The Project Gutenberg EBook of Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni, by Jonathan Swift This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni Author: Jonathan Swift Commentator: Walter Scott Translator: Gaetano Barbieri Release Date: January 15, 2020 [EBook #61179] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK VIAGGI DI GULLIVER NELLE *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) VIAGGI DI GULLIVER NELLE LONTANE REGIONI, PER GIONATAN SWIFT. VERSIONE DALL'INGLESE DI GAETANO BARBIERI CON DISEGNI DI GRANDVILLE. MILANO VEDOVA DI A. F. STELLA E GIACOMO FIGLIO. 1842. TIPOGRAFIA GUGLIELMINI E REDAELLI. NOTIZIA BIOGRAFICA E LETTERARIA DI GIONATAN SWIFT TOLTA DA GUALTIERO SCOTT. La vita di Gionatan Swift è un soggetto inesausto di vezzo e d'istruzione per tutti coloro cui piace meditare le vicissitudini degli uomini celebri pei loro talenti e per la loro rinomanza. Privo d'ogni sussidio al suo nascere, debitore del suo sostentamento e della sua educazione alla fredda e non curante carità di due zii, non distinto per laurea conseguita a veruna università, abbandonato per molti anni al patrocinio impotente del cavaliere Guglielmo Temple, le prime pagine della storia di Swift presentano il quadro del genio umiliato e deluso nelle sue speranze. A malgrado di tutti questi svantaggi, egli pervenne ad essere l'anima d'un ministero britannico, il più abile difensore di un sistema di amministrazione, l'intimo amico di quanti personaggi notabili per nobiltà od ingegno vissero sotto il regno della regina Anna. Gli avvenimenti degli ultimi anni della sua vita offrono un'antitesi non meno sorprendente. Avvolto nella disgrazia de' suoi protettori, vittima della persecuzione, costretto a bandirsi dall'Inghilterra e a disgiugnersi dai suoi amici, salì tutt'in un tratto a tal grado di popolarità che lo rese l'idolo dell'Irlanda e il terrore di quanti governarono quel reame. Nè meno straordinaria è la sua vita privata. Amò, teneramente riamato, due delle più belle ed avvenenti donne della sua età; pur era ne' suoi destini il non unirsi con nessuna di esse in un nodo fortunato e tranquillo, e il vederle l'una dopo l'altra scendere nella tomba, lasciandogli il convincimento che morivano dal cordoglio di saper deluse le loro speranze e il loro amore mal compensato. I talenti di Swift, sorgente della sua rinomanza, il cui splendore avea per sì lungo tempo formato la sorpresa e il diletto de' suoi contemporanei, vennero appannati dalle infermità, pervertiti dalle passioni nella proporzione dell'avvicinarsi del termine de' suoi giorni, e prima che vi arrivasse erano già inferiori a quelli del più volgare degli uomini. La vita di Swift è pertanto una lezione importante per gli uomini celebri; essa insegna loro che, se per una parte il genio non dee mai lasciarsi sconfortare dalla sventura, la rinomanza, comunque grande ella sia, non dee mai incoraggiare la presunzione. Nel leggere la storia di quest'uomo illustre, tutti coloro i quali non sortirono dalla natura le fulgide qualità del suo ingegno, o mancarono d'occasioni per farle valere, si convinceranno che la felicità umana non dipende o da una grande influenza politica o da una gloria abbagliante. I. Gionatan Swift, dottore in teologia e decano di San Patrizio a Dublino, discendea da un ramo cadetto della famiglia degli Swift della contea d'York, stanziatasi in questa provincia da molti anni. Il padre di lui era il sesto o settimo dei figli di Tomaso Swift, vicario di Goodrich; la numerosa prole avuta da questo ecclesiastico, e la tenuità del patrimonio che le lasciò, non hanno permesso il notare con maggiore esattezza l'ordine della sua discendenza. Il decano ne racconta egli stesso che suo padre ebbe qualche impiego amministrativo nell'Irlanda. Gionatan nacque a Dublino in una casipola posta nella Corte d'Hocys, che gli abitanti di quel quartiere additano tuttavia alla curiosità dei viaggiatori. La sua infanzia venne contrassegnata da un avvenimento in qualche modo corrispondente ad altro occorso al padre di lui, la culla del quale poco dopo il suo nascere fu portata via dai soldati: questa volta la cosa involata fu lo stesso fanciullo, ma i rapitori non furono soldati. La nudrice di Gionatan, nativa di Whitehaven, era stata richiamata nel suo paese da un parente moribondo, dal quale ella si aspettava un legato. Affezionata oltre ogni dire al bambino affidato alle sue cure, se lo portò via con sè senza renderne consapevole la madre, che lo seppe più tardi. Rimase tre anni a Whitehaven, perchè in vista della gracile di lui salute, la madre stessa non volle si rischiasse un secondo viaggio, e preferì lasciarlo alla buona donna che avea dato sì grande prova, ancorchè bizzarra, d'amarlo. Questa cordialissima balia mise tanta sollecitudine nell'educare il suo allievo, che, quando tornò a Dublino, sapea compitare; a cinque anni leggeva la Bibbia. Partecipe dell'indigenza di una madre ch'egli amava teneramente, visse delle beneficenze d'uno zio, di nome Godwin, stato di dipendenza che parve sin dall'infanzia aver prodotta una profonda impressione su l'altero animo di Gionatan; fin d'allora principiò a manifestarsi in lui quello spirito di misantropia che perdè soltanto col perdere le morali sue facoltà. Nato dopo la morte del padre, si avvezzò di buon'ora a riguardare come infausto il giorno della sua nascita, nè tralasciò mai nel suo anniversario di leggere quel passo della Scrittura in cui Giobbe deplora ed impreca l'ora nella quale fu annunziata nella sua casa paterna la nascita d'un maschio. Di sei anni fu mandato alla scuola di Kilkenny, fondata e dotata dalla famiglia d'Ormond. Si mostra tuttavia agli stranieri il suo leggio, ov'egli aveva intagliato il proprio nome con un temperino. Giunto all'età di quattordici anni, venne trasferito da Kilkenny al collegio della Trinità di Dublino. Apparisce dai registri locali che vi sia stato ricevuto come _pensionario_ il 21 aprile 1682; ebbe per maestro Sante Giorgio Ashe. Sotto la medesima data venne ammesso nella stessa qualità il cugino di lui, Tomaso Swift, onde i due cognomi eguali portati a registro senza i nomi di battesimo hanno fatto nascere qualche incertezza sopra alcuni più minuti particolari della biografia del decano. Ammesso all'università; si pretese che desse opera agli studii più in voga a quell'epoca, alcuni dei quali al genio di lui mal s'affacevano; invano gli fu raccomandato l'applicarsi a quella che allora chiamavasi logica, e che veniva riputata la regina delle scienze; Swift sentì una naturale repugnanza per gli Smiglecius, i Keckermannus, i Burgersdicius e altri gravi dottori che sappiamo appena oggidì se abbiano mai esistito. Il suo maestro non riuscì mai a fargli leggere due pagine di quei dotti dalla desinenza in _us_, e d'altra parte era indispensabile l'avere almeno una tintura dei comentarii d'Aristotele per uscir dell'esame con buon successo. Ma a ciò non badando il giovinetto Swift trasandava, come gli studii aristotelici, tutti gli altri che non gli garbavano. Se leggeva, lo facea meno per addottrinarsi che per divertirsi, e scacciar da sè i pensieri malinconici. Ma tal genere di letture era necessariamente variato; convien dire per altro che avesse letto assai, perchè avea già messo in carta un abbozzo del suo _Tale of a tub_,[1] che fece vedere al suo collega Waryng. Che dobbiamo concludere da ciò? Che uno studente svogliato del secolo decimosettimo potea, mercè le letture di passatempo fatte in ore d'ozio, acquistar nozioni da far trasecolare uno studente attento dei nostri giorni.[2] Manchiamo d'indizii certi per giudicare su l'estensione del sapere di Swift, possiamo soltanto affermare che era variato. Gli scritti di lui danno a vedere che la storia e la poesia, antiche e moderne, gli furono famigliari; nol vediamo mai imbarazzato nel citare ad appoggio del soggetto da lui trattato i brani dell'opere classiche più adatti a rischiararlo. Benchè non mostrasse fare un gran caso delle proprie nozioni, e incolpasse la propria negligenza ed ignoranza dell'aver perduto un grado d'università, benchè non risparmiasse veementi censure a coloro che accordavano una patente di dotto a chi non aveva dedicata la maggior parte della propria vita allo studio, pure non apprezzava molto uno studente il cui solo merito fosse la diligenza. Intantochè Swift continuava così il corso de' suoi studii a seconda de' propri capricci, avrebbe dovuto interrompere anche questi, atteso la morte del suo zio Godwin (dalla quale apparve che nemmeno gli affari domestici di chi lo manteneva in collegio, erano splendidissimi), se non avesse trovato un novello soccorritore in un altro zio paterno Dryden Guglielmo Swift, che nell'aiutarlo mise un po' più d'impegno e di discernimento del fratello Godwin; il male era che il suo patrimonio non gli permetteva di essere gran fatto più liberale del defunto. Ad ogni modo Swift ne ha sempre benedetta la memoria, ed ha parlato di lui come del migliore de' suoi congiunti. Raccontava spesse volte un incidente occorsogli mentre era in collegio, incidente di cui fu l'eroe un suo cugino, Willoughby Swift, figlio di Dryden Guglielmo. Gionatan Swift, in un momento di tal penuria che non gli lasciava avere un soldo in borsa, sedea pensieroso nella sua camera, donde vide nel cortile un marinaio che pareva chiedesse conto della stanza di uno studente. Gli saltò in pensiere che quest'uomo potesse essere incaricato d'un qualche messaggio inviatogli da suo cugino Willoughby, in quel tempo negoziante stanziato in Lisbona. Stava accarezzando una simile idea, allorchè, apertosi l'uscio della sua camera, gli si offre alla vista il marinaio, che trattasi di tasca una grande borsa di cuoio piena di danaro, lo versa sopra una tavola, additandolo effettivamente per un presente del cugino Willoughby. Swift, fatto estatico, offre al messaggere una parte del suo tesoro che l'onesto marinaio non volle accettare. Da quel momento Swift, che avea conosciute le disgrazie dell'indigenza, fermò il proposito di regolare le sue tenui rendite in guisa da non vedersi più mai ridotto a simili estremità. Infatti mise tanto ordine nel suo sistema di vivere, che, come apparisce dai suoi giornali che si sono conservati, ha potuto render conto esatto a un dipresso della sua spesa annuale, cominciando dal tempo della sua dimora in collegio, e venendo al momento in cui perdè l'uso delle mentali sue facoltà. Nel 1688 scoppiò la guerra in Irlanda: Swift allora toccava il ventunesimo anno; leggiero di borsa, se non d'istruzioni, in concetto di mancare anche di queste, col credito in oltre d'insubordinato e accattabrighe connesso col suo carattere, senza avere un solo amico che potesse proteggerlo, fargli buona accoglienza, agevolargli i mezzi di vivere, diede un addio in tal momento e sotto tali auspizi al collegio di Dublino. Mosso, è da credersi, più da tenerezza filiale che da nessuna speranza, s'avviò alla volta dell'Inghilterra, donde cercò tosto sua madre, che dimorava allora nella contea di Leicester. Mistress Swift, che si trovava anch'essa in uno stato di dipendenza ed angusto, gl'insinuò di sollecitare la protezione del cavaliere Guglielmo Temple, la cui moglie le era parente, e che avea conosciuto la famiglia degli Swift; infatti, Tomaso Swift, cugino del nostro autore, era stato cappellano del cavaliere Guglielmo. La domanda fu fatta, e venne ben accolta; ma su le prime Guglielmo Temple non diede alcuna notabile prova di fiducia e di affezione al suo protetto. Il perfetto statista, l'amabile letterato non fu probabilmente soddisfatto gran che del carattere irritabile e delle nozioni imperfette del novello commensale. Ma le preoccupazioni sfavorevoli del cavaliere si andarono gradatamente diminuendo. Swift era fornito di uno spirito osservatore, e questo spirito, un po' prima, un po' dopo, dovè acquistargli grazia presso l'illustre patrocinatore; oltrechè, Swift in allora accrebbe le proprie nozioni con uno studio continuato cui dedicava otto ore di ciascun giorno. Un tempo sì ben impiegato e congiunto colle facoltà intellettuali che Swift possedea, lo resero ben presto un inestimabile tesoro pel signor Temple, col quale convisse due anni. La cattiva salute di Swift lo costrinse ad interrompere i suoi studi. Una indigestione gli aveva indebolito lo stomaco ed assoggettato lui a certi vaneggiamenti che lo trassero una volta in punto di morte, e dei quali sperimentò le infauste conseguenze per tutto il resto della sua vita. Vi fu un tempo in cui si trovò sì ridotto in mal essere, che cercò l'Irlanda colla speranza di trovar qualche miglioramento nel clima nativo; ma deluso in tale espettazione, tornò a Moor-Park, ove dedicava allo studio gl'intervalli che gli lasciava liberi quella specie d'infermità. Dopo questo suo ritorno, il cavaliere Temple gli diede il massimo contrassegno di confidenza, col permettergli di essere presente ai suoi intertenimenti segreti col re Guglielmo, ogni qual volta il monarca si trasferiva a Moor-Park, onore che il cavaliere Temple doveva all'intrinsichezza antica tra lui e Guglielmo statolder d'Olanda, che Temple riceveva con rispettosa famigliarità, e che contraccambiava con suggerimenti costituzionali. Ogni qual volta la gotta confinava in letto Temple, Swift aveva l'illustre incarico d'accompagnare il monarca; tutti i biografi di questo poeta hanno ripetuto che il re Guglielmo gli offerse il comando d'una compagnia di cavalleria, e gl'insegnò ad apparecchiare gli sparagi alla foggia olandese; non accettò quel comando. Sarebbe un'ingiustizia il tacere al leggitore qual vantaggio Swift potesse ritrarre dal secondo di tali regii favori; esso consisteva nell'abilità di mangiare la testa e la coda di questo frutto degli orti. Ma vantaggi ben più rilevanti lusingarono l'ambizione di lui; gli fu fatta sperare una promozione nella carriera ecclesiastica, cui s'era dedicato per inclinazione e per la prospettiva che gli si schiudeva dinanzi. La grande fiducia di cui veniva onorato in allora giustificava cotali espettazioni. Il cavaliere Guglielmo Temple gli affidò la commissione di presentare al re Guglielmo i motivi per cui gli sarebbe tornato a conto l'acconsentire al partito che voleva triennale la durata del parlamento; e Swift di fatto sostenne l'opinione del suo commettente, giovandosi di parecchi argomenti tolti dalla storia medesima dell'Inghilterra; ciò non ostante il re persistette nella sua opposizione, onde alla Camera dei Comuni il partito venne respinto per l'influenza della corona. Tal si fu la prima relazione che Swift ebbe con la Corte, ed era solito dire co' suoi amici essere stata questa il rimedio che lo guarì dalla sua vanità; da quanto apparisce, avea fatto grandi conti sul buon esito della sua negoziazione, e d'altrettanto più grave fu la sua amarezza al vederla andata a vuoto. Tale disastro lo pose anche in qualche rotta col suo protettore, onde se ne tornò in Irlanda, proveduto nondimeno d'un impiego che gli assicurava un onorario di cento lire sterline. I vescovi cui si volse per essere ordinato prete, gli domandarono un certificato di buona condotta durante la sua dimora presso il cavaliere Guglielmo Temple. La condizione era spiacevole; per ottenere un tale ricapito gli conveniva sottomettersi, chiedere scusa pei torti che aveva e per quelli che non aveva. Prima di ridursi a ciò volle pensarci tre mesi; finalmente si risolvè; la sua domanda venne esaudita, e probabilmente questa circostanza fu il primo passo verso la riconciliazione seguita in appresso tra lui ed il suo protettore. In meno di dodici giorni ottenne il certificato ch'egli desiderava; le patenti in virtù delle quali è ordinato diacono, portano la data del 18 ottobre 1694, quelle del suo sacerdozio sono del 13 gennaio 1795. È a credersi che il cavaliere Guglielmo Temple unisse al chiestogli certificato una commendatizia presso lord Capel, in allora vicerè dell'Irlanda, perchè non appena Swift fu ordinato prete, venne nominato alla prebenda di Kilroot, nella diocesi di Connoor, che dava una rendita di circa cento lire sterline l'anno, dopo di che si ritirò alla sede del suo beneficio a far la vita del parroco di villaggio. Una tal vita sì diversa da quella ch'egli conduceva a Moor-Park, ove godea della società di quante persone eranvi più distinte per genio o per natali, gli divenne ben tosto insipida e stucchevole. In questo mezzo Temple, privo della vicinanza di Swift, sentiva anch'egli la perdita che aveva fatta, onde gli manifestò il suo desiderio di vederlo restituirsi a Moor-Park. Intantochè Swift esitava prima di abbandonare il genere di vita che aveva scelto per riassumere quello da cui s'era distolto, una circostanza sommamente atta a far comprendere quanto fosse dotato di un'indole benefica, sembrò stabilire la sua determinazione. In una delle sue corse di diporto aveva imparato a conoscere un ecclesiastico, col quale, avendolo trovato ed istrutto e modesto e morigerato, si legò in amicizia. Quel povero prete, padre di otto figli, non ritraeva dalla sua prebenda maggior rendita di quaranta lire sterline. Swift, che non aveva cavalli, chiese in prestito all'amico il suo cavallo nero, senza dirgli a qual fine, e se ne valse per recarsi a Dublino, ove rassegnò la sua prebenda di Kilroot, ottenendo che gli fosse surrogato nell'usufrutto della medesima il novello suo amico. Dilatò la fronte il buon prete, tanto il consolò la notizia di essere nominato ad un benefizio, ma appena seppe che spettava al suo benefattore, dal quale veniva rinunziata in favor suo la prebenda conferitagli, la sua gioia prese una espressione di sorpresa e di riconoscenza sì commovente, cui lo stesso Swift fu tanto sensibile, che confessa non aver mai provata al mondo una contentezza più viva come in quel giorno. Quando Swift partì alla volta di Moor-Park, il suo successore lo pregò aggradire il presente di quel cavallo che il primo non ricusò per paura di dare col suo rifiuto una mortificazione al donatore. Montato per la prima volta su d'un cavallo che potesse dir proprio, e con ottanta lire sterline nella sua borsa, Swift prese la via dell'Inghilterra, ove giunto ripigliò a Moor-Park l'antico incarico di segretario privato del cavaliere Guglielmo Tempie. II. Mentre Swift consacravasi interamente al suo gusto per la letteratura, mentre e questa e l'amicizia del suo illustre mecenate sembravano promettergli il più ridente avvenire, egli s'apparecchiava da sè medesimo, senza avvedersene, una sequela di disgrazie pel rimanente de' suoi giorni. Durante il suo soggiorno a Moor-Park fece la conoscenza di Ester Johnson, più conosciuta sotto il poetico nome di Stella. Swift, troppo fidandosi nel suo temperamento freddo ed incostante, che, secondo lui, lo avrebbe salvato dai contrarre impegni di cuore imprudenti, aveva risoluto di non pensare ad ammogliarsi se non quando si fosse procacciati saldi e sicuri mezzi di sussistenza; conscio in oltre a sè stesso della propria incontentabilità, prevedea possibile il caso di differir tanto una tale risoluzione, che lo sopraggiugnesse prima la morte. Laonde, allorchè il suo nobile amico credea scorgere in lui i sintomi d'una amorosa passione, egli rispondeva queste apparenze altro non essere che l'effetto del suo umore attivo, inquieto e bisognoso sempre di nuovi alimenti; essere sempre suo stile il cogliere la prima occasione di divagamento che gli si offriva; trovarla talvolta in una galanteria insignificante; così accadere nella corrispondenza interpostasi tra esso e la giovinetta di cui si parlava. «È un'assuefazione,» dicea, «dalla quale son padrone di staccarmi quando me ne verrà il talento, e che abbandonerò sul più bello senza dolermene di sorta alcuna.» A questa specie d'amore ne succedè un altro ben più serio; Giovanna Waryng, sorella del suo amico di collegio che abbiamo dianzi commemorato, da lui chiamata, con una ricercatezza poetica, fredda anzichè no, Varina, si era conciliate le attenzioni di lui durante il soggiorno che avea fatto in Irlanda. Una lettera scritta da esso quattro anni dopo alla stessa persona, portava l'impronta di sentimenti ben diversi dai primi; Varina era sparita; scriveva a miss Waryng; ma durante l'intervallo di quattro anni potevano esser accadute ben molte particolarità a noi sconosciute; e sarebbe forse un'ingiustizia il giudicar severamente la condotta di Swift, che la resistenza ostinata di Varina non avea predisposto ad una subitanea offerta di capitolazione[3]. La morte del cavaliere Guglielmo Temple pose fine a quella fortunata e tranquilla esistenza che Swift avea goduto pel corso di quattro anni a Moor-Park. Il cavaliere Guglielmo, che aveva saputo valutare l'amicizia disinteressata di Swift, gli lasciò un legato in danari, oltre ai suoi manoscritti, che senza dubbio Swift apprezzava molto di più.[4] Poco appresso, Swift si trasferì nell'Irlanda in compagnia di lord Berkeley. Dopo alcune dissensioni avvenute tra lui e questo lord, ottenne il benefizio di Saracor: ma non tardò a gettarsi di nuovo dalle cure ecclesiastiche in quelle della politica. Nel 1710 si restituì in Inghilterra, ove allora incominciarono le sue ostilità contra i whigh e la sua lega con lord Harley e col ministero. La sua nomina al decanato di San Patrizio fu sottoscritta il 23 febbraio 1715, e nei primi giorni del successivo giugno Swift partì da Londra per andare a prendere possesso di un benefizio che a' suoi occhi era tutt'al più, come lo ha detto spesse volte, un onorevole esilio. Di fatto niuno sarebbesi mai aspettato che l'inaudito favore in cui fu avuto dal governo lo condurrebbe unicamente al godimento d'un benefizio in Irlanda, allontanandolo da quegli stessi ministri, i quali essendo soliti consultarlo, oltre alle delizie che ritraevano dalla sua società, ne impiegavano i talenti a difendere la loro causa. Senza dubbio non fu minore del cruccio la sorpresa prodotta in Swift da un simile tratto, sorpresa tanto più giusta, perchè alcuni anni prima gli stessi ministri aveano ricusato di nominarlo vescovo d'Irlanda pel bisogno in cui si vedeano di tenerselo appresso. Mistress Johnson aveva abbandonata la patria e compromessa la propria fama per dividere il destino dell'uomo amato fin d'allorquando questo destino non presentava alcuna prospettiva di divenir luminoso. Quand'anche non vi fosse stata una stipulazione di nozze, tanti sagrifizi fatti da questa donna per lui avrebbero dovuto per Swift tener luogo d'una solenne promessa di matrimonio. Pure Swift ci pensava sì poco, che pregò il suo antico istitutore ed amico Sante Giorgio Ashe, allora divenuto vescovo di Clogher, a cercare di scoprire quali fossero i motivi della malinconia che opprimeva Stella; i motivi erano tali quali doveva rappresentarli a Swift la sua coscienza medesima; egli non aveva altro che un mezzo per farla convinta di amarla tuttavia e per metterla in salvo dalle dicerie della calunnia. La risposta di Swift alla comunicazione del suo vecchio istitutore si fu: aver egli, Swift, stabilite due risoluzioni rispetto al matrimonio, l'una di non ammogliarsi finchè non si fosse assicurato un patrimonio sufficiente, l'altra di non pensare a ciò se non in un'età nella quale egli potesse ragionevolmente sperar di vedere collocati convenientemente i propri figli; non creder egli che fosse abbastanza indipendente la propria sussistenza; essere tuttavia molestato da debiti; quanto agli anni, avere già passata l'età in cui aveva risoluto di non contrarre più nozze; che nondimeno avrebbe sposata Stella, purchè il loro matrimonio fosse tenuto segreto, e sotto patto di continuare a vivere separati ed osservando la stessa circospezione di prima. A queste dure condizioni Stella si rassegnò, perchè se non altro la liberavano dai suoi scrupoli, e calmavano i gelosi timori da lei concepiti che Swift potesse una volta o l'altra sposare la sua rivale. Swift e Stella vennero uniti in nozze nel giardino del decanato dal vescovo di Clogher, correndo l'anno 1716. Seguita appena, a quanto sembra, la cerimonia, Swift fu in preda ad una spaventosa agitazione di spirito. Delany (a quanto si è saputo da un amico della stessa vedova di Swift), chiamato a dire la sua opinione su questa stravaganza, raccontò di avere ai giorni in circa in cui le nozze erano seguite, notata in Swift una straordinaria cupa malinconia confinante col delirio, che si portò quindi presso l'arcivescovo King per notificargli i propri timori. Mentre entrava nella biblioteca di questo prelato, Swift ne usciva precipitosamente con fisonomia stralunata, e gli passò da vicino senza dirgli nulla. Trovò l'arcivescovo dolente, e chiestogliene il motivo, udì rispondersi: «Voi avete incontrato l'uomo il più infelice che viva sopra la terra; ma guardatevi dal farmi nessuna interrogazione su l'origine della sua disgrazia». Giova soggiugnere la conclusione che Delany dedusse da tutto ciò; secondo esso, Swift sarebbe dopo il matrimonio venuto a scoprire di essere parente in prossimissimo grado della Stella, e ne avrebbe fatta allora la confidenza all'arcivescovo; ma le espressioni del prelato non indicano nulla di simile; oltrechè v'ha delle prove positive che tal parentado non poteva sussistere. Dopo la celebrazione delle predette nozze, Swift stette diversi giorni senza vedere nessuno. Uscito del suo ritiro, continuò a vivere serbando la stessa circospezione con la Stella a fine di allontanare ogni sospetto d'intrinsichezza con essa, quasi che una tale intrinsichezza non fosse stata d'allora in poi e legittima e lodevole. Ancorchè dunque la Stella continuasse ad essere la diletta ed intima amica di Swift, ancorchè ella facesse i convenevoli della sua mensa, non vi comparve giammai che in qualità di persona convitata; fedele di lui compagna, ne era l'infermiera in tempo di malattia, ma non mai formalmente moglie, ed anzi cotali nozze rimanevano un segreto per la generalità. Gli affari della sua chiesa cattedrale, scompigliati dalla resistenza del suo capitolo, e talvolta ancora dall'intervento dell'arcivescovo King, impiegavano molta parte del suo tempo, ma tali difficoltà vennero insensibilmente appianate dal convincimento divenuto universale delle rette intenzioni del decano e del disinteressato di lui zelo pel mantenimento dei diritti e degl'interessi della sua chiesa; laonde coll'andar del tempo acquistò tal preponderanza nel capitolo, che ben di rado le proposte fatte da lui trovarono oppositori. La bisogna delle investiture ecclesiastiche e delle loro rinovazioni gli diede lunghe occupazioni in appresso. Dee credersi ciò non ostante che in tutto quel tempo Swift non lasciasse affatto da un lato lo studio; si sono trovate alcune osservazioni ch'egli scriveva in quel tempo sopra Erodoto, Filostrato ed Aulo Gellio, le quali danno a supporre che s'intertenesse assai nella lettura di quegli antichi, ciò che s'accorda con le molte pagine in bianco che si sono vedute intromesse ad arte nella legatura dei volumi su i quali ha lasciate delle annotazioni. È naturale l'immaginarsi che non avesse dimenticato gli scrittori classici, quand'anche d'altra parte non fosse noto che, durante il suo soggiorno a Gaulstown, il poema di Lucrezio era la lettura sua favorita. Il catalogo dei libri che componeano la sua biblioteca e le note di lui manoscritte sono la più autentica prova dello squisito suo gusto. Cotali studi non bastavano ad un uomo che aveva presa una parte sì operosa nella politica durante la sua dimora nell'Inghilterra. Si è creduto, ed è assai probabile, che in quel tempo Swift abbia concepito il disegno dei _Viaggi di Gulliver_. Si trova il germe di tale opera famosa nei _Viaggi di Martino Scriblero_, probabilmente divisati prima che la proscrizione avesse sgominato il club letterario. L'aspetto, sotto cui Swift considerava i pubblici affari dopo la morte della regina Anna collima coi tratti satirici dei _Viaggi di Gulliver_. Oltrechè, in una lettera a Vanessa allude al caso occorso a Gulliver con la scimia di Brobdingnac, e si trae dalla stessa corrispondenza, che nel 1722 Swift leggeva parecchie relazioni di viaggi. Egli racconta a mistress Whiteway, ciò che ha ripetuto in appresso, di aver tolti dall'opere dei viaggiatori tutti i termini marinareschi del _Gulliver_. È pertanto credibile che i _Viaggi di Gulliver_ sieno stati abbozzati nel tempo da noi indicato, ancorchè vi si trovino commemorate delle particolarità che si riferiscono alla politica di un'epoca posteriore. Nell'anno 1720, Swift abbandonò le sue occupazioni ed i suoi passatempi per mostrarsi di bel nuovo sul politico aringo, non per dir vero in forma di avvocato e panegirista di un ministero, ma qual difensore intrepido ed incessante d'un popolo oppresso. Mai fuvvi nazione che più dell'Irlanda abbisognasse di un simile difensore. La prosperità di cui dessa aveva goduto sotto gli Stuardi, era stata interrotta da una guerra civile, l'esito della quale avea costretto il fiore della nobiltà e degli ufiziali militari nazionali ad andar banditi dalla loro patria. La popolazione cattolica di quel reame, eccitando diffidenza, veniva tacciata della più assoluta incapacità. Il parlamento d'Inghilterra, che si era arrogata l'autorità di crear leggi per l'Irlanda, se ne prevaleva per restrignerne in tutti i modi possibili il commercio e per assoggettarla al regno dell'Inghilterra, da cui la tenea dipendente. Gli statuti del decimo e dell'undecimo anno del regno di Guglielmo III vietavano l'asportazione delle mercanzie di lana in qualunque luogo che non fosse l'Inghilterra o il principato di Galles, in conseguenza della qual legge le manifatture irlandesi soggiacquero ad una perdita che fu valutata un milione di lire sterline. Non surse nella camera dei comuni un'unica voce per combattere quelle massime altrettanto contrarie alla politica, quanto tiranniche e degne d'una piccola corporazione di bottegai di villaggio, non mai del senato antiveggente d'un popolo libero. Col voler seguire tali principii, si accumulavano ingiustizie sopra ingiustizie, al che si aggiugneva l'insulto, col vantaggio per gli aggressori di poter atterrire gli oppressi popoli dell'Irlanda e ridurli al silenzio col gridarli ribelli e giacobiti. Swift contemplava questi mali con tutta l'indegnazione d'un carattere inclinato per natura ad opporsi alla tirannide. Pubblicò le _Lettere del Pannaiuolo_, invigorite dalla forza della ragione, scintillanti di spirito, maestrevoli per l'arte con cui vengono ordinati e presentati i ragionamenti e collocati i frizzi a lor posto. La popolarità di Swift fu quella di tutti quegli uomini che in un'epoca critica e decisiva hanno avuta la fortuna di prestare alla patria loro un grande servigio. Per tutto il tempo in cui gli fu dato uscire di casa, le benedizioni del popolo lo accompagnarono; per ogni città donde passava, riceveva l'accoglienza che sarebbesi fatta ad un principe. Al primo avviso di un pericolo che sovrastasse al DECANO (titolo che era divenuto il sinonimo di Swift), tutti accorrevano in sua difesa. Walpole si era posto in mente di far arrestare Swift; un prudente amico gli chiese se avesse diecimila uomini da dare di scorta al messo che porterebbe il mandato d'arresto. Le fragilità umane di Swift, se bene atte di loro natura a dar pascolo al cicaleccio maligno del volgo, venivano coperte dal pietoso rispetto di un'affezione filiale. Tutti i vicerè dell'Irlanda che, comprendendo fra essi l'affabile Cartenet e l'altero Dorset, non poteano del certo amare la politica di Swift (forse non ne amavano nemmeno la persona), si videro costretti a rispettarne la politica ed a capitolare col suo zelo. Lo scadimento delle mentali di lui facoltà fu un lutto per quella intera contrada; il dolore del suo popolo lo accompagnò nel sepolcro, e sono ben pochi gli autori irlandesi che non abbiano tributato alla memoria di Swift un tale omaggio di gratitudine sì giustamente dovutogli. III. I _Viaggi di Gulliver_ comparvero dopo il ritorno di Swift nell'Irlanda, accompagnati da quel mistero ch'egli faceva quasi sempre intervenire nella pubblicazione delle sue opere. Aveva abbandonata l'Inghilterra nel mese di agosto, e in data all'incirca contemporanea il manoscritto del _Gulliver_ fu gettato da un calesse nella bottega del libraio Motte. Il _Gulliver_ venne pubblicato nel successivo novembre con diversi cangiamenti e stralci che vi praticò la timidezza dell'editore. Swift se ne dolse ne' suoi carteggi, e riprovò le alterazioni mediante una lettera che venne inserita nelle edizioni successive.[5] Il pubblico nondimeno non vide nulla di troppo timido in quello straordinario romanzo allegorico, che produsse una universale impressione, e fu letto da ogni classe di persone, cominciando dai ministri e scendendo fino alle maestre di fanciulli. Ciascuno voleva a tutti i costi conoscerne l'autore, e persino gli amici di Swift, quali erano Pope, Gay, Arbuthnot, gli scrissero come se avessero dei dubbi su tal particolare. Non ne aveano sicuramente, e se bene si sieno valsi di termini atti a trarre in inganno alcuni biografi, che hanno credute reali le loro dubbiezze, tutti i predetti dotti, dal più al meno, conoscevano l'opera prima che fosse pubblicata. La loro perplessità era ostentata, o facessero così per prestarsi al capriccio di Swift, o fors'anche per timore di veder le loro lettere intercette, e di trovarsi costretti a deporre contra l'autore, se mai l'opera di lui avesse destato in più efficace guisa il dispetto del ministero. Non fuvvi forse giammai alcun libro che venisse più ricercato da ogni ceto di persone. I lettori spettanti all'alte classi della società vi ravvisavano una satira personale e politica; il volgo, avventure di proprio gusto; gli amici del genere romanzesco, il maraviglioso; i giovani vi ammiravano lo spirito; i gravi personaggi vi trovavano lezioni di morale e di politica; la vecchiezza posta in non cale e l'ambizione delusa vi leggeano le massime di un'amara e viva misantropia. L'orditura della satira varia nelle diverse sue parti. Il viaggio a Lilliput è un'allusione alla Corte e alla politica dell'Inghilterra; il cavaliere Roberto Walpole, dipinto nel personaggio del ministro Flimnap,[6] non la perdonò più mai all'autore, e ne è una prova la sua costante opposizione a quanti partiti furono posti per richiamare nell'Inghilterra il decano. Le fazioni dei wigh e dei tory vengono additate dai calcagnini alti e bassi: i papisti ed i protestanti dai _piattuoviani_ e dagli _antipiattuoviani_ (pag. 52, 63). Il principe di Galles, che vedeva ugualmente di buon occhio i wigh ed i tory, rise di gusto al leggere il temperamento d'un calcagnino alto e d'un calcagnino basso, adottato dall'erede presuntivo della corona di Lilliput. Il regno di Blefuscu, in cui l'ingratitudine della Corte lilliputtiana costringe Gulliver a cercare, se non vuole aver cavati gli occhi, un rifugio, è la Francia, ove la sconoscenza della Corte inglese obbligò ripararsi il duca d'Ormond e lord Bolingbroke. Le persone istrutte delia storia segreta del regno di Giorgio I, comprenderanno facilmente le altre allusioni. Lo scandalo fatto nascere da Gulliver col metodo adottato per estinguere (p. 64) l'incendio dell'imperiale palazzo, allude alla disgrazia della regina Anna, incorsa dall'autore per aver composto la _Fola (Tale of a tub)_, di cui la Corte si ricordò per fargliene un delitto, senza sapergli grado che l'opera stessa avea, siccome la Corte lo desiderava, resi importanti servigi all'alto clero. Noteremo parimente che la costituzione e le norme di educazione pubblica dell'impero di Lilliput vengono proposte siccome modelli, e che la corruttela introdottasi nella Corte non avea data più antica degli ultimi tre regni scorsi. Quanto alla costituzione dell'Inghilterra, tale era effettivamente il sentimento dell'autore. Nel _Viaggio a Brobdingnag_ la satira è di un'applicazione più generale, ed è difficile lo scoprirvi cose che si riferiscano agli avvenimenti politici ed ai ministeri dell'epoca in cui venne pubblicato. Il fine di tale opera si è indicare le opinioni che adotterebbe su gli atti ed i sentimenti dell'uomo un essere fornito di un'indole fredda, ponderata, filosofica e d'un'immensa forza fisica. Il monarca di quei figli di Titani è la figura di un re patriota, indifferente a quanto è di mera curiosità, freddo per quanto è solamente bello, ed unicamente interessato a ciò che concerne l'utilità generale ed il bene pubblico. I rigiri e gli scandali di una corte europea sono agli occhi di un tal principe altrettanto odiosi negli effetti, quanto spregevoli nei loro motivi. La duplice antitesi offerta da Gulliver, che da Lilliput, ov'era un gigante, arriva in mezzo ad una schiatta d'uomini fra i quali non è più che un pigmeo, è di un effetto felice. Se vogliamo, si ripetono necessariamente le stesse idee, ma poichè cangiano d'aspetto nella parte rappresentata dal narratore, ciò merita piuttosto il nome di continuazione che di replica. V'ha alcuni tratti intorno alla corte di Brobdingnag che sono sembrati applicabili alle damigelle d'onore della corte di Londra, per le quali, a quanto sembra, Swift non professava una infinita venerazione. Arbuthnot, uno degli scienziati di quei giorni, si chiariva contra il _Viaggio a Laputa_, in cui vedeva probabilmente uno scherno versato su la Società reale. Egli è certo che vi si trovano alcune allusioni ai più reputati filosofi di quell'epoca. Pretendesi fino che vi sia un frizzo scoccato contra Isacco Newton. L'ardente patriota non aveva dimenticato che questo filosofo pronunziò il suo voto in favore della moneta erosa di Wood. Un sartore di Laputa dopo essersi valso d'un quadrante e delle proprietà di certa curva per prendere la misura di un abito a Gulliver, gli porta un vestito senza garbo che non gli si affaceva nè poco, nè assai; vuolsi che ciò alluda ad un errore da attribuirsi piuttosto al tipografo di Newton, il quale, aggiugnendo, ove non andava, uno zero ad un calcolo astronomico dello stesso Newton su la distanza del sole dalla terra, aumentava questa distanza a tal segno, che nemmeno il sole avrebbe potuto più illuminarci. Gli amici di Swift credeano parimente che l'idea del percussore (colui che avea l'incarico di suscitare con una bacchetta le idee dei grandi di Laputa) gli sia stata suggerita dalle distrazioni abituali di Newton. Il nostro decano solea dire a Dryden Swift: «Il signor Isacco Newton è l'uomo di compagnia più insulso che si trovi sopra la terra. Se lo interrogate su qualche quistione anche ovvia, fa girar e rigirare circolarmente le idee nel cervello un gran pezzo prima che vi dia una risposta.» Swift, nel far questo racconto, s'andava descrivendo colla mano due o tre circoli su la fronte.[7] Ma benchè Swift abbia forse mostrato men rispetto di quanto ne era dovuto al più grande filosofo della sua età, e benchè in molti de' suoi scritti sembri avere in lieve conto le matematiche, la satira di Gulliver è piuttosto vôlta contra l'abuso della scienza, che contra la scienza in sè stessa. I _progettisti_ dell'accademia di Laputa ci vengono presentati come uomini che con una leggiera tintura delle matematiche pretendevano perfezionare le ideali loro costruzioni meccaniche a furia di ghiribizzi fantastici e di storture di mente. Vivevano ai giorni di Swift molti individui di tale razza che abusavano della credulità degl'ignoranti, li rovinavano, e per la loro imperizia indugiavano i progressi della vera scienza. Nel mettere in derisione tali _progettisti_, zimbello alcuni delle loro mezze nozioni, altri effettivi impostori, da lui presi in tanta avversione da che furono lo sterminio del suo zio Godwin, ha accattato molti tratti, e probabilmente l'idea generale di Rabelais, ove nel libro V, capitolo XVIII, Pantagruel passa in rassegna le occupazioni dei cortigiani di Quintessenza, regina di Eutelechia (Perfezione intellettuale). Swift ha parimente posti in ridicolo certi professori di scienze speculative dedicatisi allo studio di quanto veniva denominato in allora magia fisica e matematica; studio che non fondato su verun saldo principio, non indicato o comprovato dall'esperienza, penzolava tra la scienza ed il misticismo; di tal genere furono l'alchimia, la fabbricazione di figure di bronzo parlanti, d'augelli di legno volanti, di polvi simpatiche, di balsami efficaci senza applicarli alle ferite, ma bensì all'arma che le aveva fatte, d'ampolle di essenza atte a concimare iugeri sopra iugeri di terreno, e d'altre simili meraviglie predicate da impostori, i quali trovavano sfortunatamente i creduli che ne divenivano le vittime. La macchina del buon professore di Lagado, intesa ad affrettare i progressi delle scienze speculative, ed a comporre libri su tutti gli argomenti senza verun soccorso di genio o di sapere, era una allusione derisoria all'arte inventata da Raimondo Lullo, e perfezionata da quelle belle teste de' suoi comentatori, o al così intitolato metodo meccanico, la cui mercè Cornelio Agrippa, uno fra i discepoli di Lullo, s'arrogava il provare «che ciascun uomo può discutere su qualsivoglia argomento e, con un certo numero di nomi propri, di sostantivi e di verbi, tirare in lungo con molto splendore e sottigliezza una tesi, sostenendo ad un tempo due pareri contrari sopra la stessa quistione.» Certamente al giorni di Swift un galantuomo poteva credersi trasportato in seno alla grande accademia di Lagado, allorchè leggeva la _Breve e grande arte della dimostrazione_, consistente nell'adattare il soggetto da trattarsi ad una macchina composta di diversi circoli fissi e mobili. Il circolo principale doveva essere immobile, e vi si leggevano i nomi delle sostanze e di tutte le cose che potevano somministrare un soggetto, come _angelo, terra, cielo, uomo, animale_, ec. Entro questo circolo fisso ne veniva introdotto un altro mobile su cui stavano scritti gl'_incidenti_, così chiamati dai logici, come _quantità, qualità, relazione_, ec. In altri circoli apparivano gli attributi _assoluti_ e _relativi_, ec., con le _formole_ delle quistioni. Girando i circoli in modo di far cadere gli _attributi_ su la quistione proposta, doveva derivarne un guazzabuglio di così detta logica meccanica, che Swift senza dubbio aveva di mira nel descrivere la sua famosa macchina per comporre libri. Quante volte infatti vi erano stati ciarlatani che istituivano esperienze per portare al massimo grado della perfezione l'_Arte dell'Arti_ (chè così fu chiamata). Mediante un tal metodo di comporre e di ragionare, Kircher che ha insegnato cento arti diverse di tal natura, ha rinnovellata e perfezionata, egli dicea, la macchina di Lullo; il gesuita Knittel ha composta su lo stesso stampo la _Strada reale di tutte le scienze ed arti_; sopra un egual sistema Bruno ha inventato l'arte della logica; e Kuhlman fa dubitare se siate desto, o sogniate, quando annunzia la sua macchina che conterrà non solamente l'arte delle cognizioni universali, o il sistema generale di tutte le scienze, ma eziandio quella di saper le lingue, di comentare, criticare, imparare la storia sacra e profana, di conoscere le biografie d'ogni specie, senza comprendervi la _Biblioteca delle Biblioteche_, ove si contiene l'essenza di quanti libri furono pubblicati. Quando si era arrivato a tanto che uomini reputati dotti millantavano con prosopopea ed in un sufficente latino la possibilità d'acquistare tutte le immaginabili cognizioni coll'aiuto d'uno stromento meccanico, assai somigliante ad un fanciullesco balocco, era tempo che la satira facesse giustizia di tante orride fanfaluche. Non è pertanto la scienza ciò che Swift ha cercato di mettere in ridicolo, ma bensì gli studi chimerici cui talvolta era stato compartito il nome di scienza. Nella caricatura dei _progettisti_, Swift lascia trapelare le idee che lo affezionavano, mentre scriveva, alla fazione dei tory. Quando leggiamo la storia malinconica degli _strulldbrugg_ (degl'immortali stanchi in formidabil guisa della loro immortalità), siamo condotti all'epoca in cui l'autore concepì quella indifferenza per la morte che a miglior diritto avrebbe sentita negli ultimi anni della sua vita scompagnati dalla ragione.[8] Alcune severe diatribe contra la natura umana, non hanno potuto essere inspirate se non dall'ira che, come il medesimo Swift lo ha confessato nel comporsi il suo epitafio da sè, rodea da lungo tempo il suo cuore. Confinato in un paese ove la specie umana era divisa in piccioli tiranni[9] ed oppressi schiavi, idolatra della libertà e dell'indipendenza che vedeva ad ogni istante calpestate, l'energia de' suoi sentimenti, fattasi omai incapace di freno, gli fece prendere in orrore una specie di viventi capaci gli uni di commettere, gli altri di sopportare tante ingiustizie. Non perdiamo di vista la sua salute che declinava ogni giorno, la sua felicità domestica distrutta dalla morte di una compagna da lui amata e dall'affliggente spettacolo del pericolo che minacciava la vita di un'altra donna statagli non meno cara, i giorni di lui appassiti nel loro autunno, la certezza di dover finire i suoi anni in un paese venutogli in avversione per non esser quello ove aveva concepite sì lusinghiere speranze, e dove avea lasciati i migliori fra i suoi amici. Questa totalità di circostanze può fargli perdonare una misantropia generale, che per altro non chiuse mai il cuore di Swift alla beneficenza. Tali considerazioni che non si restringono alla persona dell'autore, sono anche una specie d'apologia alla sua opera, la quale, ad onta del rancore che l'ha suggerita, offre una lezione morale. Certamente Swift non s'è inteso pignere in tutti gli enti fantastici della sua immaginazione l'uomo rischiarato dalla religione o anche dai soli lumi naturali della ragione; ma l'uomo digradato dal torpore volontario delle sue facoltà intellettuali, e dall'essersi fatto schiavo dei propri istinti, l'uomo sfortunato che vediamo nelle classi ultime della società, quando si abbandona all'ignoranza ed ai vizi ch'ella produce. Considerata la cosa sotto un tale aspetto, il ribrezzo inspirato da alcuni quadri debb'essere utile alla morale. Non per ciò arriveremo ad affermare che la moralità dello scopo giustifichi la nudità del dipinto, nè l'artista, il quale ne ha presentato l'uomo nello stato di digradazione che lo accosta ai bruti. I moralisti dovrebbero imitare i Romani, che sottoponendo a pene pubbliche la generalità dei delitti, punivano con castighi segreti gli oltraggi fatti al pudore. A malgrado d'inverisimiglianze giudicate tali or dalla ragione, or dalla preoccupazione, i _Viaggi di Gulliver_ destarono un universale interesse; lo meritavano e per la novità e per l'intrinsico loro merito. Luciano, Rabelais, More, Bergerac, Alletz, e parecchi altri scrittori avevano ideato l'artifizio di far raccontare ad alcuni viaggiatori le scoperte da essi fatte in regioni ideali. Ma tutte le utopie immaginate per l'addietro si fondavano su puerili finzioni, o divenivano impalcamento ad un sistema d'impraticabili leggi. Era serbato a Swift il condire la morale della sua opera col sale della facezia, il farne sparire l'assurdo col frizzo della satira, il dare agli avvenimenti i più inverisimili l'aspetto della verità mercè il carattere e lo stile del narratore. Il carattere dell'immaginario viaggiatore Gulliver è esattamente quello di Dampier e d'ogni altro testardo navigatore di quell'età, che fornito di coraggio e di comune discernimento, dopo avere solcati rimoti mari, riportava a Portsmouth o a Plymouth i suoi pregiudizi inglesi, e raccontava gravemente e alla buona quanto avea veduto e quanto gli era stato fatto credere nei paesi percorsi. Un tal carattere è cotanto inglese che difficilmente gli stranieri lo possono valutare. Le osservazioni di Gulliver non sono mai più acute o profonde di quelle d'un capitano di bastimento mercantile o d'un chirurgo della _City_ di Londra che torni da una lunga corsa marittima. Robinson Crusoè, che racconta avvenimenti ben più prossimi alla realtà, non è forse superiore a Gulliver per la gravità e semplicità della sua narrazione. La persona di Gulliver si scorge disegnata con tal verità che un marinaio affermava di aver conosciuto il capitano Gulliver; null'altro esservi di sbagliato fuorchè il luogo del suo domicilio, che era a Wapping, non a Rotherhithe. Una tal lotta tra la facilità naturale e semplicità dello stile e le meraviglie raccontate, è quanto produce uno dei grandi vezzi di questa memorabile satira delle imperfezioni, delle follie e dei vizi della specie umana; i calcoli esatti, che vengono istituiti nelle due prime parti contribuiscono a dar qualche verisimiglianza alla favola. Suol dirsi che ogni qual volta nella descrizione di un oggetto naturale le proporzioni sono ben conservate, il maraviglioso prodotto dall'impicciolimento o ingrandimento enorme dell'oggetto stesso è meno sensibile allo spettatore. Certo è che in generale la proporzione è un attributo essenziale della verità, e che, quando una volta il lettore ha ammessa l'esistenza degli uomini che il viaggiatore narra di aver veduti, egli è difficile il ravvisare veruna contradizione nel suo racconto; sembra al contrario che i personaggi in cui Gulliver si è scontrato, si comportino precisamente come lo avrebbero dovuto nelle circostanze ove gli ha immaginati l'autore. In ordine a che, il maggior elogio che possa citarsi dei _Viaggi di Gulliver_, è la critica stessa fattagli da un dotto prelato irlandese: _È tutt'uno; Swift non m'indurrà mai a credere che tali uomini, tali animali, tali alberi abbiano avuata una esistenza reale_. Vi è parimente una grand'arte nel far vedere come Gulliver, per l'influenza degli oggetti dai quali è attorniato arrivando a Lilliput e a Brobdingnag, perda a gradi a gradi le idee che aveva sulle proporzioni di statura, e adotti quelle dei pigmei o dei giganti fra' quali visse. Per non protrarre di troppo queste considerazioni eccito soltanto il leggitore a notare con quale infinita maestria, per rendere più solleticante la satira, le azioni vengano ripartite fra quelle due razze di esseri immaginari. A Lilliput i rigiri, i brogli politici, che sono la principale faccenda dei cortigiani in Europa, trasportati in una corte di omettini alti sei dita, divengono un oggetto di ridicolo, intantochè la leggerezza delle donne e i pregiudizi delle corti europee, che l'autore presta alle dame di palazzo del regno di Brobdingnag, divengono nauseanti mostruosità presso una nazione di sterminata statura. Con queste arti e mille altre, dalle quali trapela il tocco del grande maestro, e delle quali sentiamo l'effetto senza arrivare a scoprirne la causa se non in forza di una lunga analisi, Swift ha convertito una fola buona per le balie in un romanzo cui niun altro può essere paragonato sia per la maestria della narrazione, sia pel vero spirito della satira che vi domina. Voltaire, che quando uscì questo romanzo trovavasi in Inghilterra, lo esaltò ai suoi compatrioti; raccomandando loro di farlo tradurre. L'abate Desfontaines si prese l'assunto di una tale versione. Le perplessità, le paure, le apologie di questo Desfontaines si leggono nella singolare introduzione che egli premise al suo lavoro; prefazione ben atta a dare un'idea su lo spirito e le opinioni di un letterato francese di quell'età. L'abate Desfontaines crede accorgersi che quest'opera dà un calcio a tutte le regole; chiede grazia per le stravaganti fole che egli si è ingegnato di vestire alla francese; confessa che a certi tratti dei _Viaggi di Gulliver_ si sentiva cader di mano la penna, tanto grandi erano l'orrore e la sorpresa che lo comprendeano al vedere sì audacemente violata dall'autore satirico inglese ogni buona creanza.[10] Paventa non vadano a cadere su la corte di Versaglies alcune frecciate scoccate dalla penna di Swift, si affaccenda con mille circollocuzioni a protestare che la totalità del romanzo è allusiva ai _toriz_ e ai _wigts_ (chiama così i tory e i wigh) da cui è _infestato il fazioso regno dell'Inghilterra_. Conchiude assicurando i suoi leggitori di aver non solamente cangiati molti incidenti onde accomodarli al gusto dei suoi compatrioti; ma di aver omesse le particolarità nautiche ed una quantità di _minuzzame tanto detestabile nell'originale_.[11] A malgrado di questa ostentazione di gusto prelibato e di dilicatezza, la versione di cui si parla è tollerabile. L'abate Desfontaines fece la sua palinodia per aver tradotta un'opera secondo lui sì difettosa; col pubblicare una _Continuazione dei Viaggi di Gulliver_, in uno stile tutto suo e affatto diverso da quello del suo prototipo.[12] Anche in Inghilterra è stata pubblicata una _Continuazione dei Viaggi di Gulliver_, un preteso terzo volume. È questa il più impudente accozzamento di pirateria e di falsità ch'uomo si sia mai fatto lecito nel mondo letterario. Mentre vi era chi sosteneva essere stata composta dall'autore del vero _Gulliver_ questa _Continuazione_, si scoperse che non era nemmeno l'opera del suo imitatore, ma la cattiva copia d'un romanzo francese affatto oscuro, ed intitolato la _Storia dei Severambi_. Indipendentemente dalle indicate continuazioni, era impossibile che un'opera di tanto grido non facesse nascere la voglia d'imitarla, di farne la parodia, di pubblicarne la chiave; com'era impossibile che non somministrasse inspirazioni a qualche poeta; che non fruttasse al suo autore ora encomi, ora satire, in somma tutto quanto per solito si connette con un trionfo popolare, non omesso lo schiavo incatenato al carro, le cui grossolane ingiurie ricordano all'autor trionfante ch'egli è sempre uomo. I _Viaggi di Gulliver_ doveano sempre più aumentare, siccome accadde, il favore di cui godeva il loro autore alla corte del principe di Galles. Ricevè lettere le più cortesi, le più affettuose e sparse anche di amichevoli lepidezze su Gulliver, su gl'Yahoo, su gli abitanti di Lilliput. Nel partirsi dall'Inghilterra, Swift avea chiesto alla principessa e a mistress Howard un picciolo dono, un pegno che attestasse qual differenza entrambe ponevano tra l'autore dei _Viaggi di Gulliver_ e un ordinario pretazzuolo. Non pretendeva che il regalo della principessa oltrepassasse in valore dieci lire sterline, nè una ghinea quello di mistress Howard. La principessa promise un dono di medaglie che non furono mai spedite. Mistress Howard, più memore della parola data, spedì a Swift un anello; alla lettera che lo accompagnava Swift rispose a nome di Gulliver, ed aggiunse alla sua risposta una picciola corona d'oro che rappresentava il diadema di Lilliput. La principessa accettò un taglio di drappo di seta, di manifattura irlandese, del quale si fece una veste. Nella sua corrispondenza, Swift torna un po' troppo spesso su questo presente; e vi è gran luogo di credere che se il principe fosse salito sul trono, Gulliver, valendoci dell'espressione di lord Peterborough, _avrebbe fatto dar del gesso ai suoi scarpini, ed imparato a ballar su la corda per diventar vescovo_. IV. Swift era uomo d'alta statura, robusto e ben fatto. Aveva occhi turchini, carnagione bruna, sopracciglia nere e folte, un naso piuttosto aquilino, lineamenti che esprimevano tutta l'austerità, l'altezza e l'intrepidezza del suo carattere. In sua giovinezza passava per bellissimo uomo; in vecchiezza, la fisonomia, benchè severa, ne era nobile e dignitosa. Aveva il dono di parlare in pubblico con facilità e calore: il talento delle sue risposte apparve sì atto alle discussioni politiche, che i ministri della regina Anna dovettero più d'una volta esser dolenti perchè non riuscirono a farlo sedere al banco dei vescovi nella Camera dei pari. I governatori inglesi spediti in Irlanda ne temettero l'eloquenza non men della penna. I suoi modi sociali erano facili ed affabili, nè privi d'una certa tinta d'originalità; ma sapeva sì bene adattarli alle circostanze, che si voleva universalmente averlo di brigata. Anche allorchè gli anni e le malattie ne ebbero alterato la flessibilità dello spirito e l'equanimità del carattere, continuò ad essere accetta e desiderata la sua compagnia. Il suo conversare riusciva interessante non solo per la cognizione che avea del mondo e dei costumi, ma per le facezie non prive di frizzo colle quali condiva le sue osservazioni e le storielle che raccontava. Secondo Orrery, fu questa l'ultima delle prerogative intellettuali che lo abbandonò; s'accôrse per altro da sè il nostro decano che a proporzione dell'indebolirsi della sua memoria ripetea troppo spesso le stesse cose. Del resto il suo far conversevole, le sue risposte pungenti, i suoi frizzi, vennero considerati come impareggiabili; benchè, come accade a tutti quelli che sono soliti a dominare con certo dispotismo la brigata, si scontrasse talvolta in resistenze inaspettate che lo riducevano al silenzio. Era tenerissimo dei giuochi di parole. Uno dei più felici che sieno forse mai stati fatti fu l'applicazione del verso di Virgilio: Mantua, væ! miseræ nimium vicina Cremonæ! ad una signora che col suo _manto_ gettò in terra un violino di Cremona. Più grottesco è il giuoco di parole con cui confortò un uomo attempato che aveva perduto i suoi occhiali, ma un Italiano non ne comprende la forza se non sa o non si ricorda che in inglese _spectacles_ vuol dire _occhiali_. Il verso consolatorio fu questo: Nocte pluit tota, redeunt _spectacula_ mane.[13] La sua superiorità in un genere di spirito più reale è confermata da parecchi aneddoti. Un personaggio ragguardevole, di condotta non troppo regolare, aveva per impresa gentilizia le parole: _Eques haud male notus_. Swift la comentò in questo modo: _Sì ben noto che se ne fidano poco_. Aveva una passione tutta sua d'improvvisare proverbi. Un giorno, in compagnia d'altri suoi conoscenti, passeggiava lungo il giardino d'un suo amico, e vedendo che il padrone del giardino non pensava ad offrirgli un frutto, disse: — La mia povera madre m'insegnava questo proverbio: Quando a tiro hai la pesca Di corla non t'incresca. _Always pull a peach_ _When it is in your reach._ Detto ciò, diede ai compagni il buon esempio di spiccarsi le pesche da sè. Un'altra volta, egli ed un amico passeggiando a cavallo, il compagno cadde col suo cavallo, senza per altro farsi male, entro un pantano; Swift esclama: Più è il fango, men disagio Soffri nel tuo naufragio. _The more dirt,_ _The less hurt._ L'uomo caduto si levò quasi contento della sua caduta, perchè amava anch'egli i proverbi, e si maravigliava di non aver mai udito questo, che in realtà il decano aveva improvvisato opportunamente in quel momento. Swift si dilettava ancora di comporre adagi rimati; il suo giornale a Stella prova come a tutte le menome occasioni avesse pronta la rima. Fu sollecito oltre ogni dire dell'esterna mondezza, sollecitudine che portò sino allo scrupolo; amava grandemente gli esercizi della persona, massime il camminare a piedi. I moderni nostri camminatori riderebbero della scommessa ch'egli fece di andare a piedi a Chester, facendo dieci miglia per giorno (un viaggio di circa dugento miglia); non è men vero che, a quanto si crede, Swift faceva troppo esercizio, e che la sua salute ne soffriva. Era assai buon cavallerizzo, cavalcava molto, e s'intendea di cavalli; scelse questo nobile animale per farne l'emblema del merito morale sotto il nome di _houyhnhnm_. Swift sollecitava le persone alle quali era affezionato, singolarmente Stella e Vanessa, a far molto esercizio; a queste ne faceva pressochè un dovere. Non vi è quasi una sola delle sue lettere, nella quale non finisca parlando dell'esercizio del corpo come di cosa essenziale alla propria salute, che rendevano sì incerta la sordità e gli svenimenti cui andava soggetto. Il suo fisico soffriva d'un'affezione scrofolosa, che precipitò forse il disordinamento della sua mente, benchè ne sia stato immediata cagione un dilatamento di serosità al cervello, come rimase comprovato nella sezione del suo cadavere. La beneficenza del decano si manifestava con atti superiori d'assai alla carità ordinaria. Portava sempre con sè una certa somma ripartita in diverse qualità di monete per distribuirle proporzionatamente a coloro che gli sembrassero meritevoli di soccorso; chè il suo grande scopo era quello di aiutare i veri bisognosi senza esporsi possibilmente al rischio di essere ingannato dalla infingardaggine. Scrisse parecchi trattati su questi argomenti. Veniva ricevuto per ogni dove con contrassegni del più profondo rispetto, e solea dire che avrebbe bisognato istituire una colletta per mantenerlo di cappelli, perchè i suoi erano frusti in un attimo a furia di restituire i saluti che gli venivano fatti. Una volta fece una prova assai gaia della fede che il pubblico prestava ad ogni suo detto. Si era unita una grande folla attorno al suo decanato per vedere un'eclissi. Swift, importunato dallo strepito, fece dire a quella gente che per ordine del decano di San Patrizio l'eclissi veniva differita. Un tale annunzio straordinario fu accolto sul serio, e la calca immantinente si dissipò. Considerato Swift quale scrittore, il suo carattere presenta tre notabili particolarità. La prima (qualità che lo distingue, e che ben di rado è stata accordata, almeno dai suoi contemporanei, ad un autore), è l'originalità. Il medesimo Johnson confessa non esservi stato forse un solo autore che abbia sì poco accattato dagli altri, siccome Swift, e che per conseguenza abbia altrettanti diritti ad essere considerato originale. Non era infatti stata pubblicata verun'opera che potesse servir di modello a Swift, e le poche idee da lui tolte ad altri son divenute sue per l'impronta che loro ha dato. La seconda particolarità che abbiamo già fatta notare, si è l'assoluta indifferenza per la rinomanza letteraria. Swift si valea della sua penna come un volgare artigiano degli stromenti del proprio mestiere senza dar loro una grande importanza. Swift potea bene sentir ansia sul successo dei suoi ragionamenti, irritarsi delle contradizioni, prendersela contra gli avversari che facevano guerra ai suoi principii, e volevano impedirgli di raggiungere la meta cui aspirava, ma in ogni occasione mostrò pel buon successo dei propri scritti una indifferenza che presentava tutti i caratteri della sincerità. La non curanza con cui li lanciava nel mondo, il velo d'anonimo che cercava sempre di conservare, l'abbandono dei guadagni che potevano derivargliene, dimostrano com'egli disdegnasse il mestiere d'autore di professione. La terza singolarità dalla quale andava contraddistinto il carattere letterario di Swift si è che, eccetto la storia, non si è mai provato in veruno stile di componimento, senza riuscirci. Ognuno comprende ch'io non intendo ora parlare d'alcuni saggi pindarici o de' suoi versi latini, cose di troppo lieve importanza, perchè se ne tenga qui un conto. Certamente si può dar la taccia di frivola o di assai volgare alla maniera onde talvolta ha messo in opera il suo talento: pure i suoi versi anglo-latini, i suoi enigmi, le sue descrizioni poco dilicate, le sue violenti satire politiche sono nel loro genere perfette altrettanto quanto lo comporta il soggetto, e lasciano l'unico rincrescimento di non vedere un sì bel genio impiegato nel trattare argomenti più nobili. Nella finzione egli possedeva in supremo grado l'arte della verisimiglianza, o come lo abbiamo osservato nei _Viaggi di Gulliver_, l'arte di pignere e sostenere un carattere fittizio in tutti i luoghi ed in tutte le circostanze. Una gran parte di questo secreto consiste nell'esattezza dei piccioli fatti staccati che formano siccome il prologo o, per così esprimerci, la sinfonia di una storia raccontata da un testimonio oculare. Tali sono le cose che direbbesi non interessar vivamente altri fuor del narratore. Son queste la palla d'archibuso che fischia all'orecchio del soldato, e fa più impressione in lui di tutta l'artiglieria che di poi non ha cessato di tuonare durante l'intera battaglia. Ma per uno spettatore posto in distanza tutte quelle prime minuzie vanno perdute nel corso generale degli avvenimenti. Ci voleva tutto il discernimento di Swift o di De Foe, autore del _Robinson Crusoè_ e delle _Memorie d'un soldato di cavalleria_, per afferrare i minuti incidenti atti a fare impressione su lo spettatore che la levatura del suo ingegno e della sua educazione non hanno assuefatto a comprendere le cose sotto un aspetto di generalità. L'ingegnoso autore della _Storia della finzione_, il signor Dunlop, mi ha preceduto nel paralello ch'io mi era prefisso d'istituire tra il romanzo di _Gulliver_ e quello di _Robinson Crusoè_. Mi gioverò delle sue espressioni che rendono le mie proprie idee. Dopo avere dispiegata la sua proposizione dimostrando come Robinson Crusoè renda verisimile il suo racconto d'una tempesta, «quei minuti particolari (egli dice) ne portano a credere tutto il resto della narrazione. Niuno s'immagina che il narratore avesse fatto menzione di simili bagattelle se non fossero state vere. Queste medesime bagattelle sono da notarsi nei _Viaggi di Gulliver_; ne guidano in parte a credere i racconti meno probabili.» Niuno ha mai revocato in dubbio il genio di De Foe, ma non era gran fatto estesa la sfera delle sue cognizioni: donde procede che la sua immaginazione non ha potuto creare al di là d'uno o due eroi delle sue finzioni: un marinaio ordinario come Robinson Crusoè, un soldato grossolano come il suo soldato di cavalleria, alcuni cialtroni di bassa condizione come alcuni altri personaggi fittizi, ecco le sole parti che l'estensione delle sue cognizioni gli permetteva di far comparire su la scena. Egli si è precisamente trovato nel caso dello stregone indiano, la cui virtù magica non va più oltre dell'aiutarlo a trasformarsi in due o tre animali. Swift è il _dervis persiano_ che ha la potestà di far passare la sua anima nel corpo ove le piace trasmigrare, di vedere cogli occhi del nuovo corpo, d'adoperarne gli organi, d'impadronirsi perfino dell'intelletto che lo animava. _Lemuel Gulliver, l'astrologo Isacco Bickerstaff, il Francese che scrive il nuovo viaggio a Parigi, mistress Harris, Maria la cuciniera, l'Uomo che con l'intenzione di sollevare i poveri, divisa di mangiare i loro figli, il violento politico Whig che fa rimostranze su le insegne di Dublino_, son personaggi disparati fra loro altrettanto quanto appariscono esserlo col decano di San Patrizio. Ciascuno serba il proprio carattere, ciascuno si move nella sua propria sfera, sempre colpito da quelle circostanze che la sua posizione sociale o la sua maniera di vedere gli hanno rese più interessanti come individuo. La proposizione che ho stabilita su l'arte di dare verisimiglianza ad un racconto immaginario, trova il suo corollario nel principio medesimo. Giova che minute circostanze facciano impressione su lo spirito del narratore ed usurpino una certa parte del suo racconto, e giova ad un tempo che circostanze più importanti di propria natura conciliino solo in parte la sua attenzione, o in altri termini, così in un racconto, come in un quadro, vi è una lontananza ed un primo piano; e la scala visuale degli oggetti decresce a proporzione del loro allontanarsi da chi li racconta. Nè in ciò è men notabile l'arte di Swift; Gulliver racconta d'una maniera più vaga le cose giunte per voce d'altri al suo orecchio che non quelle di cui vuol far credere d'essere stato testimonio egli stesso. Non trovate qui come negli altri viaggi ai paesi d'utopia, un quadro esatto del governo e delle leggi di quelle contrade, ma le nozioni generali che un viaggiatore curioso cerca procacciarsi nell'intervallo di alcuni mesi del suo soggiorno fra gli stranieri. In somma il narratore è il centro, il grande organo della storia; non racconta fatti che le circostanze non gli abbiano permesso di osservare, ma non ne omette veruno, le cui circostanze connettendosi a dirittura con lui lo rendano importante ai suoi occhi. Le principali opere in prosa di Swift sono le _Fole (Tales of a tub)_, il _Viaggio di Gulliver_, le _Lettere del Pannaiuolo_; le migliori in versi sono il _Club della legione_, _Cadeno e Vanessa_, poema, la _Rapsodia su la poesia_. Alcune di queste traggono in molta parte il loro vezzo dalle circostanze che le inspirarono all'autore e dalla natura dei tempi in cui vennero pubblicate. Fra le molte e notabili produzioni di questo autore che Voltaire chiama il Rabelais dell'Inghilterra, il _Gulliver_ è l'opera meglio destinata a vivere presso la posterità. È per altro giustizia il dire che un'opera di tanta levatura basta di per sè sola a stabilire una rinomanza. VIAGGI DI GULLIVER L'EDITORE AI LEGGITORI. L'autore di questi viaggi, il signor Samuel Gulliver, è mio antico ed intimo amico; anzi vi è qualche parentela fra noi dal lato di madre. Circa tre anni fa, lo stesso signor Gulliver, noiato dalla folla di tanti curiosi che andavano a visitarlo nella sua casa di Redriff, fece acquisto di un podere cui era annessa una conveniente casa, presso Newark, nella contea di Nottingham, paese ov'è nato; quivi or conduce vita ritirata, benchè lo tengano in molta considerazione i suoi vicini. Se bene sia nato, come vi ho detto, nella contea di Nottingham, ove dimorava suo padre, io per altro ho udito raccontare dal medesimo signor Gulliver che la sua famiglia procedeva in origine dalla contea di Oxford; e ciò si combina coi molti sepolcri e monumenti d'individui di questo casato che ho veduti a Baubury ov'è il cimitero della contea. Prima di partirsi da Redriff, depositò in mia mano gli scritti che leggerete, lasciandomi la piena facoltà di disporne come avrei creduto opportuno. Gli ho letti diligentemente per ben tre volte: semplice e piano me ne è parso lo stile, nè vi ho trovato altro difetto fuor quello che l'autore, secondo il solito dei viaggiatori, particolarizza troppo i suoi racconti. Di mezzo ad essi trapela una grande apparenza di verità; e realmente l'autore è sì conosciuto per la sua veracità, che ogni qual volta sia occorso autenticare un fatto presso quei di Redriff, è passato in proverbio il dire: «La cosa è vera come se il signor Gulliver l'avesse narrata». Non senza aver prima consultato più d'un degno personaggio, cui il signor Gulliver mi ha permesso comunicare tal manoscritto, m'avventuro darlo alla pubblica luce, nella speranza che possa, almeno per qualche tempo, offrire alla nobile nostra gioventù un intertenimento migliore di quanto essa può aspettarsene dai soliti libercoli ove non si parla d'altro che di politica e di fazioni. Questa edizione sarebbe riuscita voluminosa almeno dodici volte di più, se non mi fossi presa la libertà di stralciare dall'originale una farragine di tratti che si riferiscono ai venti ed alle maree, alla direzione e variazione delle coste nei singoli viaggi, o che contengono minute descrizioni del modo di governare i bastimenti al sopravvenire della burrasca, genere di rinfresco che i viaggiatori marittimi non vi risparmiano mai, così pure i ragguagli delle longitudini e delle latitudini; del qual mio arbitrio ho ben paura che il signor Gulliver non si chiami molto contento; ma venuto nella determinazione di pubblicare questi viaggi, io doveva anche studiarmi d'adattarli all'intelligenza del maggior numero de' miei leggitori. Nondimeno, se la mia ignoranza, in quanto concerne affari di mare, mi è stata cagione di cadere, nel far tali stralci, in qualche sproposito, me ne prendo io, com'è ben giusto, tutta la colpa; e se qualcuno della professione avesse la curiosità di esaminare in grande tutta l'opera quale uscì dalle mani dell'autore, m'offro pronto ad appagar la sua brama. Quanto agli altri particolari che riguardano personalmente l'autore, i leggitori potranno tosto conoscerli dalle prime pagine di questo libro. RICCARDO SYMPSON. PARTE PRIMA VIAGGIO A LILLIPUT CAPITOLO I. L'autore dà qualche notizia di sè medesimo e della sua famiglia. — Prime cagioni che lo invogliarono di viaggiare il mondo. — Naufragio e vita salvata a nuoto. Tocca sano e salvo la spiaggia a Lilliput; fatto prigioniero, è condotto attorno per quel paese. Mio padre era un picciolo possidente della contea di Nottingham; fui il terzo de' suoi cinque figli. Mi pose, ch'io avea quattordici anni, nel collegio Emmanuele di Cambridge, ove rimasi tre anni, applicandomi seriamente ai miei studi; ma il peso di mantenermi, benchè m'avesse fatto un ben magro assegnamento, essendogli tuttavia greve, atteso lo scarso suo patrimonio, fui costretto entrare qual novizio di chirurgia sotto il magistero del signor Giacomo Bates, esimio professore di quest'arte in Londra; presso il quale rimasi quattro anni. In questo intervallo, mio padre mi spediva a quando a quando qualche po' di danaro ch'io spesi nell'imparare la nautica e diverse parti delle scienze matematiche, utili grandemente a chi vuole imprendere navigazioni, giacchè ho sempre creduto che, una volta o l'altra, sarei chiamato dal mio destino su questa carriera. Licenziatomi dal signor Bates, tornai a trovare mio padre; e coll'assistenza di lui, del mio zio Giovanni e d'alcuni altri parenti, misi insieme quaranta lire sterline oltre alla promessa di altre trenta ogn'anno per mantenermi a Leida. In questa università mi dedicai per due anni e sette mesi alla fisica, ben comprendendo come tale scienza mi sarebbe stata di grande sussidio nel far lunghi viaggi. Appena tornato da Leida, il mio buon maestro signor Bates mi raccomandò perchè fossi ammesso in qualità di chirurgo nel vascello La Rondine, comandato dal capitano Abramo Pannel, con cui rimasi tre anni e mezzo, facendo seco un viaggio o due nel Levante ed in altre parti. Tornato addietro, risolvei stabilirmi in Londra, al che mi confortò il detto maestro mio, signor Bates, procurandomi con le sue raccomandazioni più d'una clientela. Preso un appartamento in una piccola casa posta in Jewry Vecchia, mi pesò il celibato, onde mi sposai con mistriss Maria Burton, seconda figlia del signor Edmondo, calzettaio, conosciuto con tal cognome in contrada Newgate, e ne conseguii una dote di quattrocento sterlini. Sfortunatamente venne a morire due anni appresso il mio buon maestro Bates: onde, avendo io pochi amici, le clientele principiarono a mancarmi; tanto più che la mia coscienza ci avrebbe patito se per amor di guadagno avessi voluto darmi alle male ciarlatanesche pratiche d'alcuni miei colleghi. Consigliatomi pertanto con mia moglie e qualche mio conoscente, presi la determinazione di mettermi nuovamente al mare. Chirurgo successivamente in due vascelli, feci per sei anni diversi viaggi in tal qualità alle Indie orientali ed occidentali, dond'ebbe qualche miglioramento la mia condizione. A bordo impiegava le mie ore di libertà nel leggere i migliori autori antichi e moderni (chè andai sempre proveduto d'una suppellettile abbondante di libri); su le spiagge, nello studiare le usanze e l'indole dei diversi popoli, e nell'impararne le lingue in che riuscivo con grande facilità, siccome dotato di una tenace memoria. L'ultimo di questi viaggi per altro non fu gran che fortunato, onde credei d'averne abbastanza di mare, e feci proposito di rimanermene a casa con mia moglie e la mia famiglia. Venuto via da Jewry Vecchia andai a stare di casa in contrada Fetter, poi al Wapping, sperando trovar faccende fra que' marinai; ma nemmeno lì ci vidi il mio conto. Dopo essere rimasto tre anni nella speranza che le cose prendessero miglior piega, dovei buttarmi all'acqua di nuovo, ed accettai un'offerta fattami del capitano Guglielmo Prichard, comandante dell'Antilopa, che era in procinto di fare un viaggio all'Oceano australe. Salpammo da Bristol ai 4 di maggio del 1699, ed avemmo su le prime un viaggio assai prospero. Non ci sarebbe forse il prezzo dell'opera se io incomodassi il mio leggitore, raccontandogli i particolari delle nostre avventure su quei mari: basti l'informarlo che nel nostro tragetto di li all'Indie orientali una violenta burrasca ci trasportò a maestro (nord-owest) della terra Van-Diemen, ad una latitudine, come apparve dalle nostre osservazioni, di 30 gradi, minuti 2 ad ostro. Dodici di noi erano morti per effetto delle immoderate fatiche e del cattivo nutrimento; si trovavano tutt'altro che in buona condizione i sopravvissuti. Ai 5 novembre, che è il principio della state in que' climi, era sì nebbiosa la giornata che i piloti s'avvidero di uno scoglio sol quando il vascello ne fu lontano di un mezzo tratto di gomona, ed il vento era sì gagliardo che ne spinse irremissibilmente a rompere contro di esso. Sei della brigata, ed io ne fui uno, lanciata la scialuppa nel mare, fecero con essa una giravolta onde liberarsi e dallo scoglio e dal bastimento andatovi addosso. Remigammo per circa tre leghe, secondo i miei computi, finchè già mezzo morti dalle fatiche e dai disagi sofferti nel bastimento, non fummo più buoni di durarla in questo lavoro. Ci abbandonammo pertanto alla discrezione dell'onde, nè passò mezz'ora che la scialuppa fu volta di sotto in su da un subitaneo buffo di vento settentrionale. Che cosa divenisse de' miei compagni della scialuppa, o di quelli che poterono aggrapparsi allo scoglio, non ve lo so dire; ma dovetti crederli tutti periti. Quanto a me, mi diedi a nuotare verso dove mi dirigeva la fortuna, e lasciandomi spignere dal vento e dalla marea, spesse volte mi sono lasciato andare le gambe all'ingiù, ma senza trovare mai fondo. Sol quando fui quasi spedito, nè ero più abile ad aiutarmi da me in alcun modo, sentii che il mio piede toccava la terra; e da quel momento la burrasca aveva cominciato a calmarsi tanto ch'io era padrone di tenercelo senza lasciarmi trasportare dai marosi. Il declivo della spiaggia era sì tenue che dovei camminare circa un miglio prima di raggiugnerla, e quando ci fui, saranno state, secondo le mie congetture, le otto all'incirca della sera. Andai innanzi quasi un mezzo miglio senza scoprire alcun vestigio di abitanti o di case; o certo, se v'erano, non me ne accôrsi, tanto la prostrazione assoluta del mio corpo m'avea ridotto a tristo partito. Alla stanchezza ed al caldo della stagione aggiugnete che io aveva in corpo quasi un boccale e mezzo d'acquavite, bevuta nel bastimento all'atto del licenziarmene, e crederete che tutte queste combinate circostanze mi resero molto proclive al sonno. Mi coricai dunque su l'erba che era cortissima, pur fitta e soffice assai, ove diedi la più profonda dormita ch'io mi ricordi avere mai fatta in mia vita, e che ha ad essere durata circa nove ore, perchè quando mi svegliai, cominciava appunto a vedersi il giorno. Feci per alzarmi, ma non fui capace di movermi, perchè, essendomi occorso d'addormentarmi supino, mi trovai tutt'a due le braccia e le gambe attaccate con forti legami al terreno; ed alla mia capellatura assai lunga e folta era stato praticato lo stesso servigio. Sentii nel tempo stesso che alcune sottili funicelle mi legavano tutto il corpo dalle ascelle fino alle cosce. Io non potea guardar altro che all'insù, ed il sole cominciava a scottare e la sua luce ad incomodarmi gli occhi. Io udivo un confuso bisbiglio d'intorno a me; ma nella postura in cui giacevo non mi era dato vedere altra cosa che il firmamento. Di lì a poco sentii alcun che di vivo moversi su la mia gamba sinistra, e che avanzandosi gentilmente sul mio petto mi montò quasi sul mento. Chinando gli occhi all'ingiù quanto potei con la mia testa, fatta immobile dalle legature, vidi che quel vivente era una creaturina umana, non alta sei dita, con proporzionato arco e con proporzionate frecce nelle mani ed il suo turcassino dietro le spalle. In questo mezzo sentii circa un'altra quarantina d'esseri della medesima specie (tali almeno li congetturai) che venivano dietro al primo. Vi lascio immaginare se rimasi attonito. Misi un sì forte grido che tutti si diedero spaventati alla fuga; anzi alcuni di loro (questo poi l'ho saputo dopo) si fecero male nel saltar giù dai miei fianchi per far più presto. Ciò non ostante tornarono quasi subito, e un di loro arrischiatosi al punto di fisare e squadrare i miei lineamenti, sollevò gli occhi e le mani in atto di ammirazione, e sclamò con voce strillante ma distinta: _Hekina degul!_ esclamazione che gli altri ripeterono a coro parecchie volte, senza che certamente io capissi allora che cosa si volessero dire. Rimasi tutto questo tempo, ed il leggitore me lo crederà facilmente, in uno stato di grande agitazione; finalmente a furia di sforzi per mettermi in libertà, ebbi la fortuna di rompere le cordicelle che mi strignevano attorno la vita e di staccare dal suolo le caviglie che tenevano legato il mio braccio sinistro. Allora, portandomi alla faccia questo braccio, potei capire la meccanica di cui si erano valsi per legarmi a quel modo, e nel medesimo tempo con una violenta strappata, che mi produsse tutt'altro che gusto, arrivai ad allentare i legamenti che attaccavano i miei capelli al terreno, ciò che mi diede abilità quanta bastava per dare alla mia testa una voltata di circa due dita. Ma quelle creature tornarono a fuggire dal mio corpo prima che potessi acchiapparne una sola. In questa, udii un nuovo grido stridulo oltre ogni dire, dietro cui uno di que' campioni profferì ad alta voce queste parole: _Tolgo phonac_, ed in un subito sentii volar su di me la scarica d'un centinaio di frecce che cadute su la mia mano sinistra la forarono come altrettanti aghi da cucire. Poi, senza darmi tregua, scoccarono all'aria una folata di dardi, come facciamo noi colle bombe in Europa, alcuni de' quali caddero, suppongo, sul mio corpo, ancorchè io non li sentissi grazie ai miei panni: ed altri su la mia faccia che mi copersi con la mano destra. Cessata questa pioggia d'armi da lancio, misi un gemito di dolore, poi voleva far gli ultimi sforzi per isciogliermi, ma que' signorini non me ne diedero il tempo, chè mi mandarono addosso una rugiada di quelle galanterie, copiosa più della prima, anzi alcuni si arrischiarono a tribolarmi i fianchi con le loro aste; ma per buona sorte li riparava la mia casacca di cuoio di bufalo, onde non riuscirono a trafiggerli. Credei quindi che il più saggio partito per me fosse lo starmene quieto per allora; e divisai starci fino alla notte, durante la quale, avendo la mano destra già in libertà, non mi sarebbe stato difficile far libero il resto della mia persona; chè poi, in piedi una volta, io mi giudicava un competitore bastantemente gagliardo per un intero de' loro eserciti, se pure ciascun soldato era dello stesso calibro di quello che venne a trovarmi la prima volta. Ma il destino dispose altrimenti di me. Poichè quella popolazione si fu accorta che io mi era messo quieto, non mi vennero scaricate addosso altre frecce; ma dallo strepito che io udiva, capii che cresceva sempre di numero, e ad una distanza di circa quattro braccia, rimpetto al mio orecchio destro, udii per una buon'ora continua un picchiamento come di gente intenta ad una fabbrica. Arrivato, sin quanto me lo permettevano le caviglie conficcate in terra e le mie legature, a voltare il capo da quella banda, vidi un palco alto all'incirca un piede e mezzo da terra, capace di contenere quattro di quegli abitanti, con due o tre scale a mano per salirvi; dalla quale tribuna un di loro, che all'aspetto pareva un personaggio di distinzione, mi tenne un lungo discorso di cui non intesi una sillaba. Avrei dovuto premettere che quel personaggio principale, prima di cominciare la sua concione, gridò forte per tre volte: _Langro dehul san_ (e queste parole e le precedenti mi furono in appresso ripetute e spiegate). Non appena furono profferite, ebbi presso di me una cinquantina di quei nativi, che tagliò la cordicella da cui era reso immobile il lato sinistro del mio capo, ond'ebbi la libertà di voltarlo a destra e di contemplare la persona ed i gesti dell'oratore. Parvemi fosse di mezza età e più alto dei tre altri; un de' quali era un paggio del corteggio, un po' più lungo del mio dito di mezzo, collocato fra due che gli servivano di braccieri. Egli adempì tutte le incombenze di un oratore, perchè mi parve notare nella sua aringa molti periodi di minaccia, ma molt'altri ancora di promesse, di compassione e persino di cortesia. Risposi in pochi cenni, ma d'una guisa la più sommessa, sollevando la mia mano sinistra ed entrambi gli occhi al sole, come chiamandolo in testimonio della mia sincerità. Ma c'era un'altra cosa: io mi sentiva morto di fame, che non avevo preso un morsello di cibo fin da più ore prima di abbandonare il bastimento, e questo bisogno della natura era sì imperioso, che non potei starmi dal far conoscere il mio mal essere (anche a costo di mancare alle strette regole dell'etichetta), col cacciarmi sovente le dita in bocca per dar a capire la mia necessità di mangiare. L'_hurgo_ (così viene colà denominato un gran personaggio, come seppi da poi) mi comprese ottimamente. Sceso dalla sua tribuna, ordinò s'appoggiassero ai miei fianchi diverse scale, su cui salì un centinaio circa di que' nativi, i quali presero la via della mia bocca, carichi di canestri pieni di vivande, che il re aveva fatte preparare e mandar qui alla prima notizia del mio arrivo su quella spiaggia. Notai che erano composte di carni d'animali diversi, ma al palato non potei distinguerne le specie. Vi erano spalle, piedi e lombi come quelli di castrato, cucinati a perfezione, ma più piccioli di un'ala di lodola. Io ne mangiava due o tre in un boccone, e ad una volta con essi tre pagnotte, grosse ciascuna come una palla di moschetto. Mi rinovarono questa provista il più presto che poterono, dando mille segni di stupore e sbalordimento all'enormità della mia mole e del mio appetito. Indicai allora per cenni un altro bisogno: quello di bere. A proporzione di quello ch'io aveva mangiato, capirono che una piccola quantità di vino non mi sarebbe bastata; ed essendo creature di molto ingegno, fecero con gran destrezza salir su' miei fianchi una delle più ampie botti, e, ruzzolatala verso la mia mano, ne tirarono fuori la cannella. Ne bevei tutto il liquido in una sorsata, perchè la botte non arrivava a contenere un mezzo boccale di vino, della natura del mezzo borgogna, ma più delizioso d'assai. Fecero arrivarmi una seconda botte che mi tracannai nella stessa maniera, poi feci segni per nuovo vino, ma non ne avevano lì altro da darmi. Terminate che ebbi queste meraviglie, misero grida e salti di gioia sopra il mio corpo, ripetendo più volte quelle parole della prima volta: _Hekinah degul!_ Allora mi fecero segno di gettar giù le due botti, raccomandando per prima cosa ai passeggeri di tirarsi da banda e gridando forte: _Borach mevolah_; poi quando videro le botti in aria, fu un grido universale: _Hekinah degul!_ [Illustration:ill:012b.jpg] Confesso che mentre costoro passeggiavano così in lungo ed in largo sopra il mio corpo, mi era venuta più d'una volta la tentazione di agguantarne con la mia mano sinistra una quarantina o una cinquantina dei primi che mi fossero venuti a tiro e batterli contro al terreno. Ma la ricordanza di quanto io aveva sofferto, nè forse era il peggio che avessero potuto farmi in quella mia posizione, e la parola d'onore che aveano ricevuto da me, perchè io riguardava per tale la rassegnazione data loro a divedere, mi scacciarono dalla testa un tale estro. Poi mi consideravo anche legato dai vincoli dell'ospitalità verso un popolo che m'avea trattato con tanta spesa e magnificenza. Ciò non ostante non potevo in mio cuore desistere dallo stupirmi dell'intrepidezza di quegli esseri in bassorilievo, che salivano e si diportavano sul mio corpo, mentre io aveva una mano libera, senza tremare alla vista d'una sì sterminata creatura com'io doveva ad essi parere. Dopo qualche tempo, e quando videro ch'io non faceva più alcuna domanda di cibo, mi comparve innanzi un personaggio d'alto conto inviato da sua maestà imperiale. Sua eccellenza, dopo essere salita su la parte sottile della mia gamba destra, venne su fino alla mia faccia, e tratte fuori le sue credenziali, munite del regio suggello, che mi piantò rasente gli occhi, parlò all'incirca dieci minuti, senza manifestare alcuna sorta di sdegno, per altro con un certo fare risoluto, spesse volte accennandomi un punto in distanza, che seppi più tardi essere la metropoli del regno, lontana di lì un mezzo miglio a un dipresso, ove, dietro beneplacito manifestato da sua maestà nel consiglio de' suoi ministri, io doveva essere condotto. Gli risposi poche cose, ma che non istavano in tuono con la proposta; poichè gli feci un segno con la mia mano sciolta che portai su la legata (tenendola ben alta dalla testa di sua eccellenza per paura di buttar giù lui o il suo corteggio), indi mi toccai con la stessa mano il capo ed il corpo per fargli capire il mio desiderio di essere libero. Parve in fatti che m'intendesse, perchè crollò la testa in atto di dire che non andava bene il mio conto, indi diede alla propria mano tale atteggiamento donde compresi che volea condurmi di lì in istato di prigioniero. Pur fece altri segni, bisogna rendergli questa giustizia, per significarmi che avrei avuto da mangiare e da bere pel mio bisogno, e che sarei stato trattato eccellentemente. Qui pure mi tornò la voglia di provarmi ad infrangere i miei ceppi, ma sentii di nuovo il dolore della mia faccia e delle mie mani piene in parte di pustole, grazie al complimento degli spilli che vi erano stati scoccati, e alcuni de' quali ci rimanevano tuttavia conficcati, ed osservai ad un tempo che il numero de' miei nemici andava crescendo. I miei cenni pertanto furono intesi ad accertarli che mi sarei acconciato in tutto e per tutto ai loro voleri. Dietro tal mia promessa l'_hurgo_ ed il suo seguito partirono da me con civiltà ed ottima grazia. Immediatamente dopo, udii un generale grido e ripetutamente esclamate queste parole: _Peplom selan_; poi mi sentii al fianco sinistro una gran folla di gente, la quale allentò i miei legamenti tanto che fui in istato di voltarmi sul destro e dispormi ad una operazione che la mia vescica piena rendea d'inevitabile necessità: al qual bisogno soddisfeci compiutamente a grande stupore di quella popolazione che, dal primo mio atto, avendo congetturato benissimo che cosa fossi per fare, si aperse immediatamente in due ale a destra e a sinistra per non rimanere sommersa dal torrente che con tanta violenza e strepito sgorgò dal mio corpo. Ma io dovea dire come prima di questo incidente, m'avessero spalmate le mani e la faccia con certo unguento piacevole all'odorato, che in pochi minuti mi fece passare tutto il dolore derivato dalle loro frecce. Queste circostanze, unite al ristoro portatomi dai nudrimenti e dalle bevande che mi recarono, il tutto d'una sostanza assai nutritiva, mi disposero al sonno. Dormii circa otto ore, come ne venni assicurato da poi, nè c'era di che stupirne, perchè i medici mandatimi per ordine dell'imperatore, aveano versata una dose di sonnifero nelle botti del vino che io aveva bevuto. Sembra che fin dall'istante del mio primo addormentamento su la spiaggia, gli abitanti di que' dintorni, accortisi del prodigioso gigante dormente, ne avessero spedita per espresso la notizia all'imperatore, e che questi in pien consiglio mettesse subito il decreto perchè fossi legato nella maniera che vi ho descritta; la qual fazione seguì nella notte stessa mentre io era immerso nel sonno; sembra pure che nel medesimo tempo ordinasse l'apparecchio delle vettovaglie inviatemi e la fabbricazione di una macchina da trasporto per condurmi alla metropoli. Una tal decisione può forse apparire arrischiata e pericolosa al massimo grado, e credo che nessun sovrano dell'Europa, in uguale occasione, la prenderebbe ad esempio. Pure a mio avviso fu una decisione circospetta e generosa oltre ogni dire. Mettete un poco che quegli abitanti si fossero provati, mentre io dormiva, ad ammazzarmi con quelle loro frecce, con quelle loro lancie. Mi sarei certamente svegliato alla prima sensazione di dolore, e questo avrebbe incitata la mia rabbia e le mie forze al segno di rompere, a costo di far male a me stesso, que' legamenti che mi teneano; e sciolto che fossi stato, quegli omettini inabili a resistermi non avrebbero potuto aspettarsi misericordia da me. È a sapersi che quel popolo era potente nelle matematiche, ed avea raggiunta una grande perfezione nelle meccaniche, mercè le disposizioni e gl'incoraggiamenti di quel monarca, famoso proteggitore delle scienze e dell'arti. Ha questi al suo comando parecchie macchine su le ruote pel traslocamento d'alberi e d'altri grandi pesi. Spesse volte fa fabbricare le sue navi da guerra, alcune delle quali hanno sin nove piedi di lunghezza, nelle foreste stesse ove abbonda il legname da costruzione, e tali navi, poste su le macchine dianzi accennate, fanno viaggi di trecento, di quattrocento braccia per giugnere al mare. Cinquecento carpentieri ed ingegneri pertanto furono messi in opera per allestire uno de' maggiori carri che avessero. Il corpo di questo carro, alto quattro dita da terra, avea sette piedi di lunghezza e quattro di larghezza, e si movea sopra ventidue ruote. Quel grido _Peplom selan_ che udii prima d'addormentarmi la seconda volta, contrassegnava l'arrivo di questo carro, posto all'ordine, a quanto sembra, in quattro ore di tempo dopo il mio arrivo. La macchina fu portata parallela al mio corpo giacente. Ma la difficoltà principale consistea nel sollevarmi da terra e mettermi steso su questo carro. Vennero alzati a tal uopo ottanta pilastri, alti un piede ciascuno, e gagliardissime funi, della grossezza dello spago degli uffizi di spedizione, furono attaccate con uncini a larghe fasce, di cui gli operai subalterni aveano cinto il mio collo, le mie mani, la mia vita e le mie gambe. Novecento tra i più vigorosi facchini, addetti al dicastero del genio, furono scelti per tirarmi su mediante un apparato di girelle poste all'estremità d'ogni colonna, di modo che in men di tre ore fui levato da terra, portato e disteso e legato stretto sul carro. Tutte queste cose mi vennero raccontate, perchè mentre si faceano, io era immerso nel più profondo sonno per una conseguenza de' narcotici infusi entro il mio vino. Mille e cinquecento de' più grossi cavalli dell'imperatore, ciascuno alto quattro dita e mezzo, vennero adoperati per condurmi alla volta della metropoli che, come ho detto, era lontana di lì un mezzo miglio. Quattro ore circa dopo esserci messi in viaggio, mi svegliai per un caso il più ridicolo. Essendo avvenuto che il carro si fermasse un istante per raggiustare alcun che di andato fuor d'ordine in quella compostissima costruzione, due giovani nativi, mossi dalla curiosità di vedere che figura io facessi addormentato, s'arrampicarono tanto che arrivarono ad entrare nel carro; poi, avvicinatisi pian piano alla mia faccia, l'un d'essi, un uficiale della guardia imperiale, introdusse nella mia narice sinistra un buon tratto della sua picca, che facendomi il solletico in quella parte come se fosse stata una paglia, mi promosse un violento starnuto; il che gl'indusse a battersela alla presta per paura di essere veduti. Sol tre settimane dopo, seppi il motivo di questo subitaneo mio svegliamento. Marciammo lentamente tutto il restante di quella giornata, e fermatici la notte, rimasero sino a giorno schierate ai lati del mio carro cinquecento guardie, la metà munite di torce a vento, l'altra metà di archi e di frecce per esser pronte a scaricarle su me se avessi tentato disciogliermi. Nella successiva mattina, al levar del sole ci rimettemmo in cammino, ed era all'incirca il mezzogiorno quando ci trovammo ad una distanza di duecento braccia dalla città. L'imperatore e tutta la sua corte ne vennero incontro, ma i suoi grandi uficiali non vollero comportare in verun modo ch'egli s'avventurasse a salir sul mio corpo. Laddove si fermò il carro sorgeva un antico tempio, giudicato il più vasto che vi fosse nell'intera monarchia. Contaminato, alcuni anni addietro, da un esecrabile omicidio, il religioso zelo di que' popoli lo ebbe per profano da quell'istante, onde non servì più che ai bisogni del comune, e tutti i sacri arredi e suppellettili del medesimo vennero trasportati altrove. Entro questo edifizio fu deciso che sarei alloggiato. La porta maggiore che guardava a settentrione, era alta a un dipresso quattro piedi e larga quasi due, onde, benchè un po' a stento, io poteva far passare per essa il mio corpo. A ciascun lato della porta era una finestra non più alta di sei dita da terra. In quella di sinistra il fabbro ferraio di sua maestà fermò novant'una catene, simili a quelle che vediamo ai dì nostri (nel 1726) pendere dagli orologi delle signore in Europa, e quasi altrettanto larghe, le quali catene venivano a cignere la mia gamba sinistra, e ve le fermavano trentasei chiavistelli. Rimpetto a questo tempio, all'altro lato della grande strada maestra, e ad una distanza di venti piedi sorgeva una torre di cinque piedi almeno d'altezza. In questa salì l'imperatore coi primari personaggi della sua corte, per avere il comodo di ben osservarmi; così mi fu detto, perchè io non potei allora avere la fortuna di vedere questi alti personaggi. Fu fatto un computo da cui risultò che cento mila abitanti all'incirca della metropoli ne erano usciti, tutti spinti dalla medesima curiosità; e, a malgrado degli sforzi delle mie guardie, credo non saranno stati meno di diecimila quelli che per più riprese salirono sul mio corpo col mezzo di scale. Fu presta per altro ad uscire una grida che proibiva il far ciò sotto pena di morte. Poichè gli esperti ebbero giudicato cosa impossibile che mi sciogliessi dalle nuove catene, vennero tagliate tutte le cordicelle che mi legavano prima; onde mi trovai in piedi, dominato da un mal umore, di cui non ho mai provato l'eguale in mia vita. Ma non vi so descrivere lo strepito e lo stupore di quella popolazione al vedermi saltare in piedi e camminare; e dico camminare, perchè le catene che legavano la mia gamba sinistra erano lunghe circa due braccia, e mi davano la libertà di girare innanzi addietro, stando sempre nondimeno in quella periferia; mi procuravano un altro vantaggio, che essendo cioè infitte alle pareti quattro dita al di dentro della porta, mi permettevano il ficcarmici entro e giacervi con tutta la lunghezza del mio corpo. CAPITOLO II. L'imperatore di Lilliput accompagnato da parecchi de' suoi nobili, si reca a vedere l'autore nel luogo del suo confine. — Descrizione della persona e delle vesti del monarca. — Dotti incaricati d'insegnare all'autore la lingua del paese. — Favore che questi si acquista per la sua mansuetudine e bontà di cuore. — Visita fatta alle sue tasche; toltagli la spada e le pistole. Quando mi trovai in piedi, mi guardai attorno, e confesso di non aver mai veduta una più dilettevole prospettiva. Contemplato da tutte le bande il paese, mi apparve un continuato giardino, ed i campi chiusi, ciascuno in generale dell'estensione di quaranta piedi quadrati, mi sembravano altrettante aiuole di fiori. Questi campi andavano interpolati da boschi larghi mezza pertica quadrata, e i più alti alberi, a quanto potei giudicare in distanza, dovevano arrivare fino ai sette piedi. La metropoli che stava alla mia mano manca mi presentava l'aspetto d'una scena dei nostri teatri, su cui sia dipinta una città. Per alcune ore io era stato pressato da alcune necessità indispensabili della natura, ned è meraviglia, perchè passavano due giorni da che non m'ero alleggerito di certe incomode superfluità. Io mi vedeva orridamente alle strette tra l'urgenza del caso e tra la vergogna. Non vidi miglior espediente del cacciarmi entro della mia casa, e chiuderne la porta dietro di me. Così feci, poi andatomene tanto lontano, quanto la mia catena me lo permetteva... il resto non ha bisogno di spiegazione. Fu questa l'unica volta che mi resi colpevole di un atto sì sconcio; intorno a che supplico il candido leggitore ad accordarmi qualche perdono, e spero ottenerlo, quand'egli avrà ponderato l'arduità delle circostanze che mi premevano. Da quella volta in poi fu costante mio studio il liberarmi di questo pensiero ogni mattina appena alzato, fuor della porta, e lontano quanto mel permettevano i miei ceppi; in guisa che prima che mi arrivasse compagnia, ogni immondo vestigio veniva fatto sparire da due servi muniti di carriuole, assegnatimi per la mondezza esterna ed interna della mia casa-tempio. Non avrei forse dovuto fermarmi sì a lungo sopra una particolarità, a prima vista, non d'alto momento; ma mi parea necessario giustificare agli occhi del mondo la maniera mia di sentire in ordine a pulitezza; argomento su cui non sono mancati i maligni che, e nel caso presente ed in altre circostanze de' viaggi da me narrati, si sono divertiti spargere qualche dubbio. Terminata questa faccenda, venni fuori della mia nicchia, chè certo avevo bisogno di respirar l'aria aperta. In quell'intervallo l'imperatore era sceso dalla sua torre, e mi veniva in verso a cavallo; corsa che per poco non gli tornò ben fatale, perchè il suo cavallo ch'era, se vogliamo, ben addestrato, ma niente avvezzo a tal vista, qual si fu quella di un'apparente montagna che si movesse dinanzi a lui, si rizzò su le zampe di dietro; onde ci volle tutta la maestria del principe, per sua buona sorte, eccellente cavallerizzo, perchè si tenesse in arcione tanto che arrivassero i palafrenieri che galoppando si era lasciati addietro: questi, impadronitisi delle redini, gli diedero agio a smontare. Poichè fu a terra, mi girò attorno contemplandomi con grande attenzione, per altro tenendosi sempre ad una distanza maggiore della lunghezza della mia catena. Ordinò ai suoi cuochi e bottiglieri, muniti già d'ordini precedenti, di apprestarmi cibi e bevande, il tutto condotto ivi su certe barelle fornite di ruote, ed alte tanto che fossero a portata della mia mano. Mi presi in mano le barelle e feci presto a vuotarle tutte: venti di esse erano cariche di vivande, dieci di vino; in due od al più tre bocconi io mi mangiava il contenuto di ciascuna delle prime; ogni barella di vino portava l'equivalente di dieci botti diviso in tante caraffine di terra, e i recipienti d'ogni barella io facea vuoti in una sorsata. L'imperatrice ed i giovani principi del sangue d'entrambi i sessi con molto corteggio di cavalieri e di dame stavano in qualche distanza nelle loro carrozze, ma dopo il pericolo corso da sua maestà, smontati tutti, si raccolsero attorno all'imperiale persona che m'accingo ora a descrivere. Questo monarca è più alto, quasi d'una mia unghia, di tutti gli altri della sua corte: circostanza che bastava di per sè sola a comprendere di rispettosa suggezione chi alzava gli occhi su lui. Vigorose e maschili ne erano le fattezze, austriaco il labbro, il naso aquilino, la carnagione olivastra, la fisonomia dignitosa, ben proporzionato il corpo e le membra, grazioso ogni moto, maestoso il portamento. Era allora fuori della prima giovinezza, poco mancandogli a compire i ventinove anni, de' quali ne contava sette di regno felice e quasi sempre dalle vittorie illustrato. Per poterlo guardar più a mio modo m'ero accosciato in fianco sì che la mia faccia restasse parallela alla sua; ma più tardi, essendomelo tenuto ripetutamente fra le mani, non posso ingannarmi nella descrizione che ne fo adesso. Semplice e liscio ne era il vestito, di foggia tra l'asiatica e l'europea, ma portava sul capo un lieve elmetto d'oro ornato di gemme ed una piuma sul cimiero. Teneva in mano la spada sguainata per difendersi ad un caso che avessi infranti i miei ceppi; era questa lunga all'incirca tre dita, l'elsa ed il fodero ne erano d'oro, tempestati di diamanti. Aveva una voce stridula, ma limpida e sì distintamente articolata, ch'io poteva udirne le parole da stare in piedi. Le dame ed i cortigiani erano messi in tanta magnificenza che il sito ove stavano sembrava un tappeto disteso sul terreno, tutto rabescato di figurine d'oro e d'argento. Sua maestà imperiale mi volgea sovente la parola, ed io rispondeva, ma non intendevamo una sillaba l'uno dell'altro. Vi erano parecchi sacerdoti ed uomini di toga (tali almeno li congetturai dai loro abiti) ai quali fu ordinato di dirmi qualche cosa. Io ebbi un bel parlar loro in tutte le lingue, in quelle, intendiamoci, di cui avevo almeno qualche infarinatura, l'alto e basso olandese, il latino, il francese, lo spagnuolo, l'italiano, la lingua franca, ma fiato gettato! Dopo due ore a un dipresso, la corte si ritirò; e fui lasciato con una buona guardia per impedire le imprudenze, e probabilmente le malignità che potrebbe commettere la plebaglia ansiosa d'affollarmisi attorno fino al segno cui poteva arrischiarsi; e fra questa plebaglia vi furono alcuni che, mentre me ne stavo seduto per terra alla porta della mia abitazione, ebbero la sfacciataggine di scoccarmi frecce, una delle quali poco mancò non mi trafiggesse l'occhio sinistro. Ma il colonnello ordinò che sei de' capi instigatori del disordine fossero presi, nè trovò per costoro castigo più adatto del darmeli legati nelle mani; a norma di che alcuni soldati me li spinsero inverso con le punte delle loro picche. Presili tutti nella mia mano sinistra, ne misi cinque in una tasca del mio vestito, e quanto al sesto feci mostra di volermelo mangiar vivo. Quel poveretto gridava come una anima dannata, e lo stesso colonnello ed i suoi uficiali erano sbigottiti, tanto più, quando mi videro dar mano al mio coltello; ma li levai ben tosto di pena tutti, perchè serenandomi in viso, tagliai le cordicelle che legavano il paziente, e lo posai gentilmente a terra, d'onde fuggì via con quanta avea gamba. Usai agli altri ugual trattamento, poichè me li fui tolti ad uno ad uno fuor di scarsella. Potei notare allora come i soldati ed il popolo gustassero tale contrassegno di mia clemenza, generoso atto che più tardi, reso noto alla corte, mi fruttò vantaggi ineffabili. Sul far della notte entrai non senza qualche fatica nella mia casa, ove giacqui sul terreno, e continuai così per due buone settimane; ma in questo mezzo, l'imperatore avea dati ordini perchè mi venisse apparecchiato un letto. Seicento letti di comune misura furono condotti su dei carri, ed introdotti nella mia stanza; centocinquanta de' loro letti uniti insieme facevano appunto la lunghezza e larghezza del mio, di modo che sovrapposti a centocinquanta mi componevano un letto a quattro doppi; ma ad onta di ciò, mi era ben tenue riparo alla durezza del pavimento che era di pietra liscia. Con lo stesso ragguaglio fui proveduto di lenzuola, di coltri e coperte, abbastanza passabili per me che era già assuefatto alle asprezze del vivere. Divulgatasi la notizia del mio arrivo, tirò questa un prodigioso numero di ricchi, oziosi e curiosi, smanianti tutti dalla voglia di vedermi, di modo che gl'interi villaggi rimanevano deserti, donde sarebbero derivati gravi danni all'agricoltura ed all'economia pubblica e privata, se il provido monarca con gride ed ordini di gabinetto non fosse andato incontro al disordine. Decretò che chiunque m'avesse veduto una volta se ne tornasse a casa, nè s'arrischiasse più a comparire entro un raggio di cinquanta braccia dalla mia abitazione senza una licenza speciale della corte, la qual cosa fu una bella vigna di guadagno ai segretari di stato. Intanto l'imperatore tenea frequenti consigli ne' quali si discuteva il sistema da adottarsi rispetto a me: affare che dava molto da pensare alla corte, come ne fui assicurato in appresso da un mio particolare amico, personaggio di gran distinzione ed ammesso ai segreti di gabinetto al pari di chicchessia. Or si temea che rompessi le mie catene, ora che il mio mantenimento divenisse eccessivamente dispendioso, e producesse una carestia. Qualche volta si è venuto in discorso di farmi morir di fame, o almeno di scoccarmi frecce avvelenate al volto ed alle mani, che era poi il modo più speditivo per disfarsi di me, ma di lì a poco si considerava che il puzzo d'un così sterminato cadavere come sarebbe stato il mio, avrebbe potuto portar la peste nella metropoli e probabilmente nell'intero reame. In mezzo a tali consulte, parecchi ufiziali dell'esercito arrivarono nell'anticamera della sala del gran consiglio, e due di questi che furono ammessi in sessione, raccontarono il contegno da me usato verso i sei delinquenti de' quali vi ho già parlato. Ciò fece una impressione sì favorevole nel cuore del monarca e di tutti i membri della tavola di stato, che ne uscì un sovrano decreto, in forza del quale tutti i villaggi situati in un circuito di novecento braccia attorno alla città erano obbligati a somministrare ogni mattina sei buoi, quaranta pecore ed altre vettovaglie pel mio sostentamento; ed in oltre una proporzionata quantità di pane, vino ed altri liquori; e pel rimborso de' suddetti generi sua maestà aveva fatto un assegnamento su la sua imperiale tesoreria. Perchè è a sapersi che quel sovrano vive soprattutto su le rendite del suo demanio; e ben rare volte, eccetto casi oltre ogni dire straordinari, leva imposte sopra i suoi sudditi, che hanno per altro l'obbligo di accompagnarlo nelle sue guerre a proprie loro spese. Nello stesso tempo venne istituita una compagnia di seicento individui obbligati ad essere miei servitori, i quali aveano salari fissi pel loro mantenimento e l'alloggio sotto altrettante tende, convenientemente fabbricate ai lati dell'ingresso della mia abitazione. Fu parimente decretato che trecento sartori mi facessero un corredo di vestiti secondo la moda della metropoli, e che sei fra i primari dotti dell'istituto imperiale fossero impiegati nell'insegnarmi la lingua del paese; finalmente che i cavalli imperiali, quelli della nobiltà e delle guardie del palazzo facessero gli esercizii alla mia presenza per avvezzarsi a non aver paura vedendomi; tutti i quali ordini furono debitamente mandati ad esecuzione. In tre settimane, poco più, poco meno, si trovò ch'io avea fatto grandi progressi nell'intrapreso studio della nuova lingua. Durante il tempo delle mie lezioni, l'imperatore mi onorava sovente delle sue visite, e si compiaceva assistere egli stesso ai maestri che m'insegnavano. Cominciavamo già in qualche modo a conversare insieme, e le prime parole che imparai, e che di poi gli andai ripetendo ogni giorno mettendomi ginocchione perchè gli giugnessero bene all'orecchio, erano di preghiera perchè si degnasse concedermi la mia libertà. La sua prima risposta a quanto mi parve capire si fu: ciò non poter essere se non l'opera del tempo; non dovercisi pensare finchè non si fosse sentito l'avviso del suo consiglio di stato; che prima avrei dovuto _lumos kelmin pesso desmar lon emposo_, giurare cioè di mantenermi in pace con lui e col suo regno; che nondimeno sarei stato trattato con ogni cortesia. Mi consigliò intanto a meritarmi con la mia pazienza e la saggezza del mio contegno la buona opinione di lui e de' suoi sudditi. Un giorno mi chiese che non m'adombrassi se dava ordine a certi suoi uficiali di frugarmi i vestiti; perchè probabilmente avrei avute addosso molte armi che non poteano non essere di pericolosissima conseguenza se corrispondevano nell'efficacia alla mole della mia persona. Io gli risposi, parte per cenni, parte con parole, che sua maestà poteva essere benissimo soddisfatta senza il bisogno di una indagine d'ufizio, perchè io era prontissimo a spogliarmi ed a rovesciare le mie tasche alla sua imperiale presenza. Egli mi fece allora conoscere come le leggi del suo regno portassero che tale investigazione fosse fatta da due de' suoi ufiziali, comunque egli vedesse che ciò non si sarebbe potuto praticare senza il mio consenso ed aiuto; aver egli sì buona opinione della mia rettitudine e nobiltà d'animo che m'avrebbe lasciato senza diffidenza prendere in mano i detti due ufiziali; aggiunse che tutte le cose di cui si giudicherebbe opportuno il privarmi, sarebbero state a me restituite all'atto in cui abbandonassi il paese, o vero pagate ad un prezzo da stabilirsi da me medesimo. Mi presi dunque in mano i due uficiali, e me li posi prima nelle tasche del mio giustacuore, poi nell'altre tasche minori, eccetto due scarsellini ed un altro taschino segreto, che non avevo intenzione di lasciar frugare perchè contenea certe cosucce di mio comodo, che non potevano essere di conseguenza per altri fuorchè per me. In uno dei due scarsellini io teneva un orologio d'argento, nell'altro una borsa con poche monete d'oro. Que' due signori, avendo carta, penne ed inchiostro con loro, stesero un esatto inventario delle cose che videro, poi mi eccitarono a farne anche per parte mia una nota in iscritto, affinchè a norma degli ordini venissero portate all'imperatore. Più tardi mi sono divertito a tradurre quell'inventario ed eccovelo parola per parola. «Imprimis nella tasca destra del giustacuore del grand'uomo-montagna (così interpretai le parole _quinbus flestrin_), dopo le più accurate indagini non trovammo altro che un gran pezzo di drappo ruvido largo abbastanza per servire di tappeto alla grande sala del consiglio di vostra maestà. Nella sinistra vedemmo un'enorme cassa d'argento con un coperchio dello stesso metallo, che non eravamo buoni di alzare, onde eccitammo il proprietario ad aprirla. Un di noi che si pose a camminarvi entro si trovò a mezza gamba in una specie di polve, di cui una parte volata su la faccia mia e del mio compagno ne costrinse per qualche tempo a non far altro che starnutare. Nella tasca destra della camiciuola vi era uno sterminato fascio di certe sostanze bianche piegate una su l'altra, grosso come tre uomini, legato con una fortissima fune e screziato da figure nere: erano queste, secondo l'umile nostro parere, scritture di cui ciascuna lettera era larga come il palmo di una delle nostre mani. Nella sinistra trovammo una specie di macchina sul cui dorso stava una fila di venti lunghi pilastri somigliante alla palizzata posta innanzi alla corte di vostra maestà: congetturammo che con questa l'uomo-montagna si pettini il capo, chè non sempre gli facevamo interrogazioni, e ciò per la grande difficoltà che trovavamo nel farci intendere. Nella maggior saccoccia destra del suo vestito di mezzo (così traduco la parola _ranfu-lo_, e credo sarà stato un modo rispettoso di cui si valsero per indicare a sua maestà le mie brache) vedemmo una colonna concava d'acciaio incastrata entro un torso di legno più grosso della colonna, da cui sporgevano alcuni enormi pezzi di ferro intagliati in una strana guisa, nè sappiamo che cosa si possa farne. Nella saccoccia sinistra vi era un'altra macchina della stessa natura. Nella più piccola scarsella di destra vedemmo molti pezzi rotondi e piatti di metallo bianco e rosso, di calibro diverso fra loro. Alcuni dei bianchi pareano d'argento, ed erano sì larghi e pesanti che il mio compagno ed io durammo non poca fatica a levarli. Nella corrispondente più piccola scarsella di sinistra stavano due pilastri neri di forma irregolare. Da stare su la cima dello scarsellino era cosa quasi impossibile per noi il prenderli per l'estremità superiore e tirarli di lì. Un di questi era tutto di un pezzo; dalla parte superiore dell'altro sporgea fuori un certo globo bianco, grosso all'incirca come dodici delle nostre teste. In entrambi era rinchiuso un enorme pezzo d'acciaio, come avemmo occasione di avverare, perchè immaginando che quelle macchine fossero di molto pericolo, obbligammo l'uomo montagna a farci vedere ogni cosa. Tolti fuori dalle due casse (tali erano que' due pilastri), i pezzi enormi d'acciaio che vi si conteneano, ne raccontò come nel suo paese si usi rader la barba con uno di essi, e trinciar le vivande con l'altro. Vi erano poi due tasche minori nelle quali non potemmo entrare: egli le chiamava i suoi borsellini. Erano ampie fenditure alla cima del suo vestito di mezzo tenute strettamente aderente dalla pressione del suo ventre. Fuor dello scarsellino destro pendeva una grande catena d'argento alla cui cima si attaccava, come ce ne accorgemmo dalla gonfiezza del borsellino stesso, una specie sterminata di macchina. Gl'intimammo di tirar fuori, che che si fosse la cosa cui facea capo la grande catena. Vedemmo allora un immenso globo, metà d'argento, metà d'un metallo trasparente; e ci accorgemmo della trasparenza perchè vedendo su la superficie di esso certe stravaganti figure disegnate all'intorno, volemmo toccarle e la sostanza lucida di quel metallo ce lo impedì. Egli ne appressò agli orecchi questo ordigno che faceva uno strepito incessante, simile a quello di un mulino: noi congetturiamo ch'esso sia o qualche animale sconosciuto o il suo dio, ma incliniamo più alla seconda opinione, perchè (se lo intendemmo a dovere, giacchè si espresse assai imperfettamente) fa rare volte alcuna cosa senza consultarlo. Ne disse in oltre essere questo il suo oracolo che gl'indicava il momento opportuno a ciascuna azione della vita. Trasse dall'altro borsellino una rete larga quanto basterebbe per un pescatore, ma fatta in modo che si apriva come una borsa, e parea gli servisse al medesimo uso. C'erano entro parecchi pezzi massicci di metallo giallo che, se sono realmente d'oro, devono essere di un immenso valore. «Dopo avere così, in obbedienza agli ordini della maestà vostra, frugate diligentemente tutte le tasche dell'uomo-montagna, osservammo intorno alla sua persona una cintura fatta della pelle di qualche prodigioso animale, dal lato sinistro della quale pendeva una spada della lunghezza di cinque uomini, e dal destro un sacco o gran borsa, diviso in due celle, ciascuna capace di contenere tre sudditi di vostra maestà. In una di queste trovavansi parecchi globi o palle di pesantissimo metallo, grosse a un dipresso come le nostre teste e per alzar le quali ci volea ben della forza; l'altra conteneva un mucchio di certi granellini neri, non di gran peso o mole perchè potevamo metterne fino a cinquanta sul palmo della nostra mano. «È questo un esatto inventario delle cose che abbiamo trovate su la persona dell'uomo-montagna, il quale ci ha trattati con grande civiltà e con tutto il rispetto dovuto a due commissari della maestà vostra. Firmato e contrassegnato da suggello nel quarto giorno dell'ottantesima nona luna del ben augurato regno di vostra maestà». Flefson Frelock — Marsi Frelock Poichè l'inventario fu letto all'imperatore, questi m'intimò, benchè in gentilissimi termini, di consegnare tutti gli oggetti nello stesso inventario descritti. Primieramente mi domandò la mia spada, che sguainai tosto, e il suo fodero e quanto con essa si connettea. Nel tempo stesso aveva ordinato a tremila uomini della più scelta sua soldatesca, che gli faceano la guardia, di attorniarmi ad una certa distanza ed esser pronti co' loro archi e dardi per iscoccarli su me ad ogni evento; ma io non avea fatto attenzione a ciò, tanto i miei sguardi erano fisi sopra sua maestà. Egli mi disse allora di maneggiare la mia arma che, sebbene avesse preso un po' di ruggine dall'acqua del mare, in alcune parti rifletteva ottimamente la luce. Io lo obbedii, e in un attimo tutti i soldati misero un grido tra il terrore e la sorpresa; perchè il ripercotimento de' raggi del sole che splendea chiarissimo in quella giornata, incontrando l'acciaro che io roteava, abbarbagliò i loro occhi. Sua maestà, principe ineffabilmente magnanimo, ne fu meno atterrito di quanto mi sarei aspettato. Mi ordinò di rimetter la spada nel fodero e di gettarla, con quanta dolcezza avrei potuto, sei piedi in circa al di là del confine della mia catena. La seconda cosa che mi domandò fu una delle mie colonne concave d'acciaio, con che intendea le mie pistole da tasca. Trattane fuori una a norma del suo beneplacito, gli spiegai alla meglio e come seppi, il modo di usarla; la caricai indi di sola polvere che aveva avuta la buona sorte di non inumidirsi nel mare, grazie all'impenetrabilità del mio sacco da munizione, e grazie, devo aggiugnere, alla sollecitudine che da ogni avveduto navigante si adopra per guarentirsi da simile inconveniente; finalmente, avvertito l'imperatore di non isgomentarsi, la sparai all'aria. Qui da vero lo sbalordimento fu maggiore che al lampo della spada. I soldati caddero tramortiti a centinaia, come appunto se fossero stati feriti a morte, e lo stesso imperatore, benchè tenutosi su le sue gambe, non potè riaversi dallo stupore se non di lì a qualche tempo. Gli rimisi indi entrambe le mie pistole con le stesse cautele avute nel rassegnargli la spada, e dietro a queste il sacco della polvere e delle palle. Circa alla prima non mancai di raccomandare all'imperatore che la tenesse lontana dal fuoco, perchè la più lieve scintilla sarebbe bastata a soffiargli in aria l'intera sua reggia. Consegnai parimente il mio orologio, che l'imperatore era curiosissimo di vedere, al qual fine ordinò a due delle sue guardie a piedi di sospenderlo al mezzo di una pertica, portando le estremità di essa su le spalle come nell'Inghilterra i facchini trasportano i barili di birra forte. Fu sorpreso al continuo strepito ch'esso facea ed al moto della sfera de' minuti ch'egli discernè tosto, perchè la vista di que' nativi è più acuta assai della nostra. Intorno a questo fenomeno chiese le opinioni de' suoi dotti, che furono varie e lontanissime dal vero, come il leggitore se lo immagina senza che io glielo ripeta; nondimeno, per amore di verità devo aggiugnere che intesi poco qual razza di spiegazioni adducessero. Rassegnai inoltre le mie monete d'argento e di rame; la mia borsa con nove portoghesi d'oro ed alcune monete d'oro più piccole; il mio coltello e rasoio; il mio pettine, la mia argentea scatola da tabacco, il mio fazzoletto e i quaderni del mio giornale. La spada, le pistole e il sacco della polvere e delle palle vennero portati agli arsenali di sua maestà; il rimanente delle mie suppellettili mi fu restituito. Io aveva, come notai dianzi, un borsellino privato che sottrassi alle indagini della commissione imperiale. Vi tenevo un paio d'occhiali a me talvolta necessarissimi, attesa la debolezza della mia vista, un cannocchiale da tasca ed altre simili minuzie, che non essendo di veruna entità per l'imperatore, non mi credei in obbligo d'onore di manifestare: io aveva troppa paura che fuor delle mie mani andassero guaste o perdute. CAPITOLO III. L'autore offre all'imperatore ed alla sua nobiltà d'entrambi i sessi alcuni divertimenti che si tolgono dall'usato. — Descrizione de' passatempi della corte di Lilliput. — L'autore ottiene a certi patti la sua libertà. Mercè le mie buone maniere ed il mio buon procedere, io era sì ben giunto a cattivarmi i cuori dell'imperatore, della corte, dell'esercito, ed in generale della popolazione, che principiai a concepire la speranza di ottenere la mia libertà in breve tempo. Non trascurai dal canto mio alcuna sorta di mezzi per coltivare queste buone disposizioni. I nativi a gradi a gradi s'avvezzarono a non temere ch'io facessi loro alcun male. Qualche volta, postomi supino sul suolo, ho permesso a cinque o sei di loro che venissero a ballare su la mia testa, e si arrivò al segno che i fanciulli e le fanciulle s'arrischiavano giocare a mosca cieca fra i miei capelli. Già il mio progresso nell'intendere e nel parlare il loro linguaggio era molto. Un giorno venne voglia all'imperatore di farmi conoscere diversi fra gli spettacoli del paese, in che quegli abitanti superavano tutte le altre nazioni da me conosciute, sia per destrezza, sia per magnificenza. Niuno spettacolo mi ha divertito mai tanto siccome quello de' loro ballerini su la corda; essi eseguivano i loro salti e danze sopra un filo bianco dell'estensione circa di due piedi ed alto da terra dodici dita; sul quale argomento chiedo all'indulgente leggitore la permissione di diffondermi un qualche poco. Questa bell'arte è sol professata da coloro che aspirano ad ottenere alte cariche e grandi favori dalla corte. Sono ammaestrati nell'arte stessa sin dalla prima loro gioventù, nè sempre hanno sortiti nobili natali o liberale educazione. Quando viene ad essere vacante un grande uficio, sia per morte o per disfavore incorso da chi lo sostenea (e questo caso è frequente), cinque o sei candidati supplicano sua maestà di potere intertenere lei e la sua corte con un ballo su la corda, e chi salta più alto senza cadere succede nella carica rimasta vacante. Spessissimo accade che gli stessi primi ministri sieno comandati di dar prova della loro abilità e di convincere l'imperatore che il ministero non gli ha fatti dimentichi delle primitive loro virtù. Flimnap, il gran tesoriere, ha il privilegio di tagliare una capriola sul cordino posto d'un dito più in su dell'altezza di prammatica stabilita per qual si voglia altro grande di tutto l'impero. Ho veduto co' miei occhi questo stesso gran tesoriere ripetere per più volte di seguito un salto mortale[14] da una tavola fissata sopra una corda men grossa d'un de' nostri comuni spaghi. Il mio amico Reldresal, primo segretario degli affari privati, è, se non m'inganna la parzialità appunto dell'amicizia, il miglior saltatore dopo il tesoriere. Quanto al resto de' grandi ufiziali della corona, l'abilità dell'uno vale in circa quella dell'altro. Questi spassi vanno rare volte scompagnati da fatali accidenti, gran numero de' quali è registrato negli archivi imperiali. Ho veduti due o tre candidati rompersi or braccia, or gambe[15]. Ma i pericoli più gravi sono quando i ministri vengono comandati eglino stessi di entrare in aringo; perchè nella gara di ciascun d'essi per rimanere superiore di prodezza agli altri colleghi, fanno tali sforzi per cui è ben difficile che qualcun di loro non istramazzi le due o le tre volte. Venni assicurato che un anno o due prima del mio arrivo, Flimnap si sarebbe infallibilmente rotto l'osso del collo se non si fosse trovato a caso sul pavimento un cuscino imperiale che attenuò la forza della percossa da lui ricevuta cadendo. Vi è pure un altro divertimento che si dà in alcune particolari occasioni, alla sola presenza dell'imperatore, dell'imperatrice e del primo ministro. L'imperatore stende sopra una tavola tre fili di seta, lungo ciascuno sei dita, uno azzurro, l'altro rosso, il terzo verde. Tali fili sono proposti in premio a quegl'individui che l'imperatore ha in mente di distinguere con qualche contrassegno di speciale favore. La cerimonia viene eseguita nella grande sala di stato di sua maestà, ove i candidati debbono sostenere una prova di destrezza, ma affatto diversa dalla precedente e d'un genere tale che non l'ho mai veduta ideare in nessun altro paese del vecchio e del nuovo mondo. L'imperatore tiene in mano un bastone con le due estremità parallele all'orizzonte, intantochè i candidati, avanzandosi ad uno ad uno, or saltano sopra il bastone, or ci passano curvati di sotto e ripetono innanzi addietro questa operazione per più riprese continuando sempre con la norma di saltar sopra o curvarsi secondo il più o il meno che il bastone è tenuto alto da terra. Talvolta l'imperatore tiene una estremità sola del bastone ed il primo ministro quell'altra; accade ancora che il ministro ne tenga egli solo le due estremità. Quel dei candidati che fa la sua parte con maggiore agilità e la dura più a lungo nel saltare o passare di sotto, riceve in guiderdone il filo di seta azzurro, il rosso è dato al secondo, il verde al terzo, e tutti lo portano cinto a due giri attorno alle reni; onde vedete ben pochi grandi personaggi addetti alla corte che non vadano decorati di una almeno di queste cinture. I cavalli dell'esercito e quelli delle regie scuderie non continuarono lungo tempo a prendere ombra di me, e mi sarebbero camminati ne' piedi senza dare il menomo segno di spavento. I cavallerizzi di corte si divertivano a farli saltare sopra una delle mie mani, s'io la posava a terra, ed un picchiere di sua maestà fece saltare un grosso corridore al di sopra del mio piede calzato, che era un salto prodigioso. Io stesso un giorno ebbi la fortuna di offrire a sua maestà un intertenimento d'un genere affatto straordinario. A tal fine io lo avea pregato il dì innanzi a farmi venire una certa quantità di bastoni alti due piedi e della grossezza d'una delle nostre canne d'India (come ben capite, alberi rimondi dai rami e dalle radici); infatti sua maestà diede tosto ordini analoghi all'intendente de' boschi imperiali, e nella mattina del dì successivo mi arrivarono a casa sei boscaiuoli a capo di una falange di carri tirati ciascuno da otto cavalli, carichi de' materiali che avevo chiesti. Pigliati nove di questi bastoni, li disposi in forma quadrangolare sopra uno spazio di due piedi e mezzo quadrati. Presine indi altri quattro li legai in cima paralleli ai lati della base del solido che avevo formato: poi cinque dita disotto dell'estremità dei primi nove pilastri, attaccai il mio fazzoletto e lo distesi ai quattro angoli del mio parallelepipedo con tanta attillatura che pareva una vera pelle di tamburo. I pilastri, sporgenti, come vi ho detto, di cinque dita dal fazzoletto, formavano il parapetto di questo spianato, sul quale pregai sua maestà a permettere che ventiquattro uomini della sua imperiale cavalleria, montati su i più scelti loro destrieri, facessero l'esercizio. Approvato dal monarca il partito da me propostogli, mi presi in mano ad uno ad uno i suoi ventiquattro soldati belli e montati a cavallo ed armati di tutto punto e gli ufiziali che doveano comandar l'esercizio; poscia li collocai nella lizza. Quivi, non appena si furono ordinati, schieraronsi in due parti, eseguirono finte scaramucce, si lanciarono gli uni contra gli altri frecce spuntate, rappresentarono assalti e ritirate, in somma diedero a vedere tal perfetta militare disciplina che altrove non mi è mai occorso di ravvisarla. I bastoni paralleli guarentivano essi ed i loro cavalli dal pericolo di cadere nell'arena inferiore. L'imperatore n'ebbe tanto diletto che ordinò la replica dello stesso spettacolo per più giorni successivi; ed arrivò persino una volta a volere essere portato su la lizza per dar egli stesso in persona l'ordine di comando. Fece di più, benchè ci sia voluta non poca fatica: persuase la stessa imperatrice a contentarsi ch'io la levassi in palma di mano col suo carrozzino chiuso, ad una distanza di due braccia dal teatro degli esercizi, e così potè anch'essa contemplarne l'intero spettacolo. Il cielo m'aiutò che niuna disgrazia venne ad intorbidare queste ricreazioni. Una sola volta un cavallo alquanto focoso che apparteneva ad un capitano della guardia, zampettando fece con l'unghie un buco nel mio fazzoletto, onde mancatogli il piano di sotto, poco mancò non affondassero nell'aperta voragine egli ed il suo cavaliere; ma fui presto a salvarli d'una mano entrambi, mentre coll'altra copersi il buco tanto di potere con la mano libera tirar giù da quell'altezza lui ed il rimanente di quella brigata. Il cavallo caduto si fece una slogatura alla spalla sinistra, ma chi lo cavalcava non sofferse alcun male. Io rattoppai il mio fazzoletto alla meglio; per altro non tornai più a fidarmi della sua resistenza in una impresa tanto rischiosa. Due o tre giorni prima ch'io fossi messo in libertà, mentre io stava intertenendo la corte negli spassi che vi ho descritti, arriva una staffetta per informare sua maestà, che alcuni de' suoi sudditi, cavalcando lungo la spiaggia ove fui preso in principio, aveano veduto giacer su l'erba una grande massa nera stranamente conformata, estesa in fondo alle falde, larga come la stanza da letto di sua maestà, e sporgente nel mezzo all'altezza d'un uomo; che parecchi le erano più volte girati all'intorno; che salendo l'uno su le spalle dell'altro ne aveano raggiunta la cima; che trovatala piatta e spianata vi camminarono sopra, e s'accorsero ch'era vuota di dentro; che secondo il sommesso loro parere doveva essere alcun che di spettante all'uomo montagna, e che quando sua maestà lo avesse desiderato, si compromettevano trasportarla fin qui con l'opera di soli cinque cavalli. Capii subito di che cosa parlavano, e fu tal notizia che mi diede piacere. Pare che nella confusione in cui m'avea messo il mio naufragio, io non m'accorgessi d'una cosa, allorchè, presa terra, venni a pormi nel luogo ove m'addormentai. Fin quando mi accinsi a remigare, il mio cappello era raccomandato alla mia testa con una stringa; bisogna dire che ci sia rimasto anche quando mi diedi al nuoto, e che per qualche incidente la stringa si sia rotta poichè fui sulla spiaggia. Io certo credeva d'aver perduto il cappello nel mare. Pregai dunque l'imperiale sua maestà a volere dar ordini perchè mi fosse portato il più presto che si poteva, e le spiegai ad un tempo l'uso che questo arredo prestavami. Nel dì successivo, i carrettieri comandati a ciò mel portarono, ma non da vero in ottimo stato. Costoro aveano forato due buchi un dito e mezzo al di sopra dell'ala; poi appiccativi due uncini ed attaccata una lunga corda a questi uncini, trascinarono il mio povero cappello per più d'un mezzo miglio inglese; per fortuna la terra di quel paese è soffice e leggiera, onde il danno fu minore ch'io non me lo era figurato. Due giorni dopo questa avventura, l'imperatore aveva ordinato che tutte le sue soldatesche stanziate nelle vicinanze della metropoli fossero sotto l'armi, e gli venne il capriccio di prendersi uno stravagantissimo divertimento. Bisognò per compiacergli che mi piantassi fermo a guisa di colosso con le mie gambe aperte quanto per me si poteva; poi comandò al suo generale, vecchio condottiero sperimentato e mio grande protettore, che ordinate in file serrate le sue schiere, le facesse passare sotto all'andito formato dalle mie gambe. Di ventiquattro era la fronte dei fantaccini, di sedici quella degli uomini a cavallo, che a tamburo battente, bandiere spiegate, picche brandite, teneano questo cammino, e tutto quel corpo d'esercito consisteva in tremila uomini di fanteria e mille di cavalleria. Certamente sua maestà ordinò che ciascun soldato, durante questo tragetto, si comportasse con la più stretta decenza verso la mia persona. Ma ciò non impedì che alcuni giovani uficiali, passandomi sotto, alzassero la testa in su, e per confessarvi la schietta verità, il mio _vestito di mezzo_ era sì mal andato, che diede loro qualche soggetto di riso e ad un tempo d'ammirazione. Io aveva umiliato tanti memoriali e suppliche per ottenere la mia libertà, che finalmente sua maestà aperse la discussione su questo affare, prima nel suo gabinetto, indi in pieno consiglio: nè vi fu chi si opponesse, eccetto Skyresh Bolgolam che si divertiva, senza veruna provocazione dalla mia parte, di essere mio capitale nemico. Nondimeno, a suo marcio dispetto, il partito della mia liberazione la vinse a pieni voti di tutti gli altri membri della tavola di stato, ed ottenne la ratificazione imperiale. Il ministro mio nemico era _galbet_, cioè ammiraglio dell'impero, grandemente innoltrato nella confidenza del suo padrone, e, se vogliamo, versatissimo negli affari, ma d'un tal umore bisbetico ed inquieto, che non si sapeva come prenderlo. Ciò non ostante bisognò finalmente che la intendesse di conformarsi al voto dei più; sol la spuntò in questo che si fece dare l'incarico di stendere egli stesso gli articoli ed i patti a' quali avrei ricevuta la mia libertà, ed i quali dovevo giurare prima di conseguirla. Tali articoli mi furono portati da Skyresh Bolgolam in persona, che venne accompagnato da due sottosegretari e da diversi ragguardevoli personaggi. Dopo essermi stati letti, dovei adempiere la cerimonia del giuramento, prima secondo l'usanza del mio paese, poi giusta il metodo prescritto dalle loro leggi, ed era, pigliarmi il mio piede destro nella mano sinistra, e portarmi l'indice della destra sul mio cocuzzolo, ed il pollice alla punta del mio orecchio destro. Siccome poi il leggitore può essere voglioso di aver qualche idea dello stile e del modo singolare di esprimersi di quel popolo, ed anche di sapere gli articoli condizionali della mia ricuperata libertà ho fatta una versione letterale fin quanto ho potuto dell'intero rogito, e la presento ora al pubblico. GOLBASTO MONAREMEVALME GURDILO SHEFIN, MULLY ULLY GUE, potentissimo imperatore di Lilliput, delizia e terrore dell'universo, i cui dominii si estendono cinquemila _blustrug_ (dodici miglia a un dipresso di circonferenza) sino all'estremità del globo; monarca di tutti i monarchi, il più alto dei figli degli uomini, i cui piedi premono il centro del mondo e la testa tocca il sole; ad un cui cenno tutti i principi della terra s'inginocchiano, piacevole come la primavera, confortevole come la state, fruttifero come l'autunno, formidabile come il verno. La sua sublimissima maestà propone all'uomo-montagna, arrivato testè ne' celesti nostri dominii, i seguenti articoli, all'adempimento dei quali dee con solenne giuramento obbligarsi. I. L'uomo-montagna non si partirà dai nostri dominii senza la nostra licenza autenticata dal nostro grande sigillo. II. Non ardirà venire nella nostra metropoli senza uno speciale nostro comando; e questo avverandosi in quel tempo gli abitanti di essa riceveranno l'avviso di non moversi di casa per due ore. III. Il detto uomo-montagna limiterà i suoi passeggi alle nostre principali strade maestre; nè s'avviserà giacere nelle praterie o ne' campi di biade. IV. Mentre passeggia per le suddette strade, userà della massima circospezione per non camminare su i corpi d'alcuno dei nostri amatissimi sudditi; loro cavalli o carriaggi, e di non prendere in mano veruno de' predetti nostri amatissimi sudditi senza il proprio loro consenso. V. Ove accada il bisogno di mandare un espresso con istraordinaria sollecitudine, l'uomo-montagna sarà tenuto portarsi in tasca il messaggero ed il suo cavallo per un viaggio di sei giorni, e ciò una volta ogni luna, poi ritornarlo (se ne è richiesto) sano e salvo alla nostra imperiale presenza. VI. Sarà nostro alleato contra i nostri nemici dell'isola Blefuscu, e s'adoprerà con tutte le sue forze a distruggere la loro flotta che s'apparecchia ad invadere i nostri stati. VII. Che il suddetto uomo-montagna nelle sue ore libere dia mano ai nostri operai nell'innalzare le grosse pietre per coprire il muro di cinta del nostro parco imperiale e gli altri nostri imperiali edifizi. VIII. Che il detto uomo-montagna, in termine a due lune di tempo, presenti una pianta esatta della circonferenza dei nostri dominii con calcolato ragguaglio tra i suoi propri passi e quelli de' nostri sudditi. IX. Finalmente che, dietro al prestato giuramento di osservare i menzionati articoli, il predetto uomo-montagna riceva un sussidio giornaliero corrispondente al sostentamento di mille ottocentosettantaquattro de' nostri sudditi, con libero accesso alla nostra imperiale persona ed altri contrassegni del nostro favore. Fatto al nostro palazzo di Belfaborac nel duodecimo giorno della novantunesima luna del nostro regno. Giurai, e mi sottoscrissi a tutti questi articoli di tutta buona voglia, e con grande contento, se bene alcuni di essi non fossero onorevoli come mi sarei augurato: tutto effetto della malizia del grande ammiraglio Skyresh Bolgolam. Le mie catene dunque vennero sciolte, e rimasi in pienissima libertà. L'imperatore volle egli stesso onorarmi di assistere in persona all'intera cerimonia. Gli feci i debiti ringraziamenti prostrandomi a' suoi piedi, ma egli mi comandò che m'alzassi; poi, dopo molte clementissime espressioni che, per fuggire la taccia di vanaglorioso, non vi ripeterò, soggiunse com'egli sperasse che me gli mostrerei colle opere un utile servo, e che mi renderei sempre più meritevole dei favori di cui mi aveva colmato o di cui avrebbe potuto colmarmi nell'avvenire. Voglia il leggitore riportarsi all'ultimo articolo dei patti per la ricuperazione della mia libertà, laddove mi viene accordata una quantità di vettovaglie corrispondente al sostentamento di milleottocentosettantaquattro Lilliputtiani. Qualche tempo dopo, avendo chiesto ad un amico con che principio si fosse stabilito questo determinato numero, mi rispose che i matematici di sua maestà aveano misurata l'altezza del mio corpo col mezzo di un quadrante, e che, trovato eccedere questa l'altezza de' corpi loro nella proporzione di dodici ad uno, conclusero dalla qualità omogenea delle nostre nature, dovere il mio corpo contenerne almeno mille settecentoventiquattro de' loro, e conseguentemente abbisognare di altrettanto cibo quanto ce ne voleva a sostentare un tal numero di Lilliputtiani; donde il leggitore può formarsi un'idea dell'ingegno di quel popolo e della prudente ed esatta economia di un così grande monarca. CAPITOLO IV. Si descrivono Mildendo, metropoli di Lilliput, e l'imperiale palazzo. — Conversazione concernente gli affari dell'impero avutasi dall'autore con uno de' principali segretari. — L'autore s'offre all'imperatore per servirlo nelle sue guerre. La prima inchiesta ch'io feci divenuto libero, si fu per ottenere la permissione di vedere Mildendo; metropoli dell'impero. Sua maestà acconsentì di buona voglia, ingiugnendomi per altro l'obbligo di una diligenza la più scrupolosa per non danneggiare gli abitanti o le case. Una grida notificò al popolo ch'io era per portarmi entro le mura della metropoli. I baloardi che la circondavano erano alti due piedi e mezzo, ed aveano per lo meno una larghezza di undici dita che dava abilità alle carrozze ed agli uomini a cavallo di diportarvisi all'intorno. Aggiugnevano forza a questo baloardo le gagliarde torri che ad ogni distanza di due piedi lo fiancheggiavano. Entrato per la grande porta occidentale, mi portai con tutta dilicatezza e camminando di fianco lungo le due strade principali, vestito della sola mia camiciuola per paura che i cantoni del mio giustacuore dessero danno ai tetti o alle grondaie. Ebbi nel mio passeggiare la massima circospezione per non montare addosso a qualche viandante che fosse rimasto lungo la via, benchè gli ordini dati indistintamente a tutti di confinarsi entro le proprie case fossero spiegati in modo, che se alcuno si trovava sopra la strada, ci si trovava a proprio rischio e pericolo. Tutte le finestre dei primi, secondi, terzi, quarti piani, delle soffitte, persino i tetti erano affollati di tanti spettatori ch'io non credo in tutti i miei viaggi aver veduta una più popolata città. Essa è un quadrato perfetto, chè ciascuno de' suoi quattro bastioni è lungo cinquecento piedi. Le due strade principali che, incrocicchiandosi perpendicolarmente, dividono la città in quattro grandi quartieri uguali, sono larghe cinque piedi. Le contradelle ed i vicoli, ove non mi era possibile l'entrare, e cui diedi solo un'occhiata in passando, erano larghi da dodici a diciotto dita. La città è capace di contenere un mezzo milione di anime; le case sono di diversi piani, dai tre ai cinque; ben forniti di tutto i mercati e le botteghe. Il palazzo dell'imperatore è nel centro della città, propriamente laddove le due principali strade s'incontrano. Esso è chiuso da un muro di cinta alto due piedi e distante venti dagl'imperiali edifizi. Ottenuta da sua maestà la licenza di passare al di là del detto muro (che non era, come vedete, un grande sforzo per me) e tale essendo qual ve l'ho descritta la distanza che lo disgiugnea dal palazzo, potei contemplar questo a mio agio su tutti i lati. Il suo cortile esterno è un quadrato di quaranta piedi, e ne racchiude due altri, nel più interno de' quali sono gli appartamenti reali; questi io era curiosissimo di vedere, ma ciò fu quanto io trovava estremamente difficile, perchè le grandi porte che conducevano da un cortile all'altro non erano più alte di diciotto dita, nè larghe più di sette, e gli edifizi del cortile stesso erano alti almeno cinque piedi; nè io poteva andar di là accavalciandomi ad essi, senza portare un infinito danno a tutta quanta la fabbrica, ancorchè composta di saldi mattoni, e benchè la grossezza de' suoi muri fosse di quattro dita. Pure era grande nell'imperatore il desiderio ch'io vedessi la magnificenza della sua reggia; ed anche tale sua brama appagai, ma sol di lì a tre giorni, che furono da me impiegati nel tagliare col mio coltello alcuni de' più grossi alberi del parco imperiale, lontano a un dipresso cento braccia dalla città. Di questi alberi mi fabbricai due sgabelli, ciascuno alto tre piedi all'incirca e forte abbastanza per sostenere il peso della mia persona. Poichè il popolo fu avvisato d'una mia seconda comparsa nella metropoli, l'attraversai di nuovo co' miei due sgabelli fra le mani. Quando fui alla parte esterna del cortile, salii sopra uno de' miei sgabelli, tenendomi l'altro in mano che alzai sopra il tetto, ove salito io pure, lo calai giù con bella maniera nello spazio frapposto tra il primo ed il secondo cortile: una larghezza di otto piedi: e quivi feci venir a stare anche lo sgabello lasciatomi addietro col mezzo di un bastone uncinato. Coll'alternato aiuto dei due sgabelli feci la visita di tutte le fabbriche all'intorno; poi, con lo stesso artificio adoprato dianzi, penetrai nell'ultimo cortile, ove postomi a giacere su d'un fianco, io toccava con la faccia le finestre degli appartamenti di mezzo, che erano state lasciate aperte a bella posta. Non si possono immaginare appartamenti più splendidi di quelli che allora mi si pararono all'occhio. Vidi ivi l'imperatrice ed i giovani principi, ciascuno in separati appartamenti, con tutti i primari loro subordinati. Anzi la sovrana si degnò clementemente sorridermi, e persino affacciarsi alla finestra e porgere al bacio mio la sua mano. Ma mi asterrò dall'anticipare al leggitore nozioni di simil natura, perchè le riserbo ad un'opera di maggior mole che è già quasi pronta pei torchi e che contiene una generale descrizione di questo impero, la quale comincia fin dalla sua prima fondazione, e continua sotto una lunga sequela di sovrani, e ad un tempo uno speciale racconto delle loro guerre, del sistema loro di politica e di legislazione, delle loro nozioni così scientifiche come religiose, e d'altri soggetti di grande curiosità ed utilissimi; qui il mio principale disegno si è riferire quegli avvenimenti ed affari che riguardarono il pubblico e me ne' nove mesi circa del mio soggiorno in quel reame. Passate circa due settimane dopo la mia ottenuta libertà, Reldresal, primo segretario degli affari privati, così lo chiamavano, venne a casa mia seguito da un sol servitore, perchè aveva ordinato che la sua carrozza lo aspettasse ad una certa distanza. Mostratosi desideroso di avere un colloquio d'un paio d'ore con me, acconsentii di tutto buon grado, e atteso le qualità ed i meriti personali che lo fregiavano, per e tutti i buoni ufizi da lui usatimi durante il tempo delle mie sollecitazioni alla corte. Mi offersi di collocarmi giacente affinchè potesse mettersi meglio a portata del mio orecchio, ma preferì ch'io me lo tenessi in mano per tutto il tempo della nostra conversazione. Principiò dal farmi congratulazioni su l'acquistata mia libertà, aggiugnendo che potea vantarsi d'aver qualche merito in ciò, ma subito aggiunse che n'aveva anche un grande merito lo stato presente delle cose alla corte, senza di che avrei forse dovuto sospirare anche un bel pezzetto tal mia libertà. «Sappiate, mi confidò, che i nostri affari non sono in una condizione così florida come apparisce agli occhi degli stranieri. Noi siamo travagliati sotto il peso di due potenti disgrazie: una violenta fazione al di dentro e il pericolo dell'invasione d'un formidabile nemico al di fuori. Quanto al primo male, avete a sapere che da circa settanta lune in qua sursero a lottar fra loro in questo impero due potentissime sette col nome di _tramecksan_ e di _slamecksan_,[16] così chiamate dai calcagnini alti e bassi delle scarpe che le distinguono. Alcuni pretendono, per dir vero, che i calcagnini alti si conformino meglio con l'antica nostra costituzione; ma, che che ne sia, sua maestà ha deciso che gli impiegati negli ufizi amministrativi del governo e tutte le cariche privilegiate della corona non portino, come senza dubbio dovete esservene accorto, se non calcagnini bassi; e soprattutto avrete notato che i calcagnini di sua maestà imperiale sono almeno un _drurr_ più bassi di tutti gli altri (il _drurr_ in que' paesi è circa la quarta parte di un dito). Le animosità fra le due parti si sono spinte sì innanzi, che l'una non vuole nè mangiare, nè bere, nè conversare con l'altra. A conti fatti i _tramecksan_ o sia quelli dei calcagnini alti, ci superano di numero, ma il potere è tutto dalla nostra banda. Ci fa un po' di paura sua altezza imperiale, l'erede della corona, che vogliono sia alquanto propenso ai calcagnini alti; certo un fatto evidente ad ognuno si è che porta un calcagnino più alto dell'altro, ciò che lo fa parere zoppo quando cammina. «Ora in mezzo a queste intestine discordie, ne accade essere minacciati d'una invasione da quei dell'isola di Blefuscu, altra grande monarchia dell'universo, quasi vasta e potente siccome quella di sua maestà. Perchè quanto al fatto che v'abbiamo udito asserire più volte, dell'esistenza cioè d'altri reami di questo globo abitati da creature umane della vostra mole, è cosa che i nostri filosofi mettono grandemente in dubbio, ed inclinerebbero piuttosto a pensare che voi foste caduto dalla luna o da una stella. In fatti è cosa indubitata che un centinaio di mortali dotati delle vostre proporzioni farebbero presto a divorarsi tutte le rendite e gli armenti dei dominii di sua maestà, oltrechè le nostre storie, che rimontano a seimila lune, non hanno mai fatto menzione d'alcun altro paese fuor degl'imperi di Lilliput e di Blefuscu. «Questi due potenti imperi dunque, come vengo ora a dirvi, sono stati impegnati per trentasei lune addietro in un'ostinatissima guerra, e guardate qual ne fu l'origine. Non si era mai revocato in dubbio che il vero posto ove si dee cominciare a rompere un uovo prima di mangiarlo non sia la più piana delle sue estremità. Ma accadde alla buon'anima dell'avolo del vivente monarca che, quand'era fanciullo, volendo mangiare un uovo e rompendolo secondo la pratica inveterata, si fece un taglio alle dita. Da quell'istante l'imperatore padre pubblicò un editto che obbligava, minacciando le più severe pene contra i trasgressori, tutti i suoi popoli a non rompere più le uova se non dall'estremità aguzza. Rincrebbe tanto al popolo questa legge, che, come narrano le nostre storie, nacquero sei ribellioni per cagione di essa, ribellioni in forza delle quali un de' nostri imperatori ci mise la vita, uno de' suoi successori perdè il trono.[17] Queste nostre civili sommosse vennero sempre favoreggiate dai monarchi di Blefuscu, e quando erano represse, i profughi trovavano costantemente asilo e protezione nel loro impero. Si è fatto in più volte il conto di undicimila persone le quali hanno preferita la morte alla schiavitù di rompere le uova dalla parte aguzza. Centinaia e centinaia di volumi in foglio sono stati pubblicati su tal controversia, ed i libri dei _piattuovisti_ furono a lungo proibiti dall'imperiale censura, ed i lor partigiani dichiarati dalla legge incapaci a sostenere qualunque pubblico incarico. Nel tempo di queste turbolenze, gl'imperatori di Blefuscu spedirono, col mezzo de' loro ambasciatori, frequenti rimostranze che ne accusavano di formare uno scisma religioso coll'andar contro alle dottrine fondamentali stabilite al capitolo cinquantesimoquarto del _Blundecral_: è questo il loro Corano. «Noi per altro, continuò il mio visitatore, crediamo essere questa obbiezione una vera stiracchiatura fatta sul testo, che dice a lettere di scatola: _Tutti i veri credenti romperanno le uova dalla buona banda_; e il determinare questa _buona banda_, secondo il mio debole parere, dipende dalla coscienza di ciascuno, o tutt'al più dall'arbitrio del supremo magistrato della nazione. Ora, i piattuovisti acquistarono tanto credito alla corte dell'imperatore di Blefuscu, e si assicurarono tanti partigiani e cooperatori nell'interno del medesimo nostro regno, che si accese una sanguinosissima guerra tra i due imperi, durata trentasei lune, ve l'ho detto, e con variato successo; perchè in tutto quel tempo, noi dal canto nostro abbiamo perduto quaranta navi di linea e grande numero di bastimenti d'ordine inferiore, oltre a trentamila de' nostri migliori marinai e soldati; ma a calcoli fatti, il danno sofferto dai nemici è alquanto maggiore. Ciò non ostante, nel momento che vi parlo, hanno giù allestita una numerosissima flotta, e s'accingono a fare uno sbarco su le nostre coste. Ora, sua maestà imperiale, che pone grande fiducia nel vostro valore e nella vostra forza, mi ha comandato di presentarvi questo specchio delle cose nel modo in cui sono». Pregai il segretario ad umiliare gli omaggi del mio rispetto a sua maestà, e volerle ad un tempo far conoscere che non conveniva a me, nella mia qualità di straniero, l'intromettermi siccome giudice fra le parti; che nondimeno sarei sempre stato pronto, col pericolo stesso della mia vita, a difendere la sacra persona di sua maestà ed i suoi stati contro ogni estranio invasore. CAPITOLO V. Inaudito stratagemma di cui si vale l'autore per impedire un'invasione. — Alto titolo d'onore conferitogli. — Ambasciatori spediti con istanze di pace dall'Imperatore di Blefuscu. — Caso che mette in fiamme il palazzo dell'imperatore. — Come l'autore arrivi a preservare il rimanente dell'edifizio. L'impero di Blefuscu è un'isola situata a greco di Lilliput, da cui rimane soltanto divisa per un canale largo ottocento braccia. Io non avea per anche veduto questo canale; e dietro la notizia di una minacciata invasione, mi guardai bene dal mostrarmi su quel lato di costa per paura di essere scoperto da qualche vascello de' nemici, i quali non aveano veruna contezza di me; chè ogni comunicazione era stata vietata sotto pena di morte durante la guerra, ed il nostro imperatore avea posto un _embargo_ su tutti i bastimenti di qualunque natura si fossero. Comunicai ciò non ostante all'imperatore un disegno da me concepito per impadronirmi dell'intera flotta nemica, che, stando alle assicurazioni dateci dai nostri esploratori, era all'áncora nel porto di Blefuscu, pronta a veleggiare al primo favorevole vento. Io già non avea mancato di consultare i più sperimentati marinai su la profondità del canale ch'essi aveano scandagliato più d'una volta, e che, come mi dissero, nel suo mezzo, in tempo d'alta marea, era profondo settanta _glumgluff_ (sei piedi circa di misura europea), ai lati cinquanta _glumgluff_ al più. Mi trasferii dunque a greco della costa rimpetto a Blefuscu, e quivi, postomi a giacere dietro un monticello che mi nascondea, scopersi col mio cannocchiale la flotta nemica all'áncora, che consisteva in circa cinquanta vascelli da guerra ed un gran numero da trasporto. Allora, tornatomene a casa, diedi ordine (ne avevo già l'opportuna autorizzazione) che mi venisse portata una grande quantità di gomene delle più gagliarde e di spranghe di ferro. Le gomone erano grosse a un dipresso come spaghi e le spranghe della lunghezza e grossezza di un ferro da calzette. D'ogni tre gomone ne feci una intrecciandole, ed attorcigliai con la stessa norma le spranghe di ferro (furono cinquanta) curvandone le estremità sì che ciascuna mi prendesse la forma d'un raffio. Attaccati ai miei cinquanta graffi altrettante gomone, me ne tornai a greco della costa. Colà levatomi il giustacuore, le scarpe e le calze, rimasi con la mia sola camiciuola di cuoio: e mezz'ora circa prima dell'alta marea, mi diedi a guadare con quanta fretta potei, indi nel mezzo percorsi a nuoto trenta braccia all'incirca, tanto che finalmente toccai terra: onde raggiunsi la flotta in meno di una mezz'ora. I nemici furono sì spaventati al vedermi, che saltati fuori de' loro bastimenti guadagnarono a nuoto il lido, ove non si saranno unite meno di trentamila anime. Preso allora il mio sartiame, e fatto passare un de' cinquanta raffi a ciascun buco di cinquanta prore, unii tutte le corde in un unico gruppo. Mentre io stava adoperandomi in ciò, i nemici scoccarono su me parecchie migliaia di frecce; molte delle quali ferendomi le mani e la faccia; oltre all'eccessivo dolore che mi faceano sentire, mi davano una paura ben maggiore pe' miei occhi che avrei infallibilmente perduti se non fossi subito corso ad un espediente. Vi ricordate di quel paio d'occhiali che in un riservato borsellino sottrassi alle indagini de' commissari imperiali? Questi occhiali erano con me; me li legai al naso alla meglio, e mercè loro, continuai coraggiosamente nella mia faccenda a malgrado delle frecce nemiche, molte delle quali percuotevano le lenti degli stessi occhiali, ma senza recare altro danno che di scomporli lievemente dal loro posto. Io aveva già legati tutti i raffi; allora, preso in mano il gruppo maestro delle gomone, mi diedi a tirare; ma non un bastimento si volea mover di luogo, perchè troppo bene attaccato alle sue áncore, onde la parte fondamentale della mia impresa rimaneva incagliata. Non per questo m'avvilii, ma lasciato andare il sartiame, e sicuro che i raffi rimanevano sempre attaccati alle prore, andai risolutamente a tagliar col mio coltello tutte le corde che tenevano le áncore, senza prendermi fastidio di una grandine di frecce che mi tempestavano le mani e la faccia. Finita questa fazione, tornai a prendere in mano il gruppo delle mie gomone attaccate con gli uncini, come vi ho detto, alle prore, e con un'ammirabile facilità mi trassi dietro nient'altro che cinquanta navi di primo ordine. Quei di Blefuscu, che nemmen per ombra si erano immaginati le mie intenzioni, rimasero in principio attoniti e sbalorditi. Al primo vedermi tagliar le gomone delle áncore, aveano creduto che il mio disegno fosse unicamente quello di lasciar andare i bastimenti a seconda dell'acqua, od anche a cozzarsi l'un contra l'altro; ma poichè si furono accorti che l'intero navilio si moveva ordinatamente, e ch'io me lo tirava a mia volontà, misero tali grida di dolore e di disperazione che è quasi impossibile l'immaginarsele o il darne un'idea. Non appena fui fuor di pericolo, mi fermai alcun poco per levarmi le frecce che mi stavano infitte su le mani e su la faccia, e per istrofinarmi queste parti ferite con un poco di quell'unguento che mi fu dato all'istante del mio primo arrivo, e di cui vi ho già fatto parola. Mi tolsi ancora dal naso gli occhiali; poi aspettai circa un'ora finchè la marea fosse data giù affatto; allora guadai per mezzo al canale con tutta la coda del conquistato navilio, e con esso arrivai sano e salvo all'imperiale porto di Lilliput. L'imperatore e tutta la sua corte stavano su la spiaggia aspettando qual sarebbe l'esito di una sì grande spedizione. Aveano già veduto in lontananza moversi in avanti a guisa di una grande mezzaluna l'armata navale di Blefuscu, ma non poterono discernere me che era sino al petto entro l'acqua. E quando fui al mezzo del canale, sempre più in pena, perchè poteano vedermi tanto meno, che stavo già sott'acqua sino alla gola. L'imperatore anzi giudicò che fossi annegato, e che la flotta nemica si avanzasse a gran passi ostilmente; ma fu presto libero d'ogni timore, perchè il canale divenendo men fondo a ciascun passo ch'io moveva in avanti, gli fui ben presto a portata di voce, ed alzato il gruppo del sartiame cui l'intero navilio nemico era annodato, esclamai con quanto avea di polmoni: «Viva in eterno il potentissimo imperatore di Lilliput!» Quel grande monarca mi ricevè al mio sbarco colmandomi d'ogni sorta d'encomi, e mi creò sul campo del mio trionfo _nardac_ che è fra que' popoli il titolo più eccelso d'onore. Sua maestà avrebbe voluto che con un'altra spedizione dello stesso genere io conducessi ne' suoi porti tutto il rimanente delle forze navali del suo nemico. Tanto è insaziabile l'ambizione dei potenti, che già parea non pensasse a niente di meno del ridurre tutto l'impero di Blefuscu a provincia e del mettervi a governarla un vicerè nominato da lui. Già avea stabilito il suo disegno di distruggere tutti i profughi _piattuovisti_, e di obbligare l'intera nazione conquistata a mangiar l'uova rompendole per la punta, con che sarebbe rimasto solo monarca dell'universo. Ma io mi sforzai stoglierlo da simile divisamento con diversi argomenti dedotti in parte dai principii della sana politica, in parte anche da quelli della giustizia; anzi protestai pienamente che non avrei mai voluto essere stromento per trarre in istato di schiavitù una libera e valorosa nazione; e quando un tal soggetto venne discusso in consiglio, la parte più giudiziosa del ministero fu dalla mia. Tal mia aperta e coraggiosa dichiarazione era sì opposta ai divisamenti ed alla politica di sua maestà imperiale, che questo monarca non me la potè mai perdonare. Egli lo fece capire, ma in modi misteriosi, nel consiglio de' suoi ministri, perchè, come mi venne poi raccontato, i più saggi fra essi, col loro silenzio se non altro, si mostrarono del mio stesso parere; ma altri, che erano miei segreti nemici, non potettero starsi dal lanciare certe proposizioni, le quali di sghembo andavano a ferir me; e d'allora in poi principiò certo broglio mestato fra sua maestà ed una giunta segreta di suoi ministri, che due mesi appresso, diede fuori e per poco non fu cagione del mio totale esterminio. Di sì poco peso sono i servigi, anche i più grandi, resi ai potenti che non arrivano a bilanciare il rifiuto opposto una sola volta allo sfogo delle intemperanti loro passioni. Circa tre settimane dopo questa mia impresa, arrivò una solenne ambasciata spedita dall'imperatore di Blefuscu con sommesse offerte di pace. Questa venne conclusa a patti, senza dubbio, vantaggiosissimi pel nostro imperatore, ma ch'io non mi fermerò qui ad enumerare per non istancare la pazienza dei leggitori. Gli ambasciatori erano sei con un accompagnamento presso a poco di cinquecento persone. Il loro ingresso fu oltre ogni dire magnifico, e qual convengasi alla grandezza del monarca che rappresentavano ed all'importanza della loro negoziazione. Sottoscritto il trattato, nella conclusione del quale io prestai loro di assai buoni ufizi, grazie al credito di cui io godeva (o sia appariva ch'io godessi tuttavia) alla corte, le loro eccellenze, che erano state segretamente informate della propensione da me dimostrata ai loro interessi, vennero a rendermi una visita in forma. Dopo avermi fatto grandi complimenti sul mio valore e su la mia generosità, m'invitarono in nome dello stesso loro imperatore a visitare il reame di Blefuscu; poi mi pregarono perchè volessi intertenerli con qualche sperimento della prodigiosa mia forza di cui avevano udito narrare sì grandi meraviglie. In che subito lor compiacqui, ma non noierò il leggitore coll'entrare in sì minute particolarità. Dopo avere così divertito per alcun tempo le loro eccellenze che rimasero soddisfattissime ed in uno ammirate, le pregai volessero presentare l'omaggio dell'umile mio rispetto al loro grande monarca, la rinomanza delle cui virtù avea sì giustamente empiuta tutta la terra[18], e la cui augusta persona io mi prefiggea vedere prima di ritornare alla mia nativa contrada. In fatti, avuto in appresso l'onore di trovarmi col sovrano dal quale io dipendea, gli chiesi la formale sua permissione di portarmi a visitare l'imperatore di Blefuscu. Me l'accordò, ma, come tosto me ne accôrsi, con certa freddezza di cui nel momento io non sapeva indovinare il motivo; mi fu di poi susurrato all'orecchio da un amico; onde seppi come i ministri Flimnap e Bolgolam con le loro instigazioni avessero indotto il sovrano a ravvisare nel parlamento da me avuto con gli ambasciatori stranieri una prova del mio disamore verso la patria che m'aveva adottato, dal qual sentimento d'ingratitudine era affatto mondo, posso giurarlo, il mio cuore. Fu questa la prima volta che cominciai a formarmi qualche imperfetta idea delle corti e dei ministri. È a notarsi che quegli ambasciatori mi aveano parlato col mezzo di un interprete, perchè le lingue di entrambi gl'imperi differiscono fra loro quanto mai lo possa una lingua da un'altra; e ciascuna delle due nazioni inorgoglisce tanto dell'antichità, bellezza ed energia del proprio idioma, che guarda col più aperto disprezzo l'idioma della nazione sua confinante; ciò nondimeno, il nostro imperatore, portandola alta pe' vantaggi derivatigli dalla flotta che gli conquistai, obbligò gli ambasciatori stessi a presentare le loro credenziali ed a parlargli in lingua lilliputtiana. Una cosa per altro vuol confessarsi: le grandi relazioni di commercio e di traffico esistenti fra l'una e l'altra nazione, il continuo ricever profughi delle due fazioni avversarie, l'usanza inveterata in entrambi i regni di far viaggiare i più nobili e facoltosi di lor gioventù affinchè, vedano il mondo ed imparino a conoscere gli uomini e le loro costumanze, tutto ciò fa che sieno poche le persone ragguardevoli o addette al commercio ed alla marineria, o abitanti in piazze marittime, le quali non sappiano sostener bene un dialogo in tutt'a due le lingue. Di questo io dovetti convincermi poche settimane appresso quando andai a tributare i miei omaggi all'imperatore di Blefuscu, il che in mezzo alle grandi sciagure per la malvagità de' miei nemici sopravvenutemi, fu una grande fortuna per me, come avrò occasione di dirlo a suo luogo. Si ricorderà il leggitore come allorquando io mi sottoscrissi agli articoli condizionali della riacquistata mia libertà, alcuni di questi mi riuscissero sgradevoli per la natura loro sì umiliante e servile, che ci volea soltanto la più invincibile necessità perchè mi sottomettessi ad accettarli. Ma appartenendo ora, come _nardac_, al più eccelso ordine dell'impero, cotali ufizi vennero riguardati al di sotto della mia dignità, e il sovrano stesso, devo rendergli questa giustizia, non mi motivò una sola volta obblighi di tal fatta. Pure non andò guari che mi si offerse l'occasione di rendere un segnalato servigio a sua maestà: la mia intenzione almeno fu questa. Era di mezzanotte, quando fui sorpreso dalle grida di più centinaia di persone affollatesi alla mia porta, grida che svegliandomi d'improvviso in quell'ora, mi posero in una specie di timore. Io non udiva ripetere altro che la parola _burglum_; intanto parecchi cortigiani, apertasi via in mezzo alla calca, vennero a supplicarmi di correre a corte, ove l'intero palazzo di sua maestà imperiale era in fiamme, grazie alla trascuraggine di una damigella d'onore addormentatasi mentre stava leggendo un romanzo. Balzai in piedi in un subito, ed essendo stato dato ordine che mi venisse illuminata la via, e d'altronde facendo in quella notte un bellissimo chiaro di luna, m'ingegnai tanto che arrivai al palazzo senza avere schiacciato un solo individuo di quell'affollatissima popolazione. Trovai già poste le scale alle mura dell'appartamento che ardeva e fatto un grande apparecchio di secchi; ma l'acqua era lontana ed i secchi erano della capacità in circa del ditale di una cucitrice che abbia le dita piuttosto grosse. Ben quel povero popolo si affaccendava a somministrarmene, ma la fiamma era sì violenta che ci faceano come nulla. Avrei potuto facilmente spegner l'incendio col mio giustacuore; ma la sfortuna avea voluto che in quella fretta lo avessi lasciato addietro, e che venissi via con la mia sola camiciuola di pelle[19]. Era un caso veramente deplorabile; parea disperato del tutto, e quel magnifico palazzo sarebbe infallibilmente rimasto affatto spianato dal fuoco, se, con una prontezza di mente insolita in me, non avessi afferrato l'espediente che ci volea. Io aveva la sera innanzi bevuto in grande quantità di quel delizioso vino che a Lilliput chiamavasi, _glimigrim_ e che a Blefuscu chiamano _flunec_, ma quello di Lilliput è giudicato di miglior qualità. Questo vino è di sua natura molto diuretico, ma per la più fortunata combinazione non aveva esercitata tal sua virtù in me per tutta la notte. Probabilmente il calor delle fiamme cui andai sì vicino, e la fatica fatta nel gettare acqua sovr'esse mise in piena azione questa virtù, e ben in tempo, perchè non fui lento a profittarne come il caso esigeva, ed in tre minuti fu spento affatto l'incendio e salvato dalla distruzione il rimanente di quel nobile edifizio la cui costruzione era stata l'opera di molti secoli. Già era giorno quando me ne tornai a casa; nè m'indugiai per fare le mie congratulazioni coll'imperatore, perchè se bene io gli avessi, quanto all'effetto, prestato un eminente servigio, io non potea sapere come l'avrebbe sentita sul modo da me adoperato per prestarglielo, stantechè, secondo gli statuti fondamentali del regno, è delitto capitale, qualunque sia la persona che se ne renda colpevole, lo spargere immondezze nei precinti della reggia. Fui veramente confortato da un messaggio speditomi dalla stessa sua maestà per assicurarmi che avea dati gli ordini al suo gran giudice onde ottenessi il mio indulto in forma; ma questo indulto non venne. Fui anzi segretamente informato che l'imperatrice, piena d'ineffabile ribrezzo su quanto io mi era fatto lecito, andò ad abitare nel più rimoto angolo del palazzo, e che si mostrò risolutissima d'impedire qualunque riparazione agli appartamenti contaminati ove si volesse che tornassero a servire ad uso di lei, e che finalmente alla presenza d'alcuni principali suoi confidenti, giurò di non perdonarmi più mai. CAPITOLO VI. Su gli abitanti di Lilliput; su le loro cognizioni, leggi ed usanze; lor metodo di educazione pe' fanciulli. — Sistema di vivere dell'autore in quel paese. — Onore di una gran dama risarcito. Quantunque io mi riservi il dare la descrizione specificata di questo impero in un'opera a parte, pure desidero ad un tempo appagare la curiosità del leggitore col fornirlo d'alcune idee generali. Siccome la comune statura degli abitanti è un poco al di sotto delle sei dita, così v'è un'esatta proporzione con la mole di tutti gli altri animali, alberi e piante; per esempio, i maggiori cavalli e buoi sono d'un'altezza fra le quattro e le cinque dita, le pecore di un dito e mezzo, dal più al meno; le oche vi son grosse all'incirca come i nostri passeri, e così son mantenute tutte le gradazioni venendo all'ingiù, tanto che si arriva ad esseri sì piccoli che all'occhio mio erano pressochè invisibili; ma la natura ha adattato gli occhi de' Lilliputtiani a tutti gli oggetti propri per la loro vista, onde li discernono con la massima esattezza, non per altro ad una grande distanza. Per darvi un'idea dell'acutezza di questa lor vista rispetto alle cose che hanno in vicinanza, vi dirò essermi io preso lo spasso di osservare un cuoco che spiumava un'allodola non più grossa di una delle nostre mosche comuni, ed una giovinetta che infilava un ago invisibile con un filo di seta parimente invisibile. I lor più alti alberi lo sono all'incirca di sette piedi: intendo quelli del grande parco imperiale, le cui più alte cime io poteva appunto serrare entro il pugno della mia mano. Gli altri vegetabili seguivano la medesima proporzione; ma lascio congetturare il rimanente all'immaginazione del leggitore. Dirò qui ben poche cose del loro sapere, perchè ogni ramo di scienza è stato fiorente per molti secoli in quelle contrade; ma la loro maniera di scrivere è veramente singolarissima, non essendo nè da sinistra a destra come praticano gli Europei, nè da destra a sinistra a guisa degli Arabi, nè d'insù all'ingiù all'usanza Chinese, ma di sbieco come usano scrivere le nostre gentildonne.[20] Seppelliscono i loro morti col volto direttamente all'ingiù perchè, portando eglino l'opinione che dopo il corso di undicimila lune risusciteranno tutti di nuovo, nel qual periodo la terra, ch'essi concepiscono piatta, si sarà voltata di sotto in su, vogliono che questi morti, all'atto della loro risurrezione, si trovino pronti a saltare in piedi. I dotti del paese confessano assurda questa dottrina; ma tale pratica continua tuttavia per compiacere al volgare. V'ha in questo paese alcune leggi e costumanze singolarissime; pur se non fossero sì diametralmente opposte a quelle della mia cara patria, mi sentirei tentato a dire alcun che in loro giustificazione. Sol sarebbe ad augurarsi che con altrettanta esattezza fossero messe in pratica. La prima di cui farò menzione riguarda i delatori. Tutti i delitti contro allo stato vengono ivi puniti con la massima severità, ma se la persona accusata fa pienamente apparire in processo la sua innocenza, l'accusatore viene immantinente condannato ad ignominiosa morte; e su i beni o terre di costui l'innocente viene compensato quadruplicatamente del tempo fattogli perdere, del pericolo cui soggiacque, delle molestie della prigionia, delle spese corse per la propria difesa, ed ove le sostanze del falso accusatore non bastino, il tesoro della corona somministra quello che manca. Il sovrano in oltre conferisce qualche pubblico contrassegno del suo favore al calunniato, la cui innocenza viene promulgata a suon di tromba per l'intera città. La frode in queste contrade è riguardata come un delitto maggiore del furto, perchè si considera che una certa attenzione e vigilanza unite ad un comune discernimento possano salvare le sostanze d'un uomo dai ladri, mentre la buona fede non ha mai guarentigie di troppo contro alla raffinata astuzia de' furfanti; e poichè è indispensabile nella società un continuo giro di compre e vendite e di negozi fondati sul credito, in un paese ove la frode sia tollerata ed alimentata, o almeno ove non vi sia una legge che la castighi, chi contratta con onestà va sempre al di sotto, e sono del giuntatore tutti i vantaggi. Mi ricordo una volta di aver voluto farmi intercessore presso il sovrano per un tale che avea gabbato il suo padrone appropriandosi una somma riscossa da costui mediante un ordine del padrone medesimo. Sol per ottenere a questo reo una minorazione di pena mi sfuggì detto che in fine trattavasi dell'abuso di una cosa affidata. L'imperatore trovò cosa sin mostruosa che allegassi come punto di difesa quanto aggravava anzi il delitto del condannato. Restai lì senza sapere che cosa rispondergli. Mi limitai a ripetere il trito adagio: «Tanti paesi, tante usanze;» ma vi confesso che rimasi svergognato da vero. Benchè siamo soliti ripetere che le ricompense ed i castighi sono i due cardini su cui un buon governo si move, non ho mai veduta fra tutte le nazioni del mondo una tal massima applicata alla pratica, fuorchè a Lilliput. Quivi chiunque presenta sufficienti prove di avere strettamente osservate per settanta lune continue le leggi del suo paese ha diritto a certi privilegi proporzionati alla sua condizione sociale, oltre ad una somma di danaro egualmente proporzionata, e pel cui pagamento è istituito un fondo a parte; gli viene di più conferito il titolo di _snillpall_, che in lingua di quel paese vuol dire _uomo secondo la legge_, titolo d'onore per altro che egli non può trasmettere alla sua posterità. Laonde i Lilliputtiani trovarono sbagliata di gran lunga la nostra politica, allorchè dissi loro che fra noi la forza del codice criminale sta ne' minacciati castighi, ma che non vi si fa menzione di ricompense. In virtù di questa loro pratica diversa dalla nostra, la Giustizia effigiata ne' loro tribunali, che è dipinta con sei occhi, due davanti, due dietro, uno per lato ad indicare la circospezione necessaria ad un giudice, tiene in oltre nella mano destra una grande borsa d'oro ed una spada sguainata nella sinistra per dar a vedere quanto ella sia più proclive a ricompensare che a punire. Nello scegliere impiegati pubblici di qualsiasi genere badano molto più alle qualità morali dell'individuo che alla sua abilità; poichè, siccome un governo è cosa necessaria al genere umano, essi pensano che una discreta dose di retto discernimento debba bastare tanto ad una posizione quanta ad un'altra; nè sanno darsi a credere che la providenza abbia voluto fare dell'amministrazione della cosa pubblica un mistero comprensibile unicamente per pochi geni trascendenti di cui rare volte ne nascono tre ad ogni secolo. S'immaginano in vece che la buona fede, la giustizia, la temperanza e simili altre prerogative sieno alla mano di tutti, e che la pratica di queste virtù, aiutata dall'esperienza e dalla buona volontà, renda abile un uomo al servigio del suo paese, tranne que' servigi che dipendono da un dato magistero, al cui apprendimento sia essenziale un corso di studi. Lontanissimi poi dal credere che una rara superiorità di mente possa supplire alla mancanza di tali virtù poste a portata d'ognuno, pensano anzi che i pubblici impieghi non dovrebbero esser mai affidati in sì pericolose mani siccome quelle di persone dotate di tanta intellettuale sublimità, e che per lo meno gli errori commessi da un'ignoranza non disgiunta da virtuose disposizioni dell'animo, non potrebbero mai portare tante pericolose conseguenze al generale interesse quanto le pratiche d'un uomo tratto dalle sue prave inclinazioni a lasciarsi corrompere e protetto da una superiore abilità di mente nell'amministrare, nel moltiplicare e nel tutelare i mezzi della corruttela. Pensano parimente che l'incredulità nella divina providenza renda un uomo indegno di qualunque pubblico incarico, perchè siccome il sovrano medesimo si professa il delegato di questa providenza divina, parrebbe ai Lilliputtiani il massimo degli assurdi se il principe affidasse impieghi ad uomini che rinnegassero il potere di cui egli è mandatario. Nel parlare e di queste e d'altre leggi che verrò commemorando in appresso, vorrei bene s'intendesse com'io abbia in vista soltanto le originali instituzioni, non certo le scandalose abitudini, in cui que' popoli sono caduti in conseguenza della degenerata natura dell'uomo: perchè, quanto alle infami pratiche di meritarsi luminosi impieghi e favori col ballar su la corda o saltare a vicenda sopra un bastone e passarvi di sotto curvandosi, fo notare al leggitore che tali usanze vennero introdotte dall'avolo dell'imperatore oggi regnante, e sono poi venute in sì alta voga per effetto del subuglio delle fazioni. Anche l'ingratitudine è colà nel novero dei delitti capitali, il che leggiamo essersi pensato egualmente in altre contrade. Il principio su cui si fondano è che, se un uomo è capace di rendere male per bene al suo benefattore, dee per necessità essere nemico di quel rimanente del genere umano cui non ha veruna sorta d'obbligazione, e che come nemico dell'universo è immeritevole di vivere. Le loro nozioni su i doveri scambievoli de' genitori e de' figli sono diverse affatto dalle nostre; perchè l'unione de' due sessi essendo fondata su la grande legge della natura, intesa a propagare e continuare le specie lilliputtiane, ne deducono come necessaria conseguenza che tale unione nella schiatta umana non sia prodotta da un principio diverso da quello onde si congiungono fra loro i viventi diversi dall'uomo; credono quindi che la tenerezza dei genitori verso i loro piccoli figli proceda da un simile principio di natura; e sarebbe impossibile il farli convenire che i figli abbiano nessuna obbligazione ai padri o alle madri loro per averli messi al mondo; «perchè, dicon essi, nè questo, considerando le miserie dell'umana vita, fu un benefizio in sè stesso, nè fatto con intenzione di beneficare dai genitori, i quali, nei loro amplessi amorosi, pensavano ben ad altro che a ciò». Dietro questi e simili ragionamenti, hanno opinato che a tutt'altri, fuorchè ai padri e alle madri loro, debba affidarsi l'educazione dei fanciulli. Essi hanno pertanto stabilito in ciascuna città de' pubblici collegi, ove tutti, eccetto gli agricoltori e i bifolchi, sono obbligati mandare, per essere allevati ed educati, i loro figli d'entrambi i sessi, appena giunti all'età di venti lune, età in cui si suppone in essi l'attitudine a ricevere ammaestramenti. Di diverso genere sono tali scuole, secondo le diverse qualità ed il sesso degli allievi. Ciascuna di esse è fornita di professori abili nel predisporre i giovinetti a quella condizione di vita cui li chiamano così il grado che hanno nella società i lor genitori come la forza del loro ingegno e l'indole delle loro inclinazioni. Parlerò prima de' collegi maschili. Quelli destinati pe' fanciulli spettanti alle più nobili ed alte classi vanno proveduti di gravi e dotti professori ed ognun d'essi de' suoi ripetitori. Lisci e semplici sono il cibo ed il vestito de' giovani alunni. Allevati ne' principii dell'onore, della giustizia, del coraggio, della modestia, della mansuetudine e della religione, vengono sempre impiegati in qualche occupazione, eccetto il tempo del mangiare e del dormire, che è ben corto, e due ore di ricreazione che consiste in esercizi del corpo. Sono vestiti dai serventi del collegio finchè arrivino all'età di quattro anni, dopo il qual tempo vengono obbligati a vestirsi da sè medesimi, comunque sublimi sieno i loro natali. Le donne addette allo stabilimento, proporzionate, quanto all'età, alle nostre di cinquant'anni, vi fanno quel che dicesi i fatti grossi della casa. Non si permette ai giovinetti il conversare con la servitù; bensì uniti fra loro in brigate, or più piccole, or più grandi, vanno a trastullarsi alla presenza sempre di un professore o di un ripetitore; così schivano contrarre quelle impressioni o goffe o viziose di cui s'imbevono i nostri fanciulli. Non è concesso ai lor genitori il vederli più di due volte l'anno, nè di baciarli se non all'atto del primo incontro e della separazione; ed un professore, che in tali occasioni sempre è presente, non permette ad essi nè confidenze segrete nè smancerie di tenerezza co' figli nè il presentarli di cose dolci o balocchi di qualsisia genere. La pensione dovuta da ciascun padre per l'educazione ed il mantenimento de' propri figli, ov'egli mancasse di pagarla in tempo debito, viene riscossa da uficiali imperiali a ciò delegati. I collegi pe' figli di borghesi, mercanti, bottegai e manifattori vengono in proporzione amministrati con la medesima regola; solamente i ragazzi destinati a qualche mestiere, all'età di undici anni, son collocati come novizi in una bottega; quelli di nascita più distinta continuano i loro studi sino ai quindici anni che corrispondono ai ventuno fra noi; ne' tre ultimi anni la loro clausura è più mite. Nei collegi femminili le giovinette di ragguardevole nascita sono educate, sotto molti aspetti, alla maniera de' maschi; sol vengono vestite da persone del loro sesso medesimo e sempre alla presenza di una istitutrice o sua delegata, finchè arrivino a vestirsi da sè, il che è stabilito al quinto anno di loro età. Se si giugne a scoprire che una di tali serventi s'arrischi ad intertenere l'allieva o in fole da far paura o matte storie od altri di quegli sguaiati propositi che sono il forte delle cameriere fra noi, costei è pubblicamente frustata per tre giorni consecutivi attorno alla città, tenuta prigione un anno e bandita in vita nella più deserta parte del paese. Così le giovinette, non meno degli uomini, si vergognano di essere pusillanimi o frivole, nè si curano di personali ornamenti oltre all'uopo della decenza e della mondezza. In somma, nei metodi di educazione serbati per le giovinette o pei maschi, non m'accorsi d'altre essenziali differenze (oltre alle poche che ho accennate) fuor delle esercitazioni che per le donne non sono tanto gagliarde, di alcuni insegnamenti più ad esse confacevoli nei particolari della vita domestica, e della istruzione, in quanto al resto, più limitata per loro; la loro massima fondamentale si è che una giovane di distinzione, andando a marito, si mantenga per chi la sposa una ragionevole e gradevol compagna, giacchè giovine non può sempre mantenersi. Giunte ai dodici anni, che per loro è l'età delle nozze, i lor genitori o tutori se le prendono a casa dando grandi manifestazioni di gratitudine alle loro istitutrici, e rare volte senza pianti e della giovine che abbandona lo stabilimento e delle compagne. Nei collegi di donne di men alta sfera, le giovinette vengono istrutte in ogni sorta di mestieri adatti al loro sesso ed alla loro posizione nel mondo; quelle destinate ad un alunnato in qualche bottega ci vanno a sette anni; le altre son tenute in collegio sino agli undici. Le famiglie di classe più ordinaria, che hanno figli in questi collegi, devono, oltre all'annuale pensione che è tenue quanto mai è possibile, consegnare al maggiordomo del collegio stesso un tanto mensile su i loro guadagni per formare un patrimonio al fanciullo, onde la legge stessa viene a limitare le spese dei padri di famiglia; perchè i Lilliputtiani non trovano cosa più ingiusta di quella che vi sieno uomini i quali per appagare i loro appetiti mettano figli al mondo, poi lascino al pubblico l'incarico di mantenerli. Quanto alle persone di più alto grado, danno sicurtà di assegnare una certa somma, proporzionata alla loro condizione, in retaggio ai loro figli, e questi fondi vengono sempre amministrati con la più esatta economia e giustizia. I bifolchi ed agricoltori si tengono a casa i propri fanciulli, chè non avendo eglino d'altre faccende che l'arare ed il coltivare la terra, l'educazione de' medesimi è di poca importanza pel pubblico. Ciò non ostante divenuti inabili per malattia o vecchiaia, li mantengono gli ospitali, perchè il mendicare è mestiere ignoto in questo reame. E qui forse non sarà cosa priva di vezzo pel leggitore il sapere alcun che sul mio governo domestico e metodo di vivere in questo paese durante i nove mesi e tredici giorni che vi dimorai. La mia mente essendo naturalmente ben disposta ai lavori meccanici, e d'altronde costretto dalla necessità, mi fabbricai da me co' più grossi alberi del parco imperiale una tavola ed una scranna convenienti abbastanza. Duecento cucitrici furono impiegate per farmi camicie e biancherie da letto e da tavola, il tutto con le tele più forti e ruvide che poterono mettere insieme, le quali nondimeno dovettero ripiegare a più doppi e trapuntare, perchè nel loro stato naturale erano un po' più sottili delle più fine tele di cui si fanno manichetti in Europa. I loro drappi sono per solito alti tre dita, e la lunghezza di tre piedi forma una pezza. Perchè le cucitrici mi prendessero la misura, mi stesi per terra; l'una di esse mi stava al collo, l'altra alle metà delle gambe, con una forte cordicella tesa che ciascuna di esse teneva per una estremità, intantochè una terza misurava la lunghezza della cordicella con un passetto lungo un dito. Indi misurarono il mio pollice destro, nè ebbero bisogno di far altro, perchè con un calcolo matematico sapeano che due volte la lunghezza di questo faceva il circuito del mio manichino, come sapeano che la mia cintura era due volte il circuito del mio collo. Presa in oltre per modello una mia vecchia camicia che stesi per terra, eseguirono appuntino tutte le cose. Così pure vennero impiegati cento sarti nel farmi un abito, ma questi per pigliarmi la misura adottarono un metodo affatto diverso. Postomi ginocchione, essi pontarono una scala che veniva da terra sino al mio collo, e saliti su la scala, lasciarono da questa cadere sul pavimento un piombino che corrispondeva esattamente alla lunghezza del mio giustacuore; quanto alla cintura e alle braccia, ne presi la misura da me medesimo. Poichè il mio vestito fu terminato (manifattura tutta eseguita fra le pareti della mia casa, altrimenti i più gagliardi fra que' sartori non sarebbero riusciti ad introdurvelo), l'unione di tutti i pezzetti che lo formavano, lo faceano parere un abito da arlecchino, ma tutto di un colore. Avevo trecento cuochi per prepararmi il mio mangiare; abitavano essi in convenienti baracche alzate intorno alla mia abitazione ove vivevano insieme con le loro famiglie, e mi preparavano due piatti per ciascheduno. All'ora del mio pranzo io mi prendeva in mano trenta de' miei camerieri e li collocava sopra la tavola; un centinaio d'altri stavano servendomi a' piè della tavola stessa, chi tenendo vivande, chi barili di vino e liquori che lor pendeano dalle spalle; i camerieri che stavano sopra la tavola tiravano su d'essa queste cose con giudiziosissimi congegni di corde simili a quelle di cui ci serviamo in Europa per tirar fuori i secchi dai nostri pozzi. Un piatto delle loro vivande faceva una buona boccata, come una ragionevole sorsata un de' loro barili di vino. I castrati di quel paese cedono in bontà ai nostri, ma il manzo è squisito. Mi capitò una volta un lombo sì grosso che dovetti farne tre bocconi per mangiarlo; fu per altro un caso raro. La mia servitù rimaneva attonita al vedermi mangiare questi grossi animali e fin le loro ossa come da noi si mangia una coscia d'allodola. Le loro oche, i loro gallinacci me li mangiavo in una boccata, e devo dire che erano di gran lunga migliori de' nostri. Quanto agli uccelli di becco gentile, io ne infilzava le ventine e le trentine su la punta del mio coltello. Un giorno l'imperatore, essendo stato informato del mio modo di vivere, _desiderò aver la fortuna_, mi valgo delle stesse parole che si degnò profferire, _di venire a pranzar meco_ egli, la sua imperiale consorte ed i principi del sangue d'entrambi i sessi. Vennero di fatto e li collocai tutti seduti nelle loro sedie di stato, circondati dalle loro guardie, su la mia tavola rimpetto a me. Vi era pure Flimnap, il gran tesoriere, con la bacchetta bianca della sua carica, e notai che mi volgea certe occhiate torve; pure fingendo non accorgermene, continuai a mangiare d'un appetito che faceva onore alla mia cara patria e rese ammirata tutta quanta la corte. Ho qualche particolare motivo per credere che questa visita di sua maestà offrisse a Flimnap una opportunità di prestarmi mali ufizi presso del suo padrone. Costui era sempre stato il mio segreto nemico, benchè in apparenza mi facesse più finezze di quante se ne poteano solitamente aspettar dalla disamenità del suo carattere. Egli non si stancava di far rimostranze all'imperatore su lo stato piuttosto esausto del suo tesoro, su la necessità in cui era di cercar danaro con grave scapito sopra le cedole dello scacchiere che perdevano un nove per cento al di sotto del pari; gli diceva ch'io era costato a sua maestà un milione e mezzo di _sprug_ (la loro più grande moneta d'oro, della grossezza circa di una paglietta); in somma, la finiva concludendo che sua maestà avrebbe fatto ottimamente cogliendo la prima occasione di disfarsi di me. Mi corre qui il dovere di risarcire l'onore di un'ottima dama che soggiacque innocentemente a di ben gravi molestie per ragion mia. Era saltato al gran tesoriere il ghiribizzo di essere geloso di sua moglie, e ciò produssero alcune male lingue col mettergli nelle orecchie ch'essa aveva presa una violenta passione per me; la maldicenza cortigianesca andò per qualche tempo al segno di vociferarsi che una volta ella era venuta segretamente a trovarmi in mia casa. Fu questa un'infamissima impostura, priva d'ogni fondamento, e quanto v'ha di vero si è unicamente che sua eccellenza, la signora grande tesoriera, mi dava grandi contrassegni di confidenza e d'amicizia, ma sempre ne' termini della più stretta onestà. Confesso che venne spesse volte in mia casa, ma pubblicamente e con tre altre persone nella sua carrozza, le quali erano per solito una sua sorella, una giovinetta sua figlia ed una terza signora di sua intima conoscenza; e ciò praticavano parimente altre dame di corte, e me ne appello a tutta la gente di mio servizio, perchè dica se ha mai veduta dinanzi alla mia porta una carrozza senza conoscere le persone che ci stavano entro. Ogni qual volta si davano di questi casi, ed appena un mio servo veniva ad avvertirmene, io correva sempre alla porta, e dopo avere usati i miei convenevoli ai visitatori, mi prendeva in mano con tutto il riguardo la carrozza e un paio di cavalli (erano carrozze a tiro da sei, ma il postiglione staccava gli altri quattro cavalli), e mi portava tutte queste cose su la mia tavola, intorno a cui io aveva congegnato un parapetto, alto cinque dita, da mettere e levare per andar contro a tutte le possibili disgrazie. Quante volte su questa mia tavola ho avute sin quattro carrozze piene di persone, ed io me ne stava seduto sulla mia scranna con la faccia parallela ad esse. Mentre io dava udienza ad una brigata, i cocchieri conducevano gentilmente a passeggiare intorno alla tavola le altre carrozze. V'accerto che, conversando in tal modo, ho passati dei gradevolissimi dopopranzi. Ma sfido il gran tesoriere ed i suoi due delatori (e li nominerò anche, tanto peggio per loro!) sfido i suoi due delatori, Clustril e Drunlo, a provare che alcuna persona sia mai venuta a trovarmi misteriosamente, salvo la volta che ebbi un riservato colloquio col segretario di gabinetto Redresal, e anche fu per espresso comando di sua maestà imperiale; ve l'ho già raccontato. Non mi sarei fermato a lungo su questi particolari se non si trattasse di cosa in cui era compromessa la riputazione di una gran dama per non dirvi nulla della mia. Perchè nemmen questa era salva, ancorchè avessi l'onore di essere un _nardac_, ciò che il gran tesoriere non è; tutti sanno ch'egli è unicamente un _glumglum_, titolo inferiore d'un gradino al mio; per darvene un'idea, come sarebbe in Inghilterra un marchese rispetto ad un duca; quanto all'impiego non ostante, devo confessarlo, era da più di me. Queste calunnie pertanto, delle quali venni in cognizione troppo tardi per un caso inutile qui a raccontarsi, produssero che il gran tesoriere per alcun tempo facesse cattiva cera a sua moglie e peggiore a me. Egli è vero che più tardi venne in chiaro del suo inganno, e si rappattumò con la moglie; ma l'antipatia contro di me gli durò sempre, e dovetti accorgermi che ogni giorno io calava di credito presso l'imperatore, il quale si lasciava troppo governare da questo favorito. CAPITOLO VII. L'autore informato d'una macchinazione ordita per accusarlo d'alto tradimento, cerca scampo nel regno di Blefuscu. — Accoglimento che vi trova. Avanti di dar conto al leggitore della mia partenza da Lilliput, è prezzo dell'opera l'istruirlo della segreta cabala che si stava macchinando da due mesi a mio danno. In tutta la mia vita sin qui trascorsa io non poteva aver pratica delle corti; dalle quali mi tenea lontano la bassezza della mia condizione: certo io aveva udito quanto bastava intorno al poco che c'è da contare su la buona grazia dei potenti, ma non mi figurava mai di provare i terribili effetti delle disposizioni del loro animo in sì remota contrada; governata con massime tanto diverse da quelle d'Europa. Io stava apparecchiandomi per un viaggio a Blefuscu a fine di ossequiare, come lo aveva promesso, quel monarca, quando una notte si presentò alla mia casa segretamente, entro una bussola chiusa, un personaggio spettante alla corte, al quale io avea resi buoni ufizi mentre era caduto in disgrazia presso sua maestà imperiale. Non mi fece dire il suo nome quando mandò a chiedermi un privato intertenimento. Licenziò i facchini appena fu dinanzi alla porta della mia casa, ed io per maggior cautela mi posi la bussola e sua signoria, che vi era chiusa, in una tasca del mio giustacuore ordinando ad uno de' più fedeli miei servi di dire a chiunque volesse vedermi ch'io era indisposto di salute e andato a coricarmi. Assicurata indi la porta, posi secondo il solito la bussola col visitatore sopra la tavola, e mi ci assisi a canto. Terminati i soliti complimenti, m'accorsi che l'aspetto di sua signoria era alquanto stravolto, onde gliene chiesi il motivo. — «Armatevi, egli disse, di pazienza nell'ascoltarmi, perchè le cose che sono per dirvi concernono grandemente l'onor vostro e la vostra vita». Vi ripeto parola per parola il discorso ch'egli mi tenne perchè ne feci notazione, appena mi ebbe lasciato. — «Avete a sapere che parecchie giunte secrete del consiglio si sono andate convocando da qualche tempo, e che solamente da due giorni in qua il sovrano è venuto ad una definitiva risoluzione. «Già vi sarete accorto che Skyresh Bolgolam (_gulbet_ o sia grande ammiraglio) si chiarì vostro mortale nemico, quasi appena foste arrivato fra noi. Quali fossero da prima i suoi motivi, lo ignoro, so che il suo odio s'accrebbe a dismisura pel vostro glorioso successo su la flotta di Blefuscu, successo che, come vedete, annebbiava di molto la gloria del medesimo nella sua qualità di grande ammiraglio. Questo gran dignitario e, d'accordo con lui, Flimnap, il gran tesoriere, la cui inimicizia contro di voi è notoria per le ciarle sparsesi intorno a sua moglie, il generale Limtoc, il gran ciamberlano Lalcon ed il gran giudice Balmuff, tutti questi hanno compilato gli articoli di un atto d'accusa che vi qualifica reo d'alto tradimento e d'altri capitali delitti». Questo preambolo ad un uomo come me, che non aveva nulla nella mia coscienza da rimproverarmi, e che sapeva d'aver fatto del bene allo stato, mi fece tanto perdere la pazienza che era lì per interromperlo; ma sua signoria mi pregò, mi supplicò persino che la lasciassi dire, e procedè nel suo discorso così. — «Caldo della riconoscenza che per tanti titoli vi professo, mi sono informato di tutti gli atti del processo segreto istituito contro di voi, e mi sono persino procurato una copia degli articoli di accusa, che è qui. Vedete che per servirvi da amico metto a repentaglio la mia testa». Mi fece dunque la lettura dei seguenti ARTICOLI D'INFORMAZIONE CONTRA QUINBUS FLESTRIN (m'aveano battezzato così) _alias_ L'UOMO MONTAGNA ART. 1 Considerando che, in conseguenza di uno statuto emanato sotto il regno di sua maestà Calin Deffar Plune, chiunque ardirà orinare ne' precinti dell'imperiale palazzo sarà soggetto alle _pene_ e _penalità_ fulminate contra i rei d'alto tradimento, e che il detto Quinbus Flestrin, in onta della suddetta legge e sotto pretesto di estinguere un incendio accesosi nell'appartamento di sua maestà la nostra dilettissima imperiale consorte, diede maliziosamente, proditoriamente, diabolicamente corso alle sue orine, e spense infatti l'incendio accesosi nel suddetto appartamento, posto e giacente entro i precinti di questo imperiale palazzo, contra gli statuti e provedimenti emanati in simili casi, ec. contra il dovere, ec. ART. 2 Che il detto Quinbus Flestrin avendo condotta prigioniera in questo imperiale porto la nemica flotta di Blefuscu, e comandato in appresso da sua maestà imperiale d'impadronirsi di tutto il rimanente del navilio del detto impero di Blefuscu e di ridurre quel reame in provincia da essere governata da un vicerè mandato di qui, di distruggere e mettere a morte non solamente tutti i proscritti _piattuoviani_, ma anche tutta quella parte della popolazione di Blefuscu che non avesse voluto abbiurare l'eresia _piattuoviana_ e adattarsi a mangiare l'uova rompendole dalla parte della punta, il detto Flestrin, comportandosi da fellone e traditore contra l'auspicatissima e serenissima imperiale maestà, ardì fare una rimostranza per esimersi dal prestare questo servigio col pretesto d'una sua contrarietà a forzare le coscienze e a distruggere la libertà e le vite di una innocente popolazione. ART. 3 Che, quando certi ambasciatori della corte di Blefuscu, vennero in questa metropoli ad implorare la pace da sua maestà l'imperatore di Lilliput, il detto Flestrin con atto di assoluta fellonia e tradimento, corteggiò, blandì, confortò e festeggiò i suddetti ambasciatori, benchè li sapesse addetti ad un principe che era stato di recente aperto nemico della lodata imperiale sua maestà ed in guerra aperta contr'essa. ART. 4 Che il detto Quinbus Flestrin, contra ogni dovere di fedele suddito sta ora apparecchiandosi ad un viaggio nell'impero e presso la corte di Blefuscu, pel quale viaggio ha unicamente ricevuta una permissione verbale da sua maestà il graziosissimo sovrano di Lilliput; e sotto il pretesto di tal permissione solamente _verbale_ ha divisato con fellonia e tradimento di far questo viaggio per potere, giunto colà, aiutare ed incoraggiare d'opera e di consiglio l'imperatore di Blefuscu stato dianzi nemico ed in aperta guerra con la prelodata imperiale sua maestà». Ci erano alcuni altri _considerando_; i più importanti son questi che vi ho detti in succinto. — «Nelle diverse discussioni occorse su questo argomento (continuò il mio visitatore) bisogna confessare che il monarca ha dati non pochi contrassegni di grande clemenza, ora mettendo innanzi i servigi che gli avevate prestati, ora ingegnandosi d'attenuare i vostri falli. Il gran tesoriere e il grande ammiraglio la battevano perchè foste messo ad una morte ignominosa e crudele, e ad avviso di que' signori, doveva essere di notte tempo appiccato il fuoco alla vostra casa; il generale l'avrebbe circondata con ventimila uomini armati di frecce avvelenate da scagliarvi nella faccia e nelle mani. Intanto alcuni de' vostri servi avrebbero ricevuti segreti ordini d'aspergere di sughi velenosi le vostre camicie e lenzuola, in conseguenza di che vi avrebbe invaso tal furore che vi sareste stracciate le carni di dosso, e avreste finito di vivere fra atroci tormenti. Il generale era della stessa opinione, di modo che per lungo tempo vi fu una grande maggiorità contro di voi; pure sua maestà, risoluta di salvarvi se si poteva la vita, tanto fece che tirò dalla sua il ciamberlano. «In questa Reldresal, primo segretario degli affari privati, mostratosi in tutte le occasioni vostro vero amico, ebbe ordine dall'imperatore di dire anch'egli la sua opinione, la qual cosa egli fece, nè smentì il buon concetto che avete sempre avuto della sua propensione per voi. Convenne, bisognava fare così, che i vostri delitti erano grandi, che ciò non ostante non era tolto il luogo alla clemenza, la più commendevole fra le virtù d'un monarca, e per cui sua maestà veniva celebrata sì giustamente. Premise essere sì notoria l'amicizia esistente tra lui e voi che forse sarebbe tacciato di qualche poco di parzialità da quella eccelsa tavola di stato. _Nondimeno_, egli soggiunse, _mi si comanda di parlare; parlerò con franchezza_. Egli opinò pertanto che, se sua maestà, in contemplazione de' vostri servigi, e cedendo alle inclinazioni sue portate sempre alla misericordia, si fosse degnata risparmiarvi la vita e dar solamente ordine che vi fossero cavati tutt'a due gli occhi, egli era del sommesso parere che, mediante un tale espediente, si sarebbe soddisfatto in qualche parte alla giustizia, e tutto il mondo avrebbe applaudito alla clemenza di sua maestà ed alla generosa moderazione di quanti avevano l'onore di esserne i consiglieri. Notò che la perdita de' vostri occhi non sarebbe stata un impedimento alla gagliardía delle vostre membra, per cui avreste potuto continuare a rendervi utile a sua maestà; che la cecità porta un incremento al coraggio nascondendone i pericoli da cui siamo minacciati; che la paura appunto di perdere gli occhi fu il maggiore fra gli ostacoli da voi incontrati nel condurvi con voi al nostro porto il navilio nemico; che sarebbe stato ben sufficiente per voi il vederci con gli occhi dei ministri, tanto più che i più grandi sovrani non hanno d'altr'occhi nemmeno loro. «Un tal partito incontrò la massima disapprovazione di tutta quanta la tavola di stato. Principalmente l'ammiraglio non fu più capace di contenersi; dato in tutte le furie esclamò: _Mi maraviglio bene che vi sia un segretario di stato il quale ardisca dire la sua opinione per salvare la vita d'un traditore_. I servigi da voi prestati erano, all'udir lui e secondo le migliori ragioni di stato, altrettante aggravazioni de' vostri delitti. Disse che se voi eravate capace di estinguere con gli sprazzi della vostra orina un incendio negli appartamenti di sua maestà, la graziosissima imperatrice... non vi so dipignere il moto d'orrore ch'egli fece nell'allegare tal circostanza... potevate bene in un'altra eventualità e con lo stesso espediente produrre tale inondazione da sommergere l'intero palazzo imperiale. E quella forza, era sempre lui che diceva così, quella forza che vi ha fatto abile a condurre nel nostro porto tutto il navilio de' nemici, un'altra volta ed al primo disgusto ch'abbiate ricevuto, vi farà abile a restituirla al nemico medesimo. Aggiunse d'avere buone ragioni per credervi un _piattuoviano_ nel fondo del cuore, e che siccome il tradimento comincia nell'animo prima di manifestarsi nelle azioni degli uomini, così vi accusava traditore dal lato de' pensieri ed instava per conseguenza affinchè vi fosse tolta la vita». «Il gran tesoriere fu della stessa opinione, benchè le sue considerazioni fossero d'un'altra natura ed intese a dimostrare le angustie cui il carico di mantenervi riduceva le rendite di sua maestà, carico che sarebbe omai divenuto insopportabile. Biasimava altamente il partito del segretario che si sarebbe limitato a farvi cavar gli occhi. Ciò secondo lui avrebbe probabilmente accresciuto il male in vece di diminuirlo, e portò ad esempio palmare della sua asserzione l'usanza che v'è d'accecare certe specie di uccelli affinchè mangino più ingordamente ed ingrassino meglio; che in fine la sacra sua maestà ed il consiglio, compiaciutisi di divenire vostri giudici, erano pienamente persuasi nelle loro coscienze del vostro reato, e bastar questo per condannarvi a morte senza stare a tutte quelle formalità di prove che la stretta lettera della legge richiederebbe. «Ma l'imperial sua maestà, ferma nella sua prima massima contro alla pena capitale, si degnò nella sua clemenza notare che, se il consiglio trovava pena troppo mite il cavarvi gli occhi, c'era sempre il tempo di procedere a castighi più severi in appresso. Il grande vostro amico, il segretario di gabinetto, in allora chiese rispettosamente di essere udito per rispondere alle obbiezioni del gran tesoriere concernenti l'enorme spesa che costa a sua maestà il mantenervi. In proposito di che osservò che sua eccellenza essendo incaricata dell'intera amministrazione dell'entrate imperiali, erano anche in suo arbitrio le providenze necessarie ad andar contra un simile inconveniente, e ciò col diminuire a gradi a gradi il vostro sostentamento; tantochè, a furia d'indebolimento e languore, andaste a finire in una consunzione che vi spedisse in pochi mesi. Sarebbe derivato da ciò un altro vantaggio, il vostro protettore dicea: minoratane la mole più della metà, il puzzo delle vostre carni, quando foste cadavere, non sarebbe più sì pernicioso. Cinque o seimila sudditi di sua maestà facevano presto a staccar queste carni dall'ossa del morto, che sareste voi, e, caricate queste su de' carri, a trasportarle per essere sepolte in qualche luogo ben rimoto onde impedire l'infezione dell'aria; il vostro scheletro sarebbe rimasto come un monumento all'ammirazione de' posteri». «Così, e ne avete obbligazione alla grande amicizia che il segretario ha per voi, tutta la faccenda rimase aggiustata. Fu strettamente convenuto fra i ministri che il disegno di affamarvi poco alla volta sarebbe tenuto nel più grande segreto; ma la sentenza di cavarvi gli occhi fu posta a protocollo; nè vi fu altro dissenziente fuor dell'ammiraglio Bolgolam che, siccome creatura dell'imperatrice, veniva sempre instigato dalla lodata maestà sua ad insistere per la vostra morte; già sapete che questa sovrana non ve l'ha mai più perdonata pel turpe ed illegale espediente cui vi atteneste per estinguere il fuoco dell'imperiale suo appartamento. «Di qui a tre giorni il segretario vostro amico si porterà da voi per leggervi il vostro atto d'accusa, e comunicarvi ad un tempo l'atto d'ineffabile clemenza e favore di sua maestà e del consiglio, che limitano la vostra condanna alla perdita degli occhi; alla quale condanna la prefata sua maestà non dubita non vi sottomettiate di buon grado e con riconoscenza. Saranno posti in requisizione venti chirurghi di sua maestà affinchè l'operazione riesca felicemente col mandarvi una copiosa scarica di frecce su le pupille, che per ricevere meglio vi porrete disteso supino sul terreno. «Io lascio alla vostra prudenza il prendere quegli espedienti che giudicherete i più opportuni, e per sottrarmi ad ogni sospetto, me ne torno via subito nella stessa celata guisa con cui sono venuto». Così sua signoria fece lasciando me agitato fra mille dolorose perplessità. Sotto il presente sovrano ed il suo ministero era invalsa una pratica ben diversa, come ne fui assicurato, da quella tenutasi sotto i monarchi suoi predecessori, ed era quella che quando la corte avea decretato qualche barbaro atto, o fosse per blandire un sovrano risentimento o per condiscendere alla malvagità d'un favorito, l'imperatore tenea sempre in prevenzione una parlata all'intero consiglio pompeggiando della sua ineffabile clemenza e tenerezza per l'umanità, siccome qualità in lui conosciute e confessate dall'universo. Poi questo discorso veniva subito pubblicato e diramato per tutto il regno, nè v'era cosa che atterrisse tanto la popolazione quanto questi pomposi elogi della clemenza di sua maestà, perchè si era notato che quanto più si calcava su questi encomi, quanto più venivano amplificati, tanto più crudele era il decreto che li seguiva, tanto più innocente chi rimanea la vittima di questo decreto. Circa a me, devo confessare che non essendo mai stato fatto nè dalla mia nascita nè dalla mia educazione alla vita del cortigiano, io era cattivo giudice delle cose al segno di non sapere ravvisare questa grande clemenza o questo prelibato favore di sua maestà nel farmi cavare gli occhi, anzi la trovava (mi sarò ingannato) piuttosto una bricconata che una gentilezza. Per un momento mi saltò in testa di domandare il mio processo; perchè, se bene non potessi negare diversi dei fatti allegati a mio pregiudizio in quell'atto d'accusa, mi parea che potessero essere presentati sotto un aspetto assai meno brutto. Ma avendo letto in mia vita molti processi di delitti politici, e notato che vanno sempre a finire conforme alla prima piega che lor diedero i giudici, non m'arrischiai a rimettermi ad una così pericolosa prova in circostanze sì nuvolose ed avendo contra me sì possenti nemici. Un altro momento mi sentii fortemente tentato a resistere, perchè, finchè io rimaneva in libertà, l'intera forza di questo reame non bastava a soggiogarmi, e ad un bisogno avrei mandato all'aria a furia di sassate l'intera metropoli; ma feci presto a respignere con orrore un tale disegno; mi ricordai del giuramento che io aveva dato all'imperatore, dei favori che io ne aveva ricevuti e dell'alto titolo di _nardac_ da lui conferitomi; chè non aveva io sì presto imparata la riconoscenza dei cortigiani per persuadermi che la presente severità del sovrano mi francasse da tutte le passate obbligazioni. Finalmente mi determinai ad una risoluzione per cui forse potrò incorrere qualche censura. Confesso di aver dovuto la salvezza de' miei occhi e per conseguenza la libertà alla mia grande sconsigliatezza e mancanza di esperienza, perchè se avessi allora pensato al fare di certi principi e ministri che ho conosciuti in altre corti, ed alla maniera con cui hanno trattati altri individui men colpevoli di me, mi sarei rassegnato con tutta alacrità a questa sì tenue punizione. Ma trascinato da precipitazione giovenile, profittai allora della licenza che sua maestà imperiale m'avea già accordato dì portarmi a Blefuscu per tributare i miei omaggi a quel sovrano, e spedii al segretario di gabinetto, quel mio grande protettore che per effetto di sua benevolenza volea vedermi cavati gli occhi e morto di fame, la lettera d'avviso di tal mia risoluzione, fondata sopra un concedimento sovrano; poi subito, senza aspettare, come potete credere, la risposta, mi trasferii a quel lato dell'isola ove stanziava la flotta. Impadronitomi di una grande nave da guerra, alla cui prora attaccai una corda, e levatene l'ancore, mi spogliai, e postivi entro i miei panni e la mia coperta da letto che m'era portata sotto il braccio, poi trattomi dietro il mio bastimento, parte guadando, parte nuotando, arrivai al porto di Blefuscu, ove quella popolazione m'aspettava da lungo tempo. Mi furono tosto date due guide che mi scortassero alla metropoli, la quale ha il medesimo nome dell'intero reame. Mi portai le mie scorte nelle mani finchè fossimo ad una distanza di duecento braccia dalle porte; allora le misi a terra pregandole andare a notificare il mio arrivo ad un segretario di gabinetto per avvertirlo ch'io stava lì fuori aspettando i comandi di sua maestà. Circa un'ora dopo, ebbi in risposta che sua maestà, accompagnata dalla sua reale famiglia e dai grandi uficiali della corona, era in via per venirmi a ricevere. M'avanzai d'un centinaio di braccia, ed incontrai l'imperatore ed il suo corteggio smontati dai loro cavalli e l'imperatrice e le sue dame scese dalle carrozze, nè m'accorsi che la mia presenza inspirasse ad essi alcuna sorta d'apprensione o timore. M'accosciai per terra onde baciare le mani delle loro maestà. Esposi all'imperatore, come in conformità della mia promessa ed avendone ottenuta licenza dall'imperatore mio padrone, mi fossi procurato l'onore di vedere un sì possente monarca e di offrirgli personalmente ogni servigio compatibile con le mie forze e co' doveri che m'astrignevano al mio sovrano. Non gli feci parola su la disgrazia da me incorsa alla corte di Lilliput; perchè primieramente non ne essendo fin allora stato avvisato in via d'offizio, non mi conveniva mostrarmi informato menomamente di quanto si tramava contro di me; io doveva in oltre ragionevolmente supporre che il sovrano da cui mi partii, non avrebbe voluto dar fuoco alla macchina finchè, essendo in paese straniero, io gli rimanea giù di mano; nondimeno apparve in appresso che questo secondo mio calcolo andava errato. Non noierò il leggitore col racconto dei particolari connessi coll'accoglienza fattami alla novella corte, accoglienza proporzionata alla generosità di un così grande monarca; nè tampoco parlerò delle molestie cui soggiacqui per non avere nè una casa nè un letto, la qual cosa mi costrignea passar le notti sul selciato, avvolto nella coperta ch'io m'era portata con me. CAPITOLO VIII. Un fortunato caso somministra all'autore il mezzo di abbandonare que' paesi. Non senza dover prima superare alcune difficoltà, egli arriva finalmente sano e salvo nella sua nativa contrada. Tre giorni dopo il mio arrivo, mentre io passeggiava per curiosità a greco della costa, osservai lontano circa mezza lega dal mare, qualche cosa che avea la somiglianza di una scialuppa capovolta. Cavatemi le scarpe e le calze, e percorsa al guado una lunghezza di due o tre centinaia di braccia, vidi che l'oggetto da me osservato dianzi mi veniva più vicino per l'alzarsi della marea, ed allora rimasi convinto esser quella realmente una scialuppa che supposi lanciata fuori d'un bastimento in occasione di qualche tempesta. Tornato immediatamente alla città, supplicai sua maestà farmi approntare venti de' più gagliardi vascelli rimastigli dopo la perdita della sua flotta, e tremila uomini comandati dal suo viceammiraglio. Secondata dall'imperatore la mia inchiesta, l'armata costeggiò la spiaggia, intantochè io per la più corta m'avviai a quella parte di essa donde prima scopersi la scialuppa; quivi m'accorsi che la marea l'aveva avvicinata anche di più. I marinai andavano tutti proveduti di sartiame ch'io aveva anticipatamente intrecciato per ridurlo ad una sufficente grossezza. Arrivati i bastimenti, mi tolsi di nuovo i panni, e guadai, sinchè fui distante un centinaio di braccia dalla scialuppa, dopo di che fui costretto mettermi al nuoto per raggiungerla. I nocchieri allora mi gettarono l'estremità di una fune, che raccomandai ad un buco della punta esterna della stessa scialuppa, mentre l'altra estremità era legata ad una nave da guerra; ma tutte le mie fatiche fatte sin qui non mi giovavano trovandomi io già a tale altezza d'acqua in cui poteva aiutarmi ben poco l'opera delle mie braccia. In questo frangente fui costretto nuotare verso la parte posteriore della scialuppa e spignerla innanzi più spesso che mi fu possibile con una delle mie mani; favorendomi la marea, avanzai tanto verso la riva che, avendo il mento fuori dell'acqua, i miei piedi toccavano terra. Mi riposai due o tre minuti, poi diedi un'altra spinta alla scialuppa, poi un'altra ed un'altra, tanto che l'acqua mi veniva soltanto alle ascelle. Ora, essendo compiuta la parte più faticosa dell'opera mia, presi fuori le altre mie gomone che io aveva allogate entro uno di quei bastimenti, e le assicurai prima alla barca, poi a nove vascelli che mi circondavano. Favoriti dal vento, i marinai si diedero al rimorchio, e spinsi tanto che arrivammo entro una distanza di quaranta braccia dalla spiaggia; poi aspettato che la marea fosse data giù, mi portai con le mie gambe alla scialuppa, ove aiutato da duemila uomini ed a furia di corde e congegni, pervenni a farla tornare sul suo vero verso, e m'accorsi che era pochissimo danneggiata. Risparmierò al leggitore il racconto delle difficoltà da me vinte per condurre, col ministero di certi remi che mi ci vollero dieci giorni per fabbricare, all'imperiale porto di Blefuscu, ove trovai un immenso popolo sbalordito, alla vista d'un vascello sì prodigiosamente sterminato. Dopo avere esposto all'imperatore come la felice mia stella m'avesse fatto capitare quella scialuppa, donde avrei potuto far ritorno al mio paese nativo, lo supplicai dare ordini alla sua gente affinchè mi fossero somministrati i materiali necessari per allestirla, ed a me la licenza di partire; le quali cose, non senza alcune cortesi querele, si degnò finalmente accordarmi. Veramente in tutto questo tempo mi fece maraviglia il non aver udito far menzione d'alcun messaggio che mi concernesse, spedito dall'imperatore di Lilliput alla corte di Blefuscu. Ma vi fu in appresso chi privatamente mi fece sapere come l'imperiale maestà sua lilliputtiana s'immaginasse ch'io mi fossi unicamente portato a Blefuscu in adempimento della promessa fatta da me e della licenza datami dalla lodata sua maestà, cosa notissima alla nostra corte, onde niuno colà dubitava che terminate quivi le formalità di etichetta, io non fossi tornato fra pochi giorni a Lilliput. Ma finalmente cominciò ad angustiarsi su questa mia lunga assenza, e dopo essersi consultato col gran tesoriere e con tutti gli altri autori della cabala ordita a mio danno, spedì in Blefuscu un personaggio d'alto conto con la copia degli articoli del mio atto d'accusa. Le istruzioni di quest'inviato erano di far presente al monarca di Blefuscu la somma clemenza del suo signore che si contentava a non punirmi con maggior pena della perdita de' miei occhi; la mia ribalderia nell'essermi sottratto alla sua sovrana giustizia; l'intimazione che mi veniva fatta di restituirmi nel termine di due ore a Lilliput, sotto pena di essere privato del mio titolo di _nardac_ e dichiarato traditore. Il messaggero aggiugneva in oltre, come per mantenere la pace e l'amicizia tra i due imperi il suo signore sperasse che l'imperiale di lui fratello di Blefuscu avrebbe dato ordini affinchè fossi rispedito con mani e piè legati a Lilliput per essere punito qual traditore. L'imperatore di Blefuscu, dopo essersi presi tre giorni per consultare il suo ministero, diede una risposta che consistea tutta in complimenti e scuse: quanto cioè al rimandarmi con mani e piedi legati, ben conoscere il suo imperiale fratello che la cosa era impossibile; in oltre avermi egli di grandi obbligazioni, perchè, se bene gli avessi portata via la sua flotta, gl'importantissimi servigi da me resigli nella negoziazione della pace erano innegabili; darsi per altro tale opportunità per cui entrambi i sovrani si sarebbero facilmente sbarazzati di me, giacchè io avea trovato su la spiaggia un prodigioso vascello atto a trasportarmi sul mare, e pel cui allestimento, da eseguirsi sotto la mia assistenza e direzione, avea già dati gli ordini necessari; sperar egli pertanto che fra poche settimane entrambi gli imperi sarebbero liberi di un peso tanto gravoso. Con tale risposta il messaggero se ne tornò a Lilliput. Queste particolarità io seppi dalla bocca stessa del monarca di Blefuscu, che mi offerse ad un tempo (ma in istrettissima confidenza) la graziosa sua protezione, se avessi voluto fermarmi al suo servigio, ma benchè lo credessi sincero nelle sue esibizioni, dopo quanto m'era avvenuto a Lilliput, feci voto di non fidarmi più mai nè di principi nè di ministri ogni qual volta avessi potuto farne di meno, laonde, con tutti per altro i debiti ringraziamenti, lo supplicai umilmente a dispensarmi dall'accettare. — «Giacchè, dissi, la fortuna, non so se io deva chiamarla buona o cattiva, mi ha fatto, può dirsi, piovere un bastimento dal cielo, son risoluto di avventurarmi un'altra volta all'oceano, anzichè divenire un'occasione di discordie fra due sì grandi monarchi». Nè m'accorsi, per dir vero, che gli desse il menomo dispiacere tal mio rifiuto; anzi un certo incidente mi trasse a scoprire com'egli, non meno della maggior parte de' suoi ministri, fossero contentissimi della risoluzione ch'io aveva presa. Queste considerazioni mi determinarono ad affrettare la mia partenza qualche tempo prima di quello ch'io avea divisato, in che trovai compiacentissima la corte che non vedea l'ora d'avermi fuori de' piedi. Cinquecento operai vennero adoperati per far due vele al mio palischermo col cucire insieme e trapuntare, già s'intende sotto la mia direzione, tredici pezze delle loro più resistenti tele di lino. Non mi costò pochi fastidii il fabbricarmi sartiami e gomone coll'intrecciare insieme i dieci, i venti, i trenta dei loro spaghi. Dopo lunghe ricerche mi capitò su la spiaggia un grosso sasso, che mi prestò ufizio d'áncora. Mi fu dato il grasso di trecento manzi per valermene a spalmare il mio bastimento e per altri usi. Nuovo incredibile fastidio mi derivò dall'abbattere alcuni dei più grossi alberi da costruzione per farne remi e l'albero di maestra, in che mi furono di grande aiuto i carpentieri dell'imperiale navilio col dar l'ultima mano, piallandoli, ai lavori grezzi che venivano tutti compiuti da me. Allorchè, passato a un dipresso un mese, tutto fu all'ordine, mandai per ricevere gli ordini di sua maestà e congedarmi. L'imperatore e l'imperiale famiglia uscirono del palazzo; mi posi con la faccia a terra per baciar la mano al monarca, che me la porse con indicibile affabilità; così fecero l'imperatrice ed i principi del sangue. Sua maestà mi regalò cinquanta borse, che conteneano ciascuna dugento _sprug_, oltre al suo ritratto in piedi che mi posi subito in uno de' miei guanti per conservarlo immune d'ogni guasto. I cerimoniali precedenti alla mia partenza furono tanti che infastidirei il leggitore col volerglieli raccontare. Vettovagliai il mio palischermo con un centinaio di buoi e trecento pecore salate, e pane e vino in proporzione, ed altrettante pietanze fredde apparecchiate con quanta prestezza il poteano quattrocento cuochi. Presi con me sei vacche e due buoi vivi ed altrettanti montoni e pecore col disegno di portarli nel mio paese e propagarne le razze; che per nudrirli a bordo portai nel bastimento un buon fascio di fieno ed un sacco d'avena. Avrei preso volentieri con me una dozzina di quei nativi; ma fu questa la cosa che l'imperatore non mi volle assolutamente permettere; ed anzi, oltre al farmi frugare diligentemente tutte le tasche, mi obbligò a dargli parola d'onore di non portar via alcuno de' suoi sudditi, nemmeno quand'essi acconsentissero o lo desiderassero. Disposte così tutte le cose alla meglio che potei, diedi le vele nel dì 24 settembre 1701, alle sei del mattino. Dopo aver fatto circa quattro leghe verso tramontana, scoprii, voltatosi il vento a scirocco, alle sei della sera un'isoletta che mi stava ad una distanza di mezzo miglio a greco. Spintomi innanzi, gettai l'áncora sul lato opposto al vento dell'isola stessa, che sembrommi disabitata. Preso qualche ristoro, pensai a riposarmi; e dormii bene per quasi sei ore, così almeno congetturai, perchè spuntò l'alba due ore dopo che mi fui desto. Essendo chiara la notte, feci colezione due ore prima che spuntasse il sole; poi, levata l'áncora, governai su la stessa dirittura del giorno innanzi, regolandomi colla mia bussola. Io divisava raggiungere, se mi riusciva, una di quelle isole che avevo ragione di credere giacenti a greco della terra di Van-Diemen; ma non giunsi a scoprir nulla in tutta quella giornata. Solo nella successiva, alle tre passato il mezzogiorno, dopo essermi scostato, giusta i miei computi, ventiquattro leghe da Blefuscu, scopersi una vela che movea verso scirocco; la mia corsa era diretta a levante. La salutai, ma non potei averne risposta; nondimeno m'accorsi di avvantaggiare di cammino sovr'essa, perchè il vento si rallentava. Feci forza di vele quanto potei, nè passò mezz'ora che l'altro bastimento, avvedutosi di me, spiegò la bandiera di soccorso, e tirò il cannone. Non è cosa facile l'esprimere la gioia che mi comprese al brillarmi sì inaspettata la speranza di rivedere anche una volta la dolce mia patria e i diletti pegni ch'io vi aveva lasciati. Il bastimento rallentò le sue vele, ond'io lo raggiunsi tra le cinque e le sei della sera del 26 settembre. Oh! come mi balzò il cuore di nuova inaudita allegrezza al vedere i colori della mia cara Inghilterra! Postomi tosto nelle tasche del mio giustacuore le mie vacche, entrai a bordo dell'amico bastimento con tutto il piccolo carico delle provisioni ch'io m'era portate con me. Era questo in cui mi scontrai un vascello mercantile che tornava dal Giappone pei mari boreale ed australe, comandato dal capitano Giovanni Biddel di Deptford, uomo assai cortese ed intelligentissimo navigatore. Eravamo allora ai trenta gradi di latitudine meridionale. Si trovavano nel bastimento cinquanta uomini, e fra questi certo Pietro Williams, mio vecchio collega, che diede ottime contezze di me al capitano. Questo signore, dopo usatemi le maggiori gentilezze, mi pregò dirgli da qual paese io venissi allora e per dove fossi avviato. Appagai la sua curiosità in poche parole, ma egli s'immaginò tosto ch'io delirassi, e che i sofferti pericoli m'avesser fatto dar volta al cervello. Io allora, trattomi di tasca il mio armento e le mie vacche, lo feci rimanere sbalordito non si può dir quanto e convinto ad un tempo della mia veracità. Gli mostrai indi le monete d'oro a me donate da sua maestà imperiale di Blefuscu, il ritratto in piedi di quel monarca e diverse altre rarità del paese donde io veniva. Presentatolo poscia di due borse di dugento _sprug_ ciascheduna, gli promisi regalargli, quando saremmo giunti in Inghilterra, una vacca ed una pecora, entrambe pregne. Non incomoderò il leggitore col narrargli le minute circostanze di questo viaggio, che fu nella sua totalità assai fortunato. Arrivammo alle Dune ai 13 aprile del 1702, senza che mi fosse occorsa alcuna disgrazia, tranne una sola, e fu che i sorci a bordo del vascello mi portarono via una delle mie pecore; ne trovai in un buco le ossa monde affatto dalla loro carne. Condotto il resto del mio armento sano e salvo alla spiaggia, lo misi a pascolare in un praticello di Greenwich preparato per giocarvi alle bocchie; la squisitezza di quell'erba fece che la gustasse assai contro a quanto, per dir vero, io m'aspettai sulle prime. Certo non avrei potuto in un sì lungo viaggio mantenere nè quelle vacche nè quelle pecore, se il generoso capitano non m'avesse somministrato alcun poco del suo migliore biscotto, che ridotto in polve e mescolato con l'acqua, era il costante loro cibo. Nel breve tempo che continuai a rimanere nell'Inghilterra feci notabili guadagni col mostrare la mia mandra a molti ragguardevoli personaggi ed ai tanti curiosi di vederla; poi, prima che intraprendessi il mio secondo viaggio, la vendei per seicento sterlini. Dopo il mio ritorno ne trovai la razza considerabilmente aumentata, massime le pecore; cosa che porterà, spero, un grand'utile alle nostre manifatture di panni per la rara finezza delle lane di queste bestiuole. Non rimasi con la mia famiglia più di due mesi, perchè il mio insaziabile desiderio di veder nuovi paesi non mi permise una più lunga dimora in patria. Lasciati cinquecento sterlini a mia moglie, la stabilii in una buona abitazione a Redriff. Mi portai meco il rimanente de' miei capitali, parte in danaro, parte in mercanzie, con la speranza di migliorare il mio stato. Il mio vecchio zio Giovanni mi avea lasciato un fondo in terreni presso Epping, della rendita circa di trenta sterlini. Io aveva in oltre un fondo a lungo livello, che mi rendea molto di più; onde io non poteva aver paura di lasciare le mie creature a carico della parrocchia. Mio figlio Giovannino (gli fu posto questo nome, perchè avea lo stesso nome suo zio) era un ragazzo di bonissima volontà, e faceva allora il suo corso di grammatica. La mia figlia Bettina (che adesso è maritata, e madre di più figli) imparava a cucire. Congedatomi da mia moglie e da' miei figliuoletti, non senza sparger lagrime da entrambe le parti, mi posi a bordo dell'Avventura, vascello mercantile di trecento tonnellate, destinato a Surate, sotto il comando di Giovanni Nicholas. Ma il racconto di questo tragetto si riferisce alla successiva seconda parte de' miei viaggi. SECONDA PARTE VIAGGIO A BROBDINGNAG CAPITOLO I. Descrizione di una fiera burrasca; scappavia staccato dal bastimento per provedere acqua dolce; l'autore vi s'imbarca onde scoprire nuovi paesi. — Abbandonato su la spiaggia, è preso da uno di quei nativi e condotto alla casa di un fittaiuolo. — Modo ond'è accolto; diversi casi occorsigli quivi. — Descrizione degli abitanti di quella contrada. Ad una vita impaziente affatto della quiete m'aveano condannato la natura ed il mio fatale destino; onde erano appena scorsi due mesi dopo il mio ritorno, quando abbandonai di nuovo la mia nativa contrada, e il 20 giugno del 1702 m'imbarcai alle Dune su l'Avventura, bastimento comandato dal capitano Giovanni Nicholas, nativo di Cornovaglia, che avea la sua destinazione per Surate. Navigammo con vento favorevole fino al Capo di Buona Speranza, ove sbarcammo per provederci d'acqua dolce. Quivi, scoperta una falla nel bastimento, mettemmo a terra tutte le cose nostre per turarla, e ci toccò poi svernare nel luogo stesso a motivo di una malattia sopravvenuta al capitano, motivo per cui non potemmo salpare dal Capo se non alla fine di marzo. Date di nuovo le vele, avemmo buon viaggio, fin passato lo stretto di Madagascar; ma appena fummo a tramontana di quest'isola, i venti (che secondo la generale osservazione spirano costantemente in que' mari tra settentrione e ponente dal principio di dicembre a quello di maggio) cominciati nel 19 d'aprile a soffiare più violenti e più occidentali del solito, continuarono così per venti giorni di fila; durante il qual tempo noi ci eravamo un po' fatti a levante delle isole Molucche, circa a tre gradi di latitudine australe, come apparve da un calcolo istituito dal nostro capitano il 2 maggio, nel qual giorno, cessato il vento del tutto, avevamo una calma perfetta, il che, per dir vero, non mi dava verun dispiacere. Ma il capitano, uomo esperimentatissimo nella navigazione di que' mari, non la pensava così, e ci avvertì anzi d'aspettarci una tremenda burrasca, che non mancò d'avverarsi il dì appresso, in cui cominciò a spiegarsi il vento meridionale, chiamato in que' paesi _monsone_. Vedendo che questo ingagliardiva ognora di più, demmo mano alla vela a tarchia, apparecchiandoci a serrare quella di trinchetto; poi, imperversando il tempo, assicurammo bene tutti i parapetti, e fasciammo la vela di mezzana. Il bastimento camminava dianzi a tutte vele spiegate, ma in quel frangente giudicammo che il navigare a vele chiuse ne sarebbe tornato più a conto del solo cappeggiare. Serrammo la vela di trinchetto, e ne registrammo opportunamente le scotte; il timone poggiava tutto sottovento. Il vascello animosamente virava; accorciammo le trozze (registro fatto a guisa d'un rosario) della vela principale, ma squarciatasi questa, la traemmo giù dall'albero, e liberatala da tutti i suoi sartiami, l'allogammo dentro al vascello. Fu veramente una spaventosa burrasca e i cavalloni si faceano sempre più grossi e minacciosi; mollammo pure tutti i sartiami delle manovelle del timone, lasciando soltanto ad esso il governo del bastimento. Non volemmo calar giù l'albero di gabbia, perchè correva innanzi al vento assai bene, e stando in piede ne proteggea meglio col darci più bella deriva. Poichè fu cessata la burrasca, demmo mano alla vela di trinchetto e a quella di gabbia, e governammo con esse, e a tutte vele di mezzana e di gabbia di maestra e di gabbia di mezzana ci dirigevamo a greco levante (est-nord-est), avendo il vento a libeccio (sud-west). Impadronitici dei cavi di tribordo, sciogliemmo i bracci di sopravvento e le corde dette _mantiglie_, e tiratele strettamente innanzi, le unimmo alla scotta della vela di mezzana che ponemmo a sopravvento pienamente e fin quanto potevamo distenderla. Durante la tempesta, cui succedè un gagliardo vento di ponente-libeccio (west-sud-west), fummo trasportati, secondo i miei calcoli, per cinquecento leghe circa verso levante, nè i più vecchi piloti che erano a bordo sapevano congetturare in qual parte di mondo fossimo allora. Le nostre vettovaglie ci duravano ancora; il bastimento era tuttavia gagliardo; gli sconci delle vele risarciti; la nostra ciurma tutta in buona salute, ma difettavamo grandemente di acqua dolce. Ciò non ostante pensammo meglio seguire la direzione su cui eravamo incamminati, anzichè volgerci più a tramontana, il che ne avrebbe condotti a maestro (nord-est) della Gran Tartaria e nel Mar Glaciale. Nel giorno 16 giugno del 1703, un mozzo salito su l'albero di gabbia scoperse terra, e nel dì successivo ci stava a piena vista una grande isola o un gran continente, cosa che non sapevamo discernerle, dal cui lato meridionale sporgeva una lingua di terra internata nel mare ed una calanca troppo piccola a nostro avviso, perchè un bastimento di cento tonnellate vi si potesse riparare. Gettata l'áncora entro la distanza di una lega da questa calanca, il nostro capitano mandò una dozzina de' suoi piloti ben armati entro il nostro scappavia carico di botti, per fare acqua, se pure si poteva rinvenirne. Lo pregai tosto permettermi l'andar con essi, onde vedere quella contrada e farvi le scoperte cui potesse dar luogo; egli aderì alla mia inchiesta. Giunti a terra, non vi trovammo nè sorgenti nè fiumi nè verun vestigio d'abitanti. I nostri uomini quindi si diedero a vagare lungo la spiaggia per veder pure se qualche foce di fiume potesse ivi trovarsi; io postomi a passeggiar solo per circa un miglio dall'altro lato, osservai che tutto il paese era ignudo e pieno di dirupi. Stanco di andare attorno senza trovar nulla che potesse intertenere la mia curiosità, me ne tornai passo passo verso la calanca; ed essendo ora di grosso fiotto, vidi i nostri uomini, già imbarcati nello scappavia, che forzavano di remi, come chi fugge per salvare la vita. Io andava gridando dietro a costoro che m'abbandonavano così, quando m'accôrsi d'avere poco motivo di dolermi di essi, perchè li vidi inseguiti a tutta possa per traverso al mare da un'enorme creatura che guadava, venendogli l'acqua a mala pena al ginocchio, e facea passi sterminati; i nostri, per buona loro fortuna, aveano su lui il vantaggio di mezza lega, ed il mare essendo in quell'acque pieno d'acuti scogli coperti, il mostro non potè raggiungere la scialuppa. Queste cose io seppi in appresso, perchè allora non ebbi il coraggio di rimanere ivi a veder l'esito di quest'avventura, ma ripresa più presto che potei la strada dond'era venuto, m'arrampicai ad un erto monte, di dove potei prendere qualche idea del paese. Lo trovai affatto coltivato; ma la prima cosa di cui rimasi estatico si fu la lunghezza dell'erba, che nei campi chiusi da siepi, come le giudicai, cresceva all'altezza di venti piedi. Capitai in una strada maestra, almeno io la presi per tale, se bene fosse meramente un sentieruccio praticato a comodo di quegli abitanti per traversare un campo d'orzo. Camminai qualche tempo lungo questo sentiero, ma potei scoprire ben poche cose e da un lato e dall'altro, perchè essendo la stagione del nuovo ricolto, le biade erano alte almeno quaranta piedi. Mi ci volle un'ora prima di essere al termine di questo campo, difeso da tutt'a due i lati da una siepe alta almeno cento venti piedi e ombreggiata da alberi sì colossali che non mi fu possibile calcolare la loro altezza. A questa estremità era un cancello che divideva quel campo dal campo vicino; avea quattro gradini ed una pietra donde si passava di là quando si era all'ultimo di esso. Per me era impossibile d'inerpicarmi fino a quella sommità, perchè ogni gradino era alto sei piedi, e la pietra al di sopra de' gradini almeno venti. Io m'andava studiando di trovar qualche buco nella siepe, quando da una fenditura scopersi nel campo di là avanzarsi alla volta del cancello un abitante della stessa mole di quello da cui vidi inseguita in mare la nostra scialuppa. Egli mi sembrò alto come un ordinario campanile, ed ogni suo passo doveva, all'occhio mio, misurar dieci braccia. Non vi so dire quanto rimanessi attonito ed impaurito. Corsi a nascondermi fra le biade, donde il vidi, arrivato alla sommità del cancello, guardare in giù, e lo udii chiamare con una voce più fragorosa di gran lunga d'una tromba marina; basta dire che al rimbombo fatto da essa nell'aria lo credei su le prime uno scoppio di fulmine. Allora sette mostri simili a lui si fecero innanzi muniti di falci, ciascuna dell'ampiezza di sei scimitarre. Costoro non erano così bene vestiti siccome il primo, onde li giudicai subito suoi famigli o lavoranti; c'indovinai tanto che, poichè ebbe detto loro alcune parole, li vidi avviarsi per mietere il grano del campo ove io mi era nascosto. Ben io cercava d'andarmene lontano quanto mai potessi da costoro, ma era costretto movermi con estrema difficoltà, perchè gli steli del grano talvolta non distavano più d'un piede l'uno dall'altro, ed a fatica e non senza gualcirlo, io facea passare fra essi il mio corpo. Ciò non ostante m'ingegnai tanto che n'ero quasi fuori, quando m'abbattei in una parte di campo ove il grano giaceva sbattuto e conquassato dalle piogge e dal vento. Qui poi mi fu impossibile il dare un passo innanzi; gli steli erano talmente intralciati che io non poteva ficcarmici in mezzo, ed i filamenti delle spiche fiaccate erano sì duri ed aguzzi, che mi trapassavano i panni e le carni Nel tempo stesso io sentiva d'avere i mietitori non più lontani di cento braccia (dieci passi) da me. Disanimato affatto dall'angoscia e reso incapace di connettere qualunque idea dall'affanno e dalla disperazione, io me ne stava acquattato fra due porche, e in vero m'augurava di tutto cuore che quello fosse l'ultimo de' miei giorni. Io gemeva su la sorte della desolata mia vedova e degli orfani miei figli, deplorava la mia follia e caparbietà nell'intraprendere un secondo viaggio a dispetto dei consigli di tutti i miei amici e parenti. In mezzo a questa terribile agitazione di mente, io non potea per altro starmi dal pensare a Lilliput, i cui abitanti mi aveano pel maggior prodigio che sia mai comparso nel mondo, e tale era da vero una creatura umana capace di trarsi dietro con una mano un intero imperiale navilio, e di operare tant'altre imprese che verranno mai sempre ricordate nei fasti di quell'impero, e che saranno difficilmente credute dalla posterità, ancorchè attestate da milioni di uomini. Io pensava qual mortificazione sarebbe stata per me l'apparire impercettibile fra gl'individui di quella nazione, come un solo Lilliputtiano sarebbe apparso ai nostr'occhi. Ma pur troppo io capiva ad un tempo che questa sarebbe stata la minore delle mie disgrazie; una ben più forte mi si affacciava nel riflettere a quella osservazione solita generalmente a farsi: che gli uomini sono tanto più selvaggi e crudeli, quanto è maggiore la loro mole. Che cosa poteva io aspettarmi se non d'essere mangiato in un boccone dal primo fra quegli sterminati barbari che m'avrebbe agguantato? Come hanno ragione i filosofi allorchè dicono nulla esservi di grande o di piccolo se non in via di confronto! Potea la sorte aver fatto capitare un Lilliputtiano in una nazione d'uomini così minimi agli occhi loro, come lo erano essi rispetto a me; e chi sa se questa prodigiosa razza di mortali tra cui mi trovava ora non sia enormemente superata da un'altra nazione, da un'altra generazione di viventi che soggiornino in terre da noi non per anco scoperte? In mezzo adunque al mio atterrimento ed alla mia confusione, io non poteva starmi, come vi dissi, dal far queste considerazioni, quando uno di quei mietitori, avvicinatosi ad una distanza di dieci braccia dalla porca ove io m'appiattava, mi fece temere, s'egli moveva un passo, di essere o stritolato da uno de' suoi piedi, o fatto in due dalla sua falce. Allorchè pertanto lo vidi in procinto di moversi, io misi un grido tanto tremendo quanto poteva suggerirmelo la mia paura, e non appena lo ebbi messo, la terribile creatura allungò il passo, e mi fu d'appresso guardandosi lungo tempo attorno ai piedi, finchè finalmente mi vide tra le due porche, e si diede a pensare alcun poco con la circospezione di chi vuole impossessarsi di qualche piccolo animaluzzo malefico, e teme di esserne morsicato o graffiato. Ho provato anch'io questo sentimento quando nelle campagne dell'Inghilterra mi sono scontrato in una donnola. Finalmente s'arrischiò a pigliarmi per di dietro a mezza vita tra il suo pollice ed indice, poi mi avvicinò ad una distanza di tre braccia ai suoi occhi per considerar meglio le mie forme. Indovinai questa sua intenzione, e la mia buona fortuna mi diede tanta prontezza di spirito che risolvei di non fare veruna sorta di sforzo mentre mi tenea con le due dita sollevato in aria ad un'altezza di sessanta piedi da terra, ancorchè mi strignesse aspramente i fianchi per paura che gli guizzassi dalle mani. La sola cosa cui mi arrischiai si fu alzare i miei occhi al sole, giugner le mani in atto di supplicante e profferire alcune parole con accento umile, addolorato e conforme alla circostanza in cui mi trovavo, perchè io tremava da un istante all'altro non mi sbattesse contro terra, come pratichiamo noi con certi schifosi animali che ci prefiggiamo distruggere. Ma la mia buona stella volle che, mostratosi piuttosto allettato dalla mia voce e da' miei gesti, cominciasse a guardarmi come una rarità, stupito sicuramente all'udirmi profferire parole articolate, ancorchè egli non ne capisse una sola. Nello stesso tempo io non poteva trattenermi dal gemere, dal versar lagrime e dal voltar gli occhi verso i miei fianchi per fargli comprendere alla meglio come crudelmente me gli ammaccasse lo strettoio delle sue dita. Bisogna dire che m'intendesse, perchè alzatosi una parte superiore del vestito, gentilmente m'allogò tra questa ed il suo petto; poi corse immediatamente dal suo padrone, che era un facoltoso fittaiuolo, e quello stesso ch'io avea veduto prima degli altri sul campo. Il fittaiuolo, dopo avere ricevute dal suo contadino (lo supposi almeno dalle chiacchiere che fecero insieme) tali contezze di me quali costui potea dargliele, prese un fuscello di paglia dell'altezza e grossezza circa d'un de' nostri bastoni da viaggio, e con esso alzò le falde del mio giustacuore che parve egli credesse una specie d'integumento datomi dalla natura. Mi spartì in due lati, soffiandoci sopra, i capelli, per meglio contemplarmi in faccia. Chiamò indi attorno di sè i suoi famigli, ai quali chiese (questo lo seppi da poi) se avessero mai veduti per le campagne animaletti che mi somigliassero. Allora mi posò gentilmente per terra carpone, ma io saltai subito su' miei due piedi, passeggiai innanzi indietro, ma adagio, per far capire a quella gente che io non aveva l'intenzione di fuggire. Mi si assisero tutti all'intorno per considerare meglio ogni mio moto. Levatomi il cappello, feci una profonda riverenza al fittaiuolo, e postomi ginocchione e sollevando gli occhi e le mani, pronunziai alcune parole ad alta voce quanto potei, poi, toltami dal mio taschino una borsa d'oro, umilmente gliela presentai. Ricevutala sul palmo della sua mano, se l'avvicinò agli occhi per vedere che roba fosse; la voltò parecchie volte per tutti i versi con uno spillo che si trasse da una manica del vestito, ma ne capiva come prima. Additatogli per cenni che abbassasse la sua mano stesa finchè ci arrivassi, apersi io stesso la borsa, e glie ne versai sul palmo della mano il contenuto: otto pezze d'oro di Spagna da quattro doppie l'una, e venti o trenta monete più picciole. Gli vidi inumidire con la saliva una punta del suo dito piccolo e prender su con essa una di quelle pezze di Spagna, poi un'altra, ma pareva affatto all'oscuro di quel che fossero. Mi fe' cenno di tornare a riporre il danaro nella borsa e questa nella mia tasca; rinovai non so quante volte la mia offerta, ma finalmente trovai cosa più comoda il fare com'egli voleva. Fin da quel momento il fittaiuolo fu persuaso ch'io doveva essere una creatura ragionevole. Mi parlò spesse volte, ma il suono della sua voce mi squarciava le orecchie come lo strepito di una ruota da mulino, le sue parole per altro erano articolate abbastanza. Feci ogni possibile per rispondergli forte in diverse lingue, ed egli accostava l'orecchio fino ad averlo distante sol due braccia da me; ma tutto invano: eravamo due creature inintelligibili l'una per l'altra. Allora, mandati i servi ai loro lavori, si trasse di tasca il fazzoletto, e se lo pose raddoppiato sul palmo della mano sinistra, di cui stese la convessità sul terreno, ordinandomi che ci montassi sopra, ed io lo poteva facilmente, perchè la mano e il fazzoletto raddoppiato non facevano un'altezza maggiore d'un piede. Stimai mio obbligo l'obbedirgli, e per paura di cadere, mi tenni nel mezzo del fazzoletto, entro le cui falde mi fasciò sino al disopra della testa, per meglio assicurarsi di me, indi mi portò a casa sua. Qui, chiamata sua moglie, fecele veder questa rarità. Essa strillò e diede addietro come farebbe una delle nostre signore alla vista d'un rospo o d'un ragno. Ciò non ostante, poichè per un poco ebbe veduto come io mi comportava, e come bene io obbediva ai segni che mi facea suo marito, si riconciliò meco, e mi divenne a gradi a gradi affezionatissima. Era all'incirca mezzogiorno, quando un famiglio portò il desinare. Consistea questo unicamente in un piatto di sostanziosa vivanda: quel genere di mangiar casalingo che si conveniva alla condizione di un fittaiuolo; il piatto aveva un diametro di circa ventiquattro piedi; i commensali erano il fittaiuolo e sua moglie, tre fanciulli e la vecchia avola. Poichè furono tutti seduti, il fittaiuolo mi pose in qualche distanza da lui su la tavola, che era alta trenta piedi dal pavimento. Vi lascio dire che razza di paura io avessi di cadere, e come mi tenessi lontano dall'orlo di quella tavola. La signora, dopo avere preparato un tondo con un poco di vivanda e non so quante briciole di pane, me lo porse dinanzi. Le feci un'umile riverenza, poi, tratti a mano il mio coltello e la mia forchetta, mi posi a mangiare, la qual vista li divertì non vi so dir quanto. La padrona diede ordine alla fantesca che le portasse un bicchierino (era della capacità di otto boccali), ed empiutolo di propria mano, me lo presentò. Con grande difficoltà, e adoprando tutt'a due le mani, levai il bicchierino, e rispettosissimamente bevei alla salute della signora, gridando forte quanto potei delle parole inglesi, la qual cosa fece ridere sì di cuore la brigata de' commensali, che mancò poco non mi rendessero sordo del tutto collo strepito dei loro sghignazzamenti. Quella bevanda somigliava alcun poco al sidro leggiero, nè era spiacevole. Il padrone indi mi fe' cenno d'avvicinarmi al suo tondo, ma nella confusione che mi prese in tutto quel tempo (e il leggitore se lo immaginerà facilmente, e vorrà perdonarmela), intoppai in una crosta di pane e cascai lungo disteso con la faccia sopra la tavola; non mi feci per altro alcun male. Saltato subito in piedi, e accortomi che quella buona gente era in pena per la mia caduta, presi il mio cappello, che, come vuole la buona creanza, io mi tenea sotto il braccio, lo agitai al di sopra della mia testa, e feci tre viva per dare a comprendere che la mia caduta non mi era stata fatale. Ma mi sopravvenne un'altra disgrazia nell'accostarmi al mio padrone, chè d'ora in poi chiamerò con tal nome quel fittaiuolo. Il più giovine di quei tre figli, seduto a canto a suo padre, un diavoletto d'un ragazzo di dieci anni appena, mi prese per le gambe e mi alzò sì alto che tremavo come una foglia in ogni mia fibra. Ma suo padre me gli strappò di mano, e gli menò tal pugno su l'orecchio sinistro, che avrebbe atterrata una mezza compagnia di dragoni europei; ordinò indi che fosse levato da tavola. Io temetti tosto che quel ragazzo me la giurasse, e ben mi ricordai come tutti i nostri fanciulli europei abbiano per natura il mal vezzo di martoriare i passeri, i conigli, i cagnolini e i gattini; laonde inginocchiatomi ed accennando il delinquente fanciullo, feci capire quanto meglio potei al padre il mio desiderio che perdonasse a suo figlio. Infatti il padre mi compiacque, ed il ragazzo tornò al suo posto; io poi andai tosto a trovarlo, e gli baciai la mano che il mio padrone gli prese, ordinandogli di accarezzarmi gentilmente con essa. A mezzo del desinare, il gatto favorito della mia padrona le saltò in grembo, sicchè udii dietro me uno strepito qual lo farebbe una dozzina di telai della bottega d'un calzettaio che si movessero tutti in una volta, e girato il capo, m'accorsi dallo sbalzo precipitoso di quell'animale grosso tre volte quanto un bue, se non m'ingannò il conto di proporzione da me istituito nel guardarne la testa ed una delle zampe, intantochè la padrona gli dava da mangiare e lo accarezzava. La fisonomia feroce di quella bestia mi avea sconcertato affatto, benchè me ne stessi all'orlo della tavola, alta, come vi ho detto, trenta piedi da terra, e benchè la mia padrona lo tenesse fermo per paura che spiccasse un salto, e m'afferrasse coll'unghie. Ma il caso portò che fossero inutili tutte le paure, perchè il gatto non s'accôrse per nulla di me, nemmen quando il padrone mi pose a tre braccia di distanza da esso; laonde, avendo sempre udito dire, e trovato anche vero, che il fuggire o il dar a conoscere timore alla presenza di una fiera è il modo sicuro di farsi assaltare o inseguire da essa, in tal pericolosa circostanza presi la determinazione di non mostrar di pigliarmene la menoma briga. Camminai intrepidamente, e per cinque o sei volte, verso la testa stessa del gatto al segno di non esserne lontano un mezzo braccio, e la bestia si fece addietro, quasi avesse avuto più paura essa che non ne aveva io. Minore apprensione poi mi diedero i cani, tre o quattro dei quali erano nella stanza stessa, come si usa nelle case de' fittaiuoli, fra i medesimi era un mastino della grossezza di quattro elefanti, ed un levriere un pochino più alto del mastino, ma non tanto grosso. Il desinare era quasi al suo termine, quando comparve la balia portandosi in braccio un bambino d'un anno, il quale appena mi vide, cominciò a mettere strillamenti che gli avreste uditi dal ponte di Londra all'ospitale degl'Invalidi, perchè con la solita insistenza de' fanciulli voleva impadronirsi del bestiolino che aveva veduto, e il bestiolino era io. La moglie del fittaiuolo, per un tratto di materna condiscendenza, mi prese su e mi pose dinanzi al fanciullo, la cui prima operazione fu afferrarmi a mezza vita e mettermi in bocca. Le mie urla furono sì spietate, che il ragazzo avendone avuto paura, mi lasciò cascare, e mi rompevo l'osso del collo sicuramente, se la madre non era presta nel farsi sotto a raccogliermi entro il suo grembiale. La balia per quietare il bambino fece uso d'uno di quei giocherelli da ragazzi che chiamiamo tamburini. Era questo una botte carica di sassi che avea per manubrio una pertica raccomandata con una gomona alla cintura di quel bambinello. Ma ci voleva altro a farlo tacere; onde la balia fu obbligata ricorrere all'ultimo degli espedienti, che si usano in simili casi, quello di dargli la tetta. Confesso non aver mai veduto al mondo alcun oggetto più ributtante di quelle mostruose zinne, per cui non trovo termini di confronto adeguato ad offrire alla curiosità del leggitore un'idea della loro forma e del loro colore. Lo sporto d'ognuna era di sei piedi, nè meno di sedici poteva esserne la circonferenza. Il capezzolo era grosso la metà almeno della mia testa, e il color d'entrambi e delle poppe era sì sgraziatamente screziato di macchie, pustole e lentiggini, che la cosa più nauseosa non poteva immaginarsi sopra la terra; e v'assicuro che ho avuta tutta l'opportunità di guardarle, perchè per allattare meglio il fanciullo, si era seduta verso la tavola ove io stava in piedi. Ciò m'indusse a fare una considerazione su le carnagioni delle nostre gentildonne, che ne sembrano tanto belle sol perchè le proporzioni loro sono ancora le nostre, nè i loro difetti possono esser veduti se non per traverso ad una lente che ingrandisca di molto gli oggetti; l'esperienza ha provato che guardate con una di queste lenti, le più dilicate e candide carnagioni ne appariscono ruvide, screpolate e d'ingrato colore. Mi ricordo che, quando io era a Lilliput, le carnagioni di quella popolazione di burattini viventi mi sembravano le più belle di quante ve ne fossero al mondo; e che un giorno espressi tal mio sentimento ad un personaggio liliputtiano fornito di grande intelligenza e mio intimo amico. Egli mi disse a tale proposito che la mia faccia eragli sembrata assai più dilicata e gentile finchè mi guardò da stare interra, ma che quando, essendomelo preso in mano, gli fu dato osservarmi più da vicino, la mia figura (mi chiese scusa nel confessarmelo) parvegli qualche cosa di strambo assai; trovava le impronte fatte dalla mia barba dieci volte più moleste di quelle delle setole d'un cignale, e le mie carni una tavolozza di quanti brutti colori si potevano immaginare; e sì, mi sia permesso senza taccia di vanità l'affermarlo, le mie fattezze possono andar del pari con quelle di qualunque mio concittadino che passi per bello e, ad onta de' tanti miei viaggi, la mia cute non è stata gran che abbronzata dal sole. Per altra parte, il medesimo personaggio venendomi a parlare delle dame della sua corte imperiale, solea dirmi che la tale era piena di verruche, la tal altra aveva una bocca che non finiva più, un'altra il naso grosso in guisa deforme, tutti difetti de' quali io non mi era accorto menomamente. Ognuna di tali considerazioni, per dir vero, è ovvia anzichè no; ma non ho potuto esimermi dal farle in questo luogo, perchè non vorrei che il mio leggitore prendesse per creature assolutamente deformi quelle di cui sto ora parlandogli. Al contrario, devo render loro questa giustizia: guardandole dal punto donde vogliono esser guardate, formano una tra le avvenentissime schiatte umane; particolarmente le fattezze del mio ospite, benchè non fosse niente più d'un uom di contado, contemplate dal sotto in su d'un'altezza di sessanta piedi, apparivano ottimamente proporzionate. Terminato il desinare, il mio padrone uscì di stanza per andare a trovare i suoi lavoranti; e, da quanto mi fecero congetturare le inflessioni della sua voce ed i suoi gesti, mi raccomandò premurosamente a sua moglie partendo. Io era da vero molto stanco e disposto a dormire, del che accortasi la mia padrona, mi portò nel suo letto medesimo ove mi coperse col suo fazzoletto bianco, non men largo o men ruvido della vela dell'albero maestro di un vascello da guerra. Dormii circa due ore sognando di trovarmi ancora a casa mia fra gli amplessi di mia moglie e de' miei figliuoli, circostanza che non aggravò di poco i miei cordogli, allorchè nello svegliarmi mi vidi solo in una stanza ampia fra i dugento ed i trecento piedi ed alta circa dugento, giacente in un letto della larghezza di venti braccia. La mia padrona nell'andarsene per attendere ai suoi affari di casa mi aveva inchiavato in quella camera. Il letto era alto otto braccia dal pavimento, ed alcune naturali necessità mi faceano sentire il bisogno di scenderne; io non ardivo chiamare, e quand'anche avessi avuto questo coraggio, sarebbe stato inutile con una voce siccome la mia e ad una distanza sì grande quanta ve n'era dalla camera da letto assegnatami alla cucina ove rimaneva il restante della famiglia. Mentre io mi stava fra queste angustie, sbucarono fuori dalle cortine due sorci che andavano fiutando innanzi e addietro per il letto. Un di questi m'era venuto quasi su la faccia, onde saltai su tutto spaventato, e diedi mano al mio coltello per difendermi. Questi orribili animali ebbero l'insolenza di assalirmi ai fianchi, e un d'essi m'avea già piantata una zampa sul collo; ma per buona sorte arrivai a squarciargli il ventre con la mia arma prima che avesse il tempo di farmi alcun male. Mi cadde ai piedi, e l'altro atterrito dal destino del suo camerata, se la battè, non per altro senza avere riportata su la schiena una ferita che gli vibrai mentre fuggiva, onde se ne andò malconcio e stillando sangue. Compiuta questa impresa, mi diedi a camminare su e giù lungo il letto per riavermi dal mio smarrimento. Ciascuno di que' due animali era della misura circa d'un nostro mastino, ma più agile e feroce, di modo che se mi fossi levata la mia cintura prima di mettermi a dormire, io rimaneva indubitatamente sbranato e divorato. Misurai la coda del sorcio ucciso, e vidi che era lunga due braccia meno un dito. Io non ebbi cuore d'insudiciare il letto di più col trascinarvi sopra per buttarnela giù quella sanguinente carogna. Accortomi che non era per anche morta del tutto, le diedi una buona tagliata di collo e la spedii. Pochi momenti appresso, giunse nella stanza la mia padrona che vedendomi tutto immerso nel sangue, accorse e mi prese caritatevolmente in mano. Le additai il sorcio morto sorridendo e facendo altri segni per darle a capire ch'io non avea sofferto alcun male; del che mostratasi grandemente gioiosa, chiamò la fantesca ordinandole di pigliar su con un paio di molle il sorcio morto e gettarlo fuori della finestra. Poi mi pose sopra un tavolino ove le feci vedere il mio insanguinato coltello, poi rasciugatolo ad una falda del mio giustacuore, lo riposi entro il fodero. Ma intanto io mi sentiva sempre più pressato a fare tal cosa che niun altro poteva fare per me; onde m'ingegnai e m'aiutai tanto a furia di cenni che la mia padrona comprese la necessità nella quale io era di essere messo giù dal tavolino. Ottenuto questo intento, la mia verecondia non mi permettea spiegarmi con maggior chiarezza dell'additare alla stessa padrona l'uscio e del farle molti supplichevoli inchini. Molta fatica ci volle, ma finalmente la buona donna mi capì, e presomi in mano mi portò nell'orto, ove mi pose giù. Quivi dopo averle indicato di non guardarmi o seguirmi, mi ritirai in aiuola ad una distanza di duecento braccia, ove, nascostomi fra due foglie d'insalata, terminai la faccenda che da tanto tempo mi dava sì gravi pensieri. Spero che il gentile lettore vorrà perdonarmi se m'intertengo talvolta in questi e simili particolari che, comunque agli abbietti volgari ingegni possano apparire insulsi, sono d'un grande sussidio al filosofo per ampliare la sua immaginazione e le sue idee, e per applicarli agli utili della vita pubblica e privata. Non altro fu il mio disegno nel presentare al mondo questi ed altri ragguagli delle mie peregrinazioni, ne' quali mi son preso cura soprattutto della verità, rigettando per amore di essa ogni ostentato liscio o di dottrina o di stile. Ciascuna scena di questo viaggio medesimo, egli è vero, ha prodotto una sì forte impressione nella mia mente, mi è rimasta sì profondamente fitta nella memoria, che nel commetterla alla carta non ho saputo tralasciarne una sola delle più triviali circostanze; ma dietro ad una rigorosa rivista data al mio scritto, ho cancellati molti tratti di minor momento che si trovavano nel primo testo; tanta è stata in me la sollecitudine di evitare la taccia d'uomo tedioso o troppo minuto, taccia che viene apposta, nè forse ingiustamente, alla maggior parte de' viaggiatori. CAPITOLO II. Ritratto di una fanciulla figlia del fittaiuolo. — L'autore è trasportato in un borgo, indi alla metropoli. — Particolarità connesse con questo traslocamento. Madama la fittaiuola aveva una figliuolina di nove anni, giovinetta d'indole geniale, abile per gli anni suoi nel cucire; questa impiegava tal sua abilità nel vestire la sua fantoccina ch'era della mia altezza. A questa fantoccina avea fatto il suo letticciuolo; onde la madre della fanciulla ordinò di adattarlo per me, affinchè mi vi coricassi nella prossima notte. Questo lettino stava entro il cassetto d'un di que' piccioli ripostigli che si tengono appoggiati alla parete su i tavolini de' gabinetti. Divenuto fusto di letto, quel cassetto fu sospeso in aria come i materassi de' marinai, e ciò per paura de' sorci. Finchè rimasi con quelle creature, fu quello il mio letto, ma ridotto a gradi a gradi a foggia più comoda per me nella proporzione con cui andai imparando il loro linguaggio, e potei far meglio capire i miei desiderii o bisogni. Quella fanciulla era sì operosa ed obbligante che, vedutomi una volta o due mettermi i miei panni o svestirli, fu tosto abile ad assumersi un tale incarico con le sue mani, benchè io non le dessi un simil disturbo se non quelle volte in cui assolutamente ella non mi permetteva di fare o l'una o l'altra di tali cose da me. Mi fece sette camicie ed altri capi di biancheria con quei drappi più fini che si poteano trovar lì, e che per la giusta verità erano alquanto più ordinari della nostra tela da sacchi. Ella era parimente la mia maestra di lingua, perchè, ad ogni oggetto che m'occorreva accennare, mi diceva la parola corrispondente ad esso nella sua lingua, onde fra pochi giorni fui in istato di esprimere quante cose mi veniva in mente di chiedere, nè rischiava annoiarla, perchè ella era d'un ottimo naturale come v'ho detto. Piccola di statura per gli anni che aveva, la sua altezza non passava i quaranta piedi. Ella mi chiamava _Grildrig_, e a darmi questo nome si acconciò in appresso la sua famiglia, poi quell'intero reame. Un tal nome corrisponde al latino _homunculus_, all'italiano _omettino_ ed all'inglese _mannikin_. A lei soprattutto dovetti in appresso la mia salvezza in questa contrada. Finchè rimasi nella casa de' suoi genitori non ci partimmo mai l'uno dall'altro. Io la chiamava la mia _Glumdalclitch_, che equivaleva al nome di piccola balia. Sarei bene il più ingrato di tutti gli uomini se omettessi di fare onorevole menzione delle cure e dell'affezione ch'ella mai sempre mi dimostrò, e ben mi sono augurato con tutto il cuore che fosse dipenduto da me il compensarnela secondo i suoi meriti, in vece di divenire (come pur troppo ho motivo di temere d'esserle stato) la sfortunata benchè innocente origine delle sue sventure. Non tardò a sapersi e a divulgarsi pel vicinato come il mio padrone avesse trovato ne' suoi campi uno stravagante animale, grosso circa come uno _splack-nock_, (animale del paese di leggiadra conformazione e lungo circa sei piedi), ma costrutto esattamente in ogni sua parte come una creatura umana, e che parimente imitava tutte le azioni dell'uomo; che parea parlasse in una specie di lingua sua propria, e che avea già imparate alcune parole di quella de' suoi ospiti; che andava diritto sopra due gambe, animale mansueto e gentile, il quale veniva a chi lo chiamava, e facea quanto gli si diceva di fare; fornito di membra le meglio proporzionate che si vedessero su la terra e di una carnagione più dilicata di quella d'una nobile bambina appena giunta ai tre anni. Un altro fittaiuolo che abitava in poca distanza di lì, e grande amico del mio padrone, venne a visitarlo col secondo fine di scoprire se fosse verità o favola la storiella che erasi sparsa attorno. Fui tosto portato dinanzi a lui e posto sopra una tavola su la quale passeggiai a norma de' comandi che mi si diedero, sguainai il mio coltello, lo rimisi nel fodero, feci la mia bella riverenza al visitatore, gli dissi nella sua medesima lingua che era il ben arrivato a seconda degl'insegnamenti ricevuti dalla mia piccola balia. Quest'uomo, che era vecchio e di corta vista, si mise gli occhiali per contemplarmi meglio; e qui non potei starmi dal ridere di gusto, perchè que' suoi due occhiacci dietro alle due lenti mi raffiguravano la luna piena veduta da una stanza che abbia due finestre. Quei di casa, accortisi del motivo del mio ridere, mi fecero compagnia dandosi a sghignazzare ancor essi; il nostro vecchiaccio fu di sì poco giudizio che se n'ebbe a male. Costui passava in concetto di sordidissimo uomo, e per mia disgrazia provò di meritarselo col maladetto suggerimento che diede al mio padrone: di portarmi cioè in un giorno di mercato, a far vedere nel vicino borgo ove si arrivava in mezz'ora a cavallo, perchè non era più lontano di ventidue miglia dalla nostra casa. Io m'insospettii che qualche tristo disegno covasse sott'acqua appena notai che il mio padrone ed il suo amico si posero a susurrare all'orecchio l'uno dell'altro accennandomi più d'una volta; anzi, fosse mia paura o realtà, credei aver sentite o intese alcune delle loro parole che si riferivano a me. In fatti nella successiva mattina la Glumdalclitch, quella mia buona balietta, mi disse tutte le cose com'erano, e mi raccontò parimente con quai scaltri modi ella ne avesse fatta scaturire la rivelazione dal labbro di sua madre. La povera giovinetta mi pose nel suo seno, e diede in un torrente di lagrime da cui trapelava il suo cordoglio, benchè si capisse che aveva vergogna di spargerle. Ella temea non m'accadesse qualche disgrazia in mezzo al rozzo gentame tra cui sarei stato portato: la disgrazia per esempio d'essere schiacciato a morte o certo gravemente malconcio nelle membra per la mala grazia di prendermi in mano. Aveva in oltre notato quanto io fossi di natura mia tenero della decenza e dilicato in punto d'onore, onde quella povera ragazza pensava all'ira di cui sarei stato compreso al vedermi mostrato per danaro in pubblico spettacolo ad ogni cialtrone che avesse avuta la curiosità di vedermi. Aggiunse esserle stato, prima di questa fatal circostanza, promesso dal papà e dalla mammina che Grildrig sarebbe suo, ma che adesso temea non le facessero la brutta burla di un anno scorso al proposito d'un agnello. Anche quell'agnello doveva esser suo, stando alle promesse dei genitori, ma appena fu venuto grasso i genitori lo vendettero ad un macellaio. Quanto a me, confesso ingenuamente che questo affare mi dava minor fastidio di quanto ne dava alla mia buona balietta. Io aveva una ferma speranza che non mi ha abbandonato giammai: quella di riacquistare la mia libertà; e quanto al disdoro, pensava fra me ch'io era affatto straniero in quella terra, e che una sfortuna di tal natura non mi sarebbe mai stata apposta a taccia s'io tornava un giorno a por piede nell'Inghilterra. «In fine, io diceva fra me, lo stesso monarca della Gran Brettagna, se si fosse trovato ne' miei panni, sarebbe stato soggetto ad un'eguale disgrazia». Il mio padrone pertanto, a seconda de' suggerimenti datigli dal suo amico, non più tardi del prossimo giorno di mercato, mi portò entro una scatola al borgo vicino conducendosi seco la mia piccola balia, per la quale dietro alla propria fece assettare una sella da donna sul suo cavallo. La scatola era chiusa da tutti i lati, tranne un piccolo usciuolo, affinchè io potessi entrarvi ed uscirne, ed alcuni spiragli praticati su la parte superiore per tenerla ventilata. La giovinetta, incessante nelle sue premure per me, vi mise nel fondo il materassino da letto della sua fantoccia, onde io potessi coricarmivi sopra. Nondimeno fui terribilmente sconquassato e scombussolato in questo viaggio, ancorchè non durasse più di mezz'ora, perchè ogni passo del cavallo essendo largo quaranta piedi e gagliardissimo il suo trotto, l'agitazione che la mia scatola ne ricevea non era diversa dalle alzate e ricadute di una nave in tempo di fiera burrasca, con la differenza che nel caso mio erano più frequenti. Il nostro cammino fu alquanto più lungo che nol sarebbe nel trasferirsi da Londra a Sant'Albano. Il mio padrone smontò ad un'osteria ov'era solito capitare, e dopo essersi consultato alcuni istanti coll'oste e fatti alcuni necessari apparecchi, prese a sua disposizione un _grultrud_ o pubblico banditore, affinchè divulgasse pel borgo la strepitosa notizia dello straordinario vivente che si faceva vedere alla _Grande Aquila_, non più grosso di uno _splack-nock_, che non eccedea sei piedi in lunghezza e somigliante in ogni parte del suo corpo ad una creatura umana, che sapea profferire molte parole ed eseguire un centinaio di piacevoli giuochi. In una delle più grandi camere dell'osteria fui posto sopra una tavola d'un'estensione a un dipresso di trecento piedi quadrati. La mia balietta seduta sopra un basso sgabello, che posto in vicinanza della tavola, le dava abilità di mettersi al mio livello, si prendea cura di me, e facea le parti di mia direttrice per le cose che io doveva eseguire. Il mio padrone, per impedire ogni soverchio affollamento, non permettea che più di trenta persone mi vedessero in una volta. Io camminava a diritta, a sinistra su la tavola, a norma de' comandi che davami la fanciulla; essa pure mi faceva interrogazioni sin dove sapea che la mia conoscenza della lingua del paese arrivava; io le rispondeva alzando la voce tutto quel che io poteva; mi voltai per più riprese alla mia udienza facendole rispettosi inchini, dicendo ai signori de' quali era composta che erano i ben venuti, ed infilzando un dopo l'altro i discorsi che m'erano stati insegnati. Io prendeva in mano un ditale pieno di liquore, era questo il bicchiere di cui m'avea proveduto la Glumdalclitch e beveva alla loro salute; poi sguainato il mio coltello, mi metteva in parata, e facea vedere con esso tutte le posizioni dei nostri schermidori dell'Inghilterra. Somministratomi dalla mia piccola balia un pezzetto di paglia, fu questa la picca con cui feci tutti gli esercizi di giostra che, molto prima di capitare in quella terra di Titani, io aveva imparati nella mia patria. Fui mostrato in quel giorno a dodici successive brigate e costretto altrettante volte a ripetere le medesime ciarlatanerie tanto che finalmente ero mezzo morto di stanchezza e di noia, perchè i primi a vedermi, nell'uscire di là, contavano tante meraviglie di me, soprattutto su l'enorme sproporzione tra la mia statura e la loro, che sempre invogliavano successivi spettatori, onde la folla de' curiosi era cresciuta al punto che minacciavano sfondare la porta. Il mio padrone per un riguardo di proprio interesse non lasciava che alcun altro mi toccasse fuor della mia piccola balia; anzi, per impedirne il caso, venne fatto come un cancello di panche attorno alla mia tavola a tal distanza che niuno potesse arrivarmi; nondimeno un impertinente scolaro mi tirò una nocciuola, mirando sì diritto alla mia testa che la mancò d'un pelo. Senza questo pelo di differenza l'aveva lanciata con tanto impeto che avrebbe fatta una fricassea delle mie cervella; si trattava d'una nocciuolina grossa quasi come una delle nostre zucche più colossali, ebbi per altro la soddisfazione di vedere quel bricconcello cacciato a furia di busse fuor della stanza. Il mio padrone annunziò al pubblico un secondo divertimento della stessa natura pel prossimo nuovo giorno di mercato; e nell'intervallo preparò per me un più conveniente modo di trasporto; ed avea bene i suoi grandi motivi di far ciò, perchè io era sì ridotto dal primo viaggio e dalla fatica sofferta nell'intertenere le brigate per otto ore tutte di fila, ch'io poteva appena reggermi su le mie gambe o dire una parola. Non erano passati i tre giorni che per lo meno mi ci sarebbero voluti per dispormi ad essere lesto a nuovi esercizi, quando tutti i signori che abitavano ad una distanza di cento miglia all'intorno, allettati dalla fama delle mie prodezze, vollero venire a vedermi nella casa stessa del mio padrone. Non saranno stati meno di trenta individui per volta, compresi i figli e le mogli loro, perchè quel paese è popolatissimo, e il mio padrone ogni qual volta mi mostrava in sua casa, domandava una somma corrispondente a quanto fruttavagli un'ostensione fatta in luogo pubblico, ancorchè si fosse trattato di farmi vedere ad una sola famiglia; laonde per qualche tempo, anche quando non venivo portato al borgo, io avea ben poca festa in tutti i giorni della settimana, eccetto il mercoledì che è la domenica di quella gente. Il mio padrone pensando ai maggiori utili che probabilmente avrebbe potuto ritrarre dalla mia persona, divisò portarmi in mostra per le più considerabili città del regno. Essendosi quindi proveduto di tutte le cose necessarie ad un lungo viaggio, si congedò dalla moglie, e ai 17 agosto del 1703, due mesi circa dopo il mio arrivo, ci mettemmo in cammino per la metropoli situata quasi nel centro dell'impero e circa tremila miglia lontana dal luogo donde si partiva. Il mio padrone si fece venire dietro la sella la Glumdalclitch; questa mi teneva in grembo entro una cassetta che si era allacciata alla cintura. La fanciulla l'aveva foderata da tutti i lati con que' drappi più soffici che potè procacciarsi e proveduta d'un buon matarassino al di sotto; aveva in somma riposte nel modo il più conveniente che seppe tutte le cose. Non erano in nostra compagnia altre persone fuor d'un garzone di casa che ci veniva dietro a cavallo col nostro bagaglio. Il mio padrone stimò bene giovarsi della congiuntura per farmi vedere nelle città che trovavamo lungo la strada, ed anche il deviarne di cinquanta e cento miglia per visitare que' villaggi e terre signorili ove sperava di avere un concorso profittevole di curiosi. Camminavamo pertanto a piccole giornate, senza fare più di cento quaranta o cento sessanta miglia per cadauna; anche perchè la Glumdalclitch, con la vista sempre di risparmiarmi, si dolea che l'andar al trotto la affaticava di troppo. Spesse volte, quand'io ne mostrava il desiderio, ella mi traeva fuori della mia cassetta per lasciarmi respirare l'aria aperta e farmi vedere i paesi, ma sempre per altro tenendomi per una faldina. Traversammo cinque o sei fiumi di gran lunga più larghi e profondi del Nilo e del Gange; pochi erano colà i rigagnoli che fossero di minor conseguenza del Tamigi al ponte di Londra. Rimanemmo in viaggio dieci settimane, durante le quali fui mostrato in diciotto grandi città, oltre ai molti villaggi e case di privati. CON LICENZA DI SUA ECCELLENZA IL GRANDE SLARDRAL GRANDE OSTENSIONE DELLO SPLACK-NOCK UMANO O L'UOMO-PULCE FENOMENO VIVENTE, DA PRESENTARSI A S. M. IL POTENTISSIMO IMPERATORE DI BROBDINGNAG ED ALLA SUA AUGUSTA FAMIGLIA Oggi XXVII giorno della Cometa seguirà la prima rappresentazione DEGLI ESERCIZI STRAORDINARII DEL NANO DEI NANI I fanciulli più alti di trentacinque piedi pagheranno la sedia intera _All'Ufficio della distribuzione dei biglietti si troveranno dei microscopii._ Al 20 di ottobre finalmente arrivammo alla metropoli, chiamata nella lingua di quel regno _Lorbrulgrud_, o sia Vanto dell'Universo. Il mio padrone prese alloggio nella contrada principale della città, non lontana dal palazzo imperiale; mise fuori manifesti che davano nelle solite forme la descrizione della mia persona e delle mie abilità. Prese in affitto una grande stanza, larga fra i trecento e i quattrocento piedi quadrati. Si procacciò una tavola rotonda del diametro di sessanta piedi su cui io dovea sostener la mia parte, e tre piedi in qua dall'orlo, la riparò con una palizzata altrettanto alta per impedire ch'io cadessi. Io veniva esposto al pubblico le dieci volte al giorno a grande soddisfazione e stupore di quell'immensa popolazione. Allora io potea parlare sufficientemente bene la lingua del paese ed intendere tutte le parole che udiva pronunciare. In oltre, io aveva imparato quell'alfabeto, e m'ingegnava di spiegare qua e là alcune righe di un libro, perchè la Glumdalclitch era stata la mia maestra tanto a casa quanto nelle ore d'ozio del nostro viaggio. Ella si portava in tasca un libricciuolo che poco eccedeva di mole un Atlante del Sanson: uno di que' soliti trattateli ad uso de' fanciulli, ove soprattutto s'insegnavano i dogmi della religione del paese. Su questo librettino ella m'insegnò quel che si dice levare, poi compitar le parole e finalmente spiegarle. CAPITOLO III. L'autore è domandato alla corte. — La regina lo compra dal suo padrone, il fittaiuolo, e lo presenta al re. — Sue dispute co' primi sapienti addetti al servizio di sua maestà imperiale. — Viene fabbricato in corte un appartamento a posta per lui. — Salisce in gran favore presso la regina. — Se la prende per l'onore della sua patria. — Sue querele col nano della regina. Le continue fatiche alle quali io soggiaceva ogni giorno, produssero in poche settimane un cangiamento notabile nello stato di mia salute; più guadagni faceva per merito mio il mio padrone, più insaziabile diveniva, per lo che io avea già perduto affatto il mio appetito, ed era divenuto un vero scheletro. Il fittaiuolo fece attenzione a ciò, e concludendone che avrei tardato poco a morire, decise far di me quel men tristo mercato che gli sarebbe riuscito. Mentre egli stava ragionando così fra sè stesso, arrivò un sardral (un gentiluomo di camera) spedito dalla corte per ordinare allo stesso mio padrone che mi portasse al palazzo reale per dar divertimento alla regina ed alle sue dame. Alcune di queste mi aveano già veduto, e furono desse che per tutta la corte divulgavano miracoli su la mia bellezza, sul mio bel portamento e giudizio. La regina infatti ed i suoi cortigiani rimasero soddisfatti oltre ogni dire del mio contegno. Lasciatomi cader ginocchione chiesi supplichevolmente l'onore di baciare il regal piede; ma la graziosa sovrana, appena fui posto sopra una tavola, stese verso di me il suo dito mignolo che abbracciai con entrambe le mani avvicinandone rispettosissimamente la punta al mio labbro. Ella mi fece alcune generali interrogazioni su i miei viaggi ed il mio paese, alle quali risposi con quanta chiarezza e concisione potei. Mi domandò se mi piacerebbe vivere alla corte. Curvatomi fino all'orlo della tavola, risposi umilmente che io era schiavo del mio padrone; ma che se avessi avuto il libero arbitrio di disporre di me medesimo, sarei andato superbo di poter consacrare la mia vita al servigio di sua maestà. Ella si volse allora al mio padrone chiedendogli se avrebbe avuto difficoltà di vendermi a lei. Il fittaiuolo, che già non mi dava più d'un mese di vita, non cercava meglio, come potete credere, del disfarsi di me, e domandò mille pezze d'oro che fu ordinato gli venissero sborsate nell'atto. Ognuna di quelle pezze corrispondeva in grossezza ad ottocento portoghesi d'oro; pure, ove si abbia riguardo alle proporzioni di tutte le cose tra que' paesi e l'Europa, ed al titolo dell'oro che era altissimo in quella contrada, si troverà che la somma pagata al fittaiuolo veniva a star con fatica al ragguaglio di mille ghinee. Allora dissi alla regina, che fregiato d'indi in poi dell'onore di essere umilissimo servo e vassallo di sua maestà, io mi faceva coraggio a supplicarla umilmente di una grazia, ed era di volere ammettere al suo reale servizio, permettendole continuar meco nelle sue funzioni di aia e maestra, la Glumdalclitch che mi avea sempre assistito con tanta cura, affezione ed intelligenza. Sua maestà condiscese alla mia supplica, e facilmente ne riportò il consenso del fittaiuolo, cui non parea vero d'aver collocata la sua prediletta figlia alla corte, e quella stessa povera giovinetta celò a stento la consolazione che n'ebbe. Dopo ciò, il mio antico padrone si tolse di lì salutandomi e manifestando la sua compiacenza al lasciarmi ben collocato. Non gli risposi una parola e mi limitai a fargli una lieve inclinazione di capo. Tal freddezza del mio contegno non isfuggì alla regina, la quale aspettò che il fittaiuolo fosse fuori della stanza per domandarmene il motivo. Io mi presi la libertà di rispondere a sua maestà: non aver io altre obbligazioni verso il mio primo padrone fuor quella di non avere schiacciato il cranio ad una povera creatura inerme trovata a caso ne' suoi poderi; questa obbligazione per altro essere stata saldata con usura dal guadagno da lui fatto nel mostrarmi attorno per tutto il regno, oltre al prezzo che avea conseguito ultimamente vendendomi: aver io menata, finchè son rimasto con lui, una vita sì affaticata che avrebbe bastato ad ammazzare un animale dieci volte più gagliardo di me: essere stata grandemente danneggiata la mia salute dall'umiliante fatica di dare spasso ad ogni razza di ciurmaglia a tutte l'ore del giorno. Non mancai dì far notare a sua maestà che, se colui non avesse creduta la mia vita in pericolo, ella non m'avrebbe acquistato a sì buon mercato. «Ma ora, soggiunsi, che son fuori della paura di mali trattamenti sotto la protezione di una sì grande e buona sovrana, ornamento della natura, gioia del mondo, delizia de' suoi sudditi, fenice della creazione, spero che le sinistre previdenze concepite su la mia vita dal mio venditore appariranno prive di fondamento, perchè io sento a quest'ora rivivere i miei spiriti sotto l'influsso dell'augusta presenza di vostra maestà.» Fu questa la conclusione del mio discorso profferito nella totalità con molte improprietà di lingua ed esitazioni; l'ultimo brano, che era il meglio della mia aringa e tutto intessuto secondo il formolario di quella nazione, fu da me accozzato insieme dietro alcune frasi insegnatemi lungo la strada dalla Glumdalclitch quando mi portava alla corte. La regina nel dovere dar passata ad alcune sgramaticature della mia orazione, non potè nondimeno starsi dall'ammirare tanto ingegno e retto sentire in un sì piccolo animaletto. Presomi in mano, mi portò al re che stava allora ritirato nel suo gabinetto. Era questi un sovrano d'aspetto assai grave e severo. Senza prendersi molto fastidio di esaminare le mie forme, che nemmeno non si poteano molto distintamente discernere, perchè la regina mi teneva boccone nella sua mano, le domandò freddamente da quando in qua le fosse nata questa tenerezza per gli _splack-nock_, chè per uno di tali animali ei mi prese. La regina, che possedeva altrettanta dose d'ingegno quanta di buon umore, mi pose in piedi su la tavola ove stava scrivendo il marito, e mi comandò di dar conto della mia storia a sua maestà, il che feci assai laconicamente; ma la Glumdalclitch postasi all'uscio del gabinetto, siccome mal paziente d'avermi fuor di vista, venne ammessa, e continuò la narrazione di quanto mi era accaduto da che capitai nella casa del padre suo. Il re, se bene sia istrutto quant'altri possano esserlo nel suo reame, ed abbia ricevuta nella prima sua gioventù un'educazione che lo fa peritissimo nella filosofia, e soprattutto nelle matematiche, pure dall'esatto esame delle mie forme e dal vedermi camminare naturalmente su le mie due gambe, prima di avermi udito parlare, congetturò unicamente ch'io fossi una macchinetta a suste fabbricata da qualche artefice di genio trascendente, chè, per rendere giustizia alla verità, di tali artefici quella monarchia non difetta. Ma poichè ebbe udita la mia voce e si fu avveduto che le cose da me dette avevano una connessione logica fra loro, non seppe nascondere il suo stupore. Per altro non lo persuadea niente il modo ond'io raccontava d'essere venuto nel suo regno, e si diede piuttosto a credere che questa fosse una filastrocca concertata tra la Glumdalclitch e suo padre, di cui, come ad un pappagallo, mi avessero insegnato a ripetere le parole per meglio vendere la lor mercanzia. A fine di verificare tal sua congettura mi fece diverse altre interrogazioni; ma sempre ricevea risposte ragionevoli, alle quali non poteva apporsi altro difetto fuor dell'accento straniero, o d'alcune grossolane frasi ch'io aveva imparate nella casa del fittaiuolo, e che mal si confacevano col terso stile di una corte. Sua maestà mandò per tre de' suoi dotti che erano di servigio (secondo l'uso del paese) in quella settimana. Que' signori, dopo avere esaminate le mie forme per qualche tempo, furono di diversi pareri circa al modo di classificarmi. Tutti s'accordavano nel dire ch'io non poteva essere stato prodotto in conformità delle regolari leggi della natura, non essendo io fabbricato con una capacità di salvar la mia vita, sia con la mia snellezza, sia aggrappandomi agli alberi, o scavando buche sotterra. Dai miei denti che esaminarono scrupolosamente dedussero essere io un animale carnivoro; ma non potendo eglino pormi a confronto nè co' quadrupedi che s'inerpicano, nè co' topi la cui abilità sta nel rodere, nè con altri animali che s'aiutano con la loro agilità, non sapevano come io facessi a sostentarmi, quando mai non mi fossi pasciuto di lumache o d'altri insetti, il che provavano con dottissimi argomenti essere d'impossibile esecuzione per me.[21] Uno di questi saggi parve d'avviso ch'io fossi un embrione o un aborto. Ma tale opinione venne respinta dagli altri due che osservarono come le mie membra fossero perfette e compiutamente proporzionate, oltrechè, io vivea già da parecchi anni, cosa provata agli occhi loro dalla mia barba di cui scoprivano le radici con l'aiuto di microscopi. Non mi metteano nemmeno fra i nani per la sola ragione che la mia piccolezza era al di là di tutti i gradi di confronto, e perchè il nano favorito della regina, il più piccolo uomo che si fosse mai conosciuto in quel reame, era quasi alto trenta piedi. Dopo molte discussioni conclusero ad unanimità essere io unicamente un _relplum scalcath_ che corrispondeva in quella lingua all'espressione latina _lusus naturæ_; determinazione propriamente aggiustata alla filosofia europea del 1727, i cui professori, schifi dell'antico rifugio delle cause occulte, la cui mercè i seguaci d'Aristotele si sforzavano invano di palliare la loro ignoranza, hanno inventata quest'ammirabile soluzione di tutte le difficoltà a vantaggio ineffabile dei progressi dell'umano intelletto. Dopo una sì magistrale conclusione li pregai lasciarmi dire una o due parole. Poi voltomi principalmente al re, assicurai sua maestà che io veniva d'un paese ove abbondavano a milioni creature d'entrambi i sessi di statura uguale alla mia; ove gli animali, gli alberi e le case erano tutti in proporzione con que' milioni di creature, ed ove per conseguenza io era abile a difendermi ed a trovare di che sostentarmi quanto il potessero essere quivi i sudditi di sua maestà, con che mi pareva aver assai adeguatamente risposto agli argomenti di que' galantuomini. Ma i tre dotti con un ghigno di sprezzo mi dissero che il fittaiuolo mi aveva insegnato a dir bene la mia lezione. Il re per altro, dotato di molto migliore discernimento, licenziò i tre dottori, e mandò pel fittaiuolo che fortunatamente non era ancora partito dalla città. Primieramente sua maestà lo esaminò ella stessa in disparte, indi postolo a confronto con me e con la giovinetta, cominciò a credere che quanto entrambi le avevamo raccontato potesse essere vero. Il monarca pregò pertanto la regina ad ordinare che si avesse una cura speciale della mia persona, e fu d'avviso che la Glumdalclitch continuasse tuttavia nell'antico ufizio d'assistermi, poichè notò che avevamo una grande affezione l'uno per l'altro. Assegnatole un conveniente appartamento in corte, ella ebbe in oltre una specie di governante incaricata di prendersi pensiere della sua educazione, una cameriera per vestirla e due fantesche pei più triviali servigi. Quanto a me poi, la regina ordinò al suo architetto aulico di fabbricarmi una cassetta che mi servisse di camera da letto secondo il disegno che gliene darebbe la Glumdalclitch, e tale che fosse in oltre di mio aggradimento. Questo architetto, uomo fornito di grande ingegno, arrivò con la mia direzione a finire in tre settimane una camera di legno per mio uso, larga sedici piedi quadrati, alta dodici, con due finestre e le loro gelosie fatte a saracinesca, un uscio e due gabinetti, come le stanze da letto di Londra. Le piane che formavano il cielo della camera, erano disposte in modo da potersi aprire e chiudere onde far entrare dal disopra della stanza stessa il mio letto, che fu prontamente fornito dal tappezziere di sua maestà. Un artefice famoso per certi piccoli dilicati lavori si prese l'assunto di fabbricarmi due scranne con fusto e spalle di una sostanza non dissimile dall'avorio, due tavole ed un armadio per riporvi le cose mie. La stanza avea le pareti, il cielo, il pavimento riparati da una imbottitura per andar contro ad ogni incidente derivato da poca cura di chi la portava attorno quando io vi era dentro e per evitarmi scosse troppo violenti allorchè io veniva condotto entr'essa in carrozza. Domandai una serratura pel mio uscio, onde impedire che v'entrassero sorci o topi. Il fabbro ferraio, dopo molti esperimenti, arrivò a farne una che fu la più piccola di quante si fossero mai vedute dianzi fra loro; dico _fra loro_, perchè io mi ricordava d'averne veduta una di maggior mole alla porta di strada della casa d'un nobile inglese. M'ingegnai custodirne la chiave nelle mie scarselle per paura che la Glumdalclitch me la smarrisse. La regina avendo in oltre ordinato l'acquisto di panni possibilmente i più fini per farmi dei vestiti, si riuscì trovarne di quelli che non erano molto più fitti dei nostri panni da letto; cosa veramente un pochino incomoda finchè non mi ci fui assuefatto. La forma di que' vestiti, piuttosto grave, s'adattava alla moda del paese, che aveva un po' del persiano, un po' del chinese, e facevano una figura assai decente alla vista. La regina s'invaghì tanto della mia compagnia che non potea desinare senza di me. Io aveva un tavolino fattomi fare a posta che stava su la tavola ove sua maestà pranzava e che le veniva giusto al gomito: la mia scrannetta era proporzionata al tavolino. La Glumdalclitch avea sul pavimento della sala uno sgabello su cui stando in piedi, si trovava a livello del mio tavolino. Mi era stato espressamente assegnato un servigio di piatti e piattini d'argento, i quali, in proporzione di quelli della regina, poteano paragonarsi alle masserizie domestiche d'una fantoccia che si vedono a Londra nelle botteghe di fanciulleschi balocchi. Con la regina non pranzavano altri che le principessine reali, la maggiore di sedici anni e la minore di tredici ed un mese. Sua maestà soleva mettere sopra uno de' miei piattelli un morsello delle sue proprie pietanze, ch'io poi mi trinciava da me, e si divertiva a considerare quella mia mensa in miniatura, perchè quanto a lei (e notate che non era una donna di grande appetito) si mangiava in un boccone quanto sarebbe stato una pietanza sufficiente per la tavola di una dozzina di fittaiuoli dell'Inghilterra, la qual vista, se ho a dirvi la verità, mi mettea non poco fastidio. Essa masticava ossa e tutto d'un'ala di lodola grossa quanto un'intera grassa gallinaccia, ed i suoi bocconcini di pane equivalevano a due nostre pagnotte da dodici soldi l'una. Entro una tazza d'oro ella si bevea quasi una delle nostre ordinarie botti in una sorsata. Le sole lame de' suoi coltelli erano due volte della lunghezza di una scimitarra, i cucchiai, le forchette e gli altri attrezzi seguivano la medesima proporzione. Mi ricordo che una volta la Glumdalclitch mi portò a vedere altre tavole di corte imbandite, e questi enormi coltelli e forchette stavano in piedi a dozzine disposti in fasci piramidali come i moschetti de' soldati ne' nostri campi di guerra, nè credo aver mai veduto cosa di più formidabile aspetto. Tutti i mercoledì (che, come ho notato, teneano vece di domenica in quei paesi) era di stile che il re, la regina ed i loro figli d'entrambi i sessi facessero una tavola sola nell'appartamento del sovrano, al quale io era divenuto grandemente accetto. In tali occasioni la mia scrannetta e la mia tavolina venivano collocate a sinistra del re, rimpetto ad una saliera. Quel monarca si dilettava assai conversando meco ed interrogandomi su le usanze, la religione, le leggi, il governo, lo stato delle cognizioni in Europa, intorno a che lo informai il meglio che seppi. Il suo intendimento era sì chiaro e i suoi giudizi sì esatti che a quanto io gli andava raccontando intromettea sempre osservazioni le più sensate. Per parte mia, confesso che fui un poco prolisso nel parlargli del mio amato paese, del nostro commercio e delle nostre guerre terrestri e marittime, dei nostri scismi religiosi e delle nostre fazioni politiche. In quel momento i pregiudizi della sua educazione prevalsero tanto in lui che non potè starsi dal prendermi su con la sua mano destra, dal farmi una carezza, gentile se vogliamo, con la sinistra e dal chiedermi dando in una potentissima risata: _E voi siete wigh o tory?_ Indi, voltatosi al primo ministro, che stava di servigio dietro a lui con la sua bacchetta bianca (alta quanto fra noi l'albero maestro del nostro bastimento il _Reale Sovrano_), gli disse: «Guardate che cosa da poco è l'umana grandezza se viene posta in azione mimica da questi insetti (e l'insetto, di cui parlava il re, era io). Scommetto io che hanno anch'essi i loro titoli, le loro distinzioni d'onore; che si fabbricano anch'essi i loro piccoli alveari e tane, e che li chiamano città e case; che sfoggiano anch'essi in abiti e carrozze; che amano, che combattono, che disputano, che gabbano, che tradiscono». E continuava su questo registro, ch'io veniva di tutti i colori, sì forte era la mia indegnazione all'udire trattata con tanto sprezzo la nostra nobile contrada, la maestra dell'arti e dell'armi, il flagello della Francia[22], l'arbitra dell'Europa, la sede della virtù, della pietà, dell'onore e del vero, il vanto e l'invidia del mondo. Ma come io non mi trovava in tali circostanze da potermi risentire delle ingiurie, così dopo averci meditato sopra maturamente cominciai a dubitare se vi fosse il _casus belli_ sì o no. Perchè avendo io presa da più mesi l'abitudine di veder quella gente e di conversar seco, ed avendo osservato che tutti gli oggetti cui volgessi gli occhi erano d'una grandezza proporzionata con essa, la prima straordinaria impressione prodotta in me dal loro aspetto e dalla loro mole era tanto svanita che, se allora avessi veduta una brigata di lórdi e miledi dell'Inghilterra, vestiti ne' lor più fini abiti da gala od intenti a farsi inchini e complimenti a vicenda, a paoneggiarsi ed intertenersi in cortigianesco cicaleccio, mi sarebbe venuta una fortissima tentazione di ridermi di loro come il re ed i suoi grandi facevano meco. Nè da vero io poteva rattenermi dal ridere di me stesso tutte quelle volte che la regina, prendendomi su la sua mano destra, mi poneva davanti ad uno specchio, onde io vedeva in pieno prospetto dinanzi a me entrambe le nostre persone. V'assicuro che non si poteva immaginare cosa più ridicola di questo confronto; ne fui sì colpito che finalmente cominciai ad immaginarmi d'esser calato molti gradi al di sotto delle mie proporzioni reali. Non v'era cosa che mi desse tanto cruccio e mortificazione quanto il nano della regina. Essendo costui della più bassa statura che si fosse mai data in quel paese (vi ho già detto che non arrivava ai trenta piedi) al vedermi anche più basso di lui, divenne sì impertinente che sempre mi guardava in cagnesco e con fare di scherno quando mi passava vicino nell'anticamera della regina, e se mi trovava sopra un tavolino in atto di parlare con qualche gentiluomo o dama di corte, rare volte mi risparmiava una o due parole frizzanti su la mia picciolezza; nè io mi potea vendicare altrimenti che chiamandolo _fratello_ e sfidandolo ad un confronto di proporzione, e simili altre botte e risposte come si usa fra i paggi delle corti. Un giorno il malvagio orsachiotto fu sì punto da non so qual cosa gli avessi detta, che montato su la spalla della seggiola a bracciuoli di sua maestà, mi acchiappò per traverso, mentre io me ne stava seduto senza pensare a disgrazie, e levatomi in aria, mi lasciò cadere entro un gran bacino d'argento colmo raso di fior di latte, poi se la svignò più presto che potè. Ci caddi dentro che il latte mi veniva al di sopra delle orecchie, e se non fossi stato un abile nuotatore, l'avrei finita male, perchè si dava in quel momento che la Glumdalclitch si trovasse all'altro angolo della stanza, e la regina ebbe sì maladetta paura che non ebbe nemmeno tanta prontezza di spirito quanta ce ne volea per venirmi in aiuto. Ma la mia piccola balia accorse tosto, e mi cavò dalla vasca dopo aver io inghiottito qualche boccale di latte. Mi posero tosto in letto; pure non sofersi altro danno fuor della perdita de' vestiti ch'io aveva in dosso, e che rimasero affatto rovinati. Il nano venne frustato a dovere, e per giunta di pena, costretto a bersi tutto il latte contenuto nel bacino ove m'aveva immerso; nè d'allora in poi tornò mai più in grazia; perchè poco appresso la regina lo regalò ad una gran dama, nè lo vidi più; e ne ringrazio sempre Iddio; perchè non si può dire a quale estremità quel mostricciuolo avrebbe spinto il suo rancore contro di me. Già anche prima mi avea fatto un tiro da briccone che, per dir la verità, fece ridere la regina, ancorchè nel tempo stesso ne fosse travagliata e volesse scacciare quel mariuolo dal suo servigio, come faceva, s'io non avessi avuta la generosità d'intercedergli grazia. Sua maestà si era preso nel suo tondo un osso abbondante di midolla, e votatolo di questa, rimise l'osso diritto sul tondo come stava prima. Il nano colse il momento che la Glumdalclitch si era portata alla credenza, poi montato su lo sgabello ov'ella stava in piedi per prendersi cura di me durante il pranzo, mi pigliò su con tutt'a due le mani, e strignendomi insieme le gambe, le fece andar dentro nell'osso vuoto di midolla, il cui orlo m'arrivava alla cintura, onde rimasi conficcato lì per qualche tempo, che facevo la più ridicola figura del mondo. Credo che passasse ben un minuto prima che gli altri sapessero che cosa fosse divenuto di me, perchè io aveva vergogna a gridare. Fortunatamente i principi rare volte mangiano calde le loro vivande, onde non mi scottai le gambe; sol le mie calze e brache furono a mal partito. Il nano, a mia intercessione, non ebbe altro castigo che una buona staffilatura. La regina solea spesse volte deridermi siccome facile alla paura, e mi chiedea se tutti i miei concittadini erano codardi al pari di me. Vengo a dirvene il motivo; quel regno è infestato non vi so dir quanto dalle mosche durante la state. Questi odiosi insetti (e notate che ciascun d'essi era grosso come una lodola di Dunstable) non mi lasciavano quasi mai in pace col continuo ronzarmi e rombarmi alle orecchie quand'ero seduto a pranzo. Talvolta posandosi su le mie pietanze, vi deponeano gli schifosi loro escrementi e le loro uova, galanterie tutte a me visibilissime, benchè non lo fossero a que' nativi, i cui ampi nervi ottici non erano acuti come i miei nel discernere i minimi oggetti. Talora quelle maladette bestie mi si poneano sul naso o su la fronte, che pungeano nel vivo mandando un puzzo diabolico. Vi dirò ch'io potea benissimo distinguere quella sostanza viscosa che, al dire dei nostri naturalisti, dà a quegl'insetti l'abilità di camminare su la superficie delle soffitte co' piedi volti all'insù. Aveva un gran che fare io a difendermi da que' detestabili animali, e quando mi venivano su la faccia, non potea starmi dal far di que' salti e smorfie che eccitavano il riso della regina. Per questo, finchè il nano rimase in corte, costui solea pigliarsi lo spasso d'empire il suo pugno d'un buon numero di quegl'insetti, poi, come praticano gli scolari fra loro, venirmeli a scaricare sul naso per far paura a me e divertire la sua reale padrona. Io non aveva altro scampo fuor quella di fare a pezzi col mio coltello cotali arpie quando spiccavano il volo verso di me, ed in ciò veramente veniva ammirata la mia destrezza. Mi ricordo di una mattina quando la Glumdalclitch mi aveva messo entro la mia cassetta su d'una finestra, com'era solita fare nelle belle giornate per darmi aria (perchè notate bene che non ho mai voluto permetterle di raccomandare quella cassetta ad un chiodo fuori della finestra, come vediamo farsi con le gabbie nell'Inghilterra); una mattina dunque, dopo avere alzate le mie finestrine a saracinesca ed essermi seduto alla mia tavolina per far colezione con una pasta sfogliata, una ventina circa di vespe allettate dall'odore della roba dolce, volarono entro la mia stanza rombando più forte d'altrettante pive. Alcune di esse invasero la mia pasta sfogliata, e se la portarono via a pezzi e bocconi, altre mi volarono su la testa e la faccia stornendomi col loro strepito, e quel ch'è peggio mettendomi in grande paura de' loro pungoli. Pure ebbi il coraggio di saltare in piedi col mio coltello brandito e di assalirle in aria. Quattro ne feci morte, l'altre volarono via, e fui ben presto nel tornare ad abbassare la mia saracinesca. Non erano men grossi delle nostre pernici que' maladettissimi insetti. Tratti fuori dalle quattro vespe, ch'aveva uccise, i lor pungoli, li trovai lunghi un dito e mezzo, e acuti quanto gli aghi da cucire. Gli ho conservati con grande cura, e di ritorno in Europa, dopo averli fatti vedere qua e là unitamente con altre cose rare, ne donai tre al collegio di Gresham, e mi tenni il quarto per me. CAPITOLO IV. Descrizione del paese. — Proposta di ammenda alle moderne carte geografiche. — Palazzo del re, ragguagli su la metropoli. — Mezzi di trasporto adottati per le gite dell'autore. — Descrizione della chiesa cattedrale. Mi propongo ora offrire al leggitore una breve descrizione del paese, cioè della parte da me percorsane, che non è stata maggiore delle duemila miglia di circonvallazione della metropoli, perchè la regina, presso la quale io era sempre di servigio, non andava mai più lontano nell'accompagnare il re quando si partiva da Lorbrulgrud, nome della stessa metropoli, e si fermava ad una di quelle stazioni esterne, finchè sua maestà fosse tornata dalle sue visite alle frontiere. Tutta l'estensione del suo reame ammonta a circa seimila miglia in lunghezza e fra le tre e le cinquemila in larghezza; donde son costretto conchiudere che i nostri geografi dell'Europa sono in un grave abbaglio nel supporre non esservi null'altro che mare fra il Giappone e la California. Io già fui sempre d'avviso che vi si dovesse interporre un tratto di terra adatto a far equilibrio col gran continente della Tartaria. Opererebbero pertanto saviamente se correggessero le loro carte coll'aggiugnere questo immenso spazio di terra posta a maestro (nord-west) dell'America, nella quale impresa m'offro prestar loro di tutto buon grado la mia assistenza. Questo reame è una penisola terminata a greco da una catena di montagne alte trenta miglia, inaccessibili affatto a motivo dei molti vulcani che tengono le loro cime; non è per ciò meraviglia se i più dotti uomini del mondo non sanno dire quale schiatta di viventi abiti al di là di esse montagne, o vero se quel tratto di paese sia disabitato del tutto. Dai tre altri lati è circondato dall'oceano. Non v'è un sol porto di mare in tutto quel regno, perchè le parti di costa ove i fiumi mettono foce, sono sì irte di aguzzi scogli, il mare vi è generalmente sì procelloso, che non c'è da arrischiarsi ad andarvi nemmeno con picciolissime barchette; laonde que' popoli sono esclusi affatto da ogni commercio col rimanente del mondo. I fiumi interni ciò non ostante vanno coperti di bastimenti ed abbondano di eccellenti pesci; motivo per cui i nativi ben rare volte vanno in cerca di quelli che potesse balzare ne' loro fiumi l'oceano, giacchè i pesci di mare essendo anche colà della stessa grossezza di quelli degli altri mari europei, non francano a quella popolazione l'incomodo di pescarli. Da ciò è manifesto come la natura nel produr piante ed animali di sì sterminata mole siasi limitata a quel continente: ma racconto fatti, e lascio ai filosofi il determinarne le cagioni. Ciò non ostante a quando a quando vi capita qualche balena sbattuta dalla tempesta contra gli scogli aguzzi di quelle foci, ed è un pesce di cui la povera gente dei litorali si pasce assai volentieri. Fra queste balene ve n'hanno di sì grosse che un uomo ne reggeva a stento una sopra le spalle; talvolta, per curiosità, vengono portate in canestri sino al mercato di Lorbrulgrud, e mi sono abbattuto a vederne una che passava per una rarità apprestata in un piatto su la tavola reale. Non m'accorsi per altro che il re ne fosse ghiotto gran fatto; penso che la grossezza di quella bestia disgustasse fin lui, benchè io ne abbia veduta una un pochino più grande a Groenland nella Nuova-York. Il paese è ben popolato, perchè contiene cinquant'una città, un centinaio all'incirca di terre murate ed un grande numero di villaggi. Per appagare la curiosità de' miei leggitori credo basterà s'io do loro la descrizione della metropoli. La città di Lorbrulgrud è divisa quasi in due parti eguali separate dal fiume che la attraversa. Contiene più di ottantamila case ed all'incirca scicentomila abitanti. Lunga tre _glumglung_ (ciascun _glumglung_ corrisponde a cinquantaquattro miglia inglesi), ne ha due e mezzo di larghezza; gli ho misurati io su la pianta topografica eseguita per ordine di sua maestà sopra una carta larga un centinaio di piedi. Venne questa stesa per terra dinanzi a me, che per più riprese ed a piè scalzi ne passeggiai il diametro e la circonferenza ed, istituito un calcolo di proporzione su la scala della stessa pianta, venni in istato di guarentire il presente mio computo. Il regio palazzo non può dirsi un regolare edifizio, ma bensì un gruppo di fabbriche del circuito di sette miglia a un dipresso; le stanze principali sono generalmente alte duecento quaranta piedi e larghe in proporzione. Venne assegnata a me ed alla Glumdalclitch una carrozza entro cui la sua governante la conduceva a vedere i dintorni della città e le principali botteghe. Io era sempre di brigata, trasportato entro la mia cassetta, benchè sovente, ed ogni qual volta lo desiderassi, la buona fanciulla me ne traesse, fuori e mi tenesse nella sua mano, ben sollevata affinchè potessi vedere a tutto mio agio le case e la gente mentre attraversavamo le contrade. Secondo i miei calcoli, la nostra carrozza doveva essere larga come un cortile di Westminster, ma non del tutto alto come le sue fabbriche; non vorrei per altro giurare che questo conto fosse esattissimo. Un giorno la governante ordinò al cocchiere di fermarsi dinanzi a diverse botteghe, ove molti mendichi, côlta quella opportunità per contemplarmi da vicino, si affollavano attorno alla nostra carrozza, e mi offrivano il più orrendo spettacolo che occhio europeo abbia veduto giammai. Vi era una donna con un cancro in una mammella, cresciuto a sterminata grossezza e pieno di buchi, due o tre de' quali parevano caverne entro cui si sarebbe nascosto comodamente un malfattore. Vidi un miserabile con una vena del collo gonfia tanto che cinque balle di lana ne erano meno grosse; un altro con un paio di gambe di legno, ciascuna alta venti piedi all'incirca. Ma la vista più nauseosa di tutte si fu quella delle immondizie viventi che s'arrampicavano su i loro panni. Io potea discernerne ad occhio ignudo le membra e que' loro grugni, atti siccome quelli d'un porco a scavare la terra, e lo potea meglio assai che per traverso ad un microscopio non si scandaglia lo scheletro di un nostro pidocchio europeo. Fu la prima volta ch'io vidi in grande le membra di quegl'insetti, e sarei stato desiderosissimo di notomizzarli, se avessi avuto gli stromenti adatti a ciò, che sfortunatamente io m'era lasciati addietro nel bastimento; ma in questo caso fu forse meglio perchè quella vista sì ributtante già m'avea voltato affatto lo stomaco. Oltre alla grande cassetta entro cui io veniva ordinariamente portato attorno, la regina ordinò se ne fabbricasse per me una più picciola, larga circa dodici piedi quadrati ed alta dieci. Riusciva questa di maggior comodo nel viaggiare, perchè l'altra, un pochino troppo larga pel grembo della Glumdalclitch, faceva anche troppo ingombro nella carrozza. Costrusse tal seconda cassetta l'artista medesimo che avea fabbricata la prima, diretto per altro da me quanto al modo di disporne i congegni. Questo gabinetto da viaggio era un cubo esatto, tre lati del quale aveano ciascuno nel mezzo una finestra con una grata di filo di ferro, cioè un'inferriata al di fuori, per andar contra gl'incidenti che potessero sopravvenire ne' lunghi viaggi. Su l'altro lato privo di finestra erano praticati due buchi con forti orli, per entro ai quali il mio portatore, se mi prendea la voglia di andare a cavallo, faceva passare una cinghia di pelle che si affibbiava alla sua cintura. Quest'era sempre l'uffizio di qualche grave fedele servo di corte cui si potesse consegnarmi con sicurezza ogni qual volta, essendo impedita dal prestarmi assistenza la Glumdalclitch, io dovea seguire il re e la regina, sia ne' loro viaggi, sia che andassero a diporto in qualcuno de' reali giardini, o onorassero di una loro visita la villa di qualche gran dama o ministro di stato, perchè io feci presto ad essere conosciuto ed apprezzato dai primari uficiali della corona, sicuramente, io doveva credere, più pel favore di cui mi colmavano i sovrani che per proprio mio merito. Quando nei viaggi io era stanco di restare in carrozza, un servo a cavallo s'affibbiava, come ho detto, alla cintola la mia cassetta, e la poneva sopra una picciola sella che stava dietro alla sua; così dalle mie finestre io dominava con l'occhio da tre lati tutto il paese. In questo gabinetto portatile io aveva un letto da campo ed un letto pensile attaccato alla soffitta, due scranne ed una tavola ben fermate a vite sul pavimento, per impedire che le mandassero sossopra le agitazioni del cavallo o della carrozza. Quanto a me poi, accostumato da lungo tempo ai viaggi di mare, non mi scompigliavano gran fatto queste scosse, ancorchè talora fossero piuttosto gagliarde. Ogni qual volta mi prendea la voglia di andare a vedere la città, io facea sempre questa gita nel mio gabinetto da viaggio che la Glumdalclitch si teneva in grembo mentre si trasferiva attorno entro una specie di bussola all'usanza del paese, portata da quattro uomini e seguita da altri due staffieri della regina. Il popolo che avea sì spesse volte udito parlare di me, si affollava intorno a questa bussola, e la buona ragazza della mia balietta era sì compiacente che facea fermare i portantini, e mi prendeva in mano per maggior comodo de' curiosi. Io era grandemente bramoso di vedere la chiesa cattedrale, e particolarmente la sua torre che passava per la più alta del regno; a seconda di questa mia brama la Glumdalclitch un giorno mi ci condusse, ma v'assicuro che ne venni addietro non molto soddisfatto, perchè l'altezza di quella torre non sembrommi passare i tremila piedi calcolando dal pian terreno alla sua estrema corona, il che, avuto riguardo alla differenza fra le moli di quegli abitanti e quelle di noi Europei, non è niente una gran maraviglia, nè, se ben mi ricordo, sempre a data proporzione, può la predetta torre stare a petto del campanile di Salisbury. Ma per non minorare in nulla i vanti di una nazione, alla quale professo tante obbligazioni, bisogna confessare che quanto manca a quella mole in altezza, è ampiamente compensato in bellezza ed in forza, perchè le sue mura sono grosse cento piedi all'incirca, fabbricate di mattoni, ciascun de' quali è ad un dipresso di quaranta piedi quadrati, ed ornate all'intorno di statue d'imperatori e divinità; tali statue si vedono collocate nelle relative loro nicchie, e ognuna di esse passa la statura ordinaria degli abitanti di quella contrada. Io misurai un dito mignolo caduto da una di quelle statue, nascosto sì che non poteva discernersi in mezzo ai rottami, e lo trovai esattamente lungo quattro piedi ed un dito dei nostri. La Glumdalclitch lo avvolse nel suo fazzoletto e portatoselo in tasca lo tenne fra le cianfrusaglie cui andava matta dietro, come fanno per solito tutti i ragazzi. La cucina del re è da vero una nobile fabbrica, fatta in vôlto alla cima ed alta circa seicento piedi. Il forno non è di dieci passi men largo della cupola di San Paolo, che dopo il mio ritorno ho avuto la pazienza di misurare per istituire questo confronto. Se volessi poi descrivervi l'inferrata del camino, le prodigiose pentole e caldaie, i pezzi di carne che giravano attorno agli spiedi, ed altri simili particolari, difficilmente forse mi credereste, e per lo meno un critico severo s'immaginerebbe ch'io ci avessi messo un poco di frangia secondo il solito de' viaggiatori. Sappiate mo che per evitare questa censura, temo di esser caduto nell'eccesso opposto e di essermi tenuto tanto al di sotto del vero, che se questo mio viaggio in lingua brodingnaghese (che Brondingnag è il nome generale dell'intero reame) si divulgasse colà, il re e la nazione avrebbero diritto di chiamarsi ingiuriati dalle mie descrizioni fallaci e poste soltanto in miniatura. Sua maestà tiene rare volte più di seicento cavalli nelle sue scuderie, ciascun de' quali è alto generalmente fra i cinquantaquattro ed i sessanta piedi. Ma quando esce in gala nei dì solenni, si fa accompagnare pomposamente da cinquecento guardie a cavallo, oggetto di cui mi parea non si potesse contemplare il più splendido, prima per altro di vedere una parte del regio esercito in battaglia, cosa su cui cercherò occasione in altro tempo d'intertenervi. CAPITOLO V. Casi curiosi occorsi all'autore. — Giustizia fatta di un delinquente. — L'autore dà prova di sua perizia nella navigazione. Io me la sarei anche passata bene in questo paese se la picciolezza della mia statura non m'avesse fatto scopo a diversi scherni ed esposto a varie piccole molestie che m'accingo a narrare. La prima di queste mi occorse innanzi che quel paggio nano a voi noto avesse lasciato il servigio della regina. La Glumdalclitch mi portava spesse volte ne' reali giardini, entro la mia cassetta più piccola, donde talora mi pigliava fuori portandomi in mano o ponendomi a terra perchè facessi un poco di moto. Accadea la seconda di tali cose, quando il paggio ed io ci trovammo vicini in un boschetto di pomi nani. Non mi potei stare dal far prova del mio spirito traendone il tema dall'allusione che tra quelle piante ed i pigmei veniva notata a Brondingnag come in Europa. Il monello non la volle finita così, ma colto il momento ch'io era proprio tutto sotto un di quegli alberi, si diede a squassarlo su la mia testa con quanta avea forza, onde mi sentii rombare all'orecchio una dozzina di quelle mele grosse ciascuna come una botte di Bristol, e una di queste, venutami su la schiena, mentre io mi raggricchiava dalla paura, buttommi con la faccia distesa per terra. Per altro non mi feci alcun male, ed anche il paggio la passò netta, perchè essendo stato io che lo aveva instigato, ebbi la rettitudine di farmi intercessore del suo perdono. Un'altra volta la balietta m'avea lasciato sopra un'aiuola di zolle intantochè ella passeggiava in qualche distanza da me con la sua governante. In quel tempo venne a cader d'improvviso una grandine sì dirotta che mi stese boccone, e mi fece tali ammaccature su tutto il corpo come se fosse stato percosso da altrettante palle di pallacorda. Pure m'ingegnai tanto, che andando carpone per amore della mia faccia, giunsi a ripararmi fra i ramicelli del timo, che orlavano l'aiuola dalla parte opposta al vento, ma ne rimasi sì pesto dalla testa ai piedi che dieci giorni continui non potei più mostrarmi attorno. Nè in tutto ciò havvi di che stupire, perchè la natura serbando in que' paesi la medesima proporzione in tutte le sue operazioni, ognuno di que' grani di grandine è diciotto volte più grosso d'uno de' nostri, e ve lo posso guarentire su l'esperienza, perchè ebbi la curiosità d'istituirla pesando prima una palla di quella grandine poi un'altra della nostra a suo tempo. Ma un caso ben altrimenti pericoloso mi avvenne in quello stesso giardino, quando la mia picciola balia credendo avermi deposto in luogo sicuro, mi ci lasciò solo com'io sovente ne la pregava per restarmene alcuni istanti con l'unica compagnia de' miei pensieri. Io era dunque lì solo e fuori della mia cassetta o gabbia, che quel giorno la Glumdalclitch avea lasciata a casa per non avere il fastidio di portarsela in mano, mentre ella passeggiava da tutt'altro lato con l'aia ed alcune signorine di sua conoscenza. Io non potea più nè esser veduto nè sentito da lei, allorchè un piccolo bracco bianco spettante ad uno di que' capi giardinieri, entrato nel giardino, capitò a caso in vicinanza del luogo ove la balietta mi aveva posato. Sentitomi al fiuto, mi fu subito addosso, e presomi in bocca, mi portò diritto, menando allegramente la coda, alla casa del suo padrone, ove con tutta gentilezza mi pose a terra. Per buona sorte era un cane sì ben ammaestrato, ch'io stetti fra i suoi denti senza che ne riportassi il menomo sconcio non solo nelle mie carni ma nemmeno ne' miei vestiti. Ciò non ostante il povero giardiniere, che mi conosceva ottimamente, e mi mostrava molta benevolenza, ebbe una mala paura. Presomi gentilmente nelle sue due mani, mi domandò come mi sentissi; ma io era sì sbalordito e privo di respiro che non fui buono di dire una parola. Mi bastarono per altro pochi minuti a riavermi, ed allora il giardiniere mi riportò sano e salvo fra le mani della mia balietta, che in questo intervallo era tornata al luogo ove mi aveva lasciato, e si dava alla disperazione non trovandomi più e non sentendomi rispondere per quanto forte ella mi chiamasse. Sgridò severamente il giardiniere per ciò che era colpa sol del suo cane: nondimeno l'affare venne sopito, nè fu mai saputo alla corte, perchè la Glumdalclitch avea troppa paura della collera della regina, e per parte mia, a dir vero, non credevo guadagnarci troppo nel mio buon nome se tale storiella si divulgava. Questo incidente trasse la Glumdalclitch nel proposito di non lasciarmi allontanare da' suoi occhi, ed ebbi lungo tempo paura che lo mantenesse, ond'io quando vidi che se n'era scordata, ebbi la massima cura di nasconderle tutte le piccole disgrazie che m'andavano accadendo allorchè mi si lasciava in balia di me stesso. Una volta un nibbio che svolazzava pel giardino, venne a posarmisi incontro, e se non avessi fatto presto a brandire il mio coltello, ed a rintanarmi tra le frasche di una spalliera, certamente m'avrebbe portato via fra i suoi artigli. Un'altra volta camminando sopra un monticello fatto di fresco da una talpa, cascai fino al collo entro la buca donde l'animale avea scavata la terra; ed anzi stampai una piccola bugia, non degna or d'essere ricordata, per addurre la scusa de' miei panni insudiciati alla Glumdalclitch. M'accadde parimente di pigliare una contusione allo stinco della mia gamba destra contro al guscio di una lumaca su cui intoppai camminando solo ed assorto in pensieri che tutti si volgevano alla mia diletta Inghilterra. Non so dirvi se mi desse più diletto o umiliazione il vedere che in que' miei solitari diporti i piccioli augelli non si mostravano punto impauriti di me; mi saltellavano alla distanza d'un braccio cercando gl'insetti o gli altri cibi di cui erano ghiotti con tanta indifferenza e placidezza come se non si fosse trovata anima vivente presso di loro. Mi ricordo d'un tordo che si prese la libertà di portarmi via di mano col suo becco un pezzo di focaccia datomi allora allora per la mia colezione dalla Glumdalclitch. Se io mi provava ad acchiappare qualcuno di questi uccelli, mi si rivoltavano bravamente cercando di beccarmi le dita ch'io nondimeno aveva sempre il giudizio di non esporre di troppo in tal mio esperimento, dopo del quale gli uccelli stessi se ne tornavano placidamente, e come se nulla fosse stato, alla loro caccia d'insetti. Un giorno per altro, provvedutomi d'un buon batacchio, lo lanciai con sì giusta mira ad un fanello, che lo stramazzai come morto, onde presolo pel collo con entrambe le mani lo portai in trionfo alla mia balietta. Ma l'uccello era sol tramortito, sì che riavendosi, mi percuotea con entrambe le ali maladettamente la testa ed il collo. Notate ch'io lo teneva alto quant'erano lunghe le mie braccia per paura de' suoi artigli; e più volte fui lì lì per lasciarlo andare; ma venni presto levato d'impaccio da uno degli staffieri assegnatine, che, preso il fanello, gli diede l'ultima stretta di collo, sì che nel giorno seguente mi fu imbandito al mio desinare per comando della regina. Per quanto mi ricordo, quell'animaletto era alquanto più grosso di uno dei nostri cigni. Le damigelle d'onore invitavano spesse volte nei loro appartamenti la Glumdalclitch pregandola a portarmi seco per procurarsi il piacere di guardarmi ed accarezzarmi. Sovente mi mettevano nudo come Dio m'ha fatto, e mi stendeano per tutta la mia lunghezza entro la capacità de' loro seni, cosa che mi dava non poco disgusto, perchè per la giusta verità dalla loro cute emanava un odore niente piacevole. Non dico questo coll'intenzione di pregiudicare quelle eccellenti signorine, alle quali professo ogni maniera di rispetto: ma la colpa era dell'organo del mio odorato più acuto in proporzione della mia piccolezza; e capisco benissimo che quelle egregie gentildonne non saranno apparse sgradevoli ai loro amanti, o l'una all'altra di loro, più di quanto ciò accada fra le miledi della nostra Inghilterra. In fin dei conti io mi rassegnava anche meglio al loro odor naturale che a quello artefatto dei profumi de' quali se talvolta esse usavano, io era sicuro di svenire. Del resto, quanto all'acutezza dell'odorato che segue la proporzione inversa della grandezza degl'individui, mi ricorderò sempre d'un mio intrinsico amico di Lilliput, il quale si prese la libertà di lamentarsi, presente me, del puzzo che esalava dalla mia cute, allorchè in un giorno estivo io mi era molto affaticato; e sì fra tutti gl'individui della mia razza credo esser quello cui si possa meno attribuire una simile imperfezione. Bisogna dire che la facoltà dell'odorato lilliputtiano fosse dilicata rispetto a me come lo era in me rispetto ai Brondingnaghesi. In ordine a ciò, non posso dispensarmi dal rendere una giustizia alla regina ed alla mia balietta. Sapeano di buono quanto mai possa saperne la più dilicata damina dell'Inghilterra. La cosa di cui stentavo più a capacitarmi quando la mia balietta mi conduceva in visita presso quelle damigelle d'onore, era il vedere come mi credessero una creatura di stucco, e rispetto a loro credeano bene, come avrete fra poco il motivo di capirlo. Si mettevano affatto ignude alla mia presenza, e poichè m'aveano posto in piede su le loro tavolette, si cavavano la camicia mettendomi in mostra l'intero loro corpo, che per altro era un vero antidoto contra le tentazioni, e per questo ho detto che non s'ingannavano nel credermi rispetto a loro un uomo di stucco. Figuratevi qual cosa deliziosa a vedersi da vicino quelle loro, non pelli, ma cuoia di tutti i colori, spruzzate qua e là di nei larghi come un tagliere, irte di folti peli grossi quanto gli spaghi, per non dir nulla del resto di que' loro fusti. Non si facevano alcuno scrupolo ad esonerarsi alla mia presenza di quanto aveano bevuto, si sarà trattato per lo meno del liquido di due botti, entro pitali della capacità all'incirca di tre tonnellate. La più leggiadra di quelle damigelle d'onore, una pazzerella fantastica che aveva appena sedici anni, si prendea lo spasso di mettermi a cavalcione dei capezzoli delle colossali sue zinne, e di far mille altre stramberie su le quali mi perdonerà il leggitore se non mi diffondo di più. La conclusione è ch'io rimasi stomacato al segno di raccomandarmi alla Glumdalclitch affinchè studiasse qualche pretesto per non condurmi più da quelle signorine. Un giorno, un giovine nipote dell'aia della mia balietta venne a domandar loro se voleano vedere giustiziare un malfattore. Era questi condannato a morte per avere ucciso un amico di chi faceva questa proposta. La Glumdalclitch si lasciò indurre ad essere di brigata, per altro assai contro sua voglia per essere una fanciulla naturalmente tenerissima di cuore; e quanto a me, benchè io abbia mai sempre abborrito tal genere di spettacoli, mi lasciai tentare dalla curiosità di vedere qualche cosa di assai straordinario. Il delinquente era legato ad una scranna collocata sopra un palco innalzato a tal fine, ed il carnefice gli troncò la testa d'un colpo con una sciabola lunga all'incirca quaranta piedi. Le vene e le arterie mandarono un zampillo sì copioso ed alto di sangue che, sintantochè durò, il gran gitto d'acqua di Versaglies non era da paragonarsegli. Il capo cadendo sul tavolato del palco fece tale strepito che diedi in uno scrollo io, benchè lontano dal luogo dell'esecuzione un buon mezzo miglio inglese. La regina, avvezza ad udirmi parlare spesse volte de' miei viaggi di mare, e sollecita di procurarmi divagamenti ogni qual volta vedeami malinconico, mi domandò se io sapessi come si faccia a maneggiare una vela od un remo, e se un piccolo esercizio di remigare non sarebbe stato utile alla mia salute. Le risposi sapere io ottimamente maneggiare e remi e vele, perchè, se bene la mia professione fosse quella di chirurgo e medico d'armata, pur sovente in casi d'urgenza avea dovuto prestarmi agli ufizi di comune marinaio. Ma le dissi ad un tempo ch'io non vedeva come ciò potesse farsi negli stati di sua maestà, ove la più piccola barchetta superava in grandezza uno de' nostri bastimenti da guerra di primo ordine; che per conseguenza una navicella, qual io avrei potuto governarla, non avea mai avuta esistenza ne' loro fiumi. Sua maestà soggiunse che, ove avessi voluto dare il disegno d'un bastimento, il suo regio ingegnere me lo avrebbe costrutto, ed ella poi s'incaricava di provedermi d'un luogo ove metterlo all'acqua. Quell'ingegnere era un abilissimo meccanico pratico e, ben istrutto da me, ebbe fabbricata in tre giorni una navicella di diporto con tutto il suo sartiame, atta a trasportar comodamente otto Europei. Quando vide finita la navicella, la regina ne fu sì esultante che postasela in grembo la portò al re, il quale, in via d'esperimento, la fece tosto varare entro un rinfrescatoio pieno d'acqua. Ma quivi io non potea maneggiare i miei due remi per mancanza di spazio. Fortunatamente la regina avea già prima di ciò formato un altro divisamento, ed ordinato all'ingegnere di fabbricarle un truogolo di legno lungo trecento piedi, largo cinquanta, e profondo otto. Questo truogolo, incatramato a dovere per assicurarlo dalle falle, fu posto sul pavimento e rasente la parete di una stanza terrena che guardava la parte esterna del palazzo. Era proveduto verso il fondo d'una cannella per farne uscir l'acqua, allorchè questa infracidiva, e bastavano due servi a tornarlo entro una mezz'ora ad empire. Entro questo truogolo, remai spesse volte, tanto per diporto mio quanto per dar sollazzo alla regina ed alle sue dame che credettero impiegate bene le loro ore nell'ammirare la mia abilità e perizia navale. Qualche volta io metteva la mia vela, nè in tal caso aveva altro a fare che governare il timone, intantochè le dame mi procuravano una brezza co' loro ventagli. Quando erano stanche, venivano in vece alcuni paggi che spigneano la vela col fiatarci sopra, intantochè io dava saggi della mia abilità marinaresca governando come più mi piaceva la mia nave e di tribordo e di babordo. Terminato il mio nautico esercizio, la Glumdalclitch si portava la nave nel suo gabinetto, ove la attaccava ad un chiodo tanto che si rasciugasse. In tale diporto mi occorse un caso che non mi costò per poco la vita; perchè un de' paggi avendo già posta entro al suo truogolo la mia nave, l'aia della Glumdalclitch pensò usare atto grazioso alla sua pupilla ed a me col prendermi su con le sue mani e mettermi entro al mio legno. Il diavolo fece che ella, senza averne, come potete credere, l'intenzione, mi lasciasse schizzar fuori delle sue mani, e sarei caduto da un'altezza niente altro che di quaranta piedi se, per vero miracolo, non mi avesse fermato uno spillo puntato al busto della buona signora e conficcatosi con la capocchia tra il legaccio de' miei calzoni e la mia camicia sì che stetti sospeso a mezza vita in aria finchè venne la balietta a levarmi d'angoscia. Un'altra volta il servitore, che avea l'incarico di rinovare l'acqua del mio truogolo ogni tre giorni, fu poco avveduto al segno di non accorgersi d'un rospo che si era cacciato nel suo secchio e di lasciarlo penetrare insieme con l'acqua entro alla conca. L'animale rimase appiattato finchè fossi messo a bordo; ed allora, trovato che quella barca sarebbe stata una comoda nicchia per lui, ci si arrampicò per di sotto facendola pendere tanto da una banda, ch'io, senza conoscere il motivo di un tale sbilancio, dovetti tirarmi con tutta la persona dall'altro lato per far contrappeso e non andar capovolto con la mia nave nell'acqua. Finalmente il brutto rospaccio ci fu dentro, e fatta a saltelloni mezza la lunghezza della barca, mi saltò su la testa e le spalle imbrattandomi e faccia e panni con l'odiosa sua bava. Sapete che brutti animali sono i nostri rospi; ingranditene le proporzioni, ed avrete un'idea del mostro con cui avevo che fare. Ciò non ostante non permisi alla buona Glumdalclitch d'intromettersi in questa lotta, ed a furia di bastonar la bestiaccia, la costrinsi a saltar di nuovo giù della barca. Ma il più grave pericolo ch'io m'abbia corso in quel regno, mi derivò da una scimia, di cui era proprietario un guattero delle reali cucine. La Glumdalclitch mi avea serrato entro al suo gabinetto intanto che andò fuori di casa o per affari propri o per far qualche visita. La stagione in quel tempo essendo caldissima, erano state lasciate aperte le finestre del gabinetto e quelle ancora dello sportello della mia gabbia più grande, ove io preferiva rimanere e per la sua ampiezza e per le sue maggiori comodità. Mentre io sedeva quietamente meditando al mio tavolino, udii uno strepito alla finestra del gabinetto, poi qualche cosa che saltellava su e giù per la stanza. Ancorchè tutto ciò mi ponesse in qualche apprensione, pure m'arrischiai a metter la testa fuor della finestra più vicina della mia gabbia, senza per altro movermi dalla scranna, ed allora vidi un bizzarro animale che facea qua e là strani salti, finchè finalmente venne vicino alla mia stanza che pareva eccitasse in lui grande curiosità e vaghezza, perchè faceva capolino allo sportello ed a tutte le finestre di essa. Io mi rannicchiai al più rimoto angolo di quel mio appartamento o gabbia, ma la paura mi avea tanto preoccupato che non ebbi assai prontezza di spirito per nascondermi sotto al mio letto come avrei facilmente potuto. Dopo molto tempo impiegato dall'animale nello spiare, nel ghignare, nel battere i denti, finalmente mi scoperse. Allora cacciò una zampa dentro allo sportello, come avrebbe fatto un gatto nel dare la caccia ad un sorcio. Io aveva un bello scansarmi cambiando sempre di posto, venne l'istante che afferrò il lembo del mio giustacuore, che, essendo di seta di quel paese, era resistente e forte abbastanza per non lacerarsi, onde, padrone di quel lembo, riuscì a tirarmi fuori dello sportello. Presomi tosto con la sua zampa destra d'avanti, mi alzò su come una nutrice che voglia dare il latte ad un bambino, e come ho veduto praticare ad altre scimie in Europa con qualche gattino. Facendo io sforzi per liberarmi, mi dava sì poderose strette che giudicai più prudente partito il rassegnarmi alla sua volontà. Ho buone ragioni per credere che la scimia m'avesse preso per un fanciullo della sua specie, ed infatti con l'altra zampa d'avanti mi accarezzava spesse volte la faccia nella più gentile maniera. Ma, in mezzo a questi suoi spassi, venne interrotta da un strepito fatto alla porta del gabinetto come da qualcuno che volesse aprirlo, onde spiccò un salto su la finestra dond'era entrata, e di lì su i piombi e le grondaie, poi s'arrampicò sul tetto contiguo al nostro, ma camminando con tre zampe e continuando sempre a tenermi stretto con l'altra. Udii l'acuto grido della Glumdalclitch nel momento ch'io veniva portato via. Quella povera creatura non sapeva che cosa fare dalla disperazione; tutta quella parte di palazzo era sossopra; i servi corsero in cerca di scale a mano. La scimia intanto si faceva vedere da un centinaio di persone che stavano nel cortile, seduta su l'orlo del tetto e sempre tenendomi a guisa d'un bambino con una delle sue zampe d'avanti, e con l'altra cacciandomi a forza in bocca cibi biasciati che si traeva fuori dalle sue ganasce; e siccome io non appetiva gran che tal genere di pietanze, mi batteva s'io mi mostrava schifiltoso a mangiarle. Figuratevi il ridere che facea quella gentaglia da basso; e non so da vero se si potesse con giustizia darle torto, perchè la mia posizione di quel momento era tale da far ridere ogni galantuomo, eccetto me. Alcuni di quei del cortile si diedero a lanciar sassi insù con la speranza di far venire a basso la scimia, ma fortunatamente vi fu chi vietò loro questo espediente; era infatti il più bello e sicuro per farmi fracassar le cervella. Si corse con scale a mano, e diversi uomini le salivano quando la scimia, vedendo ciò e ridotta quasi affatto alle strette perchè non poteva speditamente involarsi con sole tre zampe, mi lasciò andare sopra una tegola, e fece da sè la sua ritirata. Stetti per qualche tempo seduto su la mia tegola ad un'altezza di cinquecento braccia da terra aspettandomi ad ogn'istante di essere soffiato via dal vento o, siccome non mi girava poco la testa, di ruzzolare le cento volte da una tegola all'altra sinchè finalmente precipitassi da una grondaia. Per fortuna, un buon figliuolo, staffiere della Glumdalclitch, arrampicatosi fino a quel tetto, e postomi in un borsellino de' suoi calzoni, mi portò sano e salvo a terra. Io era quasi soffocato dalle porcherie di cui m'aveva ingozzato la scimia, ma la mia cara balietta me le trasse fuori di bocca con un piccolo spillo, il che, promosso in me il vomito, mi portò qualche sollievo. Ma ero sì debole ed avevo sì affrante le coste per le strette datemi da quella maladettissima bestia, che dovetti rimanermene in letto un buon paio di settimane. Il re, la regina, tutta la corte mandavano ogni giorno ad informarsi su lo stato di mia salute, ed il primo anzi mi onorò di parecchie visite finchè durò la mia malattia. La scimia venne accoppata, e messo un editto affinchè nessuno di questi animali potesse più essere tenuto entro i recinti dell'imperiale palazzo. Quando, rimesso affatto in salute, mi presentai al re onde attestargli la mia gratitudine per le bontà usatemi, egli se la godè un buon pezzetto alle mie spalle sul casetto occorsomi. Mi chiedea quali fossero i miei pensieri, le mie risoluzioni quando mi tenea con una delle sue zampe la scimia; se m'aveano gradito i manicaretti che m'avea somministrati quell'animale; se mi parea che facesse buona tavola; se la fresca aria del tetto non avesse giovato ad aguzzarmi l'appetito. Mi domandò indi come mi sarei levato d'impaccio nel mio paese se un incidente simile mi fosse avvenuto. Risposi a sua maestà che in Europa non conoscevamo d'altre scimie fuor quelle che venivano portate da altri paesi, poi tanto piccole, che io bastava contra una dozzina di esse se lor fosse venuto il ghiribizzo di prendersi meco delle libertà. Soggiunsi di più che nemmeno l'enorme scimione con cui io aveva avuto che fare (per dir vero era grosso come un elefante), nemmen quello mi avrebbe dato fastidio se lo smarrimento dell'istante mi avesse lasciato pensare a far uso del mio coltello quando ficcò una zampa nella mia camera. — «Altrimenti» dissi facendo il fiero e battendomi la mano su l'impugnatura dell'arma che nominai, «avrebbe avuta da me tal lezione da non parergli vero di fuggir di lì più presto che non ci era venuto.» Proferii queste frasi col fermo accento d'uom geloso della propria fama, e che non vorrebbe per tutto l'oro del mondo veder revocato in dubbio il proprio coraggio. Ciò non ostante tutto il mio bel dire non mi fruttò altro che una sonora risata de' circostanti, i quali, ad onta di tutto il rispetto inspirato loro dalla presenza di sua maestà, non se ne seppero rattenere; la qual cosa mi condusse a fare una considerazione, quanto cioè perda il tempo e la fatica quell'uomo che s'immagina farsi ammirare da chi è fuor d'ogni sfera di confronto con lui. Tuttavia, dopo il mio ritorno in Inghilterra, mi è toccato spesse volte veder rinovato il caso della presente parabola, allorchè qualche spregevole galuppo, senza il menomo titolo di nascita, di forma, d'ingegno o almeno di senso comune, ha voluto darsi aria d'importanza e mettersi a pari co' più grandi personaggi del regno. Non passava giorno ch'io non provedessi la corte di casetti per farla ridere, e la stessa Glumdalclitch, benchè mi volesse un bene dell'anima, non si stava, la briccona, di far noti a sua maestà que' miei scerpelloni che la potessero divertire. Mi ricordo d'un giorno che non essendo ella di servigio a corte e condotta dalla sua aia a prendere aria ad un'ora di distanza, o sia una trentina di miglia lontano dalla città, smontò di carrozza con l'aia, e posò la mia cassettina da viaggio dinanzi al sentiere d'un campo. Quivi, uscito della mia nicchia portatile, mi posi a passeggiare, e trovandomi inciampato il passo da una bovina, mi prese il ghiribizzo di far prova della mia agilità col varcarla di un salto. La misura del mio salto fu tolta con tanta aggiustatezza che mi trovai sprofondato nel mezzo di essa. Uscitone al guado, non senza qualche difficoltà, toccò ad uno staffiere lo sgradevole incarico di nettarmi alla meglio col suo fazzoletto, perchè vi lascio immaginare com'ero concio. La mia balia poi mi confinò tosto entro la mia gabbia; ma fosse qui finita la cosa! Appena tornati a casa, la regina venne esattamente informata di quanto era occorso; gli staffieri divulgarono l'avvenimento per ogni dove; quanti giorni si continuò in corte ridendo sempre a mie spese! CAPITOLO VI. Mezzi adoprati dall'autore per rendersi accetto di più al re ed alla regina. — Dà prove della sua perizia nella musica. — Il re s'informa su lo stato dell'Inghilterra, e ne riceve contezze dall'autore. — Osservazioni del re a questo proposito. Io soleva, una o due volte la settimana, far la mia corte al re nell'ora del suo levarsi, e spesse volte m'occorse trovarlo sotto il barbiere, cosa, a dir vero, terribile a prima vista, perchè il rasoio era almen lungo il doppio di una sciabola comune. Sua maestà, giusta il costume del paese, non si facea radere più di due volte la settimana. Un giorno avendo ottenuto dal barbiere che mi desse un poco di quella saponata, ne trassi fuori quaranta o cinquanta de' più forti peli della regia barba. Poi, preso un pezzo di legno sottile lo tagliai come il dosso d'un pettine praticandovi sopra, ad eguale distanza, diversi buchi con uno spillo, il più piccolo che potei procurarmi dalla Glumdalclitch; poscia dopo avere col mio coltello piallati ed assottigliati in punta que' peli, gl'introdussi entro ai forami con tale arte che me ne riuscì un pettine più che sufficiente; e mi capitò proprio a tempo, perchè il mio era rotto ne' denti al segno di non potermene più affatto servire, nè io conosceva lì un artefice abbastanza abile e preciso nei minuti lavori che potesse fabbricarmene uno. Ciò mi fece nascere l'idea d'un intertenimento in cui impiegai molte delle mie ore d'ozio. Pregai primieramente una cameriera della regina a salvarmi quanti capelli cadeano dalla testa di sua maestà nel tempo della sua pettinatura, onde ne misi insieme una buona quantità; poi, intesomi con quell'amico che fabbricò la mia stanza, e che avea l'ordine di farmi quante bagattelle avessi potuto desiderare, gli diedi le necessarie istruzioni affinchè mi allestisse due fusti da seggiola non più grandi di quelli dell'altre che erano nella mia gabbia; fattigli indi praticare con una sottile trivella diversi buchi, così al dorso come al sedile ne' luoghi che gl'indicai, v'intessei entro i più robusti capelli che potei trascegliere ad imitazione delle sedie di canna che si usano nell'Inghilterra. Terminate che furono, ne feci un presente a sua maestà, che si degnò conservarle nel suo gabinetto, e solea mostrarle a tutti, siccome una rarità, chè in quel paese lo erano di fatto agli occhi di tutti. La regina avrebbe voluto ad ogni costo vedermi seduto sopra una di esse, ma io ricusai costantemente di obbedirla in ciò, e protestai che avrei scelto morir mille volte prima di mettere quella disonesta parte del mio corpo su quell'augusto crine che avea splenduto un giorno sul capo di sua maestà. Con altri di questi capelli (perchè certo genio meccanico l'ho sempre avuto) feci una piccola borsa da danari, non più lunga di cinque piedi, col nome di sua maestà intessutovi a lettere d'oro, e col consenso della medesima maestà sua la donai alla Glumdalclitch. Se per altro si ha a dire la verità, questa borsa era fatta più per mostrarla che per servirsene, non essendo di una materia resistente abbastanza per tenervi dentro monete un po' grosse, onde la mia balietta se ne valse unicamente per conservarvi alcune fra quelle cianciafruscole di cui più vaghe son le fanciulle. Il re, che era un dilettante di musica, dava nella sua corte grandi accademie, alle quali ho avuto qualche volta l'onore d'intervenire, perchè mi ci portavano con la mia specie di gabbia che veniva posta sopra una tavola; ma lo strepito era sì gagliardo che mi ci voleva non poca fatica a distinguere le note di quell'armonia. Io credo che se tutte le trombe e i tamburi di un intero esercito di sua maestà vi battessero e squillassero all'orecchio in una volta, non udireste un fracasso più fragoroso del romore indiavolato di tale musica. Tutto il mio studio era tener la mia gabbia più lontano che potea dall'orchestra, poi chiusi gli usci e le finestre della gabbia stessa, tirar bene le cortine; ciò fatto la musica stessa non mi parve più tanto sgraziata. Io aveva imparato nella mia gioventù a sonare un poco la spinetta. La Glumdalclitch ne aveva una nella sua stanza, ed un maestro veniva due volte la settimana ad insegnarle. Io chiamava quello stromento una spinetta perchè era fatto in circa a somiglianza delle nostre spinette. Mi saltò il capriccio di divertire la regina sonando una sinfonia inglese su quello stromento. Ma la cosa appariva estremamente difficile; si trattava di una spinetta lunga almeno sessanta piedi; e ciascun tasto era largo un piede a dir poco, di modo che per quanto io stendessi le braccia, non arrivavano mai a raggiugnere più di cinque tasti, ed il premerli all'ingiù domandava un sì potente colpo delle mie dita che avrei fatta una enorme fatica senza costrutto. Presi pertanto questi espedienti: mi preparai due legni rotondi della grossezza di due batacchi ordinari, più grossi ad una estremità che all'altra, la cui punta più grossa io copersi di pelle di sorcio a fine di non danneggiare le superficie dei tasti picchiando sovr'essi e di non interrompere il suono. Dinanzi alla spinetta venne posta una panca più bassa di quattro piedi all'incirca dei tasti, e vi fui collocato sopra. Scorsi qua e là co' miei bastoncelli più rapidamente che potei la spinetta, e tanto m'ingegnai che giunsi ad eseguire una giga con grande soddisfazione delle loro maestà; ma fu questa la maggiore delle fatiche ch'io abbia mai sopportate in mia vita, e notate ch'io non arrivava a comprendere co' miei batacchi un'estensione maggiore di sedici tasti, onde non potei mai riuscire in que' trapassi dal basso all'acuto soliti a praticarsi dagli altri artisti, il che facea non lieve torto alla mia esecuzione. Il re provveduto, come lo ho già notato dianzi, di un eccellente discernimento, volea di frequente ch'io gli fossi condotto entro la mia casa portatile e posto su la tavola del suo gabinetto. Allora mi comandava tirar fuori una delle mie seggiole, che facea collocare sul tetto della casa stessa, poi mi obbligava a sederci ad una distanza di quattro braccia da lui, con che io veniva ad essere a livello della sua faccia. In questo modo io ebbi seco frequenti conversazioni. Un giorno mi presi la libertà di dirgli che non sembrava cosa conforme allo squisito descernimento di un tanto monarca qual egli era, il disprezzo da lui dato a conoscere per l'Europa e pel rimanente del mondo; che la ragione non si proporziona colla massa de' corpi; che accadeva anzi il contrario ne' nostri paesi, ove gl'individui di maggior mole sono d'ordinario più sproveduti di tale facoltà intellettuale; gli dissi ciò osservarsi anche negli altri animali, citandogli ad esempio le formiche e le api reputate più industriose d'altri viventi che le superano straordinariamente in grandezza di corpo: soggiunsi finalmente che per quanto mi giudicasse cosa da poco, io sperava vivere tanto da rendergli segnalati servigi. Il re mi ascoltò con attenzione, e d'indi in poi principiò ad avermi in maggior credito che non m'avesse mai avuto in passato. Mi pregò dunque dargli, come avrei potuto meglio, una esatta informazione sul sistema di governo dell'Inghilterra, perchè, comunque tenerissimi sieno i principi delle proprie loro costumanze (e congetturava dai miei precedenti discorsi che tutti gli altri monarchi lo fossero non meno di lui), pure desiderava udire se ne' miei paesi vi fosse alcun che meritevole d'imitazione. Ti lascio pensare, cortese leggitore, se non m'augurai la lingua di un Demostene o d'un Cicerone per poter celebrare i fasti della diletta mia patria in uno stile eguale al suo dignitoso e florido stato. Cominciai la mia relazione dall'informare sua maestà che il dominio inglese era composto di due isole, le quali formavano tre possenti monarchie, governate da uno stesso monarca, oltre alle nostre piantagioni dell'America. Fermatomi a lungo su la fertilità del nostro suolo e la temperatura del nostro clima, mi estesi indi nel descrivergli il modo onde l'inglese parlamento è costituito; formato cioè in parte d'una illustre corporazione, detta camera dei pari, personaggi di nobilissimo sangue e signori di antichi e vasti patrimoni. Non tacqui la straordinaria cura posta mai sempre nell'educar questi agli studi delle lettere ed armi per farli abili a divenire consiglieri e sostegni del monarca e della monarchia; a partecipare della legislazione; ad esser membri del supremo tribunale inappellabile di giustizia e campioni sempre disposti a difendere il re e la patria col valor loro, con la loro condotta e fedeltà. Che non dissi per dimostrare che son dessi l'ornamento ed il baloardo dello stato, degni imitatori dei rinomatissimi loro antenati, e la gloria de' quali era stata il guiderdone di una virtù da cui non fu mai detto che degenerassero i loro successori? Narrai come all'assemblea di que' nobili pari fossero aggiunti parecchi santi personaggi col titolo di vescovi, il cui principale incarico era prendersi cura della religione e soprastare a coloro che debbono in essa ammaestrare il popolo; come tali vescovi fossero dal principe e da' suoi consiglieri pescati fuori di mezzo all'intera nazione fra quei sacerdoti che si fossero più segnalati per santità di vita o per profondità di dottrina; come eglino fossero veramente i padri spirituali del clero e del popolo. Gli raccontai come l'altra parte del parlamento consistesse in un'assemblea, chiamata camera dei comuni, formata tutta de' primari cittadini in virtù delle loro eminenti abilità e del loro amor patrio, cerniti e scelti liberamente dal popolo per rappresentare la saggezza dell'intera nazione. Gli spiegai come da queste due corporazioni fosse composta la più augusta assemblea dell'Europa, e come ad esse unitamente col principe sia tutta affidata la legislazione dell'Inghilterra. Passai indi in rassegna i tribunali di giustizia, cui presedevano col titolo di giudici diversi personaggi venerabili per saggezza e degni interpreti della legge, così per definire le contese su i diritti di proprietà come per punire il vizio e proteggere l'innocenza. Commemorai la provida amministrazione del tesoro dello stato ed il valore e perfetto ordinamento delle nostre milizie terrestri e navali. Esposi il novero della popolazione contando quanti sieno fra noi i milioni d'anime spettanti a ciascuna setta religiosa e politica. Nè omisi veruno de' nostri diporti, o passatempi o verun'altra particolarità che credessi ridondare ad onore della mia contrada. Terminai questo quadro con un breve racconto storico degli affari ed avvenimenti dell'Inghilterra da circa un secolo in qua. Questo intertenimento non domandò meno di cinque udienze, ciascuna di più ore, durante le quali il re mi stava attentissimo, ed andava spesse volte prendendo note su quanto io gli narrava, come memorie di alcuni particolari su cui si prefiggea chiedermi schiarimenti. Poichè ebbi terminata la lunga mia narrazione, sua maestà in una sesta udienza mi propose, dopo avere consultate le sue note, una infinità di dubbi, domande ed obbiezioni su ciascun articolo della narrazione medesima. Volea sapere quali metodi venissero adoprati per coltivare le menti ed addestrare i corpi de' nostri giovani nobili, in che genere di occupazioni questi impiegassero i primi anni della loro vita, gli anni cioè più propri all'ammaestramento. Mi domandò come si facesse per continuare a tener proveduta la camera dei pari quando qualche famiglia nobile veniva ad estinguersi; quali requisiti fossero necessari ad un individuo per essere creato lord; se accadesse mai che un capriccio del principe, una somma di danaro sborsata ad una dama di corte, o il bisogno d'invigorire una parte contraria al pubblico interesse, fossero i motivi di simili promozioni. S'informava fin dove que' lordi conoscessero le leggi del paese, e come fossero pervenuti a conoscerle tanto da poter decidere in ultima istanza su le vite e proprietà de' loro concittadini. Mi chiedea se fossero scevri d'avarizia, di parzialità, o di bisogni a tal segno da non potersi temere che la promessa d'un donativo o altre sinistre mire prevalessero sopra di loro. S'informava in oltre se que' santi personaggi da me portati a cielo venivano promossi all'alto loro grado per grandi nozioni acquistate nelle cose religiose e per l'esemplarità della loro vita, o se piuttosto non si fossero aperta la strada coll'andare a seconda dei tempi quando furono semplici preti, o col farsi abbietti cappellani di alcuni nobili, pe' quali continuassero servilmente a parteggiare da che erano entrati nella camera dei pari. Voleva indi sapere da me quali arti venissero praticate nelle elezioni dei deputati di quella camera che gli dissi chiamarsi _dei comuni_; se uno straniero assai danaroso non avrebbe potuto acquistar tanta preponderanza sul volgo de' votanti che eleggessero lui a preferenza o del signore titolare o di qualche notabile personaggio del borgo? Mi chiedea come accadesse che fossero tanti gli uomini ansiosi di entrare in quell'assemblea, poichè avea prima sentito da me che il risedervi portava sì gravi disturbi e spese, talvolta la rovina della famiglia dell'eletto senza che veruna sorta di stipendio o pensione andasse annessa alla carica? Parea quasi che la reale sua maestà di Brobdingnag dubitasse se un tanto eroico sforzo di virtù e di amore del pubblico bene fosse sincero. Infatti mi domandò se mai que' zelanti gentiluomini non avessero avuto qualche mira di compensarsi de' loro incomodi col sagrificare le rendite pubbliche ai disegni di un principe debole e vizioso concertati d'intelligenza con un ministero corrotto. V'assicuro io che mi vagliò su questo argomento per tutti i versi, anzi le sue interrogazioni ed obbiezioni si moltiplicarono tanto che non credo nemmeno conveniente il ripeterle. Dietro le informazioni ch'io gli avea date su i nostri tribunali di giustizia, volle che lo chiarissi su diversi punti; ed io era in ciò tanto più in grado di appagarlo per essere stato una volta rovinato dalle spese di una lite che fu decisa in mio favore. Mi domandò quanto tempo solitamente ci volesse per determinare da che parte stesse il torto o la ragione, e a quanto sommasse la spesa di una tale disamina? Se gli avvocati ed oratori avessero la facoltà di perorare cause manifestamente ingiuste, angarianti ed oppressive? Se si scorgesse che la setta religiosa o politica professata da un individuo fosse di qualche peso nella bilancia della giustizia? Se quegli avvocati fossero istrutti nelle generali nozioni dell'equità, o in quelle meramente degli usi provinciali, nazionali e locali? Se essi, o i giudici, avessero parte nel dettare quelle leggi, e si prendessero poi in appresso la libertà d'interpretarle o comentarle come tornava loro più comodo? Se fosse mai accaduto che in tempi diversi avessero aringato pro e contra la medesima causa e citate le opinioni precedenti per provarne delle affatto contrarie? Se fossero una ricca od una povera corporazione? Mi chiese soprattutto se si dava mai che un di loro fosse ammesso membro della camera bassa? Venuto indi a parlare dell'amministrazione del nostro tesoro, disse che credea caduta in un grosso abbaglio la mia memoria per aver io calcolate le nostre tasse a cinque o sei milioni ad un dipresso per anno; poi quando fui a dargli conto delle spese, osservò che queste eccedeano talvolta il doppio dell'entrata, perchè su questo particolare io non aveva omesso di notar nulla, sperando, egli mi dicea, che le nozioni su la nostra economia gli fossero grandemente utili, e premendogli quindi di non isbagliarsi ne' suoi calcoli. Se per altro quanto io gli avea detto era vero, non sapea capacitarsi che un regno potesse spendere al di là della sua entrata, come può accadere ad uno spensierato privato. Mi chiese chi fossero i nostri creditori, e dove trovassimo il danaro per rimborsarli. Gli facea stupore quanto gli raccontai su le nostre dispendiosissime guerre. Bisognava dire, secondo lui, o che fossimo una gran popolazione di accattabrighe o che avessimo di gran cattivi vicini; ai suoi conti i nostri generali dovevano essere più ricchi dei nostri re. Volle sapere che negozi ci chiamassero fuori della nostra isola oltre al traffico e al bisogno di difendere le coste colle nostre flotte? Non si sapea poi dar pace all'udire che, essendo noi un popolo libero, abbiamo un esercito mercenario stabile in tempo di pace. «Se avete, mi diceva, un governo di vostro consenso nelle persone de' vostri rappresentanti, di che cosa avete paura, o contra chi volete combattere? Ditemi un poco se un privato si creda meglio difeso da sè, dai suoi figli e dalla sua famiglia, o da una mezza dozzina di cialtroni, presi su alla ventura sopra le strade per poco salario, ed i quali guadagnerebbero mille volte di più tagliandogli le canne della gola?» Rise su la mia aritmetica veramente originale, egli si degnò chiamarla così, perchè nel calcolare la nostra popolazione io teneva un conto a parte delle diverse sette religiose e politiche. «Io non vedo, soggiugneva, un motivo perchè chi ha opinioni contrarie a quanto si crede pubblico interesse, debba essere obbligato a cangiarle o non piuttosto a tenerle nascoste. Il volere la prima cosa sarebbe una tirannia in qualunque governo, ma il non pretendere la seconda è debolezza, perchè si può ben permettere ad un uomo l'aver veleni nel cassetto del suo armadio, ma non il venderli attorno come cordiali». Notò che fra i divertimenti de' nostri nobili io avea commemorato il giuoco; onde mi chiese a quale età d'ordinario cominciasse questa inclinazione, a quale venisse dismessa; quanto tempo della giornata ci fosse impiegato; se mai questa passione diveniva forte al segno d'intaccare le loro sostanze, se non potesse succedere che la viziosa plebaglia arrivasse con le male arti della baratteria a salire in grande ricchezza, qualche volta a tenere sotto la sua dipendenza i veri nobili, ad abituarli alle triste compagnie, a corrompere que' principii d'onore che pur fossero nelle loro menti, e a poco a poco a furia di perdite, costrignerli ad imparare il mestiere infame che gli ha rovinati, ed a praticarlo a propria volta su d'altri. Il suo stupore non ebbe confine dopo il racconto storico ch'io gli feci dei nostri affari durante il secolo scorso (il decimosettimo); egli giurava di non vederci altro che un ammasso di congiure, ribellioni, assassinii, stragi, rivoluzioni, bandi, tutto il peggio che possono fare l'avarizia, il monipolio, l'ipocrisia, la perfidia, la crudeltà, la ferocia, la demenza, l'astio, l'invidia, la libidine, la malizia e l'ambizione. In una successiva udienza, sua maestà non senza qualche fatica riepilogò tutte le cose ch'io gli avea narrate, ed istituì un confronto tra le interrogazioni fattemi e le mie risposte; indi presomi fra le mani e dopo avermi gentilmente accarezzato, venne fuori con questa conclusione che non dimenticherò mai, come non dimenticherò mai l'accento col quale fu pronunziata: «Mio piccolo amico Grildrig, voi avete fatto un ammirabile panegirico del vostro paese; voi avete provato all'evidenza che l'ignoranza, l'ozio ed il vizio sono i requisiti i più acconci a qualificare un legislatore; che gli uomini più atti a dilucidare, interpretare ed applicare le leggi sono quegli stessi, la cui abilità, il cui interesse consistono nel pervertirle, confonderle e deluderle. Vedo tra voi alcune linee di una istituzione che in origine può essere stata tollerabile, ma quelle linee sono per metà cancellate, il restante affatto imbrattato, deturpato dalla corruttela. Non si vede da tutto quanto avete detto che ci voglia la menoma sorta di onorevole qualità per meritarsi fra voi altri una posizione distinta, molto meno che gli uomini sieno nobilitati dalla virtù; non che i vostri ecclesiastici avanzino nelle dignità per merito della loro pietà o dottrina; non gli uomini di guerra per quello del loro valore o della loro buona condotta; non i giudici per la loro integrità, non i membri del parlamento per amore che portino alla loro patria, non i consiglieri per la loro saggezza. Circa a voi, continuò il re, che avete impiegata la maggior parte della vostra vita viaggiando, inclino a sperare che possiate avere evitati sin qui i vizi del vostro paese. Ma da quanto ho raccolto dalla vostra informazione e dalle risposte che a grande stento vi ho strappate di bocca, son costretto dedurre una gran trista conclusione; ed è che i vostri nativi, presi un per l'altro, sono il più pernicioso branco di tutti gl'insetti cui la natura ha dato licenza di strisciarsi sopra la terra». CAPITOLO VII. Amor di patria dell'autore. — Proposta vantaggiosissima da lui fatta al re e da questo rifiutata. — Grande ignoranza del re in cose di politica. — Dottrine di questo paese assai imperfette e limitate. — Leggi, affari militari, fazioni. L'amore in me estremo della verità mi ha sol rattenuto dal palliare quella parte di mia storia che si legge nel precedente capitolo. Era inutile dal canto mio il manifestare un risentimento; sarebbe stato messo in canzone; onde mi convenne starmene quieto e rassegnato all'udire sì mal menato e trattato oltraggiosamente il mio diletto paese. Io fui realmente accorato, come debb'esserlo stato ciascuno de' miei leggitori, al vedermi nella necessità di entrare in simili propositi. Ma tanta fu la curiosità manifestatami dal principe, tanta la sua insistenza, che non si conciliava più nè co' riguardi della gratitudine nè con quelli della buon creanza il non appagare, fin dove per me si potea, le sue voglie. Devo per altro dire a mia giustificazione che mi sottrassi con arte, per quanto mi riuscì fattibile, a molte delle sue interrogazioni, e che diedi a ciascuna cosa un aspetto favorevole fin dove gli stretti limiti del vero me lo permisero. Perchè ho sempre sentita per la mia madre patria quella parzialità che Dionigi d'Alicarnasso raccomanda sì giustamente ad uno storico, e per cui vorrei sempre nascondere le fragilità e sconvenevolezze della medesima, e presentarne le bellezze e le virtù sotto il miglior punto di vista. E tal massima mi studiai sinceramente di serbare in tutte le informazioni che dovei dare a quel monarca, benchè sfortunatamente i miei sforzi andassero vuoti d'effetto. Ma vuolsi usare di molta indulgenza ad un re, il quale vivendo affatto segregato dal rimanente del mondo, dee per conseguenza essere ignaro delle maniere e costumanze che prevalgono presso l'altre nazioni; mancanza di lumi che dee necessariamente produrre e grandi preoccupazioni mentali e quella strettezza d'idee da cui andiamo esenti noi e le più colte contrade europee. E da vero, sarebbe un gran guaio se le nozioni che ha della virtù e del vizio un monarca così remoto da ogni consorzio del mondo, dovessero servire di regola a tutto il genere umano. Per confermare la verità di tal mia asserzione e dare a conoscere i miserabili effetti di un'educazione tanto segregata, citerò qui un fatto che stenterà ad esser creduto. Colla speranza di avanzare sempre di più nella buona grazia di sua maestà, gli parlai di una scoperta fattasi da noi, saranno omai corsi tre o quattro secoli, quella di fabbricare una certa polvere, un ammasso della quale, fosse enorme quanto una montagna, salta in aria in un attimo, sol che una piccolissima favilla cada sopra un menomo pugnello di esso, e genera tale frastuono e scuotimento che arriva a superare quello della folgore. Gli dissi come una data quantità di questa polvere, calcata entro un tubo di bronzo o di ferro, valesse, a proporzione della grossezza del tubo stesso, a mandar fuori una palla di ferro o di piombo con tanta violenza e velocità che nulla era capace di resistere al suo impeto; come le più grosse palle scaricatene fuori in tale guisa valessero non solamente a distruggere in una volta intere file d'eserciti, ma ad atterrare i più possenti baloardi delle fortezze, a sommergere in fondo al mare molte navi, ciascuna delle quali contenesse un migliaio d'uomini; come queste palle incatenate fra loro squarciassero alberi di navigli e sartiami, spazzassero uomini a centinaia, portassero strage e devastazione d'intorno a loro. Gli spiegai come spesse volte questa polvere venisse racchiusa entro grosse palle che altra polvere infocata spigneva fuori da immensi mortai perchè andassero a percuotere città assediate, ove sconnettevano lastrichi, rovinavano case e, scoppiando finalmente anch'esse, mandavano per tutti i versi fatali schegge che fracassavano le cervella di chiunque s'abbattea nella loro direzione. Gli dissi come io conoscessi ottimamente gl'ingredienti di cui si compone tal polvere, che erano assai comuni ed a buon mercato. Mi offersi anzi a fargliene io stesso ed a dirigere i suoi artefici nel fabbricar tubi proporzionati in ampiezza a tutte l'altre cose esistenti nel suo reame (non dovevano essere più lunghi di cento piedi); gli diedi a comprendere come una ventina di questi tubi caricati con la debita proporzione di palle e di polvere sarebbe bastata ad atterrare in poche ore le mura delle più gagliarde città de' suoi dominii, e fin della sua metropoli, ove questa avesse osato d'alzare lo stendardo della ribellione. Tutte queste cose spiegai ed offersi a sua maestà qual tenue omaggio della mia riconoscenza pe' tanti favori e contrassegni di protezione ch'egli avea versati su me. Indovinate mo! Rimase inorridito ed attonito alla mia descrizione ed alle mie offerte. «Non mi par nemmen vero, che un abbietto verme della terra par vostro (furono proprio questi i titoli che mi compartì) abbia ardito tenermi sì atroci propositi, e con questa bella disinvoltura, per cui si sarebbe detto che non vi commovessero nè poco nè assai le calamità da voi dipinte siccome effetti delle vostre macchine; del certo non può esserne stato il primo inventore altro che un genio cattivo, inimico del genere umano. Quanto a me, egli continuò, benchè tenerissimo delle nuove scoperte, sia nell'arti, sia nelle scienze della natura, vorrei piuttosto perdere la metà del mio regno che essere ammesso al segreto delle invenzioni da voi tanto esaltate, anzi, se vi preme la vostra vita, v'intimo di non mi fare più mai di questi discorsi.» Vedete a che conducono un'educazione pregiudicata ed una corta vista! Un principe, fornito del resto di quante prerogative procurano venerazione, stima ed amore, cui non mancavano nè grande saggezza nè profondo ingegno, quasi adorato da' suoi sudditi, per uno scrupolo da nulla, di cui in Europa non sappiamo nemmeno formarci un'idea, si lasciò sfuggir di mano l'opportunità di divenire padrone dispotico delle vite, de' privilegi e di tutte le sostanze del suo popolo! Nè dico ciò con intenzione di menomare i tanti pregi di quell'eccellente sovrano, la cui riputazione per altro, da questo lato, apparirà assai scemata agli occhi d'inglesi leggitori; vedo come un tal neo alla sua gloria sia da attribuirsi alla scarsezza delle cognizioni cui sono pervenuti i suoi dominii, al non esservi stato finora chi innalzi la politica al grado di scienza, come dai più acuti ingegni di Europa si è fatto. A questo proposito mi ricordo benissimo le meraviglie che un dì fece il re quando l'incidente di un certo discorso mi portò a dirgli che avevamo parecchie migliaia di volumi pubblicati su l'arte del governare. Ciò gli diede, e da vero io mi prefiggeva un effetto del tutto contrario, una tristissima idea del nostro intendimento. Mi protestò che odiava ed anzi tenea nel massimo dispregio ogni sorta di misteri, di mezzi termini, di sottigliezze, sia nel principe, sia ne' ministri. Non sapeva indovinare che cosa io m'intendessi per segreto di stato, ove non si avesse che fare con nazioni in guerra con noi, o interessate ai nostri danni. La scienza del governare, secondo lui, si riduceva a ben poche cose; ed erano senso comune e ragione, giustizia e moderazione, sollecitudine nello spedire le cause tanto civili quanto criminali, oltre ad alcune altre varie massime che non vagliono la pena di essere ricordate. Guardate che trivialità arrivava a dire! «Chiunque in un pezzo di terra de' miei dominii arrivasse a far crescere due spiche di grano o due fili d'erba ove nasceva una sola spica o un sol filo d'erba, varrebbe più ai miei occhi di tutta la razza dei politici dell'universo messi insieme.» L'istruzione di questi popoli è difettosa oltre ogni dire; consiste unicamente nella morale, nella storia, nella poesia, e nelle matematiche, in cui bisogna confessare la loro preminenza. Ma queste ultime scienze vengono unicamente applicate al miglioramento dell'agricoltura ed alle arti meccaniche, di modo che fra noi non se ne farebbe gran conto[23]. Circa poi all'idealismo, alla scienza degli enti, alle astrazioni metafisiche, al _trascendentalismo_, non sapreste come farne entrare il menomo concetto in quelle teste. Fra tutte le leggi di quel paese non ve n'è una le cui parole oltrepassino in numero le lettere del loro alfabeto, che sono soltanto ventidue, ma son poche da vero le leggi che arrivino nemmeno a questa prolissità. Le vedete esposte in termini semplicissimi e piani tanto che quegli abitanti non sono abbastanza arguti per sapere trovare loro più d'una interpretazione, anzi lo scrivere un comento su quelle leggi è un capitale delitto. Quanto alle decisioni delle cause civili, o ai processi criminali, i lor protocolli sono sì poco carichi che i giudici non hanno gran che da gloriarsi della propria abilità nel conchiudere le prime o i secondi. Que' popoli possedono da tempo immemorabile, come i Chinesi, l'arte della stampa, ma non sono molto ampie le loro biblioteche; quella del re, che si ha per la più vasta, non ha oltre a mille volumi collocati in una stanza lunga mille dugento piedi, da cui io avea la libertà di levare quanti libri desiderassi. L'ebanista della regina avea congegnato nelle stanze della Glumdalclitch un certo arnese di legno alto venticinque piedi, formato a guisa d'una duplice scala di gradini, larghi ciascuno cinquanta piedi, i cui due rami congiunti ad angolo si aprivano, per fermarla sul terreno, ad una distanza di dieci piedi della parete. Il libro ch'io aveva intenzione di leggere, veniva aperto ed appoggiato al muro. Io saliva prima sin all'ultimo gradino e, tenendo la mia faccia volta al libro, principiava a leggerlo in cima di pagina camminando dieci passi da sinistra a destra secondo la lunghezza della riga, e ciò finchè le parole fossero alcun poco al di sotto del livello del mio occhio, poi per leggere più in giù io scendeva all'inferiore gradino, e così a mano a mano finchè fossi in fondo; dopo di che risalito di nuovo al più alto gradino, io leggea l'altra pagina nella stessa maniera; poi voltavo carta con tutt'a due le mani, il che mi era facile, trattandosi di pagine grosse e consistenti come il cartone, e per quanto ampio fosse lo spazio de' fogli, non lo era mai più di diciotto o venti piedi. Lo stile di que' libri è chiaro, robusto e netto, ma non frondoso, perchè quivi nulla si abborrisce più dell'adoprar parole oltre al bisogno o del variare le espressioni. Ho lette molte di quelle opere, specialmente di storia e di morale. Fra l'altre mi divertì in singolar guisa un antico trattato di etica che stava sempre nella stanza della Glumdalclitch, ed apparteneva all'aia della medesima, una grave attempata matrona che si dilettava sempre di libri ascetici. Fui curioso di conoscere che cosa sapesse dire su tale argomento un autore di quel paese. Questo scrittore camminava su tutti i luoghi topici dei moralisti europei dimostrando quanto sia di sua propria natura un ente picciolo, bisognoso e spregevole l'uomo, come sia inetto per sè stesso a difendersi dall'inclemenza dell'aria o dal furor delle belve, come sia superato da una creatura nella forza, da un'altra nella velocità, da una terza nella previdenza, da una quarta nell'industria. Vi si parlava della natura umana degenerata in questi ultimi deteriorati secoli del mondo, e divenuta sol capace di produrre aborti a confronto delle sue produzioni dei tempi anteriori. Si diceva in quel libro essere cosa ragionevole il pensare che le specie umane in quelle età fossero non solo più gagliarde, ma gigantesche; cosa affermata dalla storia e dalle tradizioni e confermata dall'enormi ossa e dagli enormi teschi scavati a caso in parecchie parti del regno, e tanto superiori di mole agli ossami ed ai crani delle imbastardite schiatte de' nostri giorni. L'autore inferiva dalle leggi assolute e primitive della natura che gli uomini in principio dovevano essere stati d'una complessione più forte e robusta, nè soggetti ad essere distrutti dal più lieve incidente d'una tegola caduta da un tetto, d'un sasso scagliato da un fanciullo, o di restar annegati entro un ruscello. Da un tal modo di ragionare il mio moralista deduceva più applicazioni utili nella condotta della vita, ma che non fa qui mestiere il ripetere. Quanto a me, non seppi starmi dal considerare come fosse generale questo talento di tirar lezioni di morale o piuttosto soggetti di crepacuore e d'umiliazione dai torti che s'appongono alla natura. E dopo averci ben pensato sopra, io sono d'avviso che le querele mosse contr'essa dagli uomini sieno mal fondate fra noi altrettanto quanto lo erano fra i popoli di Brodingnag. Circa alle cose loro militari essi fanno ascendere l'esercito reale a cento settantasei mila uomini di fanteria e trentasei mila di cavalleria; se può chiamarsi esercito una milizia composta di trafficanti di ciascuna città e di fittaiuoli delle campagne posti sotto il comando di nobili e di padroni di poderi, i quali comandanti servono tutti senza stipendio di sorta alcuna. Questa milizia si mostra veramente perfetta nell'armeggiare, e religiosissima della disciplina, nè in questa seconda cosa io ravvisai un grande merito, perchè, come potrebbe accadere altrimenti, se ciascun coltivatore è sotto gli ordini del padrone del fondo, ciascun cittadino sotto quelli dei personaggi più notabili della città, scelti per suffragi come si usa in Venezia? Ho veduto più volte la milizia di Lorbrulgrud condotta a far gli esercizi sopra una piazza posta in poca distanza dalla metropoli, d'una larghezza all'incirca di ventiquattro miglia quadrate. Tal milizia non oltrepassava in tutto ventimila uomini di fanteria e seimila di cavalleria, ma era impossibile per me il contarli, atteso l'immenso spazio ch'essi occupavano. Ciascuno di questi cavalieri, montato su enorme cavallo, presentava un'altezza di circa novanta piedi. Ho veduto quest'intero corpo di cavalleria ad una parola di comando sguainare in una volta tutte le sciabole e brandirle all'aria. Non v'è immaginazione che sappia figurarsi un effetto più magico, più sorprendente. Avreste detto che ventimila strisce di lampi scintillassero in una volta da tutti i punti del firmamento. Mi nacque la curiosità di sapere, come mai in quella monarchia, i cui dominii sono posti fuori di comunicazione con tutti gli altri paesi, sia entrato il pensiero d'istituire un esercito, e donde poi abbia tolte le idee per far pratica nella militare disciplina la sua soldatesca. Ma col conversare e col leggere la storia di que' popoli non tardai ad essere informato che per un lungo corso di secoli furono travagliati da quella medesima malattia cui tutto il genere umano è soggetto, e che spesse fiate i nobili guerreggiarono per assicurarsi il potere, i popoli per acquistarsi la libertà, i re per concentrare in sè stessi il dominio assoluto. E se bene tutt'a tre quelle forze sieno state tenute in un certo freno dalle leggi fondamentali del regno, queste vennero più d'una volta violate, or dall'una, or dall'altra delle tre parti, donde son nate frequenti guerre civili: l'ultima andò felicemente a terminare in un generale accomodamento dovuto all'avolo del vivente monarca, e d'allora in poi la milizia stabilita di comune consenso non si è più mai dipartita dalle regole del più stretto dovere. CAPITOLO VIII. Il re e la regina imprendono un viaggio alle frontiere. — L'autore gli accompagna. — In qual modo abbandoni il paese, e particolarità che si riferiscono a ciò. — Suo ritorno nell'Inghilterra. Io ebbi sempre un forte presentimento che avrei ricuperata un giorno o l'altro la mia libertà, benchè fosse impossibile il congetturare per quali vie, o il concepire a tal uopo verun divisamento con qualche fondata speranza di buon successo. Il bastimento a bordo del quale io avea fatto il mio viaggio, era il primo che fosse mai capitato a veggente di quella costa; anzi i sovrani aveano dati stretti ordini che, se mai altra volta ne comparisse un secondo, fosse tosto tirato alla spiaggia e, con tutta la sua ciurma ed i passeggieri, condotto in una carretta alla metropoli. Il re soprattutto propendea grandemente a trovarmi una moglie della mia statura, a fine di propagare ne' suoi dominii la nostra razza, ma io credo sarei piuttosto morto che sottomettermi alla disgrazia di lasciare dei posteri da essere tenuti in gabbia ad uso di canerini, e forse col tempo mercanteggiati attorno al regno per servire di curioso trastullo alle famiglie dei gran signori. Certo io veniva trattato con grande affabilità, io mi vedeva il favorito di due possenti monarchi, accarezzato da tutta la corte; ma era quel genere di accarezzamento che digrada la dignità dell'uomo. In oltre, io non avea mai potuto dimenticarmi i cari domestici pegni ch'io mi era lasciati addietro. Io desiderava trovarmi fra gente con cui poter conversare da pari a pari, e camminare per campi e strade ove non dover temere ad ogni passo di essere schiacciato a guisa d'un ranocchio o d'un cagnolino di latte. Ma la mia liberazione venne più presto ch'io non me l'aspettava, e d'una maniera veramente non comune; il come e le circostanze di un tale avvenimento mi accingo ora a narrare. Io era già rimasto due anni in quella contrada, ed al principio circa del terzo, la Glumdalclitch ed io accompagnavamo il re e la regina in un viaggio alla costa meridionale del regno. Io veniva trasportato secondo il solito nella mia cassetta da viaggio che, come già altrove ho descritto, era un convenientissimo gabinetto, largo in circa dodici piedi. Ordinai che, alla cima di esso, il mio letto pensile venisse assicurato ai quattro lati con cordicelle di seta, e ciò per evitare le scosse, quando un servo mi portava dinanzi a lui sul suo cavallo, come qualche volta io lo desiderava; su questo letto ancora io sovente m'addormentava lungo il cammino. Alla soffitta di tal mia stanza portatile io aveva fatto praticare dall'ebanista della regina un pertugio di fianco, dell'estensione di circa un piede quadrato, perchè nella calda stagione ne venisse l'aria mentre io dormiva; questo pertugio io chiudeva ed apriva a volontà mediante un'asse che correva innanzi e indietro entro una scanalatura. Giunti al termine del nostro viaggio, il re giudicò a proposito passare alcuni giorni in un suo palazzo situato in vicinanza di Flanflasnic, città non più distante di diciotto miglia dalla spiaggia. La Glumdalclitch ed io ci sentivamo poco bene; quanto a me, m'avea sol preso un piccolo raffreddorre, ma la povera giovinetta era in sì mal essere che dovea rimaner confinata nella sua camera. Io non ne potea più dalla voglia di veder l'oceano, unica sperabile scena della mia liberazione, se pure era possibile. Finsi star peggio ancora di quello ch'io stava in realtà, e chiesi la permissione di andar a prendere l'aria fresca del mare in compagnia d'un paggio, cui m'ero grandemente affezionato, ed alla custodia del quale io veniva sovente affidato. Non mi scorderò più mai la renitenza della Glumdalclitch a lasciarmi andare, e il dirompimento di pianto in cui diede, quasi fosse presaga di quanto era per accadere. Il paggio, presomi seco entro la mia cassetta, fece un passeggio di circa mezz'ora verso la riva del mare, ove, quando fummo, gli ordinai che mi ponesse a terra; quivi, alzata una delle mie saracinesche, mandai un'occhiata ansiosa all'oceano; poi, sentendomi proprio male, dissi al paggio di voler dormire un sonnicello che capivo m'avrebbe giovato. Gettatomi sul mio letto pensile, il paggio ne chiuse le finestre per tenermi riparato dall'aria. Non tardai ad addormentarmi, ed il mio custode ed il paggio, non s'immaginando mai che verun pericolo mi sovrastasse, andarono a girare fra quegli scogli in cerca d'uova d'uccelli, così almeno io congetturo, perchè poco prima io gli avea veduti dalla mia finestra coglierne due o tre da una crepaccia. Desto d'improvviso da una furiosa strappata data all'anello attaccato per la comodità del trasporto alla mia cassetta, mi sentii levato in aria a grandissima altezza, indi portato in avanti con sorprendente velocità. La prima scossa era stata sì violenta, che mancò poco non mi balzasse fuori del letto, ma in appresso il moto della mia prigione divenne bastantemente uniforme. Mandai ripetute grida con quanto di voce io aveva, ma tutto indarno. Guardando verso le finestre io non vedeva altro che nubi e firmamento. Finalmente, udito uno strepito su la mia testa simile ad un battere d'ali, cominciai a capire in qual tristissima posizione io mi trovassi, e che sicuramente un qualche uccello aveva afferrato col rostro l'anello della cassetta, e mi portava sì in alto per lasciarmi cadere sopra uno scoglio, a guisa di testuggine entro il suo guscio, poi trarne fuori le povere mie carni e divorarsele; perchè l'accorgimento e l'odorato di quegli uccelli li fa atti a scoprire la loro preda a grandi lontananze ed ancor meglio riparata che nol fossi io da due dita di parete di legno. Di lì a poco sentii aumentarsi con grande celerità lo strepito e lo sbattimento dell'ali, onde la mia casa portatile si sventolava per tutti i versi come un'insegna di bottega quando spira più gagliardo il vento. Udii un suono come di bôtte menate sul volatile mio rapitore, perchè io era certo non poter essere nient'altro fuorchè un uccello che si tenesse col rostro l'anello della mia gabbia; poi in un subito, mi sentii cadere perpendicolarmente all'ingiù per la durata circa d'un minuto, ma con tale incredibile prestezza che perdei quasi del tutto la respirazione. La mia caduta fu fermata da un tremendo tonfo, che rintronò più romoroso al mio orecchio della cateratta del Niagara[24], dopo di che rimasi affatto al buio per un altro minuto; poi la mia casa tornò ad alzarsi quanto bastava perchè potessi vedere la luce dalla cima delle finestre. Allora m'accorsi di essere caduto nel mare. La mia cassetta vi galleggiava, ma, grazie al peso del mio corpo, alle mie suppellettili che conteneva e alle larghe bande d'acciaio fermate ai quattro angoli della cima e del fondo per rinforzarla, pescava cinque piedi sott'acqua. Io supposi allora, e tuttavia continuo a supporlo, che l'augello volato via con la mia casa fosse stato inseguito da due o tre altri e costretto lasciarmi cadere per difendersi contra gli altri ansiosi di divider seco la preda. Le bande di ferro fermate sul fondo, chè erano quelle le più forti, mantennero senza dubbio l'equilibrio della cassetta mentre cadeva, onde non andò ad infrangersi obbliquamente con la superficie del mare. Ogni parte di essa ottimamente connessa e le imposte della porta tanto ben serrate che non avevano altro moto fuor del piccolo alzarsi ed abbassarsi dei cardini, tennero sì mondo il mio gabinetto che ben poc'acqua ci potè penetrare. Io venni a grande stento fuor del mio letto pensile, dopo essermi prima riuscito tirare addietro quell'asse scorrevole, congegnata, come vi dissi, in modo di lasciare passar l'aria; senza di ciò io rimanea pressochè soffocato. Oh! come mi augurava io in quel momento di essere con la mia cara Glumdalclitch da cui una sola ora mi avea diviso per tanta lontananza! E posso dire con verità che, in mezzo anche a tanta disgrazia, non seppi starmi dal pensare alla mia povera balietta e dall'angosciarmi all'idea del rammarico ch'ella sentirebbe. Probabilmente nessun viaggiatore ha gemuto sotto il peso di calamità e rischi maggiori di quelli che mi premevano in tal congiuntura: io era esposto da un istante all'altro a veder fatta in pezzi la mia cassetta, o per lo meno capovolta dal primo soffio di vento o dal primo cavallone che si sollevasse. Il rompersi d'una sola lastra delle mie finestre era una morte immediata per me; nè null'altro potea salvarle fuor delle forti grate di ferro postevi al di fuori per andar contro agl'incidenti del viaggio. Io vedea già l'acqua stagnare in più d'una fenditura e ne atterriva, benchè le falle non fossero considerabili e m'ingegnassi turarle il meglio ch'io potea. Io non era buono d'alzare il coperchio del mio gabinetto, il che avrei certamente fatto se mi fosse stato possibile, perchè, sedendomi su la cima, mi sarei salvato almeno alcune ore di più, che restando confinato, per così esprimermi, nella stiva. Ma quand'anche mi fossi sottratto a que' pericoli per un giorno o due, che cosa poteva io aspettarmi fuor d'una miserabile morte? Rimasi quattro ore in questa agonia, aspettandomi, e per dir vero augurandomi, che ciascun momento fosse l'ultimo della mia vita. Devo aver descritto altrove al mio leggitore, come due forti caviglie fossero infitte a quel lato della mia cassetta che non aveva finestre, e come lo staffiere solito a portarmi con la mia casa sopra le spalle raccomandasse a queste la coreggia che reggea tutto il peso, affibbiandosela indi alla cintura. In quel mio stato di desolazione, parvemi udire un romore come di raschiamento alla parte dov'erano infitte le caviglie; e poco dopo principiò a parermi che la mia piccola casa fosse spinta o rimorchiata per traverso al mare, perchè a quando a quando io m'accorgea di certa altalena che faceva ora abbassare, ora alzar l'acqua al di sopra della cima delle mie finestre onde io rimaneva quasi affatto all'oscuro, la qual cosa infuse in me alcune vaghe speranze di un soccorso, ch'io per altro non sapea figurarmi nè come nè donde mi potesse venire. Mi provai a spacciare dalla vite, che le fermava sempre al pavimento, una delle mie scranne, poi non senza fatica tornai a stabilirla con la sua vite direttamente sotto l'asse scorrevole di cui vi ho parlato, e che, come dissi, io avea prima tirata addietro. Montato su quella scranna ed accostato il volto quanto potei al pertugio, mi diedi ad implorare aiuto con tutta la forza della mia voce ed in quante lingue io sapeva parlare. Legato indi il mio fazzoletto al bastone ch'io avea sempre con me, passai fuor del pertugio questo stendardo, e lo feci sventolare molte volte, affinchè, se qualche bastimento o naviglio fosse stato lì in vicinanza, i marinai avessero potuto congetturare che qualche povero sgraziato era chiuso entro quella cassetta. Benchè le mie grida rimanessero senza risposta, io m'accorgea per altro che la mia cassetta continuava a moversi in una costante direzione, finchè, trascorsa una buon'ora, dalla parte delle caviglie, quella cioè che era sguarnita di finestre, sentii che la mia casa urtò in qualche cosa di resistente. Temei fosse uno scoglio, chè il conquassamento della cassetta era divenuto più gagliardo; indi ascoltai uno strepito come di una gomona al di sopra del coperchio, e tal raschiamento come se qualcuno la facesse passare entro l'anello della cassetta ch'io sentii alzarsi gradatamente ad un'altezza per lo meno tre volte maggiore di quella della prima sua posizione. Allora tornai a mandar fuori quel mio stendardo ch'io m'era fatto con un fazzoletto e un bastone ed a gridare _Aiuto!_ sì spietatamente, che la mia voce era divenuta non vi so dir quanto rauca. In risposta ascoltai un grido ripetuto tre volte che m'empiè di tale esultanza qual può concepirla soltanto chi l'ha provata. Udii allora un calpestio di piedi su la mia testa, ed una voce sonora che dal pertugio parlava in inglese: — «Se v'è qualche creatura umana laggiù, parli! — «Sono un Inglese, gridai; condotto dalla mia trista fortuna alla più orrenda fra quante calamità possano succedere ad una creatura umana. Deh! per quanto avete di più sacro, o di più caro, liberatemi da questo carcere! — «Siete salvo a quest'ora, la voce mi rispose, perchè quel vostro naviglio è legato al nostro bastimento, e il carpentiere verrà tosto a segare tanta larghezza di coperchio quanta basti a tirarvi fuori di lì. — «Che bisogno c'è di segare? io risposi, si perderebbe troppo tempo. Non avete a far altro che mandare un uomo della vostra ciurma; con un dito che metta entro l'anello, leva su dal mare tutta questa baracca, la mette nel bastimento, poi nella stanza del capitano». Alcuni di quelli, all'udire un proposito sì stravagante, mi giudicarono un pazzo, altri si diedero a sghignazzare. Che volete? Non m'era anche entrato in testa ch'io mi trovava finalmente fra uomini della mia statura e sol dotati della mia forza. Giunto il carpentiere, in pochi minuti aperse con la sega un foro di quattro piedi quadrati, donde calò una scaletta a mano, ch'io salii, ed in appresso fui ricevuto a bordo in una condizione la più deplorabile. I marinai immersi nello stupore, mi faceano mille interrogazioni, alle quali in quello stato mio avea tutt'altro che voglia di rispondere. Io era per parte mia confuso alla vista di tanti pigmei, perchè tali mi sembravano dopo avere per sì lungo tempo avvezzati i miei occhi agli sterminati oggetti ch'io m'era lasciati addietro. Ma il capitano, signor Tomaso Vilcocks, onesto e degno mercante di provincia, vedendomi presto a svenire, mi condusse nel proprio gabinetto, ove, datomi un cordiale, volle che mi buttassi sul suo letto per pigliare un riposo di cui si vedeva in me grande il bisogno. Prima ch'io venissi ad addormentarmi, e sempre durandomi quella confusione d'idee, feci capire al capitano come avessi lasciato nella mia cassetta diverse cose di valore che sarebbe stato un peccato se fossero andate disperse: un letto pensile, un elegante letto da campo, due scranne, una tavola, un gabinetto tappezzato da tutti i lati, o piuttosto trapuntato di seta e bambagia; aggiunsi che se si fosse compiaciuto mandare un di sua gente a levare quel gabinetto per essere trasportato nella sua stanza, gliene avrei aperti tutti i ripostigli e fatto vedere le mie cose preziose. Il capitano, all'udirmi spacciare tante stramberie, concluse che assolutamente io doveva aver perduto il giudizio. Nondimeno (io suppongo per tenermi buono) promise dare ordini in conformità de' miei desiderii, anzi portatosi sul ponte, mandò veramente alcuni de' suoi piloti abbasso nel mio gabinetto, donde costoro (lo seppi più tardi) portarono via ogni mio mobile e spogliarono di tutti gli addobbi le pareti; ma le scranne, l'armadio ed il fusto del letto essendo fermati a vite sul pavimento, furono molto danneggiati dalla loro ignoranza che gl'indusse a strapparli via con mal garbo e a forza di braccia. Spaccatene allora diverse tavole per uso del bastimento e tenutisi per sè quanto fece al loro caso, ne gettarono in mare l'ignudo carcame che, a motivo degl'intacchi sofferti nel fondo da tutti i lati, rimase a dirittura sommerso. Da vero ebbi un gran gusto di non essermi trovato presente a tale saccheggio; son persuaso che m'avrebbe punto al vivo un tale spettacolo attissimo a ricondurmi alla memoria alcuni punti della mia storia dei due anni scorsi che avrei di tutto buon grado dimenticati. Dormii alcune ore, ma continuamente disturbato da sogni che mi trasportavano nel paese di recente abbandonato e fra i tremendi rischi cui m'ero sottratto. Nondimeno allo svegliarmi mi trovai grandemente riavuto. Erano otto ore della notte all'incirca quando il capitano ordinò che s'imbandisse tosto la cena sembrandogli che avessi già fatto un digiuno lungo anche di troppo. M'intertenne con molta affabilità, avvertendomi per altro di dismettere certo fare stravagante e certi propositi che sentivano di pazzia; soggiunse poi che, quando saremmo stati soli, avrebbe udito volentieri da me la storia de' miei viaggi, e soprattutto il motivo per cui io mi era trovato in balia dell'acqua entro quella mostruosa cassetta. «La vidi, egli mi diceva, al mezzodì di questa mattina mentre guardavo in lontananza col mio cannocchiale; anzi io l'avea presa per un bastimento, ch'io mi prefiggea raggiugnere, giacchè non mi era molto giù di mano, con la speranza di poter comprare un po' di biscotto, provisione di cui comincio a trovarmi corto. Ma venutovi più vicino e accortomi del mio errore, mandai il mio scappavia per sapere che cosa stesse così galleggiando sul mare. Con che spavento i miei piloti vennero ad avvisarmi di aver trovata una casa che nuotava! Mi diedi a ridere credendoli pazzi, e venni io stesso nel palischermo ordinando loro di portar seco una gomona ben gagliarda. Essendo tranquilla la giornata, feci più volte co' remi il giro esterno di quella vostra casa, ne osservai le finestre, le inferrate che le riparavano, e quelle due caviglie infitte nel lato tutto d'asse che non dava passaggio alla luce. Allora comandai alla mia gente di portarsi a quella parte, di attaccarvi la gomona ad una delle due caviglie e di rimorchiare quella che chiamavano vostra casa. Quando fu giunta qui, feci passare un'altra gomona per l'anello posto in cima al coperchio a fine di sollevarla con l'aiuto di carrucole, ma i miei piloti non furono buoni d'alzarla più di due o tre piedi. Videro per altro quel vostro bastone su cui sventolava un fazzoletto sporgente fuori del buco superiore, e ne dedussero che qualche povera creatura era rinchiusa lì entro. — «E non vedeste, io chiesi, o voi, o qualcuno de' vostri, svolazzare, all'incirca nel tempo stesso, per l'aria nessun uccello di smisurata grandezza? — «Di smisurata grandezza? Mentre eravate addormentato io parlava del caso vostro co' miei piloti, e un di questi ha veramente detto di aver veduti tre uccelli che volavano a tramontana, ma non ha notato che fossero di proporzioni maggiori delle solite a vedersi». Ciò, suppongo, era da attribuirsi alla grande altezza in cui si saranno trovati e il grifagno mio rapitore e i suoi avversari. Certo il capitano non intese a che proposito gli avessi fatta simile inchiesta. — «E, continuai, giusta i vostri computi, quanto saremo noi lontani ora da un continente? — «Io crederei all'incirca un centinaio di leghe. — «Ho paura ci sia uno sbaglio di calcolo, almeno d'una metà, perchè non lasciai il paese donde venni, se non due ore prima di cascar nel mare». All'udir questo, tornò a confermarsi nell'opinione che m'avesse dato volta il cervello, onde mi consigliò d'andarmi a gettar sul letto che m'avea fatto apparecchiare. — «Vi sono obbligato, mio signore, ma io mi sono abbastanza ristorato grazie ai vostri buoni trattamenti ed al conforto della vostra compagnia. V'assicuro poi che sono nel mio sano giudizio più di quanto io ci sia mai stato in mia vita». Allora poi si fece serio da vero, e così mi parlò: — «Venitemi schietto, figliuolo. La vostra mente è conturbata dalla coscienza d'un non so quale enorme delitto, di cui la giustizia di qualche sovrano v'ha castigato esponendovi al mare entro quella cassa. Non è cosa nuova che anche in altri paesi alcuni rei di atroci delitti sieno stati abbandonati al mare entro bastimenti sdrusciti e privi di provvisioni. Non vi dirò certo che non mi dispiaccia di essermi preso a bordo un uomo tanto perverso; ciò nondimeno vi do la mia parola che sarete tragettato sano e salvo al primo porto che toccheremo». Ed a comprovarmi sempre più che il suo sospetto non mancava di fondamento, mi enumerò tutte le particolarità che lo avevano avvalorato, vale a dire i discorsi stravaganti da me tenuti prima co' marinai, poscia con lui medesimo intorno alla mia cassa ed alle suppellettili che vi si contenevano, la mia guardatura stralunata e la totalità del mio contegno durante la cena. Lo pregai armarsi di pazienza tanto d'udir la mia storia che gli raccontai fedelmente cominciando dal punto in cui mi partii dall'Inghilterra e venendo a quello del nostro presente scontro. E poichè la verità si apre per forza la strada nelle menti degli uomini ragionevoli, quel degno galantuomo, che, oltre ad un rettissimo discernimento, aveva ancora qualche tintura di dottrina, rimase immediatamente convinto dal candore e dalla veracità che spiravano da' miei detti. Ciò non ostante, per autenticarli viemeglio col fatto lo pregai ordinare che fosse portato lì il mio armadio di cui io aveva in tasca la chiave; del resto delle suppellettili m'avea già detto egli stesso qual uso avessero fatto i suoi marinai. Apertolo in sua presenza, gli mostrai la raccoltina di rarità da me unite nel paese donde così prodigiosamente potei liberarmi. Quivi era il famoso pettine che avea per denti i peli della barba del re, ed un altro della stessa dentatura, ma ricurvo per tenere imprigionati i capelli affinchè non mi cadessero su le spalle, e fabbricato col ritaglio dell'unghia del dito grosso d'un piede dello stesso re. Vi si trovava parimente una raccolta di spilli e d'aghi di tutte le lunghezze tra un piede ed un mezzo braccio, quattro pungoli di vespa che parevano altrettanti agutelli di un ebanista; vi erano pure alcuni altri pettini armati di punte di capelli della regina, ed un anello d'oro che questa si tolse un dì dal suo dito mignolo, e fattaci passar entro la mia testa, volle che in quel prezioso collarino io serbassi una memoria del suo regale favore. Io pregava anzi il capitano ad accettarlo qual contrassegno di riconoscenza alle bontà da lui usatemi; ma egli assolutamente lo ricusò. Gli mostrai anche un callo ch'io avea tagliato di mia propria mano dal piede di un damigella d'onore; era grosso come una mela appia, e venuto a tal durezza che, di ritorno in Inghilterra, lo scavai riducendolo in forma di calice da me incastrato in appresso in un piede d'argento. Per ultimo gli feci osservare le brache ch'io calzava allora, e che erano venute fuori dalla pelle di un sorcio. Non mi riuscì indurlo a ricevere altro dono fuor quello del dente d'un regio staffiere, su cui gli vidi fermare l'occhio con maggiore curiosità, e di cui credei vederlo singolarmente invaghito. I ringraziamenti che mi fece nell'accettarlo, eccedeano da vero il merito di simile bagattella. Era un dente strappato in fallo da un chirurgo mal pratico allo stesso staffiere, servo addetto al servigio della Glumdalclitch, il quale si dolea del male di denti. Il dente strappato in vece era sanissimo, e fu da me accuratamente rimondato, lavato e riposto nel mio armadio; la sua lunghezza era d'un piede, il diametro di quattro dita. Soddisfattissimo il capitano dell'ingenuità della relazione ch'io gli feci, mi disse: — «Spero bene che, tornato al vostro paese, vorrete farvi un merito verso il genere umano col metterla in iscritto e pubblicarla. — «Signore, gli risposi, il mondo è proveduto sì a sazietà di tali storie di viaggi, che nulla di questo genere omai viene ammesso se non è d'una novità straordinaria; e credo bene stia in ciò il motivo per cui certi autori consultano meno ne' loro racconti la verità che l'interesse proprio o la propria vanità, o anche il bisogno di dare spasso a qualche leggitore ignorante. Or vedete che la mia storia non contiene se non comunissimi avvenimenti, ed è priva in oltre dell'adornamento che potrebbero darle le descrizioni di piante, alberi, uccelli ed altri animali esotici, o vero delle barbare costumanze e dell'idolatria dei selvaggi, mercanzia di cui ringorgano i fondachi di tutti gli scrittori di tal sorta d'opere. Nondimeno vi ringrazio della buona opinione che avete di me, e vi prometto che non tralascerò di meditare la gentile vostra proposta. — «Voglio dirvi, soggiunse il capitano, una cosa che mi fa meraviglia, ed è l'udirvi parlar sì forte. Il re e la regina del paese donde venite erano forse duri d'orecchio? — «Eh! signor no; ma devo soggiugnervi che dopo le abitudini da me contratte in due e più anni di tempo, è altrettanta quanto la vostra la mia meraviglia nell'udir voi e la vostra gente parlare affatto sotto voce, e darmi non poca fatica a capir quel che dite. Dipignetevi bene la mia posizione quando io entrava in dialoghi nel paese che ho abbandonato. Io era col mio interlocutore nello stato di chi, da star su la strada, parlasse ad uno che si fosse posto su d'un campanile, semprechè non fossi stato messo sopra una tavola o tenuto in mano dall'interlocutore medesimo. E questa meraviglia che riguarda l'udito, l'ho anche provata rispetto alla vista; quando la prima volta son venuto a bordo del vostro bastimento, voi e la vostra gente mi parevate... mi vergogno a dirlo quel che mi parevate... meno assai che pigmei! E sappiate bene che, quando ero alla corte di Brobdingnag, io non avea più il coraggio di guardarmi nemmeno nello specchio, tanto ero divenuto uno spregevole insetto a' miei occhi a furia di confrontarmi con quegli sterminati miei ospiti. — «Ah! è per questo che, cenando meco, non solamente guardavate tutto con occhio di stupore, ma vi trattenevate a stento dal ridere, il qual contegno, ve lo confesso, io attribuiva a qualche sconcerto accaduto nel vostro cervello. — «Era giustissima la vostra congettura; anzi non so da vero come io abbia fatto a non dare in uno scoppio di risa al vedere que' vostri tondi non più larghi d'una monetina d'argento da tre soldi, un piede di porco grosso come una briciola, bicchieri che pareano gusci di nocciuola (con questa proporzione proseguii descrivendogli tutti i suoi vasellami e stoviglie). È ben vero, continuai, che la regina aveva ordinata una fornitura di tutte le cose necessarie al mio uso, ma le mie idee si modellavano su tutto il rimanente degli oggetti che mi stavano intorno, e dissimulavo a me stesso la mia picciolezza come altri dissimulano a sè stessi i propri difetti». Il capitano comprese ottimamente la forza del mio scherzo, e mi rispose con uguale giocondità. — «Credo per altro che i vostr'occhi sieno più grandi della vostra pancia, perchè, per essere stato digiuno un'intera giornata, non ho veduto in voi un proporzionato appetito. Oh! da vero (disse continuando nella vena del buon umore) avrei pagato volentieri cento sterlini per vedere la vostra casa nel becco di quell'uccellaccio, poi la vostra caduta da tanta altezza nel mare, spettacolo al certo sorprendentissimo e meritevole che il programma ne venga trasmesso a tutti i secoli avvenire». La comparazione di Fetonte era sì ovvia che non seppe stare dall'incastrarla nelle sue arguzie, ma per parte mia non fui buono d'ammirar molto questo concetto. Il capitano, che veniva da Tonchino, s'accigneva al suo ritorno per l'Inghilterra dirigendosi a greco (nord-est), trovandosi allora ad una latitudine di 44, ad una longitudine di 143. Ma scontratici in un vento di commercio[25], due giorni dopo che m'ebbe a bordo, veleggiammo per lungo tempo ad ostro, e costeggiando la Nuova Olanda, governammo a ponente libeccio (west-sud-west) finchè ci fummo lasciato sottovento il Capo di Buona Speranza. Felicissimo fu il nostro viaggio, ma non noierò il leggitore coll'offerirgliene il giornale. Il capitano si fermò ad uno o due porti, mandando il suo scappavia a far provista d'acqua dolce. Io nondimeno non uscii mai del bastimento finchè non fummo giunti alle Dune, il che accadde al 3 giugno 1706, nove mesi circa dopo la mia liberazione da Brobdingnag. Io volea lasciare le mie suppellettili per guarentire il pagamento del mio nolo; ma il buon capitano non ne volle di sorta alcuna. Licenziatici affettuosamente l'uno dall'altro, mi feci promettere dal mio liberatore che sarebbe venuto a trovarmi in mia casa a Redrift, poi presi a nolo un cavallo ed una guida per cinque scellini che il capitano medesimo mi prestò. Postomi appena in cammino, le case, gli alberi, il bestiame mi pareano sì piccoli che cominciai a credere di essere un'altra volta a Lilliput. Avevo paura di andare addosso co' piedi a quanti viandanti io incontrava; anzi, gridando che si facessero da una banda per non essere schiacciati, rischiai una o due volte di farmi rompere la testa per la mia impertinenza. Arrivato a casa mia, che dovetti farmi insegnare, e venuto un servitore ad aprirmi, mi sbassai, come fa un'oca entrando dal portello del pollaio, per paura di batter la testa al volto superiore. Corsami incontro mia moglie per abbracciarmi, mi chinai al di sotto delle sue ginocchia pensando che altrimenti ella non sarebbe arrivata alla mia faccia. Mia figlia s'inginocchiò per domandarmi la paterna benedizione, ma io non la vidi finchè non si fu alzata, tanto io m'era avvezzato a guardare sessanta piedi al di sopra di me; poi per istrignermela fra le braccia andai a prenderla per la cintura. Io guardava d'in su in giù i miei servitori ed uno o due amici che si trovavano lì, come s'io fossi stato un gigante, eglino pigmei. Diedi torto a mia moglie della sua soverchia economia, perchè ella e sua figlia, resesi quasi invisibili, si erano lasciate languir di fame senza un perchè. In somma, io diceva e faceva cose sì strambe che la pensarono tutti come il capitano al primo vedermi. Vi dico queste particolarità per portarvi un esempio della forza dell'abitudine e de' pregiudizi che ne derivano. Non passò gran tempo che la mia famiglia ed io cominciammo ad intenderci scambievolmente, ma mia moglie protestò che non m'avrebbe più mai lasciato correre il mare, benchè la mia mala sorte avesse predisposto che nemmen mia moglie potesse impedirmelo, come il leggitore vedrà fra poco. Intanto io do qui termine alla seconda parte degli sfortunati miei viaggi. PARTE TERZA VIAGGIO A LAPUTA CAPITOLO I. L'autore imprende il suo terzo viaggio. — È preso dai pirati. — Messo a peggior partito dalla malignità di un Olandese. — Arriva in un'isola. — Viene accolto dagli abitanti di Laputa[26]. Io era tornato in seno della mia famiglia, quando, non erano trascorsi più di dieci giorni, venne a trovarmi il capitano Guglielmo Robinson nativo di Cornovaglia, comandante dello _Sperabene_, un buon bastimento di trecento tonnellate. Tempo prima, io era già stato chirurgo in un altro bastimento che veleggiò per levante, di ragione per una quarta parte del detto Robinson, il quale ne era il tenente. Egli m'avea sempre trattato più come un fratello che come un suo inferiore, ed appena udita la notizia del mio ritorno, venne a farmi una visita ch'io attribuii unicamente ad un tratto di sua amicizia; nè infatti, mentre c'intertenemmo insieme, occorsero particolarità diverse da quelle solite a notarsi in un colloquio di due amici che non si erano veduti da lungo tempo. Ma ripetute spesso queste sue visite, e manifestando sempre la sua gioia per l'ottimo stato di salute in cui mi trovava, or mi chiedeva s'io contava di essere ripatriato per tutta la mia vita, or mi spiegava la sua intenzione d'imprendere fra due mesi un viaggio alle Indie Orientali; per farla corta, mi offerse, messi a parte i preamboli, pure non senza scusarsi su l'ardire della sua proposta, un impiego di chirurgo nel suo bastimento. Avrei avuto, mi disse, un altro chirurgo sotto di me, oltre a due aiutanti; il mio stipendio sarebbe stato il doppio dell'usuale accordato agli uficiali di sanità; più, avendo sperimentata la mia intelligenza negli affari marittimi, si obbligava a riguardarmi per lo meno come suo eguale ed a conformarsi tanto al mio parere, che non lo avrebbe fatto di più se gli fossi stato pari nel comando. Aggiunse mille altri gentilissimi propositi, ed io, sapendo quanta fosse la sua onestà; e, bisogna dire anche questo, la brama di vedere ancora nuovi paesi continuando in me più violenta che mai ad onta di tutte le sofferte disgrazie, non fui buono di ricusare la sua offerta. Rimaneva soltanto una difficoltà: quella di persuadere mia moglie; ma finalmente ottenni il consenso anche di questa col metterle innanzi agli occhi la prospettiva de' vantaggi che dal mio viaggio ella potea ripromettersi pe' nostri figli. Salpati il 5 agosto 1706, arrivammo al forte San Giorgio l'11 aprile del 1707. Vi rimanemmo tre settimane per ristorare i nostri marinai, molti de' quali erano infermi. Di lì passammo a Tonchino, dove il capitano decise fermarsi qualche tempo, perchè le mercanzie ch'egli intendeva comprare, nè erano all'ordine, nè vedea che potessero esserlo se non fra alcuni mesi. Nondimeno, nella speranza di disfarsi d'una parte delle cose portate con sè, fece acquisto d'una scialuppa caricandola di quelle merci europee che sono d'usuale traffico nelle isole circonvicine e mise a bordo di essa quaranta uomini, tre de' quali erano Tonchinesi, e me in qualità di tenente, dandomi ampia facoltà di trafficare com'io credea meglio intanto ch'egli restava sbrigando i suoi affari a Tonchino. Dopo avere navigato tre giorni, si levò una fiera burrasca che ne spinse per cinque giorni giù di cammino si che ci trovammo a greco-tramontana (nord-nord-est), indi a ponente; in appresso la stagione divenne buona, ma continuammo sempre ad essere spinti da un gagliardo vento di ponente. Al decimo giorno ne diedero la caccia due pirati che fecero presto a raggiugnerci; perchè sì carica era la mia scialuppa che veleggiavamo assai lentamente e, quel che fu peggio, non eravamo in istato di difenderci. Fummo sopraffatti ad un tratto dai due pirati che furiosamente entrarono nel nostro legno a capo de' loro uomini; ma trovandoci tutti prostrati con la faccia per terra (ordinai io a tutti di regolarsi così) si contentarono a legarci ed a consegnarci in guardia ad alcuni di loro intantochè venivano alla frugata delle cose nostre. Fra costoro osservai un Olandese che pareva investito di qualche autorità, benchè non comandasse nè l'uno nè l'altro de' legni corsari. Ravvisatici a fisonomia per Inglesi, borbottò in sua lingua il perfido giuramento che ci avrebbe legati a due a due schiena a schiena e mandati a stare in compagnia de' pesci. Io parlava sufficientemente l'olandese, onde gli rappresentai la nostra qualità comune di Cristiani protestanti, nativi di paesi vicini e strettamente collegati fra loro; in vista di che lo pregai ad interporre presso i due capitani la sua mediazione affinchè si avesse pietà di noi. Ma ciò non fece altro che suscitar di più il suo furore, sì che, rinovato l'infame suo giuramento, parlò con gran veemenza ai suoi due compagni, ma in giapponese; laonde le sole parole ch'io intesi, e da lui ripetute per più riprese, furono _Christianos_. Il più grande de' due legni corsari avea per comandante un Giapponese che parlava qualche poco, benchè imperfettissimamente, l'olandese. Questi avvicinatosi a me, e dopo avermi fatte diverse interrogazioni, alle quali risposi con tutta umiltà, soggiunse che niun di noi sarebbe ucciso. Fattagli, come potete credere, una profondissima riverenza, mi volsi all'Olandese, nè potei starmi dal dirgli: «Mi duole il solo pensarlo: ho trovato più compassione in un pagano che in un mio fratello cristiano». Non avessi mai dette queste parole! Quel maligno rinnegato primieramente s'adoperò in quanto dipendea da lui per indurre i capitani a farmi gettar nel mare; non riuscì, è vero, in ciò, perchè quello dei due che mi promise salva la vita, non volle mancare alla sua parola, ma ottenne che soggiacessi ad un castigo, secondo ogni umana apparenza, peggior della morte. Poichè la mia ciurma fu ripartita egualmente nei legni corsari, e la mia scialuppa proveduta di nuovi uomini, io venni cacciato solo dentro un battello con un paio di pagaie (remi indiani), una vela e provisioni per quattro giorni, poi lasciato alla discrezione dell'onde. Quanto alle provisioni, il Giapponese fu sì generoso che me le duplicò del proprio, vietando a tutti il fare indagini su me per ritormele. Io partii dunque col mio battello, intantochè l'Olandese, stando sul ponte della mia predata scialuppa, mi caricava di quante villanie e maledizioni il suo idioma gli suggeriva. Un'ora prima del nostro fatale incontro co' pirati, io aveva osservato che eravamo a 46 di latitudine settentrionale ed a 183 di longitudine. Appena ebbi perduti di vista i legni corsari, scopersi col mio cannocchiale da tasca alcune isole a scirocco (sud-est). Avendo un vento favorevole, spiegai la vela con intenzione di raggiugnere la più vicina di quelle, il che non senza fatica mi venne fatto nel termine di tre ore. Io non vedea fuorchè scogli per ogni dove; fra questi nondimeno mi riuscì trovare molte uova d'uccelli; battuto l'acciarino ed accesi varii cespugli e piante marine secche, arrostii le mie uova. Non presi altro da cena, perchè io voleva risparmiare più lungamente ch'io potea le mie vettovaglie. Passai la notte entro la cavità d'uno scoglio, fattomi un letto di cespugli, e diedi, per dir vero, un'ottima dormita. Nel dì successivo veleggiai ad un'altra isola, indi ad una terza e ad una quarta, or giovandomi della mia vela, or delle mie pagaie. Ma per non noiare il leggitore narrandogli tutte le particolarità di questa stentata navigazione, mi limiterò a dirgli, come nel quarto giorno io scoprissi distintamente l'ultima delle isole che mi stavano a veggente, posta ad ostro-scirocco (sud-sud-est) della prima. L'isola era distante da me più assai di quanto io credeva, onde non ne toccai le spiagge in meno di cinque ore. La girai quasi tutta all'intorno prima di trovare un luogo adatto per mettere piede a terra, e quel che finalmente mi capitò fu una caletta, se è lecito darle un tal nome, della larghezza tre volte del mio battello. Era tutta scogli anche quest'isola, solamente sparsa qua e là di zolle e d'erbe di soave odore. Tirate a terra le mie provisioni, con esse mi refiziai, poi posi il rimanente in una delle caverne di cui abbondava quel luogo. Feci indi buon ricolto d'uova dagli scogli. poi di piante marine e di zolle secche, col fuoco delle quali io divisava arrostire alla meglio le stesse uova nel dì venturo, chè io andava inoltre proveduto di pietra focaia, di acciarino, esca e d'una lente ustoria. Passai tutta la notte nella caverna ove io avea poste a stare le mie vettovaglie, e fu mio letto ciò che doveva essere nel dì successivo il mio combustibile. Dormii ben poco, perchè le inquietudini del mio animo, prevalendo su la mia stanchezza medesima, mi tennero desto. Io pensava all'impossibilità di conservar la mia vita in un luogo sì deserto e al misero fine ch'io vedea sovrastarmi; pure non mi movevo di lì, perchè la mia costernazione, il mio abbattimento erano sì forti ch'io non avea nemmen cuore di saltare in piedi, ed il giorno era ben inoltrato prima che mi fossi sciolto da quel letargo al segno di spuntar fuori della caverna. Camminai alquanto fra gli scogli; la giornata era sì serena ed il sole sì caldo che fui costretto voltar la faccia da esso, quando d'improvviso si oscurò, ma in un modo, come parvemi, ben diverso da quanto accade allorchè si frappone tra esso e la terra una nube. Voltomi addietro, vidi tra me ed il sole un corpo opaco che camminava su e giù nella direzione dell'isola; pareva fosse alto circa due o tre miglia su la mia testa, e coperse il sole per sei o sette minuti, ma non osservai che l'aria si fosse rinfrescata, o il firmamento annuvolato niente più che se in giorno di bel tempo mi fossi posto al rezzo di una montagna. Facendo alcuni passi innanzi sul luogo dond'io contemplava il corpo medesimo, mi parve accorgermi che fosse una sostanza solida, piatta nel fondo, ben liscia e splendentissima grazie alla riflessione delle sottoposte onde del mare. Collocatomi sopra un'altura lontana circa duecento braccia dalla spiaggia, vidi questo enorme corpo scendere ad una posizione quasi parallela a quella ov'io stava, ma ad una distanza almeno d'un miglio inglese. Toltomi di tasca il mio cannocchiale, potei pienamente discernere un grande numero di persone che camminavano su e giù lungo i lati di quella specie di pianeta, i cui orli mi sembravono inclinati, ma che cosa quella gente si facesse, non potei capirlo. L'amore ingenito in noi della nostra conservazione m'infuse un interno moto di gioia, e mi dispose alla speranza che una tale avventura potrebbe, o d'una maniera o dell'altra, aiutarmi e tormi fuori da quella miserabilissima condizione. Il leggitore penerà a comprendere come il primo mio sentimento non fosse in vece quello dello stupore alla vista di un'isola che nuotava nell'aria, abitata da uomini, atta, così certo sembrava, ad alzarsi ed abbassarsi, o a procedere sul suo piano a grado de' suoi abitanti. Ma pensi ch'io non poteva in quel momento essere in voglia di filosofare sul fenomeno; mi diedi piuttosto ad osservare che avviamento quell'isola avrebbe preso, perchè parve per un istante che rimanesse immobile. Ma poco appresso quella mi si avvicinò di più, in guisa ch'io potei vedere come fosse circondata da logge di più ordini e di scalinate a certi intervalli per agevolare il discendere da un ordine all'altro. Nell'ordine più basso vidi diversi individui intenti ad una pesca d'uccelli che quelli facevano col mezzo di canne, altri che li stavano contemplando. Io agitava la mia berretta (chè il mio cappello da lungo tempo era andato in malora) verso l'isola, e quando ebbi questa in maggior vicinanza, chiamai ed urlai con tutta la forza della mia voce. Allora, guardando più attentamente, vidi un gruppo d'individui vólti affatto su la mia persona, e dai segni che faceano verso di me, e che si faceano fra loro, dovetti pienamente capire di essere stato osservato, ancorchè non avessero risposto nulla alle mie grida. M'avvidi di quattro o cinque uomini che corsero in gran fretta su per le scale sino alla cima dell'isola, poi si dileguarono alla mia vista. Mi occorse di non mi sbagliare nel credere che fossero stati spediti presso qualche personaggio investito d'autorità per informarlo di quanto in quel momento accadea. Crescea sempre più la folla, ed in meno di mezz'ora l'isola fu mossa e tenuta a tale altezza che l'ordine più basso delle logge appariva in una posizione non più distante di cento braccia dall'eminenza ov'io mi era posto. Messomi allora nella più supplichevole delle posture, parlai loro ne' più umili accenti, ma senza ottenere risposta. Quelli che mi sovrastavano più da vicino, sembravano personaggi d'alto conto; tali almeno li giudicai da' loro abiti. Si diedero a conferire fra loro sul serio, a quanto congetturai, sempre guardando me. Finalmente un d'essi mandò le sue parole all'ingiù in armonioso, netto, dilicato idioma, non dissimile nel suono dall'italiano, ed in questo linguaggio io gli feci la mia risposta sperando almeno che quella cadenza riuscirebbe più gradita al suo orecchio. Ancorchè per dir vero non c'intendessimo nè gli uni nè gli altri, quel ch'io pensava fu agevolmente compreso, perchè si vedeva abbastanza in qual sorta d'angustie io mi trovassi. Mi fecero cenno di scendere dal mio scoglio e di portarmi verso la spiaggia, il che puntualmente eseguii, e l'isola volante essendo stata posta a tal conveniente altezza che a dirittura mi sovrastasse, dalla più bassa loggia venne calata una catena con attaccata in fondo una scranna, su la quale sedutomi, fui portato in aria col ministerio di girelle. CAPITOLO II. Fare ed inclinazioni de' Laputiani. — Loro cognizioni. — Il re e la sua corte. — Accoglienza fatta all'autore. — Crucci e paure di quegli abitanti. — Donne di Laputa. Appena messo piede nell'isola, fui attorniato da una folla di popolo, ma quelli che mi stettero più da presso sembravano persone di maggior conto. Essi mi contemplarono con tutti i contrassegni dello stupore, e in questa parte io non restava certamente al di sotto di essi, che non ho mai veduta una razza di viventi più stravagante nelle forme, negli abiti e nel modo di contenersi. Le loro teste erano tutte inclinate, qual su la destra, quale su la sinistra; uno de' loro occhi vólti all'ingiù, l'altro voltato all'insù, guardava direttamente il zenith[27]; i vestiti al di fuori adorni d'immagini di soli, di lune e di stelle, frastagliate da figure di violini, flauti, arpe, trombe, chitarre, arpicordi, oltre a molti altri stromenti di musica sconosciuti fra noi in Europa. Osservai qua e là parecchi individui vestiti in divisa di servitori, ciascun dei quali portava in mano una vescica gonfia, legata, come i coreggiati da battere il grano, alla punta di un bastone. Entro ognuna di tali vesciche stava una piccola quantità di ceci secchi o di sassolini, come lo seppi più tardi. I servi proveduti di tali vesciche vanno per intervalli percuotendo la bocca e le orecchie di quelli che sono vicini ad essi, pratica della quale io non potei su l'istante concepire il significato. Sembra essere le menti di que' popoli tanto assorte in intense speculazioni, che nè possano parlare nè badare ai discorsi degli altri, se qualcuno non li desta con qualche atto esterno operato su gli organi della parola o dell'udito: per ciò le persone abili a sostenere questa spesa hanno sempre fra le persone di lor famiglia un battitore (la parola tecnica è _clinemole_) in qualità di servo, nè senza un tal servo camminano attorno o vanno a far visite. L'incarico del predetto ufiziale si è, allorchè due o tre persone si trovano in compagnia, battere gentilmente con la sua vescica la bocca di quello che dee parlare e l'orecchio di quello o quella cui l'oratore è per volgere la parola. Il servo battitore ha parimente l'obbligo di accompagnare il padrone nelle sue passeggiate e, secondo le occorrenze, menargli un lieve colpo di vescica su gli occhi, perchè è desso tanto immerso nelle sue meditazioni, che è sempre nel manifesto pericolo di cadere affondato in un precipizio o di dar della testa in tutti i pilastri, o vero, lungo le strade, di urtare altri o d'essere urtato da altri dentro un canale. Importava l'anticipare queste notizie al mio leggitore, altrimenti si sarebbe trovato nell'imbroglio, non meno di quanto lo era stato io, per indovinare che cosa avessero per la testa quei galantuomini quando mi conduceano per quelle gradinate sino alla cima dell'isola e di lì al palazzo del re. Mentre salivano, accadea loro di volta in volta il dimenticarsi che cosa stessero facendo, onde mi lasciavano abbandonato a me stesso, finchè i lor battitori non aveano tolte da quel letargo le loro memorie; chè del resto non recavano ad essi la menoma curiosità o meraviglia nè la foggia straniera del mio vestire nè il mio fare diverso dal loro nè le grida messe dal volgo, le cui menti erano assorte in minori meditazioni al vedermi. Entrati finalmente nel palazzo del re, mi trovai con essi nella sala delle presentazioni, e vidi il re seduto sul suo trono e fiancheggiato da personaggi di prima sfera. Innanzi al trono stava una tavola piena di globi e sfere e stromenti matematici di tutte le qualità. Non parve che sua maestà s'accorgesse menomamente di noi, benchè il nostro ingresso fosse stato accompagnato da un sufficiente strepito, tanto era il concorso d'individui attenenti alla corte che la curiosità ci aveva tratti d'intorno. Ma in quel momento la lodata maestà sua era tutta immersa con la mente nel meditare un problema, onde ci convenne aspettare un'ora, sinchè finalmente lo ebbe sciolto. Stavano uno per banda al monarca due paggi, ciascuno munito della sua vescica, un de' quali, appena gli parve che il re avesse comodo di darmi udienza, gli percosse dilicatamente la bocca, mentre l'altro adempiva la stessa funzione sul suo orecchio destro. Scosso d'improvviso da que' due picchi e, data un'occhiata a me ed alla mia comitiva, si ricordò subito del motivo della nostra venuta, cosa di cui lo aveano dianzi informato. Disse alcune parole, nè ebbe cominciato a pronunziarle, che già uno de' due paggi venutomi immediatamente a fianco avea percossa leggermente con la sua vescica la mia destra orecchia, benchè io avessi fatti quanti cenni seppi per dargli a capire ch'io non aveva bisogno di quella sveglia; la qual cosa, come seppi da poi, fece concepire a sua maestà ed all'intera corte una ben trista opinione della mia intelligenza. Il re, da quanto potei congetturare, mi fece moltissime interrogazioni alle quali risposi in tutte le lingue che mi erano note. Poichè fu ravvisata l'impossibilità ch'io intendessi e che fossi inteso, venni condotto per ordine dello stesso re in un appartamento del suo palazzo, ove m'aspettavano due servi assegnati a mia disposizione, perchè quel sovrano si distinguea sommamente da tutti i suoi predecessori nell'usare ospitalità agli stranieri. Venne imbandito il mio banchetto, al quale ebbi per commensali quattro personaggi notabili del paese, i quali io mi ricordava benissimo aver veduti in grande vicinanza alla persona del re. Avemmo due portate, ciascuna di tre piatti. Formavano la prima una spalla di castrato ridotta in forma di triangolo, una fetta di manzo conformata a romboide, una torta fatta a cicloide; la seconda portata, tutta d'apparenza musicale, presentava due anitre foggiate a violini, manicaretti che aveano l'aspetto di arpe e oboè, una punta di petto di vitello che pareva un'arpa. Gli scalchi nel tagliare il nostro pane gli davano forme variate di coni, cilindri, parallelepipedi e d'altre figure regolari della geometria solida. Durante il pranzo, mi feci il coraggio di chiedere ai miei nobili commensali il nome che diverse cose aveano nel loro idioma, ed essi, coll'intervento sempre dei loro servi proveduti di vesciche, si degnavano rispondermi, e si leggea nè lor volti la speranza di eccitare la mia meraviglia per la loro abilità di scendere al mio livello per conversare con me. Non andò guari che fui in istato di domandare del pane, da bere, o altre cose delle quali abbisognassi. Levata la mensa, que' signori se ne andarono, e venne a trovarmi, accompagnato dal servo battitore, un altro individuo speditomi dal re. Questi, che portava con sè carta, penne, un calamaio e due o tre libri, mi diede a capire per cenni di essere mandato per insegnarmi la lingua del paese. La nostra sessione fu di ben quattro ore, durante le quali scrissi giù molte parole in colonna, e contro a ciascuna la spiegazione di queste in mia lingua. M'ingegnai parimente di ritenere parecchie corte frasi e scriverle immantinente, al qual fine il mio precettore ordinava ad uno dei miei servi, ora di andargli a cercar qualche cosa, ora di moversi in giro, di fare una riverenza, di sedere, di star fermo, di camminare, e simili. Egli mi mostrò pure in uno de' suoi libri le immagini del sole, della luna, delle stelle, del zodiaco, de' tropici, de' circoli polari e molte figure matematiche piane e solide con le loro denominazioni in lingua laputiana, a canto. Mi diede in oltre i nomi e le descrizioni di tutti gli stromenti musicali dell'isola ed i termini generali dell'arte tratti dai sonatori di ciascun d'essi. Dopo che ci fummo disgiunti, disposi tutte le mie parole in ordine alfabetico con le loro spiegazioni a fianco di esse. La parola che corrisponde in lingua europea ad _isola volante o galleggiante_ è _Laputa_, della qual parola non potei mai conoscere con sicurezza la vera etimologia. _Lap_ in vecchio disusato linguaggio laputiano significa _alto_, ed _untuh_ vuol dire governatore, donde, essi dicono, è derivata la corrotta parola _Laputa_ in vece di _Lapuntuh_. Confesso che mi garba poco una tale etimologia, a parer mio stiracchiata. Mi arrischiai offrire a que' dotti una congettura mia propria. Nel loro linguaggio più moderno _lap_ vuol dire _danze de' raggi del sole_, e _uted_ corrisponde ad _ala_. Dunque, diss'io _Laputa_ sarà una specie di _ala del sole_. Non mi ostino per altro in questa opinione, che unicamente sottopongo al giudizio degl'ingegnosi miei leggitori. I regii miei curatori, al vedermi sì mal vestito, mandarono per un sartore che nella successiva mattina venne a prendermi la misura per un finimento di abiti. Questo manifattore faceva in ciò le sue cose ben diversamente dai suoi colleghi d'Europa. Presa prima la mia altezza con un quadrante, si valse di riga e compasso per rilevare le dimensioni di ogni piega esterna del mio corpo ignudo, poi tutte le disegnò su la carta; e sol di lì a sei giorni mi portò i miei abiti malissimo fatti e tutti sformati a motivo di uno sbaglio trigonometrico occorsogli nel calcolare una dimensione. Mi consolai non ostante al vedere che tali equivoci si ripeteano sovente, e che poco ci si badava. Durante il mio confine necessitato dalla mancanza di vestiti e prolungato da un incomodo di salute che mi travagliò alcuni giorni, ampliai grandemente il mio dizionario; onde allorchè tornai a presentarmi alla corte, fui in grado d'intendere molte fra le cose dettemi dal re e di dargli una qualche sorta di risposte. Sua maestà aveva ordinato che l'isola si movesse verso greco (nord-est), e da levante al punto verticale posto sopra Lagado, che è la metropoli della terra ferma. Essendo questa ad una distanza di novanta leghe, il nostro viaggio durò quattro giorni e mezzo; l'isola si movea sì lentamente ch'io non m'accorgeva menomamente del suo progresso. Nella seconda mattina di questo viaggio, alle undici ore, il re in persona e il corteggio della sua nobiltà, de' suoi cortigiani e grandi ufiziali, muniti tutti de' loro stromenti di musica, sonarono per tre ore senza pausa di sorta alcuna, che non mi ricordo d'aver mai avute intronate di più le mie orecchie. Io non sapeva indovinare il motivo di questo straordinario musicale baccano, ma me lo spiegò il mio precettore. «Avete a sapere, egli mi disse, come i miei concittadini abbiano gli orecchi adatti ad udire la musica delle sfere celesti che si fa sempre sentire a certi periodi di tempo. Adesso la corte sta eseguendo i pezzi di tale musica su lo stromento in cui ciascun individuo della stessa corte è prevalente». Durante tal nostra gita alla indicata metropoli, sua maestà ordinò che l'isola si fermasse sopra alcuni villaggi e città di second'ordine, affinchè la lodata maestà sua potesse ricevere i memoriali de' suoi sudditi di terra ferma; al qual uopo furono calate giù molte lunghe funicelle con sassolini legati alle loro estremità. In queste funicelle gli abitanti da basso infilzavano i loro memoriali, che venivano diretti all'insù come fila cui degli scolari avessero attaccate le loro comete di carta. Spesse volte ricevevano dal suolo inferiore e vini ed altre vettovaglie che venivano tirati su coll'aiuto di carrucole. Le nozioni da me acquistate per l'addietro nelle matematiche, aggiugnerò anche nella musica che non m'era del tutto estrania, mi giovarono grandemente ad impossessarmi della loro fraseologia tutta attinta ai termini della prima ed alle regole della seconda delle indicate facoltà. Le loro idee son sempre in connessione colle linee e colle figure. Vogliono a cagion d'esempio lodare la beltà di una donna, o anche di qualche animale? chiamano in soccorso i rombi, i cerchi, i parallelogrammi, le elissi, o altre figure matematiche o delle note di musica che è qui inutile il ripetere. Trovai nella regale cucina foggiati con questa norma tutti gli stampi di cui si valgono i cuochi a preparare le vivande per la mensa di sua maestà. Le loro case son malissimo fabbricate, le mura di sghembo; non c'è un angolo retto ne' loro appartamenti, e tutto deriva dal disprezzo in cui tengono la geometria pratica, che sembra loro arte triviale ed ignobile; onde le istruzioni da essi date agli artigiani son così astruse per gl'intelletti di questi, che pigliano equivoci e commettono spropositi a tutto pasto. Finchè si tratta di scarabocchiare linee sopra un pezzo di carta, que' signori, se vogliamo, sono ingegnosi abbastanza; ma ponete nelle loro mani una riga, un compasso, un pennello, metteteli anche agli atti i più comuni e solidi della vita, non ho mai conosciuto gente più goffa, più stupida, più mal destra, nè sì lenta o mal sicura in concetti d'ogni altro genere che non sia matematica pura, o musica. Non potete immaginarvi de' peggiori ragionatori, nè più fatalmente caparbi della loro opinione ove non avvenga che l'opinione da essi sposata sia la vera, il qual caso è rarissimo. Immaginazione, fantasia, invenzione sono cose estranie per essi, nè hanno parole nella loro lingua che ne esprimano il significato, perchè le loro idee non vanno al di là della parte meramente pedagogica delle facoltà dianzi menzionate. Molti fra essi, quelli soprattutto che si dedicano al ramo astronomico, hanno gran fede nell'astrologia giudiziaria, benchè si vergognino confessarlo pubblicamente. Ma un fatto degnissimo d'ammirazione, e tale da sembrar quasi incredibile, si è la forte passione che hanno per tutto quanto concerne la politica del loro paese, la curiosità continua in essi di ogni affare del governo, la mania di profferire giudizi nelle materie di stato e di cimentarsi, disputando loro palmo a palmo il terreno, con tutte le sette politiche. Per dir vero ho notata la medesima inclinazione presso molti fra i matematici che ho conosciuti in Europa, benchè io non abbia mai saputo scoprire la menoma analogia fra queste due scienze, ove mai tal razza d'individui non s'immagini che, siccome i minori circoli hanno altrettanti gradi quanti ne hanno i massimi, non vi voglia per regolare il mondo maggiore abilità di quanta ce ne vuole a voltare un globo di su in giù; ma io do piuttosto la colpa di questo difetto ad una comune infermità della natura umana che ne inclina ad essere più curiosi ed appassionati appunto per quelle cose di cui c'intendiamo meno ed alle quali meno ci rese adatti il nostro studio o l'indole del nostro ingegno. Questi signori in oltre sono in preda a continue inquietudini, che non lasciano mai un istante di requie alle loro menti; e, qui viene il bello, queste inquietudini sono d'un genere che dà ben poco o nessun fastidio a tutto il rimanente del genere umano. I loro travagli procedono da ogni cangiamento che temono ne' corpi celesti; per esempio temono che la terra, col continuo avvicinarsi al sole, gli si accosti poi tanto da rimanerne assorta e inghiottita; altre volte li prende la paura che la faccia del sole, a gradi a gradi incrostata dal condensamento de' propri efflussi, cessi finalmente d'illuminare la terra; pensano la terra essersi poco fa sottratta, come per miracolo, all'urto della cometa ultimamente comparsa, la quale se la toccava per un atomo, infallibilmente la inceneriva; si affannano per conseguenza su quella che secondo i loro calcoli dee comparire di qui a trenta anni, e che ne farà il tristo uffizio da cui ci siamo per questa volta salvati; nè possono essere precisi di più i ragionamenti che convalidano la loro predizione, perchè quando la cometa nel suo perigeo sarà in quella vicinanza del sole che i giustissimi loro calcoli hanno stabilita, riceverà un grado di calore mille volte più intenso di quello d'un ferro rovente, e nello scostarsi dal sole si porterà dietro una coda infocata, lunga diecimila cento e dieci miglia; rasente la qual coda se la terra passa ad una distanza sol di centomila miglia dal _nucleus_, o sia dalla massa principale della cometa, prende fuoco anch'essa, e la terra fu! Hanno anche un'altra paura, ed è che il sole, a furia di vibrar raggi, mancandogli finalmente la sostanza da cui questi raggi vengono alimentati, vada per consunzione e si annichili, la qual disgrazia porterà seco l'annichilamento della terra e di quanti pianeti ricevono e luce e calore da lui[28]. Sono sì perpetuamente agitati dalla paura di questi e di simili sovrastanti pericoli che nè possono dormir quieti sotto i loro tetti nè trovare alcun diletto nei piaceri e passatempi soliti della vita. Ogni mattina, appena incontrano qualcuno di loro conoscenza, la prima interrogazione che gli fanno è su la salute del sole, su la cera che esso avea nel coricarsi e nel destarsi, su le speranze che si possono avere di evitare l'urto dell'imminente cometa, imminente di qui a trent'anni. Ogni qual volta s'intertengono in questi parlari, non si mostrano niente diversi dai ragazzi i quali vanno matti dietro alle storie degli spiriti e dei folletti, poi, dopo che le hanno ascoltate non possono andare in letto dalla paura. Le donne dell'isola possedono una gran dose di vivacità; disprezzano i propri mariti, ed hanno una tenerezza straordinaria per gli stranieri, de' quali ne somministra sempre un copioso numero il continente di sotto, o vengono per fare il loro torno di servizio alla corte, o per trattare i negozi delle città e corporazioni cui appartengono, o chiamati anche dai propri affari privati. Son dessi tenuti in vilissimo conto dagli uomini dell'isola, perchè mancano infatti delle prerogative dei Laputiani. Pure le donne si scelgono fra questi i loro cicisbei; ma v'è una disgrazia: tali tresche galanti mancano del vezzo del divieto, e nulla havvi di più comodo e men pericoloso di esse; perchè il marito è sempre sì immerso nelle sue scientifiche speculazioni, che il cicisbeo e la sua bella possono intendersela fra loro con la massima famigliarità anche in faccia del primo, purchè questi sia proveduto di carta e di quanto è d'uopo per iscrivere, e purchè non abbia a fianco il servo che porta la vescica. Le donne maritate e le donzelle si dolgono del loro confino nell'isola, se bene a mio credere sia questo il paese più delizioso di tutta la terra, e se bene quivi elleno nuotino nell'abbondanza e nella magnificenza, nè vi sia chi le impedisca di fare in lungo ed in largo quello che vogliono. Pure sospirano, dicon esse, di vedere il mondo, soprattutto di godere gli spassi della metropoli di terra ferma, unica cosa che alle medesime non è permessa senza una speciale licenza del re. Nè una tale licenza è si facile ad ottenersi, perchè si è toccato con mano, e frequenti esempi, massime rispetto alle donne d'alto conto, lo hanno dimostrato, qual ardua cosa sia il farle tornare dalle terre basse una volta che ci sieno scese. Mi fu raccontata una storiella singolare di una gran dama di corte, madre di molti figli; essa era moglie del primo ministro, il più ricco suddito del regno, personaggio dotato di bellissimi modi, innamoratissimo di lei, e che vivea nel più bello fra tutti i palazzi dell'isola. Questa dama dunque, portatasi giù a Lagado sotto pretesti di salute, vi rimase nascosta parecchi mesi, quando finalmente il re diede ordine che si cercasse dove ella fosse. Venne essa trovata in un'abbietta bettola, tutta coperta di cenci, perchè avea poste in pegno le preziose sue vesti a fine di mantenere un vecchio schifoso staffiere che la bastonava ogni dì, ed in compagnia del quale fu sorpresa ben contro sua voglia. Ad onta di tutto ciò, il marito la ricevè con ogni possibile cortesia, e senza farle il menomo rimprovero. Che valse? Subito dopo, s'ingegnò tanto che con tutte le sue gioie fuggì in braccio al suo disonorevole amante, nè d'indi in poi se ne udì più notizia. Potrà forse questo racconto passare agli occhi del leggitore per una storia europea od inglese piuttosto che laputiana. Ma si degni considerare che i capricci delle donne non sono limitati ad un clima o paese, e che sono assai più uniformi di quanto alcuno si possa immaginare. In capo ad un mese circa, avendo io fatto sufficienti progressi in quella lingua, fui in istato di rispondere alle interrogazioni del re ogni qual volta ebbi l'onore di essere ammesso alla sua presenza. Nelle sue inchieste per altro sua maestà non mi mostrò alcuna sorta di curiosità su le leggi, il governo, la storia, la religione o i costumi delle contrade dond'io veniva; restrinse le sue ricerche allo stato delle matematiche ne' miei paesi, ma accolse le mie risposte con molto sprezzo, e lasciandosi prender dal sonno, se bene il galantuomo dalla vescica non si scordasse di picchiargli, se non bastava ad una, a tutte due le orecchie. CAPITOLO III. Un fenomeno che si spiega colla filosofia ed astronomia moderna. — Grandi progressi de' Laputiani in questa seconda scienza. — Metodo tenuto dal re per reprimere le ribellioni. Io chiesi la permissione di vedere le singolarità dell'isola al re, il quale, degnatosi immantinente concedermela, volle mi accompagnasse il mio maestro di lingua per servirmi d'interprete. Io era soprattutto curioso di sapere per qual magistero, o dell'arte, o della natura, quell'isola avesse i vari generi di moto che v'ho descritti, ed è quanto or m'accingo a spiegarvi. L'isola volante o galleggiante, di forma esattamente circolare, ha un diametro di settemila ottocento trentasette braccia, o sia di quattro miglia e mezzo all'incirca, e per conseguenza comprende uno spazio di diecimila iugeri. Di trecento braccia ne è la grossezza. La sua superficie inferiore, quella cioè che è veduta di sotto in su, è un ben livellato regolarissimo piano di diamante che dà a tutta l'isola un fondamento alto a un dipresso duecento braccia. Sopr'esso sta uno strato di diversi minerali disposti nel consueto loro ordine, e li ricopre una crosta di fertile terreno d'una profondità di circa dieci o dodici piedi. Il declivo della superficie superiore, che è dalla circonferenza al centro, offre uno sfogo a quante piogge o vapori condensati cadono nell'isola, le quali acque, mercè una moltitudine di piccoli rivi vengono condotte a scaricarsi nel mezzo entro quattro grandi bacini, ognuno d'un circuito, poco più, poco meno, di mezzo miglio, distanti duecento braccia dal centro. L'acqua de' suddetti bacini è mantenuta ogni giorno in continuo stato di esalazione, il che effettivamente impedisce qualunque sorta di traboccamento. In ordine a che aggiungasi che, essendo in facoltà del monarca l'alzare la sua isola al di sopra della regione delle nubi, dipende sempre da lui il tenerla esente dalle piogge quanto tempo gli piace, perchè, come ne convengono i naturalisti, o certo come lo ha provato l'esperienza nella posizione di quell'isola, le più alte nuvole non vanno più in su di due miglia. Al centro dell'isola vi è una bocca di circa cinquanta braccia di diametro, donde gli astronomi scendono in una vastissima sala, detta in linguaggio dell'isola _flandona gagnole_ (grotta degli astronomi), situata tanto all'ingiù che intacca per cento braccia la parte superiore del piano fondamentale di diamante già da noi memorato. Entro questa grotta stanno continuamente accese venti lampane che, unite alla riflessione del diamante, mantengono una sterminatissima luce in tutta quella cavità. Proveduto è il luogo di una grande copia di sestanti, quadranti, telescopi, astrolabi ed altri stromenti astronomici. Ma la maggiore rarità su cui posa, può ben dirsi, il fato dell'isola, si è una calamita di prodigioso calibro che nella sua forma somiglia ad una spola da tessitori. Lunga sei braccia, avrà nella sua parte più grossa una spessezza di tre buone braccia. Essa è sostenuta da un forte asse orizzontale di diamante che passa pel mezzo della spola, considerata in piedi, e intorno al quale essa gira, ed è in oltre contrappesata tanto a dovere che la mano d'un fanciullo basta a farla girare. Questa spola di calamita mobile intorno al suo asse è racchiusa entro un cilindro concavo di diamante, la cui parete, alta quattro piedi e fitta altrettanto, ha un diametro, di dodici piedi, ed è sostenuta inferiormente da otto gambe, esse pur di diamante, ciascune di sei braccia. Alla metà della parete del descritto cilindro si trovano dalla parte interna due buchi dell'ampiezza di dodici pollici, ne' quali entrano le due estremità dell'asse, e girano, se fa d'uopo, esse pure intorno a sè stesse. Tal calamita non può essere spostata di dov'è da veruna immaginabile forza, perchè il cilindro alle cui pareti è raccomandato il suo asse e i piedi del cilindro formano tutti insieme una continuata appendice del masso di diamante che è base dell'isola. Questa spola di calamita unicamente dà abilità all'isola di alzarsi, di sbassarsi, di moversi da una parte all'altra del firmamento, perchè per tutto il tratto di terra ferma sottoposta che è soggetto al dominio del monarca di Laputa, essa è dotata di una forza d'attrazione ad una delle sue estremità e d'una forza di repulsione all'altra. Se collocate la spola in modo che la sua punta attraente guardi perpendicolarmente la terra, l'isola scende; se fate il contrario, l'isola va direttamente all'insù, se le date una posizione obbliqua, obbliquo è il moto dell'isola perchè le forze o d'attrazione o di ripulsione poste in questa calamita operano sempre in linee parallele alla posizione che le viene data. Grazie a questo moto obbliquo, l'isola si trasporta verso i diversi punti degli stati di terra ferma del monarca di Laputa. Per ispiegar meglio come ciò accada, rappresenti _A B_ la linea che attraversa Balnibarbi, una delle province di terra ferma, e sia _c d_ la lunghezza della calamita, di cui immagineremo essere _c_ la punta attraente, _d_ la repellente, intanto l'isola stia sul punto _C_ rispetto a cui la calamita sia posta nella direzione _c d_ con la sua punta repellente che guarda all'ingiù, in tal caso l'isola verrà portata obbliquamente all'insù verso _D_. Quando è arrivata in _D_, fate girare la calamita sul suo asse tanto che la punta attraente della medesima si volga ad _E_, e l'isola si trasferirà obbliquamente verso _E_; giunta in _E_ se sbassate di più la punta repellente, l'isola si alzerà verso _G_, ec. ec. Voi vedete pertanto come a furia di girare la spola della calamita, colla punta repellente, or più, or meno all'ingiù, si possa alzare o ribassare a grado del suo padrone l'isola galleggiante. Non crediate per altro nè ch'ella possa trasportarsi al di là dei dominii di terra ferma del suo sovrano, nè alzarsi al di sopra di quattro miglia. Il motivo di tale limitazione viene spiegato così dagli astronomi che hanno scritto di grandi cose su questa pietra: dicono dunque che la virtù magnetica della medesima non si estende oltre l'altezza di quattro miglia, come pure che la virtù del minerale esistente nelle viscere della terra, ed in un tratto di sei leghe di distanza dalla spiaggia, non è, a rispetto alla pietra stessa, diffusa per tutto il globo, ma si ferma ove finiscono i dominii del re. Voi capite per altro qual aiuto debba avere da una tal posizione un sovrano per tenere in obbedienza i suoi popoli. Quando la spola di calamita arriva, girandola, ad essere parallela all'orizzonte, l'isola sta, perchè in questo caso ambe le estremità magnetiche di forze contrarie la tirano con una potenza eguale all'insù ed all'ingiù donde nasce la quiete. Questo edifizio _locomotivo_ è posto sotto la direzione d'un certo numero d'astronomi, i quali danno a mano a mano all'isola le posizioni che ordina il re. Essi impiegano il rimanente della loro vita nell'osservazione de' corpi celesti, al qual uopo recano ai medesimi un grande giovamento i loro stromenti ottici che sono di gran lunga superiori in eccellenza ai nostri. In fatti, benchè i loro telescopi non sieno lunghi più di tre piedi, ingrandiscono gli oggetti molto più dei nostri che sapete a che lunghezza talvolta arrivino, oltrechè lasciano vedere gli astri con molto maggiore chiarezza. Questo vantaggio gli ha posti in istato di dilatare le loro scoperte ben al di là di quelle de' nostri astronomi dell'Europa; basti il dire ch'eglino hanno un catalogo di centomila stelle fisse, mentre i più ricchi nostri cataloghi non arrivano a contarne più della terza parte. Essi in oltre hanno scoperti due minori satelliti che girano intorno a Marte, il più interno de' quali è distante dal centro del pianeta primario esattamente tre de' suoi diametri, mentre il satellite situato più in fuori gli rimane ad una distanza di cinque. Più, hanno trovato che il primo compie la sua rivoluzione nel termine di dieci ore, il secondo in quello di ventuna e mezzo, onde i quadrati de' loro tempi stanno a un dipresso in proporzione coi cubi delle loro distanze dal centro di Marte; la qual cosa evidentemente li dimostra governati dalla stessa legge di gravitazione che regge tutti gli altri corpi celesti. Essi hanno osservato novantatre differenti comete e calcolati con grand'esattezza i periodi delle loro apparizioni. Se ciò è vero, ed essi affermano con la massima fiducia che è vero, è da augurarsi che le loro osservazioni vengano pubblicate, affinchè la dottrina delle comete, che finora per dir vero è zoppa e difettosa per ogni dove, arrivi finalmente a quel grado di perfezione che tutti gli altri rami della scienza astronomica hanno raggiunto. Il re dell'isola galleggiante sarebbe il più assoluto monarca dell'universo se potesse conseguire d'aver dalla sua in tutto e per tutto i suoi ministri; ma questi, i cui possedimenti son tutti in terra ferma, e che sanno quanto incerta durata abbia la condizione de' favoriti, non consentirebbero mai alla schiavitù de' loro paesi. Nei casi di ribellione o ammutinamento delle città di terra ferma, di violente fazioni che sorgano in seno ad esse, o di negato pagamento de' consueti tributi, il re ha due espedienti per ricondurre que' suoi sudditi all'ordine. Il primo e il più mite consiste nel venire a bilanciarsi con la sua isola su la città inobbediente e le sue vicinanze, con che privandole del benefizio della pioggia e del sole, ne percuote gli abitanti co' flagelli della carestia e de' morbi epidemici; ed, ove la loro colpa arrivasse a meritare tanta punizione, può in oltre lapidarli con enormi massi gettati a basso, genere di gragnuola, contro cui non hanno altro scampo che rintanarsi ne' sotterranei e nelle cantine, intantochè i tetti delle loro case son fatti in pezzi. Ma se essi, persistendo nella loro protervia, minacciano un'aperta generale ribellione, il re ha sempre in sua mano un ultimo rimedio: quello di lasciarsi con tutta l'isola cascar loro addosso, che è poi la distruzione universale e delle case e degli uomini. Ma accade di rado che il principe si veda tirato a simile estremità, prima perchè non ci avrebbe gusto egli stesso, secondo perchè i ministri non gli daranno mai il parere di venire ad un atto che, oltre al renderlo odiosissimo ai popoli, rovinerebbe i loro fondi tutti posti in terra ferma, perchè l'isola è interamente demanio della corona. Ma evvi a dir vero una ragione più calzante per cui i re di quella contrada, fuor di qualche caso estremo, si sono sempre astenuti dal percuotere con una sì terribile esecuzione i loro sudditi. Se una città condannata alla distruzione fosse attorniata da alte montagne, come generalmente accade nelle grandi città, che probabilmente si sono scelta così la loro situazione per impedire una simil catastrofe, e se abbondassero di guglie o altissimi colonnati di marmo, una subitanea caduta potrebbe portar grave danno alla base dell'isola, la quale, benchè sia, come ho detto, un intero diamante della grossezza di duecento braccia, potrebbe in quel tremendo urto spezzarsi, o vero, avvicinandosi troppo ai fuochi delle case postegli sotto, scoppiare, come accade alle stoviglie o di terra o di rame troppo esposte al fuoco de' nostri cammini. I sudditi pertanto, che sanno tutte queste cose, sanno ancora a qual segno si possono compromettere di spignere la propria ostinazione ogni qual volta vedono in pericolo i loro possedimenti o privilegi. Per ciò il medesimo re, quand'anche si sente più provocato ed è veramente risoluto di esterminare una delle sue città, ordina che l'isola sia calata giù con tutta la dilicatezza possibile per amore, egli dice, del suo popolo, ma in sostanza per amore della base adamantina dell'isola, la quale se scoppiasse, si fracasserebbe, battendo la terra, l'isola stessa, che la spola magnetica non varrebbe più a sostenere. Per una legge fondamentale di quella monarchia nè i due reali primogeniti possono mai uscire dell'isola, e nemmeno lo può la regina, se non passato per lei il tempo di concepir prole. CAPITOLO IV. L'autore si congeda da Laputa, viene trasportato a Balnibarbi. — Suo arrivo alla città capitale della nuova contrada. — Descrizione di questa e de' paesi circonvicini. — Ospitalità concessa da un distinto personaggio all'autore. — Intertenimento che entrambi ebbero fra loro. Quantunque io non possa lagnarmi di avere ricevuti mali trattamenti a Laputa, pure son costretto confessare di essermi veduto assai trascurato, e non senza qualche apparenza di disprezzo per la mia persona; perchè nè il principe nè il popolo si mostravano curiosi in nessun ramo di umane nozioni, tranne la matematica e la musica, nella parte meramente teorica, delle quali facoltà io era di gran lunga inferiore ad essi, e per conseguenza avuto in pochissimo conto. Per altra parte, avendo io già veduto tutte le singolarità dell'isola, sospiravo l'ora di andarmene, ed ero stanco di tutto cuore del consorzio di quella gente. Certo erano eccellenti in due professioni per le quali ho tutta la stima ed alle quali non sono nemmeno straniero; ma erano sì astratte, sì involute le loro contemplazioni, ch'io non mi sono mai scontrato in compagnie meno simpatiche delle loro; laonde io non ho propriamente conversato se non con donne, mercanti, pazzi di corte, _climenos_ (sapete che questi sono i galantuomini dalle vesciche) ne' due mesi del mio soggiorno a Laputa, benchè nemmeno queste classi avessero per me maggiore stima dell'altre, ma in fine erano le sole dalle quali potessi ottenere risposte che avessero un po' di senso comune. Ancorchè fossi giunto, a furia d'improbo studio, ad un buon grado di conoscenza nel loro linguaggio, io era stanco, ammorbato di vivere in un paese ove mi si faceva così poca cera, onde risolvei abbandonarlo alla prima occasione che me ne capitasse. Viveva alla corte un gran personaggio, prossimo parente del re, e rispettato per questo solo motivo; chè del resto lo consideravano per l'uomo più stupido ed ignorante fra quanti aveano soggiorno nell'isola. Certamente avea resi segnalati servigi alla corona; possedea doti d'ingegno e naturali e acquistate collo studio, era in oltre integerrimo e pien d'onore, ma d'un orecchio sì disarmonico che i suoi detrattori lo accusavano d'averlo sorpreso più d'una volta in false battute di musica, e si voleva in oltre che i suoi istruttori avessero durato grande fatica a fargli entrare in capo i teoremi elementari della geometria. Questo personaggio adunque si era degnato, in più d'un incontro, di darmi contrassegni del suo favore; m'avea più volte onorato delle sue visite e si mostrava desiderosissimo di conoscere gli affari dell'Europa, le leggi, i costumi, il tratto e il grado di sapere delle diverse contrade ove io aveva viaggiato. M'ascoltava su questi argomenti con grande attenzione e faceva sensatissime osservazioni su quanto io gli andava esponendo. Aveva anch'egli, ma sol per lusso e formalità, i suoi due ufiziali dalle vesciche, senza per altro servirsene fuorchè a corte e nelle visite di etichetta, anzi mandandoli sempre fuor della stanza quando ci trovavamo insieme. Supplicai pertanto questo illustre personaggio a farsi mio intercessore presso sua maestà affinchè ottenessi la licenza di partire dall'isola; nel che riuscì, com'ebbe la gentilezza di esprimersi, _con suo grande rincrescimento_, e bisogna che lo dicesse di buona fede perchè mi fece diverse vantaggiosissime offerte, ch'io nondimeno ricusai non senza espressioni della mia più alta riconoscenza. Ai 16 di febbraio, mi congedai da sua maestà e dalla corte. Il re mi fece un dono in danaro che equivarrebbe fra noi a dugento sterlini, ed il mio proteggitore, parente come dissi del re, mi regalò molto di più dandomi in oltre una lettera di raccomandazione per un suo amico di Lagado, metropoli di Balnibarbi. L'isola in allora bilanciandosi sopra una montagna distante all'incirca due miglia di lì, ci venni calato dall'ordine più basso di logge nella stessa maniera onde fui due mesi prima tirato su. Tutto quanto il continente soggetto al monarca dell'Isola Galleggiante viene denominato _Balnibarbi_, e la sua metropoli, l'ho già detto, _Lagado_. Il trovarmi in terra ferma portò qualche sorta di soddisfazione al mio cuore. M'avviai alla città capitale senza imbarazzo, vedendomi finalmente vestito all'usanza a un dipresso di que' nativi e bastantemente istrutto nella lingua per conversare con essi. Non tardai a trovare la casa del personaggio cui venivo raccomandato dal suo amico, grande di prima classe dell'Isola Galleggiante, e presentatagli la mia commendatizia, ne fui accolto colla massima cortesia. Questo ragguardevole personaggio mi fece tosto apparecchiare un appartamento in sua propria casa ove continuai, durante la mia permanenza, ad essere trattato con la più cordiale ospitalità. Nella mattina successiva al mio arrivo, mi condusse nella sua carrozza a vedere la città, grande la metà presso poco di Londra, ma le case della quale erano strambamente fabbricate, e molte di esse in rovina. Il popolo correa velocemente per le strade, avea cere stralunate, occhi come incantati ed era vestito, la maggior parte, di stracci. Andati fuor d'una porta della città e trovata dopo tre miglia quasi di corsa l'aperta campagna, vidi parecchi contadini che lavoravano la terra con diverse sorte di stromenti nuovi per me, ma non fui buono di capire che cosa stessero facendo, e nemmeno ch'eglino si prefiggessero di avere un ricolto di grano o di fare un prato, benchè la natura del suolo si mostrasse fertilissima. Non potei rattenere il mio stupore alla vista di sì strane apparenze che mi ferivano gli sguardi ne' campi, come poco prima nella città; laonde mi presi la libertà di pregare l'illustre mia guida a volermi spiegare in che fossero affaccendate tante teste e mani e faccie da me vedute così allora come prima di uscire della città, perchè gli confessai ingenuamente di non capir niente affatto che buoni effetti si aspettassero da tutto quell'affaticarsi, tanto più, non gli tacqui ciò, ch'io non avea mai veduto terreni peggio coltivati, case più male architettate e più rovinose, e un popolo le cui fisonomie ed i vestiti esprimessero maggiore miseria e bisogno di tutte le cose. Il signor Munodi (tale era il nome del mio ospite), personaggio come potete credere di primo ordine, era stato alcuni anni governatore di Lagado, ma in forza d'una cabala ministeriale fu licenziato per imputatagli dappocaggine. Ciò non ostante, il re continuava a trattarlo con affezione ed a riguardarlo come un uomo pieno di buona volontà, ma d'un intelletto affatto meschino. Udita quella mia libera censura del paese e degli abitanti, non mi diede altra risposta che questa: — «Voi non siete ancora rimasto fra noi il tempo bastante per istituire un giudizio. Sapete bene che le differenti nazioni del mondo hanno costumanze ancor differenti», ed aggiunse altri luoghi topici di simil natura. Nondimeno poichè fummo tornati al suo palazzo, mi chiese: — «E questa fabbrica come vi piace? Quali stramberie avete trovato, che avete a ridire sul vestito o la cera de' miei servitori?» Non rischiava nulla nel farmi una simile interrogazione, perchè veramente la magnificenza, la regolarità e la mondezza regnavano in ogni parte della sua casa. — «La saggezza, risposi, le belle doti e la ricchezza di vostra eccellenza hanno resa la sua casa immune da que' difetti che l'idiotaggine e la miseria hanno prodotti negli altri edifizi. — «Se un di questi giorni, egli soggiunse, verrete con me alla mia casa di villeggiatura che domina i miei fondi, ed è distante di qui una ventina di miglia, avremo maggior agio a tal genere di conversazione. — «Io sono sempre disposto ai comandi di vostra eccellenza, risposi, e secondo questo concerto partimmo per la campagna la mattina dopo». Lungo il cammino, mi fece notare i diversi metodi praticati da que' fittaiuoli nel governo de' loro terreni, cose tutte che mi faceano stordire, perchè, eccetto alcuni pochi luoghi, non mi veniva fatto di scoprire una sola spica di grano o un sol filo d'erba. Ma dopo tre ore di corsa la scena fu affatto cangiata; entrammo in un bellissimo paese ove le case de' fittaiuoli, in poca distanza l'una dall'altra, erano decentissimamente fabbricate e begli spazi di terreno chiusi contenevano e vigneti e campi ricchi di messe e praterie; in somma non mi ricordo di avere mai veduta in mia vita una prospettiva tanto ridente. Sua eccellenza accortasi che mi si schiariva un poco la faccia a tal vista, mi disse mettendo un sospiro: — «Qui cominciano i miei fondi, e li vedrete tutti così, finchè s'arrivi alla mia abitazione; ma i miei concittadini mi mettono in ridicolo e mi disprezzano, perchè dicono che amministro male le mie sostanze, e che do uno scandaloso esempio a tutto il reame; benchè per verità pochissimi lo seguono fuor d'alcuni che si guadagnano, come me, i predicati d'uomini di due secoli addietro, d'imbecilli, di pusillanimi e che so io?» Arrivammo finalmente all'abitazione di sua eccellenza, costruzione nobilissima e fabbricata secondo le migliori regole dell'architettura degli antichi; le fontane, i giardini, i viali e i boschetti ne erano disposti con esatte proporzioni e gusto squisito. Io tributava le debite lodi a quante cose ivi io vedea, ma sua eccellenza non mostrava avvedersene; sol la sera, terminata la cena, e non essendovi alcun terzo che gli desse soggezione mi disse con cera malinconica: — «Ho ben paura che dovrò fra poco atterrare le mie case tanto di città quanto di campagna per rifabbricarle alla moda d'oggidì; che dovrò distruggere tutte le mie piantagioni e ridurle alla forma moderna che l'uso domanda, dando istruzioni simili ai miei subordinati, se non voglio tirarmi addosso la taccia d'uomo superbo, singolare, vanaglorioso, ignorante e capriccioso, e aumentare forte il mal umore che sua maestà ha concepito verso di me. Cesseranno o certo scemeranno gli stupori che siete andato manifestandomi sin qui, poichè vi avrò informato di alcune particolarità delle quali probabilmente non vi sarà mai stato parlato alla corte; perchè que' signori son troppo immersi nelle loro speculazioni astratte per sapere che cosa passa quaggiù[29]». La conclusione del suo discorso si riduceva a spiegarmi come da quarant'anni certi individui da Balnibarbi portatisi nel regno superiore di Laputa o per affari o per divertimenti, e tornatine addietro con un po' d'ìnfarinatura delle matematiche, ma pieni la testa di spiriti volatili acquistati in quelle aeree regioni, come questi individui al loro ripatriare avessero principiato ad avere a schifo ogni cosa di quaggiù e ad ideare divisamenti per ridurre ogn'arte, scienza, lingua e meccanica ad un novello sistema. A tal fine costoro, giusta quanto mi disse il mio narratore, si procurarono una regia patente per istituire un'accademia di _progettisti_ in Lagado; ed il loro umore prevalse sì fortemente nella popolazione che non vi fu più una città di qualche importanza nel regno la quale non volesse avere la sua accademia. Ne' collegi dipendenti da queste accademie, i professori inventarono nuovi metodi di coltivazione e di costruzione e nuovi stromenti per ogni sorta di mestieri e di manifatture. Per chi badasse loro, un uomo solo arriverebbe a poter fare il lavoro di dieci uomini[30]; un palazzo ad essere fabbricato in una settimana e ciò non ostante riuscire di una saldezza da durare in eterno senza alcun bisogno di restaurazione. Tutti i frutti della terra verrebbero a maturità in qualsivoglia stagione piacesse averli, e crescerebbero ad una mole cento volte maggiore di quella che presentano oggidì, e s'avrebbero innumerabili altri vantaggi di questa natura. Il solo inconveniente è che nessuno finora di tali divisamenti è andato a buon termine; e che intanto l'intero paese è in preda al più deplorabile guasto, tutte le cose sono in rovina, ed il popolo non sa più di che cosa cibarsi o coprirsi. Da tutte le quali cose, in vece di essere scoraggiati, sono anzi spinti a dedicarsi con una intensione cinquanta volte maggiore ai loro disegni, gl'induca a ciò la speranza o la disperazione. «Quanto a me, mi diceva il mio illustre ospite, non mi sento dotato di tutto questo spirito intraprendente; contento di tenermi alle forme antiche, resto nelle case che i miei maggiori hanno fabbricate, e fo com'essi facevano in tutti i particolari della mia vita, senza pensare e tante innovazioni; alcuni pochi del mio grado hanno seguito il mio esempio, ma siamo tutti veduti di mal occhio e sprezzati come nemici dell'arti, ignoranti, e persin cattivi e fatali alla pubblica prosperità, perchè preferiamo i nostri comodi e le inspirazioni della nostra infingardaggine al miglioramento generale del nostro paese». — «Ma, continuò sua eccellenza, non voglio coll'intertenermi più a lungo su queste particolarità anticiparvi il piacere che avrete di sicuro quando visiterete la grande accademia che voglio assolutamente vediate appena saremo tornati in città. Or soltanto mi basta farvi osservare le rovine che si vedono là su l'altura di quel monte lontano circa tre miglia da noi. Dovete sapere ch'io aveva una volta un conveniente mulino non distante più d'un mezzo miglio da casa mia, fatto girare dalla corrente di un grosso fiume e bastante agli usi non solo della mia famiglia ma di quelle de' molti miei contadini e subalterni. Sette anni fa, una banda di questi _progettisti_ venne a farmi la proposta di atterrare il mio mulino per fabbricarne un altro là su la lunga cresta delle montagne che vi ho indicata, nella quale bisognava primieramente tagliare un canale per condurci l'acqua dalla pianura a furia di trombe e di macchine, e tutto il gran vantaggio di questa bella operazione consisteva in ciò, che l'acqua portata fin lassù essendo obbligata a scendere per un ripido declivo, il mulino verrebbe mosso da una massa di fluido minore di quanta ne contiene un grosso fiume posto ad un livello più uguale. Che volete? In allora io era piuttosto in disfavore presso la corte; molti miei amici mi stimolavano ad aderire alla proposta, aderii. Dopo avere per due anni impiegati cento uomini in questo lavoro, l'impresa andò a male; i _progettisti_ ne desistettero, lasciandone tutto il biasimo su le mie spalle e burlandosi in appresso di me. Ciò non ostante, trovarono altra buona gente cui proporre imprese simili con le stesse promesse e sempre con uguale buon successo». Fra pochi giorni fummo di ritorno alla città. Sua eccellenza pensando al tristo concetto in cui l'accademia lo tenea, non volle accompagnarmi in persona, ma affidò ad un amico suo questo incarico facendomi annunziare come un grande ammiratore d'ogni nuovo tentativo, curiosissimo ed altrettanto facile a credere. Nè sua eccellenza s'ingannava nella totalità, perchè da vero sono stato un grande _progettista_ in mia gioventù. CAPITOLO V. L'autore ottiene la permissione di vedere la grande accademia di Lagado. — Estesa descrizione di quest'accademia. — Arti in cui si esercitano que' professori. Composta di più case continuate che tengono entrambi i lati di una strada, non un intero unico edifizio, è l'accademia; le suddette case cadendo in rovina, vennero comprate ed applicate a tale effetto. Ricevuto assai cortesemente dal custode, frequentai quel luogo per più giorni consecutivi. Ciascuna camera contiene uno o più accademici, e credo non vi fossero meno di cinquecento camere. Il primo accademico in cui m'incontrai, magro come uno scheletro, avea le mani e la faccia simili a quelle d'uno spazzacamino, lunghi i capelli e la barba, vestito di cenci arsicciati in più d'un luogo. Il suo giustacuore, la sua camicia, la sua pelle, tutte queste cose erano d'uno stesso colore. Si era affaticato otto continui anni nell'impresa di estrarre dai cetriuoli de' raggi di sole, ch'egli si prefiggea poi racchiudere ermeticamente entro fiale le quali avrebbero riscaldato l'aria nelle giornate nuvolose ed inclementi della state. Mi disse che non dubitava di potere di lì ad otto anni tener forniti d'una sufficiente dose di raggi di sole i giardini del governatore; unicamente si dolse che i suoi capitali andavano scemando, anzi mi pregò regalargli alcun che in via d'incoraggiamento al suo ingegno, tanto più che in quell'annata correa la carestia ne' cetriuoli. Gli feci un piccolo donativo, perchè il mio ospite, che ben sapeva essere stile di quegli accademici il dare stoccate alle borse di tutti i loro visitatori, m'avea proveduto di danaro a tal uopo. Di lì passai in un'altra camera donde io volea fuggire alla presta, per l'orrido soffocante fetore che mi sorprese. Ma il mio compagno mi spinse innanzi scongiurandomi all'orecchio di non far questo affronto all'accademico dimorante ivi che se ne sarebbe avuto grandemente a male, onde non ardii far altro che turarmi il naso. Quell'accademico era il più anziano di que' dotti; la sua faccia e la barba erano d'un brutto colore gialliccio; le mani ed i vestiti imbrattati della materia che mandava il puzzo da cui io voleva fuggire. Appena gli fui presentato, mi abbracciò cordialissimamente, complimento da cui l'avrei dispensato sì volentieri! La sua faccenda fin dal primo istante che entrò nell'accademia era stata cercar di tornare gli escrementi all'antico stato di commestibili col farne sparire la tinta che ricevono dal fiele, col farne esalare il mal odore e col detergerli dalla saliva[31]. Egli riceveva ogni settimana un assegnamento fattogli dalla dotta società, e consisteva questo in un enorme tino carico della materia necessaria alla sua manifattura. Trovai un altro inteso all'opera di calcinare il ghiaccio per ottenerne polvere da schioppo; egli mi mostrò in oltre una sua opera che divisava dare alla luce su la natura malleabile del fuoco. Quivi conobbi un ingegnosissimo architetto che aveva inventato un nuovo metodo di fabbricare le case principiando l'edifizio dal tetto e venendo giù alle fondamenta; la qual pratica egli giustificò col citarmi l'esempio di due insetti oltre ogni dire industriosi, l'ape ed il ragno. Vidi pure un cieco nato che avea molti scolari posti nella sua condizione, ed affaccendati a stemperare tinte ad uso de' pittori, perchè il loro maestro aveva insegnato loro a discernere col tatto e coll'odorato i colori. Fu mia sfortuna il non trovare que' giovinetti ancora profondi nelle dottrine che avevano apprese, e non parea che nemmeno il maestro cogliesse una sola volta nel segno. Pur questo artista era grandemente incoraggiato e stimato dall'intera corporazione. In un'altra camera mi divertì molto il conoscere un accademico che avea scoperto l'astuzia di far arare la terra ai porci, risparmiando così le spese degli aratri, la compera e il mantenimento de' buoi e le fatiche degli agricoltori. Il suo metodo era questo: seppellire in una bifolca di terra, ad una distanza di sei dita ed alla profondità di otto, una quantità di ghiande, datteri, castagne ed altri frutti o vegetabili di cui quegli animali son ghiotti; allora condurre seicento di tali bestie sul campo, ove in pochi giorni avrebbero voltato sossopra tutto il terreno e lo avrebbero ad un tempo concimato rendendolo così atto alla seminagione. Certamente gli esperimenti andavano dimostrando che l'incomodo e il disturbo erano grandi, il ricolto scarsissimo; nondimeno non si dubitava che un tal metodo d'aratura non fosse per ammettere grandi miglioramenti. Entrai in un'altra camera, le cui pareti e la soffitta, tutto lo spazio in somma eccetto uno stretto andito donde l'artista camminava innanzi indietro, erano ingombre di ragnateli. All'atto del mio ingresso mi gridò forte che badassi a non isconcentrargli i suoi tessuti. Poi si diede a gemere sul fatale errore prevalso da sì lungo tempo nel mondo, quello di valersi de' bachi da seta, mentre abbiamo tanta copia d'insetti domestici, ben superiori di merito ai primi, che non solo somministrano la materia, ma la sanno filare e tessere eglino stessi. Costui avea poi presentata un'invenzione sua propria, che dovea risparmiare la spesa di colorare le sete somministrate dai ragni; della qual cosa fui pienamente convinto poichè m'ebbe mostrata tutta la quantità delle mosche di varii colori, con le quali nudriva i suoi ragni. Secondo lui, le tele doveano prendere i colori delle diverse mosche e, siccome ne avea di tutti i colori, sperava d'avere altrettanti colori di fila, ed affinchè poi queste fila prendessero consistenza, aveva inventato il ripiego di nudrire le mosche con certe gomme, materie glutinose ed olii atti ad ottener tale intento. Uno di questi astronomi si era preso l'assunto di collocare su la gran girandola del palazzo di città un oriuolo solare, dotato della proprietà di far coincidere i diurni moti della terra intorno al sole colle direzioni accidentali del vento. Io mi andava dolendo d'un lieve accesso di dolor di ventre, per lo che il mio compagno credè opportuno il condurmi nella camera di un famoso medico solito a curare tale infermità con contrarie operazioni che partivano da uno stesso stromento. A tal fine avea pronti due enormi soffietti ed una lunga sottile cannetta d'avorio. Introducendo questa ad una buona lunghezza laddove entrano i clisteri, si degnava egli stesso farla servire da tromba assorbente dell'aria malefica che, secondo lui contaminava le budella dell'infermo ripromettendosi renderle vizze al pari di una vescica secca. Ma se la malattia si ostinava a non cedere, passava allora all'operazione diametralmente opposta e ricorreva ad uno de' suoi soffietti gonfio di vento e lo scaricava nel corpo del paziente; e se non bastava una volta, levava il soffietto impedendo col suo dito grosso che l'aria uscisse di dov'era entrata, e con l'altro ripetea lo stesso lavoro. Continuava così le tre, le quattre volte, sostenendo che il vento di nuova giunta nell'uscir fuori si porterebbe il vento cattivo con sè a guisa di una tromba da nettare i pozzi, e che finalmente l'ammalato risanerebbe. Gli vidi tentare entrambi gli esperimenti sopra un cane. Non m'accorsi di verun effetto del primo. Sotto il secondo quando il cane fu per crepare si alleggerì del vento che lo gonfiava; vi lascio pensare come ammorbasse la stanza; indi morì, e lasciai il dottore che s'apparecchiava a farlo rivivere rinovando la medesima operazione. Visitai molte altre camere, ma studioso come sono della brevità, non vo' tediare il leggitore col racconto di tutte l'altre singolarità che in esse notai. Fin qui io aveva veduto un lato solamente dell'accademia, l'altro era assegnato agli studiosi del progresso delle scienze speculative, de' quali io dirò alcuna cosa, poichè avrò fatta menzione di un altro illustre personaggio che veniva ivi chiamato l'artista universale. Egli ci narrò come avesse dedicato per trent'anni i suoi pensieri al perfezionamento dell'umana vita. Egli avea due vaste stanze piene zeppe di meraviglie, e cinquanta uomini che lavoravano sotto i suoi ordini. Alcuni stavano condensando l'aria che trasformavano in una sostanza secca e tangibile col cavarne il nitro e lasciarne scolare le particelle acquee o fluide[32]; altri ammollivano il marmo per farne guanciali e cuscinetti per gli spilli; alcuni pietrificavano le unghie de' cavalli vivi per salvarli dallo storpiarsi. L'artista stesso in quel momento si dava attorno per mandare a termine due vasti divisamenti; il primo era quello di seminare i campi colla pagliuola del grano in cui a suo avviso si contenea la vera virtù seminale, cosa da lui confermata con diversi esperimenti che, lo confesso, non ebbi l'abilità di capire. L'altro consisteva nel valersi d'un certo composto di gomma, vegetabili e minerali che, applicato su la pelle esterna degli agnelli, avrebbe impedito il crescere della lana, laonde sperava entro un tempo ragionevole di propagare per tutto il regno una razza di pecore senza lana. Traversammo un viottolo per andare all'altra parte di quell'edifizio che, come ho detto, è residenza dei _progettisti_ studiosi del progresso delle scienze speculative. Il primo professore ch'io vidi, stava in una grandissima stanza con quaranta scolari attorno di lui. Dopo esserci salutati, egli si accorse ch'io stava guardando in atto di curiosità una enorme macchina la quale tenea quasi tutta la lunghezza e la larghezza della stanza, laonde così mi parlò. «Vostra signoria si maraviglia forse vedendo che s'adoprano operazioni pratiche e meccaniche all'oggetto di perfezionare scienze meramente speculative. Pure il mondo s'avvedrà presto dell'utilità di questa mia macchina, nè credo che un'idea più grandiosa sia mai entrata nella mente di nessun uomo. Tutti sanno quanto sia faticoso il metodo che generalmente si usa per far imparare le arti e le scienze; mediante questo mio congegno non v'è uomo sì ignorante, che non possa con un discreto sforzo intellettuale e con pochissima fatica di corpo scrivere libri di filosofia, di poesia, di politica, di giurisprudenza, di matematica e di teologia senza bisogno affatto di genio o di studio». Mi fece indi accostare alla sua macchina, innanzi ai lati della quale stavano ordinati in fila i suoi discepoli. Posta nel mezzo della stanza essa occupava venti piedi quadrati. La superficie della medesima era composta di cubetti di legno della grossezza d'altrettanti dadi, alcuni nondimeno di maggior mole d'alcuni altri, tutti infilzati insieme col mezzo di sottili fila metalliche. Ciascuna faccia laterale di questi dadi andava coperta da un pezzetto di carta incollatovi sopra e su cui erano scritte tutte quante le parole della lingua del paese e tutti quanti gli accidenti de' loro tempi, modi, numeri, declinazioni e coniugazioni; ma senza nessun ordine. «Compiacetevi d'osservare; il professore mi disse; che sto ora per mettere in azione la mia macchina». Allora ad un suo cenno, ciascuno scolaro prese in mano un manico di ferro, che di quaranta di tali manichi andava preveduta la macchina alla sua estremità. Col girar questi manichi tutt'ad un tratto, la disposizione delle parole scritte su le faccie dei dadi veniva, come è naturale, affatto cangiata. Allora comandò a trentasei di que' ragazzi che leggessero adagio adagio le linee formate dalle parole tali quali apparivano su la superficie della macchina, e connettessero tre o quattro di queste parole tanto da formare un brano di frase, e tal frase dettassero agli altri quattro scolari destinati all'ufizio di scrittori. Una tale operazione veniva ripetuta tre o quattro volte, e ad ogni girata di manichi, la macchina era congegnata in modo che le parole mutavano di posto tante volte quante i dadi voltavano le loro faccie. Sei ore d'ogni giornata venivano impiegate in simil faccenda, ed il professore mi mostrò parecchi volumi in foglio di brani di frasi da lui già raccolte aggiugnendo essere sua intenzione di combinarli insieme e cavar fuori da que' ricchi materiali quanto era d'uopo per fare al mondo il dono d'una compiuta raccolta dello scibile umano, così nelle facoltà intellettuali come nell'arti; non mi tacque ad un tempo che una sì vasta impresa ammetteva e grandi miglioramenti e mezzi di affrettarne l'ultimazione, ma che avrebbe bisognato a tal uopo che il pubblico decretasse un fondo per fabbricare e mettere in opera cinquecento delle sue macchine a Lagado e per obbligare i singoli che ne usavano a contribuire in comune alla grande opera da compilarsi. Mi assicurò che questa scoperta aveva occupati i suoi pensieri fin dalla prima sua giovinezza e che, avendo spogliato l'intero vocabolario per farlo entrare nella sua macchina, era in caso d'istituire un esattissimo calcolo di proporzione tra il numero degli articoli, nomi, verbi, in somma di tutte le suddivisioni delle parti dell'orazione. Feci i miei umilissimi ringraziamenti all'egregio personaggio che mi fu generoso d'una sì rilevante comunicazione, egli promisi che, se mai mi sarebbe dato dal destino il rivedere la mia nativa contrada, non avrei mancato di rendere a lui la giustizia che gli si competea come unico inventore di una macchina sì prodigiosa, di cui lo pregai lasciarmi levare il disegno. Me gli feci per altro mallevadore che, se bene sia stile de' nostri dotti d'Europa il rubarsi a vicenda le scoperte (donde si ha almeno il vantaggio che lo stabilire chi sia il vero inventore divenga fra noi un punto di scientifica controversia[33]) ad onta di ciò, l'onore della sua invenzione gli rimarrebbe intero e senza un solo rivale. Finalmente ci portammo alla scuola delle lingue in ora che i professori teneano consulta su i modi di perfezionare l'idioma di Lagado. Il primo partito posto fu quello di accorciare il discorso col ridurre tutti i polisillabi in monosillabi, e coll'omettere i verbi ed i participii, per la ragione che tutte le cose immaginabili non sono altro che nomi. L'altro fu quello di abolire le parole di qualunque sorta; il che avrebbe portato con sè, oltre ad una maggiore brevità, un vantaggio alla salute, essendo un fatto evidentissimo che quante parole pronunciamo, scemano logorandoli i nostri polmoni, e quindi accorciano la nostra vita. A tal fine fu immaginato un espediente pratico desunto dalla considerazione che ciascuna parola è il nome di una cosa. «Non sarebbe mo più conveniente, fu detto, che gli uomini si portassero seco le cose necessarie ad indicare le faccende intorno a cui vogliono istituire un discorso?» E certamente questo partito cotanto comodo e salubre sarebbe stato adottato se le donne soprattutto e il volgo e gl'indotti non avessero minacciata una rivoluzione ogni qual volta si fosse tolta loro la libertà di parlare all'usanza dei loro vecchi con la lingua che avevano in bocca; tanto irreconciliabile nemico della scienza è il volgo! Ciò non ostante molti fra i più dotti e saggi del paese abbracciarono tal proposta in quanto li riguardava. Non c'era infatti altro sconcio fuor quello che, se il negozio di cui un uomo dovea trattare, era assai intrecciato, o vero se aveva a discorrere su diversi soggetti, gli conveniva in proporzione portarsi su le spalle un maggior fascio di cose, o farsele portar dietro da un paio di gagliardi facchini. Ho spesse volte veduti due saggi di tal setta curvati sotto il peso di questi vocabolari di nuova stampa, come fra noi i merciaiuoli girovaghi, incontrarsi per istrada, porre giù le bisacce, aprirle, conversare insieme un'ora valendosi di quelle parole materiali, poi terminata la conversazione, raccozzarle di nuovo nelle stesse bisacce, aiutarsi l'un l'altro a rimettersele su le spalle e congedarsi. Ma per dialoghi brevi un uomo può portarsi in tasca, o sotto il braccio, quante parole ci vogliono ai dialoghi stessi; ed in casa sua non mancherà mai l'occorrente per parlare. In forza di ciò le sale d'adunanza di chi si era messo a parlare questo idioma, abbondavano di tutte le cose necessarie ad alimentare un tal genere di conversazione pantomimica. Un altro grande vantaggio che si riprometteano da simile trovato si era l'avere in pronto una lingua universale[34] fatta per essere intesa fra tutte le nazioni venute a civiltà, i cui possedimenti ed arnesi sono a un dipresso conformati in una stessa maniera o ben poco dissimile, onde, adoprati in vece di parole, possono essere intesi per tutto il mondo. Vedeano che in tal modo gli ambasciatori sarebbero stati in istato di negoziare con tutti i gabinetti stranieri, anche senza intenderne gl'idiomi particolari. Intervenni pure ad una lezione di matematica, ove quel professore ammaestrava i suoi alunni con un metodo che non sarebbe venuto in mente a nessuno di noi in Europa. Il teorema e la dimostrazione erano bellamente scritti sopra una cialda sottile con un inchiostro composto di tintura cefalica. Questa cialda doveva essere inghiottita a stomaco digiuno dallo studente, il quale ne' tre successivi giorni non doveva cibarsi d'altro che di pane e acqua. Quando la cialda era digerita, i vapori della tintura erano saliti al capo dell'alunno e, essendosi portati seco il teorema e la dimostrazione, gli avevano improntati nella sede del suo cervello. Ma l'esito non corrispondeva alla bellezza del trovato, ora per equivoci occorsi nella composizione dell'inchiostro, ora per la malizia dei ragazzi, i quali avendo a schifo quel cibo, procuravano pretesti a sottrarsi di lì, mentre lo avevano in bocca, e lo sputavano via, sì che non potea certo produrre il suo effetto, oltrechè non se la sentivano troppo d'assoggettarsi a tal lunga astinenza senza di cui non giovava quella ricetta. CAPITOLO VI. Ulteriori notizie su l'Accademia — Proposte d'alcuni miglioramenti fatte dall'autore ed onorevolmente accolte. Io m'intertenni qualche tempo nella camera de' _progettisti_ politici, ma non ci ebbi gran gusto; que' professori, a mio avviso, aveano perduto affatto il giudizio, nè vi è cosa che mi metta maggiore malinconia della presenza dei pazzi. Quegli sfortunati accademici stavano consultandosi su i modi di persuadere i reggitori dei popoli ad avere per norma la saggezza, la capacità, la virtù nel farsi degli uomini dotati di tali prerogative i loro favoriti;[35] a volere che le mire de' loro ministri sieno volte soprattutto al pubblico vantaggio; a ricompensare il merito, le eminenti abilità, i rilevanti servigi prestati alla patria; a far conoscere agli eredi presuntivi del trono che l'interesse del regnante è una cosa sola con quello del suo popolo; a dare gl'impieghi alle persone capaci di sostenerli, ed altre strambe impossibili chimere che non erano mai saltate nella testa di nessun uomo, e che mi confermarono la giustezza di quel vecchio adagio: _Non v'è stramberia o irragionevole cosa che qualche filosofo non abbia voluto far passare per vera_. Nondimeno so rendere bastante giustizia ad una frazione di questa accademia per riconoscere che non tutti i membri di essa erano così visionari. Vi trovai un dottore di molto ingegno che parea perfettamente versato nella natura e nel sistema d'ogni governo. Questo illustre personaggio aveva utilmente impiegati i suoi studi nella ricerca di efficaci rimedi contra le malattie e corruttele cui soggiacciono i diversi rami di pubblica amministrazione, sia in forza dei vizi e delle infermità de' governanti, sia per la mala voglia di chi ha l'obbligo di obbedire. Per darvi un saggio del suo modo di ragionare, egli partiva dal principio ammesso da tutti gli scrittori e filosofi, che vi è una stretta universale somiglianza tra il corpo animale ed il politico. «Può dunque, egli diceva, esservi una cosa più evidente di quella che la salute di entrambi i corpi debba essere conservata, le malattie di entrambi curate con le stesse ricette? È cosa generalmente riconosciuta che i senati, le grandi assemblee sono spesse volte travagliate da troppa abbondanza, da bollimento ed altri vizi d'umori; da molti mali di capo, e più spesso di cuore; da forti convulsioni, e gran contrazioni di nervi in entrambe le mani, ma specialmente nella mano destra; da mali di milza, flati, capogiri o deliri, scrofole e tumori, rutti acetosi ingrati anche ai vicini, fame canina, e tant'altri morbi che non c'è bisogno di rammemorare. Questo dottore pertanto proponea che, ad ogni tornata di senato, un certo numero di medici intervenisse alle tre prime sessioni, e al terminar di ciascuna tastassero il polso a cadaun senatore; poi, dopo essersi consultati ed avere maturamente ponderata la natura delle singole malattie ed i metodi per curarle, si presentassero nel quarto giorno alla sala delle adunanze, accompagnati da un conveniente numero di speziali proveduti degli opportuni rimedi. I senatori non avrebbero potuto sedersi se prima questi famigli d'Esculapio non avessero amministrato ad ognun d'essi o lenitivi, o aperienti, o astergenti o corrosivi, o restringenti, o palliativi, o lassativi, o cefalici, o itterici, o pituitosi, o acustici, secondo i casi, ed a proporzione degli effetti de' remedi stessi sarebbero stati ripetuti od omessi nella prossima sessione. Un simile espediente, non infinitamente dispendioso al pubblico erario, sarebbe, secondo il mio debole parere, d'un grande vantaggio per isbrigare gli affari in que' paesi, ove i senati hanno qualche parte nel potere legislativo; perchè condurrebbe presto l'unanimità, accorcierebbe le discussioni, aprirebbe molte bocche che ora stanno chiuse, molte ne chiuderebbe le quali non ci sarebbe bisogno che rimanessero tanto tempo aperte, frenerebbe la petulanza de' giovani, correggerebbe la pedanteria de' vecchi, desterebbe gli stupidi, farebbe sbassar la cresta agli arroganti. In oltre, quel dottore, avendo udito molte querele su la corta o debole memoria di certi magistrati, avea proposto che chiunque si presentava all'udienza d'uno di questi, dopo avergli esposto il proprio caso con succinte e schiette parole, gli desse nel partirsi da lui o una tirata di naso, o un gentile calcio nel ventre, o vero gli pestasse su i calli de' piedi, o anche lo salutasse con una strappatina ad entrambe le orecchie o con un pizzicotto che gli lasciasse il nero sul braccio, o finalmente conficcandogli uno spillo nelle natiche, e ad ogni giorno, al momento del suo levarsi, gli ripetesse il medesimo complimento finchè la sua domanda fosse esaudita o con buoni motivi ricusata. Questo stesso dottore avrebbe voluto che ciascun senatore, dopo avere in pieno consiglio nazionale data e sostenuta con quanti argomenti credeva opportuni la sua opinione, fosse obbligato a dare il suo voto affatto contrario alla medesima: gli sembrava che, adoprando un tal metodo, le risoluzioni degli affari sarebbero sempre tornate a vantaggio del pubblico. Ove le discordie delle parti fossero portate ad un'estrema violenza in uno stato, quel mio dottore suggeriva un ammirabile specifico. Per fare a suo modo, avrebbe bisognato prender su un centinaio di capi fazione così d'una banda come dall'altra, ed appaiare quelli le cui teste fossero state all'incirca di uno stesso calibro; chiamar quindi due abili operai i quali segassero ad un tempo gli occipizi d'ogni due di loro con tal arte che ciascun cervello rimanesse diviso in parti eguali, poi fare un cambio tra le parti segate nel tornarle ad applicare alle parti rimaste intatte d'ognuno dei due. Se vogliamo, l'operazione pare un tantino arrisicata; ma quel professore mi assicurò che ove venisse fatta a dovere, era una cura d'effetto infallibile. La sua argomentazione era questa: «Quando avrete fatto che due cervelli discutano quistioni fra loro, imprigionati entro una medesima zucca, credete pure che verranno presto d'accordo; e ne nascerà quella moderazione e regolarità di pensamenti tanto desiderabili in coloro che s'immaginano non dover prevalere nel mondo altro partito fuor quello posto da essi;» e circa poi alla differenza de' cervelli, sia in quantità o qualità, lo stesso dottore ne assicurò che, trattandosi di capi fazione, è proprio una differenza da nulla. Fui ascoltatore d'un caldissimo dibattimento fra due professori, che ventilavano la quistione sul modo più comodo ed efficace di far danari in uno stato col minor possibile aggravio de' sudditi. Un di loro sostenea che la pratica più sicura sarebbe stata quella di tassar gli uomini su i loro vizi e pazzie, facendo, per tener sempre le vie più blande, eseguire la stima ed il riparto della tassa dai caritatevoli vicini dell'uomo da tassarsi. Il secondo poi era di un parere affatto contrario; volea si assogettassero a tassa quelle qualità di mente o di corpo in cui ciascuno si crede eminente, crescendo o sbassando la tassa giusta i gradi dell'eminenza determinati prima di sapere di essere tassati da coloro stessi che si giudicavano possessori di simili pregi. La più alta tassa dovea cadere su gli uomini che più si millantavano favoriti dell'altro sesso, e le proporzioni del tributo venir regolate sul numero e la natura dei favori ottenuti[36], usando a questi l'agevolezza di fidarsi alla loro parola. Lo spirito, il valore, la cortesia venivano in appresso fra le cose più soggette a tassa, e qui pure dovevano essere creduti in parola coloro che vantavano tanti pregi. Non così era dell'onore, della giustizia, della saggezza, della dottrina, qualità che si sarebbero sottratte alla tassa, perchè nessuno le volea riconoscere nel suo vicino, e le riconosceva tanta in sè stesso, che si sarebbe vergognato a vantarsene. Anche le donne, in sentenza del secondo opinante, avrebbero dovuto soggiacere a tassa da stabilirsi sul ragguaglio della loro avvenenza e dell'abilità loro nell'acconciarsi; ma non si parlava della loro costanza, castità, retto discernimento e sincerità, per lo stesso motivo onde sfuggivano alla tassa rispetto agli uomini l'onore, la giustizia, la saggezza e la dottrina. Un altro professore mi mostrò un'estesa memoria d'istruzioni sul modo di scoprire ogni trama macchinata contro al governo. Veniva ivi suggerito ai grandi statisti di esaminare i cibi di tutti gl'individui caduti in sospetto, d'indagar l'ora in cui si mettevano a tavola, di procurar di sapere se coricandosi giaceano piuttosto su d'un fianco o su l'altro, e se a far monda qualche parte del loro corpo si valeano della mano destra o della sinistra; di farne scandagliar bene gli escrementi, il colore, l'odore, il sapore, la consistenza, la maggiore o minore lor concozione per formare un retto giudizio su i disegni dell'evacuante, perchè si avea veduto coll'esperienza che gli uomini non sono mai così seri, cogitabondi a ciò che fanno, come quando si trovano a certa sedia che non è la sedia curule; e citava sè stesso ad esempio; avea pensato, così in via di prova, qual sarebbe stata la via più presta di disfarsi d'un qualche alto personaggio la cui vita lo incomodava, e trovò il proprio sterco divenuto verde; di tutt'altro colore quando avea, sempre in via di prova, divisato di far nascere soltanto una sollevazione. Tutta la predetta dissertazione, scritta con grande acutezza, contenea molte osservazioni singolari ed utili ad un tempo ai politici; pure capii che ci mancava ancor qualche cosa, onde m'arrischiai dirlo al suo autore ed esibirmi a farvi alcune piccole aggiunte. Accoltasi da questo la mia proposta con maggiore affabilità di quanta siamo soliti trovare negli altri scrittori, massime se appartengono alla classe dei _progettisti_, mi rispose che m'avrebbe ascoltato con tutto il piacere. — «Sappiate dunque, gli dissi, che nella metropoli del regno di Trebnia[37], chiamata dai nativi Langden[38], ove durante i miei viaggi mi sono fermato per qualche tempo, la massa del popolo è tutta d'una stampa, è tutta quanta composta d'indagatori, di testimoni, di relatori, di giuratori, tutti protetti, tutti regolati, tutti spesati dai ministri di stato e dai loro deputati. Le congiure di quel regno sono per l'ordinario altrettante manifatture dirette da questi signori, i quali si prefiggono ora d'ingagliardire il credito in cui sono di profondi politici, ora di trovar pretesti per dare maggior forza all'amministrazione che ha un po' del fesso; ora di soffocare, o di dargli divagamenti, al mal umore che è generale; ora di colmare le proprie casse a furia di fabbricare tradimenti; ora di alzare, ora di sbassare il credito pubblico; in fine di ottener quell'intento che, secondo i casi, torna meglio al privato loro interesse. Primieramente sono convenuti e stabiliti fra loro i nomi degl'individui che hanno ad essere accusati di una congiura; poi tosto non si perde tempo nel sequestrare tutte le loro lettere e carte e nel mettere gl'imputati in prigione. Queste carte vengono consegnate ad una certa razza d'artisti, abilissimi nel trovar fuori misteriosi significati a loro modo ad ogni parola, sillaba e lettera; per darvene un'idea, vi spiegheranno che una seggetta ha da voler dire _consiglio privato_; un branco d'oche, _senato_; un cane zoppo, _un invasore_[39]; la peste, _un esercito allestito_; uno scarafaggio, _il primo ministro_; la gotta, _un dignitario della chiesa_; una forca, _un segretario di stato_; un pitale, _una giunta di grandi del regno_; uno staccio, _una dama di corte_; una scopa, _una rivoluzione_; una trappola da sorci, _un impiego_; un pozzo senza fondo, _il tesoro dello stato_; una cloaca, _un cuore_; una berretta con sonagli, _un favorito_; una canna rotta, _un tribunale di giustizia_; una botte vuota, _un generale_; una piaga aperta, _l'amministrazione_. — Se questo metodo sbaglia, ne hanno due altri meglio efficaci che i più dotti fra questi artisti chiamano acrostici, o anagrammi. Col primo danno un significato politico a tutte le iniziali grandi. Così per loro la lettera N significherà una congiura; B un reggimento di cavalleria; L una flotta in mare; voi vedete quante diverse frasi si possano fabbricare in questa maniera. L'altro metodo è quello di collocar tutte le lettere di uno scritto in modo di formar le parole che si ha bisogno di formare. Così se un poveretto, di cognome Hatell, ha scritto ad un amico: _Mio fratello Tom ha le emorroidi_, que' signori anagrammisti da queste lettere stesse cavano fuori la frase: _Ma farò morto il re io, Tom Hatell_. Non vi so dire quanto mi ringraziasse quel professore per le osservazioni ch'io gli comunicai, e delle quali mi promise di fare onorevole menzione nel suo trattato. Non trovando nulla in quel paese che mi solleticasse a farvi una permanenza più lunga, principiai a pensare al modo di tornarmene in Europa a rivedere la mia famiglia. CAPITOLO VII. Lasciato Luggnagg, l'autore arriva a Maldonada. — Non vi trova imbarchi pronti. — Fa una breve scorsa all'isola di Giubbdubdrib. — Accoglienza che trova presso il governatore. Il continente, di cui il regno che ho descritto è una parte, si estende, come ho motivo di crederlo, verso levante fino a quello sconosciuto tratto d'America occidentale che confina a ponente con la California e a tramontana col mar Pacifico, nè è distante più di cento cinquanta miglia da Lagado. Colà è un buon porto che mantiene floridissimo il commercio con la grande isola di Luggnagg situata a maestro (nord-west) a 29° circa di latitudine settentrionale e 140° di longitudine. L'isola di Luggnagg giace a scirocco (sud-est) del Giappone, in una distanza a un dipresso di cento leghe. Correndo stretta alleanza tra l'imperatore giapponese ed il re di Luggnagg, sono parimente frequenti le occasioni di veleggiare da un'isola all'altra. Presi pertanto la risoluzione di volgermi a quella parte per effettuare il mio ritorno in Europa. Noleggiai quindi due mule ed una guida per additarmi la strada ed incaricarsi delle piccole mie bagaglie; ma prima mi accommiatai dal nobile protettore che m'avea compartiti tanti favori, e dal quale anche all'atto della mia partenza ricevei un generoso donativo. Non mi sopravvenne durante il viaggio alcun incidente degno di essere riferito. Arrivato a Maldonada (chè così si chiamava quel porto) non trovai alcun bastimento che mettesse alla vela per Luggnagg, nè che fosse per prendere quella direzione di lì a qualche tempo. La città è grande presso a poco come Portsmouth. Trovata molta ospitalità nel paese, non tardai a farvi delle buone conoscenze. Tra queste un distinto personaggio, dopo avermi avvertito che non mi si offrirebbero imbarchi per Luggnagg prima d'un mese, mi disse che non sarei stato scontento se, profittando di questo indugio, avessi fatta una gita alla piccola isola di Glubbdubdrib, non più lontana di cinque leghe dal libeccio (sud-est) di Luggnagg. Anzi egli ed un suo amico s'offersero accompagnarmi, e pensarono eglino a provedere una piccola navicella per tale viaggio. Glubbdubdrib, per quanto sono stato buono io d'interpretare questa parola, vuol dire _isola de' negromanti_ o _de' maghi_. Un terzo in larghezza della nostra isola di Wight, essa è ferace oltre ogni credere; la governa il capo di una certa tribù, di cui tutti gl'individui sono maghi. Eglino non contraggono matrimonii se non fra loro, e il più attempato di essi è per successione il principe o governatore dell'isola. Questi abita in un nobile palazzo con annesso un parco di circa tremila bifolche, circondato da un muraglione di mattoni alto venti piedi, e suddiviso in parecchi piccoli spartimenti di pascoli, campicelli di biade, orti e giardini. Il governatore e la sua corte sono serviti da famigli d'una razza piuttosto insolita. Mercè la loro perizia nella negromanzia, hanno il potere di chiamarseli e scerseli a modo loro dai trapassati, ma non di tenerli al proprio servigio più di ventiquattro ore, spirato il qual termine non possono obbligarli a tornare allo stesso incarico se non di lì a tre mesi, fuor d'alcuni casi straordinari e rarissimi. Arrivati nell'isola quasi alle undici del mattino, uno de' signori di mia compagnia si trasferì dal governatore, chiedendogli la grazia di ammettere alla sua presenza uno straniero che era venuto con lui coll'espresso fine di procurarsi l'onore di tributare il suo omaggio a sua altezza. Accordata subito la grazia, entrammo tutt'e tre dalla porta maggiore del palazzo in mezzo a due file di guardie armate e vestite affatto all'antica, le cui faccie aveano tal cosa in sè che mi faceva arricciare la pelle, e m'inspirava un certo brivido ch'io stenterei a descrivervi. Attraversammo diversi appartamenti, in mezzo a servitori sempre della stessa genía dei primi, e schierati come quelli in due file, sinchè finalmente fummo alla sala della presentazione. Dopo che avemmo fatti i tre nostri profondissimi inchini e risposto a poche generali interrogazioni, ne fu permesso sederci su tre sgabelli posti a livello del più basso gradino del trono di sua altezza. Il principe intendeva l'idioma di Balnibarbi, benchè diverso da quello che si parlava nella sua isola. Giovatosi di questo con me, mi pregò di dargli alcune contezze su i miei viaggi, e per farmi capire a dirittura che sarei stato trattato senza cerimonie, licenziò con un'alzata di dito tutti i suoi cortigiani, che sfumarono come le visioni de' nostri sogni, se ne accade destarci all'improvviso. Rimasi sbigottito per un po' di tempo; finalmente, poichè il governatore m'ebbe assicurato che non mi sarebbe stato fatto alcun male, e veduto che i miei compagni, già avvezzatisi per antecedenti visite a quelle usanze, non si mettevano in veruno scompiglio, cominciai a prendere un po' di coraggio, e feci a sua altezza un breve racconto delle mie avventure, non senza per altro qualche esitazione e ripetute occhiate dietro di me ai punti donde io aveva veduto sparire quel servidorame dell'altro mondo. Terminata la mia storia, ebbi l'onore di venire ammesso alla mensa del principe, imbandita e servita da una rinovata schiera di spettri. Allora nondimeno io mi sentiva meno atterrito che la mattina. Sol venuta la sera, pregai umilissimamente sua altezza ad accogliere le mie scuse se io non accettava l'invito ch'ella mi fece di dormire la notte nel suo palazzo. Andai dunque co' miei compagni ad alloggiare in una casa di particolari della contigua città, che era la metropoli di quella piccola isola; e nella successiva mattina tornammo ad umiliare gli omaggi del nostro rispetto a sua altezza, che si era degnata d'incoraggiarci a far questo. Continuammo di questo stile a soggiornare nell'isola dieci giorni, de' quali la maggior parte diurna passavamo presso il governatore; ma la notte ce ne tornavamo all'alloggio che vi ho indicato. Feci presto ad addimesticarmi colla vista degli spiriti, che dopo la terza o quarta volta non mi davano apprensione di veruna sorta, o se me ne fosse rimasto alcun poco, bisogna dire che la mia curiosità m'aiutasse a superarla. Perchè avete a sapere che il governatore mi diede la permissione di chiamar per nome, scegliendoli a mio piacimento e nel numero che avrei voluto, quanti morti avea veduti vivi la terra del principio del mondo all'era presente; e soggiunse: «Domandate pur loro liberamente di rispondere a qualunque interrogazione vi piacerà fare ai medesimi, semprechè le vostre inchieste cadano su cose accadute finchè viveano; ed una cosa di cui potete essere certo, si è che vi diranno il vero, perchè il dir bugie è una scienza ignota nel mondo di là». Fatti i miei più umili ringraziamenti a sua altezza per tanto favore, la presi in parola. Dalla stanza ove stavamo si godeva d'una delle più belle prospettive del parco, ed essendo io stato propenso sin dalla prima mia giovinezza alle scene di magnificenza e di fasto, pregai sua altezza a volermi far vedere Alessandro il Grande a capo del suo esercito nella posizione appunto in cui si trovò dopo la battaglia di Arbella. Il governatore mosse un dito, ed ecco tutto questo mondo sotto la nostra finestra! Chiamammo Alessandro di sopra; ed oh! che fatica feci a capire il suo greco! si rassomigliava ben poco a quello che ho imparato io. Fra le cose che capii vi fu la seguente: mi giurò su la sua parola d'onore che non era morto attossicato, come lo fanno molti, ma bensì d'una febbre maligna presa a furia d'imbriacarsi. Vidi in appresso Annibale al passaggio dell'Alpi, e m'assicurò, anch'egli su la sua parola d'onore, che nel suo campo non vi era mai stata una sola gocciola d'aceto[40]. Vidi Cesare e Pompeo a capo de' loro eserciti ed in procinto d'impegnare la battaglia; poi rividi il primo nell'atto del suo ultimo grande trionfo. Pregai che mi comparissero innanzi in una grande sala il senato di Roma ed in un'altra sala per modo d'antitesi una camera di rappresentanti moderni. Nella prima di questa sala credei vedere un sinedrio d'eroi e di semidei; nella seconda una combriccola di gaglioffi, di borsaiuoli, di assassini da strada e di sgherri. Il governatore, dietro mia preghiera, fece venire nella stanza ov'eravamo Cesare e Bruto. Fui compreso di profondissima venerazione alla vista di Bruto, ne' lineamenti della cui fisonomia potei facilmente discernere la più consumata virtù, la maggiore intrepidezza e fermezza di mente, il più veritiero amore della sua patria e la generale benevolenza ch'egli sentiva pel genere umano. Mi fu poi piacevolissimo il notare l'ottima intelligenza che regnava fra questi due personaggi; anzi Cesare mi confessò ingenuamente che tutte le più belle azioni della propria vita stavano sotto molti aspetti al di sotto della gloria acquistatasi da Bruto nel togliere dal mondo il dittatore di Roma, cioè lui stesso, Cesare. Ebbi l'onore d'intertenermi a lungo con Bruto, dal quale seppi che l'antenato di lui, Giunio, Socrate, Epaminonda, Catone il Giovine[41], Tomaso Moro[42], lo stesso Bruto II erano continuamente insieme; sestumvirato di cui tutte le età del mondo non possono offrirci un settimo membro. Noierei il leggitore se gli ripetessi i nomi di tutti gl'illustri personaggi richiamati alla luce del giorno per appagare l'insaziabile brama ch'era in me di vedermi schierato innanzi il mondo di ciascun periodo dell'antichità. Fu un grande pascolo alla mia vista il contemplare i distruttori dei tiranni e degli usurpatori, e coloro che restituirono alla libertà vilipese ed oppresse nazioni. Ma è inesplicabile la soddisfazione che mi veniva ad un tempo dalla speranza di potere ritrarre da tal rassegna un argomento degno d'intertenere un qualche giorno i miei leggitori. CAPITOLO VIII. Ulteriori racconti d'apparizioni. — Correzioni fatte alla storia antica e moderna. Voglioso di conoscere a mio miglior agio quegli antichi che furono più rinomati per ingegno e dottrina, stabilii una giornata in disparte a tal fine. Domandai che Omero ed Aristotele mi comparissero a capo di tutti i loro comentatori, ma tanti erano questi di numero che qualche centinaio di essi fu costretto rimaner nel cortile, ed anche fuori del palazzo. Scernei tosto i due personaggi principali non solo di mezzo alla folla, ma l'uno dall'altro. Omero era il più alto di statura ed il più simpatico dei due; camminava diritto assai per gli anni che aveva, ed i suoi occhi erano de' più vivaci e penetranti ch'io m'abbia veduti giammai. Aristotele andava molto curvo, e faceva uso di bastone; magro, avea rada la capellatura ed incolta, una voce gutturale. Potei accorgermi che nè l'uno nè l'altro sapea nulla della sua turba immensa di comentatori; anzi non ne avea mai veduto alcuno, o udito parlarne prima di quella giornata; uno spettro poi, del quale tacerò il nome, mi disse all'orecchio che tutti que' comentatori abitavano sempre ne' quartieri del mondo di là i più lontani dai loro comentati, e ciò per la vergogna e la coscienza di aver sformate si bestialmente le intenzioni de' loro autori agli occhi della posterità. Presentai Didimo ed Eustazio[43] ad Omero, e tanto feci che li trattò meglio forse di quanto lo avrebbero meritato, benchè non si stesse dal dire che mancavano di genio per potere entrare nello spirito di un poeta. Ma Aristotele perdè affatto la pazienza quando imparò a conoscere Scoto e Ramus[44] che gli presentai. Basta dire che fece loro questa domanda: «Il resto de' miei comentatori è tutto una mano di balordi come voi due?» Allora pregai il governatore a far venir lì Cartesio e Gassendi, che indussi a spiegare i loro sistemi ad Aristotele. Questo grande filosofo confessò ingenuamente gli abbagli in cui cadde egli stesso parlando di filosofia naturale, perchè in molti casi gli bisognava fondarsi su mere congetture, come accade a tutti i galantuomini; ma disse poi come tanto l'epicureismo che Gassendi avea reso saporoso fin dove potè nella sua _Filosofia d'Epicuro_ quanto i vortici di Cartesio fossero ugualmente da scartarsi. Predisse lo stesso destino all'attrazione, di cui i dotti de' nostri giorni si mostrano partigiani così zelanti[45]. Aggiunge che i nuovi sistemi della natura non sono altro che nuove mode, le quali variano in ciascun secolo; e che anche coloro i quali pretendono dimostrarli co' principii della matematica, sarebbero rimasti in voga per ben poco tempo, e che cadrebbero in discredito quando verrebbe la loro ora. Passai cinque giorni conversando con molt'altri dotti dell'antichità. Vidi pure diversi fra i primi imperatori romani. Ottenni dal governatore che chiamasse i cuochi di Eliogabalo, perchè ne imbandissero una mensa; ma non poterono far grande mostra di loro abilità per mancanza di materiali. Un iloto del re Agesilao ci fece un brodo alla spartana, non fui buono di mandarne giù una seconda cucchiaiata. I due personaggi che mi aveano condotto nell'isola, erano stimolati da alcuni particolari loro affari a partirne di lì a tre giorni che furono da me impiegati nel vedere alcuni de' morti moderni, i quali aveano più splenduto o nel nostro paese od in altre contrade europee da due o tre secoli in qua; ed essendo io stato sempre ammiratore delle antiche illustri dinastie, pregai il governatore a chiamarmi una dozzina o due di re seguendo l'ordine di otto o nove generazioni. Ma mi accadde cosa inaspettata che non vi so dir quanto mi facesse restare stordito ed allocco. Io mi aspettava vedere un lungo codazzo di monarchi; in vece trovai in una famiglia due sonatori di violino, tre bellimbusti ed un prelato; in un'altra un barbiere, un abate e due cardinali. Ho in troppa venerazione le teste coronate per fermarmi a lungo sopra un sì meschino argomento. Ma quanto ai marchesi, conti, duchi e cose simili non fui così scrupoloso; anzi confesso che non mi spiacque il trovarmi in posizione atta a scandagliare su i primi loro tipi le particolari fattezze che caratterizzano certe famiglie. Intesi pienamente come possa essere che tutti d'una certa discendenza abbiano il mento lungo; come un'altra abbia abbondato di ribaldi per due generazioni, di matti per altre due; donde deriva uno de' proverbi profferito da Polidoro Virgilio[46] intorno a certa gran casa: _Nec vir fortis, nec foemina casta_. Compresi perchè la crudeltà ereditaria in alcune famiglie, la codardigia o la falsità in altre, sieno divenute lor distintivi come gli stemmi; capii chi primo avesse portata in certa nobile casa la sifilide tramandatasi poi in sempre rinascenti scrofole ai discendenti. Nè di tutte queste cose potei maravigliarmi oltre, quando fui certo che quelle lunghe serie di famiglie erano state interpolate da paggi, staffieri, cocchieri, biscazzieri, sonatori di violino, commedianti, marinai e tagliaborse. Oh! allora mi venne proprio a schifo la storia moderna, perchè dopo avere scandagliati ben bene i personaggi che ebbero più grido nelle corti da un secolo in qua, m'accorsi come il mondo sia stato tratto da prostituti scrittori ad attribuire i più luminosi successi nella guerra ai codardi, le più savie risoluzioni ai matti, la sincerità agli adulatori, le virtù romane a chi tradiva il proprio paese, la pietà agli atei, la castità ai pederasti, la lealtà alle spie. Gran mercè a questi storici, il mondo non sa poi quanti uomini innocenti ed integerrimi sono stati condannati alla morte o al bando per le pratiche operate dai primi ministri or su la venalità de' giudici, or su la malizia delle fazioni; non sa quanti ribaldi vennero esaltati alle più sublimi cariche di confidenza, al potere, alle dignità, allo splendore delle ricchezze; non sanno quanta parte nei grandi avvenimenti dello stato, nelle risoluzioni de' consigli e de' senati appartenne ai mezzani, alle donne di mala vita, ai parassiti, ai buffoni. Come m'andò giù di credito ciò che chiamasi saggezza e rettitudine umana, poichè fui bene informato delle origini e de' motivi delle grandi imprese e rivoluzioni di questa terra, e degli spregevoli incidenti cui dovettero il loro buon successo! Mi convinsi allora della ribalderia o dell'ignoranza di coloro che si danno l'aria di scrivere aneddoti, o storie segrete; che mandano al sepolcro tanti re con una tazza di veleno; che vi ripetono discorsi seguiti contra un re ed un primo ministro senza esserne stati sicuramente testimoni d'udito; che schiavano a lor talento i gabinetti degli ambasciatori e segretari di stato; e che hanno la perpetua disgrazia di non indovinarne non una per il diritto. Allora io scopersi la vera cagione di tanti avvenimenti che hanno reso attonito il mondo e con qual leggiadria la donna di partito padroneggi la scala segreta, la scala segreta un consiglio, il consiglio un senato. Un generale confessò in mia presenza ch'egli avea guadagnata una battaglia a furia di vigliaccheria e di spropositi, un ammiraglio che per mera svista avea battuto il nemico, mentre s'apparecchiava a consegnargli a tradimento la flotta. Tre capi di nazioni protestarono che durante l'intero loro governo non aveano mai preferita una sola persona di merito se non era stato per equivoco, o per frode d'un primo ministro in cui poneano la loro fiducia, e del quale non si sarebbero fidati più se fossero tornati in vita; poi mi dimostrarono, e con che convincenti ragioni! che un governo non potrebbe tirar innanzi senza uomini corrotti, perchè quello spirito giusto, fermo, pertinace che caratterizza l'uomo incontaminato, è un perpetuo intoppo all'andamento de' pubblici affari. Fui curioso di sapere con quali metodi certuni si fossero procacciati sublimi titoli d'onore e sterminati possedimenti; e limitai le mie ricerche ad un'era moderna sì, ma che non intaccasse troppo da vicino la presente, perchè m'avrebbe spiaciuto troppo il dover raccontar cose odiose nemmeno agli stranieri; chè già quanto ai miei concittadini il lettore s'immagina, anche senza una mia protesta, ch'essi non sono compresi nè poco nè assai in quanto dico su tale proposito. Furono dunque chiamati molti di que' morti che potevano appagare la mia curiosità. Dopo un brevissimo interrogatorio scopersi tali scene d'infamia che non so pensarci sopra senza raccapricciare. Lo spergiuro, l'oppressione, le maligne istigazioni, la frode, il pandarismo[47] e simili debolezze furono l'arti più innocenti di cui mi confessarono essersi valsi; e sin qui volli anche compatirli fino ad un certo segno. Ma quando altri vennero confessandomi che doveano la grandezza e le ricchezze loro, chi ad incesti e colpe contro natura, chi all'aver prostituito la propria moglie o le figlie, chi a tradimenti commessi contra la lor patria e il loro sovrano, chi ad avvelenamenti, chi all'assassinio dell'innocente commesso sotto il manto della giustizia; mi perdonerete, spero, se queste scoperte fecero in me calare un pochetto quella profonda venerazione che d'altra parte son proclive a tributare ai personaggi posti in alto grado, e che, per un riguardo alle dignità di cui sono insigniti, devono prestar loro tutte le persone poste più a basso di essi. Ho spesso letto d'alcuni grandi servigi resi ai principi ed agli stati, onde pregai perchè mi fossero fatti conoscere i personaggi cui s'avea l'obbligazione di tali servigi. Mi fu risposto che i nomi di questi tali erano andati in dimenticanza, tranne pochi che la storia ha dipinti come i più abbietti dei cialtroni e dei traditori. Di tutti gli altri io non avea mai udito far menzione prima d'allora. Li vidi scoraggiati in cera e mal vestiti; alcuni di loro mi dissero d'essere morti nella povertà e nella disgrazia; i più morti su d'un palco o sospesi ad una forca. Fra gli altri ve n'era uno il caso del quale mi parve anzi che no singolare. Gli stava a fianco un giovinetto di circa diciotto anni, quando mi disse che nella battaglia navale d'Azzio ebbe la buona sorte di rompere la fila nemica, di mandare a fondo tre navi di primo ordine, e d'impadronirsi della quarta, il che fu la sola cagione della fuga d'Antonio e della vittoria della parte ottaviana. «Questo giovinetto, soggiunse, che mi sta da presso, è mio figlio; lo vidi cader morto a miei piedi in quella giornata. Credevo essermi fatto qualche merito; ed essendo terminata la guerra, venni a Roma per sollecitare da Augusto la grazia di avere a preferenza d'altri il comando di una nave di primo ordine, il cui capitano era morto in battaglia; ma senza alcun riguardo alla mia inchiesta, questo comando fu conferito ad un ragazzo che non avea mai veduto il mare, ma che aveva il pregio d'essere figlio di Libertina, fantesca di una favorita d'Augusto. Tornatomene addietro sul mio primo bastimento, mi si trovò trascurato ne' miei doveri per levarmi anche quel comando e darlo ad un paggio favorito di Valerio Publicola che era il vice-ammiraglio. Mi ritirai in una mia casetta di campagna, ove ho finiti oscuramente i miei giorni». Mi sembrò tanto incredibile il fatto che domandai fosse chiamato Agrippa, quello che divenne poi genero d'Augusto, e che fu ammiraglio, come sapete, nella nominata battaglia. Marco Agrippa mi confermò punto per punto le cose narratemi da quel povero capitano; e sol ne aggiunse molt'altre che tornavano a maggiore onore di questo, e che la modestia di lui gli avea suggerito tacere. Mi fece maraviglia che la corruttela fosse divenuta tanto smisurata ed operosa in un impero presso cui il lusso si era introdotto così di recente; laonde si diminuì in me lo stupore per la moltitudine dei casi simili che si vedono in altri paesi ove i vizi di tal natura regnano da più lungo tempo, ed ove è tanto cresciuta la prodigalità delle lodi e del bottino al generale in capo, che forse ad entrambe queste cose ha i minori diritti. Poichè tutti que' morti chiamati alla luce vestivano in quel momento le primitive forme che aveano da vivi, fu per me un soggetto di malinconica considerazione il notare quanto fosse degenerata la nostra schiatta da un secolo in qua; come la sifilide con tutte le sue conseguenze e denominazioni avesse alterato ciascun lineamento di volto inglese, accorciate le stature, sconnessi i muscoli, rilassati i nervi, fatte smorte le cere, rese floscie e rancide le carni. Per vedere se tal degradazione si estendesse a tutte le classi domandai persino che fossero fatti comparire alcuni di que' contadini inglesi di vecchia stampa, sì famosi una volta per semplicità di modi, per parsimonia di cibo e vestire, per rettitudine di procedere, per vero spirito di libertà, per coraggio ed amore di patria. Non potei non sentirmi gravemente afflitto poichè, istituito il paragone fra i morti ed i vivi, pensai come tutte quelle pure native virtù de' medesimi venissero prostituite per pochi soldi dai loro pronipoti, i quali nel vendere i loro voti e brogli agli elettori hanno contratti tutti quanti i vizi e le corruttele che possono impararsi in una corte. CAPITOLO IX. L'autore ritorna a Maldonada. — Veleggia al regno di Luggnagg. — È tenuto in arresto. — Mandato a domandare dalla corte. — Formalità della sua grande ammissione. — Grande mansuetudine del re verso i suoi sudditi. Arrivato il giorno della nostra partenza, prendemmo congedo da sua altezza il governatore di Glubbdubdrib, ed arrivammo a Maldonada, ove, dopo una quindicina di giorni, un bastimento era presto per dar le vele alla volta di Luggnagg. I due personaggi che v'ho indicati, ed alcuni altri ebbero la generosità di provedermi dell'occorrevole e per la partenza e durante la navigazione, nè si scompagnarono da me finchè non mi videro a bordo. Stetti in viaggio un mese. Soffrimmo una violenta burrasca che ne costrinse governare verso ponente per trovare un vento di commercio[48] che ci durò per sessanta leghe. Il 21 aprile 1708, entrammo nel fiume Clumegnig che bagna una città e un porto posti a scirocco (sud-est) di Luggnagg. Gettata l'áncora ad una lega dalla città, demmo il segnale per un piloto di porto. In vece d'uno ne furono al nostro bordo due in meno d'una mezz'ora, colla guida de' quali, attraversati certi scogli e secche, da vero pericolosissimi, arrivammo ad un ampio bacino, capace di contenere in sicuro una flotta e distante un tratto di gomona dalla città. Qualcuno de' nostri marinai, lo facesse per malignità o inavvertenza, informò un di que' piloti di porto ch'io era straniero e gran viaggiatore; il piloto di porto ne avvisò l'ufiziale di dogana che, appena fui a terra, venne a farmi un rigorosissimo interrogatorio. Costui mi parlò nella lingua di Balnibarbi che, grazie al molto commercio, è generalmente intesa in quella città, massime dai marinai e dagl'impiegati delle dogane. Gli dissi in compendio le particolarità più salienti della mia storia, e ciò col miglior ordine e verità che potei; per altro mi trovai nella necessità di nascondergli la mia patria e darmi per Olandese, perchè essendo mia intenzione di trasferirmi al Giappone, ben io sapeva essere gli Olandesi i soli Europei a' quali è permesso l'entrare in quel regno. Gli narrai quindi come, essendo io naufragato e battuto contra uno scoglio della costa di Balnibarbi, fossi stato ricevuto nell'isola di Laputa o sia Isola Galleggiante (della quale anch'egli aveva udito parlare), e come ora io m'adoprassi a raggiugnere il Giappone ove io sperava trovare un incontro per tornarmene alla mia patria. — «Tutto va bene, mi disse il doganiere. Ma per ora bisogna che rimaniate arrestato qui, finchè io abbia ricevuti intorno alla vostra persona ordini dalla corte, alla quale scrivo subito, e spererei averne risposta fra una quindicina di giorni». Fui condotto allora in un convenevole alloggiamento con una sentinella di guardia alla porta; ma non posso lagnarmi di non essere stato trattato con umanità durante quel mio confinamento; mantenuto per tutto quel tempo a spese del re, io aveva in oltre annesso alla mia stanza un vasto giardino ove mi si dava la libertà di passeggiare. Aggiugnete che fui visitato da molte persone stimolate soprattutto dalla curiosità perchè aveano sentito dire ch'io veniva da rimotissimi paesi de' quali non ebbero mai contezza in loro vita. Stipendiai nella qualità di mio interprete un giovinetto che avea fatto il viaggio meco nel medesimo bastimento, un nativo di Luggnagg; ma che, essendo vissuto alcuni anni a Maldonada, era divenuto perfetto maestro di entrambe le lingue. Col suo aiuto fui in grado di conversare con quanti venivano a visitarmi, ma tutto il nostro dialogo si riduceva alle loro interrogazioni ed alle mie risposte, non conduceva sicuramente a veruna discussione. La risposta della corte non si fece aspettare più del tempo indicatomi da chi mi arrestò. Contenea questa l'ordine di trasportar me ed il mio seguito con una scorta di dieci uomini di cavalleria a Traldragdubh, o Trildrogdrib, che si pronuncia in tutt'a due i modi per quanto posso ricordarmi. Tutto questo mio seguito si riduceva a quel povero ragazzo che indussi ad accettar servigio presso di me, e, dietro umile mia inchiesta, ne fu data una mula per uno da cavalcare. Fu spedito innanzi a noi ad una mezza giornata di distanza un corriere per portar la notizia del mio prossimo arrivo e supplicare sua maestà affinchè volesse degnarsi assegnarmi con suo grazioso beneplacito un giorno in cui potessi aver l'onore di _leccare la polve a piè del suo trono_. Tale è la frase usata per chiedere udienza a quel monarca, nè tardai ad accorgermi che questa non è mica soltanto una forma di dire; perchè dopo la mia ammissione che venne accordata due giorni dopo il mio arrivo, e giunto all'ingresso della sala d'udienza, fui messo boccone con la pancia a terra, e fui costretto strisciarmi fino a piè del soglio, lambendo continuamente la polve finchè ci fossi. Devo dire che si ebbe preventivamente la cura di spazzar bene il pavimento, ma fu questa una speciale grazia usata alla mia qualità di forestiere, e non è un privilegio concesso a tutti coloro che desiderano udienza, quand'anco sieno personaggi del più alto grado. Anzi qualche volta il pavimento è spolverizzato di più a bella posta, se accade che il presentato abbia de' possenti nemici alla corte. Ho veduto io un gran signore il quale, quando fu alla distanza dal trono stabilita dall'etichetta, avea la bocca sì piena che non potè dire una parola del suo complimento; perchè avete anche a sapere che un povero galantuomo in que' frangenti non ha nemmeno il conforto di potere sputare o pulirsi la bocca, che sarebbe un delitto capitale. Al qual proposito, vi conterò un'altra usanza di quel paese ch'io sono ben lontano dall'approvare. Quando il re giudica opportuno levar dal mondo un de' suoi nobili, per far ciò nel modo più mite e gentile, ordina che il pavimento sia coperto d'una certa polve bruna composta d'ingredienti mortiferi, e di cui la virtù è far morire infallibilmente entro ventiquattro ore chi l'ha lambita. Conviene ciò nullostante rendere una giustizia alla clemenza di quel sovrano ed alla grande di lui sollecitudine pel suo popolo, in che sarebbe da augurarsi che lo imitassero tutti i monarchi. Sia detto a suo onore. Ha dati ordini i più precisi alla sua servitù, affinchè dopo ogni esecuzione di tal natura, sia diligentemente lavato il pavimento sotto pena di cadere nella sovrana disgrazia. Fui presente io, quando ordinò che fosse frustato un suo paggio che, essendo di servigio in uno di tali giorni, nè fece lavare il lastrico, nè diede avviso che non era stata lavato; negligenza che costò sfortunatamente la vita ad un nobile giovinetto d'alte speranze presentatosi all'udienza in quel giorno senza che il re avesse alcun disegno a danno della sua vita. Per altro, quell'ottimo principe ebbe la clemenza di perdonare le frustate al suo paggio sotto promessa di non tornarci più, semprechè non avesse speciali ordini di sua maestà. Tornando dunque al mio proposito, poichè mi fui strisciato sì avanti che tra me e i gradini del trono la distanza era di quattro braccia, mi posi con bel garbo in ginocchio, e battuta sette volte, com'è di stile, la fronte per terra, recitai le seguenti parole che m'aveano fatte imparare a memoria la notte innanzi: _Inckpling gloffthrobb squut serumm bhiop mlashnalt, zwin tnodbalkuff hslhiophad gurdlubh asht_, complimento prescritto dalle leggi del paese per tutti coloro che vengono ammessi alla presenza del monarca, ed il cui significato è: _Possa la celeste maestà vostra sopravvivere al sole undici mesi e mezzo!_ Il re mi fece una risposta di cui non intesi una sillaba, e dopo la quale profferii le seguenti altre parole che parimente mi erano state insegnate: _Flust drin yalerick dwuldom prastrad mirpush_ che, tradotte alla lettera, vogliono dire: _La mia lingua è nella bocca del mio amico_, ed equivalgono ad una permissione chiesta al re di parlare per bocca del proprio interprete. Infatti venne tosto introdotto il giovinetto di cui già v'ho parlato, e col mezzo del quale risposi a quante interrogazioni sua maestà si compiacque farmi per tutta un'ora all'incirca. Io parlava l'idioma di Balnibarbi; il mio interprete voltava le mie parole in quello di Luggnagg. Il re molto allettato dell'abboccamento avuto con me ordinò al suo _bliffmarklub_ (il gran ciamberlano) di far allestire un appartamento per me e pel mio interprete, e lo incaricò pure di disporre quanto era d'uopo alla mia mensa giornaliera e di passarmi una grossa borsa di danaro per le mie spese ordinarie. Rimasi tre mesi senza essere all'assoluto servigio di quel monarca, il quale ciò non ostante si degnava colmarmi de' suoi favori e farmi generosissime offerte. Io nondimeno giudicava cosa più conforme alla prudenza ed alla giustizia il vivere que' giorni che mi restavano a vivere in compagnia di mia moglie e della mia famiglia. CAPITOLO X. Alcuni cenni in lode degli abitanti di Luggnagg. — Particolare descrizione degli _struldbrug_, e colloquii occorsi su questa razza d'individui tra l'autore e diversi ragguardevoli personaggi. Gli abitanti di Luggnagg sono urbani e generosi; e, benchè non sieno senza un ramo di quell'orgoglio che caratterizza generalmente tutti gli Orientali, si mostrano cortesi co' forestieri, soprattutto ove sappiano che li protegge la corte. Feci molte conoscenze, e con persone di quella che chiamasi scelta società; e coll'assistenza sempre dal mio interprete i miei intertenimenti con loro furono d'un genere dilettevole anzichè no. Un giorno mi trovavo in molta compagnia di tali signori, quando uno di essi mi chiese s'io avessi mai veduto alcuno dei loro _struldbrug_, o immortali. Risposi di no, e lo pregai a spiegarmi che cosa s'intendesse con questo nome che mi pareva applicasse a creature mortali. Secondo quanto egli mi raccontò, accadea talvolta, benchè di rado, che in qualche famiglia nascesse un fanciullo con una macchia circolare rossa su la fronte, ed esattamente sul ciglio sinistro, della larghezza, stando alla sua descrizione, di circa tre soldi inglesi d'argento; segnale infallibile che quella creatura non sarebbe mai morta. Coll'andar del tempo la macchia diveniva più larga e cangiava di colore. Infatti, giunto il fanciullo ai dodici anni, la macchia si facea verde, e continuava così, finchè l'individuo avesse venticinque anni; poi traeva al turchino scuro; ai quarantacinque anni, nera come il carbone, acquistava la larghezza d'uno scellino inglese, poi non ammetteva più altro cangiamento. — «Ma queste nascite, mi dicea, succedono sì di rado, che non credo vi sieno più di mille e cento struldbrug d'entrambi i sessi in tutta quanta la monarchia; la metropoli ne conterrà circa una cinquantina, e tra questi una bambina nata tre anni fa; questi scherzi della natura non sono particolari a qualche famiglia, ma un mero effetto del caso, e i figli stessi degli struldbrug sono mortali come il rimanente degli uomini». Devo confessarlo, fui fuori di me dal contento all'udire un sì portentoso racconto, nè potei starmi in quella mia prima estasi dal manifestarla con esclamazioni che poteano parere stravaganti a chi avea sempre il prodigio di questi immortali dinanzi agli occhi, e che furono intese da uno della brigata, il quale parlava, non meno perfettamente di me, l'idioma di Balnibarbi. — «Felice nazione, esclamai, i cui figli hanno almeno una probabilità di essere immortali! Fortunato popolo che può bearsi ogni giorno della presenza di tanti esempi viventi delle antiche età, ed ha sempre a sua disposizione maestri che lo possono istruire nelle scuole della saggezza de' primi tempi! Ma più fortunati fuor d'ogni paragone questi egregi struldbrug che, nati esenti dalla più tremenda universale calamità della natura umana, hanno le menti libere e sgombre dal peso e dalle depressioni di spirito prodotte dal continuo timor della morte! Ma mi fa meraviglia di non aver mai veduto un solo di questi illustri enti alla corte; e sì, la macchia nera su la fronte, larga uno scellino, è un distintivo sì notabile che non potea passarmi inosservato davanti agli occhi. Mi par tuttavia impossibile che sua maestà, principe sì giudizioso, non chiami presso di sè un buon numero di questi immortali per averne altrettanti abili e saggi consiglieri. Ma forse la loro virtù è tanto austera che mal s'affarebbe alle maniere corrotte e dissolute de' cortigiani; lo vediamo spesso per esperienza che i giovani sono troppo caparbi e spensierati per lasciarsi guidare dalla saviezza di chi ha più anni di loro. Basta! poichè sua maestà ha la clemenza di permettermi d'avvicinarmele, coglierò ben io la prima occasione per dirle, o farle dire schiettamente ed in lungo ed in largo dal mio interprete quello ch'io sento su tale proposito. Ascolti poi, o non ascolti i miei suggerimenti, non avrò il rimorso di non averli dati, e quando non potessi ottenere altro, poichè sua maestà si è degnata più d'una volta offrirmi un collocamento stabile ne' suoi dominii, accetterò ora con la massima riconoscenza un simil favore, e passerò d'ora in poi tutta la mia vita qui in compagnia di questi enti di primo ordine, di questi struldbrug, se per altro si vorranno degnare di me». Quel signore cui fu soprattutto vólta questa mia cicalata, perchè, come ho detto, io lo sapeva istrutto nell'idioma di Balnibarbi, mi disse con quel sorriso che d'ordinario procede da compassione per l'altrui ignoranza: — «Oh! son ben contento che vi si offra un motivo, qualunque esso sia, di fermarvi fra noi; anzi permettetemi ch'io spieghi questi sentimenti or da voi espressi al rimanente della compagnia». Così fece, e li vidi parlar qualche tempo insieme nel loro linguaggio, di cui non intesi, come v'immaginate, una mezza parola; nè potei nemmeno capire dagli atti delle loro fisonomie qual impressione producesse negli ascoltatori il racconto del mio nobile interprete. Dopo un breve silenzio questi tornò a me. — «Que' miei e vostri amici (così gli piacque esprimersi) hanno molto gustate le giudiziose vostre osservazioni su la grande felicità ed i vantaggi di una vita immortale. Or sarebbero desiderosi di sapere da voi in un modo specificato a qual sistema di vita vi sareste attenuto se il vostro destino vi avesse fatto nascere struldbrug. — «Oh! non è difficile, risposi, l'essere eloquente trattando un argomento sì copioso e fecondo, soprattutto per me, avvezzo spesse volte a deliziarmi nelle visioni di quel che farei se fossi un re, un generale o un gran signore; e in questi casi mi è sovente corso il pensiere sul sistema di vivere, sul modo d'impiegare me stesso e le mie ore, se fossi stato sicuro di viver sempre. — «Primieramente dunque, se avessi la fortuna di nascere struldbrug, non appena avessi potuto comprendere la mia felicità col capire qual differenza passa tra la vita e la morte, avrei, con ogni sorta d'arti e di metodi, data opera a procacciarmi ricchezze; e proseguendo in questa cura non dubito che a furia di risparmi e di miglioramenti non arrivassi, tutt'al più in due secoli, ad essere il più ricco uomo di tutto il regno. In secondo luogo, fin dalla prima mia giovinezza, mi sarei applicato intensamente allo studio dell'arti e delle scienze, e certo a suo tempo avrei superati tutti gli altri in dottrina. Vorrei per ultimo tenere un accurato registro d'ogni nazione o avvenimento rilevante che accadesse nel pubblico, e delineare con imparzialità i caratteri delle successive generazioni di principi e grandi ministri di stato con le mie annotazioni punto per punto. Vorrei nel tempo stesso tenere un conto esattissimo di tutti i cangiamenti di consuetudini, di lingua, di vestiti e di mode, di cibi e di passatempi; coll'acquisto delle quali nozioni diverrei un'arca di sapere e di saggezza, e certamente l'oracolo della nazione. — «Passati i sessant'anni, non vorrei più mai ammogliarmi, ma aprir la mia casa ad ogni sorta di persone che lo meritassero. Soprattutto m'interterrei nel formare e dirigere le menti de' giovinetti che dessero buone speranze di sè e nel renderli persuasi, sul fondamento delle mie ricordanze, della mia pratica e delle mie osservazioni, avvalorate da copiosi esempi dei vantaggi della virtù così nella vita pubblica come nella privata. La costante compagnia di mia scelta sarebbe una dozzina de' miei confratelli immortali dei più antichi fra quelli che avessero meno anni di me. Se alcuni d'essi fossero poveri di beni di fortuna, li provederei di conveniente alloggio in vicinanza de' miei dominii, e ne vorrei sempre qualcuno alla mia mensa; solo frammischierei con essi non so quanti de' più stimabili fra voi mortali, e la lunghezza della mia vita mi avvezzerebbe a perdervi con minore rincrescimento, o anche con indifferenza, come appunto il padrone d'un giardino vede un'annuale successione di garofani e di tulipani senza sospirare la perdita di quelli che appassirono nell'anno precedente. — «Gli altri struldbrug ed io ci comunicheremmo a vicenda le nostre osservazioni e memorie su le cose vedute nel decorso de' tempi; noteremmo d'accordo i diversi gradi con cui la corruttela si fosse introdotta nel mondo, e ci opporremmo a ciascun passo di essa, mercè d'avvertimenti ed istruzioni perpetue al genere umano che, corroborate dal forte influsso del proprio nostro esempio, probabilmente impedirebbero quella continua degenerazione della umana natura sì lamentata in tutti i secoli. — «Aggiugnete a tutto ciò il diletto di vedere le varie rivoluzioni degli stati e degl'imperi; i cangiamenti avvenuti nel mondo superiore ed inferiore; le antiche città cadute in rovina e gli oscuri villaggi divenuti metropoli; i famosi fiumi trasformati in fangosi ruscelli; l'oceano che abbandona una spiaggia lasciandola arida ed inondandone un'altra; la scoperta di nuove contrade tuttavia sconosciute; la barbarie impadronitasi di nazioni venute a civiltà, la civiltà che ingentilisce nazioni barbare. Scoprirei allora tutte le longitudini astronomiche, il moto perpetuo, la medicina universale, e porterei ad ultima perfezione molt'altre cose di già trovate. — «Quali maravigliose scoperte non faremmo nella scienza degli astri vivendo sempre abbastanza per verificare le nostre medesime predizioni, per vedere i progressi ed i ritorni delle comete, i cangiamenti d'inclinazioni nel sole, nella luna e nelle stelle!» Mi estesi indi su tutti gli altri punti oratorii che il desiderio di una interminabile vita e d'una perpetua felicità sublunare potevano suggerirmi. Poichè ebbi finito, il mio ascoltatore andò a spiegare agli altri, come dianzi, il sunto di tutto quel mio discorso, ed osservai che parlarono a lungo fra loro non senza più d'una risata a mie spese. Finalmente lo stesso personaggio tornò da me, e mi tenne questo ragionamento: — «I miei compagni mi commettono rettificare alcuni equivoci da voi presi nel dar passata a molte miserie della natura umana che voi forse non siete obbligato a conoscere, e ciò li rende scusabili. La nascita degli struldbrug è un fenomeno particolare de' nostri paesi, e penso così perchè a Balnibarbi, o al Giappone, ove ho avuto l'onore di risedere quale ambasciatore di sua maestà, ho durato fatica a persuadere i nativi di que' due regni che un tal fenomeno fosse possibile. E dalla vostra sorpresa all'udirlo raccontare da me ho capito che tal cosa era affatto nuova e quasi incredibile anche per voi. Rimanendo ne' due regni di cui vi ho parlato, e conversando con molti, ho osservato che una vita longeva è la cosa più sospirata e generalmente desiderata; che chi aveva un piede nella fossa non mancava di tirare indietro l'altro con quanta forza lo poteva; che non v'era uomo sì vecchio, il quale non desiderasse vivere un giorno di più, e non considerasse la morte come la maggiore disgrazia di cui la natura gl'inspirava ad ogn'istante il ribrezzo. Solamente in quest'isola, vedete! il desiderio di vivere non è così fervido, e ne sapete il perchè? perchè abbiamo il continuo esempio dei struldbrug dinanzi agli occhi. — «Il sistema di vivere che vi siete fabbricato è irragionevole ed ingiusto, perchè suppone una perpetuità di giovinezza, di salute e di vigore che nessun uomo, per quanto sia stravagante ne' suoi desiderii, può sperare di possedere[49]. Qui la quistione non è se un uomo si sceglierebbe di esser sempre nella primavera della gioventù, rallegrata da una costante salute e prosperità. Si tratta se s'augurerebbe la perpetuità della vita insieme con tutti i soliti guai che gli anni si portano seco. Benchè pochi uomini di giudizio volessero confessare di augurarsi una vita immortale a tal costo, pure ho veduto a Balnibarbi e al Giappone che ciascun uomo avrebbe voluta l'ora della sua morte il più possibile lontana, fosse pure indefinito al di là d'ogni immaginabile l'arrivo di tale ora; e rare volte ho udito parlare d'uomini che morissero volentieri, se non li premeva l'estremità dell'accoramento o degli spasimi fisici. Mi appello a voi se in tutti i paesi da voi percorsi non avete trovato negli uomini le stesse disposizioni d'animo. — «Ma bisogna venir qui per vedere qualche cosa di diverso. I nostri struldbrug fanno d'ordinario tutte le cose loro come gli altri mortali sino ai trent'anni. Dopo tale età cominciano a mostrarsi malinconici e costernati, e questa malinconia e questa costernazione vanno sempre aumentandosi in loro sino agli ottant'anni. Sono cose che so dalla stessa loro confessione; altrimenti non ve n'essendo più di due o tre della loro specie nati in un secolo, sarebbero troppo pochi per dedurre ciò da un'osservazione generale. Giunti agli ottant'anni, che fra noi è giudicata l'estrema decrepitezza di un mortale, son presi non solo da tutte le stranezze e da tutte le infermità degli altri vecchi, ma da quelle in oltre che procedono dalla spaventosa prospettiva di non morir più. Non solamente sono caparbi, dispettosi, fantastici, sordidi, frivoli, ciarlieri; ma incapaci d'amicizia, morti ad ogni naturale affezione, che non discende mai più in giù de' loro pronipoti. L'invidia e i desiderii impotenti sono le loro passioni predominanti. Gli oggetti cui soprattutto è volta la loro invidia sono gli stravizzi dei giovani e le morti de' vecchi. Pensando ai primi, arrabbiano per l'impossibilità in cui sono di farne; quanto alla seconda di queste cose, invidiano a chi muore un porto di quiete ch'essi non possono sperare giammai. Non si ricordano d'altre cose, fuor quelle che impararono ed osservarono in loro gioventù e nell'età virile, e delle seconde anche imperfettamente; onde, quanto alla veracità ed ai particolari delle antiche storie, gli abbiamo con maggiore sicurezza dalle comuni tradizioni che dalle migliori loro rimembranze. I men grami di loro par sieno quelli che, rimbambiti prima degli altri, hanno perduta la memoria del tutto; almeno trovano chi, mossone a compassione, loro presta assistenza, perchè se non altro, mancano di molte pessime qualità che abbondano ne' loro colleghi. — «Se accade che uno struldbrug si ammogli con una donna della sua razza, cioè immortale, la carità del governo scioglie il matrimonio quando il più giovine de' due coniugi è arrivato agli ottant'anni; perchè la legge estima una ragionevole indulgenza il non gravare d'una doppia miseria, qual è il peso di una moglie, il povero diavolo condannato a star sempre al mondo. — «Appena hanno compiuti gli ottant'anni, vengono considerati siccome morti legalmente; gli eredi immediati dell'ottuagenario succedono ne' suoi possedimenti; vien sol prelevata una piccola porzione pel suo sostentamento; que' soli che non hanno nulla vengono mantenuti a spese del pubblico erario. Da quel momento sono avuti per inabili a qualsivoglia impiego di confidenza o di lucro; non possono comprare poderi nè condurne in affitto; non vengono ammessi per testimoni validi in un processo; nemmeno ove si trattasse di determinare antichi confini. — «A novant'anni perdono tutti i denti ed i capelli; a quella età il palato non serve più a nessun uso; mangiano e bevono qualunque cibo o bevanda possano procacciarsi senza gustarla nè appetirla. Le malattie, alle quali erano soggetti, continuano d'allora in poi senza crescere nè diminuire. Parlando dimenticano le comuni denominazioni delle cose ed i nomi delle persone, fin de' loro più prossimi congiunti ed amici. Per lo stesso motivo non possono ritrarre veruna sorta di passatempo dal leggere, perchè la memoria non serve loro a connettere le ultime parole di una frase con quelle che la principiano, per lo che sono privi della ricreazione che potrebb'essere l'unica adatta per loro. — «Siccome il linguaggio del paese soggiace a continue variazioni, lo struldbrug d'un secolo non intende l'idioma del secolo successivo, nè dopo due secoli son più capaci di tenere alcuna sorta di conversazione (eccetto poche generali parole) coi loro vicini mortali, donde deriva loro l'altro svantaggio di essere stranieri nel proprio paese in mezzo ai loro concittadini». Tal fu, per quauto posso ricordarmi, la descrizione che mi venne fatta di questi struldbrug. Ne vidi in appresso cinque o sei di differenti età, che da alcuni amici mi vennero in più volte fatti conoscere, ed il più giovine de' quali aveva due secoli. Ma per quanto venisse detto a costoro ch'io era un gran viaggiatore, e ch'io avea fatto l'intero giro del mondo, non venne loro la menoma volontà d'interrogarmi; unicamente mi chiesero di dar loro uno slumskludash, che vuol dire un piccolo contrassegno di ricordanza; modesta via di domandar la limosina, la qual cosa è ad essi proibita espressamente dalla legge, essendo eglino mantenuti, benchè per dir vero magrissimamente, a spese del pubblico. Sono disprezzati ed avuti in abborrimento da ogni classe di popolo. La loro nascita è considerata, come un avvenimento di mal augurio ricordato con molta particolarità; onde voi potete conoscere l'età d'uno struldbrug consultando il pubblico archivio, che per altro non risale al di là di mill'anni, perchè precedentemente fu distrutto in forza del tempo o delle calamità del paese. Ma l'usuale metodo di computare l'età degli struldburg è chieder loro i nomi dei re o de' grandi personaggi di cui possono ricordarsi e di consultare indi la storia; perchè infallibilmente l'ultimo principe rimasto nella loro mente non avrà principiato a regnare dopo il loro ottantesimo anno. Offrivano essi la più schifosa vista che immaginare si possa, e le donne erano anche più orribili degli uomini. Oltre all'usuale deformità della decrepitezza, acquistavano per soprappiù una sembianza di spettri, che cresceva, a proporzione de' loro anni in un modo di cui non s'ha idea; in una mezza dozzina d'essi, io discerneva i più vecchi, benchè non vi fosse fra loro la differenza all'incirca di uno o due secoli. Il leggitore non penerà a credere che da quanto udii e vidi il mio ardente desiderio della perpetuità della vita fu mitigato d'assai. Arrossii non so dir quanto delle rosee visioni ch'io m'era formate, e pensai che niun tiranno potrebbe inventare un supplizio sì atroce, al quale non mi sottomettessi di buon grado per evitare un tal genere d'immortalità. Saputosi dal re quanto era accaduto fra me ed i miei amici, mi diede con grazia la mia porzione di baia, e m'augurò ch'io potessi trasportare in patria una coppia di struldbrug per munire i miei concittadini contro alla paura della morte[50]; ma ciò, a quanto sembra, è proibito dalle leggi fondamentali di quel reame, altrimenti mi sarebbe piaciuto grandemente l'assumermi l'incomodo e le spese di un simile trasporto. Mi trovai nella necessità di convenire che le leggi di quel regno concernenti gli struldbrug erano fondate su fortissime ragioni e tali che qualunque paese, posto in parità di circostanze, si vedrebbe costretto adottarle. Altrimenti, l'avarizia essendo una ordinaria inevitabile conseguenza degli anni, quegl'immortali diverrebbero col tempo i proprietarii dell'intera contrada e de' suoi abitanti, e, usurpata la sovrana podestà, ed inabili ad amministrare, manderebbero in rovina il paese. CAPITOLO XI. L'autore parte da Luggnagg e fa vela per il Giappone. — Di lì s'imbarca a bordo d'un bastimento olandese, arriva ad Amsterdam e d'Amsterdam in Inghilterra. Io voglio sperare che i pochi cenni da me dati intorno agli _struldbrug_ non sieno dispiaciuti al lettore trattandosi di cosa che si toglie alquanto, mi pare, dall'ordinario; certo non mi ricordo averla letta in alcun altro libro di viaggi cadutomi per le mani. Se mai ne avessero parlato altri, sarò sempre scusato agli occhi di chi pensi che, se due viaggiatori s'abbattono a descrivere entrambi uno stesso paese, è indispensabile che, non potendo la verità essere in due maniere, il secondo ripeta la cosa detta dal primo, nè per questo gli si può apporre la taccia di plagiario. Veramente vi è un continuo commercio fra il regno di Luggnagg e l'impero del Giappone, e non è fuor del probabile che gli autori giapponesi abbiano fatta qualche menzione degli _struldbrug_; ma il mio soggiorno al Giappone fu sì breve, e la lingua dei Giapponesi mi è tanto estranea, che non mi trovai in istato di far veruna indagine su questo punto. Spero che gli Olandesi, dietro il cenno che ora ne ho pubblicato, faranno ulteriori ricerche e suppliranno a quanto io non ho potuto dire. Sua maestà luggnaggense, dopo avermi ripetutamente stimolato ad accettare un qualche impiego alla sua corte, e vedutomi assolutamente determinato di tornare alla mia patria, mi diede la permissione di partire, e m'onorò d'una sua commendatizia scritta di proprio pugno per l'imperatore del Giappone. Mi presentò ad un tempo di quattrocento quaranta quattro larghe piastre d'oro (poichè quella nazione è tenerissima dei numeri pari e simmetrici) e d'un diamante rosso, che giunto in Inghilterra, ho venduto per mille cento sterlini. Il 6 di maggio del 1709, mi accommiatai formalmente da sua maestà e da tutti i miei amici. La clemenza di quel monarca si estese a concedermi una guardia che m'accompagnasse sino a Glanguenstald, regio porto situato a libeccio dell'isola. Ivi, in termine di sei giorni trovai un bastimento alla vela per il Giappone ove arrivai dopo una navigazione di quindici giorni. Approdammo ad un piccolo porto, detto Xamoschi, situato a scirocco dal Giappone. La città cui è annesso, giace alla punta occidentale sopra un braccio di mare, a maestro del quale sorge Iedo, metropoli dell'impero[51]. All'atto del mio sbarco feci vedere la lettera del re di Luggnagg ai doganieri, i quali ne riconobbero perfettamente il suggello largo quanto il palmo della mia mano, e di cui l'impronta è un re che solleva da terra uno storpio mendico. Le magistrature civiche non appena udirono parlare del dispaccio da cui ero francheggiato, mi considerarono come un personaggio diplomatico; provedutomi di cocchi e di servi, fui trasportato colle mie bagaglie a Iedo, ove ammesso all'udienza di sua maestà imperiale, le presentai con tutte le cerimonie dell'etichetta le mie credenziali. L'imperatore dopo essersene fatto spiegare da un interprete il significato, questi mi autorizzò a nome del suo signore ad esporre le mie brame assicurandomi che le vedrei esaudite; tanto quel monarca si protestava affezionato al suo reale fratello di Luggnagg! L'interprete di sua maestà, che era un individuo impiegato nelle negoziazioni del Giappone coll'Olanda, mi prese tosto dalla mia fisonomia per un Europeo; quindi mi comunicò i voleri del suo monarca in idioma olandese, da lui parlato a perfezione. Gli risposi in parte colla verità sul labbro, in parte spacciando la necessaria menzogna ch'io m'era prefissa. — «Sono infatti, gli dissi, un negoziante olandese, naufragato ad una rimotissima costa, donde ho viaggiato per terra e per mare sino a Luggnagg; di lì feci vela ai dominii della imperiale sua maestà giapponese. Imploro quindi umilissimamente il favore della lodata sua maestà onde io possa trasferirmi sano e salvo al porto di Naugasac». A tale preghiera ne aggiunsi un'altra. — «Oserò io supplicare l'imperiale sua maestà a concedermi per un riguardo al mio protettore di Luggnagg un'altra grazia? Intendo la grazia di dispensarmi dalla cerimonia prescritta ai miei concittadini, quella cioè di camminare su l'immagine di un Crocifisso, perchè m'hanno condotto qui le mie disgrazie, non la voglia di trafficare». Poichè la seconda di tali inchieste fu spiegata all'imperatore, arricciò un pocolino il naso, e mi è stato poi riferito che disse: — «Costui è il primo de' suoi compatriotti che abbia tirato a mano scrupoli su questo oggetto. Principio a dubitare se sia, o non sia olandese. Ho paura piuttosto che sia un cristiano[52]». Ciò non ostante quell'imperatore valutò, se non tutti i motivi da me allegati, quello certamente dei riguardi che professava al re di Luggnagg, onde volle adattarsi a questa da lui chiamata mia _bizzarria_; ma bisognò condurre un tal negozio con molta destrezza, e gli ufiziali imperiali ebbero l'ordine di lasciarmi passare immune da quella cerimonia (certamente sacrilega ai miei occhi) come per una loro svista, e ciò, fu detto, perchè, se gli altri Olandesi, miei compagni di navigazione, si fossero accorti che mi era stata usata una tale parzialità, m'avrebbero tagliate le canne della gola durante il viaggio. Fatti che ebbi per tal favore insolito i miei ringraziamenti, col sussidio sempre dell'interprete, il comandante d'un reggimento che veniva trasferito al porto di Naugasac, ebbe l'ordine di scortarmi colà in tutta sicurezza, e fu avvisato ad un tempo di quella tale esenzione accordatami e dei termini ne' quali mi venne concessa. Il 9 di giugno del 1709, mi trovai, dopo un lungo e penosissimo viaggio, a Naugasac. Colà incontrai tosto una brigata di marinai olandesi partiti d'Amsterdam su l'_Amboyna_, grosso bastimento di quattrocentocinquanta tonnellate. Essendo io vissuto lungamente in Olanda, ed avendo fatti i miei studi a Leida, parlavo perfettamente, credo avervelo detto, l'olandese. Que' marinai, saputo appena donde io veniva, si mostrarono curiosissimi di conoscere i miei viaggi e le mie avventure. Imbastii su alla meglio una leggenda corta e verisimile quanto potei per nasconder loro la maggior parte di quel che era vero; nè fummi difficile per aver conosciuta molta gente in Olanda ed avere a bizzeffe cognomi del volgo a mia disposizione per fabbricarmi dei congiunti; mi diedi quindi per un pover uomo della provincia di Gheldria. Avrei dato al loro capitano Teodoro Vangrult quello che m'avesse domandato per condurmi in Olanda; ma, poichè ebbe sentito da me ch'io era chirurgo, si contentò della metà del nolo ordinario, a patto che io prestassi nel bastimento l'opera della mia professione. Prima di mettere alla vela, alcuni della ciurma mi chiesero più d'una volta s'io aveva adempiuta quella tal cerimonia, dalla quale vi dissi che fui dispensato. Me la cavai con questa generale risposta. — «Ho fatto, su tutti i punti, quanto mi è stato prescritto dall'imperatore e dalla corte». Nondimeno ci fu un furfante di marinaio che s'accostò all'ufiziale ed, accennando me, gli disse: — «Quel galantuomo là ha fatto il gonzo per non pagar la gabella». Ci ebbe poco gusto, perchè l'ufiziale, che avea già ricevute a parte le sue istruzioni dalla corte, e che era alquanto manesco, gli diede una lezioncina di venti colpi di canna di bambù su le spalle. D'allora in poi nessuno m'ha più noiato con interrogazioni di simil fatta. Nulla accadde in questo viaggio che meriti essere commemorato. Arrivammo con vento propizio al Capo di Buona Speranza, ove non ci fermammo oltre al tempo necessario per provederci d'acqua dolce. Al 10 d'aprile del 1710, giugnemmo in ottimo essere ad Amsterdam con la sola perdita di tre uomini morti di malattia lungo il cammino e d'un quarto uomo caduto dall'albero di trinchetto in mare a poca distanza dalla costa della Guinea. Feci presto a lasciare Amsterdam, imbarcandomi in un piccolo legno mercantile, che apparteneva a questa città. Il 16 d'aprile, eravamo alle Dune. Sceso a terra nella successiva mattina, rividi anche una volta il mio nativo paese dopo esserne stato lontano cinque anni e sei interi mesi. Presi a dirittura la via di Redriff, ove arrivato nello stesso giorno alle due dopo il mezzodì, trovai mia moglie ed il restante della mia famiglia in ottima salute. FINE. INDICE NOTIZIA BIOGRAFICA E LETTERARIA DI GIONATAN SWIFT tolta da Gualtiero Scott Pag. v VIAGGIO A LILLIPUT. 1 CAPITOLO I. — L'autore dà qualche notizia di sè medesimo e della sua famiglia. — Prime cagioni che lo invogliarono di viaggiare il mondo. — Naufragio e vita salvata a nuoto. Tocca sano e salvo la spiaggia a Lilliput; fatto prigioniero, è condotto attorno per quel paese 3 CAPITOLO II. — L'imperatore di Lilliput, accompagnato da parecchi dei suoi nobili, si reca a vedere l'autore nel luogo del suo confine. — Descrizione della persona e delle vesti del monarca. — Dotti incaricati d'insegnare all'autore la lingua del paese. — Favore che questi si acquista per la sua mansuetudine e bontà di cuore. — Visita fatta alle sue tasche; toltagli la spada e le pistole 19 CAPITOLO III. — L'autore offre all'Imperatore ed alla sua nobiltà d'entrambi i sessi alcuni divertimenti che si tolgono dall'usato. — Descrizione del passatempi della corte di Lilliput — L'autore ottiene a certi patti la sua libertà 34 CAPITOLO IV. — Si descrivono Mildendo, metropoli di Lilliput, e l'imperiale palazzo. — Conversazione concernente gli affari dell'impero avutasi dall'autore con uno del principali segretarii. — L'autore s'offre all'imperatore per servirlo nelle sue guerre 47 CAPITOLO V. — Inaudito stratagemma di cui si vale l'autore per impedire un'invasione. — Alto titolo d'onore conferitogli. — Ambasciatori spediti con istanze di pace dall'imperatore di Blefuscu. — Caso che mette in fiamme il palazzo dell'imperatore. — Come l'autore arrivi a preservare il rimanente dell'edifizio 56 CAPITOLO VI. — Su gli abitanti di Lilliput; su le loro cognizioni leggi ed usanze; loro metodo di educazione pei fanciulli. — Sistema di vivere dell'autore in quel paese. — Onore di una gran dama risarcito 66 CAPITOLO VII. — L'autore, informato d'una macchinazione ordita per accusarlo d'alto tradimento, cerca scampo nel regno di Blefuscu. — Accoglimento che vi trova 81 CAPITOLO VIII. — Un fortunato caso somministra all'autore il mezzo di abbandonare quel paesi. Non senza dover prima superare alcune difficoltà, egli arriva finalmente sano e salvo nella sua nativa contrada 95 VIAGGIO A BROBDINGNAG. 105 CAPITOLO I. — Descrizione di una fiera burrasca; scappavia staccato dal bastimento per provedere acqua dolce; l'autore vi si imbarca onde scoprire nuovi paesi. — Abbandonato su la spiaggia, è preso da uno di quei nativi, e condotto alla casa di un fittaiuolo. — Modo ond'è accolto; diversi casi occorsigli quivi. — Descrizione degli abitanti di quella contrada 107 CAPITOLO II. — Ritratto di una fanciulla figlia del fittaiuolo. — L'autore è trasportato in un borgo, indi alla metropoli. — Particolarità connesse con questo traslocamento 127 CAPITOLO III. — L'autore è domandato alla corte. — La regina lo compra dal suo padrone, il fittaiuolo, e lo presenta al re. — Sue dispute coi primi sapienti addetti al servizio di sua maestà imperiale. — Viene fabbricato in corte un appartamento a posta per lui. — Salisce in gran favore presso la regina. — Se la prende per l'onore della sua patria. — Sue querele col nano della regina 138 CAPITOLO IV. — Descrizione del paese. — Proposta di ammenda alle moderne carte geografiche. — Palazzo del re, ragguagli su la metropoli. — Mezzi di trasporto adottati per le gite dell'autore. — Descrizione della chiesa cattedrale 151 CAPITOLO V. — Casi curiosi occorsi all'autore. — Giustizia fatta di un delinquente. — L'autore dà prova di sua perizia nella navigazione 163 CAPITOLO VI. — Mezzi adoprati dall'autore per rendersi accetto di più al re ed alla regina. — Dà prove di sua perizia nella musica. — Il re s'informa su lo stato dell'Inghilterra, e ne riceve contezze dall'autore. — Osservazioni del re a questo proposito 179 CAPITOLO VII. — Amor di patria dell'autore. — Proposta vantaggiosissima da lui fatta al re, e da questo rifiutata. — Grande ignoranza del re in cose di politica. — Dottrine di questo paese assai imperfette e limitate. — Leggi, affari militari, fazioni 193 CAPITOLO VIII. — Il re e la regina imprendono un viaggio alle frontiere. — L'autore gli accompagna. — In qual modo abbandoni il paese, e particolarità che si riferiscono a ciò. — Suo ritorno nell'Inghilterra 204 VIAGGIO A LAPUTA. 223 CAPITOLO I. — L'autore imprende il suo terzo viaggio. — È preso dai pirati. — Messo a peggior partito dalla malignità di un Olandese. — Arriva in un'isola. — Viene accolto dagli abitanti di Laputa 225 CAPITOLO II. — Fare ed inclinazioni dei Laputiani — Loro cognizioni. — Il re e la sua corte. — Accoglienza fatta all'autore. — Crucci e paure di quegli abitanti. — Donne di Laputa 235 CAPITOLO III. — Un fenomeno che si spiega colla filosofia ed astronomia moderna. — Grandi progressi dei Laputiani in questa seconda scienza. — Metodo tenuto dal re per reprimere le ribellioni 248 CAPITOLO IV. — L'autore si congeda da Laputa, viene trasportato a Balnibarbi. — Suo arrivo alla città capitale della nuova contrada. — Descrizione di questa e dei paesi circonvicini. — Ospitalità concessa da un distinto personaggio all'autore. — Intertenimento che entrambi ebbero fra loro. 255 CAPITOLO V. — L'autore ottiene la permissione di vedere la grande accademia di Lagado. — Estesa descrizione di quest'accademia. — Arti in cui si esercitano quei professori 265 CAPITOLO VI. — Ulteriori notizie su l'accademia. — Proposte di alcuni miglioramenti fatte dall'autore ed onorevolmente accolte 278 CAPITOLO VII. — Lasciato Luggnagg, l'autore arriva a Maldonada. — Non vi trova imbarchi pronti. — Fa una breve scorsa all'isola di Glubbdubdrib. — Accoglienza che trova presso il governatore 292 CAPITOLO VIII. — Ulteriori racconti di apparizioni. — Correzioni fatte alla storia antica e moderna 296 CAPITOLO IX. — L'autore ritorna a Maldonada. — Veleggia al regno di Luggnagg. — È tenuto in arresto. — Mandato a domandare dalla corte. — Formalità della sua grande ammissione. — Grande mansuetudine del re verso i suoi sudditi 305 CAPITOLO X. — Alcuni cenni in lode degli abitanti di Luggnagg. — Particolare descrizione degli struldbrug, e colloquii occorsi su questa razza d'individui tra l'autore e diversi ragguardevoli personaggi 311 CAPITOLO XI. — L'autore parte da Luggnagg, e fa vela per il Giappone. — Di lì si imbarca a bordo di un bastimento olandese, arriva ad Amsterdam, e da Amsterdam in Inghilterra 324 NOTE: [1] Che in sostanza vuol dir _fola_ o _filastrocca_ e nient'altro, ma siccome _tub_ vuol dir _botte_, i primi traduttori francesi, che in generale sapevano assai poco lo spirito della lingua inglese, intitolarono quest'opera _Conte du tonneau_ (Novella della botte), titolo che non ha niente a che fare col libro. [2] Con buona pace del chiaro autore di questa biografia, io ne dedurrei piuttosto che vi sono e vi sono stati dei genii trascendenti ma rari, in tutte le età. [3] Il signor di Selevinges, autore anch'esso d'un'assai dotta e ben collazionata biografia di Swift, è persuaso che questa miss Waryng facesse le prime proposte a Swift per esserne sposata; che Swift si scansasse da ogni impegno con risposte galanti, ma non mai categoriche; che finalmente le ultime incalzanti istanze di miss Waryng determinassero Swift ad una risposta di disinganno, e questa risposta sarebbe stata la fredda lettera di cui qui parla l'autore della presente biografia. [4] Forse le lettere scritte da questo celebre statista durante le ultime sue ambasciate, che vennero pubblicate nel 1700, cioè due anni dopo la sua morte. Tutte le altre opere di Temple, compresavi l'_Introduzione alla storia dell'Inghilterra_, vennero pubblicate finchè era vivente. [5] Veggasi la lettera a Riccardo Sympson che segue questa notizia. [6] Il salto mortale del gran tesoriere di Lilliput, e il cuscino che lo salva da rompersi l'osso del collo (p. 36), allude al licenziamento di Walpole avvenuto nel 1717, che non venne confermato grazie alle sollecitazioni della duchessa di Kendal resasi il _cuscino salvatore_ di Walpole. I salti dei nobili lilliputiani intrapresi col fine di guadagnare un filo azzurro o rosso o verde, satireggiano l'atto del ministero di Walpole, che moltiplicò a dismisura gli ordini e le ricompense annesse ai medesimi, istituendo l'ordine infimo del Bagno per interporre una più lunga trafila prima di arrivare a quello della Giarrettiera. [7] Intorno a Newton, Swift raccontava ancora come un giorno il suo servo, avendolo avvertito che la mensa era imbandita, nè vedendolo comparire, fosse tornato addietro, e lo trovasse salito sopra una scala da biblioteca appoggiata ad uno scaffale, con un libro nella mano sinistra, reggendosi il capo colla destra, assorto in tale estasi, che dopo averlo chiamato tre volte, gli convenne scuoterlo per distorlo dalla sua meditazione. Era ben questo l'ufizio del percussore. [8] Per molti anni Swift continuò ad avere, siccome formola del congedo che prendeva dai suoi amici, queste frasi: «Addio, miei cari, spero che non ci vedremo più in questo mondo.» Un giorno egli ed un ecclesiastico, suo collega, ebbero la buona sorte di essersi ritirati a tempo dal sito ove andò a cadere un grande specchio abbandonato alla propria gravità, per essersi spezzate d'improvviso le funi che lo sostenevano. Il suo compagno esclamò: «Siamo stati ben fortunati! — Se non ci foste stato voi,» replicò Swift, «mi dorrei d'aver cangiato sito!» [9] I piccoli tiranni, cui si allude, erano i proconsoli spediti allora dal governo inglese nella misera Irlanda. [10] Non dirò certo d'essermi inorridito, ma credo che la buona creanza non permetterebbe ad un dilicato autore moderno l'entrare co' suoi leggitori in certi nauseosi particolari più del bisogno di accennarli in sfumatura. [11] Sollecitudine che non garbò niente a Swift, al quale il signor Desfontaines inviò la sua versione con mille scuse su i cangiamenti, ed il quale non ebbe da vero queste scuse per buone. [12] Il titolo di questa continuazione è il _Nuovo Gulliver_ ossia i _Viaggi di Giovanni Gulliver, figlio del capitano Lemuel_. Uno scrittore francese ha detto: _Quest'opera ha tanto che fare col suo tipo quanto ne ha il_ Telemaco _coll'_Odissea. — Quello scrittore è stato troppo generoso verso il suo concittadino col prendere per termine di confronto il _Telemaco_ di Fénélon; io lo avrei più volentieri cercato nella _Vita di Guerino detto il Meschino_. [13] Noi Italiani deploriamo tuttavia la perdita di un personaggio più che lombardo, europeo, appassionatissimo per questi giuochi di parole, la cui denominazione tecnica è divenuta _freddure_. È desso il Newton della fisica, lo scopritore della pila, il grande Volta. La più famosa di queste, perchè è freddura in freddura, è la seguente. Conversava di frequente con un'altra celebrità italiana del secolo scorso, il senatore Giovanni Paradisi, altrettanto avverso a tali freddure quanto le amava l'altro, che, essendo entrambi amicissimi, si dilettava talvolta perseguitarlo col dirne. Gliene aveva regalate diverse, e l'ultima, credo, fu questa: _Oggi pranzerò con una sconcordanza_; e la _sconcordanza_ era un notabile Milanese, defunto anch'esso, don Luigi Perego (_Per ego_). Il conte Paradisi sclama: — Ah! non _resisto_.» Il senator Volta replica: — Chi ha mai detto questo sproposito? — Che sproposito? ripete Paradisi. — _Sisto_ fu papa e non re». [14] _Summerset_ o _summersault_, dice il testo. Qui l'autore dà uno schiarimento a parte per farne noto essere questo il salto con cui l'operatore salta in piedi sul così detto _trappolino_; vi poggia la testa e vi si libra con tutto il corpo sino alle calcagna, che si volgono sopra di essa, poi torna a saltare in piedi. [15] Qui l'autore, se non m'inganno, deride la mania dei tornei che era recente ai suoi giorni, e che in quest'epoca del progresso e dei _rococò_ sembra tornare di moda in qualche paese della colta Europa. [16] L'autore sembra qui alludere o agli episcopali e presbiterani, o al whigh e ai tory, le cui guerre egli crede derivate da oggetti minimi e degni soltanto di riso, ma fatti gravi e portati a fatale esagerazione dal riscaldamento di parte. [17] L'allusione, come ognun vede, si riferisce all'infelice Carlo I ed a Giacomo II. [18] Il monarca cui si allude in questo ingegnoso casotto di burattini non è nient'altro che Luigi XIV; e, per dir vero, la flotta che questo gran re fece allestire nel 1689 per ricondurre il suo congiunto Giacomo II nel regno de' padri suoi gli fu appunto tanto utile quanto se un titano se la fosse con una mano portata via. [19] Qui, se non m'inganno, l'autore ha dimenticato che non potea nemmeno entrare in città vestito di giustacuore senza correre pericolo di rovinare coi cantoni di esso i tetti e le grondaie. [20] L'autore allude alla poca coltura del bel sesso, generale a' suoi giorni nell'Inghilterra ed altrove. Una tal critica non potrebbe oggigiorno applicarsi a nessuna donna civilmente educata di tutta l'Europa. [21] Hawkesworth, contemporaneo dell'autore del presente viaggio, soggiugne qui la nota seguente: «Con questi bislacchi ragionari l'autore ha probabilmente voluto mettere in derisione la boria di que' filosofi che hanno creduto bene l'accomodare alla loro testa la saggezza della provvidenza nella creazione e nel governo del mondo, e le cui cavillazioni sono speciose siccome quelle di questi saggi brobdingnaghiani, avuta sempre proporzione all'ignoranza di coloro cui vengono regalate». [22] È superfluo il notare che l'autore è inglese. [23] E pure nell'anno in cui si pubblicava questo viaggio, o piuttosto questa satira, nel 1727, moriva a Londra Isacco Newton, le sue ceneri venivano trasportate a Westminster e sosteneano le falde del suo panno funereo il gran cancelliere e tre pari del regno. Si stenta su le prime a capire come il signor Swift, che è stato testimonio degli onori tributati in vita e dopo morte a quel genio del mondo e dei secoli, abbia potuto apporre una sì ingiusta taccia alla sua patria: quella cioè di non avere in onore le matematiche applicate alle cose utili, chè nulla al certo havvi ad immaginarsi più utile dell'avere spiegati colle matematiche i grandi fenomeni dell'universo. La biografia dell'autore scritta da Walter-Scott spiega alcune di queste anomalie; oltrechè Swift, scrittore satirico, può essersi sdegnato al vedere nel tempo stesso applicate le matematiche a rami di sapere, secondo lui, più parassiti e, secondo tutti, più renitenti ad essere trattati col calcolo. In que' giorni stessi all'incirca il celebre Reid stabiliva essere _il merito morale proporzionale ad una frazione che abbia il bene prodotto per numeratore, e la deposizione dell'agente per denominatore_. Convien credere che tal modo di esprimersi, ancorchè giusto, non garbasse troppo al nostro autore. Infatti nel periodo che viene dopo, se la prende col metafisico trascendentalismo, non prevedendo che la scuola scozzese, della quale appunto Reid fu il fondatore, sarebbe divenuta, a mal grado di un lusso di calcolo talvolta oserei dire ridicolo, una fra le più ragguardevoli filosofiche scuole; o può anche darsi che mentre Reid teneva in sostanza le rette vie, molti si perdessero nei labirinti dell'errore, più frequenti al certo in metafisica che in verun'altra facoltà. Vediamo la stessa cosa anche negli uomini del secolo decimonono. Abbiamo pianto, pochi anni sono, un Fourier ed un Paoli, da pochi giorni in qua piangiamo un Poisson, ci gloriamo giustamente d'un Gauss, d'un Bordoni, d'un Libri. Onoriamo ancora più d'un grande metafisico, come Vittore Cousin ed altri sommi Francesi, Alemanni ed Italiani; ma vive nel tempo stesso più d'un metafisico trascendentalista che potrebbe eccitare la bile di qualche novello Swift. [24] Fiume dell'America settentrionale, posto fra i laghi Eriè ed Ontario. La sua cateratta, una delle più formidabili dell'Europa, è divisa in due dall'isola Goat, quella dalla parte dell'alto Canadà larga cinquecento piedi, trecentocinquanta l'altra dalla parte degli Stati Uniti, alte entrambe centocinquanta piedi; si pretende che il rimbombo ne sia udito ad una distanza di cinquanta leghe. [25] Venti regolari e periodici che regnano particolarmente nell'oceano occidentale fra I tropici col nome d'_alisei_, e nei mari dell'India con quello di _monsoni_. [26] Si crede che diverse fra le idee fondamentali di questo viaggio a Laputa sieno state suggerite al dottore Swift da una novella scritta da Francesco Godwin, vescovo di Liandaff, intitolata: _L'Uomo nella Luna_. [27] Qui l'autore si prefigge di porre in ridicolo coloro che professano un genere di parassita metafisica già satireggiato da lui anche nel suo viaggio a Brobdingnag, e che consumano il loro tempo in cose non meno assurde delle faccende dei Laputiani. [28] Ed effettivamente tutte queste malinconie passarono per la testa di ragguardevoli filosofi del secolo decimosettimo e della prima metà del decimottavo. [29] Si vede che Swift, come generalmente una gran parte de' sommi uomini de' due secoli scorsi, credendo che tutto si fosse perfezionato sotto i loro auspizi, era nemico acerrimo d'ogni tentativo verso il progresso, onde prorompeva in queste amarissime satire che esageravano i difetti inseparabili da ogni nuovo tentativo senza pensare che i difetti si vanno ammendando da sè e le conseguenze del nuovi tentativi rimangono. È superfluo il citarne esempi ai dì nostri nei prodigi del vapore ed in mille altre scoperte gigantesche che sarebbe stata follia l'immaginare soltanto un mezzo secolo fa. [30] Tocchiamo con mano oggidì se tale immaginazione fosse una chimera, ed era vergogna che la trovasse tale un uomo siccome Swift, il quale non potea certo ignorare il famoso detto o piuttosto assioma d'Archimede un po' più antico di lui: _Dic ubi consistam_, ecc. [31] Guai, e con ragione, ai dì nostri, allo scrittor di romanzi che s'avvisasse promovere il riso a costo di tanta nausea! Ma Swift era posteriore di poco a que' giorni in cui Molière su le scene francesi facea che le serve dalle finestre aspergessero della stessa mercanzia gli amanti veduti di mal occhio dalle loro padrone. [32] La natura stessa di diversi fra gli scherzi usati dall'autore mostrerebbe, se non si sapesse d'altronde, in qual misero stato fossero ai suoi giorni le scienze chimiche. [33] Qui l'autore evidentemente allude alla grande lite che fu agitata a tutti i tribunali scientifici dell'Europa per decidere se Leibnitz avesse rubata a Newton la scoperta del calcolo differenziale sol cangiando il nome di _flussioni_ nell'altro d'_aumenti infinitesimi_. La società reale di Londra condannò Leibnitz, che ne morì di crepacuore. Con più giustizia altre accademie europee ed in appresso i posteri hanno giudicato che que' due genii immortali videro la stessa cosa per vie diverse e senza comunicare menomamente fra loro; anzi un genio italiano e dell'universo, di cui deplorammo la perdita in questo secolo, e ben degno di essere arbitro fra que' due sommi, ne ha fatto conoscere come Newton avesse fondata su principii più analitici e quindi più evidenti la sua scoperta, poi gli divenissero in tal qual modo sospetti per una svista di calcolo occorsagli che non era colpa di que' principii; e gli abbandonasse per rimettersi nelle vie più brevi ma men concepibili dell'infinitesimo. I principii abbandonati da Newton, riassunti da Lagrange, hanno dato origine alla grand'opera delle _Funzioni Analitiche_ ed i prestigi dell'infinitesimo suo spariti. [34] Il _progettista_ satireggiato in questo luogo era, giusta ogni apparenza, Leibnitz che aveva immaginata la possibilità di una lingua universale filosofica per tutti i popoli della terra. [35] Tutto questo tratto è una satira contra i governi ed i governanti di quel secolo, singolarmente intesa contra Guglielmo III di Nassau che, divenuto re d'Inghilterra, i partigiani di Giacomo II riguardavano come un usurpatore, e che non seppe troppo farsi amare nemmeno da quella fazione inglese per opera della quale salì sul trono. [36] Parrà incredibile alle età che verranno e, sia detto a lode del secolo decimonono, par già incredibile alla nostra gioventù che per quasi tutto il secolo decimottavo siasi avuto fra le più alte società dell'Europa come un amabile vezzo il disonorare più donne che si potea, appartenessero pure alle classi più ragguardevoli, col vantare, o vere o inventate, le furtive loro condiscendenze, coll'avverare in somma la parte del don Giovanni. I Francesi consacrarono anzi una parola, adottala in appresso dagl'inglesi, dagl'italiani, e credo dall'intera Europa, ad indicare questi cari enti. Poco mancò che l'essere un _roué_, un _aimable roué_ non passasse per un titolo d'onore. Il dramma del signor Dumas intitolato _Mademoiselle de Belle-Isle_ perderebbe gran parte della sua vaghezza agli occhi di chi non sapesse questa bella prerogativa dei nostri antenati e, quanto a me, posso dire d'alcuni miei defunti contemporanei. [37] Anagramma impuro di Britannia. [38] London, in somma Londra. [39] Il signor Hawkesworth, uno dei comentatori dello Swift, per provare che questa satira non è una mera invenzione, cita il processo fatto al vescovo di Rochester, signore di Atterbury, qual leggesi nel volume VI delle cause di stato dell'Inghilterra. Che nell'epoca in cui vivea Gionata Swift, calda tuttavia delle discordie civili che copersero di sangue il suolo inglese, si sieno inventate congiure non esistenti, e commessi orridi assurdi per farle credere vere, è cosa, naturalissima, ma darebbe un calcio ad ogni storica verità chi su la fede dell'autore credesse che a quei giorni non vi fossero mai state vere congiure. [40] Si sa come Tito Livio, il quale tal volta si diletta ricamare di filastrocche la sua storia, sott'altri aspetti stupenda, ne abbia voluto far credere che Annibale impedito di procedere avanti col suo esercito da un dorso di montagna, facesse abbruciare sul dirupo enormi cataste di legna, indi versarvi sopra molta copia d'aceto che ammollì il masso al segno di poterlo segare. [41] Saggiamente l'autore ha escluso da questo sestumvirato Catone il Censore, bisavolo di questo, che è conosciuto anche col predicato di Uticense. Molti atti del primo dimostrano che, più delle virtù, amava l'apparenza della virtù. Nell'Uticense al contrario, come ha detto il presidente di Montesquieu, la virtù era lo scopo, la gloria derivata dalla virtù l'accessorio. [42] Quel gran Cancelliere d'Inghilterra vissuto tra i secoli decimoquinto e decimosesto, famoso per sapere ed incontaminata integrità che lo condusse sul palco di morte sotto il tirannico regno di Enrico VIII. [43] Vescovo di Tessalonica vissuto nel secolo decimosecondo, che pubblicò i _Commentari sopra Omero e Dionigi il geografo_. [44] O sia Pietro le Ramée, vissuto nel secolo decimosesto, autore delle _Animadversiones in dialecticam Aristotelis_, che, riprovate da una commissione di dotti istituita da Francesco I, fruttarono a chi le pubblicò il disdoro di essere fischiato fin ne' teatri. [45] Così in questa parte come nel successivo periodo, Aristotele, o sia Swift che lo fa parlare, si è mostrato finora un gran cattivo profeta. [46] Dotto Urbinate, vissuto nel secolo decimosesto, che passato in Inghilterra al seguito del cardinale Corneto che vi si trasferì per riscuotere il danaro di san Pietro, vi si fermò lungo tempo. Fra sue molte opere scritte in latino vi è una _Storia d'Inghilterra_, ed una _Raccolta d'adagi o proverbi_. [47] Pandaro è un personaggio mitologico della guerra troiana che introdotto dalla fantasia di Shakespeare nella sua _Criseide_ fu convertito in un mezzano di tresche amorose. Questo personaggio fece adottare agl'Inglesi la parola _pandanism_ che si sa ora che cosa voglia dire. [48] Venti regolari e periodici, che si dividono in due sorte: gli alisei che regnano costantemente nell'oceano occidentale fra i tropici, ed i monsoni che ne' mari dell'India spirano sei mesi da una parte e sei dall'altra. In queste acque favolose del nostro viaggiatore, sarebbe difficile il determinare se quel vento di commercio fosse un aliseo o un monsone. [49] Se vogliamo, come osserva il signor Hawkesworth, è ben maggiore la stravaganza d'immaginarsi di poter essere immortale che, supposta l'immortalità, il figurarsi una perpetuità di giovinezza, salute e vigore, che sola, volendo ragionare su gl'impossibili, potria mantenere una tale perpetuità. Quanto al personaggio qui posto su la scena dall'autore, aveva sempre o si finge che avesse sempre innanzi agli occhi uomini immortali, ma soggetti a tutte le malattie e miserie dei mortali, e nei quali queste infelicità crescessero cogli anni. Egli dunque parlava con una sua evidenza alla mano, nè pensava abbastanza che il suo interlocutore, non avvezzo a convivere con uomini immortali nel senso letterale di tale parola, era ben lontano dall'avere tutta questa evidenza. [50] Il signor Hawkesworth, citato nella nota precedente, non crede che un tal espediente, suppostane la possibilità, guarentisse gli uomini dalla paura della morte più di quanto la quasi sicurezza di rompersi le gambe o le braccia rattiene dai gettarsi giù da una finestra quell'infelice che si vede d'ogni parte investito da un incendio appiccatosi alla sua casa. [51] Primo punto di terra, ora la geografia dell'autore, dopo il suo sbarco a Laputa, cessa di essere favolosa, perchè veramente Iedo è la metropoli civile del Giappone, mentre Meaco ne è la metropoli sacerdotale. [52] Poichè questa costumanza, che certo disonora la cristianità, è o è stata storica; convien credere che i negozianti olandesi, la maggior parte de' quali è bensì di cristiani, ma non di cattolici, quando si sono trovati al Giappone, abbiano rinnegato, per gl'interessi del loro traffico, il cristianesimo. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le numerose illustrazioni presenti nell'originale sono state preservate nelle versioni HTML ed EPUB scaricabili dal sito di Project Gutenberg. End of the Project Gutenberg EBook of Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni, by Jonathan Swift *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK VIAGGI DI GULLIVER NELLE *** ***** This file should be named 61179-0.txt or 61179-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/6/1/1/7/61179/ Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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