The Project Gutenberg EBook of Lirica, by Annie Vivanti This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Lirica Author: Annie Vivanti Release Date: January 4, 2019 [EBook #58615] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LIRICA *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) LIRICA DI ANNIE VIVANTI _con prefazione e nota di G. CARDUCCI_ MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI Settimo migliaio. _Proprietà letteraria._ _Riservati tutti i diritti._ Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera, dal 7.º migliaio in su, che non porti il timbro a secco della Società Italiana degli Autori. Tip. Treves — 1915. _Signorina_, _Nel mio codice poetico c'è questo articolo: — Ai preti e alle donne è vietato far versi. — Per i preti no, ma per Lei l'ho abrogato._ _La sua poesia, Signorina, è ciò che è (io non prendo dai critici la pretesa di imporre gli argomenti e il modo di trattarli), ma poesia è; quale dee quasi fatalmente prorompere da un temperamento di femmina lirico (caso rarissimo). E per la immediatezza della rappresentazione e per la verginità dell'espressione mi piace molto. Ciò che nel mestiere del verseggiare italiano dicesi con neologismo pedantesco _la forma_ — un che di postumo al concetto, per lo più, un che di appiccicato, tra la posa e la smorfia, — a Lei manca. A Lei, la fisonomia dell'immagine, la tempera del colorito, la qualità della frase e l'andamento del verso vengono e spirano col movimento del fantasma e della passione che Le dan la poesia. Tutto ciò è sempre bene? Io so e Le dico che molte volte mi rapisce._ _E Le bacio la mano._ Bologna, 19 febbraio 1890. GIOSUÈ CARDUCCI. Die Engel, die nennen es Himmelsfreud', Die Teufel, die nennen es Höllenleid, Die Menschen, die nennen es Liebe. H. HEINE. EGO. O Mondo, vecchia guardia doganale, Farai l'obbligo tuo da buon cristiano: Giusta e severa sia la tua condanna, Chè non ti voglio dar la buona mano! Sono in contravvenzione, o Mondo astuto. Volea truffarti con la merce mia: Non è tabacco, sigari o liquori, Nulla di spiritoso: è poesia! Il Mondo ha spalancato i suoi mille occhi, E “Chi sei tu?„ mi grida: e “cosa fai? Dimmi la fede tua, l'età, la patria, Che cerchi, donde vieni e dove vai!„ Del mio paese chiedi? Io ti rispondo: Non ho paese: è mia tutta la terra! La patria mia qual'è? Mamma è tedesca, Babbo italiano, io nacqui in Inghilterra. E quale la mia fede? Io vado a messa; La musica mi edifica e ricrea; Ma sono battezzata protestante, Di nome e di profilo sono ebrea. Chiedi dell'età mia? quasi ho vent'anni. E quale la mia meta? Ancor l'ignoro. Che cerco? Nulla. Attendo il mio destino, E rido e canto e piango e m'innamoro. E cielo e terra, paradiso e inferno Sfioro coll'ali della fantasia! Non chieder altro. — Impetuosa e strana Per nuove vie fugge la vita mia. Fugge nel buio e crede nella luce. L'anima fiduciosa e calma e forte Ispirata mi guida. A che? — Si vive. Quel gran problema scioglierà la morte. NUOVA. Non voglio più cantare i vecchi amori, L'eterno aprile ed il chiaror di luna. Ho in uggia il cielo azzurro e gli astri e i fiori, La brezza, le barchette e la laguna! Odio le serenate, i mandolini, Le dame bionde e i pallidi garzoni, Quella folla di tristi fantoccini, Popolo da sonetti e da canzoni. Io voglio un nuovo canto audace e forte, Disdegnoso di regole e di rime, Voglio l'amor che rida della morte, Voglio del genio la pazzìa sublime! E se tu m'ami dell'amor ch'io voglio Baciami sulla bocca in faccia al sole, Fatti dell'amor tuo scudo ed orgoglio E la pugna sottentri alle parole! Col nuovo inno d'amor che vibra e freme E schiude il cielo all'anima rapita, Tenendoci per mano, andiamo insieme A vincer la battaglia della vita! DESTINO. Egli mi disse: “Quanto sei mutata! Come hai gracile il corpo e il viso gramo! Dimmi che fai, fatale e sventurata? Io gli risposi: — T'amo! — Egli rise e mi disse: “Ti rammenti Come fu intenso e breve il nostro ardore? Come fur fuggitivi e risplendenti Giorni e notti d'amore?„ Egli rise e mi disse: “Ti rammenti La nuova amante mia? l'altro tuo damo? Le tue menzogne ed i miei tradimenti? Io gli risposi: — T'amo! — Egli mi disse: “Addio. Oggi e in eterno Si disgiungon le vie che noi seguiamo. S'io ti rivegga mai, sia nell'inferno!„ Ed io gli dissi: — T'amo! — Egli mi disse: “Demone morente E maledetto, lévati e va via! Vada in oblìo sepolta eternamente La tua viltade e mia! “O grigio, o sonnolento, o grave Oblìo, A ottenebrar la mente oggi ti chiamo: Strappa costei dal desiderio mio!„ Ed io gli dissi: — T'amo! — Egli guardommi: un brivido lo scosse. Lento levò la mano, e sulla faccia Sulla pallida faccia mi percosse! — — T'amo! — E gli aprii le braccia. * * * Stretti ora l'uno all'altro e silenziosi Seguiam la via che mena a perdizione, E ci brucia negli occhi desïosi La struggente passione. Egli talor mi guarda spaventato: — “Come hai gracile il corpo e il viso gramo!„ Io lo fisso nel volto appassionato E gli sospiro: — T'amo. VIRGO. Crebbe fra le bestemmie e le percosse Quella gracile bimba spaventata! Morì a vent'anni, mite ed innocente, Quella piccola martire affamata. Or van per le stellate vie del cielo I poveri piedini ignudi e stanchi, E la tremula man coglie beata — Gigli d'argento! — i fulgidi astri bianchi. E gli angeli, stupiti e riverenti, Chinan gli alteri luminosi rai, Mirando in quel pallido viso stanco La bocca che non fu baciata mai! VATICINIO. Quattro enormi carrozze: Ecco in viaggio I miei compatrioti di Boemia! Fan sosta nella piazza del villaggio. Sono zingari neri e barbuti E fanciulli ricciuti E zingarelle Snelle. — Qui da una giovin profetessa cieca Io voglio farmi dire la ventura, Per sapere qual gioia o che sciagura L'avvenire m'arreca. Le diedi la mia mano ed il mio nome: “Anny?„ ella dimandò, “ti dicono Anny?„ Poi lenta scosse le sue folte chiome: “Rechi malanni, danni, affanni, inganni.„ — Disse “Tu piangi poco e ridi assai. Tu fino ad oggi non amasti mai. Ebben: oggi amerai.„ Ed io risposi: — L'amo! — Disse: “Egli è forte e nobile e severo, Ed ha bruna la faccia e l'occhio nero. Ed egli t'ama. Vero?„ Ed io risposi: — M'ama. Disse: “Egli t'ama, t'ama follemente, Teneramente, disperatamente, E, bada: eternamente.„ Io non risposi, risi. “E quanto l'ami tu, tu sola il sai. E tu domani l'abbandonerai. Bada: non sbaglio mai.„ Io non risposi, piansi. MADDALENA. In bionde anella il folto crin piovente Sovra gli omeri ignudi, insino a terra Ne sparge la dovizia rilucente Inginocchiata innanzi al suo Signore. Sovra il grand'occhio cupo e fiammeggiante Miti s'abbassan le pesanti ciglia, E la vermiglia bocca supplicante Pietosamente trema e si fa muta. Le piccolette mani profumate Raccolte in croce sovra il sen, le invade Il volto, dalle tempia delicate Al bianco collo, in rosee ondate, il sangue. E il gran Maestro la contempla e tace. In fondo a' suoi divini occhi riposa L'infinita d'amor serena pace E la gran calma di perfetta fede. Una mano sottile or lievemente Su quella bionda testa reclinata Ei posa: sussultar, fremer la sente. E la chiama per nome: “Maddalena!„ — Oh! quale allor ne' grandi occhi raggianti Levati su di lui luce balena In sconfinato abisso di rimpianti! E Cristo dice: “Sorgi, Maddalena.„ — “Signor! È il mio cammin duro a tal segno Che lacerato ho il piè, la veste, il core! Qual rifugio mi date? qual sostegno?„ — — “Abbiam la nostra croce, Maddalena.„ — “Signor! La fronte e l'anima umiliata Quando rileverete col perdono? Quando darete pace all'affannata?„ — — “Al di là della croce, Maddalena.„ — “Signore, o mio Signor! Quando, giacente Sul vostro core la mia bionda testa, Affonderò la mia pupilla ardente Nel glauco mar di vostre luci calme? Onde la vampa, che per fibra e vena Precipita, calmar? Quando, o Signore?„ E Cristo disse: — “Taci, Maddalena! O Maddalena, taci!„ — O MIA BAMBINA.... “O mia bambina, io voglio idolatrarti E passare la vita a' tuoi ginocchi, E passare la vita a contemplarti, Pago d'un raggio de' tuoi splendidi occhi!„ — E riverente ei mi guardava in viso, Poscia s'inginocchiava: “O mio tesoro, Tu mi sei fede e patria e paradiso; Tu se' la mia Madonna: ecco — io t'adoro!„ — Madre di Dio! fui come Te indulgente Per que' grand'occhi nel mio volto fissi: Sorrisi, e mi chinai timidamente: “Non adorarmi, baciami!„ gli dissi. AVE, ALBION! Tetra, nebbiosa, gelida Inghilterra, Aborrito paese ov'io son nata, Colla tua buona gente addormentata, Che Iddio ti danni, maledetta terra. O tristi inglesi dai capelli gialli, O magri inglesi rosei e scipiti, È forse il freddo che v'ha istupiditi? Lunghi fagotti di paracqua e scialli! O savia gente dai sereni affetti, Dal sommesso parlar, dal riso fioco, Datemi un po' di sole, un po' di fuoco, O inglesi freddi, inglesi maledetti! Datemi il folle amor, l'odio furente E le vendette de' meridionali! Lo sfolgorar di sguardi e di pugnali, L'impeto d'ira, e il perdonar repente. Datemi il facil riso e il pianger forte E la favella dell'Italia mia! Nei vostri _plaids_ portatevele via Le vostre idee convenzionali e storte. Via, nazïon di raffreddati! Ed ora Che il tuo fangoso suol più non m'alloggia, Popolo secco sotto eterna pioggia, Va co' tuoi grandi piedi alla malora! RITORNO. Oh, come t'ha baciato in viso il sole! Come sei bruno e forte e grande e bello! Come hai teneri gli occhi e le parole, O mio fratello! L'assenza tua mi rese lungo il giorno. Come fu desolante il nostro addio! E come benedico il tuo ritorno. Amico mio! Guarda: mi vengo a mettere in ginocchi: Vorrei posar la testa sul tuo petto, Così, senza parlar, e chiuder gli occhi, O mio diletto! Son sola al mondo, tutta sola ormai. Ed io non voglio che tu vada via! Senti.... non mi baciasti ancora mai, Anima mia! — LASCIAMI ANDARE. Lasciami andare ove il fato mi vuole, Lasciami andare! Sono assetata di gloria e di sole! Lasciami andare! Non mi sgomenta il periglio remoto, La meta oscura — Sfido le tenebre, sfido l'ignoto! Non ho paura. Ozio codardo, ti sprezzo e detesto, Lasciami andare! Ferree catene, v'infrango e calpesto, Voglio lottare. Schiava, o fantocci, del vostro comando Io non sarò. Viver dormendo, morir sbadigliando Non voglio, no! Voglio combattere, voglio soffrire! Vita, se cedi, Voglio combattere, voglio morire Su ritta in piedi! Lasciami andare ove il fato mi vuole, Lasciami andare! Sono assetata di gloria e di sole! Lasciami andare! AUT-AUT. Io voglio il sole, io voglio il sole ardente Che l'ebbrezza mi dia del suo splendore, O pur la buia notte ed il fragore Forte della tempesta alta e furente. La grigia nebbia il core la detesta: Datemi il cielo azzurro o la tempesta. Voglio la libertà! la sconfinata Intera libertà la voglio mia! O pur la tetra e stretta prigionia Di quattro travi e la cassa inchiodata. Oh, se non m'è concesso l'infinito, Frante sian l'ale, e il core seppellito. E voglio l'amor tuo; l'intero, ardente, Illimitato amore, o l'odio intenso. Ma sia l'odio o l'amor, lo voglio immenso! Io non sopporto un guardo indifferente. L'amor che tutto soffre e tutto dona O l'odio che non piega e non perdona. O tutto o nulla io voglio: il riso o il pianto, Il sole d'oro o l'uragano nero, La stretta bara o l'universo intero, E dallo sguardo tuo martirio o incanto! Tutti i tuoi baci dammi e tutto il core, O la croce sublime del dolore! VITA BREVE. I. UNA LETTERA. Sto bene, proprio bene! Ho un po di tosse Che passerà quando vien primavera. Vedessi poi che belle guance rosse! Fanno invidia alle bambole di cera. Ora la mamma non mi sgrida mai, E babbo poi! Mi bacia ogni momento. Mi guarda in faccia e dice: Come stai? E s'io non rido non è mai contento. Sono felice! Vivere è un incanto. Sai che domani compio i diciott'anni? — — Poveri morti! È triste il camposanto. Nevica!... Addio. Salutami Giovanni. II. COMMIATO. Oggi sta meglio. Trepidante e lenta Par le torni la vita; il viso bianco A noi rivolge, e la pupilla spenta Rifulge di chiarore incerto e stanco. Il suo passato le ritorna in mente. Ella si leva, frale e delicata, E s'asside fra noi tacitamente, Col suo blando sorriso d'ammalata. Noi carezziamo trepidi, rapiti, Il sottil viso e le dorate chiome; E la curiamo con parole miti E tenerezze che non hanno nome. E noi sappiamo che non c'è speranza, Che nulla al mondo la potrà salvare! Ma quando torna alla sua cheta stanza, L'andiam con un sorriso a accompagnare. Chiusa la porta, ci guardiamo in faccia Senza parlare!... — E ancor ci sta sul viso — Spettro di gioia che il terrore agghiaccia — La tragica menzogna del sorriso! NELL'ALBUM. Bel canarino dalle penne d'oro, Dammi l'addio: riprendo il mio viaggio: Al volo anela impazïente l'ala: Patria non ha l'uccello di passaggio. Sono uccel di passaggio, ed ha il mio nido Per suo solo confine il firmamento. M'è tetto l'uragano e culla il mare. La ninna-nanna me la canta il vento. Sono uccel di passaggio e non ho amici: Nuvole ed onde le compagne mie! Ma capricciose, infide e passaggere, Noi c'intendiamo senza ipocrisie. Onde furenti e nuvoloni neri, Seguiam la stessa strada burrascosa. Spinti dalla bufera della sorte, Abbiam la stessa fede dolorosa. Chi non ha patria non conosce esilio, Chi non ha amici non sarà tradito. Onde furenti e nuvoloni neri Abbiam la stessa meta: l'Infinito. — Bel canarino nella gabbia d'oro, Dalla finestra mi richiami? — Addio. Bel prigioniero dalle penne d'oro, Ho l'ali e il canto: l'universo è mio! SULL'ATLANTICO. Urla in tempesta il mar; lo sferza il vento E ne solleva l'onde furïose, Bianche dall'ira, torbide, spumose; Ed attraverso il ciel per lo spavento Fuggono turbe di nerastre nubi. Invan lo sguardo in affannoso intento Cerca sicuro asilo ove posarsi: Sol mira l'acqua in turbini levarsi Su.... su.... poi ruinar, il bastimento Seco nel furibondo avel traendo! A destra, a manca, e intorno, intorno, intorno L'acqua che si dibatte, e s'alza, e piomba, Che si spalanca in sconfinata tomba, Che stride ed urla! Intorno, intorno, intorno L'acqua furente in vortici travolta! Ritta, co' pugni stretti e il guardo fisso, Sto sulla poppa, e penso a casa mia. A te penso! Ed il core in agonia Dell'amor suo mi scopre il tetro abisso. In quella vastità piombo e rovino. O mare, mare! quanto sei piccino! LIED. (Da H. HEINE) La mano tua mi posa, angelo bello, Qui sovra il cor: lo senti, che rumore? Entro dimora un falegname: — Amore! Che batte e batte a colpi di martello. — E notte e giorno a colpi di martello Mi sta la bara fabbricando in core. — Su via, fa presto! Sono stanco, Amore! — Lo senti che s'affanna, angelo bello? — AD UN GIOVANE MEDICO. Sei bello, è vero! Stranamente bello, Come un giovane dio superbo e forte! Hai la fronte ispirata e gli occhi ardenti; Fra l'altre tue virtù mi fai la corte. Ma va, ti leva. Chino a' miei ginocchi Non ti voglio veder: tu sei soldato! O campion della vita, ti rileva, E afferra il tuo stendardo insanguinato. Combatti, va! T'attende con le squadre Tetre e feroci l'inimica Morte. Combatti, va! Ti slancia nella mischia, Come un giovane dio superbo e forte! Ti stendono le braccia ischeletrite L'infamia, la miseria, il morbo e l'onta; Ti chiaman gli urli e i rantoli selvaggi Del corpo che alla corruzion s'appronta. Dovrai lottar contr'odio ed ingiustizia, Contro l'insulto e la vigliaccheria: T'accoglieranno imprecazioni ed ire E testarda ignoranza e villania. Ma va, ti dico, va! Dona a chi muore La vita, il sangue tuo, la tua bellezza; Ai vecchi, ai deboli, agli agonizzanti Consacra la gagliarda giovinezza. Lavora e soffri. Soffri e lotta e vinci. L'immenso amor della virtù ti sproni A far della tua vita un gran poema, Un'epopea di glorïose azioni! Compi la tua missione, e poi ritorna. Io sorridendo t'aprirò le braccia. Torna co' segni del vaiuolo nero E la superbia del coraggio in faccia! Allora i baci miei saluteranno Te sull'onesta fronte sfigurata, E lietamente affiderò la destra Alla tua mano ruvida e abbronzata. Verrò a posare il mio visetto acceso Contro le guance tue, infossate e smorte. E sarai bello sempre, sarai bello Come un giovane dio, superbo e forte! CHI SA!... La lunga notte mi negò ristoro, Alfin l'alba è risorta. Nell'orïente il ciel si tinge d'oro, Ed ogni stella è morta. Chi sa se è vero ch'avvi un Dio lassù! Un Dio ch'ama e conforta! — Io penso a voi che non m'amate più, Ed a mia mamma morta. VALZER. Fra le tue braccia Che mi circondano, Che m'incatenano, Reggono, stringono, M'afferra il vortice Vertiginoso Del valzer rapido. Senza riposo Leggere volano Coppie danzanti, La terra sfiorano Pallide, ansanti.... Portami, involami, Più presto ancora; Stringimi, reggimi; Danziamo ognora! Fra le tue braccia Trepida palpito, Leggero fremito Le membra scote. Ora che importami D'odio e d'amore Il van delirio? Sto sul tuo core! Ne ascolto il battito Rapido e forte.... E ognora passano Leggere e smorte Le coppie rapide Danzanti ancora. — Stringimi, involami, Danziamo ognora! Fra le tue braccia Che mi circondano, Che m'incatenano, Reggono, portano, Mentre si sfiorano I volti intenti E si confondono Gli aliti ardenti, Le mani stringonsi Calde, infocate, Le labbra tremano, Le innamorate Anime baciansi. — Ohimè! Vacillo.... Cessa la musica: Mi ringrazii, t'inchini e vai tranquillo. INCONTRO. Io l'ho incontrato e mi son fatta smorta — Oh! come mi son fatta smorta in viso! — L'ho salutato allegra, ed ho sorriso, E gridava il mio core: Oh, fossi morta! Rivederlo così, freddo e insolente Passarmi accanto e salutarmi a pena! Ed io dover mostrar fronte serena, Dover mostrar che non m'importa niente! M'ha invaso l'alma e scolorato il viso Un'onda d'amarezza e di dolore; Ma calma e altera, con la morte in core, L'ho guardato negli occhi ed ho sorriso! RITRATTO. Egli era per lo più timido e muto, Ma pur talvolta stranamente audace; Ora seguendo d'un'idea fugace L'impulso, ed ora a lungo irresoluto. La fronte di poeta, alta e pensosa, Le labbra strette e raro il bel sorriso, Ed i capelli bruni e smorto il viso E bruna la pupilla luminosa. Era capace in una volta sola Di parlar molto senza dir nïente, E di dir molto senza far parola! Era distratto, languido, indolente. — Un giorno darà vita, anima e Dio Per l'amor suo — se quell'amor son io! VIA!... Il treno fischia e me lo porta via; Io resto sola col mio gran dolore, Tepida ancor la bocca de' suoi baci, Dalla sua stretta ancor fremente il core, Non piango. Muta, lenta, trasognata Ritorno a casa; alla mia casa vuota! Ed all'entrarvi un brivido mi coglie. Sembrami quasi una dimora ignota. Sembrami di vagar, sognando, al buio, D'aver paura e non poter gridare, D'esser cacciata e non poter fuggire, D'essere stanca e non poter sostare. Sono rimasta co' suoi baci in viso E in cor lo strazio e la tristezza mia, Con lo sconforto e con lo struggimento. — Il treno fugge e me lo porta via. ASSENZA. Come un nido di rondine caduto D'inverno e nella neve abbandonato È la stanzuccia tua ch'ora hai lasciato. — V'andai stamane. V'era una fragranza Ambrata di lavanda e sigaretta. Piena di libri, tepida e ristretta, Or non t'alberga più, povera stanza! Come un nido di rondine caduto, Deserta e triste da che t'ha perduto! Come un nido d'allodole al mattino, Allor che tutte incontro al sol bramose Fuggon, scotendo l'ali rugiadose, Tale è il mio cor. — Vêr la dimora ignota Ch'oggi ti cela stendonsi le braccia, E gli occhi in pianto cercan la tua faccia. Povero cor! Povera stanza vuota. O assenza! O lungo inverno! o sconsolato Nido di rondinelle abbandonato! L'HO RIVEDUTO! L'ho riveduto! Gli volarono incontro giubilanti A stormo i sogni e i desideri miei! Allodole dall'ali palpitanti, Rondini irrequiete ed usignoli, Sbattendo l'ali e prorompendo in canti, Gli volarono incontro i sogni miei! L'ho riveduto! Io non gli seppi dare il benvenuto. Rigida e bianca l'ho guardato in faccia, Con gli occhi estasïati e il labbro muto. Forse la luce d'una gioia immensa Sul mio pallido volto egli ha veduto, Poichè, senza parlar, stese le braccia. L'ho riveduto! PRESENTIMENTO. Sì; mi ha sorriso e m'ha baciata ancora, Ma un freddo m'è rimasto in fondo al core, Un buio, un vago senso di terrore! — E l'anima m'ha detto a voce bassa: — L'amore passa! — Sì; come sempre m'ha serrato al core, Ma son rimasta smorta smorta in viso. Facea male a me stessa il mio sorriso. Tanto me lo sentìa languido e stanco Sul viso bianco! Mi sfugge l'amor suo, come la sabbia Serrata entro le dita fugge, fugge.... E nella febbre e l'ansia che lo strugge Richiama a grida disperate il core: Amore! Amore! Io con ambe le mani copro il viso, Per non veder la notte che s'avanza. Ritta nel core, eterna, la Speranza Guarda nel buio. Cerca nel lontano Un raggio. Invano! _MÉNAGE._ Oggi sposati. Ei la conduce a casa, Del vago regno timida regina. Ella a lui tien la mano stretta stretta, Ed il bel volto trepida reclina. Egli orgoglioso e lieto se la trae Di stanza in stanza. — Ella così ritrosa Tutta arrossendo rassomiglia un fiore Che in un sarebbe e sensitiva e rosa! Giunti sul limitar del vago nido Ove a quest'uccelletto spaventato L'ali frementi legherà Cupìdo, Egli dinnanzi a lei s'è inginocchiato: E: “A te fo voto consacrare intero L'avvenire e la vita! Al mio desìo Basti tu sola: e gioia e luce e gloria Cercherò nel tuo sguardo, angelo mio!„ — Sposi da un mese. Egli ritorna a casa Allegro, frettoloso, impazïente: Sale i gradini a tre per volta, e pensa Che sopra attende un viso sorridente, E porta, e braccia aperte ad incontrarlo: Ella dalla finestra l'ha veduto. E sempre corre ad aspettarlo fuori Per dargli sulla soglia il benvenuto. Linda, tutta freschezza e leggiadrìa, D'un nastro azzurro i bei capelli adorni.... Egli la bacia, e poi: “Sposina mia, Sai che diventi bella tutti i giorni?„ — Sposi da quattro mesi. Ei torna a casa. “Addio, Nina. Stai bene? È pronto il pranzo?„ Ella, le mani nere e il viso acceso, Torna in cucina a far bollire il manzo. — Sposi da un anno. Egli ritorna a casa Stanco, di mal umore, impolverato: Ella gli va ad aprire, ed è in ciabatte E in abito da camera slacciato. — “Eh! ci vuol altro! Non s'ha tempo o voglia Di starsene allo specchio a far toletta: Quel bimbo strilla tutto il santo giorno. Che vita è questa, Vergin benedetta.„ Egli dalla poltrona la contempla Così mal messa, spettinata tutta, Intenta a spolverar tavola e sedie. È dimagrita. Egli la trova brutta. E la sua mente torna a un quartierino Di poche stanze chiare ed eleganti, Dal lucido mobiglio, dai tappeti Morbidi, da' cristalli scintillanti. E la sua mente fermasi e riposa Sulla figura bella ed indolente Di donna inciprïata e bionda e bianca In lunga veste serica movente. Ancora ne ricorda l'indirizzo. Sicuro. — È un anno o più da che la vide.... — Intanto la sposina scarmigliata Allatta il suo piccino e gli sorride. TUTTI I SANTI. È il dì dei Santi. — Ogni donnina pia Oggi prega più a lungo dell'usato, All'Angelo Custode od a Maria, O al Santo protettor che le fu dato. Io pure al Santo mio fo' voti e preci, Mi prostro innanzi al mio buon Santo anch'io. Ridete? Ma ne val de' vostri dieci Il Santo mio! Non se ne parla nella Sacra Storia: Non per la fede torturato e ucciso, Non lo circonda un'iride di gloria, Nè siede tra gli eletti in paradiso. Mai non fu chiesa eretta a suo onore; Ma tempio gli è l'eterna anima mia, Ed un altar gli ho fatto del mio core Ove regni in eterno! — E così sia. I miei pensieri, alati cherubini, Gli stanno attorno e cantan l'orazioni. Cantan per messa i versi miei divini: E Cupido dirige le fazioni! Cupido veste l'abito talare, Cupido fa da Padre confessore, Accende le candele sull'altare E con la face sua m'incendia il core! Il Santo mio dall'alto altar sorride. E cessan preci, penitenze e affanni; Chè ogni altra cosa oblìa chi mai lo vide Nell'altera beltà de' suoi vent'anni! E quanto a la sua _Santità_, vorrei Che rimanesse un punto incontrastato: L'hanno martirizzato gli occhi miei, E il mio amore l'ha santificato! POVERI MORTI! 2 novembre In lugubre cadenza le campane Vogliono ricordarci i nostri morti; E noi, che pure vi crediam risorti, In vesti nere andiamo al Camposanto, A rammentarvi che v'amammo tanto, Poveri morti! Vedeste quanti fiori vi rechiamo! D'ogni foggia e color, croci e corone! De' fiori freschi non è la stagione (Che vivon tutt'al più una settimana), Ma quelle di perline o porcellana Son di durata! Se gli occhi aveste ancor, poveri morti, Sui vostri marmi leggereste tutto L'amor che vi portammo e il nostro lutto. Ed anche un grande elenco di virtù Che forse voi non ricordate più D'aver avute. Ma si fa tardi. Al caso un altro _Requiem_ In carrozza al ritorno è presto detto, O guai! con questo freddo maledetto Si corre il rischio di pigliar malanno. Che autunno indiavolato abbiam quest'anno! — Cocchiere, a casa. — ERA D'APRILE. Era d'Aprile e si faceva sera, Ma il del portava ancor la chiara veste Di vivo arancio e pallido celeste, Su cui passava rapida una schiera Di brune rondinelle. Chiamandosi tra loro mestamente Le tortorelle si facean sentire; La glicine che stava per fiorire L'olezzo univa al balsamo languente Di narcisi e vïole. L'un presso all'altro correvamo in traccia D'anemoni e di rose pallidette. Ci tenevam le mani strette strette, Non osavamo più guardarci in faccia, Non osavam parlare. D'un tratto egli s'arresta, al cor mi serra Col viso smorto e le pupille accese.... Non saprei dire i baci che mi prese! Ma tutti i fiori son caduti in terra, Nè li abbiamo raccolti. TRA POCO. Tra poco, quando cesserò d'amarti, Ritroverò il mio riso impertinente, Ritroverò le mie perfidie e l'arti Di torturare e innamorar la gente. Tra poco, quando cesserò d'amarti, Serena, smemorata e senza addio, Contenta di fuggire e di scordarti Riprenderò il vagabondaggio mio. Tra poco, quando cesserò d'amarti, Scontrandoti per via smorto e severo, Passerò accanto senza salutarti Cogli occhi rilucenti e il cor leggero. Amar stasera ed obliar domani, Ecco il mio fato. Oh, tu cogli in quest'ora Il fior de' baci miei, gl'incanti strani Della mia fantasia che t'innamora. No, non impallidir! baciami ancora. VIENI, AMOR MIO! Vieni, amor mio! Vieni, è levato il sole E la fiorita via ride, e ci attende. Quanta luce nel cielo! E quanto azzurro Negli occhi nostri fluttua e risplende! Oh vieni, andrem di nuova sorte in traccia, Tu del tuo genio, ed io di te sarò. Tu mi sorreggerai fra le tue braccia, Io col sorriso ti conforterò! Se avremo fame, correremo in cerca Di selvatici frutti per la via. Si dormirà sotto alle stelle blande Colla tua bocca sulla bocca mia. Ed al meriggio farem sosta all'ombra. Di misteriosi giganteschi fior; Tu colla testa sulle mie ginocchia Sognerai l'avvenire ed io l'amor! Colla mia man sfiorandoti i capelli D'antichi eroi ti ridirò la storia. Vedrò destarsi nella tua pupilla L'ardor della battaglia e della gloria. La tua pupilla azzurra ed indolente Vedrò di glauche fiamme sfolgorar, E forte e battagliero e prepotente Lo spirto sorgerà pronto a pugnar! Vieni, amor mio! Vieni, è levato il sole, E di zaffiri e d'oro il ciel cosperso. Andiam col nostro giubilo d'amore A mettere a soqquadro l'universo! Andiam col gaudio nostro, andiam col riso Audace della nostra gioventù A sfondare le porte al paradiso E riportarne l'estasi quaggiù! C'ERA UNA VOLTA. C'era una volta un cavaliere audace. Ogni giorno, ogni notte A mille belle egli rapìa la pace. Languivano per lui fiere duchesse E timide fanciulle, Vergini bianche e bionde principesse. Ma un giorno egli scontrò strana e ridente Una zingara bruna Che lo fissò col grande occhio insolente. “Vuoi tu amarmi?„ diss'egli; e lei rispose: — Io non ti voglio amar. — Un bacio allor sulla sua bocca ei pose. Ella rabbrividì. Ma il capo scosse: “Io non ti voglio amar.„ — Egli a lei ribaciò le labbra rosse. Le brillava nel riso e nell'oscura Pupilla un cupo ardore. Le brillava un pugnale alla cintura. Essa l'amò. — L'amò! — Poscia la forte E piccoletta mano Legollo a lei per sempre con la morte. MENTRE CANTO. Due accordi di cembalo o chitarra. — Chiudo gli occhi un istante E poi schiudo le labbra alla bizzarra Mia canzon prediletta. Affascinante N'è la cadenza languida, variante Col ritmo audace e l'impaziente stretta, Col molle ritornello e appassionato Accordo inaspettato che lo termina Canto la primavera, il sole tepido, L'erba fragrante di vïole mammole, L'azzurra vastità del cielo limpido, I nuovi nidi d'usignoli e allodole. Canto il superbo gaudio, il folle giubilo De' miei vent'anni e della mia bellezza, L'amor, l'incanto, l'estasi, l'ebbrezza Dell'esistenza e della gioventù! Canto, e le note limpide Prorompono vibranti, Acute, gaie, libere, Giulive, palpitanti. Canto, e rapita l'anima Segue la melodìa, Grido, singulto, fremito Diviene l'armonìa; Strana, potente, altissima Nell'aria si diffonde, La terra il mar ne echeggiano, L'empireo risponde; Il cupo mondo invadono Onde di suono — e oblìo; — E in cielo ascoltan gli angeli Estasïati, e Iddio! Canto la primavera, il sole tepido, L'erba fragrante di vïole mammole, L'azzurra vastità del cielo limpido, I nuovi nidi d'usignoli e allodole. Canto il superbo gaudio, il folle giubilo De' miei vent'anni e della mia bellezza. L'amor, l'incanto, l'estasi, l'ebbrezza Dell'esistenza e della gioventù! Pallida taccio. E intorno a me si leva D'approvazione un blando mormorìo; E mamme di garbate signorine Chiedono il nome del maestro mio. A lor rispondo: Egli non fa per voi, Mamme cortesi, il mio maestro è Dio! O buone mamme, vi farìa paura Il direttor d'orchestra che ho nel cuore: Ei batte il tempo fuor d'ogni misura, È maestro Cupìdo, dio d'Amore! Che batte e batte e lacera a brandelli La viva e palpitante anima mia, Per farne delle rime e dei stornelli, Per farne un canto ed una melodia. O mamme cui la musica è gradita, Ve ne son tanti di maestri buoni! La scuola mia si paga colla vita. Andate da Lamperti e da Leoni! MA NON RAMMENTI. Ma non rammenti più, di', non rammenti Che s'usciva a braccetto per la via, L'un contro all'altro stretti e sorridenti? Ma non ricordi che s'andava fuori Come sposini di provincia? alteri Di portar per il mondo i nostri amori? Ma non ricordi come s'esultava Sfrontati e lieti, quando per la via Si fermava la gente e ci guardava? Ma non rammenti più come la sera Si ritornava a casa frettolosi? Ed io per te scordava la preghiera. Ma non rammenti, non rammenti tu Che s'usciva a braccetto per la via? — Ed ora non ci salutiamo più. RANCORE. Forte, superbo e biondo come il sole, Io l'adoro in ginocchi! Tremante al suono delle sue parole, Vinta dal glauco riso de' suoi occhi. Ciò che a noi serbi l'avvenire, ignoro; Quali nuove dolcezze, Quale follìa di baci e qual tesoro D'estasi strane e non sognate ebbrezze Noi strapperemo al minaccioso fato, D'indovinar non tento. Ma un rancore profondo ed implacato Serbo nel core, e irosa lo rammento. Soli, di sera. Il fuoco scintillante Gl'irradïava il viso; Aveva sulla bocca arsa e tremante Appassionato e tenero il sorriso. Io lo guardava e mi sentìa morire. Mi serravan la gola I singhiozzi di spasimo e desire: Io lo guardava senza dir parola. Quand'egli si levò, distolse il viso Pallido e risoluto. — E il folle desiderio fu conquiso, Il nostro primo bacio fu perduto! Or quando in braccio a lui giaccio rapita, Soavemente stanca, Da baci senza fine illanguidita, Piegando sul suo cor la faccia bianca Io gli susurro: Non perdono mai. E ancor palpito e fremo Pensando che fra i baci che mi dai Quel primo bacio non ritroveremo! — SINDACO DI VILLAGGIO. Presto verrà l'oblìo. — Io scorderò il color degli occhi tuoi, Tu il suon della mia voce e il nome mio. Quando vedrò mandorlo e pesco in fiore, Un indistinto sovvenir di te Si desterà, cantando, nel mio core. E nell'anima tua la rimembranza Incerta, trepidante sorgerà Come fantasma nella lontananza, Se risonare udrai la melodìa Tenera e dolce che cantai per te, O l'araba fantastica follìa Che ieri a sera impallidir ti fè; Si desterà, cantando, nel tuo core Un indistinto sovvenir di me. Segue ciascuno intanto i suoi destini: Io torno a battagliar co' sogni miei, Tu a viver fra le bestie e i contadini. Io torno lieta al mio vagabondaggio In cerca di fortuna e cielo bleu, Co' zingari e gli uccelli di passaggio. E tu badi all'ingrasso dei terreni, Al buon mantenimento delle stalle, A teste vuote e borsellini pieni. E tu ritorni ad allevar bestiame, A far l'amore con le contadine — Ed io torno a sognar cose divine, A scriver versi, ed a morir di fame VIOLE BIANCHE. Vi mando le vïole pallidine Che hanno perso il colore e la fragranza, Ma serban delle azzurre sorelline Il nome e la sembianza. Tale un amor da volontà conquiso S'erge pallido e triste in mezzo al core; Un amor senza baci e senza riso Ma ch'è pur sempre amore! NON SARÀ MAI! Non sarà mai! — No! sul mio cor, fra' miei capelli sciolti Tremante il viso non asconderai; Nell'onda lor come da notte avvolti Baci di fuoco troverem giammai! Nè al mio cantar, mentre sognando ascolti, L'anima tutta m'abbandonerai! Cupa s'erge fra noi la gran barriera Che niuna forza abbattere potrà. S'erge crudele, gigantesca, austera, S'erge fondata sull'eternità. Fra le mie labbra e la tua chioma nera Fra l'esistenza e la felicità! D'acciaio, di granito o d'adamante Fosser le mura, io le rovinerei. Dalla mia mano arrovesciate, infrante, Dovrebbero piombare a' piedi miei, E sulle lor rovine il trionfante Arco del nostro amore innalzerei! — T'avrei portato de' miei baci il fiore E di mia lieta gioventù il tesoro. Ma l'estasi mi vietano e l'amore Una fragile donna, un cerchio d'oro, E quattro scarabocchi d'assessore! Non sarà mai ch'io mi ribelli a loro. Non sarà mai! NOTTE. Sorride ella e dischiude De' suoi occhi l'azzurra meraviglia, Chè sulla bocca piccola e vermiglia Il suo giovane amante l'ha baciata. Raggian le stelle eterne Su nel mite fulgor cupo de' cieli. Ella ride; e con grandi occhi crudeli La Morte, nell'oscurità, la guarda. QUANDO SARÒ PARTITA. Quando sarò partita, piangerai. Alta la testa e il viso indifferente, Riderai forte, riderai sovente; Ma la mia voce non soffocherai, Che in fondo al cor ti sonerà fremente. No! la mia voce non la scorderai. Quando sarò partita, studierai Chino sovra i tuoi libri attentamente; Ma ti starò dinnanzi sorridente, Ed echeggiar nel vuoto core udrai Il suon del riso mio, lieto, insistente. Il mio sorriso non lo scorderai. Quando sarò partita, ingrasserai; Mangerai bene; e pacificamente La notte dormirai. Ma, in sogno, ardente Sul viso il soffio mio ti sentirai, E i baci miei ti renderan demente: Le mie carezze non le scorderai. Quando sarò partita, m'amerai; Diverrai meco tenero, indulgente, M'amerai capricciosa ed insolente. Leggera e senza cuore m'amerai. Mi stenderai le braccia avidamente E desolato mi richiamerai! Quando sarò partita, piangerai. IDDIO, CHE VUOI DA ME? Und ein Narr wartet auf Antwort. H. HEINE. Iddio, che vuoi da me? Quale la meta? La strada mia qual'è? Chi me la vieta? Ove tende quest'alma irrequieta E questo cor ribelle? A che m'hai fatta, Iddio? Donde mi viene La brama immensa d'un ignoto bene? E lo spirto restìo chi lo trattiene? Chi mi sbarra la via? Oh! Sentir l'ali fremere e vibrare, E non poterle sbattere, spiegare, E non potersi spingere, slanciare Nello spazio infinito! Oltraggio ed ironia! Dio ne risponda: Mentre un mare di luce il cor c'innonda, Dobbiamo, al buio, sulla terra immonda Brancolando aggirare! IO SONO STANCA. Io sono tanto stanca di lottare: Dammi la pace tu, che solo il puoi! Io sono tanto stanca di pensare: Dammi il sereno de' grand'occhi tuoi! Io sono tanto stanca di sognare: Or tu mi desta a giorno glorïoso! Io sono tanto stanca di vagare: Legami l'ale, e chiamami al riposo. APPUNTAMENTO. Io l'attendo convulsa, irrigidita. — — Egli verrà, fremente e senza voce, Con la superba faccia impallidita Ed il sorriso splendido e feroce. Verrà. L'attendo. — E penso a mia sorella, Mia timida sorella innamorata, Che avea sì mite il guardo e la favella Ed il pallido viso d'ammalata! — Egli rideva. Ella era moribonda, Agonizzante in braccio a me giacca; Ed io, di sopra a quella testa bionda, Il suo riso guardava — e non piangea. Ella è morta. Egli m'ama. — E orrendo, orrendo A me brucia nel sangue un cupo e strano. Desiderio di lui! — Perciò l'attendo. Ed ho in tasca un coltello catalano. APRILE. Lascia i tuoi vecchi libri e dammi un bacio, Spalanca le finestre: ecco l'April! Che odor di vïole! Che cinguettìo di rondini! Usciamo, usciamo al sole. Ho la veste e i pensier color del cielo; Vedi, anco gli occhi! — Usciamo. — Ecco l'April! La bianca veste della terra ha sciolto Impazïente e vincitore il sol: Di sue luci focose Egli la vede timida, E la copre di rose. Paion farfalle i fior, tremuli al vento. Mette l'ale ogni cosa e scioglie il vol! E non vi son rancori a cancellare? Torti ed oltraggi a riparar non v'han? Non abbiamo nemici? Perdoni a dare o chiedere? — Noi che siamo felici Usciamo, usciamo a salutar la gente, Gl'ingrati cui l'April sorride invan! E a chi ci vuol del male andremo a offrire Un gran mazzo di primole e la man. ESTETICA. Dio, siete buono! — Io lo vorrei gridare Alto così che in ciel m'udisse Iddio E via pel mondo lo vorrei lanciare, Come sfida ai malvagi, il grido mio. Per il mondo cattivo e triste e stanco Vorrei che la mia fede trïonfante Andasse come un grande angelo bianco Con l'ali aperte e il viso sfolgorante. Vorrei che dietro a lei, folli e rapite, Tese le braccia e con la fronte al sole, Seguissero le genti sbigottite Al gran richiamo delle sue parole. Che importa se schernendo a chi gli crede Dietro al mistero azzurro Iddio non c'è? Resti, grande e fantastica, la Fede Come un'illustrazione del Doré! BAMBINA MORTA. Avea celate l'ali, e noi scordammo Che potea volar via; Avea sì gaio il riso: Non si credea sentisse nostalgia Del paradiso! Angelo già sembrava, e noi scordammo Che potesse morire. Con que' timori suoi Non si credea voless'ella partire Senza di noi. Noi l'amavamo tanto! Ma ella, sempre Così docile e pia, Sentendosi chiamare Ha scosso l'ali ed è volata via Per non tornare. COCOTTE. Col viso inciprïato, ove la bocca Tinta di rosso sembra una ferita, Un nuvolo di ricci sulla fronte, Mi passa accanto sorridente e ardita. Passa con un fruscìo di raso e seta, Un tintinnìo di vezzi e di monili; E l'aria dietro a lei mi soffia in viso Carica di profumi acri e sottili. Passa; e nel cuore agli uomini solleva Col suo lento sorriso acute brame. Le sorgono d'intorno i desideri Come incantati fior. — Morrò di fame. VUOI TU?... Vuoi tu venir con me, fanciullo biondo? Ti vuole il tuo destino, amor ti chiama. Cingi l'arma e l'orgoglio: in faccia al mondo Tu mio paggio sarai, sarò tua dama! Vieni. Ti condurrò meco lontano. La casa è stretta, vieni fuori! fuori! Lascia il pigro sognar, lo studio vano, E getta i libri in testa ai professori! Tu meco studierai: seri ed attenti Viaggiando imparerem Geografia. Mi guarderai ne' chiari occhi ridenti Quando vorrai studiare Astronomia. Pel ben del mondo intero scriveremo La nostra Storia: e sarà tutta in rime! E quanto ad Aritmetica, faremo De' nostri baci il Calcolo Sublime! Vieni. Di là dal mar ti sarò guida Di monti immensi nell'eterno gelo. Dalle rocciose vette ove s'annida L'aquila, il guardo spingeremo al cielo! Poi ce n'andremo incontro al sol nascente: Là nascon fra le sabbie de' deserti — Languidi fior! — le donne d'Orïente, Co' veli chiusi e gli occhi neri aperti. Poi volgeremo a mezzogiorno: l'oro Del sol pare gravar sui fiori stanchi, E glauchi laghi sotto palma e alloro Portano nenufar e cigni bianchi. Vieni! Al di là d'inverno è primavera, Al di là delle nubi è il Paradiso! Di là de' monti v'è la terra intera Piena di luce, bella di sorriso! Oh, vieni! Avrem la gioventù nel sangue, Avremo il sol negli occhi e il vento in faccia! E se il mio piè vacilla o il corpo langue Tu allor mi porterai fra le tue braccia. Forte dell'amor mio, grande d'orgoglio Oh, vieni dunque, il tuo destin ti chiama: Oh mio giovane eroe, vieni — ti voglio! Tu mio paggio sarai, sarò tua dama. ERO UNA BIMBA CREDULA. Ero una bimba credula e fantastica, Piena di fede azzurra e sogni d'òr! Credeva il cielo una dimora d'angeli Bianco vestiti e cinti di splendor. Credea fosser le stelle innumerevoli Buchi nel pavimento di lassù, Fatti perchè l'incanto intravedessimo Che ognor circonda chi non soffre più. Credea che nella notte essi tornassero In bianche schiere il mondo a visitar; La neve mi parca le piume candide Delle grand'ali, scosse nel passar. Ma il mondo giudizioso, il mondo ruvido, Il mondo amico della verità, Mi volle desta da' miei sogni rosei, Volle farmi veder l'oscurità! Or m'hanno tolto il paradiso e gli angeli, Persino Iddio non me lo lascian più! Han sotterrato i morti ed inchiodatili Sotto l'elenco delle lor virtù. Calpestaron la neve; tramutarono In fango e sudiciume il suo candor. Ad altri mondi, come il nostro miseri, Ridusser le fulgenti stelle d'òr! E pur la Fantasia, folle ed indocile, S'erge con la Ragione a contrastar, E ancor s'ostina, cieca, fra le tenebre L'orme d'angeli biondi a ricercar. Come l'onda a li scogli, batte e frangesi Contro la Realtà severa il cor; E resto sempre una bambina credula, Piena di fede azzurra e sogni d'òr! FRA CINQUANT'ANNI. Vecchia zitella, calma e intelligente, Serena, rubiconda e senza affanni, Spesso ciarliera e sempre sorridente, Ecco ciò che sarò fra cinquant'anni. La casa un po' sossopra qualche volta, Ma senza preti, gatti o canarini; E da per tutto e sempre una raccolta Di musica, di fiori e di bambini. Molt'aria, molta luce e l'armonia Di voci fresche e di visetti cari; Insomma un gran rifugio in casa mia Di birichini e indocili scolari. E una gran calma in cor. Degl'ideali Miei sogni d'una volta, allora anch'io Sorriderò, aggiustandomi gli occhiali.... Poi d'ogni cosa giungerà l'oblìo. Alfine un giorno limpido ed azzurro (Vorrei fosse d'autunno e di mattina!) Mi sentirò nell'anima un susurro Come un coro del ciel che s'avvicina. Nella poltrona, accanto ai vetri aperti Mi sentirò tranquilla e un poco stanca; Del sole mattutino i miti e incerti Raggi cadranmi sulla testa bianca. Così, le mani in grembo, e da squisito Senso di pace invaso l'esser mio, Il corpo a morte e l'alma all'infinito Darò, pensando a te, sperando in Dio. FIORITA DI GUERRA. _Spezia, per la madonna d'Agosto._ Remo; la barca dondola Sull'acqua scintillante. Il mio giovane amante Mi guarda, e ride. A riva è tutta un'estasi Di fiori e di canzoni. Lassù dai forti guardano, Aspettando, i cannoni. Entro le chiese spirano Tra gl'incensi le rose, E preghiere odorose Levano al cielo. Ma il mio amante giovane, A fasci profumati Dentro alla barca mobile I suoi fiori ha gettati. “Ecco, madonna, adornati Di rose e di viole, Nella gloria del sole Che ti circonda!„ Ma sovra il remo celere Io chino il volto intento, Fuggiam sull'onde lucide E ci sospinge il vento. Remo; la barca dondola Sull'acqua scintillante. Il mio giovane amante Mi guarda, e tace. Sotto ai forti impassibili Urtiam contro la riva: L'ombre dei colli spezzano La gaia luce estiva. Su, per la strada ripida, Piene di fior le braccia, Salgo: e col sole in faccia, E innanzi il mare, Getto le rose pallide Di gioia e di spavento, Entro la bocca livida Del cannone da cento! MORGANA. (A FRANCO LEONI). Adolescente e gracile, la Gloria, La terribile e bella, lo guardò. E via per rupi e balze e precipizi Lo trascinò! Lo trascinò pallido ed esultante Dietro il fruscìo delle sue vesti d'or — Gittandogli qual lampo il suo sorriso Promettitor. E traverso lo scherno e la miseria Tra la fame e l'infamia egli passò. — — Sentendo l'ali e misurando il cielo, S'inabissò. E la Morte e l'Oblìo l'han soffocato, Mentr'egli ancora all'Immortalità Gridava il nome suo! — Povero nome, Che niuno sa. LETTERA D'AMORE. Piove. — Sul mare corrono dei brividi Sotto il vento stridente e fuggitivo Nella penombra del salotto tepido Dormon le rose. Sognano il giulivo Sole. — Io ti scrivo. Anche nell'ombra del mio core è un magico Fiorir di sogni, pazzo e prepotente! Come fiammanti rose esse inghirlandano A te la bella testa indifferente. Sogniam, le rose ed io, l'aurore fulgide Del sole, della gloria e dell'amore! Che importa la stagion triste? Che importano Le tue superbie al mio superbo cuore? Io t'amo, io t'amo! e a nuove altezze fulgide Si lancia ad ala aperta il genio mio! Ecco il canto d'amore che risuscita! Ecco la rima — musica di Dio! Vado ad amarti in settenari. Addio. _POSSIBILITÀ._ Non chiedere, amor mio, cose indiscrete. Non chiedere al buon Dio vita che duri Più de' brevi anni che concessi ne ha, Non chieder luce ai fior, profumo agli astri, Non alla vita la felicità! Non chieder lauri all'arte; ed al poeta Non chiedere denari in carità; Non chieder perle al mare de' miei occhi, Non chiedere al mio core fedeltà. E poi che il Fato è caso, e il caso matto Toglie a chi prega e a chi non chiede dà — Forse la vita tua sarà felice, E dopo morte avrai l'eternità. Forse nel gran giardino oltre gli spazi Dove Gesù tra bianchi angeli va, Coglierai stelle profumate; e fiori Che mandan luce nell'immensità. Forse nel glauco mare de' miei occhi Quel palombaro, Amore, desterà La perla delle lagrime, dormente Del guardo mio nella serenità. E forse un dì, che s'ami una sol volta E per sempre — il mio cor comprenderà! Oggi non lo comprende; abbi pazienza. Amami tu! Sarà quel che sarà! ETISIA. M'hanno detto di te, pallido amante, Che per fatalità tremenda e oscura, Sulla tragica via della sventura Ti conducea la sorte. M'hanno detto che già l'ombra del nulla Avea steso su te mani fatali. M'hanno detto che i baci eran mortali Delle tue labbra smorte. Dammi l'alito tuo, dammi il veleno! Acre è il gaudio, terribile il piacere Dalla tua triste bocca poter bere La voluttà e la morte! LA MADONNA DEI LADRI. _Premeno._ Sta sulla via maestra una cappella Rozzamente dipinta. Entro sorride, mitemente bella, Una madonna che, di gigli cinta, Tiene il suo bimbo al sen. Le piogge e il sole l'hanno impallidita, E una corona, appesa Al suo povero altar, pende avvizzita. Apre le braccia sulla via deserta Il piccolo Gesù. La Madonna dei ladri l'han chiamata, Questa Vergine mite, Che, bianca e dolce, dietro alla ferrata In umile atto scopre le ferite Dello squarciato cor. Nei villaggi d'intorno corre voce Che, a notte, i ladri rei Senza pur fare il segno della croce, Chiedono audaci il nascondiglio a lei E qui trovano asil. Come dolce pensar ch'anco pei ladri Una madonna prega! Io li contemplo i due volti leggiadri, E riverente ed umile si piega Il mio ginocchio a lor. O pallida madonna dei ladroni, Piena di tenerezza! Han tutti i Santi dalla loro, i buoni! Noi, tristi, abbiam bisogno di salvezza: Maria, prega per me. FINE NOTA. Nella _Nuova Antologia_ del 16 giugno 1890 si leggeva questo articolo di GIOSUÈ CARDUCCI che fu pure riprodotto nel volume decimo (Studi, Saggi e Discorsi) delle sue Opere complete (edizione Zanichelli, 1898): Le donne non è che abbiano più o meno ingegno degli uomini, l'han differente; e però nella poesia (protesto che intendo parlare soltanto delle autrici di poesia in versi), quando intendono fare quello stesso che gli uomini, non riescono. Nè mi si opponga il manco d'istruzione. Il Rinascimento e il secolo decimosesto in Italia contò donne educate ed istruite come e da quanto gli uomini, le quali leggevan greco e latino pur sapendo di musica e disegno. Bene: scorrete un po', se vi dà il cuore, le rime di quelle madonne; e le troverete non pure inferiori di molto a' più mediocri canzonieri maschili del tempo, ma spiranti dal freddo artifizio un senso di miseria che fa pietà. Sola dié rime comportevoli Gaspara Stampa, perché rimase donna, debole donna, anche in poesia. Donna in tutto apparisce, ma debole non vuol parere, almeno a tratti, la signorina autrice di queste _Liriche_; che sono, diciamolo subito, un caso assai singolare nella poesia italiana. Se non che, la giovane autrice è ella proprio italiana? Di padre e di sentimenti sí, e nella simpatica espressione artistica; ma nacque da madre tedesca in Londra. A lei bimba la governante anglicana faceva mandare a memoria di gran capitoli della Bibbia, ma la madre le insegnava il _Pescatore_ di Goethe e il _Palombaro_ di Schiller e le raccontava meravigliose _märchen_ piene di nebbie azzurre. Era una Lindau, cognome di nominanza letteraria in Germania. Rodolfo, segretario d'ambasciata a Parigi, ebbe l'amicizia di Thiers e in patria fu segretario intimo di Bismarck: non gli pregiudicò l'avere scritto romanzi anche inglesi e francesi. A Parigi visse da giovine, carissimo alla Sand, Paolo Lindau, che ha molta fama di drammaturgo e di critico, come scrittore nella _Gartenlaube_ e direttore dell'_Ueber Land und Meer_ e del _Nord und Sud_. Autrice della _Guerra in tempo di pace_ e del _Ratto delle Sabine_, che pare divertissero tempo a dietro anche il pubblico italiano, è una nipote di cotesti Lindau. Dei quali era sorella la signora che fu madre all'Annie Vivanti; signora culta, e che scriveva versi, in tedesco e in inglese, soavi e calmi. In Londra andavano a conversazione da lei poeti e critici della patria tedesca. Tra questi Ferdinando Freiligrath, che, recatasi su le ginocchia la piccola Annie, soleva recitarle suoi versi. Alla _cavalcata del lione_ la bambina, sbarrati i grandi occhi, impallidiva; e il poeta rivoluzionario l'abbracciava e le dicea _Wunder Kind_. Così l'Annie naturalmente parlò per prime lingue il tedesco e l'inglese, e anche quasi naturalmente a otto anni faceva versi nell'una e nell'altra; ma le rimase sempre poi l'impressione che l'inglese fosse la lingua delle sgridate e il tedesco quella dei sogni. Di nove anni la condussero in Italia; e un giornale di Milano la presenta come alunna della scuola normale superiore. Non esatto. Agli esami di primo anno ella fu bocciata in tutte le materie. Della sua geografia si raccontano cose meravigliose, che assegnasse per confini alla Confederazione Svizzera non so quanti mari. Della storia e dell'antico le manca ogni sentimento. Passando per certo luogo ove erano ammucchiati e in parte ritti molti informi pilastri di pietra grigia e greggia per la costruzione d'un magazzino, osservò: — Pare quella piazza di Roma.... come si chiama? — Voleva dire il Foro Traiano. Ma la lingua de' suoi canti come l'imparò? Non lo sa. Papà, un bravo italiano di Mantova che fece a' suoi giorni il dover suo nelle cospirazioni e nelle battaglie e fu condannato a morte dall'Austria, le declamava l'_Aristodemo_, e la faceva — è la propria espressione della fanciulla — rabbrividir di piacere. Aveva dodici anni che le morí la madre; e perchè non morisse anche lei la mandarono via. Fu nella Svizzera tedesca due anni; e lesse per la prima volta Shakspeare in traduzione tedesca, e scriveva poesie e fiabe più nebbiose delle tedesche. Poi fu a Londra, poi a New-York; dove prese l'educazione americana e apprese a cantare come una vera italiana. E dell'Italia aveva la nostalgia, e con la fantasia del sangue materno la rivedeva tra le azzurre marine, sotto la letizia del sole attraente a' suoi palagi e alle ville marmoree, in ciò che ne cantò e ne scrisse Goethe: la nuova Mignon ricordava Premeno sul Lago Maggiore. Da tre anni è di nuovo in Italia. Ora pubblica questi versi. Veniamo dunque al libro. Ma già ci sono. Parlare dell'autore e delle sue condizioni, disposizioni e predisposizioni è un preparare a leggere e intendere il libro: che è il vero officio del critico. Dei grandi autori italiani la signorina Vivanti non ha letto, ella afferma, una sillaba; se bene un giorno le fu sorpreso un vecchio tomo della Divina Commedia scompagnato, tra più tomi delle opere di Goethe, ricordo materno. Dei recenti e vivi non so quali e a qual segno siano stati più fortunati. D'uno ricorda qualche sonetto che le insegnava la madre: credo amasse per un mese la Contessa Lara: ma certo ha sentito la melodia dei rispetti più o meno popolari. D'inglese, legge i romanzi: di francese certa volta uscì a difendere, non so a che proposito, Coppée. In tedesco conobbe presto Heine, e ne ha tradotto (chi non ha peccato in Heine?): dice piacerle il Lenau. Ma tracce di propria e vera imitazione non sono in questo volumetto di Liriche. Sentesi, per altro, che la prima impressione della poesia, il battesimo dell'arte, la signorina Vivanti l'ebbe nel verso tedesco. L'anima, l'ardenza, l'espressione è meridionale e italiana: ma in quelle liriche, a strofi e a combinazioni di rime non dirò capricciose ma insolite, pur sempre d'armonia ricorrente e determinata, come fanno i veri poeti, per i quali il verso è la pulsazione del cuore e la strofe la circolazione del sangue; in quelle strofi, dico, parmi di ravvisare qualcosa del movimento tedesco. Né me ne dolgo. I tedeschi hanno forse la più vera lirica moderna, almeno nel genere e nell'imitazione popolare. Come in certi occhi, del colore glauco cilestre d'una specie di giacinti, quali i poeti amano imaginare fossero gli occhi delle Nereidi, l'ardore forse del sangue d'oriente va lentamente degradando e non si spegne nel languore ceruleo della fantasticheria settentrionale, così nelle strofi della signorina Vivanti, e anche più a dentro che nelle strofi, il canto italiano alcuna volta vaga, e non si perde, in non so quale ondeggiamento del _lied_ germanico. Nella sostanza di queste _Liriche_, le più almeno, spira e vive tuttavia il romanticismo; non il formale, ma quello che, come press'a poco del paganesimo diceva Sant'Agostino, è naturale ed immortale, perchè necessità di certe anime e condizione insieme di certa arte: alle quali necessità e condizione certi mutamenti d'idee e costumi nella società a certi tempi dànno non solo il campo, ma la spinta a manifestarsi con particolar rilievo. La nota più sicura a cui riconoscere il romanticismo quale prevalse dal Rousseau in poi è, non la malinconia, non il ravvivamento del misticismo religioso più o meno cristiano, non l'imitazione del medio evo e generalmente della poesia settentrionale, ma il predominio della personalità, dell'_io_ indipendente da qualcosa più che le regole e le consuetudini nella mutevole libertà delle impressioni e delle espressioni, l'esaltazione dell'_io_, la morbosità dell'_io_. Voglio del genio la pazzia sublime, canta la signorina Vivanti in una poesia che l'editore fece male a mandare attorno come saggio; essa e due o tre altre che servono per la presentazione e per il congedo lasciano apparire un po' troppo d'ostentazione voluta, che non è il difetto delle restanti. Ora così cantando la signorina Vivanti non sapeva di ripetere il grido dei romantici del 1830, da' quali il suo fare è del resto tanto diverso. Ma quell'incoronamento dell'_io_ sopra sé stessa e sopra il mondo — intendo sempre nella poesia — fu la caricatura barocca di un fatto necessario al rinnovamento della poesia, e specialmente della lirica, che è la poesia della poesia. Era un ritorno — chi lo sospettava allora? — all'antico, all'antico immortale, all'antico eterno. La lirica eolia fu in questo senso romantica, e Alceo e Saffo poetarono l'_io_, come di certo non facevano i raciniani, i petrarchisti, i tassisti, i metastasiani, sciapitamente classici, di Francia e d'Italia. Ma Saffo mi riconduce alla signorina Vivanti. Signorina, non fate smorfie, vi prego, co' vostri ventidue anni: Saffo non è mica una vecchia. Abbandoniamo pure al melodramma la figura con la lira in mano e i veli al vento su la rupe di Leucade: ma Saffo “dalle chiome di viola, dal dolce sorriso sublime„ è la sorella maggiore d'ogni poetessa vera (scarsa famiglia), è anzi il tipo ideale, in marmo pario illuminato in lontananza dal sole, della poesia femminile. C'è tanta passione, tutti lo dicono, nel sospiro angoscioso della fanciulla antica: — Già tramontò la luna e anche le pleiadi, la notte è al mezzo, l'ora trapassa, ed io giaccio sola! — Ma perchè non dirò che nella stessissima verità semplice sollevasi appassionatamente a più largo infinito (mi si perdoni l'improprietà dei termini) questo sospiro di questa fanciulla viva? La lunga notte mi negò ristoro, Alfin l'alba è risorta. Nell'orïente il ciel si tinge d'oro, Ed ogni stella è morta. Chi sa s'è vero ch'avvi un Dio lassù? Un Dio ch'ama e conforta! Io penso a voi che non m'amate più, Ed a mia mamma, morta. Perchè non potrò dire che è perfetta, d'una perfezione serena e profonda, questa intuizione ideale del vero, tanto greca insieme e tanto popolare? Sorride ella e dischiude De' suoi occhi l'azzurra meraviglia, Chè sulla bocca piccola e vermiglia Il suo giovane amante l'ha baciata. Raggian le stelle eterne Su nel mite fulgor cupo de' cieli. Ella ride: e con grandi occhi crudeli La Morte, nell'oscurità, la guata. Sono due canti (e li ho scelti a punto di manifestazione diversa soggettiva e oggettiva, e tra i più brevi) che danno la nota caratteristica e superiore della poesia della signorina Vivanti quando e dove è più artisticamente determinata e corretta. Non sempre è cosí: non di rado, o per amor di bizzarria o per esuberanza di vita, la poetessa si sbriglia a scorrerie che non tutti applaudiranno. Se non che pur nell'eccesso del sentimento e nell'abbandono dell'arte, se anche l'elocuzione non è di gusto corretto, c'è la verginità dell'espressione. Non mai la frase col rossetto, non la polvere di riso, che tra noi in poesia usano molto anche i maschi. Di donne, nella lirica moderna europea io ne ammiro due: la Marcellina Desbordes Valmore, per l'elegia, dirò cosí della devozione nell'amore, la Elisabetta Browning, per l'inno, dirò cosí, dell'estasi nell'amore. E ora, francamente, per altre ragioni, sotto altri rispetti, io ammiro anche questa italiana, per il ditirambo, mi sia lecito dir cosí, della femminilità artistica. La signorina Vivanti non avrà, anzi non ha di certo, la purità angelicamente elegante della Browning (sonetti dal Portoghese); è tutt'altra natura; ma non ha il morbido della Valmore, che qualche volta risente, poveretta, del suo mestiere di attrice francese. La signorina Vivanti è quel che è: un temperamento femminilmente ma potentemente lirico, portato insieme fisiologico del sangue misto, e morale della tradizione domestica e dell'educazione americana. Come è arrivata a scrivere cosí francamente e quasi sempre corretta — i difetti sono di elocuzione e di stile — non avendo studiato nulla? Meglio cosí. Pur troppo in Italia la preparazione allo scrivere, sia di prosa sia di versi, è tuttavia di maniera; maniera antica o moderna, maniera classica o romantica, maniera signorile o popolare: leopardiani o manzoniani, lombardi o fiorentini o napoletani, son tutti a un modo. La sincerità dell'alacre ingegno, spiegatasi da prima nell'esercizio di due lingue, l'una logicamente pratica, l'altra naturalmente poetica, e la felicità della forte ignoranza di tante cose false e appiccicaticce, han dato alla signorina Vivanti la possibilità d'una rappresentazione assolutamente immediata. Potrei citare più passi; ma preferisco che il lettore cerchi il libro e si fermi, se crede, ai canti intitolati _Destino_, _Sull'Atlantico_, _Non sarà mai_: che forza! Seguitando, non si faccia caso di certe monellerie; volti pagina, e scorgerà tra i versi gli occhi della poetessa inondati di lacrime vere, come nel canto _Via_: che dolcezza! Volti altre pagine, e tra le lagrime ancora scorrenti udrà scoppi di risa argentine, ed esultanza come d'una bambina che sente la gioia dell'esistere: _Dio, siete buono_. Specialmente nella rappresentazione oggettiva, questa giovine donna ha l'arte forte. Quante Maddalene nei colori e nei versi, nel marmo e su la scena! Ecco una Maddalena nova, e, nell'arditezza castigatissima: In bionde anella il folto crin piovente Sovra gli omeri ignudi, insino a terra Ne sparge la dovizia rilucente Inginocchiata innanzi al suo Signore. (Leggere il resto a pagine 29, 30 e 31). E ha il genio buono. Chi tra noi italiani cantò mai la santa miseria, così teneramente e religiosamente, come l'autrice di questi versi? Crebbe tra le bestemmie e le percosse Quella gracile bimba spaventata: Morì a vent'anni, mite ed innocente, Quella piccola martire affamata. Or van per le stellate vie del cielo I poveri piedini ignudi e stanchi, E la tremula man coglie beata — Gigli d'argento! — i fulgidi astri bianchi. E gli angeli, stupiti e riverenti, Chinan gli alteri luminosi rai, Mirando in quel pallido viso stanco La bocca che non fu baciata mai! La giovine donna che scrisse tali versi sa e sente che di libri come questo suo primo non se ne fa che uno, ma bisogna farne altri diversi, più varii almeno in parte e più alti e più ampi, e non bisogna, come troppi oramai, seguitare e finire imitando sé stessi. Ma che fare e come? Io odio la critica de' merli. Cioè: quando leggo certa critica de' criticanti italiani, m'immagino i merli, in gabbia, che pretendano rassettare i becchi agli usignoli e insegnar volare alle aquile. Aspetto, e confido. GIOSUÈ CARDUCCI. E il poeta, richiesto del consenso di riprodurre in fin di questo volume il suo scritto, oltre ad accordarlo gentilmente, ci aggiunge queste parole: _Ciò fu pubblicato nella _Nuova Antologia_ del 16 giugno 1890; e dando a ristampare oggi dopo nove anni niente ho da mutare, solo aggiungo che questa è la quinta edizione, segno, rarissimo tra noi, di largo e costante buon successo in poesia. E non ci si parli francesemente di arte democratica e aristocratica: è il medesimo buon successo, in alto e in basso, nella musica dei salotti dorati e tra le vaganti chitarre, nella memoria cordiale delle signore e nel consenso d'imitazione dei principianti. Pure difetti formali non mancano in questi piccoli canti. Ma tant'è, per far certa lirica, più che Voltaire non credesse o volesse per rappresentare la tragedia, bisogna _avoir le diable au corps_: il che vuol dire, bisogna avere, senza sforzo di espansioni e di convulsioni, energia di concezione ed immediatezza di espressione: la ricerca dello squisito e del prezioso è un inganno. Ora, finirò con una vecchia frottola,_ _Guardati da gl'inganni_ _Di quei che sono ipocri_ _E dai versi mediocri._ 4 ottobre 1898. GIOSUÈ CARDUCCI. INDICE. PREFAZIONE (G. Carducci) Pag. V Ego 1 Nuova 7 Destino 11 Virgo 17 Vaticinio 21 Maddalena 27 O mia bambina.... 33 Ave, Albion! 37 Ritorno 41 Lasciami andare 45 Aut-Aut 49 Vita breve 53 Nell'Album 59 Sull'Atlantico 63 Lied 67 Ad un giovane medico 71 Chi sa! 77 Valzer 81 Incontro 87 Ritratto 91 Via!... 95 Assenza 99 L'ho riveduto! 103 Presentimento 107 Ménage 111 Tutti i Santi 117 Poveri morti! 123 Era d'Aprile! 127 Tra poco 131 Vieni, amor mio! 135 C'era una volta 141 Mentre canto 145 Ma non rammenti 151 Rancore 155 Sindaco di villaggio 161 Viole bianche 167 Non sarà mai 171 Notte 175 Quando sarò partita 179 Iddio, che vuoi da me? 183 Io sono stanca 187 Appuntamento 191 Aprile 195 Estetica 199 Bambina morta 203 Cocotte 207 Vuoi tu? 211 Ero una bimba credula 217 Fra cinquant'anni 223 Fiorita di guerra 227 Morgana 233 Lettera d'amore 237 Possibilità 241 Etisia 245 La madonna dei ladri 249 NOTA di _G. Carducci_ 255 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Lirica, by Annie Vivanti *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LIRICA *** ***** This file should be named 58615-0.txt or 58615-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/5/8/6/1/58615/ Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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