The Project Gutenberg eBook of Dal mio verziere : saggi di polemica e di critica This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Dal mio verziere : saggi di polemica e di critica Author: Jolanda Release date: January 28, 2012 [eBook #38698] Language: Italian *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL MIO VERZIERE : SAGGI DI POLEMICA E DI CRITICA *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. This file was produced from images generously made available by The Internet Archive. JOLANDA Dal mio Verziere SAGGI DI POLEMICA E DI CRITICA Terza Edizione ROCCA S. CASCIANO LICINIO CAPPELLI, _Editore_ Libraio Editore di S. M. la Regina Madre ―――― PROPRIETÀ PRIVATA Rocca S. Casciano Stabilimento Tipografico Licinio Cappelli 1910. ―――― INDICE Per un sasso in colombaia. Un libro che giunge a proposito. Impressioni di un sogno. Poeta o Scienziato? Per colpa di un Poema. Aspettando un Alessandro. Sfumature. Giosuè Carducci: — Cadore. Il conte zio. Questioni femminili. Pleiade nuova. I. II. III. Edoardo Bellamy. Maternità. Narcisi e Poeti. Alberto Cantoni. I poeti nella Prosa. I. II. Cipressi. Fiori d’arancio. L’ultima Primavera. Opere buone. Italia e Poesia. Dal mio Verziere. I. Antonio Fogazzaro. Piccolo intermezzo in prosa. II. Gabriele D’Annunzio. Piccolo intermezzo in prosa. III. Enrico Panzacchi. Piccolo intermezzo in prosa. IV. Arturo Graf. Piccolo intermezzo in prosa V. Emilio Praga. Piccolo intermezzo in prosa VI. Guido Mazzoni. Piccolo intermezzo in prosa. VII. Edmondo De Amicis. Piccolo intermezzo in prosa. VIII. Contessa Lara. Piccolo intermezzo in prosa. IX. Mario Rapisardi. Piccolo intermezzo in prosa. X. Lorenzo Stecchetti. Piccolo intermezzo in prosa. XI. Arrigo Boito. Piccolo intermezzo in prosa. XII. Giosuè Carducci. [pg!5] _ad ELDA GIANELLI_ [pg!6] [pg!7] _Dilettissima,_ _Ti ringrazio d’avere affettuosamente assentito ch’io scriva in fronte a questa raccolta il tuo nome che è uno dei vanti gentili d’Italia. I gracili prodotti del mio verziere presentati così sembreranno forse meno meschini. A te, buona, qualcuno parrà anche dolce: come per me qualcuno, avvolto già nelle lontane luci del ricordo, ha perduto il suo qualunque valore reale per acquistarne uno fantastico, inestimabile._ _Questo libro contiene i documenti della nostra amicizia. Cominciammo, ti ricordi? con un bisticcio. Un mio interrogativo a proposito d’un poeta ti diede sui nervi: vi rispondesti con amabile vivacità. Io replicai, tu rispondesti di nuovo. E così ci accanimmo per qualche tempo intorno alla produzione intellettuale d’una persona ad entrambe affatto sconosciuta, la quale non avrà probabilmente mai saputo di questa cortese tenzone di dame per causa sua._ [pg!8] _Vennero, come messaggi di pace dall’una all’altra, libri, fotografie, lettere. Facemmo quello che gli avversari, in arte o in politica, dell’altro sesso non fanno: ci manifestammo con leale schiettezza la reciproca stima che le discordi opinioni non avevano punto scemato; ci stendemmo la mano attraverso il mare._ _Molte circostanze dolorose della mia vita, la tua costante e tenera sollecitudine verso di me, affrettarono poi la nostra amicizia che si è fatta sempre più intima, sempre più soave, che ancora dura, che ho fede non dilegui mai, perchè negli elementi che la compongono v’ha dell’immortalità._ _Oltre la carissima traccia di te, altre reminiscenze care e meste veggo evaporare da ogni parte di questo volume che ho composto senza saperlo, colle impressioni delle mie letture nello spazio di qualche anno, a intervalli, in un luogo o nell’altro; sempre però fra pareti santificate dai sogni, dalle lagrime, dal lavoro. Ad ognuno di questi miei scritti potrei indugiare per dirti in quale posizione della stanza era la mia scrivania quando fu composto, e che paesaggio vedevo dalla finestra, l’ora, e le emozioni che mi agitavano, e il pensiero dominante a cui molto spesso la mia opera non era legata che attraverso ad una più o meno lunga catena d’idee. Ci sarebbe, te lo assicuro, la tavolozza per un altro libro, e te ne parlerei se questa lettura fosse riservata a te. Ma agli altri, capirai, non importerà proprio nulla di saper di più._ [pg!9] _Pure temo di non essere capace di nascondere che riordino commossa queste pagine su cui l’atmosfera di giorni diversi e lontani ha lasciato un riflesso percepibile a me sola, come un atomo di quella parte della mia vita che si è spenta. Penso alle persone che mi erano vicino e che hanno raccolto la primizia di questa fioritura che doveva durare più di loro, sparite nell’infinito della morte (come voi, povero Alberto Sormani!) o nel vuoto della lontananza in cui s’addensa il silenzio lieve ed enorme, isolatore, più amaro, spesso, della morte. Ed io errando in ispirito lungo le pagine del mio Verziere mi somiglio alla Dama Pensosa d’un poeta squisito di cui è fatta menzione qua dentro, a lei che errava nell’occaso autunnale, lungo i viali sfrondati, fra l’ineffabile e simbolica mestizia delle foglie cadenti... Se non che io, al limite, trovo ancora te ad aspettarmi, te che mi stendi le braccia e mi sorridi ancora._ Cento, Settembre 1895 _Jolanda_. [pg!10] [pg!11] Per un sasso in colombaia. _Ad Alberto Sormani_¹ ¹ Autore d’un articolo provocante: «Contro le donne che scrivono». (Vita Moderna, Milano, Gennaio 1892). N. d. A. Un caso dei più fortuiti mi mette sott’occhi un giornale che non conoscevo e il nome di uno scrittore che ammiravo, il quale ha la pazienza di occuparsi di noi. Di noi, ahimè.... perchè anch’io ho la disgrazia di avviarmi con la reproba schiera verso la via della perdizione. Io sono una donna che scrive! e che legge anche! e, quel che è peggio, che medita su quello che ha letto, quando c’è di che meditare, come in quell’articolo che era il vostro signor Sormani, nella _Vita moderna_, uno scritto fiero, forte, adamantino. Gettate il guanto con un’insolenza così bella e così nuova che m’invoglia a raccattarlo, deplorando però, credetelo, di non contrapporre al vostro che il mio nome, un nebuloso nome. Meritavate di più; ma, pazienza: forse l’avversaria degna verrà. [pg!12] Premetto dunque che io odio sinceramente, accanitamente i Ganimedi, i Narcisi e tutti gli Arcadi passati, presenti e futuri; che i madrigali non mi hanno mai fatto nè caldo nè freddo.... se mai, più freddo che caldo; e che quindi le qualità belle e vere che esaltate nel vostro sesso non avrebbero ammiratrice più fervente di me; ma..... bisogna proprio essere uomini per non accorgersi della differenza immensa, spaventosa, lagrimevole che passa fra l’archetipo-uomo perdentesi oramai nelle brume dell’ignoto, e i suoi milioni d’esemplari sempre più degeneri, sempre più trascurati, sempre più capricciosamente modificati. Mi fate venire in mente, vedete, certi vecchi codici del trecento, nei quali, a furia d’essere copiati e ricopiati sulle copie, non ci si raccapezza più. Figuratevi: erano centinaia e centinaia di copisti press’a poco nell’ordine di un albero genealogico, e mentre un ramo si ricordava troppo del dialetto paesano, un altro ramo rinfronzoliva per migliorare, finchè arrivati a un passo duro postillavano tutti: _Graecum est, non potest legi_. E per noi questo non sarebbe neanche il peggior male. Il peggior male è quello di conoscer la lingua, perchè allora si è obbligati ad accorgersi degli strafalcioni. E più vi scalmanate a descriverci l’uomo quale dovrebbe essere, più ci disgustate dell’uomo quale è. Come!? L’uomo è più forte, più intelligente, più ardito, più prepotente, meno istintivo e più sensibile, — dite; e tengo a lasciarvi la piena responsabilità di questa corona di aggettivi: poi dobbiamo assistere tutti i giorni nelle gran scene dell’ambizione e dell’amore a vigliaccherie incredibili, a transazioni ignominiose, a cretinerie classiche, a pusillanimità [pg!13] senza scusa? Dov’è l’uomo forte delle vostre scritture in quella pallida falange di larve maschili che certe donne succhiano come le uova gettandone il guscio per le povere mogli future? Dov’è l’uomo intelligente in quella moltitudine di rari ingegni, ciascuno dei quali ha inventato una scuola o risolto un problema senza però aver tempo nè previdenza per scioglier quello d’una vita dignitosa e serena coltivando il cuore e lo spirito della donna sua? Dov’è l’uomo meno istintivo e più sensibile fra quegli apostoli dell’umanitarismo che colgono un fiore più o meno rusticano sapendo che lo getteranno quando cadranno i pètali e resterà il frutto? — E indugiando un momento sul capitolo dell’intelligenza, che è quello che m’interessa di più, l’intuizione, questa qualità oramai ammessa quasi come esclusiva della donna, il buon senso pratico, che ci si concede pure in preminenza, o non sono manifestazioni d’un intelletto che ha uno sviluppo diverso, ma non inferiore a quello dell’uomo? E, badate, qui bisogna ch’io citi un gran nome anche a costo di farvi inorridire: è Spencer che lo dice. La donna, al dire dello Spencer, non intende meno dell’uomo, ma comprende in altro modo: l’uno studia, l’altra indovina; questi rammenta, quella profetizza. E non è poco mi pare. Dirò di più: quando la donna vuole (e lo vuole poco, per fortuna!) o riesce a liberarsi dagli innumerevoli viluppi che le fanno un ginepraio della via dell’arte dove voi potete incamminarvi tranquillamente con il sigaro in bocca, non solo vi uguaglia, ma vi sorpassa, giacchè acquista la vostra larghezza di mente senza perdere la sua finezza divinatrice che voi ottenete sempre poco e a stento, e artificiosamente. [pg!14] Vorrei che fosse possibile dare ad un giovinetto e ad una fanciulla un’educazione ed un’istruzione identica con la medesima libertà di vita, e vi assicuro che a vent’anni la giovinetta si sarebbe lasciato indietro il suo coetaneo. La donna ha dalla sua, per riuscire, una pazienza, una astuzia, una tenacità, un raccoglimento, un’elasticità di fibra che voi non avete. Per questo anche s’invecchia prima. La nostra vita è più intensa e più completa, come quella degli abitanti del mezzogiorno, che pagano con un precoce sfiorire il precoce rigoglio d’ogni loro facoltà. Voi avete cento modi di spendere le forze che la donna serba tranquillamente per il trionfo de’ suoi ideali. In voi la materia bruta prevale, e raramente siete capaci di vincere una sola delle rudi battaglie che la donna doma in silenzio, sorridendo. I vostri affetti, se sono veri, arrivano fino al Dio Termine del campo sconfinato dell’egoismo; se lo sorpassano, sono sensazioni, non più sentimenti. Non avete neanche di spontaneo il sentimento della paternità, che in voi non è che un’abitudine. Passiamo al capitolo della bellezza. Voi uomini non fate che invocarla, in prosa e in versi, nella vita e nel sogno. Non sarebbe questa, per avventura, una divina nostalgia della natura che tenta completarsi, come in noi è quella della forza, accennata così argutamente da voi? Che volete! risalendo al prototipo della specie, non mi riesce proprio di immaginare, fra la novella frescura d’un mondo appena schiuso, Adamo più bello di Eva. Avrò torto, forse, e lascio al Mantegazza e a voi la difficile soluzione di questo problema d’estetica. Del resto, la maternità e la moda deformano presto la donna, le passioni la solcano, la fatica l’avvizzisce. [pg!15] Ma trovo pure qui, nel vostro paragone animalesco, una ragione che avvalora le mie precedenti: se il maschio è il più bello in tutta la creazione, la femmina è la più intelligente ed emerge nella scala dei bruti, là dove esiste la parità dell’educazione. Io adoro il Fogazzaro perchè è idealista e perchè la sua arte ha sfumature delicatissime d’ombra. Quel posto «alto e glorioso» ch’egli e voi ci offrite, noi lo occuperemmo con gioia credetelo, e la nostalgia che ne sentiamo non è meno forte dell’altra, tanto che un’infinità di donne si ostina e si logora per conquistarlo, accorgendosi sempre troppo tardi del miraggio. Se nella vita ci fossero dei Daniele Cortis, ci sarebbero anche delle Elene, ve lo assicuro. Ma dove sono, ditelo, queste creature privilegiate, ben degne di assorbire tutti i tesori di abnegazione profonda e di affetto intelligente, di cui può disporre un’eletta natura muliebre? Credete voi, per esempio, che i fanatici indiani si lascierebbero pestare così allegramente, se l’elefante che li calpesta non fosse un dio? L’arte (ci siamo!) l’arte può affinare, corrompere, e non sempre elevare l’anima. Ma, badiamo, è una legge uguale e severa per tutti. Una donna non eleva il suo livello morale scrivendo un bozzetto o un romanzo, come l’uomo non lo eleva pubblicando una dozzina di Elzeviri. Perchè scriviamo? E voi, perchè scrivete? Per migliorarvi? no. Per dire delle cose grandi? ma allora perchè ne dite tante delle futili? Per insegnare? Ebbene anche noi! e la letteratura dei bambini non è mai stata così bella e così buona come ora che è quasi tutta nelle nostre mani. Una donna che scrive, in questo anno di grazia 1892 non è più lo spauracchio di nessuno. Oramai si è scoperto che la donna che scrive sa anche lavorare, [pg!16] mentre le donne che lavorano solamente, non sanno scrivere. Ma qui l’argomento si fa vasto come un mare. Voi ci volete a vostra immagine e somiglianza, avete la bontà di occuparvi del nostro miglioramento intellettuale e sociale, vi degnate di farci muovere con più o meno garbo nei vostri romanzi in cui si trovano persino donne ideali che conversano in latino.... (vedi _Val di Olivi_ del Barrili) poi se una di noi, poveretta, un bel giorno trovandosi con tre idee in testa preferisce sedersi alla scrivania e metterle giù nella pace onesta della sua casa invece di oziare passeggiando o di far della maldicenza nei _five o’clock thea_, le gridate la croce addosso e la mandate a far la calza che qualche ora innanzi le toglieste di mano per farla assistere ad una conferenza dedicata a lei magari sull’origine dei Comuni e delle Monarchie.... Che... originali siete voi! La penna è galeotta, dite. E la musica no? Eppure nessuno pensa a rimproverar la musica alle signore. Credete voi che se Francesca non avesse saputo leggere, Paolo non l’avrebbe baciata sulla bocca tutto tremante? O che si sarebbero salvati entrambi dalle ire di Lanciotto se invece di leggere avessero per esempio suonato il mandolino? — Anzi, guardate, io credo che la letteratura sia per la donna la meno pericolosa di tutte le arti. La fantasia vi si sbizzarisce e si appaga; la mente è obbligata a letture serie che la ritemprano, a un lavorio d’indagine che ne acuisce il senso intuitivo a giovamento dell’educazione dei figli e della pace domestica. Ricercando le cause ascose nelle pagine di psicologia, ella si rende ragione di molte sensazioni che le apparivano ingrandite dalla nebbia del mistero, [pg!17] mette a posto molte fantasticherie umiliandole, trionfa di molte debolezze: qualchevolta, guardate, si salva perchè non hanno più effetto su di lei, che ha rimestato nel crogiuolo, gli artifizi della seduzione. Pensate un po’ ai giovani e alle ragazze che vanno insieme all’Università e ditemi se è frequente il caso di un amoreggiamento, di uno scandalo, se piuttosto la dolce fatica intellettuale durata in comune non crea fra i due sessi una fratellanza, la sola destinata a degenerare in amicizia vera. Molti esempi così d’un affetto disinteressato, profondo, potrei citarvi fra uomini e donne che scrivono, in tutti i secoli. L’arte è un conforto, voi lo sapete da tanto tempo, or bene non lo negate a noi questo conforto, questa tormentosa gioia. Vi sono tante donne, non belle, non più giovani, a cui fu negato, non solo l’amore, ma anche la dolcezza della famiglia e della maternità, poichè le loro qualità erano tutte intime e umili e voi uomini non vi curaste di rilevarle: — dunque se queste zitellone, invece d’inacidire rodendo sè e gli altri, invece d’immalinconire a far le cenerentole o le monachine, diventassero Vestali del bello e cercassero di colmare il vuoto delle loro esistenze vivendo una vita ideale fuori del tempo; se tentassero di sopire le loro tristezze suggendo l’oblio dalla divina fonte incantata — in nome di chi vi arroghereste il diritto di condannarle? di dar loro l’ostracismo? perchè sono donne che scrivono?..... Ma scrivano, in nome di Dio! Della carta e dell’inchiostro ce n’è per tutti; e se non faranno capolavori, se non ne verrà che un libro atto a raddolcire le [pg!18] veglie di un malato o le angoscie d’una reclusione, non avranno fatto un’opera inutile. Via, è meglio che scrivano le donne che gli studenti di Liceo! Vorrei proprio sapere se è solamente la penna che vi ispira orrore fra le bianche dita femminili, o se la vostra contrarietà si estende a tutte le arti coltivate da loro. Poichè ve ne sono che stonano di più. La pittura per esempio: una donna che va alla scuola del nudo... che ve ne pare? E le scultrici che si impiastricciano le mani delicate? E le violiniste? E le donne che suonano il flauto.... Che ribrezzo, non è vero? E la drammatica? Credete voi che una scena d’amore in azione non sia più dannosa alla nostra natura che una scena d’amore scritta? Bando all’arte dunque per noi, e tutte a farsi monache. O santo cielo...! ma che avesse ragione Gemma Ferruggia, quando vi diceva placidamente.... codino? Io non lo credo, però. Non lo suppongo nemmeno. Siete troppo intelligente, troppo fervido, troppo ardito. Un codino autentico ci avrebbe detto forse le cose che ci avete detto voi, ma ce le avrebbe dette male, mentre voi ce le regalate elegantemente. Poi mi fate degli scarti! Altro che codinismo! Gemma Ferruggia vi osserva dolcemente, sapientemente, che la donna ricorre all’arte per salvarsi dalla passione. Voi le rispondete che parla come S. Paolo e come Tolstoî; voi le dite che non trovate perniciosa la passione, l’amore, nella vita d’una donna, anzi che per voi è l’ideale della vita femminile, e che ce l’avete con l’opera artistica perchè sottrae all’opera naturale degli affetti. A me pare che parliate, voi, un poco come.... un Mussulmano. Amore libero? Quand même? ma e tutta la vostra morale? [pg!19] Anch’io conosco delle donne oneste che non scrivono, ma ne conosco ancora più di quelle altre che... non hanno tempo di scrivere. E posso anche assicurarvi che i Don Giovanni preferiscono cercarle nei salotti, anzichè nelle biblioteche. Volete che vi confidi qual’è il vero Galeotto nella vita d’una donna? _È l’ozio dello spirito_. Una donna che non sa cosa pensare, pensa a far dei malestri, come i bambini. L’arte corrompe, vi ho detto; ma ora vi dico che l’ozio corrompe ancora di più. In quanto al pudore femminile, a cui fate appello a proposito della stampa, via c’è un po’ di sensibilità morbosa in tutto questo. Il pudore del pensiero! dell’osservazione! nei lavori d’indole (come avete notato) esclusivamente idealista di cui si compone la produzione letteraria femminile! Quanto credete che ci perda il pudore in una pagina, per esempio, di critica letteraria? Io preferisco di leggere in un giornale un sonetto della mia sorellina che canta agli astri il suo amore, piuttosto che di vederle certi libri sul tavolino. Il pudore ci patirebbe di più. E se proprio volete esserne i custodi gelosi, se proprio desiderate che la donna non perda un atomo del suo profumo di mammola, ebbene, allora perchè non cominciate a bandire una crociata contro le scollature? Ah uomini, uomini! Vi piacciono i veli e il pudore delle turche, a voi!... E vi confesso un orribile sospetto: mi pare d’aver capito che l’ammirazione di cui ci onorate scema in ragione dell’aumento del nostro peso cerebrale. Come sarà? Ma io sono alla fine, e mi accorgo di avervi detto, più meno garbatamente, un sacco di vituperi. [pg!20] Per fortuna che siete un uomo giovane e forte e che posso risparmiarmi di dirvi _pardon_, anche se vi ho camminato un poco sui piedi. Che volete? Il vostro articolo mi ha messo addosso cento diavolini, e vi assicuro che se non fossi una donna che scrive, avrei cominciato oggi a scrivere per aver il piacere di potervi rispondere. Io non sono una virago, tutt’altro; ma sono una donnina che ha più coraggio di quello che pare. Poi mi chiamo Jolanda, e gli scacchi matti non mi spaventano troppo. Anzi, qualche volta, me li lascio dare apposta. [pg!21] Un libro che giunge a proposito. [E. Zola: La Débacle.] È un romanzo. Un volume tutto pieno di sangue e di fuoco, lanciato come un fulmine da un piccolo Giove fra la pensosa trepidazione della lunga vigilia di un migliore avvenire. È un libro sulla guerra scritto da Emilio Zola, il solo fra gli scrittori moderni, credo, che potesse adoperare l’ardente materia senza sminuirla, senza accrescerla di qualche elemento soggettivo, senza scottarsi le dita. La gente che legge non avrebbe più il diritto di lagnarsi per un anno almeno, poichè un lavoro così poderoso, così imparziale, d’un interesse così unanime basta a determinare il valore artistico d’un periodo non breve di tempo. Quaranta o cinquanta anni fa, prescindendo dalle condizioni sociali e politiche d’Italia, un libro simile avrebbe menato chiasso; chi sa per quanti mesi si sarebbe commentato e discusso, ci sarebbero stati partigiani bollenti e avversarii ostinati; ma quell’ingenuo tempo è passato: ora nel mondo intellettuale si sbriciola con un feroce sorriso o, se l’opera s’impone, ci si abitua subito alla sua superiorità. L’ammirazione muore, ahimè, l’ammirazione che ingentiliva e metteva le ali alle giovinezze. Nulla colpisce più. [pg!22] Pure la _Débacle_ deve scuotere; è impossibile che non scuota. Mentre si parla della necessità del disarmo ed echeggiano ancora le voci che nei congressi domandano la pace, mentre ancora per l’aria vola come un fragrante fior di gelsomino un volumetto scritto per la buona causa da un’aristocratica mano femminile, e sottovoce ne implorano il trionfo milioni di cuori, e un vecchio Slavo sogna, con la pace, di rinnovare il mondo, ecco un brusco e involontario cambiamento di sistema, ecco la malattia curata omeopaticamente, ecco lo Zola a dimostrarci che la guerra è non solo necessaria ma salutare, ma provvidenziale, come un rimedio energico contro la putredine delle nazioni. Mi par di ricordare che il libro dovesse intitolarsi «_La Saignée_» — titolo che ai simbolisti sarebbe piaciuto di più e che avrebbe forse meglio sintetizzato lo spirito, non voglio dire l’intento, del volume. _Débacle_, «lo scioglimento — lo sgombero — la catastrofe» è meno brutale, meno... Zoliano. Del resto è con compiacenza che qui noto come il Maestro accenni a sbrattare la sua arte che resta così di un sincero e sano naturalismo ben degna di esser madre di un’arte nuova ideale. In seicentotrentasei pagine fitte non ve n’ha una che obblighi la signora che legge a velarsi la faccia; e, come osserva acutamente il Depanis nel suo sagace articolo della _Gazzetta Letteraria_, questa volta non bisogna attribuire la straordinaria tiratura delle copie a una ragione di pornografia. No; la ragione, grazie a Dio, è affatto spirituale. Nessuno più ignora che il romanzo dello Zola è tramato sulla guerra franco-prussiana; si può dire anzi che romanzo non c’è: sono episodi, macchiette, figure che aiutano a ricostruire dilettevolmente e [pg!23] sommariamente la storia di quella disgraziata campagna, permettendoci di penetrare con una rara verosimiglianza nell’ambiente dell’atroce dramma, direi nei cuori. I vecchi ricordano, i giovani respirano l’aria di un passato che evapora già nell’epopea, nella leggenda: tutti poi in quest’ora, in cui gli spiriti bellicosi sono anestetizzati, vogliono osservare riflessa l’immagine dello spaventoso fantasma già lontano. L’immagine è orribile infatti. Ora, a mente fredda, pare impossibile di averlo potuto sopportare tanto tempo; pare impossibile che si avesse a tollerarlo ancora fra noi. È ancora e sempre la selvaggia moralità dell’opera zoliana, che par derivata dalle teorie di un certo filosofo vero o immaginario di cui parla in qualche luogo il Bourget, un filosofo che consigliava agli ammalati di qualche amorazzo dei sensi la cura d’un’osservazione all’ospedale delle infermità più schifose che affliggono il corpo umano. È il rudimentale rimedio degli antichi, che disgustavano dall’ubriachezza con l’esposizione dello schiavo ebro. Forse questo libro che mette la guerra come una condizione imposta dalla natura nell’eterna lotta d’ogni giorno; che la dice necessaria all’esistenza stessa delle nazioni; che la chiama la forza mantenuta e rinnovellata dall’azione, la vita rinascente sempre giovine dalla morte; questo libro popolato di larve e scritto da un romanziere è destinato alla gloria di essere un condottiero ideale della gran crociata bandita contro la guerra in nome della civiltà. Non ci sarebbe troppo da stupirne. Alla foglia di rosa il vanto di far traboccare la coppa. Ognuno sa l’efficacia che ebbero nei nostri moti di libertà [pg!24] nazionale gli inni del Mameli e le poesie del Berchet. I tempi sono mutati e le abitudini. Ora lo Zola col suo epico poema in prosa potrebbe essere senza saperlo, magari senza volerlo, il bardo della pace. Poichè è impossibile di scorrere quelle pagine con indifferenza. Zola ha visitato e studiato palmo per palmo il teatro della guerra: l’illusione della realtà è quindi perfetta. Si vive negli orrori, nelle ambascie, nei carnai, nell’abbrutimento della specie umana e questo dà sopratutto la tristezza infinita dei mali che gli uomini potrebbero e non vogliono evitare; dà l’avvilimento d’una degradazione cercata, la vergogna d’un affratellamento con le razze primitive e bestiali per cui pensiero è una parola vana. È un’angoscia inesprimibile che opprime riflettendo che solamente vent’anni ci separano da quelle barbarie, da quel flagello i cui episodi sono degni di far riscontro alle scene del Terrore... È una lettura che spossa quasi materialmente per il continuo fremito d’orrore e di pietà che sospende la vita; per il coraggio vero di cui bisogna disporre per vincere la ripugnanza e la tentazione di chiudere il libro e scappar via, via nel verde, nella serenità, accanto a qualche bell’opera feconda e pacifica per dimenticare... Certi episodi non si possono leggere due volte: quello del bambino febbricitante e assetato che rimane arso nell’incendio di gioia; quello del prussiano scannato su una tavola come una bestia da macello, episodio feroce in cui par che lo Zola stesso voglia infine concedere uno sfogo a una punta inevitabile di rancore costantemente e ammirabilmente domo dalla perfetta imparzialità. Tutta l’immoralità della guerra può essere sintetizzata, in [pg!25] questa scena nella quale una donna può assistere col suo figliuoletto, passivamente, al supplizio di colui che l’ha resa madre, quasi anzi provocarlo, perchè è un nemico dei suoi, e profittare della loro reciproca posizione per vendicarsi orribilmente d’un amore, non d’uno sfregio. Poi l’amico che uccide l’amico all’impazzata, mentre ambedue combattono divisi da un’idea; e la donnina leggera che si concede al vincitore; e le masse condotte alla strage quasi inconscie; e le speculazioni indegne; e le rassegnazioni stupide; e i sacrifici inutili; e tutta la immensa miseria, infine, della guerra che rimesta e mette a galla il limo del l’umanità. Dei vari pregi di colorito, di andamento, di forma sarebbe lungo, e per me arduo, il parlare. Poi oramai lo Zola non si discute più: a qualunque scuola si appartenga, qualunque concetto artistico si difenda, allo Zola ci si inchina. La sua opera resterà forse sola a rappresentare la letteratura romantica francese di questo scorcio di secolo, e sarà un monumento grandioso dalla cima fiorita di emblematiche guglie rilucenti e leggiere. Ah, non gli si faccia carico di affinarsi nel simbolo! Il simbolo è un prezioso elemento d’arte per i pensatori profondi! Mi pare che l’opera zoliana spogliandosene, si spoglierebbe d’un’irradiazione luminosa, si rimpicciolirebbe in tanti piccoli circoli viziosi e terreni, mentre così assurge alla dignità efficace e grandiosa d’una teoria universale. Non c’è bisogno d’esser molto acuti nel pensiero e gagliardi nella immaginazione per intendere la poesia suggestiva di certe vignette, dirò così, ornamentali. La vecchia incognita, lacera e scapigliata [pg!26] come una furia, che dalla soglia della sua capanna urla «_vili!_» ai soldati che hanno l’ordine di retrocedere, indicando loro il Reno tedesco, mentre la sua scarna persona pare giganteggiare in quell’atto; il tranquillo lavoratore che durante una sanguinosa giornata di battaglia continua imperturbabile a spingere innanzi il suo aratro giacchè «non sarebbe perchè si combatteva che le messi cesserebbero di crescere e gli uomini di vivere»: la gloriosa spada del capitano vinto, spezzata con una forza atletica dalla gracile mano d’una madre dolorosa; l’aiuola di margherite, nell’ambulanza, arrossata senza posa di acqua insanguinata fino a diventare un piaccicchiccio nauseabondo; e tanti e tanti che io sciupo citando sommariamente così. Ancora una parola, però: un’esclamazione ammirativa per il racconto della fatale battaglia di Sèdan, racconto elaborato con sommo magistero; per la figura dell’imperatore che s’intravede a intervalli, così oggettivamente; per la descrizione del grande incendio di Parigi titanicamente grandiosa. Si finisce per avere le vertigini di quell’eterna porpora di sangue e di fuoco, di quella distruzione pazza, diabolica, vorticosa, orgiasticamente macabra; e la mente eccitata par travolgersi nel delirio del povero Maurizio, il soldato ferito, morente, che inneggia alla distruzione, all’ecatombe, come a una salutare disinfezione, come a una pasqua di vita... Ebbene, no; gli Dei sono sazi di respirare sangue e fuoco, e non è con un sacrifizio umano che si schiuderà agli uomini la feconda e pacifica landa sognata da Faust. L’amore deve estinguere, siccome invocava il De Amicis in una vecchia e nobile poesia, questo «fiume dai vortici cruenti», questo [pg!27] «mare di lagrime infinite». Ma però si innalzi, secondo il desiderio del poeta, un grande monumento di gloria a tutti i morti delle guerre umane, e la paura di ridiventar barbari o romantici non ci faccia — per pietà — rinnegare o sminuire il bello e santo eroismo italiano dove fu. [pg!28] Impressioni di un sogno. [_Neera_: _Nel Sogno_. — Milano, Chiesa e Guindani 1893.] Un sogno in cui non sia che terra e cielo: il cielo cristallino, uguale, soffuso d’un calmo e un po’ freddo sorriso verso la terra; le vette estreme rivolte come braccia adoranti e aspettanti verso il cielo: tutto il pallore e il silenzio e i terrori e la grandiosità selvaggia delle altezze, come in qualche vasta e gentile concezione di Shakespeare. Ecco la scena. E in questo sfondo primordiale un asceta, umile, ardente, pio, che benedice i suoi fratelli invisibili con la rugiada e gli aromi fluttuanti dei rododendri in fiore, e due fanciulle, due purezze assolute, ma l’una come l’acqua, l’altra come la fiamma. Intorno ad essi tutta la vita organica, vegetativa; in essi tutta l’elevazione spontanea del pensiero nella contemplazione mistica dei fenomeni naturali: la rispondenza immediata, come un riflesso, fra le più belle cose create e i sentimenti più casti, tendenti tutti verso l’infinito, tutti nati dallo stesso principio di adorazione. Il visibile e l’invisibile, gli aspetti e le visioni, la realtà e il simbolo insieme fusi ai confini del mondo. [pg!29] L’autrice di questa concezione un po’ insolita, una donna d’attività e d’ingegno, si domanda se l’essere umano, sbocciato e allevato così al riparo di tutte le brutture, nell’ignoranza completa del male, possa affrancarsene; ma dal fondo della storia, dall’ideale e leggendario paradiso terrestre che forse le attraversò la mente mentre ella sognava questo sogno verginale, tutto accenna mestamente di no; tutto dice che il male, l’antico avversario, è annidato come un germe mortale in noi, non fuori di noi; che è in nostro potere di arrestarne il progresso, ma non di strapparne la radice; che l’ignorarlo non sarebbe un aumento di difesa, ma un aumento di debolezza, e la inevitabile, brusca rivelazione porterebbe la morte. Le Marie, le due gemelle, affidate quasi nasciture dalla madre derelitta all’asceta che impose loro lo stesso nome, il nome grave e soave ad un tempo, crescono come due asfodeli in quella solitaria sfera di sogno. Ma nell’una, l’ho detto, era la purezza dell’acqua lustrale, nell’altra la purezza struggitrice del fuoco. I canti e l’opera dei minatori, a piè della montagna, che sbigottiscono l’una, rivelano all’altra la vita ed essa si slancia, vi si perde, mentre la sorella muore per la sola divinazione della verità. L’autrice, che si chiama Neera, ha circonfuso l’austero e delicato lavoro di una semplice leggiadrìa di stile che forma un insieme armonioso con l’idea. Ma non tutti, temo, l’hanno compresa. La maggioranza ha aperto il libro credendo di imbattersi in un romanzo dei soliti, un romanzo analitico sentimentale, come quelli a cui la penna industre della scrittrice lombarda ci ha abituati; poi non trovando case, nè ville, nè salotti, nè signore, nè [pg!30] sfumature psicologiche, nessun vestigio di civiltà, insomma, i più restano disorientati, scontenti, come dinanzi a una mistificazione. Invece questa opera di Neera è un’originale e aristocratica opera d’arte, la più originale e la più aristocratica ch’ella abbia scritto fin qui. Poichè il valore d’una creazione non risiede nella mole e nemmeno nell’importanza del lavoro, ma nell’equilibrio, nella completa fusione del pensiero con la parola, nel raggiungimento di quel qualunque ideale vagheggiato. Una volta lessi, non mi ricordo più dove, ma certo in un libro bello e buono, questa gran verità che dovrebbe apparire come il famoso _Mane Tekel Fares_ sulla prima pagina d’ogni libro che s’imprende a giudicare: Non bisogna domandarsi _perchè_ l’autore ha voluto far così invece che in altro modo: ma esaminare _come_ è riuscito: non giudicare l’opera dal punto di vista della nostra simpatia o antipatia per quel tal soggetto o per quel tale ambiente, ma giudicarla nella luce in cui si rivelò all’autore: vedere se ha o no raggiunto il suo fine. Le parole, come si vede, sono mie, ma non importa; la massima che mi colpì è questa. L’arte deve essere libera, la critica d’un oggettivismo assoluto. Però io penso pure che il pubblico, i lettori, hanno i loro diritti. Il diritto, cioè, di trovare qualche mano dipinta che indichi la vera via quando ci si trova fuori dalle strade maestre. Ora le prefazioni non fanno più paura a nessuno, le prefazioni non si saltano più, si leggono, si gustano e... anche qualche volta, fanno risparmiare di leggere il libro. Sul serio: quando si abbia la fortuna d’avere un’idea un po’ insolita, un po’ originale, e la fortuna ancora più grande di saperla esporre con garbo e [pg!31] con ingegno in pochi tratti da maestro, bisogna avere anche la compiacenza di indicarne un po’ la topografia, di fare qualche onore di casa. _Noblesse oblige_, non c’è rimedio. Neera potrebbe dirmi che non ha scritto per tutti, che le basta di essere intesa e apprezzata da coloro pei quali il titolo è un appoggio bastevole, ma non importa: doveva dire anche questo. Allora il volumetto elegante e severo sarebbe stato assunto in una sfera superiore, nella sua vera. Ad ogni modo, chi ha fine intelletto d’arte ha l’obbligo di ammirarlo e d’intenderlo come una musica classica religiosa, come una pagina di Bach o di Palestrina. Le ardue difficoltà dell’ambiente insolito, dell’esposizione di sentimenti primordiali, del rimanere nell’idealità senza smarrirsi nel misticismo, nella semplicità e nella purezza senza cadere nella rigidità, sono state affrontate e vinte dalla valente scrittrice con molta bravura. Ella deve aver letto a lungo i Vangeli, deve aver gustato la rozzezza sublime di quella letteratura primitiva che significava le cose più alte, più belle, più grandi che siano nella natura umana. Deve averne intesa la poesia silvestre, l’efficacia, la vera religiosità, poichè nelle umili e ispirate e ardenti aspirazioni dell’asceta passa un soffio biblico, veramente; e nella selvatica e mite adolescenza delle fanciulle ritroviamo il riflesso di qualcuna delle vergini dolci e ardenti che ridono come fiori fra le mèssi in quell’antica opulenza patriarcale. Qualchecosa di semplice, di solenne, di poetico è filtrato nello stile e nell’idea; qualchecosa di profondamente sincero: sia ispirazione, sia fede. Ecco, per dare un saggio del bellissimo libro la [pg!32] scena più leggiadra e più ideale, quella della morte di Maria dopo la sparizione della sorella: «Era il tramonto; le ombre invadevano la cameretta, ed ella non aveva voluto che si accendesse il lume. Davanti alla piccola finestra la neve scendeva lenta. «— Padre, recitami le litanie della Vergine. «Egli incominciò. «Nella luce crepuscolare, con quell’uomo inginocchiato per terra, con quella fanciulla che moriva, la bellissima fra le preghiere acquistava un fascino soprannaturale. Ad ogni versetto Maria rispondeva col semplice movimento delle labbra, calma ed assorta in una visione interna. Come al prete mancava la voce per lo strazio, ella gli pose la mano sulla spalla, quasi a confortarlo, ed egli continuò. Giunto alle parole _Virgo fidelis_, un singhiozzo gli spezzò la voce. «Oh! era ben lei la vergine fedele, la vergine martire del proprio ideale, l’ermellino che non sopravvive alla macchia! _Virgo fidelis_, riprese due o tre volte nell’esaltamento del proprio dolore; nè altro aggiunse, ed ella non lo richiese. «L’ombra diveniva sempre più nera. Egli fece un movimento per accendere il lume, ma la mano posata sulla sua spalla lo trattenne, e, mentre cercava di distinguere al buio il dolce viso, Maria disse: «— Quanta luce!» ―――― La morte di questa fanciulla immacolata come un giglio, il suo seppellimento sulla più alta vetta, nella neve candida che velava la terra e riempiva lo spazio, hanno un carattere simbolico in cui lo [pg!33] spirito si diletta e si raccoglie. Lo svolgimento graduato delle emozioni e dell’amore nell’altra Maria, è pure reso a tratti delicati e sicuri, da artista. D’un’elevatezza d’apostolo e di martire sono tutte le aspirazioni e i pensieri dell’eremita rivolti a Dio. ―――― «.... che cosa egli aveva fatto? Aveva creduto di poter compiere da solo quello a cui non riuscirono milioni di martiri e di eroi, quello che Dio non permette ancora. Aveva creduto di allontanare ogni male dalle sue pecorelle, tenendole lontane dal mondo, quasi Egli non fosse laggiù come Difensore e dappertutto come Punitore». Così l’atto d’umiliazione lo quetava, e come un eroico neofita dei primi tempi, questo martire spirituale finisce per benedire la mano che lo flagella, per trovare nel suo dolore, come i veri eletti, il sublime marchio dei privilegiati, un elemento di perfezione: ―――― «— Colpitemi ancora, ancora, mio Dio, e fate che il mio cuore arda d’amore per Voi, poichè non nell’appagamento sta la perfezione, bensì in un crescendo di ardore. — » ―――― E il sogno cessa a questo triste e sublime matutino... [pg!34] Poeta o Scienziato? Mentre quasi tutti i giornali letterari fanno a gara per innalzare in un’apoteosi sfolgorante Camillo Checcucci e il suo poema della Vita, il _Fanfulla della Domenica_ ci fa una risatina su e gli volta le spalle. Anche elevando la risatina e l’atto all’ufficio salutare dello schiavo antico dietro il carro del conquistatore, dispiace di non vederne ammessa la discussione da uno dei giornali più simpatici d’Italia. Oh, bel paese, dalle facili ebbrezze e dai facili disdegni! bel paese in cui ogni giorno spicca il volo e... si tuffa un Icaro, sei pur adorabile coi tuoi novi entusiasmi di nazione ardente e giovinetta! Intanto la novellina di Cornelio Lapide e l’esempio dell’Alfieri che qualcuno tirò in ballo per questo poeta emergente dalle ombre, mi sembrano abusi d’un effetto di gran cassa in una marcia, sia pure trionfale. E innanzi tutto è proprio _vero_ poeta il Checcucci? poeta nell’anima, nella fantasia, nelle sensazioni, nelle divinazioni? o piuttosto la poesia non è in lui che la fodera del geologo, dell’ignologo, dell’areologo, del naturalista?... Egli sale, è vero, a vertiginose altezze, e si immerge nei bagliori di atmosfere luminose; ma vi sale in pallone: non coll’ala libera e poderosa; ed assai spesso mentre l’anima [pg!35] e lo sguardo saturi di quei splendori provano la voluttà del dissolversi nell’infinito, una cordicella che si strappa, un sacchettino di zavorra che cade, una valvola che sibili ci ricordano che viaggiamo sull’aria per via di combinazioni fisiche e non sul mantello di Mefistofele o sull’aquila di Giove. Fa tristezza ed ira cadere così da un bello squarcio di lirismo in una frase giuridica o in una fredda formula tecnica di chimica e d’astronomia; e al moltiplicarsi degli esempi, incalzanti verso il fine, si arriva a far un atto d’impazienza e concludere che la _Vita_ del signor Checcucci è un delirio scientifico, uno di quei deliri splendidi e tremendi che il Lombroso potrebbe additarci come affermazione di qualche sua teoria: — o, — più fantasiosamente, balena l’idea di un incubo punitore cagionato da un rimorso: per esempio il rimorso d’aver abbandonato una professione per un’altra, ambedue poi cozzanti e soverchiantesi nel sogno. Citare è difficile per la copiosità della vena poetica, abbondanza inevitabile forse per un poema cui «poser mano e cielo e terra». Un’immagine delicatissima; Shelleyana — un po’ troppo Shelleyana anzi — è questa nel Canto del Regno Vegetale: E tu m’affida, o gracil sensitiva, Chi vesta in te sensibile persona, Chi teco tremi nelle tue paure; E se del viver mio tu pur sei viva Vieni e allevia alle mie le tue sventure. e quest’altra ardita e assai bella, nello stesso canto parlando ai fiori: Ma quando il triste inverno e gli uragani Vi sfrondano gli steli, [pg!36] E quali aperte mani Volan le foglie a scongiurare i cieli, Allor mi vince una pietà profonda Come d’un volgo preso da terrore, E qual piovesse vittima ogni fronda, Conforme ai rami mi si schianta il cuore. E alla terra parla così: . . . . genuflesso sulle tue rugiade Vedrò che gioie alle muscose rocce E che conforti infonda all’arse biade La fresca carità di quelle gocce; Verrò le notti ad arrestar per l’ombre Gli odorosi messaggi Spinti alla luna dalle tue vallee E a spiar l’amor suo calar sui raggi E l’amor tuo salir dalle maree. Emanazione di poesia fresca e gentile: come questa al Fuoco è davvero una vampa scoppiettante, striata, gagliarda: Eccola; scocca e vola Miracolosa, indomita e possente L’elettrica scintilla Che scatta al mondo la vittoria e leva Dall’agitata argilla Le fiamme dei metalli e gli occhi d’Eva. . . . . . . . . . . . . . . . . Dai fatui fuochi all’albe nebulose Balza, lampeggia e crea, E ardendo cuori e cose Nei soli è luce e nelle teste idea. . . . . . . . . . . . . . . . . Ed io l’invoco con la testa ignuda Questa tremenda dia Che brucia a baci e a spasimi si dona; Penetri stimma nella carne mia, Paga se solca d’un suo raggio santo La croce del dolor da dove io canto. [pg!37] Dal mare dipinge più efficacemente i tumulti che le immensità: E quanto più sollevi le procelle Ad insultar gli scogli; Tanto maggior la tua tristezza pare, E fra loro accenandoti le stelle, Ti chiameranno l’astro dei cordogli. Ma va’ per l’universo a dar l’allarme Col tuo tetro fragore Come in tempesta stormo di campana. E sia quel verbo ansante di dolore L’eco fedel d’ogni sciagura umana. Cantando l’aria, accenna ad intuirne fantasticamente, e ne rende qualchevolta magicamente, le fluttuazioni frementi di vita e piene di mistero: Spiriti esulta il regno tuo, vanenti Divinità camminan le tue sfere; Son limpide città d’ombre viventi Queste sul capo mio tacite sere? Non forse ospiti in seno L’anime che migran dai petti umani Ferme sull’ali a scongiurar l’oblio Dai consueti mani, Sospese in te fra il camposanto e Dio? E quando sui sopiti Sfiorano i sogni ed erran le visioni, È forse allor che quei poveri estinti Tentan parlare ai vivi... E così dopo i quattro elementi il Checcucci ci canta i tre regni della natura, poi l’Uomo, il Sole, l’Atomo, l’Etere, la Materia, la Forza, e Dio; e quasi tutti i canti hanno un corruscare multicolore di gemme e si svolgono in fili d’oro. Ma, purtroppo, [pg!38] quasi in ogni canto c’imbattiamo anche in versi di questo genere (parla all’Universo): E come tu combaci ed utilizzi A governar gli empiri Senza sbilanci e senza incagliamenti, o come questi, che fanno agghiacciare il sangue: Chi sa da dove è emerso Per capillarità di sensazioni Questo respiro.... oppure: Han le carezze dell’amor gli artigli E la maternità dai marsupiali Insegna al mondo a palpitar sui figli; od anche, parlando all’uomo: A tutte le convalli e tutti i mari Rapisti i sali, i fosfori, e gl’incensi _E son tuoi tributarî_ Tutti i vissuti a ingentilirti i sensi. E intanto quei «tributari» richiamano alla mente le tasse e l’esattore con una lucidità spaventosa. L’uomo è proprio il più maltrattato dal signor Checcucci. Un po’ più giù lo consiglia a tracciar sulla creta: L’itinerario delle tue sventure; gli dice di costringere i cieli A imbeverar d’elettrico le valli [pg!39] concludendo che la vaporiera . . . . . . ridestrutto nel torace il sole Il suo monarca rapida trascina. Inoltre il Checcucci dimostra una certa predilezione per le similitudini... come chiamarle? sociologiche?... tendenza allarmante in un poeta; e canta le sponde _colonizzate_ dai baci del sole, i pianeti in _sodalizio_ di pietà, la _nazionalità_ dei mondi, le _teorie_, ruggenti entro i vulcani (teorie persuasive!) la fratellanza dell’universo, i raggi _delinquenti_ e i lampeggi _degradati_, l’_assemblea_ torrida, l’atomo che non _presenzierà_ più «dei cieli al gran lavoro» l’_umanesimo_ dei cieli, il genio _collettivo_ ecc.; poi da sociologo diventa impresario e sogna I drammi dell’amore Rappresentar nella platea dei cieli Maestro il tempo e metodo il dolore avvertendoci però del suo temperamento un po’...... nervoso, poichè l’energia che rattiene gli atomi componente il suo corpo gli .... apre in solchi elettrici le vene E in batterie magnetiche il costato. Ancora, nel canto: Forza e Materia, ci ammanisce versi come i seguenti: Tanto chi ozia, quanto chi lavora Per vie segrete fatalmente crea. Tramonta il sol, ma dura l’afa ancora, Muore la testa ma riman l’idea, In tutta questa universal famiglia [pg!40] Non siamo che congiunti Dal tempo per l’abisso spatriati, Dispersi in cielo a grumoli di punti Economicamente utilizzati. Ecco: che questo sia linguaggio da buon padre di famiglia è indiscutibile; ma da poeta poi... avrei i miei dubbi e non pochi. Dubbi che si fanno giganti udendolo riprendere più avanti sullo stesso tono che Nel gran tesoro della creazione Ogni tormento tuo sarà quotato: E perchè il bello e il buono Possan compire la loro evoluzione Fa d’uopo al ciel che venga utilizzato Ogni tuo pianto ed ogni tuo perdono. E in un altro punto, chiamandoci con un sonoro «Quà, quà» che fa venir voglia di cedere il passo agli anatrotti, fra le tante belle cose che ci promette, trovo anche questa: Annunzio ai proletari La carità dei codici venturi Sfamati, a domicilio, dagli armenti E annunzio ai nascituri Come parlar coi fuochi ai firmamenti. È uno sgomento, Dio buono! E vado domandandomi con melanconico rammarico come mai un verseggiatore che ha saputo pennelleggiare così finamente e così grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste goffaggini che mutano le iri variopinte in un abito da Arlecchino e farebbero diventar monella una suora di carità. — Perchè quell’insistenza sul verbo _mugliare_, insistenza che ci [pg!41] trasporta troppo spesso vicino alle... cascine? — Perchè quella predilezione per un’immagine già sfruttata completamente dal De Amicis in un verso solo della sua migliore poesia «_Come vorrei morire_» nell’ultimo splendido verso: «Col sole in fronte ed una palla in core» dopo il quale, tutti questi del signor Checcucci: «Col fuoco ai fianchi e con la luce in testa», «Col genio in testa ed il coraggio in cuore», «Con la porpora ai labbri e il riso agli occhi», «Coi cori a rango e coi vessilli in testa», ecc. non sono che parodìe? Peccato! Forse se il poeta della Vita si contentava di cantarci i miti e le leggende e i simboli degli elementi, dei regni della natura, dei paesi del sole, invece di farci della cosmogonìa, della cosmologia e dell’archeologia da trattato scientifico, l’Italia esulterebbe oggi per una originale e artistica creazione di più. Così come è, i bei versi vigorosi, iridati e fluenti cingono un’aureola al loro cantore: ma temo forte che i vapori terrestri, stagnanti, finiranno per offuscarne la luminosità. In alto dunque, e voli: abbracci un po’ meno e idealizzi un po’ più e perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un elefante. Dal grandioso che sbalordisce, al grottesco che attira il frizzo, il passo è così breve! [pg!42] Per colpa di un Poema. Credevo proprio di non parlarne più. Ma poichè un’amabile quanto valente scrittrice ha voluto ricordarmi, a proposito di Cammillo Checcucci e della sua _Vita_, mi sento tentata di aggiungere una parola in coda all’argomento. Qualche mese addietro, appena letto il volume, dissi ad alta voce le mie impressioni nella _Battaglia Bizantina_, e le intitolai così: «_Poeta o Scienziato?_» La risposta mi veniva da sè; me la dava l’eco dell’ultima parola. Ora la signorina Gianelli, invertendo appunto forse per ragione d’eco la domanda, mi grida: — Poeta, poeta, poeta. — Vediamo un po’. Ricordo che mentre m’accingevo con gioia a far la conoscenza di questo nuovo astro, che per il fervore dell’entusiasmo di molti pareva destinato a impallidire il sole, mi venne fra le mani un periodico fiorentino che fra un coro di lodi riportava un brano del poema. Era una parte del canto alla _Terra_. Ebbene, mi ci accostai con una specie di reverenza, come ogni volta che so di stare per essere iniziata al culto d’una nuova manifestazione del bello; lo lessi, lo rilessi, con un’attenzione quasi religiosa ma ahimè, dopo non mi trovai nel cuore e nella mente che l’interrogazione fatale: — Sta tutto qui? — E [pg!43] questa interrogazione, allora forse un tantino imprudente, mi assediò anche terminato il libro che chiusi triste per la delusione. Al solito. Fuori di qualche ispirazione felice, specialmente nei primi canti, io non trovai, confesso, che aridità, che monotonia, che goffaggine, che... presunzione. Delle immagini leggiadre, degli squarci lirici efficaci, degli accenti delicati, dissi tutto il bene che potevo; sul resto risi. Un poeta a cui è balenato il concetto colossale di un poema sulla _Vita_, che ha domandato la sua ispirazione agli elementi, alle forze, a Dio, doveva darci qualche cosa di più, doveva dirci qualche cosa di nuovo, doveva farci entrare nel mondo riflesso dalla sua fantasia e non trascinarci in una faticosa spedizione geologica, facendoci inciampare nei ciottoli ad ogni momento. Non ho dimenticato ancora certi _marsupiali_, certe _capillarità di sensazioni_, certi _sbilanci_ e certi _incagliamenti_. «Il poeta», dice uno degli ingegni più chiari e più penetranti d’Italia, il Nencioni, «il vero poeta, non è un sognatore ma un veggente,» ed io gli faccio eco con intima convinzione. Un veggente, sì; egli deve aver lo sguardo più acuto di noi e l’orizzonte più vasto; egli deve fissare e discernere ciò che non è che una fluttuazione iridata e luminosa ai nostri occhi; egli deve sviscerar l’anima delle cose e intenderne il linguaggio arcano: intuirne il simbolo, e senza enumerarci le sfere celesti farci sentire con una parola tutta l’immensità dell’infinito, evocarci con un’immagine tutto un mondo di larve e di splendori; richiamarci, con un metro o con un’intonazione, le visioni delle età passate; farci respirare, insomma, l’aria dei secoli e illuminarci di tutte le luci e avvolgerci di tutti i colori. Oh, non [pg!44] chiediamo al poeta il perchè delle cose; l’analisi svela e distrugge; la poesia deve afferrare complessivamente gli aspetti, i sentimenti, per farsene un’anima e rivestirla poi di tutti gli splendori dell’idealità. E sempre dall’alto, qualunque soggetto ci svolga, storia leggenda, ci canti le sinfonie della natura o le battaglie del cuore. L’estensione non fa l’altezza, la vastità di un concetto non fa l’opera d’arte. In nessun’epoca, credo, si fece tanto spreco di grandiosità come nel seicento; parole, monumenti, pitture, vita, tutto doveva essere grande, magnifico. E quanto orpello invece! quanto presuntuoso barocchismo! Che abbondanza opprimente di materia, che assenza malinconica di classica sobrietà! Mancava l’essenza, quell’essenza che ho cercato invano fra i quindici canti che compongono il poema della _Vita_; quell’essenza che deve scorrere sotto la trama d’un’opera d’arte come una linfa vivificatrice, che dà freschezza, e intensità, e vigorìa, e tumulti fecondi. Che m’importa se sono quattro versi invece che quattrocento quelli che mi dànno la divinazione dell’infinito o che mi fanno piangere sulle lotte degli umani? La corda ha vibrato, l’emozione artistica o del sentimento c’è; basta. Io preferisco un piccolo bronzo di Jerace alla torre Eiffel che ha sbalordito mezzo mondo. Questione di gusti. E voi stessa, signorina, che difendete l’autore della _Vita_, non potete trattenervi dal convenire che accanto alle bellezze che io pure riconosco, v’è nel poema «l’ampollosità che affanna e la minuzia pedantesca che agghiaccia. A profondità filosofiche, dite, seguono declamazioni, in cui il pensiero diluisce; agli slanci più arditi, ai più vigorosi colori, [pg!45] alle grazie più schiette dell’arte, sono spesso vicini subentrano lunghi periodi intralciati, che accusano la preoccupazione ed hanno quasi l’aria di bisticci scientifici.» Ebbene, a me pare che ce ne sia abbastanza per distruggere il poeta. Come volete che la poesia alata, eterea, inafferabile e luminosa, e ingannatrice come il regno della fata Morgana, non dilegui all’apparire della scienza, che ci avverte di tutte le menzogne, che ci mette in guardia contro tutti gli incanti, che ci sveglia da tutti i sogni? Un poema scientifico per me è una contraddizione, un paradosso. Si reggerà se la scienza si personifica in larve fantasiose come nel _Faust_ di Goethe, in spiriti smaglianti come nel capolavoro dantesco, (lasciando dormire i genii) se si diffonde nel panteismo, come nei versi puri e freddi del Marradi, oppure se diverrà favola come in una delicata creazione di Alfredo Baccelli. Ma un poema cosmogonico e solitario come quello del Checcucci, in cui non si sente che la sua voce come quella di Dio, durante i sei giorni della Creazione, non può che trascinarci sotto il suo peso soffocando in sè ogni melodioso accento di passione, frenando ogni volo, spegnendo bagliori, ottenebrando l’immensità. Poi, che ne dite voi, signorina, voi l’autrice elegante di tanti versi armoniosi, fra cui non dimentico certi «_Fiori d’Arancio_» fragrantissimi: che ne dite di certe trascuraggini di forma che accuserebbero la fretta, se non si sapesse anche troppo che la _Vita_ costò sei anni di lavoro al suo poeta? di certe ripetizioni, stucchevoli, d’immagini e di vocaboli? di certe parole così barbare, così barbare che fanno accapponar la pelle come lo stridere d’una lama sul vetro? [pg!46] Cuore e fede, cara signorina, possono fare un galantuomo, ma non bastano per formare un poeta. Del resto che importa? meglio per lui e per noi. I galantuomini sono così rari! e dei poeti ce ne sono tanti... [pg!47] Aspettando un Alessandro. . . . . . un Alessandro, sì, o meglio forse nel caso nostro un’Alessandrina, che col suo bravo paio di forbici (arma più umile, ma qualche volta più spiccia della spada) venisse a tagliare il nodo Checcucciano intorno al quale da troppo tempo la signorina Gianelli ed io stanchiamo le mani delicate. Se al silenzio non si potesse dare che un’unica interpretazione, starei zitta e addio; ma si ha un bel indorare il silenzio; tacerà sempre chi non sa più cosa dire. Veramente gran che di nuovo da dire non l’ho più neppur io; feci le mie considerazioni e ridissi le mie impressioni come la signorina Gianelli fece e ridisse le sue. Ora vorrei solamente domandarle il permesso di stenderle non la mano, ma tutte e due le braccia, per ringraziarla del troppo bene che disse di me e della simpatia di cui mi onora; vorrei dirle il desiderio di vederla qui in una poltroncina, accanto alla mia, nella beata solitudine del mio salottino di studio, per continuare la nostra polemica in tutta intimità e difendermi dall’accusa d’incoerenza, che con un garbo tutto femminile mi fa più intuire che leggere fra le sue righe cortesi. No, cara signorina Elda, non ho mutato opinione, l’ho solamente accentuata e forse per quel cattivo [pg!48] vezzo d’ostinarsi vieppiù nel proprio parere, magari di esagerarlo, quando insorge qualcuno che vuol dimostrarci il contrario. Parlando subito di quel libro, fresca di lettura e trovandomi contro al gusto dei più, non osai, confesso, di impancarmi a dir crudo e netto il mio parere, come lo spifferavo al piccolo crocchio dei miei amici, ma vi gettai su un velo di dubbio, abbastanza trasparente, mi parve per farlo conoscere a chi lo voleva intendere. Ora che non temo più l’immaturità delle mie impressioni, ora che la falange partigiana dell’astro novello non s’è accresciuta, non solo, ma si sfronda di molte illusioni; ora con voi, signorina, e in un giornale di signore, mi attento a togliere quel velo e a confidarvi all’orecchio che l’autore della mastodontica _Vita_, secondo il mio umilissimo modo di vedere, non è niente affatto poeta, che qualche _emanazione di poesia fresca e gentile_ e il _corruscare di gemme e i fili d’oro_ e tante belle cose che scovai esultante fra i fossili della _Vita_, e anche _i bei versi vigorosi iridati fluenti_, di cui feci perfino al signor Checcucci un’aureola (badate; scrissi _i bei versi_ per distinguerli da... quegli altri del poema), tutta questa fragilità in sboccio, insomma, — _il fummo del ruscel di sopra aduggia_ — e, come io temevo, ora un po’ di lontano, stempera tutto in una tinta greve e monotona di cielo piovorno. Non dallo scienziato scorgevo io sprigionarsi il poeta, ma ascoltavo con malinconica curiosità lo scienziato delirare, poichè, persuadetevi, signorina, anche agli scienziati è permesso di aver il delirio qualchevolta, e fantasticavo monellescamente (non lo dimenticate!) su un incubo punitore cagionato dal rimorso di aver abbandonata una professione [pg!49] per un’altra. E se dissi che il Checcucci, prendendo il suo soggetto da un diverso lato e con diversi intenti, sarebbe forse riuscito a donare all’Italia una artistica creazione, non lo dissi perchè avessi riconosciuto in lui, come voi dite, la stoffa del poeta, ma per misurare la distanza che lo separava da un supposto poeta vero. Se l’autore della _Vita_, prese il suo soggetto da quel lato, gli è segno che lo ha _sentito_ così. Se la _Vita_ non fosse la _Vita_, Checcucci non sarebbe più Checcucci. E perdonatemi il bisticcio. Ancora: perchè, signorina, non volete ricordare accanto alla mia ammirazione per le bellezze che mi vanto di aver spigolato nel vostro prediletto poema, le impertinenze che mi scivolarono dalla penna? Perchè non ricordarvi del mio sconforto per quelle nubi che salivano, salivano, togliendomi ogni illusione d’azzurro? non ricordarvi delle mie nervose impazienze crescenti fino a risolversi in una risata irriverente? perchè non ricordarvi che lo collocavo, più volentieri fra i buoni padri di famiglia che fra i poeti, udendo parlare di _grumoli di punti economicamente utilizzati_: — dite, perchè? «È uno sgomento, Dio buono, (finivo guardandomi intorno fra le rovine), e vado domandandomi con melanconico rammarico come mai un _verseggiatore_ che ha saputo pennelleggiare così finamente e così grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste goffaggini che mutano le iridi variopinte in un abito da Arlecchino... «.... In alto dunque, e voli; abbracci un po’ meno e idealizzi un po’ più, e perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un elefante. Dal [pg!50] grandioso che sbalordisce al grottesco che attira il frizzo, il passo è così breve! Così finivo la mia succinta recensione nella _Battaglia Bizantina_, e così ripeto ora e non vorrei ripeterlo solamente a voi, signorina, ma a coloro che credono che pur di far dello spirito si rida scioccamente di tutto. Qualche volta si ride per non piangere, e ci sarebbe proprio da piangere se si pensasse un poco alle nostre condizioni letterarie d’Italia, e come dal vecchio seicento e dalla giovine America s’annida in modo allarmante fra noi la mania del concettoso, dello stracarico, dell’enorme, dell’immane. Tutti si fermano a guardare l’orso che balla, pochi a meditare sulla variopinta meraviglia di un insettuzzo che vola! Oh, no, gentile Elda, credete, credete a me, non è un mito il poeta quale tentai di dipingerlo, nè dovrebbe essere un taumaturgo; basterebbe che fosse un poeta e non un verseggiatore, basterebbe che appunto si trovasse a disagio in un secolo come il nostro che voi chiamate a ragione positivo, scettico, investigatore; basterebbe che non sapesse il peso specifico del sole, ma che si prostrasse ad adorarlo. Potrei fare la scommessa che un vero poeta (e grazie a Dio, sebbene scarsi, ne conosco ancora), un vero poeta non scriverà mai una sola delle parole dotte che il Checcucci mi ha insegnato. La scienza, questa spietata carità, ci darà faticando dei versi, dall’ignoranza popolare fluirà essenza vera di poesia. Omero non sapeva come fosse fatto il mondo, e Dante ha detto degli strafalcioni astronomici. Non lo dimentichiamo. [pg!51] Sfumature. _(dal diario di Maria)_ 1 Gennaio 189... Quanti potranno intendere questa mia manìa delle sfumature? le sfumature che si insinuano, si dilatano, avvolgono, s’addensano dappertutto senza occupar troppo spazio, senza risvegliar troppa critica, senza determinare nulla? le sfumature che non si pesano sulla bilancia della esistenza e che, forse per questo, si trovano distribuite così poco equamente! Talvolta io penso che cosa sarebbe il mondo dell’arte, del pensiero, dell’azione, senza le sfumature che fondono, che adornano, che ammorbidiscono, che smorzano o ravvivano previdentemente. All’arte danno ora la divinazione, ora l’eleganza, o la verità, o l’umorismo, o il patetico nella più delicata ed alta efficacia; nel pensiero sono l’analisi, l’intuizione, la finezza, il profumo — ricchezza e travaglio dei pallidi abitatori del regno spirituale; nella vita, oh nella vita quanto bisogno di sfumature! esse sono la parola amabile o generosa o conciliativa venuta a tempo; sono la carità d’un silenzio e d’un sorriso; la cortesia che ammanta l’indifferenza e la noja; le attenzioni e la riconoscenza verso chi ci vuol bene; tutto ciò insomma che forma l’aureola della femminilità. [pg!52] 11 Gennaio È la stagione delle lunghe serate. Non ne diciamo troppo male. Gli affetti e le dolcezze del focolare si avvivano come le stanze all’accendersi dei lumi dopo il livido svanire dell’ultima luce. Gli ambienti sono più tepidi, gli spiriti più gai. La solitudine stessa nelle sere d’inverno, si riveste d’un colore d’austerità feconda che la rende meno triste. Non è come in certi tramonti di primavera o d’autunno, in cui l’anima indocile ai legami della volontà migra in alto insieme alle nubi di rosa e di viola per tornare più mesta, più solitaria più infelice. Nelle veglie invernali ci si accomoda nell’angolo più simpatico del salottino, e là, protette dalla penombra raccolta del gran paralume, si scrive. Sia all’amico venerando, alla sorella giovinetta, al figliuolo collegiale, al fratello, alla madre, ma le nostre lettere devono portare una forza, un sorriso, un esempio, un pensiero, una fede... Qualchevolta è un libretto che esce dalle misteriose profondità della scrivania — un libretto come questo, dove si notano da anni le impressioni, i pensieri, i libri letti, i versi preferiti, i progressi morali e intellettuali dei figliuoletti che sbocciano al nostro alito amoroso... È un’utile abitudine; insegna a pensare, ad analizzare, a determinare; poi è una pallida conservazione della vita passata che non svapora del tutto, chiusa così in essenza fra le pagine. Ma per far ciò fruttuosamente, occorre sopratutto la sincerità; una sincerità acuta, spietata, che disgombri affatto la coscienza dalle nebulose fra cui si vizia e si falsa. Bisogna avere il coraggio delle contraddizioni, dell’opinione intima, che è quasi sempre la più timida, della rigidezza [pg!53] per le fantasticherie e i languori; bisogna pervenire allo sdoppiamento completo di sè; foggiarsi e alimentare in noi un piccolo giudice giusto ma supremamente severo. Allora il libriccino diventa una specie di controllo morale, e solo allora un consigliere efficace. Io aspetto con delizia le sere di solitudine per dare l’ultima mano alla novella, all’articolo, per trionfare d’una pagina ribelle, per incominciare un lungo e più arduo lavoro. Alla sera i bambini dormono, i parenti, gli amici, i servi non interrompono — si sa che nulla reclama il nostro intervento, si sa di potersi abbandonare con pieno diritto e dedizione totale all’opera faticosa e gentile. E nel gran silenzio che si addensa intorno, balenano copiose le idee, e scendono in raggi fecondi nell’espressione agile ed efficace. Si scrive, si scrive, si sogna senza dormire, si vive con persone che non si conoscono, che non esistono, ma che si agitano e soffrono e vivono e parlano animati da noi, figli del nostro dolore, quasi sempre. Poi ad un tratto uno scricchiolio, un suono, una voce ci scuotono, si guarda l’oriuolo e sfugge un’esclamazione di meraviglia. Già terminata la sera? E ci troviamo nel cervello un capriccio di meno e qualche idea di più. 12 Gennaio Giulia mi ha detto che non tutte le signore possono usare del magico specifico, cui accennai ieri, per occupare il tempo. Certo; ma molte però possono impiegarlo vivendo nello spirito dei sommi che nella solitudine scrissero per la solitudine. Tutte poi possono procurarsi il sano diletto intellettuale [pg!54] di leggere un libro che non sia dei soliti romanzi e neanche un arido sfoggio di erudizione. Uno di quei libri di cui non scarseggia la moderna letteratura italiana; che aiutano a formarsi criterii e gusti proprii, e che ci permettono di seguire con discernimento, oltre che con amore, gli studi dei nostri figliuoli. E il pianoforte non è un potente ausiliario nelle sere di solitudine? Si può suonare tutta la sinfonia o la suonata classica, o la «fuga» senza annoiare nessuno: si può ripetere a sazietà e canterellare anche, senza giudici incomodi, la pagina preferita dello spartito; si può umilmente eseguire degli studi e pazientemente compitare il pezzo di musica, senza fare in presenza di testimoni la parte di scolarine. E i lavoretti destinati a una persona cara, che non devono essere veduti da nessuno, proprio da nessuno? E le sorprese per i bambini? i raffazzonamenti segreti all’abito e al cappellino per una data circostanza? L’esercizio delle lingue straniere? L’adornamento nuovo per il salottino o per la tavola da desinare? E i corredini, i corredini per i piccoli incogniti che si aspettano dal regno dei sogni e che le mamme amano preparare nel raccoglimento, quasi sgomente d’uno sguardo indifferente, come d’una profanazione? Oh, no, no: sono gli uomini i più da compiangere nelle sere di solitudine, non noi! 14 Gennaio Ho prolungato la passeggiata sulla via maestra più del solito, oggi. Tornando, vedevo qua e là nelle case le finestre basse illuminate. Allora ho pensato [pg!55] che le famiglie numerose e casalinghe sanno veramente, esse, tutta la mite bontà delle serate invernali. Sparita la bianca tovaglia, il tappeto si popola di cestelline, di libri, di cartelle, di giornali, di giuochi. I bambini fanno gli ultimi schiamazzi prima di sedersi a fare il còmpito di scuola o di andare a letto. Il nipotino più assennato o la signorina più amabile, si accingono a far la partita alle carte colla nonna. Gli uomini accendono il sigaro, le signore si scaldano un momento in crocchio al caminetto, prima di mettersi alle loro occupazioni serali. È il momento delle discussioni, delle chiacchiere vivaci. L’ultimo numero della rivista letteraria o del giornale di moda circola; le testoline si accostano, i nasi maschili s’intromettono, le celie impertinenti volano. Qualche mamma, sola, rimane un momento in silenzio, con le braccia conserte e la fronte china, pensando a un caro lontano; qualche volta è l’immagine d’un perduto che passa nell’attimo silente, nel sospiro, nell’eloquenza d’uno sguardo... 15 Febbraio Ho letto un sublime lavoro di Edoardo Schurè: _Le drame musical_. La prima parte tratta dell’estetica nell’arte in generale; la seconda è quasi tutta occupata dall’opera Wagneriana. Ma non è punto inaccessibile nè gravoso. È un ricamo che uno fra gli ingegni più illuminati dei nostri tempi ha voluto fare sulla trama di tutto il bello, fiorito da secoli nelle immaginazioni colorite dai tempi. Un lavoro di mago sulla concezione d’un titano. Ah che bellezza! Le favole diafane e leggiadre dell’antica Grecia ci passano sul capo, e le danze e l’armonia. [pg!56] È un’accolta di genii e un mite raggiare di larve del loro pensiero: Dante e Goethe, Palestrina e Beethoven, Shelley e Virgilio, e finalmente Wagner nell’impero dei suoi fulgidissimi sogni. L’opera Wagneriana dopo la lettura del secondo volume composto dell’analisi di ogni suo dramma, diventa comprensibile e facile anche ai non iniziati alle sfere superne del divino mondo della melodia. Trascrivo dal volume I, dal capitolo della danza primitiva e l’epopea: «Tandis que les peuples montagnards ont vu apparaître le cortége de Pan et du divin Dionysos, les peuplades maritimes se sont familiarisées, dans leurs courses avec le cycle des divinités voluptueuses ou tristes, rêveuses ou enjouées de la mer. Chose étrange, les plus aimés de ces dieux, ce ne sont pas toujours les plus puissants, mais ceux qui meurent jeunes et beaux, ceux qui fascinent et qui tuent. C’est le bel adolescent Adonaïs, aimé d’Aphrodite, qui meurt déchiré par un sanglier, mais qui renaît tous les printemps avec la floraison; c’est Attis qui se suicide dans un désespoir d’amour et dont le sang répandu sur la mousse refleurit en violettes; c’est Hylas, ravi par les nymphes des sources; c’est surtout l’étrange et significative Proserpine, qui symbolise le décevant mystère de la nature, son ardeur de destruction et de résurrection, la mort éternelle dans la vie, et la vie éternelle dans la mort». 2 Marzo Le giornate si allungano, pigramente, lentamente, ma si allungano; in certe ore si può spalancare le finestre al sole dimenticando la stufa, od uscire a pigliarselo. Gli alberi sono ancora rigidi e muti, [pg!57] l’aria sgarbata, ma in certi riflessi più vivi, in certe ondulazioni più dolci, in qualche corolla bianca di margheritina, c’è già la promessa della primavera; come nello spesseggiare dei spiragli luminosi sotto le nere gallerie che forano le montagne, c’è la speranza dell’aperto, della liberazione. Ah! la luce! — pensano con un profondo sollievo i viaggiatori guardandosi in faccia. Ah! la vita! — sospirano gli umani, malinconici viaggiatori anch’essi, e ad ogni schiudersi annuale di gemme, è una sorpresa e un sorriso come dinanzi ad una inattesa concessione benigna del rigido Destino. 17 Marzo Ho scoperto dei tesori in granaio. Uno sgabello imbottito di cuoio, una lucernina, una ròcca, un cofanetto e una cornice rococò. Ho trovato delle ragnatele, della polvere, dei topi, ma non ho indietreggiato; — avevo un coraggio veramente da esploratrice. Oh dolce e fine poesia dei granai, ben io tutta ti sento! La poesia dei tetti a grondaia e dell’accavallamento misterioso e pauroso di travi; la poesia delle finestrette a fior di terra, dalle quali si scopre un nuovo orizzonte, e le scalette pericolose che menano agli abbaini soleggiati, dal fascino strano, austero e selvaggio; e i vecchi quadri accatastati che vi guardano dalle pareti; visi o scene che l’ombra del fondo per sommergere come quella del Tempo; le scranne dei nostri vecchi, che vi lasciarono un po’ l’impronta della loro personalità, le seggioline alte che ci accolsero bimbi e che ci guardano con stupore come noi le guardiamo con meraviglia; e qualche vecchio strumento muto e [pg!58] cadente come la bocca o le mani che lo animarono; e qualche giocattolo rudimentale che dorme fra una generazione e l’altra, rinnovandosi come la fenice; e vecchie tavole che sanno i gai e cerimoniosi conviti degli avi; i piccoli tavolini da lavoro, coi cuscinetti fissi per gli aghi, che sanno soli, forse, lagrime e romantici segreti che nessuno dubitò... Buoni e vecchi granai dove il presente diventa il passato, dove le cose tutte hanno una voce, una leggenda, un’anima, siete forse voi che mettete nel cuore di tanta infanzia che vi predilige, i germi, che più tardi porteranno il loro frutto, d’una delicata idealità, d’una sana poesia? 9 Maggio Primavera! la magica parola evocatrice di sogni, di rose, di speranze; la blanda medicina in una coppa d’oro! Quanti ti aspettano o Dea! I vecchi per riacquistare un po’ di forza, i malati un po’ di salute, i mesti un po’ di serenità; ti aspettano le scolarine per cogliere le viole, gli studenti per le vacanze di Pasqua, le mamme per veder prosperare e sviluppare i loro piccini, le fanciulle per unirsi a un desiderato compagno fra il sorriso del cielo e della terra... Anche Elisa si sposa. Me lo ha detto cogli occhi raggianti. Voleva vestirsi di celeste per la cerimonia religiosa: io l’ho sconsigliata vivamente. L’abito da sposa deve essere bianco, interamente bianco. E una stola, è un simbolo; se si modifica non ha più alcun significato, resta un abbigliamento da sera poco concordante con la serietà e la santità del rito memorando. Un abito bianco, austero, molti fiori [pg!59] d’arancio, freschi possibilmente, un lungo e finissimo velo... Ecco, così. Ho spezzato un’altra lancia in favore della villettina nascosta nel verde a preferenza del viaggio di nozze, inopportuno, assurdo, barbaro. Nei primi tempi le spose si rapivano, poi si simulò il ratto, ora si portano a spasso solamente... ma è sempre una brutalità. Ho detto ad Elisa di non sciorinare il suo amore, di non disperdere i più cari e tumultosi ricordi nella volgarità degli _hôtels_ e delle _pensioni_: le ho detto di scegliersi il suo nido con cura amorosa, di trovarlo lontano dal mondo curioso e irrisorio, sia fra i pini sulle alpi o fra gli aranci sull’azzurro mare, fra il verde boscoso di un colle o nella distesa di smeraldo d’un’ubertosa pianura; le ho detto di nascondere la sua felicità, esile fiammella, come si protegge la lampada con la mano... 1 Giugno Mentre lavoravo è venuto Ettore S. che ha posato sul mio tavolino un libro soffuso di aristocratica e soave femminilità. È quello intitolato: «Poesie d’una regina», la regina di Romania che si vela dello squisito pseudonimo di Carmen Sylva. Il volumetto piccolo, bianco, fregiato d’oro e contenente un ritratto e un autografo della regina-artista; tutto palpitante di onesti sensi di madre e di donna, ha messo una nota fine e ideale di più nel mio salottino. La traduzione dal tedesco, quantunque lodata anche dall’autrice, a me par molto mal riuscita; ma se pur è possibile astrarsi dalla forma e rintracciare lo spirito originale che circola dentro, l’impressione [pg!60] è fragrantissima. Questa dama, che dalla vergine rozzezza silvestre distilla arte raffinata, mi fa pensare alle favolose ninfe dei boschi, diafane e bionde nella selvaggia natura. Il mio amico interpretando i miei gusti o il mio sentimento aveva messo il segno ad una pagina dove si legge questa poesia: NEL PAESE DEI SOGNI Vorrei esser regina, ma soltanto Se la corona mia fosse di fiori, E il tessuto d’un ragno il regal manto E stille di rugiada i suoi splendori. E sarebbe il dio Sol cerimoniere, Una nube il mio cocchio — mie donzelle Le muse — allor, nè ironiche, nè fiere, Ci guarderebber di lassù le stelle. E vorrei tutte accoglier nel mio regno Le foreste del mondo — e l’arti in fiore — De’ nobili pensieri esser sostegno Vorrei — e forte reggere ogni core. — Ma invece il serto è greve — e poichè è detto Che mai non accadranno queste cose, Vorrei essere il folle ruscelletto A l’ombra delle roccie alte e muscose. 15 Giugno ..... La casa è uno dei pochi ideali della donna che effettuandosi non si sfata. Quando la fanciulla fatta moglie mette piede per la prima volta fra quelle pareti in cui aleggia col suo vago incanto il futuro, ella le ama già, ella vi ha abitato nei suoi sogni, vi ha architettato degli episodii, vi ha già vissuto ore divine. Quindi è quasi con un sorriso di riconoscimento che, stretta al suo compagno, ne [pg!61] fa la prima ricognizione. Era proprio così: c’è proprio tutto, e c’è l’amore volatilizzato nell’atmosfera che illumina, riscalda, e facilita e abbellisce azioni e cose. Dopo un paio d’ore, la casa ideale di ieri è identificata nella casa reale di oggi, e la dimora vera si riflette fedelmente nel paese del sogno. Quelle pareti sono già piene di memorie, di speranze; appartengono già alla nostra vita interiore; e le adoriamo come il passato e le difendiamo come l’avvenire. Pure non saranno consacrate che il giorno in cui vi piangeremo per la prima volta. Mi piacerebbe di domandare a cento donne scelte a gruppi nelle diverse classi sociali come sognano una casa. Scommetto che anche fra quelle medesime che preferiscono un palazzo o un castello, un _châlet_ o un villino, una casetta o una capanna, non si troverebbero le stesse aspirazioni. La donna rispecchia nella casa le gradazioni più indistinte della sua natura. Si potrebbe dirle: _Dimmi come è la tua casa e ti dirò chi sei._ Io credo che la mia casa ideale farebbe disperare più d’un ingegnere. La vorrei fra un giardino pieno di alberi e di fiori, non importa dove; bassa, a un sol piano, terminata alle due estremità da due stanze rotonde, coperte a cupola, e circuite di finestre; indi fiancheggiate da due torrette alte e snelle e accessibili per spaziare nell’orizzonte. Il corpo della casa dovrebbe essere tutta una sala, e tutta la parete di mezzogiorno fatta di vetri, come una serra. La luce verrebbe mitigata dalle piante rampicanti di fuori e dalle tende nell’interno: la gran sala si dividerebbe in stanze e salottini per mezzo di grandi paraventi e di pareti sottili e rientranti, all’uso giapponese. [pg!62] Fiori ed arte dappertutto; e viver là fra i miei affetti e i miei libri. Non chiederei mai di uscirne... Oh il sogno divino! Fine Giugno Ettore S. e Filiberto U. mi hanno accompagnato ieri, sul vespro, nella visita che ho dovuto fare alla signora Armanda. Malgrado la mia coraggiosa difesa e la mia aria severa, quei due monelli hanno riso tutto il tempo del ritorno pensando al grembiule all’_enfant_ della povera signora. Infatti i grembiuli danno tale un aspetto di semplicità ingenua che una signora non li può portare senza stonatura. I soli grembiuli permessi alle signore sono quelli messi unicamente per salvar l’abito, per far qualche faccenduola, per giocare coi bambini; i grembiuli ampi di lana nera o grigia che l’infanzia adora come tutte le cose che sanno di bontà e di vecchiezza — i provvidi grembiuli che asciugano le lagrimette, che si riempiono dei balocchi, che si chiazzano di polvere o di fango, che servono così bene a far lo strascico, legati alla cintura; i grembiuli che restano nei ricordi dell’età ignorante e lieta, insieme al viso grinzoso d’una governante, alla dolcezza dei baci materni. 1 Luglio Come alle prime brezze pungenti e alle prime brume che il sole non riesce più a diradare, ci assale il desiderio dolce di un nido tepido e illuminato, ora a questi primi soffi molli, a questi primi fulgori che spossano, s’insinua una tentazione terribile d’ozio e di vagabondaggio. [pg!63] La scarsa falange dei felici per rinnovare in un diverso ambiente e colorire diversamente la propria felicità: la gran maggioranza dei malcontenti per l’illusione d’un sollievo alle noie, alle difficoltà quotidiane che aduggiano la vita più degli stessi grandi dolori; e finalmente lo stuolo numeroso degli afflitti che vogliono esser soli col loro martirio e Dio. C’è chi sogna il mare ed il suo odor salso ritemprante, la sua sabbia fine e ardente in cui è così voluttuoso seppellirsi, i suoi cento aspetti di colori, la sua immensità ritmica e sonante. C’è chi aspira ai monti, alle stradicciuole petrose, ombreggiate dai castagni, al rezzo verde mattutino, fra cui mormora e scintilla un fonte salutare. Chi si slancia col pensiero ancor più in alto, sulle vette purissime soffuse di delicati riflessi d’aurora, dove solo gli abissi paiono vegliare insaziati e feroci. V’ha chi si contenta di meno: di una bianca casetta fra una distesa aromatica di fieno falciato; v’ha chi vorrebbe di più: una peregrinazione attraverso mari e paesi non veduti; c’è chi tende agli incanti un po’ mesti dei laghi; ci sono poi, finalmente, dei fortunati che hanno ancora qualche castello turrito, più o meno autentico, dove ritirarsi al fresco e annoiarsi, magari, un pochino, da castellani. Ma esiste pure un gran numero di persone per cui tutti questi paesaggi rimangono nella sfera durevole e insieme intangibile delle cose sognate. Quante! Tutti coloro per cui il problema non è di viver meglio, ma semplicemente e terribilmente di _vivere_. Coloro che s’agitano nella sfera del piccolo commercio, le famiglie di impiegati di quarto o quinto ordine che hanno per tutta rendita il magro stipendio; quelli che campano col piccolo provento d’un’industria o d’una scuola. Quante [pg!64] volte io penso a questa povera gente che non ha l’epidermide abbastanza dura per mescolarsi alle distrazioni del popolo e per non sentire la nostalgia delle distrazioni dei ricchi; tante povere piccole mani sciupate dall’ago; tanti begli occhi affaticati dai libri; tante teste grigie indolenzite dai fornelli e dai pazienti rammendi, tante gambuccie di fanciulli anelanti agli spazii erbosi, alle arene benefiche. Ma per loro, per questa povera gente, non c’è che qualche sosta in qualche pubblico giardino, di sera, quando i negozi e le cure sono finite, con la prospettiva delle stanzuccie al quarto piano anguste, brucianti nelle notti affannose; qualche gita fuori di porta la domenica, coll’incubo, per i giovani, dei desiderii perpetuamente insoddisfatti; per i vecchi, dei perpetui dinieghi; ci sono le pianticine di geranio e di viola sul davanzale, le piccole fortune invidiate di un pergolato di _volubilis_ su un terrazzo di due metri — gli orizzonti di qualche punta d’albero, di qualche scorcio di viale... 1 Novembre Dopo un’assenza un po’ prolungata riapro il mio diario che potrei chiamare il libro delle sfumature. Malinconiche sfumature quelle d’oggi. Le sfumature del grigio, del marrone, del bianco; dei colori della penitenza e delle fredde purezze solitarie. Mi pare che nell’inverno le tinte gaie dormano il giorno e vivano la notte come la gioconda e lieve falange dei silfi e delle fate, come tutte le cose ridenti che non si sa più dove siano. La notte trionfano, folleggiano nei ritrovi, nei teatri, nei balli, nei conviti; fra pareti rabescate ed ornate, sotto un sole di gas o d’elettricità, [pg!65] fra il profumo delle essenze, nel prorompere d’una vita fittizia e artificiale che brucia e non riscalda. Il giorno si rinchiudono, non si sa dove, negli armadi, negli spogliatoi, nei cofani, negli angoli, per ricomparire coi primi lumi. Richiusi, segregati, abbandonati, i vividi colori dormono e sognano. Sognano la primavera così lontana, così inverosimile, colle sue fresche tinte di rosa e di viola, col lume del suo tepido sole fecondo, coll’alito intriso di vivo profumo. Sognano l’estate così morta, l’estate col suo azzurreggiare di marine, le pompe de’ suoi papaveri fra il grano biondo, la frescura dei verdi colli, la ferocia del suo sole meridiano. E anche l’autunno di ricordo recente sognano: l’autunno, divinamente stanco e mesto delle troppe cose vedute, delle grandi opere compite, ancora un poco ridente, ma già raccolto, già pio, già presago dell’imminente sonno eterno... Refrigeranti sogni di ricordi che conservano ai colori la loro freschezza nativa. 18 Novembre L’inverno viene. E sono pochi quelli che lo vedono venire con gioia. Pochissimi. Voi, forse, che nel dolce settembre consacraste il vostro amore sognando la luminosa e tepida intimità del nido recente; lei, freschissima signorina, a cui la stagione dei balli e dei ritrovi promette facili trionfi; voi, novellini che vi confondete ancora con le ballerine e le _divettes_ da caffè-concerto, e voi, grandi egoisti, per cui l’inverno non è che una sfilata di sere illuminate a luce elettrica e riscaldate a calorifero, affollate di visioni intellettuali e di realtà elette. Ma per questi pochi, che sterminato numero torce il [pg!66] viso al Vecchio secolare e fedele, e lo respinge fino a perdita di forze, e chiama a raccolta per opporglisi tutto l’eroismo di cui può disporre anima umana! Chi ha intorno al desco famigliare delle teste canute e venerande e chi ne ha delle piccine e fragili; chi ha uno stuolo d’angioletti senz’ali da coprir di lana da cima a fondo e chi vigila su un diletto infermo come su un fiore; chi si prepara faticosamente un avvenire nella povertà laboriosa e chi lotta per la vita nella miseria. Tutti, collegiali e soldati, scolari e maestri, operaie e signore, hanno un movimento d’odio e di ribellione per la stagione spietata che aggrava ad ognuno il fardello dell’esistenza. Oh il dolore di una recente perdita, quando la neve fiocca copiosa e lenta dietro ai cristalli a cui appoggiamo la fronte colla mente alla tomba gelida e lontana! Oh l’amarezza sconsolata di qualche addio più assoluto della morte, quando la nebbia cala sulla campagna intorpidita e qualche squilla lontana saluta il giorno e fumano i casolari dove s’accende qualche lume! Oh le lontananze lunghe, le attese snervanti, le lotte segrete, le dissimulazioni eroiche, i desiderii ardenti e vani, nelle brevi e grigie giornate invernali, quando tutto s’impregna d’umidore malsano, e i marciapiedi luccicano, e gli ambienti più raccolti e più gentili e più gai paiono illividire! Oh inverno, come bisognerebbe essere felici per vederti inoltrare senza sgomento! 30 Novembre .... Si è detto e ripetuto che non vi furono mai, come al presente, tante istituzioni benefiche e un maggior numero di scontenti e di bisognosi. È perchè la società nella sua evoluzione verso il progresso [pg!67] si crea necessità che prima non conosceva? È perchè la vita civile odierna ci pone maggiormente a contatto dei nostri simili e ne sentiamo più i lamenti e ne vediamo più i bisogni? Fatto si è che i poveri ci sono e restano, e che ora più del solito sentiamo l’impulso e il dovere di soccorrerli; ora, nel desolato inverno che le miserie morali e fisiche ingigantisce come in certi paesi polari s’ingigantisce l’aspetto delle cose per un fenomeno di rifrazione. Per i poveri si danza, si canta, si suona, si recita, si fanno gli alberi di Natale e le lotterie e va benissimo, non sofisticherò: il fine giustifica i mezzi. Ma la carità vera, cristiana, benefica per l’anima di chi la fa quanto per l’anima di chi la riceve, è praticata da pochi, purtroppo. Tutti sanno che la carità diretta, nascosta, da simile a simile, esercitata con discernimento ed alacrità è nobile e buona: ci esaltiamo tutti per un atto di filantropìa ben diretto; i libri che ci nutrirono lo spirito nella giovinezza ne sono sàturi, imbevuti ne sono quelli che diamo in mano ai nostri figliuoli. Dunque in teoria tutti d’accordo, ma in pratica? Noi daremo un soldo a un vagabondo per levarcelo di torno sulla via; ma quante volte, assidendoci al desco famigliare innanzi alla minestra fumante, ne leviamo una ciotola per la vecchierella da cui ci separa un muro, che fa rammollire per i suoi denti malfermi il tozzo di pane nell’acqua e intirizzisce sotto lo scialle sdruscito? Noi insegniamo ai bambini di cospargere di briciole il davanzale nevoso della finestra per i passeri vaganti, ma non li conduciamo che assai raramente nelle case del povero per sollevarlo. Sarebbe così bello, invece, e così proficuo che ogni mamma dedicasse un’ora la settimana a qualche [pg!68] visita di carità fatta coi suoi figliuoli! Che li avvezzasse a veder da vicino miserie che neppur sospettano, e senza troppa paura della loro tristezza! I piccoli cuori, puri ancora e impressionabili, si stringerebbero, sì, le tenere menti aperte istintivamente alla giustizia avrebbero forse un senso di ribellione contro le leggi supreme ed incomprensibili; ma dalla pietà e dallo sdegno non germinerebbe uno zelo di compensare, di riparare che porterebbe il suo frutto nelle età mature? Se avessi autorità, vorrei raccomandare a tutte le mamme che vigilano con intelletto amoroso sullo sviluppo morale delle creature di cui sono la guida e l’esempio primo — vorrei raccomandare di fare del sentimento della carità una delle basi dell’educazione. Ciò si può fare a qualunque classe sociale si appartenga: poichè non è l’entità dell’elemosina che la rende utile e santa. Se ricchi, i ragazzi abbiano un salvadenaro per i loro piccoli mendicanti protetti, e le bimbe imparino a confezionare gli abitini, a far calze per loro, e il passaggio nelle squallide soffitte lasci largamente dolci e doni, come quello delle buone fate possenti. Se in condizione modesta, fare in modo che i bambini si privino qualche volta d’un giocattolo, d’un indumento per darlo al povero; fare che lo dia da sè, a costo del sacrifizio, combattendo inesorabilmente con ingegnosa cautela ogni possibile spunto di egoismo o d’indifferenza, due cattivi germi non infrequenti di cui vediamo purtroppo fra gli uomini lo sviluppo rovinoso. «Quando un bambino fa l’elemosina, dice il gran bardo dei fanciulli, il De Amicis, è come se dalla sua mano cadesse insieme un obolo e un fiore». È infatti una così suggestiva gentilezza, una [pg!69] visione così pura, così spirante tenerezza e bontà, che invita a inginocchiarsi per pregare.... 5 Dicembre ... Ho letto in questi giorni un libro non nuovo, assai vecchio anzi; ma, senza far torto a nessuno, quante volte ci si pente d’aver aperto un libro vecchio a preferenza d’uno nuovo? un libro ch’io chiamerei volentieri _di stagione_. È il _Voyage autour de ma chambre_ di Saverio de Maistre e lo dico _di stagione_, perchè insegna a viaggiare in modo molto comodo ed opportuno per l’inverno, viaggiare senza muoversi dal canto del fuoco; e, come Dante nel pelago buio, discendere negli oscuri recessi dell’anima, e risalire come lui di stella in stella nei campi luminosi del sogno. Viaggiare intorno alla propria camera, sostando sugli oggetti noti e cari, vuol dire viver fuori del tempo, nel passato e nell’avvenire, sfilar ad una ad una le ore vissute come i chicchi di un rosario, chiudendo con un’invocazione pia e ansiosa che par preghiera, contar ad una ad una le giornate del futuro come i bocciuoli di un virgulto accarezzato e protetto. Il letto, che è il santuario della vita e della morte, il rifugio del dolore; lo specchio il consigliere fedele e schietto che accoglie lagrime e sorrisi, freschezze e rughe, veli bianchi e veli neri; e il tavolino da lavoro a cui ci assidemmo nelle trepide vigilie e negli squallidi indomani; e la piccola scrivania complice e responsabile, e la poltroncina insidiosa per la nostra attività, di dove udimmo una voce, una parola che non dimenticheremo più. Poi i quadretti, le fotografie, i gingilli, ognuno dei quali ha una storia, un episodio, un ricordo, [pg!70] cristallizzazioni tenui e gentili di goccie che caddero nel gran mare dell’eternità. Se ogni donna raccontasse la storia della sua camera, racconterebbe quella della sua vita. Nessuna lo vorrebbe forse, ma qualcuna, chi sà? la racconta come me a sè stessa e pensa col Mantegazza che il piacere della proprietà, per quanto esigua, è uno dei più dolci piaceri. Una signorina, intelligente quanto simpatica, mi ha detto un giorno: — Io non amo una cosa quando è bella, l’amo quando è mia. ..... una sera di Dicembre Ho incominciato questo libriccino inneggiando, quasi, alla solitudine delle serate invernali; ora, all’ultima pagina ne provo un improvviso sgomento.... È il tempo dell’intimità, della vita buona della famiglia. Non c’è scapolo, per quanto sventato, che non abbia sognato in una rigida sera nevosa un angolo di caminetto e una personcina sottile; non c’è vecchio celibe, per quanto impenitente, che non abbia pensato un attimo, udendo battere la pioggia contro i vetri, a un sorriso di bimbo e a una mano di donna più accurata di quella della fedele governante. Oh, sogni e pensieri brevi, s’intende, che non tornano più in primavera, che in primavera si disfarebbero anzi, se un momento galeotto avesse permesso che si desse loro la tessitura della realtà. D’accordo. Ma anche per il sogno d’un attimo e per il pensiero d’un istante s’accresce la gloria radiosa del focolare; gloria che è un poco quella di noi donne, poichè ne siamo le vestali e le regine. Tutte le donne che vogliono essere e rimanere squisitamente tali, dovrebbero amare l’inverno; e non perchè la vita mondana che riprende con maggior [pg!71] impulso permette loro di mostrarsi più belle, ma perchè la vita della casa nella sua maggior fragranza permette loro di mostrarsi più buone. Lo _sport_, i viaggi, l’alpinismo, il ciclismo, tutti i pretesti di vagabondaggio estivo non ci rubano più gli uomini; molti affari anche, molte professioni, danno qualche tregua l’inverno; le forti mani, leggermente incallite nei violenti esercizi fisici e stanche di regger la penna, si riposano volentieri a far l’arcolaio a una matassa di lana, o a riordinare le gradazioni delle matassine seriche, o a prendere e posare il porta-aghi, le forbici, gli innumerevoli ninnoli che ingombrano gli astucci e le cestelline da lavoro. Sono le ore in cui i teneri e vigili cuori femminili irraggiano e riscaldano; le ore in cui tutte le donne devono diventare un po’ mamme: collo sposo, col fratello, coll’amico. Quanti preziosi consigli, quante refrigeranti parole, quante efficaci esortazioni, quanto luminoso seme d’idee può cadere dolce e lento da un labbro femminile sul cuore del suo compagno, mentre le piccole mani s’industriano, creatrici o riparatrici, e le leggiadre teste sono chine sul lavoro e gli occhi belli non guardano e non turbano! Chi può dire le opere magnanime, i capolavori, le decisioni coraggiose e riabilitatrici di cui hanno gettato il primo filo queste Aracni pie dell’intelletto d’Amore? _Cherchez la femme_, la donna, sì, cercate la donna, ma non solo in fondo agli intrighi volgari; cercatela in fondo a tutte le opere belle, a tutte le opere grandi, a tutte le opere buone: un sorriso o una lagrima di donna sono nella base d’ogni ideale opera umana, come nelle fondamenta degli antichi edifizii i frammenti di marmi preziosi e le monete d’oro...... [pg!72] Giosuè Carducci: — Cadore. [Pubblicato la prima volta nella «Cordelia» giornale per le giovinette, anno XI.] È il terzo anno che mentre il settembre tramonta nella sua placidità cristallina, e precisamente in una giornata che ha l’aureola d’oro di un anniversario glorioso, il più grande dei viventi poeti italiani ci regala un fior dell’Alpe come un’ideale medaglia di commemorazione. A Giosuè Carducci, che pare aver soltanto la nobile ambizione d’udirsi chiamare il poeta civile d’Italia, inchiniamoci oggi in atto di ringraziamento: noi signore, che rappresentiamo la gentilezza presente: voi, signorine, che con miglior fortuna forse, continuerete a rappresentarla nel futuro. Piemonte, La bicocca di San Giacomo, Cadore — possono essere tre canti d’una non lontana epopea destinata a eternare nelle plaghe dell’arte ciò che nel torbido mondo degli uomini potrebbe essere dimenticato. Nessuno più degno del Carducci di questa alta missione. Egli non tramanderà alle genti nuove le ricchezze eroiche del nostro passato vestite puerilmente all’ultima moda, ma drappeggiate classicamente in tutta la purezza di un’arte che non morirà, perchè in lei [pg!73] palpitano elementi della bellezza immortale. L’ode è scritta nel metro inventato dal più antico dei poeti lirici eolii — il metro prediletto dal Carducci che amò dirsi l’ultimo de’ loro figli; con un intermezzo in archilochio-eroico efficacissimo. La ideò, pare, nella piazza di Pieve di Cadore la cui fotografia si vede unita all’opuscolo. Come gli antichi nelle loro creazioni si compiacevano di avvicinare la forza alla bellezza, così il Carducci canta riuniti un artista e un martire: il Tiziano, che rese illustre il paesetto in cui nacque; Pietro Calvi, che lo rese glorioso. Il monumento dell’uno grandeggia; il profilo dell’altro si disegna in un medaglione, modestamente, fra un ricordo marmoreo dedicato ai Cadorini caduti nel 1848 per l’indipendenza Italiana. Ma ambedue sono ugualmente grandi per la patria; ambedue ugualmente degni di esser celebrati dal poeta. È bellissima questa fusione dei raggi luminosi delle due anime: quella del genio e quella dell’eroe. «Sei grande» dice il poeta al genio: «Sei grande. Eterno co ’l sole l’iride de’ tuoi colori consola gli uomini, sorride natura a l’idea giovin perpetua ne le tue forme. Al baleno di quei fantasimi roseo passante su ’l torvo secolo passava il tumulto del ferro, ne l’alto guardavano le genti; e quei che Roma corse e l’Italia, struggitor freddo, fiammingo cesare² sè stesso obliava, i pennelli chino a raccogliere dal tuo piede. ² Carlo V. [pg!74] E dopo aver richiesto dello spirito magno l’austero silente chiostro de’ Frari e i monti paterni e il cielo azzurro che ride e bacia la candida statua, continua: Sei grande. E pure là da quel povero marmo più forte mi chiama e i cantici antichi mi chiede quel baldo riso di giovine disfidante. Che è che sfidi, divino giovane? la pugna, il fato, l’irrompente impeto dei mille contr’uno disfidi, anima eroica: Pietro Calvi. Poi con forza ed emozione crescenti — poichè pare che l’eroe tocchi più dell’artista il cuore e l’estro del bardo — egli scongiura che finchè il Piave scorra ingombro dei ruderi delle selve che diedero pini al vecchio S. Marco, e finchè il sole occiduo colori i monti delle Marmarole, sì che rifulgan, palagio di sogni, eliso di spiriti e di fate, Suoni soave, suoni terribile, ne i desideri da le memorie, o Calvi, il tuo nome; e balzando pallidi i giovini cerchin l’arme. *** O gentili e trionfali figure del nostro Risorgimento, come siamo liete noi donne e fanciulle, noi giovani, di rintracciarvi rilucenti fra i versi magnifici, come i guerrieri eletti nel dantesco dolce aere luminoso! E pare davvero un personaggio dantesco questo giovane capitano «biondo, diritto immobile,» [pg!75] che nel sole di maggio sventola fieramente contro al nemico il segnale della guerra, la guerra dell’affrancamento, l’unica guerra santa. Afferran l’armi e a festa i giovani tizïaneschi scendon cantando Italia; stanno le donne a’ neri veroni di legno, fioriti di geranio e garofani. Udite: Un suon lontano discende, approssima, sale, corre, cresce, propagasi; un suon che piange e chiama, che grida, che prega, che infuria insistente, terribile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Che è? chiede il nemico venendone all’abboccamento, e pur con gli occhi interroga. Le campane del popol d’Italia sono: a la morte vostra o a la nostra suonano. Ahi, Pietro Calvi, al piano te poi fra sett’anni la morte da le fosse di Mantova rapirà. Tu venisti cercandola come la sposa celatamente un esule. Quale già d’Austria l’armi, tal d’Austria la forca or ti guarda sereno ed impassibile, grato a l’ostil giudicio che milite il manda a la sacra legïon de gli spiriti. Non mai più nobil alma, non mai sprigionando lanciasti a l’avvenir d’Italia Belfiore, oscura fossa d’austriache forche, fulgente Belfiore, ara di martiri. Dopo le rapide ed efficaci impressioni di quei giovani belli e arditi che corrono alla morte cantando il nome della loro terra, di quelle donne ai balconi, di quel rintocco insistente, crescente, diffuso delle campane, di quell’intrepido martire nella valle dal poetico nome — impressioni date magistralmente; [pg!76] il cantore in un ultimo impeto patriottico impreca a chi dimenticasse quel martire, a chi negasse la patria: e a chi la patria nega, nel cervello, nel sangue sozza una forma brulichi di suicidio..... la tortura morale più orribile, la tortura dei vili.... Nella terza parte il Carducci, «lasciando dietro a sè mar si crudele,» torna alle serene bellezze del Cadore nel metro alcaico, in una pittura di paesaggio stupenda: ..... Lento nel pallido candor de la giovine luna stendesi il murmure de gli abeti da te, carezza lunga sú ’l magico sonno de l’acque. Di biondi parvoli fioriscono a te le contrade, e da le pendenti rupi il fieno falcian cantando le fiere vergini attorte in nere bende la fulvida chioma; sfavillan di lampi cèruli rapidi gli occhi: mentre il carrettiere per le precipiti vie tre cavalli regge ad un carico di pino da lungi odorante . . . . . . . . . . . . . . . Ma poi sul finire gli sfugge di nuovo uno de’ suoi gridi titanici: un grido di Prometeo: Io vo rapirti, Cadore, l’anima di Pietro Calvi; per la penisola io voglio su l’ali del canto aralda mandarla. [pg!77] Per ora è questa — dice il poeta — non quella del Vecellio che richiede l’Italia. Quando l’Italia sarà tutta forte, tutta vittoriosa anche nello spirito dei suoi figliuoli, allora chiederemo a Tiziano che ne dipinga il trionfo nel più bello e nel più memorabile dei suoi monumenti: nel Campidoglio. Spirito eroico e gentile evocato da un sommo, fa che non sia remoto quel tempo! fa che i giovani d’Italia non ti sentano vanamente passare! [pg!78] Il conte zio. [Scritto per una specie d’inchiesta aperta dal _Fanfulla della Domenica_ su una pretesa contradizione riscontrata nel carattere del «Conte zio» dei Promessi Sposi. N. d. A.] L’invito è cortese, la questione attraente e tentatrice; ma, consapevole della mia pochezza, scendo in lizza timidamente, nascondendomi il più che è possibile all’ombra di quel gran nome, che i vecchi adorano e che tutti i giovani — manzoniani o no — dovrebbero inchinare reverenti. Intanto rileggendo attentamente quel bellissimo capitolo decimonono dei _Promessi Sposi_, in cui le qualità più simpatiche dell’autore rifulgono di viva luce, si è tratti subito ad ammirare la magistrale sapienza del Manzoni nel dialogo, tanto per la fine ed ingegnosa condotta alla conclusione, come per la naturalezza inimitabile. Quelle esitazioni, quelle frasi lasciate a mezzo, e non solamente in bocca al Conte Zio, per cui sono una caratteristica, ma pur anche in bocca del padre provinciale, è arte finissima per indurre il lettore a credersi veramente spettatore invisibile dei due interlocutori, che parlano con le esitazioni vere di chi cerca la parola esatta o l’immagine appropriata nel discorso. [pg!79] Ed ora entrando in materia, per esporre coraggiosamente il mio parere, soggiungo che non mi pare di riscontrar contradizione alcuna fra le linee generali del carattere del Conte Zio e il suo modo di trattare la faccenda col molto reverendo padre: giacchè se il Conte ci viene raffigurato dall’autore come un barattolo di farmacia vuoto di dentro, sappiamo pure che aveva su certe parole arabe per mantenere il credito alla bottega; e il credito non l’avrebbe mantenuto, se invece di usare di quelle «spalmature di vernice che la politica a più mani aveva messe sopra il suo viso,» fosse entrato impazientito a piè pari nell’argomento, narrando brutalmente al religioso la storiella scandalosa di fra Cristoforo: tanto più che da certe reticenze del padre provinciale, da certi tentativi di difesa, egli ha dovuto intendere facilmente che non era quello il bandolo, e che la stima in cui si teneva o a torto o a ragione fra Cristoforo, avrebbe forse reso inefficace quell’accusa troppo grave facendo gridare alla calunnia. Quindi bisognava che il magnifico signore s’attenesse al verosimile per non urtar troppo il molto reverendo padre, tanto più che fra i due (parla il Manzoni) «passava un’antica conoscenza; s’erano veduti di rado, ma ogni volta con gran dimostrazioni d’amicizia e con proferte sperticate di servigi:» un’amicizia insomma piena di riguardi e di cerimonie. L’offesa recata a fra Cristoforo con quell’accusa era un’offesa all’abito che portava l’amico molto reverendo, il quale stava appunto cantando di quell’abito la gloria e i miracoli. Così la confidenza di un semplice urto fra il padre Cristoforo e don Rodrigo, condite con le solite reticenze di quel «parlare [pg!80] ambiguo, quel tacere significativo, quello spingere d’occhi che esprimeva non posso parlare,» era proprio quello che ci voleva in quel momento per conseguire il suo intento senza metterlo nell’imbarazzo di parlar chiaro — cosa, che con quel suo metodo doveva riuscirgli abbastanza difficile. Insomma, fece nè più nè meno del solito, e questo mi pare che vada d’accordo con le linee generali: la mancanza di coltura, di dottrina, d’ingegno, la sua sufficienza boriosa con cui si convinceva certo che se un individuo qualunque dava noia alla sua casa, quell’individuo era bell’e spacciato — si scacciava come una mosca importuna — motivo di sfratto che doveva solleticare la sua vanità più del racconto esplicito dell’intrigo di fra Cristoforo. Inoltre, essendosi Attilio scaltramente indugiato sulla necessità di garantire l’onore del casato dalle ironie di quel frate che «trova maggior gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questi ha un protettore naturale di tanta autorità come Vossignoria (il Conte Zio) e che egli se ne ride dei grandi e dei politici, e che il cordone di San Francesco tien legate anche le spade...», la boria spagnolesca del Conte Zio dovè sentirsi punta tanto sul vivo da queste parole ardimentose riferitegli, da fargli mettere subito in seconda riga la storiella scandalosa, salvo poi a servirsene come ausiliario, se il padre avesse negato o promesso vagamente ciò ch’egli chiedeva. Ed ora mi parrebbe che si possa continuare a giudicare il Conte Zio per quello che è sempre stato — uno cioè che ha solamente la verniciatura del grand’uomo — per il barattolo vuoto, per lo spaccone che crede di acquistar credito — e lo acquista [pg!81] in quel pubblico! — raccontando d’essersi sentito domandare, in presenza di mezza la Corte, come gli piacesse Madrid: di aver visto da un posto distinto le caccie del toro, e di essersi udito dire dal conte duca, a quattr’occhi, nel vano di una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse nei dominii del re. L’omissione di un accenno a Lucia nel dialogo col provinciale non è avvedutezza, ma imbarazzo complimentoso, boria e un pizzico di quella diplomazia che l’autore gli dona, e che non si può a meno di concedergli in una posizione come la sua, che poco o tanto della diplomazia ne doveva insegnare. [pg!82] Questioni femminili. _A Neera_. È con tutta la deferenza ch’io oso dirigervi la parola, signora, maestra. La vostra voce dolce e ferma è la sola voce di donna in Italia che ci ripeta con gentile ritornello qualche cosa che sta un po’ più in su dell’arte di ornare un abito o di addobbare un salotto, ma che non cessa forse di esser arte: arte spirituale. Io sento il desiderio, intanto, di ringraziarvene vivamente per conto mio; e perchè no? anche a nome delle tante che vi innalzano in silenzio la loro riconoscenza — le quali poi forse, dopo, ringrazieranno me. Ed ora che vi è noto il mio animo, continuo con più coraggio. Vorrei esporvi qualche riflessione che sono andata facendo fra me mentre leggevo il vostro ultimo articolo, _Il lavoro della donna_, con molta attenzione, come leggo ogni scritto firmato da voi. Signora, voi parlaste di felicità; voi intendete di guidarci animosamente col vostro magico filo di seta attraverso al laberinto fosco e intricato della vita, fino alla terra promessa, dove non piangeremo più. Oh, ditemi, sarà possibile? Io che vi seguo con energia, con impazienza quasi, quando mi parlate di conforti, di lotte, di altezze, ora, alla rilucente parola vana m’assale tutta la stanchezza del cammino. No, [pg!83] gentile, non ci parlate di felicità: in casa o fuori, nella cattedra o nella poltrona accanto al fuoco, noi non la troveremo mai, lo sappiamo: è la voce dei secoli che ce lo dice: è l’eco della vostra voce di ieri che ci incitava severamente al martirio. Non c’illudiamo, dunque, è meglio; poi la ricerca ostinata affannosa della felicità è un egoismo supremo. Lasciamolo agli uomini. Mettiamo un’altra parola invece, una parola pia, umile, buona; diciamo: _consolazione_. Si tratta quindi di consolarci con un’elevazione morale delle ingiustizie, dei travagli, delle pene che piovono sul debole capo della donna — non so perchè — in maggior quantità. E se questa consolazione, per le circostanze, o per l’indole, o per l’educazione, qualche donna può trovarla vera ed efficace fra le miserie di un ospedale o fra le luminosità del regno dell’arte, perchè l’uomo, il suo compagno, dovrà dire a costei che non sarà mai una fuggitiva ma sempre una diseredata: vattene, qui non c’è posto per te!? — Per rimetterla ad ogni costo nello stretto circolo delle attribuzioni domestiche? Ma se il suo focolare è freddo? E questa anima grande e severa avida di ritemprarsi alle fonti della scienza, credete che potrà raccogliervisi e rassegnarsi a spegnersi anch’essa inutile e infeconda? A vantaggio di che? Mi fanno ridere quelli che parlano di concorrenza. Come se non fosse molto più comodo e più facile per la donna di rimanersene nella sua casa a far qualche lavoruccio, leggere qualche romanzo, a strimpellare qualche melodia; come se la via che ci guida a un ideale qualunque, appena fuori della soglia domestica non fosse, per noi, infinitamente più ardua e più ingombra che per gli uomini! [pg!84] Spero che avrete notato ch’io non ho parlato di toga, nè di cattedra, cose ch’io credo incompatibili con la natura femminile, almeno nelle razze latine. Io non ho perorato che per l’arte — tutta l’arte — e una sola scienza dove sono convinta che la donna può esplicare mirabilmente tutte le buone doti del suo sesso: la medicina. Del resto, biasimandola o encomiandola, lasciatele libero, pienamente, il campo d’azione: fate che non sia relegata accanto alle culle dei bimbi o alle poltrone dei vecchi, ma che vi rimanga lei per elezione, per scelta, e ci resterà, io sono sicura che ci resterà, finchè i vecchi e i bambini avranno bisogno di lei. E se non ci resterà, io preferisco saperla misericordiosamente china su un altro bambino malato, piuttosto che su di una tazza di thè in un salotto pieno di galanteria; io preferisco vederla strappata al focolare dall’arte o dalla scienza, piuttosto che dagli aridi ascetismi del monastero... Voi siete intelligente, non vi scandalizzerete, lo so. Poi, ditemi, signora: credete che la donna ci perderebbe assai a _mascolinizzarsi_ (come voi dite) un poco? Trovate voi che la donna del secolo decimonono sia arrivata a un punto tale di sprezzatura, di praticità, di aridezza, di pedanteria, da dover dirle: arrestati o la donna non ci sarà più!? Io veramente non me ne accorgo, e finchè una maggioranza femminile mi dà a meditare sulla causa dell’attività e della stanchezza delle loro giornate, e finchè veggo le mamme inculcare ai futuri legislatori, agli artisti futuri l’arte difficile del vestirsi elegantemente, mi pare che a quegli estremi siamo ancora lontani, e sopratutto mi pare per il bene [pg!85] delle generazioni future che un po’ più di serietà, di tempra nella donna, non sarebbe proprio male. Che volete, signora; io ho a questo proposito idee tutte mie, false forse, ma ho delle idee, ciò che è sempre meglio che non ne avere: io credo che una franca, geniale, semplice scambievolezza di rapporti morali fra un sesso e l’altro, senza misticismi e senza sensualità, quella simpatica e sana amicizia che si ordisce solo quando le anime sono rivolte a un faticoso intento comune, non farebbe perdere nè alla donna la sua delicatezza, nè all’uomo la sua forza. Sono elementi naturali in essi e la natura si lascia mitigare, mai fuorviare. L’uomo imparerà a stimarci e ad apprezzarci di più; la donna diventerà più forte e meno civetta: e se anche a lei resterà un po’ meno di tempo per amare, gliene resterà anche di meno per... pentirsi a tornare da capo. Via, gentilissima, non ci facciamo illusioni: siccome non siamo santi e siccome io spero che non lo diventiamo del tutto, una collaborazione spirituale come voi e molti eletti la sognano non si può ottenere per ora che mediante un tale esaltamento e a casi tanto isolati che avrà tutta l’aria di una mostruosità. Non bisogna forzarla, bisogna prepararla. La donna, ieri schiava, non può diventar regina oggi senza esser prima la compagna vera, intelligente, operosa; senza saper prima di che sono fatte certe lotte e certe vittorie. Quando l’uomo cesserà di dirle: — Taci, tu non te ne intendi, — solo allora ella potrà animarlo, ispirarlo, consolarlo, efficacemente, durevolmente. Noi conosciamo poco e male gli uomini, credete; e gli uomini conoscono malissimo noi. In ogni modo una dedizione cieca, assoluta, quasi suggestionata, sia anche della donna [pg!86] superiore, per l’uomo superiore, io non la ammetto; perchè quella donna non sarà mai compensata, nè intesa, nè adorata abbastanza; perchè l’uomo superiore se vedrà un bel visino malinconico (che magari non sarà che la maschera di una testa vuota), quell’uomo ci farà su una creazione così splendida e così inverosimile, che l’amica intellettuale e meno favorita dalla fortuna non avrà di meglio a fare che volatilizzarsi e sparire. Io, mia signora, confesso, non ho la vostra bella fede che nessun sacrifizio di donna sia stato perduto, nessuna lagrima dispersa; io penso prosaicamente che molte margherite furono gettate... a chi sapete, e, per consolarmi, che la maggior parte dei nomi di donna che si leggono nelle opere d’arte d’un uomo non furono degni della lor parte di gloria. Pure, quando trovo nelle letterature nordiche che ora pare gettino una fredda ombra anche sulla vita — quando trovo un modello di donna eletta compiere freddamente, calcolatamente, un adulterio nel morboso delirio di fabbricare in quell’ora l’uomo ideale, e ritornarsene poi nella sua casa, fra i suoi figliuoli a viverci _come prima_ aspettando che le nasca il Messia — io mi sento fortemente tentata di preferire a questo mostro intellettuale _les jolis zéros_ della fresca e ignorante amante di Rivarol il quale non le chiedeva che d’aver dello spirito come... una rosa! [pg!87] Pleiade nuova. I. _Elda Gianelli_: «_Riflessi_» [Pubblicato la prima volta nella _Cordelia_, giornale per le giovinette — anno XI.] L’altra mattina — una mattina caliginosa di questo inverno musone — un fior di biancospino è piovuto nella mia stanza. Veniva di lontano, da un lembo estremo d’Italia sorriso dall’azzurro mare, veniva sull’aria umidiccia a portarmi una carezza di primavera. Parlo di un volumetto; niveo, leggiadro, su cui riluce un gentil nome femminile non più nuovo, e un titolo (oh i titoli!) per delicatezza e per simbolo affascinante. Lo apersi, lo scorsi, e l’impressione di primavera rimase; il fior di biancospino mi donò tutto l’olezzo schietto della sua corolla silvana di un’amarezza velata di soavità. Così sono i versi di Elda Gianelli, nati dal dolore di un’anima ancor giovine; alimentati da una fresca vena di poesia abbondante qualche volta sino all’insofferenza dei limiti. Spesso la coppa trabocca. La causa è carina, non c’è che dire: è un petalo di rosa: pure, quando manca, i [pg!88] riflessi sono più coloriti e più profondi. Io la vorrei sempre come in «Romanticismo» e in «Pace», due bozzetti in cui la fine sobrietà lascia navigar la mente in un mare di fantasie donandole più godimento di una lunga lirica o di un poema ingegnoso dopo i quali non resta più nulla da indovinare. Udite, signorine: PACE Strani su l’acqua cheta L’ombre formando vanno Intrecci; una segreta Storia quell’ombre sanno. Passa la luna lieta, Le immobili alghe stanno; La storia del poeta Non esse tradiranno. Si riuniron lente Sovra la testa bruna Ch’or posa dolcemente Nel molle greto. Alcuna Sul bel fronte pallente Cura più non s’aduna. Il dramma di quelle ombre conscie e mute, che traspare appena dalla breve poesia come il delitto da una poetica leggenda, evocandoci fronde e mormorii intorno a una pallida parvenza, suscitandoci una pietà strana per un ignoto martirio, ci scuote, non è vero? come un’arma corrosa trovata per caso in un’aiuola fiorita. Leggiamo ora questa, che io, non so bene perchè, prediligo: ROMANTICISMO Piegò la bella dama La bianca fronte austera: In atto di preghiera Giunse le mani e: M’ama, [pg!89] M’ama! tra sè proferse, La intese appena il core; Pur tutta di rossore La fronte si coverse. E con triste abbandono Si sciolsero le mani... E de i detti profani Al cor pregò perdono. *** Oh la poetica visione! Vedete voi, seduta nella gran scranna massiccia la fragile dama rigida e pura come una Vergine di Sandro Botticelli? Le mani giunte sono fini e lunghette, china l’altera fronte di castellana, pensoso e vigile l’occhio che sogna l’amore. Intanto dal balcone gotico inghirlandato di gelsomini sale la melodia d’un liuto e d’una voce che plora nel fresco e rustico idioma provenzale.... La dama sogna, l’incognita dama; ma ecco s’agita, s’anima, vive: le mani le cadono prosciolte in grembo, il petto si gonfia di sospiri. Chi sei tu? Forse Maria di Champagne, la patrona dell’amor cortese? o Giovanna di Fiandra, auspice di poemi? o Jolanda, contessa di Saint-Pol, che presiedeva alla prima traduzione della vecchia cronaca di Turpino? o Maria di Francia, la soave cantatrice di «Lai» in cui vibra una tenera passione tutta nuova, l’autrice immaginosa che fantastica di cavalieri amati dalle fate, di regine amoreggianti coi misteriosi cavalieri del lago, di paesi incantati dove trecento anni passano come tre giorni; la creatrice dei leggendari nomi di Bisclavret, d’Eliduc, di Guingamor, di Tiolet, di Grisedelis, cespiti di chi sa che fioritura.... [pg!90] O Dio, ma dove volo con la fantasia? Signorine, non v’arrabbiate.... mi pareva d’esser sola.... Ora, ai piedi dei due componimenti ispiratori, se io non fossi un’orecchiante in materia poetica, vorrei osservare che fra la non scarsa varietà di metro che la Gianelli adopera sapientemente, il settenario è quello che le s’addice di più. Ma non facciamo questioni tecniche. La tecnica è come l’osso: guai se la intacca un ferro inesperto. E in grazia dell’esattezza non arricciate il naso, vi prego, al chirurgico paragone. Un sonetto che rispecchia una Provenza _autentica_ è quello ispirato a Clemenza Isaura di Tolosa, il quale insieme ai due sul Verno e all’altro intitolato: «Ruina» accentuano tra gli altri una nitidezza disinvolta e una certa profondità d’osservazione e di pensiero che meraviglia e rallegra in una giovane autrice. Leggiamone uno per saggio: CLEMENZA ISAURA Dolci, o soave tolosana, i mali Che il vostro labro in dolci versi ha pianto; Vaghi i casti pensier del vostro canto Come colombe da le candid’ali, Visser nel puro ciel de gl’ideali La mente vostra e il vostro cor d’incanto, E secolar di voi rimase il vanto, O regina de’ giuochi floreali. Bei tempi i vostri! A l’innocente gara I poeti correan; stuolo cortese, Per un fior d’eglantina ed un sorriso. E Amor sol era dilettosa o amara Cagion de’ carmi, e del dolor palese D’uno, pronto ogni cor gemea conquiso. [pg!91] Che ve ne sembra? Non par di sentire il Marradi con una sottil vena di passione di più? Volevo voltare in fretta alcune pagine, ma non posso. Questi due sonetti mi attraggono irresistibilmente: PENSIERO D’INVERNO I. Oh, l’inverno del cor! la nebbia greve Che sul vibrante cerebro s’adima! E la memoria d’ogni sogno lieve Fa che, peso insoffribile, l’opprima! Oh, l’inverno nel cor, quando ancor breve È la via corsa, allettatrice in prima; E dormon sotto a la precoce neve Per sempre i fiori onde appariva opima, Passa il garrulo maggio, e ride in festa La terra, e dice al cor: vedi? la vita Si rinnova e l’amore. Or, su, ti desta! Ma come a maggio landa isterilita Non dà fil d’erba, il cor gelido resta, La virtù del rinascere smarrita. II. E al capo mio ridea la primavera Quando il verno sul cor impronto scese; E s’aprìa l’alma giovinetta altera A’ lieti sogni, quando il gel la offese. E rapida calò da l’alba a sera La sua giornata, a la stagion scortese; Ella non fe’ lamenti, non preghiera, E romita tra l’ombre ombra si rese, [pg!92] Ed amò il verno, che la pace assente Profonda, e al germe di fallaci fiori Chiude la vita, inesorabilmente: Il verno, immite a’ giovanili cuori, Ma non ingrato alla severa mente Nel suo disprezzo di lucenti errori. *** Ecco l’amara e copiosa fonte dell’ispirazione: il Dolore; ed ecco i versi più spontanei di Elda Gianelli. Qui anche la chiusa è serrata e succosa, mentre, lo dico per incidente, spesso gli ultimi versi delle sue composizioni sono meno felici dei primi. Per esempio questo principio di due fluenti ottave: Come una vela candida e romita Naviga il mio pensier per l’ampio mare promettevano per la fine qualche cosa di più; ed anche l’altro grazioso primo verso: O solitaria perla del core, Pensier... e questi, soavissimi, dopo il titolo di «Riflessi:» Voi siete i fiori dell’anima mia, Anima triste, fior senza colore; ci fanno sperare una progressione che non viene e la cui mancanza ci lascia un po’ freddi, stavo per dire tristi, come in musica la risoluzione indefinita d’una armonia. In compenso però la strofa corre sempre agile e alata, e, come dissi, l’idea palpita sotto il fragile involucro gentile. Le «Ruine» contro cui si frangono i secoli e che una latente forza, minuta, paziente [pg!93] continua, può, in un secondo, avvallare; «Leggendo Byron» ne’ cui canti ella cerca con un desiderio scrutatore e con una fine intuizione tutta femminile la poesia di ciò che tacque e l’oscuro poema d’un cuor di sposa che nessuno penetrò; i «Grotteschi» d’un dipinto, che le danno un ribrezzo e un fascino di mistero Eleusino; il sanguinoso episodio di vendetta ch’ella coglie nell’«Edda» la epopea nordica — lasciandoci l’impressione eroica e pietosa della tronca testa imbrattata di Swankilda dai capelli d’oro; tutto ciò non è sentimentalismo nè larva di poesia. E nel sentimentalismo non ci cade mai; anche se rivolge lo sguardo pensoso e il bel cuor di donna alle miserie che la circondano, e s’intenerisce al sogno del piccolo suonatore girovago o prevede un morticino prossimo nel bianco fanciullo che incontra in chiesa il dì dei morti: Un gramo fanciullin da gli occhi strani, Come smarriti, d’animuccia in bando. ci dica il segreto di passione d’una giovine morta che par sorridere in pace, o si ricordi d’un vespro mestissimo; sospiri allo sfogliarsi delle rose o aneli di dileguare nell’infinito, Elda Gianelli non è sdolcinata nè manierata, mai. Le sue rime la rivelano una forte e amorosa tempra di donna, un’anima eletta di fanciulla. Deve essere bruna e ardente come la Sulamite; lei stessa confida al fiume che è irrequieta come lui, che come lui corre verso un destino ignoto; coraggiosa, fiera, celando lotte e ferite con la pudicizia del dolore ch’è nelle anime superiori e virili, fermentando qualchevolta in una protesta, in un slancio di libertà ribelle, calda, onesta, schietta, temperata sempre donnescamente. [pg!94] Poichè la fervida poetessa dal nome alato è sopratutto _donna_. Essa deve appartenere a quella fortunata categoria di signore a cui gli uomini perdonano volentieri di adoperare la penna perchè sanno maneggiar l’ago con la stessa maestria, la stessa facilità. Quella fanciulla bruna che la Gianelli ci dipinge seduta ad un verone rivestito d’edera, che agucchia con la mano leggiera e il pensiero vagabondo, in faccia al mare, al gran mare, deve esser lei; e se Elda non fosse una cara figliuola non avrebbe sentito così intimamente la poesia umile e vera di quel «picciolo tinello» nelle «dolci sere» di riunione domestica; in cui il suo pensiero ardito e indomabile e i drammi del cuore le paiono una stonatura e una menzogna. Eppure no, è l’augellino avido di azzurro a cui il morbido nido non basta più, e si slancia..... ma l’impressione dolce del muschio fra cui nacque e la fragranza delle erbe che allacciavano la sua cuna gli rimangono e lo seguono nel suo viaggio acreo, per lungo tempo. Così la musa di questa figliuola, di questa signorina, è profumata e vereconda, e non ci sarà bisogno di sottrarre agli sguardi curiosi delle fanciulle i suoi volumetti di versi, come si deve fare qualchevolta per certe liriche sebbene portino nomi di signorine.... Forse il pensier non sente la carezza Del pensier che si perde a sè simil, Di un eterno sognar ne la vanezza, Smarrito in terra spirito gentil? Forse tutte non vengon le parole Soavi accolte da soavi cor? Forse i versi non han, povere fole, Per altri pazzi un ideal valor? [pg!95] Vorrei che fosser molti i pazzi di così gentile follìa; molte le anime pure ed illuminate del raggio divino rifrangentesi nella sua, almeno tutte voi, signorine. E allora una fresca falange di leggiadre guerriere dalla verga fiorita metterebbe in fuga il tenebroso esercito dei malcontenti, dei pedanti, degli scettici dell’ingegno femminile. E flagellandoli con le verghe odorose, e soverchiandoli con un affollamento di visi giocondi, chiedereste loro con le vostre voci argentine, assordanti, prepotenti, spietate, cosa sarebbe la primavera se nell’aria non fluttuassero farfalle e petali e profumi, e se accanto ai pomposi non sbocciassero i fragili fiori? II. (_Ettore Sanfelice_: _Gru migranti_). Ho chiuso un volumetto di versi, non dei soliti. Del resto c’era da prevederlo. Ettore Sanfelice non è un ignoto nell’animosa schiera dei giovani bardi di questo scorcio di secolo. Di lui abbiamo, oltre varii scritti minori, due raccolte di Rime edite dallo Zanichelli, qualche scena lirica di soggetto biblico, e un dramma poetico: «Concordio», nel quale la vigorìa del concetto è rivestita radiosamente di versi sciolti d’una bellezza e d’un’efficacia non comune. Egli ha salpato con la sua navicella carica di tesori ed ora veleggia forte delle sue dovizie alla conquista dei paesi della gloria³. ³ Questo scritto apparve la prima volta nel «_Bios_» di Napoli (Ottobre 1891). Il Sanfelice ha pubblicato ancora: _Il Guercino_ — _Ercole_ — discorsi (Bologna, Azzoguidi 1991). — _I Cenci_, trag. di P. B. Shelley — Traduzione (Verona, Tedeschi 1862). — _Prometeo liberato_, dramma di P. B. Shelley — Traduzione (L. Roux, Torino-Roma 1894). — _Adorazione_, Poema, (Parma, Ferrari e Pellegrini 1894). — _Dalla Neve alla Rosa_ (Velletri, Pio Stacca 1895). — _Thomas_, dramma (Parma, Ferreri e Pellegrini 1895) ed altro ancora. Il Sanfelice, purtroppo, va spegnendosi per una implacabile infermità che lo ha tolto completamente alla conoscenza della vita e alla sua arte. N. d. A. [pg!96] Frattanto lancia un primo stuolo di «Gru migranti», fantasia di titolo così elegante che fa subito bene pronosticare. Poichè s’ha un bel chiamarla raffinatezza morbosa o decadenza bizantina, questa nostra delicatezza tutta moderna d’orecchio e di gusti che spia nella parola il colore e l’armonia, che ne spreme l’intima essenza e ne ricerca il simbolo occulto: sia perfezione o corruzione, se ne disperino pure i grammatici, il gusto c’è, e ci si lima per appagarlo, tanto che resterà come una delle caratteristiche della nostra letteratura contemporanea. Il titolo quindi deve riassumere oggi non solo l’indole ma l’anima del lavoro, e tutto ciò che d’inafferrabile e di vago resta sempre nella mente dell’autore intorno all’opera compiuta — qualchecosa che non era possibile tradurre e che egli vede diffondersi e accerchiare la creazione sua, fatta realtà, come quei vapori luminosi che qualchevolta fanno una sfumatura intorno alla luna. Raramente quando il titolo è di cattivo gusto l’opera è perfetta: in un punto o nell’altro rivelerà la goffaggine del padre che non seppe vegliare al suo battesimo. «_Il verso è tutto_» proclama il D’Annunzio; — e il titolo non è poco — osservo io. La presunzione, la modestia, la scimunitaggine, la fantasia, l’austerità la raffinatezza raggiano dal frontespizio, sono la firma morale dell’autore. Almeno così mi pare che sia. [pg!97] Le «Gru Migranti» del Sanfelice si svolgono in lunga teoria, poderose e altere come aquilette regali, su un orizzonte a pause di nembi e di sole, nella solitudine d’una via del cielo troppo eccelsa per essere ingombra. «.... _Come i gru van cantando lor lai_» egli effonde la piena delle rime in una ricchezza di metro e di concetto che non si riscontrano frequentemente fra i nostri giovani autori. E neppure si trovano molti che conoscano come lui l’arte difficile del condensare — qualità che in prosa può esser solamente simpatica, ma che in poesia io ritengo indispensabile. Peccato che di questa sua forza egli vada tanto altero da abusarne un pochino a scapito qualchevolta della chiarezza e dell’eleganza; — ma in tempi d’anemia come questi si può ben perdonare un’esuberanza di salute, specialmente se il più delle volte c’incontriamo in versi come questi: Scendono i morti e salgono le spiche, recano quelli un’eco nel mister, e forse queste, pane alle fatiche, fremono della terra un pio pensier. Io conosco qualche poema in cui si è tirato in ballo gli elementi e qualche cosa di più, che non riesce a dare il senso arcano e profondo della palingenesi come queste quattro righe nutrite d’una così gentile maestà. Di questi componimentini, coloriti e tenui come fiori, che raccolgono essenza vera di poesia, è costellato il volumetto denso e sottile. Il Sanfelice li chiama semplicemente «Sensi lirici» o «Note liriche» e sono un’innovazione riuscitissima, intorno alla quale amerei indugiare a lungo con una compiacenza tutta femminile come fra ninnoli fragili e costosi. Ma «la via lunga il piede _mi_ sospinge»; poi il giovine autore, tutto volto a più serii ideali, [pg!98] mi richiama con un rammarico che par rimprovero alle creazioni maggiori che nel suo volumetto sono poi le più numerose. Anche nella compilazione del libro c’è un po’ di affastellamento — bisogna convenirne. I versi originali s’alternano senz’ordine con le traduzioni, e un leggiadrissimo monologo in versi martelliani confuso così nel pelago minaccia di naufragare. Si direbbe che il Sanfelice col suo tesoro di rime d’oro puro, riunite con una noncuranza da gran signore, voglia gettar una sfida alla gran caterva della mediocrità che dilata la moneta spicciola sul candore degli elzeviri. Pure, per una seconda edizione, mi permetterei di consigliarlo a lasciar circolare un po’ più d’aria nel suo volume, anche sacrificando qualche pagina, per esempio quelle dedicate a tutta la Bellezza, trentatrè strofe d’una filosofia che starebbe meglio in prosa. Ma ora intanto esaminiamo il libro com’è. Il Sanfelice, poichè non è un poeta volgare, s’accosta al sonetto con una specie di reverenza e lo sceglie per gli sfoghi dell’anima e per i soggetti preferiti — proprio come si ricorrerebbe a una persona eletta e antica per confidarle i nostri affanni e i nostri sogni. «Cassiodoro», «Anacreonte», «Saffo», «Arturo e Morgana», «Ginevra», «In Excelsis» sono a parer mio fra i belli i bellissimi. La prima quartina dell’«Ora» è superba: Ecco l’ora ch’io sento turbinare i chiusi canti sospiranti il volo; nella lirica febbre ardemi un duolo titanico: è il mio cuor simile al mare. Ma segue una cruda immagine, che sebbene efficace, è di un verismo che offende. E questo si riscontra [pg!99] varie volte nella poesia del Sanfelice. Mentre si cammina nell’azzurro fra le stelle o fra i laberinti odorosi d’un giardino incantato, una parola, una similitudine, un verso, pungono e fanno arrossire. E questo è strano in un poeta che sa raggiungere le alte cime dell’idealità e regnarvi anche a costo di avvolgersi di nubi. Si direbbe che sdegna di reggersi a mezz’aria. Ma poi quell’altezza di quando in quando gli dà le vertigini, l’aria troppo fina s’infiamma e lo arde, allora scende a precipizio e ci sveglia sulla terra rudemente, non senza una punta di monelleria. Il sonetto «Cassiodoro» è però fra gli altri un quadretto storico d’un’aristocratica e severa classicità: Nel cortile del chiostro è somma pace; odi sol la fontana; un frate accanto, cui fluisce canizie e il cuor non tace, fisa nell’acqua il memore occhio santo. È Cassiodoro, la latina face tra le gotiche nebbie e ’l nostro pianto; il libro di Boezio in man gli giace, vedovo a lui di suo placido incanto. Ed ecco uscir due lieti fraticelli: — Altri volumi ritrovammo, o padre, che sepolti giacean, fiori di Roma. — Serbateli! Alleluja! È vivo in quelli il nome e la virtù della gran madre pei dì futuri. — E fier mosse la chioma. Non sono molti i giovani che si trovino nella mente, come il Sanfelice, una solida coltura capace di alimentare sostanziosamente la vena poetica del loro ingegno, di colorirla delle tinte più fosche e più ridenti della storia e della favola, di profumarla di [pg!100] tutta l’intima essenza d’un concetto afferrato con sicurezza sintetica e profonda. La sua tavolozza è lussureggiante di tinte sfumate illimitatamente da una fantasia sbrigliata e gentile. Dei, ninfe, mostri, maghi, fate, castellane, paggi, genii secolari, larve romantiche — visioni di bellezza, d’arte, di paesi ideali — sfilano nella melodia del verso, fra le garze d’oro del simbolo, nella luce velata e dolce delle età passate. Vorrei poter dare un’idea dei versi sciolti robusti e armoniosi che compongono la «Favola» e «La poesia Georgica» — due frammenti che sembrano di un marmo di Prassitele; dare un’idea della grandiosità sobria ed efficace che informa «Saturno» e «Il fiume selvaggio», della gemmata eleganza d’una «Sestina nuziale», della fantasia che azzurreggia nella «Visione di Franz Liszt» e nella «Nascita del Minotauro», dell’appassionata mestizia d’alcuni sonetti, del lirismo dolce e melanconico delle «Elegie d’ottobre», del ritmo carezzevole del «Valtzer mortale», delle iridescenze che rivestono d’un fulgore di rosa e di viola i tre brevi componimenti: «Sirene» — «Perle» — «Lagrime», e pennelleggiano variamente pensieri, accenti, visioni in pochi versi senza titolo riuniti in gruppi come fiori; ma non mi è possibile perchè dovrei trascrivere mezzo libro. Pure non so rifiutarmi il piacere di ridire ancora qualche verso: La vecchietta filando, e sorridendo come può solo la senil dolcezza, mi narrava le fiabe, e ridicea pur col tremulo labbro le canzoni del suo bel tempo. La vecchietta avea nome di santa; nonna ella non era, anzi nè dato avea bacio di sposa. Con piacere io l’udia; socchiusi i cigli, [pg!101] m’imaginavo estraneo a questa vita, come se l’eco d’un ignoto mondo cogliessi in qualche regno del Silenzio. Ma la voce si fe’ fioca narrando, il fuso stette, e grato sonno vinse la dolce Parca piena di leggende. Ecco che qui riluce una qualità simpatica del Sanfelice: quella di sentire sinceramente la poesia delle vecchie cose, persino delle più umili. Così, quantunque adori l’antichità classica con tutto il suo corteggio di miti e di forme, pure si sofferma volentieri dinanzi a qualche episodio romantico o ingenuo purchè abbia l’aroma della vetustà. Certi soggetti in mano sua pigliano l’aspetto di quei gioielli fragili e preziosi di vecchio stile, un po’ barocco anche, che ricordano le nonne semplici e serene agghindate a festa. Nè l’erudizione e la fantasia inaridiscono il sentimento che serpeggia dappertutto in lagrime e sorrisi, e irrompe sovente in qualche canto d’amore indomito e tempestoso che non di rado termina in uno sconfortante abbandono. Le traduzioni dal vecchio inglese, poi, sono pregevolissime; specialmente quella dei difficili sonetti dello Shakespeare fatta con una fedeltà elegante quanto rara. C’è da augurarsi presto quella in prosa delle opere dello Shelley che il Sanfelice ci promette. Ma sopratutto auguriamoci un secondo stuolo di Gru che, come queste, ci portino nelle loro piume un riflesso della dolce plaga dell’arte e dei sogni. [pg!102] III. Cosimo Giorgieri-Contri: _Poesie_. [Questo articolo fu scritto quindici anni or sono, quando il Giorgieri Contri, che ora ha un posto sicuro tra i nostri migliori poeti contemporanei, era ancora alle sue prime armi. L’autrice di questo scritto ha la compiacenza d’essere stata fra i primi a rilevare la delicata e originale personalità artistica di lui. (N. d. A.)] Una prosa, una poesia che colpisce senza la suggestione di un nome che la illumini della luce già conquistata da tutta una produzione felice antecedente, è un gentile trionfo spirituale per l’autore e per il lettore. Il convenzionalismo e l’indifferenza che adunano intorno all’opera artistica una ghiaccia ben più spessa e dolorosa di quella dell’Inferno Dantesco, non possono essere infranti che da un ingegno eccezionalmente saturo di vitalità. Questo specialmente per l’Italia, in cui il nome è tutto; in cui, ahimè, troppe volte la delicatezza svapora fra la maggioranza sgarbata e vistosa. Il Giorgieri-Contri è un giovine, quasi sconosciuto finora, che non ha pubblicato, ch’io mi sappia, nessuna raccolta di versi, che sta ora attendendo al suo primo romanzo; una personalità artistica ancora in bocciuolo; il momento [pg!103] più eloquente o più vago per l’arte, pel fiore. È un raccoglimento soave tra mistico e ardente, un po’ melanconico anche, come tutti gli stadi di bellezza e di fragilità che non possono durare, che sono come le carità benigne del vecchio Destino. Le poesie del Giorgieri-Contri, migranti come fogliuzze su per i giornali, non possono passare inosservate ai raffinati della vita intellettuale. Una dolcezza tenera, insinuante, semplice, aristocratica, come quella che spira in certi delicati versi di Bourget, di Verlaine, scorrente nella più pura e melodiosa forma italiana: una velatura tranquilla e squisita che sbiadisce, allontana e spiritualizza l’immagine come nel sogno, un’eleganza artistica e rara che non sminuisce mai, però, la freschezza della sensazione, dell’immagine, del sentimento. E da questo felice equilibrio l’effondersi di una suggestione di fantasia e di verità, ma buona, ma refrigerante; come una melodia facile e gentile che pur ci ricordi un’ora lontana e divina e tumultuosa in cui riassumemmo tutta la nostra parte di felicità. Cosimo Giorgieri-Contri intitola «Autunni Antichi» un breve cielo di rime, e la doppia melanconia dell’autunno e del passato impallidisce dolentemente le visioni leggiadre. Quei suoi due amanti del secolo della cipria e dei madrigali — la bianca favorita — il re — la pensosa signora vestita di viola — si delineano diafani e vissuti come certe evocazioni di Pierre Loti, l’insuperato mietitore d’asfodeli che guarda nell’ideale come in una lente magica che gli ricompone l’inafferrabile, e gli avvicina dalle profonde lontananze secolari, persone, voci, cose nella loro evidenza originaria. Ricordo il primo sonetto: «Galante Autunno». [pg!104] Gli amanti sono: un giovine signore con spada e parrucchina incipriata, e una piccola dama dilicata, in broccatello azzurro a passiflore. Siedon sopra una gran pietra, baciata da un sol d’ottobre tepido, che muore, e la terra, dintorno, è da un dolore di morte foglie tutta addolorata. Che si dicono? Forse un madrigale un po’ tenero e un po’ lambiccatello L’autunno muore e il giorno: ella lo sente. Cade ancor qualche foglia amaramente, e nel pallido vespro autunnale che tinte smorte ha il vecchio broccatello! *** Segue «_La caccia_», nel quale la sfilata dei cavalieri nell’ombra d’autunno e quel rosso orizzonte in cui il re si affisa sognando, mentre il vento gli passa lamentoso alle spalle come un presentimento, danno una visione e un pensiero tenace. Poi il _Labirinto_, di così fine metafora; — la _Favorita_ che l’autore ci fa rivivere così delicatamente in quel suo solo ricordarne accanto a una vasca il passo leggiero e il «pallore ducale» della mano; — un’idea di amore e di fugacità così sommessamente espressa al mormorio d’un filo d’acqua di Villa Borghese; — indi la _Pensosa_, la pensosa dama vestita di viola che mi sembra la dama della _Sensitiva_ di Shelley: «che pareva aver pietà dell’erba che i suoi piedi piegavano» e quelle foglie che, tornata al castello, la Pensosa si troverà sullo strascico «omaggio del parco autunnale alle veste viola» dànno al suo poeta un’immagine gentilissima: [pg!105] e penserà che pure Ella è passata sola nella vita, e null’altro le riman del passaggio che qualche foglia morta che l’autunno ha corrosa. Chiude il breve ciclo l’epitaffio scritto sulla tomba di un cane — versi coloriti di un lieve _humor_ epigrammatico che rivelano un lato nuovo di questa eletta personalità. Io m’auguro, e credo che molti — non per le mie parole ma per il ricordo dei versi incantevoli — si augureranno, di trovar presto il nome del giovane poeta in fronte a un nitido volume. Oh copertine levigate, dai raggi d’oro, copertine auree e fiorite, ospitereste finalmente qualchecosa degno di voi! [pg!106] Edoardo Bellamy. _Nell’anno 2000_. Ecco un libro fortunato. L’Apocalittico sogno d’una nuova età dell’oro è stato di buon augurio al giovine autore americano. A Boston, dove il volume uscì col suo titolo originario: «_Looking Backward_», se ne fecero 335 edizioni; ed in Italia, nella succinta veste latina che gli ha adattato il signor P. Mazzoni, comparisce già per la quinta volta. È un tantino troppo, mi pare, per un libro che non meritando il nome di romanzo, nè essendo un serio studio sociale — titoli a cui aspira — conviene relegare nella sezione delle curiosità. Maravigliosa gente questi Americani! Mi sembrano titani fanciulli che si balocchino col sole e colla luna. Edoardo Bellamy si è baloccato coi secoli. Il protagonista del suo racconto, un tal Giuliano West, per rimedio contro un’insonnia ostinata, si faceva addormentare ogni sera da un ipnotizzatore nella sua camera da letto sotterranea, foderata di cemento idraulico e coperta di lastre di macigno: il servo che solo sapeva il segreto, lo destava ogni mattina. Ma un incendio nella notte distrugge la casa, il servo perisce nelle fiamme, il medico ipnotizzatore era andato all’altro capo del mondo proprio la sera prima, e Giuliano continua a dormire nel suo sotterraneo, finchè un [pg!107] figlio del XX secolo, per certi scavi, non gli rompe l’alto sonno nella testa. Suppongo che la tromba della Resurrezione gli avrebbe cagionato meno stupore della voce del dottor Leete che lo avvertiva garbatamente: — Siamo nell’anno 2000, signore». Naturalmente Giuliano West crede ad uno scherzo; è impossibile che abbia tanto dormito, lui che pativa d’insonnia! Ma deve pur rendersi all’evidenza: ha proprio schiacciato un sonnellino di un secolo! e mentre gli altri osservano curiosamente quell’uomo vestito all’antica fra quelle suppellettili che fanno rivivere ai loro occhi un’era di barbarie, Giuliano si guarda allo specchio... e si trova giovine, vigoroso e sveglio più di prima. Ecco se non altro un conforto inaspettato. Ma quel povero naufrago di un altro secolo si trova pure assai solo, e non può impedirsi di pensare con rammarico alla generazione sparita fra cui erano le sue conoscenze e i suoi affetti, a quel passato che avrebbe dovuto essere il suo avvenire, alla sua fidanzata Edith. — Edith? — gli dice il suo ospite; — è la mia figliuola. — E gli presenta una bella fanciulla fresca come un fiore. Giuliano se ne innamora: e più tardi apprende che Edith Leete non è altro che la pronipote di Edith Bartlett, la sua antica fidanzata, la quale dopo averlo pianto morto per quattordici anni aveva fatto un matrimonio di riflessione. Sulle prime Giuliano le serba un po’ di rancore per questa conclusione, poi pensa che se la prima Edith non si fosse consolata, l’Edith nuova non esisterebbe, e si consola anche lui. Questa è tutta la parte romantica che, scritta con maggior spigliatezza, arguzia e colore, potrebbe riuscire, sebben tenue, amenissima. La parte sociale del racconto è una magnifica assurdità, abbagliante e [pg!108] ingannevole come la scienza dei romanzi di Giulio Verne coi quali questo di Bellamy ha un’aria di famiglia. Nell’anno duemila non vi saranno più poveri, nè oziosi, nè malfattori, nè nemici, nè avari, nè tiranni, nè potenti. Una grande armata industriale, in cui tutti indistintamente dovranno servire per il loro paese fra il ventunesimo e il quarantacinquesimo anno, livellerà tutte le classi e darà a tutte l’agiatezza, il lavoro, la felicità operosa, una serena tranquillità. Dopo i quarantacinque anni ognuno sarà libero di dedicarsi all’arte o alle occupazioni preferite, fino alla morte, che con la fatica così equamente distribuita e l’igiene imperante, colpirà solamente nell’estrema vecchiezza. Non si parla di ospedali; le prigioni sono sparite, poichè è sparito il dèmone cattivo sobillatore: la miseria — il germe della corruzione: l’oro. Il danaro non ha più valore, è lettera morta, non si compera e non si vende più; non vi sono più stipendi nè patrimoni. Un libro di credito che ogni cittadino tiene dallo Stato fa le veci del metallo e della cartamoneta; non più dunque interessi privati, piccole industrie, case bancarie, speculatori, affaristi; ogni proprietà, ogni commercio sono fusi in un’unica produzione nazionale ugualmente distribuita da un Presidente che diventa un fornitore. Ai miei occhi, agli occhi dei profani, questo immane meccanismo di ordinamento sociale descritto minuziosamente sbalordisce, per la sua apparenza di larga semplicità; una semplicità così elementare, così logica, che a tutta prima fa stropicciare gli occhi ed esclamare: «Ma dunque perchè questo non sarebbe possibile?» Poi, ahimè! appena ci si avvicina un poco, anche gli inesperti del grande e doloroso problema, s’accorgono del miraggio. L’edifizio è vasto e [pg!109] splendido, fantasioso e severo; superbo come un arco di trionfo, pio come una cattedrale: ingombra i cieli nel fulgore sano del sole, ma non posa sulla terra; non ha base, non ha fondamenta; ad un soffio svanirà. E svanisce. Svanisce poichè è inutile, se noi misera progenie d’Eva non potremo abitarlo giammai. Ci vorrebbero degli spiriti luminosi e incorporei da Paradiso Dantesco. Ma noi con questo po’ po’ di zavorra? Povero edificio! Altro che sventramento! Il signor Bellamy ha dimenticato assolutamente il terribile mostro delle passioni che ognuno di noi porta appiattato alle spalle e che ci sospinge e ci uccide. Non più oro; dunque non più delitti, non più assassinî, non più rapine, non più suicidi ha detto lui: dunque non più forza pubblica, non più luoghi di pena; e fratellanza e ordine perfetto. Oh «_Amour, mysterieux amour, douce misère!_», dove ti relega il signor Bellamy per emanciparsi così di te?... I delitti e i suicidî mossi dall’amore non sono forse altrettanti di quelli mossi dall’avidità? L’amore non genera forse la gelosia, l’odio, la vendetta, la ribellione, i rimorsi? Poi, lasciando in pace l’amore, e l’egoismo, così tenace nella natura umana? l’ira, l’invidia, l’infingardaggine e tutto quel brulicame di cattivi instinti e di tendenze malsane che ci ribolle nel sangue, che riusciremo a domare, a soffocare giammai? Siamo in terra, signor Bellamy! — Peccato! — Lo so, ma ci siamo; e intanto le vostre sapienti precauzioni per la felicità mi fanno venire in mente una vecchia fiaba in cui una bambina per salvarsi dal lupo manaro turò colla bambagia ogni spiraglio, ogni pertugio, ogni crepaccio della sua casa, chiuse le finestre [pg!110] e si coricò tranquilla... dimenticando aperto l’uscio. Cose che succedono. E non è solamente su questa.... distrazione che si trova a ridire. Manca l’equilibrio nel lavoro dello scrittore americano. Mentre su certi punti s’indugia a sazietà, come nell’ordinamento industriale, su certi altri sorvola, come nella questione religiosa, essenzialissima. Di agricoltura non una parola; di arte non sappiamo se non che il solo giudice sarà il pubblico il cui verdetto «per l’alto livello universale dell’educazione odierna — parla il dottor Leete — acquista un valore assoluto, preciso, che ai vostri tempi era del tutto impossibile». Quindi a tutti lo stesso granellino di sale della sapienza o la stessa patente di asinaggine. Il genio che si sprigiona e vola, l’intelligenza illuminata e divinatrice, il buon gusto innato e individuale, tutto tagliato a spazzola. Nessuno più farà musica in casa. Si potrà aver musica però a domicilio in tutte le ore del giorno e della notte toccando un bottoncino elettrico, press’a poco come il gas e l’acquedotto. Oh razza anglo-sassone, ti riconosco! Anche sull’educazione, sulle professioni, sul servizio sanitario, pochi e non soddisfacenti ragguagli. La piaga dei domestici cicatrizzata perchè non vi saranno domestici. Si va a mangiare al ristorante, alla cucina dello Stato e «in caso di emergenze speciali — spiega il solito dottor Leete — come il ripulimento o rinnovamento generale della casa, possiamo sempre invocare l’assistenza dell’armata industriale. Dunque in quel civilissimo secolo il ripulimento della casa è un’_emergenza speciale_! E dire che quando parlano di noi del secolo decimonono ci chiamano _barbari_. Siamo proprio noi i barbari, dottor Leete?... [pg!111] Ingegnosa e verosimile l’idea del trasporto dei pacchi a domicilio per mezzo di tubi pneumatici; e, per le giornate piovose, le gran tele impermeabili che scendendo a terra trasformano i marciapiedi in altrettanti corridoi asciutti e ben illuminati. Anche fa piacere il non riscontrare in un libro d’intenti così eminentemente socialisti, nessuna invettiva, nessuna crudezza, nessuna suggestione. «Per altre vie, per altri porti Verrai a piaggia non qui per passare». significano circa le parole del dottor Leete all’indirizzo di quei signori dalla bandiera rossa; e quell’aura di pace, quella compostezza serena danno al racconto un simpatico carattere elevato e fine che gli apre tutte le porte indistintamente. Il capitolo dedicato all’eterno femminino è il migliore del volume. È un bell’ideale di emancipazione sana, onesta, vera, a cui la donna perviene per mezzo del lavoro. Essa pure appartiene all’armata industriale che non lascia se non per i doveri della maternità, e può attendere come l’uomo ad un genere d’occupazione preferito. Naturalmente sono per lei i lavori più facili e i meno faticosi — è la cavalleria del secolo ventunesimo — e la donna diventa così la vera eguale, la vera compagna, la vera cooperatrice dell’uomo. Inorridite, rinnegatemi, amiche che passate radiose di gemme nei balli calpestando le trine da mille lire il metro, e che v’adagiate nella morbidezza degli intimi salottini esauste per un viaggio alla Sterne nelle regioni pettegole e profumate; inorridite, ma ho chiuso fra quel capitolo un desiderio e un rammarico.... Che buona salute! che appetiti! che soddisfazione pura e lieta! una stanchezza piena di sollievo, un riposo [pg!112] pieno di dolcezza, una vita feconda e operosa. Oh l’attraente visione! Non più tempo per le emicranie, per le nevrosi logoranti, per le fantasticherie velenose, per i languori cattivi, per gli ozî insidiosi. Mai più annoiarsi, mai più! Poi la gentile alterezza di bastare a noi stesse, e l’affrancamento da ogni schiavitù: quella di un’ipocrita galanteria che ci confina fra i gingilli fragili e inutili, o l’altra meno umiliante ma più triste che condanna la donna a girare intorno allo stretto circolo delle attribuzioni domestiche, con gli occhi bendati, senza tregua, per tutta la vita; come i cavalli che una volta facevano andar le macine dei tintori.... Ed ora un raggio anche per voi, signorine. Immaginate voi che paradiso sarà il mondo quando verrà abbattuto quel famoso «Dio dell’or» che miete tante speranze e inaridisce tanti cuori? che appare sempre, o quasi, livido, inesorabile spettro fra il gioioso festino della vostra giovinezza? Pensate un po’ che ebbrezza volare all’anima gemella sbarazzate e libere per sempre da tutte quelle brutte miserie di doti, di notai, di patrimoni, di assegni, che offuscano lo splendore delle vostre aluccie di farfalle! Sarà un tripudio di gioventù, di bellezza, d’amore! Ma, ahimè, questo è l’ultimo sogno — un sogno d’alba! — bisogna destarsi e lasciare il baldo e pacifico popolo evocato da Edoardo Bellamy. Avesse egli la potenza del mago Merlino e noi i meriti di Bradamante per poter assistere con convinzione alla sfilata di questi nostri discendenti futuri! Ci sarebbe proprio da consolarsi. [pg!113] Maternità. [Dall’Idea liberale, Milano, 1894.] Vediamo di deviare un poco dall’eterna e oziosa questione. Minaccia di diventare una cosa insopportabile. Quasi non bastassero i poeti a farci responsabili dei loro peccati.... in rima — i romanzieri a fotografarci negli atteggiamenti più inverosimili — i giornalisti che tentano tutti i giorni di farci mandare a carte quarantanove riempiendo le colonne dei giornali estivi di _fisciù_ alla Maria-Antonietta, di trine, di occhi di tutti i colori, ecco gli antropologi ad annunziarci che ci fanno l’onore di tagliarci a striscie per scoprire il meccanismo che ci fa ridere e piangere.... Povere donne! prima la lana da filare e Vesta da servire; poi i chiostri e i mariti di ferro, più tardi gli specchietti del Rinascimento che ci attiravano e ci uccidevano come le allodole; indi i cavalieri serventi; ed ora gli scienziati che ci prendono curiosamente con due dita e ci mettono sotto il microscopio come se si trattasse d’un microbo di nuova specie.... Signore intelligenti e di buona volontà, che leggete la _Idea liberale_, volete che insorgiamo? volete che si bandisca una crociata contro quest’ultima cattiva piega del secolo che dopo aver tutto decomposto [pg!114] o spostato, minaccia di continuare la sua bell’opera con noi assegnandoci per nostra definitiva dimora la casella degli uomini degenerati?... Un momento, signore; non scappate: c’è qui chi ci salva. Fra tutti gli articoli scritti in questi giorni per la nostra causa ve n’ha uno, nella severa e simpatica _Gazzetta letteraria_, che dà la nota giusta in questo frastuono d’accordature. Ha l’aria d’una trovata, eppure è una cosa semplicissima: la storia dell’uovo di Colombo. Mi dispiace di non conoscere l’autore, signor Augusto Lenzoni, per non potergli esprimere direttamente la mia viva approvazione. Era una cosa così elementare! come mai non vi hanno pensato prima? Giusto; era questo il difficile: pensarci. «La psiche umana — dice il Lenzoni nel suo geniale scritto — è così varia, così complessa, così proteiforme, che nessuno può misurarla, nè pesarla, nè circoscriverla in una formola assoluta. Hanno voluto fare della donna un essere psicologicamente diverso dall’uomo, e forse le differenze non esistono sono insignificanti». Arrivati, dunque, dopo il lungo studio a questa trionfale conclusione, mi pare che non ci sia altro da dire. Un altro campo però si schiude, vasto, fiorito, troppo poco troppo male esplorato fin qui: voglio, dire il regno della donna madre. E qui, siano pur numerose e vivaci e impertinenti anche e minuziose le discussioni, noi non ce ne lagneremo. Nessuna osservazione che riguardi questa alta missione femminile può essere oziosa o pettegola o indiscreta. Esigendo il meglio e cercando la perfezione per i figli vostri, signori, per i continuatori del vostro nome e delle vostre tradizioni, siete nel vostro pieno diritto, non solo, ma le donne intellettuali, a cui facevo [pg!115] appello poc’anzi, solleciteranno il vostro aiuto, il vostro consiglio, la vostra approvazione.... adagio, non di tutti — di quelli che se ne mostreranno degni. Ma, ahimè! dimenticavo che proprio questi non hanno tempo da perdere per noi, per i loro figliuoli. Preferiscono stillarsi il cervello a rifare gli uomini già fatti, piuttosto che a crescer bene quelli che sono da fare... Tutt’al più, passando, tra un programma elettorale e un articolo di sociologia, ci dicono bruscamente: «Così non va, non siete atte ad educare le generazioni dei tempi nuovi, voi non avete il capo che ai gioielli e ai merletti, vergogna!» E non pensano neanche per ombra che se la coscienza e la dignità della donna sono così abbassate, la colpa in massima parte incombe su di loro. Madre è una parola grave, una parola austera, una parola che invecchia, che implica una rete di doveri grandi e piccini che gli uomini, egoisti per eccellenza, sono annoiati di rispettare. Essi considerano riempite di trascuranza, di sprezzo, di puerilità tutte le ore che la donna non dedica a loro, anche se le impiega intorno alla culla del loro figliuolo. Quando una donna è madre, la si abbandona alla sua creatura o la si fa disertare. Rarissimamente l’uomo le sacrificherà una delle sue ore di libertà randagia — le dirà la bellezza e la bontà e la poesia della sua missione — l’animerà nelle difficoltà e nei travagli della sua vita. L’uomo apprezza la _sportwoman_, l’artista, l’ispiratrice, l’appassionata, tutto ciò che ha foggiato lui; ma le tenere e timide virtù, che germinano spontanee in ogni cuore di giovinetta, egli trascura sbadatamente volontariamente finchè illanguidiscono e si spengono. Qual innamorato, qual pretendente alla mano [pg!116] d’una signorina, mostra d’interessarsi meno all’abbigliamento di lei che alle sue ipotetiche cognizioni d’educatrice futura? Qual fidanzato, qual giovine marito parla alla sua compagna d’un indirizzo morale e intellettuale da dare al figliuolo che verrà? Dov’è quel giovinotto che nell’accingersi a farsi una famiglia sua s’assicura e procura che colei ch’egli preferisce per tutta la vita, non sia ignara della grave responsabilità che le spetta, delle lotte a cui muove incontro? Ma nessuno! Ma nulla! Si sposano come colombi dal desìo chiamati, con le mani piene di fiori e la testa di romanticherie, e fuggono di qua e di là sognando un’eterna luna di miele: e quando il figliuolo s’annunzia — spesse volte non desiderato — è finita: il signore sospira pensando alla interminabile sequela di brighe e di spese, la signora diventa nervosa vedendo il suo vitino di vespa allargarsi e le sue eleganti _toilettes_ invecchiare nell’armadio.... Ma poi quando il bambino c’è, vero e vivo, si trova che è una cosa più semplice di quel che pareva; c’è la balia, poi verrà la bambinaia, poi la istitutrice, il collegio: si può dunque continuare a fare la vita solita senza scomodarsi troppo. Poi un bambino distrae più del cane e del pappagallo nelle giornate piovose, finalmente lo si vestirà tanto bene che diventerà il più bell’ornamento artistico della casa. E la mammina comincia subito a sgridarlo se si fa una macchia, ride se si pavoneggia, è fiera di vederlo atteggiarsi a tiranno — continuando presso a poco così, finchè il bambino o la bambina riescono una seconda edizione, più meno corretta, dei loro progenitori. Ma perchè, mentre l’igiene dell’infanzia ha fatto progressi indiscutibili, mentre si vigila rigorosamente [pg!117] a che i bambini non manchino ai loro obblighi di civiltà, mentre pare si abbia fretta d’abbreviare e d’immalinconire l’infanzia ordinandola in una piccola società costituita che dell’altra avrà riflesse le malignità, le galanterie, le ingiustizie; perchè, mentre si mandano i bambini nei piccoli balli alle gare d’eleganza, e si allevano nelle mollezze dei tessuti e delle atmosfere, si pensa così poco alla loro piccola anima che si schiude ricevendo indelebilmente l’impressione di tutto ciò che la circonda e che la farà eletta o volgare? Povere piccole anime di bimbi _fin de siècle_, vestiti da bambola, chi si ricorda di voi? chi vi studia? chi vi analizza? chi lascia cadere in voi il grano delle alte virtù? La governante inglese o tedesca forse? ah, no.... Purtroppo, la frivolezza e l’insufficienza della donna madre, generalmente parlando, sono grandi; ma bisogna aggiungere però che non è meno grande la sciocchezza dell’uomo che di queste vacuità gode tessere una corona giovanile per ornamento del suo ideale muliebre; non è meno grande la responsabilità sua d’una trascuranza d’indirizzo intellettuale e morale verso quella che deve esser la madre dei suoi figliuoli, verso i figli che in lui, più che in ogni altro, vedono l’esempio e l’autorità — verso la società stessa finchè s’arrogherà tutti i privilegi e tutti i diritti, considerando la donna, non come un complemento, come un accessorio della sua vita. «Le premier devoir d’une femme c’est d’être belle» ha detto non so più che grand’uomo, e questo motto di spirito profondamente immorale, confermato e illustrato a sazietà nella vita e nell’arte dalla maggioranza del sesso forte, ha finito per diventare la divisa delle donne che non vogliono rinunciare ad essere [pg!118] amate e ammirate — alla loro parte di sole. Farsi belle — ecco il compendio d’intere esistenze, ma lo vogliono i nostri compagni, in questo inflessibili; e allora quando una donna sia bella, proprio bella, l’uomo non ha diritto di chiederle di più. Non c’è che un piccolo inconveniente. La donna ridotta così allo stato di giuocattolo dovrà necessariamente correre la sorte dei giuocattoli; ieri sul cuore, oggi in briciole sotto i piedi. Non c’è rispetto di donna che la salvi, nè dignità di madre che la protegga. Rispetto? venerazione? Vecchiumi! Madre? — oh, una dolce parola; ma non ricorda più che una cosa antica passata di moda, sbiadita, intorno a cui con un po’ di studio e di fantasia si può ancora ricostruire scene di una bonaria epoca passata, come alla vista d’un ritratto di famiglia o d’un oggetto di museo.... Ma poi a poco a poco anche la evocazione non sarà più possibile — la verità sfumerà nella leggenda, gli uomini si vergogneranno di dover la vita a una creatura che non sapranno più considerare che come una curiosità della creazione; la negheranno. Opera d’una donna Dante? Colombo? Galileo? Napoleone? Chè! si sono fatti da loro! [pg!119] Narcisi e Poeti. [Marradi, «_Nuovi canti_» (Milano, Treves 1890).] Spessissimo, leggendo gli ultimi versi d’un volumetto di rime elegante, attraente, mi sorprendo a pensare ai narcisi come per un’evoluzione naturale di pensiero — come se una china dolcemente irresistibile obbligasse le mie idee a scendere dai seguaci d’Apollo ai leggiadri fiori reclinati sulla riviera tersa a contemplarsi amorosamente. Suppongo ciò accada perchè la similitudine è press’a poco esatta e perchè non sono rari i poeti-narcisi nel fiorito giardino d’Italia... I toscani specialmente — poeti o no — s’inebriano tutti volentieri di quella lor vena facile, scintillante, gemmata, che zampilla inesauribile, che scorre armoniosa allietando e carezzando l’orecchio; ma dopo, eccoli puniti della pena inflitta al re che amò troppo la ricchezza: ogni cosa si cangia in oro al tocco della loro mano, in oro freddo, inutile, inanimato. Un tesoro, uno splendore; ma la vita cessa — e di questa gelidezza aurea rifulge il volumetto di Giovanni Marradi. Il Marradi è senza dubbio uno dei nostri migliori poeti contemporanei. I suoi versi hanno una delicatezza soave, una purezza di forma, una fluidità [pg!120] melodiosa non comune. Molti di questi «Nuovi Canti», i più belli, non erano ignoti agli ammiratori del suo ingegno: essi ricordano di aver esultato scoprendoli nelle riviste o nei giornali, giudicandoli gioielli. Ora, rilegati tutti insieme, non sembrano più gli stessi. Perchè? Forse è la monotonìa che li sbiadisce; forse ciò che formava l’intimo pregio d’ognuno: una purezza radiosa e tranquilla, diffonde sul gruppo troppa pace, la bianca pace delle altezze, la pace delle cose morte. Alle volte, qua e là, da qualche iridescenza più vivace, da qualche raggio saettante, da qualche luminosa Morgana si è tratti a sperare di sentirsi riscaldati da un’ondata di sole meridiano; d’udire un’eco, un singhiozzo, una voce, e si trepida nell’attesa del miracolo desiderato. Invano; le iridescenze si cancellano, le saette dei raggi illanguidiscono, il giorno tramonta nel silenzio fresco e vergine d’un mondo novello ancora inabitato. Giovanni Marradi nel suo grandioso ed alto panteismo non aspira che ad identificarsi coll’azzurro del suo cielo e del suo mare, coi suoi colli boscosi, coi suoi giardini fragranti, colle sue foreste, colle sue primavere di cui nulla turba il perpetuo sereno, e in cui vuol cullarsi e fantasticare colla superiorità olimpica d’un dio. Quindi è naturale che le tempeste, gli uragani, le lotte, le tenebre del mondo dei viventi gli giungano affievolite e sfumate come un’eco, come una nebbia, come un sogno. Ed egli canta così senza palpiti, senza lagrime, senza dolore e senza gioia; canta librato in alto simile all’allodola, tutto assorto nel suo gorgheggio sapiente e melodioso. Tra questi «Canti» mi sembrano bellissimi i sonetti primaverili intitolati «_Matelda_»; quelli compresi sotto l’unico titolo di «_Sabato Santo_» in cui [pg!121] spira una letizia lustrale; quelli del «_Calendimaggio_» tutti odorosi delle rose fiorentine; quelli di «_Montenero_» scultorei: trovo mestamente leggiadra la «_Ballata d’Autunno_»; creata da un’ispirazione assai felice la «_Quercia abbattuta_». Molte bellezze s’incontrano pure nell’«_Epistola Senese_» in cui il Medio Evo è evocato efficacemente in un’ottava sola: O sogni! o poesia! Sazie di stragi prosternavansi a Dio nella pia mole ferrate genti, cui ridean fra gli agi corti d’amore e suoni di mandòle. Allor surgean le cupole e i palagi, fiorian le torri come steli al sole, e per l’itale vie l’ossuta e cava faccia di Dante in estasi passava. Stupenda anche — sopratutto perchè è forte e vibrante d’un non so che di pietoso per l’irrequietezza umana — l’ode «_Varcando gli Appennini_». Altre due poesie, due sonetti, emergono pure dalla raccolta perchè trasfigurati da un turbamento gentile che dona loro una beltà tutta spirituale. Sono nel ciclo «_D’oltremare_». Eccone uno: III. Ma io, di notte, quando la campana rintocca i quarti delle vigili ore, e il grido delle scolte s’allontana di sui prossimi spaldi e lento muore, penso che in faccia a noi, dentro un’arcana mole, v’han genti in quel sinistro orrore sepolte nel silenzio. E d’una strana pietà mi piange e mi trabocca il cuore. Io penso agli angiporti ignoti al sole da cui scova la fame un volgo affranto popolator de la terribil mole, [pg!122] E vien dagli angiporti umidi un canto che nella notte palpita e si duole, e sembra della trista isola il pianto. Questo spirito insolito di sentimento e di vita nuova dimostri l’ideale di perfezione a cui potrebbe assurgere la lirica dal Marradi purchè palpitasse di qualche tumulto, purchè la bellezza marmorea e fredda si solcasse delle lagrime della passione. Per ora non sono che emozioni fuggevoli, dopo le quali egli affonda di nuovo nel suo giaciglio di fiori e ricomincia a fantasticare. Ora pensa a un’isola per conto proprio all’isola dei beati: laggiù dov’io vorrei, lunge da tutti, bere a limpidi sorsi il refrigerio delle maree, posando dalla vita, mentre scorresse cullata dai flutti, senza un rimpianto, senza un desiderio la mia beatitudine infinita. Ma io non gli auguro di trovarla, poichè il _nirvâna_ non è la vita; io, se osassi, augurerei invece alla sua splendida Musa solitaria che sogna fra il rezzo nel bel castello incantato, il principe amoroso della leggenda che allontanando le fronde la destasse con un bacio. [pg!123] Alberto Cantoni. UN RE UMORISTA [Firenze; Barbèra, 1890.] Diciamolo, via: ci vuol un po’ di coraggio a questi lumi di luna!... Non parlo, beninteso, del re, ma dell’autore, che ha scritto quelle tre parole in fronte al suo volume prima di mandarlo per il mondo. Corrono tempi così permalosi, è così accanita la rabbia di questo scorcio di secolo, come ebbe a chiamarla argutamente il Bonghi, che non mi meraviglierei punto se un dì o l’altro saltasse fuori qualche nuova cima d’ingegno con la scoperta peregrina che quel libro è una satira e l’autore un politicone della tempra più sottile. E allora, povero signore! avrebbe un bell’arrabbattarsi con le opere e con le parole per dimostrare il contrario; potrebbe magari morire per il trionfo della sua fede, non gli farebbero neanche la grazia di cinque minuti per ascoltarlo, ubriacati dall’ardore di procurargli a modo loro l’immortalità. Ma Alberto Cantoni, avvezzo com’è ad anatomizzare i suoi polli prima di mangiarseli, dopo il titolo stuzzicante si trincera in un prologo poetico e forte come una rocca medioevale. Le memorie dell’incognito re gli sono promesse in un vagone di ferrovia [pg!124] cosmopolita e gli arrivano poi per la posta dall’Inghilterra ben suggellate e scritte in francese (perchè non in _volapùk_, la lingua universale?). E lungo le memorie, divise in cinque fascicoli, non un raggio, non un filo, non la più piccola velleità d’una qualunque bandiera. Se l’intenzione della satira ci fosse, il Cantoni non avrebbe messo, mi pare, tanta cura per infiltrarci nella mente quasi a nostra insaputa la tranquilla persuasione che ciò non sia. Un umorismo fine si diffonde per tutto il libro, a volte arguto, a volte un po’ dilavato, di buona lega sempre. Leggendolo di seguito, me ne rimase l’impressione d’una di quelle polle d’acqua leggermente ferrugginosa sgorgante di continuo con un gorgoglio di dolcezza brontolona. Il sapore non piace a tutti, nè sempre; ma quando il palato ci si abitua, si prova un certo piacere ad affrontarlo. «_Un re umorista_» non è un romanzo nè un libro nato da un pensiero profondo; egli appartiene a una categoria assai scarsa in Italia, ma che non per questo ha la sua ragione di essere come altrove, specialmente poi se i mezzi adoperati sono sapienti, come ad esempio, qui, la snellezza dello stile di una prodigalità veramente toscana. Anzi qualchevolta se ne abusa, e allora l’agilità diventa acrobatismo, il quale, se da un certo punto di vista può costringere all’ammirazione, cessa in pari tempo d’esser arte vera. Anche di quello spirito incisivo, motteggiatore, ch’è una delle attrattive del libro, il Cantoni si compiace troppo, di quando in quando a danno dell’efficacia, della finezza e delle linee generali del lavoro. Talora si stempera in tutta la vanità delle Storielle di Camillo Boito, tal’altra si condensa invece nell’essenza [pg!125] saporosa dei Paradossi di Nordau. Nè intendo con questo di sminuire la sua personalità di scrittore che si delinea spiccata come poche — -tanto spiccata da impedirgli perfino di modificarla, quando entrano in ballo altri personaggi che a rigor di legge non sarebbe troppo verosimile trovare tutti, e sempre, in vena di far dell’umorismo come il protagonista o come lui. Per esempio, quella cortigiana d’ordine molto inferiore, che il re per un caso fortuito rapisce di notte dalla via, si esprime come la regina e come il presidente del consiglio: i due interlocutori che parlano di più. E dallo spunto dei discorsi di quelli che parlano di meno, si capisce che, se la loro loquacità fosse maggiore, manifesterebbero il loro pensiero allo stesso modo, che è quello del re. Ciò dà al volume una tinta di monotonia e un’intonazione di leggerezza che logorano la trama già lieve della narrazione. Vero è che essendo memorie scritte da una persona sola, questa avrebbe potuto colorire del suo stile i discorsi che ripeteva; ma è verosimile che li infiorasse anche dei suoi sinonimi, dei suoi paragoni, dei suoi tratti di spirito? Scoglio rude, questo del soggettivismo; contro il quale è così facile urtare specialmente nel dialogo — dramma o romanzo che sia — scoglio che pochissimi evitano, perchè mentre quasi tutti si occupano a donare ad ognuna delle proprie creature intellettuali una fisonomia propria, un’individualità, un tipo insomma, pochissimi si curano di darle anche una sfumatura di linguaggio proprio e distinto, come ognuno di noi ha nella vita a complemento e ad affermazione di sè. In questo i francesi possono esserci maestri. Quante larve di Zola, di Daudet, del [pg!126] Flaubert, del povero Maupassant ci sono rimaste vive e nette nella memoria non tanto per quello che fanno per quello che pensano, quanto per un loro modo speciale di esprimersi: o un laconismo, o una parola insistente, o un giro di frasi, o un’esclamazione, o un vizio di pronuncia, che li rappresenta a noi autonomi e fuori affatto della lente dello scrittore! Qui in Italia, invece, sia per la difficoltà grande della lingua che si piega a stento ai capricci della nostra fantasia, o perchè l’idioma regionale non è ancor fuso in un disinvolto parlar italiano, nello scoglio danno anche i sommi — non eccettuato il D’Annunzio, il grande incantatore; e Matilde Serao, la fiamma viva. Ma il «Re» mi aspetta, ed è proprio una cosa nuova far aspettare un re. Bando dunque alle minuzie, tanto più che l’intento principale di Alberto Cantoni non fu di fare un romanzo, ma di guardare il mondo da un punto di vista diverso dal comune e con un paio di lenti lievemente affumicate. Molte cellule racchiudenti il germe dei grandi problemi della morale e della vita si susseguono sotto i suoi occhi: molte, non tutte; ed anche su queste indugia la lente più per afferrarne l’ironia e la vanità che per analizzarle o colmarle del suo pensiero. Raramente questo re espone un concetto suo, ben definito, e qui somiglio quell’amabile brontolone a certuni che non sanno che crollare il capo e sindacare e sofisticare colle mani alla cintola e col cervello soffuso di vaporosità inutili quanto leggiadre. Condotta con arte delicata è la progressione di quel leggero pessimismo che forma il fondo dell’_humor_ in generale e di queste regie memorie in particolare: appena trasparente dapprima, si addensa coll’ammonticchiarsi [pg!127] degli anni, degli avvenimenti, al ringagliardire del vento che spazza via i pètali della fiorita di rose, su cui camminano tutti a vent’anni — giovani re, e giovani popolani. Fra i capitoli, il cui titolo è spesso d’un’originalità di dubbio gusto, ammiro quello dedicato al ballo «Flamenco» nel quale la vigoria è assai armoniosamente commista alla cesellatura e alla sobrietà. Fresche e malinconicamente vere, le pagine in cui passa una graziosa figurina di attrice che la lunga abitudine dell’artificio ha reso incapace di esprimere con naturalezza un sentimento sentito; — simpatica la scena, che già accennai, fra re e cortigiana, scena fuggevole d’una fantasia di ballata o di sogno; — drammatico, malgrado lo spumeggiare dello spirito che ne attenua la tragicità, l’episodio dell’attentato alla vita del re, arrischiato dalla bianca mano di Katie, la lettrice russa che quel capo ameno di sovrano si limita per il momento a legare per i polsi a uno stipo col fazzoletto, come un’Angelica.... vestita! È una pennellata carina, d’indole schiettamente francese, meno le conseguenze che possono essere, ahimè, di tutti i paesi... Il re è rimasto incolume, ma un sospetto postumo, abbastanza avvalorato, che Katie abbia tentato il colpo meno per ragioni politiche che per ragioni amorose, gli conficca nell’anima uno dei soliti dardi contro cui non v’ha scudo nè difesa; e la bellissima dagli occhi azzurri e dalla voce melodiosa è vendicata, almeno per qualche tempo, più raffinatamente che non lo avesse potuto fare con la piccola pallina di piombo mirata al cuore. Nel capitolo delle «Esposizioni» v’hanno osservazioni e definizioni sottili, fra cui questa che meriterebbe [pg!128] di essere stampata in fronte al volumetto non comune: «L’umorismo è l’arte di far sorridere melanconicamente le persone intelligenti». «.... Anche l’umore è una gran forza» — scrive più innanzi a pagina 210 — «appena che sia ben diretta, e può talvolta arrivare dove non arriva la logica nel campo del pensiero, nè la esperienza nel campo dei fatti. — In ogni modo, camicia di Nesso o nimbo leggiero che esso sia, non diventerà mai tale cosa da potersi levare e mettere come un abito di cerimonia e non importa nulla se guasterà talvolta le cose buone che non sono molte, perchè più sovente darà mano a sopportare le cattive che non sono poche». Del resto l’osservazione minuta, esatta, non priva d’una certa arguzia, s’incontra sovente in queste memorie regali che hanno il pregio massimo di essere quelle d’un uomo sincero dotato del triste privilegio di conoscere e di analizzare sopratutto sè stesso spietatamente. Questo re psicologo ci dice il perchè di molte contraddizioni, di certe intime lotte che fanno sorridere gli uomini d’azione e che travagliano i delicati: le gesta dell’anima, ignorate, misteriose spesso per gli eroi medesimi costretti a pugnare nel laberinto contro un Minotauro invisibile.... Benvenuto dunque il serico filo che questo principe ci affida sorridendo! Com’è vera nella sua complicazione l’analisi di quella «irritazione morale»: «.... si rivelava con dei rapidi passaggi dalla più febbrile allegria alla più depressa mestizia, con delle interruzioni di abbattimento e come di nausea dell’uno stato e dell’altro. A quest’ultima condizione ed anche alla tristezza, per quanto profonda, mi sapeva talvolta rassegnare, [pg!129] ma non mai, appena che ci pensassi un po’, alla troppa giocondità, perchè forse più morbosa degli altri stati, e perchè, quanto più essa dava segno di sè medesima, ed altrettanto io era sicuro di piombare più a fondo nell’estremo opposto». Ed anche questa, acuta ed essenzialmente umana: «........ gli spasimi del dolor fisico, e non importa quali, possono avere benigna influenza sopra lo spirito, allo stesso modo come le angoscie del cuore possono avvalorarvi a sostenere le torture del corpo. Nient’altro. _Dolor acerrimus farmacus_». È invecchiato il giovine re, che si compensava alla notte della rigida etichetta del giorno, galoppando sul suo cavallo alla ventura, proprio come un ardente principe delle novelline di fate. È invecchiato, immalinconito, ha la gotta, ed esagera i suoi scrupoli sino a tralasciare di scrivere le sue memorie, che gli pare debbano scemare l’ultima energia che vuol serbare al suo popolo. «Povera umanità!» termina sospirando. «Ma più poveri di tutti coloro i quali si stillano continuamente il cervello per determinare, ciascuno alla sua maniera, le origini, i procedimenti e gli effetti del male in terra, senza tentare di reciderlo, almeno dentro di essi, e senza porre mente che se non ci fosse stato il male, via, siamo giusti, nemmeno si avrebbe mai saputo che cosa fosse il bene. Come siamo ridicoli e lagrimevoli insieme!» Ecco, non c’è bisogno d’esser re per arrivare a questa conclusione. Tutti, grandi e piccoli, maestri e discepoli, purchè portino in sè il germe dell’analisi — dello splendido fior velenoso — sono sicuri di rimanerne vittima pei primi. È una delle nostre grandi [pg!130] miserie questa voluttà insaziabile della vivisezione, che ci fa rialzare dissanguati, vacui, nauseati e sopratutto tristi della terribile tristezza dell’impotenza e della vanità. Almeno il male giovi, almeno le vittime ammonticchiate sugli altari servano a propiziare l’arte, la gran Dea.... Speriamo. Ora ci dia un romanzo il Cantoni: un romanzo oggettivo. Sarà un romanzo psicologico, fine, elegante; questa, più che una speranza, è una fede. [pg!131] I poeti nella Prosa. I. _Elda Gianelli_: _Incontro_ [Trieste, (Balestra, 1890).] Un sagace critico, il Brunetière, nel suo volume sul romanzo naturalista, parla degli scrittori giunti al romanzo per diverso cammino, ognuno dei quali ha le vesti impregnate di un aroma caratteristico che s’insinua e rimane nella grande officina. «... Il y en a d’autres qui sont venus au roman par la poésie: ceux-ci, leurs descriptions les trahissent, et si consciencieusement qu’ils s’appliquent à la peinture de l’exacte réalité, je ne sais quoi de délicat et de charmant ou de douloureux et d’ému perce toujours, qui les fait reconnaître poêtes.» Subito si riconoscono. Come i nobili decaduti portano nella folla una nota personale di gracilità fine e sofferente che fa qualche volta una pietosa stonatura: così nella prosa i poeti portano qualche cosa di esotico, di gentile, di insolito, spesso di leggiadramente inesperto che parla del loro paradiso, perduto. Qualche volta è una frase concentrata, tagliente che abbaglia come un baleno e significa più che [pg!132] dieci pagine; — qualche volta è un’immagine aerea colorita, caduta là come una farfalla in un agguato: — talvolta è un tempestare di parole nuove, ardite che turbano e appagano, o un zampillo luminoso che si sprigiona e sale, o la trama tutta del lavoro che riluce aurea. I migliori nella prosa non sono per solito i migliori nella lirica. I poeti maggiori, quelli che hanno raggiunto la perfezione nella difficile arte del sintetizzare, sono raramente in prosa limpidi, semplici, ordinati, fini. Se hanno l’efficacia quasi sempre e la forza, hanno anche quasi sempre il nervosismo o la brutalità. Gli altri invece, i poeti un po’ dilavati, all’acqua di rose come li chiamano — in prosa sono magici. Hanno la delicatezza, l’armonia, l’eleganza, il senso estetico: in una parola non sono mai tanto altamente poeti come quando scrivono senza le rime. È forse per questa ragione che i francesi moderni ci sono superiori nella prosa, come noi siamo ad essi maggiori nella poesia. In questa specie di legge del taglione v’ha però una scappatoia, uno scampo. Ed è per quegli spiriti felicemente equilibrati che non sono intrisi ma intinti di poesia; che sotto l’involucro iridescente e prezioso hanno una mente pratica e nutrita d’osservazioni sottili e profonde. Sono quasi sempre spiriti forti e buoni, cui l’intima e continua nozione della vita ritempra, non corrompe; e se talvolta par abbuiarli di scetticismo, il velo non è mai così denso nè così irrimediabilmente calato da non sperare che una volta o l’altra, a un dolce raggio di sole, possa rialzarsi su un viso già fidente e già pieno di sogni. Hanno la forza e la grazia, sono, come lo Shelley [pg!133] si riprometteva di essere, «dolci ed arditi.» La tempra e la vaghezza della loro lirica fa sempre perdonar loro qualche possibile mancanza di forma di originalità; e la somma sincerità d’osservazione che assurge per mezzo della verità alla più delicata poesia, compensa la loro prosa della scarsezza dell’elemento fantastico che qualche volta s’incontra in loro. La colonia artistica femminile, o per la sua superiorità di senso pratico sull’altra, o per la sua inferiorità di cognizioni scolastiche — deficienza spesso provvidenziale — può vantare forse più della maschile di codesti campioni vincitori. Oggi ne abbiamo un esempio dei più efficaci in una donna gentile e valorosa, un’italiana di Trieste: Elda Gianelli. Dei suoi meriti di poetessa, dei fulgori incantati che raggiano dalle sue raccolte di versi, ebbi l’onore di parlare, e a suo tempo persone competenti assai più di me li encomiarono. Ora mi è assai caro di rintracciare in un nuovo volumetto di prose questo tipo muliebre di scrittrice, ardente e severo. Sono racconti e bozzetti aggruppati, secondo il poco simpatico uso presente, sotto il titolo del primo racconto e del più lungo, che viceversa non è poi quasi mai il più pregevole, qui come altrove. «Incontro», questo nome schietto e disinvolto che fa immaginare una cortese figura femminile che ci viene innanzi amichevolmente, è quello della novella che inaugura il volume. Date le premesse dell’azione, l’ambiente, i caratteri delineati con sicurezza e il numero dei personaggi, credo che questo racconto, qua e là un po’ sbiadito o affrettato, guadagnerebbe a rifondersi in un romanzo per equilibrarsi e affermarsi, precisamente come certe [pg!134] ricche nature adolescenti hanno bisogno per esplicarsi con ordine, dello sviluppo completo. Un romanzo che incominciasse con la scena che dà principio al racconto incomincierebbe assai bene. Quel vecchio conte, incollerito contro i reumatismi e la vecchiaia, non è una delle solite figure di padre nobile da commedia: è la vera vecchiaia del libertino, del despota, dell’egoista, arida e amara vecchiezza, più triste ancora di quella della sua vittima: la moglie inebetita dagli spasimi morali procuratile da lui. Il solo fatto di quei due individui, di quelle due anime così lontane e così barbaramente avvinte dalle leggi umane e naturali, dal matrimonio e dall’infermità, che vivono, cioè respirano sotto lo stesso tetto, nella stessa gran sala, accanto al medesimo vecchio camino, è di un’alta potenza drammatica, di un’eloquenza indicibile. La Gianelli ha portato il suo sassolino all’edificio pericolante ancora del divorzio, forse inconsciamente: ma è una conclusione che si può dedurre, che si deduce dalla logica implacabile dei fatti e... basta. Un’altra figura ben delineata e viva è quella di Marcella Sanvillari nello stesso _Incontro_; la figlia dignitosa ed onesta, quasi austera, della madre sgualdrina, antica amante e cattivo genio del conte. L’incontro è quello di Marcella con Massimo: i figli innocenti. A Massimo dapprima fa orrore il progetto di sposare la figlia della ganza di suo padre che gli renderebbe in dote la sostanza ignominiosamente sottratta alla sua casa impoverita; ma poi, quando conosce la fanciulla, non più giovane nè bella, ma fatta forte e degna dal dolore, se ne innamora nel senso più alto e più nobile della parola, rinunzia alla dote e si sposano, poveri. [pg!135] Come ho detto, tranne la prima scena efficacissima e l’incontro di Massimo con Marcella dipinto con delicata maestria e rara chiaroveggenza femminile, questo racconto non lo direi una perfezione. Si legge tutto, però, avidamente. Se lo spazio non incalzasse, indugierei con diletto su gli altri scritti, ognuno dei quali ha più di un pregio o di analisi o di osservazione o di forma, ma non posso raccoglierli tutti in uno spazio così ristretto: li sgualcirei. Così scelgo: _Padron Paolo_, _Settembre_, _La giornata di Andrea_. Non si può quasi rilevare l’azione del primo, tanto è semplice. La figlia di padron Paolo, un agiato campagnuolo, ha troppo amato un famiglio; e padron Paolo li discaccia entrambi, li manda in una bicocca isolata e malsana alla miseria, verosimilmente alla morte. La penna della Gianelli, già sintetica e vigorosa come poche penne femminili, ha qui raggiunto il massimo della sintesi, della vigoria. Ho letto poche cose così pietose, così tristi, della tristezza ineffabile dello sfrondamento assoluto, eterno. Paolina non ha più un’illusione per il suo amore che le grava solamente come un’espiazione nel momento in cui ne avrebbe bisogno come di una fortezza e di una difesa. Ella subisce il suo destino con la passività delle anime rozze, ma ne risente tutta la desolazione. Vorrei potere trascrivere la pagina in cui è dipinto il piccolo e dolente convoglio all’atto della partenza; un carretto carico di misere masserizie, e su quelle, all’uscire di chiesa dove s’erano uniti in matrimonio, da una parte la sposa dall’altra lo sposo «_che volgeva il dorso, la testa giù, il collo seppellito nelle spalle, nell’attitudine di un vecchietto immiserito_» già quasi estranei l’uno [pg!136] all’altra, al sole levante, nella solitudine fredda ancora, dinanzi alla pianura che «_si apriva come un deserto_.» Una pagina per sobrietà, per colorito, per naturalezza non indegna dei nostri ultimi immortali del Grossi o del Manzoni. _La giornata di Andrea_ è più importante come svolgimento; è un vero racconto, ben proporzionato, questo, fortemente concepito ma un po’ nebulosamente tradotto. Mi pare che la Gianelli abbia inteso di dipingere la giornata della caduta, della fine di un ingegno, ma le intenzioni dell’autrice attraverso il cervello bizzarro e guasto del protagonista restano un poco nell’ombra. Pure, appunto per il suo carattere eminentemente oggettivo che dà molto rilievo alla figura di Andrea e molta verità alle altre, che accenna con garbo un gracile episodio d’amore, _La giornata di Andrea_ rimane un quadro dipinto alla brava, un quadro d’impressioni vive ed ardite. Ma la più bella pagina del libro, secondo il mio gusto e il mio parere, è _Settembre_. C’è tutto; delicatezza, poesia, acutezza, pensiero. Mi pare Bourget, l’inarrivabile. È un’idealità raggiunta, un’illusione fermata con uno spillo d’oro. Qui bisogna proprio rileggere e tacere... «Lasciatemi sbizzarrire, diceva lo spirito del poeta, lasciatemi piangere la melanconia sottile delle cose belle che passano, quella profonda delle cose tristi che arrivano. «.... Vedete il settembre, il bel settembre dal verde intatto, dagli alberi onusti, dal cielo di cobalto e il sol d’oro che non brucia più, dai tramonti magnifici, dalla luna stupefacente, a cui il detto popolare vuole che sette lune si inchinino. È la bellezza il settembre, la bellezza perfetta nella [pg!137] sua maturità sfolgorante, il trionfo della vita, il compimento delle promesse di un anno intero. «Lo salutano ricchi e poveri, giovani e vecchi. Egli è buono con tutti. Aprile promette, settembre ottiene. Le rondini si accingono alla partenza, i fidanzati al viaggio di nozze. Le une e gli altri ritardano ancora qualche poco. Il sole arriva caldo ancora alle note grondaie; settembre, il bel settembre dei nostri climi non ha fretta. È come una dolce sosta nel tempo.» Qualcuno ha tacciato Elda Gianelli di cercare lo strano, il bizzarro. Veramente per muovere con fondamento questa accusa nell’atmosfera in cui oggi ci si agita e si scrive è necessario, mi sembra, di riscontrare anomalie tali da impensierire seriamente sullo stato mentale dell’autore. Non si richiede niente di meno in quest’anno letterario mille ottocento novantadue... Oppure dobbiamo credere che il diapason dell’originalità stramba si sia spostato al punto da esser caduto al luogo della verità che si trova troppo verosimile per esser vera?... La Gianelli osserva e raccoglie nella vita anche troppo, anche a costo di apparir di quando in quando umile e pedestre. La sua arte è equilibrata, determinata, sincera, onesta. Ella non ama le raffinatezze morbose, le voluttuose descrizioni, le cincischiature, il dettaglio. Ella non ama neanche la vaporosità di cui qualche volta i genietti alati della poesia paiono avvolgerla a tradimento, e di quel nimbo la sua geniale figura si illeggiadrisce come un giovane viso di un velo. Ma se ne libera presto, poichè ella non vuole pigliar abbaglio sul proprio cammino e tiene a guidare con mano sicura e sapiente la propria fantasia nelle vie stellate, infinite. [pg!138] La moralità, il patetico, il soave, il bello, scaturiscono nelle sue creazioni dall’esposizione limpida e semplice dei sentimenti, dei fatti, come i fiori delle acque. Ella parrebbe estranea all’opera sua se un sottile profumo non rivelasse la sua presenza vigile e invisibile; l’alito della creazione. Dolce fatica quando Amore spira! più che dolce quando per una condizione morale ribelle o dolorosa o insolita, viene cercata come un sollievo all’abbondanza del cuore! L’ispirazione fluisce come il canto dalla gola dell’usignolo, la mente tutta vibrante per la presenza del Dio dà scintille e bagliori poc’anzi sconosciuti, si tracciano parole meccanicamente, tutti assorti nella voce che detta dentro che non è la nostra ma che si identifica così deliziosamente con noi. Mi pare (sono illusa o indovina?) mi pare che _Incontro_ sia stato scritto appunto così, nella fluttuazione nova d’una nova vita, scritto senza pena, lagrimando o sorridendo, ma dolcemente, tanto vi scorre fresca l’ispirazione, idealizzata ancora da un non so che di tenero, di sommesso, di appassionato, di avvolgente... Un libro scritto in tono minore; un libro scritto, direbbe il D’Annunzio, con la Grazia... II. _Cosimo Giorgieri-Contri_: _Lo Stagno_ Quando, parecchi mesi or sono, mi piacque occuparmi dell’arte elegante e finissima del Giorgieri Contri, il quale (noncuranza piuttosto unica che rara in questa fiera delle vanità) non ha ancora raccolto [pg!139] i suoi bei versi⁴, accennai pure al romanzo futuro che era appena, allora, una promessa. Ora il volume è uscito nella classica bianca veste battesimale dalla più solerte casa editrice d’Italia, ma ciò che è meglio, ha realizzato quasi interamente quello che ci si attendeva da lui. ⁴ Gli ha raccolti sotto il titolo: _Il Convegno dei cipressi_. (Milano, Chiesa e Guindani, 1895) e fecero già il giro dell’Italia meritatamente apprezzati e applauditi. N. d. A. Nella prima pagina, nell’atrio, troviamo l’autore fra un gruppo d’amici che ci mette in guardia contro questo «povero libro ineguale, scritto a diversi intervalli di tempo: la prima parte nella giovinezza che spera e sogna ancora, la seconda nella giovinezza che muove già alla quiete, donde non vengono più luci di speranze o di sogni.» «I critici — ci avverte ancora — lo troveranno troppo slegato e i dilettanti troppo semplice...» Ma noi gli sorrideremo e passeremo oltre senza dargli retta. Sono quasi trecento pagine d’una colorita delicatezza, che si suggono dolcemente, si respirano, se ne resta intrisi. Tutto diafano e molle e suggestivo come in una notte plenilunare; tutto di una poetica tenuità di sogno, d’una semplicità malinconica di vita vera, seducente il nostro spirito col fascino dei libri pieni di pensiero, più sottile, più penetrante di quello dei libri pieni d’azione. In queste pagine, raccolte sotto il titolo simbolico e a parer mio non troppo esatto di «_Stagno_», si svolge la storia di un’anima troppo delicata che non trovando o non avendo la forza di cercare appoggi nell’amore, nell’arte, nell’amicizia, nel lavoro, si ripiega miseramente [pg!140] sa sè stessa medicando le sue ferite con una filosofia desolata. Con la mano abile e leggiera, usa a determinare le sfumature senza toglier nulla della loro vaporosità, il Giorgieri-Contri ci fa sfilare dinanzi visioni penetranti di paesaggi, di figure eleganti e tranquille, di idilli leggiadri o mesti, analizzando aspetti, anime, cose, con intuizione profonda, cui l’esattezza non toglie una vaga tinta di originalità che rivela la tempra dello scrittore. Nè alcun mezzo volgare, nessuna tragicità, facilitano col rilievo la descrizione. Non c’è neppure il forte dramma intimo che oramai nella produzione romantica ha preso il posto del frettoloso e ingenuo movimento dei romanzi d’un giorno. Null’altro che le nebbie, il tedio, i languori di qualche inverno malsano dell’anima come su noi tutti, fioritura estrema del secolo, n’è passato qualcuno: condizione spirituale che, essendo la più penosamente sconsolata, è pure la più difficile per l’arte che deve essere profonda e squisita. In questo grigio velario fluttuano bensì sogni di rosa e di viola — aspirazioni, promesse, forse, ma indeterminate e lontane. Così a questo Filippo che non sa che passeggiare in campagna e in città, solo o più o meno bene accompagnato, verrebbe voglia d’augurare ciò che un giovane di mia conoscenza, un po’ intinto della stessa pece, si augurava come ricostituente: un gran viaggio, una gran malattia o un grande amore. Filippo Albio ama, ma questo amore è una fiamma di candela, oscillante, debole, che non illumina nè riscalda, che la lontananza assopisce, gli ostacoli esauriscono, la fatalità vince quasi senza lotta, che la morte stessa dell’amata non fa che tingere [pg!141] di romanticheria. Triste amore di tempi tristi, nel quale c’è più egoismo che passione, più irresolutezza che delicatezza — che si fa una barriera morale di una fisima sentimentale o che passa poi senza scrupoli attraverso all’olocausto d’un’illibatezza immeritata. Egli per salvare Ifigenia da un esempio triste malvagio d’amore, vi rinunzia e la lascia sposare dolente ad un uomo che non ama e che non l’ama — ma ne accetta poi la dedizione come la cosa più naturale del mondo quando ella tradita, disillusa, viene a gettarglisi tra le braccia, due povere braccia che non hanno nemmeno la forza di custodirsi quella dolcezza per sempre. La figurina di Ifigenia è dipinta con un tocco elegante, leggiero, sapiente. In lei tutto è impulso, sincerità. Una vera bambina, una vera giovinetta, una vera donna — di quelle che la maggioranza maschile ama: bella e ignorante, debole e dolce, con un po’ di grazia che nasconde la banalità, fatta più per le carezze che per l’amore. Nè la fanciulla, vittima delle sofisticherie sentimentali dell’innamorato, nè la donna vittima dell’egoismo dell’amante, giungono a destarci una compassione profonda — poichè la fanciulla non ha saputo che rassegnarsi e la donna non ha saputo che cedere, rassegnazione e dedizione nè elevata nè intera. Questa signorina che sa muoversi, vestirsi, passeggiare, pregare, guardar la luna e aver l’emicrania così leggiadramente, non sente le complicazioni dolorose di quel povero cuore malato che le batte vicino, non posa mai la sua mano bianca sul braccio del suo compagno per dirgli, con la voce dolce che pareva venire di lontano, una di quelle parole che l’amore sa trovare e che non si dimenticano [pg!142] più. E la donna che in uno slancio più inconsulto che generoso viene a domandar conforto a lui che pareva averla dimenticata, non sa poi affermare coraggiosamente il suo amore, reagire contro la fine del suo sogno, contro le fosche malinconie dell’amato, farsi la sua salvezza, il suo angelo custode per sempre. Rientrando sotto il tetto coniugale, vilmente, presso l’uomo che non stima più, che non ama, che ha ingannato, il soffio di passione che poteva essere grandioso se non puro, si spenge nell’adulterio volgare. Una pena trista pare incombere su questa coppia gentile ed amante dal principio del libro sino alla fine, quella di amarsi per lasciarsi, per dimostrare non la fugacità ma l’inutilità dell’amore... Una figura di secondo ordine, ma vigorosa e simpatica è quella di Giacomo, l’amico di Filippo, che ha delle teorie tutte sue, originali e profonde, sulla vita e sull’amore: «Niente riempie più nobilmente la vita che pensare all’impossibile, — dice una volta, — c’è qualche cosa di grande in questo pensiero che ti occupa, qualche cosa di orgoglioso nel dire a te stesso che la tua vita non ha una meta uguale a quella di tutti gli uomini, ma una meta che non raggiungerai mai e che pure preferisci ad ogni altra più certa e più ridente, forse.» E un’altra volta: «Nella vita tutto quanto non è stoltezza è volgarità: amo meglio esser stolto che volgare.» Ecco un’individualista convinto! Ma un giorno questo uomo che ci appare sereno e qualchevolta eletto nel dolore, sopraffatto dalla sua tortura morale si uccide. Questo l’arte non rendeva necessario e il libro ha una vena malsana di più... Squisito libro però, malgrado quel po’ di sconnessione [pg!143] che l’autore stesso riconosce e giustifica; d’una squisitezza di pensiero, d’una vaporosità di forma, d’una semplicità di stile come, pur troppo, in Italia non siamo avvezzi a riscontrare. La prosa di questo poeta fa pensare a quella di Bourget e di Loti, gl’indimenticabili: al primo, per la percezione netta di qualche lato più complesso e più oscuro dell’anima; al secondo, per quell’indefinibile senso che ha della nostalgia la mestizia assorbente, dolce, languidamente gravosa, e che li tiene non solo quando parlano del passato che spiega per essi tutto il suo fascino di leggenda e di storia, ma anche quando sorridono, quando si dicono felici. Paiono fiori cresciuti all’ombra e imploranti sempre, anche inconsciamente, la carezza fulgida, vivificante del sole. Trascrivo una pittura stupenda: «Quella sera rimanemmo a lungo, ricordo, mia madre ed io seduti davanti alla casa. La notte era profonda e splendida; i tre re brillavano netti sul cielo d’un fulgor di mosaico e tutto il cielo pareva cosparso di una polvere fina, come sabbia d’argento. La valle taceva immersa nel buio; ne saliva appena il trillare dei grilli d’una cadenza lenta e dolce. Accanto a noi qualche foglia muoveva nel vento, un grosso pino fletteva la punta, a tratti, e a tratti pure la sabbia del viale scricchiolava. C’era nella notte un fascino acuto; tutto pareva vegliasse e dormisse nel medesimo tempo: una impressione strana, ma decisa. Tutto pareva attendesse qualche cosa, sospirasse, invocasse, sperasse. E quella strana impressione si faceva pure su me.» Ma tutta la soave magia dell’Autore si effonde quando comincia a parlar del passato. E non per [pg!144] ricordare o rimpiangere, non un passato, ma tutto il passato in astratto — tutta la sterminata immensità sbarrata dall’ieri inesorabilmente. Questo amore delle cose perdute, delle cose morte, sembra il più grande amore della sua vita, la sua idealità più gentile, il suo sogno più caro; è certo la nota fondamentale di tutta l’opera del giovine poeta, un ritornello triste, ma d’un incanto irresistibile. È il Giorgieri che parla per bocca del suo personaggio, qui: «C’è, nel dire che una persona e un ricordo non tornerà più, qualche cosa di così acutamente dolente che riesce certe volte per fino a dolcezza. Non tornando più, quel ricordo o quella persona si manterranno sempre come noi li abbiamo nel cuore, puri, incontaminati, sereni.» E ancora: «C’è, in questo ritorno dell’anima alle cose dilette e perdute, una tristezza così dolce che vince perfino il pensiero amaro della vanità del ritorno. Vivere o pensare di vivere non è la stessa cosa in fondo?» E più in là: «Io sentivo in me come aperto un abisso dove sarebbero andati a finire tutti i desideri realizzati d’un giorno; io vedevo, io prevedevo la vanità e la meschinità delle cose desiderate, e pure il desiderio restava, reso anzi più acuto da quella grande idea della fine che passava dietro di lui.» Infine questa riflessione così giusta e così sottile; «Pare quasi che il rimpianto sparga sul cuore qualche cosa di così perfidamente dolce che ogni altra dolcezza non possa superarlo.» Queste osservazioni penetranti e delicate che incontriamo quasi ad ogni pagina, fanno ai personaggi [pg!145] un fondo sfumato, quasi indistinto, ma d’un’armonia estetica grande — come la fusione smorta e sapiente negli arazzi antichi nei quali non si sa quasi dove il fondo finisca e dove la scena incomincia. Lo _Stagno_ con le sue fantasie semplici e meste tramate d’oro, dà l’idea di uno di quelli arazzi meravigliosi, che paiono tessuti dalle fate nel paese dei Sogni. Così passano i poeti nella prosa, elevandola fino ad essi per non scendere fino a lei: facendola evaporare tutta in una nebbia di profumo, in un’irradiazione di bellezza che serba della prosa la sincerità gentile, che ha della poesia lo splendore regale. Per questo, qualche volta, tutti intesi nella musicalità della loro sfera, i poeti non pensano che certi giri di frase, certi concetti, certi vocaboli possono parere artificiosi o insoliti troppo, a chi giudica dal punto di vista dell’idioma parlato: così anche nello «Stagno» per chi lo leggerà o lo giudicherà coi criteri soliti applicati ai romanzi, troverà qualche neo o nell’insistenza di qualche verbo tronco, in qualche inverosimiglianza nell’orditura dei fatti, in una certa compiacenza esagerata dei colori e dei profumi — compiacenza che diventa un po’ fissazione quando fa dire all’autore che la piccola Ifigenia aveva i capelli che odoravano di caprifoglio, e fatta donna, gli occhi, le pelliccie, i guanti, le scarpe, le calze violette... A costo di rovesciarmi addosso gli odi del poeta, mi appello a tutte le signore se è possibile una stranezza simile... Chiudendo il libro che finisce con un’affermazione desolata dell’immensa vanità del tutto, questo libro non volgare scritto da un ingegno non comune — questo _Stagno_ che fra le nebbie tacite e malsane [pg!146] ha i margini fioriti di tutti i fiori di primavera — queste pagine quasi tutte d’amore, veramente sentite, veramente sofferte, forse; mi sono trovata a ripetere fra me le recenti parole d’un valente scrittore francese e le ho ridette, malinconicamente: «La vie active avec ses promesses et ses triomphes, vaut elle qu’on lui sacrifie l’amour?... L’amour, de son côté, mérite-t-il les privations, les regrets, les remordes qu’on endure pour lui quand on a trop écouté sa voix?... Tout passe, tout coule, tout s’effondre: il faudrait un point fixe, au-dessus de la vie, au-dessus de l’amour...» [pg!147] Cipressi. (A PROPOSITO D’UNA NUOVA PUBBLICAZIONE) Fra la fulgida gloria di messidoro e il vivo zaffiro del mare che sorride invitando, una rama di cipresso piove su una tomba. Su quella tomba è scolpito un nome illustre, ma non è il sarcofago a cui i giovani muovono riverenti in pio pellegrinaggio — è una tomba invisibile, più tenue e più triste, scavata in un cuore. Pensiero gentilissimo quello degli amici di Giorgina Saffi, di ricordare con lei nel doglioso anniversario delle sue nozze il compagno eletto, allontanato per sempre dalla soave solennità domestica che ha portato per molti anni tanta dolcezza nella loro casa, che vi porta adesso tanto sconforto con l’affermazione d’una solitudine memore della felicità. Ma la mesta signora deve aver pianto lagrime meno amare fra il delicato mormorio di compianto che s’effonde da si copiosa nobiltà di intelletto e di animo a carezzare il suo dolore. Vecchi amici e giovani discepoli e donne gentili e stranieri posano la rama di cipresso sul sacrario, nel cuore dell’afflitta dama, ed ella li bacia in fronte ad uno ad uno e udendo in tutti il medesimo [pg!148] accento di venerazione per il suo morto diletto, quasi suo malgrado si sente consolata. È un album in gran formato, d’una severa eleganza. Sul frontespizio la efficace eloquenza di una data a distanza di poco più di trent’anni: 1858-1891 — XXX Giugno — un lembo di sereno. La lettera inaugurale di Rinaldo Sperati, compilatore, è gentilissima: «....questa corona di semprevivi germogliata dal cuore — così termina — possa a Lei giungere non importuna nel dolore suo, e farle sentire che nel suo pianto sono uniti i cuori degli amici, interpreti del dolore inestinguibile della patria e dell’umanità.» Vi sono versi di Swinburne, l’erede di Shelley, parafrasati dal Rapisardi — una lettera di Sir Stansfeld, qualche parola tracciata dalla penna incantata di Edoardo Schurè — un sagace discorso di Ernesto Nathan, una memoria del Minuti, una pagina del Silingardi; poi una rappresentanza, assai degna dell’eterno femminino: amiche, scrittrici artiste; Teodolinda Franceschi-Pignocchi, Suzanne Thomas, Jessie Mario, Giacinta Pezzana, Adolphine Gosme, Tommasina Guidi, Paolina Dagnino-Agnelli passano lasciando ognuna una nota fine, spirituale, elevata, amorosa, come solo sa trovare la donna che rimpiange e consola. Ecco il De Amicis, il mago che noi signore adoriamo, con la sua calda e fluente parola; «Cinque anni sono scrissi, con poca esperienza e con meno arte ma con tutta l’anima, un libro diretto all’educazione morale dell’infanzia. Il mio primo compenso fu di vedere i miei figliuoli commossi da quella lettura. Un compenso maggiore furono le lettere di fanciulli e di maestri, le quali mi dicevano [pg!149] che il mio libro non era inutile. Anche più grate di queste mi furon le manifestazioni di gente del popolo, che mostravano di aver compreso come il sentimento dominante dell’opera mia fosse il rispetto e l’amore delle classi lavoratrici, dei poveri, dei deboli, degli sventurati. Tutte queste soddisfazioni mi furono ravvivate e accertate alla diffusione larga e inattesa del libro, la quale mi provava ch’esso era ispirato a un’idea superiore ad ogni grettezza o preconcetto di classe sociale o di parte politica. Ma la mia soddisfazione più profonda e più cara, ma la mia gloria più bella e più durevole fu di aver ricevuto da Forlì una breve lettera in cui la grande anima di Aurelio Saffi mi diceva con la sua nobile semplicità: Avete reso un servizio al nostro paese.» Poi Olindo Guerrini con qualche motto soave pieno di pensiero, e Corrado Ricci, il valente pennelleggiatore dei tempi andati, che dà alla figura del Maestro un ultimo tocco sapiente. «.... non dimenticherò mai la _buona e cara immagine paterna_ di Aurelio Saffi. Parlando con lui il suo cuore v’aiutava a salire sino al suo intelletto.» Viene quindi la balda falange dei giovani seguaci che depongono semplici e riverenti tributi: Livio Quartaroli, Giuseppe Ronchi, Giuseppe Brini, Camillo Ugolini, Roberto Ascoli con una «memoria» così colorita luminosa e leggiadra da farne ingelosire il suo volumetto di Rime; ultimo Ettore Sanfelice la cui eletta lettera può servire per sintesi di quanto ho osservato fin qui. Eccola: [pg!150] _A Giorgina Saffi._ «La data 30 giugno 1858, ecco, mi schiude una visione di patetico insieme e di eroico, che mi empie il cuore, come se udissi parte di quella grande armonia che i filosofi antichi dicevano effondere nell’etere gli astri girando. «Prima vi dispose amore, poi l’eternità, e i brevi anni vissuti commisti entrano immortali nella città ideale, a cui fu opera d’_Aurelio_ sollevare gli animi. «Resta il forte suggello nei figli, l’adorato nume del padre s’allarga dalla famiglia a genio della patria, a elemento sostanziale d’ogni rinnovamento umano. E d’onde muove tutto ciò? Dall’amore. «Con questo nome Signora, che raccoglie famiglia, patria, umanità, un alunno del vostro _Aurelio_ osa oggi toccare la soglia del vostro sacrario per respirarvi la presenza dell’Apostolo e della sua dolce compagna.» E voi Signorine a cui le mie parole sono rivolte, per quel nome che tutto raccoglie, fate che dalla freschezza dei vostri cuori sbocci per Giorgina Saffi una schietta espressione di cordoglio. Anch’ella ha salpato come voi ricca di speranze e di sogni; anche voi tornerete in porto un giorno malinconicamente così; alcuna forse designata dal destino a essere come lei irraggiata dalla luce di qualche vivido astro futuro, e a identificarne, lui spento, gli affetti, le memorie, gli ideali. Ecco perchè ve n’ho parlato.... Giugno 1891 [pg!151] Fiori d’arancio. Io detesto la poesia d’occasione. Dalle canzoni e dai sonetti, scaturiti nei secoli scorsi per amore dei cardinali morti e degli arciduchi vivi, agli inni e alle liriche d’oggi per le esposizioni e per le nozze, l’ho trovata sempre abbominevole. La rettorica ed il convenzionalismo vi si trincerano come in un ultimo rifugio dove possono ancora tiranneggiare nell’accolta di tutto ciò che di più goffo, di più falso, di più antipatico e di più disarmonico ha il vocabolario italiano. Muore una persona cara, ed ecco una poesia vestita teatralmente da funerali che viene a chiamarcene _orbati_ e a dire in nostra presenza alle Parche un sacco di villanie: c’è una giovinezza che si consacra all’austerità, ed ecco che me la insudiciano d’_unto novello_ e me la assordano a furia dei rimbombi e degli echi del Sion: due felici fanno di due vite una vita fra le benedizioni del cielo e della terra, ed ecco inseguirli spietatamente nel loro volo un’orda di lirismo dove c’è per lo meno mezza dozzina di tempi del verbo _impalmare_, tre o quattro paia di _fausti nodi_, qualche _ara_ e una donzella che, poverina, in tutto questo rimenìo fa davvero pietà. Un orrore, ripeto, una calamità che ero ben risoluta d’odiare senza restrizioni per il bene d’Italia [pg!152] quando un nitido e snello fascicolo, fregiato d’un nome che mi è caro, è venuto, ha parlato, mi ha intenerita.... La causa è vinta. Chi ha ingegno vivo e originale, chi è poeta vero, scriva, scriva sempre; scriva per chi nasce, per chi muore, per chi ama, e Dio lo benedica. Se è poeta vero, se ha caldo lume d’ingegno, uscirà sano e salvo dalle pastoie e dalla banalità; saprà trovare la nota sentita e soave a cui il cuore risponde, le fantasie leggiere che si traggono lo spirito seco. Così ha fatto Elda Gianelli, nome che nella nostra letteratura oramai suona forza e armonia. Nella civettuola eleganza dei tipi del Balestra di Trieste, ella dedica a un’amica che si fa sposa, undici sonetti che, a parte la fattura squisita, racchiudono tutto ciò che di più radioso e tenero e soave possiede un’anima di donna quando la mente la illumina e detta Amore. Alla fanciulla che sta sulla soglia della vita nuova, nel solenne e pauroso momento in cui si sommerge il passato e non emerge ancora l’avvenire, parlano le cose con una delicatezza semplice e pagana. Essa trepida ascolta: sono le voci buone, le voci protettrici della sua adolescenza, gli addii supremi e mesti della sua prima vita che muore. Tutto vuol richiamarsi al pensiero di lei: e i «fantasmi vaghi della mente giovinetta» e il primo raggio di amore; e la casa dolce che l’ha difesa, come il cristallo la fiamma, da ogni alito impuro; e i libri che riunirono due giovani teste amorose, e il ricamo che riuniva i pensieri, e il pianoforte che faceva battere all’unisono i cuori: e dalle piante memori, dal letto verginale su cui scesero i sogni, dai «buoni alberi amici», dalle conscie sabbie dei viali, piovono saluti sorrisi di propiziazione alla fidanzata [pg!153] pensosa. E l’amica che la guida in questo congedo sentimentale ripensa seco, con pensieri ed espressioni in cui la materialità della parola quasi dispare sotto il profumo, i delicati episodi e le ore azzurre fra cui tramò ella la sua gaia rete d’amore. Ma per non sciupare di più colla mia analisi al microscopio quell’alata poesia, ecco uno dei sonetti migliori: E ti dicono addio soavemente Le cose intorno, e ognuna in sua sembianza Dei brevi anni vissuti alla tua mente Guida il sorriso d’una ricordanza. Dalle pareti della conscia stanza, Che tutta investe i rai del sol presente Sfilano luminose in gaia danza L’ore auguranti all’anima che assente. E il picciol letto abbandonato dice: La bella testa che da qui partia Or sovr’altro guancial posi felice. Arride dal balcone il cielo aperto Che la leggiadra fidanzata spia; Brilla il ner’occhio a interrogarlo esperto Oh la suggestione e la gentilezza di quell’idea del piccolo letto abbandonato, il piccolo letto a cui sono noti i sogni, che ha parole di così mesta soavità! Non si può leggere con indifferenza questa pagina, poichè chi di noi non vede cogli occhi dell’anima un piccolo letto, che sapeva solo i sogni, similmente abbandonato? Chi di voi, fanciulle, non intravede il giorno che lo abbandonerà? Non so resistere al diletto di ridire un’altra poesia — l’ultima — che [pg!154] ricongiunge come un nodo ideale questa fragrantissima ghirlanda: Questo il lieto tuo fato: esser amata E amar felice. Non a tutti ei splende Che intreccian nozze. Non a tutti rende Cosí piena mercè l’immacolata Bella luce d’amor. Non una offende Nube l’azzurro della tua giornata, E la tua giovinezza avventurata Da un fido porto a un fido porto stende La candid’ala di procelle ignara; In un nimbo gentil di poesia L’anima al nido placido ripara Dolce sognante. E su le nove soglie Dal ciel dorato della fantasia La sorridente realtà Ti accoglie. Leggiadra bruna incognita, che passate dal sogno alla realtà senza risveglio, dovete essere ben contenta di annoverare fra i ricordi di un giorno indimenticabile le nitide pagine dal nastro azzurro che la vostra amica vi dona. Per Voi sono più che versi armoniosi, sono atomi della vostra esistenza che hanno preso forma e colore per scortarvi come facelle amiche lungo l’ignoto viaggio dell’avvenire: è lo specchio magico della buona fata, il piccolo e prezioso specchio nel quale troverete ognora riflessa la serenità mite di una primavera a cui vi sarà dolce, forse, di ripensare fra le pompe dell’estate ardente. E possiate rimirarvi in mezzo la vostra immagine sempre così, come oggi, nella gaia veste ornata di fiori. [pg!155] L’ultima Primavera. [Memini, Chiesa e Guindani, 1894.] L’essenza della femminilità in tutto ciò che ha di più fine, di più intuitivo, di più velatamente appassionato, di più profondamente tenero; il fiore più delicato e più fragrante d’un ingegno sul meriggio per cui il dar forma al pensiero non è più un faticoso esercizio ma una facile consuetudine; la nota indovinata, giusta, fra la pittura esatta della verità e le sfumature della poesia; l’equilibrio difficile fra l’indagine psicologica e il movimento dei personaggi; questo, e più ancora, ho trovato nel fresco libro dalla veste ideale che non inganna. Chi è Memini? Io non so. Ma credo di poter affermare che abbiamo a fare con una vera signora. Finalmente! si respira, in questo andirivieni di donne-scrittrici, non tutte gentili, che scambiano la sgarbataggine con la forza e fumano la sigaretta anche in letteratura! Memini, l’ho detto, è soavemente donna e signora; non perchè la sua arte ce lo confermi cincischiandosi in analisi da sarta e da tappezziere, o perchè ci fa vivere in un ambiente leggittimamente aristocratico; ma per una specie di delicata riservatezza, per la grazia semplice e tranquilla di cui si vela il suo stile, sempre, anche nei momenti del più alto lirismo, anche nei momenti [pg!156] della più intensa passione, raggiungendo, in tal maniera, una semplicità suggestiva e un’efficace sobrietà. Le scene più drammatiche del suo romanzo, qualche punto scabroso, sono tratteggiati con bravura a luce e ad ombre sapienti, e l’immagine nella sua rapidità ci è resa viva e completa così che non ci par riflessa ma veduta. Lo stesso nell’analisi delle sensazioni, degli stati d’animo dei personaggi: la preparazione è tanto graduata, li conosciamo già tanto bene per quello che dicono, per quello che fanno, per quello che l’autrice, accortamente in una pennellata, ce li presenta, che si prevede già ciò che _sentiranno_, ciò che penseranno, ciò che decideranno in quella data occasione. Poichè tutti sono veri e vivi, ed hanno un’individualità propria, tutti, perfino i più insignificanti; e si muovono così bene nel loro ambiente in cui s’intravede dietro a loro altra gente ed altri caratteri e altre passioni, come nel mondo. Trovo qui che Memini ha superato vittoriosamente un gran scoglio: quello della prospettiva, del fondo; direi volentieri della messa in scena; scoglio da cui non si guardano sempre nemmeno i nostri valenti, e che guasta qualche volta l’idea e la forma migliore. L’azione sia pur di due od anche di un individuo solo, ma non agiscano nel vuoto, ma intorno ad essi ci sia la folla — indifferente, poco importa; ma è necessario indovinarla, è necessario intravederla, bisogna saperla là, e non col mezzo di qualche personaggio secondario messo per riempitivo, ma complessivamente; dei nomi, delle abitudini, dei tratti caratteristici, dei saluti, dei legami, degli obblighi; ciò insomma che penetra dal di fuori anche nella vita più appartata. Zola è in questo insuperabile: ogni suo romanzo è [pg!157] un mondo. Da noi, ma non sempre, i meridionali: Verga, il D’Annunzio, la Serao. Ecco ora questa dama gentile riuscirvi perfettamente. La sua _Ultima primavera_ è una primavera fiorentina che tutti respirano e vivono. Ma la primavera più fragrante, quasi gravosa per dolcezza, la vediamo schiudersi nel cuore della protagonista, la contessa Elisa, una figurina che ha una vaga aria di famiglia con le più delicate figure di Bourget. La trama del racconto è, credo, oramai nota e semplicissima. Un’amica di provincia raccomanda alla contessa il suo unico adorato figliuolo ed essa nell’iniziarlo agli usi della società in cui vive, nell’occuparsi del suo benessere morale, nel plasmarne la personalità, se ne innamora appassionatamente. Ma fra Elisa e Roberto ci sono sedici anni di differenza, e questa donna elevata dalla vita un po’ solitaria e tutta intellettuale in cui si era compiaciuta, crede di non aver diritto di avvincere a sè quella giovinezza per sempre, e vi rinunzia. Se non che, non avendo per sostegno alcun dovere nella rude lotta, l’amore dilaga e trionfa proprio quando Roberto, che ignora lo sottigliezze spirituali, punto dal rifiuto di lei che credeva non potesse riguardarlo che come un ragazzo troppo inferiore, s’è gettato nelle reti di una vecchia sirena sempre tesa a raccoglier vittime nuove. Così muore l’ultima primavera. L’analisi di quest’amore triste e supremo, dai primordi in cui non è che tenera sollecitudine quasi materna, alla fine in cui prorompe con tutta la violenza possente di un sentimento ancora non provato, è miniata insuperabilmente per finezza, per misura, per divinazione. V’hanno dei momenti in cui, [pg!158] se l’autrice non avesse la mano così leggera e l’intento di mantenersi in una sfera ideale così risoluto, avrebbero potuto degenerare nella sguaiataggine o in un verismo crudele. Ma, o la protagonista con la sua schiettezza quasi ingenua, o l’autrice col suo intervento di signora, o lo stile pieghevole e corretto, hanno sempre tutto salvato. E in quella mirabile scena, prima del primo duello di Roberto, così satura di emozioni e così laconica, noi possiamo vedere quella bella testa virile piegare sul florido petto di quella donna amante ed amata, senza che alcuna suggestione meno che pura offuschi la delicata visione. Udite: «Lentamente, come sopraffatto dall’intensità delle lotte segrete ch’egli aveva sino a quell’istante saputo dissimulare, Roberto chiuse gli occhi, e, a guisa di uno stanco fanciullo, posò il capo sul petto della contessa. Lo sguardo di quella donna ebbe lo smarrimento vago d’un’estasi. Ella non si risentì nè si ritrasse. Tacque. Ma sotto il morbido rialzo del seno i violenti battiti del suo cuore giungevano all’orecchie di Roberto. — Ah, — mormorò questi, quasi inconsciamente, — morire... non sarebbe niente. Ma così... nevvero? — Così — susurrò Elisa, come un’eco lievissima involontaria. Ci fu una lunga pausa, di quella pace, di quel silenzio. Nient’altro.» Perfino la figura di questo Roberto che non è che giovane, bello, forte, sano nella luce diffusa sapientemente su tutto il libro ci apparisce sotto il [pg!159] suo aspetto meno materiale. Noi sappiamo che è sensuale, egoista, un buontempone inutile all’opera e al pensiero. Ma lo vediamo poi tanto ingenuo nei suoi difetti ch’egli (ah che sollievo!) non si cura di analizzare nè di distinguere, lo vediamo così pieno di rispetto verso quella donna di cui riconosce francamente la superiorità, e riscontriamo in lui, nelle circostanze, un tatto, un criterio e una forza così spontanei, che se anche non ci desta simpatia, possiamo giudicarlo imparzialmente. In tal modo questa e le altre figure hanno un rilievo spiccatissimo, un valore tutto oggettivo. La vecchia duchessa, Marina, il povero russo tisico e milionario, il poeta abruzzese sempre un po’ selvaggio, Dino Follemare dalla grazia rassegnata, la grossa zia d’Elisa, Tecla, la mamma di Roberto valetudinaria, Marcello Plana ci popoleranno la mente per un pezzo, come creature fra cui avessimo veramente vissuto per qualche tempo. L’autrice, ripeto, non ci mette di suo che la leggiadria soave e piana della narrazione, nè frettolosa nè lenta, interrotta con una chiusa sempre efficace nei brevi capitoli che paiono una ghirlanda di roselline di maggio. Se Memini non è una figliuola della Toscana, lo è per la lingua agile e pieghevole, per una punta d’arguzia sempre latente nel dialogo, per quella grazia armoniosa, soffusa anche nella gaiezza d’una certa mestizia che raggentilisce in Toscana ogni opulenza della natura o dell’arte, che fa ripensare alle concezioni delicate che sorgevano fra i fiori dei calendimaggi fiorentini del quattrocento. Si potrebbe notare, per amor del vero, qualche piccola sciatteria sfuggita nella scorrevolezza del dire, qualche strozzatura, qualche vocabolo esotico [pg!160] che se passa inosservato in una conversazione frettolosa, offende in una pagina di stampa italiana come un leggero strappo che riveli qualche povertà; ma sono nèi che si sommergono nella blanda fulgidezza dell’opera gentile dov’è più sentimento che pensiero, più eleganza che originalità, più larghezza d’osservazione che profondità. Ma non ce ne lagnamo troppo. Le donne vere minacciano di diventar rare nell’arte come nella vita. Di studi tenebrosi e misteriosi intorno alla psiche umana, di vivisezioni feroci, di drammi paurosi e cupi e fantastici della coscienza, di acrobatismi di lingua ne abbiamo ancora da saziarcene per un pezzo. Il più difficile per chi legge per diletto e non per dovere (ah fossi anch’io tra questi!) è di trovare da dilettarsi. Ebbene; con l’_Ultima primavera_ si ha già trovato. [pg!161] Opere buone. In mezzo a tanta faraggine di produzione letteraria scipita o dannosa — e, in un’altra categoria insufficiente o pedante, alleggerisce proprio l’anima, d’imbattersi in qualche volumetto nel quale l’intento di giovare sia vero e serio come il valore dell’opera: nel quale si trovi un ingegno che rinunzia a qualche pompa di vanità più effimera ma più abbagliante, a qualche soddisfazione più egoistica e più intera, per immedesimarsi nel pensiero di qualche grande e farlo scintillare nella luce più chiara e divulgarlo come un verbo di bellezza pel mondo. Sono apostoli dell’arte, nelle loro rinunzie, nel loro ardore, nella loro fede. Fra costoro stanno i traduttori valenti com’era il Maffei, come è ora il Sanfelice per lo Shelley, il de Gubernatis e il Pizzi per le letterature orientali; i ricostruttori del passato come il Ricci, il Masi, e così via. Ci sono gli studi danteschi. Mai, s’è detto, il nostro maggior poeta è stato più letto, più studiato, più commentato che nel nostro secolo che conta della Divina Commedia il maggior numero d’edizioni: ed, oltre gl’innumerevoli studi, giornali e pubblicazioni speciali. Eppure a nessuno, con tanto «divenir macri» alla nostra volta per intender ciò su cui il poeta affaticava [pg!162] la sua poderosa mente — a nessuno era venuta finora l’idea che la maniera più acconcia e più semplice per rendere accessibile il gran lavoro, era di ricomporlo coi suoi stessi elementi nella prosa — farne una vasta leggenda, una magnifica fiaba per il popolo e per i ragazzi e per i profani, per invogliare intanto questa gente, per darle adito, se può e vuole, a ricercare da sè le bellezze adamantine di cui ha visto sfavillare una sfaccettatura. Quando la fantasia, la curiosità son deste, la ricerca è più naturale e più dilettosa; e quando si trova in bell’ordine chiaro ed armonico l’esatta esposizione dei concetti, molta parte della difficoltà è rimossa e vinta. Il filo d’Arianna di questa lucente prosa ci guiderà attraverso i laberinti della poesia. L’idea era semplice e ingegnosa. Una specie dell’uovo di Colombo. Come mai nessuno ci aveva pensato prima? Ma il difficile è appunto questo: pensarci. Il professore Agostino Capovilla, a cui balenò la felice idea, ce la presenta ora incarnata nell’operetta geniale e buona sotto un titolo e in un’edizione che rivelano il generoso intento di farne partecipi tutti.⁵ Egli scrive nella modesta prefazione: ⁵ La Divina Commedia presentata senza il sussidio dei commenti. L. Cappelli edit. Rocca S. Casciano — L. 1,50. «Benchè la Divina commedia sia dichiarata il nostro poema nazionale, la Bibbia degli Italiani, gli italiani però — fatta eccezione dei dotti e dei letterati — o la conoscono per averne sentito parlare o ne hanno letto appena alcuni canti: i soliti, per [pg!163] quanto insuperabili... L’aiuto dei commenti, dal quale non è quasi mai disgiunta nessuna edizione della Commedia, se vale a rendere più o meno intelligibile il testo e i concetti danteschi ai volonterosi agli studiosi, agli appassionati, rende però la lettura faticosa e penosa per loro, e una vera _via crucis_ per tutti quelli — e sono i più — che leggono a scopo di puro ricreamento; per quelli che sono desiderosi di apprendere i fatti, di conoscere i personaggi, di vedere i luoghi, e non si curano di questioni filosofiche, letterarie, teologiche: per quelli appunto ai quali Dante pensava scrivendo il suo libro. Il libro che io pongo in mano alla gioventù, al popolo anche, sta fra la versione in prosa e l’esposizione sommaria. Toglie il superfluo, l’algebrico per dir così il non bello: espone tutto il resto con dizione facile e piana; ne’ luoghi più eletti, colla dizione stessa del poeta voltata in prosa, rammodernata negli arcaismi.» E così è. Un libro che può dilettare, ripeto, come una gran fiaba, o come qualcuno di quei vecchi romanzi cavallereschi di gesta e d’avventure. Le figure su questa superficie livellata spiccano tutte con un rilievo più marcato, con colori più vivi, con luci più sfavillanti; sia nell’inferno in cui paiono fusi insieme i geni di Michelangelo e di Shakespeare; nel Paradiso, arido e splendido; nel Purgatorio, nella più divina della cantiche dove non è più il dolore e non è ancora la gioia, dove la mestizia soave e blanda è nel verde, nei fiori, nei crepuscoli, nelle voci; dove è un sospirare e un desiderare umile e ardente — dove le donne che più hanno amato e pianto, e i cavalieri che più hanno perdonato e gli artisti che più hanno sofferto, lievi passano e si nascondono: [pg!164] e gli angeli sono umani e pii, e il poeta pagano ha il cuore oppresso dal divieto supremo e il poeta cristiano l’anima anelante alla sua diletta che gli sarà concessa per lo spazio di un sogno... Se la Divina Commedia è la Bibbia degli Italiani, questo è veramente il salmo dei dolenti — giacchè per sentirne riflesse nello spirito le verità, le consolazioni alte, le bellezze, bisogna avere faticato su per l’erta della vita fra le lagrime e i pesi e il fuoco, come l’Alighieri in ispirito sul mite Calvario... Ma invece delle mie insufficienti manifestazioni sarà più opportuno riportare un brano della meritoria operetta del Capovilla per dimostrarne meglio il valore e l’utilità. Scelgo a caso: «Era già l’ora, che ai naviganti, nel dì in cui hanno detto addio ai dolci amici, volge il desiderio verso la patria e intenerisce il cuore: e che piange d’amore il nuovo esule s’egli ode alcuna campana di lontano, che paia piangere il giorno che si muore. Quando Dante incominciò a mirare una di quelle anime, che levatesi in piedi, colla mano chiedeva alle altre che la ascoltassero. Ella giunse, ed alzò ambe le palme, fissando gli occhi verso l’oriente, così come dicesse a Dio: «D’altro non mi cale che di Te, Signore!» Poi le uscì di bocca: — Te lucis ante (_Prima che termini la luce; inno della chiesa a difender l’anima dalle tentazioni notturne_) devotamente e con note dolcissime. E le altre anime, colla medesima dolcezza e devozione, l’accompagnarono per l’inno intiero, tenendo gli occhi al cielo. Poi taciti guardavano in su come aspettando.» Se lo spazio me lo concedesse vorrei trascrivere molto di più, ma dal brevissimo saggio ognuno può farsi un’idea dell’intero lavoro. Io chiamo queste opere: opere buone. [pg!165] Italia e Poesia. Ad un incredulo. .... Poichè ho la fede, lasciatemi parlare; — e non per la velleità di convertirvi, state tranquillo, nè per un irriflessivo senso d’orgoglio nazionale, e neanche per la vanità d’impancarmi a predicatrice: la fede è degli umili; — degli ignoranti, potreste dirmi; — ma non importa: sia ignoranze, sia illusione, sia amore, la fede è bella e fa del bene e va rispettata. Io credo dunque alla superiorità del genio poetico italiano, e chi non ha mai accarezzato questa dolce idea mi scagli... il primo _elzeviro_. Ci credo; e l’altro giorno in questo stesso giornale⁶ a proposito d’una poetessa gentile ho arrischiato l’osservazione che la prosa francese contemporanea vince la nostra come la poesia italiana vince la poesia francese. Pensavo candidamente che il dirlo in Italia non doveva essere un’imprudenza; invece... ho motivo di credere d’aver provocato una varietà infinita e graziosa di smorfie a giudicare da quella caduta sul margine — la vostra — -che arrivò fino a me. ⁶ Idea liberale (Milano 1892). Non è questione di _chauvinisme_, ve l’ho già detto. No, poichè la superiorità non la trovo tanto nelle [pg!166] personalità artistiche come nella poesia per sè stessa nell’arte poetica in generale. Nella poesia italiana si mesce un elemento nuovo, sottile, che le altre poesie non hanno: un elemento, dirò così, complementare, che infinite e varie cause concorsero a formare. È l’atavismo di dignità più immediato, della lingua latina? È l’eco del _dolce stil novo_? È la dovizia lussuosa dei vocaboli? È il cielo? il sole? i fiori? le memorie? — La poesia in Italia non è come negli altri paesi: vi brulica come i pulviscoli nel raggio l’aria ne è intrisa — vola per le bocche del popolo, s’insinua tra i banchi degli scolari, sorride dalle cattedre, risuona nei campi, trema o esulta nelle chiese — perfino il giovine clero, liberato dai Greci e dai Romani, scrive rime d’ispirazione — perfino il Papa compone in poesia... Convien dire che l’influsso sia potente... La quantità non forma la qualità, convengo — ma data la straordinaria abbondanza, bisogna pur considerarla come una forza; — poi più fiori ci sono da distillare, più essenza se ne ritrae, è indubitato. Voi mi diceste d’essere ammiratore della poesia francese contemporanea e mi snocciolaste una dozzina di nomi che io ammiro quasi quanto voi senza smuovermi dalla mia opinione. Ora facciamo una prova: pigliamo per esempio la più bella poesia del Carducci — il _Canto dell’amore_ o l’_Idilio maremmano_ o un sonetto o, che so io, quella che d’accordo troveremo la migliore, e mettiamoci accanto la miglior poesia del miglior autore francese (chi contrapporrete al Carducci? Baudelaire? Richepin?): leggiamole tutte e due; e vi sfido a sostenere che quella che dà maggior diletto estetico è la francese. Ridete? rido anch’io, ma è così! Ho la fissazione, [pg!167] vedete, che lo spiritello vincitore s’annidi nell’idioma nostro, nel soave idioma che fa così armoniosa la rima — l’idioma caro e scellerato che tiranneggia i prosatori e che si abbandona con tanta docilità nella lirica e vi si adagia con tanta sovrana eleganza con tanto gentile impero, come se fosse quella la sua vera e naturale dimora. Io non chiamerò la poesia francese, come Heine che la detestava, «_acqua tiepida rimata_»; ma osservo che la morbidezza e la delicatezza suprema della lingua francese che fanno la prosa, per grazia carezzevole, inarrivabile, stemperano la poesia e le tolgono la sua maggior forza e il suo maggior pregio: la sintesi. Quando Victor Hugo volle esser più grandioso fu iperbolico, quasi grottesco; Leopardi cantando l’umile poesia degli orti e della vita rusticana fu quasi solenne. E lasciando in pace Leopardi e lasciando anche il Prati, l’Aleardi e lo Zanella, de’ quali — come dite giustamente — non è più tempo, perchè non ci ricorderemo noi, oltre che del Carducci, di Olindo Guerrini che fuse pure nella gran corrente della poesia italica una vena distinta e canora di poesia individuale; del d’Annunzio, l’incantatore; di Rapisardi ciclopico; del fine autore di _Valsolda_, e di Praga, di Boito, di Graf, di Panzacchi, di Mazzoni, di Cannizzaro, di Marradi, del Costanzo, del Tanganelli, del Pascoli, del Giorgieri-Contri, del Pitteri, del De Amicis che ebbe pure accenti di consolante ed elevata poesia, di tanti altri infine che si rivelano tuttora poeti eleganti e valorosi e che sarebbe lungo troppo enumerare? Se in Italia ci si potesse persuadere, in letteratura come nelle altre cose, che della sostanza ce n’è ancora e buona, se invece di trattare ogni nuovo frutto dell’ingegno nazionale come Mefistofele tratta [pg!168] il povero mondo nel Sabba romantico, ci si adoperasse con coscienza e gentilezza a metter in luce il bello e il buono; ad essere un poco più facili nella scelta dei nostri libri e un po’ più difficili nella scelta di quelli degli altri; se almeno le signore — le colte e le intellettuali che hanno pur tanta parte nella vita morale d’una nazione — non arricciassero il naso a tutto ciò che sa d’italiano e mettessero nel conoscere e nell’insegnare bene ai figliuoli la lingua materna la diligenza che mettono nell’addomesticarli e nell’addomesticarsi con le lingue straniere, molte nubi si straccierebbero dinanzi alla classica stella d’Italia. Che lieta maraviglia, pensate, se da un giorno all’altro ci trovassimo guariti dalla brutta malattia della diffidenza e del disprezzo verso tutto ciò che è nazionale! [pg!169] Dal mio Verziere. [Pubblicato la prima volta nella «Cordelia», giornale per le giovinette — Anno XI.] Una donna soletta, che si gía Cantando ed iscegliendo fior da fiore. _Purg. XXVIII._ Pochi accordi di preludio. Leggiadre signorine, siete pregate di far capolino un momento nel piccolo santuario dove penso e lavoro. Su quel mobiluccio d’angolo, guardate, fra la lucernetta antica e il ritratto di una diva da molto tempo dimenticata, c’è un modesto albo di felpa rossa che, poveretto, lascio sbadigliare settimane tra quei vecchiumi, dimenticato anche lui. Fu in un malinconico giorno di emicrania e di solitudine che mi ricordai del vecchio confidente, che lo attirai fra i cuscini della mia poltrona. Sulla prima pagina un nome e una data, scritti da una mano ventenne; poi altri nomi illustri, simpatici, italiani, e tutti, o quasi, della letteratura militante. I versi agili, mesti, spigliati, gentili si rincorrevano sulle nitide carte rettangolari dall’orlo luminoso, alternandosi a brevi prose trascritte da tutti i lati, capricciosamente. Fresca com’ero della lettura dell’ultimo libro di Corrado Ricci, la mente corse subito alle pagine più belle, a quei «due suoni disuguali d’acque cadenti che sembravano rispondersi.... Un [pg!170] gorgoglio limpido come un trillo di usignolo e un murmure più lontano, cupo, lamentevole... Sembrava un dialogo cantato in una musica indistinta ma carezzevole e soave». Così il Ricci; e questo io pensava scorrendo le liriche e le brevi prose. Due toni: il maggiore e il minore, i sorrisi e i sospiri nell’eloquio ugualmente dolce, iridato, melodioso. Qua e là gli stornelli costellanti il fondo, come fiori. Allora, coi fiori, mi venne il pensiero della _Cordelia_ primaverile, di voi, signorine, ed ebbi il desiderio di indugiare con voi nel mio giovanile verziere. Prima però debbo avvertirvi che le creazioni che incontreremo non sono sempre le migliori che uscirono dalla penna dei loro autori, ma sempre le più adatte a voi e quelle forse che voi medesime preferireste per conformità di sentimenti e di tinte, come io preferivo. Ancora: non ci troverete novità. Vari di quei componimenti li avrete letti dove li colsi, sulle strenne o sui giornali. Ma aggruppandoli intorno al nome dello scrittore ci daranno un profumo più distinto e più acuto, svelandocene la personalità; poi qualche sfumatura imprevista del pennello divino la troveremo sempre, non dubitate. Volete dunque? Sì? Muoviamo. I. Antonio Fogazzaro. Il Fogazzaro, che il felice accenno a una reazione idealista tende ora a mettere di moda, è il genio delle nebulose. Il maggior fascino che emana dalla sua produzione è, a parer mio, quello stesso delle più aggraziate invenzioni della fantasia tedesca, nelle [pg!171] quali alla più bizzarra meraviglia si mesce sempre un sottile soffio di semplicità domestica e sana che rischiara e riposa. Non so se sia da preferire nello scrittore il romanziere o il poeta, e, anche sapendolo, mi parrebbe un’irriverenza boriosa il trinciar giudizi in questi scorci alla buona. Mi limito quindi a leggervi qualche verso o a farvi notare i differenti aspetti che ho osservato in lui. Mentre nelle più belle pagine di «Malombra», di «Daniele Cortis», dell’indimenticabile «Mistero d’un poeta» egli ci inebria dell’infinito e ci ravviva lo spirito sino a farci del corpo una specie di simulacro, e, lievi, purificati, gloriosi, ci scorta fino all’estremo lembo della terra, fin dove appare non più come un miraggio, ma già come una costa lontana il paese dove ogni desiderio si sazia e si tace, nelle sue poesie è di una determinatezza lucente e chiara sebben lievissima e dilagante, un po’ troppo, anzi, qualchevolta. Ecco intanto un sonetto bellissimo: IN SAN MARCO DI VENEZIA Freddo è qual te il mio spirto, o cattedrale, I tuoi mosaici misti d’ombra e d’oro Somigliano i fantasmi ch’io lavoro Del core nel silenzio sepolcrale, Dove l’amor tace nascoso, quale Il tuo di gemme inutile tesoro: All’Ideal che spero, al Dio che adoro V’arde sola una lampada immortale. Talora per la tua porta che geme, Entran lume di cielo, odor di mare, Qualche figura taciturna e mesta; Ed anche in me, talora, entrano insieme Un folle arder vitale che dispare, Un dolce viso tenero che resta. [pg!172] Bisogna aver vagato estasiati dentro quel grande gioiello bizantino, bisogna averne avuto il cuore penetrato e la mente abbagliata sino all’emozione, per intendere tutta la sapienza gentile, la giustezza ideale della similitudine. Proprio così: ombra e oro, come una di quelle favolose tele rabescate, che le fate nascondevano in una nocciuola; ecco la trama lieve e tutta, direi, interna, delle creazioni di Antonio Fogazzaro, ordita nel mistero religioso del cuore, che l’arte sua rispecchia fedelmente. Anche là l’amore resta nascosto nel sancta-sanctorum dell’arca santa, tanto nascosto e tanto lungamente invisibile, che qualche volta le pene che soffrono le creature per lui ci sembrano solo l’incombere di un fato affannoso senza leggi e senza speranza di liberazione. Nel piccolo albo trovo anche questa poesia che trascrissi, mi pare, da _Valsolda_. Qui riconosciamo un poco l’innamorato di Violet e qui la nota personale del poeta insiste con più evidenza: . . . . . . . . . . Mi grandeggia ne l’ombre de la sera La vôta stanza. Fuor da ogni finestra Nel chiaror de le nebbie il lago appare Quale deserto, sconfinato mare. Uscir vorrei per questo mar deserto, Navigar solo, navigar lontano, E, spenta la veduta d’ogni sponda, Abbandonarmi a’ miei pensieri e all’onda. All’aperto uscirebbero i fantasmi Che più gelosamente il cor nasconde; Io sederei a poppa ed essi a prora; Senza parlar ci guarderemmo allora. [pg!173] Vi è del refrigerio in questa luce, in questa atmosfera, in questa solitudine in cui non regna che l’inganno innocente del sogno, d’un blando sogno. E che gentilezza la ricerca di quell’isolamento assoluto per immergervi l’anima, che nel suo geloso pudor di ninfea vuol esser sola coi segreti del suo amore! Quanti fra i nostri poeti contemporanei ci hanno abituate a queste raffinatezze del sentimento?... Essi che non esitano a cantarci in un sol libro gli occhi ora azzurri ed ora neri e le chiome ora bionde e ora brune del loro ideale femminile che non si sa mai quale sia.... Udite ora, tolto dall’_Agave americana_, questo frammento purissimo che si ravviva, come un marmo al sole, di una dolorosa mestizia umana: Fuggono le stagioni Senza frutto nè fior per la straniera; Quando vien primavera, Ride il bosco felice Di lei, ridono l’erbe Tremole per lo scoglio, i fiorellini: Primavera le dice: «Perchè non ami? Io passo». Triste in silenzio, Ella spiega il pallor de le ricurve Foglie sull’ermo sasso. Non sentite voi un blando eco leopardiano? La _Leggitrice_ par scritta apposta per voi, signorine. Per questo ve la dico, sebbene non sia fra le mie predilette. Entro piccol volume ella leggea, Oro nè avorio il libro non avea; Aveva i sogni dell’amor gentile, Pitture del novembre e dell’aprile, [pg!174] Disegni di gagliarda fantasia, Alterno il riso e la malinconia. Illuminavan le pensate carte Fulgor d’ingegno ed equa luce d’arte, Ella leggea una pagina dov’era Molle tepor di nova primavera. Le nubi addormentate, l’aria cheta, Gli augei migranti in alto ed il poeta. In quei sogni perduta, in quel riposo, Lo sguardo sollevò fisso, pensoso; Da la man semichiusa e negligente Uscì supino il libro lentamente. Non è finita, ma io vorrei che finisse qui.... Ecco il _Brindisi_, poi passiamo oltre. È quello del «Mistero d’un poeta». Mi piace assai per una vita un po’ insolita che vi palpita e che ci dà il cantore, come ringiovanito. È l’amore ideale fatto reale? È il vino biondo? Non si sa. Ma la corda vibra più risoluta e il poeta, finalmente, sorride: A te, bionda fanciulla, io bevo il vino biondo Il riso del tuo sole, de’ colli tuoi l’odor. Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo Il Reno sacro, i clivi, torri, vigneti e fior. Bevo ed il vin divampami nell’estro suo straniero, Mi batte ed arde un nuovo cor di poeta in sen; Bevo e mi bacia un alito, un’anima, un mistero Che dal più dolce fiore della foresta vien. [pg!175] Piccolo intermezzo in prosa. «Qual cosa mai non appar bella ai poeti, ai musicisti, ai pittori che sognano e creano? Cadono d’intorno a loro le angoscie, abbattute dall’arte che somministra le candide pagine pel lavoro; e la mente, confinate le sue tristezze in remote regioni, s’illumina e s’innalza. «.... E allora, la persona per cui si sospira e si soffre, resta come idealizzata, e l’affetto si fa più intenso, ma meno violento e disuguale, e si ama, si ama profondamente; e l’amore, anzichè turbare lo spirito, l’aiuta a lavorare, e lo fa qualche volta assurgere a grandi altezze. Scompaiono allora l’uomo e la donna, e fanno posto all’artista e alla Musa!» _Corrado Ricci._ II. Gabriele D’Annunzio. Certo per voi, signorine, il D’Annunzio non è che l’_ami des vos amis_. Voi non potete conoscere il D’Annunzio che per averne udito parlare dai vostri fratelli e dalle vostre mamme (i babbi hanno quasi sempre troppo da fare per confondersi con le Muse); tutt’al più qualche sorellina, sposa e mamma, avrà avuto la compiacenza di trascrivere per le più studiose di voi qualche rima di questo Apollo luminoso. Oggi faccio io la parte di sorella maggiore, ma non mi ringraziate troppo: vi assicuro che l’egoismo entra almeno per tre quarti nella mia amabilità. Il D’Annunzio è il mio idolo, e la lirica D’Annunziana ha sempre esercitato su me un fascino che somiglia [pg!176] alla magìa. Potrei leggere cinquanta volte quei versi, la cinquantesima mi trovo più entusiasta della prima. Immaginate dunque se mi faccio pregare ad abbarbagliarvi un pochino con il saettìo tentatore dei brillanti che posseggo! Verrà il giorno che li avrete anche voi. Ma per ora contentatevi dei miei: i diamanti, si sa, non sono per le signorine. Gabriele D’Annunzio è l’artista squisito della parola. Il Gautier solo può essergli paragonato. La lingua maneggiata da loro acquista un pregio così alto e maraviglioso e impreveduto che ci dà lo stesso stupore di quei gran templi del Giappone fasciati d’oro fino o di quelle lussureggianti foreste tropicali piene di strani uccelli e di fantastica vegetazione. L’oro fino lo conosciamo anche noi, ma noi lo economizziamo per i gioielli; e le piante esotiche e gli uccelli dai vivi colori adornano la nostra casa, ma come una rarità. Eppure tutto fiorisce e sorride negli stessi elementi, sullo stesso pianeta! E quel terreno ch’è più ricco del nostro, quegli uomini che sono più avventurati di noi!... Il D’Annunzio profonde i suoi tesori di gemme, di profumi, di tinte con un fasto asiatico e con una raffinatezza parigina. Sfoglia a migliaia le rose, per dormirvi su, da sapiente Sibarita; e ogni secolo, ogni plaga, ogni arte gli dona l’essenza migliore di sè per deliziare i suoi sogni. Un aroma antico e prezioso ci viene così dalle sue carte, un misto di sacro e di profano come quei bei cuscini che le dame eleganti tagliano in una vecchia pianeta e profumano di viola e di mughetto. Ma guai agli imitatori! Il D’Annunzio non è imitabile, e i suoi seguaci sono come i petrarchisti, odiosi. Intanto io mi dilungo troppo... perdonate. Bastava [pg!177] mettersi un dito alla bocca e dir come Panthea: _List! spirits speak!_ — Zitto, parlano gli spiriti! — Noi, ascoltiamo: SONETTO D’APRILE Aprile, il giovinetto uccellatore, a cui nitido il fiore delle chiome pe’ belli omeri cade, ne ’l cavo de la man, come un pastore, in su le prime aurore ha bevuto le gelide rugiade. Aprile, il giovinetto trovadore, su le canne sonore dice l’augurio a le nascenti biade; i solchi irrigui fuman ne ’l tepore, un non so che tremore le verdi cime de la messe invade. Ecco la bella! Ecco Isotta la bionda! China, de la sua porta a ’l limitare, ella stringe il calzare a’ piè che sanno i boschi. E il dì la inonda: toccan la terra, a l’atto de ’l piegare, i suoi capelli, in copia d’or profonda. Oh, la faccia gioconda che a pena da quel dolce oro traspare! Ed ecco che io ripenso ancora una volta le rustiche e ridenti capanne delle fate dei boschi, di Violacciocche, di Smeraldina, le capanne di legno dalle finestrette inghirlandate di caprifoglio, dove i principi splendidi e mesti si riposano e si consolano di non aver raggiunto alla caccia le belle cerve bianche dalle corna d’oro. E proprio in qualche creazione D’Annunziana la natura che vi si riflette è quella ignota e romita delle fiabe e dei sogni. [pg!178] Sentite questo strano _Rondò_ in cui il giro dei versi e la continua assonanza delle rime fa davvero un ronzìo lievissimo: Com’api armoniose uscenti a ’l novo sole per le felici aiuole de’ gigli e delle rose, queste che Amor compose delicate parole, com’api armoniose uscenti a ’l novo sole su le chiome odorose che Amor cingere suole di sogni e di viole spirino dolci cose, com’api armoniose. Ecco dalle «Rurali» una florida e imponente bellezza: I SEMINATORI Van per il campo i validi garzoni guidando i buoi da la pacata faccia; e, dietro quelli, fumiga la traccia del ferro aperta alle seminagioni. Poi, con un largo gesto delle braccia, spargon gli adulti la semenza, e i buoni vecchi, levando al ciel le orazioni, pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia. Quasi una pia riconoscenza umana oggi onora la terra. Nel modesto lume del sole, al vespero, il nivale tempio de’ monti innalzasi: una piana canzon levano gli uomini, e nel gesto hanno una maestà sacerdotale. [pg!179] Oh mia opulenta campagna latina! È te che penso, te che mi verdeggi innanzi alle pupille dell’anima, piana, regolare, monotona, grandiosa nell’altissimo silenzio degli accesi vespri sereni! Quanta pace mi ha dato sempre la dignità classica della tua terra! quante volte ho indugiato a contemplare i bovi aggiogati al magnifico aratro a dozzine, biancheggianti sulle zolle scure dai riflessi d’acciaio! Il sistro tinniva piantato ritto sui gioghi, e il villano incitava ad alte voci lente dicendo dei nomi cavallereschi e favolosi che svanivano nel vasto cielo come echi di un secolo lontano che non vuol essere dimenticato.... Oh le sublimi fantasie che errano con le nubi occidue sulla mia dolce terra, là fra «’l Po, il monte, la marina e ’l Reno!....» E poichè vi ho trascinate nel regno delle favole restiamoci un poco. Vedete? passa sul nostro capo la più industre tra le fate: MORGANA Or tremule, sui monti e su le arene, crescon ne la lunare alba le imagi; materiati d’oro alti palagi e torri ingenti assai più che Pirene. Salgono scale in luminose ambagi con inteste di fior lunghe catene. Come navi in balia de le sirene, ondeggiano le pendule compagi; poi che Morgana, in dolce atto giacente ne ’l letto de la nube solitaria, quasi ebra di quel suo divin lavoro, ama seguendo un carme ne la mente, cullare da le man languide a l’aria la città da le mille scale d’oro. [pg!180] Che bellezza, non è vero? che fragile e preziosa bellezza questa immaginosa visione! Guardiamoci dal determinarla in qualunque modo. Si sciuperebbe. I miraggi non si possono analizzare nè descrivere. I miraggi si adorano, si piangono, in silenzio. Udite, ancora, poichè non voglio lasciarvi l’adito al dubbio che tutti questi splendori affascinanti non rivestano che parvenze. Il palpito umano c’è, ora gentilissimo ed ora violento, ma sempre d’un’efficacia singolare. Il primo è un _Rondò_, un gingillo per voi, signorine: Entro i boschi alti e soli (era la luna piena) fluiva in larga vena canto di rosignoli. Da ’l triste inno corale pendeva Ella, in ascolto. Chino su ’l davanzale, io pendea da ’l suo volto. Non i miei lunghi duoli, non del suo cor la piena a la notte serena diceano i rosignoli entro i boschi alti e soli? L’altro è un frutto trapiantato da poco nel mio verziere. Appartiene alle «Nuove rime» recentissime, nelle quali la seconda maniera D’Annunziana fa già capolino. Il massimo effetto d’impressione ottenuto con la massima semplicità: UN RICORDO Io non sapea qual fosse il mio malore nè dove andassi. Era uno strano giorno. Oh il giorno tanto pallido era intorno pallido tanto che facea stupore. [pg!181] Non mi sovviene che d’uno stupore immenso che quella pianura intorno mi facea, così pallida in quel giorno, e muta e ignota come il mio malore. Non mi sovviene che d’un infinito silenzio, dove un palpitare solo, debole, oh tanto debole si udiva. Poi veramente nulla più si udiva. D’altro non mi sovviene. Eravi un solo essere, un solo; e il resto era infinito. Che ne dite? Io dico che se v’ha una persona capace di rimanere indifferente alla fine di questi versi, quella persona è più degna di compianto che disprezzo. È una diseredata. [pg!182] Piccolo intermezzo in prosa. «.... dal dolore, dal solo dolore nascono le grandi cose, e sorgono i forti caratteri come il fiore dalla spina. Nella gioia l’uomo è sbadato, imprevidente, infecondo; le belle qualità dell’animo e della mente, non sono o non si palesano negli uomini felici: una sventura le fa scintillare, come l’acciaio, la pietra focaia». _G. Giusti._ III. Enrico Panzacchi. In un volumetto abbastanza dozzinale sui poeti bolognesi trovo però questa felice similitudine, o meglio, questa giusta intuizione di due caratteri diversi in poesia: «Il Carducci è armonioso, il Panzacchi melodioso, il primo è il poeta classico per eccellenza, il secondo è il poeta romantico, ma questi due aggettivi nel senso alto, vero, esatto della parola». L’essenza, se non la frase, era questa. Di mio vorrei aggiungere che Enrico Panzacchi canta sempre in tono minore come l’usignolo e come usò di preferenza il Bellini. Le sue liriche sono tutte come i fiori del pensiero, bellezze meste e memori — tutte — anche quelle che non ricordano, poichè rievocano non so quali voci dolorose e antiche di naufraghi; tutte le voci che pregarono e piansero e disperarono e si sommersero in un infinito di azzurro e di passato. È come una resurrezione fittizia e melanconica di parvenze a cui sia permesso, come [pg!183] in certe ballate d’oltr’Alpe, di animare di biancori e di sospiri un parco boscoso per un’ora di una mite notte d’estate. Sono spettri di pensieri, di fedi, d’illusioni, di giovinezze, di speranze, di virtù... spettri sui quali ha penetrato dalle fessure del sepolcro un raggio di luna e la possente parola che tutto vince, nel canto che li piange, li chiama. Il Panzacchi possiede inoltre una qualità essenziale ad un poeta: il senso squisito della misura. Non dice mai troppo nè troppo poco; ha la valentìa somma dei tocchi maestri che lasciano indovinare più che non rappresentino, e non sfatano il mistero eloquente delle ombre. Su i suoi bei versi aleggia sempre un non so che d’inafferrabile e di dolce, come un fluido che carezzi invisibilmente, o meglio come un’aria montanina di cui non si avverte ma si respira la purezza. È poi di una semplicità refrigerante, o culli accanto al fuoco i suoi sogni, o fantastichi d’angeli, di cavalieri e di re, con una freschezza colorita e gentile. Anzi questo carattere, che secondo il mio modesto parere è il migliore della sua poesia, trovo che in Italia non si è rilevato nè ammirato abbastanza. Pochissimi dei nostri, quasi nessuno, lo supera nella ballata e nella leggenda. Udite, ecco per me il capolavoro in versi del Panzacchi: I TRE CAVALIERI Canti di galli uscian d’ogni cascina E le siepi lucean per la rugiada, Mentre alla dubbia luce mattutina Caracollavan sulla bianca strada Tre cavalieri. Non facean parole; Come tre viandanti sconosciuti; Quando raggiò sull’orizzonte il sole Non gli voltar nè sguardi, nè saluti, [pg!184] E andavan. Lieta col diurno raggio La vita delle cose erasi desta, Venìa dai campi un dolce odor di maggio E giù dai rami un cantico di festa. I cavalieri soffermârsi innante A una casetta solitaria e bella, D’edera e di glicinia verdeggiante; Ritta al balcon guardava una donzella. Una donzella, di beltà un tesoro, Che avea negli occhi un vago incantamento; Traea la chioma ad una rocca d’oro, Brillava il fuso come puro argento. E mandava per l’aria una canzone Che ognun dei cavalieri al cor ferì: Ma un di essi ratto calò dall’arcione Disse: «compagni, addio; mi fermo quì ». E i due rimasti seguitâr la via Esalando il rammarco in sospir vani; Era l’aria infocata, il sol ferìa La strada polverosa e i vasti piani. Suona a un tratto, da lunge ai viandanti Un gran clangore di trombe guerriere, Slargano i due corsier le nari ansanti Drizzan gli orecchi e squassan le criniere. Poi sorge in vista una città turrita Circondata da folto accampamento; Erge fiero l’assedio ogni bastita Tutte le tende han le bandiere al vento. E i due guardâro al combattuto vallo E un fremito di pugna ambo assalì.... Ma un d’essi spronò forte il suo cavallo Disse: «compagno, addio; mi fermo qui» E il terzo cavalier tacito e solo La via prosegue fin che il dì s’oscura Poi soverchiando la piena del duolo, Comincia a lamentar la sua sventura. [pg!185] Ma le querele eran dal pianto rotte E gli cadea sul petto il capo ardente, L’anima sua per l’ombre della notte Si dilatava sconsolatamente. E pensava il dolor ch’è nelle cose E vedea l’aridezza entro il suo core; Un cammin senza lauri e senza rose, La vita senza gloria e senza amore. Allor lentò le redini al corsiero, Com’uom cui brama nè pensier più tocchi, E andò finchè d’un queto cimitero Si vide la muraglia innanzi agli occhi. Un poco riguardò, scese di sella E al cavallo che lugubre nitrì, Il cavaliero con fioca favella Disse: «compagno, addio; mi fermo quì». La delicatezza, la vigorìa, la sobrietà, il simbolo, lo sfondo del paesaggio e gli aspetti della natura così bene armonizzati cogli ideali dell’anima che vi si rispecchia trovando sempre l’immagine sua nelle ore, nelle cose, ci possono far paragonare e forse anche preferire questa ballata a qualche ballata di Bürger, di Uhland, di Platen, di Heine, se non a quelle del gran Goethe. La cavalcata di quei tre cavalieri taciturni, estranei, ignoti, in ciascuno dei quali arde una diversa fiamma roditrice, ognuno dei quali è sospinto al suo destino fatalmente, assurge a una potenza drammatica meravigliosa, appunto per l’assenza dell’elemento macabro che dà l’efficacia alla maggior parte delle fantasie di questo genere. Qui l’efficacia viene tutta dall’umano, dal simbolo, dalla semplicità di quegli echi ineffabilmente dolorosi più che di dolore, di vanità. Voi, signorine, che più o meno traete tutte fila d’argento da una conocchia [pg!186] d’oro nell’olezzo della flora primaverile, voi forse preferite il primo cavaliere che si appaga di una giovinezza inghirlandata di fiori; o anche, se siete vivaci e fiere, può sorridervi nella fantasia il guerriero che si slancia alla conquista della gloria per rendersi più degno dell’amore; ma che numerosa schiera di anime dolenti e ferite, quelle che tollerate male nella vostra compagnia, signorine, perchè v’annoiano o v’immalinconiscono, quelle che passano silenti nella vita senza gloria e senza amore, si sentono baciate da quell’anima solitaria che si dilatava sconsolatamente nell’ombra!... Affrettiamoci un poco, ora, a riguadagnare il tempo speso, non perduto. Ecco due sonetti che vi daranno un’idea esatta della vaghezza melodiosa e lieve della poesia del Panzacchi, che mi par sempre cantata fra il verde melanconico del purgatorio dantesco da voci spirtali e penitenti: PAESAGGI I Non sussurrava un alito di vento Del vicin parco fra le dense chiome, Avea fatto trillar le dolci crome Il solito usignol per un momento. E tacea. Lassù nel firmamento Mill’astri ignoti a noi perfin di nome Splendean. Sul mondo era silenzio come Che s’aspettasse un grande avvenimento. Le nostre fantasie, bellezza bruna, Correano intanto un rapido galoppo Per il paese dei sogni, incantato; [pg!187] E a noi rideva il disco della luna Di dietro ai rami d’un aereo pioppo Dal suo candido sguardo inargentato. _Come che s’aspettasse un grande avvenimento._ Avete sentito tutta la verità della sensazione colta a volo dal poeta? Quell’attesa muta della natura a certe ore, a certe stagioni, quando ci sentiamo tristi o rimpiccioliti come se fosse troppo bella per noi! E quell’occhio della luna dietro il pioppo, chi non l’ha veduto, chi non lo rivede di voi, fanciulle della mia regione Emiliana, riflesso blandamente in questi versi come in sogno? Ecco il secondo sonetto ad effetto di nebbia, sfumato sapientemente. La chiusa poi è bellissima: II. Quando i tetti s’ascondon nella volta Del ciel, e semispento il giorno piove, Godo a tuffarmi nella nebbia folta E andare e andar, senza ch’io sappia dove. Allor la mente un vivo alito muove, E i ricordi del cor chiamo a raccolta, E torno sognator come una volta Seguendo fantasie balzane e nove. Alberi intanto e uomini e vetture Simili ad ombre erranti in vacuo fondo, M’appaion per le strade umide e scure. Questo mi piace; e torno a amar la vita Vista dentro il mio capo ed amo il mondo Perchè somiglia una larva infinita. [pg!188] Vi narrerò una fiaba prima di dirvi addio per questa settimana. Vi piacciono le fiabe? Jolanda le adora: Il bellissimo re ferito in guerra Traea le notti insonni. Atro martir! Tutti i savi cercò della sua terra, Tentâro ogni arte; ei non potea dormir. Ma la sua dama un dì fuor della mente I bei sogni d’amor tutti gittò, Il suo giovine cor restò dolente Ma il re sognando al fin si addormentò. S’addormentò sognando i sogni belli Che a lui la dama in olocausto diè; Sommessi nel giardin cantan gli augelli, Veglia la mesta dama, e dorme il re. Dormi, bellissimo re. È difficile addormentarsi quando si rimase feriti; è più difficile che destare le belle assopite nei boschi incantati. A destare, basta un bacio; ma a procurare un riposo e un sogno, abbisogna tutto un sacrifizio di riposo e di sogni. E di ciò non poteva esser capace che una donna... Che ne dite, signorine?.. [pg!189] Piccolo intermezzo in prosa. «Il faut toujours parler comme si l’on devait être entendu, écrire comme si l’on devait être lu, e penser comme si l’on devait être médité». _Victor Hugo._ IV. Arturo Graf. A proposito di Arturo Graf mi ricordo di aver sostenuto con un professore, una discussione accanita. Egli voleva negarmi il diritto di contarlo fra i poeti adducendo la ragione che in Italia non è specialmente conosciuto come tale: ed io, col mio granellino di ribellione al convenzionalismo, m’impuntavo a metterlo tra i quattro miei preferiti ed anche ad anteporlo a qualche lirica autorità costituita con grave scandalo del mio avversario. Naturalmente ci separammo rafforzati entrambi nella nostra opinione e amici più di prima. Mi accadde poi qualche tempo dopo di trovare in una rivista, a cui attendono persone illustri, il nome del Graf onorato insieme al Carducci e allo Stecchetti dell’aggettivo di «maestro della rima». Immaginatevi qual trionfo per le mie teorie e che documento importante per un bisticcio futuro che, per fortuna del mio interlocutore, si farà molto aspettare. Non so se oltre «Medusa» Arturo Graf abbia pubblicato altri volumi di versi. Credo di no. Mi [pg!190] innamorai delle sue poesie trovandole qua e là, solitarie e luminose, come gemme di gran valore che non hanno bisogno di esser aggruppate nè rilegate per suscitare l’ammirazione. Ognuna nella sua vergine e forte limpidezza vale mezza dozzina, e più se volete, di quegli elzeviri che furono una vera e nuova invasione barbarica per la povera Italia, pochi anni or sono. Mi dicono che è vano cercare l’indole vera dell’individuo nella produzione artistica che cause varie e infinite possono informare; cercare l’uomo nel poeta è poi — si aggiunge — una completa stoltezza. Pure io non posso impedirmi di trovare rispecchiata nella bella e armonica poesia del Graf la figura giovanilmente severa dell’autore, nella sua corretta e sobria eleganza di linguaggio, nel suo mirabile, ed, ahimè, raro equilibrio della mente e del cuore. Ci vedo perfino un riflesso della sua Atene nativa, delle selvose solitudini rumene dove studiò, dell’ardente e azzurra Napoli che prima applaudì al novello dottore. Arturo Graf è ora l’idolo della studiosa gioventù piemontese che perfino, giunse a nuocergli per troppo zelo nella difesa d’alcune teorie letterarie del suo professore. Che esempio per certi studenti!... Ecco il primo fiore di questo poeta, che s’incontra nel mio verziere: NINFEA Un soave mattin di primavera Un luminoso ciel come di seta, Su per il monte l’antica pineta Immobilmente taciturna e nera. [pg!191] E in vetta al monte, dove più secreta La foresta s’addensa e più severa, Chiusa in angusto margine una spera Di lucid’acqua ammaliata e cheta. E solitaria, in mezzo al trasparente Vetro dell’acqua, una bianca ninfea Che nel riso del sol apresi ignuda; Come un sogno d’amor vivo e fiorente Che al radïar d’una superna idea In sen di verginale alma si schiuda. Avete assaporato, signorine, il sano odor dei pini, e l’incanto innocente di quelle acque, e il riso ingenuo di quella candida corolla e la forte purezza di quel sogno? Si? Ebbene, allora esultate; siete poetesse anche voi. Ecco un altro sonetto più soggettivo. Quello era una perla questo un’opale. Due diversi candori, due diverse virtù. NIRVANA Un arcano baglior, vasto, uniforme, Che tutto invade e pur non trova loco; Un non so che di fulgido e di fioco, Un non so che di tenue e d’enorme. Un rotar, un fluir lento di forme Che si van sfigurando a poco a poco. Fuse e consunte in quel pallido foco, Quasi una visïon d’uomo che dorme. Sfuma la terra e si dilegua il cielo Si confondono insiem l’imo, il superno, L’oscurità, la luce, il foco, il gelo; E in un mar senza fondo e senza sponde Silenzioso, invariato, eterno, L’anima si stempera e s’effonde. [pg!192] Io credo che lo stesso Carducci potrebbe mettere la sua firma sotto questi versi senza tema di danneggiarsi. L’impressione fantastica dell’immenso misto al meraviglioso, e sempre rinnovellata per la mutazione rapida e lenta, insieme, degli aspetti, commista al pauroso stupore che esercita ancora su noi come sui primi abitanti del globo certi fenomeni della natura, sono resi magistralmente. Quell’incubo dilettoso è raccontato con tanta efficacia che ci par vero: abbiamo proprio messo l’occhio alla lente d’un mostruoso caleidoscopio in fondo a cui non c’è che aria e luce; o pensiamo al divino e angoscioso spettacolo d’un’aurora boreale veduta a parecchie migliaia di metri dalla terra nella navicella d’un pallone areostatico, naufrago nell’infinito. Sono dolente di non potervi trascrivere per intiero nessuna delle poesie del Graf che trovai tempo fa nella _Nuova Antologia_ e che d’averle lette in _me stessa n’esalto_ ancora. La severa dolcezza è la nota dominante nella lirica di Arturo Graf la quale somiglia proprio allo stile dorico della sua terra beata. Eccovi un frammento di _Resurrexit_. Prima il poeta con qualcuna delle sue grandiose pennellate d’ombra e di luce ci mette in una pianura sterminata e vuota, sotto un cielo nubiloso, fra una «frescura acerba di Maggio boreale» mentre «svania la notte e ancor non era il giorno». . . . . . . . . . . . . Come avvenne non so; ma innanzi un bianco Avel mi vidi. Era di saldo e terso Marmo l’avello e rilucea; da fianco Il gran coperchio si vedea riverso. Di novi fiori intorno una gioconda [pg!193] Primavera spuntava, e sur un lembo Sedea dell’arca una fanciulla bionda, Che piene avea di fior la mani e il grembo. Oh, come bella e contegnosa, oh come Era pura e gentil, cinta d’un lieve Immacolato lin, sparse le chiome Di lucid’oro sopra il sen di neve! Le sembianze le ombrava una serena Melanconia che le facea più belle; Non era il riso suo cosa terrena. Splendevan gli occhi suoi come due stelle. Levò le ciglia, e con benigno riso Disse: Credevi tu ch’io fossi morta? Onde tanto stupor? guardami in viso; Se morta fui, vedi che son risorta. E veggendomi star muto e sospeso Com’uom cui falso immaginar disvia, Soggiunse: Hai dunque l’intelletto offeso, Che non conosci più la Poesia? . . . . . . . . . . . . Scomparsa la visione amata e gentile, che proprio mi piange il cuore di rappresentarvi mutilata così, il Graf nel _Post mortem_ ci dà una vaga fantasia macabra, ammorbidita da una verdezza melanconica di un paesaggio di ricordo, e della melodia suggestiva d’una vecchia musica mèmore. Di questo non posso proprio darvi che gli ultimi tocchi, ma vi sarà possibile, credo, giudicare da essi della bellezza indescrivibile dell’intero componimento: . . . . . . . . . . . . Da un vol di nubi candide e leggiere In quel grande silenzio, in quell’immensa pace, Lieve come un sospiro un venticel si scioglie E cessa e poi riprende, così lieve e fugace Che appena fa rabbrividir le foglie. [pg!194] E di lontan con esso viene un fremito blando Di spinette affiochite, di gementi liuti; Un fremito d’antichi canti d’amor perduti. Che nella notte si van lamentando. Ma non vi lascerò, signorine, con l’impressione livida di queste spettrali rovine. Potreste fare dei brutti sogni. Il Graf, se non ha nulla di molto roseo nè lieto, ha però qualcosa d’estremamente blando e tranquillo, d’una pace alta di chiostro, dove anche la tristezza e le lagrime acquistano una pura soavità. Tolgo dalla «Medusa»; Povero cappuccin quant’anni avete? Oh come siete malandato e tristo! Quant’anni avete fraticel di Cristo? Dite la verità, non lo sapete. Del mondo assai l’anima vostra è sazia, Sa Dio quel che dovete aver patito: Or tempo vi parrà d’aver finito; Se poteste morir l’avreste in grazia. . . . . . . . . . . . . . . . Guarda sotto la volta il paradiso Con le pupille estatiche ed immote; Due lagrime gli scendon per le gote, L’anima sua s’invola in un sorriso..... Freddo è il mattino, il sol non è ancor sorto Il ciel si tinge di color di rosa: Nel suo lettuccio il cappuccin riposa, Nel suo lettuccio il cappuccino è morto. Lasciamoci qui. La morte del credente, dell’umile, del buono non è paurosa. Con la memoria piena del mite quadro d’una fresca semplicità francescana, sogneremo il paradiso schiudersi radioso nei paesi del sole per accogliere l’anima pia e triste involata nel lume di rosa e di viola d’una fredda aurora.... O poesia, poesia! [pg!195] Piccolo intermezzo in prosa «Due fiori sbocciano sui margini di un ruscello. Ma ahimè! il ruscello si separa. «In ciascuna corolla posa una gocciolina di rugiada, luminoso spirito del fiore. Il sole dardeggia su una d’esse e la fa risplendere. Ma il fiore pensa: perchè non son io sull’altra riva! «Un giorno questi fiori si curveranno per morire, e lascieranno cadere come un diamante il loro spirito luminoso. «Allora le due goccioline di rugiada potranno riunirsi e confondersi». _Quartina Giapponese._ V. Emilio Praga. Il poeta di cui ci occuperemo oggi è morto da una diecina d’anni e più, e i suoi versi sono, come quelli del D’Annunzio, quasi tutti inaccessibili alle signorine. Pure se siete tutte coraggiose, o almeno ginnastiche discrete, tenteremo di dar la scalata anche a quest’albero del mio verziere per rubarne qualche frutto tra i più maturi. Quelli non fanno male. E se alcuno passando osserverà, come nel poetico frammento di Saffo, che i raccoglitori dimenticarono le dolci mele rosseggianti sulla cima estrema del ramo noi risponderemo con le parole medesime di Saffo: «No, non le dimenticarono, ma non le poterono cogliere.» Il nome del poeta è Emilio Praga. Apparteneva a quel gruppo di artisti che, dopo Mürger, si credettero [pg!196] obbligati a darsi alla vita più dissoluta e più bizzarra, per la sola ragione che essendo artisti, era necessario scostarsi in qualche modo dagli altri uomini. Era come un privilegio della casta, un’affermazione e una necessità del mestiere: ma per emergere s’impantanavano. Cominciavano dal vino, passavano all’oppio e all’_haschich_ e finivano coll’assenzio. Sciatti, disordinati, incolti, sgarbati per progetto, spesso brutali. Gente poco piacevole, come vedete. Pure era convenuto che fossero così e si rispettavano, precisamente come quei famosi _santi_ della Turchia; certuni anzi li esaltavano.... sempre come in Turchia. Apro la prefazione alle _Trasparenze_ del Praga e subito c’è un signore che mi avverte con piglio severo che «Il poeta, l’uomo di genio, non può essere giudicato alla stregua del volgare galantuomo....» Dunque attente signorine! Il poeta e l’uomo di genio da una parte e i galantuomini dall’altra. E che non nascano confusioni per carità.... Per buona ventura delle signore, però, quella razza non ha durato molto. Ora se restano dei _bohémiens_ sono giudicati codini. I poeti moderni sono tutte persone serie, studiose, cortesi, ordinate, tranquille: alcuni giungono perfino a cantare le loro mogli e la loro casa; due cose che per gli altri non esistevano... Ma per Emilio Praga sì. Strano amalgama di fango e di raggi! Accanto alle oscenità egli esalta la cosa più pura e più bella; il bambino, il suo bambino; la più soave: la casa sua. Una pesante nostalgia l’opprime: quella del buono, del vero, del sano, del semplice, dell’onesto. Questo dissoluto ha qualche volta accenti di così dimessa mestizia, di così ingenuo tripudio, che intenerisce e sorprende. [pg!197] A poco a poco quella sincerità d’arte, di pensiero, ci attrae, ci penetra, ci vince. Il ribrezzo svanisce, rimane il desiderio d’inginocchiarci accanto al ferito, di posargli la mano sulla fronte e di parlargli all’orecchio di fede e di perdono. E molto gli sarà perdonato poichè molto amò. La sua vita, i suoi canti sono un incendio, ma non un incendio vivo, libero, grandioso: la fiamma è nell’interno, soffocata, logoratrice, qualche volta aduggiata dal fumo, sovente guizzante all’esterno in lingue cocenti che avvolgono, lambiscono, scompaiono. Dal bruco all’astro, tutte le cose create cantò con anima di poeta vero. Quanti poeti inneggiarono alla neve! Eppure nessuno adoperò sfumature così delicate, nessuno ebbe accenti così spontanei, esultanze così fresche, quasi infantili: La bella neve! scendete, scendete, Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli. Come perluccie coprite, pingete I tetti, i tronchi, la mota, gli steli. Dacchè l’ottobre soffiando, spruzzando Ingiallì tutta la vasta campagna, Fuor da’ miei vetri ove fievole urtando La farfalluccia dal freddo si lagna, Mi morir cinque di rosa arboscelli, E spirò l’anima a Dio la violetta; Senza l’ammanto di viti, i cancelli Sembran soldati disposti in vedetta. Pur questa notte una mano furtiva L’inaffiatoio rubommi in giardino! (Se fu per fame che alcun lo rapiva. Iddio nol vegga l’agreste bottino). [pg!198] Intirizzisco se schiudono l’uscio, Ma qui la stufa borbotta tepente: Oh benedetto il mio piccolo guscio, Per me, nevata, sei tutta innocente! Fa il tuo mestiere: scendete, scendete, Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli; Come perluccie coprite, pingete I tetti, i tronchi, la mota e gli steli... Della mia donna nel fervido core Aleggia sempre una brezza gentile, E quando il poeta è ricco d’amore, Anche il Gennaio somiglia all’Aprile. I tenui episodi della farfalla smarrita, dei fiori moribondi, del furto dell’inaffiatoio, colorano questa nevata di delicati riflessi antelucani; quando l’aria è ancor pura e le passioni ancora dormono. Potrebbe esser scritta da una di voi, signorine. Il canzoniere del bimbo è una collana di piccole perle. Credo di poter accostare qui il nome del Praga a quello di Edmondo De Amicis per dirli i bardi del popolo minuscolo che ha per sè l’avvenire. I bambini sbocciano vivi dai loro canti in tutta la lor goffaggine deliziosa, in tutta la lor paurosa fragilità, in tutta la loro potenza di ispiratori della più schietta poesia. Vi basti qualche ritaglio per saggio: Egli aperse quel dì le sue finestre, Guardò nel cielo e ringraziò l’azzurro; Sorrise ai fiori e ringraziò i profumi, E disse all’aura: oh dolce il tuo susurro! E alle rondini: addio! E al passeggier: vi benedica Iddio! . . . . . . . . E poi disse a sè stesso: — Anima mia, Bevi l’ambrosia dai polmoni ansanti; [pg!199] Centuplica le tue libre d’amore, Ti stempra anima mia, ti stempra in canti, È nato il bambinello Candido, vispo, vigoroso e bello. È nato il bambinello, il sospirato, Il messia della placida casetta: Egli è là, nella culla è già raccolto, E gli han vestita già la camicetta; La camicetta bianca, Con due vaghi ricami a destra e a manca. Egli è là: sul suo pallido visino Tutti i sogni del cielo ho già sognati; Credo agli angeli adesso, agli angioletti Di vaghe aureole bionde incoronati... Volumi, io vi saluto, Imparai l’universo in un minuto. E più innanzi: Volin le nuvole Brilli il sereno! Dacchè cullandoti Su questo seno Vi scende il gaudio Dal paradiso, Più non interrogo Che il tuo bel viso! Quel viso candido Dai capei d’oro . . . . . . . . . . . . Quel viso candido Con quel nasino Che sembra un pètalo Di gelsomino: Con quelle piccole Guancie di rosa, Parenti prossime Della mimosa. Oh, quando in braccio Della nutrice Il tuo ti coglie Sonno felice, E il capo dondoli Come un vecchietto Che sogni il ciondolo Del suo berretto; Quando, le deboli Braccia incrociate E le finissime Mani allargate Al par di un monaco Fuor dal cappuccio, Mi osservi attonito Dal tuo lettuccio Senti: io risuscito Le ricordanze, E per le cèrule Mie lontananze Ricerco l’èsule Che fu me stesso, Il bimbo, il giovane Che un padre è adesso . . . . . . . . . . . . [pg!200] E adesso anche quel bimbo che sognava il ciondolo del berrettino è un giovane e sogna la gloria, e s’avvia a diventare uno dei migliori drammaturghi italiani. Ascoltate, ascoltate, fanciulle, e vi scenda sul cuore la pace onesta e blanda e beata a cui attinge il grillo le sue eloquenti canzoni, e l’uomo l’unica felicità: Quando il sol cadde e tacquero le squille, La quïete e l’amor cantano un coro Alla tribù dell’anime tranquille. L’uomo è stanco di passi e di lavoro, La donna ha l’occhio languido e profondo, Il focolare è una chiesetta d’oro. Mentre il suo raggio acuto e rubicondo Cresce o svanisce lottando col cero E colla luna che accarezza il mondo; Mentre il musino del gattuccio nero, Immobile ed intento al limitare Sogna il suo lungo sogno di mistero; Come un mesto palombaro nel mare Io discendo nel cor che Iddio m’ha dato, E mi guida le perle a rintracciare Il respiro del bimbo addormentato. Vagliata così, la poesia di Emilio Praga pare onesta, casalinga, queta, tutta odorante di basilico e d’olivo. E forse questa è più sincera dell’altra che come un limo malsano viene a galla nell’effervescenza delle ore tumultuose. Udite che nomi di gentile tenerezza sa trovare per la madre sua in questi versi a lei dedicati: [pg!201] I RE MAGI I bei vegliardi dallo scettro d’oro Che per la neve, sotto il ciel sereno, Sostar sommessi alla mia porta udia, La notte della santa Epifania, O son morti di freddo, o son malati Nei paesi del sole, I bei vegliardi dallo scettro d’oro! Quando la mia scarpetta sul verone Tutta avvizzita facea la rugiada, E tu, madre, domestica regina, La colmavi di doni alla mattina, Io ricciuto avea il crin, candida l’alma, E ogni alba che venìa Di giornate regali il don mi offrìa Un giovin Sire senza scettro d’oro, Ma cui nutrian d’aromi e terra e cielo, E una corte di sogni e di speranze Complimentava fra beate stanze, Era in quei giorni io stesso: Io che il perduto imper sospiro adesso! I bei vegliardi dallo scettro d’oro Che per la neve, sotto il ciel sereno, Sostar sommessi alla mia porta udia, La notte della santa Epifania, O son morti di freddo, o son malati Nei paesi del sole, I bei vegliardi dallo scettro d’oro. Quella vena d’amara nostalgia dell’innocenza, della semplicità, che insiste, insiste opprimente quasi come un rimorso, non è già l’elevazione dell’anima, la purificazione, la redenzione? Fino a qualche tempo addietro io non avevo molta simpatia pel Praga; mi urtava troppo quella negligenza [pg!202] della forma che i vecchi e sommi maestri m’appresero ad adorare: ma vivendo adesso con lui qualche ora d’intimità spirituale, la fragile e fresca flora di quell’anima di poeta ha adornato la mia anima d’un’insolita primavera, una primavera mite e triste come veduta tra i languori della convalescenza... Ah quante fantasie mi susciterebbe ancora il pallido cantore! Ma lo spazio incalza: non c’è più posto che per un’ultima nota — la nota eloquentissima d’un sentimento femminile. Essa vibra nella raccoltina che ha il grazioso titolo di Domus-Mundus: La bella mano gli posò sul crine E disse: — io vedo il tuo serto di spine E sento l’onda che hai qui dentro ascosa, O mio dolce poeta, e son gelosa! Son gelosa de’ tuoi vaghi dolori, Delle tue belle vendemmie di fiori, Sono gelosa della fantasia Che ti dilunga dalla soglia mia... . . . . . . . . . . Non vedi? son pallida Son tacita anch’io; Perchè quando a vespero Favello con Dio, Mi guardi nel viso Con mesto sorriso? Io mi affiso lassù, tu in basso guati; Io mi faccio gentil, tu ti fai strano.... Oh dove sono i dì volati, I dì che insieme viaggiavam lontano? [pg!203] Era in riva del mar, nel paesetto, In mezzo ai boschi... mi ricordo ancora! Quanta speranza ti cantava in petto, Come ridendo correvamo allora! . . . . . . . . . . E in grazia di questa nota in cui è tutta la melodia appassionata d’un trepido cuore di donna — uno di quei cuori semplici che i poeti amano — perdonate, signorine, al triste cantore le brutture che non conoscete. È morto — e che non si perdona ai morti? E dalle vostre mani, o buone, dalle mani alacri e pie scenda sulla tomba del poeta doloroso, in questa dolce primavera, una gentile carità di fiori. [pg!204] Piccolo intermezzo in prosa «L’uomo non educato alla consuetudine del pensiero, per buono e forte che tu lo imagini, s’immerge tutto, felice o infelice che sia, nelle proprie condizioni di vita, piglia dell’allegria delle imbriacature da non si reggere, s’accascia nella tristezza senza che un raggio solo di luce, un fiato solo d’aria pura gli arrivi da nessuno spiraglio. Il pensatore invece l’artista, ha un mondo d’immagini tutte per sè, una selva d’idee, un popolo di fantasimi tra cui diportarsi: e in mezzo a loro si lascia quasi inconsapevolmente andare a seconda, divellendosi al proprio cordoglio». _Tullo Massarani._ VI. Guido Mazzoni. Non c’è che dire: il mio coraggio o.... la mia faccia tosta vanno facendo ogni giorno consolanti progressi. Di maggio invio in toscana un fiore toscano. Che ne dite, argute signorine? Oh! voi mi sorridete benigne, lo so, siete tanto amabili con la vostra vecchia amica, ma saranno tutti come voi?..... Non importa: lo mando lo stesso; se non altro per dimostrarvi che quel fiore ha allignato nel mio giardino. Se lo troverete un po’ sciupato, dite che è stato il viaggio. Guido Mazzoni gode meritevolmente la fama di essere uno dei nostri migliori poeti moderni. Se si usasse ancora di dividere i poeti nelle due schiere: classica e romantica, il suo posto sarebbe tra i primi. [pg!205] Forte, elegantissimo, felicemente sintetico; qualche volta un po’ oscuro agli indotti, il Mazzoni deve aver studiato con molto amore, anzi con un pochino di feticismo, il Carducci a cui trovo che somiglia un po’ troppo. Se non che il poeta sovrano nell’effervescenza del pensiero o nel tumulto del sentimento è tagliente, sgarbato, alcuna volta triviale, mentre il suo giovine discepolo, aristocratico sempre, nella piena degli affetti e delle idee piega nella mestizia, rasentando tratto tratto l’amarezza e il disgusto della vita. Fortunatamente qualchecosa di gaio e di lucente che si effonde e sprizza da questa fiorita di versi, sembra gioiosamente contraddire: un vezzo di bimbo — un viso giovine e amoroso — un sorriso di gloria — una sicurezza d’arte, di avvenire, di trionfo. Nella fisiologia del dolore io vorrei mettere anche il _dolore d’artista_, quello che è meno sentito e più sapientemente tradotto. Per questa categoria di afflitti che adoperano il dolore come un color bruno della tavolozza, o lo indossano come le signore in quaresima indossano il nero per l’armonia dei tempi, sono molto spietata, cominciando... oh Dio, lo dico? dal Leopardi per cui non ho mai provato un sentimento completo di compassione... Ma torniamo al Mazzoni per carità. Seguiamolo un poco, questo valoroso cavaliere, che par sempre giostrare in uno splendido torneo piuttosto che combattere la vera battaglia della vita. Conoscete _La Posta_? O che vi tracci, lettere candide, la man leggiera sotto cui splendono fiorenti i ricami, ed i tasti vibrano d’un fremito canoro; [pg!206] o che di grossi segni incalzantisi v’opprima il pugno che al maglio è docile ma teme la penna, e tremando recalcitra al lampo del pensiero, da le soffitte giù per le luride scale di legno, per le marmoree da l’intime stanze odorate, tutte alfine v’accogliete insieme fraternamente. Nè qui le povere vesti faranno largo a la boria di chi le sogguarda stemmata occhieggiando da’ suggelli rossi: ma tutte eguali, sott’esso il ferreo timbro passate tutte. Affrettatevi, o lettere candide; udite? è chi piange e impazïente aspetta. . . . . . . . . . . . . In voi di sogni quanti fantasimi, quanta, o gentili, copia di lacrime! Inconscie voi sempre correte, messaggere di sorriso e pianto. Poi per le strade folte di popolo da porta a porta bussando, e l’arida giogaia de’ monti salendo in cerca d’un ermo casolare: a la deserta vecchia cui premono l’ansie pe’ l figlio che strugge l’ultimo vigor de le membra ne’ solchi grigi de l’inospite maremma, a la fanciulla cui lungo il florido sposo gli ostili colpi minacciano pugnando a raccorre nel seno de la patria l’ultima figliola, [pg!207] voi radducete, lettere candide, voi radducete la pace a l’anima, di che dolci lacrime asperse, custodite di che dolce cura! Mi duole di avervi spezzata per ragione di spazio la bellissima poesia eminentemente suggestiva. Anche al limitare della mente nostra s’affollano larve di sogni, di ricordi, di desideri al semplice vocabolo che racchiude come una pila di che far fremere l’umanità. Passioni, vizî, virtù, eroismo, sventura, salvezza; tutti i poemi, gli idilli, le tragedie della vita intima nella piccola e fragile arca affidata al destino. Oh poter dire a una lettera: affrettati! all’altra; indugia! a una terza: ritorna! a una quarta non partire! Quante esistenze deviate, distrutte, vivificate, risorte, per una lettera! Quanti cuori che non sapevano di battere o non immaginavano di battere più, hanno balzato accogliendo in generose onde la vita null’altro che nello scorgere su una busta una calligrafia! E la poesia gentile, inaspettata di certe grosse scritture inesperte uscenti sotto una mano tremante o avvizzita dagli anni? la incredibile prosa di certe letterine stemmate, odoranti, dall’allungata scrittura...? Oh il vario, inesauribile tema in cui si fondono e sfumano delicatamente psicologia, favola, libero arbitrio e destino!... Un dì o l’altro, auspice la poesia del Mazzoni, lo scriverò il monologo che fa capolino nella mia mente, e che s’intitolerà: _La lettera_. A voi, signorine dall’armoniosa favella, una delle più simpatiche liriche del poeta d’oggi — una poesia dalle salde radici e dalla cima fiorita: [pg!208] IL CAMPANILE DI GIOTTO — Presso a la Chiesa sorga: e sia l’opera quale nè i Greci mai la pensarono nè i padri Romani. Vogliamo che sia degna di Fiorenza nostra —⁷ E tu crescesti, fiore marmoreo, bel campanile! crescesti candido scambiando un saluto fraterno con la torre de la Signoria. — Io son la forza de la repubblica — disse la torre da i sassi ruvidi. Risposer fulgendo i tuoi marmi: — Noi la luce del pensiero siamo! Ilare e forte crebbe qui l’animo de’ fiorentini: crebbe la cupola, de l’ombra sua grande coprendo tanta gloria di costumi e d’arte. E qui, su i marmi, ne’ miti vesperi posâro un tempo gli avi. Sedeano raggianti di sotto al cappuccio l’onestà de la serena fronte; e in gaie prove già crepitavano novelle e motti: ma l’arti e i fondachi orgoglio a la patria vantando, si accendevan le parole e i volti d’un santo riso. Su loro, a gli ultimi raggi del sole, ne la sua gloria svolgevasi superbamente il gigliato gonfalone bianco. Invan le inique schiere si fransero sotto gli spalti di Michelangelo: divelti al Marzocco gli artigli quel ringhioso addormentossi ignaro. [pg!209] Da i sassi a’ marmi volano volano stridendo i falchi da cinque secoli; e sotto si frange spumando la marea de le incalzanti vite: e tu pur sempre la fronte nitida levando al cielo, gentil miracolo, come l’arte splendi sereno, come l’arte sempiterno splendi. ⁷ Parole del decreto col quale la Repubblica comandò si facesse il campanile. Ave, Firenze, dolce austerità inghirlandata di rose, anima luminosa d’Italia, ultimo sogno mio giovanile... Passiamo oltre. Anche Guido Mazzoni gitta un fiore alla neve. La _Nevicata_ del Praga è forse più vera, ma questa è sommamente artistica. Uditene un poco: NEVE. Mite è la neve. Scende leggera da un cielo di perla come il piovente fiore de’ biancospini; silenzïosa scende, s’aggira, sussulta volando come farfalle presso la siepe nova. Sopra le vie fangose, su le arse campagne da’ ghiacci morbida e bianca scende la neve pia, ed al maligno inverno che insulta le terre domate tanto squallore splendidamente cela. Crescon per lei sicure le timide punte del grano: sperano il raggio de’ rinfiammati soli: cresce per lei la speme di messi fiorenti; e il colono sogna la falce tra le mature spiche. Guarda il fanciullo ai vetri che ’l fiato fumante gli appanna, forti trastulli dona la neve a lui: guarda a la lente il dotto; di stelle e di gelidi fiori studio invocato dona la neve a lui. . . . . . . . . . [pg!210] Questa _Neve_ mi ricorda la neve vera d’un gennaio non tanto remoto eppur così lontano; e una mia fantasia ispiratami da tutto quel bianco della campagna che mi attorniava e dalla reminiscenza insistente dei due primi versi. Io pensavo alla gran soavità dell’aria se quei pètali nivei avessero avuto un profumo... L’ora, il tempo, la dolce stagione, e il poeta e la sua patria, oggi non ci allontanano dai fiori. Ebbene, cogliamone ancora a piene mani: NOTTE DI MAGGIO. Stanotte (il vento lungo affannavasi rombando ai vetri che crepitavano ne’ buffi de le goccie grosse) sùbite irruppero ne la stanza le fate. — Oh come, come a l’angustia di queste mura piacquevi scendere? — Ed esse ne’ giocondi volti risero splendidamente belle. — Non mai più miti salgon gli effluvii da l’esultanza fresca de’ margini, di quando il fior de l’erba nova bacian col niveo piè le fate: ma noi vedemmo splender la fiaccola traverso a’ vetri tuoi per le tenebre; e qua veniam consolatrici l’ala del turbine cavalcando. A sogni è dolce cura de gli uomini: concedi ai sogni l’anima, Illudervi di care visioni è a voi l’unico farmaco de la vita. — . . . . . . . . . L’intervento diafano e sottile delle creature vanescenti mette nell’aura di questa poesia che inoltrando [pg!211] s’infosca, una fluttuazione di profumo antico e rudimentale; qualchecosa d’inesprimibilmente blando, come i cori degli spiriti nelle tragedie greche: come intorno al titanico dolore di Prometeo il benefico aleggiare delle Oceanine. Eccovi per ultimo un esempio della Poesia domestica del Mazzoni, colorita e gentilissima: Canta canta la mamma al fantolino; e lo dondola lieve in su’ ginocchi, spiando il lento velarsi de gli occhi: — C’era una volta un grillo canterino. Cantava questo grillo in mezzo al lino; vien la formica: — O grillo, o grillo bello, dammene un filo! — E che ne vuo’ tu fare? — Calze e camicie pe ’l mio corredino. Dice il grillo: — Se vuoi ti do l’anello! Di gioia la formica ebbe a impazzare: Ma quando furon dinanzi a l’altare.... — Sul luccicor de gli occhi sonnolenti gli battono le palpebre frequenti. Ecco i sogni: sorride il fantolino. Facciamo anche noi come il bimbo: dormiamo. Dormiamo sul primo fieno falciato vegliati dal grillo e spiati dalla formica. Dormiamo, sognando i calendimaggi ignorati delle microscopiche tribù che ronzano, stridono, saltano, o strisciano nelle loro foreste sterminate di steli in cui mai l’uomo potrà voluttuosamente smarrirsi e che mai potrà conquistare: foreste di milioni di fusti lisci, eleganti come colonnine corintie; fra cui ondeggiano lassù, lassù, nelle cime estreme ed eccelse, gonfaloni rossi, azzurri, bianchi nella gloria del sole. Per noi non sono che campi di lino e di grano fioriti di papaveri e di margherite. [pg!212] Piccolo intermezzo in prosa. «Bisogna saper vivere in compagnia, ma più ancora saper star soli». _N. Tommaseo._ VII. Edmondo De Amicis. Nei nostri begli anni — negli anni che ascendete voi, signorine — quando nell’anima e nel corpo tutto è ancora così adorabilmente rudimentale; quando il vago panteismo dell’infanzia immaginosa tende a plasmarsi in un aspetto e a compenetrarsi d’uno spirito, allora, come nell’adolescenza dei popoli, sorgono gli idoli e l’adorazione vapora. Vapora l’adorazione, odorosa di tutta la purezza, di tutta la verità, di tutta la gentile incoscienza della vita interiore appena schiusa, ai piedi del simulacro.... il più delle volte insensibile. Arte e Amore, Iside ed Osiride eterni! Non v’ha scolaro di Ginnasio che insieme a un mazzolino, a un nastro, a una ciocca, tenui e care realtà, non esalti l’ombra auspice e divina di qualche principe del pensiero o dell’azione; ed ogni fanciulla a cui s’allunghi ancora l’abitino dell’anno precedente, chiude il prezioso fiore appassito dalle misteriose virtù fra le pagine del libro dalle quali un sapiente conoscitore del cuore umano ha intenerito e sorretto più volte il suo giovine cuore. Ditemi, bambine, _pardon_ signorine, ditemi non colgo nel segno? Non è vero [pg!213] che Lei, soave bionda, ha una viola del pensiero in mezzo alla «Partita a scacchi?...» E Lei, signorina bruna, non rivolge da più di un anno gli occhi nerissimi a quella piccola costellazione di gaggie caduta chissà come nella lizza fra il torneo del «Marco Visconti?...» E quell’altra fanciulla malinconica dalle scendenti treccie castane che piange sullo sventurato amore di Gaspara Stampa, non sorride al fior d’eliotropio che un giorno fosco posò proprio sul sonetto cinquantaquattresimo?.. E infine tu, Gabriella, rosea sorellina mia, che cosa nascondi dunque fra le «Lettere a Maria» dell’Aleardi che veggo continuamente sul tuo tavolino?... Ebbene, che importa? Macchiate i libri di lacrime e di fiori fanciulle, ma serbatevi, oh serbatevi anche fra il tumulto sgarbato della vita le vestali gentili delle corolle morte e dei sentimenti immortali. Quanti preamboli per dirvi che io idolatravo il De Amicis! E non lo idolatravo specialmente nei _Bozzetti militari_ nei _Racconti_, nelle _Poesie_, ma nelle _Pagine sparse_, dove la mia anima di scribacchina sedicenne trovava qualche lembo da rispecchiarsi, da afferrarsi, da raccogliersi prima di tentare il gran volo... E mi ricordo che quando fu accolto il mio primo bozzetto nella Palestra delle giovinette (in questo stesso giornale) io non sapendo più come manifestare la riconoscenza che sentivo vivissima per quel mio duce invisibile mi slanciai sulle _Pagine sparse_ e scrissi in fretta sul frontespizio — ebbi questo coraggio! — la famosa terzina dantesca: Tu se’ lo mio maestro e lo mio autore... Oh beate lenti de’ sedici anni! Vi presento dunque oggi con affetto memore [pg!214] una mia vecchia conoscenza. Cioè ho detto male: vi presento: avrei dovuto dire: vi addito. Qual’è fra noi la famiglia che non ha nella sua biblioteca almeno un volume dell’illustre e simpaticissimo autore delle _Porte d’Italia_? Chi non conosce ad orecchio almeno, uno o due di quei suoi leggiadri sonetti sui bambini? Io non so e non spero che Edmondo De Amicis abbia seguito il mal vezzo di rinnegare i suoi lavori giovanili. Certo che se la prosa sua in generale e particolarmente la prosa della sua ultima maniera è di gran lunga superiore ai suoi versi, pure il sentimento che li avviva non è affatto inferiore; il sentimento è sempre così gagliardo e vero e bello da irrompere e trascinare all’entusiasmo o alla commozione attraverso e malgrado le dighe della forma. È un buon pane nutriente, che non ha la pretesa d’essere una focaccia; un buon pane dall’odor sano evocatore delle bellezze bionde della terra madre, delle fatiche dei nostri fratelli: un pane che si spezza benedicendo. Ho ripassato le _Poesie_ del De Amicis con la mente ancora illuminata dai riflessi malefici di qualche centinaio di pagine d’una rarissima bellezza; ebbene, quella lirica semplice, qualche volta pedestre, sorse subitamente ai miei occhi, al mio spirito, ad una altezza, ad una dignità vittoriosa. Una feconda luce di sole dopo una magica e insidiosa notte plenilunare. «Ecco un libro, pensai, che può far del bene.» Ah di quanta lirica moderna si può dire altrettanto? Quale altra si potrebbe quasi raccomandarvi come un ricostituente, signorine? Cominciamo da questa: [pg!215] A MIA MADRE. Amo il nome gentile; amo l’onesta Aura del volto che il mio cor rinfranca: Amo la mano delicata e bianca Che le lagrime mie terge ed arresta; Amo le braccia a cui fido la testa Da tristi fantasie turbata e stanca: Amo la fronte pura, aperta e franca, Dove tutto il pensier si manifesta; Ma più de le sembianze oneste e care Amo la voce che mi parla il vero E mi conforta l’anima ad amare; La voce che ogni dì sulla prim’ora Mi grida in suono d’amoroso impero: È l’alba, figlio mio! Sorgi e lavora! Scelgo dal gruppo intitolato: «Miserie.» È un sonetto che vi rattristerà, ma certe tristezze sono come il segreto e freddo battesimo della rugiada che ravviva i germi delle pianticine. Esse s’incurvano per riceverla: chiniamo il capo anche noi; perchè ci tocchi bisogna esserne degni. II. Povere bimbe con le vesti a brani Curve sull’ago in abituri infetti, Madri che al seno con le scarne mani Vi stringete i morenti pargoletti, Tristi fanciulli per le vie costretti Il tozzo immondo a disputar coi cani, Vecchi che brancolate oggi, sorretti Dalla speranza di morir domani, [pg!216] Misera gente che la morte oblia, Martorïati scheletri viventi Per cui tutta la vita è un’agonìa, Quante volte, nell’intimo del core, Al mio stato pensando e ai vostri stenti, Mi par d’essere un ladro e un impostore! Sentite ora che umorismo fine e che delicatezza d’ispirazione. Eccola la poesia vera che aiuta a vivere, quella che non può dileguare: SOPRA IL QUADERNETTO D’UN BIMBO Ecco i quaderni sporchi dei bambini, Tutti logori fogli accartocciati, Chiazze d’inchiostro, calcoli sbagliati, Buchi, macchie di pappa e burattini; E nel bel mezzo azzurri cerchiolini Fatti dal pianto, e scarabocchi ai lati, E quà e colà foglietti lacerati Per fare alle pallette coi vicini. Tale è la vita, o bamboli, in succinto; Conti sbagliati, lacrime frequenti, E burattini ad ogni piè sospinto: E ogni giorno una pagina si strappa, E sotto ai più magnanimi ardimenti C’è sempre un po’ la macchia della pappa. Affrettiamoci. Non v’ha più che qualche sprazzo purpureo di sole occiduo nel mio verziere. Ma quale frescura! Udite: c’è un pò della malinconica stanchezza del Praga e della gentilezza profonda d’Enrico Panzacchi: [pg!217] IN CASA DEL CURATO. (_ricordi della campagna_) Questa mattina desinai dal prete In una stanza disadorna e bianca, Dove non c’è che un desco ed una panca E un grande crocifisso alla parete. Sulla tovaglia fresca di bucato C’era un vinetto trasparente e puro, E in faccia a me danzavano sul muro L’ombre de le alborelle del sacrato. Un grato odor d’incenso a quando a quando Veniva dalla muta sacrestia, Ed una vecchia serva umile e pia Ci girellava intorno zoccolando, E c’era un’aria, un’ombra, una freschezza In quella stanza candida e modesta! E tanta pace in quella faccia onesta Di vecchio prete, e tanta gentilezza! Ei mi parlava de la sua cappella E dell’orto e dell’uve e del paese, E ogni sua parola era cortese E ingenuamente colorita e bella. E muto tratto tratto e sorridente Fissava in contro al sole il suo vinetto, E mettendo la man larga sul petto Ne delibava un sorso lentamente. E in me figgendo le pupille vive Come volesse indovinarmi il core: — Ebbene, ebbene — mi dicea — signore. Cosa scrive di bello? Cosa scrive? — Quindi, bevendo un’altra sorsatina, Soggiungeva: — Signor, non si sgomenti Bisogna pur ch’io beva e mi sostenti! Lo sa che a giorni tocco l’ottantina? — [pg!218] E mi facea gli onor dell’umil desco Dicendo in atto di gentil rispetto: — Provi il mio vino, e mi dirà se è schietto; Provi il mio burro, e mi dirà se è fresco. — Indi tacendo, in un pensiero assorto, S’accarezzava i candidi capelli, Ed io sentito bisbigliar gli uccelli E una zappa sonar lenta nell’orto. E a quando a quando un alito di vento Facea stormir le viti all’inferriata E portava nel mio volto un’ondata D’un sano odor di legna e di frumento. E mi toccava il cor l’alta quïete Di quel recesso pio, bianco e modesto... L’avrei baciato quel buon vecchio onesto Quel santo volto d’innocente prete. La spontaneità dell’ispirazione, la nitidezza melodiosa della forma fanno di questa una delle migliori liriche del De Amicis. E che mondo palpita nella mite sincerità della trama! Quelle ombre di giovani alberi che danzano sulla parete intonacata, quelle folate d’incenso uscenti dalla pace semibuia della sacrestia, quel pispigliare d’uccellini, lo stormire delle viti che rampicano ed origliano all’inferriata, gli odori del legno, del grano, e quella zappa risonante ritmicamente nell’orto — oh candida, dolce, antica ed eterna poesia delle Egloghe — la vera sapiente sei tu! Ma Edmondo De Amicis è innanzi tutto uno spirito bellicoso. Alla zampogna di Pane egli preferisce i canti di Tirteo — canti incitanti alla pugna, non importa quale — anche, forse, la guerra alla guerra. Non indugiate sul bisticcio; piuttosto ascoltate: [pg!219] Ah! un giorno finirà l’orrida lite, Disseccherà l’amore in fra le genti Questo fiume dai vortici cruenti, Questo mare di lacrime infinite! Ma quelle razze dall’affetto unite Ricorderan devoti e reverenti Le stragi enormi e il sangue e gli ardimenti A cui dovranno quell’età più mite. E gli stendardi venerati e santi, Delle trascorse età pegno e memoria, Avranno onor di cantici e di pianti; Ed alzerà ogni gente un arco immane E scriverà sulla sua fronte: Gloria A tutti i morti delle guerre umane. Era il De Amicis dei _Bozzetti militari_ che scriveva così. Non lo dimentichiamo, oggi. [pg!220] Piccolo intermezzo in prosa. «L’arte di comandare a sè stessi consiste in gran parte nel trovare argomenti e parole efficaci per smuovere in noi la vergogna. Ci vuole immaginazione ed eloquenza». _E. De Amicis._ VIII. Contessa Lara. Ecco fra le fresche dovizie d’una primavera tutta schiusa il più delicato fiore del mio verziere: una figura femminile, una fine figura d’artista e di signora. Un’Eva nel piccolo paradiso, o meglio la fata d’una novellina nordica che porta nell’ubertoso brolo la vaghezza del suo capo biondo e le meraviglie della sua mano. Ha in arte un nome cavalleresco e poetico che a’ piedi delle sue creazioni forti e gentili armonizza come l’accordo finale che raccoglie la melodia. Nella verde Italia in cui nuovi e antichi ingegni scintillano come le goccioline di rugiada su un margine erboso, non è scarsa la pleiade femminile; però non molte delle nostre scrittrici sanno come la Contessa Lara tratteggiare con uguale finezza di gusto e disinvoltura un bozzetto, una poesia, un articolo d’arte, un romanzo. Quindi arrestandoci innanzi a [pg!221] qualche sua poesia non dobbiamo dimenticarlo, non dobbiamo dimenticare che stiamo osservando un sol raggio, un solo colore di questo versatile intelletto. Pensiamoci anche se ci urta talvolta in questi versi un po’ di quel dilettantismo mondano nel quale ahimè si crogiolano pure tanti poetini e poetucoli che poi in fin dei conti non sono capaci di fare che i canterini. La penna della Contessa Lara è sopratutto elegante, spesso arguta, molte volte ardente, sempre aristocratica. Il dolore, la mestizia, l’angoscia non effonde in elegie sentimentali, o in quelle tirate romantiche che rinviliscono sotto mentito profumo femminile la nostra letteratura agli occhi della più sapiente metà del genere umano; quando la sua anima è intorbidata, o ferita, o dolente, ella non ce lo dice, ma noi lo intendiamo meglio che se ce lo dicesse. Ella sente forse nella vita, certo nell’arte, la dignità del dolore. Ancora: è raffinatissima, ma non mai sino al decadentismo o alla morbosità; ama le cose belle, la forma più che l’essenza delle cose ma l’ama tanto che sovente giunge a toccarci l’anima non per l’intensità, ma per il rapimento della sua contemplazione. Confonde anche talora la sensazione col sentimento, talora la preferisce apertamente, essendo sempre ed anzitutto schietta con sè e con noi, anche a costo di parer cruda o di dispiacere. La sua è la sincerità delle spine sotto il profumo delle acacie o ai piedi della fiorente venustà delle rose. Un’arma contro la soverchia debolezza, una difesa. Mi piace di cominciare con questo _Ultimo sogno_ che potrebbe essere il primo di molta giovinezza. C’è un onesto languore e una vaghezza di sfumature tutta femminea. [pg!222] In mezzo a ’l verde una casetta bianca, Co’ monti a tergo e in lontananza il mare, Con variopinte aiuole a destra e a manca Che infioran de la soglia il limitare. Fuori un’aria che sveglia e che rinfranca, Dentro, una libreria d’opere rare, Che a ’l gramo ingegno ed a la fibra stanca Possan novella vigorìa prestare. Poi, ne ’l mistero d’una chiusa alcova, Ne la sua culla un roseo cherubino Cui per restar con me sparvero l’ale. È questo il nido che sognar mi giova, È l’oasi del mio squallido cammino Tempio a l’arte, a l’amore, a l’ideale. Salutiamolo, passando, questo vivificante porto di pace che desidero a tutte voi care fanciulle; che alcuna di voi forse intravede già fra i rosei vapori del futuro come l’isoletta d’Elena e di Fausto — della Bellezza e del Sapere — ricinta dall’arcobaleno. Ecco un lembo d’orizzonte grigio, l’avanzo di chissà quale tremendo uragano che lacerato naviga verso di noi, lividamente triste nella sua tenuità: RICORDO D’APRILE. Ritorna il mio pensiero A ’l pallido bambino Che una sera d’aprile Fu portato la giù ne ’l cimitero. Intanto la sorella e il fratellino Giuocan co ’l suo fucile, Battono il suo tamburo, Ed i guerrieri sgorbiano Ch’egli tracciò su ’l muro. Oserei dire che solo una donna poteva afferrare tutta la pietosa eloquenza dell’episodio e renderla [pg!223] con tanta efficace semplicità. Il lirismo più alto, più suggestivo, più commovente nel più umile vero. Chi non è tocco dalla visione chiara di quella gaia scena di profanazione infantile, di quei giocattoli, unica eredità del povero bimbo sparito fra i fiori e i lumi in una sera primaverile, dispersa con incoscienza crudele così? Chi è che ha dei bambini cari e che non sente alla sobria arte di questi versi passarsi un brivido in mezzo al cuore e l’acuto desiderio di vederli accanto ai loro giochi subito subito subito? E la poesia capace di far vibrare in questo modo le nostre intime fibre è bella, è buona, è vera poesia. Udite due sonetti, solamente leggiadri questi, e intrisi del profumo d’eleganza e di mondanità dell’artistico ambiente dove sono sbocciati, come narcisi in un’anfora preziosa senza terra nè sole, dietro le cortine di raso che nascondono un po’ troppo di mondo qualche volta... RISOLUZIONE. Egli il silenzio vuol d’una Certosa Antica da le arcate bisantine Dove, monaco austero e in bianco crine, Calmo finir la vita tempestosa, Ella, del par fantastica e pietosa, Giura che stanca di monili e trine, In umili n’andrà vesti turchine, Mite suora a chi soffre, a Gesù sposa. Ei sogna i vecchi testi del trecento Su cui vegliar le notti; ella s’infinge A ’l capezzale ove il morente geme. Sorridon tutti e due... Dopo un momento L’un dice all’altro, mentre a sè lo stringe Senti, amor mio, se si vivesse insieme? [pg!224] CONFIDENZE. A l’ombra delle zàgare egli è nato La giù, la giù de ’l nostro suolo in fondo Da un alito cocente accarezzato, Carezzato da ’l mar terso e profondo. Poeta strano, forte, innamorato, Due sole cose gli son care a ’l mondo, Gli son care ne i sogni: il venerato Materno capo ed il mio capo biondo. Senti, se vuoi saper come avvenìa Ch’ei restasse di me sire e padrone: È un bozzetto che sà d’Andalusia. Era di maggio un dì sull’imbrunire, Ei mi gittò una rosa entro il balcone, Io la raccolsi, e mi sentii morire. Leggete ora questi frammenti della _Casa dell’ava_, che è troppo lunga per essere interamente trascritta; vi basteranno, credo, per indovinare che la Contessa Lara da esperta ricamatrice conosce tutta la delicatezza delle vecchie tinte; quelle vecchie tinte che Bourget e Loti adorano nella lor gentile e calma nostalgia del passato: LA CASA DELL’AVA Ne l’ostel solitario In cui la vecchierella ava serena Passa il tramonto de ’l suo tardo giorno, De ’l buon tempo che sparve Parla ogni cosa intorno. Fra le sconnesse pietre Del cortile s’abbarbica l’ortica Parassita: de gli alti suoi gradini Su ’l piedistallo, il pozzo Sorge ne ’l centro ov’ascende a fatica [pg!225] Una ricurva fante, E vi cala la brocca che scancella, Ne l’ima onda percossa, L’imagine de ’l suo grinzo sembiante. Ne ’l salone dorato, Da i centenari specchi Cadde l’argenteo strato, e ancor su i vecchi Arazzi de la Fiandra, A le pareti accanto Danzan pastori e ninfe Ne i tarlati boschetti, E scendon benedetti i raggi estivi Che a quegli occhi sbiaditi, Qual per magico incanto Rendon fulgidi e vivi I raggi de gli amori impalliditi. In un angolo oscuro Una spinetta dorme, E quando tutto tace ivi s’ascolta Come un sospiro; è il vento Che tra le corde freme? O l’eco de le note che una volta Con le melodi semplici Di Pergolese, l’ava Da lo snello strumento Fanciulla ancor, destava? Schiudetevi, cassette Odorose de i mobili intarsiati, Piene di fogli e nastri, Di trapunti, di seriche borsette D’ambra e zàgara, e veli scolorati. È un’ora di memorie, ed in quest’ora Per voi da un morto secolo Un alito di vita esala ancora. . . . . . . . . . . . . E poichè ho detto il nome di quell’impareggiabile Pierre Loti, mi vengono in mente questi altri [pg!226] versi che qualche sua leggiadra _japonerie_ deve aver suggerito alla Contessa Lara. Il metro è quello dell’_uta_ giapponese, l’arte, il colore, la grazia, sommi: CONVERSAZIONE. A una tavola in torno Giocan tre donne, Di fiori il capo adorno, Ricche le gonne: Fosco tramonta il giorno. Una dice (un’anziana Con grinzo il cuore): — L’amore è cosa vana: Passa l’amore Come nube lontana. Dice un’altra (una sposa Fresca e ridente): — È l’amore una rosa Che sboccia aulente Nell’anima festosa. E l’ultima (una frale Fanciulla, un fiore), Dice; — Fu strazio eguale Per me, l’amore, A un colpo di pugnale. Assorbono, fumando, Tutte il thè verde: E un gran sospiro a quando A quando sperde L’aura leggiera, errando. E con questo fior di loto pòrto da una gemmata mano di dama vi lascio, signorine. Troppe visioni d’Oriente mi s’affollano alla fantasia, m’ipnotizzano. Purchè questo noioso cosmopolitismo dilagante non me lo cancelli, il mio Giappone! [pg!227] Piccolo intermezzo in prosa. «L’âme d’une jeune-fille ne doit pas être laissée obscure: plus tard il s’y fait des mirages trop brusques ou trop vifs comme dans une chambre noire». _Victor Hugo_ IX. Mario Rapisardi. In Sicilia e precisamente sull’Etna c’è, pretendono, un castagno detto dei _cento cavalli_ per le sue proporzioni colossali di tronco e di frasche. Questo ricordo vago del bel tempo in cui studiavo geografia mi è balenato fra un verso e l’altro del «Giobbe» di Rapisardi, il poeta cresciuto come quella sua pianta alle falde del Mongibello; nutrito come lei di fiamma e di sole. Ma qui l’aria, il suolo scottano. Come faremo mie gentili compagne?... L’albero è un fronzuto gigante, sì; forse troveremo in qualche punto un po’ di refrigerio. Mario Rapisardi ha scritto anche dei versi lirici ma io preferisco darvi solamente qualche frammento di un suo poema, prima come opera di maggior entità, poi perchè rende meglio, mi pare, il michelangiolesco stile dell’autore. Un poema italiano moderno che non faccia ridere è una cosa tanto rara che bisogna proprio che lo conosciate anche imperfettamente. Dunque il «Giobbe» secondo avverte l’autore, non è che l’ultima parte d’un ciclo al quale appartengono [pg!228] pure due poemi precedenti: «La palingenesi» ed il «Lucifero»; ed è a sua volta una trilogia. Sebbene nella prima parte vi siano colorite magistralmente e la vita patriarcale e le sciagure che fecero passare in proverbio la pazienza del virtuoso servo di Dio, Giobbe non è qui che un simbolo adombrante il pensiero umano nel suo faticoso e doloroso errare in cerca della pace. Un fare largo, vigoroso, a rilievi, a sfumature; una sobrietà classica, un’elasticità di idee rivestite sempre opportunamente, un’arte delicata e insieme profonda, e su tutto un riflesso vivido del sole di mezzogiorno: quel mezzogiorno benedetto che ci dà i fiori più profumati e i frutti e gli ingegni più saporosi; — ecco la musa di Mario Rapisardi. Una Musa dalle forme opulente e dal profilo fine e pensoso, come certe figure del Guercino. Leggiamo insieme la descrizione dei giardini di Giobbe: .... E da un lato i giocondi orti feraci Di molti erbaggi festeggianti il sole Con lor varie verdure, offrian sovente Se non lauto, alle cene ampio tributo; Fiorivano dall’altro i bei giardini Delle case delizia. Ivi precoce Mandorlo accanto il zèfiro blandisce L’odorato albicocco; in tra le scure Foglie nevate di recenti fiori S’impiattano le arance; dipende Dal torto ramo il languidetto fico, Che lacero la buccia e in bocca il miele Primo seduce il passerel furtivo. Vedi su l’orlo delle pale irsute Schierar le frutta l’indico banano, Dolci frutta alla lingua, orride al tatto. Di cui tanto il nativo Etna s’allegra; [pg!229] Noderoso ingiallir presso ai vermigli Grappi del mite tamarindo il forte Pomo cidonio, che serbato il verno Rustici alberghi e vestimenti odora. Ecco non lungi dal cireneo olivo, Il sesamo oleoso; ecco l’opimo Alve di Socotôra, che la sete Smorza del sobrio camello; il sicomoro Dalle bacche turchine e il tamerice, A cui flessili e folti a par di crini Piovono i rami dall’amaro tronco, Che le febbri cocenti in fuga volge. Nè te, ritrosa sensitiva, a cui La vereconda vergine somiglia, Avea pure scordato il buon cultore: Nè voi, piante felici, ond’uom distilla Manne vitali e preziosi aromi; Con l’acacia del Nil sorgon confusi I cinnami fragranti; si pompeggia Nel color aspro delle sue corolle Il selvatico grogo: odora il nardo Dalle storte radici, in quel che presso Agli olibani pii gemon le rame Del balsamo superbo e i provocati Pianti avviva di dolci iridi il sole. . . . . . . . . . . . . . . . Dopo questa evocazione d’un cantuccio fortunato della biblica Arabia, dopo gli aromi e il fogliame, eccovi un quadretto asiatico di genere. Anna la vecchia nutrice di una delle nuore di Giobbe, e un’ancella, s’accingono a fare il pane. Mi pare una scena dell’Odissea: .... Mentre in queste memorie s’avvolgea La vecchiarella, e dava esca alla fiamma Che sorgea scoppiettando e le nodose Braccia arrossiale e la rugosa guancia, Una serva robusta entro capace Madia su quattro saldi piedi eretta, [pg!230] Agitando lo staccio e i colmi fianchi, La farine scernea, candido monte Facevane nel centro, ad esso in cima Aprìa con pronta mano ampio cratere, Con pingue latte di camella il caldo Fonte commisto vi versava, e tutto Rimenando e intridendo e con gagliarde Nocche pigiando e con sonanti palme, Dùttili ne facea biondi pastoni: Indi, raschiato della madia il fondo E sgrumate le dita, in picce uguali Distingueali; con dolce olio d’oliva Le careggiava, e su convessi forni Le disponea con vago ordine in giro. . . . . . . . . . . . . . . . Vorrei che un pittore s’innamorasse di questo soggetto di un’antica semplicità. Vorrei vederle vive di colore e di forme questa vecchia grinzosa, questa giovine schiava nel bel costume di Sara e di Rachele, intente all’opera faticosa e buona, a cui l’ambiente dovrebbe dare una maestà rozza, ma quasi rituale. Che forte e sapiente contrasto la gioventù rigogliosa dell’ancella, tutta appariscente in quell’atto di domare la pasta con le fresche braccia accanto alla vecchia accoccolata nei bagliori rossastri ravvivando il fuoco! Come questa scena nella sua umiltà secolare ci riposerebbe dalla sequela di paesaggi, dalle modernità scipite o sguaiate che adornano le pareti delle mostre di pittura!... Ma mi accorgo che ho la lingua un po’ troppo lunga qualche volta, e non è un buon esempio che vi do, signorine. Torniamo piuttosto al poema. Il fantasioso e nutrito poema è in endecasillabi sciolti, ma poi quando la materia quasi lo richieda, cangia improvvisamente metro ed andamento con un effetto stupendo. Le giovinette amate dai figli [pg!231] di Giobbe cantano. Leggiadrissime canzoni cantano. Udite questa di Zilpa, l’invincibile; Un paese conosco ove non ride Caldo e raggiante il sole; Ma quanto infido è il Sol, tanto son fide L’anime e le parole. Ivi oceani non son, non son vulcani, Nè abissi il suol nasconde; Non fiamme d’amorosi impeti umani Non mar d’ire profonde: Ma deserti di fiori entro una blanda Fascia di nivea luna, Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda Senz’onda ed aura alcuna. In palazzi d’opale e di coralli, Avvolte in roseo velo Pallide giovinette intesson balli In fra la terra e il cielo. In fra la terra e il ciel, come fragranza Che il freddo aere molce, S’alza un canto di pace e di speranza Monotono ma dolce. Oh fratel mio, tal rigido paese È qui dentro il mio core: O amico e difensor bello e cortese, Io non conosco amore. La seconda parte del poema è tutta occupata da una visione di Giobbe. È rigidamente ascetica. Simboleggia, parmi, il periodo di cieca fede del pensiero umano — l’età dei martiri, dei crociati, dei santi. C’è un intermezzo composto di laudi — le laudi sacre che, nel secolo decimoterzo, pie compagnie d’uomini e di fanciulli, di nobili e di plebei, accesi [pg!232] dallo stesso ardore spirituale cantavano nell’Umbria ricordandosi del fraticello di Assisi. Queste laudi del Rapisardi sono una sapientissima imitazione di quelle. Par di sentirvi l’estro religioso di Iacopone da Todi. Eccovene un saggio: LAUDA DI ANACORETA. Patria, amici, parenti, famiglia abbandonai E in questo solitario antro mi ricovrai: Dio che alla terra oscura manda del sole i rai Porse alfine un conforto a’ miei terrestri guai. Il mondo è una gran selva d’alberi velenosi Dove fra l’erbe e i fiori stan biscie o serpi ascosi, Dragoni e basilischi dagli occhi sanguinosi Insidian la salute dei giusti e dei pietosi. Son l’erbe, a chi le calchi, più che rasoi taglienti, Le fragranze de’ fiori producon febbri ardenti: E di quei mostri occulti son così aguzzi i denti, Che squarciano le viscere delle smarrite genti. O dolce solitudine, tu di virtù sei scola, Da te la pellegrina anima a Dio sen vola, In te la mia tristezza s’aqueta e si consola, Beata solitudine, beatitudin sola. . . . . . . . . . . . . . . . Cito qui per il contrasto un canto di Goliardi. La poesia goliardica nel suo rudimentale tentativo di rinascimento dell’arte, fu a quei tempi di penitenza come una spera di sole dardeggiante attraverso la mistica e fredda ombra di una cattedrale: [pg!233] CANTO DI GOLIARDI. Sulla terra già Venere scende, Vengon seco le grazie e gli amori, Sul suo capo il cheto aere s’accende, Sotto il piè le germogliano i fiori. Madre e dea d’ogni cosa gentile Orna i rami, gli augelli ridesta; L’aria, l’acqua, la terra è una festa: O l’aprile, l’aprile l’aprile! O fanciulla che languida giaci Fra le piume, e sognando sorridi, E il ciel suona di canti e di baci, Freme il bosco d’amplessi e di nidi. O fanciulla, son rapide l’ore Della gioia, a te mormora il rio; Sorgi, vieni ti dice il cor mio: O l’amore, l’amore, l’amore! . . . . . . . . . . . L’ultima parte della trilogia è scientifica e un po’ faticosa agli indotti. Pure scorre tutta così tersa, così, direi, lieve, nella sua profondità che se ne ricevono ugualmente impressioni luminose. È un viaggio nell’ètere, di Giobbe guidato da Iside che raffigura ad un tempo la Scienza ed il Mistero. È una ideale peregrinazione da stella a stella, da luce a luce, durante la quale Giobbe ascolta dalla sua guida il racconto della formazione del mondo, età per età; — è il viaggio del pensiero attraverso l’abisso dell’infinito. Egli scopre, esulta, s’inebria, finchè arrivato al limite la natura gli dice; Arrestati! Icaro cade... Intanto Giobbe s’esalta dei nuovi orizzonti che gli si schiudon dinanzi, della virtù nuova che s’è [pg!234] fusa al suo spirito e che lo fa avido di comprendere, di spaziare, d’innalzarsi: In alto, in alto! all’etere Padre al fecondo sole Sorge ed inconscia palpita Ogni vivente prole; O che da germe cieco Sbocci o da grembo, o come verde smalto Erbeggi in prato, o induri in selva: o libera Discorra e voli, o bosco abiti o speco, Sempre dovunque un’intima Legge la chiama e la sospinge in alto. Manda la terra gli umidi Fumi dal seno, ond’hanno Nubi di vita gravide Gli astri al mutar dell’anno. Desti al gagliardo attrito Di secchi tronchi e resinose tede Guizzan dal foco gl’inquieti spiriti Ubbidienti ad un supremo invito; E, fiamma anch’essa, l’anima Lingueggia ardente ad un’eterea sede . . . . . . . . . . . . Ho finito per oggi, amabilissime. Non crediate però ch’io abbia inteso di farvi una rassegna del bel libro, nè che vi abbia comunicato tutte le mie impressioni. Mi mancano il sapere e lo spazio; due cose, vedete, essenziali. Ho solamente desiderato che conosciate un po’ più del titolo d’un’opera che fa onore all’Italia. Vi ho attinto per voi delle gemme, sì, ma molte altre ricchezze riposano nel fondo di quel piccolo mare. Un vero mare, con le sue glauche trasparenze, i suoi scogli, i suoi mostri, le sue perle, le sue falangi di deità invisibili, e le sue carcasse umane, la sua sinfonia di voci, e il gemito eterno d’un titanico dolore... [pg!235] Piccolo intermezzo in prosa. «.... Quando ero un garzonetto di circa nove anni, — mio zio mi fece domandare, — per cacciar il falco, cavalcare con lui, — e tenergli compagnia. E soffiò il vento del Nord, — il vento del Nord nell’uragano — e un sonno di morte piombò su di me, ed io caddi dal mio cavallo. La regina delle fate or mi tiene, nella sua collina verde per rimanerci; e sono un elfo leggiero e sottile, bionda fanciulla, non lo vedi tu?!...» (_Frammento d’una ballata Scozzese_). X. Lorenzo Stecchetti. Ancora un frutto vietato! Dio buono quanti! Di questa specie però ne avete assaggiati qualcuno ben mondo, ben inzuccherato, ben isolato in una coppa di cristallo, al giulebbe della musica di Rotoli e di Tosti. Qualche altro ve lo sbuccerò io, ma pochi. «Anche senza leccornie si vive» ha detto l’altro giorno con filosofia semplice e profonda un vecchio medico a un golosino di mia conoscenza. Parole che possono essere fondamento di una regola di vita — parole da scriversi in oro su ogni camera di fanciulla. Chi non conosce la gherminella ordita da Olindo Guerrini per dar maggior attrazione e pubblicità alle sue poesie? Chi non ha sentito intenerirsi il cuore [pg!236] pensando a quel povero tisico che scriveva, conscio della sua fine, versi così appassionati e soavi? Chi, vedendo sull’elzeviro quel titolo di «Postuma» e quell’avvertimento «Edito a cura degli amici» non ha riflettuto con un senso di sollievo che, dopo tutto, in questo mondaccio vi sono ancora degli animi nobili e disinteressati ne’ quali accanto allo sfolgoreggiante eroismo s’illumina e splende di luce propria la fiammella pallida e dolce della pietà? Oh gentile fratellanza di spiriti! Amicizia buona più forte de la morte! Povero Lorenzo Stecchetti, povera giovine vita falciata così! — E la melodia soave e triste di quei versi scendeva all’anima, e quei versi circonfusi da un’aureola di martirio, purificati, quasi, dalla morte, andavano a ruba, e alle imprecazioni, alle volgarità si applaudiva come al canone di una nuova scuola emancipata dalle ipocrisie, e le gemme poetiche si trasformavano in ghirlande per la tomba del grande e disconosciuto poeta. Infatti una vaghezza fresca, gracile, melanconica come quella di certe adolescenze destinate a non varcare il limite che le separa dalla giovinezza — una promessa fittizia di energia per l’età matura, ricascante spesso in un languore dolce o nella disperazione, qualchevolta in un’ironia heiniana — la sensazione lucida dell’immensa vanità del tutto, più sentita che espressa, come spesso i predestinati hanno: una delicatezza acuta troppo per la vita: — nulla manca per la verosimiglianza di quell’anima artificiale che lagrima, o raggia nel verso. Chi non ricorda il sospiro soavissimo: [pg!237] Voi che salite questo verde monte, E il silenzio cercate Dov’è più folto il bosco e chiaro il fonte, Anime innamorate, Pietà di me! Sul margin della via Seggo soletto e gramo, Ahi! grave, amanti, è la sventura mia! Pietà di me! non amo. d’un lirismo così dolce, così dimesso, così fuso col sentimento quasi di vergogna per la triste impotenza che inaridisce il cuore? C’è un alito di frescura e di pena come in un limbo. E questa di un’efficacia rappresentativa così sincera, così suggestiva: Nell’aria della sera umida e molle Era l’acuto odor dei campi arati, E noi salimmo insiem su questo colle Mentre il grillo stridea laggiù nei prati. L’occhio tuo di colomba era levato, Quasi muta preghiera al ciel stellato, Ed io che intesi quel che non dicevi M’innamorai di te perchè tacevi. Tutta la sinfonia della sera, l’elevazione nello spazio, verso il bene infinito, dei profumi delle voci, dei cuori. E pensando questa delicata sfumatura scritta da un povero ragazzo malato, l’anima vibra d’una pietà che è quasi una tenerezza. Ahimè, infatti il poeta è forse morto davvero.... Lorenzo Stecchetti è uno scapestrato, pure è capace di dare dei buoni consigli alle fanciulle. La poesia che termina con la famosa terzina: Quando ti specchierai ti dica il core Che una perla rubata a’ tuoi capelli, Solo una perla può salvar chi muore [pg!238] è tutta di avvertimento amoroso e severo come di un amico eletto. Un altro finissimo sentimento di pietà riguardosa, lo Stecchetti mette nel cuore e sulle labbra della donna amata: Questa notte in battello in alto mare Del mondo ci eravam dimenticati; Ci dicevamo le parole care Che san soltanto dir gl’innamorati . . . . . . . . . . . . . . Quand’ella tacque, da un pensier colpita, E dall’òmero mio la testa bionda Improvvisa levò come atterrita, E colla faccia stranamente fissa Nella notturna tenebra profonda: Taci — mi sussurrò — laggiù c’è Lissa! Eccovi per ultimo un accento vigoroso e splendido di vita e di verità: E pur mi sento nel cervello anch’io Qualche cosa che vive e che lavora; E pur quest’aura che il mio volto sfiora L’alito par dell’agitante Iddio! Talor, cedendo a’ sogni miei, m’avvio Per floridi sentier che il mondo ignora; Salgono i canti alle mie labbra allora E spero e credo nell’ingegno mio. Ma quando il dubbio mi risveglia, quando Via per la nebbia del mattin tranquille Sfuman le larve che seguii sognando, Colle man mi fo velo alle pupille E mi guardo nel core, e mi domando Sono un poeta o sono un imbecille? [pg!239] Ah, gl’imbecilli non hanno mai di questi dubbi, Lorenzo gentile! gli imbecilli non sapranno mai che cosa sia una di queste indefinibili intime lotte di chi sente lo spirito tutto cangiato in una sottile e tremolante fiammella — così sottile e così tremolante e così sacra che la vertigine prende al pensiero che potrebbe spegnersi, e che noi ne morremmo di freddo e di buio come se si spegnesse il sole. È vero: nessuno può toglierci i tesori dell’ingegno — ma li sentiamo così poco nostri! ma chi li possiede non può nemmeno solamente calcolarne il valore! non sa da che hanno avuto principio, se e come avran fine, se si rinnovellano, se si distruggono — e li sente ondeggiare in una paurosa fralezza, ed intuisce solo che sono una splendida somministrazione di una mano ignota e Divina, troppo splendida e troppo preziosa per noi giacchè quasi sempre si storpia nella forma della parola.... E se ne stanno, gli eletti, così a mani protese, come ciechi sotto una manna di rose. [pg!240] Piccolo intermezzo in prosa. «Quand’on découvre des grandes taches dans l’âme de ceux qu’on aime, il faut se consulter, se consulter et savoir si on peut les aimer encore malgré cela. Le plus sensé est de cesser, le plus généreux est de continuer.» _George Sand_ XI. Arrigo Boito. Basterebbe il «Mefistofele,» credo, per fare il nome d’Arrigo Boito immortale: il «Mefistofele» dalla musica descrittiva, dalla parola melodiosa, il vero dramma musicale, l’unità profonda, indissolubile, sognata da Wagner. «Danse, Musique et Poésie forment la ronde de l’Art vivant» scrive Edouard Schuré in fronte ad un suo indimenticabile libro e il Boito nell’accolta armoniosa delle tre Muse sorelle è giunto a posare il piede vittorioso sul polo vergine dell’Ideale. Ma non è di questo che volevo parlarvi, care amiche. Volevo scorrere con voi, oggi, qualcuno dei bizzarri canti del rubesto poeta al quale _il Libro dei versi_ e la stupenda leggenda di _Re Orso_ fruttarono già buona parte di gloria. Il Boito quantunque originalissimo fa parte di quella scuola che quando voi non eravate ancora arrivate al mondo chiamavano: dell’arte futura, e che ora, per la frettolosa [pg!241] evoluzione di questi ultimi anni, minaccia di appartenere all’arte del passato. Il Boito è sopratutto scultorio. Egli non può appagarsi, come tanti, d’idee, di larve, di fluttazioni e di miraggi; egli ha bisogno della forma definita, della materia, quasi, ha bisogno di foggiare, di plasmare, d’incarnare subito la sua ispirazione, di vedersela lì, sotto gli occhi, viva palpitante, umana. Quando scriveva quei due famosi versi che diventarono il catechismo del suo cenacolo: E non trovando il Bello Ci abbranchiamo all’Orrendo io credo che il bello lo cercasse dove non poteva trovarlo, dov’è soggetto a guastarsi, a immiserirsi: negli aspetti, non nell’anima delle cose. È sempre più artista che poeta; più favoleggiatore che sognatore. Anche le sue fantasie hanno tutte, direi, un piede in terra, si basano tutte sul reale, sul visibile; egli non idealizza il vero, ma umanizza la idealità. Qualche volta, inoltre, una certa intonazione irrisoria, amara, scettica che traspare, ci ricorda il ghigno e le contorsioni diaboliche del suo Mefistofele. Anch’egli par preferire gli odori resinosi e le macabre fantasie nordiche ai fiori irrorati dal plenilunio, fra i quali non si raccapezza e la sua fibra s’indebolisce rischiando di dare nel banale o nel grottesco; mentre nelle dipinture del pauroso, del mostruoso, del sinistro, è maestro. È proprio il rovescio del Praga, suo fratello d’arte, il quale non è mai così efficace e commovente come quando attinge alla semplice verità. Eccovi intanto, del Boito, un arguto madrigale scritto sotto la fotografia d’una signora: [pg!242] Arte nata da un raggio e da un veleno Su questo segno della tua potenza Mi si rivela appieno La tua duplice essenza. O arcane curve, ombre soavi, tocchi Luminosi, divine orme d’amore! Sento il raggio negli occhi E il veleno nel core. Il nome d’uno sconosciuto, letto sull’arca antica d’un chiostro gli ispira fra le altre queste strofe animate, direi volentieri irrequiete, come una fiamma: . . . . . . Il nome tuo tre secoli Passò ignorato e mero, Solo il trovâr le biche Dell’umili formiche E la pupilla inquieta D’un giovine poeta. Ed eri forse un genio A cui fallìa la gloria. Un pazïente anonimo Smascherator di storia. Un creätor d’orrende Romantiche leggende, O del poema nero Di Faust o d’Assuero. Forse una ragna pendula Fra due cippi romani Ti rivelò il miracolo Dei ponti americani, Forse per l’aura bruna Vedendo errar la luna Divinasti l’incauta Magìa dell’areonauta. [pg!243] Certo ti colse il torbido Problema del futuro Scavando i bei caratteri Sovra l’antico muro; Eri certo un poeta! Eri certo un profeta!! (O, idea vulgare e trista) Eri forse un copista. La padronanza e la disinvoltura dell’arte è sempre, come vedete, perfetta. Ma dove Arrigo Boito raggiunge una potenza meravigliosa è nella Fiaba di _Re Orso_. Vi s’incontrano accenti Shakesperiani. A voi, fanciulle, poco posso esporre di quella diabolica concezione, ma abbastanza spero per darvi un’idea della gagliarda originalità di tutto il lavoro. Udite: V. PAPIOL. Per le bimbe, per i pargoli Dalla fiaba impauriti, Per i nonni fra le tenebre Desti, pallidi, romiti, Cangerò la tetra nenïa In un verso allegro e matto, Colla storia ed il ritratto Del giullare Papïol. Fu il buffon da una mandragora Messo al mondo, e appena nato Era al par d’un dito mignolo Picciol, magro, affusolato; Poi restò sempre rachitico Fin ch’ei visse ed infermiccio, E la crosta d’un pasticcio Fu la culla di Papïol. [pg!244] Per cimiero ei porta un guscio Di castagna o di lumaca, Una pelle di lucertola È sua calza ed è sua braca; Gli filava una tarantola Cinque corde al suo liuto; E non v’ha giullar più astuto Del gobbetto Papïol. Tien la vespa il fine aculeo Dentro il corpo alidorato, Tal Papiolo entro la cintola Tiene un ago avvelenato, Con quell’ago ei fe cadavere Più d’un Duca e più d’un Conte, Per quell’ago sir Drogonte Venne spento da Papïol, Perchè un dì, presente il Principe, Arse vivo uno scorpione. Fu Papiolo eletto al titolo D’uom di Corte e Centurione; Sulla terra ancor non videsi Un più gracile arfasatto. Ecco i fasti ed il ritratto Del giullare Papïol. Bello non è vero? in quell’artificiosa rudezza popolare. Eccovi ora lo spunto d’un altro capitolo in cui traluce molto bene la personalità del poeta: Cessato è il nembo; — va volando intorno L’angiol del giorno — a spegnere le stelle E le fiammelle — che brillano sui fari Dei marinari. — L’esule chiesetta Dell’alta vetta — già si fa men bruna E ancor la luna Splende sull’ermo Bianca ed immota. Come una nota Di canto fermo. . . . . . . [pg!245] Questo è un quadretto raro e strano in cui ancora una volta l’artista ha vinto il poeta. In _Re Orso_ colgo pure la vaghissima serenata «Ago ed Arpa» che par uscita veramente dalla bocca di un trovatore a’ bei tempi di Clemenza Isaura di Tolosa: Io di Provenza tenero troviero Vorrei cantarti nella mia loquela, Chè più soave mi parrebbe e mero L’inno amoroso che il mio spirto inciela, Per te sui voli dell’idea cavalco, Cacciando le colombe del pensier; Tu fai di me, siccome fa col falco Il falconier. Tale m’alletta amoroso martòro Che giorno e notte vo cantando e ploro _Tan m’abelis l’amoros pensaman_ _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._ . . . . . . . Ier notte oravo, il mio fervor blandia Quasi un soffiar di celestiale avena, E mi si ruppe in cor l’_Ave-Maria_ Perchè appena fui giunto al _gratia plena_ Tu m’apparisti, angelicata donna, Tutta piena di grazia e di virtù. Certo salì la prece alla Madonna Ed a Gesù. Tale m’alletta amoroso martòro Che giorno e notte vo cantando e ploro. _Tan m’abelis l’amoros pensaman_ _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._ Ten vieni o Donna nel gentil paese Dove vibran le cetre e le mandòle, Dove nasce la vaga sirventese, Dove si parla in rimate parole, Ten vieni ed io ti guarderò, mio nume, Dai mali, dalle lotte e dai viventi, [pg!246] Qual si ripara colla palma un lume In mezzo ai venti. Tale m’alletta amoroso martôro Che giorno e notte vo cantando e ploro. _Tan m’abelis l’amoros pensaman_ _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._ Tutta la gentilezza romanzesca, la poesia malinconica degli amori irrimediabilmente lontani, i soli amori, forse, degni del nome divino. Quell’Avemmaria rotta in cuore dall’apparizione della dama, la tenera promessa di riparare Lei dai mali e dalle genti come una fiammella con la mano, sono immagini e ispirazioni che non possono essersi accese che nella mente di un contemporaneo di Rudello e di Bernardo di Ventadorn, venute attraverso i secoli, come un’emanazione, nella mente di Arrigo Boito che le ha tradotte in tutta la loro freschezza nativa. Dopo questa, ogni altra cosa par sbiadita. Ma qualche fanciulla pensosa amerà forse ch’io le ripeta i gentili versi sulla conchiglia, che emergono come un fiore dall’alto e fragile stelo fra la fioritura d’Ero e Leandro; i versi che rappresentano fulgidamente la profetica virtù che le fanciulle, custodi di ogni poesia, amano tanto di attribuire alle cose inanimate, rinnovellando in forma blanda l’oracolo antico: Conchiglia rosea Del patrio lido Piccolo nido, Del vasto mar. Dell’alma Venere Culla e flottiglia Rosea conchiglia. In te ricircolano Mille volute Che fan che mormorino Fin l’aure mute. Tu canti e sfolgori Coro fra i cori Oro fra gli ori Del sacro altar. [pg!247] Entro ti palpitano Le nettunine Ninfe che avvincolansi D’aliga il crine E tutti i zeffiri, Pel cielo erranti E tutti i canti Del pescator. Dimmi l’oracolo Di mia fortuna, Tu della duna Eco e splendor. Parla, la vergine Cupida origlia, Rosea conchiglia. L’api che ronzano Fra gli oleandri Ne’ tuoi meandri Odonsi ancor. Un trillo eolio In te bisbiglia Rosea conchiglia. Parla... e che? turbinano Sconvolte l’onde! Crollan.... rigurgitano... Alte e profonde. E sull’equorea Terribil ira Piomba la diva Furia del tuon. Orror profetico! Rombo bïeco! Terribil eco! Ria visïon! Fuggi! Ho una lagrima Sulle mie ciglia Tetra conchiglia! E ora quelle fra voi che presto calcheranno la piccola orma sulla sabbia di qualche beato cantuccio di spiaggia italiana, non dimentichino di insudiciarsi la punta delle dita per strappare al tepido e bigio umidore delle labbra del mare una delle sue ruvide margherite. E non siano presagi di tempeste il risultato del responso capriccioso, ma sogni di pace nel ronzìo delle pecchie, nell’alitare dei zeffiri, nelle nenie dei pescatori. [pg!248] Piccolo intermezzo in prosa. «.... la connaissance du coeur humain conduit à l’indulgence et à la bonté.» _Flammarion._ XII. Giosuè Carducci. Onoriamo l’altissimo poeta, il nostro Carducci — una gloria vivente d’Italia.⁸ Dopo, direte addio al mio verziere e ho caro che nelle vostre menti giovinette rimanga più a lungo l’immagine sua. Voi dovete essere, lo ripeto, fanciulle, le vestali dell’ideale, le custodi dei sentimenti grandi e buoni, è a voi di ricordare che ancora al mondo ne rimane la diva scintilla: a voi di ridestare i già spenti, di bandire crociate contro gli apostata dei primi obblighi sacri delle giovinezze studiose: la riverenza e la gratitudine. In ogni tempo e in ogni luogo la superiorità dello spirito o del cuore si pagò e si paga assai cara; è intorno alle roccie titaniche che i flutti si frangono con più sonante rimescolìo — sulle basse scogliere l’onda passa tranquilla, obliosa, irridendo. La vita dei grandi è travagliata, infelice — ma quante amarezze che la gloria non lenì, raddolcirono bianche mani femminili null’altro che col posarsi su di una fronte! Ricordatelo, voi, che siete la primavera che promette e l’avvenire che si sogna. ⁸ Quando fu scritto questo capitolo l’illustre poeta viveva ancora. Lasciando da parte, dunque, le opere più note del poeta, — che a scuola o a casa persone assai più valenti di me vi hanno commentato — rivolgeremo [pg!249] la nostra attenzione alle creazioni minori, nelle quali pure le qualità adamantine del padre rifulgono in tutta la lor classica purezza. Io ho un po’ di manìa per le opere minori in genere, che non di rado preferisco alle altre perchè, mentre serbano l’aria di famiglia, hanno quasi sempre un abbandono più ingenuo e più grazioso. Sono belle bimbe vestite da casa al confronto delle sorelle già al vertice della giovinezza rigogliosa, abbigliate per una comparsa ufficiale nel mondo. C’è il fàscino dell’inesplorato, del romito e della brevità come nelle scorciatoie in confronto alle vie maestre — l’attrattiva d’un salottino intimo e abitato, in paragone ad un salone per i ricevimenti di parata — la promessa vaga di una quantità di piccoli incidenti impreveduti, di cento piccole meraviglie inattese, di mille suggestioni insperate — come in un’escursione a piedi invece di un viaggio in ferrovia. E così potrei moltiplicarvi gli esempi all’infinito. Ma già voi mi avete intesa a volo. L’anima del poeta pare riguardare in sè stessa senz’altra cura che di meriggiare, e di questo riposo viene a noi pure un refrigerio soave. Se è addolorato, il suo dolore è dimesso — se gaio, la sua gaiezza è infantile. Così è il Canzoniere che mi rivela più lucidamente lo spirito di Dante, il _Rinaldo_ che rende la freschezza d’immaginazione del Tasso intorpidita nella sua celebre Gerusalemme: e uno dei più schietti modelli di poesia italiana ci viene offerto da una produzione tutta intima della quale l’autore — il Petrarca — quasi si vergognava. Ma _qui regna Carducci_. Parliamo di lui. Si può ammirarlo, il Carducci, con più o meno entusiasmo, ma il suo ingegno non si può discutere. È classico, determinato, possente, qualche volta [pg!250] formidabile: — efficacemente sintetico sempre — condizione essenzialissima per una forte vitalità poetica. Come da un terso blocco di marmo pario, egli cava dalla sua mente ogni sorta di capolavori, che il sole dell’arte illumina e riscalda. Monumenti colossali e statuette da salotto — gruppi armoniosi e bassorilievi purissimi — arche d’una divina sobrietà trecentista su cui il simulacro del guerriero, come stanco, riposa colle mani in croce tutto armato, e guglie aguzze di qualche magnifico edificio che sfida il tempo. Qualche volta non ne ricava che una lapide nuda, fredda, ma ci scolpisce su qualche parola che infiamma. Quando narra di storia, diletta come se ci facesse passare dinanzi agli occhi una serie di quadri dei floridi pittori veneti del cinquecento — quando fantastica, ci trasporta sulla poderosa ala d’aquila fino al sole — quando ricorda o rimpiange, ha l’abbandono pieno di pietà d’una querce abbattuta — d’un rudero invaso d’edera — di qualche cosa di grande e di già vittorioso piegato e vinto. Ma meglio che le mie sbiadite parole vi cesellerà egli medesimo l’immagine propria. Tolgo molto dalle _Rime Nuove_, raccolta de’ suoi versi che io preferisco. Ecco come questo spirito di titano intende il poeta: . . . . . . . Il poeta è un grande artiere, Che a ’l mestiere Fece i muscoli d’acciaio: Capo ha fier, collo robusto. Nudo il busto, Duro il braccio e l’occhio gaio. Non appena l’augel pìa E giulìa Ride l’alba e la collina, [pg!251] Ei co ’l mantice ridesta Fiamma e festa E lavor ne la fucina; E la fiamma guizza e brilla E sfavilla E rosseggia balda audace, E poi sibila e poi rugge E poi fugge Scoppiettando da la brace. Che sia ciò non lo so io; Lo sa Dio Che sorride a ’l grande artiero. Ne le fiamme così ardenti Gli elementi De l’amore e de ’l pensiero Egli getta, e le memorie E le glorie De’ suoi padri e di sua gente. Il passato e l’avvenire A finire Va ne ’l masso incandescente. Ei l’afferra, e poi de ’l maglio Co ’l travaglio Ei lo doma su l’incude. Picchia e canta. Il sole ascende, E risplende Su la fronte e l’opra rude. Picchia. E per la libertade Ecco spade, Ecco scudi di fortezza: Ecco serti di vittoria Per la gloria, E diademi a la bellezza. [pg!252] Picchia. Ed ecco istoriati A i penati Tabernacoli ed a ’l rito: Ecco tripodi ed altari, Ecco rari Fregi e vasi pe ’l convito. Per sè il pover manuale Fa uno strale D’oro, e il lancia contro ’l sole: Guarda come in alto ascenda E risplenda, Guarda e gode e più non vuole. Oh così, così mie fanciulle, erano i bardi dell’età passata — così confidiamo che siano quelli dell’avvenire! Avete sentito che gagliardìa d’ispirazione e di tocco, che nitidezza di espressione — come il Carducci è padrone della lingua, del verso, della rima, come è poeta in essenza e artefice nella manifestazione? Oh sì, il rude artiero che doma la materia e col robusto braccio foggia cose sì gentili baciato dal sole levante è lui — ahimè, forse solo. Il Carducci ha radicato e vigile l’amore della sua terra al cui pensiero fra il tempestar delle passioni spesso ricorre come a un ritornello blando e addormiente. Questo sonetto è una particella viva di cuore: TRAVERSANDO LA MAREMMA PISANA. Dolce paese, onde portai conforme L’abito fiero e lo sdegnoso canto E il petto ov’odio e amor mai non s’addorme. Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. Ben riconosco in te le usate forme Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto, E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme Erranti dietro il giovanile incanto. [pg!253] Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; E dimani cadrò. Ma di lontano Pace dicono a ’l cuor le tue colline Con le nebbie sfumanti è il verde piano Ridente ne le pioggie mattutine. Eccovi, giovinette, una _Mattinata_ tutta giovine, tutta rugiadosa. Mi piace trascriverla perchè è uno stupore di bellezza, poi perchè la mia anima ode insieme a quelle parole l’eco d’un’armonia e d’una voce ora mute per sempre.... Batte alla tua finestra, e dice, il sole: Levati, bella, ch’è tempo d’amare. Io ti reco i desir de le vïole E gl’inni delle rose a ’l risvegliare. Da ’l mio splendido regno a farti omaggio Io ti meno valletti aprile e maggio E il giovin anno che la fuga affrena Su ’l fior de la tua vaga età serena. Batte a la tua finestra, e dice, il vento: Per monti e piani ho viaggiato tanto! Sol uno de la terra oggi è il concento, E de’ vivi e de’ morti un solo è il canto, De’ nidi a i verdi boschi ecco il richiamo: — Il tempo torna: amiamo, amiamo, amiamo — E il sospir de le tombe rinfiorate: — Il tempo passa: amate, amate, amate. — Batte a ’l tuo cor, ch’è un bel giardino in fiore, Il mio pensiero, e dice: Si può entrare? Io sono un triste antico vïatore E sono stanco e vorrei riposare, Vorrei posar tra questi lieti mai Un ben sognando che non fu ancor mai: Vorrei posar in questa gioia pia Sognando un bene che giammai non fia. [pg!254] Come questa perfezione di leggiadria sfavillava nei tuoi canti, povero e caro ragazzo! Come mi fa male, ora, il ricordo di quell’accento quasi nostalgico con cui pronunziavi le parole sovrumane... con cui dicevi di voler riposare sognando un bene che nel nostro mondo non c’è... Fanciulle mie, siamo oramai alle soglie del verziere, perdonatemi questo ultimo indugio. Vedete, si delinea già come un miraggio una vignetta delicatissima: La stagione lieta e l’abito gentile Ancor sorride a la memoria in cima E il verde colle ov’io la vidi prima. Brillava a l’aere e a l’acque il novo aprile, Piegavan sotto il fiato di ponente Le fronde a tremolar soavemente. Ed ella per la tenera foresta Bionda cantava a ’l sole in bianca vesta. Ecco in otto versi la manifestazione più ampia e più profonda della primavera. Ora udite come parla Giosuè Carducci del mio paese. Dovreste saperla tutte a memoria la seguente poesia, forti fanciulle che guardate cogli occhi bruni e fieri riflettersi le stelle nel piccolo Reno: _piccolo d’onde e di valor gigante_; il Monti dice. Il Carducci si rivolge a Severino Ferrari — un simpatico poeta celebratore della sua nativa campagna emiliana: O Severino, de’ tuoi canti il nido, Il covo de’ tuoi sogni io ben lo so, Ondeggiante di canape è l’infido Piano che sfugge a ’l curvo Reno e al Pò. [pg!255] Da gli scopeti de la bassa landa Pigro il pizzaccherin si drizza a volo: Con gli strilli di chi mercè dimanda Levasi de le arzàgole lo stuolo, Stampando l’ombra su per l’acqua lenta Ove l’anguilla maturando sta. Oh desìo di canzoni, oh sonnolenta Smania di sogni ne l’immensità! Oh largo su gli alti argini del fiume Risplender rosso de l’estiva sera! Oh palpitante de la luna a ’l lume Tenero verdeggiar di primavera! Quando i pioppi contemplano le stelle Innamorati con lungo sospir, Ed un lontano suon di romanelle Viene da’ canapai lento a morir! Allor che agosto cada, o Severino, E chiamin l’acqua le rane canore, Noi tornerem poeti all’Alberino, Tutti solinghi in bei pensier d’amore. Ed a’ tuoi pioppi ne le notti chete Noi chiederem con desiosa fè: O alti pioppi che tutto vedete Ditene dunque: Biancofiore ov’è? Siede in riva a un bel fiume? o il colle varca Tessendo a ’l capo un cerchio agil di fiori? O dentro una sestina de ’l Petrarca Beata ride i nostri vani amori? Anch’io saluto ancora una volta passando, la vostra immagine, o alti pioppi che tutto vedete — che vi incurvaste, giganti benigni, alla mia debole [pg!256] infanzia; — alti pioppi dalla rude base frondosa nell’ombra, dalla cima esile intrisa di luce, come un grandioso sogno umanitario! Quando l’anima è di poeta, da ogni più insignificante episodio, da ogni più arida pagina di storia sbocciano fiori. Il _comune rustico_ per andamento di verso, per l’elegante semplicità quasi ingenua che vi spira dentro e che si modella meravigliosamente all’idea, per efficacia di rappresentazione, è una gemma. Un simbolista direbbe: uno smeraldo. O che tra faggi e abeti erma su i campi Smeraldini la fredda ombra si stampi A ’l sole de ’l mattin puro e leggero, O che foscheggi immobile ne ’l giorno Morente su le sparse ville intorno A la chiesa che prega o a ’l cimitero Che tace, o noci de la Carnia, addio! Erra tra i vostri rami il pensier mio Sognando l’ombre d’un tempo che fu. Non paure di morti ed in congreghe Diavoli goffi con bizzarre streghe, Ma de ’l comun la rustica virtù Accampata a l’opaca ampia frescura Veggo ne la stagion de la pastura Dopo la messa il giorno de la festa. Il Consol dice, e poste ha pria le mani Sopra i santi segnacoli cristiani: — Ecco, io parto fra voi quella foresta D’abeti e pini ove a ’l confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia E la belante a quelle cime là. E voi, se l’unno o se lo slavo invade Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, Morrete per la nostra libertà. — [pg!257] Un fremito d’orgoglio empiva i petti, Ergea le bionde teste, e de gli eletti In su le fronti il sol grande feriva. Ma le donne piangenti sotto i veli Invocavano la Madre alma de’ cieli. Con la man tesa il Console seguiva: — Questo, a ’l nome di Cristo e di Maria, Ordino e voglio che ne ’l popol sia, A man levate il popol dicea: Sì. E le rosse giovenche di su ’l prato Vedean passare il piccolo senato, Brillando su gli abeti il mezzodì. Termino con un sonetto giovanile non molto conosciuto, credo. È classicamente severo, è mesto, eloquente. S’indirizza in fine alla giovinezza — così amo ripeterlo associandovi nel mio pensiero a una memoria cara mentre la vita che ancora per voi non è che un dolce ritmo di danza vi attira fuori dal mio verziere. Io ci rimango a far l’ortolana, faticosamente, placidamente: Se affetto altro mortal per te si cura, Spirto gentil cui diamo il rito pio, Pon dal ciel mente a questa vita oscura Che già ti piacque e al bel nido natìo. Vedi la patria come sua sventura Di tua candida vita il fato rio Piangere, e ’l fior degli anni tuoi cui dura Preme l’ombra di morte e il freddo oblìo. Quindi ne impetra tu che a te simile Dritta all’oprar, modesta alla parola, Cresca la bella gioventù virìle: E senta come a fatti egregi è scola Anco una tomba cui pietà civile E largo pianto popolar consola. Casa Edit. L. CAPPELLI — Rocca S. Casciano Jolanda LE TRE MARIE ROMANZO 3ª Edizione — Elegante Volume in-16 di pag. 400 Tutte le pagine di questo romanzo sono ispirate ai sentimenti di Fede, di Famiglia, di Patria e condotte sempre con quella lucidità di concetto, con quella finezza di sentimento, con quell’eleganza di forma che tanto distinguono ormai l’illustre scrittrice. Così tutto il romanzo s’intesse su di un soggetto semplice ed elevato: la vita domestica, cioè, di tre giovinette, _Le Tre Marie_, che, diverse tra loro per indole, per educazione, per condizione sociale, offrono uno studio variato, gentile di anime e di sentimenti, di lotte e doveri, di sofferenze e di dolcezze, di leggerezze, di cuori, di sentimenti. Tutto si svolge con la più appropriata naturalezza, mentre l’amore vi aleggia sempre or umile e confortato, or grande e soave, ora appassionato e ardente. Prezzo Lire 4 Bruna L’Intima Fiamma LIRICHE Fiamma di sdegno, per tutto quanto è inganno e perfidia, fiamma d’amore per ogni cosa dolce e bella, ecco l’intima essenza di questo nuovo libro della già nota poetessa emiliana. L’elegantissimo volumetto rivela una veemenza, un ardimento, una vigorìa insolita nella lira già languida e soavemente mesta dell’autrice dei _Canti di Capinera_ e de _L’ermo sentiero_. Veramente nelle cinquanta liriche che compongono il volume arde una fiamma nascosta che le colorisce e le anima infondendo loro un soffio di passione, a molte tragicamente selvaggia! Ma, ecco passato il turbine, l’armonia soave dei canti ispirati alla bellezza della natura, alle gioie dell’amicizia, al bagliore di un sogno fuggente, dilaga e carezza l’orecchio, come suono di liuto nella tranquillità d’una notte lunare. Lire UNA Silvia Albertoni-Tagliavini L’OMBRA ROMANZO Un bel volume in-16 di pagine 350. Una questione importantissima, intorno a cui la società non riesce a dire l’ultima parola, _il duello_, ha ispirato alla nota scrittrice un romanzo che è un fino studio psicologico, e che, pur mirando a uno scopo, non ha nulla di comune con la monotona pesantezza degli antichi romanzi _a tesi_. Un intreccio semplice, uno di quei casi che possono sembrar strani, ma di cui la _vita vissuta_ ci offre a mille gli esempi; un profondo studio delle anime; smaglianti ed evidenti descrizioni prese dal vero, in cui palpitano dinanzi ai nostri occhi varie scene dell’incantato mar Ligure, ecco il libro che oggi la signora Albertoni-Tagliavini ci offre. Il romanzo ha in sè doti capaci di attirargli l’attenzione di ogni genere di lettori, ma è specialmente destinato a incontrare la simpatia delle signore e signorine, a cui non è dato ogni giorno di trovare un libro bello e interessante, che si possa leggere.... senza arrossire. Prezzo Lire 2,50 Enrica Grasso FRA DUE SILENZI RACCONTO Elegante volume in-16 di pagine 170. La protagonista è — Clara — una giovine nata e cresciuta in un ambiente freddo e diffidente. Le stagioni e gli anni si succedono per essa uniformi, e, quando s’accorge ch’è primavera e che il cuore palpita — le espressioni dubbie e le diffidenze paurose della madre, come una doccia fredda, le gelano l’anima, le attutiscono il cuore. — Ma il tesoro grande d’amore, di cui è pieno il suo cuore gentile, erompe dopo la morte de’ genitori, quando, ricca e sola, il bacio di un fanciullo, di un cherubino — abbandonato — la conquide, e Clara passa rapidamente da la desolazione a la felicità ch’è duratura, che tutto irrora e tutto inonda di gioia, di bello, di bene. E il Dottor Alberoni? Che bell’anima! E sua sorella? E tutto l’intreccio così naturale, così ben condotto? Ma dopo l’amaro il dolce, dopo il dolce ancora l’amaro per Clara ma questo ultimo è frutto de l’amore puro, sovrumano che adduce al sacrifizio, sodisfazione ambita da le anime elette, fine ultimo di ogni loro dedizione. Prezzo Lire 2 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (leggiadria/leggiadrìa, suicidi/suicidî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): 15 — Per insegnare? Ebbene [Ebbe] anche noi! 34 — Camillo Checcucci [Checchucci] e il suo poema 59 — dello squisito pseudonimo [pseudomino] di Carmen Sylva 61 — non si troverebbero [trovorebbero] le stesse aspirazioni 100 — Visione di Franz Liszt [Frantz Listz] 101 — sonetti dello Shakespeare [Shakspeare] 172 — resta nascosto nel sancta-sanctorum [sancta-sanctorom] 212 — non esalti l’ombra auspice [aupisce] 249 — quasi sempre un abbandono [un’abbandono] *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL MIO VERZIERE : SAGGI DI POLEMICA E DI CRITICA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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