumerabili, con esso lui uniti marciavano altri popoli suoi sudditi, cioè un immenso nuvolo di Gepidi col re loro Arderico, e Gualamire re degli Ostrogoti, più nobile del re a cui serviva, e che mal volontieri andava a combattere contra de' Visigoti, popolo della sua stessa nazione. Seguitavano dopo questi i Marcomanni, gli Svevi, i Quadi, gli Eruli, i Turcilingi, ossieno Rugi, coi loro principi, ed altre barbare nazioni abitanti ne' confini del Settentrione. Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Aviti, vers. 319.], scrittore di que' tempi, descrive co' seguenti versi, secondo la edizion del Sirmondo, la formidabil armata d'Attila:

. . . . subito cum rupta tumultu

(Barbaries totas in se transfuderat Arctos)

Gallia, pugnacem regem comitante Gelono.

Gepida trux sequitur Scyrum Burgundio cogit,

Chunus, Bellonotus, Neurus, Basterna, Toringus,

Bructerus, ulvosa quem vel Nicer abluit unda.

Prorumpit Francus . . . .

Passò questo gran torrente dalla Pannonia, ossia dall'Ungheria, sul principio della primavera, e, secondochè crede il [553] Velsero [Velserus, Rer. August., lib. 8.], prese e devastò la città d'Augusta. Quindi, a guisa di fulmine, lasciando dappertutto la desolazione, giunse sino al Reno; e fabbricate con gran fretta innumerabili barchette, gli riuscì di valicar quel fiume, con istendersi appresso addosso alla provincia della Belgica seconda. A lui niuna opposizione fu fatta, perchè, se crediamo a Sidonio, Aezio generale di Valentiniano era appena calato dall'Alpi, conducendo poche truppe, nè i Visigoti si erano per anche mossi. Pretende esso scrittore che Avito, il quale esercitava allora nella Gallia l'uffizio di prefetto del pretorio, quegli fosse che spedito da Aezio al re Teoderico, mettesse in moto l'esercito d'essi Visigoti, col quale si congiunse il romano. Nè solamente procurò Aezio d'aver seco i Visigoti, de' quali era innumerabile l'esercito, ma tirò seco altre nazioni, descritte da Giordano istorico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 36.], cioè i Franchi, i Sarmati, gli Armoricani, i Liziani, i Borgognoni, i Sassoni, i Riparii e gl'Ibrioni, che il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] crede popoli situati presso il lago di Costanza, ma si può dubitare se fossero gli abitatori di Ivry. Nella Storia Miscella [Histor. Miscell., in tom. I Rer. Italicar.] della mia edizione sono appellati Bariones. Ed ivi, in vece di Liziani, si veggono nel ruolo degli ausiliarii romani i Luteciani, cioè i Parigini. Venne ancora in soccorso di Aezio co' suoi Alani il re Sangibano con altri popoli occidentali. Qui dalla parte de' Romani si trovarono i Franchi; e, secondo Sidonio, i Franchi furono in aiuto d'Attila. Ma l'uno e l'altro sussiste, perciocchè, siccome abbiam detto di sopra, erano allora divisi i Franchi, seguitando gli uni Meroveo collegato con Aezio, e gli altri il fratello maggiore, che s'era posto sotto la protezione d'Attila. Nella vigilia di Pasqua la città di Metz restò vittima del furore del re barbaro. La stessa disavventura toccò a quella di [554] Treveri e di Tongres. Ma, secondochè si ha dalla Vita di san Lupo vescovo trecense, oggidì Troyes, e da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, in Catalogo Episcopor. Metens.], miracolosamente quella città si salvò, essendo passati per essa i Barbari senza vederla. Altri vogliono che il santo prelato ammollisse talmente il cuore del Barbaro, che lasciasse illesa la sua città. Sopra altre città della Gallia si sfogò la crudeltà d'Attila, finchè giunto alla città d'Orleans, gli convenne fermarsi per la resistenza de' cittadini. Secondo Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, Hist. Francor., lib. 2, cap. 8.], non fu presa quella città; ma Sidonio [Sidon., lib. 8, ep. 15.], degno di maggior fede, chiaramente asserisce che fu presa, ma non saccheggiata. Intanto il generale cesareo Aezio con Teoderico re de' Visigoti, che seco avea Torismondo suo figliuolo maggiore, e il loro potentissimo esercito, venne a fronte del ferocissimo Attila. Fu concertato il luogo della battaglia ne' campi Catalaunici, cioè nella vasta pianura di Chalons sur Marne in vicinanza della città di Rems. All'ora nona del giorno si attaccò lo spaventoso e memorabil fatto d'armi, a cui altro pari non so se mai avesse veduto l'Europa. Scrive Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 37.], e lo nota ancora [Histor. Miscella, lib. 14.] l'autor della Miscella, essere stato dagl'indovini predetto ad Attila ch'egli avrebbe la peggio, ma che perirebbe nel campo il generale dell'armata nemica; e che figurandosi il re barbaro la morte tanto da lui sospirata d'Aezio, non volle restar di venir alle mani. Si combattè con indicibil vigore ed ostinazione dall'una parte e dall'altra, finchè la notte pose fine al terribil macello. Secondochè ha il suddetto autore, lasciarono la vita sul campo cento ottanta mila persone. A Idacio [Idacius, in Chronico.] e a sant'Isidoro [Isidorus, in Chronic.], che mettono [555] trecento migliaia di morti, noi non siamo obbligati in questo a dar fede. Ora quantunque niuna delle parti restasse vincitrice, pure gli effetti mostrarono che il superbo Attila si tenne per vinto, perciocchè nel dì seguente si trincerò forte coi carriaggi, ed ancorchè non cessasse di far trombettare ed alzar voci come di chi va a battaglia, pure non osò più di uscire in campo contra dei nemici. Rimasero anco deluse le sue speranze, perchè nel conflitto venne morto, non già Aezio, ma bensì Teoderico re dei Visigoti, che caduto da cavallo, fu conculcato da' piedi de' suoi, oppure ucciso da un dardo di Astagi Ostrogoto. Secondo la giunta da me pubblicata alla Storia Miscella, vegniamo a sapere che Torismondo figliuolo d'esso re Teoderico, per dolore della morte del padre, era risoluto di assediar Attila in quel sito, e di perseguitarlo fino all'ultimo sangue. Ma Aezio gli persuase di volar tosto a Tolosa, affinchè i suoi fratelli minori, cioè Teoderico, Federico, Teurico, Rotemero e Irmerit, non gli occupassero il regno. Si ha parimente da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, Hist. Franc., lib. 2, cap. 7.] che Aezio fece fretta a Meroveo di tornar al suo paese, acciocchè il fratello in sua lontananza non se ne impadronisse e fosse creato re. Non fu certamente pigro Meroveo; e però, giunto alle sue contrade, fu riconosciuto re dai Franchi. Con buon fine, dice l'autor della Miscella, diede questi consigli Aezio, per timore che i Visigoti, sconfitto Attila, non alzassero la testa contra l'imperio romano. Ma probabilmente di qua venne la rovina del medesimo Aezio, siccome diremo al suo luogo.

Veggendosi pertanto Attila in libertà, tranquillamente, ancorchè temesse di qualche insidia, se ne tornò nella Pannonia, ma con risoluzione di mettere in piedi un'armata più grande, e di assalire l'Italia, giacchè non avea trovato buon vento nelle Gallie, e noto gli era che l'Italia [556] era sprovveduta di soldatesche. Nei Frammenti di Fredegario, pubblicati dal padre Ruinart [Gregor., Oper., pag. 707.], si legge un'astuzia di Aezio, la quale non oserei mantenere per vera; cioè, che per aver soccorso da Teodoro (così è chiamato Teoderico anche da Idacio), gli esibì la metà delle Gallie; e che spediti messi segretamente ad Attila, l'invitò in aiuto suo contra de' Goti, con fare anche a lui l'esibizione suddetta. Dopo due battaglie, Aezio di notte andò a trovar Attila, e gli fece credere che veniva un esercito più forte di Goti, condotto da Teoderico fratello del re Torismondo, e tal paura gli mise, che Attila gli diede dieci mila soldi d'oro perchè gli procurasse la comodità di ritirarsi verso la Pannonia. Susseguentemente Aezio diede ad intendere a Torismondo, ch'era giunto un terribil rinforzo ad Attila, e che il consigliava di andarsene a casa, affinchè i suoi fratelli non gli occupassero il regno. Però Torismondo donò anch'egli ad Aezio altri dieci mila soldi, con pregarlo di fare in guisa che potesse liberamente co' suoi Goti ripatriare. Aezio, ciò fatto, assistito dai Franchi, andò perseguitando gli Unni alla coda fino alla Turingia, ed ordinando ogni notte dei grandissimi fuochi, affinchè paresse più grande la sua armata. E perchè i Goti faceano istanza ad Aezio ch'egli eseguisse la promessa, ed Aezio non si sentiva di umore di eseguirla, si contrastò fra di loro; ma infine si venne ad una composizione, e il tutto si quietò con avere Aezio inviato al re loro Torismondo un orbiculo di oro, ornato di gemme, che pesava cinquecento libbre. Il padre Ruinart pensa che questo orbiculo fosse un catino o piatto. Ma un catino o piatto pesante venti pesi, sarebbe stato una cosa mostruosa. Io il credo una palla rappresentante il mondo. Aggiugne Fredegario che questo picciolo mondo d'oro fino ai suoi dì (se pure egli è che parla) si conservava con gran venerazione nel tesoro dei Goti. Probabilmente in questo racconto ci sarà [557] qualche cosa di vero; ma si può credere che le dicerie del volgo vi avran fatte le frange. In quest'anno il piissimo Marciano Augusto, perchè i pagani dopo la morte di Teodosio II imperadore doveano aver fatto delle novità, pubblicò un rigoroso editto [L. 7 Cod. Justinian. de Paganis.] contra de' medesimi, intimando la perdita de' beni e della vita a chi riaprisse i templi degli idoli, o facesse loro de' sacrifizii. Con altra legge [Cod. Theod., tom. 4,. in Append., lib. 3, tit. 3.] eziandio ordinò che si dovessero pagare alle città i canoni dovuti per gli beni passati nei particolari, e, come si può credere, dati a livello; dal che, siccome ancora da altre leggi, apprendiamo che anche allora i comuni d'ogni città godeano beni, rendite ed erario loro particolare. Truovasi ancora una legge [Cod. Theodos., ibid., lib. 2, tit. 9.] di Valentiniano, data in Roma a dì 31 di gennaio dell'anno presente, ma col titolo forse vizioso, essendo ivi Impp. Theodosius et Valentinianus. Quando essa appartenga all'anno presente, il titolo ha da essere solamente Imp. Valentinian., come nelle seguenti, perchè probabilmente Marciano non era per anche riconosciuto per imperadore da Valentiniano. Nella Cronica di Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chronic.], secondo l'edizione del Canisio, si legge all'anno seguente, che l'immagine di Marciano imperadore entrò in Roma a' dì 30 d'aprile: segno che solamente allora egli fu solennemente riconosciuto per Augusto in Roma. In essa legge si tratta de' servi agricoltori fuggitivi, per sapere a quai padroni dovessero ubbidire. Nella seguente è levata una falsa persuasione che non si potessero vendere beni agli uffiziali dell'imperadore, e vien provveduto ad altri pubblici affari. Mercè poi della terza legge vegniamo in cognizione che nell'anno precedente l'Italia tutta era stata flagellata da una fierissima carestia, di maniera che molti, per non morire di fame, si erano ridotti a vendere i proprii figliuoli [558] e genitori per ischiavi, non però ai Pagani, ma ai Cristiani stessi, secondo l'uso d'allora. Comanda l'imperadore che qualora si restituisca il danaro con alquanto d'usura, si rompa la vendita fatta di quei miseri, con aggiugnere la pena di sei once d'oro a chiunque vendesse ai Barbari alcun dei cristiani.


   
Anno di Cristo CDLII. Indizione V.
Leone papa 13.
Valentiniano III imper. 28.
Marciano imperadore 3.

Consoli

Sporacio e Flavio Erculano.

Provò anche la parte occidentale di Italia in quest'anno di gravissime sciagure per cagione del ferocissimo re degli Unni Attila. Costui, ritornato nella Pannonia, attese durante il verno a riparar le forze perdute nella Gallia. Venuta la primavera, eccolo con formidabil esercito, creduto non inferiore a quel dell'anno precedente, entrar nell'Italia per la parte del Friuli. La prima città che fece resistenza al furibondo tiranno fu Aquileia, una delle più riguardevoli, forti e popolate città che s'avesse allora l'Italia, e però fu immediatamente stretta con forte assedio. All'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 15, tom. 1 Rer. Italic.] secondo la mia edizione siam qui tenuti, perchè egli con qualche particolarità descrive questi fatti, i quali appena da altri pochi si veggono accennati. Falla bensì e (prima d'ora l'avvertì ancora il Sigonio [Sigon., de Regn. Occident., lib. 13.]) allorchè scrive che tre anni continui durò quell'assedio, quando non si volesse supporre che Attila prima di passar nelle Gallie l'avesse con un'armata a parte formato: del che non si truova un barlume presso gli antichi. Certo è, per quanto s'ha da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] e da Cassiodorio [Cassiod., in Chron.], che nell'anno presente Aquileia fu presa. Narra dunque [559] l'autore suddetto, con cui va di concordia Giordano istorico [Jordan., de Reb. Get., cap. 42.], che facendo i cittadini vigorosa difesa, e mormorando l'esercito tutto a cagion della fame che per mancanza di viveri sofferivano, Attila, un dì cavalcando intorno all'assediata città, osservò che le cicogne solite a fare i lor nidi nei letti delle case, a truppa ne uscivano, portando col becco i lor figliuolini alla campagna. Allora Attila, rivolto a' suoi, mirate, disse, gli uccelli che preveggono le cose avvenire, come abbandonano questa città, sapendo che ha da perire. Ed incontinente dato ordine che si facessero giocar tutte le macchine di guerra, ed esortati i suoi a mostrare la lor bravura, sì fiero assalto diede alla città, che se ne impadronì. Procopio [Procop., lib. 11, cap. 4 de Bell. Vandal.] diversamente narra il fatto, con dire che già Attila coll'esercito abbandonava l'assedio, quando osservò una cicogna che portava via i suoi cicognini: perlochè si fermò, ed essendo da lì a poco caduto il muro, dov'era dianzi il nido di quegli uccelli, entrò facilmente nella città. Ma pare più da credere a Giordano, che si servì della storia di Prisco, autore di questi tempi. Comunque sia, tutta Aquileia andò a sacco; chi dei cittadini non fu messo a fil di spada, restò schiavo de' Barbari: ed in pena poi della ostinata difesa furono consegnati al fuoco gli edifizii tutti. Però gli scrittori di questi ultimi secoli hanno creduto che Aquileia allora distrutta non risorgesse mai più, e durasse da lì innanzi nella depressione, in cui si truova oggidì. Ma il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 452.] è di parer contrario, fondato sopra una lettera di san Leone papa, scritta nell'anno 458 a Niceta vescovo d'Aquileia, da cui si raccoglie che molte donne, credendo morti i lor consorti nella schiavitù, s'erano rimaritate, e che alcuni poi dei primi mariti, ricuperata la libertà, e ritornati, richiedevano [560] le loro mogli. Ma questo argomento poco conchiude, perchè nè molti si contano ivi ripatriati, e nelle abitazioni delle castella e della campagna poterono tornare gli abitatori, senza che si rifabbricasse la città. Tuttavia noi troveremo non dispregevole l'opinion del Baronio, potendosi altronde ricavare che almeno in parte fosse riparata allora la rovina d'Aquileia, ed in altri tempi poi ella patisse delle nuove desolazioni. Nel concilio di Grado, tenuto nell'anno 579 da Elia patriarca aquileiense, e riferito da Andrea Dandolo [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italicar.], si legge: Jam pridem ab Attila Hunnorum rege Aquileja civitas nostra funditus est destructa, et postea Gothorum incursu et ceterorum Barbarorum quassata, vix respirat; etiam nunc Longobardorum nefandae gentis flagella sustinere non valens. Basta ciò a far intendere che quella città dovea essere risorta in qualche maniera dopo la desolazione d'Attila. Ai tempi di Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 42.] storico, cioè nel secolo susseguente, era talmente atterrata, che non ne apparivano le vestigia. E circa l'anno 786, per relazione di Paolo Diacono, in luogo d'Aquileia, il Foro di Giulio, oggidì Cividale del Friuli, era divenuto capo della provincia della Venezia. Cosa è da maravigliarsi, se non è qualche orrore dei testi, come Liutprando storico [Liutprand., Hist., lib. 3, cap. 2.], il quale fioriva circa il 960, scriva in un luogo, che Aquileja praedives, atque olim civitas immensa, ab impiissimo Hunnorum rege Attila capitur, atque funditus dissipatur, nec ulterius, ut in prasentiarum cernitur, elevatur. E pure egli stesso racconta [Idem, lib. 2, cap. 4.] che gli Ungheri calati in Italia circa l'anno 912, Aquilejam et Veronam pertranseunt munitissimas civitates, et Ticinum nullis resistentibus, veniunt.

Ritornando ora all'autore della Miscella, egli narra che trovossi a que' tempi di Aquileia una delle più nobili donne [561] d'essa città, quanto bella altrettanto pudica, la quale, per non sofferire oltraggi alla sua onestà da que' sordidissimi Barbari, appena udì presa da loro la città, che si buttò giù da un'alta torre nel fiume Natisone, che passava sotto le sue finestre: azione che si crederà da taluno eroica, ma ch'è contraria ai documenti della legge di Cristo. Dopo la rovina di Aquileia, giacchè niuno s'opponeva ai suoi passi, Attila prese la città d'Altino, Concordia e Padova, e le ridusse in un mucchio di pietre. Da questa formidabile irruzione di Barbari fama è che prendesse origine la inclita città di Venezia, celebre per la sua potenza e per le sue illustri imprese. Il Dandolo [Dandolus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.] cita in pruova di ciò un certo Ponzio, scrittore a noi incognito. Credesi che, per ischivar sì fiero torrente, i cittadini di Padova, d'Altino e d'altri luoghi circonvicini si rifuggissero nell'isolette di Rivoalto, Malamocco, ed altre di diverso nome; e con venire a fermarsi in quelle ch'erano contigue a Rivoalto, a poco a poco quell'insigne città si formasse, che oggidì chiamiamo Venezia. Nondimeno Cassiodoro [Cassiod., lib. 12, ep. 24.], che circa il fine del susseguente secolo fioriva, scrivendo ai tribuni delle spiaggie marittime, e parlando degli abitanti allora in quelle isolette, non altro dice, se non che viveano de' soli pesci, e il traffico loro consisteva nella raccolta e vendita del sale. Seguita poi a narrare l'autore della Miscella che Attila coll'esercito passò a Vicenza, Verona, e Bergamo, città che provarono gli eccessi della di lui crudeltà. Poscia, inoltratosi fino a Milano e Pavia, occupò e saccheggiò ancor queste, ma senza strage delle persone, e senza consumar colle fiamme le abitazioni. L'antica tradizione dei Modenesi è ch'egli per intercessione di san Geminiano protettore della città (già mancato di vita nell'anno 397), se pure in quei tempi non visse un altro Geminiano vescovo pure di Modena, come sospetta il [562] cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 458.], Attila con l'esercito, preso da cecità, passasse senza nocumento alcuno per Modena, siccome raccontammo di sopra di san Lupo vescovo trecense. Per quel che dirò, non è inverisimile il passaggio per Modena di quel tiranno, e potrebb'essere che niun danno le facesse. Ma solamente ritien dubbioso un simil fatto accaduto nel principio del secolo decimo, siccome vedremo, allorchè gli Ungri, razza anch'eglino d'Unni, passarono per Modena, e la lasciarono intatta. Parimente Agnello [Agnell., Part. 1, tom. 2 Rer. Italicar.], che scriveva circa l'anno 835 le vite degli arcivescovi ravennati, ci fa intendere la fama che ivi correa, d'essere arrivato Attila fino a Ravenna, e che, ammollito dalle preghiere di Giovanni, vescovo santo d'essa città, niun danno le recò, essendosi contentato che gli aprissero le porte, per le quali entrato, dopo aver passeggiato per le piazze, se n'andò pacificamente con Dio, e ritornossene al suo regno. Io la credo fama senza buon fondamento, e massimamente parendo che Agnello attribuisca la mansuetudine insorta in quel Barbaro al vescovo suddetto, quando questo pregio è miracoloso, e dovuto a san Leone papa, siccome vedremo fra poco. Per altro, che Piacenza, Parma, Reggio e Modena fossero anche esse partecipi della crudeltà di quel tiranno appellato il flagello di Dio, abbiam ragione di crederlo, da che il sopra mentovato autore della Miscella aggiugne dipoi: Deinde Æmiliae civitatibus similiter expoliatis, novissime eo loco, quo Mincius in Padum influit, castrametati sunt. Certo quelle erano città dell'Emilia. Nè si dee omettere una notizia curiosa, a noi riserbata da Suida [Suidas, in Lexico, verbo Mediolanum.], cioè che avendo Attila presa la città di Milano, e condotti in ischiavitù i cittadini, osservò a caso una pittura, in cui erano rappresentati i romani imperadori, sedenti sopra aurei troni con gli Sciti prostrati ai lor piedi. [563] Fece egli tosto chiamare un pittore, e cancellata quella pittura, gli ordinò di dipingere il re Attila assiso in trono, e gl'imperadori romani che portavano sulle spalle sacchi pieni di oro, e li votavano a' piedi di sua maestà unnica.

Intanto se ne stava Valentiniano Augusto in Roma, e gli dovea ben tremare il cuore all'udir la rovina delle città e i progressi del ferocissimo re. Lasciò scritto san Prospero [Prosper, in Chron.], che ad altro non pensava l'imperadore, che a ritirarsi fuori d'Italia; ma che la vergogna tenne in freno la paura, credendosi massimamente che la crudeltà e cupidigia del barbaro regnante dovesse ormai essere sazia colla desolazione di tante nobili provincie. Ora, non sapendo nè Valentiniano nè il senato e popolo romano qual partito prendere, finalmente fu risoluto di tentare se per mezzo d'ambasciatori si potesse ottener la pace dal crudelissimo tiranno. L'autore della Miscella aggiugne, che dopo le sopra narrate azioni, Attila restò sospeso, se dovea o non dovea volgere i passi alla volta di Roma. La voglia di farlo era grande; ma, siccome scrisse Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 42.], che cita qui l'autorità di Prisco istorico, i suoi il dissuadevano coll'esempio di Alarico re dei Goti, il qual poco sopravvisse dopo la presa di Roma. In questo ondeggiar di pensieri arrivarono gli ambasciatori romani, e il trovarono attendato dove il Mincio si scarica nel Po, cioè a Governolo, essendosi messo quivi, per quanto si può credere, a quartiere pel verno sopravvenuto. Forse ancora l'arrivo d'essi ambasciatori succedette solamente nell'anno seguente. Furono essi il santo papa Leone, Avieno consolare, cioè ch'era stato console, e Trigezio, che sembra essere stato prefetto del pretorio. Confidava assaissimo l'imperadore nell'eloquenza ed abilità di san Leone, nè s'ingannò. Perorò con tal forza e garbo il pontefice, che il superbo tiranno divenne mansueto, [564] e, con accettar la pace, promise di tornarsene alle sue contrade, e l'eseguì. L'andata di san Leone ad Attila è attestata da san Prospero [Prosper, in Chron.], dall'autore della Miscella [Hist. Miscella, lib. 15.], da Cassiodoro [Cassiod., in Chronic.], da Vittor Turonense, da Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 42.] e da una lettera scritta da' vescovi orientali a Simmaco papa [Inter Epist. Symmachi papae.]. Nella suddetta Miscella poi si legge, che, interrogato Attila come egli si fosse indotto a far tutto ciò che il romano pontefice gli avea richiesto, rispose di aver veduto presso quel vescovo un altr'uomo di presenza più venerabile, che con una spada sguainata il minacciava, se non acconsentiva alle sue dimande. È da stupire come nelle vite de' romani pontefici attribuite ad Anastasio Bibliotecario si racconti bensì l'ambasceria suddetta di san Leone, ma senza dir parola di quel miracolo. Inoltre Cassiodoro scrive in una lettera, che insieme con Carpilione figliuolo d'Aezio fu spedito ad Attila suo padre, e che alla di lui eloquenza riuscì di placare quella crudelissima bestia. Il Sigonio [Sigon., de Imper. Occident., lib. 13.] rapporta qui una particolarità degna d'osservazione: cioè, che Valentiniano Augusto sul principio di questa guerra, senza perdersi d'animo, chiamò in Italia un grosso corpo di Goti, dei quali, secondo Procopio, furono condottieri Alarico ed Antala; e poste buone guarnigioni nell'Alpi Giulie, per le quali si passa dalla Pannonia in Italia, fortificò e provvide del bisognevole Aquileia e le altre città, per le quali si va al Po. Aggiugne, che la cagione dell'essersi ritirato Attila di là dal Po, si dee attribuire ad Aezio generale di Valentiniano Augusto, il quale valorosamente gli era alle spalle con un'armata che l'andava incalzando e pizzicando. E qui cita il Sigonio le seguenti parole di Giordano istorico: Attila, recollectis viribus, Aquilejam vi magna diu obsessam capit, ac [565] circumquaque praedis et caedibus furibundus bacchatur; ad quem Valentinianus imperator papam mittens, pacem cum eo fecit, exercitusque ejus fame, peste, morbo, caedibusque insuper ab Aetio attritus, eum reverti fecit. Può essere che il Sigonio abbia letto in Procopio quanto egli riferisce, quantunque io non ve l'abbia trovato; ma per conto del passo che egli rapporta di Giordano non so onde lo abbia egli preso. Certo nell'edizione del padre Garezio benedettino, e nella mia confrontata coll'antichissimo testo dell'Ambrosiana [Rer. Italicar. Scriptor., tom. 1, part. 1.] non compariscono quelle parole, le quali, se sussistessero, porgerebbono motivo di credere che aggiunta alle persuasioni di san Leone l'apprensione del valore e delle forze d'Aezio, quel Barbaro si fosse indotto alla ritirata. All'incontro abbiamo l'autorità di san Prospero [Prosper, in Chron.], opposta all'asserzione suddetta. Eccone le parole al presente anno: Attila, redintegratis viribus, quas in Italia amiserat, Italiam ingredi per Pannonias intendit, inhil duce nostro Aetio secundum prioris belli opera perspiciente, ita ut ne clusuris quidem Alpium, quibus hostes prohiberi poterant, uteretur: hoc solum spei suis superesse existimans, si ab omni Italia cum imperatore dissederet. Ma non è perciò da disprezzare il racconto del Sigonio; perciocchè Idacio [Idacius, in Chron.] scrisse che nel secondo anno del principato di Marciano, gli Unni da' quali era messa a sacco l'Italia, dopo aver eglino desolate alquante città, rimasero miracolosamente estinti, parte per la fame, parte per un certo morbo e per alcune calamità venute dal cielo. E che avendo l'imperador Marciano mandati soccorsi di milizie ad Aezio, questi tagliò a pezzi non pochi de' nemici in maniera che furono astretti a far la pace co' Romani. Sant'Isidoro, siccome quegli che fu copiatore d'Idacio, racconta lo stesso.

[566] Nè si dee tacere che Attila, per attestato concorde di Giordano e dell'autore della Miscella, prima di ritirarsi, minacciò la total rovina all'Italia, se non gli fosse inviata con ricchissima dote, e con assegnarle una porzione del regno, Onoria sorella di Valentiniano Augusto, cioè quella svergognata principessa che, siccome abbiam veduto di sopra, avea incitato lo stesso Attila a muovere l'armi contra del fratello per isperanza di acquistare la libertà, e di sposare quel re villano. Ed è probabile che gli fosse promessa, affinchè il Barbaro non tardasse a levarsi d'Italia. Il Du-Cange [Du-Cange, in Famil. Byzant., pag. 73.] pretende ancora che questa principessa infatti gli fosse spedita: ma non veggo alcuno degli antichi che l'asserisca. Fu ben ella promessa, ma si dovettero trovar varie scuse ed intoppi, tanto che la morte d'Attila, che da lì a non molto accadde, mise ancor fine alle ambiziose sue pretensioni. E perciocchè niuno degli scrittori parla più da lì innanzi d'essa Onoria, non è improbabile che per li suoi misfatti le fossero abbreviati i giorni della vita, o pur ch'essa con suo comodo li terminasse in una prigione segreta. Fu quest'anno che Marciano Augusto pubblicò un editto [Inter Acta Concilii Chalcedonensis.] contro i seguaci degli errori d'Eutichete, con intimar loro varie pene. Similmente egli con altro proclama dichiarò l'innocenza e santità di Flaviano patriarca morto in esilio. Abbiamo anche da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], aver egli ordinato in quest'anno che i nuovi consoli, in vece di gettar danari al popolo, gl'impiegassero in risarcire l'acquidotto di Costantinopoli. Doveano probabilmente succedere ferite e morti in quel popolare tumulto. Per lo contrario Valentiniano imperadore in questo medesimo anno, sì funesto all'Italia, con una sua legge [Tom. 4 Cod. Theodos. Append. tit. 12.] ristrinse la giurisdizione de' vescovi, ordinando che i medesimi [567] non potessero giudicar cause criminali, e neppur le civili fra i cherici; e se le giudicassero, fosse solo per compromesso, riserbando loro unicamente quelle di religione. Vietò ancora che i curiali, i servi e mercatanti del corpo della mercatura non si potessero far preti, nè monaci. Molti altri punti son ivi determinati. Trovarono i susseguenti Augusti indecente questa legge, e però la scartarono. Intanto il cardinal Baronio alla indebita pubblicazion d'essa attribuisce tutte le disgrazie accadute in quest'anno, non a Valentiniano che stava a divertirsi in Roma, ma alle città della Venezia, Insubria ed Emilia, che niuna colpa aveano di questo editto. Oltre di che, essendo data quella legge nel dì 15 di aprile del presente anno, Attila verisimilmente era già calato in Italia, e stava digrignando i denti sotto l'ostinata Aquileia. Vedesi eziandio un'altra legge [Tom. 4 Cod. Theodos. Append. tit. 15.] dello stesso Augusto data in Roma a dì 29 di giugno intorno ai tributi che doveano pagare i mercatanti di porci, buoi e pecore, dove parla dell'attenzione d'Aezio patrizio fra le cure della guerra e lo strepito delle trombe. Da ciò ricava il Sigonio che Aezio avesse raunato un gagliardissimo esercito da opporre ad Attila; ma altro non ne so trarre io, se non che Aezio anche in que' tempi sì sconvolti pensava ad impedire che non fosse defraudato dei tributi l'erario imperiale, e che essi tributi con regola e proporzione si pagassero. Essendo mancato di vita in Napoli Quod vult Deus vescovo di Cartagine, esiliato da Genserico re de' Vandali, tanto si adoperò Valentiniano Augusto presso quel re barbaro, che si contentò che fosse ordinato vescovo in essa città di Cartagine Deogratias, uomo di mirabil carità, ed insigne per altre virtù, siccome attesta Vittore Vitense [Victor Vitensis, de persecut. Vandal.].


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Anno di Cristo CDLIII. Indizione VI.
Leone papa 14.
Valentiniano III imper. 29.
Marciano imperadore 4.

Consoli

Vincomalo ed Opilione.

Tornato che fu Attila nella Pannonia, inviò tosto suoi ambasciatori a Marciano Augusto, facendogli sapere, che se non gli mandava i tributi, ossia i regali annui promessi da Teodosio II suo predecessore, si aspettasse pure il guasto alle sue Provincie, ed ogni altro più rigido trattamento. Lo abbiamo da Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Histor. Byz., pag. 40.] di que' tempi, e lo riferisce ancora Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 43.], con aggiugnere egli solo una particolarità di gran riguardo, la quale, se è vera, molto è da maravigliarsi, come non sia almeno accennata da san Prospero, da Idacio o da sant'Isidoro: cioè che Attila minacciava bensì lo imperio d'Oriente, ma le sue mire di nuovo erano contro dell'Occidente. Gli stava fitta nel cuore la rabbia, perchè i Visigoti della Gallia gli avessero data una sì disgustosa lezione nella battaglia che narrammo di sopra, e ne voleva vendetta. Pensò dunque di assalire e soggiogar quegli Alani che abitavano nella Gallia di là dal fiume Ligeri, appellato oggidì la Loire. E mossosi dalla Dacia e Pannonia, dove allora gli Unni con diverse nazioni sue suddite dimoravano, passò nel cuore della Germania a quella volta. Allora Torismondo, novello re de' Visigoti, presentito il disegno del Barbaro, non fu pigro ad accorrere con tutte le sue forze in aiuto degli Alani, e a prevenire l'arrivo d'Attila. Giunti colà gli Unni, si venne ad un fatto d'armi, che riuscì quasi simile al precedente, in guisa che l'altero Attila scornato fu costretto a ritornarsene senza trionfo e senza gloria alle sue contrade. Ma, come dissi, niun altro storico fra gli antichi dice una menoma parola [569] di questo fatto. Nulladimeno, avendo Giordano avuta sotto gli occhi la storia perduta di Prisco, non se gli dee facilmente negar credenza in questo. E tanto più verrebbe ad essere credibile il di lui racconto, se la morte del feroce Attila fosse succeduta nell'anno susseguente, come vuol Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], perchè non avrebbe il re barbaro lasciate in ozio le sue armi nell'anno presente. Aggiungasi che Fredegario [Oper. Gregorii Turonens. Ruinart, Fragment., pag. 707.] racconta due battaglie succedute fra Attila e i Goti; e benchè vi sia della confusione in quel racconto, sì pel tempo, come pel luogo, pure si scorge ch'egli mette il secondo conflitto fatto da Torismondo, essendo già morto suo padre. Ma san Prospero [Prosper, in Chron.], Prospero Tirone [Prosper Tito, in Chronic.], Idacio [Idacius, in Chron.], sant'Isidoro [Isidorus, in Chronico Gothor.], Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.] e l'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 15.], senza narrar punto alcun ritorno d'Attila nella Gallia, dicono sotto il presente anno ch'egli, appena tornato al suo paese, finì di vivere e d'inquietare il mondo. La maniera della sua morte fu da bestia. Marcellino scrive che fu scannato da una donna, se pure i nostri storici italiani non han qui per odio alterata la verità. Merita maggior fede Giordano [Jordan., de Reb. Getic, cap. 49.], che cita ancor qui la storia di Prisco autore contemporaneo, allorchè narra che avendo voluto il crudele e libidinoso re menare una nuova moglie, per nome Ildicone, fanciulla, quantunque, secondo il rito della sua gente, innumerabili altre ne avesse, s'imboracchiò talmente nel convito nuziale, che, pien di vino fino alla gola e oppresso dal sonno, fu posto in letto; e quivi dal sangue che gli soleva uscir dal naso, rimase la notte soffocato. Essendo passata buona parte del mattino senza ch'egli chiamasse, o che rispondesse [570] a chi il chiamava, i suoi dubitando di quel ch'era, ruppero la porta, e il trovarono morto. Racconta il medesimo autore, su la fede di Prisco, che in quella stessa notte a Marciano imperadore fu mostrato in sogno l'arco di Attila rotto: il che tenuto fu per presagio, giacchè gli Unni specialmente metteano la lor bravura nel saettare. Fu sontuoso ed insieme barbarico il funerale d'Attila. Gli uffiziali e i soldati suoi, secondo l'uso della nazione, si tagliarono parte de' capelli, e coi coltelli si fecero dei buoni tagli nel volto, acciocchè la memoria di quell'invitto combattente fosse pianta, non con lamenti e lagrime femminili, ma con sangue virile. Deposto il cadavero sotto padiglioni di seta, gli fecero una specie di torneamento a cavallo intorno. Cantarono le di lui prodezze con questi sentimenti: Il gran re degli Unni, Attila, figliuolo di Mundzucco, signore di fortissimi popoli, che solo con una potenza inudita per l'addietro ha posseduto i regni della Scitia e della Germania, ed ha messo il terrore in amendue gli imperii romani, con tante città prese; e che potendo devastare il rimanente, placato per le preghiere, si contentò di ricevere un annuo tributo. E dopo aver tutto ciò operato con felicità mirabile, non per ferita ricevuta da nemici, non per frode dei suoi, ma con restare illesa la sua gente, fra le allegrie e senza provar dolore alcuno, è morto. Ma chi può dir questa una morte, quando niuno sa d'averla a vendicare? Fin qui la funebre cantilena. Dopo tali lamenti sopra la di lui cassa sepolcrale fecero un gran convito, unendo insieme il lutto e l'allegria; e poi seppellirono di notte il cadavero, serrando la tomba prima con legami di oro, poi d'argento, e finalmente di ferro, e chiudendo seco armi tolte ai nemici e varii ornamenti con gemme e lavori preziosi. Ed affinchè non si sapesse il luogo, ai miseri schiavi, che aveano cavata la fossa, e dopo la sepoltura spianato il terreno, levarono crudelmente la vita.

Colla morte di costui si sfasciò la [571] macchina dell'imperio degli Unni, cioè dei Tartari; perciocchè, siccome narra Giordano, insorsero liti tra i figliuoli d'Attila per la divisione de' regni: Arderico re dei Gepidi, prima sudditi d'Attila, non potendo sofferire che si trattasse di partire i popoli, come si fa dei vili schiavi, fu il primo a prendere l'armi contra dei figliuoli di Attila. Ad esempio suo, fecero lo stesso altre nazioni, cioè i Goti, gli Alani, gli Svevi e gli Eruli. Si venne ad una battaglia, in cui restò ucciso Ellac, il primogenito d'Attila, e a lui più caro degli altri. Gli Unni furono i vinti, e vincitori i Gepidi. Però gli altri figliuoli di Attila si ritirarono dove è oggidì la picciola Tartaria al mar Nero; e i Gepidi, rimasti padroni della Dacia, fecero pace e lega coll'imperadore d'Oriente, che si obbligò di mandar loro dei presenti. I Goti ebbero dipoi la Pannonia per concessione degli Augusti; ed altre nazioni, ricuperata la libertà, impetrarono altri siti per loro abitazione, in questo medesimo anno Torismondo re dei Visigoti in Tolosa, dopo aver goduto poco più d'un anno il suo principato [Prosper, in Chron. Isidorus, in Chron. Gothorum; Idacius, in Chron.], perchè troppo alteramente ed insolentemente governava, trucidato fu da Teoderico e Federico suoi fratelli, il primo de' quali fu riconosciuto per re di quella nazione. Similmente diede fine ai suoi giorni in Costantinopoli a dì 18 di febbraio Pulcheria Augusta, sorella del già defunto imperador Teodosio II, e moglie del regnante Marciano Augusto, principessa memorabile per la sua rara pietà e saviezza. Fu sempre zelante protettrice della fede cattolica [Chron. Alexand. Marcell. Comes, in Chron.]; anche nel matrimonio volle intatta la sua verginità consecrata a Dio; e fabbricò varii templi sacri, e varii spedali per gl'infermi e pellegrini con regale magnificenza. Pria di morire istituì eredi di tutto il suo avere i poverelli; ed il piissimo imperador Marciano, per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], [572] benchè fossero immensi i di lei beni, pure puntualmente volle eseguita l'ultima di lei volontà. Perciò degna ben fu questa insigne principessa d'essere registrata fra i santi non men presso i Greci che presso i Latini.


   
Anno di Cristo CDLIV. Indizione VII.
Leone papa 15.
Valentiniano III imper. 30.
Marciano imperadore 5.

Consoli

Aezio e Studio.

Siccome osservò il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], questo Aezio console non è il celebre Aezio patrizio, generale di Valentiniano imperador di Occidente, ma sì bene un uffiziale delle corte cesarea di Marciano Augusto. In quanto al suddetto Aezio valoroso generale delle milizie nell'imperio d'Occidente, egli diede miseramente fine in quest'anno alla vita non che alle imprese sue; perchè da Valentiniano stesso imperadore, o almeno per ordine suo, restò ucciso. San Prospero [Prosper, in Chronico.] lasciò scritto che erano seguite promesse scambievoli, convalidate da giuramenti fra Valentiniano Augusto ed esso Aezio, per la congiunzion de' figliuoli; e vuol dire che l'una delle due figliuole dell'imperadore dovea essere stata promessa in moglie ad uno de' figliuoli di Aezio, fra' quali sono a noi noti Carpilione e Gaudenzio. In vece di nascere da ciò maggior lega d'affetto, quindi ebbe principio la discordia e l'odio fra loro: mercè, per quanto fu creduto, di Eraclio eunuco, il quale s'era talmente col suo frodolento servigio renduto padrone dell'animo di Valentiniano, che il girava dovunque volea: disgrazia riserbata a tutti i principi deboli, condannati a lasciarsi menar pel naso da qualche favorito. Un giorno adunque, mentre Aezio faceva calde istanze perchè si eseguisse la promessa, e non senza commozion d'animo e con [573] risentite parole parlava per suo figliuolo all'imperador Valentiniano, o fosse concerto fatto, o quella rissa ne facesse nascer l'occasione, l'imperadore, sfoderata la spada, se gli avventò alla vita, e, per quanto scrive Vittor Turonense [Victor Turonensis, apud Canisium.], datogli il primo colpo, gli altri cortigiani che si trovarono presenti, misero anche essi mano alle spade e lo stesero morto a terra. Erasi per sua disavventura incontrato in sì brutta scena Boezio prefetto del pretorio, senatore nobilissimo, perchè dell'insigne casa romana Anicia, e probabilmente avolo del celebre Boezio, scrittore del secolo susseguente. Perchè egli era sommamente amico di Aezio, e forse si volle interporre per quetare il tumulto, restò anch'egli in quella congiuntura ucciso. Idacio [Idacius, in Chronic.] aggiugne che altri personaggi, chiamati ad uno ad uno in corte, vi lasciarono la vita. Secondochè si ha dagli storici, furono messi in testa a Valentiniano dei sospetti contro di Aezio, quasichè egli, superbo per le vittorie riportate, per le sue ricchezze e pel credito che aveva nelle armate, meditasse di usurpargli il trono. Forse ancora gli fu opposto, ch'egli, vecchio amico degli Unni, avesse avuto dei segreti riguardi in favore di Attila sì nella Gallia che nell'Italia. Ma qui Procopio [Procop., lib. 2, cap. 4, de Vand.] ci fa sapere essere stato Massimo (poscia successor nell'imperio) quegli che segretamente tramò la morte di Aezio per vendicarsi di Valentiniano (siccome vedremo nell'anno seguente) e per levar di mezzo ai suoi disegni questo potente ostacolo; e però, guadagnati gli eunuchi del palazzo, operò che i medesimi colle arti loro imprimessero in cuore dell'imperadore diffidenze e sospetti in materia di Stato. Quel ch'è certo, siccome notò Marcellino conte [Marcell., Comes, in Chronico.], in questo prode generale venne a mancare il terrore de' Barbari e la salute dell'imperio occidentale, e ne [574] seguì poco dopo la rovina dello stesso imperadore e dell'imperio. Però soggiugne Procopio, che avendo Valentiniano interrogato un uomo savio, se era stato bene il togliere la vita ad Aezio, questi rispose che non potea sapere se fosse bene o malfatto quel ch'era succeduto; ma parergli d'intendere una sola cosa, cioè che l'imperadore colla man sinistra aveva tagliato a sè stesso la destra. In quest'anno l'imperador Marciano pubblicò un editto [L. 3, tit. 14, in Append. Cod. Theod.] intorno ai matrimonii de' senatori, con dichiarare quali fossero le basse ed abbiette persone, le quali era loro proibito di prendere per mogli secondo una legge di Costantino, e con decidere che fosse lecito lo sposar donne ancorchè povere, purchè di nascita ingenue, e di professione e genitori non esercitanti arte vergognosa. Così l'indefesso san Leone papa, valendosi dell'animo rettissimo e piissimo di esso imperadore d'Oriente, calmò in questi tempi varii torbidi insorti nella religione, e represse l'ambizione di Anatolio patriarca di Costantinopoli, il quale contro l'autorità dei canoni del concilio niceno s'era studiato di esaltar la sua Chiesa in pregiudizio di quelle d'Alessandria e d'Antiochia. A persuasione sua ancora il buon imperadore pubblicò nuovi editti contro gli eutichiani ad altri eretici, che tuttavia infestavano colle lor false dottrine l'Oriente; ed insieme confermò i privilegii antecedentemente conceduti alle Chiese cattoliche.


   
Anno di Cristo CDLV. Indizione VIII.
Leone papa 16.
Marciano imperadore 6.
Avito imperadore 1.

Consoli

Valentiniano Augusto per l'ottava volta ed Antemio.

L'anno è questo in cui l'imperio di Occidente, già lacerato in varie parti dai Barbari, diede un gran crollo, e cominciò [575] ad avvicinarsi alla rovina. Il che avvenne per la morte di Valentiniano imperadore, non naturale, ma violenta, a cui soggiacque egli o per la sua poca prudenza, o pel merito delle sue poco lodevoli azioni. Ascoltiamo prima Procopio [Procop., lib 1, cap. 4 de Bell. Vandal.], che narra l'origine di questa tragedia. Petronio Massimo, uno de' senatori più illustri e potenti di Roma, stato due volte console, avea per moglie una dama che insieme sapeva congiungere una rara bellezza con una singolar pudicizia. Se ne invaghì perdutamente Valentiniano, quantunque avesse per moglie Eudossia, principessa di beltà non ordinaria; e conoscendo che nè i doni nè le preghiere e lusinghe avrebbono potuto espugnar quella rocca, si appigliò ad una risoluzione nefanda. Fatto chiamare in corte Massimo, e vintagli certa quantità di danaro, si fece dare in pegno il suo anello; dopo di che immediatamente spedì alla di lui moglie un messo, con dirle che per ordine di Massimo venisse tosto alla corte per salutar l'imperadrice. Ella, prestata fede all'anello, si mise in lettiga, e fu a palazzo, dove introdotta che fu dai ruffiani della corte in una camera, Valentiniano l'assalì, e non ostante la di lei resistenza sfogò le brutali sue voglie con essa. Tornata a casa piena di vergogna e dolore la donna si diede ad un dirotto pianto; e capitato il marito, caricatolo di villanie e d'imprecazioni, si sfogò seco, imputando a lui l'affronto ch'ella avea patito. Diede nelle smanie Massimo; ma siccome persona accorta trattenne e nascose il suo risentimento, cominciando da lì innanzi a meditar la morte dell'imperadore. Prima nondimeno volle sbrigarsi di Aezio patrizio, la cui morte, per quanto abbiam detto, fu sua occulta manifattura. Poscia, guadagnati gli amici di Aezio, ed incitati alla vendetta, per mezzo d'essi fece levar la vita a Valentiniano. Anche Teofane [Theoph., in Chronograph.], sulla fede, cred'io, di Procopio, descrive questo imperadore [576] qual uomo pieno di vizii, e massimamente d'adulterii, per giugnere ai quali non lasciava indietro gl'incantesimi. Cedreno, Zonara e Niceforo, tutti autori greci, copiandosi l'un l'altro, dicono altrettanto; ma io non so perchè mai niuno degli storici latini abbia almeno accennato alcuna di tante malvagità di Valentiniano, nè come Eudossia imperadrice amasse tanto un marito quale a noi vien supposto, cioè macchiato di tanti tradimenti alla fede maritale. Dal solo Apollinare Sidonio il veggo chiamato semivir amens. Comunque sia, egli è fuor di dubbio, secondo san Prospero [Prosper Tiro, in Chron.], che avendo Valentiniano imprudentemente accettati fra le sue guardie alcuni de' soldati ed amici di Aezio, già da lui ucciso, costoro aspettarono il tempo e l'occasion di vendicare la di lui morte. Uscito egli di Roma nel dì 27 di marzo, secondo la Cronica pubblicata dal Cuspiniano [Chronol. a Cuspiniano edita.], mentre era intento al giuoco del portarsi l'un l'altro, se gli scagliarono improvvisamente addosso costoro, e con varii colpi il distesero morto al suolo. Era seco quel mal arnese d'Eraclio suo eunuco, odiato da tutti, come promotore della rovina d'Aezio, e a lui parimenti toccò una salva di colpi, per i quali cadde morto; nè alcuno del numeroso regale corteggio si mosse alla difesa o vendetta del sovrano. Cassiodoro [Cassiodorius, in Chron.] e Vittor Turonese [Victor Turonensis, apud Canisium.] scrivono ch'egli fu ucciso nel campo Marzio. Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron., edition. Canis.] dell'edizion del Canisio mette accaduta questa tragedia nel luogo appellato ai due Lauri; e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], coll'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 15.], nomina due di questi sicarii, cioè Ottila e Traustila, amendue già sgherri d'Aezio e Barbari di nazione.

Dopo questa scena Petronio Massimo, autore della morte non men d'Aezio [577] che di Valentiniano III, non avendo più ostacolo, nel dì seguente si fece proclamare imperadore de' Romani. Il Reinesio [Reines., Inscript. Class. I, num. 39.] nell'albero della casa Anicia dimenticò di porre costui, quantunque in una medaglia riferita dal Goltzio [Goltzius, Numism.] e dal Mezzabarba [Mediobarb., Numism. Imperator.] egli si vegga chiamato D. N. FL. ANICIUS MAXIMUS P. F. AVG. Ma se fosse vero ciò che scrive Teofane [Theoph., in Chronogr.], cioè che questo Massimo era nipote di quel Massimo che a' tempi di Teodosio il grande strepitosamente usurpò l'imperio, non sarebbe egli da attribuire alla famiglia Anicia, perchè con essa nulla avea che fare Massimo il tiranno. Però o Petronio Massimo non fu Anicio, e quella medaglia è falsa; o, come è più probabile, Teofane prese abbaglio, ingannato dalla somiglianza del cognome. Non tardò Massimo, dappoichè fu alzato al trono imperiale, ad indurre, prima colle buone, poi colle brusche, Eudossia vedova a non piangere l'ucciso imperadore, e a prendere lui per marito, giacchè gli era poco dianzi mancata di vita la prima moglie. Eudossia, suo malgrado, vi consentì, perchè non sapea che per trama di lui fosse stato tolto di vita l'Augusto consorte. Procopio, Evagrio e Teofane coi lor copiatori, cioè Cedreno, Zonara e Niceforo, scrivono che la violenza fatta ad Eudossia fu maggiore di quel che ho detto: il che poi non s'accorda con quel che soggiungono; cioè, che essendo essi coniugati in letto, e ragionando degli affari loro, Massimo in confidenza le disse di aver egli procurata la morte di Valentiniano pel grande amore che a lei portava: stolto ch'ei fu a rivelare e mettere quel segreto in petto di donna, che si mostrava tuttavia tanto appassionata pel primo consorte. Internamente a questo avviso fremè di sdegno Eudossia, e pensando alla maniera di farne [578] vendetta [Theoph., in Chronogr.], ed insieme di ricuperare la libertà, giacchè dopo la morte di Teodosio II suo padre e della zia Pulcheria non sapeva sperar aiuto dall'imperador d'Oriente, si appigliò ad una abbominevol risoluzione, che tornò poscia in rovina di Roma e di lei medesima. Cioè spedì ella segretamente in Africa lettere a Genserico re de' Vandali, pregandolo di venir quanto prima a vendicar la morte di Valentiniano già suo collegato, con offerirgli ogni assistenza dal canto suo. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], Procopio [Procop., lib. 1, cap. 4 de Bell. Vand.] ed Evagrio [Evagr., Hist. Eccl., lib. 2.] attestano anch'essi che Genserico fu sollecitato con lettere assai calde dalla furente imperadrice a venir colle sue forze contra l'odiato suo consorte. A braccia aperte Genserico accolse l'invito, non già per carità verso d'Eudossia, ma per la speranza di un gran bottino; e messa in punto una formidabil flotta, comparve con essa alle spiaggie romane. Secondochè abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron.], Massimo avea dichiarato Cesare Palladio figliuolo suo e della prima moglie, e congiunta seco in matrimonio una figliuola di Valentiniano, cioè, per quanto si crede, Eudocia, chiamata da altri Eudossia, primogenita d'esso imperadore. Per quanto scrive san Prospero [Prosper, in Chron.], ossia Prospero Tirone, s'era già divulgato fra il popolo ch'egli era stato autore della morte d'Aezio e di Valentiniano, al vedere ch'egli non solamente non gastigò i loro uccisori, ma gli aveva anche presi sotto la sua protezione. Perciò la speranza conceputa che questo novello Augusto dovesse riuscire d'utilità alla repubblica si convertì in odio quasi universale contra di lui. Uditosi poi l'avviso d'essere approdata in vicinanza di Roma l'armata navale dei Vandali, molti nobili e popolari cominciarono a fuggire; e lo stesso Massimo, diffidandosi di poter fare resistenza a quei [579] Barbari, dopo aver data a tutti licenza di andarsene, pieno di spavento, prese anche egli lo spediente di ritirarsi altrove. Ma nell'uscir di palazzo, svegliatosi un tumulto fra il popolo, fu da esso, e massimamente dai soldati e servitori di corte, tagliato a pezzi e gittato nel Tevere, senza che gli restasse neppur l'onore della sepoltura. Non tenne l'imperio se non due mesi e diciassette giorni, secondo san Prospero, e però cadde nel dì 11 di giugno la morte sua. Dovette eziandio restar vittima del furor popolare Palladio suo figliuolo, giacchè Eudocia sua moglie si vede da lì a non molto maritata con Unneri cofigliuolo del re Genserico. Per altro ha qualche aria d'inverisimile la chiamata dei Barbari attribuita ad Eudossia Augusta, stante il breve spazio di due mesi, in cui si suppone rivelato da Massimo il suo segreto, chiamato dall'Africa Genserico, fatti da lui i convenevoli preparamenti, e giunta la sua flotta ai lidi romani, per tacere altri riflessi. Oltredichè, dopo i fatti, non si può dir quanto sia facile il popolo a sognare e spacciar voci false.

Comunque sia, sbarcate le vandaliche milizie, tra le quali era anche una gran quantità di Mori, tratti dall'avidità della preda, nel dì 12 di giugno, e non già nel dì 12 di luglio, come scrive Mariano Scoto [Marian. Scotus, in Chron.] (errore a cui non fece mente il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.]), trovò poca difficoltà il re Genserico ad entrare in Roma, rimasta senza gente e presidio abile a far difesa, e lasciò libero il campo ai suoi di saccheggiar l'infelice città. L'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 15.], secondo la mia edizione, scrive che il santo pontefice Leone uscì fuori della città incontro al re barbaro, e non men col suo venerabile aspetto che colla sua eloquenza ottenne che non si ucciderebbono nè tormenterebbono i cittadini, e resterebbono salve dal fuoco le case. Durò il saccheggio quattordici dì, ne' quali fu fatta un'esatta ricerca di [580] tutto il meglio che s'avessero gli abitatori, e rimase spogliata la misera città di tutte le sue ricchezze, che furono imbarcate ed inviate a Cartagine. Scrive Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 5.] che coloro asportarono dall'imperial palazzo quanto v'era di buono, nè vi lasciarono pur un vaso di rame. Diedero parimente il sacco al tempio di Giove Capitolino, il quale è da stupire come tuttavia sussistesse, con portarne via la metà del tetto, ch'era d'ottimo bronzo indorato, ed una delle superbe e mirabili rarità di Roma. Corse fama che la nave in cui erano condotti gl'idoli dei Romani perisse nel viaggio. Furono inoltre menate in ischiavitù molte migliaia di cittadini romani, e fra essi, per attestato d'Idacio [Idacius, in Chronico.], Gaudenzio figliuolo d'Aezio. Provò allora anche la sconsigliata imperadrice Eudossia (se pur fu vero l'invito fatto a Genserico) i frutti della sua pazzia, in essersi fidata del re barbaro ed eretico; perciocchè anch'ella colle sue due figliuole, Eudocia e Placidia, corse la medesima fortuna, essendo state tutte e tre condotte prigioniere a Cartagine. Genserico dopo alcuni anni, come diremo, diede per moglie Eudocia ad Unnerico suo primogenito, a cui ella col tempo partorì un figliuolo appellato Ilderico. Nella sola Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] questa principessa vien chiamata non già Eudocia, ma Onoria; e perciò tanto il Du-Cange quanto il padre Pagi credettero ch'ella avesse due nomi; e giunse il suddetto Pagi fino ad immaginare ch'essa prendesse dal nome di Unnerico ossia Honorico suo consorte quello d'Onoria. Ma nulla di ciò, a mio credere, sussiste. Si dee tener per error de' copisti il nome di Onoria nella Cronica Alessandrina, giacchè tutti gli altri scrittori la chiamano solamente Eudocia. E se il padre Pagi soggiugne che anche Prisco, istorico [Priscus, tom. 1 Hist. Byz.] di que' tempi, le dà il nome di Onoria alla [581] facciata 42, egli prese abbaglio, perchè si attenne alla versione latina, laddove il testo greco ha chiaramente Εὐδωκία Eudocia, siccome ancora alla facciata 74. Falla eziandio l'autore della Miscella [Hist. Miscella, tom. 1 Rer. Italicar., pag. 98.], secondo l'edizion mia, allorchè scrive che Eudocia fu maritata con Trasamondo figliuolo di Genserico. Ma è ben degna d'osservazione una particolarità ch'egli aggiunge, taciuta da tanti altri autori. Cioè che, dopo avere abbandonata Roma, i Vandali e Mori si sparsero per la Campania, saccheggiando, incendiando quanto incontrarono. Presero Capoa, e la distrussero sino ai fondamenti; altrettanto fecero a Nola città ricchissima. Non poterono aver Napoli nè altri luoghi forti, ma diedero il sacco a tutto il territorio, e condussero seco in ischiavitù chi era avanzato alle loro spade. Appresso racconta che Paolino, piissimo vescovo di Nola, dopo aver impiegato quanto avea pel riscatto de' poveri cristiani, altro non restandogli in fine, per compassione ad una misera vedova, andò egli stesso in Africa a liberare un di lei figliuolo, con rimaner egli schiavo; ma, conosciuta dipoi la sua santità, fu lasciato andar da que' Barbari con quanti Nolani si trovavano schiavi. Sembra, è vero, a tutta prima che questo autore abbia confuso le crudeltà commesse dai Goti sotto Alarico nell'anno 409, dopo la presa di Roma, con quest'altra disavventura della medesima città. Ma può stare benissimo che i Vandali portassero la loro fierezza anche nella Campania. San Gregorio il Grande, che fiorì sul fine del secolo susseguente, narra anch'egli il fatto suddetto di san Paolino [Gregor. Magnus, lib. 3, cap. 2 Dialogor.]: quum saevientiun Vandalorum tempore fuisset Italia in Campaniae partibus depopulata. E di qui si può prender maniera per isciorre un nodo avvertito dagli eruditi, i quali trattano come favola la schiavitù in Africa di san Paolino; perchè altro san Paolino vescovo di Nola non riconoscono se non quello [582] che fiorì a' tempi dei santi Girolamo ed Agostino. Ma il padre Gianningo della compagnia di Gesù giudiciosamente osservò [Acta Sanctorum, in Append. ad Vit. sancti Paulini ad diem 22 jun.], aver Nola avuto più d'un Paolino per suo vescovo, e che non sotto il primo, ma sotto uno de' suoi successori potè succedere il fatto di quella vedova, il quale incautamente nel Breviario e Martirologio romano vien attribuito al primo san Paolino. Ora ecco dall'autore della Miscella autenticate le conghietture del padre Gianningo, e doversi riferire a questi tempi la distruzione di Capoa e di Nola, e un altro san Paolino vescovo dell'ultima città. E così possiam credere, finchè dia l'animo ad alcuno di mostrarci che in ciò si sieno ingannati san Gregorio Magno e l'autore della Miscella.

Sappiamo bensì che si dilungò dal vero sant'Isidoro in iscrivendo [Isidorus, in Chron. Vandal.] che Genserico solamente dopo la morte di Maioriano Augusto prese e saccheggiò Roma: il che sarebbe accaduto nell'anno di Cristo 462. È troppo patente un anacronismo tale. Lasciò parimente Evagrio [Evagr., lib 2, cap. 7 Hist. Eccl.], che Roma in tal congiuntura fu data alle fiamme; ma anch'egli s'ingannò. Pretende il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], coll'autorità di Anastasio bibliotecario [Anastas., in Vita Leonis Magni.], che i Vandali portassero rispetto alle tre primarie basiliche di Roma, e non ne asportassero i sacri vasi: intorno a che è di dire che non è ben chiaro quel passo. Certo è bensì che una gran quantità di sacre suppellettili con gemme e vasi di oro e d'argento, tolta alle chiese, trasportata fu in Africa da que' masnadieri. E Teofane [Theoph., in Chronogr.] aggiugne che furono del pari menati via i vasi del tempio di Gerusalemme, che Tito imperadore, dopo la presa di quella città, avea condotto a Roma. Questi poi, allorchè Belisario riacquistò l'Africa al romano imperio, [583] per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 2 cap. 9.], furono trasferiti a Costantinopoli. Si raccoglie poi da san Leone papa [Sermo LXXXI s. Leonis, in Octava Apostol.], che fu istituita una festa in Roma in ringraziamento a Dio, perchè i Barbari avessero, con andarsene, lasciata in libertà quella città. Del pari merita ben d'essere qui rammentata l'incomparabil carità di Deogratias, vescovo di Cartagine, di cui abbiam parlato di sopra, giacchè questa viene a noi descritta da Vittore Vitense [Victor Vitensis, lib. 1 de Persecut. Vandal.]. Giunsero in Africa tante migliaia di schiavi cristiani, e ne fecero la division fra loro i Vandali e i Mori, con restar separati, secondo l'uso dei Barbari, le mogli dai mariti, i figliuoli dai genitori. Immediatamente quell'uomo di Dio vendè tutti i vasi d'oro e d'argento delle chiese per liberar quei che potè dalla schiavitù, ed impetrare per gli altri che i mariti stessero colle loro consorti, e i figliuoli coi lor padri. E perchè niun luogo bastava a capire tanta moltitudine di miseri cristiani, deputò per essi le due più ampie basiliche di Fausto e delle Nuove, con letti o stramazzi da poter quivi riposare, e diede anche il cibo giornaliero a proporzione delle persone. Non pochi parimente di quegl'infelici erano caduti infermi a cagion de' disagi patiti per la navigazione, o per la crudeltà di que' Barbari. Il santo vescovo, benchè vecchio, quasi ad ogni momento li visitava insieme coi medici, e coi cibi, perchè, secondo l'ordine di essi medici, a cadauno in sua presenza venisse somministrato il bisognevole. E non restava neppur la notte di far questo esercizio il pio prelato a guisa d'una amorevolissima balia, correndo a letto per letto, e interrogando come si portava ciascuno di quei poveri malati. Miravano con occhio livido i Vandali ariani la mirabile carità di questo vescovo cattolico, e varie volte mancò poco che sotto varii pretesti non l'uccidessero. [584] Ma Iddio volle per sè da lì a qualche tempo quest'insigne operaio della sua vigna, con tal dolore de' cattolici di Cartagine, che allora maggiormente si credettero dati in mano ai Barbari, quando egli passò al cielo. Tre anni soli durò il suo vescovato, ma ne durerà presso i fedeli la memoria nel Martirologio romano a dì 22 di marzo.

Fioriva in questi tempi con gran riputazione nelle Gallie Avito, nominato più volte di sopra, di nobilissima casa della provincia d'Auvergne, come scrisse Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap 11.]. Dianzi era con lode intervenuto a varie battaglie; aveva esercitata la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, ed ultimamente, mentre egli si godeva la sua quiete in villa, Massimo Augusto, conoscente non meno del di lui merito che della probità e valore, l'avea dichiarato generale dell'esercito romano in quelle parti. E ben ve n'era bisogno, perchè i Visigoti, i Franchi ed altri popoli, udita la morte di Valentiniano, cominciavano a far movimenti di guerra. Nè solamente gli conferì Massimo questa dignità, ma gli ordinò soprattutto di stabilir la pace con Teoderico II re de' Visigoti. A tale effetto avendo Avito mandato avanti Messiano patrizio a parlare col re, anche egli appresso passò a Tolosa, e quivi intavolò la pace desiderata. Quando ecco giugnere nello stesso tempo la nuova che Massimo imperadore era stato tagliato in brani dal popolo e da' soldati, e che Genserico, entrato in Roma, avea quivi lasciata la briglia alla sua crudeltà. Allora gli uffiziali romani, e il medesimo re Teoderico, consigliarono a gara Avito di prendere le redini dell'imperio, giacchè il trono imperiale era voto, nè si facea torto ad alcuno; e in Roma allora altro non v'era che pianto e miseria. Gli promise Teoderico, oltre alla pace, anche l'assistenza sua per liberare l'afflitta città, e far vendetta di Genserico. Se crediamo ad Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Aviti.], marito [585] d'una figliuola d'Avito stesso, egli ripugnò non poco ad accettar questa splendidissima offerta, e fecesi molto pregare; ma Gregorio Turonese [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 11.] pretende che egli stesso si procurasse un sì maestoso impiego. In Tolosa dunque fu conchiusa la di lui assunzione al trono cesareo; ed essendo egli poi venuto ad Arles, luogo di sua residenza, in essa città col consentimento dell'esercito e de' popoli fu compiuta la funzione, con esser egli proclamato imperadore Augusto, e col prendere la porpora e il diadema. Credesi che ciò seguisse nel dì 10 di luglio. Da una iscrizione riferita dal padre Sirmondo [Sirmondus, in Notis ad Panegyr. Aviti.] possiamo raccogliere che questo imperadore portasse il nome di Eparchio Avito. In una sola medaglia riferita dal Goltzio [Goltzius, Numism.] e dal Mezzabarba [Mediob., Numismat. Imp.], esso viene intitolato D. N. FLAVIVS MAECILIVS AVITVS P. F. AVG; ma non tutte le medaglie pubblicate dal Goltzio portarono l'autentica con loro, e senz'altro pruove, la sua non è qui decisiva. Marciano Augusto in quest'anno si mostrò favorevole al clero, ordinando [L. Generali I Lege, Cod. Justinian. de episc. et cleric.] che fosse lecito alle vedove, diaconesse e monache di lasciare nell'ultima volontà ciò che loro piacesse, alle chiese, ai cherici e monaci: il che prima era vietato per una legge di Valentiniano, Valente e Graziano, a cagion d'alcuni che frequentavano troppo e con troppa avidità le case d'esse femmine sotto pretesto di religione. Può anche appartenere al presente anno ciò che vien raccontato da Prisco storico [Priscus, tom. 1 Histor. Byzant., pag. 73.] di questi tempi. Cioè, ch'esso imperador Marciano, da che ebbe inteso il sacco di Roma, e che Genserico aveva condotta seco in Africa l'Augusta Eudossia colle principesse figliuole, non potendo rimediare al male già fatto, almeno spedì ambasciatori al re barbaro, comandandogli di guardarsi [586] dal più molestare l'Italia, e che rimettesse in libertà la vedova imperadrice colle figliuole. Genserico se ne rise, e rimandò i legati con buone parole, senza voler liberare quelle principesse. Dimorava tuttavia in questi tempi nella città di Gerusalemme Eudocia, ossia Atenaide, vedova di Teodosio II imperadore, e madre della suddetta Eudossia Augusta. Racconta Cirillo monaco, nella Vita di santo Eutimio abbate [Cotelerius, tom. 4 Monument. Eccl., p. 64.], che questa principessa seguitava l'eresia degli eutichiani, e per quante lettere le andassero scrivendo Valerio suo fratello (Valeriano è questi chiamato nella Cronica d'Alessandria) ed Olibrio genero di sua figliuola, perchè abbandonasse quella setta, mai non s'indusse a cangiar sentimenti. Si sa ancora che san Leone papa [Leo Magnus, ep. LXXXVIII ad Julian.] scrisse alla medesima lettere esortatorie per questo, ed altrettanto avea fatto Valentiniano III Augusto suo genero, ma sempre indarno. Giunse finalmente a lei la funesta nuova ch'esso Valentiniano era stato ucciso, e che la figliuola colle nipoti era stata condotta prigioniera in Africa: allora Eudocia, battuta da tanti flagelli, fatto ricorso ai santi Simeone Stilita ed Eutimio, ritornò alla fede cattolica, con adoperarsi dipoi acciocchè molti altri abiurassero gli errori d'Eutichete. Le parole di Cirillo suddetto ci fan conoscere vero quanto si truova scritto da Procopio [Procop., de Bell. Vandal. lib. 1, cap. 5.] e da Teofane [Theoph., in Chronogr.]: cioè che Placidia, figliuola minore di Valentiniano III imperadore, condotta colla madre Eudossia e colla sorella Eudocia in Africa da Genserico, era già maritata con Olibrio nobilissimo senatore romano. Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 7 Hist. Eccl.] all'incontro chiaramente scrive che Placidia, dappoichè fu messa in libertà per ordin di Marciano Augusto, prese per marito esso Olibrio, fuggito a Costantinopoli dopo la entrata de' Vandali in Roma. Ma qui [587] l'autorità di Evagrio, benchè seguitata dal Du-Cange [Du-Cange, Famil. Byzant.], ha poco peso; perciocchè Placidia solamente dopo la morte di Marciano imperadore fu posta in libertà. Sembra eziandio che Prisco, istorico di que' tempi, asserisca [Priscus, Hist. Byz., tom. 1, pag. 74.] seguito quel matrimonio solamente dappoichè fu restituita alla primiera libertà questa principessa, con dire ἥν ἐγεγαμἠκει Ὀλίβιρος, cioè, secondo la versione latina del Cantoclaro, quam duxit Olibrius; ma si dovea più giustamente traslatare quam duxerat Olibrius.


   
Anno di Cristo CDLVI. Indizione IX.
Leone papa 17.
Marciano imperadore 7.
Avito imperadore 2.

Consoli in Oriente Varane e Giovanni.

Console in Occidente Eparchio Avito Augusto.

Non per anche dovea Marciano Augusto avere riconosciuto Avito per imperadore, e però egli solo creò i consoli in Oriente. Ma infallibilmente sappiamo che Avito, già dichiarato Augusto, ed accettato per tale dal senato romano, anzi invitato da esso a Roma, prese il consolato di quest'anno in Occidente. Abbiamo qualche iscrizione in testimonianza di ciò, che si legge anche nella mia Raccolta [Thes. novus Inscript.]. E soprattutto resta il panegirico recitato in Roma per tale occasione in onore d'Avito da Apollinare Sidonio, celebre scrittore di questi tempi [Sidon., in Panegyr. Aviti.]. Il Relando [Reland., Fast. Cons.], che differisce all'anno susseguente il consolato d'Avito, non ha ben fatto mente che in questo medesimo anno Avito precipitò dal trono. Venuto egli dunque a Roma, spedì, per attestato d'Idacio [Idacius, in Chron.], i suoi ambasciatori (fors'anche gli avea spediti prima) a Marciano imperadore d'Oriente; e, secondochè scrive il medesimo [588] storico, fu approvata la sua elezione. Ma perciocchè gli Svevi, che signoreggiavano nelle provincie occidentali della Spagna, mostravano gran voglia di far dei movimenti, anzi infestavano la provincia di Cartagena, Avito ad essi ancora inviò per ambasciatore Frontone conte, e pregò Teoderico II re de' Visigoti che anch'egli, siccome suo collegato, mandasse un'ambasceria a que' Barbari per indurli a conservar la pace giurata colle provincie che restavano in Ispagna all'imperio romano. Andarono gli ambasciatori, ma non riportarono se non delle negative da quegli alteri. E Rechiario re d'essi Svevi, che Riciario è appellato da Giordano storico, per far ben conoscere qual rispetto egli professava ai Romani e Goti, corse a far dei gran danni nella provincia tarraconense. Questo fu il frutto delle premure dell'imperadore Avito e di Teoderico re de' Visigoti. Oltre a ciò, racconta Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Histor. Byz., pag. 73.] che Avito imperadore mandò in Africa altri ambasciatori ad intimare a Genserico re dei Vandali l'osservanza dei patti stabiliti un pezzo fa coll'imperio romano; perchè altrimenti gli muoverebbe guerra colle milizie romane e de' suoi collegati. Marciano Augusto probabilmente in questo medesimo anno, giacchè nulla avea fruttato la spedizione precedente, inviò di nuovo ad esso re Bleda, vescovo ariano, cioè della setta degli stessi Vandali, per dimandare la libertà delle principesse auguste e la conservazione della pace. Bleda parlò alto, minacciò, ma nulla potè ottenere. Anzi Genserico, più orgoglioso che mai, seguitò in Africa a perseguitare i cattolici, come a lungo racconta Vittore Vitense. Inoltre, per relazione del suddetto storico Prisco, con una numerosa flotta d'armati andò a sbarcare di nuovo nella Sicilia e ne' vicini luoghi d'Italia, con lasciar la desolazione dovunque arrivò. Procopio anch'egli attesta che Genserico, dopo la morte di Valentiniano, non lasciò passar anno che non infestasse la Sicilia e l'Italia con prede incredibili, [589] rovine delle città e prigionia de' popoli. Aggiugne Vittore Vitense [Victor Vitensis, lib. 1, cap. 17 de persecut.] che questo re divenuto corsaro coi Mori antichi corsari, afflisse in varii tempi la Spagna, l'Italia, la Dalmazia, la Campania, la Calabria, la Puglia, la Sicilia, la Sardegna, i Bruzii, la Venezia, la Lucania, il vecchio Epiro e la Grecia, con perseguitare dappertutto i cattolici, e farvi de' martiri. La menzione che questo scrittore fa della Campania dà credito al racconto dell'autore della Miscella, riferito da me all'anno precedente intorno all'eccidio di Capoa e Nola, e al passaggio in Africa di san Paolino juniore vescovo di Nola. Vengono ancora confermate le scorrerie di questo re crudele dal poco fa mentovato Idacio, scrivendo egli che essendo capitate cinquantanove navi cariche di Vandali da Cartagine nella Gallia, o pur nell'Italia, spedito per ordine di Avito imperadore contra coloro Recimere conte suo generale, gli riuscì di tagliarli a pezzi. Soggiugne che un'altra gran moltitudine di que' Barbari nella Corsica era stata messa a filo di spada.

Vedendo intanto Teoderico II re dei Visigoti che gli Svevi signoreggianti nella Gallicia niun conto aveano fatto degli ambasciatori loro spediti, secondochè si ha da Idacio [Idacius, in Chron.] e da Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 44.], tornò ad inviarne loro degli altri, nè questi ebbero miglior fortuna. Anzi poco dopo Rechiario re d'essi Svevi con grosso esercito ritornò addosso alla provincia tarraconense, e ne condusse via un immenso bottino con gran numero di prigioni. Giordano aggiugne aver risposto l'altero Rechiario a Teoderico, che se non la dismetteva di mormorare di lui, sarebbe venuto fino a Tolosa, e si sarebbe veduto se i Goti avessero forze da resistergli. Allora Teoderico perdè la pazienza, e, per ordine dello stesso Avito Augusto, allestito un poderoso esercito di Goti, dall'Aquitania [590] passò in Ispagna, per fare un'ambasciata di maggior vigore a que' Barbari. Seco andarono Giudiaco, ossia Chilperico re de' Borgognoni, colle lor soldatesche. Dodici miglia lungi da Astorga, oggidì città del regno di Leone, si trovò a fronte d'essi il re degli Svevi Rechiario col nervo maggiore delle sue genti presso il fiume Urbico nel quinto giorno di ottobre. Fecesi un sanguinoso fatto di arme; furono totalmente sconfitti gli Svevi, il re loro ferito potè per allora mettersi colla fuga in salvo. Giunto poscia il vittorioso Teoderico alla città di Braga, nel dì 28 d'ottobre, la prese, la diede a sacco, fece prigione gran quantità di Romani, non fu perdonato nè alle chiese nè al clero; insomma tutto fu orrore e crudeltà. Trovandosi poi esso re nel luogo Portucale, onde è venuto il nome di Portogallo, gli fu condotto prigione il re suddetto Rechiario, il quale si era messo in una nave fuggendo, ma da una tempesta di mare fu menato in braccio ai Visigoti. Ancorchè fosse cognato di Teoderico, da lì a qualche tempo restò privato di vita. Allora Teoderico diede per capo agli Svevi, che s'erano sottomessi a lui, Aiulfo suo cliente, e dipoi passò dalla Gallicia nella Lusitania. Ma questo Aiulfo non istette molto che, sedotto dagli Svevi, alzò la testa contra del suo benefattore; e male per lui, perchè venuto alle mani con Teoderico, e rimasto in quella battaglia preso, lasciò la testa sopra d'un patibolo. Ottennero dipoi gli sconfitti Svevi, per mezzo de' sacerdoti, il perdono da Teoderico, ed ebbero licenza di eleggersi un capo, che fu Remismondo. In tal maniera furono gastigati gli Svevi, ma colla desolazion del paese, e senza profitto alcuno del romano imperio; perciocchè quelle provincie vennero sotto il dominio dei Visigoti. Tutto questo racconto l'abbiamo da Giordano e da Idacio; e l'ultimo d'essi riferisce questi fatti in due diversi anni, ma probabilmente non senza errore, perchè appresso narra la caduta di Avito imperadore, la qual nondimeno accadde in [591] questo medesimo anno. Il suddetto re Teoderico II vien lodato assaissimo da Apollinare Sidonio [Sidon., lib. 1, epist. 2.] per le sue belle doti.

Come poi cadesse Avito dal trono, se ne ha un solo barlume dall'antica storia, cioè solamente è a noi noto che Avito standosene in Roma, ed accortosi che quivi non era sicurezza per lui, mercè della persecuzione mossa contra di lui da Ricimere, si ritirò come fuggitivo a Piacenza. Dopo la morte d'Aezio, era stato conferito a questo Ricimere il grado di generale delle armate cesaree. In una iscrizione rapportata dall'Aringhi [Aringhius, Rom. Subterran., lib. 4, cap. 7.] egli è chiamato Flavio Ricimere. Ennodio [Ennodius, in Vita s. Epiphanii.] ci rappresenta costui di nazione Goto. Ma è più da credere ad Apollinare Sidonio, autore contemporaneo ed amico d'esso Ricimere, allorchè attesta che egli era nato di padre svevo e di madre gota, e nipote di Vallia re d'essi Goti o, vogliam dire, Visigoti. Questi Barbari, sollevati ai gradi più insigni dell'imperio romano, contribuirono non poco alla rovina d'esso imperio. Se s'ha da prestar fede a Gregorio Turonense [Gregor. Turon., lib. 2, cap. 11 Hist. Franc.], Avito, perchè lussuriosamente vivea, fu abbattuto dai senatori. Quum romanum ambisset imperium luxuriose agere volens, a senatoribus projectus. Però da Fredegario, nel Compendio [Fredegar., Hist. Franc. Epitom., cap. 7 et 10.] del Turonese, Avito vien chiamato imperator luxuriosus. Inoltre egli racconta, che avendo Avito, già divenuto imperadore, finto di essere malato, e dato ordine che le senatrici il visitassero, usò violenza alla moglie di un certo Lucio senatore, il quale, in vendetta di questo affronto, fu cagione che i Franchi prendessero e consegnassero alle fiamme la città di Treveri. Ma si può ben sospettare che queste sieno fole e ciarle inventate da chi gli volea male. In quei pochi mesi che Avito tenne l'imperio, dimorò [592] in Arles, da cui è ben lungi Treveri, e di là poscia passò a Roma. Il gran peso ch'egli prese sulle spalle, gli dovea ben allora lasciar pensare ad altro che a sforzar donne; e massimamente non essendo allora egli uno sfrenato giovane, ma con molti anni addosso, giacchè sappiamo da Sidonio che fin l'anno 421 egli fu dalla sua patria spedito ambasciatore ad Onorio e Costanzo Augusti. Oltre di che, sembra ben poco credibile l'ordine che si suppone dato da lui d'essere visitato dalle senatoresse nella finta infermità. E quando sia vero che Avito, dopo aver deposto l'imperio, fosse creato vescovo di Piacenza, tanto più si intenderebbe che egli non dovea essere quale vien dipinto dal Turonense e dal suo abbreviatore, perchè lo zelantissimo papa san Leone non avrebbe permesso che fosse assunto a tal grado chi fosse pubblicamente macchiato d'adulterii e di scandali. Perciò parmi più meritevol di fede Vittore Turonense [Victor Turonensis, in Chron.], che ci rappresenta Avito per un buon uomo, con iscrivere: Avitus, vir totius simplicitatis, in Galliis imperium sumit. In somma Avito, benchè venuto a Roma e accettato da' Romani, non tardò molto ad esserne odiato, se pur tutta la sua disgrazia non fu il trovarsi egli poco in grazia di Ricimere general delle armate, la cui prepotenza cominciò allora a farsi sentire, e crebbe poi maggiormente da lì innanzi, siccome vedremo. Avito adunque, scorgendo vacillante il suo trono, perchè, siccome notò Idacio [Idacius, in Chron.], s'era egli fidato dell'aiuto a lui promesso dai Goti impegnati nelle conquiste in Ispagna, nol potevano punto assistere: Avito, dissi, si ritirò da Roma, e giunto a Piacenza, quivi depose la porpora e rinunziò all'imperio.

Perciocchè si trovò allora vacante il vescovato di quella città, per maggiormente accertare il mondo che la sua rinunzia era immutabile, prese gli ordini [593] sacri, e fu creato vescovo di essa città di Piacenza. Di questo suo passaggio abbiamo per testimoni Mario Aventicense [Marius Aventicens.] e l'autore della Miscella [Histor. Miscella, lib. 15.]. Vittor Turonense [Victor Turonensis, in Chron.] scrive anch'egli che Ricimere patrizio superò Avito, e perdonando alla di lui innocenza, il fece vescovo di Piacenza. Parole che ci fanno abbastanza intendere che Avito per forza fu indotto a deporre il comando, e ch'egli non doveva essere quel tristo che fu pubblicato da Gregorio Turonense, e molto più da Fredegario. Il Cronologo pubblicato da Cuspiniano [Chronologus apud Cuspinianum.] scrive che nel dì 17 di maggio (del presente anno) Avito fu preso in Piacenza dal generale Ricimere, e che restò ucciso Messiano suo patrizio. Aggiugne che Remisco, patrizio anch'esso, trucidato fu nel palazzo di Classe, cioè fuor di Ravenna, nel dì 17 di settembre. Bisogna dunque che in Piacenza colto Avito da Ricimere si accomodasse alla di lui violenza, e si contentasse di mutar la corona cesarea in una mitra. Ma poca durata ebbe il di lui vescovato; perciocchè, secondo Gregorio Turonense [Gregor. Turon., lib. 2, cap. 11.], avendo egli scoperto che il senato romano tuttavia sdegnato contra di lui, meditava di levargli la vita, prese la fuga, e, passato nelle Gallie, voleva ritirarsi nell'Auvergne sua patria; ma nell'andare alla basilica di san Giuliano presso Brivate (oggidì Brioude) con assaissimi doni, cadde malato per istrada, e terminò i suoi giorni. Fu egli poscia seppellito nella basilica suddetta. Anche Idacio scrive che mentre Teoderico re dei Visigoti dimorava nella Gallicia, gli fu portata la nuova che Avito dall'Italia era giunto ad Arles. Poca fede prestiamo ad Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 7.], allorchè dice rapito Avito dalla peste, e meno a Niceforo [Niceph., lib. 15, cap. 11.], che il fa morto di fame. [594] Conviene bensì ascoltar Teofane [Theoph., in Chronogr.], che sotto quest'anno ci fa sapere, che la città di Ravenna fu consumata dal fuoco, e da lì a pochi giorni Ramito patrizio (appellato Ramisco, siccome abbiam veduto, dal Cronografo del Cuspiniano) fu ucciso appresso Classe, e che deciotto giorni dopo restò superato Avito da Remico (vuol dire Ricimere), e che creato vescovo della città di Piacenza, essendo passato nelle Gallie, quivi diede fine ai suoi giorni. Dieci mesi e mezzo restò poi vacante l'imperio, nel qual tempo, per attestato di Cedreno [Cedren., in Histor.], senza titolo d'imperadore Ricimere la fece da imperadore, governando egli a bacchetta la repubblica. Abbiamo da Mario Aventicense [Marius Aventicens.], sotto quest'anno, che i Borgognoni, parte de' quali era passata in Ispagna, unita a Teodorico II re de' Visigoti, giacchè i Goti erano impegnati contro gli Svevi nella Gallicia, e scarso era l'esercito romano nelle Gallie, occuparono alcune provincie d'esse Gallie, cioè le vicine alla Savoia, e divisero le terre coi senatori di quei paesi. Mancò di vita in quest'anno Meroveo re de' Franchi; ed ebbe per successore Childerico [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 12.] suo figliuolo, il quale, perchè cominciò a far violenza alle fanciulle, incorso nello sdegno del popolo, fu stretto a mutar aria, e a rifugiarsi appresso Bisino re della Toringia. Era stato creato generale dell'armata romana nelle Gallie un certo Egidio. Seppe questi col tempo farsi cotanto amare e stimare dai Franchi, che l'elessero per loro re. Stima il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], ed han creduto lo stesso altri moderni, che nel presente anno essi Franchi mettessero il piè stabilmente nelle Gallie, ma ciò non sussiste. Seguitarono essi a dimorare di là dal Reno, finchè, siccome diremo, riuscì loro di cominciar le conquiste nel paese delle Gallie.


[595]

   
Anno di Cristo CDLVII. Indizione X.
Leone papa 18.
Leone imperadore 1.
Majoriano imperadore 1.

Consoli

Flavio Costantino e Rufo.

Era giunto Marciano Augusto all'età di settantacinque anni, quando sul fine di gennaio dell'anno presente gli convenne pagare il tributo, a cui è tenuto ogni mortale. Scrive Zonara [Zonar., Annal., lib. 14.] essere corso sospetto che morisse di veleno, fattogli dare da Aspare patrizio. Secondo Teofane [Theoph., in Chronogr.], avendo sentito con sommo dispiacere il sacco di Roma e il trasporto fatto in Africa della imperadrice e delle sue figliuole, con somma vergogna ed ingiuria dell'imperio romano, si preparava per muover guerra a Genserico. Dovette egli finalmente prendere tal risoluzione, dacchè quel re superbo si era beffato delle di lui ambasciate, e faceva peggio che mai contra tutte le contrade marittime dell'imperio. Per altro, secondochè s'ha dagli antichi storici, egli era principe mite, benigno verso tutti, di una mirabil pietà, limosiniere al maggior segno, e soprattutto amantissimo della pace. Scrive Zonara [Zonar., Annal., lib. 13.] ch'egli solea dire, che finchè si può mantener la pace, non s'ha a metter mano all'armi. Però sotto questo principe i Greci confessavano di aver goduto il secolo d'oro. Ebbe poche guerre, e ne uscì con onore. Ma questo suo animo pacifico servì non poco a rendere ogni dì più temerario ed orgoglioso il re de' Vandali Genserico, il quale, per testimonianza di Procopio [Procop., lib. 1, cap. 5, de Bell. Vand.], non mettendosi alcun fastidio di Marciano, giacchè non trovava più da far bottino nelle desolate spiaggie dell'Italia e Sicilia, volò in fine a saccheggiar anche l'Illirico, il Peloponneso, cioè la Morea, [596] ed una parte della Grecia, paesi spettanti all'imperio di Oriente. Secondo la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], Marciano favoriva non poco la fazione veneta, che usava il colore azzurro ne' giuochi circensi, non solo in Costantinopoli, ma dappertutto. Ora avendo la fazione prasina, che portava il color verde, eccitato un giorno un tumulto, egli pubblicò un editto, con cui vietò per tre anni a qualunque di essa fazion prasina il poter avere posti onorevoli e l'essere arrolati nella milizia. Poscia nel dì 7 di febbraio fu eletto imperadore d'Oriente Flavio Leone, uomo di singolar valore e pietà, talchè si meritò poi il titolo di magno, ossia grande. A salire al trono gli fu di molto aiuto il gran credito e poter di Aspare patrizio nel senato di Costantinopoli e nell'esercito. Non riuscì ad esso Aspare con tutti i suoi maneggi d'ottenere per sè la corona, perchè era di setta ariana, e però si rivolse a promuovere una sua creatura. Tale era Leone, che alcuni dicono nato nella Tracia, ed altri nella Dacia Illirica [Cedren., in Histor.], uomo gentile di corpo, con poca barba, senza lettere, ma fornito di una rara prudenza. Era tribuno e duca del presidio militare di Selibria. Ma Aspare gli volle vendere i suoi voti, con farsi promettere che, divenuto imperadore, avrebbe dichiarato Cesare uno de' suoi figliuoli, probabilmente Ardaburio. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], fidatosi qui di Niceforo, pensa che Ardaburio, nominato in quei tempi insieme con Aspare, fosse il padre dello stesso Aspare, e quel medesimo che fece gran figura sotto Teodosio II Augusto, siccome abbiam veduto. La verità è che Ardaburio patrizio, mentovato nei tempi di Leone imperadore, fu nipote del primo, e figliuolo d'Aspare. Abbiamo da Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Hist. Byz., pag. 40.], il quale non potè essere veduto dal Baronio, che Ardaburio figliuolo di Aspare, mentre regnava Marciano, [597] sconfisse i Saraceni presso Damasco. Leone promise quanto volle Aspare, e, proclamato imperadore dal senato e dall'esercito, fu coronato da Anatolio patriarca di Costantinopoli.

Succedette in quest'anno un grande sconvolgimento nella Chiesa d'Alessandria di Egitto, diffusamente descritto da Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 8], da Teodoro lettore [Theodor. Lector, lib. 1.] e da Liberato diacono [Liberatus Diacon., in Breviar., cap. 15.]. I fautori de' già morti eretici Eutichete e Dioscoro, moltissimi tuttavia di numero in quella gran città, elessero Timoteo Eluro per patriarca, uomo perfido ed iniquo. Poscia nel giovedì santo preso san Proterio, vero e santo patriarca di essa città, crudelmente l'uccisero. La vita di questo insigne prelato si legge negli atti de' santi d'Anversa, tessuta dal padre Enschenio della Compagnia di Gesù; e questo scrittore si maraviglia come il cardinal Baronio, panegerista anch'egli de' meriti di questo santo, non l'abbia inserito nel Martirologio romano. Questo accidente diede molto che fare a san Leone papa e a Leone imperadore, siccome apparisce da quanto ha raccolto il suddetto cardinal Baronio. Era già stato vacante l'imperio di Occidente dieci mesi e mezzo, quando finalmente fu creato imperadore Majoriano di consentimento di Leone Augusto, per aspettar il quale si differì l'elezione. Il Cronologo pubblicato dal Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.] scrive che Ricimere generale delle milizie fu creato patrizio nel dì 28 di febbraio. Che Majoriano nello stesso giorno ottenne esso generalato, e poscia nel dì primo di aprile del presente anno fu creato imperadore alla campagna fuori della città alle Colonnette. Secondo la vecchia edizione della Miscella, egli fu eletto in Roma; ma, secondo la mia, in Ravenna; e quest'ultima a me sembra il vero per quanto vedremo. Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Majorian.] attesta ch'egli fu concordemente. [598] eletto dal senato, dalla plebe e dall'esercito. Nelle medaglie presso il Du-Cange [Du-Cange, Famil. Byz.] si vede nominato D. N. IVLIUS MAIORIANVS P. F. AVG. Dal padre Sirmondo vien chiamato Giulio Valerio Maioriano. Certo se gli dee aggiugnere il nome della famiglia Flavia, perchè da Costantino il Grande e da Costanzo suo padre in qua, tutti gl'imperadori si gloriarono di questo nome; e i privati ancora sel procuravano per privilegio. Avea questo personaggio militato nelle Gallie sotto Aezio contra de' Franchi nell'anno 445. Odiato dalla moglie d'esso Aezio, fu licenziato dalle milizie, e questa disavventura, dappoichè trucidato fu Aezio, servì a Majoriano di merito per alzarsi appresso Valentiniano III Augusto. Secondochè scrive Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.], anch'egli con Ricimere general delle milizie si adoperò forte per la depression d'Avito imperadore. Appena ebbe egli, siccome abbiam detto, ottenuto il generalato dell'armi, che spedì Burcone, uno de' primarii uffiziali contra gli Alamanni, che aveano fatto una scorreria nella Rezia, vicino all'Italia, e gli sconfisse. Fatto poi imperadore, diede principio al suo governo con un'altra vittoria. Secondo il solito anche nell'anno presente venne l'armata navale di Genserico re de' Vandali condotta da suo cognato a radere quel poco che restava nelle tante volte spogliata Campania verso la sboccatura in mare del fiume Volturno. Accorsero le soldatesche romane, e diedero a que' Barbari una rotta con farne molti prigioni, e levar loro la preda che già menavano alle lor navi. Apollinare Sidonio è quegli che descrive, e poeticamente ingrandisce questa vittoria. Nell'anno presente ancora, secondochè scrive Teofane [Theoph., in Chronogr.], seguitato dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], il re Genserico finalmente s'indusse a lasciare in libertà la imperadrice Eudossia, vedova di Valentiniano [599] III Augusto, e Placidia sua minor figliuola; ma dopo avere anch'egli indotta Eudocia, figliuola maggiore d'essa imperadrice, a prendere per marito Unnerico suo primogenito. Abbiamo da Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 5.] che, ad istanza di Leone imperadore d'Oriente, il re barbaro condiscese a rilasciar queste due principesse, le quali furono condotte a Costantinopoli. Ma abbiamo motivo di credere che questo affare passasse molto più tardi, e però rivedremo questa partita più abbasso. Leggonsi poi nel Codice di Giustiniano due leggi [L. 8 et 9, Cod. de Haeret.] date contro gli eretici sotto questo medesimo anno Idibus augusti in Costantinopoli, ma amendue fallate nel titolo. Nella prima v'ha Impp. Valentinianus et Marcianus Augusti, Palladio prefecto Praetorii. La seconda Imp. Marcianus. Col dì 15 d'agosto non si accorda Marciano, perchè allora regnava Leone; e molto men vi s'accorda Valentiniano, che era stato tolto di vita nell'anno 455.


   
Anno di Cristo CDLVIII. Indizione XI.
Leone papa 19.
Leone imperadore 2.
Majoriano imperadore 2.

Consoli

Flavio Leone Augusto e Flavio Majoriano Augusto.

Fra le novelle leggi di Majoriano Augusto, una [Tom. 6, Cod. Theod. in Append.] se ne legge, consistente in una lettera scritta da esso, mentre era in Ravenna, al senato romano, a dì 13 di gennaio, e data Majoriano Augusto console, perchè non era per anche giunta da Costantinopoli la notizia del console orientale, che fu lo stesso Leone Augusto. Quivi rammenta d'essere stato alzato al trono imperiale dal concorde volere del medesimo senato e dell'esercito. Fa loro sapere il consolato da sè preso nelle calende di gennaio; e l'attenzione ch'egli [600] avea con Ricimere patrizio per far rifiorire l'esercito. Però, siccome dissi poco dianzi, e l'elezione ed esaltazione sua dovette seguire non in Roma, ma bensì in Ravenna. Dice inoltre d'aver liberato l'imperio colla buona guardia dai nemici esterni e dalle stragi domestiche. Promette buon trattamento ai Romani e gran cose in benefizio del pubblico. Con altra legge ordinò egli che ogni città eleggesse uomini savii e dabbene per difensori, i quali facessero osservare i privilegi, senza che la gente fosse obbligata a ricorrere al principe. Rimise in un'altra i tributi non pagati, e levò gli esattori mandati dalla corte, che facevano mille estorsioni ed aggravii al popolo, volendo che spettasse l'esazione ai giudici de' luoghi. Con altre leggi vietò il demolire i pubblici edifizii di Roma; e perchè non mancava gente che obbligava le sue figliuole vergini di buon'ora a prendere il sacro velo o contra lor voglia, o senza sapere quel che si facessero, ordinò che le vergini non si potessero consecrare a Dio prima dell'anno quarantesimo della loro età: editto che si crede procurato da san Leone papa, il quale sappiamo dalla sua vita [Anastas. Bibliothecarios, in Leone Magno.] che pubblicò un simil decreto. Altre provvisioni pel buon governo di allora si veggono espresse in altre leggi dal medesimo Majoriano, atte non poco a farci intendere ch'egli era personaggio degno di tener le redini della monarchia romana. Raccogliesi poi da Apollinare Sidonio [Sidonius, in Paneg. Majoriani.], che il popolo di Lione non doveva avere riconosciuto per suo signore Majoriano; e però fu necessitato esso Augusto ad adoperar la forza contra di quella città, con averla costretta alla resa. Lo stesso Sidonio quegli fu che impetrò il perdono a quei cittadini. Era tuttavia in Ravenna Majoriano a dì 6 di novembre, ciò apparendo in una sua legge. Da lì innanzi egli si mosse verso la Gallia, benchè fosse già arrivato il verno, e le Alpi si trovassero [601] cariche di nevi e di ghiacci. Arrivato a Lione, ivi fu che il suddetto Sidonio recitò in suo onore il panegirico che abbiamo tuttavia. Era stato finora tutto lo studio di questo imperadore in raunar soldati e in procurarne degli ausiliarii dai Goti, Franchi, Borgognoni ed altri popoli della Germania, per formare una possente armata, con disegno di passare in Africa contra del re Genserico, corsaro implacabile, che ogni anno veniva a portar la desolazione in qualche contrada d'Italia e delle Gallie. Sappiamo da Vittore Vitense [Victor Vitensis, lib. 1, de Persec.] che questo re barbaro, dopo la morte di Valentiniano III Augusto, ingoiò tutto il resto dell'Africa, che esso imperadore avea fin allora salvato dalla voracità di costui. Però Majoriano si era messo in pensiero di portar le sue armi colà, ma gli mancavano le navi, perciocchè s'era perduto il bell'ordine ed uso degli antichi imperadori di tener sempre in piedi diverse ben allestite armate navali, a Ravenna, al Miseno, nella Gallia, a Frejus, nel Ponto, nella Siria, nell'Egitto nell'Africa ed altrove.

Per testimonianza di Prisco storico [Priscus, pag. 42, tom 1, Hist. Byz.], Majoriano fece istanza a Leone imperador d'Oriente per aver navi atte a tale spedizione; ma perchè durava la pace tra quell'Augusto e i Vandali (il che recò un incredibil danno all'imperio d'Occidente), Leone non potè somministrargliene. Pertanto Majoriano nell'anno presente fece ogni sforzo possibile per far fabbricare navi in varie parti dell'imperio. E chi prestasse fede al suddetto Sidonio, egli era dietro a mettere insieme un'armata non minore di quella di Serse. Ma Sidonio era poeta, e a lui era lecito di dar nelle trombe, e ingrandir anche le piccole cose. Racconta Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 7, cap. 7.] (e lo riferisce a quest'anno il Sigonio), che Majoriano, uomo, dic'egli, da anteporsi a quanti imperadori fin allora aveano regnato, [602] a cagion delle tante virtù ch'egli possedeva, dopo aver preparata una considerabil flotta per condurla in Africa, si portò prima nella Liguria, ed incognito quasi ambasciatore di là passò in Africa, sotto pretesto di trattar della pace, e con essersi prima fatta tingere la bionda capigliatura, per cui sarebbe stato facilmente riconosciuto. Fu accolto con buone maniere da Genserico, e menato anche a vedere il palazzo, l'arsenale e l'armeria; ed avendo soddisfatto alla sua curiosità, se ne tornò felicemente nella Liguria con fama di attentissimo capitano, ma non d'imperadore prudente. Poscia condotta l'armata navale a Gibilterra, meditava già di sbarcare l'esercito in Africa con tanta allegria delle milizie, che tutti si tenevano in pugno la ricupera di quelle Provincie. Ma sopraggiuntagli una dissenteria, pose fine ai suoi giorni e disegni. Creda chi vuole questa ardita impresa di Majoriano. Certo è che questo buon principe non mancò di vita in quest'anno, nè morì di quel male. Per conto nulladimeno della spedizione suddetta, Cassiodoro [Cassiodorius, in Chron.] al presente anno scrive: His Consulibus Majorianus in Africam movit provinciam. Inoltre abbiamo da Prisco istorico [Priscus, pag. 42.] (ma senza ch'egli specifichi l'anno), che Majoriano con trecento navi ed un possente esercito tentò di penetrare nell'Africa. Ciò udito il re de' Vandali, gli spedì ambasciatori, esibendosi pronto a trattare ed aggiustare amichevolmente qualunque controversia che passasse fra loro. Ma che, nulla avendo potuto ottenere dal romano Augusto, mise a ferro e fuoco tutto il paese della Mauritania, dove era disposta di piombare dalla Spagna l'armata navale di Majoriano, ed avvelenò ancora le acque, non certo quelle dei fiumi. Altro non abbiamo da lui, ma abbastanza ne abbiamo per credere che non seguisse il meditato passaggio di questo imperadore in Africa, e molto meno l'assedio di [603] Cartagine. Oltre di che i tentativi di Majoriano contra di Genserico dovettero succedere più tardi, siccome vedremo; perchè certo di quest'anno egli non passò in Ispagna. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron.] che essendo Teoderico II re de' Visigoti ritornato nelle Gallie per cattive nuove che gli erano giunte, lasciò nelle Spagne una parte delle sue truppe, da cui furono messe a sacco ed incendiate le città di Astorga e di Palenza nella Gallicia. Che gli Svevi anch'essi saccheggiarono la Lusitania e presero, sotto apparenza di pace, Lisbona. Ma son confusi presso d'Idacio gli anni in questi tempi, nè si può ben accertare quando succedessero tali sconcerti.


   
Anno di Cristo CDLIX. Indizione XII.
Leone papa 20.
Leone imperadore 3.
Majoriano imperadore 3.

Consoli

Patrizio e Flavio Ricimere.

Fu console orientale Patrizio, ed era figliuolo d'Aspare patrizio, il primo mobile dopo l'imperador Leone nell'imperio d'Oriente. Ricimere patrizio fu console dell'Occidente, anch'egli potentissimo nell'occidentale imperio. Dimorava nelle Gallie Majoriano Augusto, ed abbiamo sufficiente lume da Idacio che vi fossero delle rotture fra lui e Teoderico II re de' Visigoti, abitante in Tolosa. Certo egli scrive che essendo stati battuti in un conflitto i Goti, si venne poi a concludere una pace sodissima fra loro. Il Sigonio scrive che Teoderico in questo anno portò le sue armi fino al Rodano, saccheggiando tutto il paese, e con tanta forza assediò la città di Lione, che se ne impadronì, e recò a quella illustre città la desolazione. Di ciò io non trovo vestigio alcuno presso gli antichi, se non che [604] Apollinare Sidonio racconta questa disavventura de' Lionesi con dire che ne era stato cacciato il nimico, ed essere rimasta la città senza abitatori, la campagna senza buoi e agricoltori. Si figurò, per quanto io credo, il Sigonio proceduta la calamità di Lione dai Visigoti che l'avessero presa. Ma, ben considerate le parole di Sidonio, sembra piuttosto che i Lionesi, sedotti da qualche prepotente, chiamato nemico della patria, si fossero ribellati a Majoriano Augusto, o nol volessero riconoscere per imperadore, e che perciò fu assediata e malmenata la loro città con grave esterminio; ed avendo dipoi implorato il perdono, l'ottennero per intercessione del medesimo Sidonio. Succedette quel fatto prima ch'esso Sidonio recitasse il suo panegirico; e però appartiene all'anno precedente. Intanto gli Svevi, l'una parte de' quali aveva eletto Mandra per suo re, e l'altra ubbidiva a Rechimondo, faceano a chi poteva far peggio ora nella Gallicia ed ora nella Lusitania. I Visigoti anch'essi nella Betica tenevano inquieti que' popoli, di maniera che tutta la Spagna occidentale era piena di guai. In questi tempi Leone imperador d'Oriente, non avendo alcuna guerra considerabile sulle spalle, attendeva ai doveri della religione. Crede il cardinal Baronio che egli in quest'anno facesse congregare in Costantinopoli un concilio, a cui si sa che intervennero vescovi in numero di ottantuno, per provvedere ai bisogni della Chiesa d'Oriente, tuttavia inquietata dagli eutichiani e nestoriani. Tutto ciò ad istanza di san Leone papa, che avea spediti colà Domiziano e Geminiano vescovi suoi legati, l'ultimo de' quali va conghietturando il Baronio che potesse essere vescovo di Modena, diverso da san Geminiano protettore di questa città, il quale cessò di vivere quaggiù nell'anno di Cristo 397. Era vescovo allora di Costantinopoli Gennadio. Per ordine ancora di Leone Augusto fu cacciato in esilio Timoteo Eluro, usurpatore della sedia episcopale d'Alessandria.


[605]

   
Anno di Cristo CDLX. Indizione XIII.
Leone papa 21.
Leone imperadore 4.
Majoriano imperadore 4.

Consoli

Magno ed Apollonio.

Il primo di questi consoli fu occidentale, ed è lodato da Apollinare Sidonio [Sidon., Poemate 23.]. L'altro era console dell'Oriente, ed avea esercitata la carica di prefetto del pretorio in quelle parti. Dimorava tuttavia nelle Gallie Majoriano Augusto, e dobbiamo adirarci colla storia digiuna e scarsa di quei tempi, che ci lascia troppo al buio intorno ai fatti di questo imperadore ed agli avvenimenti d'Italia. Tuttavia abbiamo da Giordano storico ch'egli mise in dovere gli Alani che infestavano esse Gallie. Poscia, sicome si ricava da Idacio [Idacius, in Chronic.] e da Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.], egli nel mese di maggio passò in Ispagna colla risoluzione accennata di sopra, di portar la guerra in Africa contra dell'insopportabile Genserico re de' Vandali. Aveva egli preparate nelle spiagge di Cartagena alquante navi da valersene nel medesimo passaggio. Ma ne furono segretamente avvisati i Vandali, e costoro, coll'intelligenza che aveano con alcuni traditori, all'improvviso comparvero addosso a que' legni; e trovandoli mal custoditi, se li condussero via. Questo accidente fece desistere Majoriano dalla impresa dell'Africa. Così Idacio: a cui si dee aggiugnere quanto di sopra rapportai scritto da Prisco istorico intorno ai preparamenti di questo imperadore contra di Genserico, il quale spedì ambasciatori a Majoriano per aver pace. Dal che vegniamo ad intendere che gli era almeno riuscito di fargli paura. Vittore Turonense [Victor Turonensis, in Chron.] altro non dice, se non che [606] in questi giorni Majoriano imperadore venne ad Augusta, probabilmente città della Spagna. Ci resta una legge [Cod. Theod., tom. 6, in Append., tit. 2.] pubblicata da lui nel presente anno, e data in Arles a' dì 28 di marzo, dove proibisce a chicchessia il forzare alcuno ad entrare nel clero, e a prendere gli ordini sacri, con parlare spezialmente a que' genitori che per lasciare benestanti alcuni de' lor prediletti figliuoli, violentavano gli altri ad arrolarsi nella milizia ecclesiastica. Vien parimente da esso intimata la pena della morte a chi per forza levasse di chiesa un reo colà rifugiato. Un'altra legge del medesimo Majoriano intorno agli adulterii si legge, data in Arles, ma col vizioso consolato di Ricimere e Clearco, che cadde nell'anno 384. Terminò il corso di sua vita in quest'anno Eudocia Augusta, vedova di Teodosio II imperadore. Seguì la sua morte in Gerusalemme a' dì 20 di ottobre, e prima di passare all'altro mondo, protestò solennemente alla presenza di tutti, ch'ella era innocente affatto per conto de' sospetti conceputi contra di lei dall'Augusto suo consorte in occasione del pomo donato a Paolino. Cirillo monaco nella vita di santo Eutimio [Coteler., Monument. Eccl. Graec. tom. 4.] parla con tutto onore di questa principessa, chiamandola beata, ed asserendo ch'ella avea fabbricate assaissime chiese a Cristo, e tanti monasteri e spedali di poveri e di vecchi, che si durava fatica a contarli. Niceforo [Niceph., lib. 14, cap. 50.] aggiugne ch'ella morì in età di sessantasette anni, e fu seppellita nel sontuosissimo tempio innalzato da lei in onore di Dio e memoria di santo Stefano protomartire, fuori di Gerusalemme. Lasciò dopo di sè varii libri da essa composti, cioè i sacri Centoni composti con pezzi di versi omerici, i primi otto libri del vecchio Testamento ridotti in versi, con altre simili opere, frutti non meno della pietà che dell'ingegno suo. Passò anche a miglior vita in quest'anno (se pur non [607] succedette nel seguente) l'ammirabil anacoreta san Simeone Stilita, così appellato per essere vivuto circa quaranta anni in un'alta colonna sopra un monte nella diocesi di Antiochia. In questi medesimi tempi più che mai erano afflitte in Ispagna [Idacius, in Chron.] le provincie della Gallicia e Lusitania, parte dai Visigoti e parte dagli Svevi, al re de' quali Mandra, uomo perverso, fu recisa la testa. Fra queste confusioni toccò ancora ad Idacio vescovo di Limica, o dell'Acque Flavie, nella suddetta provincia della Gallicia, e storico di questi tempi, d'essere fatto prigione da essi Svevi, con aver solamente da lì a tre mesi ricuperata la libertà. Dopo la morte di Mandra insorse gran lite fra Rechimondo e Frumario per succedere nella porzione a lui spettante del regno. Ma queste cose probabilmente avvennero nell'anno susseguente.


   
Anno di Cristo CDLXI. Indizione XIV.
Ilario papa 1.
Leone imperadore 5.
Severo imperadore 1.

Consoli

Severino e Dagalaifo.

Severino fu console per l'imperio occidentale, Dagalaifo per l'orientale. Secondo Teofane [Theoph., in Chronogr.], questi era figliuolo d'Ariobindo generale d'armata sotto Teodosio minore, e stato console nell'anno 454. Per quanto si ricava da una lettera di Apollinare [Sidon., lib. 1, ep. 11.], Majoriano Augusto era già tornato dalla Spagna nelle Gallie. Ed anche Idacio [Idacius, in Chronic.] lasciò scritto, non so se sul fine del precedente anno o nel principio del presente, ch'esso Augusto s'era messo in viaggio verso l'Italia. Ma si dovette fermare ad Arles nella Gallia, perchè Sidonio suddetto racconta d'essere intervenuto ad un solenne convito di esso imperadore in quella città, e ai giuochi [608] circensi, probabilmente celebrati per l'anno quinquennale d'esso imperadore, che ebbe principio nel primo dì d'aprile dell'anno corrente. Di là passò il buono, ma infelice Augusto in Italia, e venne a trovar la morte. Ricimere, Barbaro di nazione, ed ariano di credenza, appellato in una legge a lui indirizzata dallo stesso Majoriano, conte, generale delle armate e patrizio, quel medesimo che aveva cooperato alla di lui esaltazione, e faceva la prima figura dopo lui nell'imperio di Occidente: quegli fu che, mosso da invidia verso di un principe cattolico, e di tanto senno ed attività, attizzato anche da altre malvagie persone, congiurò con Severo patrizio per levarlo di vita. Non sì tosto fu giunto Majoriano a Tortona, che Ricimere coll'esercito sotto specie di onore venne a trovarlo; e disposte tutte le cose, per quanto s'ha dal Cronologo pubblicato dal Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.] e dal Panvinio, nel dì 2 d'agosto l'obbligò colla forza a deporre la porpora; e poscia condottolo al fiume Iria, dove al presente è Voghera, una volta Vicus Iriae, quivi nel dì 7 del medesimo mese barbaramente gli tolse la vita. Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 8.] il fa morto di dissenteria, dopo averlo sommamente lodato per le sue virtù. Ma di un male più spedito che quello della dissenteria perì questo degnissimo principe. Null'altra particolarità di questa iniqua azione ci è stata conservata dall'antica istoria. Credette il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] che la sua morte seguisse presso a Dertona città della Spagna; ma egli confuse Dertosa di Spagna con Dertona della Liguria, colonia dei Romani, oggidì chiamata Tortona. L'indegno Severo, appellato da alcuni Severiano, a segreta requisizione di cui fu commessa tanta iniquità, non usurpò già subito l'imperio. Volle probabilmente prima scandagliare l'animo di Leone imperador d'Oriente, e guadagnar i voti del senato romano, giacchè [609] non gli mancavano quei dell'esercito. Finalmente nel dì 19 di novembre dell'anno presente egli fu dichiarato imperadore in Ravenna. Idacio scrive, col consentimento del senato. Costui da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] è chiamato natione Lucanus, cioè di quella provincia che oggidì nel regno di Napoli si chiama Basilicata. Nè apparisce quai gradi illustri egli avesse fin allora goduti. Nelle medaglie [Mediobarb., Numismat. Imperat.] presso il Mezzabarba egli è chiamato D. N. LIBIUS SEVERUS P. F. AUG., e non già Vibius, come il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] ha creduto. Libius sembra detto in vece di Livius. Venne in quest'anno a mancare di vita san Leone romano pontefice, uno de' più insigni pastori che abbia avuto la Chiesa di Dio, e a cui pochi altri vanno del pari. Pontefice per le sue eminenti virtù ed azioni, pel suo infaticabil zelo in difesa della vera religione, e per la maestosa sua eloquenza, ben degno del titolo di magno, ossia di grande, che neppure l'antichità gli ha negato. Pretende il padre Pagi che la sua morte accadesse nel dì 4 di novembre; e però la festa, che ora di lui facciamo nell'undecimo giorno di aprile, riguardi una traslazione del suo sacro corpo, e non già il tempo in cui finì di vivere al mondo. Dopo sette giorni di sede vacante ebbe per successore Ilario, di nazione Sardo, che già fu inviato a Costantinopoli legato da san Leone nell'anno 449 al concilio d'Efeso, che poi terminò in uno scandaloso conciliabolo. Questi appena consecrato [Anastas., in Vit. Hilarii.] spedì le sue circolari per tutta la cristianità con quivi condannare Nestorio ed Eutichete, ed approvare i concili niceno, efesino e calcedonese, e le opere di san Leone suo antecessore. Nulla dice il cardinal Baronio intorno all'aver egli tralasciato il costantinopolitano, che pur fu universale. Così già non fece san Gregorio Magno.


[610]

   
Anno di Cristo CDLXII. Indizione XV.
Ilario papa 2.
Leone imperadore 6.
Severo imperadore 2.

Consoli

Leone Augusto per la seconda volta, Libio Severo Augusto.

Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] non mette per consoli di quest'anno, se non Leone Augusto, Leone Augusto II consule. Segno è questo che in Oriente non dovette essere approvata da esso Leone imperadore l'elezion di Severo in imperador d'Occidente; e però egli non fu riconosciuto neppure per console dagli scrittori orientali. E trovandosi in una lettera di papa Ilario, scritta nel dicembre, commemorato il solo Severo console, anco questo ci fa conoscere che egli solo prese il consolato in Italia, e ci dà qualche indicio che non dovea per anche passare buona armonia fra Leone e Severo. Sembra poi che al presente anno possa appartenere ciò che abbiamo da Prisco istorico di que' tempi [Priscus, tom. 1 Histor. Byz., pag. 42.]. Scrive egli che dopo la morte di Majoriano gli affari dell'Italia andavano alla peggio, perchè dall'un canto Genserico re de' Vandali continuamente or qua or là colle sue flotte portava l'eccidio; e dall'altro nelle Gallie era Nigidio (di lui parleremo più fondatamente nell'anno susseguente), il quale, raccolto un grande esercito di que' Galli che avevano militato sotto Majoriano, allorchè egli passò in Ispagna, minacciava all'Italia (cioè a Severo e Ricimere) il gastigo dovuto alla loro iniquità, per aver tolto sì crudelmente dal mondo l'infelice Majoriano Augusto. La buona fortuna volle che mentre egli s'accingeva a venire in Italia, i Visigoti nell'Aquitania fecero delle novità ai confini delle provincie romane, da esso Nigidio governate, ed egli fu obbligato far loro guerra, con dare un gran saggio del suo valore in varii [611] cimenti contro quei Barbari. Ora ritrovandosi in mezzo a questi danni e pericoli il senato romano, ossia Severo imperadore, fu spedito all'imperador Leone in Oriente per aver dei soccorsi; ma nulla si potè ottenere. Fu eziandio inviato Filarco per ambasciatore a Marcellino, per esortarlo a non muovere l'armi contra l'imperio d'Occidente. Questi non par diverso da quel Marcelliano, di cui parla Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 6.], con dire ch'egli era persona nobile, e familiare una volta di Aezio. Ma, ucciso che fu Aezio nell'anno 454, cominciò a negar l'ubbidienza all'imperadore, e a poco a poco formato un gran partito, e guadagnati gli animi de' popoli, aveva usurpata la signoria della Dalmazia, senza che alcuno osasse di disturbarlo, non che di dargli battaglia. Seguita a dire Procopio, che riuscì a Leone imperadore d'Oriente d'indurre questo Marcelliano, ossia Marcellino, ad assalire la Sardegna, in cui dominavano allora i Vandali. Ed in fatti egli s'impadronì di quell'isola con cacciarne quei Barbari. Ciò non potè eseguirsi se non con una poderosa flotta condotta dall'Adriatico nel Mediterraneo. Passò dipoi il sopra mentovato Filarco ambasciatore in Africa per far cessare il re Genserico da tante ostilità; ma ebbe un bel dire; gli convenne tornarsene indietro senz'alcuna buona risposta. Imperciocchè Genserico minacciò di non desistere mai dalla guerra, finchè non gli fossero consegnati i beni di Valentiniano Augusto e di Aezio, amendue già morti.

Aveva egli già ottenuto dall'imperadore d'Oriente una parte d'essi beni a nome di Eudocia, figliuola d'esso Valentiniano, ch'era maritata ad Unnerico suo figliuolo. Con tal pretensione o pretesto il re barbaro non lasciava anno che non approdasse colle sue flotte ai lidi d'Italia, e vi commettesse un mondo di mali. Aggiugne Prisco istorico [Priscus, tom. 1, Hist. Byz., pag. 74.] che Genserico non volendo più stare ai patti già fatti [612] con Majoriano imperadore (parole che indicano lui già morto) mandò un'armata di Vandali e Mori a devastar la Sicilia. E potè ben farlo, perchè Marcellino (ossia Marcelliano, di cui abbiam parlato poco fa) il quale comandava in quell'isola, e probabilmente se n'era impadronito, e forse non senza intelligenza di Leone imperadore d'Oriente, se n'era ritirato, dappoichè Ricimere gli aveva fatto desertare la maggior parte de' suoi soldati col tirarli al suo servigio, nè pareva restar sicuro dalle insidie d'esso Ricimere in Sicilia. Fu dunque (seguita a dire Prisco) inviata a Genserico un'ambasciata da Ricimere, con fargli istanza che non violasse i patti. Ed un'altra pure gli venne dall'imperadore d'Oriente con premura, perchè non molestasse l'Italia e la Sicilia, e perchè restituisse le auguste principesse. Genserico mosso da queste e da altre ambasciate a lui pervenute da più bande, finalmente si contentò di rimettere in libertà la vedova imperadrice Eudossia colla figliuola Placidia, già maritata con Olibrio senatore romano, ritenendo Eudocia, figliuola primogenita d'essa imperadrice, e divenuta moglie di Unnerico suo figliuolo. Perciò sembra più probabile che non già nell'anno 457, come vuole il padre Pagi, fondato sulla asserzion di Teofane, ma sì bene nel presente seguisse la liberazion di queste due principesse, le quali passarono a Costantinopoli. Anche Idacio [Idacius, in Chron.] storico contemporaneo scrive all'anno presente, se pure non parla del susseguente, essendo imbrogliati i numeri della sua Cronica, che Genserico rimandò a Costantinopoli la vedova di Valentiniano, delle cui figliuole l'una fu maritata con Gentone figliuolo di Genserico, e l'altra ad Olibrio senatore romano. Certo è che Gentone era figliuolo minore d'esso re Genserico. Non a lui però, ma ad Unnerico primogenito fu congiunta in matrimonio Eudocia, per attestato di tutti gli altri storici. Quel solo [613] che si può opporre, si è ciò che lo stesso Prisco [Priscus, tom. 1 Hist. Byz., pag. 76.] nel fine de' suoi Estratti racconta, con dire che Leone imperadore fece sapere a Genserico l'assunzione di Antemio all'imperio d'Occidente, con intimargli la guerra, se non lasciava in pace l'Italia, e non restituiva la libertà alle regine. Se ne tornò il messo, e riferì che Genserico, in vece di far caso di tale intimazione, faceva più vigorosamente che mai preparamenti di guerra, adducendo per iscusa che i giovani romani aveano contravvenuto ai patti. Se questo è, bisogna rimettere a qualche anno ancora più tardi la libertà renduta ad esse Auguste.


   
Anno di Cristo CDLXIII. Indizione I.
Ilario papa 3.
Leone imperadore 7.
Severo imperadore 3.

Consoli

Flavio Cecina Basilio e Viliano.

Basilio fu console per l'Occidente, e persona di singolari virtù, per le quali vien commendato da Sidonio Appollinare [Sidon., lib. 1, ep. 9.]. Ed essendo nominato egli solo in una legge di Severo imperadore, in una iscrizione riferita dal cardinal Noris e dal Fabretti, e nella lettera undecima di papa Ilario, di qua vien qualche indicio che non per anche fosse seguita buona armonia tra Leone imperadore d'Oriente e Severo imperador d'Occidente, se non che in una legge di esso imperador Leone [Tom. 6, tit. 1, in Append. Cod. Theod.], data in quest'anno, amendue i consoli si veggono nominati. Ma si osservi che nel titolo il solo Leone Augusto senza Severo fa quella legge, il che non si praticava quando gl'imperadori erano in concordia. Ed in oltre al console di chi faceva la legge si dava il primo luogo; e in essa legge vien mentovato prima Basilio. La legge suddetta di Severo [614] Augusto [L. 12, Cod. Justin. de Advocat. divers. Judicior.] ordina che le vedove abbiano da godere l'usufrutto della donazion lor fatta per cagione delle nozze dal marito, ma con rimaner salva la proprietà in favor de' figliuoli. Quali altre imprese facesse questo imperadore, nol sappiamo, si perchè la storia ci lascia in questo al buio, oppure perchè egli nulla operò che meritasse di passare ai posteri. Nel presente anno (se pur non fu nel precedente) abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron.] che Agrippino conte, nobil persona della Gallia, perchè passava nimicizia tra lui ed Egidio conte, uomo insigne, proditoriamente diede la città di Narbona sua patria a Teoderico, re de' Goti, ossia de' Visigoti, affinchè gli fossero in aiuto. Questo Egidio è quel medesimo che vedemmo di sopra all'anno 456 mentovato da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 12.], inviato da Roma nelle Gallie per generale dell'armata romana, e che si era fatto cotanto amare dai Franchi, dappoichè ebbero cacciato il re loro Childerico, che l'aveano eletto per loro re. Abbiamo veduto nel precedente anno fatta menzione da Prisco istorico di un Nigidio valoroso generale d'armata, che fece di grandi prodezze contro i Goti. Quel nome è guasto, e si dee scrivere Egidio, così esigendo i tempi e le azioni. Seguita a scrivere Idacio, che essendosi inoltrato Federico, fratello del re Teoderico II, coll'esercito dei Goti contro ad Egidio conte dell'una e dell'altra milizia, commendato dalla fama per uomo caro a Dio a cagion delle sue buone opere, restò esso Federico ucciso coi suoi in una battaglia. Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.] anch'egli ci insegna sotto il presente anno che segui un combattimento fra Egidio e i Goti, tra il fiume Ligere (oggidì la Loire) e il Ligericino, presso Orleans in cui fu morto Federico re dei Goti. Non era veramente questo Federico re, ma solamente [615] fratello di Teoderico re dei Goti. Per conto poi d'Agrippino conte, parla di lui l'autore [Rollandus, Act. Sanctor. ad diem 21 martii.] della vita di san Lupicino abate del monistero di Giura nella Borgogna, con dire che Egidio generale dell'armi romane nella Gallia maliziosamente lo screditò come traditore, e l'inviò a Roma, dove fu condannato a morte. Ma per miracolo fu liberato, ed assoluto se ne tornò nella Gallia. Se ciò è vero, non era già Egidio quell'uomo sì dabbene, che Idacio poco fa ci rappresentò. A quest'anno riferisce il Baronio [Baron., Annal. Eccl.] il concilio II arausicano (d'Oranges) tenuto da moltissimi santi vescovi delle Gallie, e celebre per la condanna dei semipelagiani: ma esso appartiene all'anno 529, come hanno già osservato il cardinal Noris [Noris, Hist. Pelagian., cap. 2, cap. 23.] ed altri eruditi. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] nel presente anno fa menzione onorevole di san Prospero d'Aquitania non già vescovo di Ries nella Gallia, nè di Reggio in Lombardia, ma probabilmente prete, che doveva essere tuttavia vivente, scrittore riguardevole della Chiesa di Dio. Correa voce allora che egli avesse servito di segretario delle lettere a san Leone papa. Fiorì in questi medesimi tempi Vittorio d'Aquitania, prete anch'esso che non inverisimilmente vien creduto aggregato al clero romano, da cui formato un ciclo famoso d'anni 532, portò opinione il suddetto cardinal Baronio, che questo ciclo fosse composto in quest'anno ad istanza d'Illario papa; ma, secondochè hanno avvertito il Bucherio, l'Antemio, il Pagi ed altri, fu esso fabbricato nell'anno 457 a requisizione di san Leone papa, mentre era tuttavia arcidiacono della Chiesa romana Ilario, che fu poi papa.


[616]

   
Anno di Cristo CDLXIV. Indizione II.
Ilario papa 4.
Leone imperadore 8.
Severo imperadore 4.

Consoli

Rustico e Flavio Anicio Olibrio.

Olibrio, che in quest'anno fu console, quel medesimo è che fu marito di Placidia figliuola di Valentiniano II imperadore; e lui ancora vedremo fra poco imperadore d'Occidente. Crede il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che amenduni questi consoli fossero dichiarati tali in Oriente, e può stare; perchè in fine Olibrio era senatore romano, quantunque dopo il sacco dato a Roma da Genserico egli si fosse ritirato a Costantinopoli. Non sarebbe nondimeno inverisimile, ch'egli se ne fosse prima di ora ritornato a Roma anche per solennizzare il suo consolato. Abbiamo vari autori, cioè Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.], Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] e il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspin.], i quali attestano che nel presente anno Beorgor re degli Alani, credendosi di far qualche grosso bottino o conquista, calò dalle Gallie in Italia con un poderoso esercito. Ma gli fu alla vita Ricimere patrizio e generale dell'armi romane, e non già re, come ha il testo di Marcellino, ed avendolo colto presso a Bergamo al piè del monte, sbaragliò la sua gente; e in tal conflitto vi lasciò la vita lo stesso re barbaro. Giordano istorico [Jordan., de Reb. Get., cap. 45.] rapporta questo fatto ai tempi d'Antemio imperadore, cioè al 467. Da lì innanzi non fecero più figura gli Alani, e pare che mancasse con questo re il regno loro. Dicemmo disopra all'anno 456 che Childerico re de' Franchi, venuto in odio al suo popolo per le violenze della sua disonestà, fu forzato a fuggirsene nella Toringia. Secondochè s'ha da Gregorio [617] Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 12.], avea egli lasciato Viomado, persona fedele, che procurasse di raddolcire gli animi de' Franchi, i quali poco dopo presero per loro re Egidio [Gesta Reg. Franc., tom. 1 Du-Chesne.] conte, generale de' Romani nelle Gallie, mentovato all'anno precedente. Questo Viomado con dare a Childerico la metà d'una moneta tagliata per mezzo, gli disse di non tornar prima, se non gli era recata l'altra metà per ordine suo. E così avvenne dopo otto anni d'esilio. Viomado consigliò ad Egidio cose che il misero in disgrazia del popolo; ed allora spedì a Childerico la consaputa mezza moneta, con cui gli fece intendere la buona disposizione dei suoi popoli. Pertanto egli comparve fra loro, e fu da una parte d'essi ben accolto e rimesso in trono. Egidio conte tenne saldo finchè potè, e seguinne guerra fra loro, nella quale egli restò in fine perditore, e gli convenne ritirarsi. Vittore Tunonense [Victor Turonensis, in Chron.] mette in quest'anno la morte di Genserico re de' Vandali; ma questa succedette molti anni dipoi.


   
Anno di Cristo CDLXV. Indizione III.
Ilario papa 5.
Leone imperadore 9.
Severo imperadore 5.

Consoli

Flavio Basilisco ed Ermenerico.

Amendue questi consoli furono creati da Leone imperadore d'Oriente: Basilisco perchè era fratello di Verina imperadrice, moglie d'esso Leone, uomo che divenne poi famoso per le sue iniquità; Ermenerico era figliuolo d'Aspare patrizio e generale delle armi in Oriente, colla cui spada vedemmo che Leone era salito all'imperio. In quest'anno nel dì primo di settembre, o pur nel secondo, per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] e dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.], succedette uno [618] spaventoso incendio in Costantinopoli. Nella Vita di san Daniele Stilita [Apud Surium ad diem 11 decembris.] si racconta, che il fuoco prese e consumò la maggior parte dell'augusta città, con durar sette giorni, e ridurre in una massa di pietre infinite case, palagi e chiese. Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 13.] ci dipinge anche più grande quest'eccidio. Bisogna credere che le case fossero la maggior parte di legno, come dicono che son tuttavia, per la poca comodità che è in quelle parti, di materiali da fabbricare. E però Zenone successor di Leone ordinò poi che le case nuove si facessero in isola, con lasciar dodici piedi di spazio tra l'una e l'altra: il che tuttavia si suol praticare da molti Turchi non tanto per magnificenza, quanto per difendersi dagli incendii. Abbiamo inoltre da Idacio [Idacius, in Chron.] sotto il presente anno (se pure non fu nel precedente), che, secondo il suo costume, l'armata navale di Genserico re de' Vandali passò dall'Africa in Sicilia a farvi i soliti saccheggi. Ma per buona ventura si trovò ritornato al governo di quell'isola Marcellino, ossia Marcelliano, uomo valoroso, del quale abbiamo parlato di sopra. Questi sì coraggiosamente con quelle milizie che potè raccogliere fece testa a quei Barbari, che, dopo averne messi non pochi a fil di spada, il rimanente fu costretto a mettere la sua salvezza nella fuga. Intanto Severo imperadore, dopo aver regnato quasi quattro anni, nel dì 15 d'agosto diede fine ai suoi giorni e al suo imperio, secondo la testimonianza della Cronica pubblicata dal Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.] e dal Panvinio; e ciò vien confermato da Idacio, da Marcellino conte e da altri scrittori. Giordano [Jordan., de Regnor. success.] istorico il tratta da tiranno. E benchè gli altri il dicano mancato di morte naturale, pure Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], persona che merita qui [619] molta considerazione, scrive essere stata fama ch'egli per frode di Ricimere patrizio morisse di veleno. Noi per altro sappiamo poco de' fatti suoi; ma se cosa alcuna di luminoso avesse operato, verisimilmente ne avremmo qualche lume dalla storia, per altro scarsa e meschina in questi tempi. Venne anche a morte probabilmente nell'anno presente Egidio conte e generale dell'armata romana nelle Gallie, di cui s'è favellato ne' precedenti anni. Idacio a noi il rappresenta come personaggio dotato di rare virtù, e scrive che alcuni l'asserivano morto per insidie a lui tese, ed altri per veleno. Dall'autore delle Gesta de' Franchi [Gesta Francor., tom. 1 Du-Chesne.] è chiamato dux Romanorum, tyrannus, perchè i Franchi, siccome abbiamo veduto, dopo il ritorno di Childerico re loro, avevano cacciato esso Egidio, e il riguardavano con occhio bieco. Aggiugne il medesimo autore che i Franchi circa questi tempi presero la città di Colonia con grande strage de' Romani, cioè della parte d'Egidio, il quale potè appena salvarsi, e poco dopo morì, con lasciare un figliuolo per nome Siagrio. Questi prese il generalato, e mise la sua residenza in Soissons. Ma i Franchi, che non più erano ritenuti dal timore d'Egidio, ed aveano già passato il Reno e desolata più che non era prima la città di Treveri, si mossero con un potente esercito, e vennero fino ad Orleans, con dare guasto a tutto il paese. Da un'altra parte sboccò pure nelle Gallie per mare Odoacre duca de' Sassoni, e giunse fino alla città d'Angiò, con uccidervi molto popolo, e ricevere ostaggi da quella e da altre città. Childerico coi Franchi, nel tornare indietro da Orleans, s'impadronì della stessa città d'Angiò, essendo restato morto in quella occasione Paolo conte governatore di essa città. Ma qui non son ristrette tutte le calamità delle Gallie. Idacio [Idacius, in Chron.] aggiugne, che dopo esser mancato di vita il prode Egidio conte, ancora i Goti abitanti in quella che oggidì chiamiamo [620] Linguadoca, sotto il re Teoderico, s'avventarono anch'essi addosso alle provincie romane, che prima erano sotto il governo d'Egidio. Gregorio Turonense [Gregor. Turon., lib. 2, cap. 18.] fa anch'egli menzione di queste turbolenze, con aggiugnere, che Paolo conte insieme coi Romani e Franchi mosse guerra ai Goti: ma ch'esso Paolo fu tagliato a pezzi nella presa d'Angiò fatta dai Franchi medesimi. Scrive di più, che i Britanni furono cacciati fuori della provincia del Berry, con esserne stati uccisi non pochi. Notizia che ci fa intendere come era già venuta della gran Bretagna a cercar ricovero nelle Gallie una copiosa moltitudine di que' popoli, giacchè i Sassoni entrati in quell'isola faceano guerra troppo fiera agli antichi abitanti. Questi poi col tempo diedero il nome di Bretagna minore a quel paese dove si stabilirono, e tuttavia ritengono buona parte del linguaggio degli antichissimi Britanni.


   
Anno di Cristo CDLXVI. Indizione IV.
Ilario papa 6.
Leone imperadore 10.

Consoli

Leone Augusto per la terza volta, e Taziano.

Se non avessimo Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.] e il Cronologo del Cuspiniano [Chronol. Cuspiniani.] che facessero menzione di questo Taziano console, si sarebbe creduto, come credette il cardinale Baronio, che questo fosse un console immaginario. Pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che questo Taziano ricevesse e sostenesse il consolato in Oriente, il che non sembra ben certo, perchè abbiamo da Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Hist. Byz., pag. 74.], che a' tempi di Leone imperadore, Taziano fu inviato ambasciatore per gl'Italiani a Genserico re de' Vandali. Che se pur egli fosse stato creato console, strano dovrebbe [621] parere, come in una legge [L. 6, de his qui ad Eccl. confugiunt. Cod. Justin.] pubblicata in questo anno da Leone Augusto si legga il solo imperadore console, e lo stesso unicamente sia nominato nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] e da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], da Vittor Tunonense [Victor Turonensis, Chron.] e dai Fasti fiorentini, senza far mai menzione di Tarziano preteso console anch'esso in Oriente. Quel che è più, in una iscrizione rapportata dall'Aringhi, dal Reinesio e da altri, e posta ad un cristiano seppellito a dì 9 di maggio, per disegnar l'anno solamente, è detto console LEONE AVGVSTO III. Forse Leone Augusto entrò solo console, e da lì a qualche mese prese per suo collega Taziano. Dappoichè fu morto Severo imperadore, è da credere che il senato romano e l'esercito pensassero a dargli un successore, e che non mancassero pretendenti. Contuttociò noi troviamo che neppure in tutto quest'anno alcuno imperador d'Occidente fu eletto, laonde restò vacante l'imperio in questa parte. Altra ragione non si può addurre, se non che i senatori più saggi, riflettendo alla miserabil positura dell'imperio occidentale, e che troppo importava il camminar d'accordo d'animo e di massime coll'imperadore d'Oriente, nulla volessero conchiudere senza l'approvazione e consentimento di Leone Augusto. Doveano andare innanzi e indietro lettere, maneggi e trattati. Sopra tutti Ricimere patrizio, potentissimo tuttavia direttor degli affari, giacchè non poteva egli ottener l'imperio, cercava per altro verso i suoi privati vantaggi. Finalmente i Romani condiscesero totalmente alla volontà d'esso Leone, siccome vedremo nell'anno seguente. Pubblicò in quest'anno il suddetto Leone Augusto la precitata legge assai riguardevole in confermazione dell'asilo nelle chiese, con varii riguardi nondimeno, [622] affinchè i creditori non restassero affatto abbandonati dal braccio della giustizia, abolendo spezialmente una anteriore, in cui venivano obbligate le chiese a pagare i debiti di chi si rifugiava in esse. Abbiam veduto di sopra che un'armata di Sassoni era entrata nelle Gallie. Pare che a quest'anno si possa riferire una battaglia seguita fra essi e i Romani, cioè i sudditi dell'imperio occidentale, che vien narrata da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 19.], nella quale toccò ai Sassoni di voltare le spalle. Le loro isole nel fiume la Loire furono prese dai Franchi. Poscia Odoacre duce di que' Barbari si collegò con Childerico re dei Franchi, ed unitamente sconfissero gli Alamanni ch'erano entrati in Italia. Nella vita di san Severino apostolo del Norico [Acta Sanctor. Bolland. ad diem 8 januar.] si legge che quell'uomo santo esortò Gibuldo re degli Alamanni, ut gentem suam a romana vastatione cohiberet. Par verisimile che questo medesimo re fosse quegli che fu sì ben disciplinato dai Franchi e Sassoni.


   
Anno di Cristo CDLXVII. Indizione V.
Ilario papa 7.
Leone imperadore 11.
Antemio imperadore 1.

Consoli

Puseo e Giovanni.

Dopo essere stato vacante per più d'un anno l'imperio d'Occidente, finalmente essendosi con una ambasceria rimessi i Romani per l'elezione d'un imperadore alla volontà di Leone imperador d'Oriente, questi mandò in Italia con un buon esercito Antemio, il quale, per testimonianza di Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], arrivato che fu tre miglia (Idacio [Idacius, in Chron.] scrive otto miglia) lungi da Roma ad un luogo appellato Brotontas, fu proclamato imperadore. Il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.] scrive che nel dì [623] 12 d'aprile succedette la di lui assunzione al trono. Era Antemio Galata di nazione, e di nobilissimo sangue, perchè figliuolo (Idacio il chiama fratello) di Procopio patrizio, che sotto Teodosio II trattò la pace coi Persiani, e discendeva da quel Procopio che disputò l'imperio a Valente imperadore. Era nipote di Antemio, che fu console nell'anno 405. Per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 6.], era generale d'armata, senatore ricchissimo, ed avea per moglie una figliuola di Marciano Augusto, chiamata Eufemia, per quanto s'ha da Apollinare Sidonio [Sidon. Apollinaris, in Panegyr. Antemii.], scrittore di questi tempi. Da Teofane [Theop., in Chronogr.] vien chiamato Antemio principe ben istruito nei dogmi cristiani, e che piissimamente sapea governar l'imperio. E sappiamo da Codino [Codinus, de Originibus.] e dall'autore degli Edifizii di Costantinopoli, ch'esso Antemio, alzato che fu al trono, ordinò che il suo palazzo, posto nella suddetta città di Costantinopoli, si consecrasse a Dio, con fabbricarne un tempio, e uno spedale e bagno per gli poveri vecchi. Però niuna fede merita Damasco [Damascius, in Vit. Isidori.] filosofo pagano, che nella vita d'Isidoro egizio scrisse che Antemio fu un empio ed amatore del paganesimo, e che meditava di rimettere in piedi il culto degl'idoli. Contuttociò, siccome osservò il cardinal Baronio, e dirò appresso, Antemio non fu sì religioso, come talun suppone. Ricimere patrizio e generale dell'esercito romano volle anch'egli profittare di questa congiuntura, coll'ottenere in moglie una figliuola del medesimo nuovo Augusto. Per attestato della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] furono portate a Costantinopoli le immagini di Antemio, coronate d'alloro, da Terenzio prefetto della città di Roma: cerimonia praticata ne' vecchi tempi per far conoscere al popolo che quegli era stato accettato [624] per legittimo imperadore. Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Hist. Byz., pag. 76.], nel fine de' Frammenti che restano di lui, scrive che Leone Augusto per un suo messo fece tosto intendere a Genserico re dei Vandali in Africa l'elezione da lui fatta di Antemio imperador d'Occidente, con intimargli di non molestar da lì innanzi l'Italia e la Sicilia, altrimenti gli dichiarava la guerra. Fu rimandato indietro il messo, e la risposta fu che Genserico non ne voleva far altro, e maggiormente si preparava per continuar la guerra all'imperio romano. Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 6.] aggiugne una particolarità, cioè che Genserico si chiamava offeso, perchè avendo fatto di forti istanze, acciocchè Olibrio senatore, marito di Placidia figliuola dell'imperador Valentiniano III, e per conseguente suo cognato, fosse dichiarato imperadore, e che, ciò nonostante, Leone Augusto gli avea preferito Antemio. Per questo pare che Genserico più che mai seguitasse ad infestare i lidi dell'imperio. Ora in quest'anno i due imperadori, che andavano unitissimi d'animo, cominciarono i preparamenti per gastigare la superbia ed insolenza di Genserico. Il padre Sirmondo e il Mezzabarba [Mediobarb., Numism. Imperator.] rapportano una medaglia d'Antemio, nel cui rovescio si mirano due imperadori che si danno le mani per segno della lor concordia ed unione.

In che stato fosse Roma allorchè vi arrivò il nuovo imperadore Antemio, lo lasciò scritto papa Gelasio [Gelasius, advers. Andronic.] nel suo opuscolo contra di Andronico senatore, e contro que' Romani che tuttavia ostinati nel paganesimo, volevano che si facessero l'empie ed insieme ridicole feste lupercali, pretendendo che per esse Roma fosse preservata da varii malanni. Dice il santo papa che quando Antemio imperadore venne a Roma si celebravano le feste suddette lupercali, e pure saltò fuori una pestilenza sì grande, che fece non [625] poca strage del popolo. Fu poi diligentemente osservato dal cardinal Baronio che nella comitiva de' cortigiani venuti con Antemio a Roma, per testimonianza del mentovato papa Gelasio, vi fu un certo Filoteo che teneva l'eresia di Macedonio ingiuriosa allo Spirito Santo. Costui cominciò a tenere delle segrete combriccole con ispargere il suo veleno; ma, avvertitone papa Ilario, un dì che Antemio Augusto si portò a san Pietro, ne fece, con fermezza degna di un pontefice, una gagliarda doglianza a lui, di modo che Antemio con suo giuramento gli promise di rimediare a questo disordine. Nel presente anno Teoderico II, re de' Visigoti nell'Aquitania, dopo aver dilatato il suo imperio nella Spagna, con varie guerre fatte contro degli Svevi; e mantenuta quasi sempre la pace colle provincie romane, trattato fu in quella stessa maniera che egli avea trattato il suo fratello maggiore, cioè venne ucciso da Eurico, appellato da altri Evarico, suo fratello minore, in Tolosa. Mario Aventicense [Marius Aventicens. in Chron.] mette questo fatto sotto il presente anno, e chiama Eutorico l'uccisor del fratello, il quale dopo la morte di lui fu riconosciuto per successore nel regno gotico. Tardò poco questo nuovo re, secondochè abbiamo da Giordano istorico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 45.], a spedire ambasciatori a Leone imperadore, per dargli parte della sua assunzione al trono; e veggendo sì mal condotto l'imperio d'Occidente per la frequente mutazion degli Augusti, si mise in pensiero di conquistar le provincie che restavano nelle Gallie e nelle Spagne all'ubbidienza d'esso imperio. Si sa da sant'Isidoro [Isidorus, in Chronico Gothor.] che Eurico appena fatto re spedì un'armata nella Spagna tarraconense, e s'impadronì delle città di Pamplona e di Saragozza, con devastar tutta quella provincia. Racconta eziandio il suddetto Giordano, che avendo costui assalito le provincie romane della Gallia, Antemio imperadore dimandò [626] aiuto ai Britanni fuggiti dalla gran Bretagna, e postati allora al fiume Loire. Vennero per mare dodici mila di essi con Riotimo re loro fino alla città Bituricense, oggidì Burges nel Berry. Colà accorse il re Eurico con una formidabil armata, e dopo varii combattimenti gli riuscì, prima che i Romani potessero unire le lor forze coi Britanni, di mettere in fuga il suddetto Riotimo re, il quale perduta la maggior parte di sua gente, con quei che potè, si ricoverò presso la vicina nazione de' Borgognoni collegata allora coi Romani. Ma non siam certi se in questo o pure in alcun de' susseguenti anni succedesse un tal fatto. Per attestato della Cronica Alessandrina [Chron. Alexand.], in questi tempi Leone imperador d'Oriente pubblicò un editto, acciocchè fossero santificati i giorni di festa, con proibire in essi ogni sorta di pubblici giuochi e spettacoli. Può tuttavia dubitarsi che questa legge appartenga all'anno 459, trovandosi appartenente a quell'anno nel Codice di Giustiniano la legge ultima, C. de Feriis, che parla di questo piissimo regolamento. Rigorosamente ancora procedette l'imperador Leone contra gli ariani, che nella stessa città di Costantinopoli facevano delle adunanze segrete, con proibir loro in qualunque luogo l'aver chiese e il raunarsi.


   
Anno di Cristo CDLXVIII. Indizione VI.
Simplicio papa 1.
Leone imperadore 12.
Antemio imperadore 2.

Consoli

Antemio Augusto per la seconda volta, senza collega.

Antemio Augusto nel presente anno è intitolato ne' Fasti console per la seconda volta, perchè nell'anno 455 era stato console insieme con Valentiniano III [627] Augusto. Perciò egli è chiamato consul vetus da Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Anthemii.], nobile personaggio della Gallia, e poeta riguardevole, il quale invitato a Roma nel precedente anno da esso Antemio, recitò poi nel primo giorno di gennaio del presente il panegirico d'esso imperadore, tuttavia esistente, e in ricompensa ne riportò la dignità di prefetto di Roma. Era in questi tempi prefetto del pretorio delle Gallie Servando: così l'appella l'autore della Miscella [Histor. Miscell., tom. 1 Rer. Ital.] secondo la mia edizione; ma Arvando si trova chiamato da esso Sidonio [Sidon., lib. 1, epist. 1.], autore di maggior credito, se pure il suo testo non è guasto, là dove racconta diffusamente la di lui disgrazia accaduta in quest'anno. Fu costui accusato a Roma quasichè tenesse delle segrete intelligenze coi Visigoti, e tramasse dei tradimenti in pregiudizio dell'imperio, siccome uomo superbo, e che troppo si fidava di sè stesso. Furono in contraddittorio con lui i legati delle Gallie, e convinto, fu vicino a perdere ignominiosamente il capo; ma, prevalendo la clemenza dell'imperadore Antemio, fu mandato in esilio in Oriente, dove terminò i suoi giorni. Fa pur menzione lo stesso Sidonio [Idem, lib. 2, ep. 1.] di un altro prefetto delle Gallie, per nome Seronato, dipinto da lui come persona scelleratissima, che, provato reo di lesa maestà, fu levato dal mondo qualche anno dipoi. Leone Augusto in quest'anno, voglioso di abbattere la potenza ed insolenza di Genserico re de' Vandali, il quale, dopo avere appreso il mestier dei corsari, non lasciava anno che non infestasse i lidi delle provincie romane, uccidendo, spogliando e conducendo seco migliaia di schiavi, da tutto l'Oriente raunò, secondochè racconta Teofane [Theoph., in Chronograph.], uno stuolo di cento mila navi, piene d'armi [628] e d'armati, e lo spedì in Africa contra di Genserico. Si racconta che a Leone costò questa spedizione mille e trecento centinaia d'oro. E certamente Suida [Suidas, verbo χειρίζω.], coll'autorità di Candido, istorico perduto, scrive che Leone in quella impresa spese quarantasette mila libbre d'oro, parte raunate dai beni dei banditi, e parte dall'erario d'Antemio imperadore. Questi similmente inviò colà dall'Occidente una rilevante flotta. Fu ammiraglio (è Teofane che seguita a parlare) e generale dell'armata orientale Basilisco, fratello di Verina Augusta, moglie dello stesso imperador Leone, che già s'era acquistato gran nome con varie vittorie contra degli Sciti, ossia de' Tartari. Marcellino fu il generale dell'armata occidentale. Arrivata la poderosa armata in Africa, affondò buona parte delle navi di Genserico, e superò la stessa città di Cartagine. Ma guadagnato Basilisco a forza d'oro dal re nemico, rallentò l'ardor della guerra ed in fine di concerto si lasciò dare una rotta, come abbiamo da Persico autor della storia: nome corrotto nel testo di Teofane, che vuol significare Prisco istorico, tante volte citato di sopra. Seguita a scrivere Teofane, altri aver detto essere proceduto un sì fatto tradimento da Aspare patrizio, generale potentissimo dell'Oriente, e da Ardaburio suo figliuolo che aspiravano alla succession dell'imperio; i quali, veggendo Leone Augusto molto contrario a questa loro idea, per esser eglino di credenza ariani, cercavano ogni via di rovinare gl'interessi dell'imperio d'Oriente; e però s'accordarono con Basilisco, promettendogli di farlo imperadore, se tradiva la flotta e l'esercito a lui confidati, e lasciasse la vittoria a Genserico, al par di essi ariano. Comunque sia, la verità si è che Genserico, preparate delle navi incendiarie, una notte, quando i Romani stolidamente men sel pensavano, le spinse col favore del vento addosso alla lor flotta con tal successo, che assaissime navi rimasero preda [629] delle fiamme, e il resto fu obbligato a ritirarsi colle milizie in Sicilia. Cedreno [Cedren., in Histor.] scrive che non tornò indietro neppur la metà dell'esercito.

Ma non sussiste punto il dirsi da Teofane che Basilisco superasse Cartagine, siccome è uno sproposito troppo intollerabile quello delle cento mila navi, che non può venir dallo storico, il quale senza dubbio avrà voluto dire una flotta di mille e cento navi. Parrà fors'anche troppo ad alcuni il dirsi da Procopio [Procop., de Bell Vandal, lib. 1.] che quella flotta conduceva cento mila uomini. Ma non avrà difficoltà a crederlo, chi considererà unita la potenza dell'uno e dell'altro imperio a quella impresa. In fatti Cedreno scrive che furono mille e cento tredici navi, in cadauna delle quali erano cento uomini, e che la spesa ascese a sei cento cinquanta mila scudi d'oro, ed a settecento mila d'argento, senza quello che fu somministrato dall'erario e da Roma. Odasi ora, come Procopio racconti questa sì strepitosa spedizione. Tiene anch'egli che Aspare irritato contra di Leone Augusto, principe troppo alieno dal volere un eretico per successore nell'imperio, temendo che la rovina di Genserico assodasse vieppiù il trono a Leone, e il mettesse in istato di non aver nè paura nè bisogno di lui, raccomandasse vivamente a Basilisco di andar con riguardo contra di Genserico. Ora Basilisco approdò colla flotta a una terra appellata il Tempio di Mercurio. Quivi apposta cominciò a perdere il tempo; poichè se a dirittura marciava a Cartagine, l'avrebbe presa sulle prime, e soggiogata la nazione vandalica, essendochè Genserico atterrito non tanto per le nuove giuntegli che la Sardegna era già stata ricuperata dai Romani, quanto per la comparsa di quella armata navale, a cui si diceva che una simile non l'aveano mai avuta i Romani; già pensava a non far resistenza coll'armi. Ma osservando il lento procedere dei Romani, ripigliò coraggio; e mandate [630] persone a Basilisco, il pregò a differir le offese per cinque giorni, tanto ch'egli in questo spazio di tempo potesse prendere quelle risoluzioni che gli paressero più proprie e di soddisfazione dell'imperadore. Fu poi creduto che Genserico comperasse con grossa somma d'oro questa tregua, e che Basilisco o vinto dai regali, o per far cosa grata ad Aspare, vi acconsentisse. Intanto mise Genserico in armi tutti i suoi sudditi, preparò le barche incendiarie, e, venuto il buon vento, portò con esse il fuoco e la rovina alla maggior parte dell'armata navale romana. E i Vandali con altre navi furono in quel tumulto addosso ai nocchieri e soldati, che erano imbrogliati nelle navi, e ne trucidarono e spogliarono assaissimi. Basilisco, ritornato a Costantinopoli, si rifugiò in santa Sofia, e per preghiere di Verina Augusta sua sorella salvò la vita, costretto solamente ad andare in esilio a Perinto. Cedreno [Cedren., in Histor.] attribuisce, non a tradimento, ma a viltà e poca condotta di Basilisco l'infelice riuscita di questa impresa (il che non è improbabile), e dice aver egli verificato il proverbio: Che val più un esercito di cervi comandato da un lione, che un esercito di lioni comandato da un cervo. Aggiugne Procopio che Marcelliano il quale negli anni addietro si era ribellato all'imperio, e signoreggiava nella Dalmazia, ma nel presente anno guadagnato con lusinghe da Leone Augusto, avea d'ordine suo tolta dalle mani dei Vandali la Sardegna, essendo poi passato in Africa in soccorso di Basilisco, fu quivi ucciso con inganno da uno de' suoi colleghi. Anche Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] narra sotto quest'anno, che Marcellino patrizio d'Oriente (egli è lo stesso che il Marcelliano di Procopio) uomo di professione pagano, mentre era presso Cartagine in soccorso de' Romani contra de' Vandali fu dai Romani medesimi con frode ucciso. Cassiodoro [Cassiodor., in Chronic.] e il Cronografo del [631] Cuspiniano [Chronol. Cuspiniani.] scrivono che tolta gli fu la vita in Sicilia, e Idacio [Idacius, in Chron. et Fastis.] racconta ch'egli era stato inviato da Antemio Augusto per generale d'una considerabile armata contra de' Vandali. E tal fine ebbe la grandiosa spedizione dei Romani Augusti contro al tiranno dell'Africa. In quest'anno, secondochè pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], e non già nell'antecedente, come vuole il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], terminò i suoi giorni Ilario papa nel dì 21 di febbraio. Nella sua vita presso Anastasio [Anastas. Bibliotech. in Vita Hilarii.] si legge un lungo catalogo di fabbriche da lui fatte, e di ornamenti e vasi d'oro e d'argento di peso e prezzo tale, che possono cagionar maraviglia ai nostri tempi, come potesse un solo papa far tanto, ancorchè allora la chiesa romana non possedesse stati in sovranità come oggidì. Ma è da dire che essa Chiesa godeva allora di moltissimi stabili; e le oblazioni de' fedeli si può credere che fossero abbondantissime: laonde aveano i papi che spendere in abbellire i sacri templi. A questo pontefice da lì a quattro, oppure a dieci dì, succedette Simplicio, nato in Tivoli. Si riferiscono al presente anno due leggi [Tom. 6 Cod. Theod., in Append.] di Antemio Augusto, colla prima delle quali restano approvati i matrimonii delle donne nobili coi loro liberti; colla seconda sono confermate tutte le leggi di Leone imperador d'Oriente chiamato signore e padre mio da Antemio. All'incontro esso Leone, ad istanza di Antemio, con una legge decide che tutte le donazioni di beni fatte dai predecessori Augusti sieno inviolabili, nè si possa molestar chi li possiede, se non per le vie ordinarie della giustizia. Può forse appartenere anche a quest'anno un'altra legge [L. 8, C. de Pagan.] d'esso Leone Augusto contro i pagani, la quale abbiamo nel Codice di Giustiniano.


[632]

   
Anno di Cristo CDLXIX. Indizione VII.
Simplicio papa 2.
Leone imperadore 13.
Antemio imperadore 3.

Consoli

Marciano e Zenone.

Il primo di questi consoli, cioè Marciano, era figliuolo di Antemio Augusto. Il secondo, cioè Zenone, era genero di Leone imperadore, perchè marito di Arianna figliuola d'esso Augusto, e godeva la dignità di duca dell'Oriente. Nel precedente anno, o pur nel presente, Leone Augusto dichiarò Cesare uno de' figliuoli d'Aspare, per nome Patricio, chiamato da altri Patriciolo: titolo che istradava alla succession dell'imperio e recava seco una partecipazione dell'autorità e del comando; perciocchè ancora i Cesari portavano la porpora e l'altre insegne dell'imperio, a riserva della corona d'oro, come si ha da Metafraste [Metaphrastes, in Vita s. Marcelli Archimandritae.]. Per quanto scrive Teofane [Theoph., in Chronog.], ciò fu fatto da Leone, perchè questa beneficenza servisse a ritirar suo padre dall'eresia d'Ario, e a maggiormente impegnarlo nel buon servigio dell'imperio. Dopo di che esso Patricio fu inviato con apparato di gran magnificenza ad Alessandria. Gli fu anche promessa in moglie Leonzia figliuola d'esso imperador Leone. Il cardinal Baronio all'anno precedente fa una querela contra d'esso Augusto, perch'egli tenesse in corte e tollerasse Aspare, uomo ariano e traditore: dal che procedette l'infelice successo della spedizione in Africa. Ma conviene osservare meglio la positura di quei tempi ed affari. Talmente era cresciuta e salita in alto la potenza d'Aspare in Oriente e quella di Ricimere in Occidente, che faceva paura agli stessi imperadori, perchè costoro aveano gran partito, e specialmente alla lor divozione stavano gli [633] eserciti, composti in buona parte di Barbari, cioè della nazione d'essi due Patrizii. Però bisognava inghiottir molte cose disgustose e camminar con destrezza, perchè troppo pericoloso si scorgeva il voler opprimere questi domestici serpenti. Vedremo in breve quanto costasse ad Antemio Augusto l'essersi dichiarato mal soddisfatto di Ricimere, senza prender meglio le sue misure. Perciò per politica necessità s'indusse Leone Augusto a promuovere alla dignità cesarea Patricio figliuolo d'Aspare, a fine di guadagnarsi la benevolenza di suo padre, come scrive Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 16.], oppur di addormentarlo con questo boccone, e di far poi quello che diremo più sotto. Lo stesso cardinal annalista, citando la vita di san Marcello archimandrita, che espressamente racconta la soverchia potenza di Aspare e di Ardaburio suo figliuolo, e come per necessità di Leone condiscese a crear Cesare il fratello d'esso Ardaburio, poteva ancora conoscere che Leone Augusto non volontariamente sofferiva quegli eretici, e che per forza si accomodava ai tempi, con aspettar miglior congiuntura di liberarsi da coloro. Aggiungasi ciò che vien narrato da Cedreno [Cedrenus, in Hist.], cioè che avendo Leone sui principii del suo governo promesso ad Aspare di far prefetto di Costantinopoli una persona da lui raccomandata, ne fece poi un'altra. Non andò molto che Aspare insolentemente presa la veste dell'imperadore, gli disse: Non è conveniente che dica bugie chi va ammantato di questa porpora. Al che Leone rispose: Ma è anche conveniente che un imperadore non ceda, nè sia suggetto ad alcuno, massimamente con incomodo e danno del pubblico. Tuttavia per meglio conoscere che non fu già un buon volere, ma sì bene un tiro politico di Leone l'innalzamento di questo giovane, s'ha eziandio da ricordare ch'esso Patricio, non men del padre e degli altri suoi fratelli, era di setta ariano; e perciò uditosi [634] in Costantinopoli che Leone disegnava di crearlo Cesare, si sollevò un tumulto, e san Marcello archimandrita [Surius, in Vita s. Marcelli Archimandritae. Zonar., in Histor.], alla testa d'un corpo di buoni cattolici, andò a fare istanza ad esso imperadore che Patricio abbracciasse la vera religione, o lasciasse la dignità cesarea. Lo promise Leone, principe sommamente cattolico; ma, siccome osserva l'autore della vita di quel santo abbate, l'imperadore cedebat tempori Asparis et Ardaburii, e covava pensieri, che dipoi vennero alla luce. Intanto i Barbari, cioè gli Unni, infestavano la Tracia; e però contra d'essi fu spedito da Leone con competente esercito Zenone suo genero per metterli in dovere. Ma non piacque una tale elezione ad Aspare per gelosia, cioè per timore che Zenone potesse contrastare a suo figliuolo la succession dell'imperio dopo la morte del suocero Augusto. Perciò segretamente concertò coi soldati di farlo uccidere; ma il colpo non venne fatto. Zenone, accortosi della trama, se ne fuggì a Serdica città della Dacia novella. Questo affare fece maggiormente crescere i sospetti dell'imperadore contra di Aspare. Una bella legge [L. 31. C. de Episcop. et Cleric.] fu pubblicata in quest'anno dal medesimo Augusto contra qualunque simoniacamente salisse ad un vescovato, con prescrivere la forma già stabilita nei canoni di eleggere i vescovi e dichiarare privato di tale onore, reo di lesa maestà, e perpetuamente infame, chi con regali si procacciasse una sedia episcopale, o eleggesse o consacrasse per denari alcuno. In questi giorni, o poco appresso, Idacio vescovo di Lemica nella Gallicia diede fine alla sua Cronica. All'anno precedente narra l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], che durante la guerra de' Romani con gli Unni nella Tracia, riuscì ad Anagasto, generale dell'imperadore, di uccidere Dengisich, uno de' figliuoli d'Attila, il cui [635] capo fu inviato a Costantinopoli, mentre si faceano i giuochi circensi, e portato per mezzo alla piazza con gran plauso di tutto il popolo. Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] riferisce all'anno presente questo fatto, e con più verisimiglianza, perchè pare che solamente in esso anno si accendesse la guerra con gli Unni.


   
Anno di Cristo CDLXX. Indizione VIII.
Simplicio papa 3.
Leone imperadore 14.
Antemio imperadore 4.

Consoli

Severo e Giordano.

Questo Severo console occidentale, se vogliam credere a Damascio nella vita di Isidoro filosofo [Photius, in Biblioth., Cod. 242.], era di professione pagano, e perciò caro ad Antemio imperadore, che ci vien rappresentato per adoratore degl'idoli. Ma Fozio, che ci dà tali notizie, osservò che almeno per conto di Antemio non merita fede Damascio, filosofo empio, nimico de' Cristiani, e che racconta molte altre fole in quella vita. Costui visse ai tempi di Giustiniano Augusto. Abbiamo dalla Cronica Alessandrina sotto quest'anno e sotto il seguente, che l'imperador Leone mandò Eraclio Edesseno, figliuolo di Floro, già stato console, e Marso Isauro, personaggi di gran valore, con due eserciti raccolti dall'Egitto e dalla Tebaide, contra di Genserico re de' Vandali. Questi all'improvviso avendo assaliti i Vandali, ricuperarono Tripoli ed altre città dell'Africa, e diedero sì buona lezione a quel tiranno, che fu astretto a chiedere la pace; ed in fatti l'ottenne, perchè Leone Augusto avea bisogno di questi due generali, e di Basilisco suo genero, per effettuare i disegni conceputi contra di Aspare e de' suoi figliuoli. E perciocchè la caduta di costoro succedette nell'anno susseguente, è perciò più verisimile che nel presente essi facessero la guerra suddetta nell'Africa, [636] e ne fossero poi richiamati nell'anno appresso. Procopio riferisce [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 6.] queste imprese di Eraclio all'anno 468, cioè a quello stesso, in cui Basilisco colla formidabile armata d'Oriente assalì l'Africa con fine poi tanto infelice. Ma è facile che si sia ingannato. Anche Cedreno [Cedren., in Histor.] racconta che per due anni dopo la spedizione di Basilisco fu guerreggiato in Africa con varia fortuna. Narra sotto questi consoli Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] che a Romano patrizio, scoperto che macchinasse d'usurpare l'imperio d'Occidente, fu per ordine di Antemio Augusto tagliato il capo. Anche l'autore della Miscella, secondo la mia edizione [Rerum Italicar. Script. Tom. 1.], fa testimonianza di questo fatto, ma senza che ne traspiri alcuna particolarità dagli altri autori. Aggiunge l'autore d'essa Miscella, che in questi giorni, avendo voluto Genserico tornar di nuovo ad infestar l'Italia, superato da Basilisco in una battaglia navale, fu costretto a tornarsene svergognato a Cartagine. Non parlando alcun altro scrittore di questo combattimento, io non so che mai crederne. Per altro poco fa abbiam veduto che Basilisco doveva essere stato rimesso in grazia di Leone Augusto, il quale faceva capitale di lui per atterrare la potenza d'Aspare e de' suoi figliuoli.


   
Anno di Cristo CDLXXI. Indizione IX.
Simplicio papa 4.
Leone imperadore 15.
Antemio imperadore 5.

Consoli

Leone Augusto per la quarta volta e Probiano.

Probiano console occidentale vien creduto della casa Anicia dal Reinesio [Reinesius, Inscription., pag. 67.]. Questo fu l'anno, in cui Leone Augusto [637] arrivò a liberarsi dalla prepotenza d'Aspare patrizio, che nol lasciava sicuro sul trono. Era Aspare il primo de' patrizii, come scrive Marcellino conte [Marcell., in Chron.], era principe del senato, come ha l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alex.], la cui cronologia è molto confusa in questi tempi. Di nazione barbarica fu suo padre Ardaburio cioè Alano; ed essendo arrolati assaissimi di que' Barbari nelle guardie dell'imperadore e nell'armata cesarea, perciò un gran partito aveva egli in Costantinopoli, anzi una tal possanza, che ispirava timore ai medesimi Augusti; maggiormente ancora era cresciuta la di lui petulanza e l'insolenza de' suoi figliuoli, per aver egli col suo potente appoggio portato al trono l'imperador Leone. Si aspettava costui un gran premio per questo, e, non veggendolo comparire, cominciò ad inquietarsi e ad inquietare Leone stesso, in guisa che insorsero sospetti che meditasse di farsi proclamar imperadore colla rovina d'esso Leone Augusto; il quale per addolcirlo, o per ingannarlo, s'indusse a dichiarare Cesare il di lui figliuolo Patricio, siccome s'è detto di sopra, ma con disapprovazione e mormorazione di tutti i Cattolici, che non poteano sofferire l'incamminamento di questa famiglia ariana al trono imperiale. Andarono tanto innanzi i sospetti e le diffidenze, che finalmente Leone Augusto, non potendo più reggere a questo peso, determinò ed eseguì la loro rovina. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] altro non dice, se non che esso Aspare patrizio, ed Ardaburio e Patriciolo Cesare suoi figliuoli, mentre erano in corte, furono tagliati a pezzi dalle spade degli eunuchi palatini. Ma Niceforo [Niceph., lib. 15, cap. 27.] racconta il fatto in una altra maniera, che non so se sia affatto credibile. Cioè che ne' giuochi circensi, allorchè tutto il popolo era unito, si sollevò un tale schiamazzo contra di [638] Aspare e de' suoi figliuoli, anzi una tal disposizione a scagliarsi contra di loro, ch'essi per paura scapparono a Calcedone, e si ritirarono nella chiesa di santa Eufemia. L'imperadore inviò loro il patriarca, esortandogli a tornare, con impegnar la sua parola per loro sicurezza. Risposero di non volersi muovere, se l'imperadore non andava colà in persona. Egli vi andò, li ricondusse, li tenne alla sua tavola, con prometter loro di obbliar tutte le ingiurie passate. Dall'altro canto diede ordine a Zenone Isauro suo genero, di cui più che di altri si fidava, che tornando costoro a palazzo, improvvisamente assalendoli, togliesse loro la vita. Fu data esecuzione al comandamento; e il primo a provare il taglio delle spade fu Ardaburio. Il che veduto da Aspare, esclamò (se pure è probabile che gli fosse lasciato tempo di così favellare): Se l'è meritata, per non aver mai badato a' miei consigli; perchè più volte gli dissi: Divoriamo noi questo lione, prima che egli faccia un buon pranzo di noi. Dopo di che anch'egli fu levato dal mondo. Così Niceforo, il quale certamente fallò in credere che quell'Ardaburio fosse padre di Aspare, quando era figliuolo; e in dire che Leone Augusto in ricompensa di questo fatto diede Arianna sua figliuola per moglie a Zenone, quando si sa che alcuni anni prima era seguito quel matrimonio. Pretende ancora Niceforo che Patricio, altro figliuolo d'Aspare già dichiarato Cesare, fosse mandato in esilio. Altri scrittori, cioè Marcellino conte, Vittor Tunonense e l'autor della Miscella scrivono ucciso ancor lui in quella congiuntura. Procopio dice solamente trucidati Aspare e Ardaburio; e Candido, storico antico citato da Fozio [Photius, in Bibliotheca, Cod. 79.], asserisce che questo giovane riportò bensì una ferita, ma potè salvarsi colla fuga. Egli è fuor di dubbio che Ermenerico, figliuolo anch'esso di Aspare, e stato console nell'anno 465, [639] perchè era lontano, scappò questa burrasca. Non sussiste poi che Arianna, come scrive Niceforo, fosse quella che fu promessa in moglie ad esso Patricio, ma sì bene Leonzia, la qual poscia, o nel presente o nel seguente anno, fu destinata per moglie a Marciano figliuolo di Antemio imperador d'Occidente.

E tal fu il fine di quella tragedia, non essendo però mancate persone che disapprovarono il fatto, siccome per relazione d'Evagrio [Evagr., lib. 2, cap. 15.] sappiamo che fece Prisco istorico di questi tempi, mentre taccia di ingratitudine Leone, per aver sì malamente rimeritato chi aveva alzato lui al trono. Per la morte di costoro dicono che fu posto a Leone il soprannome di macello, ossia di macellajo. Racconta eziandio lo scrittore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] che si svegliò in Costantinopoli una sedizione dei soldati goti e di altri aderenti al partito di quegli ariani. Alla testa d'essi era Ostro conte, di nazione goto, che assalì il palazzo imperiale; ma ritrovata gran resistenza nelle guardie, dopo la morte di molti, egli fu obbligato a ritirarsi; e conoscendosi inferiore di forze, presa seco una concubina d'Aspare, assai ricca e di rare bellezze, passò nella Tracia, dove diede un gran guasto e fece altri mali. Però il popolo di Costantinopoli in una canzone andava ripetendo: Fuorchè il solo Ostro, niuno è amico del morto. Teofane [Theoph., in Chronogr.] aggiugne che Teoderico goto, figliuolo di Triario, che fu poi re de' Goti, accorse in aiuto del suddetto Ostro; e che se non giugnevano a tempo Basilisco tornato dalla Sicilia, e Zenone venuto da Calcedone, con rinforzar le guardie imperiali, succedeva maggior disordine in quella città. Esito ben diverso ebbero in Occidente le discordie insorte fra l'imperadore Antemio e Ricimere patrizio. Era similmente esorbitante la potenza di costui nell'imperio occidentale, barbaro anche [640] esso di nazione, ed eretico ariano di credenza. Tuttochè Antemio, con dargli in moglie una sua figliuola, si fosse studiato di attaccarlo mercè di questo modo ai proprii interessi, pure si trovò deluso. Ricimere volea farla da imperadore; corsero anche sospetti di peggio, cioè ch'egli meditasse dei neri disegni sulla persona dello stesso Antemio; perchè teneva corrispondenza coi Barbari nimici dell'imperio; e quanto più Antemio s'ingegnava d'obbligarlo coi doni, tanto più egli diveniva orgoglioso. Si venne perciò a rottura, e Ricimere si ritirò a Milano, dove cominciò a far preparamenti di guerra contra del suocero Augusto. Ennodio [Ennod. in Vita S. Epiphanii Ticinens. Episcopi.], scrittore di questi tempi, quegli è che fa questo racconto, ed aggiugne che la nobiltà milanese colle lagrime agli occhi cotanto lo scongiurò, che s'indusse a spedire una ambasceria ad Antemio per trattar di pace. Fu scelto per tale impresa santo Epifanio vescovo di Ticino, cioè di Pavia, che, ito a Roma, pacificò l'imperadore, e riportò sì lieta nuova a Milano. Quest'ambasciata di sant'Epifanio vien riportata dal Sigonio all'anno 472, e dal cardinal Baronio al presente 471. Ma il padre Sirmondo [Sirmondus, in Notis ad Ennod.], seguitato poi dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], pretende che essa seguisse nel 468, perchè di quel santo prelato, proposto per ambasciatore, fu detto: Est nobis persona nuper ad sacerdotium ticinensis urbis adscita; ed Ennodio scrive di sotto, che regnando Nipote imperadore, cioè nell'anno 474, sant'Epifanio toccava già l'anno ottavo del suo vescovato. Ma noi ricaviamo da Sidonio [Sidon., lib. 4, ep. 5.] che negli ultimi mesi dell'anno 467 seguirono in Roma le solennissime nozze di Ricimere colla figliuola di Antemio Augusto, e che nel dì primo dell'anno 468, in cui esso [641] Sidonio recitò il suo panegirico in onore di Antemio, Ricimere era in Roma, e passava egregia concordia col suocero. Dall'altro canto impariamo da Ennodio nella vita suddetta, che, dopo essere nata la discordia fra l'imperadore e Ricimere, questi si ritirò a Milano, e che amendue facevano preparamenti di guerra: dopo di che fu spedito sant'Epifanio, il quale prima della Pasqua se ne ritornò a Pavia. Adunque non è verisimile che sì presto si rompesse l'amicizia tra Antemio e Ricimere, e che in sì breve tempo, come è dal primo di gennaio dell'anno 468 al dì 31 di marzo d'esso anno, succedesse quanto ho narrato fin qui. Però quel nuper di Ennodio dovrebbe prender più tempo di quel che sembra; e riesce credibile che più tardi di quel che si figura il Sirmondo, accadde la dissensione suddetta e l'ambasciata di sant'Epifanio. Certamente quand'anche si accordasse una dissensione e tregua precedente, almeno in quest'anno dovette ribollire fra l'imperadore e Ricimere l'odio e la discordia, di cui vedremo gli effetti funesti nell'anno che seguita.


   
Anno di Cristo CDLXXII. Indizione X.
Simplicio papa 5.
Leone imperadore 16.
Olibrio imperadore 1.

Consoli

Festo e Marciano.

Da Anastasio Bibliotecario, nella vita di papa Simmaco [Anastas. Bibl. in Vit. Symmachi.], intendiamo che il primo di questi consoli, cioè Festo, ebbe questa dignità per l'Occidente. L'altro, cioè Marciano, fu console per l'Oriente. Pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che questi sia figliuolo di Antemio Augusto, a cui fu data per moglie Leonzia figliuola di Leone imperadore d'Oriente. Ma s'è veduto anche all'anno 469 console Marciano, ch'esso Pagi parimente crede lo stesso che procedette console nel presente anno. [642] Chieggo io, se ciò è, perchè mai Marciano non viene in alcuno de' Fasti, nè presso alcuno degli storici, appellato consul II? Ciò a me fa dubitare di due personaggi diversi. Finalmente in quest'anno divampò il mal animo dell'iniquo Ricimere patrizio contra dell'imperadore Antemio. Dal solo autore della Miscella [Tom. 1 Rer. Italic. Scriptor.], secondo la mia edizione, abbiam qualche lume di questo successo. Non ostante la pace fatta, il perfido ariano venne da Milano alla volta di Roma con un gagliardo esercito, e si mise ad assediar la città, con accamparsi presso il ponte del Teverone. Poche forze aveva Antemio, che verisimilmente non si aspettava questa visita. Il peggio fu, ch'egli teneva ben dalla sua una parte del popolo romano, ma anche un'altra seguitava il partito di Ricimere, tra perchè egli s'era fatto di molti aderenti, e perchè molti de' Latini miravano di mal occhio un greco imperadore che comandasse all'Occidente. Fors'anche in lui non si trovava quella religione e pietà che i Greci decantano. Sostenne Antemio per lungo tempo l'assedio; e Teofane [Theoph., in Chronogr.] scrive che giunsero i suoi soldati per mancanza de' viveri fino a mangiar del cuoio ed altri insoliti o schifosi cibi. Tanta costanza ed ostinazione procedeva dalla speranza che avessero da venir soccorsi. Ed in fatti Bilimere, governator delle Gallie, udita che ebbe la congiura scoppiata contro Antemio, desideroso d'aiutarlo, venne speditamente in Italia, menando seco un buon esercito; e giunto che fu a Roma, presso il ponte d'Adriano, attaccò battaglia; ma male per lui, perchè vi restò sconfitto ed ucciso. Il Sigonio lasciò scritto che questo Bilimere era di nazione Goto, e l'esercito suo composto di Goti; ma io non truovo onde ciò apparisca. Dopo questa vittoria, Ricimere, o per forza, o per amore, entrò a dì undici di luglio nell'afflitta città di Roma; e quivi una delle [643] prime cose fu di far tagliar a pezzi il misero Antemio suocero suo. Trovavasi Roma allora in estreme miserie, parte per l'orrida fame patita, e parte per una epidemia che infieriva nel popolo. Vi si aggiunse il terzo flagello, cioè il terribil sacco che l'ariano Ricimere quivi permise ai vittoriosi suoi soldati, non essendo restati esenti da tanta barbarie se non due rioni, dove era alloggiata la gente d'esso Ricimere. Ed ecco l'amaro frutto dell'aver gl'imperadori voluto per lor guardie, o per ausiliarii, gente barbara, ariana e di niuna fede. Ma questo iniquo uomo, che avea tenuti finora per ischiavi gl'imperadori, e poi gli aveva, secondo il suo arbitrio, mandati all'altro mondo, non godè lungamente il frutto delle sue malvagità, perciocchè da lì a tre mesi, come ha l'autore della Miscella, o pure, come attesta il Cronologo del Cuspiniano [Chronolog. Cuspiniani apud Panv.], scrittore più accurato, nel dì 18 d'agosto, fra gli spasimi d'una dolorosa malattia finì anch'egli di vivere e di assassinare gl'imperadori. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 473.] ha osservato che Ricimere avea fatto fabbricare in Roma una chiesa col titolo di sant'Agata, oggidì sotto monte Magnanapoli, acciocchè servisse di sepolcro a lui e ai suoi soldati goti, che seguitavano al pari di lui l'arianismo. In un musaico si leggeva questa iscrizione:

FL. RICIMER. V. I. MAGISTER VTRIVSQ. MILITIAE
PATRICIVS ET EXCONSVL ORD. PRO VOTO SVO
ADORNAVIT.

E in una lamina di rame con lettere di argento, rapportata dal Doni e da me altrove [Thesaur. novus Inscript., pag. 266.], si leggeva quest'altra:

SALVIS DD. NN.
ET PATRICIO
RICIMERE
EVSTATIVS VC
VRB. P. FECIT.

[644] Al suono degli sconcerti suddetti, e durante l'assedio testè riferito, era corso dall'Oriente in Italia Olibrio, nobilissimo senatore della casa Anicia, già stato console nell'anno 464. Era un pezzo ch'egli pretendeva all'imperio, perchè marito di Placidia figliuola dell'imperadore Valentiniano III, ma non gli era venuto fatto finora di ottenere il suo intento. In questi torbidi si dovette egli appoggiare a Ricimere, non peranche morto, dalla cui forza bisognava riconoscere la corona dell'Occidente; e però fu proclamato Augusto. Nelle medaglie presso il Mezzabarba [Mediob., Numism. Imp.] si vede intitolato D. N. ANICIVS OLIBRIVS AVG. Chiaramente scrive l'autore della Miscella [Hist. Miscell. tom. 1 Rer. Italic.] che Olibrio fu mandato in Italia da Leone imperadore d'Oriente, e che essendo tuttavia vivo Antemio Augusto, egli conseguì la porpora imperatoria: il che se è vero, o egli burlò Leone, che probabilmente non l'avea inviato per danneggiar Antemio sua creatura, oppure Antemio dovea essere decaduto dalla grazia di Leone Augusto. Anche il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.], con cui va d'accordo Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], sembra assai manifestamente insinuare che Olibrio prima che fosse tolta la vita ad Antemio, fu dichiarato imperadore. Scrive di più Teofane [Theoph., in Chronogr.], che lo stesso Leone Augusto dichiarò imperadore Olibrio, e mandollo in Italia. Però si può dubitare dell'opinion del Pagi [Pagius, Critic. Baron.], che il suppone innalzato al trono solamente dappoichè Roma fu presa ed Antemio restò vittima della crudeltà di Ricimere. Ma io non so se per malizia degli uomini, o pel corso naturale delle cose caduche del mondo, Olibrio poco tempo godè la dignità imperatoria. Aveva egli dopo la morte di Ricimere, per quanto abbiamo dall'autore della Miscella e [645] dal Cronologo del Cuspiniano, creato patricio Gundibalo, ossia Gundibaro, o Gundibaldo, nipote di Ricimere e generale dell'armata cesarea in quei tempi. Eruditamente osservò il suddetto Pagi che questo Gundibaldo era figliuolo di Gundeuco re dei Borgognoni; e Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2. cap. 28.] scrive aver egli ucciso Chilperico e Gundomaro suoi fratelli, ed essere in fine stato punito da Dio con una simil morte. Per attestato di Ennodio [Ennod., in vita s. Epiphanii Ticin. Episc.], costui regnò in Lione; ma in questi tempi militando al servigio dell'imperio romano, e stando in Roma, ottenne le dignità vacanti per la morte di Ricimere. Altra azione fatta da Olibrio Augusto non è pervenuta a nostra notizia, se non che egli terminò il suo comando e i suoi giorni nel dì 23 d'ottobre, siccome attesta il Cronologo del Cuspiniano, e di morte naturale, per quanto s'ha dall'autore della Storia Miscella; il quale, non men che Cassiodoro, Giordano e Marcellino conte, gli dà sette mesi d'imperio, e non già tre mesi e dodici giorni, come immaginò il padre Pagi; riconoscendosi da questo ch'egli qualche mese prima della morte di Antemio Augusto avea dato principio all'imperio suo. Non lasciò Olibrio figliuoli maschi, per quanto si sappia, dopo di sè, dal matrimonio già contratto con Placidia figliuola di Valentiniano III Augusto, ma bensì una figliuola, appellata Giuliana, che fu maritata ad Ariobindo illustre personaggio, non quello che fu console nell'anno 434, ma sì ben ad un nipote d'esso, perciocchè, per attestato della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], trovandosi nell'anno 512 essa Giuliana nobilissima patricia presente ai giuochi circensi in Costantinopoli, le fazioni gridarono: Vogliamo Ariobindo per re della Romania. Questo accidente fu cagione che Ariobindo per paura di Anastasio, allora imperadore, se ne fuggì di là dal mare. Trovavasi tuttavia in Africa Eudocia, sorella [646] della suddetta Placidia, maritata con Unnerico, primogenito di Genserico re dei Vandali, e gli aveva partorito un figliuolo per nome Ilderico, il quale col tempo divenne re di quella perfida nazione. Racconta Teofane [Theoph., in Chronogr.] ch'ella nel presente anno non potendo più sofferire, siccome buona cattolica, d'aver per marito un ariano, dopo esser vivuta con lui sedici anni, trovò felicemente la maniera di fuggirsene, e se n'andò dirittamente a Gerusalemme, dove, dopo aver visitati i santi luoghi, e il sepolcro di Eudocia Augusta sua avola, stabilì la sua residenza, ma per poco tempo, perchè Dio la chiamò a sè. Lasciò ella tutti i suoi beni alla chiesa della santa Risurrezione, con raccomandare al vescovo un suo fedel servitore che l'avea aiutata alla fuga. In quest'anno medesimamente, per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], il monte Vesuvio vomitò tanta cenere, che coprì tutta la superficie dell'Europa, e in Costantinopoli, per memoria di questa terribil cenere, fu istituita una festa a dì 6 di novembre. Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 4.] anch'egli scrive essere stata tradizione che a Costantinopoli giugnesse quella cenere, e perciò avesse principio la festa suddetta. Contra del Bodino, che deride come una semplicità la narrazione di questi due autori, il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] reca un passo di Cassiodoro [Cassiodorus, Variar., lib. 4, ep. 50.], il quale asserisce che la polve vomitata dal Vesuvio giugneva fino alle provincie di oltremare. Certo è intanto doversi chiamare un grande iperbole quella di Marcellino conte. Che poi quelle ceneri giugnessero di là dall'Adriatico, si può credere, avendone noi veduto un esempio anche ai dì nostri; ma il farle anche volare sino a Costantinopoli in forma sensibile, sembra notizia non sì facile da digerire.


[647]

   
Anno di Cristo CDLXXIII. Indizione XI.
Simplicio papa 6.
Leone imperadore 17.
Glicerio imperadore 1.

Console

Flavio Leone Augusto per la quinta volta, senza collega.

Erano talmente imbrogliati gli affari in Occidente, che non fu creato console in Italia; e però il solo Leone Augusto comparisce per la quinta volta nei Fasti di quest'anno. Dopo la morte di Olibrio, mi si fa credibile che o l'emulazione di molti impedisse per qualche tempo la elezione di un nuovo imperadore d'Occidente, oppur che il senato romano trattasse con Leone imperadore d'Oriente per camminar seco di buona armonia in cosa di tanto rilievo. Ma in questo mentre Glicerio, il quale non sappiamo chi fosse, nè qual dignità godesse, così persuaso da Gundibalo patrizio, come abbiam da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], si fece proclamare imperadore d'Occidente dall'esercito di Ravenna nel dì 5 di marzo. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] lasciò scritto che Glicerio più per sua prosunzione, che per elezione, fu fatto imperadore, volendo, a mio credere, significare che non vi concorse l'assenso del senato; e certamente ciò succedette senza saputa e volontà di Leone Augusto. Dall'autore della Miscella [Histor. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.] questo Glicerio è appellato domesticus, cioè guardia del corpo, non so se dell'imperadore o di Gundibalo patrizio. Teofane [Theoph., in Chronogr., pag. 90.] scrive che Marciano, da noi veduto di sopra imperadore, era stato domestico di Aspare patrizio. Ed allorchè Gioviano fu fatto imperadore, per attestato di Ammiano Marcellino [Ammianus Marcell., lib. 25.], era il primo nell'ordine dei domestici. Trovasi inoltre che l'essere [648] domestico portava talora il comando in qualche uffizio, o nella milizia: sopra che è da vedere il Codice Teodosiano e il Du-Cange [Du-Cange, in Glossar. Latino.]. Le azioni di questo novello imperadore, che nondimeno regnò poco tempo, restano seppellite nell'obblio. Solamente sappiamo da Teofane che esso fu uomo non cattivo, e da Ennodio [Ennod., in Vita s. Epiphan.], che essendo stata ingiuriata la madre (per quanto apparisce) dello stesso Glicerio dagli uomini suoi sudditi (forse dai Pavesi), s'interpose sant'Epifanio vescovo di Pavia, ed impetrò loro il perdono. Racconta inoltre Giordano istorico [Jordan., de Reb. Get., cap. 56.], che venuto in Italia Videmire, fratello di Teoderico re o duca degli Ostrogoti, con un corpo d'armata, terminò qui i suoi giorni; ed essendogli succeduto Videmire suo figliuolo, Glicerio fece tanto con dei regali, che lo indusse a passar nelle Gallie, dove si unì coi Visigoti, anch'essi della nazion medesima. Sentiva intanto Leone imperador d'Oriente che declinava forte la sua sanità, e però non avendo figliuoli maschi che gli potessero succedere nell'imperio, rivolse tutto il suo studio per far cadere la corona in capo a Zenone suo genero, perchè marito di Arianna sua figliuola. Candido, antichissimo storico, di cui Fozio [Photius, in Biblioth. Cod. 79.] ci ha conservato un estratto, racconta, che per quanto egli s'adoperasse, non potè ottenere che i sudditi acconsentissero alla elezion di Zenone: segno che si esigeva in quei tempi il consenso del senato e del popolo per creare gl'imperadori. Perciò Leone si appigliò al partito di dichiarare Cesare, e per conseguenza suo successore, o, come altri vogliono, Augusto e collega nell'imperio, con approvazion del pubblico, Leone suo nipote, nato dai suddetti Zenone ed Arianna. Giovanni Zonara [Zonar., in Annal.] pretende che Leone stesso abborrisse il far imperadore Zenone, perchè uomo di aspetto odiosissimo e di animo anche più [649] brutto. Vuole il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che si stia alla fede di Candido, come scrittore più antico; ma essendo poi stato dopo la morte di Leone, col consenso del senato, eletto imperadore lo stesso Zenone, non par credibile il preteso abborrimento del senato e popolo, nè che Leone avesse voluto daddovero promuoverlo dianzi. Oltre di che più a lui dovea premere l'innalzamento di un discendente suo, cioè del nipote, che del genero. Sotto quest'anno ho io posta la elezione di Leone juniore, seguendo Cassiodoro, Teofane, Marcellino conte, ed anche Cedreno. Ma Candido storico scrive presa questa risoluzione da Leone Augusto poco prima della sua morte. Tuttavia essendo mancato di vita esso Leone nel gennaio dell'anno seguente, non apparisce in ciò discordia fra gli storici. Nell'anno presente ancora merita Apollinare Sidonio, riguardevole scrittore di questi tempi, che si faccia memoria come egli fu creato vescovo della città di Auvergne nella Gallia. Dissi di sopra che Teoderico figliuolo di Triario, duca dei Goti orientali, con Ostro conte, tentò di far vendetta della morte di Aspare patrizio. Furono questi Barbari astretti a ritirarsi, e fecero dipoi molti danni nella Tracia, dove piantarono allora la loro sede. Malco rettorico [Malchus Rhetor, tom. 1 Hist. Byz. pag. 92.], di cui restano alcuni estratti nel libro delle Ambascerie, racconta che quei Goti, i quali comincieremo a chiamare Ostrogoti, fecero in questo anno istanza a Leone Augusto che fosse data ad esso Teoderico l'eredità lasciatagli dall'ucciso Aspare patrizio; che potessero abitar nella Tracia, e che a Teoderico si desse il comando sopra le milizie straniere, come aveva il suddetto Aspare. Perchè tutto non fu loro accordato, Teoderico spedì parte delle sue genti a devastar la campagne di Filippi: assediò ancora e prese Arcadiopoli. Seguì appresso la pace, con obbligarsi l'imperadore a pagar ogni anno duemila libbre di oro ad essi Ostrogoti, e con dichiarare [650] il suddetto Teoderico generale dei due corpi d'armata che servivano alla guardia dell'imperadore. Questo Teoderico è diverso dall'altro, figliuolo di Teodomiro, che fu poi re d'Italia, ed era anch'egli in Oriente allora in gran reputazione.


   
Anno di Cristo CDLXXIV. Indizione XII.
Simplicio papa 7.
Zenone imperadore 1.
Nipote imperadore 1.

Console

Flavio Leone juniore Augusto, senza collega.

Nel gennaio del presente anno, secondo la testimonianza di Teofane [Theoph., in Chronog.], Leone Augusto per una ostinata dissenteria pose fine ai suoi giorni. Fu principe zelante della religione cattolica, ed inclinato alla clemenza. Vedesi appellato Magno dai Greci, ma senza che si contino di lui imprese tali che il mostrino degno di sì onorifico titolo. Restò dopo di lui imperadore d'Oriente Leone juniore, figliuolo di Arianna sua figliuola e di Zenone Isauro; e a questo novello Augusto fu conferito in Oriente il consolato, perchè gl'imbrogli dell'imperio in Occidente non dovettero permettere il creare un console in queste parti. Zonara [Zonar., in Annal.], Cedreno [Cedren., in Histor.] e Cirillo monaco [Cyrillus apud Cotelerium, tom. 4 Monum. Graec.] attestano che Leone juniore era molto fanciullo, ossia nell'infanzia; e Giovanni Malala [Malala, in Chron.] scrisse ch'egli aveva allora sette anni. Contuttociò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] sostiene che egli fosse nato nell'anno 458, fondato sull'autorità della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], che gli dà diciassette anni di età, con citare in testimonio di ciò anche Nestoriano istorico, e Suida [Suidas, verbo Zeno.], che il descrive [651] allevato nella più abbominevol lussuria; con aggiugnere che le parole greche degli autori suddetti possono significare non solo un fanciullo, ma anche un giovane. Nulladimeno per conto di Suida, o è scorretto quel testo, o il suo racconto comparisce con circostanze affatto inverisimili; e in fine può essere che vi si parli d'altro figliuolo di esso Zenone. Nella Cronica poi Alessandrina probabilmente si dee leggere sette, e non diciassette anni. Certamente ancora Procopio attribuisce poca età al novello Augusto Leone. E dalla vita di san Daniele Stilita [Surius, in vit. S. Daniel. Stilit.] si può quasi ricavare che nell'anno stesso in cui Basilisco fu console, cioè nell'anno 465, fu data per moglie a Zenone Arianna madre di esso Leone juniore Augusto. Certamente non prima dell'anno 459 seguì il lor matrimonio. Mirava intanto Zenone suo padre con invidia il figliuolo alzato a sì sublime dignità, con restarne egli escluso; però tanto s'adoperò col mezzo d'Arianna, e con guadagnare l'assenso del senato, che indusse il figliuolo ad accettarlo per collega nell'imperio nel febbraio seguente, e a mettergli di sua mano la corona in testa. Ma giunto il mese di novembre, Leone juniore Augusto terminò la sua vita; e considerati i vizii di Zenone suo padre, non mancarono sospetti che da lui stesso provenisse la troppo affrettata morte di questo giovane Augusto, giacchè non v'ha scelleratezza che non si possa sospettare, dove entra la troppo ardente voglia di regnare. Sicchè restò solo imperadore di Oriente Zenone, chiamato Isauro, perchè di quella nazione. Portava egli prima il nome isaurico di Tarasicodisa; e perciocchè s'acquistò gran credito presso di Leone Augusto, per aver maneggiata una lega fra lui e il popolo dell'Isauria, e Leone volea maggiormente unirlo a sè stesso, gli fu conceduta in moglie Arianna, siccome dicemmo, figliuola d'esso imperador Leone. Portò poche virtù e molti [652] vizii sul trono imperiale, per i quali fu mal intesa la sua promozione dal popolo, e ne provò egli in breve le conseguenze. Per attestato di Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 1.] e di Teofane [Theoph., in Chronogr.] appena creato imperadore, si abbandonò a tutti i piaceri, anche i più laidi, anche i più infami.

Scena nuova s'aprì similmente in Italia nell'anno presente. Era dispiaciuta a Leone imperador d'Oriente la prosunzione di Glicerio, che senza saputa ed assenso di lui aveva occupata la corona dell'imperio occidentale. Però inviò in Italia con un esercito Giulio Nipote figliuolo di Nepoziano [Jordan., de Regnor. success.], con dargli per moglie una sua nipote. Giunto questi a Ravenna, d'ordine di esso imperadore, fu da Domiziano uffiziale d'esso Leone Augusto proclamato Cesare. Così abbiamo da Giordano istorico [Idem, de Reb. Getic. cap. 45.], il quale altrove ci fa sapere che questo Nipote era figliuolo di una sorella di Marcellino patrizio, cioè di quel medesimo che fu ucciso dai suoi nella sfortunata spedizione in Africa di Basilisco. Egli si vede intitolato nelle medaglie [Mediob., Numism. Imp.] D. N. JVLIVS NEPOS P. F. AVG. Da Ravenna passò Nipote a Roma co' suoi soldati, e raggiunto Glicerio nella città di Porto alla sboccatura del Tevere, quivi senza spargimento di sangue l'obbligò a deporre la porpora imperiale; ed acciocchè avesse da vivere e rinunziasse alla speranza di più ritornare sul trono, l'astrinse a farsi cherico, con avergli in appresso procurata la cattedra episcopale di Salona città della Dalmazia. Ciò fatto, per quanto s'ha dal Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.], Nipote fu proclamato imperadore d'Occidente in Roma nel dì 24 di giugno. Di queste rivoluzioni e discordie del romano imperio [653] si prevalse Eurico re de' Visigoti, signoreggiante in Tolosa nelle Gallie, il quale, rotta la pace, assalì coll'armi le provincie romane, e specialmente assediò la città d'Auvergne, appellata oggidì Chiaramonte, ossia Clermont. Eravi dentro alla difesa Ecdicio, figliuolo del già imperadore Avito, personaggio non meno pel valore che per la pietà riguardevole, il qual fece una gagliarda resistenza, e fu molte volte alle mani con que' barbari. A questo avviso, per quanto si raccoglie dalle lettere di Apollinare Sidonio [Sidon., lib. 3. ep. 7, et lib. 5, ep. 16.], Nipote Augusto spedì verso le Gallie Liciniano questore col diploma, con cui dichiarava generale di armata il suddetto Ecdicio, affine di maggiormente animarlo a sostenere gli affari dell'imperio romano. Portossi inoltre Liciniano a trattare con Eurico per indurlo a desistere dalle offese del paese romano; ma trovò duro il cuore di quel re barbaro ed orgoglioso. Non è improbabile che sia da riferire a questi ciò che narra Giordano istorico [Jordan., de Reb. Get., cap. 47.], cioè che Genserico re de' Vandali osservando così sfasciato l'imperio romano in Occidente, e pur temendo che o Leone o Zenone dall'Oriente facesse qualche sforzo o trama contra di lui, commosse con grossi regali i Visigoti ad assalire l'imperio in Occidente, e gli Ostrogoti a molestar le provincie d'Oriente, affine di starsene egli con tutta quiete a tiranneggiar nell'Africa. Vedremo fra poco muoversi gli stessi Ostrogoti contra dell'imperio orientale. La inutil ambasciata di Liciniano fece risolvere l'imperador Nipote ad inviare al re Eurico un ambasciadore di maggior riguardo; e questi fu il soprallodato santo Epifanio vescovo di Pavia. Il fatto è raccontato da Ennodio [Ennod., in Vit. S. Epiph. Ticin. Episc.]. Andò il santo vescovo, e trovò Enrico in Tolosa, e pare che per cagion del verno fosse sciolto lo assedio d'Auvergne. Perorò il venerabil prelato, e finalmente ottenne la pace, ma [654] a condizione che la città suddetta d'Auvergne fosse ceduta amichevolmente a lui; se no, egli minacciava maggiori ferite all'imperio di Occidente. Accuratamente fu ciò osservato anche dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], ancorchè Giordano [Jordan., de Reb. Get., cap. 45.] avesse scritto che i Visigoti costrinsero colla forza quella città alla resa, dappoichè Ecdicio, vedendo di non poter più resistere, coraggiosamente se ne ritirò con ridursi in luogo sicuro. Sembra poi che solamente nell'anno susseguente quella città venisse in poter de' Visigoti: del che si lamentò forte Sidonio vescovo della medesima.


   
Anno di Cristo CDLXXV. Indizione XIII.
Simplicio papa 8.
Zenone imperadore 2.
Romolo, ossia Augustolo, imperadore 1.

Console

Flavio Zenone Augusto per la seconda volta, senza collega.

Alle miserie della Gallia narrate di sopra si dee ora aggiugnere la persecuzione fatta da Enrico re de' Visigoti alla religion cattolica, e descritta nel presente anno da Sidonio vescovo in una sua lettera [Sidon., lib. 7, cap. 6.] a Basilio vescovo d'Aix, come va conghietturando il padre Sirmondo. Racconta egli che il re barbaro, zelantissimo della sua setta ariana, non già uccise i vescovi cattolici, come scrisse Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 25.], osservando il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che il summis sacerdotibus morte truncatis di Sidonio, solamente s'ha da interpretare, ch'erano morti di morte naturale, ma sì bene vietava che si ordinassero i lor successori, di maniera che per mancanza di parrochi e preti le chiese rimanevano serrate, e sulle porte di esse nascevano le spine, e i popoli restavano [655] defraudati de' sacramenti. Due vescovi furono mandati in esilio; e toccò da lì a qualche tempo allo stesso Sidonio la medesima disavventura, dalla quale nondimeno egli si rilevò per intercessione di Leone questore dello stesso re Eurico. Intanto nell'Italia, divenuta teatro di frequenti peripezie, avvenne che Nipote imperadore, volendo aver più vicino Ecdicio, valoroso figliuolo del già Avito imperadore, di cui si è parlato nel precedente anno, o per sospetti, o con disegno di rimunerarlo, il chiamò in Italia, siccome narra Giordano istorico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 45.], e in luogo suo destinò generale d'armata nelle Gallie Oreste, creato prima patrizio, e che certamente da lì a non molto si trova ornato di questa dignità. Costui vien chiamato di nazione Romano da Prisco istorico [Priscus, pag. 37, tom. 1 Hist. Byz.], il quale cel rappresenta spedito negli anni addietro ambasciatore a Costantinopoli da Attila re degli Unni. E che questi fosse il medesimo, di cui ora parliamo, ne fa fede il Cronologo [Chronologus Valesii post Ammianum.] pubblicato dal Valesio dopo Ammiano Marcellino, con dire che allorchè Attila calò in Italia, Oreste si acconciò al di lui servigio per segretario delle lettere. Dopo la morte di quel re barbaro tornato esso Oreste in Italia, si avanzò ancora nel servigio degl'imperadori occidentali, tanto che giunse nel presente anno a comandare l'armata ch'egli dovea condur seco nelle Gallie. Vien costui appellato da Procopio, uomo di singolar prudenza. Ora questo sì prudente, ma disleale personaggio, in vece di muoversi alla volta delle Gallie, guadagnati ch'ebbe gli animi della maggior parte de' soldati, rivolse l'armi contra del suo stesso signore e benefattore. Per quanto scrive il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.], e l'autore anonimo del Valesio [Anonymus Valesianus.], Nipote imperadore sorpreso da questa frode si ritirò in Ravenna, e [656] quivi da Oreste fu sì strettamente assediato, che veggendo di non poter resistere, nel dì 28 d'agosto giudicò meglio di fuggirsene per mare a Salona città della Dalmazia, dove Glicerio da lui deposto era dianzi ito ad empiere quella cattedra episcopale. Di belle accoglienze si dovettero fare l'uno all'altro questi due abbattuti Augusti. Era anche il suddetto Nipote dalmatino di nazione, per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.]; e però fu ben ricevuto dai suoi nazionali, fra' quali, finchè potè, seguitò a signoreggiare. Aveva Oreste un figliuolo assai giovinetto per nome Romolo, e perciocchè tutto andava a seconda de' suoi desiderii, il fece proclamare imperadore in Ravenna nel dì 31 d'ottobre dell'anno presente. Questi è chiamato dagli scrittori antichi Augustolo, credono alcuni per derisione a cagion della sua tenera età. Pensano altri ch'egli, oltre al nome di Romolo, portasse quello d'Augusto. Il Du-Cange [Du-Cange, Famil. Byz., pag. 81.] rapporta una medaglia con questa iscrizione. D. N. ROMVLVS AVGVSTVS P. F. AVG. Il Goltzio [Goltzius, in Numism.] ne dà un'altra con le seguenti lettere: D. N. AVGVSTVLVS PERP. P. F. AVG.; ed un'altra con questa epigrafe: D. N. FL. MOMVL. AUGVSTVLVS P. F. AVG. Si può con ragion sospettare, anzi credere, della impostura in alcune di queste medaglie. L'anonimo del Valesio merita probabilmente più fede, allorchè scrive che questo giovane, prima d'essere innalzato al trono imperiale, era chiamato Romolo dai suoi genitori. Forse questo glorioso nome fu cambiato per ischerno dalla gente in Momolo, e poscia in Momillo; o pure qualche testo corrotto dei vecchi storici ha ingannato in ciò alcuni de' moderni scrittori. Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 1.], all'incontro, c'insegna ch'egli avea nome Augusto, e che i Romani per galanteria, a cagione della sua età, il chiamavano Augustolo.

[657] Circa questi tempi, per quanto si ricava da Malco [Malch., in Hist. Byzant., tom. 1, pag. 75.] e da Giordano storici [Jordan., de Reb. Get., cap. 55.], non però in tutto concordi, gli Ostrogoti abitanti nella Pannonia (il che è da notare, e vedremo anche Teoderico re d'Italia appellar la Pannonia antica sede dei Goti) mossero guerra all'imperio d'Oriente, con fare un'irruzione nella Mesia. Re di costoro era Teodemiro, padre di quel Teoderico Amalo che vedremo fra qualche tempo re d'Italia. Aveva questo re dianzi condotto il suo esercito contra gli Alamanni e Svevi della Germania, con devastar le loro campagne, e trucidar qualunque se gli opponeva. Tornando poscia a casa vittorioso, con sommo piacere accolse il figliuolo Teoderico, lasciato ne' tempi addietro per ostaggio nella corte di Costantinopoli, e rimandato a casa da Leone imperadore con dei magnifici regali. Era allora Teoderico in età di dieciotto anni, ed innamorato sì fattamente della guerra, che da lì a non molto, senza saputa del re suo padre, raunato un corpo di seimila soldati, e passato il Danubio, improvvisamente arrivò addosso a Babai re dei Sarmati, principe insuperbito per aver poco prima data una rotta a Camondo duca dei Romani; ed avendolo ucciso, con ricchissima preda se ne tornò a casa, con aver tolta ai Sarmati la città di Singidono, occupata da essi ai Romani, ch'egli seppe anche ritenere per sè. Ora Teodomiro accompagnato dal figliuolo Teoderico ostilmente col suo esercito passò nella Mesia, prese la città di Naisso, ed altri luoghi; s'impadronì della Tessalia, di Eraclea e Larissa; e, passato più innanzi, pose l'assedio a Tessalonica, ossia Solonichi. Clariano, o piuttosto Ilariano patrizio, che era alla difesa di sì importante città, temendo di soccombere, mandò dei doni a Teodemiro, e propose un trattato di pace, in cui fu conchiuso che si scioglierebbe quell'assedio, e l'imperadore concederebbe a quei Barbari una buona porzion di paese [658] nella Tracia. Non molto dopo venne a morte il re Teodomiro, e chiamati i suoi Goti alla presenza e col consentimento di essi dichiarò suo successore Teoderico suo figliuolo, principe di rara espettazione, le cui imprese racconteremo a suo tempo. Ma qui non è molto sicura la Cronologia di Giordano; perciocchè vedremo che la presa di Larissa succedette nell'anno 481, Zenone imperadore in quest'anno a dì 15 d'ottobre fece una molto lodevol legge [Cod. ut Omnes.], ordinando che tutti i governatori e giudici, terminato il lor magistrato, si fermassero per cinquanta giorni nel luogo per fare il sindacato. Ma intanto esso imperadore seguitava a sfoggiare nei vizii e ne' passatempi. Secondochè s'ha da Teofane [Theoph., in Chronogr.], negò egli una grazia a Verina Augusta sua suocera, che l'avea aiutato a salire sul trono. Di più non vi volle, perchè ella pensasse a farnelo discendere. Aspettato dunque il tempo che Zenone si trovava in Eraclea città della Tracia, congiurata con vari senatori, fece svegliare da Basilisco suo fratello una sedizione in Costantinopoli, al cui avviso Zenone, uomo effeminato e mancante di coraggio, se ne scappò in Soria per mare, menando seco Arianna Augusta sua moglie e una gran somma d'oro, e si ritirò in un forte castello. Quivi anche tremando giudicò meglio di rifugiarsi nella Isauria, dove il popolo della sua nazione gli diede tutta la possibil sicurezza. La Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] dice ch'egli fuggì a Calcedone, e di là in Isauria, ed era allora tempo di verno. Intanto Basilisco fratello di Verina Augusta fu proclamato imperadore, ed egli, dopo aver fatta coronare Zenonida, ossia Zenoida, sua moglie, dichiarò Cesare, e poscia collega nell'imperio, Marco suo figliuolo, il quale negli editti pubblicati dal padre, e in una medaglia, rapportata dal Chifflezio, si vede nominato col genitore, ed ornato anch'esso col titolo d'imperadore. Rapporto io al [659] presente anno questo avvenimento, raccontato da tutti gli antichi scrittori, quantunque io sappia che il Pagi lo riferisca all'anno susseguente. Ma di ciò torneremo allora a parlare.


   
Anno di Cristo CDLXXVI. Indiz. XIV.
Simplicio papa 9.
Zenone imperadore 3.
Odoacre re 1.

Consoli

Basilisco per la seconda volta ed Armato.

Amendue questi consoli sono orientali. Basilisco vien creduto il fratello di Verina Augusta. Armato, per testimonianza di Teofane [Theoph., in Chronogr.], era nipote, e, secondo altri, cugino d'esso Basilisco. L'autore della Miscella [Histor. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.] ci fa sapere che dopo essere stato creato imperadore Romolo Augustolo, Oreste patrizio suo padre spedì ambasciatori a conchiudere una lega con Genserico re de' Vandali in Africa. Ma ciò a nulla servì, perchè da un altro Barbaro venne la rovina di lui e dell'imperadore suo figliuolo. E questi fu Odoacre figliuolo di Edicone, cioè, per quanto porta la verisimiglianza, di quel medesimo che si trova annoverato da Prisco istorico [Priscus, tom. 1 Hist. Byz., pag. 37 et seq.] fra i primi ministri d'Attila, e chiamato Scita, cioè Tartaro di nazione. Da Giordano storico [Jordan., de Regnor. Success.] egli ci vien rappresentato natione Rugus: e da Teofane è detto di stirpe gotica, ma allevato in Italia. Nella vita di san Severino [Vita s. Severini, in Act. SS. Boland. ad diem 8 januar.], scritta non lungi da questi tempi da Eugippio, egli vien nominato Odobagar, Otachar e Odachar. Come e perchè movesse Odoacre contra d'Augustolo questa sì fiera tempesta, non si può ricavar chiaro dalla storia antica. Il suddetto Giordano e l'autore della Miscella scrivono ch'egli dall'ultimo confine della Pannonia (e pur [660] di questa abbiam detto ch'erano allora padroni i Goti) calò in Italia con un formidabile esercito d'Eruli, Turcilingi, Rugi, Sciti, ed altri popoli ausilarii; e passando pel Norico volle abboccarsi con san Severino apostolo di quelle contrade, che era in fama di gran santità, da cui gli fu predetto quanto poscia accadde. È narrato questo fatto anche dal suddetto Eugippio nella vita del medesimo santo. Verisimilmente Odoacre invitato dagli amici di Nipote, e tratto dalla fama di tante mutazioni, che sommamente avevano indebolito l'imperio romano d'Occidente, si mosse colla speranza di farne egli stesso il conquisto. Ma Teofane, siccome abbiam detto, attesta che Odoacre era allevato in Italia; e Procopio aggiugne [Procop., lib. 1, cap. 1 de Bell. Goth.] che costui militava in Italia fra le guardie del corpo degl'imperadori. E perciocchè prima i Romani aveano preso al loro servigio una gran moltitudine di Barbari, Sciti, Alani e Goti, con vergogna e danno dell'imperio stesso, avvenne che essi Barbari insuperbiti, conoscendo il loro forte, e qual contrada fosse questa, e come erano inviliti gl'Italiani, cominciarono a pretendere una terza parte dei terreni dell'Italia per loro sostentamento. Oreste si oppose a tal pretensione; laonde i medesimi elessero per loro capo Odoacre, che spogliò poi Oreste della vita, e suo figliuolo dell'imperio. Quando ciò fosse stato, sarebbe da credere che Odoacre fosse passato dall'Italia nella Pannonia, da dove poi, per rinforzare i Barbari di Italia, fosse ritornato, conducendo seco una ciurma sterminata di varie altre nazioni, tutte ansanti a far bottino in questi paesi, non rade volte infelici, perchè troppo felici.

Comunque sia, giunto in Italia con sì grande sforzo di gente Odoacre, senza trovar opposizione, s'incamminò verso la fertile Liguria, cioè verso Milano. Oreste patrizio, raunata quanta gente potè, s'era postato all'Adda, probabilmente verso Lodi, per contrastargli il passo; [661] ma conosciute troppo superiori le forze de' Barbari, e trovandosi anche abbandonato da molti dei suoi, ritirossi a Ticino, cioè a Pavia, città assai forte, sperando quivi un asilo sicuro. Sopraggiunse Odoacre, ed assediata la città, la espugnò finalmente, e ne permise il sacco ai soldati, che fecero prigioni i cittadini e diedero alle fiamme le chiese e le case, facendo un terribil falò di tutte le abitazioni. Ennodio [Ennod. in Vita S. Epiphanii.] è quello che descrive così fiera tragedia. Venuto in quella occasione alle mani di Odoacre Oreste patrizio, parve che avesse da avere salva la vita; ma condotto a Piacenza, quivi nel dì 28 d'agosto fu ucciso [Chronologus Cuspiniani.]. Marciò di poi il vittorioso esercito alla volta di Ravenna. Era quivi Paolo fratello d'Oreste, e questi ancora preso nella Pigneta fuori di Classe, restò vittima del furore barbarico nel dì 4 di settembre. Entrò Odoacre in Ravenna, e continuato il viaggio, niuna difficoltà trovò ad entrare anche in Roma. Nell'una di queste due città colse Augustolo; ma mosso a compassione della di lui tenera età, ricordevole ancora della amicizia passata in addietro con Oreste di lui padre, non solamente gli salvò la vita, ma fattogli un assegno di seimila soldi d'oro, il confinò in un castello della Campania, appellato Lucullano, acciocchè quivi liberamente vivesse co' suoi parenti: parole dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], indicanti che suo padre fosse nativo di quelle contrade. Così, secondo la osservazion degli antichi, l'imperio romano cominciato da Romolo, e stabilito da Augusto, terminò in questo infelice Romolo ed Augustolo. Si diffuse poi per l'Italia tutta l'armata barbarica. La maggior parte delle città aprì senza farsi pregare le porte; e quelle che vollero far resistenza, pagarono il fio della loro arditezza colla morte degli abitanti, e con divenir elle smantellate ed uguagliate al suolo. Così divenne Odoacre in poco [662] tempo signore e re di tutta l'Italia. Per tale, se crediamo all'Anonimo Valesiano, fu egli riconosciuto nel dì 25 d'agosto, cioè dopo essersi impadronito di Milano e Pavia. Ma con più formalità dovette ciò avvenire, allorchè ebbe deposto Augustolo, e l'armi sue furono entrate in Roma. Non volle egli titolo d'imperador d'Occidente, per riverenza a Zenone imperador d'Oriente, premendogli di non disgustarlo. Anzi vedremo fra poco che egli sul principio, per quanto si raccoglie da Malco istorico [Malch., tom. 1. Hist. Byz.], mostrava intenzione di contentarsi del solo titolo di patrizio, e di governar questi paesi a nome dell'imperadore suddetto. Ma egli da lì innanzi signoreggiò qual re, e dagli scrittori ancora è chiamato re; se non che sappiamo da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] ch'egli non usò mai di portare la porpora, nè le altre insegne reali. E perciò non si veggono medaglie o monete battute da lui in onor suo. Nè resta legge o costituzione fatta da lui. Sembra ancora verisimile ch'egli si dichiarasse subordinato a Zenone imperadore, e il riguardasse come suo sovrano, e però tenesse in freno la propria autorità e potenza. Fece la sua residenza in Ravenna [Theoph., in Chronogr.], città splendidissima allora e molto ricca e forte. E perciocchè gli stava a cuore d'aver anche sotto il suo dominio la Sicilia, che allora ubbidiva al tiranno dell'Africa, cioè a Genserico re de' Vandali, trattò, per attestato di Vittore Vitense [Victor Vitensis, lib. 1 de Persecut.], con esso Genserico, e l'indusse a cedergliela, a riserva d'una parte, con promettere di pagargli ogni anno un certo tributo. Per altro Odoacre, tuttochè di setta ariano, niuna novità fece in pregiudizio della religion cattolica, nè molestò i vescovi o le chiese dei cattolici; anzi si mostrò amorevole ed indulgente verso di loro, come si ricava da Ennodio nella vita di sant'Epifanio. Contuttociò seguì una non lieve mutazione in [663] Italia a cagione di questi nuovi ospiti, conquistatori della terra; perciocchè attesta Procopio [Procop., lib. 1 cap. 1 de Bell. Goth.] che a tanti Barbari in premio della vittoria, e pel loro sostentamento, bisognò assegnar la terza parte dei beni che possedevano gl'Italiani.

In quest'anno poi, siccome ho accennato di sopra, il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che circa il fine di gennaio Zenone Augusto fosse obbligato alla fuga dal suddetto Basilisco, il quale si fece tosto proclamar imperadore. Aggiugne che circa il mese d'agosto dell'anno susseguente 477 terminò la tirannia di Basilisco, con risalire sul trono il già fuggito Zenone. Può esser stato così, ma si vuol qui confessare un grande imbroglio nelle storie intorno al tempo di questo avvenimento. Io non mi attribuisco di poter colpire nel vero; tuttavia dirò non essere già certa la sentenza del padre Pagi, e portar io opinione, o almeno non lieve sospetto, che nel gennaio del precedente anno 475 Basilisco usurpasse la corona d'Oriente, e che egli, prima che terminasse lo stesso anno 475, decadesse, con essere rimesso sul trono Zenone Augusto. I motivi di questa mia opinione sono i seguenti. Noi abbiamo una legge data da Zenone Augusto [L. 28, C. de Jure dotium.] nel dì primo di gennaio dell'anno 476, e similmente un'altra promulgata dal medesimo imperadore X halendas martias Basilio II et Armasio coss. [L. 5, Cod. de naturalib. liberis.], cioè nell'anno presente, quantunque sia alquanto sfigurato il nome di questi consoli, dovendo essere Basilisco et Armato coss. Adunque nel febbraio del 476, e non già nell'agosto del 477, come vuole il padre Pagi, dovea essere ritornato in Costantinopoli Zenone, ed avere ripigliato il governo. E se di qui talun volesse inferire che in esso febbraio del 476 non dovea essere per anche seguita l'intronizzazione di Basilisco, s'ha osservare una [664] altra legge [L. 16, C. de sacros. Eccl.] data da esso Zenone XVIII Kalendas januarii Armatio V. C., cioè nel presente anno ai quindici di dicembre. Questa ci fa vedere rimontato già sul trono Zenone prima che termini l'anno 476, e non già nell'agosto del 477. Accortosi di ciò il padre Pagi, pretende che sia scorretta quella data, e vi s'abbia a leggere post consulatum Armatii V. C. Ma se è stato lecito al padre Pagi l'acconciare colla sua sentenza i testi, sarà permesso anche a noi la libertà medesima, con dire che l'epistola ottava di Simplicio papa [Labbe, Concilior., tom. 4.], scritta a Zenone Augusto, in cui si congratula del trono ricuperato, e che è data VIII idus octobris P. C. Basilisci et Armati, si dee correggere con iscrivere Basilisco et Armato coss. Potè Zenone Augusto tardar molto a significare al romano pontefice il suo ristabilimento e la sua buona disposizione in favor della Chiesa cattolica. Notisi ora l'epistola quarta del medesimo papa Simplicio, scritta con zelo degno d'un pontefice romano, non già a Zenone Augusto, come saggiamente ha osservato lo stesso Pagi, ma sì bene a Basilisco Augusto. Essa è data Quarto idus januarii, Basilisco Augusto consule, cioè nel presente anno 476; e da essa apparisce che già Timoteo Eluro, usurpatore della chiesa patriarcale d'Alessandria, dall'esilio era ritornato ad occupar la medesima, e di là era passato a Costantinopoli. Ma se nel gennaio del 476, come vuole il padre Pagi, Basilisco s'intruse nell'imperio d'Oriente, come potè papa Simplicio scrivere a lui sul principio d'esso gennaio del 476, se non potea per anche aver intesa la nuova delle mutazion dell'Augusto, e molto men quella dello ristabilimento dell'empio Timoteo? Ancor qui il padre Pagi acconcia la data, con dire che s'ha da scrivere IV idus junias, e non januarias. Ma lasciando nel suo essere quella data, vien essa ad accordarsi col proposto sospetto che nel 475 Basilisco usurpasse la corona [665] d'Oriente, e ne fosse spogliato prima che terminasse l'anno stesso; il che non essendo per anche venuto a notizia di papa Simplicio sul principio di gennaio dell'anno presente 476, potè perciò scrivere ad esso Basilisco per pregarlo di rimediare all'insolenza di Timoteo Eluro. Il padre Labbe e lo stesso Pagi credono che nella data della lettera quarta suddetta si debba leggere Basilisco et Armato coss., e che perciò essa appartenga all'anno presente.

Ma quello che principalmente fa a me credere ben fondata la da me proposta opinione, si è che Malco rettorico [Malch., Hist. Byzant., tom. 1, pag. 93.] e storico forse il più vicino di tutti a questi tempi, e lodato molto da Fozio, ha conservato, negli Estratti che restano, una particolarità degna di molto riguardo in questo proposito, che servirà ancora ad illustrar le cose d'Occidente. Scrive egli che Augusto, ossia Augustolo, figliuolo di Oreste, appena ebbe inteso che Zenone avea ricuperato l'imperio d'Oriente, con cacciarne Basilisco, che obbligò il senato romano a spedirgli un'ambasceria, con rappresentargli che bastava un solo imperadore. E che esso senato avea preso Odoacre persona attissima alla difesa dell'imperio d'Occidente, perchè di gran valore e scienza politica; pregando perciò Zenone di volere ornar costui colla dignità del patriziato. Nello stesso tempo Nipote fuggito in Dalmazia, e che in quelle parti seguitava a farla da imperadore, spedì anch'egli suoi ambasciatori a Zenone per congratularsi della ricuperata corona, e per supplicarlo, che avendo esso Zenone provata la calamità che era toccata ad esso Nipote, volesse aver compassione di lui, ed aiutarlo a ricuperare il perduto imperio. Zenone propose l'affare in senato, e fu risoluto di dar favore a Nipote, sì perchè Verina Augusta era parente della di lui moglie, e sì perchè le disavventure accadute a Zenone il movevano a commiserar lo stato dell'altro. [666] Fu anche determinato che Odoacre prendesse dalle mani di Nipote Augusto la dignità del patriziato, benchè poi Zenone, in iscrivendo ad Odoacre, gli desse egli il titolo di patrizio. Così Malco rettorico. Ciò posto, convien ricordare che Augustolo, fatto imperador d'Occidente nel dì 31 di ottobre dell'anno 475, regnò fino al dì 25 d'agosto dell'anno 476. In questo tempo di mezzo bisogna che seguisse la spedizione de' legati a Costantinopoli a Zenone, il quale era già ritornato sul trono, e tal nuova era già pervenuta a Roma, benchè tanto lontana. Si scorge ancora che poco dovea essere che Odoacre avea occupata l'Italia e Roma, con cercare la grazia e l'approvazione del suo governo dall'imperadore d'Oriente; e per conseguente convien credere che Zenone cadesse dal trono nell'anno 475, e che prima del fine d'esso anno vi risalisse coll'abbassamento di Basilisco, e che in questo medesimo anno andassero a trovarlo le ambascerie del senato romano e di Nipote rifugiato in Dalmazia, e non già ch'egli decadesse nell'anno 476, e risorgesse nell'agosto del 477. In fatti Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] mette la caduta di Zenone e l'usurpazione di Basilisco nell'anno 475. Teofane [Theoph., in Chronogr.] anch'egli, tuttochè citato per la sua opinione dal padre Pagi, pure è contro di lui, e favorevole all'opinione proposta; giacchè egli riferisce il fatto nell'anno primo di Zenone, ed immediatamente dopo la morte di Leone juniore Augusto. Oltre di che, Niceforo [Niceph., lib. 16, cap. 2.] attesta anch'egli che Zenone poco tempo dopo avere ottenuta la dignità imperiale, ne fu spossessato da Basilisco, e però nell'anno 475. Lo stesso si ricava da Cedreno [Cedrenus, in Chron.] e da Joele cronografo [Joel, in Hist. Byz.], stampato dopo Giorgio Acropolita. Però contra di questa opinione non ha da aver forza la Cronica Alessandrina citata dal [667] Pagi, perchè troppo fallace nella cronologia, e nè pur concorde con esso lui in quel sito. Puossi bensì opporre che i consoli del presente anno 476 furono Basilisco il tiranno ed Armato, e conseguentemente non potè nelle calende di gennajo di questo essere stato rimesso in trono Zenone. Ma si risponde che quel Basilisco console potè non essere il tiranno; ed esso in fatti è nominato semplicemente Basilisco senza la giunta d'Augusto o di D. N., cioè domino nostro. Potrebbe dunque Basilisco console in quest'anno essere stato il figliuolo di Armato, che Zenone creò Cesare, secondo l'attestato degli antichi storici, in esecuzione della promessa fatta ad Armato suo il padre, per tirarlo al suo partito. Ed egli precede il padre, perchè di maggior dignità. Quel solo che ragionevolmente può qui far opposizione, si è, che Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 7.] e Vittor Turonense [Victor Turonensis, in Chron.] scrivono durata la tirannia di Basilisco un anno ed otto mesi; ed Evagrio due anni. Teofane la stende fino a tre anni. Ma questa medesima discordia fa conoscere che per conto del tempo d'essa tirannia non abbiamo una autorità sicura; ed uno può aver fallato, e gli altri averlo seguitato. Finalmente se non è certo il quando Basilisco, spezialmente a cagione della guerra fatta alla Chiesa cattolica, fosse cacciato, può almen parere convenevolmente mostrato il quando egli occupò l'imperio, cioè l'anno 475, e non già il 476, come pretende il padre Pagi. Nè io aggiugnerò altro intorno alle iniquità di Basilisco, e agli affari della Chiesa, e al terribile incendio succeduto sotto di lui in Costantinopoli, potendosi intorno a ciò consultare il cardinale Baronio [Baron., Annal. Eccl.]. Basterà sapere che Zenone seppe guadagnare i capitani di Basilisco, e ritornar sul trono d'Oriente. Levato con molte promesse dalla chiesa, in cui s'era rifugiato, fu poi barbaramente fatto [668] morir di fame in una prigione colla moglie e co' figliuoli.


   
Anno di Cristo CDLXXVII. Indizione XV.
Simplicio papa 10.
Zenone imperadore 4.
Odoacre re 2.

Senza consoli; e però l'anno fu notato Post consulatum Basilisci II et Armati.

Venne a morte in quest'anno Genserico re dei Vandali in Africa. Il cardinal Baronio il reputa mancato di vita nel precedente; ma con più ragione il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] riferisce la sua morte al dì 24 di gennajo dell'anno presente. Nè può essere altrimenti, stante il trattato che dicemmo seguito tra lui e Odoacre re d'Italia: al che fu necessario del tempo. Concorre del pari questa notizia a rendere più credibile la restituzione sul trono di Zenone Augusto sul fine dell'anno 475. Imperocchè Malco istorico [Malch. in Hist. Byzant., tom. 1, pag. 95.] scrive che un anno dopo lo ristabilimento di Zenone vennero da Cartagine a Costantinopoli gli ambasciatori di Unnerico re d'essi Vandali, succeduto a Genserico suo padre, chiedendo di stabilire una buona amicizia e pace con Zenone, ed offerendo di rinunziare a tutte le pretensioni passate per cagione di Eudocia figliuola di Valentiniano III Augusto, già moglie sua. Fu accettata la esibizione, firmata la pace, e rimandati gli ambasciatori con molti regali. Se, come vuole il Pagi, Zenone avesse ricuperato l'imperio solamente circa l'agosto dell'anno presente 477, Unnerico un anno appresso, cioè circa l'agosto del 478, avrebbe spedita la sua ambasciata. Ma è ben più verisimile, che essendo morto Genserico nel gennajo del presente anno, il successore e figliuolo Unnerico non tardasse ad inviare gli ambasciatori a Costantinopoli, e per conseguente circa il febbrajo o marzo di quest'anno: apparendo perciò che era già corso un anno dappoichè Zenone aveva ricuperato il [669] trono, e non già che Zenone fosse tuttavia in esilio. Venne meno in Genserico ariano un gran persecutore dei Cattolici in Africa, e in tutti i paesi, dove si stese la di lui crudeltà; e cessò ancora un gran flagello dell'Italia, e di altri paesi, che di tanto in tanto quel re barbaro andava infestando e rovinando colle sue flotte. Già di sopra all'anno 456 vedemmo annoverati da Vittore Vitense [Victor Vitens., lib. 1 de Persec.] questi paesi maltrattati da quel re divenuto corsaro. Ma Unnerico suo figliuolo non amò l'infame mestier de' corsari; anzi datosi ai piaceri e ad una vita molle, senza più tenere in piedi l'armata che suo padre sempre aveva in pronto, fu, per quanto potè, alieno dalla guerra. Il suo furore adunque dopo alcuni anni si rovesciò tutto sopra i Cattolici dell'Africa, ch'egli perseguitò barbaramente con levar loro la vita, con esiliare quel piissimo clero e i loro vescovi, ed usar altre maniere di crudeltà contra di essi, descritte dal suddetto Vittore. Zenone imperadore d'Oriente, addottrinato dalle disavventure passate, e stimolato dalle forti preghiere e lettere di papa Simplicio, attese in questi tempi a sanar le piaghe che l'empio tiranno Basilisco avea fatto alla vera Chiesa di Dio col fomentar le varie eresie di que' tempi, e permesso ai vescovi eretici di occupar varie chiese di Oriente e d'Egitto. Poco nondimeno durò questo suo zelo. Intanto nell'anno presente un terribil tremuoto, per testimonianza di Teofane [Theoph., in Chronogr.] e di Cedreno [Cedren., in Histor.], recò immensi danni a Costantinopoli, con abbattere molte chiese e case, e restar sotto le rovine una gran moltitudine di persone. Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] scrive succeduto questo flagello nell'anno 480; ed essendo sì imbrogliata la Cronologia di Teofane, chi sa che non [670] sia da prestar qui più fede a Marcellino scrittore più antico? Di Odoacre re d'Italia altro non si sa sotto quest'anno, se non che egli fece morire Bracila conte in Ravenna, siccome racconta il suddetto Marcellino conte. Bravila vien egli chiamato dal Cronologo del Cuspiniano [Chronolog. Cuspiniani.], che il dice ucciso da esso re nel dì 11 di luglio, ma senza che noi sappiamo altra particolarità di quel fatto. Dovette da lì innanzi attendere Odoacre a stabilire il suo governo nell'Italia, che avea sommamente patito nell'ingresso rovinoso di tanti Barbari. Ma intanto Eurico re dei Visigoti, che signoreggiava nella parte meridionale della Gallia, seppe prevalersi del tempo, in cui l'Italia tutta si trovò sì sconvolta per la venuta di Odoacre. Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 47.] scrive che egli (verisimilmente circa questi tempi) occupò Arles e Marsilia; e potea ben farlo, perchè non v'era chi gli si opponesse. Anzi Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.] lasciò scritto che dopo aver Odoacre occupata l'Italia, per conciliarsi l'amicizia de' Visigoti, si contentò che stendessero i confini del loro dominio sino alle Alpi che dividono l'Italia dalle Gallie. Ma non sussiste già che il suddetto Eurico soggiogasse tutta la Gallia, e la Spagna, e i Borgognoni, come soggiugne il prefato storico Giordano. Una parte sì delle Gallie, ma non mai tutte quelle contrade conquistò egli. E sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Gothor.] non parla neppur egli se non dell'acquisto delle suddette due città. Oltre di che, il regno de' Borgognoni andò piuttosto crescendo da lì innanzi, e all'anno di Cristo 500 vedremo che essi Borgognoni signoreggiavano un gran paese, e insino la provincia di Marsilia, come s'ha da Gregorio Turonense, se pure in ciò è sicura la di lui autorità.


[671]

   
Anno di Cristo CDLXXVIII. Indizione I.
Simplicio papa 11.
Zenone imperadore 5.
Odoacre re 3.

Console

Illo, senza collega.

In questi tempi noi troviamo un solo console, creato in Oriente, perchè Zenone Augusto adirato contra di Odoacre usurpator della Italia, nol volea riconoscere per re o signore legittimo; e Odoacre all'incontro procedendo colle buone, non voleva crear consoli in Occidente, per mostrar di non presumere troppo, e che non aveva animo di cozzare coll'imperadore d'Oriente. Fors'anche abborriva la dignità de' consoli, perchè tuttavia si conservava in essi un'ombra di molta autorità. Questo Illo è nominato da Teofane, Zonara e Cedreno, per avere tradito Basilisco tiranno, ed ajutato Zenone Augusto a risalire sul trono. Egli ne ebbe in quest'anno per guiderdone il consolato, e da lì a qualche altro anno la morte. Erano intanto fieramente turbate dagli eretici eutichiani le chiese d'Oriente, e specialmente le patriarcali di Alessandria ed Antiochia. Però papa Simplicio non omise diligenza e premura alcuna, affinchè si reprimesse l'audacia di coloro. Indusse Acacio patriarca di Costantinopoli a raunare un concilio, in cui condannò Timoteo Eluro, Pietro Fullone ed altri capi di quella eresia e perturbazione. Altrettanto fece in Roma anche lo stesso pontefice Simplicio; ma con poco frutto, perciocchè Acacio non diceva davvero, ed in breve si venne a scoprire che lo stesso Zenone Augusto favoriva gli eretici. Nulla di più aggiungo, perchè intorno a questi affari son da leggere gli Annali del cardinal Baronio e del padre Pagi. Non si sa che Odoacre re d'Italia stendesse fuori d'essa la sua signoria; nè che popolo alcuno della Gallia o della Spagna [672] prestasse a lui ubbidienza, come aveano fatto in addietro agl'imperadori romani. E quantunque ci manchino lumi per questi tempi intorno allo stato delle provincie oltramontane; pure resta assai fondamento per poter dire, che cominciando dalle Alpi marittime che dividono l'Italia dalla Gallia, si stendeva il dominio de' Visigoti per tutta la parte meridionale di essa Gallia, e di là dai Pirenei, abbracciando la Catalogna, l'Aragona e la Navarra, continuando poi fino a Siviglia. La Gallizia gemeva sotto il giogo degli Svevi col Portogallo. Nella parte poi della Gallia che cominciava dal giogo delle Alpi Cozie colla Savoia e Borgogna, che era allora più ampia d'oggidì, signoreggiava il re e la nazione de' Borgognoni, i quali erano collegati coi Romani. Anche i Britanni, già venuti dalla gran Bretagna nella Gallia, aveano quivi formata una signoria con dar titolo di re al principe loro. L'altre provincie settentrionali, giacchè non poteano aver più comunicazione coi padroni dell'Italia, si governavano da sè stesse, senza riconoscere signore alcuno. E Zosimo [Zosim., lib. 6 Histor.] scrive, che ne' primi anni del secolo quinto, dappoichè seguì la ribellione di Costantino tiranno della Gallia, molte di quelle provincie si rimisero in libertà, e, cacciati i magistrati romani, cominciarono a governarsi coi proprii. Che se qualche città vi restava che amasse di stare all'ubbidienza dell'imperio romano, questa non si volle sottomettere al barbaro Odoacre, come vedremo nell'anno 480. Nè sussiste già, come hanno osservato uomini dotti, che il popolo de' Franchi prima di questi tempi avesse fermato il piede nelle Gallie suddette. Passarono ben qualche volta i Franchi il Reno, e devastarono il paese, ma se ne ritornarono addietro. Però a Clodoveo loro re si riferisce la conquista delle Gallie, siccome, andando avanti, verremo intendendo.


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Anno di Cristo CDLXXIX. Indizione II.
Simplicio papa 12.
Zenone imperadore 6.
Odoacre re 4.

Console

Flavio Zenone Augusto per la terza volta, senza collega.

Passò ancora quest'anno senza che in Occidente fosse creato console alcuno, secondochè si costumava in addietro. Per testimonianza di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], Teoderico Amalo, figliuolo di Teodomiro re degli Ostrogoti, che fu poi re d'Italia, mosse guerra in questi tempi all'imperio d'Oriente, con devastar la Grecia, e giugnere fino alla città di Durazzo, di cui si impadronì, come abbiamo dai frammenti di Malco istorico [Malch., in Hist. Byzant., tom. 1, pag. 81.]. Toccò a Zenone Augusto, uomo dappoco, la fortuna di aver per suo generale nell'Illirico un personaggio sommamente lodato dal suddetto storico Marcellino, cioè Sabiniano, il quale per la rara sua prudenza e valore, e spezialmente per avere rimesso in piedi la disciplina militare, si potè paragonare agli antichi capitani della repubblica romana. Questo Sabiniano adunque, con quelle poche milizie che potè raunare, si oppose ai progressi di Teoderico; e più coll'ingegno che colla forza l'indusse a desistere da quelle violenze, con fargli sperare onori e vantaggi dall'imperador Zenone. In fatti era anche tale il desiderio di Teoderico, narrando il suddetto Malco ch'egli si esibì pronto a posar le armi, oppur di far guerra a Teoderico figliuolo, di Triario, capo di un'altra parte di Goti che si era stabilita nella Tracia, esigendo poi in ricompensa d'essere creato generale d'armata in luogo del suddetto Teoderico suo emulo, d'essere ammesso come cittadino in Costantinopoli, e di potere aver parte negli uffizii del pubblico. Aggiunse inoltre che egli era pronto, [674] se l'imperadore comandava, di passare in Dalmazia, per cacciare di colà Nipote: parole che ci fanno abbastanza intendere che Nipote già imperador d'Occidente, benchè avesse perduta l'Italia, non lasciava però di tener salda sotto il suo dominio la Dalmazia. Sotto quest'anno rapporta Vittor Turonense [Victor Turonensis, in Chron.] la fiera persecuzione che di sopra accennammo, fatta da Unnerico re de' Vandali in Africa ai cattolici; ma di questa parleremo più abbasso. Egli è ben certo, per attestato di Ennodio [Ennod., in vita S. Epiph. Ticin. Episc.], che in questi tempi sant'Epifanio vescovo di Pavia, confidato nell'aiuto di Dio e del popolo, si applicò a riedificare il duomo della sua città, rovinato nell'entrata violenta de' Barbari, come di sopra si è detto. E gli venne fatto. Nè contento di avere adornata coi sacri edifizii essa città, procurò ancora ed ottenne da Odoacre l'esenzion dei tributi ai cittadini suoi per cinque anni avvenire, affinchè potessero riaversi dagl'immensi danni patiti nella presa della città. E perciocchè Pelagio prefetto del pretorio per esso re Odoacre faceva pagare ai popoli della Liguria nei contratti il doppio di quel tributo che si pagava per l'addietro con intollerabil gravezza de' sudditi, ricorsi quei popoli al santo prelato per aiuto, egli in persona andò, dimandò, ed ottenne la giusta moderazione di quegli aggravii. Probabilmente succedette in questi tempi la sedizione mossa contra di Zenone Augusto da Marciano, figliuolo del già imperador d'Occidente Antemio, e cognato d'esso Zenone. Aveva per moglie Leonzia figliuola del già Leone Augusto, e di Verina imperadrice; e saltatogli in pensiero che ad essa sua moglie appartenesse l'imperio d'Oriente, per esser ella nata, mentre Leone suo padre era imperadore, laddove Arianna moglie di Zenone Augusto era venuta alla luce prima che il padre avesse ottenuta l'imperiale dignità: mosse perciò guerra a Zenone, aiutato dai propri fratelli Romolo [675] e Procopio [Theoph., in Chronogr. Evagrius, lib. 3, cap. 26.]. Seguì una battaglia entro la stessa città di Costantinopoli, in cui le truppe di Zenone ebbero la peggio, e furono astrette a ritirarsi nel palazzo, e poco mancò che Marciano anch'egli non vi mettesse il piede. Ma non seppe Marciano profittar del buon vento. Passò egli la notte in cenar bene e dormir meglio; ed intanto Illo general di Zenone con doni guadagnò buona parte dei di lui soldati, di modo che la seguente mattina Marciano accortosi che gli erano state tagliate le penne, altro spediente non trovò che di scapparsene in chiesa. Per ordine di Zenone fu dipoi ordinato prete, e mandato a Papurio castello della Cappadocia in esilio. I suoi fratelli Romolo e Procopio, colti la notte da Illo, mentre si lavavano, ed appresso fuggiti dalle di lui mani, si ritirarono a Roma. Ma abbiamo da Malco [Malchus, tom. 1 Hist. Byz. pag. 87.], da Candido istorico [Candidus, apud. Pothium, Cod. 79.], che Procopio si rifugiò presso di Teoderico figliuolo di Triario re di una parte dei Goti, e non è più probabile che Odoacre avesse sì facilmente ammesso in Roma chi vantava per padre un imperadore. Scrisse lo stesso Malco che il suddetto Teoderico, udita ch'ebbe le sedizione eccitata da Marciano, mosse la sua armata verso Costantinopoli sotto pretesto di aiutar Zenone. Ma Zenone conoscendo con che volpe avea a fare, gli spedì incontro Pelagio, il quale parte colle minacce, parte con regali a Teoderico, e con profusione di molto danaro ai suoi Goti, lo indusse a tornarsene indietro. Vedremo all'anno seguente una simil mossa di Teoderico verso Costantinopoli, con lasciarmi in qualche dubbio, se piuttosto a quello che a questo anno si avesse da riferire la raccontata sedizion di Marciano. Ma sì Evagrio che Malco e Teodoro lettore [Theodorus Lector, lib. 1 Histor. Eccl.] assai dimostrano che questo affare succedette molto tempo prima che il suddetto [676] Teoderico venisse a morte, e però qui par meglio il dar luogo ad un tale avvenimento.


   
Anno di Cristo CDLXXX. Indizione III.
Simplicio papa 13.
Zenone imperadore 7.
Odoacre re 5.

Console

Basilio juniore, senza collega.

Questo Basilio, secondochè credono il Sigonio, il Panvinio e il padre Pagi, fu creato console in Occidente dal re Odoacre, il quale probabilmente alle istanze del senato condiscese a restituir l'uso dei consoli in Roma; se pure ciò non avvenne, perch'egli stanco dei negoziati fatti con Zenone Augusto, per essere riconosciuto re d'Italia, senza cavarne altro frutto, determinossi a valersi della sua autorità, senza voler più dipendere da esso imperadore. È chiamato Basilio juniore a distinzione dell'altro Basilio che fu console nell'anno 463. Truovasi Basilio prefetto del pretorio in Roma, e patrizio nell'anno 483, menzionato nel concilio romano, e probabilmente quello stesso che ora è console. Tuttavia perchè è ben da stupire come Zenone Augusto non dichiarasse il suo console nel presente anno, forse non è certo che il suddetto Basilio console appartenesse all'Occidente. Siccome abbiam veduto, Nipote già imperadore, cacciato da Oreste padre di Augustolo, s'era ritirato nella Dalmazia, e quivi ritenendo il nome di Augusto, comandava ancora a quei popoli fedeli a lui, perchè anch'esso era di quella nazione. Ma egli trovò de' traditori in casa propria. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] al presente anno scrive che Nipote stando in una villa non lungi da Salona, per insidie a lui tese da Viatore ed Ovida, ch'erano dei suoi conti, cioè uffiziali della stessa corte, fu levato di vita. Il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.] in due parole sotto questo [677] console dice, che Nipote fu ucciso nel dì 9 di maggio. Crede il Sigonio che per odii privati succedesse questa iniquità, e che il fatto dispiacesse non poco al re Odoacre, per quello che dirò all'anno seguente: e ciò potrebbe essere stato. Ma non crederò già col Sigonio che Nipote menasse una vita privata in Dalmazia, per le ragioni addotte di sopra. Qui prende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] ad illustrare un avvenimento che vien accennato da Candido storico presso Fozio [Photius, in Bibliotheca Cod. 79.]. Narra egli che dopo essere stato deposto (e non già dopo essere stato ucciso, come dottamente osserva esso padre Pagi) Nipote imperadore romano e scacciato il suo successor Augustolo, Odoacre s'impadronì dell'Italia e di Roma. E che non accordandosi con lui i Galli occidentali, inviarono una ambascieria a Zenone Augusto; ed essendone nello stesso tempo stata inviata una altra al medesimo imperadore da Odoacre, parve che Zenone inclinasse più a favorire Odoacre. Fanno argomentare queste parole, che tuttavia restasse nella Gallia qualche popolo fedele al romano imperio, che nondimeno ricusava di riconoscere per suo signore Odoacre re d'Italia. Potrebbono anche appartenere a questi tempi le suddette ambascerie. Ora il Pagi pretende che da queste ambascerie non sieno punto diverse quelle che Malco istorico riferisce inviate a Zenone, e delle quali si è parlato di sopra all'anno 476. Ma difficilmente i saggi lettori concorreranno in sì fatta opinione. Candido scrive che i Galli occidentali (per distinguerli dai Galati, cioè dai Galli orientali) mandarono i loro ambasciatori a Zenone Augusto, e che Odoacre anch'egli spedì i suoi. Malco all'incontro chiaramente ci fa sapere che Augusto figliuolo di Oreste, udito che ebbe il risorgimento di Zenone, forzò il senato di Roma ad inviargli degli ambasciatori. Adunque Augustolo tuttavia comandava, [678] e la spedizione di quegli ambasciatori fu fatta, per quanto si può conghietturare, ad istigazione di Odoacre, il quale sui principii del suo governo impiegò esso Augustolo e il senato romano per ottenere l'approvazione dell'imperadore d'Oriente. Aggiugne che ne' medesimi giorni Nipote decaduto dall'imperio, e ritirato in Dalmazia, inviò anche egli ambasciatori a Zenone, supplicandolo del suo aiuto per ricuperare la primiera sua dignità e fortuna. Come ognun vede, nulla han che fare queste ambascerie con quelle dei Galli e di Odoacre, inviate per altri fini a Costantinopoli. Quanto a Zenone, egli, siccome già accennammo, conferì il patriziato ad Odoacre, credendo ch'egli aiuterebbe Nipote. Ma il Barbaro spogliò Augustolo dell'imperio, e non rimise Nipote sul trono, perchè più ebbe a cuore l'esaltazione propria che l'altrui. Secondo i conti del cardinal Baronio, Unnerico re dei Vandali alle forti istanze di Zenone Augusto e di Placidia vedova di Olibrio già imperador d'Occidente, condiscese in questi tempi, che dopo ventiquattro anni di sede vacante fosse eletto dal clero e dal popolo cattolico di Cartagine il loro vescovo; e questi fu Eugenio prelato che per le sue insigni virtù illustrò non poco la Chiesa cartaginese. Crede il padre Pagi che l'elezione di Eugenio e le preghiere di Zenone Augusto, per ottener questa grazia da Unnerico, sieno da riferire al precedente anno, perchè allora si celebrarono i quinquennali di Zenone dopo la morte di Leone juniore, ed in tali occasioni solevano gl'imperadori segnalarsi con qualche illustre azione. Ma sembrerà ben debole questa ragione ai lettori, oltre al potersi mettere in dubbio que' medesimi quinquennali, immaginati da esso padre Pagi, innamorato forse troppo di quella sua creduta importantissima scoperta.


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Anno di Cristo CDLXXXI. Indizione IV.
Simplicio papa 14.
Zenone imperadore 8
Odoacre re 6.

Console

Placidio, senza collega.

È di parere Onofrio Panvinio [Panvin., in Fast.] che questo console fosse creato in Occidente; e veramente il nome latino di Placido, ossia di Placidio, come ha Cassiodoro [Cassiodorus, in Fastis.], può aiutare la di lui conghiettura. Ma non è certo l'affare, giacchè poco fondamento si può fare sul nome, pel commercio che passava allora tra i Latini e Greci. Da Teodosio il Grande nacque in Costantinopoli Galla Placidia, ed ivi parimente Pulcheria Augusta figliuola d'Arcadio nacque. E pure tanto Pulcheria che Placidia sono nomi latini. Dal suddetto Cassiodoro abbiamo all'anno presente, che il re Odoacre passato colle sue forze in Dalmazia, vinse ed uccise Odiva conte, cioè quel medesimo che proditoriamente avea tolta la vita a Nipote imperadore. Questa azione di Odoacre ci dà motivo di argomentare ch'egli avesse in addietro avuto dell'amore, o almen del rispetto per esso Nipote, con lasciarlo pacificamente signoreggiar nella Dalmazia, perchè Zenone Augusto glielo avea raccomandato; e che, udita poi la violenta sua morte, accorresse per far vendetta dei traditori. Ma probabilmente a questo desiderio s'aggiunse l'altro di sottomettere quella provincia al suo dominio, giacchè abbastanza si conosce che quell'Odiva conte, dopo avere assassinato Nipote, doveva avere assunta la signoria della Dalmazia, ed era colle armi in mano, di maniera che fu necessario il vincerlo colla forza. In questi tempi Teoderico figliuolo di Triario, re di una parte dei Goti, e diverso da Teoderico Amato, che fu poi re d'Italia, [680] ed era allora emulo del suddetto, fece, secondochè scrive Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], le cui parole son ripetute da Giordano [Jordan., de Regn. Success.], fece, dico, un'irruzione nella Tracia, con giungnere fino ad Anaplo, quattro miglia lungi da Costantinopoli; ma non istette molto a ricondurre indietro la sua armata con ammirazion di tutti, perchè non recò danno alcuno notabile al paese: il che non è ben poco credibile. Malco istorico [Malch., tom. 1 Hist. Byz.] parla molto di lui. Teofane [Theoph. in Chronogr.] all'incontro scrive ch'egli era nipote della moglie del fu Aspare patrizio, ed era stato generale di Basilisco tiranno, con aggiugnere ch'egli in questa mossa, dopo avere devastate varie contrade della Tracia, per avere scoperta una congiura dei suoi familiari, tornò addietro e gli uccise; il che vien confermato da Evagrio. Seguita a dire Marcellino che mentre costui s'incamminava con fretta verso l'Illirico, forse quivi sperando di far meglio i fatti suoi, avendone avuto paura il suo cavallo, si spiccò accidentalmente dalla cima di una carretta un dardo (Teofane dice un'asta) che il ferì; del che egli fra non molto si morì con gran festa e giubilo dei sudditi dell'imperio d'Oriente che aveano ricevuto in addietro gravissimi danni ed aggravii da lui. Ma questa consolazione troppo restò amareggiata per la morte succeduta verso i medesimi tempi di quel Sabiniano generale dell'armata cesarea, che tanto vien commendato dal suddetto Marcellino istorico, senza ch'egli avesse tempo di eseguir tutte le sue idee per rimettere in buono stato gli affari dell'imperio orientale. Nel presente anno crede il padre Pagi che seguisse la morte di Childerico re de' Franchi, e non già nell'anno 484, come altri hanno preteso. Ebbe per successore Clodoveo suo figliuolo, celebratissimo re di quella nazione, siccome vedremo.


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Anno di Cristo CDLXXXII. Indizione V.
Simplicio papa 15.
Zenone imperadore 9.
Odoacre re 7.

Consoli

Trocondo e Severino.

Trocondo console del presente anno fu creato in Oriente, ed era fratello di Illo stato console nell'anno 478. Anch'egli col fratello avea tradito Basilisco tiranno, col voltar casacca in favor di Zenone: servigio rimunerato dipoi con questa dignità. Severino sostenne il consolato in Occidente, ed è appellato juniore, per distinguerlo dall'altro ch'era proceduto console nell'anno 461. Per relazione di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], nell'anno presente Teoderico Amalo re dei Goti, che acquistò dipoi il regno d'Italia, dianzi amico, e poi divenuto (non se ne sa il perchè) nemico, mosse guerra di nuovo a Zenone imperador d'Oriente; ed entrato coll'armi nell'una e nell'altra Macedonia, siccome ancor nella Tessalia, vi commise dei gran saccheggi; e questa calamità spezialmente toccò a Larissa metropoli della stessa Tessalia. Era intanto salito ad una gran possanza nella corte di Zenone Augusto il poco fa mentovato Illo, generale dell'armi, e stato già console. Racconta Teofane [Theoph., in Chronogr.], che, per consiglio di costui, Zenone s'indusse a mandar via da Costantinopoli Verina Augusta suocera sua e vedova di Leone imperadore. Avendola sotto varii pretesti indotta a passare a Calcedone, fecela di colà condurre al castello di Papurio, per vivere insieme con Leonzia sua figliuola e con Marciano suo genero, relegati colà. Cominciò allora Verina a tempestar con lettere Arianna, l'altra sua figliuola e moglie d'esso Zenone Augusto, acciocchè le impetrasse la grazia, ed ella ne fece vivissime istanze [682] al marito. Saputa dipoi che da Illo era proceduta la risoluzion presa di cacciar in esilio essa sua madre, tanto fece Arianna, che impetrò da Zenone di poterne far vendetta. Mandò pertanto un sicario per levarlo dal mondo; ma costui nel tirargli un colpo di spada, impedito da uno dei servi d'Illo, arrivò solamente a tagliargli l'orecchia destra. Benchè Zenone fingesse di nulla sapere di questo attentato, pure Illo accortosi onde era venuto il malanno, mostrò desiderio di passar in Asia per mutar aria, e guarir meglio dalla ferita. Ne ottenne la licenza da Zenone, il quale per placarlo il dichiarò prefetto di tutto l'Oriente, con dargli in oltre un'ampia podestà di crear dei duci. Prese Illo in sua compagnia Leonzio patrizio di nazione siriaca, generale dell'esercito della Tracia, ed uomo non meno esperto nelle scienze che nell'arte della guerra, con Pamprepio senatore, accusato dianzi di magia. Passò ad Antiochia, dove raunato un gran seguito di gente, cominciò a manipolare una ribellione contra dell'imperadore, e l'eseguì, siccome vedremo andando innanzi. Non è però certo che questa tela cominciasse in quest'anno; perciò assai confusa si truova la Cronologia di Teofane in questi ed altri tempi. Pubblicò Zenone Augusto in quest'anno il suo Enotico, cioè un suo editto, per unire insieme gli eutichiani e nestoriani eretici coi cattolici, contenente una esposizion della fede, per cui, benchè mostrasse di detestar gli errori di quegli eresiarchi, pure venne in certa maniera a rigettare il sacro concilio di Calcedone, con iscoprirsi anche fautore dell'eresia. Acacio vescovo di Costantinopoli fu creduto consigliere e promotore di questa novità, anzi di questa sacrilega insolenza, non appartenendo ai principi del secolo il regolar la dottrina della Chiesa, ma sì bene ai vescovi, e spezialmente ai romani pontefici, a' quali Iddio ha data questa cura e facoltà. Perciò papa Simplicio e tutti i buoni cattolici si opposero a questo [683] editto, che partorì poi dei gravissimi sconcerti in Oriente, come si può vedere presso gli autori della Storia ecclestiastica. Trovasi ancora che in quest'anno esso papa scrisse una forte lettera [Tom. 4 Concilior. Labbe.] a Giovanni arcivescovo di Ravenna, perchè avea consacrato per forza, cioè al dispetto dei cittadini, vescovo di Modena Gregorio, minacciandolo di gastigo se in avvenire avesse commesso di simili falli. Puossi conghietturare che in questi tempi l'Italia godesse una gran quiete, al vedere che nè di Odoacre, nè di avvenimento alcuno s'incontra memoria presso gli antichi storici. E veramente Odoacre, benchè Barbaro di nazione, pure ammaestrato in Italia, non si sa che facesse aspro o cattivo governo de' popoli; ed inoltre, quantunque ariano, niuna novità indusse in pregiudizio della Chiesa cattolica, non restando alcuna querela di questo nè dalla parte dei papi, nè da quella degli scrittori. I Latini ed i Greci chiamavano Barbaro chiunque non era della lor nazione; ma ci sono stati dei Barbari più buoni, prudenti e puliti che gli stessi Latini e Greci.


   
Anno di Cristo CDLXXXIII. Indizione VI.
Felice III papa 1.
Zenone imperadore 10.
Odoacre re 8.

Console

Fausto, senza collega.

Fu creato console Fausto in Occidente, ciò apparendo dalla vita di papa Simmaco presso Anastasio [Anastas. Bibl. in Vit. Symmachi.]. Abbiamo una lettera di Alcimo Avito [Avitus, epist. 31, apud Sirmondum.], scritta a Fausto e Simmaco senatori di Roma. Crede il padre Sirmondo che il primo fosse il medesimo che si trova console in quest'anno. Egli è nominato Aginantus, o Aginatius Faustus nel sepolcro di Mandrosa presso il Grutero [Gruter., Thes. Inscript. pag. 1055, n. 3.] e [684] Fabretti [Fabrett., Inscr. pag. 558.]. Truovasi ancora all'anno 490 console un altro Fausto, appellato perciò juniore. Mancò di vita in quest'anno san Simplicio papa, e la sua morte, per quanto abbiamo da Anastasio, accadde nel dì 2 di marzo. Fu pontefice di petto e zelo indefesso per la vera fede cattolica, e non omise diligenza veruna per rimediar alle piaghe ostinate delle chiese di Oriente. Allorchè si venne a raunare il clero per eleggere il successore nel Vaticano, v'intervenne un ministro del re Odoacre, cioè sublimis et eminentissimus vir praefectus praetorio, atque patricius, agens etiam vices praecellentissimi regis Odoacris, Basilius [Concil. Roman. sub Symmac. Can. 12.]. Si crede quel medesimo che era stato console nell'anno 480, e che da Apollinare Sidonio [Sidon., lib. 1, ep. 9.] è sommamente commendato. Questi intimò alla sacra raunanza, che, secondo il ricordo e comandamento lasciato dal beatissimo papa nostro Simplicio, per ischivare gli scandali, non si potesse celebrare l'elezione del nuovo pontefice senza consultar prima esso prefetto. Pensa il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] che una tale scrittura fosse supposta a papa Simplicio, e finta dagli scismatici in occasion delle controversie che insorsero dipoi dell'elezione di Simmaco. E potrebbe essere stato così. Imperciocchè vero è bensì che i vescovi nel concilio romano all'udirne parlare, non pretesero già che fosse un'impostura; nientedimeno sostennero, e con tutta ragione, che fosse scrittura invalida, sì perchè era contra i canoni, non dovendo dipendere l'elezion de' sommi pontefici dalle persone laiche, e sì ancora perchè quella scrittura non era sottoscritta da alcun romano pontefice: il che bastò a screditarla. E certo, se papa Simplicio avesse voluto ordinare quanto fu esposto da Basilio, avrebbe saputo egli formare il decreto, nè avrebbe lasciato in balìa ad un laico di significare [685] al clero i suoi sentimenti. Però nel suddetto concilio fu giudicata quella scrittura di niun valore, e deciso che non dovesse aver luogo fra gli statuti ecclesiastici. Successivamente adunque fu eletto papa Felice III, di patria romano, parroco del titolo di Fasciola, uomo di eminenti virtù, che non tardò a rigettare l'enotico di Zenone imperadore, e a procedere contra di Acacio vescovo di Costantinopoli e contro gli altri perturbatori della dottrina e Chiesa cattolica, come si può vedere nella storia ecclesiastica.

In quest'anno medesimo, Unnerico re dei Vandali in Africa, covando già un astio incredibile contra de' Cattolici, perchè di setta ariano, cominciò verisimilmente circa questi tempi una fiera persecuzione contra de' medesimi, e massimamente contra de' vescovi, la qual viene lagrimevolmente descritta da Vittore Vitense [Victor Vitensis, lib. 1, de Persecut., lib. 2.], con proibire ai laici l'aver posto alcuno in corte, e luogo nella milizia, con occupare i lor beni e quei dei vescovi che venivano a mancar di vita. Prigioni, esilii, tormenti provò chiunque era costante nella religion cattolica, nè voleva abbracciar la setta ariana. Basterà per tutto il sapere che in varii tempi circa cinquemila tra vescovi, preti, diaconi, ed altri del clero, furono cacciati in esilio, e moltissimi relegati fra le solitudini del deserto. Ma il furore di questa persecuzione principalmente divampò nell'anno susseguente. Abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che in quest'anno Zenone Augusto, sì per avere un nemico di meno, e sì per fortificare il suo Stato contra chi era dietro a turbarlo, guadagnò con regali ed onori Teoderico re, ossia duca de' Goti della stirpe Amala, re dipoi dell'Italia, creandolo generale delle sue guardie, e disegnandolo console per l'anno prossimo venturo. Gli assegnò ancora una parte della Dacia ripense e della Mesia inferiore; provincie, le quali, siccome vedremo, pare che allora fossero [686] possedute dai Gepidi e Bulgari, acciocchè le conquistasse e servissero poi di abitazione ai suoi Goti: con che avrebbono potuto accorrere più facilmente ai bisogni d'esso imperadore. Giordano istorico aggiugne [Jordan., de Reb. Get., cap. 57.] che Zenone l'adottò per figliuolo, non già per una legale adozione, portante la succession negli stati, ma per una adozion di onore; e gli fece fare una statua a cavallo, che fu alzata davanti al palazzo imperiale. Non è poi da stupire perchè Zenone venisse a tanta profusion di onori verso di Teoderico, perciocchè aveva già per isperienza provato quanto valesse l'aiuto suo, allorchè ebbe da abbattere Basilisco il tiranno e da ricuperare l'imperio. Allora, per quanto s'ha da Ennodio [Ennod., in Panegyr. Theoderici.], autore contemporaneo, e dall'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], egli chiamò in suo soccorso il medesimo Teoderico, e col suo braccio risalì sul trono. Ma non pensò mai daddovero a ricompensarlo, se non se nel presente anno; e massimamente perchè cresceva il bisogno di sì bravo capitano pel brutto temporale che nell'Oriente s'andava sempre più formando contra di lui. Siccome è detto di sopra, Illo, patrizio e prefetto dell'Oriente, malcontento di Zenone, seguitava a macchinar la di lui rovina; e però in questo anno diede principio alla ribellione. Racconta Teofane [Theoph., in Chronogr.] ch'egli in compagnia di Leonzio e d'altri suoi congiurati si portò al castello di Papurio nella Cappadocia, e ne estrasse Verina Augusta, vedova di Leone imperadore, che era quivi ristretta per ordine di Zenone Augusto suo genero, e la condusse alla città di Tarso nella Cilicia, con disegno che essa dichiarasse imperadore il suddetto Leonzio patrizio; il che fu eseguito nell'anno susseguente. In tal congiuntura è da credere che anche Leonzia figliuola d'essa Augusta e Marciano già suo [687] consorte, ordinato prete, imprigionati anch'essi in quel castello, ricuperassero la lor libertà.


   
Anno di Cristo CDLXXXIV. Indiz. VII.
Felice III papa 2.
Zenone imperadore 11.
Odoacre re 9.

Consoli

Teoderico e Venanzio.

Il primo de' consoli è Teoderico, da noi poco fa veduto re, ossia duca dei Goti, a cui Zenone Augusto, per maggiormente affezionarselo, conferì questa insigne dignità. L'altro, cioè Venanzio, è console creato in Occidente. Pienamente scoppiò nel presente anno la congiura d'Illo patrizio contra di Zenone imperadore d'Oriente. Abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che costui, al pari dello stesso Augusto, era di nazione isauro, ed insieme con Leonzio patrizio si ribellò a Zenone. Poco dice questo scrittore. Vittor Turonense [Victor Turonensis, in Chron.] anche egli solamente scrive, che Leonzio colla fazione d'Illo patrizio occupò l'imperio nella Isauria. Non solamente in Isauria, ma in buona parte dell'Asia prese fuoco questa ribellione. Qui è da ascoltare Teofane [Theoph., in Chronogr.], tuttochè egli a me paia stendere in troppi anni questo avvenimento, e che sia confusa non poco la sua Cronologia. Narra egli adunque che Verina Augusta proclamò e coronò imperadore in Tarso Leonzio patrizio, e susseguentemente spedì lettere circolari agli Antiocheni e popoli della Soria, e a tutti i prefetti d'Oriente, dell'Egitto e della Libia (se non v'ha errore in questa parola, vegniamo a sapere che la Libia confinante coll'Egitto riconosceva tuttavia l'imperio romano, e non già i Vandali tiranni dell'Africa), notificando loro che veggendo essa sempre più andare di male in peggio gli affari dell'imperio [688] a cagione de' vizii di Zenone, avea perciò coronato Leonzio imperadore, uomo piissimo ed a proposito per rimediare ai disordini e conservare la salute della repubblica. Fu da ognuno con grandi acclamazioni accettato il novello Augusto. Dice di più, che Leonzio come imperadore entrato in Antiochia nel mese di giugno, correndo l'indizione settima, e per conseguenza nel presente anno, creò Liliano prefetto del pretorio. Dopo di che passò a guereggiar contra di Calcide patria sua: il che non s'accorda con Marcellino conte, da cui Leonzio vien detto di nazione isauro. Ora Zenone, per estinguere sì gran fuoco, spedì immantinente Giovanni Scita con un grossissimo esercito per mare e per terra contra di Leonzio e d'Illo, i quali sconfitti in un grave fatto d'armi, appena si poterono salvare nel castello di Papurio. Morì circa questi tempi la suddetta Verina Augusta, vedova di Leone imperadore, forse da affanno e dolore, dopo aver avuta mano in tutte le ribellioni di Basilisco, Marciano e Leonzio. Ma non si dee tacere che in compagnia del suddetto Giovanni Scita fu de Zenone inviato ancora Teoderico, console in quest'anno, con buon corpo dei suoi Goti alla stessa impresa. Lo attesta il suddetto Teofane. Anzi sappiamo da Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 27.] e da Niceforo Callisto [Niceph. Callistus, lib. 16, cap. 23.] che Eustazio storico antichissimo, il quale con istile terso scrisse la storia d'Illo, narra fra l'altre cose, qualmente Teoderico Goto con buon esercito fu spedito da Zenone contra d'esso Illo e di Leonzio, senza punto parlare di quel Giovanni Scita. Non si può poi leggere senza commozion d'animo la continuazione della crudel persecuzione che in questo anno giunse al sommo in Africa contra dei Cattolici, per la inumanità di Unnerico re de' Vandali. Più di trecento cinquanta vescovi cattolici furono inviati in esilio, parte nella Sardegna, parte [689] ne' deserti: le chiese de' Cattolici tutte chiuse; intimate rigorose pene contra chi non abbracciasse la setta ariana, occupati i beni delle chiese e de' particolari. I tormenti e le ignominie di chi stava saldo nella vera fede erano spettacoli d'ogni giorno, e però si videro martiri e confessori di non minor coraggio e merito che quei de' primi secoli della Chiesa. Ma Iddio non tardò ad atterrar questo mostro di crudeltà. Venne a morte Unnerico nel dicembre del presente anno, e diede fine a tante iniquità, con succedere a lui nel regno Gundabondo, figliuolo di Gentone suo fratello, sotto il quale respirò alquanto chiunque era seguace della fede cattolica. Intanto Felice papa tenne in Roma un concilio, nel quale esaminate le azioni di Acacio vescovo di Costantinopoli, proferì contra di lui la sentenza di scomunica e deposizione, con riguardarlo come protettor degli eretici e reo di altre mancanze.


   
Anno di Cristo CDLXXXV. Indiz. VIII.
Felice III papa 3.
Zenone imperadore 12.
Odoacre re 10.

Console

Quinto Aurelio Memmio Simmaco juniore, senza collega.

L'Oriente non ebbe in quest'anno console alcuno. L'ebbe bensì l'Occidente, e fu Simmaco, celebre personaggio di que' tempi, sì per la sua nobiltà che per la sua letteratura. Egli era genero di Boezio filosofo insigne di que' tempi, e viene appellato juniore per distinguerlo dall'altro Simmaco che nell'anno 446 ottenne anch'esso la dignità consolare. Siccome eruditamente osserva il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], fu celebrato nel presente anno un altro concilio da papa Felice, in cui [690] Pietro Fullone, occupatore della chiesa antiochena, e Pietro Mongo, usurpatore di quella di Alessandria, e di nuovo Acacio vescovo di Costantinopoli, furono scomunicati. Di questi sconcerti delle chiese orientali fu principalmente autore e fomentatore Zenone imperadore, macchiato, fra gli altri vizii, di quello ancora di un'instabile credenza. Egli in questo anno ricuperò Longino suo fratello, che era stato lungamente in prigione [Marcell. Comes, in Chron.], dove Illo patrizio dopo essersi ribellato, siccome abbiam detto, l'aveva rinchiuso. E perciocchè Zenone non aveva alcun figliuolo maschio legittimo, a cui potesse lasciare dopo di sè l'imperio, essendochè uno che egli ebbe, secondo l'attestato di Suida [Suidas, ad vocem Zeno.], e che destinava di avere per successore, allevato ne' vizii, immaturamente gli fu rapito dalla morte; perciò nell'anno 490 si propose di far succedere nell'imperio questo suo fratello Longino, e di dichiararlo Cesare. Ma fra gli altri che a questa elezione si opposero con franchezza magnanima, uno fu (per attestato di Cedreno [Cedren., in Histor.]), Pelagio patrizio, personaggio di gran nobiltà e prudenza, e poeta eccellente, che avea tessuta in versi la storia da Augusto fino ai suoi dì, con rappresentargli i vizii d'esso Longino, de' quali ci ha informati il predetto Suida. Costò la vita una tal libertà di parlare a Pelagio, avendolo fatto Zenone barbaramente morire, come si ha anche da Marcellino conte.


   
Anno di Cristo CDLXXXVI. Indizione IX.
Felice III papa 4.
Zenone imperadore 13.
Odoacre re 11.

Consoli

Decio e Longino.

Appartiene all'Occidente il primo di questi consoli Decio, e l'altro all'Oriente. [691] Era Longino fratello di Zenone Augusto, siccome abbiam veduto disopra. Tornò ad essere console nel 490, e però da Teofane [Theoph., in Chronogr.] è chiamato due volte console. Delle cose d'Italia neppure in quest'anno rimane memoria alcuna: segno che se non ci era da ridere, perchè non dovea giammai piacere agl'Italiani il giogo dei Barbari, almeno si dovea goder quiete. E tali erano in vero le forze di Odoacre, che i popoli confinanti stavano in dovere, nè osavano di oltraggiar gl'Italiani, nè tentar la fortuna contra di lui. Ma in questi tempi Clodoveo re de' Franchi cominciò a dilatare il suo regno di qua dal Reno. Per quanto abbiamo da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 27.] e dall'autor della Cronica delle Gesta de' Franchi [Gesta Francorum.], egli attaccò lite con Siagrio, figliuolo già d'Egidio, che faceva la sua residenza in Soissons. Egli è chiamato Romanorum rex da esso Turonense: il che porge indicio di aver egli governate le provincie tuttavia romane nella Gallia, con autorità e indipendenza da sovrano, senza volere riconoscere il re Odoacre. Clodoveo gli diede battaglia, e lo sconfisse; ed essendosi esso Siagrio ricoverato presso Alarico re de' Visigoti in Tolosa, Clodoveo gliel dimandò, con intimargli la guerra, se il ricusava. Avutolo in mano, privollo di vita. Così vennero in potere de' Franchi le restanti provincie romane, cioè la Belgica prima, parte della seconda con Rems, Soissons ed altre città, ed arrivò il dominio dei Franchi sino al confine del regno de' Borgognoni.


[692]

   
Anno di Cristo CDLXXXVII. Indiz. X.
Felice III papa 5.
Zenone imperadore 14.
Odoacre re 12.

Console

Boezio, senza collega.

Certo è che questo Boezio console fu creato in Occidente. Dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] vien creduto il celebre filosofo Severino Boezio, che veramente fiorì in que' tempi. Ma trovandosi un Boezio console nell'anno 510, e parimente un altro Boezio console nell'anno 522, ne veggendosi appellato alcun di loro cos. II, cioè console per la seconda volta; perciò c'è motivo di crederli persone diverse. L'ultimo dell'anno 522 senza dubbio è il rinomato filosofo di questo nome, figliuolo dell'uno dei due precedenti. Sotto questo consolato scrive Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.] che il re Odoacre diede una sconfitta a Fava re dei Rugi, e il fece prigione. Questo medesimo fatto parimente vien accennato dal Cronologo del Cuspiniano [Chronol. Cuspiniani.] colle poche seguenti da me italianizzate parole: Seguì una battaglia tra il re Odoacre e Febano re dei Rugi, e toccò la vittoria ad Odoacre, il quale condusse prigione il re Febano sotto il dì 15 di novembre. Il motivo di questa guerra con tutte l'altre particolarità non è passato a nostra notizia, perchè o l'Italia non ebbe allora storici, o, se gli ebbe, si sono perdute le loro fatiche. Tuttavia dirò che per quanto si ricava da Eugippio nella vita di san Severino [Acta Sanctorum Bollandi, ad diem 8 januar.], scritta nell'anno di Cristo 511, i Rugi abitavano di là dal Danubio in faccia al Norico e a quelle contrade che oggidì sono l'Austria e parte dell'Ungheria. Contuttociò aveano molte castella e popolazioni tributarie nel Norico istesso, e [693] fors'anche si stendevano verso l'Illirico, confinando perciò coi paesi sottoposti all'imperio romano. E perciocchè i Rugi faceano spesse scorrerie nel territorio romano, e gli davano il guasto, Odoacre si mosse in punto per gastigar la loro insolenza. Scrive Paolo diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Langobard., lib. 1, cap. 19.] che si era accesa una grande nimicizia tra Odoacre re d'Italia e Feleteo, appellato anche Fava, re dei Rugi, il quale in que' giorni abitava nella ripa ulterior del Danubio, dividendo esso fiume la signoria dei Rugi dal Norico. Pertanto avendo Odoacre raunate le genti sottoposte al suo dominio, cioè Turcilingi, Eruli e una parte di Rugi, che da gran tempo gli ubbidiva, siccome ancora i popoli dell'Italia, passò nel paese dei Rugi, e diede loro una spaventosa rotta coll'esterminio di quella nazione, e con uccidere (dopo averlo menato suo prigioniero) il re loro Feleteo. Devastato poi tutto il lor paese, se ne tornò in Italia, conducendo seco una gran qualità di prigioni. Quindi avvenne che i Longobardi sentendo spopolato il paese dei Rugi, vennero da lì a poco a farsene padroni, e a stabilirvi la loro abitazione. A noi nondimeno parrà poco probabile che Odoacre passasse il Danubio ed entrasse nel Rugiland. Più facile è che seguisse di qua dal Danubio nel Norico la sconfitta totale di quella barbarica nazione, parte nondimeno della quale troveremo fra poco tuttavia in Italia. Nella suddetta vita di san Severino [Eugipp., in Vita S. Severini, cap. 11 et 12.] si legge l'esortazione fatta da quel santo vecchio prima di morire al suddetto re dei Rugi, Fava e a Gisa moglie sua crudelissima, minacciando loro delle disgrazie, se non mutavano vita. Aggiugne Eugippio che Federigo, fratello d'esso re Fava ossia Fabano, dopo la morte di quel gran servo di Dio, spogliò il di lui monistero, e restò poi ucciso da Federigo figliuolo di Fava. Ed essendo stata in appresso mossa [694] guerra da Otacharo (lo stesso è che Odoacre), i Rugi restarono sconfitti, messo in fuga Federigo, Fava preso con Gisa sua moglie, ed amendue condotti prigionieri in Italia. Seguita a dire Eugippio che il suddetto Federigo figliuolo del re de' Rugi da lì a qualche tempo se ne ritornò al suo paese; e perchè probabilmente diede sospetto d'altre novità, Odoacre spedì incontanente colà Onulfo suo fratello con un potente esercito d'armati; il che fu cagione che di nuovo Federigo prendesse la fuga. Ma non volendo Odoacre impegnarsi a tener le sue forze in quelle parti, con lasciare allo scoperto l'Italia, ordinò al fratello di ritornarsene, e di condur seco tutti i Romani che abitavano in quelle contrade, acciocchè non restassero esposti alle vendette dei Barbari. Convenne perciò a quella gente di abbandonar le loro case e chiese, e tutto il paese; e in tal congiuntura fu anche trasportato in Italia il corpo di san Severino, che finalmente fu collocato nel castello Lucullano tra Napoli e Pozzuolo, cioè in quel medesimo, dove Odoacre avea relegato Augustolo già imperadore. Per conto poi del soprannominato Federigo, egli ricorse a Teoderico Amalo re dei Goti, che allora dimorava in Città Nuova nella provincia della Mesia. Così Eugippio; e questa particolarità è ben da notare, stante che di qui Teoderico prese motivo e pretesto di muover guerra ad Odoacre, siccome andremo vedendo fra poco. Ennodio [Ennod., in Panegyr. Theoderici.] apertamente scrive, essere di qui nata la discordia fra Odoacre e Teoderico, perchè i re dei Rugi sì maltrattati dal primo erano parenti dell'altro. In questo mentre, secondochè ci fa sapere Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.], Teoderico non mai sazio dei benefizii ed onori a lui compartiti da Zenone Augusto, con una gran masnada de' suoi fece una scorreria fin presso a Costantinopoli, e da nimico arrivò alla [695] terra di Melenziada; e dopo di aver attaccato il fuoco ad assaissimi luoghi, se ne tornò a Città Nuova della Mesia, onde era venuto. Questa novità ed insolenza, Marcellino, come ho detto, l'attribuisce all'incontentabile ambizione di Teoderico; e può essere ch'egli colpisse nel segno. Tuttavia merita riflessione ciò che lasciò Eustazio Epifaniense, storico greco di questi tempi, citato da Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 27.] e da Niceforo Callisto [Niceph. Callistus, lib. 16.]: cioè che Teoderico, dopo aver ben servito a Zenone nella guerra contro ad Illo e Leonzio, accennata disopra, scoprì che l'imperadore per ricompensa tramava insidie contra la di lui vita, e però si ritirò da lui. Di simili guiderdoni solea far Zenone a chi l'avea meglio servito nelle sue occorrenze. Qual sia la verità, niuno il può sapere in tanta lontananza di tempo. Ognun facilmente parla degli affari dei principi, ma facilmente ancora s'inganna in voler colla sua testa scoprire i segreti dei lor gabinetti.


   
Anno di Cristo CDLXXXVIII. Indiz. XI.
Felice III papa 6.
Zenone imperadore 15.
Odoacre re 13.

Consoli

Dinamio e Sifidio.

Amendue questi consoli son creduti dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] creati in Occidente; ma senza addurne pruova alcuna. Finì di vivere in quest'anno, secondo il parere del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], Pietro Fullone eretico ed usurpatore della chiesa antiochena, ma senza alcun frutto pel cattolicismo, perchè ebbe per successore Palladio infetto della medesima peste. Fino a questi giorni, per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], [696] Illo patrizio e Leonzio, che aveva preso il titolo d'imperadore, s'erano mantenuti nel forte castello di Papurio in Isauria, dappoichè furono sconfitti dall'armi di Zenone Augusto. Quivi stettero per tanto tempo bloccati dalle soldatesche imperiali. Finalmente dovettero arrendersi per mancanza di viveri, nè si tardò molto a mozzar loro il capo, che sulle picche fu trionfalmente portato a Costantinopoli. Nè mancò chi tacciò d'ingratitudine Zenone, per non aver usato punto di clemenza verso chi avea rimesso lui sul trono. In quest'anno seguì di nuovo pace e concordia tra esso Augusto e Teoderico Amalo, figliuolo naturale di Teodemiro re dei Goti. Il chiamo io così, sulla fede di Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 55 et seq.], che ricavò la storia da quella di Cassiodoro. E certamente Cassiodoro, per essere stato segretario delle lettere del medesimo Teoderico, dappoichè fu divenuto re d'Italia, potè ben sapere chi era stato il padre di lui. Contuttociò reca motivo di qualche stupore il vedere che Teofane [Theoph., in Chronogr.] chiaramente il chiama figliuolo di Valamere, il quale, secondo Giordano, fu solamente suo zio paterno. Malco Bizantino [Malch., tom. 1 Hist. Byzant.], che condusse la sua storia fin dopo questi tempi, ne' quali verisimilmente visse, anch'egli lo appella figliuolo di Belamero. Nè diverso nome gli dà l'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.]. Onde sia proceduta questa diversità di pareri, altra cagione io non saprei indovinare, se non che Teoderico, allorchè seguì la pace fra Leone Augusto e i Goti [Jordan., de Reb. Getic. cap. 50.], fu inviato per ostaggio da Valamere suo zio allora regnante a Costantinopoli; laonde allora dovettero cominciare a chiamarlo Teoderico di Valamere, per distinguerlo da Teoderico figliuolo di Triario che diè molto da fare in quegli stessi tempi ai Greci. Theodericus cognomento Valamer egli è appellato da [697] Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], e non già filius. Walamer, secondo il Grozio, vuol dire principe.

Ora Teoderico, chiamato da altri Teodorico, il quale probabilmente mirava con occhio invidioso la conquista sì felicemente fatta da Odoacre del regno d'Italia, si sentì nascere in cuore il desiderio d'acquistar egli per sè una sì riguardevole signoria: e maggiormente si accese questa sua voglia, da che Federigo re dei Rugi era ricorso a lui, per esser sostenuto contro d'Odoacre, e vedeva i suoi Goti malcontenti dell'ozio, in cui si trovavano, e della lor residenza nella Mesia e nell'Illirico. L'autore della Miscella [Hist. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.] aggiugne che gli stessi Goti importunavano Teoderico, perchè loro procacciasse un miglior paese da abitarvi. Pertanto, se prestiam fede a Giordano, Teoderico in persona, o almeno per via di lettere o di messi, parlò a Zenone Augusto, con pregarlo di permettergli di passare con tutte le sue forze in Italia, per liberarla dal re de' Turcilingi e dei Rugi, tiranno d'Italia. Imperocchè, diceva egli, se vincerò, sarà con gloria di vostra maestà, perchè l'acquisto si dovrà alla vostra munificenza, e possederò quello stato per vostra concessione. All'incontro, se sarò vinto, nulla ci perderete voi, anzi ve ne verrà del profitto, perchè risparmierete le pensioni che ci pagate, e rimarrete libero dal peso della mia gente. Zenone acconsentì; e fatti molti doni a Teoderico, il lasciò ire in pace. Ma se ascoltiamo Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 1.], Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 27.] e Teofane [Theoph., in Chronogr.], lo stesso Zenone Augusto fu quegli che bramando di levarsi d'addosso que' Barbari inquieti, dai quali era sì sovente molestato, persuase a Teoderico di portarsi all'impresa d'Italia: proposizione che [698] fu ben volentieri accolta da lui. In somma egli tornato ai suoi, e trovatili tutti disposti a sagrificare le lor vite per la conquista di sì bel paese, attese a prepararsi; e, secondochè abbiamo da Marcellino conte, tutta la nazione gotica, a lui soggetta, si mosse nell'autunno di quest'anno da non so qual suo paese. Seco era sua madre ed una sorella. Posero i Goti sopra le carra i fanciulli, le donne, i vecchi e quanti mobili poterono portar seco; ed inoltre il grano, ed insino i mulini a mano per macinarlo. Era sul fine dell'anno, eppure il verno, le nevi e il ghiaccio non poterono trattenere il viaggio di costoro: tanto era la lor voglia di giungere in Italia; ma non dovettero già fare gran viaggio, per quello che si dirà all'anno seguente. Ennodio [Ennod., Paneygr. Theoderici.] scrive: Innumeros diffusa per populos gens una contrahitur, migrante tecum ad Ausoniam mundo. Sarà un'iperbole permessa ai panegiristi che Teoderico seco conducesse un mondo di persone; contuttociò si può credere che un gran nuvolo di gente fosse quella nazione, dianzi dominante o sparsa nella Pannonia, Mesia, Illirico ed altre contrade. Dice il medesimo oratore più sotto che il popolo condotto in Italia da Teoderico si poteva paragonare alla rena e alle stelle. Come avvenimento ancor degno di memoria notò il Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspin.], che nel giorno di Pasqua del presente anno, 17 di aprile, bruciò il ponte di Apollinare, cioè in Ravenna, come lasciò scritto anche Agnello [Agnell. part. 1, tom. 2 Rer. Italic.] nella vita di san Giovanni arcivescovo di Ravenna. Dovea essere un ponte fabbricato di legno, ma con singolar maestria; e però degno di memoria fu la di lui rovina.


[699]

   
Anno di Cristo CDLXXXIX. Indizione XII.
Felice III papa 7.
Zenone imperadore 16.
Odoacre re 14.

Consoli

Probino ed Eusebio.

In Occidente fu eletto console Probino, creduto della casa Anicia. Eusebio fu console dell'imperio orientale. Diede fine ai suoi giorni in quest'anno Acacio vescovo di Costantinopoli [Victor Turonensis, in Chron. Theoph., in Chronogr.], già scomunicato da papa Felice, ed ebbe per successore Flaviano, appellato Flavita, o Fravita da altri, che solamente campò tre mesi, e dopo di lui fu eletto Eufemio, il quale si mostrò di sentimenti cattolici e difensore del concilio calcedonese, con aver fatto immediatamente cancellare dai sacri Dittici il nome di Pietro Mongo eretico ed usurpatore della sedia patriarcale d'Alessandria. Nella primavera, o piuttosto nel febbraio di quest'anno, giunse l'immenso esercito di Teoderico re dei Goti, ch'era in moto per venire in Italia, al fiume Ulca. Quivi trovò la nazione dei Gepidi tutta in armi per contrastargli il passo, o perchè temesse di lasciar passare per quel terreno chi, qualora gliene fosse venuta voglia, vi si avrebbe potuto fermare, oppure perchè erano stati guadagnati que' popoli da Odoacre, già ben informato dei disegni di Teoderico. Pare che i Gepidi possedessero o tutta o parte della Dacia ripense di qua dal Danubio, che Zenone dicemmo aver conceduta a Teoderico, se pure non accorsero da altro paese. Certo è che l'opposizione fu fatta. Ora trovandosi l'armata gotica affamata dall'una parte, perchè era venuta meno la vettovaglia, e dall'altra chiuso il passo; la necessità la constrinse a combattere, benchè con troppo svantaggio. Passarono dunque il fiume, posero in rotta i Gepidi, e ne fecero grande strage. Il [700] padre Sirmondo chiama il re de' Gepidi di allora Gundarito. Ma l'autore della Miscella [Hist. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.] gli dà il nome di Triostila, e dice che costui rimase morto in quella battaglia. Di più aggiugne esso autore che Teoderico poco appresso Bubam Vulganorum regem magna simul cum suis agminibus caede prostravit. Ma si ha da scrivere Vulgarorum, cioè Bulgarorum: il che ci fa intendere che fin da allora i Bulgari aveano messo piede nella Mesia inferiore. Ed in fatti quell'autore poco più di sotto aggiugne che i Bulgari fecero una lagrimevole scorreria nella Tracia, e la devastarono tutta. Ennodio [Ennod., in Panegyric. Teoderici.] sembra dire che i Sarmati si opposero anch'essi ai Goti, ma furono dissipati ben tosto. Seguitando ora l'autore della Miscella, secondo la mia edizione, e gli anonimi Valesiano e Cuspiniano, che sono i più esatti storici di questi avvenimenti, è da sapere che Odoacre, conoscendo qual fiero temporale si fosse mosso all'Oriente contra di lui, ammassò quanta gente potè opporvisi. Se vogliam credere al suddetto Ennodio, cioè ad un panegirista oratore, che accresce o sminuisce tutto, per esaltar sempre il suo eroe Teoderico, avea Odoacre eccitate contra di quello tutte le nazioni, e molti re erano accorsi in aiuto di esso Odoacre. Nel primo dì di aprile creò generale dell'armi sue Tufa; e poscia egli stesso, quando sentì avvicinarsi il nemico, si portò colla sua potentissima armata al fiume Lisonzo di là da Aquileia nel Friuli, e quivi si trincerò.

Arrivato dall'altra parte Teoderico, spese alcuni giorni per ristorare in quell'ubertoso paese la sua gente e i cavalli affaticati per sì lungo viaggio. Poscia scelto il dì della battaglia, e messe in armi tutte le squadre de' suoi combattenti, valicò il fiume, ed assalì l'opposto esercito di Odoacre. Fu sanguinoso e terribile il conflitto, ma in fine toccò ad Odoacre [701] il prendere colla peggio delle sue genti la fuga. In qual giorno seguisse questa giornata campale, non si può raccogliere dal Cronologo del Cuspiniano, perchè egli confonde le azioni e i tempi. A noi basterà di sapere che Odoacre si ritirò a Verona, sperando che quella forte città e l'Adige gli dovessero servir d'argine. Ma colà sopraggiunto anche Teoderico, si venne ad una seconda battaglia poco lungi dalla stessa città. Fu non minore la strage di questo che del precedente conflitto, ma ancor qui sopraffatto Odoacre dalle forze nimiche, rimase sconfitto e di nuovo prese la fuga [Histor. Miscell., tom. 1 Rer. Ital.]. Molti furono che in fuggendo si precipitarono nell'Adige, e quivi trasportati dalla rapidità delle acque, finirono di vivere. Seppe ben profittare Teoderico della vittoria, perciocchè nel caldo di essa seguitando i fuggitivi, ebbe la fortuna d'entrare in Verona, i cui cittadini per la costernazione non osarono di far testa. Dopo queste sconfitte, Odoacre con quelle truppe che gli erano restate, prese il cammino alla volta di Roma, con pensiero di quivi fortificarsi, per quanto s'ha dalla storia Miscella. Ma giunto colà vi trovò le porte serrate, nè potendo in altra maniera sfogar la sua rabbia per un tal rifiuto contro i cittadini, mise a ferro e fuoco tutti i contorni. Poscia di là se ne tornò a Ravenna, dove si diede a far quante fortificazioni mai potè per sua difesa. Il Cronologo del Cuspiniano imbroglia qui le cose, narrando in un fiato che Odoacre entrò ne' trincieramenti (di Ravenna), con aggiugnere che i suoi soldati Eruli si misero nella Pigneta, e che si venne ad un combattimento, in cui restò ucciso Libella generale della milizia, e tagliati a pezzi assaissimi dall'una e dall'altra parte: dopo di che Odoacre si chiuse in Ravenna a dì 9 di luglio. Agli anni seguenti appartengono questi fatti. Ora il vittorioso Teoderico indirizzò i suoi [702] passi alla volta di Milano, dov'era il miglior nerbo delle forze di Odoacre, e gli riuscì di guadagnare e tirar nel suo partito buona parte di quelle soldatesche, che se gli arrenderono insieme con Tufa generale dell'armata di esso Odoacre. E stando in Milano, non pochi concorsero colà a riconoscerlo per signore, fra' quali si contarono i Pavesi, alla testa de' quali andò sant'Epifanio loro vescovo. Lasciatosi poi adescare dalle belle parole di Tufa, uomo furbissimo, che gli promettea mari e monti, l'inviò con parte dell'esercito contra di Odoacre. Giunto costui a Faenza, intraprese l'assedio non so se di quella città, oppur di Ravenna. Ben so per relazion dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] e dell'autor della Miscella [Hist. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.], che uscito Odoacre di Ravenna, e venuto a Faenza, allora Tufa si cavò la maschera, e tornato co' suoi al servigio di lui, gli diede anche in mano i primari uffiziali ed assaissimi soldati di Teoderico, che già erano seco venuti, ed appresso furono condotti ne' ferri a Ravenna: avvenimento, onde restò sì fattamente sorpreso Teoderico, che giudicò bene di ritirarsi coll'esercito in Pavia, dove attese a premunirsi con tutte le possibili fortificazioni. Ennodio [Ennod., in Vit. S. Epiph. Ticin. Episc.] anch'egli racconta che in tal congiuntura un'immensa moltitudine di Goti si rifugiò in quella città. Con sì strepitose avventure terminò il presente anno.


   
Anno di Cristo CDXC. Indizione XIII.
Felice III papa 8.
Zenone imperadore 17.
Odoacre re 15.

Consoli

Flavio Fausto juniore e Longino per la seconda volta.

Longino console per la seconda volta appartiene all'Oriente, ed è il fratello di Zenone Augusto, cioè quel medesimo [703] che ora stato console nell'anno 486. Fausto juniore fu console in Occidente; e pare ben da stupirsi come Odoacre in tante turbolenze, e massimamente se è vero che Roma si fosse levata dall'ubbidienza di lui, creasse questo console, il quale sembra anche accettato in Oriente. A distinzione dell'altro Fausto, ch'era stato console nell'anno 483, vien questo chiamato juniore. Osservò il padre Sirmondo [Sirmondus, in Notis ad lib. 1, ep. S. Ennodii.] che suo padre era stato Gennadio Avieno console nell'anno 450. Credo ben io che s'inganni l'Ameloven [Ameloven, Fast. Consul.] allorchè a questo console attribuisce i nomi di Anicio Acilio Aginanzio Fausto. Questi appartengono al precedente Fausto console. Pretende ancora il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che nella lettera di Ennodio [Ennod. lib. 1, ep. 5.] indirizzata a Fausto console nel presente anno, esso Fausto sia chiamato Avieno. Ennodio scrive a Fausto con rallegrarsi del consolato conferito ad Avieno di lui figliuolo, nè già scrive che anch'egli portasse il nome, ossia cognome di Avieno. Morì nell'anno presente Pietro Mongo eretico, che circa sei anni occupò la chiesa patriarcale d'Alessandria, con avere per successore Atanasio II, anch'esso attaccato ai medesimi errori: con che restò tuttavia in gravi divisioni e turbolenze la chiesa alessandrina. Ciò che riguarda san Cesario vescovo di Arles, il quale scrisse in questi tempi contra di Fausto vescovo di Ries; e i concilii tenuti in Francia contro le novità dei predestinaziani: ed altre notizie spettanti a Gennadio prete di Marsilia, che continuò il trattato di san Girolamo degli scrittori ecclesiastici; siccome ancora a Salviano prete medesimamente, non già vescovo della stessa città: potrà il lettore raccoglierle dagli Annali ecclesiastici del cardinal Baronio, del Fleury e del padre Pagi. [704] In questo anno, per quanto abbiamo dallo Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], Odoacre da Ravenna portossi a Cremona, che dovea tuttavia ubbidire ai di lui comandamenti, e poscia passò a Milano con quante forze potè, con disegno di assalire Teoderico. Ma neppur questi si stava colle mani alla cintola. Aveva egli scritto ai Visigoti della Gallia, con pregarli d'inviargli un buon rinforzo delle loro milizie; e il re Alarico, che regnava allora fra essi, trattandosi d'aiutare chi era della stessa loro nazione, e come fratello, ben volentieri gli spedì a Pavia alquante schiere dei suoi più bravi combattenti. Allora Teoderico, lasciata in Pavia la madre colle sorelle, e col volgo imbelle della sua nazione, fidandosi dell'onoratezza di sant'Epifanio vescovo di quella città, uscì in campagna col suo bellicoso esercito; ed ito in traccia dell'avversario Odoacre, il raggiunse presso al fiume Adda (al fiume Duca si legge presso Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.]; ma questo fiume è incognito agl'Italiani), dove gli presentò la battaglia nel dì 13 d'agosto. Menarono le mani con gran coraggio amendue le armate, e seguì un sanguinoso macello sì dall'una come dall'altra parte, con restare fra gli altri estinto sul campo Pierio conte de' domestici, cioè capitano delle guardie di Odoacre. Ma in fine ancor questo conflitto andò a terminare come gli altri due precedenti, colla rotta di Odoacre, il quale a forza di sproni si salvò a Ravenna colle reliquie dello sconfitto esercito suo. Nè fu lento ad inseguirlo Teoderico colle vittoriose sue genti, e a mettere l'assedio a quella città. Stabilì egli il suo alloggiamento nella Pigneta, tre miglia lungi dalla stessa città, dove fece dei forti trincieramenti. Mentre questa gran lite si agitava colle spade fra i due competitori, abbiamo dalla stessa storia Miscella [Histor. Miscell., tom. 1 Rer. Italicar.], che una grande armata di [705] Borgognoni, i quali colla lor signoria abbracciavano allora anche la Savoja, calò in Italia col re Gundebaldo, chiamata non so se da Teoderico o da Odoacre; ma pretendendosi burlata con un'apparenza di lega, nè trovando nella Liguria persona che loro si opponesse, diede il sacco dappertutto, e condusse nella Gallia una immensa quantità di prigioni. O nel presente o nel susseguente anno accadde la barbarica azion di costoro. Abbiamo eziandio da Ennodio [Ennod. in Natal. Laurentii. Mediolanens.] che circa questi tempi la città di Milano patì di grandi calamità, e ne toccò la sua parte a Lorenzo arcivescovo d'essa, mentre nell'irruzion de' nemici i Cristiani a guisa di pecore erano condotti in ischiavitù. Dai suddetti Borgognoni venne questo flagello.


   
Anno di Cristo CDXCI. Indizione XIV.
Felice III papa 9.
Anastasio imperadore 1.
Odoacre re 16.

Console

Olibrio juniore, senza collega.

Nell'Occidente niun console fu creato, perchè tuttavia si disputava del regno tra Odoacre e Teoderico. Sicchè il solo Oriente diede per console Olibrio appellato juniore a distinzione dell'altro, che era stato console nell'anno 464, ed era poi divenuto imperador d'Occidente. Era egli figliuolo d'Ariobindo generale d'armi, ed insigne personaggio nella corte imperiale de' Greci, e di Giuliana figliuola del predetto imperadore Olibrio. La genealogia di questa Giuliana ci fu data dal chiarissimo padre de Montfaucon [Montfaucon Palaeograph. Graec., pag. 207.] benedettino di san Mauro. In quest'anno Zenone imperador di Oriente finì di vivere e di regnare nel dì 9 d'aprile. Chi desidera delle favole, legga ciò che lasciarono scritto Zonara, Cedreno e Niceforo Callisto, intorno alla maniera della sua morte, essendosi sparsa voce [706] che trovandosi egli un dì stranamente ubbriaco (il che non di rado succedeva) Arianna sua moglie, anch'essa disgustata di lui, il facesse seppellir come morto e ben chiudere l'avello, e che digerito il vino e tornato egli in sè stesso, con inutili grida ed urli fosse costretto a morir ivi daddovero. Certo è che questo imperadore lasciò dopo di sè una memoria funesta, per cagione dei molti suoi vizii, e per aver fomentati gli eretici e le eresie di que' tempi. Ma non lasciò già figliuoli maschi; e però Longino suo fratello, stato già console due volte, ed allora principe del senato, ma uomo superiore di gran lunga al fratello nei vizii, fidandosi specialmente nell'appoggio delle soldatesche isaure, tentò e sperò di succedere nell'imperio. Ma l'imperadrice Arianna seppe adoperarsi con tal destrezza, che, guadagnati i voti del senato e dell'esercito, fece proclamar imperadore Anastasio, allora silenziario del palazzo (bassa dignità) e non per anche giunto al grado di senatore. Era egli nato in Durazzo. Scrive Teofane [Theoph., in Chronogr.] che Eufemio patriarca di Costantinopoli, tenendolo per indegno dell'imperio, abborriva di consentire alla elezione di lui; ma avendo Anastasio sottoscritta una promessa di seguitare il concilio calcedonese, come regola di fede, Eufemio s'indusse a coronarlo. Salito egli poi sul trono, racconta Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 30.], che mostrandosi amator della pace, non volle far novità alcuna nelle cose della religione e della Chiesa, lasciando che chi voleva sostenere il concilio suddetto, lo sostenesse; e chi aveva abbracciato l'Enotico di Zenone, seguitasse a tenerlo: per la qual mondana politica maggiormente si confermarono e crebbero le discordie nelle chiese di Oriente con grave pregiudizio del cattolicismo. Seguitava intanto l'assedio di Ravenna, entro alla quale era chiuso il re Odoacre. Abbiamo dall'Anonimo [707] Valesiano [Anonymus Vales.] ch'esso Odoacre, siccome uomo valoroso, uscito una notte dalla città con tutto lo sforzo de' suoi Eruli, andò ad assalire l'armata del re Teoderico che stava ben trincierata nella Pigneta. All'inaspettata visita non pochi de' Goti rimasero trucidati; ma prese l'armi da tutto il campo, dopo un'ostinata difesa e offesa, e che costò la vita a gran copia di quei Barbari, furono rovesciati gli Eruli con loro gran perdita, ed obbligato il restante alla fuga. Il generale dell'armi di Odoacre, chiamato Levila o Levilla (presso il Cronologo del Cuspiniano ha il nome Libella) rimase morto, in fuggendo, nel fiume Vejente, che Bidens da altri è chiamato, e oggidì Bedese o Ronco. Odoacre ebbe la fortuna di arrivar salvo in Ravenna, dove si rinserrò. L'autore della Miscella [Hist. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.] fa menzione anch'egli di questo fatto, con dire che Odoacre, sovente uscendo co' suoi dalla città, inquietava l'esercito di Teoderico; e che ultimamente, fatta una sortita di notte addosso agli assedianti, ne fece gran macello; ma in fine superato dai Goti, che fecero una gagliarda resistenza, se ne scappò entro la città. La stessa azione sotto questo medesimo anno è narrata da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.], con dire che uscito di notte Odoacre al ponte Candidio, fu con una memorabil zuffa vinto dal re Teoderico. In vece di Candidio si dee scrivere Candiano, luogo celebre presso Ravenna. E lo attesta anche Agnello scrittore del secolo nono nelle Vite degli arcivescovi di Ravenna [Agnell. Vit. Archiepisc. Ravenn. Part. 6, tom. 2 Rer. Italic.], dal quale parimente impariamo che Teoderico si era postato non lungi da Ravenna nel campo che si chiama di Candiano; e che Odoacre due volte battuto, tornò col suo esercito al predetto campo, e restò sconfitto la terza volta: dopo di che si rinchiuse nella città. Aggiugne [708] poscia esso Agnello che Teoderico (per quanto io vo credendo, essendo confuse le sue parole) andò a Rimini, e di là coi dromoni, cioè con barche da trasportar gente e viveri, arrivò al porto di Lione, per impedire i soccorsi dalla parte del mare all'assediata città, con far dipoi fabbricare un palazzotto nell'isola, dove a' tempi del medesimo Agnello era il monistero di santa Maria, sei miglia lungi da Ravenna; la qual casa il medesimo Agnello fece demolire per valersi di quel materiale. Aggiugne Cassiodoro che in quest'anno i Vandali supplicarono per aver la pace, senza dire, se dall'imperadore d'Oriente, oppure dal re Teoderico, e da lì innanzi cessarono di fare incursioni nella Sicilia. Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] accenna anch'egli che seguì in Costantinopoli una guerra fra la plebe, e che una parte della città e del circo rimase disfatta da un grave incendio.


   
Anno di Cristo CDXCII. Indizione XV.
Gelasio papa 1.
Anastasio imperadore 2.
Odoacre re 17.

Consoli

Flavio Anastasio Augusto e Rufo.

Secondo il costume degli altri imperadori, Anastasio in Oriente nel primo gennaio del suo imperio prese il consolato. Rufo suo collega viene appellato conte dal Cronologo del Cuspiniano [Chronologus Cuspiniani.], e il Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] pretende ch'egli fosse console creato in Occidente, ma senza recarne pruova alcuna; apparendo nulladimeno che gl'imperadori d'Oriente talvolta in questi tempi crearono anche il console occidentale. Passò nel presente anno a dì 24 di febbraio a miglior vita Felice papa, terzo di questo nome, che san Gregorio Magno chiama suo Atavo, pontefice, la cui memoria è gloriosa nei [709] Fasti ecclesiastici. Nel dì primo del susseguente marzo gli fu dato per successore Gelasio di nazione africano, uno dei più riguardevoli pastori che abbiano riempiuta la sedia di san Pietro. Diede egli principio al suo pontificato con procacciare rimedii al miserabile stato delle chiese d'Oriente, giacchè l'eresia, in vece di cessare, andava crescendo a cagion della connivenza di Anastasio imperadore, il quale mostrava bensì dall'un canto d'esser cattolico, ma dall'altro fomentava non poco le turbolenze degli eretici, in guisa che veniva riputato anch'egli eretico o macchiato dell'eresia degli indifferenti: peste, che anche oggidì ha luogo fra certi popoli, che pure esteriormente professano la legge santissima di Cristo. Per quello nondimeno che riguarda il politico, si acquistò sulle prime esso Anastasio un buon nome; anzi sel confermò, giacchè scrive Cedreno [Cedren., in Annalib.] che ne' giuochi circensi essendo egli assiso, tutto il popolo ad una voce gridò: Come siete vivuto finora, signoreggiate ancor da qui innanzi, o signore. Confessano in fatti gli scrittori che Anastasio nella vita privata era solito a mezzanotte d'andar alla chiesa, con far ivi le sue preghiere, e spesso digiunava e dispensava di grandi limosine. Divenuto poi imperadore, cacciò via da Costantinopoli le spie, ed abolì il tributo chiamato crisargiro, cioè oroargento, che fruttava all'erario cesareo un'incredibil somma di danaro, ma con aggravio intollerabile de' sudditi. Imperocchè qualsivoglia mendico, meretrice, ripudiata, servo e liberto era aggravato dal tributo ogni anno. E, secondochè abbiamo da Zonara [Zonar., in Annal.], ogni persona, maschio o femmina, pagava una moneta d'argento, altrettanto poi per ogni cavallo, mulo e bue; e sei folli (specie di moneta) per ciascun asino e cane. Fece Anastasio pubblicamente bruciar i libri di questo tributo, con suo gran plauso ed immensa consolazione del popolo. [710] Volle eziandio, per attestato di Teodoro lettore [Theod. Lector, lib. 2.], che le cariche per l'addietro venali si dispensassero gratis in avvenire. Ma a così bei principii non corrispose il proseguimento della sua vita e del suo comando. È nondimeno da avvertire che Teofane [Theoph., in Chronogr.] riferisce abolito il suddetto tributo alquanti anni dipoi, e non già nei primi di questo imperadore, con aggiugnere ch'egli proibì ancora i combattimenti colle fiere nell'anfiteatro, che costavano la vita a molte persone. Appartiene bensì al presente anno, giusta la testimonianza del suddetto Teofane e di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], il principio della guerra isaurica. Longino fratello del già defunto imperadore Zenone, perchè non avea potuto ottener di salire sul trono dopo di lui, inquietava forte la città di Costantinopoli. Se ne sbrigò Anastasio con farlo prendere ed inviare ad Alessandria d'Egitto, dove il costrinse a farsi prete, e dove da lì a sette anni pacificamente diede fine al suo vivere. Tolse ancora la carica di generale delle armate ad un altro Longino. Ma costui per la rabbia di vedersi degradato, unitosi con gl'Isauri, che erano della nazione sua stessa e del predefunto Zenone, ed usavano fiere prepotenze in addietro, si diede a fare alla peggio, commettendo mille disordini in Costantinopoli. Perciò Anastasio il cacciò via dalla città con tutta l'insolente e numerosa brigata degli Isauri. Se n'andò costui infuriato nell'Isauria, ed impadronitosi de' tesori che Zenone per sua cautela avea mandati in quel suo paese, fece sollevar que' popoli, con formare un'armata di essi, di Barbari e d'altri masnadieri, fin quasi a cento cinquantamila persone. Ninilingi governator dell'Isauria, creatura di Zenone Augusto, si mise alla testa di costoro. Ma spedito contra di loro da Anastasio Giovanni Scita con un poderoso esercito, e data una battaglia, Ninilingi [711] restò morto sul campo con una buona parte degli Isauri tagliata a pezzi, e il resto prese la fuga. Se i vittoriosi Romani, o vogliam dire i Greci, non si perdevano dietro alle spoglie, forse in quel dì avea fine questa ribellione. Ma gl'Isauri si rimisero in forze e in arnese, e continuarono dipoi la guerra per qualche anno. Noi non sappiamo che succedesse in questi giorni in Italia azione alcuna degna di memoria, se non che Teoderico ostinatamente continuò ad assediare Ravenna e Odoacre a difendersi in essa.


   
Anno di Cristo CDXCIII. Indizione I.
Gelasio papa 2.
Anastasio imperadore 3.
Teoderico re 1.

Consoli

Eusebio per la seconda volta ed Albino.

Eusebio console orientale di questo anno è quel medesimo che dianzi nel 489 era stato decorato della stessa dignità. Trovavasi in questi tempi nella corte imperiale di Costantinopoli per relazione della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] e di Teofane [Theoph., in Chronogr.], un Eusebio chiamato magister officiorum, ossia maggiordomo dell'imperadore. Probabilmente lo stesso fu che ora veggiamo per la seconda volta console. Albino, cioè l'altro console, verisimilmente spetta all'Occidente. Cassiodoro [Cassiod., lib. 1, epist. 20.] ed Ennodio [Ennod., lib. 3, epist. 221.] nelle loro epistole e l'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] fanno menzione di Albino patrizio, che fu poi accusato nell'anno 524, ed è chiamato vir consularis da Boezio [Boetius, lib. 1, de Consolat.]. Questi si può credere lo stesso che il presente. Notò sotto questi consoli Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], che in Costantinopoli insorse una guerra civile contra dello stesso imperadore [712] Anastasio, dimodochè le statue di lui e della imperadrice Arianna furono legate con funi e strascinate per la città; e che Giuliano generale dell'armi in una baruffa accaduta di notte nella Tracia, trafitto dalla spada di uno Scita, terminò di vivere. Nulla si raccoglie di questi avvenimenti dagli altri storici. Seguitava intanto la guerra contra gl'Isauri, e sappiamo da Teofane che avendo Diogene, uno de' capitani imperiali, presa la città di Claudiopoli, scesi gl'Isauri dal monte Tauro, l'assediarono sì strettamente là dentro, che fu in pericolo di perir di fame egli con il suo seguito. Ma finalmente arrivato all'improvviso Giovanni Cirto generale dell'imperador con delle soldatesche dall'un canto, e facendo dall'altro una vigorosa sortita Diogene, rimasero sconfitti gli assedianti, e fra essi ucciso Conone vescovo d'Apamea, il quale lasciata la sedia episcopale con disprezzo de' sacri canoni s'era messo a fare da general di battaglia. Era già durato circa tre anni l'assedio di Ravenna con incomodo gravissimo degli assedianti, ma più degli assediati. Agnello, che circa l'anno 830 scrisse le Vite degli arcivescovi di Ravenna [Agnell., part. 1, tom. 2 Rer. Ital.], ci fa intendere essere talmente venuti meno i viveri e cresciuta la fame nella città, che mangiavano le cuoja ed altri immondi ed orridi cibi, e che non pochi avanzati alle spade vi perirono di fame. Perciò Odoacre trattò di pace con Teoderico, e il trovò disposto ad accettarla. Imperocchè, siccome narra Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1.], riuscì ai Goti d'impadronirsi o per amore o per forza di tutte le città, fuorchè di Cesena e di Ravenna; ed avendo speso quasi tre anni nell'assedio dell'ultima, erano i soldati omai stanchi ed attediati per sì lunga dimora. Interpostosi adunque l'arcivescovo di Ravenna, si venne ad un accordo. Odoacre diede per ostaggio a Teoderico Telane suo figliuolo [Anonym. Vales.]. [713] Secondo l'attestato d'Agnello, nel dì 15 di febbraio, o pure, come ha il Cronologo del Cuspiniano [Chronolog. Cuspiniani.], nel dì 27 di esso mese si conchiuse la pace. Furono dipoi nel dì 5 di marzo aperte le porte di Ravenna, e l'arcivescovo con tutto il clero, colle croci, coi turiboli e coi santi Vangeli processionalmente cantando salmi, si portò a trovar Teoderico; e prostrati a terra, gli domandarono perdono e pace, ed ottennero quanto chiesero. In quello stesso giorno anche Teoderico prese il possesso della città e del porto di Classe. Con quali condizioni e patti seguisse l'accordo fra lui ed Odoacre, hanno dimenticato gli antichi di registrarlo. Poichè non è molto credibil quello che vien raccontato dal suddetto Procopio, cioè che tanto l'un come l'altro avessero ugualmente da signoreggiare da lì innanzi in Ravenna. L'Anonimo Valesiano non altro dice promesso ad Odoacre, se non che sarebbe in salvo la sua vita: il che è ben poco, perchè forse Odoacre avrebbe potuto tentar di fuggire per mare, e portar seco di che sostentare in luogo sicuro onorevolmente la vita. Altri hanno immaginato ch'egli solamente chiedesse un qualche angolo d'Italia da passarvi convenevolmente il resto de' suoi giorni.

Vero è che Teoderico potè liberalmente concedere quanto gli fu dimandato, perchè già covava il pensiero di non mantener la parola. In fatti dopo aver fatta buona ciera e carezze per alquanti giorni ad Odoacre, invitatolo un dì a pranzo co' suoi cortigiani nel palazzo di Lauro o Laureto, gli fece levar la vita: e, se vogliam credere all'Anonimo Valesiano, lo stesso Teoderico di sua mano l'uccise, con aggiugnere che nel medesimo giorno tutti quei che si poterono trovare del di lui seguito, furono d'ordine d'esso Teoderico tagliati a pezzi. Il medesimo scrittore, e Procopio e Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] attribuiscono questa [714] barbarica risoluzione all'avere Teoderico scoperto che Odoacre gli tendeva delle insidie. Ma non mancano mai pretesti a chi può e vuol fare del male agli inferiori; e probabilmente non mancarono falsi consiglieri ed adulatori della gran fortuna di Teoderico. Odoacre ridotto in quello stato, con un potente esercito intorno, chi crederà mai che potesse fabbricar delle trame contra del suo vincitore? Più degno di fede a noi sembrerà Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.], allorchè scrive che Odoacre ab eodem Theoderico perjuriis illectus, interfectusque est; e il dirsi dell'autore della Miscella: A Theoderico in fidem susceptus, ab eo trucullente interemtus est. Con tale iniquità diede principio al suo pieno dominio il re Teoderico; e in questa maniera terminò i suoi giorni il misero Odoacre, appellato dall'Anonimo Valesiano homo bonae voluntatis. Nè si dee omettere che durante questo grande sconvolgimento dell'Italia [Ennod., in Vita S. Epiph. Ticin. Episc.], essendo partiti, per attestato di Ennodio, da Pavia i Goti, fu consegnata quella città ai Rugi, i più barbari e crudeli di tutte le nazioni, i quali si credeano di aver perduta la giornata qualor non aveano potuto commettere qualche scellerata azione. Tuttavia a sant'Epifanio vescovo di quella città riuscì di ammollire i cuori di que' Barbari colle sue dolci maniere, talmente che piangeano allorchè dopo due anni ebbero da andarsene al lor paese. Crede il padre Sirmondo che costoro entrassero in Pavia nell'anno presente. L'autore della Miscella in fatti scrive che dopo tre anni, usciti i Goti da Pavia, vi entrarono i Rugi, e che costoro per due anni continui diedero il guasto a quella città e al suo territorio. Noi già vedemmo che Federigo re dei Rugi era venuto in Italia colle sue genti in aiuto di Teoderico. Sappiamo poi dal medesimo Ennodio [Ennod., Panegyr. Theoderici.] che costui mancò in progresso [715] di tempo di fede a Teoderico, e si unì coi nimici di lui. Ma in fine nata discordia fra esso e i suoi collegati, restò disfatto e forse ucciso dai medesimi. Quando ciò succedesse, è scuro affatto. Probabilmente nondimeno egli si rivoltò durante l'assedio di Ravenna, e poi succedette la sua rovina, allorchè Teoderico ebbe a far guerra nella Pannonia, siccome diremo al suo luogo. È di parere il cardinal Baronio che dopo la morte di Odoacre e sul fine di quest'anno Teoderico inviasse ad Anastasio Augusto i suoi ambasciatori, per istabilir pace e lega con lui, e che a tal fine fosse scritta la lettera prima di Cassiodoro [Cassiod., lib. 1, ep. 1.] ad esso imperadore. Parimente crede che Fausto maestro degli uffizii fosse uno di questi ambasciatori. Ma in quella lettera si suppone intorbidata la buona armonia che dianzi passava fra Anastasio e Teoderico; e però negli anni susseguenti sembra essa scritta a nome di Teoderico. E tanto più perchè Teoderico confessa di essere stato più volte esortato dall'imperadore ad amare il senato romano, e ad osservare le leggi dei precedenti Augusti. Per altro abbiamo dall'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.] che nell'anno 490, vivente ancora Zenone imperadore, non tardò Teoderico ad inviare in Costantinopoli Festo capo del senato, per chiedergli la veste regale, ed è lo stesso che dire a pregarlo che volesse riconoscerlo per re d'Italia. Lo stesso autore dipoi chiama questo ambasciatore non più Festo, ma Fausto il negro, ed aggiugne che prima del ritorno suo dalla medesima ambasciata, avendo Teoderico intesa la morte di Zenone (accaduta, come dicemmo, nell'anno 491), e dappoichè fu entrato in Ravenna ed ebbe tolto dal mondo Odoacre, i Goti il proclamarono e confermarono re, senza aspettar la licenza ed approvazione del nuovo imperadore Anastasio. Ma forse questo scrittore anticipò alquanto la spedizione del suddetto ambasciatore, e la [716] assunzione del titolo regale: del che parleremo all'anno 495.

Abbiamo dall'autor della Miscella [Hist. Miscella, tom. 1 Rer. Italicar.] e da Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 58.] che Teoderico, per bene stabilirsi nel nuovo regno, conchiuse parentado con varii principi di questi tempi. Cioè prese egli per moglie Audelfreda, chiamata da Gregorio Turonense sorella, e da Giordano e dall'autore della Miscella (con errore, credo io, perchè Clodoveo era allora assai giovane) figliuola di Clodoveo il grande, re de' Franchi. Diede Amalafreda sua sorella ad Unnerico re de' Vandali. Ma l'autore della Miscella qui s'inganna. Il re Unnerico cessò di vivere nell'anno 484, ed ebbe per successore Gundamondo, la cui morte accadde nel 496. E dopo di lui regnò Trasamondo. Questi fu marito di Amalafreda, come s'ha chiaramente da Giordano e da Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 8.]. Avea Teoderico due figliuole nate a lui da una concubina, allorchè dimorava nelle sue contrade. La prima appellata Teuticodo (da Procopio Teudicusa, e dall'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.] Arevagni vien detta) unì in matrimonio con Alarico re dei Visigoti, che regnava allora nella Gallia meridionale e in buona parte della Spagna. L'altra chiamata Ostrogota (ossia Teodogota, come ha il suddetto Anonimo) fu presa in moglie da Sigismondo figliuolo di Gundobado, ossia Gundibaldo, re de' Borgognoni. Una figliuola eziandio di Amalafreda sua sorella, e del suo primo marito, per nome Amalberga, ebbe per marito Ermanfredo re della Turingia. Ma questi matrimonii succederono in varii tempi, quantunque io gli abbia qui rapportati tutti in un fiato. Delle gloriose azioni di san Gelasio papa in quest'anno per la conservazione della vera fede sì in Occidente come in Oriente, son da vedere gli Annali ecclesiastici del cardinal Baronio. Riferisce ancora Gregorio [717] Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 27.] al presente anno la guerra fatta da Clodoveo re dei Franchi ai Turingi, non già con soggiogarli affatto al suo dominio, come egli dice, ma con obbligarli a pagargli il tributo. Rammemora eziandio il di lui matrimonio con Clotilde nipote di Gundobaldo re dei Borgognoni, principessa gloriosa, perchè poi condusse il marito tuttavia pagano ad abbracciare la santissima religione di Cristo.


   
Anno di Cristo CDXCIV. Indizione II.
Gelasio papa 3.
Anastasio imperadore 4.
Teoderico re 2.

Consoli

Turcio Rufio Aproniano Asterio e Presidio.

È fuor di dubbio che il primo di questi consoli, cioè Asterio, fu console creato in Occidente, ed è quel medesimo che si legge sottoscritto nel famoso antichissimo Virgilio scritto a penna della biblioteca medicea; sopra che son da vedere il cardinal Noris [Noris, Coenotaph. Pisan., Dissertat. 4.] e il canonico Gori [Gorius, Inscript. Etrur.]. I padri Sirmondo e Pagi, che il credono appellato Asturio, e non Asterio, non son qui da ascoltare. Asterio era cognome della casa Turcia, come ancor lo provai [Anecdot. tom. 1, dissert. 2.] in illustrando un poema di san Paolino vescovo di Nola. Quanto all'altro console, cioè a Presidio, il suddetto cardinal Noris ed Onofrio Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] il giudicarono console orientale; all'incontro dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] è tenuto anch'esso occidentale. Ma ognun di essi giuoca ad indovinare, nè si può stabilire chi s'abbia ragione. Tuttavia essendo il nome latino, e trovandosi posposto esso anche ne' Fasti greci, più probabile sembra l'opinione del Pagi. Dopo avere il re Teoderico ridotta alla [718] sua ubbidienza l'Italia tutta, senza curarsi del titolo d'imperadore, assunse quello di re, usato (dice Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1.]) dai Barbari, per significare i lor principi, da' quali son retti e governati. E da saggio politico non solamente ritenne ed onorò tutti i magistrati soliti della repubblica e dell'imperio romano, ma ancora prese a vestirsi alla romana; il che piacque non poco ai popoli, come segno d'amore e di stima verso della nazione italiana. Poscia in questa felice calma s'applicò egli tutto a mettere in buon sistema l'Italia, che per tante passate rivoluzioni e turbolenze era ridotta in un miserabile stato. Ma specialmente, per attestato d'Ennodio [Ennod., in Vita s. Epiphan. Ticinens. episc.], a lui fece pietà la desolata Liguria, che in questi tempi abbracciava anche il Piemonte, il Monferrato e Milano. S'è toccata disopra la terribil incursione de' Borgognoni in quelle parti, allorchè Teoderico era impegnato nell'assedio di Ravenna, e s'è raccontato che in quella occasione fu condotta in ischiavitù nelle Gallie un'immensa quantità di popolo da quella barbara ed ariana nazione. Basterà sapere che le campagne erano rimaste quasi tutte senza abitatori e senza chi le coltivasse. Pensò dunque Teoderico al rimedio, quand'ecco giugnere a Ravenna Epifanio vescovo di Pavia in compagnia di Lorenzo arcivescovo di Milano, per implorare la di lui clemenza. Avea Teoderico pubblicata una legge, in cui concedeva a tutti i popoli, che erano stati in addietro del suo partito, i privilegii de' cittadini romani, col negarli, e con levare nominatamente la facoltà di testare agli altri che aveano tenuto per la parte di Odoacre. Era grande il lamento per questo in tutta l'Italia. I due santi vescovi con tanta efficacia il supplicarono d'abolir questa legge, che Teoderico non potè far resistenza, e chiamato tosto Urbico questore del sacro palazzo, gli ordinò di fare un editto ritrattatorio [719] del precedente. Rivoltosi dipoi ad Epifanio, gli disse di aver posti gli occhi sopra di lui, per inviarlo suo ambasciatore a Gundobado, ossia Gundobaldo, re de' Borgognoni, per trattar seco del riscatto degli schiavi fatti nella Liguria: al qual fine l'erario regio gli avrebbe somministrato il danaro occorrente. Accettò il santo prelato questa pia incombenza, e solamente il pregò di volergli dar per compagno Vittore vescovo di Torino, personaggio di rare virtù. Pertanto nel marzo del presente anno si mossero i due vescovi alla volta di Lione, dove allora abitava il re Gundobado, siccome padrone ancora di quella provincia. Era già promessa in isposa a Sigismondo figliuolo di quel re una figliuola di Teoderico. La venerabil presenza e le sagge e pie parole di Epifanio indussero Gundobado a rilasciar gratuitamente tutti quegli Italiani che non aveano prese l'armi contra de' Borgognoni, richiedendo solamente che si pagasse il riscatto per gli altri. Allora si videro le schiere di quella povera gente tutte in moto ed allegre verso la lor patria. In un giorno solo dalla sola città di Lione ne partirono quattrocento; e lo stesso si praticò per tutte le città della Savoia e dell'altre provincie sottoposte ai Borgognoni. Ben seimila persone furono le donate alle preghiere del santo vescovo; Ennodio allora diacono, che tali notizie tramandò ai posteri, era presente alle lor liete processioni. Per riscattar gli altri impiegò Epifanio il danaro datogli dal re Teoderico, ma non bastò. Siagria piissima e ricca donna, ed Alcimo Ecdicio Avito, celebre vescovo di Vienna, contribuirono di molto oro per la liberazion degli altri. Passò ancora Epifanio a Geneva, dove comandava Godigiselo fratello del re Gundobado, ed ivi ancora ottenne la liberazion degli schiavi, attorniato dai quali anch'egli se ne ritornò in Italia con uno spettacolo che trasse dagli occhi di tutti le lagrime, e tornò in gloria grande della religion cristiana [720] e di Teoderico, che da buon principe procurò sì gran bene ai sudditi suoi.

Seguitava intanto in Oriente la guerra mossa agl'Isauri; [Marcell. Comes, in Chron.] ed Anastasio imperadore cominciò in quest'anno a scoprire il suo mal animo contra di Eufemio patriarca di Costantinopoli, perchè egli stava saldo nella difesa della dottrina e chiesa cattolica, e si opponeva alle mire d'esso imperadore, fautor degli eretici. Teofane [Theoph., in Chronogr.] aggiugne che Anastasio concepì ancora de' sospetti contra di Eufemio, quasichè egli fomentasse la ribellion degl'Isauri; e perciò ben per due volte tentò di fargli levar la vita; ma non gli riuscì il disegno. Finalmente astrinse il piissimo patriarca a restituirgli la obbligazione da lui fatta con iscrittura privata di non far novità in pregiudizio della religion cattolica. Circa questi tempi Gelasio papa pubblicò il celebre suo decreto intorno ai libri della sacra Scrittura, e agli altri che trattano delle cose sacre, determinando quali s'abbiano o non s'abbiano da ricevere come autentici e di sana dottrina. Scrisse ancora un sensatissimo apologetico all'imperadore Anastasio, che intero vien rapportato dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.]. Forse ancora appartiene a questi tempi l'essere entrato ai servigi del re Teoderico Magno Aurelio Cassiodoro, o Cassiodorio, insigne scrittore e letterato del presente e del prossimo secolo, nato di nobil famiglia nella città di Squillaci in Calabria, e parente di Simmaco patrizio. Aveva egli sotto il re Odoacre sostenute due riguardevoli cariche; dopo la cui morte ritiratosi alla patria, si acquistò gran merito anche presso il nuovo re Teoderico coll'aver portati i Siciliani, benchè non senza gran fatica, a riconoscerlo per sovrano. Perciò chiamato alla corte, ebbe per ricompensa il governo della Calabria per un anno; e, terminato questo, passò ad [721] essere segretario delle lettere di Teoderico con tal fortuna e lode, che quel re, quantunque avvezzo solamente fra l'armi, e neppur tinto delle prime lettere, pure si dilettava assaissimo di udirlo parlare di fisica, astronomia e geografia. Salì dipoi Cassiodoro alle prime dignità, cioè a quella di senatore, di prefetto del pretorio e del consolato; del che son testimonio le fioritissime epistole sue. Fu eziandio in gran pregio presso il medesimo re Severino Boezio, uomo letteratissimo, che arrivò poi anch'egli ad essere console nell'anno 522. E da due lettere di Cassiodoro [Cassiodorus, lib. 4, ep. 45 et 46.] abbiamo che avendo il sopra mentovato re de' Borgognoni Gundobado richiesti al re Teoderico degli orologi da acqua e da sole, ch'egli avea una volta veduti in Roma, Teoderico per averli, ricorse a Boezio patrizio, con lodarlo per le traslazioni da lui fatte di diversi autori greci, e per la sua rara perizia nelle matematiche. Sono senza data queste due lettere di Cassiodoro, e potrebbe darsi che questo Boezio fosse il padre del filosofo. Tuttavia più verisimilmente ad esso filosofo è indirizzata quella lettera di Teoderico, scritta da Cassiodoro suo segretario. E si vuol ben ricordare per tempo, che esso Teoderico, tuttochè nato Barbaro, pure siccome allevato nella corte imperiale di Costantinopoli, e persona di gran mente, nulla tralasciava di quello che serve a farsi amare ed ammirare dai sudditi, sì pel buon governo, come per la pulizia, per la magnificenza, per la stima delle lettere e de' letterati, ancorchè egli neppur sapesse scrivere il suo nome; di manierachè salì in tal riputazione da essere paragonato ai più riguardevoli imperatori che mai s'abbia avuto Roma. Non è il paese, ma il cuore che fa gli eroi.


[722]

   
Anno di Cristo CDXCV. Indizione III.
Gelasio papa 4.
Anastasio imperadore 5.
Teoderico re 3.

Console

Flavio Viatore, senza collega.

In Occidente fu creato questo console. Il Relando [Reland., Fast. Cons.] ne aggiugne un altro, cioè Emiliano, adducendo una legge di Anastasio imperadore [L. 2, G. de bon. possess. contra Tab. lib.], indirizzata Viatore et Æmiliano coss. ad Asclepiodoto. Ma il codice di Giustiniano è in assaissimi luoghi scorretto per conto delle date. Certo è che in tutti i Fasti, anche greci, e nell'altre memorie antiche, il presente anno è segnato solamente col nome di Viatore console. E s'egli avesse avuto un collega, non è probabile che tanti l'avessero ommesso. Perciò si dee più presto tenere per guasta la data di quella legge. Ne abbiamo una altra [L. 8, C. de Codicillis.], indirizzata da Teodosio II Augusto ad Asclepiodoto prefetto del pretorio Victore V. C. cos., cioè nell'anno 424. A me sembra assai credibile che al medesimo anno sia da riferire ancora la precedente, in cui il console Victore dagli ignoranti copisti fu mutato in Viatore, e da qualche erudito venne poi messo il nome di Anastasio in vece di quello di Teodosio. Fu fatta menzione di sopra all'anno 493 della spedizione di Festo capo del senato, fatta da Teodosio all'imperador Zenone, per ottener da lui la veste regale, ossia l'approvazion cesarea pel regno d'Italia in favor d'esso Teoderico. Nè l'ambasciatore, nè la desiderata approvazione veniva giammai; e però Teoderico, senza aspettare il consenso di Anastasio Augusto, assunse il titolo e gli ornamenti regali. Quando ritornasse Festo, e seguisse la concordia fra l'imperadore e Teoderico, non si può ben conoscere. Probabilmente il maneggio [723] fu lungo, perchè ad Anastasio e ai suoi ministri non dovea molto piacere il mirar l'imperio romano spogliato di una parte sì riguardevole. E certo in Oriente dispiacque non poco il vedere che Teoderico non aveva aspettato ad assumere il titolo di re, che gliene avesse data licenza l'imperadore. Teoderico inoltre pretendeva che si rimandassero le corone, gioie ed altre suppellettili, spettanti al palazzo imperiale d'Occidente, che Odoacre avea nel tempo delle sue disavventure inviate a Costantinopoli per farsene merito coll'imperadore in caso di bisogno. Possiam credere che finalmente Anastasio si arrendesse, perchè Teoderico era persona da fargli paura. Abbiamo in fatti dall'Anonimo cronista del Valesio [Anonymus Vales.], che essendo seguita pace per mezzo di Festo ambasciatore tra Anastasio imperadore intorno all'aver Teoderico, prima d'ottenere il consentimento imperiale, preso il titolo di re d'Italia, esso imperadore rimandò tutti gli ornamenti del palazzo che Odoacre avea trafugati a Costantinopoli. Questo fatto io il rapporto al presente anno; ma sembra succeduto più tardi, mentre dopo il suddetto racconto seguita a dire l'Anonimo, che nel medesimo tempo nacque in Roma la controversia pel papato fra Simmaco e Lorenzo, la quale appartiene all'anno 498, siccome vedremo. E che Festo patrizio andasse nell'anno 497 coi legati della santa sede a Costantinopoli, si raccoglie dagli atti riferiti a quell'anno dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 497.], se pur due diversi viaggi non fece Festo colà. Per testimonianza di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] e di Cedreno [Cedren., in Annal.], durante quest'anno, Anastasio imperadore sfogò il suo sdegno contra di Eufemio vescovo di Costantinopoli (la cui condotta per altro neppur piaceva alla sede apostolica di Roma) con farlo deporre, [724] cacciarlo in esilio, e dargli per successore in quella cattedra Macedonio. Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 496.], coll'autorità di Teofane [Theoph., in Chronogr.], pretende succeduta questa iniqua prepotenza di Anastasio nell'anno seguente. Ma per cagion de' copisti non è a noi pervenuta fedele la Cronologia di Teofane. Oltre di che quello stesso storico sembra ammettere l'elezion di Macedonio nel presente anno. Leggasi ancora un concilio romano, tenuto sotto questo consolato da san Gelasio papa, in cui fu rimesso in grazia della Chiesa Miseno vescovo già mandato per legato a Costantinopoli, che si era lasciato sedurre da Acacio vescovo di quella città.


   
Anno di Cristo CDXCVI. Indizione IV.
Anastasio II papa 1.
Anastasio imperadore 6.
Teoderico re 4.

Console

Paolo, senza collega.

Sappiam di certo che questo Paolo fu console orientale, ed inoltre abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] ch'egli era fratello dello stesso imperadore Anastasio. Perchè non si creasse console in Occidente, ne è ignoto a noi il perchè. Forse tra l'imperador di Oriente e il re Teoderico duravano le controversie ed amarezze; e però fu necessario un lungo trattato per aggiustar le discordie, e venire a quella pace che Teoderico chiede ad Anastasio nella lettera prima fra quelle di Cassiodoro. Terminò in quest'anno la sua vita san Gelasio papa [Anastas. Bibl.] a dì 19 di novembre, pontefice dottissimo, e degno di vivere più lungamente per onore e difesa della Chiesa cattolica. Gennadio [Gennadius, de Viris Illustrib.] ed altri scrittori ci assicurano esser egli autore di un libro intitolato De duabus in Christo naturis. Diede egli [725] anche miglior forma al messale romano. Anastasio II fu quegli che nel dì 24 di novembre succedette nel pontificato. Quantunque, siccome abbiam detto, le desolazioni patite nelle turbolenze passate avessero ridotta la Liguria in un misero stato, pure Teoderico, allegando la necessità di mantener le armate, ne esigeva dei gravi tributi con universale lamento di que' popoli. Fecero essi ricorso, siccome abbiamo da Ennodio [Ennod., in Vit. S. Epiph. Ticin. Episc.], al solito lor protettore, cioè al santo vescovo di Pavia Epifanio, con pregarlo di voler portarsi in persona alla corte per implorar qualche sollievo. Andò nel presente anno il piissimo prelato per acqua verso Ravenna, e il viaggio gli costò di molti patimenti, essendogli convenuto più d'una volta di dormir senza tetto sulle rive del Po, fiume che passato Brescello, o poco più in giù, entrava in que' tempi nelle paludi, nè aveva, come oggidì, regolato e stabile il suo corso. Fu ben accolto da Teoderico, ed impetrò che i popoli fossero sgravati di due parti delle tre che si pagavano di tributo. Ma ritornando addietro, fu preso da un molesto catarro in Parma, ed aggravatosi a poco a poco il male, dappoichè fu arrivato a Pavia, passò a miglior vita nel dì 21 di gennaio. In andando a Ravenna, siccome Ennodio scrive, l'accompagnarono i tuoni; e però intraprese il viaggio circa il settembre dell'anno precedente. Ma ritornò ninguido aere, cioè in tempo nevoso, e per conseguente nel verno; laonde nel gennaio di questo anno accadde la morte sua in età di cinquantotto anni, con restar viva la memoria della sua santità.

Le finezze usate più d'una volta dal re Teoderico a questo santo vescovo servono a maggiormente confermare ciò che abbiamo dall'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.] e da altri scrittori; cioè che quantunque fosse esso re ariano di professione, ed ariani fossero i suoi Goti, come in que' tempi [726] erano anche i re de' Visigoti, Borgognoni e Vandali, dominanti nella Gallia, nella Spagna e nell'Africa, pure da saggio ad accorto principe non inquietò punto i Cattolici, nè fece atto alcuno per turbare la Chiesa cattolica; anzi in molte occasioni si mostrò favorevole alla medesima. Cedreno [Cedren., in Annalib.] e Niceforo [Niceph., lib. 26, cap. 35.] raccontano anche un caso degno di memoria. Cioè, aver egli avuto un ministro assai caro e di molta sua confidenza, benchè di religione cattolico. Costui credendo di maggiormente guadagnarsi la grazia del re, abiurato il cattolicismo, abbracciò l'arianismo. Saputo ciò, Teoderico gli fece mozzare il capo, con dire: Se costui non è stato fedele a Dio, come sarebbe poi fedele a me che son uomo? Nel presente anno venne a morte Gundamondo, ossia Gundabondo re de' Vandali in Africa, con discapito della religion cattolica, stante l'esser egli stato, in paragone di Genserico e di Unnerico suoi predecessori, molto indulgente verso i Cattolici. Veramente Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 8.] scrive che li trattò malamente; ma santo Isidoro [Isidor., in Chron. Vandal.] e una storia pubblicata dal Canisio ci avvisano aver egli richiamato dall'esilio Eugenio vescovo di Cartagine, e che nel penultimo anno del suo regno, non solamente permise che si riaprissero le chiese de' Cattolici, ma eziandio, ad istanza d'esso Eugenio, si contentò che tornassero alle lor patrie tanti altri vescovi già esiliati. Succedette a lui nel regno Trasamondo suo fratello, il quale per relazione d'esso Procopio, affine di maggiormente stabilire il suo governo, giacchè gli era stata tolta dalla morte la consorte senza lasciar dopo di sè figliuoli, spedì ambasciatori al re Teoderico, chiedendogli in moglie Amalafreda di lui sorella, e non vi trovò difficoltà. Gli fu inviata questa principessa, coll'accompagnamento di mille nobili Goti, e [727] di circa cinquemila soldati di guardia, ed ebbe per dote il promontorio, ossia capo di Lilibeo in Sicilia. Laonde riuscì Trasamondo il più potente e riguardevole dei re vandali. Era anche assai caro ad Anastasio imperadore. Ma questo matrimonio pare che succedesse solamente nell'anno 500, per quanto si ricava dall'Anonimo Valesiano. Cresceva intanto la potenza di Clodoveo re de' Franchi per varie conquiste fatte nella Gallia e nella Germania. Ebbe egli in questi tempi una pericolosa guerra con gli Alamanni, e per consiglio della piissima regina Clotilde sua moglie, invocato in suo aiuto il Dio dei Cristiani, ne riportò un'insigne vittoria nel territorio di Colonia, colla morte del re loro e coll'acquisto del paese, che abbracciava se non tutta, in parte almeno, la Svevia moderna, ed altre contrade all'Occidente della Svevia. Un sì fortunato successo, congiunto colle esortazioni d'essa regina Clotilde, cristiana cattolica, l'indussero ad abbracciare la fede di Cristo, e però nel dì del Natale del Salvatore dalle mani di san Remigio vescovo di Reims prese il sacro battesimo. L'esempio suo trasse allora alcune migliaia di Franchi ad imitarlo, e assai più da lì innanzi si convertirono, sicchè non andò gran tempo che tutta la nobil nazion de' Franchi si unì al Cristianesimo.


   
Anno di Cristo CDXCVII. Indizione V.
Anastasio II papa 2.
Anastasio imperadore 7.
Teoderico re 5.

Console

Flavio Anastasio Augusto per la seconda volta, senza collega.

Neppure in quest'anno si trova console alcuno in Occidente. Abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che nell'anno presente ebbe fine la guerra per alcuni anni sostenuta dall'imperadore Anastasio [728] contro gl'Isauri. Il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] la vuol finita nell'anno precedente, con seguitare in ciò il testo di Teofane [Theoph., in Chronogr.], il quale io non oserei anteporre all'autorità di Marcellino, scrittore più vicino a questi tempi. Scrive dunque Marcellino che in quest'anno si terminò la guerra isaurica, e che essendo stato preso Atenodoro, persona primaria fra gl'Isauri, gli fu spiccato il capo dal busto, e questo poi portato a Tarso, ed esposto sopra di una picca al pubblico. Teofane, benchè paia di diverso sentimento, pure all'anno quinto di Anastasio scrive che Giovanni Scita generale dell'imperadore, dopo di un lungo assedio, fece prigioni Longino già generale dell'armi cesaree, e Atenodoro e gli altri tiranni, e dopo avergli uccisi inviò le loro teste a Costantinopoli. Aggiugne che Anastasio premiò Giovanni Scita e Giovanni Cirto, cioè il gobbo, colla dignità del consolato, siccome appunto vedremo negli anni seguenti. Fu poco fa accennato la vittoria riportata da Clodoveo re dei Franchi sopra gli Alamanni. Ora è da sapere che il vittorioso suo popolo, o perchè barbaro e superbo nella fortuna, o perchè irritato da qualche azione dei vinti, entrato nel loro paese, troppo aspramente trattava chi v'era rimasto in vita. Però la maggior parte di quei che nella rotta si salvarono colla fuga, ed altri assaissimi della nazione alemanna, non potendosi accomodare a quel pesante giogo, sen vennero in Italia, e dimandarono di poter qui abitare e vivere sudditi del re Teoderico. Bisogna credere che fossero di moltissime migliaia, perchè Ennodio [Ennod., in Panegyr. Theoderici.], testimonio di questo fatto, scrisse che Alamanniae generalitas intra Italiae terminos sine detrimento romanae possessionis inclusa est. Teoderico ben volentieri accolse questi nuovi abitatori, siccome venuti a tempo per sovvenire a tanti paesi che, a cagion delle guerre passate, erano restati privi [729] di chi coltivasse le campagne. Perciò senza aggravio del pubblico, cioè senza toglier ai Romani le loro terre per darle in proprietà ai vincitori, come avea fatto Odoacre coi suoi Eruli, e lo stesso Teoderico dovea anch'egli aver fatto per rimunerare i suoi Goti, divise i suddetti Alamanni per le campagne bisognose di coltivarsi; il che tornò in vantaggio del pubblico tutto.

Inoltre, sia perchè gli Alamanni, restati al lor paese sotto il giogo dei Franchi, implorassero in lor pro gli autorevoli uffizii del re Teoderico, o perchè dalla fama della crudeltà de' Franchi sopra della soggiogata nazione fosse mosso l'animo di Teoderico, questi diede un buon consiglio a Clodoveo re dei medesimi Franchi, suo cognato, oppure suo suocero, per quanto di sopra fu detto. Leggesi dunque preso Cassiodoro [Cassiod., lib. 2, epist. 41.] una lettera scritta da Teoderico a Luduin re de' Franchi: che così egli nomina chi dagli antichi scrittori è appellato Clodoveo e Clovis in volgare, ed altro in fine non è se non Lovis, cioè Luigi, o Lodovico, come noi diciamo. In essa lettera egli si rallegra seco per la vittoria riportata, e poscia il consiglia e prega di trattare i vinti con più mansuetudine e clemenza, perchè ciò tornerà in gloria e profitto suo; confessando che gli Alamanni atterriti s'erano ritirati in Italia. Dice che gli manda ambasciatori per sapere di sua salute, ed ottenere quanto ha chiesto in favore degli Alamanni, con inviargli ancora un sonatore di cetra che accompagnava col canto il suono. Così Teoderico, principe che in que' tempi, era dotato di rara prudenza e destrezza, si conciliava l'affetto e la venerazione degli altri, coll'essere mediatore fra tutti, e sostenere ora l'uno ora l'altro, e coll'insegnare a ciascun d'essi quella pulizia e gentilezza di cui erano allora privi non meno i Franchi che i Visigoti, Borgognoni e Vandali, ma che [730] Teoderico avea portato seco da Costantinopoli in Italia. Spedì in quest'anno papa Anastasio due suoi legati ad Anastasio imperadore, cioè Cresconio vescovo di Todi e Germano vescovo di Capoa, con sua premurosa lettera al medesimo Augusto, esortandolo di far levare dai sacri dittici il nome di Acacio già vescovo di Costantinopoli, e di voler provvedere ai bisogni della Chiesa alessandrina. Siccome osservò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 497.], ed apparisce da un memoriale dato dagli apocrisarii, ossia dai nunzi eretici della Chiesa suddetta d'Alessandria, Festo patrizio fu spedito (senza fallo dal re Teoderico) a Costantinopoli, unitamente coi legati pontificii; perocchè quel memoriale è indirizzato gloriosissimo atque excellentissimo patricio Festo, et venerabilibus episcopis Cresconio et Germano, simul cum ejus potestate directis in legatione ab urbe Roma ad clementissimum et Christo amabilem imperatorem Anastasium. Parimente Teofane [Theoph., in Chronogr.] attesta che in quest'anno da Roma fu inviato Festo ad Anastasio Augusto per alcuni affari civili. Ora qui convien ripetere le parole dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], il quale così scrive: Facta pace cum Anastasio imperatore per Festum de praesumtione regni, omnia ornamenta palatii, quae Odoacer Constantinopolim transmiserat, remittit. Eodem tempore contentio orta est in urbe Roma inter Symmachum et Laurentium, ec. Di qui presi io argomento di conghietturare disopra, che solamente in quest'anno, o nel susseguente, si conchiuse l'aggiustamento del re Teoderico coll'imperador d'Oriente, irritato per aver Teoderico preso il titolo di re senza sua licenza ed approvazione. Festo era nel presente anno in Costantinopoli: e quello storico scrive fatta la pace suddetta allorchè succedette lo scisma nella Chiesa romana, il che avvenne, come si vedrà, nell'anno [731] susseguente. Da Teodoro lettore [Theod. Lector, lib. 2 Hist. Eccl.] vien detto che Festo senatore romano fu inviato ad Anastasio Augusto per alcune occorrenze civili, e che essendo poi tornato a Roma, trovò essere mancato di vita papa Anastasio.


   
Anno di Cristo CDXCVIII. Indiz. VI.
Simmaco papa 1.
Anastasio imperadore 8.
Teoderico re 6.

Consoli

Giovanni Scita e Paolino.

Il primo di questi consoli, cioè Giovanni Scita, fu creato in Oriente da Anastasio imperadore in ricompensa della fedeltà e bravura, con cui egli avea tratta a fine la guerra isaurica nell'anno precedente, dove egl'era stato generale dell'armi imperiali. L'altro, cioè Paolino, ebbe da Teoderico il consolato in Occidente. Dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] è chiamato Paulinus Decius, perchè della famiglia Decia fu Paolino console nell'anno 534, il quale perciò è appellato juniore. Se questa ragion sia fuor di dubbio, lascerò deciderlo agli eruditi. Ben so che, quando si ammetta per vera e certa, si avrebbe da scrivere Decius Paulinus, e non già Paulinus Decius, essendo stato costume degli antichi di nomar le persone dall'ultimo lor nome, ossia cognome. Compiè in quest'anno il corso di sua vita Anastasio II papa, essendo succeduta la sua morte nel dì 17 di novembre. Fu eletto ed ordinato dalla maggior parte del clero romano in suo luogo a dì 22 del medesimo mese papa Simmaco diacono, di nazione sardo, ma con grave discordia; perciocchè un'altra parte elesse e consacrò Lorenzo prete di nazione romano. Teodoro lettore [Theod. Lector, lib. 2 Hist. Eccl.] lasciò scritto che Festo, ritornato dall'ambasceria di Costantinopoli, guadagnò con danari gli elettori di Lorenzo, sperando [732] di far poscia accettare a questo suo papa l'enotico di Zenone; e che per questa divisione succederono assaissimi ammazzamenti, saccheggi, ed altri mali innumerabili alla città di Roma, sostenendo cadauna delle parti l'eletto suo, con durare questo gravissimo sconcerto per ben tre anni. L'autore della Miscella [Histor. Miscella, tom. 1 Rer. Italic.], secondo la mia edizione, anch'egli racconta avere una tal discordia sì fattamente involto non solo il clero, ma anche il senato di Roma, che Festo il più nobile tra senatori, stato già console nell'anno 472, e Probino, stato anche esso console nell'anno 489, sostenendo la parte di Lorenzo contro di Fausto, che parimente era stato console o nel 485, o nel 490, e contro gli aderenti di Simmaco, fecero guerra ad esso Simmaco, con restare uccisa in mezzo a Roma la maggior parte dei preti, molti cherici, ed assaissimi cittadini romani: giacchè non cessò per alcuni anni questa diabolica gara e dissensione. Dal che apparisce che il maggior male venne dalla parte de' partigiani di Lorenzo. E Teofane scrittore greco asserisce anch'egli [Theoph., in Chronogr.] che l'elezion di Lorenzo procedette dalla prepotenza di Festo patrizio, il quale si era impegnato coll'imperadore Anastasio di far creare un papa a lui favorevole, e non perdonò alla borsa per far eleggere Lorenzo. All'incontro uno scrittore della fazion di esso Lorenzo, il cui frammento ho io pubblicato fra le vite de' romani pontefici [Rer. Ital., part. 2, tom. 4.], attribuisce il peggio a Simmaco, il quale, secondo lui, fu accusato di vari vizii, e non ebbe mai quieto il suo pontificato. Ciò nondimeno che sempre militerà in favore di Simmaco, si è, ch'egli venne riconosciuto sì dai concilii romani, come dalla Chiesa tutta per successor legittimo di san Pietro, e considerato ne' concilii come innocente: di maniera che si può credere che l'accuse a lui date fossero, se non [733] tutte, almeno la maggior parte, fabbricate dalla malevoglienza de' suoi nemici. E per conto di queste lagrimevoli scene, sappia il lettore che non succederono tutte nel presente anno, anzi le più sanguinose accaddero molto più tardi.


   
Anno di Cristo CDXCIX. Indizione VII.
Simmaco papa 2.
Anastasio imperadore 9.
Teoderico re 7.

Console

Giovanni il gobbo, senza collega.

Questo Giovanni console, soprannominato il gobbo, era stato anch'egli uno de' generali dell'imperadore Anastasio, ed avea fatto di molte prodezze nella guerra contro gl'Isauri; però ne ebbe in premio la dignità del consolato. Il Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.] aggiugne a questo console un altro, cioè Asclepio, da lui creduto console occidentale. Dello stesso parere è il Relando [Reland., in Fast.], con chiamarlo Asclepione. Crede il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] asserito ciò dal Panvinio senza pruove: ma ci son due leggi nel Codice Giustinianeo [L. 25,. de Excusation. Tutor. Senatus Consult. de Silentiar.], date amendue Johanne et Asclepione, coss. Contuttociò io non oserei inserire nei Fasti questo Asclepio, od Asclepione, come console certo sulla sola asserzione del codice Giustiniano che troppo abbonda di falli nelle date delle leggi, dacchè tutti i Fasti greci e latini non ci danno se non Giovanni il gobbo per console del presente anno. Pare eziandio che non passasse buona intelligenza tra l'imperadore e Teoderico, perchè non solamente non si trova console creato in Occidente, ma neppure in Roma miriamo segnato l'anno col consolato dell'eletto in Oriente, ma bensì post consulatum Paulini. Non potendosi intanto quetare, nè accordare le [734] fazioni insorte in Roma per l'elezione del papa, finalmente si venne al ripiego di ricorrere a Ravenna al re Teoderico, acciocchè la sua autorità s'interponesse per mettere fine a sì scandalosa discordia. L'Anonimo da me pubblicato [Rer. Ital., part. 2, tom. 3.] scrive che amendue gli eletti ebbero ordine di portarsi alla corte. Teoderico era bensì ariano, ma era anche gran politico, e pare che non volesse inimicarsi alcuna di queste fazioni col consentenziare nelle lor dissensioni. Pertanto, secondochè ha Anastasio [Anastas. Biblioth., in Symmach.], ordinò che l'eletto da più voti e prima consecrato si avesse da tenere per vero romano pontefice. Non è ben chiaro come fosse riconosciuta la legittimità dell'elezione di Simmaco, cioè se in un concilio, oppure in altra maniera. Quello ch'è certo, si truova Simmaco nel dì primo di marzo del corrente anno tener pacificamente un concilio in Roma, ed ivi farla da papa, con formar varii decreti per levar le frodi, prepotenze e brighe, che allora si usavano per elezione dei papi. Anzi essendo sottoscritto a quel concilio Celio Lorenzo arciprete del titolo di santa Prassede, il cardinal Baronio pretende che egli sia lo stesso che dianzi contendeva con Simmaco pel papato; cosa che io non oserei d'affermare come indubitata. Sotto il presente consolato Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] lasciò scritto, che i Bulgari, popolo barbarico, fecero un'irruzione nella Tracia, portando la desolazion dappertutto. Contra d'essi fu spedito Aristo, generale della milizia dell'Illirico, con quindicimila combattenti e cinquecento venti carra cariche tutte di armi da combattere; ma venuto alle mani con essi presso il fiume Zurta, rimase sconfitto, colla morte di tre capitani principali di quell'armata e di quattromila de' più valorosi soldati dell'Illirico. È di parere il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che solamente in quest'anno cominciasse a udirsi il nome de' Bulgari in quelle parti. [735] Ma abbiamo osservato di sopra in un frammento dell'autore della Miscella, da me dato alla luce [Histor. Miscella, tom. 1 Rer. Italicar.], e non veduto dal padre Pagi, che venendo in Italia Teoderico per la via del Sirmio nell'anno 489, fu forzato a combattere con Busa re dei Bulgari, a cui diede una rotta. E però intendiamo che fino allora que' Barbari aveano fissato il piede in quella contrada, a cui fu poi dato il nome di Bulgaria. Il nome di costoro si crede non altronde venuto che dal fiume Volga o Bolga, oggidì nella Russia, ossia Moscovia, alle cui rive abitavano un volta quei Barbari.


   
Anno di Cristo D. Indizione VIII.
Simmaco papa 3.
Anastasio imperadore 10.
Teoderico re 8.

Consoli

Ipazio e Patricio.

Amendue furono consoli in Oriente. Ipazio, per testimonianza di Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 2, cap. 8] e di Teofane [Theoph., in Chron.], era figliuolo di Magna sorella d'Anastasio imperadore. Patrizio era di nazione frigio, e valoroso condottier d'armate, come abbiamo dallo stesso Procopio che narra alcune di lui militari imprese. L'anno fu questo, in cui, per quanto scrive Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.], Teoderico, che non era per anche stato a Roma, ma che veniva desiderato concordemente dal popolo romano, determinò di portarsi colà. L'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] nota che l'andata a Roma di Teoderico seguì, dappoichè si era rimessa la pace nella Chiesa romana, cioè dopo essere stato riconosciuto Simmaco per legittimo papa. In fatti con gran magnificenza fece egli la sua entrata in Roma, come se fosse stato cattolico, si portò a dirittura alla basilica vaticana [736] a venerare il sepolcro del principe degli Apostoli. Furono ad incontrarlo fuori della città papa Simmaco e il senato e popolo romano, come s'egli fosse stato un imperadore. Era allora fuori di Roma la suddetta basilica; e però vi si dovette portare anche il papa. Entrato poi Teoderico nella città, passò al senato; e nel luogo appellato Palma fece una allocuzione al popolo, con promettere fra l'altre cose di osservare inviolabilmente tutte le ordinanze fatte dai precedenti principi romani. Questo luogo chiamato Palma probabilmente era qualche gran sala del palazzo imperiale. L'autore antichissimo [Acta Sanctorum Bolland. ad diem 1 januar.] della vita di san Fulgenzio narra, ch'egli essendo in Roma quel giorno, in cui il re Teoderico fece una parlata al popolo nel luogo che si chiama Palma d'oro, ebbe occasione di ammirare la nobiltà, il decoro e l'ordine della curia romana, distinta secondo i varii gradi delle dignità, e di udire i plausi d'esso popolo, e di conoscere qual fosse la gloriosa pompa di questo secolo. Seguita a scrivere il suddetto Anonimo per tricennalem triumphans populo ingressus palatium, exhibens Romanis ludos circensium. Stimano il Valesio e il padre Pagi, che in vece di tricennalem s'abbia quivi a scrivere decennalem. Ma decennalia e non decennalis si solea dire; nè, per confessione dello stesso Pagi, correvano in quest'anno i decennali di Teoderico. Perciò quel passo, senza fallo guasto, è più probabile che significhi o la via per cui fu condotto il trionfo, o il tempo tricenorum dierum, che forse durarono quelle feste. In tal congiuntura Teoderico fece risplendere la sua singolare affabilità verso i senatori, e molto più la sua munificenza verso il popolo romano, perchè gli assegnò e donò ventimila moggia di grano per ogni anno. E affin di ristorare il palazzo imperiale e le mura della città, gli assegnò dugento libbre annue d'oro da ricavarsi dal dazio del vino. Sul principio [737] del suo governo avea Teoderico conferita a Liberio la prefettura del pretorio. Il creò patrizio in questi tempi, e diede quella dignità ad un altro. Fece tagliar la testa ad Odoino conte, che avea cospirato contro la vita di Teodoro figliuolo di Basilio suo superiore. Di questo fatto si trova menzione anche presso Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.]. Volle dipoi che la promessa da lui fatta al popolo, s'intagliasse in una tavola di bronzo, e stesse esposta al pubblico.

Passati sei mesi in Roma fra gli applausi e le allegrezze di quel popolo, se ne tornò Teoderico a Ravenna. Stando quivi maritò Amalaberga figliuola di Amalafreda sua sorella, con Ermenfredo re della Turingia. Pubblicò eziandio varie leggi che corrono sotto il nome di Editto, e si leggono nel codice delle leggi antiche e fra le lettere di Cassiodoro. L'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] ci insegna che la pubblicazion d'esse fu fatta mentre egli era in Roma. Per quanto crede il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], fu in questo anno tenuto il secondo sinodo in Roma da papa Simmaco, e in esso a titolo di misericordia fu creato vescovo di Nocera, città della Campania, il suo antagonista Lorenzo. Cita egli in pruova di ciò Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec., in Vita Simmach.], Teodoro lettore [Theod. Lector, lib. 2.], Teofane [Theoph., in Chronogr.], Niceforo [Niceph. Callistus, lib. 16.]. Ma Anastasio nulla dice del tempo, in cui fu conferito il vescovato a Lorenzo; e Teodoro lettore, con gli altri Greci, che dicono preso quel ripiego dopo essere durata la divisione per tre anni, non sembra a me testimonio bastevole in questo fatto, di maniera che credo doversi anteporre l'opinion del cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.]: cioè che nel primo concilio e nel precedente anno seguisse la [738] collazione del vescovato di Nocera a Lorenzo. L'Anonimo veronese da me pubblicato [Rerum Italic., part. 5, tom. 3.], chiaramente dice che allorchè Simmaco fu riconosciuto per legittimo papa, Lorenzo ancora venne promosso al vescovato. Lo stesso Teodoro lettore conferma questa verità. Ora è certo, siccome abbiam veduto, che Simmaco nel marzo dell'anno prossimo passato godeva pacificamente il pontificato, e tenne il primo concilio romano. Venuto poco appresso a Roma il re Teoderico, egli solennemente col clero si portò ad incontrarlo fuori di Roma. Adunque se nel primo concilio Simmaco fu dichiarato vero papa, allora parimente, per quietare in qualche maniera le pretensioni di Lorenzo, gli fu conferita la chiesa di Nocera. In questi medesimi tempi nacque gran discordia tra Gundobado e Godigiselo fratelli, amendue re de' Borgognoni. Il primo abitava in Lione, l'altro in Geneva colla signoria della Savoja. Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], e più copiosamente Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2.] raccontano che Godigiselo per opprimere il fratello tramò un inganno con Clodoveo re dei Franchi, promettendo di pagargli tributo da lì innanzi. Clodoveo mosse guerra a Gundobado, e questi chiamò in soccorso il traditor suo fratello Godigiselo, il quale coll'esercito suo andò ad unirsi seco contra i Franchi; ma avendo Clodoveo attaccata battaglia con essi presso Digione, oggidì capitale della Borgogna, ed essendosi unito con lui nel furor della zuffa Godigiselo, riuscì loro facile di sconfiggere Gundobado, il quale scappò ad Avignone, con lasciare il comodo al fratello di occupar buona parte del regno. In quella città fu assediato da Clodoveo; ma con promettergli tributo, restò libero. Ripigliate poi le forze, passò esso Gundobado all'assedio di Vienna, con prenderla ed ammazzarvi Godigiselo che v'era dentro e molti [739] nobili borgognoni della di lui fazione. In questa maniera egli divenne padrone di tutto il regno dell'antica Borgogna, che abbracciava allora la Borgogna moderna, la Savoja, il Delfinato, il Lionese; e, per attestato di Gregorio Turonense [Gregor. Turonens., lib. 2, cap. 35.], anche la provincia di Marsilia, senza che sappiamo come passasse l'affare, avendo noi veduto all'anno 477, che i Visigoti s'erano impadroniti di Marsiglia. Procopio anch'egli scrive che i Visigoti nella Gallia stendevano il loro dominio fino alla Liguria, e per conseguente sotto la lor giurisdizione era la Provenza.


   
Anno di Cristo DI. Indizione IX.
Simmaco papa 4.
Anastasio imperadore 11.
Teoderico re 9.

Consoli

Rufio Magno Fausto Avieno e Flavio Pompeo.

Avieno primo fra questi due consoli appartiene all'Occidente. È creduto dal padre Pagi figliuolo e nipote di quel Gennadio Avieno ch'era stato console nell'anno 450. Se così è, secondo i conti del medesimo Pagi, avrebbe dovuto appellarsi juniore: il che nondimeno non apparisce nei Fasti. Quanto a me io il credo figliuolo di Fausto, a cui Ennodio scrive una lettera [Ennod., Ep. V, lib. 1.] congratulandosi per la dignità consolare conferita ad Avieno di lui figliuolo. L'altro console, cioè Pompeo, fu creato in Oriente, ed era figliuolo di Flavio Ipazio, cioè di un fratello di Anastasio imperadore, come il Du-Cange [Du-Cange, Famil. Byzant. in Anast.] osservò. Divenuto, come dicemmo, padrone di tutta l'antica Borgogna Gundobado, diede fuori in questo anno, o pure nel susseguente, le leggi dei Borgognoni che tuttavia esistono, colle quali, secondo l'asserzione di Gregorio Turonense, egli mise freno alla rapacità e crudeltà del suo popolo, acciocchè [740] non opprimessero i Romani, cioè i vecchi abitanti di quelle contrade, sperando con ciò di acquistarsi la loro benevolenza. In esse leggi, fra l'altre cose, egli permise i duelli, come un rimedio creduto allora tollerabile per ischivar mali e violenze maggiori nelle private inimicizie. Ma nel secolo nono, Agobardo, dottissimo arcivescovo di Lione, scrisse un suo Trattato contra la legge di Gundobado, cioè contra quella, da cui erano permessi i duelli, mostrando fin d'allora l'iniquità e temerità di chi rimetteva al giudizio dell'armi la dichiarazione della verità e falsità delle cose, ossia dell'innocenza e del reato delle persone. Celebre ancora è la conferenza tenuta da santo Avito, vescovo di Vienna del Delfinato, in compagnia dei vescovi d'Arles, Marsilia e Valenza, con gli ariani, alla presenza dello stesso re Gundobado, per desiderio che aveano que' zelanti prelati di condurre esso dall'arianismo alla religion cattolica. Restarono convinti gli ariani, ed alcuni d'essi ancora abbracciarono la cattolica fede; ma Gundobado dimorò saldo ne' suoi errori, con dire fra l'altre cose: Se la vostra fede è la vera, perchè mai i vostri vescovi non impediscono il re de' Franchi che mi ha mossa guerra, e si è collegato co' miei nemici per distruggermi? Abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] sotto il presente anno, che celebrandosi in Costantinopoli i giuochi teatrali sotto Costanzo prefetto della città, una delle fazioni, nemica della cerulea, ossia della veneta, vi introdusse occultamente una gran copia di spade e sassi, e nel più bello dello spettacolo si scagliò contra degli emuli con tal furia e barbarie, che ben tremila persone vi restarono uccise. Dal che si intende che non i soli condottieri delle carrette e de' cavalli formavano le fazioni diverse d'allora, ma anche il popolo, il quale, secondo il suo capriccio, teneva per l'una parte o per l'altra, e dovea comparire allo spettacolo colla veste o [741] divisa della sua fazione. Abbiam veduto nel precedente anno che il poco fa mentovato Gundobado re dei Borgognoni, colla morte di Godigiselo suo fratello, avea slargati i confini del suo regno. Nel presente, se crediamo al padre Daniele [Daniel, Histoire de Franc., tom. 1.], i Franchi e Teoderico re di Italia fecero lega insieme contra del medesimo borgognone, con patto di dividere le conquiste che si facessero, ancorchè l'una delle parti non aiutasse l'altra: nel qual caso dovesse la non operante aver la sua tangente delle conquiste, con isborsar nondimeno una somma d'oro all'altra parte vincitrice. Spedì Teoderico il suo esercito, ma con ordine di andar lentamente, per veder prima ch'esito sortiva la guerra tra i Franchi e Gundobado. Furono rotti in una sanguinosa battaglia i Borgognoni, ed occupata gran parte del loro paese dai Franchi. Allora l'armata di Teoderico passò in fretta l'Alpi, e addusse per iscusa del ritardo la difficultà delle strade. Ciò non ostante, i Franchi mantennero la parola, con dividere i paesi conquistati, e ricevere da Teoderico l'oro pattuito; ed in tal guisa cominciò una parte della Gallia ad essere posseduta dai Goti e dai Germani, cioè dai Franchi. Così il padre Daniele, che da Procopio [Procop., de Bell. Goth. lib. 1, cap. 12.] prese la notizia di questa guerra, ne disegnò il tempo, cioè il presente anno, e n'addusse ancora i motivi, da lui però immaginati. Ma è fuor di dubbio che non in questi tempi, ma sì bene molti anni dipoi, cioè nell'anno 523, fu fatta questa guerra, e non già contra Gundobado, ma sì bene contra Sigismondo suo figliuolo. Infatti Gregorio Turonense scrive che tutto il regno della Borgogna fu in potere di Gundobado dopo la morte del fratello. E poi narrata la vittoria di Clodoveo riportata sopra i Visigoti, dice che il regno di Clodoveo arrivò sino a' confini dei Borgognoni. Più chiaramente [742] scrive Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] che Gundobado regnum, quod perdiderat, cum eo, quod Godegeselus habuerat, receptum, usque in diem mortis suae feliciter gubernavit. Finalmente avendo Ennodio recitato il suo panegirico al re Teoderico nell'anno 506, e nel seguente con toccare ed esaltare in esso anche le men riguardevoli imprese di lui, ma senza dir menoma parola d'acquisto alcuno fino allora fatto nelle Gallie: di più non occorre per conchiudere, che non può appartenere all'anno presente il racconto di Procopio, ma bensì l'anno 523, come si farà vedere.


   
Anno di Cristo DII. Indizione X.
Simmaco papa 5.
Anastasio imperadore 12.
Teoderico re 10.

Consoli

Flavio Avieno juniore e Probo.

Questo Avieno console occidentale era figliuolo di Fausto patrizio, a cui è indirizzata una lettera di Ennodio [Ennod., Epist. V, lib. 1.]; e quantunque in età giovanile, venne promosso a quell'illustre dignità da Teoderico, principe che studiava tutte le maniere di affezionarsi i primarii, ed anche lo stesso popolo di Roma. Probo vien creduto dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] e dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] console orientale e nipote d'Anastasio imperadore per via di un suo fratello o d'una sua sorella; ma è da vedere all'anno 513 disotto Probo juniore che lascia qualche dubbio intorno alla famiglia di questo Probo. Secondo le osservazioni del padre Pagi fu in quest'anno tenuto il terzo concilio romano da papa Simmaco sul principio di novembre, in cui la sacra assemblea dichiarò nullo ed insussistente un decreto fatto dal re Odoacre, o pure da Basilio prefetto del pretorio a' tempi di quel re, [743] di non eleggere o consecrare il papa, senza prima consultare il re o per lui il prefetto del pretorio. Si rinnovarono ancora i divieti di alienare gli stabili ed ornamenti delle chiese. Ma per quanto dica il padre Pagi, tuttavia resta scura la storia degli Atti di papa Simmaco e il tempo de' concili tenuti da lui in Roma, supponendo sempre il Pagi che il competitore Lorenzo fosse creato vescovo di Nocera nell'anno 509, quando, per le ragioni addotte di sopra, è più probabile che quel vescovato gli fosse conferito nell'anno precedente, ed avendo dovuto esso Pagi alterar le date di essi concilii, per accomodarle al suo sistema. Teofane [Theoph., in Chronogr.] e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] notano che in quest'anno i Bulgari tornarono a fare un'incursione nella Tracia, e senza trovar chi loro resistesse, devastarono il paese. Colla medesima crudeltà trattarono anche l'Illirico. Dai tempi di Teoderico juniore aveano i Persiani conservata la pace fino al presente anno coll'imperio d'Oriente. Ora Coade, ossia Cabade, re di quella nazione, richiese danari da Anastasio imperadore. Rispose questi che ne darebbe in prestito, purchè se gli desse una buona sigurtà, e non in altra maniera. Allora i Persiani con un possente esercito entrati nell'Armenia, presero Teodosiopoli per tradimento di Costantino senatore, generale delle milizie cesaree. Passati dipoi nella Mesopotamia, posero l'assedio ad Amida, città ricchissima, che fece gagliarda difesa, e si sarebbe sostenuta, se alcuni monaci non l'avessero tradita, i quali nel sacco dato ad essa città rimasero anch'essi, colla maggior parte di que' cittadini, tagliati a pezzi. In questi tempi ancora Clodoveo re de' Franchi, che cercava dappertutto pretesti ed occasioni di sempre più ingrandirsi, mosse guerra alla Bretagna minore, ed obbligò il re di quella nazione a sottoporsi al di lui dominio: dopo di che non più [744] re, ma conti furono appellati i capi di quel popolo, per quanto scrive Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 1, cap. 15.]. Nondimeno ho io osservato nelle note al poema di Ermoldo Nigello [Rer. Ital. Script., part. 2 tom. 2.], che anche da lì innanzi i Britanni minori affrettarono di dare il titolo di re al principe loro.


   
Anno di Cristo DIII. Indizione XI.
Simmaco papa 6.
Anastasio imperadore 13.
Teoderico re 11.

Consoli

Desicrate e Volusiano.

Desicrate fu console dell'Oriente, e Volusiano dell'Occidente. A quest'anno riferisce il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] il quarto concilio romano, appellato palmare, che fu il più numeroso di tutti, nel quale troviamo dichiarata l'innocenza di Simmaco papa, e terminata la gran lite di lui con Lorenzo, intruso nella sedia di san Pietro dai suoi fazionarii. Intorno a che è da ascoltare Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibl., in Vit. Symmachi.], ossia l'autore antichissimo della vita di Simmaco nel Pontificale romano, che così parla d'esso papa: "Quattro anni, dice egli, dappoichè Simmaco era stato riconosciuto legittimo pontefice, e Lorenzo suo antagonista, durante tuttavia il sacrilego impegno di Festo patrizio, che si tirava dietro Probino patrizio, e quasi tutto il senato, risorse la speranza in essi di fare scomunicar papa Simmaco, e poscia deporlo. Perciò inventarono nuove accuse contra di lui, tacciandolo di adulterio, e di aver dilapidati i beni della Chiesa romana, con inviare a Ravenna dei falsi testimonii contra di lui al re Teoderico. Occultamente ancora richiamarono a Roma Lorenzo, cioè l'antipapa, e rinnovarono lo scisma, aderendo gli uni a Simmaco, e gli altri a [745] Lorenzo. Poscia inviata al re Teoderico una relazione, tanta istanza fecero per avere un visitatore della Chiesa romana, che Teoderico diede tal commissione a Pietro vescovo d'Altino, guadagnato prima da essi fazionarii: ripiego insolito e contrario ai sacri canoni, essendo una mostruosa deformità il vedere costituito un vescovo, e ciò dalla potenza laica, come giudice sopra la sede apostolica: del che giustamente si dolse non poco papa Simmaco." Seguita a dire Anastasio che nel medesimo tempo Simmaco raunò un concilio di cento e quindici vescovi, nel quale egli restò purgato da' reati che gli erano apposti, e fu condannato Lorenzo vescovo di Nocera, perchè vivente il papa avesse tentato di occupar la sedia di san Pietro, ed insieme Pietro vescovo di Altino, per aver osato di alzar tribunale contra di un legittimo pontefice. Allora Simmaco da tutti i vescovi e da tutto il clero con sua gloria fu rimesso sul trono, e andò a fare la residenza sua a san Pietro. Finalmente Anastasio continua a dire: che nel medesimo tempo Festo capo del senato, e già stato console, con Probino, stato anch'esso console, entro Roma stessa cominciò a fare guerra contra di altri senatori, massimamente e contra di Fausto, già stato console, il qual solo si potea dire che si combattesse in favor di Simmaco. Però succederono molti ammazzamenti in Roma stessa; e que' preti e cherici ch'erano trovati aderenti a papa Simmaco venivano uccisi. Furono maltrattate fin le monache e le vergini che si scoprivano del partito d'esso papa, con cavarle fuori de' monasteri e delle lor case, con ispogliarle, e dar loro anche delle ferite. E non passava giorno che non si udissero di queste battaglie e ribalderie. Uccisero molti sacerdoti e molti laici, nè v'era sicurezza alcuna per chi avea da camminare per la città. Così Anastasio, senza soggiugnere qual fine avesse questa tragedia.

Ascoltiamo ora un fazionario di Lorenzo [746] antipapa, cioè l'Anonimo veronese [Anonymus Veronensis, part. 2, tom. 3 Rer. Ital.], il quale racconta che sulle prime d'ordine del re Teoderico fu riconosciuto Simmaco per vero papa, e dato a Lorenzo il vescovato di Nocera. Dopo alcuni anni fu accusato Simmaco presso il suddetto re, con farlo credere reo d'adulterio, e che avesse alienato i beni della Chiesa romana; al qual fine fecero anche andare a Ravenna alcune donne, cioè persone facili ad essere subornate da chi era sì accanito contro d'esso papa. Fu chiamato Simmaco alla corte, e confinato in Rimini; ma perchè egli s'avvide che non v'erano orecchi per lui, ma solamente per li suoi avversarii, se ne ritornò a Roma senza permissione del re. Allora i suoi emuli fece fuoco alla corte di Teoderico, con istanza che inviasse a Roma un visitatore nel tempo della Pasqua: al che fu deputato Pietro vescovo di Altino. Dopo essa festa il senato e clero, cioè quella parte che era per Lorenzo, ottennero dal re che si raunasse un concilio in Roma, al quale non volle intervenire Simmaco. Ma qui è da osservare un'iniqua reticenza di questo scrittore, cioè che papa Simmaco intervenne benissimo alla prima sessione; e andando poi alla seconda co' suoi preti e cherici, fu assalito per istrada, con restare uccisi o feriti alcuni de' suoi, ed aver egli stesso durata fatica in mezzo ad una pioggia di sassate a potersi mettere in salvo: il che gli riuscì ancora per l'assistenza che gli prestarono Gudila e Vedulfo, maggiordomi del re Teoderico, seco venuti per guardia a quella raunanza. Questo solo basta a far conoscere se gli avversarii suoi per cristiano zelo, o pur per un cieco odio o per una malignità patente, il volessero abbattuto e deposto. A cagione di questa prepotenza Simmaco si scusò di più intervenire al concilio. Dal che avvenne che molti de' vescovi (seguita a dire l'Anonimo suddetto) veggendo [747] così incagliato l'affare, e che non le vie della giustizia, ma sì ben quelle della violenza prevalevano, attediati se ne tornarono alle lor case. Allora i nemici di Simmaco supplicarono il re di permettere che Lorenzo sequestrato in Ravenna venisse a Roma. Costui n'ebbe la licenza, ed entrato in Roma, s'impadronì di molte chiese, e per quattro anni quivi si mantenne: nel qual tempo si fece una crudel guerra. Ma infine Teoderico, avendogli Simmaco inviato un memoriale per mezzo di Dioscoro diacono alessandrino, ordinò a Festo patrizio che tutte le chiese occupate da Lorenzo fossero restituite a Simmaco. Così fu fatto, e Lorenzo ritiratosi nei poderi di Festo patrizio, quivi terminò la sua vita.

Facile ora è a qualsivoglia accorto lettore il conoscere dalle cose dette che la gran tempesta commossa e continuata per tanto tempo contra di Simmaco, non venne già da veri delitti d'esso papa, ma sì bene dal perverso animo e dalla congiura di Festo patrizio, che con false accuse e testimonii subornati, e con ammazzamenti voleva pur esaltare il suo Lorenzo colla depression di Simmaco, benchè dichiarato vero successore di san Pietro. Chi è capace di fare il primo passo falso, non è da stupire se ne fa degli altri appresso anche più violenti. In fatti il concilio palmare tenuto in Roma è una prova autentica di questa verità, essendo ivi, per quel che riguarda il giudizio degli uomini, stata riconosciuta l'innocenza di Simmaco, ancorchè i più del senato e del clero fossero sedotti da Festo e Probino patrizii. Da quanto ancora s'è detto, si può raccogliere, non sussistere, come vogliono alcuni, che in quest'anno, anche dopo la celebrazione del concilio palmare, si restituisse la pace alla Chiesa romana. Durò la persecuzione e dissensione gran tempo ancora dipoi; e restano tuttavia delle difficoltà nell'assegnare il tempo, in cui fu tenuto esso concilio palmare, e bandito da Roma Lorenzo; e tanto più, se sussistesse, come suppone [748] il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], che nel presente anno fosse tenuto il quinto concilio romano, di cui si son perduti gli atti. Per conto poi del re Teoderico, ancorchè egli si lasciasse sorprendere dalle istanze della potente fazione di Lorenzo col concedere un visitatore della Chiesa romana (istanza contraria ai sacri canoni); tuttavia egli non si attribuì già la facoltà di decidere nelle cause ecclesiastiche, e massimamente di tanto rilievo, trattandosi di un sommo pontefice. Elesse egli dunque la via convenevole in sì gravi sconcerti, cioè quella di un concilio, con dichiarare espressamente [In Actis Concilii Palmaris.]: In synodali esse arbitrio, in tanto negotio sequenda praescribere, nec aliquid ad se praeter reverentiam de ecclesiasticis negotiis pertinere: committens potestati pontificum quod magis putaverint utile, deliberarent, dummodo venerandi provisione concilii pax in civitate romana christianis omnibus redderetur: parole degne di gran lode in un principe. Anzi avendo i vescovi della Liguria, capo de' quali fu Lorenzo insigne arcivescovo di Milano, in passando da Ravenna, rappresentato al re che toccava al papa stesso convocare quel concilio: Potentissimus princeps ipsum quoque papam incolligenda synodo voluntatem suam literis demonstrasse significavit. E perciocchè essi desiderarono di veder le lettere dello stesso papa, egli non ebbe difficoltà di farle immediatamente mettere sotto i loro occhi, con esempio memorabile per tutti i secoli avvenire, e specialmente essendo Teoderico ariano di credenza. È di parere il padre Pagi [Pagius., Crit. Bar.] che palmare fosse appellato quel concilio dal luogo chiamato Palma aurea in Roma, di cui s'è parlato disopra. Anastasio bibliotecario scrive [Anastas. Bibl., in Vita Honorii.]: In porticu beati Petri, quae appellatur ad Palmaria. Sarebbe da vedere se ad esso sinodo convenisse più questo che quel luogo.

[749] Al presente anno (ma non si sa di sicuro questo tempo) riferisce il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad ann. 503.] un apologetico scritto ed inviato da papa Simmaco all'imperador Anastasio; dal qual apparisce che quel principe dopo aver scoperto Simmaco costante nella difesa della Chiesa cattolica e contrario a tante macchine d'esso Anastasio per abolire il concilio calcedonense, e sostenere l'eresia d'Eutichete e degli acefali, avea scritto contra di lui, con caricarlo d'indicibili ingiurie, fino a chiamarlo manicheo, quando si sa da Anastasio bibliotecario [Anast. Bibl., in Vita Symmachi.], che avendo egli scoperti dei Manichei in Roma, li cacciò via, e fece pubblicamente bruciare i lor libri. Simmaco, oltre al difendere sè stesso, rappresenta ad Anastasio i falli da lui commessi in protegger la memoria di Acacio, e in comparir cotanto parziale degli eretici. Da questo apologetico deduce il cardinal Baronio che papa Simmaco avea scomunicato Anastasio Augusto. Le parole del pontefice son queste: Dicis quod mecum conspirante senatu, excommunicaverim te. Ista quid ego: sed rationabiliter factum a decessoribus meis sine dubio subsequor. Quid ad me, inquies, quod egit Acacius? Recede ergo, et nihil ad te. Nos non te excommunicavimus, imperator, sed Acacium. Tu recede ab Acacio, et ab illius excommunicatione recedis. Tu te noli miscere excommunicationi ejus, et non es excommunicatus a nobis. Da tali parole potrebbe parere che non avesse già papa Simmaco fulminata contra di Anastasio la scomunica maggiore; ma ch'egli solamente pretendesse incorso l'imperadore nella scomunica minore perchè comunicava colla memoria di Acacio scomunicato dalla sede apostolica. Simmaco sosteneva i decreti de' suoi predecessori contra di Acacio e non volendo Anastasio ritirarsi dalla comunione di Acacio, benchè defunto, ne veniva per conseguenza che egli incorreva nella scomunica di chi comunica con gli [750] scomunicati. In quest'anno, per testimonianza di Cassiodoro [Cassiodor., in Chron.], il re Teoderico condusse l'acqua a Ravenna, con far rifabbricare a tutte sue spese gli acquedotti che da gran tempo erano affatto diroccati. L'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.] scrive che quegli acquedotti erano stati fabbricati da Trajano imperadore. Se quelle acque furono prese dalla collina e condotte fino a Ravenna, non potè essere se non grande la spesa, e magnifica l'impresa. Racconta Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che Anastasio imperadore spedì nel presente anno contra de' Persiani Patrizio già stato console, Ipazio figliuolo d'una sua sorella, e Ariobindo, genero d'Olibrio già imperadore, con un'armata di quindicimila persone. Questo numero si dee credere scorretto, perchè abbiamo da Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 1, cap. 8.] che non s'era veduto prima, nè si vide dipoi, un esercito sì fiorito come questo contra dei Persiani. Tanto Teofane [Theoph., in Chron.] quanto il suddetto Procopio, scrivono che Ariobindo fece la figura di primo generale, e che gli altri gli furono dati per compagni. Ma perciocchè concordia non passava fra questi condottieri d'armi, ed ognun voleva comandare al suo corpo di milizie e in siti diversi, nulla, secondo il solito, si fece di profittevole all'imperio. Seguì un combattimento, ma colla peggio dei Greci, e profittando il re persiano della discordia degli uffiziali cesarei, devastò molto paese dell'imperio orientale. Aggiugne Teofane che in Costantinopoli tra le fazioni nei giuochi circensi insorse una nuova sedizione, per cui dell'una e dell'altra parte assaissimi restarono uccisi, e fra gli altri un figliuolo bastardo dell'imperadore Anastasio; accidente che sommamente afflisse il medesimo Augusto, e fu cagione ch'egli facesse morir molti di coloro, ed altri ne cacciasse in [751] esilio. Se non era un segreto di politica il permettere o fomentar cotali fazioni, egli è da stupire come gl'imperadori non fossero da tanto di abolire una sì perniciosa divisione nel loro popolo.


   
Anno di Cristo DIV. Indizione XII.
Simmaco papa 7.
Anastasio imperadore 14.
Teoderico re 12.

Console

Cetego, senza collega.

Fu creato in Occidente questo console, ed era figliuolo di Probino stato console nell'anno 489, come si ricava da Ennodio [Ennod., in Paraenesi Didascal.]. Papa Simmaco, secondo la conghiettura del cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], celebrò nel presente anno il sesto concilio romano contro gli occupatori dei beni ecclesiastici, con iscomunicarli se non li restituivano. Doveano i laici aver profittato del grave scisma della Chiesa romana; e questo ci fa eziandio intendere quanto fosse lungi dal vero l'accusa inventata contra di Simmaco, quasi dilapidatore dei beni della Chiesa. Circa questi tempi ancora si suscitò in Africa una fiera persecuzione contra de' cattolici da Trasamondo re de' Vandali, ariano di credenza. Aveva egli finora lasciati in pace que' cattolici; ma dappoichè ebbe fatta una legge che venendo a mancare alcuno dei vescovi, non si potesse eleggere il successore, e andavano crescendo le vacanze delle chiese con danno notabile della vera religione in quelle parti, i vescovi viventi coraggiosamente determinarono di provvedere esse chiese di pastori, risoluti tutti di sofferir tutto per non mancare al debito loro e al bisogno de' fedeli. Diede nelle smanie Trasamondo, e secondochè scrive l'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 16, tom. 1, Rer. Ital.], allora fu ch'egli mandò in esilio ducento venti vescovi cattolici africani, che per la maggior parte [752] furono relegati nella Sardegna, e fra gli altri san Fulgenzio vescovo ruspense, insigne prelato e scrittore del secolo presente. Aggiugne lo stesso autore, concorde in ciò con Anastasio bibliotecario [Anast. Biblioth., in Vit. Simmach.], che papa Simmaco fece risplendere la sua fraterna carità verso di quei santi vescovi confessori, con soccorrere ai lor bisogni, cioè con inviar loro ogni anno danaro e vesti in dono: azione che maggiormente serve a comprovare quanto fosse diverso questo papa da quello che vollero far credere gl'iniqui suoi avversarii. Abbiamo poi da Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] che nel presente anno Teoderico fece guerra coi Bulgari, divenuti oramai terribili nelle contrade poste lungo il Danubio sotto del moderno Belgrado. Aveva Anastasio imperadore provato varie crudeli irruzioni di costoro nella Tracia che faceano tremare fin la stessa città di Costantinopoli. Ed essendosi essi impadroniti della Pannonia inferiore, chiamata Sirmiense, Teoderico determinò di reprimere la baldanza di que' Barbari, e gli riuscì di levar dalle loro mani quella provincia. Noi altronde sappiamo che il dominio di Teoderico si stendeva allora per tutta la Dalmazia, anzi si raccoglie da una sua lettera [Cassiod., lib. 3, epist. 50.] che anche la provincia del Norico era tuttavia compresa sotto il regno d'esso Teoderico. Però s'avvicinava la di lui giurisdizione alla Pannonia, oggidì Ungheria, e potè egli stendere fin colà le sue conquiste. Quel ch'è strano, Cassiodoro, segretario del medesimo re, scrive che egli, con aver vinti i Bulgari, ricuperò il Sirmio; ed Ennodio [Ennod., in Panegyr. Theoderici.], anch'esso scrittore contemporaneo, e in un panegirico recitato allo stesso principe, racconta aver egli ricuperata quella provincia dalle mani de' Gepidi. Ascoltiamone il racconto da questo autentico scrittore. Narra egli che la città di Sirmio, confine [753] una volta dell'Italia, cioè dell'imperio occidentale nel secolo precedente, e frontiera contra de' Barbari, per negligenza de' principi antecedenti era caduta nelle mani dei Gepidi. Trasarico re di quella nazione inquietava forte da que' luoghi i confini romani, di modo che conveniva spesso mandare innanzi e indietro delle ambasciate. Scoperto in fine che Trasarico lavorava ad ingannare, e tramava qualche tela con Gunderito capo d'altri Gepidi, Teoderico spedì a quella volta Pitzia e Arduico Goti con un forte esercito, per far proporre a Trasarico dei convenevoli patti. Ma il Barbaro non aspettò d'aver l'armi addosso, e si ritirò di là dal Danubio, lasciando Sirmio alla discrezione del generale de' Goti, il quale non permise che fosse commessa alcuna violenza nel paese, da che aveva esso da restare in dominio del re suo padrone. Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic., cap. 53.] scrive che Pitzia era uno dei primi conti della corte di Teoderico, e che egli, scacciato Trasarico figliuolo di Traftila, e fatta prigione la di lui madre, s'impadronì della città di Sirmio. Noi vedemmo di sopra all'anno 489, coll'autorità della Miscella [Hist. Miscell., tom. 1 Rer. Italic.], che questo Traftila, ossia Triostila, re dei Gepidi, oppostosi alla venuta di Teoderico in Italia, restò morto in una battaglia. E però, per consenso ancora di Giordano, il qual pure prese dai libri di Cassiodoro la sua storia gotica, Trasarico re de' Gepidi era allora padrone della provincia sirmiense, e dalle mani di lui la ricuperò Teoderico: non sapendosi perciò intendere come nella Cronica di Cassiodoro si legga che Teoderico ne divenne padrone per avere sconfitti i Bulgari. Continuò nel presente anno la guerra di Anastasio Augusto contra de Persiani. Richiamò egli alla corte Appione ed Ipazio [Theoph., in Chronogr.], perchè cozzavano con Ariobindo generale dell'armata, e in luogo loro spedì Celere maestro [754] degli uffizi, uffiziale di gran valore e prudenza, il quale unito con Ariobindo, penetrò nella Persia, con inferire gravissimi danni a que' paesi, in guisa che Cabade re de' Persiani cominciò a trattar di pace. E questa fu in fine conchiusa colla restituzione della città d'Amida ai Greci, e coll'aver i Greci pagati trenta talenti ai Persiani. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] mette sotto il precedente anno la restituzione d'Amida, con dire che fu riscattata con un immenso peso d'oro dalle mani dei Persiani. Poscia all'anno presente racconta le prodezze di Celere e la pace conchiusa. Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 5, cap. 9.] diversamente scrive, con dire che Ariobindo fu richiamato a Costantinopoli, ed avendo Celere con gli altri capitani continuata la guerra, e fatto l'assedio di Amida, la comperarono con loro vergogna per mille libbre d'oro, quando alla guarnigione persiana non restava vettovaglia che per sette giorni. Dopo di che fra i Greci e Persiani seguì una tregua di sette anni, e da lì a poco la pace. Pretende il padre Pagi che questa pace appartenga all'anno susseguente, con addurre la testimonianza di Teofane, che pure la riferisce nello stesso anno, in cui Amida tornò in potere dei Greci.


   
Anno di Cristo DV. Indizione XIII.
Simmaco papa 8.
Anastasio imperadore 15.
Teoderico re 13.

Consoli

Sabiniano e Teodoro.

È corso un errore di stampa presso il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.], quantunque nell'errata corrige non sia stato avvertito, perchè da lui, e poscia da chi ha fatto le note al Sigonio, vien chiamato Sabiano il primo di questi consoli, che pure porta il nome di [755] Sabiniano in tutti i Fasti e monumenti antichi. Lo stesso Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], citato qui dal Pagi, non gli dà altro nome, e il dice figliuolo di Sabiniano magno ed anche generale d'armata, siccome vedremo fra poco. Egli fu creato in Oriente, Teodoro in Occidente. Questo Teodoro fu poi nell'anno 525 inviato ambasciatore a Costantinopoli dal re Teoderico, e in fine si fece monaco, come si deduce da una lettera di san Fulgenzio [Fulgentius, Ep. VI.]. Vien creduto dal cardinal Baronio discendente da quel celebre Manlio, ossia Mallio Teodoro, di cui fa menzione santo Agostino; anzi anch'esso è dal porporato medesimo appellato Manlio Teodoro, senza che se ne adduca alcuna pruova. Il Relando [Reland., Fast. Cons.] parimente ne' Fasti gli dà il nome di Manlio Teodoro, con citare una iscrizione del Gudio [Gudius, Inscript., pag. 372, num. 10.], posta L. MALLIO THEODORO V. C. COS., ma senza por mente che quella iscrizione appartiene a Mallio Teodoro che fu console nell'anno 399, e quivi (se pur essa è documento legittimo) in vece di L. MALLIO, pare che si debba scrivere FL. MALLIO, come in un'altra da me rapportata altrove [Thesaur. Nov. Inscript., pag. 397.]. Acquistata che ebbe Teoderico la Pannonia Sirmiense, con che venne a stendere il suo dominio fino al Danubio, insorse poco dopo un fatto, in cui di nuovo s'impegnarono l'armi sue in quelle stesse parti. Un certo Mundone, per quanto riferisce Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 58.], discendente da Attila, e però Unno di nazione (Marcellino conte il chiama Goto), fuggito dai Gepidi, si era ricoverato di là dal Danubio in luoghi incolti e privi d'abitatori; ed avendo raunati non pochi masnadieri ed assassini da strada, venne di qua da esso fiume, ed occupata una torre chiamata Erta, quivi s'era afforzato; e preso il nome di re fra i suoi, colle scorrerie [756] pelava tutt'i vicini. Convien credere ch'egli arrivasse con queste visite fino nell'Illirico, sottoposto al greco imperadore; perciocchè Anastasio diede ordine a Sabiniano suo generale in quella provincia, e console nel presente anno, di dar fine alle insolenze di costui. Sabiniano, messa in punto la sua armata, ed unitosi coi Bulgari, divenuti potenti e terribili nella Mesia, che fu poi appellata Bulgaria, prese così ben le sue misure, che colse il re masnadiere verso il fiume Margo, cioè in sito, da cui egli non poteva uscire senza battaglia. Allora Mundone, che appena entrati i Goti nella Pannonia s'era collegato con loro, spedì con tutta fretta ad implorar soccorso da Pitzia generale di Teoderico. V'accorse egli (dice Ennodio) [Ennod., in Panegyr. Theoderici.] in tempo che Mundone disperato già meditava di arrendersi; ed attaccata battaglia, con tal furore caricò i Bulgari e i Greci, che ne fece un'orrida strage, e, vittorioso, restò padrone del campo, delle bandiere e del carriaggio dei nemici. E tanto più è da credere riguardevole una tal vittoria, perchè l'armata greca e bulgara era incomparabilmente maggiore; e noi vedremo che il loro condottier Sabiniano era uno de' più saggi e valorosi capitani d'allora. Eppure, se non è fallato il testo di Giordano, Pitzia non condusse a quel cimento più di duemila fanti goti e cinquecento cavalli: numero bene scarso, ma pure bastante a grandi azioni per la riputazion di bravura, in cui era la gotica nazione.

Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], dopo aver narrata la sconfitta di Sabiniano, che con pochi si salvò nel castello di Nato, aggiugne, essere rimasta in questa lagrimevol guerra sì scaduta la speranza dei soldati greci, che non potè da gran tempo rimettersi in vigore. Forse questo scrittore ingrandì più del dovere quella impresa. Mundone dipoi, perchè riconosceva la sua libertà e la vita dalle [757] armi di Teoderico, si suggettò da lì innanzi al di lui dominio. Ma per questo avvenimento si sconcertò la buon'armonia che passava tra Anastasio imperadore e il re Teoderico. Pertanto cominciò Teoderico ad inviar nella Pannonia i suoi uffiziali, e il primo governatore spedito a quella provincia fu Colosseo conte, al quale si vede indirizzata da Teoderico la patente, con cui gli dà il governo della Pannonia Sirmiense, appellata da lui [Cassiod., lib. 3. epist. 23.] sede una volta dei Goti, e gli ordina di sradicare da que' paesi gli abusi, e nominatamente l'uso dei duelli. Il che più chiaramente vien da lui espresso nella seguente lettera [Idem, ibid. ep. 24.] inviata a tutti i barbari e romani abitanti nella Pannonia, con dire fra le altre cose: Crediamo ancora di dovervi esortare a voler da qui innanzi combattere contro i nemici, e non già fra di voi. Non vi lasciate condur da bagattelle e puntigli a mettere la vita a repentaglio. Acquetatevi alla giustizia, di cui tutto il mondo si rallegra. Perchè mai ricorrete alla monomachia (cioè al duello) da che avete giudici onorati che non vendono la giustizia? Mettete giù il ferro voi che non avete nemici. Troppo malamente armate il braccio contra dei vostri attinenti, per difendere i quali ognun sa che si dee gloriosamente morire. A che serve la lingua data da Dio agli uomini, per poter dire sue ragioni, se alla mano armata si vuol rimettere la decision delle liti? E che pace è mai la vostra, se sì spessi sono i combattimenti fra i cittadini? Imitate, imitate i nostri Goti, che sanno ben combattere coi nemici forestieri, e conservar nello stesso tempo fra loro la moderazione e la modestia. In questa maniera noi siam risoluti di vivere, e in questa voi mirate che son fioriti coll'aiuto di Dio i nostri maggiori. Così Teoderico. Tanti e tanti oggidì all'udir nominare i Goti, gridano: Oh che Barbari! Ma que' Barbari [758] aveano più senno degli spadaccini e biraghisti de' secoli susseguenti. Abborrivano essi lo stolto ed infame uso dei duelli al pari de' saggi Romani. E se ha tuttavia credito presso d'alcuni quell'empio costume, dovrebbono vergognarsi al vedere che fino i Goti creduti Barbari lo detestarono. In quest'anno Anastasio imperadore pubblicò una legge [L. 19. C. de Episc. audient.], con cui ordinò che niuno fosse ammesso all'ordine dei difensori, ossia degli avvocati, se prima davanti al vescovo con testimonii e col giuramento non professava di seguitar la religione ortodossa. Credesi che anche venga da lui un'altra legge [L. 60, Cod. eodem.] che ordina lo stesso per la milizia palatina, cioè per gli uffiziali della corte: tutte belle apparenze; ma la religione ortodossa nel sentimento di Anastasio era diversa da quella de' cattolici, ed egli sempre più si andò scoprendo nemico del concilio calcedonense.


   
Anno di Cristo DVI. Indizione XIV.
Simmaco papa 9.
Anastasio imperadore 16.
Teoderico re 14.

Consoli

Ariobindo e Messala.

Ariobindo console orientale dell'anno presente, veduto da noi di sopra general di armata contra i Persiani, era figliuolo di Dagalaifo stato console nell'anno 461, e nipote di Ariobindo stato console nel 434. Avea per moglie Giuliana figliuola di Olibrio imperador d'Oriente e di Placidia Augusta. Perciò era uno de' primi personaggi della corte cesarea d'Oriente, e tale che, siccome all'anno 470 accennai, fu contra sua volontà acclamato imperadore dal popolo di Costantinopoli. Messala, console d'Occidente, vien fondatamente creduto lo stesso, a cui son scritte due lettere di Ennodio [Ennod., lib. 9, ep. 12 et 26.], le quali [759] cel fanno conoscere per figliuolo di Fausto e fratello di Avieno, cioè probabilmente di quelli che abbiam veduto consoli negli anni addietro. Il trovo poi chiamato dal Relando [Reland., in Fast. Consul.] Ennodio Messala, ma senza pruova alcuna: e non avendo noi osservato nella sua famiglia il nome, ossia cognome d'Ennodio, lo possiamo perciò credere senza verun fondamento a lui attribuito. Probabilmente prima che terminasse l'anno presente, cominciarono i semi di guerra tra Clodoveo re de' Franchi ed Alarico re de' Visigoti. Prima d'allora Alarico veggendo crescere cotanto la potenza di Clodoveo, e che in lui forte bolliva la voglia di maggiormente dilatare il suo regno, procurò un abboccamento con lui ai confini, dal quale amendue partirono con promesse di buon'amicizia. Ma altro ci voleva che belle parole a fermare il prurito del re franco, in cui si vedeva congiunta col valore la fortuna. Pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che il motivo della rottura procedesse dall'avere scoperto Clodoveo che Alarico fraudolentemente trattava seco intorno alla pace. Ma non si fa torto ordinariamente ai re conquistatori, in credere che loro non mancano mai ragioni o pretesti di fare guerra ai vicini, purchè si sentano più forti di loro. La verità si è, come narra Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 37.], che molti popoli suggetti nella Gallia al dominio dei Visigoti, per cagion della religione desideravano d'essere sotto la signoria di Clodoveo, divenuto cristiano cattolico, per esser eglino della religione stessa, sofferendo perciò mal volentieri un principe ariano, qual era Alarico colla sua nazione. Questa veduta accresceva a Clodoveo le speranze d'una buona riuscita nella guerra, la quale divampò poi nell'anno susseguente. Pubblicò nel presente esso re Alarico in Tolosa, a benefizio dei sudditi romani del suo regno un compendio [760] delle leggi romane [Gothofredus, in Prolegom. ad Codicem Theodos.], cavato dai Codici teodosiano, gregoriano ed ermogeniano, dalle Novelle e dai libri di Paolo e Gajo giurisconsulti, ed approvato dai vescovi. Breviarium Aniani è ordinariamente chiamato, perchè pubblicato d'ordine di Alarico da esso Aniano. Anastasio imperadore, secondochè abbiamo da Teodoro lettore [Theodorus Lector, lib. 2.] e da Teofane [Theoph., in Chronogr.], intorno a questi tempi sentendosi libero dalle cure della guerra, si diede a travagliar la Chiesa, ed insieme Macedonio vescovo di Costantinopoli, pretendendo ch'egli si unisse seco in accettar l'Enotico formato in pregiudizio del concilio calcedonense. Trovò ben egli alcuni tra i vescovi, che per guadagnarsi la di lui grazia, sposarono ancora le opinioni di lui; ma non già Macedonio, costante nel dovere di prelato cattolico. Mostrossi in oltre Anastasio fautore in varie maniere dei Manichei: perlochè di giorno in giorno peggiorava la credenza sua, con iscandalo universale presso del popolo. E perciocchè a cagione di un tremuoto era caduta negli anni addietro la statua di Teodosio il Grande, già posta sopra una straordinaria colonna nella piazza di Tauro, Anastasio, per attestato di Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.], vi fece violentemente riporre la sua. E Teofane notò aver egli fatto disfare molte opere di bronzo, già lasciate dal magno Costantino, per formare con quel metallo la statua a sè stesso, se pur di quella si parla. In quest'anno parimente riuscì ai Visigoti di occupare Tortosa in Ispagna, per quanto si ricava dalla cronichetta [Victor Turonensis, apud Canisium.] inserita nella Cronica di Vittor Turonense. S'è fatta disopra in più luoghi menzione del panegirico composto da Ennodio allora diacono, della chiesa di Pavia, in onore del re Teoderico. [761] Esso appartiene a quest'anno, o pure al susseguente: il che si riconosce dal riferire egli la conquista del Sirmio e la vittoria riportata sopra Sabiniano e sopra i Bulgari dall'armi d'esso re, senza dir parola dei fatti susseguenti della guerra nelle Gallie.


   
Anno di Cristo DVII. Indizione XV.
Simmaco papa 10.
Anastasio imperadore 17.
Teoderico re 15.

Consoli

Flavio Anastasio Augusto per la terza volta e Venanzio.

Venanzio, creato console in Occidente, con tutta ragione viene creduto quello stesso Venanzio patrizio, che dal re Atalarico presso Cassiodoro [Cassiod., lib. 9, epist. 23.] è lodato come il padre di Paolino console, e d'altri ornati della stessa dignità. Ora si è da dire, che avendo udito il re Teoderico, com'erano insorte amarezze tra Clodoveo re de' Franchi ed Alarico re dei Visigoti, con pericolo che si venisse all'armi, ed avendo ricevute lettere, onde conosceva irritato forte Alarico contra dell'altro regnante: siccome principe savio e lontano dagl'impegni della guerra, se non quando la necessità ve lo spingeva, cercò la via di smorzare il fuoco nascente e di rimettere la concordia fra quelle due nazioni. E tanto più prese a cuore questo affare, quanto che Alarico cui suo genero, Clodoveo suo cognato. Pertanto, siccome ricaviamo da una lettera di Cassiodoro [Idem, lib. 3, epist. 1.], mandò ambasciatori, e scrisse ad Alarico, con esortarlo a calmar la sua collera e ad aspettar di prendere più vigorose risoluzioni, tanto ch'esso Teoderico, con inviar ambasciatori a Clodoveo, avesse scandagliata la di lui mente e cercato di metter l'affare in positura d'una ragionevol concordia: rappresentandogli specialmente [762] che i Visigoti suoi popoli da gran tempo godeano la pace, ed erano perciò poco esperti nel mestier della guerra, al contrario della gente agguerrita de' Franchi. E giacchè fin allora consisteva tutta la lite in sole parole, si poteva sperare un accomodamento, che sarebbe poi stato difficile dappoichè si fossero sguainate le spade. Gli dice inoltre, avere i suoi legati ordine di passare alla corte di Gundibado re de' Borgognoni, e poscia a quella degli altri re, per muover tutti a dar mano alla pace, conchiudendo in fine che terrà per nemico suo proprio chi si scoprirà nemico d'esso Alarico. Oltre alla parentela comune ancora con Clodoveo, avea Teoderico due particolari motivi da dichiararsi in caso di rottura per Alarico, essendo amendue della stessa nazione gotica e della stessa setta ariana. Leggesi parimente una lettera del re Teoderico [Cassiodorus, lib. 2, epist. 2.] al suddetto re Gundobado, in cui l'esorta ad interporsi perchè amichevolmente si compongano le differenze insorte fra i re dei Franchi e de' Visigoti, e si schivi la guerra. Un'altra pure [Idem, ibid., epist. 3.] portata dai suoi ambasciatori, inviò a Luduin (così egli chiama, se pure non è errore, Clodoveo) re dei Franchi, pregandolo con affetto di padre (per tale era Teoderico considerato allora da tutti i re circonvicini) che non voglia per cagioni sì leggiere correre all'armi, ma che rimetta ad arbitri amici la discussione di sì fatta contesa, nè si lasci condurre da taluno che per malignità attizzava quel fuoco: aver egli passati i medesimi uffizii con Alarico; e però protestare, non men da padre che da amico, qualmente chiunque di loro sprezzasse queste sue esortazioni, avrebbe per nimica la sua persona e i suoi collegati. Non so se nel medesimo tempo, oppure dopo aver ricevuta qualche disgustosa risposta da Clodoveo, scrivesse Teoderico un'altra lettera, portata medesimamente [763] da' suoi ambasciatori ai re degli Eruli, Guarni e Turingi. In essa gli stimola a spedire anch'essi dal canto loro ambasciatori unitamente coi suoi e con quei di Gundobado re della Borgogna, al re dei Franchi, la cui superbia non tace, dacchè non vuol accettare l'offerte di arbitri e di amici nella pendenza sua con Alarico. Aggiugne dover cadauno temere d'un principe che con volontaria iniquità cerca d'opprimere il vicino, mentre chi vuol operare senza far caso delle leggi delle genti, è dietro a sconvolgere i regni di ognuno. Però doversi unitamente intimare a quel re, che sospenda il mettere mano all'armi contra di Alarico, con rimettersi alla decisione degli arbitri: altrimenti sappia che ognun sarà contra chi sprezza tutte le vie della giustizia. Dal che si conosce che Teoderico ben conosceva lo svantaggio, in cui si trovavano i Visigoti, e presentiva ciò che poscia avvenne, ma senza potervi mettere rimedio. Secondochè crede il Cluverio [Cluver., German. Antiq., lib. 3, cap. 27 et 35.], i Guarni popoli della Germania erano situati nelle contrade, ove ora è il ducato di Meclemburgo. Intorno al sito degli Eruli avrebbe fatto meglio esso Cluverio, se avesse confessato di nulla saperne. Certo egli neppur seppe che in questi tempi durava essa nazione erula, governata dal suo re. A noi basta per ora d'intendere che tanto gli Eruli, quanto i Guarni e i Turingi doveano essere popoli confinanti, o vicini ai paesi posseduti dai Franchi nella Germania. Era in questi tempi re della Toringia Ermenfredo, marito d'una nipote di Teoderico; e a lui si vede indirizzata una lettera presso Cassiodoro [Cassiod, lib. 4, ep. 1.] in occasion di quelle nozze. Per conto del re degli Eruli, Teoderico l'avea adottato per suo figliuolo d'armi, cioè con una specie di adozione che si praticava allora, e col tempo fu detto far cavaliere, avendogli dato cavalli, spade, scudi e l'altre armi [764] militari, come si può vedere in un'altra lettera [Cassiod., lib. 4, ep. 2.] d'esso re Teoderico.

Clodoveo, che non voleva tanti maestri, ed essendosi già messo in capo d'ingoiare il vicino Alarico, ed avea ben fondamento di sperarlo, può essere che desse buone parole a tante ambasciate ed istanze, ma niuna promessa di desistere dall'impresa; ed intanto per prevenire i soccorsi che potesse Alarico ricevere dai lontani collegati, sollecitamente uscì in campagna con un poderosissimo esercito. Abbiam da sant'Isidoro [Isidorus, in Chronico Gothor.] che in aiuto de' Franchi andarono anche i Borgognoni: il che può parere strano, perchè veramente non avrebbe dovuto il re Gundobado aver molto genio ad accrescere la potenza già sì grande dei Franchi, per timor che l'ingrandimento loro non tornasse un dì in rovina del suo regno, siccome col tempo avvenne. Tuttavia, siccome ricaviamo ancora dalla vita di san Cesario vescovo di Arles [Cyprian, in Vita S. Caesarii apud Mabillonium Act. SS., tom. 1.], certo è ch'egli unì allora le sue forze con quelle de' Franchi, senza sapersi, se per malignità e con tradire le speranze del re Teoderico, o pure in esecuzion de' patti stabiliti con Clodoveo nella precedente guerra, in vigor de' quali cessò l'assedio di Avignone ed ogni altra ostilità contro di lui. Passando l'armata de' Franchi per Tours, ordinò il re che in venerazione di san Martino, secondochè attesta Gregorio Turonense [Gregor. Turon., lib. 2, cap. 37.], non si recasse molestia alcuna al paese. Racconta Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.] che Alarico dimandò soccorso a Teoderico re d'Italia, e mentre lo stava aspettando, andò a mettersi coll'esercito suo a fronte de' nemici ch'erano accampati presso a Carcassona. Non inclinava egli ad azzardare il tutto in una battaglia; ma perchè i suoi, all'udire che i Franchi portavano la desolazione a tutto il paese, sparlavano del di lui poco coraggio, e si [765] vantavano di poter vincere colle poma cotte il nemico, lasciossi strascinare ad imprendere il combattimento. Neppur qui pare che Procopio meriti attenzione, all'osservare com'egli metta fiero quel conflitto vicino a Carcassona, quando abbiamo dal Turonense, storico più degno di fede, che la giornata campale si fece a Vouglè, dieci miglia lungi dalla città di Poitiers, luogo troppo lontano da Carcassona: oltre al dirsi da lui che l'esercito di Teoderico passò ora nelle Gallie: il che, siccome diremo, solamente nell'anno appresso avvenne. Quello che è certo, seguì tra i Franchi e Visigoti una memorabil battaglia; nella quale rimasero sconfitti gli ultimi, colla morte non solamente di parecchie migliaia di Visigoti e di Apollinare figliuolo di Apollinare Sidonio e della maggior parte dei senatori e del popolo d'Auvergne, ma lo stesso re Alarico. Questa insigne vittoria aprì la strada ai Franchi per quasi annientare nella Gallia il dominio dei Visigoti; e loro certamente non sarebbe restato un palmo di terreno in quelle provincie, se non fosse finalmente accorsa l'armata del re Teoderico. Intanto Clodoveo s'impadronì della Touraine, del Poitou, del Limosin, del Perigord, della Saintogne e d'altre contrade. E Teoderico suo figliuolo con una parte del vittorioso esercito si rendè padrone del paese d'Alby, de Roùergne, dell'Auvergne, e d'altre contrade possedute dianzi dai Visigoti. Non lasciò Alarico dopo di sè altro figliuolo di età adulta, che un bastardo, per nome Giselico, in eleggere il quale per re concorsero i voti dei Visigoti sopravanzati al filo delle spade dei Franchi: giacchè Amalarico, figliuolo d'una figliuola di Teoderico re d'Italia, era d'età incapace al governo: il che dispiacque non poco al medesimo Teoderico. E noi non istaremo molto a veder gli effetti di questa sua collera. Abbiamo poi da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che circa questi [766] tempi Anastasio imperadore fabbricò nella Mesopotamia alle frontiere della Persia una forte città, a cui pose il nome di Arcadiopoli. Non s'intende perchè non desse piuttosto il proprio.


   
Anno di Cristo DVIII. Indizione I.
Simmaco papa 11.
Anastasio imperadore 18.
Teoderico re 16.

Consoli

Celere e Venanzio juniore.

Celere, console in Oriente, lo stesso è che vedemmo poco innanzi adoperato per generale d'armata da Anastasio Augusto nella guerra coi Persiani. Venanzio, console occidentale, si trova appellato nei Fasti juniore a distinzione dell'altro Venanzio che vedemmo console nell'anno precedente. Venuta la primavera, Clodoveo re dei Franchi continuò le sue conquiste sopra gli abbattuti Visigoti, con impadronirsi di Tolosa, capitale del regno loro in que' tempi, e con portar via di colà tutt'i tesori già ammassati dall'ucciso re Alarico. Quindi passò all'assedio della città d'Angouleme, e quando si credea che avesse da costargli gran tempo e fatica la presa di quella città pel grosso presidio dei Visigoti, tardò poco a cadere una parte delle mura; accidente che forzò i difensori ad arrendersi. Se n'andò poscia a Tours, per fare le sue divozioni ed offerte a san Martino, riconoscendo dalla protezione di lui il buon successo dell'armi sue; e nello stesso tempo inviò la sua armata all'assedio della città di Arles, riguardevolissima in que' tempi, e chiamata picciola Roma da Ausonio. Intanto il re Teoderico, che non potea di meno di non compiagnere l'abbattimento de' Visigoti, cioè di un popolo, con cui avea comune la nazione, ed inoltre considerava per pericolosa al suo regno tanta fortuna dell'armi de' Franchi, inviò una possente armata nelle Gallie, [767] sotto il comando d'Ibba conte [Jordan., de Reb. Get., cap. 58.], chiamato da altri Ebbane, suo generale. Procopio [Procop., de Bell. Goth. lib. 1, cap. 12.] scrive che Teoderico vi andò in persona; e con lui va d'accordo Cipriano nella vita di san Cesario vescovo di Arles [Cyprianus, in Vita S. Caesarii apud Surium, ad diem 27 augusti, et apud Mabillonium.]. Certo è almeno che Ibba trovò impegnati i Franchi nell'assedio di essa città d'Arles, durante il quale fu in gran pericolo la vita di quel santo vescovo, per sospetti disseminati contra di lui d'intelligenza coi Franchi. Strepitavano spezialmente i Giudei contra del santo; ma in fine si trovò essere gli stessi Giudei che tramavano di tradir la città, e corsero rischio d'essere messi tutti a filo di spada. Sostennero i Goti e il popolo con vigore gl'incomodi di quell'assedio, ancorchè patissero carestia di viveri. Accadde un giorno che i Franchi vollero impadronirsi del ponte fabbricato sul Rodano; e il fatto si ricava da una lettera del re Atalarico presso di Cassiodoro [Cassiod., lib. 8, ep. 10.]. Vi era alla difesa Tulo, Goto di nazione, parente dello stesso Atalarico; e sì gagliarda fu la difesa ch'ei fece co' suoi, che furono obbligati gli aggressori a ritirarsi, con riportar nondimeno esso Tulo delle gloriose ferite in quel conflitto. Ci dipigne il padre Daniello [Daniel, Histoire de France, tom. 1.] questo fatto coll'ingegnosa sua eloquenza, come se l'avesse veduto, dicendo che a poco a poco andò crescendo la mischia, tanto che vi si impegnò tutto il nerbo delle due armate nimiche; e che in fine essendo furiosamente rispinti i Franchi non meno dagli Ostrogoti che dalla guarnigione dei Visigoti uscita nello stesso tempo dalla città, furono messi in rotta con un'intera sconfitta; e se noi crediamo a Giordano istorico, restarono morti sul campo trentamila Franchi, senza i prigionieri, dei quali il numero fu grande, e verso i quali esercitò [768] la sua carità san Cesario. Vero è che dalla lettera del re Atalarico nulla si ricava di questa sì strepitosa sconfitta de' Franchi in tale occasione. Solamente vi si racconta la resistenza fatta da Tulo goto, per cui non venne fatto ai Franchi di occupare quel ponte. Contuttociò è fuor di dubbio che i Franchi furono obbligati ad abbandonar quell'assedio. Procopio scrive che si ritirarono per timore de' Goti inviati da Teoderico. Inoltre la vittoria, di cui fa menzione Giordano, riportata sopra i Franchi dai Goti colla morte di molte migliaia di essi, si può tenere per certa, argomentandola noi eziandio da quelle parole di Cipriano nella vita di san Cesario: In Arelato vero Gothis cum captivorum immensitate reversis replentur basilicae sacrae, repletur etiam domus, etc. E sotto quest'anno scrive Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] che Teoderico Gallias Francorum depraedatione confusas, victis hostibus ac fugatis, suo adquisivit imperio. Adunque all'armi di lui si dee con tutta ragione attribuir quella vittoria. Ma non è ben certo se la rotta de' suddetti Franchi seguisse nel presente o nel susseguente anno.

In somma così prosperamente fu guidata quell'impresa, che il re Teoderico divenne padrone di tutta la Provenza, ossia ch'egli fosse acclamato da quei popoli e dai Visigoti della sua stessa nazione, o che per titolo di successione, o di acquisto egli ne pretendesse il dominio della città di Arles, così dice il suddetto Cipriano: Sic deinde arelatensis civitas a Wisighotis ad Ostroghotorum devoluta est regnum. Perciò Teoderico o nel presente, o nel prossimo anno inviò colà Gemello senatore con dire [Idem, lib. 3, ep. 16.]: Praesenti tempore in Gallias, nobis Deo auxiliante subjugatas, vicarium te praefectorum nostra mittit auctoritas. Nella seguente lettera [Idem, ibid., ep. 17.], scritta provincialibus Galliarum, dà loro avviso di [769] spedire colà Gemello per loro governatore. Al medesimo personaggio scrive in un'altra lettera [Cassiod., lib. 3, epist. 32.] di esentar dai tributi il popolo d'Arles nella quarta indizione, in premio della lor fedeltà e dei danni patiti dai Franchi. In un'altra lettera [Idem, ep. 41.] manda loro danari e vettovaglie pel risarcimento delle mura e torri della città. E in un'altra [Idem, ep. 44.] fa sapere a Gemello d'aver mandati grani dall'Italia per alimentar l'esercito, senza aggravar la provincia afflitta per le passate calamità, con ordinargli di farlo trasportare dai granai di Marsilia alle castella poste sopra la Druenza. Dalla qual lettera parimente impariamo che anche Marsilia venne in potere di Teoderico, non so se perchè la togliesse ai Borgognoni, o perchè dianzi essa fosse del dominio de' Visigoti. A questa città confermò egli tutte le esenzioni concedute dai principi precedenti [Idem, lib. 4, ep. 24.], e rilasciò anche il censo di un anno. Ma mentre Teodorico era intento agli affari della Gallia, eccoti un improvviso turbine che venne a trovarlo in Italia. Avea l'imperadore Anastasio dissimulato finora il suo risentimento contra di Teoderico per la rotta data all'esercito suo, inviato contro di Mundone, di cui parlammo all'anno 505. Ora dunque che intese impegnate e distratte le forze di lui nella Gallia, s'avvisò essere questo il tempo da farne vendetta. Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] è quegli che racconta il fatto, con dire che Romano conte, capitano dei domestici, ossia delle guardie del palazzo imperiale, e Rustico conte degli scolari, ossia sopraintendente alle scuole militari, con cento navi armate, dov'erano otto mila soldati, furono inviati da esso imperadore a dare il guasto ai lidi d'Italia, e giunsero fino a Taranto città antichissima: dopo di che se ne ritornarono a Costantinopoli. Marcellino [770] stesso, che pur scriveva in quella città la sua Cronica, detesta il fatto, con chiamare obbrobriosa una tal vittoria, perchè sol degna del nome di scorreria da corsaro. Abbiamo da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 38.] che circa questi tempi Clodoveo re de' Franchi stando in Tours, ricevette lettere da Anastasio Augusto, con cui il dichiarava console; laonde egli nella basilica di san Martino fu vestito di porpora e di manto, e gli fu posto il diadema in capo. Poscia salito a cavallo passeggiò per la città, spargendo monete d'oro e d'argento, e da quel giorno innanzi fu chiamato console o augusto. Se n'andò finalmente a Parigi, ed ivi stabilì la sede del regno, continuata ivi dipoi dai susseguenti re fino al presente giorno. Questo titolo d'Augusto è molto inverisimile, nè sussiste che Anastasio il dichiarasse con ciò collega nell'imperio, siccome pensa il Cointio. Nè par credibile ch'egli fosse creato console ordinario, siccome fu d'avviso il cardinal Baronio, nè ch'egli disprezzasse sì fatta dignità, perchè i Fasti non ne parlano. Console onorario possiam giustamente credere ch'egli fosse nominato; e merita plauso l'opinione di Adriano Valesio e del padre Pagi, che sotto il nome di console s'intende la dignità del patriciato, cioè la più insigne che in que' tempi si conferisse dagl'imperadori. Questa poi importava qualche riconoscenza della sovranità degli Augusti. Restano ancora monete d'esso Clodoveo e degli altri re primieri dei Franchi con qualche segno nel rovescio di questa verità, leggendovisi il CONOB. o pure VICTORIA AVGG., termini ed espressioni usate nelle monete de' greci Augusti e in quelle degli antichi duchi di Napoli dipendenti dagli Augusti. Abbiamo una strana interpretazione, data dal padre Harduino alla tuttavia scura parola CONOB. Si sa inoltre da Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 33.] che i Franchi non avrebbono [771] creduto sicuro e stabile il possesso e dominio loro nella Gallia, se loro non glielo avessero confermato gl'imperadori. Altrettanto fece Teoderico pel regno d'Italia; e nelle monete dei re Ostrogoti e dei Visigoti si osserva talora l'indizio stesso di dipendenza. È di parere il cardinal Baronio che Anastasio inviasse a Clodoveo questi contrassegni d'onore per animarlo a continuar la guerra contra il re Teoderico, e questa sembra lodevol conghiettura. Ma potrebbe anche darsi, come abbiamo detto, che Clodoveo stesso, non men di quello che già fece Teoderico, avesse procacciata a sè medesimo da Anastasio la dignità di patrizio per maggiormente assodare i suoi diritti in tante provincie della Gallia da lui conquistate, che dianzi erano membra del romano imperio.


   
Anno di Cristo DIX. Indizione II.
Simmaco papa 12.
Anastasio imperadore 19.
Teoderico re 17.

Console

Importuno, senza collega.

Benchè presso Marcellino conte e ne' Fasti fiorentini Opportuno sia chiamato questo console, pure negli altri Fasti e monumenti dell'antichità si trova appellato Importuno. Fu console di Occidente e vien creduto della famiglia Decia. In quest'anno ancora continuò Teoderico la guerra nella Gallia, con pensiero di abbattere Giselico, usurpatore del regno de' Visigoti, e di ricuperar tutto ciò ch'era stato occupato dai Franchi, e ch'egli pretendeva devoluto al suo dominio. Sotto a questo consolato scrive Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] che Mammo capitano dei Goti saccheggiò una parte della Gallia. Scuro è tutto il resto di quelle imprese, perchè niuna storia ci fa ben conoscere se continuasse o come continuasse la guerra contra dei Borgognoni. Racconta Procopio che i [772] Franchi con tutto il loro sforzo assediarono Carcassona: perchè fama correa che in quella città fossero custoditi i tesori pervenuti alle mani del vecchio re Alarico nel sacco di Roma, e tra le altre cose si dicea che quivi si miravano i vasi preziosi del re Salomone, trasportati a Roma da Tito dopo la presa di Gerusalemme; ma che sopravvenendo il re Teoderico, coi Goti, i Franchi per paura sciolsero quell'assedio. Aggiugne appresso che Teoderico, dopo aver abbattuto Giselico, trasferì il regno de' Visigoti in Amalarico figliuolo di una sua figliuola, con divenirne egli tutore; e che preso seco tutto il tesoro ch'era in Carcassona, frettolosamente se ne ritornò a Ravenna. Ma, per quanto vedremo, non già ora, ma solamente alla sua morte, restituì Teoderico quel regno al nipote, e fece ivi da padrone, e non da tutore, finchè visse. Potrebbe essere succeduto in quest'anno l'assedio di Carcassona; ma, tra perchè gli storici antichi franzesi nulla parlano di questo, anzi ci rappresentano Clodoveo, dappoichè furono i suoi rispinti dall'assedio d'Arles, come principe che avesse deposto la lancia e lo scudo, e perchè Procopio si scopre poco informato di quegli affari troppo lontani dal suo paese: nulla di certo si può asserire di questo. Pare bensì che se non al precedente possa al presente anno appartenere ciò che scrive sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Gothor.]: cioè che Gesalico, appellato Geselico da Procopio, il quale s'era fatto riconoscere re dei Visigoti, uomo quanto vile di nascita, altrettanto sprezzabile per la sua dappocaggine, trovandosi nella città di Narbona, quivi fu assediato da Gundobado re de' Borgognoni. La città fu presa e messa a sacco con grande strage dei suoi, ed egli con molto suo disonore fuggì, e andò a risiedere in Barcellona. Resta incerto se Gundobado fosse in tal congiuntura nimico o amico di Teoderico. Noi certo ritroviam da lì innanzi [773] che il dominio d'esso Teoderico si stendeva di là dal Rodano. Abbiamo da Gregorio Turonense [Gregor. Turon., lib. 1, cap. 78, de Gloria Martyrum.], che Aram capitano del re Teoderico, residente in Arles, avendo conceputi dei sospetti contra dell'arciprete di Nimes, spedì a quella città i suoi sergenti per condurlo ad Arles; ma egli miracolosamente scappò la burrasca. Inoltre sappiamo, avere Teoderico scritto ad Iba od Ida duce (sarà lo stesso Ibba, ossia Ebbane, da noi veduto di sopra suo generale), con ordinargli [Cassiod., lib. 4, epist. 17.] di restituire alla chiesa di Narbona i suoi poderi, in esecuzione di quanto avea comandato il defunto re Alarico. Sicchè scorgiamo che Teoderico dall'Italia continuava per la Provenza, e per la provincia di Narbona e Carcassona, il suo dominio fino ai Pirenei: e in breve il mireremo anche passar oltre fino in Ispagna. L'insolenza praticata nel precedente anno da Anastasio Augusto, con avere inviata una flotta a saccheggiare le spiagge della Calabria, porge motivo di credere che Teoderico nel presente si accingesse anch'egli a fabbricare navi per avere un'armata navale atta ne' bisogni, non solo a fare resistenza, ma eziandio a dare battaglia a' nemici e a trasportare i grani. Scrisse egli perciò varie lettere [Idem, lib. 5 ep. 16 et seq.] ad Abondanzio prefetto del pretorio, ad Uvilia conte del patrimonio, a Gundinando ed Avilfo, ossia Ajulfo, sajoni, cioè ministri dei magistrati, con incaricare al primo di comperar legni, come cipressi e pini per tutta l'Italia, ad effetto di fabbricar mille dromoni, cioè navi lunghe e veloci da trasporto, così appellate con vocabolo greco. Ordina anche ad Uvilia e ad Ajulfo di far tagliare alberi lungo le rive del Po, sapendo che ve ne ha gran copia a proposito per la fabbrica dei dromoni: comandando ancora che si tenga libero il corso del Mincio, Oglio, Serchio, Tevere, [774] ed Arno, con levarne le siepi poste dai pescatori. Nel medesimo tempo diede gli ordini per provvedere tutta la bisognevol copia di barcaruoli e marinari, acciocchè a dì 15 di giugno tutta la gran flotta fosse ben allestita nel porto di Ravenna. Vedesi ancora il ringraziamento da lui fatto al suddetto prefetto del pretorio per aver già messe insieme tante navi, e fa abbastanza intendere ch'esse erano legni grossi, e case da acqua, perchè cadauna portava molti remi, senza che si vedesse la faccia dei remiganti. Ma noi non sappiamo che Anastasio recasse altro insulto al reame di Teoderico, nè che tale armata di esso re operasse cosa alcuna con apparenza che si ristabilisse fra loro la pace. Accadde ancora in quest'anno che facendosi i giuochi circensi in Roma, spettacolo che per necessità, non per volontà, Teoderico e gli altri principi saggi permettevano al popolo romano, Importuno console e Teoderico, ossia Teodoro, patrizio, favorendo la fazione veneta [Cassiod., lib. 1, epist. 27 et seq.], aveano con gente armata fatto degl'insulti alla fazione prasina, che loro avea dette pubblicamente delle ingiurie. E volendo questi ultimi venire alla corte a richiamarsi del sofferto aggravio, per istrada erano stati assaliti con insidie, ed uno d'essi rimasto ucciso. Dispiacque forte a Teoderico il fatto; ed affinchè imparassero i potenti a rispettar gli inferiori, diede ordine che i delinquenti comparissero in giudizio davanti ad Agapito prefetto di Roma e a Celiano, per esser giudicata la loro azione. Scrisse inoltre al senato e popolo romano, acciocchè da lì innanzi non succedessero disordini ne' pubblici spettacoli, con intimar pene a chiunque osasse di strapazzar senatori. Per relazione poi di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], accadde nel presente anno un fiero incendio in Costantinopoli, che si stese per gran tratto della città.


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Anno di Cristo DX. Indizione III.
Simmaco papa 13.
Anastasio imperadore 20.
Teoderico re 18.

Console

Anicio Manlio Severino Boezio, senza collega.

All'udire i nomi di questo nobilissimo conte, intendono tosto i letterati che si parla di Boezio, insigne scrittore di questi tempi, il quale nella sua prefazione ai predicamenti di Aristotele avvisa di aver faticato durante il suo consolato, mentre era imperadore Anastasio, intorno alla versione latina di quella e di altre opere di Aristotele, le quali cominciarono allora ad aver qualche voga fra i Latini. Era stato Boezio in sua gioventù alle scuole d'Atene, con aver quivi imparate le lettere greche, e talmente s'era affezionato alla suola d'Aristotele, che dipoi si studiò di far gustare la di lui dottrina agli altri Romani. A questo console il Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.], il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] e il Relando [Reland., Fast. Consul.] aggiungono Eutarico, fidati in una legge del codice Giustiniano [L. 10. C. de Haeretic.]. Ma, siccome osserva il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], s'è indebitamente intruso questo Eutarico nei Fasti moderni. Gli antichi solamente parlano di Boezio. Erasi, come fu detto di sopra, ritirato in Barcellona Gesalico, intruso nel trono de' Visigoti. Abbiamo dalla Cronichetta [Victor Turonensis, tom. 1 Canisii.] inserita nella Cronica di Vittor Tunonense, che in questo anno esso Gesalico uccise in Barcellona nel palazzo Erico, senza sapersi chi sia. Ma non passò l'anno che Elbane, ossia Ebbane, o Ibba, capitano del re Teoderico, cacciò fuori di Spagna il medesimo Gesalico, il quale si rifugiò in Africa [776] presso Trasamondo re de' Vandali. Aggiugne lo stesso autore che in Barcellona il conte, ossia governatore ivi lasciato da Gesalico, restò anch'egli trucidato. In questa maniera venne Teoderico re d'Italia ed essere padrone di tutto quanto godeano i Visigoti in Ispagna, che era ben molto, e si stendeva dai Pirenei fino all'Oceano. Da una lettera di lui intendiamo, che egli, volendo provvedere di buone leggi e costumi le provincie coll'aiuto di Dio sottoposte al regno nostro, manda Ampelio e Liveria in Ispagna, con ispecificare tutti i doveri del loro ministero, per mettere in buono stato quelle contrade. Facendo noi dunque ora i conti alle signorie godute allora da Teoderico, troviamo lui dominante per tutta l'Italia e Sicilia. Al settentrione il vedremo signore della Dalmazia e del Norico, col continuare la giurisdizione sua per la Pannonia Sirmiense, comandando ad una bella porzione della moderna Ungheria, e fors'anche a tutta. Aggiungo ora che a lui erano sottoposte le due Rezie, e perciò le moderne contrade dei Grigioni, Trento e il Tirolo. Vedesi un ordine da lui dato [Cassiod., lib. 1, ep. 11.] a Servato duca della Rezie, siccome ancora presso di Cassiodoro la formola del ducato delle Rezie. Nè qui si fermava il suo dominio: passava anche nella Svevia, la quale, se pur era tutta di lui, abbracciava la città d'Augusta, Costanza, Tubinga, Ulma ed altre città. Abbiamo una lettera [Idem, lib. 4, ep. 49.] d'esso Teoderico, scritta a tutti i provinciali, capillati, difensori e curiali abitanti nella Svevia, in cui gli avvisa di spedire per governatore di quella provincia Fridibado. E in un'altra [Idem, lib. 5, ep. 15.] scritta a tutti i possessori di beni nella Svevia, dice di aver loro inviato Severino, perchè sollevi dai tributi chiunque si crede ingiustamente oppresso. Laonde se a queste signorie si giugne la Provenza col littorale continuato [777] sino ai Pirenei, e la maggior e miglior parte delle Spagne venuta in suo potere, può ognun conoscere a qual potenza fosse salito il re Teoderico, e che l'Italia sotto il suo governo, felicissimo per altro e giusto, avea ripigliato non poco dell'antico suo splendore. L'anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] scrive essere stata cotanta la riputazione di Teoderico, ed aver egli trattato così amorevolmente i popoli confinanti, che spontaneamente si sottoponevano al di lui dominio.

Il resto delle provincie dianzi signoreggiate dai Visigoti nelle Gallie con Tolosa, già capo del regno loro, pare che restasse in potere di Clodoveo re dei Franchi, col quale e con Gundobado re dei Borgognoni si dee credere che Teoderico non tardasse molto a stabilir accordo e pace. Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.] anch'egli scrive che vedendo Teoderico di non poter cacciar i Franchi dal paese conquistato dopo la vittoria riportata sopra il re Alarico, si contentò che il ritenessero in loro potere. Circa questi tempi il re Clodoveo, che non dovea per anche aver bene studiata la legge di Gesù Cristo, benchè ne avesse abbracciata la fede, ansante più che mai di dilatare il suo regno in qualunque maniera ch'egli potesse, senza mettersi pensiero se sempre con ragione e giustizia (costume che si può osservare in non pochi altri conquistatori), si pose in cuore di far sua la città di Colonia colle sue dipendenze, dove regnava Sigiberto re suo parente. Imperocchè i Franchi in addietro non erano tutti uniti sotto di un capo, mi si bene sotto vari duci, a' quali danno gli scrittori il titolo di re, perchè cadaun d'essi era indipendente dall'altro. Per testimonianza dunque di Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 1, cap. 40.] e di Fredegario, mandò segretamente a dire a Cloderico figliuolo d'esso Sigiberto: Tuo padre è divenuto molto vecchio e zoppo. S'egli morisse, tu coll'amicizia nostra acquisteresti il suo [778] regno. Bastò questo all'iniquo figliuolo per far levar di vita il padre. Avvisato di ciò Clodoveo, e pregato di accettar parte del tesoro di Sigiberto, inviò persone a Colonia, che nel tempo stesso di dividere il tesoro, con un'accetta ammazzarono il parricida Cloderico. Susseguentemente Clodoveo, fingendosi innocente dell'un e dell'altro fatto, indusse quel popolo ad accettarlo per suo signore. È da maravigliarsi come Gregorio Turonense dopo ciò soggiunga, che Dio abbatteva tutto dì i nemici di Clodoveo, ed accresceva il regno di lui, perchè egli camminava con retto cuore davanti a Dio, ed operava quel solo che può piacer a Dio. A chiusi occhi dovette ben far questa riflessione il Turonense, quando pur egli stesso fa menzione di tante altre iniquità d'esso Clodoveo, effetti dell'insaziabil sua ambizione. Cararico, altro re de' Franchi, vien creduto che signoreggiasse verso l'Artesia e la Piccardia [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 41.]. Clodoveo col pretesto che nella guerra, tanti anni prima fatta contra Siagrio romano, egli fosse stato neutrale, circumventum dolis cepit, cioè con insidiose frodi il prese, ed obbligò lui a farsi prete, e suo figliuolo a prendere il diaconato. E perciocchè se ne lamentavano, fece loro tagliar la testa, e s'impadronì del loro regno e tesoro. Un altro re dei Franchi per nome Ragenario, o Regnacario [Idem. ib.], era signore di Cambray, principe tutto dato alla lussuria. Clodoveo, dopo aver guadagnato Farrone di lui consigliere, e i suoi baroni con delle smaniglie e degli usberghi creduti d'oro da essi, ma solamente indorati, gli spinse addosso un esercito, ed ebbe in mano lui e Riciario suo fratello, ch'egli con ischerno uccise di sua mano. Levò ancora di vita Rignomere, che signoreggiava ne' Cenomani oggidì le Maine. Questi ed altri re e signorotti franchi, benchè tutti suoi parenti, tolse di mezzo Clodoveo; e dappoichè fu padrone [779] de' loro regni e tesori, fu udito una volta dire con questo amaro scherzo: Sfortunato ch'io sono, essendo rimasto come un pellegrino fra la gente straniera, e niuno ho più de' parenti che in caso di qualche disavventura mi possa aiutare. Soggiugne il Turonense ch'egli ciò diceva, non perchè si condolesse della morte loro, ma per vedere se ne potesse trovar alcun altro per ammazzarlo. Credesi ancora che egli facesse guerra alla Bretagna minore, ed abbassasse la potenza di quel popolo e l'autorità dei loro re, come ho accennato di sopra.


   
Anno di Cristo DXI. Indizione IV.
Simmaco papa 14.
Anastasio imperadore 21.
Teoderico re 19 ed 1.

Consoli

Secondino e Felice.

Secondino, creato console, come s'ha da Teofane, ebbe per moglie Magna, sorella d'Anastasio imperadore, e per figliuolo Flavio Ipazio, stato console nell'anno 500. Felice, creato console in Occidente, era nato nella Gallia, oppur discendente da nobil famiglia di quel paese, e forse avolo suo fu Flavio Felice, stato parimente console nell'anno 428. Abbiamo presso Cassiodoro [Cassiodor., lib. 2, ep. 1.] la lettera scritta dal re Teoderico nel precedente anno ad Anastasio Augusto (indizio certo della ristabilita amicizia fra loro), in cui l'avvisa dell'elezione fatta di questo Felice console informandoci con ciò della maniera tenuta in que' tempi, perchè tanto in Oriente che in Occidente fossero accettati i consoli eletti. Era fuggito in Africa Gesalico, siccome abbiam veduto nell'anno precedente. Quivi fu bene accolto da Trasamondo re de' Vandali. Teodorico, che il teneva d'occhio dappertutto, ebbe nuova dell'accoglienza fattagli da esso re, e che dipoi licenziato con molte ricchezze, s'era portato in paesi stranieri. Di questo fatto si dolse Teoderico [780] con Trasamondo, con ispedirgli apposta degli ambasciatori, e scrivergli una lettera, a noi conservata da Cassiodoro [Cassiod., lib. 5, ep. 43.] suo segretario. In essa fa doglianze, perchè, dimentico d'essergli cognato, abbia preso in difesa Gesalico, il quale giunto in Africa nudo, si sapeva che carico di danari era stato poi trasmesso in paesi forestieri. Se Trasamondo avea compassione di lui, dovea ritenerlo. Avendolo mandato via con sì buona provvisione d'oro, non poteano se non nascere i sospetti di poco buona amicizia e lealtà. Trasamondo sinceramente confessò quanto era avvenuto, e addusse le sue scuse, per quanto s'ha dalla susseguente lettera [Idem, lib. 2, ep. 44.] di Teoderico. Gli mandò ancora dei regali, e Teoderico mostrò d'avergli graditi, ma glieli rimandò indietro, avvertendolo di camminar meglio in avvenire. Abbiam da sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Goth.] che Gesalico, non avendo potuto ottener soccorso da' Vandali, tornò dall'Africa, e per paura di Teoderico si ritirò nell'Aquitania, dove si fermò nascosto per un anno. Poscia raunati quanti seguaci potè, se ne tornò in Ispagna con disegnò di far delle sollevazioni; ma dodici miglia lungi da Barcellona raggiunto da Ebbane (ossia da Ibba) generale del re Teoderico, dopo una breve battaglia fu rotto e messo in fuga. Finalmente preso nella Gallia di là dal fiume Druenza, quivi perdè la vita. Però in quest'anno cominciò Teoderico a numerare il primo anno del suo regno ispanico, ossia visigoto, siccome attesta il suddetto santo Isidoro. Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.] scrive che dopo la morte di Gesalico, succeduta nel presente anno, Teoderico trasferì il regno della Spagna in Amalarico figliuolo di una sua figliuola, con assumerne egli la tutela. Appoggiato a queste parole il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 508, et ad ann. 511, n. 15.], fu di avviso che veramente seguisse [781] una tal traslazione di dominio; ma non sussiste. Solamente lasciò Teoderico prima di morire quel regno al nipote, ed egli finchè visse ne fu assoluto padrone. Ciò chiaramente è attestato dal suddetto sant'Isidoro, là dove dice che Teoderico Hispaniae regnum quindecim annis obtinuit, quod superstiti Amalarico nepoti suo reliquit. Parimente questa verità si conosce dalle antiche memorie della Spagna, perchè si cominciarono a contare gli anni dal regno di Teoderico, e non già di Amalarico. Veggansi presso il cardinal d'Aguirre [Aguirre, Concilior. Hispan., tom. 2.] i concilii tenuti allora in quel regno, giacchè questo saggio principe, tuttochè ariano, lasciava ai vescovi cattolici la libertà del sacro lor ministero, nè molestava alcuno per cagion della religione. Lo stesso Procopio aggiugne appresso che Teoderico coll'inviare magistrati ed eserciti nella Gallia e Spagna, diligentemente si studiava di assodar per sempre quelle corone sulla sua testa.

Le parole ultime di Procopio mi fan sovvenire che Teoderico, probabilmente circa questi tempi, avendo fatto un trattato coi Gepidi, ne prese al suo servigio un buon corpo per inviarlo di presidio nella Gallia. Merita attenzione e plauso la premura di questo principe, perchè passando per l'Italia que' Barbari, non inferissero danno agli abitanti. Scrisse egli perciò [Cassiod., lib. 5, ep. 10.] a Verano Sajone, con avvisarlo del passaggio che dovea fare per la Venezia e Liguria l'esercito dei Gepidi, destinato di guardia alla Gallia, acciocchè procurasse che nulla mancasse loro di tappe, ossia di vettovaglie, nè seguisse saccheggio alcuno nel paese, perciocchè l'importanza maggiore era il salvare i beni del suo popolo, in difesa, e non in offesa dei quali egli faceva venir quell'armata. Ma non bastò questo alla somma provvidenza di Teodorico. Nella seguente lettera [Idem, ibid., ep. 11.] scritta ai Gepidi destinati per le Gallie, fa [782] loro sapere aver ben egli disposto tutto, affinchè nulla mancasse loro di viveri nel loro passaggio; tuttavia perchè non nascano liti per la qualità e quantità di viveri, aver egli destinato di pagare tre soldi d'oro (poco diversi dagli scudi di oro d'oggidì) a cadaun di loro per ciascuna settimana, acciocchè ognuno a suo talento possa comperarsi ciò che gli sarà in grado. Termina la lettera con dire: Movete feliciter, ite moderati; tale sit iter vestrum, quale debet esse qui laborant pro salute cunctorum. Grossa paga che era questa in paragon della miserabile che a' tempi nostri si pratica coi soldati, e saggia attenzion di Teodorico per difesa de' sudditi suoi. Queste disposizioni e precauzioni vo io credendo specialmente fossero prese da Teoderico, perchè osservava quanto fosse manesco Clodoveo re de' Franchi suo confinante nelle Gallie. Ma per sua buona ventura Clodoveo nel dì 27 di novembre [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 43.] del presente anno diede fine in Parigi alla sua vita, per quanto si crede, in età di quarantacinque anni e trenta di regno: principe glorioso nella Storia ecclesiastica, perchè il primo che abbracciasse la santa religione di Cristo, e la dilatasse nella sua nazione, che costantemente l'ha dipoi sempre mantenuta, col meritare perciò i re loro il titolo di Cristianissimi. Principe parimente glorioso nella storia del secolo, perchè gran conquistatore, e il primo che fondasse l'insigne monarchia franzese, florida più che mai oggidì; ma principe che maggiore e più pura gloria avrebbe conseguito, se alle sue belle doti avesse unito men d'ambizione, ossia d'ansietà di dilatare il suo regno, anche a forza di scelleraggini e di crudeltà. Egli lasciò dopo di sè quattro figliuoli, cioè Teoderico nato da una concubina, prima di prendere per moglie la piissima principessa Clotilde, maggiore per conseguente d'età de' suoi fratelli, e già sperto nel mestier della guerra. Clodomiro, [783] Childeberto e Clotario, nati da essa Clotilde, furono gli altri suoi figliuoli, che in quattro parti divisero gli stati del paese, siccome può vedersi presso gli storici franzesi. Nondimeno a Teoderico toccò molto vantaggio in questa divisione sopra gli altri fratelli, essendo specialmente restati in suo dominio tutti i paesi confinanti nella Gallia con gli Ostrogoti, ossia colla giurisdizione di Teoderico re d'Italia. In questo anno seguirono in Costantinopoli dei gravissimi sconcerti per cagione della religione. Anastasio Augusto, sempre più scoprendosi partigiano e protettore delle eresie e degli eretici, cominciò nell'anno precedente a perseguitare Macedonio vescovo di Costantinopoli [Theoph., in Chron. Theod. Lector, lib. 2 Histor.], prelato costante nella difesa del concilio calcedonense e della dottrina della Chiesa cattolica. Nel presente anno il cacciò in esilio, con sostituirgli un certo Timoteo prete. Questi ed altri passi dell'empio imperadore furono cagione di tumulto nel popolo. Ma intorno a questi fatti io rimetto il lettore agli Annali ecclesiastici del cardinal Baronio, del padre Pagi e del Fleury.


   
Anno di Cristo DXII. Indizione V.
Simmaco papa 15.
Anastasio imperadore 22.
Teoderico re 20 e 2.

Consoli

Paolo e Muschiano.

Credesi che il primo di questi consoli sia orientale, e il secondo occidentale. E ciò par certo quanto a Paolo, perchè nell'Antologia greca si ha un epigramma, da cui ricaviamo che Proclo, figliuolo di Paolo, avea superato il padre nel numero dei consolati. Ma per conto di Muschiano, ossia Musciano, se ne potrebbe dubitare, trovandosi una lettera scritta nell'ottobre da papa Simmaco, colla data post consulatum Felicis. Qualora c'era console creato in Occidente, si soleva in Roma segnar [784] l'anno col nome di lui. Per altro questi due consoli son personaggi noti solo nei Fasti ed ignoti nel resto della storia di questi tempi. Dopo la morte di Clodoveo, cessato il rispetto e riguardo che si avea per quel potente e bellicoso principe, e specialmente considerata la division degli stati ed interessi fra i suoi figliuoli, i Goti ruppero la pace coi Franchi, e loro levarono parte del paese occupato dopo la rotta data al re Alarico. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 3 et 22.] è quel solo che attesta il fatto con dire: Gothi vero quum post Chlodovechi mortem multa de his, quae illi adquisiverat, pervasissent, ec. Lo stesso autore più sopra ci lascia intendere che essi Goti s'erano impadroniti della città di Rodes, e ne avevano per sospetti cacciato san Quinziano vescovo, che passò dipoi alla chiesa d'Auvergne per opera di Teoderico re, figliuolo di Clodoveo. Ma Teoderico re d'Italia, che più amava la pace che la guerra, e di conservare che d'accrescere le sue conquiste, dovette far cessare quel fuoco, giacchè troviamo che da lì innanzi egli lasciò in quiete i Franchi; ed all'incontro i Franchi non osarono in sua vita di turbare i di lui stati, perchè ne conoscevano ben la possanza e il valore. Sappiamo parimente ch'egli mantenne buona pace con Gundobado re de' Borgognoni. In somma la riverenza verso di questo principe, e il timore d'averlo nemico, tenne in freno tutti i re barbari, finch'egli visse e regnò, con essersi poi scatenati tutti dopo la morte di lui. Sempre più crescendo il mal talento di Anastasio imperadore contra del Cattolicismo, e studiandosi egli più che mai d'abolire il sacro concilio calcedonense, perchè alle di lui novità introdotte nell'inno Trisagio non volevano i Cattolici acconsentire, anzi s'opponevano con fermezza, per ordine suo, secondochè abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], ne furono molti uccisi. Questa crudeltà mise [785] il popolo di Costantinopoli in furore, e si formò una terribil sedizione che abbattè le immagini e statue di lui, ammazzò varie persone, attaccò il fuoco a molte case, e dimandò per imperadore Ariobindo, marito di Giuliana figliuola del già imperador d'Occidente Olibrio, il quale se ne fuggì, affinchè non fosse creduto complice di questo attentato. Anastasio, essendo comparso nel circo senza diadema, con belle promesse e molti spergiuri placò l'infuriato popolo; ma poco stette a far peggio di prima, con aver soprattutto cacciato in esilio Flaviano patriarca cattolico d'Antiochia, e fatte altre novità descritte nella Storia ecclesiastica. Per attestato di Suida [Suidas, in Excerptis, tom. 1 Histor. Byz.], egli vendeva tutti i magistrati, e per danari assolveva qualunque delinquente che non fosse povero. L'avarizia sua fu cagione che restassero senza soldati le provincie, e però esposte a tutte le insolenze dei Barbari. Aggiugne Marcellino che nel presente anno fu introdotta la nazione degli Eruli nelle terre e città dei Romani, cioè dell'imperio greco, senza spiegare per ordine di chi e in favore di chi quella gente venisse. La lettera di Simmaco papa, mentovata di sopra, fu scritta in questi tempi ai cattolici dell'Illirico, della Dardania e di ambedue le Tracie. Avea il romano pontefice avuta contezza della persecuzione mossa dall'infellonito imperadore contra de' difensori della vera dottrina della Chiesa; e però con questa lettera fece loro coraggio, animandoli a sostenere ogni più acerbo trattamento per la fede ortodossa. Rapporta inoltre il cardinal Baronio un'altra lettera scritta ad esso papa Simmaco dalla chiesa orientale, in cui si vede la profezion di fede di que' vescovi, e le ragioni loro di non essere rigettati a cagion della memoria di Acacio già vescovo di Costantinopoli.


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Anno di Cristo DXIII. Indizione VI.
Simmaco papa 16.
Anastasio imperadore 23.
Teoderico re 21 e 3.

Consoli

Probo e Clementino.

Secondo il padre Pagi, Clementino fu console orientale, e Probo occidentale, perchè della famiglia Anicia. Non abbiam chiara notizia di questo. Certo è che Probo è diverso dall'altro che fu console nell'anno 502. Nè sussiste che all'anno presente s'abbiano da rapportare due iscrizioni, riferite l'una dall'Aringhio e dal padre Sirmondo, e l'altra presso il Fleetwod, dove si legge PROBVS IVNIOR. Esse appartengono all'anno 523. Fu scritta nel presente anno una lettera da papa Simmaco [Concil. Labb. tom. 4.] ai vescovi delle Gallie intorno alla divisione della Provenza tra le chiese di Arles e di Vienna. E perciocchè da essa apparisce che san Cesario, vescovo di Arles, si trovava in quei tempi in Roma, perciò a quest'anno, e non già all'anno 508, come fu di avviso il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], si dee riferire ciò che scrive di quel santo vescovo nella Vita di lui Cipriano [Cyprian., in Vita S. Caesarii apud Mabillon tom. 1 Act. Sanct.]. Facilmente nascono ed allignano in tempi torbidi di guerra i sospetti. Fu accusato da qualche maligno san Cesario agli uffiziali di Teoderico re d'Italia, signoreggiante in Arles, quasi ch'egli tenesse corrispondenza coi Franchi, o meditasse tradimenti. Fu perciò sotto buona guardia condotto fino a Ravenna e presentato al re Teoderico, il quale, riverentemente alzandosi in piedi, e cavatasi di capo la berretta, con tutta cortesia l'accolse. Fattegli poi placidamente molte interrogazioni intorno ai suoi Goti e al popolo d'Arles, e ben guatato il venerabile aspetto e la sua intrepidezza, cagionata [787] dalla buona coscienza, il licenziò contento di lui. Giunto all'albergo, eccoti un messo di Teoderico che gli porta in dono un piatto d'argento pesante circa sessanta libbre, con sopra trecento soldi, equivalenti in circa agli scudi d'oro degli ultimi secoli. Fece il buon santo vendere quel piatto con impiegarne successivamente il prezzo in riscattare dei prigionieri: il che risaputo dal re e dalla corte tutta, si raddoppiò la stima e l'ammirazione della virtù di san Cesario. Passò egli dipoi a Roma per visitar papa Simmaco e i senatori, e dopo aver ottenuta la conferma della dignità di metropolitano, e un uso speziale del pallio, e il privilegio ai suoi diaconi di portar le dalmatiche nella stessa guisa che portavano allora i diaconi della Chiesa romana, gloriosamente se ne ritornò ad Arles alla sua residenza. Continuarono intanto, anzi andarono crescendo nelle chiese di Oriente le rivoluzioni pel favore dato da Anastasio Augusto agli eretici, e spezialmente fu in quest'anno mandato in esilio Elia vescovo di Gerusalemme: intorno a che si possono consultar gli Annali ecclesiastici. Godevano in questo mentre una buona pace le chiese e i popoli dell'Italia, Gallia e Spagna, per la saggia condotta e pel buon governo del re Teoderico, il quale, oltre al non mettere mano negli affari spettanti alla religione dei suoi popoli, rispettava, sebbene ariano di credenza, i papi e tutti i vescovi e sacri ministri del cattolicismo.


   
Anno di Cristo DXIV. Indizione VII.
Ormisda papa 1.
Anastasio imperadore 24.
Teoderico re 22 e 4.

Console

il Senatore senza collega.

Col nome di Senatore venne in questi tempi comunemente chiamato Magno Aurelio Cassiodoro, cioè quell'insigne scrittore che non meno colle lettere del [788] secolo che colle sacre illustrò non poco l'Italia. Alcuni gli han dato il prenome di Marco, ma, siccome nella Vita di lui osservò il padre Garezio benedettino, Magno, e non Marco fu appellato. Aveva egli conseguito, oltre ad altre dignità, quella di questore e di prefetto del pretorio; era ornato del titolo di patrizio; e da Teoderico re, che lo amava assaissimo, fu nel presente anno decorato dell'onore del consolato. Non è ben chiaro se fosse per eccellenza chiamato senatore, o pure se quel fosse un altro cognome o nobile soprannome. Diede fine in quest'anno al pontificato e alla sua vita papa Simmaco nel dì 19 di luglio: pontefice che passò i suoi giorni fra molti guai e gravi persecuzioni, contra di lui mosse da alcuni prepotenti magnati romani, in mezzo alle quali Dio il conservò illeso. Ch'egli non fosse quale vollero farlo credere i suoi avversarii, possono eziandio servire a provarlo le riguardevoli fabbriche sacre da lui fatte in Roma, e la magnificenza di tanti vasi e lavori di oro e d'argento ch'egli donò alle chiese. Se ne legge il pieno catalogo nella di lui Vita presso Anastasio [Anastas. Bibl., in Vit. Symmachi.]. Ebbe per successore Ormisda, di nazione Campano, ossia da Capoa, che fu consacrato nel dì 27 di luglio. Racconta Cassiodoro [Cassiod., in Chron.] con giubilo nella sua Cronica, che essendo egli console, cioè nel presente anno, per gloria de' tempi del re Teoderico, raunato il clero e popolo romano, per opera di lui tornò la concordia nella Chiesa romana. Il che fa intendere, come di sopra accennai, che vivente papa Simmaco non si pose mai fine alla discordia insorta per cagione dello scisma di Lorenzo; e il cardinal Baronio anche egli notò, coll'autorità di san Gregorio Magno, che alcuni sacerdoti dabbene stettero saldi, anche dopo la decision de' concilii, nel partito d'esso Lorenzo. Terminata poi la vita dell'uno e dell'altro, cessarono tutte le gare e dissensioni, [789] e concordemente ogni fazione convenne nell'elezione di papa Ormisda, al che si dee credere che contribuisse non poco l'autorità e buona maniera di Cassiodoro console. Le continuate novità e crudeltà di Anastasio imperadore contra della dottrina cattolica e de' seguaci di essa, furono cagione in fine che l'ossequio de' sudditi degenerasse in maggiori impazienze e in un'aperta strepitosa ribellione. Era cominciato molto prima questo incendio; maggiormente esso divampò nell'anno presente. I popoli della Scizia [Theoph., in Chronogr.], della Mesia e d'altre provincie d'Oriente incitarono Vitaliano Scita, figliuolo di Patriciolo e nipote di Aspare, di cui molto fu parlato di sopra, ch'era allora conte, ossia comandante delle milizie collegate, a prender l'armi contra dell'empio imperadore. Pertanto egli tirò a sè la maggior parte delle truppe cesaree, occupò le vettovaglie ed una immensa somma d'oro inviata per pagare le soldatesche. Ed essendo uscito in campagna contra di lui, con un'armata di settantacinque mila persone, Ipazio figliuolo di Secondino, ossia Secondiano, patrizio, e di una sorella di Anastasio Augusto, già stato console, gli diede Vitaliano una gran rotta e il fece prigione. Però in un tumulto suscitato in Costantinopoli il popolo lasciò uscir delle voci che acclamarono imperadore lo stesso Vitaliano, di maniera che intimorito Anastasio andò a nascondersi. Ora nel presente anno, per attestato di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], Vitaliano con un esercito di più di sessanta mila combattenti, fra' quali erano assaissimi Unni e Bulgari, dopo aver prese alcune città, ed ucciso Cirillo generale della Tracia per Anastasio Augusto, si presentò con quell'armata davanti a Costantinopoli. Veggendo Anastasio in mal punto i suoi affari, altro ripiego non ebbe che di spedire alcuni senatori a Vitaliano per trattar di pace. Vitaliano, che non aveva in cuore altro disegno [790] che di difendere l'oppressa religion cattolica, dimandò che Macedonio vescovo di Costantinopoli, e Flaviano di Antiochia, con tutti gli altri vescovi cattolici fossero rimessi in possesso delle lor chiese, e che si raunasse un concilio, a cui intervenisse il pontefice romano ed i vescovi per disaminare e levar via le dissensioni intorno alla religione. Costavano poco ad Anastasio le promesse e i giuramenti, o, per dir meglio, gli spergiuri. S'obbligò egli a tutto; altrettanto fecero i senatori e magistrati. Dopo di che Vitaliano si ritirò da Costantinopoli e tornò coll'esercito suo nella Mesia. Allora l'astuto Anastasio, per far pur credere alla gente credula ch'egli dicea daddovero, intimò un concilio da tenersi in Eraclea, e nel dicembre del presente anno scrisse una lettera, rapportata dal cardinal Baronio, a papa Ormisda, invitandolo ad intervenirvi con que' vescovi che gli piacesse d'eleggere. Le stesse premure fece egli dipoi con altra lettera al senato romano. Ma qual esito avessero le promesse d'Anastasio, in breve si scoprirà.


   
Anno di Cristo DXV. Indizione VIII.
Ormisda papa 2.
Anastasio imperadore 25.
Teoderico re 23 e 5.

Consoli

Antemio e Fiorenzo.

Credesi che Antemio fosse console orientale e Fiorenzo occidentale. Non aveva il re Teoderico figliuolo maschio alcuno, a cui potesse tramandare la corona del suo regno. Un'unica figliuola del matrimonio di Audefelda sorella di Clodoveo re de' Franchi, per nome Amalasunta, gli restava; e giacchè questa dovea essere l'erede sua, cominciò per tempo a pensare in chi si avesse da collocare questo prezioso pegno. La famiglia Amala fra i Goti era considerata la più nobile delle altre; da questa era uscito Teoderico stesso; e da questa pur [791] discendea Eutarico soprannominato Cillica. Lui dunque elesse Teoderico per suo genero, e nel presente anno seguirono le nozze con Amalasunta. Credette intanto il pontefice Ormisda che Anastasio imperadore daddovero si fosse applicato a trattar di pace ed unità della Chiesa, e fosse per dar mano alla celebrazione del concilio destinato ad Eraclea; e però inviò a Costantinopoli i suoi legati. Furono questi Ennodio (scorrettamente chiamato Evodio da Teofane) celebre scrittore di questi tempi, già divenuto vescovo di Pavia; Fortunato vescovo (forse di Todi), Venanzio prete e Vitaliano diacono. Andarono i legati, seco portando le istruzioni della Sede apostolica, riferite dal cardinal Baronio; furono ben accolti da Anastasio, ma si trovarono in fine delusi delle loro speranze. Anastasio altro in mente non avea che di calmare i moti del popolo di Costantinopoli, e di far deporre l'armi a Vitaliano scita che si protestava difensor della Chiesa e della vera dottrina. Perchè i legati pretendeano che si abolisse la memoria d'Acacio, che era tuttavia cara ai Costantinopolitani, si servì Anastasio di questa lor pretensione per iscreditar essi presso il popolo, e nel medesimo tempo per guadagnare in favor suo il popolo stesso. Abbiamo da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che Ormisda fu sollecitato alla spedizione de' suddetti legati anche per parte del re Teoderico e di Vitaliano: segno che Teoderico ne doveva avere ricevuti gl'impulsi o da Anastasio Augusto o da Vitaliano, col quale probabilmente egli manteneva buona intelligenza per tener basso l'imperadore dopo l'insulto fatto alle spiaggie d'Italia nell'anno 508. Terminò i suoi giorni nel corrente anno, per testimonianza di Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.], Arianna imperadrice, malcontenta d'aver preso per marito e creato imperadore chi era poi divenuto persecutor della Chiesa. Non merita essa [792] il brutto epitafio che le fece il cardinal Baronio, dacchè sappiamo che anch'ella detestava la condotta dell'eretico consorte. Dal medesimo Marcellino e da Teofane intendiamo che gli Unni, cioè i Tartari, fecero varie scorrerie in questo anno, e barbaramente saccheggiarono l'Armenia, la Cappadocia, la Galazia e il Ponto: siccome ancora essere riuscito a Secondino ossia Secondiano, di riavere libero dalle mani di Vitaliano il suo figliuolo Ipazio, con pagargli una gran somma d'oro pel suo riscatto. Per altro, continuando lo stesso Vitaliano conte più che mai la guerra contra di Anastasio, tornò questi ad inviargli de' senatori con ricchi regali per trattar di pace, e il dichiarò generale dell'armi cesaree per la Tracia.


   
Anno di Cristo DXVI. Indizione IX.
Ormisda papa 3.
Anastasio imperadore 26.
Teoderico re 24 e 6.

Console

Pietro senza collega.

Fu questo console creato in Occidente. Per maggiormente ingannare i Cattolici, mandò in quest'anno Anastasio imperadore due suoi ambasciatori a papa Ormisda, ed insieme una professione di fede, in cui a riserva, del non acconsentire alla riprovazion d'Acacio, egli si mostrò attaccatissimo alla vera dottrina della Chiesa. Inganni furono tutti questi. Di tali artifizii si servì l'astuto Augusto per tirar dalla sua i popoli sollevati, e dappoichè ebbe ottenuto il suo intento, e con ciò indebolita la fazione di Vitaliano conte, gli tolse il generalato accordatogli nell'anno precedente, e lo diede a Rufino. Vitaliano, per attestato di Niceforo [Niceph. Callistus, lib. 16, cap. 18.], si ritirò a casa sua, con attendere dipoi a menare una vita tranquilla. Maggiormente però crebbero i disordini della Chiesa in Oriente, con [793] trovarsi nulladimeno assaissimi che sostenevano il partito cattolico, e mantenevano l'unione con papa Ormisda, pontefice che, adempiendo le parti del sacro suo ministero, non tralasciava diligenza veruna per provvedere ai bisogni del Cattolicismo in varii luoghi afflitto. Intanto il re Teoderico, godendo e facendo godere ai suoi popoli i frutti d'una invidiabil pace, attendeva a far delle sontuose fabbriche, e a ristaurare le mura delle città. Racconta l'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] ch'egli perfezionò in Ravenna il palazzo regale, tuttochè non arrivasse a dedicarlo, come si costumava allora, con gran solennità. Fece ancora dei portici intorno al palazzo. Abbiamo parimente dall'autore della Vita di santo Ilaro [Vita. S. Hilarii, in Actis Sanct., ad diem 5 maji.], fondatore del monistero della Gelata alle radici dell'Apennino nella Romagna verso la terra di Civitella, che Teoderico fabbricò un palazzo in que' contorni presso il fiume Bedente, per godere dell'aria pura della montagna. In Verona fece fabbricar le terme, ossia il bagno, e un magnifico palazzo, e un portico continuato da una porta della città fino al medesimo palazzo. Fece anche rifare in essa città l'acquedotto, che da gran tempo era distrutto, e v'introdusse l'acqua. Circondò similmente di nuove mura quella città, ampliandola, per quanto si può conghietturare. In Ticino, ossia in Pavia, fabbricò un palazzo, le terme, l'anfiteatro ed altre mura. Simili benefizii compartì ad altre città. Attese del pari a far fiorire la mercatura e il commercio, e venivano allegramente in Italia i mercatanti stranieri a trafficare. Tale era l'esattezza e buona regola del suo governo, che si potea tenere alla campagna oro ed argento colla stessa sicurezza che fra le mura della città. Scrive inoltre il suddetto autore, essere allora stato in uso per tutta l'Italia che non si chiudevano le porte delle città, di maniera che in [794] qualunque ora che si volesse, di dì e di notte, potevano i cittadini andare e venire, ed attendere ai loro interessi, senza timore dei malviventi. Giunse a' tempi di questo principe ad essere sì grande l'abbondanza, che per un soldo, ossia scudo d'oro, si avevano sessanta moggia di frumento (doveva essere allora il moggio ben diverso dal nostro) e trenta anfore di vino per un soldo. L'anfora conteneva in que' tempi tre moggia. Tale era il governo del re Teoderico, quantunque egli non sapesse nè leggere nè scrivere, in guisa che, affine di poter sottoscrivere le lettere e i memoriali, usava una lamina d'oro, che forata conteneva le quattro prime lettere del suo nome, cioè THEOD., e messa questa sopra la carta, egli colla penna condotta per que' fori scriveva così abbreviato il suo nome. Altrettanto racconta Procopio [Procop., in Hist. Arcan.] che fu praticato da Giustino imperadore, successor d'Anastasio e principe senza lettere.


   
Anno di Cristo DXVII. Indizione X.
Ormisda papa 4.
Anastasio imperadore 27.
Teoderico re 25 e 7.

Consoli

Flavio Anastasio ed Agapito.

Fu d'opinione il cardinal Baronio che questo Flavio Anastasio, console orientale nell'anno presente, fosse il medesimo Anastasio imperadore, e però il chiamò console per la quarta volta. Così ancora han tenuto altri. Ma prima d'ora hanno osservato il Du-Cange [Du-Cange, Famil. Byzant.], il cardinal Noris [Noris, Ep. Consol.] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], non sussistere punto che Anastasio Augusto abbia preso il quarto consolato. Gli antichi Fasti e le iscrizioni ci fan conoscere, essere stato persona privata questo console; ed in fatti egli fu nipote o pronipote dell'imperadore, come osservò il [795] suddetto Du-Cange. Però è da stupire come Pietro Relando [Reland., in Fast.] ultimamente ne' suoi Fasti seguitasse a spacciare per console di quest'anno l'imperadore stesso. Agapito console occidentale si trova intitolato prefetto del pretorio nelle lettere di Cassiodoro, e presso Ennodio ha il titolo di patrizio. Terminò il corso di sua vita, secondochè pretende il padre Pagi, in quest'anno, o pure nel precedente, come ha Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], Gundobado, re de' Borgognoni, il cui regno fu di grande estensione nella Gallia, perchè abbracciava la Borgogna moderna, la Savoia, il Delfinato, il Lionese, l'Avignonese ed altri paesi di quei contorni. Morì nella credenza ariana, dalla quale, per quante diligenze usasse sant'Avito vescovo di Vienna, egli non giunse mai a staccarsi per paura della sua nazione infetta de' medesimi errori. A lui attribuisce Agobardo arcivescovo di Lione la legge che autenticava l'abuso dei duelli, contra del quale scrisse un opuscolo lo stesso Agobardo, come disopra accennammo. Lasciò dopo di sè due figliuoli, cioè Sigismondo e Gundomaro. Ma il solo Sigismondo, che fu poi riguardato come re santo, ebbe il titolo regio e il governo di que' popoli. Caratene sua madre, principessa cattolica e di rara pietà, l'aveva allevato nella sua religione; il perchè imbevuto di questo latte, e coi buoni esempii della madre, arrivò poi a risplendere per molte virtù. Lo stesso Mario storico scrive che nell'anno 515 egli fabbricò il monistero agaunense, oggidì di San Maurizio, nelle contrade de' Valesi, cioè uno de' monisteri più celebri di quel tempo, quantunque si pretenda dagli eruditi che san Sigismondo solamente il rifabbricasse, perchè fondato molto prima. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 5.] scrive che tal fabbrica fu fatta dappoichè egli succedette nel regno al padre, e però non già nell'anno 515, ma dopo il presente. [796] Quantunque fosse riuscita infruttuosa la spedizione dei legati pontificii a Costantinopoli, ed eglino fossero ritornati a Roma per significare a papa Ormisda lo stato infelice delle chiese d'Oriente, senza speranza di profitto, a cagione dell'empio imperadore che fomentava le eresie e della memoria di Acacio, ad abolir la quale non si sapevano indurre varii popoli, e massimamente quello di Costantinopoli: tuttavia il romano pontefice non rallentò le sue premure e diligenze per la causa di Dio. Scrisse pertanto varie lettere in quest'anno ad Anastasio Augusto, ai vescovi orientali e ad altre persone; ed inoltre tornò a spedire a Costantinopoli per suoi legati il medesimo Ennodio vescovo di Pavia, che vi era stato prima, e Pellegrino vescovo di Miseno, con dar loro nuove istruzioni, sperando pure di battere tanto il chiodo, che l'animo di Anastasio si movesse a dar fine a sì perniciosa division delle chiese [Anastas. Bibl., in Vit. Hormisdae.]. Andarono i legati, ma in vece di convertire l'empio Augusto, tentò egli di pervertire i medesimi coll'esibizione di regali. Trovata in loro la costanza che conveniva a sacri ministri e legati della santa Sede, andò nelle furie, ed ordinò che s'imbarcassero e fossero condotti in Italia, senza che potessero avere ingresso in alcuna città. Abbiamo tali notizie da Anastasio bibliotecario; e sappiamo da altri storici che per questa ostinazione di Anastasio Augusto insolentirono sempre più gli eretici, ed incrudelirono ancora contra de' cattolici, fra' quali trecento cinquanta monaci maroniti nella Siria furono trucidati, perchè difendevano il concilio calcedonese, degni perciò di aver luogo nel Martirologio romano, siccome veri martiri della Chiesa di Dio. Cominciarono circa questi tempi, per attestato di Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 5.], a farsi sentire nella Gallia i corsari danesi, popoli pagani del Baltico, de' quali ne' secoli susseguenti s'andrà udendo frequente [797] e sempre funesta menzione. Teodeberto, figliuolo di Teoderico re de' Franchi, con una forte armata navale gli assalì, gli sconfisse, uccise Clochilarco loro re, e ritolse a' medesimi il bottino che asportavano dalle spiagge della Gallia.


   
Anno di Cristo DXVIII. Indizione XI.
Ormisda papa 5.
Giustino imperadore 1.
Teoderico re 26 e 8.

Console

Magno senza collega.

Già è deciso presso gli eruditi che questo solo console, creato in Oriente, diede il suo nome ai Fasti nell'anno presente, e che non ebbe per collega nè Fiorenzo, come pensarono il Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.] e il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], nè Agapito per la seconda volta, come ha la Cronica di Vittor Turonense [Victor Turonensis, in Chron.]. In Roma questo anno fu segnato colla formula di post consulatum Agapiti, come apparisce da una lettera di papa Ormisda e da un'iscrizione ch'io ho rapportata altrove [Thes. Nov. Inscript., pag. 418.]. Non permise Dio che più lungamente durasse l'empietà e la vita di Anastasio imperadore. Abbiamo da Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. ult. Hist.], da Teofane [Theoph., in Chron.], da Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.], da Cedreno [Cedren., in Annal.] e da altri storici, ch'egli nel dì 9 di luglio da una morte improvvisa fu colto, e in tempo che s'era tornato a commuover contra di lui il popolo, ed egli studiava le maniere di difendersi dalle insidie che andava sospettando dappertutto. Se vogliam credere a Zonara [Zonar., in Histor.] e Cedreno, autori ben lontani da que' tempi, e mercatanti talora di favole, Anastasio fece morir molti per tali sospetti negli ultimi [798] dì di sua vita, e corsero rischio di perdere in tale occasione la testa anche Giustino e Giustiniano, che furono suoi successori, s'egli non fosse stato atterrito in sogno da un uomo terribile, che gli disse: Lasciali stare. Così finì di vivere Anastasio, con lasciare dopo di sè una memoria infausta del suo nome, ed essere riguardato come eretico e protettore degli eretici, e persecutore della Chiesa di Dio. Molti erano i nipoti e pronipoti di questo imperadore; grande era la loro potenza e ricchezza; contuttociò l'odio e l'avversione ch'egli s'era guadagnato con tanta empietà e crudeltà ridondò sopra tutti i parenti, in guisa che ognun di essi restò escluso dal trono imperiale. L'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.] specialmente nomina tre suoi nipoti, cioè Pompeo, Probo ed Ipazio, ciascun de' quali egli desiderava per suo successore. Ma vivente ancora Anastasio (soggiugne quello scrittore, a cui in questo non siamo obbligati a prestar fede) egli s'avvide che a niuno toccherebbe l'imperio, e conobbe poi in sogno che era riserbato il trono per Giustino. In fatti dopo la di lui morte per elezione del senato fu conferita la dignità imperiale a Giustino, nato, per testimonianza di Procopio [Procop., in Hist. Arcan., cap. 6.], in Bederiana, città situata ne' confini dell'Illirico e della Tracia, e però chiamato da alcuni scrittori Trace, e da altri Illiriciano. Bassissimi furono i suoi natali e da semplice soldato cominciò il corso della fortuna, e salendo per varii gradi giunse ad essere senatore e prefetto del pretorio. Evagrio scrive [Evagr., lib. 4, cap. 2.] che con frode egli salì, e con danari si studiò che i soldati pretoriani il dichiarassero imperadore. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] narra che egli fu eletto del senato. Protestò nondimeno esso Giustino in una lettera scritta in quest'anno nel dì primo d'agosto a papa Ormisda, d'essere stato [799] alzato contra sua volontà a dignità sì eccelsa; e così doveva egli scrivere, ancorchè fosse vero il racconto di Evagrio. Varie in somma furono le opinioni degli antichi intorno a ciò; ma poco importa in fine il saperne la verità.

Quel che è certo, non intervenne tumulto o forza nell'elezion di Giustino. Se crediamo a Procopio, scrittore che sparge veleno sopra tutto ciò che riguarda Giustiniano Augusto, figliuolo di una sorella di questo imperadore, allorchè Giustino salì sul trono imperiale, si trovava in età decrepita, ruvido di costumi, stolido, ed inoltre (cosa non mai avvenuta in addietro nell'imperio romano) non conosceva lettere, e neppure sapeva scrivere il suo nome. Tuttavia grande fu sempre la sua pietà e ben regolati i suoi costumi, e perciò degno che Dio l'innalzasse per bene della religione cattolica al grado imperiale. Non ho finora saputo intendere, se non è un errore di stampa, perchè l'accuratissimo padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad ann. 518, n. 3.] scrivesse che Giustino vien chiamato Anicio da Prudenzio nel libro primo contro Simmaco. Se Prudenzio nacque nell'anno di Cristo 348, come mai può essere ch'egli parli di Giustino eletto imperadore nell'anno 518? Aveva egli per moglie Lupicina, barbara di nazione, e già sua schiava e concubina. Mutatole il nome, fece chiamarla Elia Marcia Eufemia, e dichiarolla imperadrice Augusta. Teofane scrive [Theoph., in Chronogr.], essere stato il popolo che le diede il nome d'Eufemia. La prima azione di questo novello Augusto fu quella di nettare il palazzo da que' malvagi eunuchi e ministri che, cooperando colla crudeltà ed empietà d'Anastasio, e favorendo i manichei, aveano commesse tante iniquità, colle morti specialmente e con gli esilii di tanti cattolici. Un d'essi fu Amanzio eunuco mastro di camera del defunto Augusto [Marcell. Comes, in Chron.], un altro Teocrito, che avea fatto di gran maneggi [800] e speso molto oro per ottenere lo imperio. A costoro non fu permesso di vivere più lungamente. Il popolo stesso dimandò la loro rovina. Altri lor compagni altro gastigo non ebbero che quello dell'esilio. Non tardò il pio imperadore Giustino a richiamare quanti vescovi cattolici erano stati banditi sotto il regno di Anastasio, e a far loro restituire le chiese. E perciocchè aveva conceputa una grande stima del valore e della pietà di Vitaliano conte, cioè di quell'uffiziale scita che negli anni addietro avea prese l'armi in favore della religion cattolica, il chiamò alla corte, e, secondochè abbiamo da Marcellino conte e da Teofane, non passarono sette giorni, che il dichiarò generale delle milizie. Prese ancora per questore Proclo, e se ne servì come della mano diritta, governandosi co' suoi consigli. Procopio scrive che questo Proclo ebbe assaissima autorità, e faceva tutto ad arbitrio suo. Ma noi sappiamo da Suida [Suidas, in Excerpt. tom. 1 Hist. Byz.] ch'egli fu uomo giusto, disinteressato, che non ammetteva regali, nè scrisse mai legge alcuna a sproposito, nè permise che si mutassero i vecchi regolamenti. Così Giustino verificò l'assioma de' politici: Che un principe debole con ottimi ministri può uguagliare nel buon governo i migliori. Ma specialmente Giustino fece risplendere il suo zelo per la religion cattolica, con aver tosto pubblicato un editto [Cyrillus, in Vit. S. Sabae.], in cui confermò il sinodo calcedonese, e promosse la celebrazion di varii concilii, per deprimere gli eretici, giunti a troppo insolentire sotto di Anastasio. Il popolo stesso di Costantinopoli con pubbliche grida richiese che si condannassero gli eretici eutichiani; e Giovanni patriarca di quella città tenne un concilio, in cui fu scomunicato e deposto Severo vescovo intruso di Antiochia, riposti ne' sacri dittici i nomi di san Leone papa e di Eufemio e Macedonio vescovi cattolici di Costantinopoli, morti in [801] esilio. Altri concilii per questo furono tenuti in Gerusalemme e in Tiro, dei quali si parla negli Annali ecclesiastici.


   
Anno di Cristo DXIX. Indizione XII.
Ormisda papa 6.
Giustino imperadore 2.
Teoderico re 27 e 9.

Consoli

Flavio Giustino Augusto ed Eutarico.

Giustino Augusto, secondo il costume dei suoi predecessori, che procedevano consoli nel primo gennaio del loro imperio, prese il consolato anch'egli in Oriente per quest'anno. Suo collega in Occidente fu Eutarico, soprannominato Cillica, genero del re Teoderico, perchè marito d'Amalasunta di lui figliuola. Stabilì una buona concordia Teoderico col novello Augusto, e non poteva dargli più nobil collega che creando console chi era genero suo. In una lettera [Cassiod., lib. 7, epist. 1.], scritta da Atalarico re, figliuolo di esso Eutarico, all'imperadore Giustino, gli dice: Vos genitorem meum in Italia palmatae claritate decorastis. La toga dei consoli era appellata così per le palme che ricamate in essa si rimiravano. E di qui si raccoglie la dipendenza del re d'Italia dall'imperadore, perchè, sebbene il senato romano eleggeva quel console che più piaceva a Teoderico e ai suoi successori, tuttavia riconoscevano essi la conferma di quella dignità dagli imperadori d'Oriente. Ora noi abbiamo da Cassiodoro [Idem, in Chron.] che Eutarico nel fine dell'anno precedente s'era portato a Roma, per fare nel gennaio del presente la sua entrata da console, e fu accolto dal senato e popolo romano con gran magnificenza e plauso. Da esso Cassiodoro egli è appellato dominus noster: il che fa intendere che egli veniva riguardato come erede presunto della corona, e venerato come ne' precedenti secoli furono i Cesari creati dagli Augusti. Dalla [802] sopraccitata lettera di Atalarico a Giustino Augusto si raccoglie ancora che Eutarico era stato adottato per figliuolo da esso imperadore, non già con adozione legale, ma con quella onoraria che si praticava allora coll'armi. Volle il re Teoderico distinguere questo consolato dagli altri colla grandiosità degli spettacoli, celebrati d'ordine suo e a spese sue per più giorni in Roma: cioè negli anfiteatri battaglie di fiere, non mai più vedute in quella età, che Trasamondo re de' Vandali, amico e cognato di Teoderico, gli avea mandato dall'Africa. Furono eseguiti con sì superbo apparato e tale magnificenza sì fatti spettacoli, che ne stupì in fin Simmaco, legato dell'imperadore Giustino, che c'intervenne; nè si sa se maggior fosse l'ammirazione o il piacere del popolo romano. Di straordinarii regali parimente in tal occasione furono dispensati non meno ai Goti che ai Romani, e varie dignità si videro conferite nella curia. La mira di Teoderico con tante spese fu di affezionare i Romani al genero Eutarico, già destinato a succedergli nel regno. E ne ottenne lo intento, se crediamo a Cassiodoro; perciocchè i Romani fecero più istanze, acciocchè egli continuasse la sua dimora presso di loro; ma Eutarico se ne ritornò a Ravenna, dove si replicarono con tal pompa gli spettacoli, e tanti donativi si fecero ai Goti e Romani, che più splendide comparvero quelle feste, che le pria celebrate in Roma. Non si vuol però tacere quanto lasciò scritto l'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], con dire che Teoderico, avendo dato il consolato ad Eutarico, trionfò in Roma e in Ravenna; ma che Eutarico era uomo troppo aspro e nemico della religione cattolica. Un altro motivo di gran giubilo ebbe Roma in quest'anno, dacchè le lettere dell'imperador Giustino e di Giovanni cappadoce vescovo di Costantinopoli e di altri vescovi orientali, portarono sicurezze che seguirebbe la pace ed union delle [803] chiese. Però affrettossi papa Ormisda a spedire colà i suoi legati, cioè Germano vescovo (per quanto conghiettura il cardinal Baronio) di Capua e Giovanni vescovo, non si sa di qual chiesa, con Blando prete, Felice e Dioscoro diaconi. Compierono questi felicemente il viaggio e le commissioni loro, spezialmente aiutati e protetti, siccome scrive Teofane [Theoph., in Chronogr.], da Vitaliano conte, potentissimo allora presso l'imperadore. Oltre alla confermazione del concilio calcedonense, che era il punto principale, fu cancellato dai sacri dittici il nome d'Acacio: cosa anche essa che stava tanto a cuore alla sede apostolica. Lo stesso fu praticato pel nome d'altri che aveano comunicato con gli eretici; e massimamente per Zenone ed Anastasio Augusti, principi autori e fomentatori di tante turbolenze nella Chiesa di Dio. Cooperò ancora a questa santa opera Giustiniano nipote di Giustino Augusto, allora capitan delle guardie, e poscia successor nell'imperio, avendone scritto anche a lui papa Ormisda. Leggonsi con piacere presso il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] le relazioni e lettere di quanto occorse in sì lieta congiuntura.


   
Anno di Cristo DXX. Indizione XIII.
Ormisda papa 7.
Giustino imperadore 3.
Teoderico re 28 e 10.

Consoli

Vitaliano e Rustico o Rusticio.

Vitaliano fu console orientale, Rustico occidentale in quest'anno. Rusticio piuttosto che Rustico fu egli appellato, perchè tale si ritrova il suo cognome in un'antica iscrizione [Thesaur. Nov. Inscript., pag. 418.], e nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] e ne' Fasti [804] alessandrini [Fasti Alexandrini.]. Da Vittor Tunonense [Victor Turonensis, in Chron.] vien detto Rusticone. Quanto a Vitaliano, egli è lo stesso che abbiam veduto di sopra coll'armi in mano contra dell'imperadore Anastasio, figliuolo di Patricio, ossia Patriciolo, nipote d'Aspare e pronipote d'Ardaburio, personaggi famosi nella storia di questi tempi, siccome abbiam veduto di sopra. Era egli stato richiamato, siccome dicemmo, alla corte da Giustino Augusto, dichiarato generale delle milizie e promosso in quest'anno alla dignità del consolato, con sapersi inoltre che il suo credito e potere in corte, e la sua confidenza presso di Giustino davano negli occhi di ognuno. Ma cotanto innalzamento suo fu cagione della sua rovina, o pur egli fu esaltato per più facilmente rovinarlo. Abbiamo da Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] che nel mese settimo del suo consolato egli fu nel palazzo imperiale assalito, e con sedici ferite levato dal mondo, restando in tal occasione trucidati due suoi sergenti Celeriano e Paolo. La cagione della caduta di questo insigne personaggio viene attribuita da Evagrio [Evagr., lib. 4, cap. 3.] ad una perversa politica di Giustino Augusto, il quale, temendo ch'egli, per essere persona di tanta riputazione, potesse tentare delle novità simili alle precedenti, l'adescò con tanti onori, per fargli poi levare la vita. Probabilmente Evagrio prestò qui fede a Zacheria storico Eutichiano e pieno di mal talento contra di Giustino imperador cattolico. Crede il cardinal Baronio che Vitaliano, perchè favoriva i monaci sciti, passasse nel partito degli eretici, e che perciò Giustino il facesse ammazzare. Ma, siccome osservarono il cardinal Noris e il padre Pagi, Vitaliano fu sempre unitissimo colla Chiesa cattolica e nemico degli eretici. E se vogliamo poi credere a [805] Procopio [Procop., in Histor. Arcana, cap. 6.], Giustiniano, nipote di Giustino, quegli fu che con promessa d'impunità per le passate sedizioni, e con giuramenti di buona amistà, e con prenderlo per fratello, trasse Vitaliano alla corte, e poscia inspirati dei sospetti contra di lui all'augusto zio, il fece uccidere, forse dispiacendogli la troppa confidenza in lui posta da Giustino, e temendo d'averlo oppositore o concorrente nella succession dell'imperio. Comunque sia, Giustino non fece rumore nè risentimento alcuno per questo ammazzamento, o perchè si trattava di un suo nipote, o perchè era anch'egli complice del fatto; e Giustiniano crebbe maggiormente da lì innanzi in autorità e potenza. In una lettera di Possessore vescovo a papa Ormisda, scritta nell'anno presente, è parlato de' libri di Fausto Riense, e v'ha queste parole: Filii quoque vestri magistri militum Vitalianus, et Justinianus super hac re rescripto beatitudinis vestrae informari desiderant. Dal che si vede che Giustiniano, al pari di Vitaliano, era salito al posto di generale delle milizie; ma Vitaliano precedeva. Ancorchè fosse seguita la riunion delle chiese per opera del cattolico imperador Giustino e di Giovanni vescovo di Costantinopoli, che terminò i suoi giorni in quest'anno, con aver per successore Epifanio, tuttavia restavano alcune dispute di dottrina, per cagion di una proposizione celebre nella Storia ecclesiastica: De uno de Trinitate passo; nè erano d'accordo alcune chiese d'Oriente, specialmente quella di Costantinopoli, colla Sede apostolica intorno al levar dai dittici i nomi di alcuni vescovi, al tollerarvene degli altri. Fu sopra ciò tenuto un concilio in Costantinopoli, e dipoi spediti da esso concilio i legati a papa Ormisda. Lo stesso Giustino Augusto, anch'egli premuroso di veder estinte le differenze tutte intorno alla religione ed alla disciplina ecclesiastica, spedì al medesimo romano pontefice, Grato maestro dello scrigno per suo [806] ambasciatore, acciocchè seco trattasse dei correnti affari, riconoscendo anch'egli, non meno che i vescovi, il privilegio singolare dei successori di san Pietro, nel governo della Chiesa universale, e nelle decisioni intorno alla dottrina che han da seguitare i fedeli. Sopra questi punti ha da consultare il lettore la Storia ecclesiastica.


   
Anno di Cristo DXXI. Indizione XIV.
Ormisda papa 8.
Giustino imperadore 4.
Teoderico re 29 e 11.

Consoli

Flavio Giustiniano e Valerio.

In Oriente fu console Giustiniano; Valerio in Occidente. Era già divenuto Giustiniano l'arbitro dell'imperio di Oriente, sì per essere nipote dell'imperadore e considerato come suo successore, e sì ancora perchè Giustino Augusto, aggravato dagli anni, volentieri scaricava sopra le spalle del giovine nipote il peso del governo. Pertanto egli volle in quest'anno comparire onorato anche dell'illustre dignità del consolato; e per non essere da meno di Eutarico genero del re Teoderico, che sì splendida comparsa avea fatta in Roma, anch'egli fece così magnifiche feste in Costantinopoli, che, al dire di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], il suo consolato riuscì il più famoso di quanti vide mai l'Oriente. Imperciocchè spese dugento ottanta mila soldi (cioè monete d'oro quasi equivalenti allo scudo d'oro de' nostri tempi) in tanti donativi al popolo e in varii spettacoli di macchine. Nell'anfiteatro in un sol giorno fece far la caccia di venti lioni, di trenta pardi e d'altre fiere. Suntuosi furono i giuochi circensi, ne' quali nondimeno egli negò al pazzo popolo l'ultima mappa, cioè non volle mandare il segno del corso dei cavalli: e dopo aver bene regalato i carrettieri, liberamente ancora loro donò [807] assaissimi cavalli con tutte le lor bardature. Nel presente anno Ormisda, papa prudentissimo, veggendo le gravi difficoltà che s'incontravano tuttavia in Oriente per far levare dai sacri Dittici i nomi specialmente di alcuni già vescovi di Costantinopoli, tenuti dai Greci per uomini di santa vita e di credenza cattolica, saggiamente rimise l'affare ad Epifanio patriarca di Costantinopoli, con dichiararlo per tal funzione vicario della sedia apostolica. Terminò la sua vita in quest'anno Ennodio, vescovo di Pavia, celebre pei suoi scritti e per due ambascerie alla corte imperiale di Costantinopoli, come legato pontificio. Fu egli registrato nel ruolo de' santi: cosa non difficile ne' secoli d'allora.


   
Anno di Cristo DXXII. Indizione XV.
Ormisda papa 9.
Giustino imperadore 5.
Teoderico re 30 e 12.

Consoli

Simmaco e Boezio.

Siccome diligentemente osservò il padre Sirmondo, e dopo di lui il Pagi, con addurre un passo del libro secondo de Consolatione di Boezio, questi due consoli furono creati in Occidente, ed erano amendue figliuoli di Anicio Manlio Severino Boezio, rinomato scrittore di questi tempi. A Simmaco fu posto quel nome, ossia cognome, ossia soprannome dal lato della madre, figliuola di Simmaco, stato console nell'anno 483. Il secondo de' figliuoli ebbe il nome di Boezio, comune al padre, che fu console nell'anno 510, e all'avolo, probabilmente, stato console nell'anno 487. Io non vo' lasciar di accennare ciò che leggo in Agnello [Agnell., par. 1, tom. 2 Rer. Ital.], scrittore, benchè poco accurato, delle vite de' vescovi di Ravenna. Scrive egli nella vita confusa di san Giovanni Angelopte, che Teoderico nel trentesimo anno del suo regno mandò in Sicilia l'esercito di Ravenna, da cui fu [808] saccheggiata quell'isola e ridotta all'ubbidienza del medesimo re. Di questa notizia niun seme si truova in altre storie; e massimamente considerando che tanti anni prima la Sicilia venne in potere di Teoderico, pare che niun conto s'abbia a fare del racconto d'Agnello. Contuttociò egli può far dubitare che nel presente anno succedesse in Sicilia qualche ribellione, la quale obbligasse Teoderico ad inviare colà un'armata. Circa questi medesimi tempi sembra che succedesse un fatto, di cui tenne conto l'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.]; cioè che mentre il re Teoderico dimorava in Verona per sospetto di qualche movimento de' Barbari contra dell'Italia, accadde una gravissima contesa fra i Cristiani e i Giudei in Ravenna. Non se ne intende bene il motivo. Judaei, dic'egli, baptizatos nolentes dum livident, frequenter oblata in aquam fluminis jactaverunt. Pare che col nome di oblata voglia egli significare, aver essi Giudei più volte gittato nel fiume delle ostie o consacrate o da consacrarsi. Irritato da questo affronto, o sacrilegio, il popolo di Ravenna, senza riguardo alcuno al re, nè ad Eutarico che per lui risiedeva nella città, nè a Pietro vescovo, la cui età, se in ciò non erra l'Anonimo suddetto, vien troppo posticipata dagli scrittori ravennati, corsero alle sinagoghe, e tutte le bruciarono. Poco stettero i giudei a volare a Verona, per chieder giustizia al re, ed aiutati dal favore di Trivane mastro di camera di Teoderico, riportarono un ordine che tutto il popolo romano di Ravenna pagasse una contribuzione per rifabbricar le sinagoghe incendiate: e chi non pagasse, fosse pubblicamente frustato. L'ordine era indirizzato ad Eutarico e a Pietro vescovo, e bisognò eseguirlo. Da una lettera del medesimo re al senato di Roma [Cassiod., lib. 1, ep. 43.] intendiamo che anche in quella città da una sedizione popolare fu bruciata una sinagoga giudaica: del quale [809] misfatto comandò Teoderico che fossero puniti i principali autori. Anche allora si trovavano Ebrei dappertutto. Racconta sotto quest'anno Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] che Sigismondo re de' Borgognoni ingiustamente fece uccidere Segerico suo figliuolo. Quest'empio fatto vien parimente colle sue circostanze narrato da Gregorio Turonense [Gregor. Turonens., lib. 3, cap. 5 et 6.], con dire, che morta la prima moglie d'esso re Sigismondo, figliuola di Teoderico re d'Italia la quale gli avea partorito Segerico, ne prese un'altra; e questa, secondo il costume delle matrigne, cominciò a malignare contra del figliastro. Miratala un dì colle vesti di sua madre in dosso, Segerico si lasciò scappare di bocca che non era degna di portar quegli abiti, probabilmente perchè alzata da basso stato a quel di regina. Perciò inviperita la matrigna, tanto soffiò nelle orecchie del marito, con fargli credere nutrirsi da Segerico trame segrete di torgli il regno, che l'indusse a levarlo di vita. Ma non sì tosto fu eseguito l'empio consiglio, che Sigismondo se ne pentì, e detestò il suo fallo: dopo di che si ritirò al monistero Agaunense, dove per più giorni di pianti e digiuni, e con assistere alle sacre salmodie, si studiò di farne penitenza. Dio nulladimeno per questa iniquità il volle gastigato nel mondo di qua, siccome vedremo in riferire la di lui rovina.


   
Anno di Cristo DXXIII. Indizione I.
Giovanni papa 1.
Giustino imperadore 6.
Teoderico re 31 e 13.

Console

Flavio Anicio Massimo, senza collega.

Questo Massimo fu console d'Occidente, senza sapersi perchè niun console fosse creato in Oriente, o perchè non se ne faccia menzione ne' Fasti. Per solennizzare anch'egli il suo consolato, diede al popolo romano nell'anfiteatro la caccia [810] delle fiere; ma perchè negò poi sordidamente di rimunerare chi avea combattuto con esse fiere, fecero quei gladiatori ricorso al re Teoderico, e leggesi una lettera [Cassiod., lib. 5, ep. 42.] da lui scritta allo stesso Massimo, con ordinargli di soddisfare a que' tali che aveano esposta la loro vita a sì gravi pericoli per dar piacere al popolo romano. In essa Cassiodoro segretario descrive leggiadramente la forma delle cacce teatrali, con detestarle, perchè costavano d'ordinario la vita di molte persone: abuso che, vietato da tante leggi, fin allora non si era potuto estirpare, benchè tanto disdicevole a gente, da cui si professava la santa legge di Cristo. Arrivò al fine de' suoi giorni e delle sue fatiche in quest'anno papa Ormisda, pontefice santo e glorioso, per aver sostenuta con vigore la dottrina cattolica, riformato il clero, rimessa la pace e l'unione delle chiese in Oriente, cacciati di Roma i manichei, e lasciate in essa Roma illustri memorie della sua munificenza con vari ricchissimi doni fatti alle chiese, ed annoverati da Anastasio bibliotecario [Anastas. Biblioth., in Vit. Hormisdae.]. Abbiamo dal medesimo autore un'altra notizia, chiamata dal cardinal Baronio degna di meraviglia, trattandosi d'un principe ariano: cioè che il re Teoderico, vivente esso papa Ormisda, inviò in dono alla basilica vaticana due candellieri, ossieno ceroferarii d'argento che pesavano sessanta libbre. Anzi in varii testi d'esso Anastasio si legge, aver esso re, e non già papa Ormisda, ornato un trave della basilica vaticana tutto d'argento, pesante mille e quaranta libbre. Ma anche gli ariani professavano venerazione ai santi, e massimamente al principe degli Apostoli, e Teoderico non ignorava le maniere di cattivarsi l'animo de' Cattolici: così avesse egli continuato a praticarle nel restante del suo governo. Aggiugne Anastasio, che dall'Oriente vennero altri preziosi donativi mandati a san Pietro dal cattolico [811] imperadore Giustino. La morte del suddetto santo pontefice Ormisda accadde nel dì 6 di agosto, e nel dì 13 del medesimo mese fu eletto papa Giovanni di nazione toscana. In questo medesimo anno, e, per quanto si crede, a dì 24 di maggio, venne a morte [Victor Turonensis, in Chron.] Trasmondo re dei Vandali in Africa, fiero persecutore dei Cattolici, siccome accennammo di sopra; parve ch'egli per giusto giudizio di Dio morisse di dolore per una gran rotta data al di lui esercito da Cabaone pagano capo de' Mori presso di Tripoli. Procopio narra il fatto [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1.]. Mossero i Vandali contra di costui una bell'armata. Cabaone, avendo inteso a dire che il possente Dio de' Cristiani puniva chi non rispettava i sacri templi, e favoriva chi gli onorava, spedì segretamente alcuni dei suoi, con ordine di seguitare l'esercito nemico, e se i Vandali entravano coi cavalli nelle chiese, e le sporcassero, eglino dipoi le nettassero, ed onorassero i sacerdoti cristiani. Tanto appunto avvenne. Diedesi poi la battaglia, in cui pochi vinsero i molti, e una grande strage fu fatta della nazion vandalica. Ebbe Trasamondo per successore Ilderico, figliuolo di Unnerico re, e di Eudocia figliuola di Valentiniano III, imperadore. Tuttochè Ilderico fosse allevato nella setta ariana, pure nudriva in cuore dell'inclinazione verso i Cattolici: affetto a lui ispirato dalla madre cattolica. E se n'era ben accorto Trasamondo, zelantissimo dell'arianismo. Però, prima di morire, gli fece promettere con giuramento, divenuto che fosse re, di non riaprir le chiese de' Cattolici nè di ristituir loro i privilegii. Ma Ilderico dopo la morte di Trasamondo, prima di regnare, per non violare il giuramento, richiamò in Africa i vescovi esiliati, e fece aprir le chiese cattoliche, così lasciò scritto sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Vandal.]. Ma chi ordinò il riaprimento de' sacri templi e restituì la libertà ai vescovi, già comandava [812] e regnava. Non è improbabile che Ilderico si credesse disobbligato dalla osservanza di un giuramento illecito ed ingiusto in sè stesso. Mirabil perciò fu l'allegrezza de' popoli cattolici dell'Africa nel ricuperare dopo tanti anni le lor chiese; tanto più, perchè Ilderico si contentò che eleggessero il vescovo di Cartagine, e questi fu Bonifacio.

A questi tempi non senza ragione vien riferita una legge di Giustino Augusto [L. 12, C. de Haeretic. et Manich.] contra de' manichei, con vietare, sotto pena della vita, la loro permanenza nell'imperio. Agli altri poi, sieno pagani o eretici, vien proibito l'aver magistrati e dignità, siccome ancora luogo nella milizia, a riserva dei Goti e d'altri popoli collegati, che militavano in Oriente al soldo dell'imperio. Circa questi tempi ancora morì Eufemia imperadrice, moglie di Giustino Augusto; nè sussiste che egli passasse alle seconde nozze, come han creduto alcuni. Teodora, nominata in tal occasione da Cedreno [Cedrenus, in Annalib.], fu moglie di Giustiniano, e non di Giustino. La morte ingiustamente inferita al figliuolo Segerico da Sigismondo re de' Borgognoni, irritò altamente l'animo di Teoderico re d'Italia, perchè si trattava di un suo nipote, cioè d'un figliuolo di una sua figliuola. Accadde che nello stesso tempo Clodomiro, Clotario e Childeberto, tutti e tre figliuoli di Clodoveo, e cadauno re de' Franchi, erano incitati dalla madre, cioè da Clotilde vedova d'esso re Clodoveo contra del suddetto re Sigismondo, acciocchè vendicassero la morte data a Chilperico suo padre e a sua madre ancora, da Gundobado padre di Sigismondo. Probabilmente quella pia principessa altro non intese che di ottener colla forza quella porzione di stati ch'ella pretendeva dovuti a sè nell'eredità del padre, giacchè da Gundobado suo zio non l'avea potuta aver per amore. Ossia dunque che i Franchi, consapevole della collera di [813] Teoderico, il movessero ad entrar con loro in lega contra di Sigismondo; ossia che Teoderico ne facesse la proposizione ai Franchi stessi, certo è ch'essi si collegarono insieme per far guerra ai Borgognoni. Ed allora succedette veramente ciò che Procopio lasciò scritto [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.], e che, siccome fu avvertito di sopra, il padre Daniello riferì fuori di sito nella storia de' Franzesi all'anno 501: cioè avere bensì Teoderico inviato l'esercito suo verso l'Alpi, ma con ordine di andare temporeggiando nel passaggio per vedere che andamento prendeva la guerra tra i Franchi e i Borgognoni. Sigismondo se ne fuggì in un eremo, e poscia incognito al monistero Agaunense, ossia di san Maurizio, dove dicono ch'egli prendesse l'abito monastico. Perciò non durarono fatica i Franchi ad impadronirsi di quasi tutto il regno allora ben vasto della Borgogna. E il generale del re Teoderico, appena udita la nuova della sconfitta de' Borgognoni, valicò frettolosamente le Alpi, e, secondo i patti, entrò in possesso di un buon tratto di paese che abbracciava le città di Apt, di Genevra, di Avignone, Carpentras ed altre. Il racconto di Procopio vien confermato da una lettera del re Atalarico al senato di Roma [Cassiodor., lib. 8, ep. 10.] in occasione di crear patrizio Tulo suo parente, che fu generale di Teoderico nella spedizione suddetta. Mittitur, dic'egli, Franco et Burgundo decertantibus, rursus ad Gallias tuendas, ne quid adversa manus praesumeret, quod noster exercitus impensis laboribus vindicasset. Adquisivit reipublicae romanae, aliis contendentibus, absque ulla fatigatione provinciam, et factum est quietum commodum nostrum, ubi non habuimus bellica contentione periculum. Triumphus sine pugna, sine labore palma, sine caede victoria.


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Anno di Cristo DXXIV. Indizione II.
Giovanni papa 2.
Giustino imperadore 7.
Teoderico re 32 e 14.

Consoli

Flavio Giustino Augusto per la seconda volta ed Opilione.

Appartiene all'Occidente questo console Opilione, e vien da alcuni, ma con poco fondamento, creduto quello stesso che, secondo Cassiodoro, [Cassiod., lib. 8, ep. 16.], fu creato conte delle sacre largizioni, ossia tesoriere del re Atalarico. Perchè neppure in questi tempi si truovi un console orientale, non se ne sa intendere la cagione. In quest'anno si cominciò a sconcertare l'animo del re Teoderico: e quel principe che finora mercè del suo saggio e giustissimo governo, e di una mirabil pace che faceva godere all'Italia e agli altri suoi popoli, e del rispetto che portava alla religion cattolica e a' sacri suoi ministri, s'era acquistata gloria non inferiore a quella de' più rinomati imperadori, di maniera che può anche oggidì servire di norma ai regnanti: questo principe, dissi, mutò affatto contegno, e passò ad azioni che denigrarono gli ultimi giorni della sua vita, e renderono odioso il suo nome, non meno allora che dipoi in Italia. Vedemmo nel precedente anno pubblicato dal cattolico imperadore Giustino un editto contra degli eretici, in cui furono bensì eccettuati i Goti, ma quei solamente ch'erano in Oriente, e non già quei che appartenevano all'Italia sotto il re Teoderico. Furono perciò tolte le chiese nell'imperio orientale a molti ariani; ed altri, per non perdere le dignità e per seguitare nella milizia, abbracciarono la religione cattolica. Nel loro errore stettero saldi infiniti altri, ma con gravi lamenti sì per la pena a cui erano sottoposti, e sì per la perdita delle chiese. Verisimil cosa è che costoro ne portassero le doglianze al re [815] Teoderico, seguace anch'esso costantissimo della setta ariana; con restar inoltre Teoderico non poco amareggiato, perchè laddove egli lasciava in Italia e negli altri suoi regni goder tanta quiete e libertà ai cattolici, Giustino Augusto trattasse poi con tale severità gli ariani. C'è inoltre motivo di credere ch'esso o per la stessa cagione, o per altri accidenti, cominciasse a dubitar della fedeltà dei Romani, con sospettare intelligenze di loro colla corte di Costantinopoli, quasichè abborrissero un principe ariano ed aspirassero alla libertà. Fors'anche Giustiniano, che allora, benchè non imperadore, amministrava gli affari dell'imperio, e già nudriva delle vaste idee, si lasciò scappar di bocca qualche parola contro chi possedeva sì bella parte dello stesso imperio, cioè l'Italia: che risaputa da Teoderico, accrebbe in lui il mal talento e i sospetti. Comunque passassero tali faccende, basti a noi di sapere, per attestato dell'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.], che trovandosi Teoderico in Verona, fece distruggere un oratorio di santo Stefano, posto fuori d'una porta di quella città: il che vien raccontato da esso Anonimo, come segno che veniva a scoprire il mal animo di Teoderico contra de' Cattolici, ma che verisimilmente fu fatto per solo riflesso alla fortificazione di quella città. Quindi comandò Teoderico che niuno de' Romani potesse tener armi e neppure un coltello, indizio certo di sospetti intorno alla loro fedeltà. Ma colui che maggiormente accese questo fuoco, fu Cipriano referendario, il qual poi per ricompensa delle sue iniquità passò al grado di tesoriere e di generale d'armata. Accusò egli Albino patrizio, stato console nell'anno 495, con imputargli d'avere scritto lettere a Giustino imperadore contra di Teoderico. Negò egli il fatto, ed apposta, per difendere la di lui innocenza, si portò da Roma a Verona anche Severino Boezio [816] patrizio, già stato console, ch'era allora il più riguardevol mobile del senato romano. Ma che? Cipriano rivolse l'accusa contra dello stesso Boezio, e si trovarono tre inique persone che servirono di testimoni e di accusatori contra di lui, cioè Basilio, che cacciato dianzi di corte, era indebitato fino alla gola, Opilione, diverso dal console dell'anno presente, per quanto si può conghietturare, e Gaudenzio, i quali ultimi due banditi per innumerabili loro frodi, erano allora rifugiati in chiesa. L'accusa fu, secondo che scrive lo stesso Boezio [Boetius, de Consolatione, lib. 1.], de compositis false literis, quibus libertatem arguor sperasse romanam. Era innocente di questo reato Boezio: contuttociò portata l'accusa in senato, senza che alcuno osasse d'opporsi, fu proferita contra di lui sentenza di morte, la quale fu da Teoderico permutata in esilio. Hanno alcuni creduto con lievi conghietture che il luogo dell'esilio fosse Pavia, dove in una picciola casa, o pure in una prigione egli fosse detenuto, senza libri, senza poter parlare con amici o parenti. L'Anonimo Valesiano scrive essere egli stato imprigionato, o tenuto sotto buona guardia in Calvenzano, in agro calventiano, cioè in un luogo del territorio di Milano, poco distante da Melegnano. Quivi Boezio compose il nobil suo trattato della Consolazione della Filosofia. Ma perciocchè di grandi rumori e dicerie doveano correre per l'oppressione di questo insigne personaggio romano, il re crudele finalmente comandò che gli fosse levata la vita, e l'ordine fu eseguito. Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] lasciò scritto che nel corrente anno Boezio patrizio fu ucciso nel territorio di Milano. Potrebbe nondimeno essere che all'anno seguente appartenesse la di lui morte, e che Mario confondesse la sentenza dell'esilio con quella della morte; essendo certo che Boezio restò nella prigionia il tempo da comporre il libro suddetto. Ebbe [817] per moglie Rusticiana figliuola di Simmaco patrizio (e non già un'altra moglie chiamata Elpe), che gli generò due figliuoli da noi veduti consoli nell'anno 522, donna di rare virtù, che visse molti anni dipoi.

In questo medesimo anno essendo tornato a Ravenna il re Teoderico, secondochè abbiamo dall'Anonimo Valesiano, colà fece chiamare Giovanni papa, e gl'intimò d'andare a Costantinopoli, per indurre Giustino imperadore a far tornare all'arianismo coloro che l'avevano abiurato, supponendoli indotti a ciò dalla forza e dalle minaccie. Anastasio bibliotecario [Anastas. Biblioth., in Vita Johannis I.] solamente scrive che fu inviato per ottenere la restituzion delle chiese agli ariani: altrimenti Teoderico minacciava lo sterminio de' cattolici in Italia. Altrettanto scrive l'autor della Miscella [Hist. Miscell., lib. 15.]. Andò papa Giovanni, seco conducendo altri vescovi, cioè Ecclesio di Ravenna, Eusebio di Fano, Sabino di Capoa (non conosciuto dall'Ughelli nell'Italia sacra) e due altri parimente vescovi, ed inoltre Teodoro, Importuno ed Agapito, tutti e tre stati consoli, e un altro Agapito patrizio. Tradito dai suoi medesimi Borgognoni Sigismondo re di essi, ma che s'era ritirato nel monistero di San Maurizio [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 6.], fu dato nelle mani colla moglie e coi figliuoli a Clodomiro, uno dei re Franchi, e posto prigione in Orleans. Intanto Godemaro, fratello di esso Sigismondo, ripigliate le forze, e raunato un buon esercito di Borgognoni, ricuperò la maggior parte delle città e terre occupate dai Franchi: il che non potendo digerire Clodomiro, uscì di nuovo in campagna con una forte armata in compagnia di Teoderico re suo fratello, per assalir di nuovo il regno della Borgogna. Ma prima di cimentarsi, barbaramente fece levar la vita a Sigismondo, alla moglie e ai figliuoli, e gittare i lor cadaveri in un pozzo, non ostante la [818] predizione fatta da Avito abate di Micy, che se egli commetteva questa iniquità, Dio gli renderebbe la pariglia. Fu dipoi dai monaci agaunensi e dai popoli posto Sigismondo nel catalogo de' santi, quasi che fosse, non solo penitente, ma martire; siccome ancora da altri il poco fa mentovato Severino Boezio tenuto fu per santo, e registrato fra i martiri, con quella facilità che disopra accennammo praticata allora di dare il titolo di santo a chi abbondava di virtù, siccome certo abbondarono non meno il re Sigismondo che Boezio. Restò poi ucciso in una battaglia il re Clodomiro; rimase ancora sconfitto Godemaro, e tornò la Borgogna in potere dei Franchi, a' quali fu poi ritolta da esso Godemaro. Ma Teoderico re d'Italia tenne ben forte le conquiste da lui fatte nella Gallia. Ed in quest'anno appunto nella città di Arles a lui sottoposta, san Cesario vescovo celebrò un concilio, ch'è il quarto tenuto in quella città; e v'intervennero sedici vescovi, tutti compresi nella giurisdizione di esso re Teoderico.


   
Anno di Cristo DXXV. Indizione III.
Giovanni papa 3.
Giustino imperadore 8.
Teoderico re 33 e 15.

Consoli

Flavio Teodoro Filosseno ed Anicio Probo juniore.

Il primo di questi consoli fu creato in Oriente; Probo in Occidente. In alcune iscrizioni, che tutte si debbono riferire al presente anno, egli è chiamato Probo juniore, e ne inferisce il padre Pagi esser egli stato della famiglia stessa di Probo, che fu console nell'anno 513. Se fosse differita fino al presente anno la morte del celebre Boezio è scuro tuttavia. Sappiamo bensì da Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] che Simmaco patrizio, suocero d'esso Boezio, già stato console, ed uno [819] de' più illustri senatori di Roma, venerato da tutti per la nobiltà, pel sapere e per le virtù sue, fu anch'egli fatto morire dal re Teoderico. L'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.] ci fa sapere, che siccome una iniquità facilmente ne tira seco delle altre, così Teoderico, temendo che Simmaco, persona di tanto credito in Roma, per dolore della morte del genero, potesse tramar qualche trattato contra del suo regno, fattolo condurre a Ravenna, sotto colore di varii finti reati il privò di vita: con che maggiormente divenne presso i cattolici, e soprattutto presso i Romani, abbominevole il nome d'esso Teoderico. Ma qui non finì la di lui crudeltà. Narra Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec., in Johanne I.], che giunto papa Giovanni presso Costantinopoli, uscì incontro a lui tutta la città dodici miglia fuori della porta colle croci e coi doppieri, festeggiando tutti per la consolazione di mirare in quelle contrade un pontefice romano: cosa non mai più veduta ne' secoli antecedenti. L'imperadore stesso, inginocchiato ai suoi piedi, gli prestò quell'onore che si conviene ai vicarii di Gesù Cristo. Pare che qualche differenza insorgesse per la mano con Epifanio patriarca di Costantinopoli, giacchè ogni di più cresceva la superbia de' vescovi di quella città. Ma Giovanni papa avendo sostenuto con vigore il primato dovuto alla sua sedia, per attestazione di Teofane [Theoph., in Chronogr.], ottenne il primo luogo sopra quel patriarca. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] anch'egli scrive ch'esso papa fu accolto con sommo onore in Costantinopoli, ebbe il primo posto nella chiesa, e celebrò la Pasqua con sonora voce, e secondo i riti e la lingua romana in quella capitale. Sbrigate poi le sue faccende, ed ottenuto quanto voleva dall'imperadore Giustino, se ne tornò egli in Italia, seco portando ricchi doni, mandati da esso Augusto alle [820] chiese di Roma; e presentossi in Ravenna al re Teoderico. Credevasi da ognuno che fosse terminata la tragedia, perchè papa Giovanni avea impetrato da Giustino Augusto che si lasciassero in pace gli ariani, e che loro fossero restituite le chiese; giacchè fu necessario l'accomodarsi a tale spediente per placare l'ariano Teoderico, da cui veniva minacciato un egual trattamento ai cattolici, ed anche la morte ai vescovi e preti. Ciò non ostante, più che mai inferocito Teoderico, fece imprigionare il papa e i senatori con esso lui ritornati. Pretende il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] che non sussista quanto gli antichi scrittori raccontano intorno all'aver papa Giovanni promossa in Oriente ed impetrata la pace degli ariani colla restituzion delle loro chiese; e che per questo egli fosse cacciato in prigione da Teoderico. All'incontro è di parere il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che, narrando non meno Anastasio bibliotecario, che l'autore della Miscella [Histor. Miscella, lib. 15.] e l'autore antichissimo della Cronica de' papi, pubblicata nel Propileo del padre Enschenio [Chronicon Pontific. apud Henschen., in Propileo.], la pace e restituzion suddetta, non s'abbia essa da mettere in dubbio; e massimamente essendo fattura d'Isidoro mercatore una lettera attribuita ad esso papa, su cui principalmente s'appoggia il Baronio. Deduce poi il Pagi la collera di Teoderico dal non avere papa Giovanni ottenuto del pari che fossero restituiti all'arianismo coloro che aveano abbracciata la fede cattolica; cosa che veramente non era lecito al papa di chiedere. Lasciò in oltre scritto il suddetto autore della Miscella, aver Teoderico avuto a male che tanti onori fossero stati compartiti in Oriente al papa, quasi che questi fossero indizii di secrete leghe fra i Romani e Greci in pregiudizio del suo stato. Ma non è improbabile [821] l'opinion del Baronio, perchè vedremo nell'anno susseguente che Teoderico avea già risoluto di levar le chiese ai cattolici e di consegnarle agli ariani: il che c'induce a credere non essersi mutato registro per conto degli ariani nell'imperio orientale. In Cartagine da Bonifazio vescovo di quella città fu celebrato un concilio di molti vescovi con giubilo di tutti i cattolici, i quali per la benignità del re Ilderico aveano ricuperata la loro libertà.


   
Anno di Cristo DXXVI. Indizione IV.
Felice IV papa 1.
Giustino imperadore 9.
Atalarico re 1.

Console

Olibrio senza collega.

Teofane [Theoph., in Chronogr.] abbastanza ci fa conoscere che questo console fu creato in Occidente. Perchè in questi tempi era cessata la buona armonia fra Giustino Augusto e il re Teoderico, perciò non si dovette creare o mentovare in Italia console alcuno in Oriente. Era Olibrio della famiglia Anicia, nè in alcuno dei Fasti o de' monumenti antichi egli è chiamato juniore, come han voluto chiamarlo il Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] e il Relando [Reland., in Fast.]. Fra i patimenti e le miserie della prigione mancò di vita in quest'anno nella città di Ravenna papa Giovanni, credesi nel dì 18 di maggio. Anastasio bibliotecario [Anast. Biblioth., in Johanne I.] scrive che il sacro suo corpo fu trasferito a Roma, e posto nella basilica di san Pietro. Egli merita più fede che Agnello [Agnell., in Vit. Episcopor. Ravenn., Part. 1, tom. 2 Rer. Ital.], il quale cel rappresenta seppellito a Ravenna in un'arca di marmo. Meritò questo pontefice d'esser annoverato fra i martiri della Chiesa di Dio. Ma l'empio Teoderico, non più quello che sì saggiamente e pacificamente aveva in addietro [822] governato il regno d'Italia, divenuto ormai odioso presso tutti i buoni a cagion di tali crudeltà, tardò pochi mesi a provar l'ira e i gastighi di Dio. Per quanto scrive l'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], e lo conferma anche Agnello, egli era dietro a cacciar dalle loro chiese i sacerdoti cattolici, per darle agli ariani; e già Simmaco scolastico (cioè uomo eloquente ed avvocato) giudeo, a dì 26 di agosto ne avea steso il decreto, da eseguirsi nel dì 30 d'esso mese. Ma colto Teoderico da un flusso micidiale di ventre, in termine di tre giorni, e nel dì stesso destinato all'occupazion delle chiese cattoliche, perdè la vita e il regno. Fama correva, per quanto abbiam da Procopio [Procop., de Bell. Goth.], che portatogli in tavola il capo di un pesce di non ordinaria grandezza, gli parve di mirar quella di Simmaco ucciso, che coi denti e con gli occhi torvi il minacciasse. A questo fantasma tenne dietro la febbre, durante la quale, detestando il misfatto commesso nella morte d'esso Simmaco e di Boezio, senza aver dato tempo da esaminare, se erano innocenti o rei, finalmente se ne morì. Principe, che, qualora avesse saputo guardarsi da questi ultimi eccessi, avrebbe, tuttochè Barbaro di nazione, ed eretico ariano di credenza, uguagliato colle sue azioni e virtù politiche la gloria de' più accreditati re ed imperadori. Aveva esso Teoderico in sua vita preparato in Ravenna il suo sepolcro tutto di marmo, opera di maravigliosa grandezza (dice l'Anonimo Valesiano), con avere cercato una pietra di straordinaria mole che lo coprisse. Agnello scrive ch'egli fu seppellito in un mausoleo fatto da lui fabbricare fuori della porta di Artemetore, e chiamato a' suoi dì (cioè circa l'anno 830) il Faro, dov'era il monistero di Santa Maria, soprannominato alla memoria del re Teoderico. Ma stimava esso Agnello, ed è ben verisimile, trattandosi di un eretico, che l'ossa di lui fossero [823] state cacciate fuori del sepolcro, perchè si vedeva davanti alla porte del monistero la maravigliosa urna di porfido, in cui esse una volta erano state riposte. Aggiugne inoltre, che nel palazzo da lui fabbricato in Pavia si mirava l'immagine del medesimo Teoderico a cavallo, composta di musaico. Una somigliante, anch'essa di musaico, esisteva nel palazzo edificato da lui in Ravenna, in cui esso re veniva rappresentato coll'armatura in dosso, con una lancia nella destra, lo scudo nella sinistra. In vicinanza stava in piedi Roma colla celata in capo e un'asta in mano; e dall'altra parte Ravenna, che teneva il piè destro sopra il mare e il sinistro sopra la terra, in atto di andare verso il re. Per alcuni secoli si mirò ancora in Ravenna una colonna a guisa di piramide quadrangolare, sopra cui era la statua di Teoderico a cavallo tutta di bronzo indorato, con lo scudo nel braccio sinistro e colla lancia nella mano destra. Correa nondimeno voce che tale statua fosse stata fatta in onore di Zenone imperadore, e che Teoderico vi avesse fatto mettere il suo nome. Ma (seguita a dire Agnello) trentotto anni sono che Carlo re de' Franchi essendo stato coronato imperadore da Leone III papa, nel tornare ch'egli faceva in Francia, passò per Ravenna, e cadutagli sotto gli occhi sì bella statua, una simile a cui in vaghezza confessò di non averne mai veduta, fattala portare in Francia, la ripose in Aquisgrana. Altre fabbriche e memorie lasciate dal re Teoderico o per ornamento o per difesa della città, ovvero per utilità del pubblico, si possono raccogliere dalle lettere di Cassiodoro.

Giacchè Eutarico, marito di Amalasunta sua figliuola, preso da lui per figliuolo e destinato ad essergli successore nel regno, era premorto a Teoderico, secondochè abbiamo da Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 59.], prima di morire dichiarò suo [824] erede Atalarico, nato da essa Amalasunta, con fargli prestare il giuramento dai magnati della corte e dagli uffiziali della milizia. Ad essi poi rivolto, raccomandò loro di onorare il re novello suo nipote, di amare il senato e popolo romano, e di studiare, per quanto poteano, di placare e di avere per amico l'imperadore d'Oriente: consiglio ben osservato da Atalarico e da sua madre, in guisa che, durante lo spazio di otto anni che esso re tenne il regno, goderono essi e l'Italia un'invidiabil pace. Aveva il re Teoderico, finchè visse, governato dispoticamente anche la parte della Gallia, che egli avea conquistata, siccome ancora tutte quelle provincie della Spagna che erano state sotto il dominio di Alarico ultimo re dei Visigoti. Mandava colà i suoi uffiziali e soldati, per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 12.], ed esigeva i tributi. Ma per far conoscere ai Visigoti come non per interesse egli signoreggiava sopra di essi, impiegava poi tutti i tributi in tanti donativi ch'egli annualmente faceva, non meno alle milizie de' suoi Ostrogoti, da lui mantenuti in quelle parti, che a quelle de' Visigoti stessi; di maniera che sotto di lui stette sempre quieto e contento l'uno e l'altro popolo in quelle parti, e per varii matrimonii maggiormente coloro si unirono insieme d'affetto. Intanto era allevato in Ispagna il fanciullo Amalarico figliuolo del suddetto re Alarico e di una figliuola di Teoderico; ed avendo esso re Teoderico inviato colà Teode di nazione Ostrogoto per generale delle sue truppe, il dichiarò anche tutore del medesimo Amalarico suo nipote. Costui col tempo prese per moglie, non già una donna di nazione gota, ma bensì una spagnuola, ricchissima di roba e di stabili nel suo paese; col quale aiuto egli incominciò a tenere al suo soldo e per sua guardia duemila soldati, e a farla piuttosto da re che da ministro. Il saggio re Teoderico, ben considerando gli [825] andamenti di costui, avrebbe volentieri adoperata la forza per metterlo in dovere; ma per timore che i Visigoti facessero delle novità, e che i Franchi profittassero di quella divisione, andava dissimulando tutto, e solamente s'appoggiò al partito di far suggerire destramente a Teode, che sarebbe stato di profitto per lui e di gran piacere al re Teoderico, s'egli passasse a Ravenna per salutare esso re. L'accorto Teode continuò bensì ad eseguire puntualmente gli altri ordini che venivano da Teoderico, nè mai tralasciò di pagargli i tributi annuali; ma non s'indusse giammai ad intraprender un sì lungo viaggio. Ora Teoderico, veggendosi vicino alla morte, dichiarò suo successore in Ispagna, ma non già nella Gallia, il nipote Amalarico, il quale cominciò in quest'anno a contar gli anni del suo regno fra i Visigoti. Sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Goth.] scrive che Teoderico tenne per anni quindici il regno di Spagna, quod superstiti Amalarico nepoti suo reliquit. Però le note cronologiche del concilio secondo di Toledo [Aguirre, Concilior. Hispan., tom. 2, pag. 265.], che si dice tenuto anno V regni domini nostri Amalarici regis, aera DLXV, cioè nell'anno seguente 527, giustamente si possono credere corrotte, e doversi ivi iscrivere anno I, o pure aera DLXXI. Succedette in questo anno uno de' più terribili tremuoti che mai si udisse, perchè continuato per molti mesi, per le cui scosse restò atterrata quasi tutta la città nobilissima di Antiochia, la quale dinanzi ancora avea patito dei fierissimi continuati incendii. Fra innumerabili altri restò sotto le rovine oppresso Eufrasio patriarca di quella città, ch'ebbe poi per successore Efrem. Il piissimo imperador Giustino, per attestato di Teofane [Theoph., in Chron.], udite queste nuove, deposta la porpora e il diadema, passò alcuni giorni col cilicio in lutto e in gemiti, e da buon principe spedì tosto uffiziali [826] con immense somme d'oro per salvare chi restava in vita, e per rimettere in piedi la smantellata città. Portata intanto a Roma la nuova della morte di Giovanni papa, radunossi il clero per eleggere il successore; ma insorsero dissensioni tra gli elettori: accidente non forestiere in somiglianti occasioni. Era tuttavia vivo il re Teoderico; e, ossia che egli volesse prevenire un nuovo scisma, o pure, come pensa il cardinal Baronio, che egli intendesse d'ingerirsi, come avea anche preteso il re Odoacre, nell'elezione de' romani pontefici, scrisse al senato di Roma con proporre per papa Felice figliuolo di Castorio, persona di sperimentata virtù. Venne in questo mentre a morte Teoderico, e ciò non ostante eletto dal clero e dal popolo il suddetto Felice, quietamente fu consecrato; e leggesi una lettera del re Atalarico al senato romano [Cassiod., lib. 8, ep. 15.], in cui si congratula, perchè nell'elezion del pontefice si sieno conformati all'intenzion dell'avolo suo, tutta rivolta al pubblico bene, con aver proposto un personaggio degno del sommo sacerdozio. Si lamenta, e con ragione, il cardinal Baronio di quest'atto di Teoderico, perchè servì di esempio agl'imperadori greci, franchi e tedeschi, per pretendere di aver mano nell'elezione dei sommi pontefici, stata in addietro sempre libera, anche sotto gli Augusti pagani. E tanto più se ne dovea dolere, perchè dalla lettera di Atalarico abbastanza si ricava che l'atto di Teoderico ariano fu un comandamento, e ch'egli volle essere ubbidito: usurpazione senza fallo dei diritti della Chiesa di Dio, che nondimeno passò in uso od abuso presso dei susseguenti imperadori, benchè cattolici. Era, siccome è detto di sopra, il nuovo re Atalarico fanciullo, appena giunto all'età di dieci anni: però assunse il governo del regno Amalasunta sua madre, donna di molto senno, con tenere anche essa per suo secretario Cassiodoro, personaggio riguardevolissimo di que' tempi, [827] e con pubblicar tutti gli editti, e fare ogni altra risoluzione sotto nome del medesimo Atalarico. Le prime funzioni furono di significare al senato e popolo di Roma, ai Romani e Goti abitanti in Italia e nella Dalmazia, a Liberio prefetto delle Gallie ed ai popoli d'esse Gallie, l'elezion sua in re, fatta dal re suo avolo, ed approvato di comune consentimento non men dai Romani che dai Goti esistenti in Ravenna. Di ciò fan fede varie lettere di Cassiodoro [Cassiod., lib. 8, epist. 2, 3 et seq.]. Ma quel che più importa, Atalarico non fu pigro a spedire ambasciatori e a notificare l'assunzione sua al trono all'imperadore di Oriente. Sopra di ciò è da vedere un'altra lettera del mentovato Cassiodoro [Idem, ibid., ep. 1.], indirizzata a Giustiniano imperadore. Ma quivi, secondochè osservò l'Alamanni [Alamannus, in Notis ad Histor. Arcan. Procopii.] è da scrivere Giustino imperadore, perchè questi sopravvivendo molti mesi a Teoderico, solamente morì nell'anno seguente, ed in essa è chiamato princeps longaevus: il che non può convenire a Giustiniano, ed oltre a ciò Atalarico esprime primordia nostra. Apparisce dalla medesima lettera che Giustino Augusto era in collera contra del re Teoderico, e minacciava di fargli guerra, verisimilmente per le crudeltà da lui esercitate contro di papa Giovanni e contra di Boezio, Simmaco ed altri senatori romani, col pretesto di segrete intelligenze con esso Giustino. Però Atalarico si raccomanda per aver pace ed amicizia con lui, con que' patti e con quelle condizioni che l'avolo suo aveva ottenuto dai predecessori di Giustino: fra le quali possiamo credere che si comprendesse il riconoscere la sovranità degl'imperadori sopra il regno d'Italia. Fece buon effetto questa supplichevol lettera di Atalarico, perchè, finchè egli visse, non ebbe molestia nè da Giustino nè da Giustiniano suo successore. Fiorì circa questi tempi [828] Dionisio esiguo, ossia picciolo, Scita di nazione, e monaco dottissimo nelle lingue latina e greca. Fu condiscepolo di Cassiodoro, e però sembra che abitasse in Roma. Le opere da lui scritte si trovano registrate dagli scrittori della storia letteraria ecclesiastica.


   
Anno di Cristo DXXVII. Indizione V.
Felice IV papa 2.
Giustiniano imperadore 1.
Atalarico re 2.

Console

Vezio Agorio Basilio Mavorzio senza collega.

Fu console creato in Occidente questo Mavorzio, i cui nomi e cognomi si leggono negli antichi testi di Orazio poeta, emendati e riveduti da lui con altri codici più antichi, a lui somministrati da Felice oratore romano. L'iscrizione fatta da esso Mavorzio si legge nella prefazione del Bentleio all'edizione di Orazio, ed anche ne' Fasti del Relando. Console non fu creato in Oriente, o questo è taciuto ne' Fasti, perchè non doveano per anche essere composte le differenze insorte fra le due corti. Probabilmente in quest'anno Amalasunta madre e tutrice del re Atalarico stabilì un aggiustamento con Amalarico re dei Visigoti, di cui ci lasciò la notizia Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 13.]. Pretendeva Amalarico tutto il tratto di paese che Alarico re avolo suo aveva goduto nelle Gallie, cominciando dai confini dell'Italia. Si venne ad una convenzione, e ad Atalarico re d'Italia toccò tutta la Provenza col resto del paese conquistato fino al fiume Rodano. Ad Amalarico fu ceduto quanto di là dal Rodano andava ad unirsi col regno de' Visigoti in Ispagna. Per attestato del medesimo storico [Idem, ibid., cap. 2.], seguitava a governare il regno Amalasunta, donna dotata di gran prudenza, zelante della giustizia, e provveduta d'animo più che virile. Restituì essa [829] ai figliuoli di Simmaco e di Boezio i beni paterni già confiscati, e si andava guadagnando l'amor di ciascuno colla clemenza e col guardarsi, per quanto poteva, dal gastigare nella vita e nella roba i suoi sudditi. Da lei era allevato il figliuolo alla maniera romana, facendolo anche andare alla scuola per istudiar le arti liberali. Deputò essa al di lui governo de' più assennati della sua nazione. Avvenne, che trovatolo un dì in fatto nella camera, gli diede uno schiaffo, per cui egli piangendo scappò via. I Goti, ciò saputo, se n'alterarono forte, e dissero villanie contra d'Amalasunta, quasi ch'ella volesse far crepare d'affanni il figliuolo, per poi rimaritarsi e comandare a bacchetta. Però un giorno i primati dei Goti andarono a trovarla per dirle che lor non piaceva la maniera da lei tenuta nell'educazion del figliuolo. Essere lo studio delle lettere nemico dell'armi, perchè ispirava della viltà e timidezza. Aver essi bisogno di un re non letterato, ma guerriero ed avvezzo all'armi militari. Che Teoderico neppur sapea leggere o scrivere il suo nome, e pure avea fatto tremare tanti popoli, fatte tante conquiste, nè avea egli mai permesso che i Goti andassero alla scuola, con dire che non avrebbero maneggiata asta e spada con animo intrepido coloro che si fossero accostumati ad aver paura della sferza. Però non voler essi tanti pedanti per suo figliuolo; ma ch'ella scegliesse de' giovani di età uguale, che convenissero con esso lui, ed egli attendesse secondo i costumi della nazione, ad imparar la maniera di regnare. Benchè ad Amalasunta dispiacesse una sì fatta pretensione, pure, temendo delle novità, mostrò d'aver cari i loro consigli, e fece quanto desideravano. Di qui venne poi la rovina di Atalarico.

In Oriente si sentiva già l'imperadore Giustino pesar gli anni addosso, e trovavasi malconcio di sanità, a cagione di un'ulcera in un piede, fatta molti anni prima da colpo di saetta in una [830] battaglia [Theoph., in Chronogr. Marcell. Comes, in Chron. Alexandr.]. Però pensò a dichiarare il suo successore; e questi fu Giustiniano, figliuolo di Vigilanzia sua sorella, che pria godeva il titolo di nobilissimo, ed era pervenuto all'età di circa quarantatrè anni. Nel dì 4 d'aprile di quest'anno il fece coronar imperadore e il prese per suo collega. Se vogliam credere a Procopio [Procop., in Histor. Arcana, cap. 9.], scrittore sospetto in ciò che riguarda Giustiniano, il senato e popolo di Costantinopoli mal volentieri, e solamente per paura, acconsentì a questa elezione, conoscendo assai che Giustiniano abbondava più di vizii che di virtù. Zonara [Zonar., in Annal.], per lo contrario, scrive che il senato stesso fece più istanze a Giustino perchè gli desse la porpora. Dopo questa funzione passarono appena quattro mesi, che Giustino aggravato dalla malattia terminò i suoi giorni: principe per la sua moderazione e pel suo zelo in favore della religion cattolica degno di vita più lunga. Pertanto venne Giustiniano Augusto a restar solo nel governo de' popoli, ch'egli assunse con gran vigore. Non era già egli principe ignorante affatto delle lettere, come gran tempo è stato creduto per un testo scorretto di Suida, il quale, siccome hanno dipoi riconosciuto gli eruditi, attribuì quest'ignoranza a Giustino [Alamannus, in Notis ad Histor. Arcan. Procopii.], e non già a Giustiniano, il quale anzi si sa dal suddetto Procopio, da Teofane e da altri, che fu principe istruito nelle scienze e nelle arti, e mostrossi versato nella stessa teologia, talvolta ancora più del dovere. Avea egli tentato in addietro di prendere per moglie Teodora, figliuola di Acacio, sopraintendente del serraglio delle fiere destinate per le caccie dell'anfiteatro: donna allevata fra i commedianti, e ch'egli aveva levato dal pubblico postribolo e tenuta sempre per sua concubina. Ma finchè visse Eufemia imperadrice [831] moglie di Giustino, e Vigilanzia sua madre, che si opposero a sì fatto obbrobrio, non si attentò di eseguir la sua intenzione. Mancate esse di vita, la sposò; e dappoichè fu creato imperadore, poco stette a dichiararla Augusta: il che dovette dar motivo di molte mormorazioni al popolo, e di maggiori querele col tempo, per essere stata questa ambiziosa, furba ed interessata donna uno strumento e mantice di molte iniquità, e un flagello della religione cattolica in Oriente. Nel presente anno, per quanto abbiamo da Sigberto [Sigebertus, in Chron.] e da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, Histor. Longobardor., lib. 1, cap. 22.], i Longobardi sotto il re loro Audoino, dopo avere molto indebolito il regno degli Eruli, dalla Moravia, dove si crede che prima fossero giunti, passarono nella Pannonia, oggidì Ungheria, e quivi stabilirono la loro abitazione e signoria. Ma Procopio mette molto più tardi [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 22.] il regno di Audoino, e, secondo lui, siccome vedremo, anche nell'anno 539 regnava il re loro Vaci, ossia Vaccone, al quale succedette Valtari, e poscia Audoino.


   
Anno di Cristo DXXVIII. Indizione VI.
Felice IV papa 3.
Giustiniano imperadore 2.
Atalarico re 3.

Console

Flavio Giustiniano Augusto per la seconda volta senza collega.

Solennizzò Giustiniano Augusto questo secondo suo consolato con tal profusione di danaro al popolo, che, per attestato di Teofane [Theoph., in Chron.] e dell'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], niuno mai de' precedenti imperadori avea fatto altrettanto. Circa questi tempi esso Giustiniano pubblicò una legge [L. 5, C. de summ. Trin.] in favore [832] della Chiesa e dottrina cattolica, con riprovar tutte le eresie, e nominatamente quelle di Nestorio, Eutiche ed Apollinare, ed intimar pene rigorose contro i seguaci delle medesime. Ed affinchè fosse meglio amministrata la giustizia, ordinò con altra legge [Justinian., Novell. LXXXVI.] (non si sa in qual tempo) che i litiganti ricorressero ai giudici del paese; e qualora non fosse fatta loro giustizia, o non si sbrigassero le cause, facessero ricorso ai vescovi, i quali si prenderebbono la cura di ricordare ai giudici il loro dovere; e non giovando un tale avviso, ne scriverebbono a dirittura all'imperadore. Altre utili provvisioni si leggono in essa Novella. Scrisse ancora Procopio [Procop., de Ædific. Justin., lib. 1.], in tempo ch'era ben affetto a Giustiniano, qualmente questo Augusto digiunava due dì della settimana, mangiava cibi semplici, beveva acqua, poco dormiva; e tutta la giornata e parte ancora della notte impiegava in accudire agli affari del pubblico e proprii, di maniera che non dee recar maraviglia se ad un principe di tanta attività ed applicazione riuscissero poi con felicità tante sue imprese, come vedremo. Non era peranche mancato di vita l'imperador Giustino, quando insorsero dissensioni fra lui e i Persiani, perchè Zato re dei popoli lazii s'era sottoposto ad esso imperio. Perciò Giustino, secondochè s'ha da Procopio [Idem, de Bell. Pers., lib. 1, cap. 12.], avea spedito per suoi generali in aiuto dei Lazii Sitta e Belisario assai giovanetti, che diedero un guasto grande alle contrade di Persia. Sotto quest'anno si raccoglie da Teofane e dalla Cronica Alessandrina, che crescendo l'impegno della guerra coi Persiani, Giustiniano inviò contra d'essi per sostenere i Lazii un esercito, di cui furono generali Belisario, Cirico ed Ireneo. Non si accordavano questi capi insieme, e però, secondo il solito, andò male la faccenda. Furono essi in una battaglia sconfitti [833] dai Persiani, e a questa disgustosa nuova entrato in collera Giustiniano, richiamò tutti e tre que' generali, e in luogo loro inviò Pietro, già notaio e capitano di milizie, il quale unitosi coi Lazii ebbe miglior fortuna, e diede di molte percosse ai Persiani.

Guadagnò eziandio questo indefesso Augusto alla sua divozione il re degli Eruli (scorrettamente nel testo di Teofane chiamati Eluri) per nome Greti, il quale si fece cristiano, e divenne suo collegato. Tirò inoltre nel suo partito Bonzere regina, che comandava a cento mila Unni, ed un altro re degli Unni, cioè de' Tartari, nomato Gorda, il quale medesimamente si fece battezzare, tenuto al sacro fonte dallo stesso imperadore. Costui fu da lì innanzi buon amico e confederato del greco imperio. Applicossi parimente Giustiniano a varie fabbriche. Il luogo appellato Sica in faccia di Costantinopoli fu da lui riedificato, cinto di mura, ornato di un teatro e del titolo di città, con cominciare ad essere nominato Giustinianopoli. Fece un bagno pubblico in Costantinopoli e una cisterna, con restaurare i suoi acquedotti, già fabbricati da Adriano imperadore, ma un pezzo fa diroccati: il che riuscì di gran sollievo alla città, che dianzi penuriava d'acqua. Fece, per testimonianza di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], un magnifico trono nel Circo, e i portici dove sedevano i senatori a mirar le corse de' cavalli. Ordinò inoltre che si rimettesse in buon essere e si fortificasse la città di Palmira, per difesa della Fenicia e della Palestina. Finalmente levò quasi tutte le chiese agli eretici e le diede ai cattolici. Tali furono i gloriosi principii del governo dell'imperador Giustiniano. Ma così lieti giorni vennero funestati, per testimonianza di Teofane [Theoph., in Chronogr.], da un secondo furioso tremuoto, che nel dì 29 di novembre per un'ora continua sì terribilmente scosse la città d'Antiochia, che [834] tutto quanto era rimasto in piedi nel precedente anno 526, e quanto era stato rifabbricato dipoi, andò a terra con tutte le mura della città. Perirono sotto questo nuovo flagello circa quattro mila ed ottocento settanta persone, con sommo cordoglio dell'imperador Giustiniano e di Teodora Augusta sua moglie, che contribuirono dipoi somme grandi di oro per far sorgere di nuovo l'atterrata città, e vollero che da lì innanzi se le desse il nome di Teopoli, cioè a dire di città di Dio. A questi tempi riferir si potrebbe una lettera [Cassiod., lib. 8, ep. 24.] del re Atalarico scritta al clero della Chiesa romana, con ordinare che da lì innanzi chi avrà liti contra d'esso clero debba ricorrere al papa, e cercare da lui la giustizia, intimando la pena di dieci libbre d'oro a chi contravvenisse. Leggesi in Pavia una iscrizione, rapportata dal conte Mezzabarba [Mediobarb., Numism. Imperator.], ed indicante che in quest'anno esso re Atalarico fece fabbricare in quella città i sedili occorrenti al popolo per assistere agli spettacoli.


   
Anno di Cristo DXXIX. Indizione VII.
Felice IV papa 4.
Giustiniano imperadore 3.
Atalarico re 4.

Console

Decio juniore senza collega.

Notò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad hunc ann.] che questo Decio console occidentale fu figliuolo di Venanzio stato console nell'anno 507, e fratello di Paolino, che vedremo console nell'anno 534. Vien appellato juniore a distinzione di Decio, che fu console Dell'anno 486, siccome personaggio della medesima famiglia. Dopo la morte di Trasamondo re dei Vandali in Africa, restò vedova di lui Amalafreda sorella del re Teoderico. Donna avvezza a comandare, non si dovea trovar molto contenta sotto Ilderico, ch'era succeduto [835] nel regno a Trasamondo, e fu creduto ch'essa tenesse mano a qualche trattato contra lo stato del re novello. Laonde questi, tuttochè uomo lontano dalla crudeltà, le levò la libertà con imprigionarla. Ciò avvenne, per quanto abbiamo da Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 4.], vivente ancora il re Teoderico, il quale non sapeva già digerire l'aspro trattamento che si faceva alla sorella; ma perchè troppo sarebbe costato il mettere insieme una grande armata navale per portare la guerra in Africa, gli convenne soffocare i risentimenti e il prurito della vendetta. Morto poi Teoderico, la cui grandezza avea trattenuto Ilderico da più violente risoluzioni, e regnando Atalarico fanciullo, da cui poco si potea temere, Ilderico, per quanto ne corre la fama, fece levar di vita Amalafreda. Il tempo non si sa. Bensì sappiamo, che pervenuto l'avviso di questa crudel risoluzione alle orecchie del re Atalarico e di Amalasunta sua madre, altamente se ne adirarono. Per questa cagione Atalarico spedì in Africa degli ambasciatori con lettera [Cassiod., lib. 9, ep. 1.] ad Ilderico, in cui si duole della morte violentemente inferita alla sua parente, con dire che s'ella fosse stata rea delle decantate e forse insussistenti congiure, egli avrebbe dovuto rimetterla nelle di lui mani per essere giudicata, e non già torle la vita senza saputa, e però con disprezzo del re d'Italia, e con obbrobrio di tutta la nazion gotica. Però vuol sapere come egli possa scusare un tal fatto; e qualora pretendesse essere mancata Amalafreda di morte naturale, voleva nelle mani persone atte a comprovarne la verità. Altrimenti protestava essere rotta la pace, e terminati i patti durati fin qui fra loro. Qual esito avesse questa ambasciata, non è giunto a nostra notizia; ma probabilmente di qua ebbe origine la caduta del re Ilderico, di cui parleremo nell'anno seguente. [836] Fra l'altre belle imprese, alle quali si applicò Giustiniano Augusto, una principalmente fu in questi tempi quella di far unire e ordinare in un Codice tutte le leggi meritevoli d'approvazione e di uso fin allora pubblicate dai precedenti Augusti e da lui stesso. Fin sotto Diocleziano imperadore erano stati composti i Codici gregoriano ed ermogeniano. Da Teodosio juniore venne successivamente compilato il Codice teodosiano, la cui autorità lungo tempo durò nelle Gallie. Ma Giustiniano, che aspirava per ogni verso a dilatar la gloria del suo nome, fece comporre un Codice nuovo, chiamato perciò di Giustiniano, con abolire l'autorità de' precedenti, e prescrivere l'uso di questo a tutta la giurisprudenza e al governo del romano imperio. Io non so come Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] ne differisca la pubblicazione sino all'anno 531. Noi sappiamo dalla prima legge di esso Codice aver Giustiniano nell'anno 528 data l'incombenza di compilar questo Codice a Giovanni, Leonzio, Foca, ed altri patrizii e primarii uffiziali della sua corte. Poscia abbiamo non solamente dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], ma eziandio dalla seconda legge del medesimo Codice, data sotto il consolato di Decio, che nel presente anno esso fu confermato e pubblicato; e poscia nell'anno 534 venne il medesimo espurgato e corretto, come apparisce dalla legge terza. Del merito e dell'utilità di questo insigne libro non occorre che qui si parli. Ben è vero essere stato osservato da Jacopo Gotofredo [Gothofr., in Praefatione ad Cod. Theod.] e da altri dottissimi giurisconsulti, che Triboniano, della cui opera principalmente si servì Giustiniano per darci il suo Codice, quale oggi l'abbiamo, si prese una soverchia libertà, con ommettere, troncare, mutare e sconvolgere a suo capriccio le leggi degli antecedenti Augusti, con aver poscia i copisti aggiunti molti altri errori e difetti al [837] Codice stesso. Suida [Suidas, in Excerptis, tom. 1, Histor. Byz.] lasciò scritto essere stato Triboniano gran giureconsulto pagano, nimico de' cristiani, adulatore, smoderatamente interessato fino a vendere la giustizia per danaro. E Procopio [Procop., Histor. Arcana.] aggiugne ch'egli ogni dì aboliva una legge vecchia o ne fabbricava una nuova. Per relazione di Teofane [Theoph., in Chronogr.], in questi tempi i Giudei e Samaritani della Palestina, ribellatisi all'imperio di Oriente, coronarono per loro re un certo Giuliano, e contra de' cristiani esercitarono rapine, stragi ed incendii. Non perdè tempo l'imperador Giustiniano a spedire un buon corpo di truppe armate colà, che estinsero il fuoco acceso colla morte dello stesso Giuliano; ma fu cagione questa lor sollevazione che il re di Persia, quantunque l'imperadore gl'inviasse Ermogene suo ambasciatore per trattar di pace, ne disprezzasse le proposizioni, confidato nella promessa di un soccorso di cinquanta mila persone, fattagli da essi Giudei e Samaritani. Appartiene all'anno presente il celebre concilio II Arausicano, cioè di Oranges, in cui furono condannati gli errori de' semipelagiani; concilio poscia approvato e confermato da papa Bonifazio II, che nell'anno seguente succedette a Felice IV papa.


   
Anno di Cristo DXXX. Indizione VIII.
Bonifazio II papa 1.
Giustiniano imperadore 4.
Atalarico re 5.

Consoli

Flavio Lampadio ed Oreste.

Hanno creduto il Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che amendue questi consoli fossero creati in Occidente. Di Oreste sembra certo; non so se possa dirsi lo stesso di Lampadio, al qual ho [838] io aggiunto il nome di Flavio coll'autorità di due marmi da me rapportati altrove [Thesaur. Nov. Inscript., pag. 425.]. Credesi che mancasse di vita in quest'anno Felice IV papa, nel mese di ottobre, come ha Anastasio [Anastas. Biblioth., in Felice.], o pur di settembre, come pretende il padre Pagi. Ebbe per successore Bonifazio II, ma non senza scisma, perchè fu contra di lui eletto papa Dioscoro. La morte poco dipoi accaduta di costui rimise la calma nella Chiesa romana. Finora avea Ilderico re dei Vandali in Africa governato pacificamente quel regno e mantenuta un'ottima corrispondenza ed amicizia con Giustiniano, prima ancora del suo innalzamento al trono imperiale, mercè di molti regali che continuamente passavano fra loro. Presso del medesimo Ilderico, per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 9.], era in grande autorità Gelimere suo parente, perchè pronipote del fu re Genserico e il più vicino a succedergli nel regno, uomo bellicoso, ma insieme astuto e maligno. Costui tanto seppe far coi principali della nazion vandalica, con rappresentar loro la dappocaggine d'Ilderico, vinto nella precedente battaglia dai Mori, e l'intollerabil profusione dell'oro impiegato da lui per istar bene in grazia della corte di Costantinopoli, che s'indussero ad accettarlo per re, e ad imprigionare lo stesso Ilderico con alcuni suoi ministri. Non è improbabile che Atalarico re d'Italia, o, per dir meglio Amalasunta, sua madre segretamente o accendessero o avvalorassero questo fuoco in vendetta di Amalafreda, uccisa per ordine di esso Ilderico. Portò di grandi conseguenze e mutazioni nell'Africa, siccome vedremo, la caduta di quel principe. Sotto questo anno, continuando tuttavia la guerra coi Persiani, narra Teofane [Theoph., in Chron.] che Giustiniano imperadore mosse una gravissima persecuzione contra di quanti gentili ed eretici si trovavano nell'imperio d'Oriente, [839] con cacciarli da tutti i pubblici impieghi, confiscare i loro beni, e dar loro il tempo di soli tre mesi per ravvedersi. Procopio [Procop., in Hist. Arcan., cap. II.] anch'egli fa fede di questi editti e processi, fatti da esso Augusto (se vogliamo credere a lui) non per buono zelo, ma per occupare i beni e ricchezze de' montanisti, sabbaziani ed altri molti eretici. Le chiese specialmente degli ariani erano piene di vasi e di suppellettili preziose d'oro e di argento, e di pietre e gemme di gran valore. Tutto passò nell'erario imperiale. Moltissimi furono tagliati a pezzi dal popolo, altri dalla giustizia uccisi, e grande fu il numero di coloro che abbracciarono la religion cristiana e cattolica in apparenza, ma con ritenere internamente gli errori delle lor sette. Seguitò ancora nel presente anno lo stesso Augusto la guerra contro ai Giudei e Samaritani ribelli, con incredibile strage dei medesimi, e col guasto di tutto il paese, tanto che furono i rimasti in vita costretti ad implorare il perdono dell'imperadore, rimanendo ancora involti in quelle sciagure i cristiani di quelle contrade, perchè obbligati a pagar da lì innanzi dei gravi tributi. Circa questi tempi fioriva per virtù e per miracoli san Benedetto, ristauratore e propagatore del monachismo in Italia, e a poco a poco per tutto l'Occidente. Altri monasteri e monachi prima di lui si videro in queste parti, ma non così bene regolati come i fondati poscia da lui. Da Subbiaco, dov'egli visse per alcun tempo, passò a Monte Casino, e quivi edificò il celebre suo monistero, dal quale poi presero norma tutti gli altri sì d'uomini che di vergini sacre, che o si sottoposero alla regola prescritta con tanta discrezione e prudenza dal santo abate, o furono fondati a tenore della medesima. In quest'anno, per relazion di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], quel Mundone, che vedemmo all'anno 505 vincitore dei Greci coll'aiuto del re Teoderico nell'Illirico, creato poi da Giustiniano Augusto [840] generale delle milizie in esso Illirico, valorosamente costrinse alla fuga i Goti orientali venuti ad infestar quella provincia. Ed altrettanto fece coi Bulgari che erano iti a bottinar nella Tracia.


   
Anno di Cristo DXXXI. Indizione IX.
Bonifazio II papa 2.
Giustiniano imperadore 5.
Atalarico re 6.

Senza consoli.

È ignoto il motivo per cui niun console fu creato in quest'anno nè in Occidente nè in Oriente. A contrassegnar dunque il presente anno fu usata la formula post consulatum Lampadii et Orestis. Seguitava intanto Amalasunta madre del re Atalarico a governar con senno e coraggio il regno d'Italia, ma non già colla fortuna di piacere a tutti i suoi, parte de' quali avrebbe volentieri prese le redini del governo, e parte per odii particolari mal sofferiva il vedere in mano di donna la autorità regale. Accortasi Amalasunta del loro mal animo, e temendo di novità per certi segni di congiure ordite col pretesto di difendere le frontiere del regno, mandò i tre principali capi dei Goti, più sospetti degli altri, separatamente in diversi luoghi. Ma non bastò il ripiego. Fu avvertita ch'essi per via di lettere continuavano le trame, affin di levarle di mano la tutela del figliuolo e il governo: cosa che finalmente l'indusse a liberarsi colla violenza dalla petulanza di costoro. Procopio è quello che ne fa il racconto [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 2.]. Coltivava essa una buona amicizia con Giustiniano Augusto, e i regali doveano stringere questo nodo. Scrisse a lui per sapere, se, qualora le venisse talento d'andare a Costantinopoli, ella sarebbe amorevolmente accolta. Sempre che venga, sarà la ben venuta, fu la risposta di Giustiniano. Allora Amalasunta spedì a Durazzo in Albania una nave con alcuni suoi fidati ministri, e quaranta mila libbre d'oro, oltre ad altri [841] ricchissimi mobili, con ordine di fermarsi quivi finchè fossero avvisati d'altre sue risoluzioni. E così fece, perchè, se le fosse occorso di dover fuggire, fosse provveduto alla sua sicurezza e sussistenza. Dopo di che scelti alcuni dei più bravi e fedeli suoi tra i Goti, comandò loro di levar con destrezza dal mondo que' tre personaggi, divenuti oramai intollerabili e incompatibili colla sua reggenza. Felicemente fu da essi eseguito un tal ordine; ed Amalasunta, liberata da quella persecuzione, più non pensò al viaggio d'Oriente, e richiamata la nave a Ravenna, continuò con vigore ad amministrare il regno d'Italia. Aveva Amalarico re de' Visigoti in Ispagna sposata Clotilde sorella dei re Franchi, avvisandosi con questo parentado di salvare dalla lor potenza gli stati da lui posseduti nella Gallia, oggidì appellati la Linguadoca. Abitava egli in Narbona per essere più pronto alla difesa, stante il timore che egli avea de' soli Franchi. L'esempio di Alarico suo padre, da essi sconfitto ed ucciso, mai non gli si partiva dagli occhi. Non servirono preghiere nè minacce [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 10.], perchè Clotilde, allevata nella religion cattolica e piissima principessa, volesse, non dirò cangiar credenza, ma neppur comunicare coi Visigoti ariani ne' sacri misteri. Era perciò essa vilipesa dal popolo, strapazzata dal marito, che giunse anche a batterla con tal crudeltà, ch'ella potè inviare al re Childeberto suo fratello un fazzoletto tinto del suo sangue, con pregarlo di liberarla da quel tiranno. E nol pregò indarno. Childeberto con un'armata marciò verso Narbona, ed Amalarico intimidito se ne fuggì; ma ritornato indietro per prendere alcune robe preziose, nella porta della città fu ucciso dai suoi. Gregorio Turonense non parla di alcun fatto d'armi. Solamente nelle giunte marginali alla Cronica di Vittor Tunonense [Victor Turonensis, apud Canisium, tom. 1.] si legge che il re Amalarico nella battaglia di Narbona fuggendo si [842] ritirò in Barcellona, dove, percosso da una corta accetta, restò morto. Abbiamo anche la testimonianza di sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Goth.], là dove scrive che Amalarico fu presso Narbona superato da Ildeberto re dei Franchi, e dopo essere scappato a Barcellona, caduto in dispregio del suo popolo, quivi dall'esercito fu inviato all'altro mondo. Ebbe per successore Teode, ricchissimo e scaltro Visigoto, di cui parlammo di sopra all'anno 526; e v'ha fondamento di credere, esser egli stato il medesimo che o levò o fece levar la vita ad Amalarico, perchè col tempo assassinato anch'egli, ordinò prima di morire che l'assassino non fosse gastigato. Giacchè, disse egli, Dio per la man di costui mi fa patir la pena di un simile misfatto altre volte da me commesso.

Ma la vittoria riportata sopra i Visigoti dal re Childeberto non fu di conseguenza, sapendosi che tuttavia restarono essi in possesso e dominio degli stati che godevano nelle Gallie, cioè della Linguadoca; ed altro non guadagnò Childeberto che di ricondurre seco la sorella Clotilde, la quale nel cammino terminò i suoi giorni, vinta probabilmente dall'afflizion per le sue disgrazie. Venne bensì fatto a Teoderico re d'Austrasia, fratello d'esso Childeberto, circa questi tempi, di conquistar la Turingia, colla morte d'Ermenfredo re di quel paese. Questi si fidò troppo delle parole e promesse di esso re Teoderico, cioè d'un principe che soltanto s'ingrandisse, non badava nè a parentela nè a giuramenti, e che giunse fino a tentar di assassinare il re Clotario, re di Soissons, suo fratello, dopo essersi servito delle forze di lui per impadronirsi della Turingia. Tali erano allora i re franchi, presi troppo dalla febbre dell'ambizione, cioè dell'ansietà dì dilatare il loro dominio. E che non fossero da meno di Teoderico i suoi fratelli Clotario e Childeberto, lo potremo conoscere da un fatto de' più crudeli e barbari che mai si leggano nelle storie. Era morto, come [843] dicemmo di sopra, Clodomiro re di Orleans, quarto loro fratello, nella battaglia contra i Borgognoni. S'impadronirono tosto dei di lui stati Clotario e Childeberto, ancorchè egli lasciasse dopo di sè tre piccioli figliuoli. Erano questi allevati dalla piissima regina Clotilde loro avola, e madre dei due re suddetti, che teneramente gli amava. Saltò in cuore a Clotario, che crescendo in età questi principi suoi nipoti, vorrebbono gli stati paterni, e che bisognava trovarci rimedio [Gregor. Turonens., lib. 3, cap. 28.]. Però venuto a Parigi col re Childeberto, amendue di concerto misero le guardie ai due principini maggiori di età, e poi mandarono a Clotilde lor madre una spada nuda e un paio di forbici, con dirle, che il destino dei nipoti dipendeva dall'elezione ch'ella facesse di volerli o morti o cherici. Scappò detto alla buona regina, sorpresa da estremo dolore, che amerebbe piuttosto di vederli morti, che vivi senza regno. Di più non ci volle, perchè Clotario, fattigli venire alla presenza sua e del fratello Childeberto, piantasse un coltello nel cuore a Teobaldo il maggiore, ch'era in età di dieci anni circa. A questa vista Guntario suo minor fratello, in età di sette in otto anni, gridando e piangendo si gettò ai piedi di Childeberto suo zio, e abbracciatigli i ginocchi, il pregò di salvargli la vita. Non potè Childeberto ritenere le lagrime, e rivoltosi al fratello, cominciò a scongiurarlo che non volesse ucciderlo, con offrirgli quanto volesse per questo. Ma l'inumano Clotario furiosamente gli rispose: Se non mi lasci il fanciullo, io t'immergo questo ferro nel seno. Childeberto si strappò d'attorno l'infelice principe, che tosto rimase anch'egli scannato da Clotario. Furono eziandio uccisi i loro governatori e famigli. Dopo di che i due re divisero fra loro gli stati del terzo loro nipote infante, nominato Clodoaldo, che ebbe la fortuna di essere trafugato da alcuni amorevoli, e divenuto poi monaco, finì in santa pace i suoi giorni.


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Anno di Cristo DXXXII. Indizione X.
Giovanni II papa 1.
Giustiniano imperadore 6.
Atalarico re 7.

Senza consoli.

Passò ancora il presente anno senza creazione di consoli, e però fu indicato colla formula anno II o pure iterum post consulatum Lampadii et Orestis. Poco durò il pontificato di papa Bonifacio II. Secondo i conti del cardinal Baronio, egli cessò di vivere nel precedente anno, e, secondo il Pagi, nel presente nel dì 17 di ottobre. Aveva egli in un sinodo con suo chirografo disegnato per suo successore Vigilio diacono, che ansava forte dietro a quella gran dignità; ma dispiacque non meno al re Atalarico, ossia ad Amalasunta sua madre, che al clero e popolo romano una tal novità; e però come contraria ai sacri canoni fu essa in un altro sinodo riprovata ed abolita dal medesimo papa Bonifazio prima di morire. Cadde poi l'elezione del novello pontefice nella persona di Giovanni di nazione romano, per soprannome Mercurio, sul fine dell'anno presente. Ma perciocchè erano succeduti dei disordini nella Sede vacante di Felice IV papa, e del medesimo Bonifazio, perchè i concorrenti al pontificato aveano procurato di comperarlo simoniacamente, spendendo alla larga, o per guadagnare i voti degli elettori, oppure per aver favorevoli quei della corte del re Atalarico, giacchè s'era introdotto l'abuso che dall'arbitrio del re dipendesse l'elezione ovvero l'approvazione del nuovo papa, e però alcuni promettevano molto, per sortire il loro intento, e vendevano i beni delle chiese, e insino i vasi sacri a tale effetto (del che pare che fossero accusati Dioscoro e Vigilio sotto il pontificato di esso papa Bonifazio II), quindi è che il senato romano fece un decreto, con cui dichiarò sacrilega ogni promessa per ottener vescovati. Testimonio di questo è una lettera scritta [845] dal re Atalarico [Cassiod., lib. 9, ep. 15.] allo stesso papa Giovanni II, con cui approvava il suddetto decreto, ma con farci intendere gli abusi di questi tempi: cioè ch'egli lasciò bene in libertà al clero e popolo romano l'elezione di chi fosse creduto più degno del pontificato, ma con riserbarsene la conferma. Che se occorrevano dispute fra i popoli per tale elezione, ed era portata la lite alla corte, ordinava che per le spese d'essa lite, trattandosi del romano pontefice, non si potesse impiegare più di tre mila soldi, e due mila per le liti degli altri patriarchi, sotto il qual nome son disegnati gli arcivescovi e metropolitani, perchè in Occidente allora altro patriarca non si conosceva se non il romano; e di cinquecento soldi per quelle de' vescovati minori. Non è però ben chiaro il senso di quelle parole. Tutte le altre promesse, o pagamenti fatti e da farsi a dirittura, o per interposta persona, per conseguir le chiese furono da esso re condannati, ed ordinato che ognun potesse accusare, e che si dovesse procedere in giustizia contra questi sacrileghi mercatanti delle dignità ecclesiastiche. Scrisse ancora Atalarico [Idem, ibid., ep. 16.] a Salvanzio prefetto di Roma, con ordinargli di far incidere in marmo l'editto suo e il decreto del senato intorno ai simoniaci, per poi metterli nella facciata della basilica vaticana alla pubblica vista e cognizione di tutti. Sembra che si possa congiungere con questi tempi un editto [Idem, ibid., ep. 18.], pubblicato da esso re contro gli occupatori dei beni altrui, contra degli adulteri, concubinarii, omicidi, mariti di due mogli ed altri delinquenti. In un susseguente editto [Idem, lib. 8, ep. 21.] vuole egli che sieno puntualmente pagati gli emolumenti ai professori di grammatica, eloquenza e giurisprudenza.

Udita che ebbe l'imperador Giustiniano la nuova dell'ingiusta prigionia [846] d'Ilderico re dei Vandali, suo singolare amico [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1. ep. 9.], aveva spedito ambasciatori a Gelimere usurpatore del regno africano, con esortarlo a rendergli la libertà, e ad aspettare di entrar con giusto titolo nel dominio, giacchè Ilderico era in età molto avanzata; e se pur voleva ritenere il governo, lo ritenesse, ma con lasciar qualche apparenza di decoro a chi, secondo il testamento di Genserico, era legittimo possessor di quel regno. Se ne tornarono gli ambasciatori a Costantinopoli senza frutto alcuno; anzi peggiorarono gli affari d'Ilderico, perchè Gelimere, col pretesto ch'egli meditasse di fuggire, maggiormente il ristrinse, e fece cavar gli occhi ad Oamere di lui nipote, uomo bellicoso, e tenuto dai Vandali pel loro Achille. Avvisato di ciò Giustiniano, tornò a spedirgli nuovi ambasciatori, con richiedere che gli mandasse Ilderico ed Oamere, acciocchè potessero, l'uno privo del regno, e l'altro degli occhi, passare in pace il resto della lor vita, altrimenti protestava rotta la pace, e ch'egli si studierebbe di vendicar l'ingiuria fatta ad un amico e insieme alla giustizia. La risposta di Gelimere fu, ch'egli era stato alzato di comun concordia dai Vandali al trono, a lui dovuto, come discendente da Genserico, più che ad Ilderico. E che un saggio imperadore doveva attendere a governare il suo imperio senza impacciarsi de' regni altrui. Che se pur gli saltasse in testa di rompere i patti e di fargli guerra, si persuadesse che nol troverebbe a dormire. A questa risposta montò in collera Giustiniano, e determinò di muover guerra a Gelimere. Ma ad una tal risoluzione trovò contrarii tutti i suoi ministri, e massimamente Giovanni prefetto del pretorio, ricordandosi tutti dello sforzo inutilmente fatto da Leone Augusto per riconquistar l'Africa, e spaventati dalle immense spese che sarebbe costata una armata navale, e dal pericolo di portar [847] la guerra sì lontano, e in paese ben provveduto di gente e di denaro, e però capace di far abortire tutte le idee di chi se ne volesse render padrone. Tanto dissero essi, che in Giustiniano calò la voglia di quella impresa. Quand'eccoti un giorno capitare un vescovo che dimandò all'imperadore un'udienza segreta. In essa gli fe' saper d'essergli stato in una visione comandato da Dio di andare a trovarlo, e sgridarlo, perchè, dopo d'aver preso a liberare i cattolici dell'Africa dalla tirannia degli ariani, per una vana paura se ne fosse poi ritirato, con aggiugnere: Il Signore mi ha detto, che facendo V. M. questa guerra, la assisterà, e infallibilmente l'Africa tornerà sotto il romano imperio. Di più non occorse, perchè Giustiniano, senza più far caso delle difficoltà proposte, coraggiosamente intraprendesse la guerra dell'Africa, per la quale fece nell'anno presente i necessarii preparamenti. Ma non si vuol tacere che nel gennaio di questo medesimo anno avea lo stesso imperadore corso grave pericolo per una sedizione mossa in Costantinopoli contra di lui dalle fazioni veneta e prasina [Chron. Alexandr. Theoph., in Chronogr. Procop., de Bell. Pers., lib. 1, cap. 24.]. Il caricarono d'ingiurie nel circo, poscia si diedero a scorrere per la città, con attaccar fuoco alle più magnifiche fabbriche e chiese della medesima. Unissi con loro la plebe, e tale fu l'apparenza di questo turbine, che Giustiniano già avea preparata una nave per fuggirsene. Anzi essendosi sparsa la voce che egli fosse fuggito, il popolo acclamò imperadore Ipazio figliuolo di Magna sorella del fu Anastasio Augusto, che era stato console nell'anno 500; e se fosse riuscito loro d'entrare nel palazzo imperiale, peggiori conseguenze avrebbe avuto l'attentato di tanti sediziosi. Ma uscito [848] Narsete capitan delle guardie, e guadagnati con denaro molti della fazione veneta, cominciò a calare il tumulto. E mentre il popolo si trovava raunato nel circo, uscirono da varie parti le guardie e i soldati dell'imperadore, condotti parte da esso Narsete, parte da Belisario, generale delle milizie, e da un figliuolo di Mondo, ossia Mundone generale dell'Illirico, e fecero man bassa addosso alle fazioni, anzi a chiunque de' cittadini e forestieri incontravano, di maniera che vi restarono uccise circa trenta o trentacinque mila persone: colla quale strage terminò affatto il bollore della sedizione. Ipazio preso, e con lui Pompeo e Probo suoi cugini furono condotti in prigione, e poco si stette a far vedere al pubblico i lor cadaveri. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] scrive, che per loro suggestione fu mossa questa tempesta contra di Giustiniano, e ch'erano entrati molti de' nobili in questa congiura. Però furono confiscati tutti i lor beni con profitto indicibile dell'imperiale erario. Curiosa cosa è il leggere presso Teofane il principio di questa tragedia nel circo per le varie acclamazioni, dimande e gridi de' prasini, e risposte del ministro cesareo; senza che si possa ora da noi intendere come si facessero simili dialoghi, e si potessero discernere quelle voci. Giustiniano, uscito di questo terribil cimento, generosamente si applicò a rimettere in piedi gli edifizii rovinati dalle fiamme durante la sedizione; e soprattutto essendo bruciata l'insigne cattedrale fabbricata da Costantino, tutto si diede ad alzarne un'altra senza paragone più magnifica e bella, che fu poi appellata la chiesa di santa Sofia, e riuscì un tempio mirabile a tutti i secoli avvenire.


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Anno di Cristo DXXXIII. Indizione XI.
Giovanni II papa 2.
Giustiniano imperadore 7.
Atalarico re 8.

Console

Flavio Giustiniano Augusto per la terza volta, senza collega.

L'Occidente non ebbe console in quest'anno. Stava forte a cuore all'imperador Giustiniano la guerra meditata contra l'Africa, e verisimilmente non mancavano a lui incitamenti degli antichi abitatori cattolici di quelle contrade. Ma trovandosi egli tuttavia impegnato nella guerra co' Persiani, e perciò impedita la presa risoluzione contra de' Vandali, fece trattar di pace co' medesimi Persiani [Marcell. Comes, in Chronico. Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 5.], e gli venne fatto di concluderla ne' primi mesi del presente anno per mezzo di Rufino patrizio e di Ermogene suo maggiordomo. Quindi, messa insieme una poderosa armata navale, piena di soldatesche agguerrite, ne diede il comando a Belisario suo generale, nato nel paese situato tra l'Illirico e la Tracia, che già avea segnalato il suo nome con azioni gloriose nella guerra contra de' suddetti Persiani. Accompagnato dallo storico Procopio, sciolse le vele il prode capitano da Costantinopoli sul fine di giugno; arrivato in Sicilia, vi rinfrescò l'armata; e continuato poscia il viaggio, nel dì 15 di settembre fece senza opposizione la sua discesa in Africa. Prima di questo tempo s'era ribellata ai Vandali la città di Tripoli, per opera di un cittadino appellato Prudenzio, che tosto, spediti alcuni messaggeri, chiese soccorso a Giustiniano; ed avutolo, ridusse alla divozione di lui e tenne forte tutta quella provincia. Erasi parimente rivoltata contra de' Vandali la Sardegna ad istigazione di un certo Goda, Goto di nazione, uomo di gran valore che vi era stato posto al comando dal nuovo re [850] Gelimere, e poscia assunse il titolo di re. Questi ancora, fatto ricorso a Giustiniano, con offrirsegli suddito, ottenne un rinforzo di quattrocento soldati, piccolo aiuto nondimeno al suo bisogno. Discese in terra la felice armata cesarea in Africa al Capovada; giacchè per ordine del re Genserico, primo conquistatore di quelle provincie, in tutte le città, fuorchè in Cartagine, erano state diroccate le mura: risoluzione che parve allora di gran prudenza, acciocchè, se mai gl'imperadori romani avessero voluto ricuperare il paese, o gli Africani, divoti del nome romano, far delle novità, non restasse loro luogo alcuno forte per infestare i Vandali; ma risoluzione che in fine si tirò dietro la rovina del regno vandalico. Però Belisario senza difficoltà s'impadronì della città di Silletto, e quivi cominciò a sentire la vicinanza dell'esercito de' Vandali, condotto dal re Gelimere, il quale, udito ch'ebbe l'arrivo dei Greci, comandò che si levasse di vita il re Ilderico, già nelle carceri ristretto. Al primo incontro Gelimere prese la fuga: dal che animato Belisario si presentò davanti a Cartagine coll'armata di terra e colla flotta, e non avendo trovata resistenza, ebbe l'ingresso in quella capitale, senza sapersi intendere come Gelimere prima non v'entrasse alla difesa, e come con tanta felicità riuscisse questa impresa a Belisario, il quale finalmente non avea seco se non dieci mila fanti e cinque mila cavalli. Come di una ammirabil avventura se ne stupì lo stesso Procopio, da cui abbiamo la descrizione di questa guerra.

Giovò sommamente a Belisario l'aver Gelimere dianzi spedita la sua armata navale con Zazone suo fratello, per ricuperar la Sardegna, non immaginando sì vicino l'arrivo e lo sbarco della flotta de' Greci. Entrò bensì costui in Cagliari, trucidò Goda occupator dell'isola con tutti i suoi partigiani, e di questa vittoria inviò tosto l'avviso al fratello Gelimere; ma la nave che lo portava, [851] andata a dirittura a Cartagine, senza saper la mutazione ivi seguita, cadde in mano de' Greci vittoriosi. Fu cagione eziandio la presa improvvisa di Cartagine, saputa in Ispagna, che niuno effetto producesse un'ambasciata di Gelimere incamminata colà per indurre Teode re de' Visigoti ad entrare in lega coi Vandali. Dappoichè Belisario ebbe abbastanza assicurata con nuove fortificazioni la città di Cartagine, uscì in campagna con la sua armata, per assalire Gelimere, con cui si era riunito Zazone suo fratello colla flotta richiamata dalla Sardegna. Vennesi ad un fatto d'armi; fu sbaragliato l'esercito vandalo, e Gelimere, colla fuga si mise in salvo. Nel campo loro aveano i Vandali le lor mogli, figliuoli e tesori, sperando forse che la difesa e presenza di pegni sì cari avesse da ispirare più coraggio ai combattenti. Ma nulla giovò ad essi; tutto andò a sacco, e sì grande fu il bottino toccato ai vincitori, chè parve cosa incredibile. Oltre alle eccessive prede fatte da que' Barbari sul principio della conquista sopra i sottomessi Africani, aveano essi raunate immense somme d'oro negli anni addietro colla vendita de' loro grani. In quella giornata perderono tutto. Succedette questa fortunata battaglia verso la metà di decembre nell'anno presente, di modo che fatte in tre mesi tante azioni, recarono somma gloria a Belisario. In questo medesimo anno, perchè gli eretici aveano sparso voce che Giustiniano Augusto concorreva ne' loro empii sentimenti, egli, a fine di distruggere questa ingiuriosa diffamazione, pubblicò un suo editto [L. 6, C. de Summa Trinitate.], in cui espose la credenza sua uniforme alla dottrina della Chiesa cattolica. Inviò ancora degli ambasciatori a papa Giovanni con sua lettera, in cui protesta di accettare i quattro concilii generali della Chiesa di Dio, e coll'ambasciata, secondo l'attestato di Anastasio bibliotecario [Anastas. Biblioth., in Vita Johannis II.], vennero ancora [852] varii regali preziosi ch'egli mandava ad offerire a san Pietro nella basilica vaticana. Scrisse inoltre una lettera ad Epifanio patriarca di Costantinopoli [L. 7, C. de summ. Trin.], dove parimente espone la sua fede, condanna gli eretici tutti e conferma i suddetti quattro concilii: cose tutte che gli acquistarono gran credito in Roma e presso tutti i cattolici. Finalmente nel dicembre del presente anno furono pubblicate da esso imperadore le Istituzioni del diritto civile e i libri dei Digesti, siccome apparisce dalle due prefazioni stampate in fronte di queste opere insigni.


   
Anno di Cristo DXXXIV. Indizione XII.
Giovanni II papa 3.
Giustiniano imperadore 8.
Teodato re 1.

Consoli

Flavio Giustiniano Augusto per la quarta volta, e Flavio Teodoro Paolino juniore.

Questo Paolino console, creato in Occidente, secondochè abbiamo da una lettera del re Atalarico [Cassiod., lib. 9, epist. 22.] scritta al medesimo, fu figliuolo di Venanzio, stato console nell'anno 507, ed era della famiglia Decia. Seguitò Belisario in questo anno il felice corso delle sue vittorie con impadronirsi della città d'Ippona, oggidì Bona, dove gli venne alle mani buona parte del tesoro di Gelimere, mentre egli pensava di rifugiarlo in Ispagna. Scorrendo la di lui flotta il Mediterraneo fino allo stretto di Gibilterra, sottomise al dominio cesareo la Sardegna, la Corsica, Ceuta, Evizza, Majorica e Minorica. Entrarono parimente le sue armi in Cesarea città; e Gelimere, assediato nel monte Pappua, con proporgli nella corte dell'imperadore il grado di patrizio ed altri vantaggi, s'indusse a rendersi a Belisario, da cui fu condotto [853] a Costantinopoli. Colà portossi il valoroso capitano, perchè avea scoperto di essere stato calunniato presso di Giustiniano Augusto, quasichè egli meditasse di farsi padrone delle provincie in sì poco tempo conquistate. L'andata sua dissipò queste nebbie. Fu egli introdotto in Costantinopoli trionfalmente, come ne' secoli addietro si praticava in Roma. Presentò all'imperadore non solo Gelimere e i prigioni vandali, ma eziandio le immense ricchezze asportate dall'Africa, e specialmente i vasi antichi del tempio di Salomone, che appresso furono da Giustiniano inviati alle chiese di Gerusalemme. Fece Giustiniano sentire la sua liberalità a Gelimere, con assegnargli molti beni nella Galazia; ma non gli fu già conferita la dignità di patrizio, perchè costui non potè indursi giammai a rinunziare all'arianismo. A queste allegrezze succederono delle tristezze; imperocchè non sì tosto fu partito dall'Africa Belisario, che i Mori si ribellarono, e Salomone, lasciato quivi per governatore, ebbe molto da fare a sostenersi; ed ancorchè in una battaglia desse loro una rotta, pure i medesimi si rimettevano presto in forze, e seguitavano a far testa. Finalmente andarono in fumo tutti i loro sforzi. Intanto anche in Italia cangiarono faccia gli affari, perchè il re Atalarico mancò di vita in quest'anno. Giacchè Amalasunta sua madre era stata forzata ad allevarlo come vollero i Goti, egli sfrenatamente si era dato in preda alla crapula e ad altri vizii, per i quali contrasse una lunga malattia che il condusse in fine al sepolcro [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 3.]. Allora fu che Amalasunta, temendo di cadere affatto, cominciò segretamente a trattare con Giustiniano Augusto di rinunziargli l'Italia, e di ritirarsi a Costantinopoli. Ma non istette poi salda in questo pensiero. Teodato, ossia Teodoto, figliuolo del primo matrimonio di Amalafreda sorella del fu re Teoderico, menava allora vita privata in Toscana, dove possedeva [854] di gran beni, uomo ben istruito nelle lettere latine e nella filosofia di Platone, ma dappoco, ignorante nell'arte militare, e straordinariamente dato all'interesse, aveva egli fatto non poche estorsioni e prepotenze in quei paesi; e per i ricorsi e doglianze di varii particolari chiamato a Ravenna, era stato processato ed obbligato a restituire il mal tolto, perlochè odiava a morte Amalasunta. Cominciò anch'egli segretamente un trattato con Giustiniano per farlo padrone della Toscana. Non andò più oltre l'affare, perchè Amalasunta, parte per paura che i Goti, abbandonata lei, si volgessero a Teodato, unico germoglio della famiglia Amala, parte per isperanza di cattivarsi l'animo di costui con un gran benefizio, il chiamò a Ravenna, e gli propose di farlo collega nel regno, purchè promettesse di portare bensì il nome di re, ma di lasciare in fatti proseguir lei nel comando. Quanto ella volle Teodato giurò di eseguire.

Salito che fu Teodato sul trono, non men egli che Amalasunta [Cassiod., lib. 10, epist. 1 et 2.] ne scrissero a Giustiniano Augusto, con pregarlo di continuar la pace con loro. Ma durò poco la festa. Teodato, ridendosi delle promesse fatte, e sol ricordevole delle procedure precedentemente contra di lui fatte, unissi coi nemici di Amalasunta, fece levar la vita ad alcuni de' suoi aderenti, e in fine cacciò lei stessa in esilio [Jordan., de Reb. Getic., cap. 59.], confinandola in un'isoletta nel lago di Bolsena, dove la misera da lì a poco, per comandamento oppure con saputa di esso Teodato, fu strangolata dai parenti di quei Goti ch'ella avea nel tempo del suo governo fatti privare di vita. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 31.], mal informato di questi affari, racconta una diceria che dovea correre per le piazze, ed ha tutta la ciera d'una fola, ma che nondimeno potrebbe contenere qualche vestigio di verità. Racconta, dico, egli, [855] che dopo la morte di Teoderico restò in vita Anafleda moglie di lui, e sorella di Clodoveo re de' Franchi, con una figliuola. Dee intendere di Amalasunta, ma senza dir parola di Atalarico. Questa figliuola si diede in preda ad un suo famiglio appellato Traguilla, e con esso lui scappò in una forte città. Bisognò mandare un esercito per levarla di là, e ridurla a casa, il che seguì dopo aver tolto di vita il suo drudo. Irritata la figliuola pose del veleno nel calice, da cui dovea bere la madre nella comunione eucaristica. Erano essi tutti ariani. Morì sua madre, e i Goti sdegnati contra della figliuola parricida, elessero in re loro Teodato, il quale in un bagno sommamente riscaldato la fece morire. Aggiugne che i re de' Franchi Childeberto, Clotario e Teodeberto fecero querela di questo col re Teodato, minacciandogli la guerra; e che Teodato li placò e fece tacere con un regalo di cinquanta mila scudi d'oro. Così il Turonense. La verità si è, se pur s'ha da credere a Procopio, che dispiacque forte all'imperador Giustiniano l'ingratitudine e crudeltà di Teodato contra di una principessa che fin allora avea mantenuta sì buona corrispondenza coll'imperio d'Oriente. Ma dall'altro canto si rallegrò in suo cuore, perchè la fortuna gli avesse somministrato così plausibil ragione di muover guerra ai Goti, cioè una congiuntura tanto da lui desiderata di poter ricuperare l'Italia. Covò egli questo pensiero nell'anno presente, ma con fare gli opportuni preparamenti pel susseguente; e intanto dalle lettere da Cassiodoro si ricava avere Teodato ricevuto di belle parole da Giustiniano, il quale s'infinse per un pezzo di non sapere l'iniquo trattamento fatto ad Amalasunta, ma senza dar sicurezza alcuna di pace. Perlochè Teodato di nuovo spedì altri ambasciatori a Giustiniano, e la regina Gundelina sua moglie anch'ella scrisse a Teodora Augusta con ansietà di assicurar fra di loro il nodo di una buona amicizia. Niuna [856] apparenza di verità ha ciò che il suddetto Procopio nella storia segreta di Giustiniano lasciò scritto, cioè che Teodato fece morire Amalasunta per consiglio di Giustiniano, istigato a ciò da Teodora Augusta, che avea conceputa gelosia in iscorgere l'ansietà del marito per vedere Amalasunta in Costantinopoli, temendo ch'ella potesse torle la mano nel cuore di lui. Ancorchè si sia già da noi veduta la pubblicazione del Codice di Giustiniano, fatta nell'anno 529, pure nel presente fu pubblicato quel libro con varie giunte e mutazioni, e tal quale noi ora lo abbiamo. Se in Oriente era tutto rivolto l'animo di Giustiniano a dilatare i confini dell'imperio, non era minor la sete nei re de' Franchi. Per appagarla non si perdonava a tradimenti e scelleraggini, nè si teneva sicuro l'un fratello dell'altro. Miravano essi con occhio ingordo il confinante regno dei Borgognoni, e per ingoiarlo, secondochè s'ha da Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], s'unirono insieme nell'anno presente Childeberto, Clotario e Teodeberto figliuolo del re Teoderico, ossia Teodorico. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 11.] e Fredegario [Fredegarius, in Ep., cap. 37.] scrivono che solamente Childeberto e Clotario impresero la guerra contra de' Borgognoni, e che Teoderico lor fratello non vi volle intervenire. Ma sembra ben più fondato il racconto di Mario. Vedremo fra poco che Teodeberto di lui figlio mandò in Italia dei Borgognoni: segno che anch'egli entrò a parte della conquista. La conclusione fu che quei re si misero all'assedio della città di Autun, ruppero in una battaglia Godomaro re de' Borgognoni, e divennero con ciò padroni di quel regno, che abbracciava allora il Lionese, il Delfinato, la Borgogna moderna ed altri paesi, ch'essi divisero fra loro. Credesi che in quest'anno terminasse i suoi giorni Teoderico suddetto fratello d'essi re, con avere per suo successore [857] il mentovato Teodeberto suo figliuolo. È di parere il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] che anche all'anno presente appartenga la terribil carestia, di cui parla Dazio arcivescovo di Milano nella Storia Miscella [Hist. Miscell., lib. 16.], deducendolo da una lettera [Cassiodor., lib. 12, ep. 27.] scritta da Cassiodoro prefetto del pretorio in questi tempi al medesimo Dazio per significargli il soccorso di panico destinato dal re in sovvenimento de' popoli. Ma più probabilmente la carestia rammentata da esso arcivescovo appartiene all'anno 538. Per altro, da altre lettere del medesimo Cassiodoro apparisce afflitta l'Italia ancora in questo anno dalla carestia, e qual provvisione si facesse per aiutare i popoli in sì fiera congiuntura.


   
Anno di Cristo DXXXV. Indizione XIII.
Agapito II papa 1.
Giustiniano imperadore 9.
Teodato re 2.

Console

Flavio Belisario senza collega.

In ricompenza delle gloriose azioni di Belisario, fu a lui in quest'anno conferito l'onore del consolato. Niun console fu creato in Occidente, perchè già si erano cominciati ad imbrogliare gli affari tra Giustiniano Augusto e il re Teodato. E da qui innanzi per questa ragione cessarono affatto i consoli occidentali. Pose fine nel presente anno ai suoi giorni papa Giovanni II, e la sua morte vien riferita dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc ann.] al dì 27 di maggio. Ebbe per successore nel pontificato Agapito arcidiacono, Romano di patria. Lusingavasi tuttavia il re Teodato, coll'andar mandando ambasciatori e lettere, di poter pacificare l'imperadore Giustiniano, che si mostrava sdegnato non poco per la morte data alla regina Amalasunta, attribuendo ad ingiuria [858] propria l'aver privata di vita una principessa ch'era sotto la sua protezione. Ma si avvide in quest'anno quanto fossero fallaci la speranze sue. Giustiniano, a cui non era ignoto come fosse vil di cuore e timoroso il re Teodato, e che i popoli cattolici d'Italia amerebbono più il comando di un principe cattolico che de' Goti ariani [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 5.], finalmente alzò la visiera, e spinse la flotta sua, comandata dal valoroso e saggio suo generale Belisario, addosso alla Sicilia, ch'era allora della giurisdizione de' Goti, con fingere di passare in Africa. Non più che circa otto mila armati tra fanti e cavalli venivano su questa flotta: del che si maraviglierà chiunque è avvezzo a vedere con quanta gente si facciano le guerre e gli assedii de' nostri tempi. Ordinò parimente Giustiniano a Mondo, ossia Mundone, suo general dell'armi nell'Illirico, di passare colle sue genti in Dalmazia, e ridurre, se si poteva, alla sua ubbidienza Salona capitale di quella provincia. Nè contento di ciò, perchè ben apprendeva le forze dei Goti, scrisse ai re cattolici de' Franchi, affine di indurli ad una lega offensiva contra dei medesimi Goti, facendo valere il motivo della religione, ed accompagnando le premure sue con un regalo di molta moneta, e con promessa di molto più, se seco si univano ai danni dei Goti. Volentieri accettarono essi un tale impegno. Riuscì a Mundone, giunto che fu nella Dalmazia, di sbaragliare in un conflitto quanti Goti gli vollero contrastare il passo. Assediata poi Salona, in pochi giorni la costrinse alla resa: con che la Dalmazia venne in potere di Giustiniano. Non fu men favorevole a Belisario la fortuna in Sicilia. Sbarcata la sua gente, venne tosto alla sua divozione Catania, poi Siracusa, e di mano in mano tutte le altre città di quella felice isola, a riserva di Palermo, in cui il presidio gotico mostrò di volersi bravamente difendere. Ma entrate nel porto le navi greche, ed osservato che gli alberi di essa sopravanzavano [859] l'altezza delle mura della città, fece Belisario tirar lassù un gran numero di arcieri, che colle saette offendevano i difensori, in guisa che non passarono molti giorni che la città capitolò la resa. Però senza gran fatica passò tutta la Sicilia sotto il dominio di Giustiniano, vantaggio considerabile per la meditata impresa d'Italia, essendosi in questa maniera tolto ai Goti il granaio, da cui erano soliti di cavarne i grani loro occorrenti pel bisogno della stessa Italia. Con questa felicità terminò il primo anno della guerra gotica; e Belisario, che avrebbe dovuto deporre il suo consolato in Costantinopoli, nell'ultimo dì dell'anno fece la solennità di quella funzione entrando in Siracusa, con ispargere monete d'oro al popolo tutto festoso per trovarsi libero dal giogo de' Barbari. Attese in questi tempi l'imperador Giustiniano a rimettere in buono stato le città e chiese dell'Africa, dove fece non poche fabbriche. E perchè egli si voleva mostrar grato e benefico verso la patria sua, ch'era un piccolo luogo appellato Tauresio nella Dardania, ossia nella Mesia superiore [Procop., de Ædific. Justin., lib. 4.], quivi fabbricò una bella città con canali d'acqua, chiese, palagi, portici larghi, piazze pulite, bagni ed altri comodi ed ornamenti pubblici; e a questa città pose il nome di Giustiniana Prima, con aver poi impetrato da papa Vigilio, che al vescovo di essa come a metropolitano, fossero sottoposte le Chiese delle due Dacie, della Mesia superiore e della Pannonia. Essendo mancato di vita in quest'anno Epifanio vescovo di Costantinopoli, per opera di Teodora Augusta, empia ed iniqua donna, fu eletto suo successore Antimo vescovo di Trabisonda, eretico coperto, che durò poco in quella sede.


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Anno di Cristo DXXXVI. Indizione XIV.
Silverio papa 1.
Giustiniano imperadore 10.
Vitige re 1.

Senza consoli.

Fu segnato l'anno presente in Oriente colla formula post consulatum Flavii Belisarii. E in Occidente quella di post consulatum Paulini anno II. Era il re Teodato allevato fra gli studii delle lettere, ed inesperto affatto nel mestier dell'armi; portava anche in petto un cuor di donna; e la sua platonica filosofia gl'inspirava solamente l'amor del riposo, e non già il coraggio necessario per sostener una guerra e far fronte ai pericoli. Ora a questo coniglio, occupata che fu la Sicilia dai Greci, cadde il cuore per terra; e trovandosi in Ravenna Pietro ambasciatore di Giustiniano [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 6.], da solo a solo trattò seco delle maniere di pacificar l'irato Augusto, e di troncare il corso all'incominciata guerra. Tra loro si convenne che Teodato cederebbe ad ogni suo diritto sopra la Sicilia; manderebbe ogni anno all'imperadore una corona di oro del peso di trecento libbre; gli darebbe tre mila Goti al suo servigio, ogni volta che li richiedesse; non sarebbe lecito a Teodato di far morire alcun sacerdote (che vescovo vorrà qui significare), o senatore, nè di confiscare i loro beni, senza l'approvazion dell'imperadore, al quale eziandio si doveva ricorrere, qualora si volesse promuovere alcuno alla dignità di patrizio e di senatore; che nelle acclamazioni usate negli spettacoli e ne' giuochi circensi, prima si augurasse felicità all'imperadore, ed appresso a Teodato; nè si potessero alzare statue in onore del re, se non unitamente con quella di Giustiniano, e a questa ancora si desse la man dritta. Con questi patti, creduti sufficienti a calmare lo sdegno imperiale, fu rimandato l'ambasciatore a Costantinopoli. Ma appena arrivato [861] ad Albano, fu richiamato indietro a Ravenna. Teodato, dubitando che non si appagasse Giustiniano di quanto s'era convenuto, e parendogli la guerra una montagna che gli si rovesciasse addosso, volle di nuovo udire su questo i sentimenti dell'ambasciatore. L'accorto Pietro maggiormente gl'inculcò come inevitabile la guerra, e seco la di lui ruina, tanto che lo indusse a dire, che se non fossero piaciute le prime proposizioni, egli era disposto a cedere tutto il regno, purchè Giustiniano gli assegnasse beni capaci di dare una rendita annua di mille e dugento libbre d'oro. Con questa conclusione Pietro si rimise in viaggio. Tuttavia, per meglio assicurarsi Teodato che riuscisse bene il disegno, obbligò papa Agapito ad andarsene anch'egli a Costantinopoli per trattar di pace con Giustiniano. Procopio solamente scrive, aver egli spedito in compagnia di Pietro Rustico, uomo romano, ed uno de' sacerdoti, suo intrinseco amico. Crede il cardinal Baronio che Agapito potesse anche portare il nome di Rustico. Ma se Procopio avesse inteso di parlar di un pontefice romano, avrebbe adoperato altre parole. Parmi più verisimile che Agapito, o prima o dopo di Pietro, andasse, d'ordine del pauroso Teodato, a procurare un qualche aggiustamento con Giustiniano. Liberato diacono [Liberat., in Breviar., cap. 2.] ci fa sapere aver Teodato scritte fulminanti lettere al papa e al senato romano, minacciando di far uccidere tutti i senatori e le lor mogli e figliuoli, se non si adoperavano per far desistere l'imperadore dall'invasion dell'Italia, e che per questo il papa andò ambasciator a Costantinopoli. Per far questo viaggio, trovandosi il buon pontefice senza danaro, fu costretto ad impegnare i vasi sacri: particolarità a noi conservata in una lettera di Cassiodoro [Cassiod., lib. 12, epist. 20.], in cui ordina ai tesorieri del re di restituir essi vasi alla basilica di san Pietro. Giunto papa Agapito a Costantinopoli, fu onorevolmente [862] accolto da Giustiniano, ma non potè indurlo ad entrar in trattato di pace, allegando egli d'aver fatto di grandi spese per metter insieme quell'armata, e di non voler averle buttate. Tanto bensì si adoperò con esso imperadore, che gli venne fatto di deporre Antimo dal patriarcato di Costantinopoli, perchè contro i decreti de' sacri canoni trasferito da una chiesa ad un'altra, e molto più perchè convinto di fomentar dottrine ereticali [Anastas. Biblioth., in Vita Agapiti. Histor. Miscella, lib. 16.]. In suo luogo fu eletto Menna, buon cattolico e degno di quella illustre sedia. E tutto ciò avvenne, ancorchè Teodora Augusta facesse ogni possibile sforzo per sostener Antimo, e con esibizione di regali e con varie minaccie tentasse di rimuover il papa dall'abbattere questo suo favorito.

Arrivarono in questo mentre a Costantinopoli Pietro e Rustico, che esposero le prime proposizioni del re Teodato [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 6.], e veggendo costante Giustiniano in volere la guerra, sfoderarono le ultime, cioè la cessione del regno. Allora Giustiniano tutto lieto non si fece pregare ad accettarle; e non tardò a rispedire in Italia lo stesso Pietro ed Atanasio, con ordine e facoltà di segnare quella capitolazione. Vennero amendue a Ravenna, ma ritrovarono mutato di pensiero Teodato, e sè stessi burlati. La cagion fu che avendo egli inviato in Dalmazia un buon esercito per riacquistare Salona, in una zuffa restò morto Mauricio figliuolo di Mondo, generale bravissimo di Giustiniano in quelle parti. Uscito poi di Salona lo stesso Mondo, sbaragliò bensì i Goti, ma nell'inseguire i fuggitivi vi lasciò anch'egli la vita. Questo avvenimento rimise l'anima in corpo a Teodato, e cominciando egli ormai a concepire delle speranze di maggiori fortune, si rise degli ambasciatori cesarei, e nulla volle attenere di quanto avea dianzi promesso. Informato di tutto con lettere [863] l'imperadore, diede ordine a Belisario di portar la guerra in Italia, e spedì Costanziano suo contestabile con un'armata navale verso Salona, la quale fu in breve rimessa con tutta la Dalmazia e la Liburnia sotto il dominio cesareo: e i Goti coi lor capitani se ne tornarono a Ravenna. All'intrepido papa Agapito intanto non bastò di avere deposto Antimo; certificato ancora dell'empietà e guasta credenza di Severo che avea in addietro usurpato il vescovato di Antiochia, e di Pietro, Zoara ed Isacco, anch'essi eretici, tutti rifugiati in Costantinopoli sotto l'ali di Teodora Augusta, protettrice di simil gente, si studiò di farli cacciar fuora della città. Ma in mezzo a tanto fervore venne la morte a rapire questo santo pontefice nel dì 22 d'aprile. Un suntuosissimo funerale gli fu fatto in Costantinopoli, e poscia trasportato fu il corpo suo in una cassa di piombo a Roma nel susseguente ottobre, e seppellito nella basilica vaticana. Giunta a Roma la nuova della morte di esso papa, si raunò il clero e popolo per l'elezione del successore. Ma premendo non poco al re Teodato che in tempi sì torbidi fosse conferito il pontificato romano a qualche persona a sè bene affetta, e non già inclinata a favorir Giustiniano Augusto [Anastas. Bibliothec., in Vita Silverii.], propose con sue lettere Silverio suddiacono, figliuolo del fu papa Ormisda, cioè, per quanto si può credere, nato di legittimo matrimonio da lui prima di essere assunto ai sacri ordini ed al pontificato. Erano accompagnate le lettere di Teodato da minaccie, se non veniva eseguita la sua volontà; e però, quantunque alcuni del clero ripugnassero, nè volessero soscrivere il decreto dell'elezione, pure Silverio fu eletto (credesi nel dì 8 di giugno), e dappoichè fu consacrato, anche i ripugnanti per paura sottoscrissero ed approvarono il fatto. Aveva il re Teodato inviato Ebrimuto, chiamato Eurimondo da Giordano [864] storico [Jordan., de Regnor. success.], suo genero, marito di Teodenanta sua figliuola, con buon nerbo di gente a Reggio di Calabria, affinchè si studiasse d'impedire il passaggio dalla Sicilia in Italia all'armi imperiali. L'industrioso Belisario seppe far tanto con segrete ambasciate e magnifiche promesse, che guadagnò l'animo del comandante goto; e però senza veruna opposizione passò da Messina a Reggio. Quivi dichiaratosi del suo partito Ebrimuto co' suoi seguaci, se ne andò poscia a Costantinopoli, dove, oltre ad altri onori, conseguì la dignità di patrizio. Concorsero gli abitanti della Calabria con allegrissimi volti a Belisario, come a lor liberatore; e questo buon accoglimento gli fu fatto per dovunque egli passava, finchè giunse alla città di Napoli, allora non così grande come oggidì, ma fortificata e guernita di un buon presidio gotico che si era preparato alla difesa. Bisognò assediarla per mare e per terra, e contuttochè vi s'impiegasse gran tempo, e si dessero varii assalti, ad altro non servì che sagrificar la gente, per la gagliarda resistenza che facevano i Goti. Già cominciava l'annoiato Belisario a meditar di volgersi altrove, disperando di ridurre quella città alla sua ubbidienza, quando la buona ventura gli presentò persona che si esibì di aprirgli l'adito della città per un acquedotto, bastando solamente slargare il buco del marmo, per cui l'acqua passava fuori d'essa città. Così fu fatto, e per quell'angusto sito avendo Belisario una notte spinti in Napoli quattrocento soldati con due trombetti, e dato nel medesimo tempo l'assalto, se ne fece padrone. Mirabil cosa fu di poi nell'anno 1442, che Alfonso re d'Aragona per un simile o per lo stesso acquedotto s'impadronì della medesima città di Napoli. Non potè o non volle Belisario impedire il sacco della misera città. Procopio, intento solamente a raccontar ciò che può far onore a Belisario, [865] di cui anche in questa guerra fu segretario, si sbriga in poche parole della descrizione di quella tragedia, con dire dipoi che nel furore del sacco, Belisario, montato in bigoncia, sfibbiò una bella orazione ai soldati, per farli desistere dal maggiormente incrudelire, e che, pacificatili, fece rendere ai Napoletani i lor figliuoli e le mogli che nulla aveano patito di forza da que' tanti masnadieri. Merita ben più fede l'autore della Miscella [Hist. Miscell., lib. 16.], scrivendo che non solamente sopra i Goti, ma anche sopra i cittadini sfogarono la rabbia loro i vincitori, senza perdonare nè a sesso nè ad età, e neppur alle sacre vergini, e ai sacerdoti di Dio, con uccidere i mariti in faccia alle mogli, col condurre schiavi le madri e i figliuoli, e con saccheggiar tutte le case e tutte in fine le sacrosante chiese. Di maniera che giunto poi Belisario a Roma, fu acremente ripreso da papa Silverio per tanta strage e crudeltà usata contra dei miseri Napoletani, e, riconoscendo egli il suo fallo, tornato che fu a Napoli, e trovandola priva quasi affatto di abitatori, s'insegnò di ripopolarla con farvi venir gente da tutte le città e luoghi vicini.

A queste nuove il re Teodato spedì l'esercito de' suoi Goti nella Campania sotto il comando di Vitige, valoroso capitano, che gran saggio di sua bravura avea dato nelle battaglie de' Goti contro i Gepidi ai tempi del re Teoderico. Raunaronsi costoro ad un luogo appellato Regeta, trentacinque miglia lungi da Roma, e quivi, detestando la dappocaggine di Teodato, che non osava di uscire in campagna, e sospettando intelligenza di lui con Giustiniano Augusto per tradire e distruggere il regno gotico, all'improvviso acclamarono per loro re lo stesso Vitige. Ciò inteso da Teodato, che, a mio credere, si trovava in Roma, colla maggior fretta possibile s'incamminò alla volta di Ravenna; ma sopraggiunto nel cammino da un certo Ottari suo nemico, [866] che speditogli dietro da Vitige, meglio dovette adoperar gli sproni, fu gittato da cavallo e privato di vita. Assicurato di ciò Vitige, e fatto imprigionare Teodegisclo, figliuolo di esso Teodato, pensò dipoi, perchè non avea tali forze da potersi opporre a Belisario, trovandosi allora il nerbo migliore de' Goti nella Gallia e nella Venezia, o per altri motivi, di temporeggiare e di ritirarsi a Ravenna, per disporre ivi meglio la difesa del regno, con lasciare intanto quattro mila dei suoi alla guardia di Roma, e Leuderi uomo prudente alla lor testa. In Ravenna forzò Matasunta figliuola di Amalasunta ad accettarlo per marito, affine di stabilirsi meglio il regno, imparentandosi col sangue di Teoderico. Poscia spedì ambasciatori a Giustiniano, per tentar pure se poteva ottener la pace. Ma non potè punto smuover l'animo imperiale, troppo ansioso e già pieno di speranza di riacquistar tutta l'Italia. Intanto si diede Vitige a raunar gente ed armi [Cassiod., lib. 10, ep. 32.]; e perciocchè Teodato suo antecessore, tra per non tener impegnate nella Gallia tante soldatesche, e per tirare in una lega difensiva ed offensiva i re de' Franchi, aveva esibito di cedere ai medesimi tutto quanto possedeva nella Gallia gli Ostrogoti, Vitige anch'egli proseguì e conchiuse con essi questo trattato. Colla cessione suddetta e con pagar loro venti mila scudi d'oro, promisero e giurarono i re Childerico, Teodeberto e Clotario di aiutar Vitige nella difesa del regno d'Italia. Se questa lega fatta con principi, a' quali nulla costavano i giuramenti, riuscisse profittevole ai Goti, in breve ce ne avvedremo. Certo è bensì che allora i re Franchi senza spesa e fatica alcuna entrarono in possesso di tutta la Provenza, e di quanto di là dalle Alpi era di ragione degli Ostrogoti, e divisero fra loro quelle provincie: con che divennero padroni di tutta la Gallia, a riserva della Linguadoca, in cui seguitarono a signoreggiare i Visigoti, e della Bretagna minore che [867] aveva i suoi duchi, re talvolta ancora appellati. Intanto Belisario, lasciato un sufficiente presidio in Napoli e in Cuma, ch'erano le due uniche città della Campania atte ad esser difese, mise in marcia l'armata sua verso Roma. Per istrada ricevette un'ambasciata de' Romani che gli offerivano la resa della città; giacchè non si sentivano voglia di provare il crudel trattamento, toccato ai miseri Napoletani. A dirittura dunque camminando a Roma, trovò aperta una porta, per cui pacificamente entrò, mentre che per un'altra usciva la guarnigione gotica, accortasi di non poter difendere la città con sì poca gente contro il volere de' cittadini. Rimase nondimeno prigione (forse con secreto concerto) Leuderi loro capitano, che insieme colle chiavi delle porte di Roma fu inviato da Belisario all'imperador Giustiniano. Attese dipoi Belisario a fortificar Roma con riparar le mura cadute, cignerle di una larga e profonda fossa, fabbricar merli, e fare ogni altra provvision da difesa, ben prevedendo che i Goti, raunato tutto il loro potere, verrebbono a trovarlo, senza ch'egli avesse forze da aspettarli in campagna.


   
Anno di Cristo DXXXVII. Indizione XV.
Silverio papa 2.
Giustiniano imperadore 11.
Vitige re 2.

Senza consoli.

In Oriente fu segnato il presente anno colla formola post consulatum Belisarii anno II. In Occidente coll'altra post consulatum Paulini anno III. Belisario intanto spedì Costantino con un corpo di gente ad occupar Narni, Spoleto e Perugia. Per impedire questi progressi [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 16.], Vitige anch'egli inviò un altro corpo di gente a quella volta, e seguì ne' borghi di Perugia una zuffa fra loro, nella quale i cesarei restarono superiori. Vitige, [868] avvisato di questo successo, giudicò necessario il muoversi in persona. Prima inviò Asinario ed Uligislao con un grande esercito verso la Dalmazia, con ordine di aspettare un rinforzo che gli si faceva sperare dalla Svevia, e poscia di portarsi all'assedio di Salona; al qual fine destinò ancora molte navi lunghe. Fu in fatti posto l'assedio a quella città per terra e per mare, ma vi si trovò una vigorosa difesa per parte di Costanziano generale dell'imperadore. Poscia si mise in marcia lo stesso re Vitige alla volta di Roma col suo esercito, che Procopio fa consistere in cento e cinquanta mila persone tra cavalli e fanti. Erano i cavalieri per la maggior parte corazzieri. Non sarebbe impossibile che Procopio avesse accresciuto di molto il numero delle truppe gotiche, per maggiormente esaltare il suo generale, che con tanto meno fece resistenza a questo torrente. Passarono felicemente i Goti di là dal fiume Tevere, e quivi si attaccò una fiera battaglia coi Greci, in cui Belisario stesso, più da soldato che da generale combattendo, rispinse più d'una volta i nemici, con ritirarsi infine, dopo una grande strage di quelli, entro le mura di Roma. Fu stretta la città con un forte assedio dall'esercito gotico, che probabilmente non era in tanta copia, come poco fa ci diede ad intendere Procopio, confessando egli [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 25.] che non potè cingerla tutta per la grandezza della città. Tagliarono i Goti tutti gli acquedotti intorno ad essa città; impedirono i molini che macinavano il grano. A tutto provvide l'indefesso Belisario. Coll'uso degli arieti, delle testuggini ed altre macchine si diedero i Goti a travagliar le mura; entrarono anche nel vivaio; ma con loro gran perdita furono rispinti. Cominciò intanto a sentirsi in Roma la fame; e però Belisario, affin di salvare i viveri per chi era necessario alla difesa, ordinò che tutte le donne, i fanciulli ed altre persone inutili uscissero della città, ed imbarcate pel Tevere [869] passassero a Napoli, in Sicilia ed altrove. Il che fu eseguito, senza che si provasse opposizione dalla parte de' Goti. Scrisse poscia all'imperadore con ragguagliarlo di quanto andava succedendo, ed insieme con pregarlo vivamente d'inviargli il più presto possibile un buon soccorso di gente e d'armi: altrimenti sarebbe inevitabile la rovina degli affari e del credito di sua maestà in Italia.

Durante questo assedio, succedette una esecrabil rivoluzione nella Chiesa romana, di cui fu cagione l'empietà ed avarizia di Teodora Augusta, esecutore Belisario, che più capital facea delle grazie di essa imperadrice, che di quella di Dio. Racconta Anastasio bibliotecario, avere essa Augusta scritto a papa Silverio, con pregarlo istantemente di andare a Costantinopoli, od almeno di rimettere nella sedia episcopale di Costantinopoli Antimo deposto e già riconosciuto per eretico. Lette queste lettere, l'afflitto papa ben previde che gli si preparava una gran tribolazione, a cui succederebbe anche la sua morte. Rispose di non poterla ubbidire per conto alcuno, trattandosi d'un eretico, per non mancare troppo sconciamente al sacro suo ministero. Allora l'adirata principessa trattò con Vigilio diacono della Chiesa romana, che era restato in Costantinopoli dopo la morte di papa Agapito, e seco concertò la deposizion di Silverio, e le esaltazione al pontificato del medesimo Vigilio. Liberato diacono [Liberat., in Breviar., cap. 22.] soggiunge che seguì tal convenzione con patto che Vigilio, creato che fosse papa, abolisse il concilio calcedonense, comunicasse con Teodosio vescovo eretico d'Alessandria, col suddetto Antimo, e con Severo capo degli eretici acefali, e pagasse inoltre una buona somma di danaro, cioè ducento libbre di oro. Ciò fatto, l'inviò in Italia con ordine a Belisario di trovar pretesti per deporre papa Silverio, e intronizzare Vigilio. Si fecero perciò saltar fuori dei falsi testimonii, che asserivano, d'aver [870] tenuto Silverio pratica coi Goti d'introdurli in Roma per la porta Asinaria, quando lo stesso Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 1, cap. 14.] attesta che per incitamento spezialmente d'esso papa Silverio, Belisario fu introdotto in Roma. Comparvero ancora lettere, scritte alla macchia sotto nome di esso papa, parlanti dello stesso trattato. Chiamato Silverio al palazzo da Belisario e da Antonina sua moglie, appena gli ebbero esposto il preteso reato, che gli fecero levar gli abiti pontificali, e, vestitolo da monaco, il mandarono in esilio a Patara città della Licia. Quindi Belisario ordinò al clero di eleggere un altro papa con insinuazione che questo avea da essere l'ambizoso Vigilio; e benchè non pochi abborrissero questa iniquità, pure ubbidirono, con eleggerlo papa nel dì 22 di novembre del presente anno. Forse fu preteso che l'elezion di Silverio fosse stata nulla, perchè fatta senza la necessaria libertà degli elettori. Nè molto stette l'intruso papa Vigilio ad eseguire quanto egli avea promesso a Teodora Augusta, con iscrivere a Teodosio alessandrino, Antimo costantinopolitano e Severo antiocheno eretici, e con asserire di tener anch'egli la loro dottrina. Ha addotto il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] varie ragioni per credere che quella lettera, a noi conservata da Liberato diacono, non sia veramente di Vigilio; ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] ne adduce dell'altre per comprovarla vera, facendone menzione anche Vittor Tunonense. Nulla però essa nuoce alla dignità della sede apostolica, perchè Silverio, quantunque esiliato, non lasciava allora d'essere vero papa; e Vigilio non godeva i privilegi de' legittimi sommi pontefici. Oltre di che, ognun confessa ch'egli simoniacamente usurpò la cattedra di san Pietro. Simili iniquità non s'erano provate sotto i re Goti; anzi essi portarono sempre riverenza ai prelati e al clero cattolico; e nell'assedio [871] stesso (lo confessa Procopio) neppur molestarono le basiliche di san Pietro e di san Paolo, poste fuori di Roma, e permisero che vi si uffiziasse, come prima. Bisognò veder tali mostruosità sotto Belisario, che pur si professava cattolico.

Seguitava intanto l'assedio di Roma, minutamente descritto dall'eloquente Procopio, spettatore di tutto. Varia era la fortuna de' combattenti, vigorosi gli assalti, più vigorosa la difesa, e frequenti le scaramucce colla peggio ora degli uni, ora degli altri. Vitige occupò la città di Porto, affinchè non potessero da quel ramo del Tevere, allora diviso in due, venire soccorsi di persone e vettovaglie a Roma. Giunsero nulladimeno da lì a venti giorni a Belisario milleseicento cavalli, inviati da Giustiniano, la maggior parte unni e schiavoni. Ma nella misera città di Roma al flagello della guerra due altri nello stesso tempo si aggiunsero, cioè la carestia dei viveri e la peste, di modo che il popolo cominciò a reclamare. Belisario l'acquetò coll'avviso de' vicini soccorsi da bocca e da guerra, che si dicevano già arrivati a Napoli. Non era però migliore la situazion de' Goti assediante, perchè s'era sminuita di molto la loro armata per le morti e ferite, ed erano anch'essi fieramente malmenati dalla pestilenza e dalla fame. Udito dipoi che era in viaggio un potente rinforzo di Greci per terra e per mare, ingrandito assai più, come è il costume, dalla fama, spedì Vitige a Belisario, e conchiuse seco una tregua. Dopo di che felicemente arrivò a Roma un copioso convoglio di grani e d'altre vettovaglie, condotto da Ostia pel Tevere, e del pari vi giunsero alcune poche migliaia di fanti e cavalli, che furono sufficienti a rincorare gli animi fieramente abbattuti del popolo romano [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 7.]. Probabilmente verso il fine di quest'anno comparve a Roma Dazio arcivescovo di Milano con alcuni de' cittadini primarii della sua città, per pregar Belisario di volere somministrar loro un picciolo corpo [872] di combattenti, asserendo che con questo lieve rinforzo avrebbono forze e maniera di cacciare i Goti da Milano, ed anche da tutta la Liguria. Belisario diede lor parola di farlo. Altro non so io intendere, se non che i Goti avessero bandito da Milano quell'arcivescovo colla sua comitiva: altrimenti troppo pericoloso per essi sarebbe stato il portarsi con tanta pubblicità a Roma per trattar coi nemici.


   
Anno di Cristo DXXXVIII. Indizione I.
Vigilio papa 1.
Giustiniano imperadore 12.
Vitige re 3.

Console

Flavio Giovanni, senza collega.

In Oriente fu creato console questo Giovanni, uomo pagano di setta, e ciò non ostante carissimo e potentissimo nella corte di Giustiniano, siccome abbiamo varii passi di Procopio. Era prima salito alla dignità di prefetto del pretorio, ed ornato del patriziato; e tuttochè avesse ucciso Eusebio vescovo di Cizico, ciò non gl'impedì punto il conseguire i primi onori dell'imperio. Se questo è vero, si conterà anch'esso fra i reati di Giustiniano. Nell'Occidente l'anno presente si trova contrassegnato colla formula: post consulatum Paulini junioris anno IV. Per attestato di Liberato diacono [Liberat., in Breviar., cap. 22.], giunto che fu papa Silverio a Palara, il vescovo di quella città, compassionando la di lui disgrazia, e detestando il sacrilego attentato de' suoi nemici, coraggiosamente volò a Costantinopoli, e, presentatosi all'imperador Giustiniano, si scaldò forte in favor del papa, con rappresentargli l'enormità dell'eccesso in trattar così un romano pontefice, capo visibile di tutta la Chiesa di Dio. Fecero breccia nel cuore di Giustiniano le parole di questo buon prelato; e però diede ordine che Silverio fosse condotto a Roma, e si giudicasse intorno alla verità [873] o falsità delle lettere a lui attribuite. Se si provassero vere, egli se ne andasse fuori di Roma a vivere in quelle città che più gli piacesse. Se poi false, fosse rimesso nella sedia primiera. Ma l'empia Teodora Augusta, udita questa risoluzione del marito, spinse Pelagio diacono della Chiesa romana, che esercitava allora la funzione d'apocrisario, ossia di nunzio, presso l'imperadore, per distornarne l'esecuzione. Stette anco Giustiniano nel suo proposito. Fu ricondotto Silverio in Italia: il che saputo da Vigilio, ricorse a Belisario per timore d'esser cacciato dall'occupata sedia, ed ottenuto che Silverio fosse consegnato a due suoi famigli, il mandò nell'isola Palmaria, ossia Palmarola, ovvero, come ha l'autore della Miscella [Hist. Miscella, lib. 16.], con Anastasio [Anastas. Bibl., in Vit. Silverii.], nell'isola Ponza, vicinissima ad essa Palmaria, di dove sotto la lor guardia fu lasciato morir di fame. Così Liberato diacono. Nondimeno Procopio [Procop., Hist. Arcan., cap. 11.], meglio informato di questi affari, lasciò scritto, essere stata Antonina moglie di Belisario che mandò un certo Eugenio sgherro, di cui solea valersi per somiglianti misfatti, a levar di vita l'infelice pontefice. Erano sì ella, come il marito, schiavi dichiarati dell'imperadrice Teodora, da cui verisimilmente venne l'ordine segreto di sì enorme delitto. Rapporta il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] una lettera di esso papa, in cui scomunica l'usurpatore Vigilio; ma questa vien tenuta per falsa dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] e da altri. Secondo Anastasio [Anastas. Bibliothec., in Vita Silverii.] fu Silverio tolto di vita nel dì 20 di giugno di quest'anno, e venne riconosciuto per martire, e al suo sepolcro succedettero delle guarigioni. Pure non sappiamo che di tale enormità facesse risentimento alcuno il sì decantato cattolico imperador Giustiniano. Egli è poi credibile che dopo la morte di questo santo [874] pontefice il clero con qualche atto pubblico di nuova elezione o di approvazione ligittimasse la persona di Vigilio, essendo fuor di dubbio ch'egli da lì innanzi fu riconosciuto ed onorato da tutti come vero papa e successore di san Pietro. E merita ben d'essere osservata l'assistenza speciale di Dio alla santa Chiesa romana, perchè Vigilio, entrato sì vituperosamente e contro le leggi canoniche nel pontificato, cominciò da lì innanzi ad essere un altro uomo, e a sostener con vigore la dottrina della Chiesa cattolica, massimamente con abbracciare i primi quattro concilii generali, come apparisce dalle lettere ch'egli scrisse all'imperador Giustiniano e a Menna patriarca di Costantinopoli, rapportate dal suddetto cardinal Baronio.

Seguitava intanto l'assedio di Roma e la tregua fra le armate, quando venne in pensiero a Belisario di procurar una diversione all'armi nemiche [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 10.]. Pertanto ordinò a Giovanni, nipote di quel Vitaliano che diede tanto da fare ad Anastasio imperadore, di scorrere con due mila cavalli nel Piceno, oggidì Marca di Ancona, e di prendere e saccheggiare quel che potesse. Fu volentieri ubbidito da Giovanni. Incontratosi egli con Uliteo, zio paterno di Vitige, che se gli oppose con molte squadre, valorosamente combattè, e disfece quelle truppe, colla morte dello stesso condottiero. Trovate poi le città di Osimo e di Urbino ben presidiate, ed in istato di non temere di lui, passò innanzi fino a Rimini: dove ritiratisi i Goti per sospetto degli abitanti, e per timore di qualche intelligenza in Ravenna, diedero comodo a Giovanni d'impadronirsene. Nè era mal fondata l'apprensione dei Goti, scrivendo Procopio che Matasunta, la quale per forza avea sposato il re Vitige, non sì tosto ebbe intesa la vicinanza di Giovanni (forse anche l'avea ella invitato a marciare a quella volta), che se ne rallegrò forte in suo cuore, e con un [875] segreto messo cominciò a parlar seco di nozze e tradimenti. Fu cagione la presa di Rimini che Vitige levasse l'assedio di Roma sul fine di marzo. Nel ritirarsi e passare il Tevere, il campo suo fu assalito da Belisario, e n'ebbe una buona spelazzata. Vitige, dopo aver mandati buoni presidii in Chiusi, in Orvieto, Todi, Osimo, Urbino, Montefeltro e Cesena, col resto dell'esercito passò all'assedio di Rimini, e lo intraprese con tutto vigore. Intanto non trascurò Belisario le richieste fattegli dai Milanesi, e per mare spedì sotto il comando di Mondila mille fanti con essi alla volta di Genova. Giunsero costoro dipoi in vicinanza di Pavia, e loro convenne azzuffarsi coi Goti usciti di quella città, ed ebbero la fortuna di sbaragliarli e d'inseguirli fino alle porte, ma con restar ivi trucidato Fidelio prefetto del pretorio, che, per essere oriondo di Milano, era stato inviato anche egli come persona utile a quella impresa. Perchè in Pavia, città ben fortificata, si erano ridotti con tutto il loro meglio i Goti abitanti in quelle parti, non si potè da sì poca gente tentarne l'acquisto. Però a diritura passarono a Milano, la qual città si sottrasse, secondo il concerto, all'ubbidienza de' Goti, ed acclamò l'imperadore per sua mala fortuna, e senza aver prese buone misure. Altrettanto fecero Bergamo, Como, Novara ed altri luoghi, nei quali Mandilla inviò picciole guarnigioni, con restargli solamente trecento uomini per difesa di Milano. Ma appena ebbe Vitige intesa la ribellion di Milano, che spedì a quella volta Vraia, figliuolo d'una sua sorella, con una sufficiente armata, che di là a non molto s'ingrossò coll'arrivo di dieci mila Borgognoni. Venivano questi mandati in aiuto di Vitige da Teodeberto, uno dei re franchi per soddisfare alla capitolazione tra loro conchiusa nella cessione di sopra accennata degli stati già posseduti nelle Gallie dagli Ostrogoti. Niuno venne de' Franchi, e fu anche fatta correr voce che gli stessi Borgognoni di lor moto [876] proprio, e senza saputa di Teodeberto, erano calati in Italia, per rispetto che si aveva all'imperadore, e perchè dianzi aveano preso i re franchi qualche impegno di lega con esso Augusto, giacchè questi, per maggiormente cattivarsi lo stesso Teodeberto, l'avea probabilmente adottato, con titolo nondimeno di solo onore, per suo figliuolo, come abbiamo da due lettere del medesimo re a Giustiniano presso il Du-chesne [Du-Chesne, Hist. Franc., tom. 1, pag. 862.], nelle quali il chiama padre. Fu dunque stretto di assedio Milano, senza che si fosse prima provveduto al bisogno de' viveri; ed essendo sì scarso il presidio imperiale, conveniva che i cittadini facessero anche essi le guardie alle mura. Non dormiva in questo mentre Belisario. Lasciata una lieve guarnigione in Roma, con quanta gente avea s'inviò sul fine di giugno alla volta della Emilia. Gli si renderono Todi e Chiusi con restar prigionieri i presidii gotici, che egli appresso mandò in Sicilia. Giunse in questi medesimi tempi per mare nel Piceno un rinforzo inviato da Giustiniano in Italia, consistente in cinque mila Greci pedoni, e circa due mila Eruli. Ne era condottiere Narsete, uno de' primi uffiziali dell'imperadore, uomo di gran coraggio ed attività, tuttochè eunuco. Unitosi con lui Belisario nella città di Fermo, tenuto fu consiglio e perchè si ricevette avviso da Giovanni assediato in Rimini, ch'egli non poteva più di sette giorni sostenere la città per mancanza di viveri, fu risoluto di marciare a dirittura colà. Ma non aspettarono i Goti l'arrivo dei Greci per ritirarsi dall'assedio. Insorsero poi gare ed emulazioni fra Belisario e Narsete; e perchè non andavano d'accordo ne' consigli, si divisero. Nulladimeno impensatamente riuscì a Belisario d'impadronirsi d'Urbino, e a Narsete d'entrare in Imola ed in altri luoghi dell'Emilia, ma non già di Cesena, sopra cui fu fatto un vano tentativo. Infierì in quest'anno un'orrenda carestia per tutta l'Italia, di modo [877] che, per attestato di Dazio arcivescovo allora di Milano, citato fuor di sito dall'autore della Miscella [Hist. Miscell., lib. 16.], assaissime madri mangiarono i lor figliuolini, probabilmente durante l'assedio di Milano, dove cominciò a provarsi questa terribil fame. Procopio, ch'era presente a questi guai, scrive essere stata voce costante, che fossero in quell'anno morti di fame cinquanta mila contadini nel solo Piceno, e più ancora nell'Istria e Dalmazia; e che nel territorio di Rimini due donne rimaste sole in una casa, si mangiarono diciassette uomini, con ucciderli di notte di mano in mano che capitavano al loro tugurio.


   
Anno di Cristo DXXXIX. Indizione II.
Vigilio papa 2.
Giustiniano imperadore 13.
Vitige re 4.

Consoli

Flavio Appione senza collega.

Fu creato console questo Appione da Giustiniano Augusto. Suo padre Strategio era patrizio e tesoriere dell'imperadore, e si trova anche appellato exconsole nella Novella centesimaquinta di Giustiniano, senza che apparisca in quale anno egli esercitasse il consolato, e perciò con apparenza che solamente per onore gli fosse conferito quel titolo, oppure che l'imperadore, allorchè fu console, il sostituisse in quella dignità per qualche mese. Restò il principio di quest'anno funestato da una delle più orride tragedie che mai si possano udire. Continuando l'assedio di Milano, sempre più cresceva il furor della fame, in guisa che il popolo si ridusse a mangiar fino i più sozzi e schifosi animali. Non lasciò Belisario d'inviare a quella volta un soccorso di truppe condotto da Martino e da Uliare suoi capitani; ma costoro si fermarono al Po, non arrischiandosi di andare incontro al grosso campo de' Goti e Borgognoni. Ne scrissero a [878] Belisario, il quale determinò con assenso di Narsete di spedire altra gente. Ma mentre i primi si fermano, e si preparano gli altri a muoversi, non potendo più reggere Milano ai morsi della fame, Mondila e Paolo, capitani di quei pochi Greci che erano nella città, capitolarono coi Goti di rendersi, salve le vite loro, con abbandonare alla discrezion de' nemici quelle del popolo. Pertanto entrati coi Borgognoni Goti, ansanti di punire la ribellion de' cittadini, fecero massimamente man bassa sopra i senatori e sopra tutti gli altri maschi, non perdonando neppure ai fanciulli, nè ai sacerdoti, che, per attestato di Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], furono scannati ne' sacri templi e sopra gli stessi altari. Le donne tutte furono fatte schiave, e donate ai Borgognoni in ricompensa del prestato soccorso, e la città tutta saccheggiata, e poi diroccata e ridotta ad un mucchio di pietre. Se vogliam credere a Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 21.], furono in sì esecranda giornata tagliati a pezzi più di trecento mila uomini: numero che giustamente si può sospettare eccedente il vero, perchè, computate le donne, avrebbe dovuto questa città contenere almen da secento mila persone in un giro allora minore del presente, se non immaginassimo rifugiato entro quella città una buona quantità degli abitatori della campagna. Loda il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad ann. 538.] Dazio arcivescovo di Milano, perchè si studiasse di liberar quella città dai Goti ariani, e promovesse la ribellione. Non entro io a disputare se fosse o non fosse lodevole l'operar contro il giuramento di fedeltà prestato ai Goti, che pur lasciavano vivere in pace i cattolici. Bensì dico che si potè desiderar più prudenza nel fatto di Dazio, il cui zelo intempestivo si tirò dietro la lagrimevole rovina della città e del popolo suo; che per un pugno di gente inviato colà de Belisario non si dovea esporre il suo gregge al pericolo di soccombere [879] sotto la possanza tuttavia grande dei Goti in Italia. Ebbe Dazio la fortuna di salvarsi colla fuga, e di ritirarsi a Costantinopoli, dove si trattenne circa quindici anni, lungi dall'eccidio dell'infelice patria sua, e quivi in fine terminò i suoi giorni nell'anno 552. Mondila e Paolo capitani coi Greci di lor seguito anch'essi ebbero salve le vite, e furono condotti prigioni a Ravenna. Tornò tutta la Liguria in potere dei Goti: e non parlandosi più dei Borgognoni, segno è che essi dovettero ritornare al loro paese.

Stava intanto Vitige co' primarii fra i Goti studiando la maniera di potersi sostenere in questa sì pericolosa guerra; e fu conchiuso di tirare in Italia con una grossa offerta di danaro i Longobardi, allora abitanti nella Pannonia, ossia nell'Ungheria. A tal fine furono spediti ambasciatori a Vaci, ossia Vaccone, re in questi tempi, per quanto scrive Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 22.], di quella nazione; nel che non s'accordano con lui Paolo diacono [Paulus Diaconus, Histor. Longobardor., lib. 1, cap. 22.], nè Sigberto [Sigebertus, in Chron.], da' quali abbiam veduto che Audoino infin l'anno 527 condusse i Longobardi nella Pannonia. Procopio parlando poi diffusamente de' Longobardi più sotto [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 33.], scrive che Giustiniano donò loro il Norico e la Pannonia, ed insorse poi guerra fra essi e i Gepidi, regnando Audoino re d'essi Longobardi. Riuscì senza frutto l'ambasciata, perchè si trovò che i Longobardi aveano stretta lega coll'imperador Giustiniano, e fedelmente la voleano mantenere. Perciò Vitige si applicò ad un'altra risoluzione, e fu quella di muover Cosroe re di Persia a far guerra a Giustiniano, con ispedirgli a tal fine ambasciatori, non goti, ma italiani; il che fu di un gravissimo sconcerto all'imperio d'Oriente, di modo che non finì quest'anno che Giustiniano venne in pensiero di far pace coi [880] Goti, e rimandò in Italia gli ambasciatori di Vitige, che erano tuttavia in Costantinopoli, promettendo di spedire persone a Ravenna con plenipotenza di trattarne. E perciocchè intese i dispareri che tuttavia continuavano tra Belisario e Narsete, richiamò l'ultimo a Costantinopoli, e pensava anche di far lo stesso di Belisario, per dargli il comando dell'armata destinata contra de' Persiani. Belisario intento alle sue imprese, dappoichè ebbe intese e compiante le inesplicabili calamità di Milano, passò ad assediar Osimo; inviò Cipriano e Giustino suoi capitani a tentare l'acquisto di Fiesole; giacchè queste due città il trattenevano dal passare innanzi verso Ravenna. Mandò ancora Martino e Giovanni verso il Po, che si postaron in Tortona, tuttochè città priva di mura. Vraia capitano di Vitige, che comandava nelle parti di Milano, ebbe ordine di passare il Po, per isloggiare di là i Greci. Ubbidì egli, ma non si attentò poi di assalirli, e solamente andò ad accamparsi poche miglia lungi da loro.

Già abbiam veduto che razza di gente, intente solo ad ingrandirsi o per diritto o per traverso, fossero allora i re franchi. Anche nell'anno 537, per attestato di Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.], furono vicini a far guerra fra loro, se non si fosse interposta la santa Clotilde loro madre ed avola. Procopio anch'egli aggiunge [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 25.] che quella nazione non sapeva allora cosa fosse il mantener parola, ed aver eglino bensì professata la religione cristiana, ma con ritener tuttavia varie superstizioni del paganesimo, forse perchè non tutti lo aveano per anche abiurato, o pure, come si ricava da Agatia [Agath., in Hist., lib. 2.], coi Franchi buoni cattolici nelle armate erano mischiati gli Alamanni, gente divenuta loro suddita, e tuttavia barbara e in gran parte idolatra. Fra essi re più potente era Teodeberto, appellato re d'Austrasia. In una lettera da lui scritta a Giustiniano Augusto, in [881] cui nondimeno v'ha dei nomi scorretti, egli dice di stendere il suo dominio dai confini della Pannonia sino all'Oceano, abbracciando le Toringia, e parte della Sassonia, e la Svevia, ossia l'Alemagna, e le provincie del Belgio, oltre alla porzione a lui toccata del regno della Borgogna, e ad altri stati di sua giurisdizione. Ora Teodeberto, al vedere in sì pericolosa guerra impegnati e smunti non meno i Goti che i Greci, dimentico del bel titolo di padre ch'egli dava a Giustiniano, e dei regali da lui ricevuti, e delle belle promesse a lui fatte; molto più dimentico dell'obbligo contratto di aiutar Vitige, che a questo fine avea ceduto a lui ed ai suoi zii tutto quanto possedevano nella Gallia i suoi Goti, o vogliam dire Ostrogoti: entrò in pensiero di profittare anch'egli di sì bella occasione, coll'acquisto di qualche porzione d'Italia. Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] ed il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini, in Chron.] riferiscono al presente anno questo fatto che abbiamo più distesamente narrato da Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 25.], scrittore allora dimorante in Italia al servigio di Belisario. Teodeberto adunque, messa insieme una armata di cento mila persone, per le Alpi della Savoia calò nel Piemonte. Erano quasi tutti fanti, che non portavano nè archi nè picca, ma solamente lo scudo e la spada, con una corta azza, nella cui cima il ferro grosso, dall'una parte e dall'altra era ben aguzzo e tagliente. Nelle battaglie dato il segno, con iscagliare quell'azza, solevano rompere lo scudo del nemico, e poi avventarsegli colla spada ed ucciderlo. I Goti in quelle parti, all'avviso che veniva sì forte esercito di Franchi, s'avvisarono tosto che fosse in loro aiuto; e già parea lor di veder Belisario supplicasse per un passaporto da potersene tornar colla vita in Oriente. Nulla di male fecero i Franchi finchè giunsero al Po, dove i Goti aveano [882] un ponte, perchè desideravano forte di passarlo con lor buona grazia. Ma appena vi furono sopra, che presi quanti figliuoli e mogli de' Goti ivi si trovarono, ne fecero un sagrifizio a qualche lor falso dio, e ne gittarono i corpi nel fiume. Spaventata la guardia dei Goti, scappò tosto in Pavia. Arrivarono i Franchi dove era l'accampamento de' Goti, verso Tortona, da' quali fu lor fatto un buon accoglimento, come a buoni amici; quand'eccoti se li veggono venire addosso quai fieri nemici: cosa che li fece tutti dare alle gambe con tal confusione, che passarono fin per mezzo il campo de' Greci, e a dirittura se ne andarono a Ravenna. I Greci, all'incontro, al vedere sì grande scappata, vennero in esperienza che, arrivato Belisario, avesse data a costoro una rotta, e però presero le armi per seco unirsi. Ma trovandosi burlati e fieramente assaliti dai Franchi, si difesero ben per quanto poterono, ma in fine anch'essi furono astretti a voltar le spalle e a fuggirsene. Arrivati in Toscana, ragguagliarono Belisario del disgustoso accidente, e ne rimase non men egli che l'esercito suo stranamente conturbato, per apprensione che sì grosso torrente andasse finalmente a scaricarsi sopra di loro. Pertanto egli scrisse una bella lettera a Teodeberto, con rappresentargli la riverenza dovuta all'imperadore, la possanza di lui, i patti e le promesse seguite, ed esortarlo a ritirarsi.

Attribuisce Procopio all'efficacia di questa lettera l'essere in fatti ritornato da lì a non molto addietro il re Teodeberto colla sua gente. Ma probabilmente sì gran virtù non ebbe una carta sola. In amendue gli alloggiamenti de' Goti e de' Greci fuggiti trovarono i Franchi qualche copia di viveri, e si satollarono ben bene. Ma proseguendo il cammino, tra per essere quella una sterminata moltitudine, e perchè la carestia e la guerra aveano desertato il paese, cominciarono a far dei digiuni non comandati, e spesso altro non aveano che sola [883] carne di bue da cibarsi e l'acqua del Po da bere. Questi patimenti, colla giunta dell'aria estiva e del clima diverso, produssero fra loro di grandi malattie, in manierachè almeno un terzo di quell'armata in breve perì, e il resto era malconcio di sanità. Questi motivi fecero risolvere Teodeberto a ritornarsene a casa. Del resto, secondo la testimonianza di Mario e del Continuatore di Marcellino, egli scorse per la Liguria e per l'Emilia, mettendo tutto a sacco. Più di ogni altro luogo provò Genova la di lui crudeltà, perchè non solo saccheggiata, ma anche rovinata dal furore delle sue genti. E tale fu il soccorso inviato ai Goti, secondo i patti, dai re franchi. E quando mai a questa spedizione alludessero alcune medaglie che si veggono di esso re Teodeberto, sarebbe da cercare se gran gloria seco porti una scorreria fatta più da saccomanno che da eroe, per finir di spogliare e di distruggere le misere provincie dell'Italia, senza alcuno che gli si opponesse. Proseguì intanto Belisario i due assedii d'Osimo e di Fiesole, e dopo molto tempo e fatiche gli venne fatto d'impadronirsi di quelle due città. Dopo di che, unite tutte le sue genti, passò verso Ravenna, e formonne il blocco. Per ben premunirsi avea Vitige fatto caricare nella Liguria una buona quantità di grani, che posta in barconi, calava giù pel Po alla volta di Ravenna. Volle la sua sfortuna che all'improvviso si abbassassero le acque di quel fiume senza poter passare innanzi le barche; e però venne tutto quel convoglio placidamente alle mani dei Greci, con restare sprovveduta Ravenna, senza ch'ella potesse sperar vettovaglie dalla parte dell'Adriatico, perchè Giustiniano era padrone della Dalmazia, e teneva non pochi legni in quel mare. Per quello che dirò più abbasso, dovrei qui riferire la resa di questa città, succeduta a mio credere; ma, seguitando il padre Pagi, mi prendo la libertà di parlarne solamente nel susseguente.


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Anno di Cristo DXL. Indizione III.
Vigilio papa 3.
Giustiniano imperadore 14.
Ildibaldo re 1.

Console

Flavio Giustino juniore, senza collega.

Siccome il padre Pagi osservò, questo Giustino console orientale ebbe per padre Germano patrizio, figliuolo di un fratello di Giustiniano, e però diverso da Giustino juniore poscia imperadore, che era nato da una sorella di Giustiniano. Viene appellato juniore probabilmente per distinguerlo da Giustino seniore Augusto ch'era stato console nell'anno 519. Cosroe re della Persia avea già, siccome dissi, mossa guerra a Giustiniano [Procop., de Bell. Pers., lib. 2, cap. 5.] colla maggior felicità possibile, perchè non v'era nelle frontiere cesaree esercito alcuno valevole a far resistenza. Entrato dunque nella Mesopotamia, si impadronì della città di Sura e di Berea, e tirando dritto all'insigne città di Antiochia, l'assediò, la prese, e, dopo un terribil macello di cittadini e un sacco universale, la consegnò alle fiamme. Sopra la Soria tutta si scaricò questo turbine colla rovina delle città e degli abitanti. Grande impressione fecero nell'animo di Giustiniano questi progressi de' Persiani, nè scorgendosi possente a sostenere nello stesso tempo due gravissime guerre, l'una in Italia, l'altra in Oriente, siccome dissi, avea stabilito di dar fine alla prima come potesse il meglio, e di attendere all'altra più importante e vicina; e tanto più perchè avea bisogno di un bravo e sperimentato generale da opporre alla potenza di Cosroe, nè si trovava chi potesse uguagliarsi a Belisario, la cui persona egli credeva troppo necessaria in Oriente. Avea dunque in Italia a questo fine destinati per suoi ambasciatori al re Vitige, Domenico e Massimino senatori [Idem, de Bell. Goth., lib. 2, cap. 29.]. In questo mentre [885] i re franchi, udito il pericolo in cui stavano gli affari de' Goti in Italia, avevano anch'essi mandati ambasciatori a Vitige, proponendo di far calare un'armata di cinquecento mila combattenti in suo favore, e di unire insieme l'uno e l'altro dominio con quella forma di governo che sarebbe creduta più propria. Belisario, penetrati i disegni de' Franchi, non fu pigro a spedire anch'egli i suoi oratori a Vitige, con rappresentargli il pericolo di lui e della sua nazione, ogni qualvolta si accordasse coi Franchi, e che migliori condizioni poteva sperare da Giustiniano. In somma tanto fece che il distornò dal consentire a capitolazione alcuna coi Franchi, della fede dei quali abbiam già veduto quanto si potesse allora promettere. Arrivarono intanto i legati imperiali, ed entrati in Ravenna, dopo molto dibattimento si conchiuse il negoziato della pace, con che tutto il di qua dal Po restasse in potere dell'imperadore, e tutto il di là di Vitige e dei Goti. Portati questi patti a Belisario, a cui non era ignoto lo stato della città per la mancanza de' viveri, non li volle per conto alcuno sottoscrivere; e fattone conoscere il motivo a chi sparlava di lui, quietò ogni diceria su questo. Per lo contrario i Goti, veggendosi delusi, oramai stanchi del governo di Vitige, e spronati dalla fame, fecero segretamente proporre a Belisario, che se egli voleva assumere il dominio d'Italia, e farsi re, essi per tale il riconoscerebbero, troppo premendo loro di seguitare a starsene in Italia, senza timore d'essere inviati in Oriente. Venuta a notizia di Vitige questa risoluzione de' suoi, anche egli, per averne merito, occultamente ne fece fare istanza a Belisario, il quale, quantunque non si sentisse voglia di guadagnarsi il titolo di tiranno, ed avesse inoltre con grandi giuramenti obbligata la sua fede a Giustiniano di non far novità, tuttavia accettò l'offerta, e promise di eseguirla, e di non far male alcuno agli stessi Goti. Dato dunque ordine [886] che speditamente venissero a Classe, cioè al porto di Ravenna, varie navi con grano ed altri viveri per soddisfare al bisogno de' Goti affamati, entrò dipoi pacificamente coll'esercito in Ravenna, non permise che ad alcun fosse recata molestia, e solamente si assicurò di Vitige, con fare dipoi uno spoglio di tutte le ricchezze del regal palagio, per presentarle all'imperadore.

La resa di Ravenna fu cagione che anche le altre città, e massimamente Trivigi ed altri luoghi della Venezia, inviassero legati a sottoporsi a Belisario. Procopio nell'entrare in Ravenna si faceva i segni di croce al mirare come, per così dire, un pugno di gente avesse soggiogata la nazione de' Goti, i quali in Ravenna sola superavano di numero l'esercito imperiale. Ma i Goti, dopo la morte di Teoderico, si erano impoltroniti, perchè dati agli agi, ed intenti cadauno a farsi un buon nido in Italia. Però le donne di quella nazione, che dianzi avevano udito dire di gran cose intorno al numero superiore e alla statura quasi gigantesca de' Greci, mirandone poi sì pochi prendere il possesso di Ravenna, e ch'essi erano come gli altri uomini ordinarii, sputavano in faccia ai loro mariti, con rimproverare ai medesimi l'insigne loro codardia. Lasciò poscia Belisario che chiunque de' Goti volle uscir di città, se ne andasse ad attendere ai fatti suoi e a visitare i suoi poderi. Ebbe anzi piacere che scaricassero Ravenna, perchè di gran lunga più erano essi che le schiere de' Greci in essa città. Ora qui devo avvertire i lettori d'aver io seguitato il padre Pagi in riferire all'anno presento la presa di Ravenna, fatta da Belisario, prima che terminasse l'anno quinto della guerra gotica, cioè prima della primavera di quest'anno, nei cui primi mesi crede esso Pagi che seguisse la resa di quella città. Ma veramente tengo io che tal resa accadesse prima che finisse l'anno precedente 539. Nelle mie Antichità [887] italiche [Antiq. Italic., Dissert. XXXIII.], là dove tratto della origine della lingua nostra volgare, ho rapportato uno strumento scritto in papiro egiziano sub die tertio Nonarum januariarum, indictione tertia, sexies post consulatum Paulini junioris viri clarissimi, Ravennae, cioè nel dì 5 di gennaio del presente anno. Ora da quello strumento e dalle lettere scritte ai magistrati di Faenza, chiaramente, a mio credere, si scorge che Ravenna non solamente nel principio dell'anno non era più assediata, ma godeva allora anche una somma pace ed avea commercio colle città circonvicine, e conseguentemente che essa era già venuta alle mani di Belisario. E quando sia così, bisognerà dire, o che il padre Pagi non ben concertasse gli anni della guerra gotica, o pure che in quest'anno poche novità succedessero, con essere cessata la guerra, attendendo Belisario a dare buon sesto alle conquiste fatte, e a quietare, s'era possibile, i soggiogati Goti. In fatti pareva ormai rimessa sotto il romano imperio l'Italia tutta, e che s'avesse a respirare e godere un po' di quiete nelle afflitte e devastate sue provincie. Ma fallirono ben presto le speranze de' popoli [Procop., de Bell. Goth., lib. 2, cap. 30.]. Non mancavano, com'è il solito, nemici a Belisario; e questi scrissero all'imperadore ch'egli andava macchinando di farsi signore d'Italia. Può essere che Giustiniano niuna fede prestasse a sì fatte accuse. A buon conto il richiamò a Costantinopoli per dargli il comando dell'armata contra de' Persiani che superbi facevano alla peggio in Oriente, talmente che Giustiniano era giunto a comprare vilmente la pace con lo sborso di cinque mila libbre d'oro, e promessa di pagarne cinquecento ogni anno da lì innanzi. Il re Cosroe dipoi non mantenne i patti, e continuò la guerra con più vigore di prima. Ma appena s'intesero i preparamenti di Belisario per la sua andata a Costantinopoli, che i Goti trovandosi [888] burlati nelle loro speranze, e riconoscendosi ormai sottoposti all'imperadore, si raunarono, per consiglio di Vraja nipote di Vitige, in una dieta a Pavia, e quivi proposero di crearsi un nuovo re. In fatti Ildibado, appellato da altri Ildibaldo, uno de' primarii fra essi che abitava in Verona, chiamato colà, fu improvvisamente vestito della regia porpora. Non volle egli mancare d'inviar tosto legati a Belisario, per rappresentargli la mancanza della parola data, con de' rimproveri ancora alla di lui viltà, quando non consentisse di farsi re d'Italia; che se egli s'accordasse coi lor desiderii, protestava Ildibado che sarebbe andato in persona a depositar la porpora ai suoi piedi. Lusingavansi molti fra i Goti che Belisario cederebbe a così belle istanze. Ma egli, saldo nella conoscenza del suo dovere, rimandò gli ambasciatori colle mani vuote.


   
Anno di Cristo DXLI. Indizione IV.
Vigilio papa 4.
Giustiniano imperadore 15.
Erarico re 1.
Totila re 1.

Console

Flavio Basilio juniore, senza collega.

Crede il Baronio che questo Basilio console fosse romano, e della casa Decia, e però della famiglia di quel Basilio che fu console nell'anno 463, a distinzione di cui fu appellato juniore. Procopio in fatti fa menzione di Basilio patrizio dopo questi tempi in Roma. Ed è da osservare che questo si può dire l'ultimo dei consolati ordinarii dell'imperio romano, se non che Giustino Augusto juniore lo rinnovò nell'anno 567. E gl'imperadori d'Oriente continuarono poi un consolato perpetuo. Giustiniano quegli fu che fece andare in disuso questa sì illustre dignità, perchè egli solo ambiva tutto il lustro del comando. E l'abolì in Occidente col pretesto ch'esso portava [889] una spesa eccessiva, giacchè i consoli doveano, per rallegrare il popolo, gittar monete d'oro e d'argento senza risparmio per le strade, vestire di livrea gran gente, e solevano dare spettacoli e giuochi scenici per divertimento del pubblico. Almeno due mila libbre d'oro spendeva cadauno dei consoli in tale solennità, e la maggior parte di tale spesa era pagata dall'imperiale erario. Richiamato intanto Belisario da Giustiniano, avea già sciolte le vele verso Costantinopoli, seco onorevolmente conducendo Vitige e sua moglie con alcuni de' primarii Goti, e specialmente i figliuoli del nuovo re Ildibado, trovati per buona ventura in Ravenna, e ritenuti [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 1.]. Giunto colà, li presentò a Giustiniano Augusto, che fece lor buon accoglimento, e mirò ancora con maggior piacere i tesori dal re Teoderico trasportati da Ravenna. Si credevano tutti che Belisario fosse per aver l'onore del trionfo, come l'aveva goduto per l'Africa ricuperata: ma, senza sapersene il perchè, non l'ottenne. E qui Procopio tesse un panegirico alle rare qualità e virtù di questo generale, lasciando indietro, secondo l'uso ordinario, i suoi difetti, che si veggono poi raccolti nella Storia segreta [Idem, in Histor. Arcan.]. I Goti, ch'erano con lui, andarono a militare in Oriente; il solo Vitige creato patrizio, per testimonianza di Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 60.], restò in Costantinopoli colla moglie Mutasunta, la quale dopo la morte d'esso Vitige, succeduta da lì a due anni, fu data per moglie a Germano, non già fratello, ma figliuolo di un fratello di Giustiniano Augusto, ed uno dei migliori generali di quell'età. Fece Belisario quella campagna contro i Persiani, ma con poca fortuna e meno onore, e tornossene poi sul fine a svernare a Costantinopoli. Le disavventure sue per cagione di Antonina sua moglie adultera si possono leggere presso il medesimo Procopio ne' primi capitoli della suddetta [890] Storia segreta. In Italia non altre novità succederono, se non che fu spedito da Giustiniano Augusto a Ravenna un certo Alessandro suo maestro del conto, soprannominato Forbicetta, perchè colle forbici sapeva sì gentilmente tosare le monete d'oro, che non pativa punto il contorno delle lettere. Uomo avvezzo a scorticare i soldati e a procurar tutti i vantaggi del padrone, ma con procurare prima di ogni altra cosa i proprii; dimanierachè in poco tempo da una somma povertà era pervenuto ad una somma ricchezza. Costui cominciò non solamente a dare un buon assetto ai tributi e a ingrassare l'erario cesareo, ma eziandio a rivedere i conti del passato, infin sotto ai tempi del re Teoderico. Inventava egli dei crediti e delle accuse di rubamenti, che fingeva fatti sotto i re goti, anche contra chi non aveva mai maneggiate le entrate regali, pelando con ciò disperatamente chiunque egli voleva. E senza far capitale delle ferite e fatiche de' soldati, li ridusse ad una lieve paga.

Tale fu il frutto che i poveri Italiani riportarono dopo tanti desiderii di scuotere il giogo dei Goti: disinganno non poche volte succeduto ad altri popoli, soliti a lusingarsi, col mutar governo e padrone, di migliorare i proprii interessi. Gli stessi soldati, veggendosi così maltrattati, perdevano la voglia di esporre la vita in servigio del principe, ed alcuni ancora passarono a prendere soldo dal nuovo re dei Goti Ildibado. Questi a tutta prima avea poco seguito, e la sola città di Pavia lo ubbidiva; ma prudentemente operando e mostrandosi pieno di buona volontà, a poco a poco tirò nel suo partito tutte le città e il paese che è di là dal Po. Non vi fu se non Vitalio, uno degli uffiziali cesarei che comandava in Trevigi, il quale, unita quanta gente potè, oltre ad un corpo d'Eruli che seco militava, si arrischiò a dar battaglia all'armata d'Ildibado, ma con restare totalmente disfatto. Vi perirono quasi tutti gli Eruli con Visando loro principe; e [891] Vitalio stesso potè ringraziare il buon cavallo che il mise in salvo. Ebbe anche la fortuna di salvarsi Teodimondo figliuolo di Maurizio e nipote di Mondo, ossia Mundone, di cui s'è altrove parlato. Questa vittoria portò non poco onore ad Ildibaldo, e fece risuonare il suo nome per l'Italia e fino in Oriente. Ma questo re infelice non sopravvisse molto. Erasi portata un dì al bagno la moglie di Vraia, cioè d'un nipote del fu re Vitige, il più ricco e potente fra i Goti, tutta di ricche vesti addobbata, e con un gran seguito di paggi e palafrenieri. Quivi trovò la moglie d'Ildibaldo, vestita piuttosto poveramente che no, e non solamente non si degnò di farle atto alcuno di quel rispetto che si conveniva a chi era moglie del re, ma ancora passò oltre col capo alto, mostrando di disprezzarla. Se ne dolse acremente col marito la donna, ed egli da lì a poco inventato appresso i Goti un pretesto che Vraia meditava tradimenti, e trattava di passare al servigio dell'imperadore, il fece con inganno uccidere: azione che disgustò non poco i Goti, senza che però alcuno osasse di farne vendetta. Ma ben la fece un certo Vila di nazione gepida, che militava nelle guardie del medesimo re. Aveva costui contratti gli sponsali con una donna ardentemente da lui amata; ma mentre era in una spedizione, Ildibaldo la diede in moglie ad un altro. Infuriato per questo Vila, e ben consapevole de' mali umori cagionati per la morte di Vraia, un dì che Ildibaldo dava pranzo ai primati dei Goti, stando egli colle altre guardie intorno al principe, con una sciablata gli tagliò la testa, che cadde sulla tavola, con restar tutti i convitati sì stranamente sopraffatti dal colpo, che venne lor meno la voce, nè dissero parola. Divolgatasi la morte di questo re, i Rugi, che erano un corpo di gente venuta a' tempi del re Teoderico in Italia, e che militava nelle sue armate, con prendere moglie solamente della lor nazione, all'improvviso dichiararono re uno de' loro principali [892] capi per nome Erarico: risoluzione che non fu impugnata dai Goti, ma nondimeno dispiacque loro non poco. Costui nulla fece di rilevante per rimettere in sesto gli affari de' Goti. Seguitava intanto a stare sotto la divozione dell'imperadore tutto il di qua dal Po. Per attestato del Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.], Bessa patrizio, uno de' più riguardevoli ufficiali cesarei, si portò in Piacenza, per tenere da quella parte in briglia i Goti; e Costanziano dalla Dalmazia passò, per ordine di Giustiniano, a Ravenna con titolo di generale delle armi. Ma non passarono cinque mesi che seguì un'altra mutazione presso i Goti. Era governatore in Trivigi Totila, figliuolo d'un fratello dell'ucciso re Ildibaldo, benchè giovanetto, pure personaggio di gran cuore e di non minore prudenza. Questi, non ignorando il mal talento mostrato dai Goti verso di suo zio, nè fidandosi di loro, cominciò segretamente a trattare con Costanziano, comandante de' Greci in Ravenna, di rendersi a lui con sicurezza della vita e delle sostanze, e la proposta fu subito abbracciata. Ma intanto i Goti, che di mal occhio miravano il re novello Erarico, riconoscendolo per uomo incapace di sostener la dignità reale e i loro interessi, mandarono gente a Trivigi ad offerir la corona a Totila, il quale non ebbe difficoltà di scoprire ai messi il suo trattato coi Greci; ma con soggiungere, che se levassero di mezzo Erarico, s'indurrebbe a compiacerli. In questo mentre Erarico, chiamati ad una dieta i Goti, insinuò loro la necessità di spedire ambasciatori a Giustiniano, per ottener, se fosse possibile, l'aggiustamento già proposto da Vitige, cioè, che l'Oltrepò restasse in dominio della loro nazione. Piacque la proposizione; andarono i legati con tali apparenze, ma con segreta istruzione di offrir all'imperadore tutto quanto possedevano i Goti, purchè egli accordasse ad esso Erarico una buona somma di [893] danaro e l'onore del patriziato. Mentre quei vanno, Erarico fu ucciso dai Goti, e sostituito in suo luogo il sudetto Totila, uomo veramente degno di comandare. Portava egli il cognome o soprannome di Baduilla, ossia Baduella; e questo solo si legge nelle sue medaglie presso il Du-Cange, Mezzabarba ed altri. Ed in fatti anche da Giordano [Jordan., de Regnor. Success.] è chiamato Baduilla, e dall'autore della Miscella [Hist. Miscell., lib. 16.] Baduilla, qui et Totila dicebatur.

   
Anno di Cristo DXLII. Indizione V.
Vigilio papa 5.
Giustiniano imperadore 16.
Totila re 2.

L'anno I dopo il consolato di Basilio.

Dacchè Giustiniano Augusto intese colla morte di Erarico svanite le speranze tutte di pace in Italia, ed alzato al trono il nuovo re gotico Totila [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 3.], scrisse lettere assai calde ai suoi uffiziali di Ravenna, con rampognare la lor dappocaggine, ed incitarli a qualche impresa. Perciò Costanziano, Alessandro e gli altri capitani uscirono in campagna con otto mila persone: nel qual piccolo esercito consisteva allora il nerbo maggiore delle milizie greche in Italia. Perchè avevano qualche intelligenza in Verona, a quella volta s'incamminarono, e non mancò in esse parti un uomo nobile, appellato Marciano, di trattare in maniera col custode di una delle porte, ch'egli una notte lasciò entrare in quella città cento Greci scelti, condotti da Artabaze capitano de' Persiani militanti in Italia. I Goti che vi erano di presidio, credendo inondata la città dai nemici, si ritirarono tosto sopra i colli, a piè de' quali è situata Verona. Venne il giorno, e non era peranche arrivato alla città il grosso de' Greci, fermatisi a disputar fra loro della division della preda che dovea farsi nel saccheggio della città. Accortisi dunque i Goti, giacchè, venuta [894] la luce, poteano facilmente veder tutto dall'alto della collina, come erano pochi gli entrati nella città, e tuttavia lontano il resto delle squadre nemiche, se ne tornarono in Verona, ripigliarono le porte, e cominciarono a dar la caccia ad Artabaze e a' suoi compagni. Arrivò l'esercito greco, e trovate le porte chiuse, altro far non potè che mirare i bei salti che andavano facendo dalle mura i lor colleghi fieramente incalzati dai Goti. Quei che caddero nel piano, salvarono la vita, fra' quali fu Artabaze. Gli altri, cadendo in siti scoscesi, finirono quivi i lor giorni. E così lo scornato esercito con Artabaze, che disse loro un mondo di villanie, se ne tornò indietro fino a Faenza. Mosso da questa novità il re Totila, raunò cinque mila de' suoi guerrieri, e a dirittura andò a cercare i Greci, e quantunque sapesse che erano molto superiori di forze, pure, valicato un fiume (che da Procopio fu lasciato nella penna), bravamente gli assalì. Aveva egli prima ordinato a trecento de' suoi, che, passato esso fiume, allorchè vedessero ben attaccata la zuffa, si scagliassero contro ai nemici, prendendoli alle spalle. Così fecero. Allora i Greci, figurandosi maggiore di quel che era lo sforzo de' Goti, più non tennero il piè fermo. Nella fuga molti furono fatti prigioni, assai più fu il numero dei tagliati a pezzi, e tutte le lor bandiere restarono in potere de' Goti: cosa non avvenuta mai dappoichè con loro si guerreggiava in Italia. Giordano storico [Jordan., de Regnor. Success.] e il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.] scrivono succeduta a Faenza questa vittoria de' Goti. Quindi spedito da Totila in Toscana un esercito, cinse d'assedio Firenze, alla cui difesa ara Giustino. Ma giunto l'avviso che Bessa, Cipriano e Giovanni, capitani dell'imperadore con forze maggiori si avvicinavano, i Goti si ritirarono nel Mugello. Nacquero liti fra gli uffiziali cesarei a chi dovesse toccare [895] il comando dell'armata; e benchè la sorte decidesse pel suddetto Giovanni, figliuolo d'una sorella di Vitaliano, pure gli altri non vi si accomodarono. Assalì Giovanni colle sue milizie i Goti, che si erano ritirati sopra una collina, ma fu rispinto: ed essendo stata uccisa presso di lui una delle sue guardie, corse tosto voce ch'egli stesso vi avea perduta la vita. Questo bastò perchè i suoi voltassero affatto le spalle. Essendo passata la medesima voce nel resto delle truppe imperiali che non combattevano, e massimamente vedendo gli altri scappare, tutti questi altri ancora si diedero ad una vergognosa fuga, restando parimente non pochi d'essi morti o prigioni. Totila seppe così ben fare, che questi prigioni spontaneamente presero a militare al suo soldo.

Erano già venute in potere d'esso Totila, per attestato del Continuatore di Marcellino conte, Cesena, Urbino, Montefeltro e Pietra Pertusa. Essendo egli dipoi passato in Toscana, niuna di quelle città se gli volle rendere; però continuato il viaggio, senza toccar Roma, arrivò nella Campania e nel Sannio, e quivi impadronitosi di Benevento, città riguardevole, vi fece spianar le mura, per levar ai Greci il ricovero in quelle parti. Tentò colle buone e con grandi promesse i Napolitani, se gli voleano rendere la città; ma essendovi dentro Conone capitano dell'imperadore con mille Isauri alla difesa, i cittadini aveano legate le mani. Il perchè Totila in persona colla maggior parte dell'oste sua vi pose lo assedio, e fece scorrere l'altre sue schiere per la Puglia, Calabria ed altre provincie ora componenti il regno di Napoli, che tutte vennero alla sua ubbidienza [Gregor. Magnus, Dialogor., lib. 2, cap. 14.]. In questi suoi progressi arrivato a Monte Casino, volle visitar san Benedetto, celebre allora abate del monistero, il quale molte cose gli predisse avvenire, e l'esortò alla clemenza. Prese di poi Totila il castello di Cuma, dove trovò una gran [896] somma di danaro, e le mogli d'alcuni senatori romani; ma queste onorevolmente furono rimandate ai loro mariti; azione che acquistò a Totila il credito di principe savio e benigno. Così slargato il suo dominio, cominciò Totila a ricavar tributi da que' paesi e a rinforzare il suo erario ed esercito, e, per lo contrario, a calare la voglia di combattere nell'armata di Giustiniano, perchè non correvano le paghe, ed ognuno de' capitani pensava solo a sè stesso, guardando la città dove era di governo. Costanziano stava in Ravenna, Giustino in Firenze, Cipriano in Perugia, Bessa avea la guardia di Spoleti, e così altri d'altre città: il che cagionava un lamento universale de' popoli, mentre si vedevano spopolare e tornare di nuovo ne' pericoli e danni della guerra. Giunte a Costantinopoli queste cattive nuove d'Italia, se ne afflisse non poco Giustiniano Augusto; ma, senza perdersi d'animo, tosto prese a provvedere al bisogno, quantunque gli stessero forte a cuore i Persiani, che seguitavano tuttavia la guerra con furore e buona fortuna contro di lui. Creò prefetto del pretorio d'Italia Massimino, e seco mandò una flotta piena di Traci, e d'Armeni. Costui, siccome persona poca pratica del mestier della guerra, pigro inoltre e timoroso, arrivato che fu nell'Epiro, quivi fermatosi, vi consumò il tempo. Dietro a lui poscia Giustiniano inviò Demetrio con titolo di generale, e un battaglione di fanti. Costui sollecitamente arrivò in Sicilia, ed inteso l'assedio di Napoli e la penuria dei viveri, fatta tosto raunare una quantità grande di navi, e caricatele di vettovaglie, s'incamminò alla volta di Napoli. Ma perchè non aveva scorta tale di soldatesche da poter difendere i legni, caso che fosse assalito, giudicò meglio di tirar innanzi fino ai porti di Roma con isperanza di quivi trovarne, e d'imbarcarne quanto occorresse al bisogno. S'ingannò: niuno volle accompagnarsi con lui. Perciò determinò in fine di tentar la fortuna con [897] quei pochi soldati che seco avea condotto, e si presentò davanti a Napoli. Ma informato Totila che non troverebbe resistenza in quei legni, spinse loro addosso alcuni dromoni carichi di soldati, che presero a man salva quelle navi con tutti i viveri; e a riserva di Demetrio e di pochi altri, che, saltati nei battelli, si salvarono, il resto fu o trucidato o preso. Pervenne finalmente in Sicilia Massimino prefetto del pretorio, da dove, stimolato, dalle istanze di Conone e de' Napoletani, verso il fine dell'anno spedì in loro soccorso la flotta seco venuta con tutte le truppe. Ma non sì tosto arrivarono le navi in Napoli, che furono sorprese da una fiera burrasca, e la forza del vento le spinse al lido in que' siti appunto, dove erano accampati i Goti. Non istettero questi colle mani alla cintola; saltarono nelle navi, uccisero chiunque volle mettersi alla difesa, presero vivi gli altri, e fra essi il suddetto generale Demetrio, che era ritornato su questa flotta. Pochi altri ebbero la fortuna di salvarsi. E tale fu il successo degli sforzi fatti in quest'anno da Giustiniano per sostenere gl'interessi d'Italia. Poco meno infelici furono gli altri avvenimenti della guerra coi Persiani. La sola accortezza di Belisario impedì che non facessero maggiori progressi; e, ciò non ostante, fu egli incolpato di avere trascurati alcuni vantaggi che si poteano riportare in quelle parti dall'armi dell'imperadore; e però, caduto dalla grazia di lui, fu richiamato a Costantinopoli, dove, essendo privato della carica di generale, per qualche tempo menò una vita ritirata, con temer sempre insidie e il fine de' suoi giorni. In questo anno ancora, per quanto s'ha da santo Isidoro [Isidor., in Chron. Gothor.] e dalla Cronichetta [Victor Turon., in Chron., edit. Canisii.] inserita in quella di Vittor Tunonense, Childeberto e Clotario re dei Franchi con un potentissimo esercito entrati per Pamplona in Ispagna, saccheggiarono la provincia Tarraconese, assediarono Saragozza, [898] e si credevano di conquistar quei paesi. Ma i Visigoti, de' quali era in quei tempi re Teode, e generale Teodisclo, occupati i passi, vennero ad un fatto d'armi colla totale sconfitta de' Franchi. Incredibile fu, se crediamo ai suddetti storici, la strage fatta de' medesimi. E i rimasti in vita bisognò che a forza d'oro comperassero la licenza di potersene ritornar nelle Gallie. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3.] e Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.] parlano di questa guerra, ma non già della rotta data ai Franchi. Anzi dicono che essi ritornarono carichi di preda e con trionfo. Come accordar insieme questi scrittori, ciascun de' quali vuol mantener l'onore della sua nazione?


   
Anno di Cristo DXLIII. Indizione VI.
Vigilio papa 6.
Giustiniano imperadore 17.
Totila re 3.

L'anno II dopo il consolato di Basilio.

Sostennero i Napoletani con gran vigore e pazienza l'assedio della loro città, finchè poterono. Ma venendo ogni dì più a mancare i viveri e a crescere i patimenti, prestarono orecchio a Totila [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 7 et seq.], che offeriva un buon trattamento, e la libertà a Conone uffiziale di potersene andare col presidio cesareo. Però fu capitolata la resa della città, se in termine di trenta giorni non veniva soccorso. Anzi tre mesi di tempo (aggiugne Totila) vi concedo per aspettare questo sospirato soccorso, essendo io ben certo che non verrà giammai. Ma prima ancora del tempo accordato, perchè non v'era più da mangiare, si renderono i Napolitani. Fu mirabile verso di loro in tal congiuntura l'umanità e provvidenza di Totila. Per la fame patita pareano piuttosto un popolo di scheletri che d'uomini. Ora, affinchè con troppa ingordigia, e con pericolo [899] poi di morire, non si cibassero dei viveri ch'egli abbondantemente avea introdotto, fece serrar le porte della città, senza lasciar uscire alcuno, ed a tutti fece dispensare con gran parsimonia sulle prime il cibo, e poscia a poco a poco andò slargando la mano, finchè, veggendoli rimessi in forze, ordinò che s'aprissero le porte, e lasciò che ognuno andasse a suo talento ovunque gli piacesse. E perciocchè il mare per molti dì fu grosso, talmentechè non permise a Conone di partire, secondo i patti, colla sua guarnigione (ritardo che l'affliggeva non poco, per timore che Totila pentito nol ritenesse prigione), Totila stesso il rincorò e il provvide di carrette e giumenti, e di quanto occorreva per fare il viaggio per terra sino a Roma, insieme con una buona scorta per sua sicurezza. In questi medesimi tempi fece ricorso a Totila un Calabrese, con lamentarsi d'una delle sue guardie che aveva usata violenza ad una sua figliuola zitella. Ordinò Totila che il delinquente, il quale non negava il fatto, fosse carcerato; e perchè i principali de' Goti, conoscendo che costui era persona di gran bravura, non avrebbono voluto la sua morte, ricorsero a Totila per ottenergli il perdono. Allora Totila con saggio ragionamento fece loro intendere che il permettere simili delitti era un irritar l'ira di Dio contra di tutta la nazione; e però elegessero, se più loro premeva la conservazione dell'università, oppur quella di un solo uomo cattivo. Non sepper che rispondere; ed egli, fatto morire il reo, donò alla fanciulla offesa tutti i di lui beni. Questi atti di rara prudenza, umanità e giustizia del re Totila gli abbiamo dalla penna dello stesso Procopio autore greco. Aggiugne egli inoltre che in questi tempi i capitani e soldati dell'imperadore in Italia ad altro non attendevano che a divorar le sostanze dei sudditi, a sfogare la lor lussuria e a commettere ogni sorta d'insolenze; di maniera che i più degl'Italiani, [900] malcontenti del governo d'essi Greci, si auguravano l'antecedente meglio regolato dei Goti. Fece dipoi Totila spianar tutte le mura di Napoli, perchè se mai venissero con grande sforzo i Greci, e tornassero a ricuperar quella città, per mancanza di fortificazioni non vi potessero fermare i piedi. Il suo disegno era, occorrendo, di provar la sua fortuna con qualche battaglia a campo aperto, e non di consumare il tempo in assedii, sottoposti a troppe lunghezze ed inganni.

Egli è nondimeno da osservare che il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini, in Chron.] riferisce nell'anno susseguente 544 la desolazione di Napoli. Forse vuol dire che nel presente se ne impadronì, e solamente nell'anno appresso spogliò quella città delle sue mura. Tuttavia convien confessare che nella cronologia di questi tempi si trova un non lieve imbroglio, perchè non abbiamo se non Procopio che diffusamente tratta degli affari d'Italia, e il Continuatore suddetto, che ne va accennando alcune picciole cose. Ora Procopio distingue i tempi correnti con parole, quanto a noi, alquanto tenebrose; perchè, mancando la notizia de' consoli, che serviva in addietro a contrassegnare e distinguere gli anni, egli si vale della formola dell'anno primo, anno secondo, e così discorrendo, della guerra gotica. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], che prese il primo anno di questa guerra dall'entrata di Belisario in Italia, rapporta di mano in mano le azioni occorrenti, con adattarsi a questo principio. Il Sigonio, all'incontro, e il padre Pagi, che legano il primo anno di tal guerra coll'occupazione fatta da Belisario della Sicilia, anticipano un anno la serie dell'imprese. Quel ch'è più, pretende il padre Pagi che sia guasto nei testi di Procopio l'ordine di questi anni, e il cardinal Noris [Noris, in Dissert. de V Synod.] immagina anche [901] egli dell'imbroglio ne' racconti di Procopio, perchè con esso lui non s'accorda il Continuatore suddetto di Marcellino. Però in mezzo a questo buio convien camminare il meglio che si può. Al presente anno riferiscono il Continuatore suddetto e Vittor Tunonense [Victor Turonensis, in Chron.] una terribil peste che devastò l'Italia tutta. Questa, secondochè esso Continuatore osserva, era prima insorta nell'Oriente, dove, non meno che nell'Illirico, avea fatta un'incredibile strage. Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 2, cap. 22.] anch'egli ne parla, con dire che tal malore (secondo il solito) cominciò in Egitto, e poi si diffuse per tutto l'Oriente, ed essere mancato poco che non ne restasse disfatto tutto il genere umano. Evagrio [Evagr., in Hist.] racconta di più, che questo spaventoso flagello andò scorrendo per quasi tutto il mondo allora conosciuto, e durò anni cinquantadue: calamità, simile a cui non si legge nelle antiche istorie. Probabilmente il furore di questa peste frastornò nel presente anno i progressi dell'armi gotiche in Italia, e indebolì anche le loro armate. Abbiamo dal sopraddetto Continuatore che Totila fece diroccar le mura di altre città forti nella Campania, e ordinò alle sue genti di formare l'assedio di Tivoli. Ricavasi eziandio da una annotazione fatta al libro di Aratore, di cui parlerò fra poco, che nel presente anno Totila s'incamminò coll'esercito alla volta di Roma. Abbiamo parimente da Teofane [Theoph., in Chron.] che nell'anno 17 di Giustiniano capitò dalle parti d'Italia a Costantinopoli un cantambanco, per nome Andrea, conducendo seco un cane orbo e di pel giallo, che facea delle strane maraviglie. In mezzo alla piazza, con gran concorso di gente, si faceva il cerretano dare dagli spettatori varii anelli d'oro, d'argento, di ferro, senza che il cane vedesse, e li nascondea sotterra. Poscia, per ordine suo, [902] il cane li trovava, e da sè restituiva a ciascheduno il suo. Essendo anche richiesto di qual imperadore fossero diverse monete, le distingueva. Inoltre interrogato, quali donne fossero gravide, quali uomini puttanieri, adulteri, avari, o liberali, con verità sapeva indicarli. Fu creduto che fosse un negromante.


   
Anno di Cristo DXLIV. Indizione VII.
Vigilio papa 7.
Giustiniano imperadore 18.
Totila re 4.

L'anno III dopo il consolato di Basilio.

Aveva il re Totila inviato un distaccamento delle sue schiere ad assediare Otranto, ed egli poi colla sua armata era passato sino alle vicinanze di Roma. Sapendo che i Romani erano poco soddisfatti dei Greci, scrisse loro più lettere; fece anche spargere ed attaccare in Roma varii biglietti, per tentar pure, se potea muover quel popolo a far qualche novità; ma il presidio imperiale, comandato da Giovanni generale dell'armi, tenne tutti in dovere, diede solamente occasione di cacciar fuori di Roma tutti i preti ariani. In tal maniera passavano le faccende, quando l'imperador Giustiniano, avvisato da più bande e da più di uno, e massimamente da Costanziano, che comandava in Ravenna, del pessimo stato de' suoi affari in Italia, ancorchè gli pesasse forte addosso l'arrabbiata guerra dei Persiani, pure determinò di mandare in Italia Belisario, già ritornato in sua grazia per opera di Teodora Augusta. Ma pochi combattenti seco condusse Belisario, se non che nel viaggio con danari ingaggiò quanti giovani scapestrati potè, e con essi arrivò a Salona in Dalmazia. Di là spedì Valentino con alcune navi cariche di vettovaglie, per soccorrere Otranto assediato, dove la guarnigione affamata avea già capitolato la resa, se non compariva soccorso fino a un determinato giorno. Fu a tempo Valentino, ed i Goti delusi giudicarono [903] meglio di levar quell'assedio. Si studiò intanto Belisario, dopo essere passato a Pola, di metter in ordine la sua, per altro assai tenue, armata; e finalmente con buon vento si condusse a Ravenna. Ma non si dee tacere che il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.] riferisce solamente all'anno seguente 545 la venuta in Italia di Belisario, come ancora credette il cardinal Baronio. Ebbe maniera Totila di risapere quali fossero le forze che il generale cesareo avea menato seco; e gli riuscì in questi tempi di impadronirsi dell'assediata città di Tivoli per tradimento di alcuni pazzi cittadini, che furono la rovina della lor patria: perchè entrati i Goti, crudelmente trucidarono tutti quegli abitanti, e fino il loro vescovo. Si mise poi l'esercito suo a cavallo del Tevere, con che cominciò ad impedire il passaggio dei viveri dalla Toscana a Roma. Dall'altra parte Belisario inviò Vitalio, uno dei suoi capitani, a Bologna, per cui cura quella città ritornò alla divozione di Cesare. Mandò parimente Torimuto, Recila e Sabiniano con mille soldati a soccorrere Osimo, assediato da Totila; e questi felicemente entrarono nella città. Ma conosciuto dipoi ch'erano d'aggravio al presidio, una notte se ne tornarono via, non già con quella fortuna con cui erano venuti, essendochè avvertitone Totila da una spia, mise in aguato due mila dei suoi, che coltili all'improvviso, ne uccisero dugento, sbandarono il resto, e rimasero padroni di tutto il loro bagaglio. Aveva, secondo il suo costume, Totila fatto abbattere le porte, ed anche una parte delle mura di Pesaro e di Fano, perchè non vi si annidassero i Greci. Belisario stando in Ravenna, fatta segretamente prendere la misura delle porte di Pesaro, e fabbricatene delle simili ben armate di ferro, diede ordine a Sabiniano e Torimuto di condurle seco sopra alcune barchette, e sbarcatele in [904] terra, di applicarle al sito loro, e poscia di riparare il meglio che potessero le mura, e di fortificarsi in quella città colla guarnigione che con esso loro inviò. Fu diligentemente eseguita la di lui intenzione: il che inteso da Totila, v'accorse con un buon corpo di gente per isloggiarli, ma senza frutto, dimanierachè, dopo avervi consumato non poco tempo intorno, prese il partito di ritornarsene all'assedio da tanto tempo intrapreso di Osimo. Fece egli ancora nei medesimi giorni stringere con un forte blocco le città di Fermo e di Ascoli. Terminò in quest'anno a dì 26 di marzo la sua vita in terra l'insigne patriarca san Benedetto [Faust., in Vit. S. Mauri. Chronicon S. Medardi apud Dacherium.], istitutore, ossia ristauratore in Occidente dell'ordine monastico, ordine celebratissimo, il quale non tardò a diffondersi non solo per tutta l'Italia, ma anche per tutta la Gallia e per altri paesi del rito latino, dimanierachè a poco a poco la sua regola fu accettata anche nei monisteri che dianzi erano stati fondati con altro istituto. Diede parimente in quest'anno compimento al suo poema eroico, dove son raccontati gli Atti degli Apostoli, Aratore, nobile romano, che da papa Vigilio fu promosso al grado di suddiacono della Chiesa romana. Fu letta pubblicamente e con grandi applausi questa sua fatica in varii giorni nella chiesa di san Pietro in Vincula.


   
Anno di Cristo DXLV. Indizione VIII.
Vigilio papa 8.
Giustiniano imperadore 19.
Totila re 5.

L'anno IV dopo il consolato di Basilio.

Trovavasi Belisario in Ravenna con poche milizie, e queste ancora creditrici da gran tempo del soldo loro dovuto; ed essendo la maggior parte dell'Italia in potere di Totila, non restava maniera al generale cesareo, non dirò di rimettere [905] in piedi gli affari, ma neppur di sostener quel che restava in dominio de' Greci [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 12.]. Perciò spedì a Costantinopoli Giovanni nipote di Vitaliano, con vive istanze, a Giustiniano Augusto, per ottenere un gagliardo rinforzo di gente e di danaro, e con pregarlo specialmente di mandargli le guardie ch'esso Belisario era solito a condur seco nelle guerre. Andò Giovanni; ma intento ai proprii affari, attese a concertare il suo matrimonio con Giustina, figliuola di Germano, nipote dell'imperador Giustiniano. In questo mentre a Totila si renderono le città di Fermo e di Ascoli; dopo di che egli si trasferì all'assedio di Spoleti e di Assisi. Erodiano, che comandava nella prima di queste città, portato dall'odio ch'egli professava a Belisario, promise di rendere la città col presidio, se nello spazio di trenta giorni non gli veniva soccorso; e questo non essendosi mai veduto comparire, fu eseguita la capitolazione. Siffrido, ch'era alla difesa d'Assisi, in varie sortite troppo animosamente fatte restò finalmente ucciso egli colla maggior parte dei suoi, e però i cittadini si renderono anch'essi ai Goti. Portatosi dipoi Totila all'assedio di Perugia, usò quante minaccie e promesse mai seppe, per indurre Cipriano governatore della città ad arrendersi; ma si parlò ad un sordo. Ebbe maniera di farlo assassinare da una delle di lui guardie, che si salvò poi nel campo de' Goti; ma, ciò non ostante, i soldati di quel presidio s'ostinarono alla difesa della città, e Totila fu costretto ad abbandonar l'impresa. Si rivolse egli dunque verso Roma, e formò il blocco alla medesima. E qui convien osservare la saggia condotta di questo re italianizzato. Per ordine suo rigoroso, dai soldati non era inferita molestia o danno alcuno agli agricoltori, i quali perciò in tutta l'Italia attendevano alle lor fatiche, senza essere inquietati perchè pagassero i tributi consueti al re, e le pensioni dovute ai lor padroni usciti di Roma. S'accostarono i Goti a Roma, [906] e non potendolo sofferire Artasire e Barbazio, due capitani fra' Greci, ancorchè contro la volontà di Bessa, allora comandante in Roma, uscirono loro addosso con una buona brigata, e li misero in fuga; ma caduti in un'imboscata, vi lasciarono quasi tutti la vita, il che fu cagione che niun ardisse di uscir fuori della città da lì innanzi. Nulla potevano ricavare i Romani dalle lor campagne, nulla neppure poteva loro venire per mare, perchè dopo la presa di Napoli i Goti aveano messa insieme una piccola flotta di legni armati che aggraffava quante navi osavano di passare dalla Sicilia a Roma. Fu anche per sospetto mandato in esilio a Centocelle, oggidì Civitavecchia, Cetego patrizio, capo del senato romano.

Totila, che, mentre attendeva ad un affare, pensava a molt'altri, mandò in questi tempi un corpo di truppe per tentare di ridurre alla sua ubbidienza o colle buone o colle brusche Piacenza, città principale dell'Emilia, che sola restava in quelle parti in potere de' Greci. Fecero i Goti la chiamata, ma buttarono le parole al vento, e però si accinsero all'assedio. Non sapeva Belisario in Ravenna qual rimedio o partito prendere in tanta decadenza degli affari di Cesare in Italia, perchè privo dei due più importanti nervi della guerra, cioè di soldatesche e di danaro. Però per mare passò a Durazzo, e di là seguitò a tempestare Giustiniano Augusto, per far venire de' pronti soccorsi. Mandò egli in fatti un buon rinforzo di gente condotto da Giovanni nipote di Vitaliano, e da Isacco fratello di Narsete. Comandò ancora che Narsete andasse a trattar coi capi degli Eruli, per condurre al suo soldo una buona mano di quei Barbari. Molti in fatti ne arrolò Narsete, e li condusse a svernar nella Tracia con disegno di spignerli nella prossima ventura primavera in Italia. Riuscì a costoro, nell'andar a quartiere, di dare una rotta agli Sclavi, che, passato il Danubio, eran [907] venuti a bottinare in quelle parti. Premendo poscia a Belisario di recar qualche soccorso ai Romani, spedì per mare Valentino e Foca con una brigata d'armati al castello di Porto, situato alla sboccatura del Tevere, dove era governatore Innocenzo, affinchè non solamente custodissero quel posto, ma eziandio di là infestassero i Goti che erano sotto Roma. Fecero costoro sapere a Bessa, comandante dell'armi in Roma, il dì che volevano assalire il campo nemico; ma Bessa non istimò bene di mettere a rischio i suoi. Persistendo nondimeno essi nella voglia di farsi onore, uscirono un giorno da Porto, e trovarono quel che non aspettavano; perchè Totila, informato da un disertore, prese così ben le sue misure, che fattili cadere in un aguato, quasi tutti gli ebbe morti o prigioni. Papa Vigilio in quest'anno, perchè chiamato in Oriente da Giustiniano Augusto, siccome vedremo, e fors'anche prima, scorgendo avvicinarsi l'assedio dei Goti, giudicò che per lui, creatura de' Greci, non fosse buona in que' tempi l'aria di Roma, era passato in Sicilia. Sapendo le strettezze, nelle quali si trovava ridotto il popolo romano per la scarsezza dei viveri, e dai medesimi cittadini ancora, come si può credere, sollecitato, fece caricar molte navi di grano, figurandosi che potrebbero arrivar fino a Roma. I Goti postati all'imboccatura del Tevere, al vedere avvicinarsi questa flotta, si tennero nascosi dietro alle muraglie delle case, aspettando a bocca aperta questo regalo della buona fortuna. Vennero le navi, e quantunque i Greci posti nel castello di Porto corressero ai merli, e, con isventolar le vesti, facessero loro segno di retrocedere, tuttavia credendo i marinari che quel fosse un segno d'allegrezza, continuarono il viaggio, e tutte a man salva furono prese dai Goti. V'eran dentro molti Romani, e fra essi un vescovo per nome Valentino. Condotto questi alla presenza di Totila, perchè, interrogato di varie cose, fu convinto di bugia, [908] Totila gli fece tagliar le mani, e lasciollo andar con Dio. Anastasio bibliotecario [Anastas. Biblioth., in Vita Vigilii.] nella vita di Vigilio spropositatamente confonde i tempi delle azioni di questo papa. Scrive inoltre che egli per ordine di Teodora Augusta fu preso, posto in nave e condotto in Sicilia; e che, nell'uscir di Roma, una parte del popolo gli dimandò la benedizione, un'altra gli gittò dietro sassi e bastoni, e gli sonò la mattinata con gridare: Teco venga la tua fame, teco la tua moria. Male hai fatto ai Romani, male abbi ovunque vai. Aggiungne, ch'egli fece un'ordinazione in Sicilia, e fra gli altri ordinò vescovo di santa Rufina, ossia di Selva Candida, il suddetto Valentino, con inviarlo dipoi a Roma per suo vicario, dove gl'incontrò la disgrazia poco fa narrata. Non si accordano ben queste cose colla gran cura che Vigilio, stando in Sicilia, si prese per soccorrere il popolo romano, nè la violenza e prigionia descritta da Anastasio, coll'esser dipoi stato accolto Vigilio con sommo onore in Costantinopoli: il che viene asserito da Teofane [Theoph., in Chronogr.] e confessato da Anastasio medesimo. Procopio, scrittore il più informato di questi tempi, scrive che Vigilio papa fu chiamato a Costantinopoli da Giustiniano, e non già preso per forza per ordine di Teodora Augusta. Da altri documenti nondimeno, che son citati dal cardinal Baronio e dal padre Pagi, si ha ch'egli mal volentieri andò a Costantinopoli, e v'andò solamente per non disgustar l'imperadore che gli faceva tanta premura.


   
Anno di Cristo DXLVI. Indizione IX.
Vigilio papa 9.
Giustiniano imperadore 20.
Totila re 6.

L'anno V dopo il consolato di Basilio.

Dopo avere i cittadini di Piacenza sostenuti i morsi più fieri della fame, con ridursi a cibarsi dei più sozzi alimenti, [909] e fin di carne umana, nell'assedio posto alla loro città, finalmente si arrenderono ai Goti. Non men fiera si provava la fame in Roma, dimodochè que' cittadini pregarono Pelagio diacono di voler portarsi a trattare con Totila di una tregua d'alcuni giorni. Era lungamente stato questo Pelagio in Costantinopoli apocrisario, ossia nunzio di papa Vigilio, e tornato a Roma, avea portato seco delle grosse somme d'oro, e se ne servì egregiamente in mezzo alle calamità della sua patria per le insigni limosine da lui fatte ai poveri. L'accolse onorevolmente Totila, ma il prevenne con dirgli che non gli parlasse di tre punti, cioè di far grazia ai Siciliani, nè di perdonare alle mura di Roma, che erano cagione di non poter combattere alla larga coi nemici, nè di restituire gli schiavi romani che si erano arrolati nell'esercito suo. Da questo ragionamento scomposto Pelagio si sbrigò con poche parole, e se ne tornò a Roma, senza recar consolazione alcuna al suo popolo. Disperati i Romani ricorsero a Bessa e Conone, capitani dei Greci, scongiurandoli di rendersi; ma ne riportarono solamente delle vane parole di vicino soccorso; ed intanto crebbe all'eccesso la fame, che da Procopio descritta fa orrore. Finalmente chi potè con danari comperare dagli uffiziali cesarei la licenza di poter uscire di città, se n'andò. Ma non pochi morirono dietro alla strada, o nelle barche; e altri furono presi ed uccisi dai nemici. Ecco dove era ridotto il senato e popolo romano. Giunte a Durazzo le soldatesche condotte da Giovanni e da Isacco, Belisario di colà con questo rinforzo passò ad Otranto, e di là nel Mediterraneo [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 18.], con giungere in fine al porto romano, dove si mise ad aspettar Giovanni, che, ito per terra, s'impadronì di Brindisi e poi della Calabria, de' Bruzii e della Lucania, con istrage di quei pochi Goti ch'erano in quelle parti. Ma non attentandosi egli di passare per Capoa, [910] perchè Totila vi avea inviato trecento dei suoi più valorosi guerrieri: Belisario determinò di soccorrere come poteva il meglio i Romani oramai sfiniti per la fame. Fece caricar le vettovaglie sopra barche ben difese da parapetti di tavole ben munite di soldati, ed egli fu il primo a salire in una, e ad incamminarsi pel Tevere. Aveva Totila con lunghe travi a guisa di ponte serrato il passo in quel fiume colla giunta di due torri nell'una e nell'altra riva. Riuscì a Belisario d'incendiarne una colla morte di circa dugento Goti, e già si preparava per rompere il ponte, quando gli giunse avviso che Isacco, lasciato alla difesa del castello di Porto, dov'era anche Antonina moglie d'esso Belisario, contra gli ordini precisi a lui dati, aveva assalito il campo de' Goti vicini con isbaragliarlo; ma che perdutasi la sua gente a svaligiare le lor tende, era poi stata disfatta dai medesimi di bel nuovo attruppati, con rimanere egli stesso prigione. Restò da tal nuova troppo sconcertato Belisario, per paura di aver perduta la moglie, l'equipaggio e l'unico luogo della ritirata (il che vero non era); e però tornossene indietro, per l'afflizione cadde malato, e fu in pericolo di soccombere alla gravezza del male.

Quattro degl'Isauri [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 20.], che faceano la sentinella alle mura di Roma, più volte di notte s'erano calati giù con funi, per trattare con Totila dell'entrata nella città, e il tradimento fu conchiuso. Saliti quattro de' suoi più animosi Goti in tempo di notte, insieme con gl'Isauri suddetti ruppero la porta Asinaria, e diedero il comodo a tutta l'armata di occupar la città. Totila, che non volea far del male ai cittadini, per attestato di Anastasio [Anastas. Bibliothec., in Vita Vigilii.], trattenne i suoi soldati, e tutta la notte fece suonar le trombe, acciocchè il popolo potesse fuggire, o nascondersi nei sacri templi. Bessa con tutti quasi i suoi se ne fuggì, e seco andarono Decio e [911] Basilio patrizii con alcuni altri che poterono aver cavalli. Massimo, Olibrio, Oreste ed altri si rifugiarono in san Pietro. Fatto giorno, i Goti fecero man bassa contro molti che incontravano nelle strade, e vennero morti ventisei soldati greci e sessanta della plebe. Tosto se ne andò Totila al Vaticano per venerare i corpi degli Apostoli, e quivi se gli affacciò Pelagio diacono, implorando misericordia pel popolo che restava, ridotto nondimeno a pochissimo numero, e l'ottenne. Si trovò nel palazzo di Bessa una gran quantità d'oro, ammassato dall'infame uffiziale col vendere ad esorbitante prezzo il grano agl'infelici Romani. Trovossi Rusticiana, già moglie di Boezio e figliuola di Simmaco, con varii senatori, che avendo impiegate le loro sostanze per alimentare i poveri in quelle estreme miserie, si erano ridotti a mendicar essi il pane, battendo alle porte dei benestanti. Avrebbono ben voluto i Greci levar di vita Rusticiana, perchè ad istanza di lei erano state gittate a terra in Roma le statue del re Teoderico; ma il saggio Totila nol comportò; anzi tanta attenzione adoperò, che a niuna delle donne fu fatta menoma violenza. Nel dì seguente raunati i Goti, ricordò loro Totila come di ducento mila combattenti ch'erano prima si fosse ridotta a sì poco la loro milizia, e come da sette sole migliaia di Greci erano essi stati vinti e spogliati del regno. Tutto ciò avvenuto per gastigo di Dio, a cagione delle iniquità dianzi commesse contro i sudditi dell'imperio romano dai Goti stessi. Però, se loro premeva di conservar l'acquistato, si studiassero di farsi amici di Dio, con esercitar la giustizia, e non nuocere indebitamente a veruno. Convocato dipoi il senato romano, rinfacciò loro l'ingratitudine, perchè, dopo aver ricevuti tanti benefizii da Teoderico e da Atalarico, che aveano lasciato loro tutti i magistrati e la libertà della religione, e rendutili sommamente ricchi, si erano poi rivoltati contra dei Goti e dati in preda ai Greci, da' quali [912] niun bene aveano finora ricevuto, anzi aveano riscosso ogni male: laonde meritavano d'esser ridotti nella condizione di schiavi. Ma alzatosi Pelagio, con buone parole il placò, e ne riportò promesse di tutta clemenza. In fatti Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibl., in Vit. Silverii.] e l'autore della Miscella [Hist. Miscella, lib. 16.] scrivono che entrato Totila in Roma, abitò coi Romani, come un padre coi figliuoli. Mandò egli dipoi lo stesso Pelagio e Teodoro avvocato romano a Costantinopoli per trattar di pace. Altra risposta non ebbe da Giustiniano, se non che Belisario suo generale dimorava in Italia, e che era in suo potere l'accomodar le cose. Intanto i Goti ebbero una percossa dai Greci nella Lucania; e questa fu cagione che Totila determinò di levarsi da Roma; ma perchè non si fidava dei Romani, nè voleva che i Greci vi si tornassero ad annidare, fece abbattere in più luoghi le mura della città. Corse anche voce, ch'egli volesse diroccar le più belle fabbriche di Roma; ma pervenuto ciò a notizia di Belisario, che tuttavia si fermava in Porto, gli scrisse una lettera ben sensata per dissuaderlo; laonde gli passò la barbara voglia, se pure mai l'ebbe. Lasciata Roma vota, col menar seco i senatori, e mandare il popolo nella Campania, si portò nella Lucania e Calabria, e fece tornar quei popoli, a riserva d'Otranto, alla sua divozione. Da lì a poco s'impadronirono i Greci di Taranto e di Spoleti. Fu questo l'anno in cui papa Vigilio, dopo essersi fermato lungo tempo in Sicilia, non potendo più resistere alle istanze di Giustiniano Augusto, s'incamminò alla volta di Costantinopoli, dove bolliva forte fra i cattolici la controversia dei tre capitoli, cioè di condannare o non condannare Teodoro mopsuesteno, una lettera d'Iba edesseno e gli scritti di Teodoreto, tutte persone gran tempo fa defunte. Perchè questa condanna pareva pregiudiziale al concilio calcedonese, però i più de' cattolici, [913] e fra gli altri lo stesso Vigilio papa, l'abborrivano forte. Ma era non poco impegnato e riscaldato per essa Giustiniano Augusto, principe che, non contento dell'uffizio suo d'imperadore, voleva anche farla da dottore, da vescovo e da papa, dimenticando che l'autorità nelle cose e dottrine sacre era stata conferita da Dio, non già ai principi secolari, ma sì bene a san Pietro e a' suoi successori, e ai vescovi della Chiesa cattolica. Quanto in questa lite accadde, potrà il lettore raccoglierlo dalle opere dei cardinali Baronio e Noris, e dal padre Pagi, dal Fleury, e dagli atti del concilio generale quinto.


   
Anno di Cristo DXLVII. Indizione X.
Vigilio papa 10.
Giustiniano imperadore 21.
Totila re 7.

L'anno VI dopo il consolato di Basilio.

Veramente il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.] Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] e Teofane [Theoph., in Chronogr.] mettono sotto quest'anno la presa di Roma fatta dai Goti, e di tale opinione furono i cardinali Baronio e Noris. Ma ho io creduto di doverla riferire al precedente anno come han fatto il Sigonio e il Pagi, perchè si conforma più colla serie degli avvenimenti narrati da Procopio; nè si può fidarsi del Continuatore suddetto, nè di Mario, perchè nelle Croniche d'amendue s'incontrarono non pochi anacronismi. Per altro scrive esso Continuatore che i Goti nel dì 17 di dicembre entrarono in Roma correndo l'Indizione X, il che dovrebbe convenire all'anno precedente, nel cui settembre la decima indizione cominciò il suo corso. Aggiugne che Totila, dopo aver atterrata parte delle mura, condusse seco, come prigionieri, i Romani nella Campania; e che essendo restata Roma per quaranta giorni senza popolo, Belisario animosamente ne ripigliò il possesso. Se ciò è vero, posta [914] da noi nell'antecedente anno la presa di Roma, dee appartenere al presente il ritorno di Belisario in essa. Mario Aventicense, che sotto il presente anno racconta l'uno e l'altro fatto, discorda dal Continuatore suddetto. Ora attenendomi io al filo di Procopio, che va descrivendo questa lunga e pericolosa guerra col primo, secondo e terzo anno, e così successivamente; avvertendo nondimeno col Pagi, che cadauno dei suoi anni comincia dalla primavera, e finisce nella primavera del seguente: dico che Belisario, il quale tuttavia si tratteneva a Porto, vedendo così abbandonata Roma, concepì il pensiero di ripigliarla, e felicemente l'eseguì [Procop., de Bell. Goth.], forse nel mese di febbraio. Lasciati dunque in Porto alcuni pochi soldati, menando seco il resto delle sue genti, entrò in Roma, e con pronto e saggio ripiego quivi si diede a fortificarsi. Perchè non v'era maniera di rifabbricare in poco tempo le mura in que' siti, ove erano diroccate, fece raccogliere i marmi e le pietre sparse per terra, e di questi materiali, senza aver calce da legarli insieme, per modo di provvisione formò, come potè, una grossa muraglia posticcia, con aggiungervi al di fuori una buona quantità di pali. Larga inoltre e profonda era la fossa che girava intorno a tutte le mura. In venticinque dì, lavorando tutti i soldati, fu serrata, a riserva delle porte, la città, e vi concorsero ad abitarla i dianzi esuli cittadini. Questa novità non se l'aspettava Totila. Appena informatone, da Ravenna, dove egli si trovava, a gran giornate col suo esercito corse colà. Per mancanza di falegnami e di fabbri ferrai, Belisario non avea per anche potuto far mettere alla città le porte, avendo Totila asportate quelle che v'erano. In vece di far almeno chiudere con travi le aperture, prese il solo ripiego di mettervi di quegli ordigni che nella milizia moderna si chiamano cavalli di Frisia, creduti invenzioni degli [915] ultimi tempi, ma usati anche negli antichi presso a poco come oggidì. Postò parimente alle imboccature d'esse porte i più bravi dei suoi. Si credevano i Goti sul principio di prendere Roma appena arrivati, e venivano con gran fracasso all'assalto; ma ritrovarono chi non era figliuolo della paura. Fu asprissima la battaglia, perchè i Goti per lo sdegno, e i Greci nel pericolo imminente delle lor vite combattevano alla disperata. In fine furono costretti i Goti a ritirarsi, con lasciar sulle fosse estinta una gran quantità de' loro, e riportarne dei feriti assai più. Tornarono nel seguente dì, ed in altri appresso all'assalto, e furono nella stessa guisa ben accolti e ributtati dai Greci. Totila prese in fine la risoluzion di ritirarsi a Tivoli, che egli prima avea fatto distruggere, e bisognò riedificare.

Ma siccome l'entrata di Belisario in Roma e la difesa d'essa conseguì un applauso universale, così fu biasimata e rinfacciata agramente dai Goti a Totila l'imprudenza d'avere abbandonata Roma; o, se pur voleva abandonarla, di non averla interamente spianata. Prima lodavano forte l'uso suo di atterrar le mura de' luoghi forti; essendo poi passata male in questa congiuntura, ne sparlarono a più non posso. E così son fatti gli uomini: d'ordinario dal solo avvenimento o felice o sinistro delle risoluzioni prese, essi prendono la misura delle lodi o de' biasimi. Era da molto tempo stretta d'assedio Perugia, ed in essa già cominciavano a venir meno le vettovaglie. Colà fu chiamato Totila coll'esercito per la speranza di ridurre alla resa colla di lui forza e presenza quella città. E v'andò egli bensì, ma fu in breve sconcertato non poco, perchè Giovanni generale cesareo, ch'era all'assedio di Acerenza nella Lucania, mossosi con tutta la sua cavalleria, all'improvviso arrivò nella Campania, e diede una rotta ad un corpo di truppe colà inviate da esso Totila: la qual vittoria fu cagione [916] che rimasero liberati alcuni senatori romani e le mogli di molti altri ch'erano confinate in quelle parti. Irritato da questo avviso Totila, per le montagne spedì contra d'esso Giovanni varie partite dei suoi, che il raggiunsero nella Lucania, e gli diedero una buona percossa. Vennero circa questi tempi in Italia alcuni piccioli rinforzi inviati da Giustiniano Augusto, cioè sorsi d'acqua a chi pativa gran sete. Trecento Eruli fra gli altri erano condotti da Vero. Costui azzardatosi di prender quartiere vicino a Brindisi, fu in breve visitato da gente inviata colà da Totila. Duecento di quegli Eruli rimasero estinti sul campo, e Vero ebbe la fortuna di salvarsi. All'avviso, venuto da Costantinopoli de' soccorsi che doveano arrivare in Italia, Belisario giudicò bene di trasferirsi a Taranto, e seco condusse novecento cavalli scelti e duecento fanti. Entrato in nave, fu da una burrasca trasportato a Crotone. Mandò la cavalleria per terra a procacciarsi i foraggi, e questa, incontratasi per istrada con una brigata di Goti, la disfece. Alloggiossi dipoi in quelle contrade, come se fossero lontani mille miglia i pericoli; ma il re Totila, sempre vegliando, spinse loro addosso tre mila cavalli de' suoi, i quali menarono sì ben le mani, che pochi poterono salvarsi colla fuga. Di gran danno agli affari de' Greci fu questa rotta, e portatane la disgustosa nuova a Belisario, e fattogli credere che a momenti poteano i Goti arrivare a Crotone, egli perciò non perdè tempo ad imbarcarsi con Antonina sua moglie, e in un giorno di felice navigazione pervenuto in Sicilia, sbarcò a Messina. Totila intanto intraprese l'assedio di Rossano castello della Calabria. E con tali racconti termina Procopio l'anno XIII della guerra gotica. Aggiungne solamente che gli Sclavi, popoli barbari, passato il Danubio, devastarono tutto l'Illirico fino a Durazzo, uccidendo o facendo schiavi tutti quei che trovavano: costoro col tempo [917] si piantarono in quelle contrade, e diedero ad esse il nome di Schiavonia. Arrivò poi sul principio di quest'anno papa Vigilio a Costantinopoli, ed entrò nel grande imbroglio della controversia dei tre capitoli: sopra di che è da leggere la storia ecclesiastica. Troppo tempo richiederebbe il racconto di quel negoziato e degli affanni che vi patì lo sventurato papa, trovandosi egli fra il calcio e il muro, tra il timore di fare una ferita al concilio generale calcedonense, o pure di tirarsi addosso lo sdegno dell'imperadore. Andò egli perciò barcheggiando, finchè potè.


   
Anno di Cristo DXLVIII. Indizione XI.
Vigilio papa 11.
Giustiniano imperadore 22.
Totila re 8.

L'anno VII dopo il consolato di Basilio.

Venne in quest'anno a morte nel mese di giugno, consumata da una terribil cancrena, Teodora Augusta moglie di Giustiniano imperadore, donna per varii suoi vizii, e soprattutto per la protezion degli eretici, concordemente diffamata nella storia segreta di Procopio e negli Annali ecclesiastici. Si leggono nondimeno di grandi limosine da lei fatte e sacri templi da lei fabbricati; nè lasciano di dire Teofane [Theoph., in Chronogr.] e Cedreno [Cedren., in Annalib.], ch'essa piamente diede fine ai suoi giorni, forse perchè si ravvide e pentì dei tanti suoi falli. Se è vero tutto ciò che di lei racconta Procopio, dovette ella trovare un gran processo al tribunale di Dio. Belisario in questi tempi riflettendo alla scarsezza delle sue forze, tuttochè Giustiniano Augusto gli avesse inviati di fresco due mila pedoni per mare; e conoscendo che di male in peggio erano per andare gli affari dell'imperio in Italia, se non venivano più gagliardi soccorsi, si appigliò al partito di mandare Antonina sua moglie a Costantinopoli, [918] acciocchè ella, per mezzo della suddetta imperadrice, ottenesse da Giustiniano un potente rinforzo all'armata di Italia. Andò essa, ma trovò l'imperadrice già mancata di vita. Ora narrando Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 30.] sotto quest'anno la morte d'essa Augusta, e concorrendo nella medesima sentenza Teofane, Cedreno e i cardinali Baronio e Noris, si vien chiaramente a conoscere che finora camminano bene i conti circa la division degli anni della guerra gotica, descritta da esso Procopio, e non sussistere gli altri di chi o prima o più tardi han registrato que' fatti. In questi tempi il presidio dei Greci, lasciati da Belisario in Roma trucidò Conone suo comandante, pretendendo ch'egli in danno loro facesse il mercatante dei grani e dell'altre vettovaglie. Spedirono poi sacerdoti a Costantinopoli, per far sapere a Giustiniano, che se non era loro accordato il perdono e date le paghe da gran tempo loro dovute passerebbono al soldo di Totila. Giustiniano, per non poter di meno, accordò loro tutto. Seguitava intanto l'assedio mosso da Totila al castello di Rossano in Calabria, entro il quale era una guarnigione di trecento cavalli e cento fanti. Perchè cominciarono a venir meno i foraggi e i viveri, promisero que' Greci di arrendersi, se, passati alquanti giorni, loro non fosse stato dato soccorso. Belisario, a cui premeva la conservazion di quel sito, chiamò ad Otranto quante truppe potè raunare, e tutte postele in navi, s'incamminò con esse alla volta di Rossano. Spirava già il dì promesso alla resa. I Greci, mirando da lungi il soccorso che veniva, mancarono alla parola data; ma eccoti sollevarsi una tempesta che disperse tutta quella flotta, senza che vi fosse un porto in que' lidi da ricoverarsi. Unitesi poi le navi nel porto di Crotone, tornò di nuovo Belisario con esse verso Rossano; ma ritrovò al lido tutte le forze de' Goti ben [919] preparate ad accoglierlo, sicchè gli convenne retrocedere a Crotone, da dove spedì colla maggior parte dei suoi Giovanni e Valeriano nel Piceno, sperando che Totila, abbandonato Rossano, correrebbe colà. Ma questo inviò bensì due mila cavalli anch'egli nel Piceno per far fronte a' nemici, ma col rimanente dell'armata tenne forte l'assedio di quel castello. Veggendo i Rossanesi disperato il caso, mandarono due deputati a Totila, per implorare il perdono esibendosi pronti alla resa, salve le loro vite. Accettò egli l'offerta, ma con eccettuare dal perdono Calazare lor capitano, siccome mancator di parola. A costui in fatti fu tolta la vita, agli altri fu permesso d'andarsene ove voleano, in camicia, quando lor non piacesse di restare al soldo di Totila. Ottanta andarono; gli altri si arrolarono fra i Goti. Era arrivata a Costantinopoli Antonina moglie di Belisario, e, quantunque fosse venuto a lei meno il suo principale appoggio, cioè Teodora Augusta già morta, pure trovò facilità in Giustiniano per richiamare il marito in Oriente, perchè stringendo forte la guerra di Persia, vi era bisogno di un bravo generale per quella impresa. Pertanto andò Belisario a Costantinopoli, ma senza portarvi in questo secondo viaggio splendore alcuno di nuova gloria, giacchè in cinque anni che avea dovuto fermarsi in Italia, per mancanza di forze, era come fuggitivo stato ora in uno, ora in altro paese, ed inoltre senza avere operato cosa alcuna di rilevante, lasciava l'Italia esposta alla discrezione dei Goti. Ma se non andò seco molto onore, portò ben egli con lui molto danaro, perchè seppe mai sempre farsi fruttare il suo generalato; e le sue grandi ricchezze il misero talvolta in pericolo di cadere, se l'imperadore non avesse avuta necessità della sua sperimentata perizia in comandare armate. Nel mentre poi ch'egli era in viaggio la città di Perugia, dopo aver sostenuto un lunghissimo assedio, venne [920] in potere dei Goti. Il dirsi da san Gregorio Magno [Gregor. Magnus, Dialogor., lib. 3, cap. 13.] che questa città per sette anni continui tenuta fu assediata dai Goti, e che non per anche finito esso anno settimo, per la fame si arrendè, par troppo difficile a credersi. In vece d'anni avrà egli scritto mesi. Ad Ercolano, santo vescovo di quella città, d'ordine di Totila fu barbaramente tagliato il capo.

Fece Totila anche in Dalmazia una spedizione di soldati sotto il comando d'Ilauso, già una delle guardie di Belisario, che avea preso partito fra i Goti. Costui prese in quelle parti due luoghi appellati Muicoro e Laureata non lungi da Salona, e mise a fil di spada chiunque ivi si trovò. A questo avviso Claudiano ufficiale cesareo, che comandava in quelle parti, imbarcate le sue soldatesche, andò a trovare a Laureata Ilauso, e venne seco alle mani; ma restò sconfitto, e le sue navi con altre piene di grani rimasero preda de' Goti, i quali dipoi, senza tentar altro, se ne tornarono a Totila. Circa questi tempi, o poco prima per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 37.], Totila inviati degli ambasciatori al re dei Franchi, cioè, secondo tutte le verisimiglianze, a Teodeberto, il più potente senza paragone di quei re, gli avea fatto chiedere in moglie una sua figliuola. La risposta fu ch'esso re non riconosceva Totila per re d'Italia, e che tale anzi egli non sarebbe giammai, dacchè dopo aver presa Roma non l'aveva saputa ritenere in suo dominio, ed atterrate le mura, l'avea lasciata cadere in dominio de' suoi nemici. Ma questi erano pretesti. Teodeberto, principe meditante tutto di nuove conquiste, voleva pescare nei torbidi dell'Italia, veggendo sì infievolite le forze non meno de' Goti che dell'imperadore. In fatti abbiamo assai lume da Procopio [Idem, ibid., cap. 33, et lib. 4, cap. 34.] ch'egli in quest'anno [921] fatta calare in Italia un'armata, s'impadronì dell'Alpi Cozie, di alcuni luoghi della Liguria, e della maggior parte della provincia della Venezia, senza che si sappia quali città precisamente fossero da lui occupate, giacchè fra poco vedremo che Verona seguitò ad essere in potere dei Goti. Tutto camminava a seconda de' suoi voti, perchè non aveano i Goti assai possanza da opporsi nello stesso tempo ai Greci ed all'armi dei Franchi. Bisogna nondimeno immaginare ch'eglino facessero qualche resistenza, scrivendo Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] sotto il presente anno, che Lantocario condottiere de' Franchi nella guerra romana, trafitto da una freccia e da una lancia, rimase morto. Nè contento di questi progressi il re Teodeberto, macchinava in suo cuore imprese più grandi, per quanto s'ha dallo storico Agatia [Agath., lib. 1 de Bell. Goth.]. Cioè non poteva egli sofferire che Giustiniano Augusto, principe assai dominato dalla passione della vanità, fra i suoi titoli mettesse quelli di alamannico e francico, quasi lor vincitore, quando egli in effetto non avea mai fatta pruova del valore di queste nazioni; o pure volea significar sè stesso loro sovrano, quando i Franchi pretendevano di non aver dipendenza alcuna da lui, e Teodeberto aveva soggiogati e uniti al dominio suo gli Alamanni. Però esso Teodeberto, descritto da Agatia per principe ardito, inquieto, feroce, che andava a caccia di pericoli, e dava nome di fortezze ai tentativi anche più disperati, determinò di muover guerra a Giustiniano, e di andarlo a trovare fino a Costantinopoli. E perciocchè esso Augusto si intitolava ancora gepido e longobardico, sollecitò le nazioni de' Gepidi e de' Longobardi ad imprendere unitamente con esso lui la guerra contra del medesimo imperadore, per vendicare l'affronto che pretendeva fatto a tutte le lor nazioni. Ma in questo gran bollore di pensieri guerrieri [922] la morte senza rispetto alcuno venne a trovar Teodeberto, e mise fine alle sue grandiose imprese. Mario Aventicense riferisce la morte sua un anno dopo la ricupera di Roma fatta da Belisario, e però nel presente anno, il che s'accorda con quanto si dirà all'anno 554 del re Teodebaldo suo figliuolo e successore. Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad ann. 552, n. 21.] la vuol succeduta nell'anno precedente 547, appoggiato sopra il dirsi da Gregorio Turonense, che dalla morte di esso re sino a quella del re Sigeberto passarono anni XXIX. Ma noi abbiamo troppi esempli d'anni guasti dai copisti. Sigeberto storico [Sigebertus, in Chronico.] fa giugnere la vita di questo principe fino all'anno 550. Scrive Agatia, autore di questi tempi, essere mancato di vita esso Teodeberto nella caccia per cagione di un bufalo selvaggio, mentre Narsete era occupato nella guerra d'Italia. Siccome vedremo, Narsete venne in Italia solamente nell'anno 552. La scarsezza degli storici d'allora fa che non si possano schiarire abbastanza alcuni fatti e i loro tempi precisi. Ma certo Agatia qui prese abbaglio, chiaramente ricavandosi da Procopio che era molto prima succeduta la morte del re Teodeberto.


   
Anno di Cristo DXLIX. Indizione XII.
Vigilio papa 12.
Giustiniano imperadore 23.
Totila re 9.

L'anno VIII dopo il consolato di Basilio.

Andavano di male in peggio gli affari dell'imperador Giustiniano. Imperciocchè i Gepidi, che avevano occupata la Dacia Ripense e il Sirmio [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 34.], e vi si erano poi stabiliti con permissione di Giustiniano, mercè di una lega stabilita con lui, fecero in quest'anno delle scorrerie e prede in altri circonvicini paesi. Più pesante ancora si sentiva il flagello de' Longobardi, i quali, divenuti padroni [923] del Norico e della Pannonia, avevano impetrata da esso Augusto la licenza di fermarsi quivi in vicinanza de' Gepidi; dimentichi de' benefizii ricevuti, saccheggiarono la Dalmazia e l'Illirico, col menar seco una gran quantità di schiavi. Vennero poi alle mani fra loro queste due barbare nazioni per cagion de' confini, ed ambedue spedirono ambasciatori a Giustiniano Augusto per averlo dalla sua. Egli prese la difesa de' Longobardi. Finalmente gli Sclavi, passati di qua dal Danubio e dall'Ebro, apportarono incredibili stragi e danni alla Tracia. Durava poi tuttavia in Oriente la guerra coi Persiani; ed in Italia sempre più pareva inclinata la fortuna in favore dei Goti. L'infaticabile Totila, dopo la presa di Perugia, guidò nel presente anno tutta l'armata sotto Roma, ed assediolla da varie parti. Dentro v'era con tre mila combattenti Diogene valoroso e prudente capitano, deputato alla difesa di essa città da Belisario prima della sua partenza, il quale con sommo vigore sostenne sempre gli assalti frequenti dei nemici. Ma avendo i Goti occupato il castello di Porto, Roma cominciò a penuriare di viveri. Tuttavia non perderono punto di coraggio i difensori, e l'assedio andò in lungo; e più ancora sarebbe andato se alcuni soldati isauri di quella guarnigione, che custodivano la porta di san Paolo, non avessero tradita la città. Costoro dall'un canto mal soddisfatti pel soldo loro da molti anni non mai pagato, e dall'altro consapevoli del magnifico premio dato ai lor compagni Isauri che dianzi aveano tradita Roma trattarono segretamente con Totila di fare il medesimo giuoco. Venuta la notte, la porta suddetta fu spalancata ai Goti, che tagliarono a pezzi quanti dei Greci vennero loro incontro. Gli altri Greci chi per una porta e chi per l'altra fuggirono alla volta di Civitavecchia; ma avendo raccolto Totila disposte prima in quel cammino varie schiere dei suoi, pochi scamparono dalle lor mani, [924] fra' quali il soprammentovato Diogene, ma ferito. Paolo di Cilicia, restato con quattrocento cavalli nella città, si rifugiò nella mole d'Andriano, oggidì castello Santangelo, ed occupò quel ponte. La mattina seguente, inutilmente e con loro strage tentarono i Goti di sloggiar questo corpo; ma non avendo i Greci di che mangiare nè per loro, nè per gli cavalli, determinarono di uscire addosso ai nemici, e di vendere ben cara la vita: con che s'abbracciarono tutti, e si diedero l'ultimo addio, come gente risoluta di morire. Intesa dal re Totila la disperata loro risoluzione, mandò loro ad esibire che scegliessero o di depor l'armi e lasciare i cavalli, e di obbligarsi con giuramento di non militar più contro dei Goti, e di andarsene con Dio in libertà; o pure tener tutte le robe loro, con arrolarsi fra i Goti. Ognuno, udita cotal proposta, elesse la prima condizione; ma poi per vergogna di andarsene senz'armi, e per timore di essere uccisi in cammino, si appigliarono all'ultimo partito, a riserva di due che aveano moglie e figliuoli in Costantinopoli. Totila a questi due fatto dar danaro pel viaggio, e scorte, li licenziò. Quattrocento altri soldati greci che s'erano rifugiati nelle chiese, assicurati della vita, anch'essi a lui si renderono. Non fece già provar questa volta il re vincitore a Roma nè ai Romani il trattamento usato nella prima conquista d'essa città [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 37.]. Ricordevole de' rimproveri a lui fatti da Teodeberto re de' Franchi e dagli stessi suoi Goti, mostrò buona ciera a tutti i cittadini che ivi si trovarono; richiamò dalla Campania tutti gli altri, e spezialmente i senatori; diede loro il piacere de' giuochi equestri. Poscia spedì a Costantinopoli Stefano di nazione romano, suo ambasciatore, a pregar Giustiniano di voler metter fine a tanti guai dell'Italia con una buona pace, rappresentando la desolazione delle città e i progressi de' Franchi, che doveano far paura anche ad [925] esso Augusto, ed offerendo l'armi sue in difesa da lui. Ma Giustiniano risoluto di sterminar i Gotti, neppur volle ammettere alla sua udienza il legato. Questa durezza dell'imperadore fece risolvere Totila a tentar anche l'impresa della Sicilia, la quale se gli fosse felicemente riuscita, avrebbe forse assodato il suo dominio in Italia.

Preparò dunque una flotta numerosa di navi grosse, che i Goti di tanto in tanto aveano prese ai Greci, e ve ne aggiunse altre quattrocento minori, con pensiero di fare uno sbarco in quell'isola. Prima nondimeno di mettersi in viaggio a quella volta, provò se poteva sloggiare i Greci da Civitavecchia. Diogene fuggito da Roma, s'era colà ritirato, e vi aveva un presidio sufficiente alla difesa. Fu formato l'assedio, e fatte varie chiamate a Diogene, ed esibitegli delle vantaggiose condizioni, finalmente si capitolò la resa, se entro il pattuito termine l'imperadore non gli mandava soccorso; e furono dati trenta ostaggi dall'una parte e dall'altra. Dopo di che i Goti diedero le vele al vento, e s'incamminarono verso la Sicilia. Giunti che furono a Reggio di Calabria, Totila intimò la resa a quel presidio di Greci, al comando de' quali erano Torimuto ed Imerio. Ma trovatili costanti nel loro dovere, lasciò quivi un buon corpo di gente, con ordine di tener bene stretto quel presidio, affinchè non v'entrassero viveri, assai informato che quel castello, ossia quella città, ne penuriava non poco. Inviò un altro corpo de' suoi a Taranto, che senza fatica s'impadronì di quella terra. Nello stesso tempo i Goti da lui lasciati nel Piceno per tradimento entrarono nella città di Rimini. Avvicinandosi poi costoro a Ravenna, Vero, che allora era comandante delle armi in quella città, uscì in campagna col nerbo maggiore delle sue truppe, e venne con loro a battaglia; ma ebbe la sfortuna d'essere disfatto con gran perdita de' suoi, e con lasciare egli stesso la vita sul campo. Totila intanto passò [926] con lo stuolo delle sue navi in Sicilia, ed accampossi intorno a Messina, alla cui difesa bravamente s'accinse Donnenziolo, uffiziale dell'imperadore, colla sua guarnigione. A riserva di quei che erano necessarii per quell'assedio, tutte le altre masnade dei Goti si sparsero per la Sicilia, e quasi tutta la misero a sacco, con occupare ancora qualche fortezza. Contra de' Siciliani erano forte in collera i Goti, perchè fino ne' tempi del re Teoderico supplicarono per essere esenti da grosse guarnigioni, per ischivarne l'aggravio, promettendo essi di ben difendere l'isola. Ma appena vi si lasciò veder Belisario, che tutti si ribellarono, acclamando l'imperadore. Mentre si faceva il brutto ballo in quelle contrade, la guarnigione di Reggio di Calabria, dopo aver consumati tutti i viveri, finalmente venne a rendersi con restar prigioniera di guerra. Portate a Costantinopoli sì triste nuove, determinò Giustiniano d'inviare in Italia Germano patrizio, che dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad ann. 551, n. 2.], forse per errore di stampa è chiamato patruus, cioè zio paterno d'esso imperadore, ma che in fatti era figliuolo d'un fratello, ossia nipote del medesimo Augusto; personaggio di gran senno, gravità e coraggio, e di non minore sperienza nell'arte militare, la cui riputazione era in onore dappertutto, sì per esser sì strettamente congiunto di sangue coll'imperadore, e sì perchè molto prima avea data una famosa rotta agli Anti, popoli barbari, ed inoltre col suo valore e colla prudenza sua avea, per così dire, riacquistata all'imperio l'Africa, con torla dalle mani de' tiranni insorti in quelle parti dopo la conquista fattane da Belisario. Venne in Italia l'avviso di questa elezione, e rincorò quanti ci restavano o soldati, o ben affetti al nome dell'imperadore. Ma non si sa il perchè Giustiniano, mutato pensiero, diede il comando dell'armi d'Italia a Liberio cittadino romano: [927] benchè poco appresso pentito anche della scelta da lui fatta, non lo lasciasse venire, considerandolo per troppo avanzato in età e poco pratico del mestier della guerra. Trovavasi allora in Costantinopoli papa Vigilio con assaissimi altri Italiani de' più nobili, che continuamente faceano premura ad esso Augusto, acciocchè un grande sforzo si facesse per ricuperar l'Italia dalle mani de' Goti. E specialmente erano inculcate tali istanze da Gotico (così viene appellato nel testo di Procopio, ma probabilmente è Cetego) patrizio, stato gran tempo fa console. Un Cetego nell'anno 504 fu ornato di questa dignità; ma par molto indietro un tal tempo. Giustiniano prometteva tutto, ed intanto spendeva la maggior parte del tempo nella spinosa controversia dei tre capitoli, che allora bolliva forte in Oriente, e fu cagione di scisma e di non pochi ammazzamenti. Vigilio papa fece varie figure, contrariato dal clero romano, e massimamente dai vescovi dell'Africa e dell'Illirico, siccome può vedersi nella Storia ecclesiastica. Se Giustiniano Augusto non fosse stato fazionario in questa lite, e non avesse usato della prepotenza contro di esso papa, non sarebbero seguiti tanti sconcerti, che pur troppo turbarono forte la Chiesa di Dio.


   
Anno di Cristo DL. Indizione XIII.
Vigilio papa 13.
Giustiniano imperadore 24.
Totila re 10.

L'anno IX dopo il consolato di Basilio.

Leggesi una lettera di papa Vigilio scritta in Costantinopoli nel dì 29 di aprile nell'anno XXIV dell'imperio di Giustiniano, e nono dopo il consolato di Basilio, cioè nell'anno presente, ad Aureliano vescovo d'Arles, dove il prega che, essendosi udita l'entrata dei Goti in Roma, voglia muovere Childeberto re de' Franchi a scrivere al re Totila, per raccomandargli la Chiesa Romana, acciocchè [928] niun danno o pregiudizio venga inferito alla medesima, nè alla religion cattolica. Le istanze degl'Italiani rifugiati in Costantinopoli, e più l'impegno della riputazione, ebbero in fine tanta possa, che Giustiniano si applicò daddovero agli affari d'Italia. Dichiarò dunque capitan generale il suddetto Giustino suo nipote, e gli comandò di marciare [Procop., de Bell. Goth., lib. 3, cap. 3.]. Poche erano le milizie a lui assegnate per l'impresa d'Italia; ma gli fu sborsata una gran somma d'oro, con ordine di assoldare quanta gente potesse nella Tracia e nell'Illirico, e di condur seco Filemuto principe degli Eruli colle sue barbariche brigate, e Giovanni suo genero, ch'era figliuolo di una sorella di Vitaliano, e generale allora dell'armi dell'Illirico. Era morta ad esso Germano Passara, sua prima moglie, che gli avea partorito due figliuoli, cioè Giustino stato console nell'anno 540, e Giustiniano, che riuscì un valentissimo generale di armata, ambedue preparati per venire col padre in Italia. Passò poi, siccome altrove dicemmo, alle seconde nozze con Matasunta, figliuola di Amalasunta, e moglie in primo luogo di Vitige re dei Goti. Questa ancora volle egli menar seco in Italia, con isperanza che i Goti per riverenza al nome di sua madre e del re Teoderico suo avolo, umilierebbero l'armi all'arrivo di lei. Datosi dunque a spendere largamente non solo il danaro a lui dato dall'Augusto Giustiniano suo zio, ma il proprio ancora, ammassò in breve un fioritissimo esercito, concorrendo a militare sotto di lui gli uffiziali più segnalati ed assaissima gente della Tracia e dell'Illirico e inoltre i Barbari stessi, tirati dalla fama del suo nome, e molto più dal danaro che puntualmente veniva sborsato. In Italia ancora, appena s'intese essere stato scelto per generalissimo dell'armi cesaree questo principe, che tutti i Greci ed Italiani militanti o per amore, o per forza nelle [929] armate de' Goti, segretamente fecero intendere a Germano, qualmente arrivato ch'egli fosse in Italia, tutti, senza perder tempo, verrebbono ad unirsi con lui. All'incontro cotal nuova stordì forte i Goti, con restar anche divisi di parere, se avevano a prendere l'armi contro la stirpe di Teoderico, cioè contro Matasunta. In questi tempi essendo spirato il tempo che Diogene, uffizial greco, s'era preso per rendere Civitavecchia, ed avendo il re Totila inviato colà deputati per l'esecuzion della promessa, egli si scusò di non poter mantenere la parola data, perchè Germano coll'esercito suo era vicino a dargli soccorso. Perciò l'una parte e l'altra restituì gli ostaggi, restando Diogene alla difesa di quella città, e Totila sommamente burlato e in collera per questo.

Ora mentre il valoroso Germano patrizio in Sardica, o Serdica, città dell'Illirico, ossia della Mesia o della Dacia, ammassava ed esercitava le raunate genti, disposto a passare in Italia, ecco gli Slavi, che, valicato il Danubio, fanno una irruzione nella Mesia, arrivano fino alla città di Naisso, con iscoprirsi il disegno loro di penetrar fino a Salonichi. Venne subito un ordine dall'imperador a Germano di lasciar per allora la spedizion d'Italia e di accorrere in aiuto di Salonichi. Ma avuto ch'ebbero gli Sclavi contezza, come era in quelle parti Germano con un'armata, tal terrore li prese, che, mutato cammino, s'istradarono altrove. Pertanto Germano, liberato dall'apprensione di que' Barbari, era già dietro ad imbarcar la sua gente per venir in Italia, quando all'improvviso si infermò d'una malattia che in pochi dì il condusse al sepolcro, desiderato e compianto da tutti. N'ebbe gran dispiacere anche l'imperador Giustiniano, che dipoi diede ordine a Giovanni e a Giustiniano, figliuolo di esso Germano, di passar colla flotta in Italia. Aveva dianzi il medesimo Augusto inviato Liberio con un'altra flotta carica di buone fanterie [930] per soccorrere la Sicilia. Poscia, avendo egli rimesso in sua grazia Artabane, e creatolo generale della Tracia, aveva spedito ancor questo con alcune navi alla volta d'essa Sicilia, con ordine di prendere il comando delle truppe condotte da Liberio. Il primo a giungere in quell'isola fu Liberio, il quale a dirittura passò a Siracusa, allora assediata dai Goti, e felicemente entrò coi suoi legni nel porto. Artabane, all'incontro, sorpreso non lungi dalla Calabria da una fiera tempesta, vide dissipate tutte le sue navi, alcune trasportate nella Morea, altre perite; egli colla sua, che avea perduto l'albero maestro, fu spinto dal vento all'isola di Malta, e quivi si salvò. Liberio, non avendo forze bastanti in Siracusa da far sortite sopra i nemici, e trovata ivi non poca scarsezza di viveri, giudicò meglio di continuare il viaggio fino a Palermo. Sarebbe passata male a quella città, e forse ad altre, se essendo stato preso dai Goti in Catania Spino da Spoleti, questore di Totila, e a lui carissimo, non avesse costui ottenuta la libertà, con promessa d'indurre i Goti a ritirarsi dalla Sicilia. Tante cagioni in fatti egli addusse a Totila, massimamente con fargli credere imminente l'arrivo di una poderosa armata imperiale, pervenuta già in Dalmazia, che fu risoluto nel consiglio de' Goti di lasciar in pace quell'isola. Poste dunque nelle lor navi le immense ricchezze raunate con tanti saccheggi de' miseri Siciliani, e una prodigiosa copia di grani e d'armenti rapiti, con lasciar qui dei presidii solamente in quattro luoghi, Totila menò le sue milizie in Italia. Non così fecero Giovanni e Giustiniano, arrivati in Dalmazia colla flotta e coll'esercito maggiore spedito da Giustiniano. Perchè trovando quella provincia infestata dagli Sclavi, con dubbio che que' Barbari fossero stati mossi da segreto maneggio del re Totila, determinarono di svernare in quel paese, per mettersi poi in viaggio nella seguente primavera. Ma non si fermarono quivi gli [931] Sclavi. Scorsero fino ad Adrianopoli, commettendo innumerabili mali, e portavano le minaccie fino ai contorni di Costantinopoli. Contro di loro fu spedito un esercito da Giustiniano, ch'ebbe la disavventura di essere sbaragliato da que' Barbari, e costoro s'avanzarono dipoi fino ai Muri Lunghi, luogo una giornata distante da Costantinopoli, dove una parte di essi fu disfatta. Gli altri carichi di preda se ne tornarono alle lor case. Fiorì in questi tempi Vittore vescovo di Capoa, dotto non meno nelle latine che nelle greche lettere. Fabbricò un ciclo pasquale, e compose altri libri, de' quali parla la storia letteraria.


   
Anno di Cristo DLI. Indizione XIV.
Vigilio papa 14.
Giustiniano imperadore 25.
Totila re 11.

L'anno X dopo il consolato di Basilio.

Circa questi tempi, durando tuttavia la guerra tra Giustiniano Augusto e i Persiani, venne in pensiero all'imperadore di proibire a' suoi che non comperassero da lì innanzi le sete dai Persiani; perchè una tal merce era allora al maggior segno cara, e portava fuori degli stati dell'imperio delle grandi somme d'oro con profitto de' Persiani, i quali soli la traevano dall'India, e la vendevano poscia agli Europei con eccessivo guadagno. Questo editto fu cagione che alcuni monaci tornati dall'India si esibissero d'introdurre in Europa la fabbrica della seta, e ne descrissero la maniera all'imperadore, che molto se ne maravigliò, e gl'incoraggì, con promessa di gran premio, ad eseguire l'impresa. Per tanto quei monaci ritornarono nell'India, e di colà portarono a Costantinopoli molte uova di vermi da seta, che fatti poi nascere, e nutriti colle foglie di gelsi mori, cominciarono a dar seta, e ne introdussero l'arte o fabbrica nel romano imperio, dove poi si propagò ed è giunta a quel segno che ora si vede. Giù si preparava [932] Giovanni, nipote di Vitaliano, alla partenza da Salona coll'armata navale cesarea destinata contra i Goti, quando arrivò ordine dell'imperadore che non si movesse, ed aspettasse l'arrivo di Narsete eunuco, già destinato capitan generale dell'armi di Cesare in Italia. Si partì da Costantinopoli esso Narsete con un bell'accompagnamento di truppe, e colla cassa di guerra ben provveduta di danaro. Gli convenne fermarsi per qualche tempo in Filippopoli, perchè gli Unni, cioè i Tartari, aveano fatto una irruzion nella Tracia, saccheggiando il paese (disgrazia famigliare in que' tempi a tutti i confini settentrionali dell'imperio d'Oriente), ed impedivano i cammini. Finalmente, sbrigato da quella canaglia, proseguì il suo viaggio. Intanto il re Totila, presentita la venuta di Narsete, richiamò in Roma alcuni de' senatori, ed ordinò loro di aver cura della città, con lasciar gli altri nella Campania. Ma li teneva come schiavi, nè essi poterono riavere porzione alcuna de' beni sì del pubblico che dei privati. Poscia, allestite circa trecento navi lunghe, e caricatele di Goti, le spinse verso le spiagge della Grecia. Fecero costoro uno sbarco in Corfù, e devastarono quell'isola colle altre appresso; passarono in terra ferma, e diedero il sacco a varie terre; e costeggiando per quelle riviere, presero varii legni che conducevano vettovaglie per servigio dell'armata di Narsete. Era già gran tempo che i Goti tenevano assediata per terra e per mare la città d'Ancona; laonde quel presidio si trovava ridotto a gravi angustie per la penuria di viveri. Valeriano, che comandava in Ravenna per l'imperadore, non avendo altro ripiego per soccorrerli, scrisse lettera a Salona, pregando Giovanni, giacchè tante milizie avea condotte colà, di accorrere a salvar quella città dall'imminente pericolo di rendersi. Giovanni, benchè avesse ordini in contrario dalla corte, pure credendo meglio fatto di non ubbidire in circostanze tali, con trecento navi lunghe, piene di sue [933] milizie, venne a trovar Valeriano, che seco unì altre dodici navi, ed amendue passarono a Sinigaglia. Ciò saputo dai Goti, vennero loro incontro con quarantasette navi cariche del fiore della lor gente, ed attaccarono la zuffa. Ma non erano da mettere in confronto dei Greci, bene addottrinati nelle battaglie navali, i Goti affatto novizii in quel mestiere. Perciò rimasero facilmente disfatti, con salvarsi appena undici dei loro legni. Il resto venne in poter dei Greci. Portata dai fuggitivi la nuova di questa disavventura agli altri ch'erano all'assedio di Ancona, fu cagione che sgombrassero in fretta il paese, e scappassero ad Osimo, lasciando in preda de' Greci le loro tende e bagagli. Questa percossa indebolì non poco le forze e il coraggio de' Goti. Tornò dipoi Valeriano a Ravenna, e Giovanni a Salona.

In questo medesimo tempo Artabane giunto in Sicilia [Procop., de Bell. Goth., lib. 4, cap. 24.], e preso il comando dell'armi cesaree, costrinse alla resa que' pochi presidii che Totila avea quivi lasciati ne' luoghi forti: cose tutte che accrebbero la costernazione de' Goti. Nè già restava speranza alcuna d'indurre Giustiniano Augusto a qualche ragionevol accomodamento. S'erano ben essi più volte esibiti di cedergli ogni lor pretensione sopra la Sicilia e Dalmazia, e di pagargli un annuo tributo, e di unir seco l'armi loro ad ogni sua requisizione come sudditi. Neppure fu data risposta alle lor proposizioni. Nondimeno Totila, principe di animo grande, punto non si sgomentava per tali contrarietà. Egli in quest'anno, raunata una possente flotta, la spedì in Corsica e Sardegna, dipendenti allora dal governo cesareo dell'Africa, e, senza trovarvi contrasto, sottopose quelle illustri isole al suo dominio. Tardi v'accorse Giovanni, generale dell'armi imperiali in Africa, colla sua flotta. Sbarcate le sue schiere in Sardegna, si pose a bloccare la città di [934] Cagliari. E non l'avesse mai fatto; perchè dal presidio gotico, uscito fuori, fu con tal empito assalito, ch'ebbe bisogno di buone gambe per salvarsi con quei che poterono seguitarlo nelle navi, e seco se ne tornarono malcontenti a Cartagine. La città di Crotone in questi giorni era strettamente assediata dai Goti, e ogni dì più venendo meno i viveri, ebbe maniera di spedire un messo ad Artabane in Sicilia, per chiedergli soccorso. Sappiamo ancora da Procopio, che uditasi in Costantinopoli la morte poco dinanzi seguita di Teodeberto, potentissimo re dei Franchi, Giustiniano mandò per ambasciatore Leonzio senatore a Teodebaldo suo figliuolo e successore, per domandargli la restituzion dei luoghi occupati dai Franchi nella Liguria e Venezia, ed insieme per intavolare una lega con esso lui contra de' Goti. Teodebaldo rispose, che nulla era stato occupato da suo padre ai Greci in Italia, e che quanto vi possedeano i Franchi, l'aveano amichevolmente ricevuto da Totila che n'era padrone. Si scusò poi di non potere entrare in lega, perchè durava un accordo stabilito dal padre coi Goti con queste condizioni, che amendue le nazioni desistessero dal farsi guerra, e quietamente possedessero quanto aveano in Italia. Che se riuscisse a Totila di prevalere contra dell'imperadore, allora verrebbono ad una transazione che fosse la più utile e decorosa. Inviò poi Teodebaldo anch'egli a Costantinopoli i suoi ambasciatori, e, senza volere dare aiuto ai Greci, tenne forte le conquiste fatte da suo padre in Italia. Quali queste fossero, non bene apparisce. Se vogliam credere al padre Pagi, in quest'anno ebbe fine il regno de' Gepidi, i quali da molto tempo possedevano la Dacia, e signoreggiavano ancora nel Sirmio. Erano confinanti ad essi i popoli longobardi, siccome possessori della Pannonia, e non poche liti bollivano fra queste due potenti nazioni, siccome fu accennato di sopra. Per attestato [935] di Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 4, cap. 25.], il re de' Gepidi, voglioso di vendicarsi coi Longobardi, mosse lor guerra in questi tempi. Reggeva allora la nazion longobardica il re Audoino. Questi subito ricorse a Giustiniano Augusto, con fare istanze di soccorso in vigore de' patti della lega che passava fra loro. Mandò veramente lo imperadore in suo aiuto non poche squadre d'armati, comandate da Giustino e Giustiniano, figliuoli di Germano, e da altri capitani; ma queste si fermarono in Ulpia città dell'Illirico per una sedizione (vera o finta che fosse) insorta fra i cittadini a cagione delle controversie allora bollenti in materia di religione. Proseguì il viaggio solamente Amalafrido, figliuolo di Amalberga, figlia di Amalafrida, sorella del re Teoderico, e di Ermenfrido già re della Turingia. Io non so perchè Procopio il chiami Goto, dopo averci indicato suo padre ch'era Turingio. La parentela spronò Amalafrida al soccorso del re Audoino, perciocchè una sua sorella, verisimilmente quella che presso Paolo Diacono porta il nome di Rodelinda, fu moglie d'esso re Audoino. Giordano storico [Jordan., de Regnor. Success.] chiama la moglie d'Audoino figlia di una sorella di Teodato re dei Longobardi; e veramente Teodato ebbe per moglie Amalafrida sorella del re Teoderico. Ora, per attestato dì Procopio, si venne ad un'atroce battaglia fra i Gepidi e Longobardi, in cui con tanta bravura e fortuna menarono le mani i Longobardi, che ne fu rotto e quasi tutto estinto sul campo l'esercito dei Gepidi.

Qui il padre Pagi pretende che a tutti i patti si sia ingannato Procopio, con dire succeduto questo gran fatto d'armi sotto Audoino re de' Longobardi, perchè, per attestato di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 1, cap. 27.] e dell'abate Biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron.], a' tempi del re [936] Alboino, figliuolo di esso Audoino, accadde la terribil rotta dei Gepidi; e si ha da Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] che Alboino cominciò a regnare nell'anno 543. Racconta in fatti Paolo Diacono che si fece giornata campale fra que' Barbari, in cui restarono interamente sconfitti i Gepidi, e tanta fu la rabbia de' Longobardi vincitori, che non diedero quartiere ad alcuno, di modo che la potente nazione dei Gepidi rimase disfatta, nè ebbe più re da lì innanzi. E perciocchè Procopio, in raccontando i fatti dell'anno susseguente 553, mette tuttavia vivo Toresino, ossia Turisendo, re de' Gepidi, vuole esso Pagi che ancor qui lo stesso Procopio prendesse abbaglio, attestando del pari Paolo Diacono e l'abate Biclariense che nel tempo di quel memorabil conflitto regnava fra i Gepidi non Toresino, ma Cunimondo suo figliuolo, che restò anch'egli vittima del furor de' Longobardi. Ma il Pagi non usò qui la sua solita diligenza ed attenzione; cioè confuse in una due diverse battaglie, altra essendo quella che accadde in quest'anno, regnando Toresino fra i Gepidi, e Audoino fra i Longobardi, di cui appunto conservò memoria Paolo Diacono al primo libro della storia longobardica al capitolo ventesimoterzo, e in cui restò morto Turismondo figliuolo del re Toresino; e di questa prima battaglia fa menzione anche l'autore della Miscella [Hist. Miscella, lib. 16.]. L'altra si vede narrata dal medesimo Paolo Diacono al capitolo vigesimosettimo di esso libro primo, e dall'abate Biclariense, allorchè Cunimondo era re de' Gepidi, ed Alboino de' Longobardi. Procopio narra cose avvenute a' suoi giorni, e ch'egli poteva ben sapere; e nominando egli più volte il re Audoino, vivente in quest'anno, indarno si vuol produrre contra la di lui autorità Sigeberto, scrittore che fiorì dopo l'anno 1100, il quale fa morto Audoino nel 543, con error manifesto, siccome vedremo. Mette anche Sigeberto [937] da lì a poco con altro errore la morte di Totila, e il fine del regno de' Goti nell'anno 546. Procopio, dico, nell'anno seguente 553, ci assicura che Toresino, o Turisendo, re de' Gepidi, era tuttavia vivente e regnante fra i Gepidi. Scrive inoltre che un certo Ildisgo si ricoverò presso i Gepidi, ed un certo Ustrigoto presso i Longobardi, ed essersi accordati i re di quelle due nazioni per uccidere entrambi que' rifugiati. Adunque durava tuttavia il regno dei Gepidi. Ma quel che decide la presente quistione, si è la chiara testimonianza di Menandro protettore, storico di questo medesimo secolo, e continuatore della storia di Agatia, non osservato dal padre Pagi. Alcuni pezzi della sua opera si leggono negli Estratti delle legazioni [Hist. Byz., tom. 1, pag. 110.]. Egli dunque narra, che mentre era imperadore Giustino, il successore di Giustiniano, bolliva una fiera inimicizia fra Alboino re dei Longobardi e Cunimondo re de' Gepidi, ed avere il primo fatto ricorso agli Abari, ossieno Avari, cioè agli Unni, che noi chiamiamo Tartari, e stabilita lega con loro, come accenna anche Paolo Diacono; dopo di che fece la guerra ai Gepidi. Cunimondo ricorse all'imperadore Giustino; ma questi non volle mischiarsi nelle loro liti. Però non sotto Giustiniano Augusto, ma sotto il suo successore Giustino succedette il secondo fatto di armi, che portò seco la distruzione del regno de' Gepidi, narrato da Paolo Diacono, e diverso dal primo, di cui parla Procopio. Serviranno tali notizie pel proseguimento della storia d'Italia. Intanto merita di esser fatta menzione, che Giordano storico, appellato indebitamente fin qui Giornande, a cagione di qualche testo scorretto, dopo aver accennata la prima sanguinosa battaglia fra i Gepidi e i Longobardi, narrata anche da Procopio, diede fine al suo Trattato istorico de regnorum successione, terminato perciò nel corrente anno. [938] Dalla prefazione di esso libro si scorge ch'egli avea prima composto l'altro libro de Rebus Geticis, cioè nell'anno 550, perchè ivi fa menzione nella nascita di Germano, figliuolo postumo di Germano patrizio, di cui poco fa parlammo, e di Matasunta figliuola di Amalasunta. Era questo Giordano di nazione Goto. Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.] il fa anche vescovo, ed alcuni perciò l'han creduto troppo buonamente vescovo di Ravenna. Quanto a me, siccome dissi nella prefazione alle sue opere [Rer. Italicar. Scriptor., tom. 1.], tengo ch'egli fosse monaco; e non sarebbe gran cosa che avesse avuta la sua stanza in Ravenna, allora sottoposta a Giustiniano Augusto, al vedere come egli parli d'esso imperadore e dei Greci. In quest'anno seguì un gran dibattimento in Costantinopoli per cagione di tre capitoli che Vigilio papa, Dazio arcivescovo di Milano, ed altri di Italia sosteneano contro la pretensione e prepotenza di Giustiniano Augusto, che s'era ostinato a volerli condannati, lasciandosi indurre da Teodoro vescovo di Cesarea in Cappadocia, capo degli eretici acefali. Pubblicò esso Augusto un editto intorno a questa controversia, con abusarsi della sua autorità e con discapito del suo nome. Perchè se gli oppose Vigilio, nè volle consentire, fu maltrattato; e temendo di peggio, come potè il meglio, scappò a Calcedone, con rifugiarsi nella chiesa di santa Eufemia di quella città, che era il più riverito asilo sacro dell'Oriente in questi tempi.


   
Anno di Cristo DLII. Indizione XV.
Vigilio papa 15.
Giustiniano imperadore 26.
Teia re 1.

L'anno XI dopo il consolato di Basilio.

Avea finora l'imperador Giustiniano atteso con gran negligenza agli affari di Italia. Finalmente, come se si fosse svegliato da un grave sonno, tutto si diede [939] a preparare i mezzi per distruggere il regno dei Goti. Eletto Narsete capitan generale delle sue armi in Italia, soprattutto si studiò di provvederlo del maggior nerbo di chi prende a guerreggiare, cioè del denaro, acciocchè con questo assoldasse un fioritissimo esercito, soddisfacesse alle milizie esistenti in Italia, prive da gran tempo di paga, e potesse ancora sedurre i seguaci di Totila. Era Narsete piccolo di statura e gracile, non sapeva di lettere; mai non aveva studiato eloquenza; ma la felicità del suo ingegno, la sua attività e prudenza supplivano a tutto, e compariva mirabile la grandezza dell'animo in quest'uomo, che pur era eunuco [Agath., lib. 1 de Bell. Gothic.]. Adunque così bene assistito Narsete, trasse seco a Salona un'armata, secondo que' tempi, ben poderosa. Imperocchè molta gente aveva egli raccolto da Costantinopoli, dalla Tracia e dall'Illirico, correndo a folla le persone alla fama dei tesori imperiali ch'egli generosamente impiegava. Trovò in Salona le soldatesche già raunate da Germano patrizio e da Giovanni genero d'esso Germano. Seco ancora si unì un corpo di due mila e dugento de' migliori e più scelti Longobardi, che il re Alboino, ad istanza di Giustiniano Augusto, spedì all'impresa d'Italia, colla giunta ancora di tre mila combattenti per servigio de' primi; così che sembrano simili agli uomini d'arme usati nei secoli posteriori in Italia. Inoltre ebbe Narsete tre mila cavalli Eruli, molti Unni, molti Persiani e quattrocento Gepidi con altre non poche truppe d'altri paesi. Restava di trovar la via di condurre in Italia tutto questo esercito. Per mare non appariva, perchè sarebbe stato necessario un immenso stuolo di navi. Per terra bisognava passare per luoghi, dove i Franchi tenevano dei presidii. Narsete senz'altro mandò a dimandare il passaggio ai Franchi, che lo negarono, col pretesto ch'egli menava seco dei Longobardi [940] lor capitali nemici. Segno è questo che i Franchi dovevano aver occupato le città di Trivigi, Padova e Vicenza, o almeno dei luoghi in quelle parti. Certo non erano padroni di Verona. Trovavasi Narsete in grande agitazione per questo, e tanto più perchè si venne a sapere, aver Totila inviato Teia suo capitano col fiore de' Goti alla suddetta Verona per contrastare il passo all'armata nemica, la qual pure, quand'anche i Franchi avessero conceduto il passaggio, non potea tenere altra strada che quella di Verona, essendochè il Po in questi tempi formava delle sterminate paludi dove ora è il Ferrarese con altri paesi circonvicini. Avea inoltre Teia fatti incredibili lavorieri alle rive del Po, acciocchè non restasse aperto adito alcuno per quelle parti ai nemici. Prevalse dunque il parere di Giovanni nipote di Vitaliano, assai pratico de' cammini, il quale consigliò d'istradare l'armata per i lidi del mare Adriatico fino a Ravenna, col condurre seco un sufficiente numero di barche atte a far ponti per valicare i molti fiumi che vanno a sboccare nel mare. Così fu fatto, e felicemente con tutto il suo numeroso oste Narsete pervenne a Ravenna; cosa che non si erano mai aspettata i Goti. Fermatosi quivi nove giorni per rinfrescare e rimettere in lena le truppe, con esse poi s'inviò alla volta di Rimini, al cui fiume e ad uno stretto passo ebbe all'incontro Usdrila capitano di quel presidio, uomo valoroso [Procop., de Bell. Goth., lib. 4, cap. 29.]. La morte di costui fece ritirare i suoi nella città; laonde Narsete continuò il suo viaggio. Ma perchè nella via Flaminia, andando innanzi, si trovava Pietra Pertusa, fortezza quasi inespugnabile, che impediva il passo, voltò Narsete a man destra per valicar l'Apennino. Totila dimorava in questi tempi in Roma, aspettando che da Verona venissero a congiungersi seco le squadre comandate da Teia. Venute queste, ancorchè fossero [941] restati indietro due mila cavalli, mosse l'armata sua, e per la Toscana s'inoltrò sino all'Apennino in un luogo appellato Tagina, alquante miglia lungi dal campo di Narsete postato ad un luogo chiamato i Sepolcri dei Galli. Crede il Cluverio [Cluverius, Ital., lib. 2, cap. 6.] che que' siti fossero tra Matelica e Gubbio, e verso l'antica, ora desolata, terra di Sentino.

Quivi si accinsero amendue le nemiche armate a decidere con un generale conflitto della sorte d'Italia. Procopio, secondo il costume di varii storici greci e latini, ci fa intendere le belle parlate che i due generali avrebbono dovuto fare ai lor soldati per animargli al combattimento. Ma quando, già schierati gli eserciti, si credeva inevitabile il fatto d'armi, Totila si ritirò indietro, per attender due mila combattenti che a momenti doveano arrivare. Arrivati poi questi, si venne alla giornata campale, che fu formidabile, sanguinosa e piena di morti, ma specialmente dalla parte dei Goti. Tacciato fu d'inescusabile imprudenza Totila, perchè ordinò ai suoi di non valersi nella zuffa nè di saette, nè di spade, ma solamente di picche e lance, servendosi all'incontro l'armata di Narsete di tutte le sue armi, fece tal guasto in quelle de' Goti, che finalmente la rovesciò e mise in fuga. Rimasero estinti sul campo circa sei mila Goti; altri si arrenderono, che furono poco appresso tagliati a pezzi dai Greci. Gli altri, coll'aiuto delle loro gambe o de' cavalli, si studiarono di salvare la vita. Sopraggiunse la notte, e Totila fuggendo anche egli cercava di mettersi in salvo. Ma, o sia che nel calore della battaglia fosse stato trafitto da una saetta, mentre al pari dei soldati valorosamente combatteva; o sia che nella fuga da un Gepida appellato Asbabo fosse ferito con una lancia nella schiena (che questo non si sa bene), giunto ch'egli fu ad un luogo chiamato Capra, fu bensì curata la sua ferita, ma da lì a [942] poco di quella morì, e al corpo suo tumultariamente data fu sepoltura. Principe, benchè barbaro di nazione, pure degno d'essere registrato fra gli eroi dell'antichità; tanto era stato il suo valore nelle azioni, la sua prudenza nel governo, la sua vigilanza ed attività nella decadenza d'un regno, che, trovato da lui sfasciato, s'era per sua cura rimesso in assai buono stato. Era eziandio lodata da tutti la sua continenza, e da molti la sua giustizia e clemenza, con altre virtù che meritavano bene un fine diverso. Questa vittoria, quantunque non isterminasse affatto la potenza dei Goti, pure le diede un gran crollo. Narsete, siccome persona ammaestrata nella vera pietà, la riconobbe dal favore e voler di Dio, e non già dalle mani degli uomini. Evagrio [Evagr., lib. 4, cap. 23.] l'attribuisce alla divozione professata dal medesimo Narsete alla beata Vergine madre di Dio, e il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] all'avere in questi tempi Giustiniano, dappoichè avea fatti varii strapazzi e violenze a papa Vigilio, rallentato il suo rigore, con dimostrare di voler pur rimettere in lui le controversie della religione. Ed in tanto il papa se ne stava come esiliato in Calcedone, e ritirato nel tempio di santa Eufemia. Dopo questo felice successo dell'armi cesaree in Italia, attese Narsete a cacciar via i Longobardi seco condotti, perchè costoro barbaramente incendiavano le case, e facevano violenza alle donne, anche rifugiate nei sacri templi. Caricatili dunque di doni, gl'inviò al lor paese, cioè nella Pannonia, ossia nell'Ungheria, facendoli accompagnare da Valeriano e da Damiano suo nipote con un corpo di milizie, affinchè que' Barbari non commettessero disordini nel viaggio. Sbrigato Valeriano da costoro, condusse le sue brigate sotto Verona con pensiero di formarne l'assedio, se il presidio gotico non s'induceva a rendersi. Trovò in essi buona disposizione; ma ciò risaputo dai Franchi [943] acquartierati in quel territorio, tanto si adoperarono, che il trattato andò a monte, e Valeriano si ritirò altrove.

Intanto i Goti scampati dalla battaglia suddetta si ridussero a Pavia, e quivi crearono per loro re Teia figliuolo di Fridigerne, il più valoroso de' loro uffiziali. Trovò egli in quella città parte di quel tesoro che per sicurezza v'avea mandato Totila, e con esso tentò di tirare in lega i Franchi; e nello stesso tempo rimise in piedi un competente esercito. Narsete in questo mentre, dopo aver ordinato a Valeriano che si portasse al Po, per impedire i progressi dei Goti, col suo esercito prese Spoleti, Narni e Perugia, e quindi voglioso di mettere il piè in Roma, colà si portò. Per non tenere occupata tanta gente nella difesa di quell'ampia città, avea il re Totila fatta cingere di mura una picciola parte intorno alla mole d'Adriano, oggidì castello Sant'Angelo, formandovi una specie di fortezza. In essa riposero i Goti il meglio de' loro averi, con farvi buona guardia; del resto della città si prendevano poca cura. Non fu però difficile a Narsete il dare la scalata ad un sito delle mura, dove niuno si trovava alla difesa: con che s'impadronì di Roma. E strettosi dipoi intorno al castello, tal terrore diede a quella guarnigione, che in poco tempo essa capitolò la resa, salve le persone. Racconta qui Procopio, senza saper intendere i giudizii di Dio, come la presa di Roma fatta dai Greci riempiè di giubilo i Romani banditi, subito che l'intesero, e pur questa fu la loro rovina. Perciocchè i senatori, ed altri che erano nella Campania, si mossero tosto per rimpatriare; ma colti dai Goti che tenevano varie fortezze in quelle parti, furono messi a fil di spada. Altri, incontrandosi ne' Barbari che militavano nell'esercito di Narsete, ebbero la medesima sorte. Dianzi ancora aveva il re Totila, allorchè marciava contro a Narsete, scelti da varie città trecento figliuoli dei nobili Romani, sotto pretesto di tenerli [944] come suoi familiari, ma veramente perchè gli servissero d'ostaggio, e gli avea mandati di là dal Po. Trovatili il nuovo re Teia, tutti barbaramente li fece uccidere. Studiossi dipoi questo re, quanto potè, per muovere contra i Greci anche Teodebaldo re dei Franchi, offerendogli una gran somma di danaro; ma non gli venne fatto, perchè non volevano i Franchi spendere il loro sangue in servigio de' Goti, nè de' Greci, e solamente pensavano a far eglino soli la guerra per conquistare ed unire, se avessero potuto, ai lor dominii anche l'Italia. Vennero intanto in poter di Narsete il castello di Porto, Nepi e Pietra Pertusa. Mandò egli dipoi Pacurio, all'assedio di Taranto, altri a quello di Civitavecchia ed a quello di Cuma, nel cui castello Totila avea riposta parte del suo tesoro, e messovi per governatore Aligerno suo minor fratello.


   
Anno di Cristo DLIII. Indizione I.
Vigilio papa 16.
Giustiniano imperadore 27.

L'anno XII dopo il consolato di Basilio.

Ho io rapportato all'anno precedente 552 la morte del re Totila e l'elezione di Teia, uniformandomi col Sigonio e col padre Pagi, ancorchè Mario Aventicense, seguitato dai cardinali Baronio e Noris, la riferisca all'anno presente. Certamente Procopio assiste alla prima sentenza, e si veggono altri fatti posticipati d'un anno nella Cronica d'esso Mario. Peggio fa Vittor Tunonense [Victor Turonen., in Chron.], che mette nell'anno susseguente 554 la battaglia in cui Totila fu ucciso. Ma certo coi conti del Pagi [Pagius, Crit. Baron.] e i miei si accorda Teofane [Theoph., in Chronogr.], il quale scrive che nell'anno medesimo in cui morì Menna patriarca di Costantinopoli, correndo l'Indizione XV (la qual morte tutti gli eruditi concedono seguita nell'anno 552 senza dissentirne [945] i cardinali suddetti): in esso anno, dico, nel mese d'agosto arrivarono a Costantinopoli i corrieri trionfali, portando la nuova della gran vittoria ottenuta da Narsete colla morte di Totila, le cui vesti insanguinate e la sua berretta carica di gemme fu presentata a Giustiniano Augusto. Sia nondimeno lecito a me di seguitar Mario Aventicense in un fatto, cioè in rapportare all'anno presente la morte del re Teia, giacchè egli in un anno rapporta la di lui elezione, e nel susseguente la di lui caduta. Teia dunque, a cui premeva forte di conservar Cuma, per non perdere il tesoro quivi rinchiuso, uscito di Pavia, arditamente passando per molti luoghi stretti e per le rive dell'Adriatico, all'improvviso comparve nella Campania. Colà del pari col suo esercito si trasferì Narsete, e giunto verso Nocera alle falde del monte Vesuvio, si trovò a fronte de' Goti, i quali s'erano fortificati alle rive del fiume Dragone. Due mesi stettero quivi le armate, senza che l'una potesse o volesse assalir l'altra. Ma dacchè un Goto, per tradimento, vendè a Narsete tutta la flotta delle navi, onde Teia riceveva, secondo il bisogno, i viveri, allora i Goti attaccarono la battaglia, e combatterono da disperati. Vi rimase morto Teia, dopo aver fatto delle incredibili prodezze; e ciò non ostante seguitarono furiosamente i suoi a combattere. La notte servì a far cessare il conflitto. Ma, fatto giorno, ricominciarono la zuffa, e con tanto vigore menarono le mani, che non si potè mai romperli. Ritiratisi finalmente, e ragunato il consiglio, mandarono a dire a Narsete, che ormai conoscevano essersi Iddio dichiarato contra di loro, e che deporrebbono l'armi, chiedendo solamente di potersene andare per vivere secondo le loro leggi, giacchè intendeano di non servire all'imperadore; siccome ancora di poter portar seco il danaro che cadaun avea riposto in varii presidii d'Italia. Penava Narsete ad accordare queste condizioni, ma Giovanni nipote di Vitaliano, [946] con rappresentargli che non era bene il cimentarsi di nuovo con gente disperata, e che bastava ai prudenti e moderati il vincere, senza esporsi a nuovi pericoli, tanto disse, ch'egli acconsentì. Fu dunque convenuto che quei soldati goti coi loro bagagli speditamente uscissero d'Italia, nè più prendessero l'armi contra dell'imperadore. Mille di essi andarono a Pavia ed oltre Po, e gli altri Goti confermarono quei patti, in guisa che Narsete s'impadronì di Cuma e degli altri presidii. Con che Procopio dà fine all'anno XVIII della guerra de' Goti, terminato nella primavera presente, ed insieme alla sua storia, continuata poi da Agatia, scrittore anch'esso di questi tempi. Ma io dubito forte che sieno state aggiunte al testo di Procopio queste ultime parole, confrontandole con ciò che il suddetto Agatia ci verrà dicendo [Agat., de Bell. Goth., lib. 1.]. Scrive egli adunque, che dopo la convenzione stabilita con Narsete, i Goti parte andarono nella Toscana e Liguria, parte nella Venezia e in altri luoghi, dov'erano soliti di abitare. Si aspettava che adempiessero le promesse fatte, e contenti dei lor beni schivassero da lì innanzi i pericoli, con respirare da tante calamità. Ma poco appresso si diedero a macchinar altre novità e ad intraprendere un'altra guerra. Conoscendo di non poterla far soli, spedirono ai Franchi, per indurli a muoversi contra de' Greci. Qui Agatia fa un bell'elogio de' Franchi, rappresentandoceli, benchè Barbari, pure diversi troppo dagli altri Barbari nella pulizia e nella maniere di vivere, per cui somigliavano piuttosto ai Romani, e massimamente per la religione cattolica da essi ancora professata, e per la giustizia e per la singolare bravura, con cui aveano largamente dilatato il loro dominio, e per la concordia che regnava fra loro. Patisce eccezione quest'ultima lode; e se Agatia fosse vivuto un poco più, forse avrebbe tenuto un differente linguaggio. [947] Regnava allora Teodebaldo, il più potente di quei re, giovinetto dappoco, perchè di sanità meschina. A lui ricorsero i Goti transpadani, ma nol trovarono disposto a voler brighe di guerra.

Gli Alamanni, una delle nazioni germaniche, già tributarii del re Teoderico, e tuttavia idolatri, s'erano dopo la di lui morte soggettati per forza al re Teodeberto, padre d'esso Teodebaldo, e fra essi erano due fratelli, duci di quella nazione, Leutari e Butilino. Da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Longob., lib. 2, cap. 2.] questi è chiamato Buccellino, ed ha questo nome presso Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 3, cap. 32.], e nelle Croniche di Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.] e del Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.]. Costoro, veggendo che il re Teodebaldo preferiva il gusto della pace ad ogni guadagno, presero essi l'assunto di far la guerra in Italia ai Greci, invaniti della speranza di grandi conquiste e d'immenso bottino, sprezzando soprattutto Narsete, per essere eunuco ed allevato solamente fra le delizie della corte. Certo nol doveano ben conoscere. Però adunato un esercito di ben sessantacinque mila tra Alamanni e Franchi, calarono in Italia. Narsete, benchè non abbastanza informato di questi movimenti, ai quali probabilmente fu dato impulso dai Goti, vivente ancora il re Teia, piuttosto che dopo la sua morte, come credette Agatia, pure, per prevenir gli sforzi altrui, attese a conquistar le fortezze che nella Toscana erano tuttavia in mano dei Goti: segno che la convenzione fatta tra essi dopo la vittoria riportata contro Teia, o non era stata seguita, o riguardò solamente i soldati goti che intervennero al fatto d'armi con Teia. Ma premendogli maggiormente l'acquisto di Cuma, perchè in quel forte castello aveano i Goti ricoverate le loro più preziose cose, colà passò con tutto [948] l'esercito, e l'assediò. V'era alla difesa Aligerno, fratello del defunto Teia, uomo di mirabil forza, che in tirar d'arco non avea pari. Furono fatte più mine per far cadere le mura; furono dati varii assalti: tutto riuscì inutile. Pertanto Narsete, avendo ormai intesa da sicuri avvisi la calata di Leutari e di Butilino con sì grossa armata, e l'arrivo d'essi di qua dal Po, non volle più perdere tempo intorno a Cuma; lasciato quivi un corpo di truppe bastevole per tener bloccata quella fortezza, passò in Toscana col resto dell'armata. Di colà spedì la maggior parte de' suoi sotto il comando di Fulcari, capitano degli Eruli, di Giovanni nipote di Vitaliano, di Artabano e d'altri condottieri verso il Po, con ordine d'impedire, per quanto permettevano le loro forze, i progressi dei Franchi ed Alamanni. Attese egli intanto ad altri vantaggi in Toscana. A lui si sottoposero Civitavecchia, Firenze, Volterra, Pisa e gli Alsiensi, creduti oggidì quei di Palo. I soli Lucchesi vollero far fronte, e quantunque avessero capitolato di arrendersi, qualora nello spazio di trenta dì non venisse loro un tal soccorso che fosse capace di combattere in campagna aperta, ed avessero dati gli ostaggi; pure, spirato il termine, mancarono di parola, sperando che di dì in dì arrivassero i Franchi. Fu consigliato Narsete di uccidere gli ostaggi in faccia agli assediati spergiuri. Egli inclinato alla misericordia, e riguardando come iniquità il punir gl'innocenti in luogo dei colpevoli, fece condurre gli ostaggi presso alle mura, ed intimò ai cittadini l'esecuzione delle promesse, minacciando di morte i lor parenti. Ricusando essi di farlo, ordinò che si decollassero, quei miseri, il carnefice diede colla spada i colpi, ma Narsete avea fatto metter loro un collare di legno coperto dai panni, per cui niun nocumento ebbero eglino, e, secondo il concerto fatto, finsero di stramazzar come morti. Allora un gran pianto e grido s'alzò per la [949] città. Narsete promise di risuscitar quegli uomini, se si arrendevano, e fu accettata la proposizione. Ma dappoichè videro in salvo i suoi, nè pur vollero questa fiata mantener la parola. Narsete, in vece di pensare alla vendetta, mise in libertà gli ostaggi, i quali poscia tanto esaltarono l'affabilità e rettitudine del generale cesareo, che quel popolo cominciò a deporre tanta durezza. Erano già entrati i Franchi in Parma. Si avanzò spropositatamente e senza ordine verso quella città Fulcari condottiere degli Eruli, inviato colà da Narsete. Nascosi i Franchi nell'anfiteatro ch'era fuori della città, gli furono addosso, e per quanta difesa egli facesse, rimase morto sul campo con quei che non poterono fuggire. Intanto i Goti abitanti nella Liguria ed Emilia, che aveano poc'anzi fatta pace ed amistà, ma finta, coi Greci, udendo gli avanzamenti de' Franchi, ruppero i patti e si gittarono nel loro partito. Per lo contrario i capitani di Narsete, scorgendo sè stessi inferiori di forze, e che i Goti spalancavano le porte delle terre subitochè arrivavano i Franchi, credettero ben fatto di ritirarsi nelle vicinanze di Ravenna. Mandò Narsete a rimproverarli di codardia, e tanta forza ebbero le di lui riprensioni, che ritornarono alla volta di Parma, e lì presso s'accamparono. Allora Narsete maggiormente affrettò l'assedio di Lucca, dov'erano entrati dei comandanti franzesi, e tuttochè con assalti, mangani e fuochi offendeva la città, tantochè finalmente la guarnigione, dopo d'essersi sostenuta per tre mesi, trattò di rendersi, ed ottenne il perdono del passato, con allegria ammise entro la città i Greci. Dopo di che Narsete si trasferì a Ravenna, e trovandosi nella vicina Classe, ebbe il contento di veder comparire Aligerno, fratello del morto re Teia, che saggiamente pensando all'avvenire, e nulla di bene sperando dalla parte dei Franchi, intenti solamente al proprio interesse e vantaggio, venne a proporgli la resa di [950] Cuma da tanto tempo assediata, con farla valere in suo pro. Senza difficoltà si conchiuse presto l'affare, e venne quella forte rocca in poter delle sue genti con tutto o quasi tutto il tesoro, che ivi si conservava sì della corona, come de' particolari Goti. Riuscì ancora a Narsete di mettere il piede in Rimini per amichevol accordo coi Varni, che v'erano di presidio, e presero partito nell'armata imperiale. Disfece inoltre un corpo di due mila Franchi, i quali sbandati erano giunti fino ai contorni di Ravenna, mettendo tutto a sacco. E perciocchè il verno chiamava ognuno a quartiere, egli da Ravenna passò a Roma, dove si trattenne tutto quel tempo, addestrando intanto in continui esercizii il suo esercito per averlo pronto alla primavera ventura. Fu in quest'anno tenuto in Costantinopoli il quinto concilio generale, per terminare la fastidiosa controversia dei tre capitoli. Perchè non consentì papa Vigilio alla condanna dei medesimi, Giustiniano Augusto con iscandalosa prepotenza il cacciò in esilio con altri vescovi ch'erano del suo parere. Ciò non ostante, vedremo prosperate l'armi sue in Italia: il che dovea fare accorto il cardinal Baronio, che i giudizii di Dio sono occulti, e questo non essere il paese, dov'egli faccia sempre giustizia col punire i cattivi e premiare i buoni, ma riserbarlo egli al mondo di là.


   
Anno di Cristo DLIV. Indizione II.
Vigilio papa 17.
Giustiniano imperadore 28.

L'anno XIII dopo il consolato di Basilio.

Nulla si opponeva al poderoso esercito dei due duci alamanni e franchi, essendo assai debili a petto di queste, e troppo ancora divise in tanti presidii le forze imperiali d'Italia. Però costoro a man salva dalla Liguria passarono fin verso Roma [Agath., lib. 2 de Bell. Goth.], lasciando dappertutto [951] funestissimi segni della loro barbarie e rapacità. I Franchi, siccome gente cattolica, portavano rispetto ai sacri templi; ma gli Alamanni, che erano i più, facevano alla peggio dappertutto, asportando i vasi sacri, e spogliando d'ogni loro ornamento la chiese, con ispianarne ancora non poche, e con trucidar senza compassione i miseri contadini. Passarono oltre Roma, e giunti al Sannio, divisero l'armata in due. Buccellino, ossia Butilino, col maggior nerbo di quelle masnade tirò a man destra, con devastare la Campania, la Lucania, i Pruzii, e giugnere fino allo stretto di Sicilia. Leutari marciò alla sinistra lungo il mare Adriatico, mettendo a sacco tutto quel tratto di paese sino ad Otranto. Era già avanzata la state, quando Leutari e il suo esercito, pieni di prede, pensarono di tornarsene alle lor case. Fattolo sapere a Buccellino, non volle costui imitarli, perchè i Goti gli davano ad intendere di volerlo per re loro. Venne Leutari, e giunto a Fano, mandò innanzi tre mila de' suoi per osservar se sicure erano le strade. Artabano uffiziale cesareo, che avea rannata della gente in Pesaro, postosi in aguato, piombò loro addosso, ne uccise molti e fu' cagione che gli altri fuggendo misero in conquasso tutto l'esercito de' suoi, i quali mentre in quella confusione si armano, diedero campo alla maggior parte dei loro prigioni di scappare e di portar seco quanto poterono del ricco bottino. Finalmente Leutari, passato con gran fatica il Po, condusse la sua gente a Cenesa, allora posseduta dai Franchi. Così la chiama Agatia. Io la crederei Ceneda, terra della Venezia, se Paolo Diacono nol dicesse ritirato fra Verona e Trento vicino al lago di Garda. Quivi non men egli che tutti i suoi furono colti da una terribile e sì feroce peste, che coi denti si strappavano a brani la carne propria, e tutti o quasi tutti per esso malore finirono di vivere: giusto giudizio e castigo di Dio, per le enormità [952] incredibili da loro commesse, come osservò lo storico Agatia. Nè già permise la stessa divina giustizia che avesse miglior mercato l'altra armata di Buccellino. Gregorio Turonense [Gregor. Turonens., lib. 3, cap. 32.] racconta in un fiato una man di fole di costui: cioè che egli riportò molte vittorie combattendo contra Belisario: il che diede motivo all'imperadore di richiamar Belisario e di mandare in Italia Narsete. Che esso Buccellino prese tutta l'Italia, diede una rotta a Narsete, e dipoi occupò la Sicilia, i cui tributi inviò al re Teodeberto: tutte fandonie, senza che sia un filo di verità. Il vero si è, che Buccellino, dopo aver dato il sacco a quante terre trovò per via fino a Reggio di Calabria, tornossene indietro, e giunto vicino a Capua, si accampò alla riva del fiume Casilino, cioè del Volturno, in un luogo che Paolo Diacono chiama Tanneto. Postosi all'incontro sull'altra riva Narsete con quanta gente di suo seguito potè. Descrive Agatia l'armatura de' Franchi, se pure non vuol dire degli Alamanni: cioè, che quasi tutti erano fanteria. Non usavano archi, frecce, dardi o fionde. Al lato destro portavano lo scudo, al sinistro la spada. Presso di loro non era in uso l'usbergo, ossia la lorica; pochissimi portavano celata in testa; nudi fino alla cintura, da cui poscia scendeano calzoni fino a' piedi, fatti di tela di lino, oppure di cuoio. Portavano anche accette con ferro da due parti aguzzo, e degli angoni, specie di alabarde coll'asta di legno, ma quasi tutta coperta di ferro e non molto lunga, nella cui punta era un acuto ferro con varie punte, ossieno uncini, che guardavano al basso, e simili agli ami. Di questi angoni si servivano per lanciarli contra il nemico, quando erano a tiro. Se colpivano il corpo, ancorchè il colpo non fosse mortale, non se ne potea sbrigar l'uomo ferito per cagion degli uncini. Se li ficcavano negli scudi, non ci [953] era verso di staccarli, nè di valersi più di essi scudi, ed intanto trovandosi disarmato il corpo del nimico, o colla scure o con altra asta il uccidevano. Vennesi finalmente un dì ad un generale fatto d'armi. Alla ferocia di que' Barbari, benchè superiori di numero, prevalse il buon ordine, accompagnato dal valore delle milizie di Narsete. Restò morto nel conflitto Buccellino, e non solo sconfitti i suoi, ma messi a fil di spada tutti, coll'esserne appena salvati cinque, laddove soli ottanta in circa dell'esercito di Narsete perirono in quella giornata: di modo che ancor qui si potè ravvisare la mano di Dio. Immensa fu la preda che ne ebbero i vincitori, composta dello spoglio di tante provincie: e però tutti allegri ricondussero Narsete a Roma.

Il cardinal Baronio riferì all'anno 555 i fatti e la morte di questi due barbari capitani. Il Continuatore di Marcellino conte, all'anno 552. Il padre Pagi finalmente sostiene che senza dubbio avvennero nell'anno 553, allegando per la sua sentenza Agatia. Ma io tengo che sieno da riferire all'anno presente 554, e che evidentemente s'inganni il Pagi. Per confessione ancora di lui, nel mese di luglio dell'anno 552 seguì la battaglia, in cui morì il re Totila. Si raccolsero poi i Goti in Pavia, crearono re Teia. Questi mandò suoi ambasciadori a Teodebaldo re de' Franchi, per muoverlo contra de' Greci, e nulla ottenne. Costò questa spedizione del tempo. Appresso il medesimo Teia da Pavia col suo esercito si portò fin di là da Napoli: molto più tempo occorse a questo viaggio. Ciò saputo da Narsete, chiama dalla Toscana e dall'Umbria tutte le sue truppe, e con esse poi va a mettersi a fronte di Teia. Non si fanno volando quelle marcie. Stettero per due mesi [Procop., lib. 4, cap. 35.] guardandosi le due armate, finchè vennero alle mani, e nella zuffa rimase morto Teia. Sicchè la morte di questo re va [954] sul fine dell'anno 552, o pure, come ho creduto io, fondato sopra Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], ne' primi mesi dell'anno 553. Ora chiaramente si vede che Agatia narra nel primo libro gli avvenimenti succeduti dopo la morte di Teia: cioè l'avere i Goti istigata la nazion de' Franchi e degli Alamanni contra di Narsete; avere Leutari e Buccellino dovuto mettere insieme l'armata per calare in Italia, e che essi calarono ben tardi. Aggiugne che l'assedio di Cuma durò più di un anno, che Narsete spese tre mesi a quello di Lucca, e poi passò a Ravenna, e di là a Roma, e vi stette nel verno. Ecco dunque terminato l'anno 553, e per necessità doversi riporre nell'anno presente 554 (come saggiamente ancor fece il Sigonio) le altre azioni, narrate da Agatia e da me, dei suddetti due generali alamanni o franzesi, sino alla lor morte [Sigon., de Regn. Occident., lib. 20.]. Così ancora ha fatto il suddetto Mario, col mettere un anno dopo la morte di Teia quelle di Leutari e di Buccellino. Crede parimente il suddetto padre Pagi che Teodebaldo re dei Franchi terminasse il corso di sua vita nell'anno precedente 553. In prova di che egli cita il Continuatore di Marcellino conte, la cui testimonianza non può sembrar sicura da che egli sotto l'anno 552 mette la venuta in Italia di Narsete e le morti di Totila e di Buccellino, senza aver parlato di Teia: cose tutte contrarie alla cronologia di quei tempi. Mario Aventicense, nello stesso anno, in cui Leutari e Buccellino pagarono il fio delle tante iniquità da lor commesse in Italia, rapporta ancora la morte del re Teodebaldo. E ciò s'accorda con Agatia, il quale sul fine del secondo libro, dopo aver esposti i fatti e la caduta di quei due barbari capitani, scrive che in questo mentre fu rapito dalla morte esso re Teodebaldo senza prole, e che, venuti a contesa i due suoi zii Childeberto e Clotario per quella grande eredità, furono [955] vicini a deciderla colle spade e coll'esterminio dei paesi. Ma Clotario, provveduto di cinque valorosi e bravi figliuoli, profittò della buona congiuntura di trovarsi Childeberto assai vecchio, e però entrò in possesso del vasto regno di Teodebaldo; ed essendo poi mancato di vita anche lo stesso Childeberto senza figliuoli, s'impadronì nella stessa guisa del regno di lui; con che venne ad unirsi tutta la monarchia franzese nel solo Clotario. Ma se, per quanto abbiam veduto nel presente anno 554, Leutari e Buccellino diedero fine alla lor tragedia; per conseguente, anche secondo Agatia, cadde in questo medesimo anno la morte del re Teodebaldo. E dicendo Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 9.] che questo principe pagò il tributo alla natura nell'anno settimo del suo regno, veniamo ad intendere che il re Teodeberto suo padre cessò di vivere nell'anno 548. Strano è poi il voler inferire esso Pagi che al precedente anno appartenga la morte del re Teodebaldo e di Buccellino, perchè Agatia, dopo aver fatto il racconto suddetto, immediatamente soggiugne: che in questi tempi, correndo la state, Costantinopoli restò da un terribil tremuoto fracassata. Se in questi tempi, adunque nell'anno, in cui accadde la morte del re Teodebaldo, e però nel corrente anno 554, nel quale appunto riferisce Teofane lo stesso tremuoto, succeduto, secondo lui, nel dì 15 di agosto, correndo l'Indizione II, che vuol dire nell'anno presente.


   
Anno di Cristo DLV. Indizione III.
Pelagio I papa 1.
Giustiniano imperadore 29.

L'anno XIV dopo il consolato di Basilio.

Abbiamo da Agatia [Agath., de Bell. Goth., lib. 2.] che dopo la morte di Leutari e di Buccellino, accaduta, come dicemmo, nell'anno precedente, circa sei mila Goti, i quali aveano [956] prestato aiuto a que' generali masnadieri, temendo, anzi prevedendo che Narsete non gli avrebbe lasciati senza gastigo, si ritirarono in un fortissimo castello appellato Campsa. Probabilmente questo è Compsa, oggidì Consa, luogo picciolo sì, ma la cui chiesa gode l'onore di essere arcivescovato. Loro capo era un certo Ragnari, di nazione Unno o sia Tartaro, uomo arditissimo e scaltro. Narsete stette sotto quella fortezza tutto il verno. Venuta la primavera, colto fortunatamente da una saetta, Ragnari finì di vivere; ed allora i Goti capitolarono la resa, salve le loro vite. Fu loro mantenuta la parola. Ma Narsete, affinchè non tornassero a ribellarsi, tutti li mandò per mare a Costantinopoli. E qui finisce Agatia di parlare de' Goti, ossia degli Ostrogoti d'Italia, perchè con questa azione ebbe fine la guerra e il regno d'essi: regno ch'era durato circa sessantaquattro anni; regno non usurpato, perchè conquistato colla permissione dell'imperadore, e regno glorioso finchè visse il re Teoderico, ma che in fine fu l'esterminio d'Italia, non già per colpa dei soli Goti, ma perchè chi volle privarli del lor diritto ed abbatterli, fece loro una sì lenta e lunga guerra. Al nominarsi ora i Goti in Italia raccapricciano alcuni del volgo, ed anche i mezzo letterati, quasi si parli di Barbari inumani e privi affatto di legge e di gusto. Così le fabbriche antiche malfatte si chiamano d'architettura gotica, e gotici i caratteri rozzi di molte stampe fatte sul fine del secolo quintodecimo o sul principio del susseguente. Tutti giudizii figliuoli dell'ignoranza. Teoderico e Totila, amendue re di quelle nazione, certo non andarono esenti da molti nei; tuttavia tanto fu in essi l'amore della giustizia, la temperanza, l'attenzione nella scelta dei ministri ed uffiziali, la continenza, la fede ne' contratti, con altre virtù, che potrebbono servir di esemplare pel buon governo de' popoli anche oggidì. Basta leggere le lettere di Cassiodoro, e in fin le storie di [957] Procopio, nemico per altro dei Goti. Nè quei regnanti variarono punto i magistrati, le leggi o i costumi de' Romani; ed è una fanciullaggine ciò che taluno immagina del loro pessimo gusto. Lo stesso Giustiniano Augusto ebbe bensì più fortuna che i re goti; ma, se è vero, almeno per metà, quanto di lui lasciò scritto Procopio, fu di gran lunga superato da essi Goti nelle virtù. Credo io nulladimeno che influisse non poco alla rovina dei Goti, l'esser eglino stati infetti dell'eresia ariana. Perchè, quantunque lasciassero agl'Italiani libero l'esercizio dell'antica loro religione cattolica, e rispettassero i vescovi, il clero e le chiese, e nè pur castigassero chi della lor nazione passava al cattolicismo, tuttavia nel cuor de' popoli, e massimamente de' Romani, stava fitta una segreta avversione contro d'essi, mal sofferendo di essere signoreggiati da una barbara nazione, e tanto più perchè diversa di religione, dimodochè i più bramavano di mutar padrone. Lo mutarono in fatti, ma con pagare ben caro l'adempimento de' loro desiderii, per gl'immensi danni che seco portò una guerra di tanti anni; e, quel ch'è peggio, perchè questa mutazione si tirò dietro la total rovina dell'Italia da lì a pochi anni, con precipitarla in un abisso di miserie, siccome vedremo andando innanzi. Abbiamo da Agnello storico [Agnel., in Vita S. Agnelli, tom. 2 Rer. Italicar.], vivente nell'anno 830, che Giustiniano imperadore donò alla chiesa di Ravenna tutte le sostanze che possedevano i Goti in quella città e nelle circonvicine, e le lor chiese, quali tutte furono consecrate da Agnello arcivescovo, e dal rito ariano ridotte al cattolico romano. Spezialmente loda egli la chiesa di san Martino, fondata dal re Teoderico, mirabile per la sua bellezza.

Aveva l'imperadore Giustiniano nell'anno avanti, per le istanze del clero romano e di Narsete, richiamato dall'esilio papa Vigilio, coll'aver nondimeno [958] esatto ch'egli prima approvasse il concilio generale tenuto in Costantinopoli, il che egli fece. Ad istanza sua ancora pubblicò un editto, indrizzato a Narsete duce e ad Antioco prefetto d'Italia, per dar qualche sesto agl'incredibili disordini dell'infelice Italia, confermando in essa gli atti dei re goti, fuorchè di Totila. Una particolarità poi v'aggiunge Anastasio bibliotecario [Anast. Bibl., in Vita Vigilii.], per la quale, e con ragione, il cardinal Baronio non potè contenersi di non esclamare contra Giustiniano che voleva parer sì pio, e non si guardava dalle più visibili empietà. Cioè, chiamati ch'egli ebbe a Costantinopoli i vescovi e cherici romani, che dianzi eran stati relegati in esilio, dimandò loro, se voleano ricevere per papa Vigilio, che ne avrebbe piacere. Se no, che quivi aveano Pelagio arcidiacono dalla Chiesa romana, e consentirebbe che il facessero papa. Riposero che volevano Vigilio; e quando poi Dio l'avesse chiamato a sè, allora, secondo il suo comandamento, sarebbe pontefice Pelagio. Questi furono i primi frutti del governo di Giustiniano in Italia, cioè il rendere schiava la Chiesa apostolica romana, coll'attribuirsi non dirò di confermare i papi eletti dal clero e popolo (abuso dipoi praticato), ma di deporre infino gli eletti consacrati. Abbiam anche veduto come egli praticasse con papa Silverio, antecessor di Vigilio. Permise poi l'imperador ch'esso Vigilio se ne ritornasse in Italia. Ma, giunto in Sicilia, mentre era in Siracusa gli crebbero tanto i dolori pel male della pietra, a cui era suggetto, che si morì: pontefice entrato con male arti nella sedia di Pietro, balzato qua e là finchè visse, e miseramente morto in fine lungi da Roma, e compianto da pochi. Crede il padre Pagi che la sua morte succedesse sul principio di questo anno. Il Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.] la riporta all'anno precedente. Tuttochè sia scorretto il testo di Vittoro [959] Tunonense [Victor Turonensis, in Chron.] nel ragguaglio degli anni, pure facendolo egli mancato di vita l'anno avanti all'elezion di Pelagio suo successore, s'accorda col Continuatore suddetto. Comunque sia, credesi dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad hunc ann.] e dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad hunc ann.] che nel presente anno circa il mese d'aprile in Roma venisse eletto papa Pelagio, primo di questo nome, cioè quel medesimo arcidiacono della Chiesa romana, di cui si è parlato più volte di sopra. Ma l'elezione sua procedette piuttosto dal comandamento dell'imperador Giustiniano, comunicato a Narsete, che dal libero volere del clero e popolo romano. L'essersi tardato cotanto dopo la morte di Vigilio a dare un nuovo pontefice alla Chiesa di Dio, indica abbastanza che si vollero aspettare gli oracoli di Costantinopoli. Ed Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibl., in Vit. Pelagii I.] attesta che una gran moltitudine di Romani ricusava di comunicar con Pelagio, per sospetto nato che egli avesse cooperato alla morte di papa Vigilio; e si penò a trovar chi il consacrasse vescovo. Fatta poi, per ordine suo e di Narsete, una processione del popolo da san Pancrazio a san Pietro, quivi Pelagio salito sul pulpito col Vangelo in mano e colla croce in capo, avendo giurato di non aver avuto mano nella morte dell'antecessore, quetò il popolo ed approvò anch'egli il quinto concilio generale, così richiedendo la pace delle Chiese: giacchè restava intatta la dottrina del quarto calcedonense. In questa maniera l'abuso introdotto dai re goti per cagione degli scismi che non si consecrasse il romano pontefice senza l'approvazione e confermazione loro, fu continuato da Giustiniano, che non volle essere da meno di quei re; e i successori suoi non vollero essere da meno di lui. Quel che è peggio, bisognò col tempo comperare questa approvazione collo sborso di buona quantità di danaro che [960] si pagava ai greci imperadori, il che non si ricava già sicuramente dal Comento attribuito a san Gregorio Magno sopra i Salmi, come stimò il cardinal Baronio, perchè non convengono già a quel mansuetissimo pontefice, nè a' suoi tempi, certe espressioni pungenti contra dell'imperadore; ma si raccoglie manifestamente da Anastasio bibliotecario nella vita di papa Agatone. Impariamo ancora dal Diurno antico de' romani pontefici, pubblicato dal padre Garnieri della compagnia di Gesù, che dopo la morte del papa, e dopo un digiuno di tre giorni, si raunavano il clero e senato romano, i nobili, i soldati e il popolo, e venivano all'elezione del successore. Fatta questa, se ne inviava il decreto a Costantinopoli agli Augusti, per ottenerne la confermazione. Se ne scriveva anche all'esarca di Ravenna, all'arcivescovo e ai giudici di quella città, e all'aprocrisario, o sia al nunzio della Chiesa romana, quivi esistente, acciocchè dessero mano alla già fatta elezione. Venuta l'approvazione imperiale, si consacrava il nuovo papa. Altrettanto si praticava per gli altri vescovi nei paesi sottoposti all'imperio di Oriente.

Dopo quello che abbiam riferito del greco storico Agatia, egli più non parla dei fatti d'Italia, con lasciarci conseguentemente nel buio per i tempi susseguenti. Tuttavia abbiamo da Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.] che un anno dopo la morte di Buccellino, e perciò nel presente, l'esercito de' Franchi diede una rotta a quel de' Romani, cioè degl'imperiali, e devastò un tratto di paese, con asportarne di molte ricchezze. Ci danno queste parole indizio che contra dei Franchi, stabiliti in varii siti della Liguria e Venezia, Narsete avea spedito un corpo d'armata per isloggiarli da quelle parti, giacchè l'irruzione fatta da Leutari o Buccellino dovette esser creduta tacitamente comandata ed approvata dai re franchi; e perciò Narsete guardò come rotti i patti e la [961] pace con loro. Venuta poi alle mani coi Franchi, la sua gente voltò le spalle, e il paese pagò le spese della sinistra loro fortuna. Ma poco durò il trionfo dei Franchi. Raunate maggiori forze Narsete, per testimonianza del medesimo Mario, si spinse addosso ai Franchi, e gli obbligò ad abbandonare tutto quanto essi avevano occupato in Italia. Se ciò è vero, ecco finalmente ridotta sotto il comando di Giustiniano Augusto l'Italia tutta; spinti fuori d'essa i Franchi, e il resto della nazion gotica, sparso per varie terre e città d'Italia, oramai quieto sotto il novello padrone, senza più alzare un dito contra la di lui potenza. Abbiamo solamente da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 2, cap. 2.] che Amingo generale dei Franchi, avendo voluto dare aiuto a Guidino conte dei Goti, che si era ribellato contra di Narsete, fu ucciso in una battaglia dalle genti di esso general cesareo, e Guidino preso fu inviato a Costantinopoli. Non si sa il tempo preciso di questo fatto. Da Paolo vien riferito nell'anno stesso in cui Narsete mise a morte Buccellino con tutto il suo esercito. Ma non è circa questi tempi in tutto sicura ed esatta la cronologia di Paolo Diacono, benchè i fatti sieno certi. Menandro Protettore [Histor. Byzant., tom. 1, pag. 133.], storico di questo secolo, scrive che Amingo franzese ai tempi di Giustiniano Augusto s'accampò colle sue brigate al fiume Adige allorchè i Romani volevano passarlo. Ciò conosciuto da Narsete, mandò Panfronio patrizio, e Buono conte del patrimonio privato dell'imperadore, suoi legati ad Amingo, ad esortarlo di non opporsi agli interessi dell'Augusto suo padrone, e che non gli piacesse far guerra di nuovo coi Romani, perchè durava la tregua tra i Romani e i Franchi. Altra risposta non venne da Amingo, se non ch'egli non gli darebbe un dardo, finchè avesse salva la mano, con cui potesse lanciarlo. Quando ciò succedesse, è a noi tutto oscuro. Ma [962] se sussiste un passo di Teofane, che riferirò qui sotto all'anno 563, si potrà dubitare che non tutta l'Italia venisse sì tosto in poter di Narsete.


   
Anno di Cristo DLVI. Indizione IV.
Pelagio I papa 2.
Giustiniano imperadore 30.

L'anno XV dopo il consolato di Basilio.

O sia perchè la storia d'Italia cominci qui a scarseggiare di lumi, anzi d'autori che trattino de' fatti in essa occorsi; o perchè la pace succeduta non partorisse da qui innanzi fatti degni di memoria: nulla mi si presenta di riguardevole accaduto in Italia, fuorchè la guerra della religione, narrata dai cardinali Baronio e Noris, e dal padre Pagi. Erasi tenuto in Costantinopoli il quinto concilio generale, col disegno di pacificare i tumulti e le dissensioni delle Chiese cattoliche intorno ai tre capitoli. Vigilio papa, dianzi ripugnante, avea finalmente acconsentito; ed altrettanto fece dipoi papa Pelagio suo successore, con protestar tutti salva la dottrina del precedente concilio calcedonense. Ma perchè a molti vescovi italiani, africani, franzesi e dell'Illirico pareva pregiudicato dal quinto concilio al calcedonense, però seguitarono non pochi d'essi a disapprovarlo e a non voler comunione con chi l'accettava. Pelagio papa con varie lettere si studiò di sgannarli; ne guadagnò alcuni, ma altri più che mai ricalcitrarono. Fra questi specialmente si distinsero l'arcivescovo d'Aquileia e i suoi suffraganei. Reggeva allora la Chiesa aquileiense Paolino novellamente eletto, che non solamente in un sinodo provinciale alzò bandiera contro del quinto concilio suddetto, ma eziandio formò scisma, ricusando di comunicar con papa Pelagio, riguardato da lui come trasgressore della fede, perchè avea condannati i tre capitoli. Pelagio, non dovendo, nè volendo sofferire tanta animosità, risentitamente [963] ne scrisse più lettere [Pelag. I, ep. 3 et 5.] a Narsete, con pregarlo massimamente di voler far mettere le mani addosso, non solo a Paolino, non riconosciuto da esso Pelagio per legittimo vescovo d'Aquileia, ma anche all'arcivescovo di Milano (senza dirci il suo nome), perchè, trascurata la approvazione della Sede apostolica, avea consecrato vescovo il suddetto Paolino. Voleva Pelagio che colle guardie questi due fossero inviati a Costantinopoli. Ma Narsete, considerando non molto convenevoli alle congiunture de' tempi sì fatte violenze, andò temporeggiando, sopra tutto per isperanza che questi pertinaci si ridurrebbono colle buone a riconoscere il loro dovere. Giunsero essi a scomunicare anche lo stesso Narsete. Per altro si sa che i romani pontefici usarono per alcun tempo della tolleranza ed indulgenza verso i ripugnanti al concilio quinto, concilio neppur da molti uomini dotti e santi riguardato allora con quella venerazione che ogni cattolico professava ai quattro primi concilii generali. Ma intorno a tale scisma, e se di là avesse principio il titolo di patriarca, di cui son in possesso da tanti secoli gli arcivescovi di Aquileia, è da vedere una dissertazione e i monumenti della Chiesa aquileiense pubblicati dal padre Bernardo de Rubeis dell'ordine de' Predicatori. Fra coloro poi che compariscono poco favorevoli al concilio quinto suddetto, merita specialmente d'essere annoverato Cassiodoro, ossia Cassiodorio, già senatore, già console, ed uno de' più insigni personaggi della corte dei re goti, finchè durò la loro potenza, ed uno de' più riguardevoli scrittori italiani del secolo presente. Questi, dopo la caduta del re Vitige, chiarito oramai della vanità delle grandezze umane, diede un calcio al secolo, e ritiratosi nel fondo della Calabria, quivi professò la vita monastica, seguendo, secondo tutte le verisimiglianze, l'istituto e la regola di san Benedetto. Fondò egli il monastero appellato Vivariense, [964] presso di Squillaci, e quivi attese a scrivere libri sacri, e ad istruire non meno nella pietà che nelle lettere i suoi discepoli. Alla di lui attenzione è obbligata di molto anche per questo l'Italia tutta. Ora egli ne' suoi scritti accetta bensì con somma venerazione i quattro primi concilii generali, ma non già il quinto. Erasi ingrandito a dismisura Clotario re dei Franchi, coll'aver giunto al suo dominio gli stati ben vasti del defunto Teodebaldo. Ed essendosi a lui ribellati i Sassoni, gli avea sconfitti in una battaglia, con devastare dipoi la Turingia, perchè quel popolo s'era dichiarato in favore dei Sassoni. Tornarono nel precedente anno a far delle novità contra di lui i medesimi Sassoni, e egli, mossosi con un potente esercito per castigarli, li ridusse in istato di chiedergli misericordia, e di offerire la metà de' lor beni in soddisfazione del commesso misfatto. Clotario era tutto disposto a far loro grazia; ma i suoi capitani ostinati quasi il violentarono a rigettare ogni esibizione di quei popoli. Gli costò caro l'aver lasciate le vie della clemenza, perchè, venuto ad un secondo combattimento, ebbe la peggio con grande strage de' suoi, e gli convenne fuggire e chiedere appresso per grazia la pace. Abbiamo queste notizie da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 14.], da Fredegario [Fredegarius, in Chron.] e dal Continuatore di Marcellino conte [Continuator Marcellini Comitis, in Chron.].


   
Anno di Cristo DLVII. Indizione V.
Pelagio I papa 3.
Giustiniano imperadore 31.

L'anno XVI dopo il consolato di Basilio.

L'antica storia ci fa pur sentire frequenti i tremuoti, e tremuoti orribili, nella città di Costantinopoli. Due in quest'anno, per testimonianza di Agatia [Agath., lib. 5 Histor.] e di [965] Teofane [Theoph., in Chronogr.], ne succederono, l'uno a dì 6 di ottobre, e l'altro a dì 14 di dicembre, amendue de' più spaventosi che mai si fossero uditi. Rovinarono a terra moltissimi palagi e case, e non poche chiese, e sotto quelle rovine perirono assaissimi del popolo. L'imperador Giustiniano, cessato questo gran flagello, attese a ristorar gli edifizii che aveano patito, e spezialmente a proseguir la fabbrica dell'insigne tempio di santa Sofia, che riuscì poi una maraviglia del mondo. Se ne legge la descrizione esattamente e minutamente tessuta dal celebre Du-Cange nella sua Costantinopoli cristiana. Circa questi tempi, e forse prima, divampò la ribellione di Cranno, figliuolo di Clotario re de' Franchi, contra dello stesso suo padre [Gregor. Turonensis, lib. 4.]. Era questo giovine principe dotato di belle fattezze di corpo, spiritoso ed accorto; e suo padre gli avea dato il governo dalla provincia dell'Auvergne. Ma abbandonatosi ai vizii e ad iniqui consiglieri, cominciò ad esercitar delle violenze con grave lamento de' popoli. Chiamato dal padre, che volea rimediare a questi disordini, piuttosto elesse di prendere l'armi contra di lui, che di ubbidirlo, ormai sedotto, al pari d'Assalonne, dalla voglia di regnare prima del tempo. Ciò che maggiormente gli faceva animo ad imprendere questa malvagia risoluzione, era l'assistenza segretamente a lui promessa da Childeberto suo zio re di Parigi, troppo disgustato perchè Clotario di lui padre avesse assorbito tutto il regno d'Austrasia, cioè il posseduto dal già re Teodebaldo, senza farne parte a lui, come era di giustizia. Pertanto si venne ad una guerra scandalosa, che durò molto tempo, essendosi veramente dichiarato in favore di Cranno il suddetto re Childeberto. L'Italia intanto si godeva una buona pace. Narsete n'era governatore, e a Narsete non mancava pietà, giustizia e prudenza per governare i popoli alla [966] sua cura commessi. Secondochè abbiamo da Andrea Dandolo [Andreas Dandulus, Chron. Venet., tom. 12 Rer. Italic.], la tradizione in Venezia era ch'egli, ito colà, fabbricasse nell'isola di Rialto due chiese, l'una in onore di san Teodoro martire, e l'altra di san Menna e di san Geminiano vescovo di Modena.


   
Anno di Cristo DLVIII. Indizione VI.
Pelagio I papa 4.
Giustiniano imperadore 32.

L'anno XVII dopo il consolato di Basilio.

Per relazione di Teofane [Theoph., in Chronogr.] e dell'autore della Miscella [Histor. Miscella, lib. 16.], in quest'anno cominciò a vedersi in Costantinopoli una nazione, che non s'era dianzi mai veduta. Si chiamavano Abari o Avari, e corse tutto il popolo a contemplar quelle brutte ciere. Portavano i capelli lunghi, raccolti con un nastro, e cadenti giù per le spalle. Nel resto degli abiti comparivano somigliantissimi agli Unni. Ed in fatti erano anch'essi, non men che gli Unni, Tartari di nazione. Costoro, spediti dalla loro tribù, chiedevano all'imperador Giustiniano di potersi stabilire nella Mesia, offerendosi pronti a servirlo in tutte le occorrenze colle lor armi. Forse nulla per allora ottennero. Torneremo a parlarne fra poco; e lo richiede la storia d'Italia, perchè costoro misero poi piede nella Pannonia, ossia nell'Ungheria, e si fecero pur troppo conoscere col tempo crudelissimi arnesi anche agl'Italiani. Ai tremuoti, che sul fine dell'anno addietro afflissero cotanto la città di Costantinopoli, si aggiunse da lì a poco, cioè nel febbraio dell'anno corrente, una terribil peste, che inferocì specialmente contro i giovani, e, secondochè attesta anche Agatia [Agat., lib. 5 Hist.], portò sotterra un'infinita moltitudine di [967] popolo. A questo malore, il più micidiale degli altri, è tuttavia, e sarà sempre soggetta quella città finch'essa trascurerà quelle precauzioni, colle quali si vuol ora preservata l'Italia. Nè qui si fermò l'infelicità di quelle contrade. Sul principio del verno, essendo gelato il Danubio, passati di qua con facilità gli Unni sotto il comando di Zaberga lor capo, vennero saccheggiando tutto il paese, disonorando le femmine, e menando in ischiavitù chi loro aggradiva. Giunsero fin sotto le mura di Costantinopoli, nè trovavano chi loro si opponesse. Osservò Agatia, che, secondo le regole dell'imperio e giusta la misura degli aggravii, si aveano da tenere in piedi secento quarantacinque mila combattenti. In questi tempi non ve n'era che cento cinquanta mila; e questi divisi parte in Italia, parte in Africa, in Ispagna (perchè, oltre all'isole adiacenti alla Spagna, tuttavia nel continente si conservava qualche città fedele al romano imperio, come si raccoglie da sant'Isidoro), in Egitto, in Colco e ai confini della Persia. Giustiniano, invecchiato forte, non era più quello di prima. Lasciava andare in malora i paesi; e se i Barbari o minacciavano guerra, o la facevano, comperava da essi a forza d'oro la pace. Il denaro, che s'aveva da impiegare in mantener dei reggimenti di soldati, serviva ad alimentar meretrici, ragazzi, sgherri. E in Costantinopoli, ancorchè durassero le scuole militari, alle quali una volta erano ascritti i più valorosi e pratici dell'arte militare, ben pagati perciò, allora queste erano composte di gente che comperava que' posti, nè altro merito avea che di andar bene vestiti. Così governava in questi tempi Giustiniano, di cui anche è memorabile la cecità e stupidità in portar tanto affetto ai seguaci della fazione prasina, che loro era permesso d'uccidere di bel mezzo giorno nella città quei della fazione veneta loro emuli, e di entrar per forza nelle case, e di rubare, senza che temessero della [968] giustizia. E guai a quei giudici che trattavano di castigargli. Se crediamo a Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], venne a morte in quest'anno Childeberto, uno dei re franchi, giunto già ad un'avanzata vecchiaia, nel mentre ch'egli sostenendo la ribellione di Cranno, figliuolo del re Clotario, cercava di vendicarsi del fratello che aveva occupato tutto il regno d'Austrasia. Portò questa morte al re Clotario il possesso anche degli stati ch'erano goduti da esso re Childeberto, e così venne ad unirsi in lui tutta la vasta monarchia de' Franchi, che abbracciava tutta la Gallia (a riserva della Linguadoca dominata da Visigoti, e della Bretagna minore governata dai suoi sovrani) e buona parte della Germania, compresavi la Sassonia, la Turingia, l'Alemagna e la Baviera, la qual ultima provincia circa questi tempi cominciò ad aver il suo duca. E questi fu Garibaldo, a cui il re Clotario diede per moglie Valderada, chiamata da altri Valdetrada, ossia Valdrada, vedova del fu re Teodebaldo.


   
Anno di Cristo DLIX. Indizione VII.
Pelagio I papa 5.
Giustiniano imperadore 33.

L'anno XVIII dopo il consolato di Basilio.

Per relazione di san Gregorio Magno [Gregor. Magnus, Dialogor., lib. 2, cap. 15.], Sabino vescovo di Canosa ragionando con san Benedetto, patriarca de' monaci in Occidente, dei fatti di Totila re dei Goti, entrato già in possesso di Roma, gli palesò il suo timore che questo re avrebbe distrutta e renduta inabitabile Roma. Rispose san Benedetto: Roma sarà sterminata, non già dagli uomini, ma sì bene da fieri temporali e da orribili tremuoti. Soggiugne san Gregorio, scrittore di questo secolo, ch'era chiaramente verificata la profezia del [969] santo abate, perchè a' suoi dì si miravano in Roma le mura della città scompaginate, case diroccate, chiese atterrate dai turbini, e gli edifizii per la vecchiaia andar tutto di rovinando. È di parere il padre Mabillone [Mabillonius, Annal. Benedictin., lib. 5.] che nel luglio ed agosto del presente anno tutto quasi l'Oriente e l'Occidente fosse stranamente afflitto dalle inondazioni del mare, dalle tempeste, dai tremuoti e dalla pestilenza; e che da tanti flagelli patisse più Roma che dalla fierezza de' Barbari, con adempiersi allora quanto avea predetto san Benedetto. Onde egli abbia tratta questa notizia, non l'ho potuto scoprire. Trovavasi in gran confusione la corte e città di Costantinopoli, per aver vicini alle porte gli Unni, i quali devastavano la campagna, e minacciavano anche la stessa città. Per attestato di Agatia [Agath., lib. 5 Hist.] e di Teofane [Theophan., in Chron.], altro ripiego non ebbe Giustiniano Augusto, che di ordinare a Belisario patrizio di procedere contra di quegl'insolenti Barbari. Era già venuta la vecchiaia a trovare questo eccellente generale; tuttavia, così esigendo il bisogno, diede di mano alle sue armi, e con quelle poche truppe che potè adunare, consistenti in alcune sole centinaia di cavalli e di alcune altre di pedoni, uscì coraggiosamente in campagna, e raunato un grande stuolo di contadini, si fortificò fuori della città. Poscia più coll'industria e con gli stratagemmi, che colla forza, tanto seppe fare, che obbligò i Barbari a ritirarsi. Giustiniano dipoi per liberarsi da costoro, e mandarli contenti al loro paese, valendosi dell'apparenza di riscattare gli schiavi, votò loro in seno una buona quantità di oro, e n'ebbe la pace.


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Anno di Cristo DLX. Indizione VIII.
Giovanni III papa 1.
Giustiniano imperadore 34.

L'anno XIX dopo il consolato di Basilio.

Secondo i conti del cardinal Baronio, diede fine nell'anno precedente alla vita e al pontificato papa Pelagio primo di questo nome. Ma supponendo esso Baronio che il medesimo fosse fatto papa nell'anno 555, e riportando di poi il suo epitafio, da cui apparisce ch'egli tenne il pontificato anni quattro, mesi dieci e giorni dieciotto, e che fu seppellito IV nonas martias, ha ragione il padre Pagi di conchiudere che questo papa mancò di vita nel presente anno, ma non già nel dì primo di marzo, coll'essere stato portato nel dì seguente alla sepoltura, ma sì bene ch'egli nel dì 3 di marzo di esso anno 560 terminò i suoi giorni, e nel dì 4 del mese suddetto fu chiuso nell'avello, venendo le none di quel mese nel dì settimo. Tuttavia, non sapendo noi indubitatamente se papa Vigilio suo antecessore morisse nell'anno 554, o pure nel 555, nè in qual giorno precisamente seguisse la consacrazione di esso papa Pelagio, però non è qui assai sicura la cronologia pontificia. Certo è bensì che succedette a Pelagio nella cattedra di san Pietro Giovanni, terzo di questo nome, dopo tre o quattro mesi di sede vacante. Dappoichè Childeberto re di Parigi passò all'altra vita, venne a mancare il principale suo appoggio a Cranno figliuolo rubello del re Clotario. La necessità il consigliò ad implorare la misericordia del padre, e, per quanto si può intendere dalle parole di Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 20.], l'ottenne. Ma questo inquieto e torbido giovane da lì a non molto incorse di nuovo nella disgrazia del padre, in guisa che scappò nella Bretagna minore, dove essendo [971] stato per qualche tempo nascoso, tanto si seppe adoperare, che Conoboro, ossia Conoberto, conte e signore di quella provincia, imprese la sua protezione, ed allestì una potente armata in difesa di lui. Clotario con tutte le sue forze e con Childerico suo figliuolo entrò nella Bretagna; si venne ad un fatto d'arme, in cui restarono sconfitti i Bretoni, ucciso il loro conte, e Cranno, colla moglie e colle figliuole, abbruciato per ordine del padre, con lasciare una funesta memoria non meno de' suoi misfatti che della sua morte. Mario Aventinese [Marius Aventicensis, in Chron.] riferisce all'anno presente questa brutta tragedia. In Costantinopoli poi a dì 9 di settembre, per relazione di Teofane [Theoph., in Chron.], essendo tornato dalla Tracia infermo Giustiniano Augusto, senza lasciarsi vedere e senza dare udienza ad alcuno, corse voce per la città ch'egli era morto. Ne seguì uno non lieve tumulto nel popolo, e si chiusero tutte le botteghe. Ma guarito esso imperadore per intercessione de' santi Cosma e Damiano, mandò l'ordine che si facesse festa ed illuminazione per tutta la città, e ritornò la quiete primiera.


   
Anno di Cristo DLXI. Indizione IX.
Giovanni III papa 2.
Giustiniano imperadore 35.

L'anno XX dopo il consolato di Basilio.

Era omai giunto Clotario re de' Franchi all'auge delle sue contentezze, perchè divenuto signore di una vasta monarchia. Era anche quietato ogni turbine dianzi commosso, quando gli convenne sloggiare dal mondo. Colpito da una febbre, mentre era alla caccia (famigliare divertimento ed esercizio di quei regnanti), passò a render conto a Dio de' suoi adulterii, della sua crudeltà e di altri suoi vizii, con dar luogo a succedergli ai quattro suoi figliuoli. Toccò il regno di Parigi [972] a Cariberto; a Guntranno quello d'Orleans colla Borgogna; Soissons a Chilperico: il regno di Austria a Sigeberto; e però in quattro regni fu di nuovo divisa la monarchia franzese. Restò eziandio del re Clotario una figliuola per nome Clodosuinda, ossia Clotsuinda. Ebbe questa per marito Alboino re de' longobardi, del quale avremo troppa occasion di parlare andando innanzi. Per ora mi sia lecito di accennare ciò che ci han conservato i frammenti di Menandro Protettore [Hist. Byz., tom. 1, pag. 99.], storico di questo secolo, rapportati fra gli squarci delle Legazioni. Racconta egli che gli Abari, o Avari, mentovati di sopra all'anno 558, una delle numerose tribù e schiatte degli Unni e della Tartaria, spedirono ambasciatori a Giustiniano Augusto, i quali esposero come la lor gente era la più forte e numerosa fra le settentrionali, e si gloriava di essere invincibile. Offerivansi di stringere lega con lui, e di esser a' suoi servigi, purchè loro fosse dato un buon paese da abitarvi, e una annua pensione o regalo. Giustiniano era allora assai vecchio; amava la pace e l'ozio. Si sbrigò di costoro con inviare ed essi Valentino suo legato, il quale, portando seco catene d'oro, letti e vesti di seta ed altri regali, fece così ben valere questi doni, che gl'indusse per qualche tempo a far guerra agli Ongori, o Ungheri, appellati dipoi Ungari, abitanti anch'essi allora nella Tartaria, e ai Sabiri. Tornarono questi Avari, o Unni, che li vogliam dire (che appunto con questi due nomi si trovano mentovati dagli antichi scrittori), tornarono, dico, fra qualche tempo a dimandare all'imperadore un paese da potervi abitare. Mentre egli consulta, costoro si avanzarono fino al Danubio, e s'impossessarono di quel paese probabilmente della Moldavia e Valacchia, minacciando anche di passare di qua. In tal maniera vennero ad accostarsi ai Gepidi, che signoreggiavano nella Dacia ripense, nel Sirmio e [973] in quella che oggidì vien chiamata Servia di qua dal Danubio, confinanti perciò ai Longobordi, i quali aveano la lor sede nella Pannonia e nel Norico. Non è improbabile che circa questi tempi succedesse un tale avanzamento degli Unni, ossia degli Avari, verso i paesi dominati dai Gepidi e Longobardi. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Langob., lib. 1, cap. 27.], favellando degli Avari, dice: Qui primum Hunni, postea a rege proprie nominis Avares appellati sunt. Nell'ottobre ancora dell'anno presente, secondo l'attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], la fazione prasina, divenuta sempre più insolente col favore dell'imperadore, nei giuochi circensi assalì sotto i suoi occhi la fazione veneta. Seguitarono morti e incendii, e furono messi a sacco tutti i beni de' Veneti. Scappati i delinquenti a Calcedone nel tempio di santa Eufemia, Giustiniano non potè più contenersi dal farne gastigare assaissimi. Nè pure mancarono a quest'anno altre disgrazie, accennate tutte dal medesimo istorico, cioè incendii, pestilenze e sedizioni in Oriente, che io tralascio.


   
Anno di Cristo DLXII. Indizione X.
Giovanni III papa 3.
Giustiniano imperadore 36.

L'anno XXI dopo il consolato di Basilio.

Circa questi tempi fu fatta pace tra l'imperadore Giustiniano e Cosroe re di Persia, come si raccoglie da Teofane [Idem, ibid.] e da Menandro Protettore [Tom. 1 Hist. Byz., pag. 133.]. Ma, secondo la misera condizione di quei tempi, bisognò che l'imperadore vilmente la comperasse: cioè si obbligò di pagare ai Persiani trentamila scudi d'oro ogni anno, finchè essa pace durasse, e di sborsare il contante per i primi sette anni avvenire. Altrettanto si praticava bene spesso, allorchè gli Unni, Bulgari ed altri [974] popoli barbari facevano irruzioni nell'imperio d'Oriente. Avrebbe fatto meglio l'imperador Giustiniano ad impiegar quel danaro, e tant'altro oro malamente gittato dietro a persone inutili ed infami, in mantener delle legioni e dei reggimenti di soldati, abili a far fronte a chiunque volea turbar la quiete de' suoi popoli, come usarono i saggi imperadori de' secoli precedenti.


   
Anno di Cristo DLXIII. Indizione XI.
Giovanni III papa 4.
Giustiniano imperadore 37.

L'anno XXII dopo il consolato di Basilio.

Degno è assai di riflessione ciò che sotto il presente anno vien raccontato da Teofane: cioè che da Roma giunsero a Costantinopoli laureati corrieri, portanti la lieta nuova che Narsete patrizio avea tolto ai Goti due fortissime città, cioè, come vo io credendo, Verona e Brescia. Presso Cedreno [Cedren., in Annal.], copiatore di Teofane, si trovano malamente storpiati i nomi di queste due città, chiamandole egli Viriam et Brincas. Mancano alla storia d'Italia lumi per dicifrar questi fatti. Contuttociò a me sembra verisimile che al presente anno si possa riferire quanto fu da me notato di sopra all'anno 555, cioè che, per testimonianza di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 1, cap. 2 et 3.], avendo voluto Amingo generale franzese prestar aiuto a Guidino conte de' Goti, autore di una ribellione contra dell'imperadore, ne pagò il fio, con restar vinto ed ucciso in una battaglia da Narsete. Fatto prigione lo stesso Guidino, fu inviato a Costantinopoli coi ceppi. Siccome fu detto di sopra, anche Menandro Protettore parla della opposizione fatta da questo Amingo e Narsete al passaggio dell'Adige, appunto allorchè si trattò della pace coi Persiani, narrata nell'anno precedente. Quello che è certo, secondo la testimonianza di Teofane, [975] dovettero in quest'anno ribellarsi i Goti che abitavano in Verona e Brescia, perchè non sembra verisimile che Narsete avesse differito finora l'acquisto di quelle due importanti città, nè che i Franchi possedessero paese in Italia. Narsete, adoperata la forza, le ricuperò, a mio credere, e ne spedì la lieta nuova a Costantinopoli. Però non sussiste, come taluno ha creduto, che Narsete cacciasse fuor d'Italia tutti i Goti. Li soggiogò bensì, e promessa da loro la fedeltà dovuta, seguitarono essi a vivere ne' luoghi, dove avevano abitazioni e beni. Ciò apparisce da questo fatto, da Agatia e da altre antiche memorie. E se Amingo Franco diede assistenza in quella occasione ai Goti, dovette venire dalla Suevia e dagli Svizzeri, paesi allora sottoposti ai Franchi. Molto meno può sussistere, perchè Agnello storico ravennate scrive [Agnell., in Vita S. Agnelli, tom. 2 Rer. Italicar.] che pugnaverunt contra veronenses cives, et capta est civitas a militibus vigesima die mensis julii, il figurarsi che i Veronesi fino a quest'anno si fossero mantenuti in libertà, senza essere sottoposti nè ai Goti, nè all'imperadore. Mancava forse a Narsete forza e voglia di sottomettere dopo tante altre queste due città? Scoppiò prima del tempo nel presente anno, a dì 25 di novembre, in Costantinopoli una congiura contra dell'imperadore Giustiniano, di cui fanno menzione Teofane [Theoph., in Chronogr.] e l'autore della Miscella [Histor. Miscella, lib. 16.] all'anno 35 dell'imperio d'esso Augusto. Ablavio e Marcello banchieri, e Sergio menavano un trattato di ucciderlo. Fu scoperta la secreta trama. Sergio, cavato fuor di un luogo sacrato, accusò come complice Vito, banchiere, e Paolo, curatore di Belisario patrizio. Presi questi due, furono esortati a confessare ch'era mischiato in essa cospirazione Belisario, ed infatti per tale lo incolparono. Nel dì 5 di dicembre raunata la gran curia davanti l'imperadore, [976] e fattovi intervenire il patriarca Eutichio, colà chiamato ancora Belisario, gli fu letto sul volto la deposizione fatta contra di lui dai due suddetti. Se ne dolse egli forte: e tutte le apparenze sono ch'egli negasse il fatto, e chiamasse mentitori coloro. Contuttociò l'imperador, altamente sdegnato contra di lui, fece incarcerare tutti i di lui domestici, e diede a lui per carcere la casa sotto buone guardie, con restar sospese o pur tolte a lui tutte le sue cariche e dignità. Ne' susseguenti secoli prese anche piede un racconto popolare, cioè che Giustiniano facesse cavar gli occhi a questo gran capitano, e lo spogliasse di tutto, dimodochè, ridotto alla mendicità, andasse limosinando il vitto. Pietro Crinito, il Volterrano, il Pontano ed altri hanno sostenuta questa opinione, che ha avuta origine da Giovanni Tzetze, uno di quei greculi che fiorirono circa l'anno 1080. E quantunque il celebre Andrea Alciato si studiasse di far comparire questa per una solenne favola ed impostura, pure il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 561.] non solamente giudicò vero il fatto, ma ne volle anche addurre la segreta cagione, cioè il castigo di Dio, per avere Belisario nell'anno 537, cioè tanti anni prima, cacciato in esilio papa Silverio, e sostituito in suo luogo papa Vigilio a requisizione di Teodora Augusta. Senza fallo fu sacrilega l'azione di Belisario: e pure miglior consiglio sarebbe, se noi misere creature ci guardassimo dal volere sì facilmente entrare nei gabinetti di Dio, per interpretare gli alti suoi, e spesso inscrutabili, giudizii. È un gran libro quello dei giudizii di Dio, e il leggere in esso non è facile a noi altri mortali, chiara cosa essendo, come ho tante volte detto, che la divina provvidenza non dispensa sempre in questa vita i beni e i mali a misura dei meriti o demeriti dei mortali, nè paga ogni sabbato sera. Ha Iddio un altro paese in cui uguaglierà le partite. Però il cardinal Baronio (sia detto colla riverenza dovuta a quel grande [977] uomo ed incomparabile storico) più saggiamente avrebbe operato, se, a riserva da certi casi, nei quali pare che visibilmente si vegga e senta la mano di Dio, si fosse ritenuto dall'interporre sì sovente il suo giudizio negli avvenimenti felici od infelici dei principi e degli altri uomini. E in questa occasione specialmente mi sembra di poter qui applicare la riflession suddetta, perchè, senza voler considerare che Belisario, dopo il fatto di papa Silverio, godè tanti anni di felicità, e prosperarono gli affari di Giustiniano Augusto, il qual pure, se non comandò, permise quell'eccesso; nè Teodora Augusta ne patì per questo nella presente vita; certo è, che non sussiste quel terribile abbassamento di Belisario, che qui vien supposto dal Baronio, e per conseguente neppure il visibile castigo e la vendetta di Dio sopra di lui. Di ciò parleremo all'anno seguente. Circa questi tempi, come diligentemente osservò il Pagi, fu scritta da Nicezio vescovo di Treveri una lettera [Du-Chesne, in Appendice tom. 1 Rer. Franc.] a Clotsuinda moglie piissima di Alboino re dei Longobardi, per esortarla a fare in maniera che il marito, abiurando l'arianismo, abbracciasse la religione cattolica, siccome per le persuasioni di santa Clotilde avea fatto sul principio di quel secolo Clodoveo re dei Franchi, avolo di essa Clotsuinda. In qual concetto fosse allora Alboino, si può raccogliere dalle seguenti parole: Stupentes sumus, quum gentes illum tremunt, quum reges venerationem impendunt, quum potestates sine cessatione laudant, quum etiam ipse imperator ipsum praeponit, quod animae remedium non festinus requirit. Qui sic, quemadmodum ille, fulget fama, miror quod de regno Dei et animae suae salute nihil investigare studet. E deesi anche avvertire che Nicezio chiama Goti, e non già Longobardi, il popolo soggetto ad esso re Alboino, non per altro, per quanto si crede, se non perchè fama era che fossero [978] venuti i Longobardi dalla medesima Scandinavia, onde uscirono i Goti, ed eran perciò riputati una stessa nazione, benchè di nome diverso, come avvenne anco degli Unni, oggidì appellati da noi Tartari, divisi in varie numerosissime tribù. Per altro si sa che Procopio ed Agatia, storici di questi tempi, li chiamano Longobardi, e per questo nome erano conosciuti fin dai tempi di Cornelio Tacito, il quale fa menzione d'essi come d'un popolo particolare della Germania, e ne parlarono prima di Tacito anche Velleio Patercolo e Strabone, e poi Svetonio ed altri scrittori, nominandoli cadauno Langobardi o Longobardi, e non già Goti. Ma Alboino, senza profittar delle prediche della cattolica sua consorte, finchè visse, stette attaccato all'eresia degli ariani.


   
Anno di Cristo DLXIV. Indizione XII.
Giovanni III papa 5.
Giustiniano imperadore 38.

L'anno XXIII dopo il consolato di Basilio.

Fidatosi il cardinal Baronio di uno scrittorello non molto antico delle cose greche, e di alcuni pochi moderni, credette vero l'accecamento di Belisario, e l'esser egli stato astretto ad accattar per limosina il pane negli ultimi dì di sua vita. Ma nè Zonara, nè Glica, nè Costantino Manasse, citati da lui, rapportano sì gran peripezia di quel celebre generale d'armata. Or questa favola si dilegua per la testimonianza di Teofane [Theoph., in Chron.], il quale sotto quest'anno scrive che nel dì 19 di luglio Belisario ricuperò tutte le sue dignità, e fu rimesso in grazia dell'imperadore. Era egli stato fin allora sequestrato in casa. Ben esaminati tutti i suoi domestici, e terminato il processo, dovette comparire la di lui innocenza. Fors'anche si trovò che gli accusatori erano stati sovvertiti dalle suggestioni altrui, eccitate dall'invidia, a cui son soggetti tutti gli uomini grandi. Però gli [979] furono restituiti gli onori e la grazia dell'imperadore. Non era a' tempi del Baronio uscita alla luce la storia di Teofane. Ma v'era ben quella di Cedreno (e lo stesso cardinale la cita), dove scrive [Cedren., in Hist. ad ann. 36 Justiniani.], che presi gli autori della congiura, falsamente fu da essi incolpato Belisario, e gli fu dato il sequestro in casa. Il quale, dopo di essersi conosciuta la sua innocenza, a' dì 19 di luglio uscì in pubblico e ricuperò tutto il suo. Viene asserito lo stesso dall'autore della Miscella [Histor. Miscel., lib. 16.], più antico di Giorgio Cedreno, con riferire il sorgimento di Belisario al dì 19 di marzo, e non già di luglio. Ancora di questo scrittore fa menzione il cardinal Baronio; e pure egli volle piuttosto attenersi alle fole di Giovanni Tzetze, perchè gli premeva di far vedere puniti nel mondo di qua i peccati di Belisario. Circa questi tempi Venanzio Fortunato, nato in Italia in una villa posta fra Ceneda e Trevigi, dopo aver fatti i suoi studii in Ravenna, dove tuttavia erano in onore le buone lettere, sentendosi liberato da un fierissimo mal di occhi per intercessione di san Martino vescovo di Tours, passò dall'Italia nella Gallia a venerare il sepolcro di quel celebratissimo santo. Fissò dipoi il suo soggiorno nella città di Poitiers, carissimo alla santa regina e monaca Radegonda, amato dai vescovi di quelle parti, e riverito da tutti per la sua abilità nella retorica e poesia. Le opere da lui lasciate in prosa e versi sono di gran lume per la storia delle Gallie in questi tempi. Si accese in questo medesimo anno un gran fuoco nella città di Costantinopoli, per quanto abbiam da Teofane, che fra gli altri edifizii arse lo spedale dei pellegrini di san Sansone e molte chiese e monasteri: il che viene attributo dal cardinal Baronio a vendetta di Dio contra di Giustiniano per un suo errore in materia di fede, di cui parlerò all'anno susseguente. Ma che Dio, per vindicarsi [980] di un principe caduto in fallo, distrugga i luoghi pii e le chiese sue proprie, non appaga l'intelletto. E tanto meno, perchè Giustiniano non avea peranche fatto conoscere questo suo errore, come si figura esso Baronio all'anno precedente 563.


   
Anno di Cristo DLXV. Indizione XIII.
Giovanni III papa 6.
Giustino II imperadore 1.

L'anno XXIV dopo il consolato di Basilio.

Era già pervenuto Giustiniano Augusto all'età di circa ottantatrè anni, tempo in cui dovea più che mai pensare ad assicurarsi quella vera e beatissima gloria che i buoni cristiani aspettano dopo la morte, e non la vana e fugace di questa vita. Pure, amando tuttavia di comparire maestro di teologia, e sedotto da qualche eretico suo favorito, volle ingerirsi di nuovo in decider quistioni riguardanti la dottrina della fede, con formare, per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], sul principio del corrente anno, un editto, in cui dichiarava incorruttibile e non soggetto alle naturali passioni il corpo del nostro Signor Gesù Cristo avanti la sua resurrezione; la qual sentenza era, ed è, opposta alla credenza della Chiesa cattolica. Perchè Eutichio, piissimo e santo patriarca di Costantinopoli, non volle sottoscrivere quest'empia decisione, sacrilegamente il fece deporre, e cacciollo in esilio. Quindi mosse una persecuzione contra tutti gli altri vescovi che ricusavano di consentire con lui, fra' quali specialmente fu Anastasio patriarca di Antiochia. Era l'ingannato imperadore in procinto di bandirli tutti, e di pubblicare un così scandaloso editto, quando stanca la pazienza di Dio il chiamò a render conto dell'amministrazione sua, siccome abbiamo da [981] Evagrio [Evagr., lib. 4, cap. 40.], da Teofane, dall'autore della Miscella e da altri storici. Accadde la sua morte nel dì 13 o pure nel 14 di novembre del presente anno; e quantunque l'autore della Cronica Alessandrina, Mario Aventicense, Vittor Tunonense ed altri antichi la mettano nell'anno seguente 566, tuttavia, per le ragioni addotte dai cardinali Baronio e Noris, dal padre Pagi e da altri, siamo astretti ad abbracciar l'opinione che ascrive al presente anno il fine della di lui vita. Lasciò questo imperadore dopo di sè una memoria che non verrà mai meno, finchè dureranno fra i professori delle leggi i libri da lui pubblicati della giurisprudenza romana, e finchè la storia parlerà delle sue grandi imprese. Unironsi in lui molte virtù, ma contrappesate, anzi superate, da varii vizii e difetti, che, vivente lui, afflissero non poco i suoi sudditi, massimamente per gli eccessi suoi in materia di religione, e per gli aggravii e per le incredibili estorsioni lor fatte, e che non sono dissimulate dai vecchi scrittori. Chi prestasse fede alla Storia secreta di Procopio, uscita alla luce dopo gli Annali ecclesiastici del Baronio, Giustiniano sarebbe stato un mostro. Ma quella, per vero dire, è un'invettiva dettata da una strabocchevol passione, e in molti capi indegna di credenza, arrivando egli fino a scrivere che Giustiniano fosse un negromante, che non dormisse, che passeggiasse col busto senza capo, che fosse figliuolo del diavolo, e veduto sedere in maestà in forma di Satanasso: tutte scioccherie sconvenevoli ad un Procopio, cioè ad uno dei più nobili e saggi storici che ci abbia dati la Grecia. Racconta ancora cose nefandissime di Teodora Augusta prima ch'ella giugnesse alle nozze con Giustiniano, ed anche dipoi, le quali, procedendo da penna cotanto appassionata, non si debbono con tanta facilità tener per vere. Alcuni mesi prima che Giustiniano mancasse di vita, cioè nel mese di [982] marzo, secondochè abbiamo da Teofane [Theoph., in Chronogr.], diede fine a' suoi giorni anche Belisario patrizio. Giustiniano, che nel prendere la roba altrui non badava a scrupoli, occupò tutte le di lui facoltà, e le fece riporre nel suo erario, che si conservava nel palazzo di Marina, già figliuola dell'imperadore Arcadio. Benchè Giustiniano lasciasse dopo di sè due suoi pronipoti dal lato paterno, cioè Giustino e Giustiniano, figliuoli di Germano patrizio, nipote d'esso imperadore; tuttavia, o perchè egli altrimenti dispose nel suo testamento, o perchè così piacque al senato, ebbe nel dì 14 di novembre per successore nel trono imperiale Giustino juniore, ossia secondo di questo nome, figliuolo di Dolcissimo e di Vigilanzia sua sorella, al quale egli dianzi avea conferita la dignità cospicua di curopalate, cioè di soprantendente al palazzo cesareo. Questi sul principio parve principe d'animo generoso, e che non gli mancasse destrezza ed abilità per gli affari; ma, andando innanzi, tradì l'espettazione comune. Godeva soprattutto di fabbricare; in tutto e per tutto professò sempre la religione cattolica; ornò e dotò riccamente molte chiese edificate da Giustiniano, e massimamente il mirabil tempio di santa Sofia. Le lodi si veggono cantate in un poema latino da Corippo poeta africano di questi tempi. Solennemente coronato imperadore, dichiarò imperadrice Augusta Sofia sua moglie, e fecela coronare anch'essa. Una delle sue più gloriose imprese, narrata da esso poeta, fu quella di pagar tutti i debiti di Giustiniano, e di restituire il mal tolto da lui. Innumerabili concorsero i creditori e gl'ingiustamente aggravati. A tutti in pubblico fu fatta giustizia e restituito il suo, di maniera che il circo risplendeva per l'oro che in tal congiuntura si distribuì. Non ci vuol di più per accertarsi dell'immensa avarizia e rapacità di sì glorioso imperadore, quale è tenuto Giustiniano, facendo anche fede, dopo [983] Evagrio, Giovanni Zonara [Zonar., in Chron.], con dire ch'egli per fas et nefas non cessò mai di succiare il sangue de' suoi popoli, per far poi delle chiese e delle altre fabbriche coll'altrui danaro, e per appagare ogni suo capriccio colla rapina della roba altrui.


   
Anno di Cristo DLXVI. Indizione XIV.
Giovanni III papa 7.
Giustino II imperadore 2.

Console

Giustino Augusto, senza collega.

Seguito io qui il cardinal Baronio, da cui vien posto Giustino Augusto console nelle calende di gennaio dell'anno presente, e non già il padre Pagi, che mette il consolato preso da esso imperadore nell'anno susseguente 567. I motivi di così credere gli addurrò appunto nel seguente anno. Sotto l'Indizione XIV corrente nell'anno presente racconta Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] che Sinduvala, erulo, cominciò ad esercitare la tirannia, e che fu ucciso da Narsete patrizio. Potrebbe essere che questo fatto appartenesse all'anno precedente, perchè Mario all'anno medesimo rapporta la morte di Giustiniano Augusto. Comunque sia, di questo avvenimento fa anche menzione Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 2, cap. 3.], con iscrivere che Sindualdo re de' Bretti (probabilmente è scorretto questo nome), discendente da quegli Eruli che Odoacre avea menato seco in Italia, e qui si erano accasati, dopo aver fedelmente servito per gran tempo a Narsete governator dell'Italia, e ricevutane la ricompensa di molti onori e benefizii, superbamente in fine gli si ribellò per voglia di regnare. Bisognò condurre contra di lui l'armata, e venire a battaglia. In essa egli restò sconfitto e preso. Narsete, per maggiormente esaltarlo, il fece impiccare per la gola ad un'alta trave. Dove costui comandasse, e dove [984] seguisse questa battaglia, è a noi ignoto. Continua poscia Paolo Diacono a dire che in quel tempo Narsete patrizio per mezzo di Dagisteo generale dell'armi, uomo bellicoso e forte, divenne padrone di tutti i confini d'Italia, probabilmente verso i monti che dividono l'Italia dalla Gallia, o dall'Alemagna, dove Sindualdo pare che avesse comando in questi tempi sopra i suoi Eruli. Dopo questo fatto mi sia lecito il far qui menzione della terribilissima peste che afflisse, e poco mancò che non desertasse l'Italia tutta. L'anno preciso non si sa. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Langob., lib. 2, cap. 4.] la mette circa questi tempi, nei quali mancò di vita Giustiniano imperadore. Infierì essa spezialmente nella Liguria; e san Gregorio Magno [Gregor. Magnus, Dialogor., lib. 4, cap. 26.] anch'egli attesta che questo malore recò del gran danno a Roma. Tanta fu la strage de' popoli, che restarono in molti luoghi disabitate affatto le campagne, nè vi era chi mietesse, nè chi raccogliesse le uve. Venuto poi il verno, si sentiva per l'aria di notte e di dì un suono di trombe, e a molti pareva d'udire il mormorio d'un esercito. Questa fiera pestilenza si provò solamente in Italia, nè passò in Alemagna nè in Baviera, e servì di preludio alle calamità che Dio preparava per l'Italia. Dissi di sopra all'anno 551 che il padre Pagi non prese ben le sue misure, mettendo in quell'anno il fine del regno dei Gepidi, mercè della gran rotta loro data da Alboino re de' Longobardi. In quest'anno ripongo io quello avvenimento, avendone mallevadore Menandro Protettore [Histor. Byzant., tom. 1, pag. 101.], storico del presente secolo, al cui racconto non fece mente esso Pagi. Racconta dunque Menandro ne' suoi frammenti, che assunto all'imperio Giustino juniore, gli Avari, cioè gli Unni, che aveano posto il lor nido in quella che oggidì appelliamo Moldavia, gli spedirono ambasciatori per [985] dimandargli i regali annui che Giustiniano imperadore per pusillanimità solea loro inviare, e per far pruova se poteano guadagnare di più; e veramente parlarono con insolenza a Giustino. Questa ambasceria è narrata medesimamente da Corippo; anzi da lui intendiamo che seguì sette giorni dopo la coronazione di esso Augusto, e però nel novembre del precedente anno. Giustino rispose con maggiore altura di non voler loro pagar un soldo, nè donar cosa alcuna; che se si arrischiassero di fare i begli umori contra dell'imperio romano, farebbe lor vedere chi era un imperador de' Romani; e che si contentassero, se li sopportava nel suo paese, perchè questo era il più gran regalo che potesse lor fare. Se n'andarono costoro con coda bassa, credendo forse che Giustino fosse da tanto da accompagnar la bravata coi fatti, e si voltarono verso il paese de' Franchi. Soggiugne il medesimo autore, cioè Menandro, ch'era pace e lega fra essi Avari e i Franchi [Hist. Byzant., tom. 1, pag. 110.]. Ora Boiano, duca, ossia re degli Avari, appellato ancora Cagano (cognome di dignità, perchè usato dagli altri re di questa schiatta d'Unni, che vennero poi padroni dell'Ungheria), fece sapere a Sigeberto, re de' Franchi, che il suo esercito abbisognava di viveri, e però il pregava di soccorso, promettendogli di ritirarsi fra tre giorni, se gli faceva questa grazia. Sigeberto non tardò a mandargli una buona quantità di buoi, pecore e grani. Certo è che il regno d'Austrasia posseduto da Sigeberto comprendeva la Svevia, parte della Sassonia e la Turingia e la Baviera. Di là dal Danubio senza fallo andarono gli Avari a trovare i Franchi.

Seguita a dire Menandro che in questi tempi Alboino re de' Longobardi, sempre meditando come potesse abbattere Cunimondo re de' Gepidi, con cui aveva una capitale dichiarata nimicizia, mandò ambasciatori a Boiano re degli Avari, per istabilire seco una lega contra dei [986] Gepidi. Fra le altre ragioni gli addusse questa, cioè non muoversi egli sì ardentemente alla guerra contro dei Gepidi, se non per dannificare Giustino imperadore, cioè il maggior nemico che s'avessero gli Avari, dappoichè egli poco prima, niun conto facendo dei patti stabiliti con Giustiniano Augusto suo zio, avea privato gli Avari de' consueti regali. Per conseguente, se si sterminavano i Gepidi, sarebbe facile l'occupar la Tracia e scorrere fino a Costantinopoli. Non dispiacque a Boiano la proposizione, e fu chiusa la lega con condizione che vincendo, tutto il paese de' Gepidi passar dovesse in dominio ad essi Avari; laonde questi collegati si prepararono alla guerra. Il re de' Gepidi Cunimondo, penetrata che ebbe questa macchina, ricorse all'imperadore Giustino, ma non potè indurlo a prestargli aiuto. S'è perduta la storia del suddetto Menandro Protettore, con restarne solamente de' frammenti, rapportati nel primo tomo della Storia bizantina, e però non si vede il proseguimento della gara suddetta fra i Gepidi e Longobardi, nè dello sterminio de' primi. Ma ne abbiamo abbastanza per intendere che non già nell'anno 551, come pretese il padre Pagi, ma sì bene nel presente 566 succedette il memorabil fatto d'armi tra loro, che viene accennato da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Lang., lib. 1, cap. 27.]. Narra anche egli la lega di Alboino con gli Unni, chiamati Avari, i quali furono i primi ad entrare ostilmente nel paese de' Gepidi. Da tal nuova costernato Cunimondo, si avvisò di dar prima battaglia ai Longobardi, perchè, se gli riusciva di averla favorevole, si prometteva poi facile il superare anche gli Unni. Gli fallirono i conti. Con tal ardire combatterono i Longobardi, che la fortuna si dichiarò in loro favore; e sì grande fu la rabbia loro, che non diedero quartiere ad alcuno, e fra gli altri vi lasciò la vita lo stesso re Cunimondo. Però la dianzi [987] sì potente nazione de' Gepidi rimase disfatta; nè ebbe più re da lì innanzi, in guisa che a' tempi d'esso Paolo Diacono il resto dei Gepidi era sottoposto ai Longobardi, o pure agli Unni, cioè a' Tartari Avari, che occuparono in tal congiuntura il loro paese di là dal Danubio (ma non già il Sirmio, che si trova da lì innanzi posseduto dai Greci), e susseguentemente si stesero per la Pannonia, allorchè i Longobardi vennero in Italia. Aggiungne esso Paolo Diacono che della preda immensa toccata in sì prosperoso conflitto ai Longobardi tutti arricchirono. Oltre ancora ad una gran moltitudine d'ogni sesso ed età, che fu fatta schiava, venne alle mani del re Alboino Rosmonda, figliuola dell'ucciso re Cunimondo; e perchè era già mancata di vita Clotsuinda, figliuola di Clotario re de' Franchi, sua prima moglie, passò egli alle seconde nozze con quest'altra principessa, ma per sua grande sventura, siccome vedremo. Giovanni abbate biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron.] mette anche egli sotto l'imperadore Giustino II la disfatta de' Gepidi, benchè fuor di sito, e troppo tardi, con aggiungnere che i tesori del re Cunicmondo (così egli lo chiama) furono interamente portati a Costantinopoli al suddetto imperadore da Trasarico vescovo ariano, e da Rettilane nipote d'esso re ucciso. Evagrio anch'egli scrive che i Gepidi consegnarono il Sirmio all'imperadore. Di sopra abbiam detto che gli Unni Avari andarono a far una visita ai Franchi, probabilmente verso la Turingia. Di questo fatto, ma con altre più importanti circostanze, ci lasciò memoria anche Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 23.]. Narra egli che nell'anno 561, o pure nel susseguente, gli Unni fecero un'irruzione nelle Gallie, sotto il qual nome, abusivamente adoperato, è probabile ch'egli intendesse il dominio dei re franchi, steso per buona parte ancora della Germania. Contra di questi Barbari procedette [988] colla sua armata il re Sigeberto, e fatta giornata con loro, li ruppe e mise in fuga. Non andò molto che per mezzo d'ambasciatori seguì fra loro pace ed amicizia. Secondo il medesimo autore [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 29.], tornarono dipoi gli Unni (cioè nell'anno presente, come ci avvertì Menandro Protettore) con pensiero di passar nelle Gallie, cioè ne' paesi di Germania sottoposti al re d'Austrasia Sigeberto. Questi andò loro incontro con un esercito composto di una gran moltitudine d'uomini forti. Ma nel voler attaccar battaglia, saltò addosso ai Franchi tal paura, parendo lor di vedere delle fantasime, che diedero alle gambe. Il buon Gregorio Turonense attribuisce ciò alle arti magiche degli Unni. Mentre fuggiva la sua armata, il re Sigeberto ritiratosi in un luogo forte, fu quivi serrato dagli Unni. Ma siccome egli era persona galante ed astuta, con dei regali si cavò fuori d'impaccio; anzi trattò e conchiuse in tale occasione con quei Barbari una pace perpetua; e il re degli Unni, chiamato Cagano, anch'egli inviò dipoi parecchi doni ad esso re Sigeberto. Il padre Daniello [Daniel, Histoire de France, tom. 1.], elegantissimo scrittore della Storia franzese, supplendo col suo ingegno ciò che tacquero gli antichi storici della Francia, qui rappresenta lo stesso re Sigeberto preso dagli Unni e condotto alla tenda del vincitore, dove, facendo comparire la costanza del suo spirito, mirabilmente incantò quel barbaro, ma insieme generoso principe. Questi impedì che non fosse messo a sacco il di lui equipaggio, e gliel fece rendere. Sigeberto, avendo trovato in esso di che fare i presenti al re degli Unni, seppe così ben guadagnarlo, che ne ebbe la libertà e una pace giurata per sempre. Queste particolarità io le cerco in Gregorio Turonense, in Fredegario, e non le ritrovo. Richiamò Giustino Augusto in quest'anno dall'esilio Eutichio patriarca di Costantinopoli con [989] sua lode. Ma fu ben egli altamente biasimato da ognuno per aver levata la vita a Giustino figliuolo di Germano patrizio, pronipote, come già dissi, di Giustiniano Augusto dal lato paterno. Il valore e il credito di questo personaggio, tutto che quieto e fedele, faceva ombra e paura a Giustino e a Sofia Augusta sua moglie. Veggasi Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 1 et 2.], da cui sappiamo che questo imperadore si diede alle delizie anche più oscene, e cominciò sordidamente a vendere le cariche e gli uffizii, e fino i vescovati a persone indegne. Fece anche morire Eterio e Addeo, chiarissimi senatori, ma con giusta condanna, se fu vero che avessero tramato contro la di lui vita. Credesi ancora pubblicata da lui in quest'anno la novella 140 riferita nel Codice di Giustiniano, in cui concede che di comun consenso si possa sciogliere il matrimonio fra i coniugati: legge contraria agli insegnamenti della religione cattolica.


   
Anno di Cristo DLXVII. Indizione XV.
Giovanni III papa 8.
Giustino II imperadore 3.

L'anno I dopo il consolato di Giustino Augusto.

Mette il padre Pagi console nel presente anno Giustino Augusto. Si fonda egli ne' Fasti de' Maffei romani, da lui non veduti, ma citati dal Panvinio; siccome ancora sull'autorità di Mario Aventicense, che congiunge col consolato di Giustino la Indizione XV. Cita anche in suo favore Teofane. All'incontro i cardinali Baronio e Noris riferirono all'anno precedente 566 il consolato di Giustino Augusto, e la loro opinione sembra a me che sia da preferire a quella del p. Pagi. Corippo nel panegirico di Giustino imperadore ci fa sapere ch'egli, appena salito sul trono, disse di voler rinnovare la dignità del consolato:

[990]

. . . . . . . . . . . . . nomenque negatum

Consulibus consul post tempora cuncta novabo.

Perchè dunque, secondo il solito dei precedenti novelli imperadori, non prese egli il consolato nel primo dì di gennaio dell'anno precedente, ed aspettò a prenderlo un anno dopo? Nè Mario Aventicense discorda dal Baronio, perchè nell'anno susseguente alla morte di Giustiniano, accaduta nel 565, rapporta il consolato di Giustino, e lo stesso padre Pagi confessa ch'egli pospone un anno i fatti d'esso Augusto. Quanto a Teofane, anch'egli sembra convenire nella medesima sentenza, mettendo la elezion di Giustino a dì 14 di novembre, correndo l'Indizione XIV, cominciata nel settembre. Poscia nell'anno susseguente scrive ch'egli procedette console, diede spettacoli, e sparse gran copia di danaro al pubblico. Io credo poi decisa una tal quistione da un'iscrizione che riferirò all'anno 569, di maniera che ho creduto di non poter qui per conto alcuno aderire al Panvinio e al Pagi. Del resto da lì innanzi gl'imperadori greci solevano eglino soli procedere consoli, e per una volta sola, contandosi poi i susseguenti anni colla formula del post consulatum, finchè essi viveano. Quali fossero i costumi di Giustino Augusto, l'ho poco fa accennato. Aggiungo ora che sua moglie, cioè Sofia, era donna superba, che, non contenta di voler anche ella comandare ai popoli, cercava anche la gloria di comandare al marito. Da questa ambiziosa principessa l'antichissima tradizione degl'Italiani tiene che procedesse la rovina della misera Italia. Seguitava Narsete patrizio a governar quello regno, facendo in esso fiorir la pace. Per attestato di Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], egli avea lodevolmente fatto risorgere Milano con varie altre città distrutte dai Goti. Ultimamente, ad istanza di papa Giovanni, gli era riuscito di aver [991] nelle mani Vitale vescovo di Altino [Paulus Diaconus, de Gest. Langob., lib. 2, cap. 4 et seq.], uno degli scismatici, che fuggito a Magonza, città signoreggiata allora dai re de' Franchi, s'era quivi per molti anni trattenuto. Il rilegò in Sicilia, affinchè non nudrisse nel suo popolo la disubbidienza alla santa Sede. Ora Narsete aveva accumulate immense ricchezze in sedici anni del suo governo d'Italia. Queste gli faceano guerra, perchè troppo esposte all'invidia degl'Italiani, o forse anche perchè non tutte giustamente acquistate. Però in quest'anno egli fu richiamato a Costantinopoli, per dargli un successore. Tertio anno Justini minoris imperatoris Narsis patricius de Ravenna evocitatus est: son parole d'Agnello [Agnell., in Vita S. Agnelli, tom. 2 Rer. Ital.], che circa l'anno 830 scrivea le Vite degli arcivescovi di Ravenna. Attesta anch'egli i tesori raunati da Narsete, con soggiungere: Egressus est cum divitiis omnibus Italiae, et fuit rector XVI annis. Anche Mario Aventicense mette la chiamata di Narsete, ma all'anno seguente.

Paolo Diacono ci fa sapere onde venisse la spinta data a Narsete, con dire che avendo egli ammassate tante ricchezze, mossi da invidia i Romani, scrissero a Giustino Augusto e Sofia sua moglie, rappresentando d'essere sì maltratti ed oppressi da Narsete, che meglio stavano sotto i Goti che sotto di lui. Perciò pregavano l'imperadore di liberarli da questo cattivo ministro, altrimenti minacciavano di cercarsi altro padrone. Montò in collera Giustino all'avviso di questi lamenti, e subito destinò, o pure spedì in Italia Longino, acciocchè nè assumesse il governo, con richiamar Narsete in Oriente. Ma Narsete, informato di quanto da Roma era stato scritto alla corte contra di lui, e dello sdegno dell'imperadore, si levò bensì di Roma, e andossene a Napoli, ma non si attentò di proseguire il [992] viaggio alla volta di Costantinopoli. E tanto più perchè o Sofia Augusta gli avea fatto intendere, essere ormai tempo che un eunuco par suo andasse a filar nel serraglio delle donne in Costantinopoli; o pure, essendo scappate queste parole di bocca ad essa Augusta, furono esse riferite a Narsete. Dicono, aver egli risposto: Saprò ben io ordire una tela sì fatta, che in sua vita non potrà essa imperadrice giammai svilupparla o disfarla. E che egli poscia segretamente inviasse messi a consigliare Alboino, re de' Longobardi, che, abbandonato il povero paese della Pannonia, venisse nel ricco ed abbondante d'Italia. Era egli suo amico, e si era servito delle sue truppe per distruggere il regno de' Goti. Ora Anastasio bibliotecario [Anast. Biblioth., in Vita Joannis III.] conferma anche egli il ricorso fatto dai Romani alla corte, e l'andata sua a Napoli, e l'invito mandato ai Longobardi; soggiugnendo appresso, che papa Giovanni frettolosamente passò a Napoli, per pregare Narsete che volesse tornarsene a Roma. Rispose egli: Che male ho io mai fatto ai Romani? ditemelo, o santissimo papa. Mia intenzione è di andare alla corte per giustificarmi, e far conoscere a tutti s'io abbia fatto loro del bene o del male. Papa Giovanni, piuttosto v'andrò io, gli replicò; e tanto disse, che il fece ritornare a Roma, dove da lì a non molto tempo terminò i suoi giorni. Il corpo suo chiuso in una cassa di piombo con tutte le sue ricchezze fu inviato a Costantinopoli. Anche Agnello ravennate [Agnell., in Vita Petri Senioris, tom. 2 Rer. Italic.] lasciò scritto che Narsete arrivò al fin di sua vita in Roma in età di novantacinque anni. Fu messa in dubbio dal cardinal Baronio la morte di Narsete in Roma, quasi che Gregorio Turonense avesse scritto [Gregor. Turonensis, lib. 5, cap. 20.] ch'egli andò a Costantinopoli, e nascose in una cisterna tutti i suoi tesori, scoperti poi sotto Tiberio Augusto successore di Giustino: il [993] che non sussiste. L'autore della Miscella [Hist. Miscell., lib. 16.] e Paolo Diacono, che presero questa favola da esso Gregorio, anch'essi accennano che non già in Costantinopoli, ma in una città d'Italia Narsete seppellì quei tesori. Aggiugne il cardinale suddetto, che Corippo [Corippus, de laudibus Justini II.] ci fa vedere Narsete in Costantinopoli, più che mai in grazia dell'imperadore. Anzi di qui egli credette di poter dedurre che non sussista la voce sparsa del tradimento ordito, con chiamare in Italia i Longobardi. Ma il padre Pagi ha eruditamente osservato, essere differente da Narsete patrizio e governatore d'Italia quel Narsete, di cui fece menzione Corippo. E giudica poi fondata abbastanza l'opinione del tradimento di Narsete patrizio, dacchè ne fa menzione anche Mellito, autore spagnuolo, che, secondo lui, terminò nell'anno 614 una Cronichetta, che si conserva manoscritta in Parigi. Per altro ogni disgrazia vuol qualche cagione, e nelle grandi specialmente il popolo è facile figurarsi per vero quello che taluno comincia a dire. Non s'ha certo da dubitare dei passi fatti dal senato romano contra di Narsete. Anastasio ne parla con circostanze pregnanti di verità. Giuste conseguenze sono dipoi la collera dell'imperadore e dello stesso Narsete. Ma ch'egli giugnesse anche a tanta iniquità d'inviare i Barbari in Italia, non è già evidente. Senza che Narsete facesse lor sapere che buon paese fosse l'Italia, l'aveano essi imparato a conoscere di vista, allorchè l'aiutarono a disfare Totila re de' Goti. Era tuttavia in vigore la memoria di quanto avevano operato Odoacre e Teoderico. Ed, oltre a ciò, la voce sparsa che finiva il governo di Narsete, valente generale, e che la peste avea fatta terribile strage in Italia, potè somministrare un sufficiente motivo al re Alboino di applicarsi alla conquista di queste contrade. Finalmente l'essere Narsete, ad istanza di papa Giovanni, [994] ritornato a Roma, non ben s'accorda col supporlo richiamato alla corte, nè colla pronta spedizione del successore Longino, che forse non gli fu destinato ed inviato se non dappoichè s'intese la morte d'esso Narsete, accaduta non molto dopo, e però probabilmente prima che terminasse l'anno presente. In esso anno ancora, per attestato di san Gregorio Magno [Gregor. Magnus, Dialogor., lib. 3, cap. 38. Homil. 1 in Evangel.], che dà per testimonii i suoi occhi, furono vedute in aria figure infocate, rappresentanti schiere d'armati dalla parte di settentrione, creduti preludii delle incredibili calamità che sopravennero all'Italia: il che io rapporto istoricamente, lasciando la libertà ad ognuno di credere immaginazioni, e non cifre dell'avvenire que' segni, ossia quegli effetti naturali dell'aria. Ne fa menzione anche Paolo Diacono. E l'antico storico ravennate Agnello [Agnel., in Vita S. Agnelli, tom. 2 Rer. Ital.] aggiugne che la città di Fano e il castello di Cesena furono consumati dalle fiamme colla morte di molte persone.


   
Anno di Cristo DLXVIII. Indizione I.
Giovanni III papa 9.
Giustino II imperadore 4.

L'anno II dopo il consolato di Giustino Augusto.

Per quanto ho notato nel mio Tesoro nuovo delle vecchie iscrizioni, sul fine dei fasti consolari non pare mal fondata la opinione del cardinal Baronio, da cui fu creduto che in quest'anno Giustino Augusto procedesse console la seconda volta, benchè il padre Pagi vi ripugni a tutto potere. Il marchese Scipione Maffei [Maffei, Istoria Diplomatica, pag. 103.] nella sua Storia diplomatica pubblicò uno strumento fatto in Ravenna Imp. D. N. Justino P. P. Augusto, anno septimo, et post consulatum ejus secundo anno quarto, sub die tertio nonarum juniarum, indictione quarta. Qui v'ha dell'imbroglio, [995] e, siccome osservò esso marchese, non sarà stata ben avvertita l'indizione, perchè l'anno settimo di Giustino II cominciò nel novembre dell'anno 571; laonde cade questo strumento nel dì 3 di giugno dell'anno 572, in cui correva l'indizione quinta. Però sembra che di qui abbiamo il consolato secondo d'esso Augusto. Ma perciocchè fu più in uso di contar gli anni dal suo primo consolato, però anch'io userò lo stile medesimo. Ed ecco che siam giunti ad uno de' più funesti anni che s'abbia mai provato l'Italia, perchè, secondo Paolo Diacono, e giusta il più comun parere degli eruditi, in esso venne Alboino re dei Longobardi a mettere e a fissare con sue genti il piede in Italia con farla divenir teatro di lunghe e deplorabili tragedie. Dappoichè era riuscito ad Alboino di sconfiggere la possente nazion de' Gepidi, dovette crescere l'orgoglio suo, e la persuasione che tutto dovea cedere alla forza dell'armi sue. Vero è ch'egli possedeva un vastissimo tratto di paese, cioè la Pannonia e il Norico, se pur tutte erano in suo potere, provincie che allora abbracciavano la maggior parte dell'Ungheria, l'Austria di qua dal Danubio, la Stiria, la Carintia, la Carniola, il Tirolo e forse qualche parte della Baviera, nei quali paesi per quarantadue anni la nazion de' Longobardi era abitata, dappoichè il re Audoino ve l'introdusse, e vi si stabilì per concessione di Giustiniano Augusto. Tuttavia riputando Alboino, e con ragione, miglior paese l'Italia, a cui si avvicinavano i suoi stati, determinò di abbandonare affatto la Pannonia, risoluto d'acquistare quest'altro più felice regno. Talmente si tenne egli in pugno un tal conquisto che, sull'esempio di Teoderico re de' Goti, determinò di condurre seco, non solamente gli uomini atti all'armi, ma le donne ancora, i vecchi e i fanciulli, in una parola tutta la schiatta dei Longobardi; dell'antica origine germanica de' quali ha trattato il Cluverio nella sua Germania, ed io ancora nella [996] parte I delle Antichità Estensi. Attese egli adunque nel precedente anno a preparar così grande impresa, nè contento delle sole sue forze, invitò ad unirsi seco i Sassoni suoi vecchi amici [Paulus Diaconus, de Gestis Langob., lib. 2, cap. 6.]. Più di venti mila combattenti trasse egli dalla Sassonia, ed ancor questi menarono con seco tutte le lor mogli e figliuoli, di maniera che restò spopolato un tratto di quel paese, e Sigeberto re d'Austrasia prese poi il ripiego, per ripopolarlo, d'inviare in que' siti un buon numero di famiglie cavate dalla Svevia. Divulgatasi inoltre la spedizione meditata da Alboino verso l'Italia, vi concorse un'altra moltitudine di persone di varii paesi. Ed è certo (son parole del suddetto Paolo Diacono volgarizzate) che Alboino, venendo in Italia, seco condusse molti di diverse nazioni, che egli ed altri dei re barbari aveano presi, come Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannoni, Soavi (cioè Svevi), Norici ed altre simili genti, i nomi de quali tuttavia durano nelle ville d'Italia, dove essi abitano [Idem, ibid., cap. 26.]. La speranza del guadagno mise in moto tutti coloro. E, siccome avvertii nelle mie Antichità Italiche [Antiq. Italic., tom. 1, Dissert. I.], porto io opinione che, dai Bavari, anticamente appellati Baioari, prendesse il nome una villa del Modenese, chiamata oggidì Bazovara, e nei secoli addietro Raioaria, allorchè essa aveva un forte castello. Fors'anche Carpi, città del ducato di Modena, dai popoli Carpi dee riconoscere la sua denominazione. Così nel territorio di Milano, per attestato di Galvano Fiamma [Galvaneus de Flamma, Manipul. Flor., cap. 211 Rer. Ital., tom. XI.], fu rinomato il contado di Burgaria, che, a mio credere, prese la denominazione dai Bulgari, ivi abitanti. E forse la bella terra di Soave nel Veronese trasse il suo nome dagli Svevi, popolo della Germania, molti de' quali calarono in Italia con Alboino. Dagl'Italiani la Svevia era nei vecchi tempi appellata Soavia, come si [997] può vedere nelle storie di Giovanni Villani e presso altri autori. E Suavia si legge ancora ne' testi più antichi di Paolo Diacono.

Ora l'autorità d'esso Paolo Diacono, figliuolo di Varnefrido, che con chiare note cronologiche disegna il presente anno 568 pel primo dell'entrata de' Longobardi in Italia, avvalorata anche da altre pruove, è seguitata dai più saggi letterati dei nostri tempi. Che se Mario Aventicense [Marius Aventicens., in Chron.], autore più antico, la mette nell'anno seguente (il che bastò ad alcuni per abbandonar qui Paolo Diacono) non dee già muovere noi altri, dacchè si vede che per errore dei copisti nella sua storia sono posticipati d'un anno gli avvenimenti di questi tempi. Merita bensì riflessione ciò che troviamo scritto dall'autore della Miscella [Histor. Miscell., lib. 16 in fin.]. Hujus imperatoris (dic'egli parlando di Giustino) anno undecimo (senza fallo qui v'ha sbaglio) qui est annus Divinae Incarnationis DLXVIII, indictione prima, in ipsis calendis aprilis egressi sunt Longobardi de Pannonia. Fin qui va bene, perchè son parole prese da Paolo Diacono. Seguita a dire: Et secunda indictione coepere praedari. Tertia vero Indictione dominare coeperunt in Italia. Il Sigonio [Sigon., de Regno Italiae, lib. 1.], chiarissimo scrittore modenese, seguendo questo autore, ha distinta l'epoca dell'entrata dei Longobardi in Italia da quella del principio del regno italico di Alboino. Fu ripreso per questo da Camillo Pellegrino e dal padre Pagi; ma due letterati di buon polso, cioè il padre abbate Benedetto Bacchini [Bachinnius, in Notis ad Agnelum, tom. 2. Rer. Ital.] e il dottor Giuseppe Sassi [Saxius in Notis ad Sigonium, de Regn. Italiae.], bibliotecario dell'Ambrosiana, hanno egregiamente difesa la sentenza del Sigonio. Nè dal testo suddetto si dee dedurre che i Longobardi impiegassero tutto quest'anno [998] in venir dalla Pannonia, nè che si stessero colle mani alla cintola giunti che furono in Italia. Fece Alboino molto ben delle conquiste nel presente anno, altre nel susseguente, ma non tali che credesse di potersi dire padrone d'Italia. Ciò solamente, siccome vedremo, succedette nell'anno 570. Venendo adunque alla feroce nazione de' Longobardi, Paolo Diacono la vuol così nominata, per la lunghezza delle barbe che portavano, perchè, dic'egli [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 1, cap. 4.], lang nella loro lingua significa lungo, e baert barba. Vien riprovata questa opinione da alcuni che li credono chiamati così per le aste lunghe, o pel paese, dove abitavano; ma il Cluverio, il Grozio ed altri aderiscono a Paolo. Nelle più antiche memorie portano il nome di Langobardi come si può veder presso Strabone, Tacito, Tolomeo e Procopio. Leggesi parimente così ne' testi più antichi di Paolo Diacono, e nei diplomi dei re longobardi e dei primi imperadori franchi. Presso i susseguenti scrittori si incontrano più spesso col nome di Longobardi. Tuttavia, siccome osservai nelle Antichità Italiche, ho io trovato marmi del secolo ottavo, ne' quali chiaramente Longobardi ancora si vedono appellati. Ora il re Alboino, con tutta questa nazione, uomini, donne, vecchi e fanciulli e colle loro suppellettili, secondochè scrive il suddetto Paolo [Idem, lib. 2, cap. 7.], uscì dalla Pannonia, correndo la indizione prima, nell'anno di Cristo 568, nel dì dopo la Pasqua, la qual cadde quell'anno nel dì primo di aprile, e s'inviò alla volta d'Italia. Non dice, che egli in quel dì entrasse in Italia: dice che uscì dalla Pannonia. Cedette agli Avari, ossia agli Unni tartari, la Pannonia suddetta con patto, se gli fosse occorso il bisogno, di poter ritornare in quelle contrade: patto ben difficile ad attenersi, troppo grande essendo l'incanto di chi possiede per qualsivoglia titolo gli stati altrui. S'egli abbandonasse [999] anche tutto il Norico, non è pervenuto a nostra notizia. Leggesi presso lo stesso Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 40.] che Tasone e Caccone, duchi del Friuli, possederono il paese di Cilicia, abitato allora dagli Sclavi; e però sembrano stati possessori anche della Carniola. Abbiamo, all'incontro, dal medesimo storico [Idem, lib. 5, cap. 22.] più sotto, che gli Sclavi dominarono nella Carintia. Sicchè almen poco si dovette stendere nella Germania da lì innanzi la signoria de' Longobardi. Giunto Alboino con quel gran seguito ai confini dell'Italia, salì sopra un alto monte di que' luoghi per vagheggiare fin dove potea il bel paese ch'egli già contava per suo. Era fama a' tempi di Paolo Diacono che da lì innanzi quel monte prendesse il nome di monte del re, ossia Monreale. Allo strepitoso avvicinamento di questo gran temporale, Paolino arcivescovo scismatico di Aquileia si ritirò nell'isola di Grado con tutto il tesoro della sua chiesa: isola che col tempo giunse a far guerra alla stessa chiesa d'Aquileia. Non trovando Alboino ostacolo alcuno alla sua entrata in Italia, s'impadronì della città del Foro di Giulio, capo allora della provincia, che da essa città prese dipoi il nome di Friuli, e chiamata oggidì Cividal di Friuli. Pensò tosto a mettere un governatore col titolo di duca in quel paese, ed elesse Gisolfo suo nipote, che gli serviva in grado di cavallerizzo maggiore. Eidem strator erat, dice Paolo, quem lingua propria marphais appellant. Non prima accettò questi il governo, che Alboino gli avesse accordato molte nobili famiglie di Longobardi, acciocchè abitassero in quel paese. Gli domandò ancor alcune razze di generose cavalle, e le ottenne. Paolo Diacono, il cui bisavolo o trisavolo venne con Alboino, e piantò casa in essa città del Friuli, è diligentissimo nel progresso della storia in raccontare i fatti di questo ducato, che fu il primo ad essere istituito dal re Alboino.

[1000] Allorchè arrivò l'esercito longobardo al fiume Piave, Felice, vescovo di Trevigi, coraggiosamente si presentò ad Alboino, con raccomandargli il popolo della sua città e i beni della sua chiesa. Ordinò tosto il re con molta cortesia che gli fosse spedito un diploma di confermazione di tutto quanto possedeva la chiesa trivisana. Intanto Longino patrizio, spedito dall'imperador Giustino con titolo di Esarco di Italia, verisimilmente era giunto a Ravenna, dove fissò il suo soggiorno per essere più alla portata di opporsi al torrente che veniva ad inondare l'Italia. Non si sa ch'egli conducesse seco rinforzo alcuno di milizie. Quelle poche ch'egli trovò qui le compartì nelle città più forti, e diedesi, per quanto si può credere, a far di grand'istanze a Giustino Augusto per aver dei soccorsi. Solamente sappiamo da Agnello Ravennate [Agnell., in Vita Petri Senioris, tom. 2 Rer. Ital.], che egli fortificò Cesarea con cignerla di pali: oggidì diciamo palizzare. Era questa Cesarea, secondochè avvertì Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 3.], un borgo fuori di Ravenna a guisa di città posto fra essa Ravenna e Classe. Giordano storico [Jordan., de Reb. Get., cap. 29.] scrive appunto così: Trino urbs ipsa (Ravenna) vocabulo gloriatur, trigeminaque positione exultat: idest, prima Ravenna, ultima Classis, media Caesarea. Vennero poscia pacificamente in poter de' Longobardi Vicenza, Verona, e gli altri luoghi della provincia della Venezia, a riserva di Padova e di Monselice, che guernite di sufficiente presidio si misero alla difesa. Queste fortezze arrestarono i passi di Alboino, e tanto più perchè essendo scorsi fin sotto Mantova, trovarono che anche quella città s'era accinta a far testa. Per tanto determinò di non procedere più oltre e di prendere il quartiere del verno in quella provincia, per vedere se gli riuscisse, con bloccare in quel tempo esse città resistenti, di forzarle alla resa. Racconta [1001] il sopraccitato Agnello, che Pietro seniore Arcivescovo di Ravenna secunda indictione consecratus est Romae absque jejunio, XVII kalendas octobris. Soggiunge appresso: Eo anno occupata Venetia a Longobardis est, et invasa, absque bello expulsi sunt: forse potiti sunt. Nell'anno presente l'Indizione seconda cominciò a correre nel settembre; e però non più che la provincia della Venezia conquistarono in quest'anno i Longobardi, e senza contrasto. Nota in fine Paolo Diacono che ne' primi mesi dell'anno presente cadde tanta neve nelle pianure d'Italia, quanta ne suol venire ne' più alti luoghi delle Alpi, e che, ciò non ostante, si ebbe poi tanta abbondanza di raccolto, che non v'era memoria d'altra simile.


   
Anno di Cristo DLXIX. Indizione II.
Giovanni III papa 10.
Giustino II imperadore 5.
Alboino re 1.

L'anno III dopo il consolato di Giustino Augusto.

Appartiene all'anno presente una iscrizione scoperta in Capoa nel dì 5 di novembre dell'anno 1689, nel giardino de' padri di san Pietro d'Alcantara, del monistero di san Bonaventura.

HIC REQUIESCIT IN SOMNO PACIS
IUSTINA ABBATISSA FUNDATRIX
SANCTI LOCI HUIUS QUAE VIXIT
PLUS MINUS ANNOS LXXXV DEPOSITA
SUB DIE KALENDARUM NOVEMBRIUM
IMP. D. N. N. IUSTINO P. P. AUG.
ANN. III P. C. EIUSDEM INDICTIONE TERTIA.

Nel settembre di quest'anno cominciò a correr l'Indizione III, e per conseguenza nel novembre susseguente fu posta questa iscrizione. Ora dicendosi ivi che quest'anno è il terzo dopo il consolato di Giustino Augusto, necessariamente il consolato stesso, secondo l'uso degli antichi, s'ha da mettere nell'anno [1002] 566, come immaginò il cardinal Baronio, e non già nell'anno 567, come pretese il padre Pagi. Di qui ancora impariamo, come già s'erano introdotti in Italia i monisteri delle sacre vergini, e che aveano le loro badesse sotto la regola di san Benedetto. Di questo monistero non ebbe notizia il padre Mabillone. Venendo ora ai fatti d'Italia, dico, con dispiacere, che non abbiamo un filo sicuro per ben distinguere i tempi dell'imperio dei Longobardi in Italia, perchè Paolo Diacono neppur egli l'ebbe, e a lui parimente mancarono molte notizie di questi tempi. Tuttavia, benchè il Sigonio differisca fino all'anno presente la conquista della provincia veneta, a me nulladimeno è sembrato più probabile, per le ragioni addotte, che si abbia essa a riferire all'anno precedente. Nel presente attese, a mio credere, il barbaro re a tor di mezzo l'impedimento ai suoi passi di Mantova. Non ne parla il suddetto storico; ma andando innanzi, scorgeremo che quella città venne in suo potere, e verisimilmente quest'anno, al contrario di Cremona che si sostenne. Trento ancora, colla sua provincia, o in questo o nel precedente, si sottomise all'armi de' Longobardi, e la stessa disavventura provarono le città di Brescia e di Bergamo, senza apparire se la forza dell'armi o il solo timore le inducesse ad aprire le porte. Altrettanto è da dire di Milano. Sappiamo solamente di certo, attestandolo Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langob., lib. 2, cap. 25.], che Alboino entrò in questa città (già rimessa in piedi per cura di Narsete) nel dì 3 settembre indictione ingrediente tertia, e per conseguente nel presente anno 569, in cui nel dì primo di esso mese cominciava a correre l'indizione terza. Dal conquisto di questa nobil città vo in conghietturando che Paolo Diacono cominciasse a numerar gli anni del regno di Alboino. Ora Onorato arcivescovo di essa città, o prima che v'entrassero i Longobardi, o dappoichè vi [1003] furono entrati, se ne fuggì a Genova. Non c'è sufficiente autorità per credere ch'egli, dopo aver consigliata la resa della città, oppresso dal dolore di vederla saccheggiata contro i patti, se ne partisse, come ha creduto taluno. Landolfo seniore [Landulphus Senior, in Chron., tom. 4 Rer. Ital.], storico milanese del secolo undecimo, descrive questo saccheggio con tanti anacronismi e spropositi, che neppur nella sostanza merita fede. Questa disgrazia di Milano, se fosse vera, l'avrebbe saputa e notata Paolo Diacono, tanto più antico di Landolfo. Quando poi si ammetta ciò che gli antichi cataloghi degli arcivescovi di Milano, pubblicati dal padre Papebrochio e Mabillone, e da me nella seconda parte del tomo primo Rerum Italicarum, scrivono di esso Onorato, cioè ch'egli solamente due anni governasse la Chiesa milanese: converrà dire che egli poco dopo la sua andata a Genova mancasse di vita come osservò il Sassi bibliotecario dell'Ambrosiana [Saxius, in Notis ad Sigonium de Regno Italiae.]. Quello poi che specialmente è degno d'osservazione, e risulta da una lettera di san Gregorio Magno [Gregor. M., lib. 4, ep. Edition Benedictin.], scritta a Costanzo arcivescovo parimente di Milano, si è che Lorenzo juniore fu eletto successore di Onorato in Genova dal clero e da molti nobili e cittadini milanesi, i quali per timore de' Barbari s'erano colà ritirati, come lo stesso san Gregorio attesta in un'altra lettera [Greg. M., lib. 2, ep. 30.]. Dall'antica tradizione de' Milanesi si ha che in Milano dagli scismatici fosse eletto nello stesso tempo arcivescovo un Frontone, intorno al quale abbiamo un favoloso racconto del suddetto Landolfo storico di quella città. Ma Lorenzo legittimo pastore, affine d'essere approvato dal papa, fu obbligato ad inviare a Roma una carta di assicurazione, in cui accettava il concilio quinto generale, e condannava i tre capitoli. Questa [1004] carta fu sottoscritta dai più nobili fra i Romani, inter quos ego quoque (aggiugne il santo pontefice) tunc urbanam praeturam (praefecturam ha un altro testo) gerens, pariter subscripsi: importante notizia che comincia a farci conoscere questo insigne pontefice, da cui tanto splendore s'accrebbe dipoi alla santa Chiesa romana, e che circa questi tempi in abito secolare esercitava la pretura o prefettura di Roma.

Dappoichè Alboino fu divenuto padron di Milano, le soldatesche longobarde si stesero per tutta la Liguria, e la ridussero quasi tutta alla loro ubbidienza. Secondo l'uso di questi tempi, diverso da quel de' Romani, questa provincia portava il nome di Liguria, ed abbracciava allora Milano, Pavia, Novara, Vercelli, quello che oggidì chiamiamo Monferrato, il Piemonte e tutta la riviera di Genova. Ed appunto abbiamo da Paolo Diacono che le città marittime, come Genova, Albenga, Savona (se pur questa è delle antiche città), Monaco ed altre per allora tennero saldo contra l'empito de' Longobardi. Ma soprattutto la città di Ticino, ossia di Pavia, sì per le buone sue fortificazioni, come pel numeroso presidio romano e pel coraggio de' cittadini, si mostrò alienissima dall'accettare il giogo dei Longobardi. Però Alboino, a cui sopra ogni altra cosa premeva il conquisto di quella città, ne intraprese l'assedio, portandosi con parte dell'esercito dal lato occidentale, dov'è ora il monastero di san Salvatore. L'altra parte passò a saccheggiar varii paesi, con penetrare anche di là dall'Apennino verso il Genovesato, ma senza poter mettere piede in quelle città, siccome abbiam detto. A queste calamità della Liguria, nel presente anno, s'aggiunse una terribil carestia, succeduta all'abbondanza dell'anno precedente. Intanto non resta memoria che Giustino imperadore, principe riuscito alla pruova troppo debole per sostenere il peso d'un grande imperio, soccorresse a bisogno [1005] dell'opressa Italia. Abbiamo bensì da Menandro Protettore [Hist. Byz., tom. 1, pag. 151.] una notizia che non si dee ommettere: cioè che esso Augusto circa il fine del quarto anno del suo imperio (e però nel presente anno, perchè il quarto ebbe principio nel dì 14 di novembre dell'anno precedente) ne' primi giorni d'agosto, inviò un'ambasciata ai Turchi, che una volta erano chiamati Saci. Era allora principe di quella nazione Disabolo, portante anch'egli il titolo di Cagano, titolo parimente usato, siccome dicemmo, dal principe degli Avari, con intendersi perciò che questo era nome non proprio, ma di dignità. Ora i Turchi si contavano anch'essi fra le nazioni della Tartaria. Hunni, quos Turcos nucupamus, dice Teofane [Theoph., in Chronogr.] all'anno 571. Plino [Plin., lib. 6, cap. 7.], se pure non è guasta ne' suoi testi quella lezione, mostra che anche a' suoi dì erano conosciuti i Turchi. E v'ha taluno che sospetta avere infino Erodoto avuta notizia di questo popolo. Comunque sia, certo è che nel secolo, di cui ora trattiamo, era esso celebre nella Tartaria, e, per testimonianza di Menandro, potentissimo. E ciò vien confermato da Evagrio [Evagr., l. 5, cap. 1 et 2.], là dove scrive che gli Unni Avari, non potendo resistere alla possanza e fierezza de' Turchi lor confinanti, furono obbligati a mutar paese; eppure parla di quegli stessi Avari che abbiam già veduti divenir padroni del Sirmio, della Dacia e della Pannonia, con giugnere dipoi a tanta possanza, che fecero tremar l'Italia tutta, siccome vedremo. Ho voluto far menzione dell'antichità e della forza e nazion de' Turchi, perchè costoro in fine son quegli stessi che, dopo il mille, fondarono nell'Asia e poscia dilatarono per l'Europa e per l'Africa quella sterminata monarchia, nemica del nome cristiano, che da tanti secoli si sostiene in piedi, ma pareva che [1006] negli anni addietro si andasse accostando secondo l'uso delle umane cose, alla sua rovina: e pure non è così.


   
Anno di Cristo DLXX. Indizione III.
Giovanni III papa 11.
Giustino II imperadore 6.
Alboino re 2.

L'anno IV dopo il consolato di Giustino Augusto.

Seguitò in quest'anno il re Alboino ad assediare la città di Pavia. Intanto la maggior parte de' suoi si stese a conquistar quanto paese potè e a saccheggiar quanto loro veniva alle mani. In questi tempi, se non prima, s'impadronirono essi della maggior parte dell'Emilia, cioè di Tortona, Piacenza, Parma, Reggio e Modena. Si avanzarono questi Barbari per la Toscana; presero Spoleti, e tutta o quasi tutta l'Umbria, e forse alcuna delle città oggidì costituenti la Marca d'Ancona [Paulus Diaconus, de Gestis Langob., lib. 2, cap. 26.]. Roma con alcune città circonvicine, si conservò all'ubbidienza dell'imperadore; e Longino esarco difese anch'egli Ravenna con alcune o con tutte le città della Flaminia. Tanto avanzamento dell'armi longobardiche viene attribuito da Paolo Diacono all'aver que' Barbari trovata l'Italia in una somma debolezza a cagion della peste precedente che avea spogliato di tanti abitatori le città e campagne, e dell'orribil carestia che tuttavia si facea sentire per tutta l'Italia. Perciò non vi era chi potesse resistere, massimamente contra sì gran moltitudine di Barbari, e tanto più perchè da Costantinopoli non veniva soccorso alcuno. Mancò di vita circa questi tempi, per quanto crede il cardinal Baronio, nell'anno antecedente, com'è più probabile, Paolino I, arcivescovo di Aquileia, cioè quegli che cominciò lo scisma della sua Chiesa e de' vescovi suoi suffraganei contro la sede apostolica, opponendosi al sentimento [1007] della Chiesa universale, coll'impugnare dei decreti del concilio quinto generale. Egli è chiamato patriarca da Paolo Diacono; ma non sappiam di certo che egli fosse il primo ad arrogarsi questo titolo grandioso. Certo si trova dai suoi successori usato un tal distintivo dagli altri arcivescovi d'Occidente. Ed è ben vero che, siccome osservammo nell'anno 532 [Cassiod., lib. 9, epist. 15.], Atalarico re dei Goti col nome di patriarchi disegnò i metropolitani, e si trovava dato questo titolo anche ad altri arcivescovi; ciò non ostante, è sembrato ad alcuni [Du-Chesne Scriptor. Rer. Franc., tom. 1, pag. 874.] che gli arcivescovi aquileiensi scismatici assumessero ambiziosamente questo titolo per mostrare un'indipendenza dai romani pontefici: titolo continuato dipoi per connivenza anche ne' successori cattolici, e non solo ne' vescovi di Aquileia oggidì abitanti in Udine, ma in quelli ancora di Grado, che furono una sezione della chiesa aquileiense, la dignità de' quali ultimi fu poi nel secolo decimoquinto, trasferita nei vescovi di Venezia. Ma intorno a questa disputa è da vedere quanto ha scritto il padre de Rubeis [De Rubeis, Dissert. et Monum. Ecclesiae Acquilejensis.] dell'ordine dei Predicatori. Ed ancor qui può parere che il cardinal Baronio, fuor di tempo, faccia da interprete dei giudizii di Dio, quasichè Dio in vendetta di questi scismatici (parla di Aquileia e di Milano) chiamasse in Italia la gente fiera de' Longobardi, e consumasse e divorasse le loro diocesi colle spade di que' Barbari crudeli, quando all'incontro Roma restò intatta dal furor di costoro. Ma per disgrazia tutto il contrario avvenne. Non si sa che i vescovi e popoli scismatici patissero tante calamità, quante ne immagina il padre degli Annali ecclesiastici. Anzi, siccome osservò il cardinal Noris [Noris, Dissertat. de Synodo V cap. 9, §. 3.], più orgogliosi divennero da lì innanzi, e si fortificarono maggiormente [1008] nel lor scisma i vescovi prevaricatori sottoposti al dominio longobardico, perchè non più temevano del braccio secolare di chi comandava in Roma. E, per lo contrario, furono messi a sacco tanti altri paesi d'Italia e disfatte tante città, ch'erano ubbidientissime al romano pontefice. Nè fu già presa Roma dai Longobardi, pure patì anche essa innumerabili insulti e danni da que' Barbari, come abbiamo da san Gregorio Magno e da altre memorie di questi tempi. Oltre di che lo stesso Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. seq. 571.] riconosce gl'imperadori d'Oriente, allora padroni di Roma, quibusvis Barbaris adversus Romanos truciores. Or veggasi, come ben cammini il volere con tanta facilità entrare ne' gabinetti di Dio. Abbiamo poi da Agnello Ravennate [Agnell., in Vita Petri Senioris, tom. 2 Rer. Italic.], che nell'anno V di Giustino secondo, principalmente spettante all'anno presente, fu spaventosamente afflitta l'Italia tutta dalla pestilenza dei buoi. Il che vien confermato da Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.], con aggiungnere che perì anche una gran quantità di persone da dissenterie e vaiuoli.


   
Anno di Cristo DLXXI. Indizione IV.
Giovanni III papa 12.
Giustino II imperadore 7.
Alboino re 3.

L'anno V dopo il consolato di Giustino Augusto.

Continuò ancora nell'anno presente il re Alboino l'assedio di Pavia. Potrebbe poi essere che circa questi tempi seguisse ciò che narra il suddetto Agnello [Agnell., ibidem.], con dire, che dopo avere i Longobardi fatte delle scorrerie in Toscana fino a Roma, diedero alle fiamme Pietra Pertusa, fortezza inespugnabile, in questi tempi, e nominata più volte da Procopio. Era [1009] situata questa presso il fiume Metauro di sotto da Urbino sopra un sasso scosceso. Aggiugne il medesimo autore, che impadronitisi i Barbari anche del Foro di Cornelio, città detta Flamina, la fortificarono a tutto lor potere. Questa dal castello ivi fabbricato, che per testimonianza di Paolo Diacono, fu appellato Imola, prese poi il nome che, ha tuttavia. Ma s'è così, par ben difficile a credere che i Longobardi si lasciassero addietro la città di Bologna senza impadronirsene. Alcuni scrittori moderni rapportano la suddetta edificazion d'Imola ai tempi di Clefo successor d'Alboino; ma neppur essi hanno pruove sicure di questo tempo. Non è improbabile (e pare che Leone Ostiense ve lo additi) che circa questi medesimi tempi i Longobardi, conquistato Benevento colla maggior parte di quel che ora si chiama regno di Napoli, quivi fondassero l'insigne e vasto ducato di Benevento, con esserne creato primo duca Zottone. Questa opinione piacque a Scipione Ammirato, e fu insinuata dal padre Antonio Caracciolo, fondandola eglino sull'aver detto Paolo Diacono, che questo Zottone tenne quel ducato per lo spazio di vent'anni, combinando poi tal asserzione colla cronologia de' susseguenti duchi. Nondimeno il vero è che neppur Paolo Diacono ben conobbe il principio del ducato beneventano. E però tanto meno è a noi permesso di scoprirlo con certezza, mancandoci tante storie ed aiuti, che pure restavano a' tempi di Paolo. Che se Camillo Pellegrino [Peregrinus, in Dissert. de origin. Ducat. Beneventani.] credette e volle far credere che i Longobardi, venuti in aiuto di Narsete contra de' Goti, avessero piantate le fondamenta di questo ducato, a me non sembra degna una tal opinione di quel cospicuo letterato, sì occhiuto in tanti altri punti di storia quale egli fu. Si sa che Narsete cacciò tosto fuori d'Italia gli ausiliarii Longobardi, perchè troppo maneschi e rapaci. Godeva in questi tempi una tollerabil pace [1010] l'imperio d'Oriente, benchè governato da Giustino, principe di poca levatura, e che sembra aver troppo negligentate le cose d'Italia. Per poca avvertenza di lui, o de' ministri suoi, come s'ha da Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 7.] e da Teofilatto [Theophilactus, lib. 3, cap. 8.] istorici, si ruppe la pace fra i Greci e i Persiani, con insorgere una guerra funestissima, la quale per venti anni durò, e riuscì un seminario di calamità per le provincie poste fra i due avversarii imperii.


   
Anno di Cristo DLXXII. Indizione V.
Giovanni III papa 13.
Giustino II imperadore 8.
Alboino re 4.

L'anno VI dopo il consolato di Giustino Augusto.

L'assediata città di Pavia si sosteneva tuttavia contra del furore de' Longobardi; ma potrebbe essere ch'ella si rendesse ai medesimi verso il fine del presente anno, perchè ignoriamo il tempo in cui fu dato principio a quell'assedio. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Langob., lib. 2, cap. 27.] attesta ch'esso durò per tre anni ed alquanti mesi. Se nel settembre dell'anno 569 avessero cominciato i Longobardi a stringerla, verisimil sarebbe la sua caduta nel cadere di questo anno. Sia ad altri lecito il differirla ai primi mesi del seguente. Abbiamo dunque dal suddetto Paolo che quella città, dopo sì lunga ed ostinata difesa, finalmente per mancanza di viveri aprì le porte ad Alboino. Nel voler egli entrare per la porta orientale di san Giovanni, sotto d'essa gli cadde il cavallo; nè questo si voleva rizzare, per quanto il re adoperasse gli sproni, e il suo cavallerizzo colla frusta il percotesse. Allora uno dei suoi uffiziali, persona timorata di Dio, gli disse: Ah, signore, vi sovvenga che giuramento abbiate fatto. Guastatelo, ed entrerete nella città. Questo povero popolo [1011] è popolo cristiano. Il giuramento, dianzi fatto da Alboino in collera, era di mettere a fil di spada tutti i Pavesi, perchè non s'erano in tanto tempo voluti mai rendere. Ritrattollo Alboino, ben conoscendo che all'adempimento d'esso non era tenuto; ed allora, balzando tosto in piedi da sè il destriero, entrò il re nella città senza far male ad alcuno, e andò a stanziare nel palazzo già fabbricato dal re Teoderico. Tornato intanto il cuore in corpo ai cittadini, concorsero tutti a ringraziarlo e a riconoscerlo per loro principe. Ancor qui merita d'esser osservata la clemenza d'Alboino, tuttochè barbaro. Se si avesse a prestar fede a Mario Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] poco avrebbe goduto il re Alboino della sua terrena felicità, scrivendo egli che nell'anno presente, correndo la indizione quinta, seguì la sua morte. Anche l'abbate Biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron.] sembra del medesimo parere. Ma il cardinal Baronio, anticipando ancora questo tempo, fa terminare la vita di Alboino nell'anno precedente 571, fondandosi sulle parole di Paolo, che scrive essere durato il regno d'Alboino per tre anni e sei mesi, e deducendo questi tre anni e mesi sei dall'ingresso de' Longobardi in Italia, cioè dall'anno 568. Perchè noi tutti ci troviamo qui nel buio, ed in ogni sentenza occorrono delle difficoltà; però è permesso a ciascun di seguitar l'opinione che gli sembra più verisimile. Quanto a me, rapporterò all'anno seguente la morte d'esso re, che certo non può essere accaduta nell'anno 571, come si figurò il Baronio, quantunque paia assistere alla di lui opinione il suddetto Mario, che posticipa d'un anno altri avvenimenti, d'allora, e sia per lui Agnello Ravennate, le cui parole riferirò fra poco.


[1012]

   
Anno di Cristo DLXXIII. Indizione VI.
Giovanni III papa 14.
Giustino II imperadore 9.
Clefo re 1.

L'anno VII dopo il consolato di Giustino Augusto.

Mette il cardinal Baronio nell'anno precedente la morte di papa Giovanni III, per avere anticipato di un anno la sua creazione. Pretende il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], a cui tengo dietro anch'io, ch'egli compiesse la carriera del suo pontificato e della sua vita nell'anno presente a dì 13 di luglio. Dopo la di lui morte restò vacante gran tempo la cattedra di san Pietro, nè in quest'anno fu eletto altro papa; o, se fu eletto, non venne consecrato: segno che Roma dovea trovarsi in grandi angustie e confusioni, a cagione de' Longobardi, i quali infestavano i suoi contorni, ed arrivarono talvolta fino alle porte di essa città. Ma troppo scarse son pervenute a noi le notizie degli avvenimenti funesti di questi tempi. Paolo Diacono ne seppe poco anch'egli: eppure non abbiam se non lui che ci abbia conservata qualche memoria d'allora, ma senza distinguere gli anni, di maniera che per istabilire il tempo preciso di que' pochi fatti che restano, bisogna camminare a tentone. Ora dico che verisimilmente nell'anno presente, oppure nel susseguente, succedette la morte del re Alboino. Non abbiamo altro lume per assegnar questo tempo, se non le poche parole di Paolo Diacono, che scrive aver egli regnato in Italia tre anni e sei mesi. Dopo aver noi veduto ch'egli solamente nel settembre dall'anno 569 entrò in Milano, e spese tre anni e qualche mese per ridurre alla sua ubbidienza Pavia, non resta luogo a credere ch'egli fosse levato di vita nell'anno 571, come s'avvisò di dire il cardinal Baronio, perchè sarebbe morto prima d'aver preso Pavia. Difficilmente [1013] ancora per la medesima ragione si può fissar la sua morte nell'anno 572. Mario Aventicense e l'abbate Biclariense, citati dal padre Pagi per tale opinione, han troppo slogate l'ossa in questi tempi. Di Mario lo confessa lo stesso Pagi. E il Biclariense, mettendo la morte di Cunimondo re dei Gepidi un anno prima della morte del re Alboino, fa conoscere quanto poco sia da fidarsi di lui ne' fatti de' Longobardi. Il Sigonio poi lo rapporta all'anno 574, e concorre nel medesimo parere il padre Pagi, con allegare Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] e Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.], che appunto ne parlano a quell'anno. Anzi dic'egli che niuno meglio d'esso Ermanno ha inteso quello che volle dir Paolo Diacono, notando all'anno 571 la resa di Pavia, ed aggiugnendo che Alboino sedem ibi regni statuens tres annos et sex menses in Italia regnavit. Ma questo non può sussistere, cioè che dalla presa di Pavia cominciasse l'epoca del regno di Alboino, essendo per le cose dette chiaro che non potè quella città venire alle mani de' Longobardi nell'anno 571, e su tal supposto sarebbe morto Alboino nel 575, o nel 576. Ermanno ci dà anche la morte di Sigeberto re de' Franchi in esso anno 574; eppure il padre Pagi, e la corrente de' letterati il fa morto nell'anno 575. Quanto allo storico Sigeberto, a cui dà tanta autorità il padre Pagi, che vuole s'abbiano a correggere gli errori di Paolo Diacono con quanto lasciò scritto esso Sigeberto, strana è questa pretensione. Nè Sigeberto nè Ermanno Contratto ebbero davanti agli occhi, in iscrivendo de' Longobardi, se non l'unico Paolo Diacono. E di sopra all'anno 551 vedemmo rapportata, con solenne errore, da esso Sigeberto la morte di Alboino re de' Longobardi all'anno 543.

Quanto a me dunque crederei più probabile (come ancora la credette il padre Bacchini) che seguisse la morte violenta del re Alboino nell'anno presente [1014] 573. Essendo in questi tempi Milano metropoli e capo della Liguria, da che riuscì ad Alboino di entrarne in possesso, verisimilmente fu egli allora acclamato re. E contando dal dì 4 di settembre dell'anno 569, in cui succedette la presa di Milano, tre anni e sei mesi ch'egli regnò, viene a cader la sua morte nell'anno presente 573, correndo tuttavia l'anno quarto del suo regno. Agnello Ravennate [Agnell., in Vita Petri Senioris, tom. 2 Rer. Italic.] scrive che Alboino fu levato dal mondo imperante Justino II, anno VI jussu uxoris suae Rosmundae IV kalendas julias. Secondo i conti nostri, l'anno sesto di Giustino II imperadore correva nell'anno 571. Però, a tenore delle ragioni addotte, non si può abbracciare la di lui opinione. Probabilmente quel testo è scorretto, e in vece di anno VI, Agnello avea scritto anno VIII. Notissima è la cagione e la maniera della morte di Alboino; tuttavia il corso della storia richiede che ancor io ne faccia menzione [Paulus Diaconus, de Gest. Lang., lib. 2, cap. 28.]. Trovavasi questo re vittorioso in Verona, dove un giorno fece un solenne banchetto ai suoi uffiziali. Aveva egli fatto legare in oro il cranio del nemico Cunimondo re dei Gepidi, da lui ucciso in battaglia, e in quello beveva: barbarica galanteria ed invenzione, di cui è buon testimonio Paolo Diacono, che giura d'aver veduto il medesimo teschio, mostratogli dal re Ratchis. Riscaldato il re barbaro dal vino, bestialmente invitò Rosmonda sua moglie a bere allegramente in quella funesta tazza, perchè berrebbe in compagnia di suo padre. Era ella, siccome altrove dicemmo, figliuola del medesimo estinto re Cunimondo. Fu questa una stoccata al cuore della misera principessa, laonde inviperita cominciò tosto a macchinarne la vendetta: e comunicato il suo pensiero ad Elmigiso, scudiere, e fratello di latte d'Alboino, fu consigliata ad adoperar Perideo, uomo di [1015] gran forza, per levar di vita il marito. Ma non bastando le parole ad indurre Perideo a tentare un tal misfatto, la regina prese un altro spediente. Sapeva ella qual amicizia passasse fra una sua cameriera e Perideo; perciò concertò con essa di prendere segretamente il di lei luogo, allorchè Perideo venisse a giacere con lei. Credendosi Perideo d'essersi trovato colla solita amica, restò ben sorpreso, quando la regina gli si scoprì qual era con soggiugnere, che dopo un tal delitto altro non restava, se non che o egli ammazzasse Alboino, od Alboino, avvisato del fatto, levasse lui di vita. Elesse Perideo il primo partito. Or mentre Alboino nel dì 28 di giugno era il dopo pranzo ito a dormire, Rosmonda, levate prima l'armi dalla camera e legata ben bene la spada del marito, acciocchè non potesse nè adoperarla nè sguainarla, e chiuse l'altre porte, affinchè non si sentisse il rumore, introdusse Perideo nella stanza. Al primo colpo svegliatosi Alboino corse alla spada; ma ritrovandola sequestrata prese uno scabello e fece quanta difesa potè; ma in fine alle tante ferite stramazzò privo di vita. Divolgatasi la di lui morte, infiniti furono i lamenti e i pianti de' Longobardi, veggendosi tolto un sì bellicoso principe, universalmente amato e riverito dalla sua nazione. Fu data sepoltura al suo corpo, e racconta Paolo Diacono che a' suoi dì, circa l'anno 770, Giselberto duca di Verona, fatto aprir quell'avello, ne estrasse la spada e gli ornamenti regali, con andarsi poi vanamente vantando d'aver veduto il re Alboino.

In ricompensa di così nera azione Rosmonda prese per marito Elmigiso, e tentò anche di farlo re. Ma insospettiti, o pure chiariti i Longobardi che dalla mano loro fosse venuto l'assassinio di Alboino, non solamente si opposero all'innalzamento di costui, ma ancora pensavano di levargli la vita. Allora Rosmonda segretamente mandò a Ravenna a pregare l'esarco Longino, che le inviasse [1016] una barca con uomini fedeli; il che egli puntualmente eseguì. In essa dunque di notte nel mese d'agosto entrata Rosmonda, se ne fuggì a Ravenna, conducendo seco il nuovo marito Elmigiso e tutto il tesoro dei re longobardi. Furono essi ben accolti da Longino. Ma non andò molto, che l'astuto Greco invaghitosi di Rosmonda, giovane avvenente, e più delle sue ricchezze, cominciò ad esortarla di voler prendere lui per marito, con liberarsi da Elmigiso, dandole ad intendere che così diverrebbe regina d'Italia. Non isparse in vano le sue parole. Aspettò l'ambiziosa Rosmonda che Elmigiso un dì stato al bagno, ne uscisse, e sotto pretesto di ristorarlo gli porse una tazza di vino, ma vino avvelenato. Appena ne ebbe egli tracannata la metà, che s'avvide di aver bevuta la morte. Però sfoderata la spada, e messale la punta alla gola, l'obbligò anch'essa a bere il resto: con che amendue caddero morti. È da maravigliarsi come Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 41.], scrittore di questi tempi, e poco fa eletto vescovo scriva che Rosmonda facesse morir di veleno il re marito, e che fuggendo essa con un suo famiglio amendue furono presi ed uccisi. Merita qui ben più fede Paolo Diacono, che si servì delle storie di Secondo vescovo di Trento. Longino inviò poscia a Costantinopoli all'imperadore il tesoro de' Longobardi, insieme con Albsuinda figliuola del re Alboino, che Rosmonda sua madre avea menata con seco a Ravenna. Ne ebbe non poco piacere l'imperadore, e, per attestato di Agnello [Agnell., in Vita Petri Senioris, tom. 2 Rer. Italic.], accrebbe all'esarco l'autorità e i salarii. Paolo diacono scrive che quelle ricchezze furono mandate a Tiberio Augusto. Ma l'ordine dei tempi richiede che fossero inviate all'imperadore Giustino; e così in fatti lasciò scritto il suddetto Agnello Ravennate, che pochi anni dopo la morte di Paolo [1017] Diacono compilò le vite degli arcivescovi di Ravenna, che in questo fatto parla solo d'Elmigiso, e nulla dice di Perideo. Raunandosi più probabilmente nel mese d'agosto i principali capi della nazione longobarda in Pavia, e quivi elessero per loro re Clefo, ossia Clefone, uno de' più nobili fra loro. Non si sa ch'egli fosse coronato. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 55.] scrive che nella funzione di creare i re longobardi si presentava un'asta al re nuovo, ma senza far parola di corona o di diadema. Questo re ebbe per moglie Massana; e, a riserva delle sue crudeltà accennate in due parole dal sudetto storico, niuna altra impresa di lui è giunta a nostra notizia.


   
Anno di Cristo DLXXIV. Indizione VII.
Benedetto I papa 1.
Giustino II imperadore 10.
Tiberio Costantino cesare 1.
Clefo re 2.

L'anno VIII dopo il consolato di Giustino Augusto.

Dopo essere stato per dieci mesi e tre giorni vacante il pontificato romano, per quanto ne scrive Anastasio bibliotecario [Anast. Biblioth., in Benedicto I.], fu finalmente consecrato papa Benedetto, primo di questo nome, cognominato dai Greci Bonoso. Crede il padre Pagi che ciò seguisse nel dì 3 di giugno. Dal cardinal Baronio è riferito all'anno precedente l'ingresso di questo papa nella sedia di san Pietro. Ad altro poi non si può attribuire sì gran dilazione in dare a Roma un nuovo pontefice, se non alle fiere turbolenze di questi tempi per l'invasione de' Longobardi, e all'abuso introdotto di non poter consacrare il papa eletto senza l'approvazione degli imperadori, dimoranti allora in Costantinopoli. In quest'anno appunto, per attestato di Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 13.], di Teofane [Theoph., in Chronogr.] e [1018] della Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrinum.], Giustino Augusto talmente si conturbò all'udire i progressi de' Persiani, che gli aveano prese le città di Apamea e Daras, che gli diede alquanto volta il cervello. Riavutosi dopo qualche tempo, e trovandosi malconcio di sanità, così persuaso da Sofia Augusta sua moglie, volle provvedersi di chi l'aiutasse nel governo. E fu questo Tiberio, nato nella Tracia, uomo di bellissimo aspetto, di alta statura, ma, quel che più importa, dotato di rare virtù. Giustino gli diede il titolo di Cesare, e in una maniera (dice Evagrio) che si tirò dietro l'ammirazione d'ognuno. Congregati tutti i magistrati e le persone di corte davanti al palazzo imperiale, dove intervenne ancora Giovanni patriarca col suo clero, Giustino, dappoichè ebbe vestito Tiberio colla tonaca cesarea e col manto di porpora, ad alta voce gli disse: Guarda, Tiberio, di non lasciarti ingannare dalla magnificenza di questa veste, nè dalla pompa delle cose visibili. Io scioccamente incantato da questo splendore, mi son renduto degno dell'ultimo supplizio. Tocca a te a correggere i miei falli, servendoti specialmente della mansuetudine e benignità nel governo de' popoli. Poi mostrandogli col dito i magistrati, soggiunse: Guardati dal creder loro, perchè essi mi hanno condotto nello stato che vedi. Aggiunse altre simili parole che trassero le lagrime dagli occhi di tutti. Teofane scrive aver Giustino dati questi documenti a Tiberio, non allorchè il dichiarò Cesare (il che si crede fatto nell'anno presente), ma sì bene allorchè il creò Augusto e collega nell'imperio. E forse che Evagrio non è discorde da Teofane. Intanto il re Clefo regnava sopra i Longobardi. Abbiamo da Paolo Diacono che costui specialmente se la prese contro i Romani potenti, cioè contra gli antichi abitatori dell'Italia, sudditi del romano imperio, con ucciderne molti, e mandarne molti altri in esilio fuori di [1019] Italia. Non ispiega lo storico s'egli esercitasse questa crudeltà solamente verso i potenti delle città che andava conquistando, oppur se anco verso gli altri nobili delle città già conquistate da Alboino. Sappiamo da Gregorio Turonense, storico allora vivente, che i Longobardi entrati in Italia, specialmente nei primi sette anni, scorrendola, con spogliar le chiese ed uccidere i sacerdoti, la ridussero in loro potere. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 2, cap. 32.], che, tessendo la storia de' Longobardi, chiaramente si protesta d'essersi servito di quella de' Franchi, scritta da esso Turonense, cedette che questa crudeltà e la conquista della maggior parte d'Italia seguissero nel settimo anno dalla venuta d'Alboino in Italia. E ciò notando egli dopo aver narrata la morte del re Clefo, v'ha alcuno che si è servito di quel passo di Paolo per istabilire la cronologia delle azioni de' Longobardi. Ma, per vero dire, sono assai chiare le parole di Gregorio Turonense: oppur Paolo non ne intese bene il senso; laonde indarno si può far qui fondamento per dare un buon ordine alle azioni de' Longobardi. Possiamo bensì dedurne che nello spazio de' primi sette anni riuscisse ai Longobardi di occupare la maggior parte dell'Italia, e che, per conseguente stendessero le lor conquiste in quelle contrade ancora che oggidì formano il regno di Napoli.


   
Anno di Cristo DLXXV. Indizione VIII.
Benedetto I papa 2.
Giustino II imperadore 11.
Tiberio Costantino cesare 2.

L'anno IX dopo il consolato di Giustino Augusto.

Secondochè scrive Paolo Diacono, non più che un anno e sei mesi regnò Clefo re dei Longobardi; e però o sul fine del precedente o pure sul principio del presente è da credere ch'egli fosse [1020] tolto dal mondo. Principe a noi solamente noto per la sua crudeltà, e non indegno della morte che gli toccò [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard. lib. 2, cap. 31 et seq.]. Fu egli ucciso da un suo paggio o famiglio, senza che a nostra notizia sia giunta la cagione o la maniera di quest'altro regicidio. Per dieci anni dipoi restò senza re il regno de' Longobardi, non so se perchè discordassero nell'elezione i primati, ovvero perchè per allora amassero di non avere un capo che regolasse il corpo loro, o pure perchè Autari figliuolo del re Clefo paresse loro, a cagion della sua età, non per anche atto al governo dei popoli, siccome poi fu creduto da lì a dieci anni. Sappiamo bensì da Paolo Diacono che in questo decennio la nazion longobarda fu governata da trentasei duchi, formando essi una repubblica, concordemente regolata da tante teste, ma comandando cadaun di essi come sovrano a quella città che gli era stata data in governo, e coll'indipendenza dagli altri. Zabano signoreggiava in Pavia, Alboino in Milano, Vallari in Bergamo, Alachiso in Brescia, Evino in Trento, Gisolfo in Cividale di Friuli, e così altri in altre città. Non si può ben decidere se i ducati del Friuli e di Spoleti fossero allora formati con quella ampiezza che certamente ebbero dipoi; nè se fosse per anche nato il ducato insigne di Benevento. Contuttociò fondatamente si può credere che si fossero già introdotti alcuni duchi, i quali comandassero a più d'una città. Parleremo tra poco di Faroaldo primo duca di Spoleti. Per altro in somma confusione era per questi tempi lo stato dell'Italia. Restavano tuttavia in potere dell'imperadore Ravenna con alcune città circonvicine; Roma col suo ducato, che abbracciava altre città: Padova, Monselice e Cremona; e nella Liguria Genova con altri luoghi marittimi. Ritenevano ancora gli uffiziali cesarei alcuni luoghi nell'Alpi Cozzie, come Susa ed altri siti. Ed è [1021] fuor di dubbio che Napoli con altre città marittime seguitava ad esser fedele all'imperadore. Possedevano all'incontro i Longobardi le provincie del Friuli e della Venezia, la Liguria quasi tutta la Toscana e l'Umbria di qua e di là dall'Apennino, e penetravano nella Puglia e Campania. Sicchè la misera Italia era divisa e lacerata in varie parti, e per le offese e difese piena di guai. Attesta ancora Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 2, cap. 32.] che sotto questi duchi per la loro ingordigia di robe furono uccisi molti nobili romani, cioè italiani, e che i popoli furono tassati a pagar ogni anno per tributo la terza parte delle rendite delle lor terre ai Longobardi. Io so che v'ha taluno, a cui per cagion di questo tributo è sembrata ben deplorabile la condizion dell'Italia dopo la venuta de' Longobardi; quasi che non vi abbia de' popoli anche oggidì in Italia che, computati gli aggravii tutti pagano al principe loro eguali, anzi più gravi tributi. Oltre di che, chi esalta cotanto il governo dei Romani antichi in paragone di questi Barbari, dovrebbe ricordarsi quanti terreni si contribuissero una volta per fondar le colonie romane, e quanto maggior copia parimenti di terreni si sia in que' tempi tolta alle città per premiare i soldati, e a quanti aggravii fossero anche sotto i Romani sottoposti i popoli. Ora scrivendo Paolo Diacono che per hos Langobardorum duces, septimo anno ab adventu Alboini, Italia in maxima parte capta est; e venendo a cadere nell'anno presente il settimo dopo la venuta d'Alboino, pare che il comando sovrano d'essi duchi avesse principio di qui.

Ho differito fin qui di parlare delle irruzioni fatte dai Longobardi nelle Gallie, perchè Gregorio Turonense, che ce ne conservò le notizie, e da cui le prese anche Paolo Diacono, secondo il suo solito, non ne indica gli anni. Mario [1022] Aventicense [Marius Aventicensis, in Chron.] ne riferisce una all'anno 568, cioè a quel medesimo, in cui Alboino entrò colla sua nazione in Italia; il che difficilmente si può credere. Almen pare che le medesime succedessero parte sotto Alboino e parte sotto il regno di Clefo, vivente ancora Sigeberto re dei Franchi, il quale nell'anno presente tolto fu dal mondo. Raccogliesi dunque da esso Turonense (copiato dipoi da Paolo Diacono) che [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 6. Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 1.] santo Ospizio, romito chiuso appresso Nizza di Provenza, predisse la venuta de' Longobardi nelle Gallie, e che devasterebbono sette città. Giunsero questi Barbari in quelle parti, e veduto il santo romito al fenestrino della torre, dove era chiuso, nè trovando porta alcuna, salirono sul tetto, e tolto via le tegole, videro il servo di Dio cinto di catene e vestito di cilicio. Il riputarono malfattore, ed egli per mezzo d'un interprete interrogato, rispose d'esser tale. Allora uno di quei Longobardi, sfoderata le spada, volle ucciderlo, ma se gl'intirizzì il braccio: dal che intesero ch'egli era un santo penitente. Entrarono dunque, non so se questi, o pur altri nelle Gallie [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 42.], e si diedero a saccheggiare il paese della Borgogna, che allora si stendeva pel Delfinato e per la Savoia. Arnato patrizio de' Franchi, cioè ornato della più illustre dignità che allora conferissero gli imperadori e i re, accorse contra di costoro con quante forze potè; ma, venuto a battaglia con essi, vi lasciò la vita e la sua armata prese la fuga. Tanta fu la strage fatta de' Borgognoni in quella infelice giornata, che non si potè ben raccogliere il numero dei morti. Se ne tornarono appresso in Italia i Longobardi tutti carichi di bottino. Era tuttavia vivo il re Alboino. Vollero poi nell'anno appresso visitar di nuovo le Gallie, credendo di avere sì buon mercato, [1023] come era avvenuto la prima volta; e pervennero fin verso la città d'Ambrun. Ma ebbero all'incontro Eunio, soprannominato Mummolo, patrizio generale del re Guntranno, uomo di gran valore e di rara accortezza militare. Lasciò egli inoltrare i Longobardi per quelle montagne, e fatte tagliar le strade e baricare i passi, gl'imbrogliò in maniera, che molti ne uccise e fece gli altri prigioni, a riserva di pochi che, salvatisi colla fuga, poterono portarne la nuova in Italia. Come cosa scandalosa osservò il Turonense che intervennero a questa impresa contra de' Longobardi Salonio vescovo di Ambrun, e Segittario vescovo di Gap, amendue fratelli, guerniti di tutt'armi, e, quel ch'è peggio, di lor mano ancora uccisero alcuni di quei Barbari. Furono questi vescovi condannati dipoi nel concilio di Lione, e finalmente deposti in quello di Scialon; ma pur troppo servirono di esempio ad altri vescovi nell'avvenire per comparir nelle armate vestiti di celata e di usbergo, per far da bravi nelle battaglie, senza rispettare i sacri canoni, dai quali son detestati e puniti somiglianti eccessi.

Venne ancor voglia ai Sassoni, già calati in Italia con Alboino, di cercare la lor buona ventura nelle Gallie, ed entrati nella Provenza, si piantarono nel territorio di Riez, e di là facendo scorrerie, mettevano a sacco tutte le ville delle città circonvicine. Non fu lento a farsene rendere conto il generale de' Franchi Mummolo, che trovandoli sbandati, ne uccise alcune migliaia, a più ne avrebbe tagliato a pezzi, se non sopraggiungeva la notte. La mattina seguente raggruppatisi i restanti Sassoni, si disposero ad un nuovo cimento; ma andando innanzi e indietro dei messi, si venne ad un aggiustamento, per cui essi regalarono Mummolo, rilasciarono tutta la preda coi prigioni, e promisero di tornare all'ubbidienza del re Sigeberto. Ed, in fatti, venuti che furono in Italia, raccolsero le lor mogli e figliuoli, e se ne ritornarono [1024] nella Gallia, e poscia in Sassonia, dov'ebbero di male percosse dagli Svevi, che s'erano annidati nella patria di essi Sassoni, nè se ne voleano partire. Voce costante fu che costoro abbandonassero l'Italia, perchè non piacea loro di star sotto i Longobardi, che li trattavano da sudditi. Racconta parimente Mario Aventicense, che dopo essere stato ucciso il re Clefo, nel medesimo anno (e però nel presente) i Longobardi di nuovo tornarono nella Valle dei Vallesi; presero le Chiuse, ed abitarono molti giorni nel celebre monistero di Agauno. Aggiugne che vennero ad un conflitto coi Franchi, e quasi tutti rimasero morti sul campo. Ma se in questi anni era l'Italia immersa nelle miserie per cagione de' Longobardi, non godea già maggior felicità la Gallia stessa [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 44.]. Le guerre civili, insorte fra i due re Chilperico e Sigeberto, si riaccesero più volte. Seguirono battaglie, stragi, saccheggi e incendii, colla desolazion delle campagne, delle chiese e de' monisteri, in guisa che Gregorio Turonense ebbe a chiamar più terribil quella persecuzione, che le sofferte ai tempi di Diocleziano. Sigeberto infine più potente dell'altro, dopo avergli prese varie città, era alla vigilia di spogliarlo di tutto, quando da Fredegonda moglie del re Chilperico, donna, a cui nulla costavano le iniquità, furono inviati due animosi sicarii, che, trovata maniera d'essere introdotti all'udienza di esso re Sigeberto, gli cacciarono nei fianchi due coltelli avvelenati, da' quali colpi egli tra poco morì. Credesi che a quest'anno appartenga il prospero successo delle armi Cesaree in Oriente contro Cosroe re di Persia. Costui avendo che fare con Giustino debolissimo imperadore, sempre più insuperbiva e faceva dei nuovi acquisti. Ma da che Tiberio fu creato Cesare, mutarono faccia gli affari [Evagr., lib. 5, cap. 14.]. Sapendo egli usar meglio del danaro che dianzi si gettava in ispese [1025] vanissime, mise in piedi una poderosa armata di circa centocinquantamila soldati scelti, e ne diede il comando a Giustiniano pronipote di Giustiniano Augusto, e figliuolo di Germano patrizio. Questi valorosamente ito a fronte di Cosroe, gli diede di molte busse, il costrinse a ritirarsi in Persia, e nella Persia entrò anch'egli, da dove riportò un ricco bottino ed una gran moltitudine di prigioni. Circa questi tempi ancora, se si vuol credere al padre Mabillon [Mabillon, Annal. Benedictin.], san Gregorio il grande, abbandonato il secolo e la pretura di Roma, abbracciò la vita monastica nel monistero romano di san Andrea sotto la regola di san Benedetto.


   
Anno di Cristo DLXXVI. Indizione IX.
Benedetto I papa 3.
Giustino II imperadore 12.
Tiberio Costantino cesare 3.

L'anno X dopo il consolato di Giustino Augusto.

Può non inverisimilmente riferirsi all'anno presente ciò che vien raccontato da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 4, cap. 45.] e da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gestis Lang., lib. 3, cap. 8.]: cioè che tre duchi dei Longobardi, Amone, Zabane e Rodano, il secondo dei quali era duca di Pavia, trovando gusto nel mestiere del bottinare, si avvisarono di far buon colpo con passare anch'essi nella Gallia. Amone per la via di Ambrun arrivò fino a Macovilla, luogo donato dal re Guntranno a Mummolo patrizio suo generale, e quivi mise il campo. Diede il sacco a tutta la provincia d'Arles e alle città circonvicine. Arrivato anche in vicinanza di Marsilia, condusse via quanti armenti e persone potè, e minacciò di mettere l'assedio alla città d'Aix, che con un regalo di danari se ne liberò. Zabane, tenuta la via della città di Die, [1026] si portò sotto Valenza, ed assediolla. Rodano anch'egli fece altrettanto a quella di Granoble. A questo avviso il valoroso generale de' Franchi Mummolo uscì in campagna coll'esercito suo, e passato quasi miracolosamente il fiume Isere, perchè un animale in passandolo insegnò alla sua gente il guado, arrivò addosso a Rodano, che assediava Granoble. Messisi in battaglia i Longobardi, combatterono bensì con tutto coraggio, ma in fine restarono sconfitti, e Rodano ferito da un colpo di lancia, appena con cinquecento de' suoi salvatosi, portò la nuova delle sue disgrazie a Zabane che assediava Valenza. Allora amendue dato un saccheggio al paese, sen vennero ad Ambrun, dove di nuovo si presentò lor all'incontro Mummolo con uno innumerabil esercito, e diede loro un'altra rotta, di maniera che questi due duchi con poca gente presero la via d'Italia. Arrivati a Susa, furono aspramente accolti dagli abitanti del paese; perchè quella città si teneva tuttavia alla divozion dell'imperadore, e v'era dentro Sisinnio, generale di Giustino Augusto. Dal che s'intende la balordaggine dei Longobardi, i quali in vece di attendere a sbrigarsi dei nemici che restavano loro in Italia, e confinavan con gli stati da loro presi, piuttosto vollero tentar più d'una volta di far delle conquiste nella Gallia. Balordi ancora, perchè con dividersi in tre corpi facilitarono ai Borgognoni la maniera di vincerli tutti. Ora Sisinnio accortamente fece cader nelle mani di Zabane una lettera ch'egli finse scritta a sè da Mummolo, in cui gli dicea che fra poco verrebbe a trovarlo. Altro non vi volle, perchè Zabane s'affrettasse a levarsi da quelle contrade. Amone dall'altro canto avendo inteso le male giornate de' suoi compagni, raccolto tutto il suo bottino, s'incamminò anch'egli alla volta d'Italia. Ma ritrovata grossa neve nell'Alpi, bisognò lasciar quivi la preda, e aver per grazia di poter mettere in salvo le persone. [1027] Questi fatti de' Longobardi son da me riferiti al presente anno, non già con sicura cronologia, perchè sì Gregorio Turonense, come Paolo Diacono, che qui il seguita, raccontano gli avvenimenti di questi tempi senza ordine, ora anticipando, ora posponendo le cose. Ma poco in fine importa in fatti tali lo stabilir l'anno preciso in cui accaddero. Certo non si può aderire a Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], che riferisce agli anni 581 e 582 le incursioni dei Longobardi e il passaggio dei Sassoni nella Gallia, benchè il padre Pagi il tenga per uno scrittore esatto in distinguere i tempi delle imprese dei Longobardi. Nè si dee tacere avere scritto Fredegario [Fredegarius, in Chron., cap. 45.] che i duchi longobardi venuti ad un aggiustamento con Guntranno re della Borgogna, in emendazione delle insolenze da lor fatte nel regno di lui, gli cederono le due città d'Aosta e Susa nell'Alpi del Piemonte, che da lì innanzi furono incorporate nel regno stesso della Borgogna. Come si accordi questo racconto con ciò che poco fa abbiam detto di Susa, io nol so dire. Aggiugne inoltre ch'essi duchi inviarono degli ambasciatori ai re Guntranno e Childeberto per ottenere il loro patrocinio, e si obbligarono di pagar loro da lì innanzi dodicimila soldi d'oro ogni anno, e che cederanno anche la valle di Ametegi ad esso re Guntranno. Noi non possiam chiarire se tutte queste notizie contengano verità. Bensì fra poco vedremo se i re franchi avessero sì o no la protezione de' Longobardi.


   
Anno di Cristo DLXXVII. Indizione X.
Benedetto I papa 4.
Giustino II imperadore 13.
Tiberio Costantino cesare 4.

L'anno XI dopo il consolato di Giustino Augusto.

Potrebbe essere che in quest'anno fosse succeduto un fatto, di cui ci conservò [1028] la memoria Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 9.]. Calarono i Franchi nel territorio di Trento, posseduto allora dai Longobardi, e presero il castello d'Anagni. Crede il Cluverio [Cluverius, Ital. lib. 1, cap. 15.] che questo oggidì sia il castello appellato Nan nella valle di Non, presso il fiume Noce che va a scaricarsi nell'Adige. Ciò udito, accorse per ricuperarlo Ragilone conte dei Longobardi di Lagare; ma non essendogli riuscito, sfogò la sua collera contro il paese con saccheggiarlo. Tornandosene poi indietro col bottino, fu sorpreso nel cammino da Crannichi capitano de' Franchi, e tagliato a pezzi con molti de' suoi. Se vogliam credere al suddetto Cluverio, quel conte di Lagare comandava nella città di Garda nel lago Benaco, oggidì Lago di Garda; e il padre don Gaspero Beretti benedettino [Berett., Dissertat. Chronogr. tom. 10. Rer. Ital.] pretende che Paolo scrivesse Comes Langobardorum, de Lacu Gardae, e non già de Lagare. È lodevole la conghiettura, restando solamente da cercare perchè non il duca di Trento, a cui pare che fosse sottoposto quel castello, ma il conte di Garda, territorio diverso, si sbracciasse per ritorlo dalle mani dei Franchi. Come poi i Franchi sì lontani dal Trentino venissero ad impadronirsi di quel sito, s'intenderà tosto al ricordarsi che allora il dominio de' Franchi per conto del regno d'Austrasia abbracciava le Rezie, cioè i Grigioni, l'Alemagna, ossia la Svevia, e l'Elvezia, cioè gli Svizzeri; e però probabilmente anche il Tirolo. Per essere questi diversi popoli allora sudditi dei re franchi, perciò talvolta dagli scrittori sono appellati Franchi. Non andò poi molto che quel Crannichi capitano franzese, di cui pur ora parlammo, venne a dare il guasto al Trentino. Ma nel tornarsene addietro, raggiunto da Evino duca di Trento in un luogo tuttavia appellato Salorno sulla riva dell'Adige, quivi lasciò la vita [1029] co' suoi seguaci, ed insieme tutto il bottino. In tal congiuntura Evino cacciò i Franchi da tutto il suo territorio. Questo Evino duca di Trento (seguita poi a scrivere Paolo Diacono) prese per moglie una figliuola di Garibaldo duca, oppure, come egli il chiama, re della Baviera. Fu, siccome accennai all'anno 558, questo Garibaldo il primo duca di essa Baviera, il quale fondatamente sia da noi conosciuto. L'Aventino [Aventinus, Annal. Bajor.] si figura che egli fosse anche il primo a non voler riconoscere la sovranità del re dei Franchi, regnante nell'Austrasia, e prendesse il titolo di re. Di ciò non abbiamo sicure memorie. Sappiamo bensì che i duchi della Baviera (provincia allora assai più vasta che negli ultimi secoli) affrettarono il nome di re, come eziandio fecero nelle Gallie i duchi della minor Bretagna. Intanto Paolo Diacono tenne conto di queste picciole notizie riguardanti il ducato di Trento, perchè avea davanti agli occhi la storia di Secondo vescovo di Trento, vivuto in questi tempi, che ne dovette far menzione. Ma a notizia di lui non dovettero pervenire tante altre azioni più importanti e strepitose de' Longobardi, e di questi medesimi tempi, che restano seppellite nell'obblio. Giovanni abbate biclariense [Biclariensis, in Chron. apud Canis.] all'anno che precedette la morte di Giustino imperadore, cioè nel presente, racconta che Bandario, ossia Baudario, o Baduario, genero d'esso Augusto, fu sconfitto in una battaglia dai Longobardi, e non molto dappoi, o per qualche ferita, o per passione d'animo, diede fine ai suoi giorni. Di questa vittoria dei Longobardi, che probabilmente fu ben considerabile, stante il personaggio cospicuo che comandava l'armata de' Greci, nulla ne seppe Paolo Diacono, e niuna altra circostanza di essa ci rimane presso gli altri scrittori.


[1030]

   
Anno di Cristo DLXXVIII. Indizione XI.
Pelagio II papa 1.
Tiberio Costantino imp. 5 e 1.

L'anno XII dopo il consolato di Giustino Augusto.

Terminò in quest'anno la carriera de' suoi giorni Giustino II, imperadore, nel dì 5 di ottobre, per quanto abbiamo dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alex.]. Strano è che il cardinal Baronio differisca la di lui morte sino all'anno 582. Il Sigonio il suppone mancato di vita due anni prima di questo, cioè nell'anno 576. E v'ha delle contraddizioni intorno a questo punto di storia infino fra gli storici antichi. Il più sicuro è attenersi qui alla sentenza e alle ragioni del cardinal Noris [Noris, de Synodo V, §. 3.] e del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], che al presente anno riferiscono la sua morte. Era egli oramai dagl'inveterati suoi mali condotto ad un pessimo stato di salute, e sentendosi già vicino a sloggiare da questo mondo, nel dì 26 di settembre avea dichiarato e fatto coronare imperadore Tiberio, a cui, come dicemmo, avea conferito negli anni avanti il titolo e l'autorità di Cesare. Teofane [Theoph., in Chronogr.] scrive che in tal occasione Giustino diede dei bellissimi avvertimenti a Tiberio per ben governare sè stesso e gli altri; e son gli stessi, ma più diffusi, che Evagrio ci narrò di sopra, allorchè Giustino il proclamò Cesare. Vedi, gli disse, questo imperiale e questa dignità? Non io, ma Dio te gli ha donati. Onora tua madre (cioè Sofia Augusta), che finora è stata tua padrona. Ricordati che prima le eri servo, ora le sei figlio. Non rallegrarti mai d'avere sparso il sangue altrui, nè rendi male per male. Guardati dall'imitar me in prendere delle nimicizie. Come uomo in ciò io ho peccato, e come peccatore ho portata la pena dei miei trascorsi. Coloro però che mi han fatto commettere [1031] questi mali, meco compariranno davanti al tribunale di Dio. Non t'insuperbire, come io una volta faceva, di questo abito. Abbi tanta cura de' tuoi sudditi, quanta n'hai di te stesso. E ricordati bene chi tu fosti prima, e chi sei di presente. Tutti questi (accennando l'assemblea) ti sono ben servi, ma trattali da figliuoli. Ti sieno a cuore le milizie, ma non le amar troppo: so per pruova quel che dico. Lascia che ognun goda dei proprii beni, e verso i poveri fatti conoscere liberale. Sarebbe desiderabile che a lettere maiuscole stessero scritti questi documenti ne' gabinetti di tutti i regnanti. Dappoichè il patriarca ebbe recitate le orazioni, e tutti ebbero intonato l'Amen, Tiberio nuovo Augusto s'inginocchiò a' suoi piedi, ed allora Giustino gli disse queste pesantissime parole: Io seguiterò a vivere, se tu vorrai; ed anche, se vorrai, son morto. Dio ti metta in mente ciò che io ho tralasciato di dirti. Tiberio dipoi sparse denari nel popolo, e fece altre solennità usate nella creazion degl'imperadori. E mentre si celebravano i giuochi circensi, le fazioni gridarono di voler vedere la nuova imperadrice, e proclamarono Anastasia, che si scoprì moglie d'esso Tiberio con alto dispiacere di Sofia, la quale si pensava di sposarlo dopo la morte di Giustino. Per altro Teofane imbroglia non poco la serie de fatti di Tiberio. Fu di parere il cardinal Baronio che nell'anno precedente accadesse la morte di papa Benedetto I di questo nome, perchè anticipò di un anno la creazione di lui. L'abbate Biclariense anch'egli la mette un anno prima di quella di Giustino Augusto. Ma è senza fallo da preferire la sentenza del padre Pagi e di monsignor Francesco Bianchini [Blanchinius, ad Vit. Anast. Biblioth.], che per varie ragioni uniscono coll'anno presente la morte di esso papa, e la creazione di papa Pelagio II. Quegli mancò di vita nel dì 30 di luglio, e questi fu ordinato papa nel dì 30 di [1032] novembre, se crediamo ad esso padre Pagi, che ciò discorda da Anastasio.

È degno di considerazione che esso papa Pelagio, per attestato del medesimo Anastasio [Anastas., in Vita Pelagii II.], fu consecrato senza il comandamento del principe. Vuol dire che non s'aspettò a consecrarlo che fosse venuto da Costantinopoli l'assenso e la licenza dell'imperadore. E questo perchè in quel tempo Roma era assediata dai Longobardi, ed essi facevano un gran guasto per tutta l'Italia. Avea dianzi detto lo stesso Anastasio, che vivente ancora papa Benedetto i suddetti Longobardi scorrean per tutta l'Italia; e che a questi fieri malanni portati dalla guerra si aggiunse anche una terribile carestia, a cagione della quale molte fortezze si renderono ad essi Longobardi, per poter avere di che cibarsi. Però conosciuto da Giustino Augusto il pericolo in cui si trovava Roma per cagione della fame e della mortalità che l'affliggeva, spedì ordini in Egitto, affinchè conducessero colà molte navi cariche di grani, che bastarono appunto a rincorare i cittadini, e a renderli animosi per sostenere gl'insulti de' Longobardi. Nell'edizione d'Ermanno Contratto fatta dal Canisio, questo fatto vien riferito all'anno 581. Ora in mezzo a queste afflizioni terminò la sua vita papa Benedetto I; e troppo importando alla salute di Roma l'avere un papa in mezzo a tante turbolenze, il clero e il popolo si credettero per questa volta dispensati dall'aspettare gli oracoli della corte imperiale per consecrar papa il nuovo eletto, cioè Pelagio II, romano di patria. Siccome osservò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad ann. 573.], le crudeltà usate verso i popoli d'Italia dai Longobardi, non solamente procederono dall'esser eglino barbari di nazione e gente feroce, ma ancora dalla diversità della religione. Certo è che la maggior parte d'essi professava la religione cristiana, ma non già la cattolica, seguendo essi, al pari dei Goti, de' Vandali e degli Svevi, la setta [1033] d'Ario. Oltre a ciò, alcuni fra essi e molti degli ausilarii, che con esso loro erano calati in Italia, tenevano tuttavia la credenza e i riti de' Gentili. Perciò non è da stupire se costoro infierissero anche contra delle chiese e de' sacerdoti cattolici. Nondimeno le principali calamità dell'Italia in questi tempi provennero dalla guerra, madre d'incredibili guai, massimamente ne' secoli d'allora, e dalla resistenza che fecero le città e i luoghi forti degl'Italiani, i quali non amavano di passar sotto la signoria di questi barbari forestieri. E in cotali disavventure principalmente restò immersa Roma colle città e paesi circonvicini, i quali, per quanto poterono, stettero costanti nella divozione del romano imperio. Descrive san Gregorio Magno [Greg. Magnus, Dialog., lib. 3, cap. 38.] papa, parlando di cose de' suoi dì, lo stato miserabile di quelle contrade, con dire, che dopo essersi veduti varii segni che predicevano le sventure d'Italia, vennero i Longobardi, i quali fecero man bassa sopra il genere umano, già cresciuto in questa terra a guisa di campi ricchi di spesse spiche. Già si veggono spopolate città, fortezze abbattute, chiese incendiate, monasteri d'uomini e di donne abbattuti, intere campagne abbandonate dagli agricoltori, di maniera che la terra resta in solitudine, nè v'ha chi la abiti, ed ora osserviamo occupati dalle fiere tanti luoghi che prima contenevano una copiosa moltitudine di persone. Questa è la pittura che fa de' suoi tempi, e massimamente dei contorni di Roma, il santo pontefice. La medesima si mira ricopiata e ripetuta da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 2, cap. 32.], il quale, ciò non ostante, osserva che dai paesi involti in tante miserie conviene eccettuare quelli che Alboino avea preso, come la Venezia, la Liguria, la Toscana, l'Umbria, ed altre simili provincie. In queste, siccome ubbidienti e divenute sue proprie, non esercitavano i Longobardi le poco fa narrate crudeltà, ma [1034] sì ben sopra l'altre che faceano contrasto alla lor potenza e voglia di dominare; il che sempre più fa conoscere se il cardinal Baronio fosse buon interprete dei giudizii di Dio all'anno 570.

Benchè gli Estratti di Menandro Protettore sieno squarci senz'ordine di anni, l'uno dietro all'altro infilzati, pure sembra che a questi tempi possa appartener un fatto da lui raccontato [Menander Protector, tom. 1, Histor. Byz., pag. 124.]: cioè che nell'anno quarto dell'imperio di Tiberio Costantino (verisimilmente vuol dire del suo imperio cesareo, cominciato sul fine dell'anno 574,) circa centomila Sclavi fecero un'irruzione nella Tracia. Dopo le quali parole seguita a darci una notizia, che nondimeno è staccata dalla precedente: cioè che Tiberio Costantino. Cesare mandò in Italia molto oro usque ad centum triginta pondo, come tradusse il Cantoclaro; il che se per avventura significasse solamente cento trenta libbre, sarebbe una bagattella. Secondo me, il testo greco ha fino a trenta centinaja, cioè tremila libbre d'oro, che Panfronio patrizio avea portato da Roma all'imperadore. Costui era ito alla corte di Costantinopoli per trovar maniera da poter liberare l'Italia oppressa dalle incursioni de' Longobardi. Ma Tiberio Cesare, a cui più che ogni altra cosa stava sulle spalle la guerra coi Persiani, e dietro a quella impiegava tutte le sue forze e pensieri, non potè mandar gente in Italia, nè prendere a far guerra in Oriente e in Occidente. Il perchè diede quel danaro a Panfronio, acciocchè si studiasse di ben impiegarlo con procurar di guadagnare alcuni capitani de' Longobardi, che andassero a militare in Oriente per l'imperadore, e lasciassero in pace l'Italia. E qualora ciò non gli venisse fatto, si studiasse di comperar dai re franchi un buon corpo di gente capace di rompere la potenza de' Longobardi. Di più non s'ha da Menandro Protettore, che salta appresso alle cose dei Persiani, [1035] contra de' quali era in campagna Maurizio generale della greca armata, il quale, secondochè abbiamo da Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 9.], fu assunto da Tiberio Costantino Augusto a quella dignità solamente dopo la morte dell'imperadore Giustino.


   
Anno di Cristo DLXXIX. Indizione XII.
Pelagio II papa 2.
Tiberio Costantino imp. 6 e 2.

Console

Tiberio Augusto.

Fu splendido il primo giorno del presente anno, perchè Tiberio Augusto procedette console, e celebrò questa solennità colla magnificenza usata. Intanto gli affari d'Italia andavano di male in peggio; e forse parlò di questi tempi in uno de' suoi squarci Menandro Protettore [Menander Protect., tom. 1, Hist. Byz. p. 126.], là dove scrive che quasi tutta l'Italia fu devastata e rovinata dai Longobardi. Anche l'abate Biclariense [Johan. Biclariensis, in Chron.] all'anno secondo di Tiberio nota che i Romani facevano in Italia una lagrimevol guerra contra dei Longobardi. E vuol dire che andava lor male per tutti i versi. Per questo comparvero di nuovo a Costantinopoli non so quanti senatori romani, inviati dal papa con alcuni sacerdoti per implorar soccorso dall'imperadore. Ma era troppo grande l'impegno in cui si trovava Tiberio Augusto per la guerra che più che mai bolliva in Armenia e in Oriente fra l'imperio e i Persiani. Venne bensì a morte in quest'anno Cosroe re della Persia, ma Ormisda suo figliuolo, più fiero ancora e superbo del padre, continuò le ostilità contra de' Greci, nè volle intendere proposizioni di pace. Tiberio non avea soldatesche da spedire in Italia: contuttociò fatto uno sforzo, ordinò che si arrolasse un corpo di gente, e l'inviò a questa volta. Ma il suo maggiore studio consistè in adoperar regali, come di sopra fu detto, coi capitani dei [1036] Longobardi, e prometterne assai più; di maniera che molti d'essi presero partito nelle truppe romane. Così Menandro Protettore. Tuttavia a poco dovette ridursi questo vantaggio, perchè non apparisce che punto migliorassero le cose d'Italia, se per avventura non fu che a forza di doni che i Longobardi s'indussero a levare l'assedio da Roma. Ora la menzione fatta da Menandro de' sacerdoti inviati dal romano pontefice a Costantinopoli, a me fa credere che sia da riferire a questi tempi l'andata di san Gregorio Magno a risiedere in Costantinopoli col titolo ed impiego di apocrisario pontificio. Oggidì chiamiamo nunzii apostolici questi riguardevoli ministri della santa Sede. Soleano allora i papi tenerne sempre uno presso dell'imperadore in Costantinopoli, e un altro ancora in Ravenna presso dell'esarco, affinchè nell'una e nell'altra corte accudissero agl'interessi e bisogni della Chiesa romana. Certo è che Pelagio II papa quegli fu che, avuta considerazione alla nobiltà della nascita, alla prudenza e sperienza negli affari, e al sapere e alla rara pietà di san Gregorio, conobbe di non poter scegliere miglior mobile di lui per valersene in quell'uffizio. Cavatolo dunque fuori del monistero, come fu di opinione il cardinal Baronio, e creatolo uno de' sette diaconi della Chiesa romana, l'inviò apocrisario alla corte imperiale. Giovanni diacono nondimeno nella vita di questo gran pontefice scrive [Johannes Diaconus, in Vita Gregorii M., lib. 1, cap. 25.] che Benedetto papa il fece diacono, poscia Pelagio II suo successore non molto dopo lo spedì a Costantinopoli. Questa opinione vien creduta più fondata dai padri Benedettini di san Mauro nella vita del medesimo papa; ma in un'altra antichissima vita di san Gregorio pubblicata dal padre Bollando, abbiamo un forte fondamento per la sentenza del Baronio.

[1037] In quest'anno, imperante serenissimo Tiberio Costantino Augusto, anno imperii ejus quinto, eodem consule, sub die III nonarum novembrium, indictione XIII, che aveva avuto il suo principio nel settembre, fu celebrato un concilio nell'isola di Grado da Elia arcivescovo, ossia patriarca d'Aquileja, e dai vescovi suoi suffraganei, nel quale fu determinato che la sedia metropolitana di Aquileja da lì innanzi fosse fermata nella stessa isola di Grado, giacchè i Longobardi occuparono la città di Aquileja. Ubbidivano [Non intende il dottissimo Autore, in questo ed in altri simili luoghi, delle isole di Rialto, poichè la nascente repubblica godeva della sua libertà.] tuttavia all'imperadore le isole della Venezia e della Istria; e però parte dei suffraganei della chiesa di Aquileja era sotto il dominio imperiale, e parte sotto quello de' Longobardi. Elesse piuttosto il patriarca d'essere sotto gl'imperadori che sotto i Barbari, e trasferì per questo la cattedra metropolitana in Grado. Nella Cronica del Dandolo [Dandulus, Chron. Venet. Tom. 12 Rer. Italic.] è stampato il suddetto concilio, e quivi non solamente si legge un breve di papa Pelagio II, che approva quella traslazione, ma vi si mira anche intervenuto Lorenzo prete, legato della sede apostolica. Ne ha parlato a lungo il cardinal Noris [Noris, Dissertat. de Synodo V, cap. 9, §. 4.]. È da maravigliarsene non poco, perchè que' vescovi erano scismatici, non voleano ammettere il concilio quinto generale, e nel medesimo loro sinodo confermarono talmente il concilio quarto calcedonense, che fecero ben conoscere ch'escludevano e riprovavano il quinto. Nè il legato del papa vi dice una parola in contrario; e il papa, benchè uomo di petto, nulla scrive in quel suo breve per esortare Elia alla pace e all'unità della Chiesa. Certo io ho talvolta dubitato se mai quella lettera di papa Pelagio e quel legato potessero a noi esser venuti da qualche giunta fatta col tempo [1038] a quel sinodo, per autenticare la traslazion della sedia di Aquileja. Ma ultimamente non solo ha dubitato di questo il padre Bernardo de Rubeis [De Rubeis, Dissert. de Schismate Aquilejen.] dell'ordine de' Predicatori, ma ha anche sostenuto che da capo a' piedi sia stato finto quel concilio per legittimare la traslazione suddetta. Tali son le ragioni da lui addotte; che non si potrà far capitale di un tal sinodo in avvenire. Credesi che san Gregorio il grande nell'anno 593 si applicasse a scrivere i suoi Dialoghi. In essi egli racconta [Greg. Magnus, Dialogor., lib. 3, cap. 27 et 28.] che quindici anni prima (e per conseguente sotto quest'anno) alcuni Longobardi avendo immolato al diavolo un capo di capra, e adorandolo, vollero costringere a far lo stesso quaranta prigioni italiani. Ricusando questi di aderire al rito sacrilego, furono tagliati a pezzi da quei Barbari infedeli. E una simil gloriosa morte fecero altri quaranta contadini presi da altri Longobardi, perchè non vollero mangiar carni sacrificate ai loro falsi dii. Ma, siccome fu avvertito di sopra, i più dei Longobardi, benchè Ariani, tenevano per sua la religione di Cristo; e però i suddetti eccessi sono da attribuire a quei pochi o molti gentili ch'erano mischiati con loro. Lo stesso san Gregorio, in una lettera [Idem, lib. 7, ep. 7; nunc lib. 9, epist. 11.] scritta a Brunechilde regina de' Franchi, è a noi testimonio che tra i Franchi (la maggior parte cristiani e cattolici) si trovavano tuttavia di quelli che immolavano agl'idoli, adoravano gli alberi e faceano sacrifizii ai capi degli animali. Per altro confessa il medesimo pontefice nel sopraccitato Dialogo, aver Iddio così temperata la crudeltà de' sacerdoti longobardi ariani, che non perseguitavano punto la religione cattolica.


[1039]

   
Anno di Cristo DLXXX. Indizione XIII.
Pelagio II papa 3.
Tiberio Costantino imperadore 7 e 3.

L'anno I dopo il consolato di Tiberio Augusto.

Non ci somministra Paolo Diacono ordine sicuro di tempi nel riferire i fatti d'Italia; e però indarno si vuol adoperar la di lui autorità per istabilir gli anni precisi delle avventure ch'egli racconta. Chieggo io licenza di poter riportar sotto il presente un fatto di Faroaldo, primo duca di Spoleti [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 13.]. Questi con un buon esercito di Longobardi portatosi a Classe, s'impadronì di quella ricca città, con ispogliarla di tutte le sue ricchezze. Era Classe, come di sopra accennai, una picciola città, come borgo di Ravenna, da cui era lontana tre miglia. Così fu appellata, perchè quivi i saggi Romani teneano continuamente una classe, cioè una armata navale per difesa e sicurezza del mare Adriatico. La sua situazione anche oggidì si vede fra il mezzogiorno e levante rispetto alla città di Ravenna. Colà faceano scala i legni mercantili, e però abbondava di ricchezze. Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Rav.] pretende che Faroaldo mettesse lo assedio a Classe nell'anno 576, e che finalmente nell'anno 578 ne divenisse padrone. Di questo lungo assedio non apparisce pruova alcuna presso gli antichi. Ben si ricava dai susseguenti racconti di Paolo Diacono, che Faroaldo lasciò quivi un buon presidio, perchè solamente sotto l'esarco Snaragdo i Greci ricuperarono quella città. Siamo poscia condotti da questa azione del duca Faroaldo ad intendere che già era formato il riguardevole ducato di Spoleti, di cui primo duca fu egli stesso. In questo ducato si compresero dipoi la capitale Spoleti, Norcia, Rieti, Ameria, città di Castello, [1040] Gubbio, Nocera, Fuligno, Assisi, Terni, Todi, Narni. Mi fo io a credere che passasse anche allora il dominio di esso Faroaldo di qua dall'Apennino; e certo da lì a qualche tempo tutta l'Umbria settentrionale con Camerino capo della medesima, si trova unita al ducato di Spoleti, e signoreggiata dai Longobardi. Ed appunto circa questi tempi è d'avviso il Sigonio [Sigon., de Regn. Italiae, lib. 1.] che venissero in potere di essi Longobardi varie città e castella di quei contorni, cioè Sutri, Polimarzo, oggidì Bomarzo, Orta, Todi, Ameria, Perugia, Luciuolo (vien creduto oggidì Ponte Ricciolo) ed altri luoghi, perchè mancavano le forze all'esarco Longino da difendere que' paesi, quando egli stesso penava a sostenersi in Ravenna. Non da altro m'immagino io che il Sigonio deducesse un tal fatto, se non dall'aver trovato presso Paolo Diacono [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard. lib. 4, cap. 8.] che da lì ad alcuni anni, regnando il re Agilulfo, Romano esarco ricuperò questi medesimi luoghi con ritorli dalle mani de' Longobardi. Ma da ciò non apparisce che tali conquiste fossero fatte dalla nazion longobardica in questi tempi. Molto era già ch'essi scorreano a man salva per l'Italia, sottomettendo tutti que' luoghi che si trovavano in istato di non poter fare resistenza. Può parimente accennarsi, come seguito verso questi tempi, l'acquisto del Sirmio, fatto dagli Avari, ossia dagli Unni dominanti nella Pannonia, dopo un lungo assedio [Menander Protect., tom. 1. Histor. Byz., pag. 175.]. Tiberio Costantino Augusto, non avendo potere di soccorrerlo, ne ordinò la resa, e gli convenne pagare per giunta una gran somma d'oro a costoro, perchè deponessero le armi, e lasciassero in pace l'imperio, maltrattato dai Persiani in Oriente, e peggio in Italia dai Longobardi.


[1041]

   
Anno di Cristo DLXXXI. Indizione XIV.
Pelagio II, papa 4.
Tiberio Costantino imperadore 8 e 4.

L'anno II dopo il consolato di Tiberio Augusto.

Scrivo io la nota consolare secondo il rito usato ne' secoli precedenti, qualor veniva notato l'anno col post consulatum. Per altro si osserva in alcuni degli autori antichi una strana maniera di disegnar gli anni dopo la morte di Giustiniano Augusto, avvertita più volte dal padre Pagi; cioè in vece di dire il primo anno dopo il consolato, preso nell'anno precedente dall'imperadore, diceano l'anno secondo dopo il consolato. Altrove ho in rapportato un marmo ravennate, buon testimonio di questa usanza, leggendosi ivi seppellito Giorgio uomo chiarissimo banchiere [Thesaur. Novus Inscription., pag. 430.] sub die pridie Nonarum augustarum, indictione XIV, imperante domino nostro Tiberio Constantino perpetuo Augusto anno VIII, et post consulatum ejusdem anno III. Queste note cronologiche, se pur non v'ha error ne' copisti, indicano l'anno presente, e ci confermano la elezione di Tiberio Costantino Cesare seguita dopo il dì 6 d'agosto dell'anno 574. Eppure quest'anno, che era il secondo dopo il consolato, vien qui chiamato il terzo. Nella Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], a tenore di quanto anche io ho scritto, è segnato il presente anno coll'anno II post consulatum. E però potrebbe nascer sospetto di qualche sbaglio, e che si avesse da anticipare il consolato di Tiberio Costantino. Certo non si sa intendere il perchè d'una formola tanto diversa dal costume degli antichi, al quale ho io creduto di dovermi attenere. Ho io poi detto più di una volta che Paolo Diacono scrive quel che potè sapere delle imprese de' Longobardi, ma che gli mancarono troppe memorie per tessere una [1042] storia compiuta di questi tempi. Ecco che non da lui, ma da una annotazione trovata dal padre Mabillon [Mabillon., Analect., pag. 67., edit. noviss.] in fondo ad un codice manoscritto del Tesoro di santo Agostino, compilato da Eugipio abate, si raccoglie la seguente notizia. Ivi si legge emendato il libro di Pietro notaio della santa cattolica chiesa napoletana, d'ordine di Reduce vescovo di quella città sub die iduum decembrium, imperatore domino nostro Tiberio Costantinopolis (ha da dire Constantino) Augusti (vuol dire Augusto) anno septimo, post consulatum ejusdem Augusti anno tertio, indictione quintadecima, obsidentibus Langobardis neapolitanam civitatem. Credette il padre Mabillon che tal nota ci desse a conoscere l'anno 582. Ma, siccome avvertì il padre Pagi, qui è disegnato l'anno presente 581, perchè l'Indizione XV ebbe principio nel settembre di questo medesimo anno. Da altre parole d'essa annotazione apparisce che Eugipio abate fiorì molto prima di questi tempi, siccome ancor io [Rer. Ital. Scriptor., part. II, tom. 1.] osservai nelle annotazioni alle Vite de' vescovi di Napoli, scritte da Giovanni Diacono. Ricavasi inoltre dalla stessa nota che Reduce fu ordinato vescovo da papa Pelagio II, e però fioriva in questi tempi. In quelle annotazioni non avvertii io che Sigeberto si era ingannato in rappresentarci il vescovo Reduce contemporaneo dell'abate Eugipio; il che in cagione che il riputassi vescovo molto prima de' tempi di Pelagio II papa. Quel che più importa, impariamo di qui, che nell'anno presente la città di Napoli fu assediata dai Longobardi, senza che si sappiano altre particolarità di questo fatto. Certo è nondimeno che quella città nè allora, nè poi non venne in potere de' Longobardi. E possiam solo comprendere di qui che la maggior parte della Campania dovea già essere stata presa da loro con altri paesi, e perciò formato in qualche maniera l'insigne ducato beneventano, di cui fu primo duca Zottone. [1043] Credette il cardinal Baronio che in questo anno fosse creato arcivescovo di Milano Lorenzo juniore dopo la morte di Frontone scismatico. Ma, siccome fu di sopra avvertito all'anno 569, molti anni prima egli succedette ad Onorato arcivescovo, eletto in Genova dal clero cattolico e dai nobili milanesi colà rifugiati, siccome Frontone fu eletto in Milano da quei che non accettavano il concilio quinto generale. Nel Catalogo degli arcivescovi di Milano, pubblicato dal padre Mabillon [Mabill., Mus. Italic.], e poi dal padre Papebrochio [Papebrochius tom. 7. Maji in Act. Sanct.], si legge: Frontus sedit annos XI depositus in Genua ad S... Perciò dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] fu creduto che egli non meno di Lorenzo fosse eletto in Genova, e quivi ancora avesse sepoltura. Ma nel catalogo più antico d'essi arcivescovi, da me dato alla luce fra gli Scrittori delle cose d'Italia [Rer. Italic. Script. part. II, tom. 1.], non si legge che Frontone fosse seppellito in Genova. Nè Genova era per anche venuta in poter de' Longobardi. Anzi per paura di questi s'era colà rifugiato l'arcivescovo Onorato con assai altri nobili. E però questa ed altre ragioni concorrono ad indicare che seguisse in Milano la elezione e la morte di questo arcivescovo scismatico. Leggonsi presso gli scrittori milanesi varie semplicità intorno al fine del simoniaco, o scismatico Frontone, derise dal dottore Giuseppe Antonio Sassi bibliotecario dell'Ambrosiana di Milano nelle sue erudite annotazioni al regno d'Italia del Sigonio [Sigonii Opera, tom. 2. Edit. Mediolanens.]. Mario vescovo aventicense finì in questo anno di scrivere la sua Storia, di cui sarebbe da desiderare che fosse restata qualche copia men difettosa di quelle che han servito alla sua edizione.


[1044]

   
Anno di Cristo DLXXXII. Indizione XV.
Pelagio II papa 5.
Maurizio imperadore 1.

L'anno III dopo il consolato di Tiberio Augusto.

Passò in quest'anno a miglior vita sant'Eutichio patriarca di Costantinopoli, che prima di morire predisse a Tiberio Augusto il viaggio istesso. Venne infatti a morte nel dì 14 d'agosto questo imperadore, siccome abbiamo da Eustazio [Eustathius, in Vita Sancti Eutychii.], dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.], da Teofane [Theoph., in Chron.] e da altri. E ben s'accordano tutti gli scrittori in esaltar le di lui virtù. Era, per attestato di Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 13.], che fioriva in questi tempi, principe di dolci costumi, di rara clemenza, di somma affabilità. Amava tutti, e però era amato da tutti. Stimava sè stesso ricco allorchè potea donare, e specialmente per sollevare le indigenze altrui, di maniera che niuno degli Augusti gli andò innanzi nella gloria d'essere limosiniere. In questo proposito racconta Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 5, cap. 20.], allora vivente, molte cose che allora si dicevano, cioè di aver egli trovato più d'un tesoro in premio dell'insigne sua carità. Riputava questo buon principe oro falso quello che si fosse raccolto colle lagrime de' sudditi. Abolì ancora il perverso abuso di comperare i posti de' magistrati nelle provincie, conoscendo che questo era un vendere i sudditi ad essi magistrati. Nel dì quinto di agosto aveva egli dichiarato Cesare, secondochè s'ha da Teofilatto Simocatta [Theophilactus, lib. 1, cap. 1.] e da altri autori, Maurizio generale d'armi in Oriente, che già s'era segnalato in varie battaglie con riportarne vittoria: nella qual occasione Giovanni questore a nome di esso Tiberio Augusto infermo [1045] fece una bella parlata agli astanti. Leggesi fra le novelle aggiunte al Codice, secondo l'edizion del Gotofredo, una costituzion d'esso Tiberio, rapportata da Giuliano Antecessore colle seguenti note: Data III Idus Augusti Constantinopoli, imperii domini nostri Tiberii P. P. Augusti anno octavo, et post consulatum ejus anno tertio, et Tiberii Mauricii felicissimi Caesaris anno primo: cioè nel presente anno nel dì 15 d'agosto, nel quale è da osservare l'anno III dopo il consolato, conforme a quanto anch'io ho scritto, e come esige il costume degli antichi, e non già il quarto, come altri amarono di scrivere.

Non passò il medesimo dì 13 di agosto, che Tiberio Augusto proclamò imperadore il suddetto Maurizio, con far seguire gli sponsali fra lui e Costantina sua figlia; e nel giorno appresso, cessando di vivere, lasciò libero il trono al suo successore. Era Maurizio allora in età di quarantatrè anni, nato in Arabisso città della Cappadocia, ed avea tuttavia vivo Paolo suo padre, e parimente la madre, che, chiamati a Costantinopoli, furono sempre in grande onore presso di lui. La sua temperanza, la sua prudenza ed altre virtù hanno la testimonianza di Evagrio, di Teofilatto e d'altri; confessando anche Menandro Protettore [Menander Protect., tom. 1 Histor. Byzant. in Excerptis Suidae.] d'essersi mosso a scrivere la sua storia, perchè Maurizio si dilettava assaissimo della poesia e delle storie, e regalava generosamente i begl'ingegni, che certo non saranno stati pigri in dire assai bene di lui. Il cardinal Baronio in questi tempi imbroglia forte la sua cronologia, ingannato da un testo guasto di Evagrio, con aver differito il principio dell'imperio di Maurizio fino all'anno 586. Ma nell'appendice del tomo XII corresse un sì gran salto, riferendo la elezion di esso Maurizio all'anno 583. Ma è fuor dubbio che nell'agosto del presente [1046] anno Maurizio Tiberio succedette nell'imperio a Tiberio Costantino suo suocero, siccome anche il Sigonio diligentemente avea avvertito prima del cardinal Baronio, e prima ancora notarono Mariano Scoto ed Ermanno Contratto. Pensa il padre Mabillon [Mabill. in Annal. Benedict. ad ann. 580.] che circa questi tempi s'abbia da riferire la distruzione dell'insigne monistero di Monte Casino, quantunque Paolo Diacono lo rapporti molto più tardi. Sopra ciò han disputato varii eruditi. La verità si è, che i Longobardi arrivati al sacro luogo, lo presero, ma senza poter mettere le mani addosso ad alcuno di que' monaci, che tutti fuggendo ebbero la maniera di salvarsi, verificandosi la predizione fatta da san Benedetto, e registrata da san Gregorio papa ne' suoi Dialoghi [Greg. M., Dialog., lib. 2, cap. 7.]. Se ne andarono i fuggitivi monaci a Roma, seco portando l'originale della regola lasciata loro dal santo patriarca, e la misura del vino e il peso del pane che giornalmente si dispensava ai monaci, secondo il prescritto da esso san Benedetto. Benignamente accolti dal pontefice Pelagio, ottennero da lui un luogo presso la basilica lateranense per fabbricar ivi un monistero. Moltissimi anni dipoi restò disabitato e deserto quello di Monte Casino, e senza che mai i monaci si prendessero pensiero alcuno di trasportare di là i corpi di san Benedetto e di santa Scolastica, lasciati ivi in abbandono. È di parere il medesimo padre Mabillon [Mabill. ib. ad ann. 582.] che poco dopo la morte di Tiberio Augusto, san Gregorio, apocrisario pontificio allora in Costantinopoli, fosse richiamato a Roma da papa Pelagio, al quale il novello imperadore mandò un nuovo suo apocrisario, cioè Lorenzo diacono. Ma se non son fallate le note di una lettera scritta da esso papa al medesimo san Gregorio, mentr'era alla corte imperiale, convien credere che molto più tardi egli se ne tornasse in Italia. Essa lettera, riportata [1047] da Giovanni Diacono [Johann Diacon., in Vit. s. Gregor. lib. 1, cap. 32.] nella vita del santo pontefice e dal cardinal Baronio, si vede data quarto nonarum octobrium, Indictione tertia. Cominciò ad aver corso nel settembre dell'anno 584 l'indizione terza, e però almen fino all'anno 585 convien differire il ritorno di san Gregorio in Italia.


   
Anno di Cristo DLXXXIII. Indizione I.
Pelagio II papa 6.
Maurizio imperadore 2.

Console

Maurizio Augusto.

Fondato il padre Pagi sulla fede della Cronica Alessandrina, di Cedreno, e specialmente di Teofilatto, crede che Maurizio Augusto prendesse il consolato solamente nell'anno seguente, e non già nel presente, com'erano una volta soliti i novelli imperadori. Perchè io il rapporti all'anno presente, ne addurrò i motivi nel susseguente. Furono, secondochè abbiamo da Teofane [Theoph., in Chronogr. Theophilactus, lib. 1, cap. 3.] funestati i principii del governo di Maurizio Augusto da un tremuoto spaventoso, che a dì 10 di maggio si fece sentire in Costantinopoli, per cui tutto il popolo ricorse alle chiese. Gli Unni, o, vogliam dire, gli Avari, cioè i Tartari che signoreggiavano nella Pannonia, oggidì Ungheria, ed erano divenuti padroni del Sirmio, sempre inquieti ed avarissimi, e però sempre ansanti dietro a nuovi guadagni, ben veggendo la debolezza dell'imperio d'Oriente, spedirono circa questi tempi ambasciatori a Maurizio Augusto, con dimandargli la somma di ottantamila scudi d'oro, che pretendevano dovuti loro pel regalo annuo che l'imperadore, secondo i patti precedenti, era tenuto a pagare. E ne dimandarono anche ventimila di più. Lasciossi indurre Maurizio Augusto per aver la pace, e fu forzato a far tale esborso, [1048] e loro mandò ancora in dono un elefante e un letto d'oro, che richiedevano. Ma nè pur questo bastò a quietarli. Tornarono a chieder sotto varii pretesti ventimila scudi; e perchè l'imperadore non si sentì voglia di pagarli, questa insaziabil gente prese l'armi, s'impadronì delle città di Singidone, d'Augusta e di Viminacio nella Mesia, allora sottoposta alla prefettura dell'Illirico. Assediarono dipoi la città di Anchialo, fecero altre conquiste, e giunse il principe loro, appellato come gli altri Cagano, infino a strapazzare i legati a lui inviati da Maurizio. Queste dure lezioni davano i Barbari allora all'imperio d'Oriente, il quale nel medesimo tempo era involto nella guerra dei Persiani, infelicemente sostenuta da Giovanni, chiamato Mustacchione per gli lunghi mustacchi che portava, generale dell'armi in Oriente. Però non è da marivigliarsi, se gli affari d'Italia passavano male, non potendo Maurizio accudire con forza a tante parti e a tanti nemici. Pensò nulladimeno Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 4.], che informato esso Augusto intorno a questi tempi del sommo bisogno che avea la Italia d'un buon generale d'armata, richiamasse a Costantinopoli l'esarco Longino, e mandasse in suo luogo Smaragdo, ossia Smeraldo a Ravenna. Ma non resta nell'antica storia vestigio alcuno per determinare quando Longino desse luogo a Smaragdo. Nè la lettera di papa Pelagio, da cui il Rossi prese motivo d'immaginar questo cambiamento, serve al proposito, per nulla dire ch'essa anche appartiene all'anno 584 seguente.


   
Anno di Cristo DLXXXIV. Indizione II.
Pelagio II papa 7.
Maurizio imperadore 3.
Autari re 1.

L'anno I dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Veramente non mancano ragioni al padre Pagi per pretendere che solamente [1049] in quest'anno Maurizio Augusto prendesse il consolato. Teofilatto, autore contemporaneo, Teofane, Cedreno e l'autore della Miscella asseriscono ch'egli entrò console nell'anno secondo del suo imperio, il quale cominciato nel precedente agosto correva nel gennajo dell'anno presente, con fare dei gran regali al popolo. I fatti narrati dagli autori suddetti prima di questo consolato pare ch'esigano un anno intero, dappoichè Maurizio salì sul trono imperiale sino al consolato. Ma non lascia questa dilazione di essere contraria al costume degli altri imperadori. La Cronica Alessandrina è qui imbrogliata, notando l'anno presente con queste parole: post consulatum Mauricii Tiberii Augusti I solius. Vuole il padre Pagi che quel post sia stato aggiunto dai copisti. Ma procedendo col medesimo ordine i seguenti anni col secondo, terzo e quarto anno dopo il consolato, non credo io già questo un errore. Rapporta lo stesso padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 585.] una iscrizione posta a Candida chiarissima donna, seppellita IV id. septemb. imper. D. N. Mauritio P. P. Aug. ann. IV post cons. ejusdem anno II, Indic. quarta. L'indizione quarta ebbe principio nel settembre dell'anno seguente 585, e però nel dì 10 d'esso mese nel medesimo anno correva l'anno secondo dopo il consolato di Maurizio Augusto. Però mi son io fatto lecito di riferire il di lui consolato al precedente, e non già al presente anno. Vedrassi confermata la mia conghiettura da un altro documento, di cui farò menzione all'anno 596. In quest'anno, secondo i miei conti, dovette seguire l'elezione d'Autari in re de' Longobardi. Già mettemmo sul fine dell'anno 574, o sul principio del 575, la morte del re Clefo. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 16] scrive, che dopo essere stati i Longobardi per dieci anni senza re, e sotto il governo dei duchi, finalmente di comun consenso elessero re il suddetto Autari figliuolo del [1050] medesimo re Clefo. Ma a costituir qui il principio del regno di Autari, si oppone l'autorità di Giovanni abbate biclariense, autore che in questi tempi fioriva in Ispagna. Scrive egli [Abbas Biclariensis, in Chron.] che nell'anno quinto di Tiberio, ch'è il tredicesimo di Leovigildo re dei Goti in Ispagna, i Longobardi in Italia si elessero un re della loro nazione per nome Antarich (s'ha da scrivere Autarich), nel cui tempo i soldati romani furono tagliati a pezzi, ed occupati dai Longobardi i paesi d'Italia. L'anno quinto di Tiberio Augusto caderebbe nell'anno di Cristo 582, e però sembra che due anni prima di quel ch'io stimo, s'avesse a metter l'elezion d'Autari. Ma non possiam fidarci in conto alcuno della cronologia dell'abate biclariense per i fatti d'Italia, perchè o i copisti avran confusi i tempi, o qualche giunta vi sarà stata fatta dai posteriori poco attenti. Fa egli che Tiberio Costantino Augusto giugnesse all'anno VI del suo imperio, cosa che non sussiste. Mette all'anno V di Maurizio, cioè nel 586 e nel 587, la morte di papa Pelagio e l'elezione di san Gregorio il grande: eppure sappiamo che questi due fatti accaddero nell'anno 590, siccome vedremo. Però non può qui aver forza l'asserzione del Biclariense; e quando pur si volesse far valere, converrebbe allora abbandonare Paolo Diacono in questo particolare: il che non è sì facilmente da ammettere. E tanto meno possiam qui seguitare il Biclariense, perchè egli riferisce all'anno VI di Giustino II Augusto la morte di Cunimondo re de' Gepidi, e nel VII susseguente quella d'Alboino: che sono errori insoffribili; con aggiugnere ancora che i Longobardi dopo la morte d'Alboino sine rege et thesauro remansere: il che vuol dire ch'egli non conobbe il re Clefo, succeduto ad esso Alboino. Per altro sembra che lo stesso storico possa convenire nella opinione mia; perchè, dopo aver narrata l'assunzione al trono di Autari, soggiugne che gli Sclavi, oggidì [1051] Schiavoni, diedero il guasto all'Illirico e alla Tracia: il che appunto, per testimonianza di Teofane, accadde nell'anno presente.

Ora giacchè i duchi s'erano avvezzati ad assorbire tutti i tributi de' popoli, sarebbe rimasto il novello re Autari un re da scena, se non si fosse provveduto al decoroso sostenimento suo, e della corte convenevole al suo grado. Però fu conchiuso nella dieta de' Longobardi, che i duchi contribuissero pel mantenimento del re la metà delle loro sostanze. Non è poi chiaro ciò che Paolo Diacono significhi appresso con dire: Populi tamen aggravati per Langobardos hospites partiuntur. Pare che accenni che ai popoli italiani fu addossato il peso di mantenere i soldati longobardi; e però li compartirono fra di loro. Cominciò Autari ad usare il prenome di Flavio, che era venuto alla moda fin dai tempi di Costantino il Grande, e questo passò dipoi nei re suoi successori. L'usarono anche i re goti in Ispagna. Per altro aggiunge Paolo Diacono che i Longobardi osservavano una singolar disciplina, e che nel regno loro vi era questo di mirabile, che non succedevano violenze, nè alcuno tendeva insidie all'altro; niuno ingiustamente angariava o spogliava il compagno; non vi erano latrocinii nè assassinii; ognuno andava alla lunga e alla larga dovunque voleva, senza timore da essere insultato da alcuno. Rapporta queste parole di Paolo il cardinal Baronio, e le reputa un'adulazione, cioè una falsa lode data da questo storico ai Longobardi, siccome discendente anch'esso dalla stessa nazione. Imperocchè gli scrittori che vissero in questi tempi, e massimamente san Gregorio papa, raccontano tante iniquità commesse dai Longobardi, e parlano un linguaggio tutto diverso da quello di Paolo Diacono. Ma non avvertì il Baronio che Paolo mette questa invidiabil tranquillità in regno Langobardorum, cioè in casa propria de' Longobardi. Poichè per altro so ancor io che fuori di là, [1052] cioè contra de' Greci lor nemici, e contra chiunque teneva il loro partito, come fecero contro Roma. Ravenna ed altre città, esercitarono la rabbia loro con uccisioni e saccheggi. Ma queste son misere pensioni della guerra, che tutti i secoli, anche fra' cattolici, son provate e si pruovano. Però non è maraviglia se san Gregorio presente ai danni che ne pativa il territorio romano, e i Greci ed altri simili scrittori nemici dei Longobardi ne sparlavano ogni qualvolta gli aveano da nominare. E tanto più perchè i Longobardi erano allora di credenza ariani. Se i Franchi, i quali pur seguitavano la religion cattolica, fossero migliori dei Longobardi in questi tempi si può cercare nelle storie di Gregorio Turonense. Intanto è qui tempo di indagare il motivo per cui i Longobardi rimisero in piedi l'elezione d'un re. Dopo la morte del re Clefo si studiarono essi di mantenere una buona pace ed armonia coi re franchi; e ne abbiamo una chiara testimonianza nella lettera scritta da papa Pelagio II ad Aunacario, ossia Aunario vescovo di Auxerres [Labbe, Concilior, tom. 5, pag. 939.], III nonas octobris imperante domno Tiberio Constantinopoli (si dee scrivere Constantino) Augusto VII, cioè nell'anno 581, in cui il prega di rimuovere i re della Francia dall'amicizia ed unione dei nefandissimi Longobardi, nemici de' Romani, affinchè venendo il tempo della vendetta che si aspettava in breve dalla divina misericordia, non ne tocchi anche a quei re la loro parte. Ma creato imperadore Maurizio nel dì 13 d'agosto dell'anno 582, egli cominciò da lì innanzi a meditar le maniere di provvedere ai bisogni dell'Italia oppressa dai Longobardi. Mandar qua armate non gli era permesso: ne aveva egli necessità in Oriente per difesa di quell'imperio. Altro ripiego non ebbe che di muovere Childeberto re de' Franchi contra de' Longobardi, sperando col di lui braccio di cacciarli [1053] d'Italia. Gli spedì a quest'effetto degli ambasciatori [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 17.]: e perchè le lor parole riuscissero più efficaci, volle che portassero seco cinquantamila scudi d'oro, quasi equivalenti agli scudi degli ultimi secoli. Questa aurea eloquenza fece il desiderato colpo.

Pertanto, secondo che s'ha da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 6, cap. 42.], correndo l'anno nono di Childeberto, cioè nell'anno presente di Cristo 584, lo stesso re in persona calò con un potente esercito in Italia. Non si vollero arrischiare i Longobardi a battaglia alcuna campale, e credettero più sicuro ripiego il lavorar sotto mano con dei grossi regali. In fatti per mezzo di questi placarono sì forte il re Childeberto, che lo indussero a tornarsene indietro. Il Turonense scrive che i Longobardi allora si sottoposero alla signoria di lui, con promettere d'essergli fedeli e sudditi. Chi ne dubitasse, non avrebbe con che convincere Gregorio Turonense d'aver narrata una particolarità sì importante di quella guerra. Paolo Diacono, che copiò qui il Turonense, non parla di questa suggezione. Arrivato poi agli orecchii di Maurizio Augusto che Childeberto, con far la pace coi Longobardi, l'aveva burlato, pretese che gli tornassero indietro i cinquantamila soldi, o scudi d'oro, e scrivendo a Childeberto ne fece doglianza. Childeberto se ne rise, e neppure il degnò di risposta. Si può credere scorretto il testo del Turonense là dove: Ab imperatore autem Mauricio ante hos annos quiquaginta millia solidorum acceperat, ut Langobardos de Italia extruderet; perchè non era molto che Maurizio era giunto al trono, nè potea essere preceduto lo sborso. Lo stesso storico [Idem, lib. 8, cap. 18.] narrando dipoi i fatti dell'anno seguente 583, con iscrivere che l'imperadore per mezzo de' suoi legati faceva istanza presso Childeberto di riavere aurum, quod anno superiore [1054] datum fuerat, fa abbastanza intendere che lo sborso seguì all'anno presente, e non già qualche anno prima. Leggesi presso il Du-Chesne [Du-Cange, Script. Rer. Franc. T. 1, p. 874.] una lettera scritta da non so chi a nome di Childeberto re dei Franchi a Lorenzo patriarca, cioè metropolitano non so di quale città; mi si rende però probabile che a Lorenzo arcivescovo di Milano, il quale risedeva allora in Genova, città tuttavia ubbidiente all'imperadore. Gli fa sapere d'essere già in marcia l'esercito franzese contra dei Longobardi, con raccomandargli di far sapere tale spedizione a Smaragdo esarco in Ravenna, acciocchè anch'egli accorra dal canto suo a far guerra ad essi Longobardi. Dovrebbe essa lettera appartenere all'anno presente. Ora questa irruzione dei Franchi in Italia, preveduta dai Longobardi, ci porge un giusto fondamento per intendere i motivi che gli indussero ad eleggere un nuovo re, cioè Flavio Autari. Essendo allora spartito il regno de' Longobardi in tanti duchi e governi, cadauno indipendente dall'altro, e perciò divisi gl'interessi e le forze, conobbe quella nazione la necessità di avere un capo, dal quale si regolasse tutto il corpo; e per conseguente crearono un re nuovo. Se poi questa elezione seguisse allorchè s'udì che Childeberto re de' Franchi moveva l'armi verso l'Italia, per potergli resistere, oppure se dappoichè egli si fu ritirato, con avere appreso i Longobardi il pericolo, in cui s'erano trovati per la lor divisione, non si può decidere. Il Sigonio e il cardinal Baronio credono creato re Autari nell'anno 585; il padre Pagi, seguendo Sigeberto ed Ermanno Contratto, differisce la creazione di lui fino all'anno 586. Secondo i conti finora fatti, si può credere eletto nel presente; e tanto più, perchè Paolo Diacono registrò prima la elezione del re Autari, e poscia la calata in Italia del re Childeberto, succeduta senza fallo in quest'anno. So che a Paolo furono ignote molte azioni de' Longobardi, [1055] e ch'egli non è autore esatto, e molto meno irrefragabile nella serie dei tempi. Contuttociò par giusto il non dipartirsi da lui, se non quando cel persuadono delle chiare ragioni prese da altri più vecchi scrittori. Parimente lo abate Biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron. apud Canisium.] scrive all'anno secondo di Maurizio Augusto, che durò fino alla metà d'agosto dell'anno presente, avere esso imperadore per danari commossa la nazion dei Franchi contra de' Longobardi: il che, dice egli, riuscì di gran danno all'una e all'altra nazione. Ora abbiam veduto ch'esso storico molto prima di questa spedizione dei Franchi pose la esaltazione d'Autari in re de' Longobardi, e però non pare essa da differire oltre all'anno presente. Sul principio d'ottobre di questo medesimo anno Pelagio II papa scrisse una lettera a san Gregorio, allora suo nunzio alla corte imperiale [Labbe, Concilior., tom. 5.], incaricandolo di rappresentare a Maurizio Augusto le grandi angustie di Roma per cagione dei Longobardi, i pericoli di peggio, e il bisogno di truppe, di un duca, o di un generale d'armata, perchè Roma si trovava sprovveduta di tutto. Ma è probabile che non finisse l'anno senza che seguisse fra il re Autari e Smaragdo esarco quella tregua di tre anni, di cui parla Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 18.], e di cui tratterò anch'io all'anno 586.


   
Anno di Cristo DLXXXV. Indizione III.
Pelagio II papa 8.
Maurizio imperadore 4.
Autari re 2.

L'anno II dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Con gli affari d'Italia va congiunto in quest'anno un fatto spettante alla Spagna. Erano ariani i Goti, ossieno i Visigoti, che nella maggior parte di quel [1056] regno signoreggiavano. Ermenegildo figliuolo maggiore di Leovigildo re di quella nazione, dappoichè ebbe presa per moglie Ingonda figliuola di Sigeberto re dei Franchi, a persuasione di lei abbracciò la religion cattolica. Perciò nacquero dissensioni fra lui e il padre ariano; ed egli in fine si ribellò, e ne seguì fra loro guerra. Per attestato di Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 5, cap. 39.], Ermenegildo stando in Siviglia, ricorse per ajuto al generale dell'imperadore, che allora facea guerra in Ispagna; mandò anche san Leandro vescovo di quella città a Tiberio Costantino imperadore, per avere il suo patrocinio. Ma il re Leovigildo suo padre con un regalo di trentamila soldi d'oro fece in maniera, che il generale dell'imperadore abbandonò quel povero principe, astretto dipoi a mettersi nelle mani del padre. Fu mandato in esilio, e finalmente messo in prigione, dove perchè non volle mai acconsentire di abbandonar la religion cattolica, d'ordine del re suo padre tolto fu di vita nell'anno presente. Quantunque l'abate Biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron.] e sant'Isidoro [Isidor., in Chron. Gothor.] non abbiano avuta difficoltà di chiamarlo tiranno, perchè si rivoltò contro il padre; tuttavia essendo certo ch'egli, piuttosto che abiurar la vera fede, rinunziò alla speranza del regno e sostenne la morte, perciò è onorato come martire dalla Chiesa di Dio: intorno a che si può vedere il bel racconto che ne fa san Gregorio il grande [Gregor. Magnus, Dialog.], suo contemporaneo. Ingonda sua moglie dagli uffiziali greci fu inviata a Costantinopoli; ma nel viaggio avendo fatta scala nell'Africa, quivi diede fine a' suoi giorni. Dal che vegniamo a conoscere che tuttavia restava in Ispagna qualche città di dominio degl'imperadori, dove tenevano governatori e milizie di qualche polso: se pur non si volesse [1057] dire che dalle isole Baleari, o dalla vicina Africa, posseduta allora dagl'imperadori, passassero le soldatesche cesaree in ajuto di Ermenegildo. Ora accadde, secondochè abbiam dal suddetto Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 8, cap. 18.] e da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 23.], che furono inviati in quest'anno medesimo dei legati da Maurizio imperadore al re Childeberto, per ripetere da lui l'oro che gli era stato pagato per far la guerra ai Longobardi. Questo re, perchè correa voce che la suddetta Ingonda sua sorella fosse stata trasportata a Costantinopoli, e gli premeva o di riaverla o di vederla ben trattata, s'indusse di nuovo a spedire l'esercito suo in Italia ai danni de' Longobardi. Ma ossia che trovassero qui più duro il terreno di quel che si pensavano, oppure, come vuole esso Turonense, che nascesse discordia fra i capitani franchi ed alamanni di quell'armata, se ne tornarono tutti indietro senza aver fatto un menomo guadagno. Non ben apparisce a quali anni s'abbiano da riferire le imprese di un certo Drottulfo, di cui tenne conto il suddetto Paolo Diacono. Mi sia permesso il farne qui menzione, ancorchè io supponga che in questi tempi fosse tregua fra i Greci e Longobardi. Costui era di nazione svevo, ossia alamanno. Fu fatto prigione dai Longobardi; ma pel suo valore andò tanto innanzi, che da' medesimi fu alzato al grado di duca, o pure di capitano. Ribellatosi poi dai medesimi, passò a Ravenna, e in servigio de' Greci fece molte prodezze. La prima fu di prendere la città di Brescello, posta alla riva del Po tra Parma e Reggio, dove stando con un buon presidio infestava forte le vicine città de' Longobardi. E perciocchè Faroaldo, duca di Spoleti, siccome dicemmo, avea presa la città di Classe, con lasciarvi una buona guarnigione che formava come un blocco alla città di Ravenna, Drottulfo, o Drottolfo, messa insieme una flotta di picciole barche nel fiume [1058] Badrino (creduto dal Baudrand [Baudr. Geograph., tom. 1.] per errore il Santerno), e riempiutala di valorosi fanti, con quella assalì il presidio longobardo di Classe, e l'astrinse alla resa. Ma il re Autari, a cui pareva una spina sul cuore la città di Brescello, perchè posta in mezzo alle sue città, ne intraprese l'assedio: è ignoto in qual anno. V'era dentro il suddetto Drottolfo, che fece una gagliarda difesa. Veggendo egli finalmente di non poter più sostenerla, o in vigore di una capitolazione, o pure per via del Po, si ritirò a Ravenna, lasciando quella città in poter d'Autari, che ne fece spianar tutte le mura. Da lì innanzi Brescello, già città episcopale, andò perdendo la sua dignità, ritenendo nondimeno anche oggidì il credito di una riguardevol terra, sotto il dominio degli estensi duchi di Modena. Venne poi a morte Drottolfo in Ravenna, e fu seppellito presso la chiesa di san Vitale con un'iscrizione in versi, rapportata da Paolo Diacono, da Girolamo Rossi e da altri. In quest'anno ragionevolmente si può credere richiamato san Gregorio da Pelagio papa a Roma, dove, benchè si ritirasse di nuovo a vivere nel monistero di sant'Andrea, pure era molto adoperato nel sacro ministero dal medesimo pontefice. Invece di lui fu inviato a Costantinopoli per apocrisario Lorenzo arcidiacono della santa romana Chiesa.


   
Anno di Cristo DLXXXVI. Indizione IV.
Pelagio II papa 9.
Maurizio imperadore 5.
Autari re 3.

L'anno III dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Racconta Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 18.] che dopo la presa di Brescello il re Autari conchiuse una tregua di tre anni coll'esarco di Ravenna Smaragdo. Io per me inclino a credere che nell'anno 584 questa tregua possa essere succeduta. La [1059] crede fatta il cardinal Noris [Noris, de Synod. V, cap. 9, §. 4.] nell'anno presente, e però stima parimente scritta nel medesimo una lettera di papa Pelagio ad Elia arcivescovo d'Aquileia, e ai vescovi suoi suffraganei, per rimuoverli dallo scisma [Labbe, Concilior., tom. 5.]. Comincia essa lettera con queste parole: Quod ad dilectionem vestram, ec., e fra l'altre cose dice il papa di non aver loro scritto prima per cagion delle guerre. Postea ergo quam Deus omnipotens pro felicitate christianorum principum per labores atque solicitudinem filii nostri excellentissimi Smaragdi exarchi, et chartularii sacri palatii, pacem nobis interim, vel quietem donare dignatus est, cum omni solicitudine festinamus praesentia ad vos scripta dirigere. Ma se poi non sappiam di certo l'anno della tregua, neppure possiam francamente asserir quello della lettera di papa Pelagio. Il padre Pagi, mettendo nel presente anno la lettera suddetta, dubita poi se la stessa tregua fosse stabilita nell'anno 584, o pure in questo anno, senza por mente ch'egli pretende eletto re solamente nell'anno presente Autari, ed attribuendo Paolo Diacono essa tregua al medesimo Autari, conseguentemente, secondo i conti del padre Pagi, non potè essa succedere nell'anno 584, ma può ben essere succeduta, secondo i miei conti, perchè in esso anno 584, a mio parere, Autari cominciò a regnare. Quello ch'è certo, nulla profittò con questa lettera il pontefice Pelagio. Elia arcivescovo coi suoi suffraganei dell'Istria, al vedere che il papa s'addirizzava a lui con preghiere, maggiormente alzò la testa; e a Roma bensì mandò la risposta per alcuni suoi messi, ma con ordine di nulla aggiugnere in voce a quanto si conteneva nella lettera di risposta. Tornò di nuovo papa Pelagio, senza perdersi d'animo, a scrivere delle lettere a que' vescovi scismatici, ma con trovarli sempre più indurati nella loro opinione. Allorchè Paolo Diacono [1060] scrisse [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 20.]: Hic Pelagius Heliae Aquilejensi episcopo, nolenti tria capitula chalcedonensis synodi suscipere, epistolam satis utilem misit, quam beatus Gregorius, quum esset adhuc diaconus, conscripsit: ci fa intendere che Elia non volle accettare i tre capitoli del concilio calcedonense, come condannati nel quinto concilio. Ed in fatti esso autore [Idem, ibid., cap. 26.] riconosce di sotto che gli arcivescovi di Aquileja non voleano comunicare coi condannatori dei tre capitoli.


   
Anno di Cristo DLXXXVII. Indizione V.
Pelagio II papa 10.
Maurizio imperadore 6.
Autari re 4.

L'anno IV dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Fu anche mosso da papa Pelagio l'esarco di Ravenna Smaragdo per mettere in dovere Elia arcivescovo d'Aquileja, capo degli scismatici in Italia. Da un memoriale presentato alcuni anni dopo dai vescovi d'Istria all'imperadore Maurizio, apparisce che Smaragdo diede ad esso ostinato arcivescovo per questa cagione molti disgusti, e il minacciò di peggio. Ma ricorse egli all'imperadore [Libell. apud Baronium in Append. ad tom. 9 Annal.] con supplicarlo di aspettare che, ritolte ai Longobardi le città dov'erano alcuni de' suoi suffraganei, come Trivigi, Vicenza e simili, andrebbono poi tutti a Costantinopoli, per metter fine alla divisione, secondo il giudizio di sua maestà: quasichè toccasse al tribunale secolaresco il decidere le cause della religione. Maurizio Augusto mandò allora ordine a Smaragdo di non inquietare alcun di que' vescovi per questo motivo, perchè quello non gli pareva tempo di disgustare i popoli che avrebbono potuto gittarsi in braccio ai Longobardi nemici. In tale stato era l'affare [1061] dello scisma d'Aquileja, quando venne a morte l'arcivescovo, ossia patriarca Elia. Dal padre de Rubeis [De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejeus.] si fa mancato di vita nell'anno precedente. Ebbe egli per successore Severo, il quale, al pari dell'antecessore, mise la sua sedia nell'isola di Grado. O sia che il papa avesse rimosso l'imperadore dal proteggere quei vescovi pertinaci nello scisma, o che essendo contro la mente dell'esarco stato eletto Severo, esso Smaragdo si credette di aver le mani slegate, un dì egli arrivò improvvisamente da Ravenna a Grado con molta gente armata, prese il novello patriarca [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 26.], e con esso lui Severo vescovo di Trieste, Giovanni vescovo di Parenzo, e Vindemio vescovo di Ceneda, e violentemente li condusse a Ravenna, dove li tenne sequestrati per un anno. Nel memoriale suddetto dicono i vescovi che l'esarco adoperò ingiurie e bastonate, allorchè per forza levò da Grado que' vescovi. Abbiamo da Teofane [Theoph., in Chron.] che nell'anno sesto di Maurizio imperadore, nel mese di settembre, correndo l'indizione sesta (tutti indizii dell'anno presente, perchè appunto nel mese di settembre cominciò a correre l'indizione sesta), i Longobardi mossero guerra ai Romani. Adunque ragion vuole che la tregua accennata da Paolo Diacono fra i Longobardi e Smaragdo esarco avesse principio, come io congetturai, nell'anno 584, e terminasse nel presente. E dicendo esso storico che di quella tregua fu autore il re Autari, si vien anche ad intendere che l'elezione di questo re non si può differire con Sigeberto e col padre Pagi all'anno 586. Certo è da stupire, com'esso Pagi pretendesse così accurato nelle cose di Italia esso Sigeberto istorico, quando in questi medesimi tempi si scuopre sì abbondante di anacronismi la di lui istoria. Ma qual fatto degno di memoria operassero i Longobardi, [1062] dopo avere ripigliata la guerra coi Romani, non ne ebbe notizia Paolo Diacono, e molto meno ne possiam noi rendere conto. Mi sia lecito avvertire, che fra gli altri malanni recati all'Italia dalla venuta de' Longobardi, non fu già il più picciolo quello d'essersi introdotta una fiera ignoranza fra i popoli, e l'essere andato in disuso lo studio delle lettere, perchè, oltre all'aver que' Barbari prezzate solamente l'armi, le gente italiane fra i rumori e guai delle continuate guerre altra voglia aveano che di applicarsi agli studii, oltre all'essere loro ancora mancati i buoni maestri. Però o niuno s'applicò allora a scrivere la storia de' suoi tempi; o se pur vi fu qualche storico, le sue fatiche si sono perdute. Paolo Diacono non fa menzione se non di Secondo vescovo di Trento, che in questi tempi fioriva, et aliqua de Langobardorum gestis scripsit: il che vuol dire che neppur egli scrisse se non poche cose dei Longobardi. Tuttavia potrebbe essere che appartenesse a questo anno lo scriversi da Giovanni abbate Biclariense [Abbas Biclariensis, in Chron.], che correndo l'anno IV di Maurizio, Antane (vuol dire Autari) re dei Longobardi, venuto alle mani coi Romani, diede loro una rotta, e molti n'uccise, con occupar dipoi i confini dell'Italia. L'anno quarto di Maurizio durò sino all'agosto dell'anno precedente 586, e però a que' tempi dovrebbe appartener questo fatto. Ma non è ben sicura per gli affari d'Italia la cronologia del Biclariense. Egli mette nell'anno appresso l'elezion di papa Gregorio, cioè il Grande, che pur cadde nel 591. Perciò potrebbe essere che quel fatto d'Autari contra i Romani anch'esso succedesse più tardi. E quando sussista la tregua accennata, non potè certo accadere nell'anno 586.


[1063]

   
Anno di Cristo DLXXXVIII. Indizione VI.
Pelagio II papa 11.
Maurizio imperadore 7.
Autari re 5.

L'anno V dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Stette l'arcivescovo d'Aquileja Severo coi due suoi suffraganei in Ravenna per un anno, detenuto sotto buone guardie e con molti disagii. Tante minaccie di esilio e d'altri incomodi furono adoperate [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 3, cap. 26.], che finalmente s'indussero que' prigionieri ad accettare il concilio quinto generale e a comunicar con Giovanni arcivescovo cattolico di Ravenna. Dopo di che furono messi in libertà. Tornarono questi a Grado; ma nè il popolo, nè gli altri vescovi vollero riceverli. Perciò Severo, pentito di quanto aveva operato in Ravenna, fece raunare un conciliabolo nella terra di Marano, dove esibì la confusione e la detestazione dell'errore da sè commesso: così chiamava egli l'aver avuta comunione in Ravenna coi condannatori dei tre capitoli. Queste parole di Paolo indicano ch'egli assai conosceva sopra che fosse fondato lo scisma della provincia d'Aquileja, nè essere certo che egli ignorasse lo stato di quella lite, come talun suppone. Ma l'altre parole di Paolo non lasciano ben intendere se si accordarono i vescovi di quel concilio. Pare che abiurassero lo scisma i seguenti, cioè Pietro, vescovo d'Altino, Chiarissimo di Concordia, Ingenuino di Sabione, Agnello di Trento, Juniore di Verona, Oronzio di Vicenza, Rustico di Trivigi, Fontejo di Feltri, Agnello di Asolo, e Lorenzo di Belluno: e che con Severo patriarca, il quale difendeva i tre capitoli del concilio calcedonense, avessero comunione Severo, vescovo di Trieste, Giovanni di Parenzo, e Vindemio di Ceneda. Ma ciò non sussiste, perchè miriamo poi nel memoriale di sopra accennato più che mai pertinaci nello scisma [1064] i vescovi di Sabione, Belluno, Concordia, Trento, Verona, Vincenza e Trivigi. Fu sparsa voce fra la plebe che Smaragdo patrizio ed esarco di Ravenna per la violenza usata contra di quei vescovi, era stato invasato dal demonio; e Paolo Diacono prese una tal diceria per buoni danari contanti, con aggiugnere ciò giustamente accaduto, perch'egli dovea considerare come un eccesso lo strapazzo fatto a que' vescovi, tuttochè scismatici. Credesi appunto che circa questi tempi, cioè o nell'anno precedente o nel presente, esso Smaragdo fosse richiamato da Maurizio Augusto a Costantinopoli, con essere succeduto nel suo posto Romano patrizio, terzo fra gli esarchi di Ravenna. Abbiamo poi da Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 9, cap. 25.] che in quest'anno il re Autari spedì degli ambasciatori a Childeberto re de' Franchi, per chiedere in moglie Clotsuinda sua sorella. Non dispiacque al re d'Austrasia questa proposizione, ed accettò i ricchi regali inviati a tal fine, con promettere ad Autari quella principessa. Ma arrivati alla corte di Childeberto qualche tempo dopo gli ambasciatori di Recaredo re dei Visigoti, distrussero tutto ciò che aveano fatto i Longobardi. Era il re Recaredo principe di gran possanza, perchè dopo avere il re Leovigildo suo padre defunto acquistata la Gallizia con estinguere il regno degli Svevi, egli signoreggiava oramai quasi tutta la Spagna, e stendeva anche il suo dominio nella Gallia col possesso della provincia narbonese, oggidì appellata la Linguadoca.

Aveva egli inoltre il merito e la gloria d'avere il primo fra i re Goti abbandonato l'arianismo per le persuasioni di san Leandro arcivescovo di Siviglia, e condotta già col suo esempio, se non l'intera nazione de' suoi, certo la maggior parte ad abbracciare la religione cattolica. Ora, o fosse che i ministri del papa e dell'imperadore, a' quali non potea piacere questa alleanza dei Longobardi coi Franchi, disturbassero l'affare, oppure [1065] che fosse creduto più proprio di dar quella principessa ad un re cattolico, come era Recaredo, che ad Autari principe ariano: certo è che il trattato di quel matrimonio per Autari andò per terra, senza che apparisca dipoi s'esso veramente s'effettuasse col re Recaredo: intorno a che disputano tuttavia gli scrittori franzesi. Forse di qui sorse qualche amarezza fra i Longobardi ed i Franchi. In fatti seguita poi a scrivere il Turonense, copiato ancor qui da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 28.], aver fatto intendere Childeberto a Maurizio imperadore, come egli era pronto a far guerra ai Longobardi per cacciarli d'Italia: al qual fine spedì appresso un poderoso esercito in Italia. Il prode re Autari non ispaventato da si gran temporale, unite le sue forze, andò ad incontrare l'armata franco-alamanna. Fu ivi fatto un tal macello de' Franchi, che non ve n'era memoria d'altro simile. Molti furono i prigioni, e gli altri fuggendo pervennero con fatica al loro paese. Queste son parole di Gregorio Turonense, autore contemporaneo e franzese, da cui Paolo Diacono imparò questo avvenimento, giacchè egli troppo scarseggiava di notizie intorno ai fatti d'Italia d'allora. Nè altra particolarità a noi resta di questo sì memorabil fatto. Sicchè andiam sempre più scorgendo qual fosse la protezione dei re franchi, che pure Fredegario ci fa credere comperata dai Longobardi coll'annuo tributo di dodicimila soldi d'oro. A quest'anno ancora crede il padre Pagi che s'abbiano da riferir le parole di Teofilatto [Theophilact., lib. 3, cap. 4.], là dove scrisse, che Roma vecchia (così chiamata a distinzione di Costantinopoli, che portava il nome di Roma nuova) rintuzzò gli empiti de' Longobardi. In qual maniera non si sa; siccome neppur sappiamo a qual anno precisamente s'abbiano da riportar due imprese d'Autari raccontate da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 27.]. Mi si [1066] permetta il farne qui menzione. Fin circa questi tempi s'era mantenuta alla divozione degl'imperadori l'isola Comacina, cioè un'isola posta nel lago di Como, appellato il Lario, luogo assai forte, e che fece anche nel secolo duodecimo gran figura nelle guerre tra i Milanesi e Comaschi. Quivi dimorava per governatore Francione, generale cesareo d'armi, e vi si era mantenuto per ben venti anni contro le forze de' Longobardi. Questo numero d'anni, preso dall'arrivo dei Longobardi in quelle parti, viene a cadere ne' tempi presenti. Un buon corpo di Longobardi formò l'assedio di quella isola, e dopo sei mesi ne costrinse alla resa Francione, a cui nelle capitolazioni fu accordato di potersene andare colla moglie e col suo equipaggio a Ravenna; e la parola gli fu mantenuta. Di grandi ricchezze furono trovate in quell'isola, colà ricoverate, come in luogo sicuro, dagli abitanti di varie città. Si dimenticarono probabilmente gl'ingordi Longobardi di farne la restituzione ai legittimi padroni. Similmente spedì Autari un altro corpo d'armata, di cui fu generale Evino duca di Trento, contro dell'Istria, provincia sempre fedele all'imperadore. Fecero costoro un gran bottino, incendiarono molte case e terre con tal terrore degl'Istriani, che furono obbligati, per liberarsi da questo flagello, di cacciarlo via a forza d'oro. E però i Longobardi, accordata loro la pace, ossia una tregua d'un anno, si ritirarono con portare al re una riguardevol somma di danaro.


   
Anno di Cristo DLXXXIX. Indizione VII.
Pelagio II papa 12.
Maurizio imperadore 8.
Autari re 6.

L'anno VI dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Giacchè non era riuscito al re Autari di ottenere in moglie la principessa [1067] del sangue reale di Francia, rivolse egli le sue mire ad avere Teodelinda, figliuola di Garibaldo duca di Baviera, a cui Paolo Diacono dà il titolo di re, secondo il costume di altri scrittori. Abbiamo da Fredegario [Fredegarius, in Chron., cap. 34.] che tra questa principessa e Childeberto re de' Franchi erano seguiti gli sponsali di futuro matrimonio. Ma la regina Brunichilde, madre d'esso re, una delle grandi faccendiere e sconvolgitrici delle corti dei re franchi, disturbò quelle nozze. Rotto questo trattato, Autari inviò colà un'ambasceria a far la dimanda di Teodelinda [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 29.], e Garibaldo molto volentieri vi acconsentì. Ricevuta questa risposta, e desiderando egli di veder co' suoi occhi la novella sua sposa, prese occasione di mandar dei nuovi ambasciatori colà, e fingendo d'esser anche egli uno d'essi, travestito s'accompagnò con loro. Il capo dell'ambasceria era un vecchio, che ammesso con gli altri all'udienza del duca Garibaldo, espose quanto gli occorreva per parte del suo signore. Dopo di lui si fece avanti l'incognito Autari, e disse che a lui in particolare era stata data dal suo re l'incumbenza di vedere la principessa Teodelinda per potergli riferire le di lei belle qualità, già intese per fama. Fece Garibaldo venir la figliuola; ed Autari ben guatatala da capo a piedi, se ne compiacque forte, e disse che certamente il re de' Longobardi sarebbe ben contento d'avere una tale sposa, e il popolo una tale regina. Poscia il pregò che fosse loro permesso di riconoscerla per tale con ricevere da lei il vino, secondo l'uso della nazion longobarda. Fece Garibaldo portar da bere, e dappoichè Teodelinda ebbe data la coppa al capo degli ambasciatori, la porse all'ignoto Autari; ma questi, in renderla alla principessa, senza che alcun vi facesse mente, le toccò gentilmente la mano, e nel baciare il bicchiere, fece in maniera ch'essa mano della principessa gli toccò la fronte, [1068] il naso e la faccia. Raccontò poi Teodelinda questo fatto alla sua balia, e non senza rossore. Rispose la donna accorta: Signora, niun altro avrebbe osato toccarvi, se non chi ha da essere vostro marito. Ma zitto, che il duca vostro padre nol sappia. Soggiunse dipoi: Voi siete ben fortunata di aver per isposo un principe sì degno e cotanto leggiadro. Era in fatti allora il re Autari nel fiore della sua età, di bella statura, con chioma bionda, e di grazioso aspetto. Se n'andarono gli ambasciatori, ed Autari nell'uscir dei confini della Baviera, appena fatti i complimenti a que' Bavaresi che lo aveano accompagnato, s'alzò sulle staffe quanto potè, e scagliò con tutta forza una picciola scure ch'egli teneva in mano, verso dell'albero più vicino; ed essendo questa andata a conficcarsi profondamente in esso, allora disse: Autari sa fare di queste ferite; e ciò detto, spronò il cavallo, e se ne andò con Dio, lasciando i Bavaresi assai persuasi che questo galante ambasciatore era il principe stesso.

Potrebbe essere che queste ambasciate fossero andate nel precedente anno. Egli è ben da credere che nel presente si effettuasse il matrimonio suddetto. Racconta lo storico longobardo, che dopo qualche tempo arrivarono dei torbidi in Baviera al duca Garibaldo a cagione dell'arrivo de' Franchi: il che ha dato motivo ai moderni scrittori franzesi [Daniel, Histoire de France tom. 1.] di credere che il re d'Austrasia Childeberto, mirando di mal occhio l'amistà e congiunzione di sangue e d'interessi, che s'andava a stabilire fra il duca Garibaldo, suo vassallo, e il re dei Longobardi, all'improvviso facesse marciare un'armata in Baviera, che vi recò dei gravi danni, e tentò di sorprendere Teodelinda. Paolo Diacono altro non racconta se non quel poco che ho riferito di sopra, con aggiugnere appresso che questa principessa se ne fuggì verso l'Italia con Gundoaldo suo fratello, e fece sapere al re Autari la sua venuta. È ignoto [1069] ciò che accadesse al duca Garibaldo suo padre, e nulla di più se n'ha da Gregorio Turonense e da Fredegario. Vedremo bensì fra qualche tempo che a lui succedette Tassilone nel ducato della Baviera. Andò il re Autari incontro a Teodelinda con un grande apparato, e celebrò dipoi con universale allegrezza le nozze nella campagna di Sardi di sopra a Verona nel dì 13 di maggio. In quella occasione scrive Paolo che un fulmine cadde sopra un legno nel recinto, dove era la corte, e che uno degli indovini Gentili che Agilulfo duca di Turino avea seco condotto, gli predisse non dover passare gran tempo che la donna poco fa sposata dal re Autari diverrebbe moglie di esso Agilulfo. A costui minacciò Agilulfo di tagliargli la testa, se mai più gli scappava detta parola di questo; ma l'indovino insistè che si avvererebbe la sua predizione, siccome in fatti seguì. Ma non è se non bene l'andare adagio in prestar fede a cotali dicerie, che non rade volte nascono dopo il fatto. Fu ucciso in Verona nel tempo d'esse nozze Ansullo parente del re Autari, e Paolo Diacono non potè penetrarne la cagione. A' tempi ancora d'esso Paolo correa voce [Paulus Diaconus, de Gestis Langobard., lib. 3, cap. 31.] che circa questi tempi il re Autari, passando pel ducato di Spoleti, arrivasse fino a Benevento, con impadronirsi di quel paese: e poscia arrivasse fino a Reggio di Calabria, dove, avendo osservata una colonna posta alquanto nel mare, spinto innanzi il cavallo, la toccò colla punta della spada con dire: Fin qua arriverà il confine dei Longobardi. Ed era fama che tuttavia quella colonna fosse chiamata la colonna d'Autari. Ma di questi fatti Paolo altro mallevadore non ebbe se non la tradizione del volgo, fondamento molte volte fallace per farci conoscere il vero. Però varii letterati hanno disputato intorno all'origine dell'insigne ducato di Benevento, il quale non si può credere che avesse principio [1070] in quest'anno, quando si ammetta col medesimo Paolo [Paulus Diaconus, de Gestis Langobard., lib. 3, cap. 32.] che Zottone primo duca governasse quel ducato per anni venti. Neppur sembra verisimile ciò che Camillo Pellegrino immaginò, cioè che il ducato suddetto nascesse anche prima della venuta del re Alboino in Italia. Probabilmente ne' primi sette anni dopo la lor calata i Longobardi s'impadronirono di buona parte della Campania e della Puglia, e vi fondarono un ducato di cui fu capo Benevento, e che s'andò a poco a poco dilatando, fino ad abbracciar il regno, appellato ora di Napoli, a riserva della città medesima di Napoli e di alquante altre marittime, che si tennero forti nella divozion dell'imperio. Reggio di Calabria era di queste; e però quantunque Autari fuori di essa città potesse veder quella colonna, pure è più probabile ch'egli non arrivasse fin là. Fu quest'anno funesto all'Italia per un terribil diluvio d'acque, a cui un simile da più secoli non s'era veduto. Il Tevere crebbe nel mese di novembre ad una sterminata altezza in Roma, vi diroccò molte case, empiè i magazzini dei grani con perdita di molte migliaia di moggia d'essi, e fece altri malanni. Ne abbiamo per testimoni i due santi Gregorii [Greg. Magnus, Dialog. lib. 3, cap. 19. Gregor. Turonensis, lib. 10, cap. 1.], allora viventi, cioè il Grande e il Turonense. Dal primo de' quali, siccome ancora da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 23.], sappiamo che per le provincie della Venezia e Liguria, anzi per tutte l'altre d'Italia, si provò questo flagello. Portò esso con seco le lavine d'assaissimi poderi, e ville intere nelle montagne, una gran mortalità d'uomini e di bestie, e ne rimasero disfatte le strade. Racconta san Gregorio Magno un miracolo succeduto in Verona, dove il fiume Adige tanto si gonfiò, che l'acque sue giunsero sino alle finestre superiori della basilica di san Zenone martire, la quale era allora fuori di [1071] quella città. Ma quantunque fossero aperte le porte d'essa basilica, le acque non entrarono dentro, e servirono come di muro alla stessa basilica. Si trovava allora in quella città il re Autari, e questa inondazione si tirò dietro in qualche parte la rovina delle mura di Verona, la qual città da lì a due mesi restò per la maggior parte disfatta da un furioso incendio. Alle inondazioni suddette venne poi dietro la peste, di cui parlerò nell'anno seguente.


   
Anno di Cristo DXC. Indizione VIII.
Gregorio I papa 1.
Maurizio imperadore 9.

L'anno VII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Crebbero dunque nell'anno presente le calamità dell'Italia per una fierissima pestilenza che privò di vita una innumerabil moltitudine di gente. Specialmente infierì essa nella città di Roma [Gregor. Turonensis, lib. 10, cap. 1. Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 23.], e colto da questo medesimo malore papa Pelagio II, passò a miglior vita nel dì 8 di febbrajo. Si venne all'elezione del successore, e i voti concordi del clero, senato e popolo concorsero a voler papa Gregorio, diacono della Chiesa romana, che santamente vivea nel monistero di sant'Andrea, dappoichè fu richiamato da Costantinopoli. Piacque sommamente a tutti una tale elezione, fuorchè ad un solo, e questi fu lo stesso Gregorio, il quale per ischivar questo peso ed onore, secondo che attestano il suddetto Turonense e Giovanni Diacono [Johannes Diaconus, in Vit. S. Gregor., lib. 1, cap. 40.], spedì segretamente delle lettere a Maurizio imperadore, supplicandolo, con quante ragioni potè, di non confermare la sua elezione. Era già passato in uso l'abuso, come altrove s'è detto, che restasse libera al clero, senato e popolo romano [1072] l'elezione del papa; ma non si potea venire alla di lui consecrazione senza il consenso e l'approvazione degl'imperadori. Crede il cardinal Baronio che san Gregorio altamente detestasse, come una eresia, l'introduzion di questo legame, perchè suppone opera d'esso pontefice una sposizione de' Salmi Penitenziali, che è alle stampe. Ma gli eruditi oggidì pretendono che quell'opera uscisse dalla penna di san Gregorio VII papa, a cui certamente convien quel linguaggio; nè avrebbe san Gregorio Magno voluto valersi di questo ripiego per sottrarsi al pontificato, se l'avesse creduto un tirannico sacrilegio, ed avesse tenuto Maurizio Augusto uguale a Nerone e a Diocleziano, come tenne l'autore della sposizione suddetta. Ma scoperto il disegno dell'umile servo di Dio Gregorio, il prefetto di Roma, suo fratello, oppure Germano di nome, fece prendere per istrada le di lui lettere, e ne scrisse egli dell'altre all'imperadore, con addurre tutte le ragioni di dover confermare in tempi sì scabrosi il pontificato nella persona di Gregorio, nobile, perchè di sangue senatorio, e tale per la pietà, per lo sapere e per altre sue rare doti, che pari a lui non si trovava in questi tempi. Mentre si aspettavano le risposte della corte, il santo pontefice si applicò tutto a placar l'ira di Dio in mezzo al gran flagello della pestilenza. A tal fine instituì una general litania, ossia processione di penitenza, con dividere in varie schiere il popolo che vi dovea intervenire, cioè il clero secolare, gli uomini, i monaci, le sacre vergini, le maritate, le vedove, i poveri e i fanciulli. Venne dipoi l'assenso dell'imperadore, e cercò ben Gregorio di fuggire, ma preso, fu per forza condotto alla chiesa, e quivi consecrato nel dì 5 di settembre. Così la Chiesa di Dio venne ad aver un pontefice, esemplare d'ogni virtù, le cui gloriose azioni, la vita santissima, i libri eccellenti sono tuttavia e saranno sempre oggetto dei nostri encomii.

[1073] Intanto non rallentava l'Augusto Maurizio i suoi maneggi presso Childeberto re d'Austrasia, il più potente dei re franchi, per esterminare i Longobardi dall'Italia. Era succeduto dianzi un affare che poteva intorbidar la buona intelligenza fra questi monarchi, se la prudenza di Maurizio non vi avesse trovato rimedio [Gregor. Turonensis, lib. 10, cap. 2.]. Spediti da Childeberto tre ambasciatori a Costantinopoli, fecero scala in Africa a Cartagine. Uno de' lor famigli avendo presa non so qual roba ad una bottega, e differendo di restituirla, fu colto un dì nella piazza dal mercatante, e preso; nè questi voleva lasciarlo, se non restituiva il mal tolto. Il Franco, messa mano alla spada, pagò il povero mercatante con levargli la vita. Ciò udito, il governatore della città con una truppa d'armati e col popolo tumultuante andò all'abitazion dei legati. Usciti fuori due d'essi, furono trucidati dall'infuriata gente. Grippone capo dell'ambasceria ne fece di gravi doglianze, e Costantinopoli, maggiormente quivi espose le sue querele. Maurizio Augusto irritato per l'insolenza de' suoi, ne promise una strepitosa vendetta; e regalato ben bene Grippone, il rimandò a casa assai contento, e con forti istanze, perchè Childeberto movesse l'armi contra de' Longobardi. Premeva a quel regnante di riaver dalle mani dell'imperadore il suo nipote Atanagildo, figliuolo d'Ingonda sua sorella, morta in Africa, e santo Ermenegildo che era stato condotto a Costantinopoli; perciò mise insieme una grande armata, composta di venti duchi, ciascuno de' quali conduceva la gente della sua provincia. Racconta il vescovo turonense, che Audoaldo duca, venendo alla testa del popolo di Sciampagna, arrivato a Metz, vi commise tanti saccheggi ed omicidii, come se fosse stato un nemico della propria terra; e che altrettanto fecero gli altri duchi, con rovinare il proprio paese, prima di riportare vittoria alcuna de' loro nemici. Questo [1074] era uno dei brutti costumi de' Franchi d'allora, e se ne lamentò anche il buon re della Borgogna Guntranno, con avere attribuito a tanta iniquità delle sue genti le rotte ch'egli ebbe dai Goti nella Linguadoca. Ne fo io menzione anche per ricordare che de' Longobardi lontani dal commettere tali eccessi coi sudditi propri, pure dicono tanto male gli scrittori loro nemici, e all'incontro i Franchi, non certo migliori de' Longobardi, si veggono cotanto esaltati da alcuni scrittori. Calò dunque in Italia dalla parte della Rezia, ossia de' Grigioni, e da quella di Trento, lo sterminato esercito dei Franchi, e de' varii popoli della Germania sudditi del re Childeberto divisi in varie colonne. Audoaldo con sei altri duchi passò a dirittura verso Milano, e in quelle vicinanze si accampò. Olone duca arrivato a Bellinzona, terra del distretto di Milano, dove comincia il lago Verbano, ossia Maggiore, quivi lasciò la vita, colpito da un dardo nemico. Ed essendosi queste genti sbandate per andar a cercar di che vivere, dovunque arrivavano, aveano addosso i Longobardi che gli accoppavano senza remissione. Fecero nondimeno i Franchi una prodezza nel territorio di Milano. Eransi portati i Longobardi lungo le sponde di un laghetto, da cui esce un fiumicello a noi ignoto. Giunti colà i Franchi, videro un Longobardo sulla riva opposta armato di tutto punto, che disse loro: È venuto il dì, in cui si vedrà a chi Dio voglia più bene. Passarono di qua dal fiume alcuni pochi Franchi, e messisi addosso a costui, tante gliene diedero, che lo stesero morto a terra. Allora i Longobardi, raccolte le lor bagaglie, si ritirarono tutti, di modo che i Franchi non trovarono in quel sito se non i segni che vi erano stati nemici. Tornarono poscia al loro accampamento, e colà giunsero i legati dell'imperadore per avvisarli che era in marcia per venire ad unirsi con loro l'esercito cesareo fra tre giorni, e se ne accorgerebbono allorchè vedessero data [1075] alle fiamme una villa ch'era sul monte. Aspettarono i Franchi per sei giorni, e mai non videro comparire alcuno. Cedino, ossia Ghedino, duca con tredici altri duchi entrato dalla parte di Trento in Italia, prese cinque castella, e si fece giurare ubbidienza da que' popoli.

Il re Autari da due parti assalito con tante forze, prese in questa congiuntura il saggio partito di tener ben guardati i luoghi forti e le città, dove s'erano rifugiate le genti col loro meglio, lasciando la campagna alla discrezione, ossia indiscrezion de' nemici. S'era specialmente ben fortificato egli e provveduto in Pavia. Ma ciò che non poterono far le spade, lo fece l'aria della state, a cui non erano usati i Franchi e gli Alamanni: cioè s'introdusse la dissenteria in quelle armate, e ne fece una grande strage. Vi si aggiunse anche la fame per la mancanza de' viveri, in guisa che essendo oramai troppo sminuito l'esercito, determinarono que' capitani, dopo tre mesi di scorrerie fatte per la Liguria e per i contorni, di tornarsene al loro paese. Ma nel ritorno la fame li maltrattò cotanto, che furono obbligati a vendere infin l'armi e il vestito per aver da mangiare e per poter giugnere vivi a casa. Nel passare ancora per alcuni paesi (forse de' Grigioni o del Trentino) che erano stati una volta sotto il dominio del re Sigeberto, padre del re Childeberto, diedervi il sacco, e fecero schiavi quanti caddero nelle loro mani. Con tali particolarità racconta Gregorio Turonense questa guerra de' Franchi, i quali o non vollero per politica far danno maggiore ai Longobardi, o non poterono per debolezza; perchè allora non si facea la guerra, come oggidì si pratica, con tanti attrecci, provvisioni di buoni magazzini e maniere di forzar anche le città più forti. Son di parere alcuni scrittori pavesi, che in questa occasione la città di Ticino fosse presa da Papio, uno de' duchi franchi, e cominciasse da lì innanzi a chiamarsi Papia, oggidì Pavia. [1076] Son questo favole prive d'apparenza, non che di fondamento di verità. Era anticamente quella città ascritta alla tribù papia. Di là conghietturo io che possa essere venuta la mutazion del suo nome.

Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 30.], secondo il solito, copiò qui fedelmente il racconto di Gregorio Turonense, con solamente aggiugnere che l'esercito franzese giunse nel territorio di Piacenza, e di là arrivò fino a Verona, con ispianar molte castella, non ostante i giuramenti di salvar quei luoghi, allorchè spontaneamente loro si renderono gli abitanti, credendo i Franchi gente da mantener parola. Nel territorio di Trento specialmente diroccarono Tesana, Maleto, Semiana, Appiano, Fagitana, Cimbra, Vizzano, Brentonico, Volene, Ernemase e due altre castella in Alsuca, ed uno nel veronese. Tutti gli abitanti d'esse castella furono condotti in ischiavitù. Quei soli del castello della Verruca, in numero di secento, per l'interposizione d'Ingenuino vescovo di Sabione (il cui vescovato fu poi trasferito a Brixen) e di Agnello vescovo di Trento, ebbero la fortuna di potersi riscattare con pagare un soldo di oro per cadauno. Ma questa guerra fu di maggior conseguenza di quel che apparisca dal racconto del Turonense e di Paolo Diacono, il quale si accinse a scrivere la storia de' Longobardi con poche notizie. Noi abbiam delle lettere pubblicate dal Freero e dal Du-Chesne [Du-Chesne, Scriptor. Rer. Franc., tom. 1.], e scritte parte dal re Childeberto a Maurizio Augusto, a Giovanni patriarca di Costantinopoli, ad Onorato aprocrisario del papa, a Domiziano vescovo di Melitina e consigliere cesareo, a Paolo padre dell'imperadore e ad altri ufficiali della corte imperiale, dove si fa menzione dei legati inviati a Costantinopoli, e della lega che si manipolava fra questi principi contra de' Longobardi. Ve n'ha dell'altre della regina Brunichilde a Costantina Augusta moglie dell'imperador Maurizio, in cui le raccomanda [1077] forte Atanagildo suo nipote, e ad Anastasia Augusta vedova di Tiberio Costantino imperadore, al suddetto Atanagildo e allo stesso Maurizio Augusto. Ma specialmente son degne di attenzione due lettere, la prima delle quali è scritta al re Childeberto da esso imperadore, in cui gli fa sapere che prima ancora dell'arrivo in Italia dei duchi franzesi, era riuscito all'armata cesarea di prendere per battaglia le città di Modena, d'Altino e di Mantova, venendo in questa maniera ad impedir l'unione delle soldatesche longobarde. Essersi poi inteso che uno dei duchi franzesi, per nome Cheno, aveva trattato di pace con Autari, il quale s'era chiuso in Pavia, essendosi anche gli altri suoi capitani colle lor milizie ritirati in diverse castella. Che trovandosi il suddetto Cheno duca presso Verona con ventimila combattenti, erano andati a trovarlo i messi cesarei per concertar seco l'assedio di Pavia, la presa della qual città avrebbe dato l'ultimo tracollo alla nazion longobarda. Ma che i duchi franchi, dopo aver fatta una tregua di dieci mesi coi Longobardi, se n'erano iti con Dio, senza farne parola con gli uffiziali di Cesare: il che era da credere che sarebbe dispiaciuto non poco ad esso Childeberto, perchè se si fosse ito di accordo, si era sull'orlo di veder libera l'Italia dai Longobardi. Il perchè vivamente il prega di spedire per tempo nel prossimo anno le sue armate in Italia, prima che i Longobardi possano fare la raccolta de' grani, giacchè l'armata cesarea non solamente s'era impadronita delle città suddette, ma erano anche tornate alla divozion dell'imperio quelle di Reggio, Parma e Piacenza coi loro duchi e con assaissimi Longobardi. Finalmente egli raccomanda di ordinare che sieno messi in libertà i poveri Italiani menati schiavi di là dai monti, perchè questa obbligazione era espressa nei patti della lega. L'altra lettera è di Romano patrizio ed esarco di Ravenna, scritta al medesimo re Childeberto, con significargli la [1078] presa delle suddette città di Modena, Altino e Mantova. E che mentre egli era in procinto di portarsi all'assedio di Parma, Reggio e Piacenza, i duchi longobardi di quelle città erano venuti in fretta a trovar esso esarco in Mantova, e s'erano messi all'ubbidienza della santa repubblica (nome usato molto in que' tempi per significare ciò che oggi chiamiamo sacro romano imperio) con dargli per ostaggi i loro figliuoli. Tornato esso esarco a Ravenna, s'era dipoi portato in Istria, per far guerra a Grasolfo nemico. Giunto colà, se gli era presentato Gisolfo magnifico duca, figliuolo di Grasolfo, che nella sua giovanile età avea ciera di voler essere migliore del padre, con offerirgli di sottomettere sè stesso con tutto il suo esercito alla santa repubblica. E che era arrivato in Italia Nordolfo patrizio col suo esercito in servigio dell'imperadore, il quale in compagnia di Ossone, uomo glorioso, avea ricuperate varie città. Il perchè esso Romano, persuaso che il re stia saldissimo nel pensiero di eseguire i patti della lega, e massimamente sapendo ch'egli è in collera contra dei suoi duchi, perchè erano tornati indietro senza aver soddisfatto agli ordini di sua maestà, vorrà ben rispedire l'armata al primo tempo; ed avanti che si faccia il raccolto de' grani, con dei capitani meglio intenzionati; raccomandandosi soprattutto che gli faccia opportunamente sapere qual via terranno in venendo, e a qual preciso tempo si moveranno. In fine il supplica di dar buon ordine alle sue genti, acciocchè non mettano a sacco, nè incendino le case degl'Italiani, in favore e difesa de' quali sono inviate, e niuno d'essi menino in ischiavitù, e allo incontro rilascino i già fatti schiavi.

Queste particolarità fanno abbastanza intendere che la guerra mossa in quest'anno dall'imperadore e dal re Childeberto contra de' Longobardi, più di quel che ne seppero i due sovrallodati storici, portò dei vantaggi all'armi cesaree, e di pericolo al regno de' Longobardi. [1079] E se i Franchi avessero operato di concerto e più daddovero, forse si dava l'ultimo crollo alla signoria d'essi Longobardi in Italia. Anzi mi nasce qui sospetto di qualche abbaglio in Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 2, cap. 4.], il quale, siccome accennai, ci rappresentò per primo duca del Friuli Gisolfo, e tale creato nell'anno 568 dal re Alboino. Ora dalla lettera apparisce che Romano esarco era andato in Istria per far guerra a Grasolfo padre di Gisolfo. Forse questo Grasolfo fu egli il primo duca in quelle contrade, e, venuto a morte in quei tempi, ebbe per successore nel ducato Gisolfo suo figliuolo, il quale andò in questi tempi a sottomettersi all'esarco. Se nell'anno 568 Gisolfo avesse avuto il ducato del Friuli, bisognerebbe supporlo fin d'allora capace di governar popoli. Anzi Paolo dice che il re Alboino Gisulfum, UT FERTUR, suum nepotem, VIRUM per omnia idoneum, qui eidem (regi) Strator erat, quem lingua propria Marpahis appellante Forojulianae civitati, et toti regioni illi praeficere statuit. Ma ciò non può sussistere, perchè, per attestato di Romano esarco, che lo aveva veduto co' propri occhi, era assai giovinetto esso Gisolfo nell'anno 590, in juvenili aetate. Adunque giusto sospetto ci è che Paolo non avesse in questo racconto altro fondamento che la tradizion popolare, e sinceramente lo confessa egli stesso con dire ut fertur; e che il primo duca del Friuli fosse Grasolfo, e successivamente lo stesso Gisolfo in quest'anno 590. Dappoichè si furono ritirate dall'Italia le genti del re Childeberto, sapendo il re Autari [Greg. Turonensis, lib. 10, cap. 3. Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 34.] quanta autorità avesse in tutto l'imperio franzese, specialmente sopra il cuore d'esso Childeberto suo nipote, Guntranno re della Borgogna, uno dei tre re della Francia, allora regnanti, principe pacifico e di tutta bontà; gli spedì degli ambasciatori per pregarlo della sua mediazione ad ottener [1080] la pace. Gli rappresentarono questi la divozione professata in addietro dalla nazion longobarda ai re franchi, co' quali aveano mantenuta sempre una buona intelligenza, senza aver meritato di essere perseguitati da loro: però pregavano che si rimettesse buona amicizia e concordia fra le due nazioni, esibendosi pronti, in qualunque tempo, alla difesa dei Franchi, e che desistessero dall'ajutare un comune nemico, il quale, atterrata l'una nazione, si sarebbe aperto il passo a minacciare e distruggere ancor l'altra. Furono benignamente ascoltati dal re Guntranno, e poscia inviati con qualche sua commendatizia al re Childeberto, al quale con tutta sommessione fecero la medesima rappresentanza. Passò qualche giorno senza che i legati avessero concludenti risposte, quando eccoti arrivarne degli altri, spediti dalla regina Teodelinda colla nuova che il re Autari era morto; i quali pregarono similmente Childeberto di voler concedere la pace ai Longobardi. Childeberto li congedò tutti con delle buone parole e speranze. Fu poi da lì a non molto conchiusa questa pace col successore d'Autari, e da lì innanzi non ebbero molestia alcuna i Longobardi dalla parte dei Franchi: il che servì a renderli animosi, con ridersi eglino dipoi della potenza dei greci imperadori.

In fatti diede fine in quest'anno alla sua vita il re Autari, mentre era in Pavia, nel dì 5 di settembre, per attestato di Paolo Diacono, e corse voce ch'egli morisse di veleno. Ebbe principio in esso mese di settembre l'indizione nona, ed appunto si ha una lettera scritta da s. Gregorio papa [Gregor. Magnus, lib. 1, epist. 17.] sotto la medesima Indizione, e indirizzata a tutti i vescovi d'Italia, con far lor sapere che il nefandissimo Autarit (questo è il titolo, di cui sono frequentemente ornati i re longobardi e la lor nazione dai Romani, perchè troppe offese ne avevano ricevuto, e tuttavia [1081] ne ricevevano. Anche i Goti erano ariani, ma di loro parlavano in altra maniera i Romani, perchè erano sudditi di essi): che Autari, dissi, avea nella prossima passata pasqua vietato il battezzar nella fede cattolica i figliuoli dei Longobardi (ariani), per la qual colpa Iddio lo aveva tolto dal mondo. Paolo Diacono scrive che Autari regnò sei anni; ed essere egli morto nel principio di settembre di quest'anno, adunque dovette egli essere eletto re verso il fine dell'anno 584, come già dicemmo, e non già nello anno 586, come pretese il padre Pagi, che volle seguitar Sigeberto, certamente ingannato sì nel principio che nel fine del governo di Autari. Lo stesso Pagi accordò che in quest'anno esso Autari lasciasse di vivere, nè poi s'avvide che i suoi conti non batteano intorno all'epoca di questo re. Ora bisogna ben che fossero rare le doti e le virtù della regina Teodelinda, benchè di nazion bavarese, perchè non solamente seguitarono i primati longobardi a venerarla ed ubbidirla qual padrona, ma anche le permisero di eleggersi un nuovo marito che fosse degno di reggere il loro regno. Nè diede loro fastidio che Teodelinda professasse la religione cattolica: tanta doveva essere la saviezza, la pietà e la prudenza di questa principessa. Avrebbe ella, credo io, scelto volentieri un principe longobardo cattolico di credenza, se lo avesse trovato, ma niun ve n'era. Però, seguendo il consiglio de' più assennati, mise li occhi sopra Agilolfo duca a di Torino, principe bellicoso, parente del defunto re Autari, di bell'aspetto, di mente attissima a ben governar dei popoli. Fattolo chiamare alla corte, gli andò incontro fino alla terra di Lomello, onde prese il nome il paese della Lomellina, alcune miglia lungi da Pavia. Colà giunto Agilolfo, fece Teodelinda portar da bere, e dopo aver essa bevuta la metà d'una tazza, [1082] porse il resto ad Agilolfo, il quale, nel restituirle la tazza, riverentemente le baciò la mano. Allora la regina sorridendo, ma con onesto rossore, gli disse, non essere di dovere ch'egli baciasse la mano a chi dovea baciare la bocca. Ed ammessolo all'altro bacio, gli significò la intenzione sua d'averlo per marito e di farlo re. Che più? Le nozze si celebrarono con gran solennità ed allegria sul principio di novembre, ed Agilolfo cominciò bene ad ajutar la regina consorte nel governo del regno, ma per allora non assunse il titolo di re. Non si sa intendere come Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 10, cap. 3.] scrivesse, che mentre stavano presso del re Childeberto i legati del re Autari, arrivò la morte d'esso Autari, e che in suo luogo era succeduto Paolo. Di questo Paolo non v'ha memoria alcuna; nè esso è nome longobardico. Molto meno può esso convenire ad Agilolfo, che solamente due mesi, dappoichè era morto Autari, sposò Teodelinda, in guisachè non potè mai, coll'avviso della morte d'Autari, giugnere alla corte di Childeberto la nuova del successore eletto. Meglio informato degli affari de' Longobardi non fu Fredegario [Fredegarius, in Chron. cap. 34.] colà, dove scrive che Agone re de' Longobardi, figliuolo del re Autari, prese per moglie Teodelinda di nazione franzese: cioè non seppe che questa principessa in prime nozze era stata moglie del re Autari, e fallò in credere Agone figliuolo d'Autari. Per altro Agilolfo fu anche nomato, per testimonianza di Paolo Diacono, Ago o Agone: il che si vede praticato in questi tempi per altri nomi. In quest'anno Maurizio imperadore dichiarò Augusto e collega nell'imperio Teodosio suo primogenito, nato nell'anno 585. Ciò apparisce dal racconto che fa degli atti di s. Gregorio il Grande Giovanni Diacono [Johann. Diacon., in Vit. S. Greg. M., lib. 1, cap. 40.].


[1083]

   
Anno di Cristo DXCI. Indizione IX.
Gregorio I papa 2.
Maurizio imperadore 10.
Agilolfo re 1.

L'anno VIII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Egregiamente serve a comprovare che non, come s'ha ne' testi della cronica Alessandrina, si hanno a notare gli anni del consolato di Maurizio Augusto, uno strumento pubblicato dal chiarissimo marchese Scipione Maffei [Maffei, Ist. Diplom., pag. 165.], ed esistente presso di lui. Esso fu scritto in Classe ravennate imp. DN. N. Mauricio Tiberio P. P. Aug. anno nono, post consulatum ejusdem anno octavo, sub die sexto nonarum martiarum, Indictione nona: cioè nell'anno presente. Benchè poi fossero seguite le nozze tra la regina Teodelinda e il duca Agilolfo nel novembre dell'anno precedente, pure la dignità regale non fu conferita ad esso Agilolfo se non nel maggio di quest'anno alla dieta generale de' Longobardi, che si raunò in Milano. Chi scrive ch'egli fu coronato in Milano colla corona ferrea non è assistito da documento, o testimonianza alcuna dell'antichità. Però da questo tempo io comincio a numerar gli anni del suo regno. Fredegario [Fredegar., in Chron., cap. 13.] anche egli mette sotto il presente anno l'assunzione al trono di Agilolfo. La prima applicazione di questo novello re [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 1.] fu quella di spedire Agnello vescovo di Trento in Francia, ossia in Germania, al re Childeberto, per liberare gl'Italiani condotti colà schiavi dai Franchi: pensiero degno di un re che dee essere padre del suo popolo. Trovò il vescovo che la regina Brunechilde, madre d'esso re, principessa famosa non meno per gli suoi vizii che per le sue virtù, avea riscattato col proprio danaro molti di quegli sventurati, e molti altri, col danaro [1084] del re Agilolfo, ne riscattò il vescovo, e tutti li ricondusse in Italia. Fu eziandio mandato dal re Agilolfo per suo ambasciatore alle Gallie Evino duca di Trento, cioè, come si può credere, a Guntranno, re della Borgogna, e a Clotario II suo nipote, re della Neustria, ossia della Francia occidentale, affinchè unitamente s'interponessero per condurre alla pace Childeberto re della Francia orientale, ossia dell'Austrasia, che comandava ad una parte delle Gallie e a buona parte ancora della Germania. Probabilmente venne in questi tempi a morte Atanagildo nipote d'esso Childeberto, già condotto a Costantinopoli, in riguardo del quale, cioè per riaverlo dalle mani de' Greci, avea Childeberto fatta guerra ai Longobardi. Certo non si truova più da lì innanzi memoria di lui nelle storie. Questo impegno dunque cessato, e riflettendosi da Childeberto che non gli tornava il conto ad ingrandire colla rovina dei Longobardi l'imperadore, la cui potenza avrebbe potuto un dì nuocere ai Franchi stessi, con isvegliar le antiche pretensioni, non fu difficile lo stabilir finalmente la pace tra i Franchi e Longobardi: il che servì a maggiormente stabilire il regno longobardico in Italia. Nell'anno addietro, allorchè i Franchi calati in Italia fecero sì aspra guerra, non dirò ai Longobardi, ma alle campagne degl'Italiani, Minolfo duca [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 1.], cioè governatore della isola di s. Giuliano, s'era gittato in braccio a questi nuovi venuti. In vece di san Giuliano, si ha da leggere s. Giulio, la cui isola tuttavia ritien questo nome nella diocesi di Novara e nel lago d'Omegna. Perchè quel sito era inespugnabile, qualora si fossero ritirate tutte le barche del lago, perciò parve al re Agilolfo che Minolfo non per necessità, ma per codardia o per tradimento si fosse gittato nel partito dei Franchi: perciò gli fece tagliar la testa ad esempio degli altri. Ossia poi che a Gaidolfo, appellato da altri Gandolfo, duca di Bergamo, non [1085] fosse piaciuta l'elezione del re Agilolfo, o ch'egli non volesse ubbidirlo, costui si ribellò contra di lui, e fortificossi gagliardamente in essa città. Accorse colà il re, e gli mise tal paura, che l'indusse a chiedere misericordia. Nè la chiese indarno; gli perdonò Agilolfo: ma per sicurezza della di lui fedeltà volle avere e condur seco degli ostaggi. Bisogna poi che costui fosse un cervello ben inquieto, perchè tornò poscia a ribellarsi, e si fortificò nell'isola posta nel lago di Como. Non tardò il re Agilolfo a cavalcare di nuovo per reprimere costui, ed ebbe la fortuna di cacciarlo di colà. Gli furono pagate le spese del viaggio, perchè avendo ivi trovate molte ricchezze, rifugiate dagl'Italiani in quel forte sito, vi mise le mani addosso, e se le portò, senza farsene scrupolo, a Pavia. Ma avendo noi veduto di sopra un simil racconto dell'isola Comacina, ch'è la stessa, può nascere dubbio intorno alle ricchezze ivi trovate, o in quella o pure in questa volta. Seguitò, ciò non ostante, Gaidolfo ad alzare le corna contra del re, confidato nella fortezza di Bergamo; ma Agilolfo il costrinse di nuovo ad umiliarsi: con che tornò, mercè della sua clemenza, a rimetterlo in sua grazia. Anche Ulfari duca di Trivigi uno fu di quelli che si ribellarono al re Agilolfo; ma, assediato in quella città, fu forzato a rendersi prigione. Racconta Paolo che in quest'anno non piovve nel mese di gennajo fino al settembre, e però si fece una misera raccolta. Diedero ancora un gran guasto al territorio di Trento le locuste, cioè le cavallette più grosse delle ordinarie, con divorar le foglie degli alberi e l'erbe dei prati. Ma non toccarono i grani, e nell'anno seguente si provò questo medesimo flagello. A questi mali s'aggiunse una terribil peste, che afflisse specialmente Ravenna e l'Istria; e da una lettera di s. Gregorio Magno [Gregor. Magnus, lib. 2, ep. 2.] apparisce che questo malore infestava anche la città di Narni.


[1086]

   
Anno di Cristo DXCII. Indizione X.
Gregorio I papa 3.
Maurizio imperadore 11.
Agilolfo re 2.

L'anno IX dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Assicurato il suo regno dalla parte dei Franchi colla pace con esso loro stabilita, e depressi gl'interni nemici, volle ancora il re Agilolfo provvedere alla sicurezza sua dalla parte degli Avari, ossia degli Unni o Tartari che dominavano nella Pannonia, e stendevano la lor signoria sopra gli Sclavi, che diedero il nome alla Schiavonia. Era formidabile anche la potenza di quella nazione, e non andrà molto che cominceremo a vederne le funeste pruove in Italia. Con costoro fu conchiuso un trattato di pace e di amistà. Ma non erano terminati i mali umori interni. Romano esarco lavorava sott'acqua, e tanto seppe fare, che con promesse e danari guadagnò Maurizio, ossia Mauricione o Mauritione duca di Perugia [Gregor. Magnus, lib. 2, ep. 8.], che accettò presidio greco in quella città. Si trovava allora l'esarco in Roma, ed ansioso di mettere il piede in sì riguardevol città, che poteva servirgli di frontiera contra de' Longobardi, si mosse di colà, conducendo seco quanti armati potè; e nel viaggio non solamente se gli diede Perugia, ma egli prese inoltre alcune delle città frapposte, cioè Sutri, Polimarzo, oggidì Bomarzo, Orta, Todi, Ameria, Luceolo, ed altre, di cui lo storico non seppe il nome. Giunsero queste disgustose nuove ad Agilolfo dimorante in Pavia, che ne dovette prontamente scrivere al duca di Spoleti, intanto che egli preparava l'esercito per accorrere in persona a quelle parti. A Faroaldo primo duca di Spoleti, morto, non si sa in qual anno, era succeduto Ariolfo, uomo di gran valore. Io non so [1087] come, a chi compilò la vita di s. Gregorio Magno, scappò detto che questo Ariolfo fu duca di Benevento. Dal Baronio poi fu creduto duca de' Longobardi nella Toscana. Certo è ch'egli era duca di Spoleti, e lo attestano Paolo Diacono e l'autore della Cronica Farfense. In questi tempi l'Umbria da alcuni fu riguardata come parte della Toscana. Ora trovandosi egli il più vicino ai paesi caduti in mano del nemico esarco, si mise tosto in armi ed entrò in campagna. Fu preveduto questo colpo dal santo papa Gregorio; e siccome sulla sua vigilanza e prudenza specialmente posava la salute di Roma, ed era alla saggia sua direzione raccomandato il maneggio anche degli affari temporali in tempi sì scabrosi, egli perciò scrisse [Gregor. Magnus, lib. 2, ep. 3, 29 et 30.] a Veloce maestro della milizia, ossia generale d'armata, che intendendosi con Maurilio e Vitaliano, a' quali ancora fece intendere la sua mente, stessero bene attenti ai movimenti del duca di Spoleti, e caso che si inviasse verso Roma o verso Ravenna, gli dessero alla coda. Ciò fu nel mese di giugno, e voce correva che Ariolfo fosse per essere sotto Roma nella festa di san Pietro. Nell'epistola trentesima notifica esso papa ai suddetti Maurilio e Vitaliano, che nel dì 11 quel mese (e non già di gennajo, come hanno alcune edizioni) esso duca Ariolfo gli avea scritta una lettera, di cui loro manda copia, con raccomandare ai medesimi di tenere all'ubbidienza dell'imperadore la città di Soana posta nella Toscana, se pure Ariolfo non gli ha prevenuti, con portar via di là gli ostaggi. Costa poi da un'altra lettera di s. Gregorio [Idem, lib. 2, ep. 46.], scritta a Giovanni arcivescovo di Ravenna, che Ariolfo arrivò colle sue genti fin sotto Roma, e quivi tagliò a pezzi alcuni, ad altri diede delle ferite: cosa che afflisse cotanto il placido animo dell'ottimo pontefice, che ne cadde malato, assalito da dolori colici. Quel nondimeno che maggiormente pareva a [1088] lui intollerabile, era, ch'egli avrebbe avuta maniera d'indurre alla pace i nemici (probabilmente impiegando del danaro, com'era solito in simili frangenti di fare), ma l'esarco Romano non gliel voleva permettere: del che si duol egli forte coll'arcivescovo suddetto. E tanto più, perchè essendo stato rinforzato Ariolfo dalle soldatesche di due altri condottieri di armi, Autari e Nordolfo, difficilmente volea più dar orecchio a trattati di pace. Pertanto il prega che se ha luogo di parlar di tali affari con sì strambo ministro, cerchi di condurlo alla pace, con ricordargli specialmente che s'era levato di Roma il nerbo maggiore delle milizie, per sostenere l'occupata Perugia, come egli deplora altrove [Gregorius M., lib. 5, ep. 40.], nè vi era restata altra guarnigione che il reggimento teodosiano, così appellato da Teodosio Augusto, figliuolo di Maurizio imperadore, il quale ancora, per essere privo delle sue paghe, stentava ad accomodarsi alla guardia delle mura. Aggiugne che anche Arichi, ossia Arigiso duca di Benevento, il quale era succeduto a Zottone primo duca di quella contrada, instigato da Ariolfo, rotte le capitolazioni precedenti, avea mosse le sue armi contra de' Napoletani, e minacciava quella città.

Non si doveano credere i Longobardi obbligati ad alcun trattato precedente, da che l'esarco sotto la buona fede aveva occupato ad essi Perugia con altre città. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 19.] parla della morte di Zottone suddetto dopo venti anni di ducato, con dire che in suo luogo succedette Arigiso, mandato colà dal re Agilolfo, e per conseguente o in questo o nel precedente anno, con intendersi da ciò che il ducato beneventano dovette aver principio circa l'anno 571, come pensò il padre Antonio Caracciolo. Era Arigiso nato nel Friuli, avea servito d'ajo a' figliuoli di Gisolfo duca del Friuli, ed era parente del medesimo Gisolfo. [1089] Risulta poi dalla suddetta lettera di san Gregorio all'arcivescovo di Ravenna, che la città di Fano era posseduta allora dai Longobardi, e vi si trovavano molti fatti schiavi, per la liberazion de' quali aveva il caritativo papa voluto inviare nel precedente anno una persona con danaro; ma questa non si era arrischiata di passare pel ducato di Spoleti, che divideva Roma da quella città ed era sotto il dominio de' Longobardi. Tuttavia non lasciò Fortunato, vescovo d'essa città, di riscattarli, con aggravarsi di molti debiti per questa santa azione [Greg. Magnus, lib. 7, epist. 13.]; e san Gregorio gli concedette dipoi che potesse vendere i vasi sacri delle chiese per pagare i creditori. Quel Severo vescovo scismatico, la cui città era stata bruciata, e per cui l'arcivescovo di Ravenna chiedeva delle limosine a san Gregorio, vien creduto vescovo di Aquileja dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] e dal padre Mabillone [Mabill., in Annal. Bened., lib. 8, cap. 37.]. Io il tengo per Severo vescovo d'Ancona, nominato altrove da san Gregorio, giacchè egli dice: Juxta quippe est civitas Fanum: il che non conviene nè a Grado nè ad Aquileja. Nell'edizione di san Gregorio fatta da' padri Benedettini, la lettera sedicesima del libro nono [Greg. M., lib. 9, ep. 16, edition. Bened.] è ad Serenum anconitanum episcopum. Si ha da leggere ad Severum, apparendo ciò dalla susseguente lettera ottantesima nona [Idem, ibid. epist. 89.]. Dovea questo vescovo, addottrinato dalle disgrazie della sua città, avere abbandonato lo scisma e meritata la grazia di san Gregorio.


[1090]

   
Anno di Cristo DXCIII. Indizione XI.
Gregorio I papa 4.
Maurizio imperadore 12.
Agilolfo re 3.

L'anno X dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Ci fa sapere Paolo Diacono, che irritato forte il re Agilolfo per la perdita di Perugia e dell'altre suddette città, si mosse immediatamente da Pavia con un possente esercito per riacquistare quella città. E però potrebbe essere che appartenesse al precedente anno questo suo sforzo. Ma non parlando punto san Gregorio di Agilolfo nelle lettere scritte in quell'anno, nè essendo molto esatto nell'ordine dei tempi lo storico suddetto, chieggo licenza di poter riferire al presente anno l'avvenimento suddetto. Venne dunque il bellicoso re con grandi forze all'assedio di Perugia, e con tal vigore sollecitò quell'impresa, che tornò alle sue mani essa città, e Maurizio preso pagò colla sua testa il tradimento fatto. Come poi e quando Perugia tornasse in poter dei Romani, nol so. Certo è che vi tornò. Par ben credibile che Agilolfo ricuperasse ancora l'altre città a lui tolte dall'esarco. Nè questo gli bastò. Volle anche tentare Roma stessa: al che non fece mente Paolo Diacono, allorchè scrisse, che dopo la presa di Perugia Agilolfo se ne tornò a Pavia. Racconta il santo pontefice [Gregor. M., Praefat. lib. 2, in Ezechi.] ch'egli era dietro a spiegare al popolo il capitolo quarantesimo di Ezechiello, allorchè s'intese jam Agilulphum Longobardorum regem, ad obsidionem nostram summopere festinantem, Padum transisse. E che seguissero dipoi dei gran travagli e danni al popolo romano, si raccoglie da quanto seguita appresso a dire il medesimo san Gregorio [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 8.]: Ubique luctus aspicimus. Ubique gemitus audivimus; destructae urbes, [1091] eversa sunt castra, depopulati sunt agri, in solitudinem terra redacta est. Alios in captivitatem duci, alios detruncari, alios interfici videmus. Aggiugne più sotto [Greg. M., Homil. 6, lib. 2.]: Nemo autem me reprehendat, si post hanc locutionem cessavero, quia, sicut omnes cernitis, nostrae tribulationes excreverunt. Undique gladio circumfusi sumus, undique imminens mortis periculum timemus. Alti detruncatis ad nos manibus redeunt; alii captivi, alii interemti ad nos nuntiantur. Jam cogor linguam ab expositione retinere. E queste parole son quelle che fecero dire a Paolo Diacono [Idem, lib. 2, Homil. ultim.], il qual sembra discorde da sè medesimo, essere rimasto sì atterrito il beato Gregorio papa dall'arrivo del re Agilolfo, che cessò dal proseguire la spiegazion del testo di Ezechiello. Crede il cardinal Baronio che questi guai di Roma succedessero nell'anno 595, quando tutte le apparenze sono che molto prima arrivasse un sì atroce flagello addosso a quella città. Ed è fuor di dubbio che Roma, tuttochè guernita d'un debolissimo presidio, valorosamente si difese in quelle strettezze, di modo che il re Agilolfo, scorgendo la difficoltà dell'impresa, fors'anche segretamente commosso dalle preghiere e dai regali, che a tempo opportuno soleva impiegare per bene del suo popolo il generoso papa Gregorio, si ritirò da quei contorni, e dopo tanti danni inferiti lasciò in pace i Romani. Mancò di vita in quest'anno uno dei re franchi, cioè Guntranno re della Borgogna, principe per la pietà e per altre virtù assai commendato. Perchè in questi tempi non si durava gran fatica a canonizzare gli uomini, e specialmente i principi dabbene per santi, però anche a lui toccò d'essere messo in quel ruolo. Morì senza figliuoli, e lasciò tutti i suoi stati al re di Austrasia Childeberto, la cui potenza con una sì gran giunta divenne formidabile. E buon pei Longobardi che neppur [1092] egli sopravvivesse di molto a questo suo zio.


   
Anno di Cristo DXCIV. Indizione XII.
Gregorio I papa 5.
Maurizio imperadore 13.
Agilolfo re 4.

L'anno XI dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Credesi che nell'anno precedente san Gregorio papa prendesse a scrivere i suoi Dialoghi; ma c'è anche motivo di giudicare che ciò succedesse nell'anno presente, scrivendo egli [Gregor. Magnus, Dialog., lib. 3, cap. 19.] che cinque anni prima era seguita la fiera innondazione del Tevere. Manteneva intanto il santo pontefice buona corrispondenza con Teodelinda regina dei Longobardi, principessa piissima e bene attaccata alla religione cattolica: il che giovò non poco per rendere il re Agilolfo suo consorte, benchè ariano, ben affetto e favorevole ai Cattolici stessi, e servì in fine, siccome diremo, ad abbracciare la stessa fede cattolica, se pur sussiste ciò che ne lasciò scritto Paolo Diacono. Era stato eletto arcivescovo di Milano Costanzo; e perchè si sparse voce ch'egli avesse condannati i tre capitoli del concilio calcedonense, ed accettato il concilio quinto, tre vescovi suoi suffraganei, fra' quali specialmente quello di Brescia, non solamente si separarono dalla di lui comunione, ma eziandio indussero la regina a fare lo stesso. Restano due lettere scritte da san Gregorio [Idem, lib. 4, ep. 4, et 38.] alla medesima regina, nelle quali si duole ch'ella si sia lasciata sedurre, quasi la dottrina del concilio calcedonense, principalmente sostenuta dalla Chiesa romana, avesse patito alcun detrimento per le persone condannate dipoi nel quinto concilio generale. Da altre lettere del medesimo papa pare che si raccolga essersi Teodelinda umilmente accomodata [1093] alle di lui esortazioni. Ma veggasi all'anno 604. Abbiamo anche da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 5.] che a questa buona principessa san Gregorio, non si sa quando, inviò in dono i Dialoghi suddetti. Una delle maggiori premure, che circa questi tempi nudriva l'infaticabil pontefice, era quella di stabilir la pace coi Longobardi. A così lodevol pensiero chi s'opponesse lo vedremo nell'anno seguente, contuttochè io non lasci di sospettare che possa tal pace appartenere all'anno presente, non essendo noi certi che tutte le lettere di san Gregorio papa sieno disposte con ordine esattissimo di tempo. Comunque sia, in una lettera scritta da esso papa sotto l'indizione duodecima, cioè sotto quest'anno, al sopra citato Costanzo arcivescovo di Milano, si vede che il ringrazia delle nuove dategli del re Agone (così ancora veniva chiamato, siccome già accennai, il re Agilolfo) e dei re de' Franchi, e desidera d'essere informato di tutto altro che possa accadere. Dice in fine una particolarità degna d'attenzione nelle seguenti parole, cioè: Se vedrete che Agone re de' Longobardi non possa accordarsi col patrizio (ossia con Romano esarco), fategli sapere che si prometta meglio di me, perchè son pronto a spendere, s'egli vorrà consentire in qualche partito vantaggioso al romano imperio. Desiderava Gregorio che seguisse la pace generale, e perchè ciò venisse effettuato, si esibiva a pagare; e quando poi non si potesse concludere questa general pace, proponeva di farla almeno col ducato romano, per non vedere più esposto alle miserie della guerra il popolo, ch'egli più degli altri era tenuto ad amare. Sono di parere i padri Benedettini, nella edizione di san Gregorio, che a quest'anno appartenga una lettera del medesimo santo papa [Gregor. Magnus, lib. 4, ep. 47.] scritta a Sabiniano suo apocrisario, ossia nunzio alla corte di Costantinopoli, con ordinargli di dire ai serenissimi nostri padroni, che [1094] se Gregorio lor servo si fosse voluto mischiare nella morte dei Longobardi, oggidì la nazione longobarda non avrebbe nè re, nè duchi, nè conti, e si troverebbe in una somma confusione. Ma perchè egli ha timore di Dio, teme di mischiarsi nella morte di chicchessia. Parole degne d'attenzione, per conoscere sempre più la santità di Gregorio, e qual fosse il governo de' Longobardi, del quale parleremo in altro luogo. Era imputato il santo pontefice d'aver fatto morire in carcere Malco vescovo longobardo, oppure di qualche città suggetta ai Longobardi; e però si giustificò colle suddette espressioni.


   
Anno di Cristo DXCV. Indizione XIII.
Gregorio I papa 6.
Maurizio imperadore 14.
Agilolfo re 5.

L'anno XII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Non cessava il santo pontefice Gregorio di far delle premure perchè si venisse ad una pace fra l'imperio e i Longobardi, sì perchè avea troppo in orrore gl'infiniti disordini prodotti dalla guerra, e sì perchè toccava con mano la debolezza dell'imperio stesso, che non poteva se non perdere continuando la discordia. Ora egli a tal fine scrisse in questo anno a Severo, scolastico (cioè consultore) dell'esarco [Gregor. Magnus, lib. 5, ep. 36.], con fargli sapere che Agilolfo re de' Longobardi non ricusava di fare una pace generale, purchè l'esarco volesse emendare i danni a lui dati, prima che fosse venuta l'ultima rottura, esibendosi anch'egli pronto a fare lo stesso, se i suoi nel tempo della pace aveano danneggiato le terre dell'imperio. Però il prega di adoperarsi, acciocchè l'esarco acconsenta alla pace; che per altro Agilolfo si mostrava anche disposto a stabilirla coi soli Romani. Oltre a ciò, avvertisce l'esarco che varii luoghi ed isole erano in pericolo manifesto di perdersi; e però s'affrettasse ad [1095] abbracciar la proposta concordia, per poter avere un po' di quiete, e mettersi intanto in forze da poter meglio resistere. Ma l'esarco Romano era della razza di coloro che antepongono il proprio vantaggio a quello del pubblico. Se la guerra recava immensi mali alla misera Italia, fruttava ben di molti guadagni alla borsa sua. E perciò non solamente abborriva la pace, ma giunse infino a caricar di calunnie il santo pontefice alla corte, in maniera che circa il mese di giugno Maurizio Augusto scrivendo ad esso papa e ad altri delle lettere, il trattò da uomo semplice e poco accorto, quasichè si lasciasse burlare da Ariolfo duca di Spoleti con varie lusinghe di pace, ed avesse rappresentato alla corte o all'esarco delle cose insussistenti. Chi legge la lettera scritta in questo proposito dall'incomparabil pontefice, non può di meno di non ammirare e benedire la singolar sua umiltà e la destrezza, con cui seppe sostenere il suo decoro, e nello stesso tempo non mancar di rispetto a chi era principe temporale di Roma. Duolsi egli, fra l'altre cose, che sia stata rotta dagli uffiziali cesarei la pace da lui stabilita coi Longobardi della Toscana, mercè dell'occupazion di Perugia: poscia dopo la rottura, che sieno stati levati di Roma i soldati ivi soliti a stare di presidio, per guernire Narni e Perugia, lasciando in tal guisa abbandonata ed esposta a pericoli di perdersi quell'augusta città. Aggiugne essere stata la piaga maggiore l'arrivo di Agilolfo, perchè si videro tanti miseri Romani legati con funi al collo a guisa di cani, e condotti a vendere in Francia, dove dovea praticarsi un gran mercato di schiavi, benchè cristiani. Tali parole fecero credere al Sigonio [Sigon., de Regn. Ital., lib. 1.] che l'assedio di Roma fatto da Agilolfo s'abbia da riferire all'anno precedente 594, e non è dispregevole la di lui conghiettura, quantunque a me sembri più probabile che quel fatto succedesse prima. Si lagna ancora [1096] il buon papa che dopo essere i Romani scampati da quel fiero turbine, si voglia ancora crederli colpevoli per la scarsezza del frumento, in cui si trovava allora la città, quando s'era già rappresentato alla corte che non si potea lungo tempo conservare in Roma una gran provvisione di grano. E sofferiva bene esso papa con pazienza tante contrarietà; ma non sapeva già digerire che gli Augusti padroni fossero in collera contra di Gregorio prefetto di Roma, e di Castorio generale delle milizie, che pure aveano fatto de' miracoli nella difesa della città.

Di questo passo andavano allora gli affari d'Italia con un principe che vendeva le cariche, che credeva più ai cattivi che ai buoni consiglieri, e sceglieva ministri malvagi, i quali venivano in Italia, non per far del bene ai popoli, ma per ismugnere il loro sangue. Di questo ne abbiam la testimonianza dello stesso san Gregorio in una lettera scritta a Costantina Augusta moglie dell'imperadore Maurizio [Greg. Magnus, lib. 5, ep. 41.], dove le significa d'aver convertito alla fede molti gentili che erano nell'isola di Sardegna, e scoperto in tal congiuntura che costoro pagavano dianzi un tanto al governatore per aver licenza di sagrificare agl'idoli; e che anche dopo la lor conversione seguitava il governatore a voler che pagassero. Ripreso dal vescovo per tale avania, avea risposto d'aver promesso alla corte tanto danaro per ottener quella carica, e che neppur questo bastava per soddisfare al suo impegno. Nella Corsica poi tante erano le gravezze, che gli abitanti per pagarle erano costretti fino a vendere i proprii figliuoli, di maniera che moltissimi, i quali possedevano beni in quell'isola, erano forzati a ricoverarsi sotto il dominio della nefandissima nazion dei Longobardi, la quale dovea trattar meglio i sudditi suoi, e superava nel buon governo i Greci. Così in Sicilia eravi un esattore imperiale per nome Stefano, che senza processo confiscava a più non posso [1097] i beni di que' possidenti. Peggio nondimeno che gli altri operava Romano patrizio, esarco di Ravenna. Con tutta la sua umiltà e pazienza il santo pontefice Gregorio non potè di meno di non accennare a Sebastiano vescovo del Sirmio [Greg. Magnus, ep. 42.], amico d'esso esarco, le oppressioni che Roma pativa per l'iniquità di costui. Breviter dico (sono sue parole) quia ejus in nos malitia gladios Longobardorum vicit, ita ut benigniores videantur hostes, qui nos interimunt, quam reipublicae judices, qui nos malitia sua, rapinis atque fallaciis in cogitatione consumunt. Eppure i soli Longobardi erano trattati da nefandissimi. Venne a morte in quest'anno Giovanni arcivescovo di Ravenna, e in suo luogo fu eletto Mariniano, a cui papa Gregorio concedette il pallio. Rapporta eziandio Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 4.] una bolla di papa Gregorio, confirmatoria de' privilegii della chiesa ravennate; ma che contien troppe difficultà per crederla vera. Il cardinal Baronio [Baronal. An. Eccl.] ne ha mostrata la falsità. Passò ancora a miglior vita san Gregorio vescovo Turonense, insigne storico delle Gallie. Circa questi tempi fu creato duca di Baviera Tassilone da Childeberto re dell'Austrasia. Egli è chiamato re della Baviera da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 7.] e da Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] copiatore d'esso Paolo. Ma niun d'essi e niuna delle memorie antiche ci fa sapere cosa divenisse di Garibaldo duca o re d'essa Baviera, padre, siccome dicemmo, di Teodelinda regina de' Longobardi. Credesi che egli terminasse il corso de' suoi giorni, oppure che Childeberto sovrano della Baviera, a cagion dell'alleanza da lui contratta per via del matrimonio suddetto coi re longobardi, e da lui mal veduta, gli movesse [1098] guerra e il deponesse. Si sa ch'egli ebbe un figliuolo per nome Gundoaldo, che venne in Italia colla sorella Teodelinda, e questi, per attestato di Fredegario [Fredegar., in Chron., cap. 34.], si accasò con una donna nobile di nazion longobarda, e n'ebbe de' figliuoli. Avremo occasione di parlare di questi principi più abbasso. Nè vo' lasciar di dire che in questi tempi l'umile pontefice romano ebbe da combattere colla superbia di Giovanni il Digiunatore, patriarca di Costantinopoli, il quale voleva attribuirsi il titolo di vescovo ecumenico ossia universale. A questa usurpazione egli si oppose con tutta forza e mansuetudine. Ne scrisse a lui [Gregor. Magnus, lib. 5, epist. 21.], all'imperadore, e a Costantina imperadrice, dolendosi specialmente con quest'ultima, perchè si permettesse che fosse maltrattata la Chiesa romana, capo di tutte. Dice, fra le altre cose, in essa lettera, essere già ventisett'anni che i Romani viveano fra le spade dei Longobardi (prendendo le afflizioni dell'Italia dall'anno 568, in cui i Longobardi vi entrarono), e che la Chiesa romana avea fatto e faceva di grandi spese della propria borsa per regalare essi Longobardi, e salvare con tal mezzo il suo popolo: di modo che siccome l'imperadore teneva in Ravenna il suo tesoriere e spenditore per pagare l'esercito, così esso papa era divenuto spenditore in Roma, con impiegar nello stesso tempo le sue rendite in mantenimento del clero, de' monisteri e de' poveri, e in placare essi Longobardi. Contuttociò si vedeva questa deformità, che la Chiesa romana era astretta a sofferir tali strapazzi dall'ambizion del vescovo di Costantinopoli. Ma Giovanni digiunatore finì in quest'anno medesimo la lite col fine della sua vita: uomo per altro dipinto dai Greci per prelato di virtù cospicue, per le quali fu poi da essi messo nel ruolo dei santi.


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Anno di Cristo DXCVI. Indizione XIV.
Gregorio I papa 7.
Maurizio imperadore 15.
Agilolfo re 6.

L'anno XIII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Si andava tuttavia maneggiando l'affare della pace tra il re Agilolfo e l'esarco di Ravenna. Ma perciocchè non mancavano persone che per privati riguardi attraversavano il pubblico bene, s. Gregorio [Gregor. Magnus, lib. 6, ep. 30 et 31.] diede incumbenza a Castorio suo notaio residente in Ravenna di sollecitar questo aggiustamento, senza il quale soprastavano dei gravi pericoli a Roma stessa e a diverse isole. Ma in Ravenna da gente maligna fu di notte attaccato alle colonne un cartello in discredito, non solo del suddetto Castorio, ma del medesimo papa, quasichè per fini storti amendue promovessero l'affare di essa pace. S. Gregorio ne scrisse a Mariniano arcivescovo, al clero, ai nobili, ai soldati e al popolo di quella città, con ordinare che pubblicassero la scomunica contra gli autori d'esso cartello. Nella Campania dovette esser guerra in questo anno, ed in essa furono presi molti Napoletani dai Longobardi. Non fu pigro il pietoso cuore del pontefice romano a scrivere tosto ad Antemio suddiacono, suo agente in Napoli [Idem, ib., ep. 35.], con inviargli una buona somma di danaro per riscattare chiunque non avea tanto da potere ricuperare la libertà. In quest'anno ancora l'infaticabil papa prese la gloriosa risoluzione di spedire in Inghilterra s. Agostino monaco del monistero di s. Andrea di Roma, con altri compagni, a fin di convertire alla fede di Cristo gli Anglo-Sassoni, Barbari che da gran tempo aveano occupata la maggior parte della Bretagna maggiore. Questa memorabil impresa è una di quelle, per le quali il santo [1100] pontefice specialmente si acquistò il titolo di grande, e quello ancora di apostolo dell'Inghilterra, titolo parimente dato al medesimo Agostino, che fu creato primo arcivescovo di Cantuaria, e fece delle maraviglie per ridurre que' popoli alla greggia di Cristo. Riferisce Beda [Beda, Hist. Angl., lib. I, cap 23.] una lettera di s. Gregorio papa, rapportata anche da Gotselino [Gotselinus, in Vita S. August. Cantuar. n. 7 et 8.] nella vita del suddetto s. Agostino, e scritta die X kalendas augusti, imperante D. N. Mauricio Tiberio piissimo Augusto, anno XIV post consulatum ejusdem domini nostri anno XIII, Indictione XIV. Leggonsi le medesime note cronologiche in un'altra lettera del medesimo papa ad Eterio vescovo, oppure a Virgilio vescovo, o ad altri (il che poco importa), riferita dal medesimo Gotselino. Ora queste indicano precisamente il presente anno, perchè nel dì 25 luglio dell'anno 596 correva tuttavia l'anno quattordicesimo dell'imperio di Maurizio, e l'indizione quattordicesima. E perciocchè in questo tempo concorre l'anno decimoterzo dopo il consolato di esso Augusto, si viene a conoscere aver io fondatamente messo il consolato di Maurizio nell'anno 583, contro il parere del padre Pagi. Seguì nell'anno presente la morte ben frettolosa di Childeberto II, potentissimo re dell'Austrasia e della Borgogna, che avea recato tanti fastidii ai Longobardi e tanti danni alla Italia. Non avea più di venticinque o ventisei anni d'età; ed essendo pur morta nello stesso giorno, o poco dopo, la regina Faileuba sua moglie, fu creduto che amendue fossero portati via dal veleno; ed alcuni scrittori moderni ne han fatto cadere il sospetto sopra la regina Brunechilde sua madre, principessa che nulla trascurò per regnare. Ma nulla di ciò dicendone gli antichi, niun fondamento v'ha di questa diceria. Lasciò due figliuoli piccioli, Teodeberto re dell'Austrasia, e Teoderico re della Borgogna. Abbiamo [1101] da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 11 et 14.] che il re Agilolfo mandò, non si sa in qual anno, ambasciatori ad esso re Teoderico, o, per dir meglio, alla suddetta regina Brunechilde, che come tutrice de' nipoti governava gli stati, e stabilì una pace perpetua con esso. Racconta il medesimo storico che circa questi tempi si videro per la prima volta in Italia de' cavalli selvatici e de' bufali, che erano riguardati per maraviglia dagl'Italiani. E perciocchè Romano esarco era pertinace in non voler la pace, apprendiamo da una lettera di san Gregorio [Gregor. Magnus, lib. 4, ep. 60.] ad Eulogio patriarca d'Alessandria, che i Romani pagavano la pena dell'iniquità di costui, scrivendo egli con sommo dolore, che non passava giorno senza qualche saccheggio, o morti, o ferite di quel popolo a cagion della guerra coi Longobardi. Da un'altra lettera del medesimo santo pontefice, scritta a Teottista patrizia [Idem, lib. 7, ep. 26.], ricaviamo che in questo anno essi Longobardi condotti o spediti da Arichi, ossia da Arigiso duca di Benevento, presero la città di Crotone, oggidì Cotrone nella Calabria ulteriore, e condussero via schiavi molti uomini e donne, pel riscatto dei quali si affaticò la non mai stanca carità di questo inclito papa. Non apparisce che i Longobardi si mantenessero in quella città, troppo esposta alle forze marittime de' Greci.


   
Anno di Cristo DXCVII. Indizione XV.
Gregorio I papa 8.
Maurizio imperadore 16.
Agilolfo re 7.

L'anno XIV dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Siam qui abbandonati dalla storia, senza sapere qual fatto rilevante accadesse in quest'anno in Italia, a riserva delle azioni di s. Gregorio magno papa nel governo della Chiesa di Dio, che si [1102] possono leggere presso il cardinal Baronio e nella vita scrittane dai monaci Benedettini di s. Mauro. Certo durava tuttavia la guerra fra i Longobardi e i sudditi del romano imperio; ed essendo sì confusi i confini delle due diverse giurisdizioni, facile è che succedessero delle ostilità fra le due parti. Avevano i Greci mantenuto fin qui il loro dominio, non solamente nell'esarcato di Ravenna e nel ducato romano, ma ancora in Cremona, in Padova ed in altre città, massimamente marittime, ed anche Mantova era tornata alle loro mani. Non si sa intendere come i Longobardi più poderosi de' Greci non formassero l'assedio o il blocco di tali città che cotanto s'internavano ne' loro stati. Ma forse non istettero colle mani alla cintola, e noi solamente per mancanza di memorie, delle quali era privo anche Paolo Diacono, non abbiam contezza degli avvenimenti d'allora. Si crede nondimeno che san Gregorio papa in inscrivendo a Gennadio patrizio ed esarco dell'Africa [Gregor. Magnus, lib. 4, ep. 3.], gli raccomandasse in quest'anno di vegliare alla sicurezza dell'isola di Corsica, sottoposta al governatore dell'Africa, perchè temeva di uno sbarco dei Longobardi in quell'isola e nella vicina Sardegna, come in fatti da lì a non molto accadde. Abbiamo poi da Teofilatto [Theophilact. l. 8, cap. 11.] che verisimilmente nell'anno presente caduto infermo Maurizio Augusto, fece testamento, in cui lasciò l'imperio d'Oriente a Teodosio Augusto, il maggiore de' suoi figliuoli, e l'Italia colle isole adiacenti a Tiberio suo figliuolo minore. Egli poi si riebbe da quel malore. Quanto meglio avrebbe egli operato se avesse inviato in Italia questo suo secondogenito! Sarebbe stata in salvo la di lui vita: e forse la presenza di questo principe avrebbe rimesso in migliore stato gli affari d'Italia. Non so dire se intorno a questi tempi terminasse i suoi giorni in Ravenna Romano patrizio ed esarco, uomo nemico della pace, e che pescava meglio [1103] nel torbido. Pare che si possa ricavare da un'epistola di s. Gregorio [Greg. Magnus, lib. 7, ep. 29.], che venisse in quest'anno a Ravenna Callinico suo successore, personaggio di massime più diritte e più riverente verso il santo pontefice Gregorio. Certo è solamente che esso esarco si trova in Ravenna nell'anno 599. Negli Atti de' santi [Acta Sanctorum Bolland. ad diem 13 junii.], raccolti ed illustrati dal padre Bollando e da' suoi successori della Compagnia di Gesù, abbiamo la vita di s. Ceteo vescovo di Amiterno, città florida una volta, ed oggidì distrutta, dalle cui rovine nacque la moderna città dell'Aquila, distante cinque miglia di là. Ivi è detto ch'egli era vescovo di quella città ai tempi di s. Gregorio il grande e di Faroaldo duca di Spoleti, nel cui ducato era compreso Amiterno. Furono deputati al governo di essa terra due Longobardi ariani, come erano i più di questa nazione, chiamati Alais ed Umbolo. Per la lor crudeltà Ceteo vescovo se ne fuggì a Roma, e fu a trovare il santo papa Gregorio. Richiamato dal popolo alla sua residenza, godeva egli quiete e pace, quando Alais inviperito contro del compagno, mandò segretamente a Veriliano conte d'Orta, città che doveva essere allora in poter dei Greci, acciocchè venisse una notte alla distruzion di Amiterno. Andarono gli Ortani; ma scoperto a tempo il lor tentativo, furono ripulsati. Alais restò convinto del tradimento, e perchè il vescovo Ceteo volle salvargli la vita, fu preteso complice, e però barbaramente gittato nel fiume Pescara ivi si annegò, e ne fu poi fatto un martire. In quella leggenda v'ha delle frottole: contuttociò non è da disprezzare il racconto suddetto.


[1104]

   
Anno di Cristo DXCVIII. Indizione I.
Gregorio I papa 9.
Maurizio imperadore 17.
Agilolfo re 8.

L'anno XV dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Da una lettera [Greg. Magnus, lib. 8, ep. 18.] scritta in questo anno da s. Gregorio ad Agnello vescovo di Terracina, si ricava, che tuttavia restavano in quella città delle reliquie del paganesimo, le quali il santo papa procurò di schiantare. A questo fine si raccomandò ancora a Mauro visconte d'essa città, acciocchè assistesse col braccio secolare alle diligenze del vescovo. Ordinò nello stesso tempo che niuno fosse esentato dal far le guardie alla città: al che ne' bisogni erano tenuti anche gli ecclesiastici; e che neppure i monaci godessero esenzione da questo peso, si raccoglie da un'altra lettera dello stesso pontefice [Idem, lib. 9, ep. 73.]. Questo ci fa vedere che continuasse la guerra, e fin dove arrivassero in questi tempi le scorrerie dei Longobardi. Riconosce egli dipoi [Idem, lib. 8, ep. 22.] l'essersi da tanto tempo preservata essa città dal cadere in mano de' nemici suddetti dalla protezion del principe degli apostoli s. Pietro, giacchè quella città si trovava allora senza gran popolo e senza guarnigione, almen sufficiente, di soldati. Il nome di visconte, che abbiam veduto poco fa, vuol che io ricordi qui come in questi secoli era in uso, e questo durò molti secoli dipoi, che i governatori d'una città erano appellati comites, conti. Aveano questi il loro luogotenente, chiamato perciò vicecomes, che nella lingua volgare italiana passò in viceconte, e finalmente in visconte. Dalle parole di s. Gregorio sovraccitate si raccoglie che nelle città tuttavia soggette all'imperio vi doveva essere il visconte, e per conseguenza il conte. Lo stesso si [1105] praticava in Francia. Veramente i Longobardi soleano chiamar giudici i governatori delle loro città, come consta dalle lor leggi. Contuttociò talvolta ancora questi giudici portano il nome di conte. L'ordinario poi significato del titolo di duca competeva a quei solamente che comandavano a qualche provincia, ed avevano sotto di sè più conti. Trovansi nondimeno duchi d'una sola città. Ma di queste cose ho io abbastanza trattato nelle Antichità estensi [Antichità Estensi, cap. 1, part. 1.] e nelle Antichità italiane [Antiq. Italic., Dissert. VIII.]. Quello ancora ch'è da notare, non era per anche nato in questi tempi il titolo di marchese; e però la bolla che il Rossi, per quanto accennai di sopra, riferisce data da s. Gregorio a Mariniano arcivescovo in Ravenna, si scuopre falsa al vedere fatta ivi menzione dei marchesi, nome nato circa due secoli dipoi. Penso io che al presente anno appartenga la notizia di uno sbarco fatto dai Longobardi nell'isola di Sardegna, di cui siam debitori ad una lettera di san Gregorio [Greg. Magnus, lib. 9, ep. 4.], scritta ne' primi mesi della Indizione seconda, cominciata nel settembre di quest'anno. L'aveva già preveduto il buon pontefice, senza lasciare di portarne per tempo colà l'avviso, acciocchè si facesse buona guardia, ma non gli fu creduto nè ubbidito. Ora colla presente lettera, scritta a Gennaro vescovo di Cagliari, significa che finalmente era riuscito all'abbate Probo, inviato da esso papa al re Agilolfo, d'intavolar la pace. Ma perchè ci voleva del tempo, prima che ne fossero sottoscritte le capitolazioni da tutte e due le parti, perciò lo esorta ad ordinar una miglior guardia delle mura e ne' siti pericolosi, affinchè non venga voglia ai nemici di tornare in questo mentre a visitarli. Convien poi credere che nascesse qualche difficoltà, per cui paresse intorbidata la speranza d'essa pace; perciocchè da lì a poco (se pure non v'ha sbaglio nell'ordine e nella distribuzion [1106] delle lettere di s. Gregorio) torna egli a scriver al medesimo vescovo [Gregor. Magnus, lib. 9, ep. 6.], che finita questa pace Agilolfo re de' Longobardi non farà la pace: parole scure all'intendimento nostro. Forse era seguita una tregua, e si temeva che terminata questa non vi avesse da essere pace. Pertanto gl'inculca la necessità di stare all'erta, e di fortificare e provvedere di viveri più che mai la città di Cagliari e gli altri luoghi della Sardegna, per deludere gl'insulti de' nemici. Così il santo pontefice, indefesso in accudire anche alla difesa delle terre lontane dello imperio romano pel suo nobil genio, ed eziandio, come si può credere, perchè Maurizio Augusto gli avea data la incumbenza di vegliare e soprintendere ai suoi affari per tutta l'Italia.


   
Anno di Cristo DXCIX. Indizione II.
Gregorio I papa 10.
Maurizio imperadore 18.
Agilolfo re 9.

L'anno XVI dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Finalmente in quest'anno fu conchiusa la pace fra il re Agilolfo e Callinico, esarco di Ravenna. Ne fa menzione Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 13.], e l'anno si ricava dalle lettere scritte sotto la presente indizione seconda da san Gregorio papa [Greg. Magnus, lib. 9, ep. 42 et 43.], non solo alla cattolica regina Teodelinda, ma anco ad esso re Agilolfo, forse tuttavia ariano; non apparendo ch'egli avesse peranche abbracciata la religion cattolica. Ringrazia dunque Agilolfo della pace fatta, il prega di ordinare ai suoi duchi che la osservino e non cerchino dei pretesti per guastarla. Il saluta ancora con paterna carità: parole che paiono indirizzate ad un re cattolico, ma che sembrano poi non accordarsi coll'altre che egli soggiugne alla regina. Perciocchè [1107] dopo averla ringraziata dell'efficace mano che ella aveva avuta per condurre alla pace il regal consorte, l'esorta, ut apud excellentissimum conjugem vestrum ita agatis, quatenus christianae reipublicae societatem non rejiciat. Nam sicut ei vos scire credimus, multis modis est utile, si se ad ejus amicitias conferre voluerit. Queste parole paiono significare, desiderarsi dal papa una lega dei Longobardi coll'imperadore; ma può anche sospettarsi desiderio nel pontefice che la regina s'ingegni di tirare il marito al cattolicismo: il che per molte cagioni gli sarebbe riuscito di profitto, perchè certo tanti Cattolici suoi sudditi non miravano di buon occhio un principe ariano, e molto meno i Cattolici non suoi sudditi. Anche secondo l'umana politica sarebbe tornato il conto ad Agilolfo l'unirsi colla Chiesa cattolica; e questo punto l'intese bene Clodoveo il grande re de' Franchi e Recaredo re dei Visigoti, principi che abbracciarono la fede cattolica romana, e meglio con ciò si stabilirono nei loro regni. E che così facesse anche il re Agilolfo l'abbiamo da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 6.], là dove scrive ch'egli mosso dalle salutevoli preghiere della regina Teodelinda, catholicam fidem tenuit, et multas possessiones Ecclesiae Christi largitus est, atque episcopos, qui in depressione et abjectione erant, ad dignitatis solitae honorem reduxit. Ma ciò dovette seguire più tardi, siccome vedremo più abbasso. Intanto certa cosa è che il re Agilolfo, cattolico o ariano che si fosse in questi tempi, non inquietava punto per conto della religione i Cattolici, e lasciava tutta la convenevole libertà ai vescovi di esercitare il sacro lor ministero, di comunicare colla santa sede, e di passare, occorrendo bisogni ecclesiastici, a Roma e a Ravenna, tuttochè città nemiche. In somma s'egli non avea per anche abjurato l'arianismo, almeno per le premure di Teodelinda piissima e cattolica regina, amorevolmente trattava i [1108] professori del cattolicismo. Non so io poi intendere come san Gregorio dopo avere scritte le lettere suddette, in una altra indirizzata ad Eulogio patriarca [Greg. Magnus, lib. 9, ep. 78.], sotto la stessa Indizione II, gli dica di trovarsi oppresso dai dolori della podagra e dalle spade dei Longobardi. Se la pace era fatta, come poi lagnarsi della guerra che suppone fatta dai Longobardi ai Romani? Ciò mi fa dubitare se a questa lettera sia stato assegnato il suo convenevol sito. Ma è ben degna di attenzione un'altra lettera scritta da questo glorioso pontefice a Teodoro curator di Ravenna [Idem, ibid., ep. 98.], ministro che cooperato avea non poco alla conclusion della pace. Gli fa dunque sapere che Ariolfo duca di Spoleti non avea voluto sottoscrivere la pace puramente, come il re Agilolfo avea fatto, con avervi apposto due condizioni, cioè ch'egli l'accettava, purchè dalla parte dei Romani non si commettesse in avvenire eccesso alcuno contra de' Longobardi, nè potessero i Romani far guerra ad Arichi, ossia Arigiso duca di Benevento, confinante col ducato di Spoleti e collegato di esso Ariolfo. Nell'edizione di san Gregorio è scritto Arogis, ma si ha da scrivere Arigis.

Questa maniera di giurar la pace con tali riserve comparve a san Gregorio insidiosa e furbesca, affinchè restasse aperto l'adito a nuove rotture, non mancando mai pretesti per far guerra a chi ha in odio la pace. E tanto più trovava egli delle magagne in questo aggiustamento, perchè Varnilfrida (forse moglie d'esso Ariolfo, non parendo questo un nome di maschio, che sarebbe stato Varnilfrido) non l'avea voluto sottoscrivere. Aggiunge che gli uomini mandati dal re Agilolfo a Roma esigevano che dal medesimo papa fossero sottoscritti i capitoli della suddetta pace: segno della considerazione e stima che quel re avea del romano pontefice, oppure che, non fidandosi dei Romani, esigesse per sigurtà lo [1109] stesso pontefice. Ma san Gregorio abborriva di farlo, sì perchè gli erano state riferite da Basilio, uomo chiarissimo, delle parole ingiuriose proferite da esso re contra della sede apostolica, e dello stesso papa Gregorio, benchè Agilolfo negasse a spada tratta di averle dette; e sì ancora, perchè se mai si fosse mancato da lì innanzi contro i patti, egli non voleva averne da render conto, premendogli di non disgustare un principe, di cui avea troppo bisogno pel governo di tante chiese poste sotto il di lui dominio. Però si raccomanda affin d'essere esentato da quella sottoscrizione. Stendeva in addietro il vescovo di Torino la sua giurisdizione nella valle di Morienna e di Susa. Furono occupati questi paesi da Guntranno re di Borgogna, allorchè i Longobardi fecero le irruzioni nelle Gallie, come raccontammo di sopra, ed uniti al suo regno della Borgogna. Ciò fatto, non piacendo ad esso re che que' popoli neppure pel governo spirituale fossero sottoposti al vescovo di Torino, cioè di una città sottoposta ai Longobardi, fece creare un nuovo vescovo della Morienna. Se ne dolse Ursicino vescovo di Torino con san Gregorio, il quale sopra ciò scrisse due lettere [Gregor. Magnus, lib. 9, ep. 95 et 96.], l'una a Siagrio vescovo d'Autun, e l'altra a Teoderico e Teodeberto re de' Franchi, con pregarli che non fosse recato pregiudizio ai diritti del vescovo torinese. Ma egli cantò a gente sorda; il vescovato di Morienna sussistè, e tuttavia sussiste. E da una d'esse lettere apparisce che il vescovo di Torino avea patito dei saccheggi nelle sue parrocchie, e che il popolo era stato condotto (certamente dai Franchi) in ischiavitù negli anni addietro. Rapporta l'Ughelli [Ughellius Italia Sacr., tom. 4, in Episcop. Bobiens.] una carta d'oblazione fatta da san Colombano abate del monistero di Bobio a san Gregorio papa anno pontificatus domni Gregorii summi pontificis et universalis papae IV, [1110] Indictione III sub die III mensis novembris. L'indizione terza cominciata nel settembre mostra appartener quella carta all'anno presente. Ma il lettore osservando che non correva in quest'anno l'anno quarto di san Gregorio, e che non fu in uso di que' tempi il chiamare il romano pontefice, benchè capo della Chiesa di Dio, papa universale: (titolo che lo stesso san Gregorio impugnò cotanto nel patriarca di Costantinopoli); e che questa carta discorda dall'altre antiche memorie che fanno, siccome diremo più abbasso, fondato molto più tardi il monistero di Bobio; e che non si fa menzione degli anni dell'imperadore, come era il costume, benchè la carta si supponga scritta in Roma: non saprà, dissi, il lettore prestar fede ad un sì fatto documento.


   
Anno di Cristo DC. Indizione III.
Gregorio I papa 11.
Maurizio imperadore 19.
Agilolfo re 10.

L'anno XVII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

Da una lettera scritta in quest'anno da san Gregorio [Gregor. Magnus, lib. 10, ep. 37.] ad Innocenzo prefetto dell'Africa veniamo a conoscere la decantata pace, di cui s'è parlato finora, conchiusa fra l'esarco di Ravenna e il re Agilolfo. Le parole del santo pontefice portano che essa pace avea da durare fino al mese di marzo della futura quarta indizione: il che vuol dire fino al marzo dell'anno seguente 601; e perciò essa non fu una pace, ma bensì una tregua. E questa dubitava egli ancora se dovesse aver sussistenza, perchè correa voce che Agilolfo fosse mancato di vita: il che si trovò poi falso. Si vuol anche osservare ciò che scrisse il medesimo papa a Teodoro curator di Ravenna [Idem, ibid., ep. 6.], non so se sul fine del precedente, o sul [1111] principio del presente anno. Desiderava Giovanni gloriosissimo prefetto di Roma di riaver sua moglie da Ravenna; però Gregorio raccomanda al suddetto Teodoro di metterla in viaggio; ed affinchè possa venire con più sicurezza, di farla scortare da un distaccamento di soldati sino a Perugia. Se non si opponesse l'autorità di Paolo Diacono, che ci fece già sapere che Agilolfo aveva ricuperata Perugia colla morte del duca Maurizione, potrebbono farci sospettar tali parole che Perugia fosse tuttavia in mano dei Greci. Perchè se era quella città in potere dei Longobardi, come poteva essere sicura questa dama in arrivando colà, e tornandosene indietro la scorta? E come i soldati greci passavano ad una città che era dei loro nemici? Certamente può restar qualche dubbio che Agilolfo tornasse padrone di quella città più tardi di quel che si credette Paolo Diacono, scrittore non assai esatto nella distribuzion de' tempi; oppure che la medesima gli fosse ritolta dai Greci. Ricavasi parimente da un'altra lettera di san Gregorio [Gregor. Magnus, lib. 10, ep. 36.], scritta in questi tempi a Massimo, vescovo di Salona in Istria, che gli Sclavi, ossia gli Schiavi o Schiavoni, minacciavano quella città, ed aveano anche cominciato ad entrare in Italia. Il cardinal Baronio cita per testimonio di ciò Paolo Diacono, che nel capitolo quattordicesimo del libro quarto scrisse, che gli Sclavi misero a sacco l'Istria e vi ammazzarono i soldati dell'imperadore. Ma queste parole di Paolo si leggono nel capitolo quarantesimo secondo del quarto libro, e appartengono a tempi molto posteriori. Fuor di sito ancora, perchè a quest'anno rapporta il suddetto annalista la presa fatta della città del Friuli da Cacano re degli Avari. Essendo ciò avvenuto molti anni dopo, mi riserbo io a parlarne in luogo più proprio. In questi tempi bensì, o poco prima, si può credere, per attestato di Paolo [1112] Diacono [Paul. Diac., lib. 4, cap. 13, et 14.], conchiusa la pace in Milano tra il re Agilolfo e gli ambasciatori di Cacano, ossia del re degli Avari suddetti, di nazione Unni, dominanti nella Pannonia. Gli Slavi, o Schiavi, o Schiavoni, che vogliam dire, Barbari anche essi, che s'erano impadroniti di buona parte dell'Illirico, riconoscevano per loro signore il suddetto Cacano, o almeno dipendevano molto da lui. Però è probabile che Agilolfo, sentendo avvicinarsi que' Barbari all'Italia, si maneggiasse per aver pace da chi li signoreggiava. Assicurato poi con questi trattati di pace dai nemici esterni il re Agilolfo si rivolse con più franchezza a liberarsi dagl'interni. Se gli era ribellato Zangrulfo duca di Verona. Gli fu addosso, e avutolo nelle mani, gli diede il gastigo meritato dai suoi pari. Lo stesso giuoco fece a Gaidolfo duca di Bergamo, al quale due volte avea dianzi perdonato; e parimente levò dal mondo Vernecausio in Pavia, di cui non sappiamo nè la carica nè il delitto. Racconta poi Paolo Diacono [Idem, ibid., cap. 15 et 16.] che Ravenna e la spiaggia dell'Adriatico fu maltrattata dalla peste, flagello che più crudelmente si fece sentire l'anno appresso in Verona. Io conto in un fiato questi avvenimenti che possono appartenere a questi tempi, perchè ci manca un filo sicuro per poterli distribuire ne' loro anni precisi. Seguita poi a dire il medesimo storico, che seguì una terribil battaglia tra i due re franchi, cioè fra Teodeberto II re potentissimo dell'Austrasia e Teoderico re della Borgogna dall'un canto, e Clotario II re di Soissons, ossia della Neustria dall'altro. Toccò al più debole l'andar di sotto. Grande fu la sconfitta di Clotario, rapportata da Fredegario [Fredeg., in Chron. cap. 20.], per quanto si crede, all'anno presente: e gli costò questa disgrazia la perdita della maggior [1113] parte de' suoi stati. Finì di vivere in quest'anno Costanzo arcivescovo di Milano. Il clero e i nobili ch'erano in Genova, elessero per suo successore Deusdedit diacono. Ma il re Agilolfo, padrone di Milano, scrisse loro che ne desiderava o voleva un altro. Avvisato di ciò san Gregorio, fece intendere al popolo e clero milanese abitante in Genova, che non consentirebbe giammai in un uomo [Greg. Magnus, lib. 11, ep. 4.], qui non a catholicis, et maxime a Longobardis, eligitur. Adunque il re Agilolfo non dovea per anche essere cattolico. Si sa che Agilolfo desistè da questa pretensione, probabilmente alle persuasioni della piissima regina Teodelinda, e che Deusdedit, chiamato anche Diodato, fu consecrato arcivescovo, forse nell'anno susseguente. Intorno a questi tempi Agilolfo mandò a Cacano re degli Unni, padrone della Pannonia, degli artefici atti a fabbricar navi, delle quali egli poi si servì per espugnare un'isola della Tracia. Credesi ancora che fino a quest'anno essendo vivuto Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers in Francia, e celebre scrittore e poeta, nato in Italia, compiesse la carriera de' suoi giorni.


   
Anno di Cristo DCI. Indizione IV.
Gregorio I papa 12.
Maurizio imperadore 20.
Agilolfo re 11.

L'anno XVIII dopo il consolato di Maurizio Augusto.

È da notare la data di una lettera di san Gregorio papa a Virgilio vescovo d'Arles, come è riferita da Beda [Beda, Hist. Eccl. lib. 1, cap. 28.], cioè [Greg. Magnus, lib. 11, ep. 68.]: X kalend. juliarum, imperante domino nostro Mauricio Tiberio piissimo Augusto anno XIX: post consulatum ejusdem D. N. anno XVIII, Indictione IV. Correva tuttavia nel dì 22 di giugno del [1114] presente anno il diciannovesimo anno dell'imperio di Maurizio; e cadendo in questo l'anno decimottavo dopo il consolato, si vien sempre a conoscere con che fondamento io mi sia scostato dal padre Pagi, nell'assegnar l'anno del consolato di Maurizio Augusto. Benchè Paolo Diacono sia, come ho detto più volte, storico poco accurato nell'assegnare il tempo de' fatti ch'egli racconta, perchè, a mio credere, neppur egli n'ebbe bastevole informazione; pure comunemente vien creduto che al presente anno s'abbia da riferire la rinnovazion della guerra tra i Longobardi e l'imperio romano [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 21.]. Callinico esarco di Ravenna, non so se perchè fosse terminata la tregua, oppure perchè essa durante se la vedesse bella di fare un buon colpo, spedì una banda di soldati a Parma, a' quali riuscì di sorprendere Godescalco, genero del re Agilolfo, e, secondo tutte le verisimiglianze, duca di quella città, insieme colla moglie, figliuola d'esso re; i quali probabilmente senza sospetto alcuno si divertivano in villa. Signoreggiavano i Greci in Cremona, e di là facilmente potè venire l'insulto fatto a due sì cospicue persone, che furono condotte prigioniere a Ravenna. Restò sommamente amareggiato per questo colpo il re Agilolfo, ed oramai chiarito che pace non vi poteva essere con gl'infidi e spergiuri ministri dell'imperadore, si applicò con tutto fervore alla guerra. Ma in vece di procedere contro Cremona e Mantova, le quali doveano essere ben guernite di presidio cesareo, andò a mettere l'assedio a Padova, città che forse non si aspettava una somigliante visita. Era stata finora quell'illustre città in mezzo a tante tempeste costante nella divozione verso il romano imperio, e fece anche in tal congiuntura una gagliarda difesa, sostenendo lungamente l'assedio, al dispetto delle minacce di Agilolfo. Ma in fine le convenne soccombere. Nelle capitolazioni fu salvata alla guarnigione [1115] imperiale la facoltà di andarsene, ed in fatti se ne passò a Ravenna. Allora Agilolfo barbaramente sfogò la conceputa sua collera contra di una città sì pertinace, ma innocente, con darla alle fiamme e spianarne le mura, forse intendendo di far con ciò vendetta dell'esarco, da cui troppo offeso si riputava. Tornarono in questi tempi dalla Pannonia, ossia dall'Ungheria, gli ambasciatori longobardi, che aveano confermata la pace col re degli Unni, chiamati Avari. Con esso loro ancora venne un ambasciatore di Cacano re di que' Barbari, incaricato di passare in Francia per indurre quei re a mantener la pace coi Longobardi, stante la lega difensiva fatta da esso re colla nazion longobarda. La forza di Cacano era tale, che facea paura all'imperadore, ed esigeva rispetto anche dai re di Francia. E gli uni e gli altri ne aveano avute di brutte lezioni.

Potrebbe essere che in questi medesimi tempi fosse succeduto un altro fatto narrato parimente da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 17.]. Avendo il re Agilolfo, siccome stuzzicato dall'esarco Callinico, ripigliate l'armi, probabile è ch'egli comandasse ancora ad Ariolfo duca di Spoleti di travagliare Roma e Ravenna, affinchè niun soccorso si potesse inviare all'assediata città di Padova. Comunque sia, perchè il tempo non si può accertare, sappiamo che Ariolfo uscì in campagna, e trovandosi a fronte dell'esercito romano appresso la città di Camerino, venne con esso alle mani, e ne riportò vittoria. Dopo di ciò dimandò egli ai suoi che uomo era quello che avea combattuto sì valorosamente in suo favore in quella battaglia; ma niuno gli seppe rispondere. Tornato a Spoleti, e vedendo la basilica di san Savino martire, interrogò gli astanti che casa era quella? Gli fu risposto dai Cristiani, essere quivi seppellito san Savino martire, che i Cristiani solevano invocare in loro aiuto, allorchè andavano alla guerra contra de' nemici. Come può stare [1116] (replicò allora Ariolfo, gentile tuttavia di professione) che un uomo morto possa dar qualche aiuto ad un vivo? E smontato da cavallo, entrò in essa basilica per vederla. Or mentre stava osservando le pitture, si avvenne in una figura rappresentante san Savino, ed allora riconobbe esser egli lo stesso che gli avea prestato aiuto nel conflitto. Come poi sia credibile che questo santo militasse in favore di un pagano contra de' Cristiani, lascerò io disaminarlo ai saggi lettori. Forse le milizie sue erano composte di Cattolici che si raccomandarono a quel santo martire. Credono Camillo Lilii [Lilii Istoria di Camerino, part. 1, lib. 4.] e Bernardino de' conti di Campello [Campello Istoria di Spoleti, lib. 11.], che dopo questa vittoria Ariolfo s'impadronisse di Camerino. Ma non si ricava punto da Paolo storico, unico a raccontar questo fatto, se Camerino fosse caduto prima, o solamente in questa congiuntura cadesse nelle mani dei Longobardi. Certo è che quella città si vede nei secoli susseguenti unita col ducato di Spoleti, ma non so io precisamente dire, se ora, o più tardi se ne impadronissero i Longobardi. Racconta parimente il medesimo Paolo che nell'anno susseguente alla vittoria riportata da Teodeberto e Teoderico re de' Franchi sopra del re Clotario, accadde la morte del suddetto Ariolfo duca di Spoleti; e questa per conseguente sarebbe seguita nell'anno presente, e non già nell'anno 602, come si pensò il cardinal Baronio, e molto meno nel 613, come fu di avviso il Lilii suddetto, e più tardi ancora, come altri hanno pensato. Ma convien ripetere che per la cronologia non si può sempre fidare dell'autorità di Paolo Diacono. Egli stesso, dopo aver narrata la morte di Ariolfo, passa nel capitolo seguente [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 18.] a parlare de praedicatione (s'ha da scrivere de praedatione) facta a Longobarda in Coenobio sancti Benedicti; [1117] con dire accaduta la desolazione di quel sacro luogo circa haec tempora; eppur questa da altre memorie si prova succeduta alcuni anni prima. Quel che è certo, dopo la morte di Ariolfo, disputavano coll'armi il dominio di quel ducato due figliuoli del primo duca Faroaldo. Una battaglia decise la lite, e Teodelapio vincitore fu quegli che da lì innanzi possedette e governò quel ducato. Abbiamo poi confermata da san Gregorio [Greg. Magnus., lib. 11, ep. 51.] la guerra dell'anno presente in una lettera da lui scritta a tutti i vescovi della Sicilia, in cui espone il suo rammarico per gl'insulti e danni di bel nuovo inferiti a Roma dai nemici longobardi. Soggiugne appresso, trovarsi egli maggiormente afflitto, perchè avea inteso che i medesimi si preparavano per passare con un grande sforzo sopra la Sicilia. Perciò gli esorta ad implorare l'aiuto di Dio con processioni e preghiere pubbliche. Bisogna che queste minacce venissero da Arigiso duca di Benevento, padrone della maggior parte di quello che è oggidì regno di Napoli. Ma non s'ha riscontro alcuno che questo fulmine andasse poi a cadere sopra la Sicilia.


   
Anno di Cristo DCII. Indizione V.
Gregorio I papa 13.
Foca imperatore 1.
Agilolfo re 12.

L'anno XIX dopo il consolato di Maurizio Augusto.

A quest'anno mi sia lecito di riferir la invasione fatta dai Longobardi nell'Istria, provincia che si mantenne sempre fedele all'imperio [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 25 et 26.]. Unironsi costoro con gli Avari venuti dalla Pannonia, e con gli Sclavi calati dall'Illirico, e riempierono tutte quelle contrade di saccheggi e d'incendii. Erasi sostenuto fino a questi tempi nell'ubbidienza all'imperio [1118] il forte castello di Monselice, posto nel distretto di Padova. Finalmente esso venne in potere dei Longobardi, probabilmente dopo un ostinato blocco. Non apparisce altro fatto succeduto negli altri paesi in occasione della ricominciata guerra. Forse i Romani aveano fatta qualche tregua particolare coi duchi di Benevento e di Spoleti, da' quali erano attorniati. Ed appunto sotto quest'anno s. Gregorio scrisse una lettera [Gregor. Magnus, lib. 12, ep. 21.] Arogi duci (lo credo error de' copisti antichi in vece di scrivere Arigi duci), in cui il prega di voler cooperare, acciocchè egli possa avere dalle parti de' Bruzii, oggidì Calabria, delle lunghe travi per servigio delle chiese de' ss. Pietro e Paolo, promettendo di regalarlo a suo tempo. Ciò fa conoscere che Arigiso longobardo, duca di Benevento, di cui qui si parla, dovea professar la religione cattolica, e però con tanta confidenza tratta con esso lui il santo pontefice. Pare eziandio che in quelle parti non fosse rottura di guerra. Nacque nell'anno presente un figliuolo al re Agilolfo dalla regina Teodelinda nel palazzo di Monza, del quale parleremo fra poco. Rapporto io qui la nascita di questo principe, perchè Paolo [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 26.] la mette prima della morte di Maurizio Augusto. Dovrebbe ancora appartenere a quest'anno la mutazione seguita in Ravenna dell'esarco. Erano malcontenti i Ravennati del governo di Callinico, specialmente, credo io, perchè egli aveva colla rottura della pace irritato lo sdegno de' Longobardi; e però tanto s'ingegnarono alla corte imperiale, ch'egli fu richiamato in Oriente, e venne rivestito di nuovo della dignità di esarco Smaragdo, o Smeraldo, che negli anni addietro vedemmo comandare con questo titolo in Italia. Potrebbe nondimeno essere che le peripezie in questi tempi accadute in Costantinopoli avessero data occasione di mutare ancora l'esarco di Ravenna, e che si avesse a differir la sua venuta in [1119] Italia sotto il governo di Foca all'anno seguente. Egli è dunque da sapere che in quest'anno succedette l'orribil tragedia dell'imperador Maurizio. Aveva egli sostenuto con varia fortuna per più anni la guerra coi Persiani, e poi con Cacano re degli Unni padroni dell'Ungheria e di altri paesi. Pregiudicò non poco al di lui credito l'azione veramente scandalosa di non aver voluto riscattare dalle mani del suddetto Cacano dodicimila de' suoi, restati prigionieri in una battaglia, quantunque Cacano glieli esibisse per un prezzo vilissimo: il che fu cagione che quel barbaro re crudelissimamente fece tagliare a pezzi tutti quegl'infelici. Di qui principalmente nacque l'odio delle armate e del popolo contra d'esso Augusto. E se ne prevalse a suo tempo Foca, uno dei bassi uffiziali dell'esercito, uomo di terribil aspetto, non meno ardito che crudele, e dipinto da Cedreno [Cedren. in Annal.] con tutti i vizii [Chron. Alex. Teophil. lib. 8, cap. 10 et seq. Theoph., in Chron.]. Si rivoltarono in quest'anno i soldati contra di Pietro, fratello dell'imperadore, che comandava l'armata, e proclamarono esarco, o, vogliam dire, generale, lo stesso Foca, con inviarsi dipoi alla volta di Costantinopoli, per deporre Maurizio, e fare un altro imperadore. Non finì la faccenda, che Foca fu egli da que' malcontenti dichiarato imperadore, e coronato poi da Ciriaco patriarca nel dì 23 di novembre. Costantinopoli gli aprì le porte. Già ne era fuggito con tutta la sua famiglia Maurizio, e ritiratosi a Calcedone; ma quivi preso nel dì 27 del suddetto mese diede fine alla tragedia che neppure oggidì si può udir senza orrore. Su gli occhi dello sventurato Augusto, per ordine del tiranno, furono scannati i suoi figliuoli maschi, cioè Teodosio già dichiarato imperadore, Tiberio destinato imperador d'Occidente, Pietro, Giustino e Giustiniano. Con forte animo fu spettatore il misero padre di sì spietata [1120] carnificina, nè altre parole si sentirono uscirgli della bocca, che di umiliazione ai sovrani giudizii di Dio, con dire il versetto del salmo: Justus es, domine, et rectum judicium tuum. Dopo i figliuoli a lui pure tolta fu la vita, e parimente a Pietro suo fratello, e ad altri uffiziali de' primi della corte. I lor cadaveri nudi gittati in mare servirono anche dipoi di spettacolo al matto popolo. Racconta Teofilatto [Theoph., lib. 8, cap. 12.] che dopo la morte di Foca, leggendo egli il pezzo della sua storia, dove descrive questa lagrimevole scena, ad una grande udienza, proruppero tutti quegli ascoltanti in sì dirotto pianto, e in tanti gemiti e singhiozzi, che non potè andar più innanzi nella lettura. Da lì a tre anni anche la moglie di Maurizio Costantina Augusta con tre figliuole sue e di esso imperadore, cioè Anastasia, Teottista e Cleopatra, furono levate dal mondo per sospetti del crudele tiranno.

Non mancarono certamente difetti e vizii in Maurizio imperadore, e specialmente diede negli occhi a tutti la sua avarizia, e il non pagare i soldati, permettendo che si pagassero essi coi rubamenti e colle rapine fatte addosso ai sudditi. Lo stesso s. Gregorio papa [Greg. Magnus, lib. 13, ep. 31.] in iscrivendo a Foca, non ebbe difficoltà di dirgli: Quiescat felicissimis temporibus vestris universa respublica, prolata sub causarum imagine praeda pacis (parole molto scure, e fors'anche difettose). Cessent testamentorum insidiae, donationum gratiae violenter extractae. Redeat cunctis in rebus propriis secura possessio, ut sine timore habere se gaudeant, quae non sunt eis fraudibus acquisita. Reformetur jam singulis sub jugo imperii pii libertas sua. Poscia soggiunge questa nobilissima sentenza, da lui ripetuta anche in un'altra lettera [Idem, lib. 10, ep. 51.] a Leonzio già console, e che sarebbe da desiderare impressa in cuore di tutti principi cristiani: Hoc namque inter [1121] reges gentium (cioè dei Gentili), et reipublicae Imperatores distat: quod reges gentium domini servorum sunt (cioè comandano a degli schiavi); imperatores vero reipublicae, domini liberorum. Ecco qui ancora il nome di respublica per significare l'imperio romano. In un'altra lettera da lui scritta a Leonzia imperadrice [Gregor. M., lib. 13, ep. 39.], moglie di Foca, ringrazia a mani levate Iddio, quod tam dura longi temporis pondera cervicibus nostris amota sunt, et imperialis culminis lene jugum rediit, quod libeat portare subjectis. Questo parlare di un pontefice di tanto giudizio e di sì rara santità ci danno abbastanza a conoscere che il governo di questo imperadore avea di grandi magagne, e ch'egli invece dello amore s'era conciliato l'odio de' popoli. Ma che? Sono ben rari i principi che non lascino dopo di sè varie occasioni di lamenti ai sudditi loro. Per altro si sa che Maurizio fu un principe attaccatissimo alla religion cattolica, che diede di gran prove della sua pietà e munificenza con frequenti limosine e fabbriche sì sacre che profane. Per attestato ancora di Teofilatto [Theophylactus, lib. 8, cap. 13.] e di Suida [Suidas, in verbo Mauricius, tom. 1 Hist. Byz.], bandì dal suo animo la superbia, fece sempre risplendere la sua clemenza e una lodevol umanità verso tutti, ancorchè fosse alquanto riservato in dare le udienze. Amò i letterati, e li premiò; scaricò i sudditi della terza parte dei tributi, forse allorchè salì sul trono; poichè non pare che durasse questo alleviamento nell'andare innanzi, per cagion delle aspre guerre che gli convenne sostenere. Altre sue lodi si possono raccogliere da Evagrio [Evagr., lib. 5, cap. 19.], di maniera che si può ben conchiudere che principe tale non era già degno d'un sì lagrimevol fine, e che l'usurpatore Foca potè ben portare la corona e il manto imperiale, ma non già rimuovere da sè il titolo di crudelissimo tiranno. Nè vo' lasciar di aggiugnere un'altra lagrimevol [1122] circostanza, di cui parla Teofilatto [Theophylact., lib. 8, cap. 11.], scrittore contemporaneo, cioè che in quella gran tragedia fu cercato un figliuolino lattante del medesimo Maurizio Augusto, per trucidarlo anch'esso. La balia, mossa a compassione, in vece di lui diede nelle mani di que' sicarii il proprio figliuolo. Ma accortosene Maurizio, scoprì l'affare, dicendo non essere giusto che quell'innocente pargoletto morisse per altri, e permise che ancora quest'altro suo figliuolo perisse. È azione facile da contarsi, ma non sì facile da essere creduta. Nè si sa intendere perchè egli non mettesse almeno essi figliuoli in salvo colla fuga, anzi richiamasse indietro Teodosio il maggior d'essi, che era già arrivato a Nicea in Bitinia, per andare a chiedere il soccorso a Cosroe re della Persia. Se non poteva egli viaggiare, perchè sorpreso da doglie articolari, potevano ben montare a cavallo i giovanetti figliuoli suoi, nè mancavano carrette per gl'inabili a cavalcare. A noi qui tocca di chinare il capo davanti agli occulti giudizii di Dio.


   
Anno di Cristo DCIII. Indizione VI.
Gregorio I papa 14.
Foca imperadore 2.
Agilolfo re 13.

Console

Foca Augusto.

Secondo il rito degli altri imperadori greci, che nelle prime calende di gennaio dopo l'assunzione al trono prendevano il consolato, tengo io che anche l'imperadore, o, per meglio dire, il tiranno Foca prendesse la dignità consolare, con far le solennità consuete in tal funzione, e spargere danaro al popolo. Certamente quest'anno è notato nella Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrinum.] Phoca Augusto solo consule. Il padre Pagi, che all'anno susseguente riferì il consolato di Foca, pretende che [1123] sia guasto questo passo, e che si corregga colle note croniche de' seguenti anni. Aggiugne di più, scriversi da Teofane [Theoph., in Chron.] sotto il presente anno: Mensis decembris die septimo Indictione septima (Phocas) sparsis pro consulum more nummis processit. Ma lo stesso padre Pagi confessa all'anno 610 che la cronologia di Teofane, ne' testi che abbiamo, è difettosa. Nè esso storico dice che Foca fosse disegnato console per l'anno 604. Anzi pare che dica ch'egli allora procedesse console. Io per me credo corrotto dai copisti il luogo di Teofane, avendo essi confuso il settimo dì del mese colla settima indizione, in vece di scrivere nell'indizione sesta, cominciata nel settembre dell'anno precedente 602. E in fatti combinando gli avvenimenti narrati nella Cronica Alessandrina sotto l'anno 605 coll'anno in cui li racconta Teofane, si vede un divario non lieve tra questi due cronografi; e il fallo, a mio credere, sta nel testo di esso Teofane. Fu in quest'anno solennemente portato al sacro fonte in Monza il figliuolo nato al re Agilolfo. Per così magnifica funzione fu scelto il giorno santo di Pasqua, che per attestato di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 28.], cadde nel dì 7 d'aprile, e però con indizio chiaro dell'anno presente. Ottenne la piissima regina Teodelinda dal marito che esso figliuolo, a cui fu posto il nome di Adaloaldo, fosse battezzato da Secondo abbate, nativo di Trento, uomo che era allora in concetto di gran santità, e carissimo ad essa regina. La città oggidì di Monza, situata dieci, o dodici miglia lungi da Milano, fu un luogo eletto da Teoderico re de' Goti, secondochè attesta il suddetto Paolo istorico [Idem, ibid., cap. 22.], per villeggiarvi, a cagione della bontà dell'aria in tempo di state. Modicia e Modoetia è il suo nome nelle memorie dei vecchi secoli. Si conta anche una favolosa origine di questo nome Modoetia. Affezionossi dipoi la regina Teodelinda a [1124] questo medesimo luogo, e perciò quivi fabbricò un'insigne basilica, dedicata a Dio, in onore di s. Giovanni Battista, eletto per protettore della nazion longobarda, con arricchirla di molti poderi e di varii preziosi doni d'oro e d'argento. Parte d'essi tuttavia si conserva (cosa troppo rara e quasi miracolosa) nel tesoro d'essa basilica, e ne parla ai suoi tempi Bonincontro Morigia [Morigia tom. 12. Rer. Ital.], scrittore di Monza nella sua Cronica scritta nel secolo decimoquarto, e poscia Baldassar Fedele [Fidel., de Praerogat. Modoetiae.], arciprete mitrato d'essa basilica in un libro stampato nell'anno 1514. Scrive, fra le altre cose, esso Morigia, che si leggeva ai suoi dì la scrittura fatta da essa regina nel giorno della coronazion del figliuolo con queste parole: Offert gloriosissima Theodelinda regina una cum filio suo Adoaldo rege ipsa die, in qua in praesentia patris coronatus est ibi, sancto Joanni patrono suo de dono (forse de donis) Dei, et de dotibus suis. Aggiugne che san Gregorio Magno papa mandò infinite reliquie sacre ad essa regina per mezzo di Giovanni Diacono, e tuttavia se ne leggeva il catalogo colle seguenti parole: Haec sunt olea sancta, quae temporibus domini Gregorii papae ad duxit Johannes indignus et peccator domnae reginae Theodelindae de Roma in Modoetia. Resta tuttavia questo catalogo originale, scritto in papiro egiziaca, che il volgo chiama corteccia di alberi, nella galleria Settala di Milano, ed io lo pubblicai colle stampe [Muratorius, part. 2, Anecdot. Latin.]. Questi olii furono presi dalle lampane accese ai sepolcri di que' santi, oppure avevano toccato i sepolcri medesimi. Dice il Morigia che furono posti, e si conservavano tuttavia in s. Giovanni Battista di Monza in una bellissima arca di marmo dietro all'altar maggiore. Noi dobbiamo alla diligenza ed erudizione del dottore Orazio Bianchi [Blancus tom. 1, Rer. Ital., pag. 460.], nelle annotazioni [1125] alla Cronica di Paolo Diacono, la figura delle tre corone d'oro, che tuttavia si conservano nel tesoro di Monza. La prima è la celebre ferrea, così appellata per un cerchio di ferro ch'è inserito nella parte interiore, con cui si sogliono coronare gl'imperadori, come re d'Italia. L'opinione de' cittadini di Monza di questi ultimi tempi è, che quel cerchio sia formato da uno de' chiodi della croce del Signor nostro Gesù Cristo. Ma che gli antichi non conoscessero punto questa rarità, credo di averlo dimostrato nel mio Trattato della Corona Ferrea. La seconda corona d'oro è chiamata per antica tradizione la corona della regina Teodelinda, ornata di smeraldi e pesante once 14 e denari 19, dalla quale pende una croce d'oro gemmata di peso d'once 15 e denari 7. La terza è la corona di oro del re Agilolfo, il cui peso ascende ad once 21 e denari 12, dalla quale parimente si mira pendere una croce di oro, anche essa gemmata, pesante once 24 e denari 14. La rarità maggiore di questa consiste nel ritener l'iscrizione fatta dal medesimo re, consistente in queste parole:

✠ AGILVLF. GRAT. DI VIR. GLOR.
REX. TOTIVS ITAL. OFFERET.

SCO. IOHANNI. BAPTISTÆ. IN
ECLA. MODICIA.

Non era certo padrone di tutta l'Italia il re Agilolfo; ma possedendone la maggior parte, credette di potersene attribuire l'intero dominio. Il dono poi di questa corona (non si sa quando, da lui fatto a s. Giovanni Battista di Monza) verisimilmente appartiene a qual tempo, in cui, secondo l'attestato di Paolo Diacono, egli aveva abbracciato il cattolicismo, per le persuasioni della piissima regina Teodelinda sua moglie.

Oltre alla basilica di s. Giovanni Battista, fece fabbricar essa regina in Monza il suo palagio, nel quale eziandio ordinò che si dipingesse alcuna delle imprese dei [1126] Longobardi. Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 23.], che ai suoi dì osservò quelle pitture, raccolse dalle medesime qual fosse anticamente l'aspetto e la forma del vestire de' Longobardi: cioè si radevano la parte deretana del capo; e gli altri capelli li dividevano sulla fronte, lasciandoli cadere dall'una parte e dall'altra del volto sino alla dirittura della bocca. Nulla dice Paolo delle loro barbe, ma queste è da credere che le portassero, e ben lunghe, tenendo egli che da esse prendessero il nome di Longobardi. Portavano poi le vesti larghe, e massimamente fatte di tela di lino, come solevano in questi tempi anche gli Anglo-Sassoni, e adornavano esse vesti con delle liste o livree larghe, tessute di varii colori. Le loro scarpe erano nella parte di sopra aperte fino all'estremità delle dita, e queste si serravano al piede con delle stringhe di pelle allacciate. Aggiugne il suddetto storico che i Longobardi cominciarono dipoi a portar degli stivali di cuoio, usando ancora, qualora aveano da cavalcare, di tirar sopra essi stivali altri stivaletti o borzacchini di panno o di tela di colore rossiccio: il che essi aveano appreso dagl'Italiani. Seguitava intanto la guerra fra i Longobardi e i Greci in Italia, perchè sdegnato forte Agilolfo per la prigionia della figliuola e del genero, non voleva ascoltar parola di pace. Ottenne egli pertanto in quest'anno un rinforzo di soldati sclavi, ossia schiavoni, che Cacano re degli Avari in virtù della lega gli mandò; e con tutto il suo sforzo intraprese l'assedio di Cremona, città che s'era mantenuta finora alla divozion dell'imperadore. Nel dì 21 d'agosto ne divenne egli padrone; e forse perchè da quella città era venuta la gente che fece prigion la figliuola; oppure perchè essa città, posta nel cuore degli stati longobardi, avea loro in addietro recate molte molestie: con barbarica vendetta la spianò sino ai fondamenti. Quindi passò sotto Mantova, città ripresa dagli imperiali al tempo di Romano esarco; e [1127] con arieti fece tal breccia nelle mura, che la guarnigione cesarea fu necessitata a capitolar la resa a patti di buona guerra, cioè colla facoltà di potersene andar libera a Ravenna: il che fu eseguito. Seguì la presa di questa città nel dì 13 di settembre. Venne anche in potere dei Longobardi un castello forte, appellato Vulturina; intorno al quale hanno il Biondo, il Cluverio, il padre Beretti ed altri disputato per assegnarne il sito, immaginandolo alcuni nella Valtellina ed altri vicino al Po, ma senza che alcun d'essi rechi alcun buon fondamento della loro opinione. Se mai la presa di questo luogo quella fosse stata che inducesse il presidio imperiale esistente in Brescello a fuggirsene, col dare alle fiamme quella città posta alle rive del Po, come narra Paolo Diacono, si potrebbe credere che Vulturina fosse in quelle vicinanze. Ma ci mancano lumi per la conoscenza sicura del sito suo. Arrivarono in questo anno a Roma le immagini di Foca e di Leonzia Augusti e secondo il solito si fece gran solennità in riceverle, perchè in quest'atto consisteva la ricognizione del nuovo sovrano [Johannes Diaconus, in Vit. S. Gregor., lib. 4, cap. 20.]. Furono esse riposte nell'oratorio di s. Cesario; nè i Romani mostrarono difficoltà alcuna a riconoscere per loro signore quell'usurpatore del trono imperiale.

Abbiamo poi da s. Gregorio che la guerra si faceva in altri siti d'Italia, giacchè scrive a Smeraldo esarco [Gregor. Magnus, lib. 13, epist. 33.] d'avere inviata lettera a Cillane (senza che apparisca dove questo longobardo comandasse) per vedere, s'egli voleva osservar la tregua di trenta giorni, già conchiusa da esso esarco; ed aver egli risposto di sì, purchè dalla parte dell'imperadore la medesima fosse osservata, e ch'egli si doleva forte dei suoi uomini uccisi dai Greci (per quanto si può conghietturare nel tempo stesso della tregua), e ciò non ostante aveva rilasciato i soldati cesarei [1128] fatti da lui prigioni ne' giorni innanzi. Aggiunge il santo papa di aver egli bensì mandato un suo uomo a Pisa per trattar co' Pisani di pace o tregua, ma che nulla s'era ottenuto; e che già essi Pisani aveano preparate le lor navi per uscire fra poco in corso, cioè contra de' sudditi dell'imperadore. S'era maravigliato Foca Augusto di non aver trovato in Costantinopoli alcun ministro del romano pontefice, perchè probabilmente s'erano essi ritirati, allorchè succedette la lagrimevol tragedia di Maurizio Augusto, nè parve lor bene di presentarsi senza ordine del papa a quel tiranno. S. Gregorio [Gregorius Magnus, lib. 15, ep. 38.] gli scrive d'avere inviato a quella residenza Bonifazio diacono, e in tal congiuntura il prega d'inviar de' soccorsi in Italia, essendo già trentacinque anni che il popolo romano vive fra le scorrerie e le spade de' Longobardi. Ma Foca aveva altro da pensare. Si mosse tosto contra di lui Cosroe re della Persia, per vendicare la morte dell'imperador Maurizio, e recò infiniti danni all'oriente cristiano. Conosceva inoltre Foca che non era stabile un trono acquistato con tanta fellonia e crudeltà, ed era perciò astretto a guardarsi dagl'interni nemici. Il perchè riflettendo Smeraldo esarco di Ravenna alla poca speranza de' soccorsi, e che non potea se non andar peggio continuando la guerra, si appigliò al partito di chieder pace o tregua al re Agilolfo. Questi consentì colla condizione di riaver sua figliuola e il genero Godescalco, che furono in fine rimessi in libertà. Ma la figliuola appena giunta a Parma, quivi morì di parto. Pace non già, ma tregua si conchiuse nel novembre fino alle calende di aprile dell'anno seguente. Dicendo poi Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 29.] che in quest'anno seguì un'altra gran battaglia fra Teodeberto II e Teoderico re de' Franchi dall'una parte, e Clotario II re di Soissons dall'altra, con gran mortalità di persone: o [1129] egli falla, o si debbono riferir le sue parole all'anno seguente 604, perchè ad esso appartiene quel fatto d'armi per consenso degli storici francesi. Intanto una lettera di s. Gregorio, che rapporterò fra poco, ci assicura della pace o tregua fatta in quest'anno fra l'esarco e i Longobardi.


   
Anno di Cristo DCIV. Indizione VII.
Sabiniano papa 1.
Foca imperadore 3.
Agilolfo re 14.

L'anno I dopo il consolato di Foca Augusto.

Sul principio di quest'anno possiam credere data una lettera di san Gregorio papa alla regina Teodelinda [Gregor. Magnus, lib. 2, ep. 14.]. Se tuttavia si volesse riferire al fine dell'anno prossimo passato, non potrebbe provarsi il contrario. In essa dice il santo padre di avere ricevuto il foglio che la stessa regina gli aveva inviato dalle parti di Genova: parole, dalle quali pare che si possa dedurre che Genova allora fosse in potere dei Longobardi. Vien poi a rallegrarsi con esso lei, perchè Dio le abbia dato un maschio, e quel che è più, un maschio già battezzato nella fede cattolica. Quindi si scusa per non poter ora rispondere alla scrittura di Secondo abbate, di cui parlammo di sopra, per trovarsi egli sì maltrattato dalla gotta, che appena potea parlare; ma intanto le manda copia del concilio quinto generale, contro di cui si scorge che Secondo avea scritto, con aggiugnere che l'accettar questo concilio non si opponeva punto alla venerazione dovuta ai quattro precedenti concilii generali. E finalmente le dice d'inviare dei filatterii per l'eccellentissimo nostro figliuolo Adaloaldo re, cioè delle reliquie legate in oro o argento, da portare addosso per custodia e difesa delle persone: con pregarla ancora di ringraziare il re suo consorte per la pace fatta, e di animarlo a conservarla [1130] per l'avvenire. Veggiam dunque comprovato da un'autentica testimonianza, che nel precedente anno 603 fu stipulata la tregua fra i Greci e i Longobardi. Ma non dovea già valersi il padre Pagi di questa lettera per credere e far credere che Adaloaldo fosse nato sul fine di esso anno 603. Se abbiam la chiara asserzione di Paolo Diacono che egli fu battezzato nel dì 7 aprile d'esso anno 603, come potrà poi essere nato nel dicembre seguente? Non altro dice il santo papa, se non che egli avea participato dell'allegrezza di Teodelinda, per avere inteso che le fosse nato un figliuolo, e, quel che più importava, che questo figliuolo, mercè del sacro battesimo, fosse stato aggregato alla fede cattolica. Solamente negli ultimi mesi dell'anno 603 Teodelinda, in occasione di mandare al papa la scrittura di Secondo abbate, gli diede anche avviso del battesimo del figliuolo, celebrato secondo il rito cattolico. San Gregorio si congratula per la nascita che era seguita tanto prima e pel battesimo ultimamente fatto, unendo insieme quei due fatti, ma senza indicare in qual tempo l'uno e l'altro fossero succeduti. Quel sì che dee dar da pensare, si è che san Gregorio tratta già con titolo di re Adaloaldo, eppure, se vogliam seguitare l'ordine di Paolo Diacono, non fu dichiarato questo fanciullo collega nel regno da Agilolfo suo padre se non dopo la morte di san Gregorio, che seguì nell'anno presente.

In fatti fece Roma, anzi tutta la Cristianità, sì gran perdita in quest'anno, avendo voluto Iddio chiamare a miglior vita questo impareggiabil pontefice nel dì 12 di marzo; pontefice, dissi, d'immortale memoria, e che si riguardi la sua sapienza, prudenza e zelo per la cattolica religione, o si contempli la dottrina, l'eloquenza, la santità de' costumi, troppo è superiore alle nostre lodi, e giustamente, per consenso d'ognuno, meritò il titolo di grande. Paolo Diacono attesta che quel verno, cioè il precedente [1131] alla di lui morte, fu sì rigido, che si seccarono quasi dappertutto le viti. E che i raccolti de' grani parte furono guasti dai topi, e parte dal vento brucione affatto distrutti. Anche Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec.] e Giovanni [Johann. Diacon., in Vit. S. Gregor., lib. 4, cap. 69.] attestano che dopo la morte di san Gregorio si patì in Roma una fierissima carestia. Ma il buon Paolo Diacono in iscrivendo che questo gran pontefice morì nell'anno secondo di Foca, correndo l'ottava indizione, colpì benissimo nell'anno dell'imperio, ma non già nell'indizione, essendo, per consenso di tutti gli eruditi, certissimo ch'egli terminò la sua vita nella settima indizione, la quale fu in corso nell'anno presente fino al settembre. Ebbe per successore Sabiniano diacono, nato in Volterra, che era stato suo nunzio o ministro alla corte imperiale, essendosi già introdotto di eleggere al pontificato romano que' diaconi che aveano sostenuto quell'impiego in Costantinopoli, siccome più noti ed accetti agli imperadori, e più informati de' pubblici affari. Credesi che dopo sei mesi e un giorno di sede vacante, e dopo esser venuta l'approvazion della sua elezione da Foca Augusto, fosse Sabiniano consecrato nel dì 13 di settembre. Dopo aver Paolo Diacono narrata la morte di san Gregorio, ci vien dicendo [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 31.] che nella state seguente e nel mese di luglio, raunata la gran dieta della nazion longobarda nel circo di Milano, Adaloaldo fu proclamato re, ossia collega d'Agilolfo suo padre; e che a quella solennissima funzione furono presenti non solamente esso re Agilolfo, ma ancora gli ambasciatori di Teodeberto II re di Metz, ossia dell'Austrasia. Uno dei maggiori pensieri di Agilolfo era quello di mantenere una buona armonia coi re franchi, perchè possedendo essi quasi tutte le Gallie e buona parte della Germania, non v'era potenza confinante all'Italia, di cui più [1132] che di quella avessero da temere i Longobardi. Perciò affine di stringere maggiormente il nodo dell'amicizia con Teodeberto, il più possente di quei re, Agilolfo, conchiuse un matrimonio fra il suo figliuolo Adaloaldo e una figliuola d'esso Teodeberto. Erano sì l'un come l'altra fanciulli di ben tenera età: contuttociò seguirono gli sponsali fra essi, e restò sigillata la funzione collo stabilimento di una pace perpetua fra i due re, genitori degli sposi. Il cardinal Baronio ed altri differirono sino all'anno venturo l'innalzamento di Adaloaldo al trono; ma sembra più verisimile che ciò avvenisse in quest'anno, e che la seguente state di Paolo Diacono sia quella che venne dopo il marzo dell'anno presente, in cui san Gregorio il grande compiè la gloriosa carriera del suo pontificato. Credesi ancora che in quest'anno desse fine al suo vivere Mariniano arcivescovo di Ravenna [Bacchinius, ad Agnell., tom. 2 Rer. Ital.], al quale succedette Giovanni terzo di questo nome. E perchè era spirata la tregua fra i Greci e Longobardi, nel mese di novembre si rinnovò essa per un anno avvenire [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 33.].


   
Anno di Cristo DCV. Indizione VIII.
Sabiniano papa 2.
Foca imperadore 4.
Agilolfo re 15.

L'anno II dopo il consolato di Foca Augusto.

Terminò nel novembre dell'anno presente la tregua già fatta fra i Greci e i Longobardi [Idem, ib.]. Smeraldo esarco, che si trovava smunto di forze, e dovea veder dei brutti nuvoli in aria, trattò di nuovo della conferma d'essa tregua; e nello stesso mese l'ottenne per un altr'anno, ma con averla comperata collo sborso di dodicimila soldi d'oro. In questi tempi ancora (l'abbiamo dal solo Paolo Diacono) essendosi ribellati i Sassoni da [1133] Teodeberto II re dell'Austrasia, seguì una sanguinosa guerra in quelle contrade fra essi e i Franchi, con grande strage dell'una e dell'altra parte, senza che si sappia il fin d'essa. Sotto quest'anno mette il cardinal Baronio la divisione della chiesa d'Aquileja, perchè narrata da Paolo suddetto [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 34.] dopo i sopra mentovati fatti; ma par ben più verisimile che essa appartenga all'anno susseguente, come anche tenne il padre de Rubeis [De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejeus., cap. 33.]. Cioè venne a morte Severo patriarca d'Aquileja, il quale abborrendo il concilio quinto generale, per timore di pregiudicar all'ossequio che tutta la Chiesa professava al quarto calcedonense, mai non volle comunicare col romano pontefice e con le infinite altre chiese che veneravano il quarto ed ammettevano ancora il quinto. Il re Agilolfo e Gisolfo duca del Friuli, sotto il cui governo era Aquileja, mal sofferivano che i patriarchi avessero eletta per loro sede l'isola di Grado, siccome luogo sottoposto all'imperadore, e cinto dall'acque, dove essi Longobardi non poteano metter le griffe. Si prevalsero eglino adunque di questa congiuntura per far mutare il sistema introdotto. Devendosi eleggere il nuovo patriarca, per quanto costa da una relazione de' vescovi scismatici, pubblicata dall'eminentissimo Annalista, l'esarco, mosso dalle istanze del papa, propose di eleggere un patriarca che mettesse fine allo scisma, e secondo i canoni, si sottomettesse al pontefice romano, capo della Chiesa di Dio. Ripugnando essi, li fece condurre a Ravenna, dove (se vogliam credere ai lor successori scismatici) atterriti dalle minacce di esilii, di prigionie e di bastonate, elessero Candidiano ossia Candiano, il quale abbracciò [1134] l'unità della Chiesa cattolica, e si ritirò ad esercitar le sue funzioni a Grado. Rimessi in libertà i vescovi suddetti, non mancarono quei, che avendo le lor chiese sotto i Longobardi, di richiamarsi dalla pretesa violenza lor fatta, e venuti in parere di procedere ad una altra elezione, trovarono favorevoli al loro disegno il re Agilolfo e il duca Gisolfo, e probabilmente la stessa regina Teodelinda, la quale tuttochè cattolica e piissima principessa, si sa che aveva l'animo alieno dal concilio quinto. Elessero dunque Giovanni abate, che seguitando a fomentare lo scisma, stabilì la sua dimora in Aquileia: con che nello stesso tempo cominciarono ad esservi due patriarchi d'Aquileia, l'uno cattolico residente in Grado, e l'altro scismatico residente in Aquileia, con essersi anche divisi i suffraganei, parte sotto l'uno e parte sotto l'altro. E il bello fu che tuttochè col tempo il patriarca aquilejense si rimettesse in dovere con abiurare lo scisma, pure seguitarono ad esservi due patriarchi, e dura tuttavia il patriarca gradense sotto nome di patriarca veneto, perchè nel secolo quintodecimo trasferita fu dall'isola di Grado a Venezia quella sedia patriarcale. Intanto Foca imperadore, odiato da tutti, siccome abbiamo dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] e da Teofane [Theoph., in Chron.], o per vere congiure scoperte, o per soli sospetti infierì colla scure contra i più riguardevoli personaggi di Costantinopoli; e giunse a levar di vita anche la già imperadrice Costantina colle tre sue figliuole. Così il tiranno operava in Costantinopoli, in tempo che i Persiani mettevano a sacco tutta la Siria, la Palestina e la Fenicia, ed empievano di stragi tutte quelle contrade.


[1135]

   
Anno di Cristo DCVI. Indizione IX.
Sede romana vacante.
Foca imperadore 5.
Agilolfo re 16.

L'anno III dopo il consolato di Foca Augusto.

Secondo i conti del padre Pagi, mancò di vita in quest'anno Sabiniano papa nel dì 22 di febbrajo, pontefice poco ben veduto dai Romani, perchè diverso dal santissimo suo predecessore; e per tutto quest'anno stette vacante la cattedra di san Pietro, verisimilmente perchè Foca non la finì di mandar l'approvazion dell'eletto [Paul. Diaconus, lib. 4, cap. 33 et 36.]. Terminò in quest'anno la tregua fatta fra l'esarco di Ravenna e il re Agilolfo. Si può credere che l'esarco quegli fosse che, considerato l'infelice stato dell'imperio in questi tempi, si ingegnasse d'ottenerne la continuazione. Paolo Diacono scrive ch'essa fu conchiusa per tre anni avvenire. Ma prima che questa si conchiudesse, l'armi dei Longobardi s'impadronirono di due città della Toscana, cioè di Bagnarea, città probabilmente nata sotto il regno dei Goti, e di Orvieto, città nominata Urbs Vetus, ma non conosciuta sotto questo nome dagli antichi Romani. Poscia il medesimo storico racconta più sotto, che Agilolfo mandò (non si sa in qual anno) Stabiliciano suo notaio a Costantinopoli per trattar di una stabil pace con Foca Augusto, perch'egli contento di quel che possedeva, non ansava dietro a sempre nuove conquiste, come tant'altri re hanno usato; e desiderava di lasciar godere la quiete ai sudditi suoi. Altro non risultò da questo negoziato, se non la tregua di un anno. Foca nondimeno per dimostrare la stima che faceva del re Agilolfo, col ritorno di Stabiliciano gl'inviò anche egli degli ambasciatori, ed insieme dei regali da presentargli.


[1136]

   
Anno di Cristo DCVII. Indiz. X.
Bonifazio III papa 1.
Foca imperadore 6.
Agilolfo re 17.

L'anno IV dopo il consolato di Foca Augusto.

Venute finalmente da Costantinopoli le tanto sospirate risposte, fu consecrato in quest'anno Bonifazio III già eletto pontefice romano, stato anch'egli apocrisario di s. Gregorio alla corte dell'imperadore. Fu assai breve la vita di questo papa: contuttociò non fece egli poco per avere ottenuto, secondochè lasciarono scritto Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 33 et 36.] ed Anastasio bibliotecario [Anast., in Vit. Bonifacii III.], che Foca con un suo decreto dichiarasse, qualmente la Chiesa romana è capo di tutte le chiese, non già che il primato del romano pontefice, conosciuto e confessato anche per tutti i secoli addietro, avesse bisogno di un decreto tale; ma per tagliar l'ali all'ambizione de' patriarchi di Costantinopoli, i quali, siccome vedemmo, aveano cominciato nei tempi di s. Gregorio, e continuarono fin qua ad intitolarsi vescovi ecumenici, quasi che pretendessero di far divenire prima e capo di tutte le chiese la loro chiesa. Per buona ventura nacquero in questi tempi dei dissapori tra Foca Augusto e il patriarca Costantinopoli: e ciò diede occasione all'imperadore di abbassar l'orgoglio di que' patriarchi. Celebrò ancora questo papa in Roma un concilio di settantadue vescovi, in cui fu decretato che vivente il papa, siccome ancora viventi gli altri vescovi, non si potesse trattare del loro successore, ma che solamente tre dì dopo la lor morte fosse lecito di farlo nelle forme prescritte dai canoni. Ma papa Bonifazio non godè che otto mesi e ventidue giorni il papato, essendo mancato di vita, per quanto crede il padre Pagi, nel dì 19 di novembre dell'anno presente. Aveva Teoderico [1137] re della Borgogna, contro il parere della regina Brunechilde avola sua, conchiuso il suo matrimonio con Ermenberga figliuola di Vitterico re de' Visigoti in Ispagna [Fredegar., in Chron., cap. 30 et 31.]. Fu condotta questa principessa a Chalons sopra la Saona, e ricevuta da Teoderico con grande onore. Ma Brunechilde gran fabbricatrice d'iniquità, unitasi con Teodelana sorella di esso re, tanto fece e disse, che impedì per un anno la consumazione, ed in fine rendè sì disgustosa al nipote la persona e presenza di questa principessa, ch'egli la rimandò vergognosamente in Ispagna, e, quel che è peggio, spogliata de' tesori che avea seco portati. Irritato il re di Spagna da sì enorme oltraggio, spedì degli ambasciatori in Francia a Clotario re di Soissons, per invitarlo ad una lega contra di Teoderico; e il ritrovò dispostissimo per l'odio che passava già da gran tempo fra questi principi. Andarono dipoi gli stessi ambasciatori a far le medesime proposizioni a Teodeberto re dell'Austrasia, che non ebbe difficoltà di collegarsi ai danni del fratello Teoderico, contra del quale era disgustato anche egli non poco. Non bastò questo al re di Spagna: unitisi co' suoi ambasciatori quei di Clotario, vennero anche in Italia per tirare nella medesima lega il re Agilolfo, il quale conoscendo i vantaggi che gliene poteano provenire, non si fece molto pregare ad accettar l'offerta. Certo è che tutti e quattro questi re misero in ordine e in moto le loro truppe per assalire gli stati della Borgogna; e sarebbe probabilmente riuscito loro facile di spogliare quel re di tutto; ma o perchè Brunechilde regina usasse qualche tiro della sua disinvoltura, o che occorresse qualche accidente, di cui la storia non parla, noi sappiamo che restò dissipato tutto questo temporale, nè seguì vendetta alcuna dell'affronto fatto al re di Spagna. Se crediamo a Leone Ostiense [Leo Ostiensis, Chronicon Casinensis, lib. 1, cap. 3.], sotto [1138] il suddetto Bonifazio III papa, e circa questi tempi, Fausto monaco, discepolo di s. Benedetto; mandato già con san Mauro nelle Gallie, tornò a Roma, dove scrisse la vita del medesimo s. Mauro. Altri pretendono ch'egli venisse ai tempi di Bonifazio IV. Ma noi non abbiam quella vita tal quale fu scritta da lui.


   
Anno di Cristo DCVIII. Indizione XI.
Bonifazio IV papa 1.
Foca imperadore 7.
Agilolfo re 18.

L'anno V dopo il consolato di Foca Augusto.

Dopo essere stata vacante la chiesa romana per dieci mesi e varii giorni, fu posto nella sedia di s. Pietro Bonifazio IV a dì 25 d'agosto. L'insigne tempio di Roma, appellato anticamente il Panteon, perchè dedicato a tutti gli dii della gentilità, ed oggidì chiamato la Rotonda, fabbrica maravigliosa, fatta per ordine di Marco Agrippa ai tempi d'Augusto, e che anche oggidì si mira con istupore dagli intendenti, avea fino ai tempi di questo pontefice mantenuta nel suo seno la superstizione pagana con ritenere le statue di quelle false divinità. O in quest'anno, oppure nel susseguente, tanto si studiò il suddetto papa Bonifazio, che l'impetrò in dono da Foca imperadore [Anastas. Biblioth., in Bonif. IV. Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 37.]. Ciò fatto, ne levò tutte le sordidezze del paganesimo, e ridotta quella basilica al culto del vero Dio, la consecrò a lui in onore della santissima Vergine madre e di tutti i martiri, e lo stesso imperadore la dotò anche di molti beni. Ma se Foca per tener contenti e ben affetti al suo imperio i Romani, usava della sua liberalità verso di loro e del sommo pontefice, seguitava bene in Oriente ad esercitare la sua crudeltà. Ed intanto i Persiani andavano facendo nuovi progressi colla rovina dell'imperio romano. Già aveano presa l'Armenia e la Cappadocia, [1139] con isconfiggere l'armata imperiale. Impadronitisi poi della Galazia e della Patagonia, arrivarono fino a Calcedone, cioè in faccia di Costantinopoli, mettendo a sacco tutto il paese. Questi furono i frutti del matto popolo greco, che per non voler sofferire un principe con qualche difetto, amarono piuttosto d'avere un tiranno, atto bensì ad incrudelir contro le vite de' proprii sudditi, ma non già a ripulsare i nemici esterni.


   
Anno di Cristo DCIX. Indizione XII.
Bonifazio IV papa 2.
Foca imperadore 8.
Agilolfo re 19.

L'anno VI dopo il consolato di Foca Augusto.

Miravano intanto i Greci tutti di mal occhio il tiranno Foca. Trovandosi egli nel circo con tutto il popolo a veder le corse de' cavalli [Theoph., in Chron.], la fazion dei Prasini, perchè egli dovea favorire la parte contraria, gridò verso di lui: Tu hai bevuto nel boccalone; poscia: Tu hai perduto il senno. Tanta insolenza per ordine di Foca fu gastigata da Costante prefetto della città, che a molti fece tagliar le braccia, ad altri la testa, ed alcuni altri chiusi ne' sacchi li fece gittare in mare. Allora i Prasini fatta una sollevazione, diedero il fuoco al pretorio, all'archivio pubblico e alle carceri, di modo che tutti i prigioni se ne fuggirono. Foca pubblicò un decreto che niuno di quella fazione fosse da lì innanzi ammesso alle cariche della corte e del pubblico. Scrive Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 37.] che sotto questo imperadore le due fazioni popolari dei Prasini e dei Veneti fecero nell'Oriente e in Egitto una guerra civile con grande uccisione dall'una e dall'altra parte. Scoprissi ancora in quest'anno una congiura tramata in Costantinopoli da Teodoro capitan delle guardie e da Elpidio prefetto dell'Armenia contro la vita di Foca. Pagarono le [1140] loro teste la pena del non aver saputo condur meglio il loro disegno. Ma non era destinato da Dio che avesse da Costantinopoli da venir la rovina di Foca. Il colpo era riserbato all'Africa. Ed in fatti sotto quest'anno scrive l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alex.] che l'Africa e l'Egitto si ribellarono a Foca. E Teofane ci fa anche egli sapere che il senato di Costantinopoli con frequenti segrete lettere andava spronando Eraclio governatore d'essa Africa, acciocchè volesse liberar l'imperio romano dal tiranno, divenuto oramai insoffribile al popolo. E non furono gittate al vento le loro esortazioni. Cominciò in quest'anno esso Eraclio e raunare una gran flotta con quanti soldati potè, e ne diede il comando ad Eraclio suo figliuolo, il quale, siccome vedremo nell'anno seguente, fece questa impresa con salir egli sul trono. Crede il padre Pagi che circa questi tempi venisse a morte Tassilone duca di Baviera, di cui parla Palo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 41.], a cui succedette Garibaldo secondo di tal nome fra quei duchi. Questi in Agunto, città del Norico, oggidì una terra del Tirolo, venne alle mani con gli Sclavi, e restò sconfitto di modo che quei Barbari fecero di gran saccheggi nella Baviera. La lor crudeltà mise il cervello de' Bavaresi a partito, in guisa che di nuovo attruppati si scagliarono addosso a que' masnadieri, tolsero loro la preda, e li fecero uscir mal conci da quelle contrade. Siccome dicemmo all'anno 595, il primo duca della Baviera fu Garibaldo, padre della regina Teodelinda, il quale si va credendo che fosse deposto da Childeberto re dei Franchi a cagione del matrimonio d'essa Teodelinda, con dargli per successore il suddetto Tassilone. Ma lo aver Tassilone avuto un figliuolo col nome di Garibaldo, a me fa sospettare che lo stesso Tassilone possa essere stato figliuolo di Garibaldo I, pel costume anche anticamente osservato di ricreare [1141] nei nipoti il nome dell'avolo. È un semplice sospetto; ma non ho voluto tacerlo, giacchè non gli manca qualche fondamento di verisimiglianza. Quando ciò fosse, Garibaldo I non sarebbe stato abbattuto, ma bensì a lui meno sarebbe succeduto il figliuolo Tassilone per grazia del re d'Austrasia.


   
Anno di Cristo DCX. Indizione XIII.
Bonifazio IV papa 3.
Eraclio imperadore 1.
Agilolfo re 20.

L'anno VII dopo il consolato di Foca Augusto.

Questo fu l'anno che diede fine alla tirannia di Foca imperatore. Nel dì 3, oppure nel dì 4 di ottobre, comparve alla vista di Costantinopoli l'armata navale [Chron. Alexandr.] spedita contro di costui da Eraclio governatore dell'Africa, comandata dal giovane Eraclio suo figliuolo. Erano cariche di combattenti tutte queste navi. Per terra eziandio s'incamminò la cavalleria [Theoph., in Chronogr. Nicephorus in Breviar.], condotta da Niceta figliuolo di Gregora patrizio; ma non giunse al dì della festa. Tutti erano animati a liberar la terra da quel mostro. Alla vista di sì poderoso aiuto coraggiosamente si mossero nel dì cinque d'esso mese i senatori congiurati contra del tiranno; e le fazioni prasina e veneta presero anche esse l'armi. Teofane scrive che seguì battaglia colle genti di Foca, le quali rimasero sconfitte. La Cronica Alessandrina nulla dice di questa zuffa. Quel che è certo, da Fozio curatore del palazzo di Placidia, alla cui moglie il tiranno aveva usata violenza, e da Probo patrizio tratto fu per forza Foca dal palazzo dell'Arcangelo, spogliato di tutte le vesti e condotto alla presenza d'Eraclio. Poco si stette a mettere in pezzi il tiranno, e posto il suo capo sopra una picca, fu portato come in trionfo per mezzo alla città a saziar gli occhi del popolo. Nel medesimo giorno [1142] quinto di ottobre Eraclio il giovine, eletto dal senato, proclamato dal popolo, coronato da Sergio patriarca, salì sul trono imperiale. Aggiunge Teofane che in Costantinopoli si trovava Epifania madre d'esso Eraclio, e seco parimente era Eudocia figliuola di Rogato africano, già promessa in moglie al medesimo Eraclio. Foca, allorchè questo turbine gli veniva addosso, saputo che in città dimoravano queste due dame, le fece prendere e rinserrar sotto buona guardia nel monistero imperiale, chiamato della nuova Penitenza. Ora uno de' primi pensieri di Eraclio, entrato che fu in Costantinopoli, fu di chieder conto della madre e della sposa; e però nel medesimo tempo ch'egli ricevette la corona imperiale, sposò Eudocia, e dichiaratala Augusta, la fece coronare imperadrice dal patriarca suddetto. Era succeduto questo patriarca Sergio nella sedia costantinopolitana a Tommaso, uomo di santa vita, morto nel dì 20 di marzo dell'anno presente. Vivente ancora Foca, per attestato di Beda [Beda, Hist. Angl. lib. 2, cap. 4.], papa Bonifazio IV, nel dì 27 di febbraio tenne un concilio in Roma per togliere alcune differenze insorte in Inghilterra, dove alcuni del clero secolare pretendeano non permesso ai monaci il sacerdozio, nè la facoltà di battezzare ed assolvere i penitenti. Fu deciso in favore dei monaci, ed intimata la scomunica contro chi si opponesse. Sopra ciò scrisse il pontefice delle lettere al santo re Edelberto e a Lorenzo arcivescovo di Cantuaria che era succeduto in quella cattedra al celebre s. Agostino apostolo dell'Inghilterra.


   
Anno di Cristo DCXI. Indizione XIV.
Bonifazio IV papa 4.
Eraclio imperadore 2.
Agilolfo re 21.

Console

Eraclio Augusto.

Nelle calende del primo gennaio dopo la assunzione sua al trono, prese Eraclio [1143] imperadore il consolato, secondo il rito antico degli altri Augusti. Ma egli nei principii del suo governo trovò sì sfasciato l'imperio, che non sapea dove volgersi per impedirne la rovina. Soprattutto l'affliggeva l'aver per nemici i Persiani, che ogni dì più divenivano orgogliosi e potenti colle spoglie del romano imperio. Essi in quest'anno s'impadronirono di Apamea e di Edessa, con fare schiavi innumerabili cristiani, ed arrivar fino ad Antiochia. Eraclio spedì quante milizie potè per fermare il corso a questo impetuoso torrente, e nel mese di maggio si venne ad una giornata campale, in cui l'armata cesarea fu messa a filo di spada, talmente che pochi si salvarono colla fuga. Per conto dell'Italia l'imperadore credette ben fatto di richiamare a Costantinopoli l'esarco di Ravenna Smeraldo, forse perchè conosceva di abbisognare l'Italia d'un uffiziale di maggior sua confidenza. Venne dunque in suo luogo al governo de' paesi restati in Italia sotto il dominio cesareo Giovanni Lemigio patrizio, il quale, secondo l'uso introdotto, in qualità d'esarco fece la sua residenza in Ravenna. Questi non tardò a ratificar la pace ossia tregua d'un anno col re Agilolfo [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 42.], pagando nondimeno per averla; perchè, siccome vedremo, bisognava che i Greci per la lor debolezza comperassero a danari contanti dai Longobardi la quiete delle loro città in Italia. Rapporta il Sigonio all'anno 615 la terribile invasione fatta dagli Avari nel ducato del Friuli; Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] all'anno 613, e Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] all'anno 616. Certo la cronologia di questi due scrittori ha slogature tali circa questi tempi, che non merita d'essere da noi seguitata. Io, quantunque confessi di non avere indizio sicuro dell'anno preciso di questa calamità, pure crederei di poterla più fondatamente riferire al presente, dacchè Paolo [1144] Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 38.] dopo aver narrata la morte di Foca e l'innalzamento di Eraclio, immediatamente soggiugne: Circa haec tempora rex Avarorum, quem sua lingua Cacanum appellant, cum innumerabili multitudine veniens, Venetiarum fines ingressus est. Gli Unni dunque, o vogliam dire i Tartari, chiamati Avari, padroni della Pannonia e di gran parte dell'Illirico, gente masnadiera ed avvezza alle rapine, e che esercitava, ora nella Tracia contra de' Greci imperadori, ed ora contra dei Franchi nella Baviera, l'esecrabil loro mestiere, arrivarono in quest'anno a sfogare la loro avidità anche nell'Italia. Davano essi il nome di Cacano al capo loro, nome equivalente a quello di re, come di sopra fu detto; e il re d'essi in questi tempi era un giovane vago di gloria e brioso, che messo insieme uno sterminato esercito, venne a dirittura verso il Friuli.

Gisolfo duca di quella contrada, vedendo venir sì strepitosa tempesta, ordinò tosto che tutte le castella del suo ducato si fortificassero, acciocchè servissero di rifugio anche gli abitatori della campagna. Nomina Paolo fra queste Cormona, Nomaso, Osopo, Artenia, Reunia, Ghemona, ed Ibligene. Intanto esso duca, con quanti Longobardi potè raunare, andò coraggiosamente a fronte de' nemici, ed attaccò battaglia. Ma la fortuna, che ordinariamente si dichiara per i più, non fece di meno questa volta. Combatterono con gran valore i Longobardi, ma in fine sopraffatti dall'immensa moltitudine dei Barbari, lasciarono quasi tutti sul campo la vita, e fra i morti restò ancora Gisolfo. Rimasti padroni della campagna gli Unni, attesero a saccheggiare e bruciar le case, e nello stesso tempo assediarono la città del Foro di Giulio, oggidì Cividal di Friuli, dove s'era rinchiusa Romilda, già moglie del duca Gisolfo, con quattro suoi figliuoli maschi, cioè Tasone, Cacone, Radoaldo e Grimoaldo, e quattro figliuole, due delle quali erano chiamate [1145] Pappa e Gaila. L'infame Romilda, guatato dalle mura Cacano, giovane di bello aspetto, che girava intorno alla città, innamorossene, e mandò segretamente ad offerirgli la resa della città, s'egli voleva prender lei per moglie. Acconsentì ben volentieri il Barbaro alla proposizione, ed apertagli una porta della città, v'entrò; ma appena entrato, lasciò la briglia alla sua crudeltà. Dopo un generale saccheggio, la città fu consegnata alle fiamme, e tutti i cittadini con Romilda e coi suoi figliuoli menati verso l'Ungheria in ischiavitù, con far loro credere di volerli rilasciare ai confini. Ma giunti che furono colà, nel consiglio degli Avari, fu risoluto di uccidere quei miseri, alla riserva delle donne e de' fanciulli: il che penetrato dai figliuoli del morto duca Gisolfo, fu cagione, che saliti tosto a cavallo, si diedero alla fuga. In groppa d'uno de' fratelli cavalcava Grimoaldo tuttavia fanciullo, e il più picciolo fra essi; ma correndo il cavallo, non poteva tenersi forte e cadde in terra. Allora il fratello maggiore, giudicando che fosse meglio il levargli la vita, che il lasciarlo schiavo fra i Barbari, presa la lancia, volle trafiggerlo. Ma il fanciullo piangendo cominciò a gridare che non gli nocesse, perchè era da tanto di star saldo a cavallo. Allora il fratello stesa la mano, e presolo per un braccio, il rimise sulla groppa nuda del cavallo, e diede di sproni. Gli Avari accortisi della fuga di questi giovani, tennero loro dietro, e riuscì ad uno di essi più veloce degli altri di aggraffare Grimoaldo, senza però nuocergli, non solo a cagione della tenera sua età, ma ancora perchè il vide garzoncello di bellissimo aspetto, con occhi vivi e bionda capigliatura. Se n'andava di mal animo lo sventurato fanciullo col suo rapitore; e intendeva molto bene la sua disgrazia; però pensando alla maniera di sbrigarsene, con coraggio troppo superiore alla età sua, cavato fuori il pugnale che pendeva del fianco del Barbaro, con quanta forza potè, con esso il percosse nel capo [1146] e il fece stramazzare a terra. Allora Grimoaldo tutto allegro diede volta al cavallo, e tanto galoppò, che raggiunse i fratelli, ai quali narrato quanto gli era accaduto, raddoppiò la loro allegrezza. Ciò vien così distesamente narrato da Paolo Diacono perchè Grimoaldo arrivò poi ad essere duca di Benevento, e in fine re de' Longobardi; e il fratello suo Radoaldo anch'egli resse il ducato di Benevento.

Gli Avari tornati al loro paese (non si sa per qual cagione, se non perchè erano crudeli in eccesso) uccisero tutti gl'Italiani seco menati, riserbando schiavi i fanciulli e le donne. E Cacano conoscendo il merito di Romilda, traditrice del popolo suo, per ricompensarla ed insieme per mantenere la sua parola, dormì con essa una notte come con una moglie. Nella seguente notte dipoi la consegnò a dodici de' suoi, acciocchè ne facessero le voglie loro. Finalmente in un palo pubblicamente rizzato la fece impalare con dirle: Questo è marito ben degno d'una pari tua. Ma furono ben differenti da sì esecrabil madre le figliuole condotte anche esse in ischiavitù. Premendo lor sopra ogni cosa di conservare intatta la loro purità, usavano di tenere in seno della carne cruda di pollo, che nel calore putrefacendosi mandava un puzzolente odore, di modo che se loro voleva accostarsi alcuno degli Avari, dava subito indietro maledicendole; e credendo che naturalmente in quella guisa puzzassero, andavano poi coloro dicendo, che tutte le donne longobarde erano fetenti. In questa gloriosa maniera quelle nobili donzelle scamparono dalla libidine degli Avari, e meritarono da Dio il premio della loro virtù, benchè fossero più volte vendute, perchè non era conosciuta la loro origine e nobiltà, d'essere poi riscattate dai fratelli e nobilmente maritate. Paolo Diacono scrive che, per quanto si diceva, una d'esse fu data in moglie al re degli Alamanni, e l'altra al principe della Baviera. Ma noi non sappiamo [1147] che in questi tempi vi fosse un re degli Alamanni. Forse v'era un duca. Aggiugne dipoi lo stesso istorico la propria genealogia, con dire che Leofi suo trisavolo venne coi Longobardi in Italia, nell'anno 568, e morendo lasciò dopo di sè cinque piccioli figliuoli, che in quella funesta occasione furono tutti condotti schiavi nell'Ungheria dagli Unni Avari. Uno d'essi, bisavolo di Paolo, dopo molti anni di schiavitù scappato, ritornò in Italia, ma nulla potè ricuperare dei beni paterni. Aiutato nondimeno dai parenti ed amici, si rimise bene in arnese, e presa moglie, ne ebbe un figliuolo per nome Arichi, ossia Arigiso, che procreò Varnefrido padre d'esso Paolo Diacono, al quale siam debitori della storia dei Longobardi. Senza il lume ch'egli ci ha procurato, si troverebbe involta in troppe tenebre la storia d'Italia di questi tempi. Ma il buon Paolo nulla dice di quel che facesse Agilolfo re (se pur sotto di lui occorse questa terribile irruzione di Barbari), oppure cosa operasse il di lui successore, caso che la tragedia fosse succeduta più tardi. Può essere che il re d'allora pensasse solamente a ben munire e provvedere i luoghi forti; o ch'egli anche uscisse in campagna con quanto sforzo potè, e che questa fosse la cagion per cui gli Avari se ne tornassero al loro paese, senza pensare di fissar il piede in Italia. I Persiani in quest'anno [Theoph. in Chronogr.] seguitando la guerra presero altre città cristiane in Oriente, condussero via molte migliaia di schiavi, e fecero infiniti altri mali, giacchè niun si opponeva, essendosi consumate tutte le truppe agguerrite dell'imperio ne' calamitosi anni addietro. Pare che a quest'anno appartenga la irruzione degli Sclavi fatta nell'Istria [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 42.], suggetta ad esso imperadore, dove tagliarono a pezzi le truppe cesaree, e commisero inuditi saccheggi. Grasolfo fratello dell'ucciso Gisolfo pare che fosse in appresso creato [1148] duca del Friuli, ma forse ottenne, siccome diremo, quest'onore solamente nel l'anno 635.


   
Anno di Cristo DCXII. Indizione XV.
Bonifacio IV papa 5.
Eraclio imperadore 3.
Agilolfo re 22.

L'anno I dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Benchè l'anno presente fosse calamitoso anch'esso in Oriente, perchè i Persiani sottomisero al loro imperio Cesarea capitale della Cappadocia, tuttavia fu in gran festa la città di Costantinopoli, perchè nel dì 3 di maggio l'imperadrice Eudocia partorì un maschio, appellato Eraclio Costantino [Chronic. Alexandr. Theoph. in Chronogr.]. E nel dì 4 di ottobre Epifania, appellata anche Eudocia, nata nell'anno precedente all'imperadore Eraclio, fu dal padre dichiarata Augusta e coronata da Sergio patriarca. Ma nel dì 13 del mese d'agosto in questo medesimo anno finì di vivere la suddetta imperadrice Eudocia sua madre. In Italia l'esarco Giovanni ottenne dal re Agilolfo che fosse confermata la tregua anche per un anno. Nel mese di marzo venne a morte in Trento il buon servo di Dio Secondo abbate, amatissimo dal re Agilolfo e dalla regina Teodelinda, il quale lasciò scritta una breve storia de' fatti de' Longobardi sino ai suoi giorni, veduta da Paolo Diacono, ma non giunta ai secoli nostri. Intanto i due re franchi [Fredegar., Chron., cap. 38.] Teoderico re della Borgogna e Teodeberto re di Metz, ossia dell'Austrasia, benchè fratelli, si mangiavano il cuore l'un l'altro: tutto per istigazione dell'empia regina Brunechilde loro avola. Seguì una battaglia ben sanguinosa fra essi nelle campagne di Toul, e la peggio toccò a Teodeberto, il quale messa insieme una più possente armata, composta de' popoli germanici che erano [1149] a lui soggetti, nel luogo di Tolbiac, posto nel ducato di Giuliers, venne ad un secondo conflitto. Combatterono le due armate con rabbia inudita e strage spaventosa dall'una e dall'altra parte; ma in fine la vittoria si dichiarò per Teoderico re della Borgogna, il quale perciò entrò vincitore in Colonia. Teodeberto restò preso coi due figliuoli Clotario o Meroveo, tuttavia fanciulli, e a tutti e tre la crudel regina Brunechilde fece levar la vita: con che Teoderico unì col regno della Borgogna gli ampii stati già posseduti dal fratello nella Germania, cioè il regno di Austrasia. Tale era allora il miserabile stato della Francia piena di violenze, d'ingiustizie e di guerre civili; nel mentre che l'Italia godeva un'invidiabil pace e tranquillità sotto il re Agilolfo. Ed appunto a questo re de' Longobardi ricorse circa i tempi correnti san Colombano, abbate celebrassimo, nato in Irlanda, fondatore nella Borgogna del monistero di Luxevils e d'altri monisteri, i quali riceverono da lui una regola diversa da quella di san Benedetto, ma che non istettero molto ad ammettere ancora la benedettina. Era egli incorso nell'indignazione della regina Brunechilde, da cui principalmente vennero i tanti malanni che inondarono per più anni la Francia. Però per ordine suo e del re Teoderico suo nipote fu cacciato dalla Borgogna. Si ricoverò ben egli sotto la protezione di Teodeberto re dell'Austrasia; ma dacchè questo principe vinto dal fratello restò vittima del furore di lui, o piuttosto della suddetta Brunechilde avola sua, non vedendosi il santo abbate sicuro in quelle parti, sen venne in Italia a trovare il re Agilolfo e la piissima regina di lui moglie Teodelinda, come racconta Giona [Jonas, in Vit. S. Colombani, lib. 1.] nella vita di lui.

La fama della sua santità era già precorsa, e però fu da essi benignamente accolto. Fermossi per qualche tempo in Milano, dove confutò que' Longobardi [1150] che tuttavia ostinati teneano l'eresia ariana, e scrisse anche un libro contra de' loro errori. Ma il silenzio, la povertà, la solitudine erano le delizie che il buon servo di Dio cercava, e non già la pompa delle corti nè lo strepito della città. Però bramando egli un sito remoto per potervi fondare un monistero; e capitato per avventura alla corte un certo Giocondo, questi gli additò un luogo ritiratissimo chiamato Bobbio, presso al fiume Trebia, venticinque miglia sopra Piacenza, in fondo ad altissime montagne dell'Apennino, dove era una basilica di san Pietro mezzo diroccata. Vi andò san Colombano, e quivi diede principio ad uno de' più celebri monisteri d'Italia che tuttavia fiorisce. Colà fu sì grande negli antichi secoli il concorso del popolo divoto, che a poco a poco vi si formò una riguardevole terra, divenuta col tempo anche città episcopale. Io so esservi stata persona erudita, la quale s'è avvisata di sostenere che san Colombano un'altra volta venisse in Italia, cioè nell'anno 595, andando a Roma: nella qual occasione fabbricasse il monistero di Bobbio, dove poi tornasse nell'anno presente. Quali pruove si adducano per tale opinione, nol so dire. Tuttavia se mai questa fosse unicamente fondata sopra un certo diploma del re Agilolfo, converrebbe prima provare che quello fosse un documento autentico. A buon conto Giona, autore quasi contemporaneo nella vita di questo insigne servo del Signore, chiaramente attesta che solamente nell'anno presente o nel susseguente san Colombano imparò a conoscere, e cominciò ad abitar Bobbio; e noi senza grandi ragioni non ci possiamo allontanare dalla di lui autorità. Accadde circa questi tempi, per attestato di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4.], la morte di Gundoaldo duca d'Asti, fratello della regina Teodelinda. Tirata gli fu da un traditore non conosciuto una saetta, e di quel colpo morì. Ma se noi vogliam credere a [1151] Fredegario [Fredegar. in Chronico., cap. 34.], questo fatto accadde molto prima, riferendolo egli all'anno 607, e con qualche particolarità di più: cioè che Gundoaldo venne in Italia con Teodelinda sua sorella, e diedela in moglie al re Agone: così era anche appellato il re Agilolfo. Ch'egli dipoi contrasse matrimonio con una nobil donna longobarda, da cui trasse due figliuoli, nomati l'uno Gundeberto e l'altro Ariberto. Già erano nati al re Agilolfo dalla regina Teodelinda il maschio Odolaldo (così chiama egli Adoloaldo), e una femmina per nome Gundeberga. Ora avendo il re Agilolfo e la regina Teodelinda conceputa gelosia perchè Gundoaldo era troppo amato dai Longobardi, mandarono persona, la quale appostatolo, allorchè stava al destro, con una saetta il trafisse e lo uccise. Ma può essere che Fredegario troppo qui si fidasse delle dicerie del volgo, che in casi tali facilmente trincia sentenze, e fa divenir cose certe i semplici sospetti. Che Agilolfo potesse avere avuta mano in questo affare, non è impossibile nè inverisimile. Certo non si può pensare lo stesso della regina Teodelinda principessa di rara pietà, e massimamente trattandosi di un suo fratello. Noti intanto il lettore che dei due figliuoli di Gundoaldo, il secondo ebbe il nome Ariberto. Questi col tempo divenne re de' Longobardi.


   
Anno di Cristo DCXIII. Indizione I.
Bonifazio IV papa 6.
Eraclio imperadore 4.
Agilolfo re 23.

L'anno II dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Seguitò a godersi la pace in Italia mercè della tregua che ogni anno si andava confermando tra i Greci e Longobardi. Fredegario [Idem, ibid., cap. 69.] ci ha conservata una notizia: cioè che i Greci, ossia l'esarco di Ravenna, pagavano ogni anno [1152] ai Longobardi un tributo di tre centinaja d'oro. Vuol dire, a mio credere, che per aver la pace da essi doveano ogni anno pagar loro trecento libbre d'oro, le quali si accostavano a quattordicimila e quattrocento doble. In quest'anno a dì 22 di gennaio, per attestato della Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandr.] e di Teofane [Theoph. in Chronogr.], Eraclio Augusto dichiarò imperadore e fece coronare Flavio Eraclio Costantino suo figliuolo, nato nell'anno precedente, con plauso universale del senato e popolo. Succedette intanto un'altra gran peripezia ne' regni dei Franchi. Pareva ormai giunto all'auge della felicità Teoderico re della Borgogna per l'accrescimento di tanti stati; l'avola sua, cioè la regina Brunechilde, mirava con trionfo annichilato l'odiato nipote Teodeberto, ed esaltato l'altro amato nipote Teoderico, sul cui animo ella aveva un forte ascendente e si arrogava un'esorbitante autorità. Ma altri erano i giudizii di Dio, il quale lascia talvolta innalzare al sommo i peccatori, e nel più bello della lor prosperità gli abissa. Così avvenne a questi due principi, rei nel tribunale di Dio, e in faccia ancora del mondo, di enormi misfatti. S'era messo in pensiero il suddetto re Teoderico d'ingoiare nella stessa maniera Clotario II re della Neustria, suo stretto parente; e già mossosi con una formidabile armata, era alla vigilia di divenir padrone anche del resto di quegli stati, perchè Clotario non avea forze da resistergli: quando colto da una dissenteria, come vuol Fredegario [Fredeg., in Chron., cap. 39.], oppure da altro malore, come vuol Giona nella vita di san Colombano [Jonas, in Vit. S. Columbani, lib. 2.], diede fine alla sua vita e ai suoi eccessi in età di ventisei anni. Le conseguenze di questo inaspettato colpo disciolsero l'armata di lui; Clotario si avanzò colla sua; e gli passò così ben la faccenda, che senza spargere sangue s'impadronì [1153] di tutta l'Austrasia e della Borgogna; ebbe in mano tre de' figliuoli di Teoderico, e due d'essi fece morire. La regina Brunechilde in sì brutto frangente anche essa tradita, cadde in potere del re Clotario, il quale la rimproverò d'aver data la morte a dieci tra nipoti e principi della casa reale. Fu essa per tre giorni straziata con varii tormenti, poi sopra un cammello esposta ai dileggi di tutto lo esercito; e finalmente per le chiome, per un piede e una mano venne legata alla coda di un ferocissimo cavallo, il quale correndo la mise in brani: esempio terribile dell'iniquità ben pagata anche nel mondo presente. In tal maniera andò ad unirsi nel solo Clotario II tutta la monarchia franzese divisa negli anni addietro in tre parti. Quetati sì strepitosi rumuri, il medesimo re, siccome quegli che professava una singolar venerazione a san Colombano, e specialmente dopo essersi adempiuto quanto gli aveva predetto questo servo del Signore, spedì in Italia Eustasio abbate di Luxevils colla commissione di farlo tornare in Francia. Ma il santo abbate se ne scusò, nè volle rimuoversi da Bobbio. Probabilmente appartiene a quest'anno una lettera da lui scritta a Bonifazio IV papa, e pubblicata da Patricio flamingo, e poi inserita nella Biblioteca de' Padri. Durava tuttavia in Milano, nella Venezia e in altri luoghi lo scisma fra i Cattolici, accettando i più d'essi il concilio quinto generale, ed altri rigettandolo. E perciocchè premeva forte allo stesso re Agilolfo che si togliesse questa discordia, per ordine suo san Colombano colla suddetta lettera fece ricorso al papa. In essa fra le altre cose ei dice: A rege cogor, ut singillatim suggeram tuis piis auribus sui negotium doloris. Dolor namque suus est schisma populi pro regina, pro filio, forte et pro se ipso fertur enim dixisse: si certum sciret, ei ipse crederet. Da queste parole han voluto inferire alcuni, che il re Agilolfo fosse tuttavia o pagano o ariano: ma insussistente è l'illazione. [1154] Aveva egli già abbracciato il Cattolicismo; ma era tuttavia fluttuante intorno al credere conforme alla dottrina cattolica il concilio quinto generale. Poichè per conto della regina Teodelinda, sappiam di certo per lettere di san Gregorio papa, ch'essa non sapeva indursi ad abbracciar quel concilio; ed avrebbe potuto insinuar queste massime al figlio Adoloaldo. Però non son da tirare le parole del re Agilolfo alle discordie troppo essenziali che vertevano tra i Cattolici e gli ariani, ma sì bene alla discordia nata fra i Cattolici per cagione del quinto concilio, di cui parla la lettera di san Colombano, e nata per ignoranza di chi non intendeva, o per arroganza di chi non voleva intendere la retta intenzione e dottrina d'esso concilio quinto. Anzi di qui si può chiaramente ricavare, che il re Agilolfo era entrato nella Chiesa cattolica, e faceva conoscere il suo zelo per l'unità e quiete della medesima: pensiero che non si sarebbe mai preso, se pagano o ariano ei fosse allora stato.


   
Anno di Cristo DCXIV. Indizione II.
Bonifazio IV papa 7
Eraclio imperadore 5.
Agilolfo re 24.

L'anno III dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Funestissimo riuscì quest'anno alla repubblica cristiana, perciocchè, per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.] e dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alex.], i Persiani non trovando argine alcuno alla lor potenza, dopo aver sottomesso Damasco e molt'altre città dell'Oriente, entrati nella Palestina, presero in pochi giorni la santa città di Gerusalemme. Non lasciarono indietro i furibondi Barbari crudeltà veruna in tal congiuntura. Uccisero migliaia di cherici monaci, sacre vergini ed altre persone; diedero alle fiamme il sepolcro del Signore ed infinite case; smantellarono [1155] tutti i più nobili templi d'essa città, ed esportarono il vero legno della santa Croce, con tutti gl'innumerabili sacri vasi di quelle chiese. Zaccheria patriarca di quella città con altre migliaja di quel popolo fu condotto schiavo in Persia. Questa disgrazia trasse le lagrime dagli occhi di tutti i buoni Cristiani. Quei che poterono scampare da sì furiosa tempesta, si ricoverarono ad Alessandria di Egitto, dove trovarono il padre de' poveri, cioè il celebre s. Giovanni limosiniere, patriarca di quella città, che tutti raccolse e sostentò come suoi figliuoli [Leontius, in Vit. S. Joann. Elemosynarii.]. Nè contento di ciò il mirabil servo del Signore, inviò persona con oro, viveri e vesti in aiuto dei rimasti prigionieri, e per riscattare chiunque si potesse. Mandò ancora due vescovi con assai danaro incontro a quei che venivano liberati dalla schiavitù. Antioco monaco della Palestina, che fiorì in tempi sì calamitosi, e di cui abbiamo cento trenta omilie, deplorò con varie lamentazioni in più d'un luogo questa lagrimevol tragedia del Cristianesimo. Sappiam inoltre da Teofane e da Cedreno [Cedren. in Annal.] che concorse anche l'odio de' giudei ad accrescerla, con aver costoro comperati quanti cristiani schiavi poterono, i quali barbaramente poi furono da essi levati di vita. Correa voce che ne avessero uccisi circa novantamila. Per questa calamità non lasciò Eraclio imperadore [Niceph. Constantinopolit., in Chr., pag. 10.] di passare alle seconde nozze, con prendere per moglie Martina, figliuola di Maria sua sorella e di Martino; il che cagionò scandalo nel popolo, trattandosi di una sì stretta parentela; e Sergio patriarca detestò come incestuoso un sì fatto matrimonio. Ma Eraclio non se ne prese pensiero. Si stenterà anche a credere quell'avversione di Sergio, perchè abbiamo da Teofane che il medesimo patriarca coronò Martina, allorchè Eraclio la dichiarò Augusta.


[1156]

   
Anno di Cristo DCXV. Indizione III.
Deusdedit papa 1.
Eraclio imperadore 6.
Adaloaldo re 1.

L'anno IV dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Ci vien dicendo Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 43.] che Agilolfo re de' Longobardi regnò venticinque anni. Quindi fra gli eruditi s'è disputato s'egli mancasse di vita nell'anno presente 615, siccome han creduto il Sigonio, il Sassi nelle Annotazioni al Sigonio medesimo, e il padre Bacchini nelle sue Dissertazioni ad Agnello scrittore delle Vite dei vescovi ravennati, oppure se all'anno susseguente 616, come sono stati d'avviso il p. Pagi e il Bianchi nelle Annotazioni a Paolo Diacono. Non serve a decidere la quistione un diploma del re Adaloaldo, dato nell'anno 621 in favore del monistero di Bobbio, e prodotto dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.], perchè esso si adatta all'una e all'altra opinione, e può anche dubitarsi se sia documento sicuro, perchè il Margarino dopo l'Ughelli l'ha rapportato [Margarin., Bullar. Casinens. tom. 2.] colle note cronologiche diverse. Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], che mette nell'anno 617 la morte di Agilolfo, e Fredegario [Fredegarius, in Chron.], che tuttavia il fa vivente in quell'anno, non son da ascoltare. Che Fredegario nelle cose longobardiche non sia autor ben informato, e Sigeberto non sia buon condottiero nella cronologia di questi tempi, si può provare con troppi esempli. Io mi fo lecito di riferire all'anno presente la morte di questo principe, perchè prendendo il principio del suo regno dal principio di maggio dell'anno 591, egli in quest'anno entrò nel medesimo maggio nell'anno vigesimoquinto del suo regno; nè vi ha necessità che egli regnasse venticinque anni compiuti, perchè gli scrittori [1157] antichi con un sol numero abbracciano spesso anche gli anni incompleti. E tanto più poi sarebbe da anteporre questa opinione ad ogni altra, se Paolo Diacono avesse cominciato, come è più che probabile, a contar gli anni del regno di Agilolfo dal novembre dell'anno 590, scrivendo egli: Suscepit Agilulfus inchoante jam mense novembris regiam dignitatem. In questo supposto avrebbe esso re compiuto l'anno ventesimo quinto del regno sul principio di novembre di questo anno 615. Comunque sia, cessò di vivere Agilolfo re de' Longobardi, principe di gran valore e di molta prudenza, che antepose l'amor della pace a quel della guerra, e glorioso specialmente per essere stato il primo dei re Longobardi ad abbracciare la religion cattolica: il che servì non poco a trarre dagli errori dell'arianismo tutta la nazion longobarda. Prima nondimeno d'abbandonar questo principe, convien riferire ciò che di lui scrisse Fredegario sotto l'anno XXXIV del regno di Clotario II re dei Franchi [Fredegar., in Chron. cap. 44 et 45.]. Vuol egli che i Longobardi nel tempo dei duchi eleggessero di pagare ogni anno dodicimila soldi d'oro ai re della Francia, per avere la lor protezione, e che il re Autari continuasse questo pagamento, ed altrettanto facesse il di lui figliuolo Agone, cioè il re Agilolfo, il quale nondimeno si sa non essere stato figliuolo d'Autari. Aggiugne che nell'anno suddetto XXXIV di Clotario, corrispondente all'anno 617, furono spediti ad esso re Clotario dal re Agone tre nobili ambasciatori di nazion longobarda: cioè Agilolfo, Pompeo e Gautone, per abolir quest'annuo sia tributo o regalo. Guadagnarono essi il favore di Varnacario, Gundelando e Cuco, ministri primarii del re Clotario, con un segreto sbruffo di mille soldi d'oro per cadauno. Esibirono poi al re Clotario per una volta sola trentaseimila soldi d'oro; ed avendo quei consiglieri lodato il partito, fu cassata la capitolazione precedente, nè altro in avvenire [1158] si pagò dai Longobardi. In tal congiuntura fu stipulato un trattato di pace ed amicizia perpetua tra i Franchi e i Longobardi. Il fatto è credibile, ma per conto del tempo concorrono le circostanze a farci credere che la spedizione di questi ambasciatori seguisse nell'anno 613, o al più nel 614, coll'occasione che il re Agilolfo volle congratularsi col re Clotario per i prosperosi successi che aveano unita in lui solo l'ampia monarchia dei re franchi. Il padre Daniello [Daniel, Histoire de France, tom. 1.] ha acconciata questa cronologia di Fredegario con dire che gli ambasciatori suddetti furono spediti, non già dal re Agilolfo, ma bensì dal re Adaloaldo. Ma Fredegario scrive ab Agone rege, ed è certo che Agone fu lo stesso che Agilolfo. Ora al re Agilolfo succedette nel regno de' Longobardi Adaloaldo suo figliuolo, nato nell'anno 602, e già proclamato re nell'anno 604, tuttavia nondimeno in età incapace a governar popoli, e però bisognoso della tutela della regina Teodelinda sua madre. Venne a morte in questo anno nel dì 7 di maggio s. Bonifazio IV papa. Molti mesi stette vacante la cattedra di s. Pietro, ed infine fu creato romano pontefice Deusdedit cioè Diodato, di nazione romano. Vuole il p. Pagi che ciò seguisse nel dì 19 di ottobre; ma Anastasio bibliotecario notò la di lui consecrazione al dì 13 di novembre. Di grandi tremuoti ancora si fecero sentire in Italia, a quali tenne dietro il fetente morbo della lebbra. Non so io dire se questo malore fosse dianzi incognito, oppur solamente raro in Italia. Ben so che il medesimo ne' secoli susseguenti si truova costante e vigoroso per tutta l'Italia, e si dilatò anche ne' regni circonvicini, di maniera che poche città italiane vi furono col tempo che non avessero o molti, o pochi infetti di questo male sì sporco ed attaccaticcio, con essersi in assaissimi luoghi per cagion d'esso fondati spedali dei lebbrosi, a' quali fu dato poi il nome di lazzaretti da Lazzaro mentovato nel [1159] Vangelo. Fra gli altri motivi che noi abbiamo di ringraziar la divina clemenza per più benefizii compartiti a questi ultimi secoli che ai precedenti, c'è ancora quello di vederci liberi da questo brutto spettacolo, troppo rari oramai essendo i lebbrosi che dalla romana carità sono oggidì accolti, curati e guariti. Passò ancora in quest'anno alla patria de' beati nel monistero di Bobbio s. Colombano abate [Jonas, in Vita S. Columbani.], chiarissimo per la sua santa vita e per tanti miracoli che di lui si raccontano. A lui succedette nel governo di quel monistero Attala borgognone, che era stato abate del monistero di Luxevils in Borgogna, personaggio anch'esso di rare virtù, e degno discepolo di sì eccellente maestro.


   
Anno di Cristo DCXVI. Indizione IV.
Deusdedit papa 2.
Eraclio imperadore 7.
Adaloaldo re 2.

L'anno V dopo il consolato di Eraclio Augusto.

L'Italia in questi tempi godeva una invidiabile pace, perchè Teodelinda non amava disturbi e imbrogli di guerra nella minorità del figliuolo; e molto più tornava il conto all'esarco Giovanni Lemigio di non far novità in tempi che l'impero in Oriente si trovava tutto sossopra per la guerra dei Persiani, e spogliato in maniera, che in tanti bisogni credette Eraclio Augusto di potersi valere dei sacri vasi delle chiese per pagare i Barbari circonvicini, e impedire che non concorressero anch'eglino alla total rovina dell'imperio suo. Ma in Ravenna nell'anno precedente era succeduta, o succedette in questo, una funesta rivoluzione, accennata con due parole da Anastasio bibliotecario [Anast. Bibliothec., in Vit. Deusdedit.]: cioè irritati i cittadini di Ravenna o dalla superbia e dai mali trattamenti dell'esarco suddetto, oppure dagli esorbitanti aggravii loro imposti, si sollevarono [1160] contra di lui, e l'uccisero con tutti i giudici che avea condotti seco. Andata questa nuova a Costantinopoli, Eraclio non tardò a spedire in Italia Eleuterio patrizio ed esarco, il quale, giunto a Ravenna, formò de' rigorosi processi contra gli uccisori del suo antecessore, e diede un grande esercizio alle scuri. Meglio in somma stavano gl'Italiani sotto i Longobardi che sotto i Greci. Intanto in Oriente seguitavano ad andare alla peggio gli affari dell'imperio romano. I Persiani, secondochè abbiam da Teofane [Theoph., in Chronogr.] e da Cedreno [Cedren. in Annal.], entrarono nell'Egitto, presero la città d'Alessandria, e s'impadronirono di tutte quelle contrade e della Libia, sino ai confini degli Etiopi. Ma non pare che tenessero salde sì vaste conquiste, soggiugnendo quello storico, che, fatta una gran moltitudine di schiavi e un incredibil bottino, se ne tornarono al loro paese. In sì terribil congiuntura il santo patriarca di Alessandria, Giovanni il limosiniero, se ne fuggì nell'isola di Cipri, dove santamente morì, con lasciare dopo di sè una memoria immortale dell'incomparabil sua carità. Ci resta la sua vita scritta da Leonzio vescovo di Lemissa. Ma qui non terminarono le tempeste dell'Oriente. O nell'anno precedente, o in questo, un altro esercito di Persiani, condotto da Saito generale, arrivò fin sotto la città di Calcedone, cioè a dire in faccia a Costantinopoli, e quivi si accampò. Se si vuole prestar fede a Teofane, egli obbligò alla resa quella città. Comunque passasse questo fatto, racconta Niceforo patriarca costantinopolitano nel suo compendio istorico [Nicephorus Costantinopolitanus, in Chron.], che Caito avendo invitato l'imperadore Eraclio ad un abboccamento, questi non ebbe difficoltà di passare lo Stretto e di parlar con lui. Il general persiano con somma venerazione lo accolse, e il consigliò di mandar seco ambasciatori al re Cosroe, per trattar della pace. All'udir queste [1161] parole parve ad Eraclio che s'aprisse il cielo in suo furore; e in fatti spedì al re di Persia Olimpio prefetto del pretorio, Leonzio prefetto di Costantinopoli, due de' primi ufficiali della sua corte, ed Anastasio prete. L'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alex.] rapporta anche l'orazione recitata da questi ambasciatori a Cosroe. Ma così bell'apparato andò poi a finire in una lagrimevole scena. Disapprovò il barbaro re la condotta del suo generale Saito, che in vece dell'imperadore Eraclio gli avesse menato davanti i di lui legati; e però, fattagli cavar la pelle, e formarne un otre, crudelmente il fece morire. Poscia cacciati in prigione gli ambasciatori cesarei, in varie forme li maltrattò, e dopo averli tenuti lungamente in quelle miserie, finalmente levò loro la vita. Può essere che l'assedio di Calcedone e l'ambasceria al re Cosroe sieno da riferire, secondo il padre Pagi, all'anno precedente; ma potrebbe anche appartenere al presente una parte di questa tragedia. Crede il buon Ughelli [Ughellius Italia Sacr. T. 8.] nell'Italia sacra, dove parla de' vescovi di Benevento, che appartenga all'anno 613 (vuol dire all'anno presente 616) un diploma d'Arichi ossia Arigiso I duca di Benevento, dato anno XXIV gloriosissimi ducatus sui, mense martio, Indictione quarta. Qual diploma non è di Arigiso I, ma sì bene di Arigiso II duca di Benevento, e fu dato nel marzo dell'anno 781.


   
Anno di Cristo DCXVII. Indizione V.
Deusdedit papa 3.
Eraclio imperadore 8.
Adaloaldo re 3.

L'anno VI dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Abbiamo da Teofane [Theoph. in Chronogr.] che Eraclio Costantino, figliuolo dell'imperatore Eraclio, alzato anche egli, siccome dicemmo, alla dignità augustale, nel primo dì del [1162] gennaio di quest'anno (non volendolo il padre meno di sè), prese il consolato, di cui nondimeno gli scrittori antichi non tennero conto, ed in tal congiuntura dichiarò Cesare Costantino suo fratello minore, nato da Martina Augusta. Ma i malanni andavano ogni dì più crescendo in Oriente. Al terribile sconvolgimento della guerra si aggiunse in Costantinopoli e nelle altre città una fiera carestia, perchè dall'Egitto saccheggiato dai Persiani non venivano più grani. Crebbe poi al sommo la miseria, perchè la peste entrò nel popolo di quella gran città, e faceva un orrido scempio delle lor vite. Però atterrito e come disperato l'imperatore Eraclio, presa la risoluzione di ritirarsi in Africa, avea già mandata innanzi una nave carica di preziosi mobili e di una gran copia d'oro, d'argento e di gemme, che, a cagione d'una fiera tempesta sopraggiunta, andò per la maggior parte a male. Penetratosi poi il disegno di Eraclio, i cittadini si maneggiarono forte per impedirlo, e finalmente il patriarca Sergio avendo invitato l'imperadore alla chiesa, tanto perorò a nome del popolo, che l'obbligò a promettere con giuramento di non partirsi da quella real città. Ubbidì egli, benchè mal volentieri, ma non cessava di sospirare e gemere per tante miserie. Questo infelice stato dello imperio in Oriente influì qualche movimento torbido in Italia. Erasi prima di ora un certo Giovanni Consino ribellato all'imperadore, e fattosi padrone di Napoli, città fedele all'imperio. Comunemente si crede ch'egli fosse governatore o duca d'essa città, e che veggendo traballare l'imperio in Oriente, ed assai manifesto che l'imperatore non poteva accudire all'Italia, di governatore si fece sovrano, ossia tiranno. Ma ho io gran sospetto che costui fosse piuttosto uno de' magnati di que' paesi, il quale colla forza, o in altra guisa, si usurpasse la signoria di quella nobil città. Egli è chiamato Compsinus, cioè da Compsa, oggidì Conza nel regno di Napoli. Non par credibile [1163] che i Greci dessero allora il governo di una città sì riguardevole ad Italiani di quelle contrade. Ora Eleuterio esarco, dappoichè ebbe rassettato, col rigore nondimeno, gli affari di Ravenna, se n'andò, per attestato di Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec., in Vita Deusdedit.], a Roma, dove fu cortesemente accolto dall'ottimo papa Deusdedit. Di là passò alla volta di Napoli, e colle forze che menò seco, oppure che adunò in quelle parti, combattè con Giovanni Consino, ed entrato in Napoli, gli levò la vita. Se ne tornò egli dipoi a Ravenna, dove diede un regalo ai soldati: e ne seguì poi pace in tutta l'Italia. Qui il lettor potrà riflettere se i Longobardi, che pur erano chiamati nefandi dai loro nemici, fossero sì cattiva gente, quando apparisce che si guardarono di prevalersi della grave decadenza in cui si trovava allora l'impero romano; nè vollero punto mischiarsi nella sollevazion de' Ravennati, nè sostenere la ribellione di Giovanni Consino, tuttochè con facilità l'avessero potuto fare, e con loro gran vantaggio.


   
Anno di Cristo DCXVIII. Indizione VI.
Deusdedit papa 4.
Eraclio imperadore 9.
Adaloaldo re 4.

L'anno VII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Secondo i conti del Pagi fu chiamato da Dio a miglior vita in quest'anno papa Deusdedit nel dì 8 di novembre. Bisogna credere ch'egli splendesse per molte virtù, perchè la Chiesa romana fin dagli antichi secoli il registrò nel ruolo dei santi. Ma son perite le memorie d'allora; e la storia sì ecclesiastica che profana dell'Italia in questi tempi si truova più che mai nel buio. Credesi che la Sede apostolica stesse dipoi vacante un anno, un mese e sedici giorni. Nè resta alcun vestigio di quel che si facessero ne' presenti giorni i Longobardi. Solamente apparisce che i medesimi godevano [1164] e lasciavano godere ai popoli loro sudditi e vicini la tranquillità della pace. Sappiamo ancora da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 43.] che regnando il re Adaloaldo colla piissima regina Teodelinda sua madre, furono ristaurate molte chiese, e di molti beni furono donati ai luoghi sacri e pii. A poco a poco s'andavano disrugginendo e pulendo i barbari Longobardi, con prendere i costumi e riti degl'Italiani, moltissimi anche fra loro dall'arianismo passavano alla Chiesa cattolica, e gareggiavano poi con gl'Italiani stessi nella pietà e nella pia liberalità verso i templi del Signore, spedali e monisteri. Neppure in questi tempi abbiamo assai distinti ed ordinati gli avvenimenti dell'imperio in Oriente. Pare che in quest'anno, siccome volle il cardinal Baronio [Baron. Annal. Eccl.], Cacano re degli Avari movesse guerra all'imperadore Eraclio. Ma io, seguendo le conghietture del Pagi [Pagius, Crit. Baron.], riferirò questo fatto più tardi. E sotto quest'anno, correndo l'Indizione sesta, e non già l'undecima, come ha qualche testo, racconta Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec. in Vita Deusdedit.] che nel mese d'agosto succedette un gran tremuoto in Roma, a cui tenne dietro una peste oppure una epidemia gagliarda che portò via non poca parte del popolo.


   
Anno di Cristo DCXIX. Indizione VII.
Bonifazio V papa 1.
Eraclio imperadore 10.
Adaloaldo re 5.

L'anno VIII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Non sappiam bene se appartenga a quest'anno l'insolenza fatta dagli Avari, ossia dagli Unni abitanti nella Pannonia, all'imperadore Eraclio, essendo imbrogliato il fatto e il tempo nelle storie di Niceforo [Nicephor. Costantinopolitanus, in Breviar.] e Teofane [Theoph., in Chronogr.], e nella Cronica [1165] Alessandrina [Chron. Alex.]. Sia nondimeno a me lecito di riferirla qui. Cacano, cioè a dire il re di que' Barbari, perchè passavano alcune controversie fra lui e l'imperadore, fece istanza di un abboccamento fra loro. A questo fine nel mese di giugno uscì di Costantinopoli Eraclio Augusto con tutta la corte, e con un grande apparato di magnificenza, per andare ad Eraclea, città, dove s'aveano a fare de' suntuosi spettacoli: e colà ancora concorse un'infinita moltitudine di popolo. Portossi Cacano a quella volta anche egli. Teofane scrive che s'abboccarono al Muro lungo; Niceforo, che il Barbaro andò ad Eraclea. Tutto ad un tempo venne Eraclio a scoprire che il traditor Cacano, lungi dal cercar pace, macchinava di sorprendere lui e la città di Costantinopoli. Travestito dunque se ne fuggì, e tornò a tempo alla sua reggia. Gli Avari superato il Muro lungo, poco mancò che non entrassero in Costantinopoli, con essere arrivate le loro masnade fino alle porte di quella real città, non senza strage di moltissime persone. Immenso fu il bottino che fecero costoro in que' contorni col saccheggio dell'equipaggio dell'imperadore, di quanti palagi, case e chiese vennero loro alle mani; immensa la moltitudine dei prigioni che menarono con seco, di maniera che si ha della pena a credere ciò che racconta Niceforo, cioè essere stati condotti via dugento sessantamila Cristiani tra uomini, donne e fanciulli. Ecco come stava l'afflitto imperio in Oriente. Se n'andarono carichi di preda e di prigioni que' Barbari, e tutto trassero di là del Danubio: segno che doveano essere padroni anche di que' paesi che oggidì chiamiamo Moldavia e Valachia. Nel giorno 23 di dicembre di quest'anno, secondo i conti del padre Pagi, fu finalmente, dopo sì lunga vacanza della Sede apostolica, consecrato romano pontefice Bonifazio V, di patria napoletano, personaggio pieno di mansuetudine e misericordioso. [1166] In questo medesimo anno ancora, per relazione di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 35.] e di Anastasio bibliotecario [Anastas. Biblioth. in Bonif. V.], prima che fosse ordinato il nuovo papa, occorse che Eleuterio patrizio ed esarco di Ravenna, tuttochè eunuco, pensò a farsi signore d'Italia ed imperadore. Dovea credere costui che, stante l'infelice positura delle cose in Oriente, si potesse a man salva eseguire cotal disegno. Cominciò la ribellione in Ravenna, e quindi, prima che seguisse l'ordinazione di papa Bonifazio, s'incamminò egli coll'esercito verso Roma, verisimilmente con pensiero di prender ivi il nome e la corona imperiale. Ma essendo giunto alla terra di Luciolo, che da alcuni vien creduto posto fra Gubbio e Cagli, i soldati ravveduti del fallo che andavano a commettere, quivi l'uccisero, e la sua testa in un sacco fu inviata a Costantinopoli. Crede Girolamo Rossi [Rossi, Istor. di Ravenn.] che ad Eleuterio ucciso succedesse tosto Isacco patrizio di nazione armeno, nel governo di Ravenna e dell'Italia; ma si potrebbe dubitarne, siccome osserverò all'anno 644 in accennare l'epitafio suo. Tuttavia, perchè non s'ha cognizione d'altro esarco che dopo la morte di Eleuterio comandasse in Ravenna, fuorchè di questo Isacco, perciò bisogna menar buona a Rossi una tale asserzione. La città d'Ancira, capitale della Galazia, secondochè s'ha da Teofane, fu presa dai Persiani, non si sa bene se nel presente, oppure nel seguente anno.


   
Anno di Cristo DCXX. Indizione VIII.
Bonifacio V papa 2.
Eraclio imperadore 11.
Adaloaldo re 6.

L'anno IX dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Quando nell'anno precedente sia succeduta l'irruzione fatta dagli Avari [1167] contro di Eraclio imperadore e della città di Costantinopoli, si può credere che appartenga a quest'anno la pace conchiusa fra essi, e raccontata da Teofane [Theoph. in Chronogr.]. Ancorchè Eraclio fosse amareggiato non poco per l'iniquità commessa contra di lui dal re barbaro, pure il sistema sì sconcertato de' suoi affari e il desiderio d'uscire, subito che poteva, in campagna contra de' Persiani, gli fecero dissimular tutto, e prendere le vie della piacevolezza, per veder pure d'aver la pace dalla nazione avarica. Tornò dunque a mandar degli ambasciatori a Cacano per trattare d'aggiustamento; e questi gli parlarono con sì buon garbo, che giunsero a stabilire una buona amicizia, e furono confermate le vecchie capitolazioni; alle quali forse perchè Eraclio dianzi non volle consentire, gl'incontrò quella brutta beffa, di cui abbiam favellato. Circa questi tempi un certo Agrestio, già notaio di Teoderico re della Borgogna, e divenuto monaco nel monistero di Luxevils in Borgogna, si partì da quel monistero e venne ad Aquileia. Giona, monaco e scrittore di questi tempi, nella vita di sant'Eustasio [Jonas, in Actis Sanct. Ordin. S. Benedict. Secula. II.] abate racconta ch'egli si affezionò allo scisma del patriarca di Aquileia, pretendendo che il patriarca di Grado, benchè unito di sentimenti colla Chiesa romana e con quasi tutte le chiese del Cristianesimo, non tenesse la dottrina vera della Chiesa perchè condannava i tre capitoli. E sopra questo medesimo argomento scrisse una lettera piena di veleno e di riprensione al santo abate di Bobbio Attala, e gliel inviò per mezzo di Aurelio notaio del re Adaloaldo. Giona seguita a dire di aver egli stesso avuto in mano l'originale d'essa lettera, e di averlo per sua negligenza perduto. Attala se ne fece beffe, nè degnossi di dargli risposta.


[1168]

   
Anno di Cristo DCXXI. Indizione IX.
Bonifazio V papa 3.
Eraclio imperadore 12.
Adaloaldo re 7.

L'anno X dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Abbiam veduto finora da qual diluvio di sventure fosse inondato l'Oriente cristiano, e senza che mai Eraclio Augusto si opponesse in qualche guisa ai nemici, e senza che si sappia ch'egli avesse armata, o generale alcuno di qualche grido. Però i lettori riguardando un principe che lasciava divorare in tal forma i suoi popoli e stati, nè moveva una mano, per così dire, in loro difesa, avran bene in lor cuore a lui dato il titolo di principe dappoco e di niun consiglio. Ma che egli tale non fosse, comincieremo da qui innanzi a vederlo. Le cagioni, per le quali finora egli vivesse così addormentato, noi non le sappiamo. Quel ch'è certo, egli in quest'anno, dacchè avea fatta la pace con gli Avari, e parevagli di aver sicure le spalle, determinò di voler egli stesso uscire in campagna contra de' Persiani. Le applicazioni sue pertanto furono di arrolar quanti soldati potè; ma perchè abbisognava di quell'importante ingrediente che si ricerca in chi vuol far guerra, cioè di danaro, nè sapendo ove trovarne, giacchè si trattava della pubblica necessità, prese dalla cattedrale e dalle altre chiese di Costantinopoli i vasi sacri d'oro e d'argento, e tutto inviato alla zecca, convertì in moneta. Teofane [Theoph., in Chronogr.] mette ciò sotto l'anno seguente; ma sembra ben credibile ch'egli non tardasse tanto a valersi di questi ultimi rimedii. Prima dunque che terminasse l'anno mise in marcia l'esercito ammassato, e il fece passare dall'Europa in Asia per lo stretto di Costantinopoli, con pensiero di mettersi poi egli stesso alla testa del medesimo nella primavera ventura. Già dicemmo [1169] all'anno 611, come Gisolfo duca del Friuli restò morto nella terribil irruzione fatta da Cacano re degli Avari in Italia. E che Tasone e Cacone di lui figliuoli, nel mentre che erano con altri due loro fratelli condotti da que' Barbari in ischiavitù, felicemente si salvarono colla fuga. Tornati poscia questi due principi nel Friuli [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 40.], impetrarono dal re Agilolfo di succedere al loro padre, ossia al loro zio, in quel ducato, perciocchè allora i ducati e le contee erano più tosto governi che feudi come oggidì; nè i figliuoli poteano prendere la successione in essi. Se vi succedeano (cosa che cominciò comunemente a praticarsi, qualora i figliuoli erano capaci di governo, nè aveano demeriti), ciò proveniva da mera grazia ed arbitrio del re sovrano. Rara cosa nondimeno è che due duchi governassero un solo ducato; e se non avessimo la testimonianza di Paolo Diacono, che tutti e due quei giovani fossero duchi del Friuli, si stenterebbe a crederlo. Certamente Fredegario [Fredegarius in Chron. cap. 69.] non riconosce per duca del Friuli se non Tasone, benchè per errore il chiami duca della Toscana. Vedremo ben col tempo due duchi nello stesso tempo di Spoleti; ma questo non fu rarità per conto di quelle contrade, perchè allora quel ducato si troverà diviso in due, l'uno di qua e l'altro di là dall'Apennino.


   
Anno di Cristo DCXXII. Indizione X.
Bonifazio V papa 4.
Eraclio imperadore 13.
Adaloaldo re 8.

L'anno XI dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Diede in quest'anno principio alla guerra di Persia l'imperadore Eraclio. Solennizzato il giorno di pasqua, che cadde nel dì 4 d'aprile, raccomandati ch'ebbe pubblicamente nel seguente lunedì i suoi figliuoli a Sergio patriarca, ai [1170] magistrati e al popolo [Theoph. in Chronogr. Nicephorus in Breviar.], e deputato governatore di Costantinopoli Buono ossia Bonoso patrizio, uomo di gran senno e prudenza, andò a trovar l'armata, e si mise in viaggio colla imperadrice Martina, disposto d'andare a cercare i Persiani. Scrisse a Cacano, cioè al re degli Avari, pregandolo di voler essere tutore di Eraclio Costantino Augusto suo figliuolo, e di voler anche spedir gente in soccorso del romano imperio. Credo io ciò fatto per un tiro di politica, piuttosto che per fidanza in questo principe barbaro, che la sperienza avea già fatto conoscere per un volpone ed infedele. Tale si provò ancora di nuovo da lì a qualche tempo. Giunto che fu Eraclio Augusto a Cesarea, andò a trovar Crispo general dell'armi sue (per quanto abbiam da Zonara [Zonar. in Annal.]), il quale essendo, o fingendo d'essere malato, non gli andò incontro, non gli fece segno alcuno d'ossequio, anzi nel ragionamento gli rispose con grande arroganza. Tutto dissimulò il saggio imperadore per allora, e si diede alla rassegna delle milizie ch'erano già in piedi, colle quali unì le nuove condotte da lui dall'Europa. Avvenne che l'imperadrice partorì in questi tempi un figliuolo appellato Eracleona, e l'imperadore per farlo battezzare tornò a Costantinopoli. Vi andò anche il suddetto Crispo, e trovandosi Eraclio nel pieno concistoro, dimandò ai senatori qual pena fosse dovuta a chi sprezzava l'imperadore. Tutti risposero: la morte, e senza speranza di perdono. Allora Eraclio raccontò gl'impropri trattamenti a lui fatti da Crispo, ch'era presente: dopo di che per gastigo il degradò, e gli fece dare la clericale tonsura. Niceforo costantinopolitano mette la nascita di Eracleona nell'anno 626. Ma poco in fine importerà ai lettori l'averla intesa qui, o l'intenderla più tardi. Tornato che fu Eraclio nelle provincie dell'Asia, si diede a ben disciplinar le sue milizie tanto nuove che vecchie. Aveva egli trovate [1171] le vecchie impoltronite, senza disciplina, scoraggite, e divise in varii paesi. Tutte le raunò in un luogo, ogni dì facea far loro i militari esercizii, e ben istruirli in ogni sorta di movimenti, di assalti, di offesa e di difesa, e quando e come si avea da alzare il grido guerriero nell'attaccar le zuffe. Poscia ch'ebbe a sufficienza ammaestrate queste truppe, fece loro un'affettuosa allocuzione, col rappresentar gli obbrobrii patiti dai Cristiani, la gloria di combattere per la fede e per la patria, e ch'egli era pronto a sacrificar la sua vita per essi e con essi: e soprattutto pregò vivamente ciascuno di non commettere disordini e di non far cose ingiuste. Dopo di che, pienamente confidato nell'aiuto di Dio, marciò verso l'Armenia, e al primo incontro gli fu da' suoi corridori condotto prigione il comandante d'una banda de' nemici. Entrò coraggiosamente nella Persia, e cominciò a far provare a que' Barbari che non era morto in petto dei Greci il valore. Non si attentando il generale dell'oste nemica, appellato Sarbaro, o Sarbaraza, di venire a battaglia, si ritirò nelle montagne, bastandogli di far delle frequenti scaramucce, nelle quali restavano sempre superiori i Greci, vie più animati, perchè non mancava mai Eraclio Augusto di trovarsi nelle prime schiere, e di combattere dappertutto da prode. La fame costrinse finalmente i Persiani ad un general combattimento. Ordinò l'imperadore ai suoi di fingere la fuga: il che veduto dai nemici, sciolte le loro ordinanze, si misero ad inseguire i fuggitivi. Ma questi voltata faccia, e ben squadronati e serrati, con tal vigore gli assalirono che li misero in rotta. Oltre alla strage di assaissimi, fecero molti prigioni, e diedero il sacco al loro campo, il quale restò tutto in loro potere. Venuto il verno, Eraclio già pieno di gloria si restituì a Costantinopoli, e terminò il primo anno della guerra persiana. Teofane sotto quest'anno scrive che cominciò a contarsi il primo anno di Mamed Amera, capo degli [1172] Arabi, ossia de' Saraceni. Sopra che è da notare che in questi tempi nell'Arabia l'empio Maometto (egli è lo stesso che Mamed Amera) disseminava gli errori della sua setta, e trovandosi nell'anno presente nella Mecca, fu forzato a fuggirsene per cagione appunto della sua falsa e scandalosa dottrina, nel dì 16 di luglio. Ora da questo giorno ed anno i Maomettani trassero poi il principio della loro epoca, ossia era, appellata egira, che significa persecuzione; e di questa si servono tuttavia, come i Cristiani dell'era volgare della nascita del Signore. Per testimonianza d'Elmacino, autore antichissimo della Storia saracenica, Maometto nacque nell'anno di Cristo 570, e nell'anno quarantesimo quarto della sua età cominciò a pubblicar le merci sue, che tanto spaccio ebbero di poi in Oriente. Sotto quest'anno ancora, secondo il Pagi, Dagoberto, figliuolo di Clotario II re de' Franchi, fu dichiarato re dell'Austrasia, e gli fu dato per assistente e maggiordomo Pippino duca, uomo di santa vita, da una di cui figliuola discese poi Pippino re di Francia.


   
Anno di Cristo DCXXIII. Indizione XI.
Bonifazio V papa 5.
Eraclio imperadore 14.
Adaloaldo re 9.

L'anno XII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Nel dì 10 di marzo del presente anno si mosse di nuovo Eraclio della sua regia, e a gran giornate arrivò in Armenia [Theoph., in Chronogr.], da dove con sue lettere invitò Cosroe alla pace; altrimenti gli minacciava d'entrare ostilmente nella Persia. Se ne rise il fiero tiranno. Allora Eraclio, dopo avere con una magnanima orazione maggiormente incoraggiata l'armata dei fedeli di Gesù Cristo, passò nel paese nemico, con bruciare quante città e castella s'incontravano per cammino. In mezzo alla state trovarono essi un'aria [1173] temperata e rugiadosa, che servì loro di ristoro, e parve cosa miracolosa. Erasi portato il re Cosroe con quarantamila bravi combattenti presso la città di Gazaco, ed eccoti Eraclio che a dirittura va per trovarlo. Furono sorprese e messe a fil di spada le guardie avanzate de' Persiani, nè di più vi volle perchè Cosroe si desse alla fuga. S'impadronì Eraclio della città di Gazaco, dove si trovò il tempio del Fuoco, tuttavia adorato da que' Barbari, e il tesoro di Creso già re della Lidia (lo creda chi lo vuol credere), e si scoprì l'impostura de' carboni che que' falsi sacerdoti faceano credere miracolosamente sempre accesi. Da Gazaco si portò l'esercito cristiano alla città di Tebarmaes, ed in essa entrato, consegnò alle fiamme anch'ivi il tempio del Fuoco e tutte le abitazioni. Intanto Cosroe, avendo gli sproni della paura ai fianchi, si andava ritirando e fuggendo, e dietro di luogo in luogo gli marciava il prode imperadore, prendendo e guastando tutto il paese. In questa maniera passò l'anno secondo della guerra di Persia, ed avvicinandosi il verno, fu messo in consulta, dove si avessero a prendere i quartieri. Alcuni proponevano che si svernasse in Albania, provincia vicina al mar Caspio; altri che s'andasse contra di Cosroe. La sacra Scrittura, secondo l'uso osservato da tant'altri in questi tempi, quella fu che decise essendosi trovato in un versetto della medesima, aperta all'improvviso, parole indicanti di fermarsi in Albania. Conduceva seco Eraclio Augusto, oltre ad un gran bottino, ben cinquantamila prigioni persiani. Accortosi egli de' fieri patimenti di quella povera gente, non gli soffrì il cuore di vederli maggiormente penare, e fattili tutti slegare, donò loro la libertà. Le lagrime che accompagnarono l'allegrezza di que' miseri, e i lor voti che un sì buono imperadore liberasse la Persia da Cosroe, peste di tutto il mondo, furono i loro ringraziamenti. Non disconverrà alla storia d'Italia il far qui menzione di un fatto riferito [1174] da Fredegario [Fredeg., in Chron., cap. 48.] sotto il presente anno. Erano gli Sclavi, ossia Schiavoni, divenuti molto tempo fa padroni di parte dell'Illirico, cioè della Carintia, Bossina, Schiavonia. Ma aveano de' vicini troppo potenti che li calpestavano, cioè gli Unni, chiamati Avari, padroni della Pannonia e d'altre provincie. Non bastava che gli Sclavi pagassero tributo a Cacano, cioè al re di que' popoli. Venivano ogni anno gl'iniqui Avari a svernare addosso ai poveri Sclavi, si servivano liberamente delle lor mogli e figliuole, e gli opprimevano in altre maniere. Ora accadde che un certo Samone, franco di nazione e mercante, andò a trafficare nel paese degli Sclavi, e trovò che quella gente, non potendo più sofferire gli oltraggi e strapazzi degli Avari, aveano cominciato a ribellarsi agli Avari. Samone s'unì con loro, e col suo senno e valore fu cagione che gli Sclavi guadagnarono una vittoria con grande strage degli Avari. Tal credito s'acquistò egli con ciò, che lo elessero per loro re, e in molte altre battaglie con gli Unni restò superiore. Regnò trentacinque anni, e di dodici mogli schiavone ch'egli ebbe, lasciò ventidue figliuoli maschi e quindici femmine. Non fu avvertito questo fatto da Giovanni Lucido ne' suoi libri del regno della Dalmazia e Croazia.


   
Anno di Cristo DCXXIV. Indizione XII.
Bonifazio V papa 6.
Eraclio imperadore 15.
Adaloaldo re 10.

L'anno XIII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Mandò in quest'anno il re Cosroe un suo generale appellato Sarablaga, uomo ben provveduto di superbia, nell'Albania, per impedire all'imperadore Eraclio di avanzarsi nella Persia. Ancorchè costui conducesse con esso lui un forte esercito, tuttavia non osò mai affrontarsi coi Greci, contento di andarli ristrignendo, [1175] con istarsene sulle montagne, e occupare i siti stretti, per gli quali s'entrava nel dominio persiano. Non istette per questo di marciare l'animoso Augusto verso le nemiche contrade, risoluto di andar a trovare nel cuore del suo paese il re Cosroe; sempre ricordevole de' suoi ambasciatori da lui ritenuti prigioni contro il diritto delle genti, e fatti dipoi levar di vita. Questa spina stava forte in cuore di Eraclio. Venne un altro esercito di Persiani, condotto da Sarbaro ossia Sarbaraza, che si unì con Sarablaga, ed era anche in marcia il terzo sotto il comando di Sae: quando i due primi generali, per gelosia che non fosse attribuita la vittoria all'ultimo, determinarono di dar eglino la battaglia senza di lui, e si accostarono verso la sera col loro campo a quello di Eraclio, per attaccar la zuffa nella mattina seguente. Eraclio, ciò presentito, segretamente continuò tutta la notte il viaggio, e andò a postar la sua armata in un bel piano ricco di foraggi. I Persiani, credendo che Eraclio avesse presa la fuga, gli arrivarono addosso la mattina appresso, senza mettersi in ordinanza. E male per loro, perchè i Cristiani, a guisa di lioni combattendo, ne tagliarono a pezzi assaissimi, e sbandarono gli altri. Ma nel bollore di questa mischia ecco soppraggiugnere Sae coll'esercito suo. Contra di costui si rivolse lo sforzo maggiore de' Cristiani con tal empito, che misero ancor lui in iscompiglio, e presero tutto il suo equipaggio. Non istettero poi molto Sarbaraza e Sae a raccogliere tutte le loro forze disperse e la gente fuggita, con formare un poderoso esercito, risoluti di venir di nuovo alle mani. Eraclio, che si trovava nel cuore del paese nemico, senza fortezze di salvaguardia in occasione di disgrazie, prese il partito di ritirarsi. Gli erano sempre alle spalle i Persiani, e tale fu la stretta, che i Lazii, gli Abasgi ed Iberi suoi collegati abbandonarono lo esercito cristiano, e se n'andarono ai loro paesi. Non si perdette d'animo per [1176] questo il coraggioso imperadore, e con bella orazione ravvivò il coraggio nei suoi soldati, con ricordare a tutti che il Dio degli eserciti stava per loro, e che occorrendo conseguirebbono la corona de' martiri e gloria presso i posteri; ma che coll'assistenza di Dio anche i pochi potevano sbaragliare i molti. Ciò fatto, schierò tutta l'armata per attaccar la battaglia; ma questa non si attaccò, e stettero tutto quel dì a guardarsi l'un l'altro i due eserciti. La sera l'imperadore mise in marcia i suoi, e i nemici credendo di poterli prevenire per una scortatoia, andarono ad imbrogliarsi in certe paludi con grave loro pericolo. Giunse finalmente Eraclio nell'Armenia persiana, e quivi si accampò, giacchè era vicino il verno. Prese quartiere anche Sarbaraza in quelle contrade col suo esercito, accresciuto di molto nel cammino; ma buona parte d'essi, avvisandosi che fosse già terminata la campagna, se ne andarono alle lor case. N'ebbe avviso Eraclio, e seppe profittarne. Era allora ben rigido il verno; tuttavia, scelti i più robusti soldati e cavalli dell'armata, e, fattene due squadre, l'una ne mandò innanzi ad assalire i nemici, ed egli in persona tenne dietro coll'altra. Camminarono tutta la notte e verso il far del giorno arrivarono alla terra di Salbano, senza che i Persiani sospettassero punto di aver l'onore di questa visita. Sentita la venuta de' Cristiani, quei Barbari sbalzarono fuor dei letti, ma attorniati dalle spade nemiche, restarono quivi tutti svenati, eccettochè uno, il quale portò la nuova a Sarbaraza, acquartierato nelle vicinanze. Non si curò quel bravo general persiano di vestirsi, ma nudo e scalzo saltato a cavallo, si salvò colla fuga. Sopraggiunsero i Cristiani, che molti di coloro esentarono dal peso della guerra con ucciderli, o farli prigioni. I satrapi persiani, le lor mogli e il fiore della lor nobiltà s'erano ritirati sopra i tetti delle case, e quivi pensavano di difendersi; ma attaccato il fuoco ad esse, parte [1177] ne perì nelle fiamme, e parte si arrendè ai vincitori. Toccarono fra l'altre cose all'imperadore Eraclio l'armi di Sarbaraza, cioè lo scudo d'oro, la spada, la lancia, le scarpe e una cintura di oro e di gemme. Tornossene poi il glorioso imperadore al suo campo, finito l'anno terzo della guerra di Persia, e in quelle parti svernò quietamente sino alla primavera ventura.


   
Anno di Cristo DCXXV. Indizione XIII.
Onorio I papa 1.
Eraclio imperadore 16.
Arioaldo re 1.

L'anno XIV dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Fin qui Adaloaldo pacificamente avea governato il regno de' Longobardi coll'assistenza di sua madre la regina Teodelinda, quando questa savia e piissima principessa (impropriamente eletta da Giovanni Boccaccio per suggetto d'una delle sue novelle) terminò i suoi giorni. L'anno preciso di sua morte non si sa, troppo essendo digiuna e mancante la storia d'Italia, e infin quella di Paolo Diacono, in questi tempi. Ma probabilmente prima delle disgrazie di suo figliuolo ella passò da questo ad un miglior mondo. Galvano Fiamma [Gualeaneus Flamma, in Manipulo Floram, tom. 11 Rer. Ital.] scrive che a' suoi tempi nell'anno 1310 fu ritrovato in Monza il corpo d'essa regina Teodelinda, e riposto in un'arca di marmo. Di ciò non parla il Morigia nella sua storia di Monza. Solamente dice ch'essa ivi ebbe la sepoltura. Ossia che il re Adaloaldo, privo dei buoni consigli della madre, cominciasse ad operar cose dispiacenti alla nazion longobarda, oppure che si formasse qualche congiura contro di lui, per la quale egli infierisse contra chi cercava la di lui rovina: certo è, per attestato del suddetto Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 43.], che dopo aver regnato dieci anni colla madre gli [1178] diede volta il cervello, ed impazzì: per la qual cagione fu cacciato dal regno, e sostituto in suo luogo Arioaldo marito di Gundeberga sorella d'esso Adaloaldo. In quest'anno terminò dunque il decimo del suo regno; e però qui convien parlare della sua caduta. Altro che le suddette brevi parole non lasciò scritto di lui lo storico longobardo, perchè di più non ne seppe. Ascoltiamo ora Fredegario che circa l'anno 740 scriveva le storie de' Franchi nel secondo stesso, in cui fiorì anche Paolo Diacono. Racconta egli [Fredegar., in Chronic., cap. 49.] all'anno 623 che Adaloaldo re figliuolo di Agone (cioè di Agilolfo), essendo succeduto a suo padre, accolse benignamente un ambasciatore mandatogli da Maurizio imperadore per nome Eusebio. S'inganna il buon istorico, perchè Adaloaldo non regnò a' tempi di Maurizio, ma sì bene di Eraclio imperadore. Aggiugne, essere corsa voce che Adaloaldo fosse stato unto da questo Eusebio con certi unguenti, per virtù de' quali da lì innanzi non facea se non quel che Eusebio volea. Fu dunque consigliato dal Greco di uccidere prima tutti i grandi del regno longobardico, e poi di sottomettersi all'imperador Maurizio: vuol dire all'imperador Eraclio. In fatti ne uccise dodici senza lor colpa: il che veduto dagli altri, per timore di simile trattamento, tutti si accordarono ad eleggere per re loro Coroaldo (da Paolo Diacono è chiamato Arioaldo, ed è lo stesso che Arialdo) duca di Torino, il quale avea per moglie Gundeberga sorella d'esso Adaloaldo e figliuola del re Agilolfo e di Teodelinda. Adaloaldo (seguita a dir Fredegario) avvelenato morì, e Caroaldo prese lo scettro del regno. Quel racconto degli unguenti, e del loro effetto, e del voler sottomettere il regno all'imperadore, ha tutti i requisiti delle dicerie e fole popolari. Contuttociò può essere che qualche cosa di vero sia mischiato con questo falso, accordandosi in qualche guisa col dirsi da Paolo Diacono che Adaloaldo [1179] impazzì. Tuttavia si può temere che neppure uno di questi due storici fosse abbastanza informato dei motivi per cui Adaloaldo cadesse dal trono. E qui convien osservare che, secondo i conti del p. Pagi in quest'anno fu chiamato da Dio a miglior vita papa Bonifazio V. Vuole esso Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che seguisse la di lui morte nel dì 22 d'ottobre, e che Onorio I papa suo successore fosse da lì a cinque giorni consecrato, immaginando che l'esarco di Ravenna si trovasse in questi giorni in Roma, ed avesse facoltà di approvar la elezione del novello papa, senza aspettar la confermazione dello stesso imperadore. S'è disputato intorno al tempo della morte del primo di questi pontefici, e della consecrazione dell'altro; ed appresso il suddetto padre Pagi si vede ben trattata la materia.

A buon conto abbiamo una lettera di Onorio I papa, successore di Bonifazio V, ai vescovi dell'Epiro, data idibus decembris Indictione XIV, e per conseguenza in quest'anno, nel cui settembre cominciò a correre l'indizione quattordicesima. Sicchè si vede eletto e consecrato nell'anno presente Onorio I. Ora, secondo tutte le apparenze, a questo medesimo anno ancora appartiene una altra lettera scritta dallo stesso papa ad Isacco patrizio, esarco di Ravenna, in cui si leggono queste parole: Delatum est ad nos, episcopos transpadanos Petro Pauli filio suadere conatos esse, ut Adalualdum regem desereret, Ariovaldoque tyranno se applicaret. Quamobrem quia Petrus pravis eorum consiliis respuit obedire, et sacramenta regi Agoni (cioè ad Agilolfo) re Adalualdi patri praestita sancte cupit servare: et quia hoc Deo et hominibus est ingratum, ut qui tale facinus vindicare debent, eorum ipsi suasores existant: rogamus vos, ut postquam Adalualdum divino in regnum, ut speramus, auxilio reduxeritis, praedictos episcopos Romam mittere velitis, ne scelus hujusmodi impunitum relinquamus. Un [1180] parlare sì fatto di un pontefice romano ci fa intendere che Adaloaldo più non regnava, ma che non dovette essere giustamente deposto, e forse ch'egli non era impazzito; o se pur tale, se gli doveano dar curatori, ma non già levargli la corona. Intanto noi troviamo Arioaldo considerato dal papa come usurpatore del regno e tiranno. Noi vedemmo che Gundoaldo, padre d'esso Arioaldo, era stato ucciso per ordine del re Agilolfo. Probabilmente contra del di lui figliuolo si volle vendicare Arioaldo. A me si fa credibile che concorresse ancora a guadagnar le premure d'esso pontefice in favore di Adaloaldo, l'esser egli cattolico di religione: laddove Arioaldo, che gli tolse la corona, era di professione ariano. Mi vien anche da sospettare che non influisse poco ad eccitar quella congiura contra di Adaloaldo la stessa differenza di religione, perchè i più dei Longobardi seguitavano tuttavia gli errori d'Ario, e di mal occhio miravano un re che dalla madre avea bevuto il latte della dottrina cattolica. Finalmente, dalla suddetta lettera impariamo che Isacco esarco di Ravenna era in lega col re Adaloaldo decaduto dal regno, e dovette fors'anche prendere le armi per rimetterle sul trono. Ma non apparisce che Adaloaldo risorgesse, e si può credere che il veleno a lui dato terminasse in fine la lite del regno, ed Isacco si ritirasse a Ravenna con riconoscere per re l'usurpatore Arioaldo, e con rinnovar la pace stabilita dai suoi successori. Leggendosi due diplomi d'esso re Adaloaldo in favore del monistero di Bobbio presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.], io li tengo per fattura de' secoli posteriori, e non già autentiche scritture. L'Ughelli ce li fa vedere con una data, e il Margarino [Margarin., Bullar. Casinens., tom. 2.] con un'altra al tutto diversa e spropositata. L'un d'essi si fa conceduto ad Attala abate, e vi è comandato che nullus ex judicibus, comitibus, gastaldis, ec, debba inquietare quel sacro luogo. [1181] Ora presso i re Longobardi lo stesso era giudice che conte. Però in vece di judicibus dovrebb'essere scritto ducibus. L'uno di essi si dice dato Ticini, e l'altro Papiae. Nell'uno è detto Adiualdus, nell'altro Adiuvald. Il padre Pagi, che fidatosi di questi privilegii, ha immaginato che il re Adaloaldo seguitasse a regnare in non so qual parte del regno, mentre Arioaldo regnava in Pavia, è privo di valevoli prove di un tal fatto, ed ha poi contra di sè l'autorità di Paolo Diacono e di Fredegario. Sicchè a me sia lecito di metter qui il fine di Adaloaldo, e di cominciare a contar qui l'anno primo di Arioaldo re de' Longobardi, appellato Carioaldo da esso Fredegario, e di credere che il Pagi s'inganni allorchè crede che Adaloaldo seguitasse a regnare e ripigliasse Pavia. Di sì strepitosi successi è difficile che non fosse rimasta qualche memoria presso gli storici suddetti. Io maggiormente non mi vo' stendere ad esaminar la tela che credo qui mal ordita dal Pagi, il quale troppo si fida di Sigeberto, ossia de' suoi copisti.

In quest'anno quarto della guerra di Persia l'imperadore Eraclio prese la risoluzione di passar colle sue armi nella Siria, che noi appelliamo Soria [Theoph., in Chronogr.]. Valicò con grande fatica il monte Tauro, carico di nevi, e quindi il fiume Tigri, con arrivare alle città di Martiropoli e di Amida, dove si riposò. Di là portossi alle città di Germanicia e di Adana, e al fiume Saro, dove occupò, o fece un ponte munito di torri. Nella opposta riva stava il campo persiano, comandato dal generale Sarbaro, ossia Sarbaraza. Seguirono varii incontri fra i Greci e i Persiani, per lo più vantaggiosi ai primi. Eraclio era sempre alla testa di tutti, combattendo con gran valore; e un dì venuti i Persiani ad assalire il ponte, egli con un colpo di lancia, oppur con un fendente di spada rovesciò nel fiume un Persiano di figura gigantesca: il che veduto dagli altri, loro fece prender la fuga, [1182] ma con restarne molti uccisi, o affogati nel fiume. Passati di là del ponte i Cristiani, continuarono la pugna, in cui l'imperadore diede altri saggi di sua bravura, non senza maraviglia di Sarbaro, che stava ammirarlo da lungi nè si attentava a far fronte. La notte diede fine al combattimento. Venuto poi il verno, si ritirò l'esercito cristiano alla città di Sebastia nel Ponto, e quivi acquartierato si rimise dalle sofferte fatiche. Ma Cosroe re della Persia arrabbiato per vedersi di assalitore divenuto assalito, scaricò il suo furore contro tutte le chiese de' Cristiani, che si trovavano sotto il suo dominio, con ispogliarle di tutti i sacri vasi ed arredi; e, per far maggior dispetto all'imperadore, forzò i Cristiani suoi sudditi ad abbracciare la setta di Nestorio. Così abbiamo da Teofane, unico scrittore di questi fatti. Altro non fece lo storico Cedreno ne' suoi Annali che copiar le parole di esso Teofane. Degno ancora di annotazione si è, che fino a questi tempi l'imperio romano avea ritenuto in suo potere alcune città probabilmente marittime della Spagna, alle quali davan soccorso, occorrendo, i governatori dell'Africa, giacchè questi comandavano anche alla Sardegna e a Maiorica e Minorica. Ma Suintila re dei Visigoti, che regnava in Ispagna in questi tempi, aggiunse colla forza dell'armi quelle città al suo dominio: con che venne ad essere il primo fra' Goti monarca di tutta la Spagna, con istendere la sua signoria anche per la Gallia Narbonense, ossia nella Linguadoca. Santo Isidoro arcivescovo celebre di Siviglia [Isidor., in Chron.], che fioriva in questi tempi, e terminò nel presente anno la sua Cronica dei Goti, ci dipinge il re Suintila come principe pien di valore e padre de' poveri. Ma non così col tempo fu creduto da altri. Probabilmente a quest'anno si dee riferire ciò che lasciò scritto Giona monaco di Bobbio, autore [1183] contemporaneo [Jonas in Vit. S. Bertulfi Saecul. Benedictin. Mabillon.]: cioè che Attala abate di quel monistero, avendo inviato a Pavia Blidolfo prete, questi s'incontrò in Arioaldo duca longobardo di credenza ariana, che dopo la morte di Adaloaldo diventò re de' Longobardi. Appena ebbe Arioaldo veduto Blidolfo, che disse a' suoi: Ecco uno de' monaci di Colombano, che non si degnano di renderci il saluto. E fu egli il primo a salutarlo. Allora Blidolfo gli rispose, che avrebbe anch'egli a lui augurata la salute, se esso Arioaldo non avesse tenuto dei falsi sentimenti in materia di fede. Irritato da ciò l'ariano principe, diede ordine che segretamente quel monaco fosse ben bene bastonato. L'ordine fu eseguito; e il povero monaco restò come morto sotto il peso di quelle bastonate; ma da lì a poco si riebbe prodigiosamente, e se ne tornò al monistero sano e salvo.


   
Anno di Cristo DCXXVI. Indizione XIV.
Onorio I papa 2.
Eraclio imperadore 17.
Arioaldo re 2.

L'anno XV dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Un grave pericolo corse in questo anno l'imperio romano in Oriente. Perciocchè Cosroe re della Persia, veggendo ardere la propria casa, nè sapendo la maniera di ripulsare il prode imperadore Eraclio, che gli era con gran vigore addosso, ricorse ad altri partiti per abbatterlo. Tanto si adoperò con ambasciate e regali che contrasse lega con Cacano, ossia col re degli Avari, dominante nella Pannonia, quel medesimo, a cui Eraclio avea raccomandato i suoi figliuoli, uomo che tenea soppiedi le promesse, i patti e la religione. Mosse questo re infedele anche i Bulgari, i Gepidi, gli Schiavoni a imprender seco l'assedio di Costantinopoli. In fatti, nel mese di giugno, come [1184] s'ha da Niceforo costantinopolitano [Niceph., in Breviar.] e dalla Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandr.], che minutamente descrive questi avvenimenti, comparve davanti a Costantinopoli l'armata terrestre e marittima dell'indegno Cacano, con ferma credenza di poter sottomettere quella regal città, mentre Eraclio si trovava così impegnato nella guerra coi Persiani. Nello stesso tempo Cosroe spedì un'armata comandata da Sarbaro suo generale all'assedio di Calcedone (segno che o non l'avea presa, o non l'avea conservata nell'anno 616), acciocchè andasse di concerto coll'iniquo Cacano alla rovina dell'imperio romano. Appena ebbe Eraclio Augusto scoperti i disegni di costoro, che inviò la terza parte delle sue truppe alla difesa di Costantinopoli, entro la qual città Buono, chiamato da altri Bonoso, governatore, in cui gareggiava colla prudenza il coraggio, fece quanti preparamenti potè per sostenersi contra di un sì furioso torrente d'armati. Furono dati varii assalti alla città di Costantinopoli, adoperate le torri, gli arieti, le testuggini, i mangani ed altre macchine militari per espugnarla; ma fu corrisposto con egual bravura dagli assediati. Si trattò più volte di aggiustamento, ma infruttuosamente sempre, perchè il superbo Cacano stava forte in volere la resa della città: dal che era ben lontano il prode governatore. Nulla profittavano nel loro assedio i Barbari, quando riuscì agli Armeni cristiani di dare colle lor barche addosso a quelle degli Schiavoni nemici, e di sbaragliarle. Grande fu la strage di que Barbari, rimasti vittime delle spade cristiane, o precipitati nel mare, il quale, per attestato di Niceforo, in tal congiuntura si vide tinto di color di sangue. Questo colpo fece risolvere Cacano a levar l'assedio; e da altri fu creduto che disgustati gli Schiavoni per quella disavventura, abbandonato il campo, se [1185] ne tornassero al loro paese: il che fosse cagione che anche il re degli Avari si trovasse forzato a seguitarli. Attribuì il popolo di Costantinopoli la sua liberazione ad un particolare aiuto di Dio, e alla protezione ed intercessione della santissima Vergine Madre di Dio, di cui era divotissima quella città.

Intanto l'imperador Eraclio, siccome abbiam da Teofane [Theoph., in Chronogr.], avendo diviso l'esercito in due, ne diede una parte a Teodoro curopalata, cioè maggiordomo maggior della corte, suo fratello, acciocchè andasse incontro a Sae general di Cosroe, che conduceva un'armata di bella gente sì, ma di nuova leva. Coll'altra parte esso imperadore s'incamminò verso il paese dei Lazii, situato nella Colchide sul fine del Ponto Eussino, ossia del mar Nero. Non sì tosto Teodoro si trovò a fronte di Sae, che attaccò la zuffa. Levossi in quello stante un temporale, che regalò di grossa gragnuola i Persiani, senza che ne toccasse ai Cristiani, sopra i quali era sereno il cielo: e ciò fu considerato per miracolo. Seguitarono essi Cristiani a menar le mani, tantochè misero in rotta il nemico, di cui non poca parte trovò qui la sepoltura. Arse d'incredibile sdegno Cosroe contra di Sae all'avviso di questa perdita, e comandò che venisse alla corte. Ma il misero per l'afflizione e disperazione caduto infermo, terminò per istrada i suoi giorni. D'ordine nondimeno del barbaro re condotto alla corte il di lui cadavero salato, fu esposto agli oltraggi del popolo, e caricato di bastonate, senza che esso rispondesse una parola o gittasse un sospiro. Avea intanto l'imperadore Eraclio [Niceph., in Brev. Hist.] per mezzo d'ambasciatori e con regali trattato coi Turchi, appellati Gazari, anch'essi di nazione Unni e Tartari, affine di muoverli a' danni de' Persiani. In fatti costoro, rotte le porte Caspie (m'immagino io che sieno le porte o chiuse del monte Caucaso), piombarono [1186] da quelle parti addosso alla Persia, dando il guasto dovunque capitavano, e facendo prigioni quanti cadevano nelle lor mani. Era capo di costoro Ziebelo, che dopo Cacano veniva riputato il più temuto e stimato signore fra gli Unni, ossia fra i Tartari. Trovandosi l'imperadore in quelle vicinanze, volle costui abboccarsi seco, e l'abboccamento seguì presso a Fifili città de' Persiani, i quali dalle mura furono spettatori di quel congresso. Appena giunse Ziebelo davanti all'Augusto Eraclio, che balzato da cavallo, si gittò disteso colla faccia per terra, onore insolito fra' Cristiani, ma praticato da que' Barbari verso i loro principi. Altrettanto fece tutto l'esercito turchesco che era con lui. Fece saper l'imperadore a Ziebelo che rimontasse a cavallo e s'accostasse. Così fece egli, e quando fu alla presenza sua, Eraclio si cavò la corona di capo e la pose in quello del Barbaro, con chiamarlo anche figliuolo. Invitò a pranzo lui e i suoi baroni, e terminato che fu il convito, donò a lui tutti i vasi e gli utensili con un manto regale ed orecchini di perle, e ai di lui baroni di sua mano dispensò altri donativi. Per impegnare ancora con legami più stretti il Barbaro in questa lega, ed acciocchè non gli venisse talento d'imitare il perfido Cacano, gli mostrò il ritratto di Eudocia, sua figliuola, con dirgli: Già ti ho dichiarato mio figliuolo. Mira ancor questa mia figliuola Augusta de' Romani. Se contra de' nemici mi recherai aiuto, io te la prometto in isposa. Ziebelo sopraffatto da questi favori e dalla beltà di quella principessa, tutto promise e diede tosto ad Eraclio quarantamila dei suoi combattenti, con ordine di servire a lui come a sè stesso.

Portata che fu a Cosroe la nuova della lega seguita fra Eraclio ed i Turchi, pien di timore e d'affanno spedì tosto lettera a Sarbaro suo generale, con ordine di lasciar Calcedone, e di ricondurre sollecitamente la sua armata in [1187] Persia, per opporla ad Eraclio. Cadde questa lettera fortunatamente in mano dell'imperadore; e perchè a lui premeva di non aver contrasto dall'armi di Sarbaro, finse un'altra lettera di Cosroe, e la sigillò col sigillo regale, in cui l'avvisava, che entrato l'imperador de' Romani coi Turchi nella Persia, era stato sconfitto dall'armi sue; e però che attendesse alla conquista di Calcedone, nè rimovesse dalle greche contrade. Nasce qui un scabrosissimo nodo di storia, perchè Teofane, dopo aver narrata la lega suddetta col re dei Turchi, salta a dire che costoro, venendo il verno, se ne tornarono alle lor case, prima che terminasse l'anno in cui Eraclio fece varie imprese contra de' Persiani; e qui imbroglia forte il racconto, dicendo in un luogo succeduti quei fatti IX octobris die Indictione XV; il che vorrebbe dire nell'autunno dell'anno presente 626; e in un altro mensis decembris die XII, qui sabbati dies fuit: il che appartiene al fine dell'anno susseguente 627. E certo hanno avuta ragion di dire i padri Petavio e Pagi, che mancano nel testo di Teofane le memorie d'un anno della guerra di Persia. Il Pagi ha diffusamente trattato questo punto. Egli crede succeduto l'abboccamento di Eraclio col Turco nell'anno seguente; io nel presente, credendo che qua si possa riferire ciò che scrive Giorgio Elmacino [Elmacinus, Hist. Sarac. lib. 1, pag. 13.] antichissimo scrittore della Storia saracenica. Racconta egli all'anno quarto dell'egira, cioè all'anno di Cristo 625, avere il re Cosroe, sdegnato contra di Siariare, cioè contra Sarbaro ossia Sarbaraza, suo generale, dato ordine a Marzubano di ucciderlo. Questo Marzubano verisimilmente è lo stesso che Marzabane, mentovato negli atti di sant'Anastasio, martirizzato circa questi tempi dai Persiani. Capitata la lettera [1188] in mano dell'imperadore Eraclio, questi ne fece avvertito Sarbaro il quale chiaritosi del fatto, passò ai servigi dell'imperadore con assaissimi altri uffiziali. Secondo Teofane, questo fatto di Sarbaro succedette più tardi, cioè l'anno 628 con circostanze diverse, siccome vedremo. Seguita poi a dire Elmacino, avere Eraclio scritto ad Chacanum regem Hararorum (si dee scrivere Hazarorum, cioè de' Turchi chiamati Cazari, o Gazari) per ottener da lui quarantamila cavalli, con promettergli in ricompensa del servigio una sua figliuola per moglie, nel che va d'accordo con Teofane. Andato dipoi Eraclio nella Soria, cominciò a prendere molte città a lui già tolte dai Persiani, e a mettervi de' suoi governatori. Era sparsa la maggior parte delle truppe di Cosroe per la Soria e Mesopotamia; Eraclio a poco a poco le mise a fil di spada, o le ebbe prigioniere. Diede poi Cosroe il comando dell'armata sua a Marzubano, ed intanto Eraclio si trovava occupato in sottomettere l'Armenia, la Soria e l'Egitto (cosa nondimeno poco credibile, perchè tante forze non aveva Eraclio) con disfar tutti i reggimenti persiani, che s'incontravano in quelle parti. Aggiugne dipoi Eraclio che avea nella sua armata trecentomila cavalli, e circa altri quarantamila cavalli gazari, cioè turchi. In vece di trecentomila, senza timor di fallare si dee scrivere trentamila. Ora si può credere che quanto vien qui narrato da Elmacino appartenga al presente anno quinto della guerra di Persia, e a parte del seguente, tanto più perchè Niceforo [Niceph., in Breviar.] attesta che Eraclio col rinforzo avuto dai Turchi entrò nella Persia, e smantellò molte città e i templi del Fuoco, dovunque si trovavano. Sembra anche probabile che egli svernasse nel paese nemico.


[1189]

   
Anno di Cristo DCXXVII. Indizione XV.
Onorio I papa 3.
Eraclio imperadore 18.
Arioaldo re 3.

L'anno XVI dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Morì in quest'anno nel mese di marzo Attala abate di Bobbio, ed ebbe per successore nel governo di quel monistero Bertolfo abate, di cui abbiam la vita scritta da Giona monaco contemporaneo [Jonas in Vita S. Bertulfi apud Mabill. in Saecul. Bened.]. Cominciò subito il vescovo di Tortona ad inquietare il nuovo abate con pretendere che il monistero di Bobbio fosse soggetto alla di lui autorità e giurisdizione. S'ingegnò ancora di avere per favorevoli alla sua pretensione i vescovi confinanti, e di guadagnare il re de' Longobardi. Regnava in quel tempo (dice Giona) Ariovaldo longobardo, il quale, siccome egli stesso aggiugne più sotto, fu re de' Longobardi dopo la morte di Adoloaldo, ed era genero del re Agilolfo, perchè marito di Gundeberga, e cognato d'esso re Adaloaldo; parole, che qualora fosse certo che in questo anno succedesse la controversia suddetta, farebbono conoscere già morto il re Adaloaldo, e non già tuttavia vivente, come vedemmo preteso dal Pagi. Altra risposta non diede il re Arioaldo al vescovo di Tortona, se non che toccava ai giudici ecclesiastici il decidere se i monisteri lontani dalle città avessero da essere sottoposti al dominio de' vescovi. Segretamente avvertito di questi movimenti l'abate Bertolfo, inviò i suoi messi al re per iscoprire che intenzione egli avesse. Rispose saviamente il re Arioaldo, che non apparteneva a lui il giudicare nelle controversie de' sacerdoti, ma sì bene ai sacri giudici e concilii; e ch'egli non favorirà più l'una che l'altra parte. Così un re longobardo e di setta ariana. Il cardinal Baronio non potè di meno di [1190] non esaltare in lui questa lodevol moderazione. Chiesero pertanto i monaci licenza di poter ricorrere alla sede apostolica, e fu loro accordata dal re. A questo fine si portò a Roma Bertolfo, conducendo seco lo stesso Giona scrittore di questo avvenimento. Onorio papa, uomo dotato di una rara dolcezza ed umiltà, accolse benignamente Bertolfo, e gli concedette un privilegio di esenzione da qualsivoglia vescovo. Leggesi presso l'Ughelli [Ughell. Ital. Sacr. tom. 4, in Episc. Bob.] questo privilegio, ma senza saper io dire se sia o non sia documento sicuro, perchè esso è indrizzato fratri Bertulfo abbati: il che non conviene al rituale di un papa, che dovea dire filio, e non già fratri. Per altro le note cronologiche, se fossero più esatte, militerebbono forte in favor d'esso, perchè vi si legge: Datum III id. jan. imper. dominis piissimis Augg. Eraclio anno VIII (dee essere XVIII) post consulatum ejus anno XVIII (dovrebbe essere XVI) atque Eraclio Constantino novo ipsius filio anno XVI, Indictione prima. L'anno di Eraclio Costantino dovrebbe essere il XV, purchè in vece di jan. non fosse scritto jun.

Parte delle imprese di Eraclio imperadore, che di sopra abbiam rapportato dalla Storia saracenica di Elmacino, pare che appartenga all'anno presente. Seguita dipoi a scrivere il medesimo storico [Elmacin., lib. 1. pag. 14.] che l'armata di Eraclio Augusto arrivò nella provincia Aderdigiana, ed ebbe ordine di fermarsi quivi, finchè lo imperadore vi arrivasse anch'egli. E che dopo aver soggiogata l'Armenia, esso Augusto si trasferì a Ninive, e s'accampò alla porta maggiore. Venne dipoi Zurabare general di Cosroe con una potente armata, e seguì fra esso e l'esercito cristiano un'ostinata battaglia, in cui furono sconfitti i Persiani colla morte di più di cinquecentomila d'essi. L'Erpenio, che tradusse dall'arabico la storia di Elmacino, si può credere che prendesse [1191] un granchio, scambiando ancor qui i numeri, certo essendo che in vece di cinquecentomila si ha qui da scrivere un altro numero, e verisimilmente cinquantamila morti, numero anche esso, come ognun vede, assai, e forse troppo grande. Ma tempo è di ripigliar qui il racconto di Teofane [Theoph., in Chronogr. Cedren. in Annal.] che si è rimesso sul buon cammino. Ci fa egli dunque sapere che Eraclio Augusto improvvisamente nel settembre si spinse addosso alla Persia, e mise in grande agitazion d'animo Cosroe. Quand'eccoti che i Turchi ausiliarii, veggendo vicino il verno nè volendo guerreggiar in quel tempo disgustati ancora per le continue scorrerie de' Persiani, cominciarono a sfumare, e tutti in fine si ridussero al loro paese. Or vatti a fidare di gente barbara. Eraclio allora rivolto ai suoi, disse; Osservate che non abbiam se non Dio, e quella che soprannaturalmente il concepì, che sieno in nostro aiuto, acciocchè più visibilmente apparisca che solo da Dio han da venire le nostre vittorie. Quindi per far vedere che non era figliuolo della paura, comandò che l'esercito marciasse, e più che mai continuò ad internarsi nella Persia. Aveva Cosroe fatto il maggiore suo forzo per mettere insieme un'armata poderosissima, di cui diede il comando a Razate, bravo generale e sperimentato negli affari della guerra. Costui cominciò a seguitare alla coda l'esercito cristiano, il quale finalmente arrivò alla città di Ninive presso il fiume Tigri, come notò di sopra anche Elmacino. Quivi dunque sul principio di dicembre furono a fronte le due armate nemiche, e nel dì 12 d'esso mese vennero ad una generale battaglia. Niceforo [Nicephor., in Breviar.] è quel che racconta che Razate general de' Persiani, dappoichè ebbe messo in ordinanza tutte le sue schiere, si fece innanzi solo, e sfidò l'imperadore a duello. Veggendo Eraclio che niuno de' suoi si moveva, andò egli ad affrontarlo, [1192] e il rovesciò morto a terra. Fredegario [Fredegarius, in Chron., cap. 64.] aggiugne che il combattimento era concertato fra Eraclio e Cosroe, ma che Cosroe proditoriamente mandò in sua vece il più bravo dei suoi, che restò poi estinto sul campo. Tempi di guerra tempi di bugie. Teofane racconta più acconciamente il fatto con dire che Eraclio postosi alla testa de' suoi s'incontrò nel generale persiano, cioè in Razate, e l'atterrò. Nè sussiste che Teofane dica dipoi che Razate scampò dal pericolo della battaglia, come s'ha nella versione latina nel primo tomo della Bizantina. Teofane ciò dice del popolo di Razate, e non già di Razate medesimo. Si fece dunque la strepitosa giornata campale, che durò dall'aurora sino all'ora undecima. La peggio toccò ai Persiani, che non furono già sbaragliati, ma bensì astretti a ritirarsi, con lasciare ventotto bandiere in mano de' Cristiani. La cavalleria persiana si fermò un pezzo della notte vicino al campo della battaglia, ma temendo un nuovo assalto, prima di giorno diede indietro, e fatto bagaglio, paurosamente andò a salvarsi nella montagna. Allora i Cristiani spogliarono i morti, e fecero buon bottino. Impadronissi dipoi l'imperadore Eraclio di Ninive, e spedito innanzi un distaccamento perchè prendesse i ponti del fiume Zaba, o Saba, volonteroso più che mai di andare a dirittura a trovar Cosroe nel cuor de' suoi stati, per astrignerlo a richiamar Sarbaro dall'assedio di Calcedone, che tuttavia durava, fece marciare l'esercito a quella volta. Nel dì 23 di dicembre passò quel fiume, e diede riposo nel luogo di Gesdem, dov'era un palazzo dei re di Persia. Quivi celebrò la festa del santo Natale, dopo di che continuò la marcia; trovò e distrusse altri palazzi dei re persiani, ne' quali trovò serragli di struzzoli ingrassati, capre selvatiche, e cignali in gran quantità, che furono compartiti per l'armata. Ma questo fu un nulla rispetto alla sterminata [1193] copia di pecore, di porci e buoi, che trovarono in quella contrada, coi quali il cristiano esercito terminò con gran festa ed allegria quest'anno sesto della guerra di Persia.


   
Anno di Cristo DCXXVIII. Indizione I.
Onorio I papa 4.
Eraclio imperadore 19.
Arioaldo re 4.

L'anno XVII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Si aprì l'anno presente felicissimo e glorioso per la Cristianità, perchè l'ultimo della guerra coi Persiani. Teofane [Theoph., in Chronogr.] minutamente racconta i progressi dell'armata di Eraclio Augusto, che proseguendo il cammino, arrivò al palazzo di Bebdarch, e lo distrusse col suo tempio. Cosroe, che non era molto lungi nel palazzo regale di Dastagerd, frettolosamente se ne fuggì alla città di Ctesifonte, dove per ventiquattro anni mai non era comparso per una predizione a lui fatta, che in quella città egli dovea perire. Giunto il felice esercito cristiano ai palazzi di Dastagerd, quivi trovò trecento bandiere prese ai Cristiani dall'armata persiana, allorchè tutto andava a seconda dei loro desiderii. Inoltre vi trovò un'immensa copia di aromati, di sete, di tappeti ricamati, di argenti, di vesti, siccome ancora di cignali, pavoni e fagiani, e un serraglio ancora di leoni e di tigri d'inusitata grandezza. Erano le fabbriche di que' palazzi di mirabile struttura e vaghezza; ma Eraclio dopo aver ivi, nel giorno santo dell'Epifania, rinfrescato l'esercito, in vendetta di tanti danni inferiti da' Persiani alle città dell'impero tutto fece smantellare e dare alle fiamme. Intanto Cosroe scappò a Seleucia, e in essa città ripose il suo tesoro. E perciocchè gli fu fatto credere che Sarbaro, ossia Sarbaraza suo generale, se l'intendesse coi Greci, nè perciò volesse prendere l'assediata città di Calcedone, [1194] e che anzi sparlasse del medesimo re suo padrone, scrisse una lettera a Cardarega, collega del medesimo generale, ordinandogli di ammazzarlo, e levato poi l'assedio, di venire in soccorso della Persia afflitta. Per buona ventura restò preso nella Galazia il portator della lettera, e menato a Costantinopoli davanti ad Eraclio Costantino Augusto, figliuolo dell'imperadore. Scoperto questo affare, il giovane Augusto fece a sè chiamare Sarbaro, nè più vi volle perch'egli si pacificasse coi Cristiani. E fatta poi una nuova lettera, a cui fu destramente applicato il sigillo regale, e in cui veniva ordinato da Cosroe la morte di quattrocento dei più cospicui uffiziali di quell'armata persiana, Sarbaro nel consiglio de' suoi la lesse a Cardarega, chiedendogli se gli bastava l'animo di ubbidire al re. Allora tutti que' satrapi s'alzarono caricando di villanie Cosroe; e dopo averlo proclamato decaduto dal trono, fecero pace col giovane imperadore, e se ne andarono alle lor case pieni di veleno contra di Cosroe. Questo è il fatto raccontato di sopra all'anno 626 da Elmacino.

In questo mentre l'imperadore Eraclio spedì una lettera ad esso Cosroe, invitandolo a far pace. Il superbo tiranno non ne volle far altro: cosa che gli tirò addosso l'odio de' suoi. Contuttociò il re barbaro attese a metter insieme un esercito, con dar l'armi anche ai più vili mozzi di stalla, comandando che si portassero al fiume Arba, e ne levassero i ponti. Eraclio giunto a quel fiume, nè trovando maniera di passarlo, andò per tutto il mese di febbraio scorrendo per le città e provincie persiane di qua da esso fiume. Nel mese di marzo arrivò alla città di Barsa, e diede quivi riposo all'armata per sette giorni. Colà furono a trovarlo alcuni mandati da Siroe figliuolo primogenito di Cosroe, per fargli sapere che avendo voluto suo padre infermo dichiarar re, successore ed erede suo Merdasamo fratello minore d'esso Siroe, egli era risoluto di voler sostenere [1195] coll'armi la sua ragione, ed opporsi al padre, e che già aveva dalla sua il generale dell'esercito paterno per nome Gundabusa, e due figliuoli di Sarbaro, ossia Sarbaraza. L'imperadore rispedì i messi a Siroe, consigliando che aprisse tutte le prigioni, e desse l'armi a tutti i Cristiani in esse detenuti. Elmacino [Elmac., Hist. Saracen., lib. 1, pag. 14.] pretende che Siroe fosse dianzi prigione anch'egli, e che rimesso in libertà dai satrapi, impugnasse l'armi contro del padre. Ora Cosroe, intesi i moti di Siroe, prese la fuga, ma colto per istrada e cinto di catene, fu imprigionato nel luogo stesso, dove teneva il suo tesoro; tesoro ragunato colla rovina di tanti suoi sudditi, e poi di tante provincie cristiane. Siroe sugli occhi suoi fece svenare Merdasamo destinato erede del regno, e tutti gli altri figliuoli di esso re Cosroe, a riserva di un suo nipote appellato Jasdegirde, che fu re della Persia da lì a pochi anni. Finalmente Siroe liberò la terra anche dal peso dello stesso re esecrando, che tanti mali avea cagionati in sua vita, e spezialmente fu detestabile per l'ingratitudine sua verso gl'imperadori cristiani coll'aiuto de' quali nell'anno 591 era salito sul trono di Persia. Seppe dipoi Eraclio con suo gran dispiacere da Siroe, che degli ambasciatori mandati a Cosroe, uno d'essi, cioè Leonzio, era mancato di morte naturale, e gli altri due erano stati uccisi dal barbaro re, allorchè Eraclio entrò nella Persia. Leggesi distesamente [Chron. Alex.] nella Cronica Alessandrina la lettera scritta dallo stesso Eraclio imperadore a Costantinopoli, contenente la relazione della morte di Cosroe, l'esaltazione al trono di Siroe, e la spedizione degli ambasciatori ad Eraclio per far la pace, la quale gli fu accordata, con patto che restituisse tutto quanto suo padre avea tolto all'imperio romano. E questo glorioso fine ebbe la guerra persiana con lode immortale di Eraclio imperadore, [1196] che racquistò poi, siccome diremo, la Croce santa, e somministrò a Francesco Bracciolini un nobile argomento per tessere il suo poema italiano della Croce racquistata. Finì in quest'anno di vivere Clotario II, già divenuto signore di tutta la monarchia francese, e gli succedette Dagoberto suo figliuolo, già dichiarato re dell'Austrasia, il quale durò fatica ad assegnare un boccone del regno a Cariberto suo fratello, e tornò anche a ricuperarlo da lì a tre anni per la morte del medesimo suo fratello.


   
Anno di Cristo DCXXIX. Indizione II.
Onorio I papa 5.
Eraclio imperadore 20.
Arioaldo re 5.

L'anno XVIII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Gran confusione si trova nella storia greca di questi tempi, discordando non poco fra loro Teofane e Niceforo. Esporrò ciò che a me par più verisimile. Spese Eraclio Augusto il resto dell'anno precedente, e parte ancora del presente in dar sesto alle provincie d'Oriente, in ricuperar l'Egitto, la Palestina ed altri paesi già occupati dai Persiani, e in procurar che le guarnigioni nemiche fossero condotte con tutta quiete e sicurezza al loro paese: al che deputò Teodoro suo fratello. Una delle maggiori sue premure quella fu di riaver dalle mani de' Persiani la vera Croce del Signore. Questa la riportò egli seco a Costantinopoli, dove in quest'anno egli fece la sua solenne entrata, essendogli uscito incontro fuori della città il patriarca, il clero, e quasi tutto il popolo, con incredibil festa ed acclamazioni, portando rami d'ulivo e fiaccole accese, e la maggior parte lasciando cader lagrime di allegrezza in veder ritornare sano e salvo il loro principe con tanta gloria e sì gran bene fatto al romano imperio. Ma neppur lo stesso imperadore potè frenar le lagrime al vedere tanto affetto del suo popolo, e apparirgli [1197] Eraclio Costantino Augusto che se gl'inginocchiò davanti, e s'abbracciarono amendue piangendo. Fra gl'inni, i canti e i viva entrò il felicissimo imperadore nella città, in un carro condotto da quattro elefanti. Si fecero dipoi varie solennità e spettacoli d'allegrezza; di molto danaro ancora fu sparso al popolo; ed Eraclio ne fece pagare una buona somma alle chiese, dalle quali avea preso i sacri vasi, per valersene ne' bisogni della guerra. Secondochè si ha da Fredegario [Fredegar., in Chronic., cap. 65.], Dagoberto re dei Franchi mandò i suoi ambasciatori ad Eraclio, per congratularsi delle riportate vittorie, e confermar la pace con lui. Non è ben chiaro se in quest'anno esso imperadore riportasse a Gerusalemme la vera Croce ricuperata dalle mani dei Persiani. Teofane [Theoph., in Chronogr.] racconta questo fatto all'anno seguente, e così Cedreno [Cedren., in Annal.]. All'incontro Niceforo [Niceph., in Brev.] scrive ch'egli andò prima a Gerusalemme, ed ivi fece vedere quel sacro legno, e poi lo portò seco a Costantinopoli, dove nella cattedrale fu esposto, e ciò avvenne sotto l'Indizione II, corrente per tutto l'agosto di quest'anno. Ma Zonara [Zonar., in Annal.] vuole che Eraclio nel precedente anno se ne tornasse a Costantinopoli, e non già nel presente: tanto van d'accordo fra loro i greci autori. Comunque sia, sappiam di certo che l'Augusto Eraclio andò a Gerusalemme, seco portando il venerato legno della santa Croce, e in quella sacra basilica lo ripose, ma senza che gli storici suddetti parlino di certo miracolo che si dice succeduto in quell'occasione. Comunemente si crede che quindi prendesse origine la festa dell'esaltazion della Croce. Ma, siccome avvertì il cardinal Baronio [Baron., in Not. ad Martyrol.], essa è molto più antica. Sia a me permesso di riferir [1198] qui un fatto spettante ad Arioaldo re dei Longobardi, di cui Fredegario [Fredeg., in Chron., cap. 51.] fa menzione, dopo aver narrata l'assunzione al trono di questo re all'anno 625, il che non può sussistere secondo i nostri conti, con restare perciò libero a noi di raccontar questo fatto per conto del tempo ad arbitrio nostro. Gundeberga sua moglie, figliuola, come dicemmo, del re Agilolfo e di Teodelinda, ci vien descritta da esso storico per donna di bellissimo aspetto, di somma benignità verso tutti, ornata sopra tutto di pietà, perchè cristiana; il che, a mio credere, vuol dire buona cattolica, a differenza del suo consorte ariano. Le sue limosine ai poveri erano frequenti e grandi, la sua bontà risplendeva in tutte le sue operazioni: motivi tutti che le guadagnarono l'universale amore de' popoli. Trovavasi allora nella corte del re longobardo un certo Adalolfo, confidente di esso re. Costui faceva delle visite anche alla regina; e un dì trovandosi alla di lei udienza, scappò detto alla medesima, che egli era uomo di bella statura. Allora lo insolente cortigiano, presa la parola, soggiunse, che dacchè ella s'era degnata di lodare la di lui statura, si degnasse ancora di farlo partecipe del suo letto. Allora Gundeberga, accesasi di rossore sgridò la di lui temerità, e gli sputò sul volto. Andatosene Adalolfo, e pensando all'errore commesso, e che ci andava la vita, se il re veniva a saperlo, per prevenir questo colpo, corse tosto al re Arioaldo, e lo pregò di volerlo ascoltare in disparte, perchè aveva cosa importante da confidargli. Ritiratisi, Adalolfo gli disse, che la regina Gundeberga per tre giorni avea parlato con Tasone duca, e trattato di avvelenar esso re, per poscia sposare esso Tasone e dargli la corona. Prestò fede Arioaldo a questa calunnia, e mandò prigione la regina nel castello di Lomello, onde prese il nome la Lomellina, territorio fertilissimo, posto fra il Po e il Tesino. Quel Tasone duca vien di sopra [1199] appellato dallo stesso Fredegario duca della Toscana, con aggiungere che egli per la sua superbia avea già cominciato a ribellarsi contra del re, e verisimilmente non aveva egli approvato che Arioaldo avesse tolto il regno al re Adaloaldo. Ma noi sappiamo da Paolo Diacono, la cui autorità in ciò merita più fede, che Tasone fu duca del Friuli, e figliuolo di Gisolfo duca di quella contrada, avendo nondimeno esso Paolo riconosciuto anche egli la ribellion dello stesso Tasone contro del re Arioaldo. Ciò che avvenisse della regina Gundeberga, lo diremo più abbasso.


   
Anno di Cristo DCXXX. Indizione III.
Onorio I papa 6.
Eraclio imperadore 21.
Arioaldo re 6.

L'anno XIX dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Nacque nell'anno presente [Theoph., in Chronogr.] nel dì 7 di novembre un figliuolo ad Eraclio Costantino. Augusto, e per conseguente un nipote d'Eraclio il grande imperadore, e gli fu posto il nome di Eraclio, ma dopo la morte del padre egli assunse quello di Costante, o, come altri vogliono, di Costantino, sebbene par più probabile che nel battesimo fosse nominato Eraclio Costante. Allo stesso Eraclio imperadore, mentre era in Oriente, Martina Augusta partorì un figliuolo che fu appellato David, e giunse ad avere il titolo di Cesare, ma ebbe corta vita. Parimente a Dagoberto [Fredegar., in Chron., cap. 59.] re de' Franchi nacque fuor di matrimonio da una giovine chiamata Ragnetruda un figliuolo che ebbe nome Sigeberto, o Sigoberto, che poi fu re. In questi tempi i re franchi non distinguevano i figliuoli bastardi dai legittimi, e nel medesimo tempo teneano più d'una moglie e molte concubine. Fredegario lo attesta dello stesso re Dagoberto, e ve ne ha degli altri esempli. Però [1200] quei re non aveano per anche dismessi tutti i riti e disordini della gentilità; e in paragon loro si può dire che fossero meglio costumati i re longobardi, benchè non tutti cattolici. Sotto quest'anno mise Andrea Dandolo [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.], e dopo lui il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], l'assunzione di Primigenio patriarca gradense. Per maneggio dei Longobardi era stato eletto patriarca di Grado (tuttochè quell'isola fosse suggetta all'imperadore) Fortunato, il quale, non meno del patriarca di Aquileia, rispettava il concilio quinto generale. Scoperto che fu il suo cuore scismatico, il clero di Grado e i vescovi dell'Istria, fedeli ed uniti colla Chiesa romana, si sollevarono contro di costui, di maniera che non veggendosi egli sicuro, e temendo che l'esarco di Ravenna non mandasse un dì a farlo prigione, dopo avere svaligiata quella chiesa di tutti i suoi vasi ed arredi più preziosi, e fatto lo stesso a varie chiese parrocchiali e spedali dell'Istria, se ne scappò con tutto quel tesoro a Gormona, castello del Friuli sotto il dominio de' Longobardi. Portatone l'avviso a papa Onorio, immediatamente elesse vescovo di Grado Primigenio suddiacono e regionario della santa Chiesa romana, e lo spedì colà ornato del pallio archiepiscopale, e con una lettera che è interamente riferita dal Dandolo e dal cardinal Baronio. Ma nell'edizione da me [Antiq. Ital., Dissert. XVIII.] fatta del Dandolo, quella lettera, secondo il testo della Biblioteca ambrosiana, è data XII kalendas martias, Heraclii anno XVIII. E però se questa data si ha da attendere, l'elezione di Primigenio dee appartenere all'anno 628, in cui appunto la referì il Sigonio [Sigon., de Regn. Italiae, lib. 2.], e dopo il padre de Rudeis [De Rudeis, Monument. Eccl. Aquilejens., cap. 34.]. In essa lettera parla della Cristianissima repubblica. Immaginò il cardinal Baronio che [1201] volesse dir della veneta. Chiaro è che tal nome significava allora il romano imperio, ed io altrove l'ho dimostrato. Soggiunse poscia il Dandolo, che Primigenio si studiò, per quanto potè, di muovere il re de' Longobardi a far restituire alla sua chiesa il tesoro involato, ma tutto indarno, probabilmente perchè passava poca intelligenza fra il re Arioaldo e Tasone duca del Friuli, ne' cui stati si era rifugiato lo scismatico ladrone. Però il patriarca Primigenio spedì un suo apocrisario ad Eraclio Augusto, con rappresentargli il rubamento fatto alla sua chiesa, e che i Longobardi aveano sottratto e cercato di sottrarre dalla sua ubbidienza i vescovi suffraganei. Allora il piissimo imperadore, non potendo far altro, gli mandò tanto oro ed argento, che valeva assai più di quel ch'era stato tolto alla di lui chiesa. In questi tempi il patriarca di Grado era anche vescovo delle isole circonvicine, coll'union delle quali a poco a poco si componeva e si andava aumentando la nobilissima città di Venezia. Al suddetto Primigenio vien attribuita dal Dandolo la traslazione dei corpi de' santi Ermagora e Fortunato dai confini d'Aquileia all'isola di Grado.


   
Anno di Cristo DCXXXI. Indizione IV.
Onorio I papa 7.
Eraclio imperadore 22.
Arioaldo re 7.

L'anno XX dopo il consolato di Eraclio Augusto.

In quest'anno, per quanto si può ricavar da Niceforo [Niceph., in Chron.], Eraclio imperadore dichiarò Cesare Eraclio, nato da Martina Augusta ed appellato da altri Eracleona, il quale poscia col tempo divenne imperadore e regnò. Ma intanto si andava, non dirò fabbricando, ma bensì accrescendo una nuova e già fabbricata tentazione alla Chiesa di Dio in Oriente, stante l'eresia dei monoteliti, che mettevano in Cristo Signor nostro [1202] una sola volontà, e mentre professavano colle parole di condannar gli errori di Nestorio e d'Eutichete, coi fatti erano dietro a canonizzar l'eresia dell'ultimo, oppure i sentimenti riprovati di Apollinare. Gli autori e le balie della falsa opinione dei monoteliti furono Sergio patriarca di Costantinopoli e Ciro vescovo di Faside, il quale ultimo nel precedente anno passò ad essere patriarca di Alessandria, e cominciò nell'anno presente a disseminar la sua falsa dottrina. Credesi che Sergio costantinopolitano, interrogato sopra questa materia da esso Ciro nell'anno 626, rispondesse conformemente alla sentenza di Ciro. E veramente era assai dilicata la materia, perchè sapendosi che la volontà di Cristo in quanto uomo era sì unita e subordinata alla volontà di lui in quanto era Dio, che non vi poteva essere vera discordia fra esse: perciò sembrava che potesse dirsi una sola volontà in Cristo Dio ed uomo. Ma la verità è, che siccome in Gesù Cristo sono due nature diverse, ipostaticamente, insieme unite e non confuse, così in lui conviene ammettere due volontà diverse, corrispondenti alle due nature; volontà benchè libere, non però mai discordi fra loro. Il peggio fu che lo stesso imperadore Eraclio non solo disavvedutamente abbracciò anche egli l'errore de' monoteliti, ma cominciò a fomentarlo: il che denigrò poi la sua fama, e diede occasione ai posteri di fargli un processo. Che disordini partorisse col tempo sì fatta controversia, l'andrò accennando più abbasso. Se vogliam credere a Costantino Porfirogenneta [Constantinus Porphyrogenneta, de admin. Imper., cap. 31.], citato dal padre Pagi, circa questi tempi i Croati, dianzi gentili, si convertirono alla santa religione di Cristo. Questo popolo trasse l'origine sua dalla Polonia e dalla Lituania. Ed allorchè regnava l'imperadore Eraclio, al quale ebbero ricorso, fu loro assegnato quel paese che oggidì si chiama Croazia, poco lontano dai confini della Italia. Aggiugne [1203] che a forza di armi ne scacciarono gli Abari, cioè gli Avari, Unni di nazione, e poscia essendo lor principe Porga, ricorsero a Roma, che mandò loro un arcivescovo, preti e diaconi, che battezzarono quel popolo e l'istruirono secondo i riti della Chiesa romana, con farli giurare di non invadere le terre altrui, ma solamente di difender le proprie occorrendo. Nella sostanza di questo racconto noi possiam credere a Costantino Porfirogenneta, che scrivea circa l'anno 950; ma si può dubitar forte del tempo, in cui succedette la conversione di questi Barbari alla fede di Cristo. Non parla il suddetto scrittore degli Sclavi o Schiavoni; e se per avventura sotto nome d'Abari, o Avari, volle disegnarli, s'inganna; perchè gli Schiavoni e gli Avari furono diverse nazioni. Ed in questi tempi par quasi certo che essi Schiavoni dominassero tuttavia nella Carintia, nella quale anche oggidì è in uso la loro lingua matrice usata del pari nella Russia e Polonia, da dove discesero gli Sclavi venuti nell'Illirico, e della stessa nazione che gli Sclavi abitanti verso il Baltico. Perciò Giovanni Lucido [Lucidus, de Regno Dalmat., lib. 1, cap. 11.], che esaminò questa materia, è di parere anch'egli che i Croati, i quali io non avrei difficoltà a crederli una tribù di Sclavi, molto più tardi ricevessero il battesimo, e ciò avvenisse ai tempi di Eraclio juniore imperadore.


   
Anno di Cristo DCXXXII. Indizione V.
Onorio I papa 8.
Eraclio imperadore 23.
Arioaldo re 8.

L'anno XXI dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Sul supposto che nell'anno 629 possa essere accaduta la disgrazia di Gundeberga regina, di cui parlammo, s'ha nel presente da mettere la di lei liberazione. Correva già il terzo anno ch'essa stava rinchiusa in una torre della terra di Lomello, [1204] quando, per attestato di Fredegario [Fredegar., in Chronic., cap. 51.], furono spediti degli ambasciatori da Clotario II re de' Franchi al re dei Longobardi Arioaldo, per chiedergli conto del mal trattamento fatto ad essa regina sua moglie, parente dei re franchi, perchè figliuola di Teodelinda, la quale ebbe per padre Garibaldo I duca di Baviera, e per madre Gualdrada vedova di Teodebaldo re dei Franchi. Quando veramente sussista che questi ambasciatori venissero mandati dal re Clotario, converrà mettere nell'anno 625 la prigionia di Gundeberga, cioè appena dappoichè Arioaldo fu divenuto re; perciocchè Clotario mancò di vita nell'anno 628, e Fredegario scrive che per cagione d'essi ambasciadori Gundeberga, dopo tre anni d'esilio, fu rimessa in libertà e sul trono. Ma probabilmente gli ambasciatori suddetti furono spediti dal re Dagoberto successor di Clotario, non essendo sì esatto Fredegario nelle circostanze dei fatti e dei tempi, che si sia obbligato a seguitarlo dappertutto a occhi chiusi. Ad ognuno è qui lecito il sentir come a lui piace. Comunque però sia del tempo, ci vien dicendo Fredegario, che udito il motivo di quella prigionia, uno degli ambasciatori per nome Ansoaldo, ossia Ansaldo, propose il giudizio di Dio, per indagare la innocenza, o la reità di Gundeberga. Cioè propose un duello fra Adalolfo accusatore e un campione della reina. In que' tempi di ignoranza erano pur troppo in uso non solamente i duelli, ma anche le pruove dell'acqua fredda o calda, e della croce, o de' vomeri infocati, ed altre simili (riprovate dalla Chiesa), con persuasione che Dio protettore dell'innocenza dichiarerebbe se le imputazioni fossero vere o false, senza por mente che questo era un tentar Dio, e un volere ch'egli, secondo il capriccio degli uomini, e quando loro piacesse, facesse de' miracoli. Fu accettata la proposizione dal re Arioaldo. Si venne al combattimento fra il calunniatore [1205] Adalolfo e il campione di Gundeberga chiamato per sopprannome Pittone. Il primo restò morto sul campo, e l'altro vincitore; perlochè fu giudicata innocente la regina, e restituita nell'onore e grado primiero. Veggasi all'anno 641 un altro simile racconto di questa medesima regina, con restarmi qualche sospetto che Fredegario possa aver narrato lo stesso avvenimento in due luoghi, benchè con circostanze diverse. Secondo la Cronica Saracenica di Elmacino [Elmacinus, Histor. Saracen., lib. 1, pag. 9.], il falso profeta Moammed, da noi appellato Maometto, nel giorno 17 di giugno di quest'anno, dopo avere infettata de' suoi errori l'Arabia tutta, finì di vivere, ed ebbe per successore e principe degli Arabi Abubacar. Importa assaissimo anche alla storia d'Italia il conoscere i fatti di quell'empia setta e nazione, perchè staremo poco ad intendere come questa si dilatasse con immensa rovina dell'imperio romano, e con incredibil danno della religion cristiana, e come essa stendesse le sue conquiste col tempo fino in Italia.


   
Anno di Cristo DCXXXIII. Indizione VI.
Onorio I papa 9.
Eraclio imperadore 24.
Arioaldo re 9.

L'anno XXII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Fino a questi tempi la nazione degli Arabi, che Saraceni ancora si nominavano, e per tali verranno anche da me nominati da qui innanzi, non avea recato grande incomodo all'imperio romano, perchè contenta de' suoi paesi non pensava ad ingoiare l'altrui. Nell'anno 613 avea fatto delle scorrerie nella Soria cristiana, ma non fu movimento di conseguenza. Da lì innanzi ancora troviamo che Eraclio si servì di alcune bande di Saraceni nella guerra [1206] contra de' Persiani. Ma cominciarono costoro a mutar massime, dappoichè Maometto non solamente di divisi che erano, gli unì insieme mercè della professione della medesima credenza e setta; ma eziandio lasciò loro per eredità un obbligo, o consiglio di dilatare, il più che poteano, la lor santissima religione, cioè la sua pestilente e ridicola dottrina. Ora avvenne, secondochè s'ha da Teofane [Theoph., in Chronogr.], che mentre uno degli uffiziali dell'imperadore era dietro a dar le paghe alle milizie greche, apparvero anche i Saraceni che erano al servigio del medesimo Augusto, e fecero istanza per ottener anch'essi le loro. L'uffiziale in collera alzò la voce, dicendo: Non c'è tanto da poter soddisfare ai soldati: e ce ne sarà poi da darne anche a questi cani? Non l'avesse mai detto. Costoro arrabbiati se n'andarono, e sollevarono tutta la lor nazione contra dell'imperadore Eraclio. Niceforo [Niceph., in Chron.] all'incontro scrive, aver esso Augusto dato ordine che non si pagassero più le trenta libbre d'oro, solite a sborsarsi ogni anno ai Saraceni, per cagione della crudeltà da loro usata contra uno dei ministri imperiali; e che di qui ebbe origine la terribil nimicizia di quella nazione contra del romano imperio. Però nel presente anno essi cominciarono le ostilità contro i sudditi dell'imperadore. Prese maggior fuoco in quest'anno l'eresia dei monoteliti per un conciliabolo tenuto in Alessandria da quel patriarca Ciro, il quale passava di buona intelligenza con Sergio patriarca di Costantinopoli intorno a questa disputa. Il solo Sofronio monaco quegli fu che si oppose alle pretensioni erronee di Ciro, ed essendo tornato a Gerusalemme, succedette in quella cattedra a Modesto patriarca, e tenne dipoi, cioè nell'anno seguente, un concilio, in cui condannò chi negava in Cristo due volontà.


[1207]

   
Anno di Cristo DCXXXIV. Indizione VII.
Onorio I papa 10.
Eraclio imperatore 25.
Arioaldo re 10.

L'anno XXIII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Venne in quest'anno a morte Abubacare califa, ossia principe de' Saraceni. Costui aveva fatta la guerra [Theoph., in Chronogr.] contro l'imperadore Eraclio nella Palestina, ed occupato nel presente anno tutto il paese di Gaza verso il monte Sina. Perchè contra di que' masnadieri uscì in campagna con poca gente Sergio governatore di Cesarea di Palestina, egli restò con tutti i suoi tagliato a pezzi. Però i Saraceni presero anche la città di Bostra, messa da alcuni nella Soria, e da altri nella Palestina, e poscia conquistarono altre città, dalle quali condussero via un gran bottino ed assaissimi prigioni. Viene attribuito a questo Abubacare l'aver messo insieme il libro dell'Alcorano, che dianzi era disperso a pezzi e bocconi. Ebbe costui per successore Omaro, terzo de' califi, il quale non tardò a far guerra anche a' Persiani, profittando delle lor divisioni. L'imperadore Eraclio trovandosi in questo mentre nella città di Edessa, spedì Teodoro suo fratello con un'armata contra de' Saraceni; ma avendo questi attaccata battaglia, fu da loro sconfitto, e tornossene col capo basso ad Edessa. Eraclio inviò un altro corpo di gente sotto il comando di Baane e di Teodoro sacellario. Riuscì loro di dare una rotta ai Saraceni verso la città di Emesa, e di seguitarli fino a quella di Damasco. Tuttavia l'imperadore, conoscendo la forza dei nemici e il pericolo in cui si trovava Gerusalemme, asportò di colà il legno della Croce santa, e condottolo a Costantinopoli, quivi lo ripose nella metropolitana. Bollendo più che mai la nuova eresia de' monoteliti, in quest'anno Sergio, patriarca di Costantinopoli, [1208] fautore della medesima, ne scrisse a papa Onorio per sapere il suo sentimento. Il papa propose dei ripieghi con due lettere rapportate dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.]. E perciocchè udì che Ciro patriarca alessandrino seguitava a predicare una sola volontà in Cristo, mandò lettere anche a lui, imponendogli silenzio. Col tempo andò sì innanzi il calore di questa controversia, che a cagione delle suddette lettere fu mossa guerra anche alla memoria di papa Onorio, moltissimi anni dopo la sua morte, quasichè egli, se non aveva abbracciati gli errori de' monoteliti, gli avesse almeno colla sua connivenza fomentati. Ma i cardinali Baronio e Bellarmino, il De-Marca, Natale Alessandro, il padre Pagi ed altri valentuomini hanno così ben difesa l'innocenza e retta credenza di questo papa, che è superfluo il più disputarne. Sofronio patriarca di Gerusalemme fu in questi tempi il più prode campione della Chiesa, e fece costare con assaissimi passi de' santi padri che conveniva ammettere in Cristo due volontà e due operazioni, corrispondenti alle due nature divina ed umana.


   
Anno di Cristo DCXXXV. Indizione VIII.
Onorio I papa 11.
Eraclio imperadore 26.
Arioaldo re 11.

L'anno XXIV dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Fredegario all'anno 630 racconta [Fredegarius, in Chron., cap. 68.] due fatti, che, secondo la Cronologia longobardica, debbono essere succeduti più tardi; perciocchè li mette nell'anno penultimo od ultimo della vita del re Arioaldo; e questi, per le ragioni che addurremo in parlando del re Rotari suo successore, si dee credere vivuto fino all'anno seguente 636. Confinavano gli Sclavi, da noi chiamati Schiavoni, colle provincie della Germania sottoposte a [1209] Dagoberto re de' Franchi. Si sa che arrivava il loro dominio fino ai confini della Baviera dipendente da esso re. Forse ancora possedevano il Tirolo e il paese oggidì di Saltzburg; anzi pare che si accostassero all'Alemagna, oggidì la Svevia. Fu da una tribù di questi Sclavi per soprannome chiamati Vinidi, o Guinidi, uccisa una quantità di mercatanti sudditi del re Dagoberto, e spogliata dei loro averi. Per mezzo di Sicario suo ambasciatore Dagoberto ne fece domandar l'emenda a Samone, che già dicemmo divenuto re degli Sclavi. Ma non avea Samone tal possesso sopra de' suoi sudditi, tuttavia pagani, da potergli astringere a restituire il maltolto; e però, con buone parole, pregò l'ambasciatore di fare in maniera che il re Dagoberto non rompesse per questo accidente l'amicizia con gli Schiavoni. Che amicizia? rispose allora Sicario. I Cristiani servi di Dio non è possibile che abbiano amicizia con dei cani. Allora Samone assai informato della vita poco cristiana del re Dagoberto e de' suoi sudditi, replicò: Se voi siete servi di Dio, ancor noi siam cani di Dio; e però commettendo voi tante azioni contra di Dio, abbiamo licenza da lui di morsicarvi. Portate queste parole al re Dagoberto, dichiarò la guerra agli Sclavi. Crodoberto duca degli Alamanni gli assalì dal suo canto; altrettanto fecero i Longobardi dalla parte della Carniola e Carintia, e riuscì ad entrambi gli eserciti di dare una rotta agli Sclavi, e di condur via una gran copia di prigioni. Ma nel progresso della guerra toccò la peggio all'armata del re Dagoberto, nè altro di più dice Fredegario che succedesse dalla parte dei Longobardi. Probabilmente allora avvenne ciò che abbiamo da Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 40.]. Narra egli che Tasone e Caccone, fratelli e duchi amendue del Friuli (di Tasone io lo credo ben certo, ma con dubbio se tale ancor fosse Caccone) fecero guerra agli Schiavoni, e s'impadronirono [1210] della città di Cilley, che fu una volta colonia de' Romani, ed oggidì è parte del ducato della Stiria, con arrivar sino ad un luogo appellato Medaria, di cui forse non resta più il nome. Perciò, secondo l'attestato dello storico suddetto, gli Schiavoni di quella contrada cominciarono a pagare, e pagarono dipoi tributo ai duchi del Friuli fino ai tempi del duca Ratchis. Nel medesimo anno pretende il medesimo Fredegario [Fredegar., cap. 69.] che accadesse la morte di Tasone duca, narrata parimente da Paolo Diacono con qualche diversità di circostanze. Dacchè Arioaldo, siccome già avvertimmo, salì sul trono dei Longobardi, egli ebbe per contradditore il suddetto duca del Friuli Tasone. Riesce a me verisimile che Arioaldo non ricorresse all'armi per mettere in dovere Tasone, che gli fu sempre disubbidiente e ribello, perchè questi dovea star bene in grazia dei re franchi e forse in lega con loro; nè tornava il conto ad Arioaldo di maggiormente stuzzicare il vespaio. Ma volendo egli pure liberarsi da questo interno nemico, ricorse ad una furberia. Pagavano in que' tempi, per attestato d'esso Fredegario, gli esarchi di Ravenna trecento libbre d'oro annualmente al re dei Longobardi, per avere la pace da lui. Ora il re Arioaldo segretamente s'intese con Isacco allora esarco, promettendogli, se gli veniva fatto di levare dal mondo Tasone duca, di rilasciare in avvenire cento libbre di oro, cioè la terza parte del regalo annuo che si faceva alla sua camera. Non cadde in terra la proposizione. Cominciò l'astuto esarco a cercar le vie di compiere questo brutto contratto, e fece segretamente proporre a Tasone, non già duca della Toscana, come lo stesso Fredegario scrisse, ma bensì del Friuli, come ce ne assicura Paolo Diacono, di unir le sue armi con lui contra del re Arioaldo, e l'invitò a Ravenna. Tasone, che non si sarebbe mai avvisato della rete a lui tesa, venne, accompagnato da [1211] alcune squadre d'armati, a Ravenna. L'esarco mandò ad incontrarlo con gran festa, ma il pregò di fare restar fuori della città le sue genti, non attentandosi d'introdurle per timor dell'imperadore. Entrò dunque nella città Tasone con poco seguito, ed appena entrato, miseramente venne tagliato a pezzi co' suoi dai Greci.

In questa maniera finì Tasone i suoi giorni. Paolo Diacono racconta anche egli questo fatto, con dire che Gregorio patrizio dei Romani (creduto da Adriano Valesio [Hadrianus, Valesius in Not. ad Panegyr. Barengarii.] e dal Fontanini, esarco di Ravenna, quando è certo che in questi tempi Isacco era tuttavia esarco) invitò esso Tasone duca alla città di Opitergio, oggidì Oderzo, con dichiararlo suo figliuolo; onore che, come di sopra abbiam detto, si praticava molto in questi tempi, e di tosargli la barba nella maniera che portavano allora i Romani, affinchè si conoscesse aver egli abbracciato il partito dell'imperadore. Andò alla buona esso Tasone con Caccone suo fratello ad Oderzo; e non sì tosto fu dentro coi suoi, che vide serrar le porte e uscire contra di lui gente armata. Conosciuto l'inganno dai due fratelli e dal loro seguito, si disposero a vendere almen cara la vita; e datosi l'uno all'altro l'ultimo addio, cominciarono disperatamente a combattere, e dopo una grande strage dei Romani, caddero infine anch'essi trafitti da più spade a terra. Questo Gregorio patrizio dovea comandare in quelle parti per l'imperadore, ed eseguì probabilmente ciò che gli fu ordinato dall'esarco Isacco. Seguita poi a dire Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 41.], che nel ducato del Friuli succedette Grasolfo fratello di Gisolfo già duca di quel paese. E che Radoaldo e Grimoaldo non sapendo accomodarsi a stare sotto la potestà del zio paterno, essendo già cresciuti in età, si misero in una barchetta, e con essa [1212] per mare giunsero ai lidi del ducato di Benevento, e furono a trovar Arichi o vogliam dire Arigiso, duca di quella contrada, che era stato lor aio, e li raccolse come se fossero stati propri figliuoli. In questi tempi sempre più arridendo la fortuna agli Arabi ossia ai Saraceni, con uno smisurato esercito passaron essi alla volta di Damasco [Theoph., in Chronogr.]. Fu ad incontrarli l'esercito cesareo composto di quarantamila combattenti, e condotto da Baane; ma non potè resistere alla forza di que' Barbari, e quasi tutto restò o trucidato dalle spade nemiche, o affogato nel fiume Jermocta. Dopo di che essi Barbari assediarono e presero la città di Damasco e tutta la provincia della Fenicia, dove si fecero un buon nido. Quindi passarono in Egitto con tutte le lor forze. Ciro, patriarca di Alessandria, per ischivar questo pericolo, aveva dianzi accordata un'annual somma di danaro a quella mala gente. Se l'ebbe a male l'imperador Eraclio, e mandò in Egitto Giovanni duca di Barcena [Niceph., in Brev. Hist., pag. 17.] con ordine di non pagare un soldo, e gli diede un'armata che fu appresso disfatta dai Barbari vittoriosi. Susseguentemente inviò colà Mariano suo cameriere per comandante dell'armi, e con commissione d'intendersi col patriarca Ciro, per trovare rimedio a sì scabrose contingenze. Ciro, che era ben veduto da Omaro califa, e da tutto l'esercito de' Saraceni, consigliò all'imperadore che si accordasse un tributo annuo a quegl'infedeli, il quale, senza scomodo dell'erario, si ricaverebbe dalle mercatanzie; e che l'imperadore desse per moglie ad esso Omaro una delle sue figliuole, perchè teneva quasi per certo che costui si farebbe cristiano. Non piacque il parere ad Eraclio, e piuttosto volle avventurare un'altra battaglia. Ancor questa terminò colla total disfatta dell'esercito di Mariano. Allora fu scritto a Ciro, che trattasse per far accettare ai Saraceni le [1213] condizioni proposte; ma non fu più a tempo. Gli Arabi aveano preso l'Egitto, e sel vollero ritenere; anzi quivi posero la sede principale del loro imperio, con cominciarsi da lì innanzi ad udire i califi e i soldani d'Egitto di razza araba, ossia saracena. Elmacino, siccome vedremo, mette più tardi la total conquista dell'Egitto fatta da essi Saraceni.


   
Anno di Cristo DCXXXVI. Indizione IX.
Onorio I papa 12.
Eraclio imperadore 27.
Rotari re 1.

L'anno XXV dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Dopo avere lo storico Fredegario narrata la morte di Tasone duca del Friuli, aggiugne che pervenne poco dopo al fine dei suoi giorni Arioaldo re dei Longobardi. Secondo i di lui conti, la morte di questo re accadde nell'anno 630. Ma ciò non può sussistere, per quanto si è veduto al primo anno del suo regno, e massimamente per quello che si vedrà di Rotari suo successore. Regnò esso Arioaldo, per attestato di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 44.], dodici anni, e però dovrebbe cadere nel presente il fine della sua vita; se non che in un'antichissima cronichetta, da me data alla luce nelle antichità italiche, dieci anni solamente gli son dati di regno. Seguita poi a scrivere Fredegario, che la regina Gundeberga, vedova di Arioaldo, avendo in pugno i voti de' Longobardi, disposti a crear re chi da lei fosse eletto, chiamò a sè Crotario duca di Brescia, che Rotari sarà detto da noi, perchè così appellato da Paolo Diacono, e così chiama egli sè stesso nelle leggi longobardiche. Gli propose dunque il suo matrimonio, purchè egli lasciasse la moglie che aveva, attesochè queste nozze porterebbono con seco la corona del regno dei Longobardi. Non ci vollero molte parole ad ottenere il suo consenso. Esigè eziandio la [1214] medesima regina, che Rotari in varie chiese si obbligasse con giuramento di non pregiudicare giammai al grado ed onor suo di regina e moglie; e Rotari tutto puntualmente promise. Nè andò molto che Gundeberga fece riconoscere per re da tutti i Longobardi esso Rotari. Ma questo re, secondochè abbiamo dal suddetto Paolo Diacono, era infetto dell'eresia ariana, ed in questi tempi per quasi tutte le città del regno de' Longobardi si trovavano due vescovi, l'uno cattolico, e l'altro ariano per quei Longobardi che tuttavia stavano pertinaci in quella setta. E nominatamente in Pavia a' tempi ancora di Paolo diacono si mostrava la basilica di sant'Eusebio, dove Anastasio vescovo ariano teneva il suo battisterio, e ministrava i sacramenti a quei della sua credenza. Ma in fine questo medesimo vescovo abbracciò il cattolicismo, e solo governò poi santamente la chiesa pavese. Per altro era Rotari principe di gran valore ed amatore della giustizia. Attesta egli nella prefazione alle sue leggi di essere della nobil prosapia di Arado, ed accenna varii suoi antenati, perchè una cura particolare teneano i Longobardi di quella che chiamasi nobiltà di sangue. Crebbero in questo anno le calamità del cristianesimo per la prepotenza de' Saraceni, a' quali l'imperadore Eraclio non sapea come resistere; già aveano fissato il dominio nell'Egitto, già erano devenuti padroni di Damasco e di buona parte della Palestina; altro più non vi restava che la santa città di Gerusalemme, la qual fosse d'impedimento alla felice carriera delle loro conquiste. Però in quest'anno con un formidabil esercito passarono ad assediarla. Noi siam tenuti a venerare gli alti decreti di Dio, ancorchè a noi siano occulti i motivi e i fini, per cui l'infinita sua Sapienza ora deprime, ora lascia prosperare i nemici della sua vera e santa religione. Qui il cardinal Baronio si crede d'aver trovata l'origine di tanti guai, cioè perchè Eraclio [1215] imperadore, dopo tanti benefizii ricevuti da Dio, per i quali dovea essere più pronto e sollecito a difendere e propagare la pietà cattolica, divenuto in questi tempi ribello della Chiesa cattolica, cominciò a farle guerra e a sostenere gli eretici: con che si tirò addosso lo sdegno di Dio, che suscitò i Barbari Saraceni contra del romano imperio. Ma se quell'insigne porporato avesse preso a scusar questo imperadore, siccome egli gagliardamente fece in favore d'Onorio papa, avrebbe potuto dire che anche Eraclio fu da compatire se aderì al partito dei monoteliti, perchè dalla Chiesa non era per anche dichiarato ereticale quel sentimento. Lo vedeva sostenuto da tre patriarchi dell'Oriente, cioè di Costantinopoli, di Alessandria e di Antiochia. Lo stesso Onorio papa non avea condannata per anche quella falsa dottrina, e comunicava tuttavia con esso imperadore e coi suddetti patriarchi. Però in tali circostanze non par giusto trattarlo da nemico dichiarato della Chiesa cattolica, nè da eretico, siccome certamente tale neppur fu Onorio pontefice, benchè il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 633.] ed altri scrittori trovino in lui troppa facilità, e non poca negligenza nell'occasione di tal controversia. In somma, prima che la Chiesa decida intorno a certe scabrose dottrine non prima decise, o almen prima che si sappia che la santa sede romana disapprova tali dottrine, possono intervenir ragioni che scusino da peccato chi ha tenuta opinion contraria. Dopo la cognizione, o decisione suddetta, allora sì che è certo il reato di chi vuole opporsi, benchè sappia di andar contro alla mente de' sommi pontefici e de' concilii, infallibili giudici dei dogmi della Chiesa cattolica.


[1216]

   
Anno di Cristo DCXXXVII. Indizione X.
Onorio I papa 13.
Eraclio imperadore 28.
Rotari re 2.

L'anno XXVI dopo il consolato di Eraclio Augusto.

L'assediata città di Gerusalemme in quest'anno cadde in potere de' Saraceni [Theoph., in Chronogr.]. Vedesi una bella e patetica omilia di Sofronio santo vescovo di quella città, recitata nel dì di Natale, mentre durava l'assedio, e rapportata dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.]. Omaro califa e principe di quei Barbari, e discepolo di Maometto, a patti di buona guerra entrò in quella santa città da bravo ipocrita, cioè coperto di cilicio, e mostrando di piangere la distruzione del tempio di Salomone. Non tardò costui a fabbricare una moschea alla superstizione maomettana; ed Elmacino [Elmacinus, Hist. Sarac., lib. 1, cap. 3.] attesta ch'egli concedette a quel popolo la sicurezza per le loro persone, chiese e beni. L'afflizione che provò in tanta disavventura il suddetto piissimo servo di Dio san Sofronio vescovo, quella fu che il condusse a morte: vescovo di gloriosa memoria, perchè quasi solo sostenne intrepidamente la vera sentenza della Chiesa di Dio nelle dispute d'allora, e lasciò dei discepoli che seguitarono a sostenerla. S'aggiunse a questi malanni, che la cattedra di Gerusalemme col favore de' Saraceni fu occupata da Sergio vescovo di Joppe, uomo di costumi e di dottrina diverso dal suo predecessore. Nè qui finirono le conquiste degli Arabi Saraceni. Per quanto scrive sotto quest'anno il soprammentovato Elmacino, tolsero ai Persiani la città di Medaina, dove trovarono il tesoro del re Cosroe, consistente in tre milioni di scudi d'oro, in una gran copia di vasi d'oro e d'argento, di canfora, di tappeti, e vesti d'infinito valore. [1217] Doveano ben costoro prendere gusto alla guerra. Diedero poi battaglia ai Persiani presso la città di Gialula, e li disfecero colla fuga del re Jasdegirge, chiamato Ormisda da Teofane, ultimo fra i re della Persia. Però Omaro califa, ossia principe d'essi Saraceni, a cagione di così grande estension di dominio, si cominciò a chiamare Amirol-Muminina, ossia Amiral-Mumnin, che gli storici nostri appellarono col tempo Miramolino, e significa padre de' credenti. Dappoichè Rotari fu salito sul trono de' Longobardi, per quanto ne scrive Fredegario [Fredegar., in Chron., cap. 70.], si diede a sfogare il suo sdegno contra di que' nobili della sua nazione, i quali o aveano contrastata la di lui elezione, oppure si scoprirono pertinaci in non volerlo riconoscere per re. Molti dunque ne levò dal mondo; e con questo rigore e crudeltà si rendè temuto e rimise in piedi la disciplina militare scaduta, benchè anch'egli inclinasse alla pace. Ma riuscì ben detestabile l'ingratitudine sua verso della regina Gundeberga, dalle cui mani avea ricevuta la corona, e a cui si era obbligato col vincolo di tanti giuramenti. La cagione non si sa: ma forse la diversità della religione occasionò questi disturbi. Solamente narra quello storico, che Rotari la fece confinare in una camera del palazzo di Pavia, con averla ridotta in abito privato. Diedesi poi egli a mantener delle concubine; e intanto la buona principessa cattolica mangiava il pane della tribulazione con somma pazienza, benedicendo Iddio, e attendendo continuamente alle orazioni e ai digiuni. Circa questi tempi ancora Dagoberto re de' Franchi deputò uomini dotti, che compilassero e mettessero in buon ordine le leggi dei Franchi, degli Alamanni e de' Baioarii, cioè della Baviera, perchè a tutti que' popoli ei comandava. Queste leggi avevano avuto principio da Teoderico figliuolo di Clodoveo il grande, e poscia le migliorarono i re Childeberto II e Clotario II; ma in [1218] fine la perfezion delle medesime venne da esso re Dagoberto, e noi le abbiamo stampate dal Lindenbrogio e dal Baluzio. È cosa da notare, perchè troveremo a suo tempo l'uso di queste leggi anche in Italia.


   
Anno di Cristo DCXXXVIII. Indizione XI.
Onorio I papa 14.
Eraclio imperadore 29.
Rotari re 3.

L'anno XXVII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Terminò i suoi giorni in quest'anno il sommo pontefice Onorio, e, secondochè s'ha da Anastasio [Anastas. Bibliothec., in Vit. Honorii L.], fu seppellito nel dì 12 di ottobre; pontefice che lasciò in Roma insigni memorie della sua pietà e munificenza per tante chiese fabbricate e ristorate, e per tanti preziosi ornamenti donati a varii sacri templi, ascendenti ad alcune migliaia di libbre d'argento, senza mettere in conto tant'altri d'oro. Anastasio ne ha fatta menzione, ma con aggiugnere che troppo lungo sarebbe il volerli registrar tutti. Pontefice, al cui zelo è dovuta la conversione alla fede di Cristo dei Sassoni occidentali nell'Inghilterra, siccome attesta Beda [Beda, Hist. Angl. lib. 3, cap. 7.]. Pontefice infine di dottrina ortodossa, la cui memoria non meritava di essere sì maltrattata dopo la morte a cagione dell'eresia de' monoteliti, dall'approvar la quale egli fu ben lontano, come han dimostrato uomini dottissimi. E qui si vuol rammentare che a questo pontefice è dovuta la gloria di avere estinto per qualche tempo lo scisma della chiesa d'Aquileia, almeno nell'Istria, con avere finalmente que' vescovi accettata la condanna dei tre capitoli e il concilio quinto generale, ed essere tornati all'ubbidienza della sede apostolica. Di ciò non fece menzione l'insigne cardinal Noris nel suo Trattato del concilio suddetto, perchè non si avvisò di cercarne le chiare [1219] pruove, rapportate fuor di sito dal cardinal Baronio, cioè nell'Appendice al tomo duodecimo degli Annali ecclesiastici. Ma ciò chiaramente si riceva dall'epitaffio d'esso papa Onorio. Certo è nondimeno che non durò questa unione, perchè al concilio romano dell'anno 679 non intervenne co' suoi suffraganei il vescovo d'Aquileia, ma solamente Agatone vescovo di Grado, che s'intitola vescovo d'Aquileja: il che servì di confusione all'Ughelli nell'Italia sacra. Fu lungo tempo dipoi vacante la santa sede, perchè non tardò già il clero, senato e popolo di Roma a procedere all'elezion del suo successore, che fu Severino, ma bensì tardò a venire l'assenso dell'imperadore più di un anno e sette mesi. Proseguiva intanto a dilatarsi in Oriente colla forza dell'armi la falsa legge di Maometto e il dominio de' Saraceni. Teofane [Theoph., in Chronogr.] prima d'ora racconta che Giovanni Carea, procuratore della provincia osroena di là dall'Eufrate, era stato a trovare Jasdo, generale del califa Omaro, in Calcedone, per trattar seco d'aggiustamento. Il suo testo è qui fallato, e in vece di Calcedone ha da dire Calcide, cioè il paese di Calcide. Si convenne di pagare agli Arabi centomila nummi ogni anno, e all'incontro gli Arabi non passerebbono di là dall'Eufrate. Fu pagato questo tributo. Se l'ebbe a male Eraclio, perchè senza sua saputa ed assenso fosse seguita quella convenzione. Ne portò la pena Giovanni con essere cacciato in esilio. Ma in quest'anno si avanzarono gli avventurosi Saraceni fino alla gran città d'Antiochia, capitale della Soria, e a forza d'armi la presero; con che tutta la provincia della Soria venne in lor potere. Scrive in quest'anno il cardinal Baronio che santo Ingenuino, vescovo sabionense, fu mandato in esilio dal re Rotari, a Brixen ossia alla città di [1220] Bressanone nel Tirolo: il che giudica egli accaduto per cagion della religione sotto questo re ariano. Trasse il porporato annalista una tal notizia dalla chiesa di Bressanone; ma il Pagi ha delle difficoltà a credere il fatto; anzi osserva che nell'uffizio che si recita ad onore di questo santo vescovo nella chiesa suddetta, vien detto ch'egli fu mandato in esilio dal re Autari: il che non può sussistere, perchè Ingenuino intervenne dipoi al conciliabolo di Marano, e tenne il partito del patriarca scismatico di Aquileia. Però stima esso Pagi che l'esilio di santo Ingenuino succedesse sotto il re Arioaldo. Tutte immaginazioni, al creder mio, fondate sopra tradizioni volgari, e non già sopra storia o documento alcuno autentico. Sabione nel Tirolo, ossia Savione o Sublavione presso gli antichi, non era per la diocesi diverso da Bressanone; ed allorchè fu distrutta quella città, i vescovi cominciarono a risiedere nella terra di Bressanone, divenuta poi città dove tuttavia risiedono. Però, che esilio sarebbe mai stato questo? Oltre di che, non abbiam pruova alcuna che il dominio de' Longobardi si estendesse nel Tirolo, anzi ne abbiamo il contrario, cioè non passava oltre ai confini del ducato di Trento. Nè si ha altra memoria che i re longobardi, quand'anche erano ariani, inquietassero i vescovi cattolici, nè il popolo cattolico per cagion della religione. Per conseguente, troppe difficoltà patisce il fatto di santo Ingenuino, onde meglio fia il sospenderne la credenza. Intorno a questo santo vescovo è da vedere il Bollando negli Atti de' santi [Bollandus Act. Sanctor, ad diem V februarii.]. Fu in quest'anno rapito dalla morte Dagoberto re de' Franchi, e la monarchia francese venne di nuovo a dividersi ne' due suoi figliuoli Sigeberto e Clodoveo II. Al primo toccò l'Austrasia, al secondo la Neustria colla Borgogna.


[1221]

   
Anno di Cristo DCXXXIX. Indizione XII.
Sede vacante.
Eraclio imperadore 30.
Rotari re 4.

L'anno XXVIII dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Restò vacante in tutto quest'anno la cattedra di san Pietro, non essendo mai venuta dalla corte imperiale la licenza di consacrare l'eletto papa Severino. Congettura il cardinale annalista, che procedesse sì gran ritardo dal maneggio di Eraclio Augusto e dall'esarco, perchè volevano prima indurre Severino ad accettare l'ectesi, ossia l'istruzione pubblicata da Sergio patriarca di Costantinopoli intorno alla controversia del monotelismo, al che Severino non volea per conto alcuno acconsentire. In fatti, verso il fine del precedente anno il suddetto Sergio avea esposta al pubblico quell'istruzione, o esposizion di fede, e per darle più credito, s'era servito del nome dell'imperadore Eraclio. Certo è ch'esso Augusto chiaramente dipoi protestò di non aver avuta parte in essa, e ne fece una pubblica dichiarazione. In essa dunque Sergio proibiva il dire una o due operazioni in Cristo, con asserir poi chiaramente una sola volontà nel medesimo Dio-Uomo. Finì poi di vivere Sergio nel gennaio dell'anno presente, ed ebbe per successore Pirro, il quale non tardò ad approvare l'ectesi, o, vogliam dire, l'istruzion perniciosa del suo predecessore. Il padre Combefis pretese che da altri motivi derivasse la soverchia dilazione del pontificato di Severino; ma è sostenuta anche dal padre Pagi con buone ragioni. Ora accadde in questo anno una scandalosa prepotenza usata dai ministri imperiali in Italia. Il fatto è raccontato da Anastasio bibliotecario [Anastas., in Vita Severini.]. Le truppe dell'imperadore in queste parti non erano pagate. Un brutto ripiego a questo bisogno venne in mente ad [1222] Isacco patrizio esarco di Ravenna, cioè di pagarle col tesoro della basilica lateranense, dove si trovavano tanti preziosi arredi e vasi sacri d'oro e d'argento, donati a quell'augusta patriarcale da molti pontefici, imperadori e patrizii, come anche dalla gente pia. Se la intese con Maurizio cartulario dell'imperadore in Roma, il quale un dì che la guarnigione di Roma domandava il soldo, disse di non poter darlo; e poi soggiunse che nel tesoro lateranense v'era una prodigiosa quantità di danaro, raunato da papa Onorio, che a nulla serviva, e che sarebbe stata ben impiegata in soddisfare alle milizie, dalle quali dipendeva la difesa e sicurezza della città. Anzi fece loro sacrilegamente credere che l'imperadore avea mandate le paghe varie volte, e il buon papa le avea quivi riposte. Di più non ci volle per muover tutti i soldati abitanti in Roma a volersi pagar da sè stessi. Volarono al palazzo lateranense, ma non poterono entrar nel tesoro, perchè la famiglia dell'eletto papa Severino fece fronte. Si fermarono le soldatesche per tre dì nel palazzo, e finalmente Maurizio entrò nel tesoro, e fatto sigillare il vestiario e tutti gli arredi, avvisò poi lo esarco del suo operato. Se n'andò tosto a Roma Isacco, e per non aver chi gli facesse resistenza, sotto varii pretesti mandò i principali del clero in esilio in varie città circonvicine. Di là a qualche dì entrò nel tesoro, e per otto giorni attese a svaligiarlo. Crede il Pagi che lo imperadore Eraclio non fosse prima consapevole di questa sacrilega violenza, nè l'approvasse dipoi, e potrebbe essere. Abbiam nondimeno dal medesimo storico che Isacco l'esarco mandò a Costantinopoli allo stesso Augusto una parte di questa preda. Certo non resta memoria che i re longobardi ne facessero di queste ne' paesi al loro dominio suggetti.

Sotto il presente anno viene scritto da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che Jasdo generale dei Saraceni, passato coll'esercito di là dall'Eufrate, [1223] occupò la città di Edessa e di Costanza, e poscia ebbe a forza d'armi la città di Daras, dove mise tutto quel popolo cristiano a fil di spada. In tal maniera la provincia osroena, anzi tutta la Mesopotamia, tolta all'imperio romano, venne in potere di quella barbarica nazione. Elmacino [Elmacinus, Histor. Saracen., lib. 1, pag. 29.] differisce più tardi la conquista di quel paese, e nel presente mette l'ingresso de' Saraceni nell'Egitto, e la pressa di Misra, creduta la città di Menfi. Aggiugne che intrapresero l'assedio di Alessandria, il quale durò quattordici mesi colla perdita di ventitremila Muslemi, cioè Maomettani, ed infine se ne impadronirono nell'anno ventesimo dell'egira, ch'ebbe principio nel dì 16 di luglio dell'anno di Cristo 640. Scrisse allora Amro generale al califa Omaro di aver fatta quell'impresa, con trovare in essa città quattromila bagni, ventimila ortolani che vendevano erbaggi, quattromila Giudei che pagavano tributo, e quattrocento mimi, cioè commedianti. Ma che molto prima accadesse la perdita dell'Egitto, se non è fallato il testo di Niceforo [Niceph., in Chron., ep. 18.], si può dedurre dal di lui racconto. Narra egli dunque sotto l'Indizione XII corrente in quest'anno fino al settembre, che verso il fine dell'anno precedente Ciro patriarca alessandrino, uno de' maggiori atleti del monotelismo, fu chiamato a Costantinopoli dall'imperadore Eraclio, il quale era nelle furie contro di lui, quasi che egli avesse proditoriamente fatto cadere in mano de' Saraceni tutto l'Egitto. Ciro addusse in pubblico concistoro le sue discolpe, e rigettò sopra i ministri imperiali l'origine di quelle disavventure. Ma non lasciò per questo l'imperadore Eraclio di chiamarlo un gentile e un nemico di Dio, che aveva tradito il popolo cristiano, e consigliato di dare una figliuola di esso Augusto ad Omaro principe de' Saraceni. Però minacciatolo di morte, il diede in mano al [1224] prefetto della città, acciocchè a forza di tormenti scoprisse la verità del preteso tradimento.


   
Anno di Cristo DCXL. Indizione XIII.
Severino papa 1.
Giovanni IV papa 1.
Eraclio imperadore 31.
Rotari re 5.

L'anno XXIX dopo il consolato di Eraclio Augusto.

Finalmente in quest'anni fu consacrato papa nel dì 28 di maggio Severino di nazione romano. Ci è motivo di dubitare che il clero di Roma, stanco di tanto aspettare l'assenso dell'imperadore, passasse all'ordinazione del medesimo. Tuttavia dicendo Anastasio [Anast. Bibliothec., in Severino.] che l'esarco di Ravenna Isacco si fermò in Roma fin dopo la consecrazione di questo pontefice, non si dee facilmente immaginare che al dispetto di lui e dell'imperadore seguisse l'ordinazione suddetta. Quello che è certo, papa Severino non volle punto accettar l'ectesi, ossia la sposizion della fede, pubblicata da Sergio patriarca di Costantinopoli. Anzi si hanno prove ch'egli la detestò e condannò con pieni voti del clero romano in un concilio. Ma il buon pontefice Severino non campò che due mesi e quattro giorni, e lasciò di vivere nel dì primo d'agosto: papa di gran pietà, di egual zelo, e commendato da tutti per le sue molte limosine. Dopo quasi cinque mesi di sede vacante, in luogo di lui fu consecrato e posto nella cattedra di san Pietro Giovanni quarto, di nazione dalmatino. Terminò ancora in quest'anno il corso di sua vita san Bertolfo abate di Bobbio, la cui vita, scritta da Giona monaco contemporaneo, si legge nel tomo secondo de' Secoli benedettini del padre Mabillone. Ebbe per successore Bobuleno abate, borgognone di nazione. Allora cento quaranta monaci vivevano in quel monistero. Sotto quest'anno riferisce [1225] Teofane [Theoph., in Chronogr.] la presa della Persia fatta dai Saraceni, dopo varie sconfitte date a que' popoli. Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che ciò succedesse nell'anno 637; ma Elmacino [Elmacinus, Hist. Sarac., lib. 1, cap. 3, pag. 25.] anche egli parla di queste conquiste all'anno 21 dell'egira, cioè all'anno nostro 641. Impadroniti di quel regno gli Arabi, v'introdussero il maomettismo, che v'è sempre regnato da lì innanzi, e regna tuttavia, ma con sentimenti diversi dal maomettismo dei Turchi, i quali perciò riguardano i Persiani come eretici. Deesi nondimeno avvertire che sì presto non venne tutta la Persia in potere de' Saraceni, perchè il re Jasdedirge, ossia Ormisda, tenne per alcuni anni ancora una parte di quel regno, e mancò di vita solamente nell'anno 651. E in questi tempi ancora Omaro califa d'essi Saraceni fece descrivere tutto il suo dominio, e tante provincie sì rapidamente da lui conquistate. Volle non solamente la lista dei paesi e delle persone, ma il registro ancora di tutte le bestie e di tutti gli alberi sottoposti alla sua signoria.


   
Anno di Cristo DCXLI. Indizione XIV.
Giovanni IV papa 2.
Eraclio Costantino imp. 1.
Eracleona imperadore 1.
Costantino, detto Costante, imperadore 1.
Rotari re 6.

Diede fine quest'anno alla carriera dei suoi giorni l'imperadore Eraclio. Teofane e Cedreno scrivono nel mese di marzo; e il Pagi pretende ciò succeduto nel dì undecimo di febbraio. Gli affanni ch'egli patì nel veder tante provincie rapite al romano imperio dall'innondazione de' Saraceni, servirono non poco a sconcertargli la sanità. Sopraggiunse poi l'idropisia che il portò all'altra vita. Nell'ultimo suo testamento dichiarò egualmente [1226] suoi successori nell'imperio Eraclio, appellato nuovo Costantino, a lui nato da Eudocia Augusta, moglie prima; ed Eracleona, chiamato Eraclio da altri, a lui partorito da Martina Augusta, moglie in seconde nozze, con ordine ad amendue di onorare essa Martina qual madre ed imperatrice. Appena seppe Giovanni papa l'assunzione al trono di questi due Augusti [Anastas. Bibliothec., in Collectaneis.], che scrisse ad Eraclio Costantino una lunga lettera, in cui gli fece conoscere i cattolici sentimenti di papa Onorio, e riprovò la sposizione della fede pubblicata dal patriarca Sergio, con pregarlo di voler adoperare la sua autorità per abolirla. Era Eraclio Costantino, per attestato di Zonara [Zonar., in Annal.], attaccato alla dottrina della chiesa cattolica, e fu perciò creduto che Pirro patriarca di Costantinopoli, gran difensore degli errori e del monotelismo di Sergio suo antecessore, cospirasse coll'imperadrice Martina alla morte di questo principe. Infatti neppur quattro mesi sopravvisse Eraclio Costantino a suo padre. Teofane [Theoph., in Chronogr.] scrive che fu levato di vita nel mese di maggio, o di giugno, per veleno, comunemente creduto a lui dato da essa matrigna, la qual volea solo sul trono Eracleona suo figlio, e dal patriarca Pirro, che mirava con occhio bieco un imperadore contrario ai suoi sentimenti. Ma questo assassinio non tardò Iddio a punirlo [Niceph., in Chron., pag. 19.]. Sollevossi contro di Eracleona Valentino, una delle guardie di Filagrio già conte delle cose private; e messo insieme un esercito, cominciò a bloccare Costantinopoli, con esigere che Eraclio, figliuolo del defunto Eraclio Costantino, fosse dichiarato imperadore. Il popolo di Costantinopoli per liberarsi da quella vessazione si mosse con tumulto e grida, ed obbligò Eracleona a crear Augusto il suddetto Eraclio, figliuolo di suo fratello. Pirro patriarca [1227] il coronò, ed egli prese il nome di Costantino, che Costante vien chiamato da Teofane e da altri, e per tale il chiamerò anch'io in avvenire. Ma qui non terminò la faccenda. Quetossi il rumore per qualche tempo, ed in fine gli umori che erano in moto di nuovo si esaltarono. Per attestato di Teofane, irritato il senato e popolo contro di Eracleona e di Martina, probabilmente per la morte data ad Eraclio Costantino, li deposero. Ad Eracleona tagliato fu il naso, la lingua a Martina, ed amendue furono cacciati in esilio: con che venne a restar solo sul trono il giovane Costante. Pirro patriarca, nel mese d'ottobre, anch'egli spaventato dalla sollevazion di popolo, deposte le sacre vesti, e rinunziata la sua dignità, se ne fuggì; e perciò fu eletto in suo luogo Paolo patriarca di Costantinopoli. Abbiamo da Eutichio [Eutych., in Annalib.] che Costante imperadore rispose alla lettera già scritta da Giovanni papa ad Eraclio Costantino suo padre, ed in essa gli fa sapere di aver fatta bruciare la sposizion della fede di Sergio. Ma a questo buon principio non corrispose il proseguimento della vita di questo imperadore; e noi lo troveremo nemico aperto della santa dottrina della Chiesa romana.

A questi medesimi tempi stimo io probabile che appartenga la guerra mossa in Italia dal re Rotari al romano imperio; perchè niun tempo più acconcio di questo ci si presenta per immaginare ch'egli desse di piglio all'armi. Lo stato miserabile degli affari dell'imperio in Oriente, le rivoluzioni poco fa accennate di Costantinopoli, e il discredito, in cui probabilmente si trovava Isacco esarco di Ravenna dopo le iniquità commesse in Roma, paiono motivi che l'inducessero nell'anno presente a rompere la pace coi Greci. Dissi la pace, e volli dir la tregua, che Rotari verisimilmente non si sentì voglia di confermare più oltre; oppure egli non era sì delicato come i suoi predecessori. Ora abbiamo da [1228] Fredegario [Fredegar., in Chronic., cap. 71.] che correva già il quinto anno, dacchè la regina Gundeberga stava rinchiusa in una camera del regal palazzo di Pavia, quando capitò colà un ambasciatore di Clodoveo II re de' Franchi, succeduto a Dagoberto re suo padre nella Neustria e nella Borgogna. Il suo nome era Aubedo. Avendo egli intesa la disgrazia della regina, da cui in occasione d'altre ambascerie era stato benignamente accolto, da sè si mosse a rappresentare al re Rotari, che quella principessa era parente dei re franchi, e che farebbe cosa grata a quel re rimettendola in libertà e nel suo grado d'onore; e tanto più convenir questo al decoro di esso re Rotari, perchè dalle mani di lei egli avea ricevuto il regno. Ottimo effetto produsse questa rappresentanza. Gundeberga ricuperò la sua libertà, fu rimessa sul trono, e le furono restituite le ville e rendite che dianzi ella godeva. E buon per Aubedo, che ne fu largamente rimunerato dalla regina. All'anno 632 abbiam veduto un somigliante avvenimento di questa regina: laonde si potrebbe quasi dubitare di qualche abbaglio in Fredegario. Fino a questi tempi le città del lido ligustico erano state costanti nella fedeltà al romano imperio, nè i re longobardi aveano loro data molestia, in vigor della tregua che lungo tempo era durata fra essi e gl'imperadori. O per i motivi addotti, o per altri, che la storia ha taciuto, in quest'anno credo io, che Rotari dasse di piglio all'armi. Fredegario, dopo aver narrata l'ambasceria suddetta, seguita a far questo racconto. Nè dia fastidio ch'egli tratti di ciò all'anno 630, perchè quello storico negli avvenimenti stranieri non osserva la cronologia, e talvolta in un fiato mette insieme i fatti accaduti sotto anni diversi. Osservasi che all'anno precedente 629 egli narra la morte dell'imperadore Eraclio; eppure questi finì di vivere nell'anno presente 641. Racconta nel suddetto anno 630 l'ambasciata [1229] mandata a Pavia dal re Clodoveo II, il quale pure succedette a Dagoberto suo padre nell'anno 658. Dice dunque Fredegario che il re Rotari (da lui appellato Crotario) portatosi coll'esercito nel litorale ligustico, prese le città di Genova, d'Albenga, di Varicotti (oggidì Varigotti presso la città di Noli, la quale verisimilmente sorse dalle rovine di quella città), di Savona, di Oderzo e di Luni. Ma lo storico fa quivi un brutto salto, mischiando Opitergio, ossia Oderzo (città una volta, ed ora terra del Friuli) coi luoghi del litorale ligustico. Di esso si parlerà fra poco. Aggiunge ch'egli saccheggiò, devastò e smantellò le suddette città, conducendo prigionieri quegli abitanti: segno che doveva essere ben forte in collera contro d'essi. Di tali conquiste fatte da Rotari si trova menzione anche presso Paolo Diacono, raccontando egli che questo re prese tutte le città de' Romani, che sono da Luni, città della Toscana, sino ai confini del regno della Francia. E qui merita d'esser osservato che, dacchè vennero in Italia i Longobardi, l'arcivescovo di Milano si ritirò a Genova, e quivi seguitarono a stare fino a questo tempo anche gli altri suoi successori, trovandosi negli antichi cataloghi dei medesimi arcivescovi, pubblicati dai padri Mabillone e Papebrochio, e da me ancora [Rer. Italic. Scriptor., part. 2, tom. 1, pag. 228.], che Lorenzo II, Costanzo, Deusdedit ed Austerio, arcivescovi di Milano, ebbero la sepoltura in Genova. Dal che si può argomentar la moderazione dei re longobardi, che padroni della nobilissima città di Milano, si contentavano che quegli arcivescovi avessero la lor permanenza in Genova città nemica, perchè ubbidiente all'imperadore. Ma dacchè Genova venne alle mani del re Rotari, non veggiamo i susseguenti arcivescovi seppelliti se non nelle chiese di Milano.

Seguita a dire Paolo Diacono, che Rotari dipoi s'impadronì a forza d'armi di Oderzo, città posta fra Cividal del [1230] Friuli e Trivigi, che fin allora in quelle parti s'era mantenuta esente dall'unghie de' Longobardi. Abbiamo da Andrea Dandolo [Andreas Dandolus, in Chronicon., tom. 12, Rer. Ital.] che in questa occasione Magno vescovo di Oderzo, uomo santo, col suo popolo si ritirò in una delle isole della Venezia, e quivi fondò una città che dal nome dell'imperadore Eraclio appellò Eraclea, e quivi coll'autorità di papa Severino e del patriarca gradense Primigenio fissò la sua sedia. Se il Dandolo, che scrisse circa l'anno 1330 la sua Cronica, fosse autore più antico, si potrebbe dedurre da questo racconto che la presa di Oderzo fosse seguita prima di quest'anno. Ma in fatti tanto lontani dai suoi tempi non è molto sicura l'asserzione di questo scrittore. E tanto più che vedremo dopo alcuni anni la distruzione di Oderzo, per cui veramente il popolo di quella città fu costretto a sloggiare. Però tengo io per fabbricata prima di questo la città eracleense. Che poi la traslazion di quella sedia fosse fatta coll'approvazione di papa Severino, se l'immaginò il Dandolo, perchè a' tempi di lui la credette succeduta, e stimò ancora che questo papa campasse due anni, quattro mesi e otto giorni: il che s'è veduto che non sussiste. Aggiunge esso Dandolo che anche Paolo, vescovo di Altino, in questi tempi passò col suo popolo e colle reliquie in Torcello e nelle isole adiacenti, dove anch'egli pose la sua residenza, e che gli succedette Maurizio, il quale, col consenso del patriarca gradense e del popolo, ottenne un privilegio dal suddetto papa Severino. Ma finchè non si producano documenti che comprovino tante azioni fatte da questo papa nel pontificato di due soli mesi, sarà a noi lecito di sospendere qui la credenza non già del fatto, ma del tempo di questo fatto. S'egli è poi vero ciò che Paolo Diacono racconta di Arichi, ossia di Arigiso duca di Benevento, cioè ch'egli, dopo cinquant'anni di governo, lasciò [1231] di vivere, bisogna ben dire che morisse vecchio [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 45.]. Restò suo successore e duca Ajone suo figliuolo, ma di testa poco atta a regger popoli. Perciocchè avendolo Arigiso suo padre molto dianzi inviato a Pavia, per inchinare il re Rotari, egli nel viaggio volle visitar l'esarco, e vedere le grandezze di Ravenna. Ora comunemente fu creduto che i Greci in tale occasione gli dessero una bevanda, per cui talora andava fuori di sè, e da lì innanzi non fu mai sano di mente. Arigiso prima di morire raccomandò al popolo Radoaldo e Grimoaldo figliuoli di Gisolfo già duca del Friuli, rifuggiti presso di lui, con aggiugnere ch'erano anche più idonei al governo che non era suo figliuolo: segno che l'elezion di quei duchi dipendeva dal popolo, e la confermazione apparteneva al re de' Longobardi.


   
Anno di Cristo DCXLII. Indizione XV.
Teodoro papa 1.
Costantino, detto Costante, imperadore 2.
Rotari re 7.

Dovrei qui io notare il consolato di Costantino, ossia Costante Augusto, preso nell'anno presente, e proseguire distinguendo i susseguenti col post consulatum. Ma perchè si scorge oramai di niuna conseguenza un tal rito, me ne dispenserò in avvenire. Essendo rotta la tregua fra i Romani e Longobardi, siccome abbiamo detto, e continuando il re Rotari le sue conquiste, Isacco esarco di Ravenna, unì quante soldatesche potè per assalire il dominio de' Longobardi, e farli desistere da ulteriori progressi. Venne dunque a dirittura alla volta di Modena, ch'era allora frontiera del paese longobardo, verso le città dell'esarcato di Ravenna. Ma trovò l'armata del re Rotari, che s'era postata al fiume Scultenna, appellato oggidì da noi Panaro, ma che ritiene nella montagna l'antico [1232] suo nome. Si venne dunque ad una giornata campale, in cui, per attestato di Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 47.], ebbero la peggio i Romani. Ottomila di essi rimasero estinti sul campo; agli altri le gambe salvarono la vita. Di ciò che succedesse dopo questa vittoria, a noi non resta memoria alcuna. Cessò di vivere nel presente anno Giovanni IV papa, degno di gran lode per la sua singolar carità, la quale penetrò fino in Istria e Dalmazia. Avevano gli Schiavoni Gentili fatto di varie scorrerie in quelle provincie cristiane, e menata via gran quantità di schiavi. Stese il piissimo pontefice le mani della misericordia a quella povera gente, e mandata colà per mezzo di Martino abate una buona somma di denaro, si studiò di riscattarne quanti mai ne potè. Questo Martino abate viene chiamato santissimo e fedelissimo da Anastasio bibliotecario, senza che noi sappiamo di qual monistero egli avesse il governo. Ma la storia d'Italia in questi tempi è troppo mancante, ommettendo essa i grandi, non che i minuti avvenimenti d'allora. Succedette nella cattedra di san Pietro Teodoro di nazione greco, nel dì 24 di novembre, secondo i conti del Pagi. E fino al presente anno condusse Fredegario la storia sua dei Franchi. Abbiamo poi da Paolo Diacono [Idem, ibid., cap. 46.] che Aione duca di Benevento governò solamente un anno e cinque mesi, assistito da Radoaldo e Grimoaldo, dei quali abbiam parlato di sopra. Accadde che gli Sclavi, o Schiavoni, i quali è da credere che avessero presa se non tutta la Dalmazia, almeno parte d'essa, vennero con una gran parte di navi per bottinare vicino alla città di Siponto. Essendosi accampati in quelle parti, ed avendo fatte delle fosse, coperte intorno ai loro alloggiamenti, il duca Aione andato contra d'essi per isloggiarli, cadde col cavallo in una di quelle fosse, ed accorrendo gli Schiavoni, fu con alquanti dei suoi quivi miseramente ammazzato. [1233] Radoaldo, che non era ito col duca, avuto avviso della di lui sventura, accorse tosto colà, e parlando agli Schiavoni come un d'essi nella lor lingua, gli addormentò, con fare loro credere che non v'era più pericolo. Dopo di che con tutti i suoi si scagliò loro addosso, ne fece una gran strage, e forzò quei che vi restarono alla fuga. Venne appresso il medesimo Radoaldo figliuolo di Gisolfo già duca del Friuli, proclamato duca di Benevento.


   
Anno di Cristo DCXLIII. Indizione I.
Teodoro papa 2.
Costantino, detto Costante, imperadore 3.
Rotari re 8.

Fino a questi tempi il regno de' Longobardi s'era governato con leggi non iscritte, il che vuol dire piuttosto con usi e consuetudini che non leggi. Ora il re Rotari [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 4.], principe non men bellicoso che amante della giustizia, veggendo le oppressioni che i più forti faceano ai deboli, prese la risoluzione di ridurre in un corpo le leggi longobardiche col consiglio e consenso dei grandi del regno, de' giudici e dell'esercito, levando le cose superflue, e mandando le malfatte, e supplendo a quel che mancava. Diede il nome di Editto a questo corpo di leggi, e d'esso codice si servì poi da lì innanzi la nazion longobarda. Riesce probabile che a questa lodevol impresa egli fosse mosso anche dall'esempio fresco di Dagoberto, che avea compilato le leggi de' Franchi, degli Alamanni e della Baviera. L'anno in cui fu pubblicato questo editto, si trova espresso in vari testi, e specialmente in quello della Biblioteca ambrosiana, pubblicato dal dottor Bianchi [Blancus, in Not. ad Paul. Diacon., lib. 1, cap. 14.], e nel Codice della Biblioteca estense, di cui mi son servito io per l'edizion d'esse leggi [Rerum. Italicar. Scriptor., part. 2, tom. 1.], colle seguenti note cronologiche: [1234] Anno Deo propitiante regni mei octavo, aetatisque trigesimo octavo, Indictione secunda, et post adventum in provinciam Italiae Longobardorum anno septuagesimo sexto, Ticini in palatio. Nel fine di esse leggi viene ordinato che per le cause già terminate non si ammetta revisione: Quae autem non sunt finitae ad praesentem vigesimam secundam diem mensis hujus novembris indictione secunda inchoatae, per hoc nostrum edictum finiantur. Manifesta cosa è che l'Indizione seconda cominciò nel settembre dell'anno presente. Similmente computati settantasei anni dall'ingresso dei Longobardi in Italia, succeduto nell'anno 568, si giugne al presente anno 643. Per conseguente, in quest'anno il re Rotari pubblicò le leggi longobardiche, e in questo ancora correva l'anno ottavo del suo regno: da che si scorge essere stato con tutta ragione fissato il principio del suo regno nell'anno 636. Io so che il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 638, n. 7.] pretende che Rotari fosse creato re nell'anno 630, perchè s'era messo in testa che Sigeberto istorico fosse fin più di Paolo Diacono informato degli affari de' Longobardi. Ma le note cronologiche suddette abbattono affatto questa pretensione; e se il Pagi vuol a suo talento correggerle e mutarle per sostenere l'opinion di Sigeberto, autore, il quale, oltre all'essere vivuto circa l'anno 1100, cioè tanto lungi da questi tempi, non ebbe altro scrittore delle cose longobardiche da seguitare, fuorchè lo stesso Paolo Diacono: sanno gli eruditi che dai documenti contemporanei si han da emendare gli storici posteriori, e non già fare al rovescio. E tanto meno possiam qui seguitar Sigeberto, perchè egli mette nell'anno 630 l'assunzione al trono di Rotari, con dire ch'egli succedette al re Adaloaldo: errore massiccio, essendo evidente che fra Adaloaldo e Rotari regnò il re Arioaldo. Vien riferita a questo anno dal suddetto Pagi una bolla di papa [1235] Teodoro in favore di Bobuleno abbate di Bobbio, pubblicata dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in episc. Bob.] o dal Margarino [Margarin., Bullar. Casinens., tom. 1, constitut. 3.]. Le note cronologiche son queste: Data IV nonas maji, imperii domini piissimi Augusti Constantini anno secundo, consulatus primo, Indictione I; anno Domini DCXLIII. L'Ughelli tralasciò l'anno dell'Incarnazione, perchè ben sapeva che non era per anche in uso nella Chiesa romana l'era nostra volgare; e veramente, tolto questo, le note suddette han tutta l'aria di una veneranda antichità. Ma è da vedere se il papa potesse chiamar figlio nostro il re Rotari, che, siccome ariano, non era figliuolo della Chiesa cattolica. E se abbia dell'affettazion il dirsi in essa Bolla, che nel monistero di Bobbio si contavano cento cinquanta monaci. Oltre di che, in una storia citata dall'Ughelli son detti cento quaranta. Ma certo non può sussistere quel concedersi dal sommo pontefice Teodoro, ut liceat abbati ejusdem venerabilis loci mitra et aliis pontificalibus uti. Passarono dei secoli dipoi prima che fosse accordata dalla santa Sede la mitra con gli altri ornamenti pontificali agli abbati. Merita ancora riflessione il concedersi quivi, che l'abbate d'esso monistero infra sacra mysteria constitutus, signacula sanctae Crucis valeat praemuniri. Il Margarino legge: Infra sacra ministeria, ec, populum valeat praemunire. Se s'intende della benedizione che davano i vescovi, non era per anche esteso agli abbati un sì fatto privilegio. Tralascio altre parole, che tutte unite mi fan dubitare della legittimità di quella bolla; e probabilmente ne dubitò anche il padre Mabillone, non avendo io trovato che ne faccia menzione negli Annali benedettini, ancorchè risponda all'Ughelli, al quale parve strano il dirsi quivi dal papa, che i monaci di Bobbio erano sub regula sanctae memoriae Benedicti, reverendissimi Columbani.


[1236]

   
Anno di Cristo DCXLIV. Indizione II.
Teodoro papa 3.
Costantino detto Costante, imperadore 4.
Rotari re 9.

Riferì Ermanno Contratto, e poscia il cardinal Baronio, all'anno precedente la ribellion di Maurizio Cartulario e la morte d'Isacco esarco. Ma perciocchè non ben si sa l'anno preciso di tali avvenimenti, non altro scrivendo Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec., in Teodoro.], se non che accadde quel fatto ai tempi di papa Teodoro, chieggo io licenza di poterne far qui menzione. Quel medesimo Maurizio, di cui, siccome vedemmo nell'anno 639, si servì Isacco esarco di Ravenna per isvaligiare il tesoro della basilica lateranense, circa questi tempi ebbe il suo gastigo da Dio anche nel mondo di qua. Cominciò costui a cozzare coll'esarco medesimo; e sparsa voce in Roma che Isacco macchinava di farsi imperadore, raunò quanti soldati si trovavano in essa Roma e nelle castella dipendenti da Roma, ed anche i giudici e grandi romani, i quali tutti con giuramento si obbligarono di non prestar più ubbidienza al medesimo esarco. Portata ad Isacco questa notizia, non fu lento ad inviar Dono general d'armi con quante truppe egli potè verso Roma: segno che doveva allora essere qualche tregua fra i Romani e Longobardi. Giunto colà Dono, tal fu la paura, che tutti magistrati e soldati romani abbandonarono Maurizio, e tennero dalla parte di Dono. Fuggito Maurizio in santa Maria del Presepio (oggidì santa Maria Maggiore), fu di là levato per forza, e ben incatenato, e con un collare di ferro al collo, insieme con gli altri che aveano tenuta mano a questa sollevazione, fu inviato verso Ravenna. Ma non si tosto arrivò a Ficocle (oggidì Cervia città), che d'ordine dell'esarco gli fu staccata la testa dal busto, [1237] e questa poi esposta sopra un palo nel circo di Ravenna. Gli altri condotti con esso furono posti in prigione e ben serrati ne' ceppi. Ma mentre Isacco pensava a gastigare anche questi colla scure, venne a trovar lui la morte, per presentarlo al tribunale di Dio: colpo felice per quei ch'erano carcerati, perchè tutti ebbero maniera d'uscire e di tornarsene alle loro case. Leggesi presso il Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn. lib. 4.] nella storia di Ravenna l'epitaffio greco posto da Susanna sua moglie a questo esarco, con varie lodi del suo valore, mostrato non meno in Oriente che in Occidente, e massimamente in aver mantenuta salva Roma. Manco male che non vi si parla della sua pietà, di cui certo diede bene a conoscere d'essere privo, allorchè stese l'empie mani a rubare i tesori del tempio lateranense. Anastasio aggiunge che egli ebbe per successore nella dignità esarcale Teodoro patrizio eunuco, chiamato per soprannome Calliopa. Fu d'avviso il cardinal Baronio che Anastasio in ciò s'ingannasse, constando dagli Atti di san Martino papa, che quando Pirro, già patriarca di Costantinopoli, convinto da san Massimo abbate, venne, siccome diremo, a Roma (il che si crede succeduto dopo il mese di luglio dell'anno seguente 645), Platone patrizio era esarco dell'Italia. Ma il padre Pagi pretende che Teodoro Calliopa veramente succedesse ad Isacco in quel ministero, e che essendo durato poco tempo nell'uffizio, desse poi luogo al suddetto Platone esarco. Quanto a me, trovo qui del buio. Nell'epitaffio d'Isacco si legge ch'egli governò ter sex annis lo Occidente. S'egli succedette nell'anno 619 ad Eleuterio esarco, numerando da quell'anno diciotto anni, molto prima d'ora egli dovrebbe essere mancato di vita. Se poi si fu nel precedente o nel presente anno, dovrebbe fra Eleuterio e lui esserci stato un altro esarco. Ed è ben certo che seguì la disputa di san Massimo con Pirro nell'anno susseguente; ma non [1238] mi par già certo che nell'anno medesimo venisse Pirro a Roma.


   
Anno di Cristo DCXLV. Indizione III.
Teodoro papa 4.
Costantino, detto Costante, imperadore 5.
Rotari re 10.

Intanto gli errori de' monoteliti turbavano a dismisura la Chiesa di Dio, Paolo, succeduto a Pirro nella cattedra di Costantinopoli, era uno de' più gagliardi campioni di questa eresia, benchè il volpone con delle belle lettere a papa Teodoro andasse alquanto coprendo il suo cuor guasto. Il peggio era, che lo imperador Costante, o vogliam dirlo Costantino, s'era imbevuto di quella falsa opinione, e proteggeva a spada tratta chi combatteva per essa. La Sede apostolica, all'incontro, costantemente tenea per la vera dottrina, e con essa lei si univano i vescovi dell'Africa, di Cipri e dell'Occidente tutto. Avvenne in questi tempi che Pirro, dopo aver deposto il pastorale di Costantinopoli, ritiratosi in Africa, quivi ebbe una disputa celebre con san Massimo abbate, gran difensore delle due volontà in Cristo, alla presenza di molti vescovi africani e di Gregorio prefetto del pretorio dell'Africa, nel mese di luglio, correndo la terza indizione. Tante ragioni addusse il dotto e santo abbate, che Pirro si diede per vinto. La disputa suddetta si legge stampata negli Annali ecclesiastici del Baronio e nelle raccolte dai concilii. Si sa dipoi dagli Atti di san Martino papa e dalla storia Miscella [Miscell., lib. 18, pag. 132, tom. 1 Rer. Ital.], che Pirro, consigliato dai vescovi dell'Africa, sen venne a Roma, e presentò a papa Teodoro la profession della sua fede, dove condannava chiunque ammetteva una sola volontà nel Signor nostro Gesù Cristo. Le accoglienze a lui benignamente fatte dal papa furono molte, e suntuoso il trattamento; [1239] non credo già certa la sua venuta nell'anno presente a Roma. Teofane [Theoph., in Chronogr.] mette circa questi tempi la morte di Omaro califfo, ossia principe de' Saraceni, gran conquistatore della Persia, dell'Egitto, della Palestina, della Soria e di altri paesi. Un disertore persiano quegli fu che, appostatolo quando facea orazione, gli ficcò uno stocco nel ventre. Ebbe per successore Ulmano, chiamato da altri Osmano. Elmacino il fa morto prima. Godeva in questo mentre l'Italia una mirabil quiete, stante la pace o tregua stabilita fra i Romani e Longobardi. Il credito del re Rotari teneva in dovere gli Unni Avari e gli Schiavoni. Dalla parte poi dei re franchi non v'era da temere, perchè regnavano allora Clodoveo II e Sigeberto II, principi per l'animo e per l'età spossati, sotto de' quali cominciò a declinare la regale autorità, e a crescere quelle de' maggiordomi, anzi a crescere tanto, che giunse in fine a detronizzare il medesimo re. Circa questi tempi, per attestata del suddetto Elmacino [Elmacin., Hist. Saracen., lib. 1, cap. 4.], Muavia saraceno, governatore della Siria, continuava in quelle parti la guerra contro al romano impero, e prese molte città, delle quali non si sa il nome.


   
Anno di Cristo DCXLVI. Indizione IV.
Teodoro papa 5.
Costantino, detto Costante, imperadore 6.
Rotari re 11.

In quest'anno, siccome s'ha dalla Storia ecclesiastica, furono tenuti varii concilii in Africa da quei vescovi, in proposito dell'eresia de' monoteliti, detestata in quelle parti al maggior segno. Scrissero all'imperadore e a Paolo patriarca di Costantinopoli, con pregarli di reprimere i seminatori di quella abominevol dottrina, non sapendo, o mostrando di non sapere, che da esso Augusto e da quel [1240] patriarca veniva il principal fomento della medesima eresia. Leggonsi ancora le loro lettere a papa Teodoro. Ma in questi tempi l'Africa stessa cominciò ad essere lacerata da interni mali. Ribellossi contra dell'imperador Costante Gregorio prefetto del pretorio in quelle provincie [Theoph., in Chronogr.], senza che se ne sappia il perchè, ed ebbe dalla sua quei popoli. Pensavano i vescovi di spedire all'imperadore un'ambasceria per li correnti affari della Chiesa; ma non si attentarono ad eseguire il disegno, dacchè venne loro notizia di essere caduti in sospetto di tener mano anch'essi alla ribellione suddetta. Avendo poi scritto papa Teodoro delle lettere assai forti a Paolo patriarca di Costantinopoli, affine d'intendere chiaramente i di lui sentimenti intorno alle controversie presenti che turbavano la Chiesa, costui finalmente si cavò la maschera, ed apertamente gli fece sapere ch'egli non riconosceva se non una volontà in Cristo: dopo di che il papa cominciò a pensare a procedere contro di lui per iscomunicarlo.


   
Anno di Cristo DCXLVII. Indizione V.
Teodoro papa 6.
Costantino, detto Costante, imperadore 7.
Rotari re 12.

Nuove piaghe in quest'anno si aggiunsero alla cristianità, perciocchè i Saraceni, padroni dell'Egitto, intesa la ribellione e division commossa nell'Africa da Gregorio prefetto del pretorio, seppero ben profittare di un siffatto disordine. Abbiamo da Teofane ch'essi con una poderosa armata ostilmente entrarono nell'Africa sotto il comando di Abdala generale d'Osmano. Non mancò già di farsi loro incontro con quante forze potè il suddetto Gregorio, ma in una battaglia sconfitto con gran perdita di gente, fu obbligato alla fuga. Elmacino aggiugne ch'egli vi lasciò la vita, e gli [1241] dà il titolo di re, non disconvenevole, dacchè egli s'era sottratto all'ubbidienza del sovrano Augusto. Secondo quello storico, sembra che gli Arabi d'allora s'impadronissero almeno di una parte dell'Africa. Ma per quanto, andando innanzi vedremo, Cartagine, capitale dell'Africa colle provincie occidentali restò in potere degli Augusti. Le sole provincie orientali dovettero allora soccombere al giogo, o almeno obbligarsi a pagar dei tributi. Dopo cinque anni di governo venne in quest'anno a morte Radoaldo duca di Benevento, a cui, per elezione del popolo longobardo fu sostituito Grimoaldo suo fratello, e figliuolo anch'esso di Gisolfo già duca del Friuli. Era Grimoaldo uomo di gran senno e bellicoso. Vedremo a suo tempo, come egli si servì di queste sue qualità per accrescere la sua fortuna.


   
Anno di Cristo DCXLVIII. Indizione VI.
Teodoro papa 7.
Costantino, detto Costante, imperadore 8.
Rotari re 13.

Probabilmente a quest'anno si dee riferire l'ordine che il cardinal Baronio immagina dato dall'imperadore ad Olimpio esarco d'Italia, di tener gli occhi addosso a Pirro già patriarca di Costantinopoli, e di guadagnarlo in favore del monotelismo, per cui l'infelice principe s'era troppo impegnato, sedotto da Paolo, che teneva allora la cattedra d'essa città di Costantinopoli. In esecuzione di questi ordini, l'esarco con buone parole trasse da Roma a Ravenna esso Pirro, e lo indusse a ritrattar l'abiura, da lui fatta davanti al sommo pontefice, degli errori de' monoteliti. Ma Platone, e non Olimpio, era tuttavia esarco, ed egli fu che accolse Pirro in Ravenna. S'egli poi avesse que' pretesi ordini in favore del monotelismo, si può dubitarne per quel che diremo all'anno seguente. Appena si ebbe a Roma l'iniquità di Pirro, [1242] forse per qualche dichiarazione da lui insolentemente pubblicata, che Teodoro papa raunò un concilio, in cui, per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], d'Anastasio bibliotecario [Anastas., in Theodor.] e di altri, egli fu solennemente deposto e condannato, e con un rito non più udito, per cui si svegliò un sacro orrore in tutto quel venerando consesso. Cioè portatosi il pontefice al sepolcro di san Pietro apostolo nel Vaticano, e fattosi dare il sacrosanto calice consecrato, stillò nel calamaio alcune gocce del sangue del Signore, e con quell'inchiostro sottoscrisse di propria mano la deposizione e condanna di Pirro, traditor della fede. Trovasi questo rito (suggetto per altro a molte riflessioni) praticato dipoi dal concilio ottavo universale di Costantinopoli, allorchè fu condannato Fozio intruso in quel patriarcato. Sappiamo parimente da Anastasio e dagli atti del concilio lateranense, che papa Teodoro, veggendo pertinace ne' suoi errori Paolo patriarca di Costantinopoli, proferì anche contro di lui la scomunica; ma non sappiamo ch'egli condannasse ancora il Tipo di Costante Augusto, siccome accuratamente dimostra il Pagi. Ora intorno a questo tipo è da dire, consistere esso in un editto pubblicato verso il fine di quest'anno da esso imperadore [Acta Concilii Lateranens. sub S. Martino.], in cui, sotto pretesto di quietar le turbolenze insorte nella Chiesa di Dio per cagione della controversia intorno alle due volontà di Cristo Signor nostro, comandò che a niuno da lì innanzi fosse lecito il disputar di questo argomento, nè sostenere una o due volontà ed operazioni, sotto pena ai vescovi, chierici, monaci e laici di perdere le lor dignità, se non ubbidivano. Parve a tutta prima ad alcuni plausibile questo ripiego, ma non così parve alla santa Sede romana ed a chiunque nudriva un vero zelo per l'indennità della vera dottrina della Chiesa. Ciò che ne avvenne [1243] si accennerà fra poco. Intanto poco ci volle a conoscere che l'imperadore, ad istigazione di Paolo patriarca di Costantinopoli, si lasciò condurre alla pubblicazione di questo editto: e però contra di esso Paolo andò dipoi, siccome abbiam detto, a scaricarsi il giusto sdegno della Sede apostolica e de' vescovi cattolici. Ma mentre l'imperadore impiegava così il suo tempo e i suoi pensieri intorno alle liti ecclesiastiche con offesa di Dio e pregiudizio della fede ortodossa, seguitavano a perdersi le provincie cristiane del romano imperio. Scrive Teofane [Theoph., in Chronogr.], e seco va d'accordo Elmacino [Elmac., lib. 1, cap. 4.], che in quest'anno Muavia generale di Osmano principe de' Saraceni, con una flotta di mille e settecento legni, tra piccoli e grandi, fece una discesa nell'isola di Cipri, occupò la città di Costanza, sottomise tutta l'isola, e la devastò. Udito poi che Cacorizo, cameriere e capitano dell'imperadore, veniva con una potente armata di Greci, condusse la sua flotta verso Arado, isola della Soria, e si pose all'assedio di quella terra, adoperando tutte le macchine da guerra per espugnarla. S'avvisò di mandare un vescovo, appellato Romarico, per esortarli alla resa con patti assai vantaggiosi, altrimenti a far loro di grandi minacce. Entrò quel vescovo nella terra; ma que' cittadini nol lasciarono più uscir fuori. Arrivato poi che fu il verno, Muavia si ritirò, e se ne andò colla sua gente a Damasco. Scrive Elmacino che Muavia per due anni tirò tributo dall'isola di Cipri; segno probabilmente ch'essa non restò poi in potere de' Saraceni. Seguita a dire il medesimo storico che Osmano inviò Abdala suo generale nella Corasana, dove si impadronirono i Saraceni di varie città, come Naisaburo, Arata, Tusa, Abrima, ed altre, con arrivar fino a bere acqua del fiume Balca. Questo fiume mette nell'Eufrate, e pare che qui si parli di qualche [1244] provincia della Mesopotamia, non per anche presa almen tutta in addietro dai Saraceni.


   
Anno di Cristo DCXLIX. Indizione VII.
Martino papa 1.
Costantino, detto Costante, imperadore 9.
Rotari re 14.

Fu quest'anno l'ultimo della vita di papa Teodoro, il quale, dopo aver sostenuta con tutto vigore e decoro la dottrina della Chiesa, passò a ricevere il premio delle sue fatiche nel dì 13 di maggio. Cadde la elezione del successore in Martino da Todi, che si crede consacrato nel giorno quinto di luglio. Dalla lettera XV d'esso papa abbastanza si conosce che il clero romano non volle aspettar lo assenso dell'imperadore per consacrarlo, e però col tempo pretesero i Greci ch'egli irregulariter et sine lege episcopatum subripuisset, e gli fecero la fiera persecuzione che a suo tempo vedremo. Questo pontefice, uno de' più riguardevoli e vigorosi che s'abbia mai avuto la sedia di san Pietro, ancorchè sapesse la pena intimata da Costante Augusto nel suo Tipo, pure nulla intimidito, anzi maggiormente acceso di zelo, intimò tosto un concilio di vescovi d'Italia, al quale fu dato principio nel dì 5 di ottobre dell'anno presente, nella sagrestia della basilica lateranense [Labbe, Concilior. tom. 4.]. V'intervennero cento e cinque vescovi dell'Italia, Sicilia e Sardegna. Al non vedere fra essi l'arcivescovo di Milano e niuno de' suoi suffraganei immaginò il cardinal Baronio che il re Rotari ariano impedisse loro l'intervenirvi. Risponde il Pagi, che essendo morto tre anni prima Rotari, questi non potè vietar loro l'andarvi; e che la cagione è tuttavia occulta dell'esser eglino mancati a quel concilio. Ma Rotari era molto ben vivo in questi tempi. Veggendosi poi tanti altri vescovi de' ducati di Benevento, [1245] Spoleti e Toscana, sudditi de' Longobardi, che assisterono liberamente a quel concilio, parrebbe piuttosto da dire che per qualche altra cagione non fossero venuti que' vescovi, e non per divieto del re Rotari. Mauro arcivescovo di Ravenna, perchè era impedito, vi mandò, oltre ai suoi deputati, anche i vescovi suoi suffraganei con una bella lettera, portante la condanna de' monoteliti. Il che è ben da notare, perchè vedremo questo medesimo arcivescovo dopo alcun tempo ribello alla santa sede, e si perchè non si sa intendere, come venga supposto che l'esarco di Ravenna patrocinasse il monotelismo, e poi permettesse che quell'arcivescovo co' prelati della sua dipendenza concorresse a condannarlo. V'intervenne anche Massimo patriarca aquileiense, cioè il gradense, ma non già l'aquileiense, ossia foro-iuliense, perchè era risorto lo scisma per la lite dei tre capitoli. Ora nel suddetto celebre concilio lateranense fu a pieni voti condannato l'errore de' monoteliti, l'Ectesi dell'imperadore Eraclio e il Tipo dell'imperadore Costante (chiamato ivi Costantino), e proferita scomunica contro a chi non iscomunicava e rigettava Ciro alessandrino, Sergio, Pirro e Paolo costantinopolitani. Fu in questi tempi inviato esarco nuovo in Italia, cioè Olimpio, cameriere dell'imperadore, attestandolo chiaramente Anastasio bibliotecario [Anast. Bibliothec., in S. Martino.]. Gli fu data commissione da esso Costante Augusto a tenore de' consigli di Paolo patriarca, di portar seco il Tipo già pubblicato, per farlo approvare e sottoscrivere dai vescovi d'Italia e dagli altri Italiani sudditi suoi. Che se gli riusciva di persuadere all'esercito imperiale di Italia di accettare esso Tipo, allora, secondo il consiglio a lui dato da Platone glorioso patrizio (che cessò di essere esarco), mettesse le mani addosso a Martino (cioè al papa), che era stato apocrisario della sede apostolica in Costantinopoli. Se poi si trovavano opposizioni [1246] all'accettazione del Tipo, creduto ortodosso dall'imperadore, allora Olimpio dissimulasse, finchè potesse avere un sufficiente esercito di Romani e Ravennati da poter eseguire colla forza ciò che non si poteva ottener colle buone e colle minacce. Venne dunque l'esarco Olimpio a Roma, e trovò appunto che si celebrava da papa Martino il concilio lateranense; e studiossi ben egli di dare esecuzion a quanto gli avea comandato l'imperadore, con tentar anche uno scisma ma non mancò vigore nei ministri di Dio e nel loro capo, nè unione del popolo fedele romano col pontefice, di maniera che, per quante arti e maneggi costui usasse, non solamente niuno sottoscrisse l'imperial Tipo, ma continuò l'anatema proferito contra di esso dal papa e dai padri. In quest'anno poi abbiam da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che Muavia, generale de' Saraceni, tornò colle sue masnade all'isola di Arado contigua alla Soria, e costrinse gli abitanti di quella città, dopo un fiero assedio, a rendersi, salve le persone. Rovesciò a terra quel Barbaro la città, devastò tutta l'isola, con ridurla disabitata: nel quale stato era tuttavia ai tempi di Teofane, che fiorì nell'anno 790.


   
Anno di Cristo DCL. Indizione VIII.
Martino papa 2.
Costantino, detto Costante, imperadore 10.
Rotari re 15.

Giacchè non si sa l'anno preciso di un fatto di Grimoaldo duca di Benevento, sarà lecito a me il riferirlo sotto il presente. Vennero (dice Paolo Diacono) i Greci per ispogliare de' suoi tesori la basilica di san Michele, posta nel monte Gargano nella Puglia, ed oggidì nella Capitanata [Paulus Diaconus, de Gest. Langobard., lib. 4, cap. 47.]. Era quel paese dipendenza del ducato di Benevento: però il duca Grimoaldo, al primo avviso del loro tentativo, salì a cavallo, e con quanti armati [1247] potè in fretta raccogliere, fu loro addosso, di maniera che invece di portar via il tesoro lasciarono essi quivi le loro vite. Mi maraviglio io di Camillo Pellegrino [Peregrinus, de Finib. Ducat. Benevent.] che metta qui in dubbio l'autorità di Paolo Diacono, per la troppa buona opinione ch'egli aveva de' Greci, credendoli incapaci di questo attentato, siccome cattolici, e stimando che piuttosto i Longobardi ariani, i quali saccheggiarono tempo fa il monistero casinense, avranno dato il sacco al tempio di san Michele nel monte Gargano. Ma non dovea ignorar questo valentuomo di che tempra fossero allora i Greci. Se poco fa abbiam veduto che spogliarono il gran tesoro della patriarcale lateranense in Roma stessa, loro sottoposta; se vedremo che enormi iniquità commisero fra poco contro dello stesso romano pontefice, capo visibile della Chiesa di Dio; e finalmente se intenderemo gli orridi saccheggi fatti dal medesimo Costante imperatore in Italia e Sicilia ai suoi popoli e alle chiese del suo dominio, potremo poi credere incapaci i Greci di svaligiare una basilica del paese nemico? Che se i Longobardi nei primi anni dopo la lor venuta in Italia, cioè prima di umanizzarsi e incivilirsi nel dolce clima d'Italia, arrivati a monte Casino, desertarono quel sacro luogo, vanamente si può inferire che da lì a moltissimi anni seguitassero ad operar del medesimo tenore. Benchè alcuni di quei re e moltissimi di quella nazione tuttavia professassero lo arianismo, pure anch'essi veneravano i santi e rispettavano i luoghi sacri non meno suoi che de' cattolici, posti sotto il loro dominio. Anzi si dee notare che essi ebbero una special divozione all'arcangelo san Michele, e al pari de' re franchi il presero per protettor della loro nazione. Però nelle monete dei re longobardi e dei duchi di Benevento nell'uno de' lati si vede l'immagine di esso arcangelo, al quale eziandio la pietà dei re longobardi (e non già Costantino [1248] il grande, come buonamente si figurano alcuni storici pavesi) eresse in Pavia la magnifica basilica, appellata oggidì di san Michele maggiore. Sotto a quest'anno, oppure nel seguente, Teofane [Theoph., in Chronogr.] racconta che i saraceni entrarono nella provincia d'Isauria, fecero quivi un grande macello di cristiani, e cinquemila ne condussero schiavi.


   
Anno di Cristo DCLI. Indizione IX.
Martino papa 3.
Costantino, detto Costante, imperadore 11.
Rotari re 16.

Non si sa in qual anno accadessero le mutazioni di governo dei ducati del Friuli e di Spoleti. Solamente abbiamo da Paolo Diacono, che regnando Costante imperadore, da lui appellato Costantino, nipote di Eraclio Augusto, venne a morte Grasolfo duca del Friuli, zio paterno di Grimoaldo duca di Benevento, e che in quel ducato succedette Agone. Similmente terminò i suoi giorni Teodelapio duca di Spoleti, e fu conferito quel ducato ad Attone. Questo nome di Attone è il medesimo che Azzo, o Azzone, celebratissimo negli antichissimi antenati della serenissima casa d'Este. Bernardino de' Conti di Campello [Campell., Istor. Spolet., lib. 12.] nelle sue storie di Spoleti crede che ad Ariolfo duca di quella provincia succedesse Teodelapio I, circa l'anno 653. Poscia circa l'anno 655 fosse creato duca di Spoleti Grimoaldo, e che circa l'anno 659 Teodelapio II cominciasse a reggere quel ducato. Ma ci vuole altro che Volfango Lazio, autore del secolo decimosesto, per provare che sieno stati al mondo, e duchi di Spoleti quel Grimoaldo e quel Teodelapio secondo. Paolo Diacono, che ne sapea ben più del Lazio, altro Teodelapio non conobbe, se non il succeduto ad Ariolfo, nè ebbe contezza alcuna di quel Grimoaldo. E va d'accordo con [1249] Paolo Diacono l'antico Catalogo, da me [Rerum Italic. Scriptor., part. 2, tom. 2.] pubblicato avanti alla Cronica del monistero farfense. Però quando non compariscono documenti migliori, si hanno da levare i suddetti due personaggi dal ruolo dei duchi di Spoleti. Lo stesso è da dire di Camillo Lilii [Lilii, Stor. di Camerino, lib. 4.], che nelle storie di Camerino ci fa veder Zotone duca di Spoleti e di Camerino succeduto a Teodelapio. Attone, e non Zotone, fu il nome del successore di Teodelapio. È ignoto per altro il tempo, in cui sì il suddetto Agone diede principio al suo governo del Friuli, che Attone al suo di Spoleti. Ma giacchè nol seppe Paolo Diacono, neppur si può esigere che io lo sappia. Riuscì in quest'anno ai Saraceni di occupare interamente il regno della Persia, perchè il re Jasdegirde, appellato Ormisda, ultimo dei re persiani, che s'era finora preservato nelle provincie settentrionali di quel regno dalla loro inondazione, terminò la carriera dei suoi giorni: il che diede campo ai Monsulmani saraceni d'ingoiare il resto. Racconta Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4.] che ne' tempi di Costante, detto Costantino, imperadore, Cesara regina de' Persiani in abito privato fuggì a Costantinopoli e si fece battezzare. Che il re suo marito ne mandò in traccia, e che fu scoperta in Costantinopoli da' suoi ambasciatori; ma ch'ella non volle tornare in Persia, se il re suo consorte non abbracciava la fede di Cristo. Venne il re a Costantinopoli con sessantamila de' suoi, e tutti presero il battesimo, avendo l'imperadore tenuto esso re al sacro fonte: dopo di che carichi di regali se ne tornarono al loro paese. Le circostanze di un tal fatto hanno tutta la cera di una favola popolare, bevuta da Paolo Diacono; e tanto più che di una sì riguardevole avventura non parlano gli autori greci; e Fredegario [Fredegar., in Chronic., cap. 9.] la rapporta bensì anche [1250] egli, ma la mette nell'anno 588, e ai tempi di Maurizio imperadore. Perciò il cardinal Baronio, il Pagi ed altri la hanno tenuta per una fola: per tale la tengo anch'io. Tuttavia, se mai briciolo di verità si potesse qui immaginare, a questi tempi non disdirebbe la conversione del re e della regina de' Persiani alla religione di Cristo, perchè essi allora si trovavano in una somma depressione, e potrebbe essere che si unissero per via di stretti nodi coll'imperador Costante, contro dei comuni lor nemici, voglio dire de' Saraceni usurpatori di tante provincie sì de' Cristiani che dei Persiani. Par difficile che di peso fosse inventata questa favola, e scritta da autori antichi senza qualche principio di verità.


   
Anno di Cristo DCLII. Indizione X.
Martino papa 4.
Costantino, detto Costante, imperadore 12.
Rodoaldo re 1.

Sigeberto istorico [Sigebertus, in Chron.] rapporta all'anno 646 la morte di Rotari re dei Longobardi. Ermanno Contratto [Hermannus Contractus. in Chron.] la riferisce all'anno 647. Ma se è vero, come Paolo Diacono racconta, ch'egli regnò anni sedici e mesi quattro, e se nell'anno 643, per quanto s'è veduto, correva l'anno ottavo del suo regno, viene a cader la sua morte nell'anno presente. Tuttochè ariano, fu seppellito il suo cadavere presso la basilica di san Giovanni Batista in Monza. Ma dopo molto tempo aperto da uno scellerato il suo avello, fu spogliato di tutti i suoi ornamenti. A costui apparve san Giovanni sgridandolo per questo misfatto, perchè sebbene Rotari non tenea la vera fede, pure era raccomandato a lui, e in pena gl'intimò che non sarebbe mai più entrato nella sua basilica. E così avvenne. Quando tentava d'entrarvi quasi che uno gli mettesse la spada alla [1251] gola gli bisognava retrocedere. Paolo Diacono è quegli che racconta il fatto e giura d'averlo inteso da chi lo aveva veduto. Noi siam dispensati dal crederlo; e pare anche strano che san Giovanni Batista, beato in cielo, si prendesse tal cura del sepolcro di un principe eretico, condannato da Dio alle pene infernali. Intanto Rotari ebbe per successore nel regno Rodoaldo suo figliuolo, delle cui azioni nulla è a noi pervenuto, perchè poco o nulla ne seppe anche Paolo Diacono [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 49.]. Scrisse egli bensì, che Rodoaldo prese per moglie Gundeberga figliuola del re Agilolfo e della regina Teodelinda. Poscia aggiunge che Gundeberga, ad imitazione di sua madre, fondatrice della basilica di san Giovanni Batista in Monza, fondò anch'ella in Pavia una basilica in onore del medesimo precursore, e mirabilmente l'arricchì di ornamenti d'oro e d'argento, e di preziosi arredi, con essere poi stata seppellita ivi al tempo della sua morte. Finalmente scrive che questa regina venne accusata di adulterio al re suo consorte. In difesa della di lei castità uno de' di lei servi per nome Carello fece istanza al re, ed ottenne di poter fare duello coll'accusatore, il quale restò ucciso nel campo in faccia di tutto il popolo. Questo servì, secondo la sciocca opinione di quei tempi, a dichiarar innocente la regina, a cui perciò fu restituito il grado ed onore primiero. Ma bisogna qui che il buon Paolo Diacono si contenti di dire ch'egli si è ingannato all'ingrosso. Siccome prima d'ora fu diligentemente osservato dal cardinale Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad ann. 659.], e poscia dal Pagi [Pagius, Crit. Baron.], non può sussistere che Gundeberga figliuola del re Agilolfo fosse presa per moglie dal re Rodoaldo, perchè, siccome s'è veduto di sopra coll'autorità di Fredegario scrittore più antico (ed anche contemporaneo di essa Gundeberga, se vogliam credere ai letterati francesi), questa principessa [1252] fu maritata in prime nozze con Arioaldo duca di Torino, creato poscia re dei Longobardi nell'anno 625. Passò dipoi, per attestato del medesimo storico, alle seconde nozze col re Rotari nell'anno 646, e, per conseguente, non potè essere moglie di Rodoaldo re, figliuolo di esso Rotari. Certo si può dubitar della età di Fredegario; ma non par già che si possa dubitare della di lui asserzione intorno ai matrimonii di Gundeberga. E per conto dell'accusa contro la di lei onestà, e del duello per cagion d'essa fatto, meglio è attenersi allo storico francese, che lo dice avvenuto a' tempi di Arioaldo, e non già per imputazione d'adulterio, ma per altro motivo siccome abbiam detto all'anno 629, 632 e 641.

Circa questi tempi (se pure non fu nell'anno susseguente), per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], Pasagnate patrizio dell'Armenia si ribellò all'imperadore Costante, e fece lega col figliuolo di Muavia generale dei Saraceni. Corse l'imperadore a Cesarea di Cappadocia, per essere più alla portata di soccorrere quel paese; ma veggendo disperato il caso, se ne tornò assai malcontento a Costantinopoli. Abbiamo ancora da Anastasio bibliotecario [Anastas. Bibliothec., in Vita S. Martini.] un fatto, taciuto dagli altri storici, ma assai importante per le cose di Italia. Cioè che i Saraceni prima d'ora aveano fatta una irruzione in Sicilia, ed ivi fissato il piede; perlochè fu spedito ordine ad Olimpio esarco d'Italia di passar con una flotta colà per iscacciarne que' ribaldi. Era tornato dianzi questo esarco a Roma con segreta incumbenza di mettere le mani addosso al buon papa Martino, e certo non tralasciò arte e diligenza alcuna per eseguire l'empio disegno. Ma conoscendo pericoloso questo attentato, a cagion dell'amore e rispetto professato ad esso vicario di Cristo non men dal popolo che dall'esercito romano, andarono a voto le sue trame, ancorchè lungo tempo si fermasse in Roma. [1253] Ricorse in fine al tradimento, e fingendo un divoto desiderio d'essere comunicato per mano del medesimo santo papa, si portò a tal fine alla messa solennemente celebrata da lui in santa Maria Maggiore. Avea commissione una delle guardie dell'esarco, allorchè il pontefice se gli accostava per dargli la sacra particola, di ammazzarlo. Ma Iddio non permise così orrendo eccesso; perciocchè miracolosamente quello sgherro non vide nè quando il pontefice diede la pace, nè quando porse la comunione all'esarco: cosa ch'egli dipoi attestò con giuramento a varie persone. Veggendo adunque Olimpio che la mano di Dio era in favore del santo pontefice, riconobbe il suo fallo, ed accordatosi seco, gli rivelò tutto quanto era stato ordinato a lui dall'imperadore, e da lui tentato fino a quel tempo. S'era con ciò rimessa la pace in Roma quando arrivò ordine a questo esarco di raunar l'esercito e di passare con esso in Sicilia per procurar di sloggiare i perfidi Saraceni. V'andò egli, ma per sua mala ventura vi andò, perchè lo esercito suo restò sconfitto, ed egli appresso per l'affanno e per una malattia sopraggiuntagli pagò l'indispensabil tributo della natura. E qui convien osservare, come si ha dalla relazione [Labbe, Concilior., tom. 6, pag. 68.] dell'empia persecuzione che vedremo fatta a papa Martino, fra gli altri falsi reati apposti a quel buon pontefice, esservi stato ancor questo, cioè ch'egli avea congiurata con Olimpio la rovina dell'imperadore, e però Doroteo patrizio della Cilicia gridò ch'esso papa Martino solus subvertit et perdidit universum Occidentem et delevit; et revera unius consilii fuit cum Olympio, et inimicos homicida imperatoris et romanae urbanitatis. Sicchè la pace fatta fra lui e l'esarco Olimpio, e la rotta dell'esercito imperiale in Sicilia diventarono delitti dell'ottimo papa: che per altro non si sa che alcuno in Italia in questi tempi si sollevasse contro dell'imperadore. Iniqui Greci, non si può [1254] qui non esclamare, e di lunga mano più iniqui per quello che racconteremo nell'anno susseguente. Dico così, acciocchè il lettore sempre più venga scorgendo che i Longobardi tanto villaneggiati da alcuni scrittori, erano ben divenuti padroni migliori e re più discreti che i Greci.


   
Anno di Cristo DCLIII. Indizione XI.
Martino papa 5.
Costantino, detto Costante, imperadore 13.
Ariberto re 1.

Per le ragioni addotte dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], succedette in quest'anno la lagrimevol scena di san Martino papa, e non già nell'anno 650, come si figurò il porporato annalista. O sul fine dell'anno precedente, o nel principio di questo, fu mandato a Ravenna il nuovo esarco di Italia, Giovanni Calliopa. Ch'egli prima avesse esercitata questa carica, si può tuttavia dubitare col suddetto cardinal Baronio, ancorchè Anastasio lo dica. Già covava l'imperador Costante non poco fiele contro del sommo pontefice Martino, perchè senza il suo consentimento era seguita la di lui consecrazione. Crebbe poi a dismisura l'odio, dacchè l'intrepido papa nel concilio lateranense avea proferita solenne sentenza contro il monotelismo, contro il Tipo dello stesso Costante imperadore, e contro i patriarchi di Costantinopoli, protettori di quella eresia. Paolo allora patriarca non lasciava di soffiar nel fuoco. Però venne il novello esarco, conducendo seco l'esercito ravennate, e con ordine risoluto di far prigione il papa. A questo effetto egli giunse a Roma nel dì 15 di giugno dell'anno presente. Ben sapeva il pontefice quel che si macchinava contro la di lui persona, ma egli s'era già disposto a soffrir tutto. Mandò ad incontrarlo alcuni del clero, giacchè non potè egli muoversi, per essere infermo fin dall'ottobre antecedente [Martin. PP. epist. 15 Concilior., tom. 6.]. Non trovando l'esarco fra essi il [1255] papa, disse loro che voleva ben esser egli ad adorarlo, cioè ad inchinarlo; ma che stanco del viaggio non potea per allora. Fu messo il concerto per la domenica seguente nella basilica costantiniana, ossia lateranense; l'esarco, per sospetto che vi concorresse troppo popolo, si astenne dall'andarvi. Mandò poi a dire nel seguente lunedì al papa, che avendo inteso come egli avea fatta adunanza di armi, di armati e di sassi nel palazzo lateranense, gli facea sapere ciò non essere nè necessario, nè bene. Allora il papa volle che que' medesimi messi andassero a chiarirsene con visitar tutto il palazzo; e nulla infatti vi trovarono. Avea fatto portare esso pontefice il suo letto davanti all'altare della basilica, ed ivi giaceva malato. Poco stette ad arrivar colà l'esarco Calliopa col suo esercito, armato di lance, spade e scudi, con archi tesi, facendo un terribil rumore. Quivi egli sfoderò un ordine dell'imperadore, in cui si facea sapere al clero, che Martino, siccome papa intruso, era deposto, e che però si venisse all'elezione d'un altro. Ciò non succedette per allora, e sperava anche il buon papa che non succederebbe; perchè, dice egli in una lettera a Teodoro, nella lontananza del pontefice tocca all'arcidiacono, all'arciprete e al primicerio di far le veci del papa. Avrebbe voluto il clero opporsi, ma il santo papa, che prima aveva abborrito ogni preparamento di difesa, ed avrebbe voluto morir dieci volte piuttosto che dar occasione ad omicidii, ordinò che niun si movesse. Fu condotto fuor di chiesa, e perchè il clero ben s'avvide che sì empia persecuzione veniva dalle controversie insorte per la fede, gridò alto: Sia scomunicato chi dirà o crederà che papa Martino abbia mutato, o sia per mutare un sol puntino nella fede, e chi fino alla morte non sarà costante nella fede ortodossa. Allora l'esarco, ben intendendo che mira avessero queste parole, immantinente rispose, che la stessa fede professata dai Romani la professava anch'egli.

[1256] Non ostante la licenza data al pontefice di condur seco chi gli era più a grado (al che molti s'erano esibiti, ed aveano già imbarcati i loro arnesi), egli fu segretamente la notte del dì 19 di luglio menato in barca, senza lasciargli prendere seco se non sei famigli e un bicchiere. S'incamminarono per mare a Miseno, indi in Calabria, dopo aver fatto scala in varie isole per tre mesi, arrivarono finalmente a quella di Nasso nell'Arcipelago, dove si fermarono per molti altri mesi. Una continua dissenteria, una somma debolezza e svogliatezza di stomaco affliggevano il santo pontefice, a cui non fu mai permesso di smontare in terra. La nave gli serviva di prigione. Venivano i sacerdoti ed altri fedeli di quella contrada a visitarlo e consolarlo; gli portavano anche regali di varie sorta; ma le sue guardie sul volto suo rapivano tutto, e strapazzavano quella gente pia, con dire che era nemico dell'imperadore chiunque portava amore a costui. Tale era lo stato dell'innocente e paziente pontefice, che non si può intendere senza fremere contro l'empietà e prepotenza di chi ordinò e di chi eseguì tanta crudeltà e vilipendio di un romano pontefice sì venerato da tutta la Chiesa di Dio. Per quanto s'ha da Paolo Diacono, Radoaldo re de' Longobardi regnò cinque anni e sette giorni. Per conseguente, dovrebbe prolungarsi la vita fino all'anno 657. Ma perchè Ariberto suo successore tenne il regno nove anni convien mettere, per le ragioni che diremo, il principio del regno di Grimoaldo all'anno 662, perciò convien dire, o che Paolo, il qual veramente poco o nulla seppe di Radoaldo, sbagliò, oppure che esso Radoaldo regnasse col padre la maggior parte di questo tempo, come sospettò il padre Bacchini [Bacchinius, in Notis ad Agnell., tom. 2 Rer. Ital.]; o, finalmente, che sia guasto il testo di Paolo, e che invece di quinque regnaverat annis, s'abbia quivi da leggere quinque regnaverat mensibus, come giudiziosamente [1257] immaginò il signor Sassi bibliotecario dell'Ambrosiana. In fatti, nell'antichissima Cronichetta longobardica, da me data alla luce nelle mie Antichità Italiane, si legge: Rodoald regnavit mensibus VI. Perciò tengo io per verisimile che nell'anno presente egli terminasse la vita e il corto suo regno. Fu violenta la morte sua, perchè venne ucciso dal marito di una donna, alla quale egli aveva usata violenza. In luogo suo fu sostituito Ariberto, figliuolo di Gundoaldo duca, cioè di un fratello della buona regina Teodelinda; con che passò lo scettro de' Longobardi in un personaggio di nazion bavarese; il che è da notare. Era Ariberto buon cattolico, e però, dacchè i Longobardi non ebbero difficoltà ad eleggerlo per loro regnante, par ben credibile che la maggior parte d'essi avesse ormai abbracciata la religione cattolica.


   
Anno di Cristo DCLIV. Indizione XII.
Martino papa 6.
Costantino, detto Costante, imperadore 14.
Ariberto re 2.

Dalla relazione [Labbe, Concilior., tom. 4, pag. 67.], che tuttavia esiste, dei travagli di san Martino papa, noi ricaviamo ch'egli fu condotto dall'isola di Nasso a Costantinopoli, dove giunse nel dì 17 di settembre dell'anno presente. Quivi fu messo in carcere, e vi stette tre mesi, senza poter parlare a chicchessia. Nel dì 19 di dicembre dal sacellario, ossia fiscale, ossia tesoriere di corte, fu posto all'esame, e prodotti gli accusatori suoi. A chi ha la forza e vuol fare una segreta vendetta, non mancano mai pretesti per palliare col manto della giustizia l'iniquo suo talento. Le vere cagioni di sì empia persecuzione contro del santo pontefice, già le abbiam vedute; ma si guardavano bene gli scaltri ministri imperiali di mettere in campo la di lui consecrazione e la condanna [1258] del monotelismo. Le calunniose accuse consistevano in dire, ch'egli avesse congiurato con Olimpio esarco contro dell'imperadore, e tenuta corrispondenza coi Saraceni in danno dello stato: il che ci fa conghietturare che a lui imputassero infin la calata di que' Barbari in Sicilia. Ridicole imputazioni. Se il buon papa avesse nudrito di questi disegni, non avea che da intendersi coi Longobardi confinanti nella Toscana, e nei ducati di Benevento e Spoleti. Avrebbono ben essi saputo profittar di sì bella occasione per sostenere il papa e nuocere all'imperadore. Rispose il papa, che se Olimpio avea mancato al suo dovere, non avea certo un romano pontefice forza da resistergli. E perchè egli volle far menzione del Tipo imperiale portato a Roma, Troilo prefetto lo interruppe, dicendo che qui non si trattava di fede, ma di delitti di stato; soggiugnendo: Noi siam tutti cristiani ed ortodossi, tanto noi, quanto i Romani. Replicò allora il pontefice: Piacesse a Dio; ma al tribunale di Dio ve ne dimanderò io conto un giorno. In quanto ai Saraceni, protestò di non aver mai scritte lettere a que' nemici del cristianesimo, nè lor mandato danaro: solamente avea data qualche limosina ai servi di Dio che venivano da quelle parti, ma non mai ai Saraceni. Gli fu parimente opposto di avere sparlato della beatissima Vergine Maria. Di questo misfatto gli eutichiani monoteliti soleano incolpare i cattolici, quasichè questi fossero nestoriani. Ma il papa pronunziò tosto scomunica contro chi non onorava la santissima Madre di Dio sopra ogni altra creatura, a riserva del suo divino Figliuolo. Poi veggendo che gli empii ministri seguitavano a mettere in campo sì mendicate e slombate accuse, li scongiurò di far presto quel che intendeano di fare, perchè così gli procurerebbono una gran ricompensa in cielo. Levossi il sacellario, e recò all'imperadore l'avviso dell'esame; poscia ritornato, fece portare nel pubblico [1259] cortile, dove era gran folla di popolo, il papa in una sedia perchè, a cagione della sua infermità, non potea camminare, e neppur tenersi ritto in piedi. Quivi dalle guardie gli fu levato il pallio archiepiscopale, il mantello con tutti gli altri abiti, in guisa che rimase quasi nudo. Poscia, postogli un collare di ferro al collo il trassero fuori del palazzo, menandolo per mezzo alla città, come condannato alla morte. Egli con volto sereno sofferiva tante ingiurie, e la maggior parte del popolo spettatore piangeva e gemeva a così indegno spettacolo. Fu condotto in prigione, e lasciato senza fuoco, benchè allora si facesse sentire un freddo intollerabile. Le donne nondimeno del guardiano mosse a compassione il posero in letto, e il coprirono bene con panni, acciocchè si riscaldasse; ma egli fino alla sera non potè parlare.

Nel giorno seguente l'imperadore fu a visitare il patriarca Paolo, che era gravemente malato, e gli raccontò quanto era avvenuto del papa. Allora Paolo, volgendosi verso la parete, disse: Oimè! questo ancora per accrescere la condanna! Interrogato da Costante, perchè parlasse così, rispose essere ben cosa deplorabile il trattare in tal forma chi era romano pontefice. E poscia scongiurollo di non farne di più, che troppo ancor s'era fatto. Morì da lì a poco il patriarca Paolo, e trattossi di dargli per successore Pirro, già deposto. Ma perciocchè da molti gli era opposto il memoriale da lui tempo fa esibito in Roma al papa, in cui condannava l'errore dei monoteliti, ed egli sparse voce che aveva ciò fatto per violenza usata con lui, dopo otto giorni Demostene notaio del sacellerio fu inviato alla prigione, per esaminar su questo punto il papa. Egli rispose con gran fermezza, e citò i testimonii che Pirro spontaneamente l'avea fatto, nè gli era stato usato alcun mal trattamento. Poi si raccomandò che sbrigassero l'affare della sua vita; ma [1260] che sapessero ch'egli non comunicava colla Chiesa di Costantinopoli. Fino al dì 8 del mese di settembre era stato costante il clero romano in non voler eleggere alcun papa, ancorchè l'imperadore tenesse per deposto Martino, e loro avesse intimata l'elezione di un altro. Ma ossia che le istanze e minacce de' ministri imperiali soperchiassero la loro costanza, oppure, come è più probabile, che temessero di veder comparire a Roma qualche eretico inviato dell'imperadore ad occupar la cattedra di san Pietro: finalmente nel dì suddetto elessero papa Eugenio di nazione romano personaggio di gran benignità e di santi costumi, il quale mandò tosto i suoi apocrisarii a Costantinopoli. Ma questi si lasciarono quasi imbrogliare dai ripieghi inventati dai monoteliti. In questo medesimo anno ancora fu condotto prigione a Costantinopoli san Massimo abate, quello stesso che disputò con Pirro già patriarca, e che ito a Roma era divenuto il braccio destro del santo pontefice Martino. Da Roma anch'egli fu nell'anno precedente tratto per forza, e perseguitato poscia per più anni non per altro delitto, se non perchè fu uno dei più forti atleti della Chiesa di Dio contro de' monoteliti, ancorchè ridicolosamente fosse imputata a lui la perdita dell'Egitto, della Pentapoli e dell'Africa, provincie prese dai Saraceni. Nel mese ancora di aprile di quest'anno Costante imperadore dichiarò Augusto e collega nell'imperio Costantino, chiamato per soprannome Pogonato, cioè barbato, suo figliuolo primogenito. Fu eziandio presa l'isola di Rodi da Muavia generale dei Saraceni [Theoph., in Chronogr.]. Dicesi che il suo mirabil colosso, che era durato in piedi per mille trecento e settanta anni, fu allora abbattuto; e che di quel bronzo un Giudeo di Edessa, che lo comperò, ne caricò novecento cammelli. L'andare adagio a credere certe maravigliose cose narrate dagli scrittori antichi, se lontane [1261] dai lor tempi, pare che sia in obbligo di chi desidera di non essere ingannato.


   
Anno di Cristo DCLV. Indizione XIII.
Eugenio papa 1.
Costantino, detto Costante, imperadore 15.
Ariberto re 3.

Stette in prigione il santo pontefice Martino sino al dì 15 di marzo del presente anno, e di là preso ed imbarcato, segretamente fu condotto alla città di Chersona, o Chersonesa, luogo destinato pel suo esilio nel Chersoneso, ossia nella penisola, oggidì appellata la Crimea. Dalle lettere ch'egli scrisse in questo anno si conoscono i gravi patimenti suoi, sì per le continue malattie, come per la mancanza di tutte le cose, anche di quelle che sono necessarie al vitto. Ma finalmente venne Iddio a visitarlo, cioè a trarlo dalle miserie del mondo presente, per coronare e ricompensare nell'altro l'ammirabile sua costanza nel sostenere le vera fede e l'egual sua pazienza in sopportar tanti travagli, per i quali la Chiesa latina l'ha sempre onorato ed onora qual glorioso martire, e la greca qual insigne confessore. Succedette la morte sua nel dì 16 di settembre del presente anno, benchè Teofane la rapporti più tardi; ma si celebra la festa sua nel dì 12 di novembre, giorno, in cui, trasferito il suo sacro corpo a Roma, ebbe onorata sepoltura. Crede il cardinal Baronio che dopo la sua morte fosse convalidata la elezion di Eugenio papa suo successore con un consenso nuovo del clero. Ma di ciò niun vestigio resta nella storia antica. Certo è che Eugenio fu eletto e riconosciuto per vero papa nell'anno precedente, e quantunque ragion voglia che finchè visse san Martino, s'abbia esso da tenere per non decaduto dal pontificato: pure fa stranezza e lo sconcerto di questi tempi fece passare per legittima l'elezione e consecrazione di papa Eugenio, anche vivente san Martino. [1262] A Paolo patriarca di Costantinopoli defunto fu finalmente sostituito in quella chiesa Pirro dianzi deposto. Ma costui non godè se non quattro mesi e ventitrè giorni della sua fortuna, perchè fu chiamato da Dio al rendimento de' conti. Dopo lui entrò in quella sedia patriarcale Pietro, prete della medesima chiesa, che la governò dodici anni e sette mesi. A quest'anno ancora può essere che appartenga ciò che narra Teofane dopo la morte di Paolo patriarca: cioè che Muavia general dei Saraceni fece un gran preparamento di navi e d'armati per procedere alla volta di Costantinopoli. L'imperador Costante, anch'egli con una buona flotta andò ne' porti della Licia, e quivi arrivato che fu il nemico, attaccò seco battaglia. Vi fu gran sangue; ma infine la peggio toccò ai cristiani; e l'imperadore, se non era l'accortezza di un valoroso cristiano, che trattolo fuori della capitana e messolo travestito in un'altra nave, gli diede campo di salvarsi colla fuga, egli cadeva nelle mani d'essi Saraceni, che a forza d'armi sottomisero poco appresso la medesima capitana.


   
Anno di Cristo DCLVI. Indizione XIV.
Eugenio papa 2.
Costantino, detto Costante, imperadore 16.
Ariberto re 4.

Abbiamo da Anastasio bibliotecario [Anast. Bibliothec., in Eugen. I.] che il novello patriarca di Costantinopoli Pietro inviò in quest'anno a papa Eugenio, secondo il costume, lo avviso della sua assunzione a quella cattedra, ed insieme l'esposizion della sua credenza. Ma era questa conceputa con termini molto scuri, cioè colla condanna bensì di tutte le eresie e di tutti gli eretici, ma con ischivare furbescamente la controversia delle due volontà che la Chiesa romana maestra dell'altre riconosceva nel Signor nostro Gesù Cristo, [1263] ed avevano anche riconosciuto i santi padri. Non il solo clero, ma, quel che è più ad ammirare, anche il popolo romano, zelante per la conservazione della vera dottrina, fece una specie di sollevazione, con rigettare strepitosamente la lettera sinodica d'esso patriarca. Erano sì gli uni che gli altri disgustati forte contro de' patriarchi di Costantinopoli, ben conoscendo che loro si doveva attribuire, se non la nascita, almeno il fomento e l'ingrandimento dell'eresia de' monoteliti, e che dalla loro istigazione erano proceduti tutti gli strapazzi e le crudeltà usate dall'imperador Costante al santo degnissimo pontefice Martino. E se non fosse stata questa persuasione in Roma, è da credere che non avrebbe avuta la Sede apostolica tanta pazienza verso di un Augusto persecutore della Chiesa e del capo visibile di essa. Andò tanto innanzi la commozion del clero e popolo suddetto, che non permisero a papa Eugenio di celebrar messa nella basilica di santa Maria al Presepio, oggidì santa Maria Maggiore, finchè non si fu obbligato di non accettar la lettera suddetta del patriarca Pietro. Volle in quest'anno Iddio rintuzzare alquanto la superbia de' Saraceni e frenare il corso impetuoso delle conquiste, che oramai minacciavano l'Italia stessa e le provincie che restavano in Oriente del romano imperio. Perciocchè il loro califa, ossia principe Osmano ossia Otmano, per far la relazion di Teofane [Theoph., in Chronog.] e di Elmacino [Elmacinus, Hist. Sarac., lib. 1. cap. 4.], fu ucciso dai suoi: per la qual morte nacque gran divisione fra quei Barbari. Alì, genero di Maometto, era sostenuto per succedere nel califato dai Monsulmani, cioè Arabi e Saraceni dell'Arabia e della Persia; e veramente dopo avere abbattuta la fazion dei parenti ed amici d'Otmano, ebbe il principato. Ma Muavia, col favore de' Saraceni della Soria e dell'Egitto, prese l'armi e disputò l'imperio all'altro [1264] con essere durata gran tempo quella guerra civile fra loro. Di questi fatti chi fosse curioso, non ha che a leggere l'antico Elmacino nella sua Storia saracenica, e massimamente il moderno Erbelot franzese nella sua Biblioteca orientale, che anche più diffusamente dell'altro ne tratta. Tali dissensioni fra quei popoli, divenuti ormai il terrore dell'Asia e dell'Europa, lasciarono per qualche tempo respirare il romano imperio, e può essere che i Greci e Romani si prevalessero di questa congiuntura per cacciarli fuori di Sicilia, giacchè non apparisce che da lì innanzi avessero signoria alcuna in quell'isola. Terminò in quest'anno il corso di sua vita Sigeberto, re de' Franchi, con lasciar dopo di sè un piccolo figliuolo appellato Dagoberto II, ch'egli raccomandò alla cura di Grimoaldo, suo maggiordomo, cioè ad un infedele e traditore, il quale usurpò al legittimo signore la corona per metterla in testa a Childeberto suo figliuolo. Ma Dio il pagò di buona moneta. Preso egli da Clodoveo II re di Parigi, finì nei tormenti la vita, e fu deposto il di lui figliuolo. Mancò di vita poco dipoi esso Clodoveo II, e pervenne il regno a Clotario III di lui figliuolo.


   
Anno di Cristo DCLVII. Indizione XV.
Vitaliano papa 1.
Costantino, detto Costante, imperadore 17.
Ariberto re 5.

Nel primo giorno di giugno di questo anno venne a morte papa Eugenio, dopo aver governata la Chiesa romana per due anni, otto mesi e ventiquattro giorni. Stette vacante la sede pontificia un mese e ventinove giorni, e finalmente fu consecrato papa Vitaliano, nativo di Segna, città episcopale della Campania. Abbiamo da Anastasio bibliotecario [Anastas., in Vitalian.] ch'egli spedì tosto i suoi apocrisarii a Costantinopoli, per significare [1265] la sua assunzione al papato ai due imperadori Costante e Costantino. Siccome papa Eugenio non avea scritto a Paolo allora patriarca di Costantinopoli, così neppur egli pare che scrivesse a Pietro succeduto nel governo di quella Chiesa. Non ben apparisce come si contenessero il pontefice Vitaliano e i suoi nunzii, per conto delle controversie della fede coll'imperador Costante protettore de' monoteliti. Solamente sappiamo da Anastasio ch'esso pontefice regulam ecclesiasticam et vigorem, ut mos erat, omni modo conservavit; siccome ancora che il suddetto imperadore fece buona ciera ai ministri pontificii, confermò i privilegii alla santa Chiesa romana, e mandò per i medesimi a donare a san Pietro di Roma il libro dei Vangeli, legato con tavole d'oro tempestate di gemme bianche di mirabil grandezza. Contendevano intanto per l'imperio saracenico Alì e Muavia. I due loro nemici eserciti, come s'ha da Teofane [Theoph., in Chronogr.], furono a fronte presso l'Eufrate. Muavia generale veterano ebbe l'accortezza di occupar le rive di quel fiume; rimasto superiore in un conflitto, lasciò che per la sete si disfacesse il resto dall'armata nemica. Elmacino scrive [Elmac., lib. 1, cap 4.] che seguirono fra questi due rivali assaissime altre zuffe; che si trattò d'aggiustamento, e furono scelti gli arbitri; ma che in fine la spada fu quella che decise.


   
Anno di Cristo DCLVIII. Indizione I.
Vitaliano papa 2.
Costantino, detto Costante, imperadore 18.
Ariberto re 6.

Le dissensioni che bollivano fra i principi de' Saraceni, diedero campo in quest'anno all'imperadore Costante, per quanto vien raccontato da Teofane [Theoph., ibidem.], di passar coll'esercito suo ne' paesi posseduti [1266] degli Sclavi o vogliam dire Schiavoni, che negli anni addietro aveano danneggiato cotanto le provincie del romano imperio. Se si ha da prestar fede a quello storico, che solo ci dà lume per gli avvenimenti della Grecia in questi tempi, a lui riuscì di soggiogare il loro paese, e di condur via una gran copia di prigioni. Ma si stenterà a credere che egli sottomettesse al suo dominio quei Barbari, dacchè noi li troveremo più vigorosi che mai, andando innanzi. Forse tolse loro qualche parte delle loro contrade, ma non già tutto il regno loro. Lasciò scritto il medesimo storico che in quest'anno esso imperador Costante, ad istigazione de' monoteliti, fece tagliar la lingua a san Massimo abate, cioè a quell'infaticabile e glorioso campione, che in questi tempi fu il flagello dei monoteliti, e valentissimo difensore della vera dottrina della Chiesa. Ma il Pagi pretende che ciò succedesse molto più tardi. Elmacino poi [Elmacinus, lib. 1, cap. 4, pag. 38.] ci fa sapere che fu disputato forte in quest'anno tra i due pretendenti Saraceni il possesso dell'Egitto, e che in fine riuscì a Muavia di abbattere in quelle parti gli uffiziali di Alì, e di diventarne padrone: il che si dee intendere fatto anche della Palestina. Nè si legge che l'imperador Costante fin qui profittasse punto del tempo propizio che gli offeriva la fortuna di poter ricuperare alcuno dei tanti paesi occupati al greco imperio dalla nazione arabica. Solamente nell'anno seguente l'addormentato principe si dovette svegliare.


   
Anno di Cristo DCLIX. Indizione II.
Vitaliano papa 3.
Costantino, detto Costante, imperatore 19.
Ariberto re 7.

Ebbe timore in questi tempi Muavia, cioè uno de principi contendenti dell'imperio saracenico, e padron della Soria e dell'Egitto, che l'imperador Costante [1267] potesse assalirlo alle spalle, quando egli si trovava cotanto impegnato nella guerra col suo oppositore Alì; e però s'indusse a chieder pace da esso Augusto, con obbligarsi di pagargli ogni giorno dell'anno mille nummi, un cavallo ed un servo. Ma, se è vero ciò che scrive Cedreno [Cedren, in Annalib.], questa pace non fu accettata da Costante. Abbiamo poi dagli atti del concilio sesto ecumenico [Acta Synodi VI, Act. 15.] che in quest'anno dal medesimo imperador Costante furono dichiarati Cesari i due suoi figliuoli Eraclio e Tiberio. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl., ad ann. 659.], che sotto quest'anno, cioè fuor di sito, rapporta la morte di Rodoaldo re de' Longobardi, con dire succeduto a lui nel trono il re Ariberto, fa sapere ai lettori, che i re longobardi essendo tuttavia ariani, davano molto da fare ai vescovi cattolici che difendeano la religione cattolica. Fra questi, dice egli, specialmente si distinsero Giovanni per soprannome chiamato il buono, arcivescovo di Milano, e Giovanni vescovo di Bergamo, che andavano concordi in sostener la fede cattolica. L'un d'essi, cioè il secondo, in sì fatto combattimento si guadagnò la gloria del martirio, come si ha dalle memorie di quella Chiesa, non restando però gli atti del suo martirio. L'altro, ancorchè non conseguisse la corona de' martiri, pur meritò d'essere scritto nel catalogo de' santi. Della santità di questi due vescovi siam d'accordo col cardinale annalista: il resto è tutto immaginazione. In questi tempi il re de' Longobardi Ariberto, al pari della buona regina Teodelinda sua zia paterna, professava la religion cattolica, nè si sa per documento alcuno autentico che dai re longobardi fosse fatta la menoma persecuzione ai vescovi o fedeli della Chiesa cattolica. San Giovanni buono tranquillamente governò il suo gregge ambrosiano, nè resta memoria che alcuno o l'inquietasse o gli torcesse un capello. [1268] Di Giovanni vescovo di Bergamo, siccome vedremo, come di un prelato santo, parla Paolo Diacono, ma niun altro riscontro degno di attenzione si ha per crederlo morto martire. Il Muzio, che ce ne diede la storia, fabbricolla col suo cervello, inventore di altre imposture. E chiunque legge la farragine delle storie di Bergamo di fra Celestino cappuccino [Celest. in Istor. di Bergam., part. II, lib. 14.], truova non rade volte un miscuglio di favole e di cose solamente immaginate, ma non provate. Quel che è più, non s'accorse egli, nè s'accorsero altri scrittori di quella città, che il fondamento del martirio di quel santo vescovo fu preso dalla seguente iscrizione, che dicono trovata nell'antica cattedrale:

HIC REQVIESCIT IN PACE B. M. JOANNES
EPS. QUI VIXIT ANN. M. I. XXII.
DP. SV. K. D. IND. IIII. IMPER.
IVSTINIANO.

Benchè v'abbia degli spropositi, e specialmente in quegli anni e mesi, pure si può credere che leggendo sub kalendis decembris (l'Ughelli [Ughellius, tom. 4 Italia Sacr. in Episcop. Bergam.] legge XII kal. decembr.) si possa riferir la morte di san Giovanni vescovo bergamasco all'anno di Cristo 690, nel cui dicembre correva l'indizione quarta, e regnava Giustiniano II; e si sa da Paolo Diacono che appunto in que' tempi visse il vescovo suddetto. Fra Celestino di suo capriccio andò a sognare un altro san Giovanni vescovo a' tempi di Giustiniano I Augusto, per moltiplicare i santi alla sua Chiesa. E inoltre ricavò dalle due lettere B. M. ch'egli era stato beatus martyr. Ma, siccome osservò anche a' suoi tempi l'Ughelli, altro quelle parole non vogliono dire, se non bonae memoriae; e però santo sì, ma non martire è da dire quel glorioso vescovo, di cui tornerà occasion di parlare più abbasso, nè luogo resta ad imputare a questi re longobardi persecuzione alcuna della Chiesa cattolica.


[1269]

   
Anno di Cristo DCLX. Indizione III.
Vitaliano papa 4.
Costantino, detto Costante, imperadore 20.
Ariberto re 8.

Fin quando vivea Paolo patriarca di Costantinopoli, l'imperador Costante fece per forza ordinar diacono Teodosio suo fratello. In quest'anno poi (la cagione o pretesto non si sa), per attestato di Teofane [Theoph., in Chronogr.], di Cedreno [Cedren., in Annal.] e di Zonara [Zonar., in Histor.], esso imperadore barbaramente gli fece levar la vita. Scrive Cedreno che Costante più volte avea preso alla sacra mensa il calice del Sangue del Signore dalle mani d'esso suo fratello diacono. Dopo averlo fatto ammazzare, dormendo gli parea spesso di vedere il medesimo che gli porgeva un calice pieno di sangue, con dirgli: Bevi, fratello. Questa orrida immaginazione impresse tal terrore in capo all'imperadore, aggiuntovi ancora l'odio del popolo per l'empia tirannia usata verso il santo pontefice Martino, per la protezion dell'eresia dei monoteliti e per la morte iniquamente data al suddetto suo fratello, che s'indusse poi alla risoluzione che riferiremo di sotto all'anno 663. Abbiamo da Teofane e da Elmacino che sotto il presente anno, dopo essere seguita una specie di pace fra Alì califa de' Saraceni e Muavia suo competitore, esso Alì fu proditoriamente ucciso dai suoi. Fedeli specialmente a costui erano i Saraceni della Persia, e di qui ebbe origine lo scisma e l'odio che tuttavia dura dei Persiani seguaci della setta d'esso Alì contro gli altri Maomettani seguaci della setta di Omaro e di Muavia, quali oggidì sono i Turchi ed altri popoli delle Indie, professando ben tutte quelle nazioni la superstizione maomettana, ma trattando l'una l'altra col nome di eretici, secondo la diversità delle [1270] sette. Fu successore di Alì Aseno suo figliuolo, ma non durò che sei mesi il suo principato, perchè sopraffatto dalle forze di Muavia, rinunziò all'imperio: con che esso Muavia rimase interamente signore della vasta monarchia de' Saraceni con danno della cristianità, siccome vedremo. Diè perfezione in questi tempi Ariberto re cattolico dei Longobardi alla chiesa di san Salvatore [Paulus Diaconus, lib. 4, cap. 50.], da lui fabbricata fuori della porta occidentale di Pavia, appellata Marenga; l'arricchì di preziosi ornamenti, e nobilmente ancora la dotò. Quivi poi la santa imperadrice Adelaide nel secolo decimo edificò un insigne monistero di Benedettini. Credette il padre Mabillone [Mabill. Annal. Benedict. lib. 18, n. 26.] diversa questa chiesa, fattura del re Ariberto, dall'altra, dove ora è il monistero suddetto. Ma certo è, per consenso anche degli storici pavesi, essere la stessa, ed io il mostrerò quivi seppellito. Quivi ancora si tiene che esistesse un palazzo dei re longobardi.


   
Anno di Cristo DCLXI. Indizione IV.
Vitaliano papa 5.
Costantino, detto Costante, imperadore 21.
Bertarido e Godeberto re 1.

A quest'anno riferisce Teofane il principio dello scisma spettante alla superstizione maomettana, di cui abbiam parlato di sopra. Egli scrive che saltò fuori l'eresia degli Arabi, chiamata dei Carurgiti. Che Muavia si oppose e domò chiunque la professava, con aver maltrattato quei che abitavano nella Persia, e al contrario colmati d'onori e beneficii quei che abitavano nella Soria, come attaccati alla sua setta, cioè a quella di Omaro, contraria a quella d'Alì. Consistevano le dissensioni di costoro nelle diversità delle interpretazioni date all'Alcorano. Se crediamo agli scrittori ferraresi, circa questi tempi fu creato il primo vescovo di Ferrara Martino, da [1271] papa Vitaliano, essendo stata trasportata colà la sedia episcopale, che in addietro era nella terra di Vicohabentia, ossia Vicovenza. Il Sigonio [Sigon., de Regn. Italiae, lib. 2.] accenna e l'Ughelli [Ughell. Ital. Sacr. tom. 2, in Episcop. Ferrar.] rapporta la bolla dell'istituzione d'esso vescovato, data da esso papa, coll'approvazione dell'imperador Costantino, da cui si raccoglie che già Ferrara portava il nome di città, e il suo territorio vien detto ducato di Ferrara. Leggonsi parimente ivi i privilegii conceduti non meno dal papa che dallo stesso imperadore sì alla Chiesa che al popolo di Ferrara. Ma non potè astenersi lo stesso Ughelli dal mettere in dubbio la legittimità di quel documento, privo delle sue note cronologiche; e doveva egli piuttosto dire esser quello una delle più ridicolose imposture de' secoli barbari, a dimostrare le di cui falsità sarebbe malamente impiegato il tempo e la parola. Per altro non è improbabile che in questi tempi Ferrara cominciasse a formare i primi lineamenti del suo corpo, perchè a poco a poco si andavano seccando e ristringendo le sterminate paludi che occupavano tutto quel che ora è territorio di Ferrara, cagionate dal Po e da altri fiumi allora sregolati e senz'argini. Ma, siccome vedremo verso il fine di questo secolo, in ragionando dell'esarcato di Ravenna, neppur allora Ferrara doveva fare figura alcuna. E nel concilio romano dell'anno 679 forse intervenne il vescovo di Vicovenza, ma non già di Ferrara. Correndo l'anno nono del regno di Ariberto re de' Longobardi, bavarese di nazione, venne la morte a levargli lo scettro di mano. Fu posto il suo cadavere nella chiesa di san Salvatore, da lui fabbricata fuori della porta occidentale di Pavia, siccome apparirà dall'iscrizione che porterò più abbasso [Paulus Diacon., lib. 4, cap. 53.]. Lasciò dopo di sè due giovani figliuoli, Bertarido ossia Pertarito, e Godeberto ossia Gundeberto, che volle egualmente eredi e successori [1272] nel regno, con averlo diviso in due parti e assegnata a ciascuno la sua. Fece Godeberto la sua residenza in Pavia, Bertarido in Milano. Nè s'avvide il buon re ch'egli lasciava ai figliuoli un gran seminario di liti e d'odii. A Bertarido primogenito dovette dispiacere di mirar uguagliato a sè il fratello minore, nè mancavano persone maligne che accendevano il fuoco. Controversie ancora dovettero insorgere per i confini. Però la pazza discordia entrò tosto a sconvolgere gli animi dei due re fratelli, con istudiarsi cadaun d'essi d'occupare la parte dell'altro. Dove andasse a terminar questa funesta divisione, lo vedremo nell'anno venturo. Secondo i conti del Sigonio, sino a quest'anno condusse i giorni di sua vita Grasolfo duca del Friuli. Onde egli abbia presi i fondamenti di tal cronologia, nol so dire, perchè presso gli antichi non ne veggo vestigio. A me inoltre par difficile ch'esso Grasolfo, quando fosse vero che egli succedesse nell'anno 611, come pare che accenni Paolo Diacono, in quel ducato, prolungasse il suo vivere sino al presente anno 661. E tanto meno sarebbe ciò da credere, se questo Grasolfo fosse stato quel medesimo, di cui parlò Romano esarco in una lettera dai noi citata di sopra all'anno 590 come parve che stimasse il padre de Rubeis [De Rubeis Monument. Eccl. Aquilejens. c. 34.]: al che io non so acconsentire, perchè in esso anno 590, quel Grasolfo avea già un figliuolo appellato Gisolfo, e questi era duca del Friuli. Quel che è certo, siccome abbiamo da Paolo, il duca Grasolfo ebbe per successore in quel ducato Agone, e verisimilmente molti anni prima del presente.


   
Anno di Cristo DCLXII. Indizione V.
Vitaliano papa 6.
Costantino, detto Costante, imperadore 22.
Grimoaldo re 1.

Era malcontento l'imperadore Costante del suo soggiorno in Costantinopoli, [1273] dove conosceva d'essere incorso per le indegne sue azioni nell'odio di tutti. Forse anche egli temeva che non fosse sicura la sua vita in quella dominante. Perciò prese la determinazione di ritirarsi altrove. Abbiamo da Teofane [Theoph., in Chronogr.] ch'egli in questo medesimo anno uscì di quella città, seco portando il meglio de' suoi arredi; e voce correva che egli venisse in Italia per passare il resto de' suoi giorni in Roma. Dacchè se ne fu partito, mandò gente a prender la moglie e i suoi tre figliuoli Costantino, Eraclio e Tiberio, con pensiero di condurli seco. Ma il senato di Costantinopoli e il popolo vi si oppose. Loro non dispiaceva già la lontananza d'un imperadore, in cui tanto possesso aveano preso i vizii, ma non potea già lor piacere il veder affatto priva di corte la regale loro città, con pericolo che in altro lontano paese si venisse a stabilir per sempre la residenza degli Augusti. Però non permisero che que' principi tenessero dietro al padre. In quest'anno fu chiamato da Dio a miglior vita il santo abate Massimo, di cui più volte s'è parlato di sopra, glorioso difensore della Chiesa cattolica non men colla voce che con gli scritti, e conseguì il titolo di martire per la fiera persecuzione a lui fatta dall'imperador Costante, per cui ordine dianzi gli era stata tagliata la lingua. Andarono poi tanto innanzi i dissapori e le nimicizie svegliate fra i due re novelli Bertarido e Godeberto, che si venne alle armi, ansanti amendue di detronizzare l'un l'altro. Può essere che Godeberto si sentisse men forte e in necessità di soccorso, ed in fatti sel procurò. Chiamato a sè Garibaldo duca di Torino, lo spedì a Grimoaldo duca di Benevento, principe di gran valore, per pregarlo di venire in aiuto suo contra del fratello Bertarido, con promettergli in moglie una sua sorella. Andò Garibaldo, ma l'infedeltà e l'ambizione si accordarono insieme per produrre un effetto [1274] tutto opposto all'espettazione di Godeberto: cioè l'iniquo ambasciatore in vece di eseguir fedelmente la commissione del suo signore, persuase a Grimoaldo di farsi egli re, giacchè il regno pativa ed era per patir troppo sotto due re giovanetti, inesperti e sì accaniti l'un contra dell'altro: laddove egli maturo di età e di senno, e principe bellicoso, era atto a ben governarlo e rimetterlo in buon sistema. Piacque il canto di questa sirena all'ambizioso Grimoaldo, e senza perdere tempo, lasciando Romoaldo suo figliuolo al governo di quel ducato, e messa insieme una forte armata, s'incamminò alla volta di Pavia. Grimoaldo è spropositatamente chiamato da Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], storico tanto apprezzato dal Pagi, dux Taurinacium. La sua venuta a Pavia è da lui e dal Sigonio [Sigon., de Regno Italiae.] riferita all'anno 661; il che non può stare, discordando ciò dalle note cronologiche delle leggi d'esso Grimoaldo, delle quali parleremo all'anno 668. Crede esso Pagi che la mossa del medesimo Grimoaldo succedesse nell'anno precedente 660. Forse è più probabile nel presente, quando sussista la morte di Ariberto nell'anno precedente, e che dopo la di lui morte passasse un anno e tre mesi [Paulus Diaconus, lib. 5, cap. 33.] prima che Grimoaldo usurpasse il trono de' Longobardi.

Ora Grimoaldo mandò innanzi Trasimondo conte di Capua, dandogli ordine espresso di procurargli, in passando per le città del ducato di Spoleti e della Toscana, quanti amici e partigiani egli poteva, per effettuare il conceputo disegno. Non mancò di farlo Trasimondo, e messo anch'egli insieme un buon corpo di gente, tutto disposto a' suoi voleri, si presentò con questo rinforzo a Grimoaldo, allorchè dalla Toscana calò nella Via Emilia, probabilmente verso Modena o Reggio. Inoltratasi quest'armata a Piacenza, allora Grimoaldo mandò innanzi il traditor [1275] Garibaldo, per avvisare il re Godeberto, che a momenti anch'egli arriverebbe in Pavia per aiutarlo. Fu consigliato il re di dar alloggio nel suo proprio palazzo al ben venuto duca di Benevento; poscia prima che si abboccassero insieme, l'infedel Garibaldo susurrò nell'orecchio al re dei sospetti contra di Grimoaldo, e poi gli disse che non era se non bene ch'egli sotto panni portasse l'armatura per tutti i bisogni che potessero occorrere. Altrettanto fece con Grimoaldo, facendogli credere che il re voleva ammazzarlo: cosa nondimeno difficile a credere, perchè Grimoaldo già aveva ordita la trama, nè v'era bisogno di fingere questi sospetti per conto suo. Il fatto sta, che abboccatisi i due principi, Grimoaldo in abbracciare il re, sentendo ch'egli portava l'armatura indosso, e prevalendosi di questo pretesto, sguainò la spada e l'uccise. Dopo di che occupò la sua reggia. Restò dello svenato re Godeberto un figliuolo per nome Ragimberto, o Ragumberto, fanciullo di poca età, che i servidori fedeli a suo padre misero in salvo, e segretamente allevarono. Grimoaldo [1276] non ne fece caso dipoi, nè il perseguitò a cagione della sua tenera età. Bertarido re di Milano all'avviso di quanto era accaduto al fratello, preso da giusta paura, oppure da viltà d'animo, con tanta fretta si diede alla fuga, che lasciò indietro la regina Rodelinda sua consorte, e un picciolo figliuolo per nome Cuniberto, che caddero nelle mani di Grimoaldo, e furono mandati in esilio a Benevento. Dappoichè Grimoaldo fu divenuto padron di Milano, non ebbe difficoltà a farsi proclamare re de' Longobardi nella dieta di Pavia; e per maggiormente assodarsi nel regno, volle anche aver per moglie la sorella dell'ucciso Godeberto, a lui promessa ne' patti sì infedelmente da lui eseguiti. Quindi rimandò al suo paese le milizie beneventane, colla forza delle quali avea conseguito il regno, nè verso d'esse fu scarso di regali. Parte nondimeno seco ne ritenne per sua guardia e sicurezza, e a questi donò una gran copia di poderi per loro ricompensa. Intanto il fuggito re Bertarido si ricoverò presso Cacano re degli Avari, ossia degli Unni, signore della Pannonia.

FINE DEL SECONDO VOLUME.


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CCCXLI CCCXLII CCCXLIII CCCXLIV CCCXLV CCCXLVI CCCXLVII CCCXLVIII CCCXLIX CCCL CCCLI CCCLII CCCLIII CCCLIV CCCLV CCCLVI CCCLVII CCCLVIII CCCLIX CCCLX CCCLXI CCCLXII CCCLXIII CCCLXIV CCCLXV CCCLXVI CCCLXVII CCCLXVIII CCCLXIX CCCLXX CCCLXXI CCCLXXII CCCLXXIII CCLXXIV CCCLXXV CCCLXXVI CCCLXXVII CCCLXXVIII CCCLXXIX CCCLXXX CCCLXXXI CCCLXXXII CCCLXXXIII CCCLXXXIV CCCLXXXV CCCLXXXVI CCCLXXXVII CCCLXXXVIII CCCLXXXIX CCCXC CCCXCI CCCXCII CCCXCIII CCCXCIV CCCXCV CCCXCVI CCCXCVII CCCXCVIII CCCXCIX CD CDI CDII CDIII CDIV CDV CDVI CDVII CDVIII CDIX CDX CDXI CDXII CDXIII CDXIV CDXV CDXVI CDXVII CDXVIII CDXIX CDXX CDXXI CDXXII CDXXIII CDXXIV CDXXV CDXXVI CDXXVII CDXXVIII CDXXIX CDXXX CDXXXI CDXXXII CDXXXIII CDXXXIV CDXXXV CDXXXVI CDXXXVII CDXXXVIII CDXXXIX CDXL CDXLI CDXLII CDXLIII CDXLIV CDXLV CDXLVI CDXLVII CDXLVIII CDXLIX CDL CDLI CDLII CDLIII CDLIV CDLV CDLVI CDLVII CDLVIII CDLIX CDLX CDLXI CDLXII CDLXIII CDLXIV CDLXV CDLXVI CDLXVII CDLXVIII CDLXIX CDLXX CDLXXI CDLXXII CDLXXIII CDLXXIV CDLXXV CDLXXVI CDLXXVII CDLXXVIII CDLXXIX CDLXXX CDLXXXI CDLXXXII CDLXXXIII CDLXXXIV CDLXXXV CDLXXXVI CDLXXXVII CDLXXXVIII CDLXXXIX CDXC CDXCI CDXCII CDXCIII CDXCIV CDXCV CDXCVI CDXCVII CDXCVIII CDXCIX D DI DII DIII DIV DV DVI DVII DVIII DIX DX DXI DXII DXIII DXIV DXV DXVI DXVII DXVIII DXIX DXX DXXI DXXII DXXIII DXXIV DXXV DXXVI DXXVII DXXVIII DXXIX DXXX DXXXI DXXXII DXXXIII DXXXIV DXXXV DXXXVI DXXXVII DXXXVIII DXXXIX DXL DXLI DXLII DXLIII DXLIV DXLV DXLVI DXLVII DXLVIII DXLIX DL DLI DLII DLIII DLIV DLV DLVI DLVII DLVIII DLIX DLX DLXI DLXII DLXIII DLXIV DLXV DLXVI DLXVII DLXVIII DLXIX DLXX DLXXI DLXXII DLXXIII DLXXIV DLXXV DLXXVI DLXXVII DLXXVIII DLXXIX DLXXX DLXXXI DLXXXII DLXXXIII DLXXXIV DLXXXV DLXXXVI DLXXXVII DLXXXVIII DLXXXIX DXC DXCI DXCII DXCIII DXCIV DXCV DXCVI DXCVII DXCVIII DXCIX DC DCI DCII DCIII DCIV DCV DCVI DCVII DCVIII DCIX DCX DCXI DCXII DCXIII DCXIV DCXV DCXVI DCXVII DCXVIII DCXIX DCXX DCXXI DCXXII DCXXIII DCXXIV DCXXV DCXXVI DCXXVII DCXXVIII DCXXIX DCXXX DCXXXI DCXXXII DCXXXIII DCXXXIV DCXXXV DCXXXVI DCXXXVII DCXXXVIII DCXXXIX DCXL DCXLI DCXLII DCXLIII DCXLIV DCXLV DCXLVI DCXLVII DCXLVIII DCXLIX DCL DCLI DCLII DCLIII DCLIV DCLV DCLVI DCLVII DCLVIII DCLIX DCLX DCLXI DCLXII

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (imperatore/imperadore, indirizzato/indrizzato, incoraggiato/incoraggito e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Per facilitare la consultazione è stato aggiunto un indice alla fine del testo.